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NOVECENTO MUSICALE
Introduzione
Il Novecento, nella storia della musica, è un periodo molto complesso e variegato, poiché si assiste
una pluralità di tendenze senza dubbio sconosciuta a qualsiasi altro secolo. Si riscontra infatti la
produzione di compositori talvolta assai lontani nei loro mondi espressivi, con caratteri e
connotazioni ideologiche fra loro molto diverse. Essi non parlano più un linguaggio comune a tutta
un’epoca, ma ognuno adotta metodi compositivi differenti e spesso più metodi sono messi in
evidenza nella produzione di un singolo autore o in una singola composizione.
In epoche precedenti, per diverse che fossero le caratteristiche delle opere musicali, le strutture e le
forme erano state valide per tutti. Le affinità fra una musica di Haydn e una di Mozart sono
sicuramente più percettibili delle loro differenze. Non è così per il Novecento in cui, alla pari delle
altre espressioni artistiche, la musica ha subito innovazioni stilistiche rapide e profonde già nei
primi tre decenni del secolo. L’assenza di un linguaggio comune, culturale e musicale in particolare,
ha determinato la pressoché completa frattura tra il compositore e il suo pubblico In epoche
precedenti il compositore aveva avuto una sua funzione precisa: di servire una committenza, che
poteva essere il singolo, la comunità, il pubblico, la chiesa. Ora l’artista tende a servire più se
stesso che la società, creando in molti casi solo per se stesso e per l’arte poiché per una buona parte
dei compositori del Novecento la musica deve essere sottratta sia ai dettami della moda sia alle
pressioni commerciali. La complessità di gran parte della produzione contemporanea è determinata
dallo sgretolamento, talvolta dall’eliminazione di tutti i mezzi linguistici sui quali per tradizione la
musica si era sempre basata: la ripetizione dei temi, la regolarità del fraseggio, la struttura armonica
basata su un’intelaiatura tonale, le strutture formali in genere manifestamente semplici, l’utilizzo
“tradizionale” dei timbri degli strumenti. Il Novecento è stato il secolo dell’emancipazione della
dissonanza e dell’ampliamento del concetto di musica fino a includere il rumore, i suoni della
natura e il silenzio. Gli antichi principi formali della musica quale una delle “belle arti” vengono
rinnegati, in parte radicalmente. La musica non deve più essere necessariamente bella e armoniosa,
ma soprattutto vera. Non si mira più ad “edificare” le persone, ma a scuoterle. Molti compositori si
sentivano investiti di una missione che doveva portare al rinnovamento totale dell’arte, ciò nasce
dalla tendenza, propria del musicista d’avanguardia, di comporre per il futuro anziché per il
presente. Nel Novecento, ancora, si sono affermati i linguaggi del jazz, del rock e della popular
music, la cui diffusione capillare ha prodotto inevitabilmente forme di contaminazione fra generi e
culture.
La musica del Novecento può essere divisa in più fasi:
I fase (1900-1923)1 ancora caratterizzata da influssi romantici con elementi di grande novità.
Debussy, Puccini, R. Strauss e Mahler i compositori più importanti. In alcuni dei loro lavori si
avverte il germe della crisi del sistema armonico-tonale. Il cambiamento radicale arriva con la
dodecafonia di Schoenberg e la sua scuola (Berg e Webern) mentre altri compositori cercano di
superare la concezione tonale della musica in altri modi: ad esempio l’impiego di scale desunte dal
repertorio o orientale (Debussy) o popolare (Bartok). Nel Novecento aumenta l’interesse per la
musica popolare (canzoni, danze etc) quale reazione a un’alta civiltà musicale, alla ricerca della
musica originaria e anche quale raccolta e conservazione di uno specifico materiale musicale che
andrebbe perduto. Bartok e Kodaly scoprirono presso i contadini ungheresi una musica popolare
non ancora contaminata dall’influenza occidentale. Nei loro viaggi la raccolsero, registrandola col
fonografo e la studiarono.
II fase (1923-1950)
Accanto allo sviluppo di un nuovo linguaggio in netta rottura con la produzione dei secoli
precedenti nasce anche una tendenza volta al recupero delle forme del passato, riproposte tuttavia
con il linguaggio della musica del Novecento. Emerge una nuova coscienza storica che impronta di
1
Si indica il 1923 poiché in quell’anno viene edito un articolo da parte di Schoenberg che descrive il metodo
dodecafonico.
sé nuove opere grazie allo studio e alle edizioni delle fonti e dei documenti della storia della musica
del passato. Alcuni compositori si orientano verso un nuovo classicismo (neoclassicismo): su questa
linea Malipiero, Casella, Ravel, ma soprattutto Stravinskij nella fase centrale della sua produzione
(da Pulcinella, 1920).
