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CAPITOLO 1. INTRODUZIONE
Secondo il Giannini, il diritto tributario è stato tradizionalmente inquadrato nell’ambito del diritto pubblico, e
in particolare, del diritto amministrativo, identificandosi come “quel ramo del diritto amministrativo che
espone i principi e le norme relative all’imposizione e alla riscossione dei tributi e analizza i conseguenti
rapporti giuridici tra gli enti pubblici e i cittadini”.
Oltre che con il diritto amministrativo e il diritto privato, il diritto tributario ha numerosi punti di contatto anche
con altre branche dell’ordinamento.
A. ENTRATE c.d. “DI DIRITTO PRIVATO” , dove lo Stato opera sul mercato come un soggetto
economico privato. Lo Stato amministra il proprio patrimonio, anche dismettendolo, svolgendo
attività economiche o partecipa al capitale di determinati soggetti che svolgono attività
economiche, e comportandosi allo stesso modo di un qualsiasi operatore privato (iure privatorum).
Tali entrate sono regolate dalle norme del diritto privato.
B. ENTRATE c.d. “DI DIRITTO PUBBLICO” dove lo Stato agisce mediante il proprio potere
autoritativo per procacciarsi le entrate (iure imperii) (agisce mediante la sua POTESTA’ DI
IMPERO). Tali norme sono regolate dalle norme del diritto pubblico.
La fondamentale differenza tra le entrate fiscali e le altre entrate è rappresentata dalla assoluta mancanza di
corrispettività tra prelievo fiscale e l’erogazione dei servizi resi dalla pubblica Amministrazione.
In sostanza, il TRIBUTO viene definito come un’obbligazione avente ad oggetto una prestazione di regola
pecuniaria a titolo definitivo o a fondo perduto (differenziandosi, sotto tale profilo, dal prestito forzoso),
coattiva e nascente dalla legge al verificarsi di un presupposto di fatto che di regola non ha natura di
illecito.
In altre parole, il TRIBUTO fa riferimento ad un PRELIEVO COATTIVO fatto dallo Stato (o altro ente
pubblico) finalizzato al FINANZIAMENTO DELLA SPESA PUBBLICA senza che vi sia la volontà
dell’obbligato. Non è tributo una prestazione imposta il cui creditore non sia un ente pubblico, ma un soggetto
di diritto privato. È dunque rilevante che il gettito sia attribuiti allo Stato o ad altri enti pubblici, non è
rilevante lo scopo per il quale è istituito; infatti, un tributo può essere istituito per fini fiscali (procurare
un’entrata) o per fini extrafiscali (es. dazi protettivi).
Vi possono essere anche tributi con destinazione specifica, detti tributi di scopo o tributi parafiscali (es. tributo
a carico delle imprese che operano in un dato settore il cui gettito viene utilizzato dall’ente per finanziare
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attività che giovino alle imprese di quel settore). I comuni possono deliberare l’istituzione di imposte di scopo
destinate alla parziale copertura delle spese per la realizzazione di opere pubbliche.
In generale, la Corte costituzionale ha evidenziato in più occasioni che l’art. 23 Cost. (“nessuna
prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”) è rispettato quando la
legge definisce i criteri direttivi, i limiti e i controlli idonei a contenere la discrezionalità (facoltà di libera
autonomia – criterio di scelta che la pubblica amministrazione applica nel perseguire l'interesse pubblico)
dell’ente impositore nell’esercizio del potere che gli viene attribuito, affinché tale potere non si trasformi
mai in arbitrio.
Segnatamente, devono essere fissati con legge:
1. il presupposto del tributo, inteso come atto o fatto al cui verificarsi è dovuto il tributo, rispetto al
quale la legge deve rigidamente prestabilirne il contenuto.
2. i soggetti passivi, intesi come coloro cui detto atto o fatto è riferibile.
3. la base imponibile del tributo, valore su cui viene applicata l’aliquota per calcolare l’imposta. I
limiti sono imposti dalla legge che stabilisce i criteri di valutazione del presupposto d’imposta.
In conclusione, sono considerate tributarie tutte le prestazioni imposte in via coattiva senza il consenso
dell’obbligato purché:
- non rappresentino il corrispettivo di una prestazione dell’ente impositore ;
- e siano destinata a finanziare le spese pubbliche in genere o una determinata spesa pubblica.
- TASSE: prestazione pecuniaria coattiva che il soggetto è tenuto a corrispondere per aver usato o
usufruito di un servizio o attività pubblica.
Tale servizio è scelto dal cittadino e la tassa sarà uguale per tutti, anche per redditi diversi.
Versata per SERVIZI DIVISIBILI.
Gli elementi costitutivi della tassa, che la differenziano dall’imposta, sono in particolare due:
1. la circostanza che ESSA È PROVOCATA DALLA DOMANDA O DAL
COMPORTAMENTO DEL SOGGETTO
Per quanto riguarda il primo elemento, il pagamento della tassa è di regola determinato da una
domanda del soggetto volta ad ottenere quel determinato servizio o quella determinata attività.
Talvolta, tuttavia, può trattarsi di un'attività semplicemente provocata dal comportamento del
soggetto, come accade ad esempio per le tasse giudiziarie poste a carico dell’imputato che venga
condannato in un processo penale.
2. lo SCAMBIO DI UTILITÀ CHE SI REALIZZA
Per quanto riguarda lo scambio di utilità, il soggetto destinatario riceve normalmente un vantaggio
(beneficio) individuale del compimento di una determinata attività o servizio.
Per quanto riguarda, infine, i MONOPOLI FISCALI, la loro caratteristica è quella di consentire allo Stato,
per effetto della riserva monopolistica, di fissare il prezzo del bene o del servizio in misura superiore a
quello che sarebbe stato fissato in condizioni di libera concorrenza, così traducendosi in sostanza in una
entrata per lo Stato.
In sostanza, riservano la commercializzazione di un certo bene allo Stato garantendo ad esso il
percepimento di un prezzo maggiore di quello che sarebbe generato dal libero mercato.
I PRINCIPI DEL DIRITTO TRIBUTARIO – Capacità contributiva e altri principi costituzionali e comunitari.
Sezione Prima: PRINCIPI COSTITUZIONALI
Art. 2 Cost.: - PRINCIPIO DI SOLIDARIETÀ
“La repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni
sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale”.
APPUNTI: Il principio di uguaglianza implica che devono essere trattate allo stesso modo situazioni
uguali. Se sono differenziate deve valere un principio di proporzionalità.
In riferimento alla capacità contributiva quale limite al potere impositivo, sussistono infatti ad oggi due differenti
teorie:
1) quella che individua il principio di capacità contributiva quale LIMITE ASSOLUTO alle scelte del legislatore;
2) quella che individua il principio di capacità contributiva quale LIMITE RELATIVO alle scelte del legislatore;
1) Secondo i sostenitori della teoria della capacità contributiva quale LIMITE ASSOLUTO, sono
espressivi di capacità contributiva quei fatti o quelle situazioni che rivelano direttamente od
indirettamente l’esistenza di una ricchezza in capo al contribuente.
Il reddito, il patrimonio, i consumi sono indici di capacità contributiva, perché sono indici da
cui direttamente o indirettamente si desume la ricchezza dei singoli. Un prelievo può esistere
solo laddove vi sia ricchezza, laddove vi sia una fonte economica.
Tale tesi, connessa all’art. 2 Cost., identifica la capacità contributiva con la titolarità di situazioni
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giuridiche soggettive a contenuto patrimoniale, scambiabili sul mercato, che consentano in sé di
estinguere l’obbligazione tributaria.
2) I sostenitori della teoria della capacità contributiva come LIMITE RELATIVO, invece, ragionano
nella logica dell’art. 3 Cost., sposando un’ottica meramente distributiva. Essi ritengono che siano
espressivi di capacità contributiva tutti quei fatti o quelle situazioni che siano in grado di
“modificare la posizione” del consociato all’interno dell’ordinamento e che quindi possano essere
soggetti passivi d’imposta anche coloro che pongono in essere presupposti socialmente rilevanti ,
purché espressivi di una capacità differenziata economicamente valutabile.
L’art. 53 Cost. avrebbe quindi una funzione di riparto e si limiterebbe ad “imporre criteri distributivi
equi e ragionevoli, che possono essere anche fatti non patrimoniali, purché naturalmente rilevabili e
misurabili in denaro, senza che il presupposto contenga necessariamente in sé la disponibilità
economica per far fronte all’obbligazione tributaria.
Quanto al principio di EGUAGLIANZA FORMALE, esso impone, infatti, di trattare in modo uguale
situazioni uguali e in modo disuguale situazioni diverse, dovendosi prevedere trattamenti fiscali
differenziati per ricchezze diverse.
In altre parole, è legittimo un prelievo maggiore su una capacità contributiva maggiore ed uno minore
su una capacità contributiva minore. L’accertamento di tale differenziazione spetta al legislatore, con
l’unico limite della ragionevolezza della scelta operata, intesa come obbligo di coerenza e di non
contraddittorietà.
Quanto al principio di EGUAGLIANZA SOSTANZIALE, lo Stato può utilizzare la leva fiscale per
cercare di promuovere e migliorare la situazione dei propri consociati, correggendo gli squilibri
sociali dovuti a situazioni sperequate di partenza (c.d. “azioni positive”), in un’ottica definibile di
“giustizia redistributiva”.
L’art. 53 Cost. utilizza il pronome “tutti”, senza ulteriore specificazione, così distinguendosi dall’art. 25
dello Statuto albertino che, individuando specificamente il referente soggettivo, disponeva che “Essi (i
regnicoli) contribuiscono indistintamente, nella proporzione dei loro avere, ai carichi dello Stato”.
Il termine “tutti” evidenzia il principio di “universalità del tributo”, che deve colpire, al verificarsi
dei presupposti, tutti i soggetti indipendentemente dalla loro cittadinanza.
Il PRINCIPIO DI UNIVERSALITÀ DEL TRIBUTO implica che sono obbligati a contribuire ai bisogni
della spesa pubblica, tutti i soggetti (persone fisiche o giuridiche) che operano nel territorio dello Stato,
residenti e non residenti, senza discriminazioni di età, sesso, religione, appartenenza politica, e simili.
