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Il diritto tributario è quella branca dell’ordinamento giuridico che studia l’insieme di attività
realizzate dallo Stato o da altro ente pubblico per il procacciamento delle risorse indispensabili per
il conseguimento delle finalità a cui questi enti mirano.
Le risorse che sono necessarie allo Stato o a un altro ente pubblico per il conseguimento delle finalità
loro proprie sono risorse che possono essere tracciate attraverso attività giuridicamente distinte tra
loro.
Le entrate possono, infatti, essere :
- Entrate di diritto privato in questo caso le entrate possono essere definite di diritto
privato nonché iure privatorum
- Entrate di diritto pubblico à e dunque in questa ulteriore ipotesi si parlerà di entrate iure
imperii.
C'è una differenza grande tra queste due tipologie di entrate.
- Se l'entrata è di diritto privato significa che consegue a negozi di stampo privatistico che
pacificamente lo Stato o un altro ente pubblico pone in essere quale parte di un negozio
giuridico e dunque di un contratto.
Per esempio:
i proventi che possono derivare dall'attività che ha per oggetto l'alienazione di beni oppure i
proventi che possono derivare dalla stipulazione di un contratto di locazione.
Tanto lo stato quanto qualsiasi altro ente pubblico può conseguire entrate di stampo
privatistico attraverso la conclusione di negozi giuridici di diritto privato à entrate saranno
iure privatorum
- diversamente è da dire quando le entrate sono di diritto pubblico, perché quelle che
derivano dall' esercizio di un'attività di imperio sono del tutto prive di un elemento tipico
del negozio di diritto privato cioè sono prive di nesso sinallagmatico e cioè non sono mai
l'effetto di un negozio che realizza un nesso sinallagmatico tra le parti, anzi all' opposto sono
caratterizzate da un elemento che è fortemente caratterizzante di questa particolare categoria
di entrate: la coattività.
Per esempio i tributi sono prelievo cattivo di ricchezza e trovano la loro fonte nella legge (anche se
la nozione di tributo si è voluta fortissimamente nel corso degli ultimi decenni tanto da perdere il
requisito della fonte o meglio l'elemento della fonte, in quanto molto tempo fa si riteneva che
accanto alla coattività, l’elemento caratterizzante la nozione di tributo fosse anche la fonte
tipicamente legale).
La nozione di tributo non è più strettamente contraddistinta dalla fonte legale, ma piuttosto dalla
coattività che è un elemento che non va a “braccetto” necessariamente con la fonte perché non è
affatto vero che un prelievo è coattivo perché ha fonte legale, il prelievo è coattivo anche in
ragione della disciplina che lo contraddistingue, quindi la natura coattiva del prelievo può
dipendere direttamente più che dalla sua fonte dalla disciplina del rapporto, non è necessariamente
legata al doppio filo con la fonte legale dell’obbligazione, anche se la fonte legale
dell’obbligazione, per larga parte della fattispecie pacificamente ascritte alla categoria dei tributi, è
un tratto caratterizzante.
La nozione di tributo è una nozione estremamente variegata perché al suo interno sono riconducibili
diverse tipologie di prelievo, tutte comunemente qualificate come tributo, ma che presentano però
caratteristiche estremamente diverse e che forse entra di distinguere dall' imposta (che è il tributo
per eccellenza) le tasse e i contributi.
Dai primi tratti di questa nozione un elemento ricorrente è la finalità (il prelievo coattivo di
ricchezza è operato per il finanziamento delle spese pubbliche), anche su questo però è necessaria
qualche precisazione:
la finalità per il finanziamento della spesa pubblica è, si, certamente presente, ma potrebbe non
essere esclusiva; questo perché non è infrequente l'ipotesi, nel nostro ordinamento, di forme di
prelievo con le quali legislatore si prefigura il raggiungimento di finalità extrafiscali.
Dunque è una finalità tipica del tributo certamente quella di essere destinata al finanziamento di
spese pubbliche (quelle che consentono all'ente che acquisisce l'entrata di perseguire le finalità sue
La prof.ssa ha iniziato rispiegando i concetti di aliquota media e aliquota marginale, su richiesta di una collega.
Per il diritto tributario in generale è opportuno prima dare la definizione e poi, eventualmente, addurre degli esempi.
- definizione di aliquota marginale → è l’aliquota che si applica sull’ultima dose di ricchezza da sottoporre a tassazione.
- esempio→ immaginiamo un reddito complessivo prodotto per 51.000 €. Risulta chiaro che, dovendo sottoporre a tassazione questa grandezza di
manifestazione di capacità contributiva e quindi questo ammontare complessivo di reddito, l’aliquota marginale sarà quella che applico sull’ultimo
centesimo di euro di questi 51.000 € che devo sottoporre a tassazione. Se, come è vero, l’aliquota del quarto scaglione è il 41% e so che la mia
ultima dose di ricchezza da sottoporre a tassazione nel caso sottoposto ricade proprio nel quarto scaglione, allora è pacifico che in quel caso
l’aliquota marginale sarà quella del 41%.
- definizione di aliquota media → è l’aliquota mediamente applicata all’intera base imponibile.
Per individuare qual è esattamente l’aliquota media applicata ad ogni singola fattispecie è necessario ricorrere ad un rapporto di natura
matematica. Quindi occorre costruire un rapporto matematico e calcolare il risultato del rapporto in cui al numeratore segnerò l’imposta che è
stata versata e al denominatore segnerò invece la base imponibile.
- esempio→ immaginiamo che l’imposta pagata sia di 5.000 € e che la base imponibile sia di 30.000 €. In questo caso, costruendo il rapporto
matematico tra queste due grandezze, sarà possibile stabilire che l’aliquota media è del 6% (è un’ipotesi di scuola).
Perché è necessario costruire questo rapporto tra imposta e base imponibile? Perché l’aliquota media risente non soltanto delle aliquote che
concretamente hanno trovato applicazione nel singolo caso di specie ma anche dell’ampiezza degli scaglioni e della base imponibile. Attraverso
questo rapporto matematico sarà possibile capire qual è l’aliquota media che è stata applicata sull’intera base imponibile.
LEZIONE DEL GIORNO CLASSIFICAZIONE DELLE IMPOSTE
I tributi possono essere classificati in varie categorie, cui si fa riferimento in moltissime occasioni. 1. PRIMA CLASSIFICAZIONE → certamente la
prima classificazione, piuttosto semplice, che occorre ricordare è quella tra:
- imposte erariali → sono le imposte che costituiscono parte del sistema tributario dello Stato.
- imposte locali → sono tributi che, seppure istituiti con legge dello Stato, generano gettito che è destinato al finanziamento degli enti locali.
Naturalmente può trattarsi anche di imposte istituite direttamente con legge regionale e poi il prodotto è disciplinato dal regolamento.
2. SECONDA CLASSIFICAZIONE → un’ulteriore e non meno importante distinzione, determinata dal tipo di capacità contributiva sottoposta a
tassazione, è quella che corre tra:
- imposte dirette → sono imposte che sottopongono a tassazione manifestazioni immediate di capacità contributiva.
Quando parliamo di “manifestazioni immediate di capacità contributiva” intendiamo riferirci al reddito e al patrimonio. Seppure reddito e
patrimonio siano accomunati dall’essere espressivi di capacità contributiva immediata, dobbiamo puntualizzare che si tratta di manifestazioni
molto diverse tra loro. Tale differenza è importante e la ritroveremo anche quando affronteremo i principi generali dell’IRPEF (tributo sul reddito
per eccellenza).
Il reddito è una disponibilità di ricchezza del soggetto che siamo soliti definire “dinamica” → è una ricchezza che si aggiunge a quella di cui già il
soggetto passivo dispone. È intuitivo come questa manifestazione di capacità contributiva può essere utilmente misurata solo se si fa riferimento
ad un determinato arco temporale. Se si tratta di ricchezza che si aggiunge a quella di cui già il soggetto dispone deve essere possibile misurare la
ricchezza di cui già il soggetto dispone ad una certa data per stabilire poi qual è la ricchezza aggiuntiva che alla prima siaggiunge nel periodo di
tempo successivo.
Il patrimonio, viceversa, esprime una manifestazione di capacità contributiva in senso “statico” → esprime la ricchezza che il soggetto dispone ad
una certa data. Dunque, qui si deve misurare lo stock di ricchezza esistente ad una certa data.
- imposte indirette → sono imposte che sottopongono a tassazione manifestazioni di capacità contributiva c.d. mediate.
Le manifestazioni mediate per eccellenza sono il consumo e i trasferimenti. Dunque, per intenderci, volendo esemplificare le imposte che
sottopongono a tassazione consumi e trasferimenti, possiamo certamente richiamare l’IVA per i consumi e l’imposta di registro, l’imposta sulle
successioni e sulle donazioni per i trasferimenti.
3. TERZA CLASSIFICAZIONE → altra distinzione di rilievo è quella che corre tra:
- imposte personali → si tratta di imposte personali quando, nella disciplina del tributo, il legislatore tiene conto della situazione personale o
familiare del contribuente.
Dunque, a parità di ricchezza prodotta, non è affatto escluso ed è pienamente rispettoso dell’art. 3 Cost. -che sancisce il principio di uguaglianza
sostanziale-, che il contribuente A e il contribuente B siano tenuti all’adempimento di un’obbligazione diversa.
