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Tra i servizi alla persona vi sono principalmente: gli enti locali (comune), la sanità, il terzo settore.

LA RETE DEI SERVIZI ALLA PERSONA (di Franzoni e Anconelli)


CAPITOLO 1: welfare state
Le basi della moderna concezione di welfare state nascono con il Rapporto sulla povertà redatto da
Beveridge in Inghilterra nel 1942: il rapporto parla di lotta alla povertà, alla malattia, all'ignoranza, all'ozio.
L'obbiettivo è che al cittadino sia garantita (dallo stato) una soglia di sussistenza minima in tutte le fasi della
vita → l'accento sociale si sposta dunque dal concetto di rischio (colmato con le assicurazioni) a quello di
bisogno (i cittadini possono usufruire delle prestazioni di cui hanno bisogno indipendentemente dai
contributi assicurativi versati). E' così introdotto il principio dell'universalismo delle prestazioni.
I primi paesi che si avviarono verso la realizzazione di un welfare state furono quelli del Nord Europa.
Welfare state = insieme di interventi pubblici connessi al processo di modernizzazione, i quali forniscono
protezione sotto forma di assistenza, assicurazione e sicurezza sociale, introducendo fra l'altro specifici
diritti sociali nonché‚ specifici doveri di contribuzione finanziaria.
3 modelli di welfare:
-residuale (aiuto da parte dello stato solo quando mercato e famiglia entrano in crisi);
-remunerativo (erogazione di benefici sulla base del merito);
-istituzionale-redistributivo (prestazioni universali indipendentemente dal mercato).
Modello di welfare italiano: sistema "misto" ossia in parte costituito da servizi e prestazioni di tipo
universalistico (finanziati dallo stato) e in parte da servizi e prestazioni garantiti da sistemi assicurativi,
definiti come "occupazionali".

CAPITOLO 2: LA ‘STORIA’ DEI SERVIZI ALLA PERSONA


Al fine di comprendere le finalità e le modalità organizzative della rete dei servizi alla persona bisogna
considerarli nella prospettiva dello sviluppo non soltanto del complessivo sistema di welfare, ma anche
delle trasformazioni istituzionali e organizzative (introdotte dal susseguirsi non sempre coerente di
interventi normativi via via approvati negli anni) che li hanno progressivamente coinvolti. Avendo una tale
conoscenza potremo non ripetere gli errori del passato ma anche, difendere ciò che di positivo è stato
realizzato. Alla fine degli anni 60, inizio degli anni 70 l’obiettivo comune era quello di realizzare un modello
di welfare di tipo universalistico che sapesse offrire reti protettive a tutte le persone, sulla base dei diritti ad
esse riconosciuti dalla Costituzione, superando l’approccio della beneficienza pubblica su cui si fondava la
legislazione del passato.

2.1. Un’assistenza frammentata


Nel periodo precedente all’approvazione della legge 833\1978 (istituzione del servizio sanitario nazionale.
Rivoluzionaria per l'intenzione di integrare servizi sanitari e sociali) l’assistenza sanitaria e quella sociale
erano erogate da una molteplicità di Enti separati e autonomi, divisi per categorie di utenti e per tipologie
di prestazioni. Già nel periodo fascista erano stati via via istituiti molti Enti che si occupavano di assistenza
all’infanzia e alla gioventù come l’ONMI (Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia) e
l’ENAOLI (Ente nazionale per l’assistenza agli orfani dei lavoratori italiani).
Vi erano anche Enti impegnati a favore di categorie speciali (alcuni dei quali hanno ancora oggi mantenuto
un ruolo di promozione) come l’UIC (Unione italiana ciechi), l’ENPAS (Ente nazionale per la protezione e
l’assistenza ai sordomuti), l’ANMIC (Associazione nazionale mutilati e invalidi civili), ed enti per l’assistenza
a categorie di persone benemerite per servizi resi come l’ONIG (Opera nazionale invalidi di guerra) e
l’ANMIL (Associazione nazionale mutilati e invalidi del lavoro).
Molti enti si occupavano di assistenza integrativa ai lavoratori, come ad es. l’ENAL (Ente nazionale
assistenza lavoratori), l’ENAM (Ente nazionale di assistenza magistrale).
A livello locale operavano gli ECA (Ente comunale assistenza), moltissime IPAB (Istituzioni pubbliche di
assistenza e beneficienza), i Patronati scolastici comunali (che distribuivano agli studenti libri di testo,
sussidi economici, attività di doposcuola gratuite, pasti ecc per garantire il diritto allo studio ai meno
abbienti) e Consorzi fra Enti pubblici attivati per problematiche particolari. Nella Sanità operava un sistema
mutualistico articolato per categorie di lavoratori.
Per quanto concerne il settore dei dipendenti pubblici operavano 3 enti: l’ENPAS (Ente nazionale
previdenza assistenza statali), che assisteva i dipendenti statali, l’ENPDEP (Ente nazionale previdenza
dipendenti enti di diritto pubblico), che si occupava di tutta la sfera del cosiddetto parastato, l’INADEL
(istituto nazionale assistenza dipendenti enti locali).
Nel settore dell’impiego privato, che copriva più di metà della popolazione, operavano l’INAM (Istituto
nazionale assistenza malattie), che assisteva i lavoratori e le loro famiglie in caso di malattia o maternità,
l’INPS (Istituto nazionale previdenza sociale) che, oltre a essere il più importante Ente previdenziale, si
occupava di assistenza in caso di tubercolosi, l’INAIL (Istituto nazionale assistenza infortuni sul lavoro) che
assisteva e tuttora assiste i lavoratori in caso di infortuni sul lavoro o di malattie professionali.
Nel secondo dopoguerra la tutela contro la malattia si estese ai lavoratori autonomi che costituirono
proprie casse speciali (casse mutua) dato che questa parte di popolazione italiana non era tutelata dagli
Enti sopra citati. Alcuni di questi enti, pur occupandosi prevalentemente di assistenza sanitaria, fornivano
anche prestazioni economiche (INPS e INAIL) e svolgevano attività di credito. Le prestazioni erano
differenziate sulla base del reddito, infatti ogni categoria di lavoratori aveva la propria cassa mutua e i non
abbienti la “cassa povertà”.
Nel 1970 con l’istituzione delle Regioni a Statuto ordinario si avviò il decentramento amministrativo alle
autonomie locali delle materie riguardanti la beneficienza pubblica cosi come l’assistenza sanitaria e
ospedaliera.
Furono poi la legge 382/1975 (legge che delega alcune funzioni statali alle regioni) e in particolare, tra i
decreti attuativi di questa legge, il DPR 616/1977 a realizzare una grande riforma di decentramento dallo
Stato alle Regioni, alle province e ai comuni delle competenze socio-assistenziali e sanitarie
(decentramento di funzioni regionali agli enti locali minori). Con questo DPR i servizi sociali diventano di
competenza del comune, così come le materie di assistenza e beneficenza. Ciò portò allo scioglimento o al
ridimensionamento degli Enti sopra descritti; il personale in essi operante passò ai Comuni, alle Regioni, alle
nuove Unità sanitarie locali.

2.2. Le idee guida delle riforme: dalla legge 833\1978 alla ‘mancata’ riforma dell’assistenza
La legge 833\1978 segnò l’Istituzione del Servizio sanitario nazionale  basato sulla concezione
universalistica del diritto alla salute per tutti i cittadini, resta ancora oggi il risultato più importante
dell’elaborazione politica e culturale che si sviluppò negli anni 70. Essa riformò l’intero comparto dei servizi
alla persona,conteneva anche molti riferimenti al settore sociale e alla necessità di integrazione tra settore
sociale e sanitario. Tuttavia, in mancanza dell’approvazione di un’analoga legge per il comparto sociale, tale
legge assunse funzione di traino rispetto all’innovazione anche dei servizi sociali.
La legge di riforma sanitaria fu approvata dal Parlamento dopo un processo di maturazione culturale
intorno ad alcune idee-guida:
Prevenzione: sia delle malattie che del disagio sociale: i servizi dovevano intervenire non solo a riparare i
danni indotti da patologie sanitarie e sociali già conclamate (la cura), e neppure limitarsi a programmi di
individuazione precoce di patologie non ancora manifeste (prevenzione secondaria, medicina preventiva),
ma dovevano anche mirare al mantenimento della salute fisica e psichica e del benessere sociale dei
cittadini, intervenendo per eliminare le cause stesse delle patologie (prevenzione primaria);

Lotta all’emarginazione: comportava il superamento di interventi che sradicavano le persone dal proprio
ambiente di vita e dal proprio contesto sociale (ad es. i ricoveri nelle istituzioni totali): la proposta era
quella di deistituzionalizzare (portare fuori dalle strutture residenziali)malati di mente, handicappati,
anziani, ma soprattutto di creare servizi alternativi che consentissero a ciascuno di rimanere nella propria
casa.
L’integrazione tra servizi sociali e sanitari, necessaria per garantire risposte armoniche, non
contraddittorie, che rispettassero la globalità e l’unitarietà dei bisogni delle persone.
Per superare la frammentazione e le sovrapposizioni degli interventi verificatesi in passato (dovute anche
alla molteplicità di soggetti istituzionali e privati che si occupavano sia di servizi sanitari che di servizi
sociali), ma anche per ancorare gli interventi ai nuovi obiettivi della complessiva politica dei servizi, fu
ritenuto necessario percorrere la via della programmazione, intesa come metodo ordinario di governo, a
qualsiasi livello, ma anche come metodo di lavoro in ciascun servizio.
Partecipazione: perché gli obiettivi proposti e i singoli interventi rispondessero effettivamente ai bisogni,
occorreva che cittadini e utenti, ma anche le formazioni sociali intermedie, avessero voce nel proporli e
valutarli. Quindi, il coinvolgimento partecipativo era ritenuto requisito necessario per garantire efficienza
ed efficacia dei servizi alla persona.
Informazione:  gli strumenti della partecipazione erano i piu vari come le assembleae, i comitati, ma,
soprattutto l’informazione sui bisogni della popolazione, sui servizi e sui processi decisionali ad essi relativi.
Si cominciano a costruire i primi sistemi informativi, cioè insiemi organici di metodologie, tecniche e
strumenti necessari per rilevare, conservare, rielaborare e rendere fruibili ad amministratori, operatori e
cittadini dati riguardanti sia i bisogni e quindi la domanda (ad esempio i dati epidemiologici), sia l’offerta di
servizi.
Decentramento : la traduzione in esperienze concrete di questi nuovi orientamenti necessitava di un
diverso assetto istituzionale e organizzativo che doveva portare vicino ai cittadini sia la lettura dei bisogni
che la programmazione dei servizi e il continuo monitoraggio sulla loro efficacia (rispondenza ai bisogni e
alla domanda). L’idea guida di decentramento era perciò il filo rosso di tutto il processo di trasformazione.
L'attivazione del dettato costituzionale relativo all'istituzione delle regioni e, conseguentemente, il
trasferimento delle competenze in materia sociale e sanitaria alle autonomie locali (D.P.R. 616\1977 e
seguenti) è stata condizione necessaria per l’introduzione, nella legge 833\1978, dell’Unità sanitaria
locale (USL),come complesso dei presidi, degli uffici e dei servizi gestiti da Comuni singoli e associati e dalle
Comunità montane.
E’ interessante notare come anche l’istituzione della Unità sanitaria locale (USL) sia stata preceduta, in
alcune Regioni d’Italia, da sperimentazioni di Consorzi socio-sanitari (tra Comuni, Province, Comunità
montane) che hanno appunto anticipato le esperienze dell’USL infatti, furono organizzati servizi innovativi,
caratterizzati da una nuova integrazione tra interventi sociali e interventi sanitari. Non bisogna
sottovalutare quest’esperienza infatti, recentemente i Consorzi tra Enti locali sono tornati ad essere una
delle possibili vie attraverso cui gestire i servizi sociali.
Ciò dimostra inoltre come quei criteri guida di cui abbiamo parlato prima abbiano orientato i processi di
apprendimento sociale determinando il nuovo assetto della rete dei servizi.
Altri servizi simbolo di questi orientamenti, realizzati prima e dopo la L 833\1978, sono i servizi di assistenza
domiciliare ad anziani, handicappati che volevano evitare il più possibile l’istituzionalizzazione e in generale
processi di emarginazione. Tra i servizi finalizzati alla prevenzione del disagio e dell’emarginazione sociale
simbolo ne sono i centri ricreativi giovanili, progetti giovanili, Informagiovani, e per quanto riguarda gli
anziani centri sociali come l’attività degli orti, i lavori socialmente utili, le università per anziani.
Non è stata certamente una storia senza errori e difficoltà, si pensi ad es. a settori come quello della
psichiatria nel quale alla de istituzionalizzazione e perciò al progressivo superamento delle istituzioni totali,
spesso non si è accompagnata la progettazione di servizi territoriali sostitutivi. E ancora, si pensi alle
difficoltà incontrate nell’individuare una rete capace di rispondere agli effettivi bisogni dei
tossicodipendenti.
Negli ultimi anni, si è dovuto rispondere al moltiplicarsi di nuove emergenze, che hanno portato a includere
nuove fasce d’utenza come quella degli extracomunitari, dei profughi , ma anche dei nomadi ecc. e alcune
scelte radicali di de istituzionalizzazione hanno dovuto essere riviste. L’aumento del numero di anziani in
condizioni di non autosufficienza ha ad es. riproposto la necessità di aumentare l’offerta di strutture
residenziali e semiresidenziali, anche se ben diverse dalle precedenti, molto spesso di dimensioni più
piccole, dotate di servizi sanitari appropriati alla cronicità dei bisogni.
Per quanto riguarda invece la L833\1978 essa conteneva numerosi riferimenti al settore sociale e di fatto
sollecitava i Comuni a delegare alle Unità sanitarie locali alcune competenze sociali. Alcune leggi regionali
istitutive delle USL, approvate nei primi anni 80, introdussero la cosiddetta seconda S, cioè la
denominazione di unità locale socio-sanitaria, cosi da realizzare un unico ente gestore dei servizi soicali
territoriali. In questo modo il cittadino avrebbe avuto un unico interlocutore a cui manifestare le proprie
esigenze e a cui esprimere la domanda di servizi.
Intorno alla metà degli anni 80, inoltre, le Regioni supplirono alla mancanza di una legge nazionale
attraverso leggi regionali di riordino delle competenze in materia socio-assistenziale, che orientarono gli
Enti locali per quanto riguardava le materie da delegare alle USL (vedi es della legge regionale Sicilia l.22/86
negli appunti).
A queste normative regionali dirette alla regolamentazione del settore ve ne furono delle altre che, si
occupavano di specifiche utenze (anziani, handicappati, nomadi) o problematiche (inserimenti lavorativi
protetti ecc). Negli anni successivi furono anche promulgate alcune leggi nazionali settoriali che
determinarono ulteriori scelte importanti da parte delle Regioni e degli Enti locali in campi specifici. Si pensi
ad es. alla legge 104\1992, Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone
handicappate che, ha posto l’integrazione scolastica e l’inserimento lavorativo come elementi essenziali del
riconoscimento del diritto di cittadinanza della persona handicappata.
Alla fine degli anni 90 alcuni interventi normativi hanno impresso un'accelerazione all'innovazione in
diversi settori sociali a tutela di riconosciuti diritti di fasce specifiche di popolazione. Tra questi si ricordano
ad esempio la legge 285\97 Disposizioni per la promozione di diritti e opportunità per l’infanzia e
l’adolescenza che, istituendo un pur limitato Fondo speciale destinato a progetti innovativi, ha di fatto
tentato di riorientare la cultura dei servizi per minori in senso promozionale e preventivo; la L. 53\2000,
Disposzioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il
coordinamento dei tempi delle città, attraverso una nuova regolazione dei congedi parentali, propone di
sostenere la maternità e la paternità armonizzando tempi di lavoro e di cura delle famiglie; infine un altro
esempio è la L. 68\1999, Norme per il diritto al lavoro dei disabili che è relativa alle modalità di inserimento
lavorativo, inteso come intervento chiave di una effettiva politica di integrazione sociale e di lotta alla
emarginazione.

2.3. L’Unità sanitaria locale e l’integrazione socio-sanitaria


Si è visto come le trasformazioni istituzionali e organizzative del servizio sanitario nazionale hanno
interessato anche il comparto dei servizi sociali, sia perché i servizi sociali devono lavorare in rete con i
servizi sanitari territoriali,sia perché i Comuni avevano il potere di delegare all’USL competenze in materia.
Ciò è di fatto avvenuto soprattutto per i servizi sociali destinati a fasce di utenza che erano anche portatrici
di bisogni sanitari come i tossicodipendenti o i malati psichiatrici; raramente la delega ha riguardato i servizi
sociali per anziani.
Qui si vuole analizzare alcuni aspetti del modello organizzativo dell'attuale Azienda sanitaria
locale (ASL) come è andato strutturandosi nel corso degli anni a partire dalla L. 833/78 che aveva istituito
l'USL.
Con la L. 833\78 era stata superata anche nella sanità la strutturazione basata sugli enti e sulla
settorializzazione delle competenze e delle prestazioni al cittadino. Aveva cioè preso avvio un processo
volto a costituire una organizzazione unitaria e universalistica a tutela della salute. Nell’art. 1 della legge
sono espressi gli obiettivi: si recepisce un concetto di sanità, definito dall’OMS, che integra sia gli aspetti
fisici che quelli psichici; oltre a parlare di diagnosi e cura si parla anche di prevenzione e riabilitazione, si
sollecita alla collaborazione con i servizi sociali; si chiama il volontariato alla collaborazione; per la prima
volta si fa riferimento a una collaborazione pubblico-privato che diventerà sempre più articolata negli anni
successivi, quando entreranno in campo anche altri soggetti del terzo settore.
I Comuni per la realizzazione degli obiettivi e per la gestione unitaria dei servizi del Servizio sanitario
nazionale ‘usavano’ le Unità sanitarie locali (USL), che a loro volta si articolavano in Distretti di base ovvero
delle strutture tecnico funzionali per l’erogazione di servizi di primo livello e di pronto intervento. Il
distretto di base perciò lavorava su un territorio specifico ricomponendo e unificando le diverse attività
socio-sanitarie.
La riforma faticò a raggiungere gli obiettivi prefissati a causa della scarsità di risorse disponibili; non
sufficiente attenzione agli aspetti gestionali che realtà complesse come le USL richiedevano e l’instaurarsi di
prassi che confondevano i ruoli dei politici e dei tecnici nella programmazione e gestione dei servizi. Si
sviluppò un articolato dibattito, alla fine prevalse la tesi di separare le funzioni di indirizzo e
programmazione lasciate a organi di nomina politica (Comitati di gestione delle USL stesse, nominati dai
consigli comunali) da quelle di gestione e amministrazione affidate alla competenza dei tecnici e dei
manager in un’ottica aziendale.
Con l’approvazione dei decreti legislativi 502\1992 e 517\1992 le USL di fatto non sono più organismi
strumentali dei Comuni (quindi sottoposti al controllo di assemblee elettive locali che rispondono ai
cittadini), ma sono trasformate in Aziende sanitarie locali (ASL). Anche i grandi ospedali vengono
scorporati dalle ASL e trasformati in azienda ospedaliere.
Avviene la cosiddetta aziendalizzazione. Le nuove ASL (cosi come le aziende ospedaliere) sono dotate di
propria personalità giuridica pubblica, sono autonome a livello gestionale, amministrativo, contabile e
anche patrimoniale pur sotto il controllo di un collegio di revisori di Conti. I pochi poteri attribuiti alla
Conferenza dei sindaci dei comuni del Distretto riguardano soprattutto il monitoraggio del bisogno sanitario
della popolazione.
Il controllo politico delle ASL viene infatti assegnato alle Regioni che assumono il potere di nomina e revoca
dei direttori generali, i quali devono attenersi alle linee di indirizzo e programmatiche regionali. Ai direttori
generali spetta la responsabilità di scegliere i direttori sanitari e quelli amministrativi. La legge prevede che
possono scegliere anche un direttore di servizi sociali nel caso di delega alle ASL da parte dei Comuni delle
attività sociali in aggiunta alle attività socio-sanitarie già competenza delle ASL stesse. Il decreto inoltre
stabilisce la riduzione del numero delle Unità sanitarie locali, prevedendo per ciascuna un ambito
territoriale coincidente di norma con quello della Provincia (ASP). In relazione a condizioni di territorialità
particolari (in specie nelle aree montane, od ad alta densità e distribuzione della popolazione), la Regione
puo provvedere ambiti territoriali di estensione diversa.
Questa trasformazione ha anche richiesto di ridefinire i confini territoriali dei Distretti. Oggi anche i Distretti
sono di dimensioni maggiori rispetto a quelli previsti dalla L. 833\1978. Il distretto di base continua a
svolgere il compito di realizzare tutte le prestazioni socio-sanitarie preventive, curative, riabilitative proprie
del territorio in una prospettiva di continuità, unitarietà e globalità dell’intervento. Le diverse dimensioni
del distretto hanno richiesto tuttavia un diverso e piu articolato assetto organizzativo e sopratt
l’individuazione di un direttore di Distretto.
Questo riassetto complessivo non ha solo determinato una diminuzione di competenze dei Comuni in
materia sanitaria, ma ha indotto i Comuni stessi a ritirare alcune deleghe in materia dei servizi sociali, in
precedenza attirbuite alle USL (ora giudicate troppo grandi e troppo aziendalizzate), soprattutto quelle
relative ai servizi per i minori → poiché si ritiene che il comune sia un interlocutore più vicino al
cittadino. L’integrazione può essere garantita da accordi di programma e da una programmazione comune
(piano di zona).
Il Dlg 229\99 Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale riafferma i principi ispiratori e
gli obiettivi della L 833\78 , ma introduce anche nuove condizioni per renderli raggiungibili. Vengono infatti
precisati i diversi livelli di responsabilità propri delle Regioni, delle nuove aziende sanitarie, ma soprattutto
degli Enti locali a cui la precedente normativa aveva sottratto delle competenze.
Viene altresì confermato nuovamente la scelta di garantire le prestazioni ai cittadini nei territori dove
vivono attraverso un rilancio dei servizi sanitari di base. Ciò consente di caratterizzare le prestazioni sociali e
sanitarie sempre piu come un processo assistenziale unitario, pur distinguendo le prestazioni socio-
sanitarie erogate nei servizi dell’ASL da quelle socio-assistenziali di competenza dei Comuni.
L’integrazione tra servizi sociali e servizi sanitari non fu semplice, la L. 833\78 prevedeva un processo di
programmazione articolato sui 3 livelli: nazionale, regionale e locale. Il troppo complesso iter parlamentare
previsto dalla legge ritardò l’attuazione del piano sanitario nazionale (PSN) mentre molte Regioni
approvarono Piani sanitari regionali (PSR) (es Sicilia L. 22/86).
Sia i progetti di PSN che di PSR compresero al loro interno Progetti-obiettivo, che riguardavano appunto
l’integrazione tra servizi sociali e sanitari.
I progetti-obiettivi vengono codificati come “impegno operativo idoneo a fungere da polo di aggregazione
di attività molteplici delle strutture sanitarie, integrate dai servizi socio-assistenziali, al fine di perseguire la
tutela socio-sanitaria dei soggetti destinati al progetto”:
Tali progetti (secondo una legge dell'85) dovevano essere finanziati in parte con risorse vincolate del fondo
sanitario nazionale → si trattava di una proposta di integrazione effettiva tra servizi sociali e sanitari.
Esempi di progetti-intervento sono quello che venne attuato per la tutela della salute degli anziani, che
prevedeva effettivamente un integrazione tra sociale e sanitario tramite ad es. l'assistenza domiciliare
integrata o quello per la tutela della salute mentale tramite strutture semi-residenziali ad es. ecc.
Per quanto riguarda i finanziamenti l'atto di indirizzo e coordinamento per l'integrazione sanitaria del 1999
definisce i criteri di finanziamento delle diverse prestazioni socio-sanitarie, fornendo i criteri per distinguere
tra la parte a carico del servizio sanitario nazionale e la parte a carico dei comuni.
Dalla fine degli anni '90 si sottolinea anche l'importanza del lavoro interdisciplinare in equipe per un
effettiva integrazione tra servizi.
Tutte queste norme hanno determinato le successive e complesse trasformazioni dell'organizzazione dei
servizi sanitari.

