- COME? In un gioco di parallelismi di date, partendo dal presupposto poetico che il caso non esiste e
tutto accade per una ragione a cui non sempre ci è dato di accedere in anticipo.
Ripercorrendo le tappe salienti del loro andare per date significative in cui li vedremo intenti,
entrambi, a portare avanti la propria esistenza e personale urgenza, emergono incontrovertibili
segni di una affinità innegabile di gesti e di parola, di tempra, indomita, e di urgenza. Necessaria.
Entrambi prolifici, versatili, generosi e frammentati, han mischiato versi e prosa e immagini statiche
e in movimento, e musica, tanta musica a cullare il tutto. Il loro può essere interpretato come il solo
possibile compimento di un’esistenza in cui, per paradosso, han saputo domare il proprio destino
solo accogliendolo, andandogli incontro, accettando un’assoluta sottomissione ad esso.
nascita (e morte) Nati entrambi a Marzo, in aria di primavera, e ostinati, irriverenti, irruenti e
innamorati di ogni nuovo giorno come un miracolo di nuove possibilità, per tutta la vita e
nonostante ogni tortura. Morti nella notte di Ognissanti, prefigurazione di quel che sarebbero
assurti a significare per noi, che veniamo dopo, e ancora nelle loro opere che sono testimonianze
di vitalità umanissima ci cerchiamo e ci facciamo forza.
«Nello sviluppo del mio individuo, della diversità, sono stato precocissimo; e non mi è successo,
come a Gide, di gridare d’un tratto ’Sono diverso dagli altri’ con angoscia inaspettata; io l’ho sempre
saputo» scriveva Pasolini nei giovanili «quaderni rossi». E questo sentimento di diversità che
domina tutta la sua opera – coscienza della propria omosessualità, certo, ma anche un senso più
vasto di spaesamento geografico, temporale, e sociale – troverà subito un nome: quello di poesia.
Pasolini nasce a Bologna nel 22, sua madre è un insegnante friuliana, suo padre un ufficiale. Per via
del lavoro del padre e poi della guerra la famiglia si sposta spesso. Pier Paolo si scopre poeta che è
ancora un bambino e vive in campagna, a Casarsa, paese di origine di sua madre, dove rimane
stregato dalla natura nel suo manifestarsi.
Sono nata il 21 a primavera, ma non sapevo che nascere folle aprire le zolle potesse scatenar
tempesta.
Questa è Alda, e potrebbe rispondere così, con l’incipit di questa poesia in cui La follia è prolifica
come la terra smossa, è generosa e abbondante come la primavera. Potrebbe rispondere così nel
dialogo che immagino tra loro, fatto di botta e risposta al tavolino di un bar, a Milano, a sera,
brindando a coca cola alla loro comune ebrezza per la poesia, non voluta ma accolta come una
parte di sé costituzionale, come un organo, un’articolazione. E difesa con urgenza e fiducia cieca
ben oltre la deriva dello stigma sociale, inevitabile, che precipiterà rovinoso su di loro.
L’infanzia di Alda è borghese, con direbbe Pier Paolo, i suoi non stanno né bene né male, il padre è
impiegato alle assicurazioni generali, la madre, figlia di due insegnanti di Lodi, è casalinga, bella
come una maddalena ma più vera, più peccatrice. La severità del suo sguardo andava di certo oltre
l’anima. Così ce la racconta Alda, la cui Timidezza, le ha sempre impedito di dichiararle il suo amore.
A dieci anni vince il titolo di piccola poetessa dell’anno, la premia la regina Maria José in persona.
Poi, arriva la guerra, lo sfollamento in campagna, il figlio maschio. Alda non può più studiare.
Durante la guerra muore il fratello di Pier Paolo, da partigiano. Lui scappa. Il padre di Alda viene
mandato al confino perché ha studiato e non è fascista. Tornerà, smunto come il fantasma di sé
stesso. Nel dopoguerra si raccolgono i pezzi di quel che resta, ci si reinventa, con lo slancio
impareggiabile di un rinnovato apprezzamento per la vita alternato a inconfessabili nevrosi
giovanili, al trauma recente e mai sopito veramente. Si torna alla vocazione per la poesia e alla
contestazione, pacifica ma determinatissima, di quel che da altri vien suggerito come il meglio per
loro.
Il salotto intellettuale di via del Torchio a Milano, ospiti di Giacinto Spagnoletti, con Turoldo, Erba,
Quasimodo, Manganelli, Maria Corti.
Ricordo #Erba, sempre allegro e dispersivo. #Pasolini, taciturno ma pieno di resistenza fisica.
#Turoldo dalla voce tonante e bellissima che pareva la reincarnazione della ´scapigliatura´ redenta.
Più che una scrittrice io ero la loro mascotte: giovane, taciturna, forse bella, con due fianchi di cui
mi vergognavo e cercavo di nascondere».
Alda Merini tante vergogne se le è lasciate alle spalle dopo aver assistito alla brutale realtà
dell'internamento manicomiale, dieci anni dietro quei cancelli, dopo una sfuriata col marito in cui
volarono le sedie. Finì per farsi ritrarre nuda a sett’anni suonati, da un amico fotografo. Il corpo
stanco, provato da quattro gravidanze (figlie che non le fu concesso di allevare perché pazza)
sottoposto a mille sofferenze. Per dare scandalo, per ricordare alla gente che non è il nudo in sé ma
l’imperfezione che non sappiamo accogliere.
Sono stata io a volerlo. Mi fa sorridere il moralismo della gente, non lo tirano fuori per il nudo in sé,
ormai ovunque, ma per quello non perfetto. E' l'imperfezione a scandalizzare, come fosse una
colpa. Il mio è stato un gesto di provocazione, e anche di profondo dolore: in manicomio ci
spogliavano come fossimo cose. Mi sento nuda ancora adesso.
Ma a 15 anni, quando esordì come Poeta, Alda che pure aveva avuto già qualche segno delle
“prime ombre della sua mente” come le descriverà, è già consapevole che la poesia la strapperà da
una vita come tutte le altre, da una vita facile, e ci si affida, coglie la sfida come chi non può fare
altrimenti. D’altronde l’accoglienza per la sua Presenza di Orfeo, la sua prima raccolta di poesie, fu
clamorosa:
«Di fonti per la bambina Merini non si può certo parlare: di fronte alla spiegazione di questa
precocità, di questa mostruosa intuizione di una influenza letteraria perfettamente congeniale, ci
dichiariamo disarmati».
Frequentando entrambi il salotto intellettuale di via del Torchio a Milano, l'unico rimasto in piedi
dopo i bombardamenti, e stretto abbastanza da farli star seduti gomito a gomito, si sono studiati a
vicenda. Lui la guardava di sottecchi, lei si sistemava la camicia a coprire i fianchi e però si
domandava perché lui fosse l'unico a non farle la corte.
