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EVOLUZIONE DEL SISTEMA NEI SERVIZI SOCIALI

Innanzitutto quando si parla di servizi sociali, ci si riferisce ad una molteplicità di essi, a partire da quelli
rivolti agli anziani, a quelli rivolti con disabilità, a quelli rivolti a famiglie con minori, e così via.
La definizione che viene data oggi ai servizi sociali afferma che quando si parla di essi, si fa riferimento a
tutte quelle attività relative alla predisposizione ed all’erogazione di servizi gratuiti oppure a pagamento,
ma anche di prestazioni economiche (es. assegno d’invalidità, bonus bebè…), destinati a rimuovere e
superare le situazioni di bisogno e difficoltà che l’individuo incontra lungo tutto il corso della sua vita.
Prima di questa definizione però i servizi sociali hanno superato una serie di tappe per giungere a quella
odierna; la PRIMA FASE avvenne nel 1862, anno in cui fu approvata la prima legge italiana sulla
beneficienza, legge che va a regolare la beneficienza privata, cioè erogata da dati su base volontaria, con
questa legge lo Stato, essendo Liberale, prende atto di queste forme di beneficienza privata, ma non
interviene in alcun modo a garantire diritti sociali e servizi sociali, dunque queste forme di beneficienza si
caratterizzano per: essere rivolte principalmente ai più poveri e per essere forme volontarie e private
d’assistenza. La SECONDA FASE risale invece alla fine 800 ed inizio 900, dove in questa fase abbiamo
un’evoluzione economico-sociale interna allo Stato, ma siamo ancora pienamente nello Stato Liberale,
dunque se lo Stato dovesse intervenire, interviene solo per risolvere esigenze concrete ed immediate, ed è
proprio di questi anni la Legge Crispi (1890), con la quale lo Stato va a disciplinare le istituzioni pubbliche di
assistenza e beneficienza, andando quindi oltre la neutralità che aveva avuto finora; queste istituzioni
pubbliche si occupano poi di alcuni settori specifici, in particolare: dell’istruzione, dell’avviamento alle
professioni ed ai mestieri e in parte del miglioramento economico e culturale della popolazione. Si passa
quindi in questo periodo da una beneficienza privata ad una beneficienza pubblica introducendo la figura
del medico condotto e la tutela assistenziale per i minori. All’inizio del 900 poi abbiamo due eventi
importanti: il primo è l’aumento del suffragio con la Riforma Giolitti, mentre il secondo è la crisi economica
de 1929 che getta nel panico il territorio nazionale con nuove richieste di assistenza sociale.
Durante l’epoca fascista c’è poi un’attenzione particolare alle condizioni igienico-sanitarie della popolazione
perché c’è alla base l’idea di raggiungere un incremento demografico della popolazione, poiché più è ampia
la popolazione sottomessa al regime e più esso dimostra di essere potente di fronte agli altri Stati.
Una TERZA FASE poi l’abbiamo nel 1948, in particolare con l’entrata in vigore della Costituzione che segna
un momento di totale discontinuità con l’epoca precedente e con la nascita dello Stato Costituzionale
Democratico o Stato Sociale, dove ora lo Stato assume il dovere di garantire l’uguaglianza dei cittadini,
diritti e prestazioni sociali, definendolo quindi uno Stato interventista e garantista per l’intera popolazione.
In Costituzione sono poi spalmati tutti i diritti sociali, in particolare dall’articolo 29 in avanti, a partire dalla
garanzia al diritto alla famiglia (art. 31, primo nucleo sociale in cui il cittadino viene inserito), diritto alla
salute (art. 32), diritto all’istruzione (art.33), diritto allo studio (art. 34), diritti legati al lavoro…
All’interno dell’Assemblea costituente inizialmente ci si è domandati se i diritti sociali riconosciuti in
Costituzione siano dei diritti perfetti oppure norme programmatiche. I diritti perfetti sono diritti che al di là
di un’azione attuativa da parte del legislatore possono essere immediatamente esercitabili dai cittadini: ad
es. nel momento in cui io garantisco la libertà di riunione, essa è immediatamente esercitabile
dall’individuo, indipendentemente che lo stato intervenga o meno. Lo stato può intervenire con particolari
garanzie che tutelano questa libertà oppure al contrario può intervenire prevedendo dei limiti all'esercizio
di questa libertà, ma in via di massima se mi garantisce la libertà di riunirmi, immediatamente il giorno
successivo io posso esercitare questa libertà e posso farla valere nei confronti dello Stato e nei confronti
degli altri individui. Una norma programmatica è una norma, un diritto, che per essere tale occorre che sia
inverato (attuato) da parte dell’organizzazione statale, da parte dello Stato: es.se io garantisco in
costituzione il diritto alla salute ma non c’è un’organizzazione statale che mi garantisce questo diritto,
difficilmente io posso farlo valere nei confronti dello Stato e di soggetti terzi, quindi non posso esercitare
questo mio diritto. Dunque, se si tratta di norme programmatiche occorre che tutta la macchina statale,
tutti i poteri pubblici, lo Stato, la Repubblica diano attuazione a questi diritti. Emerge quindi, una
responsabilità e un dovere anzitutto dello stato e della Repubblica di provvedere a dare attuazione a questi

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diritti nell’ordinamento. Questo iniziale interrogativo si è ben presto risolto affermando che i diritti sociali
sono delle norme programmatiche che necessitano di essere attuate dal legislatore. Quindi, nel periodo
subito successivo all’entrata in vigore della Costituzione, il legislatore statale avrebbe dovuto dare
attuazione a questa parte sociale, in che modo? Bisogna far riferimento all’ART. 117 originario (prima della
riforma del titolo V°) della Costituzione, il quale prevedeva che Stato e Regioni, negli ambiti più significativi
dei diritti sociali, avevano al tempo una potestà legislativa concorrente, cioè lo Stato avrebbe dovuto con
leggi indicare i principi fondamentali del quadro della materia mentre le Regioni avrebbero dovuto poi
disciplinare il dettaglio della materia. Dunque rispetto ad un'assistenza pubblica, ad un'assistenza sanitaria
e ad un’assistenza sanitaria vigeva la potestà legislativa concorrente, tutto il resto aspettava la potestà
legislativa dello Stato. Lo stato e le regioni come si sono mosse? qui si apre una quarta fase rispetto al
sistema dei servizi sociali. La QUARTA FASE poi risale ai primi 20 anni di vita della Costituzione, in cui lo
Stato si è occupato prevalentemente di ricostruire quello che era un paese distrutto dal secondo conflitto
mondiale, quindi andare ad istituire organi e istituzioni democratiche, andare ad abrogare la normativa
presente nell’epoca fascista, ricostruire dal punto di vista economico e politico un’Italia sconfitta dalla
Seconda guerra mondiale. Negli anni ’70 inizia a cambiare qualcosa: anzitutto le regioni vengono istituite
solo nel 1970 e quindi iniziamo ad avere un duplice legislatore, legislatore statale e legislatore regionale, e
poi è negli anni ‘70 che iniziano una serie di movimenti popolari e studenteschi, in particolare iniziano nel
1968 nelle università francesi e poi si diffondono in tutta Europa e anche in Italia. Questi movimenti,
principalmente studenteschi e operai, sono una sorta di sommossa sociale. Qual è la finalità di questi
interventi della comunità sociale? Richiedere al legislatore (al Parlamento in primis ma anche alle Regioni)
l’attuazione della parte sociale della nostra Costituzione, quindi chiedono al legislatore maggior sicurezza
sanitaria e sociale. Gli studenti chiedono l’attuazione del diritto allo studio, gli operai l’attuazione del diritto
al lavoro e delle garanzie legate al diritto al lavoro, come il diritto allo sciopero, altri movimenti chiedono
l’attuazione dei diritti riconosciuti alla famiglia dalla Costituzione. Il legislatore si trova quindi di fronte alla
necessità di dover dare attuazione a questa parte della carta costituzionale. Negli anni 70 abbiamo le
principali riforme a livello sociale, vengono introdotte nuove politiche sociali tutte settoriali, frammentate,
cioè il legislatore interviene su singoli settori, non prevede una politica sociale e un intervento sociale
generale, non interviene con una normativa di settore complessiva, organica, ma interviene con singole
normative che vanno a disciplinare i singoli settori. Si tratta di riforme importanti, le qui leggi ancora oggi
sono in vigore, per es. rispetto alle richieste di garanzie sul lavoro viene approvato nel 1970 lo Statuto dei
lavoratori, ancora oggi in vigore, ad es. nell’art. 18 dello statuto dei lavoratori viene riconosciuto il diritto di
sciopero; Ancora, si interviene rispetto al libero accesso alla scuola, rispetto ai diritti della famiglia (dal 1970
al 1975 viene completamente rivisto il diritto di famiglia), si interviene sul diritto alla salute (con la legge del
1978 viene istituito un servizio sanitario nazionale), si interviene sulla tutela della maternità ecc.. quindi, in
questi anni il legislatore con singole leggi interviene su singoli settori in ambito sociale. Non si tratta però di
una normativa organica perché manca ancora una Legge Quadro unitaria e organica che disciplini tutta la
materia dei diritti sociali: sii tratta di una legislazione tendenzialmente calata dal centro, che non vede una
programmazione e un’interazione tra i diversi livelli di Governo (Stato, Regioni e Comuni), è una normativa
ancora fortemente accentrata e uniformata. Fino agli anni ’90 anche la Pubblica Amministrazione era
accentrata in capo ai ministeri, quindi anche le politiche sociale erano tutte accentrate in capo ai ministeri,
non c’era una programmazione a livello regionale e comunale delle politiche sociali. Dunque, lo Stato
determinava la disciplina di principio, la quale era indicata in maniera uniforme dalla Costituzione,
dopodiché lo Stato con queste leggi settoriali interveniva a disciplinare ulteriormente, con principi generali,
i diritti sociali e l’attuazione dei diritti sociali e lo Stato prevedeva anche al finanziamento delle diverse
politiche, quindi si tratta di nuovo di un finanziamento frammentato del settore sociale, non unitario. Le
Regioni avevano il compito di organizzare i diversi servizi sul territorio: servizio dell’istruzione, servizi legati
alla maternità e all’infanzia, servizi legati alla salute. Infine, i Comuni erano coloro che dovevano gestire
questi servizi ed erogare i singoli servizi: erogare tramite le allora USL (unità sanitarie locali) i servizi legati
alla salute, erogare tramite le istituzioni scolastiche i servizi di istruzione, erogare tramite di nuovo le USL i

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servizi legati alla maternità e all’infanzia. Dunque, Il legislatore principale, colui che normava
principalmente la disciplina, era lo Stato, le Regioni organizzavano il servizio sul territorio e ai Comuni era
affidato il compito di gestire ed erogare direttamente agli utenti i singoli servizi. La QUINTA FASE risale alla
fine anni ‘90 in cui vengono approvate le Leggi Bassanini, con le quali le funzioni amministrative vengono
decentrate verso le Regioni e i Comuni e ciò significa dal punto di vista del sistema sociale che le Regioni e i
Comuni assumono tramite queste leggi maggiori competenze in materia di servizi sociali, vengono investiti
di competenze maggiori in materia di servizi sociali. In particolare nelle leggi Bassanini i servizi sociali
diventano una materia unitaria e organica, cioè inizia quel cambiamento che conduce a ritenere i servizi
sociali non più settori frammentati tra loro ma una materia organica e unitaria. Se io ho settori frammentati
il legislatore ragiona con politiche settoriali, non ha una visione d’insieme del settore dei servizi sociali e
della persona, ma interviene su singoli assetti del sistema (assetto dell’istruzione, assetto della salute,
assetto delle politiche per la famiglia, assetto delle politiche per il lavoro) e questo è dovuto al fatto che per
lungo tempo tutte queste politiche erano accentrate in capo ai Ministeri. Con le leggi Bassanini cambia il
modello di sistema sociale al quale si sta pensando. I servizi sociali nelle leggi Bassanini sono concepiti come
una materia organica, sono raccolti tutti in un settore e quindi il settore (la materia dei diritti sociali) si
andrà ad occupare dell’educazione dei minori (sia minori con difficoltà sociali sia minori in generale),
dell’infanzia e dell’adolescenza, con le problematiche legate a queste ultime, degli anziani (quindi delle non
auto sufficienze), della famiglia in generale (con le problematiche legate alla famiglia e con la necessità di
sostenere la famiglia), delle dipendenze di diverso tipo (abuso di alcol, droghe, uso della rete), della
disabilità, degli invalidi civili ecc.. Lo Stato istituisce anche un fondo nazionale per le politiche sociali, quindi
nell’erogare i finanziamenti (risorse finanziarie) lo Stato istituisce il Fondo Nazionale per le Politiche Sociali:
un fondo al quale accedono tutti gli ambiti sopra citati e questo fondo va a finanziare tutti i settori che in
precedenza erano tra loro frammentati. Si cerca così di evitare una dispersione delle risorse, una
frammentazione degli interventi, cercando di introdurre una nuova logica, ossia lo Stato si fa carico della
persona in quanto tale lungo tutto il corso della sua vita. Formalmente, quindi, le leggi Bassanini prevedono
questo nuovo impianto. In sostanza però, negli anni successivi alla legge Bassanini, manca ancora da parte
del legislatore statale e regionale la capacità di andare a disciplinare questo nuovo sistema organico.
Continua a mancare una Legge Quadro organica e condivisa che disciplini l’intero sistema dei servizi sociali.
Negli anni successivi, infatti, lo Stato continua ad approvare leggi a seconda delle necessità, a seconda dei
sottosettori di carattere sociale rispetto ai quali occorre intervenire. Le principali normative in ambito
sociale erano state approvate dallo Stato negli anni ’70, ma negli anni ’90, nonostante questo cambio di
logica che la legge Bassanini voleva introdurre, il legislatore continua ad intervenire con una normativa che
va a tarare e ad intervenire su settori interni al sistema dei servizi sociali, ma non interviene con una Legge
Quadro. È degli anni 90 la legge 104/1992 relativa alla disabilità, oppure è del 97 un intervento del
legislatore relativo ad una forma specifica di disabilità, ossia la cecità, o ancora importante la legge
285/1997, la quale promuove i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, o ancora la normativa del 98 che di
nuovo interviene in ambito della disabilità. Sono interventi sporadici e vanno a disciplinare non il sistema
complessivo ma i singoli aspetti del sistema sociale. Nel caso di servizi sociali non abbiamo grandi
sollecitazioni da parte dell’Unione Europea: mentre rispetto ad altre politiche (politiche agricole,
economiche, industriali) già negli anni ‘90 l’Unione Europea interviene vincolando gli stati membri e quindi
imponendo cambiamenti rilevanti agli Stati membri, per quanto riguarda le politiche sociali l’unione
europea, negli anni ’90 in particolare, non sollecita gli Stati a intervenire in materia di servizi sociali, non
vincola gli stati ad intervenire in materia di politiche sociali, questo perché l’unione europea non ha
competenze in materia di salute e di servizi sociali. I trattati non prevedono che le istituzioni comunitarie
abbiamo competenze in materia di salute e servizi sociali e ciò significa che gli stati membri non hanno
ceduto la loro sovranità in questi ambiti all’UE e quindi essa non può approvare atti vincolanti per gli Stati
membri. L’Unione Europea nasce con la finalità di garantire la pace all'interno degli stati membri, nasce con
finalità prettamente economiche (con la“CECA”) e poi va ad implementare le sue politiche ma senza
intervenire nell'ambito sociale. Gli Stati membri non cedono la loro sovranità in materia sociale e in

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relazione ad ambiti sociali perché di fondo ci si rende conto che i diritti sociali sono l’espressione più intima
di un popolo, cioè abbiamo ampie differenze in relazione alle garanzie dei servizi sociali nell’UE: abbiamo
Stati membri che non hanno nella loro Costituzione il riconoscimento dei diritti sociali, abbiamo Stati
membri con una politica sociale estremamente innovativa, specialmente i paesi del nord Europa, abbiamo
poi stati membri con una tradizione sociale più recente, come L’Italia, Spagna, Germania, Grecia .. Dunque,
ci sono profonde differenze tra Stati membri e l’UE non può calare dall’alto normative uniformi a tutti gli
Stati membri. Un conto è armonizzare le differenze, quindi cercare una conversione da parte degli Stati
membri, un conto è imporre uniformità agli Stati membri. Quindi, l’UE non ha competenze in materia di
diritti social, gli Stati membri allora, si iniziano ad adeguare a quelli che sono semplicemente dei
suggerimenti da parte dell’UE, la quale interviene indirettamente in ambiti sociali, cioè tramite atti non
vincolanti (non tramite direttive e regolamenti), ossia tramite pareri, risoluzioni, libri bianchi, libri verdi,
suggerisce agli Stati membri di introdurre delle modifiche rispetto alla loro legislazione sociale. Sono
interventi indiretti: ad es. Nel momento in cui l'unione europea punta a garantire a tutti i lavoratori eguali
diritti suggerisce agli stati membri di implementare le politiche di conciliazione della vita lavorativa con la
vita familiare, ma non può intervenire su queste politiche, in quanto hanno carattere sociale, quindi tutte le
modalità di incentivazione della conciliazione vita lavorativa-vita familiare sono lasciate alla discrezionalità
degli stati membri. Dunque l'unione europea interviene solo indirettamente, quando le politiche
comunitarie negli ambiti in cui l'unione europea può intervenire si riflettono con le politiche sociali. Per
lungo tempo, la mancanza di una normativa quadro organica, cioè la mancanza di un intervento legislativo
organico da parte dello Stato in relazione a tutto il sistema sociale ha determinato sul nostro territorio la
mancanza di livelli uniformi, uguali, essenziali, di interventi sociali da parte delle Regioni e da parte dei
Comuni, cioè le Regioni e i Comuni si sono mossi a quel punto in maniera differenziata, perché non avevano
una normativa quadro di riferimento rispetto al sistema dei servizi sociali e anche rispetto al sistema dei
servizi educativi per la prima infanzia. Si sono mossi in maniera diversa rispetto all’utilizzo delle risorse
finanziarie che arrivano dallo Stato: vi erano territori che usavano questi fondi prevalentemente per alcune
politiche, altri che gli spalmavano su tutte le politiche sociali presenti all'interno della regione, territori che
usavano queste risorse in maniera inefficiente, altri invece che le hanno sapute usare in maniera efficiente.
Senza una normativa quadro i territori sub statali hanno usato in modo differente, talora in maniera
inefficiente e talora in maniera efficiente, le risorse statali. Hanno inoltre, dato attuazione, erogato e gestito
in modo diverso gli interventi sociali: vi sono territori che si sono concentrati prevalentemente solo su
alcune politiche sociali, altri che invece hanno erogato in tutti i settori una serie di politiche sociali, territori
che hanno fatto una programmazione sociale efficiente e territori che si sono mossi a seconda del bisogno,
della necessità, senza una programmazione opportuna. Senza una cornice da parte dello Stato, le Regioni e
di conseguenza i Comuni si sono mossi in maniera differente e ciò ha avuto delle ricadute immediatamente
sugli utenti: a seconda che io fossi un utente di una regione/comune piuttosto che di un altro mi vedevo
erogare livelli di assistenza, livelli di interventi sociali differenti. È mancata un’omogeneità e un equilibrio a
livello territoriale e ciò si è constatato soprattutto tra Nord e Sud del Paese. A causa di tutto ciò dal 1948 al
2000 abbiamo avuto un estremo divario delle condizioni di vita dei cittadini, un divario che ci portiamo
dietro ancora oggi. In questa
fase, dal 1948 fino al 2000, il sistema sociale indicato in Costituzione è rimasto congelato, è rimasto sulla
carta con una sostanziale disapplicazione dell’ARTICOLO 3 della Costituzione. La tutela unitaria, garantita
dalla Costituzione, che era volta a garantire il principio di uguaglianza tra gli individui, è rimasta fino al 2000
una lettera morta. Ciò ha determinato delle evidenti disuguaglianze da una zona all’altra del territorio
nazionale rispetto alla tipologia di servizi, alle modalità di accesso ad essi. I servizi sociali anziché essere
rivolti alla persona in quanto tale lungo il corso della sua vita, erano destinati a categorie di persone, erano
servizi settorializzati, senza tenere conto delle differenze d’età, delle differenze di reddito, solo negli anni
recenti ad es. è stato introdotto l’ISEE, che va a differenziare in base al reddito l’accesso alle prestazioni.
Questa disuguaglianza territoriale, disuguaglianza rispetto ai servizi e disuguaglianza degli utenti fa sì che il
concetto di giustizia sociale e il Welfare State risultassero aleatori, non attuai nella quotidianità. La SESTA

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FASE è invece rappresentata dalla legge quadro 328/2000, il cui titolo riporta: “legge Quadro per la
realizzazione dei sistema integrato di interventi e servizi sociali”. Nel 2000 il legislatore nazionale
finalmente è riuscito ad approvare la legge organica, la cui mancanza si era sentita in precedenza, una
Legge Quadro che va a disciplinare tutto il sistema dei servizi e degli interventi sociali. Questa legge diventa
per i territori la Legge Quadro, ovvero quella normativa organica alla quale occorre fare riferimento. Quali
sono i principali aspetti di novità di questa legge? Quali sono gli aspetti di discontinuità che provocarono un
cambiamento in materia di servizi sociali?

 Non si tratta di una legge settoriale ma di una normativa organica, la quale disciplina tutti i micro-
settori dei servizi sociali. Anche nel momento in cui il legislatore ha scritto questa normativa aveva in mente
di andare a normare e a programmare a livello nazionale tutto il sistema dei servizi sociali;

 Si afferma un principio universalistico, rispetto ai servizi sociali, il quale discende dalla Costituzione
ma che viene affermato ancora più fermamente in questa legge. Cosa significa principio universalistico?
Significa che il sistema dei servizi sociali è rivolto a tutti gli individui, non a particolari categorie di individui,
ma all’individuo in quanto tale, lungo tutto il percorso della sua vita, dalla maternità sino alla morte.

 Il legislatore con questa legge prende definitiva coscienza della necessità di passare da interventi di
semplice cura, quindi da interventi riparatori, ad interventi di prevenzione, di promozione e valorizzazione
della persona. Si passa ad un sistema che adotta una logica differente, un sistema di protezione attiva
dell’individuo. È meglio promuovere il benessere dell’individuo, valorizzare il suo interesse, prevenire il
malessere piuttosto che dover intervenire successivamente riparando le situazioni di disagio. Questa
normativa interviene, quindi, anche rispetto al sistema di protezione e prevenzione dell’individuo.

 Viene introdotto il concetto di domiciliarità degli interventi e il concetto di progetto


personalizzato. Principio di domiciliarità significa che laddove è possibile occorre offrire interventi al
domicilio dell’utente, piuttosto che inserire l’utente all’interno di un sistema di istituzioni pubbliche, poiché
nel tempo si è verificato come gli interventi erogati a domicilio avessero maggior efficacia sull'individuo
rispetto ad interventi prestati presso strutture pubbliche. Progetto personalizzato significa che non si
interviene con progetti uguali per tutti gli individui, ma se è possibile intervenire con progetti calati
specificatamente sulla persona, sulla difficoltà specifica della persona, questo per garantire una migliore
efficacia del progetto. Se io calo un progetto identico su persone che hanno situazioni di disagio diverse, si
tratterà di un progetto inefficiente, se riesco a personalizzare il progetto sull'individuo, il mio progetto è
maggiormente efficiente. Si parla di progetto personalizzato soprattutto in relazione alla disabilità. Sia il
principio di domiciliarità che il progetto personalizzato richiedono un coinvolgimento dei famigliari che si
relazionano con l'individuo al quale si sta erogando la prestazione. Principio di domiciliarità significa anche
che io andrò a rendere centrare la famiglia nel sistema sociale che sto andando ad istituir, perché la
famiglia da un lato è oggetto di interventi, ma dall’altro può anche diventare un soggetto che viene
coinvolto nell’erogazione del servizio. Dunque, il coinvolgimento della famiglia e i progetti a domicilio sono
in parte volti a cercare di ottimizzare le risorse, se possibile, rendere la famiglia formazione attiva all’interno
dei servizi sociali.