Sarebbero perciò incostituzionali eventuali norme tributarie che determinassero la misura degli obblighi
fiscali in base a parametri quali lo stato civile o l’appartenenza politica o religiosa.
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- Le rendite finanziarie.
IL PRINCIPIO DI PROGRESSIVITÀ.
Dall’art. 53 Cost. si evince altresì che la ricchezza cui viene commisurato il prelievo deve essere “effettiva”.
Secondo la Corte costituzionale, non può infatti essere considerata sufficiente una capacità meramente
fittizia o apparente.
L’art. 53 comma 2, Cost. dispone che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
Un’imposta si definisce progressiva quando il suo ammontare aumenta in modo più che
proporzionale al crescere dell’imponibile. La progressività può essere assicurata intervenendo sia
sull’aliquota, sia sulla base imponibile.
Esso si manifesta in diversi modi:
mediante l’istituzione di imposte a carattere progressivo (come l’I.R.P.E.F., che prevede l’applicazione di
aliquote di imposta crescenti per fasce di reddito crescenti);
mediante la differenziazione delle aliquote per le imposte sui consumi, e quindi mediante la previsione
di aliquote più basse per i consumi diretti a soddisfare esigenze primarie, e di aliquote più alte per i
consumi che soddisfano bisogni voluttuari; mediante l’applicazione di maggiori imposte sulle attività
considerate più remunerative (ad es., applicazione dell’I.R.A.P. sulle sole attività organizzate in forma
di impresa, e non pure sulle attività di lavoro).
LEGGE CONDONISTICA
Il CONDONO è un provvedimento emanato dal legislatore dal governo, tramite cui i cittadini che vi
aderiscono possono ottenere l'annullamento parziale o totale di una pena o di una sanzione.
Il legislatore ha reso incostituzionali le leggi retroattive (ovvero non possono applicare leggi di oggi per
fatti accaduti anni fa), quindi vale anche per il condono in modo tale da evitare di incentivare
l'evasione.
Il Governo può applicare il condono per: situazioni di deficit e per evitare la prescrizione (vedere meglio).
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CAPITOLO 4. L’EFFICACIA NEL TEMPO DELLE NORME TRIBUTARIE
Le sentenze della Corte Costituzionale e la teoria dei rapporti esauriti.
Se la Corte costituzionale dichiara un tributo incostituzionale in quanto non espressivo di capacità
contributiva, il diritto al pagamento della giusta imposta va comunque contemperato con quello relativo
alla certezza dei rapporti giuridici, ossia con quei principi e norme che presiedono all’attuazione del
tributo. Pertanto, l’inutile spirare dei termini per ottenere il rimborso, la definitività di un atto impositivo per
la sua mancata impugnazione nei termini, oppure il passaggio in giudicato di una sentenza sfavorevole al
contribuente, determinano la nascita di “rapporti esauriti” tali da precludere la ripetizione del tributo
pagato.
Norme procedimentali e principio del “tempus regit actum”.
Le disposizioni tributarie possono appartenere alla categoria delle norme sostanziali, procedimentali o
processuali.
1) Le norme sostanziali a loro volta possono classificarsi in
a. Impositrici: vale il principio secondo cui si applicano quelle vigenti al momento in cui si
verifica il presupposto d’imposta.
b. Sanzionatorie: viene in rilievo l’attuale antigiuridicità del comportamento. L’art. 3 d.lgs.
472/1997 stabilisce al comma 2 che “nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un
fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile”. Al comma 3
afferma invece che “Se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione
e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica quella più favorevole
(favor rei)”.
c. Agevolative
2) Norme procedimentali sono quelle che regolano la fase attuativa dinamica dell’attuazione del tributo.
In presenza di norme procedimentali, vige il principio “tempus regit actum”, ossia si applica il
regime normativo in vigore nel momento in cui viene compiuto quel determinato atto o attività
(principio opposto a quello delle norme sanzionatorie).
3) Norme processuali sono quelle che regolano il contenzioso dinanzi ai giudici tributari.
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CAPITOLO 5. INTERPRETAZIONE, ELUSIONE FISCALE ED ANALOGIA NEL
DIRITTO TRIBUTARIO
2- L’argomento letterale.
Inoltre è emersa anche l’attenzione con riferimento alla questione linguistica.
L’interpretazione letterale è quel significato che l’enunciato esprime sulla base delle regole linguistiche,
sia di tipo semantico (significato delle parole), sia di tipo sintattico (posizione e relazione tra parole).
Al significato lessicale può accompagnarsi un significato letterale-enunciativo (significato nel contesto
dell’enunciato) o un significato letterale-testuale (tiene conto delle convenzioni che presiedono alla
formazione dei testi).
Il significato letterale può richiedere il ricorso ad altri metodi dell’interpretazione: sia nei casi di ambiguità
(una parola, più significati) che nel caso di vaghezza comune (non si è certi se il fatto in questione sia
nell’estensione della norma). Una problematica in materia fiscale può nascere da due casi:
- Il rinvio in forma esplicita: può esprimersi mediante una presupposizione o rinvio vero e proprio. La
presupposizione può avere ad oggetto nozioni giuridiche o extragiuridiche. In caso di rinvio vero e
proprio quando viene designata la corrispondente fonte normativa, frequenti nel diritto tributario.
- Rinvio in forma implicita: l’enunciato utilizza un vocabolo tecnico che appartiene i) allo stesso
documento normativo ii) allo stesso settore disciplinare iii) ad altro settore disciplinare.
Tuttavia l’assegnazione di un significato diverso deve ritenersi una eccezione e non una mera fisiologica
funzione del riferimento al contesto.
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L’elusione è diversa dall’evasione: con l’evasione non si aggira un presupposto, ma si nasconde un
presupposto già verificatosi.
Ci sono 3 approcci di lotta all’elusione.
1) Affrontare il problema dal lato della disposizione normativa elusa, facendovi rientrare in
via ermeneutica la fattispecie elusiva.
2) Contrastare la fattispecie elusiva in base a principi e istituti generali dell’ordinamento ad es.
l’abuso del diritto, la frode alla legge oppure di ricorrere a disposizioni tributarie “di chiusura”,
oppure ancora di ricorrere ad espresse disposizioni antielusive generali o speciali
3) Indagare sul negozio tra le parti per verificare se sia possibile qualificarlo diversamente da
quanto fatto dalle parti.
Sin quando si è in grado di ricondurre la fattispecie posta in essere dal contribuente all’interno delle norme
teoricamente eluse non vi è elusione in senso proprio.
- Esenzioni: le norme di esenzione sono invece le vere e proprie norme di agevolazione in senso stretto,
in assenza delle quali la fattispecie che ne forma oggetto rientrerebbe a pieno titolo nel presupposto
del tributo. Tali norme assumono natura derogatoria.
Il problema dell’interpretazione analogica delle norme di agevolazione ruota da sempre sulla natura
eccezionale che ad essa si è intesa attribuire.
L’art. 14 Preleggi vieterebbe per le norme eccezionali l’analogia e non anche l’interpretazione estensiva.
Dal noto brocardo latino singularia non sunt extendenda: in presenza di norme eccezionali, prevale
l’argomento a contrario su quello analogico.
Ciò non toglie la necessità di valutare caso per caso, ai fini dell’integrazione analogica, la rispondenza delle
norme di agevolazione a determinati principi, dai quali estrapolare la ratio, quella ragion sufficiente che ne
consenta l’applicazione a fattispecie simili a quelle direttamente regolate.
CAPITOLO 6. L’EFFICACIA DELLA NORMA TRIBUTARIO NELLO SPAZIO
1- L’efficacia della norma tributaria nello spazio e la territorialità c.d. “in senso formale” ed “in senso
materiale”.
Il tema implica 3 ordini di problemi: a) determinazione dello spazio nel quale la legge esplica in generale
la propria efficacia, b) territorialità in senso formale, c) territorialità in senso materiale.
La legge tributaria esplica la propria efficacia in tutto il territorio (inteso in senso politico) dello Stato.
Può accadere che certe parti del territorio siano escluse dalla nozione di territorio doganale o di
territorio ai fini dell’IVA. Oppure può accadere che l’ambito di applicazione di alcune norme sia
limitato a porzioni del territorio (come avviene per i tributi locali).
Con l’espressione territorialità in senso formale (anche detta territorialità della potestà
amministrativa d’imposizione) si fa riferimento all’esigenza che l’attività amministrativa di attuazione
del tributo si confronti con i limiti di diritto internazionale che presiedono all’esercizio di poteri
pubblici. L’attuazione di un tributo può comportare attività di tipo istruttorio (accesso, verifica e
ispezione) nel territorio di un altro stato. Ma esiste un principio di non collaborazione tra Stati , nel
senso che altri Stati potrebbero legittimamente sottrarsi alla realizzazione sul proprio territorio dei
crediti tributari di Stati esteri.
Il tema ha avuto un impulso con l’emanazione nel 1988 dell’OCSE (Organizzazione per la
Cooperazione e lo Sviluppo Economico) del c.d. “codice di condotta” in esito al lavoro sulla lotta ai
paradisi fiscali (tax heavens) e ai regimi fiscali “preferenziali dannosi”. Mentre inizialmente i paradisi
fiscali furono ritenuti quelli con livello di imposizione nullo o irrilevante, nel 2001 fu introdotta una
nuova concezione basata sul grado di cooperazione dello Stato nei confronti delle Amministrazioni
degli altri Stati e sul grado di trasparenza dei regimi fiscali, al fine di ottenere l’impegno ad
assicurare la massima trasparenza e un effettivo scambio di informazioni.
Con la territorialità in senso materiale ci si riferisce alla determinazione dell’ambito spaziale del
presupposto di imposta in sede di creazione della norma impositiva.
Anche qui vi è un quadro ricostruttivo disomogeneo, ora ritenendosi inesistente qualsiasi limite di
diritto internazionale alla potestà impositiva tributaria, ora sostenendosi la necessità della
sussistenza nella norma impositrice pur sempre di un criterio di collegamento effettivo di tipo
soggettivo o oggettivo.
