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PSICOLOGIA PALLIATIVA

CAPITOLO 1: Le cure palliative in Italia e il contributo della psicologia


Il termine palliazione deriva dal latino Pallium, parola che anticamente veniva usata per indicare
sia il mantello utile per coprirsi dal freddo sia il sudario con il quale avvolgere la salma.
Tale ambivalenza segnala per un verso la presa in carico dei bisogni del malato e per l’altro il suo
trapasso. Nel 2014 l’OMS stimava che circa 20 milioni di persone nel mondo aveva bisogno di cure
palliative. In particolare, nei paesi accidentali la trasformazione dovuta all’invecchiamento della
popolazione comportò l’incremento di patologie che richiedono complessi trattamenti volti ad
alleviare la sofferenza del declino. Il fondamento su cui le CP basano il proprio impianto
terapeutico consiste nel passaggio dal to cure al to care. Tale costrutto è issato su sette cardini
fondamentali: principio di beneficialità; di non maleficialità; di autodeterminazione; di
proporzionalità; di giustizia distributiva; di sussidiarietà; di appropriatezza. L’IAHPC ha attivato un
tavolo di lavoro per riconoscere i diritti umani inalienabili le cure palliative e promuoverne
l’applicazione a livello mondiale superando le difficoltà legate a fattori culturali, geografici ed
economici. Il modello delle cure palliative è applicato a livelli e in strutture differenti con diverse
modalità: in ospedale per la consulenza o intervento precoce, in rete per le cure domiciliari, in
hospice e in residenza sanitaria assistita, secondo tre livelli: di base, specialistiche, per l’età
pediatrica e per le patologie neurodegenerative. Gestite da professionisti appositamente
preparati che operano in reparti ospedalieri e in rsa, si definiscono cure palliative di primo livello
quelle che supportano pazienti in terapia attiva che subiscono interventi importanti. Essi offrono
un controllo ottimale dei sintomi e garantiscono un’efficace comunicazione tra comunità curante,
famiglia e malato ma non sono necessariamente disposte da personale sanitario specificatamente
dedicato.
L’IASP definisce il dolore come un’esperienza individuale emozionale, spiacevole, associata a
danno tissutale, a cui convergono componenti puramente sensoriali relative al trasferimento
dello stimolo doloroso dalla periferia alle strutture centrali. Il segnale doloroso è dunque il
risultato di un complesso sistema di interazione tra diversi fattori che lo rendono soggettivo.
Uno degli aspetti più importanti di questa prima forma diintervento palliativo consiste nella
corretta gestione dell’assessment. Esistono diversi strumenti per la rilevazione di tali esperienze,
tra questi le scale soggettive più conosciute sono: la Visual Analogic Scale (VAS) che richiede al
paziente di segnare su una linea il livello di disagio sofferto; la Verbal Rating Scale (VRS) che
riporta l’intensità di dolore su cinque livelli (da nessuno a molto forte); e la Numerical Rating Scale
(NRS), la più utilizzata in letteratura, che presenta una scala da zero (nessun dolore) a dieci (dolore
estremo). La terapia del dolore è sostanzialmente farmacologica, ma richiede sempre anche un
importante supporto psicologico basato sul rafforzamento della resilienza.
Le cure palliative di secondo livello vengono invece praticate da professionisti che vantano una
specifica specializzazione in questo ambito, iquali operano negli hospice o all’interno delle Reti
di Cure Palliative (RCP). Esse sono dunque gestite da un team di lavoro multiprofessionale e
multidisciplinare, composto prevalentemente da medici, psicologi,infermieri e assistenti
sociali, appositamente preparati e in grado di operare rispettando la specificità di questo
approccio. Questo livello interessa ammalati con bisogni importanti per i quali gli interventi di
base sono inadeguati. Data la notevole complessità del quadro diagnostico e sintomatologico,
il TCP garantisce la continuità assistenziale e medico-infermieristica «h24». L’impianto
terapeutico è strutturato secondo una modalità multidisciplinare per cui l’intervento palliativo
opera avvalendosi del lavoro di squadra, il quale richiede una sostanziale condivisione delle
competenze e dei saperi tra le diverse figure professionali interessate, che devono saper
coinvolgere nel piano di cura tanto la famiglia quanto le risorse disponibili della comunità.
Il terzo livello riguarda precipuamente l’intervento palliativo in età pediatrica, erogato negli
hospice pediatrici e nelle apposite RCP, come previsto dall’OMS (WHO 1998a, 2017). Le
competenze psicologiche relative all’età evolutiva e alle dinamiche familiari risultano essere
imprescindibili. Similmente, le cure palliative rivolte a patologie neurodegenerativerichiedono
una formazione specifica in ambito neuro-scientifico. Tale livello prevede che l’intervento sia
totale fin dalla diagnosi, permettendoper un verso un efficace controllo del dolore anche
durante la cura contro lamalattia e per l’altro un efficace aiuto psicologico e spirituale sia al
pazienteche alla sua famiglia.
Le cure palliative partono dal presupposto che il morire sia un processo normale e naturale della
vita e, pur migliorando il decorso della malattia e potendo altresì essere applicate fin dal suo esordio
in concomitanza con le terapie attive, esse né accelerano né rinviano la morte. Fortemente orientate
alla valorizzazione degli aspetti psicologici e spirituali dell’ammalato, le CP gli offrono il sostegno
necessario per vivere il più attivamente possibile, e assistono i familiari anche nel lutto, quando
opportuno. Esse, infatti adottano l’approccio olistico (il paziente è considerato nella sua unitaria
specificità e anche in rapporto alla sua rete di relazioni) e questo prevede un intervento sanitario
integrato tra cure attive e gestione della sofferenza.

1.2 Il percorso normativo italiano fino alla legge 38/2010


In Italia le cure palliative sono state introdotte in modo organico e sistematico dalla citata legge
38/2010 «Disposizioni per garantire l’accesso alle CP e alla terapia del dolore», dopo un lungo
percorso legislativo che ne aveva parzialmente anticipato alcuni assunti. La legge promuove tanto
la terapia del dolore quanto il modello palliativo. La prima non preclude la terapia attiva centrata
sull’eliminazione e la limitazione della causa del sintomo dolorifico ed è volta a fornire tutti gli
interventi diagnostici e terapeutici necessari per individuare, sopprimere/controllare il dolore con
terapie farmacologiche, chirurgiche, strumentali, psicologiche e riabilitative, tra loro variamente
coordinate. Le CP vengono invece attivate a prescindere dalla cura contro una patologia e sono
rivolte a pazienti affetti da malattie progressive o in fase avanzata, a prognosi infausta, specialmente
quelle per le quali ogni terapia per la guarigione o la stabilizzazione non risulta possibile o
appropriata.
Caposaldo della legge, l’articolo 1 tutela il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative, in
continuità con quanto era già stato previsto nella pianificazione dei LEA, i quali sono stati istituiti in
coerenza con i principi e i criteri indicati dalla legge 833/1978 e sanciti dal Decreto Legislativo
502/1992, dal DPCM del 29 novembre 2001 e dal DPCM del 12 gennaio 2017 (GU Serie Generale n.
65 del 18-03-2017, Suppl. Ordinario n. 15). Rispetto alle CP, facendo seguito alla Legge 12/2001 che
dette avvio alla regolamentazione relativa all’impiego terapeutico dei farmaci analgesici oppiacei,
con un particolare riferimento alla gestione specifica dei malati terminali in ambito domiciliare,
ambulatoriale e residenziale, il DPCM 29 del novembre 2001, il DPCM del marzo 2007 e quello
dell’aprile 2008 hanno delineato gli specifici servizi per le CP da garantire all’interno dei LEA. La linea
di congiunzione tra la legge 38/2010 e lo sviluppo dei LEA si inscrive nel percorso di pieno sviluppo
della prospettiva promossa dalla ulteriore legge 24/2017 («Disposizioni in materia di sicurezza delle
cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le
professioni sanitarie»). Sebbene ogni Regione e ogni Azienda Sanitaria, territoriale e/o ospedaliera,
disponga protocolli, linee di indirizzo, buone prassi e Percorsi Clinici Integrati (PIC) sulla base degli
accordi tra piano sanitario nazionale e il rapporto Stato/Regioni che articolano in modo differenziato
l’erogazione delle prestazioni, di fatto la figura dello psicologo in ospedale e sul territorio risulta
essere il perno su cui tale approccio ruota.

1.3 Autodeterminazione: dalla Convenzione di Oviedo alla legge219/2017


La disponibilità di differenti strategie terapeutiche e la molteplicità degli universi valoriali che costellano la
società multiculturale incidono profondamente nella pianificazione e nell’erogazione delle cure. Nel
rispetto del principio di uniformità nazionale voluto dai LEA, la psicologia è in grado di rimuovere gli ostacoli
che vanificano il diritto alla cura promuovendo la presa di coscienza da parte della persona inferma delle
proprie condizioni, dei bisogni e delle risorse disponibili.
Il legislatore italiano riconosce quindi alla psicologia un ruolo centrale nella piena realizzazione
dell’articolo 32 della Costituzione che recita «La Repubblica tutela la salute come fondamentale
diritto dell’individuo e interesse della collettività, e fornisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può
essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge
non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
Le CP sono ormai inscritte atutti gli effetti tra i diritti umani inalienabili, e la legge 219/2017 sviluppa
precipuamente questo aspetto. Essa, infatti, concretizza in Italia quanto inaugurato con la
Convenzione sui diritti umani e la biomedicina di Oviedo (1997), recepita nell’ordinamento giuridico
italiano con la legge 145/2001, e ulteriormente sviluppata con la Carta europea dei diritti
fondamentali di Nizza del 2000, che ribadisce il diritto all’autodeterminazione attraverso il rispetto
della dignità e della libertà degli individui. Tale impianto normativo, volto a promuovere e rispettare
autonomia e libertà di scelta nell’ambito delle decisioni mediche, fonda il consenso informato, su
cui fa perno l’approccio centrato sul paziente. In Italia, tale principio era già stato proposto nel 1991,
con il Decreto Ministeriale relativo ai protocolli di idoneità per la donazione del sangue, e
successivamente sviluppato nel Piano Sanitario Nazionale 1998-2000 nell’ambito delle cure
palliative.
Alla base del consenso informato sta quindi la cultura dei diritti umani inalienabili e il rafforzamento
civile del costrutto di dignità, interamente assunto dal legislatore, che ha dunque elaborato la legge
219/2017, il cui contenuto riconosce in pieno il diritto del malato di assumere un ruoloattivo
nella gestione dei trattamenti sanitari a cui è o potrebbe essere sottoposto a causa dell’insorgere di
una malattia o di un accidente.

1.4 Principio benessere e qualità della vita fino alla fine


Il concetto di benessere introduce nella storia umana il diritto allo stare bene; dunque, all’evitare tutte le
soluzioni che richiedono il sacrificio di sé imposto da ideologie dominanti. Alla base di questa prospettiva
è l’eudaimonismo, secondo cui la felicità è principio e fondamento della vita morale e della piena
realizzazione dell’individuo. L’idea della promozione del benessere è infatti ancorata al concetto di
miglioramento della «qualità della vita», la quale prevede la predisposizione di condizioni ambientali
favorevoli per la crescita e il mantenimento degli individui nel modo migliore possibile. Tale costrutto è
operativo in quanto permette di definire degli indicatori politici, economici e sociali grazie ai quali è
possibile misurare quanto questo obiettivo sia stato raggiunto. Esso non si riferisce dunque solo alle
condizioni di salute psicofisica derivanti dall’assenza di patologie, quanto piuttosto all’equilibrio bio-
psicosociale e spirituale reso possibile dall’interazione virtuosa tra diversi fattori che incidono sullo stile
di vita. Tali principi sono stati assunti come fondamento tanto dalla Psicologia positiva quanto dalla
Psicologia della salute, le cui attività si sono sviluppate a partire dagli studi volti ad analizzare per un verso
la dimensione del piacere, inteso come benessere legato a sensazioni ed emozioni positive e per l’altro i
fattori che favoriscono lo sviluppo e la realizzazione delle potenzialità individuali e dell’autentica natura
umana secondo il concetto di «eudaimonia», intesa come ciò che permette all’individuo la piena
realizzazione di sé. Strettamente legate alla psicologiapalliativa, queste discipline fondano il concetto di
benessere sull’idea di felicità individuale che si realizza nell’ambito dello spazio sociale, attraverso la
promozione delle potenzialità e del benessere soggettivo, insieme all’autostima, alla creatività e alla
spiritualità, come pure alla costruzione dei rapporti personali, alla resilienza e alle abilità di coping, chela
relazione con la società permette di sviluppare.
1.5 Le reti di cure palliative tra livelli di intervento e pianificazione
Promuovendo il modello bio-psicosociale e spirituale quale fondamento dell’intervento sanitario,
che vede alla propria radice le competenze psicologiche come elementi costitutivi per la promozione
del benessere, l’OMS (WHO 2017) valorizza l’importanza delle strategie necessarie per riconoscere
e trattare il distress e la sofferenza esistenziale dei pazienti. Questa prospettiva, che considera la
condizione patologica non solo come corruzione/disfunzione organica ma anche come esperienza
vissuta da partedel soggetto (illness), si differenzia infatti da quella tradizionale biomedica (disease-
centred) che considera l’ammalato come un corpo in preda a processi degenerativi dovuti a cause
organiche bersaglio del trattamento. Secondo la prospettiva tradizionale, il medico è infatti
portatore di una autorità che gli permette di procedere o sospendere i trattamenti senzaconsultare
il paziente, il quale è tenuto ad assoggettarsi passivamente a quanto richiesto (compliance).
Entrambe le leggi 38/2010 e 219/2017 assumono quindi il medesimo approccio, enfatizzando la
necessità di impostare un rapporto terapeutico ragionato, che sancisce il definitivo superamento di
modalità relazionali di tipo tradizionalista. Il punto di congiunzione cruciale tra le due leggi, che
invera sia il dettato costituzionale sia quello dei diritti umani, riguarda infatti la pianificazione
condivisa della cura all’interno di una visione olistica dell’essere umano. Tale operazione interessa
specialmente il momento in cui è possibile prevedere che le remissioni saranno sempre più rare e
che i ricoveri aumenteranno insieme alla durata della degenza, ovvero il tempo della terminalità in
cui il malato e i suoi familiari devono essere coinvolti per discutere e decidere tra le diverse opzioni
di trattamento. Superando la prospettiva riduzionista-fisicalista all’interno della quale il malato
veniva considerato come mero organismo biologico, le CP promuovono quindi una visione che
armonizza diverse specificità professionali, che comprendono competenze psicologiche, sociali e
spirituali, oltre a quelle squisitamente biomediche. Questa innovazione richiede il coordinamento
multi-professionale degli specialisti che operano in ogni area interessata alla promozione della
qualità della vita.
Introdotto dal DPR del 14 gennaio 1994 per le RSA, il Piano Assistenziale Integrato (PAI), si muove in tale
direzione e prevede che l’identificazione dei bisogni attraverso il loro monitoraggio, la definizione degli
obiettivi terapeutico- assistenziali, l’indicazione delle metodologie per il loro perseguimento e degli
strumenti di valutazione multidimensionale siano condivise dal team multiprofessionale.
L’organizzazione a rete si sta progressivamente sviluppando in modo sistematico in tutte le regioni,
per garantire la continuità di presa in carico dei pazienti tra i tre diversi livelli di CP, grazie a una
pianificazione strategica dei servizi che si avvale di un nuovo ruolo, quello del casemanager – un membro
della rete sanitaria con competenze clinico- assistenziali e organizzativo-gestionali –, insieme a strumenti
quali i programmi di dimissione protetta e di ospedalizzazione domiciliare, nonchéla predisposizione di
team infermieristici di comunità in grado di offrire prestazioni di diversa intensità. L’Assistenza Domiciliare
Integrata (ADI) è un sistema di servizi sanitari offerti presso l’abitazione del paziente, caratterizzata da
elevatilivelli di organizzazione delle prestazioni offerte e dalla coerenza degli interventi gestiti da figure
professionali multidisciplinari, tra le quali gli specialisti di cure palliative. La continuità assistenziale è
resa possibile dalla cooperazione tra gli organi professionali interessati, i quali sono chiamati a
condividere obiettivi e responsabilità, definendo i mezzi e le risorse necessarie. Il ricovero avviene invece
presso gli hospice e sempre più spesso anche nelle RSA, che garantiscono oltre all’accoglienza alberghiera
anche il sistematico complesso di accertamenti diagnostici con le conseguenti prestazioni medico-
infermieristiche e psicologico-spirituali. Tali organismi non sono equivalenti. I primi sono esplicitamente
deputati alle cure palliative specialistiche e costituiscono un’estensione della casa del paziente,
specialmente quando le condizioni abitative sono inadeguate, l’assistenza familiare è scarsa oppure
quando il carico per i familiari risulta eccessivo (ricovero temporaneo «di sollievo»). Le seconde sono
strutture residenziali finalizzate a offrire prestazioni sanitarie, di recupero e prevenzione per soggetti non
autosufficienti all’interno delle quali viene garantito anche un intervento palliativo di base. Il TCP e in
particolare lo psicologo palliativista, che operano in hospice e nei percorsi domiciliari, cooperano anche
con professionisti operanti nell’ambito delle cure primarie,nei servizi ospedalieri e nelle RSA, al fine di
supportare i malati ovunque essi si trovino.

