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Stuart Hadley è un giovane irrequieto

e tormentato, insoddisfatto del lavoro,


del matrimonio, dell’ambiente in cui
vive e si muove, ma incapace di trovare
certezze esistenziali alle quali
ancorarsi per non perdere la propria
identità in un universo che gli appare
caotico e insensato, in un’America in
procinto di diventare la più grande
potenza mondiale e già alle prese con
le sue stesse contraddizioni sociali.
Stuart è un sognatore che si scontra
con un mondo del quale sembra non
capire e soprattutto non approvare
nulla. Alla ricerca di sé stesso, finisce
per aderire a una sorta di setta
religiosa, guidata da un carismatico
predicatore. Si lascia trasportare dalla
sua nuova passione, ma liberarsi della
depressione psicotica che lo affligge si
rivelerà un’impresa più ardua del
previsto.

Scritto nel lontano 1952, quando Philip


K. Dick non aveva nemmeno 24 anni,
Voci dalla strada è l’ultimo inedito del
grande scrittore californiano a essere
pubblicato nel nostro Paese.
Philip K. Dick

Voci dalla strada


romanzo

Introduzione e cura di Carlo Pagetti


Traduzione dall’inglese di Maurizio Nati

FANUCCI EDITORE
Prima edizione: febbraio 2008
Titolo originale: Voices From the Street
© 2007 by The Philip K. Dick Trust
© 2008 by Fanucci Editore
via delle Fornaci, 66 − 00165 Roma
tel. 06.39366384 − fax 06.6382998
Indirizzo di posta elettronica: info@fanucci.it
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c/o Baror International Inc.
Armonk, New York, U.S.A.
Proprietà letteraria e artistica riservata
Stampato in Italia − Printed in Italy
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
Introduzione
di Carlo Pagetti

