Sei sulla pagina 1di 205

LEZIONE 1 (1/03/21)

martedì 26 ottobre 2021 19:40

Il diritto tributario è quella branca dell’ordinamento giuridico che studia l’insieme di attività
realizzate dallo Stato o da altro ente pubblico per il procacciamento delle risorse indispensabili per
il conseguimento delle finalità a cui questi enti mirano.
Le risorse che sono necessarie allo Stato o a un altro ente pubblico per il conseguimento delle finalità
loro proprie sono risorse che possono essere tracciate attraverso attività giuridicamente distinte tra
loro.
Le entrate possono, infatti, essere :
- Entrate di diritto privato in questo caso le entrate possono essere definite di diritto
privato nonché iure privatorum
- Entrate di diritto pubblico à e dunque in questa ulteriore ipotesi si parlerà di entrate iure
imperii.
C'è una differenza grande tra queste due tipologie di entrate.
- Se l'entrata è di diritto privato significa che consegue a negozi di stampo privatistico che
pacificamente lo Stato o un altro ente pubblico pone in essere quale parte di un negozio
giuridico e dunque di un contratto.
Per esempio:
i proventi che possono derivare dall'attività che ha per oggetto l'alienazione di beni oppure i
proventi che possono derivare dalla stipulazione di un contratto di locazione.
Tanto lo stato quanto qualsiasi altro ente pubblico può conseguire entrate di stampo
privatistico attraverso la conclusione di negozi giuridici di diritto privato à entrate saranno
iure privatorum
- diversamente è da dire quando le entrate sono di diritto pubblico, perché quelle che
derivano dall' esercizio di un'attività di imperio sono del tutto prive di un elemento tipico
del negozio di diritto privato cioè sono prive di nesso sinallagmatico e cioè non sono mai
l'effetto di un negozio che realizza un nesso sinallagmatico tra le parti, anzi all' opposto sono
caratterizzate da un elemento che è fortemente caratterizzante di questa particolare categoria
di entrate: la coattività.
Per esempio i tributi sono prelievo cattivo di ricchezza e trovano la loro fonte nella legge (anche se
la nozione di tributo si è voluta fortissimamente nel corso degli ultimi decenni tanto da perdere il
requisito della fonte o meglio l'elemento della fonte, in quanto molto tempo fa si riteneva che
accanto alla coattività, l’elemento caratterizzante la nozione di tributo fosse anche la fonte
tipicamente legale).
La nozione di tributo non è più strettamente contraddistinta dalla fonte legale, ma piuttosto dalla
coattività che è un elemento che non va a “braccetto” necessariamente con la fonte perché non è
affatto vero che un prelievo è coattivo perché ha fonte legale, il prelievo è coattivo anche in
ragione della disciplina che lo contraddistingue, quindi la natura coattiva del prelievo può
dipendere direttamente più che dalla sua fonte dalla disciplina del rapporto, non è necessariamente
legata al doppio filo con la fonte legale dell’obbligazione, anche se la fonte legale
dell’obbligazione, per larga parte della fattispecie pacificamente ascritte alla categoria dei tributi, è
un tratto caratterizzante.
La nozione di tributo è una nozione estremamente variegata perché al suo interno sono riconducibili
diverse tipologie di prelievo, tutte comunemente qualificate come tributo, ma che presentano però
caratteristiche estremamente diverse e che forse entra di distinguere dall' imposta (che è il tributo
per eccellenza) le tasse e i contributi.
Dai primi tratti di questa nozione un elemento ricorrente è la finalità (il prelievo coattivo di
ricchezza è operato per il finanziamento delle spese pubbliche), anche su questo però è necessaria
qualche precisazione:
la finalità per il finanziamento della spesa pubblica è, si, certamente presente, ma potrebbe non
essere esclusiva; questo perché non è infrequente l'ipotesi, nel nostro ordinamento, di forme di
prelievo con le quali legislatore si prefigura il raggiungimento di finalità extrafiscali.
Dunque è una finalità tipica del tributo certamente quella di essere destinata al finanziamento di
spese pubbliche (quelle che consentono all'ente che acquisisce l'entrata di perseguire le finalità sue

Diritto tributario Pagina 1


spese pubbliche (quelle che consentono all'ente che acquisisce l'entrata di perseguire le finalità sue
proprie).
MA accanto alla finalità tributaria (che è quella tipica) non è affatto escluso che legislatore ponga
anche finalità ulteriori che sono c.d. finalità extrafiscali , in qualche modo ritenuta meritevole di
approvazione da parte del sistema del legislatore.
Un esempio è la c.d. sugar tax e cioè una forma di prelievo che si prefigge di colpire l'acquisto e il
consumo di bevande di una certa categoria, quindi le bevande gassate con l'aggiunta di zuccheri.
È chiaro che la finalità di una forma di prelievo di questo tipo non è esclusivamente quella di
acquisire gettito per il perseguimento di finalità tipicamente fiscali, quindi finalità tributarie tipiche
(il finanziamento necessario per il sostenimento della spesa pubblica), ma sono anche forme di
prelievo che consentono il conseguimento di finalità extrafiscali, che sono però ritenute allo stesso
modo meritevoli di tutela.
Queste finalità ulteriori non possono sostituirsi alla funzione tipica del prelievo fiscale, cioè quella
di essere destinata al finanziamento della pubblica spesa, possono aggiungersi alla finalità fiscale
tipica e naturalmente perseguire finalità che possono essere le più svariate meritevoli di tutela.
NOZIONE DI TRIBUTO
Si tratta di una nozione a cui si perviene dopo decenni di elaborazioni dottrina e della
giurisprudenza della Corte costituzionale.
Non esiste una sola norma all'interno dell'ordinamento tributario che dia la nozione di tributo
nonostante si parli di tributo in moltissime norme anche di rango costituzionale.
Come già detto che il tributo è un prelievo coattivo di ricchezza operato dallo stato o da altro ente
pubblico per il soddisfacimento di bisogni pubblici in relazione a determinate manifestazioni di
capacità contributiva.
Il tributo ha, quindi, per oggetto una prestazione di tipo pecuniario, si risolve nel pagamento di
una somma di denaro che rappresenta una decurtazione del patrimonio del soggetto che la subisce.
È un' obbligazione quella tributaria che normalmente nasce dalla legge e proprio per questo si
definisce coattiva.
Natura del soggetto creditore:
nella nozione di tributo nella gran parte dei casi il soggetto attivo è lo Stato o altro ente pubblico,
ma non è sempre così, perché esistono altre forme di prelievo che sono tributi grazie ad alcune
sentenze della Corte Costituzionale, in cui il soggetto attivo non è né lo Stato, né un altro ente
pubblico, per esempio il canone RAI pur non essendo prelevato dallo Stato, né da un altro ente
pubblico perché prelevato da RAI che è una s.p.a è un tributo e dunque la Corte Costituzionale,
indipendentemente dalla natura pubblica del soggetto che pone il prelievo coattivo, ha riconosciuto
la natura tributaria del prelievo.
Altra caratteristica è la finalità: il tributo è operato per consentire soddisfacimento di bisogni
pubblici, la ricorrenza di questa caratteristica assicura la legittimità costituzionale del prelievo
coattivo rispetto ad un’altra norma di rango costituzionale: art. 81 Cost.
Il prelievo è legittimo nella misura in cui le somme prelevate sono effettivamente destinate al
soddisfacimento di bisogni pubblici.
Affinché il prelievo possa dirsi costituzionalmente legittimo non è necessario che la norma istitutiva
del prelievo indica anche esattamente a quale scopo sarà destinato il gettito.
La destinazione del gettito non è un elemento caratterizzante del tributo, ma è una
caratteristica aggiuntiva che tuttalpiù denota uno dei caratteri del c.d. tributo di scopo.
Quando il legislatore introduce un tributo di scopo allora vuol dire che nella disciplina di quella
particolare forma di prelievo va ex ante determinato dal legislatore quale sarà la destinazione del
gettito, ma il fatto che sia noto ex ante quale sarà la destinazione del gettito non è affatto un
elemento caratterizzante del tributo.
Elemento caratterizzante del tributo è invece un altro e cioè che il gettito sia destinato al
soddisfacimento di bisogni pubblici à Il bisogno pubblico non è necessario che venga stabilito
ex ante in sede di istituzione e disciplina.
Per comprendere la distinzione che esiste tra le diverse forme di tributo presenti al nostro
ordinamento (che sono tre: imposte, tasse, contributi ) dobbiamo necessariamente avere chiaro
come si distinguono i bisogni pubblici tradizionalmente:
- bisogni pubblici indivisibili à quando il soggetto che ne riceve il soddisfacimento non è in
grado di quantificare l'utilità che ne ritrae dal soddisfacimento di questo bisogno.
Il bisogno pubblico della difesa è un bisogno pubblico indivisibile
- quando invece il bisogno pubblico è divisibile à il soggetto che ne viene soddisfatto è in

Diritto tributario Pagina 2


- quando invece il bisogno pubblico è divisibile à il soggetto che ne viene soddisfatto è in
grado di quantificare in modo esatto l'utilità che ne ritrae.
Il bisogno pubblico rappresentato dall’amministrazione della giustizia è un bisogno pubblico
divisibile perché il soggetto che accede al servizio della giustizia certamente trae
direttamente utilità dal soddisfacimento di quel bisogno, in tutti i casi in cui accede al
servizio reso dall’amministrazione della giustizia.
Il bisogno pubblico è divisibile in tutti i casi in cui il privato cittadino chiede
all'amministrazione pubblica l' erogazione di un servizio; quando interviene questa
fattispecie è facilissimo asserire che il cittadino ha perfettamente in grado di quantificare
l'utilità che ritrae dal soddisfacimento di quel bisogno.
Lo stesso potrebbe dirsi quando si fa riferimento all'istruzione scolastica.
Se il cittadino accede all'istruzione scolastica, naturalmente non lui direttamente ma per
esempio i propri figli, è assolutamente agevole immaginare che sia in grado di quantificare
l'utilità che ritrae dal soddisfacimento di quel bisogno.
Questa è la ragione per la quale si giustifica la presenza in tutti gli ordinamenti tributari di forme di
prelievo coattivo di ricchezza prestate su domandaà queste sono le tasse.
Quando un prelievo coattivo di ricchezza è prestato su domanda è assolutamente pacifico che il
soggetto che richiede l' erogazione del servizio è in grado di quantificare l'utilità che ritrae dal
soddisfacimento di quel bisogno.
Il fatto che il servizio sia prestato su domanda NON toglie la natura tributaria di quel prelievo,
perché non c’è assolutamente alcuna corrispondenza tra
- la misura del corrispettivo (la misura della somma erogata per la prestazione di quel
servizio)
- e il costo di quel servizio
Si fa un errore gravissimo a ritenere che, quando si pagano le tasse universitarie, la tassa pagata
corrisponde al costo del servizio prestato.
Il servizio che l'università dello Stato offre è un servizio infinitamente più costoso rispetto all' entità
della tassa pagata.
Questo assicura:
- che si tratta di un servizio pubblico
- che il servizio sarà comunque erogato indipendentemente dal fatto che la risorsa ha
recuperato attraverso l'imposizione della tassa non copre interamente il costo del servizio.
Quindi c'è sempre una forbice tra l'entità delle risorse acquisite e il costo del servizio reso che sarà
comunque coperta dalla fiscalità generale à cioè le imposte.
È un discorso molto complesso che richiede una certa elasticità nel passare tra la definizione
dell'imposta e quella della tassa.
Tale esempio rende chiaro che per distinguere bene imposte e tasse bisogna preliminarmente avere
chiara la distinzione tra bisogni pubblici divisibili e indivisibili e poi altre caratteristiche che
verificheremo attraverso le nozioni di imposta, tassa e contributo.
NOZIONE DI IMPOSTA
l' imposta è un prelievo coattivo di ricchezza operato dallo stato o da altro ente pubblico per
concorrere alle spese pubbliche, quindi le risorse che vengono ritratte dall' applicazione delle
imposte sono tutte destinate al finanziamento delle pubbliche spese, con la finalità di assicurare il
soddisfacimento di bisogni pubblici indivisibili.
Dunque:
- assicurata la funzione = il concorso alle pubbliche spese
- assicurata la coattività perché l' obbligazione è indisponibile, è determinata dalla legge
l’elemento distintivo dell'imposta, rispetto alle altre forme di entrate pubbliche, è proprio il fine
cioè il soddisfacimento di bisogni pubblici indivisibili.
Le risorse che sono acquisite attraverso l'applicazione delle imposte sono destinate genericamente
alla fiscalità generale, è il Governo (in base agli obiettivi programmati nella legge di bilancio) a
stabilire in quale misura le risorse acquisite saranno destinate rispettivamente per finanziare:
- la difesa
- l’istruzione
- la sanità
- bisogni pubblici che sono indivisibili
PRIMA nell'esempio di bisogno pubblico indivisibile sono state indicate le tasse scolastiche MA
adesso in riferimento alla fiscalità generale si tirano fuori le risorse anche per il finanziamento

Diritto tributario Pagina 3


adesso in riferimento alla fiscalità generale si tirano fuori le risorse anche per il finanziamento
dell’istruzione.
MA le risorse che promanano dall’applicazione delle tasse non coprono il costo del servizio
Quindi lo studente universitario è vero che paga delle tasse per frequentare i corsi universitari
erogati dalle università statali, ma le tasse prelevate dallo stato e destinate al finanziamento di
questa spesa non sono sufficienti all' erogazione del servizio à quindi esiste sempre una forbice di
risorse che sarà prelevata dalla fiscalità generale = quella creata dall' applicazione delle imposte.
Ma quello dell'istruzione non è interamente un bisogno pubblico divisibile.
Lo è per coloro che accedono al servizio dell’istruzione, ma l'istruzione è uno di quei servizi che
hanno fortissime esternalità positive sull’intero sistema.
È interesse di tutti che il numero più elevato possibile di residenti nel territorio dello Stato consegua
un diploma universitario.
L'elevato livello di istruzione è uno degli obiettivi primari dello Stato, dunque è un servizio
pubblico che è anche un servizio che soddisfa un bisogno pubblico indivisibile, non è solo
divisibile.
Lo stesso discorso può farsi sulla sanità.
È certo che chi accede al servizio sanitario nazionale è in grado di quantificare immediatamente
l'unità che ritrae dall' accesso a quel servizio, ma un elevato livello di erogazione del servizio
sanitario nazionale conservi caduta di esternalità positive infinite per l'intero sistema-paese à
quindi è un bisogno pubblico al contempo indivisibile, che a buon diritto deve essere finanziato
attraverso la fiscalità generale e dunque attraverso l'applicazione delle imposte.
NOZIONE DI TASSA
Le prime parti di questa seconda definizione sono esattamente corrispondenti a quelle già utilizzate
per definire l'imposta.
La tassa (al pari dell’imposta) è un prelievo coattivo di ricchezza operato dallo Stato da altro ente
pubblico e per il soddisfacimento di bisogni pubblici divisibili.
Da questa diversa nozione di tassa (che è un pari dell'imposta uno tributo) gli elementi
caratterizzanti sono:
la circostanza che qui si tratta di un prelievo coattivo di ricchezza in cui governa il principio del
beneficio, non il principio del sacrificio à la tassa è applicata a chi chiede l' erogazione di un
servizio.
L’erogazione di un servizio da parte dell'amministrazione della giustizia significa chiedere
all'amministrazione dello Stato l' erogazione di un servizio à dunque si giustifica il pagamento
della tassa à è un servizio prestato su domanda.
La tassa che si applica a fronte della richiesta che qualsiasi cittadino può formulare
l'amministrazione della giustizia è il contributo unificato all'iscrizione al ruolo della causa, è la
tassa che viene pagata da chiunque chieda l' erogazione di un servizio da parte dell’amministrazione
della giustizia.
La definizione ci consente di ricondurre alla nozione di tassa un prelievo coattivo di ricchezza
operato in ragioni di un servizio prestato su domanda.
La tassa non avrebbe ragion d'essere se non dopo che il soggetto abbia fatto domanda di un servizio.
Con la finalità di soddisfare un bisogno pubblico di invisibile mediante il cui soddisfacimento il
soggetto richiedente è in grado, in maniera puntuale, di determinare la quantità del soddisfacimento
che ritrae da l'attività dallo Stato.
Le imposte presenti nel nostro sistema sono:
- IVA
- IRPEF
- IRES
- IRAP
- Imposte su successioni e donazioni
- Imposte di registro
E altre ancora che si indicheranno in seguito.
NOZIONE DI CONTRIBUTI
è un prelievo di ricchezza operato dallo stato o altro ente pubblico
- La differenza, rispetto alle imposte, esiste nella misura in cui sono destinati al
soddisfacimento di bisogni pubblici divisibili.
- La differenza, invece, rispetto alle tasse è determinata dal fatto che i contributi sono dovuti
indipendentemente dalla circostanza che il soggetto ne abbia fatta richiesta.

Diritto tributario Pagina 4


indipendentemente dalla circostanza che il soggetto ne abbia fatta richiesta.
Esempio: contributo al servizio sanitario nazionale, che non esiste più, era una forma di prelievo
coattivo che certamente era ascrivibile alla categoria dei contributi.
NON era, infatti subordinato alla richiesta da parte del soggetto che fruiva del servizio sanitario
nazionale. Il contributo veniva versato da tutti indipendentemente dal fatto che si richiedesse
l’accesso al sistema sanitario nazionale.
Molte sono le norme che fanno riferimento alla nozione di tributo, la più importante è l’art. 2 del
d.lgs. 546/1992.
Questa norma segna il perimetro della giurisdizione delle commissioni tributarie facendo
riferimento alla nozione di tributo.
Si tratta di un genus che definisce l' ambito della giurisdizione del giudice tributario à quindi tutte
le controversie che hanno per oggetto tributi, di ogni genere e specie, comunque denominati, sono
controversie che ricadono nella giurisdizione delle commissioni tributarie.
Questa è la ragione fondamentale (non l'unica) per la quale da molti anni, ormai, la giurisprudenza
si è lungamente dedicata all’individuazione, non di una nozione di tributo che possa essere
condivisa, ma di un’elencazione delle caratteristiche fondamentali che un prelievo coattivo di
ricchezza deve presentare, per poter essere ascritto alla categoria dei tributi.
Mancando, infatti, una nozione legislativa di tributo, si comprenderà come l'assenza della nozione
stessa determina ricadute sul piano applicativo molto gravi.
L'assenza di una nozione legislativa implica necessariamente che qualunque forma di prelievo
coattivo debba essere indagata caso per caso, al fine di stabilire se si tratta di un prelievo coattivo
ascrivibile al genus tributo, perché se così fosse le conseguenze sarebbero considerevoli anche in
punto di giurisdizione à e questo significa che la giurisdizione sulle liti che hanno progetto quel
prelievo cattivo sarebbe una giurisdizione necessariamente da affidare alle commissioni tributarie,
non anche, invece, al giudice ordinario.
Si può, dunque affermare, come la nozione di tributo è molto lontana dal novero delle disquisizioni
puramente dottrinari. È una questione teorica che ha delle ricadute di ordine pratico fondamentali.
Elementi individuati come essenziali della Corte costituzionale per individuare un tributo sono:
La doverosità della prestazione à quindi la Corte costituzionale ha riconosciuto nell’assenza
dell’elemento sinallagmatico e quindi nella coattività, uno degli elementi essenziali del tributo.
Ancora, il fatto che il prelievo coattivo determini una decurtazione patrimoniale del soggetto che
ne resta sottoposto.
Infine che la risorsa, ritratta dal previo lo stesso, sia destinata al sostenimento di una spesa
pubblica.
Bisogna tenere conto che la fonte legale del rapporto non è inevitabilmente legata alla sussistenza
del tributo.
Il rapporto normalmente ha fonte legale, ma non è affatto escluso che il rapporto possa anche avere
fonte tipicamente negoziale.
Così accade, per esempio, tutte le volte in cui si applica una tassa che implica la richiesta del
servizio da parte del soggetto che richiede l' erogazione di una determinata prestazione da parte di
un ente pubblico.
Un esempio di prelievo coattivo di ricchezza che ha suscitato molte perplessità circa la sua
riconducibilità o meno al genere dei tributi è rappresentato dai MONOPOLI.
Si è arrivati ad affermare che i monopoli sono certamente ascrivibili al genus dei tributi.
Prima di indicare quali sono le ragioni per cui si è arrivati a tale soluzioni è necessario soffermarsi
sul concetto di MONOPOLIO.
L'art. 41 Cost. , che è la norma che sancisce il principio della libertà dell’iniziativa economica,
prevede, però, che lo stato possa riservare l'esercizio di alcune particolari attività ad uno o più
soggetti con la finalità di perseguire l'utilità generale.
Quindi è costituzionalmente possibile che lo Stato riservi l'esercizio di alcune attività ad uno o più
soggetti, a condizione, però, che questa limitazione forte all'esercizio l'attività economica (ispirata al
principio di libertà) risponda alla utilità generale e cioè sia sempre fatta con l'obiettivo di perseguire
l'utilità generale.
Questa circostanza apre la via ai c.d. monopoli di diritto = sono tutte le situazioni in ragione delle
quali lo Stato sceglie, a condizione che sia perseguita l'utilità generale, di affidare lo svolgimento di
un'attività a un determinato soggetto.
L'utilità generale dovrebbe poter essere conseguita attraverso questa scelta semplicemente perché il
legislatore potrebbe ritenere utile (o maggiormente utile) assicurare l' effettiva fruizione del servizio

Diritto tributario Pagina 5


legislatore potrebbe ritenere utile (o maggiormente utile) assicurare l' effettiva fruizione del servizio
da parte di tutti proprio attraverso l'esercizio dell'attività in monopolio.
Quindi in ragione del fatto che si vuole assicurare che tutti i fruiscano del bene o del servizio
offerto, si ritiene che questa attività debba essere esercitata da uno o determinati soggetti.
MA il monopolio di diritto è una cosa diversa dal monopolio fiscale perché di monopolio fiscale
ricorre tutte le volte in cui esiste un monopolio di diritto à quindi affinché ci sia un monopolio
rilevante dal punto di vista fiscale, è necessario che l'attività sia già un'attività svolta in regime di
monopolio e quindi esista un monopolio di diritto.
Il monopolio fiscale esiste quando attraverso l'applicazione del prezzo lo Stato riserva una quota
parte del corrispettivo percepito al finanziamento di spese pubbliche.
DUNQUE
NON è vero che c'è sempre monopolio fiscale, se c'è un monopolio di diritto.
Il monopolio fiscale esiste SE il corrispettivo previsto per la cessione del bene, in regime di
monopolio, include al suo interno una quota parte che viene riservata alla fiscalità generale.
DUNQUE una volta definito il monopolio fiscale, si comprenderà come il monopolio non può
essere escluso dalla nozione di tributo, è certamente da ascrivere alla nozione di tributo, non è né
più e né meno che un tributo; proprio perché una parte del corrispettivo percepito è destinato alla
fiscalità (al finanziamento di spese pubbliche).
Dando la nozione di tributo si faceva riferimento al fatto che la finalità è determinante (quindi
occorre che il prelievo sia destinato al finanziamento di spese pubbliche).
MA si è anche detto che la destinazione al soddisfacimento di bisogni pubblici divisibili e
indivisibili che siano, non corrisponde affatto a una predeterminazione normativa dello scopo à la
risorsa è acquisita e non è affatto predeterminato a quale spesa pubblica in particolare sarà
destinata:
se al finanziamento delle spese necessarie per la coperta il costo giustizia
o se al finanziamento delle spese necessarie alla copertura del servizio scolastico, della
salute e così via.
La nozione di imposta, ma anche quella di tassa e di contributo esulano dalla predeterminazione
normativa dello scopo a cui la risorsa sarà destinata. NON è affatto indispensabile sapere prima
quale sarà la destinazione della stessa.
SE è vero questo, nondimeno è vero che in alcuni casi (pochissimi), il legislatore ha, invece,
predeterminato normativamente quale sarà la destinazione delle risorse acquisite attraverso i
prelievi coattivi à in questo caso ricorre la figura del c.d. tributo di scopo = tributi caratterizzati
da una peculiarità e cioè il fatto che il legislatore, nel momento del confezionamento della
disciplina, stabilisce preventivamente quale sarà la destinazione del gettito.
Si pensi ad esempio all’IRPEF o all’IVA à si tratta di tributi fondamentali del nostro sistema
tributario sarà impossibile trovare nella disciplina di questi tributi una norma che dica ex ante che il
prelievo derivante dall’IRPEF sarà destinato al finanziamento della spesa sanitaria, perché ex ante è
escluso che nella disciplina dei singoli tributi il legislatore abbia predeterminato appunto
normativamente la destinazione del gettito.
MA in alcuni casi, invece, avviene esattamente il contrario à si tratta di fiscalità residuale, quindi
di tributi dai quali promana un gettito estremamente esiguo.
La scelta stata perseguita soprattutto nell'ambito della c.d. fiscalità locale.
DUNQUE non esistono tributi che costituiscono il sistema della fiscalità erariale che possiamo
ascrivere alla categoria dei tributi di scopo, i tributi di scopo sono quelli che invece fanno parte
della c.d. fiscalità locale e cioè la fiscalità degli enti locali (per esempio i comuni).
Volendo ricorrere ad un esempio certamente sono tributi con vincolo di destinazione quelli che il
legislatore ha definito imposta di soggiorno = pacificamente istituita con legge dello Stato, ma
nonostante la sua istituzione si tratta di un tributo locale, quindi di un tributo che viene introdotto
sulla base di disposizioni regolamentari, adottate dal comune che nella misura in cui lo istituisce sa
già che dovrà destinare il gettito derivante da questa particolare forma di prelievo a determinate
spese.
L’imposta di soggiorno, infatti, è un' imposta che viene applicata a coloro che per motivi turistici,
ma anche non turistici si trova a soggiornare all'interno di un determinato comune e che quindi in
ragione della sua permanenza presso le strutture alberghiere è chiamato al pagamento di una
determinata somma che sarà destinata a finanziare interventi che il comune vorrà fare in materia di:
- manutenzione (per esempio delle strade pubbliche)
- oppure per esempio in materia di turismo

Diritto tributario Pagina 6


- oppure per esempio in materia di turismo
- o di recupero dei beni ambientali e culturali (che quindi fanno parte della comunità
cittadina).
Attraverso questo prelievo il legislatore ha voluto predeterminare ad hoc quale sarà la destinazione
del gettito, si tratta però di una fattispecie assolutamente peculiare e che invece si pone, rispetto alla
fiscalità generale, con un'esperienza piuttosto anomala perché è vero, invece, che in tutti gli altri
casi la caratteristica tipica dei tributi fondamentali del sistema è l’indeterminazione normativa della
destinazione del gettito, con il limite della destinazione al finanziamento delle pubbliche spese
(altrimenti il prelievo sarebbe a dire poco incostituzionale).
ELEMENTI DELL’IMPOSTA
Gli elementi dell'imposta sono molteplici si possono distinguere in:
A. soggetto attivo
B. soggetto passivo
C. presupposto
D. base imponibile
E. misura dell'imposta
F. modalità di accertamento
G. modalità di riscossione
per quanto riguarda il soggetto attivo e il soggetto passivo sono elementi tipici del rapporto
giuridico obbligatorio che ha per oggetto un’obbligazione tributaria.
A. Il soggetto attivo
è quel soggetto che ricopre il lato attivo dell'obbligazione tributaria (il creditore del rapporto
giuridico d'imposta).
A volte soggetto attivo e destinatario del gettito non coincidono.
- Il soggetto attivo è chi ricopre il lato attivo dell’obbligazione tributaria
- il soggetto destinatario del gettito, invece, è il soggetto che materialmente percepisce le
somme che derivano dall' applicazione del tributo.
NORMALMENTE il soggetto attivo e il soggetto destinatario del gettito coincidono à per
esempio nell’Irpef soggetto attivo e destinatario del gettito coincidono (lo Stato).
MA esistono in alcuni tributi discipline diverse e dunque:
- il soggetto attivo resta ,per esempio lo Stato
- il destinatario del gettito, invece, rimane la regione
Così era, per esempio, nella disciplina dell'imposta regionale sulle attività produttive : il soggetto
attivo era certamente lo stato quando, invece il soggetto destinatario del gettito erano poi le singole
regioni (oggi le cose sono un po' cambiate perché la disciplina di questo tributo prevede invece che
il soggetto attivo e il destinatario del gettito corrispondano nella figura della regione à le singole
regioni sono al contempo soggetto attivo e soggetto destinatario del gettito).
B. Il soggetto passivo
Lo stesso, specularmente, può dirsi a proposito del soggetto passivo che è il soggetto che ricopre il
lato passivo dell’obbligazione tributaria.
Però il soggetto passivo è un soggetto rispetto al quale occorre fare particolare attenzione perché
esistono alcuni importanti tributi che fanno parte del nostro sistema, il riferimento è fatto all' IVA
(imposta sul valore aggiunto) in cui occorre necessariamente tenere distinta la figura del soggetto
passivo dalla figura del contribuente.
Mentre nella generalità dei tributi soggetto passivo e contribuente coincidono quindi:
- il soggetto passivo è colui che ricopre il lato passivo dell'obbligazione tributaria
- il contribuente è chi subisce in senso economico la decurtazione patrimoniale che deriva
dall' applicazione degli imposta.
Nella disciplina dell'imposta sul valore aggiunto (IVA) questa coincidenza manca, dunque
soggetto passivo e contribuente NON coincidono.
Prima di cercare di spiegarvi le ragioni di questa mancata corrispondenza è necessario spiegare qual
è la differenza tra soggetto passivo e contribuente.
Il soggetto passivo è il soggetto giuridicamente tenuto all'adempimento dell' obbligazione e quindi
per questo motivo è il soggetto che ricopre il lato passivo dell’obbligazione tributaria. Nel caso in
cui rimanesse inadempiente sarà certamente il soggetto passivo che risponderà dell'inadempienza
anche eventualmente attraverso l' irrogazione di sanzioni.
Il contribuente invece può essere (e lo è nella disciplina dell’iva) un soggetto diverso dal soggetto
passivo à il contribuente è chi rimane definitivamente inciso del peso economico del tributo, pur

Diritto tributario Pagina 7


passivo à il contribuente è chi rimane definitivamente inciso del peso economico del tributo, pur
non essendo il soggetto giuridicamente chiamato all'adempimento dell' obbligazione.
NORMALMENTE soggetto passivo e contribuente coincidoà nell’Irpef NON c'è una differenza
tra soggetto passivo e contribuente.
Quindi chi è giuridicamente obbligato all'adempimento e chi rimane definitivamente inciso
dall’onere economico del tributo sono esattamente lo stesso soggetto, non c'è difformità
MA nell’iva questo non accade à si verifica invece una apertissima dicotomia tra:
- soggetto passivo à quindi chi è obbligato giuridicamente all' assolvimento di obblighi
formali e sostanziali che derivano dall' applicazione di questo tributo particolarissimo
- e invece il contribuente à che nella disciplina dell’iva non è chi è chiamato
all'adempimento delle obbligazioni nei confronti dello Stato, ma è esclusivamente chi resta
definitivamente inciso dalla decurtazione patrimoniale subita da chi lo ha preceduto
nella catena economica di produzione e distribuzione del bene e del servizio.
C. Il presupposto
È un elemento fondamentale al quale deve essere riconosciuto un rilievo di primissimo ordine.
A questo elemento dell'imposta è dedicata un intera norma costituzionale l’art.53 Cost.
Il presupposto del tributo è il FATTO al verificarsi del quale sorge l'obbligo di pagare il tributo.
Non è solo l’elemento essenziale dell'imposta, perché è un elemento essenziale di qualsiasi prelievo
coattivo di ricchezza perché per essere costituzionalmente legittimo il presupposto deve esistere.
Affinché sorga l'obbligo al pagamento del tributo NON è sufficiente che si realizzi qualsiasi fatto (a
questo soccorre l’art.53 Cost.)à la scelta del fatto in presenza del quale è possibile prevedere
l'obbligo di pagare un tributo, in particolare l' imposta, è possibile solo a patto e condizione che il
fatto (ciò il presupposto ) sia espressivo di capacità contributiva à se non fosse così si potrebbe
paradossalmente ritenere che sia costituzionalmente legittimo un tributo in ragione del quale il
legislatore stabilisce che chiunque porta gli occhiali deve pagare il tributo, il portare gli occhiali è
certamente un fatto, in linea di principio nulla osterebbe ad agganciare a questo mero fatto l'obbligo
di contribuzione, ma non è così.
Il nostro ordinamento vuole qualcosa di più , vuole che il presupposto del tributo non sia
qualsiasi fatto al manifestarsi del quale sorge l'obbligo di provvedere al pagamento del tributo
ma che sia il fatto che manifesta capacità contributiva al verificarsi del quale sorge l'obbligo
di pagare l' obbligazione tributaria à quindi è un fatto qualificato.
IN MANCANZA di questa fondamentale caratteristica, il presupposto sarebbe costituzionalmente
illegittimo.
QUINDI sarebbe impossibile applicare qualunque forma di prelievo il semplice fatto che si portino
gli occhiali.
D. La base imponibile
la base imponibile è la misura del presupposto.
Volendo ricorrere a un esempio per spiegare cos'è la base imponibile si potrebbe richiamare
l'esempio del possesso di un reddito che è un presupposto suscettibile di determinare l'applicazione
del tributo che il nostro sistema chiama Irpef, ma il reddito deve essere misurato e deve esistere una
disciplina che in maniera puntuale consenta di misurare il presupposto da sottoporre a tassazione;
sarebbe estremamente semplicistico, per non dire gravemente errato, pensare che tutto il reddito
posseduto debba essere sottoposto a tassazione.
Si immagini che un lavoratore dipendente percepisca
- 20.000 € di reddito derivante appunto dal lavoro dipendente
- che sostenga come unico percettore di reddito un nucleo familiare
- che abbia sostenuto spese sanitarie.
Sarebbe possibile immaginare che questi € 20.000 di reddito di lavoro dipendente siano
interamente da sottoporre a tassazione? Sarebbe molto banale ,oltre che gravemente scorretto.
Il nostro è un sistema fiscale estremamente complesso che prevede una disciplina estremamente
dettagliata che consente a qualsiasi soggetto passivo di determinare esattamente qual è la misura
della base imponibile da sottoporre a tassazione.
DUNQUE volendo ricordare ancora una volta all' esempio precedente, un lavoratore dipendente che
percepisce € 20.000 di reddito proprio in dipendenza del rapporto di lavoro dipendente e che non
provvede al mantenimento di alcun nucleo familiare, essendo privo di nucleo familiare,
probabilmente sottoporrà tassazione una quota parte del suo reddito di lavoro dipendente
estremamente più elevata rispetto a quella che invece dovrà essere sottoposta a tassazione da chi
sostiene da sé il proprio nucleo familiareà e questo in virtù dell'applicazione della disciplina

Diritto tributario Pagina 8


sostiene da sé il proprio nucleo familiareà e questo in virtù dell'applicazione della disciplina
estremamente complessa che presiede al meccanismo delle deduzioni e delle detrazioni fiscalmente
rilevanti.
La base imponibile è la misura del presupposto, allora se il presupposto è il possesso di reddito, la
base imponibile è la parte del presupposto che deve essere sottoposta a tassazione attraverso
l'applicazione della disciplina stabilità legislatore.
NON l’intero presupposto deve essere sottoposto a tassazione, ma esclusivamente la base
imponibile, quindi la quota parte del presupposto fiscalmente rilevante.
E. Misura dell’imposta
È la circostanza secondo cui l’imposta può essere fissa o variabile.
Nell'ordinamento tributario esistono:
- imposte che si applicano in misura fissa, per esempio l' imposta di registro à quindi quale
che sia la misura della base imponibile, l' imposta resta uguale a se stessa.
Quando l’imposta è fissa non c'è ragione mi prevedere un aliquota perché l' imposta dovuta
è espressa immediatamente in una somma di denaro, in un determinato ammontare.
Per esempio l’ imposta di registro applicata in misura fissa viene applicata nell’importo di €
200 in questi casi non rileva né l' ammontare della base imponibile perché quale che sia
l'ammontare (o meglio il valore dell’atto soggetto a registrazione) l' imposta viene
comunque applicata nella misura detta né può dipendere tantomeno dalla presenza di un
aliquota che esprime l'applicazione di una misura percentuale ad un ammontare MA SE
l’imposta è fissa non avrebbe alcun senso prevedere l'applicazione di un' aliquota ad un
determinato ammontare.
- MA nella gran parte dei casi l'ordinamento preferisce accedere alla soluzione dell'imposta
variabile à quando l' imposta è variabile significa che la misura del tributo da versare varia
a seconda del modificarsi della base imponibile e dell' aliquota = che è un alimento tipico
delle imposte variabili.
Quando l' imposta non è fissa, ma è variabile significa che il quantum dovuto varia, MA la
variabilità dell'imposta dipende dalla applicazione di un aliquota necessariamente e
dall' eventuale variazione della base imponibile.
SE l' imposta è variabile vuol dire necessariamente che la disciplina del tributo prevede
l'applicazione di un' aliquota .
L' imposta variabile implica necessariamente l'applicazione di un' aliquota.
L' aliquota a sua volta può essere fissa o variabile.
L'applicazione di un' aliquota fissa o variabile genera importanti distinzioni nell'ambito delle
imposte:
- quando l' aliquota è fissa (quindi rimane uguale a se stessa)à l' imposta è variabile
perché a variare sarà la grandezza cui di aliquota si applica.
Si pensi all' IVA: attualmente l' aliquota ordinaria è pari al 22% à l’IVA è un' imposta per
la quale l' aliquota è fissa, ma se questa aliquota del 22% l' applico ad una base imponibile di
100.000 € oppure ad una base imponibile di € 200.000 à l' iva è un' imposta variabile
perché la misura del tributo:
nel primo caso è pari a € 22.000
nel secondo caso è pari esattamente al doppio € 44.000
allora la variabilità di questa imposta è determinata dal variare della base imponibilità
quindi è un' imposta certamente variabile, in cui però l' aliquota resta fissa (22% ).
- L’aliquota è variabile perché ci sono imposte in cui l' aliquota varia, non resta uguale a se
stessa à qui ci troviamo di fronte alle ipotesi più complesse, perché sono le ipotesi in cui a
variare sono:
sia l' aliquota
che la base imponibile
In questo caso si verifica la fattispecie delle imposte regressive e progressive.
- imposte regressive (non esistono imposte di questa specie nel nostro sistema) à quando
l'aliquota decresce al crescere della base imponibile
- imposte progressive (conosciute nel nostro sistema) à quando l' aliquota cresce al crescere
della base imponibile. L' imposta che per eccellenza sposa questo principio nel nostro
sistema è proprio l' Irpef l(' imposta sul reddito delle persone fisiche).
La presenza nel nostro sistema di imposte progressive non è una scelta casuale, ma piuttosto
risponde anche qui all' esigenza di assicurare l'applicazione di un principio di rango

Diritto tributario Pagina 9


risponde anche qui all' esigenza di assicurare l'applicazione di un principio di rango
costituzionale pure questo contenuto nell’art.53, quindi si tratta di una scelta irrinunciabile
all'interno del nostro sistema fiscale.
F. Modalità di accertamento
l'insieme degli atti posti in essere in parte dall’amministrazione finanziaria e in parte dal
contribuente, finalizzati alla liquidazione della base imponibile e dell'imposta da versare.
La corretta applicazione dei tributi implica una serie di attività, in parte poste in essere
dall’amministrazione finanziaria e in parte poste in essere dal contribuente tutte finalizzate alla
corretta quantificazione della base imponibile e al versamento corretto dell'imposta da
versare
G. Modalità di riscossione
le modalità di riscossione che temporalmente comprendono tutte le attività successive a quelle che
abbiamo definito prima sono, invece ,le attività stabilite dalla legge mediante le quali è consentita la
corretta estinzione dell’obbligazione tributaria à sono le modalità dell' adempimento
dell'obbligazione tributaria.

Diritto tributario Pagina 10


LEZIONE 2 (4/03/21)
martedì 26 ottobre 2021 19:44

Fonti diritto tributario


Introduzione
Le fonti del diritto tributario sono tutti quegli atti da cui il diritto promana , dunque le fonti di produzioni sono fonti t ipiche che determinano un vincolo
rispetto il soggetto attivo , passivo e il giudice . A proposito di questo bisogna sottolineare che spesso il rapporto giurid ico di imposta comporta la nascita
di una litigiosità tra il soggetto attivo e passivo . La soluzione di queste controversie è affidata alle commissioni tributa rie e dunque le fonti di diritto
tributario sono fonti che generano regole che vincolano anche l’azione giudice e quindi anche il modo di risolvere le controv ersie affidate alle
commissioni tributarie . I rapporti tra le fonti sono regolati dal criterio gerarchico , quindi esistono fonti di rango sovra ordinato che producono effetti
vincolanti sulle fonti giuridiche di rango inferiore , stabilendo anche le condizioni di efficacia delle norme di rango subor dinato . All’interno del nostro
ordinamento la fonte di rango superiore rispetto a tutte le altre è la costituzione . Ma rispetto a tutte le fonti dell’ordin amento interno, una posizione
privilegiata è da attribuire alle fonti sovraordinate, quindi quelle di natura comunitaria . Le fonti di diritto comunitario sono fonti sovraordinate rispetto
alle fonti tipiche di diritto interno .
Le fonti di ordinamento interno
La più importante è la Costituzione , all’interno della quale è possibile individuare alcune particolari norme che costituisc ono fonte di diritto tributario.
Abbiamo però segnalato da necessità di coordinare tutte le fonti tipiche di diritto interno con le fonti di rango comunitario e dunque con gli Atti
comunitari . Tra gli atti comunitari sono fonti di diritto comunitario le direttive , i regolamenti e le sentenze della Corte di Giustizia .
Insieme alla Costituzione e alle finti di rango comunitario un gradino sotto alla costituzione stanno le leggi dello stato e le leggi delle regioni . A queste
ultime bisogna riconoscere pari rango rispetto alle leggi dello Stato . Prima della riforma del titolo V della Costituzione s i poteva affermare che le leggi
regionali erano da collocare ; quanto ad efficacia , in un gradino sotto ordinato rispetto alle leggi dello Stato; dopo la ri forma del Titolo V della
costituzione non è più possibile , infatti le leggi delle regioni sono pacificamente fonti di diritto tributario equi ordinat e alle leggi dello Stato.
Con efficacia subordinata rispetto alle leggi dello stato e alle leggi delle regioni , tra le fonti di diritto tributario dob biamo annoverare gli atti di natura
regolamentare e cioè i Regolamenti ( ma solo alcune tipologie di regolamenti sono fonti del diritto comunitario ) .
Accanto a queste fonte ne esistono altre che non sono fonti di diritto tributario e svolgono funzione interpretative . Queste sono le circolari ministeriali
( oggi chiamate circolari dell’agenzia delle entrate) , note e risoluzioni .
1) Circolari ministeriali : molti anni fa , quando si parlava di circolari , si parlava di circolari ministeriali cioè atti e manati direttamente dal ministero delle
finanze. Con l’avvento dell’agenzia delle entrate ( soggetto giuridicamente distinto rispetto al ministero delle economie e d elle finanze ) le circolari sono
atti di natura , sempre ,
interpretativa ,ma a differenza delle prime , vengono emanate direttamente dall’agenzia delle entrate e non più dal ministero delle economie e finanze.
Questa ripartizione delle funzioni è stata operata in occasione della riforma dell’organizzazione della pubblica amministrazi one e , in particolare ,
dell’amministrazione finanziaria nel 1999. Non si parla più di circolari ministeriali , ma circolari dell’agenzia delle entra te . Sono atti di natura
interpretativa che investono specifiche questioni che competono direttamente , per ragioni funzionali , all’agenzia delle ent rate . Queste circolari atti di
natura interpretativa , proprio perché attraverso la loro emanazione , il soggetto che le emana intende impartire istruzioni vincolanti agli uffici sotto
ordinati che hanno per oggetto l’interpretazione di specifiche disposizioni di legge .
Assolvono a una finalità precipua di introdurre un orientamento uniforme che gli uffici dell’agenzia dell’entrate sono obblig ati ad osservare ,
nell’applicazione di una determinata disposizione di legge . È assai frequente che una disposizione di legge venga interpreta ta in maniera discontinua ,
discordante , e ne sono possibili diverse letture anche tante quante sono le persone che si accingono all’interpretazione ste ssa. Tanto più la norma è
complessa nella sua lettura , tanto più si presta ad interpretazioni difformi. Questo problema nel diritto tributario risulta esser un problema di natura
esponenziale proprio perché le norme di diritto tributario sono contraddistinte da una elevata complessità; infatti , in caso di l’interpretazione difforme
di una norma di diritto tributario , si avrebbero ricadute importanti sotto il profilo applicativo per l’agenzia dell’entrate .
Per esempio una norma di diritto tributario che stabilisce come deve essere calcolata una determinata plus valenza , quindi u n componente positivo del
reddito di impresa. Se questa norma fosse interpretata in maniera legittima in un modo piuttosto che in un altro dall’agenzia delle entrate di Milano e
dall’agenzia delle entrate di Palermo , ne potrebbe derivare che dall’interpretazione di un ufficio possa derivare un regime fiscale più vantaggioso per il
contribuente e dall’interpretazione dell’altro ufficio possa derivare un regime fiscale meno vantaggioso per il contribuente. Questo è il caso di una
determinazione di una plus valenza maggiore e la determinazione di una plus valenza minore da assoggettare a tassazione . Per evirare il rischio di una
difformità di interpretazione , che poi si traduce in una difformità di applicazione della norma, con ricadute sul piano prat ico , l’agenzia delle entrate da
sempre ( e prima ancora dell’agenzia delle entrate il ministro delle economie e delle finanze ) interviene su quale debba ess ere l’interpretazione da
assegnare ad una determinata norma . Ma l’interpretazione che l’agenzia delle entrate fornisce attraverso circolare è una del le interpretazioni possibili .
Ma nonostante ciò , questa interpretazione assume carattere vincolante per tutti gli uffici sotto ordinati che sono chiamati all’applicazione della norma
nella gestione del rapporto giuridico di imposta con i singoli contribuenti .
Quindi la circolare non è fonte di diritto tributario , perché si tratta di un atto di natura interpretativa capace , esclusi vamente , di vincolare uno dei
soggetti , cioè quello attivo del rapporto giuridico di imposta . Si tratta di tutti gli uffici in cui si articola l’amminist razione finanziaria (cioè l’agenzia delle
entrate ) e quindi tutti i funzionari dell’agenzia , in ragione del rapporto di subordinazione che li lega all’agenzia, saran no obbligati ad osservare il
contenuto delle circolari. Ma l’interpretazione della norma che l’agenzia fa non è vincolante né per il contribuente , né per il giudice . Tutte le circolari
sono atti interpretativi in cui il soggetto attivo formula
un’interpretazione delle norme a suo favore , in misura più elevata ma questa non è vincolante né per il contribuente ( può d iscostarsene pur sapendo
che l’aver interpretato la norma in modo diverso dalla circolare pone le premessa per porre in essere la lite con l’erario ) , né per il giudice .
Esempio
PREMESSA : le plus valenze sono componenti positive di reddito di impresa . Ciò significa che più la plus valenza è maggiore più aumenta l’imposta sul
reddito da pagare .
Tra 2 o più interpretazioni possibili di una stessa norma , che disciplina le modalità di determinazione della plus valenza p ossibili , l’agenzia delle entrate
( essendo il soggetto attivo, in caso di controversia e nel rapporto giuridico di imposta, e quindi il “ creditore “ ) tender à a sposare un’interpretazione che
tende ad aumentare la base imponibile perché questa scelta porterà alla determinazione di una misura dell’obbligazione in for ma più alta e quindi sarà
più vantaggiosa per l’agenzia delle entrate.
Quindi , tendenzialmente , tutte le circolari dell’agenzia delle entrate sono atti di natura interpretativa in cui il soggett o che ricopre il lato attivo
dell’obbligazione tributaria , formula un’interpretazione delle norma sempre prodromo sua , in modo tale che si possa necessa riamente , o meno ,
quantificare l’obbligazione a suo favore , quindi in misura più elevata . Ma questa interpretazione è solo una delle interpre tazioni possibili di quello
stesso enunciato normativo e questa interpretazione non sarà vincolante né per il contribuente , né per il giudice ( se un gi orno sarà chiamato a risolvere
la controversia ). Quindi il contribuente sarà assolutamente libero , pur conoscendo l’orientamento dell’agenzia delle entrat e , di discostarsene
interpretando quella norma in maniera più vantaggiosa per la sua posizione , che è quella di debitore , pur sapendo che l’ave r interpretato la norma in
maniera a sé favorevole ( discostandosi dal contenuto della circolare ) pone le migliori premesse per configurare un giorno l a lite .

Diritto tributario Pagina 11


maniera a sé favorevole ( discostandosi dal contenuto della circolare ) pone le migliori premesse per configurare un giorno l a lite .
Il contribuente quindi può certamente discostarsi dal contenuto della circolare e determinare la misura della plusvalenza , i nterpretando l norma in
maniera a sé vantaggiosa , pur sapendo che questa scelta potrebbe generare una possibile lite con l’erario . Meno che meno po ssiamo dire che la
circolare sarà vincolante per il giudice , il quale decide le controversie esclusivamente sulla base della legge , non sulla base di una circolare dell’agenzia
delle entrate . Quindi le circolari , seppur nella materia tributaria investono un ruolo determinante ( perché sono atti di n atura interpretativa su un
dubbio di rilievo ), non sono fonti di diritto tributario .
Altri atti da escludere dal novero della norme , e quindi che si trovano sullo stesso piano delle circolari , che assumono , però , importanza interpretativa
importante sono :
2) Note : Atti di natura interpretativa con cui l’agenzia delle entrate risponde a quesiti circa l’interpretazione da attribu ire ad una norma , che vengono
formulati da un ufficio sotto ordinato che sente l’esigenza di chiarire il punto . Quindi la nota viene emessa sempre su soll ecitazione di un ufficio sotto
ordinato . Normalmente la sollecitazione dell’ufficio sotto ordinato scaturisce da una fattispecie concreta , quindi esiste u no specifico rapporto giuridico
di imposta rispetto al quale l’ufficio sente l’esigenza di ottenere un chiarimento da parte dell’agenzia delle entrate . Sono vincolanti per l’ufficio
periferico .
3) Risoluzioni : la differenza sta nel fatto che il quesito che ha per oggetto un dubbio di carattere interpretativo , viene rivolto direttamente dal
contribuente all’agenzia delle entrate, che risponde attraverso la risoluzione . Il contribuente che chiede il chiarimento al l’agenzia dell’entrate , però ,
resta libero di non adeguarsi all’orientamento interpretativo reso dall’agenzia delle entrate , ma laddove il contribuente de cidesse di discostarsi
andrà ,sicuramente , incontro alla lite con l’agenzia . Quindi le risoluzioni non hanno carattere vincolante per il contribue nte.
Adesso passiamo alle norme all’interno della Costituzione , che trovano applicazione nel diritto tributario :
a) Art 2 : solidarietà sociale , principio fondante del nostro sistema tributario perché è la norma che ci consente di ritene re equi ordinato , rispetto al
principio di progressività anche quello che impone la ridistribuzione della ricchezza( da chi ha di più a chi ha di meno ) . Una delle ragioni più importanti
per cui il legislatore costituzionale ha scelto la progressività del sistema è consentire il conseguimento della perequazione fiscale , cioè la ridistribuzione
della ricchezza . Un sistema progressivo è un sistema che assicura a tutti indistintamente di accedere ai servizi pubblici es senziali ,
quindi ,indipendentemente dalla capacità contributiva , tutti sono chiamati a beneficiare , in eguale modo, ai servizi pubbli ci essenziali . Quindi il principio
di solidarietà sociale governa la necessità di un sistema fiscale che consente una effettivi ridistribuzione della ricchezza tra chi ha di più , verso chi ha di
meno . Il sistema deve consentire la possibilità di far accedere a tutti ai servizi pubblici essenziali , anche a chi non pag a i tributi perché non manifesta
capacità contributiva .
b) Art 3 : uguaglianza sostanziale . Lo troveremo richiamato in diritto sostanziale e procedimentale del diritto tributario . Il principio prevede che devono
essere trattate in modo uguale situazioni uguali tra loro e in modo disuguale situazioni diseguali tra loro .
c) Art 23 : sancisce il principio della riserva di legge. L’art 23 dice che “ Nessuna prestazione personale o patrimoniale pu ò essere imposta se non in base
alla legge” . È una disposizione fondamentale del sistema perché prevede , in maniera inequivocabile , per la parte che inter essa noi , che nessuna
prestazione patrimoniale ( l’obbligazione tributaria impone sempre una prestazione di natura patrimoniale ) può essere impost a se non in base alla
legge. La norma , ad una prima lettura , sembra stringente perché sembrerebbe quasi che l’obbligazione tributaria debba neces sariamente essere
stabilita per legge ; ora però sono state elaborate alcune letture che ne consentono un’interpretazione più elastica rispetto a quella che sembrerebbe
emergere da una prima lettura della norma stessa . Precisazione : Quando leggiamo nell’art 23 il riferimento alla legge , dob biamo bene intenderci bene
perché all’interno del nostro ordinamento possiamo legge è da intendersi sia come legge in senso formale , ma anche in senso sostanziale , e quindi la
legge non è soltanto legge intesa come provvedimento adottato da entrambi i rami del parlamento ( approvata secondo la proced ura descritta dall’art 76
cost ) , ma anche la legge in senso sostanziale ( quindi anche il decreto legge e decreto legislativo ) . Quindi la formula a dottata dal legislatore nell’art 23
non è una formula che ci costringe quasi necessariamente ad accogliere un’interpretazione restrittiva del termine “legge “, m a è una formula che ci
consente di abbracciare l’idea che l’obbligazione tributaria possa essere pacificamente disposta anche attraverso atti aventi forza di legge (decreto legge
e decreto
legislativo) . Gli atti aventi forza di legge sono provvedimenti normativi che scaturiscono da circostanze ben determinate al l’interno della carta
costituzionale . Anche all’interno dello statuto dei diritti del contribuente sono inserite disposizioni specifiche atte a ci rcoscrivere la praticabilità di un
decreto legge in materia tributaria . Quindi il decreto legge in materia tributaria è possibile a patto che siano rispettate le specifiche condizioni previste
nello statuto dei diritti del contribuente ( legge estremamente composita e dai contenuti importanti ) .
I presupposti che consentono l’adozione del decreto legislativo sono :
- L’adozione di una previa delega : deve essere approvato dal parlamento la legge delega sulla base dei criteri direttivi indic ati nella legge delega , e il
governo è poi delegato all’adozione del decreto legge.
- L’Opportunità di sposare un mozione di legge in senso ampio è un’opportunità necessitata in diritto tributario 8 il diritto t ributario è estremamente
tecnico e sarebbe farraginoso immaginare che la legiferazione in materia di diritto tributario debba sempre necessariamente p assare attraverso la via
parlamentare e dunque è estremamente frequente , o meglio è la regola , che la normativa tributaria sia demandata all’eserciz io del potere esecutivo
attraverso lo strumento del decreto delegato . Nella materia tributaria è estremamente presente l’adozione di decreti legisla tivi a seguito
dell’approvazione della legge delega nel pieno rispetto dell’art 23. Anche i decreti leggi sono da ricondurre al novero degli atti aventi forza di legge ,
quindi pienamente compatibili con il dettato dell’art 23 a patto e condizione che siano rispettati i requisiti di necessità e urgenza , espressamente previsti
dalla carta Costituzionale .
La corretta interpretazione dell’art 23 non si esaurisce nell’opportunità di accedere ad un‘interpretazione della parola legg e così ampio come viene
utilizzata nell’art 23 . Per la verità l’interpretazione della dottrina e della giurisprudenza è andata oltre tanto da consen tire un’elaborazione della mozione
della riserva di legge contenta nell’art in senso c.d. relativo . Se , infatti , all’opposto si fosse condivisa una mozione d i riserva di legge in senso assoluto ,
si sarebbe dovuto accedere all’idea che tutti gli elementi del tributo si sarebbero dovuti disciplinare o in una legge in sen so formale o in una legge in
senso sostanziale , quindi tutti gli elementi di imposta si sarebbero dovuti istituire e disciplinare attraverso atti che fos sero leggi o in senso formale o in
senso sostanziale ( decreti legge e decreti legislativi ) . Questa prospettazione della teoria riserva di legge in senso asso luto è stato superato da una
prospettiva tipica della teoria della riserva di legge in senso relativo . Secondo i sostenitori della teoria della riserva d i legge in senso relativo , il pieno
rispetto del precetto costituzionale sarebbe ben possibile , come lo è , tutte le volte in cui siano indicati all’interno del la legge ( in senso formale o in
senso sostanziale ) quelli che possiamo definire gli elementi essenziali del tributo .
Gli elementi non essenziali del tributo potrebbero , invece , essere disciplinati anche da una fonte di rango subordinato ris petto alla legge ( o in senso
formale o in senso sostanziale) . La condivisione della teoria della riserva relativa non prevede che gli elementi del tribut i possano essere anche
disciplinati da decreti legge o decreti legislativi . Questo prescinde dai contenuti dalla teoria della riserva di legge in s enso relativo , poiché questo è già
nell’art 23 , attiene alla mozione di legge contenuta nell’art 23 cost ; legge ( ai sensi dell’art 23 ) è necessariamente sia legge in senso formale che legge in
senso sostanziale . Quando parliamo di teoria di riserva di legge in senso relativo intendiamo altro e cioè che gli elementi essenziali del tributo siano
necessariamente istituiti e disciplinati da una LEGGE
( in senso formale o sia in senso sostanziale ) e che è possibile, rispetto al principio della riserva di legge , gli element i non essenziali del tributo siano ,
invece , demandati ad una fonte di rango subordinato ( cioè i regolamenti ) quindi gli elementi essenziali del tributo devono essere demandato in essere
da legge . Gli elementi ESSENZIALI del tributo sono :
• soggetto attivo ;
• soggetto passivo ed eventuali obbligati ( è frequente l’ipotesi di soggetti obbligati con il soggetto passivo ) ;

Diritto tributario Pagina 12


• soggetto passivo ed eventuali obbligati ( è frequente l’ipotesi di soggetti obbligati con il soggetto passivo ) ;
• il presupposto del tributo ( qual è il fatto al verificarsi del quale sorge l’obbligazione tributaria ) ;
• le modalità di determinazione dell’imposta. Anche l’aliquota è da ascrivere alla categoria degli elementi essenziali ma con le debite puntualizzazioni: le
modalità di determinazione della base imponibile e aliquota possono , nella disciplina di dettaglio , essere demandate a font i di rango subordinato . es:
Prendiamo in considerazione la determinazione dell’aliquota , che è un elemento essenziale ; ma se la legge si limitasse a st abilire che l’aliquota va fissata
tra un minimo e un massimo , demandando la completa fissazione dell’aliquota all’interno di questa forbice ad una fonte di ra ngo subordinato ( esempio
il regolamento ) , questo modo di procedere potrebbe essere considerato costituzionalmente legittimo . Quindi le modalità di determinazione della base
imponibile , sia pure per alcuni aspetti di dettaglio della disciplina ,e la completa fissazione dell’aliquota , sia pure nei limiti di un minimo e un massimo
stabiliti dalla legge , possono essere certamente demandati ad una fonte di rango subordinato . Quest’ultima esemplificazione è concretamente
ravvisabile , oggi , nella disciplina dei tributi locali ( disciplina IMU - imposta municipale propria - , nel decreto legislativo che disciplina il tributo , è
indicata la forbice segnata dal limite minimo e massimo dell’aliquota , lasciando libero l’ente locale di stabilire , per via regolamentare , quale aliquota
concretamente applicare all’interno del proprio territorio ) . Questo modo di procedere è pacificamente compatibile con il pr incipio di riserva di legge ,
dunque è esplicitazione della pacifica condivisione della teoria della riserva di legge in senso RELATIVO .
d) Art 24 : principio di diritto di difesa
e) Art 36 . sancisce il diritto ad un minimo vitale
f) Art 47 : sancisce la tutela del risparmio
g) Art 53 : include due principi, al comma 1 → principio di capacità contributiva ; e al comma 2 → principio di progressività . Il primo comma ci dice che
“ tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva “. Da ogni parola si posson o enucleare significati
importanti .
“ TUTTI “: La norma è espressamente rivolta a tutti . Il costituente non utilizza , sotto il profilo soggettivo , alcun rifer imento ai cittadini o ai residenti , ma
afferma l’applicazione del principio di capacità contributiva nei confronti di tutti . Ciò significa che il principio di la c apacità contributiva è pacificamente
applicabile a qualsiasi soggetto che intrattenga una relazione di tipo economico con il nostro ordinamento. Si applica tanto a coloro che risiedono
fiscalmente in Italia , quanto i soggetti considerati non fiscalmente residenti in Italia , ma che intrattengono relazioni di tipo
economico con il nostro ordinamento . Quindi anche i soggetti non residenti possono essere chiamati all’adempimento di un’obb ligazione tributaria nel
nostro paese e nei loro confronti trova adempimento il principio di capacità contributiva .
“SONO TENUTI A CONCORRERE ALLE SPESE PUBBLICHE “ : la norma lascia desumere che la contribuzione alle spese pubbliche costitu isce oggetto di una
relazione giuridica tra le parti che ha per oggetto l’adempimento di un obbligo. L’oggetto di questa obbligazione è il concor so alle spese pubbliche . La
norma non utilizza un ‘espressione vaga ( quale sarebbe potuta essere “ tutti sono tenuti a pagare il tributo ) . Dunque il t ributo è costituzionalmente
legittimo se funzionale al finanziamento delle pubbliche spese . Nell’art 53 , quindi , si evince , in maniera chiarissima , un evidente vincolo alla potestà
del legislatore , non un limite alla posizione giuridica del soggetto passivo . È un limite alla posizione giuridica del sogg etto attivo che introduce
legittimamente forme di prelievo fiscale , a patto e condizione che queste forme di prelievo siano direttamente funzionali al finanziamento della spesa
pubblica . Se così non fosse si tratterebbe di una forma di prelievo costituzionalmente illegittima .
“IN RAGIONE DELLA LORO CAPACITÀ CONTRIBUTIVA” : qui trova enunciazione, per la prima volta , il concetto di capacità contribu tiva : Il concorso alle
spese pubbliche non è costituzionalmente legittimo sono a patto e condizione che sia funzionale al finanziamento delle pubbli che spese (questo ce lo
dice la parte precedente della norma ) , ma lo è a patto e condizione che sia rispondente al requisito del “limite della capa cità contributiva “ , cioè sta a
significare che il prelievo è possibile sono a patto e condizione che sia correlato ad una manifestazione di ricchezza e che questa disponibilità di ricchezza
sia propria , perché la norma dice “ in relazione alla LORO capacità contributiva “ . Quindi ciascuno dei soggetti chiamati a concorrere alle spese
pubbliche possono essere legittimamente chiamati a farlo a patto e condizione che ciascuno di loro manifesti capacità contrib utiva . Ciò lascia desumere
che la manifestazione di ricchezza , a cui fa riferimento la Costituzione nell’art 53 , occorre che sia QUALIFICATA , perché occorre che la ricchezza ,
suscettibile di essere sottoposta a tassazione , mostri alcune caratteristiche ( che , quindi , consentono di definire una ma nifestazione di ricchezza come
qualificata ) .
Queste caratteristiche sono 4 , e cioè :
- Occorre che sia una manifestazione di ricchezza personale / Personalità : “ in relazione alla LORO capacità contributiva” ; l a norma non trascura di porre
l’accento allo stretto collegamento che deve correre tra la disponibilità di ricchezza e il soggetto che ne dispone . Nessuno può essere chiamato a
concorso di spese pubbliche se non in relazione a manifestazione di capacità contributiva proprie . Le sole eccezioni alla re gola generale che il nostro
ordinamento conosce è rappresentato dalla disposizione secondo la quale “ laddove la manifestazione di ricchezza sia imputabi le a minori di età , coloro
che sono soggetti passivi del rapporto giuridico di imposta, saranno i genitori perché appunto sono i genitori che hanno l’us ufrutto legale sui beni dei
figli .
- Effettività : All’interno del testo dell’art 53 da cosa si desume il requisito della effettività ? è un requisito che si desu me un po’ dall’insieme del tenore
letterale dell’art 53 . Per effettività della capacità contributiva si intende che la capacità contributiva deve essere REALE e quindi la manifestazione di
ricchezze deve effettivamente esistere e quindi non può essere determinata sulla base di semplici presunzioni . Si potrebbe i potizzare che la
disponibilità di ricchezza venga sottoposta a tassazione non semplicemente quando la ricchezza effettivamente esiste , ma anc he solo se e quando
l’amministrazione finanziaria è nelle condizioni di poterne affermare presuntivamente l’esistenza. Sarebbe possibile sottopor re a tassazione una
manifestazione di ricchezza che non è detto esista effettivamente, ma che potrebbe essere esistente . Riguardo una simile sol uzione , il nostro
ordinamento tributario è disseminato di disposizioni che autorizzano la determinazione della ricchezza da sottoporre a tassaz ione attraverso il ricorso a
presunzioni. Questo normalmente accade quando l’amministrazione finanziaria si trova in condizioni di svantaggio nella misura zione della base
imponibile , cioè quando è in condizioni di difficoltà nella esatta quantificazione della base imponibile da sottoporre a tas sazione . Ammettere una simile
agevolazione , in materia indiscriminata , sarebbe arbitrario e contrario rispetto ai principi appena esposti . Come si potre bbe ritenere contemperato da
una parte l’interesse dell’amministrazione finanziaria di non dovere necessariamente sottoporre a tassazione sempre , solo e comunque una capacità
contributiva effettiva , perché potrebbero darsi situazioni in cui è necessario concedere un qualche sollevamento dall’onere della prova a carico
dell’amministrazione finanziaria nella esatta determinazione della base imponibile , e poi dall’altro consentire al contribue nte di essere passato sulla
base della sua manifestazione di capacità contributiva , senza incorrere nella relazione dell’art 53 ? . Occorre un bilanciam ento di questi opposti
interessi . Esempio : difficoltà di ordine probatorio in cui può incorrere l’amministrazione finanziaria quando si trova di f ronte a chi pedissequamente
violato tutte le norme fiscali , anche quelle preposte all’esatta misurazione della base imponibile .
L’evasore non è solo chi dichiara e non versa ; chi dichiara e non versa non è un evasore ; chi dichiara fedelmente e non ver sa le imposte dichiarate non è
un evasore , anzi . Chi ha fedelmente rappresentato la propria capacità contributiva e poi per carenza di liquidità , non rie sce ad assolvere
all’obbligazione di pagamento . L’evasore è la figura di chi sistematicamente viola le disposizioni fiscali, non con l’obbiet tivo di non pagare e basta ma con
l’obbiettivo di frodare il fisco , di non mettere l’amministrazione finanziaria neppure nelle condizioni di sapere qual è la propria manifestazione di
capacità contributiva . L’imprenditore Sistematicamente evasore è chi per esempio non tiene le scritture contabili , quindi t rascurando la corretta tenuta
delle strutture contabile , non mette l’amministrazione finanziaria nelle condizioni di potere esattamente quantificare e cor rettamente determinare la
misura dell’obbligazione tributaria . In queste condizioni non è del tutto fuori dalla realtà immaginare che l’amministrazion e finanziaria possa fare ricorso
a presunzione per determinare la misura dell’obbligazione tributaria. Dire che la capacità della capacità contributiva deve e ssere effettiva non può essere
un limite all’esercizio dei poteri di investigazione e di accertamento da parte dell’amministrazione finanziaria. Il giusto c ontemperamento tra le due
opposte esigenze , nel rispetto dell’esercizio del principio di capacità contributiva , può essere rappresentato escludendo c he l’ordinamento possa far

Diritto tributario Pagina 13


opposte esigenze , nel rispetto dell’esercizio del principio di capacità contributiva , può essere rappresentato escludendo c he l’ordinamento possa far
ricorso all’uso di presunzioni assolute ( non ammettono la prova contraria ; sono quelle attraverso il cui utilizzo l’amminis trazione finanziaria
unilateralmente stabilisce la misura dell’obbligazione tributaria , e ancora prima quantifica la base imponibile senza che il contribuente possa fornire la
prova contraria . È escluso il ricorso a questo genere di presunzioni perché si tratterebbe di violare il principio di effett ività della capacità contributiva .
Over però l’ordinamento dovesse prevedere il ricorso a presunzioni semplici/relative
( quelle che ammettano la prova contraria ; consentono all’amministrazione finanziaria , in particolari circostanze , di dete rminare induttivamente la base
imponibile e quindi la misura dell’imposta dovuta ) ciò si deve ritenere costituzionalmente legittimo . Questo perché la pred eterminazione , anche in via
induttiva della base imponibile e quindi per effetto dell’imposta dovuta , rende comunque possibile , da parte del contribuen te , la possibilità di fornire la
prova contraria . Il contribuente non è costretto all’adempimento di un’obbligazione che potrebbe essere anche non conforme a lla propria capacità
contributiva , ma è posto nelle condizioni di fornire la prova contraria, e quindi di esercitare il proprio diritto d difesa ) .
- Eccedenza rispetto al minimo vitale : tema che si evince dal combinato disposto dell’art 53 con l’art 36 costituzione (sancis ce il diritto al minimo vitale) .
Dal combinato disposto di queste due norme si evince che “ il prelievo fiscale deve essere tale da consentire comunque che al contribuente residui una
disponibilità di ricchezza minima indispensabile per il sostentamento proprio e della propria famiglia che non può essere sot toposto a tassazione “ .
Dunque esiste un nucleo indefettibile di manifestazione di capacità contributiva e dunque di disponibilità di ricchezza che n on può essere oggetto di
prelievo tributario . Questa è la c.d. tutela del minimo vitale . Da questa definizione di minimo vitale , potrebbe nascere l a domanda “ qual è questa
grandezza della ricchezza che non può essere sottoposta a tassazione nel nostro sistema ?” : la risposta è complessa perché n on esiste una definizione
univoca di minimo vitale nel nostro sistema , ma questo risponde ad un’esigenza indefettibile nel senso che sarebbe impossibi le stabilire una grandezza
valida per tutti indiscriminatamente ( i redditi non sono tutti uguali; il reddito da lavoro non è sottoposto a tassazione co me il reddito dei capitali , che
deriva dallo sfruttamento di denaro ) che segni il minimo vitale perché la corretta determinazione del minimo ditale dipende da numerose variabili che
non possono essere trascurate . La corretta configurazione dell’area che segna il c.d. minimo vitale , che potremmo definire come “ no tax area “ ( cioè
quella porzione di ricchezza che non può essere sottoposta a tassazione proprio in virtù del pieno rispetto dell’art 36 della Costituzione , dunque è il
minimo vitale ) . Quindi non esiste un’univoca definizione di minimo vitale e quindi un’univoca no tax area per l’ovvia ragio ne che il nostro ordinamento
conosce una discriminazione qualitativa dei redditi che qualitativamente non sono tutti uguali . La no tax area , proprio per ché il nostro ordinamento
fiscale conosce una differenza qualitativa tra i redditi , non può essere stabilita , in maniera analoga , tra chi percepisce il reddito di lavoro in maniera
analoga , per esempio , e chi percepisce un reddito di impresa . La no tax area non può essere disegnata in maniera uguale pe r tutti , perché ciascuno di
noi percepisce un reddito qualitativamente diverso da quello di un altro . Inoltre la no tax area non può essere uguale per c hi è componente di un nucleo
familiare , di 4 persone, monoreddito ( ciò significa che tutto il nucleo familiare insiste su quell’unica fonte di ricchezza prodotta ) e chi è componente di
un nucleo familiare plurireddito , costituito dallo stesso numero di membri , perché quel nucleo familiare segna una no tax a rea spettante a ciascun
produttore di reddito differente . L’ammontare della no tax area , che può essere riconosciuta a chi percepisce un reddito di lavoro dipendente , è
diversa dalla grandezza della no tax area che può essere riconosciuta a chi produce un reddito qualitativamente diverso ( per esempio reddito di lavoro
autonomo o reddito di impresa ) . questa è la regione per la quale non esiste nel nostro sistema una nozione univoca di no ta x area. La quantificazione
della no tax area sta nel fatto che il nostro ordinamento conosce una forte discriminazione tra i redditi prodotti e attribui sce significativo peso alla
composizione del nucleo familiare e al numero dei componenti che producono reddito .
A tutto questo viene attribuito rilievo nella dinamica dell’applicazione dell’IRPEF , attraverso il meccanismo delle deduzion i e detrazioni .
- Attualità : quando diciamo che la capacità contributiva è attuale intendiamo riferirci alla circostanza che la manifestazione di ricchezza da sottoporre a
tassazione deve essere disponibile per il soggetto chiamato all’adempimento del tributo , nel momento in cui adempie all’obbl igazione tributaria .
L’attualità della capacità contributiva impone di ritenere che la disponibilità di ricchezza sussista ancora nel momento in c ui il soggetto è chiamato alla
contribuzione . Anche in questo caso ci si potrebbe domandare “ quale sia il profilo della norma che ci consente che un simil e carattere sia richiesto ?” .
Lo si può agevolmente evincere dal dettato dell’art 53 nella parte in cui si dice che “ tutti sono tenuti a concorrere “, che è un'espressione che lascia
intendere che vi sia una correlazione sotto il profilo temporale piuttosto stretta tra il momento in cui la manifestazione di capacità contributiva si è
verificata e il momento in cui l’adempimento dell’obbligazione tributaria deve intervenire . Sarebbe irragionevole pretendere di concorrere alle spese
pubbliche attraverso l’adempimento di un’obbligazione che impegna risorse di cui attendibilmente non si ha più la disponibili tà a causa del decorso del
tempo.
Il tema dell’attualità è assai complesso, perché parlare di attualità della capacità contributiva significa anche aprire le p orte alla questione della
retroattività o l’irretroattività delle norme tributarie nel tempo . Il tema della retroattività si pone in maniera molto for te perché ci si domanda se è
possibile introdurre una norma che impone l’adempimento di un’obbligazione tributaria, e quindi sottopone a tassazione una ma nifestazione di capacità
contributiva , con effetto retroattivo. Cioè se è possibile oggi , che domani dovrà essere pagato un tributo in relazione ad una manifestazione di capacità
contributiva che si è realizzata in un tempo passato . Si tratta di capire se è ammesso o meno l’impiego retroattivo di norme tributarie nel tempo. Il
problema è assai grave perché nella carta costituzionale è assente un principio che in maniera chiara escluda la possibilità di adottare norme tributarie
retroattive . Una simile disposizione esiste solo nell’art 25 riferito però alle norme penali ( ma le norme tributarie non so no norme penali ). Quindi l’art
25 non ha nessun legame con il diritto tributario per il quale sembrerebbe che non ci sia una copertura costituzionale. Vi è , però , una copertura sul
piano della legislazione ordinaria , infatti esistono 2 disposizioni che escludono che le norme tributarie possano essere ret roattive . Quindi è escluso che
oggi si possa introdurre un tributo pretendendo che si possa sottoporre a tassazione una manifestazione di capacità contribut iva verificatasi l’ anno
prima . Se il tributo viene introdotto oggi , si potranno sottoporre a tassazione solo manifestazioni di capacità contributiv a di quel tipo , manifestatosi a
decorrere da oggi .
Queste disposizioni di rango ordinario che affermano il principio sono ( si passa dal piano costituzionale al piano della leg islazione ordinaria ) : 1) Art 11
delle disposizioni preliminari del codice civile , all’interno delle quali è previsto , come criterio ermeneutico generale , estendibile alle norme tributarie ,
che le disposizioni di legge hanno effetto per l’avvenire 2) Art 3 statuto dei diritti del contribuente ( legge 212 /2000 ) . Si trova il principio secondo il
quale le disposizioni tributarie non possono avere effetto retroattivo . Il principio di irretroattività è positivamente cont enuto esclusivamente in
disposizioni di legge di rango ordinario e quindi in virtù del principio di successione di leggi nel tempo non è escluso che una legge di rango ordinario
possa derogare ai principi fino a qui riportati . Questo significa che se il principio di irretroattività fosse esclusivament e sancito dalle
disposizioni appena richiamate , non potrebbe essere escluso che concretamente ci si possa imbattere in disposizioni di pari rango ( cioè contenute in
disposizioni di legge ordinarie ) modificative di questo principio . Questo perché la copertura del principio ottimale sarebb e solo quella di rango
costituzionale . Se il principio fosse contenuto in una norma di rango costituzione sarebbe pacificamente escluso che una nor ma di rango ordinario possa
introdurre disposizioni tributarie retroattive . Anche se la carta costituzionale non contiene una norma esplicita , come l’a rt 25 , che esclude la
retroattività delle norme tributarie nel tempo , un Principio di irretroattività relativa lo si può desumere dall‘art 53, qui ndi non si può affermare, con
carattere di generalità , che tutte le norme tributarie sono irretroattive ( perché non c’è un articolo nella costituzione ,c ome l’art 25 , riferito alle norme
tributarie ) , ma si ritiene debbano essere irretroattive tutte le norme in grado di incidere negativamente sulla capacità co ntributiva del soggetto passivo .
• Se cioè la norma tributaria ha un contenuto precettivo che incide sulla capacità contributiva del contribuente , si deve de sumere che irretroattiva
proprio in virtù del principio di capacità contributiva che vuole l’attualità della capacità contributiva ; infatti deve esse re sottoposta a tassazione una
manifestazione di ricchezza di cui ancora il soggetto passivo dispone nel momento in cui è chiamato all’adempimento dell’obbl igo di contribuzione.
Quando una norma può incidere sulla capacità contributiva di un determinato soggetto ? es: norma che disciplina diversamente un’agevolazione già
esistente . La norma agevolativa è , normalmente , rivolta ad una determinata platea di contribuenti e quindi solo alcune cat egorie di contribuenti
possono applicarla. L’introduzione di una norma che circoscrive ancora di più la platea di soggetti a cui questa norma agevol ativa è rivolta. Questa norma

Diritto tributario Pagina 14


possono applicarla. L’introduzione di una norma che circoscrive ancora di più la platea di soggetti a cui questa norma agevol ativa è rivolta. Questa norma
incide negativamente sulla capacità contributiva di un soggetto . In virtù del principio di attualità della capacità contribu tiva è da escludere che una simile
disposizione possa avere portata retroattiva perché incide negativamente sulla capacità contributiva di un soggetto che si ve de escluso dal godere della
norma agevolativa .
• Quando invece la norma non ha un contenuto precettivo che incide sulla capacità contributiva del soggetto passivo , la sua portata retroattiva è
possibile. Es: tutte le norme che hanno un contenuto di natura procedimentale . Queste norme non incidono sulla capacità cont ributiva , non individuano
nuovi presupposti da sottoporre a tassazione e dunque possono essere retroattive . Le norme che disciplinano l’attività di ac certamento hanno natura
procedimentale , quindi anche se introdotte oggi non è escluso che possano essere applicate per la corretta determinazione de lla base imponibile di
tributi che devono essere applicati a presupposti che si sono già manifestati nel passato . Non sono norme che incidono sulla capacità contributiva dei
soggetti chiamati alla contribuzione .
h) Art 81 : presiede alla formazione del bilancio dello Stato
i) Art 97 : sancisce il principio di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione
Molte delle norme citate in questa carrellata sono espressamente enunciate tra i principi attuativi dello Statuto dei diritti del contribuente , cioè una
legge fondamentale del diritto tributario
recante i principi generali di diritto tributario . È una legge che è stata espressamente qualificata dal legislatore come le gge attuativa di numerosi principi
costituzionali , cioè quelli appena elencati ( in particolare l’ art 3 , 53 , 97 Costituzione

Diritto tributario Pagina 15


LEZIONE 3 (8/03/21)
martedì 26 ottobre 2021 19:47

Domanda del collega:


Chiarimento sul carattere dell’attualità dell’art.53 Cost.
È un’eccezione del requisito di capacità contributiva che si desume soltanto per via interpretativa.
La “cosa più spigolosa” da comprendere sotto questo profilo è rappresentata dal fatto che il
requisito che cerchiamo in via interpretativa di rintracciare è determinato dalla lettura dell’articolo
53 Cost.
È l’unica norma all’interno della Carta Costituzionale che ci consente di pervenire a questo
risultato. Se ci fermassimo alla lettura delle norme di legge che esistono nella legislazione ordinaria,
dovremmo desumere che la tutela non arriva a livello costituzionale.
L’art.11 delle disposizioni preliminari al Codice Civile e l’art.3 dello Statuto dei diritti del
contribuente offrono una tutela che si ferma al rango della legge ordinaria.
Questa soluzione è possibile solo attraverso una lettura costituzionalmente orientata dell’art.53
Cost. tale da consentire di affermare che le disposizioni tributarie non possano essere retroattive se
indicono negativamente sul principio di capacità contributiva.
—————
Si è terminata la lezione scorsa parlando del Principio di capacità contributiva.
Si accenna al fatto che l’art.53 Cost. si compone di due commi. Il primo è il comma che reca il
principio di capacità contributiva , il secondo reca il principio di progressività.
Il secondo comma dice che: “il sistema tributario è informato a criteri di progressività.”
Si tratta di una formula estremamente concisa, all’interno della quale è possibile desumere che il
principio di progressività non è affermato all’ interno della Carta Costituzionale con riguardo alle
singole imposte. Occorre che sia “informato al criterio di progressività il sistema tributario.”
Precisazione di non poco conto.
Nel nostro sistema sono presenti tantissimi tributi che progressivi non sono. Non sono illegittimi.
Per esempio l’IVA, l’imposta sul valore aggiunto.
È un tributo proporzionale. Per il quale è prevista l’applicazione di un’aliquota che rimane fissa e
che si applica alla base imponibile che ovviamente varia.
Se l’art.53 comma 2 fosse stato formulato in maniera diversa, se fosse stato scritto “i tributi sono
informati al principio di progressività” il nostro sistema non avrebbe in alcun modo disciplinare
tributi che non sono progressivi.
La norma infatti non è congegnata in questo modo. Il legislatore costituzionale non ha formulato
l’art.53 nel modo sopra esposto. Afferma invece che “il sistema tributario è informato a criteri di
progressività”.
Il sistema tributario è un insieme organico di tributi. Collegati tra loro da criteri di logica relazione.
Trattandosi di un sistema organico di tributi che è finalizzato all’equa ripartizione del carico fiscale
tra i consociati (una finalità tipica di un sistema tributario che possa dirsi tale; perequazione fiscale)
si riferisce alla necessità che il sistema tributario nel suo complesso possa dirsi complessivo.
Significa poter affermare non che tutti i tributi che lo compongono siano progressivi, ma affermare
che i tributi fondamentali del sistemo o il tributo fondamentale del sistema consente di acquisire il
gettito più importante che deriva dall’applicazione della leva fiscale.
Il sistema tributario è improntato al criterio di progressività non quando tutti i tributi siano
progressivi, non è necessario. Occorre però che i tributi fondamentali del sistema consentano di
acquisire il gettito prevalente e che siano progressivi.
Questa clausola di salvezza consente di ritenere che sia costituzionalmente legittimo un sistema al
cui interno siano previsti e disciplinati tributi che progressivi non sono.
Esempi:
L’IVA, imposta sul valore aggiunto.
IRAP, imposta regionale sulle attività produttive.
IRES, imposta sul reddito delle società.
I tributi proporzionali sono molto numerosi.
L’unico tributo che realizza la progressività nel nostro sistema è l’IRPEF, l’imposta sul reddito
delle persone fisiche. È il tributo progressivo per eccellenza. È il tributo da cui pacificamente è

Diritto tributario Pagina 16


delle persone fisiche. È il tributo progressivo per eccellenza. È il tributo da cui pacificamente è
possibile trarre la gran parte del gettito ricavabile dall’applicazione del sistema tributario nel suo
complesso. Se dovessimo quantificare il gettito che promana dall’applicazione di tutti i tributi
presenti nel sistema, potremmo sicuramente rilevare che in termine di percentuale il gettito
prevalente è quello derivante dall’applicazione dell’imposta. Ed essendo questo un tributo
progressivo possiamo pacificamente affermare che il criterio di progressività sancito nell’art.25
Cost. è senz’altro rispettato.
Alcune precisazioni necessaire.
Se avete avuto occasione di leggere qualche intervento sulla stampa specializzata sulle vicende più
recenti che il legislatore ha affrontato in materia tributaria, avrete notato una progressiva crisi del
principio di progressività. È vero che l’art.53 al comma 2 sancisce il principio di progressività ma è
vero anche che il criterio ha attraversato negli anni una crisi profonda dovuta a spinte estremamente
diversificate tra loro, che hanno condotto ad esiti ancora incerti.
Queste spinte sono state orientate in una direzione molto lontana dal principio di progressività.
Molto nota la questione spesso sollevata dai politici dell’opportunità di sostituire il sistema
dell’IRPEF con il sistema FLAT TAX.
La FLAT TAX certamente costituisce un modo di applicazione dell’imposta opposto rispetto a
quello dell’applicazione dell’IRPEF.
Il principio di progressività deve essere verificato e quindi rispettato all’interno di un sistema
tributario. Quindi non necessariamente all’interno della disciplina di specifici tributi. Questo
sistema tributario è un insieme organico di tributi, collegati tra loro da criteri di logica relazione.
Questi criteri che certamente presiedono all’applicazione delle diverse forme di tributo e della
sottoposizione a tassazione di diversi presupposti, devono necessariamente rispondere a principi
generali che governano un sistema, un insieme di tributi.
- Divieto di doppia imposizione.
Due tributi non possono avere per oggetto lo stesso presupposto. Una determinata manifestazione di
ricchezza non può essere sottoposta a tassazione due volte.
Questo principio ha delle declinazione importanti. Quando parliamo di divieto di doppia
imposizione, dobbiamo tenere distinta la doppia imposizione in senso economico e la doppia
imposizione in senso giuridico.
Il divieto di doppia imposizione a cui si faceva riferimento è in senso giuridico.
È impossibile che il sistema istituisca e disciplini tributi diversi che colpiscono il medesimo
presupposto.
Non è affatto escluso che una determinata grandezza economica, un presupposto, possa essere
sottoposta a tassazione in capo a due soggetti che percepiscono la medesima ricchezza di due
momenti diversi. È la diversa ipotesi della diversa imposizione in senso economico. Cioè una
manifestazione di capacità contributiva che il sistema giuridicamente sottopone a tassazione in
maniera legittima in due momenti diversi in capo a due soggetti diversi.
Che quella medesima ricchezza sia sottoposta a tassazione in capo al soggetto A non è di per sè
impediente che possa essere soggetta a tassazione ad altro titolo in capo al soggetto B che la
percepisce in un momento successivo.
Tenere ben presente la differenza tra la doppia imposizione in senso giuridico ed economico.
Non è affatto escluso che all’interno di un ordinamento fiscale si possa rintracciare una nozione di
progressività diversa.
Per esempio, un sistema fiscale che applica il principio della c.d. Progressività continua, la diversa
formula della Progressività per scaglioni sostitutivi oppure la diversa ipotesi della Progressività
per scaglioni aggiuntivi.
Sono tre diversi moduli di progressività alternativi tra loro.
Ad oggi il sistema di progressività adottato dal nostro sistema è quello della progressività per
scaglioni aggiuntivi.
Una delle finalità più importanti del sistema tributario nel suo complesso è la perequazione fiscale.
È così perchè l’imposta progressiva impone a chi ha di più di pagare di più, in termini di imposta.
Chi invece ha di meno è corretto che paghi meno, in ragione della finalità di perequazione.
Per ottenere questo risultato il sistema, o meglio il tributo progressivo, adotta un meccanismo in
modo tale che l’aliquota cresca al crescere della base imponibile.
L’imposta può essere fissa o variabile.
Quando l’imposta è variabile, la sua variabilità può essere determinata o dall’applicazione alla base
imponibile di un’aliquota fissa (es. IVA) oppure la variabilità dell’imposta può essere determinata

Diritto tributario Pagina 17


imponibile di un’aliquota fissa (es. IVA) oppure la variabilità dell’imposta può essere determinata
dalla variabilità dell’aliquota che cambia al modificassi della base imponibile.
Quando l’imposta è progressiva, l’aliquota cresce al crescere delle base imponibile.
Da ciò è facilmente desumibile che chi ha una maggiore capacità contributiva paga di più rispetto a
chi ha una capacità contributiva minore.
Ma questo “pagare di più” quindi l’aumento dell’imposta dovuta non è legata esclusivamente alla
variabile della base imponibile perché anche quando l’aliquota è fissa e la base imponibile cambia,
chi ha di più paga di più.
Se io applico l’IVA che corrisponde un prezzo di 100.000 € certamente corrisponde al tributo che in
termini assoluti è maggiore rispetto al tributo che paga chi invece corrisponde un prezzo di 50.000
€. Nel primo caso l’IVA è 22.000 € nel secondo caso è 11.000 €. Anche quando l’aliquota resta
fissa e cambia la base imponibile, ho determinato una variabile nell’imposta ma il cambiamento di
questa imposta non realizza alcuna finalità redistributiva della ricchezza perché la finalità
redistributiva della ricchezza è realizzata soltanto attraverso il tributo progressivo. Nel tributo
progressivo, laddove aumenta la base imponibile, aumenta anche l’aliquota.
Quindi l’incremento del tributo, nell’imposta progressiva, non è determinato soltanto dalla variabile
“base imponibile” ma è determinato anche e soprattutto dalla variabile “aliquota”.
I tre diversi criteri di progressività tutti indistintamente realizzano il medesimo effetto, quindi
realizzano l’applicazione dell’imposta progressiva.
- Metodo della progressività continua.
Il criterio della progressività continua ha trovato applicazione fino alla riforma degli anni ’70. È un
metodo di progressività dell’imposta che il nostro ordinamento ha lungamente sperimentato, fino
agli anni ’70. Il legislatore attraverso l’introduzione di due decreti del Presidente della Repubblica
ormai non più in vigore risalenti al 1973, scelse in quell’occasione di sostituire il criterio della
progressività continua con il criterio della progressività per scaglioni aggiuntivi.
Si trattava di un sistema di progressività estremamente equo. Tra i tre è il migliore in assoluto. È il
migliore perché realizzava, in termini di perequazione fiscale, l’effetto migliore. Il sistema della
progressività continua implicava che ad ogni sensibile incremento della base imponibile
corrisponde significativo incremento dell’aliquota quindi ad ogni incremento della base imponibile
corrispondesse un altrettanto significativo incremento dell’aliquota. Ad ogni infinitesimo
incremento di base imponibile sarebbe corrisposto un incremento dell’aliquota. Consentiva di
raggiungere una perfetta separazione delle fattispecie.
Nel meccanismo stesso, la posizione di chi produceva 50.000 € di reddito sarebbe stato
assolutamente differenziabile, in termini di imposta da applicare, rispetto alla posizione di chi
produceva 51.000 €. Dunque, l’imposta che sarebbe stato chiamato a versare chi avesse prodotto
51.000 € di reddito sarebbe stata una posizione fiscalmente ben differenziata rispetto a chi avesse
prodotto 50.000 € di reddito e sarebbe stata anche differenziata rispetto alla posizione di chi abbia
prodotto 50.999 €.Perchè non sarebbero mai stati 51.000 €.
Questo sistema di progressività determinava un incremento dell’aliquota in corrispondenza di
ogni infinitesimale incremento della base imponibile.
Quindi un sistema di progressività questo estremamente equo.
Con la riforma degli anni ’70 il legislatore si è determinato ad abbandonarlo perché a tanto equità,
nell’applicazione dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, corrispondeva un’evidentissima
difficoltà applicativa. In termini di controllo da parte dell’amministrazione finanziaria, quel metodo
esigeva tempi e metodi di rettifica che non erano più disponibili all’amministrazione stessa già a
quei tempi. Agli inizi degli anni ’70, si assisteva ad una evidentissima rivoluzione sociale e un
sensibile incremento dei redditi che venivano prodotti da numerosità di soggetti passivi non
paragonabile rispetto a quanto accadeva negli anni ’50 o negli anni ’60 e quindi la moltiplicazione
dei rapporti giuridici di imposta che avevano per oggetto l’imposta sul reddito rendeva impossibile
la gestione di altrettanti rapporti giuridici sulla base del metodo della progressività continua.
Sulla spinta di una fortissima esigenza di semplificazione, con la riforma degli anni ’70, il
legislatore si è orientato a sposare un metodo di progressività per certi aspetti meno equo. La
semplicità del modello applicativo era largamente richiesta.
L’IRPEF è un tributo autoliquidato, non è l’amministrazione finanziaria che quantifica l’imposta
dovuta ma è attraverso il modello della c.d. autodichiarazione con cui è direttamente il contribuente
a quantificare l’imposta da versare.
Questa scelta era fondamentale.
- Metodo della progressività per scaglioni sostituitivi e aggiuntivi.

Diritto tributario Pagina 18


- Metodo della progressività per scaglioni sostituitivi e aggiuntivi.
In comune hanno una fortissima semplificazione del metodo applicativo, perchè mentre nella
progressività continua l’aliquota cresceva ad ogni minimo incremento della base imponibile, nella
progressività per scaglioni, siano essi sostitutivi od aggiuntivi, il metodo di applicazione ha a suo
fondamento una scelta comune cioè quella di applicare ad una determinata porzione di ricchezza
un’unica aliquota.
La progressività per scaglioni sostitutivi implica che la disponibilità di ricchezza venga suddivisa
in scaglioni, in porzioni, e che ad ogni porzione corrisponda l’applicazione di un’aliquota.
Per esempio:
Io ho un reddito da sottoporre a tassazione pari a 50.000 € e la legge preveda tre scaglioni: da 0 a
15.000 €, da 15.000 € a 30.000 € e da 30.000 € a 50.000 €.
La mia ricchezza è compresa in tutti e tre questi scaglioni.
Il principio di progressività per scaglioni sostituitivi implica che sull’intera base imponibile (50.000
€) debba essere applicata un’unica aliquota, quella dell’ultimo scaglione in cui ricade sull’ultima
dose di ricchezza prodotta.
Applicherò sull’intera ricchezza prodotta di 50.000 € un’unica aliquota del 30%.
Esempio.
Se insieme a me dovesse dichiarare il reddito la nostra collega X.
Collega X produce un reddito di 51.000 €. Produce 1000 € in più rispetto a me.
In virtù di questo sistema di progressività, la sua ricchezza sfora nel quarto scaglione.
Non più nella fascia che va da 30.000 € a 50.000 € ma quello che (per esempio) va da 50.001 € a
70.000 €.
L’applicazione di questo criterio per la collega X implica che sarà costretta ad applicare sull’intera
base imponibile di 51.000 € l’aliquota del 40%, andando incontro ad un prelievo fiscale
sensibilmente più elevato, rispetto a quello per cui sarò chiamata anche se io ho prodotto solo 1000€
di meno.
Questa progressività per scaglioni sostitutivi determinava una fortissima disparità di
trattamento e un disincentivo alla produzione di ricchezza ulteriore.
Ciò è alla base per cui il nostro sistema scegli il modello della progressività per scaglioni aggiuntivi.
- Modello della progressività per scaglioni aggiuntivi.
Il nostro ordinamento ancora oggi utilizza questo modello, così come oggi congegnato nella
disciplina dell’IRPEF.
Questo sistema prevede l’applicazione delle aliquote diversificate per cinque scaglioni.
1) ALIQUOTA 23%
Redditi più bassi fino a 15.000 €
2) ALIQUOTA DEL 27%
Secondo scaglione redditi
3) ALIQUOTA 38%
Si registra un incremento esponenziale del secondo e del terzo scaglione.
4) ALIQUOTA 41%
5) ALIQUOTA 43%
Redditi superiori a 75 mila euro
Il reddito deve essere suddiviso in scaglioni, da un minimo ad un massimo.
Esempio.
Io ho prodotto 50.000 €. Il sistema di applicazione dell’IRPEF prevede che questo reddito sia
spalmato all’interno degli scaglioni che lo assorbono.
Trascurando l’ampiezza delle forbici delle aliquote, immaginiamo che sia spalmato sui primi tre
scaglioni. Quindi, le aliquote del 23%, del 27% e del 38%.
In che cosa diverge il modello della progressività per scalini aggiuntivi da quello precedente?
La differenza è fondamentale ed è rappresentata dal fatto che si ciascuna delle tre porzioni di
ricchezza che è assorbita dai tre scaglioni, su ciascuna di queste tre dosi di ricchezza sarà applicata
la corrispondente aliquota.
Sul primo scaglione applicherò l’aliquota del 23%. Sul secondo l’aliquota del 27%. Sul terzo
l’aliquota del 38%.
La differenza è fondamentale perché l’aliquota del terzo scagliare l’applicherò non su tutta la base
imponibile, ma soltanto alla porzione di ricchezza che copre quello scaglione.
È un sistema più equo rispetto al precedente.
Ritorniamo all’esempio.

Diritto tributario Pagina 19


Ritorniamo all’esempio.
Collega X che produce 51.000 €. È più equo perchè la collega X si troverà ad applicare l’aliquota
del 41% solo su 1000€. Cioè solo sulla porzione di reddito assorbita dal quarto scaglione. Sulle
rimanenti porzioni verrà applicata l’aliquota corrispondente ai primi tre scaglioni.
Questo metodo di applicazione del tributo progressivo non determina alcun disincentivo alla
produzione di ricchezza ulteriore.
La collega X troverà utile produrre 1000€ in più poiché solo quest’ultimi verranno assorbiti dal
quarto scaglione.
L’aliquota marginale è l’aliquota che si applica sull’ultima dose di ricchezza da sottoporre a
tassazione. Dunque, si riferisce all’aliquota da applicare sull’ultima dose di ricchezza.
Altro è l’aliquota media. Aliquota media è data da un rapporto in cui al numeratore è segnata
l’imposta pagata e al denominatore è segnata la base imponibile.
L’aliquota mediamente applicata sull’intera base imponibile.
Quando si parla si imposta progressiva, non è semplice dire con immediatezza quale aliquota è stata
mediamente applicata alla base imponibile.
Tanto più vasta è la base imponibile tanto più numerose sono le aliquote che concretamente trovano
applicazione.
Bisogna sempre ricorrere ad un calcolo matematico per ottenere l’aliquota media.
È data dal rapporto matematico tra l’imposta pagata e la base imponibile.
Il rapporto matematico è indispensabile per calcolare l’aliquota media.
Le altre fonti del diritto tributario sono sicuramente le fonti di rango comunitario.
Sono fonti primarie e secondarie. Tra le fonti primarie troviamo Trattato sull’Unione Europe, il
TFUE e la Carta di Nizza.
Tra le fonti derivate si trovano i regolamenti, le direttive, e le decisioni della Corte di Giustizia.
Le fonti derivate più importanti (i regolamenti e le direttive) sono differenti per la natura dei
destinatari a cui queste fonti sono indirizzate. I regolamenti sono direttamente efficaci all’interno
degli Stati membri e attribuiscono direttamente diritti e doveri a carico di altri, le direttive sono
indirizzate non ai singoli, ma agli Stati, chiamati ad individuare concretamente le modalità, anche
sul piano normativo, per dare attuazione al contenuto delle direttive.
Le direttive sono comunque annoverate tra le fonti al pari dei regolamenti perchè all’interno delle
direttive esiste una particolare categorie di esse, c.d. self-executing, che sono immediatamente
esecutive.
Sono direttive che nel loro contenuto risultano molto dettagliate, e, una volta spirato il tempo per gli
Stati membri di darne approvazione e attuazione, dispiegano i loro effetti immediatamente avendo
contenuto sufficientemente chiaro e preciso.
L’ultima fonte importante sono le sentenza della Corte di Giustizia.
Queste sentenza affermano principi che sono direttamente applicabili all’interno dei singoli Stati,
definendo controversie insorte all’interno dei rispettivi ordinamenti, affermano principi che trovano
immediata applicazione.
Altre fonti di diritto sovranazionale, oltre le fonti comunitarie, sono le Convenzioni Internazionali.
Il diritto tributario è una materia all’interno della quale le Convenzioni Internazionali hanno una
portata significativa. Le relazioni fiscali tra Stati sono regolate attraverso Convenzioni
Internazionale.
I conflitti di attribuzione tra gli Stati con riguardo alla sottoposizione tassazione di determinate
manifestazione di capacità contributiva, un possibile conflitto tra ordinamenti, viene risolto il più
delle volte attraverso questo strumento delle convenzioni.
Possono essere bilaterali o multilaterali. Quindi possono sottoscritte tra due Stati oppure tra due o
più Stati.
Altra fonte è rappresentata dalla legge.
È fonte del diritto tributario tanto la legge in senso formale tanto la legge in senso sostanziale.
Quando si parla di legge come fonte del diritto tributario si deve certamente porre di pari grado
tanto la legge dello Stato quanto la legge delle regioni.
A seguito della Riforma del Titolo V della Costituzione è pacifico che anche le leggi delle regioni
sono fonte del diritto tributario al pari della legge dello Stato.
La pari ordinazione di queste fonti è determinata dal contenuto dell’art.117 Cost. nel testo
riformato.
La ragione di questa equiparazione è da ricercare nella formulazione dell’art.117 Cost.
All’interno di questo articolo si riscontra che lo Stato ha potestà legislativa nelle materie

Diritto tributario Pagina 20


All’interno di questo articolo si riscontra che lo Stato ha potestà legislativa nelle materie
esclusivamente riservate alla legislazione dello Stato.
Ci sono materie in cui vi ha l’esclusività lo Stato, altre materie che costituiscono legislazione
concorrente e, per tutto ciò che non è espressamente demandato a queste due categorie, esiste una
c.d. legislazione residuale che è attribuita ad altri enti dotati di potestà normativa, dunque le
Regioni.
Tra le materie che rientrano tra la potestà legislativa esclusiva dello Stato ci sono i tributi che
costituiscono il sistema tributario dello Stato.
La disciplina dei tributi che costituiscono oggetto del sistema tributario dello Stato è riservato allo
Stato.
Esiste poi un’ampia competenza legislativa concorrente, cioè lo Stato, nell’esercizio di questa
particolare potestà individua i principi generali, mentre poi alle Regioni è riservato di disciplinare
nel dettaglio.
Una di queste materie di concorrenza è quella che individua i tributi regionali e locali.
I tributi regionali e locali possono essere istituiti con legge dello Stato e disciplinati con legge delle
Regioni. Può lo Stato individuare i principi generali che le Regioni dovranno osservare nell’istituire
specifici tributi da applicare all’interno dei loro territori. Ciò significa che in definitiva, le Regioni
possono istituire tributi propri a condizione però che siano osservati i principi generali indicati in
sede di legislazione concorrente dallo Stato.
I tributi locali sono tributi che sono demandati ad una fonte propria del singolo ente locale, che però
non è una legge. I Comuni non sono dotati di potestà normativa, soltanto di potestà regolamentare.
Lo strumento che hanno a disposizione per osservare i tributi propri cioè quelli il cui gettito è
destinato al singolo ente, non è una legge ma un regolamento.
Non è escluso che si possano istituire direttamente tributi propri all’interno delle singole Regioni o
all’interno dei singoli Comuni. L’istituzione di specifici tributi all’interno del territorio delle
Regioni e all’interno degli enti locali, sarà possibile soltanto attraverso una legge della Regione e
scegliendo manifestazioni di capacità contributiva che siano strettamente collegati ai rispettivi
territori. Sono indicazioni della Corte Costituzionale.
I tributi erariali del sistema dello Stato sono tributi su cui non può intervenire nessuna disposizione
di legge regionale, i tributi non erariali (regionali o locali) sono tributi che o sono istituiti con legge
dello Stato e disciplinati con legge regionale o regolamenti dei singoli Comuni oppure possono
essere tributi, istituiti direttamente dalle Regioni, all’interno dei propri territori, senza colpire
manifestazioni di capacità contributiva già soggetti a tassazione ma strettamente collegati ai propri
territori e disciplinati con regolamento dei singolo ente locale.
L’ultima fonte indicata nell’ordine gerarchico è rappresentata dai regolamenti.
Possono essere di varia natura.
Possono essere governativi o ministeriali. In diritto tributario ne esistono vasti di entrambe le
categorie. La differenza sta nell’organo emanante: emanati dal Consiglio di Ministri (governativi)
oppure emanati dal Ministro competente (ministeriali).
In materia tributaria è possibile individuare tre categorie di regolamenti che costituiscono fonte.
- Regolamenti esecutivi. Introducono disposizioni di dettaglio necessarie per rendere
concretamente operanti disposizioni di legge. È estremamente frequente l’integrazione della
disciplina attraverso regolamenti esecutivi, espressamente indicati come provvedimenti da
adottare all’interno delle disposizioni di legge.
- Regolamenti attuativi. Tra i tre, questa è la fattispecie meno frequente. Vengono introdotti
quando le disposizioni di legge si limitano a recare norme di principio. È difficile che si
realizzino in materia tributario per il rispetto del principio della riserva di legge.
- Regolamenti delegati. Estremamente diffusi. Sono quelli adottati sulla base di una legge delega.
Si tratta di una fonte che trova immediata giustificazione in una peculiarità del diritto tributario,
cioè l’estremo tecnicismo. La legge, una volta ultimata la disciplina, demanda poi al decreto
delegato l’introduzione di una disciplina più nel dettaglio. Vengono autorizzati da una
disposizione delegante adottata dal Parlamento che autorizza il Governo ad emanare le
disposizioni di dettaglio.
I regolamenti esecutivi, proprio perchè recano questa disciplina di dettaglio, necessari per
l’applicazione di molti istituiti sono richiamati a fondamento dagli atti di accertamento emessi
dall’Agenzia delle Entrate. Gli atti di accertamento, o avvisi di accertamento, sono provvedimenti
autoritativi con cui l’amministrazione finanziaria rettifica le dichiarazioni dei contribuenti.
In moltissimi casi, a sostegno di avvisi che rilascia la stessa Agenzia quando pensa che le

Diritto tributario Pagina 21


In moltissimi casi, a sostegno di avvisi che rilascia la stessa Agenzia quando pensa che le
dichiarazioni dei soggetti siano non veritiere, richiama l’applicazione di questi regolamenti
esecutivi. La legittimità o la fondatezza di questa pretesa manifestata da parte dell’Amministrazione
Finanziaria è fondata su questi stessi regolamenti. Potrebbero essere atti che il contribuente potesse
avere interesse a contestare, sotto il profilo della loro legittimità.
Quando un regolamento viene ritenuto illegittimo, il giudice naturale chiamato a conoscere
dell’illegittimità del regolamento, è il giudice amministrativo. Se qualsiasi contribuente dovesse
ritenere che un regolamento tributario adottato fosse illegittimo, dovrebbe proporre l’impugnazione
davanti al TAR. Questo tipo di impugnazione consentirebbe al contribuente di sindacare la
legittimità del regolamento, con l’obiettivo di ottenerne l’annullamento da parte del suo giudice
naturale, il TAR.
Il giudice amministrativo, ricevuto il ricorso, se dovesse ritenere il regolamento illegittimo lo
annullerebbe. Questo annullamento avrebbe effetti erga omnes e con effetti retroattivi, ex tunc.
Il regolamento è un atto della cui legittimità è possibile sindacare soltanto di fronte al suo giudice
naturale, cioè il giudice amministrativo. Non si può impugnare un regolamento di fronte al giudice
tributario.
L’impugnazione di fronte al giudice tributario dovrebbe essere dell’avviso di accertamento, cioè
dell’atto individuale emanato dall’Agenzia delle Entrate, richiamando a suo fondamento il
regolamento che però il contribuente crede illegittimo. L’eventuale azione che si potrebbe proporre
è un’azione con oggetto diverso, quindi l’avviso di accertamento, il provvedimento individuale
adottato dall’Agenzia delle Entrate.
Avverso i regolamenti illegittimi le vie della tutela possibili sono due:
- Tutela immediata. Rappresentata dall’impugnazione davanti al giudice naturale, il TAR. In
questo caso, potrebbe ottenere se il ricorso fosse ritenuto fondato, l’annullamento del
regolamento con effetti erga omnes ed ex tunc.
- Tutela mediata. Questa tutela dovrebbe essere avviata attraverso l’impugnazione davanti al
giudice tributario dell’avviso di accertamento. Il vantaggio è che il giudice tributario, laddove
dovesse condividere le ragioni del contribuente, potrebbe concedere la disapplicazione nel caso
di specie del regolamento e per effetto, annullare l’avviso di accertamento emesso nei suoi
confronti. Attraverso questa tutela non si potrebbe ottenere l’annullamento del regolamento.
L’unica via percorribile con il giudice tributario resta chiedere la disapplicazione del regolamento
ritenuto illegittimo. Avrebbe effetti inter partes e in ogni caso con effetti ex nunc (non con
portata retroattiva.
Truglio Concetta
Domande dei colleghi :
- Differenza tra scaglioni.
Alla professoressa non interessano i numeri, a lei interessa la logica del principio.
La logica del principio: la norma contenuta nel Testo Unico delle imposte sui redditi prevede che,
tutti i redditi, nel momento in cui si deve applicare l’imposta, debbano essere ripartiti in scaglioni.
Questi scaglioni non sono altro che quantità di reddito, forbici.
Per esempio:
Primo scaglione da 1 centesimo di euro a 15.000 €.
Secondo scaglione da 15.001 € a 30.000 €
Terzo scaglione da 30.001 € a 50.000 €
E così via dicendo.
Il meccanismo prevede che il reddito di ciascuno individuo sia convogliato all’interno di questi
scaglioni.
Su ciascuna porzione di reddito deve essere applicata l’aliquota corrispondente allo scaglione
coperto dal reddito stesso.
-Differenza tra divieto di doppia imposizione in senso economico e giuridico.
Il divieto di doppia imposizione in senso giuridico è rappresentato dal fatto che non è possibile
all’interno di un medesimo sistema che due diversi tributi colpiscano la medesima manifestazione
di capacità contributiva.
È escluso che un reddito venga sottoposto a tassazione a titolo di IRPEF e a titolo di altra imposta
sempre sul reddito.
L’ipotesi del divieto di doppia imposizione in senso economico si verifica quando una medesima
ricchezza viene sottoposta a tassazione, prima in capo ad un soggetto che la produce.
Per esempio l’imposta sul reddito delle società.

Diritto tributario Pagina 22


Per esempio l’imposta sul reddito delle società.
L’utile distribuito ai soci viene sottoposto a tassazione in capo ad ognuno.
Verrà in seguito chiarito dopo aver approfondito questi temi.

Diritto tributario Pagina 23


LEZIONE 4 (9/03/21)
martedì 26 ottobre 2021 19:49

La prof.ssa ha iniziato rispiegando i concetti di aliquota media e aliquota marginale, su richiesta di una collega.
Per il diritto tributario in generale è opportuno prima dare la definizione e poi, eventualmente, addurre degli esempi.
- definizione di aliquota marginale → è l’aliquota che si applica sull’ultima dose di ricchezza da sottoporre a tassazione.
- esempio→ immaginiamo un reddito complessivo prodotto per 51.000 €. Risulta chiaro che, dovendo sottoporre a tassazione questa grandezza di
manifestazione di capacità contributiva e quindi questo ammontare complessivo di reddito, l’aliquota marginale sarà quella che applico sull’ultimo
centesimo di euro di questi 51.000 € che devo sottoporre a tassazione. Se, come è vero, l’aliquota del quarto scaglione è il 41% e so che la mia
ultima dose di ricchezza da sottoporre a tassazione nel caso sottoposto ricade proprio nel quarto scaglione, allora è pacifico che in quel caso
l’aliquota marginale sarà quella del 41%.
- definizione di aliquota media → è l’aliquota mediamente applicata all’intera base imponibile.
Per individuare qual è esattamente l’aliquota media applicata ad ogni singola fattispecie è necessario ricorrere ad un rapporto di natura
matematica. Quindi occorre costruire un rapporto matematico e calcolare il risultato del rapporto in cui al numeratore segnerò l’imposta che è
stata versata e al denominatore segnerò invece la base imponibile.
- esempio→ immaginiamo che l’imposta pagata sia di 5.000 € e che la base imponibile sia di 30.000 €. In questo caso, costruendo il rapporto
matematico tra queste due grandezze, sarà possibile stabilire che l’aliquota media è del 6% (è un’ipotesi di scuola).
Perché è necessario costruire questo rapporto tra imposta e base imponibile? Perché l’aliquota media risente non soltanto delle aliquote che
concretamente hanno trovato applicazione nel singolo caso di specie ma anche dell’ampiezza degli scaglioni e della base imponibile. Attraverso
questo rapporto matematico sarà possibile capire qual è l’aliquota media che è stata applicata sull’intera base imponibile.
LEZIONE DEL GIORNO CLASSIFICAZIONE DELLE IMPOSTE
I tributi possono essere classificati in varie categorie, cui si fa riferimento in moltissime occasioni. 1. PRIMA CLASSIFICAZIONE → certamente la
prima classificazione, piuttosto semplice, che occorre ricordare è quella tra:
- imposte erariali → sono le imposte che costituiscono parte del sistema tributario dello Stato.
- imposte locali → sono tributi che, seppure istituiti con legge dello Stato, generano gettito che è destinato al finanziamento degli enti locali.
Naturalmente può trattarsi anche di imposte istituite direttamente con legge regionale e poi il prodotto è disciplinato dal regolamento.
2. SECONDA CLASSIFICAZIONE → un’ulteriore e non meno importante distinzione, determinata dal tipo di capacità contributiva sottoposta a
tassazione, è quella che corre tra:
- imposte dirette → sono imposte che sottopongono a tassazione manifestazioni immediate di capacità contributiva.
Quando parliamo di “manifestazioni immediate di capacità contributiva” intendiamo riferirci al reddito e al patrimonio. Seppure reddito e
patrimonio siano accomunati dall’essere espressivi di capacità contributiva immediata, dobbiamo puntualizzare che si tratta di manifestazioni
molto diverse tra loro. Tale differenza è importante e la ritroveremo anche quando affronteremo i principi generali dell’IRPEF (tributo sul reddito
per eccellenza).
Il reddito è una disponibilità di ricchezza del soggetto che siamo soliti definire “dinamica” → è una ricchezza che si aggiunge a quella di cui già il
soggetto passivo dispone. È intuitivo come questa manifestazione di capacità contributiva può essere utilmente misurata solo se si fa riferimento
ad un determinato arco temporale. Se si tratta di ricchezza che si aggiunge a quella di cui già il soggetto dispone deve essere possibile misurare la
ricchezza di cui già il soggetto dispone ad una certa data per stabilire poi qual è la ricchezza aggiuntiva che alla prima siaggiunge nel periodo di
tempo successivo.
Il patrimonio, viceversa, esprime una manifestazione di capacità contributiva in senso “statico” → esprime la ricchezza che il soggetto dispone ad
una certa data. Dunque, qui si deve misurare lo stock di ricchezza esistente ad una certa data.
- imposte indirette → sono imposte che sottopongono a tassazione manifestazioni di capacità contributiva c.d. mediate.
Le manifestazioni mediate per eccellenza sono il consumo e i trasferimenti. Dunque, per intenderci, volendo esemplificare le imposte che
sottopongono a tassazione consumi e trasferimenti, possiamo certamente richiamare l’IVA per i consumi e l’imposta di registro, l’imposta sulle
successioni e sulle donazioni per i trasferimenti.
3. TERZA CLASSIFICAZIONE → altra distinzione di rilievo è quella che corre tra:
- imposte personali → si tratta di imposte personali quando, nella disciplina del tributo, il legislatore tiene conto della situazione personale o
familiare del contribuente.
Dunque, a parità di ricchezza prodotta, non è affatto escluso ed è pienamente rispettoso dell’art. 3 Cost. -che sancisce il principio di uguaglianza
sostanziale-, che il contribuente A e il contribuente B siano tenuti all’adempimento di un’obbligazione diversa.
Pertanto, è assolutamente plausibile che chi produce reddito all’interno di una famiglia monoreddito e che quindi ha carichi di famiglia a cui fare
fronte andrà in contro ad un prelievo fiscale inferiore rispetto a quello invece a cui andrà incontro il soggetto che è componente di un nucleo
familiare costituito esclusivamente da se stesso, senza familiari a carico.
- imposte reali → sono imposte reali i tributi nei quali il legislatore non attribuisce alcun rilievo alle condizioni personali e familiari dei soggetti
passivi.
Dunque, l’imposta è dovuta, a parità di manifestazioni di capacità contributiva, esattamente in pari ammontare dal soggetto Ae dal soggetto B.
Quindi il debito di imposta, a parità di ricchezza
prodotta, non potrà che essere perfettamente identico e ancora una volta nel pieno rispetto dell’art. 3 Cost.
4. QUARTA CLASSIFICAZIONE → ancora, sorge una differenziazione che dipende dalle particolari caratteristiche del presupposto, tra:
- imposte periodiche → l’imposta è periodica quando il presupposto è rappresentato da un fatto che di per sé è suscettibile di ripetersi nel tempo.
Il caso emblematico, esemplificativo di imposta periodica, è certamente rappresentato dall’IRPEF (l’IRPEF è un’imposta che colpisce il reddito → il
possesso di reddito è un presupposto di per sé capace di ripetersi nel tempo).
- imposte istantanee → l’imposta è istantanea quando il presupposto consiste in un fatto che si esaurisce in un determinato avvenimento che non
è suscettibile di ripetersi nel tempo.
Facile è, a questo proposito, richiamare il presupposto dell’imposta di registro e più in generale il presupposto dell’imposta sulle successioni e sulle
donazioni.
Si tratta di eventi insuscettibili di ripetersi nel tempo → quando, per esempio, viene sottoposto a tassazione un atto che reca la compravendita di
un immobile è pacifico che con quegli stessi termini e con quell’oggetto il presupposto non è suscettibile di ripetersi nel tempo. Lo stesso
possiamo dire a proposito dell’imposta sulle successioni e sulle donazioni → il presupposto dell’imposta sulle successioni è più unico che mai
perché è determinato dalla morte del de cuius.

