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FANUCCI EDITORE
Prima edizione: febbraio 2008
Titolo originale: Voices From the Street
© 2007 by The Philip K. Dick Trust
© 2008 by Fanucci Editore
via delle Fornaci, 66 − 00165 Roma
tel. 06.39366384 − fax 06.6382998
Indirizzo di posta elettronica: info@fanucci.it
Indirizzo internet: www.fanucci.it
Published in agreement with the author
c/o Baror International Inc.
Armonk, New York, U.S.A.
Proprietà letteraria e artistica riservata
Stampato in Italia − Printed in Italy
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
Introduzione
di Carlo Pagetti
Carlo Pagetti
Philip K. Dick
SUCCUBUS
Una rivista per gente che vuole sapere
E un altro:
KARL MARX: PROFETA DEL SIONISMO
Fiaccamente, Hadley tornò a infilare Succubus nella sua
busta. Capiva perché a Dave e Laura non piaceva Marsha,
perché il fatto di dover chiedere aiuto proprio a lei li avesse
demoralizzati fino a quel punto. Adesso era in grado di
capire quanto fosse profondo l’abisso che li separava, e
perché Dave non scrivesse per quel giornale.
Succubus era una pubblicazione razzista, neofascista.
Ma non ne aveva l’aspetto: non era crudo e ampolloso.
Hadley si sarebbe aspettato che un giornale razzista
venisse stampato su carta economica: magari un
ciclostilato di quattro pagine fatto male, equivoco, con
titoloni a effetto, un insulto all’intelligenza e al buon gusto.
Si sarebbe aspettato molta spazzatura, attacchi scomposti,
affermazioni e denunce al limite del delirio.
Qualcosa che puzzasse di stravaganza, che traboccasse
di violenza. Un foglio militante, fanatico, pornografico e
disgustoso, con errori di ortografia e grammatica
zoppicante: opera di persone ignoranti, avvelenate, di
uomini da poco, inariditi e inaciditi dall’odio. Un
giornalaccio sgradevole, farneticante. Una cosa volgare.
Succubus era elegante, di buon gusto, stampato in modo
magnifico. Non era d’avanguardia, il formato o l’aspetto
non aveva nulla di sperimentale. Era serio, tradizionale…
come gli uomini e le donne ritratti nei pannelli murali. Non
era azzardato, dal punto di vita estetico, era un prodotto
solido, ben confezionato e bene impostato. Gli articoli erano
scritti in modo lucido, con competenza e compostezza.
Senza farneticazioni, senza il peso del fanatismo;
l’impressione complessiva era di moderazione. Come
faceva un giornale fascista, razzista, a essere moderato?
In Succubus non c’era niente che rinviasse all’ala
estremista. Hadley si rese conto con crescente stupore che
quella pubblicazione era stata progettata per arrivare nelle
case dei benestanti. A suo modo era rispettabile. Sopra un
tavolino di mogano importato dalle Filippine, accanto a un
portacenere intarsiato, a una bella lampada, Succubus
avrebbe fatto un figurone. Avrebbe aggiunto decoro al
soggiorno più elegante.
Dopo lo shock iniziale, Hadley rifletté a lungo. Non fece
che aprire e richiudere la busta, sbirciando il malloppo di
bianca carta patinata. Un dollaro. Era più o meno come
Fortune: una sua versione politica, più artistica. Però non
circolava. Probabilmente veniva distribuito una copia per
volta. Quel numero non aveva data: senza dubbio i fascicoli
venivano inviati direttamente per posta, non distribuiti
nelle edicole. Hadley non riusciva a immaginare Succubus
esposto in un’edicola.
Dopo le due del pomeriggio cominciò a farsi domande
su Beckheim. Che gli diceva quel giornale sulla Società?
Non molto. Non poteva collegare il Guardiano del Popolo, o
le file di volti rispettosi alla conferenza, con quella
pubblicazione elegante. Questa aveva classe, prestigio. Non
era rivolta al genere di persone che si erano radunate per
sentire Beckheim.
Tutto a un tratto Hadley capì in quale mondo vivessero
Dave e Laura. Con nemici organizzati pronti a distruggerli;
e proprio loro erano stati costretti a chiedere aiuto a uno di
questi nemici. Si erano consegnati a lui, non avevano
potuto resistere. Era sbagliato; lui sapeva quanto fosse
stato sbagliato, e che non c’era altro posto a cui potessero
rivolgersi.
Non erano stati i Gold a richiedere quel mondo, non più
di lui. Ci erano nati senza volerlo. E adesso che c’erano la
loro presenza era avversata, come se in qualche modo
avessero cospirato per esistere, come se la loro nascita
facesse parte di chissà quale progetto occulto. Come se,
essendo nati e sforzandosi di vivere come chiunque altro,
ne ricavassero chissà che cosa. Il frutto di chissà quale
impresa disonesta.