Si persero di vista quando lui si trasferì a Roma, e quando ad Alda ristrutturarono il solaio anche la
loro preziosa corrispondenza andò persa. Alda se ne dispiacque ma seppe sempre consolarsi
perché, diceva:
«Pierpaolo è vivo nella mia mente, ogni tanto mi viene a trovare, di notte, quando nessuno mi
risponde al telefono, quando il silenzio del poeta partorisce la poesia e le stelle, il suo enigma e la
sua ostinazione».
Disarmati e ostinati, Pier Paolo Pasolini e Alda Merini sono andati incontro alla stessa società con
pari fuoco in corpo, e sebbene sia lontano il tempo dei loro battibecchi pieni di stima reciproca a
Via del Torchio, la loro comune impronta rimane salda e vivida anche oggi, ché non c'è chi non si
senta chiamato direttamente in causa di fonte ad affermazioni come questa:
«Le nevrosi che causano le regressioni più terribili e incurabili sono dovute proprio a questo
sentimento primo, di non essere accolti nel mondo con amore».
Ecco l’amore, in tutte le sue sfaccettature, come prima chiave di lettura delle loro vite capolavoro.
Alda Merini rincorsa dalle malelingue non rinunciava al suo trucco pesante, alle sue giacche
estrose, alla sua indole si bambina ma erotica insieme, fu la disperazione di sua madre e fu
caldamente invitata a sposarsi un brav’uomo, un lavoratore senza grilli per la testa. Scelse in tutta
fretta un fornaio, un bell’uomo che di poesia non ne voleva neanche sentir parlare.
Alda, che avrebbe voluto studiare, che non si sentiva solo moglie e madre, che dava ripetizioni agli
studenti dell’università dall’alto della sua formazione professionale dopo che alla prova
d’ammissione al Liceo Manzoni fu bocciata, in italiano, come Pier Paolo del resto. Provò a saziare
così la sua fame di sapere, ma c’era sempre qualcosa da fare in casa.
Quella routine nella quale aveva provato a cimentarsi, le appariva sempre più ottusa e più distante.
Resse dieci anni, ma finì male, in lite furibonda col marito. Fu chiamata l’ambulanza. Fu Internata
con diagnosi incerta, forse disturbo bipolare, forse schizofrenia ebefrenica. La psichiatria di allora
era agli albori di una nuova era, ma quel che Franco Basaglia insegnava, cioè ad ascoltare i
pazienti, le loro paure, i loro bisogni, senza camicie di forza ed elettroshock, non era ancora matura
per la rivoluzione che portò nel 78 alla chiusura dei manicomi in Italia, in prima linea sul resto del
mondo.
Alda fu internata una domenica, era il 31 ottobre 1965. Ne uscirà definitivamente solo dodici anni
più tardi, nel 1972. Dodici anni di assordante silenzio.
Pasolini è a Roma, scappato alle malelingue della provincia. La metropoli ai suoi occhi è più
suggestiva e più vera, di brutale purezza, in periferia. Le voci non corrono così lontano, si è Laureato
in Lettere a Bologna con una tesi su Pascoli, il classico dei classici, rimedia un impiego da insegnate
in ciociaria. Lo lascerà presto, preso totalmente dalla sua arte In mutamento.
L’anno in cui Alda viene internata coincide Per Pasolini con un cambio di linguaggio radicale da
poesia a cinema, in aperta rottura con la lingua e con chi la parla. Atterrito dalla dualità per cui
sente di doversi mostrare in un certo modo, tagliando fuori quanto ha di sé di più vero,
costantemente giudicato e frainteso, passa al cinema: Il suo cinema mostra la realtà attraverso la
realtà stessa: niente di più vero, immagini viscerali, di una umanità complessa, che si sa ma che non
la si mostra, come una vergogna, come una macchia.
Ecco l’amore cercato che, non trovato, aumenta il bisogno fino a diventare come un vaso rotto,
incolmabile, sempre un po’ vuoto per quelle crepe antiche da cui cola via sempre qualcosa,
qualcosa che sempre manca, la cui ricerca di fa sempre più disperata.
Sentite come gli fa eco Alda, rinchiusa per eccesso di energia poetica, per mania dell’eterno lei che
le rose le osservava da una grata arrampicarsi sulle mura esterne della sua prigione fino alla libertà.
Il giorno in cui aprirono i cancelli e permisero ai pazzi per la prima volta di uscire nei giardini Alda se
le mangiò, quelle rose, per saziarsi di tanta vita fino ad allora negata. La rosa, densa di significati, è
stata immagine ricorrente nell’opera della Merini Poeta, intimamente consapevole d’essere, come
la rosa, setosa e spinosa, viva per il sole e l'aria che si respira, nel linguaggio dei fiori la rosa è
passione, desiderio, che in quanto tale non è mai pago.
Rose di poesia / che crescete e sbocciate / senza che nessuno / si curi mai di voi
come i puri miracoli /che sempre accadono /con la forza immane del mistero.
il tema qui è l’abbandono e la forza che ci vuole a rimanere in piedi con solo, per le mani, il duro
della propria pazienza:
Tu cerchi di capire perché la persona amata ti abbia lasciata sola nel freddo della tua demenza, nel
duro della tua pazienza, ma non ti rimane che una nascita divorante, un pugno di paglia sofferta su
cui non puoi più adagiarti.
Perché tanta sofferenza non nega, non esclude, non cancella e non nasconde il desiderio di
sperimentare l’umanità, di mettervi radici, come se non ci fosse alternativa alla fiducia, alla
commistione, alla diluizione di se stessa negli altri. Non può farne a meno, e per farlo richiama a sé
tutto il suo coraggio:
“È Un mondo, il mio, che si confronta con le cose del quotidiano. Non mi piacciono i poeti che
scrivono cose, magari bellissime, sul destino del mondo e non sono neanche in grado di accorgersi
della vicina di casa che sta male. In quello che è il disordine della mia vita, ho sempre cercato di
essere disponibile e aperta al mondo
le risate allegre nei giardini della follia, qualche mela rubata, le rose mangiate vive. Amavamo i fiori
come le bestie.
Pasolini nel frattempo è intento a scuotere più forte come a prenderla per le spalle, questa società
ipocrita. Lui che è uno che non grida mai, ma che alza con la propria altre voci in un crescendo in
cui finisce per investire e scommettere tutto se stesso.
