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1. Da Bismarck a Thatcher
Gli echi dell’Anno della Prussia non si erano ancora smorzati e già si presentava un’altra occasione di
giubileo nazionale. Il 17 novembre 1881, con la lettera imperiale all’apertura della quinta sessione del
Reichstag, si aprì l’era della politica sociale pubblica. Primo in Europa, il Reich tedesco intraprese la
costruzione del sistema obbligatorio di sicurezza sociale. […] Da allora, anche tutti gli altri paesi
dell’Europa occidentale crearono assicurazioni di stato contro gli infortuni sul lavoro, di malattia,
vecchiaia e disoccupazione, assicurazioni che rappresentano tuttora il nucleo istituzionale dello stato
assistenziale [Alber 1982; trad. it. 1986, 11].
Il welfare state è un’invenzione delle società a economia capitalistica. Il suo atto di nascita fu
siglato nel 1881 dallo stato tedesco, come ci racconta Jens Alber nella citazione iniziale tratta dalla
sua importante opera sulle origini e sullo sviluppo dello stato sociale in Europa. Da quel momento è
cominciato un processo storico, perdurante ormai da più di un secolo, che ha inciso in profondità
sulla fisionomia della società, ridisegnando più volte, nel corso del tempo, il rapporto tra stato,
società e mercato.
Pur nascendo all’interno di un contesto istituzionale fondamentalmente tradizionalista e autoritario,
qual era il Secondo Reich tedesco all’epoca di Bismarck, il welfare state costituì una novità
rivoluzionaria nello scenario delle società industriali di fine Ottocento. La seconda metà di quel
secolo vide infatti la tumultuosa crescita e diffusione dell’economia capitalistica in gran parte dei
paesi dell’Europa occidentale. Se da un lato lo sviluppo industriale di questi paesi accelerò
enormemente contribuendo al loro rafforzamento economico, dall’altro emerse una serie di nuovi
bisogni sociali, conseguenti alla formazione di un’ampia classe operaia soggetta a difficili
condizioni di lavoro e alla concentrazione nelle città e nei quartieri industriali di ingenti masse
popolari che vivevano in condizioni di estrema povertà e precarietà igienico-sanitaria. Si
delinearono così i contorni di una nuova questione sociale, di dimensioni e intensità tali da non
poter essere affrontata con i metodi sino a quel momento tradizionalmente utilizzati, ovvero
l’attivazione della solidarietà comunitaria (fortemente indebolita dall’avvento della società
industriale), la beneficenza privata (largamente insufficiente nei mezzi e negli scopi), oppure gli
interventi di tipo pauperistico a opera dello stato liberale. Questi ultimi, sviluppati largamente nel
Regno Unito attraverso l’attuazione delle Poor Laws risalenti all’epoca elisabettiana, erano
finalizzati a prestare un’assistenza di ultima istanza solo a specifici gruppi di popolazione (i
cosiddetti «poveri meritevoli») colpiti dalla povertà a causa di problemi considerati indipendenti
dalla loro volontà: una tipologia di interventi largamente inadeguata ad affrontare l’enorme
dimensione dei nuovi problemi.
La creazione di nuove misure sociali (che inizialmente consistevano in «assicurazioni sociali»)
promosse direttamente dallo stato, costituì all’epoca non solo una risposta ai nuovi bisogni sociali
creati dallo sviluppo capitalistico, ma anche un modo per costruire un consenso sociale intorno alle
classi dirigenti. Questo accadde sia nella Germania bismarckiana (dove le assicurazioni sociali
furono create con lo scopo di depotenziare le incipienti proteste sociali e la forte conflittualità
operaia), sia più tardi in altri paesi, come il Regno Unito e i paesi scandinavi (dove le riforme
sociali furono sollecitate e promosse dalle organizzazioni sociali e politiche dei lavoratori, di
ispirazione socialdemocratica). La nascita del welfare state minò dunque alla radice uno dei
presupposti fondanti dello stato liberale, ovvero l’idea che i governi non dovessero intervenire, se
non in ultima istanza e con funzioni esclusive di supplenza e/o di controllo ex post, nel gioco della
concorrenza dettato dal libero dispiegarsi dell’economia di mercato. Ora lo stato divenne non solo
interventista in materia economica (reclamando risorse economiche sempre più ingenti, attraverso la
tassazione, per poter finanziare i propri programmi sociali), ma anche un diretto ed esplicito agente
di modificazione dei rapporti sociali, delle condizioni di vita dei cittadini, nonché delle forme di
distribuzione della ricchezza messa a disposizione dalla crescita economica.
In estrema sintesi, potremmo dire che il welfare state nacque storicamente come l’esito delle due
grandi rivoluzioni che caratterizzarono il sorgere delle società moderne: la nascita delle democrazie
nazionali sull’onda della Rivoluzione francese, e il forte sviluppo del capitalismo a partire dalla
Rivoluzione industriale [Flora e Heidenheimer 1981]. Esso fu il frutto delle nuove esigenze che
erano proprie di una società di massa regolata attraverso l’economia di mercato, e di una concezione
democratica dello stato che conferiva alle istituzioni politiche un importante ruolo di regolazione e
di intervento nei rapporti sociali ed economici.
Gli sviluppi dei decenni successivi confermarono e rafforzarono il ruolo del welfare state, che
divenne, già prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, un elemento ormai stabilizzato e
irrinunciabile di tutte le società dell’Europa occidentale. Fu proprio durante la Seconda guerra
mondiale che Lord Beveridge, un influente intellettuale di orientamento riformatore, consegnò al
parlamento inglese un famoso rapporto [Beveridge 1942] in cui formulò i principi di base di un
moderno stato sociale capace di fornire un grado elevato di sicurezza sociale ai cittadini, attraverso
un servizio sanitario obbligatorio e universalistico (ovvero offerto a tutti i cittadini senza
discriminazioni di tipo economico), una misura di reddito minimo in grado di garantire la
sopravvivenza materiale indipendentemente dall’occupazione lavorativa, un sistema di
assicurazioni sociali (pensione, invalidità, disoccupazione e malattia) completo e accessibile a tutti i
cittadini. L’idea che l’intervento dello stato dovesse sostenere il benessere e garantire la sicurezza a
tutti i cittadini travalicò i confini del Regno Unito, per trovare un importante consenso politico e
divenire il principio guida per lo sviluppo del welfare state nei paesi occidentali nei decenni
successivi. Anche nei paesi a socialismo realizzato appartenenti al blocco sovietico, intanto, lo stato
assunse un ruolo cruciale, non solo nella pianificazione e gestione dell’attività economica, ma anche
nella produzione e distribuzione dei benefici e dei servizi di welfare.
L’espansione e lo sviluppo del welfare state continuò, con intensità ancora superiore, nei decenni
successivi al termine del secondo conflitto mondiale, favorito da una fase di relativa pace
internazionale (almeno sullo scacchiere europeo) e di grande crescita economica: un’eccezione nel
panorama del XX secolo, tanto da guadagnarsi l’appellativo di «Trenta gloriosi». In queste
condizioni favorevoli il welfare state conobbe una fase che a buon diritto può esser definita quella
della sua espansione e del suo consolidamento [Heclo 1981], attraverso cui lo stato sociale assunse
la fisionomia «classica» ancora oggi prevalente.
