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Volontariato e mutua solidarietà

150 anni di previdenza in Italia


Convegno di Studi
Firenze, Palazzo Vecchio
26 novembre 2010

La previdenza tra interventismo statale e iniziativa privata*


Gianni Silei

Nell‟ambito del recente dibattito sulla riforma del welfare e sulla necessità di conciliare
le esigenze di maggiore rigore nei bilanci pubblici con il mantenimento (in particolare per
i soggetti più deboli) di un‟adeguata protezione sociale, il leader del partito conservatore,
e attualmente primo ministro britannico, David Cameron si è fatto promotore del
cosiddetto conservatorismo progressista.

Quella che ha in mente Cameron, per usare le sue stesse parole è

una società in cui la principale leva per il progresso è la responsabilità sociale di tutti, non il controllo
dello Stato. [Big Society] Significa rompere il monopolio statale, permettere alle associazioni di
beneficenza, alle imprese private, alle organizzazioni non governative, di fornire servizi pubblici.
Significa una devolution del potere ai quartieri, ma anche un modo di verificare meglio le promesse del
governo.

In concreto, la Big Society di Cameron – che alcuni osservatori poco attenti hanno
salutato come una novità o addirittura come una sorta di contaminazione nei tories delle
idee sociali del partito laburista, dimenticando la secolare tradizione del riformismo
conservatore (penso, solo per fare un nome, a Disraeli) – la Big Society, dicevo, punta a
riequilibrare il rapporto tra pubblico e privato cercando una razionalizzazione dei servizi
in nome dell‟efficienza e del risparmio. Cameron propone insomma una sorta di welfare
selettivo che punterebbe a sostenere con le risorse pubbliche coloro che non possono
permettersi certe prestazioni lasciando quelli che invece hanno la possibilità di pagarsele
(a cominciare dai ceti medi), l‟onere di promuovere e rivolgersi a forme di welfare
associativo.

Una novità? Forse. Eppure, a ben guardare, questo approccio presenta molte analogie,
perlomeno sul piano dei principi ispiratori, con quella particolare concezione della
protezione sociale che, tra la fine dell‟Ottocento e i primi del Novecento, precedette (nel
Regno Unito dei governi Lib-Lab ma anche in altre realtà più avanzate del continente
*Testo dell’intervento presentato al convegno privo di note e di riferimenti bibliografici. 1
Da non citare senza il consenso dell’autore.
europeo) l‟avvento della stagione della sicurezza sociale e poi del welfare state. Una visione
che aveva ormai accettato la necessità da parte dello Stato di occuparsi della tutela dei
ceti meno abbienti (sanzionata qualche tempo prima dalla legislazione bismarckiana) ma
che per altri settori della società – classe operaia compresa – continuava a promuovere,
equiparandole ad una sorta di educazione al risparmio, forme autonome di carattere
mutualistico. Quella proposta da Cameron sembrerebbe allora una rivisitazione (per certi
versi obbligata data la crisi economica e il grave stato delle casse pubbliche oltrettutto di
un paese di consolidata tradizione welfarista) del vecchio self-help ottocentesco. Condita, a
quanto lascerebbero capire certe anticipazioni, con alcuni provvedimenti di
redistribuzione del reddito (che per quanto timidi hanno infatti già messo in allarme
molti ambienti dello stesso schieramento Tory).

Per lungo tempo, tracciare un quadro dell‟evoluzione dei complessi e sovente


contrastati rapporti tra Stato e mercato in un‟ottica di lungo periodo e usando le
politiche di protezione sociale come ipotetica cartina di tornasole, ha significato parlare
della progressiva ed inarrestabile affermazione di un ruolo crescente, anzi preminente del
settore pubblico. Almeno fino alla crisi del welfare state, iniziata a metà degli anni ‟70 del
Novecento, insomma, il percorso che aveva portato all‟affermazione dell‟idea di
cittadinanza a scapito di quella di comunità poteva tranquillamente esser definito come una
sorta di «viaggio senza ritorno». E in questo ambito, per quanto «frutto materiale e
teorico della modernità», la società civile, intesa come «corpo indipendente dallo stato»,
veniva considerata come residuale in rapporto ad esso.

L‟espansione della regolazione pubblica nel campo della protezione sociale sia una
conquista relativamente recente. Sul piano dei provvedimenti concreti questa svolta in
direzione di uno stato interventista in campo sociale è individuabile con la nascita del
moderno Stato sociale, convenzionalmente fatta coincidere con la legislazione
bismarckiana degli anni Ottanta del XIX secolo. Essa viene fatta poi proseguire con le
assicurazioni sociali di inizio secolo, la legislazione del primo dopoguerra e poi quella in
risposta agli effetti della crisi del ‟29, fino all‟affermarsi dei principi della social security e del
welfare state con il secondo dopoguerra.