2.4 Servizi sociali e welfare mix


Varie sperimentazioni si sono avviate in Italia al fine di superare le difficoltà del sistema di welfare che in
particolare si incontrano nella realizzazione di servizi alla persona effettivamente corrispondenti ai crescenti
e sempre nuovi bisogni. Tali sperimentazioni anno riguardato soprattutto 2 aspetti:
 lo sviluppo progressivo di collaborazioni tra pubblico e privato (es il privato no profit)
 la riscoperta della comunità come risorsa, e quindi del lavoro di comunità come strumento della
politica sociale.
La normativa quadro nazionale e le conseguenti norme regionali hanno sostenuto questi processi.
Lo sviluppo progressivo di collaborazioni tra pubblico e privato (welfare mix), con particolare riferimento
al privato non profit hanno tentato di risolvere alcuni dei problemi che sono alla base della crisi del
welfare: abbassare la spesa, creare organizzazioni meno burocratiche, piu elastiche, capaci di adattarsi a
bisogni sempre diversi, coinvolgere maggiormente i cittadini in processi di auto-aiuto. La legislazione
nazionale ha sostenuto il protagonismo del non profit con l’approvazione di alcune leggi: L. 381\91,
Disciplina delle cooperative sociali che ha definito 2 tipologie di cooperative sociali, una rivolta a produrre
servizi sociali (cooperative di tipo A), l’altra finalizzata a inserire al lavoro lavoratori svantaggiati
(cooperative di tipo B); 460/1997 riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle
organizzazioni non lucrative di utilità sociale (“legge sulle ONLUS”) che ha contributo all'ulteriore sviluppo
del settore, facilitando, soprattutto attraverso esenzioni fiscali, lo svolgimento delle attività dei diversi
soggetti non profit; ecc.
Nell'ambito del non profit la cooperazione sociale ha certamente avuto lo sviluppo quantitativo maggiore.
Ciò vale soprattutto per le cooperative di tipo A (ossia quelle rivolte a produrre servizi sociali).
Gli enti locali da parte loro, hanno compiuto un grande sforzo per contenere le spese necessarie e
chiedendo inoltre “supplenza” in settori in cui l'ente pubblico non aveva esperienze consolidate, hanno
iniziato a “esternalizzare” la gestione da parte dei servizi.
Queste collaborazioni con gli enti pubblici nelle prime esperienze si sono quindi configurate come una sorta
di “appalto di mano d'opera” quantitativamente limitato (gli operatori dipendenti dalle cooperative
facevano ad esempio parte a tutti gli effetti dei servizi dell'ente pubblico). In questo senso si può parlare
difunzione ancillare (subordinata) della cooperazione sociale, e del terzo settore in genere, rispetto ai
servizi pubblici.
Negli ultimi anni, tuttavia, il ricorso all’uso di personale ‘in convenzione’ si è andato estendendo
quantitativamente. Si tratta di esternalizzazioni che riguardano la gestione di una parte del servizio o di
tutto il servizio e non di un semplice ‘acquisto’ di ore di lavoro di operatori.
Le modalità e le procedure di esternalizzazione hanno assunte forme diverse nel tempo e da settore a
settore.
In una prima fase  vi è stata una sorta di esternalizzazione\privatizzazione senza mercato: molte cooperative
sono nate su sollecitazione dello stesso Ente pubblico a cui sono rimaste legate. L’Ente poteva infatti,
scegliere di affidare all’esterno (e quindi alla cooperativa che voleva) la gestione dei servizi utilizzando la
trattativa privata. Le cooperative di una stessa zona, poi, si accordavano tacitamente per suddividersi le
commesse pubbliche (cioè gli accordi con gli enti pubblici). Tutto ciò non consentiva la reale competizione
che dovrebbe essere garanzia di costi più bassi e migliore qualità.
In una seconda fase  le Amministrazioni, anche per rispondere alle disposizioni della normativa europea in
materia di appalti e di tutela del mercato, hanno scelto di bandire gare pubbliche per stimolare la
partecipazione di più soggetti in concorrenza tra loro. Questo però comporta il rischio che a vincere siano
sempre e solo le proposte a costi minori con gravi conseguenza sulla qualità dei servizi, a cui si sta cercando
attualmente di porre rimedio con direttive che suggeriscono e richiedono capitolati di appalto che tengano
conto anche della qualità.
Questo progressivo aumento di esternalizzazioni evidenzia come si sia arrivati a dare tanto spazio alla
collaborazione con il privato, senza avere come riferimento un progetto di welfare mix politicamente
discusso e condiviso. Sembra quindi un' esternalizzazione che si configura come sostituzione di risorse
pubbliche con meno costose risorse private; ciò comunque non comporta necessariamente una
connotazione negativa se si ragiona nell'ottica che la qualità richiede più persone capaci e con diverse
competenze che collaborano (ottica del principio di sussidarietà).
Si stanno studiando modalità di collaborazione che lascino ampi spazi di azione sia a chi offre servizi, sia ai
cittadini affinchè possano scegliere tra di essi.
Qualità, accreditamento, ma anche ‘coprogettazione’ e Piani di zona sono alcune delle tematiche su cui i
servizi stanno + lavorando; esse sono anche affrontate dalla legge di riforma 328/2000.
Stiamo parlando quindi della riscoperta della comunità come risorsa, e quindi del lavoro di comunità
come strumento della politica sociale.

2.5 Un traguardo raggiunto: la legge 328\2000


Dalle normative fin ora citate pare chiaro che si tratta di una produzione normativa ricca che richiederebbe
di essere ricondotta ad un'unitarietà. Inoltre, la realizzazione dei dettami normativi nazionali e insieme le
iniziative autonome di Regioni ed Enti locali non hanno portato al superamento della accentuata disparità
tra i diversi sistemi locali, quanto a caratteristiche e quantità delle prestazioni, ma anche a criteri e modalità
di acceso ad esse da parte dei cittadini. L’aspetto piu drammatico rimane la scarsissima offerta dei servizi
nelle zone meridionali del Paese.
A queste e altre esigenze ha tentato di rispondere laL. 328\00, Legge quadro per la realizzazione del
sistema integrato di interventi e servizi sociali.
Questa legge sostituisce la Legge Crispi del 1890; finalmente si ha quella legge che doveva essere stata
creata in parallelo a quella del servizio sanitario nazionale del 1978 per riformare oltre che il sistema
sanitario, anche il comparto degli interventi sociali, ispirandosi allo stesso approccio culturale e politico.
I nodi fondamentali dell'attuale sistema di interventi e servizi sociali (della L.328/2000):
 La legge è innanzitutto la codificazione di diritti soggettivi dei cittadini (art 2), tutelati anche dalla
Carta dei servizi sociali (art 13), rispetto alle risposte ad alcuni bisogni e di obbligazioni da parte del
sistema pubblico. A questo proposito lo Stato si riserva la competenza di definire i livelli essenziali
(non minimi) delle prestazioni. A tale scopo la legge regola quindi l'insieme dei servizi e degli
interventi sociali, sia occupandosi della rete dei servizi sociali che degli emolumenti economici
finalizzati al contrasto della povertà e al sostegno delle situazioni di disabilità.
 La legge affida compiti rilevanti al terzo settore e in generale sulla capacità delle comunità di
produrre processi di auto-aiuto e legami di reciprocità e di solidarietà (con carattere di
“universalità”).
 La legge definisce inoltre alcuni strumenti innovativi per governare e controllare un sistema così
complesso. Tra questi anzitutto un processo programmatorio articolato ai 3 livelli nazionale,
regionale e locale (es piani di zona).
 L'accreditamento di servizi e strutture, cioè il riconoscimento anche a soggetti privati di erogare
prestazioni per conto del pubblico è ad es destinato a portare maggiore chiarezza nei rapporti di
collaborazione tra pubblico e privato e a garantire in generale maggiori livelli di qualità di tutti i
servizi.
 La legge si propone infine l'attuazione dei “titoli per l'acquisto di servizi sociali”: si tratta di un
bonus che il cittadino può spendere direttamente per acquistare il servizio che preferisce.
Il finanziamento dell'intero sistema deriva da una pluralità di soggetti istituzionali: stato, regioni,
comuni, fondi europei ecc. Nello specifico, il Fondo nazionale per le politiche sociali va distribuito
secondo criteri di equità alle regioni che a sua volta distribuiranno negli enti locali.

ART2
1. Hanno diritto di usufruire delle prestazioni e dei servizi del sistema integrato di interventi e servizi sociali
i cittadini italiani e, nel rispetto degli accordi internazionali, con le modalità e nei limiti definiti dalle leggi
regionali, anche i cittadini di Stati appartenenti all'Unione europea ed i loro familiari, nonchè gli stranieri,
individuati ai sensi dell'articolo 41 del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286. Ai
profughi, agli stranieri ed agli apolidi sono garantite le misure di prima assistenza, di cui all'articolo 129,
comma 1, lettera h), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112.
2. Il sistema integrato di interventi e servizi sociali ha carattere di universalità. I soggetti di cui all'articolo 1,
comma 3, sono tenuti a realizzare il sistema di cui alla presente legge che garantisce i livelli essenziali di
prestazioni, ai sensi dell'articolo 22, e a consentire l'esercizio del diritto soggettivo a beneficiare delle
prestazioni economiche di cui all'articolo 24 della presente legge, nonchè delle pensioni sociali di cui
all'articolo 26 della legge 30 aprile 1969, n. 153, e successive modificazioni, e degli assegni erogati ai sensi
dell'articolo 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335.
3. I soggetti in condizioni di povertà o con limitato reddito o con incapacità totale o parziale di provvedere
alle proprie esigenze per inabilità di ordine fisico e psichico, con difficoltà di inserimento nella vita sociale
attiva e nel mercato del lavoro, nonchè i soggetti sottoposti a provvedimenti dell'autorità giudiziaria che
rendono necessari interventi assistenziali, accedono prioritariamente ai servizi e alle prestazioni erogati dal
sistema integrato di interventi e servizi sociali.
4. I parametri per la valutazione delle condizioni di cui al comma 3 sono definiti dai comuni, sulla base dei
criteri generali stabiliti dal Piano nazionale di cui all'articolo 18.
5. Gli erogatori dei servizi e delle prestazioni sono tenuti, ai sensi dell'articolo 8, comma 3, della legge 7
agosto 1990, n. 241, ad informare i destinatari degli stessi sulle diverse prestazioni di cui possono usufruire,
sui requisiti per l'accesso e sulle modalità di erogazione per effettuare le scelte più appropriate.
ART 13
1. Al fine di tutelare le posizioni soggettive degli utenti, entro centottanta giorni dalla data di entrata in
vigore della presente legge, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro
per la solidarietà sociale, d'intesa con i Ministri interessati, è adottato lo schema generale di riferimento
della carta dei servizi sociali. Entro sei mesi dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del citato decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri, ciascun ente erogatore di servizi adotta una carta dei servizi sociali
ed è tenuto a darne adeguata pubblicità agli utenti.
2. Nella carta dei servizi sociali sono definiti i criteri per l'accesso ai servizi, le modalità del relativo
funzionamento, le condizioni per facilitarne le valutazioni da parte degli utenti e dei soggetti che
rappresentano i loro diritti, nonché le procedure per assicurare la tutela degli utenti. Al fine di tutelare le
posizioni soggettive e di rendere immediatamente esigibili i diritti soggettivi riconosciuti, la carta dei servizi
sociali, ferma restando la tutela per via giurisdizionale, prevede per gli utenti la possibilità di attivare ricorsi
nei confronti dei responsabili preposti alla gestione dei servizi.
3. L'adozione della carta dei servizi sociali da parte degli erogatori delle prestazioni e dei servizi sociali
costituisce requisito necessario ai fini dell'accreditamento.

ART 5
1. Per favorire l'attuazione del principio di sussidiarietà, gli enti locali, le regioni e lo Stato, nell'ambito delle
risorse disponibili in base ai piani di cui agli articoli 18 e 19, promuovono azioni per il sostegno e la
qualificazione dei soggetti operanti nel terzo settore anche attraverso politiche formative ed interventi per
l'accesso agevolato al credito ed ai fondi dell'Unione europea.
2. Ai fini dell'affidamento dei servizi previsti dalla presente legge, gli enti pubblici, fermo restando quanto
stabilito dall'articolo 11, promuovono azioni per favorire la trasparenza e la semplificazione amministrativa
nonchè il ricorso a forme di aggiudicazione o negoziali che consentano ai soggetti operanti nel terzo settore
la piena espressione della propria progettualità, avvalendosi di analisi e di verifiche che tengano conto della
qualità e delle caratteristiche delle prestazioni offerte e della qualificazione del personale.
3. Le regioni, secondo quanto previsto dall'articolo 3, comma 4, e sulla base di un atto di indirizzo e
coordinamento del Governo, ai sensi dell'articolo 8 della legge 15 marzo 1997, n. 59, da emanare entro
centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, con le modalità previste dall'articolo 8,
comma 2, della presente legge, adottano specifici indirizzi per regolamentare i rapporti tra enti locali e
terzo settore, con particolare riferimento ai sistemi di affidamento dei servizi alla persona.
4. Le regioni disciplinano altresì, sulla base dei principi della presente legge e degli indirizzi assunti con le
modalità previste al comma 3, le modalità per valorizzare l'apporto del volontariato nell'erogazione dei
servizi.

La legge 328, data la sua complessità, ha richiesto al Governo interventi successivi attraverso
l'emanazione di decreti legislativi ed atti regolati per la stesura del Piano dei servizi sociali (es è l'Atto di
indirizzo e coordinamento sui sistemi di affidamento dei servizi alla persona previsti dall'art 5 della legge
328/2000  o il decreto sul Riordinamento del sistema delle Istituzioni pubbliche di Assistenza e Beneficienza
a norma dell'art 10 della legge 328/2000,anch'esso molto atteso, perchè riguarda soggetti istituzionali che
offrono una parte consistente delle prestazioni e dei servizi sociali [comma 1 art8: Le regioni esercitano le
funzioni di programmazione, coordinamento e indirizzo degli interventi sociali nonché di verifica della
rispettiva attuazione a livello territoriale e disciplinano l'integrazione degli interventi stessi, con particolare
riferimento all'attività sanitaria e socio-sanitaria ad elevata integrazione sanitaria (…)]

IN GENERALE, la legge consente di “leggere” in un unico quadro coerente la sedimentazione di leggi e


interventi precedenti a cui più volte fa riferimento, richiamando tuttavia l'attenzione su alcuni particolari
interventi di integrazione e sostegno sociale relativamente ai “progetti individuali x persone disabili”, al
“sostegno domiciliare x le persone non autosufficienti”, alla “valoraizzazione e sostegno alle responsabilità
familiari”.
Si è passati (con la l 328) da interventi solo riparativi a interventi orientati alla prevenzione che
richiedono un ruolo attivo ai cittadini.

DA: A:
Interventi riparativi → Protezione sociale attiva
Categorie → Soggetti e famiglie
Trasferimenti monetari → Trasferimenti monetari e servizi rete (formativi, sanitari,
sociali di avvio al lavoro)
Interventi disomogenei → Standard essenziali delle prestazioni sociali
definiti a livello nazionale
Prestazioni rigide e “preconfezionate” → Prestazioni flessibili e personalizzate
Intervento centralinistico → “Regia” delle regioni e degli enti locali

2.6 Le implicazioni delle modifiche al titolo V della Costituzione


Le Modifiche al Titolo V della Parte seconda della Costituzione sono state introdotte dalla legge
costituzionale del 18 ottobre 2001 n. 3. La riforma è stata necessaria per dare piena attuazione e copertura
costituzionale alla riforma denominata ‘Federalismo a C. invariata’ (l. 59/1997). Possiamo dire che il
processo riformatore di attuazione della legge 328\00 viene bruscamente interrotto, perché il potere
legislativo in materia è passato alle Regioni. Appunto attraverso la L. costituzionale 3\00 viene data piena
attuazione all’art. 5 della C., che riconosce le autonomie locali quali enti esponenziali preesistenti alla
formazione della Repubblica. Le modifiche consentono una disciplina diversa per quanto riguarda il diritto
alla tutela della salute, che è materia di legislazione concorrente (per cui alle Regioni spetta la potestà
legislativa salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato).
Per quanto riguarda la sanità, la novità è costituita dalla legittimità di diversi modelli organizzativi regionali.
Quindi la vera responsabilità dell’attuazione dei diritti alla salute e all’assistenza spetta alle Regioni. Tuttavia
allo Stato (art 117 lettera m cost e art3 legge 328) spetta la determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e,
ove necessario, la distribuzione da parte dello stesso di risorse aggiuntive rispetto a quelle regionali, in
funzione perequativa.