Circa cento anni dopo la prima mossa politica che sancì la nascita, nel cuore del continente europeo,
del welfare state, un nuovo evento, questa volta avvenuto nel Regno Unito, segnò un brusco
cambiamento di clima e di prospettiva storica. Il 4 maggio 1979 Margaret Thatcher, leader del
Partito conservatore inglese, salì al governo, che manterrà sino al 1990. Il suo programma di
governo era fondato sull’idea di smantellare l’intervento dello stato in campo economico e sociale
allo scopo di promuovere i principi della libera concorrenza e dell’individualismo morale. Come
disse in una famosa intervista nel 1987, che ebbe vastissima eco a livello mondiale:
Abbiamo attraversato un periodo in cui troppi bambini e troppi adulti facevano ragionamenti del tipo: «ho
un problema, ci deve pensare il governo a risolverlo», oppure «ho un problema e ho il diritto di farmelo
risolvere dal governo», o «sono senza casa, il governo me ne deve dare una». E così affibbiavano i loro
problemi alla società. E chi è la società? La società non esiste. Ci sono individui, uomini e donne, ci sono
famiglie. E nessun governo può fare nulla se non attraverso le persone, mentre le persone, prima di tutto,
pensano a loro stesse. È un nostro dovere badare a noi stessi e quindi anche aiutare i nostri vicini a badare
a se stessi. La gente ha avuto troppo in mente i propri diritti acquisiti, senza pensare ai propri doveri, ma
non esistono diritti acquisiti senza aver prima assolto i propri doveri.
L’attacco liberale al welfare state venne condiviso negli stessi anni dal presidente americano
Reagan e dai partiti conservatori dell’Europa continentale. Il fatto che uno dei governi dei paesi più
importanti d’Europa (per non parlare degli Stati Uniti) poté mantenere il consenso per oltre dieci
anni sulla base di un programma antiwelfare, mostrò quanto radicale fosse non solo la crisi di
legittimità del welfare state, ma anche quanto illusorie fossero le aspettative di una sua costante,
unilineare espansione. Il thatcherismo sancì una tendenza già evidente agli osservatori più attenti da
diversi anni: ovvero che la fase di espansione del welfare state, dopo quasi un secolo di storia
segnato da una costante e progressiva crescita, fosse ormai esaurita, e che a essa sarebbe subentrata
una fase, assai più controversa e ambigua, in cui si sarebbero costantemente intrecciati due
movimenti opposti: uno verso il ritiro dello stato sociale, propugnato dai programmi politici ispirati
a Margaret Thatcher e a Ronald Reagan, e l’altro verso una ristrutturazione profonda del welfare
state che lo rendesse di nuovo adeguato alla mutata realtà sociale ed economica, come sostenuto da
gran parte dei governi di ispirazione socialdemocratica e riformista.
Come scrisse Heclo in un famoso saggio del 1981:
Era costoso, così costoso che l’onere da sopportare per il sistema delle politiche sociali realizzate
diventava una minaccia per la sicurezza economica degli individui. Era inefficiente, in generale rispetto
alla capacità di garantire alti standard di servizio e in particolare nel modificare le disuguaglianze di
fondo che permanevano in società regolate dal profitto. Ed era rischioso, perché si vedeva ormai il
conflitto tra benessere collettivo e libertà individuali [Heclo 1981; trad. it. 1983, 27].
Il punto importante, qualunque fosse la posizione politica assunta, fu che, a partire dagli anni
Settanta e Ottanta, l’idea originaria che il welfare state avrebbe sostenuto e favorito la crescita del
capitalismo e della democrazia fu rimessa in discussione: sia lo stato dell’economia nazionale
(segnata da una faticosa transizione verso un sistema produttivo postindustriale, cap. 3), sia il
diffondersi di una nuova morale individualistica (che conduceva a ritenere che «la società non
esiste») richiedevano che i cittadini anteponessero il perseguimento degli interessi economici
individuali alla distribuzione di qualsiasi beneficio di welfare. Il successo della Thatcher dimostrò
che il consenso democratico stesso non dipendeva più in modo automatico dalla generosità del
sistema di welfare e dalla capacità della classe politica di garantire la sicurezza dei cittadini, ma
dalla capacità di forgiare una nuova solidarietà nazionale centrata intorno a nuove finalità collettive,
tra cui primaria era la capacità di promuovere la crescita dell’economia nazionale. Il welfare cessò
di conseguenza di essere considerato come un ingrediente «necessario» della forza economica,
politica e morale di una nazione.
Allo scioglimento dello stretto intreccio sinergico tra welfare e capitalismo corrispose anche una
mutazione profonda dei bisogni sociali diffusi nelle popolazioni dei paesi europei. Esaurita la fase
di rapida espansione economica che aveva caratterizzato i primi decenni successivi alla Seconda
guerra mondiale, le società europee furono scosse nelle loro fondamenta da nuove questioni sociali
ed economiche: la disoccupazione non scomparve, come fu predetto negli anni felici del boom
economico, ma si radicò come un fenomeno cronico in tutti i sistemi europei, portando con sé un
aumento della povertà e dell’esclusione sociale; le disuguaglianze sociali, dopo una lunga fase di
riduzione coincidente con il rafforzamento dell’economia industriale, cominciarono ad aumentare
nuovamente in seguito alla crescita del settore terziario, dove trionfavano le esigenze della
flessibilità e della netta differenziazione tra occupazioni a bassa e ad alta qualificazione; nel
frattempo, l’emancipazione femminile sconvolse l’organizzazione sociale della vita quotidiana di
gran parte della popolazione, aumentando la fragilità dell’istituzione familiare e ponendo nuovi
problemi di rapporto tra le esigenze della produzione e quelle della riproduzione sociale; infine,
anche l’equilibrio demografico delle società si ruppe in seguito all’invecchiamento della
popolazione e al conseguente sbilanciamento dei rapporti tra le generazioni. Riprenderemo più
avanti questo complesso scenario (cap. 3): qui lo richiamiamo sinteticamente solo per mostrare
come la crisi del welfare state cominciata negli anni Ottanta, e diventata di dominio pubblico con
l’avvento di Margaret Thatcher al governo della Gran Bretagna, fu l’esito sia di acuti conflitti
politici (tra liberismo e riformismo), sia di profonde trasformazioni avvenute nella società e
nell’economia capitalistica. A cento anni dalla sua nascita, il welfare state si trovò dunque di fronte
a una sfida: ristrutturare il proprio funzionamento e ridefinire le proprie finalità per adeguarsi al
nuovo scenario e restare così un elemento di promozione sociale ed economica, oppure entrare in
una spirale di tagli e riduzioni, sino a diventare un’istituzione residuale, sempre più disfunzionale
allo sviluppo dell’economia capitalistica e sempre meno in grado di rispondere ai bisogni sociali
della popolazione.
