Sei sulla pagina 1di 5

Il contrabbasso e il linguaggio del Jazz

di
Maurizio Franco

In relazione alle caratteristiche del jazz, ed all’importanza che viene assegnata all’interplay tra i
musicisti ed alle dinamiche interne ai gruppi, è evidente che il ruolo del contrabbasso si configura
come centrale nella dimensione linguistica di questa musica. Una centralità acquisita però nel corso
del tempo, perché la sua funzione era inizialmente di mero complemento alla parte ritmico-
armonica, spesso sostituito in questo compito dal basso tuba e presente soprattutto nei gruppi di rag
e nelle orchestre da ballo. Anche negli anni ’20, molte incisioni storiche non lo contemplano e solo
con il trascorrere degli anni, ed i mutamenti intervenuti nella dimensione espressiva del jazz, questo
strumento ha sviluppato la componente melodica e quella solistica, che lo hanno fatto diventare un
membro quasi imprescindibile degli organici jazzistici. Anzi, quello che vanta la maggior presenza
assoluta nelle formazioni jazz a partire dagli anni ’30. Nonostante questa rilevanza quantitativa, tra
gli strumenti di primo piano del

jazz il contrabbasso è quello che ha trovato più tardi un autentico spazio come solista, al punto che
prima dell’arrivo sulla scena di un musicista dalle concezioni rivoluzionarie e dalla tecnica
stupefacente quale Jimmy Blanton, si contano sulle dita di una mano gli interventi solistici dello
strumento documentati su disco. Un cammino difficile che, del resto, il contrabbasso ha vissuto
anche nel campo della musica eurocolta, nonostante sia uno strumento dalla lunga storia e, come
tutti gli strumenti ad arco, dall’origine incerta. La documentazione dell’esistenza degli “archi” è
infatti legata non a testi letterari, bensì agli affreschi, la sola testimonianza della loro presenza e
delle loro fogge ed in tal senso sappiamo che un suo antenato di nome violone è già utilizzato nel
1400 ed il secolo successivo assume sostanzialmente la forma ed il nome con cui oggi lo
conosciamo. Si tratta di uno strumento a corde di registro grave, da suonare in piedi che diventerà il
moderno contrabbasso nel 1778, con l’invenzione delle nuove “chiavi”. Da li in avanti il suo
compito sarà quello di suonare le note gravi dell’armonia, generalmente le fondamentali, e solo il
‘900 lo porterà ad acquisire una piena dimensione espressiva. Tornando al jazz, la sua complessa
funzione di carattere armonico, ritmico, ma anche timbrico, è analizzabile sia in relazione al
differente tipo di interplay con la batteria e con gli altri strumenti del gruppo, sia nella dimensione
solistica e dell’improvvisazione. Inoltre, a differenza di quanto storicamente avvenuto nel mondo
classico, il ritmo del jazz non richiede l’uso dell’arco, con la sua cavata troppa morbida, ma il ben
più percussivo e ritmico pizzicato della mano destra, che proprio in ambito jazzistico ha trovato la

sua ragione d’essere. In riferimento alle diverse epoche stilistiche del jazz, negli anni ’20,
all’interno degli stili New Orleans e Dixieland, i bassisti usavano una scansione ritmica in due,
simile a quella del basso tuba ed accentata sul tempo forte. Dal punto di vista tecnico, prevaleva
l’uso dello slap, consistente nel far sbattere le corde contro il manico dello strumento per ottenere
un effetto ritmico percussivo, che andava però a scapito della risonanza del suono. La vera diversità
rispetto al contrabbasso “classico”, ed anche a quello del jazz più arcaico, è l’uso del “pizzicato”,
che consiste nell’utilizzo delle dita anziché dell’archetto per emettere il suono. Il primo assolo
documentato su disco risale al 1928 ed ha come protagonista uno dei migliori strumentisti
dell’epoca: Bill Johnson, anche se é ben più noto, nella storia più antica dello strumento, il nome di
Pops Foster, figura diventata quasi leggendaria. Altri contrabbassisti affermatisi negli anni ’20, già
in possesso di una tecnica che li portava a suonare con un maggior legato rispetto agli usi
dell’epoca, sono stati John Lindsay, pedina importante dei Red Hot Peppers di Jelly Roll Morton,
Wellman Braud, colonna dell’orchestra di Duke Ellington sino alla fine degli anni ’30, ed il meno
riconosciuto Steve Brown, che utilizzava un sorprendente legato ed uno swingante e moderno
incedere all’interno dell’orchestra di Paul Whiteman. Il grande cambiamento nel ruolo dello
strumento avviene però nel corso degli anni ’30 e si consolida nel decennio successivo, interessando
lo sviluppo del linguaggio jazzistico tra gli stili Swing e Bebop. I mutamenti sostanziali avvenuti in
questo lasso di tempo sono molteplici ed investono problematiche

