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VIII.

LE STRADE DELLA NUOVA MUSICA

Il sistema tonale era giunto nel tardo Ottocento a un’irrimediabile saturazione; si può quasi dire che
ormai ci si era spinti sino ai confini della tonalità. Urgeva cercare nuove possibilità musicali → così
gli anni a cavallo tra Otto e Novecento vennero percepiti dai contemporanei come periodo della
Nuova Musica.
Alcuni compositori, come Musorgskij, Bartok, non sembrarono allontanarsi troppo dalla tonale terra
d’origine; altri invece, come Schonberg e i suoi allievi Berg e Webern, si incamminarono
decisamente verso strade nuove giungendo ad una completa atonalità. In qualsiasi direzione si
muovessero, i compositori tendevano a procedere in gruppi, dietro un leader riconosciuto e
esprimendo spesso le loro idee in un manifesto.
Il confine della Nuova Musica, fino a poco tempo fa, veniva tracciato intono al 1910, quando
Schonberg e la sua scuola scrissero le prime composizioni atonali. Eppure, fin dagli anni ’50 del
nostro secolo ci si rese conto che, partendo per questa sua avventura, Schonberg si era portato
appresso molti elementi fondamentali del sistema musicale antico (strutture formali, metriche,
ritmiche, etc).
Tra i materiali nuovi che gli altri compositori avevano estratto dalle musiche etniche, orientali o
antiche ve ne erano alcuni dalla carica davvero dirompente: la negazione del concetto di musica
come divenire → concezione “atemporale” della musica, coltivata soprattutto nel mondo francese:
Debussy, Satie, Stravinskij. Si inizia dunque a prestare attenzione al suono singolo, ma si assiste
anche ad una spersonalizzazione della musica (atteggiamento antiromantico: Satie, Ravel,
Stravinskij).
Il confine musicale tra Otto e Novecento è dunque assai controverso: se dal punto di vista tecnico
potrebbe essere collocato attorno al 1910, dal punto di vista estetico andrebbe posticipato intorno
al 1920, quando il Neoclassicismo andò sostituendosi all’Espressionismo.

La generazione uscita dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale volle rinnegare tutto, proprio
tutto di ciò che l’aveva preceduta e ripartire da zero. Poiché ciò non era letteralmente possibile, i
giovani compositori del dopoguerra ricavarono la loro parte di eredità un po’ dalla corrente
“tedesca”, un po’ da quella “francese” → l’”io” creatore viene sostituito dal calcolo numerico o dal
caso, gli strumenti suonati dall’uomo sono affiancati a rumori registrati o elettronici etc.

NAZIONALISMO E REALISMO NELLA MUSICA DELL’OTTOCENTO

Con il Romanticismo si assiste alla fioritura di quelle che vengono definite scuole nazionali.

EUROPA DELL’EST:

Russia - Nella prima metà dell’Ottocento, l’Opera Imperiale Italiana assorbiva la quasi totalità delle
risorse finanziarie destinate alla musica. Esisteva sì un’Opera Imperiale Russa ma anche il suo
repertorio e i suoi interpreti venivano prevalentemente dall’estero; venivano eseguite anche opere
russe: brevi spettacoli i cui protagonisti si esprimevano in russo e interrompevano i dialoghi recitati
con vere canzoni popolari. L’autore che più si segnala nella produzione operistica in russo è
Michail Ivanovic Glinka (1804-1857), che compie viaggi in Italia, Austria e Germania. La sua
opera Una vita per lo Zar (1836) fu salutata come prima vera opera nazionale russa: argento tratto
dalla storia russa, uso di canti popolari, presenza di uno strumento tipicamente russo come la
balalaika (affine al liuto), importanza al timbro orchestrale. Nella seconda metà dell’Ottocento si
notarono sforzi dei musicisti per valorizzare la produzione nazionale; fu proprio un compositore di
stampo prettamente occidentale e conosciuto in Europa come pianista, Anton Rubinstein
(1829-1894), a fondare la Società Musicale Russa nel 1859 → questa organizzazione concertistica
voleva porre un freno al dilagare dell’opera italiana, favorendo le esecuzioni dei compositori russi.
Ma quasi immediatamente la Società fu attaccata da un gruppetto di cinque giovani compositori →
gruppo dei Cinque:

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- Milij Balakirev (1837-1910): è lui a capeggiare. In Balakirev era chiara la necessità di un
rinnovamento che si allontanasse dalle influenze italiane e francesi allora dominanti e fissasse
canoni che caratterizzassero la musica russa. Balakirev fu in contatto con i circoli progressisti
della Russia zarista e fu considerato un rivoluzionario nell'ambiente della vita musicale russa
che gli fu ostile in quanto lo vedeva come destabilizzatore dello status quo
- Tzezar’ Cui (1835-1918): compositore, generale e ingegnere russo
- Modest Musorgskij (1839-81): pur destinato a una carriera militare, il suo interesse principale
fu la musica, per cui seguì questa passione anche se essa gli procurò una vita di miseria. Le
sue composizioni esprimono l'inquietudine dell'uomo; affetto da disturbi di nevrosi e
depressione, causati in parte dal vizio del bere, durante un soggiorno in campagna dal fratello si
dedicò con fervore ad alcune delle sue opere più importanti, come Una notte sul Monte Calvo
(1867, riv. nel 1875) per orchestra, e diverse liriche per canto e pianoforte. Celebre è la suite per
pianoforte Quadri di un'esposizione (composto fra il 2 e il 22 giugno 1874), un tentativo di
tradurre in musica alcuni disegni e acquerelli dell'amico artista Viktor Aleksandrovič Hartmann
visti ad una mostra. L'opera fu pubblicata postuma e destinata ad avere una particolare fortuna
soprattutto per la ricchezza ritmica e la novità di timbri, che indurranno Maurice Ravel a
scriverne una magistrale orchestrazione. Quadri di un'esposizione fu pubblicato la prima volta
nel 1886, cinque anni dopo la morte dell'autore, a cui seguì una seconda edizione. In entrambi i
casi il revisore fu Nikolaj Rimskij-Korsakov che, snaturando una delle più belle composizioni mai
scritte, ammorbidì i tocchi audaci di Musorgskij, con il risultato che il lavoro non fu stampato
nella sua forma originale. Il suo capolavoro è considerato l'opera Boris Godunov (da un dramma
di Puškin), l'unico suo melodramma rappresentato mentre era ancora in vita. Musorgskij è
l’unico dei Cinque a servirsi di materiali musicali folklorici in modo profondamente strutturale; per
il compositore risalire alle fonti della musica popolare non aveva solo una funzione di
rivendicazione nazionalistica, ma era un modo per accostarsi all’umanità, alla vita vera →
proposito di “esporre musicalmente la prosa della vita quotidiana”. Si più parlare di realismo
musicale: ciò si manifesta nel fatto che si servì di testi prevalentemente in prosa e nelle
caratteristiche tecniche della sua musica, che anticipano le novità del Novecento.
- Nikolay Rimiskij-Korsakov (1844-1908): è stato un compositore e docente russo,
particolarmente noto per la sua fine orchestrazione. Le sue composizioni più famose sono Il volo
del calabrone (terzo episodio dell'opera La favola dello zar Saltan, composta fra il 1899 ed il
1900), Shahrazād (suite sinfonica del 1888), La grande Pasqua russa (ouverture sinfonica
composta tra il 1887 e il 1888), Capriccio spagnolo (per orchestra sinfonica, è basato su
melodie spagnole e composte nel 1887).
- Aleksandr Borodin (1833-87): compositore e chimico russo, definiva la sua musica "un
passatempo, come un riposo dalle sue occupazioni più serie", con cui intendeva ovviamente il
suo lavoro come scienziato. Ma a livello mondiale divenne famoso non tanto come scienziato,
quanto come compositore. Possedeva il dono di esprimere sentimenti ed emozioni con una sola
frase musicale. In ogni sua composizione è presente una profondità espressiva unita ad una
grande linearità melodica. Nonostante il poco tempo che poté dedicare alla musica, ha lasciato
numerose composizioni.
Costoro insieme leggevano musica, discutevano e volevano assumere l’eredità musicale di Glinka;
tutti erano dilettanti → nessuna formazione accademica poté impedire la loro libera ricerca di
nuove strade musicali.

Nel frattempo lo schieramento opposto dei filo-occidentali si era arricchito del contributo di Pëtr
Il’ič Čajkovskij (1840-93); è universalmente considerato il più celebre compositore romantico
russo, per la raffinatezza dei temi ed il suo animo di spessore più occidentale che russo,
opponendosi quindi al Gruppo dei Cinque. Culturalmente molto distante dai compositori russi a lui
contemporanei d'ispirazione nazionalista, Čajkovskij rivelò nella sua musica uno spirito
cosmopolita. Pervase da una sensibilità estenuata e da una naturale eleganza, le sue partiture
presentano nondimeno tratti talora distintamente russi, sia nella predilezione per il modo minore,
sia soprattutto nel profilo delle melodie, talvolta ricavate dalla tradizione popolare o dalla liturgia
ortodossa. Diversamente dai colleghi russi, Čajkovskij studiò per tutta la vita la musica occidentale,
dal prediletto Mozart agli operisti italiani, dai romantici tedeschi (Schumann certamente il più
amato) alla nuova scuola francese di Bizet, riuscendo a dare alla sua arte un respiro decisamente
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internazionale. In questo senso, la sua figura di artista aperto, capace di assorbire e rielaborare
qualsiasi linguaggio e qualsiasi forma musicale, è fondamentale sia in ambito romantico, sia per la
comprensione del futuro percorso artistico di Stravinskij, che non si stancò mai di spendere parole
di elogio ed ammirazione, definendolo "il più russo di tutti i musicisti russi”. Tra i molti aspetti della
sua figura poliedrica, di compositore quanto mai istintivo e appassionato e al tempo stesso
estremamente attento alla cesellatura formale, spicca la sua straordinaria sensibilità timbrica.
Čajkovskij seppe indagare le possibilità espressive degli strumenti tradizionali, in particolare i fiati,
ricavandone suoni e impasti originali, raffinatissimi e inconfondibili. L'importanza che egli attribuì ai
colori dell'orchestra fu tale da relegare la produzione pianistica in secondo piano, nonostante la
straordinaria fama guadagnata dal suo primo concerto per pianoforte e orchestra.
Nelle sue Sinfonie egli introduce una certa dose di programmaticità: esemplare è la sesta e ultima,
detta Patetica, nata come sinfonia a programma per raffigurare la vita stessa. Egli si cimentò
anche in musiche più scopertamente programmatiche, che son praticamente veri poemi sinfonici:
ad esempio l’ouverture su Romeo e Giulietta e la fantasia sinfonica Francesca da Rimini.
Cajkovskij inaugurò la grande stagione del balletto russo, componendo una serie di balletti
sinfonici: Il lago dei cigni (1877), La bella addormentata nel bosco (1890), Lo schiaccianoci (1892).
Seguace di Cajkovskij nella dedizione alla musica di stampo occidentale fu Sergej Rachmaninov
(1873-1943), compositore, pianista e direttore d’orchestra russo, ricordato soprattutto per i quattro
Concerti per pianoforte e orchestra e per le due raccolte di Etudes-tableaux.

L’opera era ancora considerata il genere musicale più elevato; in essa era più agevole inserire
vere melodie popolari cantate come tali, che si mantenessero riconoscibili e non richiedessero di
essere sottoposte ad un’elaborazione motivica. L’uso della lingua nazionale e i soggetti tratti dalla
storia del luogo rendevano chiaro il carattere nazionale dell’opera stessa ed era poi determinante
la dedizione del popolo di adottare una certa composizione come propria “bandiera musicale”.
Citiamo in Polonia l’opera Halka (1848) di Stanislaw Moniuszko e in Ungheria Bank Ban (1861) di
Ferenc Erkel.