E i grandi denunciatori prestavano attenzione solo a
quell’impresa. Puntando il dito sui Gold dimostravano la
veridicità della cospirazione. Per il solo fatto di essere nati,
i Gold convalidavano la teoria. Bastava che occupassero
spazio e respirassero aria per offendere i teorici. Avevano
già chiesto fin troppo. I teorici dovevano semplicemente
rivelare che gli ebrei esistevano: era più che sufficiente.
Mostrando che gli ebrei si potevano incontrare agli angoli
delle strade, o seduti al cinema, o alla guida di autobus, o a
raccontare barzellette alla radio… dovunque esistesse un
ebreo egli dimostrava il dogma dei teorici. Un ebreo poteva
essere al sicuro solo smettendo di esistere. Solo morendo
rapidamente poteva cancellare la macchia, la colpa di
cercare di sopravvivere.
Pensando a questo, Hadley si rese conto di quanto i
Gold gli fossero simili. Nemmeno lui aveva un posto.
Però non provava simpatia per loro, poiché non la
provava nemmeno per sé stesso. In un modo terribilmente
intimo, che giungeva fin nel fondo della sua anima, li
disprezzo per essere vittime, così come disprezzava sé
stesso per essere vittima. Non voleva essere come loro.
Non voleva essere preso per uno di loro, per uno del
gruppo da vittimizzare. Voleva uscirne, arrampicarvisi
sopra.
Non era soddisfatto, come non lo erano i Gold. Tutto ciò
che loro desideravano era tenersi stretto quel poco che
possedevano, non chiedevano altro. Ma lui chiedeva di più.
E li detestava per aver permesso a Sorrell di camminargli
sopra. Li detestava per aver permesso a lui, a Hadley, di
camminargli sopra.
I Gold erano l’immagine stanca, muta e angariata di sé
stesso e, nella sua rabbia, era proprio lui a emergere da
quell’immagine. Non la sopportava più. Stuart Hadley:
vittima. E Marsha Frazier, anche la sua immagine si stava
delineando. Era un’altra parte di sé stesso, forte,
calcolatrice, spietata, efficiente. Che sapeva ciò che voleva,
e faceva ciò che voleva. Senza permettere che qualcosa la
fermasse. In lui qualcosa rispondeva. In lui qualcosa
ammirava quelle cose di lei, la sua sicurezza,
l’inequivocabile senso del proprio io. Hadley l’ammirava… e
ne era spaventato. Marsha era come una presenza
fantasma che lo attirava nella sua orbita; e in quella
direzione lui si stava spostando.
«Che cos’hai lì?» gli chiese Fergesson gioviale,
spuntando davanti a lui con la mano protesa. «Fammi
vedere.»
Hadley sbatté le palpebre. Imbarazzato, esitò e si
irrigidì. Non lo aveva visto arrivare. «Non credo che le
interessi.»
Fergesson perse la sua giovialità. «A me interessa tutto
quello che leggi mentre lavori per me.» Avvertì una
colpevole resistenza. «Che roba è, una lurida rivista
pornografica?»
Hadley gli porse con riluttanza la copia di Succubus.
Fergesson lo depose sul banco e ne scorse rapidamente le
pagine. «Lo vede?» lo aggredì Hadley, con le orecchie che
cominciavano a bruciargli. «Glielo avevo detto che non le
interessava.»
«Cristo» mormorò Fergesson.
«Che succede?»
La faccia di Fergesson si deformò per il disgusto.
Allontanò il giornale come se fosse pieno di vermi. «Dove
hai preso questa spazzatura?»
«Me l’ha data qualcuno» farfugliò Hadley, evasivo.
Fergesson lo fulminò con un’espressione oltraggiata e
minacciosa. «Ma che ti prende? Come fai?»
Infastidito, umiliato, Hadley riuscì a dire: «Come faccio
che cosa?»
«Santo Dio… riesci sempre a cacciarti in qualche cosa di
folle. Hai proprio del talento: se c’è qualcosa di
strampalato, ti ci infili dentro. Ti ci butti a pesce, in questa
robaccia da svitati, vero? Mi dici come fai?»
Tremante, Hadley si riprese la rivista. «Quello che leggo
sono affari miei.» Tornò a infilarla nella busta, annebbiato
dalla rabbia: «Questo è un paese libero; posso leggere
quello che mi pare. Lei non può impedirmelo. Non può
proibirmi di leggere questo giornale. Mi ha capito?»