Questo sul piano concreto. Sul piano ideologico, essa può invece essere individuata in
quella fase in cui il principio «dell‟astensione del governo rispetto alle questioni
economiche e sociali», che la cultura liberale aveva fino a quel momento teorizzato e
difeso, cominciò ad essere messo in discussione. Questa svolta, frutto dell‟emergere
della questione operaia andò concretizzandosi a metà Ottocento. Dopo lo spartiacque
del 1848. È in questa fase, come ha scritto Claudio De Boni, che «il problema
dell‟intervento o meno da parte dello Stato nelle questioni sociali si colloca
progressivamente sotto una nuova luce». «Se nella prima parte del secolo il problema era
ancora in prevalenza costituito dai modi con i quali affrontare la povertà [intesa,
aggiungerei, come pauperismo cioè nella sua espressione preindustriale] nella seconda le

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ipotesi riguardanti l‟eventuale ruolo sociale del potere politico ha ormai come oggetto
centrale il proletariato».

Non è un caso che siano questi gli anni in cui, sia pure sempre all‟interno di un
contesto che distingueva l‟assistenza ai poveri (anzi la beneficenza pubblica, come veniva
chiamata), cioè l‟azione delle istituzioni private a carattere volontaristico, dalla carità
legale, ovvero l‟azione diretta dello Stato, alle Opere Pie – enti morali con tipologie
diversissime ma comunque emanazione della Chiesa cattolica sin dall‟età della
Controriforma – si andarono affiancando le Società di Mutuo Soccorso, istituti laici,
imperniati sul principio del reciproco aiuto che si autofinanziavano attraverso il
versamento di quote fornendo ai soci la copertura contro alcuni tra i principali rischi
della nascente società industriale (malattia, infortuni, invalidità, disoccupazione,
vecchiaia, morte).

Anche se quella «dell‟intervento dello Stato italiano sulle Opere Pie e del passaggio
dalla beneficenza „privata‟ all‟assistenza pubblica», in parte attende ancora di essere
scritta, si può in questa sede evidenziare come per lungo tempo, e come del resto
disciplinava la legge piemontese Rattazzi del 1859 estesa poi a tutto il Regno, valse la
regola che imponeva una «rigorosa astensione dei poteri pubblici» da iniziative in campo
assistenziale e, ancor, più in ambito previdenziale. Nessuna deroga ad una visione
residuale dell‟azione dello Stato nell‟ambito dell‟assistenza e ancor più della previdenza,
dunque. Potremmo anzi dire che gli sforzi maggiori dello Stato sembrarono indirizzarsi a
lungo tempo (dalla Grande Legge del 1862 fino alle disposizioni crispine ma volendo
fino alla stessa prima legislazione fascista) unicamente per stabilire il controllo pubblico
delle risorse finanziarie (in alcuni casi ingenti) di cui le Opere Pie (e dunque la Chiesa)
disponevano.

All‟indomani dell‟introduzione delle leggi bismarckiane, il sistema italiano di


protezione sociale seguì linee di sviluppo per molti versi analoghe a quelle di altre realtà
continentali, uniformandosi progressivamente a quello che – impropriamente ma
efficacemente – potremmo definire il «modello tedesco». Dico impropriamente perché a
ben guardare molti degli schemi assicurativi su base nazionale introdotti in questa fase si
rifacevano a quelli tedeschi più sul piano dell‟ispirazione generale che su quello dei
contenuti, non fosse altro che per il fatto che essi, a differenza di quanto stabilito nella
legislazione bismarckiana, mantennero per lungo tempo un carattere volontaristico.

Anche il Regno d‟Italia «scelse [dunque] un intervento molto meno radicale e


generalizzato di quello bismarckiano» puntando inizialmente sull‟adesione volontaristica
agli schemi assicurativi: ad esempio, la legge che stabiliva l‟assicurazione obbligatoria
contro gli infortuni è del 1898, quella contro la vecchiaia è del 1919. Assumendo come
importanti date periodizzanti la svolta degli anni Ottanta, il rilancio avvenuto in epoca
crispina e in concomitanza della crisi di fine secolo e poi l‟attivismo riformatore dell‟età
giolittiana potremmo allora sintetizzare dicendo che «i protagonisti dello Stato sociale nei
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primi cinquant‟anni unitari furono da un lato gli enti locali (comuni e province) e
dall‟altro le istituzioni private (Opere pie e Società di mutuo soccorso)» in un contesto
nel quale, giova ripeterlo, il livello di copertura, i flussi di spesa e soprattutto il ruolo
dello Stato erano ridotti al minimo.

