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CAPITOLO 1

TEORIE DEL WELFARE

1. Da Bismarck a Thatcher
Gli echi dell’Anno della Prussia non si erano ancora smorzati e già si presentava un’altra occasione di
giubileo nazionale. Il 17 novembre 1881, con la lettera imperiale all’apertura della quinta sessione del
Reichstag, si aprì l’era della politica sociale pubblica. Primo in Europa, il Reich tedesco intraprese la
costruzione del sistema obbligatorio di sicurezza sociale. […] Da allora, anche tutti gli altri paesi
dell’Europa occidentale crearono assicurazioni di stato contro gli infortuni sul lavoro, di malattia,
vecchiaia e disoccupazione, assicurazioni che rappresentano tuttora il nucleo istituzionale dello stato
assistenziale [Alber 1982; trad. it. 1986, 11].

Il welfare state è un’invenzione delle società a economia capitalistica. Il suo atto di nascita fu
siglato nel 1881 dallo stato tedesco, come ci racconta Jens Alber nella citazione iniziale tratta dalla
sua importante opera sulle origini e sullo sviluppo dello stato sociale in Europa. Da quel momento è
cominciato un processo storico, perdurante ormai da più di un secolo, che ha inciso in profondità
sulla fisionomia della società, ridisegnando più volte, nel corso del tempo, il rapporto tra stato,
società e mercato.
Pur nascendo all’interno di un contesto istituzionale fondamentalmente tradizionalista e autoritario,
qual era il Secondo Reich tedesco all’epoca di Bismarck, il welfare state costituì una novità
rivoluzionaria nello scenario delle società industriali di fine Ottocento. La seconda metà di quel
secolo vide infatti la tumultuosa crescita e diffusione dell’economia capitalistica in gran parte dei
paesi dell’Europa occidentale. Se da un lato lo sviluppo industriale di questi paesi accelerò
enormemente contribuendo al loro rafforzamento economico, dall’altro emerse una serie di nuovi
bisogni sociali, conseguenti alla formazione di un’ampia classe operaia soggetta a difficili
condizioni di lavoro e alla concentrazione nelle città e nei quartieri industriali di ingenti masse
popolari che vivevano in condizioni di estrema povertà e precarietà igienico-sanitaria. Si
delinearono così i contorni di una nuova questione sociale, di dimensioni e intensità tali da non
poter essere affrontata con i metodi sino a quel momento tradizionalmente utilizzati, ovvero
l’attivazione della solidarietà comunitaria (fortemente indebolita dall’avvento della società
industriale), la beneficenza privata (largamente insufficiente nei mezzi e negli scopi), oppure gli
interventi di tipo pauperistico a opera dello stato liberale. Questi ultimi, sviluppati largamente nel
Regno Unito attraverso l’attuazione delle Poor Laws risalenti all’epoca elisabettiana, erano
finalizzati a prestare un’assistenza di ultima istanza solo a specifici gruppi di popolazione (i
cosiddetti «poveri meritevoli») colpiti dalla povertà a causa di problemi considerati indipendenti
dalla loro volontà: una tipologia di interventi largamente inadeguata ad affrontare l’enorme
dimensione dei nuovi problemi.
La creazione di nuove misure sociali (che inizialmente consistevano in «assicurazioni sociali»)
promosse direttamente dallo stato, costituì all’epoca non solo una risposta ai nuovi bisogni sociali
creati dallo sviluppo capitalistico, ma anche un modo per costruire un consenso sociale intorno alle
classi dirigenti. Questo accadde sia nella Germania bismarckiana (dove le assicurazioni sociali
furono create con lo scopo di depotenziare le incipienti proteste sociali e la forte conflittualità
operaia), sia più tardi in altri paesi, come il Regno Unito e i paesi scandinavi (dove le riforme
sociali furono sollecitate e promosse dalle organizzazioni sociali e politiche dei lavoratori, di
ispirazione socialdemocratica). La nascita del welfare state minò dunque alla radice uno dei
presupposti fondanti dello stato liberale, ovvero l’idea che i governi non dovessero intervenire, se
non in ultima istanza e con funzioni esclusive di supplenza e/o di controllo ex post, nel gioco della
concorrenza dettato dal libero dispiegarsi dell’economia di mercato. Ora lo stato divenne non solo
interventista in materia economica (reclamando risorse economiche sempre più ingenti, attraverso la
tassazione, per poter finanziare i propri programmi sociali), ma anche un diretto ed esplicito agente
di modificazione dei rapporti sociali, delle condizioni di vita dei cittadini, nonché delle forme di
distribuzione della ricchezza messa a disposizione dalla crescita economica.
In estrema sintesi, potremmo dire che il welfare state nacque storicamente come l’esito delle due
grandi rivoluzioni che caratterizzarono il sorgere delle società moderne: la nascita delle democrazie
nazionali sull’onda della Rivoluzione francese, e il forte sviluppo del capitalismo a partire dalla
Rivoluzione industriale [Flora e Heidenheimer 1981]. Esso fu il frutto delle nuove esigenze che
erano proprie di una società di massa regolata attraverso l’economia di mercato, e di una concezione
democratica dello stato che conferiva alle istituzioni politiche un importante ruolo di regolazione e
di intervento nei rapporti sociali ed economici.
Gli sviluppi dei decenni successivi confermarono e rafforzarono il ruolo del welfare state, che
divenne, già prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, un elemento ormai stabilizzato e
irrinunciabile di tutte le società dell’Europa occidentale. Fu proprio durante la Seconda guerra
mondiale che Lord Beveridge, un influente intellettuale di orientamento riformatore, consegnò al
parlamento inglese un famoso rapporto [Beveridge 1942] in cui formulò i principi di base di un
moderno stato sociale capace di fornire un grado elevato di sicurezza sociale ai cittadini, attraverso
un servizio sanitario obbligatorio e universalistico (ovvero offerto a tutti i cittadini senza
discriminazioni di tipo economico), una misura di reddito minimo in grado di garantire la
sopravvivenza materiale indipendentemente dall’occupazione lavorativa, un sistema di
assicurazioni sociali (pensione, invalidità, disoccupazione e malattia) completo e accessibile a tutti i
cittadini. L’idea che l’intervento dello stato dovesse sostenere il benessere e garantire la sicurezza a
tutti i cittadini travalicò i confini del Regno Unito, per trovare un importante consenso politico e
divenire il principio guida per lo sviluppo del welfare state nei paesi occidentali nei decenni
successivi. Anche nei paesi a socialismo realizzato appartenenti al blocco sovietico, intanto, lo stato
assunse un ruolo cruciale, non solo nella pianificazione e gestione dell’attività economica, ma anche
nella produzione e distribuzione dei benefici e dei servizi di welfare.
L’espansione e lo sviluppo del welfare state continuò, con intensità ancora superiore, nei decenni
successivi al termine del secondo conflitto mondiale, favorito da una fase di relativa pace
internazionale (almeno sullo scacchiere europeo) e di grande crescita economica: un’eccezione nel
panorama del XX secolo, tanto da guadagnarsi l’appellativo di «Trenta gloriosi». In queste
condizioni favorevoli il welfare state conobbe una fase che a buon diritto può esser definita quella
della sua espansione e del suo consolidamento [Heclo 1981], attraverso cui lo stato sociale assunse
la fisionomia «classica» ancora oggi prevalente.
Circa cento anni dopo la prima mossa politica che sancì la nascita, nel cuore del continente europeo,
del welfare state, un nuovo evento, questa volta avvenuto nel Regno Unito, segnò un brusco
cambiamento di clima e di prospettiva storica. Il 4 maggio 1979 Margaret Thatcher, leader del
Partito conservatore inglese, salì al governo, che manterrà sino al 1990. Il suo programma di
governo era fondato sull’idea di smantellare l’intervento dello stato in campo economico e sociale
allo scopo di promuovere i principi della libera concorrenza e dell’individualismo morale. Come
disse in una famosa intervista nel 1987, che ebbe vastissima eco a livello mondiale:

Abbiamo attraversato un periodo in cui troppi bambini e troppi adulti facevano ragionamenti del tipo: «ho
un problema, ci deve pensare il governo a risolverlo», oppure «ho un problema e ho il diritto di farmelo
risolvere dal governo», o «sono senza casa, il governo me ne deve dare una». E così affibbiavano i loro
problemi alla società. E chi è la società? La società non esiste. Ci sono individui, uomini e donne, ci sono
famiglie. E nessun governo può fare nulla se non attraverso le persone, mentre le persone, prima di tutto,
pensano a loro stesse. È un nostro dovere badare a noi stessi e quindi anche aiutare i nostri vicini a badare
a se stessi. La gente ha avuto troppo in mente i propri diritti acquisiti, senza pensare ai propri doveri, ma
non esistono diritti acquisiti senza aver prima assolto i propri doveri.

L’attacco liberale al welfare state venne condiviso negli stessi anni dal presidente americano
Reagan e dai partiti conservatori dell’Europa continentale. Il fatto che uno dei governi dei paesi più
importanti d’Europa (per non parlare degli Stati Uniti) poté mantenere il consenso per oltre dieci
anni sulla base di un programma antiwelfare, mostrò quanto radicale fosse non solo la crisi di
legittimità del welfare state, ma anche quanto illusorie fossero le aspettative di una sua costante,
unilineare espansione. Il thatcherismo sancì una tendenza già evidente agli osservatori più attenti da
diversi anni: ovvero che la fase di espansione del welfare state, dopo quasi un secolo di storia
segnato da una costante e progressiva crescita, fosse ormai esaurita, e che a essa sarebbe subentrata
una fase, assai più controversa e ambigua, in cui si sarebbero costantemente intrecciati due
movimenti opposti: uno verso il ritiro dello stato sociale, propugnato dai programmi politici ispirati
a Margaret Thatcher e a Ronald Reagan, e l’altro verso una ristrutturazione profonda del welfare
state che lo rendesse di nuovo adeguato alla mutata realtà sociale ed economica, come sostenuto da
gran parte dei governi di ispirazione socialdemocratica e riformista.
Come scrisse Heclo in un famoso saggio del 1981:

Era costoso, così costoso che l’onere da sopportare per il sistema delle politiche sociali realizzate
diventava una minaccia per la sicurezza economica degli individui. Era inefficiente, in generale rispetto
alla capacità di garantire alti standard di servizio e in particolare nel modificare le disuguaglianze di
fondo che permanevano in società regolate dal profitto. Ed era rischioso, perché si vedeva ormai il
conflitto tra benessere collettivo e libertà individuali [Heclo 1981; trad. it. 1983, 27].