Margaret Thatcher morì l’8 aprile 2013. A distanza di cinque lustri dal suo insediamento come
primo ministro britannico, si può dire che il welfare state abbia resistito non solo al programma
neoliberale di smantellamento, ma anche ai numerosi fattori di tensione e di crisi che, come
abbiamo spiegato, avevano preparato il terreno all’azione politica della Lady di ferro. Il welfare
state ha evitato di entrare in una spirale di forte riduzione e, almeno sino alla grande crisi del 2007-
2008, in alcuni suoi interventi specifici ha fatto registrare una sua espansione.
Il welfare state rimane oggi un elemento centrale nell’organizzazione degli stati contemporanei,
costituendo una parte assai rilevante dell’intervento pubblico. Basti pensare che le spese relative al
welfare assorbono in media due terzi della spesa pubblica complessiva dei paesi europei, e che una
parte consistente di tali spese (pari mediamente al 16-17% del PIL nazionale) serve a finanziare sia
gli stipendi del personale dell’amministrazione pubblica addetto al welfare, sia il finanziamento di
istituzioni e di organizzazioni, pubbliche e private, specializzate nella fornitura di servizi (sanitari,
educativi, sociali, ecc.).
Infine, anche il consenso democratico nei confronti del welfare si è mostrato assai più stabile di
quanto prevedesse il governo conservatore di Margaret Thatcher. I ricorrenti sondaggi sulle
opinioni degli europei hanno mostrato in modo consistente non solo che il welfare gode di un ampio
favore nella popolazione (soprattutto nei paesi dell’Europa settentrionale), ma anche che una larga
maggioranza della popolazione europea preferirebbe un aumento delle prestazioni di welfare anche
se ciò richiedesse un aumento della tassazione, piuttosto che l’opzione alternativa, ovvero una
contrazione dei servizi a fronte della riduzione delle tasse [Roosma, Gelissen e Van Oorschot 2013].
I problemi sollevati negli anni Ottanta dalla Lady di ferro sono tuttavia ancora ben presenti.
Vedremo in dettaglio tali problemi nei prossimi due capitoli e in modo circostanziato nei capitoli
della parte II dedicati alle specifiche policy. Per avere tuttavia una visione complessiva, basti
considerare che la crisi del welfare state innescata negli anni Ottanta fu originata dal dilemma
fondamentale tra l’esigenza di ridurre il costo pubblico dei programmi sociali, acuiti dalla
situazione di crisi fiscale in cui si dibattevano molti paesi europei, e quella opposta di offrire
protezione contro l’emergere di nuovi rischi sociali che si aggiungevano, per effetto delle
trasformazioni sociali ed economiche in corso, ai vecchi rischi sociali per la cui tutela il welfare
state tradizionale era stato concepito e disegnato [Esping-Andersen 1999; Taylor-Gooby 2004].
Sino agli anni Settanta del secolo scorso, come vedremo, la tensione tra aumento della spesa sociale
pubblica e aumento/diversificazione dei rischi sociali fu mantenuta in equilibrio grazie alla
sostenuta crescita economica del dopoguerra, che contribuì ad aumentare le risorse pubbliche
disponibili per lo sviluppo di politiche sociali sempre più generose ed estensive. L’esaurirsi di
questa fase di crescita fece entrare gli stati europei in una nuova fase economica, in cui la forte
dinamica inflattiva, accompagnata da un aumento della disoccupazione, rendeva necessario un
contenimento della spesa pubblica allo scopo di moderare la rincorsa verso l’alto di prezzi e salari.
Più avanti nel tempo, lungo il corso degli anni Novanta e del primo decennio del nuovo secolo,
l’esigenza di contrazione della spesa pubblica è restata pressante, a causa sia del basso livello della
crescita economica e dell’elevata pressione fiscale, sia delle difficoltà dei paesi europei a creare
nuova occupazione per le categorie sociali (le donne e i giovani) maggiormente escluse dal gruppo
dei principali beneficiari del welfare tradizionale. La spesa del welfare, in sistemi economici
caratterizzati da un regime di austerità permanente [Pierson 2001], è diventata così un parametro
economico variabile, la cui dinamica viene subordinata alle esigenze dello sviluppo economico
complessivo, nonché a quello degli andamenti della produttività e dell’occupazione.
La storia sociale e politica dell’Europa negli ultimi vent’anni è caratterizzata da numerosi tentativi
di ristrutturare il welfare state in modo da farlo transitare tra la Scilla del debito pubblico da ridurre
e la Cariddi dei nuovi rischi sociali da proteggere. Una navigazione difficile e spesso tempestosa,
che ha condotto, nel corso del tempo, a una profonda ristrutturazione dei caratteri originali del
welfare state stesso. La duplice esigenza funzionale di rendere la spesa sociale compatibile con la
crescita della competitività economica dell’economia nazionale e di rispondere al tempo stesso ai
mutati bisogni sociali, ha infatti impattato duramente con l’assetto dato del welfare state, con le
logiche amministrative dominanti nell’ambito delle politiche sociali, con gli assetti istituzionali e di
potere consolidati, con le rendite politiche e le spettanze riconosciute dai programmi già esistenti di
welfare. La storia ormai centenaria del welfare state aveva ormai determinato, infatti, una forte
istituzionalizzazione delle politiche sociali, che le ha rese non facilmente modificabili senza
ridiscuterne gli assetti interni di potere e le logiche politico-elettorali dominanti. Nel tempo, intorno
al welfare state si sono costituite forti coalizioni politiche, composte dai principali beneficiari dei
programmi sociali, nonché da burocrazie pubbliche e private che devono la loro ragion d’essere
all’esistenza di questi stessi programmi. Tutti elementi che hanno contribuito a rendere spesso
incerti e difficoltosi i cambiamenti. Le tensioni cui è stato soggetto il welfare state hanno
contribuito anche a frantumare le alleanze sociali e politiche intorno al welfare, contrapponendo tra
loro clienti di programmi diversi di welfare, oppure i portatori dei vecchi rischi sociali, già
riconosciuti e premiati dal welfare tradizionale, con i portatori dei nuovi rischi sociali, che
necessitano di riforme radicali in grado di dare risposta alle loro esigenze. Il passaggio dalla fase
espansiva a quella restrittiva delle politiche sociali ha comportato, infine, che i conflitti sociali e
politici intorno al welfare si siano concentrati più sulla distribuzione delle perdite che su quella dei
vantaggi [Ferrera 1998], alimentando di nuovo forti conflitti distributivi e ampi tentativi, espliciti e
impliciti, di bloccare i processi di riforma. In sintesi, le esigenze funzionali di adattamento del
welfare al nuovo scenario sociale ed economico sono state filtrate attraverso le logiche istituzionali
presenti nel sistema tradizionale, dando luogo a processi spesso ambigui e sotterranei di riforma del
welfare, ma anche a nuove configurazioni istituzionali e politiche. È questo il campo di tensioni e
contraddizioni in cui si colloca il welfare di oggi, ed è su questo campo di sfide e trasformazioni che
si focalizza questo manuale.