È importante sottolineare come il ruolo ancora marginale dello Stato in questo ambito
si spieghi non soltanto sotto il profilo – per così dire – di precise scelte culturali e
ideologiche [su tutte l‟adesione ai principi del laissez-faire] ma anche per via
dell‟importanza proprio di quelle istituzioni a carattere volontaristico e di natura privata
che tradizionalmente operavano nell‟ambito della protezione sociale. Si è detto delle
Opere pie, del loro peso finanziario e dell‟acceso confronto che le oppose allo Stato
liberale. Anche le Società di mutuo soccorso, per motivazioni differenti, più volte
difesero strenuamente la loro autonomia dallo Stato (opponendosi per esempio al
riconoscimento giuridico). Un ruolo centrale, il loro, almeno fino al primo dopoguerra,
che contribuisce anche a spiegare la lentezza con la quale nel nostro paese si passò dalle
forme assicurative volontaristiche a quelle obbligatorie.

Restando all‟aspetto meramente previdenziale, c‟è un però un altro elemento. La legge


15 aprile 1886 n. 3818, cioè quella – tanto avversata – che introduceva la costituzione
legale delle Società di Mutuo Soccorso, individuava proprio nello Stato il soggetto
principale nelle questioni previdenziali. Così, se si vanno a guardare le voci di spesa del
mutuo soccorso e le percentuali delle somme erogate per quelle che noi oggi
chiameremmo pensioni, la sostanziale residualità del mutualismo, almeno in questo
ambito, emerge in tutta chiarezza. Insomma, il mutualismo italiano, come ammise Carlo
Ferraris in una relazione al Consiglio della Previdenza del 1897, se era stato un successo
in ambiti importanti come quello dell‟assistenza malattie «raramente – cito – [poté]
guarentire le pensioni di vecchiaia» (peraltro molto esigue) e ciò per via soprattutto di
quelli che lui definiva «non pochi difetti intrinseci di organizzazione». Alcune SMS,
affermava, «sono costituite in modo da abbracciare operai di diverse industrie e quindi
con condizioni diverse rispetto al pericolo […] di maggiore o minor precocità della
vecchiaia o almeno di incapacità al lavoro per età». Altre, proseguiva «hanno un carattere
puramente locale, di guisaché l‟operaio, per goderne benefizi, deve sempre restare nella
stessa località, cosa che non gli permette di recarsi liberamente dove lo chiamano le
condizioni del lavoro. Altre infine sono costituite per rami di industria e così l‟operaio vi
perde i diritti acquisiti al soccorso se passa ad un altro ramo, dove deve ricominciare
l‟assicurazione in altra società».

Partendo da queste premesse possiamo affermare che il processo di modernizzazione


degli schemi previdenziali occupazionali introdotti sulla scia della legislazione
bismarckiana, avvenuto in Italia nel corso del primo Novecento, si realizzò in modo
incompleto e in ogni caso a tutto vantaggio del ruolo dello Stato. E questo per una serie
di motivi, alcuni di natura politica, altri di natura strutturale.

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Sul piano politico pesò ad esempio l‟incompiutezza del progetto riformatore
giolittiano, dovuta non tanto alla mancanza di proposte innovative (l‟età giolittiana,
diversamente da quanto sostiene una certa vulgata fu una straordinaria palestra di idee e
mise in evidenza l‟eccellenza del livello del dibattito e delle proposte attorno alle
questioni sociali) quanto semmai, tra le altre cose, all‟altalenante rapporto con la
componente socialista, a sua volta divisa tra un socialismo riformista estremamente
avanzato sul piano dei progetti e una componente massimalista pregiudizialmente ostile
al dialogo con i liberali.
Sul piano strutturale incise invece il mancato, definitivo decollo delle organizzazioni
mutualistiche, dovuto a contraddizioni e limiti nel contempo organizzativi e politico-
stratregiche.

