ASPETTI PSICO-RELAZIONALI ED
INTERVENTI ASSISTENZIALI IN RAPPORTO
ALLA SPECIFICITA’ DELL’UTENZA
Il cambiamento sociale e scientifico degli ultimi decenni è una delle motivazioni alla base del
cambiamento di tendenza che ultimamente ha portato all’introduzione di due nuovi operatori
nell’ambito dell’assistenza sanitaria, sia ospedaliera che domiciliare: l’ Operatore Socio Sanitario
(OSS) ed all’Operatore Socio Sanitario con Formazione Complementare.
Nella seconda metà degli anni ’70, con l’abolizione della formazione dell’Infermiere Generico e
negli anni ’80 con l’abolizione della formazione complementare per gli Infermieri, si era passati ad
una erogazione dell’assistenza basata su di un operatore unico che, in teoria, avrebbe dovuto essere
capace di intervenire in tutte le situazioni assistenziali: l’Infermiere Professionale.
Nel 1990 (DPR 384) è stata istituita una nuova figura nel campo dell’assistenza: l’OTA od
Operatore Tecnico addetto all’Assistenza; tale figura nasceva per rispondere ad un’esigenza che era
andata sempre più delineandosi, negli ultimi anni, per la rarefazione di operatori intermedi e la
necessità di disporre di professionisti particolarmente formati in alcuni ambiti come l’area critica:
l’OTA rappresentava così un compromesso che avrebbe permesso di rispondere a due opposte
esigenze:
quella di aver un operatore economico e versatile che togliesse all’infermiere, unico “titolare”
dell’assistenza, tutta una serie di compiti prettamente tecnici o di base e l’altra, che risultava come
conseguenza della prima, ovvero un minor numero di personale infermieristico nei reparti ed
elevazione dei compiti di quest’ultimi verso attività per le
quali fossero necessarie conoscenze approfondite.
L’OTA, che aveva una connotazione prettamente ospedaliera, lasciava tuttavia scoperte tutte le
necessità che giungevano dall’Assistenza Territoriale, sia per quanto concerneva l’aspetto sanitario
che quello sociale.
Venne così istituita la figura di un operatore di supporto per il settore sociale, che avesse una
preparazione specifica per soddisfare i bisogni di base delle persone che restavano all’interno del
proprio contesto abitativo o
comunque in residenze assistite. Tutto questo portò alla formazione di uno stuolo di figure
“locali” che frammentarono il panorama italiano degli operatori “socio-assistenziali”.
Questo continuo aumento di operatori sanitari contribuì, con gli altri fattori più sopra analizzati, a
rendere necessario un riordino generale, per quanto concerneva le figure impiegate nell’assistenza a
livello nazionale, che mettesse ordine in questa materia per certi aspetti complessa e delicata.
Il lavoro di riorganizzazione portò quindi all’istituzione di un nuovo operatore che racchiudesse in
sé la possibilità di svolgere i compiti dell’OTA e dell’OSA (Operatore Socio Assistenziale), oltre a
nuove attività che gli avrebbero permesso, ancorché con gradualità, di inserirsi, a pieno titolo,
nell’attività ospedaliera ed in quella territoriale con competenze ben più ampie di quelle degli
operatori da cui derivava.
L’Operatore Socio-Sanitario: svolge la sua attività sia nel settore SOCIALE che in quello
SANITARIO in servizi di tipo socio-assistenziali e socio-sanitari residenziali e non residenziali, in
ambiente ospedaliero
e al domicilio dell’utente. Svolge la sua attività su INDICAZIONE , ciascuno secondo le proprie
competenze,
degli operatori professionali preposti all’assistenza sanitaria e a quella sociale, ed in collaborazione
con
gli altri operatori, secondo il criterio del lavoro multi-professionale.
Le attività dell’Operatore Socio-Sanitario sono rivolte alla persona e al suo ambiente di vita, al fine
di fornire:
1)Assistenza diretta e di supporto alla gestione dell’ambiente di vita;
2)Intervento igienico sanitario e di carattere sociale;
3) Supporto gestionale, organizzativo e formativo
2) Intervento igienico sanitario e di carattere sociale: osserva e collabora alla rilevazione dei bisogni
e delle condizioni di rischio-danno dell'utente; collabora alla attuazione degli interventi
assistenziali; valuta, per quanto di competenza, gli interventi più appropriati da proporre; collabora
alla attuazione di sistemi di verifica degli interventi; riconosce ed utilizza linguaggi e sistemi di
comunicazione/relazione appropriati in relazione alle condizioni operative; mette in atto relazioni-
comunicazioni di aiuto con l'utente e la famiglia, per l'integrazione sociale ed il mantenimento e
recupero della identità personale.
3) Supporto gestionale, organizzativo e formativo: utilizza strumenti informativi di uso comune per
la registrazione di quanto rilevato durante il servizio; collabora alla verifica della qualità del
servizio; concorre, rispetto agli operatori dello stesso profilo, alla realizzazione dei tirocini ed alla
loro valutazione; collabora alla definizione dei propri bisogni di formazione e frequenta corsi di
aggiornamento; collabora, anche nei servizi assistenziali non di ricovero, alla realizzazione di
attività semplici.
COMPETENZE RELAZIONALI
- sa lavorare in equipe;
- si avvicina e si rapporta con l'utente e con la famiglia, comunicando in modo partecipativo
in tutte le attività quotidiane di assistenza;
- sa rispondere esaurientemente, coinvolgendo e stimolando al dialogo;
- è in grado di interagire, in collaborazione con il personale sanitario, con il malato morente;
- sa coinvolgere le reti informali, sa rapportarsi con le strutture sociali, ricreative, culturali dei
territori;
- sa sollecitare ed organizzare momenti di socializzazione, fornendo sostegno alla
partecipazione ad iniziative culturali e ricreative sia sul territorio che in ambito residenziale;
- è in grado di partecipare all'accoglimento dell'utente per assicurare una puntuale
informazione sul servizio e sulle risorse;
- è in grado di gestire la propria attività con la dovuta riservatezza ed eticità;
- affiancandosi ai tirocinanti, sa trasmettere i propri contenuti operativi.
Uno dei requisiti caratteriali che deve avere l’operatore che si occupa di assistenza è
l’apertura mentale, intesa come la capacità di entrare in rapporto con gli utenti senza
pregiudizi e con una visione libera ed ampia degli eventi.
Per arrivare a questo bisogna senz’altro lavorare su di sé perché ognuno di noi, a causa delle
proprie esperienze personali, ha delle limitazioni in questo senso.
Oltre alla nostra storia passata, anche le nostre convinzioni e i nostri valori potrebbero
interferire nei rapporti con gli assistiti. E’ importante quindi controllare, per quanto
possibile, l’influenza dei giudizi legati alle proprie convinzioni, quando questi possono
diventare un ostacolo all’accoglimento dell’altro.
Un ulteriore problema nasce quando siamo talmente abituati a seguire regole e norme, che
non riusciamo più a distinguere le situazioni in cui è opportuno sottostare a tali regole da
quelle in cui avremmo un buon margine di libertà, così siamo prigionieri di norme che
nessuno ci impone.
Apertura mentale significa quindi allargare i propri orizzonti e guardare alle scelte, nostre e
dei pazienti, con più ampio respiro.
E’ importante rendersi conto che, quando attribuiamo significato agli eventi, siamo soggetti
ad una serie di distorsioni dovute alle nostre conoscenze pregresse, alle nostre esperienze,
alle nostre abitudini, anche quando siamo convinti di essere obiettivi.
Il processo attribuzionale è quella serie di operazioni mentali con cui siamo soliti attribuire
significato agli eventi esterni; tale processo può essere influenzato da fattori situazionali o
disposizionali.
L’ attribuzione interna (o disposizionale) è un processo di assegnazione delle cause del
comportamento, nostro o altrui, a fattori interni o disposizionali (ad esempio, il paziente si
lamenta spesso perché ha un pessimo carattere, ha bisogno di attirare l’attenzione).
L’ attribuzione esterna (o situazionale) avviene quando le cause del comportamento, nostro
o altrui, vengono attribuite a fattori esterni o ambientali (ad esempio, il paziente si lamenta
spesso perché sta in una posizione scomoda, la stanza è rumorosa).
L’attribuzione avviene in maniera molto veloce e spesso inconsapevole e questo può portare
a degli errori sistematici di attribuzione:
la discrepanza attore-osservatore è la tendenza ad attribuire i propri comportamenti a
cause esterne e i comportamenti degli altri a cause interne, i motivi per cui questo avviene
potrebbero essere i seguenti:
- distorsione percettiva: quando stiamo valutando gli altri la nostra attenzione è focalizzata
su di loro, mentre quando valutiamo le nostre azioni , l’attenzione è rivolta all’esterno,
alla situazione in cui ci troviamo.
- asimmetria dell’informazione: abbiamo una conoscenza maggiore del nostro
comportamento e quindi sappiamo che è influenzato da fattori situazionali, dato che ci
comportiamo in modi differenti a seconda del contesto.
3 SALUTE E MALATTIA
Fino al 1948 il concetto di salute era semplice, facilmente comprensibile, basato su un’affermazione
negativa: nell’assenza di malattie. E’ sano chi non è ammalato, chi ha malattie non è sano.
La salute è assenza di malattie.
Con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (New York, 1948), scaturì un nuovo
concetto di salute.
Nel Preambolo della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che è
l’agenzia tecnica dell’ONU, deputata ai problemi riguardanti la salute pubblica in contatto con i
Ministeri della Sanità pubblica dei vari Paesi membri dell’organizzazione, fu scritto che:
la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non soltanto assenza di
malattie o di infermità.
Il godimento del più alto standard di salute raggiungibile è uno dei diritti fondamentali di ogni
essere umano senza distinzione di razze, religione, credo politico, condizione economica o sociale.
La salute di tutti i popoli è fondamentale per il raggiungimento della pace e sicurezza e dipende
dalla più ampia cooperazione degli individui e degli Stati. L’impegno di ogni Stato nella
promozione e protezione della salute è utile a tutti.
Lo sviluppo diseguale tra i Paesi nella promozione della salute e controllo delle malattie
trasmissibili, rappresenta un pericolo per tutti.
L’impatto della nuova concezione è stato enorme nel campo della cultura, delle scienze e delle
politiche sanitarie.
L’affermazione positiva della salute come benessere fisico, mentale e sociale della persona, rispetto
al concetto negativo tradizionale di salute come assenza di malattia, provocò una sorta di
terremoto, si può dire, nel campo della medicina che – impegnata da secoli quasi esclusivamente,
salvo rare eccezioni, nello studio e nella lotta contro le malattie per diagnosticarle, per curarle, per
prevenirle e per prolungare la vita ai malati – si trovò impreparata di fronte alla nuova prospettiva di
tutelare e promuovere la salute.
La nuova concezione allarga decisamente l’area della salute umana dalla sfera del corpo a quella
della mente e a quella delle relazioni sociali, sollevando motivi di crisi nella Sanità Pubblica
perché estende il campo di azione alle scienze psicologiche e alle scienze sociali e successivamente
anche alle scienze economiche.
Si presenta anche la necessità di dare una nuova impostazione ai servizi sanitari e socio-
assistenziali: col nuovo concetto di salute la Sanità dovrà impegnarsi anche della tutela e della
promozione della salute nella popolazione.
La prevenzione, la diagnosi e la cura di malattie si basano, ovviamente, sulle conoscenze
riguardanti la loro “patogenesi”, mentre la promozione della salute intesa come benessere fisico,
mentale e sociale non può che basarsi sulle conoscenze riguardanti i fattori che generano salute,
cioè la “salutogenesi”.
E’ opportuno considerare che nel periodo storico coincidente e successivo a quello in cui si affermò
il nuovo concetto pluridimensionale di salute (seconda metà del XX secolo) si verificò una
complessa e rapida transizione epidemiologica nei vari Paesi, compresa l’Italia, rispetto alla
quale il nuovo concetto di salute apparve adeguato.
Le caratteristiche della transizione riguardavano non soltanto la patologia, ma anche altre importanti
caratteristiche sociali e demografiche che possono essere così schematicamente indicate:
passaggio da epidemie di malattie infettive, curabili e guaribili (broncopolmoniti, enteriti,
difterite, tifo, ecc.) a epidemie di malattie cronico-degenerative (neoplasie, cardiopatie,
artropatie, diabete, demenze, ecc.) con aumento delle sofferenze prolungate;
invecchiamento esplosivo della popolazione che si intreccia inestricabilmente con il
cambiamento anzidetto della patologia in una serie di rapporti reciproci di causa ed effetto;
cambiamenti rapidi degli stili di vita e dei comportamenti (sedentarietà, alimentazione, guida
spericolata di automezzi, fumo, alcol, droghe, ecc.) con relativo aumento delle malattie
comportamentali;
rapido aumento della patologia mentale (depressioni, ansie, angosce, anoressie, bulimie, crisi di
panico, ecc.) e del disagio sociale sia giovanile che degli anziani, sempre più soli,ingombranti e
consapevoli del loro tramonto.
La nuova concezione multidimensionale della salute suggerì un nuovo modello alla medicina,
denominato “bio-psico-sociale”, che calzava bene alle nuove realtà, ma cozzava contro altri
modelli medici tradizionali.
Dopo la prima Conferenza mondiale sulla promozione della salute, che si tenne ad Ottawa nel 1986,
si cominciò a prendere in considerazione un’altra dimensione della salute, quella spirituale, che
crebbe via via di importanza (La persona è un complesso inscindibile di corpo, mente e spirito,
profondamente inserita in un contesto familiare, lavorativo e sociale).
Molte persone promuovono la spiritualità attraverso la religione oppure attraverso una relazione
personale con il divino, mentre molte altre possono promuoverla attraverso un rapporto con la
natura, con la musica e le arti, o attraverso una serie di valori e di principi, oppure attraverso la
ricerca delle verità scientifiche.
modello “Bio-psico-sociale”
RIASSUMENDO:
La salute è uno stato di completo benessere psichico , fisico e sociale dell'uomo dinamicamente
integrato nel suo ambiente naturale e sociale e non la sola assenza di malattia.
-Essere sano: forza e robustezza ed avere riserve da mobilitare per far fronte allo stress, alla fatica,
alle malattie.
-Stare bene: aspetti positivi legati all'umore, alle sensazioni, all'equilibrio personale.
3.2 LA MALATTIA
-la malattia corrisponde ad una perdita transitoria o permanente della omeostasi (perdita
dell'equilibrio funzionale, alterazione delle condizioni interne ed esterne);
- si ha malattia quando le capacità di difesa del nostro organismo non sono più in grado di
controllare i danni prodotti dagli agenti patogeni.
La malattia è un rischio naturale che può colpire tutti: compito della sicurezza sociale è quello di
proteggere (curando e spesso risarcendo) contro tale rischio.
La malattia è un disordine che turba il normale equilibrio dell'organismo; il disordine è indotto
dall'ambiente, dalle condizioni e dallo stile di vita, dai batteri, da virus ecc.
La salute è uno stato di equilibrio molto delicato che può essere minacciato dall'azione di molti
numerosi fattori di rischiosi; i fattori di rischio si possono classificare nella maniera seguente:
La salute è uno stato di equilibrio molto delicato che può essere minacciato dall'azione di numerosi
fattori di rischio che possono essere così suddivisi:
6. FATTORI FISICI (es. clima, localizzazione geografica, calamità naturali, radiazioni ionizzanti,
raggi ultravioletti, elettricità, calore, rumore, umidità);
7. FATTORI CHIMICI (es. scarichi industriali ed urbani, scarichi delle auto; pesticidi e
fertilizzanti, additivi alimentari).
Quando subentra una malattia nella vita di una persona, essa può scatenare una moltitudine di stati
emotivi diversi che sono influenzati dalla natura della malattia, dalla personalità della persona e dal
contesto fisico e sociale; i più comuni stati emotivi sono: minaccia e paura, frustrazione, ansia,
depressione, aggressività, regressione, isolamento.
Da alcune ricerche, che hanno analizzato l’andamento dell’ansia e della depressione come reazioni
alla malattia, è emerso che nelle prime fasi di malattia c’è un alto livello di ansia mentre la
depressione è molto bassa, invece, con l’avanzare della malattia e la sua cronicizzazione, l’ansia
iniziale diminuisce e subentra uno stato di depressione.
Il modo di affrontare una malattia incide anche sui fattori prognostici ossia sui tempi di guarigione,
sulla riduzione dei sintomi, sulla qualità di vita e sulla sopravvivenza.
La malattia sconvolge l’equilibrio psico-fisico della persona, per cui le reazioni alla malattia
riguardano diversi aspetti:
-reazioni emozionali (collera, incredulità, terrore, irritabilità, senso di impotenza, senso di colpa,
perdita di piacere nelle attività),
- reazioni cognitive (difficoltà di concentrazione, confusione, pensieri intrusivi, calo di
autostima e auto-efficacia);
- reazioni biologiche (fatica, insonnia, incubi, iperattivazione, lamentele somatiche)
- reazioni psicosociali (ritiro sociale, alienazione, ridotta capacità lavorativa)
La malattia costituisce una minaccia alla vita, all’integrità somatica e psichica, all’equilibrio
emotivo, ai ruoli sociali, agli impegni quotidiani e ai progetti futuri.
L’individuo reagisce a questa minaccia con delle difese che il cervello mette in atto, queste difese
vengono chiamate meccanismi di difesa.
Per superare la situazione di stress, le persone malate possono utilizzare dei meccanismi di difesa
che operano a livello inconscio e negano, falsificano, travisano la realtà in modo da proteggere
l’individuo per non farlo precipitare nel completo disequilibrio. Anche in condizioni di sanità tutti
utilizziamo in certa misura alcuni di questi meccanismi di difesa, e ciò non è necessariamente un
sintomo patologico.
I meccanismi di difesa più comunemente utilizzati per far fronte ad una malattia sono:
-La regressione: il paziente sembra quasi regredire a una fase infantile, ad esempio
dorme tutto il giorno, vuol mangiare continuamente, continua a lamentarsi del vitto, fa i capricci, o
chiede continuamente di essere gratificato affettivamente dal medico, dagli infermieri e dagli amici
che lo vengono a trovare.
In una certa misura è normale perché il paziente è obbligato a dipendere dagli altri in quanto malato,
ma se prolungata, risulta dannosa finendo per ostacolare il processo di riacquisizione
dell’autonomia.
- La formazione reattiva: nasce dal senso di persecuzione provocata in alcune persone dalla
malattia e possono subentrare reazioni aggressive rivolte alle persone circostanti.
Il malato in questo caso non è mai contento delle cure, è esigente, polemico, difficile da affrontare,
accusa il mondo intero delle sue sventure e non potendo ammettere di essere lui stesso aggressivo,
scarica quest’accusa sugli altri.
- La proiezione consiste nell’attribuire ad altri i propri pensieri, desideri o paure. Questi malati
sostengono di non avere sintomi gravi ma di essere stati costretti dalle paure esagerate degli altri a
farsi visitare, o che attribuiscono i loro sintomi ad altri (modalità persecutoria di reagire alla
malattia).
- La negazione consiste nel negare alcuni aspetti della malattia, come la presenza di determinati
sintomi, o addirittura della malattia stessa.
In questo caso le persone non mettono in atto le strategie necessarie per affrontare la malattia.
- L’isolamento consiste in quel meccanismo in cui l’aspetto emotivo ed affettivo è scorporato dalla
dimensione cognitiva; diventa così possibile riferire o discutere di fatti dolorosi apparentemente
senza emozioni.
Il paziente si distanzia dal suo disturbo, parla di sé come di un “caso”, discute delle sue condizioni
con il medico e con l’infermiere senza coinvolgimento, come se parlasse di una terza persona.
È come se, a livello cognitivo, sapesse di essere malato, ma a livello emotivo evitasse questa
consapevolezza.
In linea generale le reazioni del paziente devono essere comprese e non giudicate.
L’operatore deve cercare di capire il significato sotteso alla reazione dell’individuo, le sue ragioni, e
soprattutto accettare che in quel momento, in quelle condizioni, è l’unica risposta trovata dal
paziente per far fronte all’angoscia e all’ansia.
Non si può ritenere di avere di fronte a sé un paziente generico, ma risulta fondamentale operare
tenendo conto di tutti i fattori in modo da trattare tutti nel modo più adeguato in relazione alle loro
esigenze e stati d’animo, poiché l’unico modo per curare tutti allo stesso modo è quello di curare
ciascuno individualmente, considerando le sue problematiche, le sue differenze e le sue eguaglianze
con gli altri.
La malattia rappresenta una grave interruzione del normale equilibrio psicologico e sociale non solo
dell’individuo malato ma dell’intero nucleo familiare.
Al pari della persona malata, la famiglia viene investita massicciamente dalla malattia del proprio
congiunto con ripercussioni notevoli sulle relazioni tra i suoi membri e in generale sull’equilibrio
della struttura familiare. La famiglia infatti funziona in maniera unitaria e i singoli membri sono
interdipendenti tra loro, quando un membro si ammala, avvengono notevoli cambiamenti:
- il malato perde il suo ruolo indipendente per cui i familiari devono assumersi nuove responsabilità
sia per quanto riguarda la cura del malato sia per quanto riguarda i compiti a cui lui era delegato;
ogni membro della famiglia sarà chiamato a modificare le proprie abitudini, le proprie
responsabilità e a fare a meno del malato nella gestione della vita familiare;
- avvengono delle modificazioni di vita e del ritmo di lavoro non solo del malato ma anche dei
familiari che devono organizzarsi per assistere il proprio caro;
- possono subentrare difficoltà economiche a causa delle ulteriori spese mediche, di viaggi e di
assistenza specialistica che la condizione del malato richiede.
La famiglia presenta reazioni psicologiche simili a quelle del malato e influenza le reazioni del
malato seguendo un’interazione circolare.
Nei casi di malattie gravi, ad una prima fase di shock e di angoscia, fa seguito una fase di
negazione-rifiuto di quanto sta accadendo e successivamente una di disperazione con sentimenti di
ineluttabilità, perdita e separazione per il familiare malato.
Ha inizio una costante alternanza fra speranza e delusione: è costantemente presente uno stato di
stress ed ansia e le reazioni sono molto varie: molti mettono in secondo piano le proprie esigenze ed
aiutano attivamente nella cura del malato, altri non sopportano la tensione, avvertono un senso di
solitudine e si vergognano dei loro sentimenti.
Con l’avanzare della malattia, le famiglie percepiscono quotidianamente una diminuzione della
speranza, della capacità "di essere per l'altro", di mettersi in relazione con il malato. Di solito si
assiste poi alla presa in carica del malato, da parte di una sola persona all’ interno della famiglia,
solitamente quella più in grado di gestire lo stress.
Si struttura poi una fase rielaborativa a cui può seguire una fase di accettazione nella quale le
difficoltà possono essere affrontate e superate e le dinamiche intrafamiliari possono raggiungere un
nuovo equilibrio.
In alcuni casi, tuttavia, la famiglia non riesce ad adattarsi alla nuova situazione e a raggiungere quel
grado di ristrutturazione necessario per superare gli eventi e va incontro alla disgregazione con il
manifestarsi di relazioni estremamente disturbate al suo interno e l’eventuale insorgenza di disturbi
psicopatologici.
In linea generale, si possono individuare alcune modalità principali di reazione della famiglia alla
malattia:
1. fiducia realistica: la famiglia ha una visione realistica del problema, collabora ed è disponibile nei
confronti degli operatori sanitari. Sanno che il malato è in buone mani.
2. incapacità di accettare la realtà: rifiuto della realtà che porta a non collaborare con i sanitari e a
rendere il malato incerto ed ansioso sul suo futuro.
3. sfiducia di fondo: questo atteggiamento è evidente quando si passa da un medico all'altro
richiedendo informazioni o diagnosi che la famiglia reputerà inattendibili e inesatte. Di qui
l’aggressività verso i sanitari e di riflesso verso il malato.
4. vittimismo: la famiglia si sente vittima, colpevolizza il malato, il quale dovrà spendere molte
energie per rassicurare i congiunti.
5. reazioni di sconforto: sono reazioni ,a volte eccessive, attraverso le quali i familiari anticipano gli
esiti negativi, come la morte. Questo è un atteggiamento molto distruttivo per il malato sofferente.
Possiamo considerare i risvolti psicologici della malattia nel tessuto familiare secondo vari modelli:
Modello lineare: la malattia scatena reazioni simili nel malato e nella famiglia.
Familiari ansiosi o angosciati diventano iperprotettivi nei confronti del malato, oppure negano la
malattia e sono incapaci di accettare la realtà;
alcuni familiari reagiscono aggressivamente verso medici e personale mostrando di non fidarsi delle
loro competenze; l’aggressività può essere scaricata anche sull’ammalato a cui viene attribuita la
colpa della sua malattia.
Ci sono gruppi familiari che si chiudono e si isolano dal contesto sociale, questa reazione espone la
famiglia al rischio di non saper più gestire le proprie emozioni.
Alcune famiglie hanno reazioni depressive, sconforto e persino disperazione, facendo trasparire
messaggi svalutativi del tipo "non ce la farà", "non tornerà più come prima", veri e propri anticipi
nella fantasia della morte del loro caro.
Ci sono anche famiglie psicologicamente più forti che facilitano nel malato una percezione
realistica della malattia con i suoi lati negativi e le sue residue possibilità, la speranza di un buon
esito e la fiducia nelle cure e nel personale sanitario.
Il confronto con la malattia, la sofferenza, la morte possono bruciare le energie psicologiche di chi
si prende cura del malato, si sviluppa in chi assiste il malato un particolare miscuglio di sintomi
fisici, di vissuti psichici e reazioni comportamentali.
Le reazioni dell’operatore di fronte alla sofferenza del paziente possono collocarsi su due poli
opposti: coinvolgimento eccessivo o distanza eccessiva
1. Coinvolgimento eccessivo: l’operatore si identifica con il malato e con i suoi vissuti, senza la
capacità di tenere sotto controllo (cognitivo, emotivo e relazionale) la situazione.
Le emozioni del malato (paura, angoscia, rabbia, tristezza…) diventano contagiose e oltrepassano
qualsiasi tipo di comunicazione.
Tutto si complica perché la relazione col malato implica, in realtà, anche la relazione coi suoi
familiari ed amici (e con i loro vissuti).
Molta sofferenza, in chi lavora accanto al malato, sta nel sentirsi sconfitto, nella sensazione di
perdere continuamente la partita, nel vedere continuamente infrangersi l’immagine di “guaritore
onnipotente”.
2. Distanza eccessiva: per difendersi dal contatto continuo con emozioni forti, l’operatore riduce al
minimo indispensabile i contatti con i malati e spersonalizza i rapporti.
Medici, infermieri, volontari, operatori sanitari (ma anche i familiari), nel loro rapporto con chi
soffre, sono continuamente esposti al problema della propria mortalità. Rivivono a volte esperienze
personali e sono investiti da sentimenti di rabbia, impotenza e colpa ma contemporaneamente non
possono ritirarsi dalla relazione.
La risposta che l’operatore attua nei confronti della sofferenza condiziona il modo di porsi in
relazione con gli assistiti (vicinanza o lontananza) e con se stessi (equilibrio emotivo o difficoltà a
tollerare i pesi emotivi).
Il problema non sono le situazioni dolorose in se’ ma come noi rispondiamo al dolore: affrontare il
dolore significa dargli un senso e considerarlo come una delle possibili situazioni della vita.
Sono le relazioni interpersonali la fonte principale di stress: con il malato, con i suoi familiari e con i
colleghi; per questo bisogna saperle gestire e controllare, imparando a dialogare con gli altri senza
identificarsi con loro ma anche senza rinunciare a coinvolgere nelle relazioni le proprie ricchezze
emotive e spirituali.
4 LA RELAZIONE D’AIUTO
La relazione di aiuto è un tipo particolare di relazione in cui uno dei partecipanti alla relazione cerca
di favorire nell’altro: una valorizzazione maggiore delle risorse personali, una maggiore possibilità
di espressione.
Si tratta di una relazione non simmetrica in cui un soggetto ha bisogno e l’altro offre aiuto.
Nella relazione di aiuto diventa importante il rapporto umano che si crea tra chi soffre e chi cerca di
aiutare: il rapporto tra l’operatore e l’utente è la condizione essenziale perché possa iniziare un
lavoro di cura.
La relazione di aiuto è innanzitutto “faccia a faccia” tra due persone che vivono la dimensione del
bisogno: quando una persona porta il suo bisogno, attende di essere riconosciuta nella sua globalità
e chiede agli altri di essere attenti al suo dramma. All’operatore è richiesta prima di tutto una
“competenza umana” che lo porti alla conoscenza dettagliata del problema e alla ricerca di tutti gli
strumenti e le tecniche utili a favorire il miglioramento della situazione di crisi. E’ con il modo di
ascoltare, di comprendere e di agire che noi “accogliamo” l’altro.
L’instaurazione di una relazione di aiuto implica l’instaurazione di un rapporto di fiducia; solo
dopo aver creato un rapporto di fiducia si può concretamente progettare l’intervento (cioè decidere
cosa fare, come fare, ecc..), sempre concordando con l’utente che, non dimentichiamo, è il
protagonista del suo intervento d’aiuto.
La relazione diventa vero aiuto solo quando emergono sopra ogni altra cosa, gli aspetti legati
all’umanità, prima ancora che alla professionalità.
Il processo di aiuto è un’operazione complessa che richiede di particolare attenzione da parte di chi
lo eroga, ricordiamoci sempre di avere a che fare con “persone” fragili che necessitano di cure ma
anche di essere trattati con serietà:
- nelle pratiche di igiene o manovre: veniamo a contatto con la sfera intima della persona,
quello spazio che la persona aveva sperato di continuare a gestire in proprio;
- l’eccessiva confidenza, quando non richiesta, provoca senz’altro qualche disagio, una
battuta di spirito che potrebbe passare inosservata da parte di una persona sana, può
scatenare nella persona malata un grave senso di disagio.
L’ammalato deve potersi porre in maniera attiva nei confronti della sua malattia, questo lo si
può ottenere se l’operatore impronta il rapporto su atteggiamenti autentici e trasparenti che
possono suscitare la fiducia del paziente.
Egli durante la malattia vive una situazione ed una esperienza che lo coinvolge profondamente
dal punto di vista sia fisico che psichico; gli operatori svolgono un ruolo importantissimo nel
recupero del processo di maturazione della persona malata, in modo che egli possa accettare la
malattia come momento diverso della vita.
Il paziente si trova spesso in una situazione di inferiorità fisica e, a volte, psichica, queste
condizioni possono determinare l’instaurarsi di una poco corretta relazione interpersonale.
E’ evidente quanto sia importante nella relazione umana la sfera delle emozioni e dei
sentimenti: ogni paziente è sicuramente portatore di più emozioni, ma spesso non è invitato ad
esprimerle, a raccontarle.
La parte razionale ha quasi sempre il sopravvento: bisogna prima capire, comprendere, riflettere,
circostanziare, saper spiegare; l’emozione invece non ha bisogno di avere legami ma di trovare
spazi idonei e progetti per potersi rivelare.
Solo in questo condizioni la comunicazione legata all’emozione diventa completa e può produrre
un cambiamento nelle persone: pensate ad un paziente che sta per affrontare un intervento
chirurgico del quale ha paura, all’operatore socio sanitario compete l’accoglienza di questa paura
e la sua contestualizzazione, al fine di ricondurla ad una dimensione umana, che non può
risolversi solo in atteggiamenti tranquillizzanti generici ma, deve concretizzarsi nel comunicare
al paziente l’assoluto rispetto per la sua paura, invitandolo al tempo stesso a non bloccare
eventuali reazioni di pianto e così via.
Il rapporto tra operatore e paziente deve basarsi sul nutrimento relazionale attraverso tre
semplici azioni (Felliozat, 1998):
1) dare: si riferisce all’operatore e lo invita a utilizzare tutta la gamma dei sentimenti positivi,
attraverso i gesti che più li rappresentano: la carezza, l’attenzione, il sorriso, l’ascolto, la
parola tenera, la dolcezza, la comprensione, il farsi carico, l’esprimere interesse e così via.
2) ricevere si riferisce all’utente, ma è ovvio che l’operatore ha una certa responsabilità se si è
impegnato nel dare.
3) chiedere vale per entrambi, ma l’operatore può far molto se attua un programma di aiuti e di
interventi diretti sulla persona, centrati sul chiedere al paziente le sue emozioni: cosa ha
provato, come si sente e come si sentiva prima e dopo l’intervento, quali sentimenti
prevalgono durante la relazione utente/operatore. E’ importantissimo che l’operatore chieda
all’utente cosa prova in determinati momenti: non un interrogatorio, ma una condivisione,
una relazione sui sentimenti provati, senza espressione di giudizio, senza valutazione, ma
tanta comprensione empatica.
Sul piano dinamico temporale della relazione si possono identificare tre fasi:
1. La fase di apertura: si sviluppa al momento del contatto tra paziente-operatore nell’ambiente
destinato ad accoglierlo. Il linguaggio non verbale è cruciale e definisce la qualità dell’accoglienza:
l’operatore deve mostrare un atteggiamento disponibile all’ascolto.
2. Nella fase operativa l’efficacia della comunicazione e l’efficacia del processo assistenziale sono
due obiettivi interconnessi ed interdipendenti.
Le funzioni essenziali di questa fase sono:
- l’orientamento dell’assistito;
- il coinvolgimento dell’assistito che si traduce in un “fare con lui” che implica un
“contratto” con la persona per aiutarla a riprogettarsi.
Il ruolo dell’operatore sarà di intermediazione e traduzione di aspetti tecnici.
3. La fase del distacco: conclusione della relazione assistenziale; l’operatore programma
anticipatamente questa fase e dà indicazioni al paziente su come dovrà gestirsi autonomamente
(informazione ed educazione sanitaria) o su come si svolgerà il processo terapeutico successivo.
Quando in un sistema familiare si presenta lo stato di malattia di un congiunto, è inevitabile che ciò
comporti e crei un clima di grande tensione per i familiari.
Queste situazioni possono ingenerare in loro l’assunzione di comportamenti irritanti, al punto da
diventare da intralcio per l’assistenza quotidiana.
Di fronte a questa manifestata invadenza, l’operatore socio sanitario deve dimostrarsi fermo
nell’impedire che, questi comportamenti si traducano in un danno collettivo,
non dovrà dimenticare di esercitare la sua pazienza, accompagnata da umana comprensione. Non si
esclude comunque la possibilità che l’operatore abbia ad opporsi con grande fermezza, qualora
dovesse trovarsi a contrastare comportamenti incivili,nocivi anche per la serenità degli altri ammalati.
E’ buona norma contenere anche l’invadenza e la scorrettezza dei parenti, che per ottenere delle
prestazioni di riguardo per il loro congiunto, elargiscono regalie.
Nel rapporto operatore- parente si incontrano o si scontrano due modi di essere: il familiare con il suo
bagaglio di bisogni che desidera vengano soddisfatti, l’operatore con il suo ruolo professionale non
sempre privo di pregiudizi e a volte condizionato da norme che creano difficoltà alla libertà dei
rapporti. Per capire la dinamica dei rapporti è importante comprendere prima di tutto se stessi, il
proprio modo di essere, perché l’etica delle relazioni umane è basata sul contributo che ognuno può
dare alla relazione.
In linea generale, l’OSS ha un triplice ruolo nei confronti dei familiari:
1) Accoglienza e disponibilità: quando un nuovo assistito entra in un contesto di cura, l’Oss deve
mostrarsi disponibile a fornire informazioni sulla struttura e sul servizio offerto; accoglienza e
disponibilità sono il primo passo per la creazione di un clima di fiducia
(il familiare viene rassicurato perché sente che il proprio caro è in buone mani)
2) Assistenza: l’operatore fornisce assistenza alla famiglia tenendola informata sulla varie fasi del
processo di cura (problematicità, progressi, interventi che vengono attuati nei confronti dell’assistito)
questo permette ai familiari di essere partecipi e di elaborare di volta in volta l’evolversi degli eventi.
3) Contenimento: quando i familiari sono agitati, invadenti, non collaboranti, è bene che l’Oss
ridisponga i confini ricordando le regole della struttura, il motivo per cui il loro caro è lì e il proprio
ruolo professionale; nel fare ciò è importante mostrare l’intenzione di voler aiutare e chiedere la
collaborazione ai familiari.
Curare in senso medico significa mettere in atto una terapia atta a debellare una malattia, per il
personale di assistenza significa attuare prestazioni corrette, applicando un trattamento terapeutico
puntuale e scrupoloso.
Prendersi cura vuol dire occuparsi di qualcuno con assiduità e premura prendendosi carico non
solo della malattia ma della persona.
Il prendersi cura comporta di stabilire un contatto umano supportivo con il paziente, riconoscere
la persona non solo l’organo che fa male, con un’attenzione particolare al dolore fisico ma anche al
disagio psicologico, ascoltare e comprendere, essere attenti e accoglienti.
Il processo del “prendersi cura” può essere suddiviso in diverse fasi:
1. mostrare disponibilità: viene data attenzione alla persona indipendentemente dal suo
comportamento.
Senza imporre condizioni , il paziente viene rassicurato circa l’importanza che ha per noi come
persona cercando così di rendere possibile la sua partecipazione al processo d’aiuto.
2. Rispondere ai bisogni: adeguare i propri comportamenti ai bisogni dell’altro affinchè l’assistito si
senta accolto e capito.
Queste prime due fasi hanno lo scopo di permettere di instaurare una relazione di fiducia, necessaria
per passare alle fasi successive.
3. Indirizzare la cambiamento: l’operatore dovrà promuovere comportamenti autonomi, facendo fare
all’assistito, un po’ alla volta, le cose che fino a quel momento ha fatto per lui (compatibilmente con
l’età e la patologia).
E’ importante che l’operatore sappia calibrare di volta in volta il suo intervento , in vista
dell’obiettivo che desidera raggiungere.
Preoccuparsi e attivarsi a favore di una sana relazione d’aiuto non significa soltanto curare la
persona in questione, ma soprattutto prendersi cura di lei.
Il solo agire tecnico consente di curare invece l’attenzione alla relazione e al rapporto umano
consentono di considerare l’assistito come soggetto e non oggetto delle terapie e permettono
un’evoluzione continua del rapporto con l’altro.
5 LA COMUNICAZIONE
Comunicare vuol dire rendere comune, far partecipi gli altri di qualcosa.
Il linguista R.Jakobson durante lo studio dei fenomeni comunicativi, ha definito la struttura
universale dei processi comunicativi:
Per comunicazione si intende la trasmissione di un messaggio da una fonte (emittente) ad un
destinatario (ricevente) attraverso un mezzo (canale di comunicazione).
Affinchè si possa parlare di comunicazione è necessario avere due importanti caratteristiche:
l'intenzionalità e l'aspetto processuale.
L'intenzionalità è la caratteristica propria dell'emittente, cioè di colui che è chiamato a codificare il
messaggio, in relazione ad uno o più riceventi.
L'aspetto processuale punta la sua attenzione sull'interazione e relazione tra gli interlocutori, visti
come soggetti attivi, che possiedono particolari capacità dette competenze comunicative.
La competenza comunicativa è l'abilita di ogni membro della comunità sociolinguistica
di capire e produrre messaggi.
Si riferisce a tutte le predisposizioni, le conoscenze (acquisite durante tutto l'arco della vita) e le
regole che rendono possibile uno scambio comunicativo.
Tutto ciò avviene all'interno di un contesto, che è rappresentato dal luogo e situazione, in cui la
comunicazione si svolge, ma anche da quello che viene detto nelle diverse circostanze. Da ciò si
deduce che il contesto non è unico. Abbiamo quello culturale, che è proprio di ogni individuo e si
rifà all'ambiente di provenienza degli interlocutori e, quello fisico, il luogo in cui si svolge la
comunicazione stessa.
Affinchè il messaggio compia il suo passaggio da emittente a destinatario ha necessità di un canale,
cioè di un mezzo fisico, ambientale o comportamentale attraverso il quale passa il messaggio.
Questo può essere di tipo naturale (vista, olfatto, tatto, udito) o artificiale (radio, televisione,
telefono, Internet).
Il messaggio, affinché, venga trasmesso da un individuo ad un altro, ha bisogno di appartenere ad
un insieme di regole e di segni che sono propri di una determinata cultura, delineando cosi uno
strumento convenzionale diversificato chiamato codice (ad esempio è un codice la grammatica della
lingua italiana).
Il codice, per essere compreso, deve essere condiviso da entrambi gli interlocutori i quali devono
attuare dei processi di codifica e di decodifica dei messaggi e, tenere in considerazione tutti quei
fattori che potrebbero disturbare la comprensione, come ad esempio gli stati emozionali, l'umore del
momento,la cultura di appartenenza, le esperienze passate, le conoscenze e lo status sociale, meglio
definiti come repertorio.
Più i repertori dei due interlocutori sono sovrapposti e più i soggetti saranno in grado di produrre,
capire e ricevere informazioni; più saranno lontani e più sarà difficile la comunicazione se non
assente.
5.1 COMUNICAZIONE VERBALE, NON VERBALE E PARA-VERBALE
E’ possibile disporre gli elementi della CNV secondo una scala che procede dall’alto verso il basso,
dai segnali più manifesti e più facilmente percepibili dall’interlocutore, a quelli meno evidenti e più
mutevoli (Bonaiuto, Maricchiolo, 2012).
Tale scala si può così riassumere:
1. ASPETTO ESTERIORE (Conformazione fisica, Abbigliamento)
2. COMPORTAMENTO SPAZIALE (Distanza interpersonale, Contatto corporeo,
Orientazione, Postura)
3. COMPORTAMENTO CINESICO (Movimenti di busto e gambe, Gesti delle mani,
Movimenti del capo)
4. VOLTO (Sguardo e contatto visivo, Espressione del volto)
5. SEGNALI VOCALI (Segnali vocali verbali, Segnali vocali non verbali)
Gli psicologi della scuola di Palo Alto (California), di cui uno dei maggiori esponenti fu Paul
Watzlawick, si dedicarono allo studio della pragmatica della comunicazione, il termine
pragmatica in questo contesto indica la comunicazione intesa nel suo aspetto pratico, cioè le
influenze della comunicazione – nella fattispecie, della comunicazione interpersonale – sul
comportamento delle persone.
“Assioma” = “principio essenziale”. Con questo termine si indicano quelle proprietà semplici della
comunicazione interpersonale, sarebbe a dire quelle caratteristiche che si riscontrano in generale
nella vita di relazione tra gli esseri umani.
1. Non si può non comunicare: qualsiasi comportamento, le parole, ma anche i silenzi, l’attività o
l’inattività hanno tutti valori comunicativo e influenzano gli altri interlocutori. In sostanza, non si
può evitare di comunicare: il nostro comportamento è già di per sé un messaggio. Per esempio: chi
accoglie una persona in silenzio non può evitare di comunicare una sensazione di freddezza;
2. Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e uno di relazione. Non si trasmettono cioè solo
messaggi, ma anche le chiavi per comprenderli. Per esempio il messaggio “fai attenzione” viene
compreso, a seconda del tono e dei gesti, come minaccia, o preghiera o ordine oppure
raccomandazione.
L’aspetto di contenuto e l’aspetto di relazione sono indirettamente proporzionali: più una relazione
è spontanea, sana e più l’aspetto relazionale della comunicazione rimane sullo sfondo(più
importante ciò che si dice e non come lo si dice).
Al contrario, più una relazione è disturbata più è caratterizzata da conflitti continui per definire la
natura della relazione e l’aspetto di contenuto diventa sempre meno importante (più importante il
modo in cui si dicono le cose rispetto al contenuto).
4. Gli esseri umani comunicano sia col modulo numerico ( = le parole) sia con quello analogico
( = gesti, espressioni del viso, inflessioni della voce, sequenza, ritmo e cadenza delle parole); La
comunicazione numerica esprime il contenuto del messaggio: il linguaggio serve a scambiare
informazioni sugli oggetti, a nominarli e trasmettere la conoscenza di epoca in epoca.
La comunicazione analogica riguarda l’aspetto relazionale del messaggio (gesti, posizione del
corpo, espressioni del viso, inflessioni della voce) ed è molto più arcaica di quella analogica.
5.Tutti gli aspetti di comunicazione sono simmetrici o complementari a seconda che siano basati
sull’uguaglianza o sulla differenza” .
Si ha un’interazione simmetrica quando il comportamento di un individuo tende a rispecchiare
quello dell’altro: se viene comunicato un comportamento di sfida, le stesse caratteristiche saranno
messe in evidenza dal partner, nel tentativo di minimizzare le differenze.
Nelle relazioni complementari il comportamento di un individuo completa il comportamento di un
altro individuo: un partner assume una posizione superiore o dominante (one-up) e l’altro occupa
la posizione secondaria (one-down).
In molti casi, le relazioni asimmetriche non vengono imposte in modo esplicito, ma ciascun
soggetto si comporta in modo da presupporre il comportamento dell’altro, offrendoli al tempo
stesso le ragioni perché tale asimmetria esista e perduri nel tempo.
5.3 L’ASCOLTO
Ascoltare significa mettersi al servizio dell’altro, per dimostrargli che siamo ben disposti verso di
lui e di ciò che dice. Ascoltare significa anche capire più in profondità le motivazioni che spingono
l’altro ad aprirsi nei nostri confronti, gli danno la prova che siamo in perfetta sintonia comunicativa
con lui; perciò è bene controllare i nostri comportamenti non verbali.
Ascoltare significa non tentare di guarire l'altro dalle sue emozioni né fornirgli vaghe consolazioni,
ma comprendere emozionalmente e contenere.
La capacità di ascoltare, infatti, permette di stabilire dei rapporti costruttivi; attraverso l’ascolto si
comunica al paziente che anziché esprimere giudizi su ciò che egli dice o su ciò che egli è, stiamo
cercando di capirlo.
E' fondamentale la capacità di ascolto, che va intesa come attenzione non solo alla comunicazione
verbale dell'utente, ma anche alla sua espressività non verbale.
Un atteggiamento reale di ascolto implica attenzione e interesse, tolleranza, comprensione e
accettazione dell’altro, presupposti indispensabili per lo stabilirsi di un rapporto aperto, all’interno
del quale è più facile per il paziente esprimersi e portare informazioni su di sé, il che a sua volta
aumenta la possibilità di comprensione per l’operatore.
Il paziente trae giovamento dal trovare una persona che sia in grado di contenere le sue emozioni,
che le tolleri, che non ne sia spaventato.
L'origine della sua rabbia e della sua angoscia non spariranno per il solo fatto di aver trovato
ascolto, ma neppure s’imbatterà nei frustranti inviti a fare ricorso al buon senso o in sbrigative
rassicurazioni del tipo "vedrai che passerà” oppure "ogni problema ha la sua soluzione" le quali il
più delle volte generano frustrazione: la comprensione e l'ascolto, invece, possono restituire fiducia
e speranza poiché riducono il senso di solitudine.
Una persona che si sente compresa è disposta a collaborare, perciò il tempo impiegato nell’ascolto
si recupera quando è il momento di chiedere al paziente di impegnarsi e agire.
Si possono individuare una serie di fasi nell’ascolto che possono essere utilizzate per creare un
clima accogliente e di fiducia:
1) Ascolto passivo: momento iniziale dell’interazione in cui si ascolta l’altro in silenzio, prestando
la massima attenzione, senza interromperlo.
Nell'ascolto passivo, i canali di comunicazione non verbale che entrano in gioco più degli altri sono
il contatto oculare (lo sguardo) e la postura aperta e leggermente inclinata in avanti, perché questi
due elementi testimoniano attenzione all’interlocutore.
Altro elemento importante che entra in gioco nell'ascolto passivo è il silenzio (esprime interesse e
accettazione verso l’altro).
2) Messaggi di accoglimento: brevi messaggi verbali (ok, capisco…) e non verbali (sorriso, cenni
con il capo, sguardo attento…) che fanno sentire l’altro ascoltato
3) Inviti calorosi: messaggi verbali non giudicanti che stimolano il soggetto a continuare, ad
approfondire ciò che sta dicendo (dimmi, raccontami meglio…)
4) Ascolto attivo: il ricevente (operatore), rimanda con altre parole, il contenuto del messaggio
verbale che l’emittente (assistito) ha espresso.
Questo permette innanzitutto di verificare se il messaggio è stato compreso, inoltre viene posta
l’attenzione sul contenuto emotivo della comunicazione.
La riflessione del sentimento consiste nell’abilità di cogliere il vissuto emotivo dell’assistito e
rimandarglielo verbalizzandolo; ad esempio: il paziente dice “sono stanco di prendere questi
medicinali, tanto non cambia nulla”, l’operatore risponde “mi sembra che lei si senta molto
sfiduciato, mi rendo conto che non è semplice affrontare questa situazione”.
La riflessione vuol dire “riflettere” come uno specchio il vissuto emotivo che il paziente ci sta
comunicando.
L'atteggiamento empatico determina nell'altro una condizione di abbassamento delle difese
dall’ansia del confronto con l’altro, proprio perché la persona non si sente giudicata e si auto-
esplora più facilmente.
L’ascolto attivo crea un clima di fiducia. In questo clima di fiducia è possibile poi confrontarsi con
l'altro, dire il proprio punto di vista, attraverso l'uso del messaggio in prima persona (“secondo me,
io penso che…” e non “si fa così, è così”).
- utilizzare in primo luogo la propria competenza umana piuttosto che affidarsi ai tecnicismi;
- resistere alla tentazione di fare comunque qualcosa a tutti i costi (in molte circostanze agire
rappresenta più una difesa rispetto alle angosce d’impotenza al contatto con il dolore, che non un
effettivo bisogno; naturalmente da questo discorso vanno tenute distinte tutte quelle situazioni che
al contrario richiedono interventi tempestivi e direttivi);
- se non si sa cosa dire non dite niente;
- astenersi dal dare consigli affrettati, saper aspettare (questo comporta la capacità di tollerare
l’ansia, l’incertezza e il dolore del contatto con la sofferenza, ponendosi in una posizione di
contenimento anziché di reattività alle emozioni in gioco);
- prestare attenzione agli aspetti non verbali della comunicazione che veicolano maggiormente i
significati emotivi e relazionali profondi (gesti, postura, mimica);
- concentrare l’attenzione sul paziente e riportare le sue comunicazioni al “qui ed ora”;
- riconoscere in ogni paziente un individuo unico con caratteristiche sue proprie (generalizzazioni e
stereotipi non solo non aiutano, ma addirittura rischiano di produrre un’immagine distorta delle
caratteristiche del paziente vanificando ogni possibile relazione d’aiuto);
- sforzarsi di mantenere l’attenzione sull’altro senza distrarsi anche nel caso si tratti di temi spiacevoli
o dolorosi;
- ascoltare attivamente, parafrasare, riassumere, porre domande, per evitare fraintendimenti e
comunicare all’altro che ci si sforza di capirlo, in talune circostante è bene esplicitare gli stati
d’animo che sono stati colti con frasi del tipo “mi sembra che questo la faccia soffrire molto”, “mi
rendo conto di quanto sia difficile per lei questo momento”.
5.4 L’OSSERVAZIONE
Vediamo in primo luogo cosa vuol dire “osservare”, considerando questo verbo in relazione con
altri simili: diversamente da “vedere”, un verbo di percezione che non implica intenzione,
“osservare” è un atto intenzionale.
“Osservare” è più di “guardare”. Con il “guardare” condivide l’intenzionalità, ma diversamente dal
“guardare” cerca anche di registrare quanto visto: osservare è un guardare mirato, per mettere a
fuoco ciò che si ritiene significativo e rilevante, ed è insieme un registrare ciò che è rilevante per
uno specifico obiettivo. Saper osservare implica dunque assai più di quanto la parola non
suggerisca: significa imparare a guardare intenzionalmente in modo da poter conservare i dati
osservati, per poterci tornare sopra e riflettere. Per fare questo occorre saper descrivere e nominare
ciò che si osserva, essere perspicui, evitando la generalizzazione e evitare di interpretare troppo
presto, ma osservare lungamente da più punti di vista.
In quanto condotta da una persona che ha sue proprie convinzioni e valori, l’osservazione può
essere “oggettiva”?
L’osservatore, che ne sia consapevole o no, è uno specchio deformato e deformante:
- lo sguardo dell’osservatore è “colorato” dalle sue convinzioni e valori;
- l’osservazione di un aspetto puntuale di una situazione complessa impedisce di cogliere le
relazioni con quanto avvenuto prima: ciò che succede non ha infatti valore in sé, ma all’interno del
contesto, per cui molte sono le cose che rischiano di non essere colte dall’osservatore esterno.
Nell’osservazione, come nell’ascolto, infatti, il rischio è di vedere (e capire) ciò che ognuno vuole
vedere (e capire).
Il metodo dell’osservazione è la tecnica principale per la raccolta di dati nel comportamento non
verbale, per la comprensione delle dinamiche e dei significati dell’interazione.
L’osservazione permette di scoprire i significati che stanno dietro il comportamento di una persona
ed è utile tutte le volte che si desideri un quadro completo ed approfondito di un comportamento in
un ambiente, anche in un lungo periodo di tempo.
Nell’osservazione partecipata, l’osservatore prende regolarmente parte alle attività di chi è
osservato ed ha un ruolo definito all’interno del gruppo (questo è il caso dell’OSS).
- la soggettività (ciò che osservo potrebbe non corrispondere alla verità, è solo quello che le mie
capacità di osservazione permettono di acquisire);
- la non generalizzabilità (una cosa non vale per tutti né per sempre; può succedere che il livello di
aggressività di una persona sia tale solo in un certo momento e solo con certe persone)
- la non standardizzazione delle procedure (non si possono ottenere gli stessi risultati con persone
diverse, ad es. cambiando OSS le dinamiche osservabili nella famiglia di un anziano potrebbero
essere diverse).
5.4.1 L’ANALISI FUNZIONALE DEL COMPORTAMENTO
L’analisi delle cause relative alla messa in atto di determinati comportamenti problematici richiede
un lavoro molto attento, dettagliato e preciso, basato sull’Analisi funzionale (modello ABC) dei
vari comportamenti da prendere in esame, come ben ci suggeriscono i vari approcci basati
sull’Applied Behavior Analysis. Questa tecnica ci permette infatti, di osservare e valutare la
circolarità delle interazioni, delle comunicazioni e delle azioni-reazioni che coinvolgono il
comportamento della persona, quello degli altri e il livello di stimolazioni che il soggetto produce.
A B C
COMPORTAMENTO
EVENTI ANTECEDENTI CONSEGUENZE
PROBLEMATICO
I fattori predisponenti possono essere di varia natura: cause biologiche, sociali o fisiche.
Gli eventi stimolo potrebbero avere la funzione di fuga, attenzione sociale, oggetti concreti,
feedback sensoriali… E, ancora, dobbiamo domandarci se il comportamento problematico è teso
ad ottenere o evitare.
RINFORZI
RINFORZO POSITIVO RINFORZO NEGATIVO
Ottenere qualcosa Evitare qualcosa
Si può intervenire sugli eventi antecedenti, direttamente sul comportamento problema, o sulle
conseguenze, ma la strategie più importante e a lungo termine è senz’altro quella educativa,
l’intervento sostitutivo, che modifica e rimpiazza il comportamento con un altro più appropriato e
in modo più duraturo.
6. L’ASSISTENZA
Per stabilire la complessità assistenziale è necessario fare una stima del tempo necessario da
dedicare ai pazienti, la quantità di professionisti e operatori di supporto,
stimare le competenze necessarie e dare la risposta assistenziale “appropriata” al paziente.
- La persona è autonoma o indipendente quando è in gradi di assolvere, soddisfare le sue necessità
quotidiane; perciò l’assistenza mira a promuovere e mantenere la salute (prevenzione) perché tale
autonomia sia la più elevata e migliore possibile.
-L’auto-assistenza è il contributo di un adulto alla propria esistenza, alla propria salute e al proprio
benessere.
Quando un cambiamento nello stato di salute determina una dipendenza dagli altri, la persona passa
da agente dell’auto- assistenza ad assistito.
In questo caso, la partecipazione alla cura medica, l’essere in grado di applicare delle conoscenze
mediche alla propria cura si definiscono azioni di auto assistenza.
- livello 1: la persona presenta una dipendenza moderata nel soddisfacimento delle necessità a causa
di: scarsa forza di volontà, conoscenza, ragioni psicologiche e/o ambiente sfavorevole.
L’assistenza, anche in questo caso, mira a ristabilire l’indipendenza (l’assistito necessita di un aiuto
maggiore).
- livello 3: la persona presenta una dipendenza totale nel soddisfacimento delle necessità;
l’assistenza mira a ridurre la dipendenza (l’assistito necessita di una supplenza totale per il
soddisfacimento dei suoi bisogni).
6.1 IL BISOGNO
- l’esigenza di un bene necessario agli scopi della vita, che si manifesta abitualmente come
sofferenza per una mancanza (Jervis);
- ciò che è necessario per mantenere il benessere fisico e psichico;
- la condizione in cui una persona avverte la carenza di un bene a cui ha assegnato un valore.
Il bisogno spesso viene confuso con il desiderio (emozione verso uno scopo in cui non è presente
una sofferenza ma un’insoddisfazione) .
Lo psicologo americano Abraham Maslow ha elaborato una teoria dei bisogni, rilevando cinque
gruppi di bisogni fondamentali dell’uomo che, se soddisfatti, portano l’essere umano a svilupparsi
pienamente.
Tali bisogni vengono rappresentati come una scala gerarchica di tipo evolutivo: la soddisfazione del
primo gruppo di bisogni è condizione necessaria per il formarsi di quelli del secondo gruppo e così
fino al livello più alto.
Questa scala di bisogni è suddivisa in cinque differenti livelli, dai più elementari (necessari alla
sopravvivenza dell'individuo) ai più complessi (di carattere sociale). L'individuo si realizza
passando per i vari stadi, i quali devono essere soddisfatti in modo progressivo.
Nella scala delle priorità i bisogni fisiologici sono i primi a dovere essere soddisfatti in
quanto alla base di tali bisogni vi è l’istinto di sopravvivenza, il più potente e universale
motore dei comportamenti sia negli uomini che negli animali. Inutile aggiungere quanto
oltre alla soddisfazione o meno di questi bisogni sia importante anche la qualità di tale
soddisfazione: respirare aria pulita, mangiare cibo sano e genuino, dormire bene, in un
ambiente confortevole e senza stress.
Si tratta dell'aspirazione individuale a essere ciò che si vuole essere sfruttando le nostre
facoltà mentali e fisiche.
Maslow asserisce che gli individui soddisfano i loro bisogni in senso ascendente e che i bisogni di
ogni livello devono essere soddisfatti, quantomeno parzialmente, affinché i bisogni di livello
superiore possano manifestarsi.
Mentre i primi quattro riguardano ambiti di mancanza e la soddisfazione ha a che fare con la
riduzione della tensione, il bisogno di autorealizzazione concerne la crescita personale e comporta
un aumento della tensione, intesa però come attivazione positiva e stimolo per raggiungere qualcosa
di meglio per sé.
Le critiche mosse alla teoria di Maslow riguardano la non generalizzabilità dei bisogni da lui
individuati: la successione dei livelli potrebbe non corrispondere ad uno stato oggettivo
condivisibile per tutti i soggetti.
Il lavoro degli O.s.s non consiste solo nell’aiutare le persone nella soddisfazione dei bisogni
fisiologici, ma anche di quelli ai livelli superiori della piramide di Maslow:
- l’operatore deve prestare attenzione ai tre bisogni centrali della scala, cioè di sicurezza,
appartenenza/affetto, stima, attivandosi durante i momenti di assistenza attraverso i piccoli gesti
quotidiani a favore della loro realizzazione.
- Per i malati affetti da patologie cronico degenerative invalidanti, sarà necessario tener presente il
bisogno di autorealizzazione: queste persone, oltre che di assistenza e aiuto per gli altri bisogni,
hanno bisogno di essere stimolati e rinforzati nel riconoscere le loro parti sane e auto-realizzarsi
negli ambiti delle loro capacità residue.
Virginia Henderson ha sviluppato la sua teoria partendo dalla scala gerarchica dei bisogni di
Maslow ed ha individuato 15 bisogni riferibili al paziente:
1 Respirare normalmente;
2 Mangiare e bere in modo adeguato alle sue condizioni di salute;
5 Riposare e dormire;
7 Vestirsi e svestirsi;
11 Comunicare con gli altri, esprimere i propri sentimenti, bisogni, timori, opinioni;
15 Apprendere, scoprire o soddisfare le curiosità che conducono ad uno sviluppo adeguato, alla
salute e all’utilizzazione delle risorse sanitarie.
L'unica differenza sostanziale che riconosciamo nei due gruppi è che la Henderson ha sviluppato i
bisogni non in una scala gerarchica, come invece ha fatto Ma slow; ma in una sequenza di bisogni
che nella loro totalità portano all'indipendenza. Infatti è proprio la Henderson che indica che se uno
di questi bisogni non viene soddisfatto, l'individuo non è completo e indipendente.
l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) intende il processo assistenziale come un sistema di
particolari attività assistenziali finalizzate alla salute della persona, della sua famiglia e/o di una
comunità.
Un modello di organizzazione dell’assistenza dovrebbe rispettare alcuni principi
- la centralità dell’utente;
- la presa in carico dell’utente;
- la continuità dell’assistenza;
- la partecipazione attiva della famiglia e dell’utente al progetto terapeutico.
1. soddisfare i bisogni primari della persona nell’ambito delle proprie aree di competenza in un
contesto sia sociale che sanitario;
Quando un operatore si trova ad assistere una persona in condizione di bisogno, si trova di fronte ad
una persona che ha perso la sua autonomia magari così duramente conquistata.
Non basta quindi saper svolgere in modo ottimale le operazioni tecniche richieste dalla mansione,
ma occorre continuamente tener conto del senso di frustrazione e di rabbia che può invadere una
persone costretta a chiedere aiuto agli altri per la soddisfazione dei propri bisogni, a volte anche i
più elementari. Ovviamente il livello di frustrazione dipende dalla gravità della menomazione e
dalla possibilità o meno di guarigione o recupero.
Le cure domiciliari sono erogate con modalità diverse, in base all’organizzazione dei servizi
territoriali della ASL; tuttavia, sono generalmente gestite e coordinate direttamente dal Distretto
sociosanitario (DSS) delle Aziende Sanitarie Locali (ASL), in collaborazione con i Comuni. Per le
prestazioni sociali il cittadino deve fare riferimento al Comune di residenza.
La peculiarità della cura domiciliare è la casa, al cui interno la persona è protagonista degli
avvenimenti e delle relazioni e quindi in questo caso, a differenza della struttura residenziale,
l’operatore è l’ospite.
- Perché l’assistenza domiciliare si possa realizzare è indispensabile l’accettazione, da parte
dell’utente, di operatori che gli offrono il loro aiuto.
- L’appartenenza ad un’èquipe è un sostegno efficace per l’Operatore Socio Sanitario, perché
questo lo aiuta a sottoporre al vaglio ed al confronto gli eventi critici, e dunque ricevere
conforto ed indicazioni sui modi più idonei da utilizzare nell’affrontarli.
- L’OSS a sua volta dovrà costantemente riferire tutte le notizie o i rilievi importanti per una
corretta assistenza, eventualmente anche per modificare il progetto assistenziale.
- L’O.S.S. verificherà che l’assistito segua scrupolosamente le terapie prescritte, segnalando
immediatamente qualsiasi dubbio di effetto collaterale e qualsiasi variazione dei parametri
della salute eventualmente riscontrati;
- egli cercherà il più possibile di coinvolgere attivamente l’assistito, salvaguardandone e
sviluppandone l’autonomia residua e sarà particolarmente attento alle esigenze di
socializzazione.
- Accudire il malato nella sua casa, provvedendo ogni giorno alla pulizia del suo corpo, alla
preparazione dei pasti, alla pulizia degli ambienti, porta a sviluppare grande confidenza e fa
dunque crescere un legame affettivo.
Per quanto grave sia la patologia, la prospettiva dell’utente ospedalizzato è la guarigione parziale o
totale (ad eccezione del malato terminale) e il ritorno nella propria abitazione con la ripresa delle
proprie abitudini.
L’OSS deve dare all’utente una grossa spinta nel pensare che presto l’ospedalizzazione resterà solo
un ricordo del passato e supportarlo, insieme alla famiglia e agli altri operatori, affinchè si attivi in
lui la voglia di guarire. L’OSS dovrà tener conto naturalmente di possibili momenti di sconforto e
continuare a sostenere il morale dell’utente.
Ecco perché si parla di relazione empatica con l’utente, cioè una relazione che supera la freddezza
e l’anonimato che per tanti anni hanno connotato le relazioni all’interno degli ospedali.
Gli utenti vanno aiutati a trovare la via più congeniale alla propria situazione:
• Un utente con possibilità di guarigione va orientato verso il recupero, facendo leva sulle
prospettive legate al futuro.
• Un utente con poche o nessuna prospettiva di guarigione va aiutato ad accettare la propria
condizione, riorganizzando la sua vita in base alle nuove necessità e ricercando quegli
aspetti positivi che, seppur minimi, ogni condizione di vita può offrire.
Diamo un breve cenno a quelli che sono i diversi tipi di utenza con cui l’operatore socio
sanitario dovrà interagire. Bisogna ricordare sempre che ogni utente è diverso dall’altro:
esistono informazioni teoriche che possono orientare l’operatore, ma la relazione va costruita
soggetto per soggetto sulla base della relazione.
La demenza è tra le patologie più frequenti nella popolazione anziana, si tratta di una malattia
cerebrale che solitamente esordisce in modo subdolo e ha un andamento progressivo.
La prevalenza in Italia tra gli ultrasessantacinquenni è di 6,4 casi per 100 abitanti (circa 900.000),
nel mondo
24 milioni di persone sono affette da demenza, destinate ad aumentare a 42 milioni nel 2020
La demenza causa una compromissione delle funzioni cognitive (come la memoria, il
ragionamento, il linguaggio, la capacità di orientarsi e di svolgere compiti complessi) che è in grado
di pregiudicare la possibilità di vivere in modo autonomo;
oltre ai sintomi cognitivi compaiono anche alterazioni della personalità e del comportamento
come ansia, depressione, ideazione delirante, allucinazioni visive, facile irritabilità, aggressività,
insonnia, apatia, tendenza a comportamenti ripetitivi e senza scopo, alterazioni dell’appetito e
talvolta modificazioni del comportamento sessuale.
La forma di demenza più frequente (oltre il 50% dei casi)è la malattia di Alzheimer, seguita dalla
demenza vascolare (cioè una demenza secondaria ad un ictus) e dalle forme miste, che insieme
costituiscono il 30-35% delle demenze.
Nelle fasi iniziali il deterioramento coinvolge le funzioni più complesse: la capacità di gestire il
denaro, la casa, assumere i farmaci, utilizzare i mezzi di trasporto.
Con la progressione della malattia viene successivamente persa anche la capacità di svolgere
attività più semplici come curare l’igiene personale,vestirsi, lavarsi o muoversi e pertanto il
paziente diventa disabile e dipendente dall’aiuto di altre persone.
I sintomi autoriferiti:
il paziente che inizia a prendere coscienza della riduzione delle sua capacità di memoria e di quanto
ciò influisca sulla sua normale efficienza nel gestirsi la vita, può avere reazioni emotive diverse.
La negazione:
una delle modalità più tipiche adottate nei confronti della condizione di malattia dai pazienti che
iniziano a soffrire di demenza è la negazione dei loro deficit.
Attaccamento patologico:
il senso di insicurezza che si accompagna all'aggressione della malattia può portare il paziente alla
sensazione di una totale incapacità a gestire la propria vita e questo può indurlo a una totale
dipendenza dai familiari, anche per le cose più semplici che ha sempre fatto e che ancora saprebbe
fare autonomamente.
Problemi gestionali:
anche se la persona malata ha la necessità di essere accudita attraverso un’assistenza esterna, molto
spesso oppone forte resistenza ad accettare che degli estranei invadano il suo spazio fisico gestito da
anni in modo indipendente.
Aggressività
Può manifestarsi sia come aggressività verbale (insulti, parolacce,bestemmie, linguaggio
scurrile) che, più raramente, sotto forma di aggressività fisica (graffi, sberle, morsi, lancio di
oggetti).
Queste manifestazioni, anche se compaiono improvvisamente e non sembrano apparentemente
causate da eventi specifici, costituiscono molto spesso una vera e propria reazione difensiva del
malato verso qualcosa che viene interpretato come una minaccia. Non va dimenticato che chi
è demente non è in grado di capire pienamente ciò che accade intorno a lui o ciò che gli si
richiede.
Che cosa fare?
• Non sgridate il malato, non capirebbe: in realtà la sua rabbia non è rivolta contro di voi ma è
una manifestazione del suo disagio o della sua paura;
• Riducete al minimo le situazioni che possono essere vissute come minacciose dal malato;
cercate di non contraddirlo in quanto la sua tolleranza alle frustrazioni è molto ridotta
• Proponete le cose con calma e/o aspettate un momento adeguato .
Il bambino che necessita di assistenza vive una condizione di disagio. Si può trattare di:
- una situazione provvisoria (ricovero in ospedale);
- bambini costretti a vivere lunghi periodi in comunità alloggio e quindi bambini che non
hanno una solida struttura di base, che hanno sofferto di qualche forma di deprivazione. In
tal caso potrebbero attuare comportamenti basati tanto su una richiesta affettiva totalizzante
o al contrario un totale rifiuto ad interagire con l’operatore.
E’ importante Conoscere I BISOGNI nelle fasi evolutive dei bambini:
Nel primo anno di vita:
- Ambiente sereno
- Nutrizione idonea
- Sviluppare relazioni affettive positive
- Sicurezza
In età scolare:
- Sviluppare relazioni positive con i pari
- Sviluppare l’indipendenza
- Supporto delle figure parentali
In età adolescenziale:
- Buona relazione con i genitori e con le figure significative;
- Aiuto nel cercare la propria identità personale;
- Guida e sostegno nelle scelte di vita
Inoltre, bisogna creare una relazione col bambino utilizzando le modalità comunicative più
adatte:
Utilizzo di fiabe metaforiche: possono essere utilizzate per cercare di convincere il bambino
a fare qualcosa che non vuole fare
- Viene raccontata al bambino una storiella attraverso la quale il piccolo si potrà identificare
con il protagonista andando così a sbloccare la situazione senza sforzi.
Gioco: la varietà è molto ampia, si possono fare attività giocose per rendere più piacevole
al bambino le pratiche d’assistenza
L’adolescenza è una fase di cambiamento del ciclo vitale umano; tale cambiamento investe diverse
aree:
Somatica
Dello sviluppo cognitivo
Delle emozioni e dei sentimenti
Dell’acquisizione dell’identità
I giovani pur apparentemente “simili” non sono, da un punto di vista sociale una categoria omogenea.
Per essere d’aiuto agli adolescenti, si possono seguire tre principi generali:
1. Informare
-su ciò che loro vogliono sapere
-esprimere sempre la nostra opinione e soprattutto i nostri sentimenti ma lasciare che poi ci sia il
tempo di riflettere ( non forzarli ad ingoiare senza masticare)
-essere onesti e autentici e cercare di spiegare il percorso attraverso il quale si è arrivati a certe
convinzioni o conoscenze
2.Incoraggiare
-ascoltare e prestare attenzione ai loro sentimenti
-non accumulare microesperienze negative
-aiutare i ragazzi a incoraggiarsi da soli ( spesso sono ipercritici verso se stessi)
3.Riconoscere
-evidenziare i comportamenti positivi ed esprimere apprezzamento personale
-non vuol dire adulare o lodare
La fase terminale della vita costituisce un momento specifico in cui diventano importanti una serie
di interventi terapeutici ed assistenziali definiti cure palliative:
sono tutte quelle cure destinate a migliorare la qualità di vita e non orientate a controllare il
processo evolutivo della malattia.
Le strutture dedicate all’assistenza palliativa o di supporto:
Hospice
Assistenza domiciliare integrata (ADI)
Il malato terminale è diverso da ogni altro paziente perché sperimenta una sofferenza continua e
ingravescente definita dolore totale che consiste nell’insieme di sofferenza fisica, psichica,
spirituale.
Assistere il malato terminare vuol dire introdurre il tempo del morire nella relazione: abitarlo con la
parola e la presenza per aiutare la persona a vivere in maniera degna, capire i suoi bisogni,
proporzionare le cure.
L’OSS con il malato terminale dovrebbe prefiggersi di:
COSA E’ LA DIVERSITA’?
E’ la constatazione di una particolare situazione esistenziale che pone la persona in condizioni
di svantaggio e, a volte, nell’impossibilità di condurre un’esistenza autonoma.
Le principali fonti di diversità che possono interessare un OSS riguardano:
Disabilità e malattie invalidanti;
Condotte devianti (tossicodipendenza, alcolismo)
Gli handicap: “il portatore di handicap è colui che presenta una minorazione fisica,
psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento,
di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio
sociale o di emarginazione“
I deficit che portano all’handicap possono essere di tre tipi:
1 Area sensoriale/ricettiva - cecità, sordità
2 Area motoria - paralisi (tetraplegia, paraplegia, emiplegia), distrofie muscolari
3 Area neuropsichica - ritardi mentali, deficit intellettivi, insufficienza mentali (sono diverse
dalle malattie mentali), autismo infantile precoce, sindrome di Down.
In molti popoli il portatore di handicap ha avuto un trattamento inumano, incivile, inadeguato.
Ora invece si riconosce il diritto ad una vita normale anche per queste persone. La società ha il
dovere di prestare aiuti per favorire l’autonomia e l’inserimento sociale dei diversamente abili.
L’assistenza ai diversamente abili
È impossibile poter aiutare i diversamente abili se non c’è un rapporto personale. Ci sono 4
fasi importanti:
1. osservazione - contatto personale- emotivo, attenzione ai particolari;
2. cartelle - raccogliere i dati secondo le diverse aree (motoria, sensoriale e psichica);
3. progetto individualizzato - attraverso i dati e l’osservazione si individuano i bisogni e gli
obiettivi da raggiungere costruendo un piano assistenziale individualizzato o piano educativo
individualizzato;
4. programmazione - si organizzano in concreto gli interventi (igiene personale, abbigliamento,
alimentazione, sonno, salute, riabilitazione, attività di relazione).
Condotte devianti
La devianza è la condotta di chi viola le regole giuridiche, religiose, morali o sociali della
comunità in cui vive; spesso vengono etichettati come devianti anche i comportamenti diversi
da quelli accettati dalla maggioranza. Al concetto di devianza è legato quello di controllo
sociale: la devianza è percepita come una minaccia per la collettività e per neutralizzarla
vengono messi in atto meccanismi di prevenzione, repressione e punizione.
Le principali condotte devianti:
• Delinquenza
• Tossicodipendendenza
• Alcolismo
Sono condizioni da cui ci si può riabilitare; le cause principali sono da ricercare nella storia di vita e
nell’ambiente in cui il soggetto è cresciuto
Per aiutare queste persone è necessario: abbandonare tutti i possibili giudizi morali sulle scelte di
vita e accompagnare l’assistito nel difficile cammino della riabilitazione, sostenendolo nei momenti
di ricaduta e di debolezza.
7 IL BURNOUT
Il termine burnout può essere tradotto con “bruciato, esaurito” ed esprime metaforicamente il
bruciarsi dell’operatore dal punto di vista psico-fisico; il lavoratore non riesce più a portare a
termine la sua attività come ha sempre fatto e lentamente si “brucia” nel cercare di adattarsi alle
difficoltà presenti quotidianamente nell’ambiente di lavoro; esegue le proprie mansioni
svogliatamente, con grande fatica, senza entusiasmo o con eccessivo coinvolgimento.
Il burnout colpisce soprattutto le professioni di aiuto e quelle socio-sanitarie: la relazione diretta tra
operatore e paziente e quindi l’esposizione continuativa alla sofferenza e alla morte, possono
generare un pesante carico emotivo;
inoltre la disorganizzazione spesso presente nelle istituzioni nelle quali si lavora alimenta lo stress
sperimentato.
Nel burnout la persona sperimenta tre condizioni:
1. Esaurimento psico-fisico: al risveglio al mattino è più stanca del giorno precedente, si sente
senza energia e senza motivazione anche nell’affrontare gli impegni più semplici;
2. Inefficienza: essendo esaurita e facendo fatica ad attivarsi, si sente soggettivamente
inefficiente;
3. Cinismo: diventa distaccata nei confronti del lavoro e delle altre persone; questo è un
tentativo di proteggersi dal malessere che vive nell’ambiente lavorativo
Per cui, se ci si trova in un tale stato di insoddisfazione non è corretto stringere i denti e andare
avanti, ma è necessario fermarsi ed analizzare la propria situazione per individuare le possibili
cause e quindi la strada per la risoluzione dei problemi.
- Distribuire tra i membri dello staff i compiti più difficili e meno gratificanti ed esigere dallo staff
che lavori in più di un ruolo e programma;
-Pianificare ogni giorno in modo che le attività gratificanti e quelle non siano alternate;
8 IL LAVORO DI GRUPPO
Il gruppo è :un insieme di persone che interagiscono tra loro facendo riferimento a modelli comuni
di comportamento che si ritengono parte del gruppo inteso come un insieme omogeneo.
È importante per il lavoro del gruppo stesso:
-il clima che si respira, le norme effettive, la sua coesione interna, la possibilità che i diversi
componenti possano risolvere costruttivamente eventuali conflitti o contrasti che insorgono tra di
loro.
All’interno di ogni gruppo ci sono degli individui che assumono sia spontaneamente, sia per
nomina, il ruolo di guida(leadership): questi hanno il compito di indirizzare gli altri al
raggiungimento degli obiettivi, essendo egli capace di richiamare gli altri al riconoscimento e
condivisione delle regole.
8.1 L’EQUIPE
Cos’è l’equipe?
Lavorare in equipe implica che non è una sola figura professionale che si occupa del paziente, né
che molte figure se ne occupano indipendentemente l’una dall’altra, in maniera separata ma
significa che la cura viene effettuata da un gruppo “integrato”, cioè persone che lavorano in modo
armonico tra loro e condizionano il proprio lavoro attraverso una continua correlazione con gli altri,
fatta di scambi, confronti, suggerimenti.
L’équipe assistenziale è formata da figure che collaborano fra di loro per raggiungere insieme un
obiettivo comune che consiste nel rispondere in modo soddisfacente al bisogno dell’utente (anziano,
handicappato, disabile psichico, ecc..). La persona esce quindi dal ruolo di oggetto passivo
dell’assistenza e si pone al centro del gruppo, quale componente principale del team e al tempo
stesso destinatario delle cure.
Il lavoro d’équipe è indispensabile per offrire un’assistenza che corrisponda sempre più
all’esigenze del paziente in quanto la multidisciplinarietà del gruppo fa sì che l’individuo venga
considerato non limitatamente alla sua patologia, al suo schema di terapia o all’intervento
assistenziale necessario, ma in modo globale perché l’uomo deve essere valutato come entità unica
anche se manifesta problemi e bisogni differenti fra loro. Le figure dell’equipe assistenziale sono:
1) Medico
2) Psicologo
3) Assistente Sociale
4) Infermiere Professionale
5) Fisioterapista