Pertanto, è assolutamente plausibile che chi produce reddito all’interno di una famiglia monoreddito e che quindi ha carichi di famiglia a cui fare
fronte andrà in contro ad un prelievo fiscale inferiore rispetto a quello invece a cui andrà incontro il soggetto che è componente di un nucleo
familiare costituito esclusivamente da se stesso, senza familiari a carico.
- imposte reali → sono imposte reali i tributi nei quali il legislatore non attribuisce alcun rilievo alle condizioni personali e familiari dei soggetti
passivi.
Dunque, l’imposta è dovuta, a parità di manifestazioni di capacità contributiva, esattamente in pari ammontare dal soggetto Ae dal soggetto B.
Quindi il debito di imposta, a parità di ricchezza
prodotta, non potrà che essere perfettamente identico e ancora una volta nel pieno rispetto dell’art. 3 Cost.
4. QUARTA CLASSIFICAZIONE → ancora, sorge una differenziazione che dipende dalle particolari caratteristiche del presupposto, tra:
- imposte periodiche → l’imposta è periodica quando il presupposto è rappresentato da un fatto che di per sé è suscettibile di ripetersi nel tempo.
Il caso emblematico, esemplificativo di imposta periodica, è certamente rappresentato dall’IRPEF (l’IRPEF è un’imposta che colpisce il reddito → il
possesso di reddito è un presupposto di per sé capace di ripetersi nel tempo).
- imposte istantanee → l’imposta è istantanea quando il presupposto consiste in un fatto che si esaurisce in un determinato avvenimento che non
è suscettibile di ripetersi nel tempo.
Facile è, a questo proposito, richiamare il presupposto dell’imposta di registro e più in generale il presupposto dell’imposta sulle successioni e sulle
donazioni.
Si tratta di eventi insuscettibili di ripetersi nel tempo → quando, per esempio, viene sottoposto a tassazione un atto che reca la compravendita di
un immobile è pacifico che con quegli stessi termini e con quell’oggetto il presupposto non è suscettibile di ripetersi nel tempo. Lo stesso
possiamo dire a proposito dell’imposta sulle successioni e sulle donazioni → il presupposto dell’imposta sulle successioni è più unico che mai
perché è determinato dalla morte del de cuius.
Oggi iniziamo ad occuparci dei profili soggettivi del rapporto giuridico d’imposta.
Il diritto tributario conosce alcuni istituti, la solidarietà e la sostituzione, che consentono l’estensione della platea dei soggetti che ricoprono il
lato passivo dell’obbligazione tributaria.
Il rapporto giuridico d’imposta ordinariamente è un rapporto giuridico che si svolge tra due soggetti: da una parte il soggetto attivo e da una
parte il soggetto passivo. E’ quindi un rapporto giuridico certamente bilaterale.
Quando, invece, intervengono gli istituti di cui parleremo oggi si instaura il rapporto giuridico di imposta tra un numero di soggetti maggiore.
L’estensione del novero dei soggetti coinvolti nel rapporto giuridico è un’estensione, però, che può investire soltanto il lato passivo.
Sotto questo profilo registriamo un’evidente differenza rispetto all’istituto della solidarietà (che, invece, conoscete dal diritto civile), perché
nel diritto civile l’estensione dei soggetti che possono essere coinvolti nel rapporto giuridico può manifestarsi anche sul fronte dei soggetti
attivi. Nel diritto tributario un’estensione della platea dei soggetti attivi non è possibile; è possibile invece che si verifichi una moltiplicazione
dei soggetti passivi.
La ragione per cui il nostro ordinamento conosce questi istituti è molto semplice → l’estensione della platea dei soggetti passivi costituisce
una forma di garanzia per l’obbligazione tributaria, perché la circostanza che in particolari casi (non in tutti, ma in alcune specifiche ipotesi
contemplate dalla legge) l’amministrazione finanziaria possa rivolgersi per l’adempimento all’uno o all’altro dei soggetti chiamati ad
adempiere, costituisce un modo per rafforzare in maniera considerevole la garanzia patrimoniale del creditore. Quindi il creditore è
fortemente garantito dalla possibilità giuridicamente riconosciuta dal sistema di rivolgere la propria pretesa ad un debitore o all’altro
condebitore.
Quindi, l’istituto della solidarietà è volto a consentire questa sorta di rafforzamento delle garanzie patrimoniali del creditore, quindi
dell’amministrazione finanziaria.
Chiarita la differenza tra l’istituto della solidarietà così com’è noto nel diritto civile con quello che ci accingiamo a studiare nel diritto
tributario, la nostra materia conosce due tipologie di solidarietà (distinzione fondamentale):
- solidarietà di tipo paritario
- solidarietà dipendente.
La solidarietà paritaria sussiste nei rapporti giuridici in cui gli obbligati (che sono naturalmente più d’uno) sono tra loro cd. di pari rango.
La circostanza che i condebitori solidali siano di pari rango attiene al fatto che la posizione che ciascuno di loro ricopre rispetto al creditore è
esattamene identica a quella dell’altro → quindi l’essere tra loro di pari rango è determinato dalla circostanza che la relazione che ciascuno di
loro instaura con il condebitore è una relazione di identico contenuto.
L’identità del contenuto del rapporto che corre tra ciascuno dei condebitori e il creditore è determinata dal fatto che ciascuno dei
condebitori (che sono, appunto, solidalmente obbligati in via paritaria) hanno tutti partecipato alla realizzazione del presupposto (= cioè il
fatto al manifestarsi del quale sorge la capacità contributiva e dunque, conseguentemente, l’obbligazione tributaria): caratteristica -questa-
determinante che distingue la solidarietà paritaria dall’altra tipologia di solidarietà che studieremo dopo.
La circostanza che nella solidarietà paritaria tutti abbiano partecipato alla realizzazione del presupposto determina la caratteristica di cui
parlavo poc’anzi→ il fatto che ognuno di loro ricopre una posizione, rispetto al creditore, di pari rango rispetto all’altro.
Quindi il condebitore A e il condebitore B non sono in una posizione diversificata nella loro relazione con il creditore: il tipo di rapporto che
ciascuno di loro instaura con il creditore è identico a quello instaurato con l’altro condebitore. L’identità di questo rapporto è determinata dal
fatto che entrambi hanno partecipato alla realizzazione del presupposto.
Un paio di esempi per rendere più chiaro quali sono le fattispecie nelle quali senz’altro si può affermare che si configura un’ipotesi di
obbligazione solidale paritaria:
1) Il primo esempio che possiamo fare è quello determinato dall’applicazione dell’imposta sulle successioni e sulle donazioni. Quando si
verifica (rimanendo concentrati sulla fattispecie dell’imposta di successione) il presupposto del tributo, cioè la morte del de cuius, senz’altro
tutti gli eredi ricoprono una posizione equi-ordinata rispetto all’amministrazione finanziaria che si costituisce creditrice dell’imposta delle
successioni. Quindi ognuno dei coeredi assume una posizione di pari rango rispetto all’amministrazione finanziaria perché tutti partecipano
alla realizzazione dell’unico presupposto, rappresentato dalla morte del de cuius.
2) Altra fattispecie che costituisce senz’altro esemplificazione di solidarietà paritaria, è determinata dall’applicazione dell’imposta di registro.
Quando si sottopone, per esempio, a registrazione un atto di compravendita è assolutamente pacifico che tanto il venditore quanto
l’acquirente sono solidalmente obbligati in via paritaria al pagamento dell’imposta di registro perché entrambi hanno partecipato alla
realizzazione del presupposto, cioè il trasferimento del bene che costituisce oggetto di compravendita.
Quindi avete compreso in queste due ipotesi in esame il motivo per cui si tratta di un’obbligazione solidale in via paritaria → tutti i soggetti
coobbligati partecipano alla realizzazione del presupposto e quindi ricoprono una posizione che abbiamo definito essere di pari rango nel
rapporto instaurato con l’amministrazione finanziaria.
Questo particolare atteggiarsi dell’obbligazione solidale, quando si tratta -appunto- di solidarietà paritaria, porta con sé alcune caratteristiche
significative, alcune conseguenze determinanti nella dinamica del rapporto obbligatorio:
Anzitutto la solidarietà porta con sé la facoltà dell’amministrazione finanziaria di rivolgersi all’uno o all’altro dei condebitori senza dover
rispettare alcun beneficio di escussione (beneficium excussionis) → (= un onere normalmente incombente sul creditore che deve esigere
l’adempimento rispettando un certo ordine tra i condebitori). Dunque, se sussistesse (perché nel nostro caso non è così) beneficium
excussionis, allora si dovrebbe dire che l’amministrazione finanziaria, per esigere l’adempimento, dovrebbe seguire un certo ordine: quindi,
chiedere prima l’adempimento ad uno dei due condebitori e solo in caso di inadempimento da parte di questi, potrebbe poi chiedere
l’adempimento all’altro.
Questo beneficium excussionis (= questa necessità in capo al creditore di osservare un certo ordine nel richiedere l’adempimento) NON
esiste nell’obbligazione tributaria solidale.
