Approfondimenti sull’evoluzione del poema cavalleresco dal Cinquecento
Ridimensionamento ‘sostanziale’ e nascita di un mito
Nel Cinquecento l’età d’oro della cavalleria inizia a tramontare. L’avanzare incessante della tecnologia, da cui discende l’estrema importanza sul campo di battaglia di archibugieri e artiglieria, minò sempre più alla base l’efficace utilizzo del cavaliere. Poter colpire e neutralizzare un nemico a distanza, senza nemmeno doversi avvicinare per ingaggiare un duello, comportava ovviamente una drastica diminuzione di perdite. Con ciò, però, veniva a macchiarsi e addirittura annullarsi il vecchio codice d’onore guerresco, dato che l’esito della guerra non era più frutto della prodezza dei combattenti, né fonte di prestigio personale: da ciò deriva la condanna delle armi da fuoco di due degli autori più grandi che si sono occupati di materia cavalleresca, ARIOSTO e CERVANTES. Paradossalmente, però, ad una perdita d’importanza “sostanziale”, in epoca rinascimentale e post-rinascimentale si assiste ad uno sfrenato interesse e recupero della figura del cavaliere. Oltre ai grandi autori, dei quali quelli sopra citati possono essere un esempio significativo, anche quelli minori o in ogni caso meno conosciuti si cimentano in opere che presentano nel loro nucleo tematico la figura del cavaliere. Per tutti, valga l’Amadigi di Gaula, comparso per la prima volta a Saragozza nel 1508. Il cavaliere diviene un’immagine di potere e divertimento spettacolare che evoca valori di cortesia e prodezza. Se da un lato, quindi, il mito dell’eroe a cavallo veniva sgretolandosi sotto i colpi della modernità e dell’innovazione tecnologica, d’altra parte continuava ad agire immutato nell’immaginario di migliaia di nobili, funzionari, intellettuali. L’immaginario italiano nel Rinascimento maturo La figura ideale del cavaliere, in epoca rinascimentale, appare legata non più al motivo guerresco ma all’ambiente cortese. A riprova di ciò basti considerare che in Italia il mito cavalleresco fu rilanciato inizialmente da BOIARDO, immerso nella corte estense di Ferrara, e non già da un intellettuale come PULCI, operante in un ambiente prettamente borghese, quale quello fiorentino. Il cavaliere, in questo frangente, diviene colui che insegue l’amore per una dama; in tal modo si dà adito al recupero, nella letteratura cavalleresca, di uno dei generi caratteristici della cultura cortese: la lirica d’amore. Nell’Orlando Innamorato, è il cavaliere omonimo a dichiarare che le armi sono il “primo onore” di un cavaliere ma un ruolo fondamentale nella formazione lo hanno anche le “lettere”; il cavaliere condivide quindi i valori del mondo cortigiano. Nell’opera di Ariosto, poi, i duelli si risolvono in spettacolo e intrattenimento per i lettori, annullando ogni valore militare alla scena. Ma d’altra parte, non sono da escludere riferimenti polemici con la vita di corte. Sempre Ariosto, ad esempio, rappresenta due mori (e quindi infedeli), Cloridano e Medoro, animati da una ferrea devozione verso il loro signore e da un eroismo che i cortigiani, ipocriti e opportunisti, ignorano. La figura letteraria del cavaliere, dunque, agisce come mito, esempio morale e atto d’accusa verso la società contemporanea. Tradizione cavalleresca ferrarese La corte estense di Ferrara, una delle più alte e concrete realtà del mondo feudale padano, era luogo strategico e culturale di estrema importanza; una gemma incastonata tra gli Stati di Milano, Venezia e Mantova a Nord e quello fiorentino a Sud. Oltre a ciò, Ferrara fu anche un solidissimo punto di riferimento per la tradizione cavalleresca, carattere alimentato dagli stessi Estensi che avevano allestito una delle biblioteche più fornite di romanzi francesi e poemi franco-veneti. Ciò denota l’adozione di una precisa politica culturale, in cui l’esaltazione della cortesia e della nobiltà doveva avvenire tramite le avventure cavalleresche; e, di più, si pensava che ciò potesse favorire l’instaurazione di ottimi rapporti tra il duca Ercole I e la piccola nobiltà feudale da cui era circondato. Da ciò deriva un gusto cavalleresco cortigiano fine e raffinato, l’ambiente ideale per le opere di Boiardo e Ariosto. Matteo Maria Boiardo (1441 – 1494) Conosciuto dai più per la stesura del poema Orlando Innamorato, in qualche modo precursore del “Furioso” ariostesco, Boiardo apparteneva alla piccola nobiltà feudale, essendo conte dell’esiguo territorio di Scandiano. Il poema vide la luce all’inizio del soggiorno ferrarese, sotto la spinta decisiva dello stesso duca Ercole d’Este, ma restò poi monco in seguito alla scesa di Carlo VII in Italia, latore del grande periodo di decadenza della penisola. Boiardo operò una contaminazione tra materia carolingia e componenti arturiane, conformemente al gusto di una corte come quella di Ferrara. È ovvia l’influenza della letteratura epica francese e dei cantari, anche se egli stesso dichiarò più volte di rifarsi ad un libro di TURPINO, un vescovo cui si attribuiva una Vita di Carlo Magno; sembra, però, dal tono scherzoso, che ciò valesse solo ad allargare i confini fiabeschi della narrazione. La maggior parte dei critici è concorde nel ritenere che la poetica boiardesca si fondi sulla superiorità del mondo cavalleresco bretone rispetto all’universo carolingio, dal che deriva l’accentuazione per il tema amoroso (presente fin dal titolo), sulla nostalgia del mondo cavalleresco di cui alcuni valori si ritengono ancora ben presenti, sul motivo encomiastico, che nella narrativa in ottave segnò il passaggio definitivo al poema cavalleresco d’impronta umanistico cortigiana. Una precisa esemplificazione dell’idea che Boiardo, e l’intero ambiente culturale di cui è permeata la sua opera, dovessero avere della figura del cavaliere, si ritrova nel canto XVIII del primo libro, più precisamente tra le ottave 37 e 55. Nel bel mezzo di uno dei tantissimi duelli di cui è costellato il poema, Orlando e Agricane, re di Tartaria, vengono sorpresi dalla notte incombente. È a questo punto che, “come fosse tra loro antica pace”, decidono d’interrompere lo scontro; si sdraiano su un prato e danno corso ad una civilissima conversazione. Oggetto di tale discussione è quale sia l’educazione migliore, quella interamente dedicata alle armi (come è per Agricane, per il quale vale il detto “tanto saccio quanto mi conviene”), oppure quella che riesce a mediare tra quest’ultima e i valori della cultura (perché “…l’arme son de l’omo il primo onore… ma il saper lo adorna come un prato il fiore…”). A differenza dei paladini carolingi, infatti, i cavalieri rinascimentali uniscono al valore militare l’interesse per i valori della cultura e dell’amore. Boiardo, se da un lato chiude definitivamente e per sempre l’esperienza del romanzo cavalleresco medievale, dall’altro apre la strada ad un modello di poema cavalleresco che troverà la sua punta di diamante nell’opera di Ariosto Ludovico Ariosto (1474 – 1533) In Ariosto si è spesso individuata la rappresentazione più emblematica e riuscita dello spirito rinascimentale, visto come momento di equilibrio e di armonia. A differenza dei più grandi poeti della letteratura precedente, dalle grandiose esperienze di vita (Dante, Petrarca), la figura di Ariosto sembra piuttosto comune e lontana da pose letterarie e autocelebrative. Egli non ha illusioni circa il potere e il prestigio dell’intellettuale, ridotti ormai al lumicino in quanto assorbiti dalla civiltà delle corti. Il suo capolavoro, universalmente riconosciuto, è l’Orlando Furioso”, ideale continuazione dell’opera boiardesca. Ariosto si adeguò alla strutturazione in ottave, tendenza inaugurata dal suo predecessore, ma i motivi sottesi vanno sicuramente più in là del semplice intrattenimento. Il poema, infatti, segue tre linee fondamentali: la guerra tra cristiani e saraceni, l’amore del paladino cristiano Orlando per la bella e spietata Angelica, il motivo encomiastico sotteso dall’amore tra Ruggiero (mitico capostipite degli Estensi) e Bradamante. È indicativo dell’ideologia ariostesca il fallimento di tutte le ricerche e i desideri dei protagonisti: la complessità del reale e le sue multiformi apparizioni possono essere contrastate, pur se solo parzialmente, solo con la serenità e il distacco. Insomma, se il Furioso si ricollega ai valori cortigiani-cavallereschi, tuttavia esprime la presa di coscienza di una crisi incontrovertibile, di una rottura dell’equilibrio. È proprio essa che spinge Ariosto a rappresentare i suoi cavalieri come individui protesi al raggiungimento del loro massimo utile, ben lontani da quegli alti valori presenti nelle opere precedenti: per il Furioso si potrebbe