 Integrazione tra interventi pubblici e interventi privati: la Legge Quadro, già nel suo titolo, parla di
un sistema sociale integrato. Con la Legge Quadro 328/2000 prende concretamente vita il principio di
sussidiarietà orizzontale: i singoli, la famiglia e il terzo settore (associazione di privati) in particolare,
vengono coinvolti per erogare servizi pubblici. Gli interventi attuati da soggetti privati divengono interventi
pubblici, perché gli interventi privati vengono svolti per conto del sistema pubblica. Si ha una congestione
del sistema sanitario sia da parte di soggetti pubblici che da parte di soggetti privati.

 integrazione tra interventi sociali e interventi sanitari: con la Legge Quadro si inizia a parlare di
prestazioni sociosanitarie, prestazioni che richiedono un intervento sia di carattere sanitario che di

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carattere sociale. le due tipologie di interventi che vanno ad integrarsi possono avere un peso differente,
ad es. posso avere una prestazione sociosanitaria che è prevalentemente ma rispetto alla quale c'è anche
una parte di intervento sociale, oppure posso avere una prestazione socio sanitaria dove è prevalente
l'intervento sociale ed è invece erogato in misura inferiore un intervento anche sanitario. Si cerca di
integrare i due interventi sociosanitari per cercare, innanzitutto, di ottimizzare le risorse: se io intervengo
contestualmente e integro tra loro il sistema sociale e sanitario, determino un’ottimizzazione di risorse,
cerco di garantire una continuità dell’azione, sia zione di prevenzione, sia di cura che di riabilitazione.
Queste prestazioni sociosanitarie si situano negli ambiti della non autosufficienza (i disabili o i grandi
anziani necessitano sia di cure sanitari che di cure sociali), ambiti di situazioni croniche (es. situazione di
HIV), situazioni legate alla maternità, situazioni legate alle dipendenze. Quindi faccio integrare tra loro i
soggetti pubblici e privati che si occupano di queste tipologie di prestazioni e genera una prestazione
sociosanitaria.

La legge 328/2000 definisce a livello nazionale un pacchetto di servizi essenziali, di livelli essenziali di
prestazioni che devono essere erogati e quindi garantiti a tutti i cittadini su tutto il territorio nazionale.
Nella legge 328/2000 si trovano indicate una serie di prestazioni che si ritengono essenziali e che devono
essere erogate in maniera uniforme su tutto il territorio, questo per cercare di garantire l’eguaglianza dei
cittadini, degli utenti. Questi servizi essenziali di prestazione sono indicati nella Legge Quadro 328/2000 in
maniera molto generica, occorre che quindi il legislatore vada a specificare in più dettagliata quali sono
queste prestazioni e qual è il livello di prestazione ci si aspetta. Es. nella legge 328/2000 una prestazione
essenziale sono “servizi e cure a domicilio per persone non autosufficienti”, il fatto di dire che è una
prestazione essenziale significa che tutti i territori dovranno prevedere questo tipo di prestazione, ma
questo non mi garantisce ancora l'uguaglianza dei cittadini, perché io possa avere un territorio che mi
garantisce 30 h. di assistenza settimanale per persona non autosufficiente e il territorio che mi garantisce
due ore di assistenza per persona non autosufficiente, si crea immediatamente una disparità di come io
vado a erogare poi questa prestazione. Il legislatore dovrebbe cercare di andare a definire meglio il livello
essenziale, senza tuttavia alzare troppo l'asticella della prestazione, altrimenti i territori non riescono a
garantirla.
Ci troviamo infine alle SETTIMA ed ultima FASE del sistema dei servizi sociali, che avviene immediatamente
l’anno successivo alla legge quadro, ovvero nel 2001, con la Riforma Costituzionale. La prima novità sta nel
fatto che l’ambito dei servizi sociali che, sino al 2001 era di competenza concorrente Stato-Regioni, diventa
di competenza legislativa residuale delle Regioni, cioè che spetterà a quest’ultime legiferare in materia dei
servizi sociali, dunque acquisendo una competenza più ampia rispetto al passato, e significa anche che in
linea teorica ogni Regione può differenziarsi dalle altre nel disciplinare i suoi servizi sociali, nello stesso
tempo però lo Stato ha competenza legislativa esclusiva nel disciplinare i livelli essenziali delle prestazioni
(LEP), tali livelli sono poi una competenza trasversale dello Stato, sono una materia-non materia di esso,
poiché nel disciplinare tali livelli lo Stato va a comprimere la competenza legislativa delle Regioni. Quando
poi lo Stato disciplina questi LEP, spetterà poi alle Regioni ed agli enti locali garantirli sul proprio territorio a
chi ne faccia richiesta, se le Regioni e gli enti non riescono a garantirlo la Costituzione prevede il dovere per
lo Stato di sostituirsi ad essi. Un’ulteriore indicazione data dalla riforma costituzionale del 2001 riguarda le
risorse finanziarie, dove nel modello di riparto di esse è previsto un fondo perequativo, ovvero che è
previsto che lo Stato ridistribuisca le risorse finanziarie per garantire il sistema sociale e la solidarietà del
nostro ordinamento. Con la riforma del 2001 abbiamo dunque il passaggio da un Welfare statale, ovvero
gestito unicamente dallo Stato ad un Welfare territoriale, cioè un sistema sociale gestito anche dai territori.
Che ne è dunque di quella legge quadro che aveva scardinato il sistema precedente, portando elementi
innovativi e moderni nel sistema odierno? Con la riforma costituzionale del 2001, tra i nuovi articoli 117-
118-119-120, si cerca un equilibrio delicato e precario tra l’unità del sistema: l’uguaglianza degli utenti ed i
diritti fondamentali sanciti nella prima parte della Costituzione e la differenziazione del sistema: garantendo
l’autonomia dei territori e la libertà degli utenti. Ma ciò che era stato sancito nella Legge quadro 328 del

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2000 non verrà annullato. Sono dunque i territori a dover garantire un sistema sociale efficiente, a dover
dare attuazione ai diritti all’interno della propria regione, ma lo Stato prevede un livello uniforme essenziale
di prestazione, di modo che non ci sia un’eccessiva territorialità dei diritti (es. se mi trovo a Torino,
piuttosto che a Bari ho una disparità di trattamento eccessiva, in un posto mi vengono garantite
determinate prestazioni, in un altro non mi vengono garantite oppure solo in parte) qui lo Stato non
garantisce l’uniformità, ma garantisce almeno che ci sia un livello essenziale di prestazione che, essendo
uno Stato Sociale, nel tempo dovrebbe svilupparsi progressivamente. Dunque i contenuti, specialmente i
più innovativi, della Legge 328 del 2000 continuano ad avere vigore nel nostro ordinamento. Quando ci
troviamo quindi a parlare di diritti sociali, il problema principale è quello di trovare un equilibrio tra
unità/eguaglianza/solidarietà del sistema e dall’altro la differenziazione dei territori; dove se si spinge
troppo verso l’unità ci ritroviamo ad avere un’uniformità con il rischio d’inefficienza del sistema e non
riuscendo ad ottimizzare tutte le riforme (finanziarie e strutturali) del territorio, se invece ci si spinge troppo
verso la differenziazione, il rischio è quello di creare una territorialità dei sistemi sociali eccessiva e quindi
una territorialità rispetto all’attuazione dei diritti riconosciuti in Costituzione e quindi anche alle garanzie di
tali diritti (es. io abito in una certa zona del territorio e mi vedo garantiti ed assicurati dal sistema un certo
numero di diritti con una certa modalità, mentre se abito in una certa parte del territorio il rischio è che non
me ne veda riconosciuto alcuno). Infine
quindi per trovare un equilibrio devo sicuramente ricercare una collaborazione tra i due poli, tra il centro e
la periferia, ricerco una forte integrazione tra i due.

DIRITTI INVIOLABILI E PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA


Quando la Costituzione è entrata in vigore, c’è stato da parte di tutte le forze politiche una sorta di patto
sociale e la Costituzione lo rappresenta, cioè i nuovi diritti sociali, finora non ancora disciplinati, vengono
cristallizzati e radicati nella Costituzione, ciò significa che questi diritti non sono ritrattabili dagli organi dello
Stato, il quale dovrà sottomettersi ad esso; la cristallizzazione di tali diritti avrà poi due conseguenza: da un
lato è una garanzia sia per i diritti, ma soprattutto per i cittadini, dall’altro però può anche essere un limite
ad un’evoluzione dei diritti. L’organo che può dare un’interpretazione diversa ed imparziale è la Corte
Costituzionale, la quale però se dovesse dare un’interpretazione eccessivamente evolutiva o
eccessivamente moderna, il rischio è che la Corte venga politicizzata da alcune forze politiche, anziché
restare un organo di garanzia ed imparzialità del sistema.
Nell’ultimo ventennio stiamo poi assistendo ad alcune nuove tendenze: la prima è un progressivo declino
della sovranità degli Stati rispetto ai diritti sociali, ovvero significa che gli Stati vengono messi in
discussione, le modalità con le quali gli Stati garantiscono i diritti vengono messe in discussione da una
comunità internazionale, dalla interdipendenza che vi è tra Stati (es. riconoscimento unioni civili, ddlzan,
proteste in Polonia per il diritto all’aborto…); allo stesso tempo però questa interdipendenza con altri Stati
ha un effetto positivo che corrisponde al dialogo tra le Corti Costituzionali degli altri Paesi e con le Corti
Europee soprattutto; un'altra tendenza in atto è anche l’affermazione di un’economia globale, ci troviamo
dunque di fronte ad un’economia che non è più subordinata alle scelte del legislatore, ma è il sistema
economico che subordina a sé il legislatore, che lo costringe a prendere determinate scelte, portando
dunque all’affermazione di un estremo individualismo; altra tendenza infine è la crisi del funzionamento
della rappresentanza, cioè una difficoltà da parte degli organi rappresentativi di dare risposte convincenti
agli elettori da domande che provengono dalla società, tale crisi ha poi come conseguenza la necessità di
rivolgersi ad un giudice per vedersi riconosciuti i diritti.

ARTICOLO 1 E 2 DELLA COSTITUZIONE


C’è un forte legame tra l’articolo 1 che ci afferma la democraticità della nostra Repubblica e l’articolo 2 che
invece riconosce l’inviolabilità dei diritti. Questi due articoli quindi caratterizzano il nostro tipo di Stato,
cioè una società democratica che si fonda sull’inviolabilità dei diritti, quindi la democrazia ed i diritti non
possono essere separati, sono strettamente connessi; le democrazie moderne nascono con le Costituzioni
che riconoscono diritti ai sudditi, i quali nel momento in cui ottengono una Costituzione che gli riconoscono

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dei diritti, non sono più riconoscibili come suddito dello Stato, ma diviene cittadino, non più subordinato
allo Stato, ma alla Costituzione. Quest’ultima riconosce i diritti dei cittadini proprio nell’articolo 2 che
afferma che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo, sia nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità…” questo articolo ha un significato profondo in ciascuna
sua parte, in particolare troviamo affermato il principio personalista di autodeterminazione dell’individuo,
il principio del pluralismo sociale ed il principio di solidarietà. Il primo principio, quello personalista, lo
ritroviamo nella prima parte dell’articolo, ciò significa che innanzitutto la Repubblica riconosce, ovvero che
qualcosa preesiste rispetto allo Stato, i diritti inviolabili dell’uomo (unico articolo in cui si parla di uomo e
non di cittadino, cioè la Costituzione parla dell’essere umano in quanto tale, indipendentemente dalla sua
cittadinanza) come singolo, come persona, come individuo. La Repubblica poi, non solo riconosce, ma
garantisce (assicura che i diritti vengano rispettati) i diritti inviolabili dell’uomo. Per quanto riguarda invece
il principio del pluralismo sociale, è esplicato nella parte centrale dell’articolo, partendo dal presupposto
che il nostro è un ordinamento sociale, che dunque si apre alla società ed al pluralismo degli altri individui
che costituiscono per l’uomo una ricchezza; essendo un ordinamento sociale, la società è formata da
formazioni sociali, cioè enti intermedi tra l’uomo e lo Stato ed all’interno di queste formazioni l’individuo si
sviluppa, si arricchisce, accresce la sua personalità (es. famiglia, scuola, lavoro, gruppo sportivo…). Infine
abbiamo il principio di solidarietà, sancito nell’ultima parte del secondo articolo, dove la solidarietà
giustifica la presenza nel nostro ordinamento, accanto ai diritti, anche del riconoscimento di doveri, doveri
che l’articolo 2 riconosce immediatamente come doveri politici, economici e sociali.

ARTICOLO 3 DELLA COSTITUZIONE


Proprio come la democraticità è inseparabile dall’inviolabilità dei diritti, allo stesso tempo anche
l’inviolabilità dei diritti sono inseparabili dal principio di eguaglianza. Dove dunque democrazia, diritti
connessi ai doveri e principio di eguaglianza sono i cardini del nostro ordinamento sociale.
Eguaglianza che garantisce che i diritti siano garantiti a tutti in egual misura. Alla base di questo però il
problema che sorge è quello di trovare un equilibrio tra libertà ed eguaglianza, tra principio di
autodeterminazione ed eguaglianza degli individui. Questo è inoltre uno dei dilemmi più antichi dell’uomo
perché innanzitutto siamo e siamo sempre stati tutti diversi, l’uno dall’altro in natura; in secondo luogo se
abbiamo su una bilancia da una parte la libertà mentre dall’altra l’eguaglianza, se accentuo la libertà tra gli
individui, rendendo la libertà assoluta, genero diseguaglianza e discriminazione; se invece, al contrario,
prendo in considerazione una società in cui sono tutti eguali tra loro, di conseguenza cancello ed annullo la
libertà. Per garantire questo equilibrio tra libertà ed eguaglianza si trova riuscendo a dare agli individui
eguaglianza nelle possibilità di esercizio dei diritti, ma non un eguaglianza di risultato, l’obiettivo è quello
di riuscire a mettere tutti gli individui nella medesima condizione di poter esercitare quel diritto (es.
garantire a tutti la possibilità di lavorare: mettere tutti nelle medesime condizioni per poter lavorare, poi
starà alle persone, in base alle loro attitudini, capacità e volontà a raggiungere un certo grado lavorativo).
L’articolo tre parla poi di eguaglianza formale, cioè dell’eguaglianza di fronte alla Legge ed eguaglianza
sostanziale, cioè mettere tutti gli individui nella medesima condizione di poter fare una determinata cosa.
L’EGUAGLIANZA FORMALE è disciplinata dal primo comma dell’articolo 3 della Costituzione che afferma
che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla Legge, senza distinzione di sesso, di
razza, di lingua…” vi è dunque eguaglianza di fronte alla Legge, cioè non ci devono essere dei privilegi, la
Legge deve essere uguale per tutti evitando qualsiasi forma di discriminazioni.
L’EGUAGLIANZA SOSTANZIALE invece è un’eguaglianza di opportunità, di possibilità tra gli individui,
disciplinando in maniera eguale situazioni eguali e disciplinando in maniera differente situazioni che sono
differenti, solo così verrà garantita a tutti una giustizia sociale, uno Stato sociale giusto, che non discrimina.

DOVERI INDEROGABILI DI SOLIDARIETA’

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Un ordinamento giuridico che non preveda dei diritti sicuramente non è ho un ordinamento democratico: i
cittadini diventano tali e smettono di essere sudditi nel momento in cui acquisiscono dei diritti che possono
far valere nei confronti dell’ente pubblico. Allo stesso tempo, un sistema democratico che non preveda dei
doveri da parte degli enti pubblici, ma anche da parte dei cittadini, rischia di determinare una società
estremamente individualistica, una società in cui ciascuno pensa di avere unicamente dei diritti, pretende
dallo stato il rispetto dei propri diritti e soprattutto il rispetto della propria libertà. Contemporaneamente,
se è vero che possono esistere ordinamenti giuridici che negano diritti agli individui (es. le dittature che
ancora ci sono nel mondo), non esistono stati che non impongano dei doveri ai cittadini. Quindi, anche in
un sistema pienamente democratico, lo stato ha il potere di imporre doveri e, questa imposizione di doveri
e obblighi ai cittadini è la condizione stessa di esistenza degli ordinamenti giuridici: un ordinamento
giuridico per esistere deve poter imporre dei doveri ai propri cittadini, l’ordinamento giuridico è coercitivo,
è obbligante nei confronti dei cittadini. Mentre la costituzione prevede moltissimi diritti, in costituzione
sono elencati un numero inferiore di doveri, ma la nostra realtà quotidiana e contornata da obblighi e
doveri, alcuni dei quali sono automatici, ossia nemmeno ce ne rendiamo conto di rispettare continuamente
delle norme, norme non scritte in costituzione. Perché i diritti per essere davvero garantiti devono essere
previsti in costituzione mentre i doveri no? Il potere dello stato di imporre doveri e obblighi è condizione
stessa della sua esistenza, non ha bisogno di sancirli in costituzione, è insito nella sua natura il poter
imporre degli obblighi indipendentemente dalla presenza di questi obblighi in costituzione, ad es. gli
obblighi deontologici di certe professioni, l’obbligo di testimoniare all’interno di un processo, qualsiasi tipo
di obbligo esiste indipendentemente dal fatto che sia sancito in costituzione. Perché i diritti sono previsti in
misura maggiore? Perché questa è una garanzia per i cittadini, il fatto che i diritti siano sanciti in
costituzione fa sì che lo stato, gli organi pubblici, gli organi costituzionali in primis, siano vincolati al rispetto
di quei diritti, perché tutti devono rispettare la costituzione. Mentre i doveri sanciti in costituzione sono in
misura inferiore. Dunque, non era necessario che la costituzione prevedesse dei doveri, perché lo fa?
perché alcuni doveri sono previsti in costituzione? Per diversi motivi:

1. La costituzione prevede dei doveri per dare una particolare finalità, direzione, a questi doveri.
Dunque, lo stato non può imporre qualsiasi tipo di dovere ai cittadini, ma può imporre dei doveri che
perseguono determinate finalità, finalità che sono sancite all’art.2 della costituzione, il quale parla di doveri
interrogabili, di solidarietà politica, economica e sociale. Questa è la direzione che la costituzione in
Assemblea costituente ha voluto dare ai doveri previsti all’interno del nostro ordinamento: devono essere
dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale. Si può prevedere una doppia direzione della
solidarietà: SOLIDARIETA’ PATERNA, funzione irrinunciabile dello Stato nei confronti degli individui, cioè
solidarietà che si impone allo stato, alla Repubblica, agli organi della Repubblica, alle politiche pubbliche,
quindi lo stato deve operare per garantire una solidarietà all'interno del nostro ordinamento, deve essere
solidale nei confronti dei suoi consociati, dei suoi cittadini. Quindi vi è anche un dovere della Repubblica di
intervenire solidalmente nei confronti dei cittadini; SOLIDARIETA’ FRATERNA, opera nelle relazioni sociali,
tra gli individui impegnati a cooperare per realizzare fini sociali, tale solidarietà quale impedisce un sistema
individualistico all’interno del nostro ordinamento, quindi gli individui hanno dei doveri di solidarietà nei
confronti gli uni degli altri, devono cooperare gli uni con gli altri.

2. Per prevedere garanzie a favore dei singoli. Occorre far riferimento all’art 23 della costituzione:
“nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”, ossia nessun
dovere, sia che sia un dovere patrimoniale (dare), ad es. una tassa imposta ai cittadini, sia che sia un dovere
personale, morale, fisico, ad es. un dovere di fare o non fare qualcosa, può essere imposto ai cittadini se
non in base alla legge, ossia è l'organo di rappresentanza stessa dei cittadini che puoi imporre degli obblighi
ai cittadini, è il Parlamento con legge o con atto avente forza di legge che può imporre degli obblighi ai
cittadini, non può essere il governo, una maggioranza politica, così come avveniva durante l’epoca fascista.
Quindi la costituzione prevede delle garanzie per i singoli, quali sono le garanzie rispetto ai doveri? Il fatto
che siano i rappresentanti dei cittadini a poter imporre questi doveri.

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3. Dare particolari indicazioni e principi in relazione a specifici doveri (artt. 52, 53). Quali sono i
doveri costituzionali?

 DOVERE AL LAVORO (art.4)

 DOVERE DEI GENITORI VERSO I FIGLI (art.30)

 DOVERE DI CURA (art.32)

 DOVERE DI ISTRUZIONE (art 34)

 DOVERE DI VOTO (art.48)

 DOVERE DI DIFESA DELLA PATRIA (art.52)

 DOVERE TRIBUTARIO (art.53), su cui si basa tutto il nostro sistema sociale (il nostro sistema
sanitario, il nostro sistema di istruzione, le nostre garanzie rispetto al lavoro, la previdenza sociale ecc.)

 DOVERE DI FEDELTA’ ALLA REPUBBLICA (art.54), che non è solo dei cittadini ma prima di tutto di
coloro che ricoprono incarichi a livello pubblico.

Quindi, la costituzione quando prevede questi doveri da particolari indicazioni, va a specificare che tipo di
dovere deve essere, come può essere disciplinato. Per tutto il resto, lo stato può imporre dei doveri ai
singoli, senza prevederli in costituzione. ovviamente questi doveri dovranno essere doveri di solidarietà
politica, economica e sociale e dovranno essere previsti dall'organo legislativo. Se i doveri riguardano questi
ambiti previsti in costituzione dovranno rispettare ciò che la costituzione dice rispetto a questi doveri, ad es.
relativamente al dovere tributario, lo stato non potrà mai applicare uguali tasse per tutti i cittadini, perché
la costituzione prevede una progressione da parte dei cittadini e da parte dello stato nel poter imporre
tributi e riscuotere tributi.

Quindi, nei moderni stati democratici, soprattutto dell’Europa, la coesione sociale tra gli individui, non è
garantita tanto tramite i diritti fondamentali, ma attraverso i doveri inderogabili di solidarietà. Questo
modello di Stato sociale solidale negli ultimi decenni è stato messo fortemente in crisi dai seguenti fattori:

 INVOLIZIONE DEL SISTEMA POLITICO-PARTITICO, il quale non riesce più a corrispondere alle
aspettative dei cittadini, a garantire un sistema solidaristico all’interno dell’ordinamento.

 IL DILAGARE DELLA CORRUZIONE

 CRISI ECONOMICA E DIVARIO SOCIALE, quindi una distanza sempre più abissale tra i grandi ricchi e
uno strato rilevante della popolazione che si trova in povertà. Vi è una parte della popolazione che non è
disposta a rispettare questi doveri di solidarietà politica, economica e sociale nei confronti degli altri
individui.

 SMANTELLAMENTO DEL SISTEMA SOCIALE, lo stato, gli organi pubblici, la Repubblica, non riesce a
garantire i diritti sociali, le prestazioni sociali.

 INVOLUZIONE DEI MEZZI DI COMUNICAZIONE (nell’ambito della comunicazione emerge una logica
estremamente individualistica).

Il principio di solidarietà e i doveri di solidarietà che discendono da questo principio sono il motore dello
Stato sociale, della coesione sociale tra gli individui, e perché questa coesione torni ad essere in primo
piano nelle politiche pubbliche occorre che tornino in primo piano anche i doveri di solidarietà, altrimenti il
rischio è quello di una scissione sociale, un estremo individualismo, senza che vi sia un progetto comune.