Diritto tributario Pagina 24


perché è determinato dalla morte del de cuius.
5. QUINTA CLASSIFICAZIONE → una distinzione che già conosciamo è quella tra:
- imposte fisse → sono imposte determinate in una somma di denaro e indicate immediatamente dal legislatore. La legge determina in quale
misura è dovuta l’imposta.
- imposte proporzionali → sono imposte variabili.
La variabilità dell’imposta proporzionale è determinata da una caratteristica che resta costante: l’aliquota che resta fissa si applica ad una base
imponibile variabile. La variabilità dell’imposta è dovuta alla congiunta applicazione di questi due elementi: l’applicazionedi un’imposta fissa ad
una base imponibile che invece varia (ad esempio nell’IVA).
- imposte progressive → facciamo riferimento ad un meccanismo di applicazione che determina la variabilità dell’imposta ma che poggia su pilastri
diversi.
Qui la variabilità dell’imposta è determinata dalla congiunta applicazione di elementi differenti. la base imponibile varia ma varia anche l’aliquota,
la quale cresce al crescere della base imponibile. Quindi non è una variabilità qualsiasi! Attenzione!!! Non si deve solo dire che l’aliquota varia, ma
che cresce al crescere della base imponibile. Se decrescesse al crescere della base imponibile l’imposta sarebbe regressiva.
6. SESTA CLASSIFICAZIONE → altra distinzione intercorre tra:
- imposte generali → le imposte sono generali quando colpiscono manifestazioni di ricchezza dello stesso tipo.
L’esempio classico di imposta generale è, ancora una volta, l’imposta sul reddito (sia che si tratti di IRPEF che di IRES → viene sottoposta a
tassazione una manifestazione dello stesso tipo che in questo caso è il reddito).
- imposte speciali → le imposte sono speciali quando colpiscono soltanto alcune particolari manifestazioni di capacità contributiva e prodotte da
particolari categorie di soggetti.
Rientra in questa categoria l’IRAP che sottopone a tassazione una particolare manifestazione di capacità contributiva che è la produzione del
valore netto e solo in capo ad alcune categorie di soggetti passivi come, ad esempio, gli imprenditori e gli esercenti arti e professioni (anche se
l’elenco in realtà è assai più articolato).
7. SETTIMA CLASSIFICAZIONE → infine possiamo poi distinguere, sulla base degli obiettivi di politica fiscale perseguiti, tra:
- imposte fondamentali → sono imposte alla base del sistema tributario di cui fanno parte e dunque sono i tributi da cui deriva il gettito più
importante.
- imposte complementari → sono imposte che, pur naturalmente essendo collocate all’interno di un sistema tributario, hanno un effetto in termini
di gettito prodotto molto basso.
Non sono certamente delle imposte dalla cui applicazione deriva un gettito fondamentale per il funzionamento del sistema ma sono tributi che
nonostante la marginalità del gettito prodotto assolvono ad un’importante funzione: consentire la perequazione fiscale. Attraverso la loro
applicazione è plausibile che il legislatore abbia voluto introdurre una forma di prelievo che consenta una opportuna redistribuzione della
ricchezza. Le finalità delle imposte complementari non sono finalità puramente legate all’entità del gettito ma sono finalitàpiù squisitamente
legate a scopi di politica fiscale.
FORME DI PRELIEVO AGGIUNTIVO
Quando parliamo delle forme di prelievo esistenti nel nostro ordinamento dobbiamo completare il quadro complessivo trattando di alcune
fattispecie di prelievo aggiuntivo che il nostro sistema conosce.
Oltre alle imposte è possibile in linea di principio introdurre nel sistema tributario forme di prelievo aggiuntivo: si tratta delle c.d. sovrimposte e
delle c.d. addizionali.
In principio è necessario domandarsi le ragioni per le quali il legislatore possa ritenere utile ricorrere a tali forme di prelievo aggiuntivo. Le
motivazioni, in verità, possono sostanzialmente essere ridotte a una.
Quando occorre perseguire un obiettivo di cassa (per ottenere un incremento del gettito), gli strumenti che il legislatore ha teoricamente a
disposizione potrebbero essere molteplici perché tutti immediatamente capaci di generare l’effetto che si desidera raggiungere.
La prof.ssa a questo punto chiede agli studenti quale sarebbe la soluzione più agevole a loro parere per incrementare il gettito. Una collega
risponde: “o aumentare l’aliquota o inserire nuove imposte”.
PRIMA SOLUZIONE → La prof.ssa spiega che l’ipotesi di inserire nuove imposte è certamente praticabile in linea di principio ma per la verità in
concreto non è affatto semplice da realizzare, nonostante si possa pensare il contrario. Perché? Perché l’inserimento di nuove imposte nel sistema
implica il superamento di un problema di carattere preliminare di primissimo piano: individuare forme di capacità contributiva che non siano già
sottoposte a tassazione. Il nostro sistema fiscale è così ampio e complesso che la soluzione di questo problema preliminare ètutt’affatto che
semplice. Si sono sfidate a lungo le più brillanti menti del diritto tributario e tuttavia queste indagini sono risultate difficili e sostanzialmente
infruttuose. Pertanto, introdurre nuovi tributi NON è una strada agevole.
SECONDA SOLUZIONE → Rimane invece vera, spiega la prof.ssa, la prima delle due soluzioni proposte dalla collega: incrementare le aliquote.
Questo è uno strumento efficacissimo perché elimina alla radice quell’insormontabile problema espresso pocanzi. Il tributo già c’è, basta
aumentare l’aliquota e l’effetto che se ne trae è l’incremento del gettito.
Tuttavia → bisogna dire che anche ricorrere a questa seconda soluzione potrebbe avere delle ricadute NEGATIVE importanti di cui il legislatore
non può non tenere conto. L’incremento delle aliquote viene, nella percezione del contribuente, avvertito sempre come una misura stabile
nell’applicazione del tributo già esistente.
- esempio → se il legislatore, come più volte si è paventato soprattutto nell’ultimo decennio, dovesse scegliere di incrementare l’aliquota IVA,
l’incremento verrebbe percepito dalla generalità dei contribuenti come una misura stabilmente introdotta nell’applicazione dell’imposta che
avrebbe ricadute estremamente negative nella determinazione delle basi imponibili e quindi nella propensione al consumo → più si aumenta
l’aliquota dell’IVA più questa circostanza incide negativamente sulla propensione al consumo di tutti. Perché? Perché l’applicazione dell’IVA incide
sulla determinazione del prezzo finale dei beni e dei servizi. Se quindi il prezzo che il consumatore finale paga per acquistare un capo di
abbigliamento subisce un incremento, conseguente e necessario, per effetto dell’incremento dell’aliquota IVA, questa misura fiscale è
estremamente probabile che si traduca in una misura che determini una contrazione dei consumi. Ci si penserà di più prima di acquistare un
nuovo maglioncino da aggiungere all’armadio perché costerà di più e dunque ciò che può essere evitato in termini di consumo sarà evitato!
Ci siamo occupati dell’incremento dell’aliquota nell’imposta sui consumi ma le stesse considerazioni si possono rivolgere a diversi settori delle
imposte dirette. Anche un’elevazione delle aliquote nell’applicazione dell’imposta diretta determina una conseguenza sul piano psicologico dei
consociati estremamente pesante, non ultimo determinata dal fatto che il nostro Paese anche sul piano internazionale non brilla certo per
un’applicazione di aliquote nell’imposta sul reddito particolarmente basse.
TERZA SOLUZIONE (quella adottata dal legislatore) → detto questo, se l’esigenza fosse (come frequentemente è) quella di determinare un
incremento del gettito, il legislatore preferisce spesso ricorrere, più che ad un’elevazione delle aliquote dei tributi già esistenti, all’introduzione di
queste particolari forme di prelievo aggiuntivo: sovrimposte e addizionali.
Le sovrimposte e le addizionali hanno in sé il comune vantaggio di essere percepite come forme di prelievo aggiuntivo contraddistinte dal

Diritto tributario Pagina 25


Le sovrimposte e le addizionali hanno in sé il comune vantaggio di essere percepite come forme di prelievo aggiuntivo contraddistinte dal
carattere della temporaneità. Non avendo il legislatore prescelto di incidere sulla disciplina ordinaria dell’applicazione di un tributo già esistente
ma avendo scelto invece di ricorrere a queste forme di prelievo aggiuntivo, l’introduzione di tale prelievo aggiuntivo viene avvertita con minore
gravità da parte dei soggetti passivi che quindi possono arrendersi, immaginando che sia una forma di prelievo aggiuntivo soltanto
temporaneamente disposta.
In effetti, sotto il profilo squisitamente tecnico, ciò è possibile perché il meccanismo di applicazione di queste forme di prelievo aggiuntivo è un
meccanismo necessariamente sganciato dall’imposta principale, dal tributo che già esiste. Queste leve diverse (sovrimposta e addizionale) sono
strumenti di tecnica impositiva che evitano di incidere sulla disciplina di un tributo fondamentale del sistema che già esiste e che realizzano il
medesimo effetto attraverso forme di prelievo aggiuntivo che potrebbero essere soltanto temporanee, introdotte e poi dopo eliminate non
appena raggiunto l’obiettivo del legislatore (cioè l’incremento del gettito).
- Addizionale → la prima forma di prelievo aggiuntivo è, appunto, l’addizionale. L’addizionale è un prelievo aggiuntivo che ha come base
imponibile l’imposta già esistente.
Attenzione!!! Il presupposto dell’addizionale è che ci sia un’imposta dovuta a titolo di tributo già esistente. Dunque, se illegislatore dovesse
ricorrere a questa forma di prelievo e il contribuente non fosse tenuto al pagamento del tributo per ragioni su cui non è necessario soffermarsi
(quindi sotto il profilo squisitamente giuridico non è configurabile debito d’imposta da versare), potrebbe mai il contribuente essere chiamato al
pagamento di una addizionale? No, perché non esiste appunto il tributo da versare. Se il contribuente non fosse obbligato per ragioni X al
pagamento del tributo già esistente, nulla sarebbe dovuto a titolo di addizionale perché viene a mancare la base imponibile sulla quale calcolare
l’addizionale.
- Sovrimposta → L’altra forma di prelievo aggiuntivo da conoscere è la sovrimposta. Questa ha un meccanismo di applicazione diverso perché a
differenza dell’addizionale ha come base imponibile la stessa base imponibile del tributo già esistente.
Quindi, se esiste un tributo già istituito e disciplinato per legge e la disciplina naturalmente consente di determinare la base imponibile e se è
prevista la sovrimposta, il contribuente su quella base imponibile dovrà applicare il tributo già esistente e anche la sovrimposta.
In definitiva, la sovrimposta è un prelievo aggiuntivo di ricchezza che si traduce in termini economici in un effetto perfettamente equivalente all’
incremento dell’aliquota del tributo già esistente.
Quindi è come se in termini economici, guardando al gettito, il legislatore si fosse limitato ad incrementare l’aliquota del tributo già esistente. In
realtà però il legislatore non lo fa! Sceglie di mantenere inalterata l’aliquota del tributo già esistente e impone l’applicazione della sovrimposta →
quindi un’aliquota diversa, dovuta ad altro titolo, che però si applica sulla stessa base imponibile.
Ma perché il legislatore lo fa se in termini economici le due misure si equivalgono? Per lasciar passare l’idea che quella forma di prelievo
aggiuntivo sia soltanto temporanea, per non incidere sulla disciplina stabile di applicazione del tributo.
- Domanda n.1 → una collega a questo punto chiede se questo non comporti un venir meno al divieto di doppia imposizione.
La prof.ssa risponde di no perché il titolo è sempre lo stesso! Non sono tributi diversi. Nel nostro ordinamento, tra l’altro, al momento non ci sono
ipotesi di sovrimposta.
Semmai si è fatto più volte ricorso (purtroppo ad ampia conferma del fatto che la temporaneità del prelievo è solo un’illusione) negli ultimi
vent’anni allo strumento dell’addizionale.
Nel nostro ordinamento sono vigenti tanto l’addizionale regionale quanto l’addizionale comunale mentre non abbiamo esperienza di sovrimposta
in questo momento. In ogni caso, non si tratta di divieto di doppia imposizione. Sarebbe divieto di doppia imposizione se si fosse introdotto da
parte dello stesso soggetto attivo nei confronti dello stesso soggetto passivo un doppio tributo. Qui invece non è così. Nell’addizionale comunale e
regionale il soggetto attivo cambia (comune e regione), la manifestazione di capacità contributiva resta sempre la stessa ma il beneficiario del
gettito cambia.
Nella nostra esperienza di diritto interno l’introduzione dell’applicazione dell’addizionale è ormai diventata una costante, quindi nemmeno è più
vero che si tratta di strumenti di tecnica legislativa che vengono normalmente utilizzati per suggerire una sorta di temporaneità nel prelievo.
Probabilmente lo si fa semplicemente per lasciar pensare che il prelievo sul reddito sia limitato all’aliquota dell’IRPEF quando invece tutti sanno
che per la verità così non è perché il prelievo fiscale sul reddito è ben più elevato anche perché la misura delle addizionali comunali e regionali non
è una misura particolarmente bassa. Applicate le due percentuali insieme, che sono naturalmente variabili perché dipendono anche qui
dall’ammontare della base imponibile, tali prelievi aggiuntivi possono addirittura superare il 2% → quindi determinano un’incidenza sul prelievo
fiscale non indifferente.
- Domanda n.2 → un’altra collega chiede: visto che si tratta in entrambi i casi di prelievi aggiuntivi dì ricchezza e quindi l’obiettivo di entrambi è
ottenere maggiore gettito, quale dovrebbe essere la ragione per cui il legislatore sceglie uno piuttosto che l’altro?
Il motivo per cui il legislatore può essere orientato a scegliere uno strumento piuttosto che l’altro è fortemente collegato al meccanismo di
applicazione di una forma di prelievo aggiuntivo e dell’altra.
Per essere più semplici, la differenza quanto alle modalità di applicazione non è di poco conto perché se il legislatore sceglie di applicare
l’addizionale (come effettivamente ha fatto) sceglie implicitamente di ottenere una nuova fonte di gettito nel presupposto che i soggetti passivi
abbiano un’imposta da versare, perché se non c’è imposta non c’è neppure la base imponibile alla quale commisurare l’addizionale.
Questo significa allora che se il legislatore sceglie di introdurre l’addizionale in qualche modo accetta l’idea di riconoscere tutte le discipline
agevolative eventualmente già esistenti nella disciplina del tributo principale ai soggetti passivi chiamati al pagamento dell’addizionale. Perché?
Perché se il soggetto passivo dell’IRPEF in virtù dell’applicazione di queste disposizioni
agevolative non deve versare un tributo a titolo di IRPEF allo stesso modo non versa alcuna somma a titolo di addizionale, proprio perché manca la
base imponibile alla quale commisurare l’addizionale.
Quando invece il legislatore sceglie di introdurre una sovrimposta non è affatto detto che questo accada. Potrebbe paradossalmente verificarsi che
il tributo principale sia dovuto oppure potrebbe anche verificarsi che il tributo principale non sia dovuto (per il meccanismo di applicazione del
tributo principale potrebbe accadere che la base imponibile ci sia ma il tributo no). Potrebbe accadere che i soggetti passivi della sovrimposta
siano tenuti a pagare la sovrimposta anche se non c’è debito a titolo di tributo principale.
Quando invece si introduce l’addizionale questo rischio non esiste. Se non esiste il debito di imposta a titolo di imposta principale l’addizionale non
sarà mai dovuta perché manca la base imponibile dell’addizionale.
Se invece, al contrario, il legislatore introduce una sovrimposta in virtù del meccanismo di applicazione del tributo principale, potrebbe verificarsi
un ampliamento della platea dei soggetti passivi chiamati all’adempimento della sovrimposta e quindi potrebbe verificarsi il caso in cui ci siano
soggetti passivi chiamati al pagamento della sovrimposta e non anche invece tenuti al pagamento del tributo principale.
Quindi la scelta di uno strumento piuttosto che l’altro non è una scelta di secondo piano, è una scelta determinante sia in termini di gettito sia in
termini di configurazione della categoria di soggetti passivi → i soggetti passivi, infatti, potrebbero non essere corrispondenti a quelli che invece
sono chiamati all’adempimento del tributo principale, già esistente.
POSSIBILI SOGGETTI PASSIVI DEL RAPPORTO TRIBUTARIO D’IMPOSTA

Diritto tributario Pagina 26


POSSIBILI SOGGETTI PASSIVI DEL RAPPORTO TRIBUTARIO D’IMPOSTA
Procedendo oltre, dobbiamo iniziare a parlare di un tema piuttosto articolato e complesso che impone preliminarmente che si abbia un quadro
d’insieme su quelli che sono i possibili soggetti passivi del rapporto tributario d’imposta.
Il rapporto tributario d’imposta non è altro che un rapporto di natura obbligatoria. Come qualsiasi rapporto di natura di natura obbligatoria è
contraddistinto da talune peculiarità -che non possono certamente essere negate- tipiche dell’obbligazione tributaria e determinate
essenzialmente dalla natura coattiva dell’obbligazione, dalla sua fonte legale. È pacifico che esiste un soggetto attivo e anche un soggetto passivo.
Quella dei soggetti passivi è una categoria quanto mai eterogenea. Ogni imposta contiene al suo interno una specifica norma che si occupa di
individuare con esattezza quali siano i suoi possibili soggetti passivi.
Occorre avere bene chiari quali possono essere questi possibili soggetti passivi dei tributi, fermo restando che non tutti i soggetti in seguito
elencati sono in egual modo chiamati all’adempimento di tutti i tributi (alcuni di questi saranno soggetti passivi di determinati tributi, altri lo
saranno nella disciplina di altri tributi).
1. PERSONE FISICHE → iniziando a rappresentare quelli che possono essere i soggetti passivi di un determinato rapporto giuridico di imposta
diremo certamente che la prima posizione non possiamo che attribuirla proprio alle persone fisiche.
Le persone fisiche sono soggetto passivo di numerosissimi tributi all’interno del nostro sistema. Le persone fisiche sono soggetti passivi si può dire
di tutti i tributi fuorché dell’IRES. Se volessimo volgere lo sguardo, seppur a titolo esemplificativo, ai tributi fondamentali del nostro sistema, si
potrebbe dire che tutti (tranne l’IRES) prevedono tra i soggetti passivi proprio le persone fisiche che sono chiamate a vario titolo, sia per il
possesso di redditi, sia per il consumo, sia per i trasferimenti, sia per la tassa sullo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, sia per l’IRAP.
2. SOCIETÀ DI PERSONE → ancora, certamente soggetti passivi sono le società di persone. Le società di persone sono una categoria piuttosto
ampia composta dalle società semplici, dalle società in nome collettivo, dalle società in accomandita semplice, dalle societàdi fatto e dalle società
di armamento.
Le società di persone NON sono soggetto passivo di alcuna imposta sul reddito. Sono invece soggetti passivi di numerosissime altre imposte.
Attenzione!!! Non si può negare, però, che il reddito prodotto dalle società di persone debba essere sottoposto comunque a tassazione! Non si
può immaginare che producano reddito e non scontino alcun tributo! Certamente il tributo è dovuto ma con una peculiarità → il soggetto passivo
di questo tributo non è la società di persone. Il reddito viene prodotto dalla società di persone attraverso un particolare meccanismo (che
studieremo più avanti) che si chiama “tassazione per trasparenza”. Il nostro ordinamento privilegia una modalità di tassazione che prevede che il
reddito prodotto dalla società debba essere imputato ai soci. Dunque, essendo imputato ai soci sarà sottoposto a tassazione direttamente in capo
a questi. Quindi si deve dire che è certamente vero che le società di persone non sono soggetti passivi di alcuna imposta sulreddito ma si deve
precisare tuttavia che è inammissibile affermare che il reddito da queste prodotto non sia sottoposto a tassazione! Perché si tratterebbe di
un’affermazione falsa? Perché il reddito prodotto dalle società di persone è pacificamente sottoposto a tassazione e non potrebbe essere
diversamente ma lo sarà solo attraverso quel meccanismo che abbiamo definito tassazione per trasparenza in ragione del quale quel reddito sarà
imputato direttamente in capo ai soci che partecipano a quell’organismo sociale.
Ci sono un’infinità di altri tributi rispetto ai quali le società di persone sono soggetti passivi: IVA, imposta di registro, IRAP etc.
3. ASSOCIAZIONI TRA ARTISTI E PROFESSIONISTI → naturalmente sono soggetti passivi anche le associazioni tra artisti e professionisti. Quando
parliamo di associazioni tra artisti e professionisti intendiamo riferirci ad associazioni che coinvolgono persone fisiche ma qui la peculiarità è che
l’esercizio dell’arte o della professione viene svolto in forma associata.
Dunque, che tipo di soggettività passiva possono avere? Anzitutto NON sono soggetti passivi di imposte sul reddito. Questo perché le associazioni
non hanno un’autonomia soggettiva sotto il profilo reddituale → continuano ad essere soggetti passivi direttamente le persone fisiche che fanno
parte dell’associazione. Queste associazioni, così come le società di persone, sono soggetti passivi
diretti di altre imposte, di altri tributi. La loro soggettività passiva resta comunque ferma su altre imposte rispetto a quelle sul reddito.
Se dovesse verificarsi l’ipotesi, sotto il profilo reddituale le imposte sono necessariamente in capo ai singoli artisti e professionisti che
costituiscono l’associazione. Per altri tributi è invece possibile configurare la soggettività passiva diretta di queste associazioni.
4. SOCIETÀ DI CAPITALI → un’altra importantissima categoria di soggetti passivi è quella costituita dalle società di capitali. Queste sono: le società
a responsabilità limitata, le società in accomandita per azioni, le società per azioni, le mutue assicuratrici, le cooperative (siano esse a
responsabilità limitata o illimitata).
Le società di capitali a differenza delle società di persone sono certamente soggetto passivo di imposta sul reddito. Quale? L’IRES naturalmente,
non l’IRPEF. Tuttavia, oltre ad essere soggetti passivi di questa fondamentale imposta del nostro sistema che è l’IRES, le società di capitali
mantengono la soggettività passiva per una serie numerosissima di tributi. Ci possiamo limitare ad enumerarne alcuni: l’IVA, l’imposta di registro,
l’IRAP, i tributi locali (tutti, nessuno escluso).
5. ENTI → la categoria dei soggetti passivi possibili nell’applicazione del tributo non si esaurisce qui. Accanto a queste categorie nominate di
soggetti passivi è configurabile un’altra categoria estremamente vasta nel nostro ordinamento che è quella rappresentata dai c.d. enti. Gli enti nel
diritto tributario non sono una categoria esattamente sovrapponibile a quella del diritto privato. Nel diritto privato gli enti sono soggetti dotati di
personalità giuridica. La nozione di ente nel diritto tributario invece è estremamente più vasta perché l’ente, che è un possibile soggetto passivo
del rapporto giuridico di imposta, è un soggetto che può essere definito in negativo dicendo che è ente tutto ciò che non è altro.
Vediamo allora cosa NON è un ente.
Certamente non è un ente una società, perché se fosse una società sarebbe da ascrivere alle precedenti categorie che abbiamo menzionato
pocanzi (società di persone o società di capitali). Ancora, sicuramente non è un ente la persona fisica.
L’ente costituisce il centro autonomo di diritti e di obblighi e non necessariamente deve essere dotato di personalità giuridica perché un ente in
diritto tributario non è necessariamente un soggetto dotato di personalità giuridica.
Infine, l’ente può essere sia pubblico che privato. Sarà pubblico se istituito per legge, sarà privato invece quando viene istituito in forza di una
manifestazione di volontà privata (quindi per esempio per effetto della conclusione di un contratto). Data questa nozione ampissima di ente,
possiamo certamente dire che, a titolo esemplificativo, sono enti in diritto tributario le associazioni (con o senza personalità giuridica), le
fondazioni, i comitati, i consorzi.
REGIME FISCALE → occorre effettuare una precisazione in merito alla disciplina fiscale che il nostro ordinamento riserva a questa particolarissima
categoria di soggetti passivi.
Il nostro ordinamento essenzialmente ripartisce gli enti in due species: enti commerciali e non commerciali. A questa essenziale bipartizione è da
far seguire anche la scelta del regime fiscale.
Qualsiasi ente sotto il profilo del regime fiscale deve preliminarmente rispondere ad una domanda che è appunto → per le sue caratteristiche si
deve ascrivere alla categoria degli enti commerciali o non commerciali?
Dalla risposta che sarà data a tale domanda seguirà la corretta applicazione dei tributi, addirittura l’identificazione dellamodalità di applicazione
dei tributi. A seconda che l’ente sia commerciale o non, sul piano delle imposte dirette non cambia il tributo da applicare che sarà sempre l’IRES,
quindi non c’è una scelta tra le due imposte sul reddito che il nostro ordinamento conosce.

Diritto tributario Pagina 27


quindi non c’è una scelta tra le due imposte sul reddito che il nostro ordinamento conosce.
Individuiamo a quali condizioni l’ente si può definire commerciale o non commerciale.
- Enti commerciali → gli enti sono commerciali quando hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di un’attività commerciale.
- Enti non commerciali → gli enti sono non commerciali, specularmente, quando non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di
un’attività commerciale.
Le due definizioni apparentemente sono piuttosto semplici ma ad un’attenta lettura si potrebbe dire che non sono così esaustive, bisogna
riempirle di contenuto. Vanno inoltre di pari passo, nel senso che dette le caratteristiche dell’una immediatamente si possono percepire quali
sono le caratteristiche dell’altra.
Quando diciamo che l’ente commerciale è quello che ha per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di un’attività commerciale, questa nozione ci
pone immediatamente in evidenza una caratteristica estremamente diffusa, una realtà frequentissima nel nostro ordinamento → cioè quella di
enti che sulla base dei loro statuti esercitano contemporaneamente più di un’attività.
Normalmente se si ha la possibilità di leggere lo statuto di un ente, si riscontrerà che nell’articolo dedicato alla descrizione dell’oggetto, cioè alla
descrizione delle attività che l’ente si propone di svolgere, è indicato un elenco numeroso di attività, non una e basta.
Poi possono darsi anche situazioni, più difficili da verificarsi, di enti che indicano nei propri statuti oggetti estremamente stringati, circoscritti ma
non è questa la normalità dei casi. La realtà ci offre un panorama estremamente diversificato in cui gli enti normalmente all’interno degli statuti,
nella rubrica dedicata alla descrizione dell’oggetto, indicano una serie numerosa di attività che si propongono di svolgere.
E allora il problema nasce proprio dalla numerosità di attività che gli enti si propongono di svolgere.
- esempio → se l’ente si propone di svolgere -immaginiamo- tre attività di cui due hanno natura commerciale e una no, sulla base della nozione di
cui si è trattato in precedenza dovremmo concludere che l’ente ha natura commerciale.
Perché? Perché secondo la nozione data è ente commerciale non soltanto l’ente che svolge in via esclusiva un’attività commerciale ma anche
quello che la svolge in via PREVALENTE. Se l’attività commerciale è svolta solo in via prevalente significa che accanto all’attività commerciale se ne
può svolgere anche una o più che commerciali non sono. Quindi attenzione!!! L’ente commerciale non è SOLO l’ente che svolge esclusivamente
l’attività commerciale! Possono essere enti commerciali anche quelli che, sia pure marginalmente, accanto alle attività commerciali svolgono
anche attività che commerciali non sono. Questa peculiare caratteristica pertanto non toglie nulla a questi enti che restano commerciali.
Quindi bisogna valutare la prevalenza delle attività commerciali rispetto a quelle non commerciali eventualmente contemplate nello statuto.
Per la verità, a ben guardare, quanto detto aiuta a leggere bene la nozione di ente non commerciale.
La nozione di ente non commerciale cosa significa? Significa che l’ente non commerciale è tale non solo quando svolge esclusivamente attività non
commerciali (in questa ipotesi nulla quaestio, è immediata la soluzione del dilemma, non può sorgere alcun dubbio sulla sua natura di ente non
commerciale) ma rimangono enti non commerciali anche quelli che, sia pure marginalmente, accanto alle attività non commerciali che devono
essere quelle prevalenti svolgono anche attività commerciale.
Si tratta quindi di una nozione speculare a quella di ente commerciale.
La c.d. attività mista va guardata con grande attenzione perché laddove ci sia una prevalenza dell’attività commerciale sullanon commerciale
allora l’ente sarà commerciale ma se, nonostante la natura mista delle attività, ci sia una prevalenza di attività non commerciali sulle commerciali
marginalmente svolte, l’ente è da ricondurre alla categoria degli enti non commerciali, con tutte le conseguenze fiscali che ne discendono.
Nella prassi è estremamente frequente l’ipotesi di enti non commerciali che marginalmente scelgono all’interno dei propri statuti di collocare
attività di natura commerciale. È normale e perfettamente legittimo! Laddove questa ipotesi si verifichi questi enti non perdono la loro natura:
restano enti non commerciali.
Bisogna però, naturalmente, fare grande attenzione perché questa valutazione è rimessa al controllo, al vaglio dell’amministrazione finanziaria.
Dal cambio di prospettazione, quindi da una valutazione che porta a ritenere che l’ente abbia perso le sue caratteristiche di ente non commerciale
per essere invece ricondotto alla categoria degli enti commerciali seguono conseguenze sul piano fiscale particolarmente gravose che potrebbero
indurre l’Agenzia delle Entrate ad emettere gli avvisi di accertamento, ad esercitare il proprio potere di rettifica.
Si complica quindi in diritto tributario, da quanto emerso sin qui, l’indagine dei soggetti passivi dei diversi tributi.
Si potrebbe fare un’altra piccola e ultima notazione sul → RILIEVO DELLO STATUTO
Fin qui abbiamo studiato che è determinante capire se l’ente è commerciale o non commerciale e si è potuto intuire che un rilievo peculiare va
attribuito allo statuto perché è proprio il contenuto dello statuto che consente in primissima battuta di verificare se c’è prevalenza, predominanza
delle attività commerciali o viceversa delle attività non commerciali.
Tuttavia, in aggiunta, c’è da sottolineare che (naturalmente) il legislatore non si è abbandonato a quest’unica forma di soluzione. Il legislatore non
poteva affermare che bastava limitarsi alla lettura dello statuto perché quest’ultima non sempre consente di risolvere il dilemma. Si pensi a tutte
le ipotesi in cui la lettura dello statuto si fa particolarmente complessa oppure quando lo statuto è formulato in maniera tale da non chiarire con
nettezza se c’è prevalenza di attività commerciali ovvero di quelle non commerciali. In molti casi è certamente possibile, tuttavia non è escluso che
talvolta lo statuto non sia a questo scopo dirimente.
In questo caso è la legge stessa che prevede che l’indagine debba essere effettuata in concreto.
Quindi, se lo statuto non consente di sciogliere il dubbio in merito all’ascrizione dell’ente nell’una o nell’altra categoria, occorre guardare
concretamente all’attività svolta dall’ente.
Pertanto, se non appare possibile ricorrere ad un’indagine in via formale, questa dovrà essere effettuata necessariamente in concreto.

Diritto tributario Pagina 28


LEZIONE 5 (11/03/21)
martedì 26 ottobre 2021 19:50

Oggi iniziamo ad occuparci dei profili soggettivi del rapporto giuridico d’imposta.
Il diritto tributario conosce alcuni istituti, la solidarietà e la sostituzione, che consentono l’estensione della platea dei soggetti che ricoprono il
lato passivo dell’obbligazione tributaria.
Il rapporto giuridico d’imposta ordinariamente è un rapporto giuridico che si svolge tra due soggetti: da una parte il soggetto attivo e da una
parte il soggetto passivo. E’ quindi un rapporto giuridico certamente bilaterale.
Quando, invece, intervengono gli istituti di cui parleremo oggi si instaura il rapporto giuridico di imposta tra un numero di soggetti maggiore.
L’estensione del novero dei soggetti coinvolti nel rapporto giuridico è un’estensione, però, che può investire soltanto il lato passivo.
Sotto questo profilo registriamo un’evidente differenza rispetto all’istituto della solidarietà (che, invece, conoscete dal diritto civile), perché
nel diritto civile l’estensione dei soggetti che possono essere coinvolti nel rapporto giuridico può manifestarsi anche sul fronte dei soggetti
attivi. Nel diritto tributario un’estensione della platea dei soggetti attivi non è possibile; è possibile invece che si verifichi una moltiplicazione
dei soggetti passivi.
La ragione per cui il nostro ordinamento conosce questi istituti è molto semplice → l’estensione della platea dei soggetti passivi costituisce
una forma di garanzia per l’obbligazione tributaria, perché la circostanza che in particolari casi (non in tutti, ma in alcune specifiche ipotesi
contemplate dalla legge) l’amministrazione finanziaria possa rivolgersi per l’adempimento all’uno o all’altro dei soggetti chiamati ad
adempiere, costituisce un modo per rafforzare in maniera considerevole la garanzia patrimoniale del creditore. Quindi il creditore è
fortemente garantito dalla possibilità giuridicamente riconosciuta dal sistema di rivolgere la propria pretesa ad un debitore o all’altro
condebitore.
Quindi, l’istituto della solidarietà è volto a consentire questa sorta di rafforzamento delle garanzie patrimoniali del creditore, quindi
dell’amministrazione finanziaria.
Chiarita la differenza tra l’istituto della solidarietà così com’è noto nel diritto civile con quello che ci accingiamo a studiare nel diritto
tributario, la nostra materia conosce due tipologie di solidarietà (distinzione fondamentale):
- solidarietà di tipo paritario
- solidarietà dipendente.
La solidarietà paritaria sussiste nei rapporti giuridici in cui gli obbligati (che sono naturalmente più d’uno) sono tra loro cd. di pari rango.
La circostanza che i condebitori solidali siano di pari rango attiene al fatto che la posizione che ciascuno di loro ricopre rispetto al creditore è
esattamene identica a quella dell’altro → quindi l’essere tra loro di pari rango è determinato dalla circostanza che la relazione che ciascuno di
loro instaura con il condebitore è una relazione di identico contenuto.
L’identità del contenuto del rapporto che corre tra ciascuno dei condebitori e il creditore è determinata dal fatto che ciascuno dei
condebitori (che sono, appunto, solidalmente obbligati in via paritaria) hanno tutti partecipato alla realizzazione del presupposto (= cioè il
fatto al manifestarsi del quale sorge la capacità contributiva e dunque, conseguentemente, l’obbligazione tributaria): caratteristica -questa-
determinante che distingue la solidarietà paritaria dall’altra tipologia di solidarietà che studieremo dopo.
La circostanza che nella solidarietà paritaria tutti abbiano partecipato alla realizzazione del presupposto determina la caratteristica di cui
parlavo poc’anzi→ il fatto che ognuno di loro ricopre una posizione, rispetto al creditore, di pari rango rispetto all’altro.
Quindi il condebitore A e il condebitore B non sono in una posizione diversificata nella loro relazione con il creditore: il tipo di rapporto che
ciascuno di loro instaura con il creditore è identico a quello instaurato con l’altro condebitore. L’identità di questo rapporto è determinata dal
fatto che entrambi hanno partecipato alla realizzazione del presupposto.
Un paio di esempi per rendere più chiaro quali sono le fattispecie nelle quali senz’altro si può affermare che si configura un’ipotesi di
obbligazione solidale paritaria:
1) Il primo esempio che possiamo fare è quello determinato dall’applicazione dell’imposta sulle successioni e sulle donazioni. Quando si
verifica (rimanendo concentrati sulla fattispecie dell’imposta di successione) il presupposto del tributo, cioè la morte del de cuius, senz’altro
tutti gli eredi ricoprono una posizione equi-ordinata rispetto all’amministrazione finanziaria che si costituisce creditrice dell’imposta delle
successioni. Quindi ognuno dei coeredi assume una posizione di pari rango rispetto all’amministrazione finanziaria perché tutti partecipano
alla realizzazione dell’unico presupposto, rappresentato dalla morte del de cuius.
2) Altra fattispecie che costituisce senz’altro esemplificazione di solidarietà paritaria, è determinata dall’applicazione dell’imposta di registro.
Quando si sottopone, per esempio, a registrazione un atto di compravendita è assolutamente pacifico che tanto il venditore quanto
l’acquirente sono solidalmente obbligati in via paritaria al pagamento dell’imposta di registro perché entrambi hanno partecipato alla
realizzazione del presupposto, cioè il trasferimento del bene che costituisce oggetto di compravendita.
Quindi avete compreso in queste due ipotesi in esame il motivo per cui si tratta di un’obbligazione solidale in via paritaria → tutti i soggetti
coobbligati partecipano alla realizzazione del presupposto e quindi ricoprono una posizione che abbiamo definito essere di pari rango nel
rapporto instaurato con l’amministrazione finanziaria.
Questo particolare atteggiarsi dell’obbligazione solidale, quando si tratta -appunto- di solidarietà paritaria, porta con sé alcune caratteristiche
significative, alcune conseguenze determinanti nella dinamica del rapporto obbligatorio:
Anzitutto la solidarietà porta con sé la facoltà dell’amministrazione finanziaria di rivolgersi all’uno o all’altro dei condebitori senza dover
rispettare alcun beneficio di escussione (beneficium excussionis) → (= un onere normalmente incombente sul creditore che deve esigere
l’adempimento rispettando un certo ordine tra i condebitori). Dunque, se sussistesse (perché nel nostro caso non è così) beneficium
excussionis, allora si dovrebbe dire che l’amministrazione finanziaria, per esigere l’adempimento, dovrebbe seguire un certo ordine: quindi,
chiedere prima l’adempimento ad uno dei due condebitori e solo in caso di inadempimento da parte di questi, potrebbe poi chiedere
l’adempimento all’altro.
Questo beneficium excussionis (= questa necessità in capo al creditore di osservare un certo ordine nel richiedere l’adempimento) NON
esiste nell’obbligazione tributaria solidale.
Non fate l’errore all’esame di dire che l’assenza del beneficium excussionis sarebbe una delle caratteristiche tipiche dell’obbligazione solidale
paritaria → NON è COSI’. L’assenza di beneficium excussionis è una caratteristica comune anche alla solidarietà dipendente, quindi è
certamente una caratteristica dell’obbligazione solidale paritaria, ma non è peculiare dell’obbligazione solidale paritaria, così come non lo è
solo di quella dipendente → è una caratteristica comune ad entrambe le fattispecie di solidarietà paritaria e dipendente. Dunque che la

Diritto tributario Pagina 29


solo di quella dipendente → è una caratteristica comune ad entrambe le fattispecie di solidarietà paritaria e dipendente. Dunque che la
mancanza di beneficium excussionis, seppur sia un tratto tipico della disciplina dell’obbligazione solidale nel diritto tributario, non è però una
caratteristica che vale a distinguere una forma di solidarietà dall’altra.
Andando ancora oltre nell’indagine, dobbiamo ancora capire che tipo di eccezioni (atecnicamente, obiezioni) il coobbligato può opporre al
creditore per impedire questo adempimento.
Abbiamo chiaro che nelle obbligazioni solidali il creditore può rivolgersi indistintamente all’uno o all’altro dei due condebitori per ottenere
l’adempimento dell’obbligazione, ma è pacifico che, come accade in maniera legittima, può ben succedere che il debitore si opponga a
questa richiesta di pagamento: opponga, cioè, al creditore una serie di fatti e circostanze proprio per impedire l’adempimento. Ma queste
eccezioni, che il condebitore può opporre, che tipo di eccezioni sono? Trattandosi di una obbligazione solidale di tipo paritario, vista
l’autonomia della posizione giuridica di un condebitore rispetto all’altro, ciascun condebitore ha pieno diritto ad opporre eccezioni che si
riferiscono alla situazione giuridica propria.
Immaginiamo, per esempio, l’ipotesi che abbiamo rappresentato dell’imposta di successione:
abbiamo detto che gli eredi sono tutti certamente obbligati al pagamento di imposta di successione, il pagamento di uno libera chiaramente
tutti gli altri (non si paga più volte, ma una volta) e ciascuno di loro, essendo obbligato in via paritaria, ricopre posizione giuridica di pari
rango rispetto all’altro condebitore → questo significa che l’amministrazione finanziaria può chiedere a ciascuno di loro l’intero, salvo poi che
naturalmente nei rapporti interni il condebitore che paga chiederà all’altro condebitore la sua parte (= ma questo attiene ad un rapporto di
natura privatistica che nulla ha a che fare con l’obbligazione tributaria, che noi stiamo trattando). Certo è che l’adempimento da parte di un
condebitore libera anche l’altro, perché l’imposta sulle successioni è stata certamente pagata in maniera adeguata una volta e basta dal
condebitore che ha adempiuto liberando così tutti gli altri, altrimenti non sarebbe un’obbligazione solidale. Dobbiamo precisare che ciascuno
di questi condebitori, per opporre efficacemente fatti e circostanze che impediscono al creditore di ottenere l’adempimento da parte del
condebitore chiamato a pagare, può opporre fatti e situazioni che involgono esclusivamente la situazione giuridica propria, non quella che
involge la situazione giuridica dell’altro condebitore.
Tornando al caso dell’imposta sulle successioni e sulle donazioni, un’eccezione propria potrebbe essere quella del coerede che dichiara di
non essere tenuto all’adempimento per aver rinunziato all’eredità→ è chiaro che l’avere rinunziato all’eredità è un fatto impeditivo
dell’adempimento che può essere speso esclusivamente dal condebitore che ha rinunziato, non anche dall’altro. Immaginiamo che la
rinunzia l’abbia effettuata il condebitore A, il condebitore B non potrà impedire l’adempimento nei suoi confronti adducendo che A ha
rinunziato all’eredità, l’unico soggetto che può efficacemente opporre quest’obiezione è il condebitore A, cioè il soggetto che ha rinunziato.
Quindi i fatti e le eccezioni che possono essere opposte all’adempimento eventualmente richiesto dal creditore, sono fatti e circostanze che
investono la posizione giuridica di ciascuno dei condebitori, non anche fatti e circostanze che investono invece la posizione dell’altro. Questo
modo di atteggiarsi del rapporto obbligatorio è proprio strettamente dipendente dal particolare modo di essere dell’obbligazione solidale
paritaria→ questa sì che è una caratteristica tipica dell’obbligazione solidale paritaria, dipende cioè dalla strutturale autonomia dei due
rapporti obbligatori (ne abbiamo ipotizzato 2, ma possono essere tre o quanti ne volete, immaginando l’ipotesi dei coeredi).
Dunque, sostenendo che l’obbligazione solidale paritaria implica che ciascuno dei coobbligati ricopre il lato passivo di un’obbligazione
tributaria di pari rango, con questa formula intendo anche fare cenno alla sostanziale autonomia dei rapporti giuridici ed è un’autonomia
piena tanto che ciascuno dei condebitori può opporre solamente eccezioni che investono la situazione giuridica propria, non quella dell’altro
condebitore.
L’obbligazione solidale dipendente, a differenza di quella paritaria, si configura quando l’obbligazione che grava sul coobbligato dipendente
esiste a condizione che esista l’obbligazione in capo all’obbligato principale.
Dunque qui i coobbligati, immaginiamoli per semplicità pari a 2, esistono, nel senso che c’è un’estensione sul lato passivo dell’obbligazione
tributaria. Quindi pluralità di coobbligati, così come abbiamo visto nell’ambito dell’obbligazione paritaria, MA c’è una differenza
fondamentale rispetto all’ipotesi precedente → qui infatti le due obbligazioni solidali che gravano sui due condebitori non sono di pari rango
come nella solidarietà paritaria, ma c’è un coobbligato dipendente e uno principale e già questa diversa configurazione dei due rapporti
giuridici lascia intendere che i due rapporti di natura obbligatoria di cui alla definizione data prima di “obbligazione solidale dipendente”, non
siano affatto rapporti di pari rango rispetto alla relazione con l’ente creditore.
Perché questa differenza?
Quando abbiamo parlato di obbligazione paritaria abbiamo detto che la posizione di pari rango dei due coobbligati scaturiva dal fatto che
entrambi avevano partecipato alla realizzazione del presupposto e questo particolare modo di essere dell’obbligazione portava con sé questa
conseguenza fondamentale, cioè la natura di pari rango delle due obbligazioni.
Qui invece non è così→ coobbligato principale e coobbligato dipendente hanno due posizioni diversificate perché, a differenza di quanto
accadeva nel caso precedente, non tutti hanno partecipato alla realizzazione del presupposto, ma soltanto uno, cioè l’obbligato principale;
invece, l’obbligato dipendente non ha partecipato alla realizzazione del presupposto, eppure, in virtù di una disposizione di legge, è chiamato
all’adempimento insieme all’obbligato principale che ha realizzato il presupposto.
Quindi, anche nella solidarietà dipendente si verifica un’estensione della platea dei soggetti passivi, ma i rapporti giuridici obbligatori che
nascono per effetto delle disposizioni di legge che andremo ad esemplificare, non sono rapporti giuridici di pari grado (che determinano
quindi una posizione di pari grado di questi condebitori nella relazione con il creditore) e questa differenza è determinata dalla circostanza
che uno soltanto realizza il presupposto, mentre l’altro no.
Vediamo quali fondamentali ricadute ha questa particolare caratteristica nella dinamica del rapporto giuridico di imposta:
1) l’obbligazione si può configurare in capo al coobbligato dipendente solo se esiste l’obbligazione in capo all’obbligato principale → quindi
non si vede come si possa ritenere sussistente l’obbligazione in capo all’obbligato dipendente qualora l’obbligato principale non abbia
realizzato il presupposto. È un’obbligazione dipendente questa che grava sul coobbligato dipendente→ esiste solo se esiste l’obbligazione
che scaturisce dal presupposto verificato da altri. Quindi senz’altro questa è la prima sostanziale considerazione da fare.
2) Il secondo punto riguarda il beneficium excussionis. Anche in questo tipo di obbligazione solidale non c’è alcun beneficium excussionis →
quindi l’amministrazione finanziaria può liberamente scegliere se rivolgere la propria pretesa al coobbligato principale o se rivolgerla al
coobbligato dipendente, caratteristica -questa- comune anche alla forma della solidarietà paritaria ( = poiché si tratta di una caratteristica
dell’obbligazione solidale in quanto tale, ma non è tipica dell’una rispetto all’altra e viceversa). Il creditore può rivolgere la propria pretesa
indistintamente a chi vuole e senza, quindi, rispettare un particolare ordine.
Sotto questo profilo si conferma, in diritto tributario, il carattere di garanzia dell’obbligazione solidale: la finalità prima dell’obbligazione
solidale nel diritto tributario è quella di apprestare un’adeguata garanzia all’adempimento dell’obbligazione. Significa offrire
all’amministrazione finanziaria la possibilità di aggredire indistintamente chi tra i coobbligati è maggiormente solvibile→ l’amministrazione

Diritto tributario Pagina 30


all’amministrazione finanziaria la possibilità di aggredire indistintamente chi tra i coobbligati è maggiormente solvibile→ l’amministrazione
finanziaria preferirà attivare e iniziare l’attività esecutiva nei confronti del soggetto maggiormente solvibile, non certamente nei confronti di
chi non offre particolari garanzie patrimoniali o comunque ha un patrimonio particolarmente esiguo. Aggredire prima chi tra i due
condebitori manifesta maggiori garanzie patrimoniali significa per l’amministrazione creditrice avere garanzia dell’efficace e puntuale
adempimento dell’obbligo.
Va da sé, dunque, che la mancanza di beneficium excussionis è caratteristica tipica e comune di tutte le obbligazioni solidali in diritto
triutario.
Per quanto riguarda la tipologia delle eccezioni opponibili per impedire l’adempimento dell’obbligo, nella disciplina dell’obbligazione solidale
dipendente, se il creditore avanzasse la propria pretesa nei confronti del coobbligato dipendente, il coobbligato dipendente potrebbe
opporre all’adempimento per impedirlo solamente eccezioni proprie oppure anche fatti e circostanze che investono la posizione
dell’obbligato principale?
Il coobbligato dipendente può opporre al creditore sia eccezioni proprie sia eccezioni che hanno oggetto fatti e circostanze che investono la
posizione giuridica dell’obbligato principale.
La ragione giuridica che spiega il motivo per cui possono essere opposte anche eccezioni che investono la posizione giuridica dell’obbligato
principale è legata al fatto che si tratta di una obbligazione dipendente, che esiste quindi se esiste l’obbligazione principale→ allora se è vero
questo, deve essere anche vero che, se l’obbligazione principale per una qualsiasi ragione non esistesse, allora questa circostanza deve
essere dirimente anche per l’obbligato dipendente ( = perché non può essere tenuto a pagare per un obbligo che in capo all’obbligato
principale non c’è).
Quindi tutte le obiezioni che l’obbligato principale potrebbe, in linea di principio, opporre all’adempimento e che incidono sull’esistenza
stessa della sua obbligazione, non possono che essere rilevanti anche per l’obbligato dipendente perché anche quest’ultimo deve ritenersi
esonerato da qualsiasi adempimento nella misura in cui l’obbligo non possa più essere considerato esistente in capo all’obbligato principale.
È la dipendenza che determina la necessità di poter opporre anche eccezioni che hanno a che fare con la posizione giuridica dell’obbligato
principale.
Nel nostro sistema sono veramente numerose le fattispecie. Negli ultimi anni si registra un incremento esponenziale del numero delle ipotesi
in cui per legge si stabilisce che c’è un coobbligato dipendente nell’adempimento dell’obbligazione. Possiamo quindi certamente ricondurre
queste fattispecie ad una evidente esigenza di garanzia dell’obbligazione tributaria.
ESEMPI:
Tra le fattispecie più importanti in assoluto, che è forse quella principale, c’è l’obbligo che grava sul cessionario d’azienda.
Nel nostro sistema c’è una norma estremamente importante, che è stranamente collocata all’interno del decreto che disciplina le irrogazioni
di sanzioni amministrative (decreto 472/1997). Si tratta di una collocazione molto strana quella di questa norma perché se leggeste l’art. 14
del decreto 472/1997, troverete che questa norma sancisce una responsabilità del cessionario d’azienda ( = colui che acquista l’azienda ) per i
debiti tributari del cedente, sorti nell’anno in cui interviene la cessione e nei 2 precedenti, ma questa responsabilità non è circoscritta
soltanto al pagamento delle sanzioni amministrative.
(Se così fosse, cioè se si trattasse di norma che sancisse soltanto la responsabilità nel pagamento delle sanzioni amministrative sarebbe
perfettamente giustificata la collocazione della norma nel suddetto decreto, che si occupa dell’irrogazione delle sanzioni amministrative
tributarie e dei principi generali).
Questa norma, infatti, sancisce la responsabilità del cessionario non solo per il pagamento delle sanzioni amministrative tributarie dovute dal
cedente nell’anno in cui interviene la cessione e nei 2 precedenti, ma anche di imposte e interessi: quindi è una responsabilità a 360 gradi.
È stata unanime condivisa dalla giurisprudenza e dalla dottrina la tesi secondo cui non si tratta di responsabilità circoscritta alle sole imposte,
ma è un riferimento alla nozione di imposta che deve essere intesa come fatta alla nozione più ampia di tributo→ quindi è una
responsabilità, appunto, a 360 gradi. Per tributi si intende sanzioni e interessi.
Dunque, in definitiva, per il cessionario d’azienda accade che, al ricorrere delle particolari condizioni previste da quella norma, il cessionario
che non ha partecipato alla
realizzazione del presupposto ( perché non era lui l’imprenditore nel momento in cui l’obbligazione tributaria sorgeva, ma era il cedente→
dunque è un’ipotesi tipica di solidarietà dipendente quella che grava sul cessionario ), può essere chiamato -pur non avendo partecipato alla
realizzazione di quei presupposti- ad adempiere nella misura in cui l’amministrazione finanziaria ritenga che sia maggiormente solvibile già
solo per il fatto che ha acquistato l’azienda. Il cessionario potrà rivalersi sul cedente, ma ciò riguarda i rapporti interni di diritto privato, che
nulla hanno a che fare con i profili di diritto tributario che stiamo trattando.
Ciò che rileva dal nostro punto di vista è richiamare il fatto che l’eventuale adempimento da parte del cessionario libera il cedente (vale per
adempimento del cedente). Il cessionario, poi, qualora dovesse avviare un giudizio civile contro il cedente, potrà recuperare quanto pagato
all’amministrazione finanziaria.
V’è peraltro da tenere conto che, spesso, nei contratti di cessione d’azienda questi profili vengono puntualmente trattati: cioè, ci sono
specifiche clausole che si occupano di preservare in qualche modo il cessionario dai rischi cui potrebbe andare incontro attraverso
l’applicazione di questa disciplina molto penalizzante nei trasferimenti d’azienda.
Trattandosi di un istituto estremamente frequente nel nostro sistema, gli esempi potrebbero continuare:
pensate, per esempio, che anche lo spedizioniere è un soggetto obbligato con l’importatore per il pagamento dei dazi doganali→ quindi, chi
si occupa dello sdoganamento delle merci in dogana diventa soggetto responsabile per il pagamento dei dazi (anche qui troviamo un’altra
applicazione dell’istituto).
Concludiamo questa trattazione con una notazione in più: nel libro di testo troverete un corretto riferimento fatto, all’interno dell’argomento
della solidarietà dipendente, alla figura del responsabile d’imposta.
Il responsabile di imposta è un coobbligato solidale dipendente. Parlando, quindi, del responsabile d’imposta identifichiamo esattamente la
figura del soggetto solidalmente obbligato in via dipendente.
Ma chi è il responsabile d’imposta? È chi, in forza di una disposizione di legge, è obbligato insieme ad altri al pagamento dell’imposta per fatti
e situazioni posti in essere da questi altri ed esercita il diritto di rivalsa.
Provando a sperimentare quanto detto, troverete che il soggetto obbligato solidalmente in via dipendente:
⁃ è tale perché esiste una disposizione di legge che lo prevede (basti il caso del cessionario d’azienda → è l’art. 14 che chiama a responsabilità
il cessionario);
⁃ “è obbligato al pagamento di tributi dovuti in dipendenza di fatti posti in essere da altri, cioè l’obbligato principale” (nel nostro caso, quello
appena richiamato → il cedente l’azienda);

Diritto tributario Pagina 31


appena richiamato → il cedente l’azienda);
⁃ “ed esercita il diritto di rivalsa” → quindi, una volta adempiuto l’obbligo tributario per fatti e situazioni posti in essere dall’obbligato
principale (cioè il cedente), potrà, se lo vorrà, recuperare le somme pagate in sua vece, ma attraverso gli strumenti di tutela delle
obbligazioni civili (non certamente attraverso i rimedi tipici del diritto tributario).
Si tratta di una definizione di responsabile, dunque, che certamente risponde pienamente alle caratteristiche dell’obbligazione solidale
dipendente.
Se dovessi darvi ancora un esempio di soggetto solidalmente obbligato in via dipendente, tale è certamente il notaio.
Il notaio che roga l’atto pubblico (e che quindi pacificamente non partecipa alla realizzazione del presupposto) è obbligato solidalmente in via
dipendente al pagamento dell’imposta principale di registro.
Se si immagina l’attività svolta dal notaio che roga un atto pubblico di compravendita, a porre in essere il presupposto sono le parti (i soggetti
che partecipano all’atto rogato sono solamente le parti), quindi acquirente e venditore. Tant’è che, quando abbiamo parlato di solidarietà
paritaria, abbiamo detto che sono paritariamente obbligati al pagamento di imposte registro acquirente e venditore.
Allora il notaio, che pure è chiamato al pagamento di imposta principale di registro, perché viene chiamato? Perché esiste una specifica
disposizione di legge che lo chiama in qualità di responsabile per avere rogato l’atto pubblico in qualità di pubblico ufficiale. Quindi, anche il
notaio è responsabile d’imposta.
LA SOSTITUZIONE
Il sostituto è un soggetto che non dobbiamo mai assolutamente confondere con la figura del soggetto solidalmente responsabile al
pagamento del tributo.
Il sostituto d’imposta è quel soggetto che, in forza di una disposizione di legge, è obbligato in luogo di altri (e non “insieme ad altri”, così
come previsto per il responsabile d’imposta e quindi soggetto solidalmente obbligato) al pagamento dell’imposta o di un acconto per fatti e
situazioni riferibili a questi altri ed esercita l’obbligo della rivalsa (nel caso precedente avevamo rilevato che il responsabile esercitava il
diritto di rivalsa).
La rivalsa è il meccanismo che, in definitiva, consente al sostituto di recuperare le somme che altrimenti avrebbe dovuto pagare il sostituito,
cioè il soggetto che ha posto in essere il presupposto.
Perché, attraverso l’istituto della sostituzione, il legislatore ha tenuto a puntualizzare che il sostituto deve esercitare l’obbligo della rivalsa?
Se il legislatore non avesse previsto l’obbligo della rivalsa, avrebbe manifestamente violato l’art.53 Cost., cioè il principio di capacità
contributiva. Questa violazione sarebbe stata certamente da configurare perché nella nozione di sostituto abbiamo precisato che questo
soggetto, definito per l’appunto “sostituto”, è chiamato ad adempiere in luogo di altri → questi altri hanno posto in essere il presupposto.
Allora, se, pur avendo posto in essere un presupposto, l’obbligo del tributo fosse finito (sia pure ex lege) per ricadere in capo ad un soggetto
diverso (il sostituto), se il legislatore avesse previsto il diritto di rivalsa (e non l’obbligo, come in effetti è) sarebbe stato violato il principio di
capacità contributiva perché il sostituto avrebbe pagato per un obbligo altrui in virtù di una disposizione di legge→ e ciò non è consentito: il
principio di capacità contributiva implica che la manifestazione di ricchezza da sottoporre a tassazione deve essere personale.
Sia pure, dunque, nei limiti in cui la sostituzione è prevista, l’ordinamento non può che, nel pieno rispetto dell’art. 53, prevedere a carico del
sostituto:
- oltre che l’obbligo di adempiere all’obbligazione tributaria,
- anche l’obbligo di esercitare la rivalsa: DEVE rivalersi sul sostituito, non PUÒ rivalersi.
Se il legislatore avesse scritto “può” si sarebbe trattato di un diritto, invece la nozione di sostituto ci dice che il sostituto DEVE esercitare la
rivalsa.
Dunque, nell’espressione di questo obbligo di rivalsa viene certamente fatto salvo il pieno rispetto del principio di capacità contributiva che
altrimenti sarebbe stato, invece, palesemente violato.
Non fate l’errore di dire che i due istituti finora affrontati (solidarietà e sostituzione) sono sovrapponibili e che il sostituto è quindi un
soggetto solidalmente obbligato, perché vi è una notevole differenza!!
In estrema sintesi: per quale ragione dobbiamo necessariamente tenere distinta la figura del sostituto rispetto a quella del soggetto
solidalmente obbligato? La dobbiamo tenere distinta in ragione del fatto che:
- il soggetto solidalmente obbligato è obbligato insieme ad altri,
- il sostituto è obbligato in luogo di altri.
Quindi la solidarietà c’è solo nel primo caso, nel secondo caso no.
Ancora:
- il responsabile d’imposta (e più generalmente il soggetto solidalmente obbligato) ha diritto di rivalsa (e non obbligo di rivalsa) e questo
perché, essendo obbligato insieme ad altri, non c’è violazione del principio di capacità contributiva quand’anche l’obbligo rimanesse in capo a
lui. Dunque, per questo è previsto il diritto di rivalsa (e non l’obbligo della rivalsa) nell’istituto della solidarietà ovvero nelle varie forme di
solidarietà. Nella sostituzione, invece, viene sempre puntualmente previsto l’obbligo della rivalsa.
Sappiate ancora che il nostro ordinamento distingue due diverse forme di sostituzione:
a) la sostituzione a titolo di imposta
b) la sostituzione a titolo di acconto.
Dobbiamo cogliere bene le differenze di tipo strutturale che corrono nella struttura del rapporto obbligatorio.
a) La sostituzione a titolo d’imposta
La sostituzione a titolo d’imposta ricorre quando il sostituto è chiamato per legge all’intero adempimento dell’obbligo (o dell’obbligazione
tributaria) che altrimenti sarebbe gravato sul sostituito→ il sostituito è colui che ha manifestato il presupposto ed è il soggetto in sostituzione
del quale interviene il sostituto: in assenza della sostituzione avrebbe dovuto pagare il tributo il sostituito, cioè il soggetto che ha manifestato
capacità contributiva.
Nei casi di sostituzione d’imposta il sostituto si sostituisce integralmente al sostituito.
Questa sostituzione integrale del sostituito porta con sé conseguenze molto importanti: normalmente il soggetto passivo dei tributi, quando
manifesta il presupposto (quindi quando sorge l’obbligazione tributaria), è chiamato ad una pluralità di adempimenti.
— Non pensate mai che l’adempimento dell’obbligazione tributaria sia un fatto semplice che si risolve nel mero pagamento
dell’obbligazione: non è soltanto questo l’adempimento dell’obbligazione tributaria→ il sorgere del presupposto (e il sorgere
dell’obbligazione tributaria) porta con sé adempimenti che sono:
⁃ di carattere formale e
⁃ di carattere sostanziale.

Diritto tributario Pagina 32


⁃ di carattere sostanziale.
Parlando di adempimenti di carattere formale ci riferiamo, per esempio, agli obblighi dichiarativi: chi possiede il reddito (quindi chi manifesta
capacità contributiva) non deve limitarsi esclusivamente a versare una somma di denaro ( = quello è adempimento di un obbligo sostanziale
di pagamento), ma deve anche assolvere a numerosi obblighi formali.
Gli obblighi formali sono obblighi strumentali al corretto adempimento dell’obbligazione tributaria.
Dunque, se non c’è corretto adempimento degli obblighi formali, va da sé che non possa esserci neppure il corretto adempimento
dell’obbligo sostanziale di pagamento.
Quindi, l’adempimento dell’obbligazione tributaria è un adempimento che porta con sé obblighi distinti sia di natura formale sia di natura
sostanziale.
Presentare la dichiarazione dei redditi è certamente un obbligo strumentale al corretto pagamento del tributo.—
Torniamo a noi. Abbiamo detto che:
- il sostituito realizza il presupposto,
- il sostituto adempie in sua vece: quantomeno così è nella sostituzione a titolo d’imposta, nell’ambito della quale il sostituto interamente
adempie all’obbligazione tributaria.
Questa circostanza esclude in radice che il corretto adempimento dell’obbligazione porti con sé un rapporto trilaterale→ il corretto
adempimento dell’obbligazione implica che gli unici soggetti coinvolti sono due: il creditore e il sostituto.
Il sostituto adempie interamente all’obbligazione tributaria (che altrimenti avrebbe dovuto pagare il sostituito)→ questo significa che il
sostituito non è neppure tenuto all’adempimento di particolari obblighi formali perché a questi obblighi provvede il sostituto.
Gli obblighi formali (che sono strumentali al corretto adempimento dell’obbligazione di pagamento) sono obblighi che -nella sostituzione
totale- vengono assolti, anche questi, dal sostituto e non dal sostituito.
Pertanto, questo particolare rapporto giuridico d’imposta finisce con l’essere un rapporto esclusivamente bilaterale tra creditore e sostituto
perché il sostituito non viene in rilievo in alcun modo se non per il semplice fatto di avere realizzato il presupposto.
Tanto gli obblighi formali quanto l’obbligo sostanziale di pagamento, vengono tutti adempiuti, nessuno escluso, dal sostituto.
Il sostituito non entra in relazione in alcun modo con il creditore.
Prima di riportare qualche esempio (dato che il nostro ordinamento conosce tante ipotesi di sostituzione a titolo d’imposta), vorrei farvi
riflettere sul fatto che, in definitiva, ogni qualvolta si applica una fattispecie di sostituzione a titolo d’imposta non si fa altro che applicare
un’imposta sostitutiva→ perché, soprattutto nelle imposte sui redditi, quando il legislatore prevede che su determinate manifestazioni di
capacità contributiva (quindi su particolari forme di reddito, lo vedremo soprattutto nei redditi di capitali) l’imposta possa essere pagata
attraverso imposte versate direttamente dal sostituto a titolo d’imposta, non si fa altro che applicare un’imposta sostitutiva sul reddito.
Perché questo?
Perché quel reddito finisce inevitabilmente per essere sottratto al sistema della progressività.
Se io percepisco un reddito di capitali, immaginiamo, per esempio, interessi maturati su somme depositate sul mio conto corrente personale
(= sono redditi di capitali: stiamo anticipando un argomento che affronteremo nel dettaglio più avanti). Se, com’è vero, in particolari ipotesi
la legge prevede che questi interessi scontino un’aliquota che viene applicata direttamente dal sostituto (cioè della banca) e che quindi
applica su questi interessi maturati sul mio conto corrente personale, questa misura percentuale la versa a titolo di imposta sostitutiva.
Quale effetto si realizza? Questi interessi dovranno essere indicati nella mia dichiarazione dei redditi nel quadro dei redditi di capitali? (io
sono il sostituito)
È un’ipotesi di sostituzione a titolo d’imposta, quindi il sostituito (cioè io, la sottoscritta) NON è chiamato ad assolvere ad obblighi formali→
l’obbligo dichiarativo è un obbligo formale: pertanto, in dichiarazione, io (sostituto) NON devo indicare questi interessi come redditi di
capitali.
Ma se questi interessi nella dichiarazione dei redditi non devono essere indicati, questi interessi scontano l’irpef con l’aliquota progressiva?
No, perché siccome non sono inseriti in dichiarazione, non concorrono a determinare il reddito complessivo e quindi le aliquote progressive
dell’irpef questi interessi non li toccano.
In definitiva, quale sarà l'unica imposta applicata su questa manifestazione di capacità contributiva? L’unica imposta sarà quella
rappresentata dalla ritenuta operata dal sostituto.
Quindi quella ritenuta a titolo di imposta operata dal sostituto diventa un’imposta sostitutiva dell’irpef, in quanto sostituisce interamente
l’irpef che altrimenti il sostituito avrebbe dovuto applicare anche su quegli interessi.
Ho detto 10 minuti fa che tutte le volte in cui si determina l'applicazione della sostituzione a titolo di imposta per la verità si verifica
l'applicazione di un'imposta sostitutiva.
Ho fatto l'esempio di una ritenuta a titolo di imposta operata dalla banca che opera in veste di sostituto e ho dimostrato a tutti voi come
l'applicazione di questa ritenuta da parte del sostituto a titolo d’imposta abbia determinato l’applicazione di un’imposta sostitutiva sul
reddito pari appunto alla ritenuta applicata su quella ricchezza che quindi non ha scontato le aliquote progressive dell’irpef.
Domanda collega: il rapporto di sostituzione può anche integrare una gestione d'affari altrui? No, si tratta sempre di un rapporto che viene
istituito per legge, non c’è una gestione di affari altrui. E’ sempre una norma di legge che prevede l'obbligo del sostituto (non c’è negozio),
mentre la gestione d’affari altrui si determina da un accordo tra le parti.
b) La sostituzione a titolo di acconto
Abbiamo detto a proposito di sostituzione a titolo di imposta che il rapporto è necessariamente bilaterale perché corre tra ente creditore e
sostituto che si sostituisce integralmente alla posizione del sostituito. La sostituzione di imposta quindi presuppone che il sostituto adempia
integralmente all'obbligo del sostituito, esistono però casi in cui l'intervento (ex lege) del sostituto prevede che il sostituto debba intervenire
all'adempimento dell'obbligazione gravante sul sostituito solo in parte, e non integralmente.
In quest’ultimo caso, va da sé che anzitutto il rapporto non è bilatero ma trilatero → se, ad es., il sostituito manifesta un presupposto che
determina un obbligo di 100 e il sostituto per legge è chiamato all'adempimento nei limiti di 60, gli altri 40 chi li paga? L’adempimento grava
sul sostituito, quindi nella sostituzione a titolo di acconto il rapporto è trilaterale, poiché l'ente creditore ex lege ha titolo a pretendere
l'adempimento dell'obbligo in parte in capo al sostituto ed in parte in capo al sostituito.
Il fatto che il sostituto e il sostituito siano chiamati entrambi all’adempimento sia pure in parte (in parte lo fa uno, in parte lo fa l’altro),
l’obbligazione tributaria rimane comunque una soltanto, perché è quella che fa capo al sostituito.
La permanenza dell’obbligo, sia pure solo in parte, in capo al sostituito porta con sé conseguenze determinanti che vanno opportunamente
tenute distinte rispetto a quelle che abbiamo esaminato nel caso precedente di sostituzione di imposta totale.
Perché?

Diritto tributario Pagina 33


Perché?
Anzitutto perché gli obblighi formali graveranno in capo al sostituito.
Tornando all' ipotesi del reddito, ci sono fattispecie di reddito per le quali il sostituto interviene solo titolo di acconto→ Questo significa che
se il sostituito possiede reddito ed il sostituto in parte è chiamato ad adempiere al suo posto, per altra parte però il sostituito dovrà
adempiere lui perché per legge così è previsto. Secondo voi il sostituito questo reddito lo dovrei includere nella dichiarazione o no? Tutta la
somma percepita a titolo di debito deve essere inclusa nella dichiarazione.
Domanda collega: ma non dovrebbe essere inserita nella dichiarazione solo la parte che compete a lui? Corretta affermazione→ Il rischio è
che così si paghino due volte le imposte: una volta la paga il sostituto ed una volta la paga il sostituito→ma NO, perché esiste un meccanismo
che evita che il sostituito paghi una volta che una parte dell’obbligazione è stata già adempiuta dal sostituto.
Torniamo ancora alle notazioni in generale perché poi sul dettaglio torneremo.
Abbiamo capito che nella sostituzione a titolo di acconto il rapporto è necessariamente trilaterale: esiste una quota parte dell’obbligazione
tributaria che viene adempiuta dal sostituto e una quota parte che deve essere adempiuta dal sostituito.
La quota parte adempiuta dal sostituto a chi dovrà essere richiesta?
Ammettiamo, per esempio, che ci sia un inadempimento da parte del sostituto e l’ente creditore avrà titolo ad esigere il pagamento nei
confronti del sostituto, non può quindi pretendere le somme nei confronti del sostituito perché ex lege il soggetto obbligato a
quell’adempimento resta il sostituto.
___________________________________________________________________________Quando il sostituto adempie all’obbligo, e ciò
vale sia per la sostituzione a titolo di imposta che per la sostituzione a titolo d'acconto, riprendendo quello che vi ho detto quando vi ho dato
la definizione di sostituto, il sostituto deve sempre operare la rivalsa (ha l’obbligo, pena violazione dell’art.53). Questa rivalsa come la opera il
sostituto? Operando la ritenuta. La ritenuta è il meccanismo attraverso il quale il sostituto esercita la rivalsa sul sostituito. Dunque, come
opera questo meccanismo della ritenuta? Quando il sostituto eroga le somme al sostituito, le eroga al netto della ritenuta→ cioè la somma
che il sostituto è obbligato a versare all'erario a titolo di sostituzione. Il peso del tributo non lo subisce il sostituto, ma attraverso il
meccanismo della ritenuta (= che consente l’esercizio dell’obbligo della rivalsa) è pacifico che, in senso economico, il peso del tributo finisce
con il ricadere sul sostituito, quindi su colui che ha manifestato il presupposto.
Tant'è che nei rapporti di sostituzione vedrete sempre che quest’estensione dell'obbligo in capo ad altri soggetti viene realizzata molto
agevolmente estendendo l'obbligo in capo al soggetto che eroga le somme a chi manifesta la capacità contributiva.
Poco fa vi ho fatto l'esempio della banca che paga gli interessi ai depositanti sui conti correnti. La banca che deve versare gli interessi. Nel
momento in cui versa gli interessi ai correntisti, immediatamente trattiene le somme da versare all'erario a titolo di ritenuta, quindi il titolare
del conto corrente si vede accreditato sul conto corrente non l’importo lordo degli interessi maturati, ma l'importo al netto della ritenuta già
operata dal sostituto che quindi ha già operato la rivalsa (è quindi assolto all'obbligo della rivalsa attraverso la ritenuta).
Quindi la ritenuta è il meccanismo attraverso il quale il sostituto adempie all'obbligo della rivalsa.
Qual è la differenza di questa ritenuta nella sostituzione a titolo d'imposta e nella sostituzione a titolo di acconto?
- Nella sostituzione a titolo di imposta la ritenuta vale ad estinguere il debito del sostituito→ il carico fiscale su quella manifestazione di
ricchezza si esaurisce attraverso l’applicazione della ritenuta per questo è “imposta sostitutiva”;
- quando invece la sostituzione è a titolo di acconto, la ritenuta operata dal sostituto non esaurisce l'obbligazione che grava sul sostituito, ma
è una parte dell’obbligazione che incombe sul sostituito.
___________________________________________________________________________
Proseguiamo con quello che stavo dicendo in precedenza.
Se la ritenuta nella sostituzione a titolo d'acconto è una parte dell’obbligazione che grava sul sostituito, si potrebbe allora avere qualche
dubbio: se il sostituto si scorda di versare la ritenuta allora l'amministrazione finanziaria può chiedere questa somma anche al sostituito?
No, l'amministrazione finanziaria deve necessariamente ottenere il pagamento della somma dovuta a titolo di ritenuta dal sostituto; il
sostituito è liberato dal suo obbligo nella parte per la quale dovrebbe avere provveduto il sostituto dimostrando di avere subìto la rivalsa.
Se il sostituito è in grado di provare di avere subìto la ritenuta e quindi è in grado di provare che il sostituto ha esercitato l'obbligo della
rivalsa, all'amministrazione finanziaria non resterà che chiedere l’adempimento al sostituto.
Vi sto spiegando in estrema sintesi l’art. 35 del DPR 602 del 73.
Nella misura in cui il sostituto ha adempiuto all'obbligo della rivalsa e quindi ha operato la ritenuta vuol dire che le somme che doveva
riversare all'erario le ha già trattenute dal sostituito, dunque l'amministrazione finanziaria non può pretendere alcun adempimento
limitatamente a quelle somme dal sostituito.
Se invece il sostituito non è in grado di avere subìto la ritenuta, allora sarà chiamato all'adempimento dell'intero, poiché l'obbligo tributario
ricade su di lui per intero.
Ricadrà su di lui per intero perché è lui che è obbligato. Potrà liberarsi parzialmente dall' adempimento per la parte che compete al sostituto
solo se è in grado di avere subito la ritenuta.
Cerchiamo di fare un passo oltre perché il tema è particolarmente complesso.
Vi ho detto che, volendo esemplificare un tipo di sostituzione a titolo di acconto, l'ipotesi più frequente è quella rappresentata dalla
sostituzione che ricorre nell’applicazione dell'imposta sul reddito.
Dunque, in queste ipotesi accade che il sostituto opera una ritenuta d'acconto (non a titolo d’ imposta) e che questa somma viene
immediatamente trattenuta dal sostituto e versata all' erario. Sapete però che l'obbligazione tributaria in capo al sostituito non è esaurita
interamente, poiché il sostituto adempie solo in parte, quindi l'obbligo tributario continua a permanere in capo al sostituito. Cosa intendiamo
dire con questo “continua a permanere in capo al sostituito”?
Facciamo un esempio concreto. Un’ipotesi frequentissima è quella di sostituzione a titolo d'acconto che ricorre nel rapporto di lavoro
dipendente→ cioè quando il prestatore di lavoro percepisce la retribuzione ogni mese, la percepisce subendo una ritenuta a titolo di acconto
che viene appunto operata dal datore di lavoro. Attraverso il sistema della ritenuta a titolo di acconto l'erario consegue un effetto
vantaggiosissimo: una fortissima anticipazione del prelievo fiscale sui redditi di lavoro dipendente. Perché questo? Perchè il sostituto che
ogni mese opera la ritenuta, entro il giorno 16 del mese successivo, la versa all' erario. Dunque, le ritenute che il sostituto opera sui redditi di
lavoro dipendente non sono somme che il sostituto trattiene presso di sé nelle sue casse, ma sono somme che vengono trattenute appunto
dalla retribuzione dei lavoratori dipendenti e che in tempi rapidissimi vengono immediatamente riversate nelle casse dell'erario.
Se così non fosse, in virtù delle dinamiche che studieremo più avanti, sappiate subito che siccome il presupposto dell’irpef completa la sua
formazione il 31 dicembre di ogni anno, l'erario dovrebbe attendere di incassare le imposte sui redditi di lavoro dipendente, in buona
sostanza, almeno un anno: cioè, per fare un esempio concreto sui redditi maturati, immaginiamo per esempio nel mese di Marzo del 2021

Diritto tributario Pagina 34


sostanza, almeno un anno: cioè, per fare un esempio concreto sui redditi maturati, immaginiamo per esempio nel mese di Marzo del 2021
dovrebbe attendere il mese di giugno del 2022. Sono lunghissimi i tempi di riscossione delle imposte sui redditi di lavoro dipendente.
Attraverso la dinamica della sostituzione tutto questo non accade, perché appunto attraverso il meccanismo delle ritenute e le norme che
prevedono l'immediato versamento a carico del sostituto, l'erario immediatamente acquisisce, sia pure limitatamente alle ritenute
d’acconto, buona parte del gettito derivante dall'applicazione dell'imposta sul reddito delle persone fisiche ai redditi di lavoro dipendente.
Vi ho detto che tutto questo consente soltanto il versamento di una parte dell’obbligazione tributaria, chiamiamolo se volete “acconto”.
Questo acconto lo paga il sostituto attraverso l'applicazione della ritenuta e il versamento, ma l'obbligo continua a permanere in capo al
sostituito.
Allora come si completerà l'adempimento dell’obbligazione da parte del sostituito? Attraverso il versamento del saldo.
Il presupposto dell’irpef si porta a compimento e si completa il 31 dicembre di ogni anno perché è quell’arco temporale (1 gennaio – 31
dicembre) che occorre prendere in considerazione per misurare l'incremento di ricchezza, cioè il reddito.
Soltanto con il compimento del 31 dicembre il soggetto passivo sarà in grado di quantificare esattamente l'ammontare complessivo dei
redditi prodotti.
Chi svolge attività di lavoro dipendente potrebbe anche percepire altri redditi oltre quelli che derivano dal lavoro dipendente: potrebbe
percepire redditi di capitali, fondiari o altri redditi diversi.
Non dobbiamo entrare adesso nel dettaglio, ma è pacifico che l'obbligazione tributaria del periodo d'imposta potrebbe essere correlata a una
base imponibile che non è solo costituita dal reddito di lavoro dipendente, ma è potenzialmente costituita anche da altri redditi che
potrebbero essere anche importanti (=consistenti). Sapete bene che in ragione dell'applicazione delle aliquote progressive dell’irpef, tanto
più elevata è la base imponibile quanto più elevata l'aliquota media da applicare all'intera base imponibile.
Allora, tornando al nostro tema, cerchiamo di farci una domanda di darci anche una risposta:
il fatto che il sostituto abbia applicato le ritenute sui redditi di lavoro dipendente non rappresenta altro che un acconto sul debito di imposta
complessivo che il soggetto passivo sostituito dovrà corrispondere all'erario.
Questa misurazione del debito sarà possibile solo dopo il 31 dicembre, cioè solo dopo che il soggetto passivo sostituito quantificherà
esattamente la sua base imponibile.
Immaginiamo che il soggetto abbia percepito di reddito di lavoro dipendente 100 ed immaginiamo che la base complessiva di reddito da
sottoporre a tassazione imponibile sia 140.
Torniamo a questo punto alla questione sollevata dalla collega.
Il soggetto non deve inserire i redditi per la parte che compete a lui, ma deve inserire nel reddito complessivo tutti i redditi percepiti, cioè
tutti i redditi di lavoro dipendente, con il risultato che applicherà le aliquote progressive dell’irpef. Una volta calcolata l’imposta lorda
determinata attraverso le aliquote progressive potrebbe
scaturire un debito di imposta di ad es. 40. Allora, se l'ordinamento prevedesse che questi 40, tali e quali, il sostituito li debba anche versare,
andrebbe incontro all'obiezione della vostra collega che dice giustamente: ma com’è possibile che si devono versare 40 quando già,
immaginiamo, 15 li ha versati il sostituto parando le sue ritenute sia pure a titolo di acconto? Si versa 40 da parte del sostituito e anche 15 da
parte del sostituto? Che senso ha? L' obiezione è perfettamente logica.
Allora il rischio di questa inutile duplicazione dei versamenti (che sarebbe perfettamente contraria anche al principio di capacità
contributiva), viene ovviato attraverso il meccanismo di applicazione dell’irpef che prevede che dall’imposta lorda (40 nell’esempio) si
debbano scomputare le ritenute d'acconto già subite.
Dunque, per la verità, in termini di debito di imposta effettivo, questo sostituito non dovrà mai versare 40, ma sarà invece pienamente
abilitato a limitarsi a versare la differenza tra 40 15.
Il debito reale complessivo gravante sul reddito prodotto da questo soggetto è certamente 40, ma in senso economico il debito è stato in
parte assolto dal sostituto attraverso le ritenute operate e versate, sia pure limitatamente alla parte di 15. Per la restante parte 25, invece,
provvederà al versamento direttamente il sostituito, quindi il soggetto che ha generato il presupposto, con un effetto sotto il profilo giuridico
fondamentale: questi redditi che subiscono la ritenuta a titolo di acconto non sono soggetti a imposizione sostitutiva come invece quelli che
subiscono la ritenuta a titolo di imposta perché, sia pure attraverso la formula dell' acconto a cui è obbligato il sostituto, sono redditi che
vengono tutti sottoposti all'applicazione delle aliquote progressive dell’irpef.
Lo ripeto: i redditi che vengono sottoposti all’applicazione delle ritenute a titolo di acconto non sono redditi che soggiacciono a forme di
imposizione sostitutiva come invece accade quando la ritenuta è a titolo di imposta, perché quei redditi, quando la ritenuta è a titolo
d'acconto, li inseriamo nella dichiarazione e li sottoponiamo alle aliquote progressive Irpef e solo in termini assoluti scomputiamo la ritenuta
d'acconto dal debito di imposta correttamente calcolato.
Quando invece la ritenuta è a titolo di imposta tutto questo non accade, poiché i redditi soggetti alla sostituzione a titolo di imposta non si
includono nella dichiarazione annuale del sostituito, quindi sfuggono all'applicazione delle aliquote progressive dell’irpef, tant'è che il
rapporto giuridico d'imposta si esaurisce attraverso il versamento della ritenuta da parte del sostituto: non c'è alcun obbligo aggiuntivo da
parte del sostituito.
Domanda collega: se il sostituto non dovesse adempiere, ad esempio il datore di lavoro che fa la ritenuta d'imposta però si scopre che in
realtà il datore di lavoro queste cose non le ha versate?
In questo caso occorre che il sostituito sia in grado di dimostrare di aver subito le ritenute. Se è in grado di provare di avere ricevuto le
somme al netto delle ritenute d'acconto, e normalmente la prova è rappresentata dalla busta paga in cui all’interno sono puntualmente
segnate le ritenute subite dal prestatore dell’attività di lavoro mese dopo mese, quindi se da questo documento fondamentale il sostituito è
in grado di provare di avere subìto le ritenute, l'unico soggetto dal quale l'agenzia delle entrate potrà pretendere l'adempimento sarà il
sostituto, non più il sostituito.
Se invece questa prova il sostituito non è in grado di fornirla è pacifico che resta lui obbligato all'adempimento per l'intero, poiché non ha
diritto a scomputare ritenute di cui non ha prova.

Diritto tributario Pagina 35


LEZIONE 6 (15/03/21)
martedì 26 ottobre 2021 19:52

Esempi che il sistema offre di SOSTITUZIONE A TITOLO DI IMPOSTA: • Quella che viene applicata sui
PREMI e sulle VINCITE → se una persona fisica dovesse percepire alcune somme a titolo di premi o
vincite allora lo Stato applicherebbe immediatamente sui premi e sulle vincite una ritenuta che sarà
applicata A TITOLO DI IMPOSTA. Questo significa che le somme eventualmente percepite a titolo di
premi e vincite NON vanno incluse nella dichiarazione annuale (è uno dei corollari che discendono
dall’applicazione del regime dell’imposizione a titolo di imposta) • Quelle che subisce il percettore di
interessi maturati su somme depositate su Conti Correnti Bancari o Postali quando i soggetti
percettori sono persone fisiche o enti NON commerciali* → Se il soggetto che percepisce gli interessi
su somme depositate su CC bancario o Postale è un soggetto che NON svolge attività d’impresa o un
ente NON commerciale allora le ritenute sono operate (dall’istituto o dall’ente che eroga gli interessi
maturati sulle somme in questione) A TITOLO DI IMPOSTA. • Quelle operate sui DIVIDENDI percepiti
da persone fisiche che NON svolgono attività d’impresa o enti NON commerciali *che scelgono che
sui dividendi vengono operate questi tipi di ritenute (a TITOLO DI IMPOSTA) piuttosto che il regime
delle ritenute A TITOLO DI ACCONTO. • Quelle che subiscono i soggetti che posseggono titoli del
debito pubblico a condizione che si tratti di persone fisiche o enti NON commerciali* • Quelle che si
applicano sugli INTERESSI percepiti da obbligazionisti (possessori di titoli obbligazionari) che siano
persone fisiche o enti NON commerciali *
*Si precisa la natura del soggetto percettore perché queste stesse fattispecie quando i soggetti
percettori cambiano diventano ipotesi in cui la ritenuta è A TITOLO DI ACCONTO.
Esempi di SOSTITUZIONE A TITOLO DI ACCONTO: • Fattispecie delle somme corrisposte in
dipendenza di un rapporto di lavoro dipendente→ le somme erogate dal datore di lavoro al
prestatore dell’attività lavorativa sono somme erogate che soggiacciono all’applicazione di una
ritenuta A TITOLO DI ACCONTO. [regola generale].
MA NON SEMPRE quando vengono erogate delle somme a titolo di retribuzione in relazione ad un
rapporto di lavoro dipendente il prestatore subisce la ritenuta ed il datore di lavoro è obbligato a
operarla: in alcune particolari ipotesi (in cui il rapporto di lavoro senz’altro c’è) questo obbligo NON
sussiste, cio le ritenute A TITOLO DI ACCONTO NON vanno applicate. [eccezione alla regola
generale]. La ricorrenza di questa deroga sussiste tutte le volte in cui il datore di lavoro sia di un
particolare tipo.
Per esempio NON è sostituto (e quindi NON deve operare la ritenuta sulle somme corrisposte al
prestatore di lavoro) nel caso in cui la persona fisica che svolga attività (anche d’impresa) e le
somme corrisposte sono legate ad un rapporto che NON riguarda affatto l’attività d’impresa →
allora la persona fisica NON opera in qualità di sostituto.
Es. persona fisica che assume un collaboratore domestico. Il rapporto instaurato con il collaboratore
domestico è un rapporto di lavoro dipendente MA questo rapporto è ESTRANEO all’attività
d’impresa. Chi assume il prestatore di lavoro potrebbe pure svolgere attività d’impresa MA le
mansioni che sono affidate al prestatore dell’attività lavorativa sono del tutto estranee rispetto
all’attività di lavoro→ se la prestazione lavorativa dovrà essere resa presso l’abitazione privata
dell’imprenditore è pacifico che questa prestazione di lavoro non ha nulla a che fare con l’attività
d’impresa. In questo caso la persona fisica NON dovrà operare alcuna ritenuta sul compenso
prestato al prestatore di lavoro→ NON vi è l’obbligo di applicare la ritenuta.
Quindi la regola generale trova applicazione quando il rapporto di lavoro viene instaurato da un
soggetto che svolge attività d’impresa (e dunque il rapporto di lavoro è strettamente legato allo
svolgimento dell’attività
d’impresa); quando il rapporto di lavoro dipendente è instaurato (oltre che con una persona fisica
datrice di lavoro) con una società o con un ente commerciale o NON commerciale.
Viceversa (Eccezione) l’obbligo di applicare la ritenuta NON sussiste rispetto ai condomini: il
condominio (che potrebbe instaurare un rapporto di lavoro con un soggetto) NON ha l’obbligo di
applicare la ritenuta A TITOLO DI ACCONTO. • Quando vengono erogate somme (o, meglio,
compensi) a esercenti arti e professioni→ se viene pagato il compenso ad un professionista (-da un
imprenditore nell’esercizio della sua attività d’impresa – da un altro professionista – da società di
capitali – da società di persone – da enti commerciali o NON commerciali) allora tutte queste somme

Diritto tributario Pagina 36


capitali – da società di persone – da enti commerciali o NON commerciali) allora tutte queste somme
saranno assoggettate all’applicazione della ritenuta a titolo di acconto.
Il professionista quindi subirà necessariamente una ritenuta sul compenso a lui spettante a titolo di
acconto MA, naturalmente NON subirà la ritenuta il professionista che riceve compensi da una
persona fisica che li paga FUORI dall’esercizio dell’attività d’impresa o FUORI dall’esercizio di arti e
professioni. • Quelle che vengono applicate sui DIVIDENDI che vengono pagati alle persone fisiche
che scelgono l’opzione della ritenuta A TITOLO DI ACCONTO • Interessi maturati sulle somme
depositati sui Conti Correnti Bancari o Postali se il precettore è una persona fisica che svolge attività
d’impresa o un soggetto che esercita arti e professioni o un ente commerciale. (Se il soggetto
percettore è persona fisica che NON svolge attività d’impresa o un ente NON commerciale la
ritenuta è a titolo di imposta, vedi sopra) • Quando siano maturati interessi su titoli obbligazionari
percepiti da soggetti diversi dalle persone fisiche
Distinzione tra ACCONTO e ANTICIPAZIONE.
Per spiegare la distinzione tra ritenute (l’obbligo di versamento che grava sul sostituto) e imposta
(obbligo che grava sul sostituito) si fa riferimento al fatto che le ritenute versate dal sostituto NON
costituiscono (nella sostituzione a titolo di acconto) altro che un acconto del debito di imposta
complessivo che grava sul sostituito.
Per quanto riguarda il meccanismo di applicazione dell’IRPEF [vedi lezioni precedenti] l’obbligazione
tributaria di ciascun soggetto passivo è un’obbligazione che si può correttamente quantificare solo
DOPO il 31 dicembre di ogni anno, perché il possesso del reddito può essere misurato e quantificato
(e conseguentemente l’obbligazione tributaria può essere determinata) SOLO se si è in condizione di
misurare quanto reddito si possiede al 31 dicembre di ogni anno.
Il sostituto (es. datore di lavoro) eroga le somme periodicamente, normalmente con cadenza
mensile, e su queste somme opera le ritenute che vengono immediatamente versate all’Erario entro
il giorno 16 del mese successivo a quello in cui la ritenuta è stata operata. L’insieme di queste
somme (che in corso d’anno il sostituto versa all’Erario) costituisce un acconto del debito d’imposta
reale che il sostituito potrà correttamente quantificare solo dopo la chiusura del periodo di imposta
solo dopo il 31 dicembre).
Questo perché il sostituito potrebbe conseguire anche altri redditi ulteriori rispetto a quelli del
lavoro dipendente e l’applicazione delle aliquote progressive IRPEF a questo (maggiore) ammontare
di reddito potrebbe determinare la quantificazione di un debito d’imposta superiore rispetto
all’ammontare delle ritenute che il sostituito ha operato e versato in corso d’anno.
Questa rappresenta sicuramente una buona esemplificazione del concetto di ACCONTO: l’acconto
non è altro che la somma di denaro provvisoriamente versata dal sostituto o [vedi dopo]
direttamente dal soggetto passivo rispetto al quale è ancora da verificare quale sarà il debito di
imposta effettivo → provvisorio versamento del debito d’imposta cui dovrà seguire poi un calcolo
successivo all’esito del quale potrebbe addirittura sorgere l’obbligo in capo al soggetto passivo di
versare un’ulteriore somma (per consentire il pieno adempimento dell’obbligazione tributaria).
L’esempio dell’ACCONTO è più vicino agli studi che abbiamo fatto MA in verità l’istituto
dell’ACCONTO trova una disciplina generalizzata rispetto a tutti i contribuenti (non solo coloro che
subiscono ritenute operate da terzi) → ANCHE soggetti passivi che NON subiscono ritenute vanno
incontro infatti all’adempimento della propria obbligazione tributaria attraverso l’applicazione
dell’istituto dell’ACCONTO.
Tenendo presente che l’obbligazione tributaria solo dopo lo spirare del 31 dicembre, ciononostante
ogni soggetto passivo (tanto persone fisiche tanto soggetti diversi dalle persone fisiche) dell’imposta
sul reddito (sia che si tratti di IRPEF o di IRES) sono obbligati a corrispondere alcune somme (una
parte nel mese di giugno, altra parte nel mese di novembre di ogni anno) A TITOLO DI ACCONTO
dell’imposta sul reddito. Come si può corrispondere una somma di denaro a titolo di acconto che
ancora il soggetto passivo non è in grado di quantificare? L’ordinamento ricorre ad un meccanismo
ormai collaudato in ragione del quale si chiede a ciascun soggetto passivo di provvedere al
versamento (a titolo di acconto appunto) in misura percentuali pari al 99% dell’imposta pagata per il
periodo d’imposta precedente a titolo d’acconto sull’anno successivo.
Esempio. Per il periodo d’imposta 2019 un soggetto versi 10.000 a titolo di IRPEF e
quest’obbligazione è certa e correttamente liquidata in considerazione dei redditi complessivamente
ed effettivamente percepiti nel 2019.
Si immagini che nel giugno 2020 il soggetto sia chiamato all’adempimento del primo obbligo di
versamento esistente per il 2020 corrispondente all’obbligo di versare il 40% del 99% dell’imposta
liquidata per l’anno precedente. Questa somma sarà dovuta a titolo di acconto dell’imposta che si

Diritto tributario Pagina 37


liquidata per l’anno precedente. Questa somma sarà dovuta a titolo di acconto dell’imposta che si
prevede dovrà essere pagata per l’anno 2020.
Si tratta di un ARTIFIZIO, è una presunzione che l’obbligo del 2020 sia pure pari a 10.000. È una
speranza che il soggetto anche per il 2020 potrà dichiarare un reddito che le determini un obbligo di
pagamento per 10.000 euro a titolo di IRPEF. Cionondimeno l’ordinamento prevede che nel mese di
giugno (40%del99%) e nel mese di novembre (60% del 99%, a titolo di secondo acconto) si debba
andare incontro a due obblighi di versamento per l’imposta dovuta per l’anno 2020.
E se nel 2020 il soggetto NON avesse conseguito redditi nella misura sperata, cosa accade
dell’imposta versata nel 2020 sia pure a titolo di acconto?
Domanda della collega: Nel caso in cui si dovessero versare queste somme avendo però poi un
reddito inferiore all’anno precedente, i soldi versati in più li terranno come anticipo sull’anno ancora
avvenire?
(Precisazione) NON è corretto utilizzare la parola “anticipazione”, è una cosa molto diversa.
Le somme eventualmente versate in eccesso a titolo di acconto saranno considerate come credito di
restituzione che il contribuente vanterà nei confronti dell’Erario.
È da tenere presente che l’eccedenza di acconti versati eventualmente in corso d’anno può essere
immediatamente utilizzata dal contribuente in compensazione.
In compensazione di cosa? (considerando che ha già versato più del dovuto e non ha ulteriori debiti
da estinguere) L’istituto della compensazione nel nostro ordinamento prevede la possibilità di
scomputare queste somme versate in eccesso addirittura con i debiti relativi ad altri tributi→ è
possibile che questa eccedenza a di IRPEF versata a titolo di acconto nel 2020 possa essere utilizzata
immediatamente per versare altri tributi erariali che dovessero risultare addebito proprio in sede di
dichiarazione annuale (es. IVA, addizionali, IRAP, tributi locali).
La peculiarità del meccanismo dell’acconto è rappresentata dal fatto che in tutte le ipotesi di
acconto è in linea di principio possibile (non necessario perché naturalmente dipende da come
completamente si svolge il procedimento) che il contribuente si costituisca creditore nei confronti
dell’Erario e che quindi sorga a suo vantaggio un vero e proprio diritto di restituzione.
Potrebbe cioè accadere che a titolo di acconto il soggetto passivo abbia versato più del dovuto e che
quindi si costituisca in capo a lui un diritto di restituzione che potrà poi essere estinto attraverso
l’istituto della compensazione ma anche attraverso un vero e proprio rimborso (la modalità
attraverso cui la restituzione può avvenire NON è necessariamente manifestata dall’istituto della
compensazione → il contribuente se lo scegliesse potrebbe insistere per ottenere il rimborso delle
somme versate in eccesso).
ANTICIPAZIONE (diversa ipotesi)
L’anticipazione ricorre in un’ipotesi diversa già per il solo fatto che la somma anticipatamente
versata NON può MAI estinguere potenzialmente l’obbligazione che graverà sul contribuente a conti
fatti → le somme provvisoriamente versate è già noto che NON potranno in nessun caso estinguere
l’obbligo che grava in capo al soggetto passivo perché sarà sempre e comunque necessario un
ulteriore versamento. (mentre nell’acconto è assolutamente possibile che l’acconto estingua il
debito tanto addirittura da potersi realizzare l’ipotesi della costituzione del credito di restituzione in
capo al debitore)
Esempio di anticipazione. Quando il lavoratore chiede in via anticipata (perché ne ha diritto) il
pagamento di una parte del proprio Trattamento di Fine Rapporto (TFR) il datore di lavoro opererà
ritenute sulle somme intanto corrisposte a titolo di anticipazione sul TFR. In questo caso però le
ritenute operate dal datore di lavoro NON estingueranno (perché appunto non è possibile che ciò
accada) l’obbligazione che graverà complessivamente sul prestatore di lavoro nel momento in cui
percepirà l’intero TFR, proprio perché quando l’intero TFR sarà corrisposto il contribuente sarà in
grado di quantificare un debito d’imposta che certamente eccede l’ammontare delle ritenute
operate dal datore di lavoro. Dunque le somme nel frattempo trattenute e versate dal datore di
lavoro costituiscono un’ANTICIPAZIONE del debito d’imposta effettivo sulle somme pagate (e non
certamente un acconto).
STUDIO DELLA FASE DI ACCERTAMENTO
Il procedimento di applicazione dei tributi si articola in 3 fasi.
La tripartizione delle fasi di applicazione del tributo non è un tema pacifico: le fasi di applicazione del
tributo individuate in 3 o in 2 dipendono in maniera radicata dalla concezione della natura
dell’obbligazione tributaria cui si aderisce. All’inizio del corso abbiamo parlato delle teorie sulla
natura giuridica dell’obbligazione tributaria (es. teoria costitutiva, teoria dichiarativa). Attraverso il
richiamo a questi fondamenti teorici della materia si è chiarito che secondo alcune prospettazioni la

Diritto tributario Pagina 38


richiamo a questi fondamenti teorici della materia si è chiarito che secondo alcune prospettazioni la
fonte dell’obbligazione tributaria sarebbe da ravvisare nella legge (fondamento della teoria
dichiarativa) mentre invece secondo altra, più nutrita, prospettazione la natura dell’obbligazione
tributaria sarebbe tale da ritenere che l’obbligazione sorge dall’atto che ne determina il presupposto
e consente quindi di quantificare il conseguente obbligo (NON dalla legge).
Attraverso questo rinvio alle teorie sulla natura giuridica dell’obbligazione tributaria si ripartiscono
essenzialmente 2 tesi: ✓ Prima tesi. Le fasi di applicazione del tributo sono essenzialmente 3:
1) REALIZZAZIONE DEL PRESUPPOSTO ad opera del contribuente
2) ACCERTAMENTO
3) RISCOSSIONE
Questa tesi è molto vicina alla teoria dichiarativa, cioè alla teoria secondo la quale la fase della
realizzazione del presupposto sarebbe autonoma rispetto alla fase dell’accertamento.
✓ Seconda tesi. Le fasi di applicazione del tributo sono soltanto 2:
1) FASE DELL’ACCERTAMENTO e all’interno di questa fase è da collocare anche la realizzazione del
presupposto
2) RISCOSSIONE
Questa tesi è molto vicina alla teoria costitutiva, cioè alla teoria che muove dall’idea che il
presupposto del tributo non si possa individuare da solo perché previsto dalla legge, ma debba
necessariamente essere veicolato dalla realizzazione di un atto, cioè dal venire in essere, sotto il
profilo giuridico, di un atto attraverso cui il presupposto è manifestato e quantificato. In mancanza di
questo atto quindi il presupposto non sarebbe neppure possibile che si sia realizzato.
➢ Indipendentemente da quale di queste prospettazioni si voglia preferire, secondo alcuni ci
sarebbero addirittura imposte nelle quali le due fasi (accertamento e riscossione) sono fasi che
fondamentalmente si sovrappongono→ non sarebbe neppure possibile distinguerle in maniera
radicale e netta. Questa osservazione è estremamente puntuale: nel corso delle lezioni avremo la
possibilità di verificare ripetute volte di vedere che effettivamente è proprio così → nei tributi
fondamentali del sistema è pacifico che il procedimento di applicazione del tributo è tale per cui si
assiste ad una fondamentale sovrapposizione della fase dell’accertamento alla fase della riscossione.
Se le fasi fossero nettamente distinguibili ci si dovrebbe sempre aspettare che una succeda all’altra
(che prima si debba attendere l’esaurimento della fase dell’accertamento e che solo a
completamento di essa ci si possa poi aspettare lo svolgimento della fase della riscossione), invece
NON è così. Nel corso degli ultimi anni soprattutto ha preso infatti piede un’evoluzione normativa
tale per cui è sempre più frequente l’anticipazione della fase della riscossione rispetto al
completamento della fase dell’accertamento.
Seguono due esempi di evidente anticipazione della fase della riscossione rispetto a quella
dell’accertamento.
• Esempio n.1.
La fase dell’accertamento è una fase a dimensione variabile con un percorso che è pressoché
impossibile predefinire a priori: l’effettivo svolgimento della fase dell’accertamento non può che
essere studiato a conclusione del procedimento stesso perché le modalità di svolgimento della fase
di accertamento dipendono il più delle volte da iniziative diverse che possono adottare tanto
d’ufficio quanto il contribuente: proprio dal concreto atteggiarsi delle scelte che singoli attori del
procedimento possono adottare che effettivamente questo procedimento potrà prendere una piega
piuttosto che un’altra. → l‘effettivo svolgimento del procedimento di accertamento NON è
prevedibile in alcun modo, anzi, è la legge stessa che consente di ritenere che si tratti di un
procedimento a composizione variabile.
A secondo di come il procedimento evolve, è quindi possibile che la fase della riscossione anticipi
quella dell’accertamento.
✓ Immaginando che il contribuente presenti la dichiarazione.
✓ È ben possibile che DOPO la presentazione della dichiarazione l’amministrazione finanziaria
sceglie di esercitare i suoi poteri di accertamento ed emette un avviso di accertamento. La fase di
accertamento è un atto (provvedimento amministrativo) autoritativo:

A. ) Se NON impugnato tempestivamente può sostituirsi alla dichiarazione del contribuente con
effetti preclusivi, nel senso che, sostituendosi alla dichiarazione del contribuente, l’unico atto che
definisce l’obbligazione tributaria (non è più la dichiarazione ma) è l’avviso di accertamento, perché
il contribuente potrebbe non averlo impugnato.

Diritto tributario Pagina 39


il contribuente potrebbe non averlo impugnato.
MA
B. ) Se il contribuente scegliesse di impugnarlo si instaurerebbe un procedimento giurisdizionale in
pendenza del quale la legge prevede che, nonostante l’avviso di accertamento non sia affatto
definitivo (sia ancora sub iudicem), ex lege il contribuente che impugna è comunque tenuto, sia pure
provvisoriamente, a versare una parte delle imposte dovute così come indicate nell’avviso di
accertamento.
Quindi, attraverso questo istituto (che è un istituto di diritto processuale, non sostanziale) si
determina un’ANTICIPAZIONE nella fase della riscossione rispetto a quella che invece implica la
definizione dell’accertamento., perché nell’esempio n.1. non si può affatto ritenere che con la
presentazione della dichiarazione la fase dell’accertamento si sia conclusa perché a quella
dichiarazione segue un avviso di accertamento cui addirittura ha fatto seguito un giudizio
incardinato dinanzi al giudice competente→ l’accertamento del debito d’imposta a titolo definitivo
in questa ipotesi dipende proprio dalla definizione del giudizio (è demandato al giudice stabilire se il
debito è quello così come originariamente indicato nella dichiarazione presentata dal contribuente o
se invece il debito corretto è quello che si desume dall’avviso di accertamento impugnato.
Si tratta di un istituto particolare di diritto processuale (in realtà la norma citata è una norma
processuale solo per i livelli successivi al primo perché in pendenza del giudizio di primo grado la
norma è contenuta nell’art.15 d.lgl.602/1973 → norma di diritto sostanziale che però investe
l’ipotesi della proposizione del ricorso, cioè trova applicazione solo se l’avviso di accertamento è
stato impugnato).
Questa è una delle ipotesi in cui si verifica un’ANTICIPAZIONE della fase della riscossione rispetto alla
conclusione della fase dell’accertamento.
• Esempio n. 2
RISCOSSIONE A TITOLO DI ACCONTO (vedi sopra)→ Se è vero che tutti soggetti passivi delle imposte
sui redditi sono obbligati in corso d’anno ad eseguire versamenti a titolo di acconto nel mese di
giugno e di novembre allora è ormai largamente invalso nel nostro sistema il meccanismo di
ANTICIPARE la fase della riscossione alla conclusione della fase dell’accertamento perché
l’accertamento del debito d’imposta es. 2020 (vedi esempio sopra) sarà possibile solo dopo il 31
dicembre 2020, MA
- se già ex lege tutti i soggetti passivi delle imposte sui redditi sono obbligati ad eseguire versamenti
anticipati a titolo di acconto
- allora si tratta di una vera e propria anticipazione della fase della riscossione rispetto a quella
dell’accertamento perché addirittura qui si è in un momento in cui ancora si ragiona sulla
formazione del presupposto (→ il presupposto dell’imposta sui redditi per il periodo d’imposta 2020
viene a formazione il 31 dicembre 2020)
Quale che sia la teoria che si condivide [la realizzazione del presupposto addirittura viene prima
dell’accertamento (prima tesi); la formazione del presupposto è dentro l’accertamento (seconda
tesi)]→ è assolutamente vero che nel nostro sistema si assiste ad una evidentissima vertenza volta a
consentire l’anticipazione della fase della riscossione a quella dell’accertamento. La ragione è quella
di consentire quanto più possibile l’anticipazione dell’incasso all’Erario.
Precisazione.
In alcuni libri di testo si legge che esistono le cc.dd. imposte senza accertamento.
Secondo questa prospettazione non sarebbe vero che tutte le imposte sono assistite quanto meno
da una fase di accertamento e da una fase di riscossione.
L’esempio che si fa è quello dell’IMPOSTA DI BOLLO: in questa particolare imposta la riscossione
prescinde dall’accertamento da parte dell’ufficio nei confronti del contribuente (il contribuente
provvede immediatamente all’adempimento del tributo che viene autonomamente liquidato).
Questa tesi (secondo cui ci sarebbero delle imposte senza accertamento) NON è da condividere →
NON è vero che ci sono imposte senza accertamento. In queste imposte semplicemente
l’accertamento è SOLTANTO EVENTUALE, nel senso che il giudice interviene quando il contribuente
non provvede autonomamente al pagamento dell’imposta. Quindi in verità l’IMPOSTA DI BOLLO è
un’imposta in cui l’accertamento dell’ufficio interviene ex post, in sede di acclaramento
dell’infrazione (NON attraverso un procedimento autonomo e articolato come nei tributi
fondamentali del sistema).
STUDIO DELLA FASE DELL’ACCERTAMENTO
Quando si parla di accertamento si intende fare riferimento ad un procedimento amministrativo
costituito da una serie di atti (posti in essere in parte dal contribuente in parte dall’amministrazione

Diritto tributario Pagina 40


costituito da una serie di atti (posti in essere in parte dal contribuente in parte dall’amministrazione
finanziaria) tutti finalizzati al conseguimento del medesimo risultato, cioè l’esatta quantificazione
della base imponibile necessaria alla corretta determinazione del tributo da pagare.
La natura amministrativa del procedimento dell’accertamento tributario comporta importanti
conseguenze, perché implica che se uno degli atti della catena procedimentale è NULLO allora
saranno NULLI anche tutti gli altri che lo seguono. Ogni atto della catena procedimentale costituisce
infatti la legittimazione dell’atto successivo e la natura procedimentale dell’accertamento porta con
sé che l’effetto del procedimento stesso sarà l’effetto dell’ultimo atto validamente compiuto.
A proposito dell’accertamento tributario si sono contrapposte tra loro teorie divergenti.
• TEORIA DICHIARATIVA DELL’ACCERTAMENTTO. Si tratta di una prospettazione molto in auge molti
anni fa (forse la prima teoria che si è affacciata all’indomani della riconosciuta autonomia del diritto
tributario). Secondo questa teoria l’accertamento è capace SOLTANTO ad ACCLARARE
un’obbligazione tributaria già perfettamente sorta.
Questa teoria è legata a doppio filo con la teoria che vede l’obbligazione tributaria nascere già per il
solo fatto che si è realizzato il presupposto perché è la legge che lo prevede (teoria dichiarativa sulla
natura giuridica dell’obbligazione tributaria)→ essendo sorta l’obbligazione tributaria (per il solo
sorgere del presupposto) allora l’accertamento non fa altro che acclarare l’obbligazione tributaria
che pacificamente già è sorta, indipendentemente dall’accertamento stesso.
• TEORIA COSTITUTIVA DELL’ACCERTAMENTO. Secondo questa prospettazione l’obbligazione
tributaria NON sorge affatto in dipendenza della realizzazione del presupposto MA sorge SOLTANTO
con il compimento dell’ultimo atto della fase dell’accertamento→ fino a quando la fase
dell’accertamento non si è conclusa l’obbligazione tributaria NON sorge.
Tra queste due teorie collocate su punti estremi si colloca una terza teoria intermedia
• TEORIA PROCEDIMENTALE DELL’ACCERTAMENTO. Secondo questa teoria la natura
dell’accertamento deve essere direttamente desunta dalla circostanza che l’accertamento è un
provvedimento amministrativo.
La natura giuridica dell’accertamento risente in materia determinante del suo essere un
procedimento amministrativo perché:
- trattandosi di un procedimento amministrativo in cui tutti gli atti sono strettamente collegati l’uno
dall’altro in vista del conseguimento di un risultato finale
- in ragione del fatto che ogni atto costituisce la legittimazione del successivo
Allora
La realizzazione del presupposto è certamente il primo atto della fase di accertamento MA,
INDIPENDENTEMENTE DAL SUO VERIFFICARSI, occorre che venga tradotto in uno degli atti della
catena procedimentale→ NON è sufficiente il verificarsi del presupposto (affinché l’obbligazione
tributaria sorga) MA occorre che un atto ci sia “quale che sia” perché ciascuno degli atti della catena
sarebbe in linea di principio capace a manifestare il presupposto.
→ Sia per la teoria procedimentale che per la teoria costitutiva l’atto (per quella procedimentale
“quale che sia”) ha un’importanza decisiva: l’atto è lo strumento necessario ed indispensabile
attraverso cui il presupposto, già realizzato, viene ad esistenza.
→ La DIFFERENZA tra le due teorie risiede invece nel fatto che:
- la teoria costitutiva implica necessariamente che l’obbligazione tributaria sorga con L’ULTIMO atto
della catena procedimentale→ implica necessariamente che l’intera catena procedimentale venga
ad esistenza.
- la teoria procedimentale invece va oltre: riconosce la possibilità che l’obbligazione tributaria sia
manifestata (non necessariamente attraverso il venire ad esistenza dell’ULTIMO atto della catena)
attraverso uno qualsiasi degli atti della catena stessa, proprio perché si tratta di un procedimento a
composizione variabile.
È quindi possibile che: - il procedimento possa arrestarsi (e dunque l’obbligazione possa dirsi
compiuta e perfettamente definita) già per il compimento per esempio di un atto come la
dichiarazione d’imposta.
- Ove poi alla dichiarazione d’imposta dovesse seguire l’esercizio dei poteri istruttori da parte
dell’amministrazione finanziaria, l’emanazione di un avviso di accertamento magari non impugnato
→ allora→ l’obbligazione tributaria scaturirà (NON dalla dichiarazione d’imposta) dall’avviso di
accertamento che non è stato tempestivamente impugnato, quindi dall’ULTIMO atto dell’ipotetica
catena procedimentale.
- (andando ancora oltre) Se dopo l’avviso accertamento sorga tra le parti il giudizio (il contenzioso)
allora l’ULTIMO atto della catena procedimentale che teoricamente potrebbe definire il rapporto

Diritto tributario Pagina 41


allora l’ULTIMO atto della catena procedimentale che teoricamente potrebbe definire il rapporto
giuridico ed il consolidarsi dell’obbligazione tributaria sarebbe la SENTENZA che si sostituirà
all’avviso di accertamento (dato che, secondo la giurisprudenza, investe il merito del rapporto tra le
parti) stabilendo per esempio che l’obbligazione tributaria NON è né quella dichiarata dal
contribuente né quella pretesa dall’avviso di accertamento dall’Agenzia delle Entrate ma sia invece
un’obbligazione quantificata in un diverso ammontare stabilito dal giudice.
Domanda: Se il contribuente volesse chiedere l’accertamento !!! perché pensa di vantare un
credito…
Precisazione professoressa: NON SI CHIEDE MAI UN ACCERTAMENTO. L’accertamento è un
provvedimento autoritativo quindi l’Agenzia delle Entrate ritiene che la dichiarazione sia incompleta
o infedele e quindi che l’obbligazione tributaria sia in misura maggiore rispetto a quella dichiarata
dal contribuente
Continuazione domanda: Se il contribuente crede di vantare un credito (chiude con una
dichiarazione a credito), vedendosi notificato un accertamento, può chiedere all’Ente tributario di
evitare il contenzioso e tentare prima di capire chi ha ragione tra i due?
Professoressa (risponde in linea di massima perché sono necessari degli approfondimenti su
argomenti ancora da affrontare). Quando il contribuente presenta una dichiarazione a credito ritiene
di avere diritto ad alcune somme. Se poi l’Agenzia delle Entrate per esempio, INDIPENDENTEMENTE
DALL’ESITO DELLA LIQUIDAZIONE FATTA DAL CONTRIBUENTE, ritenga che la base imponibile del
tributo non sia 100 ma sia 500.
Il fatto di chiudere una dichiarazione a credito PRESCINDE dalla base imponibile, perché il credito
dipende da tante variabili che determinano la misura dell’imposta da versare (es. quante ritenute ha
subito il soggetto passivo, dall’esistenza di crediti di imposta, dai versamenti eseguiti a titolo
d’acconto in corso d’anno ecc.). L’imponibile viene a monte, molto prima della liquidazione del
tributo. Quando l’amministrazione finanziaria emette un avviso di accertamento si preoccupa fino ad
un certo punto della liquidazione del tributo, perché l’obiettivo è rettificare l’imponibile.
(Tornando all’esempio della domanda)
- Se il contribuente ha dichiarato 100.000 di base imponibile e, in base a quella base imponibile, ha
liquidato l’imposta (tenendo conto della sua situazione personalissima) in maniera tale da
(addirittura) costituirsi creditore (avere un credito di restituzione), - Poi però l’Agenzia delle Entrate
rettifica la base imponibile e quindi afferma che i redditi da sottoporre a tassazione dichiarati sono
infedeli perché p.e. la base imponibile non è 100.000 ma 500.000, allora questo significa che
liquiderà un’imposta tale da non solo azzerare il credito che il contribuente riteneva di vantare
ma anche tale da determinare un’imposta dovuta addirittura→ L’accertamento per un verso azzera
il credito, per altro verso è tale da determinare e quantificare l’imposta dovuta che il contribuente
dovrà versare.
Quindi l’impugnazione da parte del contribuente è indispensabile, altrimenti quell’avviso di
accertamento ha effetti costitutivi, cioè si sostituirà alla dichiarazione del contribuente e quindi si
sostituirà al debito risultante dalla dichiarazione e il debito risultante dall’avviso di accertamento.
Se poi lui MAI avrà effettivamente un diritto di credito allora questo dipenderà da come andrà il
giudizio.
Quindi necessariamente si arriverà al contenzioso, intanto quel diritto di restituzione che impugna
resta in sospeso.
Se invece NON dovesse impugnare non avrà più diritto ad ottenere la restituzione di nulla perché
l’avviso di accertamento si sostituisce alla dichiarazione d’imposta→ effetti che derivano dalla natura
provvedimentale di un avviso di accertamento che è appunto provvedimento amministrativo.
[Tornando alle teorie] Sulla base della TEORIA PROCEDIMENTALE uno qualsiasi *degli atti della
catena procedimentale se validamente compiuto è in linea di principio capace di generare gli effetti
propri dell’intero procedimento, quindi la definizione del rapporto giuridico d’imposta (→
quantificazione dell’obbligazione tributaria e l’esatta determinazione del tributo da versare).
* Potrebbe trattarsi della dichiarazione, dell’avviso di accertamento, dell’atto di adesione, una
conciliazione giudiziale, ecc.
Per esempio, nell’ipotesi in cui si vada in giudizio: nulla esclude che il giudizio si possa concludere
con un atto di conciliazione giudiziale→ anche la conciliazione giudiziale (che NON è la sentenza del
giudice) potrebbe determinarsi come atto conclusivo del procedimento di accertamento (cioè come
atto capace di stabilire in misura definitiva qual è la misura dell’obbligazione tributaria e quindi della
base imponibile).
È un procedimento estremamente articolato che prende una via assolutamente imprevedibile ed

Diritto tributario Pagina 42


È un procedimento estremamente articolato che prende una via assolutamente imprevedibile ed
imponderabile proprio in considerazione delle scelte che possono fare gli attori stessi del
procedimento (contribuente e amministrazione finanziaria).
Fin qui abbiamo parlato di OBBLIGHI DI PAGAMENTO, cioè capaci di estinguere radicalmente il
debito d’imposta.
In diritto tributario ci sono anche molti OBBLIGHI FORMALI: obblighi strumentali al corretto
adempimento dell’obbligazione tributaria. NON può esistere nel nostro sistema il corretto
adempimento dell’obbligazione tributaria (capace così di estinguere in modo adeguata l’obbligo) se
non dopo il corretto adempimento degli OBBLIGHI FORMALI.
(L’obbligo formale per eccellenza è formato dall’obbligo dichiarativo, cioè dall’obbligo di presentare
la dichiarazione per i tributi fondamentali del nostro sistema). “Corretto adempimento degli
OBBLIGHI FORMALI” non significa soltanto presentazione della dichiarazione (il nostro è un sistema
costellato di numerosissimi obblighi formali; il diritto tributario per il 90% è costituito da obblighi
formali) ma anche l’obbligo della tenuta delle scritture contabili→ numerosa serie di adempimenti
diversi tributo per tributo.
Cosa si intende per “dichiarazione”?
La dichiarazione non è solo un obbligo formale ma è anche un atto capace in sé di esaurire la fase
dell’accertamento (a patto e condizione che l’amministrazione finanziaria NON intenda esercitare
attività istruttoria e potere di accertamento) → in linea di principio potrebbe essere anche l’UNICO
atto in cui si risolve la fase dell’accertamento.
La fase dell’accertamento infatti SOLO IN LINEA DI PRINCIPIO è articolata e complessa. Lo diventa
(articolata e complessa) nel momento in cui l’amministrazione finanziaria intende esercitare il potere
di accertamento di cui è dotata. Nell’eventualità in cui questo NON fosse esercitato (così accade per
la stragrande maggioranza dei contribuenti) allora la dichiarazione sarebbe il PRIMO e ULTIMO atto
della fase di accertamento, con la conseguenza che il rapporto giuridico d’imposta si esaurirebbe
(per quanto riguarda la fase dell’accertamento) attraverso la presentazione della dichiarazione da
parte del contribuente.
Nel nostro sistema quindi il momento dichiarativo è un momento di tutto rilievo. La dichiarazione è
un atto rimesso all’iniziativa del contribuente.
Precisazione. Le dichiarazioni tributarie NON sono NECESSARIAMENTE dichiarazioni d’imposta.
Le dichiarazioni d’imposta sono dichiarazioni attraverso le quali si comunicano all’Agenzia delle
Entrate dati indispensabili per il corretto assolvimento dell’obbligazione tributaria.
✓ La dichiarazione tributaria costituisce una comunicazione formale con le quale vengono
comunicati all’ente creditore dei DATI oppure SCELTE che possono avere rilevanza ai fine
dell’applicazione dei tributi.
- DATI. Le dichiarazioni tributarie non sono necessariamente funzionali all’applicazione di un’imposta
che viene (in queste dichiarazioni) quantificata.
Se la dichiarazione contiene dati è certo che questi dati saranno comunque indispensabili per
l’applicazione di un tributo, MA NON NECESSARIAMENTE IN QUELLA SEDE. Per esempio certamente
è una dichiarazione tributaria la dichiarazione di inizio attività ai fini dell’IVA. Questa NON è una
dichiarazione d’imposta (cioè NON è una dichiarazione immediatamente funzionale alla
quantificazione del tributo e al corretto adempimento dell’obbligazione tributaria) ma è una
dichiarazione presentata all’inizio dell’attività da parte di chi si costituisce, per il futuro, soggetto
passivo ai fini dell’IVA.
- SCELTE. All’interno di una dichiarazione il contribuente potrebbe anche manifestare la sua volontà
di applicare quel tributo in un particolare modo, optando quindi per l’applicazione di un particolare
regime.
✓ La dichiarazione tributaria è l’assolvimento di un comportamento dovuto perché è la legge che
prevede l’obbligo di presentare la dichiarazione, non è rimesso alla manifestazione di un’opzione se
presentare la dichiarazione o meno. Con una differenza fondamentale:
- Se la dichiarazione contiene DATI certamente la mancata comunicazione di quei dati
(l’inosservanza) sarà punita. L’inadempimento porta necessariamente con sé l’irrogazione delle
sanzioni amministrative.
- Se la dichiarazione NON contiene DATI, ma soltanto la dichiarazione di una SCELTA (opzione circa il
regime che si preferisce applicare nell’applicazione di un determinato tributo) allora la mancata
presentazione della dichiarazione NON andrebbe incontro ad alcuna sanzione.
✓ La dichiarazione, in quanto atto dovuto, è MODIFICABILE e INTEGRABILE, in quanto strumento
mediante il quale si portano a conoscenza dell’amministrazione finanziaria DATI ed ELEMENTI che

Diritto tributario Pagina 43


mediante il quale si portano a conoscenza dell’amministrazione finanziaria DATI ed ELEMENTI che
riguardano la posizione del contribuente e NON NOTI all’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA → si
ritiene infatti che si tratti di una dichiarazione di scienza qualificata.
All’interno della grande categoria della dichiarazione tributaria si colloca la DICHIARAZIONE
D’IMPOSTA.
DIFFERENZA tra (1) dichiarazione tributaria e (2) dichiarazione d’imposta:
(1) sono dichiarazioni attraverso le quali il contribuente comunica DATI e SCELTE che però NON sono
direttamente orientati all’applicazione del tributo in quel momento.
(2) Sono dichiarazioni mediante le quali il contribuente comunica DATI che sono immediatamente
funzionali al corretto adempimento dell’obbligazione tributaria.
- La dichiarazione d’imposta è un documento puramente informatico. Ormai da molti anni l’obbligo
dichiarativo è assolto quasi esclusivamente attraverso la trasmissione della dichiarazione per via
telematica.
- La natura informatica del documento che il soggetto passivo trasmette però non toglie il fatto che il
documento va tenuto certamente distinto rispetto al suo contenuto.
Altro è il documento-dichiarazione; Altro è il contenuto della dichiarazione stessa.
- Attraverso la presentazione della dichiarazione d’imposta il contribuente che rende la dichiarazione
si costituisce debitore nei confronti del soggetto a cui la dichiarazione è indirizzata, quindi è un
documento assolutamente vincolante per chi la rende. Se il contribuente presenta telematicamente
la dichiarazione come previsto dalla legge utilizzando il modello approvato con il Provvedimento del
Direttore dell’Agenzia delle Entrate e attraverso la compilazione di quel documento dichiara
un’imposta a debito es. a titolo di IRPEF per 5.000 euro la natura vincolante della dichiarazione
d’imposta comporta con sé che
- il contribuente si costituisce debitore per quell’importo, nei confronti dell’amministrazione stessa
e, allo stesso modo,
- SE dalla dichiarazione trasmessa telematicamente emerge che il contribuente ha pagato in eccesso
rispetto a quanto dovuto a titolo di imposta per quel periodo avrà diritto alla restituzione ed il titolo
che ha diritto a far valere per ottenere la restituzione proprio in quanto atto giuridicamente
vincolante è proprio rappresentato dalla dichiarazione d’imposta.
Se la dichiarazione si conclude con un credito, il contribuente fa domanda di rimborso ed è già il
contenuto della dichiarazione che va a costituire l’istanza di rimborso e dunque immediatamente il
contribuente potrà agire per ottenere la condanna al rimborso da parte dell’amministrazione
finanziaria che sia rimasta inadempiente.
Il nostro ordinamento, vista la considerevole rilevanza che viene assegnata al momento dichiarativo,
dedica molte norme alla disciplina della dichiarazione d’imposta.
Queste norme attengono non soltanto alla forma: ogni anno (normalmente nel mese di febbraio) i
modelli di dichiarazione vengono approvati con Provvedimento del direttore dell’Agenzia delle
Entrate. Questi modelli dovranno essere utilizzati in quel periodo d’imposta per dichiarare redditi in
valore della produzione netta, volume d’affare IVA, prodotti nel periodo d’imposta precedente.
La disciplina è estremamente articolata: non si esaurisce nella previsione del momento di
approvazione dei modelli, ma si dedica anche alla fissazione di un termine entro il quale la
dichiarazione deve essere presentata, che varia a seconda del soggetto e della dichiarazione stessa
che occorre presentare.
• Il nostro ordinamento prevede un OBBLIGO GENERALIZZATO di presentazione della dichiarazione
ESCLUSIVAMENTE per via telematica.
Sono FATTE SALVE solo POCHE ipotesi di persone fisiche NON obbligate alla tenuta delle scritture
contabili, che sono oggi autorizzati alla presentazione della dichiarazione che continua ad essere
cartacea.
Anche i lavoratori dipendenti presentano la dichiarazione per via telematica attraverso la
presentazione del modello 730 al datore di lavoro che provvede telematicamente alla trasmissione
del modello di dichiarazione. MA • I termini per la presentazione della dichiarazione cambiano
➢ mentre per i lavoratori dipendenti la consegna del modello 730 dal prestatore di lavoro al datore
di lavoro è stabilita al 30 aprile, SALVO CHE poi saranno i datori di lavoro a provvedere alla
trasmissione telematica della dichiarazione all’Agenzia delle Entrate
➢ Per tutti gli altri contribuenti (che NON sono lavoratori dipendenti) l’obbligo di presentare la
dichiarazione relativa al periodo d’imposta precedente è stabilito al 30 settembre.
La ragione dell’assolvimento dell’obbligo soltanto al 30 settembre dell’anno successivo si giustifica in
considerazione di due circostanze:

Diritto tributario Pagina 44


considerazione di due circostanze:
1. si tratta di presupposti che devono essere commisurati ad un arco temporale che è stirato il 31
dicembre dell’anno precedente
2. in moltissimi casi la quantificazione del reddito imponibile NON è affatto semplice ed è legata
a) alla tenuta corretta delle scritture contabili b) alla chiusura del bilancio d’esercizio (nella
stragrande maggioranza dei casi stabilita al 30 aprile di ogni anno) e c) alla scrittura della
dichiarazione.
DIFFERENZA tra dichiarazione tardiva e dichiarazione omessa
Può verificarsi il caso di chi PUR AVENDO PRESENTATO LA DICHIARAZIONE, l’abbia presentata in
ritardo rispetto al termine stabilito dalla legge. Esempio. Soggetto obbligato alla presentazione della
dichiarazione entro il 30 settembre
Il nostro ordinamento distingue due ipotesi che si distinguono tra loro a seconda del momento in cui
viene presentata la dichiarazione in ritardo perché
- Anche quando la dichiarazione si considera OMESSA, potrebbe essere accaduto che il contribuente
in effetti la dichiarazione l’ha presentata, ma nonostante questa tardiva presentazione
l’ordinamento la considera radicalmente omessa con tutte le conseguenze che ne derivano.
- Diversa è invece la situazione che l’ordinamento riserva alle dichiarazioni presentate in ritardo MA
NON OLTRE UN CERTO TERMINE-→ in questo caso la dichiarazione NON si considera OMESSA ma
semplicemente tardiva.
Dichiarazione tardiva Possono considerarsi semplicemente tardive (MA NON omesse) quelle
presentate NON OLTRE IL 90° GIORNO SUCCESSIVO alla scadenza del termine naturale di
presentazione della dichiarazione.
Se per esempio il termine naturale di presentazione della dichiarazione è il 30 settembre, tutte le
dichiarazioni presentate NON OLTRE il 29 dicembre.
Conseguenze della dichiarazione semplicemente tardiva→ la dichiarazione tardiva è pienamente
EFFICACE ferma restando l’irrogazione delle sanzioni amministrative.
Il nostro ordinamento prevede che tutte le volte in cui la dichiarazione sia stata presentata OLTRE il
termine stabilito dalla legge, COMUNQUE saranno dovute le sanzioni amministrative. Queste
sanzioni amministrative potranno però essere ridotte perché esiste nel nostro ordinamento l’istituto
del ravvedimento operoso che prevede che la sanzione possa appunto essere ridotta ad un
determinato importo in considerazione del tempo trascorso tra la scadenza del termine naturale e
quella in cui effettivamente l’adempimento è stato eseguito.
Dichiarazione omessa. La dichiarazione deve essere considerata radicalmente OMESSA quando il
contribuente presenta la dichiarazione OLTRE IL TERMINE DI 90 GIORNI rispetto al termine naturale
stabilito dalla legge (es. soggetto dell’esempio presenta la dichiarazione il 15 gennaio dell’anno
successivo).
Conseguenze della dichiarazione radicalmente OMESSA:
- se la dichiarazione porta con sé l’emissione di un debito, allora il debito resta pienamente
efficace→ il contribuente si costituisce debitore delle somme dichiarate. TUTTAVIA
- dall’omissione possono derivare conseguenze penalmente rilevanti perché se il debito d’imposta
(risultante dalla dichiarazione omessa) fosse superiore ad un certo ammontare, sarebbe superata la
soglia di punibilità prevista dall’art.5 dgl.74/2000 con la conseguenza che il contribuente rischia di
andare in contro al giudizio penale e quindi alle sanzioni irrogabili per la violazione dell’obbligo di
presentare la dichiarazione.
- Restano irrogabili tutte le sanzioni amministrative del caso

Diritto tributario Pagina 45


LEZIONE 7 (16/03/21)
martedì 26 ottobre 2021 19:52

Ieri abbiamo terminato soffermandoci sulla dichiarazione tardiva e dichiarazione omessa.


