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LA SOCIETÀ DI MASSA

Cause:
1. Crescita demografica ininterrotta dalla metà del XVIII secolo
2. Urbanizzazione dovuta alle migliori condizioni igieniche e alla più alta possibilità di lavorare 3. Espansione
del mercato che allargava l'accesso ai consumi
4. Diffusione dell'istruzione elementare divenuta obbligatoria
5. Diffusione di nuovi mezzi di comunicazione
Caratterizzata da:
1. Omogeneità e omologazione dei comportamenti sociali e culturali che rendono facile la manipolazione
degli individui;
2. Organizzazioni burocratiche che non responsabilizzano l'individuo (anonimato)
3. Strumenti che agiscono sulla coscienza degli individui (propaganda)

Alla fine dell'800, col diffondersi dell'industrializzazione e dei connessi fenomeni di urbanizzazione, solo nei
paesi economicamente più avanzati dell'Europa occidentale e del Nord America, si delineano i contorni di
quella che oggi chiamiamo «società di massa»: «massa» nel senso di moltitudine indifferenziata al suo
interno, di aggregato omogeneo in cui i singoli tendono a scomparire rispetto al gruppo. Nella società di
massa la maggioranza dei cittadini vive in grandi e medi agglomerati urbani; gli uomini entrano in rapporto
fra loro con maggiore frequenza e facilità grazie, anche, alla disponibilità di mezzi di trasporto, di
comunicazione e di informazione, ma questi rapporti hanno spesso un carattere anonimo e impersonale. Il
sistema delle relazioni sociali non passa più attraverso le piccole comunità tradizionali (locali, religiose, di
mestiere), ma fa capo agli apparati statali, ai partiti politici e in genere alle «organizzazioni di massa», che
esercitano un peso crescente sulle decisioni pubbliche e sulle stesse scelte individuali. Il grosso della
popolazione è entrato, come produttore o come consumatore di beni e di servizi, nel circolo dell’economia
di mercato. I comportamenti e la mentalità tendono a uniformarsi secondo nuovi modelli generali,
svincolati dagli schemi e dalle consuetudini delle società tradizionali. La società di massa è dunque una
realtà complessa, risultante dall’intreccio di una serie di processi economici, di trasformazioni politiche, di
mutamenti culturali. Una realtà che ha suscitato reazioni, a seconda dei punti di vista, ora con tratti
ottimistici: l'ascesa delle masse come frutto della democratizzazione e della diffusione del benessere, ora
con accenti di angosciata preoccupazione: il dominio delle masse come appiattimento generale e come
minaccia per le libertà individuali e metteva in crisi l'equilibrio e l'ordine della società ottocentesca (Le Bon
e Gasset).
Con la società di massa si nota un cambiamento della struttura economica, socio- culturale e politica.
Da un punto di vista economico:
 Maggiore produzione di beni con conseguente abbassamento dei prezzi;
 Nascita del sistema rateale;
 Concorrenza grazie alla quale si diffuse l'uso della pubblicità;
 Interesse da parte degli industriali circa le esigenze dei consumatori per produrre merci sulla
base delle richieste individuate.
Da un punto di vista socio-culturale:
 Diminuzione delle ore di lavoro che concedeva tempo libero ai lavoratori;
 Sviluppo del turismo di massa, grazie all'introduzione di nuovi mezzi di trasporto;
 Diffusione di locali notturni e caffè;
 Sviluppo del cinema e affermazione dello sport come forma di spettacolo;
 Educazione delle masse da parte dello Stato per l’obbligatorietà sia dell'istruzione base che del
servizio militare;
Da un punto di vista politico:
 Costituzione di partiti "di massa" con un'organizzazione stabile ed una propria identità ideologica;
 Nascita di sindacati che rivendicavano i diritti dei lavoratori;
 Nascita di un'opinione pubblica
L’ITALIA GIOLITTIANA
IL CONTESTO SOCIALE, ECONOMICO E POLITICO DELL’ASCESA DI GIOLITTI
Alla fine dell’ottocento l’Italia aveva vissuto la “ crisi di fine secolo” che determinò una serie di tumulti
popolari. Questi tumulti vennero repressi dal generale Bava Beccaris.
L’anno successivo, il nuovo governo, presieduto dal generale Luigi Pellox aveva presentato all’approvazione
della camera dei deputati una serie di leggi eccezionali che vietavano le manifestazioni politiche,
introducevano limiti alla libertà di stampa e prevedevano lo scioglimento delle associazioni giudicate
sovversive. L’opposizione parlamentare dei socialisti era riuscita a impedire l’approvazione delle leggi di
Pelloux e aveva condotto nuove elezioni, che si tennero nel 1900.
Fu dimesso Pelloux e il primo ministro divenne Giuseppe Saracco, il quale tentò di attuare una politica di
distensione. Pochi giorni dopo aver conferito a saracco l’incarico di formare il nuovo governo, il 29 luglio
1900 il re d’Italia Umberto I fu assassinato a Monza durante una cerimonia pubblica, da Gaetano Brescia, il
quale intendeva vendicare le vittime di Milano.
Una vera e propria svolta in senso liberale si ebbe nel 1901, quando il nuovo re Vittorio Emanuele III diede
l’incarico di formare il governo a Giuseppe Zanardelli, che chiamò al ministero degli interni Giovanni
Giolitti, il leader delle forze liberali progressiste del paese che era già stata a capo del governo nel 1892 e
che dominerà la vita politica italiana per i primi 15 anni del 900, per questo definiti età Giolittiana.