Il welfare state è uno stato in cui il potere organizzato è usato deliberatamente (attraverso la politica e
l’amministrazione) allo scopo di modificare le forze del mercato in almeno tre direzioni: primo,
garantendo a individui e famiglie un reddito minimo indipendentemente dal valore di mercato della loro
proprietà; secondo, restringendo la misura dell’insicurezza mettendo individui e famiglie in condizione di
fronteggiare certe «contingenze sociali» (ad es., malattia, vecchiaia e disoccupazione) che porterebbero a
crisi individuali e familiari; e terzo, assicurando a ogni cittadino senza distinzione di classe o status i
migliori standard disponibili in relazione a una gamma concordata di servizi sociali [Briggs 1961, 228].
Il welfare state viene identificato da Briggs, in sostanza, nell’intervento dello stato in materia
economica, atto ad alterare la dinamica endogena del mercato allo scopo di perseguire tre finalità
sociali fondamentali:
1. la lotta alla povertà;
2. la protezione contro i rischi sociali (e le loro conseguenze negative) che possono minacciare
la sopravvivenza dei cittadini;
3. la promozione delle pari opportunità e del benessere individuale e sociale.
Assistenza ai più deboli, protezione contro i rischi sociali e perseguimento dell’uguaglianza sociale
(in termini superiori a quanto avviene nel mercato) sono dunque i tre principali risultati attesi dallo
sviluppo del welfare state: risultati, come vedremo, altamente variabili e diversamente perseguiti nel
tempo e nello spazio. Si tratta di finalità naturalmente non alternative, ma complementari e in parte
sovrapposte: è evidente infatti che, ad esempio, l’assistenza ai più deboli, comportando che alcuni
benefici e servizi vengano distribuiti sulla base del bisogno, riduce seppure residualmente le
disuguaglianze create nel/dal mercato capitalistico; così come il perseguimento dell’uguaglianza
come finalità esplicita e dominante avviene in molti sistemi di welfare europei attraverso forme di
protezione contro i rischi sociali accessibili su base universalistica (ovvero indipendentemente dal
reddito, dalla classe sociale, o da altre categorizzazioni per età, razza o etnia), indipendentemente
dai contributi versati dai cittadini (come avviene, ad es., nei sistemi sanitari di molti paesi europei).
Come vedremo meglio successivamente (cap. 2), l’articolazione di questi tre obiettivi generali
consente di identificare regimi nazionali di welfare che si differenziano proprio nell’accentuare
maggiormente una o l’altra finalità.
Per ottenere questi risultati, il welfare state interviene nei processi di distribuzione delle ricompense
sociali secondo modalità differenti:
· in via diretta attraverso l’erogazione di prestazioni di welfare (dall’erogazione di pensioni a
quella di sussidi monetari di vario tipo, all’offerta di servizi sociali, sanitari ed educativi,
sino alla produzione e distribuzione di beni fondamentali come la casa);
· in via indiretta attraverso agevolazioni fiscali, forme di regolazione dell’economia e dei
rapporti di lavoro, la promozione e il finanziamento dei servizi di welfare forniti da attori
privati di vario tipo, il sostegno alle capacità di autoaiuto dei cittadini e delle famiglie.
La composizione delle azioni di welfare in relazione alle finalità generali del welfare state prima
menzionate viene sinteticamente richiamata nella tabella 1.1, da cui si nota come i sistemi di
welfare comprendano una notevole gamma di azioni pubbliche, le cui finalità e azioni possono
essere distinte solo in via analitica.
Tab. 1.1. Finalità prevalenti e forme dirette/indirette di intervento pubblico in materia di welfare
Dirette Indirette
Assistenza ai più deboli Sussidi monetari, assistenza sociale, Agevolazioni fiscali per gli individui e/o le
produzione di alloggi a canone sociale famiglie a basso reddito
Protezione contro i rischi Sistemi pensionistici, servizi sanitari e Agevolazioni a sistemi pensionistici
sociali sociali fondamentali, indennità di privati
disoccupazione, invalidità, maternità
Finanziamento e regolazione di attori
privati che erogano servizi di welfare (ad
es., servizi sanitari privati)
Promozione dell’uguaglianza e Servizi sociali ed educativi Regolazione del mercato del lavoro
delle pari opportunità
Agevolazioni fiscali alle imprese per
sostenere l’occupazione
La distinzione tra «azioni dirette» e «azioni indirette» dello stato appena introdotta non ha una
finalità esclusivamente classificatoria. Essa corrisponde anche all’idea che l’azione del welfare state
sia da inquadrare entro un sistema più ampio e complesso di attori e meccanismi sociali che operano
nella medesima direzione e con finalità molto simili. Le teorie classiche del welfare, riprendendo in
questo il contributo classico di Polanyi [1944] sulle tre forme di transazione economica, hanno
generalmente individuato tre circuiti fondamentali attraverso cui il welfare viene assicurato ai
cittadini:
1. l’intervento dello stato;
2. il funzionamento del mercato;
3. l’organizzazione delle famiglie.
Tra gli attori presenti in questo sistema devono essere considerati, dunque, non solo
l’amministrazione pubblica (nelle sue articolazioni nazionali, regionali e locali), ma anche le
imprese private e le reti informali fondate su legami familiari. Le imprese private contano nel
sistema di welfare non tanto come attori del mercato capitalistico che perseguono il loro interesse
privato, quanto nella loro qualità di erogatori specializzati di servizi privati di welfare: i casi
paradigmatici sono quelli delle assicurazioni private di tipo sanitario o previdenziale, degli enti
privati che gestiscono ospedali, scuole e servizi sociali privati, oppure ancora delle imprese che
sviluppano servizi rivolti ai loro dipendenti (formando il cosiddetto «welfare occupazionale», come
lo definì nel 1958 il famoso studioso inglese Richard Titmuss). Le reti familiari, a loro volta, se da
un lato costituiscono forme di erogazione del welfare precedenti alla nascita del welfare state e in
buona parte sostituite da questo (si pensi alla cura dei bambini e degli anziani, per fare gli esempi
più noti), dall’altro hanno mantenuto un importante ruolo anche nelle società a welfare maturo. È
merito specifico delle studiose del welfare attente alla dimensione di genere [Balbo 1978; Lewis
1992; Orloff 1993; Saraceno e Naldini 1998] portare l’attenzione su questo punto, mostrando come
il funzionamento del welfare state presupponga implicitamente il lavoro non retribuito delle donne
(in qualità di madri, sorelle, figlie, nonne) sia nella fornitura di servizi di cura specifici (rivolti ai
soggetti più fragili, ovvero i bambini piccoli e gli anziani non autosufficienti), sia nella non facile
gestione dei rapporti con l’amministrazione del welfare pubblico.