Soffermiamoci sull’esame dei caratteri della dichiarazione d’imposta: 1. Veridicità: deve
esprimere i dati in essa riportati in modo conforme al vero, la conformità al vero attiene alla
circostanza che i dati devono essere espressi nella loro effettiva esistenza.
Es. all’interno della dichiarazione dei redditi, all’interno della dichiarazione annuale sono
contenuti dei quadri, in ciascun quadro il contribuente è tenuto alla compilazione di tutti gli
elementi che ritiene di dover compilare, ciascuno di questi quadri è dedicato a ciascuna
categoria di reddito, quindi troverete una categoria per i redditi fondiari, redditi capitali,
ecc..
La dichiarazione dei redditi deve essere veridica, significa che il dato che il contribuente
intende dichiarare deve essere corrispondente al vero.
Se il soggetto passivo percepisce un reddito di lavoro autonomo, (immaginiamo questa
come categoria da esaminare) pari a 50.000 euro, allora sarà quello il dato da dichiarare.
La dichiarazione sarà veridica nella misura in cui il dato rappresentato sia conforme al vero.
2. Completa: la completezza attiene ad un profilo diverso rispetto alla veridicità, la
dichiarazione sarà completa nella misura in cui tutti i dati, che devono essere oggetto di
dichiarazione, siano effettivamente rappresentati all’interno della dichiarazione stesa.
Differenza:
Es. caso di un soggetto passivo che produce, insieme al reddito di lavoro autonomo, anche
reddito fondiario, determinato dal possesso di alcuni fabbricati: è pacifico che la
dichiarazione dei redditi, nell’eventualità in cui questo soggetto passivo si limitasse a
compilare solamente il quadro del lavoro autonomo, e non compilasse anche il quadro del
reddito dei fabbricati (quindi dei crediti fondiari), incorrerebbe nell’ipotesi della c.d
dichiarazione incompleta.
La completezza della dichiarazione attiene alla completa rappresentazione dei dati che il
soggetto passivo è obbligato dichiarare.
Si tratta di un profilo diverso dalla veridicità, perché la veridicità attiene alla misura
quantitativa del dato, che è presente, ma rappresentato in maniera infedele.
Possono darsi casi di dichiarazioni infedeli ma complete, o incomplete ma fedeli, come ad
esempio quando il soggetto di dimentica di includere una categoria che avrebbe dovuto
includere nella dichiarazione. 3. Vincolatività per il soggetto che la rende: la vincolatività
della dichiarazione stesa consiste nell’obbligo che scaturisce in capo al soggetto che la
presenta, di pagare l’imposta che viene dichiarata nella dichiarazione annuale, questa
vincolatività permane anche nel caso in cui la dichiarazione dovesse risultare compilata in
modo errato.
Possono darsi casi in cui, il soggetto passivo compila la dichiarazione annuale, la presenta, e
quindi sorge l’effetto vincolante in capo a lui rappresentato dall’obbligo di procedere al
versamento delle somme ritenute come dovute, ma si tratta di un versamento errato
derivante dell’errore contenuto all’interno della dichiarazione.
Il vincolo che discende dalla dichiarazione errata non viene meno a causa dell’errore,
nonostante l’errore derivante dalla compilazione, l’obbligo di procedere al versamento
sussiste.
A questo principio generale il nostro ordinamento affianca una forma di mitigazione, un
correttivo, rappresentato dalla possibilità di procedere alla correzione della dichiarazione
errata.
La dichiarazione di imposta è una dichiarazione ricettizia: atto che produce i suoi effetti fin
tanto che viene ricevuto dal soggetto al quale è indirizzata, nella fattispecie è l’Agenzia delle
entrate, ma possono essere anche enti locali in altri tipi di imposta, pensiamo infatti alla

Diritto tributario Pagina 46


entrate, ma possono essere anche enti locali in altri tipi di imposta, pensiamo infatti alla
dichiarazione resa ai fini IMU, che sono tributi locali.
La dichiarazione d’imposta è l’atto più importante della fase di accertamento, è l’unico atto
in cui si risolve la fase dell’accertamento.
Tutte le operazioni successive alla fase di accertamento sono oggetto di esercizio di poteri e
facoltà da parte dell’amministrazione finanziaria, dunque che la dichiarazione d’imposta
possa essere seguita dall’esercizio dei poteri istruttori prima, e dall’attività di accertamento
poi, è un fatto eventuale, che non costituisce la regola, e questa è la ragione per la quale
tendenzialmente la dichiarazione di imposta costituisce la fase più importante
dell’accertamento.
Tanto è importante questo adempimento che per alcune categorie di soggetti passivi è
previsto l’obbligo della trasmissione della dichiarazione di imposta anche quando l’esercizio
si chiude in perdita.
Ci sono alcune categorie di contribuenti, si tratta degli imprenditori ed esercenti arti e
professioni, che sono soggetti a particolari modalità di determinazione del reddito, che
fanno sì che a questi soggetti non abbiano reddito da sottoporre a tassazione, perché
sostengono costi o spese in misura superiore rispetto all’ammontare dei ricavi o dei
compensi.
Posto che si debba fare la somma algebrica tra componenti positivi e negativi, questi
soggetti possono quindi chiudere il periodo di formazione dell’imposta con l’emersione di
una perdita, che è l’esubero dei componenti negativi ai postivi.
Gli esercenti arti e professioni, sono soggetti per i quali l’obbligo di presentazione della
dichiarazione permane, anche quando l’esercizio si dovesse chiudere in perdita, quindi
anche quando non vi fosse reddito da sottoporre a tassazione e quindi imposta da versare.
Qual è la ragione della permanenza di un simile obbligo?
Se non c’è reddito da sottoporre a tassazione, e non c’è quindi imposta da versare, qual è la
ragione dell’obbligo dichiarativo in capo a questi soggetti?
La presentazione della dichiarazione da parte di questi soggetti costituisce un adempimento
estremamente utile per l’agenzia delle entrate, perché attraverso i dati e le notizie
trasmesse, l’agenzia è in grado di procedere ad una serie di controlli incrociati a carico di
coloro con i quali, gli esercenti arti e professioni, siano entrati in contatto, nel periodo della
determinazione del periodo di imposta.
Es. tutte le richieste che l’agenzia delle entrate ha occasione di fare ad imprenditori
esercenti e professioni che abbiano presentato la dichiarazione in perdita tutte le volte in
cui trovano compilati alcuni righi della dichiarazione, in cui questi soggetti dichiarano di aver
sostenuto in termini vaghi la voce “altri costi”.
Quando si compila il rigo “altri costi” con cui ci riferiamo a costi che non è possibile iscrivere
nelle minuziose voci del modello dichiarativo, se figura un importo esorbitante, l’agenzia
può essere indotta a richiedere documenti e ad avviare l’esercizio dei poteri istruttori, o a
carico di chi presenta la dichiarazione o a carico dei soggetti con i quali il primo sia entrato in
relazione a ragione dell’attività esercitata.
Gli imprenditori e gli esercenti arti e professioni, sono i soggetti che, rispetto ad altri, sono
più propensi all’evasione, anche per questo motivo si ritiene indispensabile un monitoraggio
del modello dichiarativo.
L’agenzia dispone di moltissimi strumenti di controllo, che prescindono dalla dichiarazione
presentata, la sicuramente la presentazione della dichiarazione è da iscrivere negli
strumenti di cui l’agenzia dispone per procedere all’attività di controllo che ritiene più
opportuna.
Volgendo l’esame alle tipologie delle dichiarazioni d’imposta che il nostro ordinamento
prevede, rintracciamo:
Dichiarazioni vincolate: è normativamente previsto necessariamente il ricorso ad un
particolare modello da adottare ogni volta che si deve presentare la dichiarazione approvata
con il provvedimento del direttore dell’agenzia delle entrate, pena la nullità della

Diritto tributario Pagina 47


con il provvedimento del direttore dell’agenzia delle entrate, pena la nullità della
dichiarazione stessa.
Quando parliamo di dichiarazioni vincolate intendiamo riferirci ad una conseguenza
abbastanza ovvia, che è proprio la nullità della dichiarazione eventualmente resa.
La dichiarazione potrebbe essere ulteriormente distinta, a seconda del loro contenuto in:
Dichiarazioni a contenuto monovalente: sono la gran parte, al cui interno troviamo i dati
sono funzionali all’applicazione di un unico tributo (iva, Irap, IMU)
Dichiarazione a contenuto polivalente: hanno un contenuto più complesso, contengono
dati che non sono funzionali all’applicazione di un unico tributo.
Es. Dichiarazione dei redditi.
all’interno del modello dichiarativo vi è lo spazio destinato all’8x1000, dunque sono
contenuti dati, o scelte, che non sono subito funzionali all’applicazione del tributo per cui la
dichiarazione viene presentata, ma contiene uno spazio destinato alla manifestazione di
volontà del dichiarante, che, in questo caso, decide di destinare l’8x1000 al soggetto che
ritiene meritevole il dichiarante stesso, può essere la chiesa, enti che si occupano di sviluppo
e ricerca, ecc..
Si tratta di informazioni che hanno natura extrafiscale.
Un’altra distinzione è:
Dichiarazioni periodiche: sono periodiche quando i dati che si intendono comunicare si
riescono a un presupposto suscettibile di ripetersi nel tempo
- caso pratico è la dichiarazione dei redditi, che contiene dati, correlati a un presupposto,
con caratteristiche tali che si ripetono nel tempo.
Dichiarazioni occasionali: sono quelle che contengono dati che è necessario comunicare al
soggetto destinatario, ma hanno la peculiarità di essere suscettibili di restare costanti nel
tempo e non subire modificazioni.
Questo implica che la dichiarazione possa essere resa una volta soltanto, e non con
periodicità.
L’obbligo dichiarativo sorge se si verifica uno dei presupposti che determina l’obbligo
dichiarativo stesso, una volta esaurito, l’obbligo si estingue.
Il contenuto dell’obbligo si ritiene pacificamente assolto fin tanto che i dati, originariamente
dichiarati, non subiscono alcuna modificazione
Es. dichiarazione ai fini dell’imu: il principale presupposto in ragione del quale la
dichiarazione va presentata è l’acquisto della soggettività passiva ai fini dell’imu,
rappresentata, ad esempio, dall’acquisto di un immobile, in dipendenza del quale sorge
l’obbligo.
Se il soggetto acquista un immobile nel territorio comunale, è pacifico che dovrà
comunicare al comune questo accadimento, perché l’acquisto dell’immobile determina la
sua soggettività passiva ai fini del tributo.
All’interno di questa dichiarazione è prevista che siano comunicati una serie di dati
funzionali, al corretto assolvimento dell’obbligazione tributaria IMU.
I dati che il soggetto passivo comunica nel momento in cui rende la dichiarazione sono
suscettibili di rimanere inalterati per un numero consistente anni, se l’immobile non subisce
modificazioni, nella sua consistenza o nella sua estensione, ( che sono caratteri che incidono
sulla dichiarazione imu).
Nell’eventualità in cui i dati dovessero restare immutati nel tempo, la dichiarazione già
presentata nel momento in cui è stata acquisita la soggettività passiva, non dovrà più essere
ripetuta.
Negli anni successivi il soggetto passivo non andrà in contro ad una ripetizione della
dichiarazione, perché i dati già dichiarati si considerano già pacificamente confermati e non
sorgerà alcun nuovo obbligo dichiarativo da assolvere, fin quando non vi saranno nuove
modificazioni, da cui sorgerà il nuovo obbligo dichiarativo.
DICHIARAZIONI FONDAMENTALI.
- Dichiarazione ai fini dell’iva: termine per presentare la dichiarazione è il 30 aprile

Diritto tributario Pagina 48


- Dichiarazione ai fini dell’iva: termine per presentare la dichiarazione è il 30 aprile
- Dichiarazione ai fini dell’IRAP: 30 novembre termine ultimo.
- Dichiarazione del sostituto di imposta.
- dichiarazione dei redditi. 1. Generalità: deve obbligatoriamente essere presentata
tendenzialmente da tutti i contribuenti.
Tutti i contribuenti che possiedono reddito devono compilarla, ma dire che indistintamente
TUTTI devono compilarla non è corretto, usiamo infatti l’avverbio “tendenzialmente”.
Ci sono soggetti che non vanno in contro all’obbligo dichiarativo.
Sono investiti dell’obbligo dichiarativo, in qualsiasi caso, gli imprenditori e gli esercenti arti e
professioni, abbiamo infatti detto che questi soggetti hanno obbligo dichiarativo anche
quando il periodo d’imposta abbia lasciato emergere una perdita.
L’ipotesi per cui l’obbligo dichiarativo non sussiste è rappresentata dai soggetti che
percepiscono i redditi per i quali è prevista l’applicazione dell’imposta sostitutiva, e quindi
della ritenuta a titolo d’imposta.
Questi soggetti hanno prodotto pacificamente un reddito, ma magari si tratta di reddito
appartenente a particolari categorie per le quali è previsto che deve essere il sostituto a
prevedere l’adempimento dell’imposta, per cui il sostituito, pur avendo percepito il reddito,
non andrà neanche in contro ad obblighi neppure formali. (l’obbligo formale per eccellenza
è proprio quello di presentare la dichiarazione dei redditi).
2. Annualità: è una dichiarazione pacificamente ascrivibile alla categoria dichiarazioni
periodiche, devono quindi essere dichiarati i dati relativi all’incremento di ricchezza che
viene misurato all’interno di un determinato arco temporale, normalmente va dal 1°
gennaio al 31 Dicembre di ogni anno.
È quindi una dichiarazione di imposta volta alla misurazione di un presupposto, il possesso
di reddito, che va misurato con riferimento a un determinato arco temporale, suscettibile di
ripetersi nel tempo. 3. Unicità: intendiamo far riferimento alla caratteristica in forza della
quale l’imposta è tendenzialmente unica, una e basta, quando dichiamo che sia
tendenzialmente unica, questo significa che alla dichiarazione dei redditi ne possa seguire
un’altra, facciamo riferimento all’ipotesi per cui la dichiarazione contenga un errore, che
determina conseguenze sul risultato della dichiarazione stessa, può infatti incidere sul
calcolo della base imponibile e conseguentemente sul calcolo dell’imposta, in questo caso il
requisito della unicità non può opporsi alla possibilità che questa dichiarazione, entro
determinati limiti legislativi stabiliti per legge, possa essere modificata.
La dichiarazione se errata, può ovviamente essere modificata.
La dichiarazione è tendenzialmente unica, ma nell’ipotesi in cui si ritenga che sia affetta da
errore si ammette la sua correzione, come previsto dal nostro sistema.
4. Analitica: è infatti una dichiarazione estremamente dettagliata, si richiede una analitica
esposizione di tuti i dati ritenuti rilevanti per la corretta liquidazione del tributo.
La professoressa dice che ci dobbiamo andare a guardare una dichiarazione nel sito
dell’agenzia delle entrate. Ovviamente non lo farà nessuno, però ve lo dico perché ormai
l’ho scritto e mi secca cancellare. Fine momento divertente.
5. Personalità: questa peculiarità risente in maniera determinante della scelta, a monte
operata dal legislatore, in ossequio del principio sancito dall’art 53 cost, di disciplinare
un’imposta sul reddito che tenga conto delle condizioni familiari e personali del
contribuente.
L’imposta sul reddito è quindi un’imposta improntata sul rispetto del principio di personalità
della capacità contributiva.
È il tributo per eccellenza che determina il rispetto dell’art 53 cost. abbiamo detto, in
relazione del principio di progressività, che non è necessario che tutti i tributi siano
progressivi, ma e indispensabile che sia progressivo il tributo che determina il maggior
gettito, e questo è appunto il caso dell’Irpef.
Dunque, quando parliamo di modello dichiarativo, non possiamo che ritrovare nella
disciplina del modello dichiarativo la puntuale considerazione di questo carattere proprio

Diritto tributario Pagina 49


disciplina del modello dichiarativo la puntuale considerazione di questo carattere proprio
del tributo che ci accingiamo studiare.
Ogni dichiarazione contiene esclusivamente i dati relativi al dichiarante, dati che ineriscono
non soltanto presupposto, il dichiarante dichiara il reddito da sé prodotto non il reddito
prodotto da altri, salva l’ipotesi dei genitori che sono soggetti all’obbligo dichiarativo per
conto dei figli minori.
La personalità del modello dichiarativo si evince anche sotto altri profili, come tutte le
informazioni che il dichiarante è tenuto a rendere con riguardo alla posizione del proprio
nucleo familiare.
La struttura e la composizione del nucleo familiare è un elemento determinante che
consente di attribuire al modello dichiarativo cui ci riferiamo il carattere della personalità.
Un ulteriore profilo che attiene alla personalità della modello dichiarativo lo troviamo con
riguardo alla vincolatività.
6. Vincolatività: è obbligo giuridico che scaturisce dalla presentazione del modello stresso,
investe esclusivamente il soggetto che presenta il modello. Così come anche l’obbligo di
pagare le sanzioni amministrative per qualsiasi infedeltà fosse correlata alla dichiarazione
stessa.
QUALI SONO I CARATTERI DELLA DICHIARAZIONE DEI REDDITI?
Tutte le dichiarazioni, potevano essere presentate attraverso un modello dichiarativo unico,
oggi non ha più senso parlare di “modello unico”, perché le dichiarazioni annuali sono
tornate in modalità autonoma.
La scelta di tornare al modello di dichiarazione singola sganciato da un contesto
documentale al cui interno tutte le dichiarazioni potevano essere trovate, nasce
dall’esigenza di consentire una distinzione dei termini di presentazione, quando vigeva
l’obbligo di presentare il modello unico, era unica anche la scadenza per le presentazioni
delle dichiarazioni contenute nell’unico modello.
Tornando alle dichiarazioni singole, come sono approvate oggi tramite il provvedimento del
direttore dell’agenzia delle entrate, andiamo incontro a un divergente termine di scadenza
per la presentazione.
Es. il termine per la presentazione della dichiarazione IVA scade il 30 Aprile
Il termine per la presentazione della dichiarazione dei redditi e IRAP scade il 30 Novembre.
Si è quindi tornati ad una disciplina diversificata del termine di presentazione, mentre poi è
previsto che la dichiarazione del sostituto d’imposta debba essere presentata entro il 30
ottobre.
NATURA GIURIDICA DELLA DICHIARAZIONE DEI REDDITI.
Dal punto di vista temporale e storico si sono succedute diverse teorie circa la natura della
dichiarazione dei redditi.
1) Secondo una prima impostazione la dichiarazione avrebbe natura di negozio giuridico,
questa tesi non può essere condivisa in quanto il negozio giuridico è una manifestazione di
volontà diretta alla produzione di determinati effetti che l’ordinamento riconosce e tutela,
ma gli effetti del negozio giuridico si verificano perché il soggetto li vuole, occorre la
volontarietà del soggetto che conclude il negozio stesso.
Dire che la dichiarazione dei redditi, come le imposte in generale sono ascrivibili al Genius
del negozio giuridico non è da condividere, dato che viene trascurato un elemento
fondamentale dato dalla natura legale dell’obbligo, nel senso che a presidio dell’obbligo non
vi è la volontà del soggetto ma la legge stessa.
2) Secondo una diversa prospettazione, la dichiarazione avrebbe natura confessoria, anche
questa teoria lascia insoddisfatti, perché la confessione è la dichiarazione che una parte fa
ad un’altra di fatti a sé sfavorevoli, ma la dichiarazione dei redditi non necessariamente si
conclude con l’emersone di fatti sfavorevoli al dichiarante, perché può avvenire che può che
dalla dichiarazione emerga, per il soggetto che la presenta, un credito.
Quindi se dalla presentazione della dichiarazione può emergere un credito, è pacifico che
non possiamo ritenere che la dichiarazione abbia necessariamente natura giuridica

Diritto tributario Pagina 50


non possiamo ritenere che la dichiarazione abbia necessariamente natura giuridica
confessoria.
3) La terza prospettazione è quella che ha sollevato unanime consenso: la dichiarazione dei
redditi è una dichiarazione di scienza qualificata, questa definizione porta al suo interno una
serie di significati pienamente condivisibili.
Dire che si tratta di una dichiarazione di scienza è certamente corretto, perché attraverso
questo adempimento il soggetto dichiarante rende note al destinatario dati ed elementi di
cui il destinatario non è a conoscenza e che sono sotto la disponibilità del dichiarante.
Sotto questo profilo possiamo concludere che si tratta di una dichiarazione di scienza.
Ma la tesi si spinge oltre, ci dice di più, possiamo qualificare la dichiarazione dei redditi una
dichiarazione di scienza “qualificata” nel senso che, non viene resa come si vuole, ma nel
rispetto delle disposizioni di legge, quindi si presuppone che il dichiarante abbia selezionato
i fatti oggetto della comunicazione li abbia descritti piegando quei fatti al modello
dichiarativo, facendone prima una selezione ma li rappresenterà attraverso l’utilizzo del
modello dichiarativo, è quindi opportuno che li abbia dichiarati nelle forme previste dalla
legge.
Per questo si tratta di una dichiarazione di scienza qualificata, che deve ammettere, al
contribuente la possibilità di provvedere alla sua rettifica, perché sia nell’attività di selezione
dei fatti da dichiarare, che nell’attività di narrazione all’interno del modello dichiarativo, il
contribuente può incorrere in errore.
La dichiarazione può quindi essere emendata, corretta.
L’errore può porsi sia nel momento della selezione del fatto: l’errore commesso non si
traduce nella erronea rappresentazione all’interno del modello dichiarativo, è un errore
commesso anche solo nell’avere dimenticato di includer un dato fiscalmente rilevante
all’interno della dichiarazione stessa.
L’errore emendabile non è soltanto l’errore della rappresentazione del fatto all’interno della
dichiarazione, ma è anche l’errore commesso da chi ha erroneamente selezionato i fatti da
rappresentare, escludendone alcuni e dando rilievo ad altri.
Riconoscere alla dichiarazione dei redditi la laurea giuridica di dichiarazione di scienza
qualificata, consente di pervenire all’idea che la dichiarazione possa essere oggetto di
correzione di un errore che deve incidere sul risultato della dichiarazione.
La dichiarazione è emendabile anche per includere un reddito che si era trascurato di
dichiarare, la dichiarazione può essere infedele o incompleta: - infedele: l’errore cade nel
dato dichiarato, il dato è quindi presente ma è stato erroneamente rappresentato
all’interno del modello dichiarativo, e viene modificato - incompleta: può essere emendata,
l’errore è nella selezione dei dati da dichiarare, non nel modo in cui il dato è stato
rappresentato nella dichiarazione.
La codificazione del principio della correzione della dichiarazione è prevista nel nostro
sistema da molti anni e la ritracciamo all’interno del D.P.R n. 322/1998 art 2.
Per la prima volta il nostro sistema codifica espressamente la rettifica della dichiarazione, la
norma è riferita non solo alla dichiarazione dei redditi ma anche alla dichiarazione iva e Irap.
Nonostante la giovane età di questo principio, si tratta di un principio che è stato
fortemente controverso e oggetto di decisi interventi della giurisprudenza che ne hanno
dovuto chiarire il contenuto, e ha subito una consistente rivisitazione da parte del
legislatore.
VUOLE CHE LEGGIAMO IL CONTENUTO DELLA NORMA, LO “P R E T E N D E”.
La norma ha subito una radicale modificazione nella sua stesura da parte del legislatore, che
si è resa indispensabile a causa dei consistenti interventi della giurisprudenza, affermando
una interpretazione della norma che non trovava alcun riscontro nel testo normativo, per
cui si è scelto di rivederne il contenuto.
La stesura che leggiamo oggi è quella ultima determinata dalla stesura voluta dal legislatore.
PRIMA
La norma prevedeva una differenza tra due diverse ipotesi, quindi non era una disciplina

Diritto tributario Pagina 51


La norma prevedeva una differenza tra due diverse ipotesi, quindi non era una disciplina
unitaria. 1) Dichiarazione rettificativa a favore del contribuente: ricorre tutte le volte in cui il
contribuente presenta una seconda dichiarazione, e con l’intento di modificare la
precedente dichiarazione, quantifica una base imponibile, e quindi un’imposta dovuta, più
bassa rispetto alla dichiarazione originaria recante l’errore. (danno per l’amministrazione
finanziaria, dato che implica una restituzione) 2) Dichiarazione rettificati a sfavore del
contribuente: è quella che ricorre in tuti i casi in cui, il contribuente, con la finalità di
eliminare l’errore, presenta una dichiarazione nella quale quantifica una base imponibile e
un’imposta dovuta maggiore rispetto a quella prevista nella dichiarazione precedente.
(vantaggio per l’amministrazione finanziaria, dato che implica un’entrata)
Nella precedente stesura dell’art 2 co.8 del d.P.R del 1998, avremmo trovato che un’ipotesi
era disciplinata in un modo, l’altra in un altro, sotto il profilo del tempo, cioè la scadenza.
Quando la dichiarazione era rettificativa a sfavore del contribuente il termine per la
rettifica consentito al contribuente era più ampio, la norma prevedeva che il contribuente
avrebbe potuto rettificare entro lo stesso termine previsto per l’esercizio dell’attività di
accertamento da parte dell’amministrazione finanziaria.
Ratio: il risultato a cui la rettifica avrebbe fatto pervenire era lo stesso risultato al quale
sarebbe pervenuta l’amministrazione finanziaria se avesse esercitato l’attività istruttoria (di
controllo), allora la norma prevedeva che la rettifica della dichiarazione a sfavore sarebbe
stato previsto allo stesso termine previsto per l’accertamento da parte dell’amministrazione
finanziaria.
Il termine era: entro il 31 Dicembre del quarto anno successivo rispetto a quello in cui fu
presentata la dichiarazione.
Quando la dichiarazione era rettificativa a favore del contribuente: la correzione poteva
essere effettuata in un termine più ridotto.
Il termine era quello previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo
d’imposta successivo.
Es. errore fatto nel 2016, il periodo successivo è il 2017, il termine previsto è il 30 novembre
2018.
Quindi c’era uno sfasamento temporale evidentissimo, e la giurisprudenza è intervenuta
censurando un’interpretazione della norma che si era iniziata ad espandere nelle corti di
merito.
La giurisprudenza ha proposto di interpretare la norma, non come una norma modificativa
dei termini, ma come una norma che consente la rettifica della dichiarazione a favore del
contribuente,
entro il termine più ristretto già visto, con un unico obbiettivo: quello di ottenere il diritto
alla compensazione immediata del credito.
Se la dichiarazione è a favore comporta l’emersione di un credito, e il contribuente lo
volesse subito utilizzare per compensare altri debiti in altre imposte, senza richiedere il
rimborso (dato che ha tempi molto più lunghi), allora il termine è più ampio.
Ma se il contribuente dovesse richiedere il rimborso, allora il termine deve essere
omogeneo, non si può fare distinzione tra rettifica di dichiarazione a favore e a sfavore del
contribuente.
Il termine più breve presti dall’art 2 per la dichiarazione rettificativa a favore del
contribuente è un termine che vuole soltanto circoscrivere i soggetti che se lo rispettano
hanno diritto a compensare subito la somma di cui avrebbero diritto alla restituzione.
Se invece, non volessero compensare, ma volessero il rimborso, allora potrebbero accedere
al più ampio termine previsto per la dichiarazione rettificativa a sfavore del contribuente.

Diritto tributario Pagina 52


LEZIONE 8 (18/03/21)
martedì 26 ottobre 2021 19:52

Iniziamo la lezione di oggi completando l’argomento della lezione precedente.


Il problema che si è posto è di natura interpretativa sull’articolo 2 d. 322, che poi è stato
risolto in via giurisprudenziale perché la corte di Cassazione aveva, prima delle modifiche
normative, reso un’interpretazione costituzionalmente orientata di tale art.2, sostenendo
che il termine per accedere alla correzione della dichiarazione doveva essere interpretato
come un termine unitario, quindi pari in tutti i casi al 31 dicembre del quarto anno
successivo a quello in cui la dichiarazione è stata presentata, salvo che consentire a coloro
che avessero presentato una dichiarazione rettificativa a favore, la possibilità di utilizzare il
credito risultante dalla nuova dichiarazione, immediatamente in compensazione: dunque
questo è l’unico vantaggio che avrebbero potuto beneficiare coloro che, in tempi
estremamente rapidi, avessero provveduto alla presentazione della dichiarazione
rettificativa a favore. Coloro che, invece, non l’avessero fatto in tempi tanto tempestivi,
avrebbero comunque potuto fare la dichiarazione rettificativa a favore, rinunziando però
alla possibilità di utilizzare quel credito in compensazione, quindi adeguandosi all’unica
possibilità residua, cioè chiedere il credito al rimborso, dunque piegandosi ad un’attesa più
lunga, che è quella che contraddistingue i tempi di rimborso nel nostro sistema.
Come è intervenuto il legislatore per adeguare l’art.2 alla posizione della giurisprudenza?
Oggi non esiste più una diversificazione tra le due fattispecie: quindi il termine per
procedere alla rettifica della dichiarazione è ormai un termine unitario ed è stabilito nel
termine, già previsto da altra norma a carico dell’amministrazione finanziaria, per procedere
all’accertamento.
La norma dell'articolo 2 non dice “31 dicembre del quarto anno successivo alla
presentazione della dichiarazione”, ma dice “termine previsto per l’accertamento” e
richiama puntualmente l’art.43 del d.P.R n.600/1973: il che ha il suo significato, in quanto il
termine previsto per l’amministrazione finanziaria per procedere all’accertamento, nel corso
degli anni ha subito delle modifiche, che vengono automaticamente recepite
nell’applicazione della norma e, dunque, se questo termine dovesse subire un
allungamento, questo varrà per la presentazione della dichiarazione rettificativa del
contribuente.
LE IMPOSTE OPERANTI NEL NOSTRO SISTEMA
• Per quanto riguarda le imposte DIRETTE, abbiamo già detto che sono imposte generali,
come
L’IRPEF, che è personale, progressiva e per scaglioni aggiuntivi; l’IRES, che è proporzionale in
quanto prevede un’aliquota unica oggi pari al 24%, priva del requisito di personalità e,
proprio come l’IRPEF, è un’imposta fondamentale del nostro ordinamento.
Nel quadro delle imposte reddituali un peso incrementale hanno le IMPOSTE SOSTITUTIVE:
producono un gettito modesto generalmente, hanno l’obiettivo di sottrarre all’applicazione
dell’imposta progressiva alcune manifestazioni di capacità contributiva, in particolare il
possesso di reddito. Dunque si sottrae o l’applicazione dell’aliquota marginale dell’IRPEF o,
in alcuni casi, l’applicazione dell’imposta proporzionale IRES.
• Per quanto riguarda le imposte INDIRETTE, invece, sono sui consumi o sui trasferimenti.
Imposte indirette sui consumi
Quella più importante è l'IVA, imposta plurifase sul valore aggiunto. Con ciò si intende che il
tributo deve essere applicato a ciascuna fase di produzione e commercializzazione del bene
o servizio, fintantoché non raggiunge la fase consumo.
Il meccanismo di applicazione dell'IVA prevede che un prodotto venga realizzato e
successivamente commercializzato e consumato in tre fasi:
1. Corre tra il produttore(A) e il distributore/grossista (B)

Diritto tributario Pagina 53


1. Corre tra il produttore(A) e il distributore/grossista (B)
2. Corre tra il distributore/grossista(B) e dettagliante (C)
3. Corre tra dettagliante(C) e consumatore(D)
ESEMPIO:
Ipotizzando che il bene venga creato da A, che vende il bene a B, applicando un prezzo pari a
100, aggiungendo un’aliquota del 20%, che è l’iva, così che B pagherà un prezzo complessivo
di 120.
Lo stesso prodotto viene venduto da B a C, ovviamente ad un prezzo maggiore rispetto a
quello pagato al suo fornitore, pari a 150 cui dovrà essere aggiunta l’IVA, che poniamo
sempre al 20%: in definitiva C dovrà pagare a B una somma complessiva di 180.
Immaginiamo ancora che C venda ancora il prodotto a D, consumatore finale, al prezzo di
200, cui dovrà essere aggiunta l’IVA: dunque, D pagherà a C il prezzo finale di 240.
In ogni fase viene, quindi, applicata l'IVA e l'importo complessivo di volta in volta aumenta.
Tale imposta poi si definisce a pagamenti frazionati: il meccanismo di applicazione del
tributo prevede che il soggetto passivo debba procedere ad una pluralità di versamenti
all’erario in tante occasioni quanti sono i passaggi che ciascun servizio subisce.
Altre imposte sui consumi, che producono un gettito però inferiore rispetto a quello
prodotto dall’IVA, sono sicuramente le ACCISE: mente l'IVA è plurifase, l'accisa è monofase,
cioè colpisce una sola fase. Infatti possiamo distinguere a tale riguardo le imposte di
fabbricazione e l'imposta di consumo: nelle prime l’accisa si applica nella fase di
fabbricazione ( esempio classico è quello dell’accisa sugli oligominerali, quindi sulle benzine:
in questo caso l’accisa è un’imposta di fabbricazione perché si applica esclusivamente alla
fase di fabbricazione); quando parliamo di imposte di consumo, intendiamo riferirci
all’accisa che si applica ad altra categoria di prodotti (quali ad esempio il gas metano e
l’energia elettrica: in questo caso l’accisa non si applica alla fase della produzione, ma alla
fase del consumo).
L'accisa grava esclusivamente solo su particolari categorie di prodotti, dunque non si tratta
sicuramente di un’imposta generale e, peraltro, altra caratteristica di questa imposta è
rappresentata dal fatto che non sono applicate sul prezzo, ma ad un’unità di misura che
esprime la quantità del bene prodotto o consumato che si vuole sottoporre a tassazione.
Inoltre le accise si applicano tramite una misura fissa proprio attraverso l’unità di misura del
prodotto che si intende sottoporre a tassazione e non tramite aliquote.
Altra differenza fondamentale tra le accise e l’IVA risiede nel fatto che mentre per l'IVA è
prevista l'obbligo di rivalsa, per le accise no.
Un altro accenno utile è ai DAZI DOGANALI, che sono applicati per il transito di merci tra
paesi dell'UE e paesi extra UE.
Oggi è accentrata a livello europeo perché è prevista un’unica tariffa doganale (esempio:
una merce importata dagli USA dovesse entrare in Europa attraverso il confine francese,
subirà l’applicazione di un dazio doganale esattamente equivalente a quello che troverebbe
applicazione se entrasse in Europa valicando i confini italiani).
Imposte indirette sui trasferimenti
Il nostro sistema conosce moltissime imposte che colpiscono i trasferimenti: l'imposta di
registro, sulle successioni e donazioni, imposta ipotecaria e catastale, ecc., riscosse tramite il
registro; altre invece sono riscosse tramite il bollo, come l'imposta di bollo, tasse sulle
concessioni governative. Dunque vediamo che esiste questa grande bipartizione che
distingue le imposte a seconda che siano riscosse tramite il sistema del registro o con il
sistema del bollo.
Esistono anche IMPOSTE SOSTITUTIVE delle imposte indirette riscosse col sistema del bollo.
TRIBUTI REGIONALI E LOCALI
Per accennare altri tributi, facciamo riferimento all’IRAP e ai TRIBUTI LOCALI
FONDAMENTALI.
L’IRAP è l'imposta regionale sulle attività produttive: è il più importante tra i tributi
regionali, il cui gettito è del tutto indirizzato alle Regioni. Esso investe tutte le attività

Diritto tributario Pagina 54


regionali, il cui gettito è del tutto indirizzato alle Regioni. Esso investe tutte le attività
organizzate all'interno della Regione. È un’imposta proporzionale, con aliquota
particolarmente bassa che si giustifica in ragione della elevatezza
della base imponibile. Le regole per la determinazione della base imponibile dell’lRAP sono
regole abbastanza peculiari, perché sono tante quanti sono i soggetti passivi: non esiste
un’unica regola per la determinazione della base imponile IRAP, ma esistono tante regole,
articolate e complesse, quanti sono i soggetti passivi, per categoria, che sono obbligati
all’applicazione del tributo stesso (nel d.lgs 446/1997 è contenuta una serie numerosa di
norme preposte alla liquidazione e quantificazione della base imponibile).
I tributi locali più importanti sono la TARI e l’IMU (non include la TASI perché dal 1 /1/ 2020
è stata abrogata). L'abrogazione della TASI non ha ridotto però il gettito, dunque nessun
vantaggio dal punto di vista della diminuzione del carico fiscale a favore dei contribuenti,
perché l'aliquota della TASI è stata spostata sull’IMU, cosicché l’aliquota base dell’IMU è
stata corrispondentemente elevata, per non compromettere il gettito per gli enti locali. La
scelta del legislatore è stata sicuramente orientata da una scelta di semplificazione del
sistema.
ORGANIZZAZIONE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA
È fondamentale chiarire cosa sia l'organizzazione finanziaria, che è articolata in un numero
elevato di soggetti.
Fino al 1999 il rapporto giuridico di imposta, che ciascun contribuente istaurava, veniva
gestito dagli uffici periferici del Ministero delle finanze, che avevano una competenza
limitata per ogni singola imposta.
Sia l’ufficio generale delle imposte dirette sia l'ufficio provinciale IVA a livello locale, erano
articolazioni del Ministero delle finanze.
A livello regionale poi esisteva la direzione regionale delle entrate, che permane anche dopo
la riforma del 1999, ma che prima aveva solo compiti di natura organizzativi per assicurare
l'ottimale svolgimento di questi uffici.
Nel 1999 avviene una riforma sostanziale dell’organizzazione dell’amministrazione della
giustizia, ordinata tramite una legge fondamentale, la l.300/1999 con la quel si sceglie
radicalmente di modificare l’assetto dell’organizzazione finanziaria istituendo quattro diversi
enti pubblici economici: le AGENZIE.
Questi enti pubblici economici sono soggetti giuridicamente distinti dallo Stato: dunque
l’amministrazione finanziaria viene riconfigurata sotto il profilo soggettivo, proprio
attraverso questi quattro enti pubblici economici e la predisposizione di funzioni spettanti a
tali soggetti.
Tali agenzie sono:
• Agenzia delle entrate: l'agenzia è il soggetto al quale demandare la gestione di tutti i
tributi tranne dazi, accise e monopoli, che sono attribuiti alla competenza dell’agenzai delle
dogane.
• Agenzia delle dogane
• Agenzia del demanio: è demandato il compito di gestirei beni del demanio
• Agenzia del territorio: era demandato il compito di gestire il catasto, la conservatoria dei
registri immobiliari. Tale agenzia non esiste più, ma le competenze sono attribuite
all’agenzia delle entrate.
Qual è l’obiettivo perseguito dalla legge n.300/1999, che ha ridisegnato l’organizzazione
dell’amministrazione finanziaria?
Essenzialmente è stato quello di attribuire le funzioni e le attività, che prima erano
demandate al Ministero delle finanze, alle agenzie, che sono enti pubblici interamente
appartenenti allo Stato ma dotato di autonomia organizzativa e soggettività distinta rispetto
allo Stato.
Come si articola, quindi, il rapporto tra Stato e Agenzie?
È articolato attraverso la stipula di apposite CONVENZIONI: il Ministero delle finanze stipula
apposite convenzioni con l’agenzia delle entrate all’ interno delle quali viene previsto quali

Diritto tributario Pagina 55


apposite convenzioni con l’agenzia delle entrate all’ interno delle quali viene previsto quali
sono le funzioni che vengono demandate all’agenzia e quali sono le somme di denaro che
l’agenzia ha diritto a percepire per lo svolgimento delle funzioni che le vengono attribuite.
L’Agenzia delle entrate è, dunque, l’interlocutore unico, insieme all’agenzia delle dogane,
con le quali entra in relazione il contribuente nella gestione del rapporto giuridico di
imposta.
Come è articolata l’Agenzia delle entrate?
Ha sede unica a Roma e una serie di uffici periferici all’interno dell’intero territorio
nazionale. Esiste però una differenza sostanziale tra i vecchi uffici del Ministero delle finanze
e gli odierni uffici periferici dell’agenzia delle entrate: così come l’agenzia delle entrate ha
competenza a gestire tutti i tributi, esclusi dazi, accise e monopoli, così accade per gli uffici
periferici, che hanno competenza alla gestione dei rapporti giuridici di imposta con i
contribuenti che hanno il domicilio fiscale all’interno del rispettivo territorio. Gli uffici
periferici non hanno necessariamente competenza provinciale: quando, dunque, per
esempio parliamo di direzione provinciale dell’agenzia delle entrate di Palermo, potremmo
essere indotti erroneamente a ritenere che la direzione provinciale abbia necessariamente
una competenza coincidente con l’intera provincia di Palermo, ma non è così. La
competenza delle direzioni provinciali è legata alla numerosità della popolazione del
territorio, quindi in una città particolarmente grande e con un’alta densità demografica, le
direzioni provinciali potrebbero essere più di una, proprio perché ognuna di esse ha la
competenza alla gestione di un certo numero di rapporti giuridici di imposta.
Il legame che unisce il contribuente con un determinato ufficio periferico dell’Agenzia delle
entrate è determinato dal suo domicilio fiscale.
Oltre alle direzioni locali, esiste un organo di livello intermedio che sono le Direzioni
regionali dell’Agenzia delle entrate. Tale organo esisteva anche prima della riforma
dell’organizzazione dell’amministrazione finanziaria ed oggi continua a svolgere ruoli
organizzativi e ad assicurare miglior funzionamento degli uffici periferici, non dimentichiamo
però che le direzioni regionali sono organismi ai quali nel corso del tempo il nostro
legislatore ha riservato lo svolgimento di mansioni di tutto rilievo. Ad esempio, nel 2008, è
stato espressamente previsto che dovessero svolgere attività istruttoria ed esercitare potere
di accertamento nei confronti di alcuni particolari contribuenti, i c.d. grandi contribuenti:
presentano volumi di affari particolarmente importanti rispetto ai quali l’unico soggetto
legittimato all’espletamento delle funzioni istruttorie e dell’esercizio di attività di
accertamento è la direzione regionale, non quella provinciale nel cui territorio avesse sede il
grande contribuente.
POTERI ISTRUTTORI
Sono i poteri strumentali all’esercizio del potere di accertamento. Le dichiarazioni
presentate dai contribuenti sono sottoposte a controllo da parte dell’amministrazione
finanziaria: il controllo svolto è finalizzato a verificare l’esattezza dei dati dichiarati, più in
particolare veridicità e completezza delle dichiarazioni. Essi sono strumentali all’esercizio del
potere di accertamento perché non sarebbe possibile per l’amministrazione finanziaria
esercitare l’attività di accertamento, se non dopo aver esercitato i poteri istruttori: solo
dopo l’amministrazione acquisisce la conoscenza di elementi utili ai fini dell’esercizio
dell’attività di accertamento. Il nostro sistema non prevede nessun termine di decadenza
entro il quale i poteri istruttori devono essere esercitati, ma prevede termini decadenziali
entro cui l’attività di accertamento deve essere effettuato: ciò significa che tale termine
include e si estende anche all’attività istruttoria, proprio perché quest’ultima è strumentale
all’attività di accertamento. I poteri istruttori sono molto numerosi, inizieremo ad analizzare
i tre più comuni: accesso, ispezione e verifica. Gli altri poteri non direttamente menzionati
sono, come i primi, dei poteri largamente invasivi e, quanto all’efficacia, sullo stesso piano
rispetto i primi tre, che trattiamo insieme semplicemente perché implicano l’accesso presso
i locali che entrano nella disponibilità del contribuente. Gli altri poteri, invece, possono
essere esercitati anche senza l’accesso presso i locali che entrano nella disponibilità del

Diritto tributario Pagina 56


essere esercitati anche senza l’accesso presso i locali che entrano nella disponibilità del
contribuente, ma non per questo sono meno invasivi e meno efficaci dei precedenti. Altri
poteri istruttori, oltre ad accesso, ispezione e verifica, sono sicuramente: l’invito a
comparire e fornire dati e notizie; l’invito a compilare questionari; l’invito ad esibire atti e
documenti; l’invito a rispondere alla richiesta di chiarimenti che ha per oggetto le operazioni
risultanti dai conti correnti bancari.
I primi tre sono accomunati dall’essere poteri necessariamente esercitati attraverso
l’occupazione dei locali che rientrano nella disponibilità del contribuente.
Accesso: consiste nell’accedere anche coattivamente nei locali di cui ha la disponibilità il
contribuente. L’accesso può essere ordinato anche in locali di cui hanno la disponibilità terzi
che con il contribuente hanno intrattenuto rapporti di natura economica. Affinché l’accesso
sia esercitato in maniera legittima, posto che si tratta di un potere che implica l’alterazione
della libertà del domicilio, interesse protetto a livello costituzionale (art.14 Cost.),
l’ordinamento prevede alcune condizioni: tali condizioni sono diverse a seconda
dall’interesse che in contribuente ha a mantenere la riservatezza dei locali in cui svolge la
sua vita, dunque cambiano e si vanno facendo via via sempre più intense a seconda che il
potere viene esercitato in un locale adibito all’attività commerciale o professionale , oppure
che venga adibito esclusivamente alla vita privata. Immaginiamo allora che
l’amministrazione finanziaria voglia esercitare il suo potere di accesso in un locale in cui è
svolta esclusivamente l’attività economica o professionale del contribuente: in questo caso
è necessario, da parte di coloro che accedono, munirsi esclusivamente di un’autorizzazione
che sarà rilasciata dal direttore della direzione provinciale dell’agenzia delle entrate. Tali
poteri istruttori possono essere esercitati legittimamente non soltanto da funzionari
dell’agenzai delle entrate, ma anche da parte delle Guardia di finanza: in quest’ultimo caso
l’autorizzazione deve essere rilasciata dal comandante di zona della Guardia di finanza. Pe
l’esercizio del potere di accesso presso uno dei locali in cui il contribuente svolge l’attività
economica o professionale, la legge prevede che debba essere presente anche il titolare
dello studio. Diverso è il caso in cui l’esercizio del potere di accesso deve essere effettuato
presso locali ad uso promiscuo, quali, ad esempio, quelli contestualmente adibiti ad
abitazione a locale in cui viene esercitata l’attività professionale: in questo caso è necessaria
un’autorizzazione rilasciata dalla Procura della Repubblica. Infine, tutte le volte in cui
l’accesso debba essere effettuato in locali adibiti esclusivamente ad uso abitativo il
provvedimento di autorizzazione all’accesso deve sempre essere rilasciato dal Procuratore
della Repubblica, ma l’elemento in più che la legge prevede debba essere sussistente è
rappresentato dall’indicazione, nel documento di autorizzazione, dell’esistenza di gravi indizi
di violazione.
Ispezione: una volta esercitato il potere di accesso, i funzionari dell’agenzia delle entrate o i
militari della Guardia di finanza, saranno nelle condizioni di procedere all’esercizio del
potere di ispezione. Essa consiste nella ricerca e nell’acquisizione di qualsiasi elemento utile
ai fini dell’indagine, è un’attività di ricerca che potrà avere ad oggetto non soltanto
l’acquisizione delle scritture contabili, ma qualsiasi elemento disponibile all’interno di quei
locali: non è infrequente, infatti, che durante tale attività siano rinvenute scritture
extracontabili eventualmente redatte su fogli di qualsiasi genere e tipo o addirittura
contenuti in file custoditi in pc rinvenuti all’interno dei locali. [N.B. Da non confondere con il
mandato di perquisizione, che viene esercitato durante le indagini di natura penale]
Verifica: consiste nell’esame della documentazione acquisita, qualunque essa sia: dunque
potrebbe anche trattarsi del reperimento di una scrittura privata, come un contratto che
dovrebbe essere soggetto ad obbligo di registrazione e non lo è stato. L’attività di verifica si
esaurisce in un raffronto tra quanto acquisito nel corso dell’ispezione e quanto dichiarato:
se tra essi dovesse sussistere una difformità tale da determinare una presunta occultazione
della base imponibile, sia pure solo in parte, allora è chiaro che la verifica si concluderebbe
con l’emersione di una maggiore base imponibile e conseguentemente con una maggiore
imposta dovuta da parte del soggetto sottoposto a controllo.

Diritto tributario Pagina 57


imposta dovuta da parte del soggetto sottoposto a controllo.
➢ Questi tre poteri, uno funzionale all’esecuzione dell’altro, culminano in un’attività che è
la redazione di un atto conclusivo di tale fase istruttoria, che prende il nome di: PROCESSO
VERBALE DI CONSTATAZIONE è un documento istruttorio conclusivo, riepilogativo di tutte le
violazioni che sono state rilevate durante l’attività svolta, ma non contiene alcuna
liquidazione delle maggiori
imposte dovute dal contribuente, che è un compito riservato dalla legge esclusivamente
all’amministrazione finanziaria, dunque all’ufficio che è titolare del potere di accertamento.
Quindi i soggetti che svolgono l’attività di verifica, quandanche fossero funzionari
dell’agenzia delle entrate, non potranno mai procedere alla determinazione della
liquidazione della maggiore imposta dovuta.
➢ Quanto alla documentazione relativa alla fase istruttoria la legge prevede non soltanto il
processo verbale di constatazione, ma anche il PROCESSO VERBALE DI VERIFICA. Mentre il
processo verbale di constatazione è documento riepilogativo degli esiti dell’attività
istruttoria, all’interno del quale sono rinvenibili tutte le violazioni riscontrate, il processo
verbale di verifica è un documento che viene quotidianamente redatto, in quanto si tratta di
un’attività estremamente complessa che richiede un dispendio di energie tale da non
potersi esaurire in un unico giorno, ma che deve necessariamente essere redatto
giornalmente. La differenza sostanziale tra processo di constatazione e processo di verifica
risiede nel fatto che quest’ultimo descrive soltanto il tipo di attività svolta dai verbalizzanti,
ma non ne illustra il contenuto, come le violazioni riscontrate in quella giornata.
Tornando allo studio degli altri poteri istruttori, ricordiamo che la differenza che corre con i
primi tre già esaminati sta nel fatto che questi che adesso tratteremo non implicano
l’accesso presso i locali di cui dispone il contribuente e che quindi possono essere esercitati
anche presso gli uffici dell’Agenzai delle entrate o della Guardia di finanza.
Potere di invito: l’ufficio può invitare il contribuente a comparire di persona per fornire dati
e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento nei suoi confronti. Nel caso in cui il contribuente
si presenti, ed è bene che lo faccia perché la mancata ottemperanza all’invito fa sorgere
l’irrogazione di sanzioni amministrative, avviene l’incontro con il funzionario che ha disposto
l’invito ed è prevista una attività di verbalizzazione: il verbale dell’incontro dovrà essere
sottoscritto dalle parti, sia dal funzionario che dal contribuente.
Potere di invito a compilare questionari: il destinatario viene invitato a compilare il
questionario e a restituirlo firmato, entro un termine normalmente stabilito il 15 giorni.
Anche in questo caso l’invito non è di pura cortesia, ma il destinatario è obbligato alla
compilazione del questionario, pena l’irrogazione di una sanzione amministrativa. L’invito a
compilare questionari non è necessariamente indirizzato al soggetto nei cui confronti
l’attività di indagine è in corso, ma può essere sottoposto a soggetti terzi che però abbaino
intrattenuto rapporti di natura commerciale o comunque fiscalmente rilevante con il
soggetto sottoposto a controllo. È un potere istruttorio molto importante e largamente
utilizzato dall’agenzia delle entrate perché formulando alcune domande a terzi è facilmente
riscontrabile in molti casi l’infedeltà della dichiarazione del soggetto sottoposto a controllo
Esempio: L’agenzia delle entrate ha acquisito dal comune i dati delle coppie che avevano
contratto matrimonio in un determinato periodo di imposta: acquisiti i dati anagrafici,
l’agenzia delle entrate ha mandato questionari direttamente indirizzati agli sposi, chiedendo
quale fosse l’impresa di catering che avesse gestito l’organizzazione del banchetto. Acquisite
queste informazioni, si è cercato di capire quanti fossero gli invitati, quanti coperti
effettivamente erano stati offerti ai commensali, il luogo in cui il festeggiamento si era
svolto, e, soprattutto, l’entità del corrispettivo, i tempi del pagamento e il modo. Da queste
informazioni legittimamente acquisite dall’agenzia delle entrate tramite i questionari
sottoposti agli sposi, è partita una serie di accertamenti nei confronti delle imprese che
avevano organizzato i banchetti: infatti, è stato rilevato che larga parte dei corrispettivi
ricevuti per i banchetti non erano stati dichiarati e, quindi, sottoposti a tassazione. Quindi
non attraverso un’attività di indagine particolarmente invasiva, mala semplice

Diritto tributario Pagina 58


non attraverso un’attività di indagine particolarmente invasiva, mala semplice
sottoposizione dei questionari ai clienti, l’agenzia delle entrate è stata in grado di emettere
altrettanti avvisi di accertamento
nei confronti delle imprese che avevano reso queste prestazioni di servizi. Possiamo dunque
affermare che si tratta di un potere abbastanza agevole, ma allo stesso tempo molto
efficace.
Potere di acquisire elementi tratti dai conti corrente bancari: è un potere istruttorio a cui
strettamente collegato un potere di accertamento assai invasivo. È un potere molto esteso e
originariamente traeva origine dalla richiesta degli uffici agli istituti di credito, e più in
generale agli intermediari finanziari, di una copia dei conti intrattenuti da un determinato
contribuente unitamente a tutti i dettagli delle operazioni risultanti dai predetti conti: una
volta ottenuti tali documenti, l’ufficio poteva invitare il contribuente a presentarsi per
acquisire ulteriori chiarimenti. Questa disciplina ha subito una consistente semplificazione
negli ultimi dieci anni, proprio perché non è più previsto che l’agenzia delle entrate debba
effettuare un’apposita richiesta per acquisire copia dei conti, ma tutte le informazioni sono
già automaticamente trasmesse dagli intermediari finanziari all’amministrazione finanziaria.
Dunque sono dati immediatamente disponibili all’agenzia delle entrate, che per disporre dei
quali non è più necessario effettui un’apposita richiesta. Acquisiti tutti questi dati, dunque,
l’agenzia delle entrate ne può disporre e ne dispone formulando una richiesta di chiarimenti
al contribuente sottoposto a controllo: con tale richiesta l’ufficio chiede al contribuente di
fornire la prova, su ciascuna operazione risultante dal rapporto intrattenuto con
l’intermediario finanziario, che quell’operazione, che sia di versamento o di prelevamento,
corrisponde a operazioni che hanno determinato un reddito regolarmente sottoposto a
tassazione oppure che si tratta di operazioni che hanno determinato un reddito
legittimamente non sottoposto a tassazione. Il controllo può interessare anche le operazioni
di prelevamento, ma solo per gli imprenditori: sono soggetti ai quali l’ordinamento chiede
chiarimenti in maniera legittima su tutte le operazioni, sia di versamento che di
prelevamento e in quest’ultimo caso l’ordinamento chiede di provare che ad ogni prelievo
corrisponde un costo regolarmente documentato ai fini dell’attività di impresa. Anche per le
operazioni di versamento è richiesto che sia provato che ad ogni versamento corrisponde un
ricavo effettivamente verificato e regolarmente documentato. Per quanto riguarda gli altri
soggetti diversi dall’imprenditore che svolgono però un’autonoma attività professionale,
con una sentenza della Corte Costituzionale è stato chiarito una volta per tutte che la
richiesta di chiarimenti da parte del professionista può essere legittimamente proposta solo
in relazione alle attività di versamento: dunque, anche in questo caso, il professionista dovrà
provare che tutti i versamenti corrispondono a compensi effettivamente percepiti e
regolarmente documentati o che si tratti di somme effettivamente percepite e
legittimamente non dichiarate (redditi che soggiacciono all’applicazione dell’imposta
sostitutiva). Per quanto il lavoratore dipendente, l’ufficio può formulare legittimamente la
richiesta di chiarimenti limitatamente alle operazioni di versamento: ad esempio perché
sembrerebbe strano se un soggetto che versa regolarmente la sua pensione a fine mese, ad
un certo punto versi una somma consistente e senza alcuna apparente giustificazione. Il
soggetto al quale è fatta la richiesta deve essere in grado di provare che quelle somme sono
state legittimamente versate perché regolarmente sottoposte a tassazione, oppure sono
state legittimamente versate e non dichiarate perché non sussisteva nessun obbligo di
includerle nella dichiarazione annuale (es. il versamento di una somma di denaro a seguito
di una successione mortis causa).
Quindi vediamo come questo potere istruttorio è particolarmente importante, soprattutto
in relazione al potere di accertamento, che di seguito analizzeremo.
DOMANDA DI UN COLLEGA: possono essere richiesti chiarimenti su una somma di denaro
vinta ad una lotteria? Si, ma si tratterà di una somma legittimamente non dichiarata in
quanto già sottoposta tassazione attraverso l’imposizione di un’imposta sostitutiva. Dunque
si tratta sicuramente di un accertamento che esclude ogni ricaduta negativa a danno del

Diritto tributario Pagina 59


si tratta sicuramente di un accertamento che esclude ogni ricaduta negativa a danno del
contribuente.
Quando l’imprenditore riesce a fornire chiarimenti su alcune operazioni e non su altre,
accade che in maniera legittima l’ufficio applica una presunzione legale che pone ad oggetto
dell’avviso di accertamento rettificando il contenuto della dichiarazione annuale. Cos’è la
presunzione legale? Presunzione stabilita dalla legge attraverso la quale il legislatore
stabilisce da sé che l’esistenza del fatto ignoto deve essere considerata provata sulla base
dell’esistenza di alcuni fatti noti: la legittimità della presunzione legale è in re ipsa, nel senso
che la legittimità del ragionamento presuntivo è già stata preventivamente valutata dal
legislatore stesso, dunque è indiscutibile. Dire che si tratti di una presunzione legale non
vuol dire però che si tratta di una presunzione assoluta, perché può essere una presunzione
relativa, in cui è ammessa la prova contraria e il contribuente può difendersi
dall’applicazione della presunzione, ma solo se sarà effettivamente in grado di fornire la
prova contraria, altrimenti si applicherà la presunzione legale, per cui se ne ricorrono i
presupposti, il risultato a cui mira, cioè affermare l’esistenza del fatto ignoto, è
assolutamente legittimo, possibile ed inequivocabile.
Nel caso in cui, invece, l’imprenditore non sia stato in grado di fornire le giustificazioni
richieste su tutte le operazioni oggetto della richiesta di chiarimenti, l’ufficio applicando la
presunzione legale può legittimamente presumere che tutte le operazioni non giustificate
corrispondano a ricavi di cui è stata omessa l’annotazione: cioè, ricavi non sottoposti a
tassazione e, dunque, una base imponibile IRPEF maggiore rispetto a quella dichiarata.
Dunque l’ufficio è legittimato, applicando la presunzione legale, a dare per provata
l’esistenza di maggiori ricavi pari all’importo delle operazioni per la quali la giustificazione
non è stata resa. I maggiori ricavi non sono solamente quello che corrispondono alle
operazioni di investimento, ma anche quelli che corrispondono a prelevamento: la Corte di
Cass. ha ritenuto a più riprese che è facile ipotizzare che ad ogni prelevamento non
giustificato sia corrisposto l’acquisto di merce a cui sarà seguita una cessione che avrà
determinato all’imprenditore un ricavo di ammontare almeno pari al costo sostenuto.
Questa disciplina è stata operante anche per i professionisti fino alla sentenza della Corte
Costituzionale del 2014, che ha escluso che per i professionisti la presunzione possa essere
estesa anche alle operazioni di prelevamento.

Diritto tributario Pagina 60


LEZIONE 9 (22/03/21)
martedì 26 ottobre 2021 19:52

Avevamo terminato di spiegare i poteri di indagine bancaria con conseguente accertamento fondato
sulle risultanze delle indagini bancarie … Avendo sommariamente elencato i poteri istruttori nella
lezione precedente , riprendiamo lo studio dalle richieste che possono essere rivolte a terzi non
soltanto con la richiesta di fornire informazioni ma anche la richiesta di esibire documenti; dunque
l’agenzia delle entrate di finanza possono senz’altro rivolgere richieste a terzi( cioè quei soggetti
diversi da quello nei confronti del quale l’attività di controllo è in corso) e può essere chiesto al
destinatario non soltanto di rispondere alle domande poste ma anche di esibire documenti
attestanti rapporti intercorsi con il soggetto sottoposto a controllo. La richiesta di chiarimento e di
esibizione nel caso in cui sia rivolta a terzi, dovrà essere oggetto di necessaria verbalizzazione (quindi
dovrà essere redatto processo verbale). Nel caso in cui l’ufficio dovesse ritenere di particolare
interesse le informazioni acquisite attraverso l’esercizio di questo potere istruttorio, è facile
ipotizzare che il contenuto del processo verbale sarà tradotto all’interno del processo verbale di
constatazione. Quest’ultima circostanza implica l’introduzione nel processo tributario ( sia pure
attraverso il processo verbale di constatazione) delle dichiarazioni rese da terzi . Ma quando
studierete il processo tributario , scoprirete che esiste espressamente il divieto di prova testimoniale
… questo pone un grande interrogativo di primo rilievo sul tema: nel processo verbale esiste questo
divieto ma attraverso il deposito del processo verbale di constatazione da parte dell’ufficio in
pendenza del giudizio è possibile surrettiziamente (e cioè attraverso il deposito) introdurre le
dichiarazioni dei terzi rese durante le attività di indagine, così inserendole nel processo (nonostante
il divieto della prova testimoniale!) .Il problema è stato affrontato in modo attento dalla Corte
Costituzionale , la quale non ha escluso che a queste dichiarazione rese dai terzi si possa riconoscere
qualche rilievo ma allo stesso tempo essa ha compiuto delle necessarie distinzioni tra il RILIEVO
PROBATORIO che a tali dichiarazioni può essere riconosciuto in pendenza del processo tributario e il
VALORE DELLA PROVA TESTIMONIALE. Ovviamente qui si deve ricordare che la materia del processo
prevede delle garanzie a tutela del superiore interesse del contenzioso cioè costituire la prova
testimoniale , nelle forme stabilite dalle legge. Nel processo tributario in assenza di questa prova, le
dichiarazioni dei terzi vengono acquisite esclusivamente attraverso il deposito del processo verbale
di constatazione( non si tratta di prove acquisite nella pendenza del processo). Muovendosi da
questa importante considerazione la Corte Costituzionale pur non escludendo un loro valore
aggiunge che si tratta di dichiarazioni con valore indiziario ma di semplice elemento rimesso
all’opportuna valutazione del giudice: quindi è elemento di convincimento del giudice ma non può
da solo costituire la prova dei fatti contestati. ATTENZIONE: perché è una decisione fondamentale e
grazie a questo chiarimento possiamo senz’altro respingere l’idea dell’amministrazione finanziaria
che la fondatezza della propria pretesa sia provata dal fatto che terzi asseriscono l’esistenza del fatto
(non è sufficiente la prova del terzo nel processo tributario). Dunque pur essendo apprezzati dal
giudice , è pacifico dire che i fatti riferiti da un terzo devono essere confermati da ulteriori elementi
di significato convergente ed eventualmente acquisiti dall’ufficio. Ciò non nega che si tratta di un
potere istruttorio sicuramente importante e anzi è l’innesco di ulteriori prove dell’ufficio.
Possiamo ritenere esaurito anche l’esame della richiesta rivolta ai pubblici ufficiali di esibire
documenti in loro possesso, o la richiesta formulata ai notai … e quando si parla di dichiarazione dei
terzi possiamo riferirci a questa grande categoria di soggetti che possono fornire indicazioni
importanti ai fini dell’accertamento. Quanto alla conclusione dell’attività di indagine , dobbiamo
ricordare che bisogna distinguere processi verbali di verifica e processi verbali di
constatazione(RINVIO A ALLA LEZIONE PRECEDENTE, giovedì 18 marzo).
Contenuto del processo verbale di constatazione: è l’atto conclusivo dell’attività istruttoria
all’interno del quale vengono riepilogate le violazioni che saranno contestate direttamente
dall’ufficio ,che è il titolare del potere di accertamento! ( la professoressa si riallaccia a tutta la
lezione di giovedì 18 marzo) . Il processo verbale è un atto istruttorio, all’interno del quale è
radicalmente da escludere che venga esercitata attività di accertamento, che è ben altra cosa;è un
atto certamente non impugnabile perché non ha contenuto provvedimentale , bensì istruttorio. La
consegna del processo verbale di constatazione è già un momento al quale il nostro ordinamento
pone rilievo per certi aspetti significativi: l’art.22 del decreto legislativo 472/1997 prevede che già a

Diritto tributario Pagina 61


pone rilievo per certi aspetti significativi: l’art.22 del decreto legislativo 472/1997 prevede che già a
seguito della consegna del processo verbale di constatazione , l’ufficio possa ,se ritiene che ne
sussistano i presupposti,adottare le misure cautelari a tutela del credito erariale … ATTENZIONE
perché è un credito solo prefigurato perché si potrà definire credito solo quando verrà emesso
l’avviso di accertamento ( cioè un provvedimento di carattere autoritativo ) e che se impugnato
tempestivamente è in grado di consolidare i suoi effetti. Anche se l’avviso di accertamento non fosse
stato emanato, tuttavia se ricorrono i presupposti stabiliti dalla legge quindi “periculum in mora” e
“fumus boni iuris”, l’amministrazione finanziaria può subito adottare queste misure cautelari. Per far
questo, naturalmente deve avere buone ragioni per ritenere che il soddisfacimento del proprio
credito sia messo in pericolo dalle condotte tenute dal soggetto sottoposto a controllo, quindi deve
temere che il contribuente ponga in essere condotte tali da disperdere le garanzie del credito
dell’amministrazione finanziaria. Esempio: condotta tenuta da chi immediatamente dopo aver subito
la verifica, disperde i beni che compongono il suo patrimonio, magari vendendoli ad un prezzo
irrisorio a parenti o amici. Proprio una condotta di questo tipo sarebbe lesiva nell’interesse
dell’amministrazione finanziaria all’esazione del suo credito. Per questo motivo avvertitamente
l’art.22 del decreto sopra citato legittima l’ufficio all’adozione delle misure cautelari ( per il
procedimento la professoressa non si sofferma perché è materia del quinto anno).
Innanzitutto procediamo con l’attività di controllo (per certi aspetti stiamo facendo un passo indietro
perché fino a qui abbiamo parlato di poteri istruttori che dobbiamo pensare successivi alla
presentazione delle dichiarazioni , anzi è una tappa sganciata proprio perché l’esercizio dei poteri
istruttori non è legato alla effettiva presentazione della dichiarazione ;infatti è ben possibile che
venga esercitata attività istruttoria nei confronti di un soggetto che la dichiarazione non l’ha
presentata affatto), stiamo cercando di capire i vari istituti che il nostro ordinamento conosce a
presidio del controllo della regolarità delle dichiarazioni. Questa volta il presupposto è che la
dichiarazione è stata effettivamente presentata; stiamo parlando di istituti che cercano di verificare
veridicità e completezza delle dichiarazioni presentate. L’attività di controllo non è necessariamente
collegata ai poteri istruttori. Sarebbe auspicabile che l’ordinamento riuscisse a sottoporre un
controllo così puntuale per la veridicità di tutte le dichiarazioni presentate dai contribuenti , ma è
una situazione inimmaginabile proprio perché se pensiamo all’estremo sforzo di energie
nell’effettuare accessi, ispezioni, verifiche o indagini sulle risultanze dei conti e richieste di
chiarimenti a terzi per verificare veridicità e completezza di TUTTE le dichiarazioni presentate dai
soggetti che sono obbligati alla presentazione delle dichiarazioni nel nostro ordinamento, questa
diventa una situazione irrealizzabile. Infatti nonostante gli sforzi dell’Agenzia delle Entrate,
soltanto una percentuale molto bassa delle dichiarazioni effettuate e presentate viene sottoposta al
controllo attraverso l’esperimento dei poteri istruttori: stiamo parlando di circa il 5% delle
dichiarazioni. Questo particolare controllo tanto ben formulato e possibile solo attraverso l’esercizio
dei poteri istruttori lo definiremo CONTROLLO SOSTANZIALE. Ma questo non è l’unico tipo di
controllo possibile che l’ufficio può realizzare sul contenuto delle dichiarazioni effettivamente
presentate dai contribuenti perché accanto al controllo sostanziale , in tutti i procedimenti di
applicazione dei tributi fondamentali del nostro sistema è prevista un’attività di CONTROLLO
FORMALE, a cui soggiacciono tutte le dichiarazioni presentate quindi qui non avviene una selezione
delle dichiarazioni da sottoporre come nel controllo sostanziale. Il controllo formale è un’attività che
l’Agenzia delle Entrate dirige nei confronti di tutti i contribuenti che presentano la dichiarazione(lo
troviamo disciplinato tanto ai fini delle imposte sui redditi,quanto ai fini dell’IVA, dell’IRAP e nelle
imposte applicate con il sistema del registro). Quando si parla di controllo formale si intende la
disciplina contenuta negli artt.36-bis e 36-ter del D.P.R. 600/1973:il primo definisce l’area di
operatività del controllo automatico delle dichiarazioni; il secondo invece è quello proprio del
controllo formale. I presupposti sono diversi ma identiche sono le modalità tramite cui si esplica sia il
controllo automatico cioè la cosiddetta liquidazione delle dichiarazioni sia il controllo formale. Di
cosa si tratta? Quando ciascun contribuente trasmette telematicamente attraverso l’intermediario
abilitato la propria dichiarazione all’Agenzia delle Entrate, tutti i dati della dichiarazione( non solo i
dati che costituiscono l’oggetto della stessa dichiarazione ma anche quelli che attengono al
versamento delle somme dovute) vengono unitariamente acquisiti dall’anagrafe dell’Agenzia delle
Entrate che si chiama “anagrafe tributaria”. Essa raccoglie tutti gli elementi della dichiarazione
trasmessa dal contribuente( teniamo anche conto che la dichiarazione contiene tutta l’informazione
necessaria alla liquidazione dell’imposta dovuta e prestando attenzione ai tempi e al quantum
dell’obbligazione tributaria); all’anagrafe tributaria si accorpano anche quei dati che vengono
immediatamente incrociati con quella dichiarazione e che attengono al versamento delle somme

Diritto tributario Pagina 62


immediatamente incrociati con quella dichiarazione e che attengono al versamento delle somme
dovute. Questi versamenti sono stati già fatti … non dimentichiamo che le imposte vengono
anticipatamente versate, segue poi il versamento del saldo: DUNQUE l’anagrafe conosce addirittura
prima i dati dei versamenti e soltanto dopo i dati afferenti il contenuto delle dichiarazioni
presentate. Attraverso questo incrocio, l’anagrafe è certamente nelle condizioni di appurare
tempestività e completezza dei versamenti stessi ma la verifica non è compiuta dall’anagrafe ed
infatti viene demandata agli uffici competenti per territorio dell’Agenzia delle Entrate. Con una
prima lettura del documento della dichiarazione l’ufficio è in grado di verificare se il documento
contiene errori di calcolo o errori materiali( esempio di errore materiale è l’erronea compilazione di
un rigo, compilato al posto dell’altro ); invece l’errore di calcolo è un puro errore matematico(es. in
un rigo si scrive 2 in altro rigo 5,al terzo rigo che implicherebbe la somma tra i due precedenti che
necessariamente dà 7 … ma se il contribuente scrive 6 ricorre l’ipotesi dell’errore di calcolo).Ad oggi
il rischio dell’errore di calcolo è estremamente ridotto perché nella maggior parte dei casi la
dichiarazione è compilata attraverso l’intermediario abilitato, il quale utilizza software specifici che
procedono immediatamente per il calcolo delle somme.
L’attività di liquidazione che si trova disciplinata al 36-bis del D.P.R.600/73 ha dunque per oggetto la
verifica di tempestività e completezza dei versamenti, l’errore materiale o l’errore di calcolo. Invece
l’oggetto che pone la disciplina del controllo formale si ritrova nell’art.36-ter del D.P.R.600/73 e qui
l’attività di controllo (nonostante la definizione) di formale ha ben poco! Infatti l’Agenzia delle
Entrate compie un controllo che assume delle caratteristiche più sostanziali. Con il
controllo formale l’ufficio verifica la spettanza delle ritenute d’acconto subìte oppure la spettanza di
oneri deducibili o detrazioni eventualmente indicate in dichiarazione. Le ritenute d’acconto( le
conosciamo per la sostituzione a titolo d’acconto)sono l’anticipazione dell’imposta dovuta alla quale
provvede il sostituto; quando il sostituito compila la dichiarazione deve indicare di aver subito
ritenute per 5.000 euro e queste ritenute le scomputa dall’imposta lorda e quindi sono somme che
non si versano 2 volte (ma sono appunto scomputate dall’imposta lorda proprio perché le ha già
versate anticipatamente il sostituto). All’interno della dichiarazione del sostituto egli comunica
all’Agenzia delle Entrate tutti i nominativi e tutti gli importi per i quali le ritenute sono state operate
e versate. Esempio: io presento una dichiarazione, dichiaro di aver subìto ritenute per 5.000 euro ma
incrociando i dati della mia dichiarazione e quelli contenuti nelle dichiarazioni presentate dai
sostituti che hanno operato e versato ritenute per me , l’agenzia rintraccia solamente 4.000 euro di
ritenute perché uno dei sostituti non ha indicato il mio nominativo nella sua dichiarazione del
sostituto di imposta: questa è una situazione di difficoltà. In questo caso l’amministrazione
finanziaria potrà chiedere a me (cioè chi dichiara di aver subìto 5.000 euro di ritenute) di provare che
quelle ritenute sono state operate e subìte. Non è più un controllo che và semplicemente a calcolare
sui contenuti della dichiarazione ma questo esorbita i confini naturali del controllo formale in modo
da diventare vero e proprio controllo sostanziale e si spiega tramite la richiesta dell’ufficio ( che
diviene costretto a richiedere )nei miei confronti, di esibire un documento: la certificazione delle
ritenute subìte e solo io posso dimostrarlo! E questo lo porta ad essere una prova più che utile ed
una tra le ipotesi possibili perché nell’esempio sono in grado di fornire la prova a mio favore ma
potrei essere nelle condizioni di non avere la possibilità di dimostrare di aver subito quelle ritenute
per 5.000 euro e qui l’amministrazione finanziaria, in mancanza della prova, riconosce soltanto 4.000
euro(e non 5.000euro). Domanda della professoressa: secondo voi, se l’ufficio verificati i documenti
ecc, dovesse ritenere che io ho diritto a scomputare dall’imposta lorda solo 4.000 euro e non 5.000,
questa circostanza ha delle ricadute sul mio debito di imposta?L’imposta aumenta o rimane tale se
ho 1.000 euro di ritenute in meno? Risposta: il debito di imposta aumenta.
Altro esempio per capire il meccanismo del controllo formale in base al 36-ter perché esso ha per
oggetto anche la spettanza di deduzioni e detrazioni. Oneri deducibili e detrazioni incidono
rispettivamente sulla determinazione della base imponibile e sulla misura dell’imposta da versare; gli
oneri deducibili normalmente sono voci di spesa sostenute dal contribuente per le quali il legislatore
stabilisce che non devono concorrere a formare la base imponibile. Capita talvolta che l’ufficio vada
a verificare se io ho sostenuto effettivamente quelle spese tramite il controllo formale:invierà una
richiesta di esibizione dei documenti con cui quindi chiederà l’esibizione delle prove da cui emerge
che gli oneri deducibili o le spese sono state sostenute. Ulteriore ipotesi: se all’esito della verifica
all’ufficio dovesse risultare che io ho indicato oneri deducibili per un ammontare superiore a quello
spettante, tale circostanza ha delle ricadute per l’ammontare della base imponibile, nel senso che ne
determina l’aumento? RISPOSTA: si; ma se aumenta la base imponibile significa che aumenta anche
l’imposta.

Diritto tributario Pagina 63


l’imposta.
Fino a qui abbiamo parlato dei presupposti,ora prendiamo delle ipotesi pratiche. Quando in ufficio si
esercita l’attività di controllo ( liquidazione dell’imposta o controllo formale), all’esito di questa
attività potrebbero aversi 2 situazioni distinte. La prima più semplice termina con la risultanza della
verifica dell’ufficio, il quale certifica che è tutto perfettamente regolare e che le imposte sono state
correttamente liquidate e versate, in maniera tempestiva, indicando le ritenute d’acconto, con oneri
deducibili e detrazioni spettanti: qui l’Agenzia delle Entrate si limita a trasmettere una lettera con la
quale comunica la regolarità della dichiarazione verificata in sede di controllo formale; seconda
situazione, cioè quando qualcosa và storto: immaginiamo che l’ufficio verifichi incrociando i dati nei
versamenti con quelli contenuti nella dichiarazione e che risulti che il contribuente invece che
versare entro il 20 giugno 3.000 euro ne ha versati 1.000 euro. così diventa una situazione in cui il
versamento è minore del dovuto e magari porta anche un problema di tempestività tanto che
l’ufficio trasmette una comunicazione di irregolarità più comunemente chiamata “ avviso bonario”,
mediante la quale l’ufficio comunica al contribuente l’esito dell’attività di liquidazione e del controllo
formale , riportando una forma di irregolarità che può investire un versamento (quanto alla sua
completezza o alla sua tempestività), la mancata spettanza di ritenute d’acconto dichiarate, di oneri
deducibili o di detrazioni e questa comunicazione di irregolarità si conclude sempre con la nuova
liquidazione dell’imposta dovuta perché si tratta di errori o incongruenze che hanno determinato
obblighi di versamento maggiori rispetto a quelli versati dal contribuente. In più è importante
segnalare che non c’è soltanto la liquidazione dell’imposta dovuta ma anche la misura della sanzione
che sarà irrogata per la violazione commessa con la liquidazione degli interessi. A seguito della
comunicazione, l’ufficio informa il contribuente che potrà adeguarsi all’esito dell’attività di
liquidazione, versando le somme dovute entro 30 giorni successivi alla ricevuta della comunicazione
di irregolarità , e se ciò viene fatto tempestivamente dal contribuente , egli ne avrà un vantaggio
significativo rappresentato dal suo diritto ad ottenere una riduzione della sanzione irrogata ad un
terzo. La sanzione per omesso versamento è pari al 30% dell’imposta non versata: da qui se ne
deduce il vantaggio di pagare entro quei 30 giorni successivi, in quanto la sanzione si riduce al 10%
dell’imposta non versata( un terzo del 30%). Però non è affatto detto che il contribuente ritenga
corretta la nuova determinazione dell’imponibile e dell’imposta e potrebbe ritenere che l’ufficio non
abbia ragione, magari perché le detrazioni o oneri deducibili sono spettanti perché non è stata
riconosciuta una ritenuta d’acconto che invece era stata effettivamente subìta : qui il contribuente
potrebbe anche scegliere di versare ( ma versando sarebbe di certo difficile reagire alla pretesa
dell’amministrazione finanziaria) ;infatti è molto importante sapere che la comunicazione
d’irregolarità NON è NECESSARIAMENTE atto impugnabile, anzi è facoltativo impugnare, solo se si
vuole e il contribuente può scegliere di non impugnare perché essendo atto non impugnabile, non è
suscettibile di arrecare pregiudizio alla posizione del debitore: ma cosa significa? Quando il
contribuente non condivide la ricostruzione dell’ufficio, non paga nei 30 giorni successivi, attende
invece il provvedimento autoritativo che è da impugnare necessariamente: l’iscrizione a ruolo.
L’ufficio in questa eventualità procederà immediatamente all’iscrizione al ruolo, da impugnare nei
tempi stabiliti dalla legge. In questa iscrizione il contribuente non trova la sanzione ridotta di un
terzo, ma trova la sanzione irrogata con forma piena perché la riduzione era nei suoi diritti solo se
avesse tempestivamente pagato. Ricordiamo che l’attività di controllo è un tipo di attività che
investe tutte le dichiarazioni, sia pure nei limiti di una piccolissima percentuale delle dichiarazioni
presentate, appena il 5% ma dobbiamo aggiungere che in una fase successiva interviene il controllo
sostanziale , cioè quello che si realizza attraverso l’esercizio dei poteri istruttori. Nel momento in cui
l’ufficio esercita l’attività di controllo sostanziale (quindi pone in essere accesso, ispezioni, verifiche,
indagini bancarie, richieste di chiarimenti, esibizione di documenti da parte di terzi)l’attività si
conclude con esito duplice. Ipotesi : non è escluso che l’ufficio ravvisi la piena giuridicità e
completezza delle dichiarazioni o che ritenga che il contribuente abbia commesso delle infedeltà,
quindi che abbia violato le disposizioni fiscali così
presentando una dichiarazione infedele o incompleta. Ma quando abbiamo parlato dei poteri
istruttori, si è incontrata quella possibilità che l’istruttoria sia realizzata anche nei confronti di
soggetti che la dichiarazione non l’hanno presentata affatto( precisazione importante , più volte
ripetuta); conclusa l’attività istruttoria ( già sappiamo) , l’attività di accertamento è demandata ad un
soggetto diverso cioè l’ufficio titolare del potere di accertamento;conclusa l’attività di controllo
sostanziale,l’ufficio esercita l’attività di accertamento ed emette un provvedimento autoritativo che
prende il nome di “avviso di accertamento” e rappresenta l’atto principale della fase di
accertamento (siamo fuori ormai dalla fase dell’attività istruttoria). Quando l’ufficio ,con l’avviso di

Diritto tributario Pagina 64


accertamento (siamo fuori ormai dalla fase dell’attività istruttoria). Quando l’ufficio ,con l’avviso di
accertamento mira a rettificare i dati dichiarati (naturalmente in aumento perché ad esempio ha
motivo di ritenere che la base imponibile dichiarata sia inferiore a quella effettiva o che comunque il
tributo versato sia minore rispetto a quello dovuto), compie “l’avviso di accertamento in rettifica”.
Ma in rettifica di cosa ? della dichiarazione presentata. Quando invece l’avviso di accertamento
viene notificato in assenza di qualsiasi dichiarazione da parte del contribuente (che ha
completamente omesso l’obbligo dichiarativo), viene denominato ”avviso di accertamento d’ufficio”
per il semplice motivo che in questo caso non c’è alcuna dichiarazione da rettificare! Domanda: visto
che i contribuenti che sono sottoposti a controllo sostanziale sono pochi, come si orienta l’ufficio ?
liberamente o ci sono delle linee-guida che vengono seguite da tutti gli uffici periferici dell’Agenzia
delle Entrate? Risposta: ci sono delle liste selettive di contribuenti che annualmente sono scelti
come contribuenti che devono essere sottoposti ad attività di controllo sostanziale, perché sono
quelli che propendono verosimilmente all’evasione. Ovviamente non può escludersi che il controllo
venga effettuato su ulteriori soggetti che non fanno parte di queste liste selettive; per esempio si
può sottoporre a controllo quel soggetto che sulla base di segnalazioni e di specifiche ritenute, abbia
evaso redditi da sottoporre a tassazione. Da qui se ne deduce che la lista selettiva è orientativa , di
certo non è vincolante e non preclude all’ufficio di esercitare liberamente la propria attività di
controllo.
L’avviso di accertamento è un provvedimento capace di sostituirsi interamente alla dichiarazione
nell’ipotesi in cui il contribuente non provveda tempestivamente alla sua impugnazione … se il
contribuente riceve l’avviso di accertamento e non lo impugna tempestivamente, il debito indicato
nell’avviso si consolida con la conseguenza che l’ufficio avrà diritto a procedere immediatamente alla
riscossione delle somme dovute, quindi si costituisce creditore sulla base dell’avviso di
accertamento. L’attività di accertamento è sottoposta a rigidissimi termini decadenziali : l’atto viene
ad esistenza nella misura in cui venga notificato dal suo destinatario perché si tratta di atto
recettizio. Il termine di decadenza stabilito dalla legge è quello della notifica e non semplicemente
della sua emissione ( potrebbe essere stato emesso ma conservato in un cassetto, in tal modo
diviene essenziale la notifica). I termini sono diversamente disciplinati dalla legge( art.43 del
D.P.R.600 e nelle corrispondenti norme ai fini dell’IVA), ma sono differenziati in base che si tratti di
avviso di rettifica o di avviso d’ufficio. Termine di decadenza per l’avviso di accertamento in rettifica
è il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione è stata presentata;invece
se si tratta di avviso d’accertamento d’ufficio , il termine aumenta: deve essere notificato entro il 31
dicembre del settimo anno successivo a quello in cui la dichiarazione si sarebbe dovuta
presentare(perché la dichiarazione qui è completamente omessa). Domanda: perché in un caso il
termine è più ristretto e nell’altro invece risulta essere più ampio? Risposta: in un caso la
dichiarazione c’è , mentre l’avviso d’ufficio si ha quando la dichiarazione manca del tutto e in questo
caso l’ufficio và incontro ad una maggiore difficoltà investigativa( manca radicalmente la
dichiarazione da sottoporre a controllo,il debitore ricade nella categoria degli evasori totali cioè quel
soggetto che neppure si costituisce debitore nei confronti dell’amministrazione finanziaria), con
difficile reperimento dei dati: ecco perché la legge pone l’ampliamento del termine di
decadenza(31dic.settimo anno succ.).
NATURA ATTO D’ACCERTAMENTO: fino al 2010 avremmo potuto concludere l’analisi di questo atto
spiegandolo come tipico della fase di accertamento ma che certamente non è a titolo esecutivo;
occorreva un ulteriore atto tipico della fase di riscossione cioè l’iscrizione a ruolo. L’Agenzia delle
Entrate notificava l’avviso di accertamento che determinava la misura dell’obbligazione tributaria ma
poi non era sufficiente per la riscossione delle somme determinate come dovute: tutto ciò si spiega
con l’essenziale e necessaria presenza dell’atto successivo dell’iscrizione a ruolo! MA le cose sono
cambiate, con decreto legge n.78/2010 (art.29) è stato istituito un nuovo tipo di accertamento cioè
“accertamento con efficacia immediatamente esecutiva”, il quale ha posto una modifica importante
nel procedimento di applicazione dei tributi fondamentali del nostro sistema e vale sulla base della
lettura dell’art.29 quantomeno solo per le imposte dirette(IRPEF e IRES), IVA e IRAP. All’indomani
dell’entrata in vigore del decreto, tutti gli altri tributi diversi da questi( per esempio imposte sulle
successioni e donazioni,i tributi locali,l’imposta di registro) rimanevano assoggettate alla disciplina
previgente con l’iscrizione a ruolo. Ma l’istituto con il passare del tempo è stato ampliato e dai 4
tributi unici coinvolti fin dal principio si è arrivati ad un consistente allargamento che coinvolge pure
i tributi locali, a partire dal 1 gennaio 2020. Quindi rinnovamento e allargamento piuttosto recente!
Già dal nome si tratta di un particolare tipo di accertamento che ha da sé titolo esecutivo: significa
che l’Agenzia delle Entrate per riscuotere le somme arrecate da questo particolare atto, non ha

Diritto tributario Pagina 65


che l’Agenzia delle Entrate per riscuotere le somme arrecate da questo particolare atto, non ha
bisogno di formare iscrizione a ruolo perché tramite lo stesso titolo esecutivo ha formato l’avviso
con valenza esecutiva: ciò abbrevia considerevolmente i tempi della riscossione. L’avviso di
accertamento con efficacia immediatamente esecutiva contiene gli elementi classici dell’avviso
d’accertamento;il contenuto dell’atto ha in sé i motivi della pretesa, la liquidazione della nuova base
imponibile, dell’imposta dovuta e in caso si proceda all’irrogazione delle sanzioni amministrative, alla
quantificazione degli interessi. La peculiarità sta nel fatto che nell’avviso di
accertamento,l’amministrazione finanziaria formula immediatamente l’intimazione ad adempiere,
quindi una formula tipica del titolo esecutivo entro il termine per la proposizione del ricorso( quindi
con l’intimazione al pagamento delle somme contenute nell’avviso d’accertamento ). L’avviso
d’accertamento è un atto impugnabile quindi potrebbe accadere che il contribuente scelga di
impugnare; l’eventuale proposizione del ricorso non sospende la riscossione delle somme dovute
che però non saranno dovute per intero ma in parte, nei limiti stabiliti dall’art.15 del D.P.R.
602/73 ,in pendenza del giudizio quindi un terzo dell’imposta dovrà essere pagata nonostante la
proposizione del ricorso. L’avviso d’accertamento contiene l’intimazione ad adempiere o delle
somme interamente indicate nell’avviso ,in caso di mancata proposizione del ricorso ,o delle somme
dovute a titolo di riscossione provvisoria in caso di ricorso proposto. L’avviso d’accertamento diventa
a titolo esecutivo solo quando il termine per proporre ricorso è terminato; dovranno decorrere
ulteriori 30 giorni … ma poi come l’Agenzia delle Entrate, una volta munita di titolo esecutivo,
procederà per ottenere il soddisfacimento del suo credito? L’atto dovrà essere affidato da parte
dell’Agenzia delle Entrate all’Agente della riscossione per effettuare la stessa riscossione( quindi un
soggetto giuridicamente distinto al quale si affida di procedere anche all’esecuzione forzata nel caso
in cui il debitore dovesse rimanere nella convinzione di non pagare).Con l’affidamento in carico,
l’Agente della riscossione ha già titolo per
eventualmente procedere all’esecuzione forzata in caso di resistenza da parte del debitore;
l’esecuzione forzata si potrà operare decorsi 180 giorni dall’affidamento in carico ( per esempio si
potrà procedere al pignoramento). Dunque non c’è più bisogno dell’iscrizione a ruolo. In definitiva è
l’istituto * ex art.29 decreto78/2010* che consente anche in pendenza del giudizio un’anticipazione
della riscossione attraverso un titolo certamente esecutivo.
A proposito della sfera di operatività dell’istituto , nel 2020 abbiamo assistito ad un suo
potenziamento. Infatti prima i tributi locali erano assoggettati al procedimento ordinario quindi per
esempio i comuni avrebbero dovuto procedere con l’iscrizione a ruolo per esigere la riscossione
delle somme pretese con avviso d’accertamento ma oggi invece anche gli enti locali possono
emettere avvisi di accertamento con efficacia immediatamente esecutiva per esigere le loro entrate.
Era nato come istituto circoscritto ai tributi fondamentali del sistema ma per la sua estrema efficacia
è stato allargato. Di contro sono rimasti in pochi quei tributi oggi che seguono il procedimento
ordinario quindi con iscrizione a ruolo + notificazione della cartella di pagamento.
Per un quadro più completo, l’Agente della riscossione è un’articolazione dell’Agenzia delle
Entrate,quindi ripetiamo è un soggetto giuridicamente differenziato ma allo stesso tempo collegato
all’Agenzia , tanto che il nome per intero è AGENZIA DELLE ENTRATE RISCOSSIONE (cioè ADER).Solo
in Sicilia perdura la figura di riscossione Sicilia spa ma che presumibilmente nell’anno in corso sarà
assorbita in ADER quindi ormai tende ad essere unico sull’intero territorio nazionale .

Diritto tributario Pagina 66


LEZIONE 10 (23/03/21)
martedì 26 ottobre 2021 19:52

Quando viene svolta un’attività di accesso, dispersione non si verifica mai che il processo verbale di
constatazione non venga redatto.
Quando l’ufficio esercita gli altri poteri istruttori, ad es. una richiesta di presentarsi presso la sede
dell’ufficio, oppure una richiesta di esibizione di documenti, non viene redatto alcun processo verbale
di constatazione.
Quindi quando i poteri istruttori esercitati sono quelli c.d. ‘meno invasivi’, cioè che non richiedano
l’accesso presso i locali di cui ha la disponibilità il contribuente, gli unici processo verbali che
vengono redatti sono quelli di verifica, cioè quelli giornalieri.
Il processo verbale di constatazione, invece, non viene redatto mai.
La mancanza dello stesso, in tali ipotesi, impedisce al contribuente di conoscere subito a conclusione
dell’attività istruttoria, quali saranno le contestazioni che l’ufficio potrebbe muovergli, notificandogli
un avviso di accertamento, perché -e ce ne occuperemo quando studieremo lo statuto dei diritti del
contribuente- si innesca con la consegna del processo verbale di constatazione una condizione di
consapevolezza da parte del soggetto che ha subito la verifica che potrebbe introdurre una fase di
contraddittorio anticipato tra amministrazione finanziaria e costituente, estremamente utile.
Pensate che già solo attraverso questa fase di contraddittorio anticipato si potrebbe evitare
l’emanazione dell’avviso di accertamento, tutte le volte in cui il contribuente sia in grado di spiegare
la regolarità della propria condotta.
Allora la mancanza del processo verbale di constatazione quando vengono citati questi poteri
istruttori, costituisce un problema perché se a conclusione di questi poteri il processo verbale non c’è,
accade che il contribuente si vede subito notificare l’avviso di accertamento, senza sapere quali sono
le conclusioni dell’attività istruttoria da parte di coloro che hanno esercitato quei poteri istruttori, ad
es. la richiesta di esibizione di documenti o la richiesta di presentarsi presso la sede dell’ufficio per
fornire chiarimenti.
A questo problema ha tentato di porre rimedio il legislatore, molto recentemente, introducendo una
norma nell’istituto di accertamento con adesione, che è uno strumento per l’attivo del contenzioso
(su cui ci soffermeremo) e all’interno del quale è contenuta una disposizione ad hoc con la quale si
tenta appunto di porre rimedio all’esigenza di cui ho detto prima.
Oggi tratteremo un tema abbastanza articolato e complesso: le tipologie di accertamento, cioè quali
sono i poteri di accertamento che l’amministrazione finanziaria può esercitare.
L’atto di accertamento, come sapete, è essenzialmente unico e sapete come questo è un
provvedimento attraverso il quale l’amministrazione finanziaria esercita un potere che può assumere
caratteristiche estremamente diverse e rispetto al quale la legge prevede presupposti legittimanti.
Quindi quando l’ufficio esercita questo potere è indispensabile conoscere la disciplina dello specifico
potere anche al fine di verificare se si sono realizzati i presupposti che consentono all’ufficio di
esercitare appunto quello specifico potere.
Questione quindi estremamente differenziata in base al potere che l’ufficio sceglie di esercitare.
La scelta del potere da esercitare è rimessa all’ufficio: se l’ufficio ritiene che se ne sussistano i
presupposti, sceglierà un potere piuttosto che un altro.
Dunque è indispensabile che il contribuente sia posto a conoscenza del tipo di potere esercitato di
modo che possa verificare che sussistano le condizioni legittimanti all’esercizio di quel particolare
potere.
Le considerazioni che sto facendo non sono frutto di un ozioso giro di parole ma hanno un significato
decisivo ove si consideri che, se questi presupposti legittimanti non esistessero e il contribuente
quindi
fosse in grado di verificare che non sussistano, ne deriverebbe l’illegittimità del provvedimento di
accertamento, perché l’ufficio lo avrebbe emanato in carenza dei presupposti previsti dalla legge.
Allora distinguendo le varie tipologie di accertamento è possibile articolare le varie distinzioni
muovendo da una prospettiva piuttosto che un’altra.
Se scegliessimo la prospettiva che predilige di tenere in considerazione l’oggetto dell’accertamento
allora sarà possibile distinguere tra:
-accertamento analitico e

Diritto tributario Pagina 67


-accertamento analitico e
-accertamento sintetico.
Viceversa invece laddove si volesse tenere in considerazione le fonti di prova la distinzione sarà tra:
-accertamento deduttivo e
-accertamento induttivo.
Infine un’altra distinzione che è possibile fare congiuntamente tanto all’oggetto quanto al tempo in
cui l’accertamento interviene invece è:
-accertamento generale;
-accertamento parziale;
-accertamento integrativo.
Iniziamo dalla ripartizione in base all’oggetto.
L’accertamento analitico costituisce la norma, e avviene quando l’amministrazione finanziaria
esercita il suo potere su tutte le categorie di reddito dichiarate dal contribuente.
Quindi immaginando che il contribuente abbia dichiarato il reddito da lavoro dipendente, il reddito di
fabbricati e di redditi diversi (altra categoria reddituale quest’ultima), l’accertamento fatto
dall’agenzia delle entrate sarà analitico se attraverso l’esercizio di questo potere avrà sottoposto a
controllo e quindi a rettifica, anche solo per confermare la correttezza del dato dichiarato
(attenzione:
non è che deve rettificare tutte e tre le categorie di reddito, può anche scegliere di rettificare una e
basta), ma l’oggetto del potere deve essere individuabile in ciascuna delle tre categorie di reddito
dichiarate.
Volgendo lo sguardo sulle fonti di prova, questo tipo di accertamento normalmente si fonda su prove
dirette, e può essere fondato su presunzioni (in questo caso però la prova non sarebbe più diretta ma
di tipo presuntivo), ma solamente se queste presunzioni abbiano determinate caratteristiche, ovvero
occorre che si tratti di presunzioni gravi, precise e concordanti.
Dagli studi di diritto privato dovreste ricordare che queste sono le caratteristiche delle presunzioni
semplici (2729 c.c.).
Esse sono presunzioni che consentono, attraverso il ragionamento presuntivo, di affermare
l’esistenza
del fatto ignoto sulla base di fatti noti dai quali è possibile desumere, in ragione di un ragionamento
inferenziale particolarmente conducente, che il fatto ignoto effettivamente sussiste.
Ora però le presunzioni gravi,precise e concordanti sono presunzioni assistite da requisiti
particolarmente significativi previsti dal 2729.
Dunque la previsione di un accertamento analitico che può essere fondato su queste presunzioni con
i
requisiti previsti dalla legge costituisce una garanzia per il contribuente perché non è possibile fare
ricorso ad una presunzione quale che sia, ma che deve necessariamente avere questi requisiti.
Qualora non li abbia l'accertamento analitico sarebbe illegittimo.
Tenete presente che quand’anche la presunzione fosse lo strumento prediletto dall’ufficio nel caso di
specie, il contribuente avrebbe comunque due chance difensive importanti: anzitutto la prova
contraria, perché seppure l'atto di accertamento fosse fondato su presunzioni si tratterebbe di una
presunzione relativa, quindi il contribuente può sempre dimostrare che l’assunto dell’ufficio non
risponde al vero.
Quindi la prova contraria è sempre ammessa.
Ma c’è di più, perché l’altra via è certamente rappresentata dalla possibilità di dimostrare che quella
presunzione non è assistita dai requisiti previsti dalla legge perché non è né grave né precisa né
concordante.
È un tipo di accertamento questo che può essere effettuato nei confronti di qualsiasi contribuente:
potendosi trattare tanto di persone fisiche quanto di soggetti diversi, o soggetti che svolgono attività
di
impresa o no, soggetti esercenti altre attività, ecc.; quindi questo è un accertamento utilizzabile nei
confronti di qualsiasi contribuente.
Diversa e per certi versi molto più articolata è la disciplina dell’accertamento sintetico.
Torniamo all’elemento decisivo che segna la distinzione, che è fondata sull’oggetto.
Dunque se l’accertamento analitico ha per oggetto tutte le categorie di reddito, quello sintetico ha un
oggetto completamente diverso, questa volta l’amministrazione finanziaria non è nelle condizioni di
conoscere la fonte del reddito posseduto.
Quando il contribuente, tornando all’esempio precedente, dichiara redditi diversi: reddito di

Diritto tributario Pagina 68


Quando il contribuente, tornando all’esempio precedente, dichiara redditi diversi: reddito di
fabbricati,
redditi di lavoro dipendente, redditi diversi e l’amministrazione finanziaria fa un accertamento
analitico, vuol dire che è in grado di rettificare il contenuto della dichiarazione annuale perché è a
conoscenza di elementi che le consentono di rettificare ad es. il reddito da lavoro dipendente .
Quindi è in grado di conoscere esattamente la fonte del reddito prodotto, perché in possesso di
elementi tali da immediatamente concludere, nel senso che il reddito posseduto in più e non
dichiarato
è un reddito di lavoro dipendente e non altro.
Quindi identifica esattamente la fonte da cui il maggior reddito promana.
Nell’accertamento sintetico invece, questa configurazione esatta della fonte del reddito maggiore
di cui il contribuente è in possesso, non è possibile.
L’amministrazione finanziaria non è nelle condizioni di sapere da quale fonte promana questa
maggiore fonte di reddito.
È però certa, dal suo punto di vista, che il contribuente disponga di risorse ben maggiori di quelle
dichiarate.
In questo caso accade che l’ufficio non può che rinunciare a qualificare la categoria di reddito da
rettificare, perché non è nelle condizioni di poterlo fare e opererà la rettifica sul reddito complessivo,
che è la sommatoria delle singole categorie di reddito.
Dunque l’oggetto dell’accertamento sintetico non è affatto come quello analitico, ma è il reddito
complessivo, poiché l’amministrazione non è nelle condizioni di qualificare giuridicamente quale sia
la fonte del maggiore reddito di cui il contribuente è in possesso.
La distinzione tra accertamento analitico e sintetico va però ben oltre, perché è una differenza che va
bel al di là dell’oggetto, che investe le fonti della prova e che determina anche delle ricadute
fondamentali sul piano procedimentale.
Tutti questi profili giustificano la scelta del legislatore di riservare alla disciplina dell’accertamento
sintetico addirittura una norma ad hoc, troverete nel decreto 600/1973 un articolo, il 38 in cui è
compendiata l’intera disciplina dell’accertamento sintetico.
La ratio di questo accertamento sintetico, che induce l’amministrazione a scegliere questa,consiste
nel
fatto che:è la via privilegiata dell’ufficio che si trova innanzi un contribuente che dichiara un certo
ammontare di reddito e che tuttavia mostra un tenore di vita sensibilmente maggiore .
Quindi immaginiamo il caso del contribuente che dichiara 10.000 € di reddito, e che però invece sulla
base di altri elementi che vedremo, conduce un tenore di vita assolutamente incompatibile con
l’ammontare dei redditi dichiarati perché ad es. si concede l’acquisto di beni di lusso, servizi analoghi
e addirittura va incontro a spese di manutenzione dei beni posseduti, estremamente elevate.
Pensate ad es. chi ha un’auto di lusso, deve pur mantenerla, si concede viaggi incredibili, ecc…
Questi sono chiaramente elementi da cui si desume che la disponibilità di reddito è ben maggiore
rispetto a quella dichiarata.
Però l’agenzia delle entrate non è nelle condizioni di conoscere la fonte di questo reddito, questa è la
ragione per la quale si ricorre all’accertamento sintetico.
Si tratta quindi di un accertamento fondato necessariamente su presunzioni e non può muovere da
dati certi.
Esso è possibile solo nei confronti delle persone fisiche.
I presupposti che l’ufficio pone a fondamento dell’accertamento sintetico e anche il procedimento
sono stati sottoposti ad una revisione profonda.
Quindi l’istituto delineato dall’art. 38 ha subito una modificazione importantissima a decorrere dal
2010.
In passato l’accertamento sintetico era fondato su due categorie di spese:
-le spese che si presumevano sostenute e
-quelle per incrementi patrimoniali.
Quindi quelle effettivamente sostenute che potevano essere poste a fondamento dell’accertamento
sintetico erano quelle per incrementi patrimoniali.
Immaginate ad es. il contribuente che a un certo punto acquistava un immobile ad un importo
considerevole senza nemmeno contrarre un mutuo.
Certamente la spesa per incrementi patrimoniali (che è certamente realizzato per l’acquisto di un
immobile) è una spesa effettivamente sostenuta e se non è impossibile con i redditi dichiarati
certamente induceva l’amministrazione finanziaria a presumere una maggiore disponibilità di reddito

Diritto tributario Pagina 69


certamente induceva l’amministrazione finanziaria a presumere una maggiore disponibilità di reddito
in capo al contribuente che sosteneva quella spesa.
L’altra stampella dell’accertamento sintetico era rappresentata dalle spese presuntivamente
sostenute.
Queste erano quelle desumibili dall’applicazione di un decreto ministeriale, che prendeva il nome di
redditometro, attraverso cui in base ai beni posseduti si poteva desumere sempre sulla base si una
presunzione che il soggetto avesse bisogno di una certa disponibilità di denaro per mantenere quei
beni.
Quindi dal possesso di quei beni di desumeva una conseguente disponibilità di ricchezza necessaria
per il loro mantenimento.
Per cui attraverso questi due pilastri fondamentali l’agenzia delle entrate era in grado di procedere
all’accertamento sintetico.
Anche sotto il profilo procedimentale erano previste delle condizioni, non sempre l’ufficio pur
potendo ricorrere agli elementi che vi ho descritto poteva accedere ad un avviso di accertamento
sintetico perché occorreva il rispetto di due condizioni ulteriori:
anzitutto si richiedeva che ci fosse un certo scostamento tra reddito accertabile sinteticamente e
reddito dichiarato, la norma prevedeva che l’accertamento potesse essere effettuato solo se il
reddito
accertabile sinteticamente fosse stato maggiore di almeno ¼ di quello dichiarato.
Quindi se non veniva superata questa franchigia, l’avviso di accertamento non poteva essere emesso.
La seconda condizione era invece di tipo temporale, occorreva cioè che questo scostamento tra
reddito
accertabile sinteticamente e reddito dichiarato si mantenesse per almeno due periodi di imposta
consecutivi, quindi doveva essere una condizione ripetuta nel tempo per fare si che questo
scostamento vi fosse.
La modifica importante introdotta dalla legge del 2010 ha determinato la completa riscrittura
dell’art.38, tanto che oggi c’è una nuova stesura che possiamo definire totalmente rivoluzionaria
sotto
tantissimi profili, anzitutto gli elementi sulla base dei quali l’accertamento sintetico è oggi possibile.
Troverete che la nuova norma non distingue tra spese per incrementi patrimoniali e spese
presuntivamente determinare.
La nuova norma parla invece invece di spese sostenute ed elementi induttivi desumibili
dall’applicazione del redditometro.
Quando la norma parla di spese sostenute (art 38, IV comma) non distingue più tra spese per
incrementi patrimoniali e spese sostenute invece per l’acquisto di beni o di servizi, perché questi
ultimi è ovvio che non sono spese per incrementi patrimoniali.
Oggi l’accertamento sintetico si fonda con una formulazione onnicomprensiva, quindi in grado di
comprendere tanto le spese per incrementi patrimoniali quanto le altre spese diverse queste, sulle
spese sostenute!
Attenzione a questo perché la differenza è importante!
Perché oggi l’amministrazione finanziaria attraverso gli strumenti che vi dirò, è in grado di conoscere
quali spese ognuno di noi ha sostenuto, non solo per incrementi patrimoniali ma anche per
l’acquisto di beni/servizi.
Quando ciascuno di noi entra in un negozio per un acquisto superiore ai 3.000€, questo viene
immediatamente segnalato all’agenzia delle entrate attraverso uno strumento che è lo spesometro.
Ogni imprenditore o esercente arti e professioni nella misura in cui renda servizi o ceda beni a un
determinato soggetto per importi superiori a 3.000€ è obbligato a comunicare all’agenzia delle
entrate
l’operazione effettuata.
Questo significa che quest’ultima sa in tempo reale chi ha comprato e cosa.
Quindi le spese effettuate non più soltanto per incrementi patrimoniali ma tutte le spese sono
certamente nella piena disponibilità dell'agenzia delle entrate attraverso quest’obbligo di
comunicazione all'anagrafe tributaria, che grava sui soggetti che vedano beni e prestano servizi
superiori a € 3.000.
Dunque se l’agenzia delle entrate assume notizia del fatto che un determinato contribuente in un
medesimo periodo di imposta ha acquistato beni e servizi per importi non coerenti con i redditi
dichiarati, è certamente subito nelle condizioni di accedere all’accertamento sintetico.
Andiamo all’altro elemento, perché il redditometro oltre a basarsi sulle spese effettivamente

Diritto tributario Pagina 70


Andiamo all’altro elemento, perché il redditometro oltre a basarsi sulle spese effettivamente
sostenute,
(quindi da questo profilo la prova è certamente diretta e non presuntiva) l’accertamento sintetico
continua ad essere possibile anche sulla base di presunzioni.
Quindi viene nuovamente ribadita l’applicazione del redditometro.
Per cui continua ad essere approvato un decreto ministeriale che consente all’amministrazione
finanziaria sulla base di informazioni in suo possesso, che la spesa sostenuta per il mantenimento di
determinati beni debba induttivamente consentire di ritenere che il contribuente dispone di redditi
maggiori di quelli dichiarati.
Quindi questi elementi presuntivi si aggiungono a quelli forniti in modo diretto dalle spese
effettivamente sostenute.
Sono due elementi sulla base dei quali l’accertamento può essere posto in essere , molto diversi tra
loro e che manifestano l’attenzione che il legislatore rivolge non solo alle prove dirette ma anche a
quelle fondate su presunzioni.
È chiaro che tutto questo non può non avere ricadute importanti sul piano procedimentale, perché
non
può ritenersi che il contribuente non possa difendersi rispetto ad una ricostruzione sintetica del
reddito
complessivo, vedremo ora come l’ufficio possa procedere.
La franchigia si riduce, quindi l’ufficio può procedere all’accertamento sintetico quando il reddito
accertabile sinteticamente supera di almeno ⅕ il reddito dichiarato, non più ¼ .
Questo significa che il reddito accertabile sinteticamente deve essere maggiore almeno del 20%
rispetto al reddito dichiarato (prima era del 25%).
Quindi la riduzione della franchigia significa che l’ufficio può ricorrere all’accertamento in un modo
un po’ più agevole.
Quanto al requisito di ordine temporale, la nuova norma lo ha radicalmente eliminato.
Quindi non è più richiesto che lo scostamento permanga per almeno due periodi d’imposta
consecutivi.
È sufficiente che lo scostamento ci sia per almeno un periodo di imposta.
Anche in questo profilo c’è prova non indifferente del fatto che l’ufficio ha più ampi poteri di
ricorrere all’accertamento sintetico.
Ora vediamo di capire, posto che l’ufficio si trovi nelle condizioni di potere procedere alla verifica
sintetica del reddito complessivo, come deve farlo nella rettifica stessa e nel pieno rispetto dei diritti
del contribuente.
L’art. 38 dispone al comma 7 uno specifico obbligo al contraddittorio preventivo, dunque quando
l’ufficio procede all’accertamento sintetico non può immediatamente notificare l’avviso di
accertamento, ma prima deve invitare il contribuente a comparire personalmente per fornire dati
e notizie che rilevano ai fini dell’accertamento nei suoi confronti.
Dunque ciò significa che dovrà notificare un avviso nel quale già anticipa al contribuente quali sono
gli elementi sulla base dei quali ritiene che questo reddito possa essere rettificato, in modo tale da
consentire al contribuente che proprio in quell’occasione possa fornire tutte le giustificazioni che
potrebbero indurre l’ufficio a non emettere l’avviso di accertamento.
Le prove contrarie possono esserci, ma si tratterà di una prova contraria non semplice, ma potrebbe
per es. il contribuente essere nelle condizioni di dimostrare che le spese effettivamente sostenute
sono
state possibili per precedenti disinvestimenti oppure per es. grazie alla disponibilità di maggiore
liquidità che è stata possibile per donazioni di familiari. Ovviamente occorrerà la prova, quindi di aver
ricevuto accrediti di somme provenienti da una successione ereditaria o da donazioni disposte dal
genitore ecc.
Non dimentichiamo poi la via maestra che è data dalla possibilità di dimostrare che le spese
effettivamente sostenute o solo quelle presuntivamente determinate dall’applicazione del
redditometro
sono state possibili grazie a disinvestimenti di somme precedentemente impegnate e che quindi si è
preferito disinvestire per mantenere la liquidità sul proprio conto corrente bancario.
Quindi è necessario procedere ad un momento di contraddittorio anticipato, reso possibile dall’invito
obbligatorio che l’amministrazione finanziaria deve fare prima di emettere l'atto di accertamento.
(Non fate l’errore però di ritenere che questa forma di contraddittorio anticipato sia poi preclusiva
dello svolgimento di un’attività in sede di giudizio, potrebbe anche accadere che il contribuente in

Diritto tributario Pagina 71


dello svolgimento di un’attività in sede di giudizio, potrebbe anche accadere che il contribuente in
sede di contraddittorio anticipato, non sia ancora nelle condizioni di fornire la prova contraria, perché
ad es. ha la necessità di reperire documenti e non è in grado di farlo in tempi brevi ed eventualmente
si troverà a ricevere l’avviso di accertamento ed ad impugnarlo davanti la commissione tributaria).
L’attività difensiva contro l’amministrazione finanziaria sarà pienissima nella sede giurisdizionale.
Quindi il contribuente potrà certamente difendersi al fine di fornire la prova contraria in pendenza del
giudizio.
Quindi la mancata esibizione di documenti in sede di contraddittorio anticipato non può ritenersi
preclusiva della possibilità di svolgere pienamente le proprie difese davanti al giudice tributario.
L’accertamento deduttivo e quello induttivo sono quelli che si distinguono in ragione della fonte di
prova.
L’accertamento deduttivo è quello che si fonda su prove certe e precise, quindi dirette come ad
esempio la prova documentale dalla quale immediatamente emerge il fatto che si intende provare;
oppure è l’accertamento che si fonda su presunzioni purché che siano gravi, precise e concordanti.
Al contrario l’accertamento è induttivo quando si fonda su presunzioni che non hanno questi requisiti
(gravità, precisione, concordanza).
Quindi quest’ultimo per il contribuente che lo subisce, porta con sé conseguenze particolarmente
pregiudizievoli, perché è vero che il contribuente può fornire la prova contraria, ma è estremamente
difficile contestare la illegittimità e quindi provare la legittimità di un accertamento induttivo.
Questo perché tale agevolazione (l’accertamento induttivo non è altro che un agevolazione per
l’amministrazione finanziaria) si giustifica in considerazione del fatto che il contribuente è incorso in
gravi violazioni, quali ad es. l’omissione della dichiarazione o della dichiarazione del reddito
d’impresa (è l’ipotesi del contribuente che la presenta ma omette di dichiarare il reddito d’impresa),
oppure quando il contribuente compie violazioni nella tenuta delle scritture contabili, tanto gravi,
numerose e ripetute da renderle inattendibili nel loro complesso, va incontro all’accertamento
induttivo.
Quindi le fattispecie in presenza delle quali la legge prevede che l’ufficio possa ricorrere ad un
accertamento induttivo, sono fattispecie che ci inducono a ritenere che il contribuente abbia tenuto
una condotta particolarmente grave, che legittimano l’ufficio a ricorrere a questa forma di
agevolazione nell’espletamento di questo accertamento.
L’agevolazione consiste nella possibilità di ricorrere a presunzioni cd semplicissime!
Perché possono essere anche prive dei requisiti di gravità precisione e concordanza.
Non possono essere irragionevoli! Requisito che deve comunque assistere la presunzione sollevata
dall’ufficio.
Questo è possibile Quando il contribuente abbia commesso violazioni particolarmente gravi: omessa
dichiarazione, omessa dichiarazione del reddito d’impresa oppure se è tenuto all’obbligo della tenuta
delle scritture contabili e abbia commesso in tal caso violazioni tanto gravi, numerose e ripetute tali
da
rendere le scritture contabili nel loro complesso inattendibili.
Se ricorrono queste fattispecie il contribuente va incontro a questa tipologia di accertamento.
Quindi l’accertamento analitico è sempre un accertamento di tipo deduttivo.
L’ultima distinzione è ora quella tra accertamento generale, parziale e integrativo.
Questa distinzione prende unitariamente in considerazione sia l’oggetto che il tempo in cui l'atto di
accertamento interviene.
L’accertamento generale, la stessa parola lo dice, è sicuramente l’ipotesi ordinaria e tiene in
considerazione tutti i redditi dichiarati dal contribuente, si vede come da questo profilo ci rimandi alla
considerazione dell’oggetto dell’accertamento.
Normalmente quando l’amministrazione emette questo accertamento, esaurisce il suo potere.
Quindi in virtù del principio dell’unicità dell’accertamento, quando viene emesso un avviso di
accertamento generale l’amministrazione finanziaria non può più tornare all’esercizio del potere di
accertamento.
Questa regola aurea ha però subito nel corso del tempo delle sempre maggiori limitazioni.
Questo spiega per il nostro ordinamento prevede accanto all’istituto dell’accertamento generale,
corollario del principio dell’unicità dell’accertamento, l’istituto dell’accertamento parziale.
Nel decreto 600/1973, art. 41 bis che ammette, in presenza di particolari condizioni, che l’ufficio
possa emettere un primo avviso di accertamento e però facendo salvo il nuovo esercizio del suo
potere
possa emetterne anche un altro, ovviamente nel rigoroso rispetto del termine di decadenza!