L’età Giolittiana coincise con l’inizio del graduale processo di industrializzazione che portò l’economia
italiana ad assumere una fisionomia agricolo industriale. I fattori che favorirono tale sviluppo furono:
 l’adozione di una politica protezionistica che, attraverso l’introduzione di dazi sulle importazioni
intervenne a tutelare le industrie italiane dalla concorrenza di quelle straniere.
 le banche miste, così definite perché si dedicavano sia l’attività di deposito sia quella di
investimento.

Inoltre iniziarono a crescere le imprese chimiche, siderurgiche, elettriche e soprattutto meccaniche. Teatro
dello sviluppo industriale furono le regioni nord occidentali del paese, le più importanti Torino, Milano e
Genova dette “triangolo industriale” italiano.

All’inizio del processo di espansione industriale sia gli operai sia gli addetti al settore agricolo si trovarono in
condizioni difficili, salari bassissimi e a vivere ai limiti della decenza.
Ne scaturì una forte protesta sociale da cui si origina una grande ondata di scioperi che tra il 1901 al 1902
interessò tutti settori industriali e coinvolse anche il mondo contadino.
Per la prima volta il governo li affronto senza ricorrere alla repressione grazie alla nuova linea di intervento
intrapresa da Giolitti.
Egli riteneva che, di fronte alle legittime rivendicazioni dei lavoratori, la repressione avrebbe aggravato la
protesta. Soltanto un miglioramento delle condizioni di vita delle classi più disagiate avrebbe risolto i
conflitti e pacificato le parti sociali. Secondo Giolitti, le organizzazioni del movimento operaio dovevano
essere viste come risultato del progresso della moderna società di massa.
Giolitti mise in pratica il suo pensiero riformista impartendo ai prefetti la direttiva di garantire l’ordine
pubblico, senza soffocare con la forza gli eventuali moti di protesta. Per la prima volta il governo assicurò un
miglioramento delle condizioni salariali.
Inoltre nel 1902 Giolitti promosse una legge a tutela del lavoro minorile, che fu vietato ai minori di 12 anni,
e delle donne.

GIOLITTI E LE FORZE POLITICHE DEL PAESE

GIOLITTI E I SOCIALISTI
All’inizio del 900 il mondo socialista e operaio si trovi una fase di fermento, di cui era sintomo lo sviluppo
delle organizzazioni sindacali: le camere del lavoro, associazioni operaie su base locale nata fine ottocento,
crebbero in modo esponenziale.
Dallo strumento riformista venne promossa, nel 1906, la fondazione della confederazione generale del
lavoro, la quale riuniva e coordinava diverse associazioni sindacali precedentemente esistenti
La corrente estremista, nel 1911, uscì dalla CGDL e diede vita a l’unione sindacale italiana.
Il partito socialista e era diviso tra moderati e massimalisti:
 Riformisti - La corrente riformista, che aveva la propria guida in Filippo turati, era convinta che
fosse necessaria la collaborazione con altre forze politiche, aperta al progresso sociale, pur di
consentire l’affermazione delle istanze del movimento operaio (collaborazione con Giolitti )
 Rivoluzionari -Versante opposto, i socialisti rivoluzionari, risoluto nel mantenere una linea di rigida
intransigenza di fronte a tutti i partiti borghesi (opposizione a Giolitti)

