2.2. Le idee guida delle riforme: dalla legge 833\1978 alla ‘mancata’ riforma dell’assistenza
La legge 833\1978 segnò l’Istituzione del Servizio sanitario nazionale basato sulla concezione
universalistica del diritto alla salute per tutti i cittadini, resta ancora oggi il risultato più importante
dell’elaborazione politica e culturale che si sviluppò negli anni 70. Essa riformò l’intero comparto dei servizi
alla persona,conteneva anche molti riferimenti al settore sociale e alla necessità di integrazione tra settore
sociale e sanitario. Tuttavia, in mancanza dell’approvazione di un’analoga legge per il comparto sociale, tale
legge assunse funzione di traino rispetto all’innovazione anche dei servizi sociali.
La legge di riforma sanitaria fu approvata dal Parlamento dopo un processo di maturazione culturale
intorno ad alcune idee-guida:
Prevenzione: sia delle malattie che del disagio sociale: i servizi dovevano intervenire non solo a riparare i
danni indotti da patologie sanitarie e sociali già conclamate (la cura), e neppure limitarsi a programmi di
individuazione precoce di patologie non ancora manifeste (prevenzione secondaria, medicina preventiva),
ma dovevano anche mirare al mantenimento della salute fisica e psichica e del benessere sociale dei
cittadini, intervenendo per eliminare le cause stesse delle patologie (prevenzione primaria);
Lotta all’emarginazione: comportava il superamento di interventi che sradicavano le persone dal proprio
ambiente di vita e dal proprio contesto sociale (ad es. i ricoveri nelle istituzioni totali): la proposta era
quella di deistituzionalizzare (portare fuori dalle strutture residenziali)malati di mente, handicappati,
anziani, ma soprattutto di creare servizi alternativi che consentissero a ciascuno di rimanere nella propria
casa.
L’integrazione tra servizi sociali e sanitari, necessaria per garantire risposte armoniche, non
contraddittorie, che rispettassero la globalità e l’unitarietà dei bisogni delle persone.
Per superare la frammentazione e le sovrapposizioni degli interventi verificatesi in passato (dovute anche
alla molteplicità di soggetti istituzionali e privati che si occupavano sia di servizi sanitari che di servizi
sociali), ma anche per ancorare gli interventi ai nuovi obiettivi della complessiva politica dei servizi, fu
ritenuto necessario percorrere la via della programmazione, intesa come metodo ordinario di governo, a
qualsiasi livello, ma anche come metodo di lavoro in ciascun servizio.
Partecipazione: perché gli obiettivi proposti e i singoli interventi rispondessero effettivamente ai bisogni,
occorreva che cittadini e utenti, ma anche le formazioni sociali intermedie, avessero voce nel proporli e
valutarli. Quindi, il coinvolgimento partecipativo era ritenuto requisito necessario per garantire efficienza
ed efficacia dei servizi alla persona.
Informazione: gli strumenti della partecipazione erano i piu vari come le assembleae, i comitati, ma,
soprattutto l’informazione sui bisogni della popolazione, sui servizi e sui processi decisionali ad essi relativi.
Si cominciano a costruire i primi sistemi informativi, cioè insiemi organici di metodologie, tecniche e
strumenti necessari per rilevare, conservare, rielaborare e rendere fruibili ad amministratori, operatori e
cittadini dati riguardanti sia i bisogni e quindi la domanda (ad esempio i dati epidemiologici), sia l’offerta di
servizi.
Decentramento : la traduzione in esperienze concrete di questi nuovi orientamenti necessitava di un
diverso assetto istituzionale e organizzativo che doveva portare vicino ai cittadini sia la lettura dei bisogni
che la programmazione dei servizi e il continuo monitoraggio sulla loro efficacia (rispondenza ai bisogni e
alla domanda). L’idea guida di decentramento era perciò il filo rosso di tutto il processo di trasformazione.
L'attivazione del dettato costituzionale relativo all'istituzione delle regioni e, conseguentemente, il
trasferimento delle competenze in materia sociale e sanitaria alle autonomie locali (D.P.R. 616\1977 e
seguenti) è stata condizione necessaria per l’introduzione, nella legge 833\1978, dell’Unità sanitaria
locale (USL),come complesso dei presidi, degli uffici e dei servizi gestiti da Comuni singoli e associati e dalle
Comunità montane.
E’ interessante notare come anche l’istituzione della Unità sanitaria locale (USL) sia stata preceduta, in
alcune Regioni d’Italia, da sperimentazioni di Consorzi socio-sanitari (tra Comuni, Province, Comunità
montane) che hanno appunto anticipato le esperienze dell’USL infatti, furono organizzati servizi innovativi,
caratterizzati da una nuova integrazione tra interventi sociali e interventi sanitari. Non bisogna
sottovalutare quest’esperienza infatti, recentemente i Consorzi tra Enti locali sono tornati ad essere una
delle possibili vie attraverso cui gestire i servizi sociali.
Ciò dimostra inoltre come quei criteri guida di cui abbiamo parlato prima abbiano orientato i processi di
apprendimento sociale determinando il nuovo assetto della rete dei servizi.
Altri servizi simbolo di questi orientamenti, realizzati prima e dopo la L 833\1978, sono i servizi di assistenza
domiciliare ad anziani, handicappati che volevano evitare il più possibile l’istituzionalizzazione e in generale
processi di emarginazione. Tra i servizi finalizzati alla prevenzione del disagio e dell’emarginazione sociale
simbolo ne sono i centri ricreativi giovanili, progetti giovanili, Informagiovani, e per quanto riguarda gli
anziani centri sociali come l’attività degli orti, i lavori socialmente utili, le università per anziani.
Non è stata certamente una storia senza errori e difficoltà, si pensi ad es. a settori come quello della
psichiatria nel quale alla de istituzionalizzazione e perciò al progressivo superamento delle istituzioni totali,
spesso non si è accompagnata la progettazione di servizi territoriali sostitutivi. E ancora, si pensi alle
difficoltà incontrate nell’individuare una rete capace di rispondere agli effettivi bisogni dei
tossicodipendenti.
Negli ultimi anni, si è dovuto rispondere al moltiplicarsi di nuove emergenze, che hanno portato a includere
nuove fasce d’utenza come quella degli extracomunitari, dei profughi , ma anche dei nomadi ecc. e alcune
scelte radicali di de istituzionalizzazione hanno dovuto essere riviste. L’aumento del numero di anziani in
condizioni di non autosufficienza ha ad es. riproposto la necessità di aumentare l’offerta di strutture
residenziali e semiresidenziali, anche se ben diverse dalle precedenti, molto spesso di dimensioni più
piccole, dotate di servizi sanitari appropriati alla cronicità dei bisogni.
Per quanto riguarda invece la L833\1978 essa conteneva numerosi riferimenti al settore sociale e di fatto
sollecitava i Comuni a delegare alle Unità sanitarie locali alcune competenze sociali. Alcune leggi regionali
istitutive delle USL, approvate nei primi anni 80, introdussero la cosiddetta seconda S, cioè la
denominazione di unità locale socio-sanitaria, cosi da realizzare un unico ente gestore dei servizi soicali
territoriali. In questo modo il cittadino avrebbe avuto un unico interlocutore a cui manifestare le proprie
esigenze e a cui esprimere la domanda di servizi.
Intorno alla metà degli anni 80, inoltre, le Regioni supplirono alla mancanza di una legge nazionale
attraverso leggi regionali di riordino delle competenze in materia socio-assistenziale, che orientarono gli
Enti locali per quanto riguardava le materie da delegare alle USL (vedi es della legge regionale Sicilia l.22/86
negli appunti).
A queste normative regionali dirette alla regolamentazione del settore ve ne furono delle altre che, si
occupavano di specifiche utenze (anziani, handicappati, nomadi) o problematiche (inserimenti lavorativi
protetti ecc). Negli anni successivi furono anche promulgate alcune leggi nazionali settoriali che
determinarono ulteriori scelte importanti da parte delle Regioni e degli Enti locali in campi specifici. Si pensi
ad es. alla legge 104\1992, Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone
handicappate che, ha posto l’integrazione scolastica e l’inserimento lavorativo come elementi essenziali del
riconoscimento del diritto di cittadinanza della persona handicappata.
Alla fine degli anni 90 alcuni interventi normativi hanno impresso un'accelerazione all'innovazione in
diversi settori sociali a tutela di riconosciuti diritti di fasce specifiche di popolazione. Tra questi si ricordano
ad esempio la legge 285\97 Disposizioni per la promozione di diritti e opportunità per l’infanzia e
l’adolescenza che, istituendo un pur limitato Fondo speciale destinato a progetti innovativi, ha di fatto
tentato di riorientare la cultura dei servizi per minori in senso promozionale e preventivo; la L. 53\2000,
Disposzioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il
coordinamento dei tempi delle città, attraverso una nuova regolazione dei congedi parentali, propone di
sostenere la maternità e la paternità armonizzando tempi di lavoro e di cura delle famiglie; infine un altro
esempio è la L. 68\1999, Norme per il diritto al lavoro dei disabili che è relativa alle modalità di inserimento
lavorativo, inteso come intervento chiave di una effettiva politica di integrazione sociale e di lotta alla
emarginazione.
ART2
1. Hanno diritto di usufruire delle prestazioni e dei servizi del sistema integrato di interventi e servizi sociali
i cittadini italiani e, nel rispetto degli accordi internazionali, con le modalità e nei limiti definiti dalle leggi
regionali, anche i cittadini di Stati appartenenti all'Unione europea ed i loro familiari, nonchè gli stranieri,
individuati ai sensi dell'articolo 41 del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286. Ai
profughi, agli stranieri ed agli apolidi sono garantite le misure di prima assistenza, di cui all'articolo 129,
comma 1, lettera h), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112.
2. Il sistema integrato di interventi e servizi sociali ha carattere di universalità. I soggetti di cui all'articolo 1,
comma 3, sono tenuti a realizzare il sistema di cui alla presente legge che garantisce i livelli essenziali di
prestazioni, ai sensi dell'articolo 22, e a consentire l'esercizio del diritto soggettivo a beneficiare delle
prestazioni economiche di cui all'articolo 24 della presente legge, nonchè delle pensioni sociali di cui
all'articolo 26 della legge 30 aprile 1969, n. 153, e successive modificazioni, e degli assegni erogati ai sensi
dell'articolo 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335.
3. I soggetti in condizioni di povertà o con limitato reddito o con incapacità totale o parziale di provvedere
alle proprie esigenze per inabilità di ordine fisico e psichico, con difficoltà di inserimento nella vita sociale
attiva e nel mercato del lavoro, nonchè i soggetti sottoposti a provvedimenti dell'autorità giudiziaria che
rendono necessari interventi assistenziali, accedono prioritariamente ai servizi e alle prestazioni erogati dal
sistema integrato di interventi e servizi sociali.
4. I parametri per la valutazione delle condizioni di cui al comma 3 sono definiti dai comuni, sulla base dei
criteri generali stabiliti dal Piano nazionale di cui all'articolo 18.
5. Gli erogatori dei servizi e delle prestazioni sono tenuti, ai sensi dell'articolo 8, comma 3, della legge 7
agosto 1990, n. 241, ad informare i destinatari degli stessi sulle diverse prestazioni di cui possono usufruire,
sui requisiti per l'accesso e sulle modalità di erogazione per effettuare le scelte più appropriate.
ART 13
1. Al fine di tutelare le posizioni soggettive degli utenti, entro centottanta giorni dalla data di entrata in
vigore della presente legge, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro
per la solidarietà sociale, d'intesa con i Ministri interessati, è adottato lo schema generale di riferimento
della carta dei servizi sociali. Entro sei mesi dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del citato decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri, ciascun ente erogatore di servizi adotta una carta dei servizi sociali
ed è tenuto a darne adeguata pubblicità agli utenti.
2. Nella carta dei servizi sociali sono definiti i criteri per l'accesso ai servizi, le modalità del relativo
funzionamento, le condizioni per facilitarne le valutazioni da parte degli utenti e dei soggetti che
rappresentano i loro diritti, nonché le procedure per assicurare la tutela degli utenti. Al fine di tutelare le
posizioni soggettive e di rendere immediatamente esigibili i diritti soggettivi riconosciuti, la carta dei servizi
sociali, ferma restando la tutela per via giurisdizionale, prevede per gli utenti la possibilità di attivare ricorsi
nei confronti dei responsabili preposti alla gestione dei servizi.
3. L'adozione della carta dei servizi sociali da parte degli erogatori delle prestazioni e dei servizi sociali
costituisce requisito necessario ai fini dell'accreditamento.
ART 5
1. Per favorire l'attuazione del principio di sussidiarietà, gli enti locali, le regioni e lo Stato, nell'ambito delle
risorse disponibili in base ai piani di cui agli articoli 18 e 19, promuovono azioni per il sostegno e la
qualificazione dei soggetti operanti nel terzo settore anche attraverso politiche formative ed interventi per
l'accesso agevolato al credito ed ai fondi dell'Unione europea.
2. Ai fini dell'affidamento dei servizi previsti dalla presente legge, gli enti pubblici, fermo restando quanto
stabilito dall'articolo 11, promuovono azioni per favorire la trasparenza e la semplificazione amministrativa
nonchè il ricorso a forme di aggiudicazione o negoziali che consentano ai soggetti operanti nel terzo settore
la piena espressione della propria progettualità, avvalendosi di analisi e di verifiche che tengano conto della
qualità e delle caratteristiche delle prestazioni offerte e della qualificazione del personale.