Fergesson scosse la testa e se ne andò, scuro in volto.
Hadley non si portò a casa Succubus. Lo infilò in un
armadietto nel retrobottega, dietro alcuni vecchi cartelloni
della Atwater Kent, dove nessuno l’avrebbe trovato.
Tornato a casa quella sera ci pensò su. In che cosa si
stava cacciando? Forse Fergesson aveva ragione. Era facile
immaginare Horace Wakefield che si portava appresso una
copia di Succubus, che la tirava fuori da sotto la giacca per
mostrarla agli amici. Che metteva segretamente a
conoscenza di quegli articoli i pochi eletti di cui poteva
fidarsi. Che lo aveva con sé all’Health Food Store mentre
mangiava il suo budino alla tapioca e l’insalata di carote.
Come l’articolo di G.B. Shaw sulla vaccinazione… altri
proiettili da sparare contro un mondo corrotto.
Poteva immaginarsi Wakefield estasiato dalla mistica
conoscenza del potere mondiale degli ebrei. I Protocolli
degli Anziani di Sion: se Wakefield lo avesse saputo, chissà
quanto ne sarebbe stato felice ed eccitato!
Ellen portò in tavola un piatto di gelato alla vaniglia
mezzo sciolto che aveva preparato lei e poi messo nel
freezer. «Stu,» gli disse «a che stai pensando?»
«A niente» rispose lui, prendendo il gelato.
«Ti… ti ha detto niente Fergesson, a proposito
dell’acquisto di quel negozio? Credo che abbia davvero
intenzione di prenderlo, da quanto mi ha raccontato
Alice…»
«No» tagliò corto Hadley. «Non mi ha detto niente.»
Il discorso morì lì, e lui continuò a riflettere. Si stava
muovendo in un lungo corridoio del quale non si vedeva la
fine. Eppure era proprio quello che lo aveva attirato. Era
nuovo. Non era una minestra riscaldata di cose vecchie, di
azioni ripetitive del suo passato. Non aveva mai conosciuto
prima un uomo come Theodore Beckheim, e non aveva mai
conosciuto una donna come Marsha Frazier, né messo le
mani su Succubus. Non sapeva nemmeno che significasse
quel titolo.
Andò a prendere un dizionario nella libreria e cercò la
definizione. Non sapeva che cosa aspettarsi, ma in ogni
caso ne fu sorpreso. Succubus: demonio che assume forma
femminile per allontanare gli uomini dal sentiero della virtù
avendo rapporti sessuali con loro durante la notte. La
parola derivava dal latino succubare: giacere sotto. E dal
latino succubo: prostituta. Era proprio un bel titolo per una
rivista. Chiuse il dizionario e lo rimise a posto.
Il giorno dopo, martedì, si organizzò per bene in
anticipo. «Devo incontrare una persona a pranzo» disse a
Fergesson. «A mezzogiorno… d’accordo? Voglio uscire
senza problemi.»
Fergesson, che stava controllando le fatture, grugnì
qualcosa e annuì senza rispondere. Mentre scendeva le
scale verso il piano terra Hadley si rese conto di stare
camminando su una corda sottilissima: c’erano tanti modi
in cui Ellen poteva venire a saperlo. Poteva dirglielo
Fergesson. Poteva capitare lei stessa in negozio e vederlo
mentre era con Marsha. Poteva parlargliene Dave Gold. E
via dicendo.
Avrebbe dovuto portare la faccenda alla luce del sole…
oppure dimenticarsene del tutto.
Mentre stava meditando sulla seconda ipotesi, Marsha
Frazier entrò a grandi passi nel negozio.
Come l’altra volta portava pantaloni sportivi, aderenti e
senza tasche, una grossa cinta di cuoio, una camicia
pesante a quadrettini. I capelli color sabbia erano pettinati
all’indietro. Portava sotto il braccio una gigantesca borsa di
pelle. Giunta davanti al banco principale si fermò, diede
una rapida occhiata in giro e lo vide.
Lui si precipitò. «Salve» le disse. «Ho avuto la rivista.»
Lei annuì, pensierosa. «Può lasciare il negozio?»
Hadley corse di sopra, comunicò a Fergesson che se ne
stava andando, prese la giacca e tornò giù alla stessa
velocità. Marsha si era allontanata: adesso stava
sull’ingresso, inespressiva, con l’aria di una che non ha
voglia di perdere tempo. La raggiunse ansimando.
«Dove vuole andare?» le domandò. Era giusto
mezzogiorno; cominciava a vedersi parecchia gente in giro.
«Che ne dice di quello?» Indicò l’Health Food Stare. «Le va
bene?»
