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Ettore Schimtz, meglio conosciuto come Italo Svevo, nasce nel 1861 a Trieste e muore nel 1928. La famiglia
era ebrea e benestante.
1. Una vita
2. Senilità
3. La coscienza di Zeno
UNA VITA
pubblicato nel 1892 da una piccola casa editrice chiamata Vram a spese dell’autore. Il titolo inizialmente
scelto da Svevo era “un inetto” ma l’editore consiglia di cambiarlo in “una vita” per renderlo più accattivante
siccome in Francia, un autore (Maupassant) aveva pubblicato un romanzo chiamato “Una vita” che ebbe
molto successo.
Come protagonista Svevo non scelse un eroe tipico ottocentesco, ma un antieroe, un inetto, cioè un
incapace a vivere, colui che non sa trasformare il pensiero in azione, quindi non agisce (cfr. inetto di
D’Annunzio).
TRAMA
Alfonso Nitti, giovane intellettuale con aspirazioni letterarie, lascia il paese natale, dove vive con la madre,
e si trasferisce a Trieste, trovando un avvilente impiego come bancario. Un giorno viene invitato a casa del
banchiere Maller, e qui conosce Macario, un giovane sicuro di sé con cui Alfonso fa amicizia, e Annetta,
figlia di Maller, anch'ella interessata alla letteratura, con la quale Alfonso inizia una relazione. Sul punto di
sposarla però, Alfonso fugge, così da poter cambiare vita, e torna al paese d'origine, dove la madre, già
gravemente malata, muore. Alfonso torna quindi a Trieste, certo di aver scoperto nella rinuncia e nella
contemplazione la sua vera natura. La realtà, però, sarà diversa: infatti venendo a scoprire che Annetta si è
fidanzata con Macario, viene invaso da una dolorosa gelosia e verrà ferito dall'odio riservatogli dai suoi
colleghi. Il ruolo che gli viene assegnato è di minore importanza ma cerca comunque di tornare in buoni
rapporti con la famiglia Maller. Tuttavia, non solo fallisce in questo proposito, bensì riesce persino ad
aggravare ulteriormente la situazione, lasciandosi sfuggire frasi che vengono interpretate come ricatti.
Scrive allora ad Annetta per chiederle un incontro di chiarimento, ma il suo gesto viene frainteso:
all'appuntamento con la ragazza si presenta infatti il fratello Federico, che lo sfida a duello. Alfonso
sceglierà di suicidarsi tramite esalazioni di gas e di porre così fine alla sua vita di disadattato, pensando che
Annetta pianga infine sulla sua tomba.
SISTEMA DEI PERSONAGGI
- Alfonso Nitti: l’inetto
- Macario, cugino dei Maller: Antagonista, che ha tutte le caratteristiche (fisiche e psicologiche) che
mancano ad Alfonso. Riesce a far corrispondere pensiero e azione
- Sr. Maller: Rivale/ figura paterna. Lui, come Macario ha tutte le caratteristiche mancanti ad Alfonso
(Alfonso, l’inetto, ha una crisi interiore che non riesce a riordinare, ma prova a ordinare la realtà
tramite la sua superiorità culturale. Alfonso è il tipico uomo post-copernicano che non ha più
certezze, ha un forte rapporto con la cultura e filtra la realtà attraverso schemi letterari)
Per tutto il romanzo Alfonso Nitti tenta di emulare Macario, anche se si sente superiore a lui dal punto di
vista culturale e tenta di emulare o di opporsi al Sr. Maller per gli stessi motivi. Alla fine, Alfonso resterà
sconfitto e Macario sposerà la figlia del Sr. Maller (Annetta) e resterà sconfitto anche dal punto di vista
culturale, essendo inferiore a Macario.
MODELLI FILOSOFICI
1. Schopenhauer: Alfonso si suicida (suicidio di Schopenhauer: amore per la vita anche se incapace. c’è
anche il concetto di noluntas: incapacità di agire)
2. Marx: lo troviamo nel contesto lavorativo
NARRAZIONE
narratore in terza persona, ma interno (perché giudicante). È come se a parlare è la coscienza del
personaggio.
TRAMA
Emilio Brentani è un impiegato di un'assicurazione: conduce una modesta esistenza in un appartamento
di Trieste condiviso con la sorella Amalia, la quale, non avendo molti rapporti con il mondo esterno, si limita
principalmente ad accudirlo. Accade un giorno che Emilio conosce Angiolina, di cui si innamora, e ciò lo
porta a trascurare la sorella e l'amico Stefano Balli, che compensa i pochi riconoscimenti artistici con i
successi con le donne. Emilio tenta di fare capire ad Angiolina che la relazione tra i due sarà subordinata ai
doveri di lui, come quello nei confronti della propria famiglia. Non è in grado di rendersi conto che in realtà
sarà Angiolina ad avere il coltello dalla parte del manico, ad investire meno sentimenti e a soffrire di meno
a causa di questa relazione non ufficiale.
Stefano non crede nell'amore e cerca di convincere Emilio a divertirsi con Angiolina, che ha del resto una
pessima fama a Trieste. Emilio finisce invece per aprire il cuore a questa donna, arrivando anche a
trascurare gli avvertimenti degli amici: infatti Angiolina non lo ricambia, e anzi inizia a mostrare un certo
interesse per un ombrellaio e per lo stesso Stefano Balli. Del resto, come indicato nell'incipit del romanzo,
l'accordo desiderato dal Brentani era quello di un legame senza impegni.
Stefano, dal canto suo, comincia a frequentare casa Brentani con maggiore continuità. Per ironia del
destino Amalia finisce per innamorarsi di Stefano. Il suo fascino maschile fa quindi colpo su entrambe le
protagoniste femminili. Emilio, geloso della sorella, allontana Stefano, mentre Amalia comincia a drogarsi
con l'etere, finché non si ammala di polmonite (questo atteggiamento di Amalia nei confronti della vita si
avvicina decisamente al suicidio di Alfonso Nitti, protagonista del romanzo Una vita). La malattia la
condurrà alla morte.
Emilio smette di frequentare Angiolina, pur amandola, e si allontana da Stefano Balli. Viene poi a sapere
che Angiolina è fuggita con il cassiere di una banca, per poi recarsi nella capitale dell'Impero, Vienna. Il
romanzo si conclude con un'immagine significativa: anni dopo, nel ricordo, Emilio vede le due donne
idealizzate secondo i propri desideri e fuse in una singola persona, con l'aspetto dell'amata e il carattere
della sorella.
Stefano Baldi è uno scultore e un grande seduttore, infatti cambia donna ripetutamente nel corso del
romanzo. Ha un atteggiamento simile all’esteta, ma con un’essenza da superuomo
MODELI FILOSOFICI
- Schopenhauer: domina la noluntas del personaggio principale (inetto)
- Marx: non compare tanto quanto in “Una vIta” siccome in questo romanzo non c’è particolare
attenzione per gli ambienti sociali. Compare tuttavia il socialismo, siccome Emilio aderisce al
pensiero socialista
NARRAZIONE
narratore in terza persona interno (giudica e spesso smaschera gli alibi e gli autoinganni del protagonista). Il
narratore smaschera in 3 modi diversi:
- FAMIGLIA: composta soli dalla sorella, descritta come “non ingombrante, né fisicamente né
moralmente”. Per lui è come una madre, della quale si sente tutta la responsabilità (giustificazione
falsa)
- CARRIERA: si compone di due occupazioni e due scopi ben distinti: è un impiegato di poca
importanza presso una società di assicurazione, trae il giusto guadagno per sfamare lui e la sorella.
La sua seconda carriera è quella letteraria, ma al momento sospesa perché non si sta dedicando a
nulla. Ha scritto un romanzo che non ha riscosso successo e che ha avuto visibilità solo nell’ambito
cittadino (quindi poche persone) e ci si aspettava un secondo romanzo che in realtà non arriverà
mai.
i personaggi sveviani (come Emilio Brentani e Alfonso Nitti) sono dei letterati che filtrano la realtà attraverso
schemi letterari. Angiolina è la “donna angelo”, infatti, in questo estratto viene descritta con i capelli biondi,
occhi azzurri, snella e flessuosa, alta, volto illuminato e soprattutto dotata di BELLA SALUTE (infatti Alfonso
ed Emilio vengono considerati fratelli carnali).