3. Le regioni, secondo quanto previsto dall'articolo 3, comma 4, e sulla base di un atto di indirizzo e
coordinamento del Governo, ai sensi dell'articolo 8 della legge 15 marzo 1997, n. 59, da emanare entro
centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, con le modalità previste dall'articolo 8,
comma 2, della presente legge, adottano specifici indirizzi per regolamentare i rapporti tra enti locali e
terzo settore, con particolare riferimento ai sistemi di affidamento dei servizi alla persona.
4. Le regioni disciplinano altresì, sulla base dei principi della presente legge e degli indirizzi assunti con le
modalità previste al comma 3, le modalità per valorizzare l'apporto del volontariato nell'erogazione dei
servizi.
La legge 328, data la sua complessità, ha richiesto al Governo interventi successivi attraverso
l'emanazione di decreti legislativi ed atti regolati per la stesura del Piano dei servizi sociali (es è l'Atto di
indirizzo e coordinamento sui sistemi di affidamento dei servizi alla persona previsti dall'art 5 della legge
328/2000 o il decreto sul Riordinamento del sistema delle Istituzioni pubbliche di Assistenza e Beneficienza
a norma dell'art 10 della legge 328/2000,anch'esso molto atteso, perchè riguarda soggetti istituzionali che
offrono una parte consistente delle prestazioni e dei servizi sociali [comma 1 art8: Le regioni esercitano le
funzioni di programmazione, coordinamento e indirizzo degli interventi sociali nonché di verifica della
rispettiva attuazione a livello territoriale e disciplinano l'integrazione degli interventi stessi, con particolare
riferimento all'attività sanitaria e socio-sanitaria ad elevata integrazione sanitaria (…)]
DA: A:
Interventi riparativi → Protezione sociale attiva
Categorie → Soggetti e famiglie
Trasferimenti monetari → Trasferimenti monetari e servizi rete (formativi, sanitari,
sociali di avvio al lavoro)
Interventi disomogenei → Standard essenziali delle prestazioni sociali
definiti a livello nazionale
Prestazioni rigide e “preconfezionate” → Prestazioni flessibili e personalizzate
Intervento centralinistico → “Regia” delle regioni e degli enti locali
I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon
andamento e l'imparzialità dell'amministrazione.
Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità
proprie dei funzionari.
Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.
DETERMINAZIONE DIRIGENZIALE
Provvedimento monocratico adottato dal dirigente o dal responsabile di un servizio (soggetto adottante)
nell’espletamento delle sue funzioni.
LEGGE 241\90 ‘Norme sul procedimento amministrativo’
Art. 2 comma 1
Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le
pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento
espresso. Se ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della
domanda, le pubbliche amministrazioni concludono il procedimento con un provvedimento espresso
redatto in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto
o di diritto ritenuto risolutivo.
QUANDO?
Iniziare una procedura di gara d’appalto
Attribuire funzioni di coordinamento ad operatori
Approvare progetti di proposta in risposta a bandi che assegnano finanziamenti
OBBLIGATORIA
Ogni volta che il dirigente deve impiegare una somma di bilancio per erogare prestazioni di natura
economica o prestazioni che comportano costi
Es. erogazioni di contributi economici a persone in condizioni di povertà; presentazione di un progetto alla
regione per acquisire finanziamenti specifici
ELEMENTI ESSENZIALI
Oggetto
Intestazione
Parte narrativa: preambolo ; motivazione
Parte dispositiva
Data
Sottoscrizione del dirigente che la adotta
Ufficio di provenienza
Numerazione in ordine cronologico
VALIDITA’ ED EFFICACIA
Le determinazioni che contengono tutti i requisiti sono valide ed efficaci dalla data di sottoscrizione del
dirigente. Se l’atto comporta un impegno di spesa occorre anche il visto di regolarità contabile, attestante la
copertura finanziaria, da parte del responsabile del servizio finanziario .
DELIBERAZIONE
Atto amministrativo espressione della volontà dell’organocollegiale di un ente. Espressa dal collegio
mediante la votazione dei suoi componenti su una proposta che quindi viene adottata. Predisposta daun
organo tecnico-amministrativo espressione di un organo politico.
REQUISITI
Forma scritta
Intestazione che indica il soggetto proponente
Parte narrativa: preambolo (elementi alla base della proposta, norme di riferimento, riferimenti della fase
procedurale), motivazione (presupposti e ragioni giuridiche alla base della proposta)
Parte dispositiva: contenuto precettivo della proposta frutto delle scelte indicate nella parte narrativa
Data
Firma del soggetto politico che propone la delibera e dei dirigenti e funzionari che l’hanno redatta
materialmente
BILANCIO
Atto amministrativo che contiene la rilevazione delle entrate e delle spese in un determinato periodo di
tempo
Vari tipi di bilancio
CONTROLLO DI GESTIONE
Processo mediante il quale i responsabili dei servizi verificano nel corso dell’anno di esercizio il
perseguimento di determinati obiettivi, stabiliti preventivamente, cercando di utilizzare le risorse disponibili
con criteri di economicità.
RENDICONTO DI GESTIONE
Documento amministrativo che ha funzione di evidenziare i risultati conseguiti in termini di equilibrio
finanziario, economico e patrimoniale nella gestione dell’ente e fornire elementi utili al controllo da parte
degli organi politici e del collegio dei revisori dei conti (organo di vigilanza sulle attività economico
finanziarie dell’ente)
4.4. Il nuovo protagonismo del terzo settore
La legge 328\00 assegna al terzo settore una molteplicità di compiti. L’elemento di maggiore novità è il
riconoscere al terzo settore un ruolo di interlocutore importante nel processo di programmazione; un
secondo aspetto riguarda invece l’ampliarsi delle collaborazioni pubblico-privato dato che il terzo settore è
sensore precoce di nuovi bisogni, proprio per la sua presenza capillare e a volte informale sul territorio. La
legge 328\00 chiama il terzo settore esplicitamente al tavolo dei Piani di zona non solo in un ruolo
consultivo, ma rendendolo partecipe e responsabile delle scelte strategiche in essi contenute attraverso la
sigla (insieme agli Enti locali) dell’accordo di programma che deve esplicitare il consenso al Piano. Il
problema non risolto è però quello della rappresentanza. Come vengono scelti i soggetti o i coordinamenti
di soggetti che siedono al tavolo della programmazione? Come è da intendersi l’indicazione (art. 19 comma
3) che all’accordo di programma partecipano quei soggetti del terzo settore che ‘attraverso
l’accreditamento o specifiche forme di concertazione, concorrono, anche con proprie risorse, alla
realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali previsto dal piano? questo richiede al
terzo settore, e ai suoi operatori, un nuovo impegno nel definire e nel rendere trasparente il proprio ruolo e
gli obiettivi della propria azione.
Per quanto riguarda le esternalizzazioni da parte degli Enti locali della produzione di servizi, il decreto
fornisce alle regioni alcune indicazioni sulle modalità di acquisto e di affidamento della gestione dei servizi a
soggetti privati. Ciò nel rispetto dei principi di pubblicità e trasparenza della PA, ma anche di libera
concorrenza tra i privati nel rapportarsi a essa. Le forme negoziali, seguendo le norme nazionali e
comunitarie (indicate dalla CE) possono essere diverse in relazione alla dimensione e alle caratteristiche del
servizio, privilegiando tuttavia procedure di aggiudicazione ristrette e negoziate, proprio per poter valutare
i diversi elementi di qualità che il Comune intende ottenere dal servizio appaltato. Il criterio di
aggiudicazione è quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa che, riesce a tener conto sia del
prezzo che della qualità delle prestazioni. Si raccomanda inoltre che l’acquisto o l’affidamento riguardino
l’organizzazione complessiva del servizio con l’assoluta esclusione delle mere prestazioni di manodopera
(come invece era accaduto nell’avvio delle esternalizzazioni). Il terzo settore puo inoltre essere chiamato
dai Comuni a istruttorie pubbliche per la coprogettazione di interventi innovativi e sperimentali. La
costruzione di un welfare comunitario, proprio per la realizzazione del principio di sussidiarietà,
richiederebbe tuttavia alcuni altri passi verso il riconoscimento da parte del pubblico dell’autonomia del
terzo settore. In generale si puo tuttavia riconoscere al terzo settore un ruolo importante nella costruzione
del sistema di welfare. Esso può infatti svolgere una pluralità di compiti:
- Sostituire risorse pubbliche: in questi anni volontariato, associazioni e cooperazione sociale hanno
saputo cogliere i nuovi bisogni, soprattutto il progressivo manifestarsi dei fenomeni di disagio e di
esclusione sociale
- Moltiplicatore di risorse: capace di mettere in rete non solo le risorse oggetto di convenzioni con gli
Enti locali, ma le risorse libere del territorio, proprio mettendo in gioco quelle reti di relaizone che
sono il patrimonio piu grande del terzo settore
- Produttore di capitale sociale: ovvero produttore di una rete di legami fiduciari che consentono
scambi di informazioni e collaborazioni.
- Bacino di occupazione: ad esso si chiede però di creare buona occuazuoine evitando che le sue
prestazioni costino meno solo xk gli operatori sono meno retribuiti o meno tutelati dal punto di
vista della sicurezza del posto di lavoro rispetto agli operatori dipendenti pubblici
4.5. La comunità come risorsa
Per comunità si intendono il vicinato, le associazioni, le polisportive, le attività del quartiere, ovvero
quell’insieme di servizi formali ed informali che diventano risorsa per rispondere ai bisogni delle persone .
Questo perché l’ente locale non puo piu permettersi di essere una sorta di ‘distributore automatico’ di
servizi (direttamente prodotti dal pubblico o appaltati all’esterno) rispetto a bisogni sempre crescenti e più
complessi, perché non dispone di risorse sufficienti, ma anche perché in molti casi non ha la capacità di
leggere correttamente i nuovi bisogni e di mettere a punto risposte adeguate.
Non mancano però difficoltà nell’utilizzo della comunità come risorsa, infatti, essa per svolgere il ruolo che
le compete deve poter essere una comunità competente. Per comprendere il significato di questa
affermazione, è utile ricordare che la definizione nasce dalla sperimentazione dei servizi della psichiatria. Se
si vuole attuare l’inserimento di un malato psichiatrico nel suo contesto di vita (casa e territorio), si deve
poter contare su una comunità (dai negozianti da cui si reca quotidianamente l’assistito ai vigili urbani che
lo incontrano; dai bambini che giocano nel cortile della sua casa agli anziani che siedono sulla panchina del
parco ecc).
Il lavoro di comunità consiste nel mettere a contatto il cittadino con le reti di sostegno, formali ed
informali, che può trovare intorno a se sul territorio, ma anche nel promuovere e sostenere tutte quelle
reti di reciprocità e solidarietà che spontaneamente si realizzano in una comunità. Il lavoro di comunità ha
sempre fatto parte del patrimonio professionale dell’a.s. fin dagli anni del dopo guerra. D’altronde, i termini
come reciprocità, fiducia e anche identità che sono identificativi di una comunità, hanno sempre riferimenti
importanti per chiunque operi nel territorio.
La realizzazione del lavoro di comunità richiede un cambiamento dei modelli organizzativi dei servizi sociali,
che non dovranno essere piu solo erogatori di prestazioni, ma dovranno saper produrre grandi capacità di
ascolto, di dialogo, di orientamento nei confronti di ciascun cittadino, che deve essere guidato a utilizzare
tutte le risorse formali e informali che il territorio offre, sia nei confronti della comunità nel suo insieme.
L’intervento sociale deve così interconnettersi anche con tutti quei programmi intersettoriali e
multidisciplinari sperimentati in questi anni, per rendere la città sicura, sana, a misura dei bambini ecc, che
sono finalizzati proprio a sostenere la qualità della vita e percio anche delle relazioni interne alla comunità.
Ricostruire il quadro normativo che sostiene questa dimensione dell’intervento sociale è complesso perché
esso riguarda interventi plurisettoriali inerenti alla politica del territorio, urbanistica, della sicurezza delle
città, della scuola e alla valorizzazione dell’associazionismo e delle iniziative spontanee della società civile.
Gli studi sociologici hanno messo in evidenza l’inevitabile declino della comunità locale in conseguenza del
processo di urbanizzazione, ma nello stesso tempo hanno verificato l’espandersi di ‘comunità senza
prossimità’ (associazioni o network) di cui si deve tener conto. Nei progetti di sviluppo di comunità, essa è
considerata come un insieme di persone che condividono aspetti rilevanti della loro vita, sentirsi comunità
è la base dell’identità dei suoi membri. La percezione del legame, è un aspetto centrale dei progetti di
sviluppo. La comunità dunque, non è solo un bacino di utenza, ma, può essere un ‘attore sociale’, ‘identità’
significa appunto, ‘sentirsi comunità’.
Ulteriori elementi utili per comprendere il problema sono contenuti nell’Atto di indirizzo e
coordinamento relativo all’integrazione socio-sanitaria. Esso distingue tra:
- Prestazioni sanitarie a rilevanza sociale (di competenza delle ASL e a carico del Fondo sanitario)
- Prestazioni sociali a rilevanza sanitaria (di competenza e a carico dei Comuni, con partecipazione
alla spesa da parte dei cittadini)
- Prestazioni socio-sanitarie a elevata integrazione sanitaria (erogate dalle ASL e a carico del Fondo
sanitario) che attengono prevalentemente alle aree materno-infantile, anziani, handicap, patologie
psichiatriche e dipendenze da droga, alcol e farmaci, patologie per infezioni da HIV e patologie
terminali, inabilità o disabilità conseguenti a patologie cronico-degenerative
Questa classificazione è importante per poter definire la suddivisione del carico dei finanziamenti tra le
diverse istituzioni.