America 1952: la banalità del


quotidiano
e l’arrivo dell’Apocalisse

L’esistenza di Voci dalla strada era già stata segnalata da


Lawrence Sutin nella sua indispensabile biografia dickiana
del 1989, mentre viene ignorata dal romanziere
contemporaneo Jonathan Lethem, che definisce in The
Disappointed Artist (2005) il resto delle opere ‘realiste di
Philip K. Dick ‘i suoi sforzi mainstream frustrati negli anni
Cinquanta’. Pubblicato per la prima volta da una piccola
casa editrice di New York nel 2007 in un grosso volume di
300 pagine, che non dà né il nome di chi ha proceduto alla
trascrizione del manoscritto né i criteri seguiti durante
questa delicata operazione, Voci dalla strada testimonia
comunque l’impronta indelebile del giovane scrittore
americano in formazione, assieme alla presenza di un certo
numero di passaggi farraginosi e ridondanti, che lo stesso
Dick avrebbe probabilmente eliminato, se avesse
presieduto egli stesso alla pubblicazione dell’opera. La data
della stesura si situa senza alcun dubbio tra il 1952 e il
1953, mentre l’azione del romanzo si svolge − attraverso
una scansione in quattro sezioni che vanno dalla mattina
alla notte, da giugno a settembre − nel corso del 1952,
quando gli Stati Uniti erano ancora impegnati nella guerra
contro la Corea del Nord, appoggiata dalla Cina di Mao, e
si preparavano a sperimentare su un atollo del Pacifico la
bomba all’idrogeno. Ci troviamo all’interno dello spazio
geografico suburbano situato probabilmente nell’area di
San Mateo, a sud di San Francisco, la grande metropoli che
incombe sullo sfondo di Voci dalla strada, il luogo
dell’avventura e della perdizione, della trasgressione
sessuale e dello sviluppo inarrestabile del capitalismo. Solo
nella sezione conclusiva, Notte (un titolo che ha anche un
evidente valore simbolico), il protagonista Stuart Hadley, la
moglie Ellen, e il piccolo Peter, si spostano a nord di San
Francisco, nella zona rurale non lontano dalla città di
Petaluma, dove in seguito lo stesso Dick avrà modo di
vivere e di ambientare alcuni dei suoi romanzi di
fantascienza. Si tratta di un periodo intenso nella vita di
Dick, già al suo secondo matrimonio. Dick si era già
lasciato alle spalle il manoscritto de Il paradiso maoista, un
romanzo dove sono evidenti sia il fascino per la Cina di
Mao, sia gli interessi esistenzialisti del giovane intellettuale
venticinquenne, il quale aspirava a un pieno successo
letterario, e intanto compiva a Berkeley un’intensa
esperienza di lavoro nel negozio di apparecchi radiofonici e
televisivi (riparazione e vendita), ma anche di dischi, di
Herb Hollis, la figura patema più volte recuperata nella
narrativa dickiana, e presente in Voci dalla strada nel
personaggio burbero e rozzamente anticomunista, ma non
privo di doti umane, di Jim Fergessen, il proprietario di
Model tv Sales and Service. In questo negozio si guadagna
da vivere Stuart Hadley, l’antieroe per eccellenza, con un
velleitario passato di pittore alle prime armi, incapace di
fare scelte definite e di accettare le responsabilità
dell’esistenza, nello stesso tempo attratto e spaventato
dalle donne, e morbosamente legato alla sorella maggiore,
che lo vezzeggia come un bambino.
La componente autobiografica dell’ispirazione dickiana è
evidente, e abbraccia, in questo ‘ritratto di artista da
giovane non immemore della lezione di James Joyce, non
solo il senso di fallimento e di abbandono che Dick provava
in quegli anni, ma anche la sua incapacità di realizzarsi
come artista ‘autentico’, nella grande tradizione americana
del romanzo realista, o addirittura ‘naturalista (alla Dreiser
o alla Frank Norris, per intenderci). Lo stesso Dick avrebbe
ricordato di aver venduto nell’ottobre del 1951, grazie
all’aiuto di Anthony Boucher, Roog, il suo primo racconto di
fantascienza, al Magazine of Fantasy and Science Fiction.
Pur provando ancora la strada del romanzo mainstream,
Dick avrebbe dovuto rassegnarsi alla sua condizione di
‘artista di merda (come recita il titolo di un altro suo
romanzo autobiografico), confinato nell’ambito di un
genere narrativo disprezzato dalla critica come la
