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VITTORIO GELMETTI
Empatie sinestetiche di sillogismi sintetici

“…Guarda alle macchie dei muri, alle ceneri del fuoco o alle nuvole, al fango o a posti
simili, in cui, se li consideri bene puoi trovare realmente idee insolite…
perché attraverso le cose, indistintamente la mente è stimolata a nuove invenzioni.”
(Leonardo Da Vinci)

Vittorio Gelmetti nasce a Milano il 25 aprile del 1926. Trascorre l’infanzia presso i nonni a
Verona. L’assidua frequentazione dell’Arena gli consente di affinare la propria sensibilità
musicale attraverso l’assimilazione, seppur superficiale, del patrimonio operistico
dell’Ottocento (Meyerbeer, Donizetti, Verdi, Bellini, Bizet e, tra gli altri, Puccini).
La sua famiglia si trasferisce a Roma, quando è ancora in età adolescenziale.
Solo a ventiquattro anni sceglie di intraprendere la carriera musicale, basando inizialmente
l’apprendistato più sulle capacità istintive di ascolto che sulla regolarità degli studi. La
scelta della formazione da autodidatta (comune ad altri musicisti, tra cui Erik Satie e
Salvatore Sciarrino) lo induce, comunque, a prediligere modelli impegnativi, quali
Webern, Bartok, Schoenberg e Stravinskij.
“Nonostante molti sostengano che l’essenza della musica sia nel testo scritto, io
continuo a pensare che essa sia fatta per essere ascoltata. Tutto il resto viene
dopo:
tutte le analisi, tutte le ipotesi, tutto ciò che c’è dentro, tutto ciò … deve venire
dopo.”
Ad ogni modo consegue il diploma di compimento inferiore di pianoforte e, nel 1959,
frequenta un corso di direzione d’orchestra presso l’Accademia Chigiana di Siena.
“Per averla praticata sconsiglio vivamente la via dell’autodidattismo e per due
motivi ben precisi : in primo luogo per la diffidenza che essa ingenera negli altri, e,
in secondo luogo, per la costante insicurezza nei confronti della conoscenza
musicale, una preoccupazione di non saperne mai a sufficienza. Essa viene
generalmente esorcizzata da un diploma, un attestato, che sono delle vere e
proprie patenti d’esercizio. Naturalmente tutto questo ha anche risvolti positivi
poiché ti spinge ad approfondire i problemi, a sviscerarli con una grande tensione
verso una irraggiungibile esaustione.”
I suoi primi lavori si avvalgono dei mezzi tradizionali : “Divertimento” (1954, per archi e
pianoforte), “Sinfonia” (1957, per archi, ottoni e percussioni), “4 Poesie di Garcia Lorca”
(1957, per voce e orchestra), “Musica per strumenti ad arco” (1957).
Dalla seconda metà degli anni Cinquanta Gelmetti subisce le fascinazioni dell’elettronica
ed il ‘bacillum modernista’ lo conduce dapprima presso la Discoteca di Stato e, in seguito,
nello Studio di Fonologia e Laboratorio di Elettroacustica dell’Istituto Superiore delle Poste
e Telecomunicazioni, dove nel 1963 realizza la seminale “Treni d’onda a modulazione
d’intensità”.
“Gelmetti negli anni 60 è musica elettronica. Musica sintetica come direbbero i
futuristi.
Musica fatta con i propri mezzi. Home music.” (Giuseppe Chiari)
“Misure I” (1958), “2 Studi” (1961), “Tensioni” (1961) e “Modulazioni per Michelangiolo”
(1964) percorrono gli ardui sentieri del monolitismo elettronico senza mai farsi tentare da
vacue ipnagogie.
“La caduta delle ‘regole per fare musica’, sino a poco tempo fa ritenute normative e
vincolanti, ha prodotto una vertigine di libertà, che si mostra con una
fantasmagorica quantità di indirizzi e sorprendenti risultati, anche se tali risultati, o
almeno gran parte di essi, hanno vita breve o brevissima”.
A Firenze, nello studio S2FM (fondato da Pietro Grossi), compone “Nous irons à Tahiti”
(ispirato e ondivago collage per nastro magnetico) e “Intersezioni II e III in memoria di
Edgard Varèse”, entrambe nel 1965.
Contemporaneamente, a partire dal 1961, inizia a dedicarsi alla stesura di ‘musica
applicata’, cioè musica per spettacoli teatrali, televisivi e radiofonici e colonne sonore.
Nel 1969, a Varsavia, nello Studio Sperimentale della Radio Polacca, porta a termine
“L’opera abbandonata tace e volge la sua cavità verso l’esterno”, apice e suggello del
cosiddetto ‘periodo elettronico’.