Bisogna inoltre sottolineare che, sono necessarie ulteriori sinergie e collaborazioni per rispondere in modo
efficace alla globalità dei bisogni della persona ad es. tra s.s. e servizi educativi o scuola. Questo tipo di
collaborazioni trovano supporto in una molteplicità di norme, ma non possono contare su linee di indirizzo
unificanti ed è questo che ne ha forse rallentato la realizzazione oltre al fatto che la maggiore
specializzazione degli operatori ha sicuramente portato a una maggiore frammentazione degli interventi,
derivante dalla non sufficiente capacità e disponibilità a lavorare in èquipe predefinite o comunque a
lavorare in ‘rete’.
4.9 I livelli essenziali di assistenza
La riforma del titolo V della Costituzione ha attribuito alle Regioni competenza eslcusiva in materia di servizi
sociali, resta tuttavia l’obbligo di rispettare i livelli essenziali delle prestazioni sociali definite a livello
nazionale. I livelli essenziali (LIVEAS) possono essere definiti come diritti individuali (art. 2L 328\2000) con
pari opportunità, all’accesso e alla fruizione di interventi e prestazioni da garantire su un determinato
territorio, per una determinata popolazione. Essi non riguardano quindi i modelli organizzativi e l’azione
professionale, perché tali indicazioni rientrano nella esclusiva competenza delle Regioni e degli Enti locali.
La complessità del compito di definire i livelli essenziali, data dalla carenza di informazioni articolate sulle
risorse finanziarie, organizzative, professionali, dalla varietà dei bisogni e della diversa dotazione di risorse
dei territori, impone di assumere logiche e strategie incrementali. La prima definizione dei LIVEAS avviene
quindi relativamente a :
Quali funzioni e prestazioni considerare
Quali beneficiari privilegiare, in termini di accesso esclusivo o di accesso gratuito
Quali prestazioni sono compatibili con le risorse finanziarie disponibili (considerate per un triennio)
L’art. 22 della L. 328\2000 elenca gli interventi che costituiscono i livelli essenziali delle prestazioni
sociali:
Misure di sostegno alla povertà
Misure economiche per favorire la vita autonoma e la permanenza a domicilio interventi a sostegno di
minori e ai nuclei familiari anche attraverso l’affido e l’accoglienza in strutture comunitarie
Misure per sostenere le responsabilità familiari
Misure di sostegno alle donne in difficoltà
Interventi per l’integrazione soicale delle persone disabili, ivi comprese la dotazione di centri socio-
riabilitativi, di comunità alloggio e di accoglienza
Interventi per le persone anziane e disabili per favorire la permanenza a domicilio, nonché la
socializzazione e l’accoglienza presso strutture residenziali e semiresidenziali
Prestazioni socio-educative per soggetti dipendenti
Lo stesso art. 22 dispone che le leggi regionali di applicazione della legge 328\2000 prevedano
l’erogazione delle seguenti tipologie organizzative e l’erogazione delle prestazioni relative:
Servizio sociale professionale e segretariato sociale per l’informazione e consulenza al singolo e ai nuclei
familiari l’attività di segretariato sociale è finalizzata a garantire unitarietà di accesso, capacità di
ascolto, funzione di osservatorio e monitoraggio dei bisogni delle risorse, funzione di trasparenza e
fiducia nei rapporti tra cittadino e servizi, soprattutto nella gestione dei tempi di attesa nell’accesso ai
servizi. E’ quindi un livello informativo di orientamento indispensabile per evitare che le persone
esauriscano le loro energie nel procedere per tentativi ed errori alla ricerca di risposte adeguate ai loro
bisogni. L’attività di segretariato sociale costituisce un passo importante, dunque, nella costruzione di
quello che è chiamato welfare dell’ascolto e dell’orientamento, un welfare cioè che non è solo erogatore
di servizi ma che aiuta il cittadino a orientarsi di fronte all’intera offerta di possibilità di aiuto che si trova
difronte. Le azioni di sono : lettura e decodifica della domanda, presa in carico della persona\famiglia o
gruppo sociale, attivazione di integrazione di servizi e delle risorse in rete.
Servizio di pronto intervento sociale per le situazioni di emergenza personali e familiari: fa riferimento
soprattutto alle situazioni di esclusione sociale estrema (senza fissa dimora, immigrati, bambini
abbandonati o ad alto rischio di abuso ecc) ma risponde anche alle esigenze di famiglie che si trovano
sole difronte a problemi di tossicodipendenza, malattia mentale ecc.
Assistenza domiciliare
Strutture residenziali e semiresidenziali per soggetti con problemi sociali
Centri di accoglienza residenziali o diurni a carattere comunitario
E’ chiaro che in tutti i territori dovranno essere presenti questi servi ma, non è chiaro quale sia il livello
essenziale che in ciascun territorio deve essere garantito rispetto a queste tipologie di servizi. Il dibattito è
aperto. La definizione e la realizzazione dei LIVEAS deve essere garantita attraverso un percorso
programmatorio necessariamente negoziato e condiviso fra i diversi livelli istituzionali (Stato, Regioni ed
Enti locali) che deve assicurare un monitoraggio costante. La condizione per la realizzazione dei LIVEAS è il
poter disporre di risorse certe e crescenti. Se è pur vero che il finanziamento deriva dal Fondo nazionale e
dalle risorse ordinarie già destinate da Regioni ed Enti locali alla spesa sociale, lo Stato dovrebbe tuttavia
individuare una percentuale del prodotto interno lordo da destinare al finanziamento dei LIVEAS.
CAPITOLO 5: ORIENTARSI NELLA RETE DEI SERVIZI PER ANZIANI
5.1. Una popolazione che invecchia
Negli ultimi decenni vi è stato un progressivo aumento della vita media. Oggi la speranza di vita in Italia
risulta raddoppiata rispetto a un secolo fa e si aggira intorno agli 80annicon valori più elevati a vantaggio
delle donne. Chiaramente ciò ha determinato un progresso sociale ed economico legato allo sviluppo di vari
settori, ma che, a sua volta, non può non avere conseguenze sull’assetto complessivo di una società
(produzione e distribuzione di risorse, servizi ecc). La presenza di un elevato numero di anziani,
accompagnata a una parallela diminuzione del tasso di natalità ha e avrà, in un prossimo futuro, influenza
sulle scelte di interventi in campo sanitario, assistenziale e, piu in generale, sulle politiche di welfare.
La diminuzione del rapporto tra persone in età lavorativa e anziani, implica una progressiva diminuzione
della produzione di ricchezza e, ciò rende disponibili minori risorse per sostenere la spesa pubblica, e in
particolare il sistema di welfare. Per ben comprendere il tema\problema anziani sono necessarie alcune
precisazioni:
- In primo luogo la definizione stessa del limite anagrafico da cui far partire la terza età. Oggi si fa
riferimento a chi ha compiuto 65 anni.
- In secondo luogo è difficile ricondurre gli anziani ad un’unica categoria. Infatti abbiamo molti modi
di essere anziani: anziani anagrafici che nonostante l’età sono una risorsa per i propri familiari e per
il contesto in cui vivono; anziani in condizioni di difficoltà di parziale non autosufficienza o di totale
dipendenza dagli altri; grandi anziani cioè anziani della quarta età il cui numero è in crescita. Essi
sono spesso portatori di patologie diverse spesso invalidanti e, il loro aumento ha inciso e incide
sulla richiesta di prestazioni, primariamente di tipo sanitario.
Gli attori delle politiche sociali, difronte a questo grande tema\problema devono comprendere le
dimensioni e l’andamento del fenomeno e, commisurare soluzioni e prospettive entro il più
complessivo sistema di welfare già in crisi da parecchi anni.
5.2. Una politica in favore della popolazione anziana
L’invecchiamento della popolazione ha portato negli anni una maggiore sensibilizzazione nei
confronti dei problemi degli anziani e dei bisogni di cui essi sono portatori. Stato ed Enti locali
hanno progressivamente ampliato i loro interventi. Si è trattato di una vasta gamma di azioni,
differenziate per caratteristiche, finalità e modalità di realizzazione, ma tutte in qualche modo
concorrenti a promuovere una migliore qualità della vita. Si pensi al sistema pensionistico, o a
quegli anziani ancora attivi e motivati a sviluppare e spendere energie per sé e per gli altri che
necessitano di aiuto per poter sviluppare pienamente le risorse di cui ancora dispongono (anziani
impegnati in attività di volontariato, di sostegno per la comunità ecc).
Questi ed altri interventi hanno contribuito ad offrire risposte ai bisogni che si manifestano in
relazione al diverso grado di ‘autosufficienza’ dell’anziano e alla capacità della sua rete relazionale
e familiare di farvi fronte. La compresenza di problematiche di tipo sanitario e sociale ha richiesto
di attivare servizi integrati. Inoltre, la politica che ha portato alla realizzazione della rete di servizi
ha messo in campo un altro importante soggetto, le IPAB, che accanto agli Enti locali gestiscono ed
erogano servizi per anziani. Tale politica, pur differenziandosi da Regione a Regione, ha certamente
consentito lo sviluppo e il consolidamento della rete dei servizi, rappresentando altresì un ‘bacino
di prova’ anche per gli altri settori socio-assistenziali dove tale collaborazione si è sviluppata in
tempi successivi (si pensi all’handicap o alla psichiatria).
Nel settore dei servizi destinati agli anziani, cioè nell’erogazione di assistenza domiciliare o nella
gestione di strutture residenziali, le cooperative sociali di tipo A hanno via via sviluppato e
consolidato non solo capacità imprenditoriali, ma anche modalità organizzative flessibili e adatte
all’evolversi della domanda. Pur con differenze regionali, oggi le cooperative sociali si presentano
sul mercato dei servizi per anziani certamente come ‘erogatori’ (singolarmente o in Associazioni
temporanee di impresa ATI, con altre organizzazioni profit e non profit) mediante convenzioni con
l’Ente locale o per la gestione complessiva del servizio, o per la ‘fornitura’ di personale, ma anche
come gestori diretti di proprie strutture.
Per monitorare questi fenomeni di esternalizzazione\privatizzazione che nel settore dei servizi per
anziani, a partire dagli anni 90, gli attori delle politiche sociali si sono dovuti confrontare con i
problemi della valutazione della qualità dei servizi; ciò al fine di poter scegliere il miglior fornitore,
ma anche di avviare processi di miglioramento continuo, sulla base di prefissati standard di qualità
capaci di raggiungere un sempre maggior grado di soddisfazione dell’utente.
Anche le associazioni di volontariato che si rivolgono agli anziani hanno dato e danno un
importante contributo alla realizzazione di interventi. Il volontariato ‘sensore di bisogni’ ha saputo
promuovere attività che, insieme a quelle più tradizionali, hanno cercato di rispondere add
emergenze originate dai fenomeni in parte nuovi, in parte aggravatisi: la solitudine e l’isolamento, il
sostegno di quelle famiglia con anziani accuditi dai figli anziani a loro volta, il problema ben noto
delle badanti extracomunitarie e del loro inserimento in famiglia..
5.3. I servizi per anziani tra strutture residenziali e domiciliarità
Negli anni 70 vi è stata un’attenzione verso nuove soluzioni rispetto alla tradizionale ‘casa di
riposo’. Si fece strada l’idea di poter rispondere ai bisogni della popolazione anziani in difficoltà
anche non ricorrendo all’accoglienza in strutture totalizzanti. Si cominciò a pensare di poter lasciare
gli anziani nella propria casa fornendo loro, il supporto di un’assistenza domiciliare che li aiutasse
sia nei lavori domestici sia soprattutto nella cura della propria persona. Il crescente numero di
anziani non-autosufficienti e la scarsità di risorse disponibili indussero l’assistenza domiciliare a
trasformare la tipologia degli interventi che si sono via via specializzati, tralasciando la cura della
casa, l’effettuazione della spesa, l’aiuto nel disbrigo di pratiche burocratiche e sviluppando invece
una più specializzata cura della persona (igiene personale, alzata da letto, prevenzione da piaghe) a
cui si sono affiancati interventi domiciliari sanitari svolti dal personale infermieristico. Ciò ha
lasciato in parte ‘scoperti’ i bisogni di relazione degli anziani, primo fra tutti quello di ‘scambiare
due parole’. La progressiva crisi del sistema di welfare determinerà che sarà proprio il Privato
sociale, il volontariato in particolare, a cercare di rispondere a queste esigenze.
Le strutture residenziali non furono abolite del tutto, l’esigenza era quella di creare strutture con
dimensioni piu ridotte per rendere l’ambiente e le relazioni il piu possibile umanizzate, ma anche
capaci di offrire prestazioni complesse, come quelle sanitarie. L’aumento di specifiche patologie
come la demenza senile e l’alzheimer ha reso tra l’altro necessario un adeguamento delle stesse
residenze sia in termini strutturali che di formazione del personale.
Negli anni si è reso evidente come la correttezza di una politica sociale per anziani dipendesse
dall’equilibrio tra l’offerta di servizi residenziali e l’offerta di prestazioni domiciliari (a volte
integrate da servizi residenziali diurni). La L 328\2000 ha nuovamente posto l’accento
sull’assistenza domiciliare come uno dei servizi che deve essere presente in ogni ambito
territoriale.
Il Piano nazionale degli interventi e servizi sociali 2001\2003 ‘Libertà, responsabilità e solidarietà
nell’Italia delle autonomia’, sviluppa ulteriormente questo argomento sia riguardo all’obiettivo 1
‘valorizzare e sostenere le responsabilità familiari’ , che riguardo all’obiettivo 2 ‘sostenere con
servizi domiciliari le persone non autosufficienti(in particolare gli anziani e le disabilità gravi), il
quale si occupa delle prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria.
