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L’oscurità dell’attesa: il Concerto per chitarra e orchestra “Leçons de Ténèbres”

di Angelo Gilardino

di LUIGI ATTADEMO (ludwig@guitart.net)

“Mi ha guidato e fatto camminare in tenebra e non in luce” (Lamentazioni, 3, 2)

Le candele si spengono, una dopo l’altra, facendo posto all’oscurità. Un senso di


caos è tra i presenti. Una candela sola rimane accesa: in essa è riposta la speranza
di salvezza dell’uomo, del cristiano, del fedele. Questa è l’essenza della funzione
Matutina Tenebrarum, l’Ufficio delle Tenebre, in Francia Leçons de Ténèbres,
celebrata, secondo la tradizione, negli ultimi tre giorni della Settimana Santa. Per
questa funzione, durante la quale venivano letti testi dalle Lamentazioni di
Geremia, molti musicisti del passato hanno scritto, da Palestrina e Tallis ai
francesi François Couperin e Michel-Richard De Lalande. Con la fine del Barocco,
la celebrazione e la sacralità dell’evento della rivelazione vengono assorbite
entrambe negli atti e nei sentimenti dell’uomo. Non v’è più posto per la riflessione
sulle tenebre, se non su quelle crepuscolari e ossianiche che vengono dallo Sturm
und Drang e dal primo Romanticismo e che nascono e vivono nell’orizzonte
umano. Ritornare alle Leçons de Ténèbres vuol dire dunque ripensare l’oscurità
come qualcosa di dato, di esterno e di assolutamente invalicabile per la coscienza
dell’uomo. E’ a questo tipo di visione, pensiamo, che si richiama Angelo Gilardino
quando scrive il suo primo concerto per chitarra e orchestra 1 . In esso non c’è
nessun riferimento diretto alle opere del passato. Il riferimento è, al contrario,
all’evento della morte per eccellenza, la morte di Dio, che simbolicamente
significa il momento più buio nella parabola della religiosità.

“Si è allontanata dalla pace l’anima mia” (Lamentazioni, 3, 17)

Da queste stesse pagine 2 avevamo messo in luce come la musica di Gilardino si


fosse incentrata esclusivamente sulla chitarra per una precisa esigenza poetica.
Ora, di fronte all’evoluzione del compositore ormai giunto al quarto concerto per
chitarra e orchestra 3 , la nostra tesi sembra contraddittoria.
E’ importante però non fermarsi a questa indiscutibile constatazione, ma indagare
per quali ragioni il compositore si sia indirizzato verso un organico
extrachitarristico, o, più propriamente, iperchitarristico.
La prima ragione è di carattere espressivo. Dopo aver scritto un concerto per
chitarra e orchestra di chitarre, Gilardino si avvicina alle potenzialità
dell’orchestra come naturale espansione delle possibilità della chitarra. Ciò
avviene attraverso nuove soluzioni compositive, sia nel trattamento dello
strumento solista che dell’orchestra, fondate sul principio per cui la scrittura
chitarristica è l’idioma di riferimento per la scrittura orchestrale. Ciò non vuol
dire che l’orchestra sia trattata in modo tale da ottenere effetti chitarristici; al
contrario, essa assume l’intima connotazione della scrittura chitarristica,
dall’armonia al contrappunto, dalla forma alla struttura diastematica.
In secondo luogo c’è una ragione filosofica. La chitarra, lo abbiamo detto,
rappresenta per il compositore la possibilità di evocare un mondo fatto di ombre, a
cui la sua poetica si ispira 4 . La premessa teorica che fonda questa poetica consiste
nell’eliminare ogni tendenza all’estetizzazione. Non possiamo riferirci
propriamente a una visione estetica del compositore, soprattutto se pensiamo al
significato etimologico di questo termine (aistesis vuol dire infatti sensazione).
Non c’è sensibilità nella musica di Gilardino, ed essa non può essere considerata
una musica del “senso”; c’è però un’interazione con la materia, che non è
trasfigurata (attraverso un’elaborazione compositiva) in sensazione, bensì trascesa
attraverso un salto, un ribaltamento della stessa in incorporeo. E’ per questa
profonda ragione che la musica di Gilardino è una musica di ombre, di evocazione,
di allusione.
In questo sostrato filosofico alberga e vive il sentimento dominante della musica di
Gilardino, quello della melancholia. A questo termine sarebbe opportuno dedicare
un discorso a se stante. Occorre qui almeno ricordare il senso di impossibilità e di
assenza che la melancholia evoca: come l’angelo nell’incisione di Dürer, che pur
avendo le ali appare gravato e terrenamente avvinto dalla sua corporeità, così il
suono della chitarra restituisce una dimensione di incorporeità attraverso qualcosa
che corporeo è, cioè il suono, un suono che immediatamente, dopo aver preso vita,
scompare, lasciando un senso di profonda perdita.

