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Introduzione

Alda Giuseppina Angela Merini è una fra le maggiori poetesse e


scrittrici italiane del Novecento. Le è stata assegnata una laurea honoris
causa dall’università di Messina in teorie della comunicazione e dei
linguaggi. Nel 1993, la scrittrice ha ricevuto il premio Librex Montale
con un assegno di 35 milioni di lire. Nel 1996 ha vinto il premio
Viareggio e, nel 1997, il Premio Procida-Isola di Arturo-Elsa Morante.
Nel 2001 la Merini è stata ufficialmente candidata dal Pen Club per il
premio Nobel.

Alda Merini nasce a Milano nel 21 marzo 1931 da una


famiglia modesta. Il padre, Nemo (1901-1955), lavorava come
assicuratore a Milano. La madre, Emilia Painelli (1901-1959), era
casalinga. Alda Merini aveva una sorella maggiore, Anna (1926) e un
fratello minore Ezio (1943).

L’amore per lo scrivere per la Merini è iniziato sin da un’età


matura: già a otto anni lei esercitava leggendo la Divina Commedia.
E nel 1941, quando lei aveva 10 anni, ha vinto un premio da Maria
Josè del Belgio, per essere stata la migliore piccola poetessa in Italia,
insieme a un “Libretto della Cassa di Risparmio” di mille lire. A soli
quindici anni, la Merini esordisce come poetessa con la raccolta di
poesie La Presenza di Orfeo (1953). Infatti, Il primo a scoprire la
1
scrittrice era Giacinto Spagnoletti, e grazie a lui si è fatta così parte di
una cerchia di amici letterati fra cui Giorgio Manganelli, Luciano
Erba, David Maria Turoldo, Maria Corti, frequentando il salotto
culturale che lui formava a casa sua.

Il rapporto tra Alda Merini e la madre era conflittuale. Lei era,


infatti, una madre fascista e aveva un carattere severo, autoritario e
rigoroso.

La figura della madre provocava un complesso di sentimenti


contraddittori nell’anima della Merini, come aver paura di lei e provare
un sentimento d’inferiorità, ma nello stesso tempo amarla e ammirare la
sua superbia. La scrittrice, da piccola, le piaceva giocare da povera: si
vestiva poveramente e chiedeva l’elemosina dietro casa sua. Certo la
madre, a vederla così, la picchiava, non comprendendo che questo gioco
era solo un bisogno di ricevere amore incondizionato da lei.

L’attenzione della madre si manifesta solo nel dare alla figlia


delle vitamine per farla sembrare piena di salute, degna dell’amata e
rispettata patria, ma questo era inutile per la figlia perché la madre non si
accorgeva di quanto soffriva da dentro. L’autrice racconta in una sua
opera autobiografica, Delirio amoroso (1989), dicendo:

Mia madre guardandomi diceva: “Hai dei fianchi ben


piantati. Sarai una buona terra.” Una buona terra, già. Una
2
buona terra da fecondare. Ma avevo anche uno spirito e
forse di questo mia madre non si accorse..1

Si ricordi che in un manuale di economia domestica di Eugenia


Graziani Camillucci del 1935 uno tra i messaggi rivolti alle madri
fasciste è: le madri sono lo strumento dello stato per radicare i valori
fascisti grazie al ruolo educativo nelle famiglie che compongono. Per
questo la madre di Alda Merini non permetteva alla figlia di acculturarsi
a modo suo. Così la scrittrice ne parla nella Pazza della porta accanto:

Era figlia di una maestra, veniva da una famiglia colta, ma


non voleva neppure sentir nominare la parola “cultura”2

Alda Merini, da piccola, era molto curiosa e ostinata a imparare.


Nonostante gli ostacoli che la madre imponeva a lei per non avvicinarsi
alla biblioteca paterna che si trovava a casa, lei raccontava di riuscire,
alla fine, a rubarne i libri, il fatto che le procurava un continuo senso di
colpa. Già in Reato di Vita (1994), che è un’altra opera autobiografica
della scrittrice, lei si ricorda così:

Venivo quasi sempre castigata per queste mie “rapine di


cultura”[...]. La mia salute soffrì terribilmente di questi

1
Alda Merini, Delirio amoroso, Genova, Il Melangolo, 1989, pp. 4-5.
2
Alda Merini, La pazza della porta accanto, Milano, Bompiani, 1995, p. 139.

3
sforzi mentali e soprattutto cominciai a sentire i primi sensi
di colpa.3

Nella prima opera in prosa di Alda Merini L’altra verità. Diario


di una diversa (1986), la quale sarà analizzata in questa tesi, è
menzionato un riferimento alla teoria di Sigmund Freud, che è il
complesso di Elettra come quella di Alda Merini con sua madre che era
un rapporto pieno di “tribulazioni interiori con un morboso attaccamento
alla madre”4. A tale proposito commenta Luisella Brusa sulla natura del
rapporto tra madre e figlia descrivendolo come una forma di ambivalenza
fatta di “odio intriso di amore”:

Se la bambina investe il padre come oggetto d’amore, la


gelosia prende il posto dell’invidia e la madre diventa
rivale. […] La gelosia, così importante nella vita femminile,
ha la funzione positiva di sublimare l’invidia, che sarebbe
assai più distruttiva5

Alda Merini dichiara che quando era piccola, aveva una crisi
d’identità sessuale, cioè rifiutava la sua identità femminile. Ciò è dovuto
come conseguenza alla società patriarcale che dava più valore all’entità
maschile, e alla madre che si comportava in modo instabile, mascolino e
pragmatico, trascurando le emozioni necessarie per formare un carattere
3
Alda Merini, Reato di vita. Autobiografia e poesia, a cura di Luisella Veroli, Milano, La Vita Felice, 1994, p.
14.
4
Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, Milano, BUR, 2013, p.26.
5
Luisa Brusa, Mi vedevo riflessa nel suo specchio. Psicoanalisi del rapporto tra madre e figlia, Milano,
FrancoAngeli, 2004, p. 26.
4
femminile equilibrato. Lei ricorda che quando era piccola, voleva,
inconsciamente, essere maschio per sentirsi più apprezzata e quando le
sono venuti i primi segni della pubertà femminile, si è scioccata perché
ha scoperto di essere donna uguale a sua madre che la faceva soffrire.
L’episodio ha traumatizzato la piccola e siccome non poteva fuggire da
casa sua , fuggiva patologicamente da se stessa e dal suo corpo, nella sua
nevrosi:

Quando comparvero le mie prime mestruazioni, il mio


inconscio rimase altamente mortificato. Per lunghi anni si
era ritenuto maschio e ad un tratto scopersi che ero donna e
donna in tutto simile alla madre, quella stessa madre del
complesso edipico.6

Nel 1959 muore la madre, e la Merini, avendo un’anima così


fragile, il suo esaurimento si è fatto più pesante.

Al contrario del rapporto tra Alda Merini e sua madre che era
pieno di rabbia, confusione e senso di colpa, il rapporto con il padre era
pieno di tenerezza, affetto, serenità e fiducia.

Il padre Nemo era di statura media, buono, colto, taciturno,


sognatore. Incoraggiava la figlia a leggere e grazie a lui si è appassionata
all’arte e alla letteratura. Quando la scrittrice aveva cinque anni il padre

6
Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit., pp. 44-45.
5
le ha regalato un vocabolario, e ogni sera gli chiedeva il significato di
dieci parole; in più entravano insieme in biblioteca e leggevano versi
dalla Divina Commedia.

Nonostante il rapporto affettuoso con il padre, Nemo Merini era


visto dalla figlia come una persona debole e distratta, sembra di essere,
anche lui, afflitto dall’autorità di sua moglie. Di conseguenza, ci sono
alcune situazioni deludenti per la figlia come quello di impedire alla
figlia, seguendo la decisione della moglie, il proseguimento degli studi
dopo la nascita del fratello maschio. Alda Merini si sentiva delusa, non
solo dal carattere indifferente del padre riguardo lo studio a lei molto
caro, ma anche dalla società patriarcale del tempo che dava più
importanza alle esigenze del figlio maschio allo scapito della femmina.
Così Alda Merini racconta dicendo:

La demenza era insorta così, un giorno, quando mia madre,


nascendo mio fratello, mi disse: “Non puoi più studiare: è
nato il maschio.” Il maschio a quei tempi era sacro. Il
maschio doveva assorbire tutte le riserve morali e fisiche
della famiglia e dell’ambiente.7

Il padre ha messo giù la figlia, ancora una volta, quando ha


strappato una sua poesia scritta proprio da lei, a quindici anni, dicendole
che scrivendo poesie non “dà il pane”.

7
Alda Merini, Delirio amoroso, op. Cit., p.5.
6
Infatti, la famiglia della Merini, come tutte le altre del tempo, non
poteva incoraggiare le passioni delle figlie, soprattutto che le figlie
venivano programmate sin dall’infanzia ad adottare i ruoli femminili
comuni e a rispettarli. Il fatto che le figlie diventassero autonome o
famose non era semplice come oggi:

In effetti, il talento di una figlia particolarmente dotata


costituiva una minaccia per il conformismo borghese. Un
conto erano le capacità atte a valorizzare i ruoli tradizionali
femminili; un’altra faccenda era se il talento diventava
fonte di indipendenza.8

Nel 1955 muore il padre d’improvviso a causa di un infarto


mentre mangiava. La sua morte è stata ovviamente tremenda per la
scrittrice.

Ai primi degli anni quaranta è scoppiata la seconda guerra


mondiale in Italia, e nel 1942 Roma e Milano erano considerate città
insicure. Nel 1943, quando la Merini aveva 12 anni, la città di Milano è
stata colpita da un forte bombardamento:

La gente urlava e si dimenava, i bambini strillavano per la


paura. Arrivati nel Novarese ci buttammo per terra nei
campi mentre le bombe fioccavano da tutte le parti.9

8
Victoria De Grazia, Le donne nel regime fascista, Venezia, Marsilio, 1993, p. 177.
9
Alda Merini, Reato di vita, op. Cit., p. 25.
7
In seguito al bombardamento tante persone sono scappate sul
primo carro e sono approdate a Vercelli, nelle risaie in quanto le bombe
non scoppiano sull’acqua. Ci sono rimaste sole la piccola Merini e la
madre che era incinta. La Merini ha aiutato la madre a portare alla luce il
fratello maschio, mentre il padre e la sorella maggiore erano a Milano a
cercare gli altri.

Non andavo a scuola, come facevo ad andarci? Andavo


invece a mondare il riso, a cercare le uova per quel
bambino piccolino: badavamo a lui, era tutto fermo, c’era la
guerra.10

La famiglia rimane poi nella provincia di Novara, a Cerano, e in


seguito a Casale Monferrato. La Merini passava le sue giornate a
mondare il riso e ad aiutare la mamma a badare il neonato, e nel
frattempo prendeva lezioni di pianoforte: “Studiavo al piano sei ore al
giorno ed ero talmente curvata per la fatica della monda e del piano che
sembravo una contadina. Uscivo al mattino a piedi scalzi e tornavo a sera
tarda”11.

Nel 1946, dopo la guerra, la famiglia Merini è rientrata a Milano,


ma la piccola Alda è stata colpita dall’anoressia, provocata dalla scarsa
alimentazione nei tempi della guerra, ma non solo, la scrittrice ha
cominciato a soffrire anche dalla cecità isterica. Così lei racconta le

10
http://www.aldamerini.it/?page_id=8, cliccato il 5 giugno 2021, ore 14.
11
Alda Merini, Reato di vita, op. Cit., p. 26.
8
povere condizioni che ha vissuto, insieme alla famiglia, al ritorno a
Milano, dopo la guerra:

[...] ci siamo accampati in un locale praticamente rubato, o


trovato vuoto, di uno straccivendolo. [...] In questo stanzone
stavamo tutti e cinque, accampati, con delle reti12

Alda Merini racconta di aver avuto due amanti quando era


adolescente: il primo era Giorgio Manganelli e il secondo era Salvatore
Quasimodo, ma con nessuno dei due lei poteva avere un vero e proprio
rapporto amoroso, in quanto adulti, sposati e avevano già le loro
famiglie.

Nel 1953, a ventidue anni, Alda Merini si è sposata con Ettore


Carniti, spinta dalla madre e dalle difficili condizioni di vita di
dopoguerra, un matrimonio che fungi da essere l’unica via d’uscita. Lei
definisce tale matrimonio ne La pazza della porta accanto (1995) come
“un matrimonio cercato per sfuggire alla bramosia dell’esistenza che
voleva la mia carne”13 .

Ettore Carniti era un uomo modesto, pragmatico, molto geloso,


una persona per bene, poco interessato alla letteratura, un campo
particolarmente amato dalla moglie scrittrice. Da lui Alda Merini ha

12
http://www.aldamerini.it/?page_id=8, cliccato il 9 luglio 2021, ore 17:00.
13
Alda Merini, Reato di vita, op. Cit. p. 27.
9
avuto quattro figlie che sono state adottate, poi, da altre famiglie, per il
prolungato ricovero della madre presso l’ospedale psichiatrico di Paolo
Pini: Emanuela (1955), Flavia (1958), Barbara (1968) e Simona (1967).

Dopo la morte del marito, nel 1983, lei è riuscita ad innamorarsi


del medico-poeta Michele Pierri che apprezzava le sue poesie e che si
conoscevano dai tempi di Spagnoletti. Proprio nel 1983 i due si sono
sposati e convivevano insieme a Taranto.

I primi segni di malattia mentale si sono manifestati già in un’età


adolescenziale e già, a sedici anni, nel 1947, Alda Merini si è incontrata
molto presto con ciò che definiva le “prime ombre della sua mente” e
viene internata per un mese nell’ospedale psichiatrico di Villa Turro a
Milano. La ragione che ha scatenato la sua crisi era la mancanza dei
fondi necessari per pubblicare il suo primo libro, La presenza di Orfeo,
ma grazie all’intervento di una benefattrice, Ida Borletti, il problema si è
risolto.

Nel 31 ottobre del 1965, a trentaquattro anni, è iniziato il primo


internamento nell’ospedale psichiatrico Paolo Pini. Il ricovero è durato
più di una settimana, ma dopo ha dovuto fare delle visite periodicamente
presso un centro psico-sociale, che le imponeva altri internamenti. Il
secondo ricovero è avvenuto qualche mese dopo ed è seguito da altri
lunghi internamenti con brevi intervalli che sono proseguiti fino al 1972.

10
La diagnosi medica era la schizofrenia paranoide14, ma leggendo la
biografia di Alda Merini, si può percepire che lei non aveva gravi segni
di disturbo se non alcuni tratti di stanchezza e esasperazione. La Merini
aveva un’inclinazione a isolarsi, da quando era bambina; oltre alla sua
fragilità emozionale e i persistenti sensi di colpa che provava verso la
madre; le difficili condizioni di vita durante la guerra; poi
nell’adolescenza la precoce sofferenza di anoressia, seguita da cecità
isterica; e in fine, il suo rapporto con il marito che la maltrattava,
picchiandola. Così le figlie di Alda Merini raccontano:

Soffriva molto lei, non di gelosia, soffriva perché veniva


picchiata quando lui era ubriaco, ma lei lo amava e si
crogiolava nell’illusione che lui cambiasse.15

Alda Merini ha fatto un altro breve ricovero presso l’ospedale


psichiatrico di Taranto, nel 1986, in seguito al peggioramento della
malattia del suo secondo marito Michele Pierri e ai problemi con i figli di
Pierri che erano da sempre opposti al loro matrimonio, tentando di
allontanarlo da lei.

14
È un tipo di psicosi caratterizzato dal “prevalere di allucinazioni e deliri, dall’assenza di disorganizzazione
dell’eloquio e del comportamento [...] da allucinazioni di tipo uditivo che concordano per contenuto con i
deliri. Un paziente paranoide può avere un delirio secondo cui esiste un’organizzazione criminale
intenzionata a ucciderlo e sentire le voci dei sicari che minacciano di ucciderlo” in Vittorio Lingiardi, La
personalità e i suoi disturbi, Lezioni di psicopatologia dinamica, Milano, Il Saggiatore, 2004, p.216-217.
15
http://www.aldamerini.it/?page_id=8#1513804312488-4be084e7-f9a4, cliccato il 17 novembre 2021, ore
8:36.
11
Gli anni che seguono al suo internamento al Paolo Pini sono, per
fortuna, anni pieni di attività letteraria, interviste e interventi pubblici: il
1984 segna la pubblicazione del suo capolavoro, La terra santa; nel 1986
ha pubblicato L’altra Verità. Diario di una diversa; nel 1987 Fogli
bianchi; nel 1988 Testamento; nel 1989 Delirio Amoroso; nel 1990 Il
tormento delle figure; nel 1991 Le parole di Alda Merini e Vuoto
d’amore, nel 1992 La vita felice, nel 1993 Titano amori intorno, nel 1994
Reato di vita. Autobiografia e poesia, nel 1995 La pazza della porta
accanto, e nel 2008 ha pubblicato Lettere al dottor G.

Alda Merini è spenta nel 1° novembre 2009 presso l’ospedale San


Paolo di Milano, a causa di un tumore osseo, e le sono tributati i funerali
di Stato.

La Letteratura e l’instabilità mentale e quella emotiva sono,


infatti, due temi che si intersecano nella letteratura italiana soprattutto
quella del Novecento, in quanto questo secolo testimonia la nascita e
l’affermazione della psichiatria come scienza autonoma.

Molti scrittori si sono interessati a scrivere con la penna del matto


e scoprire il suo mondo interiore, alcuni altri con disagi psichici sono
stati internati nel manicomio e hanno già rappresentato il mondo dei folli.

Nel ‘900 le confessioni del matto e il suo lavorìo mentale


hanno fatto lezione, e la letteratura ha immaginato molto di
12
più di quanto alla fine non offrissero gli archivi e la miseria
mentale.16

A differenza delle altre scienze umane, invece di dare un nome o


una diagnosi alla pazzia, la letteratura dà una voce raccontando del
folle17: “molto bisogno di libertà si realizza attraverso la pazzia. E tale libertà
comprende anche la fuga dalle definizioni.”18

Il modo di percepire la pazzia non è sempre uguale per tutti gli


scrittori, per questo, in seguito, citiamo alcuni scrittori italiani che non
hanno trovato meglio del personaggio folle per rappresentare qualche
loro idea, alcuni altri hanno vissuto la pazzia in prima persona.

Uno fra tali scrittori è Luigi Pirandello. È considerato uno fra i


più importanti drammaturghi della letteratura italiana nel XX secolo. Ha
ricevuto il premio Nobel per la letteratura nel 1934, per l’innovazione
riportata nelle tematiche affrontate nelle sue opere.

Non si può parlare del tema della follia per Luigi Pirandello senza
menzionare la malattia mentale di sua moglie: Nel 1894, egli si è sposato
16
https://www.nazioneindiana.com/2010/03/30/che-cosa-la-letteratura-ha-imparato-dai-matti/, cliccato il
30 agosto 2021, ore 15:40.
17
Il “folle” da follis che ha il senso della leggerezza d’ingegno e della vacuità, in altri termini una persona con
pensieri vani e atti strani, mentre il “pazzo” viene da patior cioè patire dall’incapacità di comprendere la
realtà in cui si vive. Sia la pazzia che la follia possono essere attribute a ogni comportamento socialmente
incomprensibile.
18
Cesare Segre, Fuori del mondo, Torino, Einaudi, 1990, p. 100.
13
con Maria Antonietta Portulano. I primi anni di matrimonio sono stati
anni felici e tranquilli, fino a quando la moglie ha dato i primi segni di
squilibrio mentale: Antonietta ha investito una parte dalla sua dote nella
miniera di zolfo che suo suocero aveva acquistato, ma purtroppo, in un
giorno, la moglie, a sapere che tale miniera, d’improvviso, si è allagata,
cade semiparalizzata per la brutta notizia. È stato quell’evento
improvviso a scatenare la pazzia della moglie. Con il tempo, la fragile
condizione mentale della moglie l’ha resa insostenibilmente gelosa del
marito. Nel 1919, Luigi Pirandello ha preso la dolorosa decisione, quella
di far internare la moglie in manicomio, in quanto è diventata pericolosa
per se stessa e per gli altri. La moglie è morta in manicomio dopo
quarant’anni, mentre Pirandello si è dedicato alla scrittura.

Il tema della pazzia ricorre spesso nelle opere di Pirandello, come


in Così è (Se vi pare) (1918), in cui la pazzia è un modo per esprimere
liberamente che non c’è una sola verità assoluta, ma tante a seconda di
chi la guarda. In tale opera è difficile sapere chi dice la verità, suscitando
confusione ai lettori, in quanto ogni personaggio definisce l’altro
“pazzo”. Così dice la Signora Ponza “Io sono colei che mi si crede” e a lei
aggiunge Lamberto Laudisi “Ecco, o signori, come parla la verità!” 19. E ancora
nell’opera Enrico IV, in cui il protagonista, cadendo dal cavallo, si è
battuto la testa e si è impazzito, convincendosi di essere il personaggio
storico che impersonava durante la messa in scena. E anche dopo essere
guarito, il protagonista ha deciso di continuare a fingersi pazzo, in quanto
trovava nella follia il simbolo della libertà, facendo ciò che voleva, della

19
Luigi Pirandello, Così è ( se vi pare), Roma, L’unità, 1993, p.85.
14
fuga dalla realtà e dalla condanna degli altri. Il protagonista afferma:
preferii restar pazzo [...] viverla- con la più lucida coscienza- la mia pazzia20.