Lo slancio riformatore della breve ma feconda stagione nittiana confermò la via


decisamente statalista imboccata dal sistema previdenziale italiano, una strada che il
fascismo avrebbe fatta propria sia nella stagione della continuità con le politiche liberali
sia, dopo la crisi del ‟29, quando decise di fare dei grandi enti nazionali, l‟Istituto
Nazionale Fascista per la Previdenza Sociale in primis, il cardine delle politiche
pensionistiche nazionali. Il fascismo confermò dunque la tendenza già in atto a
considerare preminente il ruolo dello stato in campo previdenziale. Ciò non significa che
il regime, che pure nel 1924 aveva optato per lo scioglimento degli antichi sodalizi
mutualistici, troppo legati alle organizzazioni del movimento operaio, non riconoscesse
l‟importanza strategica di questa rete associativa. Per quanto riaffermato, il ruolo centrale
dello Stato manteneva una ambiguità di fondo che risiedeva, nonostante l‟espresso
richiamo al «principio di collaborazione» contenuto nella Carta del Lavoro del 1927 nel
carattere frammentario e particolaristico del sistema. Le isole di privilegio non solo
furono mantenute ma la istituzionalizzazione del sistema significò per il mutualismo in
molti casi una ulteriore burocratizzazione e una definitiva perdita di autonomia nei
confronti della politica (ancorché nelle vesti del PNF e dei suoi gerarchi).

Nonostante i tentativi di riforma (andati falliti), il secondo dopoguerra non modificò


infatti questo stato di cose che, di fatto, rimase inalterato fino agli anni Settanta del
Novecento. E anche a questo proposito occorre precisare tuttavia come i cambiamenti
più rilevanti pure avviati proprio durante quella stagione riguardassero non tanto il
sistema previdenziale quanto i settori dell‟assistenza e della sanità (quelli che, dalla legge
ospedaliera del 1968 fino alla nascita del Sistema Sanitario Nazionale dieci anni più tardi,
furono oggetto dei più importanti e sostanziali interventi riformatori).

Sul piano previdenziale le cose cambiarono giocoforza quando, all‟inizio degli anni
Novanta, il sistema pensionistico italiano si trovò in una situazione di gravissima impasse.
Si andò così facendo strada l‟idea di una previdenza pubblica come prestazione che
dovesse garantire solo una protezione di base. Da quel momento, l‟iniziativa privata è
stata conseguentemente vista sempre più come un possibile valido strumento di
integrazione per pensioni che, per effetto del progressivo passaggio dei nostri schemi
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pensionistici da un sistema retributivo ad uno di tipo contributivo, avranno un importo
assai inferiore rispetto a quelle erogate sulla base dei precedenti schemi. È in questa fase,
dunque, che emerge il dibattito sulle pensioni complementari. In questo ambito,
escludendo il Codice civile (rispettivamente agli articoli 2117, 2123 e 2645) gli unici
riferimenti normativi, peraltro assai generici, sono stati a lungo l‟articolo 38 della
Costituzione – con il suo richiamo, nell‟ultimo comma, alla possibilità di far coesistere
con l‟assistenza pubblica un‟assistenza di natura privatistica, cioè composta da enti e
soggetti quali gli istituti di patronato ed assistenza, le associazioni di volontariato o le
cooperative per la gestione di servizi sociali – e gli articoli 11 e 12 dello Statuto dei
lavoratori. Dopo la legge di riforma della previdenza sociale del 23 ottobre 1992 (la n.
421), la previdenza complementare nasce quindi con il decreto legislativo del 21 aprile
1993 n. 124, viene rilanciata dalla riforma Dini del 1995 e, sulla base anche delle
sollecitazioni delle istituzioni comunitarie (penso ad esempio al Libro Verde del 10
giugno 1997), viene ulteriormente disciplinata dalla legge 23 agosto 2004, n. 243 e
soprattutto dal decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252. Un decollo assai lento e
faticoso.

Sulla base di queste brevi considerazioni, e tornando ai temi da cui siamo partiti,
possiamo allora parlare di un ritorno al mutualismo delle origini?

Guardando alcuni dei principi ispiratori della previdenza complementare parrebbero


proprio si stia andando in questa indicazione: l‟autonomia organizzativa e funzionale (le
SMS erano gestite direttamente dai rappresentanti dei lavoratori); l‟autofinanziamento
(cioè il versamento delle quote associative da parte degli iscritti senza il concorso dello
stato); l‟automaticità delle prestazioni in ragione dei contributi versati e, infine ma non
ultima, la volontarietà che è l‟aspetto caratterizzante proprio della previdenza sociale
delle origini.