III fase (dopo il 1950)
La seconda guerra mondiale segna un distacco netto tra le musiche delle generazioni che avevano
operato nella prima metà del secolo e quella dei musicisti nati dopo il 1920. Molti di questi ultimi
acquisirono un orientamento comune dopo aver frequentato i corsi estivi a Darmstad, in cui
approfondirono l’esperienza dodecafonica attraverso l’opera di Webern. L’obiettivo era estendere la
serialità ad altri parametri oltre l’altezza (durata, timbro, dinamica etc). Vari sono i compositori
formatisi a Darmstad: tra i più importanti Maderna, Boulez, Nono, Berio, Stockhausen, Ligeti etc.
Contemporaneamente alla scuola di Darmstad si sviluppano altre tendenze sempre nell'ottica di un
rinnovamento musicale talvolta con atteggiamenti provocatori. Si producono musiche in cui non
esiste più un confine tra suono e rumore, si apre alla musica elettronica, e la corrente statunitense
dell'alea basa il processo compositivo su alcuni elementi dettati dalla casualità.
Tra i vari compositori, spiccano due figure che hanno maggiormente caratterizzato il linguaggio
musicale della prima metà del secolo: Igor Stravinskij e Arnold Schoenberg. La loro musica inizia
a svilupparsi a partire dagli anni immediatamente precedenti alla prima guerra mondiale e i due
autori sono stati spesso considerati contrapposti a partire dagli scritti di Adorno. Arnold Schonberg
rappresentava la novità, la sperimentazione, Igor Stravinskij, soprattutto per la sua produzione
neoclassica, rappresentava una maggior continuità col passato. Questa contrapposizione deriva dal
fatto che almeno inizialmente affrontano in modi diversi la crisi del sistema tonale, ma entrambi
apportarono grandi innovazioni al linguaggio musicale.
La città di Parigi, dove è attivo agli inizi del Novecento anche Debussy, è la città europea che
riacquista agli in questi anni quel ruolo di vetrina internazionale delle novità culturali che aveva
svolto nel secolo precedente. Diviene la meta di artisti soprattutto pittori come Picasso, Modigliani,
De Chirico e altri, a cui si affiancarono letterati come Apollinaire e Cocteau. Nel 1909 Marinetti
pubblica il manifesto del futurismo2 su Le Figaro e nello stesso anno in campo musicale costituisce
un evento storico l’avvio delle stagioni dei Balletti Russi diretti da Diaghilev, un impresario russo
che diede vita appunto alla compagnia dei Balletti Russi, per i quali ricorse alla collaborazione dei
migliori contemporanei fra coreografi, musicisti (Stravinskij, Debussy, Ravel, Poulenc, Prokof'ev) e
2
Il futurismo esalta il progresso e la civiltà industriale e induce alcuni musicisti a inserire rumori ed effetti sonori nelle
loro opere. Luigi Russolo (1885-1947) intorno al 1913 inventò l’intonarumori, una famiglia di strumenti formati da
generatori di suoni acustici che permettevano di controllare la dinamica, il volume, la frequenza di diversi tipi di suono.