“E’ finita la gioia del nostro cuore: s’è volta in lutto la nostra
danza” (Lamentazioni, 5, 15)

E’ questa ambiguità, vivere l’incorporeità attraverso la corporeità, che spinge


Gilardino a fare questo passo verso il non chitarristico, e a vivere l’estraneità
dell’organico orchestrale. Estraneità che, come si accennava, viene pensata in
termini chitarristici, a partire dal mondo ombroso del suono della chitarra (non a
caso l’ultimo lavoro del compositore si intitola La casa delle ombre).
L’orchestra dunque costituisce il prisma delle sonorità della chitarra. Essa non
viene considerata nelle sue potenzialità espressive, i cui limiti sono stati estesi
dall’evoluzione della musica del Novecento, se non in rapporto alle esigenze di
rifrazione del suono chitarristico. In questa scelta troviamo il primo elemento di
originalità del compositore rispetto al tradizionale trattamento. Il ruolo che
Gilardino affida alla chitarra è unico nella letteratura chitarristica. La chitarra ha
lunghi momenti in cui suona da sola e nel complesso delle 287 battute del primo
movimento solo in 79 essa tace. La scelta di far esporre alla chitarra i temi in
“solo” – cosa che vediamo fare anche da Villa Lobos (il II tema del I movimento,
ad esempio) – è dettata dal fatto che essi sono intrinsecamente legati alla chitarra,
essendone la propagazione più pura ed essenziale, il punto d’equilibrio fra la
materia (il suono) e la forma.
Questa centralità della chitarra si osserva dal principio, quando nell’esposizione
del primo tema la breve introduzione (Andante calmo, quasi Adagio) affidata alle
viole (es. 1) e al flauto (es. 2)

es. 1
es. 2

si svela gemmata dalla scomposizione del primo tema esposto subito dopo dalla
chitarra (es. 3).

Ulteriore elemento di differenziazione tra la musica di Gilardino e gli esempi della


letteratura a cui ci riferiamo, sta nella preoccupazione di rendere intelligibile la
tessitura chitarristica (cioè anche chiaramente percepibile dal punto di vista
sonoro), il che fa prediligere al compositore l’uso di lunghi episodi di “solo”
chitarristico per le sezioni in cui sono enunciati e ripresi i temi del concerto e
l’induce a riservare le parti concertate allo sviluppo.
A partire dall’esposizione del secondo tema incontriamo due elementi compositivi
molto importanti e simbolicamente rappresentativi della poetica dell’autore: la
compresenza di un ritmo puntato, ovvero l’elemento di gravità, e di un elemento di
fluidità, equoreo, che prende vita attraverso la terzina di crome. Entrambi gli
elementi, ora affiancati nel secondo tema (mis. 75-82), ora smembrati e affidati
con differenti funzioni alla chitarra o all’orchestra, definiscono insieme alla
terzina, più perentoria, dell’arpeggio del primo tema e alla melodia, il nucleo
essenziale del materiale utilizzato dal compositore per sviluppare questo primo
movimento, classico nella sua forma, con due temi differenti nel carattere, uno
sviluppo articolato affidato a dialoghi orchestrali ricchi di contrappunto e a una
ripresa dove i due temi sono rielaborati attraverso un contrappunto distribuito tra
orchestra e solista.
Di questi processi trasmutativi troviamo traccia, ancora, nel dialogo fra oboe e
chitarra (mis. 211-218), nel quale la meccanica reiterazione della parte
chitarristica attribuisce un significato di disperata solitudine al canto, oppure nelle
accumulazioni di energia (mis. 228-242), dove l’ossessività della pulsazione
ritmica viene spinta all’estremo limite di sostenibilità, raggiunto il quale si
dissolve di colpo, proprio come un fantasma, introducendo in modo netto la ripresa
del I tema.
Nel movimento lento, dove convivono percezione allucinatoria e forza evocativa,
domina una fissità che ricorda il secondo movimento del Concerto in sol di Ravel,
con la differenza che la musica di Gilardino è circondata dall’oscurità. Anche in
questo contesto compositivo gli elementi essenziali hanno a che fare con la terra e
con l’acqua. Gli accordi arpeggiati omoritmici fanno da sfondo alla melodia e ne
costituiscono una rifrazione acquatica. La struttura diastematica mutuata dalla
melodia del solo chitarristico regola la seconda sezione – Un poco più mosso – la
cui costruzione è sorretta da un fluire di arpeggi, che altro non sono se non
l’espansione cinetica degli accordi dell’incipit

e di contrappunti affidati ai singoli strumenti dell’orchestra.