LA FAMIGLIA NELL’ORDINAMENTO COSTITUZIONALE

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Il diritto di famiglia e i diritti della famiglia sono una delle discipline più discusse e controverse del nostro
ordinamento, perché rispetto alla famiglia emergono una serie di ideologie differenti che già in Assemblea
costituente avevano suscitato un ampio dibattito ideologico che ancora oggi non è del tutto terminato. In
particolare, relativamente al diritto di famiglia e i diritti della famiglia, in costituzione non troviamo un solo
articolo, ma ben tre articoli, e questo è significativo, perché solo rispetto ai diritti della famiglia e rispetto al
diritto al lavoro, in costituzione troviamo una pluralità di disposizioni. Nella costituzione la famiglia è un
tema particolarmente difficile da sviscerare perché rispetto alla famiglia entrano in gioco non solo norme
giuridiche, non solo la disciplina giuridica prevista del legislatore, ma entra in gioco anche un'altra variabile,
ossia la coscienza sociale, la consapevolezza sociale, ossia come la società in quel momento vive la famiglia,
come percepisce la famiglia, quali modelli familiari sono presenti in un dato periodo storico all'interno
dell'ordinamento. Infine, un ulteriore elemento che crea discussioni relativamente al diritto di famiglia e i
diritti della famiglia è data dal fatto che quando si parla di famiglia bisogna anzitutto far riferimento ai diritti
della famiglia complessivamente intesa, ma all’ interno della famiglia abbiamo singoli individui portatori di
propri diritti e proprie pretese. Quindi, da un lato abbiamo il diritto della famiglia che va a disciplinare la
famiglia come nucleo, e dall'altra abbiamo i diritti dei membri all’interno della famiglia. Vi è quindi una
difficoltà oggettiva da parte dell’ordinamento nell’intervenire a disciplinare la famiglia. Quale significato la
costituzione attribuisce al termine famiglia? Occorre anzitutto far riferimento all’art 29:

1 comma: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul
matrimonio”: all'interno di questo primo comma ritroviamo tutte le tensioni che emersero all’interno
dell’Assemblea costituente, anzitutto perché la famiglia viene definita come società naturale, e questo è
significativo del fatto che si volesse prendere atto che la fam., Il nucleo famigliare, la formazione sociale
famiglia, preesiste rispetto allo Stato, la famiglia è una società naturale perché appartiene naturalmente a
quelli che sono i bisogni umani. Se però concepiamo la famiglia come società naturale, lo stato dovrebbe
astenersi dal disciplinare qualsiasi modello famigliare, se è un mio bisogno naturale sono io che mi creerò
naturalmente il mio modello di famiglia, qualunque esso sia, la famiglia potrebbe così assumere una
pluralità di modelli organizzativi. Il fatto che in costituzione sia stata sancita la famiglia come società
naturale comporta una garanzia di autonomia all’interno della fam ed effettivamente, lo stato interviene a
disciplinare il meno possibile la famiglia, lascia alle famiglie autonomia di regolazione dei propri rapporti
interni, tendenzialmente quando lo stato interviene, interviene nei momenti patologici della famiglia, per
tutelare alcuni individui della fam., per es. i minori, oppure interviene per garantire certezza all'interno
dell’ordinamento, certezza dal punto di vista anagrafico della fam., ma non interviene a regolare i rapporti
quotidiani che si creano all'interno della famiglia. L’art 29 inoltre aggiunge una connotazione alla famiglia,
la famiglia non è solo società naturale, ma società naturale fondata sul matrimonio: tale connotazione
ulteriore perché all’epoca dell’approvazione della costituzione la fam si basava principalmente su un
modello famigliare, ossia la famiglia nata tramite matrimonio civile o religioso, modello che discendeva dal
Codice civile del 1942, e quindi, secondo l’art. 29 non è famiglia qualsiasi altra forma di convivenza, famiglia
è solo quella fondata sul matrimonio religioso o matrimonio civile tra persone di sesso diverso. La
definizione di famiglia dato dall'articolo 29 della Costituzione e frutto di un compromesso raggiunto in
assemblea costituente tra diverse forze politiche: da un lato in assemblea costituente troviamo le forze
politiche di ideologia cattolica, le quali mirano al riconoscimento della famiglia fondata sul matrimonio
religioso e alla famiglia come società naturale, perché non vogliono l’intromissione dello Stato nella
regolazione del matrimonio religioso da parte delle diverse confessioni religiose. Inoltre, i partiti di
ideologia cattolica volevano anche l'introduzione in costituzione dell'indissolubilità del matrimonio, quindi
dell'impossibilità di rompere il legame matrimoniale, e, dal compromesso, tale aspetto non è stato inserito
in Costituzione; I partiti di ideologia laica invece non volevano che venisse imposto un unico modello
famigliare, fondato sul matrimonio. Tuttavia, il matrimonio è l'elemento imprescindibile perché si possa
parlare di famiglia all’interno della Costituzione. Subito dopo il periodo di approvazione della costituzione
iniziano una serie di dibattiti a livello sociale, perché inizia ad esserci una parte della società che non si

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riconosce nel modello famigliare fondato sul matrimonio, e chiede il riconoscimento di famiglie diverse
rispetto a quelle fondate esclusivamente sul matrimonio, il riconoscimento delle cosiddette famiglie di
fatto, non riconosciute dall’art.29. Il riconoscimento di modelli famigliari diversi avviene attraverso
anzitutto i giudici, le corti, dal punto di vista giuridico abbiamo assistito ad un’evoluzione rispetto al conetto
di famiglia così come tutelato dal nostro ordinamento: negli anni 70 abbiamo una posizione diversa fra la
corte di cassazione e la corte costituzionale, cioè quest’ultima rifiuta il riconoscimento di qualsiasi modello
familiare diverso, perché l’art.29 vincola la corte costituzionale parlando di matrimonio, mentre la corte di
cassazione inizia a riconoscere modelli famigliari diversi non sulla base dell'art. 29 della costituzione, ma
sulla base dell’art. 2, che tutela le formazioni sociali, garantisce diritti inviolabili al singolo e alle formazioni
sociali all’interno delle quali si sviluppa la personalità dei singoli. La corte di cassazione inizia a riconoscere
diritti alle coppie di fatto tramite l’art.2, ritenendo che le coppie di fatto costituiscano ormai negli anni 70,
una formazione sociale riconosciuta dalla coscienza sociale. Quali sono i diritti di cui si chiede garanzia? Es.
Diritti di successione ereditaria tra coppie di fatto, poter assistere il proprio convivente in ospedale, in una
struttura carceraria ecc, problemi concreti che vengono portati di fronte alla Corte costituzionale e se quei
diritti fino ad allora erano garantiti esclusivamente alle coppie sposate, iniziano ad essere estesi anche alle
coppie di fatto tramite un’interpretazione estesa dell’art. 2 della costituzione. Mentre, negli anni 70, La
Corte costituzionale non abbraccia ancora quest’interpretazione estensiva dell’art.2, per la Corte
costituzionale le coppie di fatto non sono discriminate rispetto alle coppie sposate in matrimonio, perché la
costituzione le riconosce come differenti, sono due soggetti distinti, tutelati in maniera distinta
dall’ordinamento. L'atteggiamento della Corte costituzionale inizia a cambiare solo nel 2010, in particolare
con la sentenza 138 del 2010: con questa sentenza la Corte costituzionale continua a mantenere distinte le
coppie sposate in matrimonio e le coppie di fatto, poiché la costituzione non le consente di far
diversamente, è vincolata dalla caratterizzazione della famiglia all’art 29, una famiglia fondata sul
matrimonio. Finché il matrimonio è disciplinato dall’ordinamento esclusivamente come matrimonio civile o
religioso tra coppie eterosessuali, la corte costituzionale è vincolata a quell’interpretazione, non può
andare altre, ma nel 2010 quest’ultima, con la sentenza 138, accoglie l’interpretazione che era già stata
data negli anni 70 dalla corte di cassazione, cioè riconosce che le coppie di fatto, omosessuali o
eterosessuali sono garantite dall’art.2 della costituzionale, riconosce le coppie di fatto come formazione
sociale, alla quale l’ordinamento deve garantire diritti. Dopodiché, in questo lungo cammino del nostro
ordinamento nel riconoscimento dei diversi modelli famigliari, succede che nel 2015 l’Italia viene
sanzionata con una sentenza di condanna da parte della Corte di Strasburgo, perché non riconosce
adeguate garanzie alle coppie omosessuali ed è in seguito a questa sentenza di condanna che in Italia viene
approvata la legge Cirinnà, ossia le legge 76/2016, la quale regola le unioni civili tra persone dello stesso
sesso e le convivenze di fatto eterosessuali o omosessuali. Con tale legge continua a mantenersi la
distinzione tra matrimonio e unione civile, sono due istituti differenti, una cosa è il matrimonio, civile o
religioso tra persone dello stesso sesso, altra cosa sono le unioni civili tra persone omosessuali, e altra cosa
ancora sono le convivenze di fatto, che possono essere o eterosessuali o omosessuali. In particolare, le
unioni civili, che vengono introdotte nel codice civile con la legge Cirinnà, rinviano alla disciplina del
matrimonio civile, cioè le unioni civili tra persone dello stesso sesso sono regolate in modo identico al
matrimonio civile (un atto pubblico di fronte a testimoni cui si prestano determinate promesse), ne
discendono diritti e doveri identici, ma si differenzia dal matrimonio civile per alcuni aspetti essenziali:

1. impossibilità per le persone legate da Unione civile di adottare. Quindi per l'adozione continua a
parlarsi di matrimonio.

2. Divieto della stepchild adoption, ossia all’interno di un’unione civile, l’impossibilità per uno dei due
partner di adottare il figlio biologico del partner nato da una precedente unione eterosessuale.

3. Per l'unione civile non è stato previsto l'obbligo di fedeltà

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Con la legge Cirinnà vengono regolate anche le convivenze di fatto, sono regolate in maniera diversa
rispetto al matrimonio e all’unione civile, il procedimento è molto meno formalizzato, si attesta di fronte ad
un pubblico ufficiale il fato di andare ad istituire una convivenza tra due persone, dalla quale discendono
una serie di diritti, in misura inferiore rispetto a quelli riconosciuti oggi al matrimonio e all’unione di fatto,
ma vengono riconosciute una serie di garanzie in più per coloro che certificano la propria convivenza di
fatto. Si è discusso sul fatto che la legge Cirinnà non sia precisissima nell'indicare cosa si debba intendere
per convivenza (posso immaginare la classica convivenza tra un uomo e una donna, tra due uomini o tra
due donne, ma posso anche immaginare una convivenza tra due parenti o tra due estranei, uno dei quali si
fa carico di assistere un'altra persona nei momenti di difficoltà), e si attendono ancora maggiori
specificazioni da parte del legislatore.

Su tutti questi aspetti distintivi vi è stata e vi è ampia discussione e diffusione mediatica, Il punto più
discusso oggi e quello relativo all'adozione. Perché si è vietata l'adozione e la stepchild adoption in caso di
unione civile o convivenza di fatto? Forse non si era raggiunta una maturazione sufficiente a livello sociale,
sicuramente entra in gioco la presenza di visioni ideologiche differenti (visioni cattoliche, religiose non
cattoliche, laiche) e poi, il legislatore è in seria difficoltà a regolare la stepchild adoption, l’adozione delle
unioni civili o delle convivenze di fatto, perché vi è un problema legato alla procreazione medicalmente
assistita, alla maternità surrogata, un problema legato alla tutela del minore, alla tutela della vita della
donna nell’ipotesi di maternità surrogata, un problema legato al diritto di conoscere le proprie origini da
parte dei minori coinvolti in procedure di procreazione medicalmente assistita all'estero, di maternità
surrogata, c’è ancora oggi un problema da parte del legislatore di riuscire a tutelare tutti gli interessi
coinvolti, tutte le persone coinvolte. È evidente che oggi viviamo in una società che ha diversi modelli
famigliari, e al momento il riconoscimento e la tute di questi modelli sta avvenendo da parte degli organi
giudiziari, quindi da parte dei giudici, delle corti, anche internazionali: c'è indubbiamente fermento sul
tema, ma il nostro legislatore nazionale ancora non è riuscito a disciplinare in maniera puntuale le diverse
casistiche, un po’ per mancanza di volontà (es. il non voler disciplinare l’obbligo di fedeltà per le unioni civili
è stato fortemente criticato, perché si tratta evidentemente di un voler considerare queste tipologie di
unioni inferiori, diverse rispetto ad un’unione fondata sul matrimonio), ma rispetto alla stepchild adoption
o la possibilità di adottare minori occorre tener presente che vi sono ordinamenti all'estero che
disciplinano in maniera diversa queste possibilità, vi è un turismo rispetto alla possibilità di avere dei figli
all'estero tramite procreazione medicalmente assistita o tramite la maternità surrogata, che però nel
nostro ordinamento stanno creando delle incrinature rispetto alla tutela dei singoli all’interno di queste
vicende, quindi la tutela del minore, della coppia, della madre surrogata… Non è semplice quindi dal punto
di vista giuridico disciplinare questi nuovi modelli familiari. Es Una coppia va all'estero, in uno stato in cui è
consentita la maternità surrogata, in questo modo riesce ad avere un figlio, ad ottenere un certificato di
nascita di un figlio che è proprio, torna in Italia e chiede il riconoscimento di quel certificato anagrafico di
nascita e, questo riconoscimento difficile, che avviene talvolta in maniera differente dai giudici, i quali
prevalentemente cercano di tenere in considerazione il preminente interesse del minore, (è interesse che il
minore sia riconosciuto all’ interno dell'ordinamento e trovi una famiglia all'interno di quest'ultimo) ma
crea a monte delle disparità tra individui, tra la coppia che può andare all'estero e permettersi certe
procedure, tornare in Italia e pagare avvocati per chiedere il riconoscimento e le coppie che questo non
possono permetterselo dal punto di vista economico e finanziario. Dunque queste tensioni che viviamo oggi
pesano sull'ordinamento giuridico complessivo, pesano rispetto all' eguaglianze degli individui e pesano
anche per il legislatore, poiché non è così facile andare a disciplinare determinati temi, non vi è solo una
mancanza di volontà o una non volontà da parte di alcuni partiti politici (per alcuni si), ma vi è anche una
difficoltà reale nel riuscire a tutelare tutti i soggetti presenti all'interno di questi modelli famigliari.

2 comma: “Il matrimonio è ordinato sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti
stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare.”: tale comma si distanzia dalla situazione dell’epoca, del
1948, e introduce un forte elemento di rottura e discontinuità con il passato. Qual è questo elemento di

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rottura? Il Codice civile del 1942, vigente all'entrata in vigore della costituzione (codice che discendeva dal
diritto romano e vigente fino alla riforma del 1975, che è andata a modificare il Codice civile) non
prevedeva assolutamente l'eguaglianza morale e giuridica della donna all'interno del matrimonio rispetto
all'uomo. Ad es. Se era la donna a tradire il marito, in termini di scioglimento del matrimonio era
fortemente penalizzata, e non vi era assolutamente uguaglianza giuridica, ad es. Il patrimonio della donna
entrava a far parte del patrimonio del marito. Se la donna sposava un cittadino straniero perdeva la
cittadinanza italiana e assumeva quella del marito. La donna era in uno stato di subordinazione rispetto al
marito e quindi anche rispetto alle scelte familiari all'interno della famiglia, in caso di contrasto, a prevalere
era la scelta del marito. Questo fino alla riforma del 1975, prima di questa all’interno della famiglia si
parlava esclusivamente di patria potestà sui figli e sulla moglie. Quindi la costituzione del 1948, nel
momento in cui sancisce Un'eguaglianza giuridica morale dei coniugi, e fortemente innovatrice, rompe
completamente rispetto al passato impone al legislatore di andare a modificare tutta la legislazione che
prevede una diseguaglianza tra uomo e donna all'interno del matrimonio. Con la costituzione del 1948 deve
essere garantita l'eguaglianza e giuridiche morale dei coniugi non solo nei momenti fisiologici, quindi di
ordinaria vita familiare, ma anche nei momenti patologici, di crisi famigliare. Garantire l'unità familiare non
significa che deve essere garantito il matrimonio, perché se vi è un momento di crisi e il matrimonio si
scioglie, si scioglierà, ma deve essere garantita l'unità tra i membri della famiglia, in particolare l'unità tra i
genitori e i figli, e, all'interno di questa unità l'uguaglianza tra i coniugi. Quindi mentre il comma 1 resta
legato alla fotografia sociale dell'epoca, con un modello familiare di maggioranza tradizionale fondato sul
matrimonio civile o religioso, il comma 2 rompe completamente con la fotografia sociale dell'epoca. Si è
dovuto tuttavia aspettare la riforma del 1975 perché venisse effettivamente riconosciuta uguaglianza tra
coniugi all'interno della famiglia.

ARTICOLO 30
Lo si può dividere in due parti: la prima è costituita dai primi due commi e la seconda dal terzo e quarto
comma. La prima parte continua ad essere ancora oggi estremamente attuale, vigente, efficace, così com’è
indicata nella costituzione, mentre la seconda parte dell'art. 30 invece ha perso in parte di validità perché vi
sono stati una serie di interventi, di riforme, da parte del legislatore, anche recenti, che hanno superato il
dettato della seconda parte dell’art. 30.

 PRIMA PARTE (I e II comma): “È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli,
anche se nati fuori dal matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i
loro compiti”. Questa prima parte conserva tutta la sua attualità, ancora oggi si parla di diritti dei genitori
nei confronti dei figli, di doveri dei genitori nei confronti dei figli e di incapacità dei genitori di assistere ai
propri figli e quindi la necessità che subentri la legge affinché i figli, soggetto debole all'interno della
famiglia, siano tutelati. Mentre in altri articoli di questa prima parte della Cost. anzitutto viene sancito il

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diritto e poi si parla di dovere, rispetto ai genitori e al ruolo dei genitori rispetto ai figli, nell’art. 30 si
antepone il DOVERE del genitore nei confronti del figlio rispetto al DIRITTO. Non si tratta di
un’anteposizione casuale, ma volontariamente si è voluto anteporre il dovere del genitore nei confronti dei
figli rispetto ai diritti del genitore, questo perché in Assemblea costituente si aveva un’idea di famiglia già
evoluta: mentre nel Codice civile, sul quale cui si fondava ancora il legislatore, continuava ad essere
disciplinata una famiglia nella quale minori erano sotto la patria potestà del padre, e quindi erano
subordinati alle decisioni della famiglia, in Assemblea costituente si aveva una visione di famiglia all'interno
della quale il minore era sì soggetto debole, ma non subordinato alla patria potestà, subentrava un dovere
dei genitori nei confronti dei figli, un dovere di assistenza, di mantenere, istruire ed educare i figli, quindi
venivano ribaltati i ruoli all'interno della famiglia. Quindi dovere dei genitori rispetto ai figli, ma anche diritti
dei genitori nei confronti dei figli, e questi diritti sono sottolineati in costituzione perché durante l'epoca
fascista la famiglia aveva perso qualsiasi tipo di diritto nei confronti della propria prole, qualsiasi diritto ad
es. rispetto alle scelte di istruzione nei confronti dei figli: durante l'epoca fascista era lo stato che si era fatto
carico dei figli e che aveva imposto una serie di decisioni nei confronti dei minori, quindi vi era stata
un'importante intromissione dello Stato nei confronti della famiglia, mentre in assemblea costituente si
sottolinea che non vi sono soli doveri dei genitori nei confronti dei figli ma vi sono anche dei diritti dei
genitori nei confronti dei figli. “dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli”:
mantenere significa di garantire una vita dignitosa, vitto e alloggio ai figli; istruire significa da un lato il
dovere di dare un’istruzione, quindi un’iscrizione negli istituti scolastici ai propri figli, dall’altro un diritto di
istruzione nei confronti dei figli, quindi una libertà di scelta del tipo di scuola/istruzione più adatta per i
propri figli. Rispetto all’istruzione, soprattutto in questo periodo di pandemia, di scuola a distanza, si è
tornati a parlare del significativo ruolo della fam, soprattutto rispetto ai figli aventi un'età tale da non
riuscire a gestire la DAD in autonomia.; e infine educare i figli significa dar loro un’educazione, significa da
un lato garantire loro, laddove possibile, l’accesso ai servizi educativi per la prima infanzia, dall’altro
educare significa anche che, rispetto ad un minore, ricade anche una responsabilità dei genitori rispetto
all’ed. data al minore, la cosiddetta “colpa in educando” dei genitori nei confronti dei figli, e il primo
comma ci dice “anche se nati fuori dal matrimonio”: significativo del fatto che già in assemblea costituente
si aveva ben presente che, indipendentemente dal legame esistente tra i due genitori, quindi
indipendentemente che fosse un legame matrimoniale, non matrimoniale o extraconiugale, esiste una
responsabilità dei genitori nei confronti dei propri figli, per il solo fatto di averli messi al mondo. Il secondo
comma invece dice che laddove i genitori siano incapaci di provvedere ai propri figli, la repubblica si fa
carico di loro e dei compiti che ricadono sui genitori: esattamente come se in un branco il genitore non è in
grado di accudire il figlio, è il branco che si fa carico dei cuccioli, la stessa cosa all’interno della Repubblica.
Tutti questi doveri dei genitori nei confronti dei figli si attenuano man mano che i figli crescono, il dovere di
mantenere, istruire, educare, man mano si affievolisce con l’aumentare dell’età.

 SECONDA PARTE (III e IV comma): “La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela
giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima
La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità”. La famiglia legittima ai tempi dell’Assemblea
costituente era quella fondata sul matrimonio. Perché questa seconda parte è in parte superata? In
Assemblea costituente ci fu un ampio dibattito sui diritti da riconoscere ai figli nati al di fuori di un
matrimonio legittimo, questo perché in Assemblea costituente da un lato vi erano i partiti di ideologia
cattolica, i quali volevano difendere la famiglia legittima, fondata sul matrimonio, partiti che quindi
ritenevano che un figlio illegittimo, al di fuori del matrimonio, potesse in qualche modo dare instabilità alla
famiglia legittima, dall’altro vi erano i partiti laici, i quali ritenevano necessario tutelare tutti i figli
indipendentemente dallo stato di nascita. All’epoca ci si riferiva ai figli nati al di fuori dal matrimonio con il
termine “figli illegittimi”, quindi già termine aveva una connotazione negativa, con il tempo è stato
aggiornato con il termine figli “naturali”, con una connotazione meno negativa, sino ad arrivare oggi, in cui
grazie alla legge 219 del 2012, lo stato di figlio è stato unificato, si parla di figli in generale senza una

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connotazione che vada ad identificarli, si è figli in quanto generati da due genitori indipendentemente dal
legame esistente tra i due genitori. All'epoca dell’Assemblea costituente invece esisteva ancora questa
distinzione tra figli nati all'interno del matrimonio e figli nati al di fuori del matrimonio e, al termine della
discussione in Assemblea costituente si arrivò ad un compromesso, il comma III dell’art. 30 non è altro che
un compromesso tra le due posizioni, cioè la facoltà di riconoscere pari diritti ai figli nati al di fuori di un
matrimonio legittimo, purché questi diritti siano compatibili con quelli della fam. legittima, soprattutto con i
diritti dei figli nati all’interno di una fam. legittima. Questa seconda parte dell’art. 30 ha perso la sua
attualità, poiché è subentrata la legge 219 del 2012 che ha parificato la posizione dei figli, i figli hanno tutti
lo stesso stato giuridico, ossia hanno gli stessi diritti e doveri. Tale legge comporta una serie di novità
rilevanti: se con la riforma del codice civile del 1975, da una patria potestà all'interno della famiglia si era
passati a parlare potestà genitoriale, cioè di una potestà di entrambi i genitori, non del solo padre
all’interno della fam., riconoscendo in questo la parità dei coniugi all’interno del matrimonio (art.29), la
legge 219 del 2012 compie un passo ulteriore, cioè non si parla più di potestà genitoriale, ma dal 2012, si
parla di RESPONSABILITA’ GENITORIALE, e anche il codice civile in questo senso è stato modificato. Da un
potere dei genitori nei confronti dei figli, ora i genitori hanno una vera e propria responsabilità nei confronti
dei figli, quindi i figli diventano soggetto di diritti, non sono più oggetto della potestà genitoriale, ma
diventano un soggetto avente diritti. Si riconosce nel 2012 un passo importante, un adeguamento della
normativa italiana a quella che è ormai la normativa internazionale, ossia questo sistema centrato sul
minore e non più centrato sull’adulto è un passaggio che ormai da anni era venuto anche a livello
internazionale, basti pensare alla Convenzione ONU sui diritti dell'infanzia o ai documenti a livello di Unione
europea. Tuttavia, la critica che viene mossa è che questa normativa non va precisare il contenuto di questa
responsabilità, il legislatore avrebbe potuto compiere un passo ulteriore andando ad indicare in maniera
più dettagliata che cosa si debba intendere per responsabilità, tutelando così ulteriormente minori.
Ulteriore indicazione contenuta nella legge 212 si riferisce al fatto che i figli vengono tutti equiparati, ossia
non ci sono più distinzioni di alcun tipo tra figli nati all'interno del matrimonio e figli nati al di fuori del
matrimonio, soprattutto non ci sono più distinzioni economiche, mentre sino a quel momento rimanevano
alcune distinzioni per es. per quanto riguarda i diritti di successione rispetto ai genitori, ossia i nati al di
fuori del matrimonio erano svantaggiati in questo rispetto ai figli nati all'interno del matrimonio, e non ci
sono anche più disparità rispetto ai rapporti con gli altri familiari. La legge dopo di che insiste sul fatto che la
Repubblica si faccia carico in caso di incapacità dei genitori di essere responsabili, in che modo? Attraverso
tutte le procedure di affidamento ed eventualmente di adozione dei minori, procedure che erano già state
disciplinate con legge 184 del 1983, la quale aveva dettagliato la procedura di affidamento e adozione, e la
normativa viene negli anni aggiornata. Dunque tale legge rappresenta un passo significativo rispetto ai
diritti della famiglia.