Il punto importante, qualunque fosse la posizione politica assunta, fu che, a partire dagli anni
Settanta e Ottanta, l’idea originaria che il welfare state avrebbe sostenuto e favorito la crescita del
capitalismo e della democrazia fu rimessa in discussione: sia lo stato dell’economia nazionale
(segnata da una faticosa transizione verso un sistema produttivo postindustriale, cap. 3), sia il
diffondersi di una nuova morale individualistica (che conduceva a ritenere che «la società non
esiste») richiedevano che i cittadini anteponessero il perseguimento degli interessi economici
individuali alla distribuzione di qualsiasi beneficio di welfare. Il successo della Thatcher dimostrò
che il consenso democratico stesso non dipendeva più in modo automatico dalla generosità del
sistema di welfare e dalla capacità della classe politica di garantire la sicurezza dei cittadini, ma
dalla capacità di forgiare una nuova solidarietà nazionale centrata intorno a nuove finalità collettive,
tra cui primaria era la capacità di promuovere la crescita dell’economia nazionale. Il welfare cessò
di conseguenza di essere considerato come un ingrediente «necessario» della forza economica,
politica e morale di una nazione.
Allo scioglimento dello stretto intreccio sinergico tra welfare e capitalismo corrispose anche una
mutazione profonda dei bisogni sociali diffusi nelle popolazioni dei paesi europei. Esaurita la fase
di rapida espansione economica che aveva caratterizzato i primi decenni successivi alla Seconda
guerra mondiale, le società europee furono scosse nelle loro fondamenta da nuove questioni sociali
ed economiche: la disoccupazione non scomparve, come fu predetto negli anni felici del boom
economico, ma si radicò come un fenomeno cronico in tutti i sistemi europei, portando con sé un
aumento della povertà e dell’esclusione sociale; le disuguaglianze sociali, dopo una lunga fase di
riduzione coincidente con il rafforzamento dell’economia industriale, cominciarono ad aumentare
nuovamente in seguito alla crescita del settore terziario, dove trionfavano le esigenze della
flessibilità e della netta differenziazione tra occupazioni a bassa e ad alta qualificazione; nel
frattempo, l’emancipazione femminile sconvolse l’organizzazione sociale della vita quotidiana di
gran parte della popolazione, aumentando la fragilità dell’istituzione familiare e ponendo nuovi
problemi di rapporto tra le esigenze della produzione e quelle della riproduzione sociale; infine,
anche l’equilibrio demografico delle società si ruppe in seguito all’invecchiamento della
popolazione e al conseguente sbilanciamento dei rapporti tra le generazioni. Riprenderemo più
avanti questo complesso scenario (cap. 3): qui lo richiamiamo sinteticamente solo per mostrare
come la crisi del welfare state cominciata negli anni Ottanta, e diventata di dominio pubblico con
l’avvento di Margaret Thatcher al governo della Gran Bretagna, fu l’esito sia di acuti conflitti
politici (tra liberismo e riformismo), sia di profonde trasformazioni avvenute nella società e
nell’economia capitalistica. A cento anni dalla sua nascita, il welfare state si trovò dunque di fronte
a una sfida: ristrutturare il proprio funzionamento e ridefinire le proprie finalità per adeguarsi al
nuovo scenario e restare così un elemento di promozione sociale ed economica, oppure entrare in
una spirale di tagli e riduzioni, sino a diventare un’istituzione residuale, sempre più disfunzionale
allo sviluppo dell’economia capitalistica e sempre meno in grado di rispondere ai bisogni sociali
della popolazione.
Margaret Thatcher morì l’8 aprile 2013. A distanza di cinque lustri dal suo insediamento come
primo ministro britannico, si può dire che il welfare state abbia resistito non solo al programma
neoliberale di smantellamento, ma anche ai numerosi fattori di tensione e di crisi che, come
abbiamo spiegato, avevano preparato il terreno all’azione politica della Lady di ferro. Il welfare
state ha evitato di entrare in una spirale di forte riduzione e, almeno sino alla grande crisi del 2007-
2008, in alcuni suoi interventi specifici ha fatto registrare una sua espansione.
Il welfare state rimane oggi un elemento centrale nell’organizzazione degli stati contemporanei,
costituendo una parte assai rilevante dell’intervento pubblico. Basti pensare che le spese relative al
welfare assorbono in media due terzi della spesa pubblica complessiva dei paesi europei, e che una
parte consistente di tali spese (pari mediamente al 16-17% del PIL nazionale) serve a finanziare sia
gli stipendi del personale dell’amministrazione pubblica addetto al welfare, sia il finanziamento di
istituzioni e di organizzazioni, pubbliche e private, specializzate nella fornitura di servizi (sanitari,
educativi, sociali, ecc.).
Infine, anche il consenso democratico nei confronti del welfare si è mostrato assai più stabile di
quanto prevedesse il governo conservatore di Margaret Thatcher. I ricorrenti sondaggi sulle
opinioni degli europei hanno mostrato in modo consistente non solo che il welfare gode di un ampio
favore nella popolazione (soprattutto nei paesi dell’Europa settentrionale), ma anche che una larga
maggioranza della popolazione europea preferirebbe un aumento delle prestazioni di welfare anche
se ciò richiedesse un aumento della tassazione, piuttosto che l’opzione alternativa, ovvero una
contrazione dei servizi a fronte della riduzione delle tasse [Roosma, Gelissen e Van Oorschot 2013].
I problemi sollevati negli anni Ottanta dalla Lady di ferro sono tuttavia ancora ben presenti.
Vedremo in dettaglio tali problemi nei prossimi due capitoli e in modo circostanziato nei capitoli
della parte II dedicati alle specifiche policy. Per avere tuttavia una visione complessiva, basti
considerare che la crisi del welfare state innescata negli anni Ottanta fu originata dal dilemma
fondamentale tra l’esigenza di ridurre il costo pubblico dei programmi sociali, acuiti dalla
situazione di crisi fiscale in cui si dibattevano molti paesi europei, e quella opposta di offrire
protezione contro l’emergere di nuovi rischi sociali che si aggiungevano, per effetto delle
trasformazioni sociali ed economiche in corso, ai vecchi rischi sociali per la cui tutela il welfare
state tradizionale era stato concepito e disegnato [Esping-Andersen 1999; Taylor-Gooby 2004].
Sino agli anni Settanta del secolo scorso, come vedremo, la tensione tra aumento della spesa sociale
pubblica e aumento/diversificazione dei rischi sociali fu mantenuta in equilibrio grazie alla
sostenuta crescita economica del dopoguerra, che contribuì ad aumentare le risorse pubbliche
disponibili per lo sviluppo di politiche sociali sempre più generose ed estensive. L’esaurirsi di
questa fase di crescita fece entrare gli stati europei in una nuova fase economica, in cui la forte
dinamica inflattiva, accompagnata da un aumento della disoccupazione, rendeva necessario un
contenimento della spesa pubblica allo scopo di moderare la rincorsa verso l’alto di prezzi e salari.
Più avanti nel tempo, lungo il corso degli anni Novanta e del primo decennio del nuovo secolo,
l’esigenza di contrazione della spesa pubblica è restata pressante, a causa sia del basso livello della
crescita economica e dell’elevata pressione fiscale, sia delle difficoltà dei paesi europei a creare
nuova occupazione per le categorie sociali (le donne e i giovani) maggiormente escluse dal gruppo
dei principali beneficiari del welfare tradizionale. La spesa del welfare, in sistemi economici
caratterizzati da un regime di austerità permanente [Pierson 2001], è diventata così un parametro
economico variabile, la cui dinamica viene subordinata alle esigenze dello sviluppo economico
complessivo, nonché a quello degli andamenti della produttività e dell’occupazione.
La storia sociale e politica dell’Europa negli ultimi vent’anni è caratterizzata da numerosi tentativi
di ristrutturare il welfare state in modo da farlo transitare tra la Scilla del debito pubblico da ridurre
e la Cariddi dei nuovi rischi sociali da proteggere. Una navigazione difficile e spesso tempestosa,
che ha condotto, nel corso del tempo, a una profonda ristrutturazione dei caratteri originali del
welfare state stesso. La duplice esigenza funzionale di rendere la spesa sociale compatibile con la
crescita della competitività economica dell’economia nazionale e di rispondere al tempo stesso ai
mutati bisogni sociali, ha infatti impattato duramente con l’assetto dato del welfare state, con le
logiche amministrative dominanti nell’ambito delle politiche sociali, con gli assetti istituzionali e di
potere consolidati, con le rendite politiche e le spettanze riconosciute dai programmi già esistenti di
welfare. La storia ormai centenaria del welfare state aveva ormai determinato, infatti, una forte
istituzionalizzazione delle politiche sociali, che le ha rese non facilmente modificabili senza
ridiscuterne gli assetti interni di potere e le logiche politico-elettorali dominanti. Nel tempo, intorno
al welfare state si sono costituite forti coalizioni politiche, composte dai principali beneficiari dei
programmi sociali, nonché da burocrazie pubbliche e private che devono la loro ragion d’essere
all’esistenza di questi stessi programmi. Tutti elementi che hanno contribuito a rendere spesso
incerti e difficoltosi i cambiamenti. Le tensioni cui è stato soggetto il welfare state hanno
contribuito anche a frantumare le alleanze sociali e politiche intorno al welfare, contrapponendo tra
loro clienti di programmi diversi di welfare, oppure i portatori dei vecchi rischi sociali, già
riconosciuti e premiati dal welfare tradizionale, con i portatori dei nuovi rischi sociali, che
necessitano di riforme radicali in grado di dare risposta alle loro esigenze. Il passaggio dalla fase
espansiva a quella restrittiva delle politiche sociali ha comportato, infine, che i conflitti sociali e
politici intorno al welfare si siano concentrati più sulla distribuzione delle perdite che su quella dei
vantaggi [Ferrera 1998], alimentando di nuovo forti conflitti distributivi e ampi tentativi, espliciti e
impliciti, di bloccare i processi di riforma. In sintesi, le esigenze funzionali di adattamento del
welfare al nuovo scenario sociale ed economico sono state filtrate attraverso le logiche istituzionali
presenti nel sistema tradizionale, dando luogo a processi spesso ambigui e sotterranei di riforma del
welfare, ma anche a nuove configurazioni istituzionali e politiche. È questo il campo di tensioni e
contraddizioni in cui si colloca il welfare di oggi, ed è su questo campo di sfide e trasformazioni che
si focalizza questo manuale.

2. Che cos’è il welfare state


Ma in che cosa consiste il welfare state? L’espressione comunemente adottata per designarlo –
«welfare state» – fu variamente utilizzata, nella prima metà del XX secolo, da esponenti politici
prevalentemente di orientamento socialista per designare l’insieme delle politiche di intervento
statale per il miglioramento delle sorti della classe operaia al di là dell’assistenza ai poveri [Ritter
1989]. In prospettiva opposta, lo stesso termine venne adottato in senso negativo anche da esponenti
tradizionalisti, come sinonimo di «socialismo di stato», cui si contrappose l’idea di una comunità
solidaristica nazionale. Fu infine popolarizzato, nel clima bellico della Seconda guerra mondiale,
dai ripetuti interventi pubblici di un alto esponente del socialismo cristiano inglese – William
Temple, arcivescovo di York e successivamente primate della Chiesa anglicana – allo scopo di
contrapporre la filosofia democratica e orientata al bene comune dello stato inglese (appunto,
incentrata sul benessere dei cittadini) a quella militarista e autoritaria dello stato nazista [ibidem].
Letteralmente l’espressione identifica appunto nel «benessere» dei cittadini la finalità costitutiva del
welfare state: che non si limita quindi a proteggere i cittadini dai rischi più gravi (la malattia e la
disabilità, la povertà e l’assenza di lavoro, la vecchiaia, la mancanza di un tetto e delle risorse
fondamentali per la sopravvivenza), ma intende promuoverne le migliori condizioni di vita
possibili, riducendo le disuguaglianze sociali attraverso generosi sostegni economici e
promuovendo le pari opportunità tra i cittadini attraverso servizi educativi, sanitari e sociali.
Molti autori e molti manuali adottano come base di riferimento per una definizione completa del
welfare state quella fornita dallo storico britannico Asa Briggs in un noto articolo comparso nel
1961:

Il welfare state è uno stato in cui il potere organizzato è usato deliberatamente (attraverso la politica e
l’amministrazione) allo scopo di modificare le forze del mercato in almeno tre direzioni: primo,
garantendo a individui e famiglie un reddito minimo indipendentemente dal valore di mercato della loro
proprietà; secondo, restringendo la misura dell’insicurezza mettendo individui e famiglie in condizione di
fronteggiare certe «contingenze sociali» (ad es., malattia, vecchiaia e disoccupazione) che porterebbero a
crisi individuali e familiari; e terzo, assicurando a ogni cittadino senza distinzione di classe o status i
migliori standard disponibili in relazione a una gamma concordata di servizi sociali [Briggs 1961, 228].