Un altro scrittore italiano interessato al mondo dei pazzi era Dario


Fo: Certo, la figura del diverso, dell’imprevedibile, dell’illogico, mi ha
sempre affascinato21. Lo scrittore ha vinto il premio Nobel per la
letteratura nel 1997. Non è a caso che anche lui è un vincitore del premio
Nobel22.

Già, nella zona dove abitava Dario Fo da piccolo, vicino al Lago


Maggiore, nella provincia di Varese, c’era un numero alto di malati di
mente a causa della silicosi a cui sono esposti i lavoratori del vetro del
tempo. Lo scrittore aveva, dunque, un contatto vero e proprio con i matti.

Dario Fo, nelle sue opere, faceva un ricorso frequente alla figura
del matto, quel personaggio che sembra ragionare più logicamente
rispetto ai “normali” e raccontava in modo ironico le scomode verità,
usando la sua particolare intelligenza. Il matto, nelle opere di Dario Fo,
aveva un modo straniato di vedere il mondo. Come nella sua opera Morte
accidentale di un anarchico, il matto è affetto dalla “istriomania”, una
patologia che Il Matto stesso definisce:

20
Luigi pirandello, Enrico IV, Aquila, Rea edizioni, 1960 p. 84-85.
21
Dario Fo, Dialogo provocatorio sul comico, il tragico, la follia e la ragione con Luigi Allegri , Bari, Laterza,
1990 p. 24.
22
Oltre a Luigi Pirandello che ha vinto il premio nobel nel 1934, anche Alda Merini è stata candidata per il
premio Nobel nel 2001.
15
Insomma ho l'hobby di recitare delle parti sempre diverse.
Soltanto che io sono per il teatro verità, quindi ho bisogno
che la mia compagnia di teatranti sia composta da gente
vera, che non sappia di recitare23

Il matto è lucido e sapeva bene quello che faceva, mettendo in


questione la mancata logicità del commissario Bertozzo che sembra
ignorante della grammatica e perfino della legge. Mentre in Sani da
legare (1954), le persone considerate sane sono quelle da legare, mentre i
matti sono coloro che se ne accorgono. Infatti per Dario Fo i più sani
sono quelli che andavano in manicomio, coloro che rifiutavano
l’illogicità del mondo dei “normali”. Non a caso che questa opera è stata
sottoposta alla censura di allora, in quanto racconta la quotidianità dei
conflitti politici dell’Italia in quel tempo.

Mario Tobino, a sua volta, essendo già uno psichiatra e scrittore,


racconta le storie degli ammalati dentro l’ospedale psichiatrico di
Maggiano, in provincia di Lucca, nell’arco di tempo che va dal 1941 fino
al 1980. Questi 40 anni di esperienza lavorativa sono stati narrati in
quattro suoi romanzi: Le libere donne di Magliano (1952), Per le antiche
scale (1972), Gli ultimi giorni di Magliano (1982) e Il manicomio di
Pechino (1990).

Mario Tobino, come gli altri scrittori suddetti, rifiuta la


categorizzazione sociale delle persone e la definizione “pazzo” a chi è
23
Dario Fo, Morte accidentale di un anarchico, Torino, Einaudi, 2000, p. 552.
16
diverso, perché la pazzia è uno stato ancora ambiguo e incomprensibile,
anche per i medici stessi. Per questo motivo l’inclusione dentro una
definizione di chi è dotato o sofferto da un certo tipo di pazzia è un’
argomentazione fallace. La pazzia, secondo Tobino, è stata, quindi, un
mistero che invece di essere accolto con amore, viene condannato alla
segregazione e e scatena la voglia sociale di nascondere ed escludere chi
è considerato pazzo. I pazzi per lui sono lunatici, trasparenti, malinconici
e maniaci, cioè semplicemente umani. Mario Tobino si sente
responsabile di difendere i malati di mente, invitando le persone di
offrirgli una cura basata sull’umanità e sull’amore. Tobino scrive nella
prefazione al suo romanzo Le libere donne di Magliano:

Scrissi questo libro per dimostrare che i matti sono creature


degne di amore, il mio scopo fu ottenere che i malati
fossero trattati meglio, meglio nutriti, meglio vestiti24

Lo scrittore interpreta i gesti dei malati in modo particolarmente


poetico, un modo dal quale si rivela la personalità empatica di Tobino.
Ciò si manifesta chiaro nella sua opera Per le antiche scale:

(Il suonatore pazzo faceva) “dei movimenti con la testa e il


tronco che richiamavano i delfini quando si alzano
bambinescamente dalle onde oppure veniva in mente un
dolce poeta ebbro.25

24
Mario Tobino, Le libere donne di Magliano, introduzione di Geno Pampaloni, Milano, A. Mondadori, 1967,
p. 5.
25
Mario Tobino, Per le antiche scale, Milano, Mondadori, 1972, p. 84.
17
I.1 La sofferenza

La protagonista della vicenda, Alda Merini, racconta in


questo diario gli anni della sua vita trascorsi nel manicomio di Paolo
Pini a Milano. Racconta anche il suo disagio e la sua sofferenza
dentro e fuori il manicomio e come ha potuto vincere il proprio dolore.
Alda Merini soffriva, secondo la diagnosi fatta all’ospedale psichiatrico,
di un disturbo schizofrenico che all’epoca, però, era considerato
semplicemente un costante cambiamento d’umore. Il suo malessere è
iniziato a farsi vivo per la prima volta nel 1947 ed è stata ricoverata per
un mese nell’ospedale psichiatrico di Villa Turro a Milano, ma poi è stata
internata nel Paolo Pini dal 1965 al 1972.

Si noti che la Merini ha vissuto il manicomio quando era regolato


dalla legge n. 36 “Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e
cura degli alienati”, emanata il 14 febbraio del 1904 e rimarrà in vigore
fino al 1978. Secondo la legge, in manicomio dovevano essere internati
quelli i cui atteggiamenti erano considerati socialmente scandolosi o
impercepibile, come gli omosessuali o persone semplicemente depresse.
Ed è per questa legge Alda Merini è finita in manicomio:

Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone


affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando
siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico
scandalo”26

26
Andrea Scartabellati, L'umanità inutile. La «Questione follia» in Italia tra fine Ottocento e inizio Novecento
e il caso del Manicomio provinciale di Cremona, Milano, FrancoAngeli, 2001, p. 101.
18
La scrittrice, nel diario, si riteneva una moglie e una madre felice.
A volte, però, come tutti, ha momenti di stanchezza, di tristezza e di
rassegnazione soprattutto dopo la morte di sua madre nel 1954, le severe
condizioni di povertà e le continue incomprensioni da parte del marito
che si ubriacava e la picchiava e che, in seguito a un litigio, ha chiamato
l’ambulanza per portarla in manicomio:

una notte nostro padre era rientrato a casa dopo essere


andato in giro con gli amici e aver speso tutti i soldi, quella
notte nostra madre gli scaraventò contro una sedia
facendolo finire all’ospedale. [...] Questa grande sofferenza
non l’abbandonerà più e sarà la stessa sofferenza che
segnerà e condizionerà anche il futuro di noi figlie...27

I.1.1. Sofferenza fisica

Sono diverse le sofferenze che la scrittrice ricorda nel suo diario.


Una fra queste sofferenze è quella fisica. Alda Merini racconta che nella
prima notte all’interno del manicomio, si è spaventata dai rumori
circostanti, dalle urla degli altri pazienti, e dall’oscurità e la severità
dell’ambiente dove ci sono: le mura alte, i portoni ben chiusi con cancelli
grandi, la puzza diffusa nell’aria, l’urina dei malati per terra, le
infermiere robuste che l’hanno legata al letto, con nessun senso
d’umanità, dandole dei calmanti. In quella notte i suoi forti turbamenti
psicologici sono stati esagerati e ha iniziato a urlare finché è entrata in
coma per tre giorni, risvegliandosi intorpidita con un tale senso di
27
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13:00.
19
disperazione. Il suo dolore è peggiorato rendendosi conto del fatto che i
suoi parenti sono scomparsi. Così Alda Merini si ricorda della sua prima
notte nel manicomio:

La sera vennero abbassate le sbarre di protezione e si


produsse un caos infernale. Dai miei visceri partì un urlo
lancinante, [...] Ma, non era forse la mia una ribellione
umana? non chiedevo io di entrare nel mondo che mi
apparteneva? perché quella ribellione fu scambiata per un
atto di insubordinazione?28

Si può notare la condanna della Merini dell’atrocità


dell’istituzione manicomiale vissuta proprio sin dalla prima notte, questa
ferocia si manifestava nella violenza da parte degli infermieri, nella
mancata attenzione alla condizione igienica del luogo puzzolente, oltre
alle “sbarre di protezione” e le urla dei pazienti. Sono tutti degli elementi
che quando si trovano in un posto, in origine ritenuto un luogo di cura,
contribuiscono all’insania mentale. Alda Merini afferma che, a sapere
che doveva affrontare questo destino, si è impazzita nell’attimo:

quando mi ci trovai nel mezzo credo che impazzii sul


momento stesso in quanto mi resi conto di essere entrata in
un labirinto dal quale avrei fatto molta fatica ad uscire29

28
Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit., p. 14.
29
Ivi, p. 10.
20
Giornalmente i malati si svegliavano tutti alle cinque di mattina e
si mettevano in fila nella stanza dell’elettroshock. Poi, per il resto della
giornata, non gli era permesso di fare nulla, nemmeno di parlare né di
fumare. In manicomio non davano ai malati da mangiare al di là degli
orari del pranzo o della cena. Mentre la notte era particolarmente
dolorosa, in quanto si sentivano continui grida, sussulti e borbottii e
siccome di giorno non facevano niente, di sera tendevano a rimanere
svegli, e di conseguenza gli infermieri li legavano a letto con delle
fascette.

Osservando la routine giornaliera dei malati di mente, il


manicomio sembra come se fosse una prigione. I malati di mente non
avevano una loro scelta libera come mangiare, svegliarsi, dormire o
almeno parlare con i compagni come e quando vogliono. Un ambiente
del genere porterebbe il paziente, come minimo, alla depressione, invece
di alleviargli il suo disagio psicologico o mentale.

Ai malati di mente era vietato “disturbare” gli infermieri. Tale


disturbo si manifestava sia nell’insonnia che nella dimostrazione della
loro angoscia, urlando, o semplicemente lamentandosi. la Merini
racconta:

Queste cose disturbavano noi, non le infermiere. Ma noi


eravamo esseri capaci di dare “disturbo”, e ciò veniva
segnato con puntualità. [...] Ci era proibito tutto; anche di
soffrire d’insonnia. E l’insonnia spesso ci visitava, come

21
visita qualsiasi persona su questa terra. [...] Comunque era
insonnia, e lì si curava con pesanti elettroshock.30

Leggendo le parole della Merini, si vede molto chiaro che era


vietato ai malati di mente di soffrire d’insonnia. Per gli infermieri era
considerata pazzia l’insonnia, che è un disagio comune e di cui può
soffrire tutti, soprattutto che i degenti non facevano attività fisiche
durante la giornata. Nel manicomio chi non riusciva a dormire la notte
veniva sottoposto all’elettroshock. Per tale motivo Alda Merini doveva
far finta di essere addormentata per fuggire da tale punizione per non
avere avuto semplicemente sonno.

La scrittrice ci porta la testimonianza proprio da dentro il


manicomio di una delle forme più atroci di tortura che è l’elettroshock.
La Merini definisce questa attività come “fattura” e si giustifica dicendo
che Io le chiamo fatture perché non servivano che ad abbrutire il nostro
spirito e le nostre menti.31

Nel manicomio l’elettroshock era usato come modo sia


terapeutico sia punitivo. Infatti la scrittrice è stata sottomessa
all’elettroshock solo perché lei non era simpatica a uno dei medici del
manicomio. La scrittrice commenta:

30
Ivi, p. 18.
31
Ibidem
22
Allora il dottor N., che mi aveva sempre vista di malocchio,
ordinò che mi si facessero una serie di elettroshock. E io
dovetti sottostare, malgrado non ne avessi nessuna necessità
perché non avevo forme né di depressione, né paranoiche. 32

Alda Merini è stata sottoposta, ancora, all’elettroshock, ma questa


volta senza anestesia, per essersi scontratata con la caposala perché lei
era indifferente al panico e l’angoscia che i degenti provavano prima
della terapia elettroconvulsivante:

L’attesa era angosciosa. Molte piangevano. Qualcuna


orinava per terra. Una volta arrivai a prendere la caposala
per la gola, a nome di tutte le mie compagne. Il risultato fu
che fui sottoposta all’elettroshock per prima, e senza
anestesia preliminare, di modo che sentii ogni cosa. E
ancora ne conservo l’atroce ricordo.33

La disumanità dentro la casa di cura è molto chiara iniziando da


come era orrendo l’ambiente a come trattavano i pazienti facendoli
pagare caro il loro disagio. Alda Merini descrive la stanza
dell’elettroshock “angusta e terribile”. Il termine angusta indica l’affanno
che si provava appena ci si entrava, e definisce “più terribile”
l’anticamera dove preparavano i degenti per “il triste evento”
dell’elettroschock, in quanto la paura era tale da farli piangere, svenire o
orinarsi addosso.

32
Ivi, p. 20.
33
Ibidem.
23
Il dottore responsabile dell’elettroshock arrivava, di solito, tardi e
la prima cosa che faceva era legare i degenti per anestetizzarli guardando
in alto o ridendo a pieni denti insieme alle infermiere. 34, il che faceva
pesante il loro spavento.

Una fra le attività più sdegnose dentro il manicomio a cui


dovevano sottostare la mattina: l’attività del bagno, che è definita dalla
scrittrice nel suo diario come “il bagno di forza, o bagno di pena”. I
malati non appena entravano in manicomio venivano subito lavati. Così
lei descrive quest’attività nel suo capolavoro La terra santa (1984):
Fummo lavati e sepolti odoravamo di incenso35. Come se li lavassero dal
peccato che hanno commesso: quello di soffrire per essere stati diversi
dal comune, cioè, negli occhi dei più normali, sono “pazzi” da legare. Le
malate venivano, così ogni mattina, tutte allineate, denudate e lavate
insieme da infermiere robuste, per poi asciugate con un lenzuolo sporco e
puzzolente uno per tutte.

La mattina davanti a quel lavallo comune e all’odore terribile che


fuoriusciva dal luogo, la Merini si sveniva e si riprendeva trovandosi
offesa con le parolacce e buttata sotto l’acqua fredda. È ancora più
pietoso il fatto che le malate più vecchie, durante tale attività del bagno, a
volte scivolavano e cadevano per terra e succedeva, anche, che, qualche
volta, alcune battevano fortemente la testa. Poi, venivano tutte allineate

34
Ibidem.
35
Ivi, p. 13.
24
sulle “pancacce sordide”. E in quel momento tutte guardavano per terra
in silenzio totale con un’ aria d’indifferenza.

Venivamo tutti allineati davanti a un lavello comune,


denudati e lavati da pesanti infermiere che ci facevano poi
asciugare in un lenzuolo eguale per capienza a un sudario, e
per giunta lercio e puzzolente. Alle più vecchie facevano
tremare le flaccide carni e così, nude come erano, facevano
veramente ribrezzo.36

Si noti come nel manicomio i degenti venivano trattati come se


fossero una sola persona destinata ai margini, solo perché era
incomprensibile o, in qualche modo, diversa. Il degente quando si lavava,
non aveva il diritto di lavarsi come un individuo unico, anzi veniva lavato
insieme ai suoi simili e asciugato con lo stesso lenzuolo. Lo stesso vale
anche per l’abito del manicomio che era uniforme: una vestaglia fatta di
lino grezzo, uguale per tutti, come se il manicomio volesse essere la
raffigurazione della tendenza che l’uomo ha di categorizzare se stesso e
gli altri tra il normale e l’anormale. Così Alda Merini descrive il
manicomio dicendo:

Il manicomio è senz’altro una istituzione falsa, una di


quelle istituzioni che, create sotto l’egida della fratellanza e
della comprensione umana, altro non servono che a
scaricare gli istinti sadici dell’uomo. E noi eravamo le
vittime innocenti di queste istituzioni. C’erano, sì, persone

36
Ibidem.
25
che avevano bisogno di cure e di sostentamenti psicologici,
ma c’era anche gente che veniva internata per far posto alla
bramosia e alla sete di potere di altre persone.37

Un altro abuso che si esercitava contro i degenti nel manicomio:


sono gli psicofarmaci che la Merini descrive come una tortura piuttosto
che un metodo per curare i pazienti: ogni giorno quel passaggio, quella
tortura da purgatorio, anzi da gironi dell’inferno 38, il cui effetto porta il
paziente a sentirsi come marionette traballanti che cercavano
disperatamente di sdraiarsi, e non lo potevano fare39.

Le medicine, invece di curare il disagio, lo aggravava, creando


effetti collaterali molto violenti che portavano il paziente a un senso di
depersonalizzazione. E sempre di tali effetti i degenti non potevano
esprimere la loro sofferenza, altrimenti sarebbero stati legati al letto:

le mie condizioni conoscitive, la mia personalità, si


aggravarono. Non ebbi più la percezione del mio io [...] a
seguito delle medicine soffrivo in modo inumano perché,
come è risaputo, gli psicofarmaci danno effetti collaterali
violentissimi, tanto che il paziente all’interno dell’ospedale
non può fare a meno di chiedere aiuto. Aiuto che viene
risolto con una solida legatura al letto di contenzione40

37
Ivi, p. 14.
38
Ivi, p. 22.
39
Ivi, p. 17.
40
Ivi, p. 25.
26
La scrittrice afferma che prima di entrare nel manicomio lei era
completamente cosciente della sua realtà, ma dopo è diventata assente e
confusa a causa degli psicofarmaci, il maltrattamento delle infermieri e
l’ambiente stesso. E così si esprime:

Le medicine ci avevano tolto ogni senso, ogni rapporto con


la realtà esterna. Il mio medico personale, il dottor G.,
sosteneva che ciò accadeva proprio in funzione della
malattia. Ma io sostengo l’inverso perché mi ricordo
benissimo che al principio del mio duro travaglio, al
principio dell’internamento, io ero pienamente cosciente
della mia realtà41

Nel manicomio i malati venivano seviziati, senza nessuna dignità,


ridotti a diverse torture, fisiche e psicologiche, e spesso anche usati come
se fossero cavie per sperimentare i nuovi psicofarmaci.

Gli infermieri davano le medicine ai malati senza misura. Come


quando facevano la cura del Dobren alla scrittrice e le davano dieci
iniezioni ogni giorno, al punto di sentirsi stressata e sveglia tutta la notte.
Lei descriveva soffocante quel tempo in cui prendeva il Dobren e non
conosceva il cosiddetto “respiro lungo”42 a causa delle grandi dose del
farmaco antipsicotico.

41
Ivi, p. 24.
42
Ivi, p. 22.
27
Queste sue parole dimostrano che gli psicofarmaci che le davano,
potrebbero essere sbagliati e che non rilevavano il suo dolore, mentre i
medici le dicevano che, dopo lei si sarebbe sentita meglio, ma la scrittrice
afferma che quel “dopo” non è arrivato mai.

In ogni caso la povera Merini e i suoi compagni dovevano


accettare di prendere i farmaci prescritti silenziosamente, e di non
esprimere la loro sofferenza, altrimenti sarebbero puniti e legati al letto.

Una volta la protagonista non è riuscita a dormire fino alle tre di


mattina, le hanno dato violentemente tre iniezioni di Valium con
spartocanfora che l’hanno fatta andare in coma per tre giorni e al
risveglio si è ritrovata legata al letto. In un’altra occasione le hanno dato
iniezioni di Leptozinal che più tardi Alda Merini ha saputo che si usava
sui malati violenti. Così lei ci racconta:

Soffrivo terribilmente dentro il mio spirito. Avrei voluto


gridare, ma la rivolta non veniva. Ero diventata
acquiescente, quasi passiva. E ciò dopo poche iniezioni di
Leptozinal. Solo più tardi seppi che questo farmaco si usava
su soggetti malati di violenza. Ma io, che violenta non ero,
io, che ero di natura buona e tranquilla, che segni avevo
potuto dare? Forse di incertezza... Non so.43

43
Ivi, p. 17.
28
È molto chiaro che i degenti nel manicomio non sono curati con i
farmaci giusti o con le dose appropriate. Ciò dimostra la trascuratezza da
parte del manicomio, e la poca attenzione alla salute del paziente. Tali
farmaci non erano efficienti nel caso della Merini, anzi l’hanno resa una
persona indifferente e completamente assente.

Certo il dolore seguito al sentimento di sdegno proveniente di


come gli davano quei farmaci in modo sbagliato non si poteva mai
evitare, così la scrittrice commenta:

avevano lo stesso effetto di offendere e di abbrutire il


malato. E a questa tremenda e silenziosa consegna,
quest’uomo era estremamente fedele44

A tal proposito, Michel Foucault sostiene che la medicina potrà


guarire la malattia mentale come qualsiasi altra malattia fisica, ma
comunque non potrà eliminare il dolore dell’anima, un trauma in un’età
precoce o la mancanza d’amore:

i progressi della medicina potranno far scomparire


completamente la malattia mentale, come già con la lebbra
e la tubercolosi; […] una cosa sopravviverà, e cioè il
rapporto tra l’uomo e i suoi fantasmi, il suo impossibile, il
suo dolore senza corpo, la sua carcassa durante la notte;

44
Ivi, p. 19.
29
[…] la memoria senza età di un male cancellato nella sua
forma di malattia, ma irriducibile come dolore.45

45
Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica, Milano, La Biblioteca Universale Rizzoli (BUR), 1969, p.
304.
30
I.1.2. Sofferenza psicologica

Il dolore psicologico è, inevitabilmente, associato a quello fisico.