relazionali, sonore e ritmico-armoniche, oltre che la stessa tecnica strumentistica. In primo luogo
occorre considerare che con la fine degli anni ’20 il jazz era entrato nella sua fase moderna, con il
conseguente sviluppo dell’improvvisazione ed il cambiamento del ruolo del collettivo, pensato
maggiormente in funzione del solista. Questo mutamento nel pensiero espressivo trovò molto
congeniale la semplicità delle forme song, che sostituirono i complessi brani multitematici del
primo jazz, derivati dal ragtime, spesso polifonici e ben poco adatti per la crescita degli aspetti
improvvisativi. Inoltre, le forme song si muovevano su un tessuto di accordi più ricco e fluido, alla
base della maggiore creatività che il contrabbassista dava alla libera interpretazione delle sue linee,
sempre più integrate con quelle della batteria, strumento ormai completo in tutti i suoi aspetti e
quindi ben distinguibile dalle percussioni intese in senso lato. Batteria che con l’uso costante della
grancassa quale perno ritmico della musica, suonata su ogni quarto in maniera uniforme, e con la
dislocazione timbrica del ritmo prima sui tom e sul rullante, poi sui piatti sospesi e su quelli a
pedale, realizzava una scansione con cui il contrabbassista doveva integrarsi. Appoggiandosi sulla
grancassa, il bassista non solo si rafforzava la potenza del beat, ma si poneva già come ulteriore
sostegno della musica, mentre con la dislocazione armonica del ritmo diventava un punto di
riferimento importante e imprescindibile, rivestendo un ruolo che con il tempo si sarebbe
ampiamente consolidato. In sostanza, è in questo periodo che prende forma quello il cosiddetto
walkin’bass, termine con il quale si intende la stesura orizzontale degli accordi e

che si basa sullo stile personale del musicista; una procedura che si attuò con un sempre maggiore
swing, dovuto anche al passaggio dal suono “staccato” allo “staccato-legato” e, infine, al vero e
proprio “legato” jazzistico. Per quasi tutti gli anni ’30 lo strumento venne infatti suonato con poca
risonanza, nonostante i primi veri esempi di walkin’ bass siano già avvertibili nell’opera di Walter
Page, una delle colonne portanti della modernissima sezione ritmica dell’orchestra di Count Basie,
anche se il primo assolo di carattere “moderno” sarà opera di Israel Crosby. Non mancavano
nemmeno i bassisti leader, come John Kirby, o quelli che sapevano utilizzare l’arco con grande
swing, come Slam Stewart, la cui caratteristica era quella di costruire gli assoli doppiando con la
voce, all’ottava superiore, le linee tracciate dal basso suonato con l’archetto; e c’erano anche coloro,
per esempio Red Callender, che conoscevano a fondo anche il basso tuba o riunivano
sincreticamente gli stili Swing e Dixieland, come fece Bob Haggart. Una figura di musicista per
musicisti fu invece Milt Hinton, che ha attraversato decenni di storia jazzistica ed è stato il bassista
forse più inciso di sempre. Il grande sviluppo nell’uso dello strumento arriva però con Jimmy
Blanton, passato come una meteora nel mondo del jazz, ma in grado di lasciare un segno profondo
sia per quanto concerne la tecnica strumentale, sia per lo sviluppo del linguaggio solistico, che
proprio grazie a lui fece un enorme salto di qualità colmando il gap con gli altri strumenti e
proiettando il contrabbasso nella piena modernità. Nonostante la sua presenza in scena non superi il
trienno 1939-1942, anno nel quale morì soltanto ventiquattrenne, il suo lascito è imprescindibile e