Emilio si pone nei confronti di Angiolina con premura tipica di un padre o di un fratello. In realtà la premura
è per sè stesso, siccome ha paura di ferirsi (autoinganno). Il fatto che filtri la realtà attraverso schemi
letterali si capisce dal lirismo di alcune sezioni. Angiolina rappresenta la gioventù e la bellezza ed aveva il
compito di trasmetterle anche ad Emilio. I due si sono conosciuti siccome Emilio ha aiutato Angelina
siccome per errore ha fatto cadere l’ombrellino e Emilio lo ha raccolto. Emilio, fiero di questo gesto, si era
convinto di trovare in lei una storia facile e breve, ma in realtà è stata Angiolina l’astuta, che l’ha fatto
cadere apposta con malizia. Emilio pensa di gestire la situazione (lui è quello che decide il tipo di relazione)
assumendo quindi un atteggiamento dominante. Questo è il tipico atteggiamento dei personaggi sveviani di
controllare il caos interno attraverso l’ordine esterno. (anche Alfonso Nitti faceva la stessa cosa, tenta di
dominare il mondo esterno, per avere una quiete interna. Lui credeva di dominare culturalmente l’esterno,
mentre Emilio sentimentalmente)
eccetto la prefazione, a partire dal preambolo al capitolo settimo (penultimo) il romanzo si presenta sotto
forma di memoriale (il protagonista ripercorre momenti della sua vita passata). Ciò comporta che il tempo
non sia lineare, ma misto (un tempo che si alterna fra passato lontano, passato recente e presente) ed ecco
perché i capitoli sono tematici. L’ultimo capitolo (psicoanalisi) è sotto forma di diario che Zeno Cosini scrive
a distanza di tempo rispetto ai capitoli precedenti siccome nel lasso di tempo fra i primi sette capitoli e
l’ottavo, crede di essere guarito; dunque, interrompe le sedute con lo psicanalista (lo crede perché ha
raggiunto una certa serenità). Nell’ultimo capitolo ne approfitta per rinfacciare allo psicanalista alcuni
comportamenti da lui ritenuti poco deontologici: per esempio lo psicanalista si è informato del suo
paziente, lo psicanalista ha proposto a Zeno Cosini una terapia inedita, chiedendogli di scrivere le sue
memorie (cioè la parte del memoriale). Nel capitolo finale Zeno critica e insulta il dott. S. e volutamente
invia al dottore tutto il manoscritto (memoriale+diario)
PREFAZIONE
si deduce che:
ci sono diverse strategie che Zeno cosini usa per ostacolare il lavoro dello psicanalista:
- menzogne
- omissioni
- inesattezze
- piste cieche
Zeno Cosini (così come Svevo stesso) non nutre grande fiducia nella psicoanalisi perché si propone di
arrivare alla verità delle cose, che è impossibile raggiungere. Svevo stesso si è da sempre interessato alla
psiche umana; infatti, leggeva trattati e saggi sulla psicologia, quando viene pubblicata “l’interpretazione dei
sogni” di Freud, i triestini e Svevo sono i primi a leggerla in traduzione italiana perché a Trieste lavora il Dott.
Weiss (seguace di Freud). Il cugino di Svevo aveva problemi legati alla psiche e necessitava di uno
psicoterapeuta e si rivolse a Freud, che non riesce ad aiutare questo individuo, fallendo. Svevo, quindi, testa
anche da vicino le tecniche di psicoanalisi e arriva alla conclusione che la psicoterapia non è utile perché
non arriva a dei risultati, ma è utile come materiale letterario.
- Zeno Cosini: l’inetto, incapace a vivere e ad agire, che ha un rapporto conflittuale col padre, siccome
il padre non prova stima per lui e non se la sente di lasciare l’eredità al figlio, infatti, dopo la morte
del padre, l’azienda di famiglia andrà ad un ragioniere (Ragionier Olivi). Rappresenta la MALATTIA
(rappresenta l’uomo post-copernicano)
- il padre, il sig. Cosini: è l’opposto di Zeno, è come un Superuomo ed è dotato di tutte le
caratteristiche che a Zeno mancano: forza, determinazione e capacità di agire. rappresenta la
SALUTE (rappresenta l’uomo pre-copernicano)
- Augusta Malfenti: moglie di Zeno (è nel polo della salute)
- Sig. Malfenti: polo della salute, figura paterna
- Guido Speier: cognato di Zeno, marito di Ada Malfenti. Con lui, Zeno, intraprende un’attività
commerciale (penultimo capitolo). È il rivale di Zeno (come Macario o Stefano Baldi, siccome è tutto
ciò che lui non è e si è sposato Ada, donna che in realtà Zeno voleva). Morto Guido Speier, Zeno
Cosini rileva che l’attività procede bene grazie anche alla guerra e interrompe la terapia perché
pensa di essere guarito.
- Dott.S: psicoanalista di Zeno Cosini, da comportamenti poco deontologici
Zeno lo accudisce non perché gli voglia bene, ma per compiacerlo e avere stima da parte del padre (la
disistima del padre è la causa dell’inettitudine di Zeno). Zeno, quindi, piange non per il padre morente, ma
per la disistima che il padre prova nei suoi confronti. Il padre di Zeno alza il braccio colpendo la guancia del
figlio e poi muore. La coscienza di Zeno lo interpreta come uno schiaffo, ma questo non è esplicitato
(probabilmente una conclusione falsa). Zeno, che si sente disistimato dal padre, lo interpreta come un gesto
di punizione e successivamente piange, non per la tristezza dovuta alla morte del padre, ma perché ora non
può più dimostrare a suo padre la sua innocenza. Comincia a riflettere con la sua coscienza su questo
gesto: poteva essere uno schiaffo o una carezza o semplicemente voleva spostarlo per respirare meglio o
avere più luce (Zeno era in piedi davanti a lui).
Al funerale Zeno inizia a pensare una serie di bugie, affermando di ricordare il padre debole e buono (il
padre in realtà non lo è mai stato). Immagina una figura paterna immaginaria siccome voleva giustificare
l’ultimo atto del genitore nei suoi confronti. Questa affermazione serve a Zeno come auto convinzione per
assicurare a sé stesso che quell’ultimo atto non sia stata quindi l’ennesima punizione da parte di un padre a
un figlio. Anche postmortem Zeno non fa altro che pensare a dei confronti col padre, dicendo che in realtà
la colpa non sia sua, ma del medico. Cerca di giustificarsi di qualcosa di cui in vita il padre lo avrebbe
accusato.
che «inquina» l'immobilità sia pericolosa: «la vita ha dei veleni; ma poi anche degli altri veleni che servono.
Solo correndo si può sottrarsi ai primi e giovarsi degli altri»; se ci si stabilisce immobilmente in un punto
dell'universo, «si finisce per inquinarsi». Ebbene, i solidi borghesi come il signor Cosini e Augusta Malfenti
sono proprio «inquinati» da questo «veleno».
Si può capire allora l'ambivalenza di Zeno, la sorda, latente ostilità che traspare dalle parole riferite alla
moglie (come già dal ritratto del padre). Zeno è proprio il suo opposto: in quanto inetto, è mutevole,
incostante, inafferrabile. Se quindi in lui c'è un disperato bisogno di integrazione nel mondo borghese, per
trovare rimedio alla propria "malattia", per diventare "normale" e "sano", dall'altro lato la sua diversità è
irriducibile e gli impedisce quella integrazione, lo costringe sempre a restar fuori da quel mondo, a vederlo
con diffidenza e fastidio. Le ambivalenze di Zeno, che si traducono nella sua inattendibilità come narratore,
assumono così una funzione straniante. Proprio in quanto è un essere mobile e fluido, la sua visione fa
risaltare tutto il «veleno» insito nella condizione irrigidita e cristallizzata dei buoni borghesi, "normali" e
soddisfatti di sé. Per questo Zeno può divenire strumento acutissimo di critica delle ottuse e limitate
certezze del mondo borghese. chiuso nel suo angusto giro d'orizzonte, incapace di adattarsi alla mobilità del
reale.
L’ECATOMBE FINALE
tratto dall’ultimo capitolo (Psicanalisi). Svevo arriva alla conclusione che la vita è malattia e in particolare la
vita attuale è inquinata alle radici. Non esistono persone non malate. Quando afferma che l’uomo si è
sostituito agli alberi e alle bestie, fa riferimento al progresso e alla modernizzazione, affermando
implicitamente che ha invaso altri ambiti. La vita è inquinata per colpa dell’uomo, delle industrie e quindi
della rivoluzione industriale. Solo la vita gli animali è più sana siccome l’unico progresso che conoscono è
quello dell’organismo, adattandosi meglio (Darwinismo), potenziandosi. Gli esempi che propone Svevo
sono: le rondini che hanno irrobustito le ali per emigrare, le talpe che iniziarono a scavare per sopravvivere,
il cavallo si ingrandì e ingrossò il suo piede.
L’uomo inventa gli ordigni esterni al suo corpo e quindi non si potenzia fisicamente. Grazie a questi ordigni,
l’uomo diventa più debole (quindi malato) perché usa male ciò che crea. I primi ordigni dell’uomo
sembravano prolungamenti del corpo, ma poi si è esteso e il progresso è andato aumentando e anziché
potenziarlo, crea la malattia. Potenziando gli ordigni e utilizzandoli in modo sbagliato, ha disubbidito alla
legge del più forte (Darwinismo) e si è persa la selezione naturale. Il progresso è direttamente proporzionale
all’aumento della debolezza umana. La soluzione pensata da Zeno Cosini è un’apocalisse. Solo distruggendo
tutto si può tornare ad uno stato di salute. Immagina che un uomo possa piazzare al centro della terra un
ordigno in modo da far tornare allo stato di nebulosa la terra e di conseguenza tornare alla salute.
