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Palliazione e fine vita

Giacomo Andreani, Anna Calabrese, Cristina Cerruti, Elisa Costantini, Salvatore D’Agnano,
Angela Dupuis, Roberto Galliano, Edoardo Pace, Giusy Palamà, Gabriele Traviglia,
Libero Ciuffreda, Paolo Cotogni, Anna De Luca

1) Normativa di riferimento e definizioni

In Italia le due leggi fondamentali che normano l’accesso alle cure palliative e alla terapia del
dolore sono la Legge n. 38 del 2010 e la Legge n. 219 del 2018. Esse sono il frutto di un cammino
molto faticoso, che ha dovuto vincere retaggi culturali fortissimi e che visto il nostro Paese fare
passi in avanti straordinari negli ultimi decenni in tema di cure palliative. Hanno aperto una strada e
certificato il lavoro di tanti professionisti (medici, infermieri, bioeticisti, teologi, psicologi) che
negli anni ‘80 e ‘90 hanno posto le basi per creare quello che oggi abbiamo sul territorio e iniziamo
ad avere negli ospedali, e che costituisce la rete di cure palliative. Queste due leggi ad oggi
rappresentano la base per la gestione non solo ospedaliera, ma anche territoriale, di tali cure.
In particolare, la Legge n. 38 del 15 marzo 2010 all’art. 1, comma 1 tutela il diritto del cittadino ad
accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore.
La Legge n. 219 del 22 dicembre 2017 all’art.1 declina invece la necessità di formazione continua
da parte dei medici e degli altri esercenti le professioni sanitarie in materia di relazione e
comunicazione con il paziente, di terapia del dolore e di cure palliative. A seguito di questa
disposizione, nel gennaio del 2018 il MIUR ha aperto l’insegnamento delle Cure Palliative e della
Terapia del Dolore al Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia. All’articolo 2 (Legge n. 219, norme
in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) si ribadisce nel
dettaglio l’importanza di:
- terapia del dolore
- divieto di ostinazione irragionevole delle cure
- dignità nella fase finale della vita

Le cure palliative prevedono un modello di cura incentrato sulla interdisciplinarità di un team che
include medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali e che vede possibile l’eleggibilità di pazienti
di ogni età, con una qualsiasi diagnosi e ad ogni stadio di malattia, prevedendo anche la possibilità
di continuare trattamenti attivi.
Tuttavia esistono ancora delle barriere all’accesso alle cure palliative 1, rappresentate da preconcetti
non ancora superati:
- le cure palliative vengono spesso considerate sinonimo di hospice, ovvero si confonde una
modalità di trattare il paziente con un luogo di cura;
- le cure palliative vengono spesso considerate appropriate solo nell’imminente fine vita,
anche da parte di medici e operatori sanitari;
- si teme spesso che i pazienti potrebbero reagire in modo negativo e perdere ogni speranza di
fronte all’introduzione della possibilità di un accesso a cure palliative.
Potrà sorprendere ma il luogo che più comunemente viene disposto alle cure palliative è l’ospedale
e non l’hospice. All’interno dell’ospedale il modello di presa in carico del paziente è quello del
team interdisciplinare e tutti gli ospedali di riferimento dovrebbero includere delle unità/reparti
propriamente dedicati; molti studi randomizzati hanno evidenziato come i pazienti riferiti a dei team
di palliative care ospedaliera hanno una riduzione dei sintomi, una migliore qualità di vita, un
ridotto distress emozionale. Si riporti a titolo informativo l’obiettivo raggiunto dal sistema sanitario
statunitense che nel 2015 dichiarava come il 90% degli ospedali con più di 300 posti letto e la quasi
totalità degli ospedali universitari avessero messo in atto un sistema di Unità di Cure Palliative.
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Nel luglio 2015 l’Azienda Ospedaliera Città della Salute e della Scienza di Torino si è organizzata
per definire un Team di Cure Palliative Ospedaliere di tipo multiprofessionale (medici, infermieri,
psicologi) e multidisciplinare (anestesisti, oncologi, internisti, geriatri) e dal 2018 si è dotata di un
reparto di Acute Palliative Care che ha visto nei quasi 3 anni di attività 691 ricoveri (il 50% dei
pazienti provenienti da DEA e Medicina e il 50% da altri reparti).
Le cure palliative una volta erano appannaggio solamente dei pazienti oncologici e degli oncologi;
con il tempo, i reparti di Medicina Interna e anche molti Hospice hanno cominciato ad applicare le
cure palliative anche in pazienti con malattie non oncologiche, come insufficienze d’organo
severe/avanzate cardiache, respiratorie, renali, epatiche o malattie neurologiche degenerative. In
effetti le cure palliative devono essere applicate nei diversi setting in tutti i pazienti con malattie
cronico-degenerative ad esito infausto (life-limiting illnesses). È stato dimostrato infatti come i
sintomi che caratterizzano le fasi avanzate di diverse patologie come cancro, scompenso cardiaco,
BPCO, insufficienza renale cronica, demenza, AIDS sono molto spesso gli stessi (ovvero dolore,
dispnea, stanchezza, anoressia, nausea e vomito, costipazione, ansietà, depressione, disturbi del
sonno).
Altro concetto è quello del fine vita: per definizione i pazienti in fine vita sono quelli che hanno una
probabilità di andare incontro a decesso nei successivi 12 mesi 2, quindi nulla a che vedere con quelli
che sono nell’imminenza della morte, ovvero il cui decesso è attesa entro giorni od ore. In
contrapposizione ad un approccio dicotomico “cure or palliative care” è pertanto incoraggiato un
approccio di early palliative care, che prevede l’avvio precoce delle cure palliative ad integrazione
dei trattamenti attivi/curativi per meglio gestire i sintomi e migliorare così la qualità di vita del
paziente3.
La definizione delle Cure Palliative della European Association for Palliative Care si riassume in
tre statements lapidari:
- il Cosa: il controllo dei sintomi e dei problemi psicologici, sociali e spirituali assume
un’importanza primaria, ovvero un approccio bio- e psico-sociale nel quale si prenda in
carico il paziente e tutta la sua famiglia, i suoi caregivers;
- il Dove: le cure palliative coinvolgono il paziente e la sua famiglia ovunque si trovi il
paziente, a casa o in ospedale;
- il Come: le cure palliative rispettano la vita e considerano il morire un processo naturale: il
loro scopo non è quello di accelerare o differire la morte ma quello di preservare la migliore
qualità di vita possibile fino alla fine.
Diverse sono le Linee Guida, più o meno aggiornate, consultabili al riguardo (NICE, GIMBE,
SIAARTI, NCCN).