Trattandosi del principio di capacità contributiva, si è visto che con riferimento al nostro ordinamento,
il fondamento del principio di “territorialità” debba rinvenirsi nell’uso del pronome “tutti” di cui
all’art. 53 Cost. e nel collegamento con l’art. 2 Cost., nel senso che sono tenuti a concorrere alla
spesa pubblica tutti e solo coloro in capo ai quali è rinvenibile un dovere solidaristico per essere in
qualche modo parte della collettività chiamata a contribuire. Ne deriva che un tributo che dovesse
assumere a presupposto un fatto che sia privo di qualsiasi collegamento con il nostro territorio
risulterebbe, prima ancora che in violazione del diritto internazionale, in violazione dell’art. 53 Cost.
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La doppia imposizione internazionale
La diversità tra i concetti residenza o tra i criteri di collegamento reali utilizzati possono determinare
fenomeni di doppia imposizione internazionale.
La doppia imposizione internazionale può infatti derivare da tre tipologie di “conflitto”
- Dal conflitto residenza-fonte, quando una situazione di fatto sia assunta quale presupposto dei tributi
in uno stato sulla base di criterio soggettivo e nell’altro stato sulla base di criterio oggettivo.
- Dal conflitto residenza-residenza, se soggetto considerato residente in più Stati.
- Dal conflitto fonte-fonte, quando una medesima fonte di reddito viene localizzata in più Stati,
indipendentemente dalla residenza del soggetto.
Siamo in presenza, in questi casi, di ipotesi di doppia imposizione giuridica, nel senso che è lo stesso
reddito in capo al medesimo soggetto a formare oggetto di un doppio prelievo.
Possono aversi ipotesi di doppia imposizione economica, quando la medesima imposizione coinvolge lo
stesso reddito in senso economico ma in capo a soggetti diversi.
Riguardo al profilo della doppia imposizione internazionale di tipo giuridico, esistono meccanismi per la
relativa eliminazione, che possono essere:
- UNILATERALI (se previsti da ordinamenti interni): si applicano ai conflitti residenza/fonte, e
possono essere di due tipi: esclusione (o esenzione) dall’imponibile interno dei fatti extraterritoriali
tassati all’estero, oppure il credito d’imposta per le imposte pagate all’estero.
- oppure BILATERALI O MULTILATERALI (se previsti da convenzioni):
Il nostro ordinamento utilizza quale sistema unilaterale contro la doppia imposizione giuridica
internazionale il c.d. “credito per le imposte pagate all’estero”, in quanto conforme ad un sistema che si
propone di realizzare la personalità e la progressività dell’imposizione sui redditi e indifferente la
circostanza che il reddito sia stato prodotto in Italia o anche (o addirittura esclusivamente) all’estero.
Gli ordinamenti interni non possono invece risolvere il conflitto residenza/residenza perché se due Stati
considerano allo stesso tempo un soggetto fiscalmente residente nei rispettivi territori, nessuno dei due ha
l’obbligo di rinunciare in via unilaterale alla propria residenza fiscale.
Gli strumenti utilizzati per la risoluzione di queste problematiche di doppia imposizione sono le convenzioni
internazionali in materia di imposte sul reddito o sul patrimonio, ossia trattati che consentono di
ripartire la potestà impositiva tra lo Stato della residenza e lo Stato della fonte
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CAPITOLO 7. LE FONTI INTERNE DEL DIRITTO TRIBUTARIO
Art. 97 Cost.
“I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buono
andamento e l’imparzialità della amministrazione”.
L’art. 97 della Costituzione impone che l’attività di accertamento e di riscossione delle imposte sia
improntata a criteri di: legalità, efficienza, trasparenza, non discriminazione.
La finanza locale ed il riparto della potestà legislativa tra Stato e Regioni in materia fiscale: (Art. 117,
secondo comma, Cost.)
“Lo Stato ha competenza esclusiva nelle seguenti materie […]”
Art. 116 Cost.: “il Friuli Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Sudtirol e la Valle
d’Aosta/Vallee d’Aosta dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi
statuti speciali adottati con legge costituzionale. La Regione Trentino-Alto Adige/Sudtirol è costituita dalle
Province Autonome di Trento e di Bolzano”.
I problemi esegetici (interpretativi) posti dall’art. 23 sono essenzialmente tre: nozione di legge; nozione di
base legislativa; nozione di prestazione imposta.
A) Il termine legge è assunto nell’art. 23 Cost. per indicare non soltanto la legge statale ordinaria ma anche
gli atti aventi forza di legge e cioè i decreti-legge e i decreti legislativi. Anche le leggi regionali (e
provinciali per Trento e Bolzano) soddisfano il precetto dell’art. 23 Cost. La riserva di legge non impedisce
che in materia tributaria possano esservi fonti comunitarie. Il problema di conciliare le norme comunitarie in
materia tributaria con la riserva di legge nazionale posta dall’art. 23 riguarda in particolare i regolamenti
comunitari che sono direttamente applicabili. La Corte costituzionale ha affermato che, con l’adesione al
trattato CE, l’Italia ha operato una limitazione della propria sovranità pienamente legittimata dall’art. 11
Cost. il che comporta una deroga alle norme costituzionali sia in materia di potestà legislativa che in materia
di riserva di legge.
B) Le riserve di legge sono assolute se la disciplina di una determinata materia è rimessa solamente alla
legge; sono invece relative se la legge può limitarsi a disciplinare le linee fondamentali della materia,
rimettendone il completamento a norme di rango non legislativo. La riserva dell’art. 23Cost. è una riserva
relativa. È richiesta infatti soltanto una base legislativa. Ciò significa che non è necessario che la prestazione
imposta sia regolata interamente dalla legge ma la legge deve avere un contenuto minimo al di sotto del
quale la riserva non è rispettata.
In primo luogo va precisato che la riserva di legge non riguarda tutti i tipi di norme tributarie, ma solo quelle
di diritto sostanziale. Oggetto della riserva di legge sono solo le norme impositrici, le norme cioè che
definiscono i soggetti passivi, l’an e il quantum del tributo. Sono oggetto di riserva di legge anche le norme
che dispongono esenzioni o agevolazioni. L’art. 23 Cost. non riguarda perciò le norme sull’accertamento e
la riscossione.
In particolare, la legge deve fissare la base imponibile e l’aliquota. La Corte costituzionale reputa rispettato
l’art. 23 Cost. se la legge indica la misura massima dell’aliquota o fissa criteri idonei a delimitare la
discrezionalità dell’autorità amministrativa.
D’altra parte, in generale, quando sono in gioco i diritti individuali di libertà economica (art. 41 Cost.) , la
legge non può attribuire un potere all’esecutivo senza predeterminare criteri atti a guidarne e vincolarne la
discrezionalità.
Esso stabilisce dunque i principi generali della materia, ai quali sono tenuti ad uniformarsi, il legislatore,
l’interprete, l’Amministrazione finanziaria e il contribuente.
Lo Statuto del Contribuente cristallizza i fondamentali principi direttivi per il legislatore, per
l’interprete, per l’amministrazione, per il contribuente e per un equilibrato rapporto tra contribuente
e amministrazione.
N.B.: Le regole per il legislatore, non essendo “costituzionalizzate”, possono essere derogate (e sono di
fatto frequentemente derogate) da leggi successive.
c) Il diritto all’interpello
«Ciascun contribuente può inoltrare per iscritto all’amministrazione, che risponde entro centoventi giorni,
circostanziate e specifiche istanze di interpello …
La risposta dell’amministrazione finanziaria … vincola con esclusivo riferimento alla questione oggetto
dell’istanza di interpello, e limitatamente al richiedente …» (Art. 11)
d) Le garanzie in materia sanzionatoria
«Non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori, qualora egli si sia conformato a indicazioni
contenute in atti dell’amministrazione finanziaria …”
Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza.
Limitatamente alla questione oggetto dell’istanza di interpello, non possono essere irrogate sanzioni nei
confronti del contribuente che non abbia ricevuto risposta entro il termine …» (Art. 10, commi 2 e 3; Art.
11, comma 3)
APPUNTI: Processo verbale di imposizione: non può dare corso all'attività di accertamento e notificare il
provvedimento con il quale determinato il maggiore tributo dovuto se non è decorso il termine di 60 giorni.
Tali 60 giorni serve al contribuente per intervenire con l’Amministrazione. Se il termine non viene
rispettato, secondo la Cassazione a SS. UU., tutta l'attività di verifica e accertamento è nulla. Il sistema
tributario si basa su un sistema di decadenza.
I. IL COMUNE OBBLIGO DI BUONA FEDE nello STATUTO DEL CONTRIBUENTE
L’art. 10, primo comma, della l. 212/00 (Statuto del Contribuente) dispone che “i rapporti tra
contribuente e amministrazione finanziaria (FISCO) sono improntati al principio della collaborazione e
della buona fede”
Per il principio di buona fede, il diritto tributario deve superare e ripudiare tutti i comportamenti
formalistici e cavillosi, astuti e fraudolenti che spesso caratterizzano la prassi.
Il principio di “buona fede” – che introduce nel diritto tributario la regola fondamentale dei rapporti
giuridici privati elaborata dal diritto romano e dal diritto civile (principio di bona fides) – costituisce il
motivo ispiratore dello Statuto del contribuente e dell’intero sistema fiscale.
Il principio di buona fede vale:
- nella fase costitutiva del rapporto (le parti devono comportarsi secondo buona fede);
- nella fase esecutiva (le obbligazioni devono essere eseguiti secondo buona fede);
- nella fase interpretativa (gli atti devono essere interpretati in modo da realizzare un
contemperamento di interessi conforme a buona fede).
Il principio di buona fede riassume tutte le regole dettate dallo stesso Statuto in relazione ai rapporti tra
contribuente e fisco, quali:
Principio di collaborazione
È espresso dagli obblighi dell’amministrazione di informare il contribuente su fatti e circostanze cui possano
derivare dei crediti ecc.
Il principio di collaborazione si può vedere anche dal punto di vista del contribuente. Una forma di
applicazione è rappresentato dal “sostituto d’imposta”, cioè quelle ipotesi in cui determinati soggetti siano
obbligati di adempiere ad obblighi fiscali di un altro contribuente, in sostituzione ad esso.
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FONTI EUROPEE ED INTERNAZIONALI DEL DIRITTO TRIBUTARIO
Gli atti provenienti da altri ordinamento stanno assumendo nel diritto tributario una rilevanza crescente,
contribuendo a rendere sempre più complesso lo svolgimento delle relative operazioni di interpretazione ed
applicazione.