Giolitti riuscì a dialogare con gli esponenti del socialismo moderato. Nel 1903 arriva perfino a proporre a
turati di entrare a far parte del suo primo governo, egli rifiutò a causa della lacerazione all’interno del suo
partito, in quel momento dominato dalla corrente rivoluzionaria. Per iniziativa di quest’ultima, nel 1904
venne indetto il primo sciopero generale della storia italiana come reazione all’uccisione in Sardegna di
alcuni lavoratori durante lo scontro con le forze dell’ordine. In quell’occasione la politica conciliante Giolitti
risultò vincente. l’efficacia dell’operato dello statista liberale venne confermata nelle elezioni che si tennero
nello stesso anno, 1904, durante le quali egli poté contare sull’appoggio politico dei cattolici. l’ala moderata
dei socialisti prevalse allora su quella rivoluzionaria, inaugurando una collaborazione con il governo.

GIOLITTI E I CATTOLICI
Nel corso dell’età Giolitti A.N.A. anche cattolici italiani iniziano ad avere un ruolo politico sempre più
importante. Da una parte abbiamo:
 Il cattolicesimo intransigente che prevaleva nell’opera dei congressi ,nata nel 1874. Secondo tale
corrente la chiesa avrebbe dovuto disinteressarsi delle questioni politiche del paese.
 Movimento democratico cristiano fondato nel 1905 da Romolo murri , il quale auspicava
l’intervento della chiesa a favore dei lavoratori e una maggiore democratizzazione delle istituzioni
esistenti.
 Corrente dei cattolici moderati, di cui si faceva portavoce Filippo Meda, il quale riteneva necessario
che cattolici si inserissero all’interno dell’istituzioni dello Stato liberale, considerato “un peccatore
da salvare” al fine di riformarlo.
Nel 1903 morì Leone XIII e gli succedette Pio X. Contrario all’idea di murri il nuovo Papa ne condanno le
dottrine e fece confluire il movimento democratico cristiano all’interno dell’opera dei congressi .
Tuttavia , rendendosi conto che l’isolamento politico avrebbe favorito i socialisti, procedette alla
sospensione del non expedit , autorizzando candidature cattoliche moderate in appoggio ai liberali
Giolittiani. Nel 1904 pio X sciolse l’opera dei congressi e permise alla corrente clerico-moderata di
presentarsi alle lezioni.
Per la prima volta dopo l’unità d’Italia, due deputati cattolici entrarono in parlamento. L’alleanza tra Giolitti
e la chiesa venne dunque sulla base della comune opposizione al socialismo rivoluzionario.

GIOLITTI E NAZIONALISTI
A fronte dell’ala progressista della liberismo italiano, rappresentato dallo stesso Giolitti, stava emergendo
una destra liberale di orientamento conservatore, contraria ogni apertura nei confronti di socialisti e
sindacati e incline a fare propri gli ideali del nazionalismo. Essa pretendeva dal governo un atteggiamento
più aggressivo e militarista in politica estera e la linea dura contro gli scioperi sul piano interno.i nazionalisti
davano voce all’insoddisfazione di una parte della piccola e della media borghesia italiana nei confronti dei
governi liberali.
Erano rappresentati da alcuni intellettuali, come Enrico Corradini, Giovanni Papini e Giuseppe prezzolini, I
nazionalisti nel 1910 si organizzarono politicamente, dando vita all’associazione nazionalista italiana, che
ottenne progressivamente sempre più significativo. Il programma di tale movimento, che rilevava una
concezione dello Stato radicalmente antidemocratica, da un lato prevedeva la repressione della lotta
operaia e dall’altro individuava la soluzione ai problemi della società italiana nell’espansionismo territoriale
e nella conquista di colonie. Alla lotta di classe quindi andava sostituita la lotta tra le nazioni proletarie,
come il nostro era considerato dai nazionalisti e le vecchie corrette nazioni plutocratiche.
LUCI E OMBRE DEL GOVERNO DI GIOLITTI
Ne scaturì una politica che risulta ambivalente e attratti oscura causata in generale dalla propensione più
liberali nell’ambito della politica interna e più nazionalista in quella della politica estera.