Siamo ancora nel 1965 viene anche data alle stampe Alì DAGLI OCCHI AZZURRI la sua raccolta di
racconti che furono poi soggetto di film che avrebbero lanciato Pasolini come regista, tra cui
Accattone, di cui abbiamo visto il trailer, che ha dalla sua un primato in quanto è stato il primo film
vietato in Italia ai minori di 18 anni, e poi Mamma Roma con Anna Magnani, La ricotta con Orson
Welles. Con questi racconti, scritti dal ’50 al ’65, lungo un arco d’anni occupato da un intenso
dibattito culturale, Pasolini testimonia, per così dire, «dall’interno» in modo diretto e immediato,
con realismo, la società sommersa, quella dei poveri nelle borgate e delle loro quotidiane
scommesse per sopravvivere giorno per giorno.
Nasce in questo contesto il suo CINEMA DI POESIA, presentato proprio nel 1965 in occasione del
Festival internazionale di cinema di Pesaro, a cui partecipò tra gli altri anche Roland Barthes. Si
tratta di un cambio di linguaggio che ha come scopo una più ampia portata del messaggio, che
abbia l’universalità dell’immagine come pilastro, e un attento studio delle inquadrature e del
montaggio, per guidare la visione dello spettatore proprio dove il regista ha interesse che vada a
guardare, per una più vivida partecipazione dello spettatore alla narrazione. Un valore aggiunto
quindi, uno studio accurato e di senso dietro ad ogni elemento del film. Uno stile innovativo, una
cornice ragionata al dettaglio entro cui si muovono attori presi dalla strada e divi internazionali,
accenti marcatamente regionali, miseria tutt’intorno, storie che fanno discutere parecchio.
Uno stile che fu riconosciuto e sposato anche dai collaboratori più prestigiosi e capricciosi di
Pasolini: Ennio Morricone, giusto per nominare un gigante, non accettava mai lavori in cui non
avesse libertà espressiva. E ugualmente Totò. Ma di Pasolini compresero l’urgenza comunicativa
impetuosa, lo riconobbero un maestro, e si lasciarono guidare entrambi, in ogni smorfia e in ogni
nota. Forse non sapete che Pasolini fu talmente al centro di ogni suo film che fece a lungo anche
l’operatore di sé stesso: imbracciava la macchina da presa e per 8/9 ore al giorno ne reggeva il peso
senza battere ciglio.
Anna Magnani, invece, senza mezze parole gli disse nei denti “NON SONO UN ROBOT”. Finirono di
certo per mettersi d’accordo, dato il risultato trionfale del film. Lui di lei raccontava, rapito, così:
"Osservo Anna Magnani, là in fondo, sul divano del salotto elegante, dietro un prezioso pezzo
d'antiquariato, carico di scatolette e vassoietti di dolci di prima qualità. Tace, mezza nascosta. La
pelle è bianca, e i due occhi sono come un grande fazzoletto nero, che la fascia sopra il naso. Tace,
ma sta col busto eretto, come doveva stare sua nonna, un secolo fa, sulla porta di casa. Vedo però,
che il suo silenzio è inquieto: dietro la fascia nera degli occhi passano ombre più nere, interrotte,
riprese, ora represse come un piccolo rutto, ora liberate come risate. È chiaro che la gente che ha
intorno la comprime, la fa rientrare dentro la sua forma, come un liquido spanto che possa fluire
dentro il vaso, e starsene lì, buono buono.
Beve lo champagne, sublime, dell'ospite: e si prende la toppa. Dopo qualche minuto si alza dal suo
angolo, grida che va al gabinetto e, quando ritorna, si siede in mezzo alla stanza, su un seggioletto
in mezzo al grande tappeto verde. È come su un palcoscenico: sta seduta sempre col busto eretto e
le zinne sporgenti: due belle linee, perché, in questi ultimi tempi, si è rifatta "bona". Sempre come
la nonna, con un vestito che chissà come mescola l'ultima moda con la moda eterna delle popolane
ciociare o burrone, se ne sta seduta in posizione di sfida.
La fascia le è cascata dalla faccia bianca, e i due occhi, galleggiando sulla loro pece, lampeggiano
timidi e malandrini, lanciano occhiate di scorcio. troncate a metà: o prolungate con un'altra
espressione, che distruggono e lasciano come uno stupido chi la guarda.
Questa sensazione di essere stupidi, che si prova di fronte a lei, si tramuta subito in tenero affetto.
è la stessa cosa che capita a dei giovincelli, sia pure malandrini, che arrivano sparati in motocicletta
davanti a una prostituta, che li aspetta, ferma, seduta su qualche panchina a Caracalla. Di fronte
alla sua aria di sfida con cui si difende , anche i più dritti perdono la bussola, e stanno lì, locchi
locchi, come davanti alla statua di una santa miracolosa.
Dall'aria di sfida di Anna , può nascere qualsiasi cosa: ma quello che ci si aspetta sempre,
comunque, è che canti. Uno stornello. Di quello vecchi, appena rinnovato da qualche allegra
invenzione , e che finisce ridendo. Lei non può che esprimersi cantando, perché ciò che ha da
esprimere è una cosa indistinta e intera: la pura vita, sua, e delle generazioni di donne romane che
sono state al mondo prima di lei..."
Pier Paolo Pasolini. "Sette storie di Pier Paolo Pasolini" in "Donne di Roma:
Sempre nel 1965 gira la sua Dichiarazione d’amore all’Italia – Comizi d’amore l’inchiesta di cui
abbiamo visto qualche estratto nella presentazione.. Non è solo un’inchiesta su sesso amore e
coppia in Italia, ma è un ritratto dell’Italia, delle diverse Italie che non si conoscono, non si parlano
e non si comprendono non solo da una regione all’altra, ma anche da un gruppo sociale all’altro.
Con straordinaria delicatezza Pasolini in veste di documentarista fa parlare, ascolta, sorride,
cordiale, tutt’al più ironico. Non viene mai meno il suo profondo rispetto umano per i singoli, e per
il popolo che in essi è rappresentato, anche quando dan fiato a mentalità grette pure per quel
tempo. C’è molto di lui, in questo documentario: c’è la critica alla società del benessere che non
produce né benessere né progresso spirituali; c’è l’amore con cui Pasolini accoglie e perdona
sempre l’oggetto del suo sguardo, come Alda Merini del resto, e c’è l’elogio degl’inconsapevoli,
degl’innocenti e degl’ignari anche se ha capito che non si ha più il diritto di essere inconsapevoli,
innocenti ed ignari.
All’epoca in cui fu girato (1965) la parte più aspra del pensiero di Pasolini doveva ancora venire,
Comizi d’amore si colloca nel momento di passaggio fra i tormenti giovanili e quelli, irreversibili,
della maturità.