CAPITOLO 3:  Conoscere il terzo settore


Il terzo settore si chiama così perché non è riconducibile né al mercato, né allo stato → poiché private ma
senza scopo di lucro.
Si è gia visto come il sistema alla persona nel nostro paese sia il risultato di collaborazioni tra settore
pubblico e privato.
Nel privato operano diverse tipologie di soggetti: sia dal privato sociale (volontariato, associazionismo,
cooperazione sociale, fondazioni) sia dal privato mercantile possono essere gestiti tutti questi servizi: servizi
gestiti direttamente dagli Enti pubblici; servizi finanziati dagli Enti pubblici, la cui gestione è affidata a
privati; servizi gestiti da privati che si avvalgono di contributi pubblici; servizi privati ai cui enti gestori la
parte pubblica paga rette corrispondenti a prestazioni erogate a persone che hanno diritto alla pubblica
assistenza; servizi privati non finanziati da enti pubblici.
Il privato sociale include: cooperazione sociale, volontariato, associazionismo, fondazioni al cui interno si
sono andate sviluppando ulteriori articolazioni di esperienze (es sportive, di mutuo soccorso, ONG..) infine
le imprese sociali ossia i casi in cui i servizi alla persona possono essere sostenuti anche da risorse che
derivano dalla liberalità di soggetti profit, come le imprese che vogliono impegnarsi per il benessere del
territorio in cui vivono (es. hotel Sheraton).
 Le cooperative sociali: nascono nella prima metà anni '70 inizialmente come “cooperative di
lavoro”, con finalità mutualistica prevalentementeinterna di creare occupazione per i soci. Queste
erano definite “cooperative di servizi sociali”, la cui attività consisteva da un lato nel produrre
servizi, ma soprattutto nel garantire il lavoro ai soci (es la cooperativa CADIAI venne istituita da
donne provenienti da lavoro domestico o da precari lavori di assistenza. Dopo che alcuni clienti
dell'Ospedale Ortopedico Rizzoli vennero privati di alcune “badanti” che aiutavano i malati nelle
loro lunghe degenze la cooperativa iniziò la collaborazione con enti pubblici indirizzati ad una
progressiva esternalizzazione dei servizi).
Altre cooperative sociali derivano anche dallo sviluppo e dalla trasformazione di gruppi di
volontariato che avevano trovato nella cooperazione una formula giuridica idonea per la propria
organizzazione e per stabilire correttamente rapporti di collaborazione con gli Enti pubblici. La
finalità principale in questo caso era quella di offrire aiuto alle persone in difficoltà → mutualità
esterna. Queste erano definite “cooperative di solidarietà sociale”.
Diversa è l'esperienza delle cosiddette “cooperative integrate” che erano finalizzate all'inserimento
lavorativo di persone in difficoltà (malati di mente, tossicodipendenti ecc) dalla convinzione che
l'esperienza lavorativa facilitasse l'integrazione sociale e il rispetto di sé.
Di fronte allo scenario sopra descritto il legislatore, che si trovò a dover regolare la materia nella già
citata legge quadro 381/1991, “Disciplina delle cooperative sociali”, utilizzando la più generale
definizione di “cooperative sociali”, scelse invece di distinguere all'interno di questa soltanto 2
tipologie: le cooperative A, che si occupano della gestione dei servizi socio-sanitari ed educativi e
che possono comprendere soci volontari (raggruppando sostanzialmente le prime 2 tipologie sopra
indicate) e le cooperative B, finalizzate all'inserimento lavorativo di persone “svantaggiate”.
Le cooperative di tipo A sono diversissime fra loro: molto grandi e con forte spirito manageriale;
quelle di piccole dimensioni sono più capaci di essere interlocutori più efficaci nei confronti
dell'ente pubblico (xk le prime sembrano più un semplice esborso di mano d'opera, non sempre
accompagnata da competenza).
Negli ultimi anni il nuovo orientamento alla qualità richiesto nelle gare di appalto e più
complessivamente una cultura nuova dell'intero sistema produttivo, più orientato come si dice alla
“soddisfazione del cliente”, sta avviando anche le cooperative sociali verso nuove sperimentazioni e
all'acquisizione di nuovi modelli gestionali.
Anche le cooperative di tipo B hanno assunto profili tra loro diversi, spesso in relazione ai problemi
e alle caratteristiche delle diverse tipologie di lavoratori “svantaggiati”. Con questo termine non si
considerano più solo i disabili ma anche i carcerati, gli ex carcerati, i tossicodipendenti, i senzatetto
ecc.
Le cooperative che inseriscono malati psichiatrici spesso rimangono veri e propri strumenti dei
servizi (poiché utilizzate come strumento di recupero per l'autonomia) e in esse vengono anche
talvolta inseriti anche utenti aiutati da borse di lavoro finanziate dall'ente pubblico: il confine con
un servizio assistenziale non è cioè così chiaro. In questi casi una stessa cooperativa ha perciò
potuto iscriversi sia all'albo delle cooperative di tipo A che quello di tipo B.
La cooperazione sociale è dunque un interlocutore importante per l'ente pubblico per la
costruzione di una pluralità di risposte ai bisogni del territorio.
 Il volontariato: è nella legge 833/78 Istituzione del Servizio sanitario nazionale, che per la prima
volta viene riconosciuto al volontariato la possibilità di concorrere ai fini istituzionali appunto del
SSN. L'urgenza di rispondere ai crescenti bisogni delle persone e la consapevolezza che una risposta
efficace aveva la necessità di mettere in rete una pluralità di risorse formali e informali
sollecitarono lo sviluppo di collaborazioni tra servizi pubblici e volontariato.
Anche il volontariato ha mille volti: dal volontariato singolo o familiare a organizzazioni
internazionali.
La specificità del volontariato è connotata dalla sua gratuità e gli enti locali, molto spesso con poche
risorse economiche, devono tenerne conto. E' anche vero che il volontariato può affiancare o
essere parte di altre organizzazioni, ad es volontari possono operare nelle cooperative sociali in cui
prevale la presenza di lavoratori retribuiti.
Proprio per la sua gratuità e solidarietà che muove i soci, le esperienze di volontariato costituiscono
di fatto una sorta di educazione alla solidarietà.
La legge quadro 266/91 legge quadro sul volontariato  non definisce una specifica figura giuridica
atta a sostenere le organizzazioni (come invece è il caso della cooperazione sociale e
dell'associazionismo di promozione sociale), per cui, le organizzazioni di volontariato si qualificano
per il perseguimento di solidarietà propri dell'attività di volontariato, con il concorso prevalente
delle “prestazioni personali volontarie e gratuite degli aderenti”.
In aggiunta, la legge 72/97 aggiunge a tale definizione che Regione, province e comuni possono
offrire ad essi “supporto logistico”.
 Fondazioni: sono previste dal codice civile come figure giuridiche private, che dispongono di un
insieme di mezzi destinato a uno scopo, con un carattere almeno tendenziale di perpetuità. I soci
fondatori normalmente costituiscono un patrimonio significativo vincolandone la rendita al
conseguimento di un interesse sociale che può riguardare il benessere di alcune categorie di
persone, la promozione di particolari attività artistiche, il ricordo e la celebrazione di un
personaggio illustre ecc.
Attraverso leggi-provvedimento specifiche sono poi state istituite anche fondazioni di diritto
pubblico, obbligatorie per la gestione di alcuni servizi (ad es teatri lirici).
Un es è il comune di Bagnolo che insieme ad una parrocchia ha promosso una fondazione per
costruire e gestire una casa protetta per anziani di cui il territorio comunale non disponeva. Il
patrimonio di un milione di euro è stato costituito per il 50% dal comune e dalla parrocchia mentre
la restante parte dalla comunità bagnolese, in parti uguali dalle imprese locali e da piccole offerte di
una pluralità di cittadini.
La fondazione è sostanzialmente un'istituzione che si interpone fra donatori e beneficiari. Essa
amministra i fondi raccolti per trarne un rendimento da destinare alle finalità statuarie e
normalmente seleziona i soggetti più meritevoli, xk il donatore non è in grado di sapere chi sia il
soggetto che maggiormente merita la propria donazione.
Si può fare una distinzione tra corporate foundation e community foundation: la prima è una
fondazione che nasce da un unico grande donatore per soddisfare gli interessi del donatore e non
del beneficiario; la seconda vede il patrimonio derivare da una pluralità di donatori appartenenti
appunto alla comunità in cui essa opera. In quest'ultimo caso si cerca di trovare un equilibrio tra i
rappresentanti degli interessi dei donatori e dei destinatari e i rappresentanti degli enti locali, a cui
viene riconosciuto il ruolo di tutori dell'interesse collettivo.
Un caso particolare è quello delle fondazioni bancarie. Esse sono il frutto della ristrutturazione del
sistema creditizio e in particolare di alcune banche pubbliche i cui statuti prevedevano di destinare
gli utili a finalità collettive. Si decise di trasformare tutte le diverse figure giuridiche (casse di
risparmi, istituti di credito di diritto pubblico...) in fondazioni che poi avrebbero conferito le attività
bancarie a una società per azioni della cui proprietà rimanevano tuttavia titolari. Fu questa la
maniera per separare i fini economici di massimizzazione dei profitti degli azionisti (si prevedeva la
vendita di azioni ai privati), assegnati alla banca SPA, dai fini di interesse collettivo e di solidarietà
sociale rimasti in capo all'ente conferente.
Nella stesura dei nuovi statuti le fondazioni hanno poi introdotto ulteriori specificazioni delle
finalità e l'indicazione dei principali ambiti di intervento (beni artistici, sanità, ricerca scientifica,
servizi sociali ecc.)
 L'associazionismo: le associazioni, riconosciute e non, svolgono un importante ruolo di sostegno
alle relazioni tra le persone, promuovendo iniziative di auto-mutuo aiuto, di sensibilizzazione
rispetto a problematiche sociali, culturali, sanitarie ecc. In quest'ambito di problemi gestiscono
anche servizi e interventi a favore dei propri soci. Un es ne sono le associazioni ambientalistiche o
quelle tra persone che condividono problemi quali la disabilità di un figlio, una malattia ecc. La loro
attività si concretizza in scambi di informazioni sulle possibili soluzioni al problema, in attivazione di
gruppi di mutuo aiuto, nell'istituzione di servizi utili a sostenere le varie situazioni di difficoltà.
La legge 328/00 definisce come “associazioni di promozione sociale” le associazioni riconosciute e
non, i movimenti, i gruppi e i loro coordinamenti o federazioni costituiti al fine di svolgere attività di
utilità sociale a favore di associati o di terzi, senza finalità di lucro e nel pieno rispetto della libertà e
dignità degli associati. Le risorse economiche possono essere ricercate da una molteplicità di fonti
come ad es quote e contributi degli associati; eredità, donazioni; contributi pubblici dello stato,
regioni, organismi internazionali ecc. ma anche da prestazioni di servizi convenzionati, da iniziative
di promozione finalizzate al proprio finanziamento, quali feste e sottoscrizioni anche a premi.
Le associazioni di promozione sociale si avvalgono prevalentemente delle attività prestate in forma
volontaria, libera e gratuita dai propri associati anche se possono in caso di necessità assumere
lavoratori dipendenti o avvalersi di prestazioni di lavoro autonomo (anche ricorrendo ai propri
associati).
Si tratta dunque di un ampia gamma di tipologie di associazioni che si riconosce in questa legge,
tanto che non è sempre facile distinguere e associazioni che si devono iscrivere agli albi del
volontariato da quelle che si debbono iscrivere agli albi delle associazioni di promozione sociale. Ciò
che a noi interessa di più è che comunque l'associazionismo ne suo complesso è un importante
risorsa per la costruzione di comunità e di legami di reciprocità che possono migliorare la qualità
della vita delle persone. Esse sono infatti ad es chiamate a partecipare ai piani di zona.
 L'azione non profit di imprese profit (imprese sociali): l'offerta complessiva dei servizi alle persone
può infine essere arricchita dalle iniziative di imprese private che agiscono in atri campi a fini di
lucro, ma che vogliono farsi carico anche di responsabilità sociali nei confronti dei propri dipendenti
o del territorio in cui operano, o che comunque vogliono dedicare parte del loro profitto a fini di
liberalità (es. Hotel Sheraton).
Il termine responsabilità sociale di impresa fa riferimento in primo luogo all'assunzione di
responsabilità, innanzitutto per quanto riguarda la gestione delle risorse umane all'interno delle
imprese stesse (si pensi all'attuazione di programmi per il sostegno della scelta della maternità e
della paternità dei propri dipendenti o alla facilitazione dell'inserimento lavorativo dei disabili
anche al di là degli obblighi di legge); all'esterno, l'impegno è innanzitutto quello della
responsabilità ambientale.
 In sintesi la conoscenza delle diverse caratteristiche di attività del terzo settore consente di
individuare i differenti contributi che essi possono dare all'efficienza e all'efficacia del sistema dei
servizi, all'attuazione di una programmazione dei servizi più aderente ai bisogni delle persone, alla
diffusione di quella cultura della reciprocità e della solidarietà che è alla base della vita stessa della
comunità.
CAPITOLO 4: Il sistema integrato di interventi e servizi sociali
4.1. L’universalismo selettivo
La legge 833\1978 con l’istituzione del Servizio sanitario nazionale ha compiuto un primo passo nella
costruzione di un welfare di tipo universalistico.
La legge 328\00 ribadisce e fa proprie alcune scelte di fondo che ne erano state alla base. Essa afferma
esplicitamente che il sistema ha carattere di universalità, riconoscendo ai cittadini diritti soggettivi a
beneficiare di alcune prestazioni in risposta a specifici bisogni.
(Fino all’approvazione della 328 infatti, i diritti sociali a cui essa fa riferimento erano politicamente e
finanziariamente condizionati, ad es. dalla disponibilità finanziaria dei Comuni.)
La 328 però limita i diritti soggettivi alle prestazioni economiche regolate dalla seconda parte della legge.
Sarebbe infatti impossibile dare un’interpretazione in senso estensivo dei diritti dei cittadini anche
all’accesso a servizi previsti dalla legge. Questo porterebbe conseguenze non indifferenti sul rapporto tra
cittadini stessi e Pubblica amministrazione: la parte pubblica (Stato o Ente locale) dovrebbe risarcire o
obbligatoriamente offrire servizi di cui potrebbe anche non disporre nell’ambito della sua programmazione.
Nella realtà invece, l’esercizio di tali diritti è subordinato all’effettiva esistenza del bisogno e, per quanto
riguarda le prestazioni monetarie, è evidente che esse devono corrispondere a specifiche condizioni in
termini di reddito.
L’art 2 (comma 3) della legge 328 afferma che i soggetti in condizioni di povertà o con limitato reddito o
con incapacità totale o parziale di provvedere alle proprie esigenze per inabilità di ordine fisico psichico,
con difficoltà di inserimento nella vita sociale attiva nel mercato del lavoro, nonché soggetti sottoposti a
provvedimenti dell’autorità giudiziaria che rendono necessari interventi assistenziali, accedono
prioritariamente ai servizi e alle prestazioni erogati dal sistema integrato di interventi e servizi sociali. Al
comma 4 si attribuisce ai Comuni il compito di stabilire i parametri per la valutazione di dette condizioni.
Data la minor disponibilità di risorse, al fine di ‘mettere in salvo’ l’impianto universalistico e originario, è
stata adottata una logica di selettività intesa come limitazione all’accesso alle prestazioni in base
all’accertamento di specifiche condizioni di bisogno e di reddito al fine di evitare dispersione di risorse, di
raggiungere davvero chi non è autosufficiente e di contenere la spesa aggregata. L’introduzione di elementi
di selettività nel settore dei servizi alla persona richiederà di predisporre di una nuova architettura nel
sistema degli accessi basata su strumenti per la valutazione del bisogno sociale e sanitario e di trovare
strumenti di misura e valutazione raggionata della situazione economica di ciascuno. E’ in questo senso che
si parla di universalismo selettivo che consente di individuare target di utenti che possono o non possono
accedere ai servizi o che debbano diversamente contribuire alla spesa per i servizi che utilizzano.
L’individuazione dei target richiede, strumenti di misurazione raffinati; in Italia il problema è stato
affrontato con la normativa riguardante l’Indicatore della situazione economica delle famiglie (ISE) e
l’Indicatore della scala economica equivalente(ISEE), assunto a strumento per individuare target di utenti a
cui è riconosciuto il dritto di accesso a determinati servizi e fasce tariffarie (D.Lgs. 109\1998e successivo
D.Lgs. 130\2000). Esso concretamente serve per regolare le contribuzioni economiche, per definire le
graduatorie per l’ammissione, le fasce di utenza che devono pagare tariffe diverse per servizi come l’asilo
nido, scuola materna, centro diurno, assistenza domicialire.
La novità di questo strumento sta in due elementi che dovrebbero consentire una valutazione corretta delle
effettive condizioni di vita dei possibili utenti: la misurazione della situazione economica su base familiare
(tenendo conto del numero di componenti della famiglia, che producano reddito o che siano a carico) e la
possibilità di inserire nel calcolo, oltre il reddito, il patrimonio mobiliare e immobiliare. Il suo fine ultimo è
quello di realizzare il principio di equità.
RISCHI DELLO STRUMENTO ISEE PER LA FRUIZIONE DEI SERVIZI AI CITTADINI  La selettività potrebbe
incentivare la menzogna sociale e, introdurre elementi di etichetta mento stigmatizzante nei confronti dei
beneficiari di prestazioni destinate solo ai meno abbienti. Piu in generale, la selettività potrebbe indurre un
degrado qualitativo dei servizi, perché un welfare per i poveri può diventare un welfare povero.
4.2. Per un welfare municipale e comunitario
Per sintetizzare i contenuti della legge 328\00 , alcuni commentatori e la stessa relazione con cui la
legge è stata presentata in Parlamento hanno utilizzato la definizione di welfare municipale e
comunitario. Essa consente di indicare contestualmente, con il termine municipale, la centralità
del Comune, a cui fanno capo le competenze in materia e, con il termine comunitario, la centralità
della comunità intesa come rete di soggetti diversi pubblici e privati, di risorse formali e
informali, di relazioni di reciprocità e di fiducia, di nuove energie, nuove responsabilità.
La legge 328\00 è frutto di una sintesi di tanti progetti presentati da vari parlamentari, alcuni dei
quali recepivano proposte maturate nella società civile soprattutto nel dibattito promosso dal
settore no profit. La stessa espressione welfare municipale e comunitario era infatti già stata fatta
propria dal Patto di solidarietà che il Governo italiano aveva siglato con il ‘Forum del terzo settore’
nel 1997 a Padova (amministrazioni pubbliche e soggetti non profit si erano incontrati per
condividere i processi di trasformazione in corso, per chiedersi insieme di quale sistema di welfare il
nostro Paese avesse bisogno).
Parlare di welfare municipale significa fare riferimento al concetto di sussidiarietà verticale che fa
riferimento alla ripartizione delle competenze tra lo Stato e i diversi Enti territoriali con l’attenzione
al fatto che sono le istituzioni piu vicine ai cittadini quelle che meglio ne interpretano i bisogni e
meglio individuano le risposte da dare loro.
Parlare di welfare comunitario invece significa fare riferimento al concetto di sussidiarietà
orizzontale. E’ questo l’aspetto che ha dato origine a maggiori controversie. Alcuni ritengono che la
sussidiarietà implichi che le autorità pubbliche debbano essere coinvolte nella fornitura di servizi
sociali solo quando siano completamente esaurite le risorse e le capacità che permettono alla
famiglia, alla comunità e alle organizzazioni primarie di assistere i propri membri. Più in generale si
puo invece affermare che il pubblico non deve fare ciò che sa far meglio il privato, meglio intermini
di efficacia (cioè di rispondenza agli effettivi bisogni delle persone) e di efficienza (cioè di più
razionale utilizzo delle risorse scarse).
 Il principio di sussidiarietà può essere interpretato in una prospettiva promozionale di
nuove iniziative piu che difensiva dei soggetti che già operano nel sociale. Esso non implica cioè un
welfare residuale,ma diviene un principio regolatore che può moderare le aspettative verso lo stato
come puo innalzarle. Riconosce all’Ente pubblico la titolarità e la responsabilità in materia, ma
chiede ad esso anche di promuovere e sostenere le responsabilità diffuse nell’intera società civile,
soprattutto del terzo settore: deve infatti offrire risorse aggiuntive che insieme alle risorse
pubbliche possono andare a costruire il complessivo sistema di protezione e promozione sociale.

4.3. La centralità del comune


Parlare di welfare municipale significa quindi riconoscere il Comune come interlocutore principale
dei cittadini per quanto concerne i servizi sociali, proprio xk è l’istituzione piu vicina al cittadino e
quindi più capace di comprenderne i bisogni e di programmare risposte ad essi corrispondenti.
Ripensare lo Stato sociale secondo il principio della municipalità significa riconoscere la centralità
del territorio come luogo di sviluppo economico e sociale e insieme promuovere il protagonismo
istituzionale dei Comuni.
Tale quadro è delineato dalla complessa normativa approvata negli anni 90 in tema di riforma
della PA (i cosiddetti decreti Bassanini, dal nome dell’allora Ministro della Funzione Pubblica) così
come la L. 265\99 che modifica la L 142\90 sull’ordinamento delle Autonomie locali.
I Comuni hanno utilizzato in modo diverso le opportunità offerte dalla L. 142\90 (integrata dalla L.
265\99) all’art. 22 che prevede che i Comuni e le Province possano gestire i servizi pubblici nelle
seguenti forme:
a) In economia, quando per le modeste dimensioni o per le caratteristiche del servizio non sia
opportuno costituire una istituzione o una azienda. L’ente provvede direttamente da sé mediante
le proprie strutture oridnarie. Es. un comune di 2.000 abitanti per la gestione del servizio di
assistenza domiciliare agli anziani assume direttamente un oss.
b) In concessione a terzi. Si ha quando non è conveniente(per ragioni tecniche, economiche e di
opportunità sociale) che gli uffici svolgano la gestione in economia diretta e si affida la realizzazione
del servizio ad aziende esterne mediante gara d’appalto. La titolarità del servizio resta in capo
all’ente, mentre all’esterno è delegata unicamente la gestione. Es. servizio di refezione scolastica (il
mangiare che viene dato ad es. nelle scuole elementari)
c) In forma associata: convenzione, consorzio, unione di comuni.
-Convenzione: forma di contratto mediante il quale due o piu enti gestiscono in maniera associata
alcuni servizi usando le strutture messe a disposizione da ciascuno degli enti partecipanti. Si
definiscono nel dettaglio le condizioni operative, gli obblighi dei contraenti, gli impegni finanziari, le
risorse umane e materiali messe in campo. Non è un nuovo soggetto politico.
-Unione di comuni:enti costituiti da due o più comuni, con territorio confinante, per la gestione
congiunta di varie funzioni di loro competenze (no singola funzione). Es. il distretto socio-sanitario
(La legge 328 incentiva i Comuni ad associarsi o consorziarsi per gestire i servizi sociali in ambiti
territoriali adeguati).
d) Tramite un’azienda speciale anche per la gestione di più servizi di rilevanza economica e
imprenditoriale. In tal caso si ha quindi un soggetto pubblico istituito dall’ente locale con il compito
di erogare servizi con criteri imprenditoriali. Agisce in piena autonomia, ha un proprio statuto e
organi propri, un proprio bilancio e patrimonio ma, fa appunto capo allo statuto comunale. La legge
indica tale l’istituzione,come la forma gestionale piu adatta ai servizi sociali.
d) Tramite titoli per l’acquisto di servizi sociali da parte degli utenti
e) Tramite una fondazione di partecipazione: è un ente privato che ha il patrimonio come
elemento centrale. Tipologia speciale di fondazioni utilizzate dagli enti pubblici che conferiscono la
maggior parte del patrimonio per svolgere attività di pubblica utilità con gestione contabile di tipo
privatistico ed usufruendo eventualmente anche dell’intervento di privati.
f) Tramite una società per azioni, a prevalente capitale pubblico locale, qualora si renda
opportuno, in relazione alla natura del servizio da erogare, la partecipazione di altri soggetti
pubblici e privati. Vi possono essere anche società a responsabilità limitata e a capitale misto.
L’obiettivo di tutte queste scelte è consentire ai servizi (la cui gestione è affidata ai nuovi soggetti
istituzionali) un po’ più di autonomia gestionale, per superare i vincoli burocratici della gestione
degli Enti locali, per essere piu efficacia e piu efficienti, e anche per relazionarsi meglio con il terzo
settore.
E’ però necessario verificare le conseguenze sull’offerta dei servizi prodotti: la maggiore
frantumazione delle sedi decisionali potrebbe non consentire un’effettiva unitarietà della rete dei
servizi , e potrebbe altresì compromettere la garanzia di equità rispetto ai diritti di ciascuno.
Per completare il quadro istituzionale delle competenze degli Enti locali, si deve anche ricordare
che le Province mantengono ruoli e funzioni di coordinamento riguardanti l’assistenza
all’amministrazione degli Enti locali e la raccolta ed elaborazione di dati. Si pensi agli osservatori
provinciali sui problemi dell’immigrazione resi necessari per coordinare gli interventi di accoglienza
sopratt abitativa e gli inserimenti lavorativi spesso distribuiti diversamente tra i vari Comuni del
territorio provinciale. La provincia è la dimensione territoriale pertinente per la programmazione di
molti interventi con valenza sociale. I diversi soggetti istituzionali individuati per mettere in rete la
molteplicità di servizi da essi direttamente prodotti o comunque promossi e controllati, devono
poter collaborare in modo significativo sia attraverso specifici strumenti giuridici, come ad esempio
gli accordi di programma, sia attraverso modelli interorganizzativi capaci di individuare specifiche
responsabilità di coordinamento, canali comunicativi formalizzati ecc
SLIDES COMUNI
Definzione di Comune:
ART. 114COST: ente autonomo territoriale con proprio statuto, poteri e funzioni
ART. 3 TUEL: È l ente locale che rappresenta la propria comunità, curandone gli interessi e
priommuovendone lo svoluppo. quindi è quell ente che si occupa della comunità territoriale che
afferisce al comune X.
Tuel ( testo unico enti locali ) è una summa della disciplina degli enti locali.
Il testo unico enti locali gli attribuisce autonomia statuaria, normativa, organizzativa e amministrativa
nonché- nell’ambito dello statuto del regolamento e delle leggi di coordinamento della finanza pubblica-
autonomia impositiva e finanziaria.
Quindi è molto complesso il comune, ha molte competenze. Oltre alle funzioni proprie è titolare delle
funzioni che gli sono conferite con legge statale o regionale. Funzioni amministrative k riguardano
popolazione e territorio comunali, in primo luogo nei settori organici dei servizi alla persona e alla
comunità, dell’0assentto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico. Il comune svolge anche
funzioni amministrative x servizi di competenza statale come i servizi elettorali o quelli di stato civile e
anagrafe.
Il sindaco ad esempio è la prima autorità sanitaria del territorio comunale quindi in caso di epidemie,
calamità o la sanità pubblica del territorio comunale è in gioco, la responsabilità organizzativa, gestionale,
civile e penale è del sindaco. Esso firma anche TSO .
ORGANI DEL COMUNE: consiglio comunale , giunta comunale , sindaco, segretariato comunale. Il corpo
elettorale elegge direttamente sia il sindaco che il consiglio comunale.
La necessità di assicurare una più diretta partecipazione popolare all’amministrazione comunale ha indotto
il legislatore a creare le circoscrizioni comunali. In base al testo unico degli enti locali, i comuni con più di
100.000 abitanti devono deliberare di ripartire il proprio territorio in circoscrizioni di decentramento, quali
organismi di partecipazione, consultazione e gestione dei servizi di base, oltre che di esercizio delle funzioni
delegate dal comune. Per i comuni con popolazione tra i 30.000 e i 100.000 abitanti, non stabilito un
obbligo ma solamente una facoltà di istituzione delle circoscrizioni di decentramento, Organizzazione e
funzioni della circoscrizione sono disciplinate dallo statuto comunalee in un apposito regolamento. Gli
organi della circoscrizione rappresentano le esigenze della popolazione nell’ambito dell’unità del Comune.
QUALI SONO RISPETTO AI S.S., LE COMPETENZE DEL COMUNE?
Si occupa di aiutare xsone adulte, italiane e straniere con problemi di reddito e di alloggio; xsone nn
autosuffcienti in tutto in parte per motivi socio-sanitari ; minori e famiglie in difficoltà.
Tutte le azioni che rientrano nell’assistenza domiciliare sono di competenza del comune. Diversa è
l’assistenza domiciliare integrata che è affidata all’ASP xk ha contenuti piu di tipo sanitario. La riforma
dell’assistenza (L.328 del 20000) avvenuta ad un secolo dalla L. Crispi, pur prevedendo la distinzione tra
bisogni sociali e sanitari è utile ad amputare ad enti diversi l’assegnazione di diversi i soggetti. A causa di
deficit di bilancio spesso gli enti vogliono scrollarsi gli enti xk ovviamente costano. Per poter incidere in caso
di mancanze di risorse bisogna ricorrere alle risorse istituzionali del territorio a cui si appartiene ad es. la
chiesa. Quindi bisogna reagire riferendosi alla comunità territoriale a cui sui appartiene, individuando le
risorse istituzionali disponibili. Bisogna intessere relazioni es. vado dal parroco e gli dico che ho delle
richieste di educativa domiciliare , chiedendogli che risorse puo mettere in campo. È attivare le reti.
SPECIFICAZIONI SLIDES PROF:
ORGANIZZAZIONE E ATTIVITA’ DEI SERVIZI SOCIO-ASSISTENZIALI
Indicazioni di politiche sociali contenute nelle norme
Scelte dell’ente locale o del dipartimento amministrativo di cui il servizio fa parte
Scelte dei dirigenti
POLITICHE DEI SERVIZI SOCIALI
Orientamenti, criteri decisionali, tipo di organizzazione e di attività che vengono adottati a livello di ente
locale e di servizio sociale entro la cornice normativa di riferimento
AZIONE DEGLI OPERATORI SOCIALI
Concorre, con la parziale discrezionalità, a dare senso all’agire della P.A. finalizzata ad assicurare il sostegno
alle persone in difficoltà nei modi e secondo le logiche fissate nelle politiche sociali e nelle politiche dei
servizi.
ARTICOLO 97 COSTITUZIONE:

Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, assicurano l'equilibrio


dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico.

I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon
andamento e l'imparzialità dell'amministrazione.
Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità
proprie dei funzionari.

Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.