Giuseppe Ungaretti
Nasce nel 1888 ad Alessandria d’Egitto e muore a Milano nel 1970.
POET ICA
inizialmente aderisce al Futurismo, infatti pubblica sulla rivista Lacerba, ma poi se ne distacca lasciando
nella sua produzione poetica, tuttavia, alcune caratteristiche del futurismo:
I modelli a cui si rifà, oltre alle caratteristiche futuriste che gli restano, sono soprattutto i modelli francesi,
tra cui Mallarmè (un poeta poco apprezzato in quanto estremamente oscuro). Dai simbolisti francesi
apprende l’uso della parola evocativa, che consente di accedere a mondi sovrasensibili e a significati
nascosti. La parola come formula magica. Ungaretti sarà proprio il poeta sacerdote della parola, in quanto
sacra.
L’ALLEGRIA
è la prima raccolta. viene pubblicato col titolo “Il porto sepolto” (1916). Poi lo amplia e cambia il titolo
“Allegria di Naufragi” (1919), che si amplia ancora una volta nel 1931 e diventa “L’Allegria”. il titolo “Allegria
di naufragi” è ossimorico, cioè che comprende due termini in disaccordo, che però Ungaretti traduce come
“l’allegria di chi è sopravvissuto al naufragio” (naufragio inteso come esperienza bellica). Nel 1931 ha voluto
far prevalere la positività della vita espressa dall’allegria.
IL PORTO SEPOLTO
ad Alessandria d’Egitto si diceva che ci fosse un porto sepolto e che poi fosse stato ritrovato. Una
caratteristica di Ungaretti è che il titolo è parte integrante della poesia. Il “vi” all’inizio, infatti, fa riferimento
al titolo. Il poeta si immerge nel mare dove si trova il porto sepolto per poi riemergere (movimento
ascendente) con i suoi canti (i versi) e li condivide (si dimostra democratico nei confronti di chi legge). Il
poeta si immerge in una dimensione nascosta (del mistero) per risalire poi in superficie con i suoi versi: la
poesia nasce dal mistero e si colloca tra il mondo reale (superficie, un modo falso) e un mondo più profondo
(mondo del vero), ma quando il poeta prova all’avvicinarsi a quest’ultimo riesce solo a coglierne dei
frammenti di verità. La poesia è il frammento di verità che Ungaretti offre ai lettori (condivide). Al poeta non
resta altro che una piccola parte di quella verità che però è un nulla rispetto alla verità non rivelata.
COMMIATO
questo testo chiudeva la prima edizione del 1916 del “porto sepolto”, che pubblica grazie all’intervento di
Ettore Serra. È stata scritta il 2 ottobre 1916. La poesia è descritta come: “mondo, umanità e la propria vita”,
ma soprattutto la parola che suscita meraviglia e una delirante vitalità. Nel testo “poesia” (v.3) e “una
parola” (v.21) vengono isolate. Il poeta penetra nel suo silenzio e trova dentro di sé (abisso) una parola
poetica.
NATALE
Nei versi di Ungaretti si coglie il fantasma oscuro del trauma lasciatogli dalla guerra. Già nel primo verso c’è
una forte antitesi tra il Natale (momento gioioso, sereno e spensierato per antonomasia) e la stanchezza
provata dal poeta. Ungaretti non vuole uscire nella folla cittadina, perché l’assembramento gli ricorda la
confusione delle trincee belliche.
Ogni riferimento rimanda all’esperienza della guerra che ha segnato fortemente l’animo del poeta: Ungaretti
è stanco nel fisico e segnato nell’anima, Il rimando a "una cosa posata e dimenticata" ricorda il corpo dei
compagni massacrati e caduti nello scontro (cfr. Veglia).
Il ritmo del testo è scandito da frequenti enjambements che spezzano i versi, e da allitterazioni (in
particolare dei suoni s e f) che contribuiscono a dare alla poesia una certa musicalità.
Il poeta chiede dunque di rimanere in casa: c’è infatti questa esigenza di sottolineare il “qui” in
contrapposizione alle trincee non esplicitate, dove infuria la battaglia italo-austriaca.
In conclusione, il poeta chiede di poter stare accanto al “caldo buono del focolare” che ha una funzione
ristoratrice in contrapposizione con il gelo terribile e feroce patito in battaglia che gli si è insinuato nelle
ossa. Infine, c’è la giocosa analogia tra le “quattro capriole del focolare” che ricordano i giochi divertiti dei
bambini nei giorni di festa. Il poeta paragona le volute di fumo alle capovolte dei bambini, concedendo uno
spiraglio di allegria a una giornata, il Natale, che nell’infanzia doveva avere un significato lieto.
Non c’è un augurio particolare che Giuseppe Ungaretti affida alla sua poesia, né tantomeno una morale o
particolare un messaggio religioso. Il Natale è inteso nella lirica come un momento di tregua, un riposo
meritato dalle atrocità della Prima guerra mondiale, e infonde nell’animo la serenità data da un giorno
speciale.
La frase di Ungaretti “Lasciatemi come una cosa posata in un angolo e dimenticata” viene intesa, però, in
senso positivo, come un riferimento al riposo e alla serenità interiore, al non avere nulla urgente di cui
occuparsi e nessuna preoccupazione almeno nel giorno di Natale.
TEMA PATRIA
IN MEMORIA
prima poesia della sezione “il porto sepolto” della raccolta “L’Allegria”, pubblicata nel 1916.
Mohammed Sceab è il protagonista: un amico con cui Ungaretti ha vissuto in Francia condividendo un
appartamento. L’uso dell’imperfetto ci fa capire che Mohammed Sceab è morto (lo si esplicita al verso 5
“suicida”). Si è suicidato perché non aveva più patria (la parola patria è isolata nel verso). Il problema del
protagonista è l’inappartenenza, l’assenza di radici: ciò lo ha portato al suicidio, a causa di un forte senso di
solitudine. Tramite un flashback, Ungaretti ci dice qualcosa su Mohammed: pur di appartenere alla Francia,
ha cambiato il suo nome in Marcel. Cambiare non determina tuttavia l’appartenenza. Non era più capace di
vivere, e questo ha determinato il suicidio. Non si sentiva né arabo né francese.
Mohammed non era stato capace di tradurre tutto il suo dolore in versi: scrivere lo avrebbe aiutato ad
alleviare la sua sofferenza. Il giorno del funerale di Mohammed a partecipare sono stati Ungaretti e la
padrona di casa dove alloggiavano. Ciò evidenzia la sua solitudine. Lo portano nel cimitero d’Ivry: si crea
una contrapposizione fra il senso di morte e il silenzio del cimitero e la vita esterna, caotica e rumorosa.
L’indifferenza del mondo esterno accentua la solitudine delle persone all’interno del cimitero. L’unico a
ricordarsi di Mohammed sarà solo Ungaretti, tuttavia, tramite la poesia gli concede il superamento della
solitudine condividendo la sua storia con le altre persone. Ungaretti scrive questa poesia in ricordo di
Mohammed Sceab perché le loro storie sono simili; infatti, Ungaretti nasce ad Alessandria d’Egitto e poi si
trasferì in Francia. Inoltre, anche Ungaretti sentiva quel senso di appartenenza e solitudine che quasi lo
portarono al suicidio. Si arruolò proprio per sentirsi parte dell’Italia. Egli, a differenza di Mohammed, è però
riuscito a tradurre la sua sofferenza in poesia, nella quale ritrova la sua patria. C’è la verticalizzazione della
poesia, versi brevi, parole che coincidono con un verso, assenza di punteggiatura e avverbi.
GIROVAGO
il poeta ribadisce che non c’è nessun punto della terra in cui lui si senta a casa. Viene espresso il senso di
inquietudine e di solitudine di chi è girovago. Il protagonista, ovunque vada, si stanca anche prima di
arrivare in un luogo, in cui prova un senso di languore. Si riferisce a luoghi sconosciuti e conosciuti (anche
luoghi familiari). La parola “straniero” coincide con il verso, ed è una parte fondamentale del
componimento: il poeta è un forestiero, un escluso, un girovago. Se solo potesse rinascere, il poeta
sentirebbe un momento di gioia e di pace, che probabilmente è l’unico momento sereno e innocente della
vita. Anche la parola “innocente” coincide con il verso: il poeta, infatti, cerca proprio un paese che gli dia un
senso di innocenza e di purezza che si prova appena nati. Tuttavia, nessuno può dare al poeta quella purezza
primordiale che lui cerca.