ARTICOLO 31
Nell’art. 31 viene disposto in cost. la necessità, il dovere, di un sostegno pubblico alla famiglia, il quale deve
esserci nel nostro ordinamento non solo nelle ipotesi di incapacità dei genitori. L’art. 31 dice “La
Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze (quindi non solo con misure economiche,
ma anche con altri servizi, per es. i servizi educativi per la prima infanzia, in assenza dei quali molte fam.
probabilmente o rinuncerebbero ad avere dei figli o uno dei due genitori dovrebbe rinunciare a lavorare) la
formazione della famiglia (per es. interventi pubblici legati al periodo della maternità, la normativa relativa
alla procreazione medicalmente assistita, sovvenzione relative alla maternità come il bonus bebè) e
l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la
maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”. Da questo art. 31
discendono tutte le tipologie possibili di politiche per la famiglia messe in atto negli anni dal nostro
legislatore, quindi agevolazioni fiscali, specialmente per le famiglie più numerose, assegni familiari, sostegni
sociali, ad es. gli interventi dei servizi sociali relativamente alla fam, interventi rispetto alla donna e madre
lavoratrice, tutti gli interventi e servizi relativi al periodo della gravidanza, si parla anche di tutela

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dell’infanzia e della gioventù e a tal riguardo il legislatore è intervenuto nel 1997 con la LEGGE 285
disciplinando alcuni servizi educativi per la tutela della prima infanzia. Ancora, all'interno di questo
sostegno pubblico nei confronti della famiglia sicuramente rientra tutta la normativa in materia di adozione
nazionale e internazionale e affidamento, tutta la normativa che va a disciplinare le comunità educative per
l’infanzia e l’adolescenza, le case-famiglia, le case protette, quindi per le madri con i minori, quindi tutte
quelle strutture residenziali e semiresidenziali che supportano la fam., i minori e fam in difficoltà. Quali
sono le criticità di quanto prevede questo art.?

 Oggi non abbiamo più un unico modello di fam. tradizionale, la famiglia tradizionale fondata sul
matrimonio, ma abbiamo una pluralità di modelli famigliari, disciplinati recentemente con la legge Cirinnà.
Il legislatore nazionale, quando è intervenuto, non sempre ha definito in modo netto a quale modello
famigliare questi interventi siano diretti, oppure ha privilegiato certe tipologie di fam rispetto ad altre.
Manca dunque a livello nazionale una definizione unitaria di famiglia, che comprenda a tutti diversi modelli
possibili familiari, e quindi il sostegno dello Stato talora è un sostegno solo nei confronti di alcune fam. e
non di altre, ad es. i bonus e le sovvenzioni previsti solo nei confronti di alcune famiglie non di altre.
Dunque, a seconda dell'intervento dello Stato, possiamo avere un trattamento differente nei confronti della
fam, per es. è significativo che quando si parla di tutela della maternità e tutela della paternità il legislatore
ha posto attenzione ad equiparare la maternità e la paternità biologica con la maternità e paternità
adottiva, ad es. Il periodo di congedo per maternità o i permessi per maternità, sono garantiti anche alle
fam adottive. Tuttavia, in altri ambiti questa equiparazione non vi è stata. Quindi riassumendo, manca una
definizione organica e unitaria di famiglia e gli interventi Dello Stato talvolta sono distinti e vanno a
tutelare solo certe formazioni familiari e non altre.

 Manca, ad oggi, una legislazione organica in materia di famiglia, una normativa organica che va a
tutelare e garantire la famiglia nel suo complesso. Il legislatore quando interviene, interviene
settorialmente, in maniera frammentata, di volta in volta, a seconda anche delle risorse finanziarie che ha a
disposizione, e quindi contribuisce a non tutelare uniformemente la fam nel nostro ordinamento. Es.
interviene a tutelare il periodo di maternità e interviene su quello, interviene a proposito di assegni
familiari per famiglie numerose e interviene su quello, ma non vi è una politica per la famiglia di carattere
organico.

Il sostegno pubblico nei confronti della famiglia lo ritroviamo anche da parte delle regioni. Le regioni,
essendo competenti rispetto alla materia servizi sociali, in questi anni, sono intervenute a garantire servizi
per la famiglia, e dunque vi è una differenziazione sul territorio delle tipologie di interventi nei confronti
della famiglia e quindi a livello regionale, si notano ampie differenze da una regione all'altra, per es. vi sono
regioni che tutelano la famiglia indipendentemente dalla cittadinanza della famiglia, quindi è sufficiente
risiedere sul territorio regionale per accedere a servizi e contributi previsti dalla regione, e altre regioni che
invece circoscrivono interventi e servizi a seconda del tipo di cittadinanza che si ha, ad es. se si è cittadini
italiani e si risiede sul territorio regionale da un certo numero di anni si ha diritti a certi servizi, sovvenzioni,
prestazioni da parte della regione, altrimenti si è automaticamente esclusi. Dunque, un intervento da parte
esclusivamente delle regioni, può comportare delle differenziazioni sul territorio nazionale. Manca a livello
nazionale un intervento organico, una riflessione organica sulla fam, relativamente alla quale, si sarebbe
potuta cogliere l'occasione, con questo piano nazionale di resilienza i ripiani e con tutti questi fondi che
sono arrivati, di immaginare una politica organica rispetto alla famiglia, mentre sembra persistere una
logica settoriale, frammentata. Sicuramente ci sono stati interventi per la conciliazione tra il ruolo familiare
e il compito lavorativo dei genitori, o interventi per implementare i servizi educativi la prima infanzia, ma
manca una riflessione generale rispetto sostegno pubblico nei confronti della famiglia.

ARTICOLO 32

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Disciplina il diritto alla salute. Nel periodo precedente all'entrata in vigore della costituzione non si parlava
di diritto dell'individuo alla salute perché nello statuto albertino non esisteva la disciplina dei diritti sociali,
tra cui il diritto alla salute, e quindi l'intervento pubblico relativamente alla salute era un intervento legato
prevalentemente alla tutela della salute pubblica, alla vigilanza igienica, ad una sicurezza rispetto alla salute
pubblica. All’epoca, infatti, non era non era previsto un ministero della salute, tutto ciò che riguardava la
salute era esercitato dal ministero degli interni, ossia il ministero che si occupava dell'ordine pubblico sul
territorio. Con l'entrata in vigore della costituzione la salute, a differenza della famiglia, disciplinata in un
unico art. della cost., l’art 32: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e
interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a
un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non
può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”. È evidente
la rottura con l'epoca precedente, la salute non è solo una politica pubblica di interesse generale, ma è un
diritto fondamentale dell’individuo e anche un interesse della collettività. Gli indigenti sono coloro che non
hanno le risorse finanziarie per potersi garantire cure. Con l'introduzione dell'articolo 32 nella costituzione
indubbiamente vi è un cambio di passo rispetto all'epoca precedente, viene riconosciuto il diritto sociale
alla salute. Considerazioni:

 Rispetto al diritto alla salute non si può nettamente dire che si tratti di una libertà solo negativa o di
una libertà solo positiva. Nel diritto alla salute, così come disciplinato in costituzione, troviamo sia un diritto
alla salute garantito come libertà negativa, ossia diritto garantito all' individuo indipendentemente
dall'intervento statale, anzi è necessario che lo stato si astenga, sia un diritto garantito come libertà
positiva, che necessita dell’intervento attivo dello stato per essere garantito.

 Nell’art.32 è presente anche una netta distinzione tra norma programmatica e diritto perfetto. Da
un lato nell’art. 32 troviamo la salute disciplinata come un diritto perfetto, immediatamente applicabile in
parte così com’è, dall’altro il diritto alla salute è indicato come un programma che la Repubblica si dà nel
garantire agli individui il diritto alla salute.

 Come tutti i diritti, la tutela tradizionale di questo diritto è quella giudiziario, quindi nel momento in
cui il diritto è violato, la tutela che si appresta a quel diritto è il ricorso ad un giudice affinché risarcisca il
danno. Tuttavia, è evidente che quando parliamo di salute non sempre il risarcimento del danno e
adeguato al danno subito. Es. Se rispetto al mio diritto alla salute subentra la morte, per quanto potranno
risarcire i miei eredi, un risarcimento economico non sarà mai adeguato alla morte di un individuo.

 Il concetto di salute è variato nel tempo: se inizialmente si parlava esclusivamente di una salute
fisica, negli anni si è passati a parlare di una salute psicofisica, ed oggi si parla di una salute 360 °, quindi per
es. Salute ambientale, salute sui luoghi di lavoro ecc.. Si evolve nel tempo, con l'evolversi della medicina, il
concetto di salute e quindi anche le politiche per la salute man mano si ampliano, così come gli strumenti di
tutte le garanzie della salute.

 La nostra salute non dipende esclusivamente dall'intervento dell'uomo, vi sono una serie di
condizioni rispetto alle quali l’uomo non è in grado di intervenire, per quanto vi siano progressi da parte
della medicina, della scienza medica, nuovi studi.

 Rispetto alla salute vi sono una serie di interventi internazionali importanti. Oggi quando occorre
dare una definizione di salute, si fa riferimento alla definizione datane dall'organizzazione mondiale della
salute. O ancora, basti pensare, relativamente alla disabilità, l'importanza della normativa internazionale
rispetto alla disabilità, la quale ha modificato da questo punto di vista il concetto di salute, di disabilità,
facendo progredire la tutela apprestata dagli ordinamenti nazionali.

Tutte queste premesse per dire che non è un caso che quando si parla di salute ci siano tutt'oggi ampi
dibattiti e posizioni estremamente contrastanti, poiché si tratta di un diritto che ha una pluralità di valenze

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già per come è disciplinato all'interno della costituzione: c'è chi vi legge una libertà negativa e chi vi legge la
libertà positiva. Per questo non è semplice individuare una posizione unitaria rispetto al diritto alla salute.
Sicuramente quando parliamo di diritto alla salute però rintracciamo in costituzione 4 elementi che
caratterizzano il diritto alla salute per come è disciplinato nella nostra costituzione:

1. IL DIRITTO ALLA SALUTE È DISCIPLINATO COME UN DIRITTO FONDAMENTALE: in cost. all’art. 2 si


dice che la Repubblica riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, ma poi, quando la cost., va a disciplinare i
singoli diritti, in realtà pochissimi di questi sono esplicitamente dichiarati o come fondamentali o come
inviolabili. Sono dichiarati inviolabili e fondamentali: la libertà personale (art.13), la libertà di domicilio, il
diritto di difesa di fronte ad un ordine giudiziario, e il diritto alla salute. Solo questi 4, e non a caso: la libertà
personale riguarda la sfera personale dell’individuo, la quale è inviolabile, sebbene vi siano dei limiti, in
alcuni casi questa sfera può essere violata, ma i limiti sono previsti in costituzione proprio per evitare che vi
sia un intervento dello Stato che limiti estremamente la libertà personale dell'individuo; la libertà di
domicilio è la sfera immediatamente esterna a quella personale, nel momento in cui varco la porta di casa
cambia la mia libertà personale, mi devo relazionare con altri e quindi cambia il mio ruolo e atteggiamento
nei confronti degli altri; anche il diritto alla salute è estremamente connesso alla libertà personale, riguarda
la sfera individuale, il fondamento della persona. Cosa comporta il fatto che il diritto alla salute sia
dichiarato un diritto inviolabile? Comporta il fatto che non possa soccombere di fronte a diritti e libertà che
non sono dichiarate inviolabili, fondamentali: di fronte ad un contrasto tra il diritto alla salute ed un'altra
libertà che non è dichiarata inviolabile, il diritto alla salute non può soccombere, ma occorrerà trovare un
bilanciamento, il quale non è semplice da trovare, ed il quale spetta anzitutto al legislatore e in ultimo
spetterà al giudice stabilire, quindi il fatto che non possa soccombere non significa neanche che il diritto alla
salute prevalga sempre e comunque. Es. Di fronte alla necessità di tutelare la salute, il mio diritto di
circolazione, di istruzione, di riunirmi, può essere limitato. Il fatto che il diritto alla salute sia un diritto
fondamentale significa anche che, appartenendo alla sfera più intima dell’individuo, il diritto alla salute è
inalienabile, cioè non può essere compravenduto, es. tutta la normativa relativa alla donazione degli
organi, non a caso si parla di donazione e non di compravendita di organi, ed è intrasmissibile, in quanto
non posso trasmettere ai miei discendenti la mia salute, trasmetterò dei geni, un certo tipo di DNA, ma
non posso trasmettere il mio stato di salute ai miei discendenti. Inoltre, sebbene vi siano alcune criticità
riguardo, il diritto alla salute è irrinunciabile.

2. IL DIRITTO ALLA SALUTE È DISCIPLINATO COME UN DIRITTO INDIVIDUALE: la terminologia e i


concetti utilizzati in costituzione non sono casuali, perché rispetto ad altri diritti la costituzione
esplicitamente riconosce il diritto al solo cittadino, mentre rispetto alla salute la costituzione parla di diritto
dell'individuo, quindi riconosce un diritto alla salute all'uomo in quanto tale, indipendentemente che sia
cittadino o meno. Mentre altri diritti, ad es. la libertà di riunione, di associazione, di circolazione, sono
riconosciuti in costituzione solo ai cittadini, anche se negli anni questi diritti sono stati ormai estesi anche
agli stranieri, ma è significativo che in costituzione si riconosca il diritto alla salute all’individuo in quanto
tale, per es. nel nostro ordinamento si riconoscono cure anche agli stranieri: lo straniero, per quanto non
abbia cittadinanza, può iscriversi al sistema sanitario nazionale se residente sul territorio italiano, e
ricevere come i cittadini cure dal sistema sanitario nazionale, e anche se si tratta di uno straniero irregolare,
che quindi non ha un titolo valido di soggiorno sul nostro territorio, potrà ricevere le cure di prima
necessità (non qualsiasi quindi), ossia quelle che garantiscono all’individuo la sopravvivenza, es. Se uno
straniero clandestino viene trovato in fin di vita, riceverà dal sistema sanitario le cure di prima necessità e il
sistema sanitario gli garantirà l'anonimato, proprio per garantirgli queste cure. Rispetto a questa garanzia
del diritto alla salute come diritto fondamentale dell'individuo, è possibile riscontrare due livelli di garanzia,
ossia il diritto dell'individuo indicato sia come una libertà negativa sia come una libertà positiva. Diritto
dell'individuo come libertà negativa significa che lo stato e i terzi si devono astenere da qualsiasi
comportamento che possa nuocere alla salute dell'individuo, e, in questo il diritto alla salute è un diritto
perfetto. Ma il diritto alla salute può anche essere letto in costituzione come una libertà invece positiva e

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come una norma programmatica, cioè io ho diritto alla salute nella misura in cui occorre che lo stato
intervenga a garantirmi un sistema sanitario che mi garantisca delle cure, nella misura in cui lo stato porrà
in essere delle strutture, dei mezzi, delle prestazioni sanitarie a garanzia del mio stato di salute, e, quindi, in
questo caso occorre un intervento dello stato. Da queste due diverse valenze del diritto alla salute
discendono da un lato un diritto alle cure, ossia il diritto ad essere curato, riconosciuto dal nostro
ordinamento, dall’altro un diritto a non curarsi, anch'esso riconosciuto dal nostro ordinamento e, a questi
due diritti, si ricollega, il diritto al consenso informato, disciplinato in tempi più recenti.

 DIRITTO AD ESSERE CURATO: riconosciuto dall’art. 32 laddove si dice


“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo” e rispetto a tale diritto l’art. 32 ci
dà un’ulteriore indicazione, ossia ci dice che la repubblica garantisce cure gratuite agli indigenti e ciò
significa che secondo l’art. 32 io ho diritto a ricevere delle cure ma non è detto che queste siano gratuite,
dovranno sicuramente essere cure gratuite per coloro che non hanno mezzi con cui pagarsi le cure. Per tutti
gli altri soggetti, la repubblica, potrà decidere se prevedere tutte le cure a pagamento, alcune cure a
pagamento e altre gratuite per tutti, se prevedere una compartecipazione dell'utente alle cure e la tipologia
di compartecipazione dell'utente alle cure, sicuramente col ticket sanitario (il quale può essere uguale per
tutti o differente a seconda della fascia di reddito) io non vado a coprire le spese della prestazione erogata
che mi viene erogata, contribuisco però alle spese generali della salute pubblica generale attraverso il
pagamento delle imposte, il sistema sanitario oggi vive primariamente delle imposte dei cittadini, per es.
vive dell’iva che noi paghiamo sui prodotti che compriamo. Lo stato potrà anche prevedere la
partecipazione dei privati nell'erogazione delle cure, quindi strutture private che erogano cure disciplinate
dallo stato, oppure strutture private che sulla base del principio di sussidiarietà orizzontale dell’art 118,
erogano cure gratuite per conto dello stato.

 DIRITTO A NON ESSERE CURATO: la costituzione disciplina anche il diritto non essere curato, non lo
disciplina così esplicitamente ma discende dalla costituzione, in particolare dal II comma dell’art. 32, il
quale dice che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, quindi ad una cura,
se non per disposizione di legge, quindi io potrò essere obbligato solo se vi è una disposizione di legge che
mi impone quella cura. Perché se non per disposizione di legge? Perché è il parlamento e il consiglio
regionale ad approvare le leggi, gli organi di rappresentanza dei cittadini, quindi non un governo di
maggioranza può imporre una prestazione tramite legge, ma deve essere una legge del Parlamento, una
legge pressione dei cittadini, oppure atti aventi forza di legge (decreto legge e decreto legislativo).

Da questo secondo comma discende che non esiste un obbligo generale di curarsi, non c’è un obbligo di
mantenersi in buona salute, spetta al singolo mantenersi o meno in buona salute. In questo la Costituzione
lascia all’individuo l’autodeterminazione: è l’individuo che decide in autonomia se curarsi o no quando si
tratta della sua salute. Si può parlare di una irrinunciabilità del diritto alla salute? Possiamo dire che il diritto
alla salute è rinunciabile? Come interviene il nostro ordinamento rispetto al suicidio? C’è un collegamento
tra l’ARTICOLO 2 e l’ARTICOLO 32 della Costituzione. Una disposizione costituzionale che vieta il suicidio è
incostituzionale, perché violo l’ARTICOLO 32 (poiché significa ti obbligo a mantenerti in salute); ma il fatto
che io non possa introdurre il divieto al suicidio non significa nemmeno che il nostro ordinamento riconosca
esplicitamente un diritto di morire. Il legislatore ha un dilemma e di fronte ad esso può tollerare il suicidio
come fatto sociale che resta nella sfera dell’individuo. Finché è il singolo che compie l’atto, esso può essere
tollerato dal legislatore. Il tentativo di suicidio non è penalmente punito dal nostro ordinamento perché il
legislatore lo tollera, sebbene lo giudichi un disvalore poiché il nostro ordinamento è improntato a
garantire la dignità e la vita degli individui, il nostro è un ordinamento sociale che guarda alla promozione
dello sviluppo dell’individuo, quindi non può intervenire disciplinando la non promozione dello sviluppo
dell’individuo, disciplinando il diritto a morire, perché sarebbe contrario al programma della costituzione.
Quando l’atto, però, rientra nella sfera delle altre persone e coinvolge altre persone allora l’ordinamento
può intervenire. Gli ART. 579 e 580 del Codice penale puniscono l’omicidio del consenziente (c’è un

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soggetto terzo che aiuta colui che vuole suicidarsi a farlo), l’istigazione al suicidio (non ti aiuto
materialmente ma ti spingo a suicidarti. Es utilizzo dei social oggi) o l’assistenza materiale al suicidio (io ti
aiuto a suicidarti. (es. ti accompagno in una struttura nella quale ti aiuteranno a suicidarti). L’ordinamento si
dà come compito quello di tutelare la persona, promuovere una vita dignitosa della persona: nell’ultimo
periodo è intervenuto, ad esempio con la legge 38/2010, prevedendo delle cure palliative per i malati
terminali o la sedazione profonda. Nel tema del suicidio entra anche in gioco il tema dell’eutanasia.
L’eutanasia è un intervento intenzionale, programmato, per interrompere in maniera diretta la vita di una
persona che si trova in situazioni di salute particolarmente sofferenti, in situazioni di morte o in caso di
malattie inguaribili. Quando si parla di eutanasia possiamo compiere una distinzione fra:

 eutanasia consensuale: significa che il soggetto, nei confronti del quale si compie l’eutanasia,
esprime consapevolmente il proprio consenso.

 eutanasia non consensuale: il soggetto non è in grado di esprimere coscientemente,


volontariamente questo atto di eutanasia nei suoi confronti.

E quando si parla di eutanasia possiamo fare un ulteriore distinzione:

• eutanasia attiva: significa che io devo compiere un trattamento di azione letale o medico o farmacologico
nei confronti del soggetto. L’iniezione del farmaco, con il consenso o senza il consenso, è illecita nel nostro
ordinamento: da un lato viola il diritto alla vita e dall’altro viola il diritto alla salute (io ti inietto un farmaco
che determina la morte).

• eutanasia passiva: si arriva alla morte interrompendo il trattamento medico o farmacologico che fino a
quel momento era stato posto in essere. Se non è consensuale è illecita, ma se è consensuale è lecita.

A questi due diritti (alle cure e al rifiuto di esse) si ricollega il diritto al consenso informato. Il consenso
informato oggi serve per qualsiasi tipo di trattamento, è un consenso che cresce man mano che il
trattamento diventa complesso: se vado dal medico di medicina generale e mi prescrive un antibiotico non
mi farà sottoscrivere un consenso perché io prenda l’antibiotico, ma già se vado a fare un’operazione
chirurgica mi faranno firmare dei moduli per il consenso. Il consenso serve per garantire la libertà di
autodeterminazione dell’individuo e la libertà di scelta terapeutica da parte dell’individuo. Tuttavia, ci sono
delle ipotesi che l’ordinamento va a disciplinare, nelle quali non è possibile in quel momento chiedere il
consenso al soggetto (stati di necessità come incidente stradale in cui non si rintracciano i parenti). In questi
casi subentra il “favor vitae”, cioè si è pro vita, l’ordinamento promuove la vita, e quindi negli stati di
necessita si interviene anche senza il consenso. Il consenso deve essere:

o personale: non è ammissibile un consenso sostitutivo di terze persone.

o reale ed espresso: non può essere manifestato implicitamente, non si può dedurre il consenso.

o consapevole: deve precedere al consenso l’informazione più completa possibile del paziente.

o libero e spontaneo: libero da condizionamenti da parte di terzi. Qui vi è problema delle persone che
hanno una disabilità intellettiva, per cui non sono pienamente consapevoli, di esprimere il proprio
consenso, o persone non autosufficienti come i grandi anziani, i quali hanno perso la loro abilità intellettiva,
e quindi occorre anzitutto capire la capacità o meno di quella persona di esprimere il consenso, senza
essere influenzato da altri.