pittori (Picasso, Braque, Matisse, ecc.) ai quali è legata la nascita dei primi grandi capolavori
musicali del primo novecento. Tra questi la Sagra della primavera (titolo originale francese Le
Sacre du printemps, un balletto composto da Stravinskij tra il 1911 e il 1913. La traduzione "sagra"
di "sacre" non è fedele all'originale, perché il significato del termine francese sarebbe "rituale”. Il
sottotitolo è Quadri della Russia Pagana. Il balletto inscena infatti un rito sacrificale pagano nella
Russia antica all'inizio della primavera, nel quale un'adolescente veniva scelta per ballare fino alla
morte con lo scopo di propiziare la benevolenza degli dei in vista della nuova stagione. La sua
esecuzione fu un momento fondamentale non solo nella carriera di S., ma anche per la storia del
teatro musicale. L'innovazione straordinaria della musica, il tipo di coreografia e l'argomento stesso
crearono un enorme scandalo e, nonostante le successive schermaglie fra ammiratori entusiasti e
acerrimi denigratori, l'opera fu destinata a rimanere una pietra miliare nella letteratura musicale del
XX secolo. Quando fu eseguita per la prima volta il 29 maggio 1913, alla vigilia della prima guerra
mondiale, sollevò una protesta così assordate da parte del pubblico, che si rese necessario
l’intervento della polizia. Fu forse il più grande fiasco di tutti i tempi: sia il balletto che la musica
erano qualcosa di radicalmente nuovo. Gli spettatori della prima rappresentazione semplicemente
non riuscivano a sopportare né i suoni, né la coreografia3, né l’argomento relativo a riti pagani,
passioni brutali e sacrifici umani: tutto ciò provocò una vera e propria rivolta nel teatro. I fischi
furono talmente forti da coprire la musica, per quanto essa fosse forte. La Sagra venne però accolta
dall'avanguardia musicale come un avvenimento fondamentale per la storia della musica così come
poi si sarebbe rivelato. Il balletto si compone di due parti ciascuna costituita da vari quadri
staccati, senza una trama narrativa, raffiguranti una serie di cerimonie pagane dell’antica Russia,
che avvengono con il rinnovarsi della natura a primavera. L’idea di S. era quella di rappresentare in
musica una primavera completamente diversa da come i musicisti l’avevano fino ad allora descritta:
non più una dolce e melodiosa rappresentazione dello sbocciare dei fiori, ma un dirompente
risveglio delle forze della natura che si ridestano per procreare i propri frutti. Il riferimento è ad un
rito dei popoli slavi primitivi. L' ambientazione del balletto derivava dal fatto che in Russia molti
intellettuali erano interessati alla cultura slava antica (Neoprimitivismo).
Struttura
• Parte I L'adorazione della Terra
• Introduzione
• Gli auguri primaverili (danze delle adolescenti)
• Gioco del rapimento
• Danze primaverili
• Gioco delle tribù rivali – corteo del saggio – il saggio
• Danza della terra
• Parte II Il sacrificio
• Introduzione
• Cerchi misteriosi delle adolescenti
• Glorificazione dell'Eletta
• Evocazione degli antenati
• Azione rituale degli antenati
• Danza sacrificale (l'Eletta)
3
Alle sconvolgenti novità dal punto di vista musicale si unisce una realizzazione coreografica basata su nuove
posizioni, sull'uso della gestualità delle mani, su figure plastiche non convenzionali: braccia rovesciate, piedi voltati
verso l'interno, espressioni di terrore e numerosi salti; il tutto rendeva i movimenti spigolosi e meccanici tanto da far
dire a un critico che si trattava di esercizi ginnici piuttosto che coreografici. Realizzazione ben lontana dalla danza
accademica con movimenti, che al pubblico del 1913 dovettero sembrare sgraziati e ridicoli.
Gli studiosi hanno classificato gli episodi della Sagra della Primavera notando un carattere analogo
in alcune sezioni: Danze, Chorovodi (rituale popolare antico russo che prevede canti ai quali si
accompagnano movimenti del corpo, spesso in cerchio o in fila) e Processioni che qui vengono
contrassegnate rispettivamente con le lettere D, C, P. Secondo questa considerazione è possibile
notare un parallelismo nell’organizzazione delle due parti, anche se la seconda contiene meno
episodi.
S. impiega un gigantesco organico orchestrale (si tratta dell’orchestra più estesa per la quale egli
abbia mai scritto)4 per raggiungere effetti di grande potenza e di intensità sonora ed esaltare, nei
loro incessanti contrasti, la purezza dei timbri.
In quegli anni aveva molta diffusione sia in Russia che in Europa un movimento artistico
denominato fauvista, che auspicava un recupero dell’arte primitivista e che viene a interessare oltre
la pittura anche la poesia e la musica. Sicuramente S. era partecipe di questa tendenza artistica tanto
che J. Cocteau definì la sagra un’opera fauvista. Il gruppo dei Fauves si manifesta a Parigi nel
1905. Fauves significa belve, e il termine deriva da un critico francese che così definisce quegli
artisti che usano il colore con una violenza espressiva ''selvaggia'' per il gusto di allora. Non si cerca
più la somiglianza esteriore, ma si dipinge direttamente la sensazione e l'emozione dell'artista.