DETERMINAZIONE DIRIGENZIALE
Provvedimento monocratico adottato dal dirigente o dal responsabile di un servizio (soggetto adottante)
nell’espletamento delle sue funzioni.
LEGGE 241\90 ‘Norme sul procedimento amministrativo’
Art. 2 comma 1
Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le
pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento
espresso. Se ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della
domanda, le pubbliche amministrazioni concludono il procedimento con un provvedimento espresso
redatto in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto
o di diritto ritenuto risolutivo.
QUANDO?
Iniziare una procedura di gara d’appalto
Attribuire funzioni di coordinamento ad operatori
Approvare progetti di proposta in risposta a bandi che assegnano finanziamenti
OBBLIGATORIA
Ogni volta che il dirigente deve impiegare una somma di bilancio per erogare prestazioni di natura
economica o prestazioni che comportano costi
Es. erogazioni di contributi economici a persone in condizioni di povertà; presentazione di un progetto alla
regione per acquisire finanziamenti specifici
ELEMENTI ESSENZIALI
Oggetto
Intestazione
Parte narrativa: preambolo ; motivazione
Parte dispositiva
Data
Sottoscrizione del dirigente che la adotta
Ufficio di provenienza
Numerazione in ordine cronologico
VALIDITA’ ED EFFICACIA
Le determinazioni che contengono tutti i requisiti sono valide ed efficaci dalla data di sottoscrizione del
dirigente. Se l’atto comporta un impegno di spesa occorre anche il visto di regolarità contabile, attestante la
copertura finanziaria, da parte del responsabile del servizio finanziario .
DELIBERAZIONE
Atto amministrativo espressione della volontà dell’organocollegiale di un ente. Espressa dal collegio
mediante la votazione dei suoi componenti su una proposta che quindi viene adottata. Predisposta daun
organo tecnico-amministrativo espressione di un organo politico.
REQUISITI
Forma scritta
Intestazione che indica il soggetto proponente
Parte narrativa: preambolo (elementi alla base della proposta, norme di riferimento, riferimenti della fase
procedurale), motivazione (presupposti e ragioni giuridiche alla base della proposta)
Parte dispositiva: contenuto precettivo della proposta frutto delle scelte indicate nella parte narrativa
Data
Firma del soggetto politico che propone la delibera e dei dirigenti e funzionari che l’hanno redatta
materialmente
BILANCIO
Atto amministrativo che contiene la rilevazione delle entrate e delle spese in un determinato periodo di
tempo
Vari tipi di bilancio
CONTROLLO DI GESTIONE
Processo mediante il quale i responsabili dei servizi verificano nel corso dell’anno di esercizio il
perseguimento di determinati obiettivi, stabiliti preventivamente, cercando di utilizzare le risorse disponibili
con criteri di economicità.
RENDICONTO DI GESTIONE
Documento amministrativo che ha funzione di evidenziare i risultati conseguiti in termini di equilibrio
finanziario, economico e patrimoniale nella gestione dell’ente e fornire elementi utili al controllo da parte
degli organi politici e del collegio dei revisori dei conti (organo di vigilanza sulle attività economico
finanziarie dell’ente)
4.4. Il nuovo protagonismo del terzo settore
La legge 328\00 assegna al terzo settore una molteplicità di compiti. L’elemento di maggiore novità è il
riconoscere al terzo settore un ruolo di interlocutore importante nel processo di programmazione; un
secondo aspetto riguarda invece l’ampliarsi delle collaborazioni pubblico-privato dato che il terzo settore è
sensore precoce di nuovi bisogni, proprio per la sua presenza capillare e a volte informale sul territorio. La
legge 328\00 chiama il terzo settore esplicitamente al tavolo dei Piani di zona non solo in un ruolo
consultivo, ma rendendolo partecipe e responsabile delle scelte strategiche in essi contenute attraverso la
sigla (insieme agli Enti locali) dell’accordo di programma che deve esplicitare il consenso al Piano. Il
problema non risolto è però quello della rappresentanza. Come vengono scelti i soggetti o i coordinamenti
di soggetti che siedono al tavolo della programmazione? Come è da intendersi l’indicazione (art. 19 comma
3) che all’accordo di programma partecipano quei soggetti del terzo settore che ‘attraverso
l’accreditamento o specifiche forme di concertazione, concorrono, anche con proprie risorse, alla
realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali previsto dal piano?  questo richiede al
terzo settore, e ai suoi operatori, un nuovo impegno nel definire e nel rendere trasparente il proprio ruolo e
gli obiettivi della propria azione.
Per quanto riguarda le esternalizzazioni da parte degli Enti locali della produzione di servizi, il decreto
fornisce alle regioni alcune indicazioni sulle modalità di acquisto e di affidamento della gestione dei servizi a
soggetti privati. Ciò nel rispetto dei principi di pubblicità e trasparenza della PA, ma anche di libera
concorrenza tra i privati nel rapportarsi a essa. Le forme negoziali, seguendo le norme nazionali e
comunitarie (indicate dalla CE) possono essere diverse in relazione alla dimensione e alle caratteristiche del
servizio, privilegiando tuttavia procedure di aggiudicazione ristrette e negoziate, proprio per poter valutare
i diversi elementi di qualità che il Comune intende ottenere dal servizio appaltato. Il criterio di
aggiudicazione è quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa che, riesce a tener conto sia del
prezzo che della qualità delle prestazioni. Si raccomanda inoltre che l’acquisto o l’affidamento riguardino
l’organizzazione complessiva del servizio con l’assoluta esclusione delle mere prestazioni di manodopera
(come invece era accaduto nell’avvio delle esternalizzazioni). Il terzo settore puo inoltre essere chiamato
dai Comuni a istruttorie pubbliche per la coprogettazione di interventi innovativi e sperimentali. La
costruzione di un welfare comunitario, proprio per la realizzazione del principio di sussidiarietà,
richiederebbe tuttavia alcuni altri passi verso il riconoscimento da parte del pubblico dell’autonomia del
terzo settore. In generale si puo tuttavia riconoscere al terzo settore un ruolo importante nella costruzione
del sistema di welfare. Esso può infatti svolgere una pluralità di compiti:
- Sostituire risorse pubbliche: in questi anni volontariato, associazioni e cooperazione sociale hanno
saputo cogliere i nuovi bisogni, soprattutto il progressivo manifestarsi dei fenomeni di disagio e di
esclusione sociale
- Moltiplicatore di risorse: capace di mettere in rete non solo le risorse oggetto di convenzioni con gli
Enti locali, ma le risorse libere del territorio, proprio mettendo in gioco quelle reti di relaizone che
sono il patrimonio piu grande del terzo settore
- Produttore di capitale sociale: ovvero produttore di una rete di legami fiduciari che consentono
scambi di informazioni e collaborazioni.
- Bacino di occupazione: ad esso si chiede però di creare buona occuazuoine evitando che le sue
prestazioni costino meno solo xk gli operatori sono meno retribuiti o meno tutelati dal punto di
vista della sicurezza del posto di lavoro rispetto agli operatori dipendenti pubblici
4.5. La comunità come risorsa
Per comunità si intendono il vicinato, le associazioni, le polisportive, le attività del quartiere, ovvero
quell’insieme di servizi formali ed informali che diventano risorsa per rispondere ai bisogni delle persone .
Questo perché l’ente locale non puo piu permettersi di essere una sorta di ‘distributore automatico’ di
servizi (direttamente prodotti dal pubblico o appaltati all’esterno) rispetto a bisogni sempre crescenti e più
complessi, perché non dispone di risorse sufficienti, ma anche perché in molti casi non ha la capacità di
leggere correttamente i nuovi bisogni e di mettere a punto risposte adeguate.
Non mancano però difficoltà nell’utilizzo della comunità come risorsa, infatti, essa per svolgere il ruolo che
le compete deve poter essere una comunità competente. Per comprendere il significato di questa
affermazione, è utile ricordare che la definizione nasce dalla sperimentazione dei servizi della psichiatria. Se
si vuole attuare l’inserimento di un malato psichiatrico nel suo contesto di vita (casa e territorio), si deve
poter contare su una comunità (dai negozianti da cui si reca quotidianamente l’assistito ai vigili urbani che
lo incontrano; dai bambini che giocano nel cortile della sua casa agli anziani che siedono sulla panchina del
parco ecc).
Il lavoro di comunità consiste nel mettere a contatto il cittadino con le reti di sostegno, formali ed
informali, che può trovare intorno a se sul territorio, ma anche nel promuovere e sostenere tutte quelle
reti di reciprocità e solidarietà che spontaneamente si realizzano in una comunità. Il lavoro di comunità ha
sempre fatto parte del patrimonio professionale dell’a.s. fin dagli anni del dopo guerra. D’altronde, i termini
come reciprocità, fiducia e anche identità che sono identificativi di una comunità, hanno sempre riferimenti
importanti per chiunque operi nel territorio.
La realizzazione del lavoro di comunità richiede un cambiamento dei modelli organizzativi dei servizi sociali,
che non dovranno essere piu solo erogatori di prestazioni, ma dovranno saper produrre grandi capacità di
ascolto, di dialogo, di orientamento nei confronti di ciascun cittadino, che deve essere guidato a utilizzare
tutte le risorse formali e informali che il territorio offre, sia nei confronti della comunità nel suo insieme.
L’intervento sociale deve così interconnettersi anche con tutti quei programmi intersettoriali e
multidisciplinari sperimentati in questi anni, per rendere la città sicura, sana, a misura dei bambini ecc, che
sono finalizzati proprio a sostenere la qualità della vita e percio anche delle relazioni interne alla comunità.
Ricostruire il quadro normativo che sostiene questa dimensione dell’intervento sociale è complesso perché
esso riguarda interventi plurisettoriali inerenti alla politica del territorio, urbanistica, della sicurezza delle
città, della scuola e alla valorizzazione dell’associazionismo e delle iniziative spontanee della società civile.
Gli studi sociologici hanno messo in evidenza l’inevitabile declino della comunità locale in conseguenza del
processo di urbanizzazione, ma nello stesso tempo hanno verificato l’espandersi di ‘comunità senza
prossimità’ (associazioni o network) di cui si deve tener conto. Nei progetti di sviluppo di comunità, essa è
considerata come un insieme di persone che condividono aspetti rilevanti della loro vita, sentirsi comunità
è la base dell’identità dei suoi membri. La percezione del legame, è un aspetto centrale dei progetti di
sviluppo. La comunità dunque, non è solo un bacino di utenza, ma, può essere un ‘attore sociale’, ‘identità’
significa appunto, ‘sentirsi comunità’.

4.6. Servizi alla persona e contributi economici


La spesa sociale in Italia si caratterizza per una netta prevalenza degli impieghi per trasferimenti economici
piuttosto che per il finanziamento dei servizi. La legge 328\2000 tenta di determinare una diversa
composizione di questa spesa in favore dei servizi. La legge si occupa, infatti, sia della rete dei servizi sociali
sia degli emolumenti economici. Fra questi distingue quelli finalizzati alla lotta alla povertà, come il
reddito minimo di inserimento e quelli finalizzati al sostegno delle situazioni di disabilità. Il riordino di
questa materia non è stato ancora compiuto in mancanza dell’approvazione del decreto legislativo
preposto a tale compito. L’erogazione di contributi economici, quando non si prefigura come una sorta di
beneficienza pubblica, può divenire uno strumento efficace per sollecitare le responsabilità degli assistiti. Il
reddito minimo di inserimento (introdotto nel 1998) se correttamente applicato, ha proprio queste
caratteristiche, perché l’aiuto economico viene erogato a patto che l’utente si impegni in alcune azioni
finalizzato appunto al suo inserimento in una vita normale (attraverso ad es. la frequenza di corsi di
formazione per disoccupati di lunga durata). Caratteristiche simili ha l’assegno di cura elargito alle famiglie
che si impegnano a tenere l’anziano presso di sé, stipulando anche in questo caso un patto circa l’impegno
di cura assunto.
Tutti questi istituti perderebbero efficacia se si riducessero a meri contributi economici per situazioni di
povertà, trascurando il progetto a cui sono collegati.
Analogo rischio ha anche l’attuazione del Titolo per l’acquisto di servizi sociali, un istituto previsto dalla
legge 328\2000, ma riguardo al quale le Regioni stanno compiendo scelte diverse. Da un lato il bonus (cioè
il titolo) potrebbe essere uno strumento utile per coinvolgere l’utente, che puo scegliere di fruire del
servizio di cui ha diritto presso l’istituzione che preferisce e divenire sempre piu soggetto attivo nel
costruirsi la risposta ai propri bisogni (e ciò rappresenta un elemento caratterizzante del metodo del
servizio sociale), ma potrebbe anche ridursi a essere un ulteriore contributo economico. Esso richiederà
comunque una riflessione complessiva sul lavoro sociale e, in particolare, sul concetto della ‘presa in carico
del caso’ da parte del servizio sociale professionale, cioè dagli a.s
(I titoli per l’acquisto di servizi sociali sono previsti dall’art.17 della L.328\2000. Grazie ai titoli sociali
(strumenti economici) si possono acquistare prestazioni sociali erogate da parte di operatori professionali
per sostenere in modo continuativo persone in condizioni di fragilità, sia a livello domiciliare che in
condizione di interventi mirati temporanei o continuativi presso strutture e\o servizi di natura socio-
assistenziale. L’art 17 della L.328 recita: ‘ i comuni possono prevedere la concessione, su richiesta
dell’interessato, di titoli validi per l’acquisto di servizi sociali dai soggetti accreditati dal sistema integrato di
interventi e servizi sociali ovvero come sostitutivi delle prestazioni economiche diverse da quelle correlate
al minimo vitale’.
4.7. Il ‘ritorno’ della programmazione: la sfida dei Piani di zona
La programmazione è essenzialmente un processo di comunicazione tra livelli istituzionali diversi tra cui
sono distribuite le competenze. La programmazione sanitaria, se pur con difficoltà, non ha realizzato un
modello cosiddetto a cascata in cui il Piano sanitario nazionale precede e dà gli indirizzi al piano sanitario
regionale che a sua volta da indirizzi e linee guida alla programmazione locale(addirittura la
programmazione sanitaria nazionale prevista dalla L. 833\78 consentiva che le Regioni approvassero i Piani
sanitari regionali anche in mancanza dell’approvazione del Piano sanitario nazionale). Si è invece andato
verificando una sorta di rapporto dialogico in cui le indicazioni andavano sia dall’altro al basso che
viceversa. Cio ha determinato che non ci fosse neppure nel tempo un ordine per cui la programmazione
nazionale precedesse la programmazione regionale e la programmazione regionale precedesse quella
locale. Alla luce di ciò è chiaro che per gli operatori non è facile orientarsi tra questi diversi documenti.
Nell’ultimo periodo vi sono stati a livello nazionale 2 importanti momenti di programmazione costituiti dal
Piano sanitario nazionale 1998\2000 (‘Un patto di solidarietà per la salute) e il Piano sanitario nazionale
2003\05.  come si vede è ben difficile rispettare anche la scansione temporale prevista dalla L 833\78.
Analoga impostazione è quella proposta dalla L 328\2000 per la programmazione sociale. La legge
prevedeva, infatti,un Piano nazione per i servizi sociali, Piani regionali e i cosiddetti Piani di zona (che
indicano appunto la programmazione locale). Il Piano di zona è un elemento innovativo della legge, che
all’art. 19, prevede appunto che i Comuni, associati negli ambiti territoriali previsti dalla Regione e di
norma coincidenti con distretti sanitari già operanti per le prestazioni sanitarie, definiscano un Piano di
zona proprio finalizzato alla realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali per quello
specifico territorio. Il Piano deve essere di norma adottato attraverso un accordo di programma a cui
partecipano i Comuni, le Aziende sanitarie, ma, ed è questo un elemento di novità, anche i soggetti privati
che concorrono con proprie risorse alla realizzazione di quanto previsto dal piano. Gli operatori sociali
insieme con i responsabili politici possono essere coinvolti a diverso titolo nelle varie fasi di questo
processo programmatorio e devono, perciò, acquisire le competenze adeguate a ogni singolo
coinvolgimento.
SPECIFICAZIONI PROF: Il comune nell’azione amministrativa e di governo usano, oltre strumenti
che provengono dall’autorità politica che li regola, anche strumenti tecnici. Tra cui il piano di zona
k serve a far si che venga fatta una fotografia della realtà territoriale di riferimento cosi da
provvedere in maniera mirata nel predisporre azioni x risolvere quelle necessità che ci sn in quella
comunità territoriale. Quindi si redige qst atto molto impo cosi che tt quello che verrà fatto in
quella comunità territoriale risponde a criteri verificabili.
L’attività di redazione di un piano di zona è complessa xk passa varie fasill. (il distretto di ct è n.16
ed è insieme a motta e misterbianco). Per fare un piano di zona nella comunità territoriale ci sn vari
enti, partiamo da quelli sanitari: ci sono i presidi dell’ASP e gli ospedali o cmq tutti quegli enti che
sono una espressione di bisogni e di attività quindi anche enti del terzo settore, no profit, comunità
associative, comuni , asl, provincia, aziende pubbliche di servizi alle persone. Quindi si tratta di
quelle organizzazioni sociali radicate nel territorio. Tutti questi organismi partecipano alla redazione
del piano di zona xk ognuno di loro da un contributo, esprime dei dati che vengono tra loro
incrociati in un tavolo tematico.
FASI DEL PIANO DI ZONA.

4.8 Servizi sociali, sanitari, educativi: una possibile integrazione


L’integrazione tra servizi sociali e sanitari individuata dalla L. 833\78 per la sua realizzazione ha incontrato
delle difficoltà e richiesto una pluralità di interventi normativi e di atti di indirizzo. L’integrazione socio-
sanitaria fa riferimento a diversi aspetti. Il Piano fa delle distinzioni :
- Integrazione istituzionale: collaborazioni fra istituzioni diverse (Aziende sanitarie, Amministrazioni
comunali ecc) che si organizzano per conseguire comuni obiettivi di salute, avvalendosi di strumenti
giuridici come le convenzioni e gli accordi di programma. Il distretto è la struttura operativa che
meglio consente di governare i processi integrati fra istituzioni, gestendo unitariamente diverse
fonti di risorse (del SSN, dei Comuni, della solidarietà locale), così da consentire il monitoraggio. A
questo scopo le Regioni, nei rispettivi Piani, definiscono i criteri di finanziamento e gli indirizzi
organizzativi, mettendo in grado le AUSL (azienda unità sanitaria locale) di programmare l’entità
delle risorse da assegnare ai Distretti.
- Integrazione gestionale: individuazione delle diverse configurazioni organizzative e meccanismi di
coordinamento cosi da garantire l’efficace svolgimento delle attività e delle prestazioni all’interno
del Distretto e, in modo specifico nei diversi servizi che lo compongono. Vengono incrementati gli
approcci multidimensionale e le modalità operative basate sulla metodologia di lavoro per progetti.
Le azioni di verifica e di valutazione devono essere ricavabili dal sistema informativo del distretto, e,
a questo scopo, sono previste procedure idonee a facilitare la valutazione dei servizi da parte degli
utenti.
- Integrazione professionale: fa riferimento all’adozione di profili aziendali e di linee guida utili ad
orientare il lavoro interprofessionale nella produzione di servizi sanitaria domiciliari, intermedi e
residenziali. Condizioni necessarie dell’integrazione professionale sono la costituzione di unità
valutative integrate, la gestione unitaria della documentazione, la valutazione dell’impatto
economico delle decisioni, la definizione delle responsabilità nel lavoro integrato, la continuità
terapeutica tra ospedale e distretto, la collaborazione tra strutture residenziali e territoriali, la
predisposizione di percorsi assistenziali appropriati per tipologie di intervento, l’utilizzo di indici di
complessità delle prestazioni integrate.

Ulteriori elementi utili per comprendere il problema sono contenuti nell’Atto di indirizzo e
coordinamento relativo all’integrazione socio-sanitaria. Esso distingue tra:
- Prestazioni sanitarie a rilevanza sociale (di competenza delle ASL e a carico del Fondo sanitario)
- Prestazioni sociali a rilevanza sanitaria (di competenza e a carico dei Comuni, con partecipazione
alla spesa da parte dei cittadini)
- Prestazioni socio-sanitarie a elevata integrazione sanitaria (erogate dalle ASL e a carico del Fondo
sanitario) che attengono prevalentemente alle aree materno-infantile, anziani, handicap, patologie
psichiatriche e dipendenze da droga, alcol e farmaci, patologie per infezioni da HIV e patologie
terminali, inabilità o disabilità conseguenti a patologie cronico-degenerative

Questa classificazione è importante per poter definire la suddivisione del carico dei finanziamenti tra le
diverse istituzioni.
Bisogna inoltre sottolineare che, sono necessarie ulteriori sinergie e collaborazioni per rispondere in modo
efficace alla globalità dei bisogni della persona ad es. tra s.s. e servizi educativi o scuola. Questo tipo di
collaborazioni trovano supporto in una molteplicità di norme, ma non possono contare su linee di indirizzo
unificanti ed è questo che ne ha forse rallentato la realizzazione oltre al fatto che la maggiore
specializzazione degli operatori ha sicuramente portato a una maggiore frammentazione degli interventi,
derivante dalla non sufficiente capacità e disponibilità a lavorare in èquipe predefinite o comunque a
lavorare in ‘rete’.
4.9 I livelli essenziali di assistenza
La riforma del titolo V della Costituzione ha attribuito alle Regioni competenza eslcusiva in materia di servizi
sociali, resta tuttavia l’obbligo di rispettare i livelli essenziali delle prestazioni sociali definite a livello
nazionale. I livelli essenziali (LIVEAS) possono essere definiti come diritti individuali (art. 2L 328\2000) con
pari opportunità, all’accesso e alla fruizione di interventi e prestazioni da garantire su un determinato
territorio, per una determinata popolazione. Essi non riguardano quindi i modelli organizzativi e l’azione
professionale, perché tali indicazioni rientrano nella esclusiva competenza delle Regioni e degli Enti locali.
La complessità del compito di definire i livelli essenziali, data dalla carenza di informazioni articolate sulle
risorse finanziarie, organizzative, professionali, dalla varietà dei bisogni e della diversa dotazione di risorse
dei territori, impone di assumere logiche e strategie incrementali. La prima definizione dei LIVEAS avviene
quindi relativamente a :
 Quali funzioni e prestazioni considerare
 Quali beneficiari privilegiare, in termini di accesso esclusivo o di accesso gratuito
 Quali prestazioni sono compatibili con le risorse finanziarie disponibili (considerate per un triennio)
L’art. 22 della L. 328\2000 elenca gli interventi che costituiscono i livelli essenziali delle prestazioni
sociali:
 Misure di sostegno alla povertà
 Misure economiche per favorire la vita autonoma e la permanenza a domicilio interventi a sostegno di
minori e ai nuclei familiari anche attraverso l’affido e l’accoglienza in strutture comunitarie
 Misure per sostenere le responsabilità familiari
 Misure di sostegno alle donne in difficoltà
 Interventi per l’integrazione soicale delle persone disabili, ivi comprese la dotazione di centri socio-
riabilitativi, di comunità alloggio e di accoglienza
 Interventi per le persone anziane e disabili per favorire la permanenza a domicilio, nonché la
socializzazione e l’accoglienza presso strutture residenziali e semiresidenziali
 Prestazioni socio-educative per soggetti dipendenti

Lo stesso art. 22 dispone che le leggi regionali di applicazione della legge 328\2000 prevedano
l’erogazione delle seguenti tipologie organizzative e l’erogazione delle prestazioni relative:
 Servizio sociale professionale e segretariato sociale per l’informazione e consulenza al singolo e ai nuclei
familiari  l’attività di segretariato sociale è finalizzata a garantire unitarietà di accesso, capacità di
ascolto, funzione di osservatorio e monitoraggio dei bisogni delle risorse, funzione di trasparenza e
fiducia nei rapporti tra cittadino e servizi, soprattutto nella gestione dei tempi di attesa nell’accesso ai
servizi. E’ quindi un livello informativo di orientamento indispensabile per evitare che le persone
esauriscano le loro energie nel procedere per tentativi ed errori alla ricerca di risposte adeguate ai loro
bisogni. L’attività di segretariato sociale costituisce un passo importante, dunque, nella costruzione di
quello che è chiamato welfare dell’ascolto e dell’orientamento, un welfare cioè che non è solo erogatore
di servizi ma che aiuta il cittadino a orientarsi di fronte all’intera offerta di possibilità di aiuto che si trova
difronte. Le azioni di sono : lettura e decodifica della domanda, presa in carico della persona\famiglia o
gruppo sociale, attivazione di integrazione di servizi e delle risorse in rete.
 Servizio di pronto intervento sociale per le situazioni di emergenza personali e familiari: fa riferimento
soprattutto alle situazioni di esclusione sociale estrema (senza fissa dimora, immigrati, bambini
abbandonati o ad alto rischio di abuso ecc) ma risponde anche alle esigenze di famiglie che si trovano
sole difronte a problemi di tossicodipendenza, malattia mentale ecc.
 Assistenza domiciliare
 Strutture residenziali e semiresidenziali per soggetti con problemi sociali
 Centri di accoglienza residenziali o diurni a carattere comunitario