Oggi il problema di cui si discute riguarda l’attualità del consenso: io devo esprimere il consenso qui e ora o
posso esprimere oggi un consenso per domani? Oggi il legislatore è arrivato a disciplinare le DAT
(Dichiarazioni Anticipate di Trattamento), o anche definito testamento biologico, cioè oggi firmo una
dichiarazione con tutta una procedura formale nella quale dico che se io domani mi troverò in una
condizione in cui non potrò esprimere consenso, non voglio che ad es. determinati trattamenti vengano

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posti in essere sulla mia persona, ad es. la respirazione ventilata, l’alimentazione forzata, si tratta di
dichiarazioni disciplinate dal legislatore, che non sono assolute (il medico o colui che dovrà porre in essere
le mie dichiarazioni potranno accordarsi per disattendere queste ultime oppure fra 20 anni potrei pensarla
diversamente sulle dichiarazioni fatte in precedenza) e che valgono oggi per un evento che succederà in
futuro (es. di Eluana Englaro).
Un altro esempio è il caso di dj Fabo, un dj che in seguito ad un incidente era risultato tetraplegico e cieco,
queste condizioni dopo un paio di anni sono risultate per lui insopportabili, causandogli numerose
insofferenze ed arrivò alla decisione dunque di farsi accompagnare da un amico in Svizzera e procedere con
l’eutanasia attiva e successivamente l’amico si auto-denuncia alla procura italiana; dopo questo caso si
arriva alla Corte Costituzionale che si pronuncia inizialmente con un’ordinanza, la 207 del 2018 e non con
una sentenza, con tale ordinanza rinvia il giudizio di un anno per lasciare tempo al legislatore di andare a
disciplinare le ipotesi di possibile abuso. Dopo un anno il giudizio deve essere riaperto di fronte alla Corte
che si pronuncia con la sentenza 242 del 2019, dove con questa sentenza la Corte Costituzionale afferma
che non è punibile chi agevola l’esecuzione al suicidio in determinati casi ed a determinate condizioni, in
particolare deve essere rispettata la normativa sul consenso informato, le condizioni del paziente devono
essere accertate presso una struttura sanitaria (per evitare abusi), deve esserci poi una verifica sulle
modalità di esecuzione dell’eutanasia attiva, le quali dovranno essere tali da evitare abusi in danno di
persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare ad esso eventuali sofferenze. In questo
caso la Corte Costituzionale si sostituisce al legislatore.

3. IL DIRITTO ALLA SALUTE È DISCIPLINATO COME INTERESSE DELLA COLLETTIVITA’: in quanto


interesse della collettività, i singoli hanno anche il diritto di non curarsi fino a che non vanno a nuocere la
salute altrui. Questo dovere di curarsi è uno degli inderogabili doveri di solidarietà sociale previsti
dall’articolo 2 della Costituzione. Questo tema del bilanciamento tra la libertà dell’individuo di decidere
rispetto alla propria salute e dall’altro la salute come interesse della collettività viene preso in esame dalla
Costituzione, in particolare quest’ultima dice “nessuno può essere obbligato ad un determinato
trattamento sanitario se non per disposizione di legge, la legge non può in nessun caso violare i limiti
imposti dal rispetto della persona umana”, dunque questa ricerca di equilibrio viene presa in
considerazione dalla Costituzione prevedendo la possibilità di introdurre dei trattamenti sanitari obbligatori
che devono essere previsti per Legge o per Atto avente forza di Legge. I trattamenti sanitari obbligatori poi
non possono comportare conseguenze negative sulla salute degli individui, devono innanzitutto rispettare
la dignità di essi e non possono determinare conseguenze negative sulla salute dell’individuo che si
sottopone, per tutelare l’interesse alla salute altrui, ad un trattamento sanitario obbligatorio. Nel caso in cui
dovesse conseguire una conseguenza negativa sulla salute dell’individuo, sarà dovere della collettività
risarcire il danno al soggetto sottoposto al trattamento sanitario obbligatorio.

4. LA COSTITUZIONE IMPONE ALLA REPUBBLICA IL DOVERE DI TUTELARE LA SALUTE: già in


Assemblea Costituente è significativo che non si parli dello Stato che tutela la salute, ma sono tutti gli enti
territoriali della Repubblica a tutelare la salute, quindi c’è una programmazione a cascata del sistema
sanitario pubblico che è stato introdotto nel nostro ordinamento nel 1978 con la Legge 833.

DIRITTO ALL’ISTRUZIONE E DIRITTO ALLO STUDIO

La Costituzione prende in esame il diritto all’istruzione ed il diritto allo studio negli articoli 33 e 34; del
diritto all’educazione invece ne viene trattato nell’articolo 30, cioè quando la Costituzione dispone che è
diritto e dovere dei genitori mantenere, educare ed istruire i propri figli; mentre negli articoli 33 e 34, non si
parla propriamente d’educazione, ma si parla più che altro di istruzione.

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ARTICOLO 33

 I comma: “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”, questo prima comma
sancisce la così detta libertà d’insegnamento nella scuola, tutelandola. Questa libertà d’insegnamento e
nella scuola, ha sostanzialmente due profili: un profilo personalista/individualista cioè la libertà del singolo
docente di poter insegnare e di scegliere i contenuti da trattare all’interno dei suoi insegnamenti; ed un
profilo solidaristico dove l’insegnamento non è fine a se stesso, ma è finalizzato alla crescita degli studenti,
dunque rivolto all’interesse sociale e della collettività. Rispetto a questi due profili esistono poi nel nostro
ordinamento delle garanzie: selezione dei docenti attraverso un concorso pubblico di carattere
meritocratico, garanzie inerenti alla carriera dei docenti, alla loro retribuzione, garanzie volte a consentire
ai docenti di essere liberi, di essere indipendenti e dei limiti: a partire dal limite esplicitato a proposito della
libertà di manifestazione del pensiero, cioè il limite del buon costume, previsto all’articolo 21 della
Costituzione, dove il buon costume si evolve con l’evolversi della società e con la fascia di studenti che vi si
trova di fronte, altro limite è il divieto di propaganda da parte del docente, altro limite è la personalità
dell’allievo dove il docente non potrà mai violare la libertà personale dell’alunno e la sua dignità, ulteriore
limite è la tutela del diritto alla salute.

 II comma: “la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti
gli ordini e gradi”, in questo comma troviamo invece la libertà della scuola, cioè la libertà d’istituire istituti
scolastici di ogni ordine e grado che, connessa al diritto/dovere dei genitori di istruire i figli, determina
sostanzialmente il dovere per lo Stato di soddisfare direttamente questo dovere dei genitori, cioè di
prevedere obbligatoriamente scuole per ogni ordine e grado sufficienti per tutta la popolazione
studentesca; dall’altro, libertà della scuola, essendoci anche un diritto dei genitori d’istruire i figli, significa
anche la libertà di essi di poter scegliere il tipo di scuola da far frequentare ai propri figli.

III e IV comma: “enti privati hanno il diritto d’istituire scuole ed istituiti d’educazione senza oneri per lo
Stato. La Legge nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità deve
assicurare ad esse piena libertà ed ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni
delle scuole statali”. Questi due commi hanno a che vedere con la libertà della scuola. Rispetto a
questi due commi, così come rispetto alla libertà di insegnamento, si è molto discusso all’interno dell’Assemblea
costituente perché c’era un tema ideologico di fondo relativo ai rapporti tra scuola privata e scuola pubblica. In
particolare, il partito cattolico della Democrazia Cristiana voleva che fosse riconosciuto il ruolo della scuola
privata confessionale all’interno dell’ordinamento repubblicano che si andava ad istituire, mentre i partiti laici
ritenevano doveroso il riconoscimento della sola scuola pubblica, quindi una scuola ordinata e organizzata le
cui norme sono dettate dallo Stato. Il dibattito in Assemblea Costituente fu davvero acceso e ancora oggi non ha
trovato un suo equilibrio e al termine di esso si arrivò ad un compromesso: il partito cattolico ottenne il
riconoscimento della scuola privata all’interno della Costituzione e all’interno dell’ordinamento, quindi il ruolo
svolto rispetto all’istruzione anche da istituti privati e non solo pubblici, e ottenne anche la libertà degli istituti
privati di poter garantire il servizio di istruzione, ma dovette cedere (compromesso) rispetto all’ottenimento di
finanziamenti pubblici da parte dello Stato. Quindi ottenne il riconoscimento della parità degli istituti privati
rispetto agli istituti pubblici ma dovette cedere sul fronte dei finanziamenti alla scuola privata da parte dello
stato. I partiti laici invece auspicavano al riconoscimento solo della scuola pubblica, perché ritenevano che un
istituto privato non organizzato e non gestito dallo Stato, non garantisse i controlli necessari rispetto al servizio
d’istruzione, quindi volevano una scuola pubblica controllata in ogni suo aspetto dallo Stato, in modo da
garantire a tutta la popolazione studentesca lo stesso servizio. Quindi i partiti laici dovettero cedere rispetto al
riconoscimento della scuola pubblica, ma ottennero come contropartita il fatto di non vedere finanziata la scuola
privata da parte dello stato. (se lo stato non può controllare di conseguenza nemmeno finanzia). Dopodiché la
costituzione prevede all’art. 33 l’approvazione di una legge che vada a disciplinare nel dettaglio i diritti e gli

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obblighi delle scuole private che chiedono la parità allo stato, in modo tale da garantire agli alunni un
trattamento scolastico corrispondente a quello degli alunni delle scuole statali. L’obiettivo finale della legge è
garantire l’eguaglianza della popolazione studentesca, sia che si acceda ad un istituto pubblico sia che si
acceda ad un istituto privato. Cosa è successo dopo l’entrata in vigore della Costituzione? Questa legge che
regola la validità scolastica non è stata immediatamente approvata perché eravamo negli anni ’50 e la
prima preoccupazione dello Stato era quella di garantire un’alfabetizzazione della popolazione e quindi andare
a regolare i rapporti scuola pubblica-scuola privata non era la priorità dello stato. Gli istituti privati di carattere
confessionale già esistevano e c’era un problema di funzionamento di questi istituti, di riconoscimento della parità
di questi istituti. Allora si è iniziato a discutere sul che cosa si dovesse intendere con la clausola presente al III
comma “senza oneri per lo Stato”, perché un lato lo Stato riconosceva la parità scolastica di questi istituti ma
dall’altro la Costituzione prevedeva che questi istituti non dovessero essere finanziati e così Iniziarono così una serie
di tesi da parte del mondo scolastico rispetto all’interpretazione da dare a questa inciso all’art.33. Furono date
diverse interpretazioni alla clausola “senza oneri per lo Stato”, interpretazioni che si fanno man mano più
sofisticate proprio perché nel frattempo la società evolve, nel mentre cambia la normativa, ci si rende anche
conto del ruolo della scuola paritaria rispetto a quella pubblica:

1. lo Stato non deve finanziare in alcun modo le scuole private paritarie, né con finanziamenti diretti alla
scuola né con altre tipologie di finanziamenti indiretti (un finanziamento indiretto potrebbe essere ad es.
sovvenzionare le famiglie, garantire una detrazione delle tasse scolastiche per le scuole private da parte delle
fam, garantire una detrazione delle imposte da parte di questi istituti scolastici). Tale interpretazione venne
sostenuta specialmente dai partiti laici.

2. Altri sostenevano che questa clausola impediva il finanziamento da parte dello stato solo nel momento
iniziale, ovvero nel momento in cui la scuola viene istituita. Quindi, nel momento dell'istituzione lo stato
non può finanziare, mentre nella gestione ordinaria lo stato potrà finanziare.

3. Altri hanno sostenuto che gli istituti privati non avessero diritto di ottenere finanziamenti dallo Stato, ma
che lo Stato può in via facoltativa decidere di finanziare istituti privati.

4. Altri sostenevano che tale clausola non esonera lo Stato dal dover attribuire alla scuola privata o
paritaria quanto lo Stato risparmia per il fatto che una parte di studenti anziché iscriversi alla scuola
pubblica, si iscrive a quella privata paritaria. Ossia, lo Stato ha il dovere di garantire per tutta la popolazione
studentesca istituti di ogni ordine e grado, quindi deve prevedere di poter accogliere tutta la popolazione
studentesca. Nel momento in cui ci sono scuola private paritarie che accolgono parte della popolazione
studentesca, lo Stato viene sgravato di una spesa, perché non dovrà garantire a quella parte di popolazione
studentesca il servizio d’istruzione. C’è chi sostiene che lo Stato non dovrà finanziare la scuola ma dovrà
garantire a questi istituti privati e paritari quanto risparmia, per il fatto che una parte della popolazione
studentesca si iscrive alla scuola privata anziché a quella pubblica.

5. La tesi attualmente maggioritaria nella dottrina che studia questi temi sostiene che la Costituzione, in
questo art. 33, prevede e riconosce il pluralismo scolastico e libertà di scelta della scuola: libertà della
famiglia e libertà dello studente di scegliere il tipo di scuola. Negli ultimi 20 anni si è aperto un discorso di
pluralità di offerta formativa, di scuole anche private, anche paritaria, che hanno un’offerta formativa
diversa dalle altre. Per quanto riguarda il pluralismo scolastico e libertà di scelta della scuola, lo Stato può
finanziare gli istituti paritari e il finanziamento non va tanto alla scuola quanto allo studente e alle famiglie
(ad es. tramite i buoni regionali: le regioni finanziano le famiglie tramite buoni regionali, oppure attraverso
la detrazione delle imposte pagate per l'istruzione scolastica) proprio per garantire la libertà di scelta.
Questa interpretazione dell’ART. 33 si evolve soprattutto negli ultimi tempi, dalle Leggi Bassanini, che
vanno anche a regolare l'autonomia delle istituzioni scolastiche.

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Il cambio di passo si ha con la legge 62/2000 che finalmente va a disciplinare la parità scolastica. Questa
legge è la legge che era prevista nella Costituzione del ‘48, quella legge che è andata a disciplinare i diritti e
gli obblighi delle scuole paritarie. A fronte di questo dialogo ideologico dobbiamo tenere conto che, oggi,
quando si parla di parità scolastica non s’intende solo la parità di scuole confessionali di stampo cattolico,
ma anche di parità scolastica di scuole confessionali non solo cattoliche e anche di scuole private a-
confessionali che si fanno promotrici di un modello pedagogico (es. scuole montessoriane). I contenuti di
questa legge hanno come finalità quella di garantire l’equipollenza tra istituto pubblico e istituto privato
paritario. Nel momento in cui un istituto riconosce, rispetta, tutti questi obblighi, ottiene come primo
diritto la parità scolastica e tutti questi obblighi sono volti a garantire l'equipollenza del trattamento degli
studenti. Per es. la scuola deve accettare chi ne faccia richiesta, ovviamente nei limiti dei posti disponibili,
ma non può rifiutare un'iscrizione se ci sono posti disponibili. Nel momento in cui ottiene la parità, la scuola
privata diventa paritaria, ossia quella scuola a tutti gli effetti entra nel sistema nazionale di istruzione
pubblica, è una scuola privata paritaria ma fa parte del sistema nazionale di istruzione pubblica, eroga un
servizio d’istruzione per conto del sistema pubblico (sussidiarietà orizzontale). La scuola privata nel
momento in cui ottiene il riconoscimento di parità entra a far parte del sistema pubblico d’istruzione, eroga
un servizio per conto del sistema pubblico anche se è un privato, è un privato paritario. Quindi con la legge
62/2000 e successivamente anche con la conferma della legge successiva della Buona Scuola, le scuole
paritarie entrano a far parte del sistema pubblico sulla base del principio di sussidiarietà orizzontale (ART.
118). In realtà non entrano a farne parte a tutti gli effetti, o meglio nel momento in cui entrano a far parte
del sistema pubblico, il finanziamento è dovuto da parte dello Stato, perché stiamo parlando di un servizio
pubblico. E in che modo abbiamo il finanziamento? In parte con la legge finanziaria annuale lo Stato decide
la quantità di risorse da attribuire alle scuole paritarie annualmente, quindi non è detto che ci sia ogni anno
(ormai c’è, ma potrebbe non esserci nel caso in cui vivessimo un periodo di ristrettezza economica
particola) ed è deciso dallo Stato di anno in anno, quindi i finanziamenti possono aumentare o decrescere di
anno in anno e questo determina alle scuole un senso di incertezza, perché non sanno quanto vengono
finanziate, ed ecco perché queste scuole private paritarie chiedono una tassa scolastica diversa da quella
prevista dalla scuola pubblica. Il sostegno finanziario diretto dello Stato è quindi un sostegno finanziario agli
istituti scolastici, poi abbiamo un sostegno regionale alle famiglie (buoni scuola da parte della regione) che
hanno un reddito non particolarmente elevato, poi possiamo avere un sostegno finanziario indiretto dello
stato, ossia la possibilità di detrarre dalle tasse parte delle tasse scolastiche pagate e infine possono esservi
delle agevolazioni fiscali da parte degli enti locali (ad es. rispetto agli immobili scolastici la tassa per
l’immobile può vedere una detrazione a favore degli istituti scolastici da parte degli enti locali). Ci quindi
delle forme di finanziamento da parte dello Stato ma non c’è una piena parità da questo punto di vista.

Le scuole paritarie hanno un ruolo importantissimo soprattutto nella scuola dell’infanzia che ormai è
entrata dal 2003 a far parte del sistema d’istruzione (ed infatti si è iniziato a parlare di scuola dell'infanzia
anziché di asilo), e contribuiscono a garantire il 38% di posti per i bambini nella fascia 3-6, il 7% nella scuola
primaria, il 4% nella scuola secondaria di primo grado e il 6% nella scuola secondaria di secondo grado. Il
finanziamento però non è paritario: la scuola paritaria non viene finanziata dallo Stato in modo uguale alla
scuola pubblica e ciò determina una tassa d’iscrizione differente tra le due e di conseguenza la possibilità di
accedere alla scuola paritaria diversa da utente a utente, in base alla propria disponibilità finanziaria, e ciò
determina una discriminazione all’interno dell’ordinamento: se queste scuole paritarie fanno parte del
sistema pubblico dovrei prevedere un accesso eguale alle scuole pubbliche, consentire di accedervi in
eguali condizioni e questo non è possibile. È significativo che le scuole paritarie normalmente sono situate
in quartieri urbani in cui c'è una popolazione con un reddito più elevato. In Costituzione era già previsto il
fatto che queste scuole facessero parte del sistema pubblico, andassero ad arricchire il pluralismo
scolastico e la libertà di scelta delle famiglie. Nella Costituzione, nel progetto costituzionale, i costituenti
prevedevano il pluralismo scolastico informato alla libertà di scelta della scuola da parte dell’utente, il tutto
per garantire l’uguaglianza degli utenti. Il focus era l’alfabetizzazione della popolazione ma c’era anche

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l’attenzione al pluralismo scolastico (siamo un paese democratico). La contraddizione di fondo rispetto alla
legge 62/2000 quindi è che le scuole private diventano paritarie in ingresso, ma non lo sono pienamente in
uscita, ovvero nel tipo di finanziamenti che ottengono dallo Stato. Lo Stato può o meno finanziare le scuole
paritarie, decide di anno in anno quanto finanziare, le famiglie finanziano al 60% queste istituzioni paritarie
tramite tasse scolastiche e ciò determina una riduzione del pluralismo scolastico, soprattutto rispetto alla
scelta della scuola (se io non ho un certo tipo di reddito, non sono veramente libero a 360° di scegliere il
tipo di scuola, mentre in un sistema egualitario chiunque, anche il meno abbiente, dovrebbe avere una
scelta a 360 °). La scuola paritaria, al di fuori dei nostri confini è finanziata diversamente: l’unico Stato a non
prevedere un finanziamento della scuola paritaria è la Grecia. In Belgio la scuola paritaria è finanziata al
100%,quindi esattamente come quella statale, in Francia ci sono le cosiddette scuole private “sotto
contratto” ossia diventano paritarie firmando un contratto con lo Stato, e questo contratto fa sì che lo Stato
finanzi gli stipendi degli insegnanti e gli enti locali sovvenzionano con altri finanziamenti le scuole, negli Stati
Uniti ci sono le scuole a contratto in cui gli studenti ricevono dallo Stato un finanziamento pari a quello
delle scuole pubbliche.

Lo Stato disciplina la normativa relativa all’organizzazione del sistema scolastico. Ci sono state alcune tappe
fondamentali:

1. Legge Bassanini: in particolare l’ART. 21 della legge 59/1997 ha regolato l’autonomia delle istituzioni
scolastiche, autonomia di progettazione del curriculum scolastico, dell’offerta formativa scolastica,
dell’offerta extracurricolare, autonomia organizzativa, educativa, gestionale.

2. Legge 53/2003 (Legge Moratti): questa legge ha riorganizzato i cicli scolastici, è la legge per cui si è
passati dal parlare di asilo al parlare di scuola dell’infanzia, ha incluso la scuola dell’infanzia
nell’ordinamento scolastico e ha mantenuto fuori dall’ordinamento scolastico la fascia 0-3.

3. Legge 62/2000: ha disciplinato la parità scolastica.

4. Legge 107/2015 (Legge sulla Buona Scuola): ha introdotto i cosiddetti poli d’infanzia 0-6. Ha costituto
un passaggio importante perché grazie ad essa si sta iniziando a riconoscere la funzione degli asili nido
all’interno del sistema scolastico e quindi il passaggio degli asili nido da sistema dei servizi sociali a sistema
dell’istruzione.

 V comma: “è prescritto un esame di Stato per l’ammissione dei vari ordini e gradi di scuole o per la
conclusione di essi e per l’abilitazione ad esercizio professionale”;

 VI comma: “le istituzioni di alta cultura universitaria ed accademica hanno diritto di darsi
ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”.

ARTICOLO 34
I° comma: “La scuola è aperta a tutti”.

II° comma: “L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”.

In questi due commi si parla del diritto all’istruzione. In particolare, nel primo comma si parla di libertà
d’accesso alla scuola: la scuola è aperta a tutti, indipendentemente dalle condizioni fisiche, psichiche,
economiche e sociali. Vi è un collegamento diretto al principio di eguaglianza all’art.3. Questa libertà di
accesso alla scuola è poi garantita e rafforzata dal II comma dove viene introdotto l’obbligo scolastico ed è
garantita dalla gratuità. In questi due commi ci sono garantiti il diritto e l’obbligo d’istruzione ma anche la
gratuità dell’istruzione. L’obbligo viene introdotto per garantire l’alfabetizzazione della popolazione
scolastica, la gratuità per garantire la libertà di accesso a tutti. La Costituzione ci dice che l’obbligo
scolastico deve essere previsto per almeno 8 anni a partire dalla scuola elementare, quindi a partire dai 6

26
anni. Mentre ancora oggi per la scuola dell'infanzia non vi è un obbligo scolastico. Con la legge 53/2003
l’obbligo è stato innalzato, sia per adeguarsi agli altri paesi europei, sia per combattere l'abbandono
scolastico tale legge prevede un diritto e dovere d’istruzione per almeno 12 anni o comunque fino al
conseguimento di una qualifica (professionale o scolastica) entro il diciottesimo anno di età. Quest’obbligo
comporta delle sanzioni nei confronti di chi deve far rispettare quest’obbligo, quindi dei genitori o se questi
non ci sono del tutore del minore, del datore di lavoro, dei dirigenti scolastici, i quali devono vigilare
sull’abbandono scolastico. Questi obblighi sono correlati da una sanzione molto blanda e quindi di
conseguenza abbiamo un altissimo tasso di abbandono della scuola e dispersione scolastica nel nostro
Paese, tasto che sta aumentando anche con l'aumento della povertà delle famiglie.