2) Il controllo dei sintomi

Il dolore.
Da più di vent’anni il dolore viene riconosciuto come quinto segno vitale, su suggerimento non di
anestesisti od oncologi ma di medici internisti 4: alla fine del secolo scorso il dipartimento
statunitense per i veterani, che gestisce una rete di ospedali che curano oltre 3 milioni di veterani, si
era reso conto che non si prestava sufficiente attenzione alla rilevazione e al controllo del dolore. In
un lavoro pubblicato su JAMA nel 1999 ne suggeriva la rilevazione routinaria, assimilandolo a
parametri come la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca, la temperatura e i parametri respiratori.
Il dolore è tempo di relazione tra l’operatore sanitario, medico o infermiere, e il paziente. Non c’è
nulla di strumentale che si interponga tra l’avente diritto di esprimere il proprio dolore e chi ha un
obbligo di rilevarlo. Il dolore può essere rilevato con una scala da 0 a 10, la cosiddetta Numerical
Rating Scale (NRS), chiedendo al paziente collaborante di indicare un numero da 0 a 10, fornendo
questa semplice regola: da 1 a 3 dolore lieve, da 4 a 7 dolore moderato, da 7 a 10 dolore severo. La
scala Visual Analogue Scale (VAS) può essere utilizzata solo se si fa vedere la scala al paziente e il
paziente indica con il dito un numero. Nei pazienti che non sono in grado di esprimere una risposta
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(pazienti con demenza o con altre condizioni cliniche che causino alterazioni dello stato di
coscienza) è possibile utilizzare la scala PAINAD, che è nata per la demenza ma prevede
valutazioni che sono proprie dell’operatore (valutazione di respiro, vocalizzazione, espressione
facciale, linguaggio del corpo, consolabilità).

La legge n. 38 ricorda all’articolo 7 l’obbligo di rilevare e riportare la rilevazione del dolore in


cartella clinica. L’obbligo riguarda non solo la necessità di indicare il valore sulla scala NRS, ma
anche di riportare le caratteristiche del dolore rilevato e la sua evoluzione nel corso del ricovero;
deve essere riportato il continuo monitoraggio del dolore, nonché la tecnica antalgica e i farmaci
utilizzati, i relativi dosaggi e i risultati antalgici conseguiti. Ad esempio, se viene riportato in
cartella dolore NRS 7 e viene somministrata morfina 5 mg, deve poi essere rilevata e trascritta la
risposta alla terapia, per esempio se NRS è divenuto 0, 1, 3, allo stesso modo in cui quando viene
somministrato un farmaco antipertensivo o diuretico viene poi riportata la riduzione della pressione
e la diuresi oraria.
A parità di estensione di malattia, di dolore nocicettivo e viscerale, è esperienza comune che i
pazienti rispondano in modo diverso alla terapia antalgica: la consapevolezza che il dolore è una
esperienza emotiva sensoriale personale è importante per l’approccio biopsicosociale delle cure
palliative. La percezione del dolore può infatti essere aumentata dalla paura della morte,
dell’ospedalizzazione, dell’isolamento, della perdita di ruolo sociale, lavorativo e familiare, dalla
preoccupazione di lasciare dei figli minori, di lasciare situazioni economiche irrisolte, dall’insonnia,
dall’astenia. L’ansia, la rabbia, la depressione condizionano ulteriormente la percezione del dolore
in termini negativi, mentre buon sonno, attività, progettualità, empatia con chi rappresenta in quel
momento il curante, solidarietà sociale rappresentata da famigliari e da caregivers, possono
diminuire la percezione del dolore. Cicely Saunders, madre delle cure palliative internazionali, è
stata la prima a dare una definizione di dolore totale, di cui la sofferenza è solo una parte assieme
anche all’aspetto psichico, sociale e spirituale. Fu anche la prima ad introdurre la terapia con
oppioidi ad orario fisso (prima venivano dati solo al bisogno).
Caso clinico. Paziente di 67 anni affetta da carcinoma della mammella con multiple secondarietà
ossee in trattamento attivo con ormonoterapia e chemioterapia orale. Le metastasi ossee, in questo
caso, non hanno indicazione a radioterapia né a vertebroplastica ma solo a busto ortopedico che la
paziente indossa poco. La paziente vive sola e ha due figli non conviventi. E’ stata dimessa e
nuovamente ricoverata a distanza di pochi giorni perché il dolore non era controllato. Nel
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precedente ricovero era stata effettuata una rotazione da ossicodone a fentanyl transdermico, ed
era stata avviata terapia con eparina a basso peso molecolare per il riscontro di una
tromboembolia polmonare. La consulenza alle cure palliative viene richiesta per la gestione del
dolore. Alle radiografie non vi sono segni di cedimento vertebrale. Si decide dunque di effettuare
rotazione da fentanyl transdermico a morfina per via endovenosa.
Di seguito viene riportato lo schema per la titolazione con oppiacei per via endovenosa in caso di
dolore grave severo.