Nei vari quadri è fondamentale il colore, usato con toni accesi e forti contrasti secondo un
principio rigoroso di massima semplificazione cromatica e insieme di una libertà totale. Anche
nella musica il colore dei vari strumenti è usato con toni accesi e forti contrasti. L’organico
orchestrale è sfruttato al fine di potenziare il carattere aggressivo di un linguaggio ricco di
dissonanze, che utilizza in modo audacemente nuovo il ritmo, con ripetizioni ossessive di moduli e
continue asimmetrie dovute alla dislocazione sempre diversa degli accenti. Nell’intento di
trasportare l’ascoltatore in quel mondo primordiale, lontano e inaccessibile, S. si avvale inoltre di
aggregazioni accordali politonali (= impiego simultaneo di due o più accordi diversi e antitetici)
estremamente dissonanti, raramente ascoltati prima d’allora; di ritmi ossessionanti d’impulso
irrefrenabile, eppur continuamente mutevoli così da sfuggire a ogni uniformità dello schema
metrico. Gli archi sono usati molto spesso in funzione meramente percussiva, mentre nella fascia
dei fiati si dà preminenza ai suoni “asciutti”, privi di lirica espressività, con trilli nei registri acuti,
tremoli, glissandi, e l’utilizzo dei corni con la campana rivolta all’insù (per ottenere un suono più
diretto e penetrante). Gli strumenti a percussione raggiungono l’importanza di una quarta sezione
orchestrale. Pochi sono i momenti di abbandono lirico. Un esempio è offerto dall’introduzione alla
prima parte dove un fagotto nel suo registro sopracuto, apre la sagra con una melodia che S. prese a
prestito da una raccolta di musica popolare lituana.
L’introduzione inizia con la celebre melodia del fagotto, collocata in un registro molto acuto. Il
timbro insolito ci conduce in un’ambientazione lontana nel tempo e nello spazio che intende
4
ORGANICO: Ottavino, 3 Flauti (il 3° anche 2° ottavino), Flauto contralto (in Sol), 4 Oboi (4° anche 2° Corno
inglese), Corno inglese, Clarinetto piccolo in Re (anche Clarinetto piccolo in Mib), 3 Clarinetti in Sib e La (3° anche 2°
Clarinetto basso), Clarinetto basso in Sib, 4 Fagotti (4° anche 2° Controfagotto), Controfagotto, 8 Corni in Fa (7° e 8°
anche Tuba Tenore in Sib), Tromba piccola in Re, 4 Trombe in Do (4° anche Tromba bassa in Mib), 3 Tromboni, 2
Basso Tuba, Timpani (2 esecutori), Percussioni: Grancassa, Tam-Tam, Triangolo, Tamburino, Guiro, Crotali (Lab e
sib), Piatti e Archi.
evocare il risveglio della primavera. La melodia è condotta molto liberamente e, unica in questo
brano, deriva da un canto popolare, anche se molto diverso dal punto di vista ritmico. Di fatto in
molti altri passi si riscontrano legami con le melodie popolari anche se non è facile dimostrarne
l’origine. Comunque il modo con cui S. costruisce le melodie del Sacre deve molto alla struttura dei
canti popolari, per l’aspetto modale, per l’uso degli intervalli scelti, (spesso la quarta) e per la
presenza di cellule ripetute. La melodia del fagotto contraddistingue l’introduzione e viene
ripresentata più volte, inframmezzata tuttavia da altri elementi in cui emergono i timbri più diversi.
Il cambiamento si ha con l’inizio della seconda sezione della prima parte (danze delle adolescenti)
con una successione di accordi ribattuti uguali e scanditi dagli archi (arcata sempre in giù).
Sembrerebbe un elemento di uniformità, ma nel Sacre molto spesso l’uniformità è accompagnata da
un fattore di imprevedibilità, rappresentato in questo caso dagli accordi pesantissimi degli otto corni
in staccato e sforzato che intervengono in posizioni ritmicamente inattese sulla scansione degli
archi.