E’ chiaro che in tutti i territori dovranno essere presenti questi servi ma, non è chiaro quale sia il livello
essenziale che in ciascun territorio deve essere garantito rispetto a queste tipologie di servizi. Il dibattito è
aperto. La definizione e la realizzazione dei LIVEAS deve essere garantita attraverso un percorso
programmatorio necessariamente negoziato e condiviso fra i diversi livelli istituzionali (Stato, Regioni ed
Enti locali) che deve assicurare un monitoraggio costante. La condizione per la realizzazione dei LIVEAS è il
poter disporre di risorse certe e crescenti. Se è pur vero che il finanziamento deriva dal Fondo nazionale e
dalle risorse ordinarie già destinate da Regioni ed Enti locali alla spesa sociale, lo Stato dovrebbe tuttavia
individuare una percentuale del prodotto interno lordo da destinare al finanziamento dei LIVEAS.
CAPITOLO 5: ORIENTARSI NELLA RETE DEI SERVIZI PER ANZIANI
5.1. Una popolazione che invecchia
Negli ultimi decenni vi è stato un progressivo aumento della vita media. Oggi la speranza di vita in Italia
risulta raddoppiata rispetto a un secolo fa e si aggira intorno agli 80annicon valori più elevati a vantaggio
delle donne. Chiaramente ciò ha determinato un progresso sociale ed economico legato allo sviluppo di vari
settori, ma che, a sua volta, non può non avere conseguenze sull’assetto complessivo di una società
(produzione e distribuzione di risorse, servizi ecc). La presenza di un elevato numero di anziani,
accompagnata a una parallela diminuzione del tasso di natalità ha e avrà, in un prossimo futuro, influenza
sulle scelte di interventi in campo sanitario, assistenziale e, piu in generale, sulle politiche di welfare.
La diminuzione del rapporto tra persone in età lavorativa e anziani, implica una progressiva diminuzione
della produzione di ricchezza e, ciò rende disponibili minori risorse per sostenere la spesa pubblica, e in
particolare il sistema di welfare. Per ben comprendere il tema\problema anziani sono necessarie alcune
precisazioni:
- In primo luogo la definizione stessa del limite anagrafico da cui far partire la terza età. Oggi si fa
riferimento a chi ha compiuto 65 anni.
- In secondo luogo è difficile ricondurre gli anziani ad un’unica categoria. Infatti abbiamo molti modi
di essere anziani: anziani anagrafici che nonostante l’età sono una risorsa per i propri familiari e per
il contesto in cui vivono; anziani in condizioni di difficoltà di parziale non autosufficienza o di totale
dipendenza dagli altri; grandi anziani cioè anziani della quarta età il cui numero è in crescita. Essi
sono spesso portatori di patologie diverse spesso invalidanti e, il loro aumento ha inciso e incide
sulla richiesta di prestazioni, primariamente di tipo sanitario.
Gli attori delle politiche sociali, difronte a questo grande tema\problema devono comprendere le
dimensioni e l’andamento del fenomeno e, commisurare soluzioni e prospettive entro il più
complessivo sistema di welfare già in crisi da parecchi anni.
5.2. Una politica in favore della popolazione anziana
L’invecchiamento della popolazione ha portato negli anni una maggiore sensibilizzazione nei
confronti dei problemi degli anziani e dei bisogni di cui essi sono portatori. Stato ed Enti locali
hanno progressivamente ampliato i loro interventi. Si è trattato di una vasta gamma di azioni,
differenziate per caratteristiche, finalità e modalità di realizzazione, ma tutte in qualche modo
concorrenti a promuovere una migliore qualità della vita. Si pensi al sistema pensionistico, o a
quegli anziani ancora attivi e motivati a sviluppare e spendere energie per sé e per gli altri che
necessitano di aiuto per poter sviluppare pienamente le risorse di cui ancora dispongono (anziani
impegnati in attività di volontariato, di sostegno per la comunità ecc).
Questi ed altri interventi hanno contribuito ad offrire risposte ai bisogni che si manifestano in
relazione al diverso grado di ‘autosufficienza’ dell’anziano e alla capacità della sua rete relazionale
e familiare di farvi fronte. La compresenza di problematiche di tipo sanitario e sociale ha richiesto
di attivare servizi integrati. Inoltre, la politica che ha portato alla realizzazione della rete di servizi
ha messo in campo un altro importante soggetto, le IPAB, che accanto agli Enti locali gestiscono ed
erogano servizi per anziani. Tale politica, pur differenziandosi da Regione a Regione, ha certamente
consentito lo sviluppo e il consolidamento della rete dei servizi, rappresentando altresì un ‘bacino
di prova’ anche per gli altri settori socio-assistenziali dove tale collaborazione si è sviluppata in
tempi successivi (si pensi all’handicap o alla psichiatria).
Nel settore dei servizi destinati agli anziani, cioè nell’erogazione di assistenza domiciliare o nella
gestione di strutture residenziali, le cooperative sociali di tipo A hanno via via sviluppato e
consolidato non solo capacità imprenditoriali, ma anche modalità organizzative flessibili e adatte
all’evolversi della domanda. Pur con differenze regionali, oggi le cooperative sociali si presentano
sul mercato dei servizi per anziani certamente come ‘erogatori’ (singolarmente o in Associazioni
temporanee di impresa ATI, con altre organizzazioni profit e non profit) mediante convenzioni con
l’Ente locale o per la gestione complessiva del servizio, o per la ‘fornitura’ di personale, ma anche
come gestori diretti di proprie strutture.
Per monitorare questi fenomeni di esternalizzazione\privatizzazione che nel settore dei servizi per
anziani, a partire dagli anni 90, gli attori delle politiche sociali si sono dovuti confrontare con i
problemi della valutazione della qualità dei servizi; ciò al fine di poter scegliere il miglior fornitore,
ma anche di avviare processi di miglioramento continuo, sulla base di prefissati standard di qualità
capaci di raggiungere un sempre maggior grado di soddisfazione dell’utente.
Anche le associazioni di volontariato che si rivolgono agli anziani hanno dato e danno un
importante contributo alla realizzazione di interventi. Il volontariato ‘sensore di bisogni’ ha saputo
promuovere attività che, insieme a quelle più tradizionali, hanno cercato di rispondere add
emergenze originate dai fenomeni in parte nuovi, in parte aggravatisi: la solitudine e l’isolamento, il
sostegno di quelle famiglia con anziani accuditi dai figli anziani a loro volta, il problema ben noto
delle badanti extracomunitarie e del loro inserimento in famiglia..
5.3. I servizi per anziani tra strutture residenziali e domiciliarità
Negli anni 70 vi è stata un’attenzione verso nuove soluzioni rispetto alla tradizionale ‘casa di
riposo’. Si fece strada l’idea di poter rispondere ai bisogni della popolazione anziani in difficoltà
anche non ricorrendo all’accoglienza in strutture totalizzanti. Si cominciò a pensare di poter lasciare
gli anziani nella propria casa fornendo loro, il supporto di un’assistenza domiciliare che li aiutasse
sia nei lavori domestici sia soprattutto nella cura della propria persona. Il crescente numero di
anziani non-autosufficienti e la scarsità di risorse disponibili indussero l’assistenza domiciliare a
trasformare la tipologia degli interventi che si sono via via specializzati, tralasciando la cura della
casa, l’effettuazione della spesa, l’aiuto nel disbrigo di pratiche burocratiche e sviluppando invece
una più specializzata cura della persona (igiene personale, alzata da letto, prevenzione da piaghe) a
cui si sono affiancati interventi domiciliari sanitari svolti dal personale infermieristico. Ciò ha
lasciato in parte ‘scoperti’ i bisogni di relazione degli anziani, primo fra tutti quello di ‘scambiare
due parole’. La progressiva crisi del sistema di welfare determinerà che sarà proprio il Privato
sociale, il volontariato in particolare, a cercare di rispondere a queste esigenze.
Le strutture residenziali non furono abolite del tutto, l’esigenza era quella di creare strutture con
dimensioni piu ridotte per rendere l’ambiente e le relazioni il piu possibile umanizzate, ma anche
capaci di offrire prestazioni complesse, come quelle sanitarie. L’aumento di specifiche patologie
come la demenza senile e l’alzheimer ha reso tra l’altro necessario un adeguamento delle stesse
residenze sia in termini strutturali che di formazione del personale.
Negli anni si è reso evidente come la correttezza di una politica sociale per anziani dipendesse
dall’equilibrio tra l’offerta di servizi residenziali e l’offerta di prestazioni domiciliari (a volte
integrate da servizi residenziali diurni). La L 328\2000 ha nuovamente posto l’accento
sull’assistenza domiciliare come uno dei servizi che deve essere presente in ogni ambito
territoriale.
Il Piano nazionale degli interventi e servizi sociali 2001\2003 ‘Libertà, responsabilità e solidarietà
nell’Italia delle autonomia’, sviluppa ulteriormente questo argomento sia riguardo all’obiettivo 1
‘valorizzare e sostenere le responsabilità familiari’ , che riguardo all’obiettivo 2 ‘sostenere con
servizi domiciliari le persone non autosufficienti(in particolare gli anziani e le disabilità gravi), il
quale si occupa delle prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria.
Il Piano propone un nuovo concetto di domiciliarità come uno dei capisaldi del sistema integrato di
interventi e servizi. In quest’ottica l’assistenza domiciliare è vista solo come uno degli strumenti
necessari per la costruzione della domiciliarità. Parlare di domiciliarità vuol dire pensare a strategie
piu complesse che riguardano la vita dell’anziano nella sua casa, nel suo quartiere, nelle città in
grado di collegare la scelta di stare in casa propria alla possibilità di essere inseriti in un contesto di
vita riconosciuto come luogo di appartenenza più vasto del perimetro del proprio appartamento,
entro cui si possa contare su un minimo di legami sociali e di sicurezza dell’abitare. Si tratta di
programmi complessi che chiamano in causa l’edilizia residenziale (progettata con locali idonei per
l’uso di ausili, privi di barriere architettoniche), la mobilità (servizi pubblici di trasporto), la
disponibilità di spazi verdi e di incontro per una migliore fruibilità del sistema città nel suo
complesso. Sono anche necessari programmi a sostegno della diffusione di nuove tecnologie quali
il tele-soccorso, la tele-assistenza e la tele-medicina che raggiungono gli anziani al proprio
domicilio. Domiciliarità è allora un processo di aiuto a domicilio che necessita per la sua
realizzazione della disponibilità di molti soggetti: anziani, famiglie, operatori dei servizi, vicini,
volontari, membri della comunità locale ecc. Esso implica pertanto la costruzione di una rete di
supporto sociale in sinergia tra servizi sociali, sanitari e reti di solidarietà. Il domicilio è quindi inteso
non come contenitore e limite, ma nei termini piu ampi di casa aperta alle relazioni sociali e
all’esperienza. E’ la comunità locale nel suo complesso a essere chiamata in causa per promuovere
la domiciliarità, una nuova cultura della relazione e dei legami comunitari, ma anche di usare
tecnologie nuove nella città che si trasforma.

5.4 Il progetto-obiettivo Tutela della salute degli anziani


Per descrive le diverse tipologie di servizi per anziani, in mancanza di una normativa nazionale
quadro,è possibile usare il Progetto-obiettivo ‘Tutela della salute degli anziani’ approvato nel 92, a
cui le Regioni si sono riferite legiferando in materia. Il sistema di servizi cosi delineatosi, pur non
differendo in maniera sostanziale, ha tuttavia assunto connotazioni specifiche da Regione a
Regione, a cominciare dalle denominazioni stesse dei servizi della rete, dagli standard e requisiti di
funzionamento, da criteri e modalità di accesso e, anche se questo aspetto riguarda un problema
più generale, dalle relazioni fra istituzioni pubbliche e private che hanno poi dato vita ai servizi
stessi.
Il Progetto-obiettivo, inteso come strumento per la realizzazione dell’integrazione socio-sanitaria
e per la definizione delle competenze in materia di Comuni e USL (oggi ASL), sviluppa i principi
ispiratori del SSN e della generale politica dei s.s., messa a punto dalle Regioni nel corso degli anni.
(I rispettivi compiti e le regole della collaborazione fra i soggetti pubblici coinvolti del sociale e
sanitari sono sanciti dall’Accordo di programma).
Proprio per evitare interventi di istituzionalizzazione, spesso emarginanti, il Progetto-obiettivo
afferma la necessità di aumentare l’offerta di assistenza domiciliare per gli anziani non
autosufficienti; ma , a fronte di nuovi bisogni, amplia anche la gamma di servizi residenziali non
ospedalieri capaci di erogare prestazioni sanitarie complesse e ciò anche al fine di evitare
ospedalizzazioni improprie. Definendo i contorni dell’assistenza geriatrica il Progetto ne delinea gli
obiettivi prioritari: la prevenzione, la cura delle malattie, la riabilitazione immediata per evitare il
deterioramento, l’ottimizzazione dell’intervento globale tramite l’impiego di strumenti di
valutazione multidimensionale, primo fra tutti l’Unità di valutazione geriatrica, definita altresi come
un mezzo per realizzare l’integrazione fra servizi sociali e sanitari. Il modello organizzativo per la
tutela e la salute degli anziani puo essere cosi sintetizzato:
A) SERVIZI DI BASE
 Non residenziali
- Ambulatorio medico di base
- Servizi di prevenzione primaria
- Segretariato sociale
- Assistenza domiciliare integrata (interventi sociali ad alta integrazione sanitaria)
 Semiresidenziali
- Centro servizi socio-assistenziali
 Residenziali
- case di riposo, albergo comunità
- residenza sanitaria assistenziale (interventi sociali ad alta integrazione sanitaria)
B) SERVIZI DI TIPO SPECIALISTICO (afferiscono quasi esclusivamente alla sanità)
 Non residenziali
- Poliambulatorio
- Ospedalizzazione a domicilio
 Semiresidenziali
- Ospedale diurno
- Strutture di riabilitazione
 Residenziali
- Ospedale generale, specializzato
- Geriatria, lungodegenza

In tutte le esperienze è comunque sottolineata la necessità di interventi personalizzati che, a partire


dalla presa in carico, rispondano il piu possibile alle esigenze e ai bisogni di ogni singolo anziano.
L’unità di valutazione geriatrica (UVG) , che il Progetto-obiettivo descrive come gruppo
multidisciplinare di operatori, ha proprio come obiettivo l’individuazione dell’intervento, o
dell’insieme di interventi per ogni anziano, una volta certificato il grado di non autosufficienza. La
valutazione multidimensionale, pertanto, diviene uno strumento che ha ripercussioni sullo stato
funzionale e, di conseguenza, sul grado di benessere dell’individuo.

5.5. La rete di servizi socio-sanitari e socio-assistenziali per anziani


I servizi di base socio-sanitari e socio-assistenziali rivolti agli anziani attualmente esistenti fanno
riferimento a:
- Personalizzazione e umanizzazione degli interventi
- Rete di risorse formali e informali
- Integrazione tra servizi sociali e sanitari
- Collaborazione tra pubblico e privato
- Domiciliarità
- Qualità delle strutture residenziali
Gli Enti locali hanno incentivato e promosso una serie di interventi volti a valorizzare e potenziare le
capacità residue degli anziani, nella convinzione che essi non rappresentino solo un problema (dal
punto di vista demografico e sociale) ma anche una risorsa (per se stessi, per i figli, per la propria
famiglia, per gli altri anziani, per la collettività). La salute dell’anziano è il risultato di un complesso
equilibrio fra fattori sociali, psicologici, economici che devono essere presi nel loro insieme. E’ in
quest’ottica che vanno visti alcuni interventi sostenuti da Comuni e in seguito affidati a varie
associazioni culturali, sportive, di tempo libero. Si tratta di interventi di prevenzione, ne sono un
esempio quei progetti di affidamento e cura di orti realizzati su terreni demaniali o comunali. Questi
tipi di interventi sono stati realizzati soprattutto negli anni 80, quando ancora non si era
manifestata con tutta la sua urgenza il problema della non autosufficienza e quando perciò vi erano
maggiori risorse disponibili. Oggi sono offerti a pagamento, seppur modesto, direttamente da
diverse associazioni a cui gli Enti locali erogano limitati contributi di sostegno.
La rete integrata di servizi rappresenta la risposta concreta in termini di azioni e interventi ai
bisogni degli anziani, soprattutto per coloro che hanno problemi di non autosufficienza, e ha tra i
suoi elementi caratterizzanti:
 L’ACCESSO: l’informazione che consente l’accesso ai servizi al cittadino-utente è molto curata,
infatti, vi sono uffici ad hoc con compiti informativi e di indirizzo.
 LA PERSONALIZZAZIONE DELL’INTERVENTO E L’ASSISTENZA SANITARIA ADEGUATA: l’operatore
che prende in carico complessivamente l’anziano sottopone il suo caso all’esame dell’UVG, già
cosi definita dal Progetto-obiettivo anziani. Si tratta di una èquipe multidimensionale formata da
medico geriatra, infermiere professionale o assistente sanitario, assistente speciale. L’unità di
valutazione geriatrica puo essere territoriale o ospedaliera. L’UVG si raccorda anche con il
medico di famiglia e con l’a.s. che prende in carico l’anziano (responsabile del caso).
I compiti dell’UVG sono:
- Stabilire il grado di non autosufficienza dell’anziano
- Stabilire di quali servizi l’anziano ha bisogno
- Definire sulla base di schede e valutazioni omogenee, il programma assistenziale personalizzato.
Tale programma trova poi una sua concreta attuazione nel Piano assistenziale individualizzato (PAI)
che rappresenta lo strumento di lavoro per l’assistenza all’anziano e che consente di pianificare
l’intervento
 I SERVIZI: che costituiscono le reti sono diversi. Come abbiamo visto prima essi si
distinguono in:
 SERVIZI DOMICILIARI
 Assistenza domiciliare integrata: consiste nell’insieme combinato di prestazioni di carattere
socio-assistenziale e sanitario erogate a domicilio ad anziani non autosufficienti, di norma a
sostegno dell’impegno familiare, sulla base dei programmi assistenziali personalizzati
dall’UVG. Il servizio deve garanitre, sulla base di una valutazione multidimensionale,
prestrazioni con caratteristiche di globalità, adeguatezza e continuità
 Assistenza domiciliare: intervento socio-assistenziale svolto al domicilio dell’anziano
autosufficiente o parzialmente non autosufficiente consistente in cura della persona, igiene
personale, somministrazione dei pasti ecc
 Assistenza di cura (Emilia Romagna). A favore delle famiglie disponibili a mantenere
l’anziano non autosufficiente nel proprio contesto la Regione prevede idonea contribuzione
per le attività socio-assistenziali domiciliari di rilievo sanitario, previste dal programma
sanitario personalizzato, non erogate dal servizio pubblico, ma garantite direttamente dalla
famiglia stessa o da persone anche non appartenenti al nucleo familiare. Il contributo puo
arrivare fino a 15 euro al gg
 SERVIZI SEMIRESIDENZIALI
 Centro socio-riabilitativo diurno: struttura semiresidenziali socio-sanitaria che assiste, a
sostegno delle famiglie, anziani sia parzialmente che totalmente non autosufficienti,
attuando programmi di riabilitazione e di socializzazione. Puo essere organizzato preso
case protette o residenze sanitarie assistenziali
 SERVIZI RESIDENZIALI
 Casa protetta. Struttura assistenziale residenziale a rilevanza sanitaria destinata
prevalentemente ad anziani in condizioni di non autosufficienza fisica o pscihcia (nelle
varie regioni tale servizio assume denominazioni diverse)
 Residenza sanitaria assistenziale. E’ un servizio che riguarda la fascia degli anziani non
autosufficienti, non assistibili a domicili, affetti da patologie cronico degenerative a
tendenza invalidante per cui non sono necessarie specifiche prestazioni erogate in ambito
ospedaliero
 Altre soluzioni residenziali. Fra le strutture residenziali per anziani parzialmente o non
autosufficienti vi sono anche appartamenti o case alloggio protetti, casa albergo, residenza
protetta, country hospital ecc.
Tra i diversi operatori che lavorano all’interno di questi servizi è richiesta una capacità di confronto
interdisciplinare.
5.6 Le professioni coinvolte
Il buon funzionamento e la qualità dei servizi dipendono dalla combinazione di alcuni fattori: il rispetto di
standard condivisi di qualita delle strutture,i modelli organizzativi e interorganizzativi utilizzati, la
preparazione e l’adeguatezza delle figure professionali coinvolte. Come sappiamo è richiesto l’intervento di
professionisti del comparto sia sociale che sanitari, operatori che possono essere sia dipendenti degli Enti
pubblici sia del privato sociale (in particolare di cooperative sociali di tipo A). in quest’ultimo caso gli
operatori sono portatori di una doppia appartenenza: quella alla propria cooperativa (sono soci-lavoratori)
e quella al servizio pubblico per conto del quale operano.
L’assistente sociale riveste un ruolo molto importante, curando in particolare la presa in carico, momento
fondamentale che segna l’accesso dell’anziano alla rete dei servizi e nel quale l’a.s. compie una prima
valutazione della condizione e del bisogno dell’anziano, orientandolo nell’individuazione del percorso
individuale. L’a.s. funge da raccordo fra il comparto sociale e sanitaria (ricordiamo che è presente
nell’UVG), ma funge altresì da punto di riferimento costante per l’anziano e la sua famiglia all’interno della
rete di servizi. Spesso, infatti, il percorso individualizzato richiede la necessità di comporre piu interventi
e\o modificarli , e ciò rende importante la possibilità per l’utnete di sapere in ogni momento a chi rivolgersi.
La figura professionale piu a contatto con l’anziano è l’operatore di base, diversamente denominato a
seconda delle Regioni OSA (operatore socio assistenziale) ADB (Assistente di base) OTA (Operatore tecnico
assistenziale) OSS(Operatore socio sanitario). I suoi compiti sono molti e diversi a seconda delle situazioni.
Sia nell’assistenza domiciliare che nelle strutture residenziali rivestono un ruolo molto importante i compiti
tesi a favorire un minimo di autosufficienza : aiuto per una corretta deambulazione, mobilitazione
dell’anziano all’attettato ecc. inoltre, in collaborazione con l’a.s., l’operatore di base effettua prestazioni di
segretariato sociale (riscossione su delega della pensione e il disbrigo di pratiche amministrative ecc).
infine, sempre piu gli operatori devono sapersi rapportare con le famiglie degli anziani e costituire anche
per esse un sostegno. Soprattutto nei servizi residenziali, in particolare nelle case protette, l’insieme delle
attività di animazione e socializzazione è affidata ad animatori e atelieristi, a volte educatori professionali.

Inoltre, i complessi modelli organizzativi dei servizi sia residenziali che domiciliari devono essere sostenuti
da funzioni di coordinamento svolte da operatori diversi.

CAPITOLO 6: ORIENTARSI NELLA RETE DEI SERVIZI PER BAMBINI, ADOLESCENTI E FAMIGLIE
6.1. Una progressiva attenzione all’infanzia, all’adolescenza e alla famiglia
I servizi e gli interventi sociali sono finalizzati a sostenere le persone in situazioni particolari di debolezza
potenziale o effettiva, dovuta al fatto di trovarsi in momenti della vita in cui si ha bisogno di sostegno per
sviluppare e\o mantenere e rafforzare autonomia e autosufficienza. Fra questi servizi vi sono quelli per gli
anziani ma, anche per i minori, in ragione di una loro non ancora raggiunta autonomia. I minori sono
destinatari di politiche sociali, educative, sanitarie che hanno cercato di definire i servizi e interventi atti a
garantire loro i diritti sociali (alla salute, all’educazione e a una buona qualità della vita).
Predisporre azioni e interventi per lo sviluppo psicofisico di bambini e ragazzi implica necessariamente
pensare alla ‘famiglia’ in quanto loro luogo ‘naturale’ di crescita e sviluppo e sostenerla nelle sue funzioni
‘genitoriali’, ossia nella capacità di affiancare e promuovere la crescita delle nuove generazioni interagendo
e colloquiando con la scuola, il contesto sociale, i media ecc.
Intervenire a sostegno dei minori significa:
 In primo luogo, operare nelle situazioni in cui la famiglia non è in grado (o ha difficoltà) di occuparsi delle
crescita dei figli (per difficili condizioni socio-economiche, interventi del Tribunale dei minori ecc.). I
trasferimenti economici volti sia al sostegno della famiglia nel suo complesso (contributi per l’affitto, buoni
spesa, buoni pasto, vestiario ecc) sia dei minori in particolare (mensa scolastica, libri, ticket sanitari ecc)
sono da sempre uno degli interventi piu frequentemente utilizzati. Accanto a sostegni materiali (economici
o socio-sanitari) sono offerti sostegni di tipo psicologico alla famiglia o ai minori, soprattutto nelle
situazioni multiproblematiche in cui si sommano, oltre a difficoltà di tipo economico, anche fragilità
psicologiche dei genitori, deficit di tipo sanitario, rapporti familiari conflittuali ecc.
Da sempre, infine, i servizi sociali (dei Comuni o delle Aziende sanitarie locali in presenza di una delega da
parte dei Comuni stessi) si sono occupati, in collaborazione con le autorità giudiziarie preposte, della presa
in carico di quei minori per cui si rese necessaria la predisposizione di percorsi che prevedessero l’azione o
l’allontanamento dalla famiglia di origine mediante affidamento in strutture o presso famiglie.
 In secondo luogo, le politiche sociali ed educative hanno dovuto rispondere ai bisogni quotidiani di tutte le
famiglie, tentando di sostenerle nei progressivi cambiamenti che le hanno coinvolte a partire dagli anni 60.
Sono stati pertanto predisposti interventi e azioni volti a sostenere lo sviluppo dei minori tenendo conto
anche del mutare delle condizioni e delle relazioni all’interno della famiglia.
I complessi mutamenti che hanno interessato la famiglia sono legati al mutare piu complessivo della
società. Oltre alle ricorrenti Indagini multiscopo dell’ISTAT, si sono istituiti veri e propri osservatori sulla
famiglia che, rielaborando in parte i dati fornita dall’ISTA, hanno il computo di rendere disponibili indicatori
aggiornati. E’ proprio attingendo dalle ricerche dell’Osservatorio nazionale sulle famiglie e le politiche locali
di sostegno alle responsabilità familiari’ (che fa capo al Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali )
condotte comparando le singole realtà locali presenti nel Paese che è possibile trarre alcune informazioni
circa l’evolversi dell’istituzione familiare. Sono tuttavia innumerevoli i Centri di ricerca su tale ambito: fra
questi, il Centro internazionale studi famiglia (CISF), che con cadenza annuale pubblica il Rapporto sulla
famiglia in Italia. Tali ricerche rivelano come emergenti alcuni fenomeni: tra essi, l’entrata sempre più
massiccia della donna nel mercato del lavoro, il protrarsi della permanenza dei giovani presso le famiglie di
origine, l’innalzamento dell’età di matrimonio, l’incremento dei rapporti di convivenza delle separazioni e
dei divorzi, la diffusione delle famiglie ricostituite e i mutamenti nelle scelte di fecondità delle coppie.
Si è notato come le famiglie cambiano per il numero dei membri, per il modo in cui si formano (unioni di
fatto, matrimoni civili e religiosi), per il ‘momento’ in cui si formano (età dei coniugi). E’ proprio per rendere
conto di questa complessità che al termine famiglia si associano tanti aggettivi: si parla di famiglie di fatto,
che presuppongono una definizione di famiglia anagrafica (cioè una persona o un insieme di persone che,
per vincoli di parentela o altro, hanno una sola caratteristica, quella di abitare insieme); di famiglie uni
personali e single ; di famiglie monoparentali (con un solo genitore e figli); famiglie allungate (dove i figli
rimangono fino a età avanzata); famiglie strette (dove aumenta la longevità, ma diminuiscono i figli); di
famiglie ricongiunte (quelle degli immigrati extracomunitari); di famiglie ricomposte (in seguito a
precedenti divorzi e separazioni).
Tante famiglie, quindi, con esigenze diverse. Occuparsi di famiglie implica perciò conoscere come si
evolvono le relazioni familiari e riflettere su come questo influisca rispetto al modificarsi dei bisogni
espressi. Il consolidarsi del fenomeno dell’occupazione femminile, soprattutto, e la progressiva scomparsa
della c.d. ‘famiglia allargata’ sono fenomeni che hanno originato la domanda di servizi di cura e
accadimento dei figli che consentissero alla donna di lavorare. Pertanto, si puo dire che intervenire a
sostegno di minori e famiglie ha voluto dire, in un primo momento, consentire ai genitori, e in particolar
modo alle madri, di conciliare i tempi di cura e di lavoro, salvaguardando, e al contempo qualificando, il
benessere e le esigenze dei minori. Ma i problemi sono divenuti nel tempo sempre piu complessi: la
compresenza di più generazioni ha determinato un sovraccarico di lavoro di cura della generazione dei
50\60 ‘schiacciata’ fra le richieste di sostegno provenienti dai figli e dai nipoti e quelle spesso pressanti che
provengono dalle generazioni più anziane. Inoltre, la maggiore instabilità coniugale e il conseguente
aumento di bambini coinvolti nelle separazioni ha accresciuto notevolmente il rischio di situazioni di
disagio.
Il rendersi conto di tale complessità ha indotto ad occuparsi in modo maggiormente organico della famiglia
stessa, nella convinzione che migliorare il suo benessere significhi migliorare il benessere dei cittadini e
quindi della società tutta. Essi riconoscono alla famiglia un ruolo fondamentale per il benessere delle
persone e la coesione sociale, la sostengono attraverso una molteplicità di interventi che fanno capo a
politiche socio-assistenziali, educative, del lavoro, in quanto soggetto destinatario , ma lo considerano
anche una risorsa importante per la comunità intera, in primo luogo come risorsa educativa per i minori al
suo interno, in secondo luogo come risorsa educativa in caso di affido e adozione, in terzo luogo come
risorsa comunitaria, cioè come soggetto che agisce e promuove ‘legami comunitari’ , protagonista perciò
del welfare comunitario.
La crisi della famiglia tradizionale (o la sua trasformazione) non ha significato dunque una riduzione delle
aspettative nei confronti della famiglia, ma, forse un loro ampliamento. Alla famiglia non si chiede, dunque,
di essere solo il luogo della riproduzione, ma di essere uno ‘strumento’ per il raggiungimento di finalità piu
indeterminate e onnicomprensive, quali benessere e buona qualità della vita. Le famiglie oggi in Italia
soffrono di una sorta di sovracarico funzionale ed emotivo ed è proprio a questo che ha tentato di
rispondere la politica sociale.
6.2. Il sostegno alle responsabilità familiari (art. 16 L. 328\2000)
Legge 8 novembre 2000, n. 328 "Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e
servizi sociali"