Il Piano propone un nuovo concetto di domiciliarità come uno dei capisaldi del sistema integrato di
interventi e servizi. In quest’ottica l’assistenza domiciliare è vista solo come uno degli strumenti
necessari per la costruzione della domiciliarità. Parlare di domiciliarità vuol dire pensare a strategie
piu complesse che riguardano la vita dell’anziano nella sua casa, nel suo quartiere, nelle città in
grado di collegare la scelta di stare in casa propria alla possibilità di essere inseriti in un contesto di
vita riconosciuto come luogo di appartenenza più vasto del perimetro del proprio appartamento,
entro cui si possa contare su un minimo di legami sociali e di sicurezza dell’abitare. Si tratta di
programmi complessi che chiamano in causa l’edilizia residenziale (progettata con locali idonei per
l’uso di ausili, privi di barriere architettoniche), la mobilità (servizi pubblici di trasporto), la
disponibilità di spazi verdi e di incontro per una migliore fruibilità del sistema città nel suo
complesso. Sono anche necessari programmi a sostegno della diffusione di nuove tecnologie quali
il tele-soccorso, la tele-assistenza e la tele-medicina che raggiungono gli anziani al proprio
domicilio. Domiciliarità è allora un processo di aiuto a domicilio che necessita per la sua
realizzazione della disponibilità di molti soggetti: anziani, famiglie, operatori dei servizi, vicini,
volontari, membri della comunità locale ecc. Esso implica pertanto la costruzione di una rete di
supporto sociale in sinergia tra servizi sociali, sanitari e reti di solidarietà. Il domicilio è quindi inteso
non come contenitore e limite, ma nei termini piu ampi di casa aperta alle relazioni sociali e
all’esperienza. E’ la comunità locale nel suo complesso a essere chiamata in causa per promuovere
la domiciliarità, una nuova cultura della relazione e dei legami comunitari, ma anche di usare
tecnologie nuove nella città che si trasforma.
Inoltre, i complessi modelli organizzativi dei servizi sia residenziali che domiciliari devono essere sostenuti
da funzioni di coordinamento svolte da operatori diversi.
CAPITOLO 6: ORIENTARSI NELLA RETE DEI SERVIZI PER BAMBINI, ADOLESCENTI E FAMIGLIE
6.1. Una progressiva attenzione all’infanzia, all’adolescenza e alla famiglia
I servizi e gli interventi sociali sono finalizzati a sostenere le persone in situazioni particolari di debolezza
potenziale o effettiva, dovuta al fatto di trovarsi in momenti della vita in cui si ha bisogno di sostegno per
sviluppare e\o mantenere e rafforzare autonomia e autosufficienza. Fra questi servizi vi sono quelli per gli
anziani ma, anche per i minori, in ragione di una loro non ancora raggiunta autonomia. I minori sono
destinatari di politiche sociali, educative, sanitarie che hanno cercato di definire i servizi e interventi atti a
garantire loro i diritti sociali (alla salute, all’educazione e a una buona qualità della vita).
Predisporre azioni e interventi per lo sviluppo psicofisico di bambini e ragazzi implica necessariamente
pensare alla ‘famiglia’ in quanto loro luogo ‘naturale’ di crescita e sviluppo e sostenerla nelle sue funzioni
‘genitoriali’, ossia nella capacità di affiancare e promuovere la crescita delle nuove generazioni interagendo
e colloquiando con la scuola, il contesto sociale, i media ecc.
Intervenire a sostegno dei minori significa:
In primo luogo, operare nelle situazioni in cui la famiglia non è in grado (o ha difficoltà) di occuparsi delle
crescita dei figli (per difficili condizioni socio-economiche, interventi del Tribunale dei minori ecc.). I
trasferimenti economici volti sia al sostegno della famiglia nel suo complesso (contributi per l’affitto, buoni
spesa, buoni pasto, vestiario ecc) sia dei minori in particolare (mensa scolastica, libri, ticket sanitari ecc)
sono da sempre uno degli interventi piu frequentemente utilizzati. Accanto a sostegni materiali (economici
o socio-sanitari) sono offerti sostegni di tipo psicologico alla famiglia o ai minori, soprattutto nelle
situazioni multiproblematiche in cui si sommano, oltre a difficoltà di tipo economico, anche fragilità
psicologiche dei genitori, deficit di tipo sanitario, rapporti familiari conflittuali ecc.
Da sempre, infine, i servizi sociali (dei Comuni o delle Aziende sanitarie locali in presenza di una delega da
parte dei Comuni stessi) si sono occupati, in collaborazione con le autorità giudiziarie preposte, della presa
in carico di quei minori per cui si rese necessaria la predisposizione di percorsi che prevedessero l’azione o
l’allontanamento dalla famiglia di origine mediante affidamento in strutture o presso famiglie.
In secondo luogo, le politiche sociali ed educative hanno dovuto rispondere ai bisogni quotidiani di tutte le
famiglie, tentando di sostenerle nei progressivi cambiamenti che le hanno coinvolte a partire dagli anni 60.
Sono stati pertanto predisposti interventi e azioni volti a sostenere lo sviluppo dei minori tenendo conto
anche del mutare delle condizioni e delle relazioni all’interno della famiglia.
I complessi mutamenti che hanno interessato la famiglia sono legati al mutare piu complessivo della
società. Oltre alle ricorrenti Indagini multiscopo dell’ISTAT, si sono istituiti veri e propri osservatori sulla
famiglia che, rielaborando in parte i dati fornita dall’ISTA, hanno il computo di rendere disponibili indicatori
aggiornati. E’ proprio attingendo dalle ricerche dell’Osservatorio nazionale sulle famiglie e le politiche locali
di sostegno alle responsabilità familiari’ (che fa capo al Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali )
condotte comparando le singole realtà locali presenti nel Paese che è possibile trarre alcune informazioni
circa l’evolversi dell’istituzione familiare. Sono tuttavia innumerevoli i Centri di ricerca su tale ambito: fra
questi, il Centro internazionale studi famiglia (CISF), che con cadenza annuale pubblica il Rapporto sulla
famiglia in Italia. Tali ricerche rivelano come emergenti alcuni fenomeni: tra essi, l’entrata sempre più
massiccia della donna nel mercato del lavoro, il protrarsi della permanenza dei giovani presso le famiglie di
origine, l’innalzamento dell’età di matrimonio, l’incremento dei rapporti di convivenza delle separazioni e
dei divorzi, la diffusione delle famiglie ricostituite e i mutamenti nelle scelte di fecondità delle coppie.
Si è notato come le famiglie cambiano per il numero dei membri, per il modo in cui si formano (unioni di
fatto, matrimoni civili e religiosi), per il ‘momento’ in cui si formano (età dei coniugi). E’ proprio per rendere
conto di questa complessità che al termine famiglia si associano tanti aggettivi: si parla di famiglie di fatto,
che presuppongono una definizione di famiglia anagrafica (cioè una persona o un insieme di persone che,
per vincoli di parentela o altro, hanno una sola caratteristica, quella di abitare insieme); di famiglie uni
personali e single ; di famiglie monoparentali (con un solo genitore e figli); famiglie allungate (dove i figli
rimangono fino a età avanzata); famiglie strette (dove aumenta la longevità, ma diminuiscono i figli); di
famiglie ricongiunte (quelle degli immigrati extracomunitari); di famiglie ricomposte (in seguito a
precedenti divorzi e separazioni).
Tante famiglie, quindi, con esigenze diverse. Occuparsi di famiglie implica perciò conoscere come si
evolvono le relazioni familiari e riflettere su come questo influisca rispetto al modificarsi dei bisogni
espressi. Il consolidarsi del fenomeno dell’occupazione femminile, soprattutto, e la progressiva scomparsa
della c.d. ‘famiglia allargata’ sono fenomeni che hanno originato la domanda di servizi di cura e
accadimento dei figli che consentissero alla donna di lavorare. Pertanto, si puo dire che intervenire a
sostegno di minori e famiglie ha voluto dire, in un primo momento, consentire ai genitori, e in particolar
modo alle madri, di conciliare i tempi di cura e di lavoro, salvaguardando, e al contempo qualificando, il
benessere e le esigenze dei minori. Ma i problemi sono divenuti nel tempo sempre piu complessi: la
compresenza di più generazioni ha determinato un sovraccarico di lavoro di cura della generazione dei
50\60 ‘schiacciata’ fra le richieste di sostegno provenienti dai figli e dai nipoti e quelle spesso pressanti che
provengono dalle generazioni più anziane. Inoltre, la maggiore instabilità coniugale e il conseguente
aumento di bambini coinvolti nelle separazioni ha accresciuto notevolmente il rischio di situazioni di
disagio.
Il rendersi conto di tale complessità ha indotto ad occuparsi in modo maggiormente organico della famiglia
stessa, nella convinzione che migliorare il suo benessere significhi migliorare il benessere dei cittadini e
quindi della società tutta. Essi riconoscono alla famiglia un ruolo fondamentale per il benessere delle
persone e la coesione sociale, la sostengono attraverso una molteplicità di interventi che fanno capo a
politiche socio-assistenziali, educative, del lavoro, in quanto soggetto destinatario , ma lo considerano
anche una risorsa importante per la comunità intera, in primo luogo come risorsa educativa per i minori al
suo interno, in secondo luogo come risorsa educativa in caso di affido e adozione, in terzo luogo come
risorsa comunitaria, cioè come soggetto che agisce e promuove ‘legami comunitari’ , protagonista perciò
del welfare comunitario.
La crisi della famiglia tradizionale (o la sua trasformazione) non ha significato dunque una riduzione delle
aspettative nei confronti della famiglia, ma, forse un loro ampliamento. Alla famiglia non si chiede, dunque,
di essere solo il luogo della riproduzione, ma di essere uno ‘strumento’ per il raggiungimento di finalità piu
indeterminate e onnicomprensive, quali benessere e buona qualità della vita. Le famiglie oggi in Italia
soffrono di una sorta di sovracarico funzionale ed emotivo ed è proprio a questo che ha tentato di
rispondere la politica sociale.
6.2. Il sostegno alle responsabilità familiari (art. 16 L. 328\2000)
Legge 8 novembre 2000, n. 328 "Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e
servizi sociali"
Art.1. pone in evidenza l’attenzione del legislatore pone in evidenza l’attenzione del legislatore alla
famiglia. Il primo comma infatti recita che il ‘sistema integrato di interventi e servizi sociali è assicurato alle
persone e alle famiglie’.
Art. 16 considera contestualmente i servizi e gli interventi finalizzati al sostegno delle responsabilità
familiari, in un’ottica promozionale e di prevenzione, piuttosto che solamente di tipo ripartivo-
assistenziale.
Art. 16.(Valorizzazione e sostegno delle responsabilità familiari)
1. Il sistema integrato di interventi e servizi sociali riconosce e sostiene il ruolo peculiare delle famiglie nella
formazione e nella cura della persona, nella promozione del benessere e nel perseguimento della coesione
sociale; sostiene e valorizza i molteplici compiti che le famiglie svolgono sia nei momenti critici e di disagio,
sia nello sviluppo della vita quotidiana; sostiene la cooperazione, il mutuo aiuto e l’associazionismo delle
famiglie; valorizza il ruolo attivo delle famiglie nella formazione di proposte e di progetti per l’offerta dei
servizi e nella valutazione dei medesimi. Al fine di migliorare la qualità e l’efficienza degli interventi, gli
operatori coinvolgono e responsabilizzano le persone e le famiglie nell’ambito dell’organizzazione dei
servizi.
2. I livelli essenziali delle prestazioni sociali erogabili nel territorio nazionale, di cui all’articolo 22, e i
progetti obiettivo, di cui all’articolo 18, comma 3, lettera b), tengono conto dell’esigenza di favorire le
relazioni, la corresponsabilità e la solidarietà fra generazioni, di sostenere le responsabilità genitoriali, di
promuovere le pari opportunità e la condivisione di responsabilità tra donne e uomini, di riconoscere
l’autonomia di ciascun componente della famiglia.
Il primo e il secondo comma riconoscono ruoli e funzioni della famiglia evidenziandone la complessità:
essa può e deve esercitare una funzione genitoriale (in termini di formazione e cura della persona, sia nella
quotidianità che nell’eccezionalità), ma anche una funzione sociale (in termini di coesione sociale,
associazionismo, mutuo aiuto, adozione, affido). In altre parole, è qui esercitato il ruolo della famiglia quale
co-attore del sistema di welfare, risorsa comunitaria. Particolarmente innovativo è l’approccio che chiede
alla famiglia di ‘partecipare’ alla vita dei servizi in quanto soggetto competente, ai fini del raggiungimento di
una loro migliore qualità.
a) l’erogazione di assegni di cura e altri interventi a sostegno della maternità e della paternità responsabile,
ulteriori rispetto agli assegni e agli interventi di cui agli articoli 65 e 66 della legge 23 dicembre 1998, n. 448,
alla legge 6 dicembre 1971, n. 1044, e alla legge 28 agosto 1997, n. 285, da realizzare in collaborazione con i
servizi sanitari e con i servizi socio - educativi della prima infanzia;
b) politiche di conciliazione tra il tempo di lavoro e il tempo di cura, promosse anche dagli enti locali ai
sensi della legislazione vigente;
c) servizi formativi ed informativi di sostegno alla genitorialità, anche attraverso la promozione del mutuo
aiuto tra le famiglie;
d) prestazioni di aiuto e sostegno domiciliare, anche con benefici di carattere economico, in particolare per
le famiglie che assumono compiti di accoglienza, di cura di disabili fisici, psichici e sensoriali e di altre
persone in difficoltà, di minori in affidamento, di anziani;
e) servizi di sollievo, per affiancare nella responsabilità del lavoro di cura la famiglia, ed in particolare i
componenti più impegnati nell’accudimento quotidiano delle persone bisognose di cure particolari ovvero
per sostituirli nelle stesse responsabilità di cura durante l’orario di lavoro;
f) servizi per l’affido familiare, per sostenere, con qualificati interventi e percorsi formativi, i compiti
educativi delle famiglie interessate.