Approfondimento
Durante la primavera del 1910, mentre a Pietroburgo stava terminando le ultime pagine della
partitura dell'Uccello di fuoco, Stravinskij ebbe come una visione. Racconta egli stesso nelle
Cronache della mia vita: "Un giorno - in modo assolutamente inatteso, perché il mio spirito era
occupato allora in cose del tutto differenti - intravidi nella mia immaginazione lo spettacolo di un
grande rito sacro pagano: i vecchi saggi, seduti in cerchio, che osservano la danza fino alla morte di
una giovinetta che essi sacrificano per rendersi propizio il dio della primavera. Fu il tema del Sacre
du printemps. Confesso che questa visione m'impressionò fortemente; tanto che ne parlai subito
all'amico pittore Nikolaj Roerich, specialista nell'evocazione del paganesimo. Egli accolse l'idea
con entusiasmo e divenne mio collaboratore in quest'opera. A Parigi ne parlai pure a Djagilev, che
si entusiasmò subito di tale progetto".
Anche in seguito a quella storica serata, la partitura del Sacre rimase a lungo il simbolo della
musica moderna, in ogni senso: se da un lato la sua apparizione parve sconvolgere tutti i canoni
della bellezza e del gusto per l'inaudita violenza con cui si evocava l'irruzione di forze selvagge e
primordiali, d'altro canto l'originalità della sua lingua barbarica e "primitiva" esercitò un influsso
notevole, e non solo tra le avanguardie musicali del tempo. La radicale novità della partitura,
percepibile soprattutto nell'invenzione ritmica, di una ricchezza e complessità senza precedenti, ma
estendibile anche ai parametri armonici e melodici, si basava su una visione formale profondamente
emotiva, ma improntata anche a una evidenza insieme classica e popolare. Non a caso Jean Cocteau
definì il Sacre "le georgiche della preistoria", ponendo l'accento su una rappresentazione delle forze
della natura che per quanto rovesciata in confronto alle visioni idilliche della primavera ne serbava
il carattere mitico e l'aura sacrale; mentre Stravinskij stesso, ancora anni dopo la composizione,
ribadì che a influenzarlo era stata l'esperienza della "violenta primavera russa, che sembra iniziare
in un'ora ed è come se la terra intera si spezzasse": un'esperienza che risaliva alla sua infanzia e che
si intrecciava con il ricordo dei riti propiziatori della tradizione popolare. Gran parte del fascino
incomparabile della partitura sta proprio in questa strettissima commistione di artificio e natura,
mitologia e folklore, simmetria e asimmetria. pulsione vitale e istinto di morte, dinamicità e
staticità.
L'Adorazione della terra si apre con il celeberrimo assolo del fagotto impiegato in una tessitura
acuta, su una melodia popolare lituana. Fin dall'inizio si stabilisce un clima di arcaica staticità, cui
ben si attaglia il titolo di "Notte pagana" suggerito dal compositore per il grande sacrificio: qui è
come se la musica volesse rappresentare il timore suscitato dalle grandi forze cosmiche della
creazione, "il risveglio della natura, lo stridio, i movimenti di uccelli e bestie", secondo
un'indicazione del compositore stesso. Alcuni caratteri fondamentali si delineano già in questa
introduzione: i motivi si riducono per lo più a frasi brevi e incisive, quasi formule elementari, che
hanno però già in sé le forze della propria trasformazione; il ritmo, anche attraverso l'uso frequente
dell'ostinato, provoca l'impressione di un impulso inarrestabile, che non è solo quello realistico della
danza, ma assurge anche a valore simbolico di esasperazione del movimento; le sovrapposizioni
politonali, congiunte da un lato con procedimenti modali e dall'altro con il libero trattamento delle
dissonanze che non eliminano l'esistenza di centri tonali, creano un antagonismo che acquista via
via un sempre più marcato senso drammatico (massimamente nel Gioco del rapimento, culmine
anche di un crescendo dinamico di forza esplosiva). Ad episodi di crescente tensione fanno seguito
zone di quiete e di rarefazione: così le Ronde primaverili vengono introdotte da un lungo trillo dei
flauti che preludono a un movimento "sostenuto e pesante", dove i clarinetti danno voce a una
melodia di sapore popolare che ricorda il Chorovod, la danza circolare in onore della primavera. I
trilli dei flauti fanno nuovamente da preludio al Gioco dalle città rivali, in cui entrano con
prepotenza le percussioni, che assumono l'importanza quasi di una sezione orchestrale a sé stante.