Per quanto riguarda il sistema delle fonti dell’ordinamento giuridico europeo, è noto che il processo di
integrazione e di unificazione europea è passato attraverso una serie di Trattati tra cui è opportuno ricordare,
oltre al Trattato istitutivo del 1957, l’Atto Unico Europeo del 1986, il Trattato di Maastricht del 1992, il
Trattato di Amsterdam del 1997 e il Trattato di Nizza del 2001. Ulteriormente, a Nizza fu approvata anche la
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Si è infine giunti al Trattato di Lisbona del 2007, entrato poi definitivamente in vigore a seguito della ratifica
da parte di tutti gli Stati membri, nel 2009, che ha approvato il TUE e il TFUE.
Le tappe fondamentali di questo processo di integrazione sono rappresentate dai Trattati di Roma, di
Maastricht e di Lisbona.
Le sue fasi sono costituite dalla realizzazione:
L’integrazione dei sistemi economici richiede e determina un processo di armonizzazione dei sistemi
legislativi degli Stati.
Il diritto tributario è particolarmente sensibile a questo processo di armonizzazione degli ordinamenti
giuridici degli Stati, perché il sistema della tassazione incide in maniera significativa sulle attività produttive
e commerciali, che costituiscono oggetto del processo di globalizzazione.
Per garantire un mercato effettivamente concorrenziale, fondato sul libero gioco della domanda e
dell’offerta, occorre eliminare – per quanto possibile – ogni restrizione che possa derivare da sistemi
impositivi che favoriscano od ostacolino la loro allocazione sul mercato non in ragione della loro qualità e
dei loro costi di produzione, ma in conseguenza del livello degli oneri fiscali gravanti su di essi.
La formazione di un mercato europeo di libero scambio richiede perciò un intenso processo di
armonizzazione delle legislazioni fiscali degli Stati membri.
In particolare, l’art. 288 TFUE, stabilisce su un piano generale che “per esercitare le competenze
dell’Unione, le istituzioni adottano regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri”, delineando
così le varie fonti del diritto europeo.
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CAPITOLO 9. I SOGGETTI PASSIVI
La solidarietà passiva nel diritto tributario.
Mentre non si ravvisa nel diritto tributario solidarietà attiva, vi sono situazioni giuridiche passive che
possono far capo ad una pluralità di soggetti. SI distingue tra solidarietà in senso sostanziale (riferita a
pagare il tributo) e in senso formale (obblighi strumentali del contribuente).
Per quanto attiene alla solidarietà in senso sostanziale, si distingue tra solidarietà paritetica e solidarietà
dipendente.
Tipica ipotesi di responsabilità solidale dipendente è quella del responsabile d’imposta, riconducibile
all’art. 64, co. 3, d.p.r. 600/1973, secondo cui “chi, in forza di disposizioni di legge, è obbligato al
pagamento dell’imposta insieme con altri, per fatti o situazioni esclusivamente riferibile a questi, ha diritto
di rivalsa”.
Esso viene coinvolto nel prelievo al fine di meglio assicurare il soddisfacimento della pretesa erariale, attraverso
l’ampliamento dei patrimoni escutibili, ma proprio in quanto svolge ope legis una funzione di garanzia è richiesto
un titolo giustificativo della prestazione. È possibile individuare alcune figure di responsabili d’imposta:
- I notai per l’imposta di registro,
- Il cessionario d’azienda, dei nuovi possessori di immobili per il pagamento di imposte, interessi e
sanzioni.
- I liquidatori per le imposte non assolte dalla società di capitali.
Vi è una responsabilità solidale dipendente che discende dalle stesse regole generali civilistiche, qual è la
responsabilità dei soci delle società semplici, delle società in nome collettivo e dei soci accomandatari
delle società in accomandita.
Per il responsabile d’imposta dovrebbe essere perseguita l’esigenza di traslare il carico tributario sul reale
titolare della capacità contributiva e, a tal fine, non è sufficiente attribuire ad esso un diritto di rivalsa.
Occorre che il soggetto sia in grado ex lege di assicurarsi preventivamente le somme, oppure che vi sia un
rapporto contrattuale tale da potersi premunire contro il rischio di rimanere inciso dal tributo.
Il diritto di rivalsa del coobbligato dipendente si esercita per l’intero anziché pro quota (come avviene invece
nella solidarietà paritetica).
Il diritto tributario è una disciplina che si avvale della collaborazione di altre discipline, come il diritto civile e
amministrativo, utilizzandone istituti e schemi.
In sostanza quindi, il tributo viene definito come un’obbligazione avente ad oggetto una prestazione di
regola pecuniaria, a titolo definitivo o a fondo perduto, nascente dalla legge, al verificarsi di un presupposto
di fatto che non ha natura di illecito.
Il “rapporto giuridico di imposta” può essere definito come un rapporto obbligatorio di diritto pubblico a
carattere patrimoniale disciplinato interamente in base alla legge.
Il rapporto giuridico di imposta può essere dunque inquadrato nell’ambito della categoria generale delle
obbligazioni disciplinata dal codice civile. (che include tra le fonti dell’obbligazione “ogni atto o fatto
idoneo a produrla in conformità dell’ordinamento giuridico”: art. 1173 c.c.)Essa ha carattere patrimoniale.
COME SI ESTINGUE?
Si distinguono:
• i c.d. tributi senza accertamento: ovvero quelli nei quali è assente la fase di accertamento in quanto il
concretarsi della fattispecie astratta prevista dalla norma impositiva determina direttamente la necessita’
di eseguire la prestazione da parte del soggetto passivo e in quanto all’esecuzione della prestazione
segue poi il controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria circa l’esatto adempimento
dell’obbligazione imposta.
• i c.d. tributi con accertamento: ovvero quelli nei quali è presente una fase di accertamento
Le regole dei procedimenti tributari non sono racchiuse in un testo organico ma in più testi. Valgono
innanzitutto, sia pure con alcune limitazioni, i principi e le regole dettate in generale per i procedimenti
amministrativi dalla legge 241/90. In secondo luogo si applicano le norme dello statuto dei diritti del
contribuente, approvato con l. 212/2000. In terzo luogo, regole procedimentali sono contenute in specifici
testi normativi, come il d.p.r. 600/73 in tema di accertamento delle imposte sui redditi; il d.p.r. 633/72 in
tema di accertamento dell’IVA; il d.p.r. 602/73 in tema di riscossione; il d.lgs. 472/97 in materia di sanzioni.
Il contribuente deve adempiere a degli obblighi (dichiarare e versare); il fisco deve controllare e, se del caso,
esercitare i suoi poteri autoritativi. La trama dei rapporti tra fisco e contribuente è però molto più ricca..
L’art. 1 di tale legge indica, come principi generali dell’azione amministrativa, i principi di economicità,
efficacia, pubblicità e trasparenza, richiamando inoltre i principi dell’ordinamento comunitario.
L’economicità impone alla pubblica amministrazione il dovere di fare adeguato uso delle risorse a sua
disposizione; l’efficacia impone un’azione idonea al conseguimento del risultato. Anche le agenzie fiscali
devono operare nel rispetto di tali principi, i quali esigono la realizzazione del massimo risultato con il minor
dispendio di risorse.
Trasparenza significa accessibilità agli atti e ai documenti del procedimento; non ha però rilievo in materia
fiscale, perché ai procedimenti tributari non si applicano né le norme sull’accesso né le norme sull’avvio del
procedimento e sulla partecipazione.
Tra i principi dell’ordinamento comunitario che possono interessare l’azione delle agenzie fiscali, sono da
ricordare il principio di imparzialità, il principio di partecipazione, l’obbligo di motivazione, il principio del
contraddittorio, la risarcibilità dei danni prodotti dall’amministrazione, il termine ragionevole nel quale le
pubbliche amministrazioni debbono pronunciarsi, il principio di proporzionalità, il principio di legittima
aspettativa.
B) Nel diritto amministrativo generale, i procedimenti sono disciplinati dalla legge 241/90 (legge generale
sui procedimenti amministrativi).
Vi sono però differenze non lievi tra disciplina dei procedimenti amministrativi e disciplina dei
procedimenti tributari.
Della legge generale sui procedimenti amministrativi infatti non si applicano ai procedimenti tributari né le
norme del capo terzo, in materia di partecipazione del cittadino al procedimento, né le norme del capo
quinto, in tema di accesso. Si applicano in materia tributaria il capo primo (ove sono enunciati i principi
generali), il capo secondo (che disciplina la figura del responsabile del procedimento), il capo quarto bis (in
tema di efficacia e invalidità dei provvedimenti amministrativi).
Il procedimento di imposizione inizia sempre d’ufficio sia quando la dichiarazione sia stata omessa sia
quando sia stata presentata. Con la dichiarazione, infatti, il contribuente non mira ad avviare un
procedimento, ma assolve un obbligo impostogli dalla legge.
Inoltre nel procedimento tributario d’imposizione non vi è una sequenza predeterminata di atti da porre in
essere prima dell’emanazione dell’atto finale; non esiste neppure un ordine necessario di atti istruttori. L’atto
di imposizione può essere un ordine necessario di atti istruttori. L’atto di imposizione può essere un atto
solitario vale a dire non preceduto da altri atti amministrativi: può scaturire ad esempio dal semplice esame
della dichiarazione, dal ricevimento di notizie di evasione o da altre fonti. Non è previsto in generale che vi
sia un contraddittorio con il contribuente; ai procedimenti tributari non si applicano le norme generali in
tema di partecipazione del cittadino al procedimento. Nel contraddittorio il contribuente può farsi assistere
da un procuratore generale o speciale o da un professionista. Il procedimento tributario di imposizione può
concludersi o con un avviso di accertamento o con un accertamento con adesione o anche senza
l’emanazione di alcun provvedimento.