Le riforme sociali
 Nell’ambito della normativa sul lavoro, l’introduzione nel 1907 del giorno di riposo settimanale, si
affiancarono norme che regolavano il lavoro notturno e altri che prevedevano un congedo per le
donne durante la gravidanza e l’istituzione di una cassa maternità per offrire sussidi alle lavoratrici
dopo il parto.
 Fu ampliata la legislazione contro gli infortuni e quella relativa la tutela pensionistica in caso di
invalidità e vecchiaia
Nel 1912 venne fondato l’ispettorato del lavoro, un’autorità che rese più efficace l’azione di sorveglianza
sull’applicazione corretta delle leggi sul lavoro prima svolta dalla polizia.
 Con la legge daneo-credaro del 1911 l’obbligo scolastico venne esteso fino ai 12 anni e la spesa per
istituire sul territorio nazionale le scuole elementari attribuita allo Stato

Le riforme economiche
Giolitti predispose un programma di statalizzazione di servizi di pubblica utilità.
Il primo settore essere statalizzato nel 1903 fu quello dei telefoni; seguì nel 1905 il progetto di
nazionalizzazione delle ferrovie, al quale erano contrari gli ambienti economici più liberalistici in quanto
imponeva il controllo del potere politico in materia economica.
Per tale motivo Giolitti preferì dimettersi, lasciando per pochi mesi la guida del governo al liberale
Alessandro Fortis che fu incaricato di portare a termine la riforma.
Il proposito di ottenere un equa distribuzione del carico fiscale attraverso l’introduzione di un’imposta
progressiva sul reddito, non accadde a causa dell’opposizione in parlamento dei conservatori, che
determinò nel 1909 la caduta del secondo governo Giolitti.
Nel 1912 fu realizzato il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita con la nascita dell’INA, con il quale
lo Stato si sarebbe fatto carico delle pensioni di invalidità e di vecchiaia dei lavoratori.

IL DOPPIO VOLTO DELLA POLITICA GIOLITTIANA


Consapevole della situazione del meridione, Giolitti intervenne con una legislazione speciale a sostegno
dell’economia locale, che prevedeva la realizzazione di opere pubbliche, come strade ferrovie e l’istituzione
di scuole tecniche e professionali.
Nel 1904 fu varata la legge per il Risorgimento economico di Napoli per incoraggiare la nascita di un polo di
sviluppo industriale attraverso agevolazioni fiscali delle imprese che si fossero stabiliti nella città.
Nonostante la nascita di realtà industriali significativi gli esiti furono molto inferiori alle aspettative. Finendo
anzi per alimentare sprechi e corruzione da parte della classe dirigente locale che si trovò ad amministrare
risorse importanti senza avere la formazione adeguata. I contadini meridionali si trovarono costretti
all’emigrazione.
Anche la politica nei confronti delle agitazioni sociali ebbe modalità del tutto difformi tra Nord e sud. Gli
scioperi che ebbero luogo nelle regioni meridionali furono oggetto di repressione.
Nel sud il governo era di fatto debole rispetto ai grandi proprietari terrieri e alle forze conservatrici, che
stroncavano qualsiasi iniziativa che potesse intaccare i loro interessi economici.
Tale propensione al clientelismo politico fu sfruttata da Giolitti per consolidare le proprie maggioranze
parlamentari.
Le elezioni politiche del mezzogiorno si svolgevano facendo ricorso quasi sistematicamente alla corruzione:
mentre nel nord opinione pubblica era matura, nel sud in mancanza di una solida Cultura istituzionale, la
politica si riduceva a rapporti clientelari, ovvero si basava su scambi di favori. Non mancava il ricorso ai
brogli e alla violenza e all’intimidazione.
Le critiche dei meridionalisti
A denunciare con forza le dannose conseguenze prodotte dal sistema politico Giolittiano nel sud del paese
furono i meridionalisti, un gruppo di intellettuali impegnato a studiare la questione meridionale
proponendo soluzioni. Essi erano tutti d’accordo nel ritenere che Giolitti l’avesse ulteriormente aggravata.