Boemia - Fu acclamata come opera nazionale La sposa venduta (1866) di Bedrich Smetana
(1824-1884). Nè la sua successiva opera seria Dalibor né il ciclo di sei poemi sinfonici dal
programmatico titolo Mà Vlast (1872-79) riuscirono a togliere il primato. Smetana pose le basi di un
linguaggio musicale di carattere nazionale che, nonostante i continui richiami a modelli stranieri - in
particolare Hector Berlioz e Franz Liszt - valorizzò il patrimonio culturale etnico della Boemia (miti,
danze, canzoni), assegnando alla sua nazione un ruolo di primo piano nella musica europea del
secondo XIX secolo.
Anche l’altro celebre compositore boemo ottocentesco, Antonin Dvořák (1841-1904), fece ampio
uso di motivi popolari; nelle sue composizioni non compaiono solo echi boemi, ma anche quelli di
altri paesi dell’est europeo ma anche di pellirosse e neri americani (celebre è la Nona sinfonia,
detta appunto Dal nuovo mondo, 1893). Le opere di Dvořák sono organizzate in diversissime
forme: le sue nove sinfonie si rifanno a modelli classici che Ludwig van Beethoven avrebbe
approvato e sono comparabili a quelle di Johannes Brahms, ma egli lavorò anche nel campo del
poema sinfonico e l'influenza di Richard Wagner è evidente in alcune composizioni. Molte delle
sue opere mostrano anche l'influenza della musica folkloristica ceca, sia per i ritmi, sia per le forme
melodiche; forse gli esempi più noti sono le due raccolte di Danze Slave (Danze slave per
pianoforte a 4 mani, op. 46 e 72, scritte nel 1878). Dvořák scrisse anche opere (la più celebre delle
quali è Rusalka), musica da camera (compreso un discreto numero di quartetti d'archi) e musica
per pianoforte.

Moravia - Il più grande compositore della Moravia, Leos Janacek (1854-1928), si spinge fin
dentro i confini della Nuova Musica del Novecento. Egli si dedicò allo studio profondo della musica
etnica morava, cercando di rivitalizzare attraverso di essa le basi di fondo del proprio linguaggio
“colto”. E’ simile a Musorgskij nella tendenza a far scomparire la presenza emotiva dell’autore,
lasciando che il dramma musicale si svolgesse in modo quanto più possibile oggettivo; al contrario
di lui però rifiuti la tecnica wagneriana del Leitmotive.

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EUROPA DEL NORD:

Da ricordare in Danimarca i compositori Niels Gade e successivamente Carl Nielsen


(1865-1931), che usò una “tonalità estesa”, ovvero usa tutti e dodici i semitoni pur all’interno di una
tonalità. In Svezia invece vi è solo Franz Berwald e in Norvegia Edvard Grieg (1843-1907) e
Christian Sinding. Per quanto riguarda la Finlandia, va ricordato Jan Sibelius (1865-1957), che
si dedicò soprattutto a poemi sinfonici ispirati a saghe finlandesi ma riuscì a raggiungere nella
quarta delle sue sette sinfonia una certa prossimità al mondo musica della Musica Moderna; non
osò mai varcare tale confine, pretendo addirittura dopo qualche anno ritirarsi.

Inghilterra e Irlanda - Non si può parlare di una vera e propria corrente nazionalistica nelle isole
britanniche, poiché la ricchissima pratica concertistica che vi fioriva le rendeva partecipi della
tradizione europea. Nella corrente romantica va collocato William Sterndale Bennett (1816-75),
ma anche Charles Hubert Parry. Benché costui si applicasse alla rinascita della musica inglese,
un maggior contributo in tal senso fu offerto da Charles Villiers Standford, che si dedicò
soprattutto a divulgare la musica folkorica del suo paese d’origine, l’Irlanda. Rispetto a tutti costoro,
è più conosciuto al di fuori del mondo britannico il compositore Edward Grieg (1857-1934).

Spagna - La Spagna si affacciò tardi alla ribalta della musica europea; un gran “lavoro
preparatorio” fu svolto nell’Ottocento da musicisti come Felipe Pedrell, che si dedicarono alla
riscoperta delle musiche popolari autoctone e dell’illustre tradizione polifonica del Cinquecento
spagnolo. Da ricordare tre allievi di Pedrell, Isaac Albeniz (1860-1909), Enrique Granados e
Manuel de Falla.

FRANCIA E ITALIA TRA OTTO E NOVECENTO

Nel tardo Ottocento si iniziò a prendere atto dell’inesorabile fallimento del Positivismo; si aprì la
fase storica del Decadentismo. Fu il movimento culturale francese del Simbolismo ad incarnare
queste tendenze di fondo all’interno di una produzione artistica di altissimo livello. I simbolisti
ritenevano che la realtà visibile fosse intimamente collegata a quella invisibile, essendone quasi
uno specchio simbolico. L’unica via di conoscenza sarebbe dunque quella intuitiva, realizzata
attraverso il potere evocatori dell’arte.