PELLEGRINAGGIO
La poesia fa parte della prima raccolta di Ungaretti “L’Allegria” del 1921 in cui il linguaggio poetico viene
rivoluzionato. Il poeta racconta di essere rimasto per ore tra le macerie e nel fango in agguato. Poi
rivolgendosi a sé stesso compie una riflessione più generale sull’esistenza constatando come, a lui uomo,
abituato a soffrire, basti un’illusione per prendere coraggio e continuare a vivere. L’illusione è data dal
vedere la nebbia illuminata da un riflettore tramutarsi in mare.
Ungaretti ricorre alla tecnica del frammentismo, ovvero poesie molto brevi, scritte con linguaggio analogico
e con punteggiatura assente, attraverso l’utilizzo di versicoli, in cui anche congiunzioni e avverbi risultano
carichi di significato. Anche da un punto di vista grafico l’immagine di poche parole sul foglio bianco
sottolinea la ricercatezza e la valenza di ognuna di loro, evidenziata dalle pause e dagli spazi vuoti.
Questa poesia spicca per la brevità dei versi, che, come al verso 16, composto solamente da due
monosillabi. Tale brevità ha la funzione di amplificare il significato delle parole al massimo, rendendole più
incisive e tenendo nella poesia solo ciò che è necessario. Emerge la poetica dell’analogia. Le tre strofe
rappresentano tre momenti distinti, blocchi testuali a sé stanti.
Il luogo e la data di composizione stanno a sottolineare che si svolge in tempo di guerra a Valloncello
dell’Albero Isolato, vicino a San Martino del Carso, dove Ungaretti ha partecipato agli scontri della battaglia
dell’Isonzo nel 1916. In tutte le poesie della raccolta Ungaretti indica luogo e data per dare l’idea
dell’immediatezza con cui sono state create, come se fossero state realizzate di getto, proprio nel momento
in cui ha vissuto l’orrore della guerra, senza alcun tipo di rielaborazione o revisione da parte sua.
La poesia Pellegrinaggio rappresenta quindi un viaggio nell’animo del poeta attraverso la guerra considerata
come esperienza limite che porta alla conoscenza più profonda di sé stessi. Il motivo del viaggio è evocato
nella prima strofa, dove il poeta afferma di aver trascinato per ore la sua carcassa nel fango ed è
rappresentato dal vagare tra il fango e il dolore del poeta, illudendosi di avere una meta.
Il termine “Pellegrinaggio” si riferisce al percorso che si compie con penitenza verso un luogo sacro, il poeta
lo utilizza come titolo della poesia riferito al suo vagare tra il fango e il dolore alla ricerca di una meta
illusoria. Il pellegrinaggio del poeta è il cammino dell’uomo nella sofferenza che porta alla consapevolezza
della propria fragilità, l’unico rimedio consiste nell’illusione che permette di intravedere uno spiraglio di
vitalità.
Gli elementi che sia pure figurativamente evocano il pellegrinaggio sono: “ore e ore”, il verbo “strascicare” e
“fango”.
TEMA GUERRA
I FIUMI
Cotici 1916.
Il poeta ci descrive una scena di un momento di pausa e afferma di tenersi ad un albero mutilato
(personificazione dell’evento naturale, ma fa riferimento alla guerra, come se fosse stato mutilato dalle
bombe della guerra). la parola “abbandonato” evidenzia la solitudine. Si trova in un avvallamento, dove
sente un forte languore (il languore di un circo prima e dopo lo spettacolo). il poeta osserva che osserva le
nuvole che passano davanti alla luna (paesaggio notturno). Poi fa un flashback che ci porta al mattino: il
poeta è disteso in un’urna d’acqua (anche se non si era ancora convertito, usa parole del campo semantico
della religione per dare un senso di morte). L’urna d’acqua è il fiume, all’interno del quale lui si è steso come
una reliquia (“reliquia” significa “ciò che resta”). Scorrendo, il fiume dell’Isonzo lo levigò come se fosse un
elemento naturalmente, come se lo stesse purificando. Successivamente, il poeta si tira su “con le sue
quattro ossa” che è il risultato della levigazione. come “un acrobata sull’acqua”, similitudine che ci rimanda
all’immagine del circo e ci dà il senso di instabilità del poeta. Il poeta si accoccola poi a fianco ai suoi panni
sudici (contrapposizione con la purificazione che ha appena ricevuto il poeta). in questo momento di pace e
di stasi, il poeta, presso l’Isonzo si riconosce come “docile fibra dell’universo”. Il suo tormento nasce quando
non si sente in armonia con l’universo. Le “mani occulte” della natura lo intridono e gli fanno sentire una
felicità rara. Durante questo momento di serenità, il poeta ripensa alle fasi della sua vita scandite da vari
fiumi (l’uso di “questo” da un senso di tangibilità del fiume):
Quando ripensa ai fiumi, prova una forte nostalgia. Nel frattempo, il buio è calato (letteralmente e
metaforicamente). Ungaretti descrive la sua vita come una corolla di tenebre. La corolla ci rimanda al fiore,
che dovrebbe essere colorato (simbolo di vita), ma è un ossimoro e rimanda, invece, alla morte. I momenti
di felicità per il poeta sono molto rari; quindi, la sua vita è prevalentemente fatta da tenebre. La
contrapposizione vita/morte è spesso ricorrente nelle opere di Ungaretti. Alla fine, è l’allegria (la vita) che ha
la meglio.
VEGLIA
Il poeta è al fronte e trascorre la nottata affianco ad un compagno massacrato a causa di una bomba: aveva
la bocca digrignata (contatta in una smorfia), il viso rivolto alla luna piena, con la congestione (gonfiore)
delle mani che penetra nel silenzio. In questo contesto, Ungaretti scrive versi d’amore per la vita (contrasto
vita/morte. Tra le due a vincere è la vita.) Nonostante Ungaretti descriva scene crude, non scende nei
dettagli. Clemente Rebora, ad esempio, ha scritto “Viatico” (ciò che si dà all’estrema unzione). Da una parte
abbiamo Ungaretti che ci presenta l’immagine del soldato già morto e attraverso pochi dettagli ci descrive il
cadavere. Rebora è molto più dettagliato: il soldato è in agonia, nel momento prima di morire, ricoperto di
sangue melmoso. Si augura che possa morire presto perché i suoi lamenti fanno impazzire lui e i suoi
compagni. L’ultimo verso è “lasciaci in silenzio, grazie fratello” e ciò sta ad evidenziare il fastidio che provano
i soldati e prega il compagno di andarsene in silenzio.
FRATELLI
inizia e finisce con “Fratelli” (struttura circolare). Il titolo è parte del componimento. Sia apre con una
domanda ai soldati e chiede a quale reggimento appartenessero (“Di che reggimento siete fratelli?”).
Nella seconda strofa fa riferimento alla parola “fratelli” come una parola tremante nella notte, quindi una
parola fragile e instabile, che potrebbe rappresentare una luce nell’oscurità.
Nella terza strofa la parola “fratelli” è come una foglia appena nata, quindi ancora debole e fragile. Il
concetto che la parola “fratelli” assume è una rivolta contro la guerra, contro le divisioni dei reggimenti,
lasciando quindi prevalere il senso di fratellanza e di solidarietà umana (questo è il vero atto di rivoluzione,
non la guerra). La parola “fragile” è isolata e ha la stessa importanza di “fratelli”. Ungaretti gioca con il suono
“fr” e per questo le due parole chiave appaiono come sovrapponibili. (cfr. social catena di Leopardi)
SOLDAT I
il titolo è parte integrante del componimento. I soldati sono fragili come le foglie degli alberi d’autunno
(“soldati” e “foglie” sono i due termini di paragone. Viene sottolineata la precarietà della vita.
DI LUGLIO
ci si immette nel discorso, ma il soggetto ci è rivelato al verso 8. È l’estate. Al verso 1 “Lei” è una
personificazione dell’estate. Il colore rosa fa riferimento alle foglie secche. L’arrivo dell’estate è un’azione
feroce e distruttiva. Dalla successione tramite l’asindeto, Ungaretti, ci dà il senso della velocità con la quale
l’estate arriva e distrugge (Strugge forre, beve fiumi, Macina scogli, splende, È furia che s'ostina, è
l'implacabile, Sparge spazio, acceca mete). “occhi calcinanti” al verso 9 è un’altra personificazione.
DOVE LA LUCE
Nel 1928 Ungaretti si converte al cristianesimo, facendo diventare questa poesia religiosa, poiché prima era
ateo. Poesia più ermetica. La poesia inizia con una similitudine. Il poeta invita la donna (non esplicitata) a
seguirlo in questo suo viaggio e la invita ad innalzarsi come un uccello nel cielo e a volare sui prati appena
nati in modo si possano scordare di ciò che giù. Due dimensioni, ascendete e discendente, contrapposizione
tra alto e basso. Si crea anche un’altra dicotomia, innalzandosi cercano una dimensione migliore di quella
che c’è giù. Il poeta nel momento in cui si innalza vuole dimenticare la guerra e il dolore dell’esperienza
vissuta. Vuole allontanarsi dai fantasmi e dalle immagini del passato e avviarsi verso una nuova alba. Sopra
c’è una dimensione di sola luce dove i crucci terrestri non possono più toccarlo, mentre in basso c’è dolore e
ricordi. La sera equivale alla terra, la nostra dimensione. Contrasto luce/buio. Conclude dicendo che la
porterà verso la luce, dove il tempo e l’età non esistono più.