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2. La dichiarazione costituisce la base per l’autoliquidazione del tributo ad opera del contribuente. Si
considera quindi “omessa” non solo quando la sua dichiarazione manchi del tutto, ma anche nel caso
in cui essa sia presentata oltre i 90 giorni dalla scadenza del termine utile. La dichiarazione è invece
affetta da nullità allorché essa non rechi la sottoscrizione del contribuente ovvero di colui che ne ha
la rappresentanza legale o negoziale, nonché ove essa non sia redatta su modelli conformi a quelli
approvati e resi disponibili dall’Amministrazione finanziaria (art. 1, d.p.r.322/1998). La
dichiarazione presentata oltre i 90 giorni pur considerandosi omessa ai fini della successiva fase di
accertamento, costituisce titolo per l’iscrizione a ruolo a titolo definitivo delle somme dovute.
3. La fase successiva alla presentazione della dichiarazione riguarda la sua liquidazione ed il suo
controllo di carattere formale; attività queste che, avendo ad oggetto la dichiarazione del
contribuente, non possono naturalmente essere svolte qualora questi ne abbia, legittimamente o
illegittimamente, omesso la presentazione. La liquidazione è prevista per le imposte sui redditi ed è
finalizzata a correggere esclusivamente gli errori materiali e di calcolo riguardanti i versamenti delle
imposte, la determinazione degli imponibili e comunque gli errori rilevabili direttamente dalla
dichiarazione. Tale attività di liquidazione ha carattere generalizzato, non richiede lo svolgimento di
alcuna attività di ricerca di informazioni da parte dell’Amministrazione finanziaria (fondandosi
esclusivamente sulle risultanze della dichiarazione o su dati già a disposizione della stessa
Amministrazione) e non prevede l’instaurazione di un contraddittorio con il contribuente, essendo
disposta solo una comunicazione dell’esito del controllo.
4. La quarta fase riguarda i c.d. controlli sostanziali, rivolti non già ad una mera correzione di errori
materiali o di calcoli commessi dal contribuente in sede di redazione della dichiarazione, quanto alla
negazione dell’intrinseca veridicità dei fatti esposti nella dichiarazione. Si tratta quindi della fase di
accertamento “in senso stretto” avente ad oggetto l’individuazione del presupposto di fatto posto
in essere dal contribuente e che si compone di un complesso di atti e fatti, legati in procedimento.
Potere di iniziativa del procedimento di accertamento spetta non solo agli organi
dell’Amministrazione finanziaria, ma anche alla Guardia di Finanza ex. art. 33 d.p.r. 600/1973. Si
tratta, dunque, di un procedimento ad iniziativa d’ufficio, non potendo ascrivere alla dichiarazione
una funzione di impulso procedimentale.
6. Al mancato adempimento entro il termine previsto (60 giorni dalla notifica) del debito recato dalla
cartella di pagamento ovvero dall’avviso di accertamento, fa seguito l’inizio dell’ espropriazione
forzata, cui provvede l’agente della riscossione. Tale fase trova la propria disciplina generale nelle
regole processualcivilistiche applicabili per l’esecuzione forzata tra privati; sebbene, la differenza
principale della riscossione esattoriale rispetto all’ordinario processo di esecuzione è costituito dal
ruolo dell'autorità giudiziaria: mentre il privato è tenuto a rivolgersi a questa per il compimento
dei diversi atti in cui consiste l’espropriazione forzata, l’agente della riscossione, quale soggetto che
opera a tutela di un interesse di natura pubblicistica, agisce direttamente, al di fuori dell’intervento
dell'autorità giudiziaria.
La partecipazione del contribuente al procedimento impositivo è finalizzata alla determinazione di un’obbligazione
tributaria, corrispondente alla reale capacità contributiva del soggetto passivo. Nell’ordinamento tributario non vi sono
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norme di carattere generale sulla partecipazione, ne viene sancito il diritto del contribuente al contraddittorio amministrativo .
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CAPITOLO 12. LA DICHIARAZIONE, LA SUA LIQUIDAZIONE E CONTROLLI
FORMALI.
Esistono altresì delle ipotesi in cui l'obbligo di presentazione della dichiarazione è posta in capo a soggetti
che non sono contribuenti: così, il sostituto d'imposta deve presentare ogni anno dichiarazione in cui è tenuto
ad elencare tutti soggetti nei cui confronti operato quale sostituto, l'ammontare dei redditi corrisposti, la
ritenuta operata per versamenti effettuati.
La dichiarazione dei redditi contiene anche la liquidazione dell'imposta dovuta in base imponibile dichiarato
all'imponibile dichiarato: si tratta della cosiddetta autoliquidazione autotassazione.
La dichiarazione può altresì contenere dati e notizie non è immediatamente rilevanti per la determinazione
delle imposte, ma utili ai fini dell'attività di accertamento attraverso quello che viene comunemente definito
come monitoraggio fiscale.
È importante constatare come il legislatore tributario, in tempi recenti, al fine di semplificare gli
adempimenti e stimolare l’assolvimento degli obblighi tributari a favorire e favorire l'emersione spontanea
di basi imponibili, ha introdotto la cosiddetta dichiarazione precompilata.
La fase successiva alla dichiarazione dei redditi, in relazione all’esigenza di un controllo immediato delle
dichiarazioni è stata risolta con l’introduzione della liquidazione e il controllo formale delle dichiarazioni.
con il d.p.r. 600/1973.
La liquidazione non è quindi finalizzata alla rettifica del reddito, bensì alla sola verifica dell’esattezza
numerica dei dati dichiarati. Se risulta che l’importo da versare in base alla stessa dichiarazione è inferiore a
quello autoliquidato dal contribuente e versato, non viene emesso un avviso di accertamento, ma si procede
direttamente alla riscossione della somma non versati.
Sulla base dei dati e degli elementi direttamente desumibili dalle dichiarazioni presentate e di quelli in
possesso dell’anagrafe tributaria, l’ufficio, entro il termine ordinatorio di inizio del periodo di presentazione
delle dichiarazioni relative all’anno successivo, provvede a:
a) correggere gli errori materiali e di calcolo commessi dai contribuenti nella determinazione degli
imponibili, delle imposte, dei contributi e dei premi;
b) correggere gli errori materiali commessi dai contribuenti nel riporto delle eccedenze delle imposte, dei
contributi e dei premi risultanti dalle precedenti dichiarazioni;
c) ridurre le detrazioni d’imposta
d) ridurre le deduzioni dal reddito
lezione può seguire il cosiddetto controllo formale delle dichiarazioni, A cui gli uffici dell'agenzia delle
entrate provvedono entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello di presentazione. Il controllo
formale non è automatico ma è svolto in base a criteri selettivi fissati dal ministero. Il controllo formale si
differenzia quindi dalla liquidazione perché non riguarda solo la dichiarazione ma anche i documenti che
devono corredarla.
In esito al controllo formali, gli uffici dopo aver invitato il contribuente a produrre documenti o fornire
chiarimenti:
a) escludono lo scomputo delle ritenute d’acconto non documentate;
b) escludono le detrazioni d’imposta non spettanti, anche in base a documenti eventualmente richiesti;
c) determinare i crediti d’imposta spettanti in base ai dati risultanti dalle dichiarazioni e ai documenti
richiesti ai contribuenti;
d) liquidano la maggiore imposta e i maggiori contributi dovuti sull’ammontare complessivo dei redditi
risultanti da più dichiarazioni o certificati, presentati per lo stesso anno dal medesimo contribuente;
e) correggono gli errori materiali e di calcolo contenuti nelle dichiarazioni dei sostituti d’imposta.
L’esito del controllo formale (cosi come l’esito della liquidazione) è comunicato al contribuente alla sostituto
d'imposta con l'indicazione dei motivi che hanno dato luogo alla rettifica degli imponibili o di altri dati
dichiarati.
Abbiamo dunque un doppio esame della dichiarazione (liquidazione automatica e controllo formale), ciascuno
dei quali ha come esito una comunicazione al contribuente.
I controlli in esame si concludono con l’invio al contribuente di un c.d. “avviso bonario”.
Qualora a seguito dell’avviso il contribuente o il sostituto di imposta rilevi eventuali dati o elementi non
considerati nella liquidazione dei tributi, lo stesso può fornire i chiarimenti necessari all’Amministrazione
finanziaria entro i 30 giorni successivi al ricevimento dell’avviso.
Entro tale termine, il contribuente, potrà tuttavia anche procedere al pagamento e in tal caso avrà accesso alle
sanzioni in misura ridotta.
Qualora l’ufficio non condivida le prospettazioni del contribuente o in mancanza di pagamento, la somma è
iscritta a ruolo.
I termini dell’attività di liquidazione e di controllo formale sono di carattere ordinatorio. Ai fini temporali,
dovranno far riferimento, ai termini per la notifica della cartella di pagamento, rispettivamente nel terzo e
quarto anno successivi a quello di presentazione della dichiarazione.
CAPITOLO 13. L’ATTIVITÀ ISTRUTTORIA
Decorsi i termini di legge per adempiere agli obblighi direttivi, può prendere avvio la fase di controllo da
parte dell'amministrazione finanziaria.
Tale controllo concerne tutti gli adempimenti formali e strumentali connessi rispetto al verificarsi del
presupposto o anche adesso svincolati; inoltre talvolta si risolve in attività meramente conoscitive finalizzate
solo ad una migliore percezione di quella stessa realtà economica da sottoporre a controllo.
In sintesi l'attività istruttoria va ben oltre l'emissione degli avvisi di accertamento.
Possiamo pertanto affermare che l'attività istruttoria dell'amministrazione natura conoscitiva in senso lato, in
quanto finalizzata a fornire all'erario tutte le conoscenze per svolgere le proprie attività, su tutte la
determinazione del presupposto d'imposta previa acquisizione di tutti gli elementi rilevanti.
Strumento fondamentale alle indagini finanziarie, sono le c.d. “indagini bancarie”, le quali possono essere
svolte in via amministrativa sia dalla Agenzia delle Entrate sia dalla Guardia di Finanza. La Corte
Costituzionale ha precisato dunque, che il dovere di riservatezza, connesso con il segreto bancario, non può
essere di ostacolo all’accertamento degli illeciti tributari. Ciò nonostante, le indagini bancarie sono
comunque soggette a vincoli e limiti.
L’avviso di accertamento si configura come l’atto finale attraverso il quale l’Amministrazione finanziaria
procede ad accertare le eventuali irregolarità emerse in sede di controllo c.d. “sostanziale”.
Il procedimento amministrativo di applicazione delle imposte sfocia dunque in un provvedimento impositivo
denominato “avviso di accertamento”.