Diritto tributario Pagina 72


possa emetterne anche un altro, ovviamente nel rigoroso rispetto del termine di decadenza!
Laddove l’accertamento sia parziale è vero che l’ufficio può emettere più avvisi di accertamento, ma
lo potrà fare sempre che questi avvisi vengano notificati entro il termine di decadenza stabilito dalla
legge.
Le condizioni legittimanti l’accertamento parziale si sono nel corso del tempo modificate.
Perché inizialmente l’applicazione di questi istituti era ristrettissima.
La prima stesura della norma infatti prevedeva che questo accertamento parziale potesse essere fatto
solo quando l’ufficio era in possesso di prove dirette che investivano una particolare categoria di
reddito ed erano prove acquisite da altre amministrazioni pubbliche, quindi per es. erano fatti ed
elementi acquisiti non da se stessa ma da altre amministrazioni come la stessa Guardia di finanza che
poteva aver acquisito elementi da cui discendeva la necessità di rettificare una particolare categoria
di
reddito, e in presenza allora di queste prove dirette acquisite da altri soggetti l’ufficio poteva
procedere all’avviso di accertamento parziale.
Ma questo potere è stato oggetto di successivi interventi da parte del legislatore, che ha sentito la
necessità di estendere la possibilità che gli uffici dell’agenzia delle entrate possano ricorrere
all’accertamento parziale e quindi l’intervento operato dal legislatore è andato nella direzione di
estendere le fattispecie in presenza delle quali l’ufficio può ricorrere all’avvertenza parziale.
Tenete conto che già dal 2005 è possibile che l’ufficio ricorra all’accertamento parziale anche quando
rettifica la dichiarazione sulla base di elementi acquisiti in sede di accesso, ispezione e verifica.
Quindi vediamo che già dal 2005 la norma è stata notevolmente ampliata.
Poi ancor di più nel 2010 il legislatore ha preferito modificare la stesura della norma abbandonando il
riferimento ad accessi, ispezioni e verifiche, addirittura prevedendo che l’accertamento parziale possa
essere fatto in tutti i casi in cui l’ufficio ha acquisito elementi, ponendo in essere le attività istruttorie
previste dall’art. 32 dai numeri 1 a 4.
Quindi non più solo accessi, ispezioni e verifiche ma anche attraverso l’esercizio di altre attività
istruttore.
Dunque in definitiva possiamo dire che sono davvero pochi i casi in cui l’ufficio non può fare
l’accertamento parziale, perché nella gran parte dei casi ormai l’agenzia delle entrate può emettere
un
avviso di accertamento parziale, riservandosi di intervenire successivamente e nuovamente sulla
posizione del contribuente per il medesimo periodo d’imposta.
Per cui l’unica ipotesi in cui ancora l’ufficio non può fare l’accertamento parziale, dovendo quindi
ricorrere a quello generale, è il caso in cui intenda porre alla base dell’accertamento le risultanze
contenute in questionari, compilati da terzi.
Quindi se il potere istruttorio è quello del rinvio di questionari sottoposti a compilazione di terzi,
allora in questo caso l’avviso di accertamento parziale non sarebbe possibile.
In tutti gli altri casi l’accertamento parziale è assolutamente possibile, come nel caso di quello
effettuato sulla base delle indagini bancarie.
Segue l’accertamento integrativo, che è l’accertamento che si aggiunge ad un accertamento generale,
già ritualmente notificato.
È dunque un accertamento possibile solo se ricorrono specifiche ipotesi eccezionali, perché laddove
abbia operato un accertamento generale la regola vuole che in quella sede l’ufficio abbia esaurito
l’esercizio del suo potere.
Quindi in linea di principio se ricorre all’accertamento generale l’ufficio sa bene che non potrà più
intervenire per la rettifica circa medesimo periodo d’imposta.
La legge però prevede un’eccezione a questa regola generale che presiede alla regola
dell’accertamento generale e cioè l’accertamento integrativo, che è possibile purché notificato entro i
termini decadenziali previsti dalla legge.
Il termine di decadenza non può mai essere violato.
Occorre capire ora quali sono i presupposti legittimanti.
Bisogna che l’ufficio che emette l’accertamento integrativo dimostri che è in possesso di elementi
non conosciuti né conoscibili all’epoca in cui veniva notificato l’accertamento generale.
Per cui è indispensabile affinché si possa considerare legittimo un accertamento integrativo che nella
motivazione di questo avviso di accertamento vengano precisati quali sarebbero questi fatti non
conosciuti né conoscibili all’epoca in cui veniva notificato l’avviso di accertamento generale.
In mancanza di questa precisazione l’atto sarebbe radicalmente illegittimo.
Ora ci occupiamo dello studio degli strumenti di accertamento basati su presunzioni.

Diritto tributario Pagina 73


Ora ci occupiamo dello studio degli strumenti di accertamento basati su presunzioni.
L’ordinamento contempla la possibilità che l’ufficio possa procedere all’esercizio del potere di
accertamento sulla base di presunzioni e gli strumenti di accertamento basati su presunzioni sono
legali naturalmente, nel senso che si tratta di presunzioni stabilite dalla legge.
Quindi gli strumenti di accertamento introdotti per legge attraverso i quali il legislatore ha inteso
agevolare, in qualche modo, la potestà di accertamento dell’agenzia delle entrate.
L’evoluzione che il nostro ordinamento ha operato su questo fronte è notevolissima, siamo passati da
una fase in cui il legislatore ha ritenuto di dover affidare ai buoni risultati dell’attività di accertamento
basata su presunzioni una buona parte dell’attività di accertamento, a una fase storica invece in cui si
è
registrata una certa diffidenza a far ricorso a questi strumenti di accertamento, soprattutto anche
perché la giurisprudenza ha ritenuto che fossero strumenti di accertamento per certi versi poco
affidabili e allora si è passati da strumenti di accertamento denominati come “minimum tax”,
“coefficienti”, “parametri”; per poi passare all’esperienza diversa che ha sostituito questi strumenti
molto risalenti nel tempo, dagli studi di settore.
Dunque lo strumento di accertamento basato su presunzione, che per molti anni ha trovato
applicazione nel nostro ordinamento è rappresentato dagli studi di settore.
Vi anticipo subito che l’utilizzo diffusissimo di questi strumenti ha contraddistinto la nostra esperienza
storica per un periodo che grosso modo va dal 1998 ai nostri giorni.
A partire dall'1 gennaio 2018 anche gli studi di settore sono stati sostituiti da un altro strumento,
detto indici di affidabilità fiscale.
Ma gli studi di settore si applicano ancora?
La risposta è articolata su due fronti:
-dal 01.01.2018 per l’accertamento che gli uffici dovranno espletare non trovano più applicazione
perché sostituti dagli indici di affidabilità fiscale;
-ma sono importanti perché fino al 2023 l’amministrazione finanziaria ha il potere di utilizzarli per
espletare l’attività di accertamento in relazione ai periodi di imposta fino al 31.12.2017.
Quindi attualmente se l’agenzia delle entrate volesse procedere all’accertamento di taluni
contribuenti
per i periodi di imposta fino al 31.12.2017 lo potrebbe fare utilizzando i periodi di settore.
Quindi l’istituto è necessario perché ancora per tre anni l’agenzia delle entate può esplicare
l’accertamento mediante tale istituto, pur non essendo più vigente!
Il meccanismo degli studi di settore è imperniato sulla costante collaborazione dei contribuenti.
Anzitutto gli studi di settore sono stati approvati con decreti ministeriali, a loro volta approvati
attraverso studi che hanno interessato particolari categorie di contribuenti, cioè quelli esercenti arti
e professioni e tutti gli imprenditori i quali sono stati ripartiti tutti in categorie massimamente
omogenee tra loro e lo studio di questi specifici settori di attività è stato condotto attraverso
un’analisi
di dati contabili e caratteristiche strutturali che venivano puntualmente comunicati dai
contribuenti stessi.
Per questo si tratta di uno strumento che ha potuto trovare applicazione per lunghi anni proprio
perché
la collaborazione dei contribuenti, che non era spontanea ma prevista espressamente dalla legge e
consistente nella compilazione e trasmissione in capo a quei soggetti del modello, che si chiamava
modello studio di settore, nel quale si chiedeva ai contribuenti di indicare alcuni dati contabili e
alcune caratteristiche strutturali (come ad es. numero dei dipendenti, estensione dei locali, ecc.).
L’amministrazione finanziaria poi di tutte queste informazioni se ne serviva al fine di costruire una
formula matematica che consentiva anno dopo anno di determinare i ricavi o i compensi che, sulla
base delle specifiche caratteristiche comunicate dai contribuenti stessi, si stimava che il contribuente
dovesse percepire.
Quindi la compilazione di ciascun contribuente del modello di settore aveva duplice finalità:
-comunicare all’agenzia delle entrate dati contabili e dati strutturali, funzionali all’approvazione dei
decreti ministeriali che nel corso del tempo richiedevano che la costruzione matematico-statistica
fosse aggiornata periodicamente, tant’è che per ciascuno studio di settore c’è stata l’approvazione di
numerosi decreti ministeriali, che si sono susseguiti nel tempo per raffinare quanto più possibile
l'elaborazione statistica;
-attraverso la compilazione di quel modello si applicava la formula matematica attraverso un
software

Diritto tributario Pagina 74


software
detto Gerico che istantaneamente compilato il modello, dava sia all’amministrazione finanziaria che
al contribuente un risultato fondamentale: il livello di congruità e il livello di coerenza.
Significa che attraverso tale software ad es. l’imprenditore che ricavava 75.000€ sapeva subito se
quella somma di ricavi attraverso l’applicazione della formula matematica, erano congrui ai ricavi
stimati dall’agenzia delle entrate in relazione alle sue caratteristiche strutturali e contabili.
In definitiva, era ben possibile che attraverso la compilazione del modello di settore il contribuente,
che dichiarava 75.000€ di ricavi, sapesse subito che l’agenzia delle entrate si aspettava che ne avesse
dichiarati 90.000.
Tutto ciò attraverso una semplice elaborazione matematico-statistica, sulla base delle sue
caratteristiche contabili e strutturali.
Lo studio di settore quindi funzionava dando immediatamente un risultato di congruità al
contribuente
che poteva una volta saputo il risultato, tenere due comportamenti:
-scegliere di adeguarsi al risultato stimato dall’amministrazione finanziaria.
Dunque poteva scegliere, in sede di dichiarazione, di incrementare sia pure fittiziamente (perché quei
ricavi non risultavano nelle sue scritture contabili, che ne testimoniavano un importo di 75.000 €, non
90.000).
La ratio stava nel fatto che la legge prevedeva che nell’ipotesi in cui il contribuente fosse risultato
incongruo, quindi avesse dichiarato ricavi per un ammontare inferiore rispetto a quelli stimati da
Gerico, sarebbe andato incontro all’accertamento.
L’agenzia delle entrate avrebbe potuto emettere un avviso di accertamento, pretendendo le maggiori
imposte sanzioni ed interessi perché il suo assunto era assistito da questa presunzione legale,
predeterminata dall’applicazione dello studio di settore.
Allora per evitare le conseguenze pregiudizievoli che gli sarebbero derivate da un avviso di
accertamento, gli era consentito di adeguarsi spontaneamente e quindi di dichiarare in dichiarazione
quei maggiori ricavi che lo studio si attendeva, anche se questi ricavi non erano stati effettivamente
percepiti.
C’è ovviamente una finalità di incremento di gettito evidente, sottesa all’applicazione di questo
strumento di accertamento.
-Oppure poteva scegliere di rifiutarsi e quindi di non integrare la dichiarazione e di versare le
conseguenti imposte.
Maggiori imposte derivanti dai maggiori ricavi o dai maggiori compensi (attenzione! gli studi di
settore si applicavano agli imprenditori e agli esercenti arti e professioni che peraltro non superavano
determinati limiti dimensionali, per cui occorreva che non fossero percepiti ricavi e/o compensi
superiori a un ammontare di 7 milioni e mezzo di €.
Chi lo superava era escluso dall’applicazione dello studio di settore, perché si riteneva che le
peculiarità della loro attività non fossero compatibili con l’applicazione di uno strumento di
forfettizzazione dei ricavi e dei compensi, quali erano appunto gli studi di settore).
In queste ipotesi il contribuente sapeva già che sarebbe andato incontro alle conseguenze derivanti
dall’applicazione dello studio.
L’ufficio prima di notificare l’accertamento, avrebbe dovuto notificare prima un invito al
contraddittorio, cioè avrebbe dovuto comunque avviare una fase di contraddittorio anticipato nella
quale invitare il contribuente a spiegare le ragioni dello scostamento perché il punto di congruità
risponde ad una logica in termini di medietà del risultato, quindi è un risultato congruo rispetto a
una media di soggetti che presentano quelle caratteristiche.
Ma nulla esclude che il contribuente per ragioni specifiche, legate alla sua posizione individuale, si
discosti da questa logica di medietà.
E allora attraverso l’invito al contraddittorio si chiedeva al contribuente di voler illustrare le ragioni
per le quali magari strettamente individuali, si fosse discostato rispetto a quel dato di medietà.
Pensate al contribuente imprenditore che non è stato in grado di svolgere per molti mesi la propria
attività, perché purtroppo afflitto a una malattia molto grave che ne ha impedito il regolare
svolgimento dell’attività.
Questa è certamente una prova contraria che avrebbe potuto determinare la mancata applicabilità
degli
studi di settore a quel caso di specie.
Per cui, mediante un intervento della Corte di Cassazione a SS UU si prevedeva che l’ufficio dovesse
obbligatoriamente invitare, in via preventiva, il contribuente a presentarsi per rappresentare le

Diritto tributario Pagina 75


obbligatoriamente invitare, in via preventiva, il contribuente a presentarsi per rappresentare le
proprie
difese.
Solo dopo aver completato questa fase l’ufficio avrebbe potuto emettere un avviso di accertamento,
a
cui sarebbe poi ordinariamente seguita la lite nel caso in cui il contribuente avesse scelto di procedere
con impugnazione.
L’applicazione dello studio di settore determinava anche un altro risultato in termini di coerenza.
L’indice di coerenza descriveva invece un’anomalia, che era possibile rintracciare nelle modalità di
svolgimento dell’attività da parte di quel contribuente.
In termini di accertamento, non scaturiva nessuna conseguenza dalla incoerenza (dell'incongruità si,
se il contribuente fosse stato incongruo sarebbe andato incontro all’accertamento); se fosse stato
invece congruo ma non coerente, il dato di non coerenza non sarebbe stato sufficiente a determinare
conseguenze negative in termini di accertamento, perché non era previsto dalla legge che il
contribuente sarebbe andato incontro ad un accertamento, ma l’incoerenza sarebbe invece stata
elemento sufficiente ad indurre l’amministrazione finanziaria a sottoporre ad altro tipo di controllo il
contribuente.
In definitiva il contribuente incoerente sarebbe stato con grande prevedibilità sottoposto ad un
accertamento magari di tipo analitico.
Quindi era uno degli elementi che avrebbe potuto determinare l’inserimento di quel contribuente
nelle distese elettive (ne abbiamo parlato quando ci siamo occupati di controllo sostanziale).
Allora il contribuente non coerente con grande probabilità sarebbe stato sottoposto a controllo degli
ordinari poteri istruttori (che ormai conoscete bene).
Vi accennavo che dall'1 gennaio 2018 gli studi di settore non sono più applicati, nel senso che il
contribuente non è più obbligato a compilare il modello studio di settore.
Ne deriva che non è più previsto l’aggiornamento dei decreti ministeriali perché il legislatore mostra
di voler abbandonare questo strumento di accertamento e per di più non è più possibile procedere
all’accertamento per i periodi di imposta dal 2018 in poi.
Perché era per mezzo della compilazione del software che veniva dato il dato di congruità o
incoerenza, con la possibilità di emettere accertamento fondato sugli studi di settore.
Posto che il modello non è più compilato dall’1 gennaio 2018, segue che dal periodo di imposta
successivo a tale data non è più possibile ipotizzare che l’agenzia delle entrate emetta avvisi di
accertamento fondati sugli studi di settore.
Resta però che per i periodi d'imposta precedenti questo è ancora possibile, perché i contribuenti
hanno compilato e trasmesso il modello studio di settore.
Cosa allora il legislatore ha privilegiato, rinunciando in definitiva all’applicazione di uno strumento di
accertamento tanto invasivo direi, come lo studio di settore?
Lo strumento di accertamento ha cambiato completamente prospettiva perché l’istituto che ha
soppiantato lo studio di settore non lo possiamo definire strumento di accertamento ma è
semplicemente uno strumento che consente all’amministrazione finanziaria di rilevare i soggetti da
sottoporre a controllo attraverso gli ordinari poteri.
Questo istituto prende il nome di Indici di affidabilità fiscale (il cui acronimo è ISA).
Si tratta ancora una volta di un modello, di cui si richiede la compilazione ai contribuenti
(imprenditori o esercenti arti e professione), nel quale gli si chiedono una serie di informazioni.
La finalità della compilazione del modello è, però, completamente diversa perché non è finalizzato a
verificare l’eventuale incongruità o l’eventuale incoerenza del contribuente rispetto a determinati
standard che l’amministrazione finanziaria ritiene plausibili.
La finalità è quella di ripartire i contribuenti in due categorie:
-contribuenti affidabili;
-contribuenti non-affidabili.
Come si perviene a questo risultato?
Attraverso l’attribuzione di un punteggio, come se si ricevesse un voto, nel senso che alla fine della
compilazione del modello il contribuente è subito in grado di sapere quale voto l’amministrazione
finanziaria gli attribuisce.
-Chi percepisce un voto superiore al 6 certamente è da riconoscere affidabile.
-È altamente affidabile chi invece ne riceve uno dall’8 al 10.
-Ma a chi si dovesse collocare un punteggio inferiore al 6, rientrerebbe nella categoria dei non
affidabili e a cui deriverebbero conseguenze penalizzanti.

Diritto tributario Pagina 76


affidabili e a cui deriverebbero conseguenze penalizzanti.
Quindi la differenza tra le due categoria va apprezzata in termini di premio, cioè nella premialità o
non-premialità.
I soggetti affidabili avranno la conseguenza premiale ad es. di potersi avvantaggiare della riduzione di
un anno del termine, affinché si possa procedere all’accertamento nei loro confronti (normalmente il
termine decadenziale è il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione è
stata presentata).
Esistono poi una serie di altre conseguenze che prevedono ad es. di non richiedere il visto di
conformità per chiedere i rimborsi infrannuali, insomma vi sono molte conseguenze premianti che
derivano appunto dall’inclusione di questi soggetti nella categoria dei contribuenti affidabili.
Coloro che invece non sono affidabili vanno incontro a conseguenze più sgradevoli, che non sono più
quelle tipiche della logica dell’accertamento, fondato su un accertamento di tipo presuntivo (studi di
settore), le conseguenze sono diverse perché questi contribuenti da non premiare perché non
affidabili,
saranno sottoposti alla procedura ordinaria di accertamento attraverso l’inserimento nelle liste
selettive (con conseguente sottoposizione ai poteri istruttori e poi di accertamento).
In definitiva di può dire che questi indici di affidabilità fiscale costituiscono davvero un’evoluzione
significativa degli studi di settore, perché determinano conseguenze esattamente sovrapponibili a
quelle che determinava l’incoerenza negli studi di settore, che consentiva l’inserimento del
contribuente congruo nelle liste selettive e che poi sarebbe andato incontro all’esercizio dei poteri
istruttori e di accertamento ordinari.
È la stessa conseguenza, questa, dei contribuenti non affidabili.
Quindi è in definitiva un nuovo strumento, che però si risolve comunque nell'ordinario esercizio dei
poteri istruttori e di accertamento, per cui è un’evoluzione che porta con sé il definitivo abbandono
degli strumenti di forfettizzazione come li abbiamo conosciuti fin qui.
Gli studi di settore possono essere utilizzati ancora per i periodi d'imposta precedenti all’1 gennaio
2018, ma come elemento aggiuntivo di ulteriori elementi che devono essere acquisiti sulla base degli
ordinari poteri istruttori, quindi non può essere più un avviso di accertamento fondato solo su quegli
elementi.

Diritto tributario Pagina 77


LEZIONE 11 (25/03/21)
martedì 26 ottobre 2021 19:52

ACCERTAMENTO CON ADESIONE


È comunemente ricondotto alla categoria degli strumenti deflativi del contenzioso, insieme a questo
accertamento il nostro ordinamento prevede altri istituti parimenti definiti deflativi del contenzioso
(conciliazione giudiziale che studieremo in quinto anno).
È necessaria una premessa: in molte occasioni l’obbligazione tributaria nasce dalla legge ed in
dipendenza dal fatto che ha fonte legale diciamo che è un’obbligazione indisponibile, questo
determina che il soggetto creditore non può rinunziare alla propria pretesa (non può liberamente
disporre del credito vantato proprio perchè è stabilita dalla legge). Normalmente il credito può essere
rinunziato quando è liberamente disponibile da parte del creditore ( es. un credito che trova fonte nel
contratto).
Ragione per la quale in passato gli istituti antesignani (?) dell’accertamento con adesione hanno
trovato fortissimo ostacolo all’introduzione del nostro sistema.
Nel 1997 finalmente il nostro legislatore ha introdotto il sistema che oggi studiamo.
L’accertamento con adesione consente alle parti del rapporto giuridico di imposta di definire il
rapporto
attraverso il pagamento dell’imposta in misura ridotta e si accompagna anche una riduzione delle
sanzioni
amministrative.
La riduzione dell’imposta e la conseguente riduzione delle sanzioni non sono determinate da una
rinunzia
che l’amministrazione finanziaria, sia pure solo in parte, fa del proprio credito, questa è la ragione per
la
quale si deve respingersi l’idea che l’accertamento con adesione sia un accordo di natura transattiva
(tipica
del dir priv).
L’amministrazione finanziaria non rinunzia alla propria pretesa ma la ridefinisce con il concorso del
contribuente (soggetto passivo).
La nuova definizione dell’obbligazione che viene rideterminata per effetto dell’accordo raggiunto tra le
parti, non è determinata da una rinunzia ma semplicemente è determinata dalla più esatta
configurazione del
rapporto obbligatorio.
In base agli elementi e alle considerazioni che durante il procedimento può svolgere il contribuente ,
l’amministrazione ha l’occasione di meglio definire la misura dell’obbligazione di natura tributaria che
quindi assume una configurazione nuova proprio in ragione dei nuovi aspetti sottoposti all’attenzione
dell’amministrazione stessa da parte del contribuente.
L’accertamento con adesione consente all’amministrazione finanziaria il pieno conseguimento dei
risultati.
L’art 97 cost che sancisce il principio dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica
amministrazione trova pieno realizzo anche attraverso l’applicazione dell’istituto.
Dobbiamo partire dall’idea che non sempre la misura dell’obbligazione configurata così come si
rappresenta
l’interno del processo verbale di constatazione è l’obbligazione conforme alla reale e consistenza
capacità
contributiva manifestata dal contribuente. Può accadere che l’ufficio attenendosi solo ai rilievi
formulati dai
rappresentati configuri l’obbligazione tributaria in maniera erronea , e non essere in linea con la reale
capacità contributiva del contribuente.. nulla esclude che in una successiva fase di contraddittorio che
l’amministrazione finanziaria sia nelle condizioni di pervenire a una più corretta configurazione

Diritto tributario Pagina 78


l’amministrazione finanziaria sia nelle condizioni di pervenire a una più corretta configurazione
dell’imposta stessa.
Non c’è nessuna riduzione dell’imposta, ma una più corretta configurazione dell’obbligazione tributaria
stessa nel pieno rispetto del principio di capacità contributiva (da attribuire al soggetto passivo) e buon
andamento della pubblica amministrazione (da attribuire all’amministrazione finanziaria).
L’istituto to che oggi studiamo è stato introdotto da molti anni, il decreto legislativo che lo disciplina è
il
218\1997, istituto che viene riservato solamente ai tributi fondamentali del sistema: imposte
dirette,iva,irap,
anche le imposte indirette sui trasferimenti.
Una sensibile estensione del perimetro di operatività dell’istituto è dovuta anche grazie agli enti locali,
perchè pur non prevedendo il decreto 218\97 l’applicabilità di accertamento con adesione in materia
di
tributi locali, gli enti locali sono liberi attraverso l’esercizio del potere regolamentare di prevederne
l’applicazione per i tributi di loro spettanza. Quindi è piuttosto frequente che i singoli enti locali
approvino
un regolamento apposito per l’applicazione dell’istituto dell’accertamento con adesione.
Come si svolge il procedimento?
Tenendo anche presente il fatto che si tratta di un istituto recentissimamente ha visto l’introduzione di
una
nuova norma che ne ha un po’ modificato l’assetto originario e vedremo in che modo.
Sotto significativi profili ne ha ridotto l’operatività.
Iniziamo col descrivere l’inizio del procedimento:
Prende l’avvio quando viene conclusa la fase istruttoria (quindi immediatamente dopo la consegna del
processo verbale di constatazione) è certamente possibile che il procedimento prenda l’avvio, il quale
è
possibile su iniziativa di entrambe le parti.
Un soggetto invita l’altro a procedere all’accertamento con adesione, può accadere che sia d’ufficio
territorialmente competente oppure il contribuente a formulare l’istanza.
Attraverso la formulazione dell’istanza una parte propone all’altra di procedere a taluni incontri in
modo
tale da sottoporre questioni o documenti che non erano stati opportunamente valutati in sede di
verifica
opportuni ai fini di una nuova determinazione della base imponibile.
L’obiettivo di questi incontri che le parti si propongo di svolgere non è quello di addivenire a una
riduzione
della maggiore imposta dovuta sulla base di quei rilievi, ma l’obbiettivo è diverso, strettamente
collegato
alle finalità dell’istituto = MIGLIORE DEFINIZIONE DELLA BASE IMPONIBILE NON DEL
TRIBUTO, quest’ultima è una conseguenza della nuova determinazione della base imponibile proprio
perchè la quantificazione del tributo dipende dall’applicazione delle aliquote del tributo alla base
imponibile.
Una volta che le parti giungono all’accordo sulla migliore configurazione della base imponibile, il
calcolo
delle maggiori imposte dovute sarà una conseguenza puramente matematica.
L’accordo non può investire l’imposta ma solo la base imponibile discende dal fatto che le parti
discutono
di rilievi contenuti in una processo verbale di constatazione e noi sappiamo che i rilievi descrivono solo
maggiori imponibili ipotizzati dai verificatori, non le maggiori imposte dovute, poichè ciò sarà oggetto
della
futura attività di accertamento demandato ad altro ufficio.
Vi ho detto inizialmente che questa istanza può essere formulata tanto dal contribuente quanto
d’ufficio, in

Diritto tributario Pagina 79


d’ufficio, in
linea generale formulata dall’ufficio solo se non è stato notificato l’avviso di accertamento; bisogna
sapere
che il procedimento di accertamento con adesione è possibile anche dopo la notifica di avviso di
accertamento in questo caso però l’istanza la può fare solo il contribuente.
Quest’esclusione è data perchè l’ufficio implicitamente ha già manifestato la propria tesi circa la
corretta
quantificazione della base imponibile, non può più tornare indietro e fare l’istanza di accertamento con
adesione.
(queste sono le linee generali, rispetto alle quali abbiamo solo fatto le premesse.)
A questo punto dobbiamo parlare della novità normativa entrata in vigore nel 2020.
A decorrere dal 1 luglio 2020 è previsto che l’ufficio sia obbligato prima di notificare l’avviso di
accertamento a fare istanza di accertamento con adesione.
Il legislatore dice che si tratta di un invito al contraddittorio ma in realtà non si tratta ne più e ne meno
di
un’istanza di accertamento con adesione.
Prima del 2020 l’ufficio poteva invitare, ora invece DEVE invitare al contraddittorio prima di emettere
l’avviso di accertamento.
Regola apparentemente dirompente, è sottoposta a significative deroghe. Vorrebbe essere generale
ma non
lo è fino in fondo.
Deroghe inteso che nei casi previsti l’ufficio non è obbligato ad invitare il contribuente al
contraddittorio
preventivo.
Ne elenco 2:
In tutti i casi in cui l’ufficio notifica un avviso di accertamento pa • rziale (oggi la maggior parte degli
avvisi di accertamento notificati dall’agenzia delle entrate sono avvisi parziali, dunque ha ambiti di
operatività molto estesi)
L’ufficio non è obbligato quando ha consegnato un processo verbale di costatazione • ( quindi se
l’attività
istruttoria si è espletata attraverso ispezione e verifica).
Perchè mi soffermo su questa nuova norma? E l’art 5 ter del decreto legislativo 518\97?
Perchè tutte le volte in cui l’ufficio è obbligato a fare l’invito al contraddittorio preventivo accade che il
contribuente che ha ricevuto l’invito e che eventualmente ha già ricevuto l’avviso di accertamento non
può
più fare istanza di accertamento con adesione.
Una volta ricevuto l’avviso di accertamento non potrà fare altro che impugnarlo.
Il contraddittorio si è concluso con l’invito al contraddittorio già rivoltogli dall’agenzia delle entrate.
E’ una fase che si è già svolta.
Cerchiamo di descrivere l’assetto precedentemente al 2020:
istituto attivabile indistintamente da entrambi i soggetti, con una distinzione:
Quando l’accertamento con adesione prendeva avvio prima della notifica di avviso di accertamento
l’istanza
la poteva fare alla controparte tanto l’ufficio quanto il contribuente.
Una volta notificato l’avviso di accertamento l’istanza poteva farla solo il contribuente.
Nel luglio 2020 con l’art 5 ter si dispone un nuovo assetto:
secondo la regola generale l’ufficio in alcuni casi ha l’obbligo di fare il preventivo invito al
contraddittorio
al contribuente.
Quando non è obbligato, l’istituto funziona esattamente come il passato. (Invito al contraddittorio da
parte
di entrambe le parti prima dell’avviso di accertamento, dopo l’avviso solo il contribuente).
Cosa accade per quella che abbiamo chiamato nuova regola generale? (Siamo fuori dalle deroghe)

Diritto tributario Pagina 80


Cosa accade per quella che abbiamo chiamato nuova regola generale? (Siamo fuori dalle deroghe)
L’ufficio è obbligato ad effettuare l’invito preventivo al contraddittorio prima di notificare l’avviso di
accertamento, se così è questo significa che ormai il contraddittorio preventivo quale che sia stato il
risultato
c’è già stato.
Se questa fase di contraddittorio anticipato non va a buon fine quindi le parti non raggiungo alcuna
intesa,l’ufficio notificherà l’avviso di accertamento e il contribuente non potrà più fare l’accertamento
di
adesione perchè c’è già stata una fase di contraddittorio anticipato su sollecitazione obbligatoria
previsto
dalla legge.
La chance il contribuente l’ha già avuta.
Prima dell’avviso di accertamento nessun problema perchè non ci sono termini pendenti di
impugnazione,
dunque se le parti si incontrano dopo la consegna del pvc e prima della notifica del nulla quaestio.
Quando invece l’istanza di accertamento con adesione viene fatta dopo la notifica dell’avviso di
accertamento, le cose cambiano, il legislatore si è trovato costretto ad intervenire stabilendo che i
termini
d’impugnazione si sospendono.
Quando il contribuente riceve l’avviso di accertamento inizia a decorrere il termine di impugnazione
pari a
60 giorni. Nei 60 giorni successivi alla notificazione il contribuente devo proporre l’impegnavi zone a
pena
di decadenza, ciò vuol dire che il ricorso sarebbe intempestivo e inammissibile.
60 giorni è un termine molto breve e impossibile, tanto più breve laddove si voglia raggiungere
un’intesa.
Dunque è per questo che il legislatore ha previsto che il termine per impugnare si sospende per 90
giorni.
Dunque il termine per impugnare riprende il decorso dopo il 90° giorno di sospensione, dunque il
termine
diventa pari a 150 giorni. (60 + 90)
Torniamo al nuovo assetto, c’è una obiezione: se abbiamo appena finito di dire che il contribuente non
può
fare istanza di accertamento con adesione dopo la notifica dell’avviso di accertamento perchè
dobbiamo
ipotizzare che c’è una sospensione del termine? Perchè l’obiettivo è trovare un accordo ed evitare il
ricorso.
Quindi si spera che in questi 90 giorni le parti trovino un accordo.
Del nuovo assetto istituto abbiamo detto che quando l’ufficio è obbligato a fare l’invito al
contraddittorio
anticipato il contribuente dopo aver ricevuto l’avviso non può più fare istanza di accertamento con
adesione,
allora se così fosse vero, che senso ha discutere del termine d’impugnazione? nessuno visto che
l’istanza
non può essere fatta.
Si può avere il dubbio ma la norma ha senso perchè attualmente l’accertamento con adesione viaggia
su un
doppio binario, ci sono casi in cui il contribuente l’istanza non la può fare dopo aver ricevuto l’avviso di
accertamento (regola generale), ma ci sono altri casi (deroghe) in cui invece il contribuente può fare
l’istanza di accertamento con adesione perchè l’ufficio non è obbligato a fare l’invito preventivo
obbligatorio.
Il contribuente che si vedere recapitare l’avviso di accertamento deve per prima verificare se la sua
posizione è una di quelle per le quali c’è o no un obbligo di contraddittorio preventivo che grava

Diritto tributario Pagina 81


posizione è una di quelle per le quali c’è o no un obbligo di contraddittorio preventivo che grava
sull’ufficio. Se l’obbligo c’è il contribuente non può godere mai di nessuna sospensione del termine per
impugnare, il ricorso scade vivi o morti dopo 60 giorni dalla notificazione del ricorso. Se invece la sua
posizione è una di quelle per le quali non grava un obbligo al contraddittorio preventivo , allora il
contribuente che non ha ricevuto l’invito prima di avere ricevuto la notifica dell’invito può fare lui
l’istanza,
ed in quel caso ha diritto alla sospensione del termine per impugnare.
L’altro istituto che dobbiamo trattare oggi è l’istituto dell’AUTOTUTELA.
Quando parlo di autotutela mi riferisco all’esercizio di un vero e proprio potere della politica di
amministrazione. Il potere di autotutela è quello che l’amministrazione pubblica esercita quando
sceglie
autonomamente, senza essere costretta ad esempio da un ordine del giudice, all’annullamento di un
atto
precedentemente emesso quando l’atto stesso è illegittimo.
Quando facciamo riferimento ad un atto rispetto al quale l’amministrazione finanziaria potrebbe
accorgersi
di un’ipotesi di grave illegittimità, parliamo per esempio del caso dell’atto privo di motivazione,
quando
invece facciamo riferimento alla grave infondatezza si può immaginare l’ipotesi di avviso di
accertamento
partendo dal presupposto che la dichiarazione non sia stata presentata anche se invece è stata
regolarmente
presentata.
Si tratta quindi di casi in cui l’amministrazione finanziaria proprio nell’esercizio pieno delle sue funzioni
provvede autonomamente a ritirare subito il provvedimento illegittimo o infondato. Questo potere
può
essere esercitato attraverso l’emissione di un nuovo atto che dispone l’annullamento del primo
(autotutela
negativa).
L’eliminazione dell’atto già emesso non impedisce all’amministrazione finanziaria di sostituirlo
emettendo
un altro atto privo dei vizi contenuti nell’atto precedente. La sostituzione dell’atto precedente deve
sempre
avvenire entro il termine della decadenza previsti dalla legge.
Il potere di annullamento di autotutela può anche essere esercitato parzialmente.
AUTOTUTELA PARZIALE si ha quando il vizio dell’atto non è tale da determinare l’illegittimità
dell’atto, ma è tale da rendere l’atto illegittimo parzialmente. La norma che contiene la disciplina di
questo
potere è contenuta nel decreto legge 564 del 1994 all’art.2quater .
L’esercizio del potere di autotutela è possibile anche quando è spirato il termine per l’impugnazione
dell’atto illegittimo.
ATTENZIONE: apparentemente questo istituto si pone in netta incompatibilità con i principi generali
studiati fin qui. L’esercizio del potere di autotutela va oltre. L’amministrazione finanziaria è libera di
eliminare l’atto gravemente illegittimo o infondato nonostante la sua mancata impugnazione. Questo
perché
la mancata impugnazione dell’atto non impedisce all’amministrazione finanziaria ad esercitare la sua
podestà.
L’esercizio di tale potere può avvenire anche in pendenza di giudizio: l’atto è stato impugnato, entra in
giudizio instaurato dal contribuente e l’amministrazione finanziaria può annullarlo. Se una simile
ipotesi
dovesse intervenire ci saranno delle conseguenze al contribuente che ha impugnato: verrebbe meno la
prosecuzione del giudizio (vale l’ipotesi della cessazione della materia del giudizio, ma ha ugualmente il
diritto al pagamento delle spese del giudizio).

Diritto tributario Pagina 82


diritto al pagamento delle spese del giudizio).
L’esercizio di questo potere in alcuni casi può andare anche oltre il giudicato. Se il contenzioso si
conclude
questo è perché vi è una sentenza passata in giudicato ed anche in questo caso l’amministrazione
finanziaria
può esercitare il suo potere di autotutela.
È consentito all’amministrazione finanziaria l’esercizio del potere di annullamento OGNI QUALVOLTA
SCELGA DI APPLICARE L’AUTOTUTELA SULLA BASE DI MOTIVI DIVERSI DA QUELLI POSTI
NELLA SENTENZA PASSATA IN GIUDICATO. Il limite che il giudicato pone all’autotutela è un limite
rigido e circoscritto ed è legato ai motivi della sentenza passata in giudicato.
Vi dicevo che questo potere è disciplinato dall’art.2quater della legge del 1994, ma la disciplina di
questo
potere è completata da un decreto ministeriale dell’11 febbraio del 1997 in cui vengono individuate
delle
fattispecie per cui è consentito l’esercizio dell’autotutela.
Nb. Questa elencazione di fattispecie è soltanto esemplificativa, non è un’elencazione tassativa.
Inoltre dovete sapere che l’esercizio di annullamento con autotutela è possibile anche se sollecitato dal
contribuente attraverso la preposizione dell’ISTANZA da parte del contribuente. L’amministrazione
finanziaria, ricevuta l’istanza, non ha l’obbligo di disporre l’annullamento e non comporta nemmeno la
sospensione dei termini per la preposizione del ricorso. L’ufficio titolare del potere di annullamento in
autotutela è lo stesso ufficio che ha emesso l’atto di cui si chiede l’annullamento. Solo in caso di grave
inerzia, il contribuente può chiedere l’esercizio del potere all’ufficio gerarchicamente sovraordinato. E
l’unico ufficio sovraordinato che può sostituirsi è la direzione generale delle entrate.
Esaurito il tema dell’autotutela passiamo alle EVASIONI.
L’evasione si configura ogni qualvolta che l’amministrazione finanziaria è in grado di affermare che il
contribuente abbia presentato una dichiarazione in modo incompleto o infedele.
L’evasione presuppone la violazione delle norme che costituiscono l’ordinamento fiscale.
Dobbiamo adesso capire cosa si intende per:
• ELUSIONE FISCALE (detta anche ABUSO DI DIRITTO): Si configura nel caso in cui il contribuente
compie operazioni prive di sostanza economica che gli consentono di realizzare i debiti in vantaggi
fiscali.
La disciplina dell’elusione fiscale ha vissuto nel nostro sistema vicende piuttosto alterne.
La prima delle norme nel nostro ordinamento è quella contenuta nell’art.37bis del decreto n.600 del
1973.
Attualmente la disciplina di questo istituto si trova in un’altra norma contenuto nell’art.10bis dello
statuto
dei diritti del contribuente.
Il 37bis conteneva una disposizione antiabuso che veniva considerata una disposizione antielusiva
speciale
perché trovava applicazione in una serie limitata di ipotesi. Quella norma si contraddistingueva per
l’elencazione di ipotesi tassative in cui l’amministrazione aveva la possibilità di contestare l’elusione.
Quindi aldilà delle ipotesi tassativamente elencate l’elusione non era possibile.
La corte di giustizia dell’UE avvertendo la pericolosità dell’evasione, con la famosa sentenza halifax ha
iniziato a tratteggiare le caratteristiche della condotta elusiva generalmente intesa come tale.
All’indomani
della sentenza halifax del 2006, anche nell’ordinamento interno si inizia a prendere la consapevolezza
dell’esigenza di abbandonare l’elencazione tassativa del 37bis per attuare una codificazione generale
del
principio antiabuso. Questo passo è stato particolarmente travagliato.
È giusto sapere che all’indomani della sentenza halifax, in mancanza di una norma generale antiabuso,
si
occorse in varie soluzioni, la corte di cassazione cercò in qualche modo di ricavare un principio
generale

Diritto tributario Pagina 83


generale
antiabuso dalle norme della carta costituzionale e da altre disposizioni.
Con una legge delega del 2014 si è giunti all’inserimento, all’interno della legge 12 del 2000
dell’art.10bis
che è una norma specifica che disciplina l’elusione fiscale.
Ormai l’unico riferimento alla disciplina dell’elusione è l’art.10bis dello statuto del contribuente.
Questa
norma è una norma molto estesa.
L’art.10bis definisce ABUSO DEL DIRITTO una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel
rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali in debiti.
Da questa definizione si desume che è operazione abusiva quella priva di sostanza economica ed è tale
l’operazione costituita da un contratto o un fatto non capace di produrre un risultato apprezzabile
diverso dal
vantaggio fiscale.
L’abuso sussiste tutte le volte in cui l’operazione posta in essere tra le parti non abbia altra finalità se
non
quella di conseguire un vantaggio fiscale in debito. Se fosse un vantaggio fiscale legittimo sarebbe
legittima
anche l’operazione. L’operazione elusiva per essere tale deve essere priva di sostanza economica, cioè
non
deve essere sostenuta da valide ragioni extrafiscali. Se queste ragioni extrafiscali ci sono occorre che
non
siano marginali perché devono essere ragioni forti e non deboli. È tutta una questione di bilanciamento
tra
risparmio fiscale e ragioni extrafiscali preponderanti.
Detto questo vorrei parlarvi delle conseguenze dell’aver commesso una situazione elusiva.
Quale può essere l’obiettivo dell’amministrazione finanziare? È quello di recuperare le imposte che il
contribuente avrebbe dovuto versare se l’operazione elusiva non fosse stata effettuata. Quello che ho
detto
porta in sé ricadute molto gravi in diritto tributario, ma dobbiamo vedere se hanno ricadute anche in
diritto
civile. L’operazione elusiva è un’operazione contrattuale. Quando l’amministrazione finanziaria
contesta
l’operazione elusiva di queste operazioni contrattuali che fine fa l’operazione intercorsa tra privati? La
contestazione circa la natura elusiva della operazione lascia integro il rapporto tra le parti. L’unica
conseguenza che la natura elusiva provoca è una conseguenza apprezzabile solo in diritto tributario
perché
la contestazione della natura elusiva rende inopponibile l’operazione intercorsa tra le parti sotto il
profilo
esclusivamente fiscale. L’operazione all’amministrazione finanziaria è inopponibile all’agenzia delle
entrate
e ciò significa che l’amministrazione finanziaria riacquisisce la podestà di pretendere le maggiori
imposte
che la parte dovrà versare come se l’operazione non fosse mai stata posta in essere.

Diritto tributario Pagina 84


LEZIONE 12 (29/03/21)
martedì 26 ottobre 2021 19:52

Le conseguenze che derivano dalla contestazione dell’abuso del diritto.


In tutti i casi in cui l’amministrazione finanziaria dovesse contestare la natura elusiva della natura
finanziaria del contribuente si pongono le condizioni della cosiddetta opponibilità. Il negozio
ritenuto elusivo dell’amministrazione finanziaria non sarà opponibile all’ufficio, con la
conseguenza che lo stesso potrà emanare un avviso di accertamento recuperando le imposte che il
contribuente avrebbe dovuto corrispondere come se l’operazione non fosse mai stata effettuata.
Quindi restano perfettamente integre le conseguenze sul piano civilistico del negozio intercorso tra
le parti ma rimane un negozio opponibile sotto il profilo fiscale.
Il procedimento che l’amministrazione finanziaria è tenuta a porre in essere là dove volesse
contestare la natura elusiva dell’operazione lo troviamo descritto nell’articolo 10 bis. Sul piano
procedimentale le conseguenze sono particolarmente rigorose, perché all’indomani dell’entrata in
vigore dell’articolo 10 bis ha trovato piena codificazione il principio del contraddittorio
anticipato, abbiamo notato più volte come il legislatore ha riservato particolare attenzione a questo
principio. Nelle ipotesi applicative in cui ritiene di dover riconoscere un diritto al contraddittorio
anticipato lo ha fatto espressamente. Una di queste ipotesi è proprio contemplata dall’articolo 10
bis, esso prevede infatti che ogni qual volta che l’amministrazione finanziaria volesse contestare la
natura elusiva dell’operazione lo potrà fare soltanto previamente invitando il contribuente a fornire
chiarimenti. Questo significa che non potrà l’ufficio immediatamente notificare l’avviso di
accertamento, quindi l’atto a contenuto provvedimentale volto a negare sotto il profilo fiscale gli
effetti del negozio posto in essere, ma dovrà notificare precedentemente al contribuente una
richiesta di chiarimenti. La funzione di questa richiesta di chiarimenti è molto semplice ovvero con
questo atto l’ufficio chiede al contribuente di indicare le valide ragioni economiche che avrebbe
assistito l’operazione ritenuta elusiva. È chiaro che, se il contribuente fosse in grado di dimostrare
che l’operazione fosse assistita da valide ragioni economiche, si tratterebbe di un’operazione
perfettamente legittima quindi questo implicherebbe che l’amministrazione finanziaria ne dovrebbe
riconoscere gli effetti fiscali. Con la richiesta di chiarimenti, che va notificata al contribuente,
l’ufficio chiede quali sarebbero state le valide ragioni economiche che avrebbero assistito
l’operazione posta in essere. Nel caso in cui il contribuente risponde alla richiesta di chiarimenti
entro il termine assegnato, l’amministrazione finanziaria che non dovesse condividere i chiarimenti
chiariti dal contribuente potrà a quel punto notificare l’avviso di accertamento, perché la norma
prevede che la motivazione di questo avviso di accertamento deve avere caratteristiche ben precise.
Tanto che viene richiesto a pena di nullità che l’amministrazione finanziaria indichi espressamente:
1) quale sia la condotta che ritiene abusiva, 2) quali sono i principi che sarebbero stati elusi, 3) quali
sono le ragioni per cui l’ufficio non ha condiviso le ragioni indicate dal contribuente. Si tratta di una
vera e propria motivazione rafforzata, non è una motivazione semplice quella che deve contenere
l’avviso di accertamento con il quale l’ufficio contesti la natura elusiva dell’operazione, è
un’operazione rafforzata proprio perché non si limita ad indicare presupposti di fatto e ragioni
giuridiche della pretesa ma la norma prevede che deve contenere molto di più, deve l’ufficio infatti
indicare le valide ragioni economiche illustrate dal contribuente che non sono state condivise.
Altra peculiarità legata a questo particolare tipo di procedimento è legata al fatto che l’unica
contestazione che l’avviso potrà recare è quella legata alla natura elusiva dell’operazione. Questo
significa che si tratterà di un avviso di accertamento parziale, se anche l’amministrazione
finanziaria avesse altre contestazioni da muovere al contribuente, ad esempio immaginiamo il caso
del contribuente che ha subito anche un accesso, un ispezione o una verifica e che sulla base di
quella attività istruttoria l’ufficio ha ritenuto che il contribuente avesse commesso altre violazioni,
diverse dall’operazione elusiva che intende contestare, questa particolare ipotesi sarà circoscritta
alla natura elusiva dell’operazione riservandosi la possibilità di emettere un altro atto con cui potrà
eventualmente rettificare la dichiarazione sulla base delle altre contestazioni eventualmente
contenute nel processo verbale di costatazione. Quindi l’avviso di accertamento emesso in
dipendenza della contestata natura elusiva dell’operazione è sempre un avviso di accertamento
parziale.
Un’altra peculiarità estremamente significativa, è che quando l’ufficio emette un avviso di

Diritto tributario Pagina 85


Un’altra peculiarità estremamente significativa, è che quando l’ufficio emette un avviso di
accertamento con cui contesta la natura elusiva non potrà procedere alla riscossione delle somme
pretese in attesa del giudizio di primo grado. La regola generale infatti vuole che quando
l’amministrazione finanziaria notifica un avviso di accertamento e il contribuente accetta di
impugnarlo, in pendenza di giudizio le somme di accertamento sono provvisoriamente dovute se
pur parzialmente, quindi in parte la riscossione provvisoria resta possibile, dovuta anzi perché
prevista dalla legge. Quando l’avviso di accertamento è emesso al fine di contestare la natura
dell’operazione, in pendenza del giudizio di primo grado nessuna somma sarà riscuotibile, questo
significa che la riscossione sarà possibile solo dopo il deposito della sentenza di primo grado.
Quindi le imposte, le sanzioni e gli interessi saranno riscuotibili solo dopo la sentenza di primo
grado eventualmente sfavorevole al contribuente. Viceversa in pendenza del giudizio di primo
grado tutto resta sospeso ex lege.
Quando l’amministrazione finanziaria contesta la natura elusiva di un’operazione e non resta
soddisfatta dai chiarimenti forniti prima della notificazione dell’avviso di accertamento, questa
circostanza non impedisce al contribuente di fornire la prova in pendenza di giudizio. Quindi se
l’amministrazione finanziaria avvia l’avviso di accertamento e il contribuente lo dovesse impugnare
è chiaro che in pendenza del giudizio sarà nell’interesse del contribuente fornire direttamente al
giudice la prova dell’esistenza di valide ragioni economiche che escludevano la natura elusiva.
Quindi il fatto che quelle circostanze non siano approvate dall’amministrazione finanziaria non
toglie il fatto che il contribuente non possa riproporre le medesime difese (magari arricchendole)
davanti al giudice che sarà libero di apprezzarle come meglio crede, senza nessun effetto vincolante
determinato dal fatto che l’ufficio abbia respinto quelle ragioni giustificative. L’onere della prova in
pendenza del giudizio sicuramente grava sul contribuente che però potrà ricorrere ad una prova
assolutamente piena senza nessuna preclusione discesa dal fatto che l’ufficio avesse già respinto
quelle considerazioni in fase di contraddittorio anticipato. Per concludere il tema, il nostro sistema
in verità anche se contempla una norma antiabuso generale prevede disposizioni antiabuso
speciali, si tratta di norme specifiche che sanciscono che in determinati casi l’operazione posta in
essere dal contribuente si presume che abbia natura elusiva. Si tratta quindi di disposizioni speciali
antiabuso che il nostro ordinamento continua a contemplare, e per evitare l’applicabilità
dell’articolo 10 bis sul profilo procedimentale anche quando ricorrono queste fattispecie specifiche
contemplate dalle disposizioni speciali antiabuso (trovate nel decreto che disciplina l’imposta di
registro oppure nel decreto che contiene la disciplina dell’IRES-> si tratta di disposizioni
disseminate in varie norme presenti nel sistema), il contribuente, sapendo che si tratta di condotte
che potrebbero determinare l’applicazione delle disposizioni speciali antiabuso, potrebbe
preventivamente chiederne la disapplicazione all’amministrazione finanziaria facendo una istanza
di interpello.
Istanza di interpello: Si tratta di un istituto che consente al contribuente di chiedere
preventivamente all’amministrazione finanziaria se a suo giudizio ricorrono le condizioni per
un’operazione non ancora irrealizzata ma che si intende realizzare connotata dal carattere elusivo. Il
contribuente proprio in occasione dell’istanza di interpello rappresenta già all’amministrazione
finanziaria tutte le condizioni che a suo giudizio dovrebbero escludere la natura elusiva
dell’operazione, così facendo mira ad ottenere la risposta favorevole dell’amministrazione
finanziaria che potrebbe rassicurare il contribuente anticipando che in presenza delle condizioni
prospettate la condotta non sarebbe ritenuta elusiva.
La seconda o la terza fase dei tributi: la riscossione
La riscossione è una fase costituita da una serie di molteplici atti, che possono essere posti in essere
in parte dal contribuente e in parte direttamente dall’amministrazione finanziaria con la finalità di
procedere alla liquidazione del contributo dovuto e quindi al suo versamento. Normalmente la fase
della riscossione era una fase che seguiva quella dell’accertamento, quindi prima si seguiva con
l’accertamento della base imponibile e del tributo da versare attraverso l’applicazione dei molteplici
istituiti e poi si procedeva al versamento e quindi all’adempimento dell’obbligazione tributaria.
Sarebbe inidoneo e imparziale dire che la riscossione si ha con il versamento, il versamento è un
termine improprio che sta a significare generalmente l’adempimento dell’obbligazione, ma vedremo
che per la verità che le modalità attraverso cui l’obbligazione tributaria si estingue sono molteplici e
quindi l’oggetto del nostro studio saranno gli istituiti che il nostro ordinamento prevede e grazie ai
quali sarà possibile adempiere all’obbligazione tributaria.
Nel nostro ordinamento distinguiamo diverse modalità di riscossione, normalmente le modalità di
riscossione si distinguono in: A) modalità di riscossione che si applicano nel settore dell’imposte

Diritto tributario Pagina 86


riscossione si distinguono in: A) modalità di riscossione che si applicano nel settore dell’imposte
dirette e B) modalità di riscossione che si applicano nel settore dell’imposte indirette. Le modalità
di riscossione delle imposte indirette non sono che altro che alcune modalità che studiamo per la
riscossione delle imposte dirette, quindi questo significa che le modalità di riscossione che
l’ordinamento prevede per le imposte dirette sono più estese rispetto quelle riservate alle imposte
indirette.
Quali sono queste forme di riscossione che l’ordinamento prevede per le imposte dirette?
La pima forma di riscossione che il nostro ordinamento prevede in tema di imposte dirette è
certamente rappresentata dalla ritenuta diretta (1), essa è la ritenuta operata dallo stato ma anche
da comuni, province, regioni nei confronti di particolari categorie di soggetti a favore dei quali
eroga somme di denaro a titolo di retribuzione o comunque di compenso. Fatta questa precisazione
è facile affermare che la ritenuta diretta è operata dallo stato o comunque da province, regioni o
comuni quando eroga somme o a titolo di lavoro autonomo (quindi nei confronti dei propri
lavoratori dipendenti) oppure quando eroga somme a soggetti che prestano attività di lavoro
autonomo, dunque la ritenuta è diretta perché viene operata direttamente sulla somma corrisposta al
prestatore di lavoro o al libero professionista. Nell’erogare la somma di denaro lo stato, province,
regioni e comuni viene operata una ritenuta che viene trattenuta dall’ente che eroga la somma.
Dunque chi effettua la ritenuta ha diritto a trattenerla, non la versa ad altro soggetto, e allora sotto
questo profilo emerge tutta la differenza che corre tra ritenuta diretta e sostituzione (lì il sostituto
era obbligato ad operare una ritenuta o a titolo di imposta o a titolo di acconto, anche qui parliamo
di ritenuta ma la somma che costituisce oggetto della ritenuta non viene riversata ad un altro
soggetto e per questo motivo si parla di ritenuta diretta). Quindi lo stato opera la ritenuta e trattiene
direttamente la somma e attraverso questo istituito avviene l’adempimento dell’obbligazione
tributaria che aggrava sul percettore della somma di denaro quindi subisce la ritenuta diretta. Questa
forma di riscossione è una forma di riscossione tipica delle imposte dirette, non la troviamo nel
settore dell’imposte indirette.
Così non è invece per il versamento diritto (2) (tipico sia nel settore delle imposte dirette che
indirette) è una forma di riscossione attraverso cui il soggetto obbligato all’adempimento provvede
spontaneamente al pagamento senza alcuna richiesta da parte del soggetto attivo. Quindi quello che
comunemente viene definito pagamento, acquista invece la sua dimensione giuridica più corretta
attraverso il richiamo dell’istituto del versamento diretto. Il versamento diretto nel nostro sistema
costituisce la modalità ordinaria della riscossione, dunque è il versamento diretto la forma di
riscossione ordinariamente applicata, quindi accade che il soggetto chiamato ad effettuare il
pagamento provvede direttamente e spontaneamente al versamento utilizzando il canale bancario o
il canale postale oppure avvalendosi dell’agente della riscossione. Nel caso in cui provveda
attraverso queste modalità il contribuente, sotto il profilo formale, conferisce una delega di
pagamento al soggetto al quale chiede di intervenire. Dunque immaginando l’ipotesi più frequente
cioè il pagamento eseguito attraverso il canale bancario, ogni qual volta che il contribuente effettui
il pagamento dovrà presentare una delega di pagamento, quella comunemente nota come modello
F23 o come modello F24. Questi modelli, che sono quelli consegnati all’ufficio bancario o postale,
al quale si chiede di intervenire nella corresponsione delle somme è il documento attraverso cui
colui che effettua il pagamento delega l’istituto bancario a cedere dette somme, quindi consegna le
somme all’intermediario che a sua volta assume l’impegno di versarle nelle casse dell’erario.
Quando facciamo riferimento ai soggetti che intervengono per consentire il versamento diretto si
parla di agente della riscossione, la gente della riscossione fino a pochissimo tempo fa (in Sicilia è
ancora possibile) era un soggetto di diritto privato, si chiamava concessionario del servizio di
riscossione successivamente la denominazione si è modificata in agente della riscossione, si trattava
di un soggetto a cui poteva essere demandato il compito di provvedere al versamento delle somme.
In Italia oramai da qualche anno, le funzioni che erano attribuite all’agente della riscossione sono
state attribuite all’agenzia delle entrate riscossione, quindi ad un ente pubblico al quale sono state
affidate le funzioni che prima erano demandata ad un soggetto di diritto privato. In Sicilia invece
ancora le funzioni sono esercitate da riscossione Sicilia s.p.a, soggetto di diritto privato interamente
partecipato da enti di diritto pubblico che però a breve sarà sostituito da ADER, quindi anche in
questo caso in Sicilia le funzioni della riscossione saranno attribuite all’agenzia delle entrate
riscossione.
La terza forma di riscossione è l’iscrizione a ruolo (3), come il versamento diretto trova
applicazione sia nel settore delle imposte dirette che indirette. Bisogna precisare che si tratta di una
modalità di riscossione che interviene sia per il recupero delle somme risultate dalla dichiarazione,

Diritto tributario Pagina 87


modalità di riscossione che interviene sia per il recupero delle somme risultate dalla dichiarazione,
sia per il recupero delle somme in dipendenza di accertamenti già seguiti dall’ufficio. Quindi le
prime le potremmo definire ipotesi fisiologiche, le seconde invece ipotesi patologiche cioè ipotesi
in cui si sia già manifestata un’infedeltà o un’incompletezza. Se volessimo identificare le ipotesi in
cui interviene l’iscrizione a ruolo a seguito del pagamento delle somme dovute dalle dichiarazioni
dovremmo ricordare un profilo del procedimento già conosciuto, ovvero quando l’ufficio esegue
un’attività di liquidazione e un controllo formale su tutte le dichiarazioni nell’eventualità che
dovesse ritenere che il contribuente abbia commesso errori materiali o di calcolo oppure ha
liquidato erroneamente la dichiarazione perché ha indicato oneri deducibili, laddove il contribuente
non abbia aderito al cosiddetto “viso bonario” e quindi non abbia tempestivamente provveduto al
versamento delle maggiori somme nei successivi 30 giorni l’ufficio per recuperare le maggiori
imposte eventualmente dovute interviene con le sanzioni agli interessi. Quindi quando diciamo che
l’iscrizione a ruolo consente di ottenere il pagamento delle somme dovute sulla base del contenuto
delle dichiarazioni e quindi si tratta di forme di riscossione fisiologiche intendiamo riferirci proprio
a questo perché le somme eventualmente risultanti dalla dichiarazione come dovute per effetto di
errori materiali, di calcolo o erronea indicazione di oneri deducibili e così via dicendo, si opera
l’iscrizione a ruolo. Un ulteriore ipotesi di riscossione cosiddetta fisiologica attraverso l’iscrizione a
ruolo delle somme risultanti dalla dichiarazione è certamente quella prevista per i redditi a
cosiddetta formazione poliennale, quando la persona fisica percepisce le somme a titolo di TFR
non è chiamata la persona fisica ad applicare le aliquote progressive dell’IRPEF proprio in
considerazione del fatto che si tratta di redditi a formazione poliennale, è sembrato non
corrispondente ad un criterio di giustizia sottoporre a tassazione queste somme (talvolta anche
consistenti) alle aliquote progressive dell’IRPEF e allora lo strumento attraverso cui viene liquidata
l’imposta dovuta su questi particolare redditi a formazione poliennale è proprio l’iscrizione a ruolo.
Chiarite le forme fisiologiche alle quali l’iscrizione a ruolo è riservata, va subito detto che l’ambito
di applicazione a cui tradizionalmente siamo abituati più ampio dell’iscrizione a ruolo è quello della
riscossione cosiddetta patologica. Cosa si intende per riscossione patologica? Fino ad 11 anni fa
l’iscrizione a ruolo era lo strumento ordinario per ottenere la riscossione delle somme pretese con
gli avvisi di accertamento. Quindi fino a 11 anni fa era una condizione normale quella
dell’amministrazione finanziaria che dopo aver notificato l’avviso di accertamento per ottenere il
pagamento delle somme accertate, avrebbe dovuto ricorrere all’iscrizione a ruolo. Per questo
l’iscrizione al ruolo era uno strumento il più delle volte utilizzato come strumento di riscossione
patologico, proprio perché interveniva in una fase patologica del rapporto quando cioè
l’amministrazione finanziaria aveva già avuto modo di contestare l’infedeltà o l’incompletezza della
dichiarazione e quindi l’evasione del contribuente. Questo stato di cose si è radicalmente modificato
a seguito dell’entrata in vigore di un istituto determinato dal decreto legge n 78 del 2010, l’avviso
di accertamento immediatamente esecutivo. Con l’avviso di accertamento immediatamente
esecutivo l’amministrazione finanziaria non ha più la necessità di fare l’iscrizione a ruolo perché
l’accertamento è già a titolo esecutivo. Inizialmente questo istituto aveva un ambito di applicazione
abbastanza circoscritto, perché si applicava soltanto su imposte del reddito (IVA, IRAP), quindi
questo significa che esistono altri tributi rispetto ai quali gli avvisi di accertamento NON hanno
efficacia immediatamente esecutiva. Sarà vero quindi che per tutti gli altri tributi per il quale
l’avviso di accertamento non ha efficacia immediatamente esecutiva, l’iscrizione a ruolo sarà
ancora un atto necessario della fase della riscossione. L’ambito di applicazione dell’avviso di
accertamento con efficacia immediatamente esecutiva a partire del primo Gennaio del 2020 ha
subito un ulteriore estensione ai tributi locali, quindi mentre fino ad un anno e mezzo fa il comune
che aveva notificato l’avviso di accertamento avrebbe dovuto fare l’iscrizione a ruolo per procedere
alla riscossione delle somme accertate oggi non è più così, perché se abbiano notificato un avviso di
accertamento a decorrere dal primo Gennaio del 2020 quell’avviso è già a titolo esecutivo.
Fino ad ora abbiamo parlato dell’ambito di applicazione dell’iscrizione a ruolo ma non abbiamo
specificato cosa essa sia. Essa è un atto dell’amministrazione finanziaria quindi è un atto formato
dall’ente creditore, naturalmente non è un atto individuale ma è un atto collettivo perché si tratta di
un elenco dentro del quale l’amministrazione finanziaria indica i dati identificativi dei debitori,
l’ammontare del titolo della pretesa, delle eventuali sanzioni e degli interessi. Questo elenco di
debitori viene trasmesso dalla titolare dell’ufficio che lo firma, il quale appone la sua firma (firma
elettronica) che viene trasmesso all’agente della riscossione, esso a sua volta traduce l’iscrizione a
ruolo in atto individuale (formando tante cartelle di pagamento quanti sono i debitori iscritti nel
ruolo). Dunque l’esistenza dell’iscrizione a ruolo viene resa nota al debitore iscritto attraverso, non

Diritto tributario Pagina 88


ruolo). Dunque l’esistenza dell’iscrizione a ruolo viene resa nota al debitore iscritto attraverso, non
la notificazione dell’iscrizione al ruolo (sarebbe fuori misura perché l’iscrizione al ruolo è un atto
collettivo), ma al debitore singolarmente che individuato l’agente individua la frazione del ruolo
ovvero la parte che lo riguarda, e la parte del ruolo che lo riguarda viene notificata al debitore
attraverso un atto ulteriore questa volta firmato non dall’ente creditore ma dall’agente della
riscossione che prende il nome della cartella di pagamento. La cartella di pagamento non è altro
che una frazione del ruolo che viene notificato al debitore con l’intimazione a pagare entro 60
giorni. Dunque, la cartella di pagamento è lo strumento che reca il titolo esecutivo e la sua funzione
è quella di notificarlo al debitore. Un elemento indefettibile della cartella di pagamento è proprio
l’intimazione a pagare. L’intimazione a pagare è presente anche nell’avviso di accertamento con
efficacia immediatamente esecutiva, esso contiene un’intimidazione a pagare perché è a titolo
esecutivo. Anche la cartella di pagamento quindi portando a conoscenza il debitore, reca al suo
interno l’intimidazione del pagamento, cioè l’ordine perentorio a provvedere al pagamento entro il
termine stabilito dalla legge (60 giorni). Mentre l’iscrizione a ruolo è un atto dell’ente creditorio, la
cartella al pagamento è un atto dell’agente della riscossione, dal punto di vista processuale ha delle
conseguenze importanti perché sono due atti diversi.
Differenza ruolo ordinario e ruolo straordinario
Il ruolo è un elenco di debitori, un atto collettivo formato dall’ente creditore e può essere di due
specie, 1) ordinario o 2) straordinario
La differenza sta nel fatto che mentre il debitore iscritto al ruolo ordinario ha diritto a chiedere la
dilazione per il pagamento delle somme dovute, il debitore iscritto nel ruolo straordinario non può
chiedere alcuna dilazione per il pagamento delle somme dovute per la semplice ragione che il
presupposto in ragione del quale l’ufficio scrive il debitore a ruolo straordinario è il fondato
pericolo che il debitore disperga le garanzie del credito dell’amministrazione finanziaria. Quindi
tutte le volte in cui l’amministrazione finanziaria ritiene che vi sia un “periculum in mora”, quindi il
fondato pericolo che il debitore stia ponendo in essere atti capaci di disperdere le garanzie
l’amministrazione finanziaria legittimamente iscrive il debitore nel ruolo straordinario in materia
tale che sia obbligato a pagare tutto e subito.
Procedimento che segue la notificazione della cartella pagamento
L’agente della riscossione una volta ricevuto il ruolo e averlo tradotto nelle cartelle di pagamento e
quindi procedendo alla loro notificazione potrebbe incorrere in un lungo procedimento per ottenere
il pagamento delle somme da parte del debitore, perché una volta che la notificazione è intervenuta
il debitore sa che è invitato a provvedere al pagamento entro i 60 giorni (ma non è affatto detto che
questo pagamento intervenga). Nel caso in cui il debitore dovesse procedere al pagamento nei
termini previsti “nulla questio”, ma se il debitore non paga entro i 60 giorni accade che l’ADER
(agenzia delle entrate riscossioni) in possesso e quindi munito di un titolo esecutivo può procedere
ad un’esecuzione forzata, essa è possibile solo dopo che sia passato il termine concesso dalla
legge. È indispensabile che si proceda all’esecuzione forzata solo dopo che sia espiato il termine
concesso al pagamento, prima dei 60 giorni nessun atto dell’esecuzione forzata è possibile.
L’agente della riscossione potrà procedere all’esecuzione forzata entro un termine di decadenza,
esso è di un anno che inizia a decorrere dall’espirare dei 60 giorni. Immaginiamo che l’agente della
riscossione abbia notificato la cartella del pagamento, che il debitore sia rimasto insolvente,
immaginiamo anche che sia espirato anche l’anno successivo senza che l’agente della riscossione
abbia posto in essere alcun atto tipico dell’esecuzione forzata, questo significa che l’agente della
riscossione non potrà più procedere all’esecuzione forzata? No, nel senso che può l’agente ancora
procedere all’esecuzione forzata, perché essa è possibile finché il credito non è prescritto, ma per
rimettersi in termini e quindi per riacquisire il termine di decadenza l’agente della riscossione dovrà
prima notificare un altro atto che si chiama avviso di intimidazione ad adempiere. Quindi anche
se questo termine di anno espirasse senza che l’agente avesse preso alcuna iniziativa non sarebbe
nelle condizioni di dover rinunciare per sempre all’esecuzione forzata, potendo riacquistare il potere
tramite la notificazione dell’avviso di intimidazione ad adempiere. Con l’avviso di intimidazione ad
adempiere consente all’agente della riscossione di invitare il debitore a procedere al pagamento nei
cinque giorni successivi, questo avviene con la notifica di intimidazione ad adempiere con la quale
rivolgere un invito al debitore nei cinque giorni successivi. Nel caso in cui il debitore si ostini a non
adempiere l’agente della riscossione sarà nuovamente abilitato all’esecuzione forzata entro un
termine di 6 mesi. Immaginiamo ancora una volta che non sia stato tempestivo, dopo i sei mesi
l’agente della riscossione potrà nuovamente rimettersi in termini notificando di nuovo un avviso di
intimidazione ad adempiere (potrà rinnovare il proprio potere entro il termine di prescrizione

Diritto tributario Pagina 89


intimidazione ad adempiere (potrà rinnovare il proprio potere entro il termine di prescrizione
ordinaria).
Profili di carattere generale del profilo della riscossione
La riscossione si distingue in riscossione 1)anticipata, 2)frazionata e 3)provvisoria.
1)La riscossione è anticipata quando precede la fase dell’accertamento e può precedere anche la
realizzazione del presupposto, costituisce una forma di anticipazione della fase della riscossione ad
esempio il versamento degli acconti in corso d’anno.
2)La riscossione frazionata la troviamo nella disciplina di quei tributi nei quali è previsto che il
pagamento debba essere effettuato in più tempi, è quello che accade per esempio in materia di Iva
(versamento o mensilmente o trimestralmente). Si parla di riscossione frazionata anche quando il
debito viene estinto in forma rateale ovvero quando il pagamento viene dilazionato nel tempo.
3)Per quanto riguarda la disciplina della riscossione provvisoria la troviamo ripartita in due norme,
nell’articolo 15 del d.pr 602 del 1973 e nel decreto 68 del decreto legislativo n 546 del 1992. La
riscossione provvisoria è innanzitutto l’istituto che trova applicazione a seguito dell’impugnazione
degli avvisi di accertamento, dunque quando l’amministrazione finanziaria avvia una notifica di
accertamento e il contribuente sceglie l’impugnazione immediatamente la proposizione del ricorso
prevede una sospensione legale sia pure solo parziale delle somme dovute indicate nell’avviso di
accertamento. Quando l’amministrazione finanziaria avvia una notifica di accertamento e l’atto non
viene impugnato si consolidano i suoi effetti quindi il contribuente è tenuto all’adempimento
dell’intera pretesa all’interno dell’atto. Quando invece il contribuente non desiste dalla sua
posizione e decide di impugnare l’avviso di accertamento, perché ritiene che la tesi
dell’amministrazione finanziaria sia illegale o infondata, procede all’impugnazione. La
proposizione del ricorso non sospende la riscossione, quindi l’agenzia delle entrate è nella piena
facoltà di pretendere le somme indicate nell’avviso, anche se soltanto parzialmente. Parzialmente
perché 2/3 delle imposte e degli interessi e l’intero ammontare delle sanzioni non saranno
riscuotibili in pendenza del giudizio di primo grado (parliamo di sospensione legale perché l’effetto
sospensivo è determinato dal ricorso ed è previsto dalla legge).
Cosa è riscuotibile allora in pendenza del giudizio di primo grado? Un terzo dell’imposta e dei
corrispondenti interessi (articolo 15 del d.pr del 1973-> è da qui che si ricava la sospensione legale).
Per la verità questo istituto fonda le sue radici anche nel decreto 68, esso si occupa di disciplinare la
riscossione provvisoria nei gradi di giudizio successivi al primo, per tale motivo è una norma che
troviamo collocata nella disciplina del processo. Abbiamo quindi l’articolo 15 che si occupa di
stabilire la riscossione provvisoria in pendenza del giudizio di primo grado, l’articolo 68 invece ci
dice cosa e quanto è riscuotibile nei gradi successivi al primo.
Riscossione provvisoria
Dopo il deposito della sentenza di primo grado, immaginando che il ricorso sia stato respinto,
l’amministrazione finanziaria ha il diritto ad esigere 2/3 delle imposte e degli interessi e 2/3 delle
sanzioni. Se il debitore in pendenza del giudizio di primo grado abbia già pagato 1/3 delle imposte e
degli interessi, quando poi risulterà soccombente l’amministrazione finanziaria cosa potrà chiedere
a titolo di imposta e di interessi? Potrà richiedere il residuo terzo delle imposte e degli interessi fino
a raggiungere 2/3 complessivi, per le sanzioni invece l’amministrazione finanziaria in quella sede
per la prima volta potrà riceverle perché in pendenza di primo grado le sanzioni non poteva
riscuoterle. Quindi riscossione provvisoria, se il giudizio di primo grado dovesse andare a male,
significa che il contribuente si troverà per la prima volta costretto a versare anche 2/3 delle sanzioni.
Cosa accade poi all’esito di giudizio di secondo grado?
Immaginiamo che il giudizio di appello si sia concluso male per il contribuente, finalmente per
l’amministrazione finanziaria il credito per l’imposta, interessi e le sanzioni sarà riscuotibile per
l’intero importo. Quindi in conclusione del secondo grado la riscossione si farà piena, quindi
l’ufficio avrà diritto ad esigere quell’ulteriore terzo di imposte e di interessi, che ancora non aveva
potuto esigere a fine giudizio di primo grado, e l’ultimo terzo delle sanzioni (giudizio ovviamente
concluso negativamente per il contribuente).
Il debito abbiamo visto che è dilazionabile, in generale va chiarito che in fase di riscossione può
essere sospeso, ma la sospensione può essere di tipi diversi.
Innanzitutto cos’è la dilazione di pagamento?-> Attraverso l’istituto della dilazione è consentito al
debitore di accedere al pagamento rateale, la facoltà di estinguere il proprio debito attraverso il
pagamento rateale è una facoltà che la legge disciplina in modo diverso, è prevista una disciplina
generale che è quella consentita al debitore che rivolge una semplice istanza, il soggetto autorizzato
a concedere la dilatazione di pagamento non è l’ente creditore ma è esclusivamente l’agente della

Diritto tributario Pagina 90


a concedere la dilatazione di pagamento non è l’ente creditore ma è esclusivamente l’agente della
riscossione. La dilazione può essere concessa fino a 72 rate mensili, questo significa che l’agente
della riscossione esercita un potere discrezionale estremamente ampio perché è nella sua
discrezionalità stabilire la relativa difficoltà in cui versa il debitore. Il numero delle rate lo stabilisce
discrezionalmente l’agente della riscossione, quindi il debitore chiederà di essere ammesso nel
pagamento rateale nella misura massimale concessa ma soltanto in considerazione della situazione
obiettiva difficoltà in cui versa che l’agente concederà il numero delle rate.
Il legislatore poi prevede che in caso di grave e comprovata difficoltà l’ammissione di pagamento
del debito in un numero di rate maggiori (max 120), in questo caso grava sul debitore l’onere perché
dovrà dimostrare di versare in una situazione di grave e comprovata difficoltà. Oltre che la
dilazione, è consentita la sospensione dell’obbligo di pagamento, essa è un istituto dal duplice
aspetto, può essere concessa direttamente dall’ente creditore che in via amministrativa può disporre
la sospensione, in questo caso l’istanza non sarà presentata più dall’agente della riscossione come
nel caso della dilazione ma l’ordine di sospendere può provenire dall’ente creditore, questo significa
che l’istanza dovrà essere rivolta all’ente creditore che laddove ravvisi le circostanze può
concederla. La sospensione è un evento quanto mai raro, perché si tratta di una cautela che è
concessa direttamente al debitore, questo è il motivo per cui il contesto in cui più opportunatamente
si colloca la cautela è certamente il giudizio, quindi in questo caso la sospensione diventa tutela
cautelare perché concesso direttamente dal giudice.
Misure cautelari
Le misure cautelari sono misure volte alla tutela della posizione giuridica di una delle parti, possono
essere misure a tutela della posizione giuridica del creditore ma anche di misure volte a tutelare la
posizione del debitore. L’esigenza della cautela è legata al rischio che il soddisfacimento della
pretesa possa generare danni irreversibili sulla posizione dell’altro fin tantoché il rapporto giuridico
di imposta non trova la sua definitiva rappresentazione. Il nostro ordinamento riconosce
diversamente misure cautelari, quelle che tutelano la posizione dell’amministrazione finanziaria
sono rappresentate dall’iscrizione all’ipoteca e del sequestro conservativo (le più importanti),
esse le troviamo disciplinate in un contesto anomalo ovvero la norma è l’articolo 22 decreto 472 del
1997 ovvero il decreto che disciplina le sanzioni amministrative, la troviamo in questa norma
perché originariamente la misura cautelare era voluta per la tutela del credito per sanzioni
amministrative. Oggi l’articolo 22 a differenza di quanto accedeva all’indomani della sua entrata in
vigore, non è più posto a presidio del solo credito per sanzioni, ma questi due istituti (iscrizione
dell’ipoteca e sequestro conservativo) possono essere adottati a presidio sia delle sanzioni che per il
credito, per le imposte e per gli interessi. il procedimento è necessariamente di tipo giurisdizionale,
infatti l’amministrazione finanziaria che volesse accedere a questa misura cautelare non lo potrebbe
fare autonomamente, per farlo deve farne richiesta alla commissione tributaria finanziaria. La
misura quindi viene concessa dal giudice, sentite le parti, consentendo l’iscrizione dell’ipoteca o il
sequestro conservativo.
L’amministrazione finanziaria può fare richieste delle misure cautelari già dopo la consegna del
processo verbale di costatazione, non è necessaria la notificazione dell’avviso di accertamento.
L’unico vincolo è, che in caso in cui l’ufficio ritenga di dover adottare le misure già solo perché
solo stati esplicati i poteri istruttori, la norma subordina l’eventuale adozione della misura a
condizione che nei 120 giorni successivi segua la notificazione dell’avviso di accertamento, pena la
sua perdita di efficacia. Un’altra misura cautelare a vantaggio del credito erariale, quindi a
vantaggio dell’amministrazione finanziaria è il provvedimento di sospensione del rimborso, esso
ricorre tutte le volte in cui l’amministrazione finanziaria ritenga di vantare un credito e
contemporaneamente si trova obbligata a procedere al rimborso di alcune somme. L’ipotesi è quella
dell’amministrazione finanziaria che ricopre due ipotesi, quella di debitrice e quella di creditrice.
Per evitare di rimborsare le somme (con la paura di non riottenere le somme che gli sono dovute)
può adottare il provvedimento di sospensione del rimborso, finché non venga definitivamente
decisa la controversia l’amministrazione finanziaria emette un provvedimento con la sospensione
del rimborso. Anche la riscossione provvisoria è una misura cautelare a vantaggio
dell’amministrazione finanziaria, se la legge prescrive che in pendenza del giudizio una parte delle
somme dovute deve essere pagata anche a titolo provvisorio, è chiaro che questa norma costituisce
una grande vantaggio per l’amministrazione finanziaria. Una volta che le somme dovessero risultate
non dovute l’amministrazione dovrà procedere al rimborso. Anche il ruolo straordinario è una
misura cautelare a vantaggio dell’amministrazione finanziaria, se il debitore viene iscritto al ruolo
straordinario esso sarà obbligato a pagare le somme dovute senza dilazione di pagamento.

Diritto tributario Pagina 91


straordinario esso sarà obbligato a pagare le somme dovute senza dilazione di pagamento.
Quali sono le misure cautelari nei confronti del contribuente? Essi si riducono a due: la sospensione
amministrativa e la sospensione giudiziaria (il contribuente non può fare altro che chiedere o
all’ente creditore direttamente la sospensione amministrativa, che potrà concederla o meno, e la
sospensione giudiziale, ovvero il potere che ha il contribuente una volta che ci sia in pendenza un
giudizio).

Diritto tributario Pagina 92


LEZIONE 13 (30/03/21)
martedì 26 ottobre 2021 19:52

Il tema delle sanzioni amministrative è particolarmente complesso. La disciplina è interamente contenuta in tre decreti
legislativi che risalgono al lontano 1997: si tratta dei decreti 471, 472, 473. Mentre i D.lgs. 471 e 473 contengono le
disposizioni sanzionatorie da applicare in relazione alle violazioni di specifiche norme (rispettivamente violazioni in materia di
imposte dirette ed IVA; violazioni commesse in relazione ad altri tributi); invece, il decreto legislativo 472 costituirà oggetto
di approfondito esame, perché contiene non solo i principi generali che presiedono all’irrogazione delle sanzioni
amministrative, ma anche disposizioni che attengono a questioni procedimentali. È questo il decreto che contiene le norme
che disciplinano i procedimenti di irrogazione delle sanzioni amministrative, oltre ad alcuni importanti istituti. Prima di
parlare di sanzioni amministrative, bisogna richiamare alla memoria che la sanzione è possibile in qualsiasi ordinamento
giuridico esclusivamente nella misura in cui si configuri la violazione di una norma. La violazione è, infatti, l'inosservanza
volontaria di una norma che prevede un obbligo. In diritto tributario, è previsto che, laddove la condotta debba essere
punita, lo si potrà fare esclusivamente nella misura in cui da una parte esiste la norma che prevede un obbligo e dall'altra
esiste la norma sanzionatoria, cioè la norma a cui è affidato il compito di disciplinare le conseguenze negative sfavorevoli che
l'ordinamento prevede in conseguenza della violazione della norma. Occorre che l’inosservanza della norma sia volontaria,
quindi la violazione della norma sussiste sempre che l’inosservanza sia stata volontariamente tenuta dal soggetto, ragione
per cui non integra la violazione la inosservanza involontaria della norma (esempio: ipotesi di forza maggiore nelle quali il
soggetto sia stato costretto per cause rispetto a lui indipendenti a tenere il comportamento inosservante. Questa circostanza
non vale a configurare né una violazione, né conseguentemente l’irrogazione della sanzione. Se sussiste l’ipotesi della forza
maggiore, quindi l’autore della condotta non l’ha tenuta volontariamente, allora è da escludere che si possa anche irrogare la
sanzione amministrativa). Alla sanzione vengono attribuite due diverse funzioni: una funzione punitiva e una funzione
deterrente. L’obiettivo di un ordinamento che introduce disposizioni sanzionatorie non è tanto quello di irrogare la sanzione
e dare seguito a quella che è la funzione punitiva, ma l'obiettivo dovrebbe essere quello di raggiungere un risultato di
deterrenza e indurre volontariamente tutti i consociati all’osservanza della disposizione normativa in maniera tale da evitare
conseguenze negative che l’ordinamento riconduce alla sua violazione. In qualsiasi ordinamento giuridico, funzione punitiva
e funzione deterrente coesistono, ma la funzione deterrente non viene bene perseguita in tutti i casi in cui la misura delle
sanzioni amministrative sia particolarmente elevata e a questa elevatezza faccia da pendant la circostanza che l’emersione
della violazione sia quanto mai difficile. Se da una parte le possibilità di fare emergere la violazione sono scarse e dall'altra le
misure delle sanzioni irrogabili sono particolarmente elevate, si può certamente ritenere che si tratti di un ordinamento che
non riesce efficacemente a perseguire una funzione deterrente, perché chi viola le norme è già consapevole del fatto che con
moltissima difficoltà sarà scoperta l'evasione e altrettanto difficilmente si avrà il pagamento delle sanzioni amministrative. Il
profilo sanzionatorio è un profilo al quale qualsiasi ordinamento giuridico dovrebbe attribuire particolare rilievo, perché la
misura delle sanzioni amministrative non risponde ad alcun parametro costituzionale, non soggiacciono al principio di
capacità contributiva. È rimessa la misura delle sanzioni amministrative proprio alla sensibilità del legislatore, che stabilisce in
quale misura procedere all’irrogazione delle sanzioni ed entro quale limite è possibile perseguire funzione punitiva e
funzione deterrente. Il nostro sistema distingue le sanzioni in molte specie: esistono sanzioni amministrative, sanzioni penali,
sanzioni civili. Parlando di questa tripartizione delle sanzioni possibili, in questo caso si fa riferimento a sanzioni rilevanti in
materia tributaria e che incidono sicuramente nella nostra materia. Il diritto tributario conosce sanzioni penali, sanzioni
amministrative e, secondo alcuni, sarebbe addirittura configurabile una terza categoria denominata sanzioni civili.
Non è da condividere la tesi secondo la quale si potrebbe prospettare nel nostro ordinamento la configurabilità di questa
terza categoria di sanzioni civili per varie ragioni. La differenza fondamentale che corre tra sanzioni penali e sanzioni
amministrative sta nel fatto che mentre la sanzione penale è irrogata esclusivamente dal giudice penale all’esito del giudizio
penale celebrato davanti al giudice ordinario; invece, le sanzioni amministrative sono irrogate dall’amministrazione
finanziaria. Questa prima differenza riguarda proprio il profilo soggettivo, quindi di colui che ha il potere di irrogare le
sanzioni. La terza categoria, cioè quella delle sanzioni civili, è una categoria rispetto alla quale si può categoricamente
dubitare che si possa configurare e la ragione di questa scelta sta appunto nel fatto che le sanzioni civili, secondo gli autori
che ne sostengono la configurabilità, sarebbero rappresentate dagli interessi calcolati sulle somme pagate tardivamente
all’ente creditore. Questo perché gli interessi che vengono corrisposti all’ente creditore vengono quantificati in un tasso
superiore a quello legale, per cui il fatto che il saggio applicato sia superiore a quello legale ha portato alcuni autori ad
individuare una natura sanzionatoria. Questa ricostruzione non è da condividere, perché, nonostante la misura di questi
interessi sia superiore al saggio legale, questa circostanza non vale a modificare la natura di questi interessi che restano
comunque privi della natura sanzionatoria e sono semplicemente compensativi, vengono pagati al creditore in ragione del
fatto che non ha potuto disporre della somma prima del tempo in cui effettivamente la somma dovuta è stata pagata. In
definitiva, le uniche sanzioni esistenti nel sistema sono sicuramente le sanzioni penali e le sanzioni amministrative. Un’altra
distinzione importante, desumibile dalla lettura del decreto 472/97, è quella che corre tra sanzioni principali e sanzioni
accessorie. Le sanzioni principali sono quelle che possono essere irrogate sempre che sussista una violazione che sia stata
commessa; le sanzioni accessorie, invece, hanno come presupposto l’irrogazione di una sanzione principale (il presupposto è
anche la commissione della violazione, che è un presupposto soltanto indiretto, perché la commissione della violazione è un
presupposto della sanzione principale che, nelle sanzioni accessorie, è l’unico presupposto rilevante). Senza l’irrogazione

Diritto tributario Pagina 93


presupposto della sanzione principale che, nelle sanzioni accessorie, è l’unico presupposto rilevante). Senza l’irrogazione
della sanzione principale non può darsi irrogazione delle sanzioni accessorie. Queste sanzioni accessorie, nella disciplina
contenuta nel decreto, si risolvono in una limitazione della sfera giuridica dell'autore della violazione. Mentre le sanzioni
principali sono sempre costituite da una somma di denaro; invece, le sanzioni accessorie si risolvono in una limitazione della
sfera giuridica (es: interdizione dall’esercizio di determinati poteri e facoltà). Un’altra distinzione, che il nostro ordinamento
potrebbe suggerire e che è stata propugnata in dottrina molte volte, è quella che corre tra sanzioni proprie e sanzioni
improprie. La differenza sta nel fatto che mentre le sanzioni proprie sarebbero quelle che scaturiscono proprio dalla
violazione di norme; invece, le sanzioni improprie sono le conseguenze sfavorevoli che l'ordinamento fa derivare dall'avere
commesso una violazione, che però non si risolvono nel pagamento di una somma di denaro, né tantomeno in una
limitazione della sfera giuridica dell'autore della violazione. Quando la dottrina cerca di sostenere la tesi secondo cui il nostro
ordinamento lascerebbe emergere l'esistenza di sanzioni cosiddette improprie intende far riferimento all'esistenza di
conseguenze negative di altro tipo, cioè di alcune norme indubbiamente presenti nel sistema che determinano effetti
pregiudizievoli o sfavorevoli per chi commette la violazione. Il caso emblematico è certamente rappresentato dalla violazione
che commette chi omette di presentare la dichiarazione e la conseguenza pregiudizievole, sul piano dell'accertamento, che la
legge prevede per chi ha omesso di presentare tale dichiarazione. L’omissione della presentazione della dichiarazione
consente all’amministrazione finanziaria il ricorso a poteri di accertamento molto invasivi, nella forma dell’accertamento
induttivo, potestà di accertamento che autorizza l'amministrazione finanziaria all'accertamento del reddito imponibile,
ricorrendo a presunzioni semplicissime, quindi né gravi, né precise, né concordanti. Questa è una conseguenza sfavorevole
che l’ordinamento aggancia all’aver commesso una violazione fiscalmente rilevante ed è la ragione per la quale alcuni autori
ritengono che si tratti di una sorta di sanzione impropria. Le sanzioni amministrative si risolvono in principali e accessorie. Le
prime sono sempre
rappresentate da un pagamento di una somma di denaro quindi si tratta di sanzioni che determinano un rapporto giuridico
obbligatorio tra autore della violazione e amministrazione finanziaria, che ha per oggetto il pagamento di una somma di
denaro. Il soggetto attivo di questo rapporto giuridico obbligatorio sarà sempre l’ente creditore (che potrà essere lo stato, il
comune o la regione, a seconda di quale che sia l’ente impositore) e il soggetto passivo sarà il soggetto che ricopre il lato
passivo del rapporto giuridico d'imposta. Non sempre, però, ci può essere esatta corrispondenza tra chi ricopre il lato passivo
del rapporto giuridico d’imposta e chi è obbligato a procedere al pagamento della sanzione amministrativa, vi può essere
quindi uno scollamento. Bisogna immediatamente creare una divaricazione di rapporti giuridici, cioè si deve ragionare su un
rapporto giuridico che non è più necessariamente un rapporto giuridico d’imposta: il rapporto sanzionatorio potrebbe
investire anche soggetti diversi da quelli che sono i protagonisti del rapporto giuridico di imposta. Leggendo le norme
contenute nei decreti 471 e 472, che contengono la disciplina delle sanzioni irrogabili per le specifiche violazioni a cui
potrebbe andare incontro il contribuente, si trova che le sanzioni tributarie possono essere irrogate in misura fissa, in misura
proporzionale oppure possono essere indeterminate. Quando le sanzioni sono irrogate in misura fissa, sta a significare che il
legislatore nella norma stessa identifica la misura della sanzione da irrogare. Il legislatore specificatamente stabilisce qual è la
cifra da dovere versare a titolo di sanzione amministrativa. È il legislatore in molti casi che stabilisce in maniera specifica la
misura della sanzione da irrogare. Diversa è invece l’ipotesi delle sanzioni irrogabili in misura proporzionale, che è quella più
frequente. Nella gran parte dei casi, le norme sanzionatorie prevedono che l’ufficio, o meglio l’amministrazione finanziaria,
possa procedere all'irrogazione della sanzione amministrativa applicando una percentuale all'imposta non pagata. In questa
ipotesi, non esiste una cifra fissa stabilita per legge, ma è previsto che la sanzione debba essere calcolata applicando
un’aliquota percentuale all'imposta non versata. Altra ipotesi possibile è quella della sanzione indeterminata, con questa
espressione si fa riferimento a tutte le ipotesi in cui il legislatore stabilisce una forbice edittale, cioè un minimo e un massimo
stabilito dalla legge. Questo significa che l'ufficio potrà stabilire concretamente la misura della sanzione da irrogare,
naturalmente nei limiti imposti dal legislatore. Esauriti questi concetti di parte generale, occorre affrontare la tematica dei
principi generali che in tema di sanzioni amministrative sono disciplinati nel d.472/97.
Il primo principio generale l’art. 3 co. 1 del decreto sancisce il principio di legalità, il quale prevede che nessuno può essere
assoggettato ad una sanzione se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione.
Affinché un soggetto possa essere destinatario di una sanzione amministrativa, è necessario che la condotta sia punita come
violazione in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso. Anche il comma 2 del art.3 continua ad essere
una esplicitazione del principio generale, perché afferma che, salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere
assoggettato a sanzione per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile. Questa norma
reca il primo corollario del principio di legalità, cioè il principio dell’abolitio criminis. Potrebbe accadere che la condotta
dell’autore nel momento in cui viene commessa è prevista dalla legge come violazione punibile, ma potrebbe anche accadere
che, immediatamente dopo, quella stessa condotta non costituisca più violazione punibile in quanto interviene una norma
successiva che ne prevede la soppressione della punibilità. Questo significa che la condotta non è più violazione per effetto di
una norma successiva e, in virtù del principio dell’abolitio criminis, la soppressione della punibilità di quella condotta esplica
effetti anche sulle condotte tenute in precedenza. C’è un'eccezione importante di cui tenere conto nell’enunciazione di
questa regola: occorre che non sia già intervenuto un provvedimento di irrogazione delle sanzioni nei confronti dell'autore
della violazione e che la sanzione non sia già stata pagata, perché se l'abolitio criminis, la norma abrogatrice della rilevanza
della condotta, è seguita da un provvedimento di irrogazione delle sanzioni e l'autore della violazione paga, la ripetizione
dell'indebito non è ammessa
e le somme eventualmente pagate restano definitivamente acquisite dal creditore. Dal principio dell’abolitio criminis, si
desume anche che se l'autore della violazione riceve un provvedimento di irrogazione delle sanzioni e la sanzione non è stata

Diritto tributario Pagina 94


desume anche che se l'autore della violazione riceve un provvedimento di irrogazione delle sanzioni e la sanzione non è stata
pagata perché, per esempio, sceglie di impugnare e non procede al pagamento delle somme dovute a titolo di sanzione, se
intervenisse l'abrogazione della norma incriminatrice avrebbe effetti favorevoli sull’autore della violazione, perché non è
ancora intervenuto il pagamento. Solo il pagamento impedisce la ripetizione dell'indebito; se il pagamento non è ancora
avvenuto l’eventuale abolitio criminis produce effetti favorevoli sull’autore della violazione. L’eventuale irrogazione della
sanzione resta priva di qualsiasi effetto, l’unico evento che impedisce l’operatività del principio è il pagamento. L'articolo 3,
comma 3 contiene anche il principio del favor rei, che prevede che nessuno può essere sottoposto a sanzione nella misura
prevista dalla norma vigente nel momento in cui la condotta veniva tenuta se, dopo la commissione di quella condotta, entra
in vigore una norma che prevede un trattamento sanzionatorio più favorevole, perché in questa ipotesi dovrà essere
applicata la disposizione sanzionatoria più favorevole. L’ipotesi non è quella della soppressione della norma che prevede la
condotta come punibile, cioè l’ipotesi dell’abolito criminis, è quella della condotta che resta punibile, ma tra il momento in
cui la condotta è tenuta e quello in cui la sanzione viene irrogata intervengono modificazioni normative tali da determinare
un trattamento sanzionatorio più mite per quella condotta. Tra due o più norme succedutasi nel tempo, occorre identificare
quale tra queste contiene il trattamento sanzionatorio più favorevole. La norma da applicare sarà quella che prevede il
trattamento sanzionatorio più favorevole. L'arco temporale di riferimento potrebbe essere anche molto ampio (ipotesi di
una condotta che viene tenuta, di una sanzione che viene irrogata dopo qualche anno, del ricorso proposto dal contribuente
instaurazione di un giudizio che può durare molti anni, di tutto questo arco temporale occorre tenere conto ai fini della
corretta individuazione della norma da applicare ai sensi dell'art.3 comma 3). Il principio del favor rei, se si verifica una
modificazione delle norme tributarie nel tempo, impone di verificare quali tra le norme che si sono succedute porta con sé il
trattamento sanzionatorio più favorevole. Nell’art.4 si trova il principio di imputabilità, di diretta derivazione penale, che
prevede che può essere assoggettato a sanzione soltanto il soggetto capace di intendere e di volere. Di conseguenza, la
sanzione amministrativa può essere irrogata soltanto quando si dimostri che il soggetto, nel momento in cui teneva la
condotta che integra la violazione, era capace di intendere e volere. Il richiamo di questi principi, che sono tipici del diritto
penale, non può che determinare la necessità di interpretare la capacità di intendere e di volere così come è prevista
all'interno del Codice penale. Altra norma da conoscere è quella sul principio di personalità. Si deve dire che il principio di
colpevolezza (art.5) prevede che possono rispondere della violazione commessa soltanto le persone fisiche che hanno
commesso la violazione. Questo principio prevede che, nelle violazioni punite con sanzioni amministrative, ciascuno risponde
della propria azione od omissione cosciente e volontaria. Dunque, possono essere irrogate le sanzioni amministrative
esclusivamente nei confronti delle persone fisiche che hanno tenuto una condotta cosciente e volontaria. C'è un esplicito
riferimento alla circostanza che la sanzione è irrogabile solo alle persone fisiche e, dal combinato disposto dell'articolo 5 con
l'articolo 2, si desume che il nostro sistema di sanzioni amministrative tributarie sposa un principio di personalità della
sanziona amministrativa, cioè la sanzione può essere irrogata solo ed esclusivamente alla persona fisica che colpevolmente
tiene la condotta. Questa circostanza provoca una frattura evidente nella nostra materia ed è determinata dal fatto che il
rapporto giuridico d'imposta non necessariamente coinvolge una persona fisica (si pensi a tutti i casi in cui il tributo è versato
da una società di capitali oppure da una società di persone, da un ente si tratta di soggetti che non coincidono
necessariamente con la persona fisica). Questo determinava, sul piano sanzionatorio, che quantomeno nei primissimi anni di
questo sistema sanzionatorio le sezioni amministrative potessero essere irrogate esclusivamente nei confronti di persone
fisiche. Accadeva che, per esempio, quando l'ufficio emetteva un avviso di accertamento obbligando al pagamento della
maggiore imposta una
società di capitali, le sanzioni amministrative potessero essere irrogate esclusivamente nei confronti del legale
rappresentante e non nei confronti della società, perché l’unica persona fisica che aveva commesso la violazione era
individuabile nel legale rappresentante. Questa dicotomia tra rapporto giuridico d'imposta e rapporto giuridico determinato
dall’irrogazione della sanzione è stata ricondotta ad unità e risolta con un intervento normativo del 2003, per effetto di una
norma contenuta nell’art.7 del d.269/2003, che prevede un principio secondo cui, laddove il rapporto giuridico d'imposta
veda coinvolto un soggetto dotato di personalità giuridica, la sanzione amministrativa possa essere irrogata esclusivamente
nei confronti della persona giudica. Questo significa che il principio di personalità della sanzione amministrativa viene
ampiamente abrogato, perché della sanzione amministrativa in questo caso non risponde più la persona fisica del legale
rappresentante, ma soltanto la società dotata di personalità giuridica. Quesito: quando questa norma dice che la sanzione
amministrativa deve essere irrogata necessariamente nei confronti del soggetto dotato di personalità giuridica, risolve del
tutto il problema della possibile divaricazione sul piano soggettivo? La risposta è negativa. È noto che gli obbligati al
pagamento del tributo diversi dalle persone fisiche non sono solo i soggetti dotati di personalità giuridica, ma ci sono anche
molti altri soggetti diversi dalle persone fisiche che personalità giuridica non ne hanno. Esempio sono le società di persone,
che sono prive di personalità giuridica, Accade, infatti, che rispetto a questi soggetti il principio di personalità, sancito
nell’art. 2 e poi richiamato nell'art. 5, è un principio che non viene derogato e questo comporta che, se la violazione è
riscontrata in capo a una società di persone o comunque a un soggetto diverso da persona fisica priva di personalità
giuridica, la sanzione continua ad essere irrogata nei confronti della persona fisica che ha commesso la violazione (quale
potrebbe essere il legale rappresentante). Questo significa che l'avviso di accertamento sarà notificato nei confronti della
società, ma il provvedimento di irrogazione delle sanzioni sarà notificato al legale rappresentante. Se, invece, si dovesse
trattare di un soggetto dotato di personalità giuridica, il provvedimento di irrogazione delle sanzioni sarà intestato alla
società e non più al legale rappresentante. Nell art. 5 si ritrova che le violazioni nei confronti della persona fisica, che ha
commesso la violazione, sono appunto irrogabili esclusivamente se si tratta di una violazione cosciente e volontaria, sia essa
dolosa o colposa. Quindi l'elemento soggettivo che la norma richiede ai fini dell'irrogazione della sanzione è duplice: potrà

Diritto tributario Pagina 95


dolosa o colposa. Quindi l'elemento soggettivo che la norma richiede ai fini dell'irrogazione della sanzione è duplice: potrà
trattarsi di colpa o anche di dolo. La differenza sul piano probatorio è significativa, perché l'obbligo di provare la ricorrenza
dell’elemento soggettivo che naturalmente grava sull’amministrazione finanziaria che vuole irrogare la sanzione, è un onere
che ricorre esclusivamente quando si intenda sostenere che si configura l'ipotesi della colpa grave o del dolo. La colpa lieve si
presume e l'amministrazione finanziaria non è obbligata a fornire la prova della sussistenza della colpa lieve. Il dolo
naturalmente si configura tutte le volte in cui il contribuente abbia tenuto la condotta proprio con l'intenzione di
pregiudicare l'esatta determinazione della base imponibile e l'altrettanto corretta liquidazione del tributo. Non è uno stato
soggettivo facile da provare, perché l'amministrazione finanziaria dovrà indagare sulla volontà del soggetto di ottenere
questi obiettivi. La colpa grave è altrettanto difficile da provare, ma potrebbe essere un elemento utile per l'amministrazione
finanziaria la circostanza che, sulla base di determinate prove, emerga in modo evidente una negligenza o imprudenza nella
condotta stessa che ha determinato la violazione. Il concorso di persone è disciplinato all'art. 9 ed è un principio in forza del
quale, quando più persone concorrono alla commissione di una violazione, ognuno di questi soggetti risponde per l'intera
sanzione. Non esiste solidarietà tra i concorrenti nella condotta che costituisce violazione, in quanto, se ci fosse solidarietà, il
pagamento della sanzione operato da uno sarebbe idoneo a liberare tutti gli altri concorrenti. Il principio impone che la
sanzione venga irrogata nei confronti di ciascuno di questi, pertanto saranno irrogate tante sanzioni quanti sono gli autori
della violazione. C’è però una deroga importante per l'applicazione di questa regola generale: il pagamento di uno libererà
tutti gli altri quando questi soggetti sono tutti tenuti ad uno stesso comportamento e se questo comportamento viene
omesso, dunque vi è una violazione di omissione, la sanzione irrogata
è una sola e il pagamento eseguito da uno dei responsabili libera tutti gli altri. A proposito di concorso di persone, l’art 10
sancisce il principio dell’autore mediato. L’autore mediato è chi commette la violazione inducendo altri a tenere fisicamente
la condotta punita, è il soggetto che risponderà della violazione in luogo dell’autore materiale della condotta. Questo è un
principio che deroga il principio di personalità della funzione amministrativa e si applica in alcune condizioni particolari. L'art.
10 prevede che chi con violenza o minaccia oppure inducendo altri in errore incolpevole o avvalendosi di persona incapace di
intendere e di volere determina la commissione di una violazione ne risponde in luogo dell’autore materiale. In questo caso,
l'articolo 10 sposta la responsabilità per il pagamento della sanzione amministrativa e la punibilità della condotta
direttamente in capo all'autore mediato, non in capo all’autore materiale. Chi esercita una simile costrizione in capo a terzi è
direttamente chiamato al pagamento della sanzione amministrativa. Occorre a questo punto accennare ai numerosi principi
che presiedono alla determinazione della sanzione amministrativa. L'amministrazione finanziaria, in presenza di sanzioni
indeterminate o sanzioni da applicare in misura percentuale, per stabilire quale sia la misura della sanzione da irrogare non
esercita un potere puramente discrezionale, ma lo fa orientandosi sulla base di criteri normativamente previsti che poi
dovranno essere esplicitati nel provvedimento di irrogazione delle sanzioni. L’indicazione dei criteri di determinazione delle
sanzioni è parte integrante della motivazione di questo tipo di provvedimenti.
I criteri che l'amministrazione finanziaria deve utilizzare al fine di stabilire la misura della sanzione da irrogare sono tutti
previsti all'interno dell’art.7: - il primo criterio è rappresentato dalla gravità della violazione, per cui a seconda della gravità
della violazione commessa, che è normalmente parametrata alla misura dell’imposta evasa, l'amministrazione finanziaria si
orienta tra il minimo e il massimo imposto dalla legge; -altro criterio è rappresentato dall’attività svolta dall’autore della
violazione, volta ad eliminare o attenuare le conseguenze della propria condotta. Potrebbe anche accadere che il
trasgressore, dopo aver commesso la violazione, abbia tenuto una condotta che positivamente lascia intendere che avrebbe
voluto eliminare o attenuare le conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla sua condotta. Se questa ipotesi dovesse ricorrere,
l'amministrazione finanziaria potrebbe tenerne conto con la finalità di scegliere di irrogare la sanzione nella misura minima,
perché si tratta di una circostanza positivamente da tenere in considerazione nello stabilire la misura della sanzione da
irrogare; -altro criterio è dato dalla personalità dell’autore della violazione e dalle sue condizioni economico-sociali. Sono due
elementi diversi che la norma pone sullo stesso piano. Le condizioni economiche e sociali sono quelle del trasgressore che
incidono sulla sua scelta positivamente o negativamente (ad es. il trasgressore dotato di particolari conoscenze e con un
elevato livello culturale è certamente un autore della violazione da punire con maggiore severità rispetto all'autore della
violazione che, invece, versa in condizioni culturali ed economico-sociali di disagio e che potrebbero in qualche modo
attenuare la piena consapevolezza della condotta che pone in essere) Diverso è l’apprezzamento della personalità del
trasgressore, che è elemento in ragione del quale l'amministrazione deve tenere in considerazione se quel soggetto in
passato ha già violato altre disposizioni tributarie quali che siano. L' apprezzamento della personalità investe un esame del
passato dell'autore della violazione con l'obiettivo di verificare se ha violato altre norme fiscali. Questo requisito della
personalità deve essere tenuto distinto dal criterio della recidiva. L'esame della recidiva implica, ancora una volta,
l'apprezzamento della storia dell'autore della violazione. Vi è una differenza sensibile tra personalità del trasgressore e
recidiva. La personalità del trasgressore induce l'amministrazione finanziaria ad esaminare se il trasgressore già in passato ha
violato altre disposizioni fiscali; la recidiva, invece, impone all'amministrazione finanziaria di verificare se l'autore della
violazione ha commesso nei tre anni precedenti violazioni della stessa indole, è una valutazione assai più circoscritta rispetto
alla precedente sia sotto il profilo temporale, sia sotto il profilo qualitativo. Se la recidiva sussiste,
l'amministrazione finanziaria è nella facoltà di disporre un aumento della sanzione che può essere aumentata fino alla metà.
L'articolo 7 prevede che l'amministrazione finanziaria, in considerazione della particolare tenuità del fatto, può applicare una
attenuante e irrogare la sanzione riducendola addirittura fino alla metà del minimo. Da una parte, la recidiva che consente
l’incremento fino alla metà; dall'altra, invece, la circostanza attenuante rappresentata dalla particolare tenuità del fatto.
Si può procedere allo studio delle norme che disciplinano i procedimenti di irrogazione delle sanzioni amministrative,
concentrate negli articoli 16 e 17 del decreto 472. In particolare, dallo studio di queste norme, emerge che i procedimenti di

Diritto tributario Pagina 96


concentrate negli articoli 16 e 17 del decreto 472. In particolare, dallo studio di queste norme, emerge che i procedimenti di
irrogazione delle sanzioni amministrative sono tre. In passato, quello che ora si studia come primo procedimento di
irrogazione delle sanzioni amministrative si definiva procedimento “ordinario”. Questa locuzione è, oggi, da respingere,
perché il fatto che si potesse definire come procedimento ordinario era legato al fatto che con questo procedimento, fino al
2011, potevano essere irrogate sanzioni per violazioni di qualsiasi tipo. Si poteva ricorrere al primo procedimento sia per
irrogare sanzioni relative a violazioni di natura formale, che per irrogare sanzioni relative a violazioni di tipo sostanziale.
Quando si parla di violazioni formali, ci si riferisce alle violazioni di norme tributarie che non determinano alcuna
modificazione nella determinazione della base imponibile e del tributo da fissare. Le violazioni sono sostanziali, invece,
quando dalla violazione delle norme a cui sono collegate discende necessariamente l'alterazione della base imponibile e una
modificazione del tributo da versare. Fino al 2011, il primo procedimento era utilizzabile per irrogare tanto sanzioni del primo
tipo quanto sanzioni del secondo tipo; ma, con una modificazione normativa importante intervenuta sul testo all'articolo 16,
le cose sono radicalmente cambiate. Il primo procedimento di erogazione delle sanzioni amministrative può essere utilizzato
esclusivamente per irrogare sanzioni relative a violazioni solo formali e questo significa che le violazioni di tipo sostanziale
possono essere sanzionate solo ricorrendo agli altri due procedimenti. Questa importante modificazione ha determinato che
questo primo procedimento di irrogazione delle sanzioni, che prima era la regola generale, si riduce oggi sensibilmente ed è
un procedimento che prova scarsissima applicazione, a tutto vantaggio del secondo procedimento.
Il primo procedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative è disciplinato nell’articolo 16 del decreto 472 ed è
utilizzabile esclusivamente per l’irrogazione delle sanzioni correlate a violazioni di tipo formale. Il procedimento prende
l’avvio con la notificazione di un atto che si chiama atto di contestazione, atto che, a pena di nullità, deve contenere tutta
una serie di indicazioni essenziali. Occorre che siano indicati i fatti attribuiti al trasgressore, gli elementi probatori, le norme
applicate, i criteri utilizzati dall'ufficio per determinare la sanzione e anche la precisazione dei minimi edittali previsti dalla
legge. L'atto di contestazione è un atto tipicamente legato alla violazione delle norme tributarie e funzionale all’irrogazione
delle sanzioni amministrative. Quali sono le opzioni possibili da parte dell'autore della violazione che riceve un atto di
contestazione? Si possono profilare scelte molto diverse tra loro. L'autore della violazione, ricevuto l'atto di contestazione,
può scegliere di impugnarlo. L’atto di contestazione è atto impugnabile entro i 60 giorni successivi alla notificazione, è
possibile che venga proposto il ricorso. L'autore della violazione che riceve l'atto di contestazione può anche, riconoscendo la
fondatezza delle violazioni contestate, scegliere di pagare quanto dovuto. Con una disposizione di grande favore, l'articolo 16
prevede che, nel caso in cui l'autore della violazione provvedesse al pagamento delle somme dovute a titolo di sanzione nei
60 giorni successivi alla notificazione, beneficerà di una riduzione della sanzione dovuta ad 1/3. Quindi, ipotizzando che la
sanzione sia stata irrogata in misura pari a 120 € , sarà invece estinta attraverso il pagamento di 40 €. Questo istituto prende
il nome di definizione agevolata. Queste sono due delle possibilità che sono possibili a seguito della notificazione dell’atto di
contestazione. Altra opzione consiste nel diritto che l'autore della violazione ha a depositare le cosiddette deduzioni
difensive. Questa è l’ipotesi in cui
l’autore della violazione ritiene che la violazione contestata sia illegittima o infondata ed è l'ipotesi di chi, piuttosto che
instaurare immediatamente la lite attraverso la proposizione del ricorso davanti la commissione tributaria, sceglie di
accedere ad una forma di contraddittorio anticipato, normativamente prevista nel testo dell'art. 16, che viene istaurato
attraverso la proposizione delle deduzioni difensive in cui l'autore della violazione spiega le ragioni per cui ritiene che quella
sanzione sia illegittima o infondata. L'ufficio di amministrazione finanziaria che riceve le deduzioni difensive ha un anno di
tempo per esaminarne il contenuto e, una volta esaminato il contenuto delle deduzioni difensive, potrebbe scegliere di
adottare due soluzioni diverse tra loro: -se sceglierà di condividere il contenuto di quelle deduzioni, lascerà che decorra un
anno e, trascorso questo tempo, si formerà il silenzio-assenso. In questo modo l’ufficio implicitamente manifesterà la sua
intenzione di aderire al contenuto delle deduzioni difensive con la conseguenza che l'atto di contestazione perde tutti i suoi
effetti; -se invece l'ufficio dovesse rimanere convinto che la violazione esiste e la sanzione deve essere irrogata, allora dovrà
contrastare il contenuto delle deduzioni difensive attraverso un nuovo atto, che prende il nome di atto di irrogazione delle
sanzioni amministrative, nel quale saranno naturalmente ripetuti tutti gli elementi essenziali che già erano contenuti
nell’atto di contestazione, con uno più importante. L'ufficio dovrà completare la motivazione dell’atto di irrogazione delle
sanzioni spiegando le ragioni per cui non ha condiviso il contenuto delle deduzioni difensive. Il contribuente che riceve l'atto
di irrogazione delle sanzioni lo potrà impugnare davanti le commissioni tributarie, resta aperta l’impugnazione. Altra
alternativa possibile è che il contribuente non faccia nulla, non proceda alla definizione agevolata, non impugni, non presenti
deduzioni difensive. La conseguenza sarà, trascorso il sessantesimo giorno successivo alla notificazione dell’atto di
contestazione, che la pretesa sanzionatoria si consolida e diventa definitiva, con la conseguenza che l’ufficio potrà
pretendere il pagamento delle somme dovute per intero attraverso un nuovo atto: l’iscrizione a ruolo. L’atto di contestazione
non è a titolo esecutivo e l’amministrazione finanziaria dovrà procedere alla formazione di un nuovo atto, l’iscrizione a ruolo,
che consente l’esecuzione forzata.
Il secondo procedimento che, dopo la riforma del 2011, è il più utilizzato. È disciplinato nell’art.17 comma 1 del decreto 472
che prevede che l'amministrazione finanziaria procede all' irrogazione delle sanzioni amministrative con atto contestuale
all'avviso di accertamento. Se l’ufficio irroga le sanzioni con atto contestuale all’avviso di accertamento, significa che il
contribuente riceve un unico documento recante al suo interno due atti distinti, che sono l’avviso di accertamento e il
provvedimento di irrogazione delle sanzioni. Questo secondo procedimento viene utilizzato per irrogare sanzioni legate a
violazioni di natura sostanziale che si riferiscono alla fase dell'accertamento. La violazione sostanziale può attenere anche
soltanto alla fase della riscossione: si pensi, ad esempio, al contribuente che ha dichiarato in maniera fedele e completa e,
nonostante il puntuale assolvimento del proprio obbligo dichiarativo, per carenza di liquidità, non versa le somme dovute. In

Diritto tributario Pagina 97


nonostante il puntuale assolvimento del proprio obbligo dichiarativo, per carenza di liquidità, non versa le somme dovute. In
questo caso, la violazione unica che si configura non è una violazione che attiene alla fase dell’accertamento, ma è una
violazione che attiene alla fase della riscossione e il secondo procedimento non è utilizzabile, perché si dovrà ricorrere al
terzo. Anche in questo secondo procedimento, il provvedimento di irrogazione deve essere completo di tutti i suoi elementi
essenziali (fatti attribuiti al trasgressore, violazioni commesse, norme sanzionatorie da applicare, gli elementi probatori e i
criteri utilizzati nella determinazione delle sanzioni amministrative). In questo caso, per l’autore della violazione è possibile
l’impugnazione e la sorte dell'impugnazione non è necessariamente correlata alla contestuale impugnazione dell’avviso di
accertamento. Chi riceve questo atto complesso potrebbe scegliere di impugnare per l'imposta e non per le sanzioni o
viceversa; quindi la scelta dell'impugnazione non è vincolata alla sorte dell’avviso di accertamento, ma è una scelta
autonoma. Il contribuente potrebbe, invece, decidere di accedere alla definizione agevolata possibile e, nei 60
giorni successivi alla notificazione di questo atto complesso, potrebbe scegliere di pagare un pezzo della sanzione irrogata e
così accedere alla definizione agevolata. La scelta è assolutamente slegata dalla sorte dell’avviso di accertamento. Il
contribuente potrebbe scegliere di impugnare l'avviso di accertamento e accedere alla definizione agevolata per le sanzioni,
una scelta poco felice, dal punto di vista della Prof., ma giuridicamente possibile. Ultima ipotesi è quella della quiescenza: il
contribuente potrebbe rimanere inerte e in questo caso naturalmente non ci sarebbe altro da fare che aspettare l'iscrizione
al ruolo oppure direttamente l’esecuzione forzata, perché il contribuente non ha impugnato, non ha operato la definizione
agevolata e andrà incontro necessariamente alla iscrizione al ruolo o l'esecuzione forzata, sempre che si tratti di un avviso di
accertamento con efficacia immediatamente esecutiva. Nel panorama delle ipotesi che si prospettano in tutti i casi in cui
l'ufficio sceglie di applicare questo secondo procedimento, non è stato fatto alcun riferimento alla proponibilità delle
deduzioni difensive, quando l'ufficio irroga le sanzioni attraverso questo secondo procedimento non è possibile presentare
deduzioni difensive. Le uniche chance sono la definizione agevolata, la proposizione del ricorso o la quiescenza con le
conseguenze in termini di esecuzione forzata ed iscrizione al ruolo già dette.
Il terzo procedimento è circoscritto alla necessità di irrogare sanzioni amministrative per violazioni di tipo sostanziale che
attengono alla fase della riscossione ed è disciplinato dall'art.17, comma 3. Questo articolo prevede che quando
l'amministrazione finanziaria deve irrogare sanzioni di omesso versamento o versamento incompleto (nel nostro
ordinamento il versamento incompleto equivale a omesso versamento perché per la parte del tributo non versato ricorre
appunto un omesso versamento) la sanzione, che è correlata alla violazione di un obbligo che non investe la fase
dell’accertamento, può essere irrogata esclusivamente attraverso l'iscrizione a ruolo. L'ufficio che rileva che il contribuente è
incorso in una violazione di questo tipo non notificherà alcun atto di contestazione, non notificherà un avviso di irrogazione
delle sanzioni contestuali ad un avviso di accertamento, ma si limiterà a procedere all’iscrizione a ruolo. Questo terzo
procedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative si caratterizza in considerazione della ristrettezza delle possibilità
che si aprono dinanzi al contribuente che si vede raggiunto da una cartella di pagamento. L’iscrizione a ruolo implica che la
notizia dell'avvenuta iscrizione a ruolo arriverà all'autore della violazione attraverso la cartella di pagamento, che è una
frazione del ruolo formato dall'ente creditore. Una volta ricevuta la cartella di pagamento l’autore della violazione potrà
pagare o subire l’esecuzione forzata. Il debitore che riceve la cartella di pagamento ha quindi 60 giorni di tempo per pagare,
che gli sono concessi per evitare l’esecuzione forzata. Negli altri due procedimenti, chi pagava entro 60 giorni accedeva
all’istituto della definizione agevolata e poteva beneficiare di una riduzione considerevole della sanzione, che addirittura si
riduceva a 1/3. La definizione agevolata qui, invece, non è prevista e questo significa che chi va incontro a una violazione di
tipo sostanziale, che investe la fase della riscossione (omesso versamento o incompleto versamento), non può assolutamente
sperare di aspettare la cartella di pagamento e poi provvedere al pagamento beneficiando di una riduzione della sanzione,
perché sarebbe una previsione incoerente. Questa è la ragione per la quale l'art.17 comma 3 offre un’unica alternativa:
pagare tutto per intero nel termine previsto dalla legge o l’impugnazione. Si può impugnare l’iscrizione a ruolo o, se ci sono
ragioni specifiche di impugnazione, la cartella di pagamento. La pena del mancato pagamento è l’esecuzione forzata (alla
pena non sfugge neppure chi propone il ricorso a meno che non ottenga la sospensione del giudice). Se il contribuente, che
riceve la cartella di pagamento, non paga entro 60 giorni e, immaginiamo, dovesse scegliere di proporre ricorso, la scelta di
non pagare determina il rischio di andare incontro all’esecuzione forzata, rischio che può evitato solamente attraverso la
tutela inibitoria del giudice.
L'istituto del ravvedimento operoso (art. 13) consente all'autore che abbia commesso già la violazione di ottenere una
sensibile riduzione della sanzione, che sarebbe irrogabile nei suoi confronti. Il ravvedimento implica da sé la consapevolezza
che la violazione è stata commessa, ma il premio che l’ordinamento attribuisce all'autore della violazione, che
spontaneamente si ravvede e paga la maggiore imposta dovuta contestualmente alla sanzione e agli interessi, in passato era
limitato solo a chi spontaneamente si ravvedeva. La spontaneità del ravvedimento escludeva che l'istituto potesse essere
usufruito da parte di coloro che avevano subito accesso, ispezioni e verifiche; perché se interviene l'accesso, nel corso del
quale emerge la violazione, è chiaro che la spontaneità del ravvedimento viene meno dal momento che è già intervenuto un
ufficio o comunque i funzionari accertatori sono intervenuti rilevando che la violazione è stata commessa. Nonostante
queste considerazioni plausibili, il legislatore è intervenuto, nel 2016, modificando ampiamente la struttura dell'articolo 13
calibrando una progressiva e, sempre più sensibile, riduzione della sanzione tanto maggiore, quanto prima interviene il
ravvedimento. In ragione del momento in cui interviene il ravvedimento dell’autore della violazione, si stabilisce in quale
misura la sanzione potrà essere ridotta. La logica di fondo è che meno tempo passa tra il momento in cui interviene il
ravvedimento e quello in cui la violazione è stata commessa, più sensibile sarà la riduzione della sanzione consentita. Il
profilo importante di questa modifica intervenuta nel 2016 nella disciplina del ravvedimento operoso è che non è più
vincolato l'accesso all'istituto alla circostanza che non siano intervenuti accessi, istruzioni e verifiche, quindi il contribuente

Diritto tributario Pagina 98


vincolato l'accesso all'istituto alla circostanza che non siano intervenuti accessi, istruzioni e verifiche, quindi il contribuente
ha la possibilità di accedere a questo istituto fintanto che non riceve l'avviso di accertamento. Anche in pendenza dell'attività
istruttoria il contribuente può ricorrere al ravvedimento operoso. Questa modifica ha, in un certo qual modo, consentito una
evidente estensione dell’ambito di operatività di questo istituto, che in passato non era fruibile laddove il contribuente fosse
andato incontro ad accessi, ispezioni e verifiche proprio perché la norma mirava ad assicurare la più integra spontaneità del
ravvedimento, obiettivo questo, invece, a cui oggi si è rinunziato.