In realtà, mantenere la salute mentale di uno che vive in un ambiente
severo come quello del manicomio dove era internata Alda Merini
potrebbe essere dubitabile.

I malati non erano solo maltrattati fisicamente ma anche


psicologicamente. Gli infermieri, nel manicomio, non vedevano nel
degente niente di buono, in realtà, ogni loro comportamento veniva,
subito, considerato insano e colpevole.

Noi venivamo saziati di colpa, quotidianamente; i nostri


istinti erano colpa; le visioni erano colpa; i nostri desideri, i
nostri sensi erano colpevolizzati. Così ridotti, non potevamo
che giocare, giocare a fare i mostri oppure i santi, il che fa
quasi lo stesso…46

Alda Merini si ricorda di un giorno terribile per lei, il giorno in


cui è stata punita severamente, solo perché aveva dato un bacio a un
malato sulla guancia: l’hanno colpevolizzata e punita isolandola in
un’altra stanza, come se fosse vietato esprimere il proprio affetto per
qualcuno in manicomio.

46
Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit., p. 23.
31
Una volta giunse a rifiutarsi di darmi la comunione solo
perché avevo baciato un malato sulla guancia. Fu un giorno
terribile, quello, per me. Un giorno in cui caddi veramente
in crisi, perché la colpa mi fu immediatamente sopra come
un avvoltoio.47

Si vede chiaro come un semplice gesto di affetto nel manicomio è


considerato un peccato, come se il manicomio volesse che i degenti
fossero destinati solo alla sofferenza e non fossero degni di ricevere né di
provare amore. Se i malati venivano puniti quando mostravano il loro
affetto verso qualcuno. Gli infermieri li sottomettevano agli elettroshock
per la falsa convinzione che uno che soffre di una malattia mentale, non
può amare; la Merini stessa afferma ne La vita facile che “la psichiatria
dice che a quarant’anni non si ama più” 48 e ancora nel suo capolavoro La
Terra Santa:

E dopo, quando amavamo


ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno.49

Anche i piccoli sbagli sono considerati così un grande peccato al


punto di far punire il degente e scandalizzarlo tra i suoi compagni invece

47
Ibidem
48
Alda Merini, La vita facile, Milano, Bompiani, 2017. p. 131.
49
https://www.aldamerini.it/?page_id=10572, cliccato il 12 agosto 2021, ore 10:39.
32
di comunicare prima con lui e sapere i motivi che stanno dietro e
risolverlo.

Alda Merini racconta di aver rubato un paio di ciabatte che la


faceva ricordare sua madre. Gli infermieri l’hanno colpevolizzata e
chiamata ladra davanti a tutti e poi l’hanno isolata in una stanza per non
rubare più.

Una volta io, Alda Merini, rubai un paio di ciabatte (ne


avevamo di semplicemente orribili), e queste ciabatte
diventarono lo scandalo dell’ospedale. Da allora venni
chiamata ladra, di fronte a tutti. E questo per diversi mesi. E
fui segregata in uno stanzino di sicurezza, perché non
rubassi più [...] Ma per quelle ciabatte subii un vero e
proprio interrogatorio.50

Per i malati la pena piccola era uguale a quella più grave perché
venivano sempre e comunque colpevolizzati. Ecco che i malati di mente
avevano paura di agire, perché come abbiamo sottolineato ogni loro
comportamento umano si considerava dentro il manicomio insania
mentale, e di conseguenza venivano puniti. Tale paura poteva causare
loro un senso di annientamento, come se il malato di mente dovesse
dubitare su ogni fatto che compieva. Di conseguenza il normale e
l’anormale per il degente diventavano uguali. In altre parole, ogni loro

50
Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit., p. 19.
33
parametro di riferimento veniva annullato e sostituito da forti sensi di
colpa.

Non è a caso, quindi, che la scrittrice definisce il manicomio


come “Terra Santa”, dove lo sbaglio era proibito. Infatti, sarebbe
illogico, in un luogo come il manicomio, pretendere che un malato di
mente non commettesse nessun sbaglio. Sbagliarsi è per definizione un
tratto umano, e chiedere a un individuo di non peccare mai sarebbe come
se gli si togliesse il proprio senso d’umanità, soprattutto se questa
persona non è in buona salute mentale. Così la scrittrice commenta:

Ma fu egualmente la Terra Santa perché ci portò alla


visione di un io disincarnato, un io che lasciò laggiù le sue
ossa, in quella palude secca e selvaggia che si chiama
manicomio.51

Secondo Alda Merini le terapie sbagliate con i “farmaci


potentissimi”, l’elettroshock, e il maltrattamento da parte degli infermieri
separavano il corpo dalla propria anima come se il corpo fosse ormai
esausto, più morto che vivo.

Brigitte Urbani commenta a tal riguardo dicendo che: Alda lo


chiama “Terra Santa” per antifrasi, perché in quel luogo non era possibile

51
Ibidem
34
peccare… Ma “Terra Santa” anche perché luogo di martirio per i malati,
torturati dalle fascette con cui sono legati ai letti52.

Alda Merini nel suo diario sottolinea che la solitudine nel


manicomio è ben diversa di quella fuori. È Una solitudine da malati, da
colpevoli53. In realtà, nulla è così feroce come la solitudine del
manicomio54.

Succede qualche volta che il malato di mente poteva sentirsi


repulso da tutti, anche dalla sua famiglia che decide di disfarsene
portandolo in manicomio, invece di dargli più amore. Lei stessa afferma
che dopo essere stata internata nel manicomio: Improvvisamente, come
nelle favole, tutti i parenti scomparvero.55.

Alda Merini sottolinea anche che ogni giorno aspettava per ore
che suo marito venisse a trovarla, ma purtroppo questo non succedeva, il
che le faceva piangere.

Mio marito non veniva mai a trovarmi. Ogni giorno mi


appostavo davanti all’ingresso e mi accoccolavo per terra,
proprio come una geisha, e aspettavo per ore che lui si

52
Brigitte Urbani, Alda Merini: Poesia di una “diversa”, Firenze, Cesati, 2007, vol. 3, p.3.
53
Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit., p. 25.
54
Ibidem.
55
Ivi, p.10.
35
facesse vivo. Poi, vinta dalla stanchezza, e con le lacrime
agli occhi, tornavo nel mio reparto56

La solitudine in manicomio per la Merini è severa, soprattutto che


i suoi parenti l’hanno lasciata sola in quell’ambiente terribile. Lei
racconta che la mattina guardava la finestra e si sentiva sola perché
nessuno veniva a trovarsi. Lei afferma, intanto, che la sua famiglia allora
non aveva nessun ruolo, anzi cercava di stare alla larga da lei. Secondo il
suo punto di vista tale atteggiamento era comprensibile: perché in fondo i
suoi familiari si sentivano in colpa per il loro mancato amore, oltre al
fatto che uno che entrava in manicomio portava con sé lo stigma della
pazzia e quindi gli altri si allontanavano:

Al momento dell’internamento, l’ammalato sente sopra di


sé il peso della condanna, condanna che non può non
riversare sulla società tutta ed anche sui congiunti. I parenti
invece avvertono questa repulsione come uno stato di
malattia e “cercano di stare alla larga”, anche perché non è
detto che non abbiano un vago o profondo senso di
rimorso.57

La solitudine e il dolore erano forti per la Merini soprattutto


perché le sue due figlie sono state mandate a vivere in un orfanotrofio per
un po’ di tempo. In seguito, Emanuela si è sposata all’età di quindici
anni, mentre Flavia è andata a vivere da un loro zio a Torino. In
56
Ivi, p.22.
57
Ivi, p.16.
36
manicomio, durante i rari permessi di uscita, Alda Merini ha portato alla
luce altre due figlie Barbara (1968) e Simona (1967), anche queste altre
due figlie sono state affidate ad altre famiglie.

A loro raccomando sempre di non dire che sono figlie della


poetessa Alda Merini. Quella pazza. Rispondono che io
sono la loro mamma e basta, che non si vergognano di me.
Mi commuovono.58

Ecco che le sue quattro figlie sono state allontanate dalla loro
madre, per colpa del pregiudizio sociale sul fatto che chi aveva addosso
lo stigma della malattia mentale, è incapace di far crescere figli, tenendo
conto che una malattia mentale vera e propria lei non l’aveva: Alda
Merini, sensibile come era, soffriva psicologicamente delle difficili
condizioni della vita e delle quotidiane liti con il marito che la picchiava
quando era ubriaco, mentre lei non mostrava che “segni di stanchezza”.
In realtà lei non soffriva che di “un disturbo della emotività”.

Alda Merini, come gli altri degenti del manicomio, si era abituata,
non solo, a quella solitudine feroce, ma anche al silenzio. Racconta che la
mattina si allineavano sopra delle panche con le mani dentro il grembo e
“con l’ordine di “non fiatare”. A proposito del silenzio nel manicomio
Alda Merini racconta dicendo:

58
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16:00.
37
La nostra legge era il silenzio. Il silenzio gravato da mille
solitudini; un silenzio ingombrante, atono, come le foglie
ferme ma noi eravamo teneri usignuoli feriti e la nostra
infelicità dava sangue e le nostre ali erano tarpate e il nostro
grembo deserto.59

Leggendo le parole della scrittrice, si può notare un senso di


inquietudine e fragilità. Alda Merini immaginava se stessa e gli altri
malati come se fossero degli uccelli feriti con le ali tarpate.

I malati non potevano lamentarsi né esprimevano la loro


sofferenza, altrimenti sarebbero stati o legati al letto, o sottoposti
all’elettroshock oppure a “forti” dosi di psicofarmaci. Di conseguenza, si
sono abituati a patire silenziosamente.

Il manicomio è così terribile che fa ricordare alla scrittrice


l’inferno dantesco, ma a differenza dei condannati dell’inferno di Dante
Alighieri, i degenti del manicomio non avevano commesso nessuna
colpa, anzi, soffrivano della mancanza d’amore:

Ci si aggirava per quelle stanze come abbrutiti da un nostro


pensiero interiore che ci dava la caccia, e noi eravamo
preda di noi stessi; noi eravamo braccati, avulsi dal nostro
stesso amore. Eravamo praticamente le ombre dei gironi
danteschi, condannati ad una espiazione ignominiosa che

59
Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit., p. 24.
38
però a differenza dei peccatori di Dante, non aveva dietro di
sé colpa alcuna.60

Lo sdegno e il maltrattamento che i malati subivano dentro


l’ospedale psichiatrico. Pino Roverdo interpreta dicendo:

Io, come la signora Merini, il manicomio l’ho conosciuto,


vissuto, subito, ed era un manicomio con le mura alte, i
portoni pesanti, le bastonate dell’infermiere, i farmaci
potenti come un martello, e con tutte le infamità di chi
esercita un “mestiere” e potere, scordandosi il cuore fuori
dalla coscienza.61

La scrittrice non ha parlato della sua sofferenza solo ne L’altra


verità. Diario di una diversa, ma anche in altre sue opere come in Reato
di vita dove leggiamo “Il manicomio è una discesa quotidiana, gradino
per gradino, agli Inferi” 62.

La sofferenza è chiara, anche, nella sua opera Il tormento delle


figure La psichiatria moderna, questo duce della nostra epoca, ha
finalmente resuscitato un nuovo fascismo che marcia imperterrito verso

60
Ivi, p. 22.
61
Pino Roverdo, Alda Merini. Dall’orfismo alla canzone. Il percorso poetico (1947-2009), Trieste, Asterios
Editore, 2009, p.11.
62
Alda Merini, Reato di vita, op. Cit. p. 20.
39
la non ragione63, e ancora leggiamo nella stessa ultima opera il
manicomio è stato un triste sotterraneo, una sepoltura atroce64.

l’autrice parla della sua esperienza dolorosa, anche, ne La terra


santa:

Laggiù dove morivano i dannati


nell’inferno decadente e folle
nel manicomio infinito65.

Non solo il manicomio che sembra ad Alda Merini come


“inferno”, ma lo è anche la vita “fuori dal manicomio”.

Una volta il degente usciva dal manicomio, restava comunque


estraneo: l’infamia della pazzia lo accompagnava per tutta la vita, anche
se è già guarito e ne è uscito. La società, quindi, lo rifiutava e lo regalava
ai margini. Non era facile, dunque, per un malato di mente di inserirsi di
nuovo nella società e addirittura nessuno ti riconosce più e tu diventi il
protagonista delle metamorfosi kafkiane66. La Merini vede nella vita fuori

63
Alda Merini, Il tormento delle figure, Milano, Il Melangolo, 1990, p. 53.
64
Ivi, p. 111.
65
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13:00.
66
Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit., p. 23.
40
il vero inferno67 dove ti giudicano, ti criticano e non ti amano 68. Tale
realtà ribadisce il fatto che la società trova più facile giudicare e segnare
col dito ciò che è diverso, invece di cercare di capirlo e così ci afferma
dicendo: Quando si aprirono le porte del carcere fui buttata nell’unico
manicomio reale: la vita.69.

Alda Merini ha sofferto durante l’esperienza del manicomio non


tanto per la malattia quanto per le pene che la società ha imposto ai
malati. Infatti, la scrittrice definisce anche la vita fuori del manicomio
“inferno” per denunciare il pregiudizio della follia che l’ha
accompagnato tutta la sua vita.

Il manicomio che ho vissuto fuori e che sto vivendo non è


paragonabile a quell’altro supplizio che però lasciava la
speranza della parola. Il vero inferno è fuori, qui a contatto
degli altri70

Era difficile che il malato di mente riesca a sentire un legame


affettivo con il mondo di fuori, perché si sente sempre e comunque
rifiutato nonché un peso per la società.

67
Ivi, p. 31.
68
Ibidem.
69
Alda Merini, La vita facile, op. Cit. p. 94.
70
Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit., p. 31.
41
è chiaro che il malato di mente non ha nessuna voglia di
rendersi bello proprio perché, essendo stato strappato via
della società, non ha più voglia di avere contatti con
l’esterno71

L’autrice ci ha trasmesso nel suo diario come la società vedeva il


malato di mente in diverse sue opere come ne La vita facile Alda Merini
lo chiama “spettro […] gonfio di mare e di appetiti sulfurei, [...] demonio nutrito di
vermi, [...] peloso come una scimmia, intelligente come il male, [...] gobbo, deforme e
spietato”72.

ne la Clinica dell’abbandono i malati di mente sono, anche,


definiti dalla società come “i diseredati [...] coloro che non ebbero una carezza 73, e
ne La Terra Santa “sono visti dagli altri come i rifiuti dell’umanità”74.

La scrittrice non ha solo subito il fatto di essere definita pazza ma


anche di essere poetessa, cioè di essere una diversa dalle altre donne del
tempo che davano una grande priorità alla casa, dimenticandosi dei loro
interessi nella vita. La Merini, già da piccola, mostrava grandi passioni
all’arte, e alla scrittura, e soprattutto alla poesia. Il suo carattere artistico
e la sua sofferenza erano, quindi, incomprensibili per gli altri:

71
Ivi, p. 36.
72
Alda Merini, La vita facile, op. Cit., pp. 21-22.
73
Alda Merini, Clinica dell’abbandono, a cura di Giovanni Rosadini, Torino, Einaudi, 2003, p. 50.
74
Alda Merini, in Brigitte Urbani, Alda Merini: Poesia di una “diversa”, op. Cit., p. 2.
42
La gente al mio ritorno mi ha riconosciuta, soppesata,
dileggiata, offesa, respinta e riaccettata. Dovevo chiedere
scusa ad ogni donna di malaffare, ad ogni lavandaia, ad
ogni oste di essere una poetessa.75

È molto interessante il parere di Brigette Urbani sulla diversità


della Merini:

diversa fra le diverse-, per la sua vita fuori del comune, per
l’esperienza manicomiale che incide su buona parte della
sua produzione, per il tipo di poesia che scrive e il modo in
cui la scrive, e, infine, per il fenomeno mediatico che è
diventata oggi, a più di settant’anni76

Così Alda Merini ci sottolinea come la sua società allora dava agli
uomini la libertà di diventare ciò che volevano, mentre non incoraggiava
la donna a sviluppare le sue passioni, in quanto doveva solo badare alla
sua famiglia. La Merini, essendo già diversa dal modello femminile che
la società voleva vedere, è stata giudicata pazza. Ne La pazza della porta
accanto descrive la condizione della donna:

Sì, perché la donna viene educata al delirio. La istruiscono


fin da bambina al feticismo: deve amare le pentole,
venerare gli oggetti della casa, tenerli puliti, accudirli. Il
focolare diventa il simbolo della matriarcalità. Neppure il
75
Alda Merini, Delirio amoroso, op. Cit. p. 58.
76
Brigitte Urbani, Alda Merini: Poesia di una “diversa”, op. Cit., p. 1.
43
femminismo è riuscito a sradicare queste simbologie. Infine
ci si sente impazzire tra i feticci. I panni addosso si fanno
pesanti. Ecco perché, in preda ad una crisi, la prima cosa
che fa un folle è di strapparsi i vestiti.77

La sofferenza psicologica per la Merini era dovuta anche alla


società patriarcale dove viveva e dove la donna si sentiva inferiore
all’uomo e sfiduciata nelle sue capacità femminili, e arrivava addirittura a
odiare il suo corpo, sentito come un oggetto. Fra i temi principali delle
opere di Alda Merini c’era la dualità tra corpo e anima. Lei sentiva il
corpo come un grande peso per l’anima e così racconta ne L’altra verità.
Diario di una diversa:

È come se fossi diventata angelo e volassi verso cieli più


azzurri. Ma questi cieli soffocano il corpo, lo uccidono. E,
allora, a chi dobbiamo dare ragione, all’anima o al corpo?

A tal proposito Elisa Biagini afferma:

come l'adolescente Alda Merini che turbata dal proprio


corpo in crescita ebbe una crisi anoressica, inizio dei futuri
disagi di natura psicologica). Di fatto, essa cade
nuovamente vittima di quella società che colpevolizza il
suo corpo e glielo fa sentire estraneo: il desiderio di
controllo è infatti un' ambizione a quel potere da sempre
negato, generatore di una violenza che invece di esprimersi
77
Alda Merini, La pazza della porta accanto, op. Cit., p. 145-146.
44
all'esterno, verso la causa prima del disagio, finisce per
ricadere sul soggetto stesso e distruggerlo.78

La Merini non è riuscita ad accettare di essere soddisfatta dei suoi


tratti di donna, anzi si sentiva in colpa in quanto tale corpo formoso
attirava gli uomini. Lei desiderava, sempre, che questo corpo sparisse e
rimanesse solo la sua anima e la sua voce. Così afferma ne La presenza
di Orfeo:

Se avessi io levità di fanciulla


invece di codesto, torturato
pesantissimo cuore79

Tali idee sul corpo potrebbero richiamare in mente la visione


classica riguardante la tematica del corpo: Platone propone che il corpo è
una materia estranea dall’essenza, una specie di prigione dal quale
l’anima non riesce a liberarsi. Il corpo è visto come, addirittura, un
nemico, perché distrae la mente dalla contemplazione. Anche
Sant’Agostino parla sul senso di colpa e sul dolore che l’anima sente
perché il corpo ci ostacola a giungere a Dio.

78
Elisa Biagini, Nella prigione della carne: appunti sul corpo nella poesia di Alda Merini, Forum Italicum,
2001, vol. 35, p. 443.
79
Alda Merini, La presenza di Orfeo, Milano, Scheiwiller, 1993, p. 99.
45
E l'anima ragiona appunto con la sua miglior purezza
quando non la conturba nessuna di cotali sensazioni, né
vista, né udito né dolore, e nemmeno piacere; ma tutta sola
si raccoglie in se stessa dicendo addio al corpo; e nuIla più
partecipando del corpo ne avendo contatto con esso, intende
con ogni sforzo alla verità80

È notevole l’idea della scrittrice che la pazzia, come malattia, non


esiste, ma esiste solo la mancanza d’amore e di apprezzamento:

Perché la pazzia, amici miei, non esiste. Esiste soltanto nei


riflessi onirici del sonno e in quel terrore che abbiamo tutti,
inveterato, di perdere la nostra ragione81

Secondo lei uno ricoverato in un manicomio non è pazzo, ma lo è


chi l’ha trattato male e non gli ha dato abbastanza amore. Per la Merini la
pazza non era lei stessa ma invece la sua vicina di casa che quando la
vedeva, chiudeva la porta in faccia facendole “mille dispetti”. Pazzi sono
anche i medici e gli infermieri del manicomio che erano indifferenti alla
salute del degente. Sono pazzi coloro che l’hanno giudicata “pazza da
legare”, invece di cercare di darle più amore, comprensione e tempo. E
siccome lei nega l’esistenza della pazzia, è chiaro che lei nega anche i
suoi rimedi. Per lei i normali sono solo persone più amate e ben colte:
“Credo che contro la pazzia niente e nulla possano valere” 82.