Esso dunque, chiude la fase di controllo ed apre alla possibile fase contenziosa mediante l’impugnazione
dell’avviso stesso: tra le due fasi si collocano, tuttavia, gli strumenti c.d. “deflattivi” del contenzioso, che
vedremo successivamente.
Secondo la Corte costituzionale (313/1985), l’avviso di accertamento “deve intendersi come atto efficace
nei confronti del soggetto passivo di imposta, conclusivo di un procedimento o di un subprocedimento di
accertamento; di un procedimento, cioè, che accerta e dichiara la sussistenza, in tutto o in parte,
dell’obbligazione tributaria..”.
Si tratta comunque di un atto non necessario, che attiene alla fase patologica del rapporto di imposta e dal
quale gli uffici possono prescindere qualora il controllo sostanziale si concluda con la constatazione della
correttezza del comportamento del contribuente.
L’avviso di accertamento può avere contenuto “rettificativo” oppure “sostitutivo” dell’adempimento
spontaneo: nel primo caso, l’’accertamento (c.d. in rettifica) presuppone l’avvenuta alida presentazione di
una dichiarazione dei redditi da parte del contribuente; nel secondo caso, l’accertamento (c.d. d’ufficio)
presuppone, invece, l’omessa presentazione della dichiarazione da parte del contribuente o la presentazione
di una dichiarazione nulla.
La differenza sostanziale tra le due ipotesi consiste nel minor rigore probatorio richiesto nella seconda.
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L'agente della riscossione, sulla base dell'avviso di accertamento e senza la preventiva notifica della cartella
di pagamento, può ora direttamente procedere ad espropriazione forzata.
L'avviso di accertamento viene così accumulare una triplice natura e funzione:
1) atto impositivo
2) titolo esecutivo
3) precetto.
In base a tali segnalazioni l’ufficio può rettificare la dichiarazione accertando un reddito non dichiarato, il
maggior ammontare di un reddito parzialmente dichiarato e la non spettanza di deduzioni, esenzioni o
agevolazioni.
L’istituto dell’accertamento parziale svolge un ruolo significativo anche nel sistema dell’accertamento ai
fini IVA. Gli artt. 54-bis e ss. d.p.r. 633/1972 prevedono che qualora vi sia fondato pericolo per la
riscossione delle imposte, l’ufficio può procedere:
a) al controllo automatico della tempestiva effettuazione dei versamenti;
b) all’accertamento induttivo - extracontabile delle liquidazioni periodiche per la frazione di anno già
decorsa, indicando le ragioni del pericolo per la riscossione che giustificano l’anticipazione di tale tipo
di accertamento.
La caratteristica di tale forma di accertamento parziale è quella di essere effettuato prima della presentazione
della stessa dichiarazione IVA annuale, ovverosia di quell’atto che è di regola oggetto di accertamento. Di
conseguenza, l’accertamento parziale avrà ad oggetto non l’intero periodo d’imposta, ma solo una porzione
dello stesso. Tale parzialità si connota, quindi, per il fatto di riguardare solo una parte del periodo temporale
di riferimento.
L’avviso di accertamento integrativo invece, viene disciplinato dall’art. 43 d.p.r. 600/1973 e interviene
successivamente all’emanazione di un primo avviso di accertamento.
Si parla più esattamente di:
a) avviso di accertamento integrativo, se l’ufficio trova nuovi elementi che riguardino questioni non
considerate nel primo avviso.
b) avviso di accertamento modificativo, se l’ufficio rinviene nuovi elementi che riguardino questioni già
oggetto di un precedente avviso, mutandone tuttavia la qualificazione (ad es. reddito di impresa anziché
di lavoro autonomo) o la quantificazione (ad es. la percentuale di deducibilità diversa).
Tale accertamento, oltre a possedere i requisiti ex art. 42 d.p.r. 600/1973 dovrà, a pena di nullità, indicare
specificatamente i nuovi “elementi” dei quali l’ufficio è venuto a conoscenza, intendendosi come tali tutti
quei fatti o circostanze idonei a portare ad una contestazione a carico del contribuente.
CAPITOLO 16. L’AUTOTUTELA, GLI INTERPELLI E GLI STRUMENTI
DEFLATTIVI DEL CONTENZIOSO TRIBUTARIO
Dall'ultimo decennio del secolo scorso, il legislatore tributario, ha avviato un percorso teso ad introdurre
nell'ordinamento una serie di istituti che si caratterizzano il fatto che il contribuente, trovandosi in una
situazione di lite potenziale con gli uffici, versa subito (parzialmente o integralmente) l'imposta oggetto di
contestazione, rinunciando al contenzioso ed accendendo per l'effetto ad una serie di vantaggi.
Si tratta degli istituti che costituiscono espressione dei nuovi modelli dell'azione amministrativa in
materia tributaria improntata sempre più all'ampliamento degli istituti partecipativi, alla valorizzazione
delle forme di collaborazione tra fisco e contribuente e a forme di esercizio consensuale del potere
piuttosto che a manifestazioni collaterali ed autoritative della potestà pubblica.
Ad oggi il quadro degli strumenti c. d. “deflattivi” del contenzioso risulta così composto:
1. accertamento con adesione
2. acquiescenza
3. reclamo e mediazione
4. conciliazione giudiziale
5. adesione al processo verbale di constatazione
6. adesione al contenuto dell'invito al contraddittorio
(5 e 6 per i soli atti notificati fino al 31/12/2015)
Tali strumenti non presuppongono necessariamente il coinvolgimento del contribuente nella fase
procedimentale o processuale.
Quest'ultimo si verifica soltanto per gli istituti “bilaterali” (accertamento con adesione, reclamo e
conciliazione giudiziale) e non per quelli “unilaterali”, rimessi alla volontà del contribuente (acquiescenza).
Il concerto di istituti deflattivi può essere esteso anche alle altre occasioni di contatto tra
l'Amministrazione finanziaria ed i contribuenti (interpello ed autotutela) in cui si rinvengono delle
finalità di prevenire o eliminare il contenzioso.
Il ravvedimento operoso.
Attraverso di esso il contribuente, correggendo gli errori entro appositi termini, può ottenere una riduzione
delle sanzioni.
Il campo di applicazione di tale seduto è stato ampliato dalla L. 190/2014 che intende favorire nuove forme
di comunicazione collaborazione tra contribuente Agenzia delle entrate. Quest'ultima può rendere
disponibile al contribuente di elementi di informazioni di cui è in possesso, riferibili lo stesso contribuente,
affinché possa valutare con attenzione la propria posizione.
Oggi per i tribuni amministrati dall'agenzia delle entrate non opera più la preclusione, solo la notifica
dell'avviso di liquidazione o di accertamento impedisce il ravvedimento operoso.
L'essersi avvalsi del ravvedimento operoso non preclude in ogni caso l'inizio ho la prosecuzione di accessi,
ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di controllo accertamento.
Il pagamento della sanzione ridotta, deve essere eseguito contestualmente al pagamento del tributo e al
pagamento degli interessi moratori calcolati al tasso legale con maturazione giorno per giorno.
Il legislatore ha inoltre modificato i termini della notifica delle cartelle e per gli accertamenti in caso di
presentazione di dichiarazione integrativa, che quindi decorrono dalla data della presentazione della
dichiarazione stessa.
La natura degli istituti deflattivi del contenzioso tributario “in senso stretto”.
Gli istituti deflattivi del contenzioso tributario sono destinati ad operare nel caso in cui il contribuente,
trovandosi in una situazione di lite potenziale con gli uffici, rinuncia al contenzioso e versa l'imposta
determinata in contraddittorio con l'amministrazione, a fronte di una riduzione dell'entità delle sanzioni e di
altri vantaggi.
Tali istituti (in particolare l'accertamento con adesione e la conciliazione giudiziale), vanno posti in
relazione con il dogma dell'indisponibilità dell'obbligazione tributaria.
Questo principio si fonda sulla constatazione secondo cui l'individuazione delle fattispecie impositive, dei
soggetti obbligati al pagamento del suo ammontare sono regolati da disposizioni imperative, quindi
vincolanti sia dello Stato sia privati.
Commenta venditore della costituzione l'esistenza di indisponibilità dell'obbligazione tributaria stato desunto
da più principi:
1) riserva di legge (art.23 Cost.)
2) capacità contributiva (art. 53 Cost.)
3) imparzialità nell’azione della P.A. (art.97 Cost.)
Manca dunque un potere dispositivo, consistente nella facoltà di rinuncia, riflessione, transazione,
compromissione della rapporto d'imposta, che si ricollega alla natura vincolata e non discrezionale della
funzione impositiva, operando una preclusione relativamente quei poteri dispositivi che implicano
valutazioni comparative di elementi sostanziali direttamente incidenti sul quantum il tributo stesso, attuando
se l'esercizio dell'azione in conformità ai criteri fissati dall'amministrazione e non, come deve essere,
esclusivamente dalla legge.
Si pone quindi un problema di qualificazione giuridica di quelli studi deflattivi del contenzioso che
consentono agli uffici della amministrazione finanziaria di tornare sulle proprie valutazioni per sostituirle
con altre.
Nel diritto amministrativo la partecipazione del cittadino ai procedimenti amministrativi e la possibilità di
stipulare accordi trova i propri riferimenti normativi nella L. 241/1990.
L'applicazione delle relative disposizioni è esclusa per i procedimenti tributari.
Per cui le alternative che si pongono con riguardo all'individuazione della natura giuridica degli istituti in
esame sono le seguenti:
1) atto unilaterale della P. A. con l'assunzione dell’adesione del contribuente quale condicio iuris per la sua
efficacia.
2) contratto di transazione
3) accordo bilaterale non avente natura contrattuale
La determinazione del debito fiscale cui si perviene con l'accertamento con adesione è risultato voluto dalla
legge di una valutazione critica è concorde di soggetti non pariordinati, volto superare lo stato di
incertezza della controversia in una disporre liberamente del debito d’imposta.
Lo scopo delle parti resta quello di individuare consensualmente, motivandola adeguatamente, una
soluzione del contrasto interpretativo che sia conforme a disposizione di legge applicabili nella specie.
Queste considerazioni possono essere estese alla conciliazione giudiziale.