fantascienza, costretto − ma ormai sappiamo che questo è
uno dei suoi punti di forza − a trasformare la sua
esperienza diretta e la riflessione etico-politica sugli Stati
Uniti in una successione di intrecci al limite tra le
convenzioni consolidate della science-fiction e le
allucinazioni di una prosa visionaria.
Eppure, già in un romanzo rigorosamente naturalista
quale è Voci dalla strada nella accanita e quasi nevrotica
ricerca dei dettagli, nella precisione dei rimandi geografici,
economici, temporali, logistici, si aprono improvvisi squarci
narrativi che mostrano la paradossale incapacità di Dick di
‘aderire completamente alla superficie densa e minuta del
quotidiano. Su questo aspetto tornerò in seguito. Qui
basterà sottolineare che anche in questa prospettiva Dick è
simile a Stuart Hadley, che ha davanti a sé un percorso ben
definito e in grado di dargli il successo sociale, ma che non
è capace di sottrarsi al senso di inadeguatezza,
all’autolesionismo, al desiderio di annientamento, e sogna
sempre qualcos’altro, un’altra vita, l’insicurezza dello
spazio aperto. Perciò egli è continuamente in fuga, sia dalle
pareti domestiche della propria dimora, dove pure è amato
dalla giovane e pazientissima moglie Ellen, sia da quelle
professionali del negozio di Fergessen, che, pur
rimproverandolo, lo protegge come se fosse il figlio che non
può avere, tanto che sarebbe perfino disposto a perdonargli
ogni trasgressione, pur di averlo vicino a sé.
Nello sforzo di creare un tessuto di voci, una rete di
punti di vista capaci di interpretare la poesia disarmonica
della ‘piccola città’, Dick assume altre sembianze, e si cala,
ad esempio, anche nei panni del fioraio vegetariano Horace
Wakefield, con cui condivide l’avversione nevrotica a
mangiare in pubblico. Wakefield − e il cognome ricorda
quello di un famoso personaggio, destinato alla solitudine,
del romanziere ottocentesco Nathaniel Hawthorne − è
tuttavia, con tutte le sue manie, una versione in chiave
comico-grottesca di Stuart (e di Philip), pur rimanendo una
figura sostanzialmente decente, seppure ridicola, come è
chiaro quando rifiuta di farsi conquistare dalle teorie di
un’altra vegetariana fanatica, la signora Krafft. Costei,
prendendo spunto dall’avversione per la carne di Hitler, si
lancia in una esaltata apologia dello ‘spirito tedesco
rappresentato dal nazismo. Il rapporto tra i due viene
ripreso e sviluppato allorché, nella seconda e terza parte
del romanzo, Stuart incontra Marsha Frazier, la donna
intellettuale, direttrice della rivista Succubus, di simpatie
filofasciste, da cui il protagonista si sente inesorabilmente
attirato, anche perché le menzogne e le contraddizioni di
Marsha riflettono le sue. La scena nel motel in cui Stuart,
per liberarsi della donna, praticamente la violenta e la
abbandona, impadronendosi della sua automobile,
appartiene al mondo delle fantasie erotiche che lo scrittore
trasmette al suo eroe, come un virus di cui sente di doversi
liberare, forse anche per ricordare al lettore (e a sé stesso)
gli aspetti più sgradevoli di Stuart, che da piccolo aveva
aggredito una bambina. D’altra parte, l’insidiosa sorella
Sally esorta Stuart a recuperare la sua antica carica
aggressiva per farsi strada nel mondo. Per Dick la violenza
atavica non è solo un fattore congenito nell’umanità, ma
anche una caratteristica del capitalismo.
In ogni caso, il naturalismo dickiano talvolta sfiora le
dimensioni della patologia e della follia, che solo la
dimensione fantastica, con le sue variazioni comiche e
parodiche, dei romanzi di fantascienza riuscirà a
riprendere sotto controllo. In Voci dalla strada il
comportamento bestiale di Stuart, che si butta sul corpo di
Marsha, o sfonda a testate la porta a vetri del negozio di
Fergessen (rimettendoci un occhio) rimane fine a sé stesso,
e semmai sottolinea che il linguaggio di Dick aveva bisogno
di ben altri sbocchi narrativi. Tuttavia sarebbe sbagliato
considerare solo la ‘voce del protagonista, proprio perché
− elaborando una tecnica narrativa che svilupperà in
seguito − Dick introduce molteplici punti di vista, un fitto
intreccio di dialoghi e una serie di problematiche ‘attuali