La tremenda tensione interna tra la semplicità del materiale tematico e la discordante complessità
della tessitura ritmica e armonica è acuita dalla strumentazione, che utilizza mezzi estremamente
sofisticati per ottenere un effetto volutamente elementare, primitivo. Episodi di opposta
spettacolarità sono il Corteo del saggio, che culmina nella straordinaria magia evocativa del "bacio
della terra", e la vorticosa Danza della terra, momento di estrema forza centrifuga che chiude la
prima parte con l'esplosione di un caos primordiale. La seconda parte si apre con una nuova
Introduzione, di segno diverso: sono, secondo Roman Vlad, "sonorità glaciali, da notte polare", che
creano il clima di attesa sacrificale. Nei freddi armonici degli archi e negli echi dei corni si fa luce
un tema d'un singolare, astrale lirismo. Nei Cerchi misteriosi degli adolescenti, intrisi ancora della
medesima atmosfera velata, questo tema si dispiega in un incedere quasi ipnotico, trepido e
struggente. A questo momento di ripiegamento lirico, segue, avviata dal tamburo, in un brusco
accelerando, la Glorificazione dell'eletta, originariamente pensata come una selvaggia cavalcata
delle amazzoni; la solenne Evocazione degli antenati ristabilisce il carattere religioso del sacrificio,
a cui l'episodio successivo, Azione rituale degli antenati, conferisce sussulti e spasimi di sinistra
irrevocabilità. Si avvicina così l'epilogo, la danza sacrale della vittima designata a morire per
propiziare il rinnovarsi della primavera. Nella Danza dell'eletta, il furore ritmico raggiunge l'apice
del più orgiastico parossismo, rimettendo in gioco tutte le possibilità strutturali sperimentate
nell'opera e non lasciando più dubbi sul carattere barbarico del sacrificio. Eppure, proprio da questa
identificazione con le crudeltà del rito che si è appena compiuto, si rigenera una sorta di euforia
vitale, di panica rivelazione del mistero della rinascita, di tragica consapevolezza del ciclo eterno
degli inizi e delle fini scandito dalle leggi immodificabili della natura.
Dopo la partitura colossale dei Gurrelieder (compiuti nella veste strumentale nel 1911) S. prese le
distanze dai grandi organici orchestrali, e questo processo di rigenerazione cameristica inizia con la
prima Sinfonia da camera (1906) e culmina col Pierrot Lunaire, che impegnò il compositore tra il
marzo e il settembre del 1912. Si tratta di 21 brani per voce ed ensemble strumentale: pf, fl (ott), vl
(vla) cl (cl basso) suddivisi in tre parti con 7 brani ciascuna e carattere diverso. Evidenziano
l’aspetto ambivalente e lunatico della maschera. L’altro personaggio è la luna, le cui differenti
apparizioni rispecchiano le diverse anime di Pierrot. Lo stimolo e la sollecitazione a comporre un
lavoro per voce e strumenti vennero a Schoenberg dall'attrice tedesca Albertine Zehme e
confluirono con l'esperienza che egli aveva fatto a Berlino nei primi anni del Novecento come
direttore musicale di un teatro-cabaret. Fin dalle prime esecuzioni (a quella berlinese dell'8
dicembre 1912 assistettero tra gli altri Stravinsky e Diaghilev), apparve chiaro che si trattava di
un'opera d'importanza capitale per il divenire della musica moderna. Le 40 prove che precedettero
la prima del 9 ottobre 1912 sono entrate nella leggenda dell'evento. Indubbiamente la novità della
scrittura esigeva una concentrazione sul testo e sull'emissione fino ad allora sconosciuta. Albertine
Zehme declamò il suo testo avvolta in un costume da Pierrot, davanti a un paravento spagnolo rosso
e nero, che nascondeva agli occhi del pubblico Schoenberg ed i suoi musicisti.