Il welfare state viene identificato da Briggs, in sostanza, nell’intervento dello stato in materia
economica, atto ad alterare la dinamica endogena del mercato allo scopo di perseguire tre finalità
sociali fondamentali:
1. la lotta alla povertà;
2. la protezione contro i rischi sociali (e le loro conseguenze negative) che possono minacciare
la sopravvivenza dei cittadini;
3. la promozione delle pari opportunità e del benessere individuale e sociale.
Assistenza ai più deboli, protezione contro i rischi sociali e perseguimento dell’uguaglianza sociale
(in termini superiori a quanto avviene nel mercato) sono dunque i tre principali risultati attesi dallo
sviluppo del welfare state: risultati, come vedremo, altamente variabili e diversamente perseguiti nel
tempo e nello spazio. Si tratta di finalità naturalmente non alternative, ma complementari e in parte
sovrapposte: è evidente infatti che, ad esempio, l’assistenza ai più deboli, comportando che alcuni
benefici e servizi vengano distribuiti sulla base del bisogno, riduce seppure residualmente le
disuguaglianze create nel/dal mercato capitalistico; così come il perseguimento dell’uguaglianza
come finalità esplicita e dominante avviene in molti sistemi di welfare europei attraverso forme di
protezione contro i rischi sociali accessibili su base universalistica (ovvero indipendentemente dal
reddito, dalla classe sociale, o da altre categorizzazioni per età, razza o etnia), indipendentemente
dai contributi versati dai cittadini (come avviene, ad es., nei sistemi sanitari di molti paesi europei).
Come vedremo meglio successivamente (cap. 2), l’articolazione di questi tre obiettivi generali
consente di identificare regimi nazionali di welfare che si differenziano proprio nell’accentuare
maggiormente una o l’altra finalità.
Per ottenere questi risultati, il welfare state interviene nei processi di distribuzione delle ricompense
sociali secondo modalità differenti:
· in via diretta attraverso l’erogazione di prestazioni di welfare (dall’erogazione di pensioni a
quella di sussidi monetari di vario tipo, all’offerta di servizi sociali, sanitari ed educativi,
sino alla produzione e distribuzione di beni fondamentali come la casa);
· in via indiretta attraverso agevolazioni fiscali, forme di regolazione dell’economia e dei
rapporti di lavoro, la promozione e il finanziamento dei servizi di welfare forniti da attori
privati di vario tipo, il sostegno alle capacità di autoaiuto dei cittadini e delle famiglie.
La composizione delle azioni di welfare in relazione alle finalità generali del welfare state prima
menzionate viene sinteticamente richiamata nella tabella 1.1, da cui si nota come i sistemi di
welfare comprendano una notevole gamma di azioni pubbliche, le cui finalità e azioni possono
essere distinte solo in via analitica.
Tab. 1.1. Finalità prevalenti e forme dirette/indirette di intervento pubblico in materia di welfare

Finalità prevalenti Azioni di welfare

Dirette Indirette

Assistenza ai più deboli Sussidi monetari, assistenza sociale, Agevolazioni fiscali per gli individui e/o le
produzione di alloggi a canone sociale famiglie a basso reddito

Sostegno e regolazione dei servizi di


assistenza sociale forniti da enti privati

Protezione contro i rischi Sistemi pensionistici, servizi sanitari e Agevolazioni a sistemi pensionistici
sociali sociali fondamentali, indennità di privati
disoccupazione, invalidità, maternità
Finanziamento e regolazione di attori
privati che erogano servizi di welfare (ad
es., servizi sanitari privati)

Agevolazioni fiscali per gli individui e le


famiglie

Promozione dell’uguaglianza e Servizi sociali ed educativi Regolazione del mercato del lavoro
delle pari opportunità
Agevolazioni fiscali alle imprese per
sostenere l’occupazione
La distinzione tra «azioni dirette» e «azioni indirette» dello stato appena introdotta non ha una
finalità esclusivamente classificatoria. Essa corrisponde anche all’idea che l’azione del welfare state
sia da inquadrare entro un sistema più ampio e complesso di attori e meccanismi sociali che operano
nella medesima direzione e con finalità molto simili. Le teorie classiche del welfare, riprendendo in
questo il contributo classico di Polanyi [1944] sulle tre forme di transazione economica, hanno
generalmente individuato tre circuiti fondamentali attraverso cui il welfare viene assicurato ai
cittadini:
1. l’intervento dello stato;
2. il funzionamento del mercato;
3. l’organizzazione delle famiglie.
Tra gli attori presenti in questo sistema devono essere considerati, dunque, non solo
l’amministrazione pubblica (nelle sue articolazioni nazionali, regionali e locali), ma anche le
imprese private e le reti informali fondate su legami familiari. Le imprese private contano nel
sistema di welfare non tanto come attori del mercato capitalistico che perseguono il loro interesse
privato, quanto nella loro qualità di erogatori specializzati di servizi privati di welfare: i casi
paradigmatici sono quelli delle assicurazioni private di tipo sanitario o previdenziale, degli enti
privati che gestiscono ospedali, scuole e servizi sociali privati, oppure ancora delle imprese che
sviluppano servizi rivolti ai loro dipendenti (formando il cosiddetto «welfare occupazionale», come
lo definì nel 1958 il famoso studioso inglese Richard Titmuss). Le reti familiari, a loro volta, se da
un lato costituiscono forme di erogazione del welfare precedenti alla nascita del welfare state e in
buona parte sostituite da questo (si pensi alla cura dei bambini e degli anziani, per fare gli esempi
più noti), dall’altro hanno mantenuto un importante ruolo anche nelle società a welfare maturo. È
merito specifico delle studiose del welfare attente alla dimensione di genere [Balbo 1978; Lewis
1992; Orloff 1993; Saraceno e Naldini 1998] portare l’attenzione su questo punto, mostrando come
il funzionamento del welfare state presupponga implicitamente il lavoro non retribuito delle donne
(in qualità di madri, sorelle, figlie, nonne) sia nella fornitura di servizi di cura specifici (rivolti ai
soggetti più fragili, ovvero i bambini piccoli e gli anziani non autosufficienti), sia nella non facile
gestione dei rapporti con l’amministrazione del welfare pubblico.
A cominciare dagli anni Novanta, a questi tre meccanismi fondamentali si è andata aggiungendo
un’attenzione crescente verso una quarta componente, che viene a completare quello che è stato
definito «il diamante del welfare» [Evers, Pijl e Ungerson 1994]: i servizi di welfare prodotti
nell’ambito del terzo settore, ovvero da parte di organizzazioni sociali, spesso fondate su base
volontaria oppure cooperativa, non finalizzate a produrre profitti ma orientate alla produzione di
beni pubblici [Ranci 1999]. Se da un lato questi soggetti operano spesso come partner dello stato
nella fornitura di specifici servizi, dall’altro essi esprimono un’istanza di partecipazione attiva della
società civile e una responsabilità collettiva delle comunità locali verso la produzione dei beni
pubblici, che si traduce anche nella capacità di adeguare i servizi di welfare forniti ai bisogni della
popolazione servita.
Nel complesso, dunque, il welfare state va inquadrato nell’ambito di un sistema di welfare più
ampio. Il riferimento al concetto di «sistema di welfare» [Paci 1989] non è qui casuale, ma vuole
sottolineare il forte grado di interdipendenza in cui si trovano tutti gli attori che producono servizi di
welfare. Pur costituendo soggetti spesso largamente autonomi sul piano delle finalità ideali e degli
obiettivi pratici che intendono perseguire, lo sviluppo del welfare state ha contribuito, attraverso
l’attività di regolazione pubblica e gli incentivi finanziari pubblici, ad aumentare notevolmente, nel
corso del tempo, il grado di coordinamento e di mutua dipendenza tra queste forme di intervento.
L’azione dello stato sociale, dunque, va sempre considerata non solo nei suoi effetti diretti, ma
anche nelle sue conseguenze indirette, che dipendono dalla regolazione di altri soggetti, dal
sostegno promozionale che lo stato offre e, più in generale, dalla capacità di coordinare l’intero
sistema multiattoriale del welfare in vista della realizzazione di obiettivi di interesse collettivo.
Come verificheremo nel capitolo 3 e nei capitoli tematici, negli ultimi anni la forte spinta verso la
privatizzazione e la «rifamilizzazione» del welfare (ovvero, la tendenza ad attribuire e riconoscere
una responsabilità più grande ai soggetti privati e alle famiglie nell’erogazione di servizi di welfare)
è generalmente coincisa con un aumento della capacità delle politiche pubbliche di regolare questi
ambiti, nella speranza che essi riescano a sopperire alle carenze e alle rigidità burocratiche
dell’intervento pubblico diretto.
In conclusione, possiamo affermare che il welfare è oggi un complesso sistema istituzionale che
lega insieme stato, mercato, famiglie e società civile. Il welfare state costituisce, all’interno di
questo sistema, un insieme di politiche e di istituzioni pubbliche – orientate all’assistenza ai deboli,
alla copertura dei rischi sociali e alla riduzione delle disuguaglianze sociali – che persegue queste
finalità attraverso la regolazione del mercato e delle famiglie, la redistribuzione di rilevanti risorse
finanziarie ai cittadini e la produzione diretta di servizi di welfare.

3. Teorie del welfare: fattori esplicativi e sua evoluzione


Il tentativo di spiegare la nascita e lo sviluppo di un fenomeno articolato e complesso, stratificato
storicamente e differenziato territorialmente, qual è il welfare state, non può che partire da uno
schema analitico multifattoriale. All’impresa si sono dedicati scienziati sociali di diversa ispirazione
culturale e di eterogenea formazione disciplinare. Abbiamo infatti spiegazioni economiche,
sociologiche, politologiche, demografiche, giuridiche, persino psicologiche, dei motivi che hanno
fatto del welfare state una delle istituzioni fondamentali delle società contemporanee. A scopo di
semplificazione possiamo identificare quattro approcci fondamentali, che hanno offerto i contributi
essenziali a comprendere non solo i fattori esplicativi del welfare, ma anche i meccanismi che ne
hanno guidato lo straordinario sviluppo nel tempo. Come vedremo, questi approcci hanno spesso
coniugato insieme spiegazioni economiche, sociologiche e politico-istituzionali, tentando così di
offrire delle teorie interpretative generali del welfare state.