Innanzitutto, bisogna indagare la quantità di oppiacei assunta dal paziente nelle ultime 24 ore. In
questo caso 75 mcg di fentanyl corrispondono a 180 mg di morfina orale. Ogni 25 mcg di fentanyl
transdermico equivalgono a 60 mg di morfina orale. La conversione va sempre fatta a morfina orale
e successivamente a morfina endovenosa. L’equivalenza per via endovenosa di morfina orale va
divisa per 3, in questo caso 180/3 = 60 mg. La dose iniziale deve essere 1/6 della dose fatta nelle 24
h, in questo caso 60/6 = 10 mg di morfina per via endovenosa somministrata a bolo (la titolazione
non si fa in infusioni lente ma a bolo nell’arco di qualche minuto, anche in caso di dosi maggiori).
Dopo 15 minuti, si effettua una rivalutazione:
- se NRS 0-3 bisogna effettuare una rivalutazione ad 1 ora per decidere se la dose è
sufficiente. Successivamente, si effettua una nuova verifica a 4 ore (la morfina ha
un’emivita di 4 ore). Dopo 4 ore si risomministra la stessa dose che si è dimostrata efficace.
Se per 4 ore il paziente ha avuto un dolore con NRS 0-3 la dose è efficace. Se la dose
efficace ad esempio è 10 mg bisogna moltiplicare la dose per 6, quindi 60 mg, che
corrisponde alla dose da effettuare in infusione continua nelle 24 h.
- se NRS 4-6 a 15 minuti bisogna risomministrare la stessa dose (ad esempio altri 10 mg) e
rivalutare a 15 min. Se alla seconda rivalutazione NRS 0-3 la dose corretta è 10 mg x 2 = 20
mg, 20 mg x 6 = 120 mg nelle 24 ore.
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- se NRS 7-10 a 15 min bisogna raddoppiare la dose, es. 20 mg e rivalutare a 15 min. Trovata
la dose a cui il paziente risponde e il dolore è abbastanza controllato, sarà l’ultima dose
somministrata e non il dosaggio cumulativo a dover essere considerata per calcolare il
quantitativo di morfina da somministrare nella giornata.
Le infusioni vanno fatte in 250 cc a 11 cc/h in modo da non sovraccaricare di liquidi il paziente.
Caso clinico. Paziente con tumore dell’ano in corso di radioterapia, alle 9 del mattino durante la
visita riferisce dolore NRS 10. Si inizia la titolazione con 10 mg di morfina, dopo 15 minuti si
raddoppia a 20 mg; dopo 15 minuti, non avendo ottenuto beneficio, si raddoppia a 40 mg; alla
rivalutazione successiva dolore con NRS ridotto del 50% rispetto a NRS di partenza, quindi la dose
viene considerata efficace. Per la dose giornaliera si moltiplica 40 x 6 = 240 mg di morfina nelle
24 h. Una volta individuata la dose delle 24 h, se il paziente ha dolore con NRS superiore a 3 può
essere effettuata la dose rescue, che è sempre 1/6 della dose totale. Come seconda scelta spesso
vengono utilizzati antinfiammatori non steroidei. Nel caso di questa paziente la morfina è stata
messa a dosaggio non titolante perché non vi erano segni clinici di dolore e perché la diuresi era
ormai marcatamente contratta.
Il dolore osseo è uno dei tipi di dolore in cui c’è minor risposta all’oppioide, e paradossalmente in
taluni casi il paracetamolo per via endovenosa apporta un miglior beneficio rispetto alla morfina. In
particolare, le metastasi osteolitiche (es. quelle da carcinoma mammario), a differenza di quelle
osteoaddensanti (es. quelle del carcinoma prostatico), oltre a comportare un aumento del rischio di
fratture spesso provocano un dolore non totalmente controllabile con la sola morfina, a causa della
liberazione di fattori pro-infiammatori (prostaglandine, ecc…). In questi casi sono molto efficaci i
FANS, la cui alta incidenza di effetti collaterali ne limita l’impiego come terapia cronica ma la cui
utilità è riconosciuta come terapia al bisogno in associazione agli oppioidi (es. artrosilene al
dosaggio massimo di 160 mg, a volte basta anche solo mezza fiala). Bisogna però prestare
attenzione nel loro impiego, perché spesso questa tipologia di pazienti assume già altri farmaci che
hanno un impatto sulla coagulazione (es. steroidi o NAO) e che comportano un alto rischio di
sanguinamento, soprattutto gastrico.
La terapia del dolore va modulata anche il relazione alla natura del dolore: il dolore nocicettivo e
quello viscerale avranno una terapia diversa da quello di tipo neuropatico, in cui spesso vengono
usati gli steroidi.
Inoltre, vanno riconosciuti quei fattori come l’ansia, l’insonnia, la depressione, che aumentano la
percezione del dolore, in modo da intervenire su di essi in modo mirato con ansiolitici e
antidepressivi (che hanno anche una duplice azione, sia antidepressiva sia analgesica) e così agire
sulle componenti che influenzano il dolore.
Infine, l’azione combinata derivante dall’associazione di due diversi farmaci consente di ridurre i
dosaggi dei singoli, aumentano l’efficacia della terapia antalgica e riducendo l’incidenza degli
effetti collaterali.

Occlusione intestinale maligna.