80
Marco Valgimigli, Poeti e filosofì di Grecia, voI.I, Firenze, Sansoni, 1964, p. 350.
81
Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit., p.26.
82
Ivi, p. 25.
46
Alda Merini nella sua opera tende a rovesciare il rapporto causa-
effetto per affermare la sua idea che la pazzia in sé non esiste ma viene
anzi generata con il rimedio sbagliato e con la categorizzazione sociale.
Ciò si rende ovvio nel fatto che la Merini stessa, poiché soffriva solo di
“un disturbo della emotività”, sin da piccola, è stata internata in
manicomio, e di conseguenza l’attributo “pazza” l’ha accompagnata per
tutta la vita. Lo stesso vale anche per la paziente che soffriva solo di
insonnia; è stata internata e esposta agli elettroshock e dopodiché ne esce
pazza; ancora la ragazza giovane che si tagliava le mani con le lamette, è
stata considerata pazza come effetto dell’abbandono della sua famiglia.

Ad affermare la sua idea è Vincenzo Ampolo:

questo transire da uno stato a un altro ha i caratteri della


divisione, della scissione delle varie parti di sé [...] Se i “riti
di passaggio” segnano la separazione dell’individuo dalla
comunità, i “riti di trattamento” segnano la divisione e la
frammentazione delle varie parti del paziente83.

La categorizzazione sociale porta l’uomo a uno stato di


straniamento. Quando viene giudicato pazzo, gli vengono dati dei
farmaci che psicologicamente contribuiscono poi alla frammentazione
del proprio io. Di conseguenza, lui non si sente solo rinchiuso dentro dei
determinati limiti, ma è anche anormale.

83
Vincenzo Ampolo, Voci dell’anima. Scrittura narrazione e pratica analitica, Nardò, Besa, 2004, p. 125.
47
I.2. La Salvezza

La sofferenza che Alda Merini ha dovuto affrontare durante e


dopo la sua esperienza manicomiale era del tutto difficile sia fisicamente
che psicologicamente, ma lei, con intelligenza, è riuscita a vincere la sua
48
malattia e la sua dolorosa esperienza dell’internamento in manicomio ed
è potuta diventare una fra le poetesse e scrittrici più apprezzate e amate in
Italia.

Nonostante l’ambiente impietoso del manicomio, la Merini ha


trovato la sua salvezza nelle cure dello psichiatra, il dottor Enzo Gabrici
(è anche chiamato nel diario il dottor G.), nella scrittura e nella sua forza
interiore. Tali fattori sono stati fondamentali nel processo della
guarigione della scrittrice: “Rivalsa e terapia, psicoanalisi e canto: la Merini si
“salva” scrivendo.”84.

84
Stefano Redaelli, Alda Merini: la scelta della follia, la salvezza della parola, Romanica Silesiana, 2013, vol.
8, n.2, p. 9.
49
I.2.1. Dottor Enzo Gabrici

Proprio grazie all’aiuto del dottor Gabrici, Alda Merini è riuscita


a superare i suoi disturbi psicologici con la psicoanalisi intrapresa con
lui. In realtà egli credeva nella sua guarigione, a tal punto che una volta
le ha fatto una sorpresa, portandole una macchina da scrivere in
manicomio. Grazie a lui, la Merini è tornata a scrivere dopo un lungo
periodo di silenzio a causa del suo malessere.

Un giorno, senza che io gli avessi detto mai nulla del mio
scrivere, mi aperse il suo studio e mi fece una sorpresa.
«Vedi» disse, «quella cosa là? È una macchina per scrivere.
E per te per quando avrai voglia di dire le cose tue.» [..].
Ma lui, con fare molto paterno, incalzò: «Vai, vai, scrivi».
Allora mi misi silenziosamente alla scrivania e cominciai:
“Rivedo le tue lettere d’amore...”.85

Il dottor G. sembra essere, per la Merini, la speranza di un senso


di umanità già dimenticato nel manicomio dove i medici e gli infermieri
trattano male i degenti e li offendono. Infatti, ad aiutare una paziente a
recuperare la sua passione per farla guarire, indicherebbe uno spirito
generoso e gentile.

85
Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit., p.17.
50
Franca Pellegrini, a proposito del ruolo che ha la figura del dottor
G. nella guarigione della scrittrice, commenta affermando che egli “rimane
per Merini il riferimento umano cui appellarsi in un mondo che non ha per lei più nulla
di umano, è l’unico contatto con il mondo dei vivi”86.

Notiamo anche Stefano Redaelli che sottolinea come il dottor G.


ha potuto fare della creazione artistica e della scrittura un rimedio che
leniva i dolori di Alda Merini. E grazie a lui, lei ha potuto credere nelle
sue forze interiori e vincere la sua malattia e il malgiudizio della società:

Il dottor Enzo Gabrici – unica figura medica positiva


nell’esperienza manicomiale della Merini, che la «rieducò
alla letteratura, l’unica fonte di vita», mettendole a
disposizione una macchina da scrivere – definisce la
«creazione attraverso l’arte poetica» un «balsamo» per la
Merini, attribuisce alla «sua forza di artista» la sua vittoria
sulle «violenze di false culture scientifiche» e «alla sua
meritoria realizzazione nel sociale attraverso l’espressione
poetica» la sua guarigione.87

Il dottor G. era un medico particolare: rimaneva molto vicino ad


Alda Merini e presente nella sua vita. Lei ogni volta che si sentiva giù,
non trovava meglio di lui per sfogarsi. Non solo, ma egli raccoglieva
anche tutte le sue poesie scritte in manicomio e le teneva con sé, siccome
i suoi parenti non andavano più a trovarla. Era anche ben convinto che la
86
Franca Pellegrini, La tempesta originale. La vita di Alda Merini in poesia, Firenze, Franco Cesati editore,
2006, p.37.
87
Stefano Redaelli, Alda Merini: la scelta della follia, la salvezza della parola, op. Cit., p. 33.
51
Merini non era malata di mente, ma forse da piccola ha dovuto affrontare
un “violentissimo trauma” che è stato, poi, aggravato dall’atrocità del
manicomio, ma Alda Merini afferma di non ricordare niente di quel
trauma, e lo definisce come “un buco nero” nella sua memoria. Così la
scrittrice parla dell’aiuto del dottor G. in manicomio dicendo:

cominciò la cosiddetta “psicoterapia”, fatta con lui e con


estremo amore da parte di quell’uomo, che forse fu il mio
salvatore. [...] Ma molto mi aiutò il dottor G. che con la sua
terapia della non violenza dava all’ammalato la sensazione
di poter essere ancora vivo, o di potere almeno accedere a
quella specie di autenticità del vivere cui, di fatto, il malato
solitamente aspira.88

Il dottor G. ha, dunque, potuto stabilire un rapporto medico-


paziente basato sulla comprensione, la fiducia, l’affetto e l’armonia, così
la Merini descrive il rapporto con il dottor G. come un tenerissimo
rapporto fatto di sguardi, di sottintesi, di insegnamenti accorti.89.

È ben chiaro nelle parole della Merini, che l’affetto guarisce la


pazzia e chi lo mostra a un malato, gli diventerebbe un “salvatore”, come
il dottor G. che aveva un modo affettuoso di trattare la scrittrice e che
alla fine la sua cura è stata efficace. Il suo aiuto ha fatto di lei nonostante
le difficoltà, ha fatto di lei una persona più forte. L’affetto, quindi, salva
chi soffre dai suoi disturbi, il che afferma l’idea della Merini che la
88
Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit., p.18.
89
Ivi, p.17.
52
pazzia non esiste ma viene, anzi, generata dalla mancanza d’amore. Già il
dottor G. è stato definito in Reato di Vita “una vera figura d’amore” per
indicare come veniva considerato una fonte d’amore e di guarigione per
la Merini.

La cura del dottor G. è, dunque, piena d’amore e di rispetto e la


faceva sentire, finalmente, ancora viva. Lui la aiutava a parlare con
scioltezza dei suoi disturbi, una cosa che la scrittrice ha apprezzato
esprimendogli la sua gratitudine con un abbraccio:

Con il dottor G. il dialogo si faceva sempre più sciolto,


aperto. Cominciai ad amarlo, [...] Una volta persino
l’abbracciai e gli dissi che l’amavo. Lui sorrise e mi passò
teneramente la mano sui capelli.90

Alda Merini, per esprimere il suo apprezzamento per il ruolo che


il dottor G. ha avuto nella sua esperienza manicomiale, gli ha dedicato un
libro, un anno prima della propria morte avvenuta nel 2009, intitolato
Lettere al dottor G. (2008).

90
Ivi, p.18.

53
I.2.2. La scrittura

Non solo il dottor G. che “ha salvato” Alda Merini dal suo dolore
con la psicoanalisi basata sull’affetto e la comprensione. Questi due
elementi sono principali per la salute emotiva delle persone, soprattutto
per la Merini che era emotivamente fragile sin da piccola: Iniziando dalla
madre severa e la seconda guerra mondiale al matrimonio non voluto, e
alla difficile esperienza manicomiale. Un altro mezzo di particolare
importanza nell’iter della sua guarigione è la scrittura. Il dottor G.
descrive questa attività come un “balsamo” che attenuava il suo disagio:

In definitiva, penso che le alterazioni della sua vita


cosciente nascessero dal conflitto fra la sua natura istintivo-
passionale, che trovava espressione naturale nel linguaggio
della poesia, e la costrizione della normale vita famigliare
che aveva accettato, con le responsabilità legate alla
crescita e all’educazione delle figlie, che tanto amava, e le
probabili incomprensioni con il marito (di cui tuttavia mai
mi parlò). […] La creazione attraverso l’arte poetica è stata
il suo balsamo […]. Ma la sua espressione più vera era la
poesia, l’Arte che il suo oscuro Spirito le aveva dato in
dono con il suo divino messaggio.91

91
Enzo Gabrici, in prefazione a Lettere ad dottor G., Milano, Frassinelli, 2008, pp. 6-7.
54
La scrittura per la Merini era, dunque, un dono divino che le
permetteva di confidare ai fogli le sue tristezze e le difficoltà che ha
dovuto affrontare nella vita e il diletto che attenuava il suo dolore.

Alda Merini afferma che la scrittura era lo strumento con cui


poteva connettersi a se stessa esprimendo le sue emozioni e i suoi disagi.
Per lei era un modo per appagare “la sua natura istintivo-passionale” e
per vincere i limiti della vita quotidiana. Scrivendo, si sentiva
completamente libera e in armonia con se stessa e di conseguenza, con il
mondo intero:

Io, quando scrivo, è come se dormissi ed entrassi nel


profondo della mia anima. Mi fa paura il risveglio, il
contatto matematico, aggressivo con la realtà dalla quale
vorrei finalmente slegarmi92

Il rifugio che Alda Merini trovava nella scrittura le sembra come


un riparo protettivo dalla realtà severa che viveva. Non appena sentiva
quella voglia di distaccarsi dal reale, abbandonava alla pagina la sua
anima, come quando sentito un paziente cantare suonando la chitarra nel
giardino “con una voce deliziosa”. Era un momento che la Merini
descrive “incredibile”. Ma, purtroppo, un caposala gli ha, probabilmente,
rubato intenzionalmente questa chitarra. Alda Merini a sapere questo ha
pianto e ha composto questa poesia:

92
Alda Merini, L’altra verità. Il Diario di una diversa, op. Cit., p. 18.
55
un ragazzo che aveva la chitarra
se la vide strappare dalle mani
fatta a pezzi e buttata
nei giardini del manicomio.93

Certo un senso di delusione era inevitabile, per una persona


sensibile come la Merini, a vedergli rompere la chitarra davanti ai suoi
occhi, soprattutto che quell’episodio potrebbe essere simile a quando suo
padre le ha strappato dalle mani la sua prima poesia scritta da lei a
quindici anni, sgridandole perché secondo lui scrivendo la poesia non dà
il pane. Una connotazione del genere l’avrebbe, probabilmente, fatto
sentire male.

La scrittrice, in un giorno triste nel manicomio ha composto una


poesia per esprimere il suo stato di malinconia rimpiangendo la sua
gioventù passata in gran parte nella casa di cura e per evidenziare come si
è adattata alla solitudine:

Le mille metamorfosi
le molte primavere perdute
nei giardini del manicomio
adesso io voglio star sola.
[...] perché io sono una martire
e dopo andrò davanti all’altare
povera di ogni memoria

93
Ivi, p. 23.
56
e mi dirò al mio signore
ma adesso, sì proprio adesso,
io voglio finalmente stare sola.94

La voglia di stare sola indica quanto la Merini ha sopportato la


solitudine, al punto di smettere di soffrirne, accettandola e addirittura
desiderandola per poi lamentarsi con Dio raccontandogli tutta quella
severità subita.

Alda Merini voleva condividere il suo pianto con qualcuno e non


trovava meglio del foglio bianco per esprimersi, anche se non aveva
nessun’intenzione di far leggere agli altri le sue sofferenze. Lei stessa
nota che non avrebbe creduto che un giorno gli altri potrebbero leggere i
suoi dolori:

Non avrei mai creduto che un giorno altri avrebbero letto


ciò che ho patito. [...] quante lacrime. Lacrime che arrivano
come caprioli violenti95

Siccome dentro e fuori il manicomio si sentiva sola, La Merini


trovava nella scrittura un amico fidato con cui sfogarsi ed esprimersi
liberamente. La scrittura la aiutava a manifestare i suoi pensieri e le sue

94
Ivi, p. 25.
95
Alda Merini, Delirio amoroso, op. Cit., p. 64.
57
emozioni senza i giudizi o le malintese da parte di nessuno. Lei stessa lo
afferma in Lettere al dottor G. dicendo:

Scrivo per dialogare con qualcuno. Dio mi ha lasciato


questo dono prevedendo che sarei stata tanto sola nella vita
così posso conversare con gli altri, peccato che le mie
letture vadano bene solo per gli psichiatri. […] A rivederci,
non so a chi ma a rivederci lo stesso. Qualcuno bene o male
avrà udito i miei singulti96

Alda Merini, durante l’esperienza manicomiale, si sfogava


scrivendo sia frammenti di poesie che pagine in prosa forse per poter
esprimersi in tutti i modi possibili e manifestare il suo stato d’animo nella
forma adeguata secondo lei: Nel periodo in cui sta scivolando verso
l’abisso Alda Merini si dedica anche alla scrittura in prosa, forse
cercando consensi più ampi97. Sembra che la scrittrice trovasse nella
scrittura in tutte le sue forme il suo diletto che la compensava con i suoi
dolori.

Stefano Ferrari afferma che attraverso la scrittura la Merini


sfogava il suo dolore e raggiungeva la pace interiore. Così egli descrive
la scrittura di Alda Merini dicendo: “Scrittura magmatica quanto

96
Alda Merini, Lettere al dottor G, Milano, Frassinelli, 2008, pp. 81-82.
97
Ambrogio Borsani, Il buio illuminato di Alda Merini, Il suono dell’ombra. Poesie e prose 1953-2009, Milano,
Mondadori, 2010, p. 25.
58
l’inconscio, che cerca nella manifestazione grafica un gesto ordinatore e
pacificatore.”98

Alda Merini, attraverso la scrittura, affermava la sua diversità


perché la aiutava a riflettere su se stessa, a rielaborare i suoi pensieri e a
rivedere le situazioni a seconda dei propri punti di vista, al di là di quello
che è stato imprevisto dalla società che l’aveva rifiutata. È notevole il
parere di Daniele Cerrato su come la scrittura l’ha salvata:

La parola in Merini diventa lo strumento di cui la donna


dispone per affermare la propria differenza, le permette di
guardare oltre, di entrare nel mondo del non-noto, e le dà la
possibilità di interpretare le situazioni e la realtà delle cose
da un punto di vista che non sia quello tradizionale99

Per Alda Merini la scrittura ha avuto, quindi, una funzione


terapeutica nella sua vita, perché scrivendo si autoanalizzava e nel
frattempo si dilettava facendo ciò che amava: ovvero dalla scrittura
terapeutica alla poesia salvifica (in versi o in prosa)100.

A questo proposito nota Antonio Chiocchi che il ruolo della


scrittura nel percorso terapeutico della Merini è molto efficace
98
Stefano Ferrari, Scrittura come riparazione, Laterza, Biblioteca di cultura moderna, 2005, p. 10.
99
Estela González de Sande e Angeles Cruzado Rodríguez, Alda Merini e il mito della Grande Madre:
l'identità ribelle, Sevilla, Arcibel Editores, 2010, p. 186.
100
Francesca Parmeggiani, La folle poesia di Alda Merini, Quaderni d’Italianistica, vol. 23, n. 1, 2002, p. 179.
59
nell’alleviare le sue sofferenze, anzi ha fatto del dolore una fonte di
ispirazione dalla quale escono grandi opere letterarie.

Qui le parole e la poesia si saldano col dolore e la bellezza


della vita. Esse restituiscono al poeta e al sofferente la loro
bellezza e la loro vitalità, perché li illuminano come una
stella sognante e innamorata. Poeta e sofferente diventano
stelle illuminate dalla luce che promana dalla loro
interiorità incatenata: dalla luce sepolta che recano dentro
di sé e che brilla nascosta tra le pieghe della vita a cui tutti
arrechiamo oltraggio.101

La scrittura per la Merini è la prova della vittoria sul male così


come scrive Manganelli nella prefazione a L’altra verità. Diario di una
diversa: grazie alla parola chi ha scritto queste pagine non è mai stata
sopraffatta102; e come ella stessa testimonia in Reato di vita:

La poesia veramente salva la vita con la potenza


dell’intelletto, con la forza del linguaggio e con l’amore.
Tutte le persone hanno bisogno di amore e la poesia è
amore, ma non amore personale, amore per tutti, amore
sociale.103

101
Antonio Chiocchi, Di alcuni passaggi in Alda Merini, Società e conflitto, n. 41, 2010,p. 3.
102
Giorgio Manganelli, prefazione a Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit., p. 11.
103
Alda Merini, Reato di vita. Autobiografia e poesia, op. Cit., p. 104.
60
È possibile che la Merini abbia trovato nella scrittura l’amore
mancato che le serviva per guarire, un amore che la accompagnava,
comunque fosse il suo stato d’animo, fino alla morte.

Giorgio Manganelli nella prefazione de L’altra verità. Diario di


una diversa, ha definito la scrittura come vocazione salvifica della
parola104 per la Merini. Infatti, secondo Manganelli, la parola “salvifica”
ha un doppio senso: il primo è salvarsi dalla propria inquietudine e il
secondo è salvare la propria scrittura come attività da sempre amata.

Infine, la scrittura ha salvato Alda Merini, in tutti i sensi della


parola sia nel senso della resistenza alla sofferenza che la redenzione dal
peso di essere diversa, dalla cattiveria delle persone, la crudeltà della vita
reale, e dal continuo senso di colpa.105

104
Giorgio Manganelli, prefazione a Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit. p. 9.
105
Cfr. Stefano Redaelli, Tre punti di vista sulla follia: Tobino, Merini, Samonà, Rassegna europea di
letteratura italiana, n. 39, 2012, p. 100.
61
I.2.3. Forza interiore

1.2.3.1. Immaginazione

Un terzo fattore importante che si rivela indispensabile al


superamento dell’esperienza manicomiale è la forza interiore della
scrittrice che si dimostra nella capacità di vincere il male vissuto nella
vita dentro e fuori del manicomio. Tale forza si basa sul sentimento
d’amore, la fede e il perenne punto di vista fanciullesco.

Alda Merini era in grado di accogliere dentro di sé la vitalità delle


cose, apparentemente irrilevanti in uno spazio come quello del
manicomio. Infatti per gli infermieri era “strano” che un malato di mente
odorasse o toccasse i fiori. E così la scrittrice racconta in Reato di vita:
“Ma lei si permette di toccare i fiori del giardino del manicomio?” “Mi scusi, sa, ero
fuori di testa!”106

Questa capacità di voler connettersi pienamente alla natura,


nonostante la severità del suo ambiente circostante, indica che Alda
Merini è riuscita a mantenere intatta la sua purezza d’animo. Sembra che
la cattiveria umana non l’abbia fatto perdere la sua innocenza infantile.
Ella stessa afferma ne L’altra verità. Diario di una diversa:

106
Alda Merini, Reato di vita. Autobiografia e poesia, op. Cit., p. 122.
62
ll giardino d’estate era pieno di uccelli: io pensavo a quanto
la natura non riuscisse, suo malgrado, a falsare il segno
della sua innata bontà. Anche se noi percepivamo quei
suoni come si potrebbero percepire in un Eden, dove tutto è
possibile e impossibile, pure il sentirci controllati dalla
natura, il sentirci serviti dai suoi concetti, dal suo clima, ci
faceva gran bene al cuore, e, così, l’erba verde ci parlava di
fiducia, e così i fiori, e così i ruscelletti che si aprivano
dolcemente in mezzo a qualche piccola aiola, e così il cielo
tutto.107

La natura rispecchiava nell’anima della scrittrice l’innato


buonsenso che più l’uno è immerso nella quotidianità in modo
squilibrato, più lo si perde. La natura è quindi lo specchio della sua anima
dove rivedere chiare la bontà, la fiducia, la bellezza, la dolcezza, e la
speranza.