Non fate l’errore all’esame di dire che l’assenza del beneficium excussionis sarebbe una delle caratteristiche tipiche dell’obbligazione solidale
paritaria → NON è COSI’. L’assenza di beneficium excussionis è una caratteristica comune anche alla solidarietà dipendente, quindi è
certamente una caratteristica dell’obbligazione solidale paritaria, ma non è peculiare dell’obbligazione solidale paritaria, così come non lo è
solo di quella dipendente → è una caratteristica comune ad entrambe le fattispecie di solidarietà paritaria e dipendente. Dunque che la
Esempi che il sistema offre di SOSTITUZIONE A TITOLO DI IMPOSTA: • Quella che viene applicata sui
PREMI e sulle VINCITE → se una persona fisica dovesse percepire alcune somme a titolo di premi o
vincite allora lo Stato applicherebbe immediatamente sui premi e sulle vincite una ritenuta che sarà
applicata A TITOLO DI IMPOSTA. Questo significa che le somme eventualmente percepite a titolo di
premi e vincite NON vanno incluse nella dichiarazione annuale (è uno dei corollari che discendono
dall’applicazione del regime dell’imposizione a titolo di imposta) • Quelle che subisce il percettore di
interessi maturati su somme depositate su Conti Correnti Bancari o Postali quando i soggetti
percettori sono persone fisiche o enti NON commerciali* → Se il soggetto che percepisce gli interessi
su somme depositate su CC bancario o Postale è un soggetto che NON svolge attività d’impresa o un
ente NON commerciale allora le ritenute sono operate (dall’istituto o dall’ente che eroga gli interessi
maturati sulle somme in questione) A TITOLO DI IMPOSTA. • Quelle operate sui DIVIDENDI percepiti
da persone fisiche che NON svolgono attività d’impresa o enti NON commerciali *che scelgono che
sui dividendi vengono operate questi tipi di ritenute (a TITOLO DI IMPOSTA) piuttosto che il regime
delle ritenute A TITOLO DI ACCONTO. • Quelle che subiscono i soggetti che posseggono titoli del
debito pubblico a condizione che si tratti di persone fisiche o enti NON commerciali* • Quelle che si
applicano sugli INTERESSI percepiti da obbligazionisti (possessori di titoli obbligazionari) che siano
persone fisiche o enti NON commerciali *
*Si precisa la natura del soggetto percettore perché queste stesse fattispecie quando i soggetti
percettori cambiano diventano ipotesi in cui la ritenuta è A TITOLO DI ACCONTO.
Esempi di SOSTITUZIONE A TITOLO DI ACCONTO: • Fattispecie delle somme corrisposte in
dipendenza di un rapporto di lavoro dipendente→ le somme erogate dal datore di lavoro al
prestatore dell’attività lavorativa sono somme erogate che soggiacciono all’applicazione di una
ritenuta A TITOLO DI ACCONTO. [regola generale].
MA NON SEMPRE quando vengono erogate delle somme a titolo di retribuzione in relazione ad un
rapporto di lavoro dipendente il prestatore subisce la ritenuta ed il datore di lavoro è obbligato a
operarla: in alcune particolari ipotesi (in cui il rapporto di lavoro senz’altro c’è) questo obbligo NON
sussiste, cio le ritenute A TITOLO DI ACCONTO NON vanno applicate. [eccezione alla regola
generale]. La ricorrenza di questa deroga sussiste tutte le volte in cui il datore di lavoro sia di un
particolare tipo.
Per esempio NON è sostituto (e quindi NON deve operare la ritenuta sulle somme corrisposte al
prestatore di lavoro) nel caso in cui la persona fisica che svolga attività (anche d’impresa) e le
somme corrisposte sono legate ad un rapporto che NON riguarda affatto l’attività d’impresa →
allora la persona fisica NON opera in qualità di sostituto.
Es. persona fisica che assume un collaboratore domestico. Il rapporto instaurato con il collaboratore
domestico è un rapporto di lavoro dipendente MA questo rapporto è ESTRANEO all’attività
d’impresa. Chi assume il prestatore di lavoro potrebbe pure svolgere attività d’impresa MA le
mansioni che sono affidate al prestatore dell’attività lavorativa sono del tutto estranee rispetto
all’attività di lavoro→ se la prestazione lavorativa dovrà essere resa presso l’abitazione privata
dell’imprenditore è pacifico che questa prestazione di lavoro non ha nulla a che fare con l’attività
d’impresa. In questo caso la persona fisica NON dovrà operare alcuna ritenuta sul compenso
prestato al prestatore di lavoro→ NON vi è l’obbligo di applicare la ritenuta.
Quindi la regola generale trova applicazione quando il rapporto di lavoro viene instaurato da un
soggetto che svolge attività d’impresa (e dunque il rapporto di lavoro è strettamente legato allo
svolgimento dell’attività
d’impresa); quando il rapporto di lavoro dipendente è instaurato (oltre che con una persona fisica
datrice di lavoro) con una società o con un ente commerciale o NON commerciale.
Viceversa (Eccezione) l’obbligo di applicare la ritenuta NON sussiste rispetto ai condomini: il
condominio (che potrebbe instaurare un rapporto di lavoro con un soggetto) NON ha l’obbligo di
applicare la ritenuta A TITOLO DI ACCONTO. • Quando vengono erogate somme (o, meglio,
compensi) a esercenti arti e professioni→ se viene pagato il compenso ad un professionista (-da un
imprenditore nell’esercizio della sua attività d’impresa – da un altro professionista – da società di
capitali – da società di persone – da enti commerciali o NON commerciali) allora tutte queste somme
Avevamo terminato di spiegare i poteri di indagine bancaria con conseguente accertamento fondato
sulle risultanze delle indagini bancarie … Avendo sommariamente elencato i poteri istruttori nella
lezione precedente , riprendiamo lo studio dalle richieste che possono essere rivolte a terzi non
soltanto con la richiesta di fornire informazioni ma anche la richiesta di esibire documenti; dunque
l’agenzia delle entrate di finanza possono senz’altro rivolgere richieste a terzi( cioè quei soggetti
diversi da quello nei confronti del quale l’attività di controllo è in corso) e può essere chiesto al
destinatario non soltanto di rispondere alle domande poste ma anche di esibire documenti
attestanti rapporti intercorsi con il soggetto sottoposto a controllo. La richiesta di chiarimento e di
esibizione nel caso in cui sia rivolta a terzi, dovrà essere oggetto di necessaria verbalizzazione (quindi
dovrà essere redatto processo verbale). Nel caso in cui l’ufficio dovesse ritenere di particolare
interesse le informazioni acquisite attraverso l’esercizio di questo potere istruttorio, è facile
ipotizzare che il contenuto del processo verbale sarà tradotto all’interno del processo verbale di
constatazione. Quest’ultima circostanza implica l’introduzione nel processo tributario ( sia pure
attraverso il processo verbale di constatazione) delle dichiarazioni rese da terzi . Ma quando
studierete il processo tributario , scoprirete che esiste espressamente il divieto di prova testimoniale
… questo pone un grande interrogativo di primo rilievo sul tema: nel processo verbale esiste questo
divieto ma attraverso il deposito del processo verbale di constatazione da parte dell’ufficio in
pendenza del giudizio è possibile surrettiziamente (e cioè attraverso il deposito) introdurre le
dichiarazioni dei terzi rese durante le attività di indagine, così inserendole nel processo (nonostante
il divieto della prova testimoniale!) .Il problema è stato affrontato in modo attento dalla Corte
Costituzionale , la quale non ha escluso che a queste dichiarazione rese dai terzi si possa riconoscere
qualche rilievo ma allo stesso tempo essa ha compiuto delle necessarie distinzioni tra il RILIEVO
PROBATORIO che a tali dichiarazioni può essere riconosciuto in pendenza del processo tributario e il
VALORE DELLA PROVA TESTIMONIALE. Ovviamente qui si deve ricordare che la materia del processo
prevede delle garanzie a tutela del superiore interesse del contenzioso cioè costituire la prova
testimoniale , nelle forme stabilite dalle legge. Nel processo tributario in assenza di questa prova, le
dichiarazioni dei terzi vengono acquisite esclusivamente attraverso il deposito del processo verbale
di constatazione( non si tratta di prove acquisite nella pendenza del processo). Muovendosi da
questa importante considerazione la Corte Costituzionale pur non escludendo un loro valore
aggiunge che si tratta di dichiarazioni con valore indiziario ma di semplice elemento rimesso
all’opportuna valutazione del giudice: quindi è elemento di convincimento del giudice ma non può
da solo costituire la prova dei fatti contestati. ATTENZIONE: perché è una decisione fondamentale e
grazie a questo chiarimento possiamo senz’altro respingere l’idea dell’amministrazione finanziaria
che la fondatezza della propria pretesa sia provata dal fatto che terzi asseriscono l’esistenza del fatto
(non è sufficiente la prova del terzo nel processo tributario). Dunque pur essendo apprezzati dal
giudice , è pacifico dire che i fatti riferiti da un terzo devono essere confermati da ulteriori elementi
di significato convergente ed eventualmente acquisiti dall’ufficio. Ciò non nega che si tratta di un
potere istruttorio sicuramente importante e anzi è l’innesco di ulteriori prove dell’ufficio.
Possiamo ritenere esaurito anche l’esame della richiesta rivolta ai pubblici ufficiali di esibire
documenti in loro possesso, o la richiesta formulata ai notai … e quando si parla di dichiarazione dei
terzi possiamo riferirci a questa grande categoria di soggetti che possono fornire indicazioni
importanti ai fini dell’accertamento. Quanto alla conclusione dell’attività di indagine , dobbiamo
ricordare che bisogna distinguere processi verbali di verifica e processi verbali di
constatazione(RINVIO A ALLA LEZIONE PRECEDENTE, giovedì 18 marzo).