LA GUERRA DI LIBIA E LA FINE DELL ETÀ GIOLITTIANA


Nel 1911 Giolitti formò un nuovo ministero, che sarebbe durato fino al 1914. Con questo nuovo governo
egli ritenne importante andare incontro ai crescenti sentimenti nazionalisti e militaristi della borghesia
italiana.
I nazionalisti premevano affinché il paese si impossessasse delle regioni africane della Libia: speravano che
se essa si potesse prestare un’intesa colonizzazione, diventando così luogo in cui gli italiani avrebbero
trovato a terra e lavoro. Giolitti decise di assecondare tali ambizioni.
La macchina diplomatica si era in realtà già messa in moto negli anni precedenti per ottenere il consenso
delle grandi potenze e alimentò l’impresa libica: nel 1902 il governo italiano aveva otenuto l’assenso di
Francia, Inghilterra e impero austroungarico e nel 1909 quello della Russia.
Decisivo fu inoltre l’appoggio finanziario garantito dal Banco di Roma, istituto legato al Vaticano, favorevole
all’impresa per la possibilità di estendere i propri interessi economici in quella regione africana.
La prospettiva della guerra era accolta con favore anche da alcuni socialisti e da un gruppo di sindacalisti
rivoluzionari. Ostile invece la direzione del partito socialista, che condusse una battaglia contro l’intervento,
coerente con la tradizione antimilitarista.
Giolitti giudicando le posizioni favorevoli alla guerra più forti, il 3 ottobre 1911 invase la Tripolitania e la
Cirenaica. Nonostante nel 1912 la pace di Losanna assegnasse la regione all’Italia, l’esercito riuscì a
occupare solamente le fasce costiere, perché all’interno le popolazioni locali opposero per anni resistenza
conducendo contro gli invasori una tenace forma di guerriglia.

Le conseguenza della guerra di Libia


Il territorio africano era privo di grande rilievo economico, non sembrava poter fornire le materie prime ne
occasioni di impiego per i lavoratori italiani. Dopo l’impresa coloniale, gli equilibri politici su cui contava il
governo Giolitti entrarono in crisi: I nazionalisti continuarono la loro opposizione al liberalismo Giolittiano,
l’interno del partito socialista prevalse la corrente rivoluzionaria.
In occasione del congresso di Reggio Emilia del 1912 vennero espulsi dal partito Bonomi e Bissoati,
colpevoli di aver sostenuto la guerra in Africa, e venne isolata l’ala riformista turatiana; la direzione
dell’organo di stampa del socialismo l’avanti fu affidata a Benito Mussolini.