Ma se gli artisti, gli intellettuali, i giovani studenti lo hanno già consacrato come un mito, Pasolini
d’altro canto è sempre più scomodo, inviso allo stato, al ceto medio, alla politica, alla chiesa, alle
istituzioni tutte. Più di qualcuno si dichiara parte civile nei 33 Processi a suo carico. Le accuse sono
pesanti, gravose e fantasiose, c’è chi depose giurando che avesse un’arma in grado di sparare
proiettili d’oro. Fu insieme mito e perseguito, con ogni pretesto: Da vilipendio alla religione di
stato ad oscenità, fino a rapina a mano armata coadiuvata da una foto di scena in cui Pasolini
impugna un mitra giocattolo. Evidentemente si è trattato in realtà di un unico, ininterrotto
accanimento, durato vent’anni che metteva in dubbio la legittimità dell’esistenza di una personalità
come Pasolini nella società e nella cultura italiana. Una vera persecuzione giudiziaria, di cui ha
dovuto affrontare e sostenere tutte le spese, motivo di costante dolore e ancor più di solitudine,
come confida in certe lettere in cui afferma di sentirsi terribilmente solo davanti a tutto quell’odio.
Durante uno di questi processi, a Pasolini fu ordinata una perizia psichiatrica rispetto alla quale mi
sento in dovere di aprire una piccola parentesi rispetto allo stato delle cose in quegli anni in quanto
ad omosessualità:
Nella sua prima versione, l’omosessualità risultava tra i “Disturbi sociopatici di Personalità”.
Nel 1968 era considerata una deviazione sessuale, come la pedofilia, catalogata tra i “Disturbi
Mentali non Psicotici”. Nel 1970 la comunità LGBT inizia a rivendicare i propri diritti civili nei Paesi
Occidentali. Questa rivendicazione ha ripercussioni anche sul mondo scientifico che si trova spinto
a rivedere le teorie riguardo l'omosessualità.
Ricerche svolte a cavallo degli anni 50 evidenziano come almeno il 37% della popolazione maschile
e il 13% di quella femminile abbia avuto qualche esperienza di omosessuale tra la pubertà e la
vecchiaia. Più di un uomo su tre, per intenderci. E negli anni ’50 in cui la cosa più legittima concessa
era rinnegare e vergognarsi.
La ricerca evidenzia che “se l'omosessualità persiste su così vasta scala nonostante la riprovazione
pubblica e la severità delle sanzioni che nel corso dei secoli la civiltà ha posto su di essa, si ha motivo
di ritenere che tale attività comparirebbe con assai maggior frequenza nelle storie personali se non
esistessero impedimenti sociali”.
Nonostante ciò, sarà solo nel 1990, che l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) deciderà di
depennare l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali.
La Perizia psichiatrica su Pasolini, affidata a Semerari, punta il dito sulla sua omosessualità come
infermità mentale. E pensare che sia Pasolini che Alda Merini, smaniosi di cercarsi e per non
perdersi, furono tra i primi e voraci lettori di FREUD, Psichiatra e padre della psicanalisi.
Tutti ormai sono a conoscenza della febbrile urgenza che segna il confine tra Il Pasolini di Giorno e
quello notturno, tra l’intellettuale di prima grandezza e l’uomo alla disperata ricerca d’amore, e lo
cerca nelle periferie più degradate dove di giorno insegue con la macchina da presa la povertà più
scandalosa e luminosa e dove di notte offre la cena ai ragazzi di vita, con il cuore che batte dove la
carne duole.
Oriana Fallaci scrisse una lettera a Pasolini dopo che fu ritrovato il suo corpo, su una spiaggia di
Ostia. Si tratta di una lettera molto lunga e sofferta, di cui vi riporto un piccolo stralcio a
sottolineare quanto amore e quanta preoccupazione provò per la sua sorte:
Ogni volta io avrei voluto agguantarti per il giubbotto, trattenerti, implorarti, ripeterti ciò che ti
avevo detto a New York: “Ti farai tagliare la gola, Pier Paolo!”. Avrei voluto gridarti che non ne avevi
il diritto perché la tua vita non apparteneva a te e basta, alla tua sete di salvezza e basta.
Apparteneva a tutti noi. E noi ne avevamo bisogno. Non esisteva nessun altro in Italia capace di
svelare la verità come la svelavi tu, capace di farci pensare come ci facevi pensare tu, di educarci
alla coscienza civile come ci educavi tu.
E ti odiavo quando ti allontanavi su quella automobile con cui i tre teppisti t’avrebbero schiacciato il
cuore. Ti maledicevo. Ma poi l’odio si spingeva in un’ammirazione pazza, ed esclamavo: “Che uomo
coraggioso!”. Non parlo del tuo coraggio morale, ora, cioè di quello che ti faceva scrivere in cambio
di contumelie, incomprensioni, offese, vendette. Parlo del tuo coraggio fisico. Bisogna avere un
gran fegato per frequentare la melma che frequentavi tu, di notte. Il fegato dei cristiani che
insultati e sbeffeggiati entrano nel Colosseo per farsi sbranare dai leoni.
L’omosessualità di Pasolini fu per lui, per primo e tra sé e sé, un travaglio indicibile, a cui da buon
poeta provò a dar forma, come nella celebre poesia SUPPLICA A MIA MADRE, testimone di una
profonda e intensa complicità, assoluta, ineguagliabile, inespugnabile, irriproducibile con altra
donna.
È dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia / e non voglio esser solo, io ho una infinita fame
d’amore. Tu sei mia madre e la mia schiavitù.
Il rapporto con la madre, l’abbiamo accennato, fu emblematico anche per Alda, che ambiva ad
imitarla e a sfuggire al tempo stesso al suo costante rimprovero: « Madre, così ho viaggiato per ogni
dove non sapendo che il mio traguardo eri tu sola».
Pasolini ebbe a definire il suo come un “SELVAGGIO PUDORE” Ma non si dica che non seppe
amare, ne è testimone una lettera che è una confessione piena, che scrisse appena giunto a Roma
ad una donna, Silvana Mauri, conosciuta a Milano da Bonpiani.
Carissima Silvana,
Adesso è già sera, e sono qui con la tua lettera davanti agli occhi
---
Mi chiedi di parlarti con verità e con pudore: lo farò, Silvana, ma a voce, se è possibile parlare con
pudore di un caso come il mio: forse l’ho fatto in parte nelle mie poesie.
Posso solo dirti che la vita ambigua – come tu dici bene – che io conducevo a Casarsa, continuerò a
condurla qui a Roma. E se pensi all’etimologia di ambiguo vedrai che non può essere che ambiguo
uno che viva una doppia esistenza.