FRANCIA
In campo musicale, l’influenza wagneriana fu così potente da riverberarsi anche sul nascente
Simbolismo francese. Ciò che i francese conoscevano maggiormente di Wagner erano i testi; i
compositori si interessavano all’aspetto tecnico della sua musica, soprattutto alle sue sconvolgenti
innovazioni armoniche e alla tecnica del Leitmotiv. Fu soprattutto la Societé nationale de musique,
fondata nel 1871 da César Franck e Camille Saint-Saens, ad adoperarsi per arricchire la musica
francese con il linguaggio wagneriano, nobilitando il genere della musica strumentale. Lo scopo
era quello di promuovere la musica francese e consentire ai giovani compositori la presentazione
della loro musica al pubblico. Nel 1886, i membri della società si confrontarono fra loro per una
disputa, sull'inserimento dei compositori stranieri, fra i conservatori come Saint-Saëns e gli
innovatori come Franck, Vincent d'Indy, ed altri. Franck venne eletto presidente e
conseguentemente Saint-Saëns si dimise. Nel 1890, a seguito della morte di Franck, d'Indy
divenne presidente. Dopo una serie di ostilità nei suoi confronti, Ravel lasciò nel 1909 la Société
Nationale de Musique per fondare una nuova organizzazione chiamata Société musicale
indépendante.
César Franck (1822-1890), di nascita belga, svolse una grande attività di organista; vari influssi
confluiscono nella sua produzione a creare uno stile molto personale. Ricevette un duplice impulso
proveniente da Wagner: dal Tristano assorbì l’uso del cromatismo, dal Parsifal estrasse una
condotta armonica di tipo quasi modale.
Anche Camille Saint-Saens (1835-1921) è stato un compositore, pianista e organista francese e
amico di Liszt. Nota è la sua composizione per due pianoforti e strumenti Carnevale degli animali
(1886). Le sue opere sono stati definite logiche e pulite, levigate, professionali e mai eccessive. Le
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sue composizioni pianistiche, costituiscono il collegamento stilistico tra Liszt e Ravel. Spesso è
stato additato come "il più tedesco di tutti i compositori francesi", forse a causa della sua fantastica
abilità nella elaborazione tematica. Malgrado lo stile delle opere degli ultimi anni sia considerato
antiquato, in precedenza Saint-Saëns aveva esplorato molte forme nuove e allo stesso modo ne
aveva rinvigorito alcune di vecchia data.
Altri compositori francesi di questo periodo: Emmanuel Chabrier, Ernest Chausson e Gabriel
Fauré (1845-1924), compositore e organista francese. A Fauré interessava più l'idea musicale che
l'orchestrazione. Così, se ci ha lasciato quasi un centinaio di melodie e un repertorio conseguente
nel campo della musica da camera e da salotto, non ci ha lasciato che una decina di pezzi per
orchestra, destinati specialmente al teatro. Se questi hanno avuto grande successo, la loro
orchestrazione resta piuttosto classica e, in linea di massima, le formazioni adottate da Gabriel
Fauré non portano grandi innovazioni di timbri (per esempio, non utilizza praticamente mai
strumenti a fiato nella musica da camera). Il messaggio di Fauré è tutto intimistico, scaturisce
dall’interiore e tende verso la purezza dell'idea musicale. Ciò lo porta a non ricercare i grandi
effetti, a volte molto apprezzati, della sua epoca, come le audaci orchestrazioni d'un Wagner, d'un
Debussy o ancora d'uno Stravinsky (vedi Citazione più in basso). Se la musica di Fauré non
esclude accenti romantici e violenze passeggere (specialmente nella sua Fantaisie), questo
aspetto "interiore" della sua musica si è accentuato con l'età, specialmente nelle sue opere più
tarde, che ci danno testimonianza d'un "ascetismo" musicale che ha disorientato ai suoi tempi e
anche oggi i suoi fautori come i suoi detrattori.

Anche Claude Debussy (1862-1918) risentì dell’ambiguo rapporto che il mondo francese
intratteneva con Wagner; egli frequentò ben più assiduamente i letterati che i suoi colleghi
musicisti ma poté usufruire anche di significativi incontri musicali. Nel 1889 assistette all’esibizione
di un’orchestra gamelan dell’isola indonesiana di Giava, costituita per la gran parte da strumenti a
percussione di metalli, traendone vari stimoli: 1. uso di scale pentatoniche ed esatoniche; 2.
concezione statica del ritmo e poliritmia; 3. concezione stati e quasi circolare della forma; 4.
drammaturgia costruita senza grandi apparati orchestrali o scenici (essenzialità, non
magniloquenza). Un altro repertorio che contribuì a indirizzarlo verso nuove soluzioni musicali fu
quello del canto gregoriano. Il suo protendersi verso tradizioni al di fuori di quella europea lo portò
a considerare con molta ammirazione la musica di Musorgskij.
Quindi, nonostante abbia pagato anch’egli il suo tributo al culto wagneriano recandosi a Bayreuth
nel 1888 e nel 1889 e nonostante la sua ammirazione per il grande poeta-musicista, Debussy
riuscì a costruirsi una concezione drammaturgia assolutamente personale. Debussy sostiene che
la musica deve cominciare “laddove la parola è impotente ad esprimere”.
Nella sua unica opera, Pelléas et Mélisande (rapp. 1902), vi sono personaggi fragili, tutti alla fine
perdenti, molto diversi dagli eroi wagneriani.
Le composizioni più celebri di Debussy sono fornite di titoli che potrebbero insinuare una tendenza
descrittiva: per orchestra, Prélude à l’après-midi d’un faune (1894), tre Nocturnes (1899), tre
schizzi sinfonici La mer (1905), Images (1912), ma anche i due libri di Preludes (1910 e 1912;
particolarmente noto è il Preludio n. 10 dal Primo libro, La cattedrale sommersa). Ma Debussy
frequentò molto più gli ambienti simbolisti che quelli impressionisti e i suoi testi sono di poeti
simbolisti → se proprio bisogna etichettarlo, Debussy è simbolista, non impressionista.
E’ la sua concezione del tempo ad essere di una modernità sconvolgente; Debussy cerca di
arrestare il flusso del tempo, di disintegrare quello che fino al allora era un processo lineare,
accostando tra loro frammenti di tempo assoluti. Il suono diviene il centro della sua attenzione. Gli
accordi perdono la loro funzionalità armonica per divenire aggregati sonori con prevalente valore
timbrico; la forma assume una connotazione circolare e non protesa verso un fine.