La disciplina della conciliazione, però, sembra riconoscere margine di apprezzamento ben più ampi e dunque
anche accordi che si pongono in un’ottica transattiva.
Riguardo al ruolo attribuito al giudice avanti il quale si procede alla conciliazione, a questi è attribuito
esclusivamente il potere di verificare le condizioni per l'esperimento dell’adesione. Ha un ruolo meramente
esterno che si limita al vaglio della sussistenza delle condizioni per conciliare e non alla legittimità ed
opportunità del contenuto dell'accordo. Tale ruolo è stato, inoltre, considerato legittimo dalla Corte
costituzionale.
Effetti penali: riduzione delle pene fino ad un terzo e non si applicano le pene accessorie se i debiti tributari
relativi ai fatti costitutivi dei delitti medesimi sono stati estinti mediante pagamento.
L’acquiescenza.
L’acquiescenza può essere definita come la rinuncia ad opporsi giudizialmente alla pretesa del Fisco e ad
avviare un procedimento di adesione da parte del contribuente.
Non vi sono limiti all’utilizzo di tale strumento, che è un atto unilaterale del contribuente che non prevede
istanze da presentare e si realizza con il semplice pagamento, entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso di
accertamento, degli importi indicati nell’atto stesso.
In particolare, ove il contribuente rinunzi ad impugnare l’avviso di accertamento o di liquidazione e
provveda a pagare le somme dovute, le sanzioni sono ridotte a un terzo.
Le somme dovute, in caso di acquiescenza, possono essere versate anche ratealmente, senza garanzie.
Il reclamo e la mediazione.
Tra gli istituti deflattivi del contenzioso tributario occorre annoverare anche il “reclamo” e la “mediazione”.
È stato dunque previsto che, per gli atti emessi dall’Agenzia delle entrate e notificati a partire dal 1 aprile
2012, riguardanti controversie di valore non superiore a € 20.000, chi intende proporre ricorso è tenuto
preliminarmente, a pena di improcedibilità dello stesso, a presentare reclamo presso la Direzione provinciale
ovvero regionale competente per territorio.
Il reclamo è volto all’annullamento totale o parziale dell’atto o finalizzato al componimento della
controversia tramite mediazione. Esso dovrà avere i contenuti previsti dall’art. 18, d.lgs 546/1992 per il
ricorso ed essere notificato entro 60 giorni dal ricevimento dell’atto che si intende impugnare.
L’obbligo di presentazione del reclamo viene accompagnato dalla facoltà in capo al proponente di inserire
nello stesso una motivata proposta di mediazione, completa della rideterminazione dell’ammontare della
pretesa.
Il reclamo/mediazione costituisce un rimedio amministrativo para-processuale che, a differenza degli altri
istituti deflattivi del contenzioso tributario, come l’autotutela e l’accertamento con adesione, ha carattere
generale e obbligatorio.
La conciliazione giudiziale.
La conciliazione giudiziale è un istituto deflattivo del contenzioso tributario, laddove ciascuna delle parti
del processo tributario può presentare idonea istanza e proporre all’altra la conciliazione totale o parziale
della controversia.
Quest’ultima può aver luogo solo davanti alla Commissione provinciale e non oltre la prima udienza, nella
quale il tentativo di conciliazione può essere esperito d’ufficio anche dalla Commissione.
Secondo un’interpretazione letterale della norma, sembra possono essere oggetto di conciliazione tutte le
questioni pendenti avanti al giudice tributario. Sebbene, tale conclusione sembra essere suffragata da una
sostanziale continuità tra l'istituto in esame e l'accertamento con adesione.
Dal punto di vista procedurale, si distinguono due ipotesi di conciliazione:
1. Premesse.
L’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) costituisce, senza dubbio, il tributo di maggiore
importanza nell’ordinamento tributario italiano.
Per comprenderne la natura, è necessario richiamare le classificazioni delle imposte.
Anzitutto, le imposte possono essere classificate in dirette e indirette: le prime sono rivolte a colpire
manifestazioni dirette di capacita contributiva (reddito, patrimonio), le seconde invece, sono manifestazioni
indirette di capacita contributiva, vale a dire fatti economici indicatori dell’esistenza di ricchezza (scambi,
consumi ecc.).
È poi possibile distinguere le imposte sul reddito da quelle sul patrimonio: le imposte sul reddito colpiscono
il reddito, inteso come flusso di ricchezza pervenuto al soggetto in un determinato periodo di tempo; le
imposte sul patrimonio assoggettano ad imposizione, invece, il patrimonio mobiliare o immobiliare.
Un’ulteriore classificazione è quella tra imposte personali, che mirano a ricostruire la condizione reddituale
complessiva del contribuente, tenendo conto anche di circostanze personali o familiari, e imposte reali che
colpiscono singole manifestazioni di capacità contributiva e, quindi, il reddito oggettivamente considerato.
Da ultimo, sotto il profilo economico, le imposte possono essere classificate in (i) fisse, qualora stabilite in
base a parametri prestabiliti (peso, volume); (ii) proporzionali, quando l’aliquota media resta costante per
qualsiasi livello del reddito; (iii) progressive, quando l’aliquota media - intesa come rapporto tra imposta e
base imponibile - aumenta all’aumentare del reddito o del patrimonio e (iv) regressive, quando l’aliquota
media decresce all'aumentare del reddito o del patrimonio.
L’IRPEF è dunque, un tributo diretto, sul reddito, personale e progressivo, che rappresenta l’architrave del
sistema tributario italiano.
Assume grande importa in merito al contributo che fornisce al gettito erariale.
Oltre alla progressività, altro carattere fondamentale dell’IRPEF è la personalità, che si esprime attraverso
una determinazione quantitativa della base imponibile del tributo.
CAPITOLO 21. LE ALTRE CATEGORIE REDDITUALI
Inoltre, al fine di potersi qualificare come produttiva di reddito d’impresa, l'attività deve presentare il
carattere dell'economicità, in quanto sostenuta da entrate di natura corrispettiva e priva di ricavi o non
preordinata almeno a coprire i costi di produzione.
Viceversa, per la qualificazione di impresa ai fini fiscali non si richiede il perseguimento di un fine di lucro,
sia esso di carattere oggettivo ovvero soggettivo.
La qualificazione dell'attività quale produttiva di redditi d’impresa richiede, poi, che essa sia svolta “per
professione abituale”. L'abitualità implica la stabilità, la regolarità dell’iniziativa, il suo protrarsi nel tempo,
anche se non con rigorosa continuità.
Secondo la dottrina dominante, il requisito dell'abitualità comprende quello della professionalità ed assume
una funzione di discriminazione della categoria dei redditi d’impresa rispetto a quella dei redditi diversi cui
vengono ricondotti i redditi da attività commerciali esercitate in modo occasionale.
Ai sensi dell’art. 6, comma 3, sono considerati ulteriormente redditi d’impresa, i redditi delle società in
nome collettivo e in accomandati semplice, da qualsiasi fonte provengano e quale che sia l’oggetto sociale.
È controverso, invece, se la c.d “società tra professionisti” (c.d. “STP”) disciplinata dalla l. 183/2011
produca reddito di lavoro autonomo o reddito di impresa.
Le imprese a regime dei minimi e a regime forfetario non redigono il bilancio e conservano i documenti
rilevanti ai fini fiscali (es. fatture d'acquisto, schede carburante, ecc.) dai quali determinano il reddito
d'impresa (ricavi - costi).
Le imprese che gestiscono la contabilità in modalità semplificata non devono redigere obbligatoriamente il
bilancio annuale, ma determinano il reddito d'impresa dalla differenza tra i ricavi e i costi rilevabili
direttamente da un prospetto generale della situazione economica.
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Le imprese che, invece, gestiscono la contabilità nei modi ordinari devono redigere annualmente il bilancio
di esercizio, così come previsto dalle disposizioni del codice civile. Esso rappresenta la situazione
economica e patrimoniale dell’impresa alla data di redazione del bilancio stesso. In particolare è dalla
redazione del conto economico, composto dalla differenza tra ricavi e costi, che si determina il risultato di
esercizio rappresentato dall’utile o dalla perdita. Partendo dal risultato di bilancio si procede alla
redazione della
dichiarazione dei redditi, nonché alla determinazione dell’importo da assoggettare a tassazione. Si deve
pertanto procedere ad un riesame "in ottica fiscale" di tutte le valutazioni effettuate secondo le norme
civilistiche nel conto economico, operando così rettifiche di valore nei soli casi di divergenza tra regole
dettate dal codice civile e regole dettate dalla normativa fiscale. La corretta determinazione dell'imponibile
da assoggettare a tassazione avviene così apportando, al risultato del bilancio di esercizio (civilistico), le
variazioni in aumento o in diminuzione conseguenti all'applicazione delle norme fiscali contenute nel TUIR
(che sta come riferimento al Testo Unico delle Imposte sui redditi, che corrisponde al D.P.R. 917/86 e
successive modifiche).
In considerazione di quanto previsto dall’art.56 TUIR, che determina come le regole per la formazione del
reddito d’impresa (artt. 81-110 TUIR) per le società di capitali si applichino anche per le società in nome
collettivo ed accomandita semplice (fatte salve le regole specifiche per questo tipo di società individuate agli
artt. 55-66), ci soffermeremo nel prosieguo sulle caratteristiche principali che caratterizzano la
determinazione del reddito delle società di capitali.
Stabilito quanto sopra, le norme fiscali che agiscono sulla determinazione dell'imponibile d’impresa possono
essere raggruppate come segue:
• norme generali sui componenti del reddito d’impresa;
• norme generali sulle valutazioni;
• norme sui componenti positivi del reddito;
• norme sui componenti negativi del reddito;
• le valutazioni delle rimanenze e poste assimilate.
Il legislatore fiscale ha previsto, accanto a norme volte a disciplinare singoli componenti positivi e negativi
del reddito, norme intese a fornire regole generali per la determinazione del reddito imponibile. Queste
norme sono contenute nell’art. 109 del TUIR e riguardano: la competenza, l’imputazione al conto
economico e l’inerenza. Per questo valgono i 3 principi
• Il principio di inerenza.