Per questo io qualche volta – e in questi ultimi tempi spesso – sono gelido, «cattivo», le mie parole
«fanno male». Per l’ossessionante bisogno di non ingannare gli altri, di sputar fuori ciò che anche
sono. Non ho avuto un’educazione o un passato religioso e moralistico, in apparenza: ma per lunghi
anni io sono stato quello che si dice la consolazione dei genitori, un figlio modello, uno scolaro
ideale… Questa mia tradizione di onestà e di rettezza – che non aveva un nome o una fede, ma che
era radicata in me con la profondità anonima di una cosa naturale – mi ha impedito di accettare per
molto tempo il verdetto. Non so se esistano più misure comuni per giudicarmi, o se non si deve
piuttosto ricorrere a quelle eccezionali che si usano per i malati. La mia apparente salute, il mio
equilibrio, la mia innaturale resistenza, possono trarre in inganno… Ma vedo che sto cercando
giustificazioni, ancora una volta… Scusami – volevo solo dire che non mi è né mi sarà sempre
possibile parlare con pudore di me: e mi sarà invece necessario spesso mettermi alla gogna, perché
non voglio più ingannare nessuno –. Basta con le mezze parole, bisogna affrontare lo scandalo, mi
pare dicesse San Paolo…. Coloro che come me hanno avuto il destino di non amare secondo la
norma, finiscono per sopravalutare la questione dell’amore. Uno normale può rassegnarsi – la
terribile parola – alla castità, alle occasioni perdute: ma in me la difficoltà dell’amare ha reso
ossessionante il bisogno di amare. La vita sessuale degli altri mi ha fatto sempre vergognare della
mia: il male è dunque tutto dalla mia parte? Mi sembra impossibile. Comprendimi, Silvana, ciò che
adesso mi sta più a cuore è essere chiaro per me e per gli altri: di una chiarezza senza mezzi termini,
feroce. Credo dunque che resterò a Roma tanto più che non ho intenzione non solo di conoscere,
ma neanche di vedere i letterati, persone che mi hanno sempre atterrito perché richiedono sempre
delle opinioni, mentre io non ce n’ho. Ho intenzione di lavorare e di amare, l’una cosa e l’altra
disperatamente.
…
Da quando mi hai aperto la porta a Bologna, e mi sei apparsa sotto la figura di una «madonna del
duecento» (credo di avertelo detto) tu sei stata sempre per me la donna che avrei potuto amare,
l’unica che mi ha fatto capire che cosa sia la donna, e l’unica che fino a un certo limite ho amato. Tu
capisci cos’è quel limite: ma ora devo dirti che qualche volta, non so né come né quando, l’ho
varcato, timidamente, pazzescamente, ma l’ho varcato. Ma io non ti ho mai detto niente della mia
tenerezza, perché non mi fidavo di me. Non farmi aggiungere altro, capiscimi. Nel mio ultimo
biglietto ti ho scritto che tu eri l’unica, fra tutti i miei amici, con cui mi riusciva di confidarmi: e
questo semplicemente perché sei l’unica che io ami veramente, fino al sacrificio. Per te, per esserti
d’aiuto o di conforto, farei qualsiasi cosa senza la minima ombra d’indecisione o di egoismo.
Ora qui la tua lettera, se la guardo, mi commuove ferocemente, mi sento le lacrime agli occhi:
penso a quello che ho perduto, allo spreco della mia vita nella quale non ho saputo accogliere te.
Arriviamo agli anni 70: Pasolini pubblica nel 72 Empirismo eretico che, insieme a Scritti corsari, del
1975, compone quello che si può definire il suo testamento artistico e spirituale: le sue ricerche
stilistiche e la sua filosofia sull’arte l’uno e sulla società l’altro: questioni sociali che coinvolgono, e
dividono, che fanno riflettere e discutere, che interrogano la coscienza di milioni di persone.
Tematiche ancora attuali che accesero grandi scontri culturali a quel tempo, pensiamo all’aborto, al
divorzio, al rapporto tra sessualità e omosessualità. Che Pasolini affronta senza indulgenza.
Nel frattempo 72 Alda Merini esce, finalmente, dal manicomio: provata certo, ma anche più libera,
più limpida, e più forte.
Pasolini continua a sfornare pellicole sempre più scomode: Nella sua Trilogia della vita già il solo
Decamerone, da solo, colleziona 80 denunce e 12 milioni di spettatori, praticamente metà
dell’intero popolo italiano dell’epoca. Lo spettatore da scandalizzato diventa angosciato,
terrorizzato di fronte alla sessualità promiscua finisce per accusare ma ha ormai bisogno di
guardare come nel più inquietante specchio rivolto verso l’interno di sé.
Pasolini in queste opere manifesta d’aver perso la speranza nella realtà ma non rinuncia mai a
descriverla con parole corsare che sembrano rivolgersi ai posteri. Anche le battaglie giudiziarie che
un tempo erano il suo terreno di lotta, non lo appassionano più. Non si presenta più nemmeno in
tribunale. Sposta la sua denuncia solo nella sua produzione artistica, in un paese senza giustizia e
senza speranza Pasolini sferra il suo attacco finale. Siamo nel 1975 e Pasolini gira Salò o le 120
giornate di sodoma. Nessun regista italiano ha mai osato tanto: è un film cupo, raggelante, con
immagini di cui è impossibile sopportare la vista, un pugno in faccia agli spettatori, un opera di non
ritorno. Non riuscirà ad assistere alla prima così come non riuscirà a terminare il suo ultimo
romanzo inchiesta, petrolio, iniziato parallelamente alle riprese.
Il suo lavoro è caratterizzato da una frenesia crescente, una fretta come di chi sa che ha quasi
esaurito il tempo che ha a disposizione. La disperazione lo porta a scrivere quelle che sono giunte a
noi oggi come le sue ultime parole:
«Le persone più adorabili sono quelle che non sanno di avere dei diritti.
Sono adorabili anche le persone che, pur sapendo di avere dei diritti, non li pretendono o
addirittura ci rinunciano. Sono abbastanza simpatiche anche quelle persone che lottano per i diritti
degli altri (soprattutto per coloro che non sanno di averli). Ci sono, nella nostra società, degli
sfruttati e degli sfruttatori. Ebbene, tanto peggio per gli sfruttatori. Ci sono degli intellettuali, gli
intellettuali impegnati, che considerano dovere proprio e altrui far sapere alle persone adorabili,
che non lo sanno, che hanno dei diritti; incitare le persone adorabili, che sanno di avere dei diritti
ma ci rinunciano, a non rinunciare; spingere tutti a sentire lo storico impulso a lottare per i diritti
degli altri; e considerare, infine, incontrovertibile e fuori da ogni discussione il fatto che, tra gli
sfruttati e gli sfruttatori, gli infelici sono gli sfruttati.