5. I comuni possono prevedere agevolazioni fiscali e tariffarie rivolte alle famiglie con specifiche
responsabilità di cura. I comuni possono, altresì, deliberare ulteriori riduzioni dell’aliquota dell’imposta
comunale sugli immobili (ICI) per la prima casa, nonché tariffe ridotte per l’accesso a più servizi educativi e
sociali.
6. Con la legge finanziaria per il 2001 sono determinate misure fiscali di agevolazione per le spese sostenute
per la tutela e la cura dei componenti del nucleo familiare non autosufficienti o disabili. Ulteriori risorse
possono essere attribuite per la realizzazione di tali finalità in presenza di modifiche normative comportanti
corrispondenti riduzioni nette permanenti del livello della spesa di carattere corrente.
I commi successivi richiamano le azioni necessarie per sostenere le responsabilità familiari. In particolare il
3 comma indica la priorità, riprendendo gli elementi essenziali del percorso svolto. Il primo ambito di
intervento è quello del sostegno alla responsabilità genitoriale in quei contesti in cui le difficoltà
economiche rischiano di pregiuidicare l’armonico sviluyppo dei minori (lettera a). Elemento di novità,
rispetto agli interventi economici precedentemente attuati, è costituito dagli assegni di cura. Si tratta di
trasferimenti economici che intendono sostenere i genitori in situazione di particolare difficoltà economica,
soprattutto le ‘madri sole’. Essi, inoltre, premiano in una sorta di contratto di lavoro di cura svolto dai
membri della famiglia. Con ciò si ribadisce la convinzione che un minore di 18anni che vive in una famiglia
deprivata è a sua volta privato della possibilità di poter godere appieno dei diritti di cittadinanza. La filosofia
che sottende questi interventi di tipo economico riconosce l’esistenza di situazioni di povertà non
conclamata, in cui le famiglie conducono un’esistenza apparentemente normale, ma che non dispongono di
mezzi adeguati e, spesso sono afflitte da carenze immateriali, da logoramento e frattura dei legami affettivi
e altre patologie esistenziali.
L’articolo pone in risalto (lettera b) il tema famiglia-lavoro, un tema complesso poiché richiede di capire
quanto i servizie gli interventi debbano porsi in un’ottica sostitutiva, cioè facendo si che i genitori possano
lavorare, oppure operare affinchè abbiano la possibilità di gestire in maniera piu flessibile i tempi di lavoro
trovando cosi maggiori spazi per potersi dedicare alla cura dei figli. Ciò richiede che politiche sociali e del
lavoro elaborino strategie congiunte.
In questa direzione va la L 53\20000 ‘Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il
diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città. La L. 53, che precede di
pochi mesi la 328, ha introdotto la possibilità anche per i padri di poter usufruire dei congedi parentali e ha
proposto modalità concrete per realizzare una maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro aziendale
per favorirla ‘conciliazione’ dei tempi di vita e lavoro.
PRINCIPI:
Il tempo del lavoro non puo prevaricare gli altri tempi della vita
Anche il tempo per la cura dei figli e per la cura familiare ha un valore sociale che deve essere
riconosciuto
ELEMENTI INNOVATIVI
Il ‘tempo’ che la legge sulla tutela della maternità (L. 1204\71, Tutela delle lavoratrici madri)
sottraeva al lavoro, e al solo lavoro dipendente, era in fondo standardizzato come quello della
produzione, disegnato su madri e figli astrattamente omogenei nei bisogni e nei desideri. La L. 53\2000
rende il tempo di cura meno rigido e piu personalizzato
Il riconoscimento ad entrambi i genitori del diritto individuale al congedo parentale per la nascita o
l’adozione di un bambino al fine di promuovere una genitorialità piena
La parificazione dei diritti dei genitori naturali, adottivi e affidatari
I finanziamenti a progetti di flessibilità dell’orario di lavoro e gli sgravi contribuitivi in caso di assenze
per congedo per le lavoratrici autonome. Di particolare interesse è l’art. 9 in cui si sintetizzano alcuni
passaggi:
- Per quanto riguarda la flessibilità dell’orario è stato creato un fondo per l’occupazione di circa 40
miliardi di lire annue (circa 20.658.276 euro) che vada a incentivare forme di articolazione della
prestazione lavorativa; inoltre il 50% di questi fondi dovrà essere rivolto a imprese con meno di 50
dipendenti e con accordi contrattuali già stipulati per azioni positive per la flessibilità
- I progetti che vanno considerati azioni positive per la flessibilità sono:
<< 1. Progetti articolati per consentire alla lavoratrice madre o al lavoratore padre, anche quando
uno dei due sia autonomo, ovvero quando abbiano in affidamento o in adozione un minore, di
usufruire di particolari forme di flessibilità degli orari e dell’organizzazione del lavoro, tra cui il part-
time reversibile , telelavoro e lavoro a domicilio, orario flessibile in entrata o in uscita, banca delle
ore, flessibilità sui turni,orario concentrato, con priorità per genitori che abbiano bambini fino a 8
anni o fino a 12 anni in caso di affido o adozione;
2. Programmi di formazione per il reinserimento dei lavoratori dopo il periodo di congedo
3. Progetti che consentono la sostituzione del titolare dell’impresa o del lavoratore autonomo, che
benefici del periodo di astensione obbligatoria o dei congedo parentali, con altro imprenditore o
lavoratore autonomo.
L’art 16 lettera c della L 328\2000 richiama interventi di tipo formativo e informativo a sostegno della
relazione anche fra genitori e figli. La quasi scomparsa della famiglia allargata che spesso assorbiva richieste
di aiuto, ha aggravato in parte la difficoltà dei genitori a esercitare la loro funzione educativa e di cura,
rendendo piu complesso vivere una proficua relazione con i figli. I genitori oggi sono soli, o così si sentono.
Favorire opportuinità di confronto e aiuto reciproco puo aiutare ad affrontare meglio queste situazioni.
Particolari sostegni devono essere offerti alle famiglie che hanno a carico persone con problemi di
disabilità, malattia psichiatrica ecc o che hanno minori in affido.
Il quarto comma riprende un importante intervento di natura eocnomica sperimentato con successo in
alcune Regioni italiane (Emilia Romagna per prima), il prestito sull’onore. La novità dell’intervento (che si
sostanzia in una concessione alla famiglia di un prestito, erogato da Istituti di credito convenzionati con
l’Ente locale, che paga gli interessi) consiste nel fatto che con esso si intendeva promuovere l’autnomia e la
responsabilità della famiglia attraverso la messa a punto di un piano di restituzione della somma prestata,
creando così un rapporto fiduciario con l’Ente locale (in Emilia Romagna il prestito va da 1 a 10 milioni e il
suo rimborso è previsto entro 36 mesi).
Il quinto e il sesto comma fanno riferimento ad agevolazioni fiscali per le famiglie attivate a livello sia
comunale, ad es. attraverso le detrazioni fiscali all’ICI (quinto comma), sia nazionale, attraverso le leggi
finanziarie che possono prevedere detrazioni delle imposte dirette per le famiglie (sesto comma).
L’obiettivo è quello di promuovere una politica fiscale a ‘misura di famiglia’ che tenga cioè conto della
dimensione dei carichi familiari.
6.3. Diritti e opportunità per infanzia e adolescenza (legge 285\97)
La legge 285\97 affronta il tema dei diritti e delle opportunità di bambini e adolescenti. Si tratta di 13
articoli finalizzati, in primo luogo, a istituire un Fondo nazionale per finanziare con cadenza triennale
interventi a sostegno di minori e famiglie (art.1). E’ stata la prima volta che si sono stanziati fondi
specificatamente per questi soggetti. La legge è stata considerata da molti uno strumento di cambiamento
nel sistema delle politiche sociali italiane in quanto sostiene e incentiva interventi finalizzati alla crescita dei
minori, alla loro socializzazione con un approccio di tipo preventivo, proponendo una modalità di lavoro che
prevede la stesura di progetti condivisi dai diversi attori (operanti in servizi sanitari, sociali, educativi, in
organizzazioni di terzo settore, le famiglie, i minori, la comunità locale).
L’approvazione della legge è stata accompagnata dalla diffusione di un manuale che sviluppa indicazioni
operative per la progettazione, la realizzazione e la valutazione di tali interventi.
ASPETTI SALIENTI DELLA L. 285\97, Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia
e l’adolescenza
- L’art.1 come già detto, prevede l’istituzione di un fondo nazionale per l’infanzia e l’adolescenza
- L’art. 2 attribuisce alle Regioni il potere di definire gli ambiti territoriali di intervento e il relativo
riparto economico e indica nell’accordo di programma (art. 27 L,142\90) lo strumento che gli Enti
locali devono usare per la definizione dei programmi di intervento
- L’art. 3 indica le finalità dei progetti:
a) Realizzazione di servizi di preparazione e di sostegno alla relazione genitori\figli, di contrasto alla
povertà e alla violenza, nonché di misure alternative al ricovero in istituti educativo-assistenziali,
tenendo conto altresì della condizione dei minori stranieri.
b) Innovazione e sperimentazione di servizi educativi per la prima infanzia
c) Realizzazione di servizi ricreativi ed educativi per il tempo libero, anche nei periodi di
sospensione delle attività didattiche
d) Realizzazione di azioni positive per la promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, per
l’esercizio di diritti civili fondamentali, dell’ambiente urbano e naturale, nel rispetto delle
caratteristiche culturali, di genere ed etniche
e) Azioni per il sostegno economico ovvero di servizi alle famiglie naturali e affidatarie che abbiano
al loro interno uno o più minori con handicap al fine di migliorare la qualità del gruppo-famiglia ed
evitare qualunque forma di emarginazione e di istituzionalizzazione
L’art.4 riprende e sviluppa le finalità dei progetti indicati al punto a) dell’articolo 3 e indica le modalità
attraverso cui possono essere perseguite:
- Erogazione di un minimo vitale per minori inseriti in famiglie o affidati a un solo genitore, anche se
separati
- Informazione\sostegno alle scelte di paternità e maternità
- Azioni per prevenire situazioni di crisi e di rischio psico-sociale
- Affidamenti familiari diurni e residenziali
- Accoglienza temporanea di minori anche sieropositivi o portatori di handicap
- Attivazione di residenze per donne agli arresti domiciliari
- Realizzazione di case di accoglienza per donne in difficoltà con minori
- Servizi di mediazione familiare (ossia un servizio di sostegno ai genitori separati o in via di
separazione, volto a salvaguardare il benessere dei figli). E’ un intervento che presuppone che i
genitori accettino di portare il proprio conflitto alla presenza di un mediatore, al di fuori del
procedimento giudiziario. E’ un servizio qualificato che va incontro alle esigenze dei vari
protagonisti della separazione: i figli in primo luogo, affinchè possano contare su genitori in grado di
meglio coordinare la loro funzione educativa; gli ex coniugi, perché possano rielaborare la loro
vicenda salvaguardando il ruolo genitoriale; il giudice, perché possa usufruire di un intervento
psicologico fuori dal giudizio. Tale servizio è utile a ridurre i costi psicologici ed economici che una
separazione conflittuale comporta.
- Interventi per la tutela dei diritti del bambino malato e ospedalizzato
La realizzazione delle finalità di cui al presente articolo avviene mediante progetti personalizzati
integrati con le azioni previste nei piani socio-sanitari regionali.
L’art.5 riprende e sviluppa le finalità dei progetti indicati alla lettera b dell’articolo 3 e indica le
modalità attraverso cui possono essere perseguite. Si tratta di servizi che hanno come destinatari la
cosiddetta prima infanzia (0-6 anni) e sono stati definiti come nuove tipologie. Le cosiddette ‘nuove
tipologie’ da un lato cercano di dare risposta al bisogno di socializzazione all’interno della famiglia e
tra le famiglie, dall’altro, si propongono di coinvolgere i genitori che vengono ad assumere una
nuova e significativa posizione all’interno dei servizi stessi. Questi servizi presentano modalità
organizzative varie (possono essere a pagamento, con h diversi). Talvolta si limitano ad offrire spazi
di cui gli utenti possono fruire liberamente , altre volte puntano invece maggiormente su attività
educative programmate. Queste nuove tipologie di servizi si aggiungono e non si sostituiscono a
quelli tradizionali.
NUOVE TIPOLOGIE DI SERVIZI PER SOSTENERE LA GENITORIALITA’
Le nuove tipologie sono costituite da un insieme di servizi (centri gioco, centri per bambini e
genitori, aree bambini, ludoteche, tane familiari, spazi verdi, nidi aperti, sezioni sperimentali 2-5
anni, laboratori, atelier) sorti a partire dalla seconda metà degli anni 90 in numerose realtà locali,
soprattutto nel Centro- Nord e rivolti principalmente a bambini per lo piu accompagnati dai genitori
o da altri adulti, che svolgono attività ludico-ricreative, alla presenza di operatori socio-educativi.
Essi sono:
a) servizi con caratteristiche educative, ludiche, culturali e di aggregazione sociale per bambini 0-3
anni che prevedano la presenza di genitori, familiari o adulti che quotidianamente si occupano della
loro cura, organizzati secondo criteri di flessibilità
b) servizi con caratteristiche educative e ludiche per bambini 18 mesi- 3 anni per un tempo
giornaliero non superiore a 5 ore, privi di mensa e riposo pomeridiano.
Tali servizi non sono sostitutivi degli asili nido.
