Sei sulla pagina 1di 5

IL PRIMO DOPOGUERRA IN ITALIA

CRISI ECONOMICA E LOTTE SOCIALI


IL QUADRO DEL DOPOGUERRA
Anche se l’Italia aveva vinto la guerra, il quadro generale fu più simile a quello dei
paesi che avevano perso. Anche se sembrava che fossero stati raggiunti gli obiettivi
per cui l’Italia era entrata in guerra, e cioè completare l’unità nazionale e portarsi al
pari delle altre potenze, in realtà il dopoguerra fu caratterizzato da una conflittualità
sociale e politica che per quattro anni lacerò il paese.
In particolare, i primi due anni furono detti biennio rosso, mentre negli altri due
l’Italia fu messa a ferro e fuoco dall’avvento del fascismo.

LA CRISI ECONOMICA E FINANZIARIA


Durante la guerra l’Italia aveva dovuto importare grandi quantità di materie prime di
ogni specie. Per finanziare queste importazioni, lo Stato aveva aumentato le imposte
indirette e quelle sui redditi agricoli, aveva stampato nuova moneta, ottenuto crediti
dai governi esteri e grazie al lancio di prestiti nazionali. Questo aumento della spesa
pubblica, però, aveva generato un pesante deficit del bilancio che ebbe come
conseguenza una grave inflazione, che fece aumentare il costo della vita di quasi sei
volte. Provocò anche un debito pubblico molto elevato, che nel 1920 superò del 60%
il Prodotto interno lordo, e un pesante debito estero verso i paesi alleati. L’Italia
doveva 377 milioni di sterline alla Gran Bretagna e 1648 milioni di dollari agli Stati
Uniti.

RICONVERSIONE PRODUTTIVA E DISOCCUPAZIONE


Durante la prima fase, la guerra non ebbe effetti negativi sull’economia. Il
coordinamento pubblico della produzione industriale, infatti, aveva dato grande
impulso allo sviluppo dei settori siderurgici, meccanici e chimici, ed erano cresciuti
sia gli investimenti sia i profitti. Il rinnovamento tecnologico, dunque, fu una
conseguenza della necessità di produzione bellica. Per questo aumentarono anche i
posti di lavoro. La Fiat aveva aumentato i suoi dipendenti da 4.000 a 40.000 e
l’Ansaldo ne contava 56.000.
Finito il conflitto, il sistema industriale forte e moderno non poteva più essere
sostenuto dallo stato, e a ciò si aggiunse il problema della riconversione produttiva,
da quella bellica a quella di pace, che comportò una forte disoccupazione.
Il problema della disoccupazione fu aggravato dalla necessità di ricollocare i reduci di
guerra, e le leggi restrittive di alcuni governi avevano bloccato il fenomeno
dell’emigrazione.
Questo fece mancare all’economia italiana le rimesse degli emigranti, e aggravò il
dualismo economico tra Nord e Sud.

LE LOTTE SINDACALI
Nella primavera del 1919 iniziò un ciclo di lotte sociali e sindacali, che mescolarono
rivendicazioni economiche e aspettative rivoluzionarie.
Queste lotte ebbero natura spontanea. In particolare vanno ricordate le occupazioni
delle terre incolte nel centro-sud, in cui i contadini reclamavano le terre promesse
dalla propaganda dopo Caporetto; i tumulti popolari contro il carovita, con assalti ai
forni e ai negozi; gli scioperi per aumenti salariali nelle campagne e nelle fabbriche
del Nord, guidati dalle grandi organizzazioni sindacali, come la Fedeterra, la Cgdl e il
Cil.

I RISULTATI DELLE VERTENZE SINDACALI


Il governo reagì ai tumulti alternando l’uso della forza con la ricerca di soluzioni
positive. Il movimento dei lavoratori ottenne dei risultati molto importanti, tra i
quali: aumenti salariali e l’accordo per la riduzione della giornata lavorativa a 8 ore; i
braccianti ottennero aumenti di paga, l’imponibile di manodopera ( una quantità
minima di assunzioni proporzionate alla grandezza della azienda) e il controllo
sindacale del collocamento; i mezzadri e i coloni ebbero dei miglioramenti dei patti
agrari, e al Sud, con il decreto Visocchi, il governo diede ai prefetti la facoltà di
assegnare alle associazioni dei contadini terre incolte.