Contenuto del processo verbale di constatazione: è l’atto conclusivo dell’attività istruttoria
all’interno del quale vengono riepilogate le violazioni che saranno contestate direttamente
dall’ufficio ,che è il titolare del potere di accertamento! ( la professoressa si riallaccia a tutta la
lezione di giovedì 18 marzo) . Il processo verbale è un atto istruttorio, all’interno del quale è
radicalmente da escludere che venga esercitata attività di accertamento, che è ben altra cosa;è un
atto certamente non impugnabile perché non ha contenuto provvedimentale , bensì istruttorio. La
consegna del processo verbale di constatazione è già un momento al quale il nostro ordinamento
pone rilievo per certi aspetti significativi: l’art.22 del decreto legislativo 472/1997 prevede che già a
Quando viene svolta un’attività di accesso, dispersione non si verifica mai che il processo verbale di
constatazione non venga redatto.
Quando l’ufficio esercita gli altri poteri istruttori, ad es. una richiesta di presentarsi presso la sede
dell’ufficio, oppure una richiesta di esibizione di documenti, non viene redatto alcun processo verbale
di constatazione.
Quindi quando i poteri istruttori esercitati sono quelli c.d. ‘meno invasivi’, cioè che non richiedano
l’accesso presso i locali di cui ha la disponibilità il contribuente, gli unici processo verbali che
vengono redatti sono quelli di verifica, cioè quelli giornalieri.
Il processo verbale di constatazione, invece, non viene redatto mai.
La mancanza dello stesso, in tali ipotesi, impedisce al contribuente di conoscere subito a conclusione
dell’attività istruttoria, quali saranno le contestazioni che l’ufficio potrebbe muovergli, notificandogli
un avviso di accertamento, perché -e ce ne occuperemo quando studieremo lo statuto dei diritti del
contribuente- si innesca con la consegna del processo verbale di constatazione una condizione di
consapevolezza da parte del soggetto che ha subito la verifica che potrebbe introdurre una fase di
contraddittorio anticipato tra amministrazione finanziaria e costituente, estremamente utile.
Pensate che già solo attraverso questa fase di contraddittorio anticipato si potrebbe evitare
l’emanazione dell’avviso di accertamento, tutte le volte in cui il contribuente sia in grado di spiegare
la regolarità della propria condotta.
Allora la mancanza del processo verbale di constatazione quando vengono citati questi poteri
istruttori, costituisce un problema perché se a conclusione di questi poteri il processo verbale non c’è,
accade che il contribuente si vede subito notificare l’avviso di accertamento, senza sapere quali sono
le conclusioni dell’attività istruttoria da parte di coloro che hanno esercitato quei poteri istruttori, ad
es. la richiesta di esibizione di documenti o la richiesta di presentarsi presso la sede dell’ufficio per
fornire chiarimenti.
A questo problema ha tentato di porre rimedio il legislatore, molto recentemente, introducendo una
norma nell’istituto di accertamento con adesione, che è uno strumento per l’attivo del contenzioso
(su cui ci soffermeremo) e all’interno del quale è contenuta una disposizione ad hoc con la quale si
tenta appunto di porre rimedio all’esigenza di cui ho detto prima.
Oggi tratteremo un tema abbastanza articolato e complesso: le tipologie di accertamento, cioè quali
sono i poteri di accertamento che l’amministrazione finanziaria può esercitare.
L’atto di accertamento, come sapete, è essenzialmente unico e sapete come questo è un
provvedimento attraverso il quale l’amministrazione finanziaria esercita un potere che può assumere
caratteristiche estremamente diverse e rispetto al quale la legge prevede presupposti legittimanti.
Quindi quando l’ufficio esercita questo potere è indispensabile conoscere la disciplina dello specifico
potere anche al fine di verificare se si sono realizzati i presupposti che consentono all’ufficio di
esercitare appunto quello specifico potere.
Questione quindi estremamente differenziata in base al potere che l’ufficio sceglie di esercitare.
La scelta del potere da esercitare è rimessa all’ufficio: se l’ufficio ritiene che se ne sussistano i
presupposti, sceglierà un potere piuttosto che un altro.
Dunque è indispensabile che il contribuente sia posto a conoscenza del tipo di potere esercitato di
modo che possa verificare che sussistano le condizioni legittimanti all’esercizio di quel particolare
potere.
Le considerazioni che sto facendo non sono frutto di un ozioso giro di parole ma hanno un significato
decisivo ove si consideri che, se questi presupposti legittimanti non esistessero e il contribuente
quindi
fosse in grado di verificare che non sussistano, ne deriverebbe l’illegittimità del provvedimento di
accertamento, perché l’ufficio lo avrebbe emanato in carenza dei presupposti previsti dalla legge.
Allora distinguendo le varie tipologie di accertamento è possibile articolare le varie distinzioni
muovendo da una prospettiva piuttosto che un’altra.
Se scegliessimo la prospettiva che predilige di tenere in considerazione l’oggetto dell’accertamento
allora sarà possibile distinguere tra:
-accertamento analitico e
Il tema delle sanzioni amministrative è particolarmente complesso. La disciplina è interamente contenuta in tre decreti
legislativi che risalgono al lontano 1997: si tratta dei decreti 471, 472, 473. Mentre i D.lgs. 471 e 473 contengono le
disposizioni sanzionatorie da applicare in relazione alle violazioni di specifiche norme (rispettivamente violazioni in materia di
imposte dirette ed IVA; violazioni commesse in relazione ad altri tributi); invece, il decreto legislativo 472 costituirà oggetto
di approfondito esame, perché contiene non solo i principi generali che presiedono all’irrogazione delle sanzioni
amministrative, ma anche disposizioni che attengono a questioni procedimentali. È questo il decreto che contiene le norme
che disciplinano i procedimenti di irrogazione delle sanzioni amministrative, oltre ad alcuni importanti istituti. Prima di
parlare di sanzioni amministrative, bisogna richiamare alla memoria che la sanzione è possibile in qualsiasi ordinamento
giuridico esclusivamente nella misura in cui si configuri la violazione di una norma. La violazione è, infatti, l'inosservanza
volontaria di una norma che prevede un obbligo. In diritto tributario, è previsto che, laddove la condotta debba essere
punita, lo si potrà fare esclusivamente nella misura in cui da una parte esiste la norma che prevede un obbligo e dall'altra
esiste la norma sanzionatoria, cioè la norma a cui è affidato il compito di disciplinare le conseguenze negative sfavorevoli che
l'ordinamento prevede in conseguenza della violazione della norma. Occorre che l’inosservanza della norma sia volontaria,
quindi la violazione della norma sussiste sempre che l’inosservanza sia stata volontariamente tenuta dal soggetto, ragione
per cui non integra la violazione la inosservanza involontaria della norma (esempio: ipotesi di forza maggiore nelle quali il
soggetto sia stato costretto per cause rispetto a lui indipendenti a tenere il comportamento inosservante. Questa circostanza
non vale a configurare né una violazione, né conseguentemente l’irrogazione della sanzione. Se sussiste l’ipotesi della forza
maggiore, quindi l’autore della condotta non l’ha tenuta volontariamente, allora è da escludere che si possa anche irrogare la
sanzione amministrativa). Alla sanzione vengono attribuite due diverse funzioni: una funzione punitiva e una funzione
deterrente. L’obiettivo di un ordinamento che introduce disposizioni sanzionatorie non è tanto quello di irrogare la sanzione
e dare seguito a quella che è la funzione punitiva, ma l'obiettivo dovrebbe essere quello di raggiungere un risultato di
deterrenza e indurre volontariamente tutti i consociati all’osservanza della disposizione normativa in maniera tale da evitare
conseguenze negative che l’ordinamento riconduce alla sua violazione. In qualsiasi ordinamento giuridico, funzione punitiva
e funzione deterrente coesistono, ma la funzione deterrente non viene bene perseguita in tutti i casi in cui la misura delle
sanzioni amministrative sia particolarmente elevata e a questa elevatezza faccia da pendant la circostanza che l’emersione
della violazione sia quanto mai difficile. Se da una parte le possibilità di fare emergere la violazione sono scarse e dall'altra le
misure delle sanzioni irrogabili sono particolarmente elevate, si può certamente ritenere che si tratti di un ordinamento che
non riesce efficacemente a perseguire una funzione deterrente, perché chi viola le norme è già consapevole del fatto che con
moltissima difficoltà sarà scoperta l'evasione e altrettanto difficilmente si avrà il pagamento delle sanzioni amministrative. Il
profilo sanzionatorio è un profilo al quale qualsiasi ordinamento giuridico dovrebbe attribuire particolare rilievo, perché la
misura delle sanzioni amministrative non risponde ad alcun parametro costituzionale, non soggiacciono al principio di
capacità contributiva. È rimessa la misura delle sanzioni amministrative proprio alla sensibilità del legislatore, che stabilisce in
quale misura procedere all’irrogazione delle sanzioni ed entro quale limite è possibile perseguire funzione punitiva e
funzione deterrente. Il nostro sistema distingue le sanzioni in molte specie: esistono sanzioni amministrative, sanzioni penali,
sanzioni civili. Parlando di questa tripartizione delle sanzioni possibili, in questo caso si fa riferimento a sanzioni rilevanti in
materia tributaria e che incidono sicuramente nella nostra materia. Il diritto tributario conosce sanzioni penali, sanzioni
amministrative e, secondo alcuni, sarebbe addirittura configurabile una terza categoria denominata sanzioni civili.