La modernità del linguaggio di Debussy non venne sufficientemente percepita dai contemporanei:
nel periodo fra le due guerre fu un altro grande musicista francese, Maurica Ravel (1875-1937),
ad essere considerato all’avanguardia. Gli scandali costellarono le prime esecuzioni delle sue
opere, a dimostrazione di come il suo stile venisse considerato addirittura provocatorio.
Agli inizi non si avvertì molto la differenza tra il suo stile e quello di Debussy; vi sono punti di
contatto tra i due: anche Ravel si serve di stilemi musicali desunti dalla musica orientale (scale
modali, ritmi ripetitivi etc), dall’antico clavicembalismo francese (ad esempio nella Pavane pour une
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infante défunte, 1899 o nel Tombeau de Couperin - sei pezzi per pf -, 1917), oppure dal jazz
americano (ritmi sincopati ad esempio nei due concerti per pf e orchestra: Concerto in re, 1930,
per la sola mano sinistra e Concerto in sol, 1931).
Ma ben presto il personalissimo stile di Ravel venne addirittura contrapposto a quello del suo
illustre avversario; la musica di Ravel non disgrega i presupposti del sistema tonale e della
concezione del tempo musicale: essa si mantiene sempre all’interno di un binario costruito con
estrema chiarezza e razionalità, rientrando pienamente nel quadro formale della tradizione.
Ravel si pone in un’estetica decisamente antiromantica, ironica e disincantata; il distacco dalle sue
creature sonore è realizzato soprattutto attraverso una meccanizzazione del ritmo.
Gli unici approcci di Ravel al teatro musicale si concretizzano in due operine comiche: la
commedia musicale in un atto L’heure espagnole (1911), dove i personaggi sono quasi marionette
meccaniche, e la fantasia lirica L’enfant et les sortileges (1925), dove i protagonisti sono animali e
oggetti inanimati.
Un’altra composizione esemplare dal punto di vista della meccanizzazione musicale che Ravel
sapeva realizzare è il Bolero (1928), balletto per orchestra.

ITALIA
Anche tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento fu difficile sfuggire all’equazione musica
italiana=opera lirica, nonostante la preziosa attività di compositori-strumentisti che si aspettarono
per diffondere in Italia la grande tradizione strumentale d’oltralpe, emulandola in proprio: si tratta
soprattutto dei pianisti Giovanni Sgambati e Giuseppe Martucci e dell’organista Marco Enrico
Bossi.
Eppure ciò che rimane di questo periodo nell’odierno repertorio è la produzione operistica, che si
aggruma attorno ad un’unica generazione di musicisti → Giovine scuola o veristi.
Il cosiddetto verismo operistico italiano non ha però nulla a che vedere con quello letterario; il
verismo musicale non è altro che un’intensificazione di quel carattere melodrammatico che fino a
qualche tempo prima era considerato tipico del Romanticismo.
L’opera capostipite di questo atteggiamento è Cavalleria rusticana (1890) di Pietro Mascagni
(1863-1945), tratta dalla novella e poi dramma di Verga. Seguono I pagliacci (1892) di Ruggero
Leoncavallo (1857-1919), L’Arlesiana (1897) e Adriana Lecouvreur (1902) di Francesco Cilea e
altri.

Rispetto a costoro, il compositore lucchese Giacomo Puccini (1858-1924) riuscì ad innalzarsi ad


un livello notevole, arricchendo il suo stile con le novità musicali e drammaturgie europee.
L’accusa che più sovente viene rivolta alle sue opere è quella di indulgere troppo volentieri a
solleticare la lacrimosa commozione del pubblico. La sua produzione più significativa comprende
Manon Lescaut (1893), La bohème (1896), Tosca (1900), Madama Butterfly (1904), La fanciulla
del West (1910, unica con lieto fine), Suor Angelica (1918, con altri due atti unici, Il tabarro e
Gianni Schicchi fa parte del Trittico) → la protagonista è sempre l’eroina: dolce, tenera, innamorata
è proprio forse il suo amore a costituire quasi una sorta di inconscia colpa che la farà soffrire e
morire. Per quanto riguarda l’orchestrazione, vi è spesso il raddoppio della melodia vocale con
strumenti.
Nell’ultima sua opera, l’incompiuta Turandot, Puccini cercò di ribaltare la tipica impostazione dei
suoi soggetti: il personaggio femminile dolce e sofferente retrocede ad un ruolo secondario, mentre
la vera protagonista è la gelida principessa.
Nelle opere di Puccini non vi sono più pezzi chiusi; gli andamenti più diversi si incastrano tra loro a
seconda della situazione scenica, spalancandosi però improvvisamente a squarci di cantabilità.
Fin dalle prime opere, Puccini faceva un disinvolto uso di una tonalità allargata, ambigua, con un
trattamento libero delle dissonante; da Tosca in poi arricchì il linguaggio con la scala per toni interi,
l’uso di due tonalità contemporaneamente etc.

LA SCUOLA MUSICALE DI VIENNA

Il processo che portò al completo distacco dalle sponde del sistema tonale fu realizzato dalla
Scuola musica di Vienna, ovvero dai compositori Schonberg, Berg e Webern.
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Vanno segnalate prima le strade tracciate dai compositori Busoni e Skrjabin che si richiusero però
dietro a loro senza coinvolgere seguaci.
Ferruccio Busoni (1866-1924) si situa in bilico tra mondo italiano e tedesco; la sua attività di
pianista lo condusse a numerose tournées. Buosoni auspicava un radicale superamento del
sistema tonale ma anche del sistema temperato, ipotizzando la divisione dell’intervallo in terzi o
sesti di tono.

Di taglio diverso è la ricerca del pianista-compositore Aleksandr Skryabin (1872-1915), convinto


di avere la missione profetica di migliorare l’umanità attraverso l’arte. Egli giunse anche a correlare
simbolisticamente i suoni di orchestra, coro e pianoforte solista con luci colorate prescritte in
partitura, da eseguirsi con il clavier à lumières. Le sue ultime composizioni usano una tecnica
compositiva decisamente non tonale, basata sull’”accordo mistico”, composto da note poste a
intervalli di quarta.