Diritto tributario Pagina 99


LEZIONE 14 (1/04/21)
martedì 26 ottobre 2021 19:52

Il sistema sanzionatorio penale è disciplinato dal D.Lgs n. 74/2000. Il legislatore, in occasione di


questa importante riforma, ha operato una scelta di fondo, rappresentata dalla volontà di
circoscrivere le fattispecie di reato, e a questa scelta è sottesa l’idea di sottoporre alla sanzione
penale solo le condotte particolarmente gravi. La prevalente parte delle fattispecie di reato è
assistita da alcune soglie di punibilità, dunque, se la soglia di punibilità non viene raggiunta, la
condotta non è penalmente rilevante. Ciò implica che anche nel caso in cui il contribuente abbia
omesso di presentare la dichiarazione, l’omessa presentazione della dichiarazione potrebbe
determinare un’irrilevanza penale della condotta. Le fattispecie di delitto sono numericamente
poche, alcune di queste sono fattispecie per le quali sono previste condotte volte a punire reati che
attengono agli obblighi dichiarativi. Esistono fattispecie di delitto che non implicano l’obbligo
dichiarativo, basti pensare al reato rappresentato dall’occultamento o dalla distruzione delle
scritture contabili; il diritto tributario è pervaso da obblighi di natura strumentale, tra questi
l’obbligo di tenuta delle scritture contabili. Quali sono le fattispecie di reato che investono la
dichiarazione? La prima fattispecie di delitto è prevista dall’art. 2 del D.Lgs 74/2000, che punisce la
condotta della dichiarazione fraudolenta. Il successivo art. 3 punisce una dichiarazione tipicamente
fraudolenta; la fraudolenza della dichiarazione, tuttavia, si manifesta attraverso una condotta
diversa rispetto a quella punita dall’articolo precedente. Gli artt. 2 e 3 puniscono fattispecie diverse
di dichiarazione fraudolenta. Le altre fattispecie di delitto, che hanno ad oggetto la dichiarazione,
sono quelle previste dagli artt. 4 e 5: il primo punisce la dichiarazione infedele mentre il secondo
punisce la condotta di chi ha omesso di presentare la dichiarazione.
La fattispecie di delitto punita dall’art. 2 ha ad oggetto la condotta di chi presenta una dichiarazione
fraudolenta per l’uso di fatture per operazioni inesistenti. È l’ipotesi di chi diminuisce il reddito da
sottoporre a tassazione oppure diminuisce l’imposta dovuta ai fini dell’IVA, indicando fatture che per
la verità hanno per oggetto operazioni inesistenti. L’ipotesi della fattura relativa ad operazioni
inesistenti, che rileva sotto il profilo preso in considerazione, è quella della fattura che documenta
un costo. Se l’imprenditore o l’esercente arti e professioni annota tra le sue scritture contabili una
spesa o un costo che emerge da una fattura, relativa ad un’operazione che non è mai stata posta in
essere, ai fini reddituali l’annotazione della fattura relativa ad operazioni inesistenti determinerà un
incremento dei costi e una riduzione del reddito imponibile, ai fini dell’IVA questa scelta determinerà
una riduzione dell’imposta dovuta. L’impresa o l’esercente arti e professioni, che sceglie di annotare
sulle scritture contabili e utilizzare all’interno della dichiarazione fatture relative ad operazioni
inesistenti, con l’intento di ridurre il reddito imponibile o l’imposta dovuta, incorre in questa
fattispecie di reato punita dall’art. 2. Si tratta di un delitto senza soglia di punibilità, dunque, viene
punito penalmente chiunque integri questa condotta indipendentemente dall’ammontare
dell’imposta evasa; la pena è particolarmente grave perché l’art. 2 prevede la pena della reclusione
da un minimo di 1 anno ad un massimo di 6 anni. La condotta punita dall’art. 3 concerne sempre la
dichiarazione fraudolenta, tuttavia, in questo caso la dichiarazione fraudolenta viene realizzata
attraverso l’uso di altri artifici; la riduzione della base imponibile o dell’imposta dovuta non è
realizzata mediante l’impiego di fatture, relative ad operazioni inesistenti, ma attraverso il ricorso a
documenti falsi o ad altri artifici, che non sono fatture. Il caso classico della dichiarazione fraudolenta
mediante altri artifici è quello che si può realizzare quando il soggetto passivo pone in essere
operazioni simulate, ad esempio quando l’imprenditore simulatamente
acquista un bene e sostiene un costo, che è documentato da un’operazione effettivamente posta in
essere, tuttavia, si tratta di un’operazione simulata, che determina una riduzione della base
imponibile e una riduzione dell’imposta dovuta attraverso altri artifici. La condotta punita dall’art. 3,
a differenza della condotta punita dall’art.2, prevede delle soglie di punibilità; il legislatore, dunque,
intende punire la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici a condizione che ricorrano
determinate circostanze. Occorre che l’evasione determinata dalla dichiarazione fraudolenta sia
superiore ad almeno 30.000 euro, che siano stati sottratti all’imposizione almeno gli elementi attivi o
che siano stati indicati elementi passivi fittizi superiori al 5% rispetto a quelli indicati nella
dichiarazione. La soglia non è più collegata all’ammontare dell’imposta evasa, ma è collegata
all’ammontare degli elementi passivi o attivi rispetto a quelli indicati all’interno della dichiarazione.

Diritto tributario Pagina 100


all’ammontare degli elementi passivi o attivi rispetto a quelli indicati all’interno della dichiarazione.
Un’altra fattispecie di delitto, per la quale il legislatore ha deciso di indicare soglie di punibilità, è
quella punita dall’art. 4. Se il dichiarante ha scelto di indicare in dichiarazione elementi attivi inferiori
a quelli reali oppure elementi passivi superiori a quelli effettivi, la dichiarazione si configura come
infedele. Questa fattispecie di reato è quella che più frequentemente viene contestata all’evasore. È
una condotta che il legislatore ha subordinato a due diverse soglie di punibilità: occorre che
l’imposta evasa sia superiore ad almeno 150.000 euro e che l’ammontare complessivo degli elementi
attivi, sottratti all’applicazione dell’imposta, sia superiore di almeno il 10% rispetto a quelli indicati in
dichiarazione. La dichiarazione infedele è una fattispecie di reato per la quale il legislatore ha scelto
una pena meno grave rispetto a quelle previste per la dichiarazione fraudolenta, infatti, la pena della
reclusione va da 1 a 3 anni. La quarta fattispecie di delitto, che investe la dichiarazione, è prevista
dall’art 5 del D.Lgs 74/2000 ed è l’ipotesi dell’omessa dichiarazione. La dichiarazione può essere
presentata anche tardivamente ma non oltre il novantesimo giorno successivo alla scadenza del
termine e, sotto il profilo penale, la dichiarazione può considerarsi omessa solo se decorre questa
condizione, dunque, occorre che sia spirato il novantesimo giorno successivo alla scadenza naturale
prevista dalla legge. L’art. 5 prevede una soglia di punibilità: l’omessa dichiarazione costituisce una
condotta penalmente rilevante solo se, attraverso l’omissione della dichiarazione, sia stata sottratta
dalla tassazione una base imponibile per la quale l’imposta sarebbe stata superiore a 50.000 euro.
Tutte queste condotte penalmente rilevanti, trattate all’interno di questa lezione, sono condotte che
vengono a conoscenza dell’autorità giudiziaria attraverso l’attività di indagine posta in essere
dall’Agenzia delle Entrate e dalla Guardia di Finanza. Se nel corso dell’attività di indagine i verificatori
dovessero rilevare che le violazioni siano violazioni tali da determinare l’integrazione di una
fattispecie penalmente rilevante, questi soggetti sarebbero obbligati a comunicare la notizia di reato
alla Procura della Repubblica. Il procuratore della Repubblica, acquisite le risultanze delle indagini
trasmesse dagli uffici dell’Agenzia delle Entrate o dalla Guardia di Finanza, avvia l’azione penale se
ne ricorrono i presupposti. Il procedimento amministrativo e il procedimento penale, avviato su
iniziativa del pubblico ministero, sono procedimenti che restano distinti.
Il secondo gruppo delle fattispecie delittuose è quello delle fattispecie che prescindono dall’obbligo
dichiarativo. La prima di queste fattispecie si trova idealmente legata alla dichiarazione fraudolenta
mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, perché quest’ultima è un delitto commesso da chi
riceve la fattura dal proprio fornitore, che documenta un’operazione falsa. Il legislatore non ha
mancato di punire la condotta di chi ha emesso la fattura per operazioni inesistenti, l’art. 8 punisce
la condotta di chi emette fatture per
operazioni inesistenti con la finalità di consentire a terzi un vantaggio fiscale. Il delitto di emissione di
fatture per operazioni inesistenti viene punito con la stessa rigidità prevista dall’art.2, dunque, la
pena della reclusione da 1 a 6 anni senza alcuna soglia di punibilità. Un’altra fattispecie di delitto è
punita dall’art. 10, che punisce la condotta di chi occulta o distrugge documenti o scritture contabili
per le quali la legge prevede l’obbligo della conservazione. Basti pensare alla condotta tenuta da chi
subisce la verifica e, nel corso della verifica, dichiari che siano andate distrutte le scritture contabili, a
fronte di una dichiarazione di questa specie è facile andare incontro alla contestazione di questa
fattispecie di delitto. La dichiarazione, rilasciata da chi subisce la verifica, non sarà nel senso di
autodichiarare che la distruzione sia stata causata dalla condotta propria, tuttavia, è facile che i
verificatori siano in grado di ricostruire i fatti. La pena della reclusione va da 1 anno e 6 mesi a 6 anni
e non è prevista alcuna soglia di punibilità. Altre fattispecie di delitto, accomunate dal momento in
cui sono state introdotte e dalla medesima ratio, sono previste dagli artt. 10 bis, 10 ter e 10 quater
del D.Lgs 74/2000. Come si evince dalla numerazione, si tratta di norme che sono state
successivamente aggiunte nel testo del D,Lgs 74/2000 e la comune ratio è quella di punire alcune
particolari ipotesi di omesso versamento. La fattispecie delittuosa non è più ancorata alla
dichiarazione o alla distruzione delle scritture contabili, ma all’inadempimento degli obblighi di
versamento; si tratta di fattispecie di delitto che attengono alla fase della riscossione. Dal punto di
vista penale, non tutti gli omessi versamenti generano fattispecie penalmente rilevanti. Ai sensi
dell’art. 10 bis, è prevista la punibilità di chi omette il versamento delle ritenute, è il delitto classico
in cui rischia di incorrere il sostituto di imposta. Non tutte le condotte omissive tenute dal sostituto,
sotto il profilo dell’obbligo di versamento, determinano la rilevanza penale della condotta; affinché
vi sia la rilevanza penale occorre che le ritenute non versate risultino dalla dichiarazione del
sostituto, che queste ritenute non siano state versate entro il termine stabilito per la presentazione
della dichiarazione da parte del sostituto stesso e che l’ammontare complessivo delle ritenute non
versate sia superiore a 150.000 euro all’interno del periodo di imposta. Laddove si prevede una

Diritto tributario Pagina 101


versate sia superiore a 150.000 euro all’interno del periodo di imposta. Laddove si prevede una
soglia di punibilità molto ampia, si finisce per circoscrivere l’ambito di operatività della norma. La
seconda fattispecie di delitto, che attiene alla fase della riscossione, è quella che investe l’omesso
versamento dell’imposta sul valore aggiunto. La soglia di punibilità è estremamente elevata perché
la punibilità è prevista solo per chi omette di versare l’IVA dovuta, sulla base della dichiarazione
annuale, per un importo superiore a 250.000 euro. Perché queste soglie di punibilità così elevate?
L’idea è che il legislatore abbia ritenuto meno pregiudizievoli le condotte che determinano la
rilevanza penale e che attengono a violazioni relative alla fase della riscossione; si parla di soggetti
che abbiano regolarmente dichiarato ma non versato, dunque, è la condotta di chi non vuole
occultare il debito di imposta, ma di chi, incorrendo in una crisi di liquidità, non abbia provveduto al
versamento delle imposte entro i termini previsti dalla legge. Un’altra fattispecie di reato, che
attiene alla fase della riscossione, è quella punita dall’art.10 quater. Il delitto si configura quando il
contribuente non versa le somme dovute, asserendo di avere diritto a compensare un credito non
spettante o inesistente. Quando il soggetto è chiamato ad assolvere all’obbligo di versamento,
conferisce una delega di pagamento intendendo versare; il versamento può essere fatto anche
utilizzando alcuni crediti in compensazione. Questi crediti possono essere crediti risultanti da
dichiarazioni relative ad anni precedenti oppure può trattarsi di crediti di imposta, questi vanno
quantificati e potrebbe accadere che il contribuente quantifichi il credito spettante in maniera
errata. Se versa, indicando di avere diritto a scomputare un credito non spettante, esso è stato
quantificato erroneamente. Quando il contribuente versa, intendendo accedere
all’istituto della compensazione, indicando crediti o non spettanti o inesistenti, rischia di incorrere
nella fattispecie di delitto punita dall’art.10 quater. Per questa fattispecie di delitto è prevista una
soglia di punibilità più bassa rispetto alle precedenti, dunque, incorre nel delitto chi effettua
compensazioni indebite per un ammontare pari o superiore a 50.000 euro. L’articolo 11 del D.Lgs
74/2000 punisce la frode sottrattiva. Questa fattispecie penale punisce la condotta di chi, al fine di
sottrarsi al pagamento dei tributi, aliena beni che costituiscono parte del proprio patrimonio in
modo da rendere inefficace la riscossione coattiva. Questo delitto può aggiungersi pacificamente
anche ad altre fattispecie di delitto, spesso si accompagna alla contestazione della condotta, che può
avvenire sul piano meramente amministrativo. Basti pensare alla condotta di chi abbia omesso la
dichiarazione dei redditi ma non raggiunga la soglia di punibilità ai fini penali e, pur risultando
soccombente nel giudizio tributario, si dia da fare per disperdere i beni, che costituiscono oggetto
del proprio patrimonio, al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte. La pena della reclusione va da
6 mesi a 4 anni.
La comunicazione della notizia di reato è compiuta dai medesimi soggetti che poi determinano
l’avvio del procedimento amministrativo. L’Agenzia delle Entrate o la Guardia di finanza redigeranno
il processo verbale di constatazione e, dai rilievi emersi nel corso dell’attività istruttoria, si darà
seguito, attraverso l’emanazione di un avviso di accertamento, all’esercizio dell’attività di
accertamento. L’obbligatoria comunicazione della notizia di reato, laddove ne ricorrano i
presupposti, determinerà l’avvio del procedimento penale. Questa circostanza implica che lo stesso
fatto potrebbe determinare l’irrogazione di una sanzione amministrativa e l’irrogazione di una
sanzione penale; basti pensare all’ipotesi frequente della dichiarazione infedele, l’infedeltà della
dichiarazione è una condotta per la quale viene prevista l’irrogazione di una sanzione
amministrativa, tuttavia, la dichiarazione infedele, se ne ricorrono le condizioni, determina anche la
possibile irrogazione di una sanzione penale. Il nostro ordinamento prevede l’applicazione del
principio di specialità, ciò significa che, se per un medesimo fatto, l’ordinamento prevede
contemporaneamente l’applicazione di una sanzione amministrativa e di una sanzione penale dovrà
essere applicata esclusivamente la sanzione prevista dalla disposizione speciale. Bisogna ritenere che
l’unica norma da applicare sia sempre e soltanto la norma penale perché la norma penale può essere
considerata norma speciale rispetto a quella che prevede la sanzione amministrativa; questa scelta è
determinata dalla circostanza che la descrizione della fattispecie di delitto contiene elementi
specializzanti maggiori rispetto a quelli che contraddistinguono la definizione della fattispecie punita
dalla norma, che prevede l’irrogazione della sanzione amministrativa. L’elemento specializzante, in
particolare, è rappresentato dal dolo specifico; tutte le fattispecie di delitto punite dal D.Lgs 74/2000
sono contrassegnate da questo particolare elemento soggettivo, cioè l’intenzione di evadere le
imposte, che è assente nelle corrispondenti norme che prevedono l’irrogazione della sanzione
amministrativa. Come si regolano i due procedimenti? Il giudice penale procede in assoluta
autonomia rispetto al giudice amministrativo, che è il giudice tributario, dunque, i due procedimenti
hanno vita autonoma; questo principio governa le relazioni tra i due processi. Se il fatto è

Diritto tributario Pagina 102


hanno vita autonoma; questo principio governa le relazioni tra i due processi. Se il fatto è
penalmente rilevante, il giudice penale procede penalmente, così come la commissione tributaria
avrà il diritto di svolgere il processo di fronte a sé indipendentemente dal contemporaneo
svolgimento del procedimento penale. Questi due procedimenti sono indipendenti e potrebbero
paradossalmente condurre ad esiti diversi. La totale indipendenza dei due processi porta con sé che,
per stabilire quale sanzione sarà completamente irrogata, bisognerà attendere la definitiva
conclusione del processo penale.
Le norme, che rispettivamente prevedono il principio di specialità e i rapporti tra procedimento
penale e procedimento tributario, sono gli artt.19 e 20 del D.Lgs 74/2000; all’interno dell’art. 20 si
legge che: “Il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono
essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti
dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione”. Il fatto che il processo tributario
non possa essere sospeso per effetto della contemporanea pendenza del procedimento penale sta a
significare che i due processi debbano proseguire indipendentemente l’uno dall’altro e possano
potenzialmente giungere anche a conclusioni discordanti. Se il processo tributario dovesse
concludersi sfavorevolmente per il contribuente con una sentenza definitiva, l’eventuale irrogazione
della sanziona amministrativa dovrà essere sospesa in attesa che finisca il processo penale perché, in
virtù del principio di specialità, l’unica sanzione irrogabile è la sanzione penale. Il fatto che
l’irrogazione della sanzione ammnistrativa debba essere sospesa non vuol dire che si debba
sospendere il procedimento, che dovrà proseguire secondo i propri tempi.
La legge 212/2000 è comunemente nota come Statuto dei diritti del contribuente, si tratta di una
legge fondamentale dell’ordinamento tributario perché contiene disposizioni definite come
attuative di specifiche norme costituzionali e recante principi generali dell’ordinamento tributario. È
una legge che è stata approvata dopo una lunghissima gestazione parlamentare, la lentezza del
procedimento di approvazione è stata determinata dal forte convincimento che fosse indispensabile
che i principi contenuti nello Statuto fossero approvati con legge costituzionale. Il desiderio che si
trattasse di una legge di rango costituzionale non ha trovato realizzazione perché, nonostante il
lungo periodo di gestazione, nel luglio del 2000 la legge è stata approvata come legge di rango
ordinario. Quali sono le ragioni per le quali si era tentato di ottenere l’approvazione mediante il
procedimento riservato alle leggi di rango costituzionale? Le ragioni sono legate al fatto che questa
legge, oltre a contenere alcuni principi che mirano a disciplinare l’attività del futuro legislatore,
contiene una serie di norme che definiscono gli obblighi che gravano sull’amministrazione
finanziaria. Si tratta di una legge al cui interno sono enucleabili alcune disposizioni volte a
disciplinare l’attività del futuro legislatore e altre disposizioni volte a disciplinare l’attività
dell’amministrazione finanziaria. Una prima importante disposizione è contenuta nell’art.1,
all’interno del quale viene precisato che le disposizioni, contenute nello Statuto dei diritti del
contribuente, sono attuative di alcune norme costituzionali, si tratta degli artt. 3, 23, 53 e 97 della
Costituzione. Nella Carta costituzionale è assente una norma che sancisca il principio di
irretroattività delle norme tributarie nel tempo, tuttavia, un principio di irretroattività relativa può
essere desunto dal contenuto dell’art. 53. Si tratta dell’unica norma di rango costituzionale sulla
base della quale è possibile argomentare che le norme tributarie, che introducono nuovi tributi,
aumentano le aliquote o introducono disposizioni che incidono negativamente sulla capacità
contributiva dei contribuenti, non possano avere efficacia retroattiva. Il principio di irretroattività
delle norme tributarie nel tempo, se è vero che è assente sul piano costituzionale, esiste sul piano
della legislazione ordinaria, non soltanto perché si desume dall’art. 11 delle preleggi, ma anche
perché è previsto esplicitamente dall’ art. 3 dello Statuto dei diritti del contribuente. Questa norma è
rubricata “efficacia temporale delle norme tributarie”, al comma 1 si legge che: “le disposizioni
tributarie non hanno effetto retroattivo”. Si tratta di una disposizione fondamentale, tuttavia,
risente in maniera determinante del fatto che continui a trattarsi di una disposizione di rango
ordinario con tutte le limitazioni che ne discendono; essa è derogabile da parte del legislatore
ogniqualvolta ritenga di disporre in maniera difforme, con il solo limite,
individuato nell’art. 53 della Costituzione, dell’irretroattività relativa in malam partem. Un altro
articolo particolarmente importante è l’art. 6 della legge 212/2000, all’interno del quale sono
contenute più norme; esso è rubricato “Conoscenza degli atti e semplificazione”. L’art. 6 comma 4
stabilisce che: “Al contribuente non possono, in ogni caso, essere richiesti documenti ed
informazioni già in possesso dell'amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni pubbliche
indicate dal contribuente”. La circostanza, che non possano essere richiesti documenti già in
possesso dell’amministrazione finanziaria, porta con sé delle conseguenze significative.

Diritto tributario Pagina 103


possesso dell’amministrazione finanziaria, porta con sé delle conseguenze significative.
Nell’eventualità in cui l’ufficio chiedesse al contribuente di esibire i documenti e il documento non
fosse esibito perché il contribuente dichiari di non possederlo, il contribuente andrebbe incontro ad
una preclusione estremamente grave perché gli sarebbe precluso di avvalersi di questo documento
in sede contenziosa, oltre che in sede amministrativa. Quali sono le ricadute positive che l’art. 6
comma 4 assicura a tutela della posizione del contribuente? Tutte le volte in cui il documento sia
stato già precedentemente esibito, non potrebbe mai impedirsi al contribuente di avvalersi di quel
documento in sede amministrativa e contenziosa. Le ricadute positive di questa norma non sono
invocabili solo limitandosi a dire che il documento sia già stato esibito, occorre che il contribuente ne
fornisca la prova. Si tratta di una disposizione posta a salvaguardia della posizione del contribuente,
il quale altrimenti andrebbe incontro ad una preclusione probatoria particolarmente grave. Queste
disposizioni già si leggono all’interno della legge generale sul procedimento amministrativo, dunque,
il legislatore dello Statuto ha trovato l’ispirazione nei principi generali contenuti in tale legge. L’art.6
comma 5 stabilisce che: “Prima di procedere alle iscrizioni a ruolo derivanti dalla liquidazione di
tributi risultanti da dichiarazioni, qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della
dichiarazione, l'amministrazione finanziaria deve invitare il contribuente, a mezzo del servizio
postale o con mezzi telematici, a fornire i chiarimenti necessari o a produrre i documenti mancanti
entro un termine congruo e comunque non inferiore a trenta giorni dalla ricezione della richiesta. La
disposizione si applica anche qualora, a seguito della liquidazione, emerga la spettanza di un minor
rimborso di imposta rispetto a quello richiesto. La disposizione non si applica nell'ipotesi di iscrizione
a ruolo di tributi per i quali il contribuente non è tenuto ad effettuare il versamento diretto. Sono
nulli i provvedimenti emessi in violazione delle disposizioni di cui al presente comma”. L’art. 6
comma 5 rafforza ulteriormente questo momento del procedimento, disponendo che, se sussistono
incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, il momento di chiarimento preventivo sia tanto
importante da far conseguire alla sua eventuale omissione la nullità dell’iscrizione al ruolo. È un
momento di contraddittorio preventivo tutelato dalla norma statutaria. Se non esistono aspetti
rilevanti della dichiarazione su cui l’ufficio ritiene di avere incertezze, l’eventuale omissione della
comunicazione di irregolarità non provoca la nullità dell’iscrizione al ruolo. La norma statutaria,
pertanto, da una parte afferma l’essenzialità del contradditorio preventivo, realizzato tramite la
comunicazione di irregolarità, e dall’altra parte la circoscrive ad un’ipotesi ben definita, cioè il caso in
cui l’ufficio ritenga di avere incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione. Nei casi in cui non vi
sono incertezze, l’ufficio che eventualmente faccia subito l’iscrizione al ruolo senza la comunicazione
di irregolarità, non andrà incontro alla sanzione della nullità, l’iscrizione al ruolo sarà legittima; essa
sarà illegittima solo sotto il profilo dell’eventuale irrogazione della sanzione nella misura piena
perché il contribuente, quando riceve la comunicazione di irregolarità, ha diritto a pagare entro
trenta giorni le somme richieste, accedendo al pagamento della sanzione in misura ridotta. Laddove
la comunicazione dell’irregolarità venga omessa, questa facoltà non gli sarà stata riconosciuta; ciò
significa che non potrà essere invocata la
nullità dell’iscrizione al ruolo, tuttavia, sarà illegittima l’irrogazione della sanzione in misura piena
perché il salto procedimentale ha impedito al contribuente di avvantaggiarsi della riduzione della
sanzione.
L’art. 7 sancisce il principio della chiarezza e della motivazione degli atti; l’obbligo della motivazione
è affermato, non in relazione agli atti a contenuto provvedimentale perché altrimenti sarebbe un
duplicato dell’art.3 della legge generale sul procedimento amministrativo, ma rispetto a tutti gli atti
dell’amministrazione finanziaria. L’articolo 7 circoscrive l’obbligo di motivazione a due elementi
essenziali: ragioni giuridiche e presupposti di fatto. La motivazione degli atti dell’amministrazione
finanziaria sussiste tutte le volte in cui l’atto contenga l’indicazione dei presupposti di fatto e delle
ragioni giuridiche della pretesa. È vero che l’art. 7 parla di atti dell’amministrazione finanziaria, ma
l’art. 17 dello Statuto dei diritti del contribuente stabilisce che le disposizioni contenute nello Statuto
devono essere applicate anche a soggetti diversi, dunque, agli agenti della riscossione. L’art. 17
prevede: “Le disposizioni della presente legge si applicano anche nei confronti dei soggetti che
rivestono la qualifica di concessionari e di organi indiretti dell'amministrazione finanziaria, ivi
compresi i soggetti che esercitano l'attività di accertamento, liquidazione e riscossione di tributi di
qualunque natura”. L’obbligo di motivazione, dunque, non investe solo gli atti dell’amministrazione
finanziaria, ma anche gli atti della riscossione. L’articolo 7 afferma che, se nella motivazione si fa
riferimento ad un altro atto, questo atto richiamato deve essere allegato all’atto che lo richiama;
questo fenomeno è noto come motivazione per relationem. Si tratta dell’ipotesi dell’atto che, per
meglio definire presupposti di fatto e ragioni giuridiche della pretesa, si limita a richiamare un altro

Diritto tributario Pagina 104


meglio definire presupposti di fatto e ragioni giuridiche della pretesa, si limita a richiamare un altro
atto che già li contiene; affinchè la motivazione per relationem sia legittima, occorre che l’atto
richiamato sia allegato all’atto richiamante. La necessità dell’allegazione si giustifica perché, se l’atto
non fosse allegato, la mancata allegazione costringerebbe il contribuente a ricercarlo, così
comprimendo il tempo della difesa a sua disposizione. Questo principio portava delle conseguenze
dirompenti sull’operatività dell’amministrazione finanziaria, che spesso faceva ricorso all’istituto
della motivazione per relationem. Il legislatore delegato, all’indomani dell’entrata in vigore dello
Statuto dei diritti del contribuente, ha innovato le disposizioni tributarie specifiche vigenti all’interno
della disciplina dei singoli tributi, precisando i limiti di questo principio; il principio della motivazione
contestuale è valido solo se l’atto richiamato non è conosciuto altrimenti dal contribuente. Ad
esempio, tutte le volte in cui l’avviso di accertamento rinvia, quanto all’indicazione del presupposto
di fatto, al contenuto del processo verbale di constatazione, siccome tale processo è già stato
consegnato al contribuente a conclusione dell’attività di verifica, allora non sarà più indispensabile
allegare il processo verbale di constatazione all’avviso di accertamento perché l’atto richiamato è già
conosciuto dal contribuente. L’art. 42 del D.P.R 1973, n.600 stabilisce: “Se la motivazione fa
riferimento ad un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente, questo deve essere
allegato all'atto che lo richiama salvo che quest'ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale”.
L’atto richiamato può non essere allegato, non solo quando sia conosciuto o ricevuto dal
contribuente, ma anche quando, pur non essendo né conosciuto né ricevuto, l’atto richiamante ne
riproduca il contenuto essenziale. È un principio molto diverso da quello sancito dall’art. 7; in
definitiva, sarà sempre l’amministrazione finanziaria a decidere quale sia il contenuto essenziale
dell’atto richiamato, non mettendo mai il contribuente nelle condizioni di capire se il contenuto
essenziale vi sia. Il principio statutario, sancito dall’art. 7, è stato stravolto dal legislatore delegato
che, nel tentativo di circoscrivere l’applicazione in danno dell’amministrazione finanziaria, ne ha
circoscritto moltissimo l’applicazione. L’articolo 12 sancisce i diritti e le garanzie del contribuente
sottoposto a verifiche fiscali; questa norma contiene numerosi principi volti a disciplinare l’attività
istruttoria dei verificatori che eseguono accessi, ispezioni e verifiche. Nonostante i primi entusiasmi,
determinati da un’interpretazione molto favorevole al contribuente, il legislatore è intervenuto
circoscrivendo la portata di questi principi e ha avuto l’importante ausilio della giurisprudenza. L’art.
12 comma 7 dello Statuto dei diritti del contribuente prevede: “Nel rispetto del principio di
cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di
chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro
sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L'avviso di
accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di
particolare e motivata urgenza”. È ormai preponderante la posizione della giurisprudenza, la quale
ritiene che questa norma si applichi esclusivamente a seguito del rilascio del processo verbale di
constatazione, dunque, solo a conclusione dei poteri di accesso, ispezione e verifica. L’obiettivo delle
osservazioni e richieste, che il contribuente può comunicare entro sessanta giorni, è quello di far
emergere e sottoporre all’attenzione dell’ufficio circostanze che a suo giudizio non siano state
opportunamente valutate dai verificatori. Si tratta di una fase di contraddittorio anticipato. La parte
più significativa della norma prevede che l’avviso di accertamento non possa essere emanato prima
dello spirare del sessantesimo giorno successivo alla consegna del processo verbale; ciò significa che
l’eventuale emanazione ante tempo, da parte dell’amministrazione finanziaria, ne determinerebbe
la nullità. La norma fa salva l’ipotesi in cui l’ufficio ritenga che ricorra il caso di particolare e motivata
urgenza, quindi, l’ufficio può violare il termine dei sessanta giorni solo se ricorrano ipotesi di
particolare e motivata urgenza: particolare vuol dire che la causa che determina la violazione della
norma, che assicura il diritto al contraddittorio anticipato, dovrà essere una causa eccezionale non
prevedibile; motivata significa che di questa circostanza l’ufficio deve dare atto nella motivazione
dell’avviso di accertamento e, se l’avviso di accertamento fosse emanato prima del termine, l’ufficio
dovrebbe indicare nella motivazione dell’atto sia la circostanza eccezionale, che autorizzerebbe
l’ufficio alla violazione della norma statutaria, sia dare conto di queste ragioni per porre il
contribuente nelle condizioni di valutare la fondatezza della particolare urgenza, che ha determinato
la violazione del principio del contraddittorio anticipato.

Diritto tributario Pagina 105


LEZIONE 15 (19/04/21)
martedì 26 ottobre 2021 19:52

Studio delle imposte sui redditi: IRPEF e IRES


Le imposte che studiamo oggi sono interamente disciplinate all’interno di un
testo unico, che trovate in tutti i codici disponibili in commercio, il 917/1986.
Questo testo unico porta al suo interno sia la disciplina dell’imposta sul reddito
delle persone fisiche sia la disciplina dell’imposta sul reddito delle società,
anche se il testo unico lo trovate riferito ad un’epoca risalente, il 1986, per la
verità ha subito importanti modificazioni al suo interno, la più importante delle
quali è certamente da ricondurre alla riforma sul reddito delle società. La
riforma dell’imposta risale infatti al 2003. Iniziamo lo studio dell’imposta sul
reddito delle persone fisiche precisando che si tratta di un’imposta che si
propone di sottoporre a tassazione i redditi conseguiti dalle persone fisiche,
quindi i soggetti passivi dell’IRPEF sono naturalmente le persone fisiche e in
particolare, a proposito dei soggetti passivi, un’attenzione molto particolare è
riservata dall’art.2 alla distinzione che il nostro ordinamento conosce tra
soggetti residenti e non residenti. Quindi le persone fisiche, soggetti passivi
dell’IRPEF, sono distinte in maniera nettissima tra persone fisiche residenti e
non residenti perché mentre le persone fisiche residenti sono soggetti passivi
ai fini dell’IRPEF per tutti i redditi ovunque prodotti, le persone fisiche non
residenti nel territorio dello stato sono invece soggetti passivi IRPEF
limitatamente ai redditi prodotti in Italia. Esiste quindi una differenza
fondamentale tra le due categorie di soggetti appena menzionati determinata
dal fatto che, mentre i residenti dovranno applicare l’IRPEF anche ai redditi
prodotti all’estero, in virtù dell’applicazione del principio della tassazione del
reddito mondiale, le persone fisiche non residenti nel territorio dello stato
italiano applicheranno l’IRPEF limitatamente ai redditi che eventualmente
avranno prodotto in Italia. Quando accenniamo a questa distinzione
macroscopica facciamo implicitamente riferimento ad un concetto che
dobbiamo ancora chiarire: “residenza fiscale”.
Dire che un soggetto sia residente o meno in Italia implica avere chiaro che
cosa si intenda per residenza ai fini della disciplina che stiamo studiando, la
nozione di residenza è chiarita all’art.2 del testo unico; nel quale precisa che si
considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di
imposta sono iscritte nell’anagrafe della popolazione residente oppure quelle
che nel territorio dello stato hanno il domicilio o la residenza ai sensi del
Codice civile. I residenti sono quelli iscritti nell’anagrafe della popolazione
residente oppure quelli che in Italia hanno il domicilio o la dimora, la norma
non fa esclusivamente riferimento a queste notazioni, cioè alla circostanza che
il soggetto passivo sia iscritto nell’anagrafe della popolazione residente ovvero
abbia domicilio o dimora all’interno del territorio dello stato, ma fa anche
riferimento ad un presupposto di ordine temporale perché la norma dice
esplicitamente che tali condizioni devono permanere per la maggior parte del

Diritto tributario Pagina 106


esplicitamente che tali condizioni devono permanere per la maggior parte del
periodo di imposta, quindi per la metà dell’anno solare più un giorno. Non è
sufficiente essere iscritti nell’anagrafe della popolazione residente oppure
avere il domicilio o la residenza per sessanta giorni, ma occorre che questa
condizione permanga per almeno la metà del periodo di imposta più un giorno,
quindi la maggior parte del periodo di imposta.
La norma aggiunge qualcosa in più, proprio con la finalità di ovviare a pratiche
di carattere elusivo, cioè la condotta di chi per esempio si cancella
dall’anagrafe della popolazione residente trasferendo la propria residenza fuori
dal territorio dello stato, quindi iscrivendosi nell’anagrafe di popolazione di
uno stato estero e con ciò volendo affermare che non esiste nel territorio dello
stato la propria residenza fiscale; per contrastare queste condotte elusive di
chi surrettiziamente vorrebbe far passare l’idea che la residenza fiscale in Italia
è assente, l’art.2 bis del testo unico precisa che tutti coloro che adottino
questa condotta e che cancellino la propria residenza all’interno del territorio
dello stato per trasferirsi in un territorio a fiscalità privilegiata continuano a
essere considerati residenti fiscalmente
in Italia. In definitiva questa norma prescrive che colui che si cancella
dall’anagrafe della popolazione residente per trasferirsi in uno stato a fiscalità
privilegiata, per esempio, un paradiso fiscale come il principato di Monaco,
continua a presumersi fiscalmente residente in Italia con la conseguenza che
sarà continuato a tassare sulla base del principio della tassazione del reddito
mondiale. Quindi tutti i redditi di questo soggetto, sia quelli prodotti in Italia
che nel principato di Monaco, saranno redditi per i quali l’IRPEF sarà da
applicare→ non si tratta di un soggetto da non considerare fiscalmente non
residente, ma che continuerà ad essere considerato fiscalmente residente in
Italia, anche se surrettiziamente avesse cancellato il proprio nominativo
dall’anagrafe della popolazione residente in Italia. Naturalmente questo non
vuol dire che il soggetto non possa fornire la prova contraria, è una
presunzione legale relativa. Chi dovesse tenere questa condotta può
dimostrare di avere effettivamente trasferito la propria residenza nello stato a
fiscalità privilegiata, ma l’onere della prova ricade su di lui, quindi se non sarà
in grado di fornire questa prova opererà la presunzione legale stabilità
all’articolo 2 bis del testo unico. La regola è quella che prevede il discrimine tra
residenti fiscalmente in Italia e soggetti fiscalmente non residenti, quindi
bisogna conoscere la ragione di questa distinzione fondamentale tra le due
categorie di soggetti menzionate e anche la presunzione legale relativa
prevista dal successivo articolo 2 bis che coinvolge la posizione di coloro che si
cancellano dall’anagrafe della popolazione residente per trasferirsi in paesi a
fiscalità privilegiata, i cosiddetti paradisi fiscali, per questi soggetti vige un
ribaltamento dell’onere della prova→ l’amministrazione finanziaria esonerata
dall’onere di provare che la residenza fiscale è in Italia perché questi soggetti si
continuano a considerare fiscalmente residenti in Italia, salva la possibilità
concessa al soggetto passivo di fornire la prova contraria. Se è in grado di
dimostrare che effettivamente risiede fiscalmente nello stato a fiscalità
privilegiata, si applicherà la disciplina riservata ai soggetti fiscalmente residenti
Diritto tributario Pagina 107
privilegiata, si applicherà la disciplina riservata ai soggetti fiscalmente residenti
al di fuori del territorio dello stato.
L’IRPEF, l’acronimo lo indica già con sufficiente chiarezza, è un'imposta sul
reddito delle persone fisiche, ma sappiamo bene che è un'imposta progressiva,
è il tributo progressivo per eccellenza nel nostro sistema tributario; attraverso
questa imposta il legislatore è riuscito in maniera evidentissima a realizzare nel
nostro sistema il principio di progressività, studiato quando abbiamo
commentato il secondo comma dell'articolo 53 della Costituzione, questo
significa che i redditi percepiti dalle persone fisiche sono sottoposti a
tassazione attraverso l'applicazione di aliquote progressive e quindi significa
che il peso del tributo cresce al crescere della base imponibile. La prima
stesura sul reddito delle persone fisiche è da attribuire alla prima riforma del
1973, la disciplina del testo unico del 1986 viene dopo, ma l’imposta sul
reddito delle persone fisiche esisteva già e trovava la sua disciplina in un D.P.R.
del 1973 e anche in quella diversa forma rimaneva un’imposta di stampo
fortemente progressivo per scaglioni aggiuntivi. Quando parliamo dell’IRPEF
affermando che si tratta di un’imposta che realizza pienamente il principio di
progressività, dobbiamo fare alcune precisazioni, perché nel corso del tempo
questo fondamentale principio ha subito una progressiva e significativa
erosione; già nella struttura fondamentale osserviamo alcune particolari
categorie di reddito che non sono sottoposte a tassazione nella loro misura
effettiva, ma lo sono in misura forfettaria perché esiste una particolare
categoria di reddito, quella dei redditi fondiari, che sono determinati
catastalmente, quindi si tratta di un reddito medio ordinario continuativo. I
redditi fondiari non sono sottoposti a tassazione effettivamente nella misura in
cui sono percepiti, ma sono sottoposti a tassazione secondo un metodo
forfettario, che è appunto un metodo catastale. Non è questa l’unica eccezione
alla regola generale perché esistono altre fattispecie che sfuggono
all’applicazione della regola che vuole sottoporre a tassazione il reddito
effettivo, queste eccezioni fondamentalmente sono determinate anche da
ragioni diverse, anzitutto quella più importante è da rintracciare nel fatto che
l’IRPEF è un’imposta che risente fortemente della personalità del soggetto
passivo, quindi la scelta di non sottoporre a tassazione il reddito
effettivamente conseguito dalla persona fisica risponde alla scelta
di tenere conto delle condizioni personali del soggetto passivo e proprio per
questo motivo il nostro legislatore attribuisce significativo rilievo ad alcune
voci di spesa sostenute dai soggetti passivi persone fisiche. Vedremo infatti in
che modo rilevano gli oneri deducibili e le detrazioni. Attribuire rilievo ad
alcune voci di spesa significa tenerne conto ed impedire che esse concorrano
alla tassazione. Allora se si riconosce che alcune voci di spesa, quindi le risorse
impegnate per il sostenimento di alcune spese, non debbano essere sottoposte
a tassazione significa sfuggire alla regola che vuole sottoporre a tassazione,
come principio generale, il reddito effettivamente conseguito perché una parte
di quel reddito, se destinata al sostenimento di particolari voci di spesa non
viene sottoposto a tassazione. Questo significa che il principio di progressività
risente di alcuni fortissimi correttivi; da una parte esistono redditi che non
Diritto tributario Pagina 108
risente di alcuni fortissimi correttivi; da una parte esistono redditi che non
sono sottoposti a tassazione effettivamente nella misura in cui sono conseguiti,
per altro aspetto ci sono alcune forme di reddito per le quali il nostro
legislatore ha voluto introdurre regimi di tassazione forfettaria, i cosiddetti
regimi sostitutivi, e dunque diverse vie possibili e alternative all’applicazione
del principio di progressività. Quindi è vero che è un’imposta progressiva, ma è
un’imposta rispetto alla quale via via nel tempo sono stati introdotti molti
metodi alternativi di applicazione dell’imposta, che in qualche modo hanno
eroso l’applicazione effettiva del principio di progressività limitandone il
contenuto. Per esempio, il regime che prevede l’applicazione di un’imposta
sostituiva ai redditi di capitale, quindi alcuni particolari redditi di capitali non
soggiacciono all’applicazione del tributo progressivo, ma vengono sottoposti a
tassazione attraverso l’applicazione di un’imposta sostitutiva; oppure, per
esempio, il regime della cedolare secca, anche queste sono fattispecie
reddituali per le quali non è prevista l’applicazione dell’imposta progressiva.
Sono quindi tutti questi esempi che consentono di cogliere un dato di fatto
ineluttabile ed evidente: la crisi del sistema di progressività. Esso è un principio
affermato nella Carta costituzionale, ma indipendentemente dalla chiara
enunciazione del principio, la verità è che ci scontriamo oggi con un evidente
stato di crisi di questo principio, che dovrà essere opportunamente e
prontamente risolto perché le soluzioni che si sono affacciate negli ultimi anni
all’evidente crisi del principio di progressività sono le più svariate. Quando
sentite parlare di “Flat Tax” si fa riferimento ad una delle possibili soluzioni alla
crisi del principio di progressività, ma è una soluzione che andrebbe
fortemente rimeditata proprio perché rischia di essere apertamente in
contrasto con il principio di progressività e quindi questa è la ragione per la
quale la soluzione della crisi del principio di progressività implica
essenzialmente un ripensamento complessivo dell’assetto dell’imposta senza
però sfuggire all’applicazione di quel principio, perché se cessa di essere
progressiva l’IRPEF il sistema non può più essere considerato progressivo con
aperta violazione del principio affermato all’articolo 53 co.2 Cost.
Ad oggi la nostra è una progressività imperfetta, gravemente imperfetta, che
implica la necessità di un profondo ripensamento dell’intero assetto
dell’imposta sul reddito delle persone fisiche. Per rimanere sulle notazioni
fondamentali del tributo cercare di capire cosa intendiamo quando parliamo di
reddito; il reddito è una nozione che anche sul piano teorico è stata oggetto di
profonde riflessioni da parte della dottrina, se volessimo sinteticamente
individuare cosa si intende per reddito se ne potrebbero identificare almeno
tre differenti nozioni:
▪ reddito come prodotto
▪ reddito come entrata
▪ reddito come consumo
La nozione apertamente condivisa dal nostro sistema è quella di reddito
prodotto, perché il nostro legislatore fin da subito, attraverso l’enunciazione
dei metodi di determinazione dell’imponibile delle singole categorie di reddito,

Diritto tributario Pagina 109


dei metodi di determinazione dell’imponibile delle singole categorie di reddito,
mostra di aderire ad una nozione di reddito che implica la necessità che
il reddito provenga da una fonte tipica che lo produce. A differenza della
nozione di reddito prodotto, quello di reddito entrata è assai più ampia,
quando parliamo di reddito entrata intendiamo fare riferimento a quella teoria
secondo la quale il reddito non è soltanto quello prodotto, ma è quello
conseguito da qualsiasi fonte promani. Quindi anche l'incremento del
patrimonio potrebbe costituire reddito da sottoporre a tassazione, qualsiasi sia
l'incremento di patrimonio e quindi se si dovesse accogliere una nozione di
reddito entrata sarebbe certamente da sottoporre a tassazione anche un
incremento patrimoniale determinato per esempio da una donazione, il nostro
ordinamento invece rifugge da una simile nozione. Non fate l'errore di ritenere
che sia sempre così, cioè che sia comunque sempre possibile affermare che il
nostro sistema ripudia nettamente la tassazione del reddito entrata per
accogliere invece la nozione del reddito prodotto, perché questo è vero in linea
puramente teorica, ma non mancano casi nel sistema sull'imposta sul reddito
delle persone fisiche in cui invece emerge che talvolta il legislatore si è lasciato
tentare dalla tentazione di sottoporre a tassazione anche redditi che non sono
redditi-prodotti, ma redditi-entrata, per esempio quella parte dei redditi per i
quali è previsto che debbano essere sottoposti a tassazione i premi e le vincite,
incremento che non ha nulla a che fare con la produzione del reddito; questo è
un chiaro cedimento del nostro sistema all’accoglimento della nozione del
reddito-entrata.
Quella del reddito consumato è una tesi molto semplice, secondo la quale il
reddito da sottoporre a tassazione sarebbe quello effettivamente consumato;
è una nozione molto lontana rispetto a quella condivisa dal nostro sistema
perché muove dall’idea che se il reddito fosse risparmiato non dovrebbe
essere sottoposto a tassazione. È vero che nel nostro sistema il legislatore ha
riservato un regime di particolare favore alla tassazione del risparmio, ma è
altrettanto vero che il nostro ordinamento non rinuncia a sottoporre a
tassazione il risparmio. Quindi certamente la nozione di reddito consumato
non è quella condivisa dal nostro ordinamento fiscale.
Il presupposto del tributo non è il reddito, ma è il possesso del reddito; se
leggete l’articolo 1 del testo unico troverete che il presupposto dell’IRPEF è il
possesso di redditi in denaro o in natura. Il testo unico non dà una definizione
di reddito; abbiamo le tre nozioni storicamente elaborate: reddito-prodotto,
reddito-entrata e reddito-consumato, una nozione unitaria non esiste, né una
norma ci dice cosa debba intendersi per reddito. Il reddito lo si desume dalla
disciplina delle singole categorie di reddito, quindi volta per volta è possibile
desumere quale sia la nozione di reddito condivisa e accolta dal legislatore.
Questa osservazione ci conferma che tra le tre nozioni quella largamente
condivisa dal legislatore è la prima, reddito-prodotto, quindi le categorie
reddituali, che sono sei, sono state enucleate dal legislatore proprio in ragione
del fatto che ciascuna di queste deriva da una fonte produttiva tipica e quindi
occorrerà guardare alla disciplina della singola categoria per comprendere
quale sarà la fonte del reddito da sottoporre a tassazione e la conseguente
Diritto tributario Pagina 110
quale sarà la fonte del reddito da sottoporre a tassazione e la conseguente
disciplina.
La tipicità della fonte produttiva del reddito è una regola costante per cinque
delle sei categorie di reddito. Le sei categorie sono: redditi fondiari, redditi di
capitale, redditi di lavoro dipendente, redditi di lavoro autonomo, redditi di
impresa e redditi diversi.
La regola secondo cui la fonte di produzione è tipica è una regola che si
mantiene costante per cinque delle categorie enunciate e dunque si mantiene
certamente veritiera per i redditi fondiari, per i redditi di capitale, di lavoro
dipendente e autonomo e per i redditi di impresa. Questa regola subisce una
deroga significativa per la sesta categoria dei redditi diversi, perché si tratta di
una categoria che può essere definita come residuale, ma la regola che
possiamo paradossalmente identificare come tipica di questa sesta categoria è
quella che non c’è una fonte unitaria di produzione. Per questo si tratta di una
categoria che sfugge alla regola che invece governa le altre cinque, per cui la
fonte di produzione invece è sempre una. Per i redditi diversi la fonte di
produzione esiste in alcuni casi estremamente
sfumata, per esempio premi e vincite, ma una caratteristica che invece
certamente si può rintracciare in questa sesta categoria di reddito è
rappresentata dal fatto che la fonte di produzione, ammesso che ci sia, è
certamente diversificata.
La regola fondamentale è rappresentata dalla scelta del legislatore di
individuare per ciascuna della categorie di reddito la fonte tipica di produzione
e la specifica disciplina che governa la singola categoria di reddito; tale
disciplina pervade in maniera profondissima la categoria reddituale, quindi
sono regole che presiedono alle modalità di determinazione della base
imponibile, per esempio stabilendo che il reddito debba essere sottoposto a
tassazione al lordo o al netto delle spese sostenute per la loro produzione, ma
sono anche regole che investono il tema fondamentale dell’imputazione
temporale, perché del reddito abbiamo detto che deve essere posseduto.
Quando il reddito si può ritenere posseduto dal soggetto passivo? Anche in
questo la disciplina non è affatto unitaria, quindi ogni categoria di reddito ha la
sua regola di imputazione temporale, osservata la quale, si deve ritenere che il
reddito sia stato conseguito e quindi posseduto ai fini fiscali. Sotto il profilo
dell’imputazione temporale le alternative sono più semplici perché si riducono
essenzialmente a due, mentre noterete che le regole che presiedono le
modalità di determinazione della base imponibile sono estremamente
variegate e molto complesse, il tema dell’imputazione temporale viene invece
risolto attraverso un’alternativa secca tra: applicazione del principio di cassa e
l’applicazione del principio di competenza.
Principio di cassa significa che il reddito si presume posseduto e quindi
fiscalmente rilevante nel periodo di imposta in cui effettivamente viene
conseguito, quindi se è conseguito effettivamente in un determinato periodo
di imposta è quello il momento in cui il reddito si deve intendere posseduto,
viceversa quando si applica il principio di competenza non assume alcun rilievo
il momento dell’effettiva percezione del reddito perché ciò che rileva è
Diritto tributario Pagina 111
il momento dell’effettiva percezione del reddito perché ciò che rileva è
soltanto l’esistenza del diritto a percepirlo.
Il reddito è ricchezza che si aggiunge a quella di cui già si dispone e per
misurare questo incremento di ricchezza occorre tenere a riferimento un arco
temporale ben preciso, altrimenti non sarebbe possibile misurare l’incremento
della ricchezza; quindi il reddito è certamente un concetto che fa richiamo ad
una disponibilità di ricchezza in senso dinamico, viceversa il patrimonio, che
richiama invece l’idea della ricchezza di cui il soggetto già dispone, quindi è una
nozione che fa riferimento ad un concetto di ricchezza in senso statico, è lo
stock di ricchezza misurato ad una certa data nella disponibilità del soggetto
passivo. Quando parliamo di IRPEF occorre avere chiaro che ciò che il
legislatore intende sottoporre a tassazione non è affatto lo stock di ricchezza
disponibile ad una certa data, ma è esclusivamente la ricchezza che si aggiunge
a quella di cui già il soggetto passivo dispone; un’altra notazione fondamentale
che dobbiamo avere ben chiara è legata al fatto che il reddito che il legislatore
intende sottoporre a tassazione non è soltanto il reddito in denaro, ma è anche
il reddito in natura→i redditi non sono esclusivamente espressi in forma
monetaria, i redditi che occorre sottoporre ad applicazione del tributo sono
anche i redditi in natura e, quando parliamo di redditi in natura, intendiamo far
riferimento a beni e servizi di cui il soggetto passivo può disporre a diverso
titolo. Il problema da affrontare, ancor prima di identificare le ipotesi possibili
è un altro, mentre è chiaro come è possibile misurare il reddito espresso in
misura monetario (es. 1000 euro, 10.000 euro etc.…), potrebbe non essere
agevole intuire come possa essere misurato il reddito che si esprime attraverso
il possesso non di una somma di denaro, ma di un bene o un servizio. Dire che
il reddito può esprimersi anche in natura può risultare agevole, facilmente
comprensibile, un po’ meno tentare di capire come quantificare questo reddito
per l’applicazione del tributo perché in definitiva occorre comunque tradurlo in
un’espressione numerica, come si fa con i redditi che si esprimono in termini di
denaro. Se possiedo una somma di denaro è facile che si possa determinare il
reddito e poi applicare
l’imposta se possiedo, e quindi dispongo, di un’iscrizione in un club esclusivo si
tratta di una prestazione di servizi che devo sottoporre a tassazione, che non è
facile quantificare in denaro, ma devo necessariamente tradurre in denaro
anche la disponibilità di una prestazione di servizi di questo genere e mi
impone a farlo proprio l’articolo 1 del testo unico nella parte in cui precisa che i
redditi possono essere in denaro o in natura. Come tradurre la disponibilità di
beni o servizi in quantità rispetto alle quali può essere applicato il tributo? Il
problema è risolto dall’articolo 9 che stabilisce che i beni e i servizi sono
sottoposti a tassazione sulla base del loro valore normale, quindi l’operazione
che occorre fare per procedere alla corretta applicazione del tributo è tradurre
il bene o servizio di cui si dispone in valore normale. Per valore normale di un
bene o servizio si intende il prezzo o il corrispettivo mediamente praticato per
beni e servizi della stessa specie in condizione di libero mercato nel medesimo
stadio di commercializzazione nel tempo e nel luogo in cui beni e servizi sono
acquistati o prestati. Quindi l’operazione che occorre fare è stimare il valore
Diritto tributario Pagina 112
acquistati o prestati. Quindi l’operazione che occorre fare è stimare il valore
normale dei beni o dei servizi posseduti applicando questo criterio, quindi
tentando di individuare il prezzo o il corrispettivo mediamente praticato per
beni e servizi della stessa specie nel medesimo stadio di commercializzazione,
nel luogo e nel tempo in cui quei beni e quei servizi sono acquistati o prestati.
L’imposta sul reddito delle persone fisiche è per definizione un’imposta
periodica, quando abbiamo fatto la distinzione fondamentale tra le diverse
tipologie di imposte abbiamo disposto che occorre distinguere tra imposte
istantanee e imposte periodiche, il tributo periodico per eccellenza è
sicuramente l’imposta sul reddito, in particolare l’imposta sul reddito delle
persone fisiche perché sottopone a tassazione una manifestazione di ricchezza
suscettibile di ripetersi nel tempo, a maggior ragione laddove considerate che
dovendosi sottoporre a tassazione il reddito che sappiamo essere un
incremento di ricchezza rispetto a quella che di cui già il soggetto passivo
dispone, è indispensabile fare riferimento ad un arco temporale
predeterminato. Le imposte sui redditi non sono imposte periodiche perché si
applicano continuativamente, ma qui la periodicità dell’imposta sul reddito si
coglie sotto un profilo ben più incisivo; l’IRPEF (e anche l’IRES) è un’imposta
periodica perché il suo presupposto, la periodicità, è necessariamente legata al
fatto che il presupposto va necessariamente misurato in relazione ad un
determinato arco temporale, dunque non è possibile applicare correttamente
il tributo se non dopo avere misurato il presupposto in relazione ad un arco
temporale ben definito: il periodo di imposta.
Il periodo di imposta determina la periodicità dell’IRPEF, di per sé il
presupposto da sottoporre a tassazione non sfugge a questa regola
fondamentale. Posto che la ricchezza da sottoporre a tassazione è
necessariamente quella che si aggiunge a quella di cui già il soggetto passivo
dispone non possono sfuggire alla regola di misurare questo presupposto in
relazione ad un determinato arco temporale (1 gennaio-31 dicembre); questo
significa che nel periodo di imposta successivo la misurazione dovrà essere
ripetuta con la conseguenza che sarà sottoposta a tassazione solo la ricchezza
che si aggiunge ulteriormente a quella di cui già il soggetto passivo disponeva
nel periodo di imposta precedente.
Se abbiamo chiaro il particolarissimo significato che periodicità assume nella
disciplina delle imposte sul reddito delle persone fisiche, è il caso di fare una
piccola precisazione sul periodo di imposta. Il periodo di imposta, che tanto
rileva nella disciplina delle imposte sui redditi, ha una connotazione peculiare
per un verso in capo alle persone fisiche, per altro verso in capo agli altri
soggetti passivi che sono poi quelli che studieremo successivamente perché
rimangono assoggettati all’applicazione dell’imposta sul reddito delle società
(l’IRES). Mentre per le persone fisiche il periodo di imposta è ordinariamente
l’anno solare (1° gennaio-31 dicembre), per i soggetti diversi dalle persone
fisiche, che sono sottoposti all’IRES- (ATTENZIONE: non tutti i soggetti passivi
diversi dalle persone fisiche sono soggetti all’IRES; i soggetti diversi dalle
persone fisiche sono soggetti passivi di altra imposta, che è l’IRES, ma con
modalità di applicazione estremamente differenziate. La regola generale è che
Diritto tributario Pagina 113
modalità di applicazione estremamente differenziate. La regola generale è che
le persone fisiche sono soggette all’IRPEF e che i soggetti passivi diversi dalle
persone fisiche possono essere soggetti passivi dell’IRES ovvero possono
essere soggetti per i quali l’imposta sul reddito va applicata con particolari
modalità) - non si chiama anno solare, ma esercizio sociale. L’esercizio sociale
può essere pure coincidente con l’anno solare, normalmente è così, però il
periodo è denominato in maniera diversa. La periodicità del tributo, che la
regola generale vuole cadenzata esattamente con l’anno solare o l’esercizio
sociale, può subire delle brusche interruzioni. Quindi non è neanche vero che
sempre il periodo di imposta combacia con l’anno solare o l’esercizio sociale,
ma possono verificarsi brusche interruzioni determinate da eventi straordinari;
per le persone fisiche pensate all’evento morte, quando la persona fisica
muore, il periodo di imposta non può più corrispondere all’anno solare, perché
quel periodo di imposta in cui interviene la morte non può necessariamente
che iniziare il primo gennaio e concludersi con il giorno della morte, quindi è
chiaro che il periodo di imposta può subire anche delle modificazioni
importanti. Per le società vale la stessa cosa, per esempio un’operazione
straordinaria come fusione, scissione, trasformazione, eventi che determinano
un’interruzione del periodo di imposta classicamente inteso, che quindi se
ricorrerà qualcuna di queste fattispecie chiaramente l’esercizio sociale inizierà
il primo gennaio per concludersi nel momento in cui interviene l’evento
straordinario. Il fatto che questo tributo sia strettamente correlato alla sua
periodicità porta con sé conseguenze determinanti, soprattutto in tema di
imputazione temporale, perché ci sono alcuni componenti reddituali che
necessitano di una scelta da parte del legislatore, occorre cioè che il legislatore
si spinga fino a stabilire a quale periodo di imposta questi componenti
reddituali devono essere imputati, altrimenti ne deriverebbe l’erronea
applicazione del tributo. Questa è la ragione per la quale il legislatore ha
introdotto la disciplina del principio di cassa e del principio di competenza,
esistono alcuni redditi che si assumono fiscalmente rilevanti nel momento in
cui vengono percepiti (principio di cassa) ed esistono invece altri redditi che
assumono fiscalmente rilevanza nel momento in cui sorge il diritto alla loro
percezione. La ragione per la quale è introdotta queta specifica disciplina, cioè
quella dell’imputazione temporale, risponde all’esigenza di risolvere un
possibile conflitto tra un periodo di imposta e l’altro, quindi la regola da
seguire sarà l’una o l’altra con la finalità di sciogliere il dubbio possibile, cioè
quello di stabilire quando un componente reddituale deve essere sottoposto a
tassazione, se in un periodo di imposta o in un altro. Tutti questi temi sono
temi rispetto ai quali può sorgere conflitto tra contribuente e amministrazione
finanziaria, la corretta applicazione del principio di competenza è uno dei temi
più sensibili su cui vertono le liti tra agenzia delle entrate e contribuente; il
primo ritiene di avere applicato bene il principio di competenza scegliendo per
esempio di sottoporre a tassazione il componente reddituale del 2014, mentre
l’amministrazione finanziaria potrebbe affermare che in virtù del principio di
competenza quel componente reddituale andrebbe dichiarato nel 2015 e non
nel 2014 e per questo può sorgere la contestazione che poi genera la lite. La
Diritto tributario Pagina 114
nel 2014 e per questo può sorgere la contestazione che poi genera la lite. La
disciplina del tributo può farsi complessa anche in ragione della corretta
imputazione del periodo di imposta dei componenti di reddito. Una curiosità
che potrebbe sorgere riguarda la sorte dei redditi che spettano al de cuius,
redditi prodotti dal de cuius, ma non ancora incassati dal de cuius; se i redditi
sono prodotti dal de cuius e incassati dallo stesso prima che l’evento morte
intervenga il problema non si pone perché è chiaro che si tratti di redditi che
dovranno essere dichiarati in capo al de cuius per il quale occorrerà
predisporre la dichiarazione, obbligo che incombe sugli eredi, così come
l’obbligo di pagare le imposte corrispondenti, ma sappiate che diversissima
disciplina è prevista per i redditi prodotti dal de cuius ma non incassati dal de
cuius, perché si potrebbe anche verificare che il de cuius abbia prodotto un
reddito, pensate ad un defunto che svolgeva l’attività di lavoro autonomo
come un avvocato che esercita l’attività e al momento in cui interviene la
morte non ha ancora incassato la sua parcella dai clienti, in questo caso si
tratta di redditi prodotti dal del cuius ma che potrebbero essere incassati
anche dopo la morte dagli eredi. In questo caso la regola vuole che i redditi
vengano tassati in capo direttamente agli eredi, questo è un esempio lampante
di un’occasionale condivisione da parte del nostro legislatore del principio di
reddito-entrata perché gli eredi non hanno prodotto quel reddito, ma per loro
è un’entrata di natura patrimoniale; eppure, il legislatore li sottopone a
tassazione direttamente in caso agli eredi, quindi, è un caso evidente di
deviazione dal modello teorico fondamentale del reddito-prodotto. Qui il
legislatore sottopone a tassazione un’ipotesi di reddito-entrata.
Anche i proventi illeciti sono sottoposti a tassazione nel nostro sistema, i
redditi provenienti da attività illecita sono sottoposti a tassazione applicando la
disciplina che sarebbe a questi applicabile nella misura in cui siano riconducibili
a qualcuna delle fattispecie reddituali già codificate all’interno del testo unico,
quindi solamente nel caso in cui questi redditi di provenienza illeciti non siano
ascrivibili ad alcuna delle sei categorie, il legislatore con una norma di chiusura
stabilisce che devono essere comunque sottoposti a tassazione come se
fossero redditi diversi. Non c’è alcuna rinunzia del sistema ad applicare le
imposte ai proventi derivanti da attività illecita e la scelta è nella direzione di
applicare la disciplina tipica della categoria alla quale questi redditi sarebbero
astrattamente riconducibili, salvo applicare la stessa disciplina dei redditi
diversi quando la fonte tipica non sia identificabile. La regola generale vuole
che anche i redditi derivanti da attività illecita siano comunque sottoposti a
tassazione. Si sottopongono a tassazione anche i redditi prodotti dai figli
minori, perché in questa ipotesi si applica la disciplina dell’usufrutto legale
quindi i redditi eventualmente prodotti sui beni di cui siano proprietari
eventualmente i figli minori sono sottoposti a tassazione direttamente in capo
ai genitori ciascuno per la metà. Un accenno va fatto alla disciplina del regime
fiscale tra i coniugi: in passato il nostro ordinamento propendeva per
l'applicazione di una regola ormai pacificamente abolita, cioè il cumulo dei
redditi prodotti da marito e moglie in capo esclusivamente al marito, dunque i
redditi eventualmente prodotti da entrambi in passato venivano sottoposti a
Diritto tributario Pagina 115
redditi eventualmente prodotti da entrambi in passato venivano sottoposti a
tassazione cumulativamente e in via esclusiva in capo al marito che quindi paga
l'imposta sia per i redditi propri che per i redditi della moglie. Si trattava di un
cumulo→ il cumulo dei redditi tra marito e moglie è stato dichiarato
costituzionalmente illegittimo nel 1976 e a decorrere da questa storica
sentenza della Corte costituzionale, finalmente, è ormai codificato nel nostro
sistema il principio diametralmente opposto per cui nell'eventualità che marito
e moglie percepiscano ciascuno i propri redditi ognuno di loro soggiacerà ad un
distinto obbligo dichiarativo, quindi ognuno di loro sarà tenuto alla
presentazione della dichiarazione annuale con la conseguenza che l’IRPEF si
applicherà separatamente senza alcun cumulo tra i redditi rispettivamente
percepiti. Si trattava di una soluzione aberrante considerate anche le ragioni
dell’aberratio considerando che il cumulo in capo al marito determinava
essenzialmente la crescita dell’aliquota marginale e conseguentemente della
progressività del tributo.
Dovete tenere nettamente distinta rispetto a questa regola generale la
disciplina che il nostro sistema riserva all’impresa familiare; altro è la disciplina
fiscale normalmente applicabile per i redditi prodotti da marito e moglie, altra
cosa è la disciplina dell’impresa familiare. La disciplina dell’impresa familiare
costituisce un regime agevolativo, quindi siamo in una fattispecie molto
lontana, l’imprenditore individuale è soggetto nella misura i cui si tratti di
persona fisica all’IRPEF, ma il nostro sistema in ossequio del pieno
riconoscimento dell’impresa familiare, istituto codificato all’interno del Codice
civile, ha scelto di attribuire rilievo fiscale a questo istituto. Dunque se prima
dell’inizio del periodo di imposta viene redatto un atto pubblico o una scrittura
privata autenticata con la quale vengano identificati i nominativi di coloro che
partecipano all’impresa familiare prestando un’attività di lavoro
continuativamente svolta all’interno dell’impresa stessa, è consentito un
regime fiscalmente rilevante di particolare favore che attiene in particolare alla
possibilità di distribuire l’utile prodotto dall’imprenditore individuale tra
l’imprenditore e i suoi collaboratori familiari. Se dunque esiste un atto pubblico
o una scrittura privata con la quale si configura l’impresa familiare e si
stabilisce in quale misura il collaboratore familiare, che può essere il coniuge o
un parente fino al terzo grado o un affine entro il secondo, partecipa
all’impresa familiare stessa a questi
collaboratori può essere imputata una quota del reddito prodotto
dall’imprenditore in ragione del lavoro effettivamente prestato. L’imputazione
del reddito prodotto al collaboratore familiare non può mai superare il 49%,
cioè il 50%+1 del reddito prodotto dall’impresa familiare deve essere
necessariamente imputata all’imprenditore. L’imputazione del reddito
prodotto dall’impresa familiare in capo al collaboratore in misura non
superiore al 49% consente di sfuggire all’applicazione di aliquote marginali
IRPEF particolarmente elevate; ripartire su due capi invece che su uno soltanto
il reddito prodotto dall’impresa consente di mitigare l’applicazione del tributo
sul reddito delle persone fisiche. Se tutto il reddito fosse imputato in capo
all’imprenditore questi soggiacerebbe all’applicazione di un’aliquota marginale
Diritto tributario Pagina 116
all’imprenditore questi soggiacerebbe all’applicazione di un’aliquota marginale
ben più elevata rispetto a quella che sconta imputando ad un secondo
soggetto fino al 49% del reddito prodotto; l’aliquota marginale decresce
perché il reddito decresce in capo all’uno e all’altro.
Le società di persone non sono soggetti passivi di alcuna imposta sul reddito,
questo non significa che il reddito prodotto dalle società di persone non debba
essere sottoposto a tassazione. Pacificamente anche il reddito prodotto dalle
società di persone è un reddito da dovere sottoporre a tassazione, la
peculiarità risiede esclusivamente nel fatto che il reddito prodotto da questa
particolare categoria di soggetti è un reddito che in virtù del principio di
tassazione per trasparenza viene imputato immediatamente in capo ai soci;
quindi i redditi prodotti dalla società sono i redditi da imputare ai soci
indipendentemente dalla loro effettiva distribuzione, quindi il principio di
tassazione per trasparenza implica che surrettiziamente questi redditi si
intendano effettivamente distribuiti, non interessa che effettivamente lo siano
stati, si presume che i redditi siano stati distribuiti indipendentemente dalla
loro effettiva distribuzione. In definitiva in ragione della partecipazione alla
società, in particolare in considerazione della quota di partecipazione alla
società, vengono sottoposti a tassazione i redditi prodotti dalla società
direttamente in capo ai soci. La società di persone è tenuta a numerosi obblighi
formali, devono presentare la dichiarazione dei redditi, sono soggetti obbligati
alla tenuta delle scritture contabili e in definitiva sono tenuti ad assolvere a
tutti quegli adempimenti indispensabili per la corretta applicazione del tributo
in capo ai soci. Occorre che la società presenti la dichiarazione dei redditi non
per l’applicazione del tributo, ma per quantificare il reddito da sottoporre a
tassazione in capo ai soci, i soci pro quota sottoporranno a tassazione il reddito
prodotto dalla società sottoforma di reddito di partecipazione. Però il reddito
prodotto dalla società di persone è reddito di partecipazione per il socio
percettore tutte le volte in cui questo socio percettore sia una persona fisica
che non svolge attività di impresa in proprio, quando il socio percettore è una
società o un imprenditore individuale il reddito prodotto dalla società
partecipata per lui costituisce reddito di impresa, quindi non è più reddito di
partecipazione, ma è reddito di impresa per la semplicissima ragione che tutti i
redditi prodotti da questi soggetti cioè gli imprenditori sono per definizione
reddito di impresa in particolare questa regola vale per le società che svolgono
attività di impresa per definizione, se la società commerciale partecipa ad una
società di persone, il reddito prodotto dalla società di persone per la società
commerciale che vi partecipa non può che essere reddito di impesa, tertium
non datur rispetto a questi particolari soggetti e le eventuali ritenute che
avesse subito la società di persone si ripartiscano al pari dei redditi tra i soci
percettori. Questa disciplina estremamente peculiare si applica anche alle
associazioni professionali quindi, eventualmente, se fossero costituite
associazioni tra professionisti allo stesso modo si applicherebbe il principio di
tassazione per trasparenza e se ne ha per tanto che i redditi prodotti dalla
società di persone finirebbero per concorrere con gli altri redditi posseduti dal
socio percettore quindi i redditi di partecipazione concorrerebbero alla
Diritto tributario Pagina 117
socio percettore quindi i redditi di partecipazione concorrerebbero alla
determinazione del reddito complessivo.
Entrando più nel dettaglio nella determinazione della base imponibile e
nell’applicazione di questo tributo che ci accingiamo a studiare, dobbiamo
accennare anche alla eventualità che per particolari
categorie di reddito si possano determinare perdite. Ci sono tra le sei categorie
di reddito alcune che potrebbero determinare perdite e non quindi redditi da
sottoporre a tassazione; queste categorie di reddito per le quali il periodo di
imposta potrebbe chiudere in negativo, generando quindi perdite fiscalmente
rivelanti sono in particolare due: il reddito di lavoro autonomo e il reddito di
impresa. Come un eventuale risultato negativo di questi redditi potrebbe
incidere sulla posizione complessiva della persona fisica? Per esempio un
imprenditore persona fisica può conseguire redditi di impresa, ma anche
redditi di tipo diverso tipo fondiari o di capitali, allora in virtù della regola
generale se ne avrebbe che per determinare il reddito complessivo conseguito
da questo soggetto occorrerebbe sommare tutte le categorie di reddito
percepite e quindi conseguite all’interno di un determinato periodo di imposta
e nell’eventualità che questo soggetto conseguisse più tipologie di reddito se
ne avrebbe che potrebbero esserci risultati positivi e quindi redditi da
dichiarare a titolo di reddito fondiario o di reddito di capitali o di reddito
diverso e invece una perdita fiscalmente rilevante subita a titolo di reddito di
impresa e allora in questo caso la perdita può essere scomputata soltanto
limitatamente alla categoria di reddito che l’ha prodotta. Se questo soggetto
passivo consegue redditi di altre categorie dovrà per queste categorie
applicare l’IRPEF e pagarla, se invece per il reddito di impresa o di lavoro
autonomo ha conseguito una perdita essa ha rilevanza fiscale nella
determinazione del reddito del periodo di imposta successivo, nel senso che il
legislatore attribuisce rilevanza fiscale. Quando però diciamo che la perdita
assume rilevanza fiscale dobbiamo avere ben chiaro che il rilievo fiscale di
questa perdita è tale da determinare un’influenza solo sulla determinazione
dei redditi della medesima categoria, cioè se nell’anno successivo
l’imprenditore continua a conseguire redditi fondiari, redditi capitali, redditi
diversi e nell’anno dopo riesce a maturare anche un reddito di impresa positivo
da sottoporre a tassazione, la perdita fiscalmente rilevante subita nell’anno
precedente potrà essere scomputata solo dal reddito di impresa conseguito nel
periodo di imposta successivo quindi non va a decurtazione di tutto il reddito
complessivo, quella perdita subita nell’anno precedente è capace di decurtare
solo la medesima categoria di reddito conseguita nel periodo di imposta
successivo. Si scomputa in avanti la perdita subita, ma lo scomputo è possibile
solo sui redditi della medesima categoria che ha generato quella perdita. La
regola vuole che almeno il 20% dei redditi prodotti nei periodi di imposta
successivi rimangano da sottoporre a tassazione, quindi la perdita sottoposta
negli anni pregressi può certamente essere scomputata ma solo nei limiti
dell’80% del reddito successivo prodotto della medesima categoria.
Quando abbiamo parlato della progressività ci siamo senz’altro detti che le
aliquote si applicano alla base imponibile e quindi al reddito imponibile
Diritto tributario Pagina 118
aliquote si applicano alla base imponibile e quindi al reddito imponibile
(reddito imponibile e reddito complessivo non è la stessa cosa). Le categorie di
reddito sono sei e una volta determinato l’ammontare delle specifiche
categorie di reddito conseguito, questo ammontare va sommato l’uno all’altro,
quindi se il soggetto passivo percepisce tre divere categorie di reddito
l’ammontare va sommato algebricamente; la somma algebrica delle singole
categorie di reddito determina il reddito complessivo. Le aliquote progressive
dell’IRPEF non si applicano al reddito complessivo, ma al reddito imponibile
che è cosa diversa del reddito complessivo perché il reddito complessivo non è
altro che la somma algebrica delle singole categorie di reddito posseduto dal
soggetto passivo. Per muovere dal reddito complessivo al reddito imponibile
occorre tenere in considerazione gli oneri deducibili, quindi le prime voci di
spesa alle quali il legislatore attribuisce significativo rilievo al fine di assicurare
che l’IRPEF sia un tributo personale, dunque si concede attraverso il
meccanismo degli oneri deducibili che vengano scomputati dal reddito
complessivo alcuni oneri di spesa sostenuti dal soggetto passivo e che il
legislatore ritiene meritevoli di particolare attenzione, le risorse necessarie per
il finanziamento di queste spese sono quindi risorse che non vengono
sottoposte all’applicazione delle aliquote progressive dell’IRPEF proprio perché
queste spese vengono decurtate dal reddito complessivo. L’elenco lo trovate
all’articolo del 10 del testo unico; alcuni oneri deducibili sono le spese
mediche, gli assegni
eventualmente corrisposti al coniuge legalmente separato o divorziato,
dunque gli assegni di mantenimento corrisposti al coniuge legalmente
separato o divorziato costituiscono per chi li eroga onere deducibile, anche i
contributi previdenziali e assistenziali eventualmente versati in ottemperanza a
disposizioni di legge che tutti i liberi professionisti versano nelle rispettive
casse di previdenza sono oneri deducibili, ancora i contributi versati a forme
pensionistiche complementari, infine un importo pari alla rendita catastale
dell’abitazione principale, proprio attraverso il riconoscimento di questo
specifico onere deducibile è possibile sostenere che il reddito prodotto dalla
prima casa non è sottoposto a tassazione. Una volta scomputati dal reddito
complessivo gli oneri deducibili è possibile definire il reddito imponibile, è al
reddito imponibile che sarà possibile applicare le aliquote progressive
dell’IRPEF che sono cinque e rispettivamente si tratta delle aliquote del 23%,
del 27%, del 38%, del 41% e del 43% quindi cinque diversi scaglioni.
Immaginiamo di aver già applicato le aliquote progressive al reddito imponibile
e la grandezza che ne risulta configura l’imposta lorda, ma l’imposta lorda non
corrisponde affatto all’imposta che il soggetto passivo è chiamato a versare
perché dall’imposta lorda occorre scomputare le detrazioni. Anche le
detrazioni sono voci di spesa che potrebbero essere state sostenute dal
soggetto passivo, il fatto però che si tratti di voci di spesa non toglie che si
tratta di un istituto profondamente diverso rispetto all’onere deducibile,
perché mentre l’onere deducibile è costitutito da voci di spesa che vengono
scomputate dal reddito complessivo, gli oneri detraibili o detrazioni
rappresentano voci di spesa che vengono in tutto o in parte scomputate
Diritto tributario Pagina 119
rappresentano voci di spesa che vengono in tutto o in parte scomputate
dall’imposta lorda. Entrambi gli istituti determinano la personalità del tributo,
ma in maniera profondamente diversa; il vantaggio più immediato
dell’estensione del catalogo degli oneri deducibili è per chi ha redditi molto
elevati, il vantaggio che invece acquisisce invece per l’estensione del catalogo
degli oneri detraibili è invece in capo ai soggetti che hanno redditi più bassi
perché si traducono in un vantaggio fiscale immediato: la riduzione
dell’imposta, mentre invece gli oneri deducibili sono una riduzione della base
imponibile quindi determinano una riduzione della progressività dell’imposta.
Per ricorrere ad opportuni esempi riguardo gli oneri detraibili sappiate che si
tratta di fattispecie estremamente eterogenee tra di loro, esiste una prima
grande categoria di oneri detraibili che è quella costituita dalle detrazioni per
carichi di famiglia quindi in virtù della composizione del nucleo familiare il
soggetto passivo può beneficiare di questa detrazione, non si tratta di spese
effettivamente sostenute, la detrazione per carichi di famiglia non esprime una
spesa effettivamente sostenuta per il familiare a carico, ma esprime
esclusivamente un onere forfettariamente stimato dal legislatore in
corrispondenza del fatto che il soggetto passivo ha alcuni familiari a carico.
Tant’è vero questo che il peso dell’onere detraibile decresce al crescere del
reddito complessivo, è questo che assicura la personalità del tributo, se la
detrazione per carichi di famiglia fosse in misura fissa sarebbe un controsenso
evidente, il peso detraibile è tanto maggiore quanto minore è il reddito
complessivo perché l’onere derivante dal carico familiare è estremamente più
elevato per chi dispone di un reddito basso, se invece si dispone di un reddito
elevato il peso dell’onere detraibile deve decrescere→principio progressività
del tributo.
Altra categoria di onere detraibile è quella per la tipologia del reddito
prodotto, studieremo quando ci occuperemo di reddito di lavoro dipendente,
che il nostro sistema non riconosce ai prestatori di lavoro dipendente la
deduzione degli oneri specifici sostenuti per la produzione di quel reddito,
quindi le spese sostenute dai lavoratori dipendenti per la produzione del
reddito di lavoro, per esempio le spese sostenute per viaggiare
quotidianamente sui mezzi pubblici per recarsi a lavoro, le spese
analiticamente sostenute non sono ammesse in deduzione, ma proprio per
ovviare alla rigidità di una simile scelta, cioè quella di evitare la deduzione
analitica delle spese sostenute dai prestatori di lavoro per la produzione del
reddito di lavoro dipendente, il legislatore ha concesso invece la detrazione
forfettaria delle spese sostenute, quindi per coloro che prestano attività di
lavoro dipendente è consentita una detrazione dall’imposta lorda. Anche qui la
detrazione è tanto più elevata quanto più basso è il reddito prodotto e
addirittura superata una certa soglia di reddito di lavoro dipendente, la
detrazione non c’è più quindi anche in questo senso la disciplina è orientata
per assicurare la personalità del tributo e la sua progressività. Questi sono gli
oneri detraibili che il nostro sistema riconosce pienamente e in entrambi i casi
si tratta di detrazioni forfettarie che nulla hanno a che fare con l’importo
effettivo delle spese sostenute. Esiste poi una terza categoria, non meno
Diritto tributario Pagina 120
effettivo delle spese sostenute. Esiste poi una terza categoria, non meno
importante, che è estremamente eterogenea perché al suo interno prevede
una serie di fattispecie rappresentative di spese effettivamente sostenute per
le quali però la detrazione non è concessa in misura piena, ma nei limiti del
19% dell’ammontare della spesa sostenuta, quindi qui viene in gioco la spesa
effettivamente sostenuta, che però non determina una detrazione piena della
spesa effettivamente sostenuta, la detrazione ammessa nei limiti del 19% della
spesa effettivamente sostenuta, talvolta addirittura entro limiti di soglia
massima, quindi la norma non si limita soltanto a stabilire la soglia del 19%
della spesa sostenuta, ma esprime anche una soglia quantitativa massima oltre
la quale la detrazione anche se fosse nella misura del 19% non sarebbe più
consentita. L’esempio più facile da ricordare è rappresentato dagli interessi
passivi pagati agli istituti di credito per i mutui contratti per l’acquisto della
prima casa, quindi se il soggetto passivo contrae un mutuo per l’acquisto della
prima casa di abitazione e se in dipendenza di questo mutuo dovesse pagare
alla banca interessi passivi questi interessi sarebbero detraibili dall’imposta
lorda nei limiti del 19% del loro ammontare, ma non oltre una soglia
quantitativa massima, superata la quale, gli eventuali interessi passivi pagati
all’istituto di credito rimarrebbero fiscalmente irrilevanti.
Quali sono questi oneri detraibili per i quali la detrazione è consentita nei limiti
del 19%? Per esempio talune spese mediche che non sono oneri deducibili per
le quali però c’è la detrazione, ancora per esempio le spese funebri, le spese
per la frequenza dei corsi universitari, i canoni di locazioni che dovessero
essere pagati per gli studenti universitari fuori sede… Una volta scomputate le
detrazioni si potrebbe immaginare che finalmente l’imposta possa essere
versata, ma non è così, perché ancora quella non è imposta netta, da quella
grandezza occorrerà ancora scomputare le ritenute d’acconto subite. Le
ritenute a titolo d’acconto eventualmente già versate dal sostituto sono
certamente scomputabili dall’imposta lorda, sono imposte gravanti sul
soggetto passivo che sono state già anticipate dal sostituto e che dunque
limitatamente a quell’importo non dovranno essere più versate, quindi le
ritenute a titolo d’acconto vanno certamente scomputate; ancora vanno
scomputati i crediti di imposta per le imposte pagate all’estero, questa
precisazione trova la sua giustificazione rispetto al fatto che i soggetti residenti
nel territorio dello stato pagano l’IRPEF per i redditi ovunque prodotti, ma se il
soggetto residente nel territorio dello stato produce un reddito in Francia, essa
non rinuncerà ad applicare le sue imposte su questo reddito, allora è chiaro
che l’italiano che produce reddito in Francia sconta intanto l’IRPEF in Francia e
quindi vanta un credito da valere in Italia per l’imposta già pagata in Francia.
Quindi dall’imposta lorda il soggetto passivo avrà diritto non solo a scomputare
le ritenute d’acconto già versate dal sostituto, ma anche i crediti di imposta per
le imposte già pagate all’estero e infine non dimenticate i versamenti a titolo
d’acconto già eseguiti in corso d’anno. Sapete che il soggetto passivo versa
l’IRPEF non solo in occasione del versamento del saldo, che peraltro interviene
nel periodo di imposta successivo, ma anche a titolo d’acconto in ben due
occasioni: a giugno e a novembre, quindi se intendiamo riferirci al debito IRPEF
Diritto tributario Pagina 121
occasioni: a giugno e a novembre, quindi se intendiamo riferirci al debito IRPEF
per l’anno 2020, nella nostra mente dovrà essere ben chiaro che i versamenti a
titolo d’acconto per quel debito vengono fatti una volta a giugno 2020, la
seconda volta a novembre 2020 e mentre poi il versamento del saldo sarà fatto
a giugno 2021 e allora in sede di presentazione della dichiarazione annuale a
settembre 2021, il
soggetto passivo dovrà menzionare nella liquidazione dell’imposta
computandola dall’imposta lorda anche i versamenti a titolo d’acconto già
effettuati a giugno e novembre 2020, quindi in definitiva dall’imposta lorda
scomputiamo gli oneri detraibili, ma anche crediti di imposta per le imposte già
pagate all’estero, ritenute d’acconto e versamenti già effettuati a titolo
d’acconto; ciò che residua sarà l’imposta netta, cioè l’imposta da versare a
saldo.
Quando il soggetto passivo presenta la dichiarazione annuale all’interno di
questa enumera tutti i passaggi di cui abbiamo parlato fin qui descrivendo le
modalità di determinazione dell’imposta netta, potrebbe verificarsi l’ipotesi
contraria e dunque che in luogo di un’imposta netta possa risultare anche un
credito? Cioè il caso di chi determina un’imposta lorda di 10 e poi a furor di
scomputazioni, prima le ritenute d’acconto subite, poi i versamenti a titolo
d’acconto eseguiti, poi i crediti d’imposta etc.… addirittura scende ai numeri
negativi, quindi arriva a liquidare -2→ è l’ipotesi della dichiarazione che si
chiude a credito, l’ipotesi di chi ha versato quando invece non avrebbe dovuto,
ha versato a titolo d’acconto, per esempio, più del debito d’imposta effettivo
che ha potuto quantificare solo a settembre 2021 e allora l’eccedenza del
versato sul dovuto è un credito da recuperare. Se io ho un debito di imposta
quantificato ed emergente la dichiarazione pari a 10.000 euro (imposta lorda)
e se scomputando ritenute d’acconto, somme versate a titolo d’acconto,
crediti d’imposta per imposte già pagate all’estero arrivo addirittura, non solo
ad azzerare questo debito, ma addirittura a scendere sotto lo zero, per cui
risulta che ho versato più di quello che avrei dovuto, ciò che ho versato in più
ho diritto a recuperarlo in virtù del fatto che ho versato più di quanto dovuto e
quindi non l’avrei dovuto fare e se ho versato in più l’ho fatto in ottemperanza
di disposizioni di legge che mi costringevano a versare per esempio gli acconti
in una determinata misura e allora però avrò diritto alla restituzione.
L’emersione di un credito, che è ben possibile a conclusione della dichiarazione
annuale, implica l’emergere di due diverse possibilità: la prima è che il credito
può essere chiesto a rimborso, quindi all’interno della dichiarazione annuale il
soggetto passivo che determini un credito a suo favore può immediatamente
chiedere il rimborso compilando la specifica opzione all’interno della
dichiarazione dei redditi; la seconda opzione possibile è quella di scomputare il
credito, che altrimenti si avrebbe diritto ad avere rimborsato, dalle imposte
dovute: o la medesima imposta, in questo caso se si sceglie di fare una
compensazione verticale perché si tratta della medesima imposta, quindi
IRPEF, dovrò attendere l’anno successivo, quindi se l’anno successivo avrò un
debito potrò ritenerlo estinto compensando il credito risultante dall’anno
precedente, questa è l’ipotesi della compensazione verticale, ma la
Diritto tributario Pagina 122
precedente, questa è l’ipotesi della compensazione verticale, ma la
compensazione del credito è possibile anche orizzontalmente se la
compensazione vorrà farsi orizzontale questo significa che il credito potrà
essere utilizzato anche per versare tributi diversi nello stesso periodo di
imposta senza attendere l’anno successivo. Considerate che il contribuente che
è soggetto passivo di IRPEF è contemporaneamente soggetto passivo di
moltissimi altri tributi pensate l’IVA, l’IRAP, i tributi locali, quel credito IRPEF
può essere utilizzato anche per effettuare i pagamenti e quindi determinare
l’estinzione delle obbligazioni a titolo di tributi diversi. Se dalla dichiarazione
emerge un credito di imposta di 2.000 euro potrà utilizzare in tutto o in parte
quel credito per estinguere orizzontalmente il debito di imposta da altro titolo
tipo IVA, IRAP, IMU etc.… La sorte del credito che risulta dalla dichiarazione è
duplice o rimborso o utilizzo in compensazione.
Un altro istituto che ha determinato una fortissima erosione del principio di
progressività è il regime forfettario che è stato concesso alle piccole imprese e
ai piccoli professionisti; le persone fisiche che esercitano attività di impresa o i
lavoratori autonomi sono ammessi a godere di un regime forfettario se
percepiscono ricavi (imprenditori) o compensi (professionisti) in misura non
superiore a 65.000 euro. Questo regime forfettario è un regime di grandissimo
favore perché questi soggetti che conseguono all’interno del periodo di
imposta ricavi o compensi non superiori a 65.000 euro
applicano esclusivamente un’imposta sostitutiva di una serie numerosa di
tributi, come l’IRPEF, le addizionali regionali e comunali e l’IRAP, quindi tutti
questi tributi vengono sostituti, non vengono più applicati, e in loro
sostituzione viene applicata l’unica aliquota nella misura del 15%. E’ un regime
sostitutivo che determina l’estromissione radicale di questi redditi dal regime
progressivo dell’IRPEF, perché vengono sottratti dall’applicazione del regime
progressivo per consentire l’applicazione dell’aliquota agevolata nella misura
del 15%, anche questo è un tema sul quale l’attuale governo si appresta a
profondissima riflessione, è altamente probabile che il regime venga soppresso
perché determina una deroga vistosissima al principio di progressività ritenuta
ormai ampiamente ingiustificata.

Diritto tributario Pagina 123


LEZIONE 16 (20/04/21)
martedì 26 ottobre 2021 19:52

Riprendiamo il tema con il quale avevamo concluso la lezione di ieri: il regime sostitutivo, o meglio
dire forfettario, che si applica nei confronti degli esercenti di attività d’impresa e di lavoro autonomo
che conseguono ricavi o compensi per importi non superiori a 65.000 €. Si tratta di un regime
agevolativo vero e proprio perché sottrae alla progressività dell’Irpef un’ampia fetta di contribuenti
che altrimenti si troverebbero ordinariamente ad applicare le aliquote progressive.
L’ultimo argomento che attiene alle questioni di carattere generale è quello dei redditi soggetti a
tassazione separata. La relativa disciplina, di cui agli artt. 17 e 19 del T.U. (917/86), è molto
peculiare: è riservata a particolari forme di reddito formazione pluriennale. Si tratta, cioè, di proventi
conseguiti dalle persone fisiche in occasioni estremamente specifiche (la più importante delle quali è
costituita dalla percezione del TFR: trattamento di fine rapporto di lavoro subordinato), fattispecie
per le quali il legislatore ha espressamente optato per l’applicazione di un regime speciale. La scelta,
rispetto al regime fiscale, di queste somme percepite in occasione di particolari circostanze, è
determinata proprio dall’opportunità di mitigare il regime fiscale in considerazione della formazione
pluriennale di questi redditi.
L’ipotesi più importante è, appunto, rappresentata dai trattamenti di fine rapporto (TFR) → cioè le
somme che vengono percepite dal prestatore di lavoro una tantum nel momento in cui l’attività
lavorativa viene cessata. Il TFR, che viene indubbiamente percepito al momento della cessazione
dell’attività lavorativa, è pacificamente una somma di denaro (a volte particolarmente elevata) che
matura in considerazione del numero degli anni in cui si protrae il rapporto di lavoro dipendente e
che sarà tanto più elevata quanto più sono gli anni in cui il rapporto di lavoro si è protratto. Stando
alle regole ordinarie, si tratterebbe di una somma di denaro che andrebbe a incidere pesantemente
sulla determinazione del reddito complessivo e che, plausibilmente, finirebbe per essere sottoposta
a tassazione attraverso l’applicazione di un’aliquota marginale estremamente elevata: quindi
finirebbe con lo scontare un regime fiscale particolarmente gravoso.
Proprio per scongiurare questo pericolo (= quindi per evitare che il TFR venga sottoposto ad
un’aliquota marginale eccessivamente elevata in considerazione della formazione pluriennale della
somma percepita dal prestatore di lavoro), il legislatore introduce questo regime peculiare di cui, in
particolare, all’art. 19 del T.U. . Il regime essenzialmente consta di particolari modalità di
determinazione della base imponibile: questo significa che non sarà l’intera somma percepita a titolo
di trattamento di fine rapporto a costituire oggetto della tassazione, ma soltanto una sua parte che
sarà determinata secondo le regole previste dall’art. 19. La peculiarità della disciplina è determinata
dal fatto che l’imposta corrispondente al TFR viene liquidata direttamente dall’ufficio: non è, cioè,
auto-liquidata dal contribuente (come normalmente accade per l’applicazione dell’imposta sul
reddito delle persone fisiche), ma è demandata esclusivamente all’amministrazione finanziaria, la
quale, ricevuta la comunicazione dal datore di lavoro dell’erogazione del TFR, procede con il calcolo
della base imponibile a cui applicare un’aliquota media (quindi non le aliquote progressive dell’Irpef)
che verrà determinata tenendo in considerazione le aliquote applicate negli ultimi 5 anni
antecedenti a quello in cui il diritto alla percezione del TFR è maturato. Si tratta di un calcolo per
certi aspetti particolarmente complesso e questo giustifica la ragione per cui è l’amministrazione
finanziaria a provvedere alla liquidazione dell’imposta dovuta. La formalità, quindi il procedimento
attraverso il quale poi l’imposta viene comunicata al contribuente, prevede che si debba procedere
all’iscrizione a ruolo. In questo caso, quindi, l’iscrizione a ruolo costituisce una modalità di
riscossione fisiologica dell’imposta dovuta sul TFR, cosa che non eravamo abituati a immaginare se si
considera che nella maggior parte dei casi l’iscrizione a ruolo interviene in una fase cd. patologica del
rapporto che intercorre tra amministrazione finanziaria e contribuente → proprio l’applicazione
dell’Irpef sul TFR costituisce, invece, un chiaro esempio di occasione in cui l’iscrizione a ruolo
costituisce una forma ordinaria di riscossione dell’imposta dovuta su questo particolare provento.
Concluse tali considerazioni di carattere generale, trattiamo le singole categorie di reddito (= 6).
1. La prima categoria di reddito è costituita dai redditi fondiari.
Sono tali quei redditi che ineriscono ( / che derivano dal possesso di) terreni e fabbricati ubicati nel
territorio dello Stato e che siano iscritti o che devono essere iscritti, con attribuzione di rendita, nel
catasto dei terreni e/o nel catasto dei fabbricati.

Diritto tributario Pagina 124


catasto dei terreni e/o nel catasto dei fabbricati.
È necessario che i terreni ai fabbricati siano ubicati nel territorio dello Stato perché è ben possibile
che la persona fisica (= quindi il soggetto passivo) sia, per esempio, proprietario di un terreno o di un
fabbricato che non sia ubicato nel territorio dello Stato. Dunque, qual è il reddito prodotto da terreni
e fabbricati che non sono ubicati nel territorio dello stato? Certamente non sono queste fattispecie
che sfuggono all’applicazione dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, ma è vero anche che se
queste ipotesi ci sono non sarebbero da ascrivere alla categoria dei redditi fondiari: quindi, se il
soggetto passivo dovesse possedere terreni o fabbricati ubicati fuori dal territorio dello Stato (va da
sé che non sarebbero iscritti né nel catasto dei terreni né nel catasto dei fabbricati perché, appunto,
si tratta di beni non censiti nel nostro catasto), questi cespiti sarebbero produttivi non di reddito
fondiario, ma di reddito diverso (quindi finirebbero per essere ascritti ad una diversa categoria
reddituale). Questa è la ragione per la quale è richiesto espressamente dal T.U. che si tratti di terreni
e fabbricati ubicati nel territorio dello Stato.
Producono reddito fondiario esclusivamente i terreni che sono adibiti all’attività agricola: per cui non
producono reddito quei terreni che sono, per esempio, asserviti ad un fabbricato. Pensate alle
pertinenze: ci sono moltissimi terreni che sono pertinenze di fabbricati → laddove il terreno sia
pertinenza di fabbricato non sarebbe autonomamente produttivo di un reddito agrario (e non
sarebbe, peraltro, neppure produttivo di un reddito di fabbricati, perché, in quel caso, come
vedremo, l’unico cespite produttivo di reddito sarebbe appunto il fabbricato che sul terreno insiste).
Dunque, questi cespiti (terreni e fabbricati siti nel territorio dello Stato) producono reddito fondiario.
Ma in capo a chi? In capo al soggetto che li possiede in quanto proprietario o comunque titolare di
un altro diritto reale di godimento: è quindi necessario che ci sia un titolo di particolare tipologia che
autorizza questi soggetti a ritenersi possessori del reddito che deriva, appunto, dal possesso dei
cespiti medesimi.
Entrando nel dettaglio di questa particolare categoria reddituale, la prima caratteristica (che
accomuna, peraltro, tanto il reddito dei terreni quanto il reddito dei fabbricati) è che si tratta di
redditi, quelli fondiari, che sono sottoposti a tassazione indipendentemente dalla loro effettiva
percezione: i redditi fondiari non sono redditi per i quali si applica il principio di cassa.
[I criteri di imputazione a periodo del reddito possono essere teoricamente due:
1) quello governato dal principio di cassa;
2) quello che applica il principio di competenza.]
Essendo i redditi fondiari sottoposti a tassazione indipendentemente dalla loro effettiva percezione,
è il semplice possesso del cespite che determina necessariamente l’obbligo di sottoporne a
tassazione il relativo reddito secondo le modalità che vedremo.
Il reddito dei terreni
I terreni sono sottoposti a tassazione nella misura in cui il terreno sia iscritto nel catasto dei terreni.
L’unità elementare iscrivibile nel catasto dei terreni è la particella: i terreni, pertanto, sono iscritti nel
catasto dei terreni per particelle. La particella catastale è una porzione di terreno appartenente ad
un medesimo possessore che presenta alcune caratteristiche: l’essere omogenea per qualità e per
classe. La particella ha, dunque, delle caratteristiche qualitative assolutamente continue e
omogenee. Quando diciamo che un terreno costituisce una particella catastale, intendiamo rilevare
che si tratta di una porzione continua di terreno che è adibita: - ad un’unica tipologia di coltivazione
→ in questo consiste quello che definiamo “qualità” e altresì - ad una medesima classe → riferendoci
al grado di produttività del terreno, cioè la sua capacità di coltivazione.
La particella iscritta nel catasto dei terreni è una porzione continua di terreno alla quale il catasto dei
terreni, attraverso l’attività di classamento, attribuisce il reddito. Il reddito, quindi, è attribuito dal
catasto attraverso l’attività di classamento. Il reddito dei terreni è un reddito che non ha una
qualificazione unitaria perché il catasto dei terreni attribuisce e a ciascuna particella due diverse
tipologie di reddito:
⁃ il reddito dominicale
⁃ il reddito agrario
Quindi, ad ogni particella corrisponde sia il reddito dominicale sia il reddito agrario. Il reddito dei
terreni viene sottoposto a tassazione attraverso quattro diversi elementi, > due dei quali sono
sottoposti a tassazione attraverso il reddito dominicale: quindi la grandezza che esprime la ricchezza
da sottoporre a tassazione la si rintraccia nella determinazione del reddito dominicale; > le altre due
caratteristiche, invece, esprimono una manifestazione di ricchezza da sottoporre a tassazione, che
trovano la migliore identificazione nel reddito agrario.
Precisamente:

Diritto tributario Pagina 125


Precisamente:
⁃ Le caratteristiche imputabili al reddito dominicale sono quelle espressive del diritto di proprietà o
comunque del diritto sul terreno. Quali sono? Da una parte : la terra nel suo stato naturale, la
naturale fertilità del terreno; dall’altra : i capitali stabilmente investiti sul terreno. Queste due
caratteristiche esprimono la manifestazione della capacità contributiva che si manifesta attraverso la
sottoposizione a tassazione del reddito dominicale (lo dice la parola stessa: è il reddito del dominus,
di chi esercita il diritto di proprietà sul terreno).
⁃ Le altre due caratteristiche di ciascuna particella di terreno, invece, sono rappresentate: da una
parte, dal cd. capitale di esercizio, quindi dal capitale investito non stabilmente, ma in ragione dello
svolgimento dell’attività agricola sul fondo; dall’altra, il lavoro prestato. Queste due grandezze sono,
invece, rappresentate nella manifestazione di capacità contributiva espressa dal reddito agrario.
Perché questa diversa imputazione delle caratteristiche a due diversi redditi prodotti dal terreno?
Perché mentre il reddito dominicale è il reddito del dominus, il reddito agrario è, teoricamente, il
reddito anche di chi potrebbe non essere il proprietario del terreno: è imputabile a chi, per esempio,
potrebbe essere semplicemente il conduttore del terreno, cioè che esercita sul terreno l’attività
agricola. Quindi nel caso in cui, per esempio, un terreno fosse dato un affitto, la conseguenza sul
piano fiscale sarebbe che → il reddito dominicale continuerebbe ad essere imputato al dominus (a
chi è proprietario del terreno); mentre il reddito agrario dovrebbe essere imputato non più al
dominus (che non esercita sul fondo l’attività agricola), ma al conduttore del fondo e quindi
all’affittuario che esercita l’attività agricola sul fondo.
Queste precisazioni devono essere completate con alcune notazioni di carattere generale,
caratteristiche, cioè, che valgono tanto per il reddito dominicale quanto per il reddito agrario.
Reddito dominicale e reddito agrario sono, infatti, redditi medi, ordinari e continuativi:
• medi (e a questa caratteristica si aggiunge anche il riferimento all’essere un reddito continuativo →
quindi medio-continuativo): significa che viene calcolato dal catasto tenendo in considerazione un
arco temporale molto esteso. Questa esigenza di determinare il reddito tenendo a riferimento un
arco temporale ampio è data dal fatto che la redditività di un fondo è certamente legata ai cicli delle
colture: ad anni di particolare redditività possono seguire, invece, altri estremamente infelici proprio
perché la terra, normalmente, va incontro a cicli di coltivazione alternati. Di questo occorre
naturalmente tenere conto nella produzione del reddito che deve essere necessariamente medio,
ordinario e continuativo.
• ordinari: perché è il reddito determinato catastalmente attribuibile al coltivatore con capacità
normali di coltivazione. Quindi è il reddito mediamente attribuibile a chiunque svolga un’attività sul
terreno.
• continuativi: sono redditi attribuiti direttamente all’oltrepasso dei terreni.
Il reddito agrario è tra i due quello che mostra, sotto il profilo fiscale, le caratteristiche più particolari
e complesse. Perché? Perché il reddito agrario è il reddito tipico dell’impresa agricola/agraria: è il
reddito di chi esercita l’attività di coltivazione del terreno. Il legislatore ha mostrato grande interesse
e attenzione nella disciplina di questa particolare categoria di reddito, il cui studio attento è di
fondamentale rilevanza perché si tratta di un tema che presenta profili di continuità particolarmente
importanti con un’altra categoria reddituale, il cd. reddito d’impresa. Si tratta di temi fortemente
continui. Quando parliamo di reddito agrario intendiamo, per la verità, riferirci ad una serie di
fattispecie piuttosto eterogenee. Il reddito è certamente agrario quando deriva da alcune particolari
attività e non altre, perché se si ricadesse nella fattispecie di queste “altre attività“ si dovrebbe,
invece, più correttamente configurare il reddito di impresa.
Le attività che con certezza determinano sempre reddito agrario sono:
⁃ l’attività di coltivazione del terreno; ⁃ la silvicoltura.
Seguono poi altre due attività sulle quali è necessario fare opportuni distinguo → le attività che
possono svolgersi sul fondo non sempre sono attività di pura e semplice coltivazione del fondo o di
silvicoltura, ma potrebbe trattarsi anche di attività diverse che necessariamente si svolgono su un
fondo, e cioè :
⁃ l’attività di allevamento. Essa presuppone che ci sia un terreno sul quale l’attività viene svolta.
Anche i redditi che propanano dall’attività di allevamento sono redditi che si considerano agrari a
condizione, però, che non vengano superati alcuni limiti: L’attività di allevamento produce reddito
agrario a patto e condizione che i capi di bestiame siano nutriti con mangimi ottenibili per almeno
1/4 dalla coltivazione del fondo. Se i mangimi necessari per l’alimentazione del bestiame dovessero
superare questo limite (e quindi significa che l’attività di allevamento è svolta con modalità

Diritto tributario Pagina 126


superare questo limite (e quindi significa che l’attività di allevamento è svolta con modalità
intensiva), allora il reddito che ne deriverebbe dall’attività di allevamento non sarebbe più agrario,
ma reddito di impresa. Cambierebbe, quindi, non soltanto la modalità di determinazione del reddito:
è evidente che chi esercitasse un’attività di allevamento con queste particolari caratteristiche, non
godrebbe più del particolare regime agevolativo che vige per chi esercita attività agricola. Se
prendessimo visione di un certificato rilasciato dal catasto attestante la consistenza di un terreno,
noteremo che il reddito dominicale e il reddito agrario imputabile ad un terreno sono redditi
estremamente esigui: potrebbe trattarsi di qualche decina di euro o, in ogni caso, non più di qualche
centinaio di euro. Quindi, sottoporre a tassazione i redditi derivanti da un’attività di allevamento nei
limiti del reddito agrario costituisce, di fatto, una grossissima agevolazione: significa limitare la
rilevanza fiscale dell’attività a una cosa imponibile estremamente esigua. Se questi limiti dovessero
essere superati (e dunque l’attività di allevamento diventa un’attività di allevamento preponderante
rispetto all’attività di coltivazione del fondo → è questo il senso del limite dei mangimi ottenibili dal
fondo per l’alimentazione del bestiame), significa che il reddito rinveniente dall’esercizio di attività di
allevamento genererebbe necessariamente reddito di impresa, con l’abbandono definitivo di questo
regime particolarmente incentivante allo svolgimento dell’attività agricola o al massimo di
allevamento (nei limiti che abbiamo ricordato).
Ma oltre l’attività agricola in senso stretto (definita come attività di coltivazione del fondo e
silvicoltura) e oltre all’attività di allevamento, sul fondo agricolo si potrebbero svolgere anche:
⁃ le cd. attività connesse. Sono tali quelle che non esauriscono l’oggetto della propria attività nella
semplice coltivazione del fondo, ma si dedicano anche (e direi prevalentemente) alla manipolazione,
trasformazione e commercializzazione dei prodotti derivanti coltivazione del fondo. Quindi, nel caso
in cui l’attività agricola non è più un’attività che si esaurisce, per esempio, nella coltivazione degli
ulivi, raccolta delle olive e vendita delle olive (quindi: produzione di frutti naturali del terreno e loro
cessione a terzi), ma è, invece, un’attività che si impegna anche nella manipolazione e nella
trasformazione del prodotto stesso → allora significa che l’impresa agricola ha per oggetto
un’attività connessa, non ha più per oggetto soltanto un’attività di coltivazione in senso stretto.
ESEMPIO. Le imprese che hanno per oggetto la produzione di olio: altro è l’impresa agricola che si
occupa di coltivazione di ulivi e cessione di olive a terzi, altro ancora , invece, è l’impresa che coltiva
gli ulivi, raccoglie le olive, ma si occupa poi anche di trasformare questo prodotto per renderlo olio
da cedere a terzi (= in questa ipotesi non ci troviamo più nell’ambito dell’impresa agricola in senso
stretto, ma piuttosto nel diverso ambito delle attività connesse). Le attività connesse sono attività
per le quali il reddito che si produce è reddito agrario solo a patto e condizione che vengano
rispettate alcune caratteristiche; dove queste caratteristiche non ci fossero, il reddito non è più
agrario, ma è reddito di impresa. Un imprenditore che non si limita alla coltivazione del fondo ma
esercita un’attività connessa, potrà continuare a dichiarare il reddito agrario quando? Sarà reddito
agrario il reddito di chi impiega nell’attività di trasformazione, manipolazione e conservazione dei
prodotti almeno il 50% di prodotti rinvenienti dalla coltivazione del fondo. Se i prodotti utilizzati per
l’attività connessa non derivano per almeno il 50% dalla coltivazione del fondo, allora vorrà dire che
il reddito prodotto sarà reddito di impresa e non più reddito agrario. ESEMPIO: un fondo nel quale
viene esercitata l’attività di produzione di olio → se almeno il 50% dei prodotti necessari alla
realizzazione dell’olio proviene dalla coltivazione del fondo, il reddito che ne deriva, pur trattandosi
di attività connessa, resta reddito agrario; se, invece, la quantità - in termini percentuali - delle
materie da utilizzare per la realizzazione del prodotto finito sono materie prime che derivano
prevalentemente da soggetti terzi e non dalla coltivazione del fondo, il reddito che ne deriva sarà,
invece, da imputare alla diversa categoria del reddito di impresa. (Tale riferimento fatto vale
esclusivamente per le attività connesse e quindi non vale per l’allevamento, in quanto non attività
connessa).
In sintesi: affinché il reddito che derivi dalle attività connesse possa essere considerato “agrario”
occorre che i prodotti agricoli utilizzati nell’attività connessa derivino per almeno il 50% dalla
coltivazione del fondo; se invece l’impresa, per soddisfare le esigenze di approvvigionamento
dell’attività connessa, si trova costretta ad approvvigionarsi da terzi tanto da sforare la soglia del
50% (quindi per più del 50%) perché il suo fondo non produce a sufficienza materie prime, il reddito
che deriva dall’attività connessa sarà del reddito di impresa.
Il reddito dei fabbricati
I redditi prodotti dai fabbricati sono, anche questi, determinati catastalmente. Naturalmente il
reddito dei fabbricati è attribuito attraverso il catasto dei fabbricati. Unità elementare rispetto alla
quale occorre determinare il reddito non è più, naturalmente, rappresentata dal terreno, ma dalla

Diritto tributario Pagina 127


quale occorre determinare il reddito non è più, naturalmente, rappresentata dal terreno, ma dalla
cd. unità immobiliare, che è per l’appunto l’unità elementare che costituisce oggetto di valutazione
da parte del catasto dei fabbricati e rispetto alla quale occorre che si provveda all’attribuzione della
rendita catastale. L’unità immobiliare viene iscritta nel catasto dei fabbricati e tale iscrizione viene
effettuata sulla base di alcune peculiari caratteristiche dell’unità immobiliare, quali:
⁃ la zona censuaria, naturalmente legata all’ubicazione dell’unità immobiliare;
⁃ la categoria e la classe, che, invece, hanno a che fare con caratteristiche diverse: . anzitutto con la
destinazione dell’unità immobiliare e poi con la sua qualità.
L’inserimento dell’unità immobiliare all’interno del catasto dei fabbricati viene eseguito su iniziativa
del soggetto che è obbligato a dichiarare l’esistenza dell’unità immobiliare al catasto. Tale
operazione prende la denominazione di accatastamento: è il possessore dell’unità immobiliare che,
una volta completata l’attività di costruzione, deve obbligatoriamente dichiarare la nuova
costruzione al catasto proponendo la rendita da attribuire.
Notiamo come qui il procedimento sia molto diverso rispetto a quello visto in precedenza perché è
chiaro che i fabbricati siano fabbricati di nuova costruzione: non si tratta di un cespite che esiste in
natura, bensì di un cespite che costituisce oggetto di un’attività di costruzione da parte del
possessore, il quale, una volta ultimata l’attività di costruzione, è obbligato a farne dichiarazione al
catasto dei fabbricati proponendo la rendita catastale. Quindi è il dichiarante che, direttamente
procedendo all’accatastamento proprio sulla base delle valutazioni richiamate poc’anzi (zona
censuaria categoria e classe), propone all’agenzia delle entrate la rendita da attribuire al fabbricato.
L’accatastamento viene pertanto eseguito direttamente dall’agenzia delle entrate che può
alternativamente prendere due posizioni:
> o aderire alla proposta di rendita fatta da chi provvede alla presentazione della domanda di
accatastamento (dal possessore);
> oppure può modificarla → l’agenzia delle entrate può anche dissentire rispetto alla rendita
proposta da chi ha presentato la domanda di accatastamento. Nell’eventualità in cui l’agenzia delle
entrate ritenga di dissentire, dovrà notificare all’intestatario dell’unità immobiliare il diverso
provvedimento con cui l’agenzia determina la nuova e diversa rendita catastale.
Il procedimento prevede che, nell’eventualità in cui sia decorso un anno dal deposito della domanda
di accatastamento senza che l’agenzia delle entrate abbia notificato un diverso provvedimento, la
rendita proposta dal dichiarante s’intende condivisa → se non rettificata, si forma una sorta di
silenzio-assenso sulla rendita proposta da chi procede alla presentazione della domanda di
accatastamento. Con una precisazione però: il fatto che l’agenzia delle entrate non notifichi nei 12
mesi successivi un nuovo atto attributivo della rendita, non significa però che l’agenzia delle entrate
si spogli definitivamente di questo potere. È vero che si forma il silenzio-assenso e quindi la rendita
proposta s’intende condivisa da parte dell’agenzia delle entrate, ma nulla toglie che l’agenzia delle
entrate, anche in un momento
successivo, possa intervenire modificando la rendita proposta. La formazione del silenzio-assenso
autorizza semplicemente il possessore a ritenere giuridicamente condivisa la rendita proposta, ma
questo -per l’appunto- non priva l’agenzia delle entrate del potere di rettificare in un momento
successivo ancora la rendita proposta (naturalmente, anche in questo caso, il provvedimento
modificativo della rendita dovrà essere notificato al possessore).
Il reddito dei fabbricati, così come quello dei terreni, è sicuramente un reddito medio ordinario e
continuativo, ma soffre di una fortissima eccezione.
Secondo la regola generale viene previsto che il reddito prodotto dai fabbricati sia esclusivamente
quello determinato catastalmente ed espresso nei limiti della cd. rendita catastale. Visualizzando un
certificato catastale di un fabbricato, si noterà come normalmente (ipotesi media) una casa di
abitazione zona censuaria media e classe media, potrà avere una rendita catastale attribuita di
qualche centinaia di euro e non di più. Dunque, quando parliamo di reddito medio ordinario e
continuativo intendiamo riferirci ad una scelta esplicita del legislatore che sottopone a tassazione il
reddito prodotto dai fabbricati in modalità estremamente ridotte. Questa scelta naturalmente si
scontra con un’esigenza che non può essere negata: una cosa è immaginare l’affitto di un fondo
rurale su cui il conduttore può esercitare l’attività agricola (normalmente l’affitto del fondo rustico è
regolato contrattualmente presso la corresponsione di somme particolarmente esigue); altra cosa è,
invece, immaginare la locazione di fabbricati → prassi largamente diffusa, la cessione di locazione di
fabbricati determina per il locatore redditi che possono essere anche particolarmente elevati.
Sarebbe quindi fuor di luogo ipotizzare che il locatore, concedendo in locazione un fabbricato, debba
(o possa) essere sottoposto a tassazione ancora nei limiti della rendita catastale: è una scelta che il

Diritto tributario Pagina 128


(o possa) essere sottoposto a tassazione ancora nei limiti della rendita catastale: è una scelta che il
nostro legislatore ha naturalmente ripudiato fin da subito precisando
la prima (nonché la più importante) deroga alla regola generale (che vuole che i fabbricati siano
sottoposti a tassazione attraverso la rendita catastale), stabilendo che → tutte le volte in cui i
fabbricati sono concessi in locazione, il reddito da sottoporre a tassazione non sarà più quello
rappresentato dalla rendita catastale, ma sarà invece rappresentato dal canone annuo di locazione.
C’è una differenza significativa. Esempio: immaginando che una casa di civile abitazione abbia una
rendita catastale di 400€ , se la stessa unità immobiliare fosse concessa in locazione è prevedibile
che il locatore possa, invece, conseguire un canone annuo di locazione che, per esempio, potrebbe
arrivare fino a 6000 o 7000 €. Questa è la ragione per la quale la prima eccezione importante alla
regola generale (che vorrebbe che i redditi dei fabbricati siano sottoposti a tassazione nei limiti della
rendita catastale→ quindi sarà la rendita catastale a costituire base imponibile a cui applicare le
aliquote progressive dell’Irpef) è proprio rappresentata dai fabbricati concessi in locazione. Questa
deroga (rappresentata dagli immobili locati) prevede, dunque, che la base imponibile da sottoporre
a tassazione non sia più la rendita catastale, ma sia il canone annuo di locazione, ridotto
esclusivamente del 5%. Perché? Perché il legislatore presume che questo 5% del canone annuo
possa essere ben rappresentativo delle spese deducibili (a questo punto solo forfettariamente) per
l’immobile concesso in locazione. Quindi, chi concede un immobile in locazione non può decurtare
dal canone annuo le spese che abbia effettivamente sostenuto per il mantenimento del cespite,
potrà, a titolo puramente forfettario
ridurre questo canone di un importo non eccedente il suo 5%, rappresentativo -appunto- delle spese
sostenute a titolo forfettario. Ciò che residua sarà oggetto di applicazione dell’imposta e quindi
costituirà base imponibile Irpef. Una peculiarità certamente da ricordare è rappresentata dal fatto
che i canoni di locazione sono sottoposti a tassazione anche se non vengono percepiti: quindi, non
importa affatto che l’inquilino sia moroso (cioè che non corrisponda il canone di locazione), la
disciplina prevede che il canone debba essere comunque sottoposto a tassazione da parte del
locatore anche nella misura in cui non sia stato effettivamente percepito. Unico rimedio a questa
regola tanto rigida è rappresentato dall’intervenuto sfratto: > se è intervenuto lo sfratto per
morosità, a quel punto il locatore potrà essere autorizzato a non sottoporre a tassazione i canoni che
in effetti non sono stati percepiti; > ma fino a quando non interviene lo sfratto per morosità i canoni
di locazione devono essere regolarmente sottoposti a tassazione. Questa è l’importante deroga alla
disciplina ordinaria dei redditi di fabbricati.
Ma questa deroga ha, a sua volta, subìto nel corso degli anni una consistente deroga (deroga alla
deroga). La deroga alla deroga è rappresentata dalla cd. cedolare secca. Il regime rappresentato da
questo istituto prevede che gli immobili concessi in affitto e che genererebbero il reddito da
sottoporre all’applicazione delle aliquote progressive Irpef, possono invece essere sottoposti
all’applicazione di un’imposta sostitutiva: la cedolare secca prevede che il canone di locazione possa
essere sottoposto a tassazione fuori dalla base imponibile Irpef, attraverso l’applicazione di
un’aliquota unica del 21%, che addirittura si riduce al 10% nell’ipotesi in cui il canone percepito
derivi da un contratto particolare che prevede l’applicazione del cd. canone concordato. Quindi, se il
canone percepito è un canone concordato (si tratta di un particolare canone che risponde a requisiti
previsti da una vecchia legge del 1978) l’aliquota unica applicabile addirittura scende al 10%. È, con
tutta evidenza, un regime speciale che consente di estrapolare dalla base imponibile Irpef i canoni di
locazione. Questo regime della cedolare secca era originariamente riservato esclusivamente ai
canoni di locazione percepiti per unità abitative (unità immobiliari destinate all’abitazione);
successivamente questa misura è stata estesa anche ad altre tipologie di unità immobiliari e questo
ha determinato una forte espansione nell’area di operatività di questo istituto che oggi, invece, si
applica anche agli immobili ad uso commerciale. Quindi, ampie fette di base imponibile (soprattutto
dei proprietari di unità immobiliari) vengono sottratte all’applicazione dell’imposta progressiva,
consentendo l’applicazione di un’imposta sostitutiva (sostitutiva perché, in realtà, la cedolare secca
non si sostituisce soltanto all’applicazione dell’Irpef, ma anche all’imposta di bollo e di registro a cui
andrebbe incontro la registrazione del contratto di locazione: quindi è una vera e propria imposta,
per l’appunto, sostitutiva, che consente l’applicazione di un regime fiscale di particolarissimo favore,
sottraendo al reddito complessivo i canoni di locazione).
Quindi, rispetto a questo complesso tema va ricordata:
⁃ la regola generale;
⁃ la deroga fondamentale, in genere applicabile a tutti i fabbricati destinati alla . locazione;
⁃ e poi la deroga alla deroga, che è costituita dall’istituto della cedolare secca.