“L’appropriazione del già esistente e l’inserzione del preesistente in un contesto
inconsueto, il significato ‘secondo’ che assume il preesistente se inserito in un
contesto desueto, sono le determinazioni che si trovano alla base di una lunga
attività, che potrei definire la mia seconda maniera.”
D’ora in avanti, senza ripudiare il nastro magnetico, pungolo per coscienze assopite,
Gelmetti intravede nell’utilizzo paritetico degli strumenti tradizionali e della tecnica della
“musica fabbricata con la musica” l’esaltante possibilità di osmosi tra memoria e cultura,
tra percezione e comunicabilità.
Nascono così “Organum Quadruplum” (1967, per organo coro e nastro magnetico), “La
descrittione del Gran Paese” (1968, per soprano, nastro magnetico, strumenti e due juke
box), “Impromptu” (1972, per pianoforte e organo elettrico), “Karawane” (1972, per voci,
coro misto, flauto, organo, nastro magnetico, oggetti e pubblico), “Quand Memè” (1973,
per soprano, percussioni e organo), “Alzare le gru ad alta voce” (1976, per voce femminile,
flauto, violino, pianoforte, percussioni e sintetizzatore analogico), “Eine Kleine K Musik”
(1979, per piano e nastro magnetico, eseguito nell’ambito del ventitreesimo “Autunno di
Varsavia” e, successivamente, eletto manifesto-tributo della contemporaneità mozartiana).
“Acquisire coscienza che oggi si lavora con una pluralità di stereotipi, di cui
nessuno è più determinante di altri, ci sembra la soluzione più coerente alla
situazione della cultura, e non soltanto della cultura, di oggi.(…)Di questa
complessa situazione soltanto un’area ristretta della musica contemporanea si è
resa conto, facendo definitivamente saltare le barriere tra suono e rumore, tra
strumento ed oggetto, dichiarando decadute tutte le distinzioni di genere, ogni
differenziazione nobiliare.”
Gli anni Ottanta sanciscono un certo ritorno alle soluzioni ‘acustiche’, impudicamente
memori delle esperienze trascorse. Gelmetti compone “That is” (1980, per flauti e
percussioni), “Apocryphe” (1980, per chitarra e piccola orchestra), “Marta” (1981, per
percussioni e nastro magnetico), “Apocryphe, quaderno secondo” (1983, per pianoforte e
ottoni, commissionatagli da ‘Nuova Consonanza’ per l’ottantesimo compleanno di
Goffredo Petrassi), “Canzona” (1987, per ottoni), “Fisa” (1989, per fisarmonica e nastro
magnetico), “Apocrifo, ovvero…” (1988, opera in due atti si testi di Sarenco e Eugenio
Miccini).
“In sostanza questa mia attività (le musiche applicate) è divenuta una sorta di
esercitazione, un banco di prova per collaudare materiali che poi mi serviranno
nelle mie composizioni.”
Senza quasi mai smorzare l’ardore stilistico, Vittorio Gelmetti durante la sua carriera, ha
realizzato circa 30 opere audiovisive (escludendo l’enumerazione delle musiche per il
teatro e per spettacoli radiofonici) : 6 lavori per la televisione , 4 per cortometraggi, 3 per
documentari e ben 17 colonne sonore per lungometraggi propriamente cinematografici
(ottenendo nel 1985 il premio SIAE come colonna sonora dell’anno per “100 giorni a
Palermo” di Giuseppe Ferrara).
L’accoppiamento del suono, e del rumore, con il ‘visivo’ è il ponte nodale per ogni
possibile riflessione e per ogni possibile ipotesi. Ho spesso affermato che il cinema
non ha bisogno di ‘musica’ ma di ‘sonoro’. E, dunque, ciò porta a considerare la
musica a sé stante, come organismo autonomo ed autosufficiente, come la forma
più estranea possibile al processo di formazione del prodotto visivo. Ma ciò non è
un assioma ed è, spesso, contraddetto dall’uso, talvolta fatto con grande successo,
di musiche ‘preesistenti’ che appartengono alla cultura musicale acquisita. Vi sono
casi in cui l’astrazione musicale, l’emozionalità, il rigore espressivo e formale, il
colore timbrico riescono a dare alla vicenda visiva uno spessore altrimenti non
raggiungibile. E’ comunque ovvio che la musica, in tali casi, e non solo in quelli,
riesce a trasmettere emozioni che né il rumore, né la parola, né l’immagine possono
comunicare.”