L’art. 6 riprende e sviluppa le finalità dei progetti indicati alla lettera c) dell’articolo 3 e indica le
modalità attraverso cui possono essere perseguite:
- Mediante il sostegno e lo sviluppo di servizi volti a promuovere e valorizzare la partecipazione dei
minori a livello propositivo, decisionale e gestionale in esperienze aggregative , nonché occasioni di
riflessione su temi rilevanti per la convivenza civile e lo sviluppo di capacità di socializzazione e di
inserimento nella scuola, nella vita aggregativa e familiare
- Si dice inoltre che tali servizi possono essere realizzati mediante operatori educativi con specifica
competenza professionale. Si tratta di servizi dedicati a preadolescenti ed adolescenti e ne sono un
es. gli interventi educativi di strada. Si tratta di interventi finalizzati alla prevenzione del disagio o
alla riduzione del danno. L’educazione interviene dove si trova il bisogno, incontra cioè diversi
adolescenti laddove loro informalmente si trovano. Con tali interventi si intende offrire
all’adolescente sostegno alla sua transizione identitaria e alla sperimentazione della propria
autonomia.
L’art. 7 riprende e sviluppa la lettera d) e indica misure e interventi atti a promuovere i diritti dei
minori e a migliorare la qualità della vita urbana. Si tratta pertanto di interventi che promuovono e
sensibilizzano ragazzi e adolescenti sul tema della partecipazione alla vita sociale e pubblica:
a) interventi che facilitino l’uso del tempo e degli spazi urbani e naturali, rimuovano ostacoli alla
mobilità, amplino la fruizione di beni e servizi ambientali, culturali, sociali e sportivi
b) misure orientate alla promozione della conoscenza dei diritti dell’infanzia presso tutta la
cittadinanza e in particolare nei confronti degli addetti a servizi di pubblica utilità
c) misure volte a promuovere la partecipazione dei bambini e degli adolescenti alla vita della
comunità locale, anche amministrativa.
AL TERMINE DEL PRIMO TRIENNIO DI FINANZIAMENTO (erogato a partre dal 97\98) molte Regioni
hanno fatto una valutazione dei progetti riportando esperienze significative e buone pratiche ed
evidenziando quei progetti particolarmente innovativi per tipologia di intervento, capacità di
mettere in rete istituzioni pubbliche e private, capacità di coinvolgimento della comunità locale ecc.
Gli interventi realizzati in quel primo triennio possono essere riaccorpabili in 4 grandi aree:
1. Interventi di contrasto della povertà, del disagio, della violenza, dell’istituzionalizzazione
2. Interventi socio-educativi per la prima infanzia e di sostegno alla relazione genitori e figli
3. Interventi educativi e ricreativi per il tempo libero
4. Azioni positive per la promozione dei diritti
Si tratta di un elenco di servizi e interventi che possono essere finanziati con i fondi previsti
dalla legge 285\97.
Molti degli interventi sopra indicati, in alcune Regioni, confluiscono all’interno dei Centri per le
famiglie. Tale denominazione connota in modo unitario e complessivo una pluralità di servizi socio-
educativi attenti, sia alla crescita e all’educazione dei bambini, sia al sostegno del ruolo e delle
competenze dei loro genitori.
Ogni centro per le famiglie (che solitamente ha sede nei Comuni capoluogo di Provincia o capo-
Distretto) coordina e supporta una serie di attività: dai corsi di formazione per genitori, alle
iniziative specifiche per le famiglie extracomunitarie, da azioni di sensibilizzazione per affido e
adozione, a interventi di sostegno psicologico per famiglie in difficoltà (mediazione familiare etc).
Occorre ricordare, infine, gli interventi e le sperimentazioni specifiche per famiglie immigrate
(spesso organizzati in seno ai Centri per le famiglie) tesi a promuovere integrazione sociale, ossia
volti all’accoglienza, all’orientamento delle famiglie immigrate e all’integrazione scolastica: corsi di
alfabetizzazione, informazioni e pratiche per ricongiungimenti familiari, interventi a sostegno
dell’inserimento scolastico, dell’apprendimento, progetti di rientro , percorsi interculturali, sono
alcuni degli interventi piu frequentemente attivati.
L’attività dei Centri per le famiglie dovrebbe coordinarsi con quella dei Consultori familiari che
furono istituiti come servizi socio-sanitari preventivi rivolti alla donna, alla famiglia e ai minori, per
sostenerli nelle varie fasi della loro vita (decisioni riguardanti le scelte di partecipazione, attesa e
nascita di un figlio. Menopausa, scelte circa l’affido e l’azione, crisi della coppia).
Non bisogna dimenticare che i progetti finanziati dalla L. 285\97 hanno preso vita atraverso la
collaborazione con il Privato sociale (cooperative sociali, associazioni di famiglie, volontariato etc).
Nell maggioranza dei casi è stato il soggetto pubblico ampiamente inteso (il singolo Ente locale, un
consorzio di Comuni, l’ASL) a svolgere un ruolo di coordinamento fungendo da soggetto
‘propulsore’ , ma non sono mancati casi in cui anche il soggetto privato ha saputo svolgere tale
ruolo: sono stati cioè associazioni, volontariato e cooperative soicali a proporre interventi e
iniziative a partire dalla propria esperienza sul campo. E in questi casi il Pubblico ha volentieri svolto
un ruolo di patrocinio, valorizzando e sostenendo l’esperienza.
CAPITOLO 7: ORIENTARSI NELLA RETE DEI SERVIZI PER LE PERSONE CON DISABILITA'
Nei capitoli precedenti si è illustrato l'insieme dei servizi e prestazioni rivolti ad anziani, minori e famiglie:
cioè a sostegno della vita quotidiana delle persone nelle varie fasi della loro vita.
Qui si esamineranno invece servizi e prestazioni mirate ad aiutare persone con patologie specifiche e alle
loro conseguenze in termini di disabilità.
Non sempre però i servizi e gli interventi sono chiaramente collocabili in questi due se pur ampi ambiti: ad
es un bambino può dover far fronte a una grave disabilità, così come un anziano ecc
Il confine tra le competenze dei singoli servizi quindi non è sempre facilmente definibile ed è chiaro come in
alcuni casi la risposta ad alcuni bisogni richiede di mettere in campo professionalità diverse e competenze
specialistiche.
Per tutti questi motivi è difficile delimitare il quadro completo delle problematiche e degli interventi in
materia di disabilità. Se ne propone una mappa che ha come chiave interpretativa la loro finalizzazione
all'integrazione dei disabili nella scuola, nel lavoro e nel contesto sociale. → L'obbiettivo è quello di una
continua lotta ai processi emarginanti (si pensi alle classi speciali di un tempo) tramite interventi che
favoriscono il mantenimento del disabile all'interno del suo ambiente (famiglia e lavoro), che ne
promuovano l'autonomia e la qualità della vita.
La costante tensione verso termini nuovi, ha portato nella nostra Costituzione, che pure riconosce uguali
diritti a tutti i cittadini e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli economici e sociali che impediscono
il pieno sviluppo della persona umana, a usare il termine minorati rinunciando all'utilizzo di termini offensivi
come “anormali”. Sempre più si è andato poi utilizzando il termine “persone con handicap” poiché
handicap significa svantaggio. L'handicap, secondo ladefinizione dell'OMS (1980) è quindi “una condizione
di svantaggio sociale che limita o ostacola il compito di una funzione ritenuta normale per un individuo in
relazione alla sua età, sesso e condizione socio-culturale”.
Nel 2001 l'OMS ha rivisto la classificazione delle disabilità per meglio integrare il modello medico (che
considera la disabilità come un problema personale) e il modello sociale che considera la disabilità come
derivante dall'ambiente che non consente la piena partecipazione delle persone disabili in tutte le aree
della vita sociale.
Il termine handicap è poi stato sostituito talvolta con termini come “persona disabile” o “persona con
bisogni speciali” ecc. → questa difficoltà nel definire il fenomeno è legata anche al fatto che le disabilità
sono poi di diversissima natura: ritardi mentali gravi, disturbi motori, minorazioni come la sordità o la
cecità ecc.
Nel nostro Paese, a fronte di questa molteplicità di problemi, si sono andate sommando nel tempo una
pluralità di norme, relative ai singoli gruppi di disabili o a diverse tipologie di prestazioni.
La legge 104/1992 legge quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone
handicappate in primo luogo pone l'accento sulla prevenzione e la lotta all'emarginazione, garantendo il
pieno rispetto della persona disabile. Insiste cioè sulla possibilità di prevenire e rimuovere le situazioni
invalidanti e predispone interventi che evitino processi di esclusione dai contesti sociali e familiari. Inoltre,
la legge 328/2000 all'art 14 “Progetti individuali per le persone disabili” richiama la pluralità dei soggetti
istituzionali chiamati in causa e la molteplicità degli interventi che occorre mettere in rete. Le varie norme
provenienti dalle varie leggi, che specificatamente si occupano di garantire i diritti civili dei disabili, vanno
quindi lette contestualmente.
Un ulteriore problema relativo agli interventi da destinare e all'avere un quadro completo dell'entità del
fenomeno handicap è legato alla difficile stima del numero complessivo di disabili nel nostro paese.
Tuttavia secondo un indagine della fine degli anni '90 e confermata nel 2000 si stima che ben il 15% delle
famiglie è direttamente coinvolto nel fenomeno, anche se la maggior parte di esse ha a carico un disabile
anziano.
Prima si avevano classi distinte per alunni disabili e non; solo alla fine degli anni '70 si sancisce che la scuola
(almeno elementare e media) “attua forme di integrazione scolastica a favore degli alunni portatori di
handicap”.
Negli anni successivi si perfeziona questa proposta prevedendo modifiche curriculari specifiche per i
portatori di handicap e soprattutto la messa in organico di personale docente aggiuntivo e specializzato nel
sostegno didattico. Inoltre gli insegnamenti scolastici di alunni scolastici dovrebbero essere “sostenuti” dai
servizi sociali e sanitari del territorio: il loro compito è quello dell'effettuazione di diagnosi corrette, di un
costante monitoraggio del caso, di consulenza agli insegnanti e orientamento alle famiglie.
Un problema di cui i servizi sociali hanno faticato a farsi carico è il passaggio dei disabili dalla scuola
dell'obbligo alla scuola superiore o alla formazione professionale. Si generava infatti una sorta
di dispersione alla fine della terza media, che poteva tradursi in nuovi fenomeni di
emarginazione. L'innalzamento dell'età dell'obbligo ha richiesto ancor più un impegno in materia. Ancor
più che per i disabili con problemi motori, per quelli che hanno problemi mentali occorrono
progetti moltopersonalizzati, che inevitabilmente richiedono interventi che devono coinvolgere soggetti
istituzionali diversi.
I processi di integrazione scolastica sono andati sempre più sollecitando la collaborazione tra scuola e
servizi del territorio. Tale legame deve essere ancora più stretto x quanto riguarda il sostegno nella
formazione professionale!!!
Il diritto alla formazione professionale dei disabili è riconosciuto dalla Costituzione e nel 78 era stata
attribuita alle Regioni la competenza in materia → con la legge 104/92 si definiscono ulteriormente
le modalità con cui consentire ai disabili di fruire della formazione professionale.
Sulla base delle indicazioni dell'art 17, le modalità formative offerte agli allievi disabili possono essere:
Ampia è la sperimentazione in materia ad es tramite tirocini, borse lavoro, contratti di formazione ecc. ossia
avviando tramite esperienze di alternanza formazione-lavoro, fortemente orientate al superamento delle
difficoltà che incontrano i disabili nell'inserimento lavorativo.
La complessità di questo sistema richiede sinergie tra le istituzioni preposte alla formazione professionale,
agli Enti locali e a quelle imprese poste a disposizione di questi progetti. Assistenti sociali, educatori,
formatori professionali, volontari dovranno quindi seguire delle linee comuni, facendo interagire pubblico,
privato e terzo settore.
L'inserimento lavorativo delle persone disabili, non sempre realizzabile, comunque rappresenta un
momento fondamentale per l'itinerario educativo-formativo attuato nell'infanzia e nell'adolescenza e degli
interventi riabilitativi.
Il lavoro è infatti (come dice la Costituz.) strumento fondamentale di costruzione del diritto di cittadinanza,
ma anche della costruzione dell'identità e fattore fondamentale di socializzazione. Esso consente inoltre di
considerare le persone disabili non solo come persone bisognose di assistenza, ma anche come risorsa da
valorizzare nel processo produttivo.
L'inserimento lavorativo oggi può essere realizzato sia tramite l'applicazione della legge sul collocamento
obbligatorio (legge 482/1968) sia all'interno di cooperative B.
All'inizio il collocamento obbligatorio venne pensato solo per i mutilati e gli invalidi di guerra; con la legge
428/1968 “Disciplina generale delle assunzioni obbligatorie presso le pubbliche amministrazioni e le
aziende private” si stabiliscono quote specifiche x l'inserimento di una molteplicità di categorie di
lavoratori. Essa rimase però in gran parte inapplicata → con la legge 68/1999 “Norme per il diritto al lavoro
dei disabili” si superano alcune rigidità della legge precedente per favorire la sua reale applicazione: ad es i
soggetti obbligati fruiscono di una notevole attenuazione della quota d'obbligo. La legge inoltre cerca di
creare le condizioni per un collocamento mirato, basato sulla valutazione delle effettive capacità del
disabile al fine che il suo contributo possa essere reale in un determinato contesto lavorativo → sono stati
istituiti a tal proposito i Servizi per l'inserimento lavorativo (SIL) presso i centri per l'impiego delle Province.