A cominciare dagli anni Novanta, a questi tre meccanismi fondamentali si è andata aggiungendo
un’attenzione crescente verso una quarta componente, che viene a completare quello che è stato
definito «il diamante del welfare» [Evers, Pijl e Ungerson 1994]: i servizi di welfare prodotti
nell’ambito del terzo settore, ovvero da parte di organizzazioni sociali, spesso fondate su base
volontaria oppure cooperativa, non finalizzate a produrre profitti ma orientate alla produzione di
beni pubblici [Ranci 1999]. Se da un lato questi soggetti operano spesso come partner dello stato
nella fornitura di specifici servizi, dall’altro essi esprimono un’istanza di partecipazione attiva della
società civile e una responsabilità collettiva delle comunità locali verso la produzione dei beni
pubblici, che si traduce anche nella capacità di adeguare i servizi di welfare forniti ai bisogni della
popolazione servita.
Nel complesso, dunque, il welfare state va inquadrato nell’ambito di un sistema di welfare più
ampio. Il riferimento al concetto di «sistema di welfare» [Paci 1989] non è qui casuale, ma vuole
sottolineare il forte grado di interdipendenza in cui si trovano tutti gli attori che producono servizi di
welfare. Pur costituendo soggetti spesso largamente autonomi sul piano delle finalità ideali e degli
obiettivi pratici che intendono perseguire, lo sviluppo del welfare state ha contribuito, attraverso
l’attività di regolazione pubblica e gli incentivi finanziari pubblici, ad aumentare notevolmente, nel
corso del tempo, il grado di coordinamento e di mutua dipendenza tra queste forme di intervento.
L’azione dello stato sociale, dunque, va sempre considerata non solo nei suoi effetti diretti, ma
anche nelle sue conseguenze indirette, che dipendono dalla regolazione di altri soggetti, dal
sostegno promozionale che lo stato offre e, più in generale, dalla capacità di coordinare l’intero
sistema multiattoriale del welfare in vista della realizzazione di obiettivi di interesse collettivo.
Come verificheremo nel capitolo 3 e nei capitoli tematici, negli ultimi anni la forte spinta verso la
privatizzazione e la «rifamilizzazione» del welfare (ovvero, la tendenza ad attribuire e riconoscere
una responsabilità più grande ai soggetti privati e alle famiglie nell’erogazione di servizi di welfare)
è generalmente coincisa con un aumento della capacità delle politiche pubbliche di regolare questi
ambiti, nella speranza che essi riescano a sopperire alle carenze e alle rigidità burocratiche
dell’intervento pubblico diretto.
In conclusione, possiamo affermare che il welfare è oggi un complesso sistema istituzionale che
lega insieme stato, mercato, famiglie e società civile. Il welfare state costituisce, all’interno di
questo sistema, un insieme di politiche e di istituzioni pubbliche – orientate all’assistenza ai deboli,
alla copertura dei rischi sociali e alla riduzione delle disuguaglianze sociali – che persegue queste
finalità attraverso la regolazione del mercato e delle famiglie, la redistribuzione di rilevanti risorse
finanziarie ai cittadini e la produzione diretta di servizi di welfare.
L’incidenza del rischio e il grado di autosufficienza determinato dalla posizione economica e demografica
determinano insieme il profilo attuariale di un gruppo e di conseguenza stabiliscono cosa il gruppo ha da
vincere o da perdere da un sistema di solidarietà che redistribuisce i costi dell’incertezza. Nella logica più
semplice, i gruppi ad alto rischio e basso patrimonio vinceranno invariabilmente da una redistribuzione e
perciò cercheranno di ottenerla. I gruppi a basso rischio e alto patrimonio avranno viceversa l’interesse
opposto [ibidem, 13].
Per spiegare la nascita e l’evoluzione del welfare state, la questione cruciale cui rispondere diventa
quindi la seguente: se è facile comprendere perché i gruppi sociali più svantaggiati (come la classe
operaia) siano stati favorevoli alla creazione di un sistema nazionale di solidarietà, perché mai i
gruppi sociali più ricchi avrebbero dovuto essere disponibili a mettere in comune i rischi? Secondo
Baldwin la questione più interessante riguarda il ruolo svolto dalla classe media. Se è vero che
storicamente il ruolo di traino nelle domande di welfare fu giocato dalla classe operaia, è tuttavia
importante considerare che, in certe epoche storiche, anche frazioni importanti del ceto medio
furono favorevoli al welfare allo scopo di ridurre il loro grado di incertezza. Anzi: a ben vedere il
welfare state non ha quasi mai, e solo in pochi paesi, privilegiato gli interessi dei gruppi sociali più
poveri. Come afferma Baldwin, la redistribuzione dei costi dell’insicurezza è avvenuta
primariamente non in senso verticale (ovvero tra classi sociali e/o gruppi di reddito), ma
orizzontalmente (redistribuendo i costi lungo il corso della vita o tra categorie di rischio trasversali
rispetto alle classi sociali: dai malati ai sani, dagli adulti ai giovani, dai disabili agli abili, dai
disoccupati ai lavoratori). Più che mettere insieme le risorse per redistribuirle, il welfare ha messo
così in condivisione i rischi. Questo fatto ha portato anche categorie di beneficiari a trovare un
interesse attuariale nella redistribuzione di costi utili, come nei casi della sanità (che serve tutta la
popolazione) e dell’istruzione (che serve soprattutto alle classi medie e medio-alte).
In ogni caso, una spiegazione delle origini e dello sviluppo del welfare state deve considerare con
grande attenzione chi siano i vincitori e i perdenti del gioco redistributivo che il welfare ha creato.
L’equilibrio non è destinato tuttavia a restare lo stesso nel tempo. Se il gioco degli interessi
attuariali non è mai semplice, ciò dipende anche dal fatto che i profili di rischio dei gruppi sociali
cambiano, così come muta la capacità dei gruppi sociali di fronteggiare l’insicurezza. Nel corso del
tempo, inoltre, lo stesso sistema di welfare concorre a modificare il profilo attuariale dei gruppi
sociali, aumentando il grado di sicurezza di alcuni gruppi sociali e l’insicurezza, invece, di altri. In
certe fasi storiche può anche capitare che i gruppi maggiormente protetti possano resistere contro
ulteriori allargamenti del welfare a nuove categorie, temendo così di perdere il vantaggio attuariale
ottenuto.
Nel complesso, dunque, l’approccio fondato sulla nozione di «rischio sociale» spiega il welfare
state, e la particolare configurazione che esso ha assunto nei diversi paesi e nelle diverse fasi
storiche, considerando quali siano le costellazioni di interessi sociali che ne traggono vantaggi, in
termini di riduzione dei costi o protezione dai rischi sociali. La solidarietà del welfare state si fonda,
sostanzialmente, sulla messa in comune di rischi e costi associati a tali rischi. Tale solidarietà
risponde tuttavia a un calcolo di vantaggi e svantaggi per tutti i gruppi sociali che ne fanno parte.
Non solo: i confini della solidarietà identificano anche quali gruppi sociali hanno ottenuto di (o
sono stati disponibili a) farne parte, e quali gruppi sociali invece sono stati esclusi (o si sono
autoesclusi).
