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DIRITTO DEL LAVORO 1: INTRODUZIONE.

Il diritto del lavoro ha subito negli ultimi decenni una ipertrofia legislativa. L’ultimo
intervento legislativo, il cosiddetto “decreto dignità1”, risale al 9 agosto 2018. Soprattutto a partire
dagli anni 2000 il volto del diritto del lavoro si è modificato per via delle continue riforme che si
sono succedute. La legge Biagi2 del 2003. Il prof. Marco Biagi3 a cui si deve l’impianto della legge
aveva maturato l’idea che il mercato del lavoro avesse bisogno di riforme radicali in quanto era un
mercato che favoriva il dualismo, ossia favoriva chi già lavorava ed era tutelato mentre sfavoriva
chi era in cerca di lavoro in quanto era un mercato del lavoro bloccato da una grande rigidità per cui
c’era bisogno di maggiore flessibilità: regole meno rigide per il datore di lavoro che però
significava meno garanzie per il lavoratore. L’obiettivo era quello di favorire l’occupazione, di
combattere la piaga sociale della disoccupazione giovanile. Un’altra legge che ha segnato un passo
importante è stata la legge Fornero4 del 2012 che ha riformato tanti aspetti della disciplina del
rapporto di lavoro tra cui anche il sistema del licenziamento. E poi ancora il cosiddetto “Jobs Act” 5
del governo Renzi, una legge delega del 2014 dalla qual poi sono scaturiti otto decreti legislativi di
attuazione che hanno toccato tantissimi aspetti del diritto del lavoro. Di fronte a questo processo
riformatore si pone la domanda del perché ogni governo pone mano alla riforma del diritto del
lavoro. Questo accade perché il diritto del lavoro ha come tratto caratterizzante quello della
storicità, cioè è estremamente sensibile ai mutamenti del contesto socio-economico in quanto deve
adattarsi alle esigenze che di volta in volta si manifestano nei vari periodi storici, in particolare i
mutamenti del contesto socio-economico come la crisi economica o l’evoluzione tecnologica
incidono sui gli interessi in gioco e influenzano in modo determinante le tecniche regolative del
mondo del lavoro. Inoltre il diritto del lavoro è fortemente influenzato dalle scelte politiche adottate
dai governi che via via si susseguono: un governo di centrosinistra non opera le stesse scelte di
fondo che opera un governo di centro o di centrodestra. Il diritto del lavoro risente poi anche delle
scelte prese a livello europeo.
Tutti questi aspetti combinati tra loro non ci permettono di dire che nel diritto del lavoro le
leggi hanno una ratio unitaria, ci troviamo invece di fronte a provvedimenti normativi che oltre a
guardare alla protezione del lavoratore guardano anche alle esigenze del mercato. Soprattutto oggi il
diritto del lavoro è al centro di uno scontro tra le esigenze del mercato e il rispetto di diritti
fondamentali della persona. Il contratto di lavoro, infatti, è l’unico contratto di scambio in cui
l’oggetto di una delle prestazioni non è un bene ma è la prestazione di lavoro resa dal lavoratore ed
è l’unico contratto in cui l’implicazione della persona del lavoratore è rilevante e porta con se tutti i
valori tutelati dalla nostra costituzione: libertà, sicurezza, solidarietà. Ci troviamo, dunque, davanti
ad uno scontro tra pressioni economiche e rispetto dei diritti fondamentali del lavoratore, a cui
bisogna trovare una conciliazione. Le pressioni economiche sono effetti della globalizzazione. Ci