1.6 Le cure palliative per l’età pediatrica e le patologieneurodegenerative


Un settore che richiede uno sviluppo specifico, riconoscendo alla psicologia un ruolo di primo piano, sono
le cure palliative rivolte a pazienti in età pediatrica o affetti da patologie neurodegenerative. L’OMS
definisce lecure palliative pediatriche come l’attiva presa in carico globale del corpo, della mente e dello
spirito del bambino e dell’adolescente, comprendendo l’aiuto attivo alla famiglia. La pianificazione del
PAI, condivisa con la famiglia, si realizza attraverso l’identificazione e la collaborazione di un case manager
della rete di cure palliative o del centro di riferimento per la patologia di cui è affetto il minore, insieme al
case manager territoriale. In caso siano assenti tali figure, il ruolo viene assunto dal medico di medicina
generale o dal pediatra, al fine di garantire la programmazione, il coordinamento e la presa in carico
all’interno della rete di cure palliative del giovane paziente, secondo diverse opzioni di assistenza.
L’intervento palliativo tiene altresì conto dei bisogni di crescita dei giovani pazienti, i quali devono
affrontare anzitempo la prospettiva della morte, gestendo ansie e angosce all’interno di un contesto di
cura che sia in grado di rispondere tanto alle esigenze somatiche quanto alle fondamentali istanze
psicologiche e sociali. La palliazione in età pediatrica richiede infatti che l’ambiente sociale e relazionale
sia adeguato all’età, allo sviluppo e ai desideri del minore, ovvero che sappia offrire proposte psico-
educative che promuovono la sua crescita personale, culturale e morale, come pure la possibilità di
relazionarsi con i pari, di avere esperienze di gioco, di partecipare alle attività della famiglia e della
comunità circostante.
Il primo bisogno di questi giovani ammalati è infatti quello di essere valorizzati, protetti, ovvero amati e
accuditi in modo competente, attraversouna relazione che gli permetta di godere della presenza di figure
positive, inun ambiente accogliente e in grado di rispondere alle loro esigenze. Le reti di cure palliative
supportano l’intervento domiciliare, considerato comequello preferibile, grazie al lavoro di un’équipe
dedicata e specificamente formata, che facilita il mantenimento delle abitudini e specialmente la presenza
degli affetti. Spesso, però, accanto al peso della malattia checontrasta la pur possibile maturazione del
giovane paziente, si presentano anche difficoltà importanti da parte degli altri membri della famiglia,
tanto che i genitori possono non accettare che il figlio muoia a casa o nonsopportare la situazione a causa
di una sofferenza estrema, fatta di sentimenti contrastanti che oscillano dallo scoramento e impotenza
alla rabbia. Se tale situazione raggiunge livelli estremi, le possibili reazioni psicologiche si manifestano
lungo un continuum che va dalla dedizione esasperante fino all’abbandono e fuga, causando in
entrambi icasi esiti di esaurimento severi.
Poiché i genitori sono sempre tenuti ad avere informazioni puntuali, veritiere e dettagliate relativamente
alla situazione clinica del figlio è necessario saper rilevare bene i loro bisogni, gli stili relazionali e le
dinamiche di fondo su cui radicano il loro rapporto. L’assistenza psicologica è innanzitutto utile
nell’elaborare i vissuti negativi, come per esempio i sentimenti di colpa, di recriminazione e sconfitta, che
talvolta appaiono e che determinano la perdita di speranza rispetto al futuro, dovuta alla percezione di
fallimento del progetto genitoriale.
Inseriamo nel terzo livello di competenza delle cure palliative quelle rivolte a pazienti con patologie
neurodegenerative che interessano tutto l’arco della vita, ma specialmente l’età evolutiva e la senilità.
Questo tipo di trattamenti, infatti, richiedono la capacità di amministrare elevati gradi di complessità e lo
psicologo palliativista garantisce una fondamentale competenza in ambito neuro-scientifico che gli
permette di condividere il piano terapeutico con neurologi, fisioterapisti, psichiatri… coinvolti per
mantenere sotto controllo dolore, ansia ecc.
1.7 Specificità della psicologia palliativa
Strada (2018) definisce la psicologia palliativa come una specialità della psicologia volta ad alleviare il
disagio e il dolore, psicologico ed esistenziale, nei pazienti con malattia grave e avanzata, e nei loro
familiari. Essa si fonda su un approccio olistico che mira a promuovereil loro benessere psicologico durante
le diverse fasi della malattia, compresala fase terminale e l’elaborazione del lutto. La psicologia palliativa
è un sapere specifico che ha ormai guadagnato una quantità significativa di evidenze empiriche che
confermano l’affidabilità dei suoi costrutti anche nel campo del fine-vita e dell’accompagnamento. Tra
questi emergono alcuni nodi che giustificano il fondamento psicologico dell’impianto normativo italiano
e internazionale alla base del modello delle cure palliative, come per esempio l’autodeterminazione, la
sofferenza esistenziale, il valore morale e la dignità, la capacità relazionale e di comunicazione,
l’esperienza di perdita e il lutto. Lo psicologo palliativista viene coinvolto nelle CP a livello sia di base sia
specialistico. Egli è infatti in grado di soddisfare i bisogni psicologici del malato che deve affrontare una
malattia grave e avanzata ed è applicabile nella maggior parte delle situazioni con diverse popolazioni di
pazienti. Lo psicologo palliativista specialista è infatti in grado di offrire il proprioexpertise in tutti i domini
delle cure palliative e conosce le caratteristiche psicologiche di ogni specifica patologia. È in grado di
lavorare in tutte le fasi della patologia fino alla morte, in tutti i setting coinvolti nei diversi stadi, in ogni
contesto culturale, collaborando all’interno del TCP, e fornendo allo stesso il proprio contributo per
ottimizzare e implementare il lavoro di équipe.
In conclusione, possiamo dire che l’obiettivo della psicologia palliativa è innanzitutto quello di affrontare
le specifiche esigenze psicologiche ed esistenziali dell’ammalato, della famiglia, e dello stesso TCP,
considerando in modo precipuo la gamma di sentimenti e preoccupazioni da loro vissuti, mettendo altresì
a disposizione strumenti idonei per la diagnosi e il trattamento di quadri clinici complessi che il fine-
vita naturalmente comporta.
CAPITOLO 2: Compito evolutivo nel fine-vita e relazioneautentica con il morente

1. Compiti evolutivi fino alla fine


La Dichiarazione universale dei Diritti umani del 1948 segna un punto di non ritorno nella storia
dell’umanità nella sua ambizione di costruire una società più giusta. Tra gli effetti salienti di questo
cambiamento rivoluzionario emerge la conquista della consapevolezza di essere individui, dotati di un
corpo che compone una parte inalienabile dell’identità di ognuno. Prima di questa svolta, il potere sulla
vita era gestito dall’autorità costituita e l’individuo era alla mercé di volontà sovraordinate sulle quali
gli era interdetto qualsiasi controllo.
Il principio di fondo che ha ispirato i suoi 38 articoli riguarda il rispetto della dignità umana e il contrasto
all’uso ideologico o improprio della medicina. Per la psicologia palliativa non si tratta di fattori
insignificanti, perché entrambi comportano per un verso il passaggio della relazione medico-paziente dal
modello paternalistico-autoritario a quello dell’alleanza terapeutica e, per l’altro, la trasformazione del
ruolo del paziente da passivo a partecipe. L’implicazione più rilevante concerne l’autentica assunzione
della volontà della persona, che è tenuta a scegliere ciò che è meglio per lei.
La psicologia dinamica e la psicologia evolutiva, seppur in modi differenti, hanno fin dalle proprie origini
adottato una prospettiva ontogenetica, secondo la quale gli individui mutano incessantemente dalla
nascita alla morte rispettando fasi fortemente influenzate tanto dall’interazione con l’ambiente quanto
da componenti psicologiche e somatiche peculiari. Secondo la prospettiva bio- psicosociale di Erik Erikson,
ogni passaggio è un’opportunità di crescita, resa possibile dalla risoluzione delle crisi che di volta in volta
si presentano per le perdite di certezza che lo stato di dipendenza dagli altri e dalle abitudini comporta.
La prospettiva eriksoniana descrive questa idea riprendendo il concetto di compito evolutivo secondo il
quale in determinati periodi della crescita soggettiva si presentano prove specifiche, il cui superamento
consente di raggiungere una tappa maturativa superiore.
Nessuno può dunque maturare nella solitudine e, nella misura in cui la società predispone apparati
simbolici e culturali finalizzati a dare senso all’azione e alle interazioni umane, nella condivisione di
obiettivi e di idee, la persona può tessere la propria storia e renderla riconoscibile. Purtroppo, molto
spesso le persone si trovano a dover attraversare l’ultimo tratto della vita sentendosi abbandonate dal
mondo, a causa tanto del loro passato quanto della situazione presente. E tutto ciò può mettere a
repentaglio l’esito del tratto finale di questo percorso, perché le difficoltà del corpo e della mente che
gradualmente perdono le loro capacità performative assumono una salienza inevitabile, portando con sé
scoramento e costernazione. La mancanza da parte della società di un linguaggio partecipato, capace di
predisporre artefatti idonei a sostenere coloro che si avviano verso il congedo dal mondo permettendo
loro di riflettere sul senso del cammino percorso, toglie di fatto a queste persone gli strumenti simbolici
necessari per raggiungere l’ultima meta della propria biografia con pieno senso di autorealizzazione e
completezza. Se già per l’anziano può esseredifficile ricostituire una propria competenza rispetto ai temi
della trascendenza sottovalutata nel corso della vita, quando la morte si annuncia in età più giovane, la
censura sistematica da parte della società di simboliche che entrano nel merito della finitudine può
rendere ancora più complicato rintracciare la fonte essenziale da cui scaturisce la possibilità di significare
il dolore e l’esperienza del morire. Le cure palliative sono state pensate anche per gestire questo
problema, in quanto esse offrono l’opportunità di mantenere il più possibile fermi i presupposti bio-
psicosociali. Ciò che manca nella rappresentazione sociale condivisa del momento finale dell’esistenza
sono proprio i contenuti che delineano i profili della saggezza, perché la cultura contemporanea è sempre
meno capace di pensare a questo traguardo esistenziale in quanto intrinsecamente legato allariflessione
sulla morte. Al termine della vita si dà un compito evolutivo estremamente importante, il più alto al quale
un individuo possa aspirare, ovvero, proprio quello della saggezza, della beatitudine, e della santità, o più
semplicementedi ciò che Jung indica come l’«incontro con il proprio Sé».
2. La rimozione della morte e della trascendenza
La cultura occidentale è sostanzialmente costruita da individui in età adulta, essendo essi la parte
dominante della popolazione. Purtroppo, però i doveri legati a istanze sociali di produttività e
riproduzione che caratterizzano questa età subiscono in misura crescente processi di stressante
monitoraggio per l’ottimizzazione e l’implementazione dell’apparato sociale. Gli sforzi per focalizzarsi
sulle richieste professionali diventino dominanti e marginalizzino quelli richiesti per la maturazione
individuale, la cura degli affetti e la ricerca della trascendenza. Tra gli ulteriori esiti che tale tendenza
comporta deve essere annoverato il rafforzamento dei meccanismi di censura di tutto ciò checausa
sentimenti tristi e difficili da elaborare, come lo è la riflessione sulla finitudine, sul dolore e sul senso della
vita in rapporto alla morte.
Un passo inevitabile da compiere per prendere coscienza di tali dinamiche che mantengono le persone
in una condizione di inconsapevole infantilismo rispetto a questioni esistenziali cruciali consiste nel
riconoscere l’istanza naturale, ovvero innata, che sottostà alla costruzione sociale di una cultura
organizzata intorno alla rimozione di tutto ciò che ricorda la mortalità. Secondo i ricercatori della Terror
Management Theory (TMT), questo bisogno psicologico latente è pre-culturale, come sembra essere
confermato da centinaia di evidenze empiriche che essi hanno prodotto per dimostrare come funzionino
siffatti meccanismi di rimozione. La TMT prende le mosse dal pensiero di Sigmund Freud e di Otto Rank.
Dal primo assume il concetto di sistema preconscio, per indicare l’esistenza di una dimensione psichica
che muove all’azione sfuggendo al diretto controllo della pianificazione cosciente, dal secondo quello di
trauma della nascita, inteso come il terrificante impatto del neonato con la percezione di essere a rischio
di morire. Poiché il terrore della morte e la consapevolezza di dover morire causano un’angoscia
opprimente a tal punto da essereparalizzante, l’istinto di sopravvivenza attiva strategie di difesa molto
sofisticate per garantire la tranquillità necessaria ad affrontare le fatiche e le difficoltà che l’ambiente
impone. La prima forma di difesa consiste perciò nel rimuovere dalla coscienza la consapevolezza di essere
mortali insieme a qualsiasi fenomeno che ce lo ricordi. La difesa più complessa è quella sviluppata
attraverso un sofisticato apparato psicosociale, grazie al quale viene condivisa la costruzione di significati
che attestano l’immortalità e delineano valori ai quali gli individui corrispondono per conferire senso al
proprio comportamento.
Ulteriori ricerche realizzate nel campo della tanatologia culturale mettono in luce un paradosso
importante. Risulta infatti evidente che viviamo in una società sempre più caratterizzata per un verso dalla
rimozione sistematica del pensiero esistenziale e del contatto reale con il morente, per l’altro verso dalla
celebrazione di una morte fantastica, truce, sanguinaria, spettacolarizzata attraverso torture e patimenti
di personaggi inesistenti o alquanto remoti come se la descrizione della loro fine potesse essere un banale
stratagemma narrativo.
Il problema consiste nella legittimazione della rappresentazione del dolore come inutile, quando invece
in sé può essere portatore di processi di significazione cruciali, cometutta l’umanità testimonia fin dalle
proprie origini. La ricerca di senso e le risposte relative alle cose ultime nascono proprio dalla sofferenza.
Se dolore e morte sono parte integrante dell’esperienza esistenziale e lungo la storia ilpatimento è stato
interrogato e interpretato per indicare la più piena realizzazione umana (stoicismo, martirio, eroismo,
redenzione…), oggi, al contrario, viviamo in una società in cui non siamo più in grado di risponder
poiché però la morte è inevitabile, la sistematica forclusione della riflessione sulla finitudine dagli scenari
del pensiero cosciente produce esiti inconsapevoli non sempre adattivi. Tra questi, appunto, l’incapacità
sociale di dare senso all’ultimo compito evolutivo e di riconoscerne il significato elettivo. Purtroppo, e in
questo consiste il nodo sul quale bisogna tornare a riflettere, tanto il dolore quanto la sua eliminazione
richiedono una elaborazione che permetta di stabilire in che termini esso sia da considerarsi inutile e
quando invece esso sia necessariamente dotato di un significato che richiede di essere culturalmente
ridefinito e alle domande fondamentali che riguardano appunto il senso del limite e il come affrontarlo.
Rispetto a siffatta questione, vogliamo sottolineare che è proprio amministrando con competenza la
dimensione della spiritualità, peraltro molto valorizzata dal modello palliativo, che si rende possibile la
gestione di tale operazione.

3. Psicologia della religione e spiritualità


La psicologia offre fin dalle proprie origini un’attenzione particolare alla religione. È stato però solo a
partire dal 1946 che l’American Association for Psychology (APA) ha dedicato una sezione apposita a
questa area di studi che si differenziano sostanzialmente dalla «psicologia religiosa», ovvero
dall’applicazione di aspetti psicologici all’ambito della religione. La psicologia della religione si è poi
ulteriormente sviluppata grazie a ricercatori che hanno segnato la storia della stessa psicologia, tra cui,
contemporanei a James, Sigmund Freud, Carl Gustav Jung, Gordon Allport, e dopo di loro lo stesso Erik
Erikson, Erich Fromm e James Hillman. Se in passato questi autori affrontavano l’argomento marginalmente
rispetto ad altri nuclei del loro pensiero, di recente la psicologia della religione sta assumendo uno statuto
disciplinare vero e proprio che richiede uno studio specialistico interamente centrato sui suoi ambiti di
interesse. evare eventuali differenze rispetto a coloro che dichiarano di non credere. La psicologia della
religione adotta infatti metodologie e costrutti convalidati in ambito scientifico e considera la religione
come fenomeno culturale che influenza la vita delle persone, nonché il loro sviluppo psichico. In tal senso
analizza come in determinati contesti gli individui accedano all’esperienza religiosa e come questa produca
degli specifici effetti nei loro atteggiamenti e comportamenti.
La letteratura che riporta gli esiti di ricerche svolte in Europa e negliStati Uniti mostra che la religiosità
è un fattore che migliora il benessere individuale, indipendentemente da altre variabili, come per esempio
il genere, l’età, la cultura di provenienza e lo status sociale, tanto a livello psicologico, quanto somatico e
sociale. l modello palliativo, rispettando le indicazioni dell’OMS ha fortemente valorizzato questa risorsa e
in particolare la dimensione spirituale, la quale viene considerata come una parte psicologica specifica,
tanto che, come già rimarcato da Allen Bergin e i suoicollaboratori (1980), qualsiasi intervento di supporto
psicoterapeutico non può prescindere da essa, per il buon esito dell’intervento.
Per quanto il costrutto di spiritualità indichi diverse dimensioni e spesso la letteratura psicologica lo utilizzi
facendo riferimento a culture e domini di significato differenti,l’accezione più comune con la quale viene
utilizzato si riferisce a quella che James indicava come «religiosità personale», in contrapposizione al
linguaggio normativo delle pratiche religiose tradizionali consolidate nel tempo.
The peak experience descritta da Abraham Maslow ha ripreso questa idea, facendo riferimento
all’esperienza totalizzante accessibile in alcuni momenti di estrema felicità. È uno stato mentale raggiunto
da coloro che accedono all’auto-trascendenza, ovvero alla piena percezione di auto-realizzazione,
derivante dall’entrare in contatto profondo con i valori ultimi e le qualità supreme della vita, di cui
l’abitatore dell’Occidente, distratto dai propri compiti produttivi, dai doveri o dagli svaghi, è spesso ignaro.
Questo vissuto è caratterizzato dal momentaneo venir meno delle coordinate spazio-temporali dovuto
alla profonda immersione nell’hic et nunc. Più di recente, su questa linea si muove la tecnica della
mindfulness, che intende offrire una pratica di meditazione, assunta dalle discipline orientali, per
raggiungere tale stato. Gli ambiti psicologici riconosciuti dalla letteratura come spazi peculiari della
spiritualità riguardano la consapevolezza interiore, la possibilità di pensare a sé stessi in rapporto al
mondo e alla trascendenza universale, ovvero la capacità di maturare una lettura partecipata
dell’esistenza connotata da valori orientati alla ricerca del senso dell’essere. Il principio di base consiste
dunque nel fatto che l’esperienza mistica di contatto/appartenenza con/a una dimensione trascendentale
è una condizione psicologica che appartiene a tutti. Si tratta altresì di una risorsa essenziale per gestire
con resilienza il terrore della morte e l’angoscia che dolore e sofferenza causano. È perciò un errore
confondere spiritualità e religiosità, ovvero stabilire che chi non aderisce a una specifica religione sia privo
di spiritualità. Uno dei rischi maggiori in cui le religioni tradizionali incorrono è quello di diffondere l’idea
che chi non adotta la loro prospettiva non abbia speranza e
sia dunque destinato a soffrire tragicamente perché non ha la possibilità di accedere alla concezione di
un’esistenza oltre la morte entro cui il dolore e la perdita trovano redenzione. Le cure palliative sono
proprio per questo chiamate a valorizzare in modo aconfessionale la dimensione della spiritualità, non
tanto per convertire chi non professa alcun credo tradizionale, quanto piuttosto per offrire a tutti e a
ognuno la possibilità di accedere al proprio spazio interiore all’interno del quale è custodita la resilienza
necessaria che permette di affrontare l’ultimo compito evolutivo.