Non è da condividere la tesi secondo la quale si potrebbe prospettare nel nostro ordinamento la configurabilità di questa
terza categoria di sanzioni civili per varie ragioni. La differenza fondamentale che corre tra sanzioni penali e sanzioni
amministrative sta nel fatto che mentre la sanzione penale è irrogata esclusivamente dal giudice penale all’esito del giudizio
penale celebrato davanti al giudice ordinario; invece, le sanzioni amministrative sono irrogate dall’amministrazione
finanziaria. Questa prima differenza riguarda proprio il profilo soggettivo, quindi di colui che ha il potere di irrogare le
sanzioni. La terza categoria, cioè quella delle sanzioni civili, è una categoria rispetto alla quale si può categoricamente
dubitare che si possa configurare e la ragione di questa scelta sta appunto nel fatto che le sanzioni civili, secondo gli autori
che ne sostengono la configurabilità, sarebbero rappresentate dagli interessi calcolati sulle somme pagate tardivamente
all’ente creditore. Questo perché gli interessi che vengono corrisposti all’ente creditore vengono quantificati in un tasso
superiore a quello legale, per cui il fatto che il saggio applicato sia superiore a quello legale ha portato alcuni autori ad
individuare una natura sanzionatoria. Questa ricostruzione non è da condividere, perché, nonostante la misura di questi
interessi sia superiore al saggio legale, questa circostanza non vale a modificare la natura di questi interessi che restano
comunque privi della natura sanzionatoria e sono semplicemente compensativi, vengono pagati al creditore in ragione del
fatto che non ha potuto disporre della somma prima del tempo in cui effettivamente la somma dovuta è stata pagata. In
definitiva, le uniche sanzioni esistenti nel sistema sono sicuramente le sanzioni penali e le sanzioni amministrative. Un’altra
distinzione importante, desumibile dalla lettura del decreto 472/97, è quella che corre tra sanzioni principali e sanzioni
accessorie. Le sanzioni principali sono quelle che possono essere irrogate sempre che sussista una violazione che sia stata
commessa; le sanzioni accessorie, invece, hanno come presupposto l’irrogazione di una sanzione principale (il presupposto è
anche la commissione della violazione, che è un presupposto soltanto indiretto, perché la commissione della violazione è un
presupposto della sanzione principale che, nelle sanzioni accessorie, è l’unico presupposto rilevante). Senza l’irrogazione
Riprendiamo il tema con il quale avevamo concluso la lezione di ieri: il regime sostitutivo, o meglio
dire forfettario, che si applica nei confronti degli esercenti di attività d’impresa e di lavoro autonomo
che conseguono ricavi o compensi per importi non superiori a 65.000 €. Si tratta di un regime
agevolativo vero e proprio perché sottrae alla progressività dell’Irpef un’ampia fetta di contribuenti
che altrimenti si troverebbero ordinariamente ad applicare le aliquote progressive.
L’ultimo argomento che attiene alle questioni di carattere generale è quello dei redditi soggetti a
tassazione separata. La relativa disciplina, di cui agli artt. 17 e 19 del T.U. (917/86), è molto
peculiare: è riservata a particolari forme di reddito formazione pluriennale. Si tratta, cioè, di proventi
conseguiti dalle persone fisiche in occasioni estremamente specifiche (la più importante delle quali è
costituita dalla percezione del TFR: trattamento di fine rapporto di lavoro subordinato), fattispecie
per le quali il legislatore ha espressamente optato per l’applicazione di un regime speciale. La scelta,
rispetto al regime fiscale, di queste somme percepite in occasione di particolari circostanze, è
determinata proprio dall’opportunità di mitigare il regime fiscale in considerazione della formazione
pluriennale di questi redditi.
L’ipotesi più importante è, appunto, rappresentata dai trattamenti di fine rapporto (TFR) → cioè le
somme che vengono percepite dal prestatore di lavoro una tantum nel momento in cui l’attività
lavorativa viene cessata. Il TFR, che viene indubbiamente percepito al momento della cessazione
dell’attività lavorativa, è pacificamente una somma di denaro (a volte particolarmente elevata) che
matura in considerazione del numero degli anni in cui si protrae il rapporto di lavoro dipendente e
che sarà tanto più elevata quanto più sono gli anni in cui il rapporto di lavoro si è protratto. Stando
alle regole ordinarie, si tratterebbe di una somma di denaro che andrebbe a incidere pesantemente
sulla determinazione del reddito complessivo e che, plausibilmente, finirebbe per essere sottoposta
a tassazione attraverso l’applicazione di un’aliquota marginale estremamente elevata: quindi
finirebbe con lo scontare un regime fiscale particolarmente gravoso.
Proprio per scongiurare questo pericolo (= quindi per evitare che il TFR venga sottoposto ad
un’aliquota marginale eccessivamente elevata in considerazione della formazione pluriennale della
somma percepita dal prestatore di lavoro), il legislatore introduce questo regime peculiare di cui, in
particolare, all’art. 19 del T.U. . Il regime essenzialmente consta di particolari modalità di
determinazione della base imponibile: questo significa che non sarà l’intera somma percepita a titolo
di trattamento di fine rapporto a costituire oggetto della tassazione, ma soltanto una sua parte che
sarà determinata secondo le regole previste dall’art. 19. La peculiarità della disciplina è determinata
dal fatto che l’imposta corrispondente al TFR viene liquidata direttamente dall’ufficio: non è, cioè,
auto-liquidata dal contribuente (come normalmente accade per l’applicazione dell’imposta sul
reddito delle persone fisiche), ma è demandata esclusivamente all’amministrazione finanziaria, la
quale, ricevuta la comunicazione dal datore di lavoro dell’erogazione del TFR, procede con il calcolo
della base imponibile a cui applicare un’aliquota media (quindi non le aliquote progressive dell’Irpef)
che verrà determinata tenendo in considerazione le aliquote applicate negli ultimi 5 anni
antecedenti a quello in cui il diritto alla percezione del TFR è maturato. Si tratta di un calcolo per
certi aspetti particolarmente complesso e questo giustifica la ragione per cui è l’amministrazione
finanziaria a provvedere alla liquidazione dell’imposta dovuta. La formalità, quindi il procedimento
attraverso il quale poi l’imposta viene comunicata al contribuente, prevede che si debba procedere
all’iscrizione a ruolo. In questo caso, quindi, l’iscrizione a ruolo costituisce una modalità di
riscossione fisiologica dell’imposta dovuta sul TFR, cosa che non eravamo abituati a immaginare se si
considera che nella maggior parte dei casi l’iscrizione a ruolo interviene in una fase cd. patologica del
rapporto che intercorre tra amministrazione finanziaria e contribuente → proprio l’applicazione
dell’Irpef sul TFR costituisce, invece, un chiaro esempio di occasione in cui l’iscrizione a ruolo
costituisce una forma ordinaria di riscossione dell’imposta dovuta su questo particolare provento.
Concluse tali considerazioni di carattere generale, trattiamo le singole categorie di reddito (= 6).
1. La prima categoria di reddito è costituita dai redditi fondiari.
Sono tali quei redditi che ineriscono ( / che derivano dal possesso di) terreni e fabbricati ubicati nel
territorio dello Stato e che siano iscritti o che devono essere iscritti, con attribuzione di rendita, nel
catasto dei terreni e/o nel catasto dei fabbricati.
Il tema affrontato nella scorsa lezione è il reddito di lavoro dipendente , in particolare i principi
fondamentali che regolano questa categoria reddituale e quindi il principio di onnicomprensività , il
principio di cassa che governa la sua determinazione . Bisogna completare il tema accennando ad
alcune fattispecie che pur essendo rappresentate da somme che vengono percepite in dipendenza
del rapporto di lavoro dipendente , non sono eccezionalmente sottoposte a prestazione e poi
bisogna parlare delle fattispecie di reddito di lavoro dipendente dette “ ASSIMILATE “ .
Partendo dalle prime , e cioè le somme che in linea di principio si dovrebbero sottoporre a
tassazione perché percepite in dipendenza del rapporto di lavoro e per le quali , invece , il legislatore
ha voluto introdurre un’evidente deroga al principio di onnicomprensività , bisogna ricordare che
sono sottratte dall’obbligo in positivo le somme che , per esempio , vengono erogate ai dipendenti
per assicurare la presenza agli asili nido dei figli minori , o per esempio , i ticket restaurant ( buoni
pasto ) . Quindi anche questi sono da considerare somme di denaro che vengono erogate al
prestatore di lavoro e che se percepite da questi nel limite di 5,29 euro giornalieri sono somme che
non concorrono alla determinazione del reddito di lavoro dipendente. Ancora , per esempio , sono
da sottrarre alla tassazione , le somme che sono erogate ai dipendenti per l’acquisto di abbonamenti
a servizi di trasporto pubblico . Quindi , anche in questo caso , se il prestatore di lavoro raggiunge il
luogo di lavoro avvalendosi dei servizi pubblici , l’eventuale costo sostenuto per l’abbonamento
potrà essere direttamente pagato dal datore di lavoro e non costituirà reddito di lavoro dipendente
da sottoporre a tassazione , seppure entro una soglia massima consentita oltre alla quale la somma
eventualmente erogata dal datore di lavoro concorre alla determinazione del reddito di lavoro
dipendente del prestatore .