Fu invece il compositore viennese Arnold Schonberg (1874-1951) ad aprire una strada decisiva.
Il suo linguaggio è debitore sia verso quello di un “progressista” come Wagner (cromatismo ai
confini della tonalità, tecnica del Leitmotiv), sia verso quello di un “conservatore” come Brahms
(fraseologia asimmetrica, attenzione alla musica da camera). A ciò si aggiunge la sua venerazione
per Mahler. L’innovativo rapporto con la tradizione di Schonberg è evidente sin dalla sua prima
composizione importante: Notte trasfigurata, 1899, poema sinfonico per sestetto d’archi.
Per grande orchestra sono invece il poema sinfonico Pellas und Melisande op. 5 (1903) e i
Gurrelieder (1911). Le ricerche armoniche raggiungono l’apice con la Kammersymphonie op. 9
(1906).
Nel 1908 avviene il grande balzo vedo quella che oggi viene definita atonalità, definita da
Schonberg pantonalità. D’ora in poi il trattamento della dissonanza sarà libero, sciolto da ogni
obbligo di risoluzione → emancipazione della dissonanza. Non scompare però l’intensità
dell’espressione → la corrente culturale diffusa in quegli anni è l’Espressionismo. E’ dunque
difficile collocare Schonberg nel filo della storia della musica: dal punto di vista tecnico è il vero
iniziatore della Nuova Musica novecentesca, ma dal punto di vista dei contenuti l’Espressionismo
in cui si inserisce rappresenta l’estrema propaggine del Romanticismo. Gli artisti espressionisti
volevano riportare alla luce l’interiorità più profonda e irrazionale dell’uomo. Il connotato principale
dell’arte espressionista è una visione angosciosa della realtà.
Le più note composizioni del periodo atonale di Schonberg sono i Tre pezzi per pianoforte (1909), i
Sei piccoli pezzi per pianoforte (1911), i Cinque pezzi per orchestra (1909), il Pierrot lunaire (1912,
caratterizzato dallo Sprechgesang, “canto parlato”; è composto da ventuno liriche divise in tre
gruppi senza un nesso narrativo ma con fattori di unificazione) etc.
Ma questo stile di libera atonalità, che rifiutava volutamente la tradizione logica armonica e
tematica, nascondeva un pericolo: se non si aggrumava in una densa concentrazione o non si
appoggiava ad un testo, rischiava di disperdersi in un’incoerenza frammentaria. Schonberg avvertì
dunque l’esigenza di elaborare un sistema che permettesse di costruire ampie strutture musicali,
dotate di intrinseca coerenza ma pur sempre atonali. Così si rese conto che, per evitare ogni
riferimento alla tonalità, egli aveva fatto uso di tutti e dodici i suoni della scala cromatica, evitando
di conferire maggior peso a qualcuno di sei rispetto agli altri → nessun suono deve prevalere; la
struttura è assolutamente paritaria. Gli bastò sistematizzare questo principio per giungere alla
formulazione di quella tecnica compositiva definita dodecafonia:
1. prima di iniziare a comporre, l’autore dispone i dodici suoni che costituiscono il totale cromatico
in un ordine da lui stabilito; i dodici suoni così disposti sono detti serie
2. i suoni della serie possono essere utilizzati tanto in successione orizzontale, quanto in
sovrapposizione verticale
3. nessun suono della serie può essere ripetuto finché non sono stati utilizzati tutti gli altri
4. accanto alla serie originale se ne può usare il retrogrado, l’inverso e il retrogrado dell’inverso.
La dodecafonia fu sperimentata inizialmente nel Walzer dei Cinque pezzi per pianoforte (1923); poi
nella Serenade op. 24 per sette strumenti. Fu applicata integralmente anche nella Suite op. 25 per
pianoforte.

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L’isolamento in cui Schonberg veniva posto dalle sue innovazioni musicali, respinte dal mondo
circostante, fu accentuato dall’antisemitismo dilagante: infatti il compositore era di origine ebraica.
Nel 1933, con l’avvento i Hitler al potere, la situazione si fece insostenibile e pericolosa: licenziato
dall’Accademia delle Arti, il musicista dovette fuggire in Francia e ottenne poi asino negli Stati Uniti.
Le composizioni del periodo americano, pur senza rinnegare la dodecafonia, vanno quasi tutte
nella direzione di un recupero di atteggiamenti più tradizionali.

Schonberg non fu lasciato solo nella sua avventura prima atonale e poi dodecafonica: lo seguirono
due suoi allievi anch’essi viennesi, Alban Berg e Anton von Weber. La comunanza d’intenti fra i tre
compositori e la loro stretta collaborazione e amicizia ha portato i musicologi a definirei Scuola di
Vienna. Se Berg si volse vero il passato, Webern si spinse verso le soluzioni più radicali e protese
vero l’avvenire.

L’op. 1 di Alban Berg (1885-1935) fu una Sonata per pianoforte (1908) costituita da un solo
movimento e con un impiego della tonalità molto “allargato”; dall’anno dopo anche Berg iniziò ad
avviarsi verso l’atonalità, fino alle Cartoline postali op. 4 (1912) per voce e orchestra.
Il suo talento aveva desiderio di dispiegarsi in un lavoro drammatico: nacque così il Wozzeck,
un’opera in tre atti finita di comporre nel 1921, accolta con un grande successo. Qui Berg riesce a
congiungere il principale wagneriano di un dramma musicale senza cesure con la concezione
italiana dell’opera a numeri chiusi; le forme di cui si serve e che immette nel flusso continuo della
musica (interludi strumentali collegano tra loro le scene di ogni atto) sono le principali forme della
musica strumentale, che fungono da semplice traccia logica per il compositore.
All’interno di un tessuto generalmente atonale, Berg adopera con assoluta libertà sia la tonalità che
la dodecafonia e sia la più nobile tradizione espressiva che i più triviali cori da osteria.
Nelle composizioni degli anni seguenti il raffinato, libero e mai banale impiego delle forme
classiche va sempre più congiungendosi con la tecnica della dodecafonia. Ecco dunque nascere il
Kammerkonzert (1925) per pf, vl e tredici fiati, la Lyrische Suite (1926) per quartetto d’archi, l’opera
incompiuta Lulu e la sua ultima composizione, il Violinkonzert (1935). La produzione di questo
periodo è anche fittamente intessuta di simbologie musicali (ad esempio la cifratura musicale dei
nomi si Schonberg, Berg e Webern inserita nel Kammerkonzert).