Il terzo e ultimo movimento è costruttivamente il più nuovo e pieno di forza, una
forza che acquista grazie al suo rigoroso sviluppo formale. In esso, la luce (o per
meglio dire, l’ombra) chitarristica viene scomposta attraverso il prisma
dell’orchestra, non solo in senso timbrico, come avveniva nel primo movimento,
ma anche formale. Difatti, ogni elemento del primo solo della chitarra fa da
materiale per i contrappunti severi e netti affidati all’orchestra, la cui meccanicità
è equilibrata da un senso di profondità spaziale che genera smarrimento, quasi
un’alterazione della percezione, uno stato di trance o esaltazione in cui il logos
prende il sopravvento sulla coscienza, in una sorta di glossolalia musicale i cui
costituenti risultano essere un tutto organico.
Tali costituenti sono riducibili a poche cellule, la cui spiccata definizione ritmica
ne fa degli elementi fortemente espressivi anche in senso coloristico grazie alle
mescolanze ottenute tramite l’elaborazione contrappuntistica.
Se infatti nel “solo” della chitarra all’inizio del movimento troviamo questi
elementi disposti in senso lineare per giustapposizione - in particolare,
l’associazione del ritmo puntato con quello omoritmico in crome (A) o in quartina
di semicrome (B1),

e le espansioni delle cellule (B2) che generano a loro volta nuovi elementi (C),
– già dal primo intervento dell’orchestra il trattamento del materiale, prima per
contrasti timbrici (ogni singolo elemento viene affidato a uno strumento diverso, a
partire dai violini - es. 4), poi contrappuntistico, dà vita a un nuovo magma sonoro
sul solido fluire della pulsazione ritmica (es. 5).

es. 4

es. 5

Nel prosieguo del movimento assistiamo infine a una sorta di ricapitolazione, dove
il compositore rielabora elementi e temi del primo tempo, seguendo anche qui la
tecnica di giustapposizione che regola perfettamente tutta l’architettura di questo
finale.

“Perché si lamenta l’uomo, l’uomo che vive malgrado i suoi


peccati?” (Lamentazioni, 3, 39)

Risulta evidente la potenza espressiva di questa costruzione che, attraverso i


mutamenti degli elementi semplici, consegna l’ascoltatore a una condizione di
inquietudine profonda. Quest’ultima non è il semplice risultato della forte
drammatizzazione, ma è strettamente connessa con l’idea, cara al compositore,
dell’impossibilità di riferirsi al mondo in termini immediati. Tutto viene così
percepito attraverso uno stato di allucinazione, di “divina mania” (su cui grava
ancor più pesantemente il fluire regolare del tempo), che si rispecchia sulla realtà
percepita ma che trae origine nella dimensione interiore dell’uomo. Questo è il
peccato, l’irrimediabile scissione dovuta all’abbandono di un’unità che
simbolicamente il sopraggiungere delle tenebre sancisce, ciò che l’uomo continua
a reiterare e di cui le Leçons de Ténèbres sono una rituale rammemorazione.

“Non ha meritato la Luce, ha meritato la pace” rispose Levi con voce mesta. 5

Note
1 Pubblicato dalla Bèrben nel 1998, ma composto dall’autore nel 1996.
2 Cfr. Le ombre di un’ombra, in “Guitart”, n.° IV, anno I, pag. 43.
3 Dopo il concerto per chitarra sola, Gilardino ha scritto un concerto per
mandolino chitarra e orchestra, un concerto per quattro chitarre e orchestra e un
concerto per flauto chitarra e orchestra d’archi.
4 “Cerco di rendere presenti le ombre della memoria. La chitarra è la voce
ideale, per un mondo di ombre, non di corpi o di figure”. Intervista ad Angelo
Gilardino di Enrico De Maria, pubblicata nel volume unico La scuola chitarristica
vercellese, Vercelli, 1990.
5 Michail Bulgakov, Il maestro e Margherita, Newton Compton,Roma 1990,
cap. XXIX, p. 319.

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