4. La pianificazione delle cure durante l’ultimo compito evolutivo

L’irriducibile istanza di rimuovere la morte e la riflessione esistenziale che essa richiede, in Occidente
promossa da una cultura adulta egemone, costantemente rivolta ai processi di costruzione e sviluppo della
società, se da un lato è necessaria per garantire la massima concentrazione sul lavoro e sui complessi
apparati produttivi, dall’altro invece risulta disfunzionale per la comunicazione all’interno delle relazioni
intime e familiari, specialmente dopo la notizia peggiore. La disgregazione delle relazioni intergenerazionali
all’interno della famiglia nucleare, dovuta anche al fatto che gli stessi giovani adulti sono chiamati per la
loro carriera lavorativa a una alta mobilità, che li allontana da anziani genitori e nonni, produce come effetto
la perdita del contatto, loro e dei loro bambini, con il decadimento fisico, ormai sistematicamente affidato
a strutture sanitarie e badanti. Le leggi 38/2010 e 219/2017 impongono che il piano di cura all’interno del
modello palliativo sia partecipato e che la condivisione abbia inizio a partire dalla comunicazione della
diagnosi e della prognosi infausta. La relazione di cura basata sul consenso informato, libero da frodi quindi
sull’onestà rispetta infatti la volontà del paziente o dell’anziano, la quale deve poter essere espressa
sempre liberamente, rappresentando così per il medico un riferimento costante al quale ispirare
l’intervento. La carenza di competenza comunicativa, se per un verso può in apparenza facilitare
l’interazione tra paziente, familiare, medici e infermieri, per l’altro produce esiti dannosi tanto alla
comunità curante quanto a chi deve morire. Nel primo caso possono infatti presentarsi conseguenze
negative, anche di tipo legale, derivanti dalla disattesa di aspettative irrazionali non gestite in modo
appropriato al momento opportuno. Nel secondo caso, il più importante, la persona destinata a morire
non viene efficacemente supportata nello svolgimento del suo compito finale, quello della completa
autorealizzazione. Non permettergli questo significa in qualche misura de-umanizzarla.
Di fatto, allo stato attuale, gli operatori sanitari sono preparati per parlare solo un linguaggio tecnico e
devono dare la notizia peggiore proprio quando i pazienti e i loro familiari si trovano in una
condizione di forte fragilità emotiva. Lo psicologo può dunque aiutare a gestire la graduale presa di
coscienza e le reazioni emotive tanto del paziente e dei familiari quanto del personale medico e
infermieristico, elaborando percorsi dedicati all’acquisizione di competenze comunicative e relazionali
idonee. Dire la verità nel comunicare la notizia infausta richiede infatti una capacità relazionale particolare
perché l’impatto è sempre negativo e può essere più o meno grave, a seconda di fattori cruciali, come per
esempio le abilità relazionali del medico e la preparazione della persona che riceve la notizia. Una delle
difficoltà spesso riscontrate nelle strutture sanitarie riguarda il tempo che questa operazione richiede.
La condivisione del piano che prevede la sospensione delle cure attive e lo sviluppo delle cure palliative
deve avvenire all’interno di una autentica alleanza terapeutica.
La letteratura al riguardo vanta una tradizione importante, a partire da Sigmund Freud, il quale aveva
messo in luce come la psicoterapia possa ottenere successo solo quando il terapeuta conquisti la
collaborazione del paziente. Questo tipo di relazione si costituisce fondamentalmente sulla base di tre
elementi: basare la relazione sull’esplicita condivisione di obiettivi, sulla chiara definizione del metodo,
ovvero dei compiti e delle responsabilità e sulla fiducia reciproca. L’alleanza tra TCP e paziente è
importante perché i fattori che costituiscono la condizione terminale sono molteplici mentre il loro
andamento è sostanzialmente imprevedibile, e questo comporta una intrinseca inaffidabilità diagnostica
che deve poter essere gestita prevenendo frizioni e incomprensioni. Rispetto al criterio temporale, siffatto
periodo è infatti variabile e oscilla dalle poche ore ad alcuni mesi, fino a un limite di circa un anno. Rispetto
invece alla sua fenomenologia sintomatica esso si differenzia in base a diverse categorie nosografiche. I
profili più conosciuti sono tre, i quali descrivono le traiettorie proprie delle maggiori patologie croniche
progressive. Il primo andamento riguarda le malattie oncologiche ed è caratterizzato da un declino
generale e costante, che avviene nel giro di settimane. Il secondo percorso tipico delle patologie
cardiovascolari e respiratorie, si dipana attraverso un decadimento graduale, punteggiato da episodi
acuti, che causano improvvisi peggioramenti, seguiti da riprese oppure dalla morte che può avvenire in
maniera apparentemente inaspettata, anche dopo sei mesi dall’ultima crisi. Il terzo tragitto appare nelle
patologie neurologiche e della senilità avanzata ed è caratterizzato da una decadenza graduale e
prolungata, all’interno di un quadro cognitivo o prestazionale deteriorato, in cui la morte sopraggiunge in
seguito a unevento traumatico o acuto. La finalità esplicita della pianificazione delle cure è quella di
prevenire e gestire lo stato di «dolore totale» in cui si trova il paziente terminale. Indicata per la prima
volta da Cicely Saunders (2011), colei che ha inaugurato le cure palliative e lo spazio ospedaliero in cui
erogarle, la totalità a cui si riferisce tale concetto riguarda la condizione di crisi che investe l’interezza della
persona: somatica, psicologica, sociale e spirituale.
Rispetto al dolore totale, gli aspetti psicologici guadagnano un ruolo di primo piano, in quanto devono
essere tenuti sempre presenti tre dimensioni fondamentali del vissuto di malattia: disease (esperienza
fisico-biologica di deperimento che annuncia la morte); illness (emozioni intense legate alla percezione
dell’imminenza della morte); sickness (cambiamento del ruolo sociale del morente e suo isolamento). Una
corretta pianificazione del pianoterapeutico richiede che questi tre livelli vengano quindi costantemente
monitorati attraverso la Scala di Performance di Karnofsky (1949) e l’indice della qualità della vita
dell’Eastern Cooperative Oncology Group (ECOG) (Verger et al. 1992). Molto importante nei processi
decisionali legati alla pianificazione delle cure, rispetto alla possibilità di attivare cure domiciliari, è il
monitoraggio dei livelli di distress ospedaliero. Risponde bene a questa istanza uno strumento validato
anche in italiano, ovvero l’Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS: Zigmond e Snaith 1983) che
misura il livello di ansia e depressione del paziente ospedalizzato.

5. Dalla competenza relazionale al «truth telling»


L’ultimo compito evolutivo deve svilupparsi all’interno della condivisione del piano terapeutico, e questo
richiede che la relazione tra TCP e paziente sia autentica e la comunicazione basata sul truth telling. Lo
psicologo può quindi predisporre per i colleghi percorsi di death education, finalizzati all’acquisizione di
competenze specifiche, che li aiutino altresì a elaborare i propri transfert come pure timori e resistenze.
L’acquisizione e il mantenimento di abilità psicologiche particolari, funzionali al sostegno del paziente e alla
gestione delle conseguenze del rapporto reiterato con chi muore, sono ritenuti infatti essenziali dai core
curricula di tutte le discipline coinvolte nel TCP.
Lo psicologo può dunque impostare momenti di riflessione e aggiornamento, con gruppi di lavoro in cui
proporre attività di role playing e psicodramma, come pure utilizzare tecniche narrative.
QUI HO TAGLIATO MODELLO SPIKES, SE SERVE AGGIUNGI.

6. Dalla «compliance» all’«engagement»


L’intero percorso legislativo di promozione delle cure palliative enfatizza la necessità di migliorare il
rapporto tra malato, familiari e operatori sanitari, in termini di qualità della comunicazione, di livelli di
comprensione e di trasmissione di empatia, garantendo agli utenti il necessario supporto psicologico,
declinato in base alle particolari condizioni sociali o ai diversi ambiti culturali di appartenenza. La
competenza può essere incrementata grazie a specifici percorsi di elaborazione delle difficoltà incontrate
nel rapporto con colleghi, pazienti e familiari. Anche gli utenti del servizio sanitario sono dunque chiamati
a collaborare e ad essi è sempre più richiesto un ruolo attivo nella gestione consapevole del proprio stato
di salute. Fino a ora, infatti, il paternalismo medico ha sostanzialmente adottato il modello della
compliance, attribuendo al paziente il solo compito di seguire pedissequamente delle prescrizioni sanitarie
e un paziente è considerato acquiescente se completa la terapia per almeno l’80%, invece è definito
resistente se la sua compliance è inferioreal 20%. Poiché questo esito controproducente risulta essere
unospreco per il sistema sanitario, sono state studiate le strategie psicologiche atte a rendere il paziente
acquiescente, tenendo presente che la sua negazione della malattia o, all’opposto, la sua volontà di
eliminarla precocemente possono influenzare la sua compliance, senza che egli sia in grado di pianificare
gli effetti delle proprie azioni. Il costrutto di compliance è stato quindi superato da quello di engagement,
basato su motivazione, conoscenza, abilità e fiducia dei pazienti rispetto al prendere decisioni efficaci e
condivise con la comunità curante per gestire la malattia. Esso impegna il rapporto tra ammalato e SSN a
due livelli: quello della ricerca partecipata e quello dell’alleanza terapeutica.
SALTATO MODELLO PHE, SE SERVE RECUPERA.
Questo percorso viene utilizzato anche nelle cure palliative e risulta particolarmente significativo rispetto
alla gestione del fine-vita e nella sedazione palliativa terminale. Un’ulteriore caratteristica di questa
dinamica è quella di favorire una maggiore autonomia e proattività del malato e del familiare nella
relazione con il sistema sanitario, grazie alla sua competenza e consapevolezza. La famiglia e la rete
informale della persona ammalata sono dunque elementi nodali del processo di promozione del
coinvolgimento. Purtroppo, questo campo di studi è ancora poco sviluppato a causa della mancanza delle
competenze psicologiche necessarie da parte del personale sanitario rispetto al coinvolgimento attivo dei
pazienti, ma anche a causa della tardiva applicazione del modello palliativo nella storia clinica del malato.
L’applicazione del modello palliativo precoce permetterebbe di intervenire applicando il modello PHE fin
dalla comunicazione della diagnosi, attivando altresì in misura incrementale l’intervento palliativo e
parallelamente il supporto psicologico e spirituale. Per la realizzazione di tutto questo, sarebbe utile
istituire all’interno degli ospedali sportelli di consulenza per informare gli utenti tanto sui dispositivi
predisposti per la terapia del dolore quanto sul funzionamento degli ulteriori livelli di cure palliative.

7. «Death education» tra competenza di comunità e attivazione di retisociali


La cultura della deresponsabilizzazione individuale promossa da un latente e pur sempre dominante
paternalismo, che mantiene gli ammalati passivirispetto alla propria condizione, rende oltremodo difficile
la realizzazione diuna relazione di cura autentica. L’ignoranza diffusa su questi argomenti ha un effetto
deleterio innanzitutto sulle famiglie. Per esempio, nel caso delle malattie neurodegenerative, è ancora
esiguo il numero di pazienti che ricorre alle cure palliative e secondo alcune ricerche sono meno del 50%
coloro che neipaesi occidentali intraprendono questo percorso. L’articolo 4 della legge 38/2010 prevede la
progettazione di campagne informative per la popolazione. L’obiettivo sostanziale di questa indicazione
risiede nell’attivazione del communityengagement, il quale consiste nella capacità di mantenere attivo il
processo autopoietico di costruzione di dispositivi per l’informazione, atti a garantire la crescita del
benessere di tutti gli individui e delle loro famiglie. Poiché i sistemi sociali sopravvivono solo se sono in
grado di analizzare gli effetti del proprio funzionamento, correggendo le conseguenze dei propri errori, la
capacità della comunità di riflettere sugli scopi che lamuovono, ed eventualmente di modificarli, facilita
l’evoluzione dei processidi differenziazione strutturale, attivando lo sviluppo della facoltà conoscitiva e
della armonizzazione delle relazioni intersistemiche che legano la famiglia alle reti sociali di supporto. Il
concetto di community engagement è particolarmente importante, perché esprime le modalità di
partecipazione ad attività di comunità, che rafforzano le reti di supporto e le modalità di condivisione
del bene comune, attraverso un impegno condiviso e non costrittivo. Sitratta di una prospettiva
essenzialmente sistemica, che vede la famigliacome parte del mesosistema all’interno del quale possono
essere attivati circuiti relazionali virtuosi.
Più di recente, il problema è stato discusso da Gian Domenico Borasio il quale nell’opera Saper morire
descrive con grande puntualità il funzionamento delle cure palliative dove egli lavora (in Germania),
indicando come possiamo accedere a questo servizio con serenità e dignità, accompagnati e consapevoli
di dover morire senza angoscia. La sua prospettiva è quella del medico palliativista, consapevole di come
sia necessario intervenire a livello culturale per restituire dignità al morire, dato che i dispositivi medici e
tecnico-farmacologici sono già disponibili. L’incompetenza civile intorno aigrandi dilemmi che riguardano
le forme del morire investe infatti i grandi temi che vanno dalle direttive anticipate alla desistenza
terapeutica, fino allaspecificazione delle differenze tra questi e l’eutanasia o il suicidio assistito. All’interno
di questo spazio di riflessione oggi si inscrive la death education, ampiamente sviluppata negli Stati Uniti e
ancora quasi sconosciuta in Italia e in Europa. Tali percorsi, se realizzati in modo sistematico, come avvenne
per quelli di educazione alla salute attivatiper la prevenzione della diffusione dell’AIDS, possono aiutare la
popolazionea familiarizzare con le cure palliative e con la gestione delle DAT, permettendo così agli individui
di rispondere in modo maturo a quanto promosso dalle leggi 38/2010 e 219/2017.
CAPITOLO 3: La dignità nel dolore totale

1. Isolamento e solitudine dopo la notizia peggiore


La diffusa tendenza a rimuovere dalla vita reale gli argomenti che riguardano la morte facilita i
processi di medicalizzazione del linguaggio che la esprimono, creando l’illusione che sia possibile
dominarla. Quando la comunicazione della prognosi infausta annuncia l’inutilità delle terapie attive
contro la malattia, la vita può quindi apparire priva di qualsiasi senso e il suicidio acquisire
improvvisamente un valore saliente. Da quando il confine tra la vita e la morte non è più naturale
mainteramente affidato alla tecnica medica, i problemi su come gestirlo sembrano essere quasi
insormontabili. Tutto ciò rende arduo qualsiasi cammino che intenda gestire le questioni relative a
ciòche realmente il paziente può decidere rispetto al come morire. Nei paesi in cui l’eutanasia è
legale, il fenomeno viene costantemente monitorato per verificarne la portata e lo scivolamento in
un eventuale slippery slope (crescita esponenziale incontrollata).
I criteri per l’applicazione del diritto a morire con dignità sonoinfatti definiti con precisione, sebbene
in modi diversi, e si basano sul rispetto per la vita umana, sul principio di autodeterminazione e sul
valore della trasparenza, quindi viene imposta l’osservanza di alcuni parametri ineludibili: la certezza
che la richiesta del paziente sia spontanea, consistente e criticamente ponderata, causata da
sofferenze insopportabili, prive di prospettive di miglioramento e senza alternative. La definizione
chiara da parte della legge dei canoni da rispettare permette di definire precisi protocolli per il
monitoraggio sull’operato da parte degli organismi territoriali e internazionali. Poiché molta
disinformazione rischia di impedire ai cittadini dicomprendere bene quali siano le opportunità di
autodeterminazione che l’impianto normativo italiano rende possibili attualmente, vogliamo qui
rapidamente ricordare le differenze sostanziali che corrispondono alla terminologia che ruota
intorno a questo fenomeno.
L’eutanasia è definita:
- «attiva e diretta» quando il decesso è provocato tramite la somministrazione di farmaci letali;
- «attiva indiretta» quando l’impiego di mezzi per alleviare la sofferenza abbrevia la vita;
- «volontaria» quando segue la richiesta esplicita lasciata con direttive anticipate;
- «non-volontaria» quando non è ilsoggetto a decidere ma un altro che ha il potere di farlo.
L’eutanasia è legale in Olanda, in Belgio, in Lussemburgo per i malati terminali adulti, ed è stata estesa nei
primi due paesi a tutto il ciclo di vita e ad alcune malattie psichiatriche e/o neurodegenerative che
prevedono un lento e progressivo decadimento delle facoltà della persona. Il suicidio assistito e la
desistenza terapeutica sono stati depenalizzati in Austria, Finlandia, Germania, Spagna, Svezia e Svizzera,
ove il medico può operaregarantendo l’assistenza e il supporto necessario. Una definizione ormai superata
usa il termine di «eutanasia passiva» per indicare la morte provocata dall’interruzione o dall’omissione di
un trattamento medico necessario alla sopravvivenza dell’individuo. In Italia questa pratica è
regolamentata dalla legge 219/2017, la quale, dunque, non ammette alcuna forma di eutanasia.
Il principio invocato da coloro che promuovono l’eutanasia e il suicidio assistito è quello della dignità, che
fa riferimento alla salvaguardia della rappresentazione di sé, la quale può essere percepita dall’ammalato
come minacciata sia dalla malattia sia dagli effetti iatrogeni delle cure che lo mantengono in vita in modo
innaturale.
Tra i fattori che muovono il desiderio di morire infatti emergono la solitudine, il senso dii abbandono, la
stanchezza esistenziale, il dolore e la perdita di dignità. Poiché è importante sapere che per promuovere
un’autentica prevenzione della richiesta di eutanasia o suicidio assistito è necessario lavorare esattamente
su questa dimensione psicosociale, caratterizzata da una complessità intrinseca che è bene non
sottovalutare – tenendo in vita persone disperate che potrebbero morire naturalmente, pur con estrema
sofferenza –, vogliamo qui indicare alcuni tratti essenziali relativi all’argomento.
Dal punto di vista psicologico si dà una distinzione tra l’esperienza della solitudine e la condizione reale di
isolamento, in quanto è possibile che alcune persone socialmente isolate possano sentirsi a proprio agio
nel mantenere pochi contatti con gli altri, mentre altre, con una vita sociale intensa ma inautentica si
sentano insoddisfatti per la superficialità del contatto con i propri simili. È altresì utile sapere che la fase
terminale della malattia comporta per il malato il ritiro dall’ambiente e dalle relazioni sociali, la
rassegnazione e l’aumento delleore di sonno, la perdita del senso del tempo con evocazione di ricordi.
Quindi, il supporto psicosociale deve essere gestito con estrema cautela, infatti, oltre al dolore che rafforza
la tendenza all’isolamento, interviene anche la perdita di autostima come ulteriore fattore. Un obiettivo
fondamentale della psicologia palliativa è perciò innanzitutto quello di prevenire un tale livello di
scoramento, permettendo di mantenere una possibilità di dialogo con gli altri che garantisca al morente il
riconoscimento della propria identità e dell’appartenenza a una rete significativa di relazioni.
Quanto più la persona si trova da sola dinanzi alla notizia peggiore, tanto più l’angoscia dominerà il suo
orizzonte psicologico. Una accurata rilevazione delle reti di relazione permette altresì di riconoscere le
figure che potranno assumere il ruolo del caregiver all’interno della famiglia e del cerchio delle amicizie,
per coinvolgerle fin dalle prime battute nel processo di programmazione condivisa del piano terapeutico.