Fu profondamente diverso il cammino solitario intrapreso da Anton von Webern (1883-1945). A


partire dall’op. 5, Cinque movimenti per quartetto d’archi (1909), si delinea quella che sarà la
principale caratteristica dello stile weberiano: l’obbiettivo è la scarna essenzialità → le
composizioni diventano più brevi temporalmente, le pause dilagano e le singole note,
apparentemente isolate fra di loro, sembrano galleggiare su un mare di silenzio → puntillismo. Vi
è anche una forte intensità emotiva: proprio perché le note sono poche ciascuna di esse di carica
di un peso specifico enorme; e anche le pause divengono un elemento musicale fondamentale. La
prima delle novità weberiane è proprio l’attenzione al singolo suono e al singolo silenzio.
Weber fa un amplissimo uso di una particolare accezione della schonberghiana
Klangfarbenmelodie, la “melodia di timbri”, coniugandola con lo stile “spezzato”: le sue figure
tematiche sono spesso costituite da linee i cui singoli punti sono affidati a strumenti diversi.
Webern era anche attivo in prima persona come musicista direttore d’orchestra.
Questi tratti rimasero peculiari della musica di Webern anche quando questi accolse la
dodecafonia, la quale gli permise di unificare le sue composizioni con accurata coerenza.
Dalla fine degli anni ’20 l’ultimo periodo della sua esistenza, con composizioni di musica “pura”,
senza il supporto di un testo. Ecco nascere composizioni come le Variazioni per orchestra op. 30
(1940).

STRAVINSKIJ E IL NEOCLASSICISMO

La fine della Grande guerra aveva lasciato un’Europa profondamente mutata. Molti intellettuali e
artisti cercarono di contribuire alla rivincita morale europea: simbolo di tale tendenza fu il Bauhaus,
scuola d’arte fondata a Weimar dall’architetto Gropius ne 1919, basata sulla costruzione di prodotti
artistici di utilità concreta.
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Anche i compositori si dedicarono ad una Gabrauchsmusik (“musica d’uso”): musica con funzione
didattica ma nello stesso tempo ben costruita, artistica e artigianale insieme.
In questo movimento, detto Nuova Oggettività, per il netto rifiuto del soggettivismo romantico, si
inserì il compositore tedesco Paul Hindemith (1895-1963), componendo molta musica a scopo
didattico. Il suo stile prevede una commistione tra un contrappunto di ispirazione bachiana e un
linguaggio musicale moderno, duro e dissonante. In seguito però, mentre Schonberg avanzava
lungo i percorsi della Nuova Musica, Hindemith si ritrasse in un ambito decisamente più
conservatore.
In campo teatrale fu soprattutto Bertolt Brecht (1898-1956) a caricare lo spettacolo di una funzione
didattica e di denuncia sociale; egli intendeva stimolare lo spettatore ad un atteggiamento critico e
l’attore stesso doveva quasi staccarsi dal personaggio (effetto di straniamento). In Germania, con
la conquista del potere da parte di Hitler nel 1933, venne perseguitata l’”arte degenerata” e la vita
musicale tedesca venne dunque oscurata. La città di Parigi non ebbe quindi più rivali.

L’atmosfera della musica d’avanguardia parigina degli anni ’20 fu profondamente segnata da uno
scritto del poeta Jean Cocteau, Il gallo e l’Arlecchino (1918), che inaugurò il movimento detto
Neoclassicismo. L’intellettuale francese indicava ai suoi compatrioti, come antidoto alla visceralità
e alla pesantezza della musica di stampo germanico, la figura di un musicista fino ad allora tenuto
in disparte: Erik Satie (1866-1925). Satie e Cocteau avevano collaborato per il balletto Parade
(1917), rappresentato dai Balletti Russi, creazione di Serghej Diaghilev con lo scopo di far
collaborare tra loro tutte le arti, pur nella più totale autonomia di ciascuna.
Satie divenne la guida spirituale dei giovani compositori che volevano definitivamente sciogliersi da
ogni suggestione germanica, costruendo una musica francese di umoristica razionalità. Satie
aderisce alla concezione della musique d’ameublement, “musica di arredamento”, musica di
sottofondo da eseguire dove si fa altro. Molti non hanno compreso la profonda ironia insita in
questa proposta, che ridicolizza l’uso improprio della musica e la sua riduzione a oggetto senza
alcuna funzione estetica, proprio sottomettendosi apparentemente a questa mercificazione.
I musicisti che dal primo dopoguerra alla metà degli anni ’20 attorniarono il solitario Satie furono
definiti I Sei e si accontentarono di usare una tonalità “sporcata” da numerose note dissonanti e di
contaminarla con elementi musicali provenienti dal jazz, da ritmi sudamericani etc.; fecero uso
della politonalità, ovvero della sovrapposizione simultanea di due o più tonalità. Fra i Sei, tre furono
musicisti di una discreta levatura: Darius Milhaud (1892-1974), Arthur Honegger (1892-1955),
Francis Poulenc (1899-1963). La morte di Satie scompaginò il gruppo: i tre virarono all’indietro
verso una scrittura più accademica e tradizionalista, mentre, fra gli altri componenti dei Sei, Louis
Durey (1888-1979) e Germaine Tailleferre (1892-1983) cessarono quasi del tutto l’attività
compositiva, mentre Georges Auric (1899-1983) si dedicò prevalentemente alle musiche di scena
e da film.