Il fatto che in Italia, in misura maggiore che in altre realtà, il cosiddetto «terzo settore»
(che ha assunto le caratteristiche nuove e moderne che oggi gli vengono riconosciute
proprio a partire dalla svolta degli anni Settanta, affinandole poi decenni successivi) si sia
sviluppato non tanto in alternativa allo stato sociale quanto semmai con funzioni
complementari ad esso, ha indotto molti osservatori a ritenere che il nostro paese
potesse costituire una valida palestra dove sperimentare forme di welfare mix cioè quella
commistione/integrazione tra sociale pubblico e privato che per molti appare come una
delle poche ragionevoli via d‟uscita alla insostenibilità finanziaria del welfare state
universalistico edificato in Europa occidentale tra il 1945 e gli anni Settanta.

Il futuro sta dunque nella formula meno Stato, più mercato e più self-help o, per dirla
con Cameron, nella Big Society?

Recentemente chiamato a dare un suo parere proprio sul dibattito attorno alla Big
Society Maurizio Ferrera ha ammonito che
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per essere efficace, la delega di poteri e responsabilità alla società civile presuppone […] tre condizioni
che gli inglesi danno per scontate, ma che tali non sono in altri Paesi, soprattutto nel nostro. La prima
condizione è la disponibilità di una cultura politica e di un capitale sociale caratterizzati da elevato
«civismo»: diffuso rispetto delle regole, fiducia intersoggettiva, attivismo associativo e così via. La seconda
condizione è la presenza di organizzazioni intermedie orientate alla risoluzione dei problemi collettivi e
non solo interessate alla «cattura» di vantaggi corporativi. La terza condizione è la presenza di uno
Stato efficiente e «capacitatore». La creazione di una società civile ben funzionante non dipende (solo) da
scelte filosofico-antropologiche sulla natura delle persone e della società, ma da un’agenda puntuale di
riforme istituzionali che deve essere elaborata e attuata dal governo.

Insomma, ammesso che essa sia davvero il futuro del welfare state, la “Grande Società”,
non si costruisce semplicemente evocandola.

Insomma: c‟è da lavorarci su.

Di fronte ai problemi di una società che - per effetto dell‟aumento delle aspettative di
vita dei cittadini (l‟Istat ha recentemente diffuso dei dati estremamente significativi al
riguardo) – nei prossimi venti trent‟anni porrà in misura ancora più marcata la questione
delle pensioni di anzianità; di fronte all‟enorme punto interrogativo rappresentato
dall‟ammontare esiguo o addirittura quasi nullo delle pensioni delle generazioni che –
pensiamo ai lavoratori a progetto – si sono affacciate e si affacciano adesso sul mercato
del lavoro, esperti, tecnici e classe dirigente saranno obbligati a modificare l‟impianto di
un sistema welfare che è ancora in larga parte quello che è stato concepito e costruito per
economie, rischi e bisogni sociali del secolo scorso e che nel nostro caso si caratterizza
ancora per l‟elevato particolarismo, per il clientelismo e per il suo marcato dualismo.

Al di là delle scelte contingenti che si deciderà di intraprendere – Stato, Mercato,


welfare mix o altre formule – sarà però importante che non si perdano innanzitutto di
vista alcuni principi cardine che rappresentano il fondamento dei moderni schemi di
protezione sociale. Tra questi ve n‟è uno, antico e pure ancora valido:

Fondamento della pensione di vecchiaia – scriveva Luigi Einaudi nelle sue Lezioni di politica
sociale pubblicate alla fine del secondo conflitto mondiale in concomitanza con l‟avvio,
nel Regno Unito, del progetto beveridgiano di welfare state – è il vantaggio morale, dal quale
deriva il vantaggio economico. Soltanto l’uomo fiducioso in se stesso e nel suo avvenire risparmia e si
eleva. Colui il quale sa di dover chiedere ricovero all’ospizio o di dover vivere della carità dei figli o del
prossimo, non tenta neppure di provvedere colle sole sue forze all’avvenire […].
La pensione di vecchiaia – proseguiva – è un povero surrogato di quel più alto tipo di società nella
quale essa è inutile perché il vecchio possiede nella casa propria, nel podere ereditato o costrutto a pezzo a
pezzo, nel patrimonio formato col risparmio volontario, nell’affetto di una famiglia saldamente costituita
il presidio sicuro contro l’impotenza della vecchiaia.

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Un “povero surrogato”, una “sciagurata necessità”, per usare ancora le parole di
Einaudi, ma pur sempre una necessità che, al di là della modellistica, dei totem di volta in
volta evocati in maniera più o meno strumentale e in assenza di garanzie per il futuro per
le giovani generazioni (sulle cui spalle pesa il fardello lasciato loro dalla generazione
dissennata che le ha precedute), sarebbe bene maneggiare con una cura e una
lungimiranza forse maggiori.

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