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L’irriducibile istanza di rimuovere la morte e la riflessione esistenziale che essa richiede, in Occidente
promossa da una cultura adulta egemone, costantemente rivolta ai processi di costruzione e sviluppo della
società, se da un lato è necessaria per garantire la massima concentrazione sul lavoro e sui complessi
apparati produttivi, dall’altro invece risulta disfunzionale per la comunicazione all’interno delle relazioni
intime e familiari, specialmente dopo la notizia peggiore. La disgregazione delle relazioni intergenerazionali
all’interno della famiglia nucleare, dovuta anche al fatto che gli stessi giovani adulti sono chiamati per la
loro carriera lavorativa a una alta mobilità, che li allontana da anziani genitori e nonni, produce come effetto
la perdita del contatto, loro e dei loro bambini, con il decadimento fisico, ormai sistematicamente affidato
a strutture sanitarie e badanti. Le leggi 38/2010 e 219/2017 impongono che il piano di cura all’interno del
modello palliativo sia partecipato e che la condivisione abbia inizio a partire dalla comunicazione della
diagnosi e della prognosi infausta. La relazione di cura basata sul consenso informato, libero da frodi quindi
sull’onestà rispetta infatti la volontà del paziente o dell’anziano, la quale deve poter essere espressa
sempre liberamente, rappresentando così per il medico un riferimento costante al quale ispirare
l’intervento. La carenza di competenza comunicativa, se per un verso può in apparenza facilitare
l’interazione tra paziente, familiare, medici e infermieri, per l’altro produce esiti dannosi tanto alla
comunità curante quanto a chi deve morire. Nel primo caso possono infatti presentarsi conseguenze
negative, anche di tipo legale, derivanti dalla disattesa di aspettative irrazionali non gestite in modo
appropriato al momento opportuno. Nel secondo caso, il più importante, la persona destinata a morire
non viene efficacemente supportata nello svolgimento del suo compito finale, quello della completa
autorealizzazione. Non permettergli questo significa in qualche misura de-umanizzarla.
Di fatto, allo stato attuale, gli operatori sanitari sono preparati per parlare solo un linguaggio tecnico e
devono dare la notizia peggiore proprio quando i pazienti e i loro familiari si trovano in una
condizione di forte fragilità emotiva. Lo psicologo può dunque aiutare a gestire la graduale presa di
coscienza e le reazioni emotive tanto del paziente e dei familiari quanto del personale medico e
infermieristico, elaborando percorsi dedicati all’acquisizione di competenze comunicative e relazionali
idonee. Dire la verità nel comunicare la notizia infausta richiede infatti una capacità relazionale particolare
perché l’impatto è sempre negativo e può essere più o meno grave, a seconda di fattori cruciali, come per
esempio le abilità relazionali del medico e la preparazione della persona che riceve la notizia. Una delle
difficoltà spesso riscontrate nelle strutture sanitarie riguarda il tempo che questa operazione richiede.
La condivisione del piano che prevede la sospensione delle cure attive e lo sviluppo delle cure palliative
deve avvenire all’interno di una autentica alleanza terapeutica.
La letteratura al riguardo vanta una tradizione importante, a partire da Sigmund Freud, il quale aveva
messo in luce come la psicoterapia possa ottenere successo solo quando il terapeuta conquisti la
collaborazione del paziente. Questo tipo di relazione si costituisce fondamentalmente sulla base di tre
elementi: basare la relazione sull’esplicita condivisione di obiettivi, sulla chiara definizione del metodo,
ovvero dei compiti e delle responsabilità e sulla fiducia reciproca. L’alleanza tra TCP e paziente è
importante perché i fattori che costituiscono la condizione terminale sono molteplici mentre il loro
andamento è sostanzialmente imprevedibile, e questo comporta una intrinseca inaffidabilità diagnostica
che deve poter essere gestita prevenendo frizioni e incomprensioni. Rispetto al criterio temporale, siffatto
periodo è infatti variabile e oscilla dalle poche ore ad alcuni mesi, fino a un limite di circa un anno. Rispetto
invece alla sua fenomenologia sintomatica esso si differenzia in base a diverse categorie nosografiche. I
profili più conosciuti sono tre, i quali descrivono le traiettorie proprie delle maggiori patologie croniche
progressive. Il primo andamento riguarda le malattie oncologiche ed è caratterizzato da un declino
generale e costante, che avviene nel giro di settimane. Il secondo percorso tipico delle patologie
cardiovascolari e respiratorie, si dipana attraverso un decadimento graduale, punteggiato da episodi
acuti, che causano improvvisi peggioramenti, seguiti da riprese oppure dalla morte che può avvenire in
maniera apparentemente inaspettata, anche dopo sei mesi dall’ultima crisi. Il terzo tragitto appare nelle
patologie neurologiche e della senilità avanzata ed è caratterizzato da una decadenza graduale e
prolungata, all’interno di un quadro cognitivo o prestazionale deteriorato, in cui la morte sopraggiunge in
seguito a unevento traumatico o acuto. La finalità esplicita della pianificazione delle cure è quella di
prevenire e gestire lo stato di «dolore totale» in cui si trova il paziente terminale. Indicata per la prima
volta da Cicely Saunders (2011), colei che ha inaugurato le cure palliative e lo spazio ospedaliero in cui
erogarle, la totalità a cui si riferisce tale concetto riguarda la condizione di crisi che investe l’interezza della
persona: somatica, psicologica, sociale e spirituale.