assai concrete, capaci di far emergere l’immagine di una
società americana confusa e gravemente ferita dalla guerra
mondiale (che il conflitto in Corea sembra voler proseguire
con l’uso delle armi atomiche), ancora aspramente razzista
e maschilista, sottoposta a processi violenti di
concentrazione del capitale, che minacciano la piccola
iniziativa privata. Voci dalla strada si muove con abilità −
come suggerisce la citazione iniziale tratta da Wright Mills
− tra indagine sociale e tensioni psicologiche irrisolte. Non
siamo lontani dall’universo provinciale di Tempo fuor di
sesto, mentre anche la cultura e la religione non paiono più
in grado di dare una risposta ai disperati interrogativi dei
giovani alla ricerca della propria identità. Stuart sfugge
alla leva militare per i suoi problemi di salute, ma vive
comunque in una condizione caotica di lacerazioni e di
insoddisfazioni croniche, in cui neppure le leggi spietate
del positivismo darwiniano sembrano più funzionare.
L’America e il mondo intero sono già dominati
dall’arbitrarietà di un destino cieco, dalla forza cosmica del
caso (universe of chance), esattamente come succede nella
maggior parte delle opere successive di Dick.
In questo senso, l’unica vera svolta nell’esistenza del
protagonista di Voci dalla strada è l’incontro con Marsha
Frazier, la donna fatale, che appare a tratti una parodia di
certe figure femminili forti della scrittrice russo-americana
Ayn Rand. Marsha è una falsificatrice simile al succubo
tormentatore della tradizione orrifica, la direttrice di una
rivista elegante, sovvenzionata in passato dalla Ford e da
alcuni ambienti accademici (si noti qui l’ironia dickiana),
che trasmette una propaganda antisemita e
fondamentalmente reazionaria, tanto da farci sospettare
che anche il profeta nero Beckheim, di cui Marsha è o è
stata l’amante, sia un agente provocatore al servizio del
Senatore McCarthy, impegnato nel 1952 nella sua battaglia
contro il comunismo che avrebbe inquinato la purezza della
visione americana.
Di fatto, il tessuto narrativo così granuloso e frastagliato
di Voci dalla strada accoglie al suo interno tutta una serie
di riferimenti autobiografici, politici, sociologici, ma non
manca neppure di dichiarare l’importanza di una
componente letteraria e filosofica europea. Ci muoviamo da
Jung, che Dick leggeva in quegli anni, ma l’esaltazione delle
cui opere viene messa in bocca a Marsha, a Sartre, a
conferma dell’interesse per l’esistenzialismo francese che,
in Voci dalla strada, si manifesta nel tema insistito della
noia, divoratrice di ogni buona intenzione e di ogni sogno di
riscatto, per approdare a una rivisitazione personale del
modernismo di T. S. Eliot e di James Joyce. Sicuramente il
richiamo alle prime poesie di Eliot (esplicitamente citato
nel corso del romanzo) almeno fino a Gli uomini vuoti serve
a ribadire il senso della futilità e della massificazione della
vita contemporanea, tanto è vero che, a un certo punto,
Stuart si muove con la testa china, fissando i suoi piedi,
come uno dei morti viventi nella prima sezione della Terra
desolata, mentre gli oggetti che compongono il paesaggio
urbano acquistano paradossalmente una vitalità superiore
a quella degli esseri umani. In quanto a Joyce, si è già detto
che quello di Stuart Hadley è, a suo modo, il ritratto di un
artista da giovane, come è Stephen Dedalus nel primo
romanzo joyciano. D’altra parte il lungo 6 giugno i cui si
sviluppa la prima parte della vicenda nel romanzo dickiano
riecheggia il 16 giugno, il Bloomsday dell’Ulisse, e ancora
quasi verbatim da un famoso passaggio di tale romanzo
viene tratta la riflessione sull’incubo della Storia da cui
occorre svegliarsi. Le quattro sezioni di Voci dalla strada,
del resto, svolgendosi dalla mattina alla notte, compongono
un unico dilatato intreccio narrativo, paragonabile alla
giornata in cui Harold Bloom, l’Ulisse moderno di Joyce,
vaga per le strade di Dublino.
Con ciò non si vuol dire che Voci dalla strada non sia un
romanzo pienamente americano. Non si tratta solo dei temi
trattati o del paesaggio californiano, ma anche del metodo