3.1. L’approccio dei rischi sociali


I programmi di welfare nacquero per dare innanzitutto una risposta alla nuova questione sociale
indotta dall’industrializzazione. Adottando una prospettiva teorica vicina alla sociologia di
Durkheim, Flora e Heidenheimer [1981] hanno affermato che il welfare state fu il tentativo di
costruire un sistema di solidarietà volto a ridurre le disuguaglianze sociali e a proteggere la
popolazione dai rischi sociali cui era sottoposta. Uguaglianza e sicurezza costituirono le due finalità
fondamentali del welfare: queste due finalità si composero insieme secondo mix variabili a seconda
delle circostanze storiche e della capacità dei portatori dei rischi sociali di esercitare pressioni
sociali e politiche.
Il legame tra rischi sociali e welfare va compreso nella sua complessità. Lo studio storico di
Baldwin [1990] sui sistemi di solidarietà sociale in Europa ha fornito un modello utile a questo
proposito. Secondo Baldwin la protezione dai rischi ha costituito il fondamento anche degli obiettivi
egualitari del welfare state: la protezione fornita dal welfare costituisce infatti un meccanismo
istituzionale attraverso cui diversi gruppi sociali, disuguali per esposizione ai rischi e per risorse
detenute, trovano conveniente mettere in comune alcune risorse allo scopo di assicurarsi contro i
rischi cui sono sottoposti. Ne consegue che la solidarietà comporta una riduzione, più o meno
marcata a seconda dell’ampiezza dei suoi confini, delle disuguaglianze tra i gruppi sociali.
Il welfare, da questo punto di vista, è un sistema di solidarietà allargato fondato sulla condivisione
dei rischi (risk pooling); la sua novità storica consistette nel fatto che la condivisione non avvenne
più entro cerchie limitate (per mestiere o per comunità di appartenenza, come in precedenza), ma si
estese sino a comprendere cerchie sociali molto ampie, sino alla popolazione complessiva di un
intero paese. I rischi vennero così socializzati, ovvero da individuali si trasformarono in collettivi; le
aree di insicurezza individuale diventarono oggetto di previsioni attuariali (calcoli statistici utili a
stimare la probabilità dei rischi e dei costi correlati in modo da determinare l’ammontare delle
entrate finanziarie necessarie a coprire tali costi), standardizzazione, regolazione sociale. Il welfare
state costituì da questo punto di vista una nuova forma di solidarietà collettiva, fondata sul comune
interesse dei cittadini a combattere le avversità, le casualità della vita, le crisi e i pericoli che
stavano di fronte a loro e a svolgere insieme tale funzione.
Nel suo studio Baldwin si chiede quali sono stati i meccanismi fondamentali attraverso cui diversi
gruppi sociali hanno aderito al programma di costituire un sistema di condivisione dei rischi, dando
origine così al welfare state. Scartando l’ipotesi che la solidarietà possa essere imposta con la forza
per un lungo periodo, oppure che sia il frutto di un forte sentimento di unità nazionale (che pure
talvolta ha contato, ad esempio nell’immediato secondo dopoguerra, quando la popolazione inglese
abbracciò senza esitare un piano di grande estensione del welfare – il Piano Beveridge – come parte
di una strategia più generale di ricostruzione nazionale), Baldwin considera la situazione attuariale
dei diversi gruppi sociali per comprendere quale sia la convenienza di ciascun gruppo a
promuovere, piuttosto che ostacolare, la costruzione di un sistema nazionale di protezione contro i
rischi. In via generale, la situazione attuariale di un gruppo sociale dipende da due aspetti:
1. l’esposizione ai rischi (risk incidence);
2. la capacità di self-reliance, ovvero il grado di autosufficienza nel fronteggiare tali rischi.
Mentre nei sistemi privati di assicurazione conta soltanto l’incidenza del rischio, in un sistema
pubblico conta anche la capacità dei gruppi sociali di sopportare i costi della protezione collettiva;
se questa manca, certi gruppi avvertono un elevato senso di insicurezza. Il sistema di welfare finisce
in questo quadro per redistribuire i costi della protezione, spostandoli parzialmente dai gruppi più
svantaggiati e con alta incidenza di rischi ai gruppi sociali più fortunati e con meno incidenza di
rischi.

L’incidenza del rischio e il grado di autosufficienza determinato dalla posizione economica e demografica
determinano insieme il profilo attuariale di un gruppo e di conseguenza stabiliscono cosa il gruppo ha da
vincere o da perdere da un sistema di solidarietà che redistribuisce i costi dell’incertezza. Nella logica più
semplice, i gruppi ad alto rischio e basso patrimonio vinceranno invariabilmente da una redistribuzione e
perciò cercheranno di ottenerla. I gruppi a basso rischio e alto patrimonio avranno viceversa l’interesse
opposto [ibidem, 13].

Per spiegare la nascita e l’evoluzione del welfare state, la questione cruciale cui rispondere diventa
quindi la seguente: se è facile comprendere perché i gruppi sociali più svantaggiati (come la classe
operaia) siano stati favorevoli alla creazione di un sistema nazionale di solidarietà, perché mai i
gruppi sociali più ricchi avrebbero dovuto essere disponibili a mettere in comune i rischi? Secondo
Baldwin la questione più interessante riguarda il ruolo svolto dalla classe media. Se è vero che
storicamente il ruolo di traino nelle domande di welfare fu giocato dalla classe operaia, è tuttavia
importante considerare che, in certe epoche storiche, anche frazioni importanti del ceto medio
furono favorevoli al welfare allo scopo di ridurre il loro grado di incertezza. Anzi: a ben vedere il
welfare state non ha quasi mai, e solo in pochi paesi, privilegiato gli interessi dei gruppi sociali più
poveri. Come afferma Baldwin, la redistribuzione dei costi dell’insicurezza è avvenuta
primariamente non in senso verticale (ovvero tra classi sociali e/o gruppi di reddito), ma
orizzontalmente (redistribuendo i costi lungo il corso della vita o tra categorie di rischio trasversali
rispetto alle classi sociali: dai malati ai sani, dagli adulti ai giovani, dai disabili agli abili, dai
disoccupati ai lavoratori). Più che mettere insieme le risorse per redistribuirle, il welfare ha messo
così in condivisione i rischi. Questo fatto ha portato anche categorie di beneficiari a trovare un
interesse attuariale nella redistribuzione di costi utili, come nei casi della sanità (che serve tutta la
popolazione) e dell’istruzione (che serve soprattutto alle classi medie e medio-alte).
In ogni caso, una spiegazione delle origini e dello sviluppo del welfare state deve considerare con
grande attenzione chi siano i vincitori e i perdenti del gioco redistributivo che il welfare ha creato.
L’equilibrio non è destinato tuttavia a restare lo stesso nel tempo. Se il gioco degli interessi
attuariali non è mai semplice, ciò dipende anche dal fatto che i profili di rischio dei gruppi sociali
cambiano, così come muta la capacità dei gruppi sociali di fronteggiare l’insicurezza. Nel corso del
tempo, inoltre, lo stesso sistema di welfare concorre a modificare il profilo attuariale dei gruppi
sociali, aumentando il grado di sicurezza di alcuni gruppi sociali e l’insicurezza, invece, di altri. In
certe fasi storiche può anche capitare che i gruppi maggiormente protetti possano resistere contro
ulteriori allargamenti del welfare a nuove categorie, temendo così di perdere il vantaggio attuariale
ottenuto.
Nel complesso, dunque, l’approccio fondato sulla nozione di «rischio sociale» spiega il welfare
state, e la particolare configurazione che esso ha assunto nei diversi paesi e nelle diverse fasi
storiche, considerando quali siano le costellazioni di interessi sociali che ne traggono vantaggi, in
termini di riduzione dei costi o protezione dai rischi sociali. La solidarietà del welfare state si fonda,
sostanzialmente, sulla messa in comune di rischi e costi associati a tali rischi. Tale solidarietà
risponde tuttavia a un calcolo di vantaggi e svantaggi per tutti i gruppi sociali che ne fanno parte.
Non solo: i confini della solidarietà identificano anche quali gruppi sociali hanno ottenuto di (o
sono stati disponibili a) farne parte, e quali gruppi sociali invece sono stati esclusi (o si sono
autoesclusi).
Come vedremo meglio successivamente, la crisi del welfare degli ultimi decenni è stata interpretata
diffusamente proprio adottando lo schema di analisi dei rischi sociali. Le profonde trasformazioni
sociali ed economiche che hanno caratterizzato le società postindustriali hanno infatti ridefinito la
mappa dei rischi sociali, creando nuove categorie di rischio ed esponendo alcuni gruppi sociali
all’insicurezza sociale. Questi gruppi sociali sono dunque portatori di nuovi rischi sociali [Esping-
Andersen 1999; Taylor-Gooby 2004], che non hanno ancora ottenuto un pieno riconoscimento nei
sistemi attuali di welfare. Il loro profilo attuariale entra spesso in conflitto con quello dei portatori
dei vecchi rischi sociali, già fortemente protetti dall’assetto attuale dei programmi di welfare. Il
welfare state, dunque, si trova proprio oggi ad affrontare un nuovo problema di carattere attuariale,
derivante dall’esistenza di conflitti tra diverse categorie a rischio.
Una seconda linea di ragionamento proviene dagli studi di genere sul welfare [Lewis 1992; Orloff
1993; Saraceno 2003]. Secondo questa prospettiva i sistemi tradizionali di welfare hanno a lungo
presupposto una divisione sessuata dei compiti, caratteristica delle famiglie male breadwinner,
ovvero fondate sul lavoro retribuito dell’uomo e sul lavoro familiare non retribuito della donna.
Oltre a generare dipendenza nelle donne, questo modello si è rivelato nel tempo assai fragile, via via
che le donne hanno acquisito un ruolo occupazionale in misura sempre più diffusa e che la
disponibilità di un solo reddito nelle famiglie è divenuta insufficiente a garantirne l’autosufficienza
materiale. Di qui l’emergere di nuovi rischi sociali, connessi alle difficoltà crescenti di conciliare
lavoro retribuito e cura dei figli (cap. 7): rischi sociali non più centrati sulla posizione dei genitori (e
soprattutto delle donne) nel mercato del lavoro, ma emergenti all’incrocio tra organizzazione del
lavoro, strutture familiari e servizi di welfare. Per i quali il welfare state tradizionale si è mostrato a
lungo inadeguato. Il passaggio da un sistema di welfare centrato sui vecchi rischi sociali a uno
capace di proteggere anche i nuovi rischi sociali richiede dunque anche lo sviluppo di programmi
finalizzati a ridurre le disparità di genere e a sostenere la transizione delle famiglie dal modello
male breadwinner a un modello definito dual adult worker [Saraceno 1996; Lewis 2001; Naldini e
Saraceno 2011].