Rispetto alla libertà di accesso correlata alla gratuità dell'istruzione, non vi è una corrispondenza tra
obbligo, libertà di accesso e gratuità dell'istruzione, perché non vi sono finanziamenti sufficienti. E quindi
non si tratta di una gratuita al 100%, né da parte delle famiglie, né da parte degli istituti scolastici.
Inizialmente in Assemblea costituente quando si è parlato di gratuità si pensava ad una gratuità a 360° della
scuola, quindi una scuola che garantisse non solo i servizi minimi, quindi che garantisse gratuitamente la
struttura, la docenza dei professori, locali attrezzati ad aula, a mensa, a servizio igienico ecc, ma una scuola
che garantisse anche elementi di contorno, correlati al servizio scolastico, quindi ad es una gratuità della
mensa, dei libri, del servizio di trasporto. La gratuità a 360° comprende non solo gli elementi essenziali,
organizzativi, gestionali della scuola ma anche servizi di contorno alla scuola: questi servizi di contorno ad
oggi non sono assolutamente gratuiti, o perlomeno non lo sono per tutti, lo sono per gli indigenti, per
famiglie con reddito molto basso ecc.. Lo stato ha già difficoltà a garantire la gratuità dei servizi
organizzativi, come strutture, edifici scolastici adeguati, docente organico completo ad inizio anno
scolastico ecc, quindi non si parla più di degli elementi correlati, se fossimo invece un sistema ideale scuola
gratuita potrebbe anche voler dire garantire questi servizi di contorno. In che modo è garantito il
finanziamento del servizio scolastico e quindi in parte da gratuità del servizio scolastico? Anzitutto tramite
la fiscalità generale, ovvero tramite il pagamento dei tributi da parte di tutti i cittadini, sia di chi usufruisce
del servizio scolastico, sia di chi non usufruisce, esattamente come per la sanità. Oltre alla fiscalità generale,
chi accede al servizio scolastico paga poi un contributo, definito “contributo volontario”, la tassa
d’iscrizione alla scuola:

 contributo che sfugge alle logiche della nostra costituzione perché i tributi che noi paghiamo in
quanto cittadini vengono stabiliti con legge dello Stato dei nostri rappresentanti che siedono in Parlamento
e sono parametrati sulla base del reddito, ma questo non avviene con il contributo volontario.

 Per quanto si chiami volontario tale contributo è obbligatorio, si chiama così perché la scuola
essendo aperta a tutti dovrebbe essere gratuita.

 Il quantum del contributo è deciso dal Consiglio d’Istituto, dove la rappresentanza degli utenti e
minoritaria.

 È richiesto da scuole di ogni ordine e grado (anche dalle scuole dell'obbligo che dovrebbero essere
gratuite).

 non è parametrato sul reddito non è un contributo particolarmente ingente, ma alcune famiglie
indigenti potrebbero anche far difficoltà a pagare questo contributo.

Rispetto alla libertà di accesso alla scuola, se essa è aperta a tutti vuol dire che è aperta anche alle persone
con disabilità e in questo abbiamo avuto un’evoluzione legislativa. In una primissima fase in realtà la scuola
in sé non era aperta a tutti, negli anni 50 si parlava di segregazione, di esclusione dei disabili dalla scuola,
gli interventi erano interventi meramente assistenziali nei confronti dei disabili, si dava ai disabili una
sovvenzione finanziaria tramite la quale si potevano iscrivere a corsi speciali per il recupero di disabilità,
specialmente fisiche, per sollevare le famiglie da costi ingenti che dovevano sostenere per i propri figli

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disabili, che però erano esclusi dalle scuole. Negli anni 60 si inizia a parlare di inserimento dei disabili
all’interno delle scuole, un inserimento che avviene o all’interno di scuole speciali a seconda delle disabilità
(scuole per cechi, per ragazzi autistici, per disabili fisici ecc) oppure negli istituti venivano create delle classi
differenziate, quindi vi era un inserimento con segregazione all'interno della scuola. Negli anni ’70 si inizia a
parlare di integrazione, (quindi non è un inserimento con separazione) dei disabili all’interno delle classi
ordinarie, non differenziate. A quel punto si è verificato un inserimento massiccio dei disabili nelle classi
ordinarie dove gli studenti non erano preparati ad integrare e ad accogliere, e soprattutto i docenti non
erano preparati ad insegnare a studenti con disabilità. Quindi era più che altro lo studente disabile a doversi
adattare al docente alla classe, non era un'integrazione a tutti gli effetti. Vi è stata anche una sentenza
importante della Corte costituzionale nell’87 che ha dichiarato incostituzionale la normativa laddove si
diceva che occorre facilitare l'accesso alla scuola dei disabili anziché garantire l'accesso alla scuola dei
disabili. Negli anni ’90 si inizia a parlare di vera e propria inclusione, in particolare con la legge 104/1992,
datata nella sua terminologia (si parla ancora di handicap mentre oggi si parla di persone con disabilità), la
quale prevede interventi individualizzati, progetti educativi individualizzati per ciascuno studente, in base al
suo tipo di disabilità si vanno a cercare le abilità che lo studente ha e si cerca di valorizzarle e recuperare in
parte se possibile la disabilità. Da questo momento si inizia a parlare di progetto educativo individualizzato
sullo studente, di docenti di sostegno, quindi di docenti formati per la disabilità e si parla di adattamento
reciproco, quindi sono la classe e i docenti che si devono adattare ed è lo studente che si deve adattare.
Anche i docenti dovrebbero creare insieme questo progetto educativo, progetto che segue il progetto della
classe, non è a se stante: lo studente con disabilità fa quello che fa la classe adattato alle sue abilità.
Rispetto agli studenti degli asili nido si dice “Al bambino da 0 a 3 anni handicappato è garantito
l’inserimento negli asili nido”, quindi nella legge 104 del 92 viene riconosciuto anche l'accesso agli asili nido
per bambini con disabilità.

III comma: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli
studi.”

IV comma: “La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre
provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.”

In questi due commi si parla del diritto allo studio. Una volta assolto l’obbligo scolastico, il diritto allo studio
non viene più riconosciuto a tutti. Quindi a tutti viene riconosciuto il diritto all'istruzione e il diritto
all'istruzione obbligatoria, mentre il diritto a studiare, sotto l’obbligo scolastico, non è più a carico dello
Stato, o meglio lo stato non lo riconosce più a tutti. C'è garanzia di accesso, ma lo stato non interviene nei
confronti di tutti sovvenzionando l’istruzione. Il diritto allo studio è il diritto di ottenere i mezzi per poter
studiare, i quali sono garantiti a tutti nella fascia dell’obbligo, non sono garantiti a tutti nella fascia
successiva e l'obbligo scolastico. Nel terzo comma si afferma il diritto allo studio, mentre nel quarto si dice
come viene garantito e organizzato questo diritto allo studio. Il diritto allo studio, in quanto diritto, è
garantito ai capaci e ai meritevoli privi di mezzi. Essere capace significa essere idoneo ad affrontare
determinati studi. Meritevole significa che raggiungo un determinato profitto, ad es. Relativamente agli
studi universitari devo dimostrare di andare avanti con gli studi ma non è sufficiente, devo dimostrare
anche di avere una certa media rispetto agli esami universitari, o uscire dal liceo con un certo voto per
ottenere la borsa di studio. Quindi la libertà di studiare è riconosciuta a tutti, il diritto allo studio è
riconosciuto a tutti durante la scuola dell’obbligo, superata quest'ultima, il diritto allo studio è garantito a
chi è capace, meritevole e privo di mezzi. La finalità è garantire l'uguaglianza sostanziale: metto tutti nelle
condizioni di poter raggiungere il medesimo risultato, anche di raggiungere i gradi più alti di studio, ma non
ti obbligo a raggiungerli in questo caso, ti obbligo per la scuola dell’obbligo, per i gradi più alti se tu sei
capace e meritevole, laddove tu sia privo di mezzi ti metto nella stessa condizione di partenza degli altri.

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I SERVIZI EDUCATIVI PER LA PRIMA INFANZIA
Assistiamo ad un lungo cammino che caratterizza, dal punto di vista normativo e legislativo, i servizi
educativi per la prima infanzia, un cammino che non si è ancora pienamente concluso, poiché si è in una
fase caratterizzata da numerose incertezze normative, dove occorrerà che il legislatore interverrà
ulteriormente; questo lungo cammino è stato segnato da un lato da un percorso dal punto di vista delle
scienze sociologiche/psicologiche, comprendendo come ci sia stato, nel tempo, un cambiamento rispetto
alle finalità dei servizi educativi per la prima infanzia, dove questo cambiamento è stato accompagnato da
un intervento del legislatore, talvolta l’intervento ha preceduto il cambiamento dei servizi, altre volte il
legislatore è intervenuto successivamente ad un cambiamento che era già avvenuto nella realtà.
I servizi educativi per la prima infanzia sono servizi che sono disciplinati con particolare attenzione,
inizialmente questi servizi avevano una finalità d’assistenza igienico sanitaria e rivolti alle madri lavoratrici;
oggi questi servizi vengono invece concepiti con la finalità di garantire lo sviluppo socio-educativo del
minore. Sono dunque servizi che inizialmente erano pensati come centrati sulla figura dell’adulto, in
particolare della madre lavoratrice, oggi sono servizi centrati sulla figura del minore che, da oggetto della
potestà genitoriale, diviene soggetto portatore di diritti.
L’Italia è tra i paesi che sono intervenuti con più ritardo a considerare i servizi educativi aventi questa
finalità, a cambiare la cultura rispetto i servizi educativi all’interno dell’Europa per una serie di motivi:
1. A partire dall’evoluzione, anche giuridica, che i servizi educativi hanno avuto nel nostro Paese. C’è stato
un forte ritardo nel nostro Paese nel disciplinare questi servizi educativi che quindi hanno fatto più fatica ad
emergere;
2. Forte familismo che caratterizza il nostro Paese. A lungo si è ritenuto che il minore fosse oggetto,
interesse della famiglia e che la sua educazione spettasse solo alla famiglia;
3. L’intervento pubblico relativo ai minori inizia dall’età scolare in avanti, con la scuola dell’obbligo. Nel
nostro ordinamento non esiste un obbligo educativo, ma l’obbligo di inserire il minore in una struttura
scolastica;
4. La donna doveva solo accudire il focolare di casa. Nel momento in cui la donna non è occupata dal punto
di vista lavorativo, non ha bisogno dei servizi educativi per la prima infanzia. Nel momento in cui essi
cambiano la loro finalità anche la donna non lavoratrice ne inizia ad usufruire.

Tutti questi fattori hanno determinato un forte ritardo italiano nello sviluppo dei servizi educativi.

Dal punto di vista legislativo, le prime indicazioni che abbiamo rispetto alla prima infanzia o comunque
servizi relativi alla prima infanzia, li troviamo nel periodo della Restaurazione (metà 800) in cui lo Stato è
liberale (neutrale rispetto ai servizi a favore della cittadinanza). Anche rispetto ai servizi educativi, gli
interventi sono lasciati alla beneficienza privata, alla carità dei privati che si impegnano per garantire servizi
educativi per la prima infanzia. Quali sono le prime iniziative?
a. asili della carità per l’infanzia -> asili organizzati, gestiti esclusivamente da privati benestanti. Uno dei
primi asili è quello di Ferrante Aporti nel 1829 situato a Cremona. La caratteristica di questo primo asilo è il
fatto che fosse rivolto a bambini 3-6. La sua finalità era quella di dare un’educazione ai minori abbandonati,
appartenenti a famiglie in cui c’era una povertà sia educativa che economica, si voleva togliere
dall’abbandono i minori e garantirgli una struttura che potesse offrire pasti e assistenza igienica;
b. presepi -> questo nome deriva dalle “Crache” francesi, è dà l’idea di questa grotta nel quale il minore
viene accudito. I presepi sono i precursori degli odierni nidi aziendali poichè sono delle strutture istituite da
imprenditori (es. imprenditore Michele Bravo). La finalità è quella di dare assistenza alle madri lavoratrici;
c. Pio Ricovero per bambini lattanti e slattati -> vero e proprio precursore degli asili nido. Accoglie bambini
dai 15 giorni di vita fino ai 2 anni e mezzo. Uno dei più famosi è quello di Laura Solera Mantegazza e
Giuseppe Sacchi del 1850.
Ritroviamo già a metà dell’800 dei servizi per la prima infanzia, ma presentano delle criticità.
La prima criticità è il fatto che questi servizi non vengono compresi nel settore dell’istruzione. A metà
dell’800 viene approvata la Legge Casati (1859) che va a disciplinare il sistema dell’istruzione, ma non

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prende in considerazione i servizi per la prima infanzia. È già a metà dell’Ottocento, quindi, che inizia questo
percorso parallelo tra i servizi educativi per l’infanzia e i servizi d’istruzione. Questo percorso viene definito
parallelo perché i servizi non si incrociano.
Questa situazione, di non intervento dello Stato ma di privati, permane fino agli anni ‘20 del Novecento,
fino all’epoca fascista.
Negli anni ‘20 ritroviamo una legge, fondamentale per i servizi educativi per la prima infanzia: la Legge
2277/1925. Questa legge istituisce l’Opera Nazionale per la Maternità e l’Infanzia (ONMI). Cos’è l’ONMI?
Era un organismo pubblico, un ente pubblico nazionale con sede a Roma e con sedi distaccate periferiche
su tutto il territorio nazionale. Ogni Comune aveva al suo interno il comitato di patronato, composto da un
ufficiale sanitario (attenzione all’assistenza igienico-sanitaria), un direttore didattico o un maestro (accenno
al fatto che potessero essere servizi educativi), un sacerdote, patroni e patronesse (figure che assistevano
nella gestione del comitato di patronato che dovevano avere esperienza della materia infantile). Era una
struttura molto organizzata. Quali sono le funzioni dell’ONMI?
• Protezione e assistenza alla maternità (assistere la madre nel momento precedente al parto, durante il
parto e successivamente, per evitare la povertà) e all’infanzia (minori abbandonati, con disabilità, poveri);
• vigilanza igienico sanitaria: attenzione alla salute del minore;
• assistenza e protezione dei disabili e dei minori abbandonati.
Il comitato di patronato valeva di una serie di strutture date gratuitamente dal Comune, erano strutture
pubbliche. Quali erano le strutture?
1. consultorio per lattanti e divezzi fino al terzo anno -> la finalità era la cura e l’igiene del bambino, cura
delle malattie infettive e sorveglianza igienico dietetica (attenzione all’alimentazione del minore);
2. dispensario per l’alimentazione del bambino -> si curava dell’alimentazione, della dieta dei minori;
3. asilo nido per lattanti e divezzi -> accoglieva bambini fino ai 3 anni, ma solo i figli delle madri lavoratrici
(eccezionalmente accoglieva figli di famiglie povere e numerose, o figli di madri nubili o vedove). Erano
strutture a tempo parziale, non a tempo pieno, per non incentivare il distacco tra la donna ed il minore.
All’interno della struttura c’erano tre ampi spazi: ampio salone (spoglio, asettico, senza giochi), refettorio e
dormitorio (il momento della nanna era progettato diversamente rispetto a quello odierno). Quali erano le
figure professionali? C’era la dirigente (responsabile della struttura), la vigilatrice d’infanzia (vigilava dal
punto di vista igienico-sanitario sui minori e organizzava le puericultrici) e infine le puericultrici (odierne
educatrici, aveva come scopo solo assistenza).
Sempre durante quest’epoca, oltre a queste strutture, vengono disciplinati i nidi aziendali o le camere di
allattamento. La normativa prevede che negli stabilimenti in cui vi siano almeno 50 donne di età superiore a
15 anni occorra o istituire un nido aziendale oppure prevedere una camera di allattamento (stanza in cui
venivano allattati i minori).
Questi nidi aziendali o camere di allattamento dovevano essere create con un contributo statale
(proveniente dall’Onmi) un contributo dell’industriale e un contributo dalle operaie. Le finalità erano quelle
di favorire il lavoro femminile, assistere la donna, favorire l’allattamento materno e infine la vigilanza
igienico-sanitaria di questi minori. La modalità con la quale questi nidi dovevano essere finanziati (tramite
risorse dell’industria e dell’operaia) fecero sì che ne vennero creati davvero pochi e quindi in quest’epoca
troviamo prevalentemente gli asili ONMI ed eventualmente camere di allattamento.
Quali sono i pregi e i difetti di questi asili ONMI?
PREGI: Primo intervento pubblico importante, definito punto zero nella storia degli asili nido pubblici
statali, attenzione al profilo igienico sanitario ed alla cura del minore.

DIFETTI: Manca una cultura pedagogia-educativa all’interno dei nidi ma anche all’esterno del Paese, non si
interveniva rispetto ai bisogni affettivi, di relazione e cognitivi, non c’era alcun tipo di relazione con le
famiglie e con i minori, erano destinati solo ai figli delle operaie (non era un servizio universale), viene
promosso il ruolo domestico della madre, sguardo allo sviluppo cognitivo dei minori.
A metà degli anni ’70 vediamo che in Italia troviamo 672 asili ONMI prevalentemente nell’Italia centro-

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settentrionale (parte del Paese più industrializzata).
Con il cambiamento di forma di Stato entra in vigore la Costituzione repubblicana (1948), uno Stato
democratico, sociale, una Repubblica fondata sul lavoro (ARTICOLO 1), che promuove i diritti inviolabili
dell’individuo, che tutela le madri lavoratrici e la maternità in infanzia (ARTICOLO 31).
In questo periodo si inizia a discutere riguardo ulteriori interventi con Leggi per la tutela della maternità e
dell’infanzia.
Una delle prime normative che vengono approvate fu la Legge Noce 860/1950. Con questa legge si
interviene a favore delle madri lavoratrici, aumenta la tutela sia fisica che economica, viene prevista come
obbligatoria la camera di allattamento laddove ci siano 30 lavoratrici madri di età inferiore dei 50 anni.
Vengono disciplinati la possibilità di andare a istituire degli asili nido interaziendali e inoltre prevedeva un
contributo finanziario per la gestione degli asili nido.
Con questa legge si cerca di introdurre nuove misure a tutela dell’infanzia.
Nel 1968-1970 vengono approvate 2 leggi importanti: 1024/1971 con la quale si prevede il periodo di
maternità obbligatoria retribuito, e la legge 1044/1971. L’OMNI venne sciolta nel 1975.
Con la legge 1044/1971 viene introdotto l’asilo nido come servizio sociale di interesse pubblico. Questa
legge è fondamentale perché è la legge sulla quale si fondano ancora oggi gli asili nido.
Legge 1044/1971: l’asilo nido è un servizio sociale di interesse pubblico, rivolto a tutte le famiglie, non solo
alle madri lavoratrici. Si trattava di una legge di finanziamento: si prevedeva un finanziamento
quinquennale, ovvero lo Stato per 5 ani avrebbe finanziato gli asili nido pubblici. Il finanziamento arrivava
direttamente ai Comuni. L’obiettivo era quello di istituire su tutto il territorio nazionale almeno 3800 asili
nido. Le Regioni dovevano approvare una legge che andasse a definire i criteri di costruzione e di gestione
degli asili nido (competenza legislativa attribuita alle Regioni) e elaborazione di un piano annuale. Ai
Comuni spettava l’erogazione e l’attivazione del servizio di asilo nido. Queste funzioni le ritroviamo ancora
oggi.
Stato -> funzione di finanziamento; Regioni -> funzione programmatoria; Comuni -> funzione di attivazione.
Per la prima volta la legge va a disciplinare un servizio pubblico, aperto a tutti.
L’ASL aveva la funzione di vigilanza igienico sanitaria delle strutture. Il nido non viene più gestito da un
organo posto al vertice del sistema e strutturato gerarchicamente al suo interno, ma viene gestito da tutti i
livelli territoriali (Stato, Regioni, Comuni e ASL). Nelle sue finalità, pur essendo considerato un servizio
pubblico, mantiene ancora la finalità di servizio di custodia del minore. Nella normativa si inizia a parlare di
personale psicopedagogico.

La legge 1044 rappresenta un cambio di passo rispetto all’epoca precedente perché va a prevedere
l’introduzione di un servizio pubblico aperto a tutta la cittadinanza. Questa legge prevedeva un

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finanziamento quinquennale e aveva come finalità quella di andare a istituire, a costruire e a gestire degli
asili nido comunali che vadano a sostituirsi agli asili ONMI. All’art. 1 della legge 1044 sono previste le
finalità della normativa. Gli asili nido hanno come principale finalità l’assistenza (continuità con l’epoca
precedente perché non sono ancora visti come servizi educativi) e sono visti come servizi sociali di interesse
pubblico. Lo scopo è quello di provvedere alla temporanea custodia dei bambini, assicurare un’adeguata
assistenza alla famiglia e facilitare l’accesso della donna al lavoro nel quadro completo di un sistema di
sicurezza. Sta cambiando la concezione estremamente familistica della famiglia, viene riconosciuto che un
certo numero di donne ormai sono introdotte nell’ambito lavorativo e quindi bisogna trovare dei servizi che
ne facilitino l’acceso. L’obiettivo era quello di finanziare circa 3800 asili-nido. Lo Stato assegna alle Regioni
dei fondi speciali. All’art. 3 si dice che è compito del Ministero della Sanità verificare lo stato di attuazione
dei piani annuali degli asili nido. All’art. 4 si fa riferimento alla costruzione e la gestione di asili-nido
comunali o di consorzi di comuni. Viene prevista la possibilità per i Comuni più piccoli di aggregarsi. Nell’
art. 5 si parla delle Regioni che elaborano il piano annuale degli asili-nido in cui vengono fissate le priorità
d’intervento, le norme e i tempi di attuazione. In questa legge non si trovano norme dettagliate che vanno a
disciplinare gli asili nido, ma sarà compito delle Regioni. Nell’art. 6 si dettagliano i compiti delle Regioni:
ogni Regione dovrà fissare i criteri generali per la costruzione, la gestione e il controllo degli asili-nido. Si
parla di competenza legislativa delle Regioni. In questa legge dello Stato si indicano alcuni principi che
dovranno essere riferiti a questi servizi:

1. gli asili nido devono essere realizzati in modo da rispondere, sia per localizzazione sia per modalità di
funzionamento, alle esigenze delle famiglie (nei centri urbani dovranno essere immaginati maggiori
servizi, nei centri con densità demografica minore saranno previsti meno servizi).
2. i servizi devono essere gestiti con la partecipazione delle famiglie e delle formazioni sociali organizzate
nel territorio. La famiglia entra a far parte del servizio.
3. gli asili nido dovranno essere dotati di personale qualificato, sufficiente ed idoneo sia a garantire
l’assistenza sanitaria (continuità con il passato) ma anche dal punto di vista psico-pedagogico.
4. possedere requisiti tecnici, edilizi ed organizzativi tali da garantire l’armonico sviluppo del bambino.

Il fatto che questa legge statale non preveda nel dettaglio qual è la disciplina dell’asilo nido ma indichi solo
le linee generali, ha determinato negli anni seguenti al 1970 uno sviluppo degli asili nido, una costruzione,
una crescita e una gestione differenziata sul territorio nazionale. Lasciando alle Regioni la competenza
legislativa, inevitabilmente si è creata una differenziazione del servizio sul territorio nazionale, rispetto a
tutti gli aspetti dell’asilo nido. Le aspettative dello Stato (piano quinquennale della costruzione di almeno
3800 asili nido) non sono state rispettate. All’epoca avevamo già 600 asili-nido (nidi ONMI + nidi aziendali
previsti dalla legge 860). Nel 1978 da un’indagine statistica, sulla base della legge 1044 erano stati costruiti
solo 616 nidi comunali, per un totale di circa 1330 asili nido, non 3800 come si era previsto. Questi asili
andavano a coprire solo il 2,5% dell’utenza dell’asilo mentre la legge 1044 prevedeva di andare a coprire
almeno l’8.5% della popolazione infantile. Le aspettative statali furono deluse: sia le Regioni che i Comuni
non compresero pienamente le potenzialità di questo finanziamento e l’utilità di questo servizio. Le donne
impiegate in ambito lavorativo non erano ancora una percentuale così elevata; esistevano già all’interno
dei principali Comuni urbani gli asili ONMI, soprattutto nel nord Italia.