MASSIMALISTI E RIFORMISTI
Dal punto di vista politico la rappresentanza spettava al Partito socialista, che nel
clima del dopoguerra vide le proprie posizioni radicalizzate in senso rivoluzionario.
In particolare si svilupparono due tendenze: quella dei massimalisti e quella dei
riformisti.
La prima era in vantaggio numerico, guidata da Giacinto Menotti Serrati, e fu
chiamata massimalista perché proponeva una rivoluzione socialista che escludeva
ogni possibilità di collaborazione con il governo e teorizzava la violenza di classe e la
dittatura del proletariato.
La seconda, in minoranza, sosteneva che bisognava battersi per ottenere riforme
sociali e una piena democrazia, rimuovendo la censura di stampa introdotta durante
la guerra.
Nonostante le discrepanze numeriche, i riformisti controllavano la Cgdl, le
cooperative e i comuni ad amministrazione socialista. In generale il movimento
socialista era privo di una direzione unitaria.
IL CETO MEDIO
Nel contesto del dopoguerra si aggiunse anche il disagio del ceto medio.
Professionisti, magistrati, insegnanti, bottegai, commercianti, lamentavano il reddito
e la collocazione economico-sociale, oltre agli aspetti culturali e simbolici.
Gli impiegati assistevano alla diminuzione dei loro stipendi causata dall’inflazione,
molti ex ufficiali faticavano a reinserirsi nella vita civile, intellettuali e studenti erano
delusi dagli esiti della guerra. I sentimenti diffusi erano quelli antisocialisti,
antiparlamentari e antidemocratici, creando una miscela di desiderio e ordine e di
rifiuro antiborghese nei confronti della classe politica liberale

LA “VITTORIA MUTILATA”
LE DIFFICILI TRATTATIVE DI PACE
Oltre ai conflitti sociali e sindacali, si aggiungeva in Italia lo spettro della “vittoria
mutilata”, definita così da Gabriele D’Annunzio.
La trattativa di pace si stava rivelando molto difficile. Da un lato, senza tener conto
del principio di nazionalità e seguendo quanto stabilito dal Patto di Londra, l’Italia
chiedeva il Sud Tirolo-Alto Adige, parte della costa dalmata e l’Istria. Dall’altro,
tenendo conto del principio di nazionalità rivendicava Fiume, non compresa nel
patto di Londra perché possibile sbocco sul mare di un futuro stato Croato.
Al contempo, serbi, croati e sloveni, che volevano unificarsi nella Iugoslavia,
chiedevano l’intera Istria, Trieste, parte di Gorizia e rifiutavano le cessioni in
Dalmazia.

LA POSIZIONE DI WILSON
Il presidente americano Wilson non aveva sottoscritto il patto di Londra e si
opponeva fortemente alle richieste italiane. Era favorevole alla formazione di uno
stato iugoslavo indipendente e nel 1919 avanzò una proposta che lasciava fuori
dall’Italia la Dalmazia e l’Istria, e chiedeva l’autonomia per la città di Fiume.
Orlando e Sonnino furono indignati dalla proposta e lasciarono la conferenza di pace
di Parigi, ma una volta tornati non ebbero più spazio politico e diplomatico per
avanzare ulteriori richieste.

L’OCCUPAZIONE DI FIUME
L’andamento delle trattative di pace diede ai nazionalisti la spinta per scatenare una
violenta protesta contro il governo, che non si limitò al campo verbale. Queste
polemiche divennero fatti il 12 settembre 1919, data in cui D’Annunzio, a capo di un
gruppo formato da ex militari, reparti dell’esercito e arditi, occupò fiume e ne
proclamò l’annessione all’Italia.
IL TRATTATO DI RAPALLO
L’8 settembre 1920 D’Annunzio proclamò a Fiume la Reggenza del Carnaro, dotata di
una costituzione redatta da De Ambris, cioè la Carta del Carnaro.
Nel frattempo, però, le trattative di pace che vedevano Fiume come protagoniste,
erano in risoluzione. Il 12 novembre 1920 Gorizia, Trieste, l’Istria, Zara e diverse isole
entrarono a far parte dell’Italia e Fiume venne dichiarata città libera e posta sotto
tutela della Società delle Nazioni.
D’Annunzio e i nazionalisti avevano rifiutato questo accordo, dunque Giolitti fece
liberare Fiume con la forza, che con trattato italo-iugoslavo di Roma, sarà poi
temporaneamente annessa nuovamente all’Italia.