Marsha lo precedette dentro il locale, una figura
solenne che si diresse lentamente verso i tavoli sul retro.
Diede una rapida occhiata alla cassetta della frutta secca,
poi tirò indietro la sedia e si accomodò. Stava tirando fuori
un pacchetto di sigarette quando Hadley si sedette
goffamente di fronte a lei.
Betty giunse respirando affannosamente, il volto simile
a grigia pasta di lievito piegato in una smorfia allusiva.
«’giorno, Stuart.» Fece un cenno a Marsha. «Buon giorno,
signorina. Bella giornata, vero?»
Hadley ne convenne. «Molto bella.» Marsha non parlò.
«Oggi c’è tagliata di manzo in salsa con crostini» recitò
monotona Betty. «Insalata di maccheroni, piselli verdi e
budino alla crema di banana.»
«Solo caffè» disse con decisione Marsha.
Hadley ordinò da mangiare per sé, e Betty andò a
passare l’ordine al cuoco di colore. Cominciavano a entrare
diverse donne ben vestite, massicce, di mezza età. Era
cominciato il consueto brusio di sussurri e risatine.
«Che ne pensa di questo posto?» chiese Hadley a
Marsha.
«È interessante.» L’espressione sulla sua faccia, però,
rivelava che lei non era per niente interessata. «Ha avuto
occasione di esaminare il giornale?»
«Sì» rispose lui. Senza elaborare a risposta; non sapeva
che cosa dire perché non sapeva quello che provava. A
questo punto era del tutto incapace di capire la sua mente.
«Che gliene pare?» Calma, spassionata. Ma era una
domanda alla quale avrebbe dovuto rispondere.
Hadley si mise a giocherellare con il cinturino
dell’orologio. Studiò le vetrine di barattoli di frutta senza
zucchero, dietro la testa di Marsha, alti fino al soffitto,
scaffale su scaffale di insipide pesche, pere, prugne
conservate in acqua per i diabetici. «Mi ha sorpreso» disse
alla fine. «Non era come mi aspettavo.»
«Che cosa si aspettava?»
«Non lo so… forse una rivista letteraria. Come il nostro
trimestrale dell’università.»
Marsha gli rivolse il suo sorriso esangue, tirato. La sua
faccia era come un teschio, ossuta. Gli occhi infossati nelle
orbite, ombre scure sotto le pupille grigie e fredde. «No»
convenne. «Noi non pubblichiamo poesie su Venezia e
racconti di aborti nella Carolina del Nord. Ha un
bell’aspetto, non trova? Bella carta, buona stampa. La
copertina è in cinque colori.»
«Infatti mi è sembrata insolita.»
Giunse il cibo e Hadley cominciò a divorarlo. Di fronte a
lui Marsha sorseggiò il suo caffè e guardò Hadley con
un’espressione dura come la pietra. «Ha avuto modo di
leggere qualcuno degli articoli?»
«No» rispose lui. «Non l’ho portato a casa, l’ho lasciato
al negozio.»
«Perché?»
Lui esitò. Non poteva dirle la verità. «Me ne sono
dimenticato» rispose. «Lo porterò a casa stasera.» Non
poté fare a meno di chiedere: «C’è una ragione particolare?
Voglio dire, ha fretta?»
Il suo modo di esprimersi gli suonò sbagliato. Ma aveva
la sgradevole sensazione di essere sottoposto a un
interrogatorio, e la cosa non gli piaceva. Sentiva di essere
stato ingannato, in qualche modo; Succubus non era ciò
che si era aspettato, e le riviste con dovevano mai riservare
sorprese. In questo modo semplice, elementare, era in
grado di sentirsi risentito; e questo quasi controbilanciava
il suo senso di colpa. Cercò di far finta che la cosa avesse a
che fare con il meccanismo commerciale della
compravendita; si disse che si trovava di fronte un
venditore che gli aveva offerto un’immagine ingannevole
del suo prodotto. Provò un’indignazione tutta americana.
Eppure, nello stesso tempo, Hadley sapeva che la
situazione era infinitamente più complessa; non si trattava
per niente di una transazione commerciale. Marsha non
stava cercando di vendergli una copia di Succubus e
nemmeno un abbonamento… Lei non stava cercando di
spillargli denaro. Perseguiva qualcosa di molto più grande.
«Questo caffè è terribile» constatò Marsha.
«Non è vero caffè. È farina di crusca, un prodotto
naturale. Senza caffeina.»
«Perché?»
Hadley agitò la mano. «Ecco… niente di stimolante;
niente che non sia genuino.»