Rispetto al dolore totale, gli aspetti psicologici guadagnano un ruolo di primo piano, in quanto devono
essere tenuti sempre presenti tre dimensioni fondamentali del vissuto di malattia: disease (esperienza
fisico-biologica di deperimento che annuncia la morte); illness (emozioni intense legate alla percezione
dell’imminenza della morte); sickness (cambiamento del ruolo sociale del morente e suo isolamento). Una
corretta pianificazione del pianoterapeutico richiede che questi tre livelli vengano quindi costantemente
monitorati attraverso la Scala di Performance di Karnofsky (1949) e l’indice della qualità della vita
dell’Eastern Cooperative Oncology Group (ECOG) (Verger et al. 1992). Molto importante nei processi
decisionali legati alla pianificazione delle cure, rispetto alla possibilità di attivare cure domiciliari, è il
monitoraggio dei livelli di distress ospedaliero. Risponde bene a questa istanza uno strumento validato
anche in italiano, ovvero l’Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS: Zigmond e Snaith 1983) che
misura il livello di ansia e depressione del paziente ospedalizzato.
2. Competenza comunicativa
La psicologia palliativa opera dunque su due piani, il primo è quello del lavoro a diretto contatto con
pazienti, familiari e comunità, nelle cure palliative di primo, secondo e terzo livello erogate in ospedali, RSA,
hospice e reti domiciliari. Il secondo piano consiste in un meta-livello, in quanto offre le competenze
imprescindibili che riguardano aspetti comunicativi e relazionali necessari tanto per le dinamiche
interpersonali di tutto il TCP quanto per quelle intra- e intersistemiche, finalizzate a garantire la qualità
delle terapie insieme alla riduzione degli sprechi per il SSN. Dal punto di vista strategico, le competenze
offerte dalla psicologiapromuovono la comunicazione efficace, la quale richiede l’uso di contenuti semplici,
chiari e veritieri, espressi con l’autenticità che deriva dall’ascolto attivo ed empatico in grado di prestare
attenzione alla disponibilità del paziente. Il complesso di queste operazioni sul paziente definisce il profilo
dell’intervento in cui consiste il PAI. Il necessario coordinamento di ogni operazione è infatti reso possibile
dalla concertazione di piani, dalla promozione della circolarità della comunicazione per gli aspetti operativi
all’interno della rete e, all’interno di ogni passaggio, dalla ineludibile riflessione sulle variabili di natura
psicologica.
Uno degli obiettivi psicologicamente più rilevanti che i professionisti palliativisti sono chiamati ad acquisire
è la capacità di affrontare i temi che riguardano la morte. Alcune ricerche mostrano che favorire il
confronto su tali argomenti non risulta stressante per il personale medico-infermieristico e altresì che
queste esperienze sono d’aiuto nella costruzione di un rapporto positivo con i malati e i familiari.
L’incompetenza relazionale è infatti alla base di atteggiamenti cautelativi che ostacolano l’autenticità
necessaria per una effettiva alleanza terapeutica. Purtroppo, quando tali interazioni sono disfunzionali, è
inevitabile per un verso che venga messo a repentaglio il rispetto della volontà del paziente, specialmente
nei processi decisionali del fine-vita. La capacità di affrontare in prima persona il limite della vita e saperne
parlare esercitando questa abilità aiuta a gestire più serenamente le relazioni, tanto con i colleghi quanto
con l’utenza.