Come vedremo meglio successivamente, la crisi del welfare degli ultimi decenni è stata interpretata
diffusamente proprio adottando lo schema di analisi dei rischi sociali. Le profonde trasformazioni
sociali ed economiche che hanno caratterizzato le società postindustriali hanno infatti ridefinito la
mappa dei rischi sociali, creando nuove categorie di rischio ed esponendo alcuni gruppi sociali
all’insicurezza sociale. Questi gruppi sociali sono dunque portatori di nuovi rischi sociali [Esping-
Andersen 1999; Taylor-Gooby 2004], che non hanno ancora ottenuto un pieno riconoscimento nei
sistemi attuali di welfare. Il loro profilo attuariale entra spesso in conflitto con quello dei portatori
dei vecchi rischi sociali, già fortemente protetti dall’assetto attuale dei programmi di welfare. Il
welfare state, dunque, si trova proprio oggi ad affrontare un nuovo problema di carattere attuariale,
derivante dall’esistenza di conflitti tra diverse categorie a rischio.
Una seconda linea di ragionamento proviene dagli studi di genere sul welfare [Lewis 1992; Orloff
1993; Saraceno 2003]. Secondo questa prospettiva i sistemi tradizionali di welfare hanno a lungo
presupposto una divisione sessuata dei compiti, caratteristica delle famiglie male breadwinner,
ovvero fondate sul lavoro retribuito dell’uomo e sul lavoro familiare non retribuito della donna.
Oltre a generare dipendenza nelle donne, questo modello si è rivelato nel tempo assai fragile, via via
che le donne hanno acquisito un ruolo occupazionale in misura sempre più diffusa e che la
disponibilità di un solo reddito nelle famiglie è divenuta insufficiente a garantirne l’autosufficienza
materiale. Di qui l’emergere di nuovi rischi sociali, connessi alle difficoltà crescenti di conciliare
lavoro retribuito e cura dei figli (cap. 7): rischi sociali non più centrati sulla posizione dei genitori (e
soprattutto delle donne) nel mercato del lavoro, ma emergenti all’incrocio tra organizzazione del
lavoro, strutture familiari e servizi di welfare. Per i quali il welfare state tradizionale si è mostrato a
lungo inadeguato. Il passaggio da un sistema di welfare centrato sui vecchi rischi sociali a uno
capace di proteggere anche i nuovi rischi sociali richiede dunque anche lo sviluppo di programmi
finalizzati a ridurre le disparità di genere e a sostenere la transizione delle famiglie dal modello
male breadwinner a un modello definito dual adult worker [Saraceno 1996; Lewis 2001; Naldini e
Saraceno 2011].
Secondo questa interpretazione, lo stato espleta due funzioni fondamentali nei confronti del sistema
capitalistico:
· l’accumulazione;
· la legittimazione.
Da un lato lo stato mantiene condizioni favorevoli all’accumulazione di capitale privato attraverso
investimenti pubblici e forme di assicurazione sociale (come le pensioni) che riducono il costo di
riproduzione della forza lavoro, incrementando di conseguenza il saggio di profitto.
Dall’altro lo stato garantisce il consenso e l’armonia sociale attraverso la spesa sociale volta a
garantire un minimo vitale ai gruppi sociali marginali e potenzialmente conflittuali (ad es., i
disoccupati). O’Connor chiarisce che questa funzione di legittimazione è altrettanto importante di
quella più tradizionale di sostegno diretto all’accumulazione privata: attraverso la spesa
assistenziale improduttiva (ovvero che non genera alcun profitto privato, ma anzi sottrae risorse
altrimenti utilizzabili per l’accumulazione privata), lo stato conserva un ordine sociale utile al
capitalismo. Quanto più queste due funzioni diventano cruciali, tanto più aumenta la spesa sociale,
che tuttavia (come già dicevano i teorici neoliberali) a un certo punto erode il saggio di profitto.
Sono soprattutto le spese sociali funzionali alla legittimazione quelle che entrano in collisione con
le esigenze di accumulazione del capitale, perché assorbono sempre più risorse private attraverso il
sistema di tassazione, per interventi che non producono alcun vantaggio diretto al processo stesso di
accumulazione privata. L’esito inevitabile di questa dinamica è così la crisi fiscale dello stato,
ovvero la tendenza delle spese statali ad aumentare più rapidamente delle entrate necessarie per
finanziarle.
Il welfare state nell’analisi neomarxista assume un ruolo fortemente contraddittorio: dispiegando
una rete di protezione sociale a difesa delle classi sociali più svantaggiate, il welfare di fatto assorbe
gran parte dei costi della riproduzione sociale del modello capitalistico. Lo fa da un lato trasferendo
sullo stato i costi di riproduzione della forza lavoro (procurando sussidi in caso di disoccupazione,
sistemi previdenziali che consentono la sopravvivenza una volta terminata la vita lavorativa, sistemi
pubblici di istruzione che preparano a svolgere un ruolo specializzato nel sistema produttivo),
dall’altro riducendo i potenziali conflitti sociali attraverso misure assistenziali volte a pacificare i
ceti sociali più svantaggiati.
Se il welfare state, da questo punto di vista, non fa che ampliare il ruolo dello stato di strumento del
capitale privato già analizzato a suo tempo da Marx, il fatto nuovo emergente dall’analisi sulla crisi
fiscale è la potenziale contraddizione insita in questo processo. La crisi fiscale segna infatti,
secondo O’Connor, un punto limite oltre il quale il connubio tra welfare e capitalismo non può
andare, avendo ridotto sino al margine le possibilità di accumulazione privata del profitto. Il welfare
state costituisce, per così dire, un’istituzione che opera al servizio del capitalismo, ma che a un certo
punto divora le risorse necessarie ad alimentare il sistema stesso, conducendolo alla crisi e
all’impasse.
Si deve a un altro studioso neomarxista, Claus Offe [1984], la più lucida disamina delle
conseguenze più generali di questo scollamento. Il welfare state costituisce, seguendo in questo la
più classica delle formulazioni marxiane, un sistema di compromesso tra lo sviluppo delle «forze
produttive» (ovvero dell’accumulazione capitalistica) e la qualità dei «rapporti di produzione»
(ovvero dei rapporti di classe): la crescita dell’economia industriale comporta infatti crescenti
problemi sociali, concernenti la riproduzione sociale della forza lavoro e l’aumentare dei conflitti di
classe, che il welfare state ha attenuato attraverso la distribuzione di benefici sociali. L’acuirsi del
conflitto tra capitale e lavoro ha determinato tuttavia un aumento incontrollato della spesa sociale,
che finisce per indurre sia la crisi fiscale dello stato, come ha ben spiegato O’Connor, sia una
generalizzata crisi di legittimazione, connessa all’aumento delle richieste di supporto e di tutela
sociale. L’esito è una situazione di perdurante crisis management, in cui si cerca di mantenere in
equilibrio il sistema attraverso la mediazione politico-istituzionale, senza tuttavia poter mai
risolvere la contraddizione fondamentale, insita nella stessa relazione tra welfare e capitalismo. Il
welfare state, in questa situazione, benché nasca e si sviluppi per garantire la «mercificazione» della
forza lavoro (ovvero la disponibilità della classe lavoratrice a lavorare nell’impresa capitalistica
potendo contare sulle tutele offerte dal welfare), finisce invece, a causa dell’espansione della spesa
sociale, per agire come un elemento di «demercificazione» [Esping-Andersen 1990]: esso non solo
assorbe una parte rilevante delle risorse prodotte dal mercato, ma le utilizza anche per rispondere ai
bisogni sociali fondamentali della popolazione, la cui soddisfazione viene quindi sottratta al libero
gioco del mercato e resa dipendente da criteri generali di giustizia sociale e di equità. Come
vedremo successivamente (in particolare, cap. 2), il grado di demercificazione verrà utilizzato da
Esping-Andersen per creare la sua nota tipologia dei tre regimi di welfare capitalism.