Parigi ospitava intanto un altro musicista, colosso della musica del Novecento: il russo Igor
Stravinskij (1882-1971). Dopo aver studiato con Rimskij-Korsakov, fu notato da Diaghilev che
aveva ascoltato il suo Fuochi d’artificio (1908) per orchestra. Ebbe così inizio quello che la critica
definì periodo russo di Stravinskij, perché in esso l’autore ripensa in modo personalissimo la
musica del folklore russo. Questo periodo della sua vita è scandito dalla produzione destinata ai
Balletti russi che Diaghilev allestiva a Parigi: L’uccello di fuoco (1910), Petrouschka (1911), La
sagra della primavera (1913 → con il Pierrot di Schonberg segna la nascita del Novecento
musicale. Il balletto è diviso in due parti: L’adorazione della terra e Il sacrificio. Sono presenti tempi
che provengono direttamente dalla musica etnica, a partire da quello iniziale affidato al fagotto
solista. Si nota l’utilizzo della scala ottatonica, caratterizzata dalla costante alternanza di intervalli
di tono e di semitono, a fianco di scale diatoniche). In essi crea un linguaggio sonoro totalmente
inedito, basato quasi sempre su scale modali e non più tonali, su una vivacità ritmica i cui accenti
si dissociano dalla scansione metrica e delle durate, e costruito su una struttura a blocchi
contrapposti in cui non si lascia spazio all’elaborazione tematica o ad uno sviluppo tradizionale. Il
periodo viene definito anche periodo fauve, in analogia con l’omonima corrente pittorica: i fauves,
“belve”, erano pittori francesi che usavano colori puri, violenti, al servizio di un’espressività
esasperata (es. Matisse).

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Durante la guerra Stravinskij andò a vivere nella neutrale Svizzera, dove rimase fino al 1920 e
dove compose alcuni lavori di teatro musicale da camera, come L’histoire du soldat (1918),
caratterizzati da estrema asciuttezza dell’organico strumentale e dalla scissione tra i diversi
elementi che costituiscono lo spettacolo → ecco il periodo cubista: il Cubismo, movimento pittorico
del primo Novecento, si basa proprio sulla scomposizione dell’oggetto in visuali diverse, presente
tutte contemporaneamente all’osservatore.
Con il balletto Pulcinella (1920) si fa iniziare un suo periodo neoclassico, che qualcuno preferisce
definire neobarocco: in esso il compositore si appropria di alcuni tratti stilistici e formali della
musica antica, soprattutto di quella barocca. Seguono l’opera buffa Mavra (1922), l’Ottetto per fiati
(1923) etc.
Stravinskij rinnega alla radice i due postulati della musica occidentale classico-romantica:
l’originalità della creazione musicale e la sua funzione di esprimere una genuina interiorità del
soggetto; al contrario dichiara polemicamente che la musica non deve e non può esprimere nulla
di esterno a sé. Nel comporre egli si “traveste”, indossando forme e linguaggi musicali di altre
epoche, costruendo musica sulla musica. Il Neoclassicismo di Stravinskij si differenzia
enormemente da quello dei suoi contemporanei ed epigoni, perché considerava il possono come
modo per vivere il presente, una cava di materiali di cui servirsi. Ecco perché sceglie di rivisitare
soprattutto il Barocco, le cui strutture a tasselli ben si prestano ad un’operazione di smontaggio e
rimontaggio con criteri nuovi, “antitonali”: per Stravinskij la tonalità era uno dei materiali con cui
voleva liberamente giocare.
Un’ultima svolta avvenne negli anni ’50, dopo la morte di Schonberg: inaspettatamente Stravinskij
si accostò alla dodecafonia, sia pure attraverso le composizioni di Webern → periodo
dodecafonico. Fin dagli anni ’30 il compositore russo aveva intrapreso un cammino verso
l’astrazione, in cui voleva sottomettere la fantasia a leggi ordinate; questo andò di pari passo con
l’adesione alla religione cattolica → ecco dunque l’assonanza con il mondo sonoro di Webern.
Stravinskij effettuò dunque nella sua vita brusche svolte stilistiche; per questo fu accusato di
eclettismo, di ruotare come una banderuola per seguire il mercato musicale. Al di là della mutevole
superficie della sua musica, il compositore ha però sempre seguito lo stesso metodo: prendere
qualcosa di esistente, smontarlo e rimontarlo a modo proprio. Così anche per il teatro, definito
epico: Stravinskij smonta i singoli parametri e li rimonta conferendo a ciascuno un valore vestito
autonomo ed estraniando quindi lo spettatore dalla vicenda.

Un altro compositore russo, anch’egli allievo di Rimskij-Korsakov e collaboratore di Diaghilev, fu


invece pienamente neoclassico: Sergej Prokof’ev (1891-1953). Nella sua musica, la grande
vitalità ritmica e l’amore per le dissonanze si sommano ad una limpida chiarezza formale e ad una
struttura tonale: ecco ad esempio la Prima sinfonia, detta Classica perché in stile haydniano (1917)
ma anche la violenta Suite scita per orchestra (1915). Prokof’ev si stabilì in Unione Sovietica e tra
le composizioni di questo periodo sono noti i balletti Romeo e Giulietta (1938) e Cenerentola
(1945) ma anche la “favola per bambini” Pierino e il lupo (1936), per narratore e orchestra.

Grande compositore novecentesco dell’Europa dell’est è l’ungherese Béla Bartok (1881-1945),


che si dedicò allo studio della musica contadina del suo paese e di quelli vicini → è considerato
uno dei padri dell’etnomusicologia, la disciplina che si occupa dello studio della musica etnica (in
questa stessa esperienza gli fu compagno Zoltàn Kodàly). Tale studio aveva un duplice scopo: da
una parte contribuire alla conoscenza di un patrimonio ricchissimo e molto antico, in grado di
illuminare gli studiosi anche su problemi di natura storica, ma dall’altra rivitalizzare la stessa
musica colta, fornendole stimoli a cui fino ad allora non si era mai attinto. Le sue composizioni sino
alla fine della prima guerra mondiale sono caratterizzate da una ritmica non convenzionale,
percussiva. Dal ’26 si avvicina al Neoclassicismo, ma accoglie solo l’attenzione ai valori formali.
Dal punto di vista armonico, lo studio della musica popolare gli fornì molti sistemi di riferimento
alternativi alla tonalità e a ciò va aggiunta una raffinatissima ricerca timbrica. Nei tardi anni ’30 la
musica di Bartok recuperò sia un tempismo di tipo più tradizionale, sia addirittura le stesse funzioni
armoniche di natura tonale, mentre nel contempo si placò la carica vitalissima dei suoi ritmi (es.
Concerto per orchestra, 1943).

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