Diritto tributario Pagina 129


⁃ e poi la deroga alla deroga, che è costituita dall’istituto della cedolare secca.
Un ultimo profilo a proposito dei redditi prodotti dei fabbricati. Abbiamo fatto riferimento alla
circostanza che i fabbricati sono sottoposti a tassazione sulla base della rendita catastale (questo
vorrebbe la regola generale). Questo vale per le persone fisiche ed in particolare per le persone
fisiche che non svolgono attività di impresa → se i fabbricati fossero posseduti da un’impresa e, in
particolare, da un’impresa che li utilizza per lo svolgimento dell’attività d’impresa, questi sarebbero
immobili strumentali. In queste ultime ipotesi accade che la rendita catastale sarebbe certamente
sottoposta a tassazione, ma con una differenza significativa sotto il profilo del regime giuridico
perché: > mentre nel primo caso, la rendita catastale costituisce oggetto del reddito del fabbricato e
va quindi dichiarata nel quadro dei redditi di fabbricati; > nel secondo caso, la rendita catastale
concorre alla determinazione del reddito di impresa, quindi perde la sua natura tipica di reddito di
fabbricato e costituisce, invece, componente positivo di cui tenere conto nella determinazione del
reddito di impresa (proprio perché l’immobile è utilizzato nello svolgimento dell’attività d’impresa).
Quindi, in quest’ultimo caso, la rendita catastale non costituisce un elemento autonomo che integra
il reddito dei fabbricati, ma diventa componente (insieme a tanti altri) che rileva ai fini della
determinazione del reddito di impresa.
Quanto ho detto fin qui a proposito dei fabbricati strumentali implica anche la necessità di chiarire la
differenza che intercorre tra:
• fabbricati strumentali per destinazione
• fabbricati strumentali per natura.
I fabbricati strumentali per destinazione sono quelli destinati ed utilizzati esclusivamente
nell’esercizio dell’impresa o nell’esercizio di altre professioni (perché anche il professionista si può
avvalere nell’esercizio della sua attività professionale di un immobile strumentale). È, quindi, il
possessore che imprime questa particolare destinazione all’immobile; è l’impresa o il professionista
che sceglie che l’immobile venga destinato all’esercizio della propria attività: imprime all’immobile la
natura strumentale.
Gli immobili, invece, sono strumentali per natura (e non per destinazione) quando presentano
caratteristiche tali da non poter essere destinati ad altro uso, se non previa radicale trasformazione.
Quindi sono immobili che senza radicali trasformazioni non avrebbero alcuna possibilità di essere
diversamente impiegati: sono strumentali per natura. Ipotesi tipica è rappresentata dagli impianti di
distribuzione di carburante: sono certamente immobili strumentali per natura e soltanto previa
radicale trasformazione potrebbero essere destinati ad altro utilizzo.
2) La seconda categoria di reddito è costituita dai redditi di capitale.
I redditi di capitali sono disciplinati dall’art. 44 del T.U. delle imposte sui redditi: si tratta di una
norma che contiene un lungo elenco di fattispecie ascrivibili alla categoria di redditi di capitali,
all’interno del quale è possibile enucleare fondamentalmente tre gruppi di redditi:
❖ il primo gruppo è formato dai dividendi (o comunque proventi che generano dalla partecipazione
in società);
❖ Il secondo gruppo, invece, è costituito dagli interessi che derivano dall’impiego del capitale,
(quindi quelli che definiamo cd. interessi attivi);
❖ Il terzo gruppo è, invece, un gruppo che possiamo definire piuttosto eterogeneo perché raccoglie
una serie piuttosto diversificata di proventi finanziari, tra i quali (a titolo puramente esemplificativo)
possiamo senz’altro ricordare le rendite perpetue.
Tra questi tre gruppi certamente il più significativo è rappresentato dei dividendi. Si tratta di una
fattispecie reddituale per certi aspetti fondamentale perché richiama altro componente positivo del
reddito di impresa che studieremo più avanti.
Prima di iniziare l’esame del regime di tassazione dei dividendi, è bene ricordare che l’art. 44 si
chiude con una formulazione di chiusura che consente di ritenere riconducibile a questa categoria
qualsiasi reddito derivante dall’impiego del capitale. Quindi non esiste alcuna forma di impiego del
capitale che generi reddito che non sia potenzialmente ascrivibile a questa categoria di reddito: il
legislatore cerca di non farsi sfuggire alcuna forma di reddito imponibile da assoggettare a
tassazione.
Tornando ai dividendi, sono tali quelli che derivano dalla partecipazione al capitale o al patrimonio di
società o comunque di altri soggetti che sono sottoposti all’IRES (all’imposta sul reddito delle
società).
La disciplina dei dividendi è stata oggetto di ripetuti ripensamenti da parte del nostro legislatore e
ciò per una fondamentale esigenza: quella di evitare di incorrere nella doppia imposizione.

Diritto tributario Pagina 130


ciò per una fondamentale esigenza: quella di evitare di incorrere nella doppia imposizione.
Cerchiamo di capire le ragioni di questa esigenza. Il dividendo è una quota parte dell’utile distribuito
dalla società partecipata: la società partecipata produce utili e può decidere di distribuire questi utili
ai propri soci. Dunque, la quota parte dell’utile percepito dal socio partecipante è una quota parte di
una manifestazione di ricchezza che è già stata sottoposta all’applicazione del tributo da parte della
società partecipata → la società che produce utili è un soggetto che su quegli utili ha certamente già
corrisposto l’IRES. Quindi, chi percepisce dividendi percepisce una quota parte di ricchezza che ha già
scontato l’applicazione di un tributo, cioè l’IRES, da parte della società che ha prodotto quegli utili
ancora prima di dividerli.
Prima di proseguire il ragionamento, va fatta una significativa premessa: i proventi che potrebbero
derivare da un legame che il soggetto passivo potrebbe aver restaurato con un soggetto passivo
IRES, possono essere di tipo diverso perché la società potrebbe aver anche scelto di emettere titoli
obbligazionari → la società che sceglie di emettere titoli obbligazionari che vengono sottoscritti da
una persona fisica, generano per la persona fisica che sottoscrive il titolo un provento di tipo
diverso→ Quindi: > se la persona fisica partecipa al capitale o al patrimonio di una società percepisce
dividendi, ma > se non partecipa al capitale o al patrimonio della società, perché (per esempio) la
società non
intende ammettere alla propria assemblea nuovi soci, ma preferisce piuttosto emettere titoli
obbligazionari, se la persona fisica sceglie di sottoscrivere titoli obbligazionari, allora percepirà un
provento diverso, cioè interessi. Questi diversi proventi generano redditi, appunto, ascrivibili a
categorie diverse: - i proventi che sono ascrivibili alla categoria dei dividendi sono proventi che
costituiscono redditi di capitali perché i dividendi sono compresi nei redditi di capitale; - se invece il
soggetto passivo (la persona fisica) avesse scelto di sottoscrivere titoli obbligazionari e quindi avesse
percepito interessi derivanti dal possesso di quei titoli, questi proventi non sarebbero ascrivibili alla
categoria dei redditi di capitale, ma sarebbero redditi diversi. È bene, dunque, fare questi opportuni
distinguo tra le diverse tipologie di proventi che potrebbero derivare o dal possesso di titoli
partecipativi o dalla partecipazione al capitale o al patrimonio di un soggetto passivo dell’IRES.
Dividendi e interessi sono generati da fatti distinti e per questo vanno trattati fiscalmente in maniera
diversa perché nel primo caso si tratta di redditi di capitale, nel secondo di redditi diversi. (Peraltro, il
fatto che l’eventuale provento derivante dal titolo partecipativo sarebbe da ascrivere alla categoria
dei redditi diversi è vero fino ad un certo punto: perché se la persona fisica fosse poi l’imprenditore,
la cosa si complicherebbe a dismisura. Lo vedremo più avanti.)
Tornando al tema dei dividendi: i proventi derivanti dalla partecipazione al capitale o al patrimonio
di una società che è soggetto passivo IRES, pone un problema fondamentale, cioè → scegliere un
sistema di tassazione che consente di evitare nei limiti del possibile la doppia imposizione. La doppia
imposizione è determinata dal fatto che è la medesima ricchezza (cioè l’utile prodotto dalla società):
una prima volta viene sottoposta a tassazione direttamente dalla società applicando l’IRES, cioè
l’imposta sul reddito che la società stessa produce e una seconda volta, ovviamente soltanto nei
limiti del dividendo corrisposto al socio partecipante, viene applicata l’Irpef, cioè l’imposta sul
reddito delle persone fisiche che il socio percettore del dividendo deve applicare sul dividendo
stesso. Quindi sullo stesso provento di fatto vengono applicate due imposte: una prima volta l’IRES,
una seconda volta l’Irpef. Il problema della doppia imposizione è stato risolto ricorrendo a metodi
diversi nel corso del tempo: fino alla riforma dell’IRES, quindi fino al 2003, l’operazione che il nostro
sistema faceva era quella di ricorrere ad un meccanismo che evitava la doppia imposizione sulla
medesima ricchezza → il sistema del cd. credito d’imposta (un sistema che non vige più): si
riconosceva al socio percettore del dividendo il diritto di scomputare, dall’imposta dovuta sul
dividendo, l’imposta che già era stata corrisposta dalla società a titolo di Irpeg su quella medesima
grandezza (all’epoca esisteva un’imposta sul reddito diversa rispetto da quella che oggi chiamiamo
ires, l’imposta che si applicava sulle società era appunto l’irpeg ,imposta sul reddito delle persone
giuridiche) e questo finiva per scongiurare il rischio della doppia imposizione sul dividendo. Nel 2003
questo sistema del credito d’imposta viene definitivamente abbandonato perché si trattava di un
sistema che determinava alcune distorsioni generate soprattutto dal fatto che la gran parte delle
volte il socio percettore percepisce dividendi che vengono distribuiti dalla società e non è affatto
detto che siano entrambi residenti nel territorio dello Stato. Il sistema del credito d’imposta poteva,
infatti, funzionare bene solo quando la società erogante il dividendo e il socio percettore fossero
entrambi residenti nel territorio dello Stato. Posto che così non è più si è, invece, preferito ricorrere
ad un sistema diverso.
Per evitare il rischio della doppia imposizione si ricorre a discipline diverse. Quali sono?

Diritto tributario Pagina 131


Per evitare il rischio della doppia imposizione si ricorre a discipline diverse. Quali sono?
- Da una parte, l’applicazione del regime sostitutivo per tutte le persone fisiche che non svolgono
attività d’impresa;
- dall’altra, l’applicazione dell’imposta sul reddito delle persone fisiche in misura parziale.
Quando il dividendo viene percepito da una persona fisica che non esercita attività di impresa, allora
il dividendo che costituisce il reddito di capitale viene sottoposto a tassazione attraverso
l’applicazione di una ritenuta a titolo d’imposta: il dividendo non viene, quindi, sottoposto
all’applicazione delle aliquote progressive dell’Irpef perché la società che eroga il dividendo applica
direttamente una ritenuta a titolo d’imposta in misura pari al 26%.
Cosa accade, invece, quando la persona fisica percepisce il dividendo nell’esercizio dell’attività
d’impresa? Qui la disciplina è un po’ più articolata perché il legislatore ha optato non per
l’applicazione della ritenuta a titolo d’imposta, ma per l’applicazione, invece, dell’Irpef: in questo
caso, il dividendo sconta l’Irpef che deve corrispondere l’imprenditore che percepisce il dividendo,
ma volendo evitare di incorre nella doppia imposizione, si prevede che il dividendo sia sottoposto a
tassazione soltanto nei limiti del 58,14% del suo ammontare. Questo significa che l’imprenditore che
percepisce il dividendo deve sottoporre a tassazione il dividendo non per il 100% del suo
ammontare, ma solo nei limiti del 58,14%: la parte residua del dividendo non sarà sottoposta a
tassazione perché si richiama l’esigenza di evitare che quella parte del dividendo sia nuovamente
sottoposto a tassazione→ perchè ha già scontato l’applicazione dell’imposta in capo alla società che
lo ha erogato (che ha applicato l’IRES). Dunque, il 58,14% del dividendo percepito dal socio che
svolge attività d’impresa a sua volta, sarà applicato all’Irpef→ quindi concorrerà alla determinazione
del reddito complessivo ai fini dell’Irpef (sconterà le aliquote progressive); la residua parte sarà,
invece, esclusa dall’applicazione dell’imposta. Vi anticipo che questa disciplina della tassazione
parziale qui accennata in riferimento all’ipotesi del socio (persona fisica) percettore del dividendo
che svolge attività di impresa, è una disciplina che troveremo applicata anche quando il socio
percettore del dividendo sia, a sua volta, un soggetto passivo IRES (chi percepisce un dividendo può
essere una persona fisica come anche no). In questo caso la soglia di esenzione del dividendo viene
sensibilmente elevata→ il dividendo non è sottoposto a tassazione per il 95% del suo ammontare:
questo significa che la quota parte del dividendo percepito, che può essere soggetto a sua volta ad
IRES in capo al socio percettore, è pari al 5% del suo ammontare (non più il 58,14% previsto per
l’imprenditore persona fisica): viene modificata la disciplina della tassazione parziale→ nonostante la
logica resti quella esaminata fin qui, cambia certamente la misura della soglia dell’esenzione.
Altro importante gruppo di redditi di capitale è quello rappresentato dagli interessi. Gli interessi
sono il frutto naturale del capitale. Pensate a tutte le ipotesi in cui, per esempio, vengono dati
capitali a mutuo: è chiaro che il mutuante, sulle somme prestate a mutuo, beneficerà di interessi che
vengono naturalmente corrisposti in base alle pattuizioni contrattuali. Si tratta di interessi che
vengono regolati normalmente per contratto e quindi sono interessi che maturano in considerazione
della durata del contratto intercorso tra le parti.
Questi interessi, che sono certamente interessi di tipo corrispettivo (perché rappresentano il
compenso che il mutuante riceve per aver dato in prestito le somme), vanno tenuti distinti dagli
interessi che non sono corrispettivi, ma che sono invece di natura moratoria. Pensate, per esempio,
agli interessi che possono essere previsti tra le parti per avere concesso una dilazione di pagamento
oppure gli interessi che hanno natura tipicamente sanzionatoria. In tutte queste ipotesi gli interessi
non sono più redditi di capitale→ se l’interesse previsto per contratto non ha natura corrispettiva,
ma ha natura diversa (per es. tipicamente sanzionatoria) allora questi interessi non sono più redditi
di capitale, ma sono interessi che vengono trattati così come sono trattate le somme spettanti in
dipendenza del contratto pattuito, quindi possono essere ascritte alla categoria di reddito da cui
derivano i crediti sui quali gli interessi sono maturati.
Tornando all’ipotesi che più ci riguarda, quella degli interessi che costituiscono la remunerazione del
capitale prestato (quindi la naturale produzione del reddito per le somme prestate), possiamo
certamente dire che il legislatore ha stabilito una presunzione di tipo legale naturalmente relativa
(quindi suscettibile di prova contraria da parte del soggetto passivo): la presunzione prevede che
questi interessi siano stati percepiti alle scadenze stabilite dal contratto. Quindi, mentre la regola
generale dei redditi di capitali è quella secondo la quale il reddito viene sottoposto a tassazione
quando viene effettivamente percepito (il cd. principio di cassa); sugli interessi vale, invece, una
regola diversa perché si presume legalmente che gli interessi siano stati regolarmente percepiti
(anche se così non è) alle scadenze contrattualmente previste. Si tratta, però, di una presunzione
legale, ma che è anche relativa: quindi, il soggetto passivo, se ne ha interesse, è ammesso a fornire la

Diritto tributario Pagina 132


legale, ma che è anche relativa: quindi, il soggetto passivo, se ne ha interesse, è ammesso a fornire la
prova contraria.
Altro oggetto della presunzione legale stabilita dal legislatore all’art.45: È previsto che se il contratto
non prevede espressamente la misura degli interessi che maturano, questi si intendono maturati al
saggio legale: > se il contratto prevede una misura predeterminata degli interessi è chiaro che gli
interessi si intendono maturati nella misura prevista dal contratto, > ma se il contratto non prevede
nulla, la legge presume che gli interessi siano maturati in base al saggio legale.
Altra peculiarità è la regola secondo cui i redditi di capitale sono tassati al lordo: significa che i redditi
che derivano dall’impiego del capitale sono redditi per i quali il legislatore esclude che il soggetto
possa scomputare da quel reddito le spese sostenute per la loro produzione. Quindi, se
eventualmente fossero stati maturati redditi di capitale e il soggetto che li ha percepiti avesse
pagato, per es., commissioni ad un istituto di credito per la maturazione di questi proventi, le spese
non sono assolutamente deducibili. Le spese sostenute per la produzione di un reddito di capitali (le
più tipiche sono certamente quelle di natura bancaria) non sono ammesse in deduzione ai fini della
determinazione del reddito di capitale da sottoporre a tassazione: questo significa applicare la regola
generale secondo cui i redditi di capitali sono tassati al lordo.
3) La terza categoria di redditi è costituita dal reddito di lavoro dipendente.
Il reddito di lavoro dipendente costituisce, insieme al reddito di lavoro autonomo, una delle due
categorie reddituali che promana dall’attività di lavoro. Naturalmente le caratteristiche che
presiedono al reddito di lavoro dipendente sono diametralmente opposte rispetto a quelle relative
al reddito di lavoro autonomo.
La norma che si occupa del reddito di lavoro dipendente è l’art. 49 del T.U. il quale prevede che sono
redditi di lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti che hanno per oggetto una prestazione
di lavoro con qualsiasi qualifica alle dipendenze e sotto la direzione di altri.
Si tratta di una formula estremamente ampia che va letta necessariamente insieme ad un’altra
norma che è pure contenuta nello stesso art. e che determina l’inclusione nella categoria del reddito
di lavoro dipendente di numerose altre fattispecie che determinano la categoria dei cd. redditi
assimilati a quelli di lavoro dipendente. Dunque si tratta di una categoria estremamente ampia di
fattispecie.
Naturalmente, prima di esaminare la categoria delle prestazioni che generano reddito di lavoro
assimilato a quello dipendente, esaminiamo compiutamente la categoria principale, cioè quella
disciplinata nella prima parte dell’articolo 49. Anzitutto v’è precisare che nel reddito di lavoro
dipendente (e lo precisa lo stesso art.49) non sono compresi soltanto i redditi che derivano da un
rapporto di lavoro dipendente→ nella categoria rientrano anche le pensioni di ogni tipo e gli assegni
equiparati.
Le pensioni di ogni tipo: La norma è molto chiara nel dire “di ogni tipo“ → significa che sono redditi
di lavoro dipendente non solo le pensioni che derivano dall’attività lavorativa, ma anche le pensioni
che prescindono del tutto dal precedente svolgimento di un’attività di lavoro (per esempio le
pensioni di reversibilità, le pensioni di invalidità): quindi non è detto che derivino da un rapporto di
lavoro. Non sono, invece, reddito di lavoro dipendente le pensioni che hanno natura risarcitoria,
come potevano essere un tempo le pensioni di guerra.
La regola fondamentale che presiede la tassazione del reddito di lavoro dipendente è che sono
oggetto di tassazione tutte le somme e tutti i valori a qualunque titolo percepiti in dipendenza del
rapporto di lavoro dipendente nel corso del periodo di imposta (caratteristica
dell’onnicomprensività). Questa precisazione, per la verità, la si rinviene in una norma successiva
(non si esaurisce tutta la disciplina del reddito di lavoro nell’articolo 49, ma anche nelle norme
successive 50 e 51).
Quando facciamo riferimento a “tutte le somme e i valori percepiti in dipendenza del rapporto di
lavoro nel corso del periodo d’imposta”→ intendiamo riferirci al carattere della cd.
onnicomprensività: è sufficiente che sia percepita una somma di denaro, ma anche un valore
eventualmente percepito in dipendenza del rapporto di lavoro (pertanto, nella nozione di reddito di
lavoro dipendente sono certamente da includere anche i beni e servizi eventualmente goduti del
prestatore di lavoro a titolo di Fringe benefit). Questo significa che tutto ciò che è stato percepito o
goduto nel corso del periodo d’imposta deve essere sottoposto a tassazione come reddito di lavoro
dipendente.
Sotto il profilo temporale, la norma dice “nel corso del periodo d’imposta”→ (sembrerebbe che ci si
debba fermare al 31 dicembre): deve trattarsi, cioè, di somme e di valori che sono state percepite/i o
comunque di beni e servizi goduti entro il 31 dicembre di ogni anno.

Diritto tributario Pagina 133


comunque di beni e servizi goduti entro il 31 dicembre di ogni anno.
Per la verità, vi è una deroga qui rispetto alla naturale scadenza del periodo d’imposta: è previsto
che i redditi eventualmente percepiti entro il 12 gennaio del periodo d’imposta successivo, si
intendono da imputare al periodo d’imposta precedente → quindi se il prestatore di lavoro dovesse
percepire somme, per esempio, il 5 gennaio, queste somme sarebbero da imputare temporalmente
al periodo d’imposta precedente e non anche al periodo d’imposta in corso in cui interviene la
percezione.
Tornando alla questione “principale”, abbiamo detto che deve trattarsi di somme e di valori
“percepiti in relazione al rapporto di lavoro dipendente” → questo significa che non è imponibile
soltanto il reddito che deriva dallo svolgimento dell’attività lavorativa, ma anche tutte le somme che
vengono percepite comunque in dipendenza di quel rapporto. Pensate, per esempio, a tutte le
indennità: indennità di malattia, indennità di maternità ecc. Si tratta di somme che vengono
percepite indipendentemente dall’attività di lavoro effettivamente svolta, ma di somme che
comunque vengono percepite in dipendenza del rapporto di lavoro in essere e che vengono erogate
anche da soggetti diversi dal datore di lavoro: spesso vengono erogate dall’ente di previdenza.
Quindi sono comunque somme che sotto il profilo fiscale sono certamente da ascrivere alla
categoria del reddito di lavoro dipendente. Le somme eventualmente percepite in dipendenza di
rapporto di lavoro dipendente potrebbero essere→ ipotesi classica: il salario / lo stipendio; le
indennità; ma anche il TFR (in questo caso, per esempio, il TFR dovrà essere sottoposto a tassazione
secondo le peculiari regole della tassazione separata e non invece ordinaria, ma certo è che si tratta
di somme da ascrivere alla categoria del reddito di lavoro dipendente). Sono, dunque, certamente da
sottoporre a tassazione non solo le somme, ma anche i valori→ talli sono quelli attribuibili a beni o
servizi di cui il prestatore dell’attività di lavoro può avere diritto in virtù della disciplina del contratto
sottoscritto. Sono i cd. Fringe benefit : perlopiù beni e servizi che possono essere riconosciuti per
contratto, per esempio, a soggetti che prestano attività dirigenziali (quindi adibiti allo svolgimento di
mansioni dirigenziali) che potrebbero, per esempio, avere diritto all’uso di un alloggio, o all’accesso a
circoli esclusivi o all’uso dell’auto aziendale ecc. L’utilizzo di questi beni e di questi servizi non è
fiscalmente irrilevante proprio perché determina l’applicazione della regola dell’onnicomprensività
che implica necessariamente l’obbligo di tradurre in valori imponibili, quindi fiscalmente rilevanti,
beni e servizi eventualmente utilizzati. Peraltro, si tratta di Fringe benefit che potrebbero essere
utilizzati non soltanto direttamente dal prestatore dell’attività di lavoro, ma anche addirittura dai
suoi familiari: quindi per contratto potrebbero essere previsti Fringe benefit a diretto godimento dei
componenti del nucleo familiare. Questi Fringe benefit devono essere stimati applicando la regola
prevista nell’art.9 del T.U. Dunque, a questi beni e servizi deve essere attribuito un valore che ne
consente il concorso alla determinazione del reddito di lavoro dipendente.
La regola generale che presiede alla determinazione del reddito di lavoro dipendente esclude che il
prestatore dell’attività di lavoro dipendente possa dedurre analiticamente le spese sostenute per la
produzione del reddito di lavoro dipendente: questa scelta risponde essenzialmente all’esigenza di
evitare che ciascun prestatore di lavoro debba tenere conto analiticamente delle spese sostenute, in
quanto si tratterebbe di un aggravio, in termini di gestione di rapporto fiscale, insostenibile per i
lavoratori dipendenti. Questa è la ragione per la quale il nostro legislatore ha abbandonato l’idea di
ricorrere ad una deduzione analitica delle spese sostenute per accedere, invece, alla possibilità di
scomputare
dall’imposta lorda un onere detraibile che è tanto più elevato quanto più basso è l’ammontare del
reddito percepito in dipendenza del rapporto di lavoro. Si vuole così evitare: - da un lato, un aggravio
nella gestione del rapporto fiscale a carico dei singoli prestatori di lavoro, - dall’altro, che si possa
incentivare l’evasione rispetto alla categoria dei redditi di lavoro dipendente, cosa che si potrebbe
facilmente verificare laddove fosse consentito ad una platea estremamente vasta di soggetti passivi
di scomputare analiticamente costi effettivamente sostenuti per la produzione del reddito.
Va anche ricordato, per tornare alla regola della onnicomprensività, in quanto fattispecie frequente,
che concorrono a determinare il reddito imponibile anche i valori percepiti a titolo di buoni pasto: è
una prassi estremamente diffusa nel rapporto di lavoro dipendente. I ticket concorrono alla
determinazione del reddito di lavoro dipendente se sono corrisposti in misura superiore ad un certo
ammontare: > se il ticket non supera l’importo di 5,29 € il ticket non sarà da tenere in considerazione
nella determinazione del reddito di lavoro dipendente, > viceversa, per la parte eccedente il valore di
5,29 € il buono pasto sarà da tenere in considerazione nella determinazione del reddito.

Diritto tributario Pagina 134


LEZIONE 17 (23/04/21)
martedì 26 ottobre 2021 19:52

Il tema affrontato nella scorsa lezione è il reddito di lavoro dipendente , in particolare i principi
fondamentali che regolano questa categoria reddituale e quindi il principio di onnicomprensività , il
principio di cassa che governa la sua determinazione . Bisogna completare il tema accennando ad
alcune fattispecie che pur essendo rappresentate da somme che vengono percepite in dipendenza
del rapporto di lavoro dipendente , non sono eccezionalmente sottoposte a prestazione e poi
bisogna parlare delle fattispecie di reddito di lavoro dipendente dette “ ASSIMILATE “ .
Partendo dalle prime , e cioè le somme che in linea di principio si dovrebbero sottoporre a
tassazione perché percepite in dipendenza del rapporto di lavoro e per le quali , invece , il legislatore
ha voluto introdurre un’evidente deroga al principio di onnicomprensività , bisogna ricordare che
sono sottratte dall’obbligo in positivo le somme che , per esempio , vengono erogate ai dipendenti
per assicurare la presenza agli asili nido dei figli minori , o per esempio , i ticket restaurant ( buoni
pasto ) . Quindi anche questi sono da considerare somme di denaro che vengono erogate al
prestatore di lavoro e che se percepite da questi nel limite di 5,29 euro giornalieri sono somme che
non concorrono alla determinazione del reddito di lavoro dipendente. Ancora , per esempio , sono
da sottrarre alla tassazione , le somme che sono erogate ai dipendenti per l’acquisto di abbonamenti
a servizi di trasporto pubblico . Quindi , anche in questo caso , se il prestatore di lavoro raggiunge il
luogo di lavoro avvalendosi dei servizi pubblici , l’eventuale costo sostenuto per l’abbonamento
potrà essere direttamente pagato dal datore di lavoro e non costituirà reddito di lavoro dipendente
da sottoporre a tassazione , seppure entro una soglia massima consentita oltre alla quale la somma
eventualmente erogata dal datore di lavoro concorre alla determinazione del reddito di lavoro
dipendente del prestatore .
Il legislatore , nella disciplina del reddito di lavoro dipendente, ha dedicato un’intera norma ad
individuare le c.d. fattispecie assimilate . Queste fattispecie assimilate a quelle che producono
reddito di lavoro dipendente sono fattispecie che , se non fosse intervenuto il legislatore , non
sarebbero state sottoponibili alla tassazione sulla base della categoria reddituale che stiamo
studiando ; questo perché sono fattispecie di reddito rispetto alle quali manca una delle
caratteristiche tipiche di quelle che naturalmente producono reddito di lavoro dipendente. Per
questo motivo si parla di fattispecie assimilate a quelle che generano reddito di lavoro dipendente.
Quindi sono redditi assimilati ai redditi di lavoro dipendente. La norma , che è l’art 50 del T.U. ,
prevede ipotesi molto eterogenee di queste fattispecie reddituali. Alcune di queste sono :
- remunerazioni percepite dai sacerdoti : i sacerdoti percepiscono remunerazioni direttamente dalla
Città del Vaticano e la remunerazione percepita costituisce un reddito assimilato al reddito di lavoro
dipendente, quindi viene sottoposto a tassazione .
- le indennità percepite dai parlamentari : parliamo di parlamentari nazionali e anche di consiglieri
regionali o dai consiglieri provinciali ( quando esistevano ) e comunali . Queste indennità percepite in
dipendenza di queste cariche elettive menzionate , determinano un reddito assimilato al reddito di
lavoro dipendente.
- Compensi percepiti dai medici per le prestazioni sanitarie rese in regime intramurario:
normalmente i medici che sono alle dipendenze del servizio sanitario nazionale sono obbligati a
rendere le loro prestazioni di lavoro esclusivamente per il servizio sanitario nazionale . Per questo
parliamo di prestazione intramoenia ( dentro le mura della struttura pubblica ) . I dipendenti non
sono solo dipendenti del servizio sanitario nazionale , ma
possono desiderare di svolgere la propria attività anche al di fuori del servizio sanitario nazionale , in
quanto professionisti . I medici che occupano , per l’esercizio dell’attività professionale ,
esclusivamente nell’ambito del servizio sanitario nazionale, possono essere autorizzati all’esercizio
dell’attività professionale avvalendosi, però , della struttura ospedaliera . Questo significa che i
medici , che sono lavoratori dipendenti del servizio sanitario nazionale , possono rendere prestazioni
professionali in proprio avvalendosi , però , della struttura ospedaliera . Quindi lo studio , le
attrezzature mediche che dovranno essere indispensabili per l’esercizio dell’attività , dovranno
essere rese disponibili dalla stessa struttura sanitaria. Questo implica che il compenso ,
eventualmente reso a questi medici , venga ripartito con il servizio sanitario nazionale. Quindi una
parte viene direttamente percepita dall’ente presso cui il medico presta la sua attività , mentre

Diritto tributario Pagina 135


parte viene direttamente percepita dall’ente presso cui il medico presta la sua attività , mentre
l’altra parte , che invece viene trattenuta dal medico , è una remunerazione riconducibile alla
categoria dei redditi assimilati al reddito di lavoro dipendente . In definitiva : i medici che prestano
attività a favore del servizio sanitario nazionale percepiscono reddito di lavoro dipendente ,
direttamente derivante dall’esercizio dell’attività a favore dell’ospedale o della struttura per la quale
lavora e in più redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente nella misura in cui percepiscano redditi
derivanti dallo svolgimento in proprio della professione sulla base dell’autorizzazione rilasciata dalla
struttura ospedaliera .
- Redditi derivanti da collaborazioni coordinate e continuative : qui manca il vincolo della
subordinazione eppure questi redditi , derivanti da collaborazioni coordinate e continuative , sono
redditi assimilati a redditi di lavoro dipendente. Queste collaborazioni coordinate e continuative
sono rapporti di collaborazione , non di lavoro dipendente , che vengono rese attraverso attività
senza vincolo di subordinazione , nell’ambito di un rapporto continuativo senza l’impiego di mezzi
organizzati , e con una retribuzione periodica prestabilita . Si tratta di una fattispecie ibrida perché in
certi aspetti emerge l’autonomia della prestazione resa dal prestatore dell’attività e anche una
continuità del rapporto intrattenuto tra le parti che lascia intendere che ci siano anche tratti comuni
con il lavoro dipendente . Proprio per la natura ibrida delle somme percepite da chi rende
prestazioni di questo tipo , il legislatore ha optato, per la collocazione dei debiti percepiti , nella
categoria dei redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente .
Argomento nuovo : entriamo nella diversa fattispecie dei redditi che si determinano per
contrapposizione tra componenti positive e negative .
1) La prima delle due categorie che sono riconducibili a questa famiglia è quella dei REDDITI DI
LAVORO AUTONOMO .
Il reddito di lavoro autonomo è definito dall’art 53 del T.U. , che ci dice che “ Sono redditi di lavoro
autonomo quelli che derivano dall'esercizio di arti e professioni. Per esercizio di arti e professioni si
intende l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di attività di lavoro autonomo
diverse da quelle considerate nel capo VI ( cioè le attività d’impresa. Categoria reddituale molto
vicina a quella del reddito d’impresa ) “ . Le prime caratteristiche che lascia emergere l’art 53 sono :
- Occorre che l’attività sia svolta in modo autonomo : significa che l’attività di lavoro autonomo , e
quindi di arti e professioni , deve essere svolto in assenza di qualsiasi vincolo di subordinazione . Se
l’attività fosse svolta in presenza di un vincolo di subordinazione , non sarebbe ascrivibile alla
categoria dei lavoratori , ma dovrebbe parlarsi di reddito di
lavoro dipendente . Quindi il carattere dell’autonomia va a distinguere il reddito di lavoro autonomo
dal reddito di lavoro dipendente .
- Occorre che l’attività sia abituale : l’attività deve essere svolta in maniera abituale , anche se non
esclusiva . Ciò vale a distinguere il reddito di lavoro autonomo dal reddito diverso ( una delle
fattispecie che genera reddito diverso è il reddito derivante dall’esercizio di arti e professioni svolte
occasionalmente ). Il discrimine non è determinato dall’oggetto dell’attività , che è un’attività
autonoma .
- Occorre che l’attività non abbia natura commerciale : questo lo desumiamo dal riferimento che le
attività devono essere diverse da quelle considerate nel capo VI. Segna la differenza che corre tra
redditi di lavoro autonomo e redditi di impresa . ( Un’attività di lavoro autonomo non genera mai
cessione di beni , ma genera prestazioni di servizi . Un’attività che ha per oggetto prestazioni di
servizi , se organizzata in forma di impresa e quindi esiste il requisito dell’organizzazione , genera
sempre reddito di impresa ). Tornando al requisito che definisce il perimetro del lavoro autonomo, è
cioè la natura non commerciale dell’attività , all’interno del codice civile c’è una norma che definisce
le attività commerciali e cioè l’art 2195 c.c. ( Sono soggetti all'obbligo dell'iscrizione, nel registro
delle imprese gli imprenditori che esercitano: 1) un'attività industriale diretta alla produzione di beni
o di servizi [2135]; 2) un'attività intermediaria nella circolazione dei beni [2203]; 3) un'attività di
trasporto per terra [1678], per acqua o per aria; 4) un'attività bancaria [1834] o assicurativa [1882,
1883]; 5) altre attività ausiliarie delle precedenti [1754]. Le disposizioni della legge che fanno
riferimento alle attività e alle imprese commerciali si applicano, se non risulta diversamente, a tutte
le attività indicate in questo articolo e alle imprese che le esercitano.) , tra le cui attività citate , ci
sono attività che hanno ad oggetto prestazioni di servizi .
a) Quando un’attività ha ad oggetto una prestazione di servizi , che per definizione è “ commerciale
“ , sicuramente il reddito che ne deriva è reddito d’impresa .
b) Quando un’attività ha per oggetti prestazione di servizi che sono fuori dall’art 2195 c.c. , potrebbe
( potrebbe perché esiste una ragione che studieremo più avanti ) trattarsi di attività che generano

Diritto tributario Pagina 136


( potrebbe perché esiste una ragione che studieremo più avanti ) trattarsi di attività che generano
reddito di lavoro autonomo .
adesso bisogna capire come si determina la base imponibile da sottoporre a tassazione e qual è il
principio che disciplina l’imputazione a periodo dei componenti del lavoro autonomo.
Come abbiamo già detto il reddito di lavoro autonomo è il primo dei due redditi sottoposti a
tassazione ai fini dell’IRPEF che si determina per differenza tra componenti positivi e negativi .
Quindi chi produce reddito di lavoro autonomo genera componenti positivi da sottoporre a
tassazione , così come componenti negativi che devono essere tenuti in considerazione ai fini della
corretta determinazione della base imponibile .
PARENTESI : tutti i componenti positivi e negativi del reddito di lavoro autonomo devono essere
imputati temporalmente ad un determinato periodo di imposta . L’imputazione a periodo dei redditi
è una tematica di carattere generale affrontata quando si è parlato dei caratteri generali dell’IRPEF .
Il problema dell’imputazione a periodo di imposta viene risolto attraverso l’alternativa fra il principio
di cassa e principio di competenza . Quindi i due principi che astrattamente potrebbero regolare e
risolvere il problema dell’imputazione a periodo dei componenti di reddito sono il principio di cassa
e principio di competenza. Il principio che si applica ai fini dell’applicazione dell’IRPEF al reddito di
lavoro autonomo è il principio di cassa ; questo significa che i componenti positivi vengono
sottoposti a tassazione nel periodo di imposta e quindi nel momento in cui
vengono effettivamente percepiti . Le spese , che sono i componenti negativi , rilevano nel periodo
di imposta in cui la spesa ( componente negativo ) è stata effettivamente sostenuta , pagata . Questo
è il principio generale che governa il diritto di lavoro autonomo , ma è comunque un principio che
soffre di alcune deroghe importanti in alcune ipotesi ( che vedremo dopo ) . In tali particolari ipotesi
il componente che rileva nella determinazione del reddito di lavoro autonomo va tenuto in
considerazione applicando il principio di competenza . Non si applica più il principio di cassa , ma si
applica l’altro criterio e cioè quello di competenza .
Bisogna capire prima quali sono i COMPONENTI POSITIVI che rilevano nella determinazione del
reddito di lavoro autonomo :
- I compensi che esercita un’attività di lavoro autonomo che , in via prevalente , produce un
compente positivo e cioè il compenso per le prestazioni rese ai propri clienti . I compendi non sono
altro che l’onorario , che il professionista percepisce dal proprio cliente in dipendenza delle
prestazioni rese . Il compendo non è necessariamente un compendo in denaro , ma può anche
essere costituito da un bene in natura , per cui si applica , anche a questa fattispecie , la regola del
valore normale prevista dall’art 9 del T.U. .
- Le plusvalenze : Anche i professionisti possono conseguire plusvalenze patrimoniali . Le plusvalenze
possono essere conseguite , nella generalità dei casi , quando vengono ceduti beni strumentali ( beni
che l’esercente arte e professioni destina durevolmente all’esercizio della propria attività ; beni
indispensabili per l’esercizio dell’attività professionale e che vengono acquistati e destinati
durevolmente all’esercizio della professione. Non sono beni che vengono acquistati per essere
rivenduti , ma sono acquistati per essere durevolmente utilizzati ) . Esempio di bene strumentale
potrebbe essere la poltrona del dentista , sistema di software per l’ingegnere , il pc per gli avvocati .
Quindi le plusvalenze sono normalmente generate dalla cessione dei beni strumentali : potrebbe
infatti accadere che il professionista acquisti il bene strumentali e dopo 3/ 4 anni , desideroso di
sostituire il bene perché obsoleto , decide di venderlo per acquistarne un altro . Dalla cessione del
bene strumentale si può generare un componente positivo di reddito di lavoro autonomo che
prende il nome di plusvalenza . Quindi la plusvalenza NON è rappresentata dall’intero corrispettivo
che il professionista dovesse percepire in occasione della cessione .
ESEMPIO DELLA POLTRONA DEL DENTISTA → Il professionista acquista la poltrona per 30.000 euro e
rivenduta dopo 2 anni a 25 .000 , sarebbe sbagliato pensare che la plusvalenza sia rappresentata
dall’intero corrispettivo percepito al momento della cessione ( cioè 25.000 euro ). Questo perché ?
Bisogna aprire il capitolo delle modalità di determinazione della plusvalenza da sottoporre a
tassazione per il professionista . La legge prevede che la plusvalenza da sottoporre a tassazione
scaturisca dalla differenza che corre tra :
il corrispettivo percepito al momento della cessione del bene e il costo del bene ceduto al netto
delle quote di ammortamento già dedotte .
Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro : un professionista che acquista un bene strumentale
non ha diritto a dedurre il costo sostenuto per intero al momento in cui ha acquistato la poltrona . Il
costo sostenuto per l’acquisto dei beni strumentali è un costo che può partecipare alla
determinazione del reddito di lavoro autonomo solo PRO QUOTA, e non tutto per intero nell’anno in

Diritto tributario Pagina 137


determinazione del reddito di lavoro autonomo solo PRO QUOTA, e non tutto per intero nell’anno in
cui il costo viene sostenuto . Il diritto a dedurre pro quota il costo sostenuto per l’acquisto di un
bene strumentale risponde alla logica dell’istituto del c.d. AMMORTAMENTO . Ammortamento
significa che per alcuni beni ( beni strumentali che abbiano un costo unitario superiore a 516 euro ) ,
che hanno per natura una destinazione
durevole nel tempo , il costo sostenuto per l’acquisto di beni strumentali che abbiano un costo
unitario superiore a 516 euro ( vecchio milione di lire ) può essere dedotto da chi lo sostiene ,
utilizzato come componente negativo nella determinazione di lavoro autonomo , solo in parte e cioè
quella parte che costituisce quota di ammortamento ammessa in deduzione ex lege . Ma in base a
cosa si decide quante sono le quote di ammortamento di una spesa . Le quote di ammortamento e
quindi il numero degli anno in cui la spesa va ripartita , è stabilita dal legislatore in un decreto
ministeriale emanato nel 1988 , il quale prevede ,per ciascuna particolare categoria di soggetti
passivi , la prevedibile durata del bene per il quale la quota di ammortamento deve essere dedotta .
Dal numero degli anni di prevedibile durata di un bene , matematicamente viene fuori la percentuale
del costo deducibile . Se la prevedibile durata del bene è di 5 anni significa che la quota di
ammortamento annua è il 20 % . ESEMPIO : se spendo 100.000 euro e so che il costo può essere
ammortizzato in 5 anni, significa che avrò diritto ad una quota di ammortamento annua pari al 20%
del 100% e quindi in questo caso 20.000 euro . Quindi è la prevedibile durata di utilizzo del bene che
segna la quota parte dell’ammortamento deducibile ogni anno .
Tornando a come si determina la plusvalenza da sottoporre a tassazione , possiamo aggiungere da
una parte il corrispettivo percepito dal professionista al momento della cessione ( poltrona ceduta a
25.000 euro ) , ma dall’altra vi è il costo sostenuto dal dentista ( 30.000 euro ) che non è un costo
interamente sostenuto dal professionista nel momento in cui aveva acquistato la poltrona , perché la
poltrona è un bene strumentale che va ammortizzato anno dopo anno.
ESEMPIO : la poltrona può essere ammortizzata in 4 anni e ciò significa che la quota di
ammortamento deducibile anno dopo anno è il 25% ( 100% : 4 ) . Se ha speso 30.000 e la quota di
ammortamento possibile ogni anno è il 25% di 30.000 euro , significa che potrà dedurre circa 6.000
euro . Se questa poltrona è stata ceduta 2 anni dopo l’acquisto , significa che l’ammortamento già
dedotto è circa 13.000 euro . In questo particolare caso la plus valenza c’è da sottoporre a
tassazione , perché da una parte il corrispettivo percepito dal dentista al momento della cessione è
25.000 euro ; Se lo ha acquistato a 30.000 e ha dedotto , nel momento in cui cede , 13.000 euro , il
costo al netto delle quote di ammortamento già dedotte è 17.000 euro ( 30.000 – 13.000 ) . Se il
dentista ha incassato 25 .000 , rivendendo la poltrona , dovendo scomputare il costo al netto delle
quote di ammortamento già dedotte ( 17.000 euro ) significa che questo professionista ha
conseguito una plusvalenza da sottoporre a tassazione di 8.000 euro ( 25.000 – 17.000 ) .
Quindi , per concludere , la plusvalenza da sottoporre a tassazione scaturisca dalla differenza che
corre tra il corrispettivo percepito al momento della cessione del bene e il costo del bene ceduto al
netto delle quote di ammortamento già dedotte. Si tratta del costo fiscalmente rilevante del
cespite , cioè il costo storico ( sostenuto per l’acquisto ) al netto delle quote di ammortamento già
dedotte. Si ha plusvalenza patrimoniale se c’è un esubero del corrispettivo rispetto al costo
fiscalmente riconosciuto.
L’ipotesi rappresentata è l’ipotesi felice del professionista che ha acquistato un bene strumentale , lo
rivende e percepisce una plusvalenza ( un componente positivo di reddito di lavoro autonomo ) . Ma
non è sempre così perché si potrebbe presentare l’opposta circostanza , quando , per esempio , il
professionista non riesca a trovare nessun offerente che riesca a dargli la cifra che lui aveva richiesto
per la vendita del bene strumentale ( 25.000 euro) . In questo caso , per esempio , riesce a venderla
a 20.000 euro . Quindi da un lato vi è un corrispettivo percepito in occasione della cessione di 20.000
euro, dall’altra vi è un costo fiscalmente riconosciuto della poltrona che invece era di 25.000. In
questo caso , allora , non si avrà una plusvalenza ma si avrà una minusvalenza , perché quanto è
stato incassato è meno del costo fiscalmente riconosciuto . Questa è un componente negativo nella
determinazione di reddito di lavoro autonomo .
Quindi : così come la plusvalenza , se c’è un esubero del corrispettivo sul coto fiscalmente
riconosciuto , è un componente positivo di reddito di lavoro autonomo ; la minusvalenza , che si
determina quando c’è un esubero del costo fiscalmente riconosciuto sul corrispettivo , è un
componente negativo del reddito di lavoro autonomo .
La plusvalenza è determinata da un corrispettivo . Infatti nell’esempio si dice che il dentista sceglie di
cedere a terzi la poltrona , ciò significa che la vende e percepisce un corrispettivo da chi vuole
acquistare quel bene strumentale ( La plusvalenza scaturiscono dalla cessione di beni strumentali o

Diritto tributario Pagina 138


acquistare quel bene strumentale ( La plusvalenza scaturiscono dalla cessione di beni strumentali o
da beni meramente patrimoniali , mai da beni diversi ).
Le plusvalenze patrimoniali possono scaturire da operazioni diverse da quelle citate finora , quindi
da fattispecie il cui corrispettivo manca .
a) Questa è l’ipotesi del professionista che sceglie di destinare al consumo personale o familiare il
bene strumentale . ESEMPIO : l’avvocato che decide di trasferire a casa sua il pc per destinarlo
all’uso del figlio . In questo caso si determina una modificazione della destinazione del bene , perché
il bene originariamente era stato acquistato per destinarlo durevolmente all’esercizio dell’attività
professionale . Quando il professionista sceglie di destinare questo stesso bene non più all’esercizio
della libera professione , ma a finalità estranee quale è pure l’auto consumo e quindi il consumo
personale o familiare , allora il bene deve essere estromesso dall’attività . Questo implica che
potrebbe emergere una plusvalenza da sottoporre a tassazione , sempre secondo la stessa
dinamica , con una differenza : mancando il corrispettivo il parametro di riferimento da utilizzare per
determinare l’ammontare della plusvalenza sarà il valore normale . Quindi bisogna capire qual è il
valore che al cespite deve essere assegnato secondo il criterio indicato dall’art 9 T.U. . Se questo
valore dovesse essere superiore al costo fiscalmente riconosciuto al cespite , la plusvalenza c’è e va
sottoposta a tassazione .
b) Un’altra fattispecie che genera , al pari della precedente , plusvalenza da sottoporre a tassazione è
l’ipotesi in cui il bene strumentale venga perduto o distrutto . In molti casi i beni strumentali ,
essendo beni di elevato valore , vengono coperti da polizze assicurative . Se il cespite dovesse andare
perduto o distrutto e il professionista percepisse un’indennità per la perdita o il danneggiamento del
bene , in questa ipotesi bisognerà verificare se c’è plusvalenza da sottoporre a tassazione . In questo
caso il
parametro di riferimento non sarà il corrispettivo perché il bene non è stato venduto, non il valore
normale perché non c’è autoconsumo , ma il parametro di riferimento sarà l’indennità percepita
dall’assicurazione ( con la quale è stata stipulata la polizza ) rispetto alla quale occorre stabilire ,
tenuto conto del costo non ammortizzato , se c’è o meno plusvalenza da sottoporre a tassazione.
La minusvalenza è deducibile solo se è realizzata , cioè si deduce solo se il professionista ha ceduto il
bene ( atto di cessione a titolo oneroso ) . Ciò significa quindi che se il bene viene destinato a finalità
estranee alla professione , allora in questo caso la minusvalenza , nel caso ci fosse , non sarebbe
deducibile . La ragione di questa scelta è che sarebbe facile per il professionista creare circostanze
che determinerebbero la deducibilità di un componente negativo .
COMPONENTI NEGATIVI
La deducibilità delle spese sostenute nell’esercizio di atti e professioni è ammessa a condizione che
venga rispettato il principio di inerenza . Le spese sono inerenti quando sono state sostenute
nell’esercizio di arti e professioni . Non è banale dire che sono deducibili solo le spese effettuate
nell’esercizio di arti e professioni , perché è facilissimo che il professionista possa sostenere alcune
spese , soprattutto per beni strumentali , che per la verità non sono funzionali all’esercizio di arti e
professioni , ma sono funzionali a bisogni propri . ESEMPIO : acquisto di un personal computer . È
estremamente facile per il professionista acquistare un computer e sostenere che la spesa è
inerente all’esercizio di un’arte o di una professione , quando invece viene utilizzato per finalità
strettamente personali e familiari . Nulla impedisce al professionista di destinare il pc all’uso del
proprio figlio. In questo caso la spesa non sarebbe inerente , perché non sarebbe una spesa
sostenuta nell’esercizio di arti e professioni , ma sarebbe una spesa personale . Allora se così è non
sarebbe deducibile . Il principio di inerenza è il discrimine che consente all’amministrazione
finanziaria di contestare la deducibilità o non deducibilità di alcune voci di spesa .
La regola generale vuole che le spese siano deducibili solo se sostenute nell’esercizio di arti o
professioni e si deducono sempre nel rispetto del principio di cassa. Vi sono però alcune importanti
deroghe , nel senso che in alcuni casi le spese vengono dedotte non nell’esercizio in cui sono
effettivamente sostenute , ma nell’esercizio in cui matura il diritto alla loro deduzione . Il diritto alla
loro deduzione matura quando il costo si intende giuridicamente sostenuto , non finanziariamente
sostenuto . Il costo è giuridicamente sostenuto quando il professionista ha l’obbligo di pagare , non
quando effettivamente paga ( questo è il momento finanziario , non giuridico ) .
I costi che devono essere imputati , non nel rispetto del principio di cassa , ma nel rispetto del
principio di competenza sono le quote di ammortamento . Il costo che il professionista sostiene per
l’acquisto di beni strumentali di importo maggiore a 516 euro è un costo che può essere
finanziariamente importante e finanziariamente sostenuto tutto in un periodo di imposta . Questo
costo , da un punto di vista fiscale , è del tutto irrilevante se non nei limiti della quota di

Diritto tributario Pagina 139


costo , da un punto di vista fiscale , è del tutto irrilevante se non nei limiti della quota di
ammortamento deducibile . Il diritto a dedurre il costo è nei limiti della quota di ammortamento
deducibile anno per anno . Quindi la deroga al principio di cassa sul fronte dei componenti negativi
esiste per : le quote di ammortamento e per la quota di accantonamento al fondo TFR. Il fondo TFR è
il fondo che annualmente il professionista deve alimentare con apposite quote di accantonamento
da destinare , un giorno , al trattamento di fine rapporto dei propri lavoratori dipendenti . Dunque
non è un costo che effettivamente il professionista sostiene ogni anno , ma è una quota che
obbligatoriamente è tenuto ad accantonare per alimentare questo fondo in modo tale che un
giorno , quando il segretario o il collaboratore andranno via , sarà in grado di pagare il TFR . La quota
accantonata annualmente al fondo TFR è una spesa deducibile in ragione del principio di
competenza in ragione , cioè , del fatto che il professionista matura in quell’anno l’obbligo di
procedere all’accantonamento. Se non c’è l’obbligo di accantonare quote al fondo TFR è perché il
professionista non si avvale di lavoratori dipendenti .
Nel reddito di lavoro dipendente ci sono molte voci di spesa per le quali il legislatore introduce limiti
alla deducibilità . La regola generale vuole che siano deducibili tutte le spese inerenti e nel loro
intero ammontare ; per alcune voci di spesa , invece , questa regola generale viene derogata , quindi
si perde il diritto a dedurre la spesa nel suo intero ammontare . La spesa è ammessa in deduzione
solo in parte . La ragione di ciò è legata alla sensibilità del legislatore e in particolare vi è l’esigenza di
contrastare l’uso promiscuo del bene o meglio consentirlo ( perché è in natura; è in re ipsa ) e
prevedere , però , come contrappeso una limitazione alla deducibilità della spesa . Ciò significa che ci
sono delle particolari categorie di beni o servizi che il professionista può acquistare e destinare
anche all’uso personale : BENI AD USO PROMISCUO . Posto che in natura è assolutamente
prevedibile che un bene venga destinato promiscuamente sia all’esercizio dell’arte o della
professione , sia personale o familiare , allora non può essere consentita la piena deducibilità della
spesa sostenuta dal reddito di lavoro autonomo perché una parte di quel bene è in re ipsa da
ritenere utilizzata anche a finalità estranee e il rispetto del principio di inerenza impone di escludere
che , quella parte ideale del bene destinata ad altre finalità possa essere corrispondente ad un costo
ammesso in deduzione . Quindi una quota parte del costo deve essere esclusa dalla deducibilità ai
fini della determinazione del reddito di lavoro autonomo . Le fattispecie di costi per i quali il
legislatore ha voluto limitare la deducibilità sono :
- Le spese sostenute per l’acquisto dei telefoni cellulare : il telefono cellulare , che è un acquisto
tipico de professionista , non è utilizzato solo nell’esercizio di arti o professioni . Questa è la ragione
per la quale il legislatore ha stabilito che sono deducibili le spese sostenute nel limite dell’80% .
Quindi una soglia corrispondente al 20% non è ammessa in deduzione .
- Le autovetture : categoria tipica che si abbina all’uso dei telefoni cellulari . I costi sostenuti per le
autovetture sono deducibili nel limite del 20% . Nel corso del tempo questa percentuale si è sempre
più progressivamente ridotta . Quindi il legislatore è intervenuto erodendo l’ammontare dei
componenti negativi e rilevanti nella determinazione del reddito di lavoro autonomo .
- Le spese per alberghi e ristoranti : sono deducibili nel limite del 75% del loro ammontare . Rispetto
a questa particolare categoria di spese il legislatore ha voluto introdurre un limite in più . C’è infatti
una soglia massima non superabile che è rappresentata dal 2% dei compensi percepiti nel corso
dell’anno . Quindi per spese in alberghi e ristoranti il professionista comunque non può dedurre un
importo eccedente il 2% dei compensi percepiti nel corso dell’anno.
- Le spese di rappresentanza : sono ammesse in deduzione nel limite dell’1% dei compensi
complessivamente percepiti nel corso dell’anno .
Per queste categorie di beni il legislatore ha voluto sicuramente introdurre forti limitazioni .
Le ultime due peculiarità di questa categoria reddituale
Quando abbiamo parlato di reddito di lavoro dipendente abbiamo chiuso accennando al fatto che il
legislatore ha voluto estendere le fattispecie di reddito ascrivibile alla categoria , disciplinando anche
il genus dei redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente . Lo stesso identico fenomeno si ravvisa
anche in chiusura della disciplina del reddito di lavoro autonomo . Quindi anche a chiusura della
disciplina del reddito di lavoro autonomo il legislatore ha voluto enunciare alcune fattispecie che a
suo giudizio sono da ricondurre alla categoria di reddito di lavoro autonomo.
- La prima di queste fattispecie che genera reddito di lavoro autonomo è rappresentata dai diritti
d’autori . I compensi percepiti in dipendenza di diritti d’autore sono redditi di lavoro autonomo;
- Sono redditi di lavoro autonomo anche le indennità eventualmente percepite per la
cessazione dei rapporti di agenzia . Normalmente gli agenti di commercio producono reddito di
impresa . Quando gli agenti di commercio cessano dall’attività e non producono più reddito di

Diritto tributario Pagina 140


impresa . Quando gli agenti di commercio cessano dall’attività e non producono più reddito di
impresa , contrattualmente potrebbe essere previsto dalle società mandanti che debbano
corrispondere un’indennità ad un agente di commercio. Questa indennità , che viene corrisposta al
momento della cessazione del rapporto di agenzia , è un reddito di lavoro autonomo , non più un
reddito di impresa.
REGIME DEI PICCOLI PROFESSIONISTI
Questo regime prende la denominazione di regime forfettario .Per i professionisti che producono
compensi per un ammontare non eccedente l’importo di 65.000 euro l’anno è prevista la possibilità
di applicare un regime forfettario , che è un regime sostitutivo a tutti gli effetti perché all’imponibile
sarà applicata unicamente l’aliquota del 15% che sostituisce l’imposta sul reddito, le addizionali
regionale e comunale e l’IRAP , perché i professionisti sono soggetti passivi di IRAP . Laddove il
regime sostitutivo non potesse applicarsi , il regime ordinario di tassazione del reddito di lavoro
autonomo vuole che si applichi , al reddito di lavoro autonomo , l’IRPEF con le addizionali e al valore
della produzione netta … ( non capisco cosa dice 21:31) dal lavoratore autonomo l’IRAP . Attraverso
l’applicazione di questa aliquota unica , pari al 15%, si realizza la sostituzione di tutti i tributi
menzionati . Si tratta di un regime agevolativo estremamente significativo che andrà incontro a
profonde rivisitazioni da parte dell’attuale governo che ha già manifestato qualche forma di
sofferenza rispetto a questi regimi sostitutivi . Si tratta di un ripensamento che implica poi una
complessiva riforma dell’applicazione dell’imposta sul reddito delle persone fisiche . Si ritiene che
dal 2022 non sarà più applicabile .
REDDITO DI IMPRESA
La prima norma che dobbiamo affrontare è quella che definisce il reddito di impresa , l’art 55 del
T.U. . La collocazione della norma va precisata perché questa norma definitoria del reddito di
impresa è collocata all’interno della disciplina del reddito delle persone fisiche , ma certamente
definisce il reddito di impresa da chiunque siano esercitate le attività che ora andremo a
menzionare. Il reddito d’impresa è una categoria reddituale fondamentale del sistema perché ,
appunto , di tratta di fattispecie reddituale che può essere generata sia da persone fisiche che da
soggetti diversi dalle persone fisiche che per definizione producono reddito di impresa . Dunque la
disciplina del reddito di impresa la troviamo tutta illustrata negli articoli del T.U. che recano la
disciplina dell’IRES , ma l’identica disciplina si applica anche quando il reddito di impresa è prodotto
da persone fisiche salvo le peculiarità che vedremo . Alcuni soggetti , diversi dalle persone fisiche ,
cioè le società di persone e società di capitali , per legge svolgono esclusivamente attività di impresa
e quindi producono esclusivamente reddito di impresa. I possibili soggetti passivi dei tributi diversi
dalle persone fisiche , non sono solo le società commerciali ( cioè società di persone e società di
capitali ) . La nozione di reddito di impresa , quindi la definizione delle attività che generano reddito
di impresa , la troviamo nell’art 55 del T.U. ed è una definizione che non coincide con la nozione di
impresa e di imprenditore del codice civile ma è , anzi , una nozione più ampia . Il reddito di impresa
deriva dall’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di un’attività di impresa
commerciale . Quindi il primo requisito è l’abitualità , il secondo è la non esclusività e il terzo è che
occorre che si tratti di un’impresa commerciale . Per impresa commerciale si intendono , secondo
l’art 55 , le attività indicate nell'art. 2195 c.c. . Quindi le imprese commerciali che generano sempre
reddito d’impresa sono :
1) un'attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi [2135];
2) un'attività intermediaria nella circolazione dei beni [2203];
3) un'attività di trasporto per terra [1678], per acqua o per aria; ( attività che hanno ad oggetto
prestazioni di servizi )
4) un'attività bancaria [1834] o assicurativa [1882, 1883] ( attività che hanno ad oggetto prestazioni
di servizi ) ;
5) altre attività ausiliarie delle precedenti [1754]. ( attività che hanno ad oggetto prestazioni di
servizi )
Queste attività sono commerciali per definizione e chi le svolge non può che produrre reddito di
impresa. Non interessano ulteriori indagini sulla caratteristica dell’imprenditore , cioè se esiste o no
il requisito dell’organizzazione . Un soggetto che esercita una di queste attività sicuramente produce
reddito di impresa. Produce , infatti , reddito di impresa l’agente di commercio perché esercita
un’attività di intermediazione nella circolazione dei beni , può essere non organizzato e nonostante
la carenza del requisito dell’organizzazione ( determinante ai sensi del 2082 c.c. ) l’agente di
commercio produce reddito di impresa pur non essendo imprenditore ai sensi del codice civile . L’art
55 , infatti , ci dice che le imprese commerciali sono imprese che ai fini fiscali producono reddito di

Diritto tributario Pagina 141


55 , infatti , ci dice che le imprese commerciali sono imprese che ai fini fiscali producono reddito di
impresa anche se non sono organizzate in forma di imprese . Ma la nozione di reddito di impresa
non si ferma ad elencare le attività dell’art 2195 c.c.. Ma elenca anche altre attività che generano
reddito di impresa . Queste sono :
1) prestazione di servizi che non rientrano nell'art. 2195 c.c. , perché le prestazioni di servizi presenti
in natura non sono solo quelle elencate all’art 2195 c.c. . Queste altre prestazioni di
servizi , diverse da quelle elencate dall’art 2195 c.c. , se vengono realizzate producono o reddito di
impresa o reddito di lavoro autonomo . Ma l’elemento che ci fa capire quale dei due redditi viene
prodotto è il requisito dell’organizzazione . L’art 55 T.U. ci dice che “ i redditi derivanti dall’esercizio
di attività organizzate in forma di impresa che hanno per oggetto prestazioni di servizi , diversi da
quelli previsti dal 2195 c.c. , sono redditi di impresa “. La norma procede dicendo che “ chi presta
servizi diversi da quelli del 2195 c.c. avvalendoti di un’organizzazione in forma di impresa , produce
reddito di impresa .” Ciò significa che quelle stesse prestazioni , diverse da quelle indicate dal 2195
c.c. , se dovessero essere rese senza l’organizzazione in forma di impresa producono reddito di
lavoro autonomo . Quindi laddove sia assente il requisito dell’organizzazione , queste prestazioni di
servizi , diverse da quelle indicate dal 2195 c.c. , generano reddito di lavoro autonomo . Quindi il
discrimine tra reddito di impresa e reddito di lavoro autonomo è rappresentato da 2 elementi :
a) si deve trattare di prestazioni di servizi che non sono tipiche di attività commerciali ex art 2195 c.c.
b) occorre verificare se , anche in presenza di prestazioni di servizi diverse da quelle indicate dal
2195 c.c. , c’è o meno il requisito dell’organizzazione . Se è presente l’attività genera reddito
d’impresa ; se l’elemento organizzativo manca , l’attività produce reddito di lavoro autonomo .
ESEMPIO : prestazioni che hanno per oggetto attività didattiche . Una persona fisica può , laddove lo
volesse , rendere prestazioni didattiche ad uno studente . Un esempio è l’attività di doposcuola , che
sarebbe un’attività priva del requisito dell’organizzazione tipico di un’attività imprenditoriale .
Dunque il compenso che il prestatore dell’attività intellettuale renderebbe è un compenso
ascrivibile :
- alla categoria di reddito di lavoro autonomo , ove dotato del requisito dell’abitualità ;
- alla categoria di reddito diverso , ove dotato del requisito dell’occasionalità ;
- se la prestazione di attività didattica fosse resa in forma organizzata in forma di impresa ( come le
scuole private) rendendo prestazioni didattiche e quindi prestazioni di servizi diverse da quelle
indicate dall’art 2195 c.c. allora in questo caso non produce reddito di lavoro autonomo , ma
produce reddito di impresa .
L’art 55 chiude con ulteriori fattispecie che producono reddito di impresa :
- sfruttamento di miniere, cave, torbiere, saline, laghi, stagni e altre acque interne;
- attività agricole di allevamento e connesse di cui all'articolo 32 ( lettere b e c ), che superano limiti
ivi stabiliti nelle lettere b e c art 32 T.U. , producono reddito di impresa . Non si produce più reddito
fondiario , ma si produce reddito di impresa .

Diritto tributario Pagina 142


LEZIONE 18 (26/04/21)
martedì 26 ottobre 2021 19:52

Iniziamo la lezione occupandoci affrontando alcune nozioni di carattere generale che investono la
tassazione del reddito d’impresa prodotto dalle imprese svolte sotto forma di persona fisica, nella
forma delle società di persone.
Ciò ha delle connotazioni molto particolari perchè, in definitiva, si tratta di attuare le regole
precipue del reddito di impresa da applicare esclusivamente a soggetti nei confronti dei quali si
applica l’IRPEF.
Nelle lezioni successive tratteremo il reddito di impresa, alla sua determinazione, e avranno per
oggetto regole che saranno tipiche dell’IRES, sono però regole comuni, perchè le modalità di
determinazione della base imponibile nel reddito d’impresa sono comuni tanto all’IRPEF quanto
all’IRES.
Il reddito di impresa prodotto dagli imprenditori individuale può essere sottoposto a tassazione
attraverso l’applicazione di due regimi diversi:
1) È il regime c.d. ORDINARIO
2) È il regime c.d. SEMPLIFICATO
Che cosa distingue queste due diverse modalità di determinazione del reddito d’impresa?
Innanzitutto, cerchiamo di stabilire qual è la soglia che ci consente di dire che in un caso siamo
certamente nell’applicazione e ci troviamo nella necessità di applicare il regime di tassazione
ordinario e l’altro il regime semplificato.
La SOGLIA è rappresentata dall’ammontare dei ricavi da sottoporre tassazione. Dunque:
- Se l’impresa individuale svolta in Form individuale consegue ricavi che derivano dall’attività di
cessione di beni per un’ammontare superiore a 700.000 € (settecento mila euro), l’impresa sarà
necessariamente assoggettata a regime fiscale ordinario.
- Se invece l’impresa consegue un ammontare di ricavi che derivano dall’attività di cessione dei
beni per un importo inferiore, l’impresa accederà al regime speciale, dedicato alle imprese
minori.
Naturalmente, la distinzione tra i regimi la si rintraccia soltanto tra imprese che esercitano l’attività
di cessione di beni.
L’impresa può avere per oggetto anche la prestazione di sevizi, la soglia in questo è diversa, perchè
si abbassa. La soglia che segna il discrimine tra impresa da assoggettare a regime ordinario e
impresa invece da assoggettare a regime semplificato è di appena 400.000 € (quattrocento mila
euro).
La differenza tra le due fattispecie è una differenza determinante perchè gli imprenditori persone
fisiche che accidino a regime ordinario perché superano le soglie poc’anzi individuate (a seconda
che esercitino un’attività che ha per oggetto cessione di beni o prestazione di servizi) implica che il
reddito d’impresa debba essere determinato sulla base del bilancio, e, più in generale, le regole per
la determinazione del reddito d’impresa, sono le regole che valgono per le società di capitali.
Quindi, occorre redigere il bilancio, occorre applicare le regole che presiedono alla determinazione
del risultato dell’esercizio previste per le società di capitali.
La differenza fondamentale che governa la determinazione del reddito d’impresa, la regola che
occorre tenere presenta è quella che consente di stabilire se un bene è o non è un bene relativo
all’impresa.
Perché ci si pone questo problema?
Da tenere sempre presente è che stiamo analizzando le regole per le imprese che si svolgono in
forma individuale. L’impresa svolta in forma individuale sta a significare che l’attività di impresa è
svolta da un imprenditore persona fisica. Può accadere che un bene posseduto dalla persona fisica
sia un bene relativo all’impresa e quindi posseduto e destinato all’esercizio dell’attività d’impresa
oppure potrebbe essere un bene posseduto a titolo personale.
Per esempio, l’acquisto di un autovettura per un’imprenditore individuale per lo svolgimento di
un’attività di impresa. Ma è altrettanto possibile che sia stata destinata esclusivamente per uso
personale.
Se immaginiamo lo stesso fenomeno riferito ad un soggetto passivo IRES, per esempio una società
di capitali, il problema dell’imputabilità del cespite all’attività di impresa non si pone affatto. Ciò

Diritto tributario Pagina 143


di capitali, il problema dell’imputabilità del cespite all’attività di impresa non si pone affatto. Ciò
perchè l’acquisto di un cespite da parte di un soggetto passivo IRES, e in particolare da parte di
un’ente commerciale o una società di capitali, è pacificamente un bene relativo all’impresa, non può
avere altra destinazione che questa ex lege.
Se invece l’impresa è svolta in forma individuale, dall’acquisto di ciascun cespite occorre verificare
se sia o meno destinato all’impresa, perchè nulla esclude che il cespite possa essere utilizzato per la
vita personale o familiare dell’imprenditore.
Ci si pone questo problema perchè i beni sono cespiti che producono componenti positivi o negativi
del reddito d’impresa.
Per esempio, l’attività svolta è quella della cessione dei beni. L’imprenditore che esercita questa
attività di intermediazione nella circolazione dei beni, li acquista per rivenderli ai suoi clienti.
I beni acquistati, se sono oggetto dell’attività di impresa, sono BENI MERCE.
Sono cioè beni che essendo oggetto dell’attività tipica dell’impresa se vengono acquistati generano
costi, se vengono venduti generano ricavi.
Ma i beni relativi all’impresa possono essere anche di altro tipo, beni che non sono oggetto
dell’attività tipica dell’impresa, ma che sono acquistati per essere durevolmente impiegati
nell’esercizio dell’attività di impresa. Per esempio, l’acquisto di un computer. È un bene
strumentale impiegato durevolmente nell’esercizio dell’attività d’impresa.
Questi cespiti generano altri componenti positivi o negativi del reddito di impresa.
Si tratta delle PLUSVALENZE PATRIMONIALI e delle MINUSVALENZE PATRIMONIALI.
Una terza categoria di beni è quella dei c.d.BENI MERAMENTE PATRIMONIALI.
Sono beni che si definiscono di puro investimento. Non sono destinati ad essere rivenduti ma sono
destinati ad essere durevolmente impiegati nello svolgimento dell’attività di impresa come lo sono i
beni strumentali ma sono acquistati per essere mantenuti nel patrimonio dell’impresa. Generano
componenti positivi e negativi assolutamente sovrapponibili a quelli indicati per i beni strumentali.
Quindi plusvalenze e minusvalenze.
La trilogia dei beni relativi all’impresa fin qui indicati, costituita da beni merce, beni strumentali e
beni meramente patrimoniali, suggerisce l’importanza del tema che stiamo affrontando.
Essere in grado di stabilire se un bene è o non è relativo all’impresa, stabilisce a monte se i
fenomeni reddituali generati da quel bene sono o meno rilevanti ai fini della determinazione del
reddito d’impresa.
Per esempio, se un’imprenditore che ha per oggetto la compravendita di scarpe, acquista un paio di
scarpe ma le acquista, non per rivenderle, ma per indossarle lui stesso, l’acquisto di quel bene, che
astrattamente suggerirebbe che si tratti di un bene merce, non è affatto un bene merce, è estraneo
all’attività di impresa e dunque non ne ottiene ricavo.
È un problema posto solo per le imprese svolte in forma individuale. È in relazione all’imprenditore
persona fisica che fa sorgere l’esigenza di stabilire se il bene acquistato è o no relativo all’impresa.
Per gli enti commerciali e le società di capitali il problema non si dovrebbe porre perché vige in
PRINCIPIO DELLA ONNICOMPRENSIVITÀ DEL REDDITO D’IMPRESA, con la
conseguenza che tutti i beni acquistati sono necessariamente beni relativi all’impresa.
Art.65 del Testo Unico afferma in maniera estremamente chiara che per le imprese individuali sono
da ritenere relativi all’impresa tutti i beni iscritti nell’inventario, quindi è la scrittura contabile che
risolve il problema. Quindi se l’imprenditore iscrive il bene nel libro degli inventari pacificamente
si tratterà di un bene che è stato acquistato nell’esercizio dell’attività di impresa, con tutte le
conseguenze che ne derivano circa la sua rilevanza nella sua determinazione nel risultato
dell’esercizio.
Quindi sarà l’iscrizione nel libro degli inventari a risolvere la questione.
È da tenere presenta, sempre in riferimento alla questione, che se il bene fosse acquistato
nell’esercizio dell’attività di impresa e l’imprenditore individuale scegliesse poi di destinare il bene
alla vita personale e familiare, si verificherebbe una forma di autoconsumo. Non ha incassato alcun
corrispettivo, ha semplicemente prelevato, per esempio, un paio di scarpe dal proprio magazzino e
scelto di destinarlo all’uso proprio. In questo caso, la scelta di destinare l’acquisto di quel paio di
scarpe all’esercizio dell’attività di impresa, provocherà in lui una conseguenza importante, nella
misura in cui abbia poi scelto di destinare il paio di scarpe all’autoconsumo. Ciò perchè questa
operazione genera ricavo, genera un componente positivo di reddito di impresa.
Ricavo che sarà apprezzato sulla base del CRITERIO DEL VALORE NORMALE.
L’art.9 è ancora una volta molto importante, anche nella determinazione del reddito di impresa
conseguito da persona fisica.

Diritto tributario Pagina 144


conseguito da persona fisica.
Quanto alle regole tipiche svolte dall’impresa in forma individuale, quando l’imprenditore non
supera le soglie che stabiliscono i confini dell’impresa ordinaria svolta in regime ordinario, accede
al regime c.d SEMPLIFICATO.
Il regime delle impere c.d. minori (che hanno diritto ad accedere al regime semplificato) si trova
disciplinato nell’art.66 del Testo Unico. È un regime estremamente vantaggioso, per
essenzialmente per due semplici ragioni:
1) Le regole per la determinazione del reddito sono molto semplici a differenza del regime che
grava sulle imprese che invece sono costrette ad accedere agli oneri tipici del regime ordinario.
Le modalità di determinazione del reddito di impresa ordinariamente svolta sono estremamente
complesse.
2) Altro vantaggio di non poco conto è quello che in pratica si apprezza sul piano della riduzione
degli obblighi formali. Complesso è normalmente determinare in reddito di impresa, altrettanto
complessa e articolata normalmente è la tenuta delle scritture contabili. Chi invece acceder al
regime delle imprese minori, accede ad una possibilità importante cioè quella di semplificare
molto gli obblighi contabili a cui l’impresa stessa va incontro. È da tenere in considerazione che
chi accede al regime delle imprese semplificate può ottenere la contabilità istituendo
esclusivamente i registri obbligatori ai fini dell’IVA. Non bisogna redigere il bilancio di
esercizio. Si tratta di una semplificazione significativa.
Sotto il profilo delle modalità di determinazione del reddito, le imprese che accedono al regime
semplificato hanno una semplificazione considerevole perchè è una metodologia che mostra, più
che qualche complessità qualche incertezza, perchè il regime che applicano le imprese che
accedono al regime semplificato (imprese minori) è un REGIME MISTO.
Diventa un regime spurio, che non è né di cassa né di competenza. È un regime per certi aspetti
fortemente incerto. Alcuni elementi assumono rilevanza rituale applicando il principio di cassa, così
come era in passato, altri componenti reddituali invece rilevano applicando il principio di
competenza. Questo può generare notevoli incertezze, soprattutto nei rapporti con
l’amministrazione finanziaria. Questa è anche la ragione per la quale, le imprese c.d. minori cioè
quelle che hanno il diritto di accedere al regime semplificato possono, se lo vogliono, per scelta
quindi, accedere al regime ordinario.
Non sono poche le imprese minori che proprio per evitare le incertezze che potrebbero derivare dal
regime semplificato scelgono, per opzione, di accedere al regime ordinario per le imprese che
superano le soglie.
Un’altra precisazione rilevante che è importante ricordare, è che il nostro ordinamento, ormai da
qualche anno, ammette accanto al regime riservato alle imprese c.d. minori (semplificato) prevede
anche il c.d. REGIME FORFETTARIO.
Non bisogna fare l’errore di sovrapporre il regime forfettario con il regime semplificato.
Il regime riservato alle imprese minori è quello che si applica alle imprese che non superano le
soglie di ricavi poc’anzi indicate.
Quando invece si parla di regime forfettario, intendiamo riferisci al quel particolare regime
introdotto da pochissimi anni, riservato a chi esercita attività di impresa e non consegue ricavi per
un ammontare superiore a 65.000 € (sessantacinque mila euro).
Si parla di soggetti assolutamente diversi rispetto agli altri due regimi.
Questo regime forfettario non è altro che un regime di tassazione sostitutiva. Si applica, attraverso
un’unica aliquota pari a 15%, un’imposta al reddito d’impresa prodotta da questa particolare
categoria di soggetti che realizza così un’effetto sostitutivo dell’IRPEF, dell’addizionale regionale,
dell’addizionale comunale e dell’IRAP. Si tratta di un’imposta sostitutiva vera e propria.
Si tratta di un regime fortemente agevolativo, che realizza una forma di imposizione sostitutiva e
che attendibilmente non avrà vita facile negli esercizi che verranno. Già è allo studio di Camera e
Senato, l’ipotesi di una profonda revisione del meccanismo di applicazione dell’imposta, in
generale sull’assetto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e una delle proposte sulle quali si
registra una probabile condivisione da parte delle diverse forze politiche potrebbe essere proprio la
soppressione di questo regime sostitutivo perchè genera evidenti forme di diseguaglianza tra tutti i
consociati, limita fortemente la funzione redistributiva dell’imposta sul reddito delle persone
fisiche.
L’ultima categoria di reddito è quella dei c.d. DIVERSI.
Abbiamo studiato i redditi fondiari, i redditi di capitale, i redditi di lavoro e dipendente autonomo,
le regole peculiari del reddito di impresa e adesso bisogna procedere allo studio di quest’ultima

Diritto tributario Pagina 145


le regole peculiari del reddito di impresa e adesso bisogna procedere allo studio di quest’ultima
categoria, quella dei diversi.
I redditi diversi, a differenza delle altre categorie reddituali, comprendono una serie di fattispecie
eterogenee tra loro. Quando si parla di eterogeneità ci si riferisce al fatto che tutte le fattispecie che
si trovano elencate nella norma, hanno un tratto comune, quello di non avere una fonte omogenea di
produzione. Tutte le fattispecie di reddito fin qui studiate sono accumunate da una caratteristica
diametralmente opposta, sono tutte accumunate dal fatto che il componente reddituale è generato da
una medesima fonte di reddito. Nei redditi diversi questo non accade.
Si raccolgono sotto un’unica famiglia di diversi, fattispecie che, in alcuni casi, sarebbero da
ricondurre ad una delle altre cinque categorie già studiate ma che in definitiva non è possibile
attribuire a quest’ultime proprio per la carenza di una delle caratteristiche tipiche che invece
abbiamo già affrontato.
Compresa la caratteristica peculiare di quest’ultima fattispecie di categorie di reddito, possiamo
senz’altro passare ad esaminare cosa costituisce reddito diverso.
Individuiamo gruppi massimamente omogenei tra loro di redditi diversi.
• La prima categoria è quella delle PLUSVALENZE IMMOBILIARI.
Non bisogna fare l’errore di immaginare che si tratti di fattispecie, in qualche modo, assimilabili
alle plusvalenze già approfonditamente studiate nelle lezioni sul reddito di lavoro autonomo. La
cessione a titolo oneroso non è l’unica operazione che può generare una plusvalenza patrimoniale
da sottoporre a tassazione nel reddito di lavoro autonomo, perchè anche altre operazioni possono
determinare questo componente positivo (per esempio l’autoconsumo).
Quando invece si parla di plusvalenze immobiliari, intendiamo riferisci ad un fenomeno fortemente
diverso rispetto a quello fin ora studiato.
In particolare si tratta di operazione che hanno per oggetto immobili. Non però non immobili di
qualsiasi genere e specie, ma immobili dotati di particolari caratteristiche.
Le plusvalenze immobiliari che generano redditi diversi sono esclusivamente quelle che
scaturiscono da operazione che adesso elencheremo. Se non si configura operazione tipica, non si
tratta certamente di plusvalenze da sottoporre a tassazione come redditi diversi.
Quali sono le operazioni da cui scaturiscono plusvalenze immobiliari da sottoporre a tassazione
come redditi diversi?
Prima ipotesi: le operazioni che hanno per oggetto la cessione di terreni lottizzati. Quindi la
plusvalenza che occorrerà sottoporre a tassazione scaturirà dall’attività di lottizzazione già svolta.
Seconda ipotesi: è una fattispecie più diffusa. Si realizza quando viene effettuata una cessione a
titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di 5 anni. Dunque se la persona
fisica acquista un cespite, un fabbricato, e lo rivende in un periodo di tempo successivo all’acquisto
non superiore al quinquennio, l’eventuale differenza positiva è plusvalenza da sottoporre a
tassazione. Ciò perché il periodo di tempo fissato normativamente dal legislatore è un arco
temporale che fa presumere l’intento speculativo dell’operazione. Si presume ex lege che chi abbia
acquistato un fabbricato e lo abbia successivamente rivenduto in un arco temporale molto stretto
infra quinquennio, si presume appunto che abbia voluto realizzare un possibile intento speculativo e
quindi l’eventuale plusvalenza realizzata deve essere sottoposta a tassazione. Ci sono due
DEROGHE importanti alla regola generale:
1) La prima deroga importante è rappresentata dai fabbricati acquisiti per successione mortis
causa. Se il fabbricato oggetto della cessione, è stato acquistato dalla persona fisica attraverso
una successione per atto di morte, l’intento speculativo è da escludere. E dunque è libera la
cessione del fabbricato infra quinquennale. È libera nel senso che l’eventuale plusvalenza non
sarà da sottoporre a tassazione.
2) La seconda deroga è invece rappresentata dal caso di chi abbia acquistato e venduto in un arco
temporale di cinque anni un fabbricato nel quale, nel periodo ne ha mantenuto il possesso, ha
stabilito la propria residenza. E quindi ne ha fatto la propria casa di abitazione principale.
Questa deroga ha una ratio diversa dalla precedente ed è volta ad evitare che possa andare
incontro ad una tassazione ritenuta ingiustificata chi, per esempio, ha avuto la necessità di
cedere il fabbricato dove pure aveva mantenuto la propria abitazione principale per ragioni
legate ad uno spostamento del luogo di lavoro, per esempio. È ampiamente giustificato chi ha
dovuto cedere la propria abitazione principale dove aveva anche fissato la propria dimora. Non
si aveva intento speculativo, quindi è esonerato dalla plusvalenza immobiliare
Terza ipotesi: è quella rappresentata dalle cessioni che hanno per oggetto terreni edificabili. Quindi
se vengono acquistati e ceduti terreni edificabili, pacificamente, l’eventuale plusvalore deve essere

Diritto tributario Pagina 146


se vengono acquistati e ceduti terreni edificabili, pacificamente, l’eventuale plusvalore deve essere
sottoposto a tassazione come reddito diverso.
Quando si parla di plusvalenze immobiliari ci si riferisce solo ai redditi diversi.
Quando si parla di plusvalenze patrimoniali si fa riferimento a reddito di lavoro autonomo o reddito
di impresa, perchè sono componente positivo sia del reddito di lavoro autonomo sia del reddito di
impresa.
• La seconda categoria di reddito diverso sono le PLUSVALENZE DA PARTECIPAZIONE.
Chi detiene titoli partecipativi in una società di capitali può maturare interessi. La detenzione dei
titoli partecipativi, o meglio dei titoli obbligazionari, può, nella misura in cui questi titoli vengano
dismessi e quindi essere ceduti, generare un componente reddituale diverso.
Le partecipazioni che, nel momento in cui vengono detenute possono generare interessi, possono
generare dividendi, vengono cedute e producono un provento che deriva dalla cessione dei titoli
partecipativi genera plusvalenza. È una plusvalenza di particolare categoria, di particolare specie,
perchè si tratta appunto di plusvalenze che derivano dalla cessione di partecipazioni.
Queste plusvalenze non sono certamente plusvalenze immobiliari, non sono plusvalenze
patrimoniali ma sono plusvalenze di un’altra tipologia da ascrivere alla categoria dei redditi diversi.
È bene ricordare che queste plusvalenze di cui si parla sono sempre conseguite fuori dall’attività di
impresa quindi si tratta della persona fisica che, per esempio, intende detenere titoli partecipativi,
tenerli e conservarli nel proprio portafogli di risparmio e nel momento in cui questi titoli
partecipativi sceglie di cederli, potrebbe conseguire una plusvalenza che costituirà reddito diverso.
La regola generale vuole che le plusvalenza di partecipazione si sottopongano a tassazione
attraverso un regime di particolare favore. Questi proventi, infatti, non sono soggetti
all’applicazione delle aliquote progressive dell’IRPEF, attraverso una ritenuta alla fonte da parte del
soggetto che corrisponde il corrispettivo. La ritenuta alla fonte è nella misura del 26%.
Sarà sostitutiva dell’IRFEP.
Questa regola generale sconta una DEROGA non trascurabile: è rappresentata da tutti i casi in cui,
il titolo partecipativo ceduto, integri una partecipazione al capitale di una società che ha sede in uno
Stato a fiscalità privilegiata, in un paradiso fiscale.
Se la persona fisica detiene un titolo partecipativo in una società che ha sede in uno Stato che ha
fiscalità privilegiata e il titolo partecipativo viene ceduto, la persona fisica non avrà più diritto ad
applicare il regime di particolare favore (imposta sostitutiva della ritenuta alla fonte) ma la
plusvalenza sarà interamente assoggettata a tassazione, concorrerà al reddito complessivo.
Questa deroga porta con sé la necessità di un correttivo, che in particolarissimi casi, al possessore
del titolo partecipativo, in una società con sede fiscale in uno Stato che ha fiscalità privilegiata, deve
poter essere riconosciuto il diritto di accedere al regime ordinario di tassazione delle plusvalenze. Il
legislatore stesso individua particolari circostanze in cui è mantenuto il diritto all’applicazione del
regime ordinario:
1) Quando la partecipazione è in una società che è quotata nei mercati regolamentati. La cessione
del titolo partecipativo, in questi casi, non sfugge all’applicazione del regime ordinario quindi
all’applicazione del regime sostitutivo.
2) È un onere della prova particolarmente gravoso. È la fattispecie che ricorre in tutti i casi in cui
la persona fisica è in grado di provare che non abbia scelto di partecipare al capitale della
società che ha sede nello Stato a fiscalità privilegiata, con l’unico obiettivo di focalizzare l i
proprio redditi.
• La terza categoria di redditi diversi a sua volta comprende fattispecie tra loro assolutamente
eterogenee, non vi è alcuna analogia tra un’ipotesi e un’altra.
- Comprende i redditi prodotti da beni immobili che sono situati all’estero.
I beni immobili, se generano redditi fondiari, sono beni situati normalmente nel territorio dello
Stato. Se sono collocati all’estero, non sarebbe possibile qualificarli come redditi fondiari perché
mancherebbe il collegamento con il territorio dello Stato, sarebbe addirittura impensabile sottoporli
a tassazione secondo la regola generale che trova invece applicazione per i redditi fondiari.
Questi fabbricati eventualmente posseduti fuori dal territorio dello Stato produrranno certamente
redditi diversi e la valutazione dei redditi sarà fatta sulla base delle regole che si applicano su quel
territorio, cioè allo Stato di appartenenza.
- Altra fattispecie è quella rappresentata dai redditi di lavoro autonomo e dai redditi di impresa
non esercitati abitualmente.
I redditi di lavoro autonomo e di impresa, tra le caratteristiche essenziali delle nozioni, implicano il
requisito dell’abitualità. Occorre che si tratti di esercizio per professione abituale purché non

Diritto tributario Pagina 147


requisito dell’abitualità. Occorre che si tratti di esercizio per professione abituale purché non
esclusivo di una delle attività svolte dall’imprenditore.
Non può essere occasionale, perchè l’eventuale provento che deriverebbe dall’esercizio di queste
attività, non sarebbe sicuramente da ascrivere né alla categoria del reddito di lavoro autonomo ne
alla categoria dei redditi di impresa.
Proprio in questa ipotesi, proprio quando il provento deriva da un’attività solo occasionalmente
svolte, si tratta di un reddito diverso.
- Ultima fattispecie, è quella rappresentata dai proventi derivanti dalla vincita a giochi, lotterie e
concorsi a premio.
Sono da ascrivere alla categoria dei redditi diversi.
Il tema adesso da affrontare è quello delle modalità di determinazione del reddito d’impresa.
Le modalità di determinazione del reddito d’impresa sono comuni a coloro che esercitano l’impresa
in forma individuale sia a coloro che esercitano l’impresa in forme diverse.
Innanzitutto, l’IRES è un’imposta proporzionale, si applicava attraverso un’unica aliquota. L’unica
aliquota da applicare è quella, oggi fissata, in misura pari al 24%
Dalla disciplina di questo tributo emerge anche che, quando di parla di imposta sul reddito delle
società per la verità si fa riferimento incongruamente ad una soltanto delle categorie dei soggetti
passivi che sono colpiti da questo tributo, perchè appunto dall’acronimo sembra che l’IRES sia
tributo applicato applicato esclusivamente nei confronti della società e questa convinzione è errata
per una pluralità di ragioni. Questa è un’imposta che non sia applica a tutte le società ed è
altrettanto sbagliato pensare che si applichi a soggetti che rivestono quanto meno forma sociale, non
così, perchè tra i soggetti passivi dell’IRES rientrano anche soggetti che non sono società, per
esempio gli enti commerciali o non.
Se volessimo identificare con certezza chi sono i destinatari passivi dell’IRES dovremmo
suddividerli in quattro categorie:
1) Società di capitali quindi società per azioni, società in accomandita per azioni, a responsabilità
limitata, le cooperative, le mutue assicuratrici.
2) Enti commerciali. Sono equiordinati rispetto al primo gruppo perchè quanto alle modalità di
determinazione della base imponibile si tratta di soggetti perfettamente equivalenti. Le modalità
di determinazione della base imponibile IRES sono uguali in entrambe le categorie.
3) Enti non commerciali
4) Società ed enti non residenti.
Nel novero dei soggetti passivi IRES, un ruolo di primissimo piano è indubbiamente ricoperto dagli
enti. Gli enti sono soggetti passivi ai fine IRES che rilevano sia quando sono commerciali sia
quando non lo sono.
In base al fatto che l’ente sia commerciale o meno vi è la possibilità che l’ente sia da scrivere o
meno alla seconda o alla terza categoria dei soggetti passivi. Certo è che l’IRES non si applica alle
società di persone ed alcuni soggetti che sono espressamente esenti ai sensi di legge.
Per esempio, agli organi e alle amministrazioni dello Stato, i comuni e le Regioni art.74 del Testo
Unico.
Non vi è distinzione tra soggetti pubblici e privati per gli enti soggetti ad IRES a patto ai sensi che
non siano esenti dall’art.74 del Testo Unico.
La quarta categoria di soggetti è invece estremamente eterogenea perchè può trattarsi di società ed
enti di ogni tipo, tanto commerciali tanto non commerciali a condizione che non siano residenti cioè
occorre che questo soggetti non abbiamo in Italia né la sede legale né la sede dell’amministrazione
né l’oggetto principale della propria attività.
È di primissimo piano se un soggetto passivo IRES è o no residente nel territorio dello Stato perché
dalla soluzione di questo quesito discende se applicare o meno il PRINCIPIO DELLA
TASSAZIONE SUL REDDITO MONDIALE. Ciò significa che se il soggetto passivo IRES è
residente nel territorio dello Stato dovrà essere sottoposto a tassazione per tutti i redditi ovunque
questi siano prodotti , in Italia e non. Viceversa, laddove il soggetto passivo IRES non possa essere
considerato fiscalmente residente nel territorio dello Stato andrà incontro all’applicazione dell’IRES
limitatamente ai redditi prodotti nel territorio dello Stato.
La nozione di residenza non è rilevante per il diritto tributario solo se riferito alla persone fisiche
ma anche rispetto ai soggetti passivi, in questo caso appunto, dell’IRES.
La regola generale vuol che questi soggetti siano considerati fiscalmente residenti in Italia se hanno
la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale della propria attività.
Ma vi sono altri requisiti oltre questi tre per combattere il fenomeno della c.d. esterovestizione, cioè

Diritto tributario Pagina 148


Ma vi sono altri requisiti oltre questi tre per combattere il fenomeno della c.d. esterovestizione, cioè
spostare la sede legale fuori dai confini dello Stato, fare in modo che l’amministrazione e l’oggetto
principale siano anch’essi ubicati collocati fuori dallo Stato e sfuggire all’applicazione di questa
regole.
Per il nostro ordinamento è un fenomeno molto grave, significa far sfuggire basi imponibili
all’Estero e quindi soggette all’applicazione dell’IRES.
Il legislatore ha introdotto una presunzione che fa considerare residente nel territorio dello Stato la
sede dell’amministrazione di una società che è controllata anche indirettamente da soggetti residenti
nel territorio dello Stato o oppure società amministrate da un consiglio di amministrazione
composto prevalentemente da consiglieri residenti nel territorio dello Stato.
Quindi, anche quando le società sono estrovestite cioè quando formalmente appare che non ci siano
le condizioni perchè possano essere sottoposta a tassazione in Italia sula base del criterio della
tassazione del reddito mondiale, anche quando il soggetto risulta esterovestito, il nostro legislatore
ha stabilito che si considera residente comunque in Italia quando è controllata da soggetti residenti
nel territorio dello Stato oppure quando il consiglio d’amministrazione è formato da consiglieri che
a sua volta sono residenti nel territorio dello Stato.
È una forma di cautela particolarmente importante che contrasta il fenomeno della esterovestizione.
Le operazioni che hanno per oggetto i beni possono generare effetti più o meno rilevanti, a seconda
del punto di vista, al fine della determinazione del reddito di impresa. Ciò perché rispetto alle
persone fisiche, le operazioni che hanno per oggetto beni estranei all’esercizio dell’attività di
impresa sono fiscalmente irrilevanti. Se i beni sono rilevanti ai fini dell’attività di impresa queste
operazioni producono effetti reddituali che vanno tenuti in considerazione ai fini della
determinazione del reddito di impresa.
Per l’impresa individuale, non assume alcun rilievo quando invece si tratta di soggetti passivi IRES,
ma non tutti. Ciò perchè la regola della onnicomprensività del reddito di impresa vale
esclusivamente per società di capitali ed enti commercial.
La regola dell’onnicomprensività consiste nella circostanza che società di capitali ed enti
commerciali determinano il proprio reddito non sommando i proventi derivanti o meglio ascrivibili
a ciascuna delle categorie di reddito che abbiamo affrontato, ma producono esclusivamente
un’unica categoria di reddito, sempre e comunque reddito di impresa.
È impensabile che una società di capitali produca reddito di capitali, di lavoro o fondiari perchè
l’unica categoria reddituale è quella del reddito di impresa. Da qualsiasi fonte promanino.
Gli enti non commerciali questa regola non vale.
I proventi derivanti dall’esercizio di attività che potrebbe legittimamente esercitare un ente non
commerciale non sono sempre da ascrivere alla categoria del reddito di impresa perchè il reddito
complessivo degli enti non commerciali si determina in maniera completamente diversa.
Il reddito complessivo di società di capitali ed enti commerciali è necessariamente un reddito di
impresa, non c’è nulla da sommare, non esistono altre categorie di reddito da sommare
algebricamente tra loro, l’unica categoria prodotta è reddito di impresa.
Per enti non commerciali questa regola non trova applicazione infatti si pone nuovamente il
problema di determinare il reddito complessivo.
Il reddito complessivo è la somma algebrica di tutte le categorie di reddito.
Gli enti non commerciali possono produrre redditi fondiari, redditi di capitali, redditi di impresa e
redditi diversi. Si nota agevolmente che nell’elenco dei redditi che possono essere realizzati da enti
non commerciali non compare il reddito da lavoro.
Questo perchè gli enti non commerciali non possono produrre ne reddito di lavoro dipendente ne
reddito di lavoro autonomo.
Per cui il reddito complessivo degli enti non commerciali è pacificamente affermato che è un
reddito che si ottiene dalla somma algebrica delle diverse componenti di reddito.
Il risultato da sottoporre a tassazione, il reddito imponibile che si sottopone a tassazione quando
viene applicata l’IRES è strettamente collegato alle risultate del bilancio. Non è perfettamente
corrispondete al risultato di bilancio per la semplice ragione che si applica un principio che nel
nostro ordinamento ci obbliga a prendere, in qualche modo, una certa distanza dalle risultate di
bilancio ma vero è comunque, che il risultato di bilancio è un risultato a cui prestare molta
attenzione. È elemento fondamentale per procedere alla corretta determinazione della base
imponibile da sottoporre a tassazione.
Il reddito di impresa è una grandezza che si determina per differenza tra componenti positivi e
negativi. Il risultato dell’esercizio del bilancio civilisticamente redatto è un risultato che si

Diritto tributario Pagina 149


negativi. Il risultato dell’esercizio del bilancio civilisticamente redatto è un risultato che si
determina per composizione tra costi e ricavi, tra componenti positivi e componenti negativi.
Si da per scontato che già nel bilancio di esercizio, gli proventi postivi non sono soltanto i ricavi,
ma ci sono tantissime voci che integrano i componenti positivi di bilancio.
I costi includono tutti i componenti negativi che rilevano nella determinazione del risultato
dell’esercizio secondo la disciplina contenuta nel Codice Civile.
Insieme ai costi ci sono naturalmente le perdite, gli ammortamenti e via dicendo.
Il risultato dell’esercizio così come risulta dal bilancio civilisticamente redatto non è un risultato
necessariamente positivo, quindi descritto come utile. Quando è positivo e quindi si configura un
utile, vuol dire che l’ammontare complessivo dei componenti positivisti supera l’ammontare
complessivo delle componenti negative.
Ma è pacifico anche il contrario, cioè che dal bilancio di un esercizio risulti un risultato negativo,
una perdita. La perdita emerge quando l’ammontare complessivo dei componenti negativi sostenuti
nell’esercizio supera l’ammontare complessivo dei componenti positivi. In quel caso, il bilancio
d’esercizio lascia emergere non un utile, ma una perdita.
Altrettanto può verificarsi anche ai fini fiscali.
Se il bilancio si chiude con una perdita civilisticamente rilevate non è affatto detto però che ci
sia una perdita fiscalmente rilevante.
Addirittura può seguire un reddito imponibile.
Può verificarsi che ad un bilancio civilisticamente che chiude in perdita di 100.000 € (centomila
euro) segua una perdita fiscale di 50.000 € (cinquantamila euro). C’è sempre una perdita fiscale che
segue ad un bilancio che chiude in perdita civile ma comunque diversa numericamente, dal punto di
vista della sua quantificazione.
Il soggetto che svolge attività di impresa e che a chiusura dell’esercizio matura una perdita
fiscalmente rilevante non produce nessuna base di reddito imponibile da sottoporre a tassazione.
Il nostro ordinamento attribuisce rilievo fiscale anche alla perdita.
È pacifico che l’imposta non si può applicare.
L’impresa che subisce una perdita fiscalmente rilevante e che poi l’anno successivo riesca a
chiudere in utile che si trasforma in un reddito imponibile, non può essere sottoposta a tassazione
per l’intero ammontare del reddito imponibile che ha maturato l’anno successivo.
Ciò perché il nostro legislatore è ben consapevole della necessità che l’impresa debba utilizzare
quel reddito imponibile maturato nell’anno successivo per ripianare la perdita subita nell’anno
precedente.
Fin tanto che quella perdita non viene ripianata, sarebbe un’enormità pensare di sottoporre a
tassazione il reddito successivamente prodotto negli anni successivi. Se un’impresa chiude con una
perdita fiscalmente rilevante gli anni successivi, quand’anche produca reddito imponibile, è da
ritenere che il reddito imponibile debba, in primissima battuta, essere impiegato per ripianare le
perdite subite negli anni precedenti, con la conseguenza che non verrà sottoposto a tassazione.
Ma va incontro a dei limiti importanti. Se non ci fossero dei limiti, significherebbe escludere che
dei redditi maturati nell’anno successivo, interamente possano essere sottoposti a tassazione.
Il nostro legislatore ha voluto prevedere che i redditi eventualmente maturati negli esercizi
successivi, non possano essere sottoposti a tassazione all’80% del loro ammontare.
Quindi, l’80% maturato dovrà essere utilizzato per il ripianamento delle perdite pregresse. Sarà
escluso dall’applicazione dell’imposta MA la parte residua, cioè il 20% di quel reddito dovrò
comunque essere sottoposto a tassazione. Quindi ciò significa che c’è un doppio regime nei redditi
maturati negli anni successivi.
Le perdite precedenti scomputeranno il reddito negli anni successivi fino all’80% del loro
ammontare. Il 20% sarà regolarmente sottoposto a tassazione.
Questa regola, il RIPORTO IN AVANTI DELLE PERDITE, si applica naturalmente fin tanto che
c’è perdita da scomputare, da far valere negli anni successivi.
Per esempio, se l’anno scorso ho subito una perdita di 50.000 € (cinquantamila euro) e l’anno
successivo sarà un anno che si chiude con un utile pari a 100.000 € (centomila euro) allora, in
un’ipotesi di questo tipo, la perdita da scomputare potrà essere assorbita interamente nell’anno
successivo.
L’80% di 100.000 € (centomila euro) è 80.000 € (ottantamila euro). Siccome lo scorso anno ho
subito una perdita di 50.000 € (cinquantamila euro) è chiaro che questa perdita è già interamente
assorbita dalla soglia massima del reddito prodotto nell’anno successivo che mi permette appunto di
scomputarla.

Diritto tributario Pagina 150


scomputarla.
Altro esempio. La perdita subita nell’anno precedente è di 100.000 € (centomila euro). L’anno
successivo il reddito imponibile è di 50.000 € (cinquantamila euro).
In questo caso la quota massima del reddito che potrò utilizzare per scomputare una parte della
perdita subita l’anno precedente sarà 40.000 € (quarantamila euro).
10.000 € saranno sottoposti a tassazione regolarmente e avrò diritto a scomputare l’ulteriore perdita
residua da utilizzare negli anni successivi.
Applicando sempre la medesima regola negli esercizi successivi, si dovrà sempre tenere conto della
soglia minima del reddito da utilizzare per scomputare le perdite subite negli anni subite negli anni
precedenti in misura sempre pari all’80%. Non si può superare questa soglia.
Il 20% dovrà sempre essere sottoposto a tassazione.
Questa è la regola del RIPORTO DELLE PERDITE nella disciplina del reddito di impresa.
DOMANDA DEL COLLEGA:
- Se ci sono più perdite in più bilanci?
Si forma in questi casi il c.d. basket. È come se si formasse un canestro, all’interno del quale le
perdite vengono stratificate nel corso del tempo.
Quindi immaginiamo che l’impresa subisca perdite in periodi di imposta successivi. A questo punto
la regola del riporto delle perdite prevede che le prime a dover essere scomputate siano le perdite
più antiche. Quando saranno assorbite le perdite più antiche dai redditi successivi, si potrà prestare
questo basket alla perdite più recenti. Si procede ad una stratificazione osservando questa
rigidissima regola della compensazione delle perdite più antiche fino a quando non saranno
completamente assorbite, nel rispetto sempre della soglia limite dell’80%.

Diritto tributario Pagina 151


LEZIONE 19 (29/04/21)
martedì 26 ottobre 2021 19:52

Dobbiamo cominciare accennando al regime che trova applicazione per la determinazione della base imponibile per gli enti NON
commerciali.
Per la verità è un tema al quale abbiamo già accennato e la regola che stiamo per enunciare trova applicazione rispetto ad un a
platea molto vasta di soggetti passivi perché, quando ci riferiamo alla categoria degli enti non commerciali, facciamo riferi mento
a → enti pubblici, fondazioni, associazioni, comitati, consorzi quindi si tratta davvero di una categoria estremamente vasta.
Definizione di ente non commerciale → l’ente è da considerare non commerciale quando NON ha per oggetto esclusivo o
principale l’esercizio di un’attività commerciale.
Data per assodata la nozione di ente non commerciale rimane da capire:
1. anzitutto se l’ente possa qualificarsi non commerciale sulla base delle determinazioni eventualmente contenute nella legge o
nell’atto costitutivo oppure sulla base di altri elementi;
2. poi, nell’eventualità in cui l’attività non commerciale non sia l’unica svolta dall’ente, come si fa a stabilire se l’ente è non
commerciale o commerciale;
3. infine, bisogna stabilire se anche per gli enti non commerciali si pone un problema circa la individuazione della natura
commerciale o meno dell’attività, cioè si tratta di capire se esiste un criterio specifico da applicare per gli enti non commerciali al
fine di stabilire se l’attività svolta è commerciale o meno.
Per rispondere a questi tre quesiti individuati possiamo innanzitutto affermare che:
1. La natura dell’attività svolta va essenzialmente individuata sulla base di quanto previsto dalla legge se l’ente non comme rciale
è istituito per legge oppure sulla base di quanto stabilito nell’atto costitutivo, nello statuto dell’ente se il documento è redatto
con atto pubblico o scrittura privata autenticata, viceversa bisognerebbe guardare all’attività effettivamente svolta dall’en te. In
mancanza di riferimento esplicito all’interno della legge o dell’atto costitutivo sarà quindi necessario guardare all’attività così
come concretamente svolta.
2. Che poi l’attività possa essere considerata principale o meno dipende da un’unica circostanza cioè → se questa attività è
essenziale per realizzare quelli che sono gli scopi primari di questo ente non commerciale. Gli scopi saranno quelli indicati nella
legge se si tratta di ente non commerciale istituito per legge oppure nello statuto, nell’atto costitutivo se l’ente non commerciale
è istituito per contratto, per scrittura privata autenticata. Nell’eventualità in cui legge e statuto non dicano nulla allora sarà
indispensabile verificare l’attività effettivamente svolta. Da ciò, quindi, si evince che anche per comprendere se l’attività
effettivamente svolta sia o non sia primaria occorre indagare per via di fatto.
3. L’ultimo quesito è quello di più facile soluzione perché è pacifico che anche per gli enti non commerciali la natura commerciale
o no dell’attività eventualmente svolta va verificata in maniera molto semplice guardando cioè al contenuto dell’art. 55 del testo
unico, la norma che definisce l’attività di impresa. Dunque, tutte le volte in cui l’ente non commerciale abbia
per oggetto attività ascrivibili ad una di quelle indicate nell’art. 55 (ad esempio una attività di intermediazione nella cir colazione
dei beni) allora è pacifica la classificazione dell’attività come attività commerciale.
Per questa particolare categoria di soggetti naturalmente deve porsi un problema → cioè la possibilità di perdere la natura di
ente non commerciale. È pacifico che questi soggetti, nell’eventualità in cui inizino, anche nel corso della loro vita, ad es ercitare
in via prevalente o esclusiva attività commerciali, perdano inevitabilmente la natura di enti non commerciali. Quindi, se una
simile evenienza dovesse verificarsi, certamente l’ente non commerciale perderebbe il diritto di applicare il regime fiscale
riservato agli enti non commerciali con la conseguenza che diverrebbe applicabile il regime dell’impresa ordinario cioè quell o
tipico degli enti commerciali.
Allora qual è la differenza fondamentale? Certamente la prima fondamentale differenza è quella delle modalità di
determinazione della base imponibile.
a) Gli enti non commerciali sono enti - e quindi soggetti passivi del tributo - che astrattamente potrebbero produrre redditi
fondiari, redditi di capitali, redditi diversi e redditi di impresa.
b) Gli enti commerciali sono soggetti che, per definizione, al pari delle società di capitali producono esclusivamente un’uni ca
categoria di reddito: il reddito d’impresa.
La differenza è quindi enorme perché → il fatto che l’ordinamento riconosca ai primi astrattamente la possibilità di produrre
categorie reddituali diverse e preveda invece per gli enti commerciali che si debba presumere ex lege che l’unica categoria di
reddito che può essere prodotta è esclusivamente il reddito d’impresa provoca conseguenze determinanti:
a) Per gli enti NON commerciali.
Anzitutto per quanto concerne il punto di determinazione della base imponibile l’ente non commerciale, a seconda della
categoria di reddito prodotta, applicherà le regole tipiche di ciascuna delle quattro categorie quindi nei limiti dell’attivi tà di
impresa svolta saranno applicate le regole stabilite per la determinazione del reddito d’impresa. Viceversa, laddove l’ente n on
commerciale dovesse produrre - per esempio - redditi di capitali, allora quei redditi non sarebbero più componenti positivi di
reddito d’impresa ma sarebbero redditi di capitali ai quali applicare le regole precipue di quella categoria di reddito. Quin di, in
definitiva, per gli enti non commerciali le modalità di determinazione della base imponibile sono le medesime che già conosci amo
per le persone fisiche cioè si tratta di sommare algebricamente le singole categorie di reddito prodotte.
Però, ATTENZIONE! → Il parallelo, che certamente esiste, tra le modalità di determinazione della base imponibile degli enti non
commerciali e le modalità di determinazione della base imponibile delle persone fisiche si ferma qui! Si ferma sulla
determinazione del reddito complessivo perché, una volta che si è stabilito quali categorie di reddito si producono e si fa l a
somma algebrica tra le varie categorie di reddito prodotte, si determina il reddito complessivo. Sta qui l’analogia tra la di sciplina

Diritto tributario Pagina 152


somma algebrica tra le varie categorie di reddito prodotte, si determina il reddito complessivo. Sta qui l’analogia tra la di sciplina
degli enti non commerciali che sono soggetti passivi di IRES e la disciplina delle persone fisiche che sono soggetti passivi
dell’IRPEF. L’analogia si ferma qui (importante per l’esame!!!) nel senso che una volta che viene determinato secondo regole
analoghe il reddito complessivo poi l’imposta che si applica torna ad essere diversa! La persona fisica a quel reddito complessivo
applica l’IRPEF, con le aliquote progressive e il meccanismo di applicazione dell’imposta che conosciamo.
Invece, gli enti non commerciali applicheranno al reddito l’IRES che certamente NON è un’imposta progressiva. Semmai, si può
dire che l’IRES è un’imposta proporzionale e quindi si applica certamente attraverso un’unica aliquota in misura pari al 24%.
b) Per gli enti commerciali.
Gli enti commerciali, invece, sono in tutto e per tutto sovrapposti nella disciplina dell’IRES alla grande categoria delle so cietà di
capitali. Società di capitali ed enti commerciali sono certamente soggetti passivi da tenere distinti ma, quanto alla discipl ina
fiscale, è identica sia quanto alle modalità di determinazione della base imponibile sia quanto all’applicazione dell’IRES st essa.
Gli enti non commerciali, limitatamente all’attività commerciale svolta, sono sicuramente tenuti all’istituzione della contab ilità
separata. Quindi, l’ente non commerciale, in questa evenienza, dovrà pure tracciare in maniera chiara quali sono e quali no i beni
relativi all’impresa. Questa è una precisazione fondamentale che abbiamo tenuto presente quando ci siamo occupati della
disciplina dell’impresa svolta nella forma dell’impresa individuale, per le persone fisiche. Per gli enti non commerciali si pone
esattamente il medesimo problema. La distinzione va fatta perché, al pari di quanto avviene per le persone fisiche, gli enti non
commerciali devono essere in grado di stabilire se le vicende che hanno per oggetto questi beni sono o meno vicende che
generano componenti positivi o negativi di reddito d’impresa. IL TRUST
Quanto poi ai soggetti passivi dell’IRES si può notare che, nell’elencazione dei soggetti passivi e, per la verità, sia per g li enti
commerciali che non commerciali, è possibile accennare anche al trust. Se si legge l’art. 73 del testo unico si troverà che,
rispettivamente nella seconda e nella terza categoria, accanto agli enti commerciali e non commerciali sono indicati i trust.
Bisogna capire in base a quale discrimine è possibile stabilire se il trust è soggetto passivo IRES così come lo è un ente
commerciale o un ente non commerciale. In base a quale valutazione si può stabilire se il trust è effettivamente un soggetto
passivo ai fini IRES? → Per rispondere a questa domanda occorre necessariamente sapere se il trust è trasparente o opaco.
1. Il trust trasparente è quello che consente di individuare immediatamente quali sono i soggetti beneficiari di questa
disposizione patrimoniale. In tal caso il trust non sarà soggetto passivo ai fini dell’IRES perché i redditi eventualmente pr odotti dal
trust saranno immediatamente sottoposti a tassazione in capo al beneficiario sotto forma di redditi di capitale.
2. Il trust opaco è, invece, la disposizione che NON consente di individuare chi sia il beneficiario effettivo del trust. In questa
ipotesi il trust diventa direttamente dotato di soggettività passiva, quindi ciò significa che → i redditi eventualmente prodotti dal
trust dovranno essere tassati in capo al trust e questa è la ragione per cui si trova il trust tra i soggetti passivi dell’IRES –
distintamente - insieme o alla categoria degli enti commerciali o alla categoria degli enti non commerciali (questo dipende dalla
tipologia dei redditi prodotti dal trust stesso).
MODALITÀ DI DETERMINAZIONE DEL REDDITO D’IMPRESA
Si apre questo vasto capitolo comune alla disciplina dell’IRPEF e dell’IRES perché si tratta di modalità di determinazione ch e
vanno tenute presenti - e quindi da applicare - sia nel caso in cui l’impresa sia svolta in forma individuale sia nel caso in cui
l’impresa sia svolta attraverso una forma diversa e quindi nella forma delle società di capitali, nella forma anche delle soc ietà di
persone (perché sappiamo che le società di persone producono reddito d’impresa, seppure poi sottoposto a tassazione
direttamente in capo ai soci), enti commerciali, non commerciali e via dicendo.
Per affrontare in maniera quanto più chiara possibile questo tema, che è uno dei più complessi dell’intera materia, dobbiamo
prendere le mosse da un argomento già noto dallo studio del diritto commerciale: il bilancio di esercizio. La tendenza ad un
sostanziale ravvicinamento delle due discipline (diritto commerciale e diritto tributario) è quanto mai forte, soprattutto negli
ultimi anni.
Se volessimo anzitutto creare alcune fondamentali distinzioni che è possibile rintracciare nella categoria di coloro che producono
reddito d’impresa possiamo certamente dire che questi soggetti vanno ripartiti in tre grosse categorie:
1. La prima categoria è costituita dai soggetti che applicano i principi contabili internazionali;
2. la seconda categoria è rappresentata da coloro che applicano le regole del codice civile e quindi, applicando tali regole,
redigono il bilancio osservando i principi contabili nazionali;
3. la terza categoria è invece costituita dalle cc.dd. microimprese che hanno la possibilità di redigere il bilancio in forma
abbreviata, quindi la possibilità di accedere ad una particolare semplificazione nella redazione del bilancio di esercizio.
BILANCIO D’ESERCIZIO: struttura e funzioni delle scritture.
Se volessimo dare un’indicazione di massima dovremmo certamente ricordare che il bilancio d’esercizio si costituisce di diverse
scritture: da una parte lo stato patrimoniale, dall’altra il conto economico, il rendiconto finanziario e la nota integrativa . Si
compone quindi attualmente di quattro scritture e in particolare quelle che, sotto il profilo fiscale, più richiamano la nostra
attenzione sono le prime due (stato patrimoniale e conto economico).
Le funzioni delle prime due scritture sono profondamente diverse.
a) la funzione dello stato patrimoniale è la funzione della rappresentazione del patrimonio in senso statico quindi, attraver so la
rappresentazione delle attività e delle passività di un’impresa, si intende fotografare al 31 dicembre di ogni anno qual è la
consistenza dell’attivo e del passivo dello stato patrimoniale. Attività: per attività si deve intendere l’insieme delle
immobilizzazioni, gli insiemi materiali e immateriali, l’insieme delle attività circolanti e poi dei crediti. Passività: tra le passività si
potrebbe invece annoverare l’ammontare dei debiti.
b) la funzione a cui assolve il conto economico è profondamente diversa. Il conto economico non rappresenta attività e passiv ità
dell’impresa ad una certa data ma rappresenta il risultato dell’attività svolta nel corso del periodo preso a riferimento. Qu indi, se
l’imprenditore redige il conto economico, al 31 dicembre 2020 è chiamato attraverso quella scrittura a rappresentare
dinamicamente il risultato dell’esercizio 2020 rappresentando

Diritto tributario Pagina 153


dinamicamente il risultato dell’esercizio 2020 rappresentando
appunto l’ammontare dei ricavi e l’ammontare dei costi. Il risultato del conto economico è il risultato dell’esercizio e si esprime
attraverso l’utile o la perdita. In estrema sintesi: tutte le volte in cui i componenti negativi superano quelli positivi si determinerà
un risultato dell’esercizio negativo, una perdita e, viceversa, quando i componenti positivi del conto economico sono esuberanti
rispetto ai negativi si determinerà un differenziale positivo che si esprime attraverso l’utile di esercizio.
Soffermandoci sul conto economico, la rappresentazione delle attività svolte nel corso dell’esercizio è una rappresentazione che il
codice civile impone di fare sulla base di principi che sono TIPICI del diritto civile, ulteriormente precisati attraverso la corretta
applicazione dei principi contabili nazionali, cioè quelli redatti dall’Organismo italiano di contabilità.
Dunque, la logica a cui risponde la redazione del bilancio di esercizio così come desumibile sia dal codice civile sia dai pr incipi
contabili nazionali è una logica tutta peculiare, per certi versi totalmente diversa invece dalla logica che presiede la
determinazione del reddito d’impresa.
Quando l’impresa redige il bilancio osservando le disposizioni del codice civile e, in definitiva, anche tutte le puntualizzazioni
contenute nei principi contabili nazionali, si richiede che la scrittura sia capace di rappresentare bene l’impresa a tutela della
posizione dei terzi che con l’impresa entrano in relazione. Questo perché la redazione del bilancio d’esercizio risponde
essenzialmente alla finalità di tutelare tutti coloro che entrano in relazione con l’impresa dunque, essenzialmente, i creditori.
L’esigenza che, invece, è posta a presidio della disciplina fiscale è un’esigenza profondamente diversa. Qui non si tratta pi ù di
tutelare i creditori ma viceversa si tratta di tutelare le ragioni dell’erario e quindi si tratta di posizioni profondamente diverse.
Questa è la ragione per la quale spesso la disciplina civilistica posta a presidio della redazione del bilancio d’esercizio diverge
rispetto alla disciplina che invece è volta a bene quantificare i componenti positivi e negativi del reddito di impresa!
La quantificazione dei componenti positivi e negativi ai fini del reddito di impresa è una quantificazione che deve rispondere alle
leggi fiscali. Le norme fiscali mirano da una parte a tutelare la ragione dell’erario, dall’altra ad evitare possibili conten ziosi con il
contribuente. La quantificazione potrebbe incidere ampliando o restringendo la misura dei componenti positivi e negativi di
reddito. Ci sono componenti negativi di reddito, si pensi per esempio ad un costo che → civilisticamente si impone che venga
rilevato perché è semplicemente probabile e allora, nell’ottica della tutela dei terzi, creditori dell’impresa, la passività va
sicuramente rilevata; nella dinamica del reddito d’impresa, invece, tutto questo non accade affatto perché il componente
negativo è rilevante nella determinazione del reddito d’impresa SOLO SE certo e non probabile. Il costo esclusivamente probab ile
è del tutto irrilevante dal punto di vista fiscale! Il costo rileva fiscalmente solo se certo sulla base della disciplina des umibile dalle
norme che studieremo.
Quindi, in definitiva, la rappresentazione del bilancio d’esercizio fatta applicando le disposizioni civilistiche è una
rappresentazione che, per lo studioso di diritto tributario, costituisce semplicemente un primo passo: è il dato dal quale mu overe
(perché così è previsto dalla legge) per finalmente stimare qual è il reddito imponibile.
Esempio → immaginiamo che l’impresa abbia redatto, applicando correttamente le disposizioni civilistiche e i principi contabili
nazionali, il proprio risultato d’esercizio. Poi immaginiamo che tale risultato di esercizio sia un utile, per esempio conseg uito in
misura pari a 50.000 euro. Sarebbe un errore clamoroso (da non fare all’esame!!!) ritenere che il reddito imponibile,
immaginando che il reddito di impresa sia l’unico realizzato dal soggetto passivo, corrisponde esattamente all’utile dell’ese rcizio
determinato applicando la disciplina del codice civile. Non è così! Non è così perché l’utile o la perdita civilisticamente r ilevanti,
quindi il risultato dell’esercizio, sono esclusivamente il dato di partenza. Sarà poi a questo dato di partenza applicare le
disposizioni fiscali. Queste disposizioni fiscali non sono norme che incidono direttamente sul risultato dell’esercizio così come lo
leggiamo aprendo il bilancio civilistico. Sono norme che invece incidono sulla quantificazione dei singoli componenti positiv i e
negativi che già sono contenuti nel bilancio d’esercizio. Quindi, se io nel bilancio d’esercizio ho per esempio rappresentati ricavi
per 300.000 euro l’applicazione della disciplina fiscale sarà possibilmente orientata a modificare la misura dei ricavi. Modi ficando
la misura dei ricavi il risultato del bilancio cambia. Se io ho ricavi per 300.000 euro e in virtù delle disposizioni contenu te nel testo
unico quei ricavi devono essere aumentati a 350.000 per ragioni che poi vedremo è chiaro che il risultato dell’esercizio sarà un
più 50.000. Quale che sia il risultato del bilancio civilisticamente redatto l’applicazione della norma fiscale incide NON
direttamente sul risultato ma sul singolo componente positivo o negativo del reddito d’impresa determinando così
indirettamente una modifica del risultato finale, cioè il risultato dell’esercizio. Allora, da tale esempio, si può capire qu ale sia il
rapporto che corre tra reddito imponibile ai fini fiscali e risultato d’esercizio. Il reddito d’impresa è calcolato in base a l bilancio
quindi il bilancio costituisce il dato da cui muovere per la quantificazione del reddito d’impresa imponibile ai fini fiscali .
L’art. 83 del testo unico è la norma cardine e afferma quello che comunemente chiamiamo principio di derivazione che sta a
significare che → il reddito complessivo (cioè il reddito imponibile, quello fiscalmente rilevante) è determinato apportando
all’utile o alla perdita risultante dal conto economico del bilancio civilisticamente redatto le variazioni in aumento o in
diminuzione che derivano dall’applicazione delle norme fiscali.
L’art. 83 ci dice che le variazioni in aumento o in diminuzione sono apportate all’utile o alla perdita quindi, sotto questo profilo,
sembra quasi che prima sia stata detta una cosa sbagliata ma non è così! La variazione in aumento o in diminuzione è solo
MEDIATAMENTE sull’utile o sulla perdita dell’esercizio perché l’utile o la perdita dell’esercizio risente della variazione del
componente positivo o negativo.
Quando in bilancio troviamo l’ammortamento che, per definizione, è un componente negativo (si trova allocato nella sezione de i
costi del conto economico) se io questo ammortamento, in virtù delle disposizioni fiscali, lo devo ridurre → la riduzione cosa
provoca? Provoca un incremento dell’utile. Se io diminuisco un componente negativo perché la norma fiscale mi impone di
ridurne l’ammontare, questa variazione in diminuzione provoca un innalzamento del risultato e del conto economico e quindi un
reddito imponibile più elevato rispetto all’utile risultante dal bilancio d’esercizio.
Quando leggiamo l’art. 83 ora sappiamo che le variazioni in aumento o in diminuzione non sono direttamente operate sul
risultato del bilancio ma sono operate sugli elementi da cui scaturisce quel risultato e cioè i componenti positivi e negativ i del
bilancio.