tocca diversi ambiti di intervento, anche perché ebbe la fortuna di far parte dell’orchestra di Duke
Ellington, che ne valorizzò al massimo il talento. Blanton poteva duettare con il pianoforte del Duca
con la stessa logica con cui Scott La Faro interagirà con quello di Bill Evans, oppure improvvisare
con la fluidità di un sax tenore (utilizzando anche l’archetto) e sviluppare un gioco di sostegno
estremamente legato e dalla possente sonorità. Quest’ultimo aspetto era dovuto alla sua innovazione
nella cavata, determinata dal fatto di usare più falange per pizzicare la corda ponendo il dito in
diagonale sulla stessa, quindi afruttando quasi il triplo di superficie in più rispetto alla normale
impostazione. Ciò gli consentiva di ottenere una notevole intensità e produrre suoni legati e rotondi,
come quelli che ritroveremo in un altro grande maestro del moderno contrabbasso: Ray Brown.
Dal punto di vista del suono e della produzione di un 4/4 maestoso e swingante, Brown resta ancora
oggi un modello insuperato, mentre sul piano solistico fu un virtuoso di assoluta agilità, fantasioso
ed in grado di muoversi magistralmente nelle strutture armoniche del bebop, oltre che il primo a
suonare un brano per solo contrabbasso. Più percussivo nel sound e particolarmente attento
all’interplay era invece Oscar Pettiford, tra i primi ad utilizzare con competenza anche il
violoncello, che possedeva agilità di tratto, rilevanti doti di invenzione solistica ed un senso della
forma ammirevoli. Brown e Pettiford restano gli alfieri principali del contrabbassismo bop e,
insieme a Blanton ed a Charles Mingus (di cui scriveremo più avanti), i primi ad assegnare un
ruolo strutturale allo strumento nell’ambito delle composizioni. Se Blanton verrà spesso inserito da

Ellington in posizioni preminenti, Pettiford realizzerà nel 1944 For Bass Faces Only, mentre Brown
nel 1946 inciderà con l’orchestra di Dizzy Gillespie One Bass Hit e Mingus comporrà nello stesso
periodo Shuffle Bass Boogie e nel 1947, con l’orchestra di Lionel Hampton, un vero e proprio hit
quale Mingus Fingers. In questi brani lo strumento diventa il fulcro della musica, il cuore stesso
della composizione e rafforza quindi anche la sua immagine solistica. Il bassismo di scuola bop
annovera anche strumentisti quali Tommy Potter, Curley Russell e, nell’ambito della linea cool di
Lennie Tristano, il metronomico Arnold Fiskin, che suonava con chiarezza di tratto e levigatezza
sonora. Sono però gli anni ’50 a segnare uno sviluppo ulteriore nell’uso dello strumento, con
l’arrivo sulla scena di personalità rilevanti e la nascita di nuovi concetti nell’uso dello strumento
all’interno del gruppo. Nel cool jazz tristaniano il contrabbasso doveva suonare quasi senza accenti
e con una fluidità ritmica tale da farne il vero baricentro del gruppo, a cui doveva indicare con
chiarezza e semplicità il percorso armonico di base. Una parte di questa concezione la ritroveremo
anche nelle proposte jazzistiche nate in California, nella West Coast, in bassisti come Carson
Smith, Leroy Vinnegar e Curtis Counce, mentre una figurazione che ritroviamo in molto jazz di
quell’area consisteva nel suonare progressioni discendenti raddoppiando ogni nota e creando un
particolare dinamismo ritmico-timbrico. Nel Modern jazz Quartet si affermò invece la figura di
Percy Heath, musicista di assoluta preparazione, dall’impostazione impeccabile e dalle linee di
grande pulizia melodico-ritmica, mentre altri superbi bassisti di impronta mainstream sono stati

Chubby Jackson, George Duvivier ed il formidabile Red Mitchell. Alla metà del decennio si
configurano nuove dinamiche tra contrabbasso e batteria, che creano uno swing di assoluto relax.
Artefice massimo di questa linea fu Paul Chambers, che oltre alla straordinarie doti di partnership
con i batteristi (in particolare con Philly Joe Jones e Jimmy Cobb), fu un solista di assoluto livello
ed un maestro nell’uso dell’archetto, con il quale costruiva assoli di grande agilità. Il suo modo di
suonare e le sue frasi solistiche costituiscono un corpus importante di patterns entrate nel lessico di
tutti i contrabbassisti. Oltre a Chambers, altri esponenti di primo piano della linea Hard-Bop sono
stati Doug Watkins, dotato di una grande fluidità, Sam Jones, dal suono scuro e dal timing
granitico, Wilbur Ware, tra i primi bassisti del periodo a cercare alternative al tradizionale walkin’
uscendo dalle rigide progressioni armoniche derivate dalla tradizione bop per creare linee dal
maggior respiro interno. Su quella strada si sono mossi anche musicisti polivalenti come Reggie
Workman e Art Davis, a loro agio in ogni situazione espressiva. Un mutamento profondo di
tendenza avviene però con le nuove logiche dell’interplay jazzistico che maturano nella seconda
metà degli anni ’50, aprendo una nuova era anche per il contrabbasso. Si tratta dei cambiamenti
avvenuti nel ruolo dei musicisti all’interno dei gruppi, che aprirono la musica a nuove dimensioni
espressive, compresa l’improvvisazione collettiva, spesso liberando lo strumento dal suo ruolo
interno alla sezione ritmica per lasciarlo libero di contrappuntare, rispondere, dialogare al più alto
livello con gli altri musicisti, come nel caso di Scott La Faro, artefice del cambiamento di