Il legislatore , nella disciplina del reddito di lavoro dipendente, ha dedicato un’intera norma ad
individuare le c.d. fattispecie assimilate . Queste fattispecie assimilate a quelle che producono
reddito di lavoro dipendente sono fattispecie che , se non fosse intervenuto il legislatore , non
sarebbero state sottoponibili alla tassazione sulla base della categoria reddituale che stiamo
studiando ; questo perché sono fattispecie di reddito rispetto alle quali manca una delle
caratteristiche tipiche di quelle che naturalmente producono reddito di lavoro dipendente. Per
questo motivo si parla di fattispecie assimilate a quelle che generano reddito di lavoro dipendente.
Quindi sono redditi assimilati ai redditi di lavoro dipendente. La norma , che è l’art 50 del T.U. ,
prevede ipotesi molto eterogenee di queste fattispecie reddituali. Alcune di queste sono :
- remunerazioni percepite dai sacerdoti : i sacerdoti percepiscono remunerazioni direttamente dalla
Città del Vaticano e la remunerazione percepita costituisce un reddito assimilato al reddito di lavoro
dipendente, quindi viene sottoposto a tassazione .
- le indennità percepite dai parlamentari : parliamo di parlamentari nazionali e anche di consiglieri
regionali o dai consiglieri provinciali ( quando esistevano ) e comunali . Queste indennità percepite in
dipendenza di queste cariche elettive menzionate , determinano un reddito assimilato al reddito di
lavoro dipendente.
- Compensi percepiti dai medici per le prestazioni sanitarie rese in regime intramurario:
normalmente i medici che sono alle dipendenze del servizio sanitario nazionale sono obbligati a
rendere le loro prestazioni di lavoro esclusivamente per il servizio sanitario nazionale . Per questo
parliamo di prestazione intramoenia ( dentro le mura della struttura pubblica ) . I dipendenti non
sono solo dipendenti del servizio sanitario nazionale , ma
possono desiderare di svolgere la propria attività anche al di fuori del servizio sanitario nazionale , in
quanto professionisti . I medici che occupano , per l’esercizio dell’attività professionale ,
esclusivamente nell’ambito del servizio sanitario nazionale, possono essere autorizzati all’esercizio
dell’attività professionale avvalendosi, però , della struttura ospedaliera . Questo significa che i
medici , che sono lavoratori dipendenti del servizio sanitario nazionale , possono rendere prestazioni
professionali in proprio avvalendosi , però , della struttura ospedaliera . Quindi lo studio , le
attrezzature mediche che dovranno essere indispensabili per l’esercizio dell’attività , dovranno
essere rese disponibili dalla stessa struttura sanitaria. Questo implica che il compenso ,
eventualmente reso a questi medici , venga ripartito con il servizio sanitario nazionale. Quindi una
parte viene direttamente percepita dall’ente presso cui il medico presta la sua attività , mentre
Iniziamo la lezione occupandoci affrontando alcune nozioni di carattere generale che investono la
tassazione del reddito d’impresa prodotto dalle imprese svolte sotto forma di persona fisica, nella
forma delle società di persone.
Ciò ha delle connotazioni molto particolari perchè, in definitiva, si tratta di attuare le regole
precipue del reddito di impresa da applicare esclusivamente a soggetti nei confronti dei quali si
applica l’IRPEF.
Nelle lezioni successive tratteremo il reddito di impresa, alla sua determinazione, e avranno per
oggetto regole che saranno tipiche dell’IRES, sono però regole comuni, perchè le modalità di
determinazione della base imponibile nel reddito d’impresa sono comuni tanto all’IRPEF quanto
all’IRES.
Il reddito di impresa prodotto dagli imprenditori individuale può essere sottoposto a tassazione
attraverso l’applicazione di due regimi diversi:
1) È il regime c.d. ORDINARIO
2) È il regime c.d. SEMPLIFICATO
Che cosa distingue queste due diverse modalità di determinazione del reddito d’impresa?
Innanzitutto, cerchiamo di stabilire qual è la soglia che ci consente di dire che in un caso siamo
certamente nell’applicazione e ci troviamo nella necessità di applicare il regime di tassazione
ordinario e l’altro il regime semplificato.
La SOGLIA è rappresentata dall’ammontare dei ricavi da sottoporre tassazione. Dunque:
- Se l’impresa individuale svolta in Form individuale consegue ricavi che derivano dall’attività di
cessione di beni per un’ammontare superiore a 700.000 € (settecento mila euro), l’impresa sarà
necessariamente assoggettata a regime fiscale ordinario.
- Se invece l’impresa consegue un ammontare di ricavi che derivano dall’attività di cessione dei
beni per un importo inferiore, l’impresa accederà al regime speciale, dedicato alle imprese
minori.
Naturalmente, la distinzione tra i regimi la si rintraccia soltanto tra imprese che esercitano l’attività
di cessione di beni.
L’impresa può avere per oggetto anche la prestazione di sevizi, la soglia in questo è diversa, perchè
si abbassa. La soglia che segna il discrimine tra impresa da assoggettare a regime ordinario e
impresa invece da assoggettare a regime semplificato è di appena 400.000 € (quattrocento mila
euro).
La differenza tra le due fattispecie è una differenza determinante perchè gli imprenditori persone
fisiche che accidino a regime ordinario perché superano le soglie poc’anzi individuate (a seconda
che esercitino un’attività che ha per oggetto cessione di beni o prestazione di servizi) implica che il
reddito d’impresa debba essere determinato sulla base del bilancio, e, più in generale, le regole per
la determinazione del reddito d’impresa, sono le regole che valgono per le società di capitali.
Quindi, occorre redigere il bilancio, occorre applicare le regole che presiedono alla determinazione
del risultato dell’esercizio previste per le società di capitali.
La differenza fondamentale che governa la determinazione del reddito d’impresa, la regola che
occorre tenere presenta è quella che consente di stabilire se un bene è o non è un bene relativo
all’impresa.
Perché ci si pone questo problema?
Da tenere sempre presente è che stiamo analizzando le regole per le imprese che si svolgono in
forma individuale. L’impresa svolta in forma individuale sta a significare che l’attività di impresa è
svolta da un imprenditore persona fisica. Può accadere che un bene posseduto dalla persona fisica
sia un bene relativo all’impresa e quindi posseduto e destinato all’esercizio dell’attività d’impresa
oppure potrebbe essere un bene posseduto a titolo personale.
Per esempio, l’acquisto di un autovettura per un’imprenditore individuale per lo svolgimento di
un’attività di impresa. Ma è altrettanto possibile che sia stata destinata esclusivamente per uso
personale.
Se immaginiamo lo stesso fenomeno riferito ad un soggetto passivo IRES, per esempio una società
di capitali, il problema dell’imputabilità del cespite all’attività di impresa non si pone affatto. Ciò
Dobbiamo cominciare accennando al regime che trova applicazione per la determinazione della base imponibile per gli enti NON
commerciali.
Per la verità è un tema al quale abbiamo già accennato e la regola che stiamo per enunciare trova applicazione rispetto ad un a
platea molto vasta di soggetti passivi perché, quando ci riferiamo alla categoria degli enti non commerciali, facciamo riferi mento
a → enti pubblici, fondazioni, associazioni, comitati, consorzi quindi si tratta davvero di una categoria estremamente vasta.
Definizione di ente non commerciale → l’ente è da considerare non commerciale quando NON ha per oggetto esclusivo o
principale l’esercizio di un’attività commerciale.
Data per assodata la nozione di ente non commerciale rimane da capire:
1. anzitutto se l’ente possa qualificarsi non commerciale sulla base delle determinazioni eventualmente contenute nella legge o
nell’atto costitutivo oppure sulla base di altri elementi;
2. poi, nell’eventualità in cui l’attività non commerciale non sia l’unica svolta dall’ente, come si fa a stabilire se l’ente è non
commerciale o commerciale;
3. infine, bisogna stabilire se anche per gli enti non commerciali si pone un problema circa la individuazione della natura
commerciale o meno dell’attività, cioè si tratta di capire se esiste un criterio specifico da applicare per gli enti non commerciali al
fine di stabilire se l’attività svolta è commerciale o meno.
Per rispondere a questi tre quesiti individuati possiamo innanzitutto affermare che:
1. La natura dell’attività svolta va essenzialmente individuata sulla base di quanto previsto dalla legge se l’ente non comme rciale
è istituito per legge oppure sulla base di quanto stabilito nell’atto costitutivo, nello statuto dell’ente se il documento è redatto
con atto pubblico o scrittura privata autenticata, viceversa bisognerebbe guardare all’attività effettivamente svolta dall’en te. In
mancanza di riferimento esplicito all’interno della legge o dell’atto costitutivo sarà quindi necessario guardare all’attività così
come concretamente svolta.
2. Che poi l’attività possa essere considerata principale o meno dipende da un’unica circostanza cioè → se questa attività è
essenziale per realizzare quelli che sono gli scopi primari di questo ente non commerciale. Gli scopi saranno quelli indicati nella
legge se si tratta di ente non commerciale istituito per legge oppure nello statuto, nell’atto costitutivo se l’ente non commerciale
è istituito per contratto, per scrittura privata autenticata. Nell’eventualità in cui legge e statuto non dicano nulla allora sarà
indispensabile verificare l’attività effettivamente svolta. Da ciò, quindi, si evince che anche per comprendere se l’attività
effettivamente svolta sia o non sia primaria occorre indagare per via di fatto.