La gestione dell’occlusione intestinale maligna prevede di applicare il Protocollo delle 4 A, agendo
per prima cosa sui sintomi causati dall’ostruzione, poi sull’intestino per cercare di risolvere
l’ostruzione:
- Antiemetico: ondasetron + clorpromazina
- Antiinfiammatori (uso dosaggi off label di cortisonici) per cercare di risolvere l’occlusione
- Antisecretivi: cimetidina (dosaggio off label), comprata come farmaco estero. Se non basta
da sola si aggiunge octreotide (importante fare la dose di carico di 0.3 mg)
- Analgesici
Caso clinico. Paziente di 75 anni affetta da recidiva di carcinoma del colon, già sottoposta a
emicolectomia destra e asportazione parziale del muscolo psoas destro undici mesi prima.
Ricoverata per progressione di malattia locale che ingloba l’ala iliaca destra e i tessuti molli del
fianco destro, complicata da occlusione intestinale maligna. Non indicazioni da parte dei Curanti a
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ulteriori trattamenti chirurgici o chemioterapici. La paziente ha nausea e vomito, è stato quindi
posizionato un SNG con drenaggio di 400 cc di materiale biliare. A questo punto abbiamo messo a
punto un protocollo adeguato per l’occlusione intestinale maligna. Nel protocollo non è previsto un
procinetico, poiché in caso di occlusione intestinale maligna non c’è più possibilità di recuperare
la canalizzazione del paziente, quindi farmaci come la Neostigmina non trovano impiego questo
contesto. Il protocollo prevede di agire sui sintomi del paziente, come la nausea, utilizzando gli
antiemetici. In questa categoria di farmaci è stato scelto l’Ondansetron al dosaggio di 4 mg in SF
100 cc ogni 12 ore aumentabile a 8 mg ogni 12 ore. La metoclopramide ©PLASIL non viene
utilizzata in questo contesto poiché non può essere usata per più di 5 giorni di seguito.
All’Ondansetron si associa la Clorpromazina ©LARGACTIL al dosaggio di 25-50 mg in SF 100 cc
ogni 12 ore (solitamente si incomincia con 25 mg bid, raramente nella pratica clinica è necessario
aumentare la posologia o ridurre l’intervallo tra le dosi). In secondo luogo si agisce cercando di
spegnere la componente infiammatoria legata al tumore con gli antinfiammatori. In questo caso
usiamo dosaggi off label di Desametasone, 8 mg ogni 12 ore. In terzo luogo, occorre ridurre la
secrezione intestinale con la Ranitidina (ora tolta dal commercio) o la Cimetidina 200 mg (farmaco
estero, ma rintracciabile in Italia) al dosaggio di 6 fl per un totale di 1200 mg in SF 500 cc in
continuo nelle 24 ore. Quando questa terapia non è più sufficiente a controllare le secrezioni
intestinali oppure non si è riuscita a reperire i farmaci, allora si può associare Octreotide 0.3 mg
in continuo nelle 24 ore, aumentabile fino a 0.9 mg previo carico con 0.3 mg a bolo. La
Scopolamina Butilbromuro ©BUSCOPAN non viene utilizzato in questo contesto ma soprattutto
per ridurre le secrezioni delle vie aeree. Da ultimo occorre agire sul controllo del dolore con
Morfina ev in continuo. La paziente è deceduta 30 giorni dopo l’inizio delle cure palliative con una
discreta qualità di vita, senza nausea né episodi di vomito, non è stato inoltre necessario
riposizionare il SNG. La mediana di sopravvivenza in un paziente con occlusione intestinale
maligna è solitamente di 19 giorni.
Nell’esperienza clinica si è osservato che mettendo in pratica questo protocollo è quasi sempre
possibile rimuovere il SNG dando sollievo ai pazienti e talvolta è stato anche possibile riprendere
un’alimentazione a scopo edonistico (bere o assaggiare cibi liquidi come il gelato). Il SNG incide
negativamente sulla qualità di vita del paziente ed è solitamente mal tollerato poiché limita in parte
la relazione tra il malato e chi gli sta accanto e inoltre complica il decorso clinico con decubiti e
necessità di medicazioni. È importante quindi considerare sempre la dignità e la qualità di vita del
paziente.

La dispnea.
Caso clinico. Paziente di 84 anni con diagnosi di cardiomiopatia, già ricoverato più volte per
scompenso cardiaco nell’arco dell’ultimo anno. Il paziente non è più suscettibile di terapie
cardiologiche attive e non vi è indicazione a dialisi. Il paziente è vigile, rallentato ma orientato,
presenta dispnea e distress respiratorio, buon compenso algico. I suoi parametri vitali sono PAO
110/75 mmHg, FC 92 bpm aritmici, SpO2 97% in ossigenoterapia, FR 29 atti/minuto, oligo-anuria.
Il paziente presenta una grave insufficienza respiratoria (P/F 100-150, ipocapnia). Agli
ematochimici funzione renale compromessa con creatinina 4.46 mg/dl. Viene effettuato il colloquio
con i familiari circa le condizioni cliniche, la prognosi e la necessità di sedazione palliativa per il
controllo dei sintomi refrattari. Viene quindi effettuata una somministrazione di morfina da 3 mg 1
fl sc, dopo la quale il paziente non è più in fatica respiratoria, la FR è scesa a 18 atti/minuto. Vista
l’insufficienza renale è stata consigliata terapia con morfina 3 mg ev ogni 6 ore. La
somministrazione di morfina per il controllo del distress respiratorio non si configura affatto come
un gesto eutanasico, dal momento che il paziente è deceduto a causa della sua malattia 9 giorni
dopo, e non a causa della terapia con morfina.
Bisogna sottolineare l’importanza della morfina nei pazienti dispnoici: uno degli equivoci più
importanti di questi anni è l’idea che la morfina potesse creare ulteriori problemi respiratori in
pazienti non oncologici. Un tempo era presente la cosiddetta “oppiofobia”, che rendeva difficile
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l’uso della morfina. Poi finalmente con la legge n. 38 l’uso di questo farmaco è diventato molto più
comune. Ci sono dei dati che mostrano la crescita dell’uso di questo farmaco, non solo in ospedale,
ma anche a domicilio. Tuttavia, permane ancora la paura dell’uso della morfina nei pazienti
dispnoici, anche tra i medici di medicina generale. D’altronde solo l’anno scorso l’AIFA ha
pubblicato una comunicazione di modifica delle caratteristiche del farmaco sulla morfina, in quanto
vi era ancora scritto che essa fosse controindicata nei pazienti con insufficienza respiratoria.