3.2. L’approccio strutturale


Il welfare state, come abbiamo detto, costituisce una forma di intervento dello stato nella sfera
economica. La sua nascita ebbe luogo in seguito alla Rivoluzione industriale e alla diffusione del
modo di produzione capitalistico come modello dominante di organizzazione della sfera economica.
Anche se in specifiche fasi storiche il welfare nacque e si sviluppò in paesi caratterizzati da sistemi
economici non capitalistici, come nel caso dei paesi a socialismo reale, resta indubbio che il welfare
abbia trovato il suo terreno elettivo di nascita e di espansione nei sistemi capitalistici. Si capisce
dunque perché il legame tra welfare e capitalismo costituisca uno dei più importanti aspetti su cui
porre l’attenzione nell’analisi dei fattori esplicativi del welfare state. Le questioni decisive, in
questa prospettiva, sono le seguenti: quale ruolo ha giocato il welfare nello sviluppo dell’economia
di mercato capitalistica? È stato più elemento di sostegno e facilitazione, oppure di contrasto alle
logiche di funzionamento del capitalismo?
Il concetto di welfare capitalism (oppure welfare keynesiano) è stato utilizzato proprio per indicare
che lo sviluppo del welfare ha avuto profonde implicazioni per l’assetto complessivo dell’economia
capitalistica, perché ne ha alterato in modo significativo le dinamiche costitutive [Esping-Andersen
1990]. Per comprendere il significato di questa espressione, è dunque necessario partire da una
considerazione del welfare come elemento fondamentale delle politiche keynesiane.
Il welfare state, benché fosse nato in epoca precedente all’avvio delle politiche keynesiane, costituì
una delle forme principali di intervento pubblico fondato sui principi enunciati, negli anni Venti e
Trenta, dall’economista inglese John M. Keynes. Le idee di Keynes, sintetizzate nella sua opera
fondamentale Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta pubblicata nel 1936,
erano finalizzate a risolvere i gravi problemi economici e occupazionali generati dalle crisi allora
ricorrenti cui erano soggette le economie dei paesi occidentali, a partire dalla Grande depressione
cominciata nel 1929. Esse trovarono eco nella famosa politica del New Deal sviluppata negli Stati
Uniti negli anni Trenta sotto l’impulso del presidente Roosevelt. In estrema sintesi, l’idea di Keynes
era che l’instabilità ricorrente dell’economia capitalistica dovesse essere controllata attraverso un
robusto intervento regolativo dello stato, finalizzato a sostenere la domanda di consumi allo scopo
di incentivare, una volta generate aspettative positive, gli investimenti degli imprenditori privati. In
assenza di meccanismi automatici di mercato volti a sostenere i consumi nelle fasi di depressione
economica, la soluzione prospettata da Keynes fu quella che fosse lo stato, attraverso la spesa
pubblica, a sostenere il reddito dei cittadini (promuovendone così i consumi), a perseguire
l’obiettivo della piena occupazione (attraverso l’espansione dell’impiego pubblico, investimenti
pubblici oppure il sussidio a investimenti privati) e a redistribuire il reddito in modo più egualitario
al fine di elevare le capacità di consumo della popolazione più povera. L’intervento pubblico era
così utile, nella prospettiva di Keynes, non tanto a ridurre le disuguaglianze sociali e a proteggere i
cittadini contro il rischio della povertà da disoccupazione (che erano le finalità del welfare state),
quanto a rendere più efficiente e stabile il sistema economico fondato su principi di tipo
capitalistico. Se le risorse pubbliche non fossero state sufficienti, aggiunse Keynes, gli stati
avrebbero dovuto coraggiosamente adottare strategie di indebitamento pubblico (deficit spending)
allo scopo di evitare un innalzamento eccessivo della tassazione, che altrimenti avrebbe avuto effetti
depressivi sul consumo stesso.
Nell’impostazione keynesiana il welfare state costituisce al tempo stesso un effetto dello sviluppo
capitalistico – che richiede l’azione regolativa dello stato allo scopo di stabilizzare l’andamento del
ciclo economico – e uno dei principali fattori del suo consolidamento. Questa visione sinergica fu al
centro delle teorie industrialiste-funzionaliste, di cui il politologo americano Wilensky [1975] fu
uno dei più convinti sostenitori. Osservando l’associazione esistente in serie storiche di lungo
periodo tra gli indicatori dello sviluppo economico industriale (tra cui l’andamento del PIL
nazionale) e quelli della spesa pubblica per il welfare, Wilensky [ibidem, 47] pervenne alla
conclusione che «la crescita economica e le sue conseguenze sulla demografia e sulla burocrazia
sono le cause fondamentali dell’emergere del welfare state […] il welfare state è essenzialmente il
prodotto delle esigenze della società industriale». La funzione economica del welfare state è infatti
quella di stabilizzare e regolare l’economia di mercato, provvedendo alla fornitura di quei beni
pubblici – come la protezione contro i rischi della perdita del lavoro o l’assicurazione sociale in
caso di malattia – che il mercato non è in grado di fornire autonomamente. Sono quindi i fallimenti
del mercato a rendere il welfare state una necessità funzionale [Therborn 1987] dell’economia
capitalistica avanzata. La crescita della spesa sociale, in questa prospettiva, va spiegata con
l’emergere di pressioni funzionali (problem pressure, nell’accezione di Therborn) che sollecitano la
risposta ai problemi che le imprese capitalistiche lasciano irrisolti. Pur costituendo una limitazione
generale all’economia di mercato, come vedremo più avanti, proprio la natura funzionale del
welfare state non è in grado di sovvertire la logica di fondo del modello capitalistico, né di limitare
in modo sostanziale il perseguimento degli interessi capitalistici.
Il collegamento notato da Wilensky tra l’andamento positivo della spesa sociale e la crescita del PIL
nazionale in un numero elevato di paesi è stato confutato da diversi analisti, tra cui Esping-
Andersen [1990], che mostrarono come esistessero diverse varianti nazionali di welfare capitalism
che non dipendevano strettamente né dal livello della crescita economica né da quello della spesa
sociale. All’idea di Wilensky si sono contrapposte due teorie fortemente contrastanti tra loro, ma
unite dal fatto di rimettere in discussione l’idea di una complementarità funzionale tra capitalismo e
welfare.
1. La prima teoria è quella neoliberista, di cui Margaret Thatcher (e Ronald Reagan negli Stati
Uniti) divenne la più nota sostenitrice. Una visione neoliberista e favorevole alla contrazione della
spesa sociale è emersa anche più recentemente di conseguenza all’esplodere della crisi finanziaria
mondiale del 2008-2009. Alla base della critica neoliberista sta l’idea che l’interventismo pubblico
limiti fortemente lo sviluppo del capitalismo. Anche se il welfare state ha consentito di rimediare ai
fallimenti del mercato nel produrre specifici beni comuni, la sua espansione ha di fatto alterato le
condizioni di funzionamento del mercato aumentando la spesa pubblica, creando vincoli burocratici
e riducendo il livello generale di produttività e di efficienza. Il welfare state, in altri termini, pur
essendo sorto nell’ambito delle società industriali avanzate, è cresciuto eccessivamente, di fatto
sottraendo risorse finanziarie alle imprese e ai lavoratori e investendole massicciamente in attività a
scarsa o nulla produttività. Welfare e capitalismo sono dunque termini antitetici e reciprocamente
disfunzionali: il ritiro del primo costituisce la condizione necessaria per la crescita del secondo.
Al di là degli eccessi ideologici, che hanno condotto ad attacchi veementi contro funzioni
fondamentali esercitate dallo stato sociale (ad es., il servizio sanitario), va riconosciuto come la
critica neoliberale abbia colto nel segno nel notare contraddizioni esplosive nell’utilizzo ripetuto di
manovre di tipo keynesiano per combattere le fasi recessive e rilanciare lo sviluppo economico. I
segni di contraddizione segnalati sono due.
· In primo luogo, le politiche di sostegno della domanda, puntando sull’aumento dei salari
industriali per incentivare il consumo, hanno minato a lungo andare la competitività del
sistema economico, esponendo le società occidentali a una massiccia delocalizzazione delle
loro attività manifatturiere una volta che i costi della mobilità internazionale sono stati
drasticamente ridotti dagli sviluppi tecnologici (ICT) e dall’apertura di un mercato
internazionale del lavoro. La forte protezione del lavoro garantita dai sistemi di welfare
attraverso l’espansione dei diritti sociali ha cioè comportato una riduzione di competitività e
di occupazione manifatturiera, esponendo i paesi a welfare maturo a una elevata
disoccupazione permanente.
· In secondo luogo, l’aumento della spesa pubblica come terapia nelle fasi di stagnazione
economica, rimedio che Keynes prevedeva fosse limitato ai momenti di crisi, ha nel tempo
generato centri di spesa e spettanze riconosciute pressoché impossibili da ridurre anche nelle
fasi espansive del ciclo economico: la spesa sociale, infatti, ha mostrato nel tempo una
notevole rigidità indipendente dal ciclo economico, rendendo sempre più acuto il fabbisogno
fiscale dei paesi. Da variabile dipendente dai tassi di crescita economica, la spesa sociale si è
trasformata così in un elemento rigido e sostanzialmente indipendente dall’andamento
economico, finendo per costituire un pesante macigno gravante sulle casse finanziarie degli
stati occidentali.
La soluzione alla crisi fiscale indotta dal welfare state consisterebbe, secondo le teorie neoliberali,
nella riduzione della spesa pubblica e nel tentativo parallelo di ricondurla a essere un elemento
variabile del sistema economico, assoggettato alle esigenze funzionali della competitività nazionale
e internazionale. Qui si spiega, per concludere su questo punto, l’insistenza di Margaret Thatcher
nel contrastare quella che i neoliberisti chiamarono «la cultura dei diritti acquisiti» (ovvero l’idea
che esistano diritti alla tutela sociale che non sono contrattabili e modificabili in base agli
andamenti economici) e nel subordinare l’ottenimento di benefici di welfare a una «morale dei
doveri e della responsabilità», ovvero alla disponibilità degli individui e delle famiglie a contribuire,
innanzitutto tramite il lavoro, alla produzione della ricchezza nazionale.
2. Proprio la crisi fiscale del welfare state costituisce il punto di partenza anche per le analisi
neomarxiste sulle contraddizioni del welfare capitalism, che si mossero da posizioni antitetiche a
quelle dei neoliberali. Secondo James O’Connor – che nel suo La crisi fiscale dello Stato [1973] ha
offerto la diagnosi più precisa e penetrante del rapporto contraddittorio tra welfare e capitalismo – il
punto di rottura tra il pensiero neoliberale e quello neomarxista riguarda proprio la concezione del
ruolo svolto dallo stato sociale nello sviluppo del capitalismo avanzato, caratterizzato da una forte
tendenza alla dominanza di monopoli e oligopoli privati:
Questa concezione [marxista] è in netto contrasto con il pensiero conservatore moderno, secondo il quale
il settore pubblico si svilupperebbe solo a spese dell’industria privata. Sosteniamo invece che la crescita
del settore statale è indispensabile all’espansione dell’industria privata, in particolare delle industrie
monopolistiche [ibidem; trad. it. 1977, 13].