Marsha si alzò in piedi e attraversò la sala diretta verso
il bancone. Tornò un momento dopo con un bicchiere di
succo d’arancia. Hadley la osservò con interesse mentre si
sedeva. Aveva trasportato il bicchiere con intensa serietà,
come se fosse una cosa molto importante.
«Lei è peggio di me» le disse scherzando Hadley.
«Prende le cose troppo sul serio.»
«Glielo dicono gli altri?»
«Mi dicono che dovrei andare a vedere qualche partita.
Spassarmela. Smetterla di preoccuparmi e di pensare.»
«Lei ci va a vedere le partite?»
«No.»
Marsha annuì. «Non è una persona frivola.»
Lui non la vedeva in quel modo. «Che intende dire?»
«Pensano unicamente a divertirsi… È l’unica cosa che
interessa loro. La massa pensa solo in termini di piacere.
Vogliono eccitazione, brividi artificiali. Parchi di
divertimento, corse di macchine, partite di baseball,
liquori… sensazioni a buon mercato. Sono stufi,
insofferenti, annoiati.»
«Sì» concordò Hadley.
«Ma questi sono sintomi. Soltanto indicazioni… non la
causa. Il sabato sera i ragazzi vanno in giro per le strade a
gruppi, in cerca di qualcosa che riempia le loro esistenze
vuote. Bighellonano davanti ai locali, aspettano e basta.
Aspettano per… per cinque, sei ore? Ma che cosa
aspettano? Le ragazze gli passano vicine… e loro si
limitano a guardarle.»
«Si lasciano coinvolgere nelle risse» aggiunse Hadley.
«Stavo leggendo un articolo sul Chronicle in cui si parlava
dell’aumento della delinquenza giovanile.»
«Anche le risse sono un sintomo. È un ritorno spontaneo
a un modo naturale e primitivo di combattere. Uscire in
bande, come le antiche tribù. Tutti uniti, leali l’uno all’altro,
legati da giuramenti di sangue. Dare battaglia, il concetto
medievale del valore… la virtù in senso romano: la
mascolinità. La prova, la purificazione, il metallo contro il
metallo. Conosce Wagner? La forgiatura della spada
Notung dai frammenti di quella antica, giù nelle fucine
fumose di Mime.» Gli sorrise da sopra il bicchiere di
aranciata. «Nei profondi, oscuri abissi sotto la superficie
della terra, dove crebbe Siegfried… senza sapere chi fosse,
senza conoscere suo padre, sua madre.»
Affascinato, Hadley chiese: «Chi erano suo padre e sua
madre?»
«Suo padre era Siegmund, un superstite dell’antica
razza di guerrieri… i Volsunghi. Sua madre era Sieglinde…
la sorella di Siegmund.»
«Fratello e sorella?» domandò Hadley con voce roca,
improvvisamente teso, bloccato nell’atto di mangiare.
«Erano… sposati?»
I freddi occhi grigi erano fissi su di lui. «È un vecchio
mito. Il Niebelungenlied. L’oro del Reno… il simbolo
maledetto di tutto il potere terreno.»
«Potere terreno» ripeté lentamente Hadley. Era
ammaliato. «Era maledetto? Perché?»
«Perché era stato rubato. Il lascivo nano Alberico lo
aveva rubato alle figlie del Reno… Si era nascosto per
guardarle mentre facevano il bagno. Rubò l’oro… E loro gli
scagliarono addosso una maledizione. Chiunque possedesse
l’oro sarebbe stato distrutto.»
«E funzionò?» Hadley era come un bambino in grembo
alla madre, che pendeva dalle sue labbra mentre lei gli
raccontava una favola.
«I nani litigarono per l’oro… Alla fine gli dèi glielo
portarono via. Ma a causa dell’oro gli dèi divennero vecchi
e avvizziti… Persero la loro virilità.» Marsha sorseggiò il
succo d’arancia e aggiunse, in tono sbrigativo:
«Naturalmente è stato detto che i nani simboleggiavano gli
ebrei. La loro avidità per il denaro e per il potere. Lo sa, nel
Faust di Goethe Mefistofele rappresenta l’ebreo che cerca
di allontanare Faust dal suo destino. Che lo tenta con le
lusinghe terrene: le gioie e i piaceri della carne di cui
stavamo parlando prima.»
Eccole. Il suo corpo si raggelò mentre sentiva quelle
parole. Perché era come se fosse lui a parlare, come se
quelle parole le pronunciasse una parte di lui. Una sua
immagine orribile si era manifestata, ed era lì, seduta di
fronte, magra e sorridente. Succubus… un demonio sotto
forme femminili. Sì, era lei. Ed era anche lui.
Il suo timore crebbe… ma non pose termine
all’incantesimo. Marsha lo aveva detto ad alta voce, ma
quella parte di lui che credeva a quelle cose aveva paura.