LA MADRE
La Madre è una poesia scritta da Giuseppe Ungaretti nel 1930. Nella poesia Ungaretti affronta il tema della
propria morte, immaginando che, nel momento in cui si troverà al cospetto di Dio, avrà accanto la madre.
Ungaretti scrive La Madre in occasione della morte della genitrice nel 1930, il forte dolore per il lutto lo
spinge a riflettere sulla propria morte, segnata dal ricongiungimento con l'adorata madre. Il testo della
poesia unisce il passato ed il futuro del poeta, il mondo terreno e quello dell'eternità cominciando con la
congiunzione copulativa "e", quasi a indicare la continuazione di un discorso iniziato tra sé e sé. La madre
con cui si ricongiungerà dopo la morte ha la funzione tipica del genitore, e cioè quella di accompagnare il
bambino e di intercedere per lui. In questo testo possiamo osservare anche la concezione religiosa di
Ungaretti: secondo il poeta dopo la morte ci aspetta il confronto con Dio e con la possibilità di raggiungere
una condizione di innocenza. La madre di Ungaretti è fatta da 5 strofe di endecasillabi e settenari alternati
liberamente. Ogni strofa coincide con un periodo e con un gesto compiuto dalla madre, il che rende la
poesia simmetrica. Per quanto riguarda le figure retoriche:
- Anastrofe (quando d’un ultimo battito / avrà fatto cadere il muro d’ombra; Come una volta mi darai
la mano)
- Sinestesia, in chiusura, gli occhi “sospirano” di amore e di sollievo.
Ungaretti qui usa parole piane, fatta qualche eccezione: alcune parole tronche, “battito”, “eccomi”.
IL DOLORE
terza raccolta di Ungaretti del 1947. All’interno troviamo componimenti brevi che riprendono le raccolte
precedenti. La raccolta nasce dal dolore per la morte del fratello per la morte del figlio.
PRODUZIONE
la produzione di montale è piuttosto ampia:
gli studiosi tendono a riconoscere “vari” Montale. In vero è possibile riconoscerne essenzialmente due:
1. primo Montale: corrisponde al Montale delle prime tre raccolte poetiche, dal 1925 al 1956
2. secondo Montale: coincide con il Montale della quarta raccolta, 1971, fino al 1980.
questa distinzione è possibile perché -seppur con alcune differenze- la poetica montaliana nelle prime tre
raccolte è la stessa, a seguire c’è una svolta.
“mi pareva di vivere sotto una campana di vetro”: la campana rappresenta l’ostacolo che separa il poeta da
ciò che è essenziale. Il modello filosofico di Montale è Schopenhauer: la campana rappresenta il velo di
Maya e, il mondo nel quale il poeta vive e si trova, è il mondo immanente che Schopenhauer definisce come
fenomenico (“il mondo come rappresentazione”, quindi un mondo falso). Al di là del mondo fenomenico, c’è
l’essenzialità, cioè la verità, il vero.
Nella poesia “ciò che di me sapeste” il poeta afferma che di lui è possibile conoscere solo ciò che appare, la
maschera pirandelliana. Al di là di quest’apparenza c’è l’azzurro tranquillo, cioè la verità, la felicità, solo che
l’accesso al cielo limpido (l’azzurro tranquillo) è impedito da un sigillo. Già da qui risulta chiaro che al poeta
la verità, l’essenzialità e la felicità sono precluse.
OSSI DI SEPPIA
pubblicata la prima volta nel 1925 e poi ripubblicata nel 1928 con delle modifiche. In un primo momento
non riscuote successo, siccome quella di Montale è una raccolta che si discosta dai poeti “laureati” come
Carducci, D’Annunzio e Pascoli (i poeti laureati sono poeti che hanno scritto e pubblicato raccolte
magniloquenti e solenni). Montale si allinea alla poetica dei “Crepuscolari” come Gozzano e Moretti che
scrivono una poesia che comprende elementi del quotidiano e prosaica (cioè ripetitiva).
Il titolo “Ossi di Seppia” si rifà allo scheletro dei molluschi e nasce per segnare la distanza fra sé e
D’Annunzio attingendo ad un verso dannunziano che Montale recupera: l’estate e la natura dannunziana
sono qui, nella raccolta Ossi di Seppia, rovesciate e quindi non indicano vitalità ma al contrario la condizione
di aridità e di disarmonia del poeta e dell’uomo, è anti-panismo). La ragione della scelta del titolo ricade
sull’ “essenziale”, è un correlativo oggettivo (lo ritroviamo anche in Eliot, autore inglese) cioè che a partire
da un oggetto (ossi di seppia) il poeta esprime una condizione esistenziale e un concetto astratto; il titolo
esprime tutta l’aridità, scarnificazione e la povertà della vita umana. Montale ha una visione pessimistica e
sembra farsi strada una forma di “speranza”: la speranza è il VARCO (detto anche MIRACOLO). Montale,
oltre a Schopenhauer, segue un altro modello filosofico: Boutroux (filosofo francese, padre del
“Contingentismo”). Secondo il Positivismo gli eventi seguono una successione/catena di causa-effetto, ma
Boutroux introduce il “contingentismo”, il fatto improvviso, il caso che rompe la catena.
Montale recupera Boutroux e introduce il varco (“l’anello che non tiene”). Quest’anello che non tiene apre il
varco e fa sì che il miracolo che potrebbe consentire al poeta di evadere dall’IMMINENTE (che il poeta vede
come una prigione, è il regno del caos, della mortalità) per accedere al TRASCENDENTE (dimensione nella
quale vige la vita, l’armonia, la felicità). Quella di Montale è una visione METAFISICA.
Pur desiderando questa dimensione, il poeta resta condannato a rimanere nella dimensione
dell’immanente; la dimensione trascendente è preclusa al poeta.
STRUT TURA
- In Limine: sezione proemiale (poesia scritta in corsivo pur scelta dallo stesso autore)
- Movimenti
- Ossi di Seppia (sezione più ampia)
- Mediterraneo
- Meriggi e ombre
- Riviere (poesia che chiude la raccolta)
il contesto in cui sono ambientate le poesie è la Liguria (regione di origine di Montale), a Monterosso (c’è
una casa di proprietà della famiglia di Montale dove trascorreva l’estate); la stagione è l’estate (che
rappresenta la stagione che di più rispetto alle altre consente l’apertura del Varco). Il varco è associato alla
natura e in particolare al mare che rappresentano ciò attraverso cui si dischiude il varco: è la via per il varco.
La poesia, per Montale, diversamente dai suoi contemporanei o dagli altri poeti, non ha un ruolo
consolatorio, né ha il ruolo di rivelare delle verità, neanche a frammenti (cfr. Ungaretti), ma la poesia può
solo dire “ciò che non siamo, ciò che non vigliamo” (una poesia al negativo), una poesia che non può
rivelare nulla (PESSIMISMO MONTALIANO). La conseguenza è il male di vivere, cioè la sofferenza del poeta
che DA SOLO ha capito che la realtà nella quale vive è falsa (rappresentazione), una condanna, che il
metafisico è inaccessibile (quindi la felicità è inaccessibile e preclusa al poeta); soffre anche per la solitudine
(è un escluso) di chi sa e non può condividere (condividere in realtà attraverso la poesia).
IN LIMINE
prima strofa: il poeta si rivolge a un “Tu” femminile; il “pomario” (v.1) rappresenta il mondo immanente, il
vento, invece, rappresenta la natura e la vita che giunge da quella dimensione metafisica. Nel mondo
immanente persiste e domina un senso di mortalità e di perdita, la stessa memoria (ricordi del passato)
vanno perdendosi.
seconda strofa: “il frullo” (v.6) è un rumore onomatopeico. Il poeta afferma che l’ingresso della vita, del
vento, della natura nel pomario (nel mondo immanente) restituisce vita al mondo immanente
terza strofa: il muro è un’immagine ricorrente in Ossi di Seppia siccome rappresenta il recinto e l’ostacolo
che circonda il mondo immanente, quindi la barriera fra il mondo immanente e il trascendente (cfr. Velo di
maya). Montale si rivolge alla donna e la invita a procedere perché dice “tu FORSE ti salvi” (il poeta spera e
si augura che la donna possa evadere dal mondo immanente per accedere al metafisico, dove c’è la
salvezza), ma con certezza sa che per lui non c’è possibilità di salvezza.
quarta strofa: “cerca una maglia rotta nella rete” (la “maglia rotta nella rete” è il varco). La rete è un’altra
immagine del mondo immanente. Il poeta prega per la donna perché sa che per lui non c’è speranza e
sapendo che per la donna c’è questa possibilità è più sereno anche lui.