1
D.L. 12 luglio 2018 n.87 convertito con modificazioni dalla Lg 9 agosto 2018 n.96.
2
Lg delega 14 febbraio 2003 n. 30. In attuazione della norma venne emanato il D.lgs 10 settembre 2003, n. 276 entrato
in vigore il 24 ottobre 2003, che disciplinò gli aspetti della legge delega.
3
Marco Biagi (1950 – 2002) è stato un giuslavorista bolognese, assassinato da un commando di terroristi appartenenti
alle Nuove Brigate Rosse. L'omicidio avvenne un anno prima dell'approvazione della legge da lui promossa e indicata
comunemente con il suo nome, ispirata a una maggior flessibilità dei contratti di lavoro. Docente di diritto del lavoro in
diverse università italiane, a partire dagli anni novanta ricoprì numerosi incarichi governativi come consulente di diversi
ministeri.
4
Lg 28 giugno 2012, n. 92. “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”.
La legge fu proposta dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali Elsa Fornero durante il governo Monti.
5
Lg delega del 10 dicembre 2014, n. 183.
troviamo davanti ad un mercato globale in cui capitali, merci, imprese, persone che si muovono
liberamente ed in un tale mercato accadono due cose: 1) è fortissima la concorrenza al ribasso della
manodopera. La globalizzazione ha molte sfaccettature, alcune positive altre negative: è positivo
che stia sottraendo alla povertà milioni di persone perché porta un po’ di lavoro a chi non aveva
proprio nulla. Però dobbiamo anche capire che i prodotti realizzati, ad esempio, in Cina che il
consumatore acquista a prezzo inferiore rispetto ai prodotti realizzati in Italia costano di meno
perché realizzati da operai che in cambio hanno avuto retribuzione molto bassa. L’effetto della
globalizzazione in Italia, complice la crisi economica, fa sì che il prodotto cinese a basso costo
venga acquistato al posto di quello italiano che costa di più. A questo punto la piccola impresa
artigiana italiana deve chiudere in quanto non può reggere la sfida del prezzo in quanto il costo del
lavoro (stipendi, contributi e tasse) non gli permette di essere concorrenziale. Le grandi imprese,
invece, hanno approfittato della globalizzazione delocalizzando gran parte delle proprie attività,
cioè trasferendo le proprie fabbriche all’estero dove i costi di produzione (costo del lavoro, tasse,
costo dell’energia, ecc.) sono minori. E allora cosa tiene l’azienda in Italia: il “core desease”, cioè il
modo con cui si fa il prodotto laddove, ad esempio, in Albania si fanno i bottoni e si pagano un
cent., in Cecenia le fodere e le pago mezzo cent., ecc. e così opero questa delocalizzazione che mi
consente di gestire la mia impresa con la mia multinazionale. Un freno a questa delocalizzazione sta
cercando metterlo quest’ultimo governo che nel capo II del decreto Dignità, intitolato “Misure per il
contrasto alla delocalizzazione e la salvaguardia dei livelli occupazionali”, ha inserito una norma
che pone dei limiti alla delocalizzazione delle imprese che sono state beneficiarie di aiuti di stato 6:
“Fatti salvi i vincoli derivanti dai trattati internazionali, le imprese italiane ed estere, operanti nel
territorio nazionale, che abbiano beneficiato di un aiuto di Stato che prevede l'effettuazione di
investimenti produttivi ai fini dell'attribuzione del beneficio, decadono dal beneficio medesimo
qualora l’attività economica interessata dallo stesso o una sua parte venga delocalizzata in Stati non
appartenenti all'Unione europea, ad eccezione degli Stati aderenti allo Spazio economico europeo,
entro cinque anni dalla data di conclusione dell'iniziativa agevolata. In caso di decadenza,
l'amministrazione titolare della misura di aiuto, anche se priva di articolazioni periferiche, accerta e
irroga, secondo quanto previsto dalla legge 24 novembre 1981, n. 689, una sanzione amministrativa
pecuniaria consistente nel pagamento di una somma in misura da due a quattro volte l'importo
dell'aiuto fruito.” (D.L. 12 luglio 2018 n.87 convertito con modificazioni dalla Lg 9 agosto 2018
n.96, art. 5 comma 1).
Tutte queste riforme hanno scardinato aspetti importanti tradizionali del diritto del lavoro.
Fino a metà degli anni ‘80 la chiave di lettura del diritto del lavoro era esclusivamente assicurare
attraverso norme inderogabili la tutela del lavoratore. Il lavoratore quale contraente debole
all’interno di un rapporto in quanto subordinato al potere direttivo di altra persona doveva essere
destinatario di tutele, quindi, tutto il diritto del lavoro è nato e si è costruito con questo obbiettivo:
creare tutele che garantiscano il lavoratore come contraente debole del rapporto. A questo fine, oggi
se ne aggiunge, e qualche volta lo sopravanza, un altro: perseguire l’interesse generale
dell’economia, perché solo un economia che funziona, solo un’impresa che produce e riesce a
restare nel mercato è un’impresa che assume. L’idea di fondo è che per aumentare l’occupazione
bisogna stimolare l’impresa ad assumere e per raggiungere questo obbiettivo, già da qualche
decennio, ha inizio la stagione della flessibilità, spesso abusata. La flessibilità ha sicuramente una