Si conclude così l'intervento che #PierPaoloPasolini avrebbe dovuto tenere al Congresso del
Partito radicale del novembre 1975. Poté essere solo letto, davanti ad una platea sconvolta e
muta, perché due giorni prima Pasolini fu ucciso. Siamo nel 1975, nella notte tra 1 e 2 novembre
all’idroscalo di Ostia.
Il suo corpo viene ritrovato al mattino, massacrato al punto da sembrare un informe mucchio
d’immondizie. Il suo assassinio è rimasto avvolto dal mistero, poco o niente han potuto gli amici
che negli anni han chiesto più volte di riaprire il caso.
Trentaquattro anni più tardi nel giorno di Ognisanti anche Alda Merini lascerà la sua vita terrena.
Ma prima ha un gran tempo da recuperare, dopo il lungo silenzio manicomiale. Scrive i suoi
capolavori, da La Terra Santa, a L’altra Verità, e Delirio Amoroso.
Ne La Terra Santa scrive in versi paragonando il manicomio all’esodo verso la Terra Santa: quando
amavamo ci facevano gli elettrochoc perché, dicevano, un pazzo non può amare nessuno.
Ne L’altra verità prosegue in prosa, e in una nota conclusiva afferma di far dono della sua opera alla
comunità scientifica affinché la psichiatria si faccia più umanistica e dice:
“Non esiste pazzia senza giustificazione e ogni gesto che dalla gente comune e sobria viene
considerato pazzo coinvolge il mistero di una inaudita sofferenza che non è stata colta
dagli uomini.”
nel Delirio Amoroso riprende le fila della sua storia, aggiunge le più recenti delusioni, condensa il
suo dolore in un flusso di coscienza fatto di immagini recuperate dal cappello della memoria,
compromessa dagli elettroschok eppure a tratti gravida e vivida, del particolare e delle sue
ramificazioni di senso, un viaggio nella sua mente, in un giorno qualunque, tra le sue ossessioni e la
sua meraviglia, con ironia e leggerezza:
“Il Naviglio, stanco, riottoso, difficile, antico, stracarico, colpevole, puttanesco, drogato di sogni,
ritoccato dalla mano sapiente del consumismo, oggi sembra un'allegra prostituta ballonzolona.
Ricordo invece le pietre nude, i paradossali momenti della follia, le bestemmie, le cicche delle
lavandaie, i miei figli che languivano nella fame, le autoambulanze che mi portavano via e mi
riportavano indietro a seconda degli umori. Le turbe dei miei scolari, il mio pianoforte. Le canzoni
libere, gli osanna dei demoni. Il tavolo vuoto di amicizie e l'ansia di una madre che stava per partire
per un eremo e ne era consapevole. Quanto amore e solitudine! Il Naviglio, struggente come una
lacrima. Il mio viso, una grande lacrima del Naviglio.
Pubblico questo libro per fame, non perché abbia voglia di scriverlo. Lo pubblico perché qualcuno
ha bleffato. Perché ho bisogno di denaro. Perché le grandi opere sono state dettate da un profondo
appetito psicologico e morale. E anche corporeo.
Andare tutti i giorni al "Centro" mi costa paura, chiacchiere, diffamazioni e vergogna. Vergogna
perché è una centro assistenziale per poveri e perché come poeta non mi piace la promiscuità. Ma i
poveri si attaccano a tutto ciò che tende loro una mano, per salvarsi. Passano attraverso mille
naufragi, attaccandosi violentemente alla propria disperazione finché muoiono tutti in un identico
fango. Ho cercato un uomo che salvasse questa mia speranza. Non l'ho trovato. Non l'ho trovato in
tempo. Cadrò nel gorgo. Se non mi aiutano impazzirò di certo anzi sono già folle”.
ED è solo a questo punto che il grande pubblico la scopre. Partecipa ad una trasmissione in
televisone. Incanta, commuove, è pure simpatica. A suo agio, libera, imprevedibile come gatta,
sorridente, giocosa, timida ma con grandi cappelli a tesa larga, bigiotteria vistosa, il rossetto sbafato
dalle sigarette che fuma in continuazione. Alda ha 58 anni nel 1989, ed è maliziosa, e profonda,
gaia e disperata come un’innocente. La storia del suo internamento poi, fa audience.
Viene invitata sempre più spesso nei programmi Tv e E lei va, ospite da Costanzo, da Chiambretti,
da Bonolis e attraverso la tv arriva in ogni salotto italiano. Con i suoi vestiti macchiati, lo smalto
rosso consunto, tanto trucco, tanti orpelli, nessun dente sopravvissuto agli elettroshock. Incalzata
sugli orrori subiti, ci porta a domicilio la condizione di poeta, tutta la sua onestà, il suo dolore e la
sua fiducia nella provvidenza e nell’amore. Nonostante tutto.
Ha una saggezza indicibile, come di bambina, e alla gente arrivano chiare le sue parole. Ci trovano
dentro tutto quel che a ciascuno serve per sentirsi migliore, per sentir riaccendersi la scintilla della
speranza in un vecchio motore.
Alda Merini è povera. I suoi libri vendono, i suoi editori sono grandi, i suoi diritti d’autore non sono
tutelati a dovere, ma a lei non importa. Regala le sue poesie ai passanti, le baratta per un panino e
una coca cola, le lascia sui gradini della chiesa, sopra ogni cosa preferisce distribuirle tra i giovani
più belli e più vispi che incontra. La casa della poesia non conosce porte diceva, e anche nella sua
casa era un continuo via vai di ammiratori di giorno, ché di notte quando il silenzio si fa
insopportabile si attacca al telefono e più di qualcuno, le lo sapeva, lo spegneva prima. D’inverno,
ché d’estate una volta si fece recapitare una vasca idromassaggio nell’ufficio del suo editore e
un’altra denunciò la scomparsa di un amico in vacanza ai carabinieri e un’altra ancora minacciò di
farsi saltare col gas, e glielo tolsero.
Le viene infine concesso il Vitalizio della legge Bacchelli, dopo che un comitato battagliero di firme
illustri sostiene la sua causa e la sua condizione di indigente in un piccolo appartamento di ringhiera
sui navigli, malmesso e ingombro di mozziconi di sigaretta e bicchierini di caffè d’asporto. Ma di
quel denaro Alda non sa che farsene, e lo distribuisce per lo più tra i senzatetto del quartiere.
Qui è racchiuso tutto il senso del suo spirito indomito eppure così accogliente, che non si ferma a
guardare da quale parte arriva il male ma lo sa attraversare.
Alda racconta il dolore come “Una traccia di nero nella coscienza, un segno di demarcazione, una
cancellazione improvvisa. Qualcuno che ti ha sfregiato, ma più che sfregiato ti ha sepolto, ti ha
dimenticato.