Non poteva esprimersi: era troppo debole. Non osava farlo.
Suo malgrado continuava ad ammirarla.
«Lo sa,» disse con voce rauca «lei è spietata. Come un
falco, un uccello da preda. Io me ne sto qui ad ascoltare
perché non posso fame a meno… perché dentro di me
qualcosa reagisce.»
«Lo so» disse Marsha in tono assente. «Lei reagisce.»
«E so che è sbagliato. So che è la parte spietata di me,
la parte che vuole essere forte e crudele. Come lei… senza
sentimenti. Indifferente agli altri. Alla sofferenza e alla
debolezza. Anzi, che disprezza la debolezza.»
«Lei proprio non vuole ascoltare» dissentì Marsha. «Lei
ha paura. È grazie alla paura che resiste.»
«No» ribatté Hadley. «È grazie alla coscienza.»
Per un poco Marsha rifletté. «Una volta c’era un
ragazzino che stava assistendo a una sfilata e vide passare
il re. Il re non aveva vestiti addosso. Tutti lo sapevano, tutti
lo vedevano, tutti lo toccavano con mano, ma nessuno era
capace di dirlo ad alta voce poiché avevano insegnato loro
che era una cosa orribile da dire. Ma il ragazzino non se ne
diede per inteso e lo disse. E alla fine ne parlarono anche
tutti gli altri, perché sapevano che era vero. Prima ne
discutevano fra loro, privatamente. Tutta quella gente se ne
stava lì a guardare il re che sfilava nudo e nessuno diceva
niente. Lei crede che fosse meglio stare zitti? Crede che se
una verità è sgradevole debba essere nascosta?»
«Ma è una verità?»
«Mi racconti quello che dice lei. Non lei come persona
singola… ma tutti voi, nell’intimità delle vostre case e uffici.
Cosa affermate degli ebrei?»
«Anche noi siamo depravati. Tutti noi, almeno un po’.»
«Esiste una cosa che si chiama folklore. Lo sa che cos’è?
Un corpo di conoscenze evolute nella mente collettiva della
gente. La saggezza della razza. La sua saggezza più alta…»
Hadley sedeva silenzioso e inorridito. Ma quella
personificazione del suo io-ombra lo ipnotizzava; le parole
pronunciate da Marsha penetravano a fondo dentro di lui.
Gli abissi vergognosi erano messi a nudo; lei non faceva
segreto di ciò che era, di ciò che provava. Nessun senso di
colpa, nessun peccato di cui vergognarsi.
«Lei è una strana persona» disse Hadley, preoccupato.
«È come uno di quei… come si chiamano? Telepatici?»
Lei non rise. «Sì, noi abbiamo un rapporto. L’inconscio
razziale ci unisce. Lei pensa a sé stesso come a un’entità
unica, crede di essere tagliato fuori da tutto. Separato e
tremendamente isolato.»
«Sì.»
«Non lo è. Solo il guscio esterno è unico… Nel profondo
lei fa parte di un’entità collettiva. Non ha mai provato
questa sensazione? Non ha mai sentito che questa
separazione è artificiale? Che lei non dovrebbe essere
tagliato fuori?»
Lui annuì.
«C’è tanta ignoranza» disse Marsha. «Jung ha dovuto
lasciare l’Occidente, giungere fino in Cina, per ottenere ciò
che voleva. Un giorno le presterò qualcuno dei suoi libri.
L’uomo moderno in cerca di un’anima. Lo ha mai letto? Jung
ha lavorato sulla poesia classica cinese, ha studiato il
buddismo. Il Tao. Il bramanesimo… È un grande studioso,
uno dei giganti del nostro tempo. È tornato nel Medioevo…
agli alchimisti.»
Hadley non sapeva che cosa dire. «Ciò di cui mi parla mi
sembra così…» Non sapeva nemmeno quello. «Che diavolo
significa?»
«Non ha la sensazione di capire? Non verbalmente,
magari. Non le sembra che abbia senso?»
«Non lo so.» Era completamente nel pallone. «Nelle
ultime settimane ho avuto la testa piena di cose. La nascita
di Peter, questa storia di Beckheim. E non mi sono sentito
bene. Credo ci sia qualcosa che non funziona in me.
Fergesson vuole che mi faccia vedere dal suo medico di
fiducia, ma che diavolo… ho visto tanti maledetti dottori
nella mia vita. E nessuno di loro mi ha mai fatto bene.»
«Non c’è niente che non funziona nel suo corpo» disse
Marsha. «Fisicamente lei è sano. Anzi, sta piuttosto bene.»
«E allora che cos’è?»