IL 1919
LA NASCITA DEL PARTITO POPOLARE
Il 1919 fu un anno importante nel dopoguerra Italiano per altri motivi, oltre le lotte
sociali e l’occupazione di Fiume. Avvenne la nascita del Partito popolare italiano, il
primo partito di ispirazione cattolica; la fondazione dei Fasci di combattimento, a
opera di Benito Mussolini; le prime elezioni politiche con il sistema elettorale
proporzionale.
La frattura tra stato e chiesa verificatasi a seguito della presa di Roma del 1870 si era
attenuata, e a partire dal 1913 i cattolici poterono tornare a votare grazie al suffragio
universale. Erano nati anche sindacati e associazioni di matrice cattolica, ma mai
un’organizzazione politica. Per questo il Partito popolare italiano, fondato dal
sacerdote Luigi Struzio, rappresentò una novità, perché anche se di ispirazione
cattolica, il partito era al contempo aconfessionale, cioè non direttamente legato alla
chiesa. Papa Benedetto XV appoggiò questa scelta, poiché mancava un moderno
partito di massa in grado di arginare il movimento socialista. Il programma del
Partito popolare ribadiva i punti fondamentali della dottrina sociale cattolica: il
rispetto della proprietà privata ma lo sviluppo della solidarietà sociale, il rifiuto della
lotta tra classi, la difesa e l’ampliamento della proprietà contadina, la liberà di
insegnamento.

LA NASCITA DEL FASCISMO


Il movimento dei Fasci di combattimento fu fondato il 23 marzo 1919 da Benito
Mussolini. Tra i partecipanti troviamo ex socialisti, repubblicani, arditi, futuristi tra
cui Marinetti, organizzati in un sistema eterogeneo non accomunato da un’ideologia
e un’appartenenza politica ben precisa.
Il programma iniziale dei Fasci era apparentemente ultrademocratico, infatti
prevedeva il diritto di voto per le donne, l’abolizione del Senato di nomina regia, la
giornata di lavoro di otto ore, la tassazione straordinaria dei capitali. In realtà, come
si vede, si nascondevano un’ispirazione antidemocratica e antisocialista, già evidente
dalla prima azione del movimento: l’incendio della sede dell’Avanti, quotidiano
socialista. Infatti ciò che inizialmente caratterizzava il fascismo era l’esaltazione
all’azione, dell’atto di forza esemplare, il disprezzo della politica intesa come
mediazione.
La mitizzazione della guerra era un altro carattere fondamentale. Conclusa la guerra
esterna, occorreva combattere quella interna, che portasse al potere l’Italia migliore.
Infine, apparteneva alla visione fascista, la necessità di fare piazza pulita della
politica tradizionale, ponendosi come “antipartito”. I partiti, come dice il nome,
rappresentavano una parte dell’Italia, mentre il fascismo voleva rappresentarla nella
sua interezza.
Mussolini diceva che la dottrina del fascismo era il fatto, e questo andò a giustificare
anche i seguenti atti di violenza contro i partiti, il parlamento e lo stato.

LE ELEZIONI DEL 1919


Nel novembre 1919 si tennero in Italia le prime elezioni con il sistema proporzionale.
Il successo maggiore andò al Partito socialista, con il 32,4% dei voti, mentre il Partito
popolare ebbe successo con il 20,6% dei voti. Alla fine delle elezioni il parlamento
risultò rinnovato per circa due terzi e per la prima volta le masse popolari goderono
di un’effettiva rappresentanza sociale e politica.
Anche se i liberali non avevano più la maggioranza, il potenziale democratico
rappresentato dalle elezioni andò perduto, poiché tra popolari e socialisti correvano
divergenze ideologiche. Dalle elezioni scaturì, dunque, instabilità parlamentare e
politica.

L’OCCUPAZIONE DELLE FABBRICHE


Nel corso del 1920 la crisi politica e sociale italiana si aggravò. In particolare maturò
l’occupazione delle fabbriche. Nell’agosto del 1920 gli industriali si opposero alle
rivendicazioni salariali della Fiom; in alcuni casi furono effettuate delle serrate, cioè
la chiusura degli stabilimenti. In poco tempo tra Torino e Genova furono occupati
circa 300 stabilimenti, presediati e gestiti da consigli di fabbrica.

LA FINE DEL “BIENNIO ROSSO”


Agli industriali che chiedevano l’intervento della forza pubblica, Giolitti rispose che
l’impiego dell’esercito avrebbe condotto alla tragedia, e dunque optò per un
compromesso. La lotta tra imprenditori e sindacati infatti si chiuse con un accordo,
che prevedeva consistenti aumenti salariali e una futura, ma mai realizzata,
partecipazione dei lavoratori al controllo delle aziende. Questi risultati furono
deludenti per chi aveva aspettative rivoluzionarie.
L’occupazione delle fabbriche fu un punto di svolta, perché segnò il culmine e la
conclusione del biennio rosso, e contribuì a orientare le classi dirigenti e l’opinione
pubblica borghese verso una soluzione conservatrice e autoritaria, che avrà come
protagonista il movimento fascista.

Potrebbero piacerti anche