Per quanto riguarda le cooperative sociali di tipo B esse nascono per iniziativa degli interessati (nel caso dei
disabili fisici), delle loro famiglie e delle associazioni che le rappresentano. Il rischio è che si tolga al disabile
la possibilità di lavorare in compagnia di lavoratori “normali” (nelle cooperative di tipo B almeno il 30% dei
lavoratori ha dei problemi). La cooperativa sociale deve quindi essere vista come un'opportunità che però
non sostituisce il collocamento obbligatorio; anche se ciò non toglie che ci sono casi di particolare gravità
per cui possono e devono essere realizzati laboratori protetti veri e propri. Al solito serve che i vari
professionisti lavorino in rete.
Non sempre gli inserimenti di cui si è parlato sono possibili. Ecco allora che devono essere offerti servizi che
aiutino la persona nella sua vita quotidiana, sostenendo anche le famiglie.
Quando l'assistenza domiciliare non è più sufficiente, si può gradualmente ricorrere a strutture residenziali
e semiresidenziali di diversa tipologia:
centri socio-riabilitativi diurni a valenza educativa: in cui il disabile può usufruire di programmi di
riabilitazione x il mantenimento e lo sviluppo delle sue abilità residue e insieme lo svolgimento di
una vita di relazione. All'interno di essi possono essere organizzati anche laboratori protetti, in cui
l'inserimento al lavoro fa parte del processo educativo e terapeutico;
gruppi-appartamento: in cui può vivere un piccolo gruppo di utenti adulti con l'appoggio degli
operatori;
residenze protette costituite da un complesso di alloggi di diversa tipologia: con zone per la vita
comunitaria, anche aperte a utenze esterne;
case famiglia o comunità alloggio: che accolgono persone diverse, idonee a creare un clima di
disponibilità affettiva, assistenza, relazioni.
Si tratta comunque di strutture di piccole dimensioni che consentono un normale svolgimento della vita
quotidiana, di ricevere le giuste attenzioni e di non essere sradicati dal territorio di appartenenza (cosa che
nelle grandi strutture difficilmente avviene).
Inoltre, ai cittadini in temporanea o permanente grave limitazioni dell'autonomia personale, può essere
offerto il Servizio di auto personale (SAP), a integrazione degli altri servizi sanitari e socio-assistenziali.
Pensato in una prospettiva di personalizzazione dell'intervento, il SAP è finalizzato all'integrazione della
persona disabile nella vita sociale e offre attività di accompagnamento e di tempo libero svolte da volontari
singoli, da organizzazioni di volontariato e da giovani del servizio civile. Comprende ad es l'interpretariato
per non udenti, sostegni per i trasporti, la partecipazione ad attività culturali e sportive ecc. L'accesso
dell'utente è regolato come quello ad ogni altro servizio e può prevedere la partecipazione ai costi.
L'attenzione ai disabili gravi è stata posta anche da una modifica (fatta nel 98) della legge 104 che indica
come risposta alle famiglie con particolari difficoltà i “ricoveri di sollievo” servizi cioè x l'accoglienza degli
utenti per brevi periodi, l'assistenza domiciliare 24 h su 24, parziali rimborsi alle famiglie per spese di
assistenza ecc.
7.5 Il sostegno alle famiglie delle persone disabili: la sfida del “dopo di noi”
(al convegno dell'happining della solidarietà a tal proposito si era parlato del peso che gara sul caregiver)
Gli operatori che prendono in carico le situazioni delle persone disabili non possono non occuparsi dei
problemi della famiglia in cui questi sono inseriti. Infatti la famiglia andrebbe accompagnata sin dal difficile
momento in cui si realizza il fatto che ci sia una disabilità, per far si che sappia come farvi fronte. Va poi
aiutata alleggerendo il suo carico di cura e ad uscire dalla solitudine, promuovendo il contatto anche con le
tante associazioni di famiglie con problemi simili.
Spesso oggi sono proprio queste associazioni che svolgono sia una funzione di tutela dei diritti e di
advocacy, ma anche che hanno in carico la gestione di interi servizi per conto degli Enti pubblici.
Un problema che le famiglie più frequentemente pongono infine è quello del destino e della qualità della
vita del disabilequando i genitori invecchieranno o moriranno e non potranno più prendersi cura. Tutte le
famiglie vorrebbero evitare al figlio disabile il ricovero in strutture e a questo fine vorrebbero vincolare i
propri patrimoni alla sua assistenza chiedendo di esserne garante a un tutore singolo a un istituzione,
sottraendo tuttavia il disabile al regime dell'interdizione. Lo strumento con cui attuare queste aspirazioni è
l'istituto del trust, cioè della costituzione presso un notaio di un patrimonio per provvedere alle esigenze di
un altro soggetto nell'ambito di un programma che prevede un “amministratore di sostegno” e dei controlli
sull'esecuzione. Per questo si stanno istituendo fondazioni con lo scopo specifico di sostenere le famiglie in
tale percorso, affinchè esse abbiano anzitutto la giusta consulenza giuridico-fiscale finanziaria in proposito
attraverso specifici sportelli, ma anche la possibilità di essere orientate verso scelte articolate e che le
facciano stare serene per questo “dopo di noi”.
CAPITOLO 8: Orientarsi nella rete dei servizi a contrasto di povertà ed esclusione sociale
Il sistema di welfare, al suo nascere, era finalizzato ad allievare le condizioni di povertà in cui
versavano i cittadini. Nel tempo, e in conseguenza di uno sviluppo economico che non ha avuto
precedenti nella storia, tale sistema si è orientato alla prevenzione e alla promozione sociale,
dedicando attenzione specifica ai bisogni legati alle diverse fasi del ciclo di vita delle persone
(nascita e sviluppo, anzianità ecc), nonché a situazioni patologiche (fisiche, mentali etc). Ciò al fine
di eliminare o attenuare le cause stesse delle situazioni di disagio. Contemporaneamente, nuove
forme di disagio sono comparse e ciò ha richiesto un ‘cambiamento di rotta’: la creazione, cioè, di
tutti quegli interventi rivolti a poveri ed esclusi ‘vecchi e nuovi’ (non solo coloro che non hanno
risorse economiche, ma anche, ad esempio, i ‘senza fissa dimora’, gli immigrati extracomunitari, i
tossicodipendenti ecc) che costituiscono la vasta e difficilmente definibile area del disagio sociale
adulto.
I servizi attivati dagli Enti locali in quest’area, (appunto quella di ‘adulti in difficoltà’) sono molto
diversi: ai trasferimenti economici, che continuano ad essere erogati per persone o famiglie in
situazioni di difficoltà, si sono aggiunte altre azioni che vanno dalla risposta all’emergenza (ad
esempio, dormitori, comunità di prima accoglienza ecc) all’attivazione di percorsi di possibile
integrazione sociale che consentano l’uscita da una condizione di esclusione (accompagnamento e
inserimento lavorativo, formazione professionale ecc). L’approccio a queste problematiche ha
portato ad alcune difficoltà per gli operatori dei servizi, rispetto: alla definizione e comprensione del
problema; analisi dei bisogni, risposte da attivare.
Le azioni a contrasto di esclusione sociale e povertà e dei fenomeni ad essa correlati chiamano in campo
diversi settori di intervento (servizi per le famiglie, per gli immigrati e per tossicodipendenti ecc), ma anche
interventi specifici destinati al disagio sociale adulto. Essi sono: strutture di prima accoglienza abitativa
(ripari notturni), interventi per l’accesso alla casa (agenzie per la casa, inserimenti in graduatorie IACP cioè
Istituto autonomo case popolari, contributi in conto affitto ecc), di accompagnamento al lavoro
(inserimento lavorativo in cooperative sociali di tipo B, percorsi di formazione professionale ecc)e di
riduzione del danno. Alcuni di questi interventi presuppongono un’azione formativa\informativa e di
accompagnamento che spesso si concretizza nel segretariato sociale, in sportelli di orientamento al lavoro,
volti a salvaguardare il diritto di informazione, orientamento e, di accesso ai servizi stessi, in cui, non è
necessariamente richiesto alcun requisito d’accesso (residenza, un dato livello di reddito ecc) né una
specifica adesione a percorsi di reinserimento sociale. La loro finalità è prevalentemente quella di una
riduzione del danno, vale a dire quella di minimizzare i rischi di un aggravarsi della situazione sotto il profilo
della marginalità sociale, economica, relazionale e sanitaria. Essi sono sorti in via sperimentale nell’area
della tossicodipendenza nei confronti di persone scarsamente motivate alla disassuefuazione fisica (o non
in grado di intraprendere tale percorso) e psicologica da sostanze stupefacenti per estendersi poi ad altre
(ad es. senza fissa dimora, ex detenuti ecc) anch’esse scarsamente motivate a intraprendere percorsi di
integrazione sociale. Gli interventi a bassa soglia vengono attuati in genere mediante la somministrazione di
farmaci sostitutivi, nel caso di tossicodipendenti, e, in generale, mediante un’attività di tipo assistenziale e
informativa non certo finalizzata a eliminare il disagio, quanto a contenerlo. Esiste una notevole varietà di
servizi a bassa soglia: unità di strada, dormitori, gruppi a bassa soglia all’interno dei SERT, ambulatori
medici, educativa di strada, sportelli di orientamento e sostegno. Essi sperimentano un metodo di
intervento innovativo che presuppone alcuni elementi diversamente combinati a seconda delle situazioni:
Rapporto informale
Èquipe multidisciplinare (arricchita di nuove figure professionali quali l’educatore di strada)
Utilizzo delle strategie di rete (che fanno leva sulla capacità di diverse organizzazioni, pubbliche e
private, di strutturare insieme interventi sul territorio) e di empowerment per facilitare la fruizione
di altri servizi e la mobilitazione di risorse personali.
N.B.: I processi di empowerment possono riguardare il singolo, i gruppi (generalmente di self-help),
la comunità di appartenenza.
Il concetto di empowerment implica 3 fattori:
1. il controllo delle decisioni, riguardanti la propria vita
2. la consapevolezza critica, intesa come comprensione del funzionamento delle strutture di potere
e dei processi decisionali all’interno della comunità in cui si vive
3. la partecipazione, come strategia operativa per ottenere i risultati desiderati
PER I SERVIZI A BASSA SOGLIA QUINDI: è necessaria una modalità di intervento che richiede ampi
margini di flessibilità e di ‘riaggiustamento’ delle zioni rispetto agli obiettivi e un’elevata capacià di
lavorare insieme da parte di operatori con competenze, culture e abilità diverse.
L’utilizzo dei servizi a bassa soglia riscontra alcune difficoltà tra cui: la mancanza di una loro chiara
identificazione dovuta anche alla scarsità della letteratura in materia. Inoltre, in Italia prevale la
metodologia della presa in carico del caso da parte degli operatori, che richiede un’ampia
disponibilità e collaborazione dell’utente, e non sempre si è disponibili a sperimentare nuovi saperi,
abilità professionali e metodologie per una fascia considerate residuale, quale è quella del disagio
sociale adulto.
8.3 Gli interventi a contrasto dell’esclusione sociale di adulti in difficoltà
Gli interventi più comunemente attuati per favorire inclusione sociale di adulti in difficoltà si possono
raggruppare in alcune grandi aree:
1. Sostegno economico erogazione di denaro a vario titolo. In particolare , esse possono configurarsi
come: contributi economici (generici); sostegno al reddito (in particolare, reddito minimo di
inserimento); contribuzione al pagamento di utenze; contributi al pagamento di utenze; contribuiti per
l’affitto; assegni di maternità; abbonamenti gratuiti (trasporti).
N.B: Il RMI istituito nel 98, è stato esteso su tutto il territorio nazionale dalla L.328\00. Si
tratta di un tipo di assistenza economica non passivizzante (in quanto richiede al
destinatario un’assunzione di responsabilità), volto a mobilitare le risorse residue degli
individui e delle famiglie fruitrici. Esso associa il contributo economico all’impegno,
definito, a seguire specifici piani di inserimento: corsi di formazione, di recupero scolastico
ecc. Inoltre, principali requisiti di accesso sono la residenza (da 12 mesi per cittadini italiani,
da 3 anni per extra-comunitari). E’ una buona misura di contrasto alla povertà ed
esclusione sociale.
2. Accoglienza abitativa all’interno di quest’are vi sono 3 tipi di interventi:
1. Di prima accoglienza\prima necessità indirizzati ai bisogni di ‘riparo’ e di alloggio (dormitorio,
strutture temporanee ecc)
2. Di seconda accoglienza che propongono strutture residenziali come le comunità terapeutiche per
tossicodipendenti
3. Interventi che rientrano nell’ambito delle politiche per la casa (Agenzia per la casa ecc).
3. Fornitura di beni di prima necessità offerta diretta di beni in natura o di servizi di immediato utilizzo
(servizi mensa, borse viveri, vestiario, distribuzione farmaci) e nell’erogazione di ‘buoni’ per l’acquisto
dei beni spesa (buoni mensa, buoni spesa ecc).
4. Politiche attive del lavoro E 5. Promozione e riduzione del danno in entrambe le aree vi sono azioni
e interventi che dovrebbero tenere conto di una progettazione a lunga scadenza, di una rete di soggetti
istituzionali diversi e collegati in un comune percorso e, di risorse piu consistenti e continuative
(umane, finanziarie ecc). Le azioni in questo senso vanno dall’erogazione di borse lavoro agli incentivi e
agli sgravi per le assunzioni per le imprese, dall’orientamento\accompagnamento\inserimento alla
sensibilizzazione del mondo imprenditoriale e, all’impresa sociale nella sua forma di cooperativa sociale
di tipo B. il fine è appunto quello di favorire l’entrata , e soprattutto la permanenza nel mondo del
lavoro.