I LIMONI
prima strofa: il poeta fa una dichiarazione poetica in cui afferma di prende le distanze dai poeti laureati
perché usano uno stile magniloquente e solenne, mentre Montale usa uno stile dimesso, umile, non
ricercato e quotidiano. Il poeta rappresenta il suo stile attraverso immagini, quali: pozzanghere in cui si
dimenano le anguille, viuzze etc. La strofa si chiude con l’immagine dei limoni, che danno il titolo alla poesia
seconda strofa: il poeta propone un’immagine di quiete: i cieli lipidi, azzurri e sgombri di uccelli (quindi privi
anche di rumore o qualsiasi suono); si sta creando l’atmosfera di quiete e sospensione che consente
l’apertura del varco attraverso la natura (gli elementi naturali fin qui indicati fanno riferimento all’estate);
nel silenzio è possibile percepire il sussurro delle piante dei limoni e sentire il loro odore; a sentire l’odore il
poeta prova una “dolcezza inquieta” (immagine ossimorica) perché sente che sta per accadere qualcosa (sia
apre il varco). Il poeta è immerso nel paesaggio della natura e della campagna, e anche i rumori della guerra
non si sentono. Chiude la strofa una nuova dichiarazione poetica: per i poeti non laureati, la vera ricchezza è
data dalla natura, l’odore dei limoni; e non hanno bisogno delle parole solenni come quelle dei laureati.
terza strofa: il silenzio descritto nella strofa precedente sembra voler rivelare un segreto: l’apertura del
varco. Utilizza varie parole per definire il varco: “Sbaglio della Natura”, “punto morto del mondo”, “anello
che non tiene”, “filo da sbrogliare”. il poeta lo cerca e sembra che sia stata una Divinità ad aprire questo
varco.
quarta strofa: inizia con “ma” congiunzione avversativa (rovescia quanto detto nella strofa precedente);
indica che il varco si chiude e il poeta non può accedere e il poeta si ritrova nella “città rumorosa”. questa
strofa si contrappone alla seconda: la campagna e il silenzio che si contrappone alla città e al rumore; il cielo
non è più limpido e azzurro, ma è a pezzi; all’estate si sostituisce l’inverno. Il poeta immagina che in città
possa vedere una corte (spazio che sta intorno agli appartamenti dei condomini), attraverso un mal chiuso
portone, una pianta di limone, che lo riporta alla gioia della vita (“trombe della solarità”)
NON CHIEDERCI LA PAROLA
è una dichiarazione poetica. Inizia con la negazione “non” e fa capire che la poesia non puoi rivelare delle
verità. La negazione viene ripetuta al v.9. Una parola poetica che possa dare forma al nostro animo informe
non può essere chiesta: si parla di una parola che possa trovare l’armonia quando si è in disarmonia con il
mondo. Non c’è una parola che possa illuminare risplendere come un Croco (fiore) in mezzo ad un
polveroso prato (la vita).
La seconda strofa intervalla la prima e la terza. “l’uomo che se ne va sicuro” fa riferimento agli uomini che
non hanno la stessa consapevolezza de poeta, coloro che vivono in armonia. Non si preoccupano perché
non si rendono conto di essere ingabbiati in questa dimensione immanente (ritorna l’immagine del muro
come “recinto” tra l’immanente e il metafisico). In questo modo, il poeta, sta prendendo le distanze dagli
altri uomini.
Nell’ultima strofa torna la negazione. Fa riferimento ai simbolisti per distaccarsene, perché loro pensavano
che la poesia fosse una “formula magica” per accedere al mondo metafisico. Per Montale la poesia non apre
mondi e non concede salvezza; ha una funzione descrittiva. L’autore non parla di formule magiche, ma di
“sillabe storte”, quindi una poesia disarmonica. La poesia non è in grado di rilevare alcuna verità.
nell’ultima strofa l’autore osserva il mare “lontano” che ondeggia e brilla. “lontano” indica la distanza del
poeta immerso nella natura e il mare, che è l’elemento che rappresenta l’accesso alla vita metafisica. Ciò
inaccessibilità al varco. Il poeta sente come meraviglia e profonda tristezza la verità: la vita è un travaglio, un
costante seguire la “muraglia” che non può essere valicata perché in cima ci sono “cocci aguzzi di bottiglia”
che impediscono, quindi, di far accedere il poeta al varco.
SPESSO IL MALE DI VIVERE HO INCONTRATO
questa poesia determina quello che è il male di vivere, descritto attraverso tre correlativi oggettivi.
“spesso”: indica la costanza dell’esperienza del male di vivere che viene personificato.
- rimo correlativo oggettivo: il rivo strozzato (un fiume interrotto) che gorgogli e si affanna;
- l’incartocciarsi della foglia bruciata dal sole (esempio tratto dal mondo vegetale)
- il cavallo stramazzato (in procinto di morire o già morto, mondo animale)
Nella seconda strofa, il poeta afferma di non aver conosciuto nessun altro “bene”, al di fuori del miracolo, il
“prodigio” che apre le porte alla “divina indifferenza”, un atteggiamento che Montale vorrebbe assumere.
Correlativi oggettivi della “divina indifferenza”:
è come se ci fosse un climax che parte dalla statua sul terreno e arriva al cielo.
nella terza strofa una donna chiede al poeta se all’interno di questa nebbia (correlativo oggettivo della
memoria) tutto scompare. Chiede anche se è in questo modo che il destino viene compiuto: quindi chiede
se il destino è svanire col tempo. il poeta “vorrebbe” dirle che non è così, che per lei spera si possa
avvicinare il momento di andare al di là del tempo (di aprire e oltrepassare il varco), ma “forse” (ipotetico)
solo chi ne ha la volontà riesce ad attraversare il varco, solo chi si “infinita” (hapax, neologismo) può farlo.
Forse la donna potrà; ciò che è sicuro è che lui è impossibilitato mentre la donna potrebbe avere una
possibilità. Il poeta fa dono alla donna: la sua avara speranza e se ne priva completamente perché sa che
non c’è modo per lui di attraversate il varco. Spera che la donna possa avere un destino diverso dal suo.
Il verso iniziale della quarta strofa fa verso al primo della seconda strofa. Accanto al poeta, la donna non lo
ascolta più, perché forse sta già andando verso l'eterno, il tempo del metafisico.
LE OCCASIONI
Pubblicata nel 1939. Questa raccolta ebbe più successo di Ossi di Seppia e, rispetto a quest’ultima, presenta
delle differenze quali:
Spiegazione del titolo: si deve tacere l’oggetto e tacere l’occasione spinta (definizione data da Montale
stesso).
L’oggetto di cui si parla può essere un evento, una persona o comunque qualcosa di concreto che ispira
all’autore una serie di riflessioni di carattere esistenziale, le quali non si sa però in che modo siano legate
all’oggetto.
LE DONNE
Ne compaiono varie, ma quella che ci interessa di più nella realtà si chiama Irma Brandeis. Era una
studentessa americana ed ebrea, studiosa di letteratura italiana che alloggiava a Firenze. Quando in Italia
vennero approvate le leggi razziali, Irma fu costretta a trasferirsi in America e a chiudere i rapporti con
Montale. È la figura dominante femminile (altre donne importanti: Dora Markus, Annetta o Arletta etc.)
Non viene chiamata con nessun nome fittizio, ma nella terza raccolta verrà chiamata con il nome di Clizia.
Clizia è una ninfa che viene trasformata da Apollo in girasole e fissa il sole (il girasole rappresenta la
saggezza e sapienza). Sebbene non venga chiamata Clizia, nelle occasioni già presenta queste
caratteristiche. È una donna angelo che viene da un mondo lontano (mondo metafisico) e ha il ruolo di
guidare il poeta verso la salvezza attraverso la cultura e la saggezza.
Siamo in degli anni difficili in cui Montale crede però ancora che ci sia una via per la salvezza. Nella terza
raccolta, questa speranza scomparirà. Se nella prima raccolta il varco era la natura, ora lo è la donna.
SECONDA STROFA
Nella seconda strofa ci troviamo a Mezzogiorno: momento più caldo della giornata in cui si crea l’atmosfera
per aprire un varco. Il sole fa in modo che un’ombra si allunghi (sempre riferito a quegli anni)
Le altre ombre sono tutti gli altri uomini (eccetto il poeta) che ignorano la presenza della donna. Il poeta ha
delle consapevolezze che gli altri non hanno. Se la donna è simbolo di intelligenza e sapienza, ciò vuol dire
che gli altri uomini stanno voltando le spalle a queste qualità.