Diritto tributario Pagina 154


bilancio.
Ora cerchiamo di esemplificare qualche possibile ipotesi di variazione in aumento e qualche possibile ipotesi di variazione i n
diminuzione. Studiando ciascuno dei componenti positivi e ciascuno dei componenti negativi del reddito d’impresa troveremo
sempre puntuale conferma di quello che abbiamo detto. a) Le variazioni in aumento potrebbero dipendere da norme molto
diverse tra loro. Le variazioni in aumento all’utile o alla perdita potrebbero essere determinate o da una maggiore consisten za di
componenti positivi o da una minore consistenza di componenti negativi.
Esempio: si può trarre come esempio quello fatto pocanzi sull’ammortamento che, in virtù dell’applicazione della norma fiscal e, si
riduce. È l’ipotesi classica del componente negativo che si riduce e che determina una variazione in aumento al risultato del
bilancio d’esercizio.
La variazione in aumento può dipendere pure da una norma diversa, per esempio la norma che mi costringe ad includere tra i
ricavi il valore normale del bene destinato all’autoconsumo dell’imprenditore. Esempio: l’imprenditore individuale che acquis ta il
bene merce (un paio di scarpe) perché ha un’attività di compravendita di calzature e che sceglie di prelevare dal magazzino u n
paio di scarpe per destinarle all’uso proprio o di un proprio familiare effettua un’operazione che NON è irrilevante ai fini fiscali.
Perché? Perché anche se non ha percepito un corrispettivo il valore normale di quel bene concorre a determinare i ricavi. Questa
è l’ipotesi di una variazione in aumento. Un’operazione di questo tipo nel bilancio civilisticamente redatto non avrebbe alcu n
rilievo. Quindi io mi troverei ricavi indicati nel bilancio civilistico al netto del valore normale del paio di scarpe ma quando poi
l’imprenditore dovrà redigere la dichiarazione dei redditi all’utile del bilancio d’esercizio dovrà apportare una variazione in
aumento in misura corrispondente al valore normale del bene destinato all’autoconsumo.
b) Le variazioni in diminuzione, specularmente, potrebbero essere generate o da una diminuzione di componenti positivi già
registrati nel bilancio civilisticamente redatto o in un incremento dei componenti negativi già registrati nel bilancio d’esercizio.
Si tratta di fenomeni perfettamente speculari, la logica di fondo è la medesima. Rispetto ai soggetti passivi dell’IRES - ma questo
vale in particolare non per tutti ma solo per società di capitali ed enti commerciali - vale la regola secondo la quale tutti i beni
sono necessariamente beni relativi all’impresa.
Per gli enti non commerciali, invece, si pone il problema (come abbiamo appena finito di dire) di stabilire quali sono i beni e quali
non relativi all’impresa. La logica è sempre quella delle persone fisiche, quindi bisogna verificare l’iscrizione dei beni nel libro degli
inventari.
Per le società di capitali e per gli enti commerciali, invece, i beni acquistati nell’esercizio dell’impresa sono sempre
necessariamente beni relativi all’impresa. Quando parliamo di beni relativi all’impresa nello specifico ambito in cui ci trov iamo,
quindi nella determinazione del reddito d’impresa, dobbiamo necessariamente operare una distinzione perché vero è che tutti
sono beni relativi all’impresa ma i beni relativi all’impresa sono o beni merce o beni strumentali o beni meramente patrimoni ali.
Questa tripartizione dei beni relativi all’impresa è fondamentale ed è possibile tracciarla a seconda delle modalità impiegate per
la registrazione del cespite nelle scritture contabili.
Come si fa quindi a stabilire se il bene è un bene merce, un bene strumentale o un bene meramente patrimoniale?
→ Lo si stabilisce proprio guardando alle scritture contabili. La scelta che l’imprenditore fa nella destinazione del cespite o del
bene è desumibile dalle scritture contabili. Perché è tanto importante sapere con esattezza a quale categoria è iscritto il bene?
→ Perché le vicende dei beni relativi all’impresa sono vicende che generano componenti negativi e positivi di reddito d’impresa,
quindi se un bene relativo all’impresa costituisce oggetto di una operazione o vicenda allora è chiaro che l’operazione effet tuata
sarà foriera di conseguenze redditualmente rilevanti o sotto forma di componenti positivi o sotto forma di componenti negativ i di
reddito d’impresa. Bene merce → allora è tanto importante distinguerli perché, se sappiamo ab origine che l’operazione indaga ta
è un’operazione che ha avuto per oggetto un bene merce, le conseguenze sul piano reddituale potranno essere esclusivamente di
un certo tipo. Si tratterà cioè di una vicenda che potrà in più avere generato costi e ricavi. Bene strumentale → se invece
l’operazione ha per oggetto un bene strumentale la vicenda che interessa quel cespite non potrà MAI generare costi e ricavi m a
genererà componenti positivi e negativi di reddito diversi che si chiamano rispettivamente: plusvalenze, minusvalenze,
ammortamento. Bene meramente patrimoniale → quando parliamo di beni meramente patrimoniali intendiamo riferirci a una
terza categoria che genera componenti positivi e negativi in parte sovrapponibili a quelli che abbiamo menzionato in relazion e ai
beni strumentali, quindi plusvalenze e minusvalenze ma NON ammortamento perché i beni meramente patrimoniali generano un
reddito pari al reddito fondiario. Le ricadute fiscali di questa categoria di beni sono diverse rispetto a quelle degli altri beni
esaminati fin qui.
Si vede quindi come i componenti positivi e negativi del reddito d’impresa cambiano perché cambiano i beni che possono essere
coinvolti dall’attività imprenditoriale.
Sapere con certezza se il bene è merce, strumentale o meramente patrimoniale è possibile stabilirlo, come abbiamo già
accennato, guardando le scritture contabili e in particolare guardando al bilancio e, all’interno dello stesso, allo stato
patrimoniale. Questa volta la nostra attenzione cambia prospettiva, non è più volta al conto economico. Come lo stato
patrimoniale offre le risposte alle nostre domande?
Bene merce → se si tratta di beni merce questi beni dovranno essere iscritti tra le attività circolanti, tra le voci di attivo circolante
dello stato patrimoniale, quindi la voce “a” dello stato patrimoniale recante al suo interno le attività circolanti che sono i beni
destinati allo svolgimento dell’attività d’impresa che realizzano un impiego transitorio della liquidità. Esempio: se io, tornando
all’esempio dell’imprenditore che esercita un’attività che ha per oggetto la compravendita di calzature, impiego liquidità per
acquistare scarpe e per ritrarne in tempi brevissimi altra liquidità attraverso la loro cessione è pacifico che questi sono beni merce
cioè beni che vengono iscritti tra le attività circolanti perché nel breve periodo sono stati acquistati dall’impresa con l’obiettivo di
essere immediatamente dopo ceduti perché sono l’oggetto dell’attività stessa. Tra le attività circolanti ci si trova anche molto
altro: le partecipazioni sociali → se l’impresa acquista la partecipazione in un’altra impresa costituita sotto forma di soci età e
questa partecipazione non rappresenta altro se non un impiego transitorio di capitale (è una partecipazione
che l’imprenditore sa già di voler cedere nell’arco di 12 mesi, quindi è un impiego transitorio di capitale) anche la parteci pazione

Diritto tributario Pagina 155


che l’imprenditore sa già di voler cedere nell’arco di 12 mesi, quindi è un impiego transitorio di capitale) anche la parteci pazione
sociale è un’attività circolante. Si tratta quindi di una categoria estremamente ricca.
Bene strumentale → dove invece saranno iscritti i beni strumentali? I beni strumentali sono quelli destinati ad essere
durevolmente impiegati nello svolgimento dell’attività d’impresa quindi qui non si tratta più di un impiego transitorio di ca pitale
ma di un capitale stabilmente investito. Esempio: l’imprenditore che acquista un macchinario indispensabile per il funzionamento
dell’impianto industriale. Se il cespite è iscritto non tra le attività circolanti ma sub lettera “b” tra le immobilizzazioni allora è
chiaro che si tratta di un bene strumentale.
Bene meramente patrimoniale → la terza categoria, quella dei beni meramente patrimoniali, si trova pure certamente indicata
tra le attività dello stato patrimoniale ma in una posizione residuale rispetto alle prime due perché si tratta di cespiti ch e non
sono neppure destinati durevolmente allo svolgimento dell’attività d’impresa. Si tratta di beni cc.dd. meramente patrimonio
quindi dei beni acquistati per essere semplicemente mantenuti nel patrimonio dell’impresa.
PRINCIPI GENERALI DEL REDDITO D’IMPRESA
Vediamo di comprendere concretamente quali siano i principi generali che presiedono alla determinazione di questa particolare
categoria di reddito. Principio di competenza: è il primo principio generale. Tale principio risolve uno dei principali probl emi della
corretta determinazione del reddito d’impresa cioè quello dell’imputazione temporale. L’obbligazione tributaria in tema di
imposte sul reddito è un’obbligazione periodica, esiste l’obbligo di pagare l’imposta anno dopo anno e dunque la prima
fondamentale questione da risolvere, posto che il reddito d’impresa è un reddito che si determina per differenza tra componen ti
positivi e negativi, è quello di stabilire il singolo componente reddituale a quale periodo di imposta debba essere imputato.
Il principio di competenza lo stiamo studiando in maniera estesa solo adesso perché tutte le categorie reddituali fin qui
menzionate applicano l’opposto principio: il principio di cassa. Il principio di cassa impone di ritenere rilevante il reddito nel
momento in cui viene effettivamente conseguito.
Qui ci troviamo in una categoria di reddito nella quale non esistono soltanto componenti positivi quindi non si tratta soltan to di
dire semplicemente che il reddito è conseguito in un determinato momento ma si tratta di stabilire una cosa più complessa cio è
→ in quale momento abbiamo titolo a ritenere conseguito un componente positivo e sostenuto un componente negativo perché
appunto il reddito di cui parliamo si determina per somma algebrica tra componenti positivi e negativi.
La regola generale è quella che: il componente positivo e quello negativo si intendono rispettivamente conseguiti e sostenuti nel
momento in cui sorge il diritto a percepirlo o l’obbligo a sostenerlo.
Se si tratta di componente positivo bisogna guardare al momento in cui sorge il diritto a conseguire quel provento, se invece si
tratta di componente negativo occorre guardare al periodo d’imposta in cui sorge l’obbligo di sostenere quel costo.
Quale che sia il fronte al quale guardiamo è chiaro che si rileva il momento giuridico dell’operazione, non il momento finanz iario.
Il principio di cassa guarda al momento finanziario, il momento in cui il reddito è stato conseguito.
Il principio di competenza guarda invece ad un momento completamente diverso: quello GIURIDICO! Perché giuridico? Perché se
si tratta di:
a) componente positivo si guarda al momento in cui sorge il DIRITTO a conseguire;
b) componente negativo si guarda al momento in cui sorge l’OBBLIGO a pagare.
Quando sorge il diritto o l’obbligo?
A questa domanda risponde l’art. 109 del testo unico facendo una distinzione fondamentale tra cessione di beni e prestazioni di
servizi.
1. Cessione di beni → nell’ambito delle cessioni di beni l’art. 109 distingue tra cessione di beni mobili e cessione di beni immobili.
a. Beni mobili: il ricavo si intende conseguito e il costo sostenuto - se l’operazione ha per oggetto una cessione di beni mobili -
quando il bene viene consegnato o spedito. L’operazione di cessione di beni mobili si deve tenere presente come operazione che
coinvolge due soggetti (cedente e cessionario) → chi acquista sostiene il costo, chi vende consegue un ricavo. Il principio di
competenza ci dice che il costo e il ricavo correlati a questa operazione di compravendita di bene mobile si intendono
rispettivamente sostenuto e conseguito nel momento in cui il bene mobile viene consegnato o spedito (questo è il momento
giuridico che rileva).
b. Beni immobili: invece, quando l’operazione ha per oggetto la cessione di un bene immobile, il momento in cui costo e ricav o si
intendono rispettivamente sostenuto e conseguito è rappresentato dal momento in cui viene perfezionato l’atto di
compravendita, quindi la redazione dell’atto pubblico.
2. Prestazioni di servizi → se le operazioni hanno per oggetto prestazioni di servizi, costi e ricavi si imputano nel periodo in cui la
prestazione è ultimata. Nel periodo di imposta in cui la prestazione è ultimata costi e ricavi rilevano fiscalmente.
Principio di correlazione costi e ricavi: immediatamente a completamento del principio di competenza dobbiamo trattare un
diverso principio che però è strettamente correlato a quello spiegato fin qui. Questo diverso principio è noto come principio di
correlazione costi e ricavi. Abbiamo già accennato, nel principio di competenza, che da una medesima operazione scaturisce per
due soggetti diversi (quelli coinvolti nell’operazione) un costo o un ricavo. Esempio: se ipotizziamo un’operazione di
compravendita di un bene mobile allora è chiaro che c’è chi vende e chi acquista. Immaginiamo che l’acquirente del bene sia u n
imprenditore quindi un soggetto che esercita a sua volta l’attività di compravendita. Immaginiamo inoltre, per semplicità, ch e si
tratti di un grossista il quale acquista la merce dal suo fornitore che attendibilmente sarà
anche chi lo produce e a sua volta rivende i beni acquistati ai dettaglianti. Dall’acquisto del bene in capo a questo grossis ta che
tipo di operazioni potrebbero generarsi? Da una parte un acquisto che per lui genera un costo e dall’altra un ricavo quando l o
stesso bene sarà ceduto ai suoi clienti. Lo stesso bene genera in capo ad un soggetto che svolge attività d’impresa in linea di
principio prima un costo e poi un ricavo. Cosa prevede il principio di correlazione costi e ricavi?
Impone a chi esercita attività d’impresa che il costo sostenuto per l’acquisto di un determinato bene (SOLO SE si tratta di b ene
merce) debba essere dedotto fiscalmente soltanto nel medesimo periodo di imposta in cui quel bene genera anche il
corrispondente ricavo.

Diritto tributario Pagina 156


corrispondente ricavo.
Se il costo sostenuto per l’acquisto e il ricavo derivante dalla vendita di quel bene sono rilevanti nello stesso periodo di imposta
allora il costo può essere dedotto fiscalmente e il ricavo concorrerà alla determinazione del risultato d’esercizio perché il principio
di correlazione, in questo caso, è rispettato. Viceversa, quando – e succede un’infinità di volte – il bene merce viene acquistato
nel 2019 e per una ragione x l’imprenditore non riesce a venderlo ai suoi clienti per cui il bene rimane in magazzino, vuol d ire che
il ricavo non si è conseguito.
La rigorosa applicazione del principio di correlazione costi e ricavi impone di sospendere dal punto di vista fiscale il rili evo del
costo, cioè il costo sostenuto per l’acquisto fiscalmente NON PUÒ essere dedotto, dovrà essere dedotto nell’esercizio in cui
finalmente quel bene sarà anche venduto.
Esempio: Immaginando che quel bene sia stato acquistato nel 2019 ma non venduto entro il 31 dicembre dello stesso anno e
immaginando che l’imprenditore lo sia riuscito a vendere poi nel 2020 allora il costo sostenuto nel 2019 sarà deducibile nel 2020
perché nel 2020 l’impresa ha conseguito il ricavo derivante da quella cessione. Ma allora il principio di competenza che fine fa?
Come si coniuga l’esigenza di rispettare un principio e poi l’altro?
Lo scopriremo quando studieremo le rimanenze di magazzino. Per rispettare il principio di correlazione costi e ricavi si ricorre ad
un artificio contabile che consiste nel fatto che il costo viene rilevato nel 2019 ma dal punto di vista contabile lo si sosp ende
fittiziamente, rinviandone la deducibilità nel periodo d’imposta successivo. Lo si sospende annotando contabilmente un
componente positivo di pari ammontare! Le rimanenze finali di magazzino sono i beni merce invenduti al 31 dicembre. Da una
parte allora si annota il costo - perché il principio di competenza impone di rilevare il costo nel momento in cui il bene è stato
consegnato dal fornitore - dall’altra però - siccome si deve rispettare il principio di correlazione costi e ricavi – bisogna
temporaneamente sospendere il peso fiscale di questo costo annotando tra i componenti positivi le rimanenze di magazzino e
AZZERANDO sostanzialmente le due partite sul piano reddituale. L’operazione di acquisto del bene, ancora, sul piano fiscale n on
ha determinato alcuna refluenza. È l’artificio contabile costituito dall’indicazione in bilancio delle rimanenze finali che c onsente di
sospendere temporaneamente la rilevanza fiscale di questa operazione di compravendita del bene rimasto invenduto.
Una collega chiede cosa succede nel caso in cui una determinata merce rimane invenduta anche nell’anno successivo.
La Professoressa risponde che succede esattamente la stessa cosa. Le rimanenze finali del 31 dicembre al I gennaio dell’anno
successivo diventano rimanenze iniziali e diventano componente (questa volta) negativo. Se quel bene, che è parte delle
rimanenze iniziali, al I gennaio rimane anche presente alle finali al 31 dicembre ancora una volta le partite si azzerano perché le
rimanenze iniziali sono componente negativo e le finali positivo. Se quindi poi il cespite rimane presente tanto nelle une quanto
nelle altre l’effetto della sospensione rimane invariato anche nell’anno successivo. Sul piano reddituale le conseguenze
emergeranno quando finalmente quel bene uscirà dalle rimanenze perché verrà venduto. In quel periodo di imposta rileveranno
sia il costo che il ricavo. Sul piano reddituale ciò ha una conseguenza → normalmente il costo è inferiore al ricavo e quindi il
differenziale genererà risultato d’esercizio redditualmente rilevante.
Non tutti i componenti reddituali possono sempre rispettare il principio di competenza!
Tale principio ha sicuramente carattere generale ma poi l’ordinamento prevede anche delle possibili deroghe alla sua
applicazione.
La deroga fondamentale da ricordare è quella che prevede che la deducibilità di un costo possa essere posticipata ad un tempo
successivo in tutti i casi in cui al termine dell’esercizio questo costo risulti incerto, incerto nell’an o nel quantum.
Cosa vuol dire? → Il costo risulta incerto sul “se” o sul “quanto”.
a. Dire che il costo risulta incerto sul “se” significa semplicemente affermare che non è ancora certo che il costo sarà
effettivamente sostenuto. Questo potrebbe per esempio accadere tutte le volte in cui ci sia un’incertezza in ragione di specifiche
pattuizioni contrattuali intervenute tra le parti, quindi l’incertezza giuridica di un costo da che cosa potrebbe scaturire s e non
dalla circostanza che al 31 dicembre in virtù di applicazione delle clausole del contratto non è ancora pacifico che quel cos to
debba essere sostenuto.
b. L’incertezza sul quantum, invece, attiene ad un profilo diverso. Il costo è certo che sarà sostenuto ma non è ancora
determinabile esattamente nel suo ammontare.
Quando il costo al 31 dicembre di ogni anno non sia ancora determinato con certezza nel suo ammontare o ancora non sia certo
se effettivamente dovrà essere sostenuto il nostro legislatore, all’art. 109, ha espressamente previsto che debba essere
posticipata la deduzione ad un periodo di imposta successivo cioè a quell’esercizio in cui questi due profili approderanno al la
certezza. Quando il costo potrà essere ritenuto finalmente certo nell’anno e nel quantum allora potrà essere fiscalmente dedotto
anche in deroga alla regola generale.
La delicatezza di tale tema esaminato è tale che bisogna sapere che moltissime liti tra amministrazione finanziaria e contrib uente
vertono proprio su problemi che investono una pretesa erronea di imputazione temporale di componenti negativi o positivi al
periodo di imposta. Spesso e volentieri l’amministrazione finanziaria rettifica la dichiarazione dell’imprenditore sostenendo che
quest’ultimo abbia applicato male il principio di competenza e quindi, per effetto di questo errore, ha imputato al periodo d i
imposta sbagliato un componente negativo che invece doveva essere imputato (per esempio) ad un periodo di imposta
successivo. L’erronea imputazione
temporale di un componente negativo produce conseguenze rilevantissime sul risultato perché se si imputa al 2019 un
componente negativo che invece, secondo l’Agenzia delle Entrate, andava imputato al 2021, ciò significa che indebitamente si è
ridotto il reddito imponibile del 2019!
Il legislatore è ben conscio del fatto che l’infedeltà della dichiarazione è determinata da un’erronea imputazione al periodo e per
questo l’infedeltà va apprezzata con minore rigore perché: → se si è sbagliato ad amputare al 2019 un costo che andava imputato
al 2021, nel 2021 non si è imputato un costo che si aveva diritto ad imputare nel 2021, quindi c’è una forma di bilanciamento tra
ciò che si è dichiarato nel 2019 e ciò che invece si sarebbe dovuto dichiarare nel 2021. Allora, in questa ipotesi accade che
l’infedeltà della dichiarazione del 2019 sicuramente rimane, perché comunque si è imputato al periodo sbagliato un componente

Diritto tributario Pagina 157


l’infedeltà della dichiarazione del 2019 sicuramente rimane, perché comunque si è imputato al periodo sbagliato un componente
negativo che non si sarebbe dovuto far rilevare nella determinazione del reddito d’impresa, però, per le maggiori imposte che
sono state versate erroneamente nel 2021, avrò diritto a richiedere un rimborso non appena passerà in giudicato la sentenza che
chiude il giudizio sul 2019. Se, quindi, l’Agenzia delle Entrate emette un avviso di accertamento sul 2019 rettificando il reddito
imponibile in aumento e l’imprenditore propone ricorso e quest’ultimo viene respinto e si rende definitivo l’accertamento
operato dall’Ufficio, allora il contribuente avrà comunque certamente diritto a formulare istanza di rimborso della maggiore
imposta erroneamente versata nel 2021. Altri principi generali, come in particolare il principio di inerenza, investono invece i
componenti negativi.
ESAME DEI COMPONENTI POSITIVI DEL REDDITO D’IMPRESA
Oggi analizziamo il primo componente positivo: i ricavi. I ricavi sono componenti positivi tipici del reddito d’impresa.
Il catalogo delle operazioni che generano ricavi è molto vasto:
1. I ricavi scaturiscono dalle operazioni che hanno per oggetto beni merce (solo per beni merce e non per le altre categorie di
beni!).
Si tratta di cessioni di beni, prestazioni di servizi che costituiscono oggetto dell’attività d’impresa e che generano proven ti che
sono ricavi.
2. Generano ricavi anche i corrispettivi che derivano dalla cessione di materie prime di semilavorati e di prodotti finiti.
Di che si tratta?
Tra le attività d’impresa ci sono le attività industriali (art. 2195 c.c.) ma l’attività industriale che cosa è se non attivi tà di
trasformazione di materie prime o di semilavorati? Ciò significa che, se l’impresa che ha per oggetto l’attività industriale ha fatto
un errore nell’approvvigionamento delle materie prime necessarie per realizzare i prodotti finiti oggetto della sua attività (nel
senso che ha comprato più materie prime del necessario) e, in corso d’anno, avvedutasi che ha acquistato materie prime in
quantitativi eccedenti il necessario, sceglie di venderle (perché non ha che farsene) → i corrispettivi che dovessero derivare dalla
cessione - come anche dei semilavorati e dei prodotti finiti - generano ricavi. Quindi, anche se l’impresa non ha venduto il bene
che costituisce oggetto della sua specifica attività industriale ma ha venduto una materia prima, un semilavorato o un prodot to
finito
funzionale alla realizzazione del bene effettivamente ceduto ai suoi clienti, l’operazione genera ricavi.
3. Altre operazioni che generano ricavi sono quelle che hanno per oggetto azioni o quote di partecipazione iscritte tra le attività
circolanti.
La voce dell’attivo circolante compresa nello stato patrimoniale è una voce piuttosto eterogenea. Al suo interno troviamo (ol tre ai
beni merce) anche azioni e partecipazioni che l’impresa non mantiene nel suo portafogli per più di 12 mesi → impiego transitorio
di liquidità. Se l’impresa acquista azioni o titoli partecipativi, sapendo già che intende cederli nel giro di pochissimo tem po, li
iscriverà tra le attività circolanti. I corrispettivi derivanti da questa cessione sono, per l’appunto, ricavi.
4. Ancora, altre operazioni che generano ricavi sono le indennità che l’impresa potrebbe percepire anche a titolo di risarcimento
per la perdita o il danneggiamento di tutti quei beni che, se ceduti, avrebbero generato ricavi.
Di che si tratta?
Beni merce, materie prime, semilavorati e prodotti finiti. Se questi beni andassero perduti o distrutti e l’impresa avesse di ritto a
percepire un’indennità a titolo di risarcimento - perché si trattava di contratti di assicurazione regolarmente stipulati
dall’impresa - l’indennità genererebbe ricavo.
5. Ancora, sono ricavi anche i contributi percepiti dall’impresa in base al contratto. Potrebbero essere stipulati contratti che
prevedono per l’impresa l’erogazione di un contributo. Il contributo genera un ricavo da assoggettare a tassazione. Genera ri cavo
non soltanto il contributo spettante in base al contratto ma anche il contributo in conto esercizio spettante a norma di legg e. Il
contributo in conto esercizio spettante a norma di legge è un’ipotesi molto particolare. Tale contributo è il contributo che si dà
alle imprese per destinarlo al sostenimento di spese in conto esercizio. Si tratta, cioè, di contributi che la legge prevede che
alcune imprese debbano necessariamente percepire in maniera tale da assicurare che queste imprese possano effettivamente
svolgere la propria attività perché altrimenti non sarebbero in grado di assicurarsi la copertura dei costi.
Esempio: l’esempio classico è quello delle imprese di trasporto, soprattutto di persone, le quali beneficiano di contributi d isposti
in forza di legge per assicurare che il servizio di trasporto possa essere reso alle persone, altrimenti andrebbero incontro a costi di
gestione elevatissimi che non sarebbero in grado di sopportare. Si pensi ai servizi di autolinee che assicurano il trasferimento
delle persone anche tra piccoli comuni e dunque in questo caso è previsto che le imprese possano percepire contributi in conto
esercizio. Il fatto che debbano essere in conto esercizio ci dice che sono contributi destinati non all’acquisto dei mezzi ma al loro
mantenimento (ad esempio le spese di manutenzione).
6. Nella determinazione del reddito d’impresa rileva l’autoconsumo. Se il bene merce viene destinato al consumo proprio o del
proprio nucleo familiare il valore normale del bene merce concorre alla determinazione dei ricavi anche se, come è chiaro,
l’imprenditore non ha percepito alcun corrispettivo. Nel caso in cui una simile operazione venga fatta, occorrerà applicare i l
criterio del valore normale e quel valore genererà ricavo da sottoporre a tassazione: è l’ipotesi della variazione in aumento sul
componente positivo.

Diritto tributario Pagina 158


LEZIONE 20 (3/05/21)
martedì 26 ottobre 2021 19:52

PLUSVALENZE PATRIMONIALI
Le plusvalenze patrimoniali sono un componente positivo di reddito d’impresa (ne abbiamo
studiato già parlato quando ci siamo occupati di reddito di lavoro autonomo).
Le plusvalenze patrimoniali hanno la caratteristica di derivare esclusivamente da particolari
categorie di operazioni che hanno per oggetto esclusivamente beni strumentali e beni
meramente patrimoniali.
Prima di passare all’elencazione delle operazioni che generano plusvalenza nel reddito d’impresa
è bene precisare che anche le plusvalenze patrimoniali (che studiamo come componente
positivo di reddito d’impresa) sono appunto un componente positivo che si determina
ordinariamente nei modi che già conosciamo → cioè per contrapposizione tra il corrispettivo che
deriva dalla cessione e il costo fiscalmente riconosciuto del bene ceduto.
La plusvalenza patrimoniale da sottoporre a tassazione si determina appunto per
contrapposizione tra il corrispettivo derivante dalla cessione del cespite e il costo che è stato
sostenuto per il suo acquisto MA NON il costo storico, BENSI’ il costo fiscalmente riconosciuto
(costo al netto delle quote di ammortamento già dedotte).
Questa modalità di determinazione della plusvalenza è una modalità che ci consente di
determinare la plusvalenza ordinariamente da sottoporre a tassazione: vedremo che questa
modalità di tassazione della plusvalenza (disciplina ordinaria) subisce una DEROGA importante
quando le plusvalenze non solo scaturiscono da operazioni di particolare tipo ma anche che
hanno per oggetto alcuni particolari beni
Quindi → SE l’operazione di compravendita pura e semplice ha per oggetto partecipazioni sociali
allora è possibile che il regime di tassazione della plusvalenza non sia più quello ordinario ma
diventi invece un regime di tassazione c.d. agevolata → Questo regime agevolativo introdotto
nel nostro sistema dal legislatore è denominato PARTECIPATION EXEMPTION → si tratta di un
regime di esenzione parziale delle plusvalenze dall’applicazione dell’imposta.
Prima di parlare di regime PEX (acronimo di partecipation exemption), torniamo al regime di
tassazione ordinaria per capire quali sono le operazioni in presenza delle quali è possibile che si
determini una plusvalenza da sottoporre a tassazione.
❖ Per quando riguarda quindi il regime di tassazione ordinaria • Sicuramente l’operazione
classica è quella delle plusvalenze che si determinano per cessione a titolo oneroso dei beni da
cui scaturiscono (beni strumentali e beni meramente patrimoniali). Se interviene un’operazione
di compravendita in dipendenza della quale il cedente percepisce un corrispettivo perché si
tratta appunto di una cessione a titolo oneroso è pacifico che l’operazione può generare
plusvalenza da sottoporre a tassazione.
• Può scaturire plusvalenza dalla perdita o dal danneggiamento di beni, che se ceduti avrebbero
causato plusvalenza, quando è previsto il risarcimento per la perdita o il danneggiamento (anche
in forma assicurativa).
Si tratta di una fattispecie speculare a quella che abbiamo studiato quando ci siamo occupati dei
ricavi → se vengono perduti o danneggiati beni merce l’indennità conseguita anche a titolo di
risarcimento del danno può determinare ricavi→ in questa sede studiamo l’ipotesi della perdita
o danneggiamento che invece investe beni strumentali o meramente patrimoniali, quindi se per
la
perdita o il danneggiamento l’impresa ha diritto a conseguire un’indennità che viene percepita a
titolo assicurativo allora certamente questo corrispettivo (lo chiamiamo così ma in realtà non è
tale perché si tratta di un’indennità dovuta a titolo di risarcimento) potrebbe generare una
plusvalenza da sottoporre a tassazione (se naturalmente residua un plusvalore al netto del costo
fiscalmente riconosciuto).
• Un’altra ipotesi è costituita dall’autoconsumo: se il bene strumentale viene estromesso dalla
destinazione all’impresa l’eventuale plusvalore che dovesse residuare rispetto al valore normale
è certamente plusvalenza da sottoporre a tassazione.
È necessario segnalare una peculiarità: quando ci siamo occupati di reddito di lavoro autonomo
e quindi abbiamo studiato l’analoga ipotesi dell’assegnazione alle finalità diverse dall’attività di

Diritto tributario Pagina 159


e quindi abbiamo studiato l’analoga ipotesi dell’assegnazione alle finalità diverse dall’attività di
lavoro autonomo abbiamo concentrato la nostra attenzione sull’ipotesi dell’autoconsumo. Qui
INVECE parliamo di reddito d’impresa e dunque di reddito che potrebbero anche generare e
produrre soggetti diversi dalle persone fisiche: in questa ipotesi infatti (non si parla più di
autoconsumo) ma si parla di assegnazione di beni ai soci → Quindi la società se estromette il
bene strumentale dall’attività d’impresa non lo fa attraverso la forma dell’autoconsumo (proprio
perché non si tratta di una persona fisica) ma lo fa attraverso una delibera di assegnazione del
bene ai soci → è questa l’ipotesi che integra la destinazione a finalità estranee rispetto
all’esercizio di attività d’impresa.
Quindi in tutte queste ipotesi ci troviamo sicuramente dinanzi ad operazioni che potrebbero
appunto determinare plusvalenza da sottoporre a tassazione. La plusvalenza scaturisce da un
differenziale positivo tra il corrispettivo o il valore normale (a seconda dell’ipotesi che genera
plusvalenza) e il costo fiscalmente riconosciuto.
La disciplina del reddito d’impresa prevede che già ORDINARIAMENTE l’imprenditore possa
avvantaggiarsi di una OPZIONE (si tratta quindi di una libera scelta che l’impresa può
esercitare)→ Quando viene realizzata la plusvalenza l’impresa può cioè, ORDINARIEMENTE
(quindi questa opzione è tipica del c.d. regime ordinario), scegliere se
a) Sottoporre a tassazione la plusvalenza realizzata nel periodo d’imposta in cui appunto viene
ad esistenza
Oppure
b) sottoporre a tassazione questa stessa plusvalenza nel periodo d’imposta e nei periodi
d’imposta successivi MA NON OLTRE IL QUARTO→ l’effetto di questa seconda opzione potrebbe
essere quello di conseguire il vantaggio di spalmare in 5 anni la plusvalenza da sottoporre a
tassazione.
È infatti da considerare che quando un’impresa cede un bene strumentale (e questa è
un’operazione da cui potrebbe scaturire anche un plusvalore considerevole) la scelta di ripartire
in quote costanti questa plusvalenza in 5 anni è una scelta che determina un evidente vantaggio
fiscale sotto il profilo di NON subire in un solo anno l’imposizione che grava sulla plusvalenza.
Perché c’è un vantaggio fiscale se si tratta di un’imposta proporzionale? Cosa cambia tra
l’applicare l’aliquota del 24% tutta in una volta all’intera plusvalenza quando viene realizzata
ovvero applicare la stessa aliquota ripartendo in quote costanti questa plusvalenza in 5 anni?
La differenza è sotto il profilo finanziario sul debito d’imposta perché
Applicare il 24% sull’intero ammontare della plusvalenza realizzata in un solo anno significa poi
essere pronti a versare la liquidità necessaria a titolo di IRES
Invece ripartire la plusvalenza realizzata in 5 anni significa sottoporre a tassazione il 20% della
plusvalenza un anno e poi negli anni successivi fino al compimento del quinto, quindi dal punto
di vista finanziario l’impegno fiscale che si richiede all’impresa viene enormemente ridotto.
Questa è una libera scelta che l’impresa fa in considerazione di valutazioni puramente
soggettive.
Se per esempio l’impresa chiude il suo esercizio attendibilmente in perdita potrebbe non trovare
vantaggioso ripartire in quote costanti la plusvalenza perché imputare la plusvalenza ad un unico
periodo d’imposta significa ridurre la perdita da dichiarare e quindi non determinare effetti
pesanti (eventualmente da evitare) sotto il profilo dell’aliquota necessaria per provvedere al
pagamento dell’imposta dovuta.
Questo è il regime ordinario di applicazione dell’imposta sulle plusvalenze patrimoniali. La
disciplina si trova nell’art.86 del T.U.
Questa però è una disciplina rispetto alla quale il legislatore ha voluto intervenire introducendo
un regime di particolare favore che viene comunemente denominato
PARTECIPATION EXEMPTION.
Si tratta di un regime di particolare favore che però il nostro ordinamento circoscrive soltanto
alle plusvalenze che scaturiscono dalla cessione di titoli partecipativi (→ quindi NON di qualsiasi
bene strumentale).
I titoli partecipativi sono uno dei possibili beni che costituiscono immobilizzazioni tra le attività
dello stato patrimoniale. Le attività dello stato patrimoniale immobilizzate possono essere
mobili, immobili, crediti, titoli partecipativi. SOLO sui crediti partecipativi che costituiscono
immobilizzazioni finanziarie è applicabile questo regime di particolare favore.
Quindi non tutte le cessioni di beni strumentali sono capaci di determinare l’applicazione del
regime PEX: solo le possibili plusvalenze che scaturiscono dalla cessione di titoli partecipativi.

Diritto tributario Pagina 160


regime PEX: solo le possibili plusvalenze che scaturiscono dalla cessione di titoli partecipativi.
L’iscrizione dei titoli di partecipazione tra le immobilizzazioni finanziarie dipende da una scelta
che l’impresa normalmente compie nel momento in cui il titolo viene acquistato perché
l’impresa che sceglie di effettuare questo investimento lo può fare con l’intenzione di mantenere
durevolmente questa quota di partecipazione tra i propri beni oppure no.
Quando sceglie di NON mantenere durevolmente i titoli partecipativi NON vengono registrati tra
le immobilizzazioni finanziarie ma vengono registrati tra le attività circolanti.
La cartina di tornasole per chi si attinge alla lettura del bilancio è lo stato patrimoniale:
- se i titoli figurano tra le immobilizzazioni finanziarie sono titoli che avrebbero possibilità di
accedere a questo regime di particolare favore
- se invece questi titoli partecipativi sono iscritti tra le attività circolanti sicuramente no.
Quindi i titoli iscritti tra le attività circolanti sono titoli da cui scaturiscono SE CEDUTI plusvalenze
patrimoniali da assoggettare sempre al regime ordinario (vedi prima)
Quando allora questi titoli partecipativi sono tra le immobilizzazioni finanziarie e hanno anche
altre caratteristiche (vedi dopo) accedono a questo regime di particolare vantaggio.
In cosa si sostanzia questo regime di particolare vantaggio? Il regime prevede l’esenzione della
plusvalenza per il 95% del suo importo (che le plusvalenze derivanti dalla cessione sono esenti
per il 95% del loro ammontare) → vantaggio fiscale
considerevole. Questo significa che SOLO il 5% della plusvalenza derivante dalla cessione di
questi titoli rimane sottoposto a tassazione.
Questo regime è identico anche per sottoporre a tassazione un altro componente positivo del
reddito d’impresa: i DIVIDENDI.
Quindi sia le plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni sociali che i dividendi possono
accedere a questo regime di PARTECIPATION EXEMPTION.
Questo regime NON SOLO è circoscritto (e quindi è applicabile solo a plusvalenze che derivano
dalla cessione di titoli partecipativi iscritti tra le immobilizzazioni finanziarie) MA occorre ANCHE
che abbiano particolarissime caratteristiche→ se manca una o più di queste caratteristiche è
assolutamente escluso che l’eventuale plusvalenza possa essere assoggettata al regime PEX.
Caratteristiche
1) Il periodo di ininterrotto possesso che deve intercorrere tra il momento dell’acquisto ed il
momento della cessione del titolo partecipativo: la norma prevede che si possa avere accesso al
regime agevolativo SOLO SE l’impresa ha tenuto iscritti i titoli partecipativi tra le
immobilizzazioni finanziarie per almeno 12 mesi tra il momento in cui è acquistato ed il
momento in cui ha ceduto il titolo stesso.
Perché questa caratteristica? Potrebbe sembrare un po’ strana per accedere al regime PEX, ma
in realtà non è un requisito fuori luogo: attraverso questa precisazione il legislatore si è voluto
assicurare che almeno per 12 mesi queste partecipazioni siano possedute. Come mai questo
requisito temporale indefettibile? Perché al di sotto dei 12 mesi verrebbe automaticamente
meno la natura stessa dell’investimento durevole→ l’acquisto di un titolo partecipativo che non
si vuole mantenere nel proprio portafogli per un periodo superiore a 12 mesi va iscritto tra le
attività circolanti→ per questo motivo la legge prevede che deve essere mantenuto il possesso
per almeno 12 mesi tra il momento dell’acquisto e il momento della cessione.
NON si può acquistare un titolo iscrivendolo tra le immobilizzazioni finanziarie con il dichiarato
intento di mantenerlo durevolmente tra i propri investimenti e poi dopo 6 mesi cederlo e
pretendere di applicare il regime PEX: deve essere mantenuto il possesso per almeno 12 mesi,
superato questo periodo (12 mesi) è consentito il regime di favore.
2) Occorre che questi titoli siano iscritti tra le immobilizzazioni finanziarie fin dal primo bilancio
in cui sono state appunto iscritte.
Con questa ulteriore condizione l’ordinamento si assicura che l’impresa NON possa effettuare
riclassificazioni delle partecipazioni in bilancio: potrebbe infatti accadere che originariamente
l’impresa le abbia iscritte tra le attività circolanti e poi invece, intendendo cederle, nell’anno
successivo riclassifichi queste partecipazioni sociali abbandonando la categoria originaria (cioè le
attività circolanti) e preferendo invece iscriverle tra le immobilizzazioni finanziarie →questo
perché, prevedendo già di volerle cederle per esempio tra i 10 mesi dopo, intende accedere al
regime fiscale di maggiore favore riservato appunto alle partecipazioni che accedono al regime
PEX.
Queste riclassificazioni sono impedite da questo requisito: il requisito infatti prevede che la
destinazione alla categoria delle immobilizzazioni finanziarie sia originario, cioè sia una scelta

Diritto tributario Pagina 161


destinazione alla categoria delle immobilizzazioni finanziarie sia originario, cioè sia una scelta
che l’impresa fa già all’interno del primo bilancio in cui le immobilizzazioni finanziarie risultano
iscritte, SENZA POSSIBILITA’ che successivamente l’imprenditore possa modificare l’originaria
destinazione.
Quindi l’’iscrizione iniziale in bilancio che l’impresa fa del tiolo partecipativo ha valore decisivo,
perché indietro non si torna: se a quel titolo partecipativo l’impresa attribuisce una diversa
destinazione (quindi iscrive il titolo tra le attività circolanti) è escluso che successivamente si
possa chiedere l’applicazione del regime agevolato.
A queste due condizioni che si riferiscono a caratteristiche che la partecipazione presenta
all’interno delle scritture contabili della società o dell’impresa partecipante (cioè quella che
acquista il titolo partecipativo)
Seguono due ulteriori condizioni che hanno a che fare con le caratteristiche della società
partecipata (cioè dell’impresa di cui si detiene la partecipazione, il titolo partecipativo).
3) L’ordinamento prevede che il regime di esenzione (PEX) NON possa essere applicato alle
partecipazioni in società che hanno sede in Stati a fiscalità privilegiata.
Quindi non si può quindi applicare questo regime se il titolo partecipativo è in società o imprese
che appunto hanno la loro sede in Stati a fiscalità privilegiata.
Proprio per evitare effetti palesemente discriminatori, per la verità, questo requisito può essere
superato attraverso l’esercizio del diritto di interpello: quindi preventivamente l’impresa può
sollecitare l’amministrazione finanziaria a riconoscere l’applicabilità del regime PEX nel caso
specifico proprio dimostrando che NON si è voluto nel caso di specie ottenere un vantaggio
fiscale e basta attraverso l’acquisto del titolo partecipativo in un’impresa che ha sede in uno
Stato a fiscalità privilegiata. Non è una via percorribile in modo particolarmente semplice eppure
l’ordinamento lo prevede.
Quindi
La regola generale è che fuori da questa limitatissima ipotesi titoli partecipativi in imprese che
hanno sede in Stati a fiscalità privilegiata NON sono ammessi al beneficio fiscale.
4) Il quarto requisito (facile da individuare) ha a che fare con l’attività dell’impesa partecipata. La
norma prevede che l’impresa partecipata debba necessariamente esercitare un’attività
commerciale, cioè deve avere per oggetto una delle attività di cui all’art.55 del T.U. delle
imposte sui redditi→ quindi deve trattarsi di una delle attività da cui scaturisce reddito
d’impresa.
Questo regime di particolare vantaggio è però un regime che porta con sé un contraltare
evidente: così come da una parte si esclude che il 95% della plusvalenza debba essere sottoposta
a tassazione, il regime di esenzione porta con sé lo svantaggio di rendere INDEDUCIBILI LE
MINUSVALENZE derivanti da quel titolo partecipativo.
La cessione di un titolo partecipativo può generare sia plusvalenza che minusvalenza (la cessione
potrebbe andare bene come potrebbe andar male) → Quando il corrispettivo è inferiore al costo
fiscalmente riconosciuto ciò che emerge non è una plusvalenza ma è una minusvalenza.
Chi sceglie di imprimere questo regime fiscale di maggiore favore ai titoli partecipativi sa che
corre anche un rischio parallelo, cioè quello di vedersi negare la deducibilità dell’eventuale
minusvalenza→ la minusvalenza eventualmente generata dalla cessione del titolo partecipativo
è fiscalmente irrilevante, quindi NON può essere dedotta → NON è componente negativo di
reddito d’impresa.
Non è un rischio di poco conto perché la volatilità dei titoli partecipativi è notevole.
Questa è la ragione per la quale il regime PEX è un regime OPZIONALE → chi possiede in
portafoglio un titolo partecipativo dotato di queste particolari caratteristiche NON è obbligato
ad applicare il regime PEX → può anche scegliere di applicare il regime ordinario.
Il regime ordinario comporta che l’eventuale plusvalenza maturata sulla cessione sarà
sottoposta integralmente a tassazione (non c’è esenzione) e però se dalla cessione dovesse
emergere una minusvalenza, questa minusvalenza sarà fiscalmente rilevante, quindi la
minusvalenza sarà deducibile e quindi componente negativo di reddito d’impresa.
Quindi il contrappeso che l’ordinamento prevede per chi sceglie di applicare questo regime di
maggior favore è rappresentato dalla indeducibilità delle eventuali minusvalenze generate dalla
cessione del titolo.
Per quale ragione ci dovrebbe essere un dubbio se applicare o no un regime di maggior favore
(se si applica alle plusvalenze e le minusvalenze si prevede che siano indeducibili)? L’impresa non
può attendibilmente prevedere quale sarà il risultato di questa operazione di cessione quando lo

Diritto tributario Pagina 162


può attendibilmente prevedere quale sarà il risultato di questa operazione di cessione quando lo
vorrà fare (se cioè sarà un’operazione che chiude in positivo o in negativo)?
Le risposte a questa domanda potrebbero essere due.
1. L’esito di una possibile cessione è assolutamente imponderabile: se io oggi acquisto il titolo
partecipativo è escluso che io sappia sin d’ora quando lo vorrò vendere e a quali condizioni lo
vorrò vendere. È assolutamente incerto se ci sarà plusvalenza o minusvalenza (ovviamente se il
mercato non gioca a mio favore e non ho necessità di vendere il titolo partecipativo lo terrò in
portafoglio fino a quando non arriveranno tempi migliori per pensare ad una possibile cessione).
2. La scelta che l’impresa fa se accedere al regime agevolativo oppure non NON è una scelta che
resta circoscritta al fenomeno plusvalenza (cioè evento che può determinarsi in occasione di una
futura cessione del titolo).
Il regime si applica anche ai dividendi (vedi prima): i dividendi sono i proventi che il titolo
partecipativo genera MENTRE è posseduto dall’impresa→ quindi fintantoché il titolo resta nel
portafoglio dell’impresa genera un altro componente positivo (il dividendo) che va, esercizio
dopo esercizio, sottoposto a tassazione. Quindi l’impresa può essere indotta sin da subito ad
applicare il regime PEX perché subito (anno dopo anno) sarà chiamata a sottoporre a tassazione i
dividendi.
Quindi ciò che accadrà in un momento successivo al momento della cessione, cioè stabilire quale
regime fiscale si dovrà applicare quando il titolo sarà ceduto
è un fatto che avviene DOPO, cioè quando già il regime PEX è stato puntualmente applicato
anno dopo anno ai dividendi.
Quindi la scelta è si fa due fronti: dividendi e plusvalenze. Naturalmente la scelta è una e vale per
entrambi i profili: se si sceglie di applicare il regime PEX lo si applica sia ai dividenti (maturati
anno dopo anno) che alle plusvalenze eventualmente rinvenienti dalla cessione del titolo
partecipativo SAPENDO PERO’ CHE se la cessione sarà necessitata e maturerà una minusvalenza
(invece che una plusvalenza), quella minusvalenza rimarrà fiscalmente rilevante.
La via d’uscita è rappresentata dall’esercizio dell’opzione inversa: l’impresa che acquista il titolo
partecipativo ed è consapevole che il titolo possa avere tutti i requisiti per accedere al regime
agevolato potrebbe invece scegliere (proprio per evitare di incorrere nel rischio di rendere
fiscalmente irrilevante la minusvalenza) di applicare il regime ordinario e quindi
consapevolmente sottoporrà a tassazione tutti i dividendi per intero mentre vengono percepiti
anno dopo anno, riservandosi però il diritto, quando ormai il titolo verrà ceduto, a rendere
fiscalmente rilevante l’eventuale minusvalenza che potrebbe derivare dalla cessione. Se poi
dovesse risultare una plusvalenza, la plusvalenza sarà interamente sottoposta a tassazione,
perché l’opzione è quella del regime ordinario (anche se il titolo ha tutte le caratteristiche per
essere assoggettato al regime PEX).
Mentre il regime ordinario si trova disciplinato all’art.86, il regime PEX (con tutti i dettagli e le
declinazioni) si trova disciplinato all’art.87.
COMPONENTE DI REDDITO SUCCESSIVO
È un componente di reddito positivo. È rappresentato dai dividendi.
I dividendi sono i proventi che maturano in dipendenza del possesso dei titoli partecipativi→ la
detenzione di titoli partecipativi può determinare dividendi da sottoporre a tassazione
→ questo ovviamente dipende dal fatto che la società partecipata scelga o meno di distribuire
utili:
se sceglierà di distribuire utili allora la quota parte spettante al socio percettore diventa
dividendo da sottoporre a tassazione.
Posto che anche i dividendi sono sottoposti al regime PEX si avrà che rimarranno da sottoporre a
tassazione SOLO per il 5%.
Quando si parla di dividendi la norma (non parla di esenzione) parla di “esclusione”.
La scelta della parola NON è casuale, perché
- mentre le plusvalenze sono esenti (con la conseguenza che le minusvalenze sono
assolutamente irrilevanti e dunque anche tutti i costi eventualmente sostenuti lo sarebbero)
- per i dividendi invece laddove il legislatore utilizza questa diversa espressione (“esclusione del
95%” e NON “esenzione del 95%”) allora i costi inerenti il possesso della partecipazione e quindi
i costi inerenti il dividendo sono deducibili→ quindi esiste questo piccolo vantaggio nel regime di
tassazione dei dividendi.
I dividendi sono tassati quando vengono percepiti → si applica il principio di cassa (non
soggiacciono al principio di competenza). La ragione è in re ipsa: il componente positivo infatti

Diritto tributario Pagina 163


soggiacciono al principio di competenza). La ragione è in re ipsa: il componente positivo infatti
esiste esclusivamente se esiste una delibera di distribuzione degli utili da parte della società
partecipata, quindi occorre che questi dividendi siano stati effettivamente percepiti (altrimenti
sarebbe fuori di luogo pensare che possano essere sottoposti a tassazione). Altra ragione: i
dividendi sono una quota parte degli utili generati dalla società partecipata.
Se la società produce utili e sceglie (per una politica sua) di NON distribuire questi utili (quindi i
soci non si vedono distribuito nessun dividendo), questi utili non scontano nessuna imposta?
Questi utili sono prodotti da una società ma la società è già di per sé un soggetto passivo IRES→
questo significa che anche se questi utili non vengono distribuiti ai soci percettori del dividendo
è comunque una ricchezza che già sconta l’IRES in capo alla società che quegli utili ha prodotto.
Dunque quando poi questi utili vengono distribuiti è come se fossero sottoposti a tassazione due
volte (una volta in capo alla società che li ha prodotti sotto forma di IRES; un’altra volta sotto
forma di dividendi in capo ai soci percettori).
Questa è la ragione per la quale si applica il regime della ESCLUSIONE → il 95% di questi
dividendi NON è sottoposto a tassazione in capo al socio percettore (che a sua volta è un
soggetto passivo IRES) perché altrimenti si applicherebbe due volte la stessa imposta sulla stessa
ricchezza.
Quindi questo è il motivo per cui l’ordinamento prevede l’applicazione del regime PEX anche ai
dividendi: perché è una ricchezza che pacificamente è già stata sottoposta a tassazione in capo a
chi l’ha prodotta per prima (cioè la società partecipata).
SOPRAVVENIENZE ATTIVE
Componente reddituale. È una fattispecie piuttosto eterogenea. Tanta è l’eterogeneità di questo
componente positivo del reddito d’impresa che il nostro sistema distingue le sopravvenienze
attive in due macrocategorie: (1) sopravvenienze attive in senso stretto e (2) sopravvenienze
attive in senso lato. Facciamo subito questa distinzione perché ciò che diremo sotto il profilo
definitorio vale esclusivamente rispetto al primo gruppo (sopravvenienze attive in senso stretto).
1. Sopravvenienze attive in senso stretto: Sono quelle che derivano da eventi che in qualche
modo modificano la consistenza di componenti positivi o negativi di reddito che hanno già
partecipato a determinare il risultato dell’esercizio in precedenti periodi d’imposta.
Immaginiamo un’impresa che nel 2013 consegue un componente negativo e lo deduce
fiscalmente → lo subisce e, in base alla disciplina fiscale, ha diritto ad attribuire a questo evento
rilevanza fiscale e quindi immaginiamo che questo componente negativo abbia (come
certamente è accaduto) determinato il risultato dell’esercizio 2013. Immaginiamo che abbia
subito una perdita (è questa l’ipotesi più frequente) o di beni o su crediti. Potrebbe verificarsi
che questo componente negativo che ha già concorso a determinare il risultato dell’esercizio
2013 subisca in virtù di eventi manifestatisi successivamente una modificazione dal punto di
vista quantitativo.
Per esempio immaginiamo una perdita subita per 100; interviene un fatto che ne determina la
modificazione come p.e. una riduzione nel 2021. Quindi accade che nel 2021 si verifica un fatto
che determina una riduzione di una perdita subito nel 2013 e che nel 2013 ha già concorso
pienamente a determinare il risultato di quell’esercizio → la sopravvenienza attiva quindi serve
in qualche modo a correggere sotto il profilo reddituale la diversa quantificazione di un
componente positivo o negativo che già è stato rilevato in un anno precedente e che ha già
concorso a determinare il risultato dell’esercizio in quel periodo d’imposta.
Quindi
- SE l’impresa nel 2013 ha subito una perdita su crediti, quindi abbia, stimando che il debitore
ormai fallito non sarà più in grado di far fronte al proprio debito, scelto di cancellare il proprio
credito dal bilancio. Questa è l’ipotesi classica di perdita su crediti.
→ Per cui la perdita è interamente deducibile nel 2013.
- Immaginiamo poi che questo debitore fallito sia tornato in bonis, il fallimento si sia concluso e
l’impresa abbia ripreso ad esercitare la sua attività e che il debitore sia riuscito IN PARTE a
pagare il proprio debito. Immaginiamo che questo PARZIALE PAGAMENTO sia intervenuto
proprio nel 2021.
Qui si tratta di correggere il rilevamento di quella perdita che era stata tenuta in considerazione
nel 2013 ai fini della determinazione del risultato di esercizio del 2013 → si era registrata una
perdita per 100.000 euro che però nel 2021 subisce una riduzione perché il debitore ha pagato
p.e. 30.000 euro dei 100.000 che ne doveva nel 2021.
Quindi

Diritto tributario Pagina 164


Quindi
- Dato di partenza: il credito NON esiste più in bilancio perché è stato cancellato
- la perdita ha concorso come componente negativo del reddito d’impresa a determinare il
risultato dell’esercizio 2013
→ Nel 2021 è proprio attraverso l’annotazione di una sopravvenienza attiva che recuperiamo a
tassazione 30.000 euro.
30.000 euro è la quota parte di quella perdita (che abbiamo ritenuto fiscalmente rilevante nel
2013) che è venuta meno nel 2021→ è quindi un componente positivo di reddito d’impresa
generato nel 2021 grazie appunto all’attività del debitore che è stato nelle condizioni di potere
(quanto meno) in parte onorare il proprio debito, inaspettatamente.
(definizione)
Le sopravvenienze attive sono eventi che modificano nella loro consistenza componenti positivi
o negativi di reddito che hanno già concorso alla determinazione del risultato dell’esercizio in un
periodo d’imposta precedente.
Sopra abbiamo fatto l’esempio di una riduzione di un componente negativo.
Potrebbe anche darsi il caso di un incremento di un componente positivo: se un evento
imponderabile e successivo determina una diversa consistenza di un componente positivo o
negativo manifestatosi in periodo d’imposta precedenti e che hanno già concorso a determinare
il risultato d’esercizio in quei periodi d’imposta precedenti, si tratta di una sopravvenienza attiva
e quindi di un componente positivo di reddito d’impresa.
2. Sopravvenienze attive in senso lato. Divergono da 1., perché
- Mentre le sopravvenienze attive in senso stretto avevano una correlazione con componenti
positivi e negativi che si erano generati in precedenti periodi d’imposta
- Le sopravvenienze attive in senso lato derivano da eventi (anche questi assolutamente
imprevedibili) che NON hanno alcun legame con il passato
→ quindi
- NON sono eventi che determinano una diversa consistenza di precedenti componenti positivi o
negativi che hanno inciso nella determinazione del risultato dell’esercizio di anni pregressi
- sono eventi che provocano un incremento di patrimonio (e quindi di reddito da sottoporre a
tassazione) senza alcuno specifico legame con componenti positivi o negativi di anni passati.
Esempio: CONTRIBUTI PUBBLICI IN CONTO CAPITALE.
I contributi in conto esercizio sono ricavi. I contributi in conto capitale (cioè quelli che vengono
destinati ad investimenti durevoli) sono sopravvenienze attive.
COMPONENTI ATTIVI
Sono interessi attivi. Gli interessi attivi sono quelli che maturano sulle somme che possono
essere per esempio depositate su un conto corrente bancario o postale; possono essere anche
interessi che maturano su somme date a mutuo.
Gli interessi attivi certamente sono componenti positivi del reddito d’impresa e maturano in
virtù dell’applicazione del principio di competenza (criterio principale che, salvo specifiche
eccezioni, governa il reddito d’impresa) → quindi per gli interessi attivi vale la regola del periodo
d’imposta in cui gli interessi sono maturati.
Gli interessi attivi maturano nella misura stabilita dal contratto. Se non c’è alcuna specifica
pattuizione contrattuale a tal proposito si presume che gli interessi siano maturati al saggio
legale.
❖ PROVENTI IMMOBILIARI
I proventi immobiliari sono proventi positivi che derivano dal possesso di beni meramente
patrimoniali. I beni relativi all’impresa (a parte i beni merce, i beni strumentali) possono infatti
essere beni meramente patrimoniali. Essi:
- SE CEDUTI → generano plusvalenze patrimoniali.
- SE NON VENGONO CEDUTI (vengono mantenuti nel possesso dell’impresa) → generano
proventi che vengono denominati appunto proventi immobiliari.
I proventi immobiliari sono determinati attraverso le risultanze catastali→ quindi
nell’eventualità che l’impresa dovesse possedere per esempio un fabbricato (bene meramente
immobiliare) il provente immobiliare che costituirà componente positivo di reddito d’impresa
sarà rappresentato da una ricchezza determinata sulla base delle risultanze catastali → rendita
catastale.
Altro componente positivo è rappresentato dalle
❖ RIMANENZE

Diritto tributario Pagina 165


❖ RIMANENZE
Quando si parla di rimanenze di magazzino si deve ricordare che:
→ i beni merce sono beni dell’impresa che generano costi e ricavi. Quindi i componenti positivi
tipici e quelli negativi tipici che scaturiscono dalle vicende che hanno ad oggetto beni merce
sono questi due (costi e ricavi).
→ in virtù del principio di correlazione costi/ricavi il costo sostenuto per l’acquisto di un bene
merce assume fiscalmente rilievo come componente negativo
- nel periodo d’imposta in cui viene effettivamente sostenuto?
- va rilevato (per competenza) perché sorge l’obbligo di pagarlo?
- solo nel periodo d’imposta in cui viene conseguito anche il corrispondente ricavo al momento
della cessione?
Risposta della collega (corretta):
Da un lato si deve annullare il costo (proprio in virtù del principio di competenza il quale impone
di rilevare il costo nel momento in cui questo bene viene consegnato o spedito);
Però occorre rispettare il principio di correlazione costi/ricavi proprio perché si deve
temporaneamente sospendere il peso fiscale annotando quindi tra i componenti positivi le
rimanenze di magazzino.
Prof:
Le rimanenze finali sono il controvalore contabile di quei costi sostenuti per l’acquisto di beni
merce che sono rimasti invenduti alla fine dell’anno: l’impresa deve registrare le rimanenze finali
tra i componenti positivi in maniera tale da sospendere temporaneamente quei costi
sostenuti per l’acquisto e quindi fare in modo che NON giochino fiscalmente nella
determinazione del risultato dell’esercizio. Questi costi torneranno ad essere fiscalmente
rilevanti nel periodo d’imposta in cui quel bene acquistato fuoriuscirà dal magazzino perché
destinato alla cessione ai clienti dell’impresa.
Il momento di rilevamento delle rimanenze di magazzino quindi è un momento contabilmente
molto importante perché ha delle ricadute fiscali importanti.
Le ricadute fiscali che la rilevazione delle rimanenze di magazzino ha però non sono solo quelle
che abbiamo studiato sin qui: l’annotazione delle rimanenze di magazzino NON è esclusivamente
funzionale a ottenere il fenomeno della temporanea sospensione dei costi. → Quando l’impresa
calcola il valore delle rimanenze finali effettua un’operazione che in sé considerata può generare
sia un componente positivo sia un componente negativo di reddito d’impresa.
Quando un imprenditore misura le rimanenze finali alla fine dell’anno annota un componente
positivo. Quando poi inizia l’anno successivo (dal 31 dicembre al 1° gennaio) e l’impresa quindi
deve rappresentare il bilancio del periodo d’imposta successivo il valore di quelle che erano le
rimanenze finali dell’anno precedente diventa il valore delle rimanenze iniziali nell’anno dopo (la
consistenza del magazzino che c’è alle 00:00 del 31 dicembre non può che essere identica alla
consistenza del magazzino che c’è alle 00:01 dell’anno nuovo).
Quando l’impresa però scrive l’ammontare delle rimanenze iniziali questa volta le rimanenze
iniziali non saranno più annotate tra i ricavi ma saranno annotate tra i costi→ specularmente
saranno un costo dell’impresa.
Immaginiamo quindi che l’impresa abbia rimanenze finali al 31 dicembre 2020 per 100.000 euro.
Iniziali al 1° gennaio 2021 per 100.000 euro. Supponiamo che poi nel corso dell’anno abbia
continuato ad effettuare acquisti di merci per 50.000 euro e che abbia poi venduto merci
(perché se si tratta di un’impresa che ha per oggetto l’attività di cessione di beni è da presumere
che così come ne ha acquistate ne ha anche vendute). Immaginiamo allora che alle rimanenze
iniziali al 1° gennaio 2021 pari a 100.000 euro si siano sommate 50.000 e quindi il monte merci
disponibile nel corso dell’anno sia diventato 150.000 euro.
Immaginiamo che questo monte merci complessivo abbia però registrato anche delle vendite di
merci (quindi che l’impresa abbia venduto parte di queste merci acquistate): immaginiamo che
ne abbia vendute per un ammontare complessivo pari a 30.000 euro.
Accadrà che al 1° gennaio 2021 un’impresa avrà annotato tra i costi rimanenze iniziali per
100.000 euro e dovrà poi rilevare le rimanenze finali al 31 dicembre del 2021. Queste rimanenze
finali al 31 dicembre 2021 saranno pari a 120.000 euro perché?
- C’erano 100.000 euro di merci al 1° gennaio
- Ne ho acquistati per 50.000
- Ne ho vendute per 30.000
100.000 + 50.000 – 30.000 = le merci presenti in magazzino al 31 dicembre 2021 ammonteranno

Diritto tributario Pagina 166


100.000 + 50.000 – 30.000 = le merci presenti in magazzino al 31 dicembre 2021 ammonteranno
a 120.000 euro.
Nell’esempio prospettato avremo che: • (1) componente negativo (COSTO) = 100.000 euro • (2)
componenti positivi (RIMANENZE FINALI) al 31 dicembre 2021 = 120.000 euro
Quindi avremo rimanenze finali tra i componenti negativi per 100.000. Rimanenze finali al 31
dicembre come componenti positivi per 120.000.
Contrapponendo questi due Componente positivo (2) e componente negativo (1) avremo un
DIFFERENZIALE POSITIVO → variazione del valore delle rimanenze.
Nell’esempio prospettato quindi
Per effetto dell’attività che si è svolta nel corso del 2021 l’impresa avrà conseguito un
componente positivo di reddito d’impresa che si chiama VARIAZIONE POSITIVA DEL VALORE
DELLE RIMANENZE → cioè
Raffrontando l’ammontare delle rimanenze finali al 31 dicembre CON quello delle rimanenze
iniziali al 1° gennaio → il risultato è un DIFFERENZIALE POSITIVO, cioè c’è un esubero delle finali
sulle iniziali.
Ma se c’è un esubero delle finali sulle iniziali allora il valore ha subito un incremento (tant’è che
è passato da 10.000 a 120.000 euro). Allora questo DIFFERENZIALE POSITIVO pari alla differenza
(20.000 euro) sarà un componente positivo di reddito d’impresa, che si chiama variazione
positiva del valore delle rimanenze.
ATTENZIONE.
È vera anche l’ipotesi contraria: le vicende che interessano il rilevamento del valore delle
rimanenze possono essere anche diametralmente opposte.
Si sarebbe cioè essere verificato che le rimanenze finali sono diminuite rispetto alle iniziali.
È questo il caso dell’impresa che ha lavorato molto bene e quindi per esempio: - Aveva al 1°
gennaio 100.000 euro - Acquista merce per 50.000 euro - In virtù delle vendite dell’esercizio se
ne ritrova al 31 dicembre per 70.000 euro.
In questo caso la variazione del valore delle rimanenze NON è positiva, ma è NEGATIVA.
Questo quindi significa che le rimanenze finali si sono ridotte rispetto alle iniziali, e questo
significa allora che la VARIAZIONE DEL VALORE DELLE RIMANENZE È NEGATIVA e che c’è quindi
l’eversione di un componente negativo di reddito d’impresa.
Quello che abbiamo spiegato fin qui serviva a far comprendere qual è il meccanismo che
presiede alla eversione di questo particolarissimo componente del reddito d’impresa (che può
essere, a seconda delle vicende, tanto negativo quanto positivo). Questo ci consente di
apprezzare subito tutta l’importanza di un tema molto delicato nella gestione dell’attività
d’impresa, cioè il tema della
Valutazione delle rimanenze
La variazione del valore delle rimanenze può generare un componente positivo o un
componente negativo del reddito d’impresa, perché appunto sono entrambi componenti che
scaturiscono da variazioni del valore delle rimanenze.
Bisogna capire COME l’impresa può determinare quel valore, perché il criterio che l’impresa
sceglierà per stabilire il valore delle merci giacenti in magazzino è determinante→ a seconda del
criterio che l’impresa applica si fa più o meno probabile che si lasci intravedere un componente
positivo o un componente negativo di reddito d’impresa.
È bene fare questa considerazione adesso perché chiarisce tutta l’attenzione che il legislatore ha
dedicato proprio nella disciplina dei criteri di valutazione delle merci: esiste una norma ad hoc
che stabilisce appunto come le merci debbano essere valutate ai fini del rilevamento delle
rimanenze.
L’impresa non può decidere di applicare il criterio che preferisce, quale che sia, nella
determinazione del valore delle rimanenze perché esistono dei criteri specifici individuati dal
legislatore che occorre osservare.
La valutazione delle rimanenze prevede che:
1. Nel momento in cui l’attività dell’impresa inizia (nel primo esercizio in cui l’attività viene
iniziata) le merci debbano essere valutate sulla base del loro COSTO SPECIFICO → quindi in base
al costo che l’impresa sostiene per l’acquisto delle merci, quello è il criterio che va utilizzato per
la registrazione del valore delle merci stesse.
Questo modo di determinare il valore delle rimanenze è però un metodo che può andare bene
esclusivamente nel primo esercizio in cui l’attività si svolge, perché negli esercizi successivi
accade che l’impresa via via va acquistando altre quantità di merci che potrebbero essere anche

Diritto tributario Pagina 167


accade che l’impresa via via va acquistando altre quantità di merci che potrebbero essere anche
le medesime ma acquistate in un momento successivo.
2. In queste ipotesi occorre necessariamente tenere conto del diverso periodo di formazione
delle giacenze di magazzino che quindi vanno valutate, proprio in considerazione del periodo di
formazione, sulla base del COSTO MEDIO→ quindi occorre mediamente tenere conto del costo
delle merci via via che si sono progressivamente acquistate nel corso del tempo. Questo ci
consente di ottenere una stratificazione dei costi sostenuti dall’impresa via via nel tempo.
Questi sono i modi del rilevamento del valore delle merci giacenti in magazzino → COSTO
D’ACQUISTO (specifico) nel primo esercizio a cui poi si aggiunge il COSTO MEDIO nei periodi
successivi, in dipendenza dei diversi periodi d’imposta in cui le merci vengono acquistate.
Il punto nodale che il Testo Unico affronta è però quello di stabilire quali merci sono state
vendute: stabilire quali merci sono state vendute infatti ci consente di ritenere che il valore delle
merci vendute non fa più parte del magazzino → se si hanno 100 pezzi dello stesso articolo
giacenti in magazzino e a un certo punto ne vendo 20 non è di secondaria importanza stabilire
questi 20 pezzi venduti da quale strato li posso prelevare, perché attendibilmente ogni strato ha
un costo medio diverso (progressivamente è da tenere conto che nel mercato il prezzo delle
merci aumenta).
È quindi determinante nel rilevamento del valore del magazzino stabilire quando la merce viene
venduta QUALE MERCE viene prelevata dal magazzino: qui soccorrono i criteri indicati nel T.U.,
perché
• Il criterio fondamentale prevede l’applicazione della regola LAST IN FIRST OUT (“Gli ultimi beni
entrati sono quelli che si presumono usciti”) → LIFO
Se gli ultimi beni entrati si presumono i primi usciti → questo vuol dire che i beni acquistati al
prezzo più elevato sono quelli che si presumono ceduti per primi e quindi se ne avrà che,
applicando il principio LAST IN FIRST OUT, il valore del magazzino sarà determinato con il COSTO
PIU’ BASSO, cioè quello delle merci acquistate per prime (più antiche).
L’applicazione del metodo LIFO implica quindi che il valore del magazzino tende a decrescere→
perché le merci che sono uscite per prime sono quelle acquistate per ultime (e quelle acquistate
per ultime sono quelle dal prezzo più elevato).
Non è però questo l’unico metodo applicabili perché a fini fiscali è consentita anche
l’applicazione di altri metodi. • (metodo speculare) FIRST IN FIRST OUT (“entrato per primo
uscito per primo”). Questo criterio naturalmente determina l’effetto contrario → se è uscito per
primo ciò che è entrato per primo il valore del magazzino tenderà a crescere.
L’applicazione di uno di questi criteri può assumere rilevanza anche ai fini fiscali e naturalmente
di questa scelta bisogna che l’impresa dia conto nella nota integrativa. E questo con un’ulteriore
aggravante: il metodo di valutazione del magazzino NON può essere modificato.
→ quindi l’impresa che sceglie di applicare un determinato metodo di rilevamento dei beni
giacenti dovrà mantenerlo costante nel tempo.
Anche questo componente del reddito d’impresa assume quindi tutto il suo rilievo e risente in
maniera determinante dei metodi e dei criteri scelti dall’impresa per la stima del valore dei beni
giacenti.
COMPONENTI NEGATIVI
Criteri generali che investono la determinazione dei componenti negativi:
a) Principio della previa iscrizione al Conto Economico
• REGOLA GENERALE: Tutti i componenti negativi del reddito d’impresa devono essere ammessi
in deduzione SOLO a patto e condizione che siano previamente iscritti in seno al Conto
Economico (una delle quattro scritture del bilancio d’esercizio). Senza questa previa iscrizione il
componente non sarebbe deducibile.
Il principio nella sua enunciazione generale è estremamente semplice, ma è un principio che
soffre di alcune ECCEZIONI, previste nel T.U.
• PRIMA ECCEZIONE: La prima ECCEZIONE è rappresentata dal caso in cui il componente
negativo NON sia stato iscritto nel Conto Economico proprio in ragione del fatto che alcune
norme di legge ne consentano il RINVIO al periodo d’imposta successivo.
Es. 1: L’ipotesi classica è quella che autorizza l’iscrizione a Conte Economico di un componente
negativo SOLO QUANDO ricorrono gli elementi di certezza e precisione (questo ha a che fare con
l’applicazione fiscale).
Es. 2: Se non si iscrive al bilancio una perdita perché, in virtù del principio civilistico di prudenza,
NON è ancora ricorrente la perdita in quanto tale (quindi si è obbligati a rilevarla in quel periodo)

Diritto tributario Pagina 168


NON è ancora ricorrente la perdita in quanto tale (quindi si è obbligati a rilevarla in quel periodo)
e poi lo si dovrà rilevare in un periodo d’imposta successivo, certamente l’annotazione della
perdita ad un periodo d’imposta successivo non può far scaturire la indeducibilità fiscale di quel
componente negativo→ è un rinvio a periodo d’imposta successivo che è consentito già di per sé
da una norma di legge e quindi per questa ragione non se ne può far subire all’impresa
l’indeducibilità. (ipotesi che viene fuori dall’applicazione delle disposizioni del Codice Civile)
Se ricorre questa ipotesi quindi certamente l’impresa non potrà subire la pena dell’indeducibilità
del componente negativo.
• SECONDA ECCEZIONE: La seconda DEROGA è invece rappresentata da un’ipotesi lievemente
diversa rispetto alla precedente: ipotesi dei componenti negativi che sono deducibili per
disposizione di legge (quindi qui si guarda alla norma fiscale, sono deducibili perché lo prevede la
normativa fiscale) MA non sono imputabili a Conto Economico.
È l’ipotesi contraria a quella spiegata sin qui: ci sono cioè alcuni COSTI (o componenti negativi in
genere) che la legge civile esclude debbano essere imputati a conto economico eppure
espressamente la norma fiscale ne consente la deducibilità.
• TERZA ECCEZIONE: L’ultima DEROGA è invece rappresentata da un’ipotesi estremamente
frequente. È l’ipotesi delle SPESE e più in genere dei COSTI che afferiscono ricavi che pur NON
risultando imputati a Conto Economico concorrono a formare il reddito → in quest ipotesi allora
gli eventuali COSTI sono ammessi in deduzione SE risultano da elementi certi e precisi.
Può darsi che l’impresa consegue RICCAVI che non sono stati indicati in bilancio: è l’ipotesi dei
RICAVI CC.DD. IN NERO→ ipotesi dell’impresa che evade→ percepisce ricavi, non le annota nelle
scritture contabili e quindi non confluiscono nel Bilancio d’esercizio.
In questa ipotesi quando l’amministrazione finanziaria recupera a tassazione i ricavi non
dichiarati si tratta di ricavi non imputati a Conto Economico ma che concorrono a determinare il
reddito d’esercizio perché li recupera a tassazione l’Amministrazione Finanziaria eseguendo un
accertamento.
RICAPITOLANDO: L’ipotesi è quella dei ricavi che l’impresa evade: se sono ricavi (percepiti in
virtù di operazioni effettuate in nero) evasi (non sono annotati tra le scritture contabili) e quindi
non sono imputati a bilancio. Se l’amministrazione finanziaria effettua un accertamento e in
rettifica della dichiarazione annuale si accorge che l’impresa ha omesso di dichiarare i ricavi,
allora emetterà un avviso di accertamento recuperando a tassazione questi ricavi non dichiarati.
Allora si tratterà di ricavi non imputati a conto economico ma che, grazie all’accertamento
eseguito dall’Amministrazione Finanziaria, concorrono a determinare il risultato dell’esercizio
perché li sottopone a tassazione l’Agenzia delle Entrate.
Questa TERZA DEROGA quindi prevede che quando ricorre un’ipotesi di questo tipo l’Agenzia
delle Entrate NON possa negare la deduzione di quei COSTI che l’impresa avrà effettivamente
sostenuto per l’acquisto dei beni ceduti in nero (per esempio) e che hanno generato ricavi
sottoposti a tassazione.
La logica è che
- Se da una parte l’Agenzia delle Entrate sottopone a tassazione i ricavi non dichiarati
- l’impresa è in grado, sulla base di elementi certi e precisi (condizione di cui parla l’art.109 T.U.),
di provare di avere sostenuto COSTI proprio in relazione a quei RICAVI che l’Agenzia delle
Entrate vuole sottoporre a tassazione
→ allora quei medesimi costi devono essere ammessi in deduzione proprio in deroga al principio
generale che invece voleva la previa imputazione a Conto Economico
Quindi
- se si tratta di COSTI non imputati a Conto Economico
MA correlati a ricavi pure loro non imputati a Conto Economico ma sottoposti a tassazione
- se l’impresa è in grado di dimostrare sulla base di elementi certi e precisi di avere sostenuto
quei costi
→ allora quei costi devono essere ammessi in deduzione.
Quali potrebbero essere gli elementi certi e precisi?
- prova dell’eseguito pagamento al fornitore
- una comunicazione, uno scambio epistolare (di mail) da cui potrebbe probabilmente risultare
anche l’oggetto della compravendita (quindi i beni che sono stati acquistati (proprio per essere
certi che sono quelli i beni ceduti dall’impresa che ha evaso).
b) Principio di competenza (argomento già affrontato)
c) Principio di inerenza.

Diritto tributario Pagina 169


c) Principio di inerenza.
Ne abbiamo già parlato (vedi prima) quando abbiamo affrontato l’argomento del REDDITO DI
LAVORO AUTONOMO→ anche le spese sostenute dall’esercenti arti e professioni devono essere
inerenti al reddito di lavoro autonomo, altrimenti non sono ammessi in deduzione.
Lo stesso si può dire a proposito del REDDITO D’IMPRESA: il COSTO e più in generale tutti i
componenti negativi sono deducibili SOLO se sono inerenti all’esercizio dell’impresa.
Quindi il COSTO occorre che sia sostenuto funzionalmente all’esercizio dell’attività d’impresa→ è
il profilo funzionale dell’operazione che occorre valutare per stabilire se il COSTO sia o meno
inerente.
Il costo inerente è quello funzionalmente collegato all’esercizio dell’attività d’impresa.
Questo dell’inerenza è un principio estremamente controverso.
Ci sono questioni molto ampie affrontate da dottrina e giurisprudenza nel tentativo di chiarire
quali sono i confini del principio di inerenza e perché poi in definitiva non si possa ritenere
consentito debordare in un altro profilo di valutazione (come spesso invece la giurisprudenza ha
consentito di fare), cioè quello della non congruità: spesso e volentieri si è assistito a una certa
tendenza a sovrapporre, da parte dell’Amministrazione Finanziaria, il giudizio di non inerenza
con il giudizio di non congruità
→si è così finito per sostenere che il COSTO non congruo (perché eccessivo nella sua misura)
sarebbe un COSTO NON INERENTE
PERO’, per la verità, sono due profili diversi che andrebbero tenuti distinti perché il giudizio di
non congruità (cioè il giudizio che può investire un COSTO eccessivo perché ritenuto
sproporzionato) NON è un giudizio di non inerenza→ è un giudizio che investe non la qualità del
costo, bensì la sua quantità.
Esiste comunque un filone giurisprudenziale molto molto vasto (soprattutto di Corte di
Cassazione) che sostiene appunto che anche il costo non congruo perché eccessivo nel suo
ammontare finisce per essere un costo indeducibile per difetto del principio di inerenza→ quindi
così si perviene ad un risultato a favore dell’Amministrazione Finanziaria.
È molto difficile chiarire con fili netti che corrono tra non inerenza e non congruità.
ESAME DEI COMPONENTI NEGATIVI
[non ci occuperemo del costo dei beni merce perché si tratta del costo che fa da pendant ai
ricavi e al rilevamento del valore delle rimanenze].
COSTO DEL LAVORO Sicuramente si tratta di uno dei componenti negativi del reddito d’impresa
fondamentali. I costi sostenuti dall’impresa per le prestazioni di lavoro sono integralmente
deducibili anche se sono sostenuti per l’erogazione di liberalità a favore dei dipendenti (tutte le
spese eventualmente sostenute per l’erogazione di liberalità a favore dei dipendenti sono
integralmente deducibili).
Certamente all’interno di questo tema va collocato il profilo dei cc.dd. fringe benefit:
il valore dei beni e dei servizi erogati in natura come remunerazione del lavoro prestato dai
propri lavoratori dipendenti certamente è reddito di lavoro dipendente in capo a chi percepisce
questi beni e questi servizi
allo stesso modo
i fringe benefit erogati dall’impresa (che quindi sostiene i costi per erogare beni e servizi ai
propri dipendenti) sono deducibili nella stessa misura in cui sono tassati in capo al dipendente.
Quindi
- da una parte l’impresa sostiene il COSTO per acquistare beni e servizi
- dall’altra questi beni e servizi vengono goduti dal dipendente
Il valore del fringe benefit da tassare in capo al lavoratore dipendente NON è il costo sostenuto
dall’impresa, ma è il valore normale ed è nei limiti di questo valore che il costo è deducibile
dall’impresa (entro i limiti dello stesso valore che è tassabile in capo al lavoratore dipendente)
→ al legislatore fiscale non interessa che l’impresa abbia effettivamente pagato il costo o il
servizio pagato al lavoratore dipendente più del valore normale: se c’è un esubero di costo
effettivamente sostenuto all’impresa rispetto al valore normale, questo esubero è fiscalmente
rilevante (l’impresa non può dedurlo).
Quindi
Da un lato si tassa quel valore in capo al lavoratore dipendente
Dall’altro lato si ammette che quel valore sia ammesso in deduzione da parte dell’impresa che
sostiene quel costo. L’impresa potrebbe sostenerlo in misura superiore o inferiore ma non
importa: resta il fatto che l’impresa ha diritto a dedurre il valore normale dei beni e dei servizi

Diritto tributario Pagina 170


importa: resta il fatto che l’impresa ha diritto a dedurre il valore normale dei beni e dei servizi
prestati ai dipendenti proprio nei limiti del valore che sarà tassato in capo al lavoratore
dipendente medesimo.
C’è perfetta corrispondenza tra l’ammontare ammesso in deduzione in capo all’impresa e
l’ammontare sottoposto a tassazione in capo al prestatore di lavoro.

Diritto tributario Pagina 171


LEZIONE 21 (4/05/21)
martedì 26 ottobre 2021 19:52

I COMPONENTI NEGATIVI DEL REDDITO DI IMPRESA


Interessi passivi
Come detto in precedenza, gli interessi attivi sono componente positivo del reddito d’impresa e
specularmente lo sono anche, naturalmente sul fronte opposto dei componenti negativi, gli interessi
passivi i quali sono i costi che l'impresa paga ai propri finanziatori.
Trattandosi di costo, che certamente deve essere inerente alla produzione del reddito d’impresa, ne
ammette la deduzione, come componente negativo.
Si tratta, però, di un componente negativo la cui deducibilità è, per certi aspetti, fortemente
osteggiata dall’ordinamento; questo perché il legislatore ha scelto di accedere ad un sistema di
deducibilità fortemente limitante, nel senso che gli interessi passivi non sono ammessi in deduzione
solo perché inerenti in misura integrale, la loro dedizione è possibile, ma entro rigorosissimi
limiti.
La scelta è stata determinata dalla volontà di disincentivare la sottocapitalizzazione delle imprese.
Le imprese sottocapitalizzate sono quelle che chiedono finanziamenti a pezzi, producono utili e li
distribuiscono, invece di riservarli alla patrimonializzazione dell'impresa.
Quando un'impresa produce utili si trova di fronte ad una scelta:
- destinare quegli utili ad ulteriori investimenti necessari per il consolidamento dell’attività di
impresa
- oppure, viceversa, distribuirli.
La scelta dell’impresa che consegue utili e preferisce distribuirli è la scelta dell’impresa che, poi
alla fine, se ha necessità di disporre di risorse liquide è costretta a ricorrere all' indebitamento,
quindi alla richiesta di finanziamento presso terzi.
È chiaro che una scelta di questo genere implica che l’impresa si sottopone ad un onere consistente:
quello del pagamento degli interessi passivi e una simile scelta è fortemente contrastata dal nostro
ordinamento proprio sotto il profilo del regime fiscale degli interessi passivi.
L'ordinamento esclude la piena deducibilità fiscale degli interessi passivi MA è ammessa entro
limiti fortemente rigorosi.
Attraverso questa disciplina il nostro ordinamento:
- mira a disincentivare le impresse dalla sottocapitalizzazione
- e in definitiva a ricorrere all’indebitamente
Quindi si preferisce attraverso la disciplina fiscale spingere le imprese a scelte diverse quali:
• patrimonializzare gli utili
• oppure scegliere di reinvestire gli utili nello svolgimento dell'attività d'impresa piuttosto che
distribuirli; questa è una scelta di gestione assolutamente sana dell’impresa che consente il
migliore sviluppo dell'attività.
La scelta di fondo dell'art. 96 T.U. circoscrive in maniera evidentissima la deducibilità degli
interessi passivi.
La regola della deducibilità degli interessi passivi poggia su due pilastri:
1. (regola semplicissima) prevede che gli interessi passivi possono essere dedotti solo in
misura corrispondente all' ammontare degli interessi attivi percepiti dall’impressa.
Si tratta di una regola estremamente restrittiva perché un’impresa per ricorrere
all'indebitamento consegue interessi estremamente modesti (se non addirittura pari a zero),
quindi non è facile che un’impresa che ricorre all' indebitamento si possa concedere anche il
lusso di fare maturare interessi attivi, per esempio sulle somme depositate sui conti correnti
bancari e postali.
Quindi se dovessimo guardare solamente a questa prima regola si dovrebbe dire che, in
definitiva, il legislatore esclude la deducibilità degli interessi passivi, perché laddove dice
che sono ammessi in deduzione solo in misura corrispondente a quella degli interessi attivi

Diritto tributario Pagina 172


che sono ammessi in deduzione solo in misura corrispondente a quella degli interessi attivi
conseguiti nel periodo d'imposta, è chiaro che il risultato dell’applicazione di questa regola
potrebbe essere per la stragrande maggioranza delle imprese l'assoluta indeducibilità degli
interessi passivi pagati ai creditori.
2. La seconda regola prevede che: gli ulteriori interessi passivi, eventualmente pagati ai
propri finanziatori (e quindi quelli eccedenti la misura degli interessi attivi) possono essere
dedotti in misura non superiore al 30% del ROL (risultato operativo lordo) è una
grandezza questo dato numerico che si determina per contrapposizione tra:
- Voci inscritte sub a) del conto economico
- Voci inscritte sub b) dello stesso conto economico
Salvo alcune eccezioni
In definitiva si contrappongono ai ricavi, i costi con l'esclusione di alcune specifiche voci.
Il risultato operativo lordo è una grandezza economica desumibile dalla contrapposizione tra
voci di bilancio (e in particolare tra voci di conto economico).
Il 30% di questa grandezza (ROL ) segna il limite quantitativo entro il quale gli
interessi passivi ulteriori sono ammessi in deduzione.
La regola, quindi, prevede che gli interessi passivi che nella misura corrispondono agli attivi
(conseguiti nel periodo di imposta) sono sicuramente deducibili.
Gli eventuali interessi passivi pagati in più rispetto a quelli che sono naturalmente ammessi
in deduzione, in virtù dell'applicazione della regola generale, possono essere d'occhi solo nei
limiti del 30% del ROL.
ESEMPIO:
SE il 30% del ROL fosse per esempio pari a 20.000 € à gli interessi passivi (nei limiti di
20.000 € ) potrebbero essere dedotti nel corso del periodo di imposta.
L'impresa che si indebita il più delle volte paga i propri finanziatori, si pensi al caso principe di
indebitamento che si instaura con istituti di credito in cui si paga una somma di interessi passivi
assai considerevole.
Quella degli interessi passivi è una voce di costo, per molte imprese, assai significativa.
Allora potrebbe accadere che questo 30% del risultato operativo lordo non sia sufficiente ad
assorbire, in termini di deducibilità fiscale, tutti gli interessi passivi pagati ai finanziatori, quindi
potrebbe verificarsi che residui un ulteriore ammontare di interessi passivi pagati che non si riesce a
dedurre fiscalmente (perché eccedente la soglia del 30% del ROL).
Sorge quindi spontanea la domanda: che fine fa questo ulteriore ammontare di interessi passivi, di
cui certamente la deducibilità fiscale, nel corso del periodo d'imposta, va esclusa ?
[siamo assolutamente al di fuori e dall’applicazione della regola generale e dall' applicazione del
correttivo spiegato riferimento 30% del ROL ].
L’art. 96 prevede che anche questa ulteriore eccedenza di interessi passivi possa essere
ammessa in deduzione:
a condizione che possa essere assorbito da un 30% del ROL calcolato per i periodi di
imposta successivi ( e così via fino a quando non riusciranno ad essere assorbiti nel ROL e
quindi non riusciranno ad essere dedotti fiscalmente).
In definitiva assistiamo ad un fenomeno che per certi aspetti ci ricorda, se vogliamo per analogia, il
meccanismo del riporto in avanti delle perdite.
Qui non si tratta naturalmente di riportare avanti le perdite, ma si tratta semplicemente di riservarsi
il diritto di dedurre fiscalmente questa eccedenza di interessi passivi, sperando che possano essere
assorbiti nel 30% del ROL maturato (e quindi determinabile contabilmente) nei periodi d'imposta
successivi.
Oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale
Si tratta di un altro elemento negativo del reddito di impresa.
Sotto quest’unica denominazione si nota la norma fiscale che comprende componenti negativi che
possiamo agevolmente distinguere in quanto non si possono assimilare gli oneri fiscali agli oneri di
utilità sociale (si tratta di voci di spesa o di costo estremamente eterogenei tra loro).
Gli oneri fiscali : tante volte, erroneamente, si ritiene che gli oneri fiscali siano sempre e comunque

Diritto tributario Pagina 173


Gli oneri fiscali : tante volte, erroneamente, si ritiene che gli oneri fiscali siano sempre e comunque
deducibili, in quanto voci di costo sostenuti effettivamente dall’impresa.
Non bisogna fare l'errore di ritenere che tutti gli oneri fiscali siano ammessi in deduzione perché
non è assolutamente così e non lo è per l'imposta sul reddito.
L’imposta sul reddito non è un costo sostenuto per la produzione del reddito, ma è un costo che
viene sostenuto per effetto della produzione del reddito, quindi è una conseguenza della produzione
del reddito (non un elemento determinante per la sua produzione).
Questa è la ragione per la quale le imposte dirette sono certamente escluse dalla categoria degli
oneri fiscali di cui è ammessa la deduzione.
Quindi le imposte dirette non sono certamente oneri fiscali che è possibile dedurre
fiscalmente.
NON sono, poi, deducibili le imposte per le quali è ammesso l'esercizio della rivalsa, per esempio,
l'imposta sul valore aggiunto; si tratta di imposte che prevedono un meccanismo di applicazione che
finisce per escludere che il peso fiscale resti in capo all'impresa ed è questa la ragione per la quale
quindi loro fiscale è certamente indeducibile.
Le imposte per le quali va certamente applicata la regola della deducibilità prevista dal T.U:
sono le imposte che sono voci di costo sostenute (e quindi sono imposte pagate) in ragione della
produzione del reddito, quindi come elemento essenziale necessario alla produzione del reddito
stesso.
ESEMPI:
- l' imposta di registro à se un'impresa paga imposta di registro potrebbe averlo fatto in
ragione della stipulazione di atti pubblici necessari all'acquisto di beni immobili e quindi
certamente l' imposta di registro, in questo caso, è un onore fiscale in cui deve essere
ammessa la deduzione (ai fini delle imposte sui redditi).
- l'IMU, l' imposta municipale che l'impresa paga in virtù del semplice possesso di beni
immobili che ne determinano la sua soggettività passiva.
Non sono, questi, costi sostenuti in ragione del fatto che il reddito è stato prodotto, ma sono costi
sostenuti in quanto necessari alla deduzione del reddito e questo giustifica la ragione per la quale si
tratta di oneri fiscali ammessi in deduzione.
Gli oneri di utilità sociale
È previsto che, se l'impresa sceglie di effettuare alcune erogazioni liberali rivolte a terzi che il
legislatore riconosce meritevoli di particolare tutela, questi costi non sono certamente inerenti
l'esercizio di attività di impresa : se l'impresa sceglie di sostenere un onere a favore di una
particolare categoria di soggetti, per esempio, il restauro conservativo dell' immobile di interesse
storico per la collettività, è chiaro che si tratta di una somma erogata ma all’infuori dall’esercizio di
attività di impresa à quindi questa circostanza sarebbe, da sola, sufficiente ad escludere che l'onere
possa avere rilievo fiscale.
Proprio per evitare che le imprese possano essere disincentivate al disporre erogazioni liberali a
favore di categorie soggetti che legislatore ritiene particolarmente meritevoli di tutela à allora la
norma prevede che in presenza di simili ipotesi è possibile ammettere la deducibilità fiscale di
queste erogazioni liberali, sia pure entro limiti quantitativi rigorosamente stabiliti.
QUINDI allo scopo di favorire i destinatari di queste erogazioni, la deducibilità fiscale dell' onere,
in capo all'impresa, è ammessa, nei limiti previsti dallo stesso legislatore.
Minusvalenze patrimoniali
Abbiamo già parlato ampiamente delle plusvalenze.
Alcune specifiche vicende che possono avere per oggetto beni meramente patrimoniali e beni
strumentali, possono determinare minusvalenze (non plusvalenze perché altrimenti torneremo a
parlare di componenti positivi) che il nostro ordinamento ammette in deduzione.
Quando si parla di minusvalenze patrimoniali si tratta di un componente negativo del reddito
impresa, rispetto al quale nostro legislatore fa alcune precisazioni queste sono tutte volte a limitare
la deducibilità delle minusvalenze:
- nel reddito di impresa le minusvalenze patrimoniali sono deducibili solo se sono
ovviamente realizzate à questo significa che, per esempio, l' autoconsumo e più in

Diritto tributario Pagina 174


ovviamente realizzate à questo significa che, per esempio, l' autoconsumo e più in
generale l'assegnazione del bene a soci non può, in nessun caso, legittimare la deduzione di
una minusvalenza patrimoniale.
In relazione alle plusvalenze, tra le fattispecie che generano plusvalenza da assoggettare a
tassazione c’è l'assegnazione dei beni ai soci e quindi l'ipotesi del bene che viene estromesso
dall’esercizio dell’attività d’impresa, per scelta dell'impresa à allora in quel caso il valore
normale del bene estromesso certamente concorre a determinare (secondo quelle regole ex
art.86) la plusvalenza potenziale da sottoporre a tassazione.
Non esiste il parallelo nello studio delle minusvalenze patrimoniali, quindi è da escludere
che l'impresa possa deliberare l'assegnazione di un bene strumentale o meramente
patrimoniale ai soci e pretendere che da questa operazione possa scaturire una minusvalenza
fiscalmente rilevante.
Questa scelta ha una ratio ben precisa evitare fenomeni elusivi perché l'impresa potrebbe
artatamente creare ad hoc una condizione tale per cui si dovrebbe generare un componente
negativo di reddito di impresa, quindi una minusvalenza patrimoniale.
Occorre sempre che ci sia una realizzo effettivo, un corrispettivo, un'operazione di cessione
a titolo oneroso oppure il realizzo di un risarcimento, anche in forma assicurativa, per la
perdita o il danneggiamento del bene à quindi le altre fattispecie restano perfettamente
valide anche ai fini della determinazione della minusvalenza come componente negativo del
reddito d’impresa.
- La cessione di titoli partecipativi che sono soggetti a regime PEX non può generare
minusvalenze fiscalmente rilevanti.
Se l'impresa cede i titolo partecipativi per i quali si applica il regime PEX, l'eventuale
minusvalenza è fiscalmente irrilevante, quindi non può essere dedotta.
Va certamente annotata perché in bilancio va scritta secondo le regole tipiche del bilancio
d'esercizio (fissate dal codice civile) ma ai fini fiscali si dovrebbe fare una variazione in
aumento al risultato del bilancio d'esercizio, proprio perché la minusvalenza sarebbe
fiscalmente irrilevante.
Sopravvenienze passive
Altro componente negativo speculare all'altro componente positivo delle sopravvenienze attive.
Le sopravvenienze passive sono strettamente legate a vicende che interessano componenti
positivi o negativi che hanno già concorso alla determinazione del risultato di esercizio in
precedenti esercizi. Quindi sono modificazioni che possono verificarsi nel corso del tempo,
rispetto alla misura o anche alla stessa esistenza di questi componenti positivi e negativi che hanno
giocato redditualmente in anni precedenti.
ESEMPIO:
mancato conseguimento di ricavi che sono stati contabilizzati in anni precedenti.
Quindi i ricavi devono essere contabilizzati in virtù del principio di competenza.
Sorge il diritto a conseguire una somma, eppure questa somma di denaro non viene mai conseguita
con la possibilità che il ricavo venga meno.
Questa è una diversa quantificazione di un componente positivo che ha già concorso a determinare
il reddito di impresa di anni precedenti e va da sé che si configura una sopravvenienza passiva.
La sopravvenienza passiva (così prevede la norma) si configura anche quando si determina
l'insussistenza di attività scritte in bilancio in precedenti esercizi.
Quindi, se un'attività di stato patrimoniale che si iscrive in un esercizio, per esempio del 2014,
viene meno in tutto in parte, tanto che l'attività dello stato patrimoniale deve essere cancellata, la
cancellazione dell’attività iscritte nello stato patrimoniale determina una sopravvenienza passiva.
ATTENZIONE questa regola generale non vale per i titoli partecipativi che accedono al regime
PEX.
Quindi se il titolo partecipativo che accede al regime PEX viene meno (perché, per esempio,
subisce una fortissima svalutazione) questo potrebbe determinare l'esigenza di cancellare il
titolo partecipativo dal bilancio, perché non si può attribuire più alcun valore a quel titolo, à la
sopravvenienza passiva non sarebbe deducibile.

Diritto tributario Pagina 175


sopravvenienza passiva non sarebbe deducibile.
Ci sono ricadute negative che accompagnano la scelta di applicare il regime agevolato.
QUINDI
- non solo indeducibilità della minusvalenza in occasione dell'eventuale cessione
- ma anche impossibilità di dedurre la sopravvenienza passiva che l'impresa potrebbe avere
subito a fronte della necessità di cancellare, dalle attività dello stato patrimoniale, il titolo
partecipativo, quindi per realizzazioni non indifferenti.
Perdite
Il nostro ordinamento dedica delle norme : artt.101 e 106 all'interno del T.U. delle imposte sui
redditi.
La disciplina delle perdite è una disciplina estremamente complessa che si è via via arricchita, nel
corso del tempo, in ragione essenzialmente del fatto che le perdite
- sia che si tratti di beni
- sia che si tratti di crediti
sono fenomeni estremamente diffusi nell'esercizio dell'attività d'impresa e dunque a questo è dovuto
l'interesse che legislatore ha voluto riservare a questa particolarissima categoria di componenti
negativi.
Sotto l'unica disciplina dell’art. 101 si trova sia la perdita dei beni che la perdita dei crediti, quindi i
due fenomeni sono da tenere distinti:
• Le perdite di beni = sono le perdite dei beni strumentali o meramente patrimoniali che si
trovano iscritti pure tra le attività dello stato patrimoniale. I beni sono entità fisiche.
• I crediti = sono una voce particolarissima delle attività di stato patrimoniale, non
sovrapponibili in alcun modo ai beni (siano essi strumentali o meramente patrimoniali).
I crediti scaturiscono da un’operazione di natura commerciale.
L’impresa stipula contratti anche di semplice compravendita con i propri clienti: per esempio si
pensi all'impresa che abbia ad oggetto l’attività di compravendita di beni, se vende bene ai propri
clienti non fa altro che stipulare contratti di compravendita, che prevedono la cessione di beni
mobili.
E quando stipula questi contratti genera ricavi, perché i beni sono stati consegnati o spediti e però
potrebbe anche accadere che il cliente non paghi il corrispettivo à allora in questa ipotesi accade
che:
- intanto il ricavo viene sottoposto a tassazione nel periodo di imposta in cui bene è stato
consegnato e spedito al cliente. Intanto l'impresa su quel ricavo paga l' imposta.
- Però potrebbe anche verificarsi che il cliente, pur avendo ricevuto regolarmente la merce
acquistata, NON paga il corrispettivo.
Nell’eventualità in cui questo corrispettivo non venisse pagato, alle scadenze pattuite, è
chiaro che l'impresa, al termine dell'esercizio dovrà scrivere tra le attività dello stato
patrimoniale di avere un credito verso il proprio cliente.
Questa è un'operazione un po’ complessa, ma è un per azione su cui si fonda l'economia reale.
Ci troviamo di fronte a un'impresa che è subito chiamata a pagare imposte sul ricavo che non ha, in
realtà, mai percepito MA intanto l’imposta la deve pagare, perché ha conseguito un ricavo ai sensi
del principio di competenza e però proprio perché non riceve il corrispettivo poi ha la necessità di
rilevare dalle attività del proprio stato patrimoniale questi crediti, sperando che un giorno questi
crediti attesi si trasformino in corrispettivi realmente percepiti.
L'esistenza di un credito scritto a bilancio non è un esistenza semplice per l’impresa in quanto
l’impresa che scrive un credito a bilancio lo deve valutare, anno dopo anno e si deve porre il
problema di quale sia la prevedibilità dell' incasso:
- Se è prevedibile che venga incassato
- O se invece è altamente prevedibile che il credito non abbia nessuna possibilità di essere
incassato in tutto o in parte.
Allora questo è il fenomeno che dal punto di vista economico che sta alla base della logica del
componente negativo delle perdite su crediti.
Il nostro legislatore (consapevole del fatto che l'impresa, anno dopo anno, deve valutare la

Diritto tributario Pagina 176


Il nostro legislatore (consapevole del fatto che l'impresa, anno dopo anno, deve valutare la
ripetibilità o meglio l'incasso effettivo di questi crediti) comprende bene che l'impresa potrebbe
avere ragionevoli motivi per sostenere che questo credito non possa essere mai incassato e
nell’eventualità in cui questo accada: immaginiamo, per esempio, che il debitore, cioè il cliente,
fallisce.
Di fronte a quest’ipotesi tanto grave, il nostro legislatore ammette immediatamente che
l'impresa possa fare emergere la perdita del credito e quindi la sua deduzione fiscale.
Questo significa che finalmente quel credito potrà essere cancellato dal bilancio perché la
prevedibilità dell'incasso è pari allo 0, una volta che è stata conclamata l'ipotesi del fallimento e
l'importo del credito, che era inscritto nelle attività dello stato patrimoniale, sarà deducibile come
perdita, quindi diventa un componente negativo di reddito d’impresa.
ATTENZIONE l’impresa sta recuperando fiscalmente ciò che, per la verità, ha già pagato quando
ha dovuto annotare il ricavo.
Quindi l'operazione è un operazione di riequilibrio da un punto di vista fiscale.
La disciplina che il nostro legislatore riserva alla deducibilità delle perdite su crediti è una
disciplina estremamente complessa, perché si presta ad abusi da parte delle imprese che potrebbero
pretendere di dedurre fiscalmente perdite su crediti, quando per la verità il credito non è
assolutamente deteriorato.
Regola generale in presenza della quale ex art.101 comma 5 la perdita su credito può essere
dedotto fiscalmente.
Tale regola è piuttosto sibillina e questo ha determinato il proficuo instaurarsi di molte controversie,
tutte concentrate su questo specifico istituto.
La norma prevede che: la perdita è ammessa in deduzione, se veniva da elementi certi e precisi.
Quindi se esistono elementi certi e precisi dai quali si può desumere che il credito è inesigibile, la
perdita è ammessa in deduzione.
Occorre verificare la sussistenza di questi elementi certi e precisi ed è proprio questa la ragione
della natura sibillina della disposizione, perché così risulta estremamente facile negare e sostenere
che gli elementi certi e precisi sussistono, per consentire la deduzione della perdita.
In questo modo:
l'impresa da una parte si deve precostituire tutta la documentazione necessaria che un giorno sarà
necessario esibire all'amministrazione finanziaria, per sostenere che gli elementi certi e precisi ci
sono, a sostegno della deduzione della perdita.
Dall’altra, però, il legislatore ha ritenuto di dovere alleggerire l'onere della prova gravante
sull’impresa per sostenere che questi elementi certi e precisi ci sono e allora per questo motivo la
norma si è arricchita in diversi modi, prevedendo che in alcuni casi gli elementi certi precisi si
presumono, quindi se ricorrono alcune particolari condizioni, l’impresa è sollevata dall'onere
di provare che elementi certi e precisi sussistono, perché ex legge si presume che l’inesigibilità
del credito è conclamata. Quindi non occorre alcuna necessità di provare certezza e precisione.
Queste condizioni, normativamente previste in presenza delle quali la deducibilità della perdita è
senz'altro ammessa sono:
1. quando il credito è di modesto importo.
Il legislatore si spinge addirittura a stabilire quando il credito si deve ritenere di modesto
importo, allora fissa addirittura delle soglie numeriche sono:
- 5.000 € per le imprese di medie dimensioni
- 2.500 € per le imprese di piccole dimensioni.
Quindi se l’importo delle credito non supera questo ammontare e il termine per il pagamento
è scaduto da almeno sei mesi à allora può essere pacificamente ammessa la deduzione della
perdita.
2. Prescrizione del credito.
Se il credito è prescritto, quindi è giuridicamente inesigibile per l'impresa che lo vantava, è
pacificamente ammessa la deduzione della perdita.
3. Caso in cui l’impresa abbia cancellato il credito dal bilancio in virtù dell'applicazione
dei principi contabili.

Diritto tributario Pagina 177


dei principi contabili.
I soggetti che esercitano attività di impresa, sono obbligati ad applicare (se non si tratta di
micro imprese):
- O i principi contabili internazionali
- O i principi contabili nazionali
Allora queste imprese che applicano i principi contabili internazionali o i contabili nazionali,
in virtù dell’applicazione di questi, potrebbero vedersi costrette a cancellare i crediti dal
bilancio.
Quindi nel caso in cui in virtù dell’applicazione di questi principi contabili l’impresa abbia
dovuto cancellare, dalle attività dello stato patrimoniale i crediti, la cancellazione del credito
legittima immediatamente la deduzione della perdita fiscale.
4. Caso in cui il debitore sia assoggettato a procedure concorsuali.
Quindi se il debitore:
- è assoggetto a procedure concorsuali,
- ha concluso un accordo di ristrutturazione del debito omologato dal tribunale
- o è assoggettato a procedure ad esse equivalenti
in tutti questi casi la perdita sul credito è immediatamente deducibile.
Tale fenomeno investe esclusivamente la deducibilità della perdita.
La perdita su crediti è una perdita che deriva da alcune vicende che possono indurre l'impresa a
ritenere il credito definitivamente perduto, quindi per esempio:
- l'ammissione alla procedura concorsuale
- la prescrizione ecc…
In questi casi l'onere di provare elementi certi e precisi non c'è; la regola generale vuole che anche
in altri casi i crediti possano essere perduti fiscalmente, ma devono sussistere gli elementi certi e
precisi (quindi qui l'onere della prova del contribuente si aggrava parecchio).
Quindi:
mentre l’impressa detiene nel proprio portafogli questi crediti, essa è chiamata a svolgere
costantemente un’attività di valutazione, quindi anno dopo anno, in virtù dei principi che
presiedono alla redazione del bilancio di esercizio, potrebbe vedersi costretta a svalutare questi
crediti.
La svalutazione non è perdita [perché la perdita implicherebbe la cancellazione del credito al
bilancio (si ritiene che il credito sia definitivamente perduto) e quindi la perdita investe un profilo
che necessariamente porta con sé la definitività della valutazione].
Quando, invece, l'impresa, anno dopo anno, è chiamata a valutare la prevedibile possibilità di
realizzo, questa attività di valutazione non è del tutto priva di rilievo fiscale.
Perché il fenomeno della svalutazione dei crediti possa avere effetti fiscali, non bisogna
necessariamente aspettare che diventi definitivamente perduto, anche la semplice svalutazione del
credito ha delle ricadute fiscali: semplicemente l'ordinamento consente con l'art.106 che
l'impresa possa dedurre, non la svalutazione del credito, ma l' accantonamento al fondo
rischi su crediti.
L’accantonamento al fondo rischi su crediti = l'impresa istituisce tra le passività dello stato
patrimoniale questo fondo, che chiama fondo rischi su crediti e solo a titolo prudenziale sceglie
accantonare una somma di denaro destinata ad alimentare questo fondo.
Questo accantonamento, che l'impresa prudenzialmente sceglie di fare, è un accantonamento
fiscalmente deducibile.
Quindi accade che l'impresa ritiene civilisticamente di dover svalutare questi crediti e sceglie di
accantonare a poco a poco delle somme da destinare a questo fondo rischi.
L' accantonamento al fondo rischi sul credito, proprio perché rispondono a finalità prudenziale che
l'ordinamento ritiene debole di tutela, è fiscalmente deducibile.
Quindi se l'impresa fa una scelta di cautela viene “premiata” nella misura in cui viene riconosciuta
la deducibilità fiscale di questo accantonamento.
In definitiva accade che:
- l’accantonamento diventa fiscalmente deducibile (è somma di denaro che alimenta con

Diritto tributario Pagina 178


- l’accantonamento diventa fiscalmente deducibile (è somma di denaro che alimenta con
fondo).
- quando finalmente la perdita è ben realizzata:
se l'impresa ha istituito il fondo rischi su crediti, che è alimentato da accantonamenti che
sono stati già tutti fiscalmente dedotti, la perdita sarà fiscalmente deducibile, ma solo per la
parte che rimane non assorbita dal fondo.
La parte che, invece, rimane incedente sarà sicuramente ammessa in deduzione.
Questa è la disciplina della deducibilità non della perdita, ma dell' accantonamento al fondo rischi
che l'impresa sceglie prudenzialmente di fare.
Gli ammortamento
Questo componente negativo del reddito di impresa lo abbiamo già sentito nominare parecchie
volte: se n’è parlato lungamente in relazione delle plusvalenze perché in quella sede si è fatto
riferimento alla nozione di costo fiscalmente riconosciuto in quanto si è detto che, ai fini della
determinazione della plusvalenza da sottoporre a tassazione, occorre determinare il costo sostenuto
per l'acquisto del bene al netto delle quote di ammortamento già dedotto.
Ora affrontiamo nella sua interezza lo studi di questo componente negativo molto importante nella
determinazione del reddito d'impresa.
È questo un componente negativo che investe esclusivamente i beni strumentali, quindi si tratta di
costi sostenuti per beni che sono destinati a essere impiegati durevolmente nell’esercizio
dell’attività d’impresa.
Il costo sostenuto per l'acquisto di questi beni non è un costo interamente deducibile nell’esercizio
in cui viene sostenuto, a differenza del principio che invece governa il rinnovamento dei costi
sostenuti per l'acquisto dei beni-merce.
Questo perché essendo beni destinati a essere durevolmente utilizzati nell’esercizio di attività di
impresa, si vuole che la deduzione fiscale del costo venga ripartita in tanti esercizi quanti sono gli
anni in cui è prevedibile che questi beni saranno utilizzati fino ad essere dismessi.
La disciplina che presiede all' ammortamento nel bilancio civilisticamente redatto è una
disciplina che risponde pienamente a questa logica.
Il codice civile nel rilevamento delle quote di ammortamento prevede che il costo di questi beni
debba essere dedotto proprio in funzione della residua possibilità di utilizzazione del cespite.
Questo significa che se il cespite viene a subire una prevedibile durata del suo tempo di vita,
perché intensamente utilizzato dall’impressa, allora le quote di ammortamento rilevate nel
bilancio civilisticamente redatto sono quote di ammortamento molto elevate.
All' intensa utilizzazione del cespite corrisponde un rilevamento delle quote di ammortamento
estremamente ampio; la quota di ammortamento potrebbe essere molto pesante e consistente nel
suo ammontare.
Questo perché la logica che presiede al bilancio civilistico è quella del rilevamento del costo, in
base alla prevedibile durata del bene. E se il bene viene intensamente utilizzato, questo significa che
la prevedibile durata è breve, perché dovrà essere presto sostituito quel cespite.
Quindi a fronte di un residuo periodo di utilizzo breve, non può che corrispondere una forte quota di
ammortamento rilevata nel bilancio d'esercizio.
SE la quota di ammortamento rilevata nel bilancio civilisticamente redatta potrebbe, proprio perché
si rispetta questa logica prudenziale, essere una quota di ammortamento consistente, ciò non sarà
necessariamente ai fini fiscali, perché la logica del reddito d'impresa è diversa.
Nella determinazione del reddito di impresa NON interessa più quale sarà la prevedibile durata
del cespite nello svolgimento dell'attività di impresa, nella dinamica del reddito di impresa ciò che
importa è esclusivamente unico criterio: che la quota di ammortamento dedotto non sia
superiore a quella fissata in un decreto ministeriale.
Esiste un decreto ministeriale (del 31 dicembre del 1988) che stabilisce, categoria per categoria
d’impresa e categoria per categoria di cespite strumentale, quale quota di ammortamento può essere
dedotto fiscalmente, perché si stabilisce normativamente che il bene X dovrà avere una durata Y à
questo vuol dire che la quota di ammortamento dovrà essere Z e non superiore a Z.
Questo significa che nell’ordinarietà dei casi:

Diritto tributario Pagina 179


Questo significa che nell’ordinarietà dei casi:
le imprese potrebbero rilevare nel bilancio civilistico quote di ammortamento anche considerevoli,
perché il bene è intensamente utilizzato.
Quando però occorre determinare il reddito di impresa quella quota di ammortamento indicata in
bilancio potrebbe essere ridotta, perché si tratta di una quota di ammortamento che supera i limiti
stabiliti nel decreto ministeriale del 1988.
Interviene, nella determinazione del reddito di impresa una possibile riduzione del
componente negativo.
In questo caso ciò che occorrerà fare una variazione in aumento del reddito d’impresa determinata
da una riduzione di un componente negativo che da 100 diventa 80.
Dell’ammortamento occorre certamente ricordare che si tratta della quota parte del costo sostenuto
fiscalmente messo in deduzione, in ottemperanza del contenuto di un decreto ministeriale del 1988
oltre i limiti del quale accade che la quota di ammortamento rilevata nel bilancio civilistico
potrebbe diventare fiscalmente rilevante, tanto rilevante da dovere essere costretti ad operare una
variazione in aumento al risultato dell’esercizio, quindi:
- il reddito imponibile, in questo caso, sarà maggiore rispetto all' utile di bilancio.
- oppure potrebbe, il gioco delle variazioni in aumento e in diminuzioni, determinare una
riduzione della perdita risultante al bilancio civilistico.
Il fenomeno resta esattamente lo stesso e l'applicazione del decreto ministeriale, non implica
esclusivamente la riduzione quantitativa della quota di ammortamento, in ragione delle circostanze
descritte, ma la disciplina dell’ammortamento prevede anche un ulteriore restrizione, determinata
dal fatto che convenzionalmente il legislatore ha stabilito che:
nel primo esercizio in cui il bene entra in funzione, la quota di ammortamento prevista dal
decreto ministeriale, si riduce della metà.
Quindi, per esempio, se la quota di ammortamento fosse pari al 20% nell’esercizio in cui il bene
entra in funzione, la quota di ammortamento non potrebbe superare il 10% : per evitare inutili
questioni, anche sotto il profilo del contenzioso, che potrebbero sorgere tra contribuente e
amministrazione finanziaria nella determinazione dell’effettiva quota parte della quota di
ammortamento maturata nell'esercizio, stando a guardare qual è il momento in cui il bene è entrato
fattivamente in funzione.
Nel costo di un periodo di imposta, il bene potrebbe essere entrato in funzione a gennaio, potrebbe
essere indicato in funzione ottobre, questo dipende molto variabili.
Allora per eliminare qualsiasi contestazione, circa l' effettiva quota parte della quota di
ammortamento effettivamente spettante, in ragione della quota parte dell'anno in cui il bene è
entrato in funzione (quindi il suo deterioramento è certamente iniziato) allora si è
convenzionalmente stabilito che nel primo anno la quota di ammortamento è ridotto alla
metà.
Si noti come le risultanze del bilancio civile non battono assolutamente quelle scritture che è
necessario, invece, eseguire in dipendenza della determinazione del reddito d’impresa.
A fronte di questa restrizione della rilevanza fiscale del componente negativo occorre ricordare che,
la disciplina dell' ammortamento (ex art. 102 T.U) prevede, invece, la libera possibilità di
ammortizzare integralmente (quindi tutto il costo sostenuto nell’esercizio ai sensi del principio di
competenza) quando il bene strumentale è di valore unitario non eccedente € 516.
Quindi, se il costo sostenuto per l'acquisto del bene strumentale non supera € 516 è ammesso
integralmente l'ammortamento del bene, nel periodo di imposte in cui il costo è stato
sostenuto, ai sensi del principio di competenza.
Si pensi ad un bene immobile, se il bene è stato consegnato e spedito ed è entrato in funzione nel
2020 e il costo sostenuto per l'acquisto non eccede i € 516, l' ammortamento è integralmente
ammesso nel periodo di imposta 2020, senza necessità di ripartire il costo in quote.
Gli accantonamenti
Si è già fatto riferimento agli accantonamenti quando ci siamo occupati di perdite su crediti, ma non
solo. Infatti un accenno è stato fatto in relazione al fondo TFR cioè il fondo di trattamento di fine
rapporto.