Accanto all’attività di compositore, Gelmetti svolge, pure, una buona attività critica :
collabora con articoli ed interventi alle riviste “Marcatre”, “Film Critica”, “Verona Voce” (che
pubblica un suo curioso pezzo denigratorio contro il celeberrimo trio, “Tre Gladiatenori a
Caracalla” , con la firma di Arnoldo Belmonte, vale a dire la traduzione italiana di Arnold
Shoenberg), e “Cinema Nuovo”; realizza per la RAI il ciclo di educazione musicale “Tutto è
musica” (da cui viene pubblicato l’omonimo libro); riceve l’incarico di docente al Centro
Sperimentale di Cinematografia in Roma (ora Scuola Nazionale di Cinema), partecipando,
così, a numerose manifestazioni internazionali.
Nel 1990, durante il festival “900 Musica a Trento, viene eseguita la prima assoluta di
“Guernica”, commissionatagli dal Theater des Augenblinks di Vienna.
Nel 1991 inizia a scrivere “A futura memoria – Gioco a 6”, opera destinata, purtroppo, a
rimanere incompiuta.
La morte lo coglie il 4 febbraio del 1992 a Firenze, mentre si trova in casa di amici.
“Tentare di esprimere attraverso la musica tutto ciò che le parole e l’immaginazione
non riescono a dire.”
Analizzando l’attività di un artista certamente anomalo, tanto singolare quanto scomodo,
tanto irrequieto quanto schivo, tanto lungimirante quanto elusivo, è d’obbligo sottolineare il
categorico rifiuto di qualsivoglia ortodossia : vari linguaggi confluiscono nella sua poetica
(musica elettronica pura, gestualità, collagismo, aleatorietà) senza che essa ne venga in
qualche modo sminuita.
Ad esempio, in “Treni d’onda a modulazione d’intensità”, l’horror vacui dello staticismo
elettronico viene diluito nelle trame di un ordito sonoro al limite dell’udibile e dalle algide
architetture di rumore bianco erompono, con ludica ciclicità e piglio bruitistico, lame di
genuina follia creativa.
“Una musica che non si può capire è una musica che ha come scopo
l’incomprensibilità, una musica che si aliena dalla realtà quotidiana degli uomini è
una musica che rappresenta l’alienazione dell’uomo nella sua quotidianità.”
Ugualmente, la frivolezza disperata di “Nous irons à Tahiti” e il distacco cognitivo di
“L’opera abbandonata tace e volge la sua cavità verso l’esterno” sono imperniate sul
recupero delle macerie del disfacimento culturale, attraverso un accurato lavoro di
estrapolazione-intersezione : oggetti eterogenei decontestualizzati vengono
‘manualmente’ incollati su nastro magnetico, con una tecnica non dissimile dall’editing
delle pellicole.
“Certe tecniche della musica elettronica e della musica concreta (della musica
elettromagnetica tout-court) che hanno ha che fare con il nastro magnetico sono
praticamente equivalenti al montaggio di un film”.
Nell’ambito delle colonne sonore occorre menzionare almeno le tre predilette dallo stesso
Gelmetti : “Deserto Rosso” di Michelangelo Antonioni (dove le coloriture rumoristiche
della musica sono perfettamente funzionali all’alienazione dei protagonisti), “Sotto il
segno dello Scorpione” di Paolo e Vittorio Taviani (in cui lo sfondo sonoro, fatto di
clusters orchestrali aleatori, genera un misterioso fascino, colmo di diafana ossessività) e
“Angel Novus” di Pasquale Misuraca (qui la complessità della trama musicale -una sorta
di testamento-summa dell’autore- quasi sminuisce le immagini del film-documentario sulla
figura di Pierpaolo Pasolini).
Inviso alla critica, ma accolto con interesse sempre crescente dal pubblico, Vittorio
Gelmetti incarna la figura dell’intellettuale prigioniero di sé e isolato dal suo stesso sapere,
(avido nell’apprendere, ma restio ad assumere posizioni leaderistiche), la cui piena
valorizzazione è ancora ben lungi dall’essere stata completata.
“Era e resta un puro : una persona ed un musicista di una moralità aristocratica e di una
forza culturale ed intellettuale straordinaria: un personaggio, ha detto qualcuno, <noto ma
sospetto>. Nel suo mondo a parte, Gelmetti ascoltava, leggeva, criticava, talora
proclamava: senza perdere il contatto con la realtà e senza rinunciare a nulla della sua
poetica. Testimone scomodo del suo tempo, dell’italia musicale e culturale degli ultimi
trent’anni, Gelmetti ha, fino all’ultimo, mantenute salde posizioni e convinzioni, sempre
rifuggendo persino ogni vago sentore di dogma:” (Stefano Leoni)

RINO ROSSI

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