2. Puntare sulla dignità


Isolamento e solitudine sono spesso l’effetto di una difesa eretta contro alcuni fattori che intaccano la
percezione personale di dignità, legati alla riduzione della libertà e all’aumento della dipendenza dagli altri.
Inaugurato dagli studi di Albert Bandura e ulteriormente sviluppato dalla social cognition, il costrutto di
agency è statoampiamente studiato dalla psicologia sociale, che ne ha indagato le cognizioni di fondo
basate su aspettative, attribuzioni causali, valutazioni delle capacità proprie o altrui e sull’autoefficacia
percepita.
Grazie agli studi di Martin Seligman sull’impotenza appresa è stato infatti possibile indagare le cause che
portano le persone a essere pessimiste e a permanere in condizioni disopraffazione da cui non sono in
grado di emanciparsi nonostante la presenza di opportunità di cambiamento. L’impotenza appresa consiste
dunque nel collasso dell’agency. La depressione, cui si collega il desiderio suicidario, è spesso esito di
siffatto scenario, ma può essere gestita dal mondo esterno che interviene o riattivando la motivazione al
cambiamento nell’oppresso o modificando la situazione che lo circonda. Si stima che circa il 20% degli
ammalati di cancro in fase avanzatane soffrano. Al contrario di quanto pensa il senso comune, è possibile
curare la depressione anche nella fase terminale della vita, innanzitutto diagnosticandola, per poi
intervenire con un’adeguata psicoterapia che può prevedere anche un intervento di tipo
psicofarmacologico.
Nella misura in cui si vuole aiutare il malato a non cadere in depressione e desiderare la morte anzitempo
è necessario promuoverne l’agency, non inibirgliela togliendogli il potere di autodeterminazione. La
tristezza è però comunque più o meno presente in chi deve morire, senza che questo sia necessariamente
sintomatico della patologia depressiva. Lo psicologo palliativista può monitorare i fattori che caratterizzano
questa forma di sofferenza anche grazie all’uso di alcuni strumenti ormai ampiamente convalidati e
l’assessment può essere adattato sulla base dei bisogni rilevati durante i colloqui.

3. «Engagement», «transformative learning», «post-traumatic growth»


Alcuni studi effettuati nell’ambito del movimento hospice hanno delineato il profilo ideale di una «buona
morte» come pure di una «morte appropriata». Essa è caratterizzata dall’essere libera tanto da
dolore/sofferenza inutile quanto da eccessivo distress della famiglia, avviene in accordo tra familiari e
morente, rispetta gli standard clinici, valoriali e culturali del paziente in rapporto alle leggi del paese di
riferimento.
Su questa linea, la Carta dei diritti dei morenti, interamente assunta dalla legge 219/2017, elenca i diritti
fondamentali di chi muore, ovvero quelli di: essere
considerato come persona sino alla morte; essere informato sulle proprie condizioni; non essere ingannato;
partecipare alle decisioni che lo riguardano e al rispetto della sua volontà; essere liberato dal dolore e dalla
sofferenza; avere cure e assistenza continue nell’ambiente desiderato; non subire trattamenti che
prolunghino ilmorire; poter esprimere emozioni; ricevere aiuto psicologico e conforto spirituale, secondo
le proprie convinzioni; stare vicino ai propri cari e non sentirsi abbandonato; poter morire bene. Tutto
questo richiede dunque una risposta attenta ai suoi bisogni psicologici da parte della comunità curante,
quindi:
- al bisogno di sicurezza (sensazione legata alla possibilità di non percepire costantemente la minaccia
della morte e di potersi fidare degli altri)
- di appartenenza (sentire di fare parte di una rete di relazioni con reciproco riconoscimento di valore
e importanza)
- di amore e accettazione (autentiche manifestazioni di affetto e contatto da parte delle persone più
care)
- di auto-stima (mantenimento di una rappresentazione positiva di sé grazie anche al riconoscimento
degli altri).
L’engagement del paziente e dei familiari è strettamente legato alla percezione di dignità che viene loro
riconosciuta, al loro empowerment, e cioè alla promozione della loro capacità di fronteggiare le difficoltà
della vita e di superarle. Più le persone sanno gestire con competenza la loro condizione in rapporto
all’apparato sociale, più esse sapranno avvantaggiarsi delle risorse messe a disposizione dal sistema. Tale
maturazione avviene infatti all’interno dell’interazione con la società nel perseguimento di obiettivi
comuni. A questo si collega l’attitudine di individui e gruppi ad acquisire conoscenze e abilità mediante
l’osservazione del comportamento degli altri. Come dimostrano infatti le ricerche nell’ambito della
psicologia positiva,ogni esperienza negativa può trasformarsi in occasione di maturazione. Lo studio dei
processi di crescita in seguito al fronteggiamento di esperienze negative costituisce un tema di grande
interesse, partendo dal presupposto che tali momenti possono accendere un potenziale sviluppo positivo.
Post-traumatic Growth è il termine coniato da Richard Tedeschi e Lawrence Calhoun per indicare la
capacità di resistere alle circostanze avverse e di trasformare le stesse in opportunitàper una crescita
speciale che interessa principalmente tre aree: cambiamento nella percezione di sé, nelle relazioni
interpersonali e nella filosofia di vita. Il problema si presenta però con chi ha interiorizzato una
rappresentazione di sé come incapace o inadeguato, perché non è in gradodi tesaurizzare le risorse
messe a disposizione dalla società. Il patient/family engagement deve perciò poter essere mobilitato da
possibilità ulteriori offerte dalla comunità all’ammalato e alla sua famiglia.
Un concetto parallelo è quello di community engagement, il quale indica una collettività in grado di creare
collegamenti al proprio interno, affrontando in modo competente temi focalizzati su specifici interessi
condivisi. Il community engagement consiste nella dinamica che sa riconoscere le esigenze psicosociali di
coloro che sono in condizione di svantaggio e basa il proprio potenziale di trasformazione sociale sulle
relazioni e sul dialogo, in funzione di valori che diano senso all’incontro, orientando gli astanti verso la
soluzione dei problemi. Le strategie per innescare tali processi virtuosi sono diverse, e la psicologia di
comunità ha messo a disposizione un notevole apparato concettuale che permette di gestire lo sviluppo di
questa dimensione. Il supporto dell’associazionismo, l’avviamento di gruppi di mutuo auto-aiuto, di gruppi
di crescita personale, di solidarietà di buon vicinato risultano essere cruciali. Non possiamo non
menzionare al riguardo l’importanza delle iniziativedi questa natura rispetto alla legge 219/2017, la quale
pretende certamente maturità da parte degli individui, ovvero richiede la capacità di svolgerefino
all’ultimo i compiti evolutivi, senza che venga sminuita l’agency a causa dello stato di infermità. È
necessario che ogni cittadino sia in rete tanto con la realtà locale circostante quanto con i dispositivi centrali
e territoriali del SSN. Per quanto siamo agli albori, nell’epoca dell’informatizzazione è certamente realistico
pensare che prima o poi,ovunque accada di dover scegliere come intervenire su un ammalato anche in
caso di emergenza, sia possibile rispettare le sue volontà accedendo a tale documento. La creazione di
siffatto circuito intersistemico virtuoso richiedequindi inevitabilmente una idonea formazione dei cittadini,
con percorsi di death education mirati che permettano loro di comprendere come agire per creare le
necessarie sinergie tra i diversi livelli del sistema.
I progetti di death education in Italia cominciano ad avere una certa rilevanza culturale e si stanno infatti
moltiplicando le esperienze che ne dimostrano l’efficacia nonostantetali iniziative vengano spesso frenate
per paura di suscitare pensieri negativi.

4. Il ruolo dei valori


L’autodeterminazione non ha solo una valenza psicologica. Infatti, la sua valorizzazione si è evoluta lungo
la storia dell’umanità, in funzione delle libertà e delle responsabilità individuali coltivate all’interno dei
diversimodelli culturali. Se in passato l’obbedienza cieca era considerata una virtù,dopo gli esperimenti
psicosociali di Stanley Milgram e di Philip Zimbardo, realizzati per comprendere che cosa avesse reso
possibile che in nome della conformazione alle volontà di un personaggio così poco intelligente come Hitler
fossero stati trucidati e torturati milioni di civili europei, oggi questo non può più considerarsi ammissibile.
Avendo come mission la ricerca di ciòche permette alle persone di valorizzare la vita stando bene con sé e
con gli altri, la psicologia si inscrive in quel patrimonio che segna il percorso storico dell’emancipazione
dell’individuo dall’oppressione. Questo è vero in particolare per la psicologia positiva, che fa
dell’eudaimonia la parola chiave del proprio campo di studio e di intervento.
Il principio unificatore di tutti i tratti che partecipano alla valorizzazione dell’autodeterminazione consiste
nel riferimento a ciò che viene considerato bene e male e alle dinamiche di costruzione di senso che
permettono di fare delle valutazioni su ciò che è preferibile e ciò che non lo è. In ambito sanitario,
appartiene a tale spazio laconsulenza etica, riconosciuta come un settore specifico della bioetica (Clinical
Ethics Consultation: CEC). Poiché nelle condizioni di crisi le persone possono sentirsi smarrite dinanzi alle
discrepanze tra ciò che è desiderabile e ciò che è possibile, è necessario permettere loro di acquisire una
competenza rispetto a sé stesse e a ciò che il mondo offre come opportunità per la loro autorealizzazione,
anche e specialmente quando tutto sembra portare alla disperazione. La CEC può essere erogata da
un’équipe o da uno specialista che abbia una formazione specifica, con competenze in ambito tanto clinico
quanto filosofico/etico ein grado di dimostrare di saper rispettare il pluralismo che caratterizza la società
multiculturale, pur sempre nel rispetto della legge dello Stato. Conoscere benei processi psicologici di
decision making e offrire un intervento che dipani i termini del conflitto per permettere a pazienti e familiari
di comprendere quali scelte è possibile fare nel rispetto dei loro valori è importante per il buon andamento
dell’exitus e la successiva elaborazione del lutto,specialmente nei casi in cui siano coinvolti medici che
praticano obiezione di coscienza. Come indicato dalle più recenti prospettive costruzioniste, i processi di
mediazione avvengono attraverso uno scambio simbolico in grado di far emergere le differenze ideologiche
implicate e di riconoscere i valori che conferiscono senso alla decisione.
Qui ho saltato due pagine INUTILI per me, Teoria della Struttura Universale dei Valori, successo e potere …
Se dice di farli li aggiungo.

5. Perdita dell’identità come mortificazione


La fase terminale delle malattie più severe è caratterizzata da difficoltà molto impegnative, che l’intervento
palliativo deve saper gestire. La discussione intorno ai divieti esercitati sulla volontà di morire è da un lato
determinata dalla volontà sociale di conferire valore assoluto alla vita, nonostante il rischio di causare
sofferenze estreme, e dall’altro dalla volontàsociale di negare il suicidio. La discussione più interessante su
questaquestione riguarda proprio il senso di dignità, il quale viene invocato sia da coloro che negano il
diritto alle DAT o al suicidio assistito/eutanasia sia da coloro che invece promuovono la libertà
dell’individuo. I primi dichiarano che deve essere riconosciuto il valore supremo della vita espresso con le
cure migliori che salvaguardano la dignità tanto da evitare che insorga il desiderio di morire. I secondi
invece affermano che le cure palliative e riabilitative non sono onnipotenti e possono fallire; quindi, la
volontà di imporre la sopportazione di una condizione che viene ritenuta intollerabile da parte del malato
significa non rispettare la sua dignità usandogli violenza in nome di un principio che egli può non
condividere. I primi affermano chebisogna fare tutto il possibile per evitare che l’ammalato arrivi a perdere
l’amore per la vita, i secondi dicono che, per quanto si possa alleviare la sofferenza, può accadere che un
paziente si trovi comunque in uno stato per lui insopportabile.
Harvey Max Chochinov ha voluto esaminare più dettagliatamente le caratteristiche di questo aspetto
indagando il fenomeno della richiesta di eutanasia in rapporto alla depressione, alle conseguenze delle
trasformazioni somatiche, al dolore, alla mancanza di supporto sociale e familiare. I suoi studi hanno
dimostrato la pregnanza di tali costituenti nella percezione di perdita della dignità e nel desiderio di morte.
È dunque necessario saper riconoscere la presenza dei fattori che mettono in crisi l’identità del malato per
intervenire con un supporto psicologico idoneo, differenziato per ogni singola storia umana. A grandi linee
è stato rilevato che si danno tre stili che caratterizzano la percezione di dignità:
- dynamic equilibrium: ad un iniziale declino del senso di dignità dovuto al decadimento causato dalla
malattia o dall’età fa seguito un processo di adattamento alla situazione, attraverso la ridefinizione
degli obiettivi e la valorizzazione degli aspetti della vita quotidiana che possono ancora essere gestiti
- downward trend: caratterizzato dall’incapacità di ripristinare un livello soddisfacente di dignità, da
un forte rimpianto per le abilità perse e dal desiderio di accelerare la morte
- stability: ove il senso di dignità rimane intatto in quanto l’identità personaleè ancorata a valori non
necessariamente legati a prestazioni o caratteristichefisiche.
Gli studi di Chochinov e dei suoi collaboratori si sono concentrati proprio sulle cause che lungo queste tre
traiettorie inducono gli ammalati a scegliere la morte anziché la vita.
Lo psichiatra canadese ha indagato quali fossero i fattori che minacciano il senso di identità e di dignità
personale. Dall’analisi dei testi è derivato il Dignity-conserving care, ossia il modello della dignità del
malato terminale, il quale è composto da tre aree di prevalenza tematica:
- Illness Related Concerns (Preoccupazioni sullamalattia); riguarda le ansie relative alle conseguenze
della malattia
- Dignity Conserving Repertoire (Catalogo della conservazione della dignità), descrive gli indicatori
psicologici della conservazione della dignità
- Social Dignity Inventory (Inventario della dignità sociale). elenca i seguenti fattori ambientali e
relazionali (Social Support, Care Tenor, Burden Concerns, Aftermath Concerns)
Il modello di Chochinov mette dunque in evidenza i rapporti tra cause relative alla condizione del malato
e quelle legate alle relazioni intime e sociali, mostrando come l’ideazione suicidaria si sviluppi in coloro che
si percepiscono senza speranza, non accettano il cambiamento fisico, ritengono di essere un peso per gli
altri, di non essere trattati con rispetto e di dipendere da loro.