 Art.1. pone in evidenza l’attenzione del legislatore pone in evidenza l’attenzione del legislatore alla
famiglia. Il primo comma infatti recita che il ‘sistema integrato di interventi e servizi sociali è assicurato alle
persone e alle famiglie’.

 Art. 16 considera contestualmente i servizi e gli interventi finalizzati al sostegno delle responsabilità
familiari, in un’ottica promozionale e di prevenzione, piuttosto che solamente di tipo ripartivo-
assistenziale.
Art. 16.(Valorizzazione e sostegno delle responsabilità familiari)
1. Il sistema integrato di interventi e servizi sociali riconosce e sostiene il ruolo peculiare delle famiglie nella
formazione e nella cura della persona, nella promozione del benessere e nel perseguimento della coesione
sociale; sostiene e valorizza i molteplici compiti che le famiglie svolgono sia nei momenti critici e di disagio,
sia nello sviluppo della vita quotidiana; sostiene la cooperazione, il mutuo aiuto e l’associazionismo delle
famiglie; valorizza il ruolo attivo delle famiglie nella formazione di proposte e di progetti per l’offerta dei
servizi e nella valutazione dei medesimi. Al fine di migliorare la qualità e l’efficienza degli interventi, gli
operatori coinvolgono e responsabilizzano le persone e le famiglie nell’ambito dell’organizzazione dei
servizi.
2. I livelli essenziali delle prestazioni sociali erogabili nel territorio nazionale, di cui all’articolo 22, e i
progetti obiettivo, di cui all’articolo 18, comma 3, lettera b), tengono conto dell’esigenza di favorire le
relazioni, la corresponsabilità e la solidarietà fra generazioni, di sostenere le responsabilità genitoriali, di
promuovere le pari opportunità e la condivisione di responsabilità tra donne e uomini, di riconoscere
l’autonomia di ciascun componente della famiglia.

Il primo e il secondo comma riconoscono ruoli e funzioni della famiglia evidenziandone la complessità:
essa può e deve esercitare una funzione genitoriale (in termini di formazione e cura della persona, sia nella
quotidianità che nell’eccezionalità), ma anche una funzione sociale (in termini di coesione sociale,
associazionismo, mutuo aiuto, adozione, affido). In altre parole, è qui esercitato il ruolo della famiglia quale
co-attore del sistema di welfare, risorsa comunitaria. Particolarmente innovativo è l’approccio che chiede
alla famiglia di ‘partecipare’ alla vita dei servizi in quanto soggetto competente, ai fini del raggiungimento di
una loro migliore qualità.

3. Nell’ambito del sistema integrato di interventi e servizi sociali hanno priorità:

a)  l’erogazione di assegni di cura e altri interventi a sostegno della maternità e della paternità responsabile,
ulteriori rispetto agli assegni e agli interventi di cui agli articoli 65 e 66 della legge 23 dicembre 1998, n. 448,
alla legge 6 dicembre 1971, n. 1044, e alla legge 28 agosto 1997, n. 285, da realizzare in collaborazione con i
servizi sanitari e con i servizi socio - educativi della prima infanzia;

b)  politiche di conciliazione tra il tempo di lavoro e il tempo di cura, promosse anche dagli enti locali ai
sensi della legislazione vigente;

c)  servizi formativi ed informativi di sostegno alla genitorialità, anche attraverso la promozione del mutuo
aiuto tra le famiglie;

d)  prestazioni di aiuto e sostegno domiciliare, anche con benefici di carattere economico, in particolare per
le famiglie che assumono compiti di accoglienza, di cura di disabili fisici, psichici e sensoriali e di altre
persone in difficoltà, di minori in affidamento, di anziani;

e)  servizi di sollievo, per affiancare nella responsabilità del lavoro di cura la famiglia, ed in particolare i
componenti più impegnati nell’accudimento quotidiano delle persone bisognose di cure particolari ovvero
per sostituirli nelle stesse responsabilità di cura durante l’orario di lavoro;

f)  servizi per l’affido familiare, per sostenere, con qualificati interventi e percorsi formativi, i compiti
educativi delle famiglie interessate.

4. Per sostenere le responsabilità individuali e familiari e agevolare l’autonomia finanziaria di nuclei


monoparentali, di coppie giovani con figli, di gestanti in difficoltà, di famiglie che hanno a carico soggetti
non autosufficienti con problemi di grave e temporanea difficoltà economica, di famiglie di recente
immigrazione che presentino gravi difficoltà di inserimento sociale, nell’ambito delle risorse disponibili in
base ai piani di cui agli articoli 18 e 19, i comuni, in alternativa a contributi assistenziali in denaro, possono
concedere prestiti sull’onore, consistenti in finanziamenti a tasso zero secondo piani di restituzione
concordati con il destinatario del prestito. L’onere dell’interesse sui prestiti è a carico del comune;
all’interno del Fondo nazionale per le politiche sociali è riservata una quota per il concorso alla spesa
destinata a promuovere il prestito sull’onore in sede locale.

5. I comuni possono prevedere agevolazioni fiscali e tariffarie rivolte alle famiglie con specifiche
responsabilità di cura. I comuni possono, altresì, deliberare ulteriori riduzioni dell’aliquota dell’imposta
comunale sugli immobili (ICI) per la prima casa, nonché tariffe ridotte per l’accesso a più servizi educativi e
sociali.

6. Con la legge finanziaria per il 2001 sono determinate misure fiscali di agevolazione per le spese sostenute
per la tutela e la cura dei componenti del nucleo familiare non autosufficienti o disabili. Ulteriori risorse
possono essere attribuite per la realizzazione di tali finalità in presenza di modifiche normative comportanti
corrispondenti riduzioni nette permanenti del livello della spesa di carattere corrente.

I commi successivi richiamano le azioni necessarie per sostenere le responsabilità familiari. In particolare il
3 comma indica la priorità, riprendendo gli elementi essenziali del percorso svolto. Il primo ambito di
intervento è quello del sostegno alla responsabilità genitoriale in quei contesti in cui le difficoltà
economiche rischiano di pregiuidicare l’armonico sviluyppo dei minori (lettera a). Elemento di novità,
rispetto agli interventi economici precedentemente attuati, è costituito dagli assegni di cura. Si tratta di
trasferimenti economici che intendono sostenere i genitori in situazione di particolare difficoltà economica,
soprattutto le ‘madri sole’. Essi, inoltre, premiano in una sorta di contratto di lavoro di cura svolto dai
membri della famiglia. Con ciò si ribadisce la convinzione che un minore di 18anni che vive in una famiglia
deprivata è a sua volta privato della possibilità di poter godere appieno dei diritti di cittadinanza. La filosofia
che sottende questi interventi di tipo economico riconosce l’esistenza di situazioni di povertà non
conclamata, in cui le famiglie conducono un’esistenza apparentemente normale, ma che non dispongono di
mezzi adeguati e, spesso sono afflitte da carenze immateriali, da logoramento e frattura dei legami affettivi
e altre patologie esistenziali.
L’articolo pone in risalto (lettera b) il tema famiglia-lavoro, un tema complesso poiché richiede di capire
quanto i servizie gli interventi debbano porsi in un’ottica sostitutiva, cioè facendo si che i genitori possano
lavorare, oppure operare affinchè abbiano la possibilità di gestire in maniera piu flessibile i tempi di lavoro
trovando cosi maggiori spazi per potersi dedicare alla cura dei figli. Ciò richiede che politiche sociali e del
lavoro elaborino strategie congiunte.
In questa direzione va la L 53\20000 ‘Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il
diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città. La L. 53, che precede di
pochi mesi la 328, ha introdotto la possibilità anche per i padri di poter usufruire dei congedi parentali e ha
proposto modalità concrete per realizzare una maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro aziendale
per favorirla ‘conciliazione’ dei tempi di vita e lavoro.
PRINCIPI:
 Il tempo del lavoro non puo prevaricare gli altri tempi della vita
 Anche il tempo per la cura dei figli e per la cura familiare ha un valore sociale che deve essere
riconosciuto
ELEMENTI INNOVATIVI
 Il ‘tempo’ che la legge sulla tutela della maternità (L. 1204\71, Tutela delle lavoratrici madri)
sottraeva al lavoro, e al solo lavoro dipendente, era in fondo standardizzato come quello della
produzione, disegnato su madri e figli astrattamente omogenei nei bisogni e nei desideri. La L. 53\2000
rende il tempo di cura meno rigido e piu personalizzato
 Il riconoscimento ad entrambi i genitori del diritto individuale al congedo parentale per la nascita o
l’adozione di un bambino al fine di promuovere una genitorialità piena
 La parificazione dei diritti dei genitori naturali, adottivi e affidatari
 I finanziamenti a progetti di flessibilità dell’orario di lavoro e gli sgravi contribuitivi in caso di assenze
per congedo per le lavoratrici autonome. Di particolare interesse è l’art. 9 in cui si sintetizzano alcuni
passaggi:
- Per quanto riguarda la flessibilità dell’orario è stato creato un fondo per l’occupazione di circa 40
miliardi di lire annue (circa 20.658.276 euro) che vada a incentivare forme di articolazione della
prestazione lavorativa; inoltre il 50% di questi fondi dovrà essere rivolto a imprese con meno di 50
dipendenti e con accordi contrattuali già stipulati per azioni positive per la flessibilità
- I progetti che vanno considerati azioni positive per la flessibilità sono:
<< 1. Progetti articolati per consentire alla lavoratrice madre o al lavoratore padre, anche quando
uno dei due sia autonomo, ovvero quando abbiano in affidamento o in adozione un minore, di
usufruire di particolari forme di flessibilità degli orari e dell’organizzazione del lavoro, tra cui il part-
time reversibile , telelavoro e lavoro a domicilio, orario flessibile in entrata o in uscita, banca delle
ore, flessibilità sui turni,orario concentrato, con priorità per genitori che abbiano bambini fino a 8
anni o fino a 12 anni in caso di affido o adozione;
2. Programmi di formazione per il reinserimento dei lavoratori dopo il periodo di congedo
3. Progetti che consentono la sostituzione del titolare dell’impresa o del lavoratore autonomo, che
benefici del periodo di astensione obbligatoria o dei congedo parentali, con altro imprenditore o
lavoratore autonomo.

L’art 16 lettera c della L 328\2000 richiama interventi di tipo formativo e informativo a sostegno della
relazione anche fra genitori e figli. La quasi scomparsa della famiglia allargata che spesso assorbiva richieste
di aiuto, ha aggravato in parte la difficoltà dei genitori a esercitare la loro funzione educativa e di cura,
rendendo piu complesso vivere una proficua relazione con i figli. I genitori oggi sono soli, o così si sentono.
Favorire opportuinità di confronto e aiuto reciproco puo aiutare ad affrontare meglio queste situazioni.
Particolari sostegni devono essere offerti alle famiglie che hanno a carico persone con problemi di
disabilità, malattia psichiatrica ecc o che hanno minori in affido.
Il quarto comma riprende un importante intervento di natura eocnomica sperimentato con successo in
alcune Regioni italiane (Emilia Romagna per prima), il prestito sull’onore. La novità dell’intervento (che si
sostanzia in una concessione alla famiglia di un prestito, erogato da Istituti di credito convenzionati con
l’Ente locale, che paga gli interessi) consiste nel fatto che con esso si intendeva promuovere l’autnomia e la
responsabilità della famiglia attraverso la messa a punto di un piano di restituzione della somma prestata,
creando così un rapporto fiduciario con l’Ente locale (in Emilia Romagna il prestito va da 1 a 10 milioni e il
suo rimborso è previsto entro 36 mesi).
Il quinto e il sesto comma fanno riferimento ad agevolazioni fiscali per le famiglie attivate a livello sia
comunale, ad es. attraverso le detrazioni fiscali all’ICI (quinto comma), sia nazionale, attraverso le leggi
finanziarie che possono prevedere detrazioni delle imposte dirette per le famiglie (sesto comma).
L’obiettivo è quello di promuovere una politica fiscale a ‘misura di famiglia’ che tenga cioè conto della
dimensione dei carichi familiari.
6.3. Diritti e opportunità per infanzia e adolescenza (legge 285\97)
La legge 285\97 affronta il tema dei diritti e delle opportunità di bambini e adolescenti. Si tratta di 13
articoli finalizzati, in primo luogo, a istituire un Fondo nazionale per finanziare con cadenza triennale
interventi a sostegno di minori e famiglie (art.1). E’ stata la prima volta che si sono stanziati fondi
specificatamente per questi soggetti. La legge è stata considerata da molti uno strumento di cambiamento
nel sistema delle politiche sociali italiane in quanto sostiene e incentiva interventi finalizzati alla crescita dei
minori, alla loro socializzazione con un approccio di tipo preventivo, proponendo una modalità di lavoro che
prevede la stesura di progetti condivisi dai diversi attori (operanti in servizi sanitari, sociali, educativi, in
organizzazioni di terzo settore, le famiglie, i minori, la comunità locale).
L’approvazione della legge è stata accompagnata dalla diffusione di un manuale che sviluppa indicazioni
operative per la progettazione, la realizzazione e la valutazione di tali interventi.

ASPETTI SALIENTI DELLA L. 285\97, Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia
e l’adolescenza
- L’art.1 come già detto, prevede l’istituzione di un fondo nazionale per l’infanzia e l’adolescenza
- L’art. 2 attribuisce alle Regioni il potere di definire gli ambiti territoriali di intervento e il relativo
riparto economico e indica nell’accordo di programma (art. 27 L,142\90) lo strumento che gli Enti
locali devono usare per la definizione dei programmi di intervento
- L’art. 3 indica le finalità dei progetti:
a) Realizzazione di servizi di preparazione e di sostegno alla relazione genitori\figli, di contrasto alla
povertà e alla violenza, nonché di misure alternative al ricovero in istituti educativo-assistenziali,
tenendo conto altresì della condizione dei minori stranieri.
b) Innovazione e sperimentazione di servizi educativi per la prima infanzia
c) Realizzazione di servizi ricreativi ed educativi per il tempo libero, anche nei periodi di
sospensione delle attività didattiche
d) Realizzazione di azioni positive per la promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, per
l’esercizio di diritti civili fondamentali, dell’ambiente urbano e naturale, nel rispetto delle
caratteristiche culturali, di genere ed etniche
e) Azioni per il sostegno economico ovvero di servizi alle famiglie naturali e affidatarie che abbiano
al loro interno uno o più minori con handicap al fine di migliorare la qualità del gruppo-famiglia ed
evitare qualunque forma di emarginazione e di istituzionalizzazione
L’art.4 riprende e sviluppa le finalità dei progetti indicati al punto a) dell’articolo 3 e indica le modalità
attraverso cui possono essere perseguite:
- Erogazione di un minimo vitale per minori inseriti in famiglie o affidati a un solo genitore, anche se
separati
- Informazione\sostegno alle scelte di paternità e maternità
- Azioni per prevenire situazioni di crisi e di rischio psico-sociale
- Affidamenti familiari diurni e residenziali
- Accoglienza temporanea di minori anche sieropositivi o portatori di handicap
- Attivazione di residenze per donne agli arresti domiciliari
- Realizzazione di case di accoglienza per donne in difficoltà con minori
- Servizi di mediazione familiare (ossia un servizio di sostegno ai genitori separati o in via di
separazione, volto a salvaguardare il benessere dei figli). E’ un intervento che presuppone che i
genitori accettino di portare il proprio conflitto alla presenza di un mediatore, al di fuori del
procedimento giudiziario. E’ un servizio qualificato che va incontro alle esigenze dei vari
protagonisti della separazione: i figli in primo luogo, affinchè possano contare su genitori in grado di
meglio coordinare la loro funzione educativa; gli ex coniugi, perché possano rielaborare la loro
vicenda salvaguardando il ruolo genitoriale; il giudice, perché possa usufruire di un intervento
psicologico fuori dal giudizio. Tale servizio è utile a ridurre i costi psicologici ed economici che una
separazione conflittuale comporta.
- Interventi per la tutela dei diritti del bambino malato e ospedalizzato
La realizzazione delle finalità di cui al presente articolo avviene mediante progetti personalizzati
integrati con le azioni previste nei piani socio-sanitari regionali.
L’art.5 riprende e sviluppa le finalità dei progetti indicati alla lettera b dell’articolo 3 e indica le
modalità attraverso cui possono essere perseguite. Si tratta di servizi che hanno come destinatari la
cosiddetta prima infanzia (0-6 anni) e sono stati definiti come nuove tipologie. Le cosiddette ‘nuove
tipologie’ da un lato cercano di dare risposta al bisogno di socializzazione all’interno della famiglia e
tra le famiglie, dall’altro, si propongono di coinvolgere i genitori che vengono ad assumere una
nuova e significativa posizione all’interno dei servizi stessi. Questi servizi presentano modalità
organizzative varie (possono essere a pagamento, con h diversi). Talvolta si limitano ad offrire spazi
di cui gli utenti possono fruire liberamente , altre volte puntano invece maggiormente su attività
educative programmate. Queste nuove tipologie di servizi si aggiungono e non si sostituiscono a
quelli tradizionali.
NUOVE TIPOLOGIE DI SERVIZI PER SOSTENERE LA GENITORIALITA’
Le nuove tipologie sono costituite da un insieme di servizi (centri gioco, centri per bambini e
genitori, aree bambini, ludoteche, tane familiari, spazi verdi, nidi aperti, sezioni sperimentali 2-5
anni, laboratori, atelier) sorti a partire dalla seconda metà degli anni 90 in numerose realtà locali,
soprattutto nel Centro- Nord e rivolti principalmente a bambini per lo piu accompagnati dai genitori
o da altri adulti, che svolgono attività ludico-ricreative, alla presenza di operatori socio-educativi.
Essi sono:
a) servizi con caratteristiche educative, ludiche, culturali e di aggregazione sociale per bambini 0-3
anni che prevedano la presenza di genitori, familiari o adulti che quotidianamente si occupano della
loro cura, organizzati secondo criteri di flessibilità
b) servizi con caratteristiche educative e ludiche per bambini 18 mesi- 3 anni per un tempo
giornaliero non superiore a 5 ore, privi di mensa e riposo pomeridiano.
Tali servizi non sono sostitutivi degli asili nido.
L’art. 6 riprende e sviluppa le finalità dei progetti indicati alla lettera c) dell’articolo 3 e indica le
modalità attraverso cui possono essere perseguite:
- Mediante il sostegno e lo sviluppo di servizi volti a promuovere e valorizzare la partecipazione dei
minori a livello propositivo, decisionale e gestionale in esperienze aggregative , nonché occasioni di
riflessione su temi rilevanti per la convivenza civile e lo sviluppo di capacità di socializzazione e di
inserimento nella scuola, nella vita aggregativa e familiare
- Si dice inoltre che tali servizi possono essere realizzati mediante operatori educativi con specifica
competenza professionale. Si tratta di servizi dedicati a preadolescenti ed adolescenti e ne sono un
es. gli interventi educativi di strada. Si tratta di interventi finalizzati alla prevenzione del disagio o
alla riduzione del danno. L’educazione interviene dove si trova il bisogno, incontra cioè diversi
adolescenti laddove loro informalmente si trovano. Con tali interventi si intende offrire
all’adolescente sostegno alla sua transizione identitaria e alla sperimentazione della propria
autonomia.
L’art. 7 riprende e sviluppa la lettera d) e indica misure e interventi atti a promuovere i diritti dei
minori e a migliorare la qualità della vita urbana. Si tratta pertanto di interventi che promuovono e
sensibilizzano ragazzi e adolescenti sul tema della partecipazione alla vita sociale e pubblica:
a) interventi che facilitino l’uso del tempo e degli spazi urbani e naturali, rimuovano ostacoli alla
mobilità, amplino la fruizione di beni e servizi ambientali, culturali, sociali e sportivi
b) misure orientate alla promozione della conoscenza dei diritti dell’infanzia presso tutta la
cittadinanza e in particolare nei confronti degli addetti a servizi di pubblica utilità
c) misure volte a promuovere la partecipazione dei bambini e degli adolescenti alla vita della
comunità locale, anche amministrativa.

AL TERMINE DEL PRIMO TRIENNIO DI FINANZIAMENTO (erogato a partre dal 97\98) molte Regioni
hanno fatto una valutazione dei progetti riportando esperienze significative e buone pratiche ed
evidenziando quei progetti particolarmente innovativi per tipologia di intervento, capacità di
mettere in rete istituzioni pubbliche e private, capacità di coinvolgimento della comunità locale ecc.
Gli interventi realizzati in quel primo triennio possono essere riaccorpabili in 4 grandi aree:
1. Interventi di contrasto della povertà, del disagio, della violenza, dell’istituzionalizzazione
2. Interventi socio-educativi per la prima infanzia e di sostegno alla relazione genitori e figli
3. Interventi educativi e ricreativi per il tempo libero
4. Azioni positive per la promozione dei diritti
Si tratta di un elenco di servizi e interventi che possono essere finanziati con i fondi previsti
dalla legge 285\97.