Nella quinta area, nello specifico, rientrano quelle azioni volte a promuovere nei soggetti l’attivazione
delle proprie risorse (empowerment), attraverso servizi di informazione, di segretariato sociale, di
sostegno alla persona e alla comunità in cui essa è inserita. Si tratta dio servizi che complessivamente
sono orientati a rendere il soggetto autonomo nel percorso di uscita da una condizione di difficoltà e a
prevenire il manifestarsi di condizioni di disagio. Si tratta di prestazioni e interventi diversi che
rispondono ad altrattante esigenze tra loro diverse, ma comunque riconducibili a un progetto di uscita
da una condizione di ‘esclusione sociale’: attivazione di sportelli informativi, educativa di strada,
formazione professionale ecc.
Di fatto chi entrava nel manicomio iniziava la “carriera” del malato mentale, una via quasi sempre senza
ritorno che si concludeva con la perdita di ogni diritto: “l'istituzione totale” lo emarginava dal resto del
mondo. Prima si ricorreva al ricovero manicomiale con l'idea di proteggere i cittadini o il malato stesso dalla
sua “Pericolosità”.
Solo negli anni '60 con la legge 431/68 “Provvidenza per l'assistenza psichiatrica” la realtà comincia a
cambiare con l'istituzione dei primi Centri di igiene mentale (CIM) sul territorio. Dell'equipe di tali centri, a
fianco dello psichiatra e dell'infermiere psichiatrico, entrarono a far parte lo psicologo e l'a.s.
La legge 180/1978 poi, decretando la chiusura del manicomio, istituisce invece i Servizi psichiatrici di
diagnosi e cura (SPDC) come unità di ricovero negli ospedali generali. In questo modo il ricovero diventa
molto meno etichettante e la malattia mentale viene considerata come tutte le altre patologie. In essi si
eseguono trattamenti sanitari sia volontari che se per necessità obbligatori (TSO). Anche questi ultimi
devono essere però eseguiti nel rispetto della dignità della persona e perciò autorizzati secondo procedure
di garanzia: siglati da provvedimento del sindaco, su proposta motivata di un medico, convalidata dal
giudice tutelare. Ciò perchè il TSO non ha più lo scopo di tutelare i cittadini dalla pericolosità del malato
mentale, ma di curare il malato mentale anche quando non in grado di riconoscere la propria malattia.
Luogo primario di cura diventarono i servizi territoriali, che offrono assistenza alle persone con bisogno di
terapie psicologiche e psichiatriche; esse possono fruire soprattutto di assistenza ambulatoriale e
domiciliare, ma vengono anche indirizzate in comunità terapeutiche, comunità di lavoro, centri di
formazione professionale, cooperative e centri di ospitalità, nati soprattutto per aiutare gli ex internati a
recuperare le residue capacità fisiche e psichiche ecc.
Tuttavia ci furono molti casi in cui gli amministratori e i tecnici non si erano impegnati a chiudere
definitivamente i manicomi e il legislatore si occupò di penalizzarli nel '96. Da allora la situazione sembra
migliorata, ma in questa prima fase alla chiusura dei manicomi perciò non seguì l'istituzione di servizi
territoriali sufficienti ed effettivamente capaci di rispondere ai problemi di persone affette da malattia
mentale. Una delle conseguenze fu il “peso” enorme che venne a crearsi sulle famiglie dei malati mentali a
seguito del loro ritorno a casa, non preparate e incapaci di affrontare da sole soprattutto i momenti di crisi
dei malati mentali. In questi casi soprattutto esse dovrebbero potersi affidare sia al pronto soccorso che a
strutture residenziali anche se temporanee e di piccole dimensioni, ma specializzate.
Nonostante fosse opinione condivisa che l'ospedale psichiatrico non era luogo adatto ad aiutare la persona
a raggiungere un'accettabile qualità della vita, ampio fu il dibattito: posizioni estreme arrivarono a negare
l'origine organica della malattia mentale, ritenendo che il contesto ambientale fosse quasi la sua origine.
I due progetti-obbiettivo, Tutela della salute mentale 1994-1996 e Tutela della salute mentale 1998-
2000, ribadendo i principi fondamentali espressi dalla legge Basaglia, hanno affrontato alcuni dei problemi
irrisolti.
Essi contengono una serie di indicazioni per la costituzione di una rete di servizi, tale da poter accogliere
una gamma di domande che spazia dal counseling svolto in attività ambulatorie alla gestione delle crisi fino
al ricovero nel corso di episodi di crisi acute e all'accoglimento del paziente in appropriati centri residenziali
e semiresidenziali.
Il Centro di salute mentale (che è una struttura del Dipartimento) è sede organizzativa dell'equipe degli
operatori e sede di coordinamento degli interventi di prevenzione, cura, riabilitazione, reinserimento
sociale dei pazienti nel territorio di provenienza. Ciò anche tramite l'integrazione funzionale con le attività
dei Distretti.
(Secondo la definizione il Distretto Socio Sanitario è un'articolazione territoriale dell'Azienda alla cui
missione contribuisce, assicurando alla popolazione residente la disponibilità e l'accesso ai servizi e alle
prestazioni di tipo sanitario, socio-sanitario e sociale (...) → il distretto socio sanitario infatti offre interventi
sanitari ampi come medicina generale, specialistica, consultori, dipartimento di salute mentale, NPI ecc.
mentre il dipartimento di salute mentale è specifico della salute che riguarda la psiche. Una definizione di
Dipartimento infatti è: “il dipartimento è un'organizzazione integrata di unità operative omogenee, affini o
complementari, ciascuna con obbiettivi specifici, ma che concorrono al perseguimento di comuni obbiettivi
di salute.”)
Il Centro svolge attività di accoglienza, analisi della domanda, attività diagnostica, definizione e attuazione
di programmi terapeutici e socio-riabilitativi personalizzati con le modalità proprie dell'approccio integrato,
tramite interventi ambulatori, domiciliari ed eventualmente anche residenziali. Esso garantisce la strategia
della comunità terapeutica svolgendo perciò attività di raccordo con i medici di medicina generale per
fornire consulenza psichiatrica. Fa anche consulenza specialistica a servizi “di confine” riguardanti
alcolismo, tossicodipendenze ecc.
Come già detto l'SPDC (Servizio psichiatrico di diagnosi e cura) è invece un reparto psichiatrico INTERNO
all'ospedale generale dove si svolgono attività terapeutiche intensive a regime di ricovero.
L'accesso in ogni caso deve far parte di un programma individualizzato concordato tra utente, servizio e
familiari.
Come gli altri disabili i malati psichiatrici poi entrano nei programmi di inserimento lavorativo o attraverso il
collocamento obbligatorio mirato o in cooperative di tipo B.
L'obbiettivo primario dell'intero sistema dei servizi è comunque l'integrazione dell'utente nel contesto
sociale se possibile originario soprattutto. Ciò è possibile tramite progetti, interventi come assistenza
domiciliare, inserimento scolastico, lavorativo ecc. che quindi richiedono collaborazione tra soggetti
istituzionali diversi (scuola, famiglia, associazioni, operatori, medici ecc).
Occorre che anche la comunità sia sensibilizzata rispetto al problema, data la difficoltà dello stesso di
essere correttamente gestito, diventando in qualche modo “competente” e capace di accoglierlo. Una
comunità come risorsa su cui il malato e i servizi possono contare.
Importantissima anche la collaborazione con le unità operative quali quella di neuropsichiatria infantile che
possibilmente hanno avuto già in carico l'utente ormai adulto già dalla sua infanzia o adolescenza, per
seguire percorsi continuativi senza che essi perdano la loro possibile efficacia.
Il fenomeno della tossicodipendenza si propone con drammaticità come problema sociale a partire dagli
anni '70 anche se già negli anni '60 si si stava diffondendo una diffusione su larga scala sull'uso di sostanze
stupefacenti soprattutto da parte dei giovani.
A denunciare per primi il fenomeno e a realizzare comunità terapeutiche per la disintossicazione furono il
mondo del volontariato e del privato sociale e fu la cultura dei servizi degli anni '70 che seppe ispirare i
successivi provvedimenti normativi in materia con una politica orientata alla prevenzione (quindi non più
solo con interventi “riparativi”/repressivi) e un approccio multidisciplinare al problema.
2 le norme più importanti: la legge 685/1975 Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope;
prevenzione, cura e riabilitazione nei relativi stati di tossicodipendenza e la successifa legge 162/1990 di
modifica alla precedente. Negli anni '90 poi ci furono altri importanti interventi normativi sia di livello
nazionale che regionale.
In primo luogo le due leggi condannano l'abuso delle sostanze stupefacenti sancendone l'illiceità non solo
di chi le usa ma anche di chi le commercia e distinguendone le responsabilità legando la punibilità alla
quantità che scattava superata la “modica quantità” per quanto riguarda l'uso e la “dose media giornaliera”
(più restrittivo) per quanto riguarda lo spaccio.
Nel '90 è stata introdotta anche la possibilità di sanzioni amministrative (di competenza del prefetto del
luogo in cui è stato commesso il fatto) per i casi di minore gravità. Per gestire questa competenza le
Prefetture istituirono i Nuclei operativi tossicodipendenze (NOT), in cui operano assistenti sociali che
devono collaborare costantemente con i servizi socio-sanitari territoriali.
Le leggi hanno posto inoltre, come deducibile dai loro nomi, le basi per interventi preventivi, di cura e
riabilitativi.
Infatti, fin dal 1975 è stata chiamata in causa anche la scuola, considerata il luogo più efficace per attivare
iniziative di prevenzione, tramite (in una prima fase) eventi di informazione rivolti ad insegnanti e studenti
sui rischi dei consumi delle singole sostanze. In una seconda fase l'attenzione fu posta anche alle possibili
cause de dilagare del fenomeno.
Negli anni '90 nacquero i primi Centri di informazione e consulenza rivolti proprio ai giovani con l'obbiettivo
di realizzare progetti di attività informative e di consulenza concordati tra gli organi collegiali della scuola, i
servizi pubblici ed eventualmente enti privati presenti sul territorio.
Le USL sono state il soggetto che principalmente si è occupato di tossicodipendenza. Esse in una prima fase
si limitarono a promuovere coordinamenti di alcuni servizi già esistenti (servizi psichiatrici, medicina
generale ecc.) per offrire interventi multidisciplinari. Solo in una seconda fase furono istituiti i Servizi
tossicodipendenze (SERT) come servizi autonomi (disciplinati dal D.M. 444/1990): essi dovevano attuare
attività di prevenzione, ma anche garantire diagnosi e presa in carico del singolo tossicodipendente (questa
fu la novità). Infatti per ciascun utente deve essere predisposto un programma di recupero terapeutico (che
può essere affiancato inizialmente anche da uno di tipo farmacologico) e riabilitativo individualizzato, con
l'apporto della psicoterapia sia individuale sia di gruppo, che affronti, oltre alla dipendenza fisica dalle
sostanze, soprattutto quella psicologica (altra novità).
Nel SERT operano quindi medici, infermieri, psicologi, a.s. ecc. Il lavoro di equipe per questo fenomeno e
per la sua complessità data anche dalla derivanza e dall'impatto che ha dal e sul sociale è centrale per
tantissimi aspetti quali diagnosi, progettualità, verifica di risultati ecc. Ma anche la collaborazione con le
famiglie è altrettanto fondamentale. Utili sono anche i gruppi di auto-aiuto e il setting (luoghi riservati e
sicuri).
Bisogna tenere a mente che non sempre la richiesta di aiuto dei tossicodipendenti è chiara ma spesso
richiede una risposta immediata; difficile diventa la “presa in carico”.
Il SERT devono poi rgpòare l'accesso degli utenti alle comunità terapeutiche e cioè a strutture a carattere
residenziale con compiti terapeutici e rieducativi, finalizzati al superamento della dipendenza e al
reinserimento nel contesto sociale. Esse sono gestite in gran parte da soggetti privati del terzo settore.
La legge ha istituito gli albi degli Enti ausiliari a cui bisogna necessariamente iscriversi per poter
sottoscrivere convenzioni con gli enti pubblici. Tuttavia le comunità terapeutiche possono essere (per ideali
o ideologie differenti) molto diverse e seguire progetti di intervento altrettanto diversi tra loro, nonché
darsi e dare regole differenti. Oggi gli Enti ausiliari sono diventati Enti “accreditati” e ad essi è riconosciuta
la possibilità di attuare anche interventi non residenziali o di proporre una diversa residenzialità.
I dipartimenti per le dipendenze all'interno dell'ASL devono affrontare anche le dipendenze da sostanze
lecite talvolta (es alcool). Spesso il tossicodipendente continua a rivolgersi al privato però, e un riinvio al
sert spesso scoraggia la sua decisione nel richiedere aiuto. Per far fronte a questo problema “il lavoro di
strada” è senza dubbio uno delle nuove sfide per i servizi. Il lavoro degli educatori di strada è in parte
preventivo e in parte di “riduzione del danno”, ossia di tentare un avvicinamento con tossicodipendenti che
tuttavia non vogliono accettare un programma finalizzato all'uscita dalla tossicodipendenza. A tal proposito
iniziative sono la distribuzione gratuita di siringhe pulite, luoghi di accoglienza temporanea ecc.
9.3 L'integrazione difficile
Per un effettivo intervento di rete adatto ad affrontare il problema, l'integrazione istituzionale, eseguita
spesso con strumenti quali accordi di programma, non è sufficiente: è necessario che le istituzioni si
integrino e collaborino con servizi, occasioni, sedi diverse. Indispensabile, data l'importanza che spesso le
associazioni private (le più vicine ai tossicodipenti) attribuiscono ai propri schieramenti politici e ideali,
appare ad esempio allora quella di formare gli operatori ad una cultura dei servizi rispettosa del pluralismo
degli approcci disciplinari e ideali, il più possibile condivisa dagli attori.