«La sua anima.»
Nessuno gli aveva mai detto che aveva un’anima. Ebbe
voglia di scoppiare a ridere. Cos’era? Dove si trovava?
Forse l’aveva persa; forse già non c’era più. Forse qualcuno
gli aveva rubato l’anima. Forse lui l’aveva venduta, o data
in prestito, e poi se n’era dimenticato. O forse le persone
non nascevano più con l’anima. Ma la parola non era vuota,
Hadley reagiva ad essa. Quella parola lo blandiva, come se
in qualche modo la responsabilità di un’anima lui l’avesse.
O avere un’anima fosse una cosa unica: una conquista.
Ebbe la sensazione che Marsha vedesse in lui qualcosa che
nessun altro vedeva. Qualcosa che nessuno aveva preso in
considerazione.
Fece un sorriso poco convinto. «Parole come ‘anima’,
‘paradiso’, ‘diavolo’. Non significano più niente.»
«Beckheim le usa.»
«Lo so.» Hadley fece una smorfia. «Ma lì sembrava
giusto. Come in chiesa… tutti che ascoltano, il pubblico, un
grand’uomo come lui. Ma qui, alla luce del sole.» Indicò gli
scaffali di frutta, i tuberi secchi, i barattoli di succhi di
verdura. «È… irreale. È come cercare di guardare un film
in pieno giorno… Si intravedono le immagini sullo schermo,
ma non ti convincono.»
«Vuole dire che l’illusione non c’è più.»
«Credo di sì.»
«Forse ‘anima non è la parola esatta. È difficile trovare
le parole esatte per le cose spirituali. E va bene, Stuart
Hadley. Useremo le parole che vuole lei.» I gelidi occhi
grigi danzavano. «Quale preferirebbe?»
«Non preferirei niente. Non mi sento bene. Mi fa male
la testa e ho lo stomaco in disordine.» Guardò l’orologio. «E
poi devo tornare al negozio.»
«Io ho provocato tutto questo?»
«No… mi sento sempre male. In me c’è sempre qualcosa
che non va.» Cercò di esprimersi meglio. «Sono sempre
stato male, in tutta la mia vita.»
Marsha annuì. «Lo so.»
«Che intende dire? Come fa a saperlo?» Era infuriato; la
rabbia gli bruciava dentro. «Lei non sa un bel niente di me!
Ci siamo appena conosciuti!»
«Tutti stanno male. Non si può vivere qui senza stare
male. Non capisce? Beckheim ha ragione. Dobbiamo
rinascere. Non può andare avanti in questo modo,
sporcizia, corruzione, venalità. Dev’esserci un ritorno
spirituale… ci siamo messi a camminare a quattro zampe,
come gli animali. Ce la spassiamo e andiamo in cerca di
emozioni forti… Siamo bestie! Dobbiamo solo tornare
indietro; prima era tutto pulito e semplice. Adesso è
diventato tutto complicato, meccanico, abbagliante…»
Indicò fuori dalla vetrine l’insegna del palazzo della Bank of
America. «Come quello. Soldi e cartelloni sgargianti.
Affarismo, luride fabbriche… Dobbiamo tornare alla terra.
Abbiamo bisogno di radici… dobbiamo riscoprire la terra,
ritrovare i modi semplici di una volta.»
Hadley la seguiva, ma era spaventato. «Ma tutto questo
odio… voi odiate gli ebrei.»
«Noi odiamo la venalità e l’ingordigia. Odiamo la
corruzione. È una cosa cattiva?» La sua voce rimase calma,
rarefatta. «Odiamo i ricchi plutocrati che macinano le
persone e le trasformano in robot. Schiavi nelle fabbriche.
La macchina sta distruggendo l’uomo. L’ideale comunista:
tutti gli uomini sono uguali… triturato a denominatore
comune. L’operaio che lavora in fabbrica: brutale, bestiale,
ricoperto di fuliggine e di sporcizia. Come una scimmia
nella foresta.»
«Anche Beckheim la pensa così?» chiese Hadley. «Tutte
queste cose. Succubus… È questo che appoggia
Beckheim?»
«Beckheim» disse lei pacatamente «è un nero. Ma le
forze della rinascita operano attraverso di lui. Abbiamo
atteso una sorta di risveglio spirituale… Beckheim è un
profeta involontario. Non ne se ne rende conto. Pensa come
un primitivo… È un primitivo. Ha categorie ingenue di
pensiero, come un bambino. Paradiso, inferno,
Armageddon, salvezza. Ma ha anche integrità.» Alzò il tono
della voce. «Parla per tutti noi. Il bambino puro, l’idiota
senza macchia che viene a salvarci. Parsifal… capisce?»