SERVIZI E INTERVENTI PROMOSSI DALLA L. 285\97


1.Interventi di contrasto della povertà, del disagio, della violenza, dell’istituzionalizzazione
-minimo vitale, assistenza economica, interventi domiciliari
- interventi educativi territoriali e lavoro di strada
-affidamento familiare come strumento per la tutela
-interventi di accoglienza residenziale e pronto intervento
- interventi per la tutela dei minori disabili
-servizi per l’integrazione e il rispetto delle diverse culture
-interventi di contrasto del disagio psicologico
-interventi contro maltrattamenti, violenza, abuso
-interventi per bambini e bambine malati e ospedalizzati
-interventi per madri detenute
2. Interventi socio-educativi per l’infanzia e il sostegno alla relazione genitori-figli
-servizi educativi per l’infanzia, con le famiglie
-interventi di sostegno alla genitorialità
-mediazione familiare come intervento di sostegno alla relazione genitori-figli
-interventi di sostegno alle relazioni di cura e all’identità femminile
3. Interventi educativi e ricreativi per il tempo libero
-servizi ricreativi per il tempo libero
-centri aggregativi ed educativi per adolescenti e preadolescenti
-animazione estiva e del tempo libero
4. Azioni positive per la promozione dei diritti
- città amiche dell’infanzia
- azioni per favorire la partecipazione alla vita di comunità
-progetti per trasformare lo spazio urbano a partire dal punto di vista dei bambini

Molti degli interventi sopra indicati, in alcune Regioni, confluiscono all’interno dei Centri per le
famiglie. Tale denominazione connota in modo unitario e complessivo una pluralità di servizi socio-
educativi attenti, sia alla crescita e all’educazione dei bambini, sia al sostegno del ruolo e delle
competenze dei loro genitori.
Ogni centro per le famiglie (che solitamente ha sede nei Comuni capoluogo di Provincia o capo-
Distretto) coordina e supporta una serie di attività: dai corsi di formazione per genitori, alle
iniziative specifiche per le famiglie extracomunitarie, da azioni di sensibilizzazione per affido e
adozione, a interventi di sostegno psicologico per famiglie in difficoltà (mediazione familiare etc).
Occorre ricordare, infine, gli interventi e le sperimentazioni specifiche per famiglie immigrate
(spesso organizzati in seno ai Centri per le famiglie) tesi a promuovere integrazione sociale, ossia
volti all’accoglienza, all’orientamento delle famiglie immigrate e all’integrazione scolastica: corsi di
alfabetizzazione, informazioni e pratiche per ricongiungimenti familiari, interventi a sostegno
dell’inserimento scolastico, dell’apprendimento, progetti di rientro , percorsi interculturali, sono
alcuni degli interventi piu frequentemente attivati.
L’attività dei Centri per le famiglie dovrebbe coordinarsi con quella dei Consultori familiari che
furono istituiti come servizi socio-sanitari preventivi rivolti alla donna, alla famiglia e ai minori, per
sostenerli nelle varie fasi della loro vita (decisioni riguardanti le scelte di partecipazione, attesa e
nascita di un figlio. Menopausa, scelte circa l’affido e l’azione, crisi della coppia).
Non bisogna dimenticare che i progetti finanziati dalla L. 285\97 hanno preso vita atraverso la
collaborazione con il Privato sociale (cooperative sociali, associazioni di famiglie, volontariato etc).
Nell maggioranza dei casi è stato il soggetto pubblico ampiamente inteso (il singolo Ente locale, un
consorzio di Comuni, l’ASL) a svolgere un ruolo di coordinamento fungendo da soggetto
‘propulsore’ , ma non sono mancati casi in cui anche il soggetto privato ha saputo svolgere tale
ruolo: sono stati cioè associazioni, volontariato e cooperative soicali a proporre interventi e
iniziative a partire dalla propria esperienza sul campo. E in questi casi il Pubblico ha volentieri svolto
un ruolo di patrocinio, valorizzando e sostenendo l’esperienza.

CAPITOLO 7: ORIENTARSI NELLA RETE DEI SERVIZI PER LE PERSONE CON DISABILITA'

Nei capitoli precedenti si è illustrato l'insieme dei servizi e prestazioni rivolti ad anziani, minori e famiglie:
cioè a sostegno della vita quotidiana delle persone nelle varie fasi della loro vita.

Qui si esamineranno invece servizi e prestazioni mirate ad aiutare persone con patologie specifiche e alle
loro conseguenze in termini di disabilità.

Non sempre però i servizi e gli interventi sono chiaramente collocabili in questi due se pur ampi ambiti: ad
es un bambino può dover far fronte a una grave disabilità, così come un anziano ecc

Il confine tra le competenze dei singoli servizi quindi non è sempre facilmente definibile ed è chiaro come in
alcuni casi la risposta ad alcuni bisogni richiede di mettere in campo professionalità diverse e competenze
specialistiche.

Per tutti questi motivi è difficile delimitare il quadro completo delle problematiche e degli interventi in
materia di disabilità. Se ne propone una mappa che ha come chiave interpretativa la loro finalizzazione
all'integrazione dei disabili nella scuola, nel lavoro e nel contesto sociale. → L'obbiettivo è quello di una
continua lotta ai processi emarginanti (si pensi alle classi speciali di un tempo) tramite interventi che
favoriscono il mantenimento del disabile all'interno del suo ambiente (famiglia e lavoro), che ne
promuovano l'autonomia e la qualità della vita.

7.1 Un problema terminologico, ma non solo...

La costante tensione verso termini nuovi, ha portato nella nostra Costituzione, che pure riconosce uguali
diritti a tutti i cittadini e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli economici e sociali che impediscono
il pieno sviluppo della persona umana, a usare il termine minorati rinunciando all'utilizzo di termini offensivi
come “anormali”. Sempre più si è andato poi utilizzando il termine “persone con handicap” poiché
handicap significa svantaggio. L'handicap, secondo ladefinizione dell'OMS (1980) è quindi “una condizione
di svantaggio sociale che limita o ostacola il compito di una funzione ritenuta normale per un individuo in
relazione alla sua età, sesso e condizione socio-culturale”.

Nel 2001 l'OMS ha rivisto la classificazione delle disabilità per meglio integrare il modello medico (che
considera la disabilità come un problema personale) e il modello sociale che considera la disabilità come
derivante dall'ambiente che non consente la piena partecipazione delle persone disabili in tutte le aree
della vita sociale.

Il termine handicap è poi stato sostituito talvolta con termini come “persona disabile” o “persona con
bisogni speciali” ecc. → questa difficoltà nel definire il fenomeno è legata anche al fatto che le disabilità
sono poi di diversissima natura: ritardi mentali gravi, disturbi motori, minorazioni come la sordità o la
cecità ecc.

Nel nostro Paese, a fronte di questa molteplicità di problemi, si sono andate sommando nel tempo una
pluralità di norme, relative ai singoli gruppi di disabili o a diverse tipologie di prestazioni.

La legge 104/1992 legge quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone
handicappate  in primo luogo pone l'accento sulla prevenzione e la lotta all'emarginazione, garantendo il
pieno rispetto della persona disabile. Insiste cioè sulla possibilità di prevenire e rimuovere le situazioni
invalidanti e predispone interventi che evitino processi di esclusione dai contesti sociali e familiari. Inoltre,
la legge 328/2000 all'art 14 “Progetti individuali per le persone disabili” richiama la pluralità dei soggetti
istituzionali chiamati in causa e la molteplicità degli interventi che occorre mettere in rete. Le varie norme
provenienti dalle varie leggi, che specificatamente si occupano di garantire i diritti civili dei disabili, vanno
quindi lette contestualmente.

Un ulteriore problema relativo agli interventi da destinare e all'avere un quadro completo dell'entità del
fenomeno handicap è legato alla difficile stima del numero complessivo di disabili nel nostro paese.
Tuttavia secondo un indagine della fine degli anni '90 e confermata nel 2000 si stima che ben il 15% delle
famiglie è direttamente coinvolto nel fenomeno, anche se la maggior parte di esse ha a carico un disabile
anziano.

7.2 Il sostegno all'inserimento scolastico di alunni disabili

Prima si avevano classi distinte per alunni disabili e non; solo alla fine degli anni '70 si sancisce che la scuola
(almeno elementare e media) “attua forme di integrazione scolastica a favore degli alunni portatori di
handicap”.
Negli anni successivi si perfeziona questa proposta prevedendo modifiche curriculari specifiche per i
portatori di handicap e soprattutto la messa in organico di personale docente aggiuntivo e specializzato nel
sostegno didattico. Inoltre gli insegnamenti scolastici di alunni scolastici dovrebbero essere “sostenuti” dai
servizi sociali e sanitari del territorio: il loro compito è quello dell'effettuazione di diagnosi corrette, di un
costante monitoraggio del caso, di consulenza agli insegnanti e orientamento alle famiglie.

Un problema di cui i servizi sociali hanno faticato a farsi carico è il passaggio dei disabili dalla scuola
dell'obbligo alla scuola superiore o alla formazione professionale. Si generava infatti una sorta
di dispersione alla fine della terza media, che poteva tradursi in nuovi fenomeni di
emarginazione.  L'innalzamento dell'età dell'obbligo ha richiesto ancor più un impegno in materia. Ancor
più che per i disabili con problemi motori, per quelli che hanno problemi mentali occorrono
progetti moltopersonalizzati, che inevitabilmente richiedono interventi che devono coinvolgere soggetti
istituzionali diversi.

I processi di integrazione scolastica sono andati sempre più sollecitando la collaborazione tra scuola e
servizi del territorio. Tale legame deve essere ancora più stretto x quanto riguarda il sostegno nella
formazione professionale!!!

Il diritto alla formazione professionale dei disabili è riconosciuto dalla Costituzione e nel 78 era stata
attribuita alle Regioni la competenza in materia → con la legge 104/92 si definiscono ulteriormente
le modalità con cui consentire ai disabili di fruire della formazione professionale.

Sulla base delle indicazioni dell'art 17, le modalità formative offerte agli allievi disabili possono essere:

 inserimento in corsi di formazione professionale normali con eventuali forme di sostegno;


 inserimento in corsi specifici;
 inserimento in corsi pre-lavorativi;

(questi ultimi 2 possono essere gestiti anche da volontari, associazioni ecc.)

Ampia è la sperimentazione in materia ad es tramite tirocini, borse lavoro, contratti di formazione ecc. ossia
avviando tramite esperienze di alternanza formazione-lavoro, fortemente orientate al superamento delle
difficoltà che incontrano i disabili nell'inserimento lavorativo.

Questo processo è supportato da modelli pedagogici e didattici specifici, come ad es la “formazione in


situazione”, in cui il disabile è affiancato inizialmente e precocemente all'ambiente lavorativo da un
educatore, ma anche da un collega di lavoro che gli insegna le specifiche mansioni richieste dal processo
produttivo.

La complessità di questo sistema richiede sinergie tra le istituzioni preposte alla formazione professionale,
agli Enti locali e a quelle imprese poste a disposizione di questi progetti. Assistenti sociali, educatori,
formatori professionali, volontari dovranno quindi seguire delle linee comuni, facendo interagire pubblico,
privato e terzo settore.

7.3 Il sostegno all'inserimento lavorativo di persone disabili

L'inserimento lavorativo delle persone disabili, non sempre realizzabile, comunque rappresenta un
momento fondamentale per l'itinerario educativo-formativo attuato nell'infanzia e nell'adolescenza e degli
interventi riabilitativi.
Il lavoro è infatti (come dice la Costituz.) strumento fondamentale di costruzione del diritto di cittadinanza,
ma anche della costruzione dell'identità e fattore fondamentale di socializzazione. Esso consente inoltre di
considerare le persone disabili non solo come persone bisognose di assistenza, ma anche come risorsa da
valorizzare nel processo produttivo.

L'inserimento lavorativo oggi può essere realizzato sia tramite l'applicazione della legge sul collocamento
obbligatorio (legge 482/1968) sia all'interno di cooperative B.

All'inizio il collocamento obbligatorio venne pensato solo per i mutilati e gli invalidi di guerra; con la legge
428/1968 “Disciplina generale delle assunzioni obbligatorie presso le pubbliche amministrazioni e le
aziende private” si stabiliscono quote specifiche x l'inserimento di una molteplicità di categorie di
lavoratori. Essa rimase però in gran parte inapplicata → con la legge 68/1999 “Norme per il diritto al lavoro
dei disabili” si superano alcune rigidità della legge precedente per favorire la sua reale applicazione: ad es i
soggetti obbligati fruiscono di una notevole attenuazione della quota d'obbligo. La legge inoltre cerca di
creare le condizioni per un collocamento mirato, basato sulla valutazione delle effettive capacità del
disabile al fine che il suo contributo possa essere reale in un determinato contesto lavorativo → sono stati
istituiti a tal proposito i Servizi per l'inserimento lavorativo (SIL) presso i centri per l'impiego delle Province.

Per quanto riguarda le cooperative sociali di tipo B esse nascono per iniziativa degli interessati (nel caso dei
disabili fisici), delle loro famiglie e delle associazioni che le rappresentano. Il rischio è che si tolga al disabile
la possibilità di lavorare in compagnia di lavoratori “normali” (nelle cooperative di tipo B almeno il 30% dei
lavoratori ha dei problemi). La cooperativa sociale deve quindi essere vista come un'opportunità che però
non sostituisce il collocamento obbligatorio; anche se ciò non toglie che ci sono casi di particolare gravità
per cui possono e devono essere realizzati laboratori protetti veri e propri. Al solito serve che i vari
professionisti lavorino in rete.

7.4 I servizi per disabilità grave

Non sempre gli inserimenti di cui si è parlato sono possibili. Ecco allora che devono essere offerti servizi che
aiutino la persona nella sua vita quotidiana, sostenendo anche le famiglie.

Quando l'assistenza domiciliare non è più sufficiente, si può gradualmente ricorrere a strutture residenziali
e semiresidenziali di diversa tipologia:

 centri socio-riabilitativi diurni a valenza educativa: in cui il disabile può usufruire di programmi di
riabilitazione x il mantenimento e lo sviluppo delle sue abilità residue e insieme lo svolgimento di
una vita di relazione. All'interno di essi possono essere organizzati anche laboratori protetti, in cui
l'inserimento al lavoro fa parte del processo educativo e terapeutico;

 centri socio-riabilitativi residenziali;

 gruppi-appartamento: in cui può vivere un piccolo gruppo di utenti adulti con l'appoggio degli
operatori;

 residenze protette costituite da un complesso di alloggi di diversa tipologia: con zone per la vita
comunitaria, anche aperte a utenze esterne;

 case famiglia o comunità alloggio: che accolgono persone diverse, idonee a creare un clima di
disponibilità affettiva, assistenza, relazioni.
Si tratta comunque di strutture di piccole dimensioni che consentono un normale svolgimento della vita
quotidiana, di ricevere le giuste attenzioni e di non essere sradicati dal territorio di appartenenza (cosa che
nelle grandi strutture difficilmente avviene).

Inoltre, ai cittadini in temporanea o permanente grave limitazioni dell'autonomia personale, può essere
offerto il Servizio di auto personale (SAP), a integrazione degli altri servizi sanitari e socio-assistenziali.
Pensato in una prospettiva di personalizzazione dell'intervento, il SAP è finalizzato all'integrazione della
persona disabile nella vita sociale e offre attività di accompagnamento e di tempo libero svolte da volontari
singoli, da organizzazioni di volontariato e da giovani del servizio civile. Comprende ad es l'interpretariato
per non udenti, sostegni per i trasporti, la partecipazione ad attività culturali e sportive ecc. L'accesso
dell'utente è regolato come quello ad ogni altro servizio e può prevedere la partecipazione ai costi.

L'attenzione ai disabili gravi è stata posta anche da una modifica (fatta nel 98) della legge 104 che indica
come risposta alle famiglie con particolari difficoltà i “ricoveri di sollievo” servizi cioè x l'accoglienza degli
utenti per brevi periodi, l'assistenza domiciliare 24 h su 24, parziali rimborsi alle famiglie per spese di
assistenza ecc.

7.5 Il sostegno alle famiglie delle persone disabili: la sfida del “dopo di noi”

(al convegno dell'happining della solidarietà a tal proposito si era parlato del peso che gara sul caregiver)

Gli operatori che prendono in carico le situazioni delle persone disabili non possono non occuparsi dei
problemi della famiglia in cui questi sono inseriti. Infatti la famiglia andrebbe accompagnata sin dal difficile
momento in cui si realizza il fatto che ci sia una disabilità, per far si che sappia come farvi fronte. Va poi
aiutata alleggerendo il suo carico di cura e ad uscire dalla solitudine, promuovendo il contatto anche con le
tante associazioni di famiglie con problemi simili.

Spesso oggi sono proprio queste associazioni che svolgono sia una funzione di tutela dei diritti e di
advocacy, ma anche che hanno in carico la gestione di interi servizi per conto degli Enti pubblici.

Un problema che le famiglie più frequentemente pongono infine è quello del destino e della qualità della
vita del disabilequando i genitori invecchieranno o moriranno e non potranno più prendersi cura. Tutte le
famiglie vorrebbero evitare al figlio disabile il ricovero in strutture e a questo fine vorrebbero vincolare i
propri patrimoni alla sua assistenza chiedendo di esserne garante a un tutore singolo a un istituzione,
sottraendo tuttavia il disabile al regime dell'interdizione. Lo strumento con cui attuare queste aspirazioni è
l'istituto del trust, cioè della costituzione presso un notaio di un patrimonio per provvedere alle esigenze di
un altro soggetto nell'ambito di un programma che prevede un “amministratore di sostegno” e dei controlli
sull'esecuzione. Per questo si stanno istituendo fondazioni con lo scopo specifico di sostenere le famiglie in
tale percorso, affinchè esse abbiano anzitutto la giusta consulenza giuridico-fiscale finanziaria in proposito
attraverso specifici sportelli, ma anche la possibilità di essere orientate verso scelte articolate e che le
facciano stare serene per questo “dopo di noi”.

CAPITOLO 8: Orientarsi nella rete dei servizi a contrasto di povertà ed esclusione sociale
Il sistema di welfare, al suo nascere, era finalizzato ad allievare le condizioni di povertà in cui
versavano i cittadini. Nel tempo, e in conseguenza di uno sviluppo economico che non ha avuto
precedenti nella storia, tale sistema si è orientato alla prevenzione e alla promozione sociale,
dedicando attenzione specifica ai bisogni legati alle diverse fasi del ciclo di vita delle persone
(nascita e sviluppo, anzianità ecc), nonché a situazioni patologiche (fisiche, mentali etc). Ciò al fine
di eliminare o attenuare le cause stesse delle situazioni di disagio. Contemporaneamente, nuove
forme di disagio sono comparse e ciò ha richiesto un ‘cambiamento di rotta’: la creazione, cioè, di
tutti quegli interventi rivolti a poveri ed esclusi ‘vecchi e nuovi’ (non solo coloro che non hanno
risorse economiche, ma anche, ad esempio, i ‘senza fissa dimora’, gli immigrati extracomunitari, i
tossicodipendenti ecc) che costituiscono la vasta e difficilmente definibile area del disagio sociale
adulto.
I servizi attivati dagli Enti locali in quest’area, (appunto quella di ‘adulti in difficoltà’) sono molto
diversi: ai trasferimenti economici, che continuano ad essere erogati per persone o famiglie in
situazioni di difficoltà, si sono aggiunte altre azioni che vanno dalla risposta all’emergenza (ad
esempio, dormitori, comunità di prima accoglienza ecc) all’attivazione di percorsi di possibile
integrazione sociale che consentano l’uscita da una condizione di esclusione (accompagnamento e
inserimento lavorativo, formazione professionale ecc). L’approccio a queste problematiche ha
portato ad alcune difficoltà per gli operatori dei servizi, rispetto: alla definizione e comprensione del
problema; analisi dei bisogni, risposte da attivare.

8.1. Dalla povertà all’esclusione sociale


Il modo di concepire, misurare e contrastare la povertà cambia al variare degli orientamenti
culturali e ideologici prevalenti. Le concezioni sulla povertà (e, di conseguenza, i modi per
contrastarla) sono mutate nel tempo. In particolare con la rivoluzione industriale (in Europa fra
700 e 800) vi è stato un aumento dei poveri derivato dal diffondersi e intensificarsi del processo di
produzione capitalistico. Il fenomeno ‘povertà’ viene iniziato ad essere percepito come problema
sociale. In tale epoca, la povertà era una condizione che oggi si definirebbe ‘di massa’ alla quale
inevitabilmente era necessario dare una risposta tempestiva, spesso diversificata. Chi si occupava di
povertà, infatti, spesso distingueva tra povertà oziosa o povertà operosa, volendo cioè distinguere
coloro ai quali era giusto e doveroso fornire risorse e sostegno, da coloro che non li meritavano, in
quanto emarginati per colpa.
E’ evidente quanto tale problema dipende sia dalle condizioni oggettive strutturali, in primis di tipo
economico-produttivo, sia dai modi di leggere e interpretare il fenomeno. E cio è vero nelle fasi
della storia in cui la povertà prorompe e anche in periodi storici (come in quello attuale) in cui il
progresso ha rafforzato la percezione che i poveri siano quasi scomparsi. E’ vero si che, il progresso
e il conseguente cambiamento delle condizioni socio-economiche ha consentito in alcune aree una
maggiore diffusione di benessere; tuttavia, permangono forme ‘tradizionali’ di povertà. Una
povertà che viene letta non in chiave di deficit individuale, ma collegata alle diverse collocazioni
degli individui entro la scala sociale e quindi alle diverse possibilità di accesso alle risorse. Oggi la
povertà è sperimentata, di certo da chi è economicamente deprivato, ma, anche da chi è escluso da
risorse e opportunità di tipo culturale e relazionale, proprio quelle risorse che consentono d
raggiungere un buon livello di qualità della vita. Si parla di ‘nuove povertà’ e, si associa il termine
povertà a quelli di esclusione sociale. I poveri non sono piu e solo quelli classicamente intesi; la loro
carenza di risorse economiche non è da sola sufficiente a connotarne la condizione. Anche se è vero
che la mancanza di reddito, puo produrre una serie di effetti collaterali che hanno come
conseguenza il peggioramento del livello complessivo di qualità della vita di una persona o di una
famiglia, ciò non toglie che anche altre carenze (soprattutto di tipo relazionale) siano il potenziale
inizio di un precipitare in una spirale di povertà.
Ad esempio: in una famiglia povera la mancanza di reddito costringe a un’alimentazione
insufficiente, all’uso di un pessimo alloggio: ciò provoca un deterioramento delle condizioni di
salute, e quindi l’incapacità di svolgere un’attività regolare e renumerata, con un inasprirsi di tale
condizione verso livelli bassi. Per converso, puo accadere che il verificarsi di fatti quali perdita della
casa, del lavoro, separazioni coniugali, talvolta collegato a situazioni di depressione psicologica,
porti allo scivolamento in condizioni di povertà. Quindi, la ‘questione povertà’ richiede un
complesso insieme di interventi e azioni da porre in atto per contrastarla: si tratta infatti di un
fenomeno ‘multifattoriale’. Per evitare che un individuo già deprivato precipiti in situazioni di totale
indigenza è allora necessario agire su piu fronti: casa, lavoro, sostegno psicologico e sanitario,
scolarizzazione e professionalizzazione, rete relazionale. Tale complessità è spesso identificata
come un evitabile prodotto della società contemporanea, le cosiddette ‘patologie della modernità’.
Con tale termine ci si riferisce a condizioni di solitudine, isolamento, problematiche relazionali, non
di rado borderline, derivanti non piu solamente da una patologia specifica, ma da deficit di tipo
sociale, problematiche di cui sono sempre più spesso portatori soggetti adulti.
L’espressione ‘disagio sociale adulto’ sintetizza situazioni di povertà ed esclusione, tuttavia nella
realtà i volti che esso può assumere dipendono dal combinarsi di molte variabili: genere,
provenienza, condizioni di lavoro e abitative, composizione familiare, stato di salute. Inoltre,
occorre anche tenere conto dei contesti sociali ed economici (zone povere o ricche del Pese, grandi
città, piccoli centri, campagna) in cui si manifesta: esso infatti è particolarmente presente nelle città
di grandi e medie dimensioni nelle quali sono piu presenti spazi dove si concentrano fenomeni di
solitudine e marginalità sociale. Grandi stazioni ferroviarie e metropolitane, periferie in cui individui
eslcusi o a rischio di esclusione vivono spesso in situazioni di emarginazione, caratterizzate anche
da carenze relazionali definiti come ‘non luoghi’ cioè spazi a scarsa densità relazionale, di passaggio
e di transito. La periferia di una città è intesa come un luogo fortemente popolato, ma spesso non
accompagnato da relazioni e da opportunità socio-ricreative. La stessa idea di strada è spesso
considerata simbolo di sradicamento e solitudine.
La legge quadro 328\00 ha tentato di sistematizzare e offrire indicazioni rispetto agli interventi: con
essa, infatti, si è esplicitata la necessità di sostenere e promuovere specifici interventi (con
finanziamenti ad hoc) al fine di contrastare il disagio sociale adulto. In particolare, l’articolo 28 ha
previsto ‘Interventi urgenti per le situazioni di povertà estrema e alle persone senza fissa dimora’,
l’articolo 27 ha istituito la Commissione per la lotta all’esclusione sociale e l’articolo 23 ha esteso a
livello nazionale la sperimentazione del reddito minimo di inserimento.