3. L’ultimo quesito è quello di più facile soluzione perché è pacifico che anche per gli enti non commerciali la natura commerciale
o no dell’attività eventualmente svolta va verificata in maniera molto semplice guardando cioè al contenuto dell’art. 55 del testo
unico, la norma che definisce l’attività di impresa. Dunque, tutte le volte in cui l’ente non commerciale abbia
per oggetto attività ascrivibili ad una di quelle indicate nell’art. 55 (ad esempio una attività di intermediazione nella cir colazione
dei beni) allora è pacifica la classificazione dell’attività come attività commerciale.
Per questa particolare categoria di soggetti naturalmente deve porsi un problema → cioè la possibilità di perdere la natura di
ente non commerciale. È pacifico che questi soggetti, nell’eventualità in cui inizino, anche nel corso della loro vita, ad es ercitare
in via prevalente o esclusiva attività commerciali, perdano inevitabilmente la natura di enti non commerciali. Quindi, se una
simile evenienza dovesse verificarsi, certamente l’ente non commerciale perderebbe il diritto di applicare il regime fiscale
riservato agli enti non commerciali con la conseguenza che diverrebbe applicabile il regime dell’impresa ordinario cioè quell o
tipico degli enti commerciali.
Allora qual è la differenza fondamentale? Certamente la prima fondamentale differenza è quella delle modalità di
determinazione della base imponibile.
a) Gli enti non commerciali sono enti - e quindi soggetti passivi del tributo - che astrattamente potrebbero produrre redditi
fondiari, redditi di capitali, redditi diversi e redditi di impresa.
b) Gli enti commerciali sono soggetti che, per definizione, al pari delle società di capitali producono esclusivamente un’uni ca
categoria di reddito: il reddito d’impresa.
La differenza è quindi enorme perché → il fatto che l’ordinamento riconosca ai primi astrattamente la possibilità di produrre
categorie reddituali diverse e preveda invece per gli enti commerciali che si debba presumere ex lege che l’unica categoria di
reddito che può essere prodotta è esclusivamente il reddito d’impresa provoca conseguenze determinanti:
a) Per gli enti NON commerciali.
Anzitutto per quanto concerne il punto di determinazione della base imponibile l’ente non commerciale, a seconda della
categoria di reddito prodotta, applicherà le regole tipiche di ciascuna delle quattro categorie quindi nei limiti dell’attivi tà di
impresa svolta saranno applicate le regole stabilite per la determinazione del reddito d’impresa. Viceversa, laddove l’ente n on
commerciale dovesse produrre - per esempio - redditi di capitali, allora quei redditi non sarebbero più componenti positivi di
reddito d’impresa ma sarebbero redditi di capitali ai quali applicare le regole precipue di quella categoria di reddito. Quin di, in
definitiva, per gli enti non commerciali le modalità di determinazione della base imponibile sono le medesime che già conosci amo
per le persone fisiche cioè si tratta di sommare algebricamente le singole categorie di reddito prodotte.
Però, ATTENZIONE! → Il parallelo, che certamente esiste, tra le modalità di determinazione della base imponibile degli enti non
commerciali e le modalità di determinazione della base imponibile delle persone fisiche si ferma qui! Si ferma sulla
determinazione del reddito complessivo perché, una volta che si è stabilito quali categorie di reddito si producono e si fa l a
somma algebrica tra le varie categorie di reddito prodotte, si determina il reddito complessivo. Sta qui l’analogia tra la di sciplina
PLUSVALENZE PATRIMONIALI
Le plusvalenze patrimoniali sono un componente positivo di reddito d’impresa (ne abbiamo
studiato già parlato quando ci siamo occupati di reddito di lavoro autonomo).
Le plusvalenze patrimoniali hanno la caratteristica di derivare esclusivamente da particolari
categorie di operazioni che hanno per oggetto esclusivamente beni strumentali e beni
meramente patrimoniali.
Prima di passare all’elencazione delle operazioni che generano plusvalenza nel reddito d’impresa
è bene precisare che anche le plusvalenze patrimoniali (che studiamo come componente
positivo di reddito d’impresa) sono appunto un componente positivo che si determina
ordinariamente nei modi che già conosciamo → cioè per contrapposizione tra il corrispettivo che
deriva dalla cessione e il costo fiscalmente riconosciuto del bene ceduto.
La plusvalenza patrimoniale da sottoporre a tassazione si determina appunto per
contrapposizione tra il corrispettivo derivante dalla cessione del cespite e il costo che è stato
sostenuto per il suo acquisto MA NON il costo storico, BENSI’ il costo fiscalmente riconosciuto
(costo al netto delle quote di ammortamento già dedotte).
Questa modalità di determinazione della plusvalenza è una modalità che ci consente di
determinare la plusvalenza ordinariamente da sottoporre a tassazione: vedremo che questa
modalità di tassazione della plusvalenza (disciplina ordinaria) subisce una DEROGA importante
quando le plusvalenze non solo scaturiscono da operazioni di particolare tipo ma anche che
hanno per oggetto alcuni particolari beni
Quindi → SE l’operazione di compravendita pura e semplice ha per oggetto partecipazioni sociali
allora è possibile che il regime di tassazione della plusvalenza non sia più quello ordinario ma
diventi invece un regime di tassazione c.d. agevolata → Questo regime agevolativo introdotto
nel nostro sistema dal legislatore è denominato PARTECIPATION EXEMPTION → si tratta di un
regime di esenzione parziale delle plusvalenze dall’applicazione dell’imposta.
Prima di parlare di regime PEX (acronimo di partecipation exemption), torniamo al regime di
tassazione ordinaria per capire quali sono le operazioni in presenza delle quali è possibile che si
determini una plusvalenza da sottoporre a tassazione.
❖ Per quando riguarda quindi il regime di tassazione ordinaria • Sicuramente l’operazione
classica è quella delle plusvalenze che si determinano per cessione a titolo oneroso dei beni da
cui scaturiscono (beni strumentali e beni meramente patrimoniali). Se interviene un’operazione
di compravendita in dipendenza della quale il cedente percepisce un corrispettivo perché si
tratta appunto di una cessione a titolo oneroso è pacifico che l’operazione può generare
plusvalenza da sottoporre a tassazione.
• Può scaturire plusvalenza dalla perdita o dal danneggiamento di beni, che se ceduti avrebbero
causato plusvalenza, quando è previsto il risarcimento per la perdita o il danneggiamento (anche
in forma assicurativa).
Si tratta di una fattispecie speculare a quella che abbiamo studiato quando ci siamo occupati dei
ricavi → se vengono perduti o danneggiati beni merce l’indennità conseguita anche a titolo di
risarcimento del danno può determinare ricavi→ in questa sede studiamo l’ipotesi della perdita
o danneggiamento che invece investe beni strumentali o meramente patrimoniali, quindi se per
la
perdita o il danneggiamento l’impresa ha diritto a conseguire un’indennità che viene percepita a
titolo assicurativo allora certamente questo corrispettivo (lo chiamiamo così ma in realtà non è
tale perché si tratta di un’indennità dovuta a titolo di risarcimento) potrebbe generare una
plusvalenza da sottoporre a tassazione (se naturalmente residua un plusvalore al netto del costo
fiscalmente riconosciuto).
• Un’altra ipotesi è costituita dall’autoconsumo: se il bene strumentale viene estromesso dalla
destinazione all’impresa l’eventuale plusvalore che dovesse residuare rispetto al valore normale
è certamente plusvalenza da sottoporre a tassazione.
È necessario segnalare una peculiarità: quando ci siamo occupati di reddito di lavoro autonomo
e quindi abbiamo studiato l’analoga ipotesi dell’assegnazione alle finalità diverse dall’attività di
Iniziamo la lezione di oggi continuando a parlare dell’IVA: la scorsa lezione, infatti, abbiamo
fatto una velocissima panoramica delle caratteristiche essenziali delle operazioni rilevanti ai
fini dell’IVA, abbiamo trattato delle caratteristiche essenziali delle operazioni imponibili, non
imponibili ed esenti. Volendole riepilogare, abbiamo precisato che le operazioni IMPONIBILI
hanno quattro caratteristiche: sono operazioni per le quali il soggetto passivo che le effettua
deve applicare il tributo; consentono al soggetto passivo il diritto di detrarre l’IVA sugli
acquisti; concorrono a determinare il volume d’affari; determinano il sorgere degli obblighi
formali, che contrassegnano l’applicazione di questo tributo.
Le operazioni NON IMPONIBILI, viceversa, hanno solo tre di queste caratteristiche che sono
tipiche delle operazioni imponibili: la possibilità di esercitare il diritto di detrarre sugli
acquisti; la circostanza che le operazioni non imponibili concorrono a determinare il volume
di affari; determinano il sorgere degli obblighi formali nell’applicazione di questo tributo.
Quindi, ad esempio, chi compie operazioni non imponibili deve emettere le fatture,
registrare la liquidazione e, se sussiste l’obbligo di versamento, provvedere a ciò.
Le operazioni ESENTI, invece, condividono solo due delle caratteristiche delle operazioni
imponibili: concorrono alla determinazione del volume d’affari e determinano il sorgere
degli obblighi formali.