3) La consapevolezza e la comunicazione

Si tratta di un aspetto importante e molto controverso per chi si occupa di cure palliative: la
conoscenza da parte del paziente delle sue condizioni di salute è una componente fondamentale
della cura. È importante individuare una persona che sappia comunicare ciò che riguarda diagnosi e
prognosi, e se non si è in grado di usare le parole giuste per comunicare o non le si conosce è giusto
chiedere l’aiuto a chi è più esperto nella comunicazione, così come si fa per delle consulenze
specialistiche. D’altro canto, se il paziente non vuole ricevere informazioni su diagnosi e/o
prognosi, il medico deve rispettare la sua volontà: ogni paziente, prima di essere tale, è un cittadino
e ha diritto a scegliere in che misura essere consapevole della sua malattia. L’Articolo 1 della Legge
219, infatti, nel parlare della relazione di cura e di fiducia definisce che ogni persona ha diritto di
conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei
comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti
diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati con la possibilità di rifiutarli. Ha diritto di sapere, non
il dovere, quindi, se chiede, ha diritto di sapere e ha diritto di rifiutare l’accertamento diagnostico o
il trattamento. Oltre alla normativa, i quattro principi della bioetica sono la nostra bussola: di questi,
l’autonomia del paziente è l’elemento cardine.
Un lavoro pubblicato sul New England Journal of Medicine nel 2012 mostra un dato molto
interessante: quasi il 70% dei pazienti con un tumore al polmone e l’80% di quelli con un tumore
colon-rettale non ha capito che la chemioterapia che sta facendo non è una terapia curativa, ma una
terapia palliativa. Questa è una scala sul grado di consapevolezza della malattia (codice LOAD,
Level Of Awareness of Disease) che utilizziamo comunemente nei pazienti all’ingresso del nostro
reparto e nelle consulenze che effettuiamo. Ancora oggi, nel 2021, la maggioranza dei pazienti
presenta una consapevolezza di diagnosi ma non di prognosi (livello 1) o nella migliore delle ipotesi
ha una sovrastima della prognosi superiore ad 1 anno (che noi abbiamo definito come l’ambito di
azione dei palliativisti).
In un altro interessante studio è stato chiesto a persone sane appartenenti a 7 nazioni europee
diverse: “Se lei avesse meno di un anno di vita rimanente, vorrebbe saperlo?”. A volte dare le
informazioni sulla diagnosi e sulla prognosi in maniera completa e veritiera ai pazienti può farli
cadere in uno stato di depressione, far perdere loro la speranza. In realtà in questo studio circa il
74% ha risposto che voleva essere informato. Gli autori sottolineano che tra le 7 nazioni quella con
la minore propensione all’informazione è l’Italia con il 67%, mentre i Fiamminghi hanno una
percentuale che sfiora l’81%.
Casi clinici.
1) Paziente di 71 anni, affetta da una recidiva di tumore gastrico che ha infiltrato la parete
addominale. Già operata e pluri-chemiotrattata, si trova in una condizione di occlusione intestinale
maligna alta, di tipo meccanico/infiltrativo. Discutiamo delle condizioni della paziente con la
curante, che ci conferma che non ci sono indicazioni ulteriori a trattamenti attivi, come da
consulenza oncologica e chirurgica. Al momento della visita la paziente non è in condizioni
compromesse, è vigile, orientata, eupnoica e con un dolore controllato con dosaggi relativamente
bassi di Fentanyl transdermico. A questo punto decido di parlare con la paziente in presenza del
marito e della figlia: comunico l’estensione della malattia e il fatto che il chirurgo non ponga
indicazioni a intervento chirurgico, neppure a scopo palliativo. Lo scopo delle cure sarebbe stato
quello del controllo dei sintomi, che al momento la paziente non aveva. Dopo il colloquio viene
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raggiunta la piena consapevolezza di diagnosi e di prognosi da parte della paziente e si spiega il
percorso di avvio delle cure palliative. La paziente accetta l’hospice e anche i familiari hanno un
aumento del livello di consapevolezza. La paziente è deceduta in hospice 4 mesi dopo la nostra
visita.
2) Paziente di 47 anni affetta da tumore della mammella con secondarietà multiple (epatiche e
ossee) e carcinosi peritoneale con versamento ascitico. Paziente seguita da più di 3 anni dalla
Breast unit, vista 6 giorni prima nel loro ambulatorio. Giunge in DEA Medicina per dolore non
controllato, iperbilirubinemia non controllata (bilirubina 6,5 mg/dl) con colestasi importante. Vive
con il marito e i 2 figli di 8 e 5 anni. Vengono presi contatti per la presa in carico da parte del
Progetto Protezione Famiglie Fragili ed effettuato un colloquio con il curante in DEA: la paziente
al momento ha un buon controllo del dolore, per cui decidiamo di fare una valutazione collegiale
con l’oncologa curante, che in presenza del marito comunica alla paziente la sospensione della
chemioterapia. A questo punto la paziente è in grado di iniziare consapevolmente un percorso di
cure palliative. Viene dunque ricoverata nel nostro reparto. È fondamentale che l’oncologo curante
che ha seguito la paziente per più di 3 anni sia lì dove la paziente ha bisogno di essere resa
consapevole, cioè nel DEA.
3) Paziente di 79 anni con metastasi epatiche, polmonari, surrenaliche da verosimile lesione della
fessura sinistra del colon. Viene inviato in DEA da un day hospital di Oncologia, dove si trovava
per fare della terapia, perché presenta dispnea, iporessia e scadimento delle condizioni generali.
L’oncologo scrive sulla consulenza che non ci sono indicazioni a proseguire le cure, ma questo tipo
di comunicazione non è stata data al paziente. In DEA è presenta anche la figlia e il paziente è
vigile e orientato, disponibile al colloquio, non presenta dolore o dispnea. È un paziente con il
quale la comunicazione è possibile, tuttavia non ha piena consapevolezza di diagnosi e non ha
alcuna consapevolezza di prognosi. Il paziente accetta il ricovero in cure palliative, perché quello
non è il momento giusto per incrementare il suo livello di consapevolezza; la figlia infatti esprime
al momento il desiderio di non aumentare il suo livello di consapevolezza di diagnosi e di prognosi.
Le comunico che ne avremmo parlato con più calma con il paziente, con lei e con gli altri familiari.
Non vengo meno al mio dovere di determinare la consapevolezza di un paziente. Il procedimento
con il quale approcciamo i pazienti che non hanno consapevolezza avviene con domande come
“Cosa ha capito della sua malattia?”, “Cosa ha capito da quello che la ha detto
l’oncologo/cardiologo/specialista che la segue sulla sua malattia?”, “C’è qualche cosa che non ha
capito e che vuole le venga spiegato?”. Queste sono domande molto generiche che mettono il
paziente nella condizione di decidere liberamente e autonomamente di rispondere.
4) Paziente di 67 anni, affetto da lesioni ripetitive encefaliche da carcinoma polmone. Si discute
delle condizioni con il curante presente in reparto. Al momento della visita è presente anche la
figlia. Di solito durante queste visite facciamo in modo che sia presente il care-giver principale del
paziente (anche nel periodo Covid abbiamo sempre cercato di mantenere la possibilità di avere un
colloquio). Il paziente ha una piena consapevolezza di diagnosi, ma non della sospensione della
chemioterapia né della prognosi. Il paziente riferisce di essere stato ricoverato per polmonite e che
si aspetta a breve di riprendere la chemioterapia. Chiede di avere un colloquio con il suo oncologo
di riferimento per avere ulteriori spiegazioni. Abbiamo parlato con l’oncologo di riferimento, che
ha concordato di venire a parlare con il paziente.
5) Paziente di 79 anni affetto da BPCO grave, CAD, ipertensione polmonare. Giunto in DEA
presenta un notevole rialzo dei valori di troponina, non ha indicazioni terapeutiche ulteriori, ma
palliative. Miglioramento della dispnea dopo 2 mg di Morfina. Colloquio con i curanti. Al termine
della visita paziente ad occhi chiusi, risvegliabile alla chiamata, appare orientato e disponibile al
colloquio. Non ha dolore, non avverte dispnea nonostante una saturazione di 86% con MV più
reservoir. Non ci sono terapie attive pneumologiche o cardiologiche. Risponde che è consapevole
della sua terminalità a breve, chiede di non soffrire. Si risponde che verrà proseguita la terapia
con morfina per il controllo della dispnea e che se non sarà sufficiente verranno aggiunti altri