In conclusione, sia l’approccio neoliberale sia quello neomarxista sono stati fortemente criticati per
il loro forte determinismo economico. Il welfare state, in entrambe queste teorie, emerge come
un’istituzione sociale dipendente da imperativi funzionali oppure da assetti di potere già dati nella
società, dotata di scarsi poteri di mediazione e composizione degli interessi sociali ed economici. In
realtà, come spiegherà Esping-Andersen, dietro tali imperativi funzionali e tali assetti di potere
stanno soggetti sociali e politici che hanno sviluppato strategie specifiche di pressione politica. Se
lo stato sociale non è dunque un semplice burattino costretto a realizzare compiti già assegnati, resta
tuttavia vero che con il tempo il welfare state è diventato un soggetto economico di impatto assai
rilevante, sia per l’enorme massa di risorse finanziarie che vi è convogliata e che distribuisce, sia
per il ruolo importante di regolazione del mercato che esso ricopre. L’equilibrio fiscale e l’impatto
occupazionale della spesa sociale non costituiscono dunque, tanto più nelle fasi di debole crescita
economica come quella degli ultimi due decenni, un elemento marginale del funzionamento del
welfare state. Dalle teorie che qui abbiamo richiamato emerge infatti come il welfare capitalism sia
un sistema economico-sociale caratterizzato da costanti tensioni e trade-off interni, in cui sono
costantemente presenti spinte contrapposte e forti contraddizioni. Lungi dal poter fare a meno del
welfare state, le società europee contemporanee hanno dovuto fare i conti con uno scenario
caratterizzato dal crisis management, ovvero dalla necessità continua di trovare un punto di
equilibrio tra le opposte esigenze della competitività e dell’accumulazione capitalistica da un lato, e
della tutela e della riproduzione sociale dall’altro.
La fase più recente di evoluzione del welfare ha accentuato ancora di più le contraddizioni nel
rapporto tra welfare e sviluppo economico già evidenziate dalle critiche neoliberali e marxiste.
Emergono infatti nuovi fenomeni, come vedremo meglio successivamente, che rompono, forse
definitivamente, la sinergia tra welfare e sviluppo capitalistico.
· In primo luogo, l’espansione del lavoro precario e la perdurante presenza della
disoccupazione conduce a una progressiva dualizzazione sociale [Emmenegger et al. 2012]:
i programmi di welfare perdono progressivamente la loro valenza inclusiva e finiscono per
promuovere e approfondire la frattura tra «insider» e «outsider», tra chi ha pieno accesso
alla cittadinanza sociale e chi resta escluso da importanti tutele pubbliche (come i lavoratori
precari, che in molti paesi non hanno accesso, oppure hanno accesso limitato, ai programmi
di sussidio per i disoccupati).
· In secondo luogo, proprio l’elevato grado di protezione offerto dal welfare ai lavoratori che
fanno parte del gruppo degli insider sembra costituire, di fronte alla globalizzazione dei
mercati, un forte elemento di vincolo e di irrigidimento del mercato del lavoro, che risulta
così poco in grado di adattarsi alle necessarie ristrutturazioni economiche necessarie per
rilanciare la competitività dei paesi europei.
In una parola, dunque, il welfare sembra accentuare i suoi elementi di rigidità e di ostacolo alla
necessaria flessibilità richiesta oggi dal sistema capitalistico per poter mantenere tassi di crescita in
grado di rendere la spesa sociale sostenibile sul piano finanziario. Se da un lato questi elementi
spingono nuovamente per l’adozione di programmi neoliberali di taglio delle spese sociali,
dall’altro ciò stimola l’elaborazione di nuove strategie finalizzate a rafforzare la capacità dei
programmi di welfare di contribuire alla crescita produttiva e occupazionale. Secondo Morel, Palier
e Palme [2012] i programmi di welfare dovrebbero assumere i caratteri propri di un investimento
sociale, ovvero di spese sociali destinate a creare, soprattutto attraverso investimenti nel capitale
umano oppure lo sviluppo di nuovi lavori di servizio, nuova occupazione di qualità, pur senza
ridurre l’investimento nei programmi più tradizionali di welfare. A differenza delle precedenti
impostazioni di welfare capitalism, dunque, la strategia dell’investimento sociale assume la rottura
della complementarità funzionale tra sviluppo economico e sviluppo del welfare, e identifica la
chiave per ristabilire questo nesso nella riconversione dei programmi di welfare da misure
assistenziali a misure volte ad attivare e sviluppare il capitale umano.
Il welfare state è molto di più che il mero prodotto della democrazia di massa. Esso implica una
trasformazione profonda dello stato, della sua struttura, delle sue funzioni, della sua legittimità. In una
prospettiva weberiana, la crescita del welfare state va considerata come l’emergere graduale di un nuovo
sistema di potere caratterizzato dalla presenza di una élite che gestisce la distribuzione dei benefici, di una
burocrazia dei servizi, di diverse clientele sociali [Flora e Heidenheimer 1981; trad. it. 1983, 22-23].
Oltre che dipendere dalle dinamiche sociali, da quelle economiche e della rappresentanza politica, il
welfare state poté prendere avvio soltanto una volta costituita una moderna burocrazia pubblica e un
sistema politico-istituzionale stabilizzato. Senza il compimento di un radicale processo di
razionalizzazione della macchina statale, come spiegato da Weber, che comportò l’abolizione delle
discrezionalità amministrative e l’instaurarsi dei principi della competenza e dell’efficienza,
l’implementazione di uno schema assicurativo pubblico sarebbe stata del tutto impensabile. Lo
schema evolutivo di Rokkan [1981] aiuta a comprendere come lo sviluppo dello stato moderno
abbia seguito alcune tappe fondamentali, che hanno reso possibile, al termine del processo, la
costruzione dei moderni sistemi nazionali e statuali di welfare.
1. La formazione dello stato militare e fiscale: avviene l’unificazione top-down dello stato a
livello economico, politico e militare; si crea la burocrazia fiscale, che ha il compito di
raccogliere le risorse finanziarie, mentre si consolidano i confini nazionali e l’ordine
pubblico interno attraverso la creazione dell’esercito nazionale e dei corpi di polizia.
2. La costruzione dello stato nazionale: l’élite nazionale stabilisce un rapporto diretto con la
popolazione attraverso la leva militare obbligatoria, lo sviluppo di un sistema scolastico
pubblico, l’unificazione linguistica e l’armonizzazione religiosa.
