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LE LOTTE SINDACALI
Nella primavera del 1919 iniziò un ciclo di lotte sociali e sindacali, che mescolarono
rivendicazioni economiche e aspettative rivoluzionarie.
Queste lotte ebbero natura spontanea. In particolare vanno ricordate le occupazioni
delle terre incolte nel centro-sud, in cui i contadini reclamavano le terre promesse
dalla propaganda dopo Caporetto; i tumulti popolari contro il carovita, con assalti ai
forni e ai negozi; gli scioperi per aumenti salariali nelle campagne e nelle fabbriche
del Nord, guidati dalle grandi organizzazioni sindacali, come la Fedeterra, la Cgdl e il
Cil.
MASSIMALISTI E RIFORMISTI
Dal punto di vista politico la rappresentanza spettava al Partito socialista, che nel
clima del dopoguerra vide le proprie posizioni radicalizzate in senso rivoluzionario.
In particolare si svilupparono due tendenze: quella dei massimalisti e quella dei
riformisti.
La prima era in vantaggio numerico, guidata da Giacinto Menotti Serrati, e fu
chiamata massimalista perché proponeva una rivoluzione socialista che escludeva
ogni possibilità di collaborazione con il governo e teorizzava la violenza di classe e la
dittatura del proletariato.
La seconda, in minoranza, sosteneva che bisognava battersi per ottenere riforme
sociali e una piena democrazia, rimuovendo la censura di stampa introdotta durante
la guerra.
Nonostante le discrepanze numeriche, i riformisti controllavano la Cgdl, le
cooperative e i comuni ad amministrazione socialista. In generale il movimento
socialista era privo di una direzione unitaria.
IL CETO MEDIO
Nel contesto del dopoguerra si aggiunse anche il disagio del ceto medio.
Professionisti, magistrati, insegnanti, bottegai, commercianti, lamentavano il reddito
e la collocazione economico-sociale, oltre agli aspetti culturali e simbolici.
Gli impiegati assistevano alla diminuzione dei loro stipendi causata dall’inflazione,
molti ex ufficiali faticavano a reinserirsi nella vita civile, intellettuali e studenti erano
delusi dagli esiti della guerra. I sentimenti diffusi erano quelli antisocialisti,
antiparlamentari e antidemocratici, creando una miscela di desiderio e ordine e di
rifiuro antiborghese nei confronti della classe politica liberale
LA “VITTORIA MUTILATA”
LE DIFFICILI TRATTATIVE DI PACE
Oltre ai conflitti sociali e sindacali, si aggiungeva in Italia lo spettro della “vittoria
mutilata”, definita così da Gabriele D’Annunzio.
La trattativa di pace si stava rivelando molto difficile. Da un lato, senza tener conto
del principio di nazionalità e seguendo quanto stabilito dal Patto di Londra, l’Italia
chiedeva il Sud Tirolo-Alto Adige, parte della costa dalmata e l’Istria. Dall’altro,
tenendo conto del principio di nazionalità rivendicava Fiume, non compresa nel
patto di Londra perché possibile sbocco sul mare di un futuro stato Croato.
Al contempo, serbi, croati e sloveni, che volevano unificarsi nella Iugoslavia,
chiedevano l’intera Istria, Trieste, parte di Gorizia e rifiutavano le cessioni in
Dalmazia.
LA POSIZIONE DI WILSON
Il presidente americano Wilson non aveva sottoscritto il patto di Londra e si
opponeva fortemente alle richieste italiane. Era favorevole alla formazione di uno
stato iugoslavo indipendente e nel 1919 avanzò una proposta che lasciava fuori
dall’Italia la Dalmazia e l’Istria, e chiedeva l’autonomia per la città di Fiume.
Orlando e Sonnino furono indignati dalla proposta e lasciarono la conferenza di pace
di Parigi, ma una volta tornati non ebbero più spazio politico e diplomatico per
avanzare ulteriori richieste.
L’OCCUPAZIONE DI FIUME
L’andamento delle trattative di pace diede ai nazionalisti la spinta per scatenare una
violenta protesta contro il governo, che non si limitò al campo verbale. Queste
polemiche divennero fatti il 12 settembre 1919, data in cui D’Annunzio, a capo di un
gruppo formato da ex militari, reparti dell’esercito e arditi, occupò fiume e ne
proclamò l’annessione all’Italia.
IL TRATTATO DI RAPALLO
L’8 settembre 1920 D’Annunzio proclamò a Fiume la Reggenza del Carnaro, dotata di
una costituzione redatta da De Ambris, cioè la Carta del Carnaro.
Nel frattempo, però, le trattative di pace che vedevano Fiume come protagoniste,
erano in risoluzione. Il 12 novembre 1920 Gorizia, Trieste, l’Istria, Zara e diverse isole
entrarono a far parte dell’Italia e Fiume venne dichiarata città libera e posta sotto
tutela della Società delle Nazioni.
D’Annunzio e i nazionalisti avevano rifiutato questo accordo, dunque Giolitti fece
liberare Fiume con la forza, che con trattato italo-iugoslavo di Roma, sarà poi
temporaneamente annessa nuovamente all’Italia.
IL 1919
LA NASCITA DEL PARTITO POPOLARE
Il 1919 fu un anno importante nel dopoguerra Italiano per altri motivi, oltre le lotte
sociali e l’occupazione di Fiume. Avvenne la nascita del Partito popolare italiano, il
primo partito di ispirazione cattolica; la fondazione dei Fasci di combattimento, a
opera di Benito Mussolini; le prime elezioni politiche con il sistema elettorale
proporzionale.
La frattura tra stato e chiesa verificatasi a seguito della presa di Roma del 1870 si era
attenuata, e a partire dal 1913 i cattolici poterono tornare a votare grazie al suffragio
universale. Erano nati anche sindacati e associazioni di matrice cattolica, ma mai
un’organizzazione politica. Per questo il Partito popolare italiano, fondato dal
sacerdote Luigi Struzio, rappresentò una novità, perché anche se di ispirazione
cattolica, il partito era al contempo aconfessionale, cioè non direttamente legato alla
chiesa. Papa Benedetto XV appoggiò questa scelta, poiché mancava un moderno
partito di massa in grado di arginare il movimento socialista. Il programma del
Partito popolare ribadiva i punti fondamentali della dottrina sociale cattolica: il
rispetto della proprietà privata ma lo sviluppo della solidarietà sociale, il rifiuto della
lotta tra classi, la difesa e l’ampliamento della proprietà contadina, la liberà di
insegnamento.