Diritto tributario Pagina 180


rapporto.
Questi fondi sono voci iscritte al passivo dello stato patrimoniale che normalmente sono
istituite per fare fronte a possibili rischi che l'impresa sa di correre nell’esercizio ordinario
della propria attività.
Normalmente, infatti, la logica che presiede alla volontà dell’istituzione dei fondi tra le passività
dello stato patrimoniale è, appunto, quella di premunirsi, in qualche modo, dalle conseguenze
pregiudizievoli che l'impresa corre, ogni qualvolta va incontro ad un rischio.
Se il rischio si verifica, l’impressa potrebbe incorrere in conseguenze pregiudizievoli che potrebbe
volere evitare o comunque attenuare proprio attraverso la costituzione di questi fondi che vengono
alimentati anno dopo anno con risorse progressivamente accantonate all’interno di questi fondi.
Certamente l'ipotesi del fondo rischi su crediti risponde esattamente a questa logica, MA ciascuna
impresa, in ragione della peculiarità dell'attività che svolgono, potrebbero sentire molto forte
l'esigenza di istituire i fondi rischi più svariati. La sensibilità che l'impresa può avere nella volontà
di ridurre o quanto meno circoscrivere il rischio a cui normalmente va incontro sono le più svariate
e dipendono naturalmente, da una parte dall'attività che svolgono, dall’altra, appunto, dalla
sensibilità che l’impresa può avere nel far fronte ai rischi connaturati all'esercizio di attività.
Allora ci si pone essenzialmente una domanda: gli accantonamenti, che prudenzialmente l'impresa
può volere fare per alimentare i fondi rischi iscritti tra le passività dello stato patrimoniale, sono
accantonamenti a cui il nostro ordinamento attribuisce rilievo e quindi ne mette sempre la
deducibilità fiscale?
La risposta a questa domanda è negativa, nel senso che, al di là della scelta prudenziale, che
l’impresa può o meno voler fare (perché si tratta appunto di una scelta puramente volontaria), il
nostro ordinamento risponde con una disciplina molto rigida, perché prevede che questi
accantonamenti nei fondi rischi sono deducibili soltanto se sono destinati ad alcune particolari
categorie di fondi.
Questo significa che nei bilanci d’impressa è possibile trovare uno o più fondi rischi, MA la scelta
dell’impresa non è sempre detto che abbia delle ricadute fiscali apprezzabili, quindi gli
accantonamenti, che pure anno dopo anno, si sceglie di fare a questi fondi, sono accantonamenti che
potrebbero essere fiscalmente irrilevanti.
Quindi l'impresa sceglie di istituire il fondo rischi, per esempio, alluvione.
Allora sceglie di destinare una quota parte degli utili a quel fondo rischi, ma quella quota parte di
utili non sono accantonamenti che sono componente negativo del reddito d’impresa, ma sono utili
che vengono normalmente sottoposti a tassazione.
Gli unici accantonamenti ai quali il nostro sistema attribuisce rilievo fiscale:
1. il fondo rischi su crediti : l' accantonamento fondo rischi su crediti se l'impresa sceglie di
farlo, prudenzialmente, è riconosciuto fiscalmente.
ATTENZIONE l’accantonamento al fondo rischi su crediti è un accampamento rilevante
fiscalmente, perché costituisce componente negativa del reddito di impresa, ma sarebbe un
errore dire che è integralmente deducibile.
L’impresa può scegliere di accantonare al fondo rischi anche cifre considerevoli, ma il T.U
non ammette in deduzione come componente negativo tutta la somma destinata al fondo
rischi.
La norma prevede delle limitazioni quantitative : l' ammontare di quell’accantonamento che
costituisce componente negativa del reddito d’impresa e che quindi è ammesso in deduzione
non supera lo 0,50% del valore dei crediti iscritti in bilancio.
Questa è una soglia insuperabile, un importo dell' accantonamento pari allo 0,50% del valore
dei crediti iscritti in bilancio può essere dedotto.
Quindi l'impresa:
-si deve calcolare l'importo che corrisponde allo 0,50% dei credit iscritti in bilancio.
-Una volta fissato l' importo corrispondente allo 0,50% dei crediti iscritti in bilancio, saprà
che fino a quell’importo l' accantonamento al fondo rischi è deducibile.
-se vorrà portare ad accantonamento una cifra maggiore, lo potrà fare, con assoluta serenità
ma tutto ciò che va oltre lo 0,50% dei crediti iscritti in bilancio sarà accantonamento

Diritto tributario Pagina 181


ma tutto ciò che va oltre lo 0,50% dei crediti iscritti in bilancio sarà accantonamento
indeducibile.
2. Un altro accantonamento, che però non è un fondo rischi e non viene istituito per fare fronte
a un rischio dell'impresa in quanto l’onere a cui questo fondo vuole fare fronte è certo, non
incerto, è il fondo TFR.
Ogni impresa sa che quando i propri lavoratori dipendenti cesseranno dall’attività lavorativa,
dovrà corrispondere il trattamento di fine rapporto.
Il fondo TFR, che questa non è un fondo volontario, ma previsto dalla legge, va alimentato
ex lege, ogni anno, con apposito accantonamento, per il quale questa volta è pienamente
riconosciuta la deducibilità fiscale ed è la quota parte di un costo certo e futuro che
l'impresa matura nell’esercizio in corso.
I soggetti che redigono il bilancio, in osservanza dei principi contabili internazionali e
nazionali.
Queste due categorie di soggetti passivi IRES sono obbligatoriamente tenuti ad osservare questi
principi contabili e l'art. 83 del T.U prevede che questi soggetti (nella determinazione del reddito
d'impresa) sono tenuti all’osservanza di un principio, che non è quello di derivazione classico,
MA è quello di derivazione rafforzata.
Il principio di derivazione classico consiste semplicemente nell’individuazione del valore
risultante dal bilancio d'esercizio civilisticamente redatto e poi nella necessità di applicare
variazioni in aumento o diminuzione che sono determinate dall' applicazione delle norme
fiscali.
Quando parliamo di principio di derivazione rafforzata, anche coloro che applicano principi
contabili internazionali e nazionali apportano al risultato del bilancio d'esercizio variazioni in
aumento e variazione in diminuzione.
Quindi la logica che presiede la depilazione del reddito di impresa non cambia, resta sempre quella.
Dove, invece, viene profondamente modificata la disciplina delle modalità di determinazione del
reddito d'impresa da parte di questi soggetti?
La differenza radicale sta nel fatto che questi soggetti:
- IAS Adopter à che sono coloro che adottano i principi contabili internazionali (banche e
assicurazioni)
- OIC Adopter à che sono coloro che adottano i principi contabili nazionali (quelli redatti
dall’organismo nazionale di contabilità)
in alcuni casi non fanno le variazioni in aumento e in diminuzione, perché la rappresentazione
della voce di bilancio, civilisticamnete redatto, prevale sulla diversa scelta che altrimenti
avrebbe dovuto fare applicando il principio di derivazione classicamente inteso.
Questo significa che se ad un componente (positivo o negativo che sia) il soggetto IAS Adopter o
OIC Adopter ha dato una certa qualificazione, questa scelta operata in seno al bilancio,
civilisticamente redatto, prevale sulla norma fiscale.
Quindi la norma fiscale, che ne avrebbe, invece, determinato una modificazione, non si
applica.
Il bilancio civilisticamente redatto prevale sulla (eventualmente divergente) disciplina fiscale,
questo significa che il bilancio civile, in certi casi, prevale rispetto alla norma del T.U che quindi
non si applica, quindi il dato di bilancio diventati anche dato fiscale, senza nessuna variazione in
aumento o in diminuzione.
Derivazione rafforzata = rafforzata perché il legame che corre tra:
- reddito d'impresa
- e bilancio di esercizio civilisticamente redatto
si fa più forte, tanto che il bilancio civilistico, per certi aspetti, domina il reddito d’impresa, lo
costringe ad adattarsi alle risultanze del bilancio d'esercizio.
Quanto detto non vale su tutti i fronti, ma vale limitatamente ai casi che sono appunto indicati
nell’art. 83 T.U.
I profili in presenza dei quali gli AIS Adopter e i OIC Adopter devono necessariamente far
prevalere la norma civilistica, rispetto a quella fiscale:

Diritto tributario Pagina 182


prevalere la norma civilistica, rispetto a quella fiscale:
1. qualificazione dell'operazione = l'operazione per essere rilevata in bilancio deve essere:
prima di tutto qualificata, dobbiamo cioè capire se vi è un’azione di compravendita o di
finanziamento.
L'operazione è il primo elemento da guardare nella determinazione del reddito di impresa,
perché è dall’operazione contrattuale che sorgono le ricadute in termini di reddito: costi,
ricavi, plusvalenze ecc…
Chi redige il bilancio si trova di fronte a un atto posto in essere dall' impresa e lo si deve
qualificare. Bisogna prima di tutto capire il TIPO di operazione, bisogna attribuire una
categoria giuridica all'operazione.
Questa scelta viene opportunamente guidata per effetto dell'applicazione dei principi
contabili internazionali e nazionali à allora questo vuol dire che potrebbe accadere che
un’operazione, in virtù dell'applicazione dei principi contabili internazionali, debba essere
qualificata come un'operazione di finanziamento; ma se è un’operazione di finanziamento
allora sicuramente avrà generato interessi attivi, passivi ecc…
Cosi, si notano bene quali ricadute importanti ha l'applicazione corretta l’art.83 con il
principio di derivazione rafforzata à significa che questi soggetti (IAS Adopter e OIC
Adopter) se fanno una scelta di qualificazione di una determinata operazione, in un certo
modo, quella scelta è vincolante anche ai fini fiscali, non possono riqualificare l'operazione
perché sulla base del comune sentire sarebbe meglio qualificarla come un’operazione di
compravendita oppure di locazione.
Non si può più modificare questa qualificazione dell’operazione.
2. classificazione = è l'attività che viene subito dopo la qualificazione.
Dopo avere qualificato l'operazione, sotto il profilo giuridico, occorre scegliere come
incasellarla all'interno del bilancio, quindi come la si classifica e questo dipende dallo studio
approfondito di quell’operazione l'impressa fa.
Anche la scelta di come classificare l’operazione già qualificata all'interno del bilancio è
un'attività di valutazione che necessariamente deve essere fatta in osservanza dei principi
contabili e che dal punto di vista fiscale non si può più modificare.
3. Imputazione temporale = nel reddito di impresa il principio che governa è quello di
competenza, che delle regole rigidissime.
Anche su questo fronte, i principi contabili internazionali e nazionali incidono in maniera
determinante perché potrebbero indurre a rilevare le operazioni in maniera difforme rispetto
al principio di competenza.
Allora se un’impresa, dal punto di vista contabile, ha dovuto imputare temporalmente
l'operazione a un determinato periodo di imposta per rispondere ai principi contabili
internazionali/nazionale, questa scelta non può più essere modificata; non può il principio di
competenza ex art.109 prevalere sulla diversa imputazione temporale che eventualmente di
quell’operazione l'impresa abbia dovuto fare.
Quindi il principio di derivazione rafforzata significa esattamente questo:
questi soggetti continuano a partire dal dato di bilancio, per determinare quel sistema delle
variazioni in aumento e in diminuzione, ma quelle variazioni in aumento e in diminuzione che
sarebbero determinate da una diversa qualificazione, classificazione o imputazione temporale
delle operazioni a periodo e che si dovrebbero teoricamente fare
- o per qualificare
- o per classificare
- oppure imputare a periodo diverso le operazioni dell'impressa
non verranno eseguite da questi soggetti.

Diritto tributario Pagina 183


LEZIONE 22 (6/05/21)
martedì 26 ottobre 2021 19:52

Ires imposta sul reddito della società


Dobbiamo studiare l’istituto del regime di tassazione per trasparenza: è quello che si applica nei confronti di
una specifica categoria di società, quella delle società di persone, il regime di tassazione per trasparenza implica
che il reddito prodotto dalle società di persona non viene mai sottoposto a tassazione, ma viene
immediatamente imputato ai soci della società stessa
Il reddito di impresa prodotto dalle società di persone viene sottoposto a tassazione sempre attraverso
l’applicazione dell’IRPEF, che è l’imposta applicata ai soci.
Questo regime di imputazione del reddito prodotto non è riservato esclusivamente alle società di persone, per
legge è previsto che il reddito delle società di persone debba essere sottoposto a tassazione, esiste però la
possibilità di estendere questo regime anche a società diverse.
La differenza radicale sta nel fatto che: laddove nel regime di tassazione per trasparenza venga applicato anche
alle società di capitali può esserlo solo attraverso l’esercizio di una specifica opzione.
Questo regime non è previsto ex lege, laddove lo si voglia applicare alle società di capitali, è un regime che si si
applica solo se viene manifestata espressamente un’opzione in tal senso, è quindi un regime opzionale.
Sono previsti due regimi di tassazione per trasparenza
1) Regime ordinario: può essere applicato alle società di capitali che hanno come soci altre società di capitali. È
esteso a tutte le società di capitali.
2) Regime speciale: riservato solo alle piccole società a responsabilità limitata, quindi S.r.l. di piccole dimensioni,
occorre che i soci siano tutte persone fisiche.
Regime di tassazione per trasparenza ordinaria
Società di capitali i cui soci sono altre società di capitali, la peculiarità è rappresentata dal fatto che tutti i soci
della società devono manifestare l’opzione, è un regime prevede che tutti i soci che partecipano siano d’accorso
all’adozione della tassazione per trasparenza (in sintesi si usa la formula “all in, all’out”, tutti dentro o tutti
fuori).
Se tutti coloro che partecipano alla società di capitali manifestano l’opzione e la società partecipata stessa, il
regime può essere applicato.
Questo regime ha effetti per 3 esercizi, non può essere revocata questa scelta, attenzione ma questo non
significa che il beneficio possa venire meno, la revoca è determinata dalla volontà dei soci, una volta che si
manifesta la volontà questa non può essere revocata, altro discorso è dire che il regime può essere perduto in
corso d’opera quando vengono meno le condizioni che rendono questo regime voluto.
Apprezzato perché? Significa in definitiva Evitare l’applicazione dell’ires in capo alla società partecipata, e far in
modo che l’ires venga applicata una volta e basta in capo alle società di capitali
che partecipano alla società partecipata, va tassando l’applicazione ell’ires in capo alla società partecipata e poi
l’applicazione dell’imposta in capo alla partecipante nei limiti del dividendo.
Per effetto del regime di tassazione per trasparenza, invece, tutto questo non si realizza, con l’effetto che
l’imposta viene applicata una volta e basta in capo alle società partecipanti.
Condizioni che escludono radicalmente che questo regime possa essere applicato
1) È escluso che il regime possa essere adottato se, una delle società di capitale che partecipano alla società
partecipata, ha il diritto di applicare un’aliquota ires ridotta, in questo caso il regime di tassazione per
trasparenza non potrà essere applicato.
RATIO: se una parte reddito prodotto dalla partecipante fosse attribuito per trasparenza ad una società che ha
diritto ad applicare un’aliquota ires agevolata, si finirebbe per detassare fortemente il reddito prodotto dalla
partecipata, questa è un’evenienza che il regime non può tollerare.
2) La seconda ragione ostativa riguarda la società partecipata, cui è vietato di optare per il regime di tassazione
per trasparenza se aderisce al consolidato (regime di tassazione dei gruppi, si distingue in nazionale e mondiale)
è escluso che possa ricorrere al regime di tassazione per trasparenza
3) Terza ragione ostativa. La società partecipata sia sottoposta a procedura concorsuale, in questo caso la
società non può optare per il regime di tassazione per trasparenza
Queste condizioni, che sono cause di esclusione al regime, non devono verificarsi neppure durante il periodo in
cui l’opzione è stata esercitata, se si verificano in corso d’opera determinano il venire meno del regime di
tassazione per trasparenza, significa che il regime di tassazione per trasparenza cessa dall’inizio del periodo di

Diritto tributario Pagina 184


tassazione per trasparenza, significa che il regime di tassazione per trasparenza cessa dall’inizio del periodo di
imposta in corso a quello in cui queste condizioni si manifestano
La percentuale di partecipazione alla società partecipata che ciascuna delle società di capitare deve
corrispondere ad alcune soglie: è previsto che ogni società partecipante debba avere una quota di
partecipazione non inferiore al 10% e non superiore al 50%.
Anche il rispetto di queste soglie diventa un limite all’applicazione del regime
Es. Se nel corso del triennio una delle società partecipanti dovesse ridurre la quota di partecipazione sotto al
10% o aumentarla sopra il 50%, automaticamente questo comporterebbe la perdita del regime di tassazione
per trasparenza.
In cosa consiste questo regime?
regime di tassazione per trasparenza significa che il reddito prodotto dalla società partecipata viene
direttamente imputato ai partecipanti, in questo caso non saranno persone fisiche ma saranno a loro volta
società di capitali.
Importante ricordare che è irrilevante che gli utili siano stati effettivamente distribuiti.
Nei rapporti che ordinariamente corrono tra società partecipata e partecipanti, (quindi siamo in regime di
tassazione ordinario) accade che le partecipanti sottopongono a tassazione i proventi che derivano dalla
partecipazione solo se percepiscono Dividendi, il dividendo è tassato per cassa: quindi solo se, e nella misura in
cui, viene effettivamente percepito.
Se invece si opera per regime di tassazione sottoposto a trasparenza sottoponendo a tassazione pro quota
l’utile prodotto dalla partecipata, indipendentemente dalla circostanza che quell’utile si astato
effettivamente distribuito, quindi anche in assenza di qualsiasi delibera di distribuzione l’utile sarà sottoposta a
tassazione da parte della partecipante.
RATIO: se si rinuncia ad applicare l’ires in capo della partecipata è chiaro che altrettanto immediata dovrà
essere l’applicazione dell’imposta in capo alla partecipante, la partecipante è chiamata a corrispondere
l’imposta per la quota del reddito prodotto dalla partecipata.
Il regime di tassazione per trasparenza, da una parte prevede che il reddito prodotto sia immediatamente
imputato pro quota, ma pro quota saranno imputate anche le perdite se la società partecipata ne avrà subite,
emerge l’utilità del regime di tassazione per trasparenza, la partecipata potrà avere interesse a vedersi
imputata pro quota la perdita subita della partecipante a deterioramento delle sue imposte, così come la
partecipante ha diritto a vedersi attribuito pro quota il diritto a scomputare le ritenute d’acconto subite dalla
partecipata, così come abbiamo visto nelle società di persone con l’art 116 del tu sull’imposta dei redditi.
Le partecipate hanno diritto a scomputare pro quota redditi di imposta vantati dalla partecipata.
La partecipata ricopre dei ruoli importanti:
1) primo profilo è quello Obbligatorietà di presentare la dichiarazione: la società partecipata non viene meno
all’obbligo dichiarativo, seppure all’interno della dichiarazione non potrà mai emergere un debito di imposta
proprio, perché il debito di imposta costituirà la base imponibile, che sarà ripartito in capo ai soci percettori,
che sono a loro volta società di capitali. Del debito di imposta della società partecipata rispondono tutti i soci
pro quota, ne è garante, la società partecipata non è estranea dal rapporto giuridico di imposta, funge però,
non da debitore principale, ma da semplice garante, al pagamento dell’imposta che giuridicamente grava in
Capo ai soci percettori del reddito.
Garantisce l’adempimento delle obbligazioni tributarie che gravano sui soci percettori, è quindi solidalmente
responsabile.
2) La società partecipata nell’eventualità in cui L’amministrazione finanziaria dovesse esercitare l’attività di
accertamento, quindi per notificare l’accertamento a tutti i soci così come anche alla società partecipata, che in
qualità di soggetto solidalmente responsabile potrebbe essere chiamata a garantire l’adempimento
dell’obbligazione tributaria.
Regime di tassazione per trasparenza speciale
L’ordinamento prevede, all’art 116 che questo regime può essere applicato ad una particolare categoria, cioè
S.r.l. di piccole dimensioni, nel caso in cui l’S.r.l. abbia una compagine sociale particolarmente ristretta
Condizioni per cui S.r.l. può essere ammessa al regime di tassazione per trasparenza speciale.
4) La compagine asociale deve essere costituita esclusivamente da persone fisiche con un numero di soci non
superiore a 10, possono arrivare a 20 soci se si tratta di S.r.l. costituita sotto forma di cooperativa.
5) La società non deve essere sottoposta a procedure concorsuali.
6) Non deve essere superata una certa soglia di volume di affari, deve trattarsi di una società che produce
volume di affari non eccedente la soglia stabilita dalla legge
Attraverso questo regime, si persegue il medesimo obiettivo che abbiamo studiato: quello di consentire alle

Diritto tributario Pagina 185


Attraverso questo regime, si persegue il medesimo obiettivo che abbiamo studiato: quello di consentire alle
S.r.l. di funzionare esattamente come una società di persone, c’è una differenza fondamentale tra la prima e la
seconda fattispecie:
DIFFERENZA; mentre il regime di tassazione per trasparenza c.d. ordinario implica l’applicazione dell’ires
comunque in capo ai soci percettori perché la caratteristica era quella delle società di capitali a loro volta
partecipate soltanto società di capitali, il presupposto è quindi l’ires, non si applicherà l’ires in capo alla
partecipata, ma si applicherà comunque l’ires in capo alle partecipanti.
In questo regime speciale, l’opzione determina conseguenze profondamente diverse, perché l’S.r.l. è
partecipata solo da persone fisiche, questo comporta che la partecipata non applica ires e quindi sul suo reddito
l’unica imposta completamente applicata sarà. L’IRPEF, questo secondo modo di applicare il regime di
tassazione per trasparenza comporta una sovrapposizione tra il regime delle società di persone e il regime delle
S.r.l. a ristretta base partecipativa. Si estende anche alle S.r.l. a ristretta base partecipativa tutta quella serie di
vantaggi che abbiamo visto per le società di persone.
Iva, imposta sul valore aggiunto
È sicuramente un tributo essenziale del nostro sistema, funziona su un sistema di applicazione estremamente
complesso ed è fortemente influenzato dalla sua natura comunitaria
Lo troviamo disciplinato nel d.P.R. 633 del 1972, ma la disciplina di questo tributo non possiamo definirla
nazionale o interna, è una disciplina che risente profondamente delle direttive comunitarie, per le quali i singoli
stati hanno adottato rispettivamente nei propri ordinamenti i decreti di attuazione, è quindi un tributo che
prima di essere nazionale, è comunitario.
È stata l’imposta ideata in sede europea, introdotta in tutti istati dell’unione, in base ad un modello che trovate
tracciato all’interno di tutte le direttive comunitarie, in particolare la direttiva 112/2006 è quella che oggi più di
qualunque altra disciplina l’IVA.
Il contenuto di questa direttiva, a cascata, ha determinato la stesura attuale del decreto del 1972,
nell’ordinamento l’iva è stata introdotta nel 1972 ma la direttiva 112/2006 ha integralmente modificato il
decreto.
L’iva è quindi una disciplina europea che si applica alla circolazione dei beni e dei servizi, è un’imposta indiretta
sul consumo che non potrebbe che essere disciplinata a livello europeo, perché gli scambi commerciali son alla
base del fondamento dell’unione stessa.
Non bisogna trascurare che l’Iva è una delle risorse proprie dell’UE, una percentuale del gettito derivante da
questo tributo è destinata al finanziamento dell’unione stessa, è UNA RISORSA PROPRIA DELL’UE.
Quando parliamo di IVA intendiamo riferirci a un tributo indiretto sui consumi, ricordiamo che le imposte sui
consumi possono essere monofase o plurifase.
Monofase: si applica solo una volta, volendo immaginare una catena di distribuzione di un bene si dovrebbe
ipotizzare che il tributo venga applicato esclusivamente ad una delle fasi di produzione del bene
Plurifase: l’imposta è sistematicamente applicata su ciascuna delle fasi di distribuzione del bene, fino a quando
non giunge alla fase del consumo.
Le imposte plurifase possono a loro volta trovare applicazione attraverso modalità distinte:
7) A cascata: l’imposta, che è dovuta su ciascuna fase, si somma alla base imponibile da tenere in
considerazione per l’applicazione della fase successiva, si tiene conto sia della base imponibile sia dell’imposta
che è stata pagata sulla base della base imponibile precedente, questo comporta che l’aggravio è tanto
maggiore quanto maggiore è il numero delle fasi, questo metodo di applicazione delle imposte finisce per
penalizzare fortemente gli operatori economici che fanno parte di catene di distribuzione molto ampie, con
ricadute in termini di aumento di prezzo evidenti.
8) Sul valore aggiunto: l’adesione permette di rendere irrilevante il numero delle fasi, quale che sia il numero
delle volte in cui il tributo è stato applicato, questa circostanza non determina un aumento di prezzo,
eliminando le distorsioni del sistema a cascata
Come questo è possibile?
Attraverso la creazione di un sistema che consente di applicare l’imposta fase dopo fase, limitatamente al
maggior valore che il bene o il servizio realizza in quella fase.
Questo metodo di applicazione dell’imposta assicura la neutralità dell’imposta sul soggetto passivo.
Caratteristiche fondamentali dell’IVA:
1) Generalità: si applica a tutte le operazioni che hanno per oggetto beni o servizi
2) Proporzionalità: non c’è alcun riferimento alla nozione di progressività, si applica attraverso un’unica aliquota
che viene applicata ad una base imponibile pari al corrispettivo pagato per l’acquisto di beni e servizi
3) Plurifase: riscossa in ciascuna fase di produzione dei beni e servizi

Diritto tributario Pagina 186


3) Plurifase: riscossa in ciascuna fase di produzione dei beni e servizi
4) Neutrale: (molto importante) limitatamente ai soggetti passivi, ma non rispetto ai contribuenti, intendiamo
riferirci alla circostanza che la neutralità si realizza attraverso il soggetto passivo dell’iva e non al consumatore
finale.
Rappresenta la dicotomia tra soggetto passivo e contribuente: nella normalità dei casi soggetto passivo e
contribuente collimano, il soggetto passivo è il protagonista del rapporto giuridico di imposta, il contribuente è
chi è gravato in senso economico dall’applicazione del tributo.
Se pensiamo all’ires, all’irpes, all’imposta di registro, sono tributi in cui contribuente e soggetto passivo
collimano, il soggetto passivo è colui che è anche gravato economicamente dall’applicazione del tributo, nell’iva
questa concomitanza non si realizza mai, nell’iva il soggetto passivo non è mai il contribuente e viceversa.
(importante)
Il contribuente è il consumatore finale, il soggetto passivo non è mai il consumatore finale, quindi è neutrale
rispetto ai soggetti passivi ma non rispetto alla posizione del consumatore finale.
Es. Immaginiamo che la catena di produzione e consumazione di un bene, immaginiamo che la prima fase sia
quella che intercorre tra A e B che produce il bene, la seconda di distribuzione tra B e C e l’ultima fase di
consumazione e quindi di vendita intercorre tra C e D.
A è il grossista e vende il bene a B, B è il dettagliante e vende a sua volta il bene a C, C è un imprenditore che
acquista con l’intento di rivendere a D che è il consumatore finale.
Abbiamo 4 soggetti: i primi 3 soggetti sono imprenditori perché acquistano e vendono beni nell’esercizio
dell’attività di impresa, mentre D acquista in qualità di consumatore finale.
Verifichiamo come l’imposta si realizzi neutralmente nei confronti dei soggetti passivi e non nei confronti del
consumatore finale:
A produce il bene e lo vende a B, applicando il prezzo di 50 euro, e ipotizziamo l’aliquota Iva del 20%
(attualmente è al 22%), cosa accade?
B per acquistare il bene da A, deve corrispondere il prezzo di 50 più 10 (10 è il 20%), allora lo venderà a C,
incrementando il prezzo, non applicherà mai un prezzo equivalente senno non ha guadagno, quindi ipotizziamo
che venga il bene al prezzo di 100, vien da sé che C dovrà corrispondere il prezzo di 100 + 20% di IVA = 120 euro
Soffermiamoci sulla posizione di B: ha pagato ad A 10 euro a titolo di Iva e ha incassato 20 euro a titolo di iva, B
è pacificamente un soggetto passivo, l’obbligo di B in qualità di soggetto passivo è obbligato a versare solo la
differenza tra quanto pagato al suo fornitore e quanto riscosso dal suo cliente , in definitiva, B dovrà
determinare l’obbligo di pagamento operando la differenza tra l’iva incassata a Valle, e l’iva pagata a monte: se
incassa a valle 20 e paga 10, l’obbligo di pagamento è pari a 10, che è la differenza tra 20 e 10.
Una volta che C avrà pagato il corrispettivo a B, a sua volta è probabile che venderà il suo bene al consumatore
finale, che sarà D, anche C incrementerà il prezzo, per cui è possibile che collochi il bene nel mercato, a un
prezzo pari a 300, in questo caso il consumatore finale pagherà a C il corrispettivo di 300 aggiungendo il 20% a
titolo di Iva, che è 60, D corrisponderà a C 360.
A questo punto C ha incassato a valle 60 e ne ha pagata 20, l’obbligo di pagamento ammonta a 40 (60-20)
l’iva pagata fa sempre riferimento all’incremento di valore che il bene acquista nei vari passaggi, per cui C ha un
obbligo di pagamento limitato al solo incremento di valore che il bene ha acquistato
questo determina l’imposta non a cascata ma sul valore aggiunto.
Ed è neutrale perché, sia A che B che C, a segui della detrazione dell’iva pagata e quella incassata, hanno diritto
a trattenerla, limitando il versamento alla sola parte aggiuntiva.
Se dall’iva pagata a valle e l’iva pagata a monte l’imprenditore deve trattenere la differenza, in definitiva non
resta affatto inciso dal tributo, è semplicemente una partita di giro.
Tutti i soggetti che intervengono in economia hanno a loro volta dei fornitori, anche A avrà pagato iva ai suoi
fornitori, anche se nel nostro esempio è l’iniziatore del processo di produzione.
Mentre non è neutrale su D, è colui che resta definitivamente inciso economicamente dall’applicazione del
tributo, ed è importante capire che D paga 40, e deve essere pari alla somma delle ive pagate dagli imprenditori
dei processi precedenti.
I due istituti che assicurano la corretta applicazione dell’iva sono obbligo di rivalsa e diritto di detrazione.
Diritto di detrazione: ogni soggetto passivo di iva, ha diritto di detrarre dall’iva incassata a valle l’iva pagata a
monte, ognuno di loro una volta incassata l’iva dal cliente ha diritto di detrarre l’iva pagata al fornitore per
l’acquisto di quel bene.
Obbligo di rivalsa: obbligo previsto dalla legge di costituirsi creditore nei confronti del proprio cliente ad
acquisire l’imposta, ogni soggetto passivo iva è obbligato ad applicare l’iva sulle proprie operazioni attive, le
operazioni passive quando ci occupiamo di Iva sono gli acquisti, quelle attive sono le vendite, quando parliamo

Diritto tributario Pagina 187


operazioni passive quando ci occupiamo di Iva sono gli acquisti, quelle attive sono le vendite, quando parliamo
di obbligo di rivalsa ci riferiamo
all’obbligo che grava su qualunque soggetto passivo dell’iva di applicare l’iva sulle operazioni attive, e quindi
sulle vendite.
A B e C, essendo soggetti passivi iva, applicando il corrispettivo dell’operazione di rivendita del bene, sono
obbligati ad applicare l’imposta, questo significa che si costituisce ognuno di loro creditore nei confronti del
rispettivo cliente ed istituisce il proprio diritto ad acquisire l’imposta, il consumatore finale, invece, queste
caratteristiche le perde.
C esercita su D l’obbligo della rivalsa, D deve pagare a C l’iva, ma D che ha pagato l’iva, in primo luogo, non può
più esercitare l’obbligo di rivalsa su nessuno perché non è imprenditore, ha acquistato il bene in qualità di
consumatore finale, conseguentemente non può esercitare il diritto di detrazione.
SOGGETTI PASSIVI.
I soggetti passivi dell’iva sono:
9) Sono gli esercenti arti e professioni
10) gli imprenditori, quindi gli esercenti attività di impresa:
la definizione dell’attività di impresa e degli esercenti arti e professioni, che quindi limita sotto il profilo
soggettivo coloro che sono costituiti soggetti passi del tributo sono contenuti nelle art 4 -5 del DPR del 1972 n.
633.
I soggetti passivi sono coloro che esercitano un’attività che ha per oggetto l’esercizio di professione abituale
principale ancorché non esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui alle art 2195 - 2135 c.c. anche se
non organizzate in forma di impresa, ovvero l’esercizio di una attività che ha per oggetto prestazione di servizi
diverse dal 2195 c.c.
C’è un’analogia con la norma 55 del TU in materia tributaria che abbiamo già studiato, ma anche delle grandi
distinzioni
L’art 55 T.U definisce l’attività commerciale e determina l’attività di impresa anche ai fini dell’imposta indirette
così come anche ai fini dell’iva, anche quando l’attività non è svolta in forma di impresa
Dobbiamo spendere quando parola per l’attività agricola, (2135 c.c.,) il richiamo che nell’art 4 del DPR 633 è
tale da ritenere che l’esercizio di impresa ai fini di iva, nel 55 TU non è così, perché l’attività agricola determina
reddito di imposta solo se esercita oltre i limiti previsti delle lettere B e C dell0art 32.
L’art 4 del decreto 633 potrà con sé forti assonanze con l’art 55 del Tu, ma che vanno fatte radicali distinzioni,
nella distinzione fondamentale si appunta proprio il perimetro della rilevanza delle attività agricole, che ai fini
iva determinano sempre esercizio di impresa, e porta con sé applicazione iva, così non è ai fini dell’applicazione
della disciplina del reddito di impresa.
Ai fini Iva si determina comunque l’esercizio di impresa, quindi la soggettività passiva si configura in ogni caso,
quando l’operazione è effettuata da una società commerciale o da enti che hanno come attività principale
l’esercizio di un’attività commerciale.
Sono soggetti anche coloro che esercitano attività arti e professioni. Cosa si intende per esercizio arti e
professioni ai fini iva? Esercizio abituale, anche se non esclusivo, di qualsiasi attività di lavoro
autonomo, la definizione è estremamente ampia, si tratta di nozioni molto larghe che consentono di ritenere
che tutto sommato sotto il profilo soggettivo il tributo venga applicato molto facilmente e anche laddove non si
possa configurare reddito di impresa.
Gli elementi indefettibili che occorre ricorrano per l’applicazione del tributo IVA sono 3:
1) Elemento soggettivo che abbiamo appena visto.
2) Elemento oggettivo: occorre che il soggetto passivo effettui operazioni rilevanti ai fini dell’iva.
Tutte le operazioni rilevanti ai fini iva concorrono a determinare il c.d. volume di affari (somma delle operazioni
imponibili, non imponibili ed esenti)
• Operazioni imponibili: caratteristiche:
a) obbligano il soggetto passivo che effettua operazioni imponibili ad applicare il tributo alle sue operazioni
attive
b) trattandosi di operazioni imponibili, chi effettua operazioni imponibili quali operazioni attive, ha
pacificamente diritto a detrare l’iva sugli acquisti che ha già pagato ai suoi fornitori, si applica sempre il
principio di neutralità.
c) Il soggetto passivo è obbligato ad osservare obblighi formali, le operazioni imponibili determinano sempre
per il soggetto passivo l’assolvimento di obblighi formali
d) Concorre a formare il valore di affari. (nelle prossime lezioni verrà ripreso il concetto)
• non imponibili:

Diritto tributario Pagina 188


• non imponibili:
a) le operazioni non imponibili determinano per il soggetto passivo l’obbligo di non applicare il tributo sulle
operazioni attive, chi effettua operazioni non imponibili non applica l’iva sulle operazioni attive.
b) le operazioni non imponibili determinano il sorgere di operazioni formali
c) l’esercizio del diritto di reintegrazione e concorrono a determinare il volume di affari.
La differenza tra operazioni imponibili e non imponibili: le operazioni imponibili obbligano il soggetto che le
effettua ad applicare il tributo sulle vendite, mentre le operazioni non imponibili determinano per il soggetto
passivo l’obbligo di NON applicare il tributo sulle vendite.
• le operazioni esenti:
a) Le operazioni esenti escludono il diritto di detrarre l’iva sugli acquisti, le operazioni esenti sono operazioni
per le quali il soggetto passivo non applica il tributo. Non applicano il tributo sulle operazioni attive, escludono
l’esercizio del diritto di detrarre l’iva sugli acquisti
b) le operazioni esenti determinano il sorgere delle operazioni formali
c) concorrono alla determinazione del volume di affari.
• Elemento territoriale

Diritto tributario Pagina 189


LEZIONE 23 (10/05/21)
martedì 26 ottobre 2021 19:52

Iniziamo la lezione di oggi continuando a parlare dell’IVA: la scorsa lezione, infatti, abbiamo
fatto una velocissima panoramica delle caratteristiche essenziali delle operazioni rilevanti ai
fini dell’IVA, abbiamo trattato delle caratteristiche essenziali delle operazioni imponibili, non
imponibili ed esenti. Volendole riepilogare, abbiamo precisato che le operazioni IMPONIBILI
hanno quattro caratteristiche: sono operazioni per le quali il soggetto passivo che le effettua
deve applicare il tributo; consentono al soggetto passivo il diritto di detrarre l’IVA sugli
acquisti; concorrono a determinare il volume d’affari; determinano il sorgere degli obblighi
formali, che contrassegnano l’applicazione di questo tributo.
Le operazioni NON IMPONIBILI, viceversa, hanno solo tre di queste caratteristiche che sono
tipiche delle operazioni imponibili: la possibilità di esercitare il diritto di detrarre sugli
acquisti; la circostanza che le operazioni non imponibili concorrono a determinare il volume
di affari; determinano il sorgere degli obblighi formali nell’applicazione di questo tributo.
Quindi, ad esempio, chi compie operazioni non imponibili deve emettere le fatture,
registrare la liquidazione e, se sussiste l’obbligo di versamento, provvedere a ciò.
Le operazioni ESENTI, invece, condividono solo due delle caratteristiche delle operazioni
imponibili: concorrono alla determinazione del volume d’affari e determinano il sorgere
degli obblighi formali.
OPERAZIONI IMPONIBILI
Le operazioni IMPONIIBILI sono: cessione di beni, prestazioni di servizi, acquisti
intracomunitari, importazioni. E’ necessario fare subito una precisazione, legata alla
combinazione di questo elemento oggettivo (dato dal fatto che stiamo parlando certamente
di operazioni rilevanti ai fini dell’applicazione del tributo) con l’elemento soggettivo (queste
particolari operazioni devono essere effettuate da imprenditori o da esercenti arti e
professioni): dunque, va subito verificato come questi due elementi si intrecciano. Mentre
cessione di beni, prestazioni di servizi e acquisti intracomunitari sono operazioni imponibili a
patto e condizione che siano effettuate da soggetti passivi IVA, quindi è certamente
verificata la regola generale (elemento soggettivo ed elemento oggettivo devono
contemporaneamente sussistere), le importazioni sono operazioni imponibili da chiunque
effettuate, dunque sono rilevanti ai fini dell’IVA anche se effettuati da soggetti non passivi
IVA. In questa sede non approfondiremo le ultime due menzionate operazioni imponibili,
acquisti intracomunitari e importazioni, in quanto sono due operazioni che risentono molto
del terzo elemento essenziale del tributo, cioè la territorialità. Per adesso ci occuperemo
delle prime due operazioni che sono puntualmente disciplinate dal decreto n.633/1972,
artt. 2 e 3.
CESSIONE DI BENI
L’art.2 del presente decreto definisce la cessione di beni, affermando che sono cessioni di
beni gli atti a titolo oneroso che determinano o il trasferimento del diritto di proprietà
oppure la costituzione o il trasferimento di un diritto reale di godimento sui beni. Requisito
essenziale è l’onerosità, anche se le operazioni a titolo gratuito non sono sempre irrilevanti
per l’IVA: infatti quando la cessione ha per oggetto beni merce, se è fatta a titolo gratuito
(ad es. l’imprenditore decide di donare i beni che produce) diventa operazione rilevante ai
fini dell’IVA.
Vi è una particolare categoria di cessione di beni, che per la mancanza di un elemento
formale, non dovrebbe costituire operazione rilevante ai fini dell’IVA, ma ciononostante,
siccome il legislatore ha voluto attrarre nella categoria della cessione di beni tale fattispecie,
le ha espressamente incluse nella definizione di cessione di beni, sempre all’art.2, che
presenta una elencazione delle operazioni cd. Assimilate. Si tratta di operazioni che a prima
vista sarebbero difficilmente riconducibili alla categoria della cessione di beni, proprio

Diritto tributario Pagina 190


vista sarebbero difficilmente riconducibili alla categoria della cessione di beni, proprio
perché mancano di uno dei requisiti essenziali.
• Il primo esempio sono le vendite con riserva di proprietà. Si tratta di fattispecie in cui le
parti pattuiscono che il prezzo venga pagato in forma rateale e che il trasferimento della
proprietà intervengo solo col pagamento dell’ultima parte del prezzo e, dunque, fintantoché
il pagamento del prezzo non è stato completato il diritto non si trasferisce e in tal caso,
allora, la fattispecie negoziale non determina subito il trasferimento del diritto. Dunque,
vediamo che in base alla regola generale, questi contratti non dovrebbero determinare la
rilevanza dell’operazione ai fini dell’IVA, perché quando vengono conclusi l’operazione non
determina subito il trasferimento del diritto di proprietà: tuttavia, nonostante questa
evidente carenza di uno degli elementi essenziali della cessione dei beni, l’art.2 prevede
espressamente che le vendite con patto di riservato dominio sono operazioni imponibili,
perché sono assimilate alla cessione di beni e, quindi, anche se le parti concludono questo
tipo di negozi, l’operazione assume immediatamente rilevanza ai fini dell’IVA, non è
necessario attendere il completamento del pagamento del prezzo per determinare poi
l’effetto traslativo del diritto e conseguentemente la rilevanza dell’operazione ai fini
dell’IVA.
• Un’altra ipotesi di operazioni assimilate sono le locazioni con la clausola del trasferimento
della proprietà vincolate per entrambe le parti: anche in questo caso si tratta di un contratto
di locazione che non determina il trasferimento del diritto di proprietà né di un diritto reale
di godimento. Tuttavia, siccome le parti convengono espressamente in contratto che alla
fine della locazione si determinerà il passaggio del diritto di proprietà, anche questa sarà
sicuramente una fattispecie di operazione assimilata alle cessioni di beni.
• Ancora, tra le operazioni assimilate, troviamo le cessioni gratuite dei beni merce, di quei
beni che sono oggetto dell’attività di impresa. Qui manca l’elemento dell’onerosità, ma
siccome il legislatore ha voluto espressamente ricomprendere questa operazione nella
categoria della cessione di beni, allora è pacifico che si tratta di operazioni rilevanti ai fini
dell’IVA.
• Quale altra fattispecie abbiamo ancora la destinazione del bene al consumo personale o
familiare dell’imprenditore o dell’esercente arti e professioni: è l’ipotesi che nel reddito di
impresa può generare ricavo o plusvalenza, a seconda che il bene oggetto della destinazione
a finalità estranea rispetto all’esercizio dell’attività di impresa, sia un bene merce o un bene
strumentale (nel primo caso genera ricavo, nel secondo caso genera plusvalenza). Anche
nell’IVA l’assegnazione del bene al consumo personale o familiare determina la rilevanza
dell’operazione e dunque si tratta, proprio per l’assimilazione alla cessione di beni che il
legislatore ha voluto fare, di una operazione imponibile.
• Analogamente possiamo parlare dell’assegnazione dei beni ai soci: in questo caso la
destinazione alla finalità estranea è deliberata da una impresa costituita in forma societaria.
Anche in questo caso l’operazione è certamente rilevante ai fini IVA ed è certamente
cessione di beni assimilata.
Per chiudere l’argomento della cessione di beni, è bene sapere che, cosi come ci sono le
operazioni assimilate, esiste un elenco di operazioni che il legislatore, al contrario,
espressamente esclude (cessione di beni cd. escluse): dunque sono operazioni che
presentano tutte le caratteristiche tipiche della regola generale che definisce le cessioni d
beni rilevanti, purtuttavia il legislatore, per una scelta insindacabile, ha ritenuto che tali
operazioni devono essere tenute fuori dall’applicazione dell’IVA e quindi costituiscono
sicuramente cessioni di beni escluse dall’applicazione del tributo. L’esempio più importante
è rappresentato dai conferimenti d’azienda: si tratta di operazioni, certamente effettuate a
titolo oneroso, che per evitare l’aggravio che potrebbe essere generato nella circolazione
dei beni aziendali, si è scelto espressamente di evitare l’applicazione del tributo su queste
operazioni. Possiamo poi ricordare la cessione di denaro: anch’essa costituisce una
fattispecie di cessione di beni esclusa dall’applicazione del tributo.
PRESTAZIONE DI SERVIZI

Diritto tributario Pagina 191


PRESTAZIONE DI SERVIZI
Passiamo adesso ad esaminare le prestazioni di servizi che sono disciplinate dal successivo
art.3 e si tratta di una norma sintetica che ha il vantaggio, nella sua struttura, di essere assai
similare all’art.2 che lo precede, in quanto anche all’art.3 troviamo l’elencazione delle
ipotesi di prestazioni di servizi assimilate e le ipotesi di prestazioni di servizi cd. Escluse. Le
prestazioni rilevanti ai fini dell’applicazione del tributo sono quelle che costituiscono
esecuzione di specifici obblighi di FARE, NON FARE, PERMETTERE. Le prestazioni di servizi
che sono esecuzione di questi obblighi, richiedono il requisito della ONEROSITA’, che diviene
elemento irrinunciabile della nozione di prestazione di servizi. Si tratta di una categoria
estremamente vasta di operazioni. Anche qui il legislatore ha completato la disciplina
prevedendo specifiche fattispecie di assimilazione e di esclusione.
Tra le operazioni di assimilazione, possiamo trovare:
• Concessione di beni in locazione/affitto/noleggio
• Somministrazione di alimenti e bevande. In questo caso siamo di fronte ad un’attività di
tipo misto, in quanto abbiamo sia la cessione di un bene (cibo/bevanda) e la prestazione di
un servizio (preparazione del cibo/bevanda). In questo caso l’assimilazione si è resa
necessaria perché il legislatore ha ritenuto prevalente la componente di questa operazione
complessa rappresentata dalla prestazione del servizio (più che la componente legata alla
cessione del bene).
Tra le operazioni escluse possiamo trovare:
• La cessione di contratti che ha per oggetto beni la cui configurabilità in termini di cessione
di beni è esclusa: quindi se si cede un contratto che ha per oggetto beni, che a loro volta
sono escludi dalla cessione di beni, anche la cessione del contratto è da ritenere esclusa.
OPERAZIONI NON IMPONIBILI: l’analisi è rinviata alla lezione successiva, in quanto l’esame
di tali operazioni risente in maniera rilevante del terzo elemento essenziale dell’applicazione
del tributo, cioè la territorialità.
OPERAZIONI ESENTI
Le operazioni esenti sono le altre categorie di operazioni rispetto alle quali si pone come
dato acquisito che l’operazione stessa sia effettuata nel territorio dello Stato. Tali operazioni
hanno una peculiarità, quella di non determinare l’applicazione dell’imposta, anche se è una
peculiarità in comune con le operazioni non imponibili, dunque vediamo che la caratteristica
distintiva è rappresentata dal fatto che chi effettua tali operazioni perde il diritto di detrarre
l’IVA sugli acquisti. Per capire meglio le ricadute che le operazioni esenti determinano
sull’applicazione del tributo è indispensabile ricordare che questo tributo si applica
attraverso alla congiunta applicazione dei due principi fondamentali, che sono l’obbligo di
rivalsa e il diritto di detrazione: l’obbligo di rivalsa si manifesta sulle operazioni attive;
quando parliamo di diritto di detrazione intendiamo riferirci ad un diritto che si esercita
sulle operazioni passive, cioè quelle di acquisto. Le operazioni esenti, da una parte, non
determinano l’applicazione del tributo, dunque il soggetto passivo che effettua operazioni
esenti non esercita l’obbligo di rivalsa, cioè non addebita l’imposta ai suoi clienti, e dall’altra,
se il soggetto passivo avrà pagato l’IVA ai suoi fornitori, com’è facile che sia accaduto, non
avrà diritto di detrarla, perché perde il diritto di detrazione. Il soggetto passivo che esercita
soltanto operazioni esenti è un soggetto che dovrebbe essere permanentemente a credito
di IVA, perché paga l’IVA ai suoi fornitori e non la può detrarre mai: ma dire che è a credito
di IVA è sbagliato, perché significherebbe affermare che questo soggetto prima o poi la
potrà detrarre questa IVA, ma in realtà non è così. Quindi, che cosa succede a questo
soggetto passivo? In definitiva, posto che l’ordinamento esclude l’opportunità di detrarre
quest’IVA pagata ai suoi fornitori, l’IVA rappresenta pe lui né più né meno di un costo, che
finisce per rimanere definitivamente a suo carico, non potendola detrarre in alcun modo.
Questa forma di penalizzazione che subisce chi effettua operazioni esenti, viene
compensata dalla circostanza che tali soggetti non applicano l’IVA ai clienti e ciò determina il
vantaggio di poter ridurre il prezzo finale delle loro prestazioni di servizi o della loro cessione
di beni. Tale regime è facilmente intuibile che non sia molto diffuso, trattandosi di un

Diritto tributario Pagina 192


di beni. Tale regime è facilmente intuibile che non sia molto diffuso, trattandosi di un
regime particolarmente peculiare il legislatore con l’art.10 del decreto 633 ha individuato
una per una le operazioni esenti e la scelta che il legislatore ha fatto è motivata dalle ragioni
più svariate, spesso legate alla meritevolezza dell’operazione sul piano sociale, come le
prestazioni mediche: i medici che rendono prestazioni di
servizi, rendono operazioni esenti, chi effettua operazioni mediche non addebita l’IVA al suo
cliente e perde il diritto di detrarre l’IVA sugli acquisti. È una categoria variegata ed è anche
vero che nelle fattispecie che costituiscono operazioni esenti la ratio non sempre è
ravvisabile nella meritevolezza dell’operazione in sé considerata, ma piuttosto potrebbe
essere determinata da ragioni di tecnica tributaria, quindi ad esempio le operazioni
creditizie sono operazioni esenti.
Vedremo quali sono le ricadute che il compimento di operazioni esenti può determinare nel
regime di applicazione dell’imposta, sono conseguenze estremamente complesse perché è
molto semplice immaginare la dinamica dell’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto
quando si ipotizza la posizione di un soggetto passivo IVA che effettua solo operazioni
esenti: se un soggetto passivo IVA, es. il medico, dovesse esercitare in ragione dell’attività
svolta esclusivamente operazioni esenti , il regime sarebbe semplicissimo, non si
applicherebbe l‘IVA sulle operazioni attive, non si detrarrebbe l’IVA sugli acquisiti. Ma le
cose si complicano sensibilmente in tutte le fattispecie in cui il soggetto passivo non effettua
solo operazioni esenti sul fronte delle operazioni attive, ma ne effettua di tutti i tipi: se il
soggetto passivo ai fini dell’IVA dovesse effettuare sia operazioni esenti che operazioni di
natura diversa, le cose si complicano (e poi vedremo come).
Un altro profilo fondamentale che ci consente di approfondire l’esame delle modalità di
applicazione del tributo, è quello del momento in cui l’operazione diventa rilevante. Quando
una operazione diventa rilevante? L’operazione economica si compone di una pluralità di
atti ed è da individuare a quale tra questi atti si deve attribuire rilievo: occorre guardare al
momento in cui il corrispettivo è stato incassato oppure al momento in cui l’operazione è
stata ultimata? Quando parliamo di momento rilevante dell’operazione non stiamo
cercando di comprendere se l’operazione è rilevante in sé, ma intendiamo capire in quale
momento temporale l’operazione si considera effettuata ai fini dell’IVA, perché l’operazione
rilevante ai fini dell’IVA porta con sé una serie di obblighi formali differenti, cioè l’emissione
della fattura e la usa registrazione. È importante definire il momento esatto anche perché è
a partire da quello che decorre il termine entro il quale realizzare il corrispondente obbligo
formale: dunque il momento di rilevanza dell’operazione è quanto di più essenziale per
definire se il tributo è stato o meno versato correttamente da parte del soggetto passivo. A
questo proposito giova la distinzione tra cessione di beni e prestazione di servizi. Anche la
disciplina dell’IVA distingue il momento di rilevanza dell’operazione a seconda che la
cessione abbia ad oggetto un bene mobile o immobile.
• Per quanto riguarda l’operazione che ha ad oggetto la cessione di un bene immobile,
queste si considerano effettuate nel momento in cui si verifica l’effetto traslativo del diritto,
quindi il momento della stipulazione dell’atto pubblico. Non dobbiamo però trascurare che
potrebbe accadere che l’atto pubblico preveda una postergazione dell’effetto traslativo, non
è detto che l’effetto traslativo sia sempre determinato dall’atto pubblico: se l’atto pubblico
prevede una postergazione in avanti dell’effetto traslativo, allora rileverà il momento in cui
si verifica l’effetto traslativo, quindi in questo caso non sarebbe la data della stipula dell’atto
pubblico a determinare la rilevanza dell’operazione ai fini dell’IVA, sarà la traslazione
effettiva del diritto.
• Per quanto riguarda l’operazione che ha ad oggetto la cessione di beni mobili, troveremo
ancora una perfetta coincidenza tra la disciplina delle imposte dirette e quella dell’IVA,
perché anche in questo caso il decreto 633, art.6, prevede che il momento rilevante sia o
quello della consegna o quello della spedizione del bene mobile. Anche in questo caso rileva
l’effettivo momento traslativo, quindi se il momento del trasferimento del diritto pattuito
diversamente diverrà rilevante questo diverso momento: anche se le parti convengono un

Diritto tributario Pagina 193


diversamente diverrà rilevante questo diverso momento: anche se le parti convengono un
differimento dell’effetto traslativo, quale che sia, tale differimento non potrà mai superare
l’anno, e, dunque, se decorre un anno dalla consegna o dalla spedizione e ancora l’effetto
traslativo non sia determinato perché le parti hanno così stabilito, ecco che tale diversa
pattuizione cessa di avere effetto.
Riprendiamo per esaminare il momento di rilevanza dell’operazione quando si tratta
appunto di prestazioni di servizi e non di cessione di beni.
Vi anticipavo che sotto questo profilo emerge una fondamentale differenza tra la disciplina
che conoscete già in materia di imposte dirette e quella che invece stiamo studiando
adesso. Perché se vi ricordate, quando ci siamo occupati dei principi di competenza in
materia di imposte dirette, e quindi in particolare di reddito d’impresa, abbiamo studiato
che il momento in cui l’operazione di prestazione di servizi di considera effettuata è
rappresentato dalla ultima azione della prestazione, quindi la prestazione di servizi di
considera effettuata ai fini reddituali, determinando quindi costo e ricavo, quando la
prestazione di servizi è ultimata. Nella disciplina IVA ciò che rileva è il momento del
pagamento del corrispettivo. Quindi non interessa più che la prestazione di servizi sia
ultimata, interessa invece che sia intervenuto il pagamento. Questa divergenza, nella
normalità dei casi, cioè quando si applica la disciplina ordinaria dell’IVA e la disciplina
ordinaria del testo unico delle imposte sul reddito determina una naturale divergenza del
momento rilevante sia ai fini dell’IVA sia ai fini delle imposte dirette, perché quando
l’operazione è una prestazione di servizi, la normale applicazione dei tributi determina una
divergenza. Potrebbe essere rilevante ai fini IVA un’operazione di prestazione di servizi che
non è invece rilevante ai fini delle imposte sui redditi. La rilevanza dell’operazione ai fini IVA
è determinata dal pagamento del corrispettivo, e questo pagamento può avvenire anche
quando la prestazione non è ancora ultimata. E se la prestazione non è ultimata, voi sapete
che ai fini delle imposte sui redditi la prestazione di servizi non è resa, quindi non genera né
costi né ricavi da rilevare fiscalmente. Allora la regola generale in tema di prestazione di
servizi abbiamo detto che è rappresentata dal pagamento del corrispettivo.
Questa regola generale subisce due deroghe. Intendo dire che quando si verificano queste
circostanze che ora diremo, anche se non è intervenuto il pagamento del corrispettivo così
come stabilito nel contratto, l’operazione si considera effettuata. Quali sono queste
deroghe?
• l’emissione della fattura: potrebbe accadere che il committente della prestazione di
servizi, quindi il cliente, chieda subito l’emissione della fattura, anche senza pagare il
corrispettivo. Se allora il prestatore del servizio per richiesta del cliente, emette la fattura
senza avere ricevuto il pagamento allora l’operazione si considera effettuata ai fini IVA,
quindi anche se non ha ricevuto, l’operazione si considera avvenuta.
• Il pagamento degli acconti: (quando alla regola generale abbiamo detto che la prestazione
di servizi si considera effettuata nel momento in cui viene pagato il corrispettivo, ma quale
corrispettivo? Quello previsto dal contratto. Allora se il contratto prevede che la prestazione
di servizi debba essere remunerata per un importo complessivo di 3.000€ oltre iva, nessuno
esclude che il cliente possa anche pagare un acconto, quindi una parte del prezzo, e non
l’intero). Allora la deroga di cui stiamo parlando prevede che l’operazione si considera
effettuata sia pure nei limiti
dell’acconto pagato. Quindi non è effettuata per intero secondo in corrispettivo pattuito nel
contratto, ma è effettuata solo in parte, cioè la parte corrispondente all’acconto pagato.
Quindi limitatamente all’acconto pagato dal cliente il prestatore del servizio dovrà
considerare l’operazione effettuata ai fini dell’IVA con la conseguenza che la fattura andrà
emessa nei limiti dell’acconto percepito.
Queste sono le due deroghe alla regola generale.
Cosa abbiamo detto riguardo all’imposta sul valore aggiunto fin qui? L’applicazione
dell’imposta implica che si debba applicare una aliquota, vedremo quale, ad una base
imponibile. La base imponibile è rappresentata dal corrispettivo. Quindi sia che si tratti di

Diritto tributario Pagina 194


imponibile. La base imponibile è rappresentata dal corrispettivo. Quindi sia che si tratti di
cessione di beni, sia che si tratti di prestazione di servizi, è pacifico che la base imponibile
alla quale commisurare l’aliquota è il corrispettivo. Sappiamo che tanto per le prestazioni di
servizi, quanto per le cessioni di beni, è determinante il requisito della onerosità, quindi è
pacifico che ci sia un prezzo al quale applicare una aliquota. Non facciamo per il facile errore
di ritenere che questo corrispettivo debba necessariamente estrinsecarsi in un valore
monetario, perché anche ai fini dell’IVA potrebbe verificarsi che l’operazione di cessione di
beni o prestazione di servizi, preveda come contropartita non una somma di denaro ma una
cessione di beni o una prestazione di servizi appunto. Quindi una remunerazione in natura.
Allora interviene in questa ipotesi la fattispecie della permuta. Certamente la permuta non è
una operazione che può considerarsi rilevante ai fini dell’IVA, è pienamente rilevante ai fini
dell’IVA una permuta, perché si tratta di remunerare un’operazione rilevante ai fini iva con
altra operazione, che ne costituisce il corrispettivo. Allora in questa ipotesi occorre
attribuire rilievo al valore normale, quindi la controprestazione rappresentata da una
cessione di beni o una prestazione di servizi che occorrerà sia vantata in natura, implica
necessariamente l’applicazione del criterio del valore normale. Ma l’applicazione del criterio
del valore normale non è indispensabile anche quando il corrispettivo di un’operazione
rilevante non è espresso in denaro ma è espresso in natura. Questo principio per la verità si
applica anche in quelle limitate ipotesi in cui il principio della onerosità viene derogato. Vi
ricordate quando abbiamo accennato a proposito di cessione di beni che i beni destinati
all’autoconsumo o i beni assegnati ai soci sono cessioni di beni rilevanti ai fini IVA? Ebbene
in queste ipotesi si tratta di operazioni assimilate alle cessioni di beni quindi pienamente
rilevanti ai fini dell’IVA per le quali per il corrispettivo manca, perché sono cessioni come se
fossero a titolo gratuito. Se l’imprenditore destina ad uso personale o familiare un bene
merce, oppure la società lo assegna ai soci, allora in questi casi il corrispettivo manca. Allora
in questi casi certamente diventa indispensabile ricorrere al criterio del valore normale, che
nella disciplina dell’IVA trovate enunciato all’art. 14.
Cos’è il valore normale?
È l’importo che il cessionario o il committente dovrebbe pagare al cedente o al prestatore in
condizione di libera concorrenza proprio per ottenere quel bene o quel servizio nel tempo e
nel luogo in cui la cessione del bene o la prestazione del servizio avvengono. Quindi è
corrispondente all’importo che il cessionario o il committente dovrebbero pagare al cedente
o al prestatore per assicurarsi il bene o il sevizio prestato, alle medesime condizioni.
Per quanto riguarda le aliquote previste per l’applicazione del tributo, vi ho ripetuto molte
volte che l’aliquota ordinaria dell’IVA è pari attualmente al 22%. Quando parlo dell’aliquota
ordinaria
intendo riferirmi all’ aliquota normalmente applicata per tutte le operazioni rilevanti, quindi
è quella generale. Il fatto che si tratti di una aliquota generalmente applicata non toglie che
l’ordinamento affianchi a questa aliquota anche altre che sono perle denominate aliquote
speciali. Perché speciali? Perché sono riservate a una serie ridotta di fattispecie, a un
numero chiuso, di cessioni di beni e prestazioni di servizi. E si tratta rispettivamente di
aliquote del 10% e del 4%. Sono beni e servizi quelli per i quali è previsto l’obbligo di
applicare queste aliquote ridotte. Sono beni e servizi che incidono più significativamente sul
costo medio della vita. Quindi per esempio troverete la aliquota ridotta del 4% per
l’acquisto dei beni di primissima necessità come ad esempio il pane o il latte, e
l’applicazione dell’aliquota del 10% per altre prestazioni di servizi che si sono ritenute
particolarmente meritevoli di attenzione da parte del legislatore come ad esempio le
prestazioni che anno ad oggetto l’attività edilizia.
Fatte queste precisazioni sulle aliquote da applicare in materia di imposte sul valore
aggiunto, dobbiamo adesso cercare di entrare un po’ piú nel dettaglio a proposito del diritto
di detrazione.
Sull’obbligo di rivalsa abbiamo già detto, mi limito semplicemente a richiamare l’attenzione
sul fatto che il soggetto passivo che effettua operazioni attive, e quindi deve addebitare l’iva

Diritto tributario Pagina 195


sul fatto che il soggetto passivo che effettua operazioni attive, e quindi deve addebitare l’iva
in via di rivalsa, ha l’obbligo di addebitate la rivalsa al suo cliente, e quindi ha l’obbligo di
costituirsi creditore bei confronti del cliente. Il cliente gli deve consegnare la somma
corrispondente alla prestazione dell’imposta.
Il fronte sul quale dobbiamo soffermarci adesso è l’altro, cioè l’esercizio del diritto di
detrazione. Perché dobbiamo in materia più decisa soffermarci su questo secondo pilastro?
Perché la regola generale prevede che chi effettua operazioni imponibili sicuramente
esercita il diritto di detrazione. Ma anche chi effettuata operazioni non imponibili esercita il
diritto di detrazione. Quindi chi effettua operazioni imponibili e ha pagato l’IVA ai suoi
fornitori può esercitare il diritto di detrazione. Non diciamo “deve” perché la detrazione non
è un obbligo ma è un diritto. L’obbligo è quello di addebitare l’IVA al cliente. Detrarre l’IVA
sugli acquisti non è un obbligo dovere ma un diritto che va esercitato entro un termine di
decadenza stabilito dalla legge. Quindi attenzione: il soggetto passivo iva che ha pagato iva
ai suoi fornitori e vuole detrarne quest’IVA, ovviamente ne ha vantaggio, quindi non
rinuncerebbe mai a farlo.
Questo diritto di detrazione è possibile che venga appunto esercitato solo però a patto e
condizione che il soggetto passivo abbia osservato la disciplina del decreto 633. Cosa
intendo dire? L’esercizio del diritto di detrazione non ha come presupposto irrinunciabile
che l’imposta sia stata pagata al proprio fornitore. Anzi questo elemento (che sia stata
effettivamente pagata) è del tutto irrilevante per il nostro ordinamento e anche per quello
comunitario. Ciò che è irrinunciabile affinché il diritto di detrazione possa essere esercitato,
cosa è? È che il soggetto passivo abbia ricevuto dal proprio fornitore la fattura in cui figura
l’IVA addebitata in via di rivalsa nei suoi confronti, e che questa fattura ricevuta dal fornitore
vada registrata, da chi l’ha ricevuta, in un particolare registro che è il registro degli acquisti.
Quindi che l’IVA sia stata pagata o meno è irrilevante ai fini dell’esercizio del diritto di
detrazione. Del resto risponde anche ad una certa logica questo, perché potrebbe accadere
che il cliente chieda l’emissione della fattura, ma non è che l’emissione della fattura ossa
necessariamente dal pagamento. Siamo in una fase determinante della comprensione di
questo tributo, abbiamo un soggetto A e un soggetto B. Il soggetto A presta un servizio a B,
B immediatamente dice no, dammi subito la fattura, la voglio subito anche se non ti ho
pagato il corrispettivo. E secondo voi perché potrebbe avere interesse a
chiedere subito la fattura? Proprio per la finalità che stiamo studiando adesso: B chiedendo
la fattura ad A, quale vantaggio immediato ottiene? Considerare l’operazione effettuata ai
fini dell’IVA, e quindi immediatamente acquisire il diritto di detrazione. Riceve la fattura da
A, la registra, e immediatamente ha il diritto ad esercitare il diritto di detrazione. Gli
conviene. Se ha molta iva incassata a valle, potrebbe avere interesse ad avere
immediatamente la fattura emessa dal suo fornitore A, perché tutto questo gioca in materia
determinante sull’attività di liquidazione.
È importante che noi capiamo bene che l’esercizio del diritto di detrazione è del tutto
sganciato dal fatto che l’IVA sia stata effettivamente pagata al fornitore.
Naturalmente il più delle volte lo sarà, ma non è indispensabile.
Vi dicevo però che questo diritto di detrazione è sottoposto a un termine di decadenza. Se
questo termine decorre non può più essere esercitato quindi si perde irrimediabilmente il
diritto di detrarre l’IVA sugli acquisti. Qual è questo momento ultimo entro il quale il diritto
di detrazione deve essere esercitato? È il termine stabilito per la presentazione della
dichiarazione iva relativa a un periodo in cui il diritto alla detrazione è sorto. È un termine
estremamente ridotto, e per la verità il nostro legislatore è intervenuto in modo via via
sempre più rigorosamente nel disciplinare il termine ultimo entro il quale il diritto di
detrazione può essere esercitato. Pensate che fino a pochissimo tempo fa il diritto di
detrazione poteva essere esercitato in un termine più ampio. Ma non è più così, il tempo si
è progressivamente ridotto. Sempre per rimanere fermi al tema di cui ci stiamo occupando,
cioè l’esercizio del diritto di detrazione, è arrivato il momento di cercare di studiare un po’
piú puntualmente le ricadute, non soltanto della effettuazione di operazioni esenti (sapete

Diritto tributario Pagina 196


piú puntualmente le ricadute, non soltanto della effettuazione di operazioni esenti (sapete
che l’avete effettuato operazioni esenti sul fronte delle operazioni attive esclude l’esercizio
del diritto di detrarre l’IVA sugli acquisti) ma vorrei prima affrontare con voi il tema delle
esclusioni dall’esercizio del diritto di detrazione.
Dovete saper e che il decreto 633/1972 non prevede soltanto che la detrazione dell’IVA sugli
acquisti debba essere esclusa quando vengono effettuate operazioni esenti.
Ci sono alcune fattispecie che definiamo di indetraibilità specifica, in presenza delle quali il
diritto alla detrazione dell’IVA sugli acquisti è in tutto o in parte escluso. Quindi la
indetraibilità che definiamo generale è quella che leghiamo al l’avete effettuato operazioni
esenti, perché è una caratteristica tipica di queste operazioni rilevanti.
Quando invece parliamo di ipotesi di indetraibilità specifica, intendiamo riferisci a fattispecie
rispetto alle quali il diritto di detrazione è escluso perché il legislatore ha appunto
specificamente escluso questa possibilità.
Allora quali sono queste ipotesi?
1 categoria: operazioni per le quali il legislatore ha in radice escluso che ci sia un nesso di
inerenza tra queste operazioni e l’esercizio dell’attività di impresa o di arti e professioni.
Quali sono queste operazioni per le quali in radice il legislatore fa questo tipo di scelta? Le
operazioni che hanno per oggetto l’acquisto di aerei e imbarcazioni. L’acquisto di aerei e
imbarcazioni (ovviamente operazioni a titolo oneroso) sono operazioni per le quali il
legislatore esclude la possibilità di detrarre l’IVA sull’acquisto. Si tratta di cifre considerevoli
ma sul fronte dell’imposta sul valore aggiunto l’indetraibilità è assoluta.
Una valutazione parzialmente diversa è stata fatta invece per le autovetture, perché rispetto
alle autovetture è invece ammessa la detraibilità in misura limitata, quindi nel caso in cui
vengono acquistate autovetture non c’è una presunzione assoluta di difetto di inerenza ma
in questo caso invece il legislatore ha soltanto stabilito nettamente una percentuale di
detraibilità, e in questo caso la percentuale è pari al 40%.
Al medesimo regime sono sottoposti anche tutti i costi sostenuti per l’acquisto dei
carburanti, quindi per esempio i carburanti eventualmente acquistati per l’autovettura o per
l’aeromobile andrà in contro al medesimo regime o di indetraibilità assoluta o relativa a
seconda dei casi.
Ancora resta indetraibile l’IVA che è stata pagata al proprio fornitore per ottenere un
servizio di trasporto di persone, ad esempio l’IVA che viene addebitata al passeggero di un
volo aereo. Quindi l’IVA che viene addebitata nel biglietto aereo è assolutamente
indetraibile. È una scelta specifica di indetraibilità specifica da parte del legislatore. Un altro
esempio che possiamo fare, estremamente significativo, è legato alla fattispecie degli enti
non commerciali (gli enti che non hanno per oggetto esclusivo principale l’esercizio di
un’attività commerciale) che certamente sono soggetti che effettuato operazioni rilevanti ai
fini dell’IVA sono soggetti a un regime di indetraibilità dell’IVA pagata ai propri fornitori sugli
acquisti. In che termini? La norma prevede che possa essere detratta dagli enti non
commerciali soltanto l’IVA relativa agli acquisti che sono stati fatti nell’esercizio dell’attività
commerciale o agricola, purché l’ente non commerciale gestisca l’attività commerciale o
agricola con contabilità separata. Quindi la detrazione dell‘Iva sugli acquisti in capo agli enti
non commerciali è subordinata a due condizioni: che si tratti di iva pagata ai fornitori in
relazione all’attività commerciale o agricola eventualmente svolta, e ancora che queste
attività siano sottoposte alla contabilità separata, quindi entrambe le condizioni devono
essere rispettate. Ove non fossero presenti queste condizioni, l’ente non commerciale non
sarebbe ammesso alla detrazione dell’IVA sugli acquisti.
Ora abbiamo affrontato le fattispecie di indetraibilità specifica, ma ci ho detto che la regola
generale che chiamiamo indetraibilità generale è quella che connota il regime delle
operazioni esenti. Chi effettua operazioni esenti è naturalmente escluso dall’esercizio del
diritto di detrazione. Quindi tutta l’IVA pagata ai suoi fornitori si considera ne più ne meno
che un costo che rimane addebitato in via definitiva in capo a lui. Vi accennavo anche al
fatto che questa regola estremamente semplice nella sua applicazione, subisce però una

Diritto tributario Pagina 197


fatto che questa regola estremamente semplice nella sua applicazione, subisce però una
complicazione frequentissima, perché l’ipotesi più frequente non è quella di trovare il
soggetto passivo che effettua solo operazioni esenti. L’ipotesi più frequente è invece
rappresentata proprio dal caso del soggetto passivo che insieme alle operazioni esenti
effettua anche operazioni imponibili e non imponibili. Quindi effettua sul fronte delle
operazioni attive operazioni di tipo diverso tra quelle rilevanti ai fini dell’IVA. Non sono cioè
tutte esenti, perché se così fosse il regime sarebbe semplicissimo: né si addebita iva in via di
rivalsa ai clienti né si esercita il diritto di detrarre l’IVA sugli acquisti. Nella sostanza sarebbe
veramente estremamente semplice. Ma vi dicevo, la normalità è invece l’ipotesi più
complicata da gestire, perché è proprio rappresentata dal caso del soggetto passivo che
effettua contemporaneamente operazioni rilevanti ai fini dell’IVA di tipo diverso.
Allora qui la complicazione da che cosa è determinata? Il presupposto ce l’avete chiaro: il
soggetto attivo effettua contemporaneamente operazioni attive che sono esenti, imponibili
e non imponibili.
La complicazione da cosa può essere determinata? È determinata dal fatto che per alcune
operazioni attive effettuate questo soggetto passivo ha certamente diritto a detrarre l’IVA
sugli acquisti, perché si tratta di operazioni imponibili o non imponibili, ma per un’altra
parte delle operazioni attive poste in essere invece questo diritto di detrarre l’IVA è
irrimediabilmente escluso.
Allora come se ne esce il soggetto passivo da questa difficoltà nell’applicazione del tributo?
Attraverso l’applicazione di un istituto che si chiama “pro rata generale”. Il Pro rata generale
è proprio l’istituto che consente a questa particolare categoria di soggetti passivi di stabilire
quale parte dell’IVA pagata ai fornitori è detraibile e quale parte invece non lo è. Ha
necessità, il soggetto passivo, di scoprire nell’ammontare complessivo dell’IVA pagata ai
fornitori quale parte può detrarre e quale no. Sarebbe irragionevole vietare a questo
soggetto passivo di qualunque forma di detraibilità sull’iva sugli acquisti. L’esclusione
integrale del diritto di detrazione è ragionevole se fossero tutte operazioni esenti. Ma
siccome non lo sono, perché tra le operazioni attive ci sono pure operazioni imponibili e non
imponibili, sarebbe assolutamente fuori luogo vietare qualsiasi detrazione dell’IVA sugli
acquisti. Allora bisogna capire quanta iva consentirgli in detrazione, come esercitare il diritto
di detrazione in questa particolare ipotesi. A questa esigenza risponde proprio l’applicazione
dell’istituto del pro rata generale. Attraverso il pro rata generale il soggetto passivo è in
grado di quantificare esattamente la quota parte dell’IVA pagata ai fornitori ammessa in
detrazione.
Come si fa a determinare la quota parte dell’IVA pagata ai fornitori ammessa in detrazione?
Attraverso un rapporto matematico in cui al numeratore sarà indicato l’ammontare delle
operazioni imponibili e non imponibili, e a denominatore sarà invece indicato l’ammontare
del volume d’affari, che è l’ammontare complessivo delle operazioni rilevanti effettuate ai
fini dell’IVA nel corso dell’esercizio al netto dei corrispettivi derivanti dalla cessione di beni
strumentali. Perché questa decurtazione? Le cessioni dei beni strumentali sono sicuramente
operazioni rilevanti ai fini dell’IVA, per il corrispettivo derivante da questa cessione non
concorre a determinare il volume d’affari perché è il corrispettivo derivante dalla cessione di
un bene strumentale. Perché questa scelta? Perché il corrispettivo che deriva dalla cessione
di un bene strumentale non è il corrispettivo di un’operazione ordinariamente effettua
nell’esercizio dell’attività di impresa, è un corrispettivo a carattere straordinario,
determinato da un’operazione che ha carattere straordinario cioè la cessione di un bene
strumentale. Quindi questa è la ragione per la quale il corrispettivo derivante dalla cessione
di un bene strumentale non va conteggiato, non rileva nel volume d’affari.
Da questo rapporto matematico il cui risultato sarà più moltiplicato per 100 ci consentirà di
lasciare emergere la percentuale dell’IVA detraibile dall’importo complessivo.
Domanda: immaginiamo che nel costruire il pro rata generale, al numeratore invece che
indicare l’ammontare complessivo delle operazioni imponibili e non imponibili, scelgo di
segnare l’ammontare complessivo delle operazioni esenti, e al denominatore lascio il

Diritto tributario Pagina 198


segnare l’ammontare complessivo delle operazioni esenti, e al denominatore lascio il
volume d’affari, allora che risultato avrò? Un risultato folle o comunque utile? Ovviamente
un risultato utile. Quindi il pro rata posso determinarlo anche al contrario. Mi darà la
percentuale dell’IVA indetraibile, quindi se volessi determinare in un modo e nell’altro, i due
risultati saranno pari a 100, cioè all’intero dell’IVA pagata ai fornitori. Una parte sarà
segnata dall’IVA indetraibile, l’altra parte che mi consente di arrivare al 100% sarà invece
l’iva detraibile, quella messa in detrazione.
Quindi questa è la disciplina dell’esercizio del diritto di detrazione da parte di coloro
(soggetti passivi) che effettuano operazioni di tipo misto. Quindi imponibili, non imponibili,
ed esenti. Per concludere, quello che abbiamo studiato fin qui rappresenta la regola della
detraibilità dell’IVA sugli acquisti o della indetraibilità dell’IVA sugli acquisti in un certo
momento storico. Il momento in cui il bene viene acquistato. Quindi io acquisti un bene,
devo stabilire se ho diritto o non ho diritto a detrarre l’IVA sugli acquisti posto che sono
soggetto che effettua già o potrebbe effettuare in futuro operazioni di tipo misto. Quindi
soggetto chiamato ad applicare il pro rata.
L’istituto di cui adesso parleremo quindi, a differenza del pro rata generale, cerca di
risolvere un problema diverso, cioè il problema di chi fa una prima valutazione della
percentuale di iva detraibile o indetraibile, e più questa valutazione di iva detraibile cambia
nel corso del tempo, perché per esempio potrebbe accadere che l’imprenditore compra un
bene strumentale di consistente valore, quindi con iva addebitata dal fornitore per un
importo considerevole, e posto che nell’esercizio in cui effettua l’acquisto effettua
esclusivamente operazioni imponibili, certamente arriva a ritenere che l’IVA detraibile è un
iva pienamente detraibile, applicando la regola generale che esclude l’applicazione del pro
rata generale. Non è affatto escluso però che questo imprenditore, che pure ha acquistato
questo bene strumentale inizialmente in un esercizio in cui erano effettuate solo operazioni
imponibili, successivamente inizia ad esercitare un’attività più diversificata. Attività tale da
indurlo ad effettuare operazioni anche esenti.
Allora come ci si regola in questa particolarissima ipotesi? Sì deve ritenere che la scelta fatta
ab origine mantenga pienamente la sua validità anche negli anni successivi oppure il nostro
ordinamento introduce dei correttivi alla piena detraibilità dell’IVA così valutata nel
momento in cui il cespite è stato acquistato? Naturalmente la risposta va nella seconda
direzione. Il nostro ordinamento prevede dei correttivi da dover applicare in questa
particolarissima ipotesi, e questi correttivi prevedono che si debba correggere la detrazione
dell’IVA sugli acquisti e quindi si dovrà variare l’eventuale detrazione già operata negli anni
precedenti quando nei 4 anni successivi al momento in cui il cespite è stato acquistato e
quindi l’IVA detratta, dovessero intervenire variazioni nella percentuale di detrazione
superiore a 10 punti percentuali, questa variazione determina l’obbligo di correggere la
detrazione originaria dell’IVA sugli acquisti fatta dall’imprenditore o dall’esercente arti e
professioni. Questo istituto si chiama pro rata temporis. Quindi è l’istituto che obbliga il
soggetto passivo ad una possibile correzione della percentuale di iva già detratta laddove
nei 4 periodi di imposta successivi si verifichi una variazione della percentuale della
detrazione dell’IVA sugli acquisti superiore ad almeno 10 punti percentuali.

Diritto tributario Pagina 199


LEZIONE 24 (11/05/21)
martedì 26 ottobre 2021 19:52

Completato l’esame delle operazioni imponibili e delle operazioni esenti … oggi dobbiamo studiare il terzo profilo che rileva per
la configurazione delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA: il profilo della territorialità, la quale apre lo studio della categoria
delle operazioni NON IMPONIBILI. Il principio di territorialità è rilevante nell’elemento soggettivo e in quello oggettivo ch e
ormai conosciamo; tale operazione ,per essere rilevante ai fini dell’IVA, basti sapere che la territorialità deve essere inte so in
senso ampio cioè non rilevano soltanto le operazioni effettuate all’interno del territorio dello Stato ma anche quelle operaz ioni
effettuate all’interno dell’Unione Europea( così si riscopre la natura unionale di questo tributo). Fin da subito è important e
rimarcare la distinzione tra operazioni effettuate all’interno dell’UE e quelle che si possono definire extraUE,quindi da un
soggetto che si trova all’interno di un paese membro es. Italia che pone uno scambio di beni e di servizi realizzato con un p aese
non UE ( quindi relazioni e operazioni svolte anche tra paesi non UE ) . Quando la cessione di beni o la prestazione di servi zi
intercorre tra un soggetto che risiede in Italia e un soggetto che invece risiede fuori dall’Unione Europea, l’operazione vie ne
denominata in modo difforme rispetto alle operazioni fin qui studiate , proprio perché in tale particolare ipotesi ricorrono o
importazioni o esportazioni: in ipotesi di importazione il cessionario del bene è residente nel territorio dello Stato e il c edente è
collocato fuori dall’UE; invece di esportazione il bene viene ceduto e il servizio viene prestato a favore di un soggetto che non
risiede nell’UE -> es. committente americano che ordina una prestazione di servizi ad un prestatore ( un professionista)
residente nel territorio dello Stato. Queste in base al principio di territorialità hanno una disciplina completamente divers a!
IMPORTANTE tenere distinta la disciplina dell’importazione che non è sussumibile con quella dell’esportazione: quando
abbiamo fatto l’elenco delle operazioni imponibili abbiamo collocato subito nel modulo delle operazioni imponibili le
importazioni da chiunque effettuate … quindi l’importazione configura sempre un tipo di operazione rilevante ai fini dell’IVA e
per di più costituisce un tipo di operazione imponibile. Quindi chi è importatore di un bene o di un servizio ,in Italia,effe ttua
operazione imponibile, con tutte le conseguenze che ne derivano ( perché ne diviene che l’imposta venga applicata,che sia
operazione che concorra alla determinazione del volume d’affari,che scaturiscano dal compimento di questa tutti gli obblighi
formali, tipici delle operazioni rilevanti e che certamente spetta il diritto di detrarre l’IVA sugli acquisti). Bisogna prim a ancora
precisare che il problema che si pone rispetto a queste operazioni è quello di scegliere , stabilire ( anche per capire se si tratta
di operazione transnazionale) dov’è collocato il bene e dove si considera effettuata l’operazione in caso di prestazione di s ervizi
perché RICORDA LA DISTINZIONE : la cessione di beni ha per oggetto un bene materialmente individuato mentre la prestazione
di servizi certamente no! Quindi serve risolvere la localizzazione dell’operazione e la risoluzione avviene in modo difforme a
seconda che si tratti di oggetto in cessione di bei oppure prestazione di servizi. Se si è all’interno di una cessione di ben i ,
bisogna guardare al luogo in cui si trova il bene che è oggetto della cessione e sarà quello l’elemento che determinerà la
localizzazione ; più complesso è quando si è in tema di prestazione di servizi perché se essa intercorre tra 2 soggetti entra mbi
soggetti passivi dell’IVA, determina il luogo dell’operazione il paese del committente, es. immaginiamo una prestazione di
servizi ordinata da un cliente francese ( soggetto passivo IVA) a un prestatore di servizi italiano( quindi chi deve eseguire la
prestazione): la regola vuole che la
localizzazione dell’operazione si debba considerare effettuata in Italia, cioè il luogo del committente. Mentre nel caso in c ui uno
dei 2 sia consumatore finale e dunque qui non c’è un rapporto tra 2 soggetti passivi IVA , ma c’è una relazione diversa: uno è il
committente che è un privato quindi un consumatore finale( non un soggetto passivo IVA) e dall’altra parte c’è il prestatore del
servizio e qui la regola cambia perché l’operazione si considera effettuata nel Paese di chi presta il servizio , quindi del
professionista. Per questa categoria che ha caratteri peculiari con soggetti che risiedono in Paesi diversi, si ritorna a dis tinguere
tra operazioni intracomunitarie (che sono sempre rilevanti ai fini dell’IVA sia che si tratti di acquisto intracomunitario si a che si
tratti di cessioni intracomunitarie) e operazioni non intracomunitarie. Es. operazione di cessione di beni in cui il cedente è
francese e lì acquirente è italiano rappresenta una cessione intracomunitaria per il francese che effettua la cessione del be ne;
sarà acquisto intracomunitario per l’italiano che acquista dal proprio fornitore francese : la medesima operazione và indagat a
sotto la duplice prospettiva che quella sia di chi cede ( operazione attiva) sia di chi acquista il bene ( operazione passiva ) e
ovviamente le due discipline non possono essere disarticolate ma necessariamente coordinate tra di loro, posto che si tratta di
operazioni irrilevanti ai fini dell’IVA, ma qual è la rilevanza di una operazione ( cessione di beni – prestazione di servizi) che
avviene effettuata nell’ambito dell’Unione Europea, fermo restando che verrà sciolto il nodo della localizzazione del bene …
Principio che governa la disciplina delle operazioni intracomunitarie( riferendoci sia agli acquisti sia alle cessioni
intracomunitarie) , è quello che vuole che la tassazione avvenga nel Paese di destinazione: ciò significa applicare un regime
estremamente peculiare in ragione del quale il cedente , tornando all’esempio precedente ,con fornitore francese su richiesta
di un cliente italiano che è a sua volta un soggetto passivo ( operazione pacificamente intracomunitaria), dovrà emettere una
fattura senza applicare l’IVA (perché per il principio regolatore finora accennato l’IVA viene applicata nel Paese di destina zione
e nell’esempio dunque in Italia); l’IVA sarà applicata in Italia dal cessionario , che ricevuta la fattura, la integrerà indi cando
l’aliquota e l’imposta corrispondente quindi c’è questa attività di integrazione della fattura , la quale è totalmente demand ata
al cessionario. Questo è il primo adempimento formale cui il cessionario deve provvedere ma non è l’unico perché dopo
l’integrazione dovrà registrare la fattura,che per lui è acquisto intracomunitario,sia nel registro delle fatture attive che nel
registro delle fatture passive: questo adempimento estremamente peculiare del cessionario consente,una volta integrata la
fattura di ottenere la neutralità dell’imposta perché se questa fattura viene contemporaneamente registrata nei registri atti vo
e passivo( ed è anomalo! In quanto operazione di acquisto quindi nel regime ordinario dell’IVA normalmente viene registrato
nel registro delle fatture passive cioè il registro dell’IVA sugli acquisti ma qui siamo nel campo intracomunitario con un di verso

Diritto tributario Pagina 200


nel registro delle fatture passive cioè il registro dell’IVA sugli acquisti ma qui siamo nel campo intracomunitario con un di verso
regime): la doppia registrazione è una finzione che permette però al cessionario di neutralizzare immediatamente l’IVA
fittiziamente incassata a valle( perché in verità non è stata incassata alcuna IVA a valle) e l’IVA pagata a monte e anche qu i si
tratta di un tipo di annotazione fittizio perché non corrisponde ad un materiale esborso di IVA che è stata pagata al fornito re
perché quest’ultimo non ha addebitato l’IVA in fattura … ritornando nuovamente all’esempio il francese emette una fattura
senza addebitare l’IVA sugli acquisti. Dunque il fine della doppia reg. è di
NEUTRALIZZARE l’IVA detraibile con una IVA che si ipotizza incassata a valle anche se non lo è stata affatto. Attraverso ques to
lungo percorso di adempimenti formali si realizza l’effetto di ritenere applicata l’imposta nel paese di destinazione. Finora
abbiamo parlato del regime delle operazioni intracomunitarie quando il soggetto acquirente è il soggetto passivo di IVA, ma
invece cosa accade quando il soggetto acquirente non è un soggetto passivo IVA ?Il regime non si applica più nel modo indicat o
sopra perché in questa seconda ipotesi con un cessionario che è un privato, un consumatore finale, l’operazione detta
precedentemente non è possibile già solo per il fatto che il consumatore finale non ha registri IVA da tenere e quindi
l’annotazione della doppia fattura a dir poco impossibile. Invece trova applicazione la regola inversa per cui si considera
operazione da sottoporre a tassazione nel Paese di origine, quindi significa semplicemente che sarà il cedente a dover emette re
una fattura con l’addebito dell’imposta in via di rivalsa, es. il cliente italiano al suo fornitore privato francese pagherà l’IVA che è
stata addebitata regolarmente in fattura in via di rivalsa : solo qui c’è in vigore il principio diverso cioè nel Paese di or igine.
Invece quando l’operazione intercorre tra un soggetto che ha la sua residenza in Italia e un soggetto che non è residente in uno
dei Paesi dell’UE ricorre una diversa ipotesi: quella extracomunitaria. Bisogna cambiare la prospettiva perché mentre si trat ta di
importazione e quindi il bene viene acquistato da un soggetto residente in UE, la merce sarà importata e l’operazione sarà
sempre rilevante ai fini IVA dunque imponibile, nel caso inverso in cui si tratti di esportazione l’operazione sarà sempre
rilevante ai fini IVA ma si tratterà di operazione NON imponibile. Capiamo la differenza ricordando che l’imponibilità
dell’operazione di importazione rileva rispetto a chiunque( anche il privato) , nel momento in cui la merce valica i confini di uno
dei qualsiasi tra i Paesi UE, è obbligato al pagamento dell’IVA , la quale in caso di importazione è certamente dovuta ≠ invece in
caso di esportazione, l’operazione pur restando rilevante ai fini dell’IVA cambia la sua configurazione e si trascrive nella
categorie delle operazioni non imponibili. Piccola parentesi sulle operazioni intracomunitarie, se si è capita la dinamica ch e
governa il principio di tassazione delle operazioni nel caso di destinazione, si è concordi nel ritenere che l’acquisto
intracomunitario è sempre operazione imponibile( l’italiano che riceve la fattura dal suo fornitore francese, deve applicare
l’imposta e registrarla in ambedue i registri). Ritornando all’elenco delle operazioni imponibili fatto in tema IVA ,insieme a
cessione di beni,prestazione di servizi, importazioni c’erano anche gli acquisti intracomunitari. L’acquisto intracomunitario se
effettuato da un soggetto passivo ai fini dell’IVA è sicuramente operazione imponibile perché l’acquirente è obbligato a
integrare la fattura disponendo l’applicazione dell’imposta ,mantenendo anche il diritto di detrazione. Ma quando si guarda
l’operazione intracomunitaria dal versante opposto di chi cede il bene, si parla di cessione intracomunitaria es. fornitore
francese che cede il bene al suo cliente italiano. Così il cedente intracomunitario effettua una cessione intracomunitaria ch e è
operazione NON imponibile, al pari dell’esportazione perché emette una fattura senza addebitare l’IVA al suo cliente in via d i
rivalsa, mantiene il diritto di detrarre la sua IVA sugli acquisti , fa concorrere l’operazione alla determinazione del volum e
d’affari e certamente per lui scaturiscono gli obblighi formali di cui parleremo nella lezione di oggi. Le esportazioni, cioè
cessione di beni e prestazione di servizi rese a favore di soggetti che non risiedono all’interno dell’UE , scontano un regim e
analogo: l’esportatore emette una fattura senza addebitare l’IVA al
suo cliente e dunque trattasi di operazione non imponibile, per la quale chi la effettua mantiene l’esercizio del diritto di
detrazione ( mantiene cioè la possibilità di applicare l’imposta in sede di liquidazione ecc..). Doveroso è soffermarsi sulle
complicanze che subiscono questi soggetti nell’applicazione del tributo. Ragioniamo sulla posizione di chi esercita un’attivi tà
per la quale ha prevalentemente a che fare , negli affari commerciali, con soggetti che non risiedono nell’UE: sono tantissim i gli
operatori commerciali “esportatori abituali”. Chi intessa una relazione con un soggetto che non risiede in UE si trova nella
condizione di effettuare sistematicamente operazioni attive per effetto delle quali non incassa mai IVA a valle dai suoi clie nti,
però effettua anche operazioni passive di acquisto per le quali mantiene il diritto di detrarre l’IVA sugli acquisti. L’espor tatore
abituale ,secondo voi con le condizioni esposte fino ad adesso ( quindi che non incassa mai) ,si trova materialmente nella
condizione di potere esercitare congiuntamente obbligo di rivalsa e diritto di detrazione?quindi è in grado di neutralizzare
rispetto a sé il pagamento dell’IVA? C’è IVA a valle da compensare a monte? RISPOSTA: No!non esiste la possibilità materiale di
compensare nulla, in quanto sono soggetti che sistematicamente vantano un credito nei confronti dell’erario e l’IVA pagata ai
fornitori( cioè l’IVA a monte) non viene mai compensata con l’IVA a valle perché effettuano operazioni non imponibili. Questa è
la stessa ragione per cui tali soggetti che si possono definire sistematicamente a credito di IVA, hanno diritto al rimborso
dell’IVA pagata ai loro fornitori da parte di uno Stato. Quali sono i rimedi che l’ordinamento ha affrontato per tentare in
qualche modo di agevolare il recupero di questa IVA pagata ai fornitori e difficilissima da rivedere poi indietro se non con le
lunghe dinamiche e i lunghi tempi del rimborso dell’imposta pagata da parte dell’erario. I sistemi sono essenzialmente due. I l
primo, delle operazioni triangolari, per la verità non è riservato agli esportatori abituali perché questo è un sistema cui t utti
possono accedere, cioè tutti coloro che intrattengono relazioni commerciali con l’estero possono attuare tale sistema
agevolativo ; il secondo istituto, ben più complesso è riservato alle cessioni effettuate dagli esportatori abituali , con la
possibilità di acquistare senza IVA.
IL SISTEMA DELLE OPERAZIONI TRIANGOLARI: le operazioni triangolari sono quelle che intervengono tra un fornitore italiano(A)
che cede il bene ad un suo cliente anche lui italiano(B) il quale a sua volta sa già di dover cedere il bene, che lui ha acqu istato da
A,ad ulteriore cliente (C).Immaginiamo che C,cioè il cliente di B, sia un soggetto residente fuori dall’UE. In modo ordinario
dovrebbe accadere che A cede il bene a B, emette la fattura addebitando l’IVA in via di rivalsa; B acquista il bene pagando l ’IVA
ad A e a sua volta vendendo il bene a C, dovrà emettere una fattura senza IVA perché operazione non imponibile: quindi B si

Diritto tributario Pagina 201


ad A e a sua volta vendendo il bene a C, dovrà emettere una fattura senza IVA perché operazione non imponibile: quindi B si
troverebbe nella condizione di non avere incassato l’IVA a valle da C e però di aver pagato l’IVA a monte ad A ed è una
situazione che potrebbe portare delle difficoltà nella liquidazione dell’IVA che B sarebbe costretto a fare perché genererebb e
questa operazione al credito di IVA. In un sistema così costruito il vantaggio che l’ordinamento ripone è che se B( il primo
cessionario) sa già che il bene dovrà essere ceduto ad un suo cliente può chiedere al suo fornitore di provvedere direttament e
alla consegna del bene acquistato a favore di C( il secondo cessionario ) -> quindi l’operazione triangolare implica che il primo
cessionario chieda immediatamente al suo cedente la consegna del bene direttamente a favore del secondo cessionario. Il
cedente allora emetterà la fattura nei confronti del primo
cessionario(B) ma il bene lo consegnerà al secondo cessionario (cioè C) e da un punto di vista cartolare il primo cessionario B
emette la sua fattura nei confronti del secondo cessionario: non esiste un rapporto di fatturazione diretta tra cedente e
secondo cessionario … il vantaggio sta nel fatto che il cedente in questa particolare ipotesi viene autorizzato ad emettere l a
fattura nei confronti del primo cessionario italiano senza addebitare l’IVA in via di rivalsa. Vantaggio di
B-> acquistare senza IVA . Quindi si tratta l’operazione come se fosse operazione non imponibile.
Il secondo è l’ ISTITUTO RISERVATO ESCLUSIVAMENTE ALL’ESPORTATORE ABITUALE: riservato a chi effettua sistematicamente
operazioni con soggetti che non risiedono nei territori dell’UE è previsto a vantaggio di coloro che almeno per il 10% del lo ro
volume d’affari effettuano operazioni attive con soggetti che risiedono fuori dal territorio dello Stato. Essi hanno la possi bilità
nei limiti dello stesso ammontare massimo di operazioni d’acquisto che questi soggetti sono legittimati a fare senza che gli si
possa addebitare l’IVA in via di rivalsa da parte del fornitore. Cerchiamo di essere più chiari … se l’esportatore abituale i taliano
ha un volume d’affari nel quale sa già che c’è un 30% di operazioni che effettua sistematicamente con l’estero, cosa farà nel
periodo di imposta successivo? Esibirà al suo fornitore una dichiarazione di intento ,con la quale lui rende noto al suo forn itore
che quell’operazione di acquisto che intende effettuare con questo suo fornitore rientra nell’ammontare , nel plafond ,per il
quale ha diritto a effettuare acquisti che altrimenti sarebbero imponibili senza addebitare l’IVA in via di rivalsa. Il forni tore
riceve la dichiarazione di intento e in base a questo è legittimato ad emettere la fattura senza addebitare l’IVA in via di r ivalsa al
suo cliente esportatore abituale. Tutto questo nei limiti del plafond ! se acquista oltre il plafond non ha più diritto a chi edere al
suo fornitore di non addebitare l’IVA in via di rivalsa: questa è la ragione per la quale ,visto che tali istituti spesso sub iscono
fenomeni elusivi/abusivi,l’ordinamento ormai da anni prevede che il fornitore che riceve la dichiarazione di intenti la deve
tempestivamente trasmettere all’Agenzia delle Entrate e ciò consentirà di verificare se l’esportatore abituale ha agito
correttamente nei limiti del plafond. Dunque è certo che il sistema si è prestato in assenza dell’obbligo della trasmissione
telematica della dichiarazione di intenti, ha abusi evidenti da parte degli esportatori abituali ma questo ormai oggi si è re so
estremamente difficile grazie all’obbligo di trasmettere per via telematica le dichiarazioni di intenti. Normalmente il sogge tto
che non ha la propria residenza nel territorio dello Stato ai fini dell’IVA può comunque essere soggetto al quale imputare gl i
obblighi che derivano dall’applicazione di questo tributo. Ma in che modi? Il primo è il più semplice per l’ordinamento dello
Stato ma il più complicato per chi sceglie di accedere a questa ipotesi cioè può identificarsi direttamente come soggetto pas sivo
IVA e quindi gli verrebbe subito attribuito il numero identificativo (comunemente nota come partita IVA) ai fini dell’applica zione
dell’imposta ,trattato come soggetto residente nel territorio dello Stato;il secondo modo è quello di nominare un
rappresentante fiscale, soggetto al quale viene affidato il compito di adempiere agli obblighi che derivano dall’applicazione del
tributo, in virtù delle operazioni poste in essere dal soggetto per il quale viene ricoperto l’incarico di rappresentante fis cale;la
terza modalità, la più diffusa, è quella di istituire una ( ma non è un termine che esiste) stabile organizzazione: il sogget to non
residente può agire in Italia ed effettuare operazioni rilevanti ai fini dell’IVA attraverso questa stabile organizzazione, c he
accennato prima, non ha una definizione giuridica e per questo soccorre la giurisprudenza e anche alcune norme contenute nel
modello OCSE, modello di cognizione internazionale contro le doppie imposizioni per cui si fa riferimento ad una struttura
dotata di risorse umane e materiali e deputata allo svolgimento dell’attività di impresa che deve essere effettiva e non impr esa
con caratteristiche ausiliarie rispetto ad altre attività! Nell’eventualità in cui il soggetto estero abbia una stabile organ izzazione
in Italia allora certamente tutte le operazioni effettuate sarebbero deputate alla stabile organizzazione ( quindi alla casa madre)
e tutti gli obblighi IVA che dovessero derivare dalle operazioni compiute, sarebbero direttamente da imputare alla stabile
organizzazione.
A questo punto bisogna analizzare gli obblighi formali nelle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA, e sono numerosi. Bisogna sapere
che è una serie lunga di adempimenti tanto che l’IVA è certamente uno dei tributi per i quali il nostro sistema prevede non
soltanto numerosi adempimenti formali ma altrettante sanzioni amministrative perché per ogni violazione commessa in
relazione a ciascuno di questi obblighi il sistema prevede appunto molteplici sanzioni ( sono di più rispetto agli adempiment i
formali). Il primo degli adempimenti formali a cui deve andare incontro qualunque soggetto passivo dell’IVA è la dichiarazion e
di inizio attività : se il soggetto sa che intende effettuare operazioni rilevanti sistematicamente e quindi esercitare per
professione abituale una delle attività che determinano la soggettività passiva ai fini dell’IVA deve necessariamente procede re
alla presentazione di questa dichiarazione,con la quale chi si costituisce soggetto passivo dell’IVA comunica all’Agenzia del le
Entrate non soltanto il tipo di attività che intende svolgere ma anche l’ubicazione della sede principale e delle eventuali s edi
secondarie. A seguito della presentazione della dichiarazione di inizio attività, l’Agenzia delle Entrate, immediatamente dop o,
attribuisce il numero identificativo( cioè la partita IVA) del soggetto passivo di IVA( il contribuente) ; accanto a questa
dichiarazione il nostro ordinamento prevede la comunicazione di variazione ed eventuale dichiarazione di cessazione
dell’attività: la prima deve essere presentata tutte le volte in cui chi si è già costituito soggetto passivo ai fini dell’IV A vada
incontro ad una modificazione dell’attività svolta o dell’ubicazione delle sedi principali o secondarie dei luoghi in cui l’a ttività
viene svolta o ancora nell’ipotesi in cui si aggiungano all’attività originariamente svolta altre attività che determinano an cora la
soggettività passiva ai fini dell’IVA ; mentre la dichiarazione di cessazione deve essere presentata quando l’attività cessa e
dunque al compimento dell’ultima operazione rilevante ai fini dell’IVA. I soggetti poi che intendono effettuare operazioni

Diritto tributario Pagina 202


dunque al compimento dell’ultima operazione rilevante ai fini dell’IVA. I soggetti poi che intendono effettuare operazioni
intracomunitarie , occorre che si iscrivano ad un elenco specifico VIES cioè l’archivio a cui si iscrivono tutti i soggetti c he
effettuano operazioni intracomunitarie -> Vat information Exchange Sistem – sistema per lo scambio di informazioni sull’IVA. A
seguito della presentazione della dichiarazione di inizio attività chi si costituisce soggetto passivo IVA e dunque compie un tipo
di operazione rilevante( imponibile, non imponibile o esente che sia) deve emettere la fattura che è certamente l’obbligo
formale più comune! Tale adempimento formale è strettamente collegato al momento in cui l’operazione si considera
effettuata: ricordiamo dalla scorsa lezione , l’ordinamento prevede che la fattura debba essere emessa entro i 15 giorni
successivi e più che il momento dell’emissione, la legge considera il momento invalicabile entro il quale la fattura deve ess ere
registrata; ma se la legge prevede qual è il termine ultimo entro il quale la fattura deve essere registrata è chiaro che la fattura
deve essere già stata emessa! Fattura che nasce storicamente come documento cartaceo ma che ormai da qualche anno è
stato
radicalmente sostituito da un documento de materializzato cioè da fattura elettronica, pur non essendo affatto modificati gli
elementi essenziali del contenuto, è solo cambiata la modalità del supporto, della consegna: infatti oggi la fattura si ritie ne
consegnata nel momento in cui è accettata dal sistema di interscambio, denominato SdI. La fattura è il documento allora
riepilogativo dell’operazione all’interno del quale la legge prevede che debbano essere contenuti alcuni degli elementi
essenziali: per primo l’indicazione dei soggetti tra i quali l’operazione è intercorsa( se è cessione di beni , dovranno
puntualmente essere identificati cedente e cessionario); immediatamente dopo deve essere indicato l’oggetto dell’operazione
( se è cessione di beni o prestazione di servizi e anche il dettaglio dell’operazione, qual è il bene contra venduto, o qual è la
prestazione di servizi identificata, commissionata e resa tra i soggetti); deve indicare la base imponibile rappresentata dal
corrispettivo pattuito tra le parti, l’imposta, l’aliquota applicata. Non dimentichiamo che i soggetti partecipanti devono es sere
identificati non soltanto attraverso la compilazione del nome, della sede, della residenza, o se è soggetto costituito su for ma
societaria la denominazione ma occorre che siano identificati attraverso il numero identificativo ai fini dell’IVA ( partita IVA del
cedente e partita IVA del cessionario o committente/ prestatore del servizio). Esiste ormai un obbligo generalizzato per
l’emissione della fattura elettronica! Però sarebbe un errore ritenere che tutte le operazioni rilevanti ai fini dell’IVA dev ono
essere necessariamente documentate con la fattura e la sua relativa emissione, in quanto questa regola subisce una deroga
importante proprio per i commercianti al minuto perché coloro che effettuano cessione di beni o prestazione di servizi al
minuto, sono autorizzati a documentare le cessioni e/o le prestazioni effettuate attraverso un diverso sistema rappresentato
rispettivamente dallo scontrino fiscale e dalla ricevuta fiscale( che sono diversi dalla fattura),salvo che il cliente faccia esplicita
richiesta di fattura quindi attenzione perché anche il commerciante al minuto potrebbe sentirsi ricevere la richiesta
dell’emissione della fattura … il che è frequente in tutti i casi in cui il consumatore finale debba documentare l’acquisto a i fini
delle detrazioni fiscali ( es. acquisto di un occhiale da vista: è chiaro che l’ottico avrà la richiesta della fattura e non solo dello
scontrino fiscale, perché con il documento completo sarà poi possibile esercitare tutti i diritti che competono all’acquirent e ai
fini dell’applicazione dell’imposta sui redditi). La fattura deve essere naturalmente emessa da chi effettua l’operazione att iva e
l’emissione della fattura determina di conseguenza l’obbligo che costui ha di registrarla: la registrazione và effettuata nel
registro delle operazioni attive( delle fatture emesse), cui deve essere effettuata entro i 15 giorni successivi dall’effettu azione
dell’operazione rilevante, quindi che tipo di annotazione risulterà in questo registro ? Risulterà la somma degli imponibili, la
somma dell’IVA incassata dai clienti attraverso l’esercizio dell’obbligo di rivalsa. Es. un soggetto,cedente beni che a sua v olta nel
medesimo periodo di tempo effettuato anche una serie di acquisti fisiologici per la sua attività ( elemento di
cancelleria,componenti di pc ,acquisti per la fotocopiatrice ecc) ; tutte le fatture ricevute dai fornitori da parte di quest o
soggetto passivo di IVA ( anche queste) devono essere registrate e tutte queste fatture passive saranno registrate nel separa to
registro delle operazioni passive o meglio denominato registro degli acquisti, cui contenuto evidente è la sommaria esposizio ne
del contenuto di tutte le fatture di acquisto ricevute dai propri fornitori,quindi l’ammontare dei corrispettivi pagati ai pr opri
fornitori ma soprattutto l’ammontare dell’IVA pagata ai fornitori. Ma l’IVA pagata ai fornitori non è l’IVA detraibile? Si,
immaginiamo in un arco temporale di un mese
l’IVA sulle operazioni attive tutta sommata ammonta a 10.000 euro, mentre l’IVA sulle operazioni passive ( cioè quella pagata ai
fornitori esattamente nel medesimo periodo) ammonta a 7.000 euro. Quindi attraverso questa lettura dei registri con la
considerazione di un riferimento temporale ben preciso( che non è casuale), è possibile ragionare per la prima volta di quest o
tributo,che si applica per masse di operazioni cioè tutta la serie di operazioni attive effettuate in un determinato periodo di
tempo su quella serie di operazioni passive effettuate nel medesimo arco temporale; stiamo ragionando immaginando questi
istituti che funzionano rispetto ad una singola operazione economica ma è altrettanto vero che dobbiamo soffermarci sul
ragionamento in masse: in definitiva è lo stesso meccanismo che si replica sistematicamente per masse di operazioni attive e
operazioni passive effettuate nel medesimo periodo. Altro obbligo formale è l’attività di liquidazione che apre un ulteriore
tassello per una piena conoscenza del tributo ed è essenziale fare la distinzione tra contribuenti che applicano l’IVA nei mo di
ordinari e i contribuenti trimestrali. PER CAPIRE IL RAGIONAMENTO … le operazioni rilevanti ai fini dell’IVA sono le operazio ni
imponibili, non imponibili ed esenti effettuate nel corso dell’esercizio al netto dei corrispettivi derivanti dalla cessione dei beni
strumentali( questo è il volume d’affari). Ma perché è importante misurare il volume d’affari di ciascun soggetto passivo ai fini
IVA ? poiché stabilire il volume d’affari consente di capire anche se quel soggetto passivo è obbligato all’attività di liqui dazione
mensilmente oppure invece obbligarlo ad un tipo di attività di liquidazione trimestralmente. La soglia che costituisce un ver o e
proprio spartiacque tra le 2 categorie: quelli che chiamiamo contribuenti trimestrali(che possiamo definire contribuenti mino ri)
sono quelli che hanno effettuato un volume d’affari nel corso dell’esercizio non superiore a 700 o 400 mila euro a seconda ch e
la loro attività abbia per oggetto cessione di beni o prestazione di servizi. La soglia dei 700mila euro è quella che và tenu ta in
considerazione da parte di chi effettua attività di cessione di beni ≠ la soglia dei 400mila euro è per chi effettua operazioni
ascrivibili alla categoria delle prestazioni di servizi. La distinzione è importante perché chi si colloca sopra l’asticella dovrà

Diritto tributario Pagina 203


ascrivibili alla categoria delle prestazioni di servizi. La distinzione è importante perché chi si colloca sopra l’asticella dovrà
effettuare l’attività di liquidazione mensilmente ≠ invece chi si colloca sotto questa soglia dovrà effettuare l’attività di
liquidazione trimestralmente. Ripartiamo dalla definizione di attività di liquidazione: è quella che impone di misurare, con la
periodicità stabilita dalla legge se esiste un esubero dell’IVA incassata a valle rispetto all’IVA pagata a monte o viceversa esiste
un esubero dell’IVA pagata a monte rispetto all’IVA incassata a valle: è qui che si manifesta la congiunta applicazione di ob bligo
di rivalsa e diritto di detrazione ed è qui che si determina l’obbligo di versare il tributo in capo al soggetto passivo o vi ceversa
che si configura il suo diritto di credito e questo perché il soggetto passivo a una certa data opera un raffronto tra l’IVA
complessivamente incassata dai clienti in un determinato periodo di tempo e l’IVA pagata ai fornitori( che si evince dall’alt ro
registro) nel medesimo arco temporale. Se l’IVA incassata complessivamente dai clienti in quel determinato periodo fosse
maggiore rispetto all’IVA pagata ai fornitori per la differenza il soggetto passivo sarà obbligato a versare l’IVA VICEVERSA se
l’ammontare complessivo dell’IVA pagata a monte evincibile dal registro degli acquisti in un determinato arco temporale fosse
maggiore rispetto all’IVA incassata dai clienti nel medesimo arco temporale magari perché gli affari sono andati male in quel
momento, in tal caso il soggetto passivo IVA non sarà obbligato ad effettuare un versamento a favore dell’erario ma anzi si
costituirà creditore per la differenza perché ha pagato ai suoi fornitori più IVA di quanto ne ha incassato a valle( per lui la
differenza
costituisce un credito da recuperare e da riportare in avanti).Ritornando alla liquidazione, il contribuente mensile( cioè ch i
supera la soglia dei 700 e dei 400mila euro) è chiamato entro il giorno 16 del mese successivo a quello di riferimento dovrà
misurare l’IVA incassata a valle e l’IVA pagata a monte da parte di tutti i clienti e a tutti i fornitori nel mese di riferim ento: ciò
significa che entro il 16 febbraio dovrò stabilire nel mese di gennaio cosa è accaduto -> misuro l’IVA incassata a valle e quella
pagata a monte nel mese di gennaio ed entro il giorno 16 feb. Se l’IVA incassata a valle sarà esuberante rispetto a quella pa gata
a monte dovrò effettuare il versamento per la differenza. Da ciò si evince che la liquidazione è un tipo di obbligo formale
strettamente strumentale al corretto adempimento dell’obbligo di pagamento. Ma per i contribuenti minori(cioè che non
superano le soglie) cosa accade? Essi sono chiamati a realizzare lo stesso adempimento rispetto ad un arco temporale più
ampio: qui non è più il mese ma il periodo diventa il trimestre. Qui, si chiede al contribuente minore entro il giorno 16 del
secondo mese successivo al trimestre di riferimento, di misurare l’obbligo di versamento e quindi di effettuare l’attività di
liquidazione. Pensiamo bene che es. il primo obbligo di liquidazione per il contribuente trimestrale è il 16 maggio( sta per
scadere)!
Fin qui si è ragionato sull’ipotesi di un soggetto passivo di IVA che si costituisce debitore nei confronti dell’erario ma sa ppiamo
che si può verificare l’ipotesi contraria: il soggetto passivo di IVA in relazione al mese X o al trimestre Y potrebbe essers i trovato
nella condizione di aver pagato l’IVA ai propri fornitori di gran lunga superiore rispetto all’IVA incassata dai propri clien ti. Qui
l’attività di liquidazione è attività che si conclude l’elezione di un credito, ma cosa se ne fa il contribuente IVA di quest o credito?
Credito IVA infrannuale , in quanto scaturisce da un arco temporale più stretto rispetto all’anno( può essere il mese o il
trimestre) … il nostro ordinamento pone una serie numerosa di paletti ai vari contribuenti che lasciano emergere crediti IVA
infrannuali ( paletti volti ad ottenere l’immediato rimborso): la regola è di consolidare il credito e poi di portarlo in ava nti, cioè
se c’è credito IVA che scaturisce dalla liquidazione del mese di gennaio il contribuente riportandolo in avanti lo potrà util izzare
per scomputare quanto sarà dovuto per il mese successivo( febbraio) ; viceversa è assolutamente legittimo che il contribuente
chieda a rimborso l’IVA quando questa scaturisce dalla dichiarazione annuale ( il quadro delle dichiarazioni IVA non si esaur isce
nella dichiarazione di inizio attività , o variazione o cessazione ma i soggetti passivi di IVA sono obbligati anche a presen tare la
dichiarazione annuale ai fini dell’IVA cioè una dichiarazione riepilogativa su base annuale di tutte le attività di liquidazi one che
sono state fatte in corso d’anno. La dichiarazione IVA deve essere presentata entro il 30 aprile di ogni anno , dell’anno
successivo a quello cui si riferisce la dichiarazione stessa e in questo documento prendendo per esempio il contenuto della
dichiarazione 2021 per l’anno 2020 comprenderà il dettaglio di tutte le operazioni di liquidazione che sono state fatte nel 2 020.
Allora lì si che il contribuente che eventualmente non sia riuscito ad utilizzare interamente i crediti infrannuali per
compensazione, potrà finalmente chiedere al rimborso dell’eventuale esubero dell’IVA pagata a monte rispetto a quella
incassata a valle: in quel momento è possibile! Altrimenti il rimborso dell’IVA infrannuale è soggetta a particolarissime
restrizioni. Non è del tutto escluso che non possa essere concessa anzi è più corretto dire che c’è la possibilità ma è conce ssa in
modo molto ristretto e per un numero ridotto di contribuenti ed inoltre devono sussistere delle condizioni
particolari … MORALE : non tutti hanno il diritto ad accedere al rimborso dell’IVA infrannuale. Altra cosa sugli obblighi di
versamento: fin qui si è capito che gli obblighi di pagamento sono obblighi di tipo frazionato e altro importante obbligo è q uello
di versare un acconto ed infatti entro il 27 dicembre di ogni anno i soggetti passivi ai fini dell’IVA sono anche obbligati a versare
a titolo di acconto l’IVA sulle operazioni da effettuare nel periodo di imposta successivo. Proprio come accade nel sistema d elle
imposte dirette anche nella disciplina dell’IVA è previsto il versamento a titolo di acconto.
NOTE di VARIAZIONE del tributo: questo ci serve perché finora si è ricreata l’immagine delle operazioni ai fini dell’IVA come
delle operazioni perfette,immodificabili, immaginando che ci sia operazione di tipo contrattuale in cui è previsto il corrisp ettivo
e poi al contratto intercorso tra le parti sia che si tratti di cessione di beni o prestazioni di servizi sia che poi al paga mento del
corrispettivo all’applicazione dell’imposta nei modi ordinari, ma in realtà sono molteplici le operazioni per le quali invece si
verificano delle modificazioni in corso d’opera. Infatti potrebbe accadere che un tipo di operazione per il quale ad es. le p arti
avevano originariamente convenuto un certo tipo di corrispettivo (e quindi l’imposta dovuta in un certo ammontare) ,vadano
poi a modificare gli accordi contrattuali raggiunte all’inizio. Queste possibili modificazioni delle operazioni commerciali n on
possono rimanere insensibili nell’applicazione del tributo perché sono evenienze che in realtà che devono trovare opportuna
disciplina nell’applicazione dell’imposta del valore aggiunto altrimenti si determinerebbero conseguenze non volute anche
sotto il profilo fiscale. Queste circostanze determinano una modificazione dell’imposta in relazione alla singola operazione: se
nel contratto le parti convengono che il corrispettivo sia pari a 10.000 euro e l’imposta dovuta pari al 22% quindi 2.200 eur o è

Diritto tributario Pagina 204


nel contratto le parti convengono che il corrispettivo sia pari a 10.000 euro e l’imposta dovuta pari al 22% quindi 2.200 eur o è
chiaro che l’imposta per chi cede il bene è l’imposta incassata a valle mentre per chi compra il bene è l’imposta con IVA
detraibile cioè IVA pagata al fornitore, che sia in diritto di portare in detrazione. Come ,il sistema,riconosce rilievo fisc ale alle
possibili variazioni dell’operazione intercorsa tra le parti?Ciò risponde all’esigenza di modificare le conseguenze fiscali
dell’operazione che già è rilevata fiscalmente. Quindi stiamo ragionando su un contratto per il quale già il soggetto attivo ha
emesso la fattura addebitando al soggetto passivo l’IVA in via di rivalsa e siamo già nella posizione di chi ha già incassato l’IVA a
valle di chi già ha esercitato il diritto di detrazione per l’IVA pagata al suo fornitore ( i 2.200euro). Si tratta di come m odificare
un aspetto fiscale: ipotizziamo che le parti successivamente stabiliscano che l’operazione debba modificare la sua consistenz a
aumentando l’imponibile ad es. aumento della quantità della merce dovuta, con la conseguenza che aumenta l’imponibile e
aumenta anche l’imposta: questa è l’ipotesi più semplice perché si tratta di emettere una seconda fattura rispetto a quella c he
è stata già emessa;è una variazione in aumento che implica semplicemente per le parti la necessità di emettere una fattura
integrativa rispetto alla precedente;si indica che è intervenuta una integrazione della quantità precedentemente venduta, con
conseguente integrazione dell’imponibile e dell’imposta;questa integrazione è molto semplice perché per il soggetto che cede
significa registrare più IVA incassata a valle e per chi ha comprato significa registrare operazione di acquisto aggiuntiva e quindi
nel momento in cui l’aggiunta interverrà avrà diritto detrarre più IVA sugli acquisti rispetto a quella che aveva già detratt o.
Allora siamo d’accordo a ritenerla una semplice integrazione dell’operazione già intercorsa tra le parti. Ipotesi
invece più complessa è quella opposta cioè quella in cui le parti convengono una diminuzione: se le parti convengono per es.
che la merce ceduta non debba essere più per 10.000 pezzi ma per 8.000 pezzi perché l’acquirente ci ripensa , ma abbiamo già
merce e IVA per 10.000 pezzi e chi ha venduto ha già fatto concorrere alla sua liquidazione periodica IVA a valle ipotizzando di
incassare un corrispettivo di tale 10.000pezzi. Chi ha già acquistato ha già ricevuto questa fattura e quindi ha già fatto
concorrere alla sua liquidazione l’IVA pagata al suo fornitore( quindi IVA detraibile)più alta rispetto a quella che poi sarà
determinata dalla diminuzione intercorsa per effetto del successivo accordo tra le parti. Quindi la correzione in diminuzione si
fa attraverso l’emissione da parte del fornitore,di un documento speculare alla fattura diametralmente opposto che viene
chiamata nota di credito, documento contrario, per la parte che interessa, cioè quella che ha determinato la variazione in
diminuzione( attenzione perché il documento non è più fattura). L’emissione della nota di credito cosa determina nel rapporto
tra le parti? per chi la emette rappresenta un tipo di operazione di acquisto. Posizione del cedente che ha emesso la nota di
credito:chi ha ceduto il bene e ha fatto concorrere alla liquidazione periodica una IVA incassata a valle su 10.000 pezzi, ha fatto
concorrere alla liquidazione periodica una IVA a valle maggiore di quella che invece avrebbe dovuto fare concorrere … allora
questo soggetto per correggere quella liquidazione periodica emette la nota di credito registrandola nel registro degli acqui sti,
ed annoterà qui una IVA da detrarre che sarà proprio pari all’IVA parametrata alle minori cessioni di beni concordate tra le
parti; questa IVA avrà diritto nella liquidazione periodica in corso a farla concorrere come IVA detraibile e così corregge
quell’IVA a valle che ha concorso alla liquidazione periodica precedente erroneamente per un importo maggiore; posizione di
chi acquista,che si vede ricevere la nota di credito: ha fatto concorrere alla liquidazione periodica IVA detraibile eccessiv a
perché poi le parti hanno poi convenuto di compravendere una quantità inferiore di prodotto; egli una volta ricevuta la nota di
credito emessa dal suo fornitore, registrerà la nota di credito sul registro delle vendite, realizzando l’effetto di far conc orrere
alla liquidazione periodica in corso una fittizia IVA sulle operazioni attive che gli consente di correggere quell’eccesso di
detrazione dell’IVA sugli acquisti che ha realizzato nel periodo considerato in precedenza. Tale possibilità di variare la
consistenza delle operazioni effettuate ai fini dell’IVA non è concessa all’infinito: infatti la legge prevede che possano es sere
variate le operazioni ( adottati i meccanismi studiati) entro 1 anno, oltre il quale la variazione non è più consentita, per evitare
l’incertezza sine die dell’operazione.
-Fine corso-

Diritto tributario Pagina 205

Potrebbero piacerti anche