Nel mio andare per i Navigli ho sempre parlato ed aiutato tutti quelli che mi tendevano la mano; è
anche grazie a loro, grazie a ciò che mi hanno insegnato che io ho fatto e faccio poesia”.
Quando è morta al suo funerale, in duomo a Milano, qualcuno dice che ad un certo punto si siano
spalancate le porte e un esercito di barboni sia entrato a porgerle l’ultimo saluto, mischiando al
profumo dell’incenso gli odori della strada.
A questo punto possiamo tirare in qualche modo le somme dei vari perché che accomunano le loro
R-Esistenze
- PERCHÉ hanno condiviso un tempo storico comune: gli anni dell’illusione fascista, la seconda
guerra mondiale, la ricostruzione e il boom economico. Sul piano culturale c’è l’avvento della radio,
poi della televisione. La giovinezza, gli anni d’oro del cinema dal neorealismo alle figure
dell’assurdo, da Totò a Paolo Villaggio, al quale Alda fu sempre grata per averle salvato la vita
strappandole qualche risata negli anni troppo lunghi trascorsi fuori tra quattro mura
completamente ignara del mondo fuori ed ignorata. E poi La musica del cantautorato, eversiva,
dissacrante e gaia, socialmente impegnata e romantica insieme, da De André che dedicò alla
memoria di Pasolini la sua celebre Una storia Sbagliata
La canzone fu commissionata a De André dalla Rai, per fare da sigla al programma Dietro il
processo sulla morte di Pasolini e tutti i non detti di quel fattaccio, incarico che De André accolse
con grande trasporto perché:
«...a noi che scrivevamo canzoni, come credo d'altra parte a tutti coloro che si sentivano in qualche
misura legati al mondo della letteratura e dello spettacolo, la morte di Pasolini ci aveva resi quasi
come orfani. Ne avevamo vissuto la scomparsa come un grave lutto, quasi come se ci fosse
mancato un parente stretto.»
(Fabrizio De André)
E ancora Dalla, che a casa di Alda suonava il piano, e finì per tributarle più di un concerto in duomo,
con un’intera orchestra, e ancora Guccini, Gaber, Vecchioni, con la sua Canzone per Alda Merini,
composta dopo una illuminante chiacchierata con lei e tutte le osterie fumose in cui imbracciare
una chitarra e sbirciare che vita fanno quelli che girano di notte e non hanno paura di niente. Che
sapersi divertire è un privilegio di chi si è cercato a lungo come di chi non si è cercato affatto.
"Amo ferocemente, disperatamente la vita. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi
porteranno alla fine. Amo il sole, l'erba, la gioventù. L'amore per la vita è divenuto per me un vizio
più micidiale della cocaina. Io divoro la mia esistenza con un appetito insaziabile". PP
- PER i loro rapporti con l’istituzione, dalla famiglia all’istruzione, alla chiesa e allo stato, tra ospedali
e tribunali. Pe il loro schierarsi con il perdente, perché hanno in comune la condizione d’esser
diversi, poeti e folli, appassionati, coraggiosi, religiosi a modo loro, perseguiti, condannati, umiliati
da, etichette sempre troppo strette e vita che chiama dalla strada.
Con la raccolta Le ceneri di Gramsci Pasolini fu universalmente celebrato e insignito del Premio
Viareggio nel '57, (lo stesso premio che vinse anche Alda Merini quasi quarant'anni più tardi con
Ballate non pagate). Sulla sua opera si espresse nientemeno che Italo Calvino, e disse così:
è questa la poesia di cui abbiamo bisogno: una poesia che si possa discutere, che tocchi le
contraddizioni del mondo in cui ci muoviamo, che faccia venire preoccupazioni nuove, anche che
irriti, che rompa le scatole!...
In soli 15 giorni tutte le copie disponibili furono vendute.
Pasolini ironizzava senza mezze misure sui "santini sacrileghi" di Alda, sulla sua carnalità intrisa di
misticismo. Alda non capiva perché, e lo tiranneggiava coi suoi scherzi, mentre si aggirava rapido e
assorto per le vie di Milano mentre lei lo seguiva con lo sguardo.
Era fattivo, volitivo, tempestoso. Fu con somma meraviglia che io mi vidi citata proprio da lui, su
Paragone, nel 1954. Lui che aveva sempre sdegnato le mie rincorse, i miei tentativi giovanili di
seduzione: Pasolini mi distanziava quasi sempre di un paio di metri, frettoloso e asciutto,
guardandomi in tralice. Era l'unico che non mi faceva la corte.
Continuai a pedinare Pasolini per tutta la vita, per sapere, vanità femminile, che cosa aveva fatto
del mio ricordo.
Per adorare l'anima bisogna tener conto del corpo. Negare il corpo vuol dire negare l’arte, e
negare l’arte vuol dire negare l’anima
A sua volta, Pasolini riassunse in un'unica e chiara risposta tutti i moralismi a suo carico: "Il corpo:
ecco una terra non ancora colonizzata dal potere.”.
«Il poeta è quasi sempre lurido. È povero per vocazione. È povero perché questo gli consente di
essere libero: il poeta è un dissidente, ma è anche un grande amatore. Un giorno, per via di questa
vocazione amorosa, contattai un uomo. Non era bello, e pareva schiacciato da una sorta di
cattiveria: la cattiveria di colui che ha subito del male e non se ne vuole disfare ma se lo tiene
dentro per masticarlo e per divorarlo giorno dopo giorno. C’è gente che rumina il dolore e che ne fa
la propria prigione e il proprio deciso sentimento di vita.
Quell’uomo venne da me ed esaminò il televisore. Poi mi guardò con strafottenza chiedendomi se
volevo venderlo. Si, volevo realizzare del denaro subito. Il suo sguardo andava dal televisore al mio
corpo seminudo. Era un pomeriggio d’agosto. Compresi il suo sguardo e volli esaudirlo facendo
l’amore. Poi se ne andò e non tornò più, e ora lo stringo soltanto nel pensiero di quell’unico
incontro, di quell’unico disfacimento a due. Mentre ci stringevamo su quel letto che non era
esattamente “il nostro”, qualcuno in strada cantava “Pazza Idea”. Allora ci guardammo con stolida
complicità e continuammo a baciarci forsennatamente con rabbia.
Non lo vidi più. In quello strano rapporto d’amore che pareva una lotta, avevamo bruciato entrambi
una figura di sogno».
Tante urgenze e malcelate e poi ostentate libertà ebbero in comune, Pier Paolo Pasolini e Alda
Merini soprattutto furono entrambi scandalizzati dallo scandalo del perbenismo. A causa di un
ingombrante pregiudizio del normale sono stati entrambi condannati, fraintesi, giudicati e
emarginati.