Secondo questa interpretazione, lo stato espleta due funzioni fondamentali nei confronti del sistema
capitalistico:
· l’accumulazione;
· la legittimazione.
Da un lato lo stato mantiene condizioni favorevoli all’accumulazione di capitale privato attraverso
investimenti pubblici e forme di assicurazione sociale (come le pensioni) che riducono il costo di
riproduzione della forza lavoro, incrementando di conseguenza il saggio di profitto.
Dall’altro lo stato garantisce il consenso e l’armonia sociale attraverso la spesa sociale volta a
garantire un minimo vitale ai gruppi sociali marginali e potenzialmente conflittuali (ad es., i
disoccupati). O’Connor chiarisce che questa funzione di legittimazione è altrettanto importante di
quella più tradizionale di sostegno diretto all’accumulazione privata: attraverso la spesa
assistenziale improduttiva (ovvero che non genera alcun profitto privato, ma anzi sottrae risorse
altrimenti utilizzabili per l’accumulazione privata), lo stato conserva un ordine sociale utile al
capitalismo. Quanto più queste due funzioni diventano cruciali, tanto più aumenta la spesa sociale,
che tuttavia (come già dicevano i teorici neoliberali) a un certo punto erode il saggio di profitto.
Sono soprattutto le spese sociali funzionali alla legittimazione quelle che entrano in collisione con
le esigenze di accumulazione del capitale, perché assorbono sempre più risorse private attraverso il
sistema di tassazione, per interventi che non producono alcun vantaggio diretto al processo stesso di
accumulazione privata. L’esito inevitabile di questa dinamica è così la crisi fiscale dello stato,
ovvero la tendenza delle spese statali ad aumentare più rapidamente delle entrate necessarie per
finanziarle.
Il welfare state nell’analisi neomarxista assume un ruolo fortemente contraddittorio: dispiegando
una rete di protezione sociale a difesa delle classi sociali più svantaggiate, il welfare di fatto assorbe
gran parte dei costi della riproduzione sociale del modello capitalistico. Lo fa da un lato trasferendo
sullo stato i costi di riproduzione della forza lavoro (procurando sussidi in caso di disoccupazione,
sistemi previdenziali che consentono la sopravvivenza una volta terminata la vita lavorativa, sistemi
pubblici di istruzione che preparano a svolgere un ruolo specializzato nel sistema produttivo),
dall’altro riducendo i potenziali conflitti sociali attraverso misure assistenziali volte a pacificare i
ceti sociali più svantaggiati.
Se il welfare state, da questo punto di vista, non fa che ampliare il ruolo dello stato di strumento del
capitale privato già analizzato a suo tempo da Marx, il fatto nuovo emergente dall’analisi sulla crisi
fiscale è la potenziale contraddizione insita in questo processo. La crisi fiscale segna infatti,
secondo O’Connor, un punto limite oltre il quale il connubio tra welfare e capitalismo non può
andare, avendo ridotto sino al margine le possibilità di accumulazione privata del profitto. Il welfare
state costituisce, per così dire, un’istituzione che opera al servizio del capitalismo, ma che a un certo
punto divora le risorse necessarie ad alimentare il sistema stesso, conducendolo alla crisi e
all’impasse.
Si deve a un altro studioso neomarxista, Claus Offe [1984], la più lucida disamina delle
conseguenze più generali di questo scollamento. Il welfare state costituisce, seguendo in questo la
più classica delle formulazioni marxiane, un sistema di compromesso tra lo sviluppo delle «forze
produttive» (ovvero dell’accumulazione capitalistica) e la qualità dei «rapporti di produzione»
(ovvero dei rapporti di classe): la crescita dell’economia industriale comporta infatti crescenti
problemi sociali, concernenti la riproduzione sociale della forza lavoro e l’aumentare dei conflitti di
classe, che il welfare state ha attenuato attraverso la distribuzione di benefici sociali. L’acuirsi del
conflitto tra capitale e lavoro ha determinato tuttavia un aumento incontrollato della spesa sociale,
che finisce per indurre sia la crisi fiscale dello stato, come ha ben spiegato O’Connor, sia una
generalizzata crisi di legittimazione, connessa all’aumento delle richieste di supporto e di tutela
sociale. L’esito è una situazione di perdurante crisis management, in cui si cerca di mantenere in
equilibrio il sistema attraverso la mediazione politico-istituzionale, senza tuttavia poter mai
risolvere la contraddizione fondamentale, insita nella stessa relazione tra welfare e capitalismo. Il
welfare state, in questa situazione, benché nasca e si sviluppi per garantire la «mercificazione» della
forza lavoro (ovvero la disponibilità della classe lavoratrice a lavorare nell’impresa capitalistica
potendo contare sulle tutele offerte dal welfare), finisce invece, a causa dell’espansione della spesa
sociale, per agire come un elemento di «demercificazione» [Esping-Andersen 1990]: esso non solo
assorbe una parte rilevante delle risorse prodotte dal mercato, ma le utilizza anche per rispondere ai
bisogni sociali fondamentali della popolazione, la cui soddisfazione viene quindi sottratta al libero
gioco del mercato e resa dipendente da criteri generali di giustizia sociale e di equità. Come
vedremo successivamente (in particolare, cap. 2), il grado di demercificazione verrà utilizzato da
Esping-Andersen per creare la sua nota tipologia dei tre regimi di welfare capitalism.
In conclusione, sia l’approccio neoliberale sia quello neomarxista sono stati fortemente criticati per
il loro forte determinismo economico. Il welfare state, in entrambe queste teorie, emerge come
un’istituzione sociale dipendente da imperativi funzionali oppure da assetti di potere già dati nella
società, dotata di scarsi poteri di mediazione e composizione degli interessi sociali ed economici. In
realtà, come spiegherà Esping-Andersen, dietro tali imperativi funzionali e tali assetti di potere
stanno soggetti sociali e politici che hanno sviluppato strategie specifiche di pressione politica. Se
lo stato sociale non è dunque un semplice burattino costretto a realizzare compiti già assegnati, resta
tuttavia vero che con il tempo il welfare state è diventato un soggetto economico di impatto assai
rilevante, sia per l’enorme massa di risorse finanziarie che vi è convogliata e che distribuisce, sia
per il ruolo importante di regolazione del mercato che esso ricopre. L’equilibrio fiscale e l’impatto
occupazionale della spesa sociale non costituiscono dunque, tanto più nelle fasi di debole crescita
economica come quella degli ultimi due decenni, un elemento marginale del funzionamento del
welfare state. Dalle teorie che qui abbiamo richiamato emerge infatti come il welfare capitalism sia
un sistema economico-sociale caratterizzato da costanti tensioni e trade-off interni, in cui sono
costantemente presenti spinte contrapposte e forti contraddizioni. Lungi dal poter fare a meno del
welfare state, le società europee contemporanee hanno dovuto fare i conti con uno scenario
caratterizzato dal crisis management, ovvero dalla necessità continua di trovare un punto di
equilibrio tra le opposte esigenze della competitività e dell’accumulazione capitalistica da un lato, e
della tutela e della riproduzione sociale dall’altro.
La fase più recente di evoluzione del welfare ha accentuato ancora di più le contraddizioni nel
rapporto tra welfare e sviluppo economico già evidenziate dalle critiche neoliberali e marxiste.
Emergono infatti nuovi fenomeni, come vedremo meglio successivamente, che rompono, forse
definitivamente, la sinergia tra welfare e sviluppo capitalistico.
· In primo luogo, l’espansione del lavoro precario e la perdurante presenza della
disoccupazione conduce a una progressiva dualizzazione sociale [Emmenegger et al. 2012]:
i programmi di welfare perdono progressivamente la loro valenza inclusiva e finiscono per
promuovere e approfondire la frattura tra «insider» e «outsider», tra chi ha pieno accesso
alla cittadinanza sociale e chi resta escluso da importanti tutele pubbliche (come i lavoratori
precari, che in molti paesi non hanno accesso, oppure hanno accesso limitato, ai programmi
di sussidio per i disoccupati).
· In secondo luogo, proprio l’elevato grado di protezione offerto dal welfare ai lavoratori che
fanno parte del gruppo degli insider sembra costituire, di fronte alla globalizzazione dei
mercati, un forte elemento di vincolo e di irrigidimento del mercato del lavoro, che risulta
così poco in grado di adattarsi alle necessarie ristrutturazioni economiche necessarie per
rilanciare la competitività dei paesi europei.
In una parola, dunque, il welfare sembra accentuare i suoi elementi di rigidità e di ostacolo alla
necessaria flessibilità richiesta oggi dal sistema capitalistico per poter mantenere tassi di crescita in
grado di rendere la spesa sociale sostenibile sul piano finanziario. Se da un lato questi elementi
spingono nuovamente per l’adozione di programmi neoliberali di taglio delle spese sociali,
dall’altro ciò stimola l’elaborazione di nuove strategie finalizzate a rafforzare la capacità dei
programmi di welfare di contribuire alla crescita produttiva e occupazionale. Secondo Morel, Palier
e Palme [2012] i programmi di welfare dovrebbero assumere i caratteri propri di un investimento
sociale, ovvero di spese sociali destinate a creare, soprattutto attraverso investimenti nel capitale
umano oppure lo sviluppo di nuovi lavori di servizio, nuova occupazione di qualità, pur senza
ridurre l’investimento nei programmi più tradizionali di welfare. A differenza delle precedenti
impostazioni di welfare capitalism, dunque, la strategia dell’investimento sociale assume la rottura
della complementarità funzionale tra sviluppo economico e sviluppo del welfare, e identifica la
chiave per ristabilire questo nesso nella riconversione dei programmi di welfare da misure
assistenziali a misure volte ad attivare e sviluppare il capitale umano.