8.2 Le risposte al fenomeno dell’esclusione sociale: un approccio multifattoriale

Le azioni a contrasto di esclusione sociale e povertà e dei fenomeni ad essa correlati chiamano in campo
diversi settori di intervento (servizi per le famiglie, per gli immigrati e per tossicodipendenti ecc), ma anche
interventi specifici destinati al disagio sociale adulto. Essi sono: strutture di prima accoglienza abitativa
(ripari notturni), interventi per l’accesso alla casa (agenzie per la casa, inserimenti in graduatorie IACP cioè
Istituto autonomo case popolari, contributi in conto affitto ecc), di accompagnamento al lavoro
(inserimento lavorativo in cooperative sociali di tipo B, percorsi di formazione professionale ecc)e di
riduzione del danno. Alcuni di questi interventi presuppongono un’azione formativa\informativa e di
accompagnamento che spesso si concretizza nel segretariato sociale, in sportelli di orientamento al lavoro,
volti a salvaguardare il diritto di informazione, orientamento e, di accesso ai servizi stessi, in cui, non è
necessariamente richiesto alcun requisito d’accesso (residenza, un dato livello di reddito ecc) né una
specifica adesione a percorsi di reinserimento sociale. La loro finalità è prevalentemente quella di una
riduzione del danno, vale a dire quella di minimizzare i rischi di un aggravarsi della situazione sotto il profilo
della marginalità sociale, economica, relazionale e sanitaria. Essi sono sorti in via sperimentale nell’area
della tossicodipendenza nei confronti di persone scarsamente motivate alla disassuefuazione fisica (o non
in grado di intraprendere tale percorso) e psicologica da sostanze stupefacenti per estendersi poi ad altre
(ad es. senza fissa dimora, ex detenuti ecc) anch’esse scarsamente motivate a intraprendere percorsi di
integrazione sociale. Gli interventi a bassa soglia vengono attuati in genere mediante la somministrazione di
farmaci sostitutivi, nel caso di tossicodipendenti, e, in generale, mediante un’attività di tipo assistenziale e
informativa non certo finalizzata a eliminare il disagio, quanto a contenerlo. Esiste una notevole varietà di
servizi a bassa soglia: unità di strada, dormitori, gruppi a bassa soglia all’interno dei SERT, ambulatori
medici, educativa di strada, sportelli di orientamento e sostegno. Essi sperimentano un metodo di
intervento innovativo che presuppone alcuni elementi diversamente combinati a seconda delle situazioni:
 Rapporto informale
 Èquipe multidisciplinare (arricchita di nuove figure professionali quali l’educatore di strada)
 Utilizzo delle strategie di rete (che fanno leva sulla capacità di diverse organizzazioni, pubbliche e
private, di strutturare insieme interventi sul territorio) e di empowerment per facilitare la fruizione
di altri servizi e la mobilitazione di risorse personali.
N.B.: I processi di empowerment possono riguardare il singolo, i gruppi (generalmente di self-help),
la comunità di appartenenza.
Il concetto di empowerment implica 3 fattori:
1. il controllo delle decisioni, riguardanti la propria vita
2. la consapevolezza critica, intesa come comprensione del funzionamento delle strutture di potere
e dei processi decisionali all’interno della comunità in cui si vive
3. la partecipazione, come strategia operativa per ottenere i risultati desiderati

PER I SERVIZI A BASSA SOGLIA QUINDI: è necessaria una modalità di intervento che richiede ampi
margini di flessibilità e di ‘riaggiustamento’ delle zioni rispetto agli obiettivi e un’elevata capacià di
lavorare insieme da parte di operatori con competenze, culture e abilità diverse.
L’utilizzo dei servizi a bassa soglia riscontra alcune difficoltà tra cui: la mancanza di una loro chiara
identificazione dovuta anche alla scarsità della letteratura in materia. Inoltre, in Italia prevale la
metodologia della presa in carico del caso da parte degli operatori, che richiede un’ampia
disponibilità e collaborazione dell’utente, e non sempre si è disponibili a sperimentare nuovi saperi,
abilità professionali e metodologie per una fascia considerate residuale, quale è quella del disagio
sociale adulto.
8.3 Gli interventi a contrasto dell’esclusione sociale di adulti in difficoltà
Gli interventi più comunemente attuati per favorire inclusione sociale di adulti in difficoltà si possono
raggruppare in alcune grandi aree:
1. Sostegno economico  erogazione di denaro a vario titolo. In particolare , esse possono configurarsi
come: contributi economici (generici); sostegno al reddito (in particolare, reddito minimo di
inserimento); contribuzione al pagamento di utenze; contributi al pagamento di utenze; contribuiti per
l’affitto; assegni di maternità; abbonamenti gratuiti (trasporti).
N.B: Il RMI istituito nel 98, è stato esteso su tutto il territorio nazionale dalla L.328\00. Si
tratta di un tipo di assistenza economica non passivizzante (in quanto richiede al
destinatario un’assunzione di responsabilità), volto a mobilitare le risorse residue degli
individui e delle famiglie fruitrici. Esso associa il contributo economico all’impegno,
definito, a seguire specifici piani di inserimento: corsi di formazione, di recupero scolastico
ecc. Inoltre, principali requisiti di accesso sono la residenza (da 12 mesi per cittadini italiani,
da 3 anni per extra-comunitari). E’ una buona misura di contrasto alla povertà ed
esclusione sociale.
2. Accoglienza abitativa  all’interno di quest’are vi sono 3 tipi di interventi:
1. Di prima accoglienza\prima necessità indirizzati ai bisogni di ‘riparo’ e di alloggio (dormitorio,
strutture temporanee ecc)
2. Di seconda accoglienza che propongono strutture residenziali come le comunità terapeutiche per
tossicodipendenti
3. Interventi che rientrano nell’ambito delle politiche per la casa (Agenzia per la casa ecc).
3. Fornitura di beni di prima necessità  offerta diretta di beni in natura o di servizi di immediato utilizzo
(servizi mensa, borse viveri, vestiario, distribuzione farmaci) e nell’erogazione di ‘buoni’ per l’acquisto
dei beni spesa (buoni mensa, buoni spesa ecc).
4. Politiche attive del lavoro E 5. Promozione e riduzione del danno in entrambe le aree vi sono azioni
e interventi che dovrebbero tenere conto di una progettazione a lunga scadenza, di una rete di soggetti
istituzionali diversi e collegati in un comune percorso e, di risorse piu consistenti e continuative
(umane, finanziarie ecc). Le azioni in questo senso vanno dall’erogazione di borse lavoro agli incentivi e
agli sgravi per le assunzioni per le imprese, dall’orientamento\accompagnamento\inserimento alla
sensibilizzazione del mondo imprenditoriale e, all’impresa sociale nella sua forma di cooperativa sociale
di tipo B. il fine è appunto quello di favorire l’entrata , e soprattutto la permanenza nel mondo del
lavoro.
Nella quinta area, nello specifico, rientrano quelle azioni volte a promuovere nei soggetti l’attivazione
delle proprie risorse (empowerment), attraverso servizi di informazione, di segretariato sociale, di
sostegno alla persona e alla comunità in cui essa è inserita. Si tratta dio servizi che complessivamente
sono orientati a rendere il soggetto autonomo nel percorso di uscita da una condizione di difficoltà e a
prevenire il manifestarsi di condizioni di disagio. Si tratta di prestazioni e interventi diversi che
rispondono ad altrattante esigenze tra loro diverse, ma comunque riconducibili a un progetto di uscita
da una condizione di ‘esclusione sociale’: attivazione di sportelli informativi, educativa di strada,
formazione professionale ecc.

8.4. La nuova sfida dell’esclusione al sistema integrato socio-assistenziale


Dare vita agli interventi sopracitati richiede un’elevata capacità di lavorare in rete, sfruttando il più
possibile sinergie e coinvolgendo in un progetto comune di lotta all’esclusione sociale tanti soggetti
istituzionalizzati e non. A seconda dell’obiettivo che gli interventi si pongono, siano essi di tipo
emergenziale (per es. offrire un riparo notturno in inverno) o di integrazionale sociale (per es. offrire
opportunità di lavoro, alloggio) sono molteplici infatti le organizzazioni (pubbliche e private) via via
coinvolte. E’ quindi necessario che gli operatori dei diversi servizi condividano una strategia di azione
comune pur avendo approccio diversi ( per es. un approccio di tipo assistenziale-riparativo e uno più
volto alla riduzione del danno).
Affrontare efficacemente il problema del disagio sociale adulto richiede poi di promuovere iniziative
rivolte a tutta la collettività al fine di rimuovere gli ostacoli che possono derivare da stererotipi nei
confronti dei portatori di disagio. Si tratterebbe quindi di agire sulle rappresentazioni sociali
dell’esclusione, al fine di attivare tutte quelle risorse della comunità che possono contribuire ad
arginare il fenomeno dell’esclusione. Tutto ciò puo essere reso possibile tramite diverse iniziative di
sensibilizzazione della cittadinanza, aumento delle conoscenze in tema di disagio sociale e in merito alle
politiche realizzate nei contesti territoriali, di riduzione della diffidenza che contraddistingue le relazioni
quotidiane.

CAPITOLO 9: ORIENTARSI NEI SERVIZI A “ELEVATA INTEGRAZIONE SOCIO-SANITARIA”


9.1 I servizi per la salute mentale

La riforma psichiatrica introdotta dalla legge 180/1978 “Trattamenti sanitari volontari e obbligatori”


(conosciuta come “legge Basaglia”) aveva come principi ispiratori quelli della prevenzione, lotta
all'emarginazione, partecipazione e centralità del territorio → infatti questa legge segna il superamento dei
manicomi o ospedali psichiatrici, fortemente segreganti ed emarginanti.

Di fatto chi entrava nel manicomio iniziava la “carriera” del malato mentale, una via quasi sempre senza
ritorno che si concludeva con la perdita di ogni diritto: “l'istituzione totale” lo emarginava dal resto del
mondo. Prima si ricorreva al ricovero manicomiale con l'idea di proteggere i cittadini o il malato stesso dalla
sua “Pericolosità”.

Solo negli anni '60 con la legge 431/68 “Provvidenza per l'assistenza psichiatrica” la realtà comincia a
cambiare con l'istituzione dei primi Centri di igiene mentale (CIM) sul territorio. Dell'equipe di tali centri, a
fianco dello psichiatra e dell'infermiere psichiatrico, entrarono a far parte lo psicologo e l'a.s.

La legge 180/1978 poi, decretando la chiusura del manicomio, istituisce invece i Servizi psichiatrici di
diagnosi e cura (SPDC) come unità di ricovero negli ospedali generali. In questo modo il ricovero diventa
molto meno etichettante e la malattia mentale viene considerata come tutte le altre patologie. In essi si
eseguono trattamenti sanitari sia volontari che se per necessità obbligatori (TSO). Anche questi ultimi
devono essere però eseguiti nel rispetto della dignità della persona e perciò autorizzati secondo procedure
di garanzia: siglati da provvedimento del sindaco, su proposta motivata di un medico, convalidata dal
giudice tutelare. Ciò perchè il TSO non ha più lo scopo di tutelare i cittadini dalla pericolosità del malato
mentale, ma di curare il malato mentale anche quando non in grado di riconoscere la propria malattia.

Luogo primario di cura diventarono i servizi territoriali, che offrono assistenza alle persone con bisogno di
terapie psicologiche e psichiatriche; esse possono fruire soprattutto di assistenza ambulatoriale e
domiciliare, ma vengono anche indirizzate in comunità terapeutiche, comunità di lavoro, centri di
formazione professionale, cooperative e centri di ospitalità, nati soprattutto per aiutare gli ex internati a
recuperare le residue capacità fisiche e psichiche ecc.

Tuttavia ci furono molti casi in cui gli amministratori e i tecnici non si erano impegnati a chiudere
definitivamente i manicomi e il legislatore si occupò di penalizzarli nel '96. Da allora la situazione sembra
migliorata, ma in questa prima fase alla chiusura dei manicomi perciò non seguì l'istituzione di servizi
territoriali sufficienti ed effettivamente capaci di rispondere ai problemi di persone affette da malattia
mentale. Una delle conseguenze fu il “peso” enorme che venne a crearsi sulle famiglie dei malati mentali a
seguito del loro ritorno a casa, non preparate e incapaci di affrontare da sole soprattutto i momenti di crisi
dei malati mentali. In questi casi soprattutto esse dovrebbero potersi affidare sia al pronto soccorso che a
strutture residenziali anche se temporanee e di piccole dimensioni, ma specializzate.

Nonostante fosse opinione condivisa che l'ospedale psichiatrico non era luogo adatto ad aiutare la persona
a raggiungere un'accettabile qualità della vita, ampio fu il dibattito: posizioni estreme arrivarono a negare
l'origine organica della malattia mentale, ritenendo che il contesto ambientale fosse quasi la sua origine.

I due progetti-obbiettivo, Tutela della salute mentale 1994-1996  e  Tutela della salute mentale 1998-
2000, ribadendo i principi fondamentali espressi dalla legge Basaglia, hanno affrontato alcuni dei problemi
irrisolti.

Essi contengono una serie di indicazioni per la costituzione di una rete di servizi, tale da poter accogliere
una gamma di domande che spazia dal counseling svolto in attività ambulatorie alla gestione delle crisi fino
al ricovero nel corso di episodi di crisi acute e all'accoglimento del paziente in appropriati centri residenziali
e semiresidenziali.

L'assetto organizzativo prefigurato dai Progetti-obiettivo prevede il Dipartimento di salute


mentale come complesso di strutture e servizi pubblici, tra loro integrati, in grado di accogliere l'intera
domanda psichiatrica del territorio di competenza, di norma corrispondente a quello dell'ASL; una
struttura complessiva che permette tuttavia di realizzare progetti di intervento personalizzati. In esso
operano diverse figure professionali in stretta collaborazione: lo psichiatra, lo psicologo, l'a.s., l'educatore
professionale, l'infermiere professionale. Il Dipartimento dispone di ambulatori, posti letto ospedalieri,
strutture residenziali e semiresidenziali.

Il Centro di salute mentale (che è una struttura del Dipartimento) è sede organizzativa dell'equipe degli
operatori e sede di coordinamento degli interventi di prevenzione, cura, riabilitazione, reinserimento
sociale dei pazienti nel territorio di provenienza. Ciò anche tramite l'integrazione funzionale con le attività
dei Distretti.
(Secondo la definizione il Distretto Socio Sanitario è un'articolazione territoriale dell'Azienda alla cui
missione contribuisce, assicurando alla popolazione residente la disponibilità e l'accesso ai servizi e alle
prestazioni di tipo sanitario, socio-sanitario e sociale (...) → il distretto socio sanitario infatti offre interventi
sanitari ampi come medicina generale, specialistica, consultori, dipartimento di salute mentale, NPI ecc.
mentre il dipartimento di salute mentale è specifico della salute che riguarda la psiche. Una definizione di
Dipartimento infatti è: “il dipartimento è un'organizzazione integrata di unità operative omogenee, affini o
complementari, ciascuna con obbiettivi specifici, ma che concorrono al perseguimento di comuni obbiettivi
di salute.”)

Il Centro svolge attività di accoglienza, analisi della domanda, attività diagnostica, definizione e attuazione
di programmi terapeutici e socio-riabilitativi personalizzati con le modalità proprie dell'approccio integrato,
tramite interventi ambulatori, domiciliari ed eventualmente anche residenziali. Esso garantisce la strategia
della comunità terapeutica svolgendo perciò attività di raccordo con i medici di medicina generale per
fornire consulenza psichiatrica. Fa anche consulenza specialistica a servizi “di confine” riguardanti
alcolismo, tossicodipendenze ecc.

Come già detto l'SPDC (Servizio psichiatrico di diagnosi e cura) è invece un reparto psichiatrico INTERNO
all'ospedale generale dove si svolgono attività terapeutiche intensive a regime di ricovero.

Le strutture semiresidenziali possono essere: day hospital che erogano interventi farmacoterapeutici e


psicoterapeutici riabilitativi, o centri diurni che offrono invece programmi occupazionali lavorativi e la
possibilità di stabilire rapporti interpersonali e sociali.

Entrambe queste strutture cercano di prevenire e contenere i ricoveri a tempo pieno.

Le strutture residenziali invece, considerate come soluzione estrema, sono la risposta ai bisogni di


lungodegenza per pazienti del residuo manicomiale per cui non sia stato possibile un reinserimento
domiciliare e per pazienti in cui la famiglia non riesce a gestire la cronicità. Esse si distinguono dai vecchi
manicomi per la dimensione “familiare” e per la maggiore possibilità di avere relazioni sociali. Si prevedono
anche gruppi-appartamento per utenti giunti a una certa autonomia.

L'accesso in ogni caso deve far parte di un programma individualizzato concordato tra utente, servizio e
familiari.

Come gli altri disabili i malati psichiatrici poi entrano nei programmi di inserimento lavorativo o attraverso il
collocamento obbligatorio mirato o in cooperative di tipo B.
L'obbiettivo primario dell'intero sistema dei servizi è comunque l'integrazione dell'utente nel contesto
sociale se possibile originario soprattutto. Ciò è possibile tramite progetti, interventi come assistenza
domiciliare, inserimento scolastico, lavorativo ecc. che quindi richiedono collaborazione tra soggetti
istituzionali diversi (scuola, famiglia, associazioni, operatori, medici ecc).

Occorre che anche la comunità sia sensibilizzata rispetto al problema, data la difficoltà dello stesso di
essere correttamente gestito, diventando in qualche modo “competente” e capace di accoglierlo. Una
comunità come risorsa su cui il malato e i servizi possono contare.
Importantissima anche la collaborazione con le unità operative quali quella di neuropsichiatria infantile che
possibilmente hanno avuto già in carico l'utente ormai adulto già dalla sua infanzia o adolescenza, per
seguire percorsi continuativi senza che essi perdano la loro possibile efficacia.

9.2 I servizi per la tossicodipendenza

Il fenomeno della tossicodipendenza si propone con drammaticità come problema sociale a partire dagli
anni '70 anche se già negli anni '60 si si stava diffondendo una diffusione su larga scala sull'uso di sostanze
stupefacenti soprattutto da parte dei giovani.

A denunciare per primi il fenomeno e a realizzare comunità terapeutiche per la disintossicazione furono il
mondo del volontariato e del privato sociale e fu la cultura dei servizi degli anni '70 che seppe ispirare i
successivi provvedimenti normativi in materia con una politica orientata alla prevenzione (quindi non più
solo con interventi “riparativi”/repressivi) e un approccio multidisciplinare al problema.
2 le norme più importanti: la legge 685/1975 Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope;
prevenzione, cura e riabilitazione nei relativi stati di tossicodipendenza  e la successifa legge 162/1990 di
modifica alla precedente. Negli anni '90 poi ci furono altri importanti interventi normativi sia di livello
nazionale che regionale.
In primo luogo le due leggi condannano l'abuso delle sostanze stupefacenti sancendone l'illiceità non solo
di chi le usa ma anche di chi le commercia e distinguendone le responsabilità legando la punibilità alla
quantità che scattava superata la “modica quantità” per quanto riguarda l'uso e la “dose media giornaliera”
(più restrittivo) per quanto riguarda lo spaccio.
Nel '90 è stata introdotta anche la possibilità di sanzioni amministrative (di competenza del prefetto del
luogo in cui è stato commesso il fatto) per i casi di minore gravità. Per gestire questa competenza le
Prefetture istituirono i Nuclei operativi tossicodipendenze (NOT), in cui operano assistenti sociali che
devono collaborare costantemente con i servizi socio-sanitari territoriali.
Le leggi hanno posto inoltre, come deducibile dai loro nomi, le basi per interventi preventivi, di cura e
riabilitativi.
Infatti, fin dal 1975 è stata chiamata in causa anche la scuola, considerata il luogo più efficace per attivare
iniziative di prevenzione, tramite (in una prima fase) eventi di informazione rivolti ad insegnanti e studenti
sui rischi dei consumi delle singole sostanze. In una seconda fase l'attenzione fu posta anche alle possibili
cause de dilagare del fenomeno.
Negli anni '90 nacquero i primi Centri di informazione e consulenza rivolti proprio ai giovani con l'obbiettivo
di realizzare progetti di attività informative e di consulenza concordati tra gli organi collegiali della scuola, i
servizi pubblici ed eventualmente enti privati presenti sul territorio.
Le USL sono state il soggetto che principalmente si è occupato di tossicodipendenza. Esse in una prima fase
si limitarono a promuovere coordinamenti di alcuni servizi già esistenti (servizi psichiatrici, medicina
generale ecc.) per offrire interventi multidisciplinari. Solo in una seconda fase furono istituiti i Servizi
tossicodipendenze (SERT) come servizi autonomi (disciplinati dal D.M. 444/1990): essi dovevano attuare
attività di prevenzione, ma anche garantire diagnosi e presa in carico del singolo tossicodipendente (questa
fu la novità). Infatti per ciascun utente deve essere predisposto un programma di recupero terapeutico (che
può essere affiancato inizialmente anche da uno di tipo farmacologico) e riabilitativo individualizzato, con
l'apporto della psicoterapia sia individuale sia di gruppo, che affronti, oltre alla dipendenza fisica dalle
sostanze, soprattutto quella psicologica (altra novità).
Nel SERT operano quindi medici, infermieri, psicologi, a.s. ecc. Il lavoro di equipe per questo fenomeno e
per la sua complessità data anche dalla derivanza e dall'impatto che ha dal e sul sociale è centrale per
tantissimi aspetti quali diagnosi, progettualità, verifica di risultati ecc. Ma anche la collaborazione con le
famiglie è altrettanto fondamentale. Utili sono anche i gruppi di auto-aiuto e il setting (luoghi riservati e
sicuri).
Bisogna tenere a mente che non sempre la richiesta di aiuto dei tossicodipendenti è chiara ma spesso
richiede una risposta immediata; difficile diventa la “presa in carico”.
Il SERT devono poi rgpòare l'accesso degli utenti alle comunità terapeutiche e cioè a strutture a carattere
residenziale con compiti terapeutici e rieducativi, finalizzati al superamento della dipendenza e al
reinserimento nel contesto sociale. Esse sono gestite in gran parte da soggetti privati del terzo settore.
La legge ha istituito gli albi degli Enti ausiliari a cui bisogna necessariamente iscriversi per poter
sottoscrivere convenzioni con gli enti pubblici. Tuttavia le comunità terapeutiche possono essere (per ideali
o ideologie differenti) molto diverse e seguire progetti di intervento altrettanto diversi tra loro, nonché
darsi e dare regole differenti. Oggi gli Enti ausiliari sono diventati Enti “accreditati” e ad essi è riconosciuta
la possibilità di attuare anche interventi non residenziali o di proporre una diversa residenzialità.
I dipartimenti per le dipendenze all'interno dell'ASL devono affrontare anche le dipendenze da sostanze
lecite talvolta (es alcool). Spesso il tossicodipendente continua a rivolgersi al privato però, e un riinvio al
sert spesso scoraggia la sua decisione nel richiedere aiuto. Per far fronte a questo problema “il lavoro di
strada” è senza dubbio uno delle nuove sfide per i servizi. Il lavoro degli educatori di strada è in parte
preventivo e in parte di “riduzione del danno”, ossia di tentare un avvicinamento con tossicodipendenti che
tuttavia non vogliono accettare un programma finalizzato all'uscita dalla tossicodipendenza. A tal proposito
iniziative sono la distribuzione gratuita di siringhe pulite, luoghi di accoglienza temporanea ecc.

9.3 L'integrazione difficile
Per un effettivo intervento di rete adatto ad affrontare il problema, l'integrazione istituzionale, eseguita
spesso con strumenti quali accordi di programma, non è sufficiente: è necessario che le istituzioni si
integrino e collaborino con servizi, occasioni, sedi diverse. Indispensabile, data l'importanza che spesso le
associazioni private (le più vicine ai tossicodipenti) attribuiscono ai propri schieramenti politici e ideali,
appare ad esempio allora quella di formare gli operatori ad una cultura dei servizi rispettosa del pluralismo
degli approcci disciplinari e ideali, il più possibile condivisa dagli attori.

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