a ragione parlare di umorismo nei confronti del cavaliere. Fin dal primo canto, infatti, la guerra santa ricopre uno spazio veramente marginale. I cavalieri, distogliendosi dalla battaglia, vengono meno al loro dovere: proprio in questo senso si intravede la rappresentazione di un “realistico individualismo cortigiano” (Luperini). La guerra tra fedeli e infedeli, l’essere “di fè diversi” non ha alcuna importanza nel poema ariostesco, come dimostra l’accordo tra Rinaldo e Ferraù. Non contano più le grandi opposizioni dell’epica carolingia, ma la comune appartenenza a una casta feudale, quella dei cavalieri; la condivisione del codice di comportamento cavalleresco assume un valore specifico. L’accordo tra esponenti di fedi ed eserciti diversi, insomma, vale come modello per il ceto cortigiano cinquecentesco. Tradizione cavalleresca fiorentina La grande differenza che intercorreva tra l’ambiente fiorentino e quello ferrarese risiedeva fondamentalmente in quella che, in termini odierni, è definibile forma di Stato. A Ferrara era presente una stabile e solida corte, sostenuta dal potere degli Estensi; a Firenze, invece, vigeva una tradizione fortemente borghese, basata sul Comune prima e sulla Signoria medicea poi. Questo elemento è fondamentale per capire l’ottica in cui è visto il cavaliere in questo importante centro culturale italiano. Il pioniere del gusto cavalleresco fu ANTONIO PUCCI (1310 – 1388), il quale aveva contaminato il cantare medievale con un gusto fiabesco, onde renderlo adatto alle esigenze di intrattenimento del pubblico borghese. Questa prima esperienza, tuttavia, pare ancora molto simile al destino che il cantare ebbe nel contesto culturale cortese padano. La radicale trasformazione del cantare in poema cavalleresco si legò all’instaurazione della Signoria medicea, e fu opera soprattutto di LUIGI PULCI (1461 – 1484). Fu egli un autore abbastanza affermato all’interno della casata dei Medici, benvoluto soprattutto dalla madre di Lorenzo, Lucrezia Tornabuoni. La rivoluzione che Pulci portò all’interno del genere cavalleresco fu assoluta rispetto al passato, alla tradizione carolingia: la sua opera si dipinse di tratti spiccatamente comici e parodici, in modo da risultare adeguata all’intrattenimento della brigata medicea. L’opera di cui si parla è il Morgante, il cui titolo si è imposto in conseguenza dell’immenso gradimento popolare per il gigante omonimo, anche se va incontro alla morte appena nel XX canto. Il vero protagonista è Orlando (è chiara qui una ripresa formale della materia carolingia), il quale nel liberare un’abbazia uccide due giganti mentre il terzo, Morgante appunto, convertitosi alla religione cristiana, diviene il suo scudiero. La matrice comica si rinviene in svariati elementi: ad esempio, nell’arma utilizzata da Morgante, un batacchio prelevato da una campana; nella morte di Margutte, un mezzo gigante che accompagna Morgante, causata dal troppo ridere nel vedere una scimmia infilarsi i suoi stivali; nella morte dello stesso Morgante, ucciso dal morso di un semplice granchietto. Pur risentendo la narrazione di un andamento discontinuo, sorretto da miracoli ed avvenimenti magici, l’importanza di quest’opera risiede nell’aver portato alle estreme conseguenze i tratti umoristici contenuti in nuce nell’opera ariostesca ed essersi posta come il principale referente per successive opere le quali guardano alla figura del cavaliere nella medesima direzione: basti pensare al Baldus di FOLENGO, o i successivi Gargantua e Pantagruele di RABELAIS e il Don Chisciotte di CERVANTES. L’epica carolingia, infatti, in questi poemi fu illuminata nei suoi termini più bassi e grezzi, propri della prospettiva borghese. L’intento parodico non fu organicamente ricercato, piuttosto è da notare la rilevanza di ironia e simpatia che si alternano verso il mondo cavalleresco. La comicità è prodotta, in questo periodo, dalla deviazione dalla normalità, dal gusto per l’eccessivo e l’iperbolico, piuttosto che da una polemica verso il mondo cavalleresco. Un mutamento fondamentale, diretto in tal senso, è da ricercare nella scelta dei personaggi: il gigante occupa il posto dell’orco rinascimentale, con un deciso cambio di segno assiologico. Se l’orco era destinato ad essere sconfitto dal cavaliere-eroe, il gigante è protagonista di una nuova