3.3. L’approccio delle coalizioni di classe


Il determinismo economico che ha spesso caratterizzato le teorie sul welfare capitalism è stato
corretto da approcci che hanno attribuito grande attenzione alle coalizioni sociali e politiche che
hanno giocato un ruolo rilevante nella costruzione del welfare state. Abbiamo già affermato che lo
stato sociale nacque per effetto non solo dello sviluppo dell’economia capitalistica, ma anche della
crescita della democrazia politica. Secondo alcuni, anzi, il welfare state sarebbe da intendersi
proprio come l’esito del tentativo della democrazia di correggere e gradualmente limitare, sino a
distruggere, i meccanismi del mercato [Esping-Andersen 1990].
Fu dunque il passaggio «da sudditi a cittadini» quello che determinò, insieme allo sviluppo
capitalistico, la spinta fondamentale a far sorgere e sviluppare lo stato sociale [Zincone 1992]. Qui
la nota ricostruzione storica di Marshall [1950] del processo di sviluppo della cittadinanza è il
riferimento principale. La cittadinanza moderna costituisce infatti, secondo Marshall, il frutto di un
processo plurisecolare, innescato dalla Rivoluzione inglese e da quella francese, attraverso cui sono
maturati e hanno ottenuto riconoscimento giuridico e costituzionale tre tipi diversi di diritti:
1. i diritti civili, concernenti la sfera della libertà e dell’inviolabilità individuale, che
consentono il pieno dispiegarsi dell’economia di mercato;
2. i diritti politici, che sono a fondamento della partecipazione democratica, e riguardano i
processi elettorali (il diritto a eleggere e a essere eletto) e la libertà di azione delle
organizzazioni sindacali e politiche (inclusi i partiti politici);
3. i diritti sociali, che riguardano la tutela sociale dei bisogni fondamentali delle persone
realizzata attraverso il welfare state.
Secondo Marshall l’evoluzione delle tre forme di cittadinanza (civile, politica e sociale) avvenne
attraverso un processo lineare e cumulativo, in cui la distruzione degli assetti precedenti operata dal
capitalismo (ad es., l’abolizione dei privilegi feudali concessi alle corporazioni di mestiere,
realizzata tra il XVIII e il XIX secolo allo scopo di garantire il pieno dispiegamento del diritto
individuale alla libera intrapresa economica) fu seguita dalla ricostruzione graduale, spesso faticosa
e conflittuale, di nuovi assetti e nuove istituzioni pubbliche. L’introduzione dei diritti politici
(soprattutto nel XIX secolo) e dei diritti sociali (dalla fine del XIX secolo e poi soprattutto nel XX
secolo) costituì non solo una tappa fondamentale della democratizzazione dei paesi occidentali, ma
anche un modo per traslare sul piano politico-istituzionale la crescente conflittualità sociale
innescata dalla mobilitazione politica delle classi subalterne [Zincone 1992].
Se la democratizzazione aprì dunque – attraverso l’introduzione progressiva del suffragio universale
e il conseguente rafforzamento della rappresentanza parlamentare dei partiti di massa – uno spazio
politico in cui i diversi interessi sociali ed economici in conflitto poterono trovare espressione, il
welfare state divenne ben presto uno dei campi elettivi della competizione tra i diversi attori politici.
Anche se il suo atto di nascita fu siglato da un regime politico fortemente accentrato ed elitario
(quale fu il Secondo Reich tedesco durante l’epoca bismarckiana), è indubbio che la mobilitazione
sindacale e politica della classe operaia giocò un ruolo decisivo in gran parte dei paesi europei,
soprattutto nella fase successiva alla Prima guerra mondiale [Alber 1982]. Proprio il ruolo giocato
dalle organizzazioni politiche della classe operaia nell’espansione del welfare condusse il sociologo
norvegese Korpi [1979; 1983] a elaborare un modello interpretativo – il Power Resource Model –
che identificò nella crescita di influenza politica dei partiti dei lavoratori il fattore decisivo per
spiegare la crescita del welfare state nei paesi occidentali. Se la democratizzazione ha infatti fatto
slittare i conflitti sociali dalla sfera economica a quella politica, l’esito è stato un generale
rafforzamento della forza politica della classe operaia organizzata, che ha potuto contare su un
ampio consenso elettorale e una notevole compattezza organizzativa. Mentre infatti il capitale è
distribuito in modo disuguale, il potere elettorale non lo è essendo fondato sul principio «una testa
un voto». La forza dei partiti operai ha così consentito loro di assumere un ruolo dominante nei
giochi di competizione e cooperazione in atto nella sfera politico-parlamentare, rendendo possibile
la costruzione di coalizioni politiche maggioritarie in grado di forzare l’espansione della
cittadinanza sociale anche oltre gli interessi delle imprese capitalistiche. Nella prospettiva di Korpi,
dunque, il welfare keynesiano non è elemento funzionale o disfunzionale all’economia capitalistica,
ma costituisce l’esito, ostile al capitalismo, di una rivincita politica della classe operaia sugli
interessi socialmente ed economicamente dominanti. Nonostante i partiti operai abbiano dovuto
spesso accettare compromessi e alleanze con altre formazioni politiche, o abbiano agito
dall’opposizione parlamentare, resta il fatto che il welfare state sia stato al tempo stesso una potente
leva per il loro rafforzamento politico e la conseguenza diretta della loro azione politica.
In sintesi, l’approccio fondato sull’influenza delle coalizioni di classe si differenzia rispetto a quello
fondato sulla nozione di welfare capitalism su due aspetti fondamentali.
· In primo luogo, esso parte dall’idea di politics matters, ovvero che il welfare state sia più
l’esito dell’ascesa dello stato democratico che la semplice traslazione istituzionale del gioco
economico degli interessi. Nel gioco politico contano certamente gli interessi e le forze
economiche, ma anche la capacità di attrarre consenso e di giocarlo nell’arena politica, la
forza della rappresentanza della popolazione, il grado di organizzazione politica degli
interessi sociali e la capacità di costruire coalizioni vincenti. Il welfare state è stato in gran
parte l’esito di una democratizzazione che ha consegnato alla politica un forte potere di
controllo sulla sfera degli interessi economici.
· In secondo luogo, mentre le teorie del welfare capitalism insistevano sulla funzionalità del
welfare state rispetto allo sviluppo capitalistico, le teorie politiche hanno adottato una
prospettiva conflittuale [Alber 1982]: al centro delle decisioni inerenti le politiche sociali c’è
sia il conflitto di interessi tra le classi sociali, sia quello tra politica ed economia. Il welfare
state ha rappresentato così in molti paesi (soprattutto quelli a governo socialdemocratico) la
possibilità di una composizione dei conflitti di classe grazie alla concessione di diritti sociali
alla classe operaia, che ne ha consentito non solo la piena integrazione nel gioco
democratico, ma anche l’affrancamento dalle condizioni di sfruttamento in cui il modello
capitalista tende inesorabilmente a collocarla.
L’approccio qui delineato è stato fortemente criticato per un certo ottimismo e per avere
sopravvalutato il ruolo giocato dai partiti dei lavoratori nell’espansione del welfare state. Le due
critiche principali sono state le seguenti:
1. l’evidenza empirica ha mostrato che in molti paesi il welfare state sia stato favorito più da
regimi autoritari oppure da partiti moderati (come quelli cattolici, ad esempio) che non dai
partiti socialisti o socialdemocratici; anche quando i partiti socialisti hanno giocato un ruolo
importante, molte delle conquiste sociali sono state l’esito di soluzioni bi-partisan; non è
insomma provato che l’espansione del welfare state sia correlata strettamente e
necessariamente alla forza e all’azione politica dei partiti della classe operaia [Flora e
Heidenheimer 1981; Baldwin 1990; Van Kersbergen e Manow 2009];
2. il Power Resource Model ha dato come acquisito il modello di evoluzione della cittadinanza
proposto da Marshall, assumendo che il welfare state fosse l’esito di un processo unilineare
e progressivo che ha condotto alla codifica di diritti sociali universalistici, ovvero garantiti a
tutti i cittadini; l’evoluzione di molti sistemi nazionali di welfare non è invece stata così
coerente con questa ipotesi: non solo perché, a cominciare soprattutto dagli anni Ottanta, le
ondate espansive si sono alternate a fasi restrittive contraddistinte dalla riduzione dei
programmi di welfare (come nel caso già citato dei governi di Margaret Thatcher), ma anche
perché in molti paesi europei, a cominciare da quelli continentali, l’organizzazione dei
programmi di welfare non è stata fondata su principi universalistici, quanto su criteri
categoriali o corporativi (ovvero sulla base di una differenziazione per categoria sociale e/o
professionale).
Le due critiche sono state affrontate dall’opera di Esping-Andersen [1990], in cui propone e
sviluppa una tipologia di tre regimi di welfare. Rimandando più avanti una discussione di questa
tipologia (cap. 2), qui ci concentriamo sulle due novità principali del suo approccio teorico. Pur
muovendosi nel solco del Power Resource Model, Esping-Andersen cercò di reagire alle critiche
empiriche che erano state mosse a quell’approccio.
* La prima critica – ovvero la sopravvalutazione del ruolo giocato dai partiti di sinistra – portò
Esping-Andersen a modificare la conclusione di Korpi su un punto: non è stata tanto la forza
politica ed elettorale del movimento operaio a spiegare la crescita del welfare state, quanto la sua
capacità di tessere coalizioni politiche più ampie, capaci di coinvolgere anche altre forze politiche
nella realizzazione della cittadinanza sociale. Più che la forza politica in sé, conta quindi la
coalizione politica e sociale che viene messa in campo: questa può prevedere una capacità di
pressione del movimento operaio che è variabile nel tempo e nello spazio. Non ci si deve quindi
stupire se l’introduzione delle assicurazioni sociali sia stata sostenuta in alcuni paesi da coalizioni di
stampo autoritario: anche in questi casi la pressione originaria per le riforme proveniva comunque
dalla forza politica del movimento operaio.
* La seconda critica ha condotto Esping-Andersen a una revisione più profonda dell’idea di welfare
capitalism. Le teorie precedenti – compreso il Power Resource Model – avevano giustificato l’idea
che fosse in atto un movimento convergente verso l’espansione del welfare osservando la dinamica
della spesa sociale in rapporto al PIL nazionale oppure ad altri indicatori macroeconomici. In
sostanza, più welfare equivaleva, secondo queste impostazioni, a trovare un’incidenza più elevata
della spesa sociale sull’intero volume di risorse economiche generate dal sistema economico
nazionale. In realtà, argomenta Esping-Andersen, il welfare state è ben più di una semplice
erogazione di denaro pubblico. Esso consiste anche in forme di regolazione del mercato, definizione
di criteri di accesso ai benefici distribuiti, criteri e modalità diversificate di reperimento delle risorse
finanziarie. L’elemento più chiaro che consente di sintetizzare questo sistema complesso è dato da
un criterio multiplo, in realtà già introdotto dalle teorie neomarxiste: il grado di demercificazione
della forza lavoro. Per Esping-Andersen la demercificazione identifica la quota di benessere degli
individui (o di soddisfazione dei loro bisogni) che non dipende dalla posizione occupata nel mercato
del lavoro (ovvero dalla capacità di vendere la propria forza lavoro sul mercato del lavoro), ma dal
loro status di cittadini. Come viene affermato in un celebre passaggio: «il concetto si riferisce al
livello in corrispondenza del quale gli individui e le famiglie raggiungono uno standard di vita
socialmente accettabile indipendentemente dalla loro partecipazione al mercato» [ibidem, 37]. La
quota di demercificazione misura dunque la capacità del welfare state di ridurre il peso dei
meccanismi di mercato nella distribuzione delle risorse sociali: un aspetto che conduce
potenzialmente, come mostra Esping-Andersen, anche a una destratificazione sociale, ovvero a una
riduzione della salienza della stratificazione di classe nella distribuzione delle chance di vita. Essa
dipende, rileva l’autore danese, non solo dalla quantità di spesa sociale in rapporto al PIL (come
erroneamente ritenevano i neomarxisti), ma da un complesso di fattori inerenti l’organizzazione del
welfare e i meccanismi di accesso ai benefici. Nella sua analisi Esping-Andersen [ibidem, 47]
considera questi aspetti:
1. le regole di eleggibilità, ovvero i requisiti che rendono possibile ai cittadini l’accesso ai
benefici (i benefici possono essere incondizionati oppure vincolati a condizioni specifiche,
ad esempio il pagamento pregresso di un certo ammontare di contributi);
2. il tasso di sostituzione dei benefici di welfare nei confronti del reddito da lavoro, ovvero il
grado di generosità dei benefici in rapporto al salario mediamente percepito (più alto è il
tasso di sostituzione, più elevata è la capacità del welfare di sostituirsi al salario come mezzo
di sostentamento);
3. infine, e più importante, l’estensione dei benefici, ovvero l’ampiezza dei rischi sociali da
cui il welfare offre protezione (si può andare da assicurazioni pubbliche che proteggono solo
in casi estremi di povertà, a coperture estese contro vari rischi, sino all’offerta di un salario
di cittadinanza che offra un reddito minimo garantito a tutti i cittadini).
La demercificazione indica sinteticamente il tipo di relazione che il welfare state ha sviluppato con
il sistema economico e con lo stato. Indica da un lato qual è la concezione di cittadinanza che viene
istituita, e di conseguenza quali sono i diritti e i doveri dei cittadini. E segnala dall’altro qual è
l’impatto del welfare sul capitalismo, in termini di riduzione delle disuguaglianze di classe.
È per questo motivo che Esping-Andersen, come vedremo bene nel capitolo 2, parla di regimi di
welfare piuttosto che di «sistemi»: perché il welfare, lo stato e il mercato capitalistico sono legati
insieme da una configurazione tipica, risultato del gioco politico reso possibile dalla
democratizzazione delle società moderne. Egli mostra che queste configurazioni tipiche sono
fortemente stabili nel tempo, e sono associate a coalizioni politiche differenziate. Anche il grado
complessivo di demercificazione dei diversi regimi risulta differenziato, a conferma del fatto che
coalizioni politiche specifiche danno origine a configurazioni stabili e istituzionalizzate del rapporto
tra welfare, capitalismo e stato.
In conclusione, l’approccio delle coalizioni di classe ha messo a fuoco l’importanza delle dinamiche
politiche nella formazione del welfare state. Anche lo stato sociale keynesiano può essere letto sotto
questa veste, come esito di una strategia politica concertativa che ha creato un’alleanza provvisoria
tra capitale e lavoro, suggellata proprio dal comune interesse a espandere il sistema di welfare. La
prospettiva inizialmente conflittualista propria di questo approccio lascia in realtà il posto, se si
guarda alle elaborazioni finali sia di Korpi sia di Esping-Andersen, a una teoria della formazione del
consenso sociale. Lo schema logico di base è infatti il seguente: la traslazione dei conflitti di classe
nell’arena politica, resa possibile dalla democratizzazione delle istituzioni, contribuisce a migliorare
la posizione sociale della classe operaia grazie allo sviluppo del welfare state, sfatando così la
predizione di Marx relativa all’acuirsi inevitabile della polarizzazione sociale. Il welfare state
contribuisce così a ridurre i conflitti sociali attraverso un processo più o meno spinto di
demercificazione. Emerge da questa concatenazione virtuosa una società potenzialmente più
egualitaria, in cui crescita capitalistica, miglioramento delle condizioni della classe operaia, e
sviluppo del welfare keynesiano convivono e si rinforzano reciprocamente. Un modello sinergico,
come vedremo nel capitolo 3, che presuppone la capacità del sistema economico di generare
continuamente le risorse finanziarie necessarie a sostenerlo, e che proprio per questo rischia di
entrare in crisi nelle fasi di stagnazione economica.