3. La diffusione della partecipazione democratica, ovvero lo sviluppo delle istituzioni
democratiche e il riconoscimento della cittadinanza politica: la popolazione partecipa
maggiormente alla costruzione dello stato attraverso le elezioni, le forme di rappresentanza
democratica e la diffusione dei partiti politici.
4. La redistribuzione pubblica, ovvero lo sviluppo del welfare state e l’istituzione della
cittadinanza sociale: si creano i programmi principali di welfare mentre l’organizzazione
burocratica si adatta all’aumento delle responsabilità, sia in merito alla raccolta fiscale sia
alla distribuzione di servizi e benefici di welfare.
Oltre all’architettura istituzionale, contarono molto anche le culture e le ideologie dominanti
all’interno delle istituzioni pubbliche. Sempre Rimlinger [1971], ad esempio, spiega bene come nei
regimi autoritari di fine XIX secolo, come la Germania di Bismarck, il forte dirigismo statale in
campo economico si sposò con una radicata ideologia paternalistica (fondata sull’idea che tocchi ai
governanti attuare una politica improntata a una benevola protezione nei confronti dei cittadini,
considerati incapaci di perseguire il proprio benessere in modo autonomo), creando le condizioni
per un forte interventismo anche in campo sociale. Il welfare state nacque così sulla base di una
cultura tradizionalista condivisa dalla ristretta élite politica e amministrativa che guidava il Secondo
Reich tedesco, e che non vedeva contraddizioni tra l’avvio di un’assicurazione sociale contro la
vecchiaia e la repressione delle mobilitazioni operaie. La forte coesione dell’élite politica costituì,
da questo punto di vista, un importante fattore di facilitazione.
Al tempo stesso, l’esistenza di una forte infrastrutturazione sociale fondata sulle molteplici
appartenenze culturali e religiose presenti nella società tedesca consentì di scaricare una quota
rilevante dei costi finanziari e organizzativi al di fuori della macchina statale, attraverso una politica
di incentivazione dei programmi privati di welfare (fondi mutualistici, assicurazioni private, reti
corporative di servizi) fondata sul principio di sussidiarietà. Lo stesso accadde in Italia, dove le
riforme assistenziali di fine XIX secolo (attuate dal governo Crispi) si appoggiarono fortemente
sulle funzioni assistenziali già svolte dalle istituzioni religiose e dalle società operaie di mutuo
soccorso largamente diffuse in tutto il paese, evitando allo stato un impegno eccessivo sia nello
sviluppo di nuove infrastrutture sia nell’azione di controllo [Paci 1989]. Il dirigismo politico fu così
coniugato con una struttura poco statalizzata dei programmi di welfare, e un grado modesto di
penetrazione dell’amministrazione statale nella gestione di tali programmi.
In sintesi, l’approccio istituzionale mette in evidenza i fattori connessi non solo all’architettura
istituzionale, ma anche alle culture politiche e amministrative che si sono formate intorno alla
costituzione del welfare state [Ferrera 1993]. Se è vero che il welfare state è stato in gran parte
un’invenzione politico-istituzionale, le analisi istituzionaliste hanno chiarito bene che l’invenzione è
sorta all’interno di un preciso sentiero istituzionale, che ne ha sancito la legittimità e ne ha dettato i
tempi e le modalità di realizzazione. Una volta stabilito, il welfare state, al pari di tutte le altre
istituzioni pubbliche, si sviluppa rispettando la sua path dependency, ovvero in modo coerente con
l’assetto, le forme di legittimazione e di realizzazione preesistenti.
L’approccio istituzionale ha assunto, proprio a partire dall’importanza attribuita alla path
dependency, una grande importanza nella discussione attuale sulla crisi e le trasformazioni del
welfare. Esso ha fornito una serie di importanti contributi utili a comprendere i motivi della forte
resilienza del welfare state anche in una fase prolungata di crisi fiscale o in presenza di un clima
politico e culturale fortemente ostile (come accadde, ad es., negli anni Ottanta nel Regno Unito e
negli Stati Uniti). La risposta fornita dai teorici istituzionalisti non si fonda solo sull’osservare la
perdurante funzionalità economica e sociale del welfare state, ma vede proprio nell’inerzia
istituzionale, ovvero nella tendenza delle istituzioni ad autoriprodursi attraverso adattamenti
continui, la causa principale di resistenza al cambiamento. Uno degli studi fondamentali sulla crisi
attuale del welfare, curato da Pierson [2001, descrive brillantemente come la path dependency abbia
agito nei sistemi di welfare contemporanei nel ridurre le possibilità di cambiamento: una volta prese
le decisioni iniziali riguardo un nuovo programma sociale, si stabilisce un network articolato
composto dagli attori impegnati nella sua programmazione e realizzazione, che promuove e difende
il nuovo programma; inoltre, i costi iniziali, sia finanziari sia organizzativi, creano forti aspettative
verso il raggiungimento di specifici risultati, prolungando nel tempo l’implementazione dei
programmi stessi; nell’insieme questi fatti – la creazione di un coordinamento degli attori,
l’aspettativa di risultati che ripaghino dei costi sostenuti e consentano di verificare se gli obiettivi
siano stati ottenuti – agiscono come meccanismi di autorinforzo del sentiero istituzionale intrapreso,
aumentando notevolmente i costi di un eventuale cambiamento di rotta. Lo stesso Pierson si
preoccupa di affermare che la path dependency non blocca il cambiamento, quanto lo condanna a
realizzarsi per via incrementale e adattiva, e solo molto raramente attraverso la distruzione degli
assetti precedenti.
È stato il contributo recente, infine, di altri studiosi neoistituzionalisti a mostrare che, al di là della
costrittività della path dependency, i sistemi di welfare europei hanno mostrato, anche in una fase di
forti vincoli finanziari, una certa capacità di rinnovamento. Discuteremo questi contributi per esteso
più avanti (cap. 3). Qui basta affermare che le profonde trasformazioni sociali ed economiche in
corso hanno posto i sistemi europei di welfare sotto una forte pressione, richiedendo una
ristrutturazione profonda della loro architettura istituzionale e dei loro programmi [Ferrera,
Hemerijck e Rhodes 2000; Esping-Andersen 2002]. La trasformazione è avvenuta in gran parte per
via incrementale piuttosto che attraverso riforme radicali, ovvero tramite percorsi tortuosi e graduali
che hanno condotto nel tempo, attraverso l’accumulazione di piccoli passi, a vere e proprie
discontinuità [Streeck e Thelen 2005; Palier 2010; Ranci e Pavolini 2013]. Le analisi
neoistituzionaliste hanno così avuto il merito di farci comprendere questi percorsi di innovazione
nel loro processo e nei loro esiti finali.
Cinque domande
1. Quali sono le principali finalità del welfare state e in cosa consiste la distinzione tra «azioni dirette» e
«azioni indirette»?
2. Cosa significa che il welfare state è un sistema di solidarietà funzionale alla protezione contro i rischi
sociali?
3. Come è cambiata nel tempo la relazione tra welfare state e sistema capitalistico?
4. Qual è stato il ruolo delle coalizioni di classe nella costruzione dei sistemi moderni di welfare?