La nuova legge elettorale e le elezioni del 1913


L’impresa di Libia servì comunque a Giolitti per accontentare temporaneamente le richieste provenienti dai
conservatori dei nazionalisti. Un’altra sua iniziativa è quella del suffragio universale maschile sgradito alla
destra perché il numero di deputati socialisti in parlamento sarebbe prevedibilmente aumentato. La
riforma, approvata nel 1912, concesse il diritto di voto a tutti maschi che sapendo leggere e scrivere,
avessero compiuto i 21 anni di età, a tutti quelli che, anche se analfabeti, avessero prestato il servizio
militare e infine a tutti gli analfabeti che avessero compiuto trent’anni. Il numero degli elettori possono
talvolta da 3 milioni e mezzo oltre 8 milioni e mezzo.
In vista delle elezioni del 1913, Giolitti stipulò un accordo noto come patto Gentiloni, con l’unione elettorale
cattolica. Tale accordo prevedeva l’appoggio elettorale dei cattolici ai deputati liberali che si fossero
impegnati ad assicurare in parlamento il rispetto di alcune richieste: tra le quali figuravano l’opposizione
ogni proposta di legge contro le congregazioni religiose, la tutela di istruzione privata cattolica,
l’inserimento nelle scuole elementari dell’insegnamento della religione cattolica, la difesa dell’unità della
famiglia contro il divorzio.
Grazie al patto Gentiloni, Giolitti vinse le elezioni del 1913, ma la maggioranza che ne derivò fu disorganica.
Nel nuovo parlamento si rafforzarono le componenti nazionaliste e conservatrici a destra e quella della sua
sinistra radicale. Il sistema politico Giolittiano entrò in crisi quando i radicali, difendendo la loro tradizione
anticlericale, non accettarono il patto Gentiloni e passarono all’ opposizione, facendo cadere il governo.
Il 10 marzo 1914 Giolitti diede le dimissioni e fu sostituito dal liberale conservatore Antonio Salandra.
I PERCORSI AMBIVALENTI DELLA CULTURA EUROPEA
Marx e il marxismo In un contesto caratterizzato da un'industrializzazione diffusa e dall'impetuosa crescita
della classe operaia, trovò ampia risonanza in Europa il programma di azione rivoluzionaria proposto da
Marx ed Engels nel Manifesto del Partito comunista (1848), nel quale i due filosofi tedeschi chiamavano i
proletari dei vari paesi a unirsi in una lotta comune per una società più giusta. Nei suoi scritti successivi,
Marx individuò nella sfera economica la "struttura" e il motore della storia, dalla quale dipendevano tutte le
altre sfere della società (politica, cultura, religione), definite "sovrastruttura". Dall'indagine del sistema
capitalistico di produzione, proprio della società borghese, Marx prese le mosse per delineare la
"concezione materialistica della storia", all'interno della quale si collocava la sua teoria della rivoluzione e
della futura società comunista, fondata sull'abolizione della proprietà privata e senza classi, in quanto gli
interessi del proletariato si sarebbero trovati a coincidere con l'interesse generale della società. Il marxismo
divenne quindi la dottrina politica dominante nel mondo del lavoro. Fu così creata una rete di
coordinamento fra le delegazioni operaie dei vari paesi, che diede vita alla Prima Internazionale (1864);
contrassegnata da forti contrasti interni, diventati insanabili dopo il dissidio sul significato della Comune di
Parigi tra Marx e l'anarchico russo Bakunin, l'associazione si sciolse nel 1876.
La Chiesa e la modernità: dai Sillabo alla Rerum Novarum La posizione della Chiesa nei confronti della
cultura moderna e della questione sociale subì importanti evoluzioni nel XIX secolo. Il Sillabo (1864) di papa
Pio IX aveva duramente condannato le principali teorie morali e politiche dell'epoca — il liberalismo, il
comunismo e l'ateismo — in quanto basate sul primato della ragione sulla fede. In seguito, con l'enciclica
Rerum Novarum (1891), papa Leone XIII affrontò direttamente la questione sociale, richiamando la
superiorità della dignità umana rispetto agli obiettivi del profitto economico e auspicando una risoluzione
giusta e pacifica (non rivoluzionaria) delle tensioni sociali.
Darwin e l'evoluzionismo Con la teoria dell'evoluzione elaborata dal naturalista inglese Charles Darwin
nella seconda metà dell'Ottocento, si determinò una svolta fondamentale nella biologia e nella stessa storia
del pensiero. Nei saggi L'origine delle specie (1859) e L'origine dell'uomo (1871), dove esponeva la sua
teoria della selezione naturale, Darwin trasformò infatti le tradizionali concezioni della natura e dell'uomo,
mettendo tra l'altro in crisi l'idea di una sua origine divina. L'evoluzionismo suscitò interesse ed entusiasmo
in tutta Europa, anche grazie a un clima culturale dominato dalla fiducia nel progresso delle scienze come
fondamento dello sviluppo dell'umanità.
II nazionalismo e il darwinismo sociale Alla fine del XIX secolo coesistevano due idee di appartenenza
nazionale. Secondo lo studioso Ernest Renan appartenere a una nazione significava essere parte di una
compagine statale e civile insediata in un determinato territorio, e tutti coloro che vi abitavano godevano
perciò di eguali diritti; secondo Maurice Barrès, invece, la titolarità dei diritti politici doveva essere riservata
solo a una determinata etnia. Questa visione di nazione, che comportava la contrapposizione con altri
popoli nella difesa di una presunta purezza etnica, fu alla base di una forma di nazionalismo aggressivo che
cominciò a manifestarsi alla fine del XIX secolo. Il mito della superiorità della propria "specie" nazionale
trovò un sostegno teorico nel darwinismo sociale, un vasto movimento ideologico che, banalizzando l'idea
darwiniana di "selezione naturale", giustificava la disuguaglianza razziale e il conflitto fra le nazioni. Uno
suoi dei più influenti rappresentanti fu Herbert Spencer, secondo il quale per ottenere un reale progresso
occorreva favorire la libera concorrenza tra i membri della società senza proteggere le fasce più deboli. Altri
pensatori, tuttavia, preferirono mettere in evidenza gli elementi delle teorie di Darwin che indicavano
l'utilità evolutiva degli istinti altruistici e dell'empatia.