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farmaci per evitare la sofferenza. Il paziente apprende e acconsente, viene ricoverato nel reparto di
Malattie Palliative. Decesso 48 h dopo.
Tutti questi casi clinici sono centrati sulla consapevolezza della diagnosi e della prognosi e in modo
particolare sull’importanza della comunicazione. Nel reparto di Acute Palliative Care ogni paziente
impegna un medico per il 25% in termini clinici e per il 75% in termini di relazione con lui e con i
familiari. Abbiamo spesso visite di familiari, anche 3 o 4 familiari per ogni paziente (nel COVID
massimo 1), ognuno portatore di domande o del bisogno di essere confortato. Occorre proprio
prendersi il tempo per comunicare, dal momento che il tempo della comunicazione tra medico e
paziente non è accessorio, ma costituisce il tempo di cura (come definito dal comma 8 dell’articolo
1 già citato), anzi è esso stesso la cura: curiamo con la presenza, con la comunicazione. Dal punto di
vista organizzativo, tale comunicazione avviene qualche volta presso il DEA e nella maggioranza
dei casi in reparto. La necessità di un setting adeguato a questa comunicazione richiede di rivedere
gli assetti organizzativi delle nostre strutture, in termini di tempo dedicato alle visite ambulatoriali e
di gestione degli spazi nei pazienti ricoverati. Ciò significa rivedere la gestione delle liste d’attesa,
delle nostre stanze, bisogna prevedere dei luoghi dove sedersi con i parenti e con il paziente.
Presso la nostra azienda la comunicazione ad un paziente della sua condizione terminale può
avvenire con l’aiuto di due strumento. Uno è la consulenza, in cui l’oncologo affianca il medico per
garantire una comunicazione corretta. L’altro è quello del GIC (gruppo interdisciplinare di cure) di
cure palliative, nel quale il palliativista ha il compito di coinvolgere i curanti in reparto con i curanti
di riferimento (cardiologi, nefrologi, oncologi…) e definire un percorso di comunicazione al
paziente. Definire un passaggio dalle cure attive alle cure palliative, rinunciando alla dialisi,
rinunciando all’intubazione, rinunciando al trapianto, rinunciando alla chemioterapia, rinunciando
all’intervento chirurgico di laparotomia esplorativa. Queste sono le grandi scelte che devono essere
comunicate al paziente. Poi c’è il problema dei familiari. L’unico modo che si può avere di
comunicare alternativamente all’avente diritto ai familiari è soltanto quando il paziente o si rifiuta o
non dà nessun appiglio per approfondire la comunicazione oppure quando il paziente comunica
esplicitamente di non voler essere informato, per cui delega un familiare a ricevere le informazioni.
In caso contrario, è più giusto parlarne con il parente ma in presenza del paziente.
Riguardo alla pianificazione condivisa delle cure, il nostro vero problema, sia degli oncologi che
degli internisti, è legato alla difficoltà di pianificare insieme al paziente o al fiduciario del paziente
le cure. L’articolo 5 della legge n. 219 specifica che nella relazione tra paziente e medico, rispetto
all’evolversi delle conseguenze di una patologia cronica invalidante caratterizzata da inarrestabile
evoluzione con prognosi infausta, può essere realizzata una pianificazione delle cure condivisa, alla
quale il medico e l’equipe sanitaria sono tenuti ad attenersi. Questo è un altro elemento
importantissimo che rimanda all’importanza delle cosiddette DAT (disposizioni anticipate di
trattamento), come definito nell’articolo 4.
Una sentenza della Corte di Cassazione del 2015 fa riferimento proprio all’aspetto della
comunicazione e all’importanza di una pianificazione delle cure: riguarda il caso di una donna
morta per carcinoma dell’utero diagnosticato tardi. In questo caso la Corte ha preso posizione per la
mancata attivazione di cure palliative, dal momento che il ritardo diagnostico e la mancata
comunicazione tempestiva della diagnosi hanno comportato l’impossibilità per la paziente di
scegliere cosa fare per fruire della salute residua fino all'esito infausto. Il non informare
adeguatamente comincia ad essere considerato come un danno e quindi perseguibile perché
impedisce alla persona di poter scegliere e soprattutto di avere consapevolezza del tempo residuo e
di cosa fare nel tempo che manca. Il consenso informato, se è un consenso informato “vero”, deve
necessariamente portare alla consapevolezza dei rischi e dei benefici, alla condivisione di un piano
di cura, cosa che purtroppo oggi ancora non avviene.