6. Approccio narrativo per l’accompagnamento psicologico verso la morte


Il malato spesso non accetta la perdita di potere su sé stesso e sul proprio mondo specialmente quando
ha maturato un senso di dignità intrinseco, ovvero basato sulle capacità personali, l’autostima e
l’autonomia. a perdita di alcuni tratti costitutivi del Sé viene infatti interpretata come perdita dell’identità
personale. La teoria della discrepanza del Sé mostra come il contrasto tra Sé reale, ossia la percezione che
una persona ha di sé stessa, Sé ideale, ovvero ciò che vorrebbe essere, e Sé normativo, ciò che essa
percepisce come «dover essere», causa inevitabilmente degli effetti negativi sul suo benessere psicologico.
La difformità tra le tre dimensioni è fonte di stati di ansia o di tristezza e depressione. Il ruolo del sostegno
e delle conferme sociali nella prevenzione di tale esito è molto importante. La società può infatti
supportare o rendere possibile la costruzione e il mantenimento di un’identità positiva anche nelle
condizioni più severe di malattia. Una presa in carico empatica non tratta l’ammalato come un bambino
o un incapace, perché questo risulta inevitabilmente umiliante. La capacità di comunicare dunqueè sempre
alla base di una relazione di cura supportiva rispetto al vissuto di perdita del morente.
Chochinov ha coniato un acronimo efficace per orientare i componenti del TCP nei confronti del malato e
lo ha chiamato l’abecedario/ABCD: «A» sta per Attitude e riguarda l’atteggiamento appropriato, non
influenzato da pregiudizi, opinioni, deduzioni soggettive; «B» sta per Behaviour e segnala il comportamento
buono che trasmette attenzione, rispetto, gentilezza, umanità; «C» è relativo alla Compassion, intesa come
consapevolezza profonda della sofferenza dell’altro; «D» indica il Dialogue che deve esserecaratterizzato
da autenticità.
Se per un verso dunque la costruzione dell’identità è un processo che attraversa varie fasi della vita e non
riguarda un insieme di tratti o caratteristiche stabilmente appartenenti alla persona, quanto piuttosto
un’organizzazione flessibile, all’interno della quale si sviluppa il Sé, attraverso crisi e risoluzioni, che si
verificano in domini più o meno rilevanti della vita, mai definitivi e conclusi per l’altro verso, la capacità
di attribuire senso specialmente nel fronteggiare l’esperienza negativa, gioca un ruolo cruciale. Su questa
linea, riprendendo il contributo di Erikson e di Bruner, altri autori sviluppano l’idea secondo cui gli elementi
che costituiscono l’identità del Sé si armonizzano tra loro assumendo la struttura del mito, che la persona
riconosce come proprio e grazie al quale può sentirsi unica e irripetibile. La psicologia delle storie di vita
aiuta a comprendere tali strutture narrative, ad ascoltarle senza dare per scontato alcunché della loro
portata semantica, perché esse permettono di riflettere sul Sé e sulle esperienze passate in rapporto al
presente e al futuro. Esistonodiversi stili narrativi e lo psicologo palliativista è in grado di riconoscerli
per seguire in modo coerente la narrazione del paziente. Una buona strategia che può aiutare il narrante
a ricostruire la propria identità nel momento della crisi può essere quella del «viaggio dell’eroe»,
ampiamente utilizzata nei percorsi di scrittura creativa. Questa struttura narrativa rappresenta il percorso
simbolico del Sé per raggiungerel’autorealizzazione. In questo scenario narrativo è possibile per il malato
recuperare le più profonde radici attraverso le quali l’umanità ha significato il morire, all’interno delle quali
potersi riconoscere e intraprendere il tragitto dell’ascesa.

7. La dignità come valore nella narrazione finale della vita


Alcuni interventi psicologici che aiutano il paziente ad affrontare gradualmente il difficile compito che lo
attende sono stati ampiamente sperimentati, dimostrandosi molto efficaci. Tra questi deve essere
ricordata la terapia di gruppo «supportivo- espressiva» introdotta in campo psico-oncologico da David
Spiegel, ma certamente applicabile anche ad altri tipi di malattia. Si tratta di un intervento di circa un anno
che prevede incontri settimanali di un’ora e mezza con l’utilizzo dell’espressione artistica pittorica,
finalizzato a rafforzare il supporto sociale e a incoraggiare la condivisione dei vissuti emotivi associati alla
malattia. La misurazione degli effetti ha dimostrato un sensibile miglioramento della qualità di vita dei
pazienti e una riduzione dell’ansia, dell’angoscia e della depressione.
Chochinov ha elaborato una ulteriore tecnica psicoterapeutica che aiuta le persone adavvicinarsi alla morte
risignificando la propria biografia nei suoi tratti essenziali. Si tratta di un approccio che ha preso spunto da
diversi orientamenti, tesaurizzando in particolare la psicologia delle storie di vita, con l’obiettivo di
riesaminare passate esperienze e successi, per dare significato e scopo alla condizione attuale, facendo
perno sui punti di forza della narrazione per rafforzare l’autostima e dare avvio all’anabasi in direzione
dell’ultimo passaggio. Chochinov ha denominato tale forma di intervento «Dignity Therapy».
La TD si basa sull’approccio centrato sul paziente di Carl Rogers enfatizzando nello specifico la capacità del
terapeuta di mostrarsi come persona autentica e reale, capace di riflettere al paziente un’immagine
completa della persona che egli è, al dilà della condizione attuale di malattia. Il dialogo si sviluppa secondo
la seguente struttura di argomenti proposti in forma interrogativa:
1) Mi racconti qualcosa della sua vita: in particolare i momenti che le sono rimasti più impressi
o che giudica più importanti
2) Quando si è sentito più vivo/a nellasua vita?
3) C’è qualche episodio/ricordo della sua vita che le piacerebbe farsapere ai suoi familiari o
che vorrebbe loro ricordassero?
4) Quali sono statii ruoli più importanti (es. familiari, professionali, di volontariato) che lei ha
ricoperto nel corso della sua vita? Perché sono stati così significativi per lei e quali
obiettivi/risultati ritiene di aver raggiunto con questi ruoli?
5) Quali sono stati i traguardi più importanti che lei ha raggiunto nella sua vita? Di cosa è più
orgoglioso/a? Cosa la riempie di orgoglio se pensa a sé stesso?
6) Ci sono delle cose che sente il bisogno di dire ai suoi cari/di cui vorrebbe parlare e cose che
vorrebbe discutere più avanti?
7) Quali sono le sue speranze e i suoi sogni per le persone che ama?
8) Cos’ha imparato dalla vita che vorrebbe trasmettere agli altri?
9) Quali consigli, suggerimenti vorrebbe trasmettere alle persone che ama?
10) Ci sono pensieri/espressioni/frasi che indirizzino/guidino i suoi cari?
11) Nel creare questo documento permanente, c’è altro di cui non abbiamo parlato che
vorrebbe aggiungere/raccontare?
La capacità del terapeuta di restituire un profilo di interezza al morente richiede molta competenza
relazionale e il primo cardine su cui questa operazione si incentra riguarda la capacità di elaborare il
controtransfert,per non proiettare sul paziente i propri bisogni di conferma e identificazione. In realtà la
TD è stata pensata per poter essere utilizzata anche da altre figure professionali, data la ormai sempre
più ingiustificabile carenzadi psicologi negli hospice e negli ospedali.
Sono tre i tipi di narrazioni che Chochinov descrive: biografie positive che rievocano una vita vissuta
pienamente, quindi capaci di trasmettere gratitudine, buoni auspici e speranze a coloro che riceveranno
il testo; biografie tristi e dolorose, che mettono in campo rimpianti, delusioni, tradimenti e fallimenti
personali, se non addirittura traumi, tragedie e ingiustizie (in questi casi, il narrante sta lanciando un
grido di aiuto perpoter chiarire dei sospesi importanti); biografie terribili che possono ferire i destinatari,
perché cariche di disprezzo, parole di accusa, squalifica, disistima. Un ruolo di particolare rilevanza è
assunto dal fattore «generatività/lascito», in quanto la TD prevede che la conversazione venga registrata
e che i suoi contenuti vengano trascritti allo scopo di creare un documento finale che andrà consegnato
a qualcuno come eredità morale. Si tratta del «documento generativo». Un momento molto delicato della
terapia è dato dalla consegna del testo alle persone designate. Se il terapeuta è stato in grado di entrare
nella vita del paziente orientandolo a risolvere i propri sospesi almeno con le persone più vicine, il
documento generativo può infine risultare un valido strumento per l’ulteriore elaborazione del lutto dopo
l’exitus.
Uno strumento agile, validato in molte lingue e anche in italiano, utileper misurare la dignità percepita
è il Patient Dignity Inventory (PDI), predisposto da Chochinov (2012) per misurare il livello di distress
legato a un ampio raggio di fattori che influenzano tale dimensione. Risulta affidabile in più contesti, anche
in quelli di malattia terminale.
CAPITOLO 4: psicologia palliativa per la famiglia: dal supporto all’elaborazione del lutto

1. La famiglia e il lutto anticipatorio


Gli studi di Chochinov confermano che i pazienti preferiscono rimanere a casa anche durante la fase
terminale della malattia e che coloro che fruiscono delle cure palliative domiciliari richiedono in misura
minore l’eutanasia. La famiglia rimane lo spazio all’interno del quale per il malato è possibile continuare a
riconoscere la propria identità, grazie alla prossimità degli affetti e dei ricordi, come pure al mantenimento
delle proprie abitudini. Nonostante questo aspetto positivo, il sentimento del rimpianto è comunque
inevitabilee lo stato psicologico prevalente è quello del lutto anticipatorio caratterizzato per un verso dalla
valorizzazione del qui e ora e per l’altro dalla consapevolezza dell’imminenza della morte. Il fenomeno è
stato studiato da numerosi autori, tra cui Elisabeth Kübler-Ross e Therese Rando, che hanno riconosciuto
alcuni aspetti in comune tra la sofferenza del morente e quella dei dolenti, e altresì tra il momento che
precede l’exitus e quello che lo segue per chi rimane.
Secondo entrambe le studiose, quando i dolenti hanno elaborato in modo significativo la preparazione alla
scomparsa del proprio caro, il cordoglio della perdita dopo la dipartita viene gestito meglio, perché i
processi di accettazione e di ridefinizione della vita sono già stati attivati. Kübler-Ross ha descritto bene
questa dinamica nel suo celebre modello, in cui vengono illustrate le fasi che, pur non rispettando una
sequenza prestabilita, si avvicendano nel percorso che porta al distacco: negazione e rifiuto (non
accettazione della realtà), rabbia (emozioni fortemente negative, collera, paura e risentimento),
patteggiamento (tentativi di negoziare con la realtà una riparazione), depressione (perdita della speranza
e disperazione), accettazione (rassegnazione all’inevitabilità della morte). Il Six-R Model di Therese Rando
si riferisce invece a processi anziché a fasi, facendo quindi riferimento al lavoro di elaborazione (grief work):
Recognize the loss (riconoscere la perdita e le sue implicazioni), React to the separation (reagire al dolore
della separazione e del cambiamento), Recollect and re-experience (raccogliere i ricordi e rievocarli),
Relinquish old attachments (adattarsi al distacco), Readjust (riadattarsi alla nuova realtà), Reinvest
(superare il vissuto negativo e affrontare la nuova condizione).
La necessità di riorganizzare la vita quotidiana è molto stressante e può essere un compito impervio
che mette a repentaglio la coesione e la mutua reciprocità. Quando altresì la comunicazione con
l’équipe non rispetti i principi del truth telling e non possa quindi basarsi sulla programmazione
condivisa del piano terapeutico, il linguaggio si trasforma in uno strenuo tentativo di mantenere
copioni comportamentalidel passato, nonostante la loro inadeguatezza, attraverso una reazione
mutacica selettiva, comunemente chiamata «congiura del silenzio». Ci si comporta come se fosse
possibile rimuovere l’evidenza della malattia, pretendendo inoltre che gli stessi sanitari mantengano
il paziente all’oscuro delle sue effettive condizioni. Per un verso, tale forma di comunicazione
paradossale si basa sull’inautenticità che deriva dal congelamento delle emozioni e di script
consolidati, i quali, per essere mantenuti identici al passato, vengono sottoposti a un controllo
insistente che impedisce al paziente di manifestare i suoi più attuali e reali bisogni. Per l’altro verso,
essa può presentarsi anche in famiglie disgregate, caratterizzate da legami deboli basati sul
disimpegno reciproco, tanto che le esigenze di ognuno vengono prima di quelle dell’ammalato. Ma
si dà anche una reazione elusiva opposta, espressa con un comportamento agli antipodi del silenzio.
Lo psicologo palliativista, tesaurizzando le strategie dell’approccio sistemico, è in grado di intervenire
per risolvere tali difficoltà, affinché i familiari esperiscano l’accompagnamento del congiunto come
un’occasioneper rendere più autentici i rapporti e consolidare i legami. È questa l’idea di Froma
Walsh secondo la quale le famiglie, anche quelle più disfunzionali, godono di una ricchezza intrinseca
che può essere riattivata grazie alle capacità di resilienza. Per elaborare in modo positivo il lutto
anticipatorio è necessario, infatti, che i congiunti rafforzino la propria capacità di reagire alla fatica
e al dolore derivanti dalla perdita, grazie a unadistribuzione elastica dei ruoli e delle responsabilità
che le diverse fasi della malattia impongono. Attraverso l’accettazione empatica della sofferenza,
l’intervento psicologico dischiude la riflessione sui temi esistenziali più profondi, sul riconoscimento
e la lettura dei sentimenti che accompagnanoil lutto.

2. Il peso della cura


Nonostante le difficoltà legate al lutto anticipatorio, la famiglia rimane comunque l’ambiente
psicosociale di supporto più importante all’interno del quale il paziente reagisce alla malattia, e
le modalità con cui questo avviene incidono in modo circolare sul livello di disagio di tutti gli altri
membri. Le patologie più severe possono mettere però a repentaglio l’unità del microsistema,
slatentizzando modalità disfunzionali di coping che producono un effetto amplificatorio attraverso
l’interdipendenza delle reazioni negative allo stress. Spesso accade che venga designato un membro
specifico come caregiver, chiamatoa dedicare la propria vita al malato, mentre gli altri componenti
cercano di negare il cambiamento, riducendo il proprio coinvolgimento attraverso la delega a livello
tanto emotivo quanto pratico-operativo. Il peso della cura è esattamente la fatica che ilcaregiver
sopporta nell’espletamento dei compiti assunti, spesso insolitudine. Poiché però dalle sue condizioni
psicologiche dipendono anche quelle del malato e degli altri familiari, è necessario muovere l’intero
microsistema verso una distribuzione equa del carico di lavoro e delleresponsabilità. Quando nel
team non operi uno psicologo palliativista in grado di aiutare la famiglia nel ripristino e
rinnovamento dell’equilibrio, può accadere che essa subisca importanti effetti negativi, talvolta
anche irreversibili e permanenti. Il costrutto di family burden, che riguarda l’insieme delle
conseguenze oggettive (riduzione del tempo libero e delle relazioni sociali, ripercussionisull’attività
lavorativa, problemi finanziari, alterazione della routine e dellerelazioni familiari) e soggettive
(problemi di salute mentale e fisica), è collegato a quello di strain, il quale indica la
trasformazione esistenziale subita dal caregiver lungo il corso della malattia. La letteratura
presenta un ulteriore concetto per descrivere effetti simili, quello di compassion fatigue, che
interessa non solo i familiari ma anche iprofessionisti. Viene definito anche stress traumatico
secondario o trauma vicario per indicare il prezzo emotivo da pagare per l’aiuto profuso
continuativamente a chi sta male. Si tratta di uno stato psicologicocaratterizzato da una graduale
diminuzione della motivazione e da crisi didisperazione, anedonia, ansia, irritazione, isolamento e
chiusura emotiva. Ilmodello delle cure palliative prevede dunque un intervento domiciliare mirato,
in cui lo psicologo, supporta anche l’intera famiglia, sapendoriconoscere il caregiver designato,
per offrirgli l’opportunità di acquisirecompetenze fondamentali nella dimensione emotivo-
relazionale, ecoinvolgendo parallelamente tutti gli altri componenti per responsabilizzarli.
Inevitabilmente, il livello di burden è tanto maggiore quanto in misura minore la famiglia ricorre alle
cure palliative. Con un supporto psicologico adeguato, il caregiver, oltre che essere facilitato
nell’espletamento dei compiti di assistenza, viene direttamente coinvolto nel piano di trattamento
e invitato a incoraggiare e affiancare il malato nell’espressione delle sue preferenze sul luogo di cura
edi morte. In tutto questo processo appare quindi evidente come il truth telling, che inizia con una
comunicazione attendibile e comprensibile della diagnosi/prognosi infausta e procede con una
concreta pianificazione condivisa della cura tra ammalato e familiari, può promuovere in modo
efficace il family engagement. Prima di impostare questo tipo di intervento, è utile predisporre un
assessment con strumenti che possono diagnosticare l’entità del disagio patito dalla persona che si
fa carico del malato, tra i quali la Perceived Family Burden Scale utile per misurare il livello di stress,
e il Caregiver Strain Index per la misurazione del suo livello di adattamento, a cui può essere
associata la Compassion Fatigue Scale.