epopea, quasi una parodia dell’avventura cavalleresca. L’eredità di Pulci fu raccolta da TEOFILO FOLENGO (1491 – 1544), autore mantovano, abbastanza conosciuto ma artisticamente ben lontano dal suo illustre predecessore latino. Nel Baldus egli focalizzò la narrazione attorno ad un mondo rusticano abbastanza realistico, a cui assimilò gli aspetti carnevaleschi della cultura popolare; nello stesso tempo, tale mondo dominato dalla violenza e dall’eccesso, è contrapposto a situazioni tradizionali dell’epica classica, continuamente accennate. A riprova di ciò, basti considerare che il cavaliere Baldus è accompagnato dal gigante Cingar (modellato sul Morgante di Pulci) e da un essere mezzo uomo e mezzo cane. Con la fusione di epico e burlesco, insomma, Folengo tentò di costituire un anti-modello rispetto all’impianto classicheggiante del modello ariostesco. Il cavaliere della Controriforma Un parziale ritorno all’ordine fu dovuto all’atmosfera di rigida austerità che scaturì dal Concilio di Trento (1545 – 1563). L’affermazione della riforma luterana e le frequenti accuse contro la corruzione della Chiesa avevano indotto questo immenso riordino, sul piano sia organizzativo sia dottrinale. La Chiesa tentò, spesso di comune accordo con il potere politico, di attuare un’organizzazione capillare atta a controllare ideologicamente il popolo, uniformarlo e omogeneizzarlo secondo non solo regole e dottrine, ma soprattutto modelli di vita e condotta. Nelle alte sfere del potere ecclesiastico si sentiva, infatti, la forte necessità di offrire modelli di comportamento che fossero ben riconoscibili nella vita di ogni giorno, tali da assumere il valore di riferimenti religiosi capaci di sostituire la vecchia visione pagana del mondo. Considerando tutto ciò, ben si può intuire come la locuzione “cavaliere della fede” sia la più appropriata per descrivere la rappresentazione che di tale figura propone TASSO. Il grande poeta sorrentino (1544 – 1595) sviluppa la sua opera più rappresentativa e conosciuta, la Gerusalemme Liberata, all’interno dei rapporti che per vario tempo lo legarono alla corte estense di Ferrara. Argomento del poema è la prima crociata, bandita da Urbano II nel 1095 e conclusasi nel 1099 sotto la guida militare di Goffredo di Buglione. Il successo dell’esercito cristiano aveva permesso ai crociati di espugnare Gerusalemme e riconquistare il Santo Sepolcro ma, al di là del semplice fatto storico, ad ogni personaggio Tasso dona una caratteristica tale da rappresentare un modello, positivo o negativo, nei contorni della politica culturale attuata dalla Chiesa per mezzo dei gesuiti. Goffredo di Buglione, ad esempio, è l’emblema più calzante del guerriero santo secondo l’etica controriformistica. Ma l’uomo della controriforma che non ha dimenticato e rimpiange i vecchi valori laici e mondani è rappresentato da tutti gli altri cavalieri: in loro c’è la continua scissione tra la ricerca di un piacere individuale e il dovere di obbedire ad un ordine collettivo. Il cavaliere della fede è il totale capovolgimento, ideologico e assiologico, del cavaliere cortigiano di Ariosto. A Rinaldo, ritenuto fondatore della casa d’Este, si collega l’intento encomiastico; è un personaggio più strettamente legato alla tradizione cavalleresca e cortese. La fonte di minaccia morale è rappresentata dal desiderio di onore e gloria, capace di fuorviarlo dagli obiettivi religiosi della guerra. Tancredi, pur essendo un guerriero cristiano, è l’antitesi di Rinaldo; suggestionato dalla propria interiorità malinconica e stregato dall’amore per la bella guerriera pagana Clorinda, subisce l’influsso di tali sentimenti fino all’autodistruzione, causando inconsapevolmente la morte in un duello proprio della sua amata. I pagani paiono portatori di un’istanza ancora primitiva di eroismo, legata ai principi più elementari della tradizione cavalleresca. È proprio questa caratterizzazione umana a rendere la loro fine ancora più tragica. Oltre all’analisi dei personaggi, un ulteriore elemento che permette d’intendere fino a che punto la cavalleria fosse posta sotto una lente “religiosa” è la presenza del meraviglioso. Esso non è più inteso come elemento totalmente inverosimile, alla maniera rinascimentale, bensì come manifestazione delle forze celesti e infernali, simbolo dunque della lotta