4) La sedazione palliativa

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La sedazione palliativa non è un acceleratore della morte ma una procedura clinica che ha regole
precise per quanto riguarda titolazione, mantenimento e monitoraggio. Secondo la definizione della
European Association for Palliative Care (2009), la sedazione palliativa è una procedura
terapeutica caratterizzata da quattro elementi fondanti: consiste nella somministrazione monitorata
di farmaci con l’intenzione di indurre uno stato di riduzione o un’assenza della vigilanza allo scopo
di ridurre o abolire la percezione della sofferenza da parte della persona malata, dovuta a sintomi
refrattari alla terapia convenzionale. Se attuata con queste finalità, la sedazione palliativa è una
procedura eticamente accettabile da pazienti, familiari e operatori sanitari.
Per somministrazione monitorata di farmaci, le linee guida utilizzano l’aggettivo “proporzionale”:
la sedazione prevede la titolazione del farmaco sedativo, allo scopo di utilizzarne il dosaggio
minimo necessario per ottenere l’obbiettivo terapeutico, che è quello di alleviare la sofferenza della
persona malata provocata dalla presenza di un sintomo che è divenuto refrattario alle terapie in atto.
Esiste una procedura aziendale approvata a novembre 2019 per la sedazione con midazolam,
presente sul sito del presidio, per cui scaricabile dai documenti aziendali. Questa procedura
definisce come attuare la sedazione con il midazolam allo scopo di indurre una sedazione. È
indicata la somministrazione di boli ripetuti di midazolam al dosaggio di 2.5 – 5 mg, fino al
raggiungimento di sedazione desiderata. Il livello di sedazione desiderata va rivalutato a intervalli
regolari di 20 minuti per un’ora, in modo da individuare la dose oraria necessaria ad ottenere quel
livello di sedazione. Per stabilire la dose di mantenimento, si decide di dividere quella dose di
titolazione del 50% e moltiplicarla per le ore di sedazione desiderata. Questo consente di stabilire la
dose di mantenimento con una dose oraria. Se il paziente in corso di infusione di midazolam
sviluppa agitazione o distress, l’infermiere (non il medico) somministra un bolo pari a due volte la
dose oraria in infusione. Le dosi bolo possono essere ripetute ogni cinque minuti. Se il paziente ha
necessità di due dosi bolo in un’ora, si raddoppia la velocità di infusione. Il tutto in piena
autonomia. Considerando l’elevata interindividualità del dosaggio del midazolam, in caso di
dosaggi superiori a 20 mg/h è necessario aggiungere un secondo farmaco dopo parere esperto,
oppure scegliere un altro farmaco sedativo.
Il livello di sedazione va monitorato sia nella fase di titolazione sia nella fase di mantenimento.
Esistono delle scale: la più comune è quella di Ramsay. La più semplice da applicare al di fuori di
una terapia intensiva è la scala di Rudkin, con la quale dobbiamo raggiungere una sedazione di
livello 4 o 5: in presenza di uno stimolo tattile portato al volto, non doloroso (non un riflesso cilio-
spinale), il paziente al massimo riapre gli occhi, oppure non ha alcuna risposta.
Caso clinico. Paziente di 68 anni con stroke ischemico con evoluzione in coma per evidente
ischemia sinistra con shift della linea mediana > 2 cm. I curanti richiedono l’intervento
dell’anestesista rianimatore che non dà indicazioni di tipo rianimatorio. Il palliativista viene
chiamato, discute del caso con la curante e decide di avere un colloquio con i tre figli del paziente
in merito alle condizioni attuali del paziente, la prognosi ad ore, la sofferenza attuale della
paziente e l’indicazione alla sedazione palliativa. Successivamente ciascuno dei tre figli viene
accompagnato al letto della madre. Alla visita ha un Rudkin 3, il che vuol dire che la paziente è
facilmente risvegliabile, è marcatamente tachipnoica (FR > 50), dispnoica, tachicardica, motivo
per il quale somministro una dose di morfina di 5 mg in bolo (a paziente naive da oppioidi); dopo
15 minuti non cambia il quadro di tachi-dispnea, pertanto ritengo che quella dispnea sia
refrattaria alla terapia convenzionale con morfina, avendo escluso che ci fossero altre possibilità
(ventilazione, intubazione o altro). Quindi somministro midazolam 2.5mg; dopo 5 minuti il paziente
ha Rudkin 5 cioè allo stimolo tattile non apre gli occhi. Dopo 30 min secondo bolo di morfina da 5
mg. Dopo 45 min la paziente presenta segni clinici di distress e ripeto un secondo bolo da 2.5 mg
con miglioramento della FR, non segni clinici di dolore, dispnea o distress. Di conseguenza ho
somministrato 5 mg nella fase di titolazione; quindi il mantenimento diventa la metà (2.5 mg) e
decido di moltiplicare per 24 ore perché decido di fare una sedazione palliativa continua nelle 24 h
(2.5 mg x 24 = 60 mg). Era un momento in cui il midazolam scarseggiava in ospedale per cui
anziché metterlo tutto subito ne metto la metà a 21 ml/h. Poiché ho utilizzato 10 mg di morfina,
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quella è la sua dose per la copertura del fabbisogno analgesico e quindi la moltiplico per 6 poiché
la morfina ha un’emivita di 4 ore, quindi infondo 60 mg nelle 24 ore. Se il paziente presenta segni
clinici di distress il bolo dev’essere 2 volte la dose oraria, quindi da 5 mg. La paziente decede 6 ore
dopo l’inizio della sedazione palliativa.
Nell’ultima settimana di vita si verifica il massimo carico di sintomi per i pazienti in palliazione; i
sintomi più frequenti sono dolore, dispnea, delirio, vomito, distress (agitazione, angoscia,
sofferenza psicologica o esistenziale)5. Quando un sintomo è refrattario secondo le linee guida
internazionali può dare indicazione alla sedazione palliativa quando non è controllato:
 in modo adeguato,
 in modo tempestivo,
 con rapporto oneri-rischi/benefici accettabile sulla persona,
 dagli appropriati trattamenti attuati dai curanti (anche con la consulenza di palliativisti
esperti),
 senza compromettere lo stato di vigilanza.
Questa valutazione della refrattarietà è legata all’operatore sanitario, ma in realtà è la persona
malata che deve dirci se per lui quel sintomo è tollerabile o no. Qui ritorna l’importanza della
comunicazione, perché un sintomo che a me potrebbe sembrare non refrattario in realtà è già
intollerabile per il paziente. È questo paradossalmente il momento in cui deve intensificarsi –
quando possibile – la comunicazione con il paziente. L’intolleranza della sofferenza è determinata
dalla persona mentalmente capace e ne consegue che solo nella persona mentalmente incapace
l’intolleranza della sofferenza dev’essere determinata dai curanti, in collaborazione con caregiver,
familiari o rappresentanti legali. È facile che accada nei nostri pazienti che le cure intensive a cui
vengono sottoposti non siano in grado di controllare il sintomo e allora si deve passare da un
approccio che da intensivo diventa palliativo, il che significa che non ci si sofferma più sulla cura
della situazione sindromica ma sulla cura dei sintomi che hanno ancora terapie che sono in grado di
renderli reversibili. Tuttavia anche in questo caso sappiamo che anche le cure palliative (vedi la
morfina nella dispnea) possono diventare inadeguate e il sintomo refrattario o intollerabile. In quel
caso è necessario passare alla sedazione palliativa. Le linee guida della SIAARTI ci ricordano che,
nella persona morente, la sedazione e l’analgesia ai dosaggi che sono necessari a eliminare sia il
dolore che la sofferenza sono sempre clinicamente appropriati ed eticamente doverosi. Quindi una
sedazione iniziata in maniera proporzionale diventa profonda, una sedazione intermittente diventa
continua, come pure è sempre clinicamente appropriata ed eticamente doverosa la sedazione
palliativa d’emergenza in caso di “eventi catastrofici” acuti causa di morte imminente, emorragie
massive (soprattutto se a carico delle vie respiratorie), distress respiratori gravi o ingravescenti.
La differenza tra sedazione palliativa ed eutanasia è l’intento: nella sedazione palliativa l’intento è il
sollievo dei sintomi, per cui il paziente decede a causa della malattia e non della sedazione
palliativa che ho attuato, mentre l’eutanasia ha l’intento di terminare la vita del paziente, per cui la
causa della morte è legata e correlata all’intervento attuato dal medico 6. Nella Tabella sono riportate
le differenze tra i due approcci.