3. La gestione psicologica dell’agonia e del lutto


L’agonia è uno dei momenti più delicati della relazione tra paziente, familiari e TCP. Essa può avere un
decorso sereno ma può anche seguire un andamento doloroso al quale può risultare difficile assistere.
Nonostante questo, la letteratura relativa alla gestione psicologica dell’agonia è scarsissima. Uno tra i pochi
lavori internazionali su questo argomento si è focalizzato sulla possibilità di considerare le strategie
ereditate dalla tradizione orientale per aiutare i familiari a riconoscere i segni dell’imminenza della morte.
Uno dei compiti primari dello psicologo palliativista è proprio quello di avvicinarli all’esperienza di morte,
quindi normalizzare l’incontro con il morente fino all’ultimo, per offrire loro una opportunità di
elaborazione completa del distacco, che può quindi essere esperito interamente, in modo maturo ed
equilibrato, mantenendone un ricordo positivo. Un aspetto molto delicato della relazione con il morente
richiede un lavoro propedeutico particolare, che è bene offrire ai familiari, ovvero il contatto fisico. Alcuni
studi sulla touch therapy insegnano infatti quanto la dimensione tattile sia quella attraverso la quale
diventa possibile comunicare amore, vicinanza e affetto, quando le parole non siano più lo strumento
ottimale per far passare questi contenuti relazionali. Quando l’agonia si presenta difficile, ovvero
caratterizzata da agitazione,confusione, allucinazioni, delirio, convulsioni, è possibile indurre un percorso
non doloroso con la sedazione palliativa. Essa prevede che ilpaziente, preparato in modo adeguato a questo
passaggio, venga indotto farmacologicamente in uno stato simile a quello dell’anestesia totale. Molti
incidenti critici tra TCP e familiari sono conseguenti a questo evento, a causa della mancanza di una
autentica alleanza terapeutica e di una carente negoziazione condivisa del piano terapeutico. È importante
che malati e familiari non confondano questo tipo di intervento con l’eutanasia o con il suicidio assistito, in
quanto essa è solo l’ultima espressione della cura volta ad alleviare i sintomi.
Le espressioni del lutto completo sono molto variegate e cambiano a seconda delle culture di riferimento
dei dolenti. Nonostante la complessità del fenomeno, oltre a quelli di Elisabeth Kübler-Ross e Therese
Rando,sono stati studiati numerosi altri modelli che ne hanno delineato i profili. Ne ricordiamo alcuni,
perché, tra caratteri distintivi e similarità, nell’insieme rendono conto di tale complessità. Tra questi
ricordiamo quello di John Bowlby e di Colin Murray Parkes. Il primo descrive quattro fasi: disperazione
acuta, contrassegnata da stordimento e protesta; ricerca dello scomparso nella vita quotidiana;
disorganizzazione e perdita di contatto con la realtà con chiusura in sé; riorganizzazione ovvero ripresa della
vita normale. Il secondo procede su questa linea, ma definisce fasi leggermente diverse: negazione
della realtà e soppressione delle emozioni; ricerca del defunto con sentimenti di rabbia, in presenza di
ruminazione mentale e talvolta ideazione suicidaria; presa di coscienza dell’inevitabilità del distacco con
conseguente disorganizzazione; accettazione e riorganizzazione della progettualità esistenziale.
Indipendentemente dalle fasi e dall’avvicendarsi di diversi vissuti e strategie, secondo Worden il successo
del lavoro del lutto dipende dallo svolgimento di quattro compiti fondamentali inesorabilmente legati
all’esame di realtà, vale a dire: accettare la realtà della perdita; superare il dolore e il cordoglio; adattarsi a
un nuovo ambiente; superare il desiderio di mantenere un contatto con il defunto, trovando una sua giusta
collocazione nel proprio universo emozionale e cognitivo ormai cambiato.
Uno dei fattori che non aiuta a superare il lutto consiste nell’incapacità di lasciar andare il defunto,
cercando in tutti i modi di negarne l’assenza. Indipendentemente dal fenomeno dei continuing bonds, il
lavoro del lutto può fallire e questo accade in circa il 10% dei dolenti. Il lutto prolungato o patologico
consiste nell’incapacità di porre termine al tormento, considerando la morte del proprio caro come una
questione ancora aperta. La letteratura psicologica ha descritto questo fenomeno, denominandolo in
modi diversi: pathological grief, complicated grief, prolonged grief disorder. Il DSM-5 lo definisce
Persistent Complex Bereavement Disorder (PCBD), ovvero Disturbo da Lutto Complesso e Persistente, e lo
ha inserito nella sezione III, la quale richiede ulteriori ricerche prima che i disagi in essa contenuti possano
essere considerati patologie. All’interno di questa classificazione vengono ora inclusi il lutto assente o
negato, in cui il dolentecancella la sofferenza; il lutto congelato, in cui viene disattivato l’intero universo
emotivo per evitare il dolore; e il lutto ritardato, ossia rimandato a un momento migliore rispetto al
presente. Le caratteristiche del lutto complicato vero e proprio, descritte dal DSM-5, consistono nella
tendenza alla cronicizzazione degli effetti invalidanti della perdita. Il primo è la persistenza di intenso
desiderio e brama per il defunto, associati a forte dolore e pianto frequente o preoccupazioni tanto per il
defunto quanto per le circostanze della morte. Devono inoltre essere presenti almeno sei dei seguenti
sintomi suddivisi in due sottocategorie. La prima inerisce all’angoscia, espressa attraverso: difficoltà ad
accettare la morte e ad avere ricordi positivi del defunto, incredulità rispetto all’accaduto, amarezza e
rabbia, senso di colpa ed elusione di ciò che ricorda la perdita. La seconda riguarda la dimensione sociale
e l’identità personale, al cui interno si annunciano il desiderio di morire per ricongiungersi alla persona
amata, la difficoltà a confidare il proprio stato agli altri, la solitudine, la sensazione di svuotamento,
l’incapacità di affrontare la vita senza il defunto, la confusione rispetto a sée al proprio ruolo, la perdita
del senso di identità, la difficoltà a progettare il futuro. Per poter diagnosticare un lutto complicato, tali
sintomi devono comportare un disagio importante che limita la capacità di condurre una vita quotidiana
normale.

4. Lutto infantile, adolescenziale e genitoriale


Sebbene la morte di un familiare e innanzitutto di un genitore sia considerata l’evento più traumatico
che può verificarsi nella vita di un bambino e di un adolescente, è comunque possibile anche per loro
elaborarequesta dura prova in forma completa e sana come accade per gli adulti. Data però l’incidenza di
depressioni in età adulta da parte degli orfani, la ricerca sul lutto infantile è partita con indagini
retrospettive in pazienti psichiatrici, cercando un nesso tra la loro condizione attuale ed eventuali perdite
nell’infanzia. Nonostante sia elevato il rischio che si instauri un lutto prolungato per la fragilità del minore
e del sistema familiare, che dovrebbe supportarlo e che invece entra in crisi, le indagini longitudinali
hanno confermato solo in parte questa concorrenza. Il bisogno quindi di comprendere/accettare la
ragione per la quale la persona amata non è più presente attiva pensieri ed emozioni destabilizzanti che
si avvicendano a ricordi intrusivi, sempre difficili da gestire. Nell’infanzia l’evoluzione del lutto rispetta a
grandi linee alcune fasi: la prima è quella della protesta, la quale emerge immediatamente dopo il
decesso, è caratterizzata da pianto persistente e dalla ricerca del defunto; ad essa segue la fase della
tristezza e del ritiro emotivo che accompagna l’abbandono delle lacrime e la ripresa di attività che
sembrano distanziare il problema; la fase della rabbia in cui appaiono comportamenti aggressivi e
autolesivi; la fase regressiva, che viene innescata dall’ansia di separazione ed è responsabile dell’insorgere
di nuovi timori e paure che causano l’indebolimento dell’autonomia, della forza di tollerare le frustrazioni
e del saper rispondere alle istanze sociali, con la parallela tendenza al ripiegamento su sé stessi,
all’isolamento e all’intensificazione del sentimento di impotenza. Il lutto adolescenziale presenta delle
ulteriori specificità, in quanto durante questa fase evolutiva le normali istanze di autonomizzazione
determinano la comparsa di forti vissuti ambivalenti nei confronti delle figure genitoriali, le quali
influiscono sulla perdita, accentuando il senso di colpa. Il dolore si accompagna quindi a sentimenti
aggressivi come rabbia, risentimento e frustrazione. Alcuni studi dimostrano che il tempo di elaborazione
può durare anni e richiede un impegno importante da parte dei familiari che lo circondano. Ciò che risulta
autenticamente rilevante per l’elaborazione del lutto in età evolutiva è la capacità dei genitori o dei
parenti più prossimi di garantire la presenza di un affetto intenso, positivo e costante, all’interno di un
ambiente familiare coeso e resiliente. Poiché però la differente attitudine dei bambini e degli
adolescenti, rispetto a quella degli adulti, a manifestare le proprie emozioni e a saperle gestire
linguisticamente spesso crea delle difficoltà perché i membri della famiglia possono non riconoscere la
loro sofferenza e dunque non dedicare loro la dovuta attenzione, un ulteriore supporto psicologico
esterno è spesso auspicabile. La morte di un fratello è forse meno drammatica di quella di uno o di
addirittura entrambi i genitori, ma per il figlio superstite le difficoltà risultano inevitabilmente enormi,
perché a loro volta i genitori devonofronteggiare una delle perdite più difficili da elaborare. Si tratta di
una circostanza che mette a dura prova i legami familiari, esponendo il bambino-adolescente a una
sofferenza estrema, perché coloro che dovrebbero aiutarlo sono a loro volta colpiti duramente dalla
stessa esperienza.
La specificità del lutto genitoriale è stata riconosciuta in modo articolato e completo da Therese Rando
alla quale ancora dobbiamo le riflessioni forse più importanti sull’argomento. La studiosa mostra come
tale evento sia particolarmente drammatico perché composto da una costellazione di fattori: ad alcuni
tratti in comune con le altre forme di lutto (come per esempio le caratteristiche della morte e la qualità
delle reti di sostegno) si aggiungono altri due tratti distintivi: la prematurità della perditavissuta come
innaturale, eccezionale e quindi incomprensibile; la qualità ela natura della relazione con il figlio, di tipo
protettivo. Con il vissuto di fallimento, imputato a mancanze e colpe assunte in prima persona, i genitori
subiscono il venir meno del proprio senso di competenza parentale, facendo involontariamente ricadere
sul figlio superstite, proprio mentre egli ha più bisogno di supporto, i propri sentimenti di inadeguatezza
e incertezza. Questa tragica esperienza spesso mette in crisi l’intero microsistema e quando non siano
risolti il senso di fallimento e le recriminazioni puòaccadere che la famiglia si sciolga.

5. La gestione dell’angoscia di morte e del lutto attraverso la spiritualità


La sofferenza per il lutto non è patologica, ma può diventarlo, per tante ragioni, la prima delle quali è
l’incapacità diffusa di affrontare la rappresentazione della morte e il suo apparire. L’incontro con la morte
può costituire un pericolo per l’equilibrio psicologico dell’individuo, ma può diventare anche
un’importante occasione di crescita se vengono attivati processi di elaborazione simbolica profondi. Il
superamento del lutto permette infatti di guadagnare tappe maturative importanti, accrescendo
l’autoconsapevolezza. Purtroppo, dato il momento storico in cui viviamo,caratterizzato da una forte e
significativa crisi rispetto al credo religioso risulta oltremodo significativo che le famiglie già nella fase del
lutto anticipatorio sentano il bisogno di essere supportate da una figura in grado di ripristinare orizzonti
di riflessione sulla morte di vasto respiro. Lo psicologo palliativista considera la spiritualità come un
aspetto cruciale sul quale fare perno nel proprio intervento. Come convenuto all’interno della Divisione
36 dell’American Psychological Association, sia per il lutto anticipatorio che per il lutto completo, uno
degli aspetti, tra i più importanti, che aiutano a elaborare in modo resiliente l’angoscia di morte è la
spiritualità. In Occidente lo Zeitgeist ha guadagnato ormai nella letteratura internazionale un posto di
primo piano. Mantenendo fermi modelli di spiegazione agnostici ed escludendo spiegazioni di tipo
metafisico, gli psicologi hanno ampiamente studiato l’esperienza di incontro tra fede, linguaggio e cultura,
mostrando l’interazione di diversi fattori: da quello della ritualità quotidiana a quello dell’ermeneutica
escatologica, che costruisce le mitologie personali grazie acui è possibile decifrare il senso di ogni evento
che investe la sfera emozionale e tutte le sensazioni implicate nella tensione all’autotrascendenza. I
ricercatori della Terror Management Theory in linea con il pensiero freudiano, mostrano con ormai
centinaia di evidenze empiriche come il terrore della morte e la consapevolezza di dover morire siano alla
base dell’angoscia più profonda. La dissonanza del voler lottare per vivere sapendo che comunque
bisogna morire viene dunque combattuta attraverso la costruzione capillare di apparati simbolici che
mantengono impegnato il pensiero per un verso in territori diversi da quelli esistenziali e per l’altro in
rappresentazioni che evocano l’immortalità.
A questi studi psicosociali si accompagnano altre ricerche realizzate nell’ambito della psicologia della
religione. Lee Kirkpatrick ha inaugurato l’idea che Dio possa essere considerato come una figura di
attaccamento sicura e quindi come una risorsa per il conforto e il bisogno di protezione. In effetti pare
che esista un rapporto tra stile di attaccamento e rapporto con Dio ouna dimensione iperuranica. La
cultura contemporanea postmoderna pur avendo messo irreversibilmente in crisi gli statuti di verità delle
religioni, di fatto non offre ancora una autentica formazione critica sugli argomenti inerenti alla spiritualità
e alla religione. Offrire dunque un background che permetta di rivolgersi alla trascendenza per affrontare
le rappresentazioni della morte, lungo il percorso evolutivo, dall’infanzia alla vecchiaia, passando
attraverso l’adolescenza e l’età adulta è certamente importante perché mantiene colmo un serbatoio di
resilienza difficilmente eguagliabile per efficacia. Poiché molti genitori non si sentono in grado di farlo in
modo critico, la scuola potrebbe realizzare percorsi di riflessione dedicati, nell’ambito di progetti di death
education, inquanto, se realizzati con serietà e senza esasperazioni, essi offrono una riserva di positività
per la vita, che si accompagna alla capacità di valorizzare le scelte pro-sociali e di affrontare questioni
esistenziali di vastaportata. La psicologia palliativa riconosce questo importante potenziale psicologico ed
è in grado di declinarlo sulla base dei cambiamenti storico- culturali della società, senza altresì mai perdere
di vista il primato della persona su qualsiasi precetto. L’intervento psicologico orientato in tal sensoapre
la strada al discorso sulla morte e il morire elaborando la paura senza timore. L’intervento psicologico
palliativo fa perno sulle risorse offerte dall’orizzonte di trascendenza e dalla ricchezza spirituale che da
esso promana, liberandolo da eventuali zavorre e incagliamenti ideologici affinché tale scenario possa
sprigionare tutto il proprio potenziale attraversoun percorso dialettico, onesto, lucido e competente.

6. La ricostruzione del significato attraverso l’arte-terapia


L’arte-terapia è un territorio molto frequentato nell’ambito delle cure nonconvenzionali, sebbene essa stia
guadagnando un consenso sempre piùampio anche nella ricerca psicologico-clinica. Il suo intervento fa
leva sui punti di forza dell’individuo e in particolare sulla sua creatività, nonchésulla capacità di
riflettere sull’esperienza che dall’azione creativa emerge.In particolare, essa utilizza il mezzo espressivo
per far affiorare e quindi analizzare i vissuti che nella vita quotidiana vengono repressi e non verbalizzati.
Rispettando il principio secondo cui ognuno ha in sé risorse proprie e un potenziale di resilienza che deve
essere semplicemente stimolato, le strategie di intervento psicodinamico che utilizzano l’azione artistica
sono infatti basate sul potenziamento di spontaneità e creatività. In una prima fase questo tipo di attività
rende manifesta l’espressione spontanea, che nella fase successiva diventa oggettodi riflessione attraverso
la parola, permettendo così al paziente di guardare da una prospettiva inedita la propria condizione e
guadagnare un livello maggiore di consapevolezza. Per mezzo dell’espressione artistica, le rappresentazioni
interne più o meno represse assumono infatti unaconsistenza concreta, tanto che gli elaborati prodotti
diventano oggetto di un confronto che ne sviscera la portata simbolico-emozionale. La possibilità di
esprimere il proprio stato attraverso il movimento, i suoni, i colori, le forme, le immagini fotografiche, la
drammatizzazione, costruisce un ponte tra la loro dimensione interiore e gli altri. In particolare, l’arte-
terapia viene ormai ampiamente utilizzata, confermando la sua efficacia, tanto nella gestione del lutto
anticipatorio, ovvero per la preparazione alla morte, quanto per l’elaborazione del lutto completo.
Tecniche psicodrammatiche, drama-therapy, psicodramma biblico, danza- movimento terapia, photo-
therapy, musicoterapia, action-painting, sono orientamenti terapeutici che rendono possibile
l’integrazione di tutte lerisorse di cui l’individuo dispone per poter vivere meglio, attivando i suoi processi
di trasformazione, evoluzione e crescita. Più di recente,Robert Neimeyer, ha sviluppato una modalità di
counselling/psicoterapia di matrice costruzionista, secondo cui l’oscillazione tra orientamento al dolore
per la perdita e tensione verso il suo superamento consiste in un processo di ricerca di senso e di
costruzionedi un inedito sistema di significati. ha sviluppato una modalità di counselling/psicoterapia di
matrice costruzionista, secondo cui l’oscillazione tra orientamento al dolore per la perdita e tensione
verso ilsuo superamento consiste in un processo di ricerca di senso e di costruzione di un inedito sistema
di significati. Peraltro, la tecnica psicodrammatica, similmente al drama-therapy, permette di elaborare
l’incontro con il defunto nello spazio della semirealtà. La scena psicodrammatica infatti mette in gioco
interazioni reali con icomponenti del gruppo che incarnano personaggi con i quali il dolente deverisolvere
dei sospesi e chiarire le proprie ambivalenze. Le tecniche attive dell’arte-terapia mobilitano in modo
creativo la resilienza tanto in anziani e adulti quanto in bambini e adolescenti permettendo loro di
esprimere liberamente i propri vissuti, in uno spazio ulteriore a quello familiare.
Seguendo la prospettiva di Froma Walsh, la possibilità di lavoraresu tutte le espressioni del lutto, tanto con
bambini o adolescenti quanto con adulti e anziani, differenziando l’intervento a seconda del momento e
del tipo di perdita, viene messa a disposizione della comunità, la quale alproprio interno mobilita e integra
risorse differenti. Il sostegno sociale al lutto è uno dei fattori di protezione più importanti, supportato a
livello intersistemico da reti di relazione entro cui si articolano vicinanza e giusta distanza tra empatia e
ascolto, eppure non è sempre facile ingaggiare persone disponibili a partecipare. Qui l’arte-terapia può
risultare molto utile per motivare e impostare attività di gruppo che facilitino l’incontro. Il «mesosistema»
può dunque supportare il «microsistema» nel diffondere una cultura dell’incontro e di riflessione e
nel promuovere la formazione di gruppi di crescita, di mutuo auto-aiuto e diarte-terapia, attivando un
sostegno sociale diffuso, in cui la testimonianza diventa insegnamento rispetto al significato che si
attribuisce alla morte.