Cosa successe dopo l’entrata in vigore della legge 1044/1971? Le aspettative furono deluse, ma in quel
periodo, dal 1971 e per circa un ventennio, si aprì una prima stagione legislativa regionale: una prima fase
in cui le Regioni, sotto la legislazione della legge del 1971, iniziarono ad approvare le leggi regionali che
andavano a disciplinare il servizio più nel dettaglio rispetto a quanto non aveva fatto la legge del 1971
(legge di finanziamento del servizio con una natura programmatica). Ci sono diversi elementi comuni
all’interno di queste leggi regionali:

a. tutte le leggi comprendono le finalità del servizio con alcune differenze: mentre in alcune leggi
regionali, rispetto alle finalità del servizio, continua ad essere unicamente sottolineata la finalità

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custodialistica e igienico sanitaria del servizio (finalità legata all’epoca dell’ONMI), in altre leggi
regionali, tra le finalità del servizio si sottolinea il fatto che si tratta di un servizio che va a istituire un
luogo di relazioni con una finalità anche socio pedagogica. In alcune leggi regionali degli anni ‘70 inizia a
sottolinearsi il fatto che gli asili nido non sono solo centri di custodia igienico-sanitaria, ma sono anche
centri che consentono una socialità dei minori e delle famiglie e una finalità socio-pedagogica rivolta a
questa fascia d’età.
b. mentre alcune leggi regionali non pongono attenzione al tema dei minori con disabilità, anche perché la
normativa statale rispetto al sistema d’istruzione risale ancora alla legge del 1978 che prevedeva a
livello d’istruzione delle sezioni speciali per i minori con le disabilità, altre Regioni hanno colto
l’occasione delle leggi regionali per prevedere l’accesso all’interno dei servizi dei minori con disabilità.
c. ricettività rispetto agli studenti ammessi: il numero di minori ammessi all’interno del servizio. In merito
a questo dato notiamo delle ampie differenze da Regione a Regione: ci sono Regioni che prevedono un
numero massimo di minori, Regioni che prevedono un numero minimo di minori ammessi al servizio
(es. da 5 in poi), Regioni che prevedono un range (da 5 a 70 minori). Nel momento in cui vado a
modificare la ricettività degli utenti all’interno del servizio, amplio o riduco la percentuale di utenza alla
quale io offro un servizio.
d. le leggi regionali prevedono nel dettaglio il rapporto numerico tra educatori e minori. Questo rapporto
numerico cambia da Regione a Regione.
e. le leggi regionali vanno a disciplinare l’orario di apertura e le prestazioni offerte.
f. le leggi regionali prevedono anche l’inquadramento professionale del personale che opera nei servizi.

In questa prima stagione legislativa, il dato che possiamo analizzare è quello di una notevole
differenziazione dovuta al fatto che la normativa è su base regionale. La legge della Regione Piemonte è la
legge 3/1973: “Criteri generali per la costruzione, l’impianto, la gestione ed il controllo degli asili-nido
comunali costruiti e gestiti con il concorso dello Stato di cui alla legge 6 dicembre 1971, n. 1044 e con quello
della Regione”. Essa è tuttora vigente e afferma che i comuni possono usufruire dei contributi dello Stato
sia per la costruzione che per la gestione degli asili nido.

SERVIZI EDUCATIVI PER LA PRIMA INFANIZA: SERVIZI INTEGRATIVI- CARATTERISTICHE DEI SERVIZI

C’è una nuova fase che si apre negli anni ‘90 in cui si inizia a parlare oltre che di asili nido anche di servizi
integrativi agli asili nido. Questi servizi educativi integrativi nascono per una pluralità di fattori:

1. negli anni ’90 abbiamo una percentuale maggiore di donne che operano all’interno del mondo del
lavoro: occorre, da parte dello Stato, dare attuazione a tutta quella normativa che prevede la tutela
della donna nell’ambito lavorativo.
2. negli anni ’90 cambia la tipologia di famiglia: non abbiamo più solo la famiglia tradizionale ma abbiamo
famiglie allargate, famiglie mononucleari. Nasce la necessità di dare assistenza alle famiglie e ai
lavoratori. I figli minori non vengono più cresciuti solamente all’interno della famiglia ma è lo Stato che
deve prendersi carico dei minori e deve dare attuazione all’ART. 31 della Costituzione (deve prevedere
il sostegno per le famiglie).

In seguito a tutti questi cambiamenti, tutti questi fattori determinano un aumento della domanda dei servizi
educativi per la prima infanzia, alla quale però non corrisponde un’offerta elevata. L’offerta degli asili nido,
sul territorio nazionale, è ancora bassa. Negli anni ’90 inizia ad emergere una diversificazione del servizio:
accanto agli asili nido nascono servizi educativi per la prima infanzia, servizi educativi integrativi che vanno
ad integrare l’offerta di asilo-nido. Accanto a questi servizi educativi integrativi pubblici emergono anche
servizi educativi gestiti da privati tout court (restano servizi educativi privati) oppure servizi educativi
pubblici che vengono esternalizzati, dati in gestione a privati. C’è una forte domanda di servizi educativi a
cui non corrisponde un numero sufficiente di asili-nido. Nascono dunque servizi educativi integrativi che

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vengono implementati quando il legislatore statale va a disciplinarli: dal 1971 al 1997 lo Stato non è mai più
intervenuto a disciplinare servizi educativi per i minori 0-3.

Nel 1997, epoca delle Leggi Bassanini, lo Stato interviene con la legge 285/1997 per promuovere i diritti e le
pari opportunità dell’infanzia e dell’adolescenza. Questa legge prevedeva un finanziamento da parte dello
Stato e in parte dà attuazione all’ART. 31 della Costituzione. Inoltre, prevedeva in parte l’istituzione di un
fondo finanziario nazionale rivolto all’infanzia e all’adolescenza. Grazie a questo fondo nazionale possono
essere finanziati anche progetti finalizzati all’innovazione e alla sperimentazione dei servizi socioeducativi
per la prima infanzia. Lo Stato ammette il finanziamento dei progetti che vadano ad innovare servizi
socioeducativi per la prima infanzia e che introducano delle sperimentazioni socioeducative per i minori 0-
3. Siamo alla fine degli anni ’90 e si inizia a comprendere finalmente il concetto che questi servizi non sono
rivolti esclusivamente alla custodia e all’assistenza igienico-sanitaria, ma sono servizi socio-educativi per i
minori. Il legislatore statale con questa legge va a prevedere due tipologie di servizi:

1) disciplinato dall’ART. 5, lettera “a”: “servizi con caratteristiche educative, ludiche, culturali e di
aggregazione sociale per bambini da 0 a 3 anni, che prevedano la presenza di genitori, famigliari o adulti
che quotidianamente si occupano della loro cura, organizzati secondo criteri di flessibilità”. Viene
introdotto il concetto di flessibilità del servizio rivolto sia ai minori ma anche agli adulti presenti nella sfera
del minore.

2) disciplinato dall’ART. 5, lettera “b”: “servizi con caratteristiche educative e ludiche per l’assistenza a
bambini da 18 mesi a 3 anni per un tempo giornaliero non superiore alle 5 ore, privi di servizi di mensa e di
riposo pomeridiano”.

Accanto agli asili nido vengono disciplinati dallo Stato anche questi due servizi: uno che prevede la presenza
di genitori e un altro nella fascia 18 mesi-3 anni, per un tempo non superiore a 5 ore e sprovvisto di servizio
mensa e di riposo pomeridiano.

Quali sono questi servizi educativi integrativi?

a. centri gioco per bambini e genitori, o ludoteche.


b. spazi-gioco per bambini, o baby parking.

Questi servizi non sono sostitutivi degli asili nido ma sono integrativi. Anche con questa legge 285/1997 lo
Stato definisce in maniera sintetica i due servizi e lascia alle Regioni, attraverso una legge regionale, il
compito di andare a definire in maniera più puntuale i requisiti strutturali, di gestione e organizzativi dei
servizi e anche quelli relativi al personale presente all’interno dei servizi. Alla fine degli anni ’90 si va ad
accentuare la differenziazione da Regione a Regione.

Sempre negli anni ’90 si fa riferimento ad altri servizi integrativi educativi:

 nidi in famiglia: servizi e interventi educativi in un contesto domiciliare.


 servizi in ambito rurale: agri-nido (asili nido in contesto rurale) o le agri-tate (servizi in contesto
domiciliare ma in ambito rurale).
 anticipo della scuola d’infanzia: non è un vero e proprio servizio integrativo. Nel 2009 viene disciplinata
con un Regolamento ministeriale (D.P.R. 89/2009) la possibilità di anticipare di un anno la scuola
dell’infanzia: consentire ai minori di 2 anni di accedere direttamente alla scuola dell’infanzia.
 sezioni primavera o “sezioni ponte”: disciplinate dalla legge 296/2006.

Ci sono diversi servizi e ognuno di essi ha delle caratteristiche proprie (comuni a grandi linee in tutte le
Regioni):

a. asilo nido: le sue caratteristiche le troviamo presenti anche nel micro-nido, nei nidi aziendali e nelle sezioni
primavera.

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 L’asilo nido tendenzialmente è rivolto a tutti i bambini da 3 mesi a 3 anni;
 Ci sono Regioni che fissano un minimo di 5 bambini (es. Toscana fa attivare il micro-nido anche in
presenza di un solo minore) ad un massimo di 70 (la Regione Piemonte prevede un massimo di 75
bambini);
 Sono aperti in orario diurno, almeno 5 giorni a settimana (da lunedì al venerdì), almeno 6 ore al giorno
(la Regione Umbria e il Friuli prevedono un’apertura di 10 ore al giorno), apertura annuale di almeno 10
mesi l’anno;
 Questi servizi erogano il servizio mensa, prevedono il momento del riposo;
 I mq per bambino risultano essere non meno di 5;
 Cambia il rapporto educatore-bambino: 3-12 mesi non superiore a 1/6, 13-24 mesi non superiore a 1/8
e 25-36 mesi non superiore a 1/10.

L’asilo nido aziendale è un servizio che negli ultimi anni sta avendo un notevole sviluppo all’interno delle
Regioni. Gli asili nido aziendali sono uno dei principali strumenti di conciliazione famiglia-lavoro, insieme ai
congedi parentali (congedo per maternità e paternità), gestione flessibile degli orari di lavoro e servizi per le
famiglie (es. borse di studio per i figli dei dipendenti, indennità finanziaria per la nascita di un figlio, bonus
bebè). Nel momento in cui, oggi, si va a istituire un nido aziendale si va incontro a finalità non solo delle
donne lavoratrici ma anche finalità proprie dell’impresa (per questo nell’ultimo periodo c’è un implemento
di questi servizi). Una finalità per l’impresa è quella di fidelizzare la manodopera, in particolare quella
femminile (facilitare il rientro in azienda da parte della madre, ridurre le assenze e i congedi di maternità e
paternità favorendo l’accesso del minore all’interno dell’asilo nido aziendale). Ovviamente c’è anche una
finalità di carattere sociale: far sì che l’azienda venga vista non solo come luogo di lavoro ma anche come
luogo di relazioni sociali tra azienda e famiglie. In alcuni casi aumenta la produttività e il clima aziendale può
migliorare. Aumentano anche le occasioni di visibilità dell’azienda. L’istituzione degli asili nido aziendali fa
in modo che vengano alleggerite le richieste e le liste d’attesa dei servizi educativi pubblici (se si creano asili
aziendali cala la domanda rispetto agli asili nidi comunali). Vittoria Granziero Questi asili nido aziendali
favoriscono, in un’ottica di implementazione del lavoro femminile, la possibilità di sviluppo della carriera
delle donne lavoratrici. Questi asili non sono aperti solo ai lavoratori, che ovviamente hanno una priorità,
ma sono aperti anche al pubblico. Si possono sperimentare forme diverse di partecipazione delle famiglie
all’interno del nido aziendale: possibilità di avere maggiori confronti, scambi con le educatrici, possibilità di
prevedere momenti di assaggio del cibo con i minori (mensa in comune), prevedere incontri durante la
giornata con i propri minori presenti all’interno del nido e anche la possibilità di intervenire
tempestivamente qualora ci fosse bisogno. Ci sono però anche delle problematicità all’interno del nido
aziendale:

 occorre evitare che i lavoratori lascino il minore per troppe ore all’interno del nido aziendale o ritardino
nell’andare a riprendere il minore;
 è possibile prevedere degli incontri durante la giornata ma, per non destabilizzare il bambino, è
sconsigliato il continuo passaggio dei genitori per controllare il proprio figlio;
 il fatto che ci sia un nido aziendale non comporta il fatto che devono essere ridotti i tempi di
accoglienza all’interno del nido;
 la vicinanza del genitore nell’azienda non significa che se il bambino non si sente bene possa rimanere
all’interno del nido.

Ci possono essere due tipi di asili aziendali:

1. Gestione diretta del nido aziendale da parte dell’azienda. Il nido è gestito interamente dall’azienda: il
personale è assunto direttamente dall’azienda. Ciò determina una maggiore autonomia ma anche la
necessità di rispettare tutta la normativa e di garantire la stessa qualità e gli stessi standard previsti
dalla normativa regionale e comunale.

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2. Gestione indiretta del nido aziendale. Questa gestione indiretta può essere o del nido all’interno
dell’azienda o di un nido esternalizzato all’azienda (può essere esternalizzato o semplicemente il
servizio di nido o anche la struttura di asilo nido che deve essere vicina all’azienda). L’azienda conclude
una convenzione, un accordo con un servizio privato che andrà ad erogare il servizio per conto
dell’azienda. L’azienda non ha in carico tutti i costi di gestione, spetteranno tutti gli oneri di gestione del
servizio al privato.

I nidi aziendali in prevalenza si collocano nel Nord Italia (75.40%); nel Piemonte questo servizio è poco
presente (solo il 3.4% delle aziende piemontesi prevedono il nido aziendale) ma possiamo trovare
maggiormente una flessibilità d’orario di lavoro (flessibilità verticale su base giornaliera o flessibilità
orizzontale sulla base dell’orario).

Per quanto riguarda le sezioni primavera, la normativa da seguire è quella relativa agli asili nido. Si tratta di
una sperimentazione introdotta nel 2006. Le sezioni primavera sono delle sezioni che possono essere o
all’interno del nido o all’interno della scuola dell’infanzia. Normalmente sono sezioni sperimentali
aggregate alla scuola dell’infanzia: si tratta di una sperimentazione, progettazione di una continuità tra
l’ultimo anno di asilo nido e la scuola dell’infanzia. È rivolta a bambini dai 24 ai 36 mesi di età. Sono sezioni
dell’asilo nido che vengono aggregate alla scuola dell’infanzia con la quale si predispone un progetto
formativo particolare. Ritroviamo una forte progettazione pedagogica, una progettazione che va a
rispettare l’età dei minori. Il numero di bambini presenti in queste sezioni è molto ridotto (dai 15 ai 20
bambini per sezione). Possiamo trovare una contaminazione tra le pedagogie del nido e la pedagogia della
scuola dell’infanzia: si cerca di implementare, arricchire sia i bambini dell’asilo nido che quelli della scuola
dell’infanzia. Un elemento particolare riguarda il personale che opera in queste sezioni primavera: essendo
un progetto a cavallo tra asilo nido e scuola dell’infanzia, il personale può essere sia personale educativo
che opera nei nidi, sia docenti della scuola dell’infanzia. Le rette di queste sezioni sono comprese tra quelle
del nido e quelle della scuola dell’infanzia e dunque sono più vantaggiose. Questo servizio sperimentale è
stato introdotto per contrastare il fenomeno dell’anticipo scolastico (che non rispetta i tempi del minore).
Per cercare di contrastare l’introduzione di un minore in una fascia d’età in cui non è ancora pronto per la
scuola dell’infanzia, si è immaginata la sperimentazione di queste sezioni primavera o sezioni ponte.

b. spazi gioco per bambini: definiti così dalla normativa statale. Le Regioni gli hanno poi definiti “centri di
custodia oraria”, “baby parking”. Per alcuni aspetti questi baby parking riprendono in parte la normativa
degli asili nido, ma per altri aspetti si discostano. Sono servizi rivolti ai minori dai 18 ai 36 mesi e la ricettività
va da un minimo di 8 bambini ad un massimo di 60. Cambiano le norme relative alla fruizione del servizio:
l’accoglienza avviene o al mattino o al pomeriggio per un massimo di 5 ore. La normativa in parte è stata
modificata. L’accoglienza cambia in base alle esigenze dell’utenza (ci sono dei baby parking aperti anche
durante le ore notturne che vanno incontro alle esigenze dei genitori lavoratori). Un’altra particolarità che
differenzia i baby parking dagli asili nido riguarda il servizio di mensa: non è previsto un servizio di mensa e
nemmeno di riposo pomeridiano proprio perché si può usufruire di questo servizio solo per un massimo di 5
ore. Ad oggi, grazie a diverse normative, è possibile somministrare ai minori pasti preparati e forniti dai
genitori. Cambia anche il rapporto educatori-bambini iscritti. Vengono definiti comunemente baby parking,
ma in ciò c’è una connotazione negativa: il servizio viene concepito come un “parcheggio per bambini”, uno
spazio di semplice custodia. È difficile progettare attività che durino durante tutto l’anno, sono attività che
vengono fatte e finite quotidianamente. Il fatto che la presenza dei minori non sia costante rende difficile
progettare l’offerta educativa. Il costo di questo servizio è inferiore rispetto all’asilo nido.
c. centro per bambini e famiglie: riconosciuto sempre dalla normativa del 1997. Questi servizi sono più
comunemente conosciuti come ludoteche. Alcune caratteristiche fanno sì che siano accomunati agli asili
nido, mentre altre si discostano da essi. Accolgono bambini 0-3 anni, ma possono essere accolti anche
bambini con più di 3 anni. La ricettività va da un minimo di 8 bambino ad un massimo di 60. La caratteristica
di queste ludoteche è il fatto che siano centri per bambini e famiglie: il minore deve essere accompagnato e,

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teoricamente, la normativa prevede che all’interno di essa il genitore debba rimanere con il minore. Si tratta
di luoghi generalmente adibiti ad attività ludiche, anche se non sempre sono pienamente adibiti a queste
attività. I mq per bambino sono 4. Il rapporto educatore e bambini cresce proprio perché c’è anche la
presenza degli adulti (la relazione è 1/15). L’aspetto socioeducativo di questi servizi è il fatto che si crea una
relazione costante tra l’educatore, la famiglia e il minore, c’è un coinvolgimento maggiore da parte della
famiglia.
d. servizi e interventi educativi in contesto domiciliare: questo servizio esiste già da tempo, ha una forte
tradizione anche in Paesi diversi dal nostro (es. Francia e Germania). Sono definiti anche “mamma
accogliente”, “nido in famiglia”, “tate famigliari”, “educatore domiciliare” e “agri-tata” (se in contesto
rurale). Questo servizio ha maggiori criticità rispetto ad altri servizi educativi. Nasce in contesti in cui si ha
una bassa densità demografica e il rischio, proprio perché avviene in un contesto domiciliare, è quello di un
maggiore aggiramento della normativa relativa all’igiene, all’alimentazione del minore e all’assistenza di
esso. Questo servizio si rivolge a più minori ma il numero è più ridotto: non meno di 5 bambini ma massimo
10 di età inferiore ai 3 anni. Il rapporto educatori-bambini è inferiore rispetto a quello degli asili nido proprio
perché si svolge in un contesto domiciliare in cui ci sono minori controlli e in cui la formazione di colui che
svolge il servizio non sempre è una formazione paritaria a quella degli altri servizi educativi. Non è un
servizio di babysitter: normalmente si svolge in un edificio diverso dalla propria abitazione, non ha una
finalità di custodia. In che senso non è una formazione paritaria? Talora chi ha un servizio educativo in un
contesto domiciliare è a tutti gli effetti un educatore, ma su questo servizio le normative regionali sono
molto diverse. È consentito anche ad un semplice genitore che abbia una minore in fascia 0-3 anni di aprire
un servizio in contesto domiciliare previo corso di formazione tenuto all’interno della Regione. questi corsi
di formazione vanno da 72 ore di formazione a 300 ore. Il servizio può realizzarsi nel domicilio
dell’educatore, nel domicilio di una delle famiglie che sfrutta il servizio o si può prendere un caseggiato e
darlo in gestione ad un educatore. Il domicilio che si utilizza deve essere adeguato. I vantaggi maggiori sono
per il genitore che gestisce il servizio (concilia il suo ruolo di genitore con quello di lavoratore), consente
un’alta flessibilità d’orario (talora anche nel fine settimana o la notte). È utile in contesti isolati, montani,
poco popolati, mentre in grandi comuni è fallimentari perché c’è un minore controllo di questi servizi da
parte del Comune. Nel momento in cui il servizio viene gestito da un genitore e non da un educatore c’è una
difficolta da parte del primo a staccarsi dal ruolo di genitore, si tende a tralasciare l’elemento educativo e di
progettazione delle attività. L’esperienza dei servizi in contesti domiciliare si avvicina molto all’esperienza
del micro-nido. Ha costi anche più elevati.

Dagli anni ’90 in avanti, in seguito a nuove normative che hanno previsto questi servizi integrativi agli asili nido,
le Regioni si sono mosse per andare a disciplinare tutte queste tipologie di servizio viste fino ad ora. Sono
aumentate le offerte e sono cresciute anche le differenze quantitative e qualitative tra territori regionali. A
livello nazionale si è sentita la necessità di andare a indicare, in un atto chiamato “nomenclatore interregionale”,
le tipologie di servizi educativi per la prima infanzia. In seguito a questa seconda stagione legislativa regionale
troviamo un’ampia differenziazione tra Regioni ma manca a livello nazionale un progetto condiviso, moderno
(diverso da quello del 1971) di cura ed educazione dei minori 0-3. La normativa nazionale è rimasta alla
normativa del 1971. Negli anni
successivi agli anni ’90 abbiamo due fattori rilevanti che determinano una spinta, uno stimolo per il legislatore e
per il sistema dei servizi educativi per la prima infanzia, ad innovare quanto disciplinato e quanto realizzato fino
a quel momento: Unione Europea -> fattore esterno al nostro ordinamento; Corte Costituzionale -> fattore
interno al nostro ordinamento. Quale ruolo ha giocato l’Unione Europea? Esattamente come il sistema
d’istruzione, l’UE ha determinato negli anni alcune modifiche rilevanti rispetto al sistema d’istruzione ma anche
rispetto ai sistemi educativi per la prima infanzia. Guardando ai servizi educativi si constata come ci siano due
modelli organizzativi, educativi differenti: 1. Modello a ciclo unico -> caratterizza i paesi scandinavi. Questo
modello è un tipo di sistema educativo che accoglie tutti i bambini fino alla scuola dell’obbligo: prevede
un’accoglienza, un inserimento dei bambini 0-6 e prevede un ciclo unico educativo che contribuisce alla

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generalizzazione del servizio, omogeneizzazione del servizio e all’universalizzazione del servizio, ovvero un
servizio aperto a tutti con costi inferiori rispetto ai nostri servizi 0-3 e 3-6.
2. Modello a due cicli separati -> caratterizza altri paesi, tra cui l’Italia. I servizi 0-6 sono considerati due cicli
separati: 0-3 e 3-6. Prendono denominazioni diverse, sono disciplinati in modo diverso a seconda dei Paesi,
anche le figure professionali sono diverse a seconda del Paese (in alcuni paesi per lavorare in questi servizi non è
richiesta la laurea). La separazione dei due cicli determina una segmentazione, una diversificazione dei due
servizi.
Nonostante la non competenza dell’UE in materia d’istruzione e di servizi sociali, intorno al 2000 ha iniziato ad
intervenire anche in ambito sociale e nello specifico ha iniziato ad intervenire anche rispetto i servizi educativi
per la prima infanzia. Perché l’UE dovrebbe intervenire rispetto i servizi educativi per la prima infanzia? L’UE ha
tutto l’interesse ad aumentare il tasso di occupazione dei cittadini dell’UE. Se io implemento i servizi educativi
per la prima infanzia che nascono come servizi di conciliazione lavoro-cura della famiglia, automaticamente
dovrei aumentare anche il tasso di occupazione e diminuire il tasso di licenziamenti.
Al Consiglio Europeo di Barcellona del 2002 l’UE non può intervenire con un regolamento perché non ha
competenze e quindi lo fa attraverso una dichiarazione, con una raccomandazione. Le raccomandazioni servono
per cercare di armonizzare le discipline degli Stati Membri. In questo Consiglio Europeo di Barcellona l’UE con la
raccomandazione invita gli stati membri a raggiungere entro il 2010 l’inserimento del 90% dei minori 3-6 in
strutture educative per la prima infanzia, e inserire il 33% dei bambini di età inferiore (0-3) in strutture
educative.
A livello di UE solo 5 Stati hanno raggiunto questi due obiettivi nel 2010. In Italia quella percentuale non è stata
raggiunta: si è raggiunta negli ultimi anni la percentuale del 90% nelle strutture 3-6, ma non si è raggiunta la
percentuale del 33% rispetto allo 0-3.
Dal 2002 al 2010 l’UE interviene rispetto ai servizi educativi per la prima infanzia con una logica ancora legata
agli anni ’70: sia dal punto di vista della terminologia usata dall’UE in questa raccomandazione, ma anche dal
punto di vista dell’intervento che l’UE richiede rispetto ai servizi educativi per la prima infanzia. Le logiche sono
ancora quelle di un servizio di assistenza alla famiglia, di un servizio legato alle donne lavoratrici.
Ad un certo punto anche l’UE ha un cambio di passo: all’interno di essa ritroviamo una fase significativa legata ai
servizi educativi per la prima infanzia. Qua il legislatore ha iniziato a disciplinare le sezioni primavera, l’anticipo
della scuola dell’infanzia, i nidi aziendali, in modo da garantire nuovi posti per l’utenza.
L’UE nel 2011 interviene di nuovo con una Comunicazione della Commissione Europea intitolata “Educazione e
cura della prima infanzia”. Già dal titolo dato alla comunicazione, l’attenzione dell’UE cambia, cambia la logica:
non è più un intervento legato ai servizi assistenziali ma è legato all’educazione e alla cura dei minori. La priorità
dell’UE non è più la tutela della madre lavoratrice ma diventa l’educazione e la cura della prima infanzia. La
Commissione Europea nella comunicazione dice che: “l’educazione e la cura della prima infanzia costituiscono la
base essenziale per il buon esito dell’apprendimento permanente, ma anche dell’integrazione sociale, dello
sviluppo personale e della futura occupabilità e assumendo un ruolo complementare a quello centrale della
famiglia”. La finalità dei servizi 0-3 ma anche dei servizi 0-6 è il buon esito dell’apprendimento permanente,
dell’integrazione sociale, dello sviluppo personale e della futura occupabilità non delle madri e dei padri ma dei
minori. Si riconosce il ruolo centrale della famiglia, questi servizi vanno solo a completarlo, è quindi necessario il
coinvolgimento di essa.
Quando oggi si parla di servizi integrativi per la prima infanzia si fa riferimento agli asili nido e a tutti gli altri
servizi che vanno ad integrarli, si fa riferimento all’integrazione pubblico-privato, ma anche all’integrazione 0-3 e
3-6 e di tutti i soggetti che ruotano attorno alla prima infanzia (servizi educativi, servizi sociali, servizi alla
cittadinanza e famiglie).
La Commissione Europea pone degli obiettivi agli Stati Membri: inserimento entro il 2020 del 95% dei bambini
tra i 4 anni e 6 anni (età scolare) in strutture di educazione e cura all’infanzia. Questo è uno dei primi fattori che
interviene e che viene implementato qualche anno dopo, in un rapporto chiamato “Educazione e cura nella
prima infanzia” del 2014. L’UE apre una Commissione di Studio, con esperti di diverse aree provenienti da tutte
le parti dell’UE, che stabilisce alcune condizioni per innalzare la qualità del sistema di educazione e di cura per la

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prima infanzia. Le condizioni sono 5: 1. Accessibilità -> intervenire sull’accessibilità dei servizi significa
intervenire innanzitutto sui costi per le famiglie (cercare di ridurre il costo del servizio facendo in modo che il
servizio 0-3 diventi un servizio a domanda universale), rispetto alla povertà (sia educativa che delle famiglie),
rispetto all’ubicazione dei servizi, rispetto agli orari, rispetto ai bisogni educativi speciali (pedagogia speciale),
culturali (siamo società multiculturali), linguistici; 2. Profilo del personale -> tema molto delicato a livello di UE
perché ci sono Stati in cui non viene richiesta la laurea per educare. Se i servizi non sono più di semplice
assistenza ma di cura dei minori occorre innalzare il profilo professionale del personale impiegato. C’è bisogno
di uno sviluppo professionale continuo; 3. Curricolo -> qual è il contenuto di questi servizi? Occorre riflettere
sull’offerta che viene data all’interno di questi servizi e prevedere dunque un curricolo; 4. Monitoraggio e
valutazione -> se sono servizi con questa finalità, in cui al centro c’è il minore, occorre a livello di UE e a livello
nazione un monitoraggio e una valutazione continua; 5. Governance e finanziamento -> se io riconosco che
questi servizi hanno queste finalità, devo investire su essi. Governance significa intervento collaborativo di tutti i
soggetti, di tutti i sistemi che intervengono rispetto ai servizi educativi per la prima infanzia.
Questo progetto, e lo sviluppo che sta avendo, ha determinato un potente catalizzatore per un cambiamento
del servizio educativo per la prima infanzia. Da questo lavoro, a livello di UE, si sono avute delle ricadute sul
nostro ordinamento: il nostro ordinamento negli ultimi anni è intervenuto a partire dalla Legge della Buona
Scuola a ridisciplinare i servizi educativi per la prima infanzia. Le riforme, le modifiche, derivano anche da questa
spinta europea.
Che percorso ha fatto la Corte Costituzionale? La Corte Costituzionale, così come l’UE, è partita con una
concezione dei servizi educativi per la prima infanzia e solo negli ultimi anni ha cambiato la sua logica
d’intervento. Perché la Corte Costituzionale rappresenta un fattore di spinta per gli asili nido? Perché è mancata
per lungo tempo una legge nazionale che disciplinasse nel dettaglio gli asili nido e quindi abbiamo assistito a
interventi sporadici del legislatore statale, interventi di finanziamento, e interventi delle Regioni in materia di
asilo-nido. La Corte Costituzionale è intervenuta con una serie di sentenze sugli asili nido e ha dato alcune
coordinate importanti rispetto a questa materia.

 Il primo intervento lo troviamo con la sentenza 31/1976. Il tema del ricorso alla Corte Costituzionale
era: la Provincia autonoma di Bolzano riteneva incostituzionale la legge 1044/1971 perché in essa lo
Stato attribuiva competenze legislative alle Regioni. La Provincia autonoma di Bolzano ritiene questa
legge incostituzionale perché in quanto provincia autonoma la competenza in materia di scuola materna
sarebbe spettata a lei, sulla base del suo statuto, e non alla Regione. La Corte Costituzionale rigetta il
ricorso della Provincia sostenendo che la materia “asili nido” è distinta dalla materia “scuola materna” e
non vi rientra nemmeno come specie, sono due cose distinte (due binari separati). La Corte
Costituzionale però non dice a quale materia appartengono.
 Il secondo intervento lo troviamo con la sentenza 319/1985. Si tratta di un intervento relativo alla
Provincia autonoma di Trento: alcuni genitori si erano rifiutati di pagare la retta di un asilo nido, fissata
dalla Provincia, perché ritenevano che la fissazione della retta rientrasse nella materia dell’asilo nido e
che quindi fosse di competenza della Regione e non della Provincia. La Corte Costituzionale ci dice in
quale ambito devono essere compresi gli asili nido: essi sono compresi nella materia “assistenza e
beneficienza pubblica” (quella dei servizi sociali) e quindi rientrano nelle competenze della Provincia.

 Il terzo intervento lo troviamo con la sentenza 467/2002. Con questa sentenza la Corte Costituzionale
riflette sugli asili nido come servizio rivolto anche a minori con disabilità e dichiara incostituzionale la
legge 289/1990, nella parte in cui la legge non garantiva l’estensione dell’indennità di frequenza degli
asili nido. La normativa 289/1990 prevedeva di garantire un assegno di assistenza, di indennità alle
famiglie di minori disabili che frequentavano istituti scolastici, ma non lo prevedeva per tutti quei
minori che frequentavano l’asilo nido. La Corte Costituzionale riconosce il fatto che la legge 104/1992
prevede l’inserimento dei minori all’interno degli asili nido, ma riconosce anche il fatto che il legislatore
non ha contestualmente riconosciuto a questi minori un assegno di indennizzo per facilitare la
frequenza a queste strutture. Di fronte al ricorso presentato alla Corte Costituzionale, la difesa dello

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Stato è stata quella di sottolineare come in realtà la forma di indennità statale sia già prevista ed è
prevista per i minori disabili che frequentano centri di terapia o centri di riabilitazione. Questa
indennità sociale non è prevista per gli asili nido in quanto essi non hanno finalità educative e
formative. La sentenza è interessante perché da un lato la Corte Costituzionale dichiara
l’incostituzionalità di questa normativa, laddove non estende questa indennità anche agli asili nido, ma
dall’altro lato è interessante perché la Corte Costituzionale si sofferma sulle finalità degli asili nido e
quindi dei servizi educativi per la prima infanzia. “Il servizio fornito dal nido non si riduce ad una mera
funzione di sostegno alle famiglie nella cura dei figli o di mero supporto per facilitare l’accesso dei
genitori al lavoro, ma comprende anche finalità formative essendo rivolto a favorire l’espressione delle
potenzialità cognitive, affettive e relazionali del bambino. La frequenza dei nidi è essenziale per il
recupero del bambino, nonché il superamento della sua emarginazione e può operare in funzione
sinergica ai fini del complessivo sviluppo della personalità”. In questa sentenza la Corte continua ad
affermare una cosa importante: “tuttavia ciò non implica di per sé l’inserimento delle suddette
strutture nell’ordinamento scolastico” -> riconosce le finalità degli asili nido ma allo stesso continua a
tenere separati i due binari.
 Il quarto ed ultimo intervento lo troviamo con la sentenza 370/2003. Questa è la sentenza definitiva,
ancora oggi in vigore. Nel 2001 lo Stato con una legge aveva istituito un “fondo annuale per gli asili
nido”, alcune Regioni impugnano la legge di fronte alla Corte Costituzionale sostenendo che con essa si
era modificato tutto il titolo V° della Costituzione e lo Stato era intervenuto in ambito di competenza
delle Regioni, aveva invaso un ambito di competenza legislativa residuale delle Regioni. Quale ambito di
competenza legislativa residuale? L’ambito dei servizi sociali. Le Regioni vogliono marcare il confine tra
Stato e Regioni. Lo Stato come si difende? Lo Stato sostiene che gli asili nido, in realtà, sono un ambito
di interesse generale dello Stato, perché essi intervengono ad assicurare bisogni primari dei cittadini,
quindi esso ha la competenza legislativa esclusiva a disciplinare i LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni;
ARTICOLO 117, II° comma, lettera M). Se lo Stato ha competenza legislativa a disciplinare i livelli
essenziali delle prestazioni, di qualsiasi prestazione, vuol dire che ha competenza anche a disciplinare i
livelli essenziali delle prestazioni in materia di asilo nido, di servizi per la prima infanzia. Con questa
legge si va a finanziare un bisogno primario dei cittadini. Nella sentenza 370/2003 la Corte
Costituzionale ripercorre tutta la storia degli asili nido partendo dall’ONMI, passando per la legge
1044/1971, fino ad arrivare alla riforma del titolo V° della Costituzione, sottolineando le diverse finalità
che nel tempo hanno assunto questi servizi. La Corte Costituzionale sostiene che oggi gli asili nido e i
servizi integrativi per la prima infanzia sono diretti a “garantire la formazione e la socializzazione delle
bambine e dei bambini e a sostenere i genitori”. In questa sentenza la Corte Costituzionale rispetto al
2002 fa un passaggio in più: sottolinea come ci siano una pluralità di interessi che gli asili nido vanno ad
intercettare. Rispetto agli asili nido, constatiamo un intreccio funzionale di competenze statali (LEP) e
regionali (servizi sociali, tutela del lavoro e la materia istruzione). La Corte Costituzionale dice che se
guardiamo in concreto all’asilo nido non possiamo dire che la materia “asilo nido” rientri
esclusivamente nei LEP, che rientra esclusivamente nella materia “servizi sociali” di competenza
residuale delle regioni, che rientra esclusivamente nella materia “tutela del lavoro”, che rientri
esclusivamente nella materia “istruzione”, perché gli asili nido intrecciano una pluralità di interessi,
hanno una pluralità di finalità (occorre riconoscere ai servizi tutte le finalità descritte sopra). La Corte
Costituzionale deve pronunciarsi decidendo chi è competente tra Stato e Regioni e soprattutto, questa
legge è incostituzionale oppure no? In questo caso essa applica il principio di prevalenza. Quando si
trova di fronte a intrecci funzionali di competenze, la Corte Costituzionale o applica il principio di
collaborazione e chiede a Stato e Regioni di collaborare oppure di fronte al fatto che le sedi per
collaborare sono poche e c’è anche una difficoltà può applicare il principio di prevalenza: individua una
materia che prevale rispetto alle altre, tutte le altre però sono comunque presenti. Qual è la materia
che prevale? La Corte Costituzionale dice che è la materia dell’istruzione e della tutela del lavoro
(entrambe di competenza concorrente Stato-Regioni). Per la prima volta la Corte Costituzionale
riconosce che questi servizi rientrano nella materia dell’istruzione. Come fa però a farle rientrare nella
materia dell’istruzione? La Corte Costituzionale non può sostituirsi in questo al legislatore, e quindi
continua a negare che rientrano nell’ordinamento scolastico, per farlo occorrono una serie di riforme
legislative importanti, e assimila le finalità degli asili nido alle finalità proprie dell’ordinamento

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scolastico. I due binari iniziano ad incrociarsi. Lo Stato disciplinerà i principi fondamentali mentre le
Regioni disciplineranno il dettaglio differenziandosi fra loro. Siamo in un equilibrio instabile, ma
iniziamo a vedere un avvicinamento tra l’ordinamento scolastico e il sistema dei servizi educativi.
Questa sentenza pone delle linee guida ai due legislatori (Stato e Regioni).

RIPARTO DELLE COMPETENZE AMMINISTRATIVE

Qual è il riparto delle competenze amministrative tra i diversi soggetti che entrano in gioco rispetto ai
servizi educativi per la prima infanzia?
1. Le Regioni sono la sede privilegiata della programmazione dei servizi educativi per la prima
infanzia, definiscono le linee di indirizzo e i criteri generali relativi alla programmazione per lo
sviluppo del sistema dei servizi educativi sul territorio regionale. Già dagli anni ’70 lo Stato finanzia
e le Regioni pianificano con un piano annuale. Rispetto alla funzione di programmazione, le Regioni,
anche negli ultimi anni, hanno assunto un atteggiamento diverso (da qui gli squilibri territoriali che
riscontriamo). Ci sono Regioni che si sono attivamente impegnate per programmare i servizi
educativi sul territorio, Regioni che negli ultimi anni hanno approvato una legge regionale che
disciplina in generale tutti i servizi educativi e Regioni che sono intervenute sporadicamente a
disciplinare alcuni servizi. Per la Regione Piemonte manca ancora una legge organica che disciplini i
servizi educativi. Ci sono anche Comuni che non sono particolarmente attivi e altri Comuni che sono
molto attivi anche rispetto alla programmazione. Programmare richiede pensare anche ai servizi
collegati con gli asili nido, come ad esempio i servizi di trasporto. È necessaria una costante
attenzione al territorio, occorre conoscere il territorio, monitorare i suoi processi di sviluppo e
occorre dialogare con esso. La programmazione del territorio comprende:
 progettazione degli edifici adibiti ad asili nido;
 razionale attribuzione dei finanziamenti;
 concreta spendibilità di essi da parte dei Comuni;
 individuazione delle aree;
 verifica delle esperienze realizzate.
Oltre alla programmazione, tra le competenze delle Regioni troviamo:
a. la definizione di standard strutturali qualitativi, organizzativi e gestionali dei servizi;
b. i criteri per la costruzione degli immobili;
c. in accordo con gli enti locali (soprattutto con i Comuni che erogano il servizio) la definizione di
modalità e strumenti omogenei per la valutazione e monitoraggio della qualità dei servizi, non è
sufficiente erogare il servizio;
d. definizione dei requisiti per ottenere l’autorizzazione al funzionamento delle strutture e dei
servizi. Per poter funzionare tutte le strutture devono avere l’autorizzazione al funzionamento, sia
che siano strutture pubbliche sia che siano strutture private;
e. definizione di una procedura per l’accreditamento dei servizi. Con l’accreditamento si consente
a servizi privati di entrare a far parte del sistema pubblico o di affiancarlo (sussidiarietà orizzontale,
ARTICOLO 118).
2. I Comuni sono coloro che erogano il servizio. Compito dei Comuni è:
 promuovere il servizio e collegare il servizio con il territorio, ad esempio con la partecipazione
delle famiglie ai servizi;
 determinare gli orari e il calendario annuale dei servizi;
 definire gli indirizzi educativi con il regolamento comunale;
 organizzazione dei turni e l’aggiornamento professionale del personale;
 individuazione dei criteri di ammissione ai servizi educativi;
 indicazione delle rette: quanto occorre pagare?
 autorizza e accredita le strutture;
 localizzazione e realizzazione dei servizi pubblici, stabilisce dove andare a costruire un asilo
nido sulla base dei criteri stabiliti dalla Regione.

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Quando si parla di servizi pubblici (comunità per minori, asilo nido, residenza per anziani, residenza
di riabilitazione per disabili…) abbiamo due possibili modalità di gestione del servizio:
1. in via diretta:il servizio è pubblico ed è gestito, organizzato direttamente dall’ente pubblico (in
questo caso il Comune o da enti strumentali ad esso). L’ente pubblico eroga il servizio;
2. in via indiretta: esternalizzazione del servizio, affidamento del servizio a terzi da parte del
Comune. Questo non significa, però, che l’ente pubblico sia esonerato del tutto dall’intervenire,
perché ad esso spetta stabilire le modalità d’intervento, i criteri sulla base dei quali ci si può
accreditare con l’ente pubblico. L’ente pubblico mantiene una funzione di monitoraggio e
valutazione del servizio.
Tutti i soggetti che gestiscono un servizio devono ottenere l’autorizzazione, sia che siano pubblici sia che
siano privati. C’è la necessità di possedere dei requisiti minimi di qualità e tecnico organizzativi che servono
per garantire un adeguato esercizio dell’attività a garanzia degli utenti. Alcune Regioni (Puglia, Toscana e
Lombardia) prevedono al posto dell’autorizzazione la CIA (Comunicazione di Inizio dell’Attività). Qual è la
differenza? Se la normativa chiede l’autorizzazione, io devo chiederla e finché non la possiedo non posso
aprire il servizio. Con la CIA io apro il mio servizio e comunico semplicemente che ho iniziato un’attività, che
l’ho avviata, sarà poi compito del Comune verificare. Alcune Regioni (Sardegna e Piemonte) poi privilegiano
associazioni no profit, ma comunque l’autorizzazione devono sempre avercela. L’autorizzazione rispetto
all’asilo nido implica:
• strutture adeguate al servizio;
• personale in possesso dei titoli di studio richiesti dalla normativa;
• retribuzione prevista dai contratti collettivi;
• rispetto del rapporto educatori-bambini previsto dalla normativa regionale;
• previsione di attività di aggiornamento professionale.
Dopo l’autorizzazione ci si può accreditare. L’accreditamento è un passo in più amministrativo rilasciato dal
Comune e richiede requisiti ulteriori rispetto a quelli richiesti per l’autorizzazione. Occorre chiedere sempre
l’autorizzazione prima di chiedere l’accreditamento. I soggetti che ottengono l’accreditamento vengono
finanziati dal Comune (con l’accreditamento il Comune esternalizza il servizio a terzi). Uno dei requisiti
richiesti è quello di adottare la “Carta dei servizi”: documentazione che garantisce dei requisiti rispetto ai
servizi. L’accreditamento rispetto ai servizi per la prima infanzia implica:
• programmazione delle attività educative;
• attività di formazione del personale;
• iniziative di collaborazione per favorire il sistema educativo integrato. Ci deve essere un coordinamento
tra pubblico e privato;
• adottare la Carta dei servizi;
• adottare condizioni di trasparenza, condizioni rispetto all’accesso al servizio, di partecipazione delle
famiglie e di valutazione del servizio.
Come funziona l’accreditamento? Tramite una valutazione discrezionale da parte del Comune. Il Comune
sceglie quali servizi accreditare e normalmente vengono valutati due elementi:
1. formazione, qualificazione e l’esperienza professionale di chi sta chiedendo l’accreditamento;
2. esperienza maturata nei settori e nei servizi di riferimento.
I Comuni procedono all’ “aggiudicazione del servizio” e non devono semplicemente guardare al metodo del
massimo ribasso, non devono guardare il servizio che costa meno al comune, ma devono guardare al
rapporto costo-qualità. Anche la questione del prezzo ha un certo peso in queste decisioni del Comune.
Questo accreditamento può avvenire tramite due modalità:
a. convenzione: atto in cui si disciplinano i diritti e i doveri delle due parti. Tramite la convenzione, il
soggetto privato affianca il sistema pubblico. Il servizio privato diventa in convenzione con il Comune e va
ad aggiungersi al sistema pubblico, si inserisce un ulteriore servizio. L’utente in questo caso paga una tariffa
agevolata;
b. affidamento: appalto di servizi. Il servizio è del Comune ma viene appaltato ad un soggetto terzo, un
privato (esternalizzazione).
Chi sono i soggetti terzi che possono chiedere l’accreditamento? Sono soggetti che tipicamente entrano a
far parte del terzo settore, in prevalenza sono cooperative sociali. Il Terzo Settore è un settore terzo

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rispetto al settore pubblico e privato, è una forma ibrida. Non corrisponde al settore terziario. Le
caratteristiche principali dei soggetti del Terzo Settore sono:
• la loro natura privata: non sono enti pubblici;
• assenza di finalità lucrative: non nascono solo con finalità lucrative;
• natura sociale dell’attività: finalità di carattere sociale. Esiste un registro unico nazionale al quale i soggetti
terzi si iscrivono.
Quali sono le finalità di natura sociale che vanno a coprire questi enti del Terzo Settore?
a. Ambito sociale e sanitario;
b. Ambito educativo;
c. Ambito culturale e di ricerca scientifica;
d. Promozione della legalità e dei diritti umani;
e. Agricoltura sociale;
f. Cohousing sociale;
g. Accoglienza e integrazione degli stranieri;
h. Reinserimento lavorativo.
Tra i soggetti del Terzo Settore: l’80% del Terzo Settore è costituito da cooperative sociali, il 10% da
associazioni di volontariato che non hanno alcun lucro e il restante 10% sono altri soggetti del Terzo Settore
differenti (associazione di promozione sociale, associazioni di confessioni religiose, imprese sociali). Le
cooperative sociali sono disciplinate dalla legge 381/1991 ed esistono due tipologie di cooperative:
1. cooperative di tipo A: maggioritarie. Costituiscono il 60% delle cooperative sociali. La caratteristica di
queste cooperative è la finalità: svolgono attività di gestione di servizi socio-sanitari ed educativi (assistenza
domiciliare agli anziani, ai minori, ai pazienti psichiatrici). Rientrano anche tutti i servizi educativi per la
prima infanzia;
2. cooperative di tipo B: costituiscono il 40% della cooperazione sociale. Sono cooperative sociali non tanto
per l’attività che svolgono ma perché prevedono l’inserimento o il reinserimento lavorativo di persone
svantaggiate (persone con disabilità, con dipendenze da droghe o alcol, ex detenuti). Finalità sociale:
recupero e reinserimento in società di persone svantaggiate.
Le imprese sociali sono un soggetto del Terzo Settore nel momento in cui vengono riconosciute come tali.
L’impresa tipicamente si caratterizza per la sua finalità di fare profitto, non ha una natura sociale. Nel 2006
il legislatore con il d.lgs. 155/2006 ha disciplinato le imprese sociali, ha riconosciuto la loro presenza. Le
imprese sociali hanno un’organizzazione aziendale, producono utili, fanno profitto che però vengono
reinvestiti in ambito sociale. Che vantaggio dovrebbe avere un’impresa a reinvestire in ambito sociale? Può
ottenere degli incentivi statali. Diversi ambiti nei quali possono intervenire: educazione, tutela
dell’ambiente, assistenza sociale, sanitaria e socio-sanitaria, valorizzazione del patrimonio culturale.

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