OPERAZIONI IMPONIBILI
Le operazioni IMPONIIBILI sono: cessione di beni, prestazioni di servizi, acquisti
intracomunitari, importazioni. E’ necessario fare subito una precisazione, legata alla
combinazione di questo elemento oggettivo (dato dal fatto che stiamo parlando certamente
di operazioni rilevanti ai fini dell’applicazione del tributo) con l’elemento soggettivo (queste
particolari operazioni devono essere effettuate da imprenditori o da esercenti arti e
professioni): dunque, va subito verificato come questi due elementi si intrecciano. Mentre
cessione di beni, prestazioni di servizi e acquisti intracomunitari sono operazioni imponibili a
patto e condizione che siano effettuate da soggetti passivi IVA, quindi è certamente
verificata la regola generale (elemento soggettivo ed elemento oggettivo devono
contemporaneamente sussistere), le importazioni sono operazioni imponibili da chiunque
effettuate, dunque sono rilevanti ai fini dell’IVA anche se effettuati da soggetti non passivi
IVA. In questa sede non approfondiremo le ultime due menzionate operazioni imponibili,
acquisti intracomunitari e importazioni, in quanto sono due operazioni che risentono molto
del terzo elemento essenziale del tributo, cioè la territorialità. Per adesso ci occuperemo
delle prime due operazioni che sono puntualmente disciplinate dal decreto n.633/1972,
artt. 2 e 3.
CESSIONE DI BENI
L’art.2 del presente decreto definisce la cessione di beni, affermando che sono cessioni di
beni gli atti a titolo oneroso che determinano o il trasferimento del diritto di proprietà
oppure la costituzione o il trasferimento di un diritto reale di godimento sui beni. Requisito
essenziale è l’onerosità, anche se le operazioni a titolo gratuito non sono sempre irrilevanti
per l’IVA: infatti quando la cessione ha per oggetto beni merce, se è fatta a titolo gratuito
(ad es. l’imprenditore decide di donare i beni che produce) diventa operazione rilevante ai
fini dell’IVA.
Vi è una particolare categoria di cessione di beni, che per la mancanza di un elemento
formale, non dovrebbe costituire operazione rilevante ai fini dell’IVA, ma ciononostante,
siccome il legislatore ha voluto attrarre nella categoria della cessione di beni tale fattispecie,
le ha espressamente incluse nella definizione di cessione di beni, sempre all’art.2, che
presenta una elencazione delle operazioni cd. Assimilate. Si tratta di operazioni che a prima
vista sarebbero difficilmente riconducibili alla categoria della cessione di beni, proprio
Completato l’esame delle operazioni imponibili e delle operazioni esenti … oggi dobbiamo studiare il terzo profilo che rileva per
la configurazione delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA: il profilo della territorialità, la quale apre lo studio della categoria
delle operazioni NON IMPONIBILI. Il principio di territorialità è rilevante nell’elemento soggettivo e in quello oggettivo ch e
ormai conosciamo; tale operazione ,per essere rilevante ai fini dell’IVA, basti sapere che la territorialità deve essere inte so in
senso ampio cioè non rilevano soltanto le operazioni effettuate all’interno del territorio dello Stato ma anche quelle operaz ioni
effettuate all’interno dell’Unione Europea( così si riscopre la natura unionale di questo tributo). Fin da subito è important e
rimarcare la distinzione tra operazioni effettuate all’interno dell’UE e quelle che si possono definire extraUE,quindi da un
soggetto che si trova all’interno di un paese membro es. Italia che pone uno scambio di beni e di servizi realizzato con un p aese
non UE ( quindi relazioni e operazioni svolte anche tra paesi non UE ) . Quando la cessione di beni o la prestazione di servi zi
intercorre tra un soggetto che risiede in Italia e un soggetto che invece risiede fuori dall’Unione Europea, l’operazione vie ne
denominata in modo difforme rispetto alle operazioni fin qui studiate , proprio perché in tale particolare ipotesi ricorrono o
importazioni o esportazioni: in ipotesi di importazione il cessionario del bene è residente nel territorio dello Stato e il c edente è
collocato fuori dall’UE; invece di esportazione il bene viene ceduto e il servizio viene prestato a favore di un soggetto che non
risiede nell’UE -> es. committente americano che ordina una prestazione di servizi ad un prestatore ( un professionista)
residente nel territorio dello Stato. Queste in base al principio di territorialità hanno una disciplina completamente divers a!
IMPORTANTE tenere distinta la disciplina dell’importazione che non è sussumibile con quella dell’esportazione: quando
abbiamo fatto l’elenco delle operazioni imponibili abbiamo collocato subito nel modulo delle operazioni imponibili le
importazioni da chiunque effettuate … quindi l’importazione configura sempre un tipo di operazione rilevante ai fini dell’IVA e
per di più costituisce un tipo di operazione imponibile. Quindi chi è importatore di un bene o di un servizio ,in Italia,effe ttua
operazione imponibile, con tutte le conseguenze che ne derivano ( perché ne diviene che l’imposta venga applicata,che sia
operazione che concorra alla determinazione del volume d’affari,che scaturiscano dal compimento di questa tutti gli obblighi
formali, tipici delle operazioni rilevanti e che certamente spetta il diritto di detrarre l’IVA sugli acquisti). Bisogna prim a ancora
precisare che il problema che si pone rispetto a queste operazioni è quello di scegliere , stabilire ( anche per capire se si tratta
di operazione transnazionale) dov’è collocato il bene e dove si considera effettuata l’operazione in caso di prestazione di s ervizi
perché RICORDA LA DISTINZIONE : la cessione di beni ha per oggetto un bene materialmente individuato mentre la prestazione
di servizi certamente no! Quindi serve risolvere la localizzazione dell’operazione e la risoluzione avviene in modo difforme a
seconda che si tratti di oggetto in cessione di bei oppure prestazione di servizi. Se si è all’interno di una cessione di ben i ,
bisogna guardare al luogo in cui si trova il bene che è oggetto della cessione e sarà quello l’elemento che determinerà la
localizzazione ; più complesso è quando si è in tema di prestazione di servizi perché se essa intercorre tra 2 soggetti entra mbi
soggetti passivi dell’IVA, determina il luogo dell’operazione il paese del committente, es. immaginiamo una prestazione di
servizi ordinata da un cliente francese ( soggetto passivo IVA) a un prestatore di servizi italiano( quindi chi deve eseguire la
prestazione): la regola vuole che la
localizzazione dell’operazione si debba considerare effettuata in Italia, cioè il luogo del committente. Mentre nel caso in c ui uno
dei 2 sia consumatore finale e dunque qui non c’è un rapporto tra 2 soggetti passivi IVA , ma c’è una relazione diversa: uno è il
committente che è un privato quindi un consumatore finale( non un soggetto passivo IVA) e dall’altra parte c’è il prestatore del
servizio e qui la regola cambia perché l’operazione si considera effettuata nel Paese di chi presta il servizio , quindi del
professionista. Per questa categoria che ha caratteri peculiari con soggetti che risiedono in Paesi diversi, si ritorna a dis tinguere
tra operazioni intracomunitarie (che sono sempre rilevanti ai fini dell’IVA sia che si tratti di acquisto intracomunitario si a che si
tratti di cessioni intracomunitarie) e operazioni non intracomunitarie. Es. operazione di cessione di beni in cui il cedente è
francese e lì acquirente è italiano rappresenta una cessione intracomunitaria per il francese che effettua la cessione del be ne;
sarà acquisto intracomunitario per l’italiano che acquista dal proprio fornitore francese : la medesima operazione và indagat a
sotto la duplice prospettiva che quella sia di chi cede ( operazione attiva) sia di chi acquista il bene ( operazione passiva ) e
ovviamente le due discipline non possono essere disarticolate ma necessariamente coordinate tra di loro, posto che si tratta di
operazioni irrilevanti ai fini dell’IVA, ma qual è la rilevanza di una operazione ( cessione di beni – prestazione di servizi) che
avviene effettuata nell’ambito dell’Unione Europea, fermo restando che verrà sciolto il nodo della localizzazione del bene …
Principio che governa la disciplina delle operazioni intracomunitarie( riferendoci sia agli acquisti sia alle cessioni
intracomunitarie) , è quello che vuole che la tassazione avvenga nel Paese di destinazione: ciò significa applicare un regime
estremamente peculiare in ragione del quale il cedente , tornando all’esempio precedente ,con fornitore francese su richiesta
di un cliente italiano che è a sua volta un soggetto passivo ( operazione pacificamente intracomunitaria), dovrà emettere una
fattura senza applicare l’IVA (perché per il principio regolatore finora accennato l’IVA viene applicata nel Paese di destina zione
e nell’esempio dunque in Italia); l’IVA sarà applicata in Italia dal cessionario , che ricevuta la fattura, la integrerà indi cando
l’aliquota e l’imposta corrispondente quindi c’è questa attività di integrazione della fattura , la quale è totalmente demand ata
al cessionario. Questo è il primo adempimento formale cui il cessionario deve provvedere ma non è l’unico perché dopo
l’integrazione dovrà registrare la fattura,che per lui è acquisto intracomunitario,sia nel registro delle fatture attive che nel
registro delle fatture passive: questo adempimento estremamente peculiare del cessionario consente,una volta integrata la
fattura di ottenere la neutralità dell’imposta perché se questa fattura viene contemporaneamente registrata nei registri atti vo
e passivo( ed è anomalo! In quanto operazione di acquisto quindi nel regime ordinario dell’IVA normalmente viene registrato
nel registro delle fatture passive cioè il registro dell’IVA sugli acquisti ma qui siamo nel campo intracomunitario con un di verso