Come poi definito dalla circolare 1/2008 della Guardia di Finanza, l’inerenza deve essere dimostrata sia dal
punto di vista qualitativo che quantitativo:
• Qualitativo: è necessario dimostrare che i costi sostenuti sono direttamente imputabili all’attività
attraverso documenti che attestino, in maniera corretta e precisa, la loro inerenza. Ad esempio,
l’esplicita indicazione nella fattura che i costi sono sostenuti per un determinato progetto, cantiere o
lavorazione
• Quantitativo: in caso di verifica è necessario poter fornire indicazioni in merito all’ammontare del
costo sostenuto, ed alla sua congruità rispetto all’attività svolta e ai ricavi conseguiti. In particolare
nel caso in cui le spese sostenute siano sproporzionate rispetto ai ricavi, potrà sussistere la
possibilità che tali costi vengano ripresi a tassazione, salvo che il soggetto non sia in grado di
dimostrarne il motivo.
L’Amministrazione Finanziaria riconosce comunque che tale collegamento costi/ricavi può anche essere
adeguatamene provato con mezzi diversi dalle scritture contabili tradizionali, ma deve comunque risultare da
elementi certi e precisi.
Pertanto, una errata indicazione di elementi certi e precisi in documenti fiscalmente rilevanti, senza una
corretta dimostrazione da parte del contribuente del motivo per cui i costi sono sostenuti, fa venir meno
l’inerenza all’attività svolta ed ai relativi ricavi e, quindi, il riconoscimento della loro deducibilità fiscale.
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Sezione 2: Le altre categorie reddituali
• I redditi fondiari.
Venendo ai criteri di imputazione soggettivi, i redditi sono attribuiti al possessore a titolo di proprietà, enfiteusi,
usufrutto o altro diritto reale, per possesso si intende la nozione dell’art. 1140 c.c. stante il collegamento con
la res materiale dal quale al possessore gli deriva il reddito. (locazione e comodato non attribuiscono il
possesso, gli immobili dati in comodato danno luogo ad un reddito per il proprietario).
I redditi derivanti da terreni e i fabbricati possono dare luogo, a certe condizioni, anche a redditi di natura non
fondiaria, ed in particolare di lavoro autonomo, di impresa e diversi. Per quanto riguarda il rapporto con il
reddito di lavoro autonomo e di impresa dobbiamo distinguere varie ipotesi.
Per quanto riguarda i terreni, l’esercizio dell’agricoltura dà luogo a reddito d’impresa, e non a reddito fondiario
quando:
- nei casi in cui è svolto da società commerciali ovvero stabili organizzazione in Italia di soggetti non
residenti.
- nel caso delle attività indicate alle lettere b) e c) dell’art. 32, co. 2 TUIR viste sopra.
Per quanto riguarda gli immobili, non si considerano produttivi di reddito fondiario gli immobili relativi ad
imprese commerciali e quelli che costituiscono beni strumentali per l’esercizio di arti e professioni, che
costituiscono reddito di impresa e reddito di lavoro autonomo.
Non producono redditi fondiari, bensì di impresa, né gli “immobili di merce”, cioè quelli che costituiscono il
magazzino, né “i redditi derivanti dall’attività di sfruttamento di miniere, cave, saline laghi, stagni e altre
acque interne”.
Il sistema di determinazione del reddito prevede “valvole di sicurezza”. In primo luogo, è previsto che le tariffe
d’estimo siano sottoposte a revisione d’ufficio ovvero su richiesta del Comune interessato per
sopravvenuta variazione degli elementi determinanti. In secondo luogo, sono previste ipotesi in cui sia il
contribuente a denunciare eventi che comportino una variazione del reddito domenicale.
Inoltre sono previste ipotesi di inesistenza parziale o totale del reddito dominicale. Tuttavia, non tutti i redditi
fondiari sono determinati sulla base delle tariffe d’estimo, come nel caso dei fabbricati “a destinazione
speciale o particolare” (determinato mediante stima diretta), o nel caso dei “ fabbricati locati” in cui rileva il
reddito effettivo solo se sia superiore al reddito medio ordinario.
Il d.lgs. 23/2001 ha anche introdotto la c.d. cedolare secca sugli affitti, ovverosia un regime sostitutivo
opzionale di tassazione per gli immobili a destinazione abitativa consistente nella possibilità di assolvere
un’imposta sostitutiva dell’IRPEF pari al 21% del canone lordo percepito assorbendo peraltro questo
regime sostitutivo anche le addizionali, le imposte di registro e di bollo.
• I redditi di capitale.
La disciplina dei redditi di lavoro dipendente è contenuta negli artt. 49-52. Ai sensi dell’art. 49 “ sono redditi
di lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti aventi ad oggetto la prestazione di lavoro, con
qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri”.
La relativa definizione richiama gli elementi costitutivi della definizione di prestatore di lavoro art. 2094 c.c.
secondo cui è tale “chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio
lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”. I redditi della
categoria in esame sono quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro
subordinato.
Vi sono dei redditi equiparati e dei redditi assimilati.
- Si considerano redditi equiparati il lavoro a domicilio (quando è considerato lavoro dipendente
secondo le norme della legislazione sul lavoro) e le pensioni di ogni genere e gli assegni ad esse
equiparati, nonché le somme di cui all’art. 429, ultimo comma, c.p.c., ossia interessi e
rivalutazioni relativi a crediti di lavoro.
- I redditi assimilati invece sono una serie di redditi che vengono assimilati a quelli di lavoro
dipendente, pur non avendone tutti gli elementi caratteristici, sia per evitare ogni dubbio di
qualificazione, sia per evitare possibili elusioni. Tra tali ipotesi, rientrano le c.d. collaborazioni
coordinate e continuative, intese come quelle attività svolte senza vincolo di subordinazione a
favore di un determinato soggetto nel quadro di un rapporto unitario e continuativo senza impiego di
mezzi organizzati e con retribuzione periodica prestabilita.
• I redditi diversi.
Il regime amministrato è un regime cui il contribuente accede per opzione, allorquando abbia
immesso i titoli di cui è proprietario in un rapporto di custodia titoli amministrato da banche, Sim,
Sgr, società fiduciarie, poste italiane e agenti di cambio. Sul contribuente, quindi, non grava alcun
obbligo dichiarativo.
Il regime di risparmio gestito garantisce, allo stesso modo del risparmio amministrato, l’anonimato
del contribuente e comunque lo esonera da obblighi dichiarativi. In tal caso è affidato a intermediari
autorizzati l’incarico di gestire patrimoni non relativi all’impresa; detti soggetti provvedono a
tassare il reddito maturato per competenza nel corso del periodo d’imposta. Questo regime
differisce dai due precedenti in quanto consente di compensare redditi di capitale e redditi diversi
di natura finanziaria.
Il risultato di gestione è determinato quale differenza tra il valore del patrimonio gestito al termine di
ciascun anno solare ed il valore dello stesso all’inizio dell’anno solare (dunque al netto di minusvalenze,
perdite di capitale e spese).
Se in un anno il risultato della gestione è negativo, il corrispondente importo è comportato in diminuzione
del risultato della gestione dei periodi d’imposta successivi ma non oltre il quarto per l’intero importo che
trova capienza in essi.
Per i premi e le vincite si fa riferimento all’ammontare percepito, senza alcuna deduzione (così come per i
redditi di natura fondiaria), fermo restando, come detto, che tali redditi scontano meccanismi di tassazione
differenziata in funzione del gioco in cui sono realizzati.
Per gli altri redditi, sono talvolta previste delle deduzioni per i costi specificamente inerenti alla loro
produzione (come nel caso dei redditi di lavoro autonomo e di impresa derivanti da attività esercitate non
abitualmente) oppure deduzioni forfettarie (come nel caso dei redditi derivanti dallo sfruttamento dei diritti
d’autore da parte di terzi).
I redditi diversi sono tassati secondo il principio di cassa, con l’eccezione del regime del risparmio c.d.
gestito, in cui trova applicazione la tassazione del risultato maturato
PARTE 4: L’IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO
1) Una quota del gettito dell’IVA è destinata al finanziamento delle politiche comunitarie.
2) La sua interpretazione pregiudiziale è rimessa ad un giudice ad hoc (CGUE).
1) Consiste nell’assumere come imponibile il valore pieno dei corrispettivi praticati, ma solo nell’ultima
fase degli scambi (imposta monofase).
2) Consiste nell’assumere come imponibile il valore pieno dei corrispettivi praticati in ogni singolo
scambio (imposta plurifase cumulativa).
3) Consiste nell’applicare l’imposta ad ogni singolo scambio, ma solo sul valore aggiunto (imposta
plurifase sul valore aggiunto).
Prima dell’IVA nel nostro ordinamento vigeva l’IGE ( posta Generale sulle Entrate); che corrispondeva al
secondo modello e non possedeva il carattere né di trasparenza né di neutralità.
L’ IVA, invece, è un’imposta plurifase non cumulativa, applicata ad ogni fase del ciclo produttivo -
distributivo, ma solo sulla differenza tra l’imposta sulle operazioni attive e quella sugli acquisti ( metodo
di calcolo c.d. “da imposta a imposta”).
In tal modo l’ammontare dell’imposta complessivamente versata all’Erario è sempre identico, così il prelievo
si configura come neutrale.
Il meccanismo dell’IVA coinvolge tre soggetti: un fornitore, un cliente e l’Erario.
Il fornitore deve addebitare in via di rivalsa al cliente il tributo e, a sua volta, deve versarlo all’Erario, al
netto tributo da lui stesso corrisposto ai propri fornitori: l’IVA sui beni e servizi acquistati nell’esercizio di
imprese, arti o professioni, può essere a sua volta detratta dall’IVA sulle operazioni attive. Questo calcolo
(liquidazione del tributo) avviene non per singola operazione, ma per masse: con riferimento a tutte le
operazioni attive e passive effettuate in un determinato periodo.
L’IVA non può essere detratta dal consumatore finale, che si limita a pagare l’IVA sul valore pieno. Così
l’imposta colpisce il consumo finale, mostrandosi invece neutrale nei passaggi intermedi tra produttori,
commercianti e professionisti. In sostanza quindi, il peso dell’IVA grava sul consumatore finale.
Il meccanismo applicativo dell’imposta è, dunque, incentrato sulla neutralità, del tributo per i soggetti IVA
attraverso l’esercizio della rivalsa e il diritto alla detrazione.