Nella prima strofa, il “tu” fa riferimento a Arletta, ormai morta, che non ricorda la casa della guardia di
finanza che sorgeva a strapiombo sulla scogliera di Monterosso. Quella casa è ormai desolata e
abbandonata a sé stessa, e attende che Arletta vi faccia ritorno da quella sera in cui lei ci entrò con il suo
sciame di inquietudini.
La seconda strofa inizia con “Libeccio”, cioè il vento proveniente da sud-est, che consuma le mura. Intanto il
suono del sorriso della donna non è più lieto. La bussola che va impazzita è un correlativo oggettivo della
condizione del poeta e degli uomini di quel tempo. Non c’è nulla che sia certo (calcolo dei dadi: correlativo
oggettivo di crisi e incertezza personale e storica). Il filo della memoria non è più teso e si è aggrovigliato,
non c’è più linearità e il tempo si sta perdendo.
Nella terza strofa il poeta mantiene ancora un capo del filo, ma “la casa si allontana sempre di più”, la
memoria sbiadisce e va scomparendo. La banderuola che gira impazzita è un correlativo oggettivo del caos
e della crisi di cui si è parlato prima. Il poeta ha un capo del filo ma dall’altra parte ormai non c’è nessuno.
Nella quarta strofa l’orizzonte in fuga rappresenta i ricordi che sfuggono alla memoria. La luce della
petroliera all’orizzonte rappresenta il varco che raramente si apre. Il poeta chiede se il varco sia in quella
casa, ma la domanda rimane in sospeso. Poi si rivolge ad Arletta, la quale non può aver memoria del triste
ricordo del poeta. Il poeta non riesce più a distinguere chi va (muore) e chi resta. Questo dubbio è scaturito
dal fatto che egli potrebbe addirittura essere più morto di chi è vivo.
LA BUFERA E ALTRO
La raccolta è del 1956. È più complessa della precedente ed è divisa in sette sezioni. Qui il poeta fa
esplicitamente riferimento agli eventi storici. Dal 39 al 56 c’era stata la Seconda Guerra Mondiale, il secondo
dopoguerra e la ricostruzione che porterà al boom economico. Il titolo è il correlativo oggettivo della guerra
e dell’imbarbarimento.
Per esempio, nella seconda strofa di “Primavera hitleriana”, Montale presenta l’acclamato arrivo di Hitler da
parte dei fascisti. Tutti i negozi erano chiusi, ma Montale si sofferma su due in particolare: uno aveva in
vetrina armi giocattolo, e l’altro era una bottega di un macellaio che aveva esposta l’immagine di un agnello
sacrificato. In questa strofa Montale denuncia la disumanità degli uomini che non si rendono conto della
realtà intorno a loro perché troppo impegnati a festeggiare l’arrivo del “demone” Hitler. Tutti sono quindi
co-responsabili dell’imbarbarimento sociale.
Il termine “altro” nel titolo, fa riferimento soprattutto all’attenzione che Montale pone per il suo privato. Se
la bufera si riferisce alla storia e a tutto ciò che lo circonda, “Altro” si riferisce alla sua vita personale e alla
sua perdita di speranza per l’uomo.
In questa raccolta compare esplicitamente il nome di Clizia, la quale però non ha più posto nel mondo e
quindi scappa perché gli uomini non hanno saputo accoglierla (la fuga di Clizia rappresenta anche la
chiusura del varco). Compare anche un’altra donna, Maria Luisa Spaziani, la donna volpe contraria a Clizia
(sensuale, mondana)
Questa raccolta finisce con un componimento chiamato “piccolo testamento”, nel quale il poeta afferma che
non c’è più speranza per l’uomo.
SATURA
Ultima raccolta che segna una svolta nella produzione di Montale. Dichiarando la fine della poesia e
l’assenza di speranza con “piccolo testamento”, il poeta smette di fare poesia per un po’ (la bufera e altro:
’56; satura: ’71)
Montale ritrova l’esigenza di fare poesia a seguito del lutto della moglie (Mosca), infatti le prime poesie che
compone sono dedicate a lei, e costituiscono le prime due sezioni della raccolta intitolate Xenia I e Xenia II.
In greco Xenia significa “dono”. A queste due sezioni il poeta ne aggiungerà poi altre due: Satura I e Satura II
(dal latino “satira”; un componimento aggressivo e critico che tratta di una varietà di temi). All’interno di
queste due sezioni, il poeta analizza e critica la società contemporanea: il cattivo gusto, il boom economico
che ha portato a un ulteriore imbarbarimento della società e a un appiattimento culturale e intellettuale
(cfr. D’Annunzio). Usa un tono satirico perché si aspettava una ripresa dell’umanità, non una regressione.
Il personaggio femminile che compare soprattutto nelle prime due sezioni è Mosca, sua moglie. Viene
presentata come un misto tra Clizia e la donna volpe, rappresentando un’intelligenza laica e mondana.
XENIA I, 1
Lo stile è colloquiale e meno aulico, ricordando spesso degli aneddoti.
Con il primo verso si rivolge alla moglie, chiamandola piccolo insetto e dichiarando di non sapere perché la
chiamavano Mosca (ma in realtà lo sa, siccome lei era ipovedente). Il poeta sta leggendo in penombra in
una stanza. Sta leggendo una parte della bibbia in cui si parla della morte e della vita oltre essa e,
improvvisamente, sente la presenza della moglie defunta. Tuttavia, lei non ha gli occhiali (oggetto
caratterizzante) e non riesce a vederlo bene; neanche lui riesce a vederla perché non c’è il luccichio degli
occhiali. Con questo si sottolinea l’incolmabile distanza tra vivi e morti.
XENIA I, 4
Il poeta e la moglie avevano studiato un fischio per comunicare anche dopo la morte, e lui spera quindi di
essere morto anche lui in modo da comunicare con la moglie defunta.
XENIA I, 14
v.2, “poesia di inappartenenza” è un’accusa mossa a Montale, cioè che lui non aveva mai preso posizione.
La sua vera poesia è sempre appartenuta alla defunta moglie, di cui è rimasta solo l’essenza. Dicono (critici,
intellettuali) che la poesia abbia il potere di salvare, e negano il paradosso di Zenone.
Solo la donna sapeva alcune cose: che il moto non è diverso dalla stasi, che il vuoto è pari al pieno, e che il
sereno è pari a un temporale (immagini ossimoriche). Il poeta vuole dire che lei è l’unica che sa che non c’è
una netta distinzione tra il vero e il falso, a differenza di tutti quelli che pensano di sapere la verità.
Nella prima strofa Montale si difende dicendo che lui non è mai fuggito dalla realtà, ma ha solo preso le
distanze. Si è posto come un osservatore senza agire, anche se poteva farlo.
Nella seconda strofa dice che in primo luogo, cioè negli anni del fascismo, prendere le distanze era semplice,
in quanto la distinzione tra bene e male era netta. Dopo il fascismo, si è fondata la repubblica italiana sulle
medesime contraddizioni degli anni precedenti. Era l’ora della focomelia concettuale, cioè una distorsione
(la focomelia era una malattia congenita che causava malformazioni agli arti superiori o inferiori)
Dice che Pasolini stesso rappresenta quelle contraddizioni (es. marxismo e cristianesimo).
Non esiste una scienza che permetta a tutti di essere in sintonia sulle proprie scelte e pensieri; quindi,
Montale non vuole essere criticato per come la pensa e per come agisce di conseguenza.
Chiede di lasciargli continuare questa “fuga immobile” che gli permette di continuare la partita a differenza
di Pasolini che ha già preso posizione e ha già agito.
Secondo lui, la democrazia ha provocato l’appiattirsi di tutte le arti, svuotandosi di tutto e addirittura della
propria coscienza. Tra le tante forme d’arte che vengono mercificate c’è anche la musica, una musica
rumorosa che serve ai giovani per esorcizzare il vuoto e il senso di solitudine che sentono.
Montale denuncia anche che c’è una parte del mondo ricca e un’altra che non conosce il benessere, il quale
è stato però solo causa di disperazione. I mezzi di comunicazione di massa hanno cercato di annientare ogni
senso di solitudine che porta a una riflessione, facendo distrarre tutti e lasciandogli un vuoto che non
possono colmare.
Sono gli anni dello “show”, di spettacoli che mischiano varie forme d’arte senza alcuno scopo per rilassare e
distrarre lo spettatore. Il regista cerca di dare un senso all’inutile. La società è esibizionista, e in questa
società che ruolo può avere la poesia? Potrà sopravvivere? La risposta è affermativa, essa avrà addirittura
una diffusione mondiale, ma se si parla di poesia vera, seria ed essenziale, quella che nasce dalle ispirazioni,
non sarà più prodotta, e perdurerà solo perché quella passata sopravvivrà nella memoria.
Umberto Saba
Nel 1911 scrive “Quel che resta da fare ai poeti”; un articolo che manda alla rivista “la voce” perché è
preoccupato per il destino della poesia.