LE MATRICI E I CARATTERI DELL'IMPERIALISMO


Alla fine del XIX secolo l'espansione coloniale europea raggiunse il suo apice, coinvolgendo non solo
potenze coloniali di lunga data (Inghilterra e Francia), ma anche i nuovi Stati nazionali (Belgio, Italia e
Germania).
Le matrici dell'imperialismo di fine secolo furono economiche, in quanto i paesi occidentali, investiti dalla
seconda rivoluzione industriale, erano interessati a sfruttare la loro superiorità tecnologica rispetto ad altre
aree del mondo per trovare nuovi sbocchi commerciali e mettere le mani su materie prime a basso costo di
cui alcuni paesi meno sviluppati erano estremamente ricchi.
Altrettanto importanti furono i fattori di carattere ideologico-politico: la colonizzazione era infatti motivata
dalla volontà degli Stati di acquisire un ruolo di grande potenza sullo scacchiere internazionale e
all'emergere di un sentimento nazionalista.
Esso fu a sua volta alimentato dalla diffusione di teorie razziste da un lato e dall'idea di una missione
civilizzatrice europea dall'altro. Contribuirono infine fattori culturali come il fascino dell'esotico e il mito del
buon selvaggio diffuso nella letteratura dell'epoca.
L'espansione dell'impero britannico Negli ultimi tre decenni del XIX secolo, la Gran Bretagna fu interessata
da una forte spinta imperialistica, tanto che il suo impero giunse a comprendere quasi un quarto della
popolazione mondiale. Una parte dei vasti possedimenti britannici era costituita da colonie bianche di
popolamento, che avevano via via acquisito una maggiore autonomia dalla madrepatria (Canada, Australia
e Nuova Zelanda); l'altra era data da territori abitati in maggioranza da popolazioni indigene, amministrati
direttamente dalle autorità britanniche.
Su tutti spiccava l'India, "perla" dell'impero ed epicentro del sistema coloniale inglese. Per mantenere il
controllo su un paese così vasto, il governo inglese favorì un certo sviluppo economico, ma nello stesso
tempo fomentò i contrasti etnici e religiosi interni per scongiurare rischi di ribellione, appoggiandosi in
particolare alla minoranza musulmana. Di qui la reazione della classe colta induista, che nel 1885 diede vita
al movimento del Congresso, un'organizzazione che chiedeva una più larga partecipazione politica. Oltre
all'India, anche l'Egitto entrò nella sfera d'influenza britannica: dopo l'apertura del Canale di Suez nel 1869
(per opera dei francesi), il paese assunse infatti una posizione strategica per il controllo delle vie d'accesso
verso il subcontinente indiano. Per questo gli inglesi nel 1882 lo occuparono militarmente, suscitando il
risentimento della Francia che aveva le medesime mire espansionistiche nella regione.
La spartizione dell'Africa nera Dagli anni settanta dell'Ottocento in poi l'Africa divenne il principale campo
d'azione della contesa imperialistica delle grandi potenze. Fino ad allora la presenza europea nel continente
si era concentrata sulla costa occidentale, dove si svolgevano gli scambi commerciali (fra cui la tratta degli
schiavi).
Con l'aumento del volume e della varietà dei traffici euro- africani, gli europei ritennero che occorresse una
loro presenza diretta a tutela dei propri interessi commerciali, sfruttando anche la fragilità delle entità
statuali africane, che spesso si reggevano sul potere di capi tribù.
Fu così che gli inglesi si impadronirono della Costa d'Oro e del Lagos; la Francia invece allargò i confini