3.4. L’approccio istituzionale


In uno degli studi comparati internazionali più importanti sulla nascita e l’evoluzione dei sistemi di
welfare, Gaston V. Rimlinger [1971] dimostrò che l’evoluzione del welfare state non fu sempre
determinata dallo sviluppo delle democrazie di massa. Le prime assicurazioni pubbliche furono
introdotte alla fine del XIX secolo in paesi dominati da regimi autoritari, come la Germania e
l’Impero austro-ungarico. Molte organizzazioni dei lavoratori, come le friendly societies inglesi e il
Partito socialdemocratico tedesco, furono a lungo contrarie alle riforme sociali, considerandole
delle concessioni che allontanavano le chance rivoluzionarie del movimento operaio. I paesi con un
regime liberaldemocratico, come il Regno Unito e gli Stati Uniti, furono inizialmente molto
recalcitranti a espandere i programmi statali di welfare, privilegiando l’adozione dei principi liberali
del laissez-faire. Solo nell’intervallo tra le due guerre mondiali la spinta verso il welfare fu in gran
parte determinata dalle mobilitazioni operaie e dai partiti socialisti; in quella stessa fase, tuttavia,
anche i regimi fascisti riconobbero e ampliarono i programmi di welfare; lo stesso accadde nei paesi
a socialismo realizzato dell’Europa orientale, dove il pluralismo democratico era bandito. Infine,
anche nei Trenta gloriosi il welfare state fu promosso sia dai partiti socialdemocratici sia da quelli
cattolici, come hanno ampiamente dimostrato i casi dell’Italia e della Germania [Flora e
Heidenheimer 1981].
L’insieme di questi fatti segnala dunque che, insieme alle dinamiche sociali, economiche e
politiche, altri fattori sono intervenuti nella dinamica del welfare. Secondo Flora e Heidenheimer va
considerata la dinamica squisitamente istituzionale:

Il welfare state è molto di più che il mero prodotto della democrazia di massa. Esso implica una
trasformazione profonda dello stato, della sua struttura, delle sue funzioni, della sua legittimità. In una
prospettiva weberiana, la crescita del welfare state va considerata come l’emergere graduale di un nuovo
sistema di potere caratterizzato dalla presenza di una élite che gestisce la distribuzione dei benefici, di una
burocrazia dei servizi, di diverse clientele sociali [Flora e Heidenheimer 1981; trad. it. 1983, 22-23].

Oltre che dipendere dalle dinamiche sociali, da quelle economiche e della rappresentanza politica, il
welfare state poté prendere avvio soltanto una volta costituita una moderna burocrazia pubblica e un
sistema politico-istituzionale stabilizzato. Senza il compimento di un radicale processo di
razionalizzazione della macchina statale, come spiegato da Weber, che comportò l’abolizione delle
discrezionalità amministrative e l’instaurarsi dei principi della competenza e dell’efficienza,
l’implementazione di uno schema assicurativo pubblico sarebbe stata del tutto impensabile. Lo
schema evolutivo di Rokkan [1981] aiuta a comprendere come lo sviluppo dello stato moderno
abbia seguito alcune tappe fondamentali, che hanno reso possibile, al termine del processo, la
costruzione dei moderni sistemi nazionali e statuali di welfare.
1. La formazione dello stato militare e fiscale: avviene l’unificazione top-down dello stato a
livello economico, politico e militare; si crea la burocrazia fiscale, che ha il compito di
raccogliere le risorse finanziarie, mentre si consolidano i confini nazionali e l’ordine
pubblico interno attraverso la creazione dell’esercito nazionale e dei corpi di polizia.
2. La costruzione dello stato nazionale: l’élite nazionale stabilisce un rapporto diretto con la
popolazione attraverso la leva militare obbligatoria, lo sviluppo di un sistema scolastico
pubblico, l’unificazione linguistica e l’armonizzazione religiosa.
3. La diffusione della partecipazione democratica, ovvero lo sviluppo delle istituzioni
democratiche e il riconoscimento della cittadinanza politica: la popolazione partecipa
maggiormente alla costruzione dello stato attraverso le elezioni, le forme di rappresentanza
democratica e la diffusione dei partiti politici.
4. La redistribuzione pubblica, ovvero lo sviluppo del welfare state e l’istituzione della
cittadinanza sociale: si creano i programmi principali di welfare mentre l’organizzazione
burocratica si adatta all’aumento delle responsabilità, sia in merito alla raccolta fiscale sia
alla distribuzione di servizi e benefici di welfare.
Oltre all’architettura istituzionale, contarono molto anche le culture e le ideologie dominanti
all’interno delle istituzioni pubbliche. Sempre Rimlinger [1971], ad esempio, spiega bene come nei
regimi autoritari di fine XIX secolo, come la Germania di Bismarck, il forte dirigismo statale in
campo economico si sposò con una radicata ideologia paternalistica (fondata sull’idea che tocchi ai
governanti attuare una politica improntata a una benevola protezione nei confronti dei cittadini,
considerati incapaci di perseguire il proprio benessere in modo autonomo), creando le condizioni
per un forte interventismo anche in campo sociale. Il welfare state nacque così sulla base di una
cultura tradizionalista condivisa dalla ristretta élite politica e amministrativa che guidava il Secondo
Reich tedesco, e che non vedeva contraddizioni tra l’avvio di un’assicurazione sociale contro la
vecchiaia e la repressione delle mobilitazioni operaie. La forte coesione dell’élite politica costituì,
da questo punto di vista, un importante fattore di facilitazione.
Al tempo stesso, l’esistenza di una forte infrastrutturazione sociale fondata sulle molteplici
appartenenze culturali e religiose presenti nella società tedesca consentì di scaricare una quota
rilevante dei costi finanziari e organizzativi al di fuori della macchina statale, attraverso una politica
di incentivazione dei programmi privati di welfare (fondi mutualistici, assicurazioni private, reti
corporative di servizi) fondata sul principio di sussidiarietà. Lo stesso accadde in Italia, dove le
riforme assistenziali di fine XIX secolo (attuate dal governo Crispi) si appoggiarono fortemente
sulle funzioni assistenziali già svolte dalle istituzioni religiose e dalle società operaie di mutuo
soccorso largamente diffuse in tutto il paese, evitando allo stato un impegno eccessivo sia nello
sviluppo di nuove infrastrutture sia nell’azione di controllo [Paci 1989]. Il dirigismo politico fu così
coniugato con una struttura poco statalizzata dei programmi di welfare, e un grado modesto di
penetrazione dell’amministrazione statale nella gestione di tali programmi.
In sintesi, l’approccio istituzionale mette in evidenza i fattori connessi non solo all’architettura
istituzionale, ma anche alle culture politiche e amministrative che si sono formate intorno alla
costituzione del welfare state [Ferrera 1993]. Se è vero che il welfare state è stato in gran parte
un’invenzione politico-istituzionale, le analisi istituzionaliste hanno chiarito bene che l’invenzione è
sorta all’interno di un preciso sentiero istituzionale, che ne ha sancito la legittimità e ne ha dettato i
tempi e le modalità di realizzazione. Una volta stabilito, il welfare state, al pari di tutte le altre
istituzioni pubbliche, si sviluppa rispettando la sua path dependency, ovvero in modo coerente con
l’assetto, le forme di legittimazione e di realizzazione preesistenti.
L’approccio istituzionale ha assunto, proprio a partire dall’importanza attribuita alla path
dependency, una grande importanza nella discussione attuale sulla crisi e le trasformazioni del
welfare. Esso ha fornito una serie di importanti contributi utili a comprendere i motivi della forte
resilienza del welfare state anche in una fase prolungata di crisi fiscale o in presenza di un clima
politico e culturale fortemente ostile (come accadde, ad es., negli anni Ottanta nel Regno Unito e
negli Stati Uniti). La risposta fornita dai teorici istituzionalisti non si fonda solo sull’osservare la
perdurante funzionalità economica e sociale del welfare state, ma vede proprio nell’inerzia
istituzionale, ovvero nella tendenza delle istituzioni ad autoriprodursi attraverso adattamenti
continui, la causa principale di resistenza al cambiamento. Uno degli studi fondamentali sulla crisi
attuale del welfare, curato da Pierson [2001, descrive brillantemente come la path dependency abbia
agito nei sistemi di welfare contemporanei nel ridurre le possibilità di cambiamento: una volta prese
le decisioni iniziali riguardo un nuovo programma sociale, si stabilisce un network articolato
composto dagli attori impegnati nella sua programmazione e realizzazione, che promuove e difende
il nuovo programma; inoltre, i costi iniziali, sia finanziari sia organizzativi, creano forti aspettative
verso il raggiungimento di specifici risultati, prolungando nel tempo l’implementazione dei
programmi stessi; nell’insieme questi fatti – la creazione di un coordinamento degli attori,
l’aspettativa di risultati che ripaghino dei costi sostenuti e consentano di verificare se gli obiettivi
siano stati ottenuti – agiscono come meccanismi di autorinforzo del sentiero istituzionale intrapreso,
aumentando notevolmente i costi di un eventuale cambiamento di rotta. Lo stesso Pierson si
preoccupa di affermare che la path dependency non blocca il cambiamento, quanto lo condanna a
realizzarsi per via incrementale e adattiva, e solo molto raramente attraverso la distruzione degli
assetti precedenti.
È stato il contributo recente, infine, di altri studiosi neoistituzionalisti a mostrare che, al di là della
costrittività della path dependency, i sistemi di welfare europei hanno mostrato, anche in una fase di
forti vincoli finanziari, una certa capacità di rinnovamento. Discuteremo questi contributi per esteso
più avanti (cap. 3). Qui basta affermare che le profonde trasformazioni sociali ed economiche in
corso hanno posto i sistemi europei di welfare sotto una forte pressione, richiedendo una
ristrutturazione profonda della loro architettura istituzionale e dei loro programmi [Ferrera,
Hemerijck e Rhodes 2000; Esping-Andersen 2002]. La trasformazione è avvenuta in gran parte per
via incrementale piuttosto che attraverso riforme radicali, ovvero tramite percorsi tortuosi e graduali
che hanno condotto nel tempo, attraverso l’accumulazione di piccoli passi, a vere e proprie
discontinuità [Streeck e Thelen 2005; Palier 2010; Ranci e Pavolini 2013]. Le analisi
neoistituzionaliste hanno così avuto il merito di farci comprendere questi percorsi di innovazione
nel loro processo e nei loro esiti finali.

3.5. Osservazione conclusiva


Molte delle teorie e dei modelli comparati che vedremo nei capitoli successivi sono stati costruiti
combinando insieme più prospettive analitiche e interpretative. Le dimensioni sociali, economiche,
politiche e istituzionali che qui abbiamo ricostruito separatamente non possono non essere
considerate congiuntamente nell’analisi delle specifiche configurazioni storiche assunte dal welfare
state. Mentre in questo capitolo le abbiamo presentate separatamente, nei prossimi capitoli le
diverse dimensioni verranno lette nel loro intreccio e nel loro combinarsi insieme, privilegiando
quindi una lettura multidimensionale del welfare state.

Per saperne di più


I testi richiamati nel capitolo costituiscono i riferimenti bibliografici più importanti. Tra questi
citiamo come opere fondamentali disponibili anche in italiano la raccolta di saggi di Titmuss
[1958], il testo curato da Flora e Heidenheimer [1981] e la ricostruzione storica di Alber [1982]. I
due testi di Esping-Andersen [1990; 1999] costituiscono riferimenti essenziali, così come la teoria
della cittadinanza di Marshall [1950]. Tra le opere di autori italiani richiamiamo Ascoli [1984], Paci
[1989], Zincone [1992], Ferrera [1993].
Per una discussione sui temi del welfare mix e del ruolo del terzo settore si veda Ranci [1999].
Infine, una buona selezione antologica di testi classici è in Pierson e Castles [2006]. Si veda anche
la più recente raccolta di saggi di Castles et al. [2010].

Cinque domande
1. Quali sono le principali finalità del welfare state e in cosa consiste la distinzione tra «azioni dirette» e
«azioni indirette»?

2. Cosa significa che il welfare state è un sistema di solidarietà funzionale alla protezione contro i rischi
sociali?

3. Come è cambiata nel tempo la relazione tra welfare state e sistema capitalistico?

4. Qual è stato il ruolo delle coalizioni di classe nella costruzione dei sistemi moderni di welfare?

5. Quali sono i principali motivi dell’inerzia istituzionale del welfare state?

Questo capitolo è di Costanzo Ranci.

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