Il futurismo è la prima minaccia, che è la distruzione del verso tradizionale. La seconda è la poesia retorica e
vuota di D’Annunzio. Di fronte a queste minacce, Saba sente di scrivere questo articolo e di inviarlo alla
rivista, la quale però non lo pubblicò.
L’articolo era affiancato da un biglietto in cui si presentava: non solo dichiara di essere preoccupato per la
poesia per i motivi suddetti, ma dice anche qual è la vera poesia per lui: una poesia che parla di vita, che
deve essere onesta.
C’è un contrapposto che può dare l’esempio di poeta onesto e di quello disonesto. I due poeti sono Manzoni
e D’Annunzio. Il primo scrive poesia che, seppur mediocre, è onesta. Quella del secondo invece è più
raffinata, ma anche più falsa e disonesta. Saba chiaramente preferisce il primo.
SCOPO E TEMI
Parla di tutto ciò che riguarda la vita, e lo scopo della poesia è riportare alla luce le verità che giacciono nel
profondo di ognuno. In questo lo aiuterà molto la psichiatria sotto il medico Weiss, uno studente di Freud.
IL CANZONIERE
Raccolta di oltre 400 poesie che Saba scrive nel corso della sua vita. Ci furono tre pubblicazioni:
- 1921;
- 1945, ampliamento della prima
- 1961, pubblicata postuma, un ulteriore ampliamento
I modelli che segue sono Petrarca (che raccontava la sua storia d’amore) e lo stile classico. Si rifà anche a
Heine, che a fine ‘800 aveva scritto un’opera che Saba prende come modello (Buch der Lieder)
Per leggere e interpretare quest’opera, Saba scrive “storia e cronistoria del Canzoniere”. Finge di essere uno
studente universitario che deve scrivere una tesi e sceglie come argomento l’opera di Saba.
Per comodità quest’opera si divide in tre volumi suddivisi in sottosezioni. Tutti i componimenti sono inseriti
in ordine cronologico fatta eccezione di alcuni. Essendo i temi molto vari, se ne possono individuare alcuni
principali:
- Il primo volume ha come tema dominante le relazioni affettive e la città di Trieste che, per Saba,
rappresenta un’estensione dell’io del poeta (mix di culture, frammentata come il suo animo)
- Il secondo volume ha come tema principale la psicoanalisi, che si collega direttamente all’infanzia e
alle repressioni (es. sessuale: esce fuori soprattutto nel romanzo “Ernesto”, in cui c’è l’iniziazione di
una relazione omosessuale ed eterosessuale)
- L’ultimo volume ha come tema la vecchiaia, in cui compaiono varie dichiarazioni poetiche e anche il
tema razziale (era ebreo ed era stato perseguitato).
Saba dichiarò che quest’opera in versi era in realtà un romanzo della sua vita. Tuttavia, non si può definire
romanzo in quanto l’opera:
- non è in prosa;
- non è coeso e coerente.
C’è però una voce narrante (il poeta, un io lirico), e dei personaggi (principalmente femminili)
Quello più presente è la moglie Lina. Nel rappresentarla, Saba definisce anche l’amore, ma non lo fa in
modo “commerciale”, vendendolo come piatto e vuoto, ma presenta aspetti sia positivi sia negativi. Lina lo
tradì e se ne andò, ma quando tornò lui la riaccolse, vivendo un forte discidium interiore. Lina viene
rappresentata sia nei suoi pregi che nei suoi difetti, e per Saba costituisce una sorta di figura materna.
Un secondo personaggio femminile che compare è la madre, donna austera, anaffettiva e poco materna, ma
anche qui bisogna mettersi nei suoi panni per capirne il comportamento: alla nascita di Saba, fu
abbandonata dal compagno e quindi, a causa della depressione, cedette per un certo periodo il figlio a una
balia, tornando dopo un po’ per ricoprire il ruolo di madre. Tuttavia, trasmise al figlio tutto l’odio verso il
padre.
A distanza di anni però conobbe il padre, e scoprì che in realtà era un tipo simpatico, vivace e
intraprendente, che non poteva rimanere ingabbiato in un rapporto. Il padre rappresenta un po’ ciò che lui
vorrebbe essere, ma non ci riesce perché ha troppi problemi.
La balia rappresenta per Saba la vera madre, che gli ha dato sempre un amore disinteressato, e da cui poi
prende il cognome “Saba”, siccome il suo nome era Gioseffa Schober
La figlia di Saba e Lina, chiamata anche lei Lina, rappresenta per Saba l’amore puro e la gioia.
AMAI
Dichiarazione di poetica, Inserita nel terzo volume
La prima strofa inizia con “Amai trite parole” siccome Saba utilizza parole poetiche già usate mentre gli altri
cercavano una propria originalità. Lui cerca la rima più semplice (fiore-amore), che però può spiegare dei
concetti molto complicati
Nella seconda strofa il poeta cerca la “verità che giace al fondo”, una verità nascosta e dimenticata che,
quando viene riportata a galla, ci provoca un dolore che però bisogna abbracciare.
Nella terza strofa, Saba è passato da un tempo passato a un tempo presente: ama il lettore perché è un
uomo esattamente come lui. Ama anche il tempo che gli resta.
A MIA MOGLIE
È una poesia che il poeta dedica a Lina un anno dopo le nozze mentre lei era incinta. Inizia con la
similitudine con un animale, una “bianca pollastra”, con cui la donna condivide l’essere genuina e il
muoversi austera e superba (è un complimento ma nasconde anche un difetto). Le femmine degli animali
per Saba sono dei mezzi per elevare l’animo umano, in quanto sono semplici e puri e avvicinano a Dio, e
sono anche migliori dei maschi. Come le pollastre emettono un dolce suono, anche Lina lo fa, ma
lamentandosi.
Nella seconda strofa Lina viene paragonata a una gravida giovenca, libera, festosa e affettuosa. Spesso
emette un suono lamentoso come fa Lina. Il poeta le offre la sua tenerezza per consolarla.
Nella terza strofa il poeta vede in Lina la dolcezza di una cagna, ma ne vede anche la ferocia nel cuore. Il
cane ha una venerazione per il padrone, e lo stesso fa Lina, che appena si avvicina qualcuno “ringhia”
(riferimento alla gelosia, aspetto un po’ più tossico della relazione)
Nella quarta strofa Lina è come un coniglio tremante, è impossibile farla soffrire, si può solo prendersene
cura.
Nella quinta strofa. Lina è paragonata ad una rondine. Probabilmente dietro l’immagine della rondine si
nasconde il desiderio di Saba di liberarsi della moglie. Lei non ha l’arte della rondine di andarsene e tornare,
ma resta soltanto. Della rondine Lina ha la leggerezza, annuncia la primavera, è lieta e festosa
Con la sesta strofa, Lina è paragonata ad una formica (laboriosa) e a un’ape (anch’essa laboriosa). Conclude
dicendo di ritrovarla in tutte le femmine degli animali che collegano a Dio.
LA CAPRA
Il poeta instaura un dialogo con una capra. Per Saba gli animali nascondono un messaggio misterioso dato
che non possono effettivamente parlare. La capra era sola (status di solitudine, riflette la condizione di Saba)
in mezzo al prato, legata, bagnata dalla pioggia. il belato è il verso della capra, che è Immagine di solitudine.
Nella seconda strofa il poeta sente il lamento della capra come un lamento di dolore, un lamento fraterno. Il
poeta risponde al lamento prima in modo personale, ma poi in modo universale: il dolore è condiviso da
tutti gli uomini, è eterno e riconoscibile ovunque. Il poeta paragona il belare della pecora alla voce del
dolore. Ripete la parola solitaria
Nella terza strofa il volto della capra ricorda in alcuni aspetti quello degli ebrei. Anche se siamo nel 1909, già
era diffuso il razzismo nei confronti degli ebrei. La capra diventa simbolo universale di dolore e sofferenza di
tutti gli uomini.
TRIESTE
Il poeta si rifugia su un’altura, luogo solitario definito deserto e cantuccio. Siede ai confini della città in
totale solitudine. Nel suo cantuccio si ferma e riflette guardando la città descrivendola come “scontrosa
grazia” (ossimoro). Ne descrive le sfaccettature come fosse una persona, paragonandolo ad un ragazzaccio
aspro e vorace dagli occhi azzurri che ha mani troppo grandi per regalare un fiore (immagine della scontrosa
grazia). La paragona anche a un amore possessivo. Il poeta conosce ogni elemento della città fino ai suoi
confini. Intorno gira un’aria tormentosa e strana (proprio come lui). La città è viva in ogni sua parte, ed è
come se avesse creato quel cantuccio apposta per lui e per la sua vita pensosa e schiva. Trieste è allo stesso
tempo una città vivace e piena di gente, ma riesce ad accogliere anche persone solitarie e pensose come il
poeta.