concezione che il pianista Bill Evans porterà nell’ambito del trio. La Faro è stato un musicista
dirompente, scomparso a soli venticinque anni, che ha proseguito con convinzione sulla strada
aperta da Blanton e da Mingus. Con meno radicalismo, ma con un pronunciato gusto melodico,
anche Charlie Haden ha sviluppato un diverso interplay (per quanto dal timing assolutamente
tradizionale) all’interno del quartetto di Ornette Coleman, mentre un musicista di eccezionale
competenza è Richard Davis, capace di muoversi sia con la spregiudicatezza di La Faro, sia con
grande naturalezza nei contesti formali più aperti, ma anche di fornire un superbo walkin’ nelle
situazioni più strutturate. I continuatori di questa linea sono stati Eddie Gomez ed il cecoslovacco
Miroslav Vitous, strumentisti eccelsi, poi Gary Peacock, Steve Swallow (diventato poi uno dei
massimi esponenti del basso elettrico), che nel loro insieme hanno dato corso ad una linea
espressiva che oggi è diventata quasi la norma in moltissime formazioni. Altri esponenti del
periodo, difficilmente classificabili, sono stati David Izenzon e Buell Neidlinger, di formazione
accademica, poi Cecil McBee, e Bob Cranshaw e, in contesti più radicali, Barre Phillips. Negli
anni ’60 la modalizzazione dell’armonia offrì nuovi spazi anche alla batteria, che non fu più
costretta ad esplicitare sempre il beat, ma poteva disegnare cicli ritmici dalle figurazioni complesse
e articolate che si integrano con quelle dei solisti. In questi casi il ruolo del contrabbasso diventava
quello di perno assoluto intorno al quale ruotava la musica, spesso centrato sull’uso di pedali che
fungevano da timone per guidare i percorsi dell’improvvisazione. E’ stato il caso di Jimmy

Garrison nello storico quartetto di John Coltrane e quello di Ron Carter nell’altrettanto importante
quintetto di Miles Davis, anche se nel gruppo davisiano quest’ultimo rivestiva una posizione più
articolata. Carter è il prototipo del bassista contemporaneo, capace di muoversi con facilità in
qualunque situazione, spesso determinando la direzione della musica, ed ancora oggi rappresenta un
punto di riferimento imprescindibile per chi suona lo strumento. Anche nel percorso dell’area più
radicale del jazz troviamo personalità di rilievo, tra cui Henry Grimes, Sirone, Alan Silva,
Malachi Favors dell’Art Ensemble Of Chicago, Fred Hopkins, dal suono poderoso e dalle grandi
doti di interplay, sino a William Parker, che ha raccolto questa eredità e l’ha portata all’interno
della scena contemporanea. Un viaggio nel contrabbasso che ha visto fiorire innumerevoli nuove
figure nel cammino che separa gli anni ’60 dai nostri giorni. Impossibile fare un elenco anche solo
parzialmente esaustivo; basti ricordare Bob Hurst, superbo bassista affermatosi negli anni ’80,
Charnett Moffett, Christian McBride, Scott Colley, Peter Washington e John Patitucci, per
fare soltanto alcuni, significativi nomi. Un discorso a parte meritano i già citati Charles Mingus e
Charlie Haden, entrambi leader oltre che strumentisti. Con il primo ci troviamo di fronte ad una
delle massime personalità dell’intero ‘900 musicale, che non solo è stato un grandissimo
compositore, il cui lascito comprende molte pagine meravigliose e concetti del “fare musica”
tuttora all’avanguardia, ma probabilmente si può considerare anche il contrabbassista più completo
dell’intera storia del jazz. Dotato di una tecnica eccelsa, suonava con dinamiche sonore che