6
Ad esempio la FIAT ha fatto una grande opera di localizzazione, una delle critiche fatta a questo processo è stata
proprio il fatto che la FIAT beneficiò per decenni di aiuti economici da parte del governo italiano e nonostante questo
ha delocalizzato i propri impianti produzione.
motivazione economica, garantire all’impresa la possibilità di rimanere nel mercato del lavoro ma
anche una funzione sociale: meno vincoli per l’imprenditore, la possibilità di licenziare più
facilmente un lavoratore improduttivo per avere più competitività nel mercato dovrebbe dare
all’impresa più capacità di mantenere i livelli occupazionali e di assumere nuovi lavoratori. In
concreto, la flessibilità può avere molteplici realizzazioni: si realizza, ad esempio, nel momento in
cui il legislatore comincia a prevedere una pluralità di contratti di lavoro. Originariamente l’unica
forma di contratto di lavoro previsto era quello a tempo pieno e indeterminato e questo rimane
sempre la forma principale, almeno in teoria. In pratica però non è sempre così: basta ricordare
l’uso (o l’abuso) infinito del contratto di lavoro a tempo determinato, soprattutto nel momento in cui
il precedente governo ha detto che poteva essere stipulato anche senza dover dichiarare la ragione di
tale scelta7. Col “Decreto dignità” tale possibilità è stata abrogata, per cui: “Il contratto (a termine)
può avere una durata superiore (ai 12 mesi), ma comunque non eccedente i ventiquattro mesi, solo
in presenza di almeno una delle seguenti condizioni: a) esigenze temporanee e oggettive, estranee
all'ordinaria attività, ovvero esigenze sostitutive di altri lavoratori; b) esigenze connesse a
incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.” (D.L. 12 luglio
2018 n.87 convertito con modificazioni dalla Lg 9 agosto 2018 n.96, art. 1 comma 1). L’uso dei
contratti a termini è stato giudicato dal governo Renzi un utilissimo strumento per incrementare
l’occupazione, tuttavia bisogna domandarsi quanti di tali contratti a termine siano stati convertiti in
contratti a tempo indeterminato. Chiaramente lo strumento del contratto a termine non solo è utile
ma probabilmente è anche giusto, purché, però, vi sia una prospettiva: entro con un contratto a
termine e se vado bene ho un’assunzione a tempo indeterminato. La precarietà a vita è contro i
principi sanciti dalla nostra Costituzione in quanto non consente di soddisfare nessuno dei diritti
fondamentali della persona come il diritto a crearsi una famiglia o a vivere un’esistenza libera e
dignitosa. Sulla base delle statistiche, sembrano, invece, più efficaci le politiche che puntano sugli
sgravi contributivi come incentivo all’occupazione. Sia il precedente governo che quello attuale
hanno operato la tecnica degli sgravi contributivi per le assunzioni di giovani: chi assume persone
sotto i 35 anni a tempo indeterminato ha diritto a sgravi contributivi. Nel 2015 per le assunzioni a
tempo indeterminato era previsto uno sgravio totale, nel 2016 lo sgravio è stato concesso solo per
due anni e per il 40% dei contributi: l’osservatorio dell’INPS ha registrato un calo delle assunzioni.
Anche il “Decreto dignità” prevede una misura dedicata allo sgravio contributivo: “Al fine di
promuovere l’occupazione giovanile stabile, ai datori di lavoro privato che negli anni 2019 e 2020
assumono lavoratori che non hanno compiuto il trentacinquesimo anno di età, cui si applicano le
disposizioni in materia di contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a tutele crescenti di
cui al decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, è riconosciuto, per un periodo massimo di trentasei
mesi, l'esonero dal versamento del 50 per cento dei complessivi contributi previdenziali a carico del
datore di lavoro, con esclusione dei premi e contributi dovuti all'Istituto nazionale per
l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, nel limite massimo di 3.000 euro su base annua,
riparametrato e applicato su base mensile” (Lg 96/2018, art. 1 bis comma 1). Sebbene bisogna
tenere presente le necessità economiche bisogna comunque ricordare che devono essere
salvaguardati i diritti dei lavoratori. Il diritto del lavoro continuerà ad esistere nei prossimi decenni
solo se mantiene, pur con mutati equilibri, il motivo per cui è nato: correggere il mercato a tutela
della persona. Il diritto del lavoro può continuare ad esistere perché bisogna prevedere strumenti
che compensino le minori tutele del rapporto di lavoro con altri strumenti che aiutino il lavoratore
ad inserirsi nel mercato del lavoro, a riqualificarsi, a ricollocarsi.
7
D Lgs 81/2015, art. 19.
Una delle idee di fondo trasmesse a partire dal 2012 in poi è che la difficoltà di licenziare
incoraggia l’impresa a ricorrere ai contratti a termine. Però non risultano dati che confortino questa
idea. Un’impresa assume se ha bisogno di personale e può licenziare il lavoratore che non fa il suo
dovere. Quello che non può fare è licenziare ingiustamente. Le norme ultime, però, hanno inciso
molto su questo discorso: la reintegrazione per ingiusto licenziamento è stata molto limitata è
sostituita da un’indennità limitatissima8.

8
La Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’articolo 3, comma 1, del Decreto legislativo n.23/2015 sul contratto
di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nella parte – non modificata dal successivo Decreto legge n.87/2018,
cosiddetto “Decreto dignità” – che determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente
licenziato. In particolare, la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore
è, secondo la Corte, contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del
lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione. Nel Jobs act si stabiliva come calcolare le indennità in caso di
licenziamento illegittimo: "Il giudice (...) condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a
contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a
ventiquattro mensilità" (D lgs 23/2015, art. 3 comma 1). In pratica, per il lavoratore licenziato in maniera ingiusta il
Jobs act aveva previsto un risarcimento di due mesi di stipendio per ogni anno di anzianità di servizio.

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