Hadley non rispose. Finì di mangiare e allontanò il
piatto. Mentre attaccava il budino alla crema di banana
chiese: «Che ne pensa Beckheim del suo giornale?»
Marsha aggrottò la fronte. «Gli interessa.» Lo disse in
tono vago. «Potrebbe anche finanziarlo.»
«È perché…»
«Ne abbiamo parlato, qualche volta. L’argomento viene
fuori… Ci sono molte cose su cui non siamo d’accordo.»
Sorrise. «È un uomo potente, Stuart Hadley. È un
grand’uomo… più che un uomo. È una forza.»
«Dev’essere un’esperienza conoscerlo.»
«Lo è.» Parlò con l’aria di chi ne è convinto. «È come
sedere nella stessa stanza con Dio.» Finì il suo succo
d’arancia. «Aspetterò che lei abbia avuto il tempo di
leggere la rivista. Magari avrà voglia di chiedermi qualcosa
sui suoi diversi aspetti.»
«Forse.» Hadley si tenne sul vago. Poi, tutto a un tratto,
domandò: «A lei che gliene importa se la leggo o no? Com’è
che ci tiene tanto?»
Marsha affrontò il suo sguardo infuriato con calma.
«Credo che lei abbia le potenzialità per comprenderla.
Abbiamo tutti vissuto sotto una nebbia. Come gli dèi…
vecchi e avvizziti per via di una maledizione. L’oro ci ha
corrotto… Non siamo in grado di stare eretti, di essere noi
stessi. Di essere giovani e forti. Non possiamo vedere le
cose come realmente sono.» Con uno slancio di eccitazione,
le guance scavate di un rosso acceso, esclamò: «Stuart
Hadley, lei ha così tanto da imparare! Ci sono tante cose
davanti a lei, e tante da gettare via! Come una cicala che
esce dal vecchio guscio. Come una larva che esce dal
bozzolo e si trasforma in una farfalla. Non capisce… tutti
questi armi hanno segnato il tempo per lei, lo hanno tenuto
sospeso… nel bozzolo. Lei ha atteso… non se ne rende
conto?»
«Sì» disse lui lentamente. «Ma non pensavo che sarebbe
successo qualcosa. «Poi proseguì: «Non avevo molta
speranza.»
«Deve averne! C’è così tanto nel mondo… è grande e
pieno di cose. C’è un fondamentale nucleo di vitalità; il
mondo è ricco di energia e di eccitazione. Una volta che lei
sarà penetrato, che avrà percorso tutta la strada, che avrà
raggiunto il nocciolo più profondo, dietro tutte le
menzogne…» Spostò all’indietro la sedia e si alzò in piedi di
scatto. «C’è una sera in cui è libero? La verrò a prendere
con la macchina e risaliremo la costa, lungo la litoranea
che porta a San Francisco.»
«Perché?» chiese lui.
«Perché così potrà conoscere Theodore Beckheim.»
Hadley non seppe cosa dire.
«Sta con me» proseguì Marsha «finché non si sarà
ripreso dall’attacco cardiaco. Voglio farglielo conoscere
prima che se ne vada.»
Uscì rapidamente dal locale senza voltarsi indietro. Una
figura impeccabile, fanciullesca, con il mento aguzzo
all’insù e i capelli rossicci come una corona attorno al
cranio ossuto. Dopo un attimo era sparita.
Stordito, Hadley continuò a mangiare il suo budino,
alzando e abbassando il cucchiaino in una serie di
movimenti automatici. Marsha era scomparsa. Tutto ciò
che rimaneva di lei era un bicchiere di succo d’arancia
vuoto; se n’era andata con la stessa rapidità con cui era
arrivata.
Si domandò impaurito in quale sera sarebbe stato
libero. Conoscere Theodore Beckheim… Si sentiva
sopraffatto. Per quello avrebbe fatto quasi tutto. Avrebbe
sopportato tutto. La sua ansia bramosa crebbe… conoscere
Theodore Beckheim. Parlare con lui, stare con lui. Toccarlo.
Parlargli faccia a faccia.
Giovedì? Ellen portava Pete a casa dei suoi. Ma come
avrebbe fatto a mettersi in contatto con Marsha?
Ovviamente non toccava a lui farlo. Mentre se ne
rendeva conto provò un brivido di paura. Quello spettro
minaccioso, quella presenza affascinante ma pericolosa
contro la quale il suo organismo si stava già muovendo per
proteggersi, ci avrebbe pensato lei. Sarebbe stata Marsha
Frazier a mettersi in contatto con lui.
STAZIONE DI WOODVALLEY
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Illustrazione di copertina:
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