Nella partitura culmina e insieme si avvia al suo superamento quel periodo centrale della creatività
di Schoenberg (periodo atonale) in cui, emancipate le dissonanze, superati o sospesi i tradizionali
nessi tonali e dischiuso lo spazio dei dodici suoni della scala cromatica temperata, il compositore
s'inoltra sul terreno inesplorato in piena libertà, attuando così i postulati irrazionali della poetica
espressionista. Abolite le vecchie leggi costruttive, le forme sonore tendono a contrarsi
aforisticamente o si costituiscono plasmandosi sopra un testo poetico come avviene, appunto nel
caso del Pierrot Lunaire basato su «tre volte sette poesie» del poeta belga Albert Giraud tradotte in
tedesco da Otto Erich Hartleben.5
Tutte le poesie del Pierrot presentano un comune schema architettonico: dei tredici versi che
ognuna include, il primo e il secondo si ripetono come settimo ed ottavo e il primo (settimo) torna
ancora come tredicesimo in chiusura. I singoli brani – definiti melologhi - sono pezzi in cui una
declamazione viene accompagnata musicalmente. L'innovazione di Schoenberg consiste nel far
seguire alla recitazione una precisa linea melodica senza farla sfociare tuttavia in canto vero e
proprio. Schoenberg coniò per l'emissione della voce recitante il termine Sprechstimme, intendendo
con ciò un canto parlato, da lui stesso individuato nella prefazione all'opera come una scrupolosa
esecuzione dei valori ritmici, mentre per quanto riguarda le altezze l'interprete è tenuto a intonare la
nota prescritta (altezza fissa), trascolorando subito nell'emissione parlata (altezza variabile). Questa
peculiare emissione e codificazione del canto espressionista è certo l'elemento più dichiaratamente
nuovo della partitura. Lo «Sprechstimme», ossia la «voce parlante», viene accompagnata da cinque
strumentisti che suonano rispettivamente un violino (sostituito a tratti da una viola), un violoncello,
un flauto (anche ottavino), un clarinetto (alternato con un clarinetto basso) e il pianoforte. Però
soltanto in sei di questi brani la voce viene accompagnata dall'intero complesso strumentale: negli
altri pezzi intervengono uno, due, tre o quattro strumenti in raggruppamenti diversi, creando così
una notevole varietà timbrica. Il fulcro poetico è la tragica esasperazione del romantico dissidio tra
l'umana realtà interiore e il mondo circostante. Pierrot è l'uomo «al mondo perduto», che non si
ritrova tra i fatti della vita, che vive nel regno delle sue allucinazioni e della sua disancorata fantasia
sognando «beate lontananze» e «il vecchio profumo del tempo delle fiabe». Il particolare modo di
«cantar parlando» aumenta il carattere fantastico e irreale della musica. Le tre parti, ciascuna di
sette brani, sono di carattere diverso: prevalentemente liriche la prima e la terza, drammatica la
seconda. Schoenberg ha descritto il timbro della partitura come "ironico-satirico senza
sottolineature". Ma questa osservazione vale più che altro da punto di partenza, ed è la stessa
successione dei testi nelle tre parti ad indicarcelo. I primi sette si intitolano "Ebbro di luna",
"Colombina", "Il Dandy", "La lavandaia pallida", "Valzer di Chopin", "Madonna", "La luna
malata", e possono tutti rientrare nell'ambito dell'ironia. Ma i titoli della seconda parte propendono
al macabro: "Notte', "Preghiera di Pierrot", "Furto", "La messa rossa", "Canzone dell'impiccato",
"Decapitazione", "La croce". La terza parte sembra poi tendere alla malinconia della reminiscenza:
"Nostalgia", "Meschinità", "Parodia", "La macchia della luna", "Serenata", "Il ritorno", "Oh
profumo antico". Nella prima parte il taglio formale è piuttosto libero e segue spesso la struttura
strofica del testo poetico. Nella seconda e nella terza parte invece Schoenberg mostra di non
contentarsi più di nessi puramente intuitivi e non giustificabili razionalmente, e costruisce dei brani
come Parodia e La macchia lunare su di uno scheletro formato dai più complessi procedimenti
canonici di stampo fiammingo. Nel Pierrot Schoenberg intraprende decisamente il recupero delle
forme contrappuntistiche rigorose, integrandole allo stile concertante e ad un organico e vocalità
che derivano dal mondo del cabaret. In altri brani, come La Notte, (configurata come una
passacaglia) vengono anticipati virtualmente taluni aspetti della futura tecnica seriale. Nessun
grande compositore del secolo ha potuto sottrarsi al fascino unico dell'opera, che affascinò i
professionisti più rigorosi, primi fra gli altri Ravel e Stravinsky.
Sintesi di due programmi di sala a cura di Roman Vlad e di Gioacchino Lanza Tomasi
5
Titolo originale. "Tre volte sette poesie dal "Pierrot lunaire" di Albert Giraud (versione tedesca di Otto Erich
Hartleben). Per una voce recitante, pianoforte, flauto (anche ottavino), clarinetto (anche clarinetto basso), violino
(anche viola) e violoncello (melologhi)."