ricordavano in parte quelle dei bassisti anni ’30, privilegiando cioè il suono percussivo e non troppo
risonante, portava lo strumentoal centro delle composizioni facendolo diventare il regista della sua
musica. Nessuno ha raggiunto i livelli di interplay sviluppati da Mingus, il cui strumento assumeva
una funzione solistica di enorme rilevanza, ma sempre restando all’interno del contesto collettivo
della musica. Haden è uno dei bassisti più melodici in assoluto ed unisce questa qualità ad una
superlativa bellezza sonora, basata su una pastosa rotondità del sound. Come leader ha firmato
pagine importanti soprattutto all’interno della celeberrima Liberation Music Orchestra,
distinguendosi per il recupero di canzoni di lotta della guerra civile spagnola e del mondo latino
americano. Accanto a questo percorso, c’é anche quello del contrabbasso europeo, non certo privo
di grandi talenti. Basti ricordare, per gli anni ’30, il sottovalutato ruolo di Luis Vola con Django
Reinhardt nel Quintette de l’Hot Club de France e, restando in terra transalpina, alla classe
superiore di Pierre Michelot, bassista di scuola bop e Hard-Bop che è stato partner di tutti i grandi
solisti americani di passaggio in Francia negli anni ’50 e ‘60. Eccezionale sul piano tecnico e
poetico fu Jean-François Jenny Clark, il cui ruolo nella scena continentale degli ultimi
quarant’anni si può definire assolutamente centrale e determinante per la definizione di una linea
europea dello strumento. Grazie alla sua eccezionale competenza, questo musicista poteva passare
dal jazz alla tradizione classico-contemporanea, che conosceva altrettanto a fondo. Sempre in
Francia, una figura di rilievo nel doppio ruolo di bassista e compositore è Henry Texier, mentre di

indiscutibile importanza è stata la scuola scandinava che, per fare soltanto due nomi, annovera il
super virtuoso danese Niels Pedersen, di scuola mainstream, ed il dialogico svedese Palle
Danielsson, divenuto celebre per la partnership con Keith Jarrett. Di notevole rilievo anche i
bassisti cecoslovacchi, che oltre a Vitous hanno in George Mraz un musicista dal suono originale e
dalla solida conoscenza della tradizione hard-bop. Di scuola tristaniana è l’inglese Peter Ind mentre
un discorso a parte merita il suo connazionale Dave Holland, da anni uno dei leader di riferimento
della scena mondiale e, per certi aspetti, colui che ha raccolto l’eredità di Charles Mingus.
Strumentista di altissimo valore, con una carriera quasi completamente “americana”, Holland si è
mosso in situazioni molto avanzate nel corso degli anni ’70 per poi realizzare una musica nella
quale si riuniscono diversi elementi della storia contemporanea dello strumento. Tra i nomi di
rilievo della scena più radicale europea, occorre citare almeno il tedesco Peter Kowald, l’inglese
Burry Guy, leader della London Jazz Composers Orchestra, e la belga Joelle Leandre, musicista
che ha fatto della ricerca sonora il suo ambito di intervento privilegiato. In Italia la storia del basso
jazz è cresciuta esponenzialmente con il passare degli anni; se agli inizi c’erano Gorni Kramer e
Franco Cerri, che suonavano il contrabbasso come secondo strumento, negli anni ’50 la scena si è
arricchita con l’arrivo di Roberto Nicolosi e poi di Giorgio Azzolini e Giovanni Tommaso, due
pilastri della storia nazionale dello strumento. Una scena che si è poi arricchita grazie a Bruno
Provetto, Palloni Salonia e soprattutto in una figura centrale quale Bruno Tommaso, attivo in

contesti più radicali. Poi, negli anni ’70, accanto a musicisti dal vastissimo repertorio quali Giorgio
Rosciglione, Luciano Milanese e Marco Ratti, é fiorita una generazione di bassisit che oggi sono
ai vertici della scena nazionale: Furio Di Castri, Paolino Dalla Porta, Piero Leveratto e Marco
Vaggi, a cui nel decennio successivo si sono aggiunti Paolo Damiani, Marco Micheli, Riccardo
Fioravanti, Rosario Bonaccorso, Attilio Zanchi, Enzo Pietropaoli, poi Giovanni Maier, sino a
giungere alla ricchezza della situazione contemporanea, nella quale operano molti bassisti di rilievo
appartenenti alle ultime leve del jazz italiano, tra cui Gianluca Renzi, Luca Bulgarelli, Pietro
Ciancaglini, Giovanni Bassi.

Maurizio Franco

Potrebbero piacerti anche