narrativo basato su un naturalismo esasperato, gonfio di
aggettivi, minuzioso in certi passaggi fino alla paranoia
verbale nella descrizione dei vestiti, dei cibi, delle
suppellettili domestiche, dell’arredamento urbano. Un
ruolo significativo hanno le automobili, perché esse, pur
distinte con competenza per la marca o le prestazioni
(come succede, del resto, con gli apparecchi radiofonici e
televisivi venduti nel negozio di Fergessen), finiscono per
rappresentare oggetti simbolici, veicoli della mente che
permettono il movimento e promettono libertà. Non a caso,
nell’ultima parte di Voci dalla strada, Stuart verrà descritto
come qualcuno che si è fracassato contro un muro. Come
un’automobile, appunto, che è diventata il suo corpo
reificato e martoriato, il cui guidatore è il destino. Nello
stesso tempo, il naturalismo del romanzo nega al suo
protagonista qualsiasi possibilità di assurgere a una
condizione eroica, mostrandolo nella meschinità dei suoi
comportamenti quotidiani con la moglie, o seguendolo fino
a quando si rifugia nel cesso o si soffia il naso con i
kleenex. Eppure Stuart viene da una famiglia del ceto
medio, è un bell’uomo che veste con stile, è intelligente.
Corre, tuttavia, lungo l’asse inclinato del romanzo
naturalista, precipitando verso il basso, incontro
all’annientamento spirituale e fisico, come accade a
Hurstwood in Nostra sorella Carrie di Theodore Dreiser.
Per contestare il ‘sogno americano in Voci dalla strada Dick
cerca di sfruttare le potenzialità di una tecnica narrativa
che tuttavia tende implacabilmente alla metamorfosi del
grottesco e del parodico, anche aldilà delle intenzioni dello
scrittore. D’altra parte, se il romanzo dickiano vuole
rappresentare una condizione di malattia, il realismo dei
particolari insignificanti non potrà che scontrarsi con le
fantasie e le paranoie dell’America dominata
dall’immaginario della bomba atomica e dalle profezie di
Beckheim, che preannuncia l’arrivo dell’Apocalisse. Il
motivo della fine del mondo illumina di una luce vivida il
paesaggio etico e sociale di Voci dalla strada, che, da
questo punto di vista, si svolge un attimo prima che arrivi
la catastrofe di Cronache del Dopobomba. La Storia è
veramente diventata un incubo terribile che consuma ogni
speranza di redenzione, così come le voci della strada non
riflettono più l’esistenza di una comunità omogenea, uscita
vittoriosa dalla guerra mondiale, ma assomigliano piuttosto
ai suoni incomprensibili di una moderna Torre di Babele,
dove ognuno si salva come può, o piomba nella follia. Anche
i dialoghi frequenti che ‘incrociano i personaggi e in cui
Dick adopera spesso un linguaggio colloquiale, diretto, si
attorcigliano su sé stessi, si spezzano, si trasformano in
litigi o in vuote invettive. Dall’indagine sociologica o
psicologica, insomma, Dick passa a quella dimensione
metafisica e metastorica che caratterizzerà in modo
crescente la sua maggiore produzione narrativa.
È nei frammenti visionari che costellano il romanzo
dickiano che noi possiamo ritrovare un’ispirazione già
consapevole, il testo di un’opera alternativa dal potere
alienante e straniante, anche rispetto al linguaggio del
realismo più accanito. Questa nuova forza del linguaggio si
manifesta, per esempio, quando Stuart, che ha conosciuto
Marsha in casa di Dave e Laura Gold, i suoi amici ebrei già
brutalmente aggrediti verbalmente dal prepotente cognato
Bob Sorrell (una parodia perfettamente riuscita
dell’arrivismo più cinico), si rende conto che Succubus, la
rivista di Marsha, è ferocemente antisemita, e che essa
ospita una serie di schizzi sulla Berlino che sarebbe sorta
‘se i nazisti avessero vinto la guerra’. Di colpo siamo
proiettati nel clima de La svastica sul sole. E se in un primo
tempo Stuart prova pietà per i Gold (gold = oro), per la
mitezza e rassegnazione che li caratterizza, in seguito si
rende conto di essere uguale a loro, di dover subire
l’identico destino. Anch’egli è una vittima, che rifiuta però
di riconoscersi come tale, di soccombere, e tenta una
impossibile via d’uscita.
Nella parte conclusiva di Voci dalla strada Dick sembra
concedere al suo protagonista