dell'Algeria e iniziò a penetrare nel Senegal. Sull'Africa si concentrarono anche le mire del Belgio, la cui
espansione, dovuta all'azione del re Leopoldo II, si rivolse in particolare alla vasta e ricca regione del Congo.
La sua iniziativa suscitò però duri contrasti con le altre potenze occidentali: proprio per evitare che la lotta
per la spartizione dell'Africa degenerasse, nel 1884 il cancelliere Bismarck indisse a Berlino una conferenza
internazionale, durante la quale il continente venne diviso a tavolino fra i vari Stati.
Con l'occupazione diretta, i possedimenti coloniali vennero riorganizzati in colonie di popolamento e di
sfruttamento: l'economia di sussistenza fu stravolta dai nuovi sistemi di produzione e la popolazione
indigena fu tenuta in stato di semischiavitù. Nonostante la conferenza, la "gara per l'Africa" fece riemergere
ben presto antagonismi fra le potenze europee: Francia e Gran Bretagna entrarono in conflitto per il
possesso del Sudan e giunsero a un passo dalla guerra in seguito allo scontro avvenuto presso il piccolo
villaggio di Fashoda (1898).
Volendo creare un unico vasto dominio britannico dall'Egitto al Capo, gli inglesi non esitarono anche a
tentare l'annessione dell'Orange e del Transvaal, due regioni dell'attuale Sudafrica, ricche di giacimenti
d'oro e di diamanti. L'iniziativa incontrò però la resistenza dei boeri, discendenti dei coloni olandesi che si
erano insediati in quell'area alla fine del Seicento. La guerra anglo-boera (1899), vinta dagli inglesi, contribuì
ad acuire ulteriormente il clima di tensione già presente nel Vecchio continente.
La colonizzazione dell'Asia In Asia, accanto a un modello di imperialismo informale, di cui era un esempio il
controllo economico e commerciale che le potenze europee esercitavano sulla Cina, esistevano da secoli
vere e proprie colonie inglesi, portoghesi, olandesi, che si ingrandirono alla fine dell'Ottocento.
Dagli anni sessanta iniziò anche una dinamica penetrazione della Francia, che riuscì a sottrarre alla sfera di
influenza cinese la Cambogia, il Vietnam e il Laos, riuniti nel 1893 nell'Unione Indocinese.
Anche l'imperialismo russo si diresse in Asia secondo due direttrici: una verso l'Asia centrale, dove la Russia
avanzò assimilando numerosi popoli nomadi e attestandosi ai confini dell'Afghanistan; l'altra verso la
Siberia e l'Estremo Oriente. La Russia fondò la città di Vladivostok sull'Oceano Pacifico e rafforzò la sua
presenza con la costruzione della ferrovia transiberiana. In Estremo Oriente entrò invece in competizione
col Giappone per il controllo della Manciuria.

L'imperialismo giapponese II Giappone aveva conosciuto un notevole sviluppo economico basato su


modelli industriali e militari di tipo occidentale, combinato a un sistema politico autoritario e nazionalista.
Le sue ambizioni espansionistiche presero di mira la Corea, su cui la Cina esercitava un protettorato. La
guerra che scaturì (1894-95) ebbe effetti politici internazionali: il Giappone infatti fu riconosciuto come
potenza regionale. Per controbilanciare le mire imperialistiche nipponiche i governi europei decisero di
ritagliarsi aree di influenza più vaste in Cina, dove giunsero a esercitare un'ingerenza diretta sull'economia e
sull'amministrazione locale. Fra la popolazione cinese si diffuse così un malcontento destinato a esplodere
di lì a poco in un nuovo conflitto con le potenze europee.

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