La sedazione palliativa ha ricevuto un’attenzione particolare nel 2015 da una revisione della
Cochrane, nella quale gli autori concludevano che c’è sufficiente evidenza per affermare che la
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sedazione palliativa non accelera la morte 7. Anche il comitato nazionale di bioetica offre un
profondo substrato etico a tale approccio. In aggiunta, interviene ancora una volta la legge 219, che
all’art. 2 afferma che “il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella
somministrazione delle cure o dal ricorso a trattamenti inutile e sproporzionati. In presenza di
sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione profonda
palliativa continua in associazione alla terapia del dolore, con il consenso del paziente, da intendersi
come pianificazione condivisa delle cure”.
In conclusione, le scelte terapeutiche di norma avvengono secondo quanto concordato con il
paziente durante la pianificazione condivisa delle cure e formalmente accolto con la formulazione
di un consenso. In caso di peggioramento del quadro clinico o di persone mentalmente incapaci (per
malattie neurologiche acute o croniche o per compromissione dello stato di vigilanza o delirio) si
deve far riferimento alle DAT, che purtroppo a volte mancano o non sono disponibili. In questo
caso, la valutazione della sofferenza è affidata ai curanti, con il coinvolgimento nel processo
decisione di familiari, caregiver o rappresentanti legali.

Bibliografia

1. Kelly AS, Morrison RS. Palliative Care for the Seriously ill. N Engl J Med 2015;373:747-55
2. Definition of End of Life Care, General Medical Council, UK 2010
3. Parikh RB. Early Specialty Palliative Care – Traslating Data in Oncology into Practice. N Engl J Med 2013
4. Stephenson J. Veterans' Pain a Vital Sign. JAMA 1999;281(11):978
5. Klinkenberg M, Willems DL, van der Wal G et al. Symptom burden in the last week of life. Journal of Pain
and Symptom Management 2004;27(1)
6. Vergano M, Magavern E, Zamperetti N. Clinical ethics: what the anesthesiologist and the intensivist need to
know. Minerva Anestesiol 2018;84:515-22
7. Beller EM, van Driel ML, McGregor L et al. Palliative pharmacological sedation for terminally ill adults
(Review). Cochrane Database of Systematic Reviews 2015;1

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