Silvia Dipace nota come la capacità della Merini di sentirsi in


armonia con il mondo le faceva equilibrio contro la severità del
manicomio e della vita fuori:

Alla stessa maniera, frequenti sono i momenti di estasi nella


contemplazione della natura, che resiste all’aridità del
manicomio. Varie sono le raffigurazioni che della natura la
Merini ci fa, e tutte ci lasciano sconcertati per la limpidezza
dello sguardo, per la capacità di trascendenza.108

107
Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit., p. 16.
108
Silvia Dipace, Il multiforme universo delle poesie di Alda Merini, Siena, Prospettiva, 2008, pp. 53-54.
63
Alda Merini, essendo scrittrice e poetessa, la sua libertà interiore
era invincibile in mezzo a tutto quel dolore subito nella sua vita, perché
secondo lei l’anima di un poeta sorvola oltre i limiti del reale, cioè il
poeta non può essere carcerato nemmeno dentro il suo corpo.

Antonio Chiocchi, a tal proposito, interpreta:

per lo più, i poeti sono tristi, vanesi, alteri e altezzosi, anche


quando la loro poesia è bella. Per la Merini, invece, la (sua)
vita è più bella della poesia. [...] fa del viaggio nella sua
follia e nella follia della vita un affondo, per l'assaggio della
sua personale bellezza arcana109.

Un altro elemento che ha aiutato la scrittrice a salvarsi dalla


sofferenza della vita è la capacità di immaginare. Con l’immaginazione
lei ha creato il suo mondo dove rifugiarsi e ricaricarsi lontano da quel
reale pieno di tormenti, inutili sensi di colpa, e solitudine. In realtà lei
osserva che quando si sentiva male, si immaginava chiusa dentro un
“cerchio magico”, il quale nessuno poteva violare. E quando le era
permesso uscire nel giardino del manicomio, lei racconta di non poter
scrivere nulla, perché si sentiva presa dalla bellezza della natura attorno.
Immaginava di essere trasformata in “un fiore” o in “un’ape gonfia, ed
estremamente forte” per indicare l’alta autostima che viene associata al
senso della totale libertà. Alda Merini si esprime così:

109
Antonio Chiocchi, Di alcuni passaggi in Alda Merini, op. Cit., p. 3.
64
E per ore, inginocchiata a terra stetti a bere di quella
sostanza vitale, senza peraltro fiatare, senza dire a nessuno
che avevo incontrato un nuovo tipo di morte. Divine,
lussureggianti rose!110

Antonio Chiocchi afferma:

Ed è proprio la poesia e la vita di Alda Merini che stanno lì


ben piantate, per dirci che vi sono sogni più reali della
realtà, più veritieri delle più elementari verità.111

Alda Merini si è abituata a vivere l’attimo due volte: la prima


volta nella sua realtà e la seconda nella sua fantasia. Borsani osserva che
questo meccanismo di vivere i momenti difficili della vita l’ha aiutata ad
alleviare i suoi traumi:

Chi conosce e frequenta Alda Merini sa che ogni momento


della vita viene da lei vissuto due volte. Prima nella realtà,
poi nella sua proiezione fantastica. Ed è qui, in questa
celluloide cerebrale, incisa, sviluppata e proiettata sullo
schermo magico della pagina che finalmente l’autore si
prende la rivincita sulla vita112

110
Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit., p.26.
111
Antonio Chiocchi, Di alcuni passaggi in Alda Merini, op. Cit., p.4
112
Ambrogio Borsani, Note in Alda Merini, Delirio amoroso, op. Cit., p. 109.
65
La scrittrice, nel manicomio, sembra di cercare la parte positiva
nella sua esperienza, invece di lamentarsi inutilmente, adeguandosi con
intelligenza e forza a un ambiente così severo, facendo quello che amava,
cioè scrivere e sognare.

Alda Merini non si è lasciata disturbare dal silenzio del


manicomio, anzi, l’ha trovato un’occasione per riflettere su se stessa:

Così in questo modo gentile adoperai il silenzio, e mi venne


fatto di incontrarvi il mio io, quell’io identico a se stesso,
che non voleva, non poteva morire.113

A notare la forza interiore della Merini e la sua capacità di usare


l’immaginazione a trasformare i momenti difficili in momenti pieni di
serenità e armonia con il mondo è Maria Corti. Ella afferma che alla fine
Alda Merini ha scelto di rinunciare al vittimismo e di giungere
l’equilibrio più possibile nella sua vita.

Dapprima lei vive all’interno di una realtà tragica in modo


allucinato e sembra vinta; poi la stessa realtà irrompe
nell’universo memoriale e da lì è proiettata
nell’immaginario e diviene una visione poetica dove ormai
è lei a vincere, a dominare, non più la realtà114.

113
Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit., p. 13.
114
Maria Corti, Introduzione in Alda Merini, Fiore di poesia, Torino, Einaudi, 2014, p. 5.
66
La scrittrice ha rifiutato di essere vittima delle violenze del
manicomio né di essere uno degli stereotipi sociali, anzi, ha potuto
vedere il bello sia della sua esperienza di vita che della sua personalità
diversa dal comune, il che ha reso la sua scrittura ben originale. E con
questa forza interiore la Merini è riuscita a realizzarsi superando le
difficoltà della vita.

I.2.3.2. Amore e fede

Alda Merini ha potuto notare che l’amore puro, che non trovava
facilmente fuori, esisteva con forza tra i malati nel manicomio. Infatti i
malati si consolavano tra di loro e reciprocavano sentimenti veri
soprattutto quando uno di loro veniva maltrattato dagli infermieri. In
realtà si dividevano tra loro ciò che mangiavano e si facevano dei regali
con quello che potevano: fiori, sigarette, cioccolate, pane o semplici gesti
di affetto.

L’amore, secondo la scrittrice, esiste con purezza nella


condizione dell’anormalità, una cosa, secondo lei, rara per quelli che si
autodefiniscono normali. Ella afferma che:

Il manicomio, il luogo più esterno alla vita, non era fatto


solo di pastiglie ed elettroshock, ma di amore. Un
sentimento che indirizzavo sulle cose più semplici, sui gesti
più elementari. Se uscivo, come a volte accadeva, gli altri

67
matti mi chiedevano di comprargli le sigarette, il vino, la
cioccolata. E se mi riusciva di farlo, sentivo che il legame
affettivo che la follia a volte crea tra le persone è più forte
di quello che ci procura la normalità115

Brigitte Urbani, commenta a tal proposito, dicendo:

Eppure, in questo luogo di segregazione, ha scoperto una


comunità positivamente diversa dalla società dei sani di
mente. Imprigionata per “delitto d’amore”, ha conosciuto
l’affetto e la solidarietà, non certo tra malati e personale
ospedaliero, ma tra malati e malati.116

Alda Merini, nel manicomio, non ha perso la sua fede, anzi è


diventata più lucida spiritualmente, come se pregare fosse un suo riparo,
al punto che a volte sentiva anche la buona presenza degli angeli intorno
a lei:

Ma l’anima si rarefaceva ogni giorno. Ogni giorno


diventavo più spirituale e, da quell’immensa vetrata, da
quel grande lucernario che illuminava la sala, qualche volta
vedevo scendere gli angeli.117

115
https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/08/24/alda-merini-lettere-dalla-
follia.html, cliccato il 11 marzo 2022, ore 7:18.
116
Brigitte Urbani, Alda Merini: Poesia di una “diversa”, op. Cit., p. 5.
117
Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit., p.17.
68
L’autrice, contemplando la bellezza del mondo, si sentiva
“piccola” davanti alla potenza divina, così come quando sentiva il suo
compagno cantare con una voce stupenda mentre guardava il cielo. Era
come se non ci fossero pareti né sbarre nel manicomio, cioè un senso di
totale libertà.

Erano momenti incredibili perché le sbarre scomparivano e


c’era solo l’aria, e c’eravamo noi, diventati piccoli. Tanti
piccoli figli di Dio.118

In realtà quando le era permesso di uscire in giardino e si trovava


in mezzo alla natura, si sentiva “vicina a Dio”, il che indica come la
contemplazione della natura era necessaria per il suo equilibrio a livello
psicologico, mentale e spirituale. Questa dichiarazione rafforza la sua
idea che il manicomio come ambiente chiuso ammala chi soffre
psicologicamente, piuttosto che alleviargli la sua sofferenza.

La forza interiore, la fedeltà e il talento hanno fatto di lei una


persona incrollabile, una che davanti alle condizioni misere della vita, ha
avuto fiducia in se stessa e in Dio senza perdere la speranza di essere una
persona felice. Ella stessa commenta:

È inutile che io grida


che a volte io stringo una mano

118
Ivi, p. 23.
69
che non conosco [...]
Non è né un principe né un depredato,
è soltanto l’idea celeste
di un’entità sconosciuta
che ho chiamato
Dio.119

II.1. I personaggi

II.1.1. Personaggi principali

119
Ivi, p.7.
70
II.1.1.1. Alda

La protagonista della vicenda è Alda Merini, la stessa scrittrice


del nostro diario L’altra verità. Diario di una diversa. Alda è stata
internata nel manicomio di Paolo Pini di Milano, nel quale ha vissuto
dieci anni, dal 1965 al 1972, con ventiquattro ricoveri interrotti da pochi
intervalli.

Alda aveva gli occhi verdi, le guance rosse come se fossero “due
pesche”, portava sempre i capelli acconciati, un’ampia vestaglia azzurra e
calzature di legno ai piedi.

Era sposata, aveva due figlie: Emanuela e Flavia, e ha portato


altre due gravidanze in manicomio: Barbara e Simona. La diagnosi
presupponeva che fosse schizofrenica, ma lei era sicura di non esserlo, di
essere solamente esasperata dalle stanchezze quotidiane e
dall’ipersensibilità.

Lei ha passato il tempo in manicomio a scrivere frammenti di


poesie, pagine diaristiche e lettere, a meditare, e a scoprire le sue forze
interiori.

Aveva uno scopo dentro il manicomio: quello di rispondere alle


domande che aveva dentro di sé, di giungere alla verità che essere diversi
71
non per forza significa essere pazzi da legare, e che la mancanza d’amore
è la causa di tutti i mali dell’umanità. La protagonista, in manicomio,
voleva, intanto, vincere i suoi disturbi e il suo squilibrio interiore: “Io
avevo sete di verità e non capivo come ero potuta capitare in quell’inferno.” 120

Era una persona sensitiva, intelligente, acculturata, e appassionata


della letteratura. Nelle sue scritture diaristiche durante il suo ricovero in
manicomio Si rifaceva a opere letterarie per criticare e condannare la
disumanità e la crudeltà del manicomio come i Malavoglia di Giovanni
Verga:

C’era e c’è in quel romanzo, una simile atmosfera di


aspettazione mista ad una intensa disperazione, e una
sottomissione al fato, alla pochezza delle proprie cose...121

Lei si riferiva anche all’opera letteraria, la Metamorfosi di Franz


Kafka, per sottolineare la disumanità:

Nelle malattie mentali [...] ci troviamo ad essere rettili,


mammiferi, pesci, ma non più esseri umani. Dice bene
Kafka nella sua Metamorfosi122.

120
Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit., p. 13.
121
Ivi, p. 23.
122
Ivi, p.18.
72
Alda ha menzionato anche la Divina Commedia di Dante
Alighieri, sempre riferendosi alla crudeltà del manicomio: “Credo che
solo le illustrazioni del Doré per la Commedia dantesca potessero rendere
bene il fascino e la mostruosità del manicomio.”123.

La scrittrice si intendeva anche di psicologia e ricorreva, qualche


volta, sia durante le sue conversazioni con il suo medico sia nelle sue
scritture autoterapeutiche, alle teorie di Sigmund Freud, come il
complesso di Elettra, per esprimere la natura del rapporto con sua madre
e il complesso di abbandono per esprimere la sua tristezza per il
trasferimento del suo psicanalista, il dottor G.

La protagonista era conscia di sé. Mentre il suo medico sosteneva


che il senso di derealizzazione o quello di depersonalizzazione
avvenivano a causa della sua malattia, lei lo opponeva ricordando che
prima del suo internamento era stata in buon contatto con la realtà, ma,
dopo, in seguito ai farmaci, gli elettroshock e il maltrattamento da parte
degli infermieri, questo stato di confusione si è aggravato, aggiungendo
che il suo ricovero in manicomio l’ha ammalata davvero, invece di
aiutarla a risolvere i suoi disagi psicologici.

Lei si descriveva una persona virtuosa che nonostante le


sofferenze vissute nel manicomio ha conservato i suoi valori:

123
Ivi, p.24.
73
Il manicomio non è correzionale. Ognuno che vi entra vi
porta i suoi valori sostanziali e ve li conserva gelosamente.
Così ho fatto io, a dispetto di tutti i vituperi e di tutti gli
elettroshock.124

Lei appariva anche impulsiva, ribelle e audace soprattutto quando ha


cercato di dare fuoco all’ospedale come atto di vendetta:

Ma l’attesa era esasperante, i maltrattamenti inumani e, un


giorno che ero particolarmente depressa, presi quel
batuffolino e lo buttai su un mucchio di immondizie.125

Alda, in un’altra occasione, ha cercato, ancora, di incendiare


l’ospedale:

Ma una volta, in un impeto di rivolta, incendiai l’ospedale:


avevo in mano dell’alcool e vi detti fuoco, pronta a morire.
Non fui scoperta e non fui punita, ma cominciai da allora a
nutrire un odio feroce verso tutti e tutte le cose.126

Lei, come afferma nel suo diario, era buona e tranquilla ma,
purtroppo, poi, con il tempo, dentro il manicomio, Alda è diventata

124
Ivi, p. 22.
125
Ibidem.
126
Ivi, p.17.
74
malinconica, taciturna, passiva, solitaria e indifferente che non ha più
“bisogno di nulla”.

La protagonista era una donna spirituale che quando la sofferenza


si faceva pesante lei si riparava pregando. Un’altra volta alle malate
hanno permesso di uscire tutte in giardino, lei ha sceso di corsa in
giardino e subito si è identificata con Santa Teresa che si autodescriveva
come una “piccola rondine di Dio” per esprimere l’armonia con il mondo
creato da Dio e il senso della libertà interiore:

Mi inginocchiai davanti a un pezzetto di terra e mi bevvi quel terriccio


con una fame primordiale. Fu un giorno grande, il giorno della nostra
prima resurrezione. Da quel giorno cominciammo a vestirci, a
pettinarci, a curare il nostro aspetto, perché fuori c’erano gli uomini.
Ma, soprattutto, c’era il sole, questo grande investigatore che vede
oltre, oltre anche i nostri corpi. E le nostre anime dovevano per forza
diventare belle...127

La protagonista del romanzo era una donna fumatrice. Le


sigarette erano, per lei, un modo che compensava la sua solitudine:

Con quelle orribili facce io non scambiavo parola mai; e


non avevo bisogno di nulla. Solo una gran voglia di
sigarette per passare il tempo128

127
Ivi, p. 23.
128
Ivi, p. 18.
75
La Merini ha addirittura dedicato una poesia alle sigarette che
fumava in manicomio:
Vado fumando questa sigaretta
e il mio tempo, lo spazio e ogni riposo
stento nell’ozio che non più mi affretta
ma intanto brucio questo verde alloro
e qualche forte mio pensiero audace
che mi viene a trovare qual sirenetta129

Alda trovava, dunque, nelle sigarette la “carezza” e l’amore che le


sono sempre mancati.

II.1.1.2. Il dottor Enzo Gabrici

Il dottor Enzo Gabrici era senza dubbio il personaggio più


importante che faceva parte del periodo passato, in manicomio, da Alda
Merini. Era il suo psicanalista dentro il manicomio.

Il dottor G. rappresentava, per la protagonista, il simbolo


dell’accettazione e dell’amore senza scambio. Era una persona buona e
intelligente. Aveva molta pazienza e volontà nel processo della cura dei
malati e soprattutto di Alda Merini. Adottava le teorie freudiane
nell’esercitazione del suo lavoro.

129
Ivi, p.25.
76
Lui affermava che la protagonista non era malata di mente, ma
era colpita da un forte trauma nell’infanzia, che si è fatto più pesante
durante il suo soggiorno in manicomio.

La Merini gli voleva bene e lo considerava come un padre. Lui, a


volte, le dava permessi per uscire dalla casa di cura e la ascoltava quando
aveva bisogno di sfogarsi.

Un giorno, il dottor G., senza che Alda gli avesse menzionato la


sua passione per la scrittura, le ha fatto, un regalo, una nuova macchina
da scrivere. Quel gesto rivela la sua gentilezza e la sua intuitività. Ha
capito, probabilmente, che attraverso la scrittura, un’attività amata sin
dall’infanzia, lei si sarebbe potuta riconnettere alla sua bambina interiore
e di conseguenza amarla e curarla fino alla completa guarigione.

Dopo cinque anni il dottor G. è stato trasferito improvvisamente.


Tale notizia ha colpito Alda profondamente e l’ha descritta così: “grande
fu il panico che io sentii dentro di me.”130.

II.1.2. Personaggi secondari

II.1.2.1. I degenti

130
Ivi, p. 20.
77
I degenti sono il riflesso del mondo interiore della protagonista:
sia la paura e la fragilità che l’amore e la fratellanza. Le facce dei degenti
erano mostruose, sembravano proprio come “le streghe del Macbeth”131.
Avevano le unghie lunghe e portavano sempre le ampie vestaglie del
manicomio.

Tanti malati orinavano per terra e altre si strappavano i capelli e i


vestiti. Loro stavano tutto il giorno a borbottare o a volte cantavano
canzoni sconce.

Alda all’inizio preferiva stare sola, perché vedeva che questo


mondo non le apparteneva.

L’immagine che riguarda l’aspetto fisico dei degenti, trasmessa


da Alda Merini, potrebbe essere una proiezione. Infatti l’orrore e lo stato
di vittima che lei provava per gli altri non erano altro che una riflessione
degli stessi sentimenti dentro di sé. In altri termini, se gli altri suscitavano
in lei un sentimetno di misericordia e paura, è in realtà lei stessa che si
sentiva miserabile, avendo anche lei la stessa loro condizione.

Dopo con il tempo, lei ha scoperto che i malati sapevano amare


veramente, una cosa che le persone fuori del manicomio non sapevano

131
Macbeth è una fra le più note tragedie di William Shakspeare che tratta l’ascesa di Macbeth, un nobile
scozzese, al potere. Le tre streghe (o le tre sorelle) sono tre personaggi che con il loro inganno e le loro
profezie malvagie inducono il nobile a compiere atti di omicidio per sentirsi al sicuro.
78
fare: “proprio lì dentro, imparai ad amare i miei simili.” 132. Infatti, i malati
dividevano il pane tra di loro e si regalavano quello che potevano: fiori,
sigarette, poesie o cioccolatini.

I malati sono pieni di affetto, tenerezza e pietà. Succedeva, anche,


che la notte qualcuna veniva a ricoprire la protagonista bene e la baciava
sui capelli con tanto affetto. Lei afferma che fuori quando usciva dal
manicomio nessuno le dava quel affettuoso bacio, in quanto già guarita.
Quando qualcuno di loro veniva maltrattato dagli infermieri gli stavano
accanto a consolarlo.

Alcune malate invidiavano la scrittrice per il particolare rapporto


con il dottor G., trovando “eccessive” le sue cure dedicate a lei, la
protagonista, davanti a quella loro invidia, ha deciso di dargli più amore,
perché, secondo lei, l’amore è la medicina più efficace per tutti i disagi.

Nel diario si narra che c’era una malata vecchia che quando
vedeva passare Alda Merini la schiaffeggiava senza alcun motivo, mentre
la scrittrice prendeva la sua mano e gliela baciava perché le sembrava
come la mano di sua madre. Questo è un atto di violenza, scambiato con
amore e tenerezza:

Le cure che mi prodigava il dottor G. a loro sembravano


eccessive. Non riuscivano a capire chi fossi, e in fondo mi
132
Ivi, p. 25.
79
disprezzavano. E invece io le ripagavo di grande, infinito
amore perché ancora oggi amo i malati di mente. E c’era
una vecchia che quando mi passava davanti mi mollava dei
sonori ceffoni. Ma io quella mano gliela prendevo e gliela
baciavo perché poteva essere la mano di mia madre che
persi in tenera età.133

Insomma, tra i malati c’era un tipo di solidarietà e comprensione.


Quando qualcuno di loro taceva, capivano che stava male e cercavano in
tutti i modi di farlo ridere.

I malati, vivendo lo stesso destino e la stessa speranza, hanno


imparato l’altruismo: un giorno i malati si sono riuniti e hanno convinto
il loro medico a far comprare una nuova chitarra al loro compagno che
amava cantare e suonare.

II.1.2.2. Pierre

È un malato che Alda ha incontrato dentro l’ospedale di Paolo


Pini, e del quale lei si è innamorata per la sua gentilezza, soprattutto
quando aveva portato un mazzo di fiori bianchi per un’infermiera.

Pierre aveva una statura piccola e la pelle chiara. La sua faccia era
amorosa e infantile con tratti molto delicati. Pierre era un uomo tenero e
133
Ibidem
80
romantico e faceva il pittore. Ogni giorno sgattaiolava arrivando al
padiglione dove stava Alda e le regalava “un mazzetto di margheritine”
abbracciandola. La sua gentilezza è chiara nei suoi atteggiamenti con la
protagonista:
«Allora» dissi io, «perché mi cerchi?»
«Così, perché mi sei simpatica.»
[...] «Cosa hai da regalarmi?», gli chiesi subito io
aggressiva.
«Oh, nulla, ma se ti piacciono le sigarette posso anche fare
un debito.»

Si noti come Alda Merini ha visto i tratti della tenerezza e il


comportamento romantico, due tratti di cui ha sempre avuto bisogno.

Pierre è anche una persona timida e introversa: quando la


protagonista parlava d’amore, lui si agitava e arrossiva.

Per la protagonista, Pierre rappresenterebbe il senso della vita che


è riuscita a sentirlo in mezzo alle tenebre del manicomio. Infatti, l’amore
suo la consolava. La protagonista l’ha descritto come il ricordo più bello
di tutta la mia degenza134. Le sue parole d’amore l’hanno fatta ricordare il
dramma di Romeo e Giulietta di Shakespeare. Alda Merini, in
manicomio, gli scriveva lettere per raccontargli le sue giornate.

134
Ivi, p. 21.
81
Questa storia d’amore, purtroppo, finisce drammaticamente: il
loro rapporto è stato scoperto dagli infermieri e lui è stato deportato in un
altro manicomio dei malati considerati inguaribili. Di conseguenza, la
protagonista non ha potuto non sentire un senso di colpa e compassione
verso Pierre.

Credo che ciò che provai dentro fosse molto simile


all’orrore, al ribrezzo, alla vergogna. Mi sentivo autrice di
quel misfatto, in certo qual modo complice, e avrei voluto
morire.135

Pierre in quel furgone aveva una faccia da chi chiedeva perdono


per una pena che non aveva fatto, cioè quella di essere incomprensibile
per gli altri e, quindi, considerato “inguaribile”.

1.2.3. Aldo

Aldo è un degente a cui piaceva la protagonista. La scrittrice


pensa che lei piacesse ad Aldo perché, secondo lui, ella assomigliava a
sua moglie. Era molto alto e magro con uno sguardo profondo e confuso.
Sembrava pazzo, ma infantile e buono. Non faceva male agli altri.

135
Ivi, p. 13.
82
Quando la vedeva, la abbracciava facendola rotolare per terra
dalla felicità. Alda Merini le piacevano la sua sincerità e la sua
innocenza.

Lui stava tutto il tempo a gridare a gran voce per la rabbia di


essere stato internato in manicomio.

Aldo rispecchierebbe l’anima sensibile e ribelle della scrittrice.


Purtroppo, anche lui, ha incontrato lo stesso destino di Pierre ed è stato
trasferito nel reparto dei malati inguaribili. A saperlo Alda Merini si è
inevitabilmente addolorata, non solo, per il suo destino triste, ma anche
per il proprio, avendo paura di perdere la speranza.

II.1.2.4. La Z

Nell’ospedale c’erano anche dei degenti che avevano


comportamenti anormali come il caso della Z.

83
Lei era una donna a cui piaceva Alda. Infatti lei aveva degli
atteggiamenti omosessuali, e perseguitava così talmente la protagonista al
punto di farle paura.

La Z. era alta con le mani molto grandi e i tratti della schizofrenia


sul viso. Faceva così paura ad Alda che è stata descritta nel suo diario
come la peggiore marionetta che sia mai comparsa sul mio teatro.136.

Lei veniva ogni tanto a trovare la protagonista, portandole vari


fiori; in un giorno la Z. ha obbligato Alda a venire nella propria camera, e
ha tentato di sedurrla: le ha scoperto le proprie gambe per farle vedere le
cosce, mentre alla protagonista faceva ribrezzo quegli atteggiamenti e ha
vomitato. La Z. si è offesa, e se n’è andata sbattendo la porta.

Un’altra volta la Z. ha baciato la protagonista e le ha chiesto di


fare l’amore con lei, mentre Alda è rimasta sconcertata.

La protagonista era così spaventata dalla Z. che non ha potuto


dire niente alle infermiere. Infatti ella pensava che se avesse parlato dei
suoi atteggiamenti osceni, la Z. l’avrebbe schiaffeggiata. Vedendola, la
scrittrice guardava a terra borbottando qualche preghiera dalla paura.

136
Ivi, p. 20.
84
L’unico modo per allontanarla, Alda le faceva ricordare di essere
una madre e di avere figlie. In quel modo, la Z. si metteva a piangere e
lasciava la protagonista in pace.

La Z. rappresenterebbe per Alda Merini la bizzarria e il ribrezzo.


Infatti alla protagonista questo tipo d’amore provocava un senso di
disgusto.

II.1.2.5. La D.

Un’altra malata che aveva delle attitudini strane nei confronti


della protagonista era La D.

Era una malata che veniva da una famiglia dove c’erano altri
fratelli pazzi. Lei aveva una figura mascolina, ma era bellissima, per
Alda assomigliava quasi a Cleopatra. Quando lei passava, uomini e
donne si voltavano a guardarla. Era viziosa e violenta: veniva sorvegliata
da qualche infermiere. Infatti lei “Era un donnone grande e grosso di una beltà
singolare ma chiaramente volgare”.137

Una volta la protagonista, dopo aver fatto i complimenti a una


propria compagna, la D. l’ha perseguitata per lungo tempo.

137
Ivi, p. 15.
85
La D., dopo aver saputo che Alda aveva scritto una poesia alla Z.,
ha dato uno schiaffo alla protagonista davanti a tutti. Si vede infatti come
quella degente era, come Alda Merini descrive, “chiaramente
masochista.”.

La D. potrebbe rispecchiare per Alda Merini la paura di essere


perseguitata da ciò che fuggiva o da quello che non voleva affrontare.

II.1.2.6. La C.

Non solo malvagità, ma c’erano altre malate considerate dalla


protagonista come figlie come La C.

Era la compagna preferita per Alda Merini. era bella, sensitiva,


dolce, ingenua, ha i capelli neri e ricci. Soffriva di epilessia. Ogni tanto
andava ad abbracciare affettuosamente la protagonista che considerava la
C. come una delle sue figlie. Infatti, la compagnia della C. sollevava il
dolore della protagonista per essere lontana dalle sue figlie.

II.1.2.7. La M.

86
Nel manicomio c’erano anche persone che avevano delle visioni
spirituali come la M.

La M. era una degente silenziosa e superba. Soffriva di carenze


affettive. Veniva chiamata “santa” in manicomio, in quanto in un giorno
all’improvviso si è messa in ginocchia , si è genuflessa più di una volta,
poi ha baciato la terra e dopo, è svenuta. Si diceva che ha visto la
Madonna, e certo quando si è ripresa, si è trovata legata al letto. La M.
potrebbe riflettere la parte spirituale di Alda Merini.

È interessante osservare come la scrittrice proiettava ai maschi


che incontrava nel manicomio come il dottor G., Pierre e Aldo attributi
positivi come: “buono” “tenero”, “infantile”, “dolce” e “romantico”. Le
donne, invece, come la Z. e la D. avevano atteggiamenti mascolini,
omosessuali, e narcisisti.

A nostro parere, questa tendenza indica come il suo rapporto con i


genitori ha influenzato il suo modo di vedere gli altri. La scrittrice aveva
l’inclinazione, nei suoi rapporti con gli altri, di avere sia il ruolo di una
vittima sottomessa a un’altra donna di un carattere anormale e più forte
di lei, come nel rapporto tra Alda e la madre, oppure quello di sentirsi lei
una madre come nel caso della C., cioè la persona superiore nel rapporto,
sono due punti estremi che provano lo squilibrio che Alda aveva nel
modo di costruire una relazione sana con gli altri. Questo potrebbe anche
essere una ragione per la quale Alda Merini si descriveva “sola”. Sarebbe

87
anche importante citare la teoria del triangolo drammatico di Stephen
Krapman138 che ci spiega questo squilibrio.

Gli uomini a cui era attratta nel manicomio sono, invece, come il
padre che aveva un carattere buono e tenero ma abbastanza debole e
passivo. Lei stessa, descrivendo il dottor G., sentiva come se lui fosse
una donna più che un uomo come suo padre: In tutta questa storia atroce
mio padre non aveva alcuna parte perché mi ero compiaciuta, fin da
bambina, di considerarlo un uomo castrato. [...] Di fatto, nella mia mente
anche il dottor G. [...] me lo immaginavo così per potervi parlare,
altrimenti sarebbe diventato un mio nemico.139

138
“Il triangolo di Karpman (conosciuto anche come: triangolo drammatico di Karpman) è un modello sociale
riguardante dinamiche distruttive d’interazione umana, che coinvolgono tre figure emblematiche [vittima,
persecutore e il soccorritore] Si tratta di tre individui in profondo conflitto tra loro, ma che, proprio a causa
di tale conflitto, sono strettamente legate, assumendo ruoli che possono essere intercambiabili a seconda
delle condizioni esterne.” in https://www.coaching.uno/triangolo-drammatico-di-karpman-vittima-
persecutore-e-salvatore/ cliccato il 28 febbraio 2022, ore 19:15.
139
Ivi, p. 14.
88
II.1.3. Antagonisti

II.1.3.1. Infermieri

Gli infermieri erano uno degli elementi che rendevano l’ambiente


del manicomio insopportabile per Alda Merini. Sono persone malvagie e
non avevano alcun senso di umanità. Ogni gesto da parte dei malati era,
dunque, da colpevolizzare. I loro modi di comunicazione con i degenti
erano o le parolacce, la legatura al letto, i farmaci, o l’elettroshock. Il
rapporto tra gli infermieri e i malati era spietato e disumano.

La caposala, la B., era una donna cattiva. Aveva gli occhi verdi e
una statura forte. Si divertiva vedendo i malati soffrire sotto le forti
terapie. Alda la vedeva ogni tanto uscire dall’ufficio del dottor G. con
sbagliati farmaci da applicare sui poveri malati. La B. allineava,
giornalmente, tutte le malate lungo il muro e faceva l’appello, mentre le
malate avevano le braccia dritte e la faccia china. Un’immagine che
faceva ricordarsi ad Alda Merini di quando era respinta dall’esame di
stato, ma adesso si sentiva respinta, ogni giorno, dalla società.

Una volta quando Alda Merini le ha risposto male, l’ha isolata e


l’ha legata al letto per una settimana. Dopo, però, la scrittrice ha imparato
a non dare cura a quello che facevano gli infermieri in generale, a
89
rimanere silenziosa e a mantenere il suo equilibrio interiore nel modo più
possibile. Così Alda Merini racconta dicendo:
Una volta si concesse il piacere particolare di parlare con me, e mi trattò
dandomi del tu. «Davvero tu hai studiato?», mi chiese. Io annuii.
«E ti ricordi, che cosa?»
«Certamente», risposi io,
«ho studiato in modo particolare come si uccidono i poco di buono come lei.»
Fui immediatamente legata al mio letto con le fascette di contenzione, e per
una settimana intera rimasi in quella scomoda posizione, senza poter vedere
nessuno.140

Alda Merini racconta pure di un infermiere che la seguiva mentre


passeggiava nel giardino e la molestava finché avesse avvisato il capo
infermiere. Un atteggiamento che mostra come gli infermieri vedevano i
malati soggetti senza dignità.

Gli infermieri del manicomio sono indifferenti e non assumono la


loro responsabilità per bene. Alda Merini racconta che quando è svenuta
dopo aver sentito il ribrezzo, dovendo sottomettersi all’esperienza del
bagno in manicomio, le infermiere l’hanno buttata sotto l’acqua fredda,
bestemmiandola. Un gesto che indica come gli infermieri del manicomio
non sono professionali e trattano i malati di mente come se fossero un
“peso” per l’umanità. Sono degli oggetti su cui come Alda Merini
descrive scaricare i loro “istinti sadici”.

140
Ivi, p. 21.
90
Ho letto che nei tempi andati, i malati di mente, circa cento
anni fa, credo, venivano fatti passeggiare in giardino e poi
gli infermieri si divertivano a pisciare loro sulla testa.
Credo che, se non proprio così, eravamo trattati quasi allo
stesso modo.141

Gli infermieri non erano attenti allo stato sia fisico che
psicologico dei degenti. La scrittrice ricorda che durante l’attività del
bagno alcune anziane scivolavano e potevano anche battere pesantemente
la testa. Gli infermieri facevano i degenti asciugarsi con uno stesso
asciugamano puzzolente. Tale attività del bagno potrebbe aver segnato
una memoria atroce per la protagonista. Ella stessa racconta che la prima
volta che ha dovuto sottomettersi a quel lavello comune non ha potuto
sopportare il ribrezzo ed è subito svenuta.

Loro non sapevano comunicarsi con i malati: Alda Merini scrive


nelle sue scritture diaristiche che una volta ha avuto bisogno di star sola,
e, dunque, è andata al bagno e c’è rimasta per ore, gli infermieri sono
andati a prenderla e l’hanno legata, subito, al letto, senza parlare o
comunicare con lei.

Alla protagonista gli infermieri davano grandi dose di sbagliati


farmaci come il Dobren che ne prendeva dieci iniezioni per giorno e il
Leptozinal che era fatto per i malati violenti, mentre nel suo caso lei non
ne aveva bisogno.
141
Ibidem.
91
Quando la protagonista non riusciva a dormire facilmente, che è
naturale siccome lei non faceva nessun’attività tutto il giorno, le davano
forti dosi di un sonnifero pesante. Quelle dosi le facevano dormire per tre
giorni interi.

Gli infermieri trattano i malati come se volessero disfarsene, in


quanto li causavano un disturbo. In realtà tal disturbo consiste, come la
scrittrice spiega, nell’insonnia o nell’inquietudine, e come lei stessa
afferma: queste cose disturbavano noi, non le infermiere.142.

Del rapporto tra infermieri e malati di mente leggiamo anche che:

“le infermiere non avevano altro compito che di legarci e di


proibirci l’uso dei fiammiferi, dei coltelli, delle forbici, di
tutto ciò che “poteva farci male” (o far male a loro?).”143

Il maltrattamento degli infermieri spingeva i malati a volte a


togliersi la vita, come è successo con la ragazza madre che la sua
famiglia voleva disfarsene e l’hanno abbandonata nel manicomio. Ciò
indica come gli infermieri, nonostante lavorassero in un’istituzione
psichiatrica, non erano ben acculturati psicologicamente, e non sono,
dunque, ben qualificati; soprattutto che le persone che soffrivano

142
Ivi, p. 18.
143
Ivi, p. 19.
92
psicologicamente avevano più bisogno di rispetto e affetto, necessari per
la loro cura. Già Alda Merini stessa menziona:

Le infermiere, donne di nessuna cultura, che non avevano


mai saputo né sentito parlare di Freud, ci trattavano come
delle schiave.144

II.1.3.2. Medici

Non solo gli infermieri che vedevano i degenti come un oggetto


degno di essere regalato ai margini, ma anche i medici.

Il medico di guardia era un uomo crudele, con una testa grossa. Era
d’origine germanica. Sembra patologicamente un sadista. Alda Merini lo
descrive come “un omaccione che [...] aveva un fare così untuoso, proprio come il
Mangiafuoco di Pinocchio145”. Girava tutto il giorno con la sua bicicletta per
vedere se c’era un malato da punire. Quando un malato stava male, gli
offendeva dandogli grandi dose di medicinali come se fosse un cavallo.
Era innamorato di un’infermiera che era, al suo contrario, timida e
spaventata tutto il tempo. Quando lo vedeva, cercava di scappare da lui.
Faceva paura e ribrezzo a tutti. All’improvviso, è morto sempre sulla sua
bicicletta. Alda Merini ha considerato la sua morte “la giustizia di Dio”.

144
Ibidem.
145
Ibidem.
93
Il medico degli elettroshock era anche come lo descrive l’autrice
“un uomo di fatica che un vero e proprio dottore” 146. Lui era abituato ad arrivare
tardi, masticando qualcosa in bocca e ridendo con le infermiere.
Cominciava ad anestetizzare i malati mentre scherzava con le infermiere,
infischiandosi, proprio, di quanta è la paura che i malati provavano. Non
passava, nemmeno, a vederli dopo il risveglio. Infatti lui era il “baubau”
del manicomio.

Lo stesso vale anche per il dottor N., il nuovo psichiatra del


manicomio. Lui chiedeva che facessero serie di elettroshock ai malati
anche senza un vero bisogno.

Leggendo L’altra verità. Diario di una diversa, abbiamo notato


come la scrittrice si è limitata a chiamare alcuni personaggi con la prima
lettera del loro nome senza dichiarare il nome completo per indicare un
certo effetto sulla personalità della protagonista. Tale effetto può essere
positivo come nel caso del dottor G., la M e la C., o negativo come la Z.,
la D., e il dottor N., sono tutti personaggi che hanno fatto un ruolo sia
nella sofferenza o nella salvezza della protagonista.

Appartenersi a una comunità come quella dei diversi dava ad


Alda Merini il senso di appartenenza di cui aveva bisogno sin
dall’infanzia. Infatti se non avesse incontrato tutti quei personaggi, Alda
non avrebbe potuto scoprire se stessa, affrontare le sue paure, conoscere

146
Ivi, p. 20.
94
le sue capacità interiori né avere un obiettivo per cui occuparsi per il
resto della sua vita. La protagonista ha dichiarato nel diario di aver aperto
una sottoscrizione per i malati di mente e di aver scritto questo libro per
far sapere agli altri che i degenti del manicomio sono persone degne di
accettazione, di rispetto e soprattutto di amore.

95
II.2. Spazio-tempo

II.2.1. Spazio

Lo spazio ha una funzione narrativa. Ogni racconto deve


svolgersi in un determinato ambiente sia reale che immaginario in una
certa temporalità per esprimere un concetto importante per la storia e i
personaggi.

Lo spazio ne L’altra verità. Diario di una diversa è reale. Le


vicende sono narrate dentro il manicomio di Paolo Pini a Milano. Il luogo
rappresenta il passaggio dalla sofferenza alla salvezza, e dal disagio alla
pace interiore. Giorgio Manganelli lo sottolinea nella prefazione de
L’altra verità. Diario di una diversa:

Dentro il manicomio tutto è sacro, ogni oggetto è alacre e


vivo, può essere tormentoso o amoroso, ma in ogni modo
reca in sé una sconvolgente volontà di significato, è
ustionato e consacrato da un destino. Quello spazio è
insieme chiuso e spalancato; esclude il “mondo” ma penetra
in una profondità vertiginosa, donde sale una intollerabile
dolcezza di fiamme e di luce.147

147
Giorgio Manganelli, prefazione a Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit. p. 9.
96
La casa di cura era divisa in due parti: una parte per le donne e
una per gli uomini. Nel diario è descritta in modo inquieto, cioè uno
spazio con le mura giganti, stanze orrende, portoni ben chiusi con i
cancelli, e immense vetrate, descritto anche come un labirinto [...] e la
sera venivano “abbassate le sbarre di protezione e si produsse un caos
infernale”148

Il manicomio è descritto nel Diario come “Lager”, “ghetto”,


“labirinto”, “inferno”, “Terra Santa”, “terra maledetta da Dio”.

Alda Merini assomiglia il manicomio al “campo di


concentramento” per condannare le forme disumane di maltrattamento in
un luogo che doveva essere, invece, una casa di cura. Era, per lei, un
“ghetto”, cioè un luogo di isolamento dove erano segregati i più miseri
della società a cui mancava un vero amore. Era un “labirinto”, dove
c’entravano le persone che soffrivano da qualsiasi tipo di disagio
psicologico, e ne uscivano completamente pazze per tutta la vita. Era un
“inferno” dentro cui i degenti soffrivano in silenzio, pagando le pene che
non avevano mai fatto in vita. Era una “Terra Santa”, cioè un luogo
sacro, per coloro che si autodefinivano “normali” dove lo sbaglio, che è
un tratto umano normale, era proibito e veniva compromesso con una
punizione severa. Era una “terra maledetta da Dio”, che conteneva quelli
considerati persone per forza pericolose per la società e dove si
praticavano torture diverse su di loro.

148
Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit. p.10.
97
Leggendo le parole di Alda Merini, si può notare la sua condanna
all’incoerenza e all’illogicità nelle maniere con cui la società tendeva a
definire le cose: da una parte il manicomio è visto dalla società come la
“terra dei maledetti da Dio”, cioè un luogo di contenimento dei devianti e
di quelli che costituiscono delle paure sociali, ma da un’altra parte è
visto, sempre dalla società, come “terra santa” cioè un luogo le cui regole
sono inviolabili e in cui chi c’entra dentro deve essere all’altezza della
sua sacralità. È il luogo estremo dove i “pazzi” devono comportarsi da
sani e santi senza mai commettere nessuno sbaglio.

Nel Diario, Il manicomio è considerato l’annichilimento


dell’identità umana: toglieva la dignità ai degenti che venivano
continuamente maltrattati. Era un’istituzione che:

faciliterà la degradazione del suo corpo, divenuto strumento


di una esistenza puramente vegetativa e oggetto offerto alla
manipolazione e allo sfruttamento che la istituzione ne farà,
impegnandolo in attività servili e degradanti149

Il manicomio simboleggia la realizzazione dei dogmi sociali,


della tendenza comune di etichettare le persone dandole definizioni e del
passare dalla santità mentale alla pazzia, il manicomio portava i malati
alla “spoliazione dagli indumenti della vita quotidiana e il rivestimento con “la divisa
del paziente”.150

149
Ivi, p. 18.
150
Vincenzo Ampolo, Voci dell’anima. Scrittura narrazione e pratica analitica, op. Cit., p. 124.
98
L’istituzione manicomiale era il luogo dove sono scaricati quelli
considerati un peso per le loro famiglie. Così come Bonaccia che “non
aveva nulla di follle”151, ma c’è entrata perché la sua famiglia non la voleva.
Ad affermarlo è Vittorino Andreoli:

Queste tipologie formavano, complessivamente, l’85 per


cento dei malati del manicomio. Si aggiungevano poi gli
etilisti (intorno al 5 per cento) e (fino agli anni della
seconda guerra mondiale) i sifilitici e gli omosessuali (fino
a che l’omosessualità non fu più considerata una malattia), i
quali nell’insieme rientravano in una forma di follia che
veniva declinata in latino: insania moralis. […] Il
manicomio coincideva, dunque, con il luogo dove sistemare
coloro che venivano considerati una piaga sociale.152

Il manicomio è visto nel diario come un prigione, chi ci entra


dentro, non può mai uscirne definitivamente. Rimane la definizione
“pazzo” attaccatagli per sempre. Così Alda Merini interpreta:

Il manicomio non finisce più. È una lunga pesante catena


che ti porti fuori, che tieni legata ai piedi. Non riuscirai a
disfartene mai. E così continuo a girare per Milano, con
quella sorta di peso ai piedi e dentro l’anima. Altro che

151
Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit., p. 10.
152
https://books.google.com.eg/books/about/I_miei_matti.html?
id=rsA5YnHQdN8C&printsec=frontcover&source=kp_read_button&hl=it&redir_esc=y#v=onepage&q=queste
%20&f=false, cliccato il 10 febbraio 2022, ore 8:22.
99
Terra Santa! Quella era certamente una terra maledetta da
Dio.153

Il sentimento dell’angoscia era molto comune tra i malati di


mente, visto l’ambiente terribile e il maltrattamento subito lì. Il silenzio
era molto forte e un senso di isolazione era inevitabile: “gli ospedali sono
situati di rado in mezzo alla città; e quando lo sono, sono isole chiuse in
sé stesse.154

Questo luogo, come sostiene Vincenzo ampolo, conduceva al


regredire a uno stadio infantile caratterizzato da dipendenza sia fisica che
psicologica155, il manicomio, dunque, mortificava i malati. Per tal motivo
loro perdevano la loro ragione.

Dentro il manicomio era difficile sentire l’altrernazione delle


stagioni. L’indifferenza era così diffusa nell’aria al punto che il calore
dell’estate si confondeva con il calore della loro sofferenza.

Quella terra chiamata manicomio è il luogo di creazione, il


seme, dell’opera: ha i tratti di un mondo a sé stante, ultra-
terreno, sub-umano, dove le anime fanno fatica a splendere.

153
Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit., p. 22.
154
Vincenzo Ampolo, Voci dell’anima. Scrittura narrazione e pratica analitica, op. Cit., p. 124.
155
Ivi, p. 125.
100
Il manicomio è quel tragico palco, scenario, dove trionfa la
legge del “dentro”156

Nel testo Alda Merini si riferisce anche al giardino del


manicomio, dove c’erano un centro per le ricerche sul cervello umano e
una piccola bottega che i malati chiamavano “lo spaccio”.

La scrittrice, quando le era permesso di uscire in giardino, andava


in quella bottega per bersi un caffè e per chiacchierare con gli altri
degenti. In quel momento sentiva finalmente libera, capace di raccogliere
l’aria serena.

Il giardino, d’estate, era pieno di uccelli, l’erba fresca, il profumo


dei fiori, e i ruscelli che scorrevano in mezzo al verde. Nonostante questa
bellezza, i malati non potevano entrarci a meno che venissero aperti i
portoni.

Il giardino rappresentava così la salvezza, appena aprivano i


portoni, i degenti si lanciavano fuori godendo del profumo emesso dai
fiori e dalla bellezza dell’erba. La scrittrice racconta che quando usciva
in giardino, toccava le rose che la reincarnavano metaforicamente
anch’essa in un fiore:

156
Valentina calista, Alda Merini: quell’incessante bisogno di Dio, in «Otto/Novecento», 2010, n. 1, p. 96.

101
la nostra sofferenza era arrivata fino al fiore, e era diventata
fiore essa stessa. Dio!, mi parve di essere un’ape, un’ape
gonfia ed estremamente forte. […] Divine lussureggianti
rose! Non avrei potuto scrivere in quel momento nulla che
riguardasse i fiori perché io stessa ero diventata un fiore, io
stessa avevo un gambo e una linfa157

Si noti qui gli aggettivi gonfio e forte che indicano la vita e libertà
mancata dentro la casa di cura. La natura spingeva la Merini a sentirsi
in armonia con il mondo: lei si immaginava un fiore che ha un grembo
che è il suo corpo e la linfa che è la circolazione sanguigna.

157
Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit., p. 29.
102
II.2.2. Tempo

È una tecnica narrativa attraverso cui lo scrittore si sofferma su


alcuni fatti per esaltarne l’importanza, mentre rende alcuni altri brevi. Il
tempo si divide in tempo reale o il tempo della storia entro cui si svolge
la storia mentre il tempo narrativo è il tempo con cui l’autore racconta gli
eventi.

La vicenda ne L’altra verità. Diario di una diversa è narrata


durante il periodo che va dal 1965 fino al 1972, quando Alda Merini
viveva la sua esperienza dentro il manicomio di Paolo Pini. Mentre il
tempo storico del testo sta nel passato indicativo. Infatti L’altra verità.
Diario di una diversa è tratto dalle scritture diaristiche che Alda Merini
scriveva durante il suo ricovero in manicomio e che il dottor G.
conservava con sé, siccome nessuno dei suoi familiari andava a trovarla.
La scrittrice ha, dunque, pubblicato L’altra verità. Diario di una diversa,
nel 1986, cioè a distanza di quasi quindici anni dalla sua esperienza nella
casa di cura di Paolo Pini.

Leggendo il diario possiamo notare che le ore nel manicomio


“non passavano mai”: ogni giorno i malati si svegliavano alle cinque di
mattina e si allineavano sopra delle lunghe pancacce nella anticamera
degli elettroshock per prendere la premorfina.

103
I degenti passavano tutto il tempo a fare nulla: non gli era
permesso di parlare, fumare né di mangiare al di là del pranzo o della
cena. Ogni tanto passava il carrello dei psicofarmaci e un’infermiera a
controllare sopra e sotto le lingue delle malate per vedere se avevano
davvero ingurgitato le pastiglie. Alda Merini descrive le sue giornate
come l’inferno dantesco dicendo:

Ma ogni giorno quel passaggio, quella tortura da


purgatorio, anzi da girone dell’inferno, ci toccava e noi
dovevamo subirla.158

La sera, se qualcuno di loro rimaneva alzato, veniva subito legato


al letto. Per questo motivo la notte era particolarmente dolorosa: era
piena di urla, miagoli, frasi poco intese, movimenti caotici, “come se si
fosse in un connubio di streghe.”159.

Nella prefazione, Giorgio Manganelli sottolinea la monotonia del


tempo in manicomio. Il passar del tempo non si sentiva in quanto il
maltrattamento si ripeteva ogni giorno come se fosse un’abitudine sacra:

In quello spazio il tempo stesso viene meno, le notti si


dilatano, i giorni non hanno limite né scansione, gli eventi,
mossi unicamente dalla violenza del nume, continuamente

158
Ivi, p. 17.
159
Ivi, p. 10.
104
accadono, lo stesso gesto, l’accadimento ripete se
medesimo in una sorta di sublime balbuzie.160

La monotonia che i malati sentivano nel manicomio potrebbe


essere uno fra gli elementi che peggioravano il loro stato invece di
migliorarlo. Non facendo nulla per tutto il giorno, stando in un ambiente
simile alla prigione, dove si praticavano diversi tipi di torture severe,
potrebbe portare il malato a una depressione maggiore. Non era per caso
quindi che molte persone perdevano la speranza e preferivano togliersi la
vita in manicomio, invece di sopportare tutta quella umiliazione.

Franca Pellegrini commenta sottolineando che:

l’istituzione manicomiale della metà degli anni Sessanta


assomiglia in Italia più a un campo di concentramento che a
un luogo di cura. Le torture fisiche e psicologiche sono
costanti, i malati non sono riconosciuti come persone e
ridotti al puro stato vegetale attraverso le pesanti cure
farmacologiche, e non, a cui vengono sottoposti.161

In realtà, il ricordo del periodo passato dentro il manicomio ha


così influenzato la vita di Alda Merini al punto di citarlo frequentemente

160
Giorgio Manganelli, prefazione a Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit. p. 9.
161
Franca Pellegrini, La tempesta originale. La vita di Alda Merini in poesia, op. Cit., pp. 36-37.
105
nelle sue opere. Infatti, non c’è opera di poesia o di prosa che non
contenga almeno uno o due testi relativi a quel periodo.162

162
Brigitte Urbani, Alda Merini: Poesia di una “diversa”, op. Cit., p. 2.
106
II.3. Il diario

Alda Merini non ha trovato meglio del diario per raccontare le sue
esperienze. Per questo motivo, l’autrice ha intitolato la sua opera L.altra
verità. Diario di una “diversa” riferendosi a se stessa, mentre a suggerire
“L’altra verità” era il suo secondo marito Michele Pierri per indicare la
realtà del malato di mente che è sempre presente e che è da accettare.

Il diario è una forma di narrazione con cui l’autore registra gli


avvenimenti, i sentimenti e le emozioni significativi per lui/lei, nell’arco
di una certa linea temporale. Il diario può narrare l’intera vita del proprio
scrittore o soffermarsi su un certo periodo della sua vita.

Alda Merini ha scritto il suo primo diario, L’altra verità. Diario


di una diversa in prima persona singolare, e l’ha diviso in otto temi:
“L'altra verità. Diario di una diversa”, “Pierre”, “Aldo”, “la Z”., “La C.”,
“Natale”, “Rose”, “Vado fumando”. Lei ha aggiunto anche sette lettere
(destinate a Pierre durante il loro internamento), “Conclusione” e
“Aggiunte in margine”.

La forma del diario era ideale per l’autrice per sfogarsi,


soprattutto che si sentiva sempre sola in manicomio: nessuno dei suoi
familiari veniva a trovarla.

107
Lei, dunque, ha scritto il diario per scaricare i suoi sentimenti
negativi, mettere in ordine i suoi pensieri e rivedere e rivalutare le sue
esperienze passate. A tal proposito è molto interessante citare il parere di
Francesco Scrivano:

nel caso del diario intimo, rivedersi nel passato [...] può
provocare sorprese anche nell'autore del diario: non
riconoscersi, o riconoscersi per quel che si è veramente o si
è veramente stati, capire di non aver capito, comprendere di
essersi ingannati o anche di essersi auto ingannati, scoprire
di aver mentito a se stessi o scoprire di non ricordare più.163

Il diario era per l’autrice un modo per esprimersi artisticamente.


Vincenzo Ampolo sottolinea dicendo che le pagine del diario della
Merini sono arredate con cura e frequentate con assiduità [...] per lei
diventano spazio creativo e affettivo al tempo stesso.164

Durante l’attività della scrittura diaristica, la memoria funziona


come un filtro, in quanto l’autore sceglie quali fatti ed emozioni
raccontare, soprattutto quelli che gli hanno toccato psicologicamente.
Succede anche che qualche volta l’autore sceglie di non ricordare,
consciamente o inconsciamente, alcuni fatti. In tal caso quei fatti
potrebbero rappresentare un problema emotivo ancora non risolto e ai
163
Micla Petrelli, Fabrizio Scrivano, Diario e narrazione. Conversazione di Micla Petrelli
con l’autore del volume Fabrizio Scrivano. PsicoArt – Rivista Di Arte E Psicologia, 2015,
vol. 5, n.5, p. 6.
164
Vincenzo Ampolo, Voci dell’anima, op. Cit., p. 137.
108
quali egli non vuole avvicinarsi. Già Alda Merini, parlando de L’altra
verità. Diario di una diversa nel suo secondo diario Delirio amoroso, ha
sottolineato che: “il vero diario è nella mia coscienza ed è una lapide tristissima, una
delle tante lapidi che hanno sepolto la mia vita.”165

Questo flusso della memoria aiutava la scrittrice a sfogarsi


liberamente permettendole di tirare fuori le emozioni soffocanti per, poi,
arrivare a rievocare i momenti affettuosi che alleviavano a loro volta la
severità dei dolori dell’esperienza del manicomio. Come per esempio il
ricordo del momento “incredibile” del ragazzo che cantava in giardino,
quello di toccare “le lussureggianti rose” e di trasformarsi anch’essa in un
fiore, quello di Pierre e le sue rose “stupende”, la tenerezza di Aldo e la
gentilezza del dottor G.

Una tra le caratteristiche del diario come forma narrativa è trovare


spesso un tipo di saluto o al diario stesso o a un amico immaginario
perché di solito chi scrive un diario vede se stesso attraverso le relazioni
con gli altri:

[...] la scrittura nasce destinata, l'Altro è presente, sotto


forma di rappresentazioni diverse, nella mente di chi scrive;
presuppone un lettore, fosse anche solo lo stesso “io che
scrive” che si riconosce attraverso il prodotto della propria
scrittura166

165
Alda Merini, Delirio amoroso, op. Cit., p. 95.
166
Clara Capello, Il sé e l'altro nella scrittura autobiografica, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, p. 30.
109
Tale forma di saluto tradizionale manca nel diario della Merini,
come se la scrittura fosse finalizzata solo a se stessa, il che
rispecchierebbe la solitudine a cui Alda Merini si era abituata. Ella stessa
afferma in Delirio amoroso che non avrebbe mai creduto che gli altri
potessero leggere la propria sofferenza.

L’altra verità. Diario di una diversa è breve, il racconto salta da


un argomento all’altro con poca distrazione. La descrizione nel diario
aiuta l’autrice a trasmetterci i suoi sentimenti. Come quando descriveva i
letti del manicomio:

Mi risvegliai due giorni dopo, colla testa pesante e il vuoto


dentro. Guardai quei letti putridi che parevano fatti di
veleno; quei cuscini su cui forse il riposo non era mai
disceso167

Nel diario di Alda Merini si possono trovare delle particolarità: la


mancanza di una certa data o un preciso tempo, l’assenza di un ordine
cronologico o, anche, del saluto tradizionale della forma diaristica, la
divisione tematicamente degli argomenti, i dialoghi con gli altri
personaggi e la ripetizione. Tutti questi tratti fanno parte della scrittura di
getto che la scrittrice ha scelto per sfogarsi e per raccontare la propria
esperienza.

167
Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit., p. 17.

110
II.4. Il linguaggio

Il linguaggio usato dalla scrittrice nel diario è molto semplice,


colloquiale, chiaro, limpido, fluido, e molto adatto alla descrizione del
proprio mondo interiore:
111
Solo io avevo conservato un viso dolce, di ragazzina
picchiata e offesa. In quella enorme vestaglia, dentro a
quella enorme vestaglia sarò pesata sì e no trenta chili.168

L’autodefinizione della scrittrice con il diminutivo in “ragazzina”


indica come Alda Merini si sentiva ingenua ed emozionalmente
immatura, per tal motivo lei soffriva psicologicamente, mentre gli
aggettivi “picchiata e offesa” fanno parte del lessico infantile.

Nonostante il linguaggio della scrittrice sia semplice e spontaneo,


il lessico è colto e ricco di termini appartenenti al campo psicologico
come quando si riferisce alla sua infanzia che era piena di “tribolazioni
interiori”; alla “shockterapia” del manicomio; al suo “inconscio” che era
mortificato dai traumi che ha dovuto affrontare e che hanno “turbato” la
sua infanzia, alla“bramosia” del potere di cui si accontentavano i medici
e gli infermieri dentro il manicomio e al loro “sadismo” e “narcisismo”;
al “silenzio” di cui erano abituati i degenti nel manicomio; al “disturbo”
emotivo di cui soffriva la protagonista; al fuggire “patologico” dai
disturbi, che la Merini faceva dentro di sé; e alla sua compagna, la D.,
che era“masochista”.

Nello stile della Merini la fluidità e la delicatezza sono rilevanti.


Siccome l’autrice era già una poetessa quando ha scritto L’altra verità.
Diario di una diversa, è molto chiaro nel suo stile il lirismo, cioè la
dilatazione dei suoi versi che porta, come sostiene Franca Pellegrini, a:
168
Ivi, p. 18.
112
l’annullamento di ogni categoria temporale. […] Ne
consegue quell’atemporalità delirante che vive nelle pagine
in poesia quanto in quelle in prosa, creando l’effetto
percettivo di una dimensione unitaria169.

Il lirismo e la scioltezza nello stile della scrittrice dà un senso di


vitalità e di rinascita: un senso magmatico, commenta Vincenzo Ampolo,
“[…] proprio come la natura dei liquidi […] un pensiero che scorre, che diviene, che
muore e rinasce in continuazione”170

Il lirismo fa parte della natura poetica della scrittrice soprattutto


in quanto risponde alla sua esigenza di scrivere liberamente senza limiti
sia nel pensiero, che nella forma.

O corpo che duoli, che sei sostanzialmente solo pur


circondandoti di molte amicizie! Sei forse tu che mi porti a
vaneggiare? O, forse, la forza segreta dei miei impulsi
spirituali?171

È molto ricorrente nell’opera l’uso del discorso diretto e dei


dialoghi considerati come un mezzo comunicativo molto importante per i
degenti che si sentivano reclusi e incapaci di avere rapporti con il mondo
esterno e che non avevano la possibilità di comunicare, se non tra di loro.

169
Franca Pellegrini, La tempesta originale, op. Cit., pp. 76-77.
170
Vincenzo Ampolo, Voci dell’anima, op. Cit., p. 91.
171
Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit., p.26.
113
Significativi in questo senso sono i dialoghi che aveva la Merini con i
suoi compagni. Come quelli con Aldo:
«Ma tu sei donna?», mi chiese una volta.
«Certamente», risposi io.
«Non mi sembra [...] io sì che sono un uomo!»
[...] gli dicevo io, «che sei un uomo. Solo che adesso devi
pensare a curarti.»
«E i miei figli?», proseguiva lui.
«I tuoi figli sono in mani buone, e anche tu: perché io ti
voglio bene.»172

La scrittrice usa un certo “noi” fraterno, giusto per sottolineare la


sua appartenenza alla comunità dei diversi che erano invece simili sia nel
bisogno d’amore che nello stesso destino di chi veniva trattato come
malato di mente da rifiutare e quindi da isolare.

ogni giorno noi facevamo il processo a noi stessi, e tanto


più pungente e invadente diventava la nostra requisitoria
quanto più lì dentro ci avevano insegnato ad essere
spietati173

Leggendo l’opera di Alda Merini, notiamo come la scrittrice è


riuscita a mettere sotto luce la sua sofferenza. Ciò si rende chiaro dalla
scelta degli aggettivi. Infatti, in quel luogo “la sofferenza doveva essere

172
Ivi, p. 15.
173
Ivi, p. 24.
114
atroce”174,mentre la malinconia era profonda: E sentii “una profonda
malinconia invadermi il cuore”175. L’aggettivo “atroce” da ater, cioè nero e
oscuro, e l’aggettivo “profondo” appartengono al campo semantico della
mancanza di lucidità sia quella mentale che quella emozionale.

L’autrice evidenzia la sua sofferenza attraverso la parola


“piangere” che era l’unica espressione possibile nel manicomio: “E così
tante volte piangevo per tristezza, per incapacità, per quel lieve vento crudele che
veniva a raggelarmi la fronte.”176

La scrittrice ha anche pianto per la sorte dei malati inguaribili


come Aldo:

E quella volta piansi con profondo dolore per la sorte di


Aldo, per la sorte di tutti coloro che non potevano
sconfiggere quel terribile male.177

Vincenzo Ampolo trova nella parola “pianto” la fluidità della


femminilità, perché il piangere ci fa pensare all’acqua che è un elemento
naturale governato dalla luna. Il pianto appartiene a una espressione,
considerata prettamente femminile: “un’incapacità a trattenere, a comprimere, a

174
Ivi, p.17.
175
Ivi, p.20.
176
Ivi, p. 18.
177
Ivi, p. 15.
115
Secondo lui, attraverso il
controllare un sommovimento interiore angoscioso”178.
linguaggio femminile, la scrittrice ha potuto, con delicatezza, esprimere
l’inconscio, cioè “alla logica consequenziale, propria del maschile, oppone
l’analogia, la metafora, il simbolo”179.

Vediamo come Alda Merini voleva scrivere per dare sfogo alla
sua anima tormentata sin dall’infanzia. Lei è cresciuta in condizioni che
le hanno formato un carattere delicato e sensibile. Di conseguenza il
pianto per la scrittrice era un modo per manifestarsi apertamente,
soprattutto in quell’ambiente severo.

La solitudine è stata una tra i sentimenti che Alda Merini soffriva


dentro il manicomio. La parola “solitudine” è, quindi, rilevante nel diario
per manifestare la sofferenza. “Avevo imparato a sognare ad occhi aperti, un po’
per i farmaci, un po’ per la solitudine”.180.

La scrittrice ha descritto “feroce” la solitudine del manicomio,


paragonandosi a quella fuori: “Ma nulla è così feroce come la solitudine del
manicomio”181.

178
Vincenzo Ampolo, Voci dell’anima, op. Cit., p. 90.
179
Ivi, p. 101.
180
Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, op. Cit., p. 21.
181
Ivi, p. 25.
116
Il racconto sulla sofferenza si rinforza attraverso l’uso
dell’anafora, che potrebbe anche far parte della scrittura di getto come
per esempio:

Di qui nacque il mio punto di mostruosità, la mostruosità


della mia esistenza, la mostruosità di mia madre stessa 182.

Alda Merini si riferiva al sentimento di delusione nato appena si è resa


conto, dopo le sue prime mestruazioni, di essere una donna, uguale a sua
madre. Questo le è dispiaciuto perché sua madre era abbastanza severa,
mentre invece Alda voleva essere un uomo tenero come il padre.

La sofferenza fuori del manicomio è stata, a sua volta, rafforzata


nel diario dall’uso dell’anafora: “E noi, che avevamo il solo difetto di fare
confusione sulla nostra identità, noi che ci eravamo lasciati scolorire, che avevamo
sopportato soprusi di ogni genere, perché ora eravamo guardati come criminali?”183.

Per esprimere la sofferenza la scrittrice ha anche usato le


dislocazioni, le quali servono a mettere a rilievo le situazioni e le
emozioni che la scrittrice ritiene importanti. Come quando si riferiva al
ricordo doloroso del rapporto amore-odio tra lei e la madre: “Ma questo, io
non lo potevo accettare in quanto l’avevo sempre adorata e giudicata al di sopra di ogni
sospetto.”184.

182
Ivi, p. 14.
183
Ivi, p.25.
184
Ivi, p.14.
117
Interessante è come Alda Merini descriveva il manicomio per
sottolineare la sua malinconia come: il manicomio è “un’istituzione
falsa” per esprimere la sua inefficienza; è anche “un circolo vizioso” per
indicare le complicazioni che il manicomio portava a chi soffriva invece
di aiutarlo; è “il più efferato” degli inferni, dove sono puniti quelli che
non hanno fatto alcuna pena, se non nati diversi e poco amati; ed è anche
una “palude secca e selvaggia” dove seppellire i desideri umani dei
degenti.

Alda Merini descrive il manicomio come un “tristissimo luogo”.


In realtà il suffisso elativo “issimo” ha la funzione di intensificare il
sentimento della tristezza che il manicomio provocava.

La scrittrice si riferisce al manicomio nella sua narrazione del


diario attraverso la figura retorica della metonimia. Siccome il
manicomio è il luogo dove sono chiuse le persone ritenute fuori dalla
norma o folli, i termini che sono collegati al sistema manicomiale sono
per esempio: “paura”, “mostruosità”, “severità”, “solitudine”. Infatti,
questi sono termini astratti che trasmettono al lettore un sentimento di
paura in tutti i sensi della parola sia quello inteso come spavento che
quello come ansia, inquietudine e angoscia. La paura nel testo diventa
sempre più intensa fino all’orrore di perdere, per davvero, il senno.

La descrizione della stanza dell’elettroshock e dell’anticamera nel


diario è rilevante per indicare l’angoscia associata a tale attività: era una

118
stanzetta quanto mai angusta e terribile; e più terribile ancora era
l’anticamera, dove “ci preparavano per il triste evento”185. Lo stesso vale anche
per gli psicofarmaci che sono considerati come “potentissimi, che ti
invischiano il corpo e l’anima”186.

In realtà, l’autrice descriveva l’attività dell’elettroshock o gli


psicofarmaci in modo da esaltarne la violenza come per esempio: lì si
curava con pesanti elettroshock187.

È da notare la forma diminutiva in “stanzetta” nel diario


soprattutto a descrivere le stanze del manicomio come quella
dell’elettroshock che era una stanzetta quanto mai angusta e terribile. Lo
stesso vale anche per la stanza dove hanno punito Alda per aver rubato le
ciabatte di una sua compagna era stata punita in uno “stanzino”. Il
diminutivo indica un certo senso di angustia e di colpa: E fui segregata in
uno stanzino di sicurezza, perché non rubassi più.188. La stanza dove
hanno isolata la degente che soffriva di insonnia era anch’essa uno
“stanzino”: “Smaniava, si strappava le vesti, e divenne così furiosa che la misero in
uno stanzino, isolata, con le fascette.”189

Alda Merini, ricorre, qualche volta, alla forma accrescitiva per


sottolineare come la sofferenza era superiore alle capacità dei degenti
185
Ivi, p. 20.
186
Ivi, p. 23.
187
Ivi, p. 18.
188
Ivi, p. 19.
189
Ivi, p. 15.
119
come: ci allineavano su delle pancacce sordide, accanto a dei finestroni
enormi190.

Si noti come il dispregiativo delle “pancacce” intensifica lo stato


di inquietudine dentro il manicomio che viene aggravata dall’aggettivo
“sordido”.

La forma accrescitiva è chiara anche nella descrizione della


vestaglia del manicomio che era un “vestaglione” per evidenziare il senso
dell’angoscia che sovrastava:

Quella mattina gli infermieri mi avevano chiamata, mi


avevano denudata e rivestita di una camicia e di un
vestaglione anonimi.191

È evidente come la Merini manifesta la sua sofferenza per ciò che


trovava in manicomio in modo sgradevole e sproporzionato come: a
volte, per consolarmi, pensavo che quella brutta vestaglia azzurra fosse il
saio di san Francesco e che io di proposito l’avessi scelto per
umiliarmi.192. Il vestaglione o la brutta vestaglia del manicomio è per
indicare come il dolore subito nel manicomio era enorme e brutto come il
suo abito uniforme.

190
Ivi, p. 13.
191
Ivi, p. 17.
192
Ivi, p. 13.
120
Nel diario, i pazzi sono delineati attraverso gli attributi riferiti agli
atteggiamenti spontanei come: “un pazzo scappato da una cella di contenzione
entrò furibondo nello spaccio”193.

I pazzi sono anche definiti “poveri”: Ero sola e gli chiesi in che
concetto Dio tenesse i poveri pazzi194. Era anche “poverina” la ragazza
che tentava il suicidio in manicomio:

«Ma perché tenti il suicidio?», le chiesi. La poverina non


sapeva rispondermi, ma era evidente che mancava di amore
e che lì certamente non l’avrebbe trovato195

Era “poveretta” la malata che soffriva solo di insonnia e l’hanno


sottomessa agli elettroshock senza bisogno, finché si è impazzita per
davvero:

Avvenne che un giorno portarono lì una paziente, una


signora dai modi molto discreti, [...] le venne subito
propinata una serie interminabile di elettroshock, dal che la
poveretta ne uscì completamente pazza196

193
Ivi, p. 16.
194
Ivi, p. 10.
195
Ivi, p. 11.
196
Ivi, p.15.
121
La scrittrice ci ha trasmesso l’orrore dell’ambiente anche
attraverso gli aggettivi usati nella descrizione fisica dei malati di mente:

Le facce delle degenti erano a dir poco mostruose [...] con


larghe chiazze di vino, unghie adunche, grossi vestaglioni
che portavano a mo’ di grembiule, e un ghigno feroce tra le
labbra che ti faceva accapponare la pelle197

La Merini ha messo sotto luce la bizzarria dell’ambiente del


manicomio, cogliendo la stranezza negli atteggiamenti dei malati
soprattutto la notte: Grida, invettive, sussulti strani, miagolii198.

I malati borbottavano tutto il giorno in modo strano: “intorno a degli


strani marchingegni dovuti o voluti dalle loro fantasie.” 199

La scrittrice tendeva a descrivere la D. e la Z. in modo


sproporzionato per indicare la loro bizzarria. La D. era anche un donnone
grande e grosso per rispecchiare il carattere mascolino che aveva e il
sentimento di inferiorità della protagonista che si sentiva poco protetta.
Lo stesso vale anche per la Z. che era un’enorme ragazzona200, in quanto
perseguitava la scrittrice e le faceva paura.

197
Ivi, p. 12.
198
Ivi, p. 10.
199
Ivi, p. 12.
200
Ivi, p. 19.
122
L’autrice si è ricorsa all’anafora anche per evidenziare il suo
disagio dagli atteggiamenti della Z., la cui malattia potrebbe aver fatto
male alla protagonista: “Allora soffrivo, soffrivo perché ero stanca, perché in quel
momento volevo estraniarmi, anche dalla Z.”201.

I malati di mente, a loro volta, percepivano la bizzarria


dell’ambiente manicomiale, come le terapie che i medici usano nel
manicomio strane e quanto mai errate terapie da applicare202. Sono anche
impercepibili le sindromi dei topi sui quali facevano le ricerche
scientifiche:

topolini erano presi da sindromi strane che li facevano


girare su se stessi senza posa alcuna né alcun senso di
conservazione.203

Nel diario, intanto, non mancano i termini associati alla speranza


come le virtù che nonostante tutta la sofferenza, Alda Merini ha cercato
di conservare gelosamente:

Ognuno che vi entra vi porta i suoi valori sostanziali e ve li


conserva gelosamente. Così ho fatto io, a dispetto di tutti i
vituperi e di tutti gli elettroshock204.

201
Ivi, p. 22.
202
Ivi, p. 12.
203
Ibidem
204
Ivi, p. 22.
123
La Scrittrice ricorre alla metonimia per esprimere come la fede
era essenziale durante l’esperienza manicomiale. Era come se fosse
l’ancora a cui aggrapparsi per salvarsi dall’angoscia:

Alle volte l’angoscia per questi problemi mi diventava così


forte che dovevo lasciarmi andare a piangere sopra il
cuscino. Era in quel punto che mi aggrappavo terribilmente
alla fede.205

La capacità di sentirsi libera nonostante tutte le restrizioni del


manicomio, era costantemente presente dentro della protagonista. La
scrittrice ha potuto sottolinearla attraverso l’uso dei sostantivi: “Nell’orrore
ritrovavo la libertà delle cose vive”206. L’antitesi tra orrore e libertà rafforza le
sue capacità di non essere vincibile nemmeno sotto l’orrore del
manicomio.

La ricerca alla libertà era essenziale della Merini, e se non c’era


fuori di sé, poteva trorvarla dentro:

Al principio di ogni inverno le stagioni si chiudevano o


parevano chiudersi [...] Qualcosa si chiudeva all’esterno ma
dentro io rimanevo libera.207

205
Ivi, p. 21.
206
Ivi, p. 24.
207
Ivi, p. 31.
124
Il sentimento della libertà interiore aiutava l’autrice a vedere la
bellezza delle cose. Ciò si rende chiaro nella descrizione delle rose del
giardino che sono “stupende” e “mangifiche”. Ma non solo, ma ha anche
espresso l’armonia della natura attraverso l’immedesimazione con i fiori
del giardino. La similitudine, infatti, serve a cristalizzare il sentimento
della libertà: “io stessa ero diventata un fiore”208

La scrittrice usa anche le dislocazioni per indicare quanto erano


lunghi e ricchi di esperienza gli anni dentro il manicomio. in questi anni
Alda Merini ha imparato come difendersi dai suoi dolori:

Nei dieci anni molte cose le avevo imparate e le adoperavo


per salvaguardarmi la vita, per difendermi209

Nel manicomio è l’amore a contraltare la pazzia che, secondo la


Merini, veniva generata solo dentro il manicomio. L’amore si
manifestava attraverso dei segni semplici, come se l’amore fosse l’altro
polo che faceva l’equilibrio contro la sofferenza fisica e psicologica del
manicomio. Così come gli sguardi dolci di Pierre e le margheritine
regalate da lui ogni giorno:

In manicomio incontrai Pierre; era un uomo buono, un


malato muto. Si innamorò di me e lo capii dai suoi sguardi

208
Ivi, p. 23.
209
Ivi, p. 20.
125
dolci, dalle margheritine che mi regalava ogni giorno. Un
giorno mi portò Giulietta e Romeo, e me lo indicava col
dito sottolineando la parola Romeo.210

Il diminutivo in margheritine e l’uso dell’aggettivo “dolci”


rivelano la tenerezza e l’affetto che erano come se fossero un’anestesia
contro i dolori della vita.

Siccome la protagonista era presa dalla malinconia e dalla


ipersensibilità, nel suo stile si rivela chiaro il frequente uso della parola
“rifugio” che indica un certo luogo di protezione dal mondo esteriore,
come quando si riferiva all’amore di Pierre: Questo amore era, per così
dire, il mio piccolo rifugio segreto, dove entravo quando ne avevo voglia,
e ne uscivo quando la realtà si faceva pressante.211

La protagonista, rivolgendosi a Pierre, definisce l’attività della


scrittura un rifugio: “O Pierre, tra poco andrò via. Dovrò andare via, perché io ho il
mio rifugio.”212

Lo stile con cui Alda Merini ha scritto il suo primo diario, L’altra
verità. Diario di una diversa, delinea, quindi, il suo carattere che,
nonostante la sua fragilità, ha una grande forza interiore, indispensabile
per vincere tutta la sofferenza che ha patito.
210
Ivi, p. 11.
211
Ivi, p. 13.
212
Ivi, p. 28.
126
Conclusione

La selezione di questo studio non è stata casuale, ma ragionata. In


realtà Alda Merini è una fra le poetesse e le scrittrici più importanti del
Novecento italiano. Nonostante la sua vita di particolare difficoltà, lei, ha
potuto affermarsi con le sue opere straordinarie, diventando un simbolo
nazionale e un’immagine della donna liberata. Non è a caso che nell’otto
marzo, la festa della donna, si gira, frequentemente, nei giornali italiani il
ricordo della scrittrice con le sue poesie e aforismi.

Attraverso l’analisi della sua prima opera in prosa e il suo primo


diario, L’altra verità. Diario di una diversa abbiamo sottolineato come la
vita della scrittrice, che era piena di ostacoli e dure sfide, l’ha portata ad
avere delle idee fuori del comune. La tesi si è focalizzata sul fatto che
Alda Merini era un esempio di chi ha scelto di non lasciarsi vincere dalla
difficoltà della vita, anzi, di trasformare i dolori in fonti di ispirazione,
andando, a dispetto di tutto, in armonia con il mondo.

Ci siamo concentrati sulla sua vita e sulle fasi ritenute imporanti,


iniziando dal rapporto con i genitori, il quale ha avuto, chiaramente, un

127
grande impatto sul suo carattere, la guerra, i suoi rapporti amorosi, e
l’esperienza manicomiale.

In questa tesi, abbiamo anche trovato necessario riferirci al


rapporto tra la letteratura e la pazzia, essendo un argomento interessante
nelle tematiche del Novecento, soprattutto dopo l’affermazione della
scienza della psichiatria e la psicologia. Tale rapporto consiste nel fatto
che la letteratura del Novecento dà voce alla pazzia raccontando del
malato di mente e di come vede e percepisce il mondo dei cosidetti
“normali”.

Non si poteva fare a meno di citare alcuni altri nomi grandi della
letteratura italiana che erano interessati, nelle loro narrazioni, alla follia
come: Luigi Pirandello che trovava nella pazzia una vera libertà; Dario
Fo che tendeva a mostrare il matto come una persona capace di pensare
in modo più logico, rispetto ai cosiddetti “normali”; e Mario Tobino che
difendeva, nelle sue scritture, i malati di mente e rifiutava la
categorizzazione sociale delle persone.

Studiando il diario di Alda Merini, abbiamo notato l’idea


particolare che la scrittrice aveva sulla pazzia, la quale, secondo lei, non
esiste e che la radice di tutti i mali dell’essere umano è la mancanza
d’amore. Era anche interessante trovare come l’amore guarisce i disagi
psicologici che una persona potrebbe avere, in modo più efficace rispetto
agli psicofarmaci.

128
Abbiamo osservato che il diario di L’altra verità. Diario di una
diversa, racconta la sofferenza che Alda Merini ha patito durante il suo
internamento dentro il manicomio di Paolo Pini. Tale sofferenza si divide
in sofferenza fisica, quella subita dentro il manicomio in seguito al
maltrattamento degli infermieri e dei medici e quella psicologica di cui la
protagonista ha sofferto sempre dentro la casa di cura e fuori dalla
società.

Abbiamo concluso che la protagonista in questo diario, non si è


lasciata vivere come una vittima delle misere condizioni del manicomio,
ma si è salvata attraverso la scrittura, che era una specie di rifugio e nello
stesso tempo un amico migliore, e la sua forza interiore che era
indispensabile durante la sua guarigione.

Nella tesi, siamo giunti alla conclusione che il rapporto che la


protagonista aveva con gli altri malati nel manicomio assomgliava a
quello che lei stessa aveva con i suoi genitori, come se questi personaggi
fossero uno specchio, riflettendo sia l’amore, la tenerezza, la fede, che
l’orrore e la delusione che sentiva dentro di sé.

Viene, anche, trasmessa l’immagine del manicomio di Paolo Pini


come Alda Merini ci ha descritto nel suo diario e abbiamo chiarito la
condizione del manicomio del tempo.

129
Abbiamo potuto evidenziare, studiando analiticamente tale opera
diaristica, il quadro generale della cultura italiana del tempo, soprattutto
dal punto di vista sociale e storico, come la condizione del malato di
mente e i privilegi che la società dava agli uomini rispetto alle donne,
oltre alle preziose teorie psicoanalitiche che hanno aiutato la protagonista
a risolvere i suoi disturbi emozionali.

Abbiamo osservato, anche, come la forma del diario era adatta


all’autrice per raccontare la sua esperienza, per sfogarsi, scaricare i suoi
sentimenti negativi e ordinare e rivalutare i suoi pensieri.

Ci si sono anche rivelate le particolarità stilistiche con cui la


scrittrice raccontava la sua esperienza come l’uso dei diminutivi,
accrescitivi e dispregiativi, la descrizione in modo sproporzionato e
sgradevole tutto ciò che riguarda il manicomio e il lirismo che fa parte
della tendenza poetica che la scrittrice aveva prima di scrivere il diario.

In fine, con questa tesi abbiamo preso l’iniziativa per altre


ricerche future per lavorare su questo campo, cioè come la letteratura ha
rappresentato la pazzia e come ha raccontato del matto.

130
Bibliografia
Opere di Alda Merini

- Delirio amoroso, Genova, Il Melangolo, 1989.


- Il tormento delle figure, Genova, Il Melangolo, 1990.
- La presenza di Orfeo, Milano, Scheiwiller, 1993.
- Reato di vita. Autobiografia e poesia, a cura di Luisella Veroli,
Milano, La Vita Felice, 1994.
- La pazza della porta accanto, Milano, Bompiani, 1995.
- Clinica dell’abbandono, a cura di Giovanni Rosadini, Torino,
Einaudi, 2003.
- Lettere al dottor G., Milano, Frassinelli, 2008.
- L’altra verità. Diario di una diversa, Milano, BUR, 2013.
- Fiore di poesia, Torino, Einaudi, 2014.
- La vita facile, Milano, Bompiani, 2017.
Opere letterarie

- Fo, Dario, Dialogo provocatorio sul comico, il tragico, la follia e


la ragione con Luigi Allegri, Bari, Laterza, 1990.

- Id., Morte accidentale di un anarchico, Torino, Einaudi, 2000.

131
- Pirandello, Luigi, Enrico IV, Aquila, Rea edizioni, 1960.

- Id., Così è ( se vi pare), Roma, L’unità, 1993.

- Tobino, Mario, Le libere donne di Magliano, introduzione di


Geno Pampaloni, Milano, Mondadori, 1967.

- Id., Per le antiche scale, Milano, Mondadori, 1972.

Critica su Alda Merini

- Anna Moro, Anche la follia merita i suoi applausi, Percorsi di


vita e di poesia di Alda Merini, tesi di laurea in filologia e
letteratura italiana, relatore: prof. Alberto Zava, correlatori:
prof.ssa Monica Giachino e prof.ssa Silvia Uroda, università di
Venezia, anno accademico 2015-2016.

- Ambra Zorat, La prosa femminile italiana dagli anni settanta ad


oggi perccorsi di analisi testuale, tesi di dottorato in storia della
letteratura moderna e contemporanea, relatore: prof. François livi,
coordinatore: prof. Elvio guagnini, università di Trieste, anno
accademico 2007- 2008.

- Biagini, Elisa, Nella prigione della carne: appunti sul corpo nella
poesia di Alda Merini, Forum Italicum, vol. 35, 2001.

- Borsani, Ambrogio, Il buio illuminato di Alda Merini, Il suono


dell’ombra. Poesie e prose 1953-2009, Milano, Mondadori, 2010.
132
- Cavallo, Stefano, Il tema della desolazione in L’altra verità.
Diario di una diversa, di Alda Merini, Romanica Cracoviensia,
vol. 20, n. 4, 2020.

- Chiocchi, Antonio, Di alcuni passaggi in Alda Merini, Società e


conflitto, n. 41, 2010.

- De Grazia, Victoria, Le donne nel regime fascista, Venezia,


Marsilio, 1993.

- De Sande, Estela, Rodríguez, Angeles, Rebeldes literarias, Alda


Merini e il mito della Grande Madre: l'identità ribelle, Sevilla,
Arcibel Editores, 2010.

- Dipace, Silvia, Il multiforme universo delle poesie di Alda


Merini, Siena, Prospettiva, 2008

- Laura Surgon, Alda Merni, ovvero la terapia della scrittura, tesi


di laurea in filologia e letteratura italiana, relatore: prof.essa
Illaria Corti, correlatori: prof. Michela Rusi e prof. Valerio
Vianello, università di Venezia, anno accademico 2015-2016.

- Parmeggiani, Francesca, La folle poesia di Alda Merini, Quaderni


d’Italianistica, vol. 23, n. 1, 2002.
133
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in poesia, Firenze, Franco Cesati editore, 2006.

- Redaelli, Stefano, Il senso della vita (e della follia) in Alda


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