tra bene e male. Il racconto si ammanta così di un significato religioso. Un esempio può essere il seguente: mentre l’esercito attende in Libano la fine dell’inverno, appare a Goffredo l’arcangelo Gabriele che lo esorta ad assumere il comando delle truppe e a sferrare l’attacco determinante a Gerusalemme. I cristiani, dopo aver ascoltato la narrazione del sogno, accettano di eleggere Goffredo loro capo. A conclusione, mi pare utile citare un ampio brano del Luperini, il quale esamina il “Furioso” seguendo schemi concettuali prettamente psicoanalitici: La coscienza è uno spazio in cui si annida una tensione tra forze e valori moralmente positivi ed altri connotati negativamente. È a questa zona oscura che si oppone l’eroismo dei cavalieri. E ciò vale tanto per quelli cristiani che per gli infedeli, con l’unica differenza che questi ultimi sono destinati a perdere tale lotta, essendo loro preclusa la sublimazione dei valori cristiani; è questa la profonda disperazione di cui sono portatori gli eroi infedeli. Soltanto la religione indica un itinerario di salvezza per preservare identità ed equilibrio. Ma è l’unione di eroismo e religione che può realizzare la vera attribuzione di senso alle cose. Proprio la necessità di vivere in modo agonistico e tormentato la vita religiosa ne costituisce il carattere sofferto e tormentato. L’eroismo serve a forzare la realtà vincendone l’insensatezza, la religiosità a entrare in contatto con le forze inquietanti della natura senza esserne divorati: solo i due atteggiamenti uniti garantiscono la possibilità di trovare un valore solido ed autentico. L’ultimo cavaliere In Spagna la materia cavalleresca conobbe un successo almeno pari a quello riscosso nella penisola italiana, con l’unica differenza del privilegio dato alla prosa piuttosto che alla poesia. La prima stampa dell’Amadigi di Gaula di GARCIA RODRIGUEZ DE MONTALVO risale al 1508. Si tratta della storia d’amore tra il cavaliere Amadigi e Oriana, intessuta di varie peripezie, magie e incantesimi: elementi caratteristici del romanzo cavalleresco. Con tale poema, Montalvo intese celebrare una cavalleria ormai totalmente allo sbando, sulla via definitiva del tramonto: tale contesto avvolge l’opera dell’ultimo grande autore che pose al centro della narrazione un cavaliere, MIGUEL DE CERVANTES. L’aspetto della decadenza reale è qualificante del Don Chisciotte, nel quale si inserisce un processo di dissolvimento irreversibile che trova compimento agli inizi del Seicento. L’elaborazione del poema si staglia sullo sfondo della grande crisi che investì la Spagna tra il 1598 e il 1620, in quel particolare arco temporale a cavallo tra Rinascimento maturo e Barocco definito Manierismo. La vicenda narra di un povero hidalgo di provincia, di circa cinquant’anni. La sua mania, o sarebbe meglio definirla ossessione, è rappresentata dallo sfrenato interesse per i romanzi cavallereschi, divorati giorno e notte; ma con ciò egli giunge ad inaridirsi il cervello, a “perdere il giudizio”, tanto che si definisce cavaliere errante, completamente immerso nel suo mondo fantastico. Don Chisciotte è legato non solo ad un’ideologia tramontata ma ad un intero stile di vita di cui non è più partecipe. Crede di combattere per il bene e la giustizia, come nell’episodio in cui scambia per giganti feroci dei mulini a vento, in un mondo che in realtà non ha più bisogno di lui. Le folli avventure partorite dalla sua fantasia servono innanzi tutto ad ovviare ad una realtà modesta e triste. Dopo aver affrontato le peripezie più strambe, in punto di morte, rinnega tutto ciò cui era stato legato, affermando di chiamarsi “…Alonso Quijiano, a cui i costumi meritano il nome di Buono…”, e rinnega tutte le “…squallide letture dei detestabili libri cavallereschi…”. La letteratura lo converte ad una vita devota, cosi che gli è concesso morire in maniera più serena. Si concretizzano, in tal maniera, i principi controrifomistici già operanti in Tasso. La follia di Don Chisciotte risiede nella lettura dei libri cavallereschi, contro i quali sembra che si scagli l’accusa di Cervantes. La vera critica si scaglia, invece, contro l’utilizzo che di questi si fa. In buona sostanza, l’autore biasima l’identificazione tra vita reale e vita ideale, il voler adeguare i principi e i valori di quest’ultima alla prima.