Si sono sempre rialzati, fino all’ultimo giorno utile sono stati coerenti nel portare avanti sé stessi
interi, come se il proprio mistero fosse parte integrante di un tutto indicibile ed essenziale al loro
peculiare modo di fare di ogni occasione un capolavoro. In crescendo di produttività frenetica.
In prossimità con chi, come loro, era escluso dalla società “perbene” trovando nei poveri e nei
pazzi, gli unici superstiti della società dei consumi. In grado di splendere, a margine rispetto alla
logica della maggioranza.
„Più mi lasciano sola più splendo.“ — Alda Merini, libro Aforismi e magie
„T’insegneranno a non splendere. E tu splendi, invece.“ — Pier Paolo Pasolini Lettere Luterane
- PERCHÉ si sono incontrati, scrutati, studiati, inseguiti, recensiti, scritti lettere andate perdute, e
anche quando si son persi di vista si son rimasti accanto, dalla stessa parte. Le loro opere
procedono parallele e speculari: lui immortala angoli di periferie e di mondi che siano simboli,
stimoli per il pubblico per mettersi in discussione, aprire gli occhi, svegliarsi dal torpore di una
sudditanza che si stenta quasi, ormai, a riconoscere ma che ci tiene a briglia stretta.
Lei parte da sé, scrive per sé, per sbrogliarsi, come le hanno suggerito i medici, e attraverso se
stessa offre a ciascuno come uno specchio in cui cercarsi e riconoscersi, come una strega, come
una sirena, incanta e rapisce e stordisce quel suo far sentire forte il sentimento sulla pelle di ogni
persona del pubblico, dal lettore allo spettatore, nelle sue partecipazioni a teatro, in tv e al cinema,
protagonista di innumerevoli film documentari che l’hanno vista protagonista.
CONCLUSIONI
- Lo scopo del nostro lavoro è generare curiosità, voglia di approfondire. Quest’anno Pasolini
avrebbe compiuto cent'anni, Alda Novantuno. Hanno speso entrambi una vita intera per rivolgersi
a noi che ancora siamo tutti lì, inchiodati alla croce delle nostre paure, del quieto vivere,
dell’abitudine, della nostra libertà apparente che ancora non sempre ci riesce di smascherare.
Indagine su Alda Merini: non fu mai una donna addomesticabile è un tentativo di scardinare certi punti
fermi, che fan comodo finché non ci caschiamo nel mezzo; è un omaggio ad una donna che prima di noi
ha attentato a certe ipocrisie che ci leniscono il senso del sé prima di incrociare il nostro sguardo, quello
autentico e disfatto, eppure ancora vibrante nello specchio.
- La Merini e Pasolini sono stati, entrambi, vicini ai giovani di più generazioni, e oggi ancora sono
iconici nell’immaginario come due ribelli contemporanei, come nuclei incandescenti di passioni
contrastanti e di genio, come martiri di ingiustizie subite, persecuzioni e torture eppure vincenti,
sulla scommessa del tempo, per quel che han creato, immaginato e narrato, e per il fatto di non
essersi mai tirati indietro rispetto a quel che la vita ha dato e voluto in cambio da loro.
Ringraziando, pergiunta:
Stupenda e misera città, che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci gli uomini imparano bambini,
le piccole cose in cui la grandezza della vita in pace si scopre, come andare duri e pronti nella ressa
delle strade, rivolgersi a un altro uomo senza tremare, non vergognarsi di guardare il denaro
contato …
a difendermi, a offendere, ad avere il mondo davanti agli occhi e non soltanto in cuore, a capire
che pochi conoscono le passioni in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sono fratelli proprio nell’avere passioni di uomini che allegri,
inconsci, interi vivono di esperienze ignote a me. ( il pianto della scavatrice)
In quanto alla Merini, riporto il suo racconto su Titano, un senzatetto che accolse nella sua casa
troppo vuota una notte a capodanno:
«Ecco, ad esempio Titano, un uomo abbandonato, sfrattato, che moriva sul marciapiede e che io
raccolsi, che è stato con me cinque anni, è stato un grande compagno anche d'arte. Quando l'ho
rivestito, tutti lo guardavano, era un uomo bellissimo.
Cos'avrei dovuto fare? L'ho salvato dalla miseria. Era un barbone, ma anche un gran personaggio
dei Navigli. Quando lo incontrai per la prima volta era moribondo: "Perché sta morendo?" gli chiesi.
"Mi hanno rovinato le donne" rispose. Lo invitai a casa. Di giorno lo mandavo via, lo mettevo alla
porta, e lui riprendeva il suo vagabondare di barbone. Di notte però, tornava sempre.
C'era in quel suo volto stanco, scavato dalla nevrosi, anche qualche cosa di leggero, di magico, di
assente. Mi ricordava il cielo, il mare. Titano che a un certo punto, si prendeva la faccia tra le mani
e cominciava a piangere come un bambino. Una volta mi disse una cosa molto semplice: "Ogni
uomo ha bisogno di amore". La teoria di Titano era questa.
Quest’uomo per anni, la sera, mi suonava il citofono e diceva "Signora Merini come sta?" era
l’unico che mi salutava. L’ho accolto in casa mia perché non aveva casa. Aveva una gamba in
cancrena, aveva molto freddo. Ma è stato lui poi che mi ha scaldata nei peggiori momenti della mia
vita.
Anch’io ho ricevuto molto da lui: il fatto di poter dare qualcosa a qualcuno è già di per sé un dono,
come la poesia. Titano in un certo modo è una mia poesia, un regalo alla vita».
CI DICHIARIAMO DISARMATI
- Con questa affermazione Pasolini presenta Alda Merini al suo esordio sulla scena poetica, ed è
un’affermazione profetica, perché veramente la Merini priva di strumenti e precocemente aveva
manifestato una intuizione poetica di grandissimo spessore che poi sarebbe diventata una
grandezza primaria del panorama contemporaneo.
Ma in questa stessa affermazione, parlando metaforicamente per entrambi, c’è un render chiaro,
manifesto, riflessivo e autonomo, a dispetto di tutte le etichette, d’esser si, forse privi di
strumenti, svantaggiati, ma pronti: disperati, appassionati, coraggiosi e innamorati, della vita e di
tutti i suoi risvolti, affamati di vita, generosi di vita, fedeli alla vita anche se è in loro un mistero che
non si risolve, un dolore che non si placa, una voragine. Il senso ultimo della loro ira e della loro
cura. È una sfilza di dichiarazioni d’amore, la loro.
È sia intento che mezzo, è l’arte che hanno scelto come megafono, come modo di stare al mondo,
di rapportarsi al mondo, e il loro contributo a renderlo un po’ migliore, un po’ più aperto e
cosciente.