7. Il «counselling» per il supporto alle scelte etiche


La medicina oggi permette a coloro che fino al secolo scorso sarebbero deceduti dopo poco tempo di
vivere a lungo. In questo modo il confine tra vita e morte è stato affidato interamente alla tecnica. La
perdita dei limiti naturali della vita ha trasformato i ritmi rapidi del trapasso naturale in uno spettacolo al
rallentatore del passaggio finale. Se per un verso questo permette al morente di avere più tempo a
disposizione per compiere il proprio ultimo e più importante compito evolutivo, per l’altro verso le
pratiche che valorizzano la sopravvivenza a ogni costo producono esiti oltremodo dolorosi, perché
mettono in luce la violenza della tecnica quandoessa sovrasti le volontà del morente, rendendolo un mero
organismo sofferente alla mercé di dispositivi e sostanze. La bioetica nasce esattamente all’interno di
questo tipo di dicotomie, ovvero negli interstizi tra natura e tecnica, ove la scienza a causa del proprio
progresso sposta costantementela frontiera di ciò che la seconda è in grado di fare. Le difficoltà
derivanodal fatto che quanto più le scoperte sono rapide, tanto meno i nuovi scenari che esse dischiudono
sono adeguatamente rappresentati da riferimenti simbolici in grado di dare senso alla costante
riformulazione delle leggi della natura e abitare il linguaggio della vita quotidiana. Nello specifico, la
questione fondamentale riguarda, come abbiamo vistonei capitoli precedenti, il rapporto fra la medicina
e la dignità dell’uomo. Poiché si tratta di uno spazio aporetico, la riflessione bioetica si muove attraverso
la collaborazione fra scienze umanistiche e scienze dure perl’individuazione di nuovi profili di saggezza,
tanto collettiva quanto individuale, relativamente alla gestione responsabile delle potenzialità chela
tecnica mette a disposizione delle persone e della società per rispondere alle differenziate esigenze di
benessere di ognuno. Purtroppo, oggi in Italia assistiamo a una persistente contrapposizione tra
schieramenti laici e schieramenti cattolici. La contrapposizione è spesso sviluppata nei termini della
delegittimazione delle differenti posizioni e dell’esercizio d’autorità rispettoalle scelte politiche. Oggi però
il legislatore ha permesso di definire alcuni passaggi importanti che restituiscono all’individuo la
possibilità di sceglierecome gestire il proprio rapporto con la tecnica medica. Chi vuole morire con dignità
pretende amore, non commiserazione, e poiché non sempre comprende il senso di ciò che accade, ha
bisogno di un accompagnamento onesto. Una cura eticamente corretta richiede che tutto questo venga
riconosciuto e rispettato senza tradimenti, in ogni passaggio, fino all’ultimo atto. Poiché il piano
terapeutico condiviso si presenta come uno strumento utile nel processo di elaborazione del lutto
anticipatorio, la necessità di gestire gli aspetti etici di ogni passaggio è importante. Il counselling bioetico
può essere gestito dallo psicologo palliativista, in gradodi cogliere le autentiche istanze interiori tanto del
morente quanto dei familiari che lo accompagnano. Questa figura è infatti in grado di porsi inun
autentico atteggiamento di ascolto di coloro che devono affrontare la morte, lasciando affiorare
sentimenti di fondo, ansie e desideri espressi con silenzi, lacrime, gesti e sguardi, per giungere ad
affrontare quali siano i valori di riferimento, alla luce delle opportunità di cura che la legge italiana
riconosce.
CAPITOLO 5: psicologia come sapere fondamentale per il team di cure palliative

1. Intersezionalità della psicologia palliativa


Il legislatore ha decretato in modo inequivocabile l’importanza della psicologia nel campo del fine-vita e
delle cure palliative. Il Core Curriculum per Psicologi elaborato dalla SICP enfatizza la multidimensionalità
e l’inter-professionalità che caratterizzano la trans-disciplinarità delle cure palliative per valorizzare il ruolo
dello psicologo nel TCP. La peculiarità dell’inter-professionalità consiste infatti nell’importanza attribuita
dal legislatore alle capacità relazionali di tutti i componenti del TCP, studiate in modo sistematico da questa
disciplina scientifica, la quale accoglie nel proprio statuto epistemologico di fondo la possibilità di declinare
ogni contenuto della curain funzione delle istanze della persona e della sua esperienza esistenziale.
La centralità della psicologia, come sapere fondamentale che attraversa tutte le figure professionali del
TCP è stata infatti riconosciuta dalla Conferenza Stato-Regioni del 10 luglio 2014 dedicata all’individuazione
di figure esperte nel campo delle cure palliative. Nell’allegato tecnico dell’accordo vengono definite le
abilità che le figure professionali devono acquisire per lavorare in questo ambito.
Poiché l’approccio multi-professionale integrato e centrato sulla persona- paziente è imperniato sulla
promozione della resilienza a orientamento sistemico, e poiché entrambi sono basati su capacità
relazionali, la psicologia palliativa deve essere considerata come un territorio di contenuti scientifici
intersezionali, tesaurizzabili tanto da medici, infermieri, operatorisocio-assistenziali quanto da assistenti
sociali e religiosi che curano o accompagnano il malato con i suoi familiari, sotto la supervisione
specialistica dello psicologo.

2. Competenza comunicativa
La psicologia palliativa opera dunque su due piani, il primo è quello del lavoro a diretto contatto con
pazienti, familiari e comunità, nelle cure palliative di primo, secondo e terzo livello erogate in ospedali, RSA,
hospice e reti domiciliari. Il secondo piano consiste in un meta-livello, in quanto offre le competenze
imprescindibili che riguardano aspetti comunicativi e relazionali necessari tanto per le dinamiche
interpersonali di tutto il TCP quanto per quelle intra- e intersistemiche, finalizzate a garantire la qualità
delle terapie insieme alla riduzione degli sprechi per il SSN. Dal punto di vista strategico, le competenze
offerte dalla psicologiapromuovono la comunicazione efficace, la quale richiede l’uso di contenuti semplici,
chiari e veritieri, espressi con l’autenticità che deriva dall’ascolto attivo ed empatico in grado di prestare
attenzione alla disponibilità del paziente. Il complesso di queste operazioni sul paziente definisce il profilo
dell’intervento in cui consiste il PAI. Il necessario coordinamento di ogni operazione è infatti reso possibile
dalla concertazione di piani, dalla promozione della circolarità della comunicazione per gli aspetti operativi
all’interno della rete e, all’interno di ogni passaggio, dalla ineludibile riflessione sulle variabili di natura
psicologica.
Uno degli obiettivi psicologicamente più rilevanti che i professionisti palliativisti sono chiamati ad acquisire
è la capacità di affrontare i temi che riguardano la morte. Alcune ricerche mostrano che favorire il
confronto su tali argomenti non risulta stressante per il personale medico-infermieristico e altresì che
queste esperienze sono d’aiuto nella costruzione di un rapporto positivo con i malati e i familiari.
L’incompetenza relazionale è infatti alla base di atteggiamenti cautelativi che ostacolano l’autenticità
necessaria per una effettiva alleanza terapeutica. Purtroppo, quando tali interazioni sono disfunzionali, è
inevitabile per un verso che venga messo a repentaglio il rispetto della volontà del paziente, specialmente
nei processi decisionali del fine-vita. La capacità di affrontare in prima persona il limite della vita e saperne
parlare esercitando questa abilità aiuta a gestire più serenamente le relazioni, tanto con i colleghi quanto
con l’utenza.

3. Il costo dell’incompetenza emozionale e relazionale


L’incapacità di comunicare diagnosi e prognosi infausta, come abbiamo già discusso nei capitoli precedenti,
mette a repentaglio la qualità delle cure nella fase terminale della malattia, in quanto impedisce di attivare
il positivo engagement del paziente e della famiglia nei processi di condivisione del piano terapeutico. Alla
base dell’inabilità relazionale sta un ulteriore e più profondo livello di mancanza di autocoscienza, quella
relativa al vissuto emozionale e alle sue dissonanze, da cui possono svilupparsi sindromi complesse,
correlate allo stress lavorativo, tra cui il lavoro emozionale, il moral distress, la compassion fatigue, il
burnout e la deumanizzazione. La letteratura mostra come l’impatto emotivo legato all’incontro con la
morte abbia sui professionisti della salute un effetto negativo che dipendeda variabili legate tanto alla
professionalità quanto a fattori umani. Si tratta di un lavoro intrapsichico e interpersonale che se esercitato
in forma irriflessa può causare gli effetti negativi dinanzi elencati, i quali sebbene presentino caratteristiche
simili per quanto riguarda la fenomenologia sintomatologica, dal punto di vista psicologico si differenziano
per alcuni aspetti degni di nota. Il burnout, inserito ufficialmente dall’OMS nel 2019 nell’ICD-11 come
sindrome associata alla professione, è l’esito di un disagiopsicologico generale originato da un lavoro che
richiede un prolungato contatto con persone bisognose di cura e aiuto, mentre la compassion fatigue è
invece una reazione specifica dovuta ad aspetti logoranti legati allacondizione di trauma del paziente. Il
primo, quindi, consiste in un graduale esaurimento del lavoratore che opera in un qualsiasi campo delle
professioni di aiuto; la seconda, invece, definita anche come «stress traumatico secondario» o «trauma
vicario» può presentarsi improvvisamente in forma acuta, all’interno di rapporti con persone che devono
fronteggiare traumi disabilitanti.
Quando il sistema non tutela la salute psicologica dei propri lavoratori, questi si trovano costantemente
impegnati in uno sforzo personaleeccessivo, messo in atto per compensare la sensazione di incertezza
derivante dalle disfunzioni su cui essi non hanno controllo. Il lavoro emozionale (emotional labor) è una
delle strategie più comuni, consistente nel tentativo di correggere il vissuto interiore per manifestare
emozioni non autentiche ma congrue al contesto. li studi di psicologia palliativa hannoquindi indagato come
venga gestita la discrepanza tra standard emotivi legati al ruolo, emozioni autenticamente provate e stress
professionale,dimostrando che il lavoro emozionale attiva strategie di coping per trasformare le emozioni
dissonanti o simularne altre dando spesso origine a incomprensioni e incidenti critici. A lungo termine,
infatti, l’inibizione delle emozioni può causare conseguenze psicologiche e somatiche indesiderabili e
all’origine di compassion fatigue e burnout agisce proprio l’esaurimento emotivo.
Spesso alla base di incidenti critici, tra gli ulteriori co-fattori che possonocausare burnout emerge per
importanza il moral distress. Indagatospecialmente tra gli infermieri e più di recente tra gli assistenti sociali
dopo gli studi pionieristici di Andrew Jameton, il problema riguarda il conflitto tra ciò che viene considerato
moralmente corretto e ciò che viene concretamente messo in pratica, sia per questioni legali sia per
inefficienza del sistema sanitario. Si tratta di un vissuto caratterizzato da componenti distinte: «disagio
iniziale», patito quando il comportamento che genera la dissonanza interiore viene attivato, e «angoscia
reattiva», derivante da quanto avvenuto e consistente in sentimenti negativi persistenti che abbattono
l’autostima e la percezione di autoefficacia.
La gestione del lavoro emozionale legato a sentimenti negativi è uno degli aspetti centrali che lo psicologo
palliativista è chiamato a gestire. Tale elaborazione è quindi preziosa perché riduce il rischio di mettere a
repentaglio non solo il benessere del professionista, ma anche il funzionamento dell’intera rete del sistema.
Tra gli strumenti che possono essere utilizzati per indagare eventuali dissonanze emozionali può essere
utile il French Emotion Regulation Questionnaire mentre invece per accertare la presenza e l’entità di
burnout e compassion fatigue, ricordiamo il Maslach Burnout Inventory.
Un’ultima considerazione deve essere fatta rispetto a un problema rilevante. Nel campo degli studi
psicosociali sulla deumanizzazione in ambito medico è cominciato ad apparire un fenomeno che non può
essere sottovalutato. Alcuni studi, infatti, hanno esaminato il personale in ambito sanitario, rilevando come
il riconoscimento di umanità del paziente fosse correlato con il burnout mentre la sua deumanizzazione
correlava negativamente con il burnout e positivamente con il coinvolgimento nel lavoro. Sebbene questi
studi siano ancora limitati, è importante tenerne conto, perché il modello delle cure palliative richiede una
forte umanizzazione del rapporto con il paziente e quindi è auspicabile che questo spazio di indagine venga
ulteriormente esplorato per garantire il massimo benessere tanto al professionista quanto ai pazienti con i
quali egli opera.

4. Prevenire lo stress lavoro-correlato


Lo stress lavoro-correlato consiste nella percezione di disagio più omeno intenso avvertita dal lavoratore
quando le richieste dell’ambiente lavorativo eccedono le sue capacità individuali, causando danni
psicologicie somatici nel medio-lungo termine fino al burnout. Secondo Christina Maslach è auspicabile e
possibile prevenire questi esiti grazie all’acquisizione della consapevolezza relativa alle condizioni critiche
che mettono in stallo i vissuti emotivi, logorando il rapporto di cura. Secondo il modello Areas-of-Work-
Life Model le aree da tenere in considerazione per elaborare eventuali squilibri sono le seguenti: il carico
di lavoro adeguato alle possibilità del lavoratore, il controllo che egli ha sulle situazioni di cui è
responsabile, il riconoscimentosociale ed economico, la relazione con la comunità professionale, l’equità e
la percezione di giustizia e correttezza, il rispetto di valori condivisi tra lavoratore e struttura. Spesso, tali
contesti implicano la morte del paziente, in cui la percezione di incertezza si accompagna a quella di
insicurezza. Non si tratta di esperienze necessariamente frequenti, ma sufficienti a determinare traumi
sottovalutati, dai quali derivano le strategie emozionali difensive e logoranti dinanzi descritte. Le tecniche
che lo psicologo può mettere a disposizione sono tutte orientate al rafforzamento della resilienza.
Il lavoro metacognitivo è comunque fondamentale perché è di supporto nell’identificazione dei
meccanismi di funzionamento emozionale e relazionale. Il modello di intervento classico per aiutare i
professionistidella cura a prendere coscienza delle loro dinamiche emotive inconsapevoli è basato sulla
supervisione sistematica dell’operato da parte di uno psicologo esterno che offra una guida nell’analisi
delle situazioni critiche. Un modello più completo di rielaborazione, utile per la prevenzione del lavoro
emozionale, è quello dei gruppi di supervisione ideati dallo psicoanalista Michael Balint della Tavistock
Clinic di Londra, al quale dobbiamo anche il costrutto di patient-centred approach. Si tratta di un metodo
di lavoro di gruppo destinato a coloro che sono impegnati nelle professioni di aiuto, il cui scopo consiste
nella formazione psicologica alla relazione con il paziente. Tali gruppi permettono di intercettare le
emozioni in gioco riconoscendone il ruolo nelle difficoltà relazionali, di imparare dai propri e altrui trascorsi,
di superare il conflitto migliorando la qualità della comunicazione, di riconoscere gli errori e saper gestire
il rischio.
Ulteriori studi hanno sviluppato il costrutto di engagement lavorativo per rintracciare gli elementi
costitutivi della soddisfazione professionale. È stato infatti evidenziato come in ambito clinico esso sia
particolarmente efficace, non solo tra pazienti e familiari.
Confrontando gli ambiti sanitari dove si attuano modalità di collaborazione reale all’interno del team di
cura, rafforzando l’engagement lavorativo, si è evidenziato che i fattori che più influenzano la soddisfazione
degli operatori e l’efficacia percepita dei professionisti risultano essere la collaborazione, la risoluzione del
conflitto, la partecipazione, la coesione.
Uno spazio specifico per la gestione del moral distress è quello del counselling individuale o di gruppo che
lo psicologo può garantire ai colleghi sui temi morali che creano dissonanza. Il counselling bioetico gestito
dallo psicologo palliativista, per deontologia professionale, non può essere ideologicamente orientato,
risultando così ineludibile per aiutare morenti, familiari e colleghi a definire in che cosa essi credono e quale
significato vogliono attribuire alle decisioni da prendere nelle cure del fine-vita.
Pur partendo da presupposti diversi, counselling, altervisione e metodo Balint sono basati su un perno
essenziale per l’elaborazione di emozioni, stress morali e traumi legati a eventi critici: il metodo narrativo,
che la psicologia ha sviluppato ormai sistematicamente da alcuni decenni.L’interesse per questo approccio
si è infatti formato a partire dagli anni ottanta, tanto nelle scienze dell’uomo quanto nella medicina.
QUI HO TAGLIATO INDAGINE ARCHETIPALE DI HILLMAN E ERVING POLSTER, SE SERVE è PAG 119.
Per quanto riguarda il monitoraggio relativo agli orizzonti di significazione, uno strumento appropriato è il
Personal Meaning Profile, validato anche in italiano, che permettedi scandagliare le capacità delle persone
di attribuire senso all’esperienza.

5. «Death education» tra rimozione della morte e della spiritualità


Un linguaggio che utilizzi termini appropriati per definire gli aspetti sostanziali di un determinato ambito
esperienziale richiede innanzitutto di essere parlato, condiviso, conosciuto. Se la congiura del silenzio
continua ad affidare le rappresentazioni della morte a spettacoli mediatici tanto improbabili quanto
traumatici e distanti dalla vita quotidiana, è inevitabile che i processi comunicativi tra pazienti e comunità
curante non riescano a produrre un lessico idoneo per la gestione del momento più importante che ognuno
dovrà prima o poi affrontare. Da qualche decennio, la death education offre la possibilità di superare
questo gap, tanto che negli Stati Uniti quasi il 90% dei corsi di laurea che coinvolgono i futuri professionisti
che opereranno in ambito sanitario hannoattivato tali curricula. I monitoraggi sugli effetti psicologici di tali
corsi hanno dato risultati diversi, talvolta contrastanti, ma sostanzialmente mostrano come sia possibile
realizzare delle attività mirate, permettendo di gestire efficacemente l’ansia e la paura. Per esempio, studi
realizzati con studenti di medicina, infermieristica, psicologia basati tanto su lezioni frontali quanto su
seminari esperienziali, hanno evidenziato una diminuzione significativa dell’angoscia di morte e un
innalzamento della predisposizione a lavorare in reparti di cure palliative. Lo stesso risultato è stato
ottenuto con operatori diprimo soccorso. Gli studidi Testoni enfatizzano la portata esistenziale della death
education e la possibilità che essa offre a studenti e professionisti di entrare nel merito di ciò che più
profondamente è temuto, per rintracciare i simbolismi della salvezza grazie ai quali costruire e ri-
costruire il senso della vita e di ciò che la segue. Bisogna altresì tener presente che le leggi 38/2010 e
219/2017 possono essere autenticamente applicate solo se professionisti e cittadini sono consapevoli della
loro esistenza e delle loro implicazioni. Purtroppo, la popolazione è ancora poco informata delle innovazioni
che esse hannoapportato nei servizi resi possibili dal SSN e conosce poco il funzionamento delle reti di cure
palliative e le dinamiche che devono essere attivate per le DAT.
In Italia, inoltre, nella fase storica attuale, le figure professionali che possono entrare a far parte del TCP
solo raramente hanno avuto la possibilità di seguire corsi dedicati a queste tematiche e la mancanza di
competenze, abilità e autoconsapevolezza in materia dei processi psicologici legati al morire è un ambito
che viene ormai internazionalmente considerato primario per la loro formazione permanente. Queste
inefficienzepossono quindi essere gestite con programmi di death education di comunità, da realizzare sia
nelle strutture sanitarie sia sul territorio.
Uno degli aspetti più difficili da gestire all’interno di qualsiasi percorso di death education è quello relativo
alle rappresentazioni della morte. Fino al secolo scorso, l’Occidente veniva moralmente disciplinato dalle
religioni, le quali, similmente a quanto accade ora in alcuni paesi medio-orientali e orientali, erano
considerate come un tratto distintivo della nazione e dunque del suo ordinamento politico e sociale. Nel
Novecento, però, la cultura post- colonialista e post-moderna, accompagnata dai processi sempre più
capillari di globalizzazione e di costruzione di una società interculturale centrata sui diritti umani, ha
progressivamente messo in crisi i nazionalismi e i loro correlati ideologici, proprio a partire dallo
smantellamento della fondazionereligiosa della società. Come abbiamo riportato per gli studi della TMT, la
capacità dell’individuo di pensarsi oltre l’ultimo respiro è alla base della gestione dell’angoscia che la
riflessione esistenziale sulla finitudine comporta. Parallelamente, gli studi di Testoni mostrano che ciò che
vienetemuto maggiormente è la perdita di ciò che riteniamo essere l’essenza dellanostra coscienza. Ciò
che terrorizza è l’idea di annientamento e soprattutto che tale processo avvenga dolorosamente lungo un
processo inarrestabile di consunzione. Un termine abbastanza diffuso tra le diverse culture lungotutto
il corso della storia per indicare quest’ultima dimensione è «anima». Sitratta di un concetto che ha subito
infinite declinazioni e una evoluzione travagliata, fino a giungere al riduzionismo scientifico che ha inteso
identificarne il contenuto come il secreto di processi cerebrali. In Occidente, a grandi linee, le religioni
abramitiche lo hanno utilizzato per riferirsi a quella parte dell’identità divina nell’uomo che, a differenza
del corpo, non è destinata all’annullamento, ovvero alla morte. Ma l’approdo alla definitiva sentenza
nietzscheana secondo cui «nessuna religione ha mai contenuto, né direttamente né indirettamente, né
come dogma né come allegoria, una verità, poiché ciascuna è nata dalla paura e dal bisogno e si è insinuata
nell’esistenza fondandosi su errori della ragione» hadeterminato la sua progressiva eclissi.
Stabilito che Dio è l’alienazione dell’umano – intesa come proiezione psicologica dei caratteri umani
fondamentali di cui la volontà di immortalità è un tratto essenziale –, ma anche la trasformazione delle
figure originarie delle religioni con cui è stata rappresentata l’anima stessa, ogni figura dell’immortalità
è stata inscrittanei processi bio-psicosociali relativi alle modalità con cui si manifestano le strategie per
gestire l’angoscia nella sola funzione della sopravvivenza nel mondo. La visione materialista ha quindi
dominato gli scenari del Novecento considerando i contenuti religiosi come la risposta a esigenze umane
che vengono soddisfatte attraverso l’immaginazione e non come rivelazione di contenuti inconfutabili.
Come argomenta con chiarezza Umberto Galimberti tutto questo porta a considerare la morte come una
dura vittoria della storia e della società sull’individuo, ossia della specie. Tutto questo può esser rimesso
però in discussione, in modo radicale, come mostra rigorosamente Emanuele Severino, secondo il quale
l’angosciadi morte in Occidente è essenziale, in quanto ogni convinzione è issata sulla fede nel divenire
inteso come oscillazione tra essere e nulla. Da tale contrasto deriva una sostanziale incapacità di accettare
la finitudine, che viene quindi costantemente combattuta e rimossa perché gli spazi simbolici abitati
dall’uomo occidentale esprimono solo l’incapacità di pensare l’eternità come essere intrinseco ed
inalienabile di tutto ciò che è.
La rimozione da parte della cultura contemporanea degli argomenti che ineriscono alla morte e all’analisi
critica dei contenuti religiosi impedisce una autentica riflessione sull’errore fondamentale che rende il
pensiero della morte insostenibile, terrificante e libero di agire nel nostro inconscio senza barriere
concettuali. L’importanza quindi di allestire percorsi di death education di comunità, e parallelamente
pre/post-lauream e professionali, per garantire riflessioni epistemologicamente corrette sui temi della
morte edel rapporto tra religione, spiritualità, scienza e senso dell’essere è ormai ampiamente sentita e
riconosciuta come irrinunciabile.

6. Questioni interculturali nella gestione della morte


La cultura occidentale è sostanzialmente critica nei confronti delle religioni perché ne vede i limiti e le
implicazioni, specialmente morali, che si traducono in conseguenze politiche ovvero economiche. Il
tramonto dellereligioni di Stato, tanto in Europa quanto in Italia, in linea con i diritti umani
fondamentali, permette quindi alle persone di intraprendere liberamente i propri percorsi di riflessione
sulla trascendenza.
In Italia ormai si discute ampiamente del problema, tanto che a partire dal 2014 è stato riconosciuto e
introdotto nel codice di deontologia medica il concetto di
«disuguaglianze nella salute», che segnala la volontà di contrastare le dinamiche discriminatorie che
limitano l’accesso ai servizi di cura a determinate categorie di persone. L’universalità dei diritti umani, in
quanto fondata sul concetto di dignità e autonomia personale, richiede in tal senso un lavoro capillare per
garantire il rispetto delle prospettive assunte da ognuno. Il pilastro su cui si erigono le nuove politiche
europee riconosce infatti pari dignità e importanza a tutti gli individui, indipendentementedalle loro
caratteristiche bio-psicosociali e religiose. In Italia, tutto questo è stato assunto con il riconoscimento del
principio di autodeterminazione, quale fondamento del rapporto con l’ammalato e il morente, senza che
possa essere imposta alcuna prospettiva morale specifica aderente a una religione o ideologia particolare.
La società italiana è ormai da decenni fortemente interculturale e, sebbene alla base della propria
Costituzione sia stato stabilito che tutti i cittadini hanno diritto alla salute, le difficoltà nell’organizzare
capillarmente l’erogazione dei servizi sanitari per rispettare questo nodo permangono. Molte dinamiche
sociali creano tutt’oggi notevoli disparità nel trattamento, laddove status socio-economico e cultura di
provenienza costituiscono ancora una fonte potenziale di disparità. Spesso questi fattori sono infatti
saldamente intrecciati tra loro, a causa di barriere linguistico-culturali che limitano l’accesso alle
informazioni, l’inserimento nelle reti di sostegno e una efficace comunicazione sociale.
La psicologia palliativa mette a disposizione del TCP strategie utili a ridurre la distanza con coloro che
appartengono a gruppi minoritari. La capacità di trovare elementi comuni tra i simbolismi su cui si erige il
senso dell’esistenza permette di edificare un ponte tra TCP e paziente, che viene dunque coinvolto in forma
attiva nella relazione di cura. Il primo fattore da tenere in considerazione è l’universo valoriale di
riferimento, per poterlo rispettare riconoscendone la portata e il nesso rispetto all’identità personale che
su di esso è stata costruita lungo la vita. Rispettare questi cardini che orientano il pensiero morale e il
comportamento del morente e dei familiari,permette di salvaguardare la loro autostima, che la condizione
di malattia hagià messo in crisi.

7. Note sui metodi qualitativi per la rilevazione clinica e per la ricerca


Lungo tutto il volume sono state via via presentate alcune scale per la rilevazione di variabili che conviene
tenere in considerazione quando si intendono vagliare specifiche criticità. La psicologia vanta più di un
secolo di storia rispetto alla produzione di evidenze empiriche e alla validazione di test e questionari nonché
di strategie per dimostrare l’attendibilità di costrutti e interventi. In alcuni casi, però, gli strumenti
standardizzati possono non raggiungere il cuore dei problemi che si vogliono prendere in considerazione,
specialmente quando si abbia a che fare con questioni esistenziali profonde, come sono quelle che
riguardano i confini della vita ele convinzioni intorno all’aldilà.
Ormai da qualche decennio si sono quindi consolidate anche in ambito psicologico, insieme a quello
medico-infermieristico, le strategie di ricercae rilevazione di tipo qualitativo. A partire dalla Grounded
Theory e dall’etnometodologia che hanno fortemente enfatizzato l’esigenza dicomprendere piuttosto che
di spiegare. In ambito clinico, infatti, il lavoro interpretativo è diventato ormai una parte costitutiva dei
processi di monitoraggio degli interventi, il quale può supportare, orientare e a volte sostituire
l’osservazione convenzionalmente definita oggettiva. L’obiettivo fondamentale è infatti quello non tanto
di descrivere o prevedere fenomeni grazie all’osservazione del rapporto tra poche variabili misurabili,
quanto piuttosto di indagare in modo molto approfondito alcuni aspetti, casi, problemi ancora poco
definiti, cercando di ottenere tutte le informazioni utili a comprenderne le qualità. Tra i metodi di
rilevazione utilizzati emergono per importanza l’uso delle interviste strutturate, semi- strutturate e non
strutturate; l’osservazione partecipante o etnografica; l’osservazione a distanza; il focus-group; l’analisi di
materiale documentale, registrato o scritto.
I dialoghi devono essere registrati e trascritti verbatim, per ottenere il corpus da sottoporre alla successiva
fase di analisi. L’analisi del contenuto può avvenire rispettando procedure manuali o assistite da computer
(Computer-aided Qualitative Data Analysis Software) che permettono di fare inferenze valide e attendibili,
attraverso strategie quantitative oppure qualitative in senso stretto, tenendo presenti alcuni cardini
fondamentali per rintracciare successivamente il loro nesso con la domanda di ricerca: chi dice, che cosa,
a chi, con quali effetti e perché, al fine di descrivere le caratteristiche di un messaggio, esplicitandone gli
antecedenti e le motivazioni, e talvolta anche gli effetti. È altresì importante rilevare che attualmente
l’integrazione tra prospettive positiviste, post-positiviste, teorie critiche e costruttivismo sta aprendo le
porte al mixed method che valorizza gli assunti di ognuna di queste e le possibili combinazioni senza
considerarne la loro mutua esclusione, in quanto lo studio della condizione umana è caratterizzato da una
irriducibile complessità che non può essere sottoposta in nome del rigore alle costrizioni del lettino di
Procuste. I disegni di ricerca con metodomisto, molto valorizzati in ambito clinico e sanitario, combinano
infatti approcci qualitativi e quantitativi permettendo di ottenere una comprensionepiù ampia e poliedrica
dei fenomeni indagati. I disegni di ricerca che adottano tale strategia sono abbastanza complessi perché
devono stabilire il tipo di relazione tra dati qualitativi e quantitativi, ovvero se l’interazione trai due tipi di
dati sia totale o parziale e quale sia dominante sull’altra, definendo quindi i tempi di raccolta e analisi dei
dati (simultanea o sequenziale).
Nel campo della psicologia palliativa è comunque auspicabile il ricorso a questo metodo, data la sua
plasticità e possibilità di entrareapprofonditamente nelle questioni che devono essere affrontate.
CONCLUSIONI
Poiché il tema dell’accompagnamento è centrale nel fine-vita, è importante concludere il presente
volume sulla psicologia palliativa tenendo presenti alcuni aspetti significativi relativi alla gestione
dell’ultimo compito evolutivo di ognuno, ovvero al raggiungimento della saggezza. La temperie
culturale odierna sembra aver eclissato il valore di questo traguardo e aver cancellato il messaggio
sostanziale che l’umanità, fin dalle sue prime tracce lasciate per gli epigoni, continua a scrivere
ininterrottamente. La saggezza è la disposizione a capire tutto ciò e in particolare il compito che
ognuno è chiamato a svolgere in questo sentiero. Nonostante tutto sembri voler mettere duramente
alla provachi si cimenti in tale intento per vederlo fallire, come se si trattasse di uno spettacolo utile
a dimostrare che si tratta di un’idea priva di significato, le più o meno enormi volontà di scegliere
l’errore per osannare l’onnipotenza del caos sono di fatto soltanto eventi che impongono di essere
elaborati e compresi per definirne il confine, ovvero il limite intrinseco. Certamente, perseguire tale
obiettivo in solitudine è molto difficile, ma siffatto cimento può essere più gestibile quando sia la
società intera a volerlo.
I contenuti che devono quindi essere gestiti come sapere fondamentale sono certamente molti, ma
alcuni sono imprescindibili per rendere comprensibili alcune coordinate che permettono di orientarci nel
corso dellastoria e del mondo in cui viviamo. Il primo riguarda il comprendere perché crediamo che il
concetto di saggezza non abbia più alcun senso, come pure non lo abbia più il memento mori. Il diniego
rivolto a questa apertura di significato ha preso consistenza da quando il pensiero post-moderno ha
definitivamente messo in crisi qualsiasi volontà di verità rispetto alla salvezza che le religioni erano
convinte di poter presentare fino agli inizi del secolo scorso. La caduta degli immutabili, come la definisce
Emanuele Severino, consiste proprio in questo, ossia nella perdita di ogni certezza rispetto alle strutture
metafisiche che intendevano presentare inconfutabilmente il rapporto tra mondo e Assoluto. La
relativizzazione del sapere ha quindi decretato il trionfo inarrestabile del sapere scientifico e della tecnica,
relegando ogni pensiero sulla salvezza dalla morte alla dimensione della fede, intesa ormai solo
come speranza e non come sapere incontrovertibile. Poiché psicologicamente è possibile affrontare
l’evidenza della morte solo se si sa come gestire l’angoscia che da essa deriva, l’aver perso certezze
rispetto alla possibilità di rappresentarla come un passaggio ha quindi prodotto come esito la sua
cancellazione dal linguaggio su questioni di vita reale. Di fatto però tale rimozione non aiuta le persone
né a crescere né agestire al meglio i momenti critici che si devono affrontare, perché è inevitabile, da
ultimo, morire. Le esperienze di death education stanno mettendo in evidenza come sia necessario
parlare di tutto questo, perché bambini, adolescenti, adulti e anziani sono intelligenti e possono prendere
coscienza delle trasformazioni culturali in atto e della lororicaduta sui processi di significazione delle nostre
azioni quotidiane. Permettere di capire il valore intrinseco della fede e del bisogno di credere per lenire
l’angoscia di morte – ma anche l’importanza di confutare i contenuti religiosi e del perché una pervasiva
superficialità caratterizzi la comunicazione dominante, rendendoci incapaci di affrontare le prove difficili
che le malattie più gravi ci impongono – aiuta a gestire con maggiore consapevolezza le contraddizioni
della vita contemporanea. Poiché il fondamento della maggior parte delle prospettive religiose che
abitano i nostri territori riguarda la dimensione ultraterrena che stabilisce le forme di continuazione
dell’esistenza oltre i limiti della vita, l’intervento psicologico palliativo è dunque chiamato a declinare il
proprio linguaggioin funzione delle specifiche rappresentazioni che emergono nei diversi scenari della
salvezza. L’istanza spirituale ancorata alla rappresentazione dell’esistenza oltre la morte è infatti la fonte
della sua portata consolatoria edunque della resilienza che permette di fronteggiare dolore e perdita.
Per rispondere al perché del valore della saggezza, vorrei quindi chiudere riprendendo l’insegnamento del
mio grande maestro Emanuele Severino, il quale mostra in modo incontrovertibile che siamo già da
sempre salvi, perché l’eternità è esattamente ciò che costituisce l’esistenza di tutto ciò cheappare. Poiché
il suo discorso è rigorosamente fondato su una base logica inossidabile e non su fantasie del cuore o del
desiderio, come pure non è esito di una scommessa intellettuale, certamente le religioni che hannobasato
il loro fondamento su principi di verità metafisici, ovvero razionali, possono trovare in questa indicazione
la soluzione al problema della confutazione radicale e irreversibile che il Novecento ha sviluppato. I critici
che mettono radicalmente in forse il valore del memento mori sono quelli che più o meno
consapevolmente pensano che la morte sia annientamento. Ma poiché Emanuele Severino mostra in
modo inconfutabile l’impossibilità di questa fede, converrebbe che coloro che intendono recuperare i
significati che abitano la profondità di ciò che più autenticamente ci consola abbiano la forza di
rintracciare, con un impegno di studio e ricerca importante, i segnali che lungo il sentiero della notte
hanno lasciato intravvedere nella narrazione religiosa i primi raggi dell’alba che testimoniano l’eternità.
Certo, questa idea richiede un lavoro ermeneutico grandioso, ma visto che i giorni che ci sono dati per
abitare il mondo sono inevitabilmente contati, perché non fare studi tanto imponenti quanto splendidi?

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