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L’INIZIO DELLA MUSICA OCCIDENTALE.

L’EPITAFFIO DI SICILO.

(BREVE GUIDA ALL’ASCOLTO)

di Giulio Andreetta

Εἰκὼν ἡ λίθος «Un'immagine, la pietra,


εἰμί· τίθησι με [io] sono; mi pone
Σείκιλος ἔνθα qui Sicilo,
μνήμης ἀθανάτου di un ricordo immortale
Σῆμα πολυχρόνιον segno durevole.»
Ὅσον ζῇς φαίνου· «Finché vivi, mostrati al mondo,
μηδὲν ὅλως σὺ λυποῦ· non affliggerti per niente:
πρὸς ὀλίγον ἐστὶ τὸ ζῆν. la vita dura poco.
τὸ τέλος ὁ χρόνος ἀπαιτεῖ. Il tempo esige infine il suo tributo.»

Il primo brano musicale completo dell’Occidente è costituito da una breve epigrafe, e


appare estremamente significativo sia il contenuto testuale che quello musicale.
L’Epitaffio di Sicilo fu ritrovato nella città di Aydin, nella costa occidentale della
Turchia nel 1883 dall’archeologo William Ramsay.
Si tratta di un testo completo, ma brevissimo, che rappresenta bene la drammatica
visione che nell’antichità precristiana era riservata alla morte, considerata, forse
giustamente, “la fine di tutto”. Questo epitaffio si colloca per gli esperti tra il II secolo
a. C. e il I secolo d. C., ma è in tutto e per tutto simile alle epigrafi precristiane di
epoca romana che si incontrano un po’ ovunque in Italia. In tutte queste accoranti
testimonianze domina una poesia di livello elevatissimo: la consapevolezza dello scorrere
del tempo, la disperazione per l’inevitabilità dell’incontro con la morte, e l’amore e
l’affetto dei familiari per coloro che non potranno più tornare assieme a loro. E in brevi
sprazzi di poesia sembra veramente per chi legge di incontrare alcuni uomini in carne e
ossa, in tutta la loro singolarità irripetibile di esseri umani. Ma in questi testi domina
sempre un accorante consiglio a non affliggersi per nulla, dal momento che la vita è
breve. Indubbiamente per l’uomo contemporaneo leggere queste testimonianze può
rappresentare un’esperienza forse molto intensa, e può sbalordire il tono sempre molto
accorato e allo stesso tempo tragicamente nostalgico e malinconico che emerge da questi
brevi racconti poetici, spesso di ottimo livello letterario. Ma la distanza dai nostri
antenati nella concezione della morte appare in ogni caso abissale, anche per coloro che
si professano atei. Infatti il cristianesimo sembra, a dispetto delle convinzioni di ognuno,
aver arrecato all’uomo occidentale un poco di speranza nella possibilità reale di
un’esistenza al di là della morte. Per gli antichi, invece, la vita ultraterrena era solo un
miraggio mitico o favolistico, ma non frutto di una reale convinzione in questo senso. Vi
era certamente l’Ade, il leggendario mondo ultraterreno e sotterraneo nel quale
dimoravano i defunti, ma il racconto mitico aveva valenza allegorica, non certamente di
fede. Sostanzialmente la religione per i Greci e per i Romani appariva come un
momento di condivisione istituzionale di alcuni valori, ed aveva dunque una forte
funzione di coesione sociale, e di prescrizione normativa, non aveva dunque valenza di
verità metafisica o naturale.
E proprio per questa ragione la lettura per l’uomo contemporaneo di questi brevi
frammenti poetici può essere un’esperienza del tutto nuova e forse anche emotivamente
straordinaria. È proprio infatti dalla lettura di queste testimonianze che emergono in
tutta chiarezza le metamorfosi radicali che il cristianesimo ha introdotto nella mentalità
di ognuno, atei compresi. Muovendosi nel solco di queste argomentazioni appare d’uopo
riprendere l’arguto saggio di Benedetto Croce Non possiamo non dirci “cristiani” , nel
quale in effetti si mette l’accento sul fatto che a prescindere dalle proprie convinzioni
individuali non possa esser negato il valore culturale e sociologico del cristianesimo
all’interno della storia occidentale. Se il cristianesimo non avesse avuto luogo come
fenomeno culturale e sociale all’interno dell’Occidente, la morte probabilmente
continuerebbe ad assumere un aspetto angoscioso, del tutto tragico e allarmante. Ricorre
infatti in queste testimonianze la parola “sconfitta” in riferimento alla morte, la quale
non viene quasi mai “accettata” serenamente, anzi quasi sempre considerata come
“nemico”. Ma allo stesso tempo queste scritte dovevano esser intese anche come un
monito per i vivi, per continuare a vivere in modo virtuoso (attenzione che la virtù per
questi nostri antenati non era intesa certamente in modo cristiano), assaporando
l’istante, l’attimo.
Non farò l’errore di esprimere una mia valutazione soggettiva e di valore riguardo
alla contrapposizione storica tra queste due “visioni del mondo”, quella precristiana e
quella cristiana. Il tema appare troppo complesso, e destinato a riguardare in modo
troppo vicino e intimo la sensibilità e le convinzioni soggettive di ognuno per essere
affrontato pubblicamente in uno scritto. Inoltre, in un tema così di rilievo come quello
del mistero della morte, appare elegante esimersi dall’esprimere giudizi troppo netti e
apodittici, essendo per definizione la morte appartenente al mondo dell’inconoscibile. E
però, nel caso dell’ascolto della musica dell’Epitaffio di Sicilo, ancora una volta sembra
emergere la dolorosa consapevolezza del passaggio del tempo, un dolore senza nome, e
un lutto che - proprio perché ci si trova di fronte alla totale assenza di alcun conforto o
reale speranza - appare difficile da elaborare. Il valore della musica, se si procede
all’ascolto, appare indubitabile e allo stesso tempo ci trasporta in un mondo
completamente diverso da quello di oggi, un mondo nel quale le persone erano forse più
geniali, più intelligenti, più “poetiche” di quelle di oggi, ma certamente erano più
disperate, e completamente paralizzate e impaurite di fronte al mistero della morte (dire
ciò non significa ovviamente dare una connotazione negativa a questo dato di fatto, che
anzi potrebbe essere elogiato come forma di esaltazione di un’immanenza che porti
l’uomo a tentare il tutto e per tutto in questa vita e non in una chimera ultraterrena).
Questa melodia appare in effetti permeata - malgrado quello che oggi verrebbe definito
il modo maggiore (in realtà è scritta nel modo frigio, secondo il sistema modale degli
antichi greci) - di disperazione, di contemplazione nostalgica e malinconica di un tempo
ormai perduto per sempre. La poesia certamente appare di notevole livello, e Seikilos, il
misterioso committente dell’opera (non si sa se l’epitaffio sia certamente un’epigrafe
funeraria, forse per la moglie Euterpe), appare riuscito perfettamente nell’intento, se
questo effettivamente era, di eternare il suo nome e quello della sua consorte attraverso
un “ricordo immortale”, come si legge nell’epigrafe stessa. Ed infatti per il mondo
antico l’unica speranza di sopravvivenza era affidata alla gloria eterna e al ricordo degli
uomini, ne è un’altra testimonianza il caso del criminale Erostrato, che per eternare il
suo nome nel ricordo degli uomini addirittura diede fuoco al tempio di Artemide ad
Efeso.
Dal punto di vista musicale la melodia si sviluppa in modo simmetrico con due
semifrasi da quattro battute ciascuna. Curiose le formule cadenzali conclusive, in special
modo l’ultima, affatto distanti da quelle del sistema modale medievale. Da notare che
nel sistema modale non esiste la sensibile, e quindi l’ipotetico sol diesis di una
altrettanto ipotetica tonalità di la maggiore (come si potrebbe evincere dalla lettura del
frammento di fig. 1), non esiste: al suo posto un sol naturale, che conferisce agli orecchi
dell’ascoltatore moderno un attributo esotico e non comune.

Figura 1: Epitaffio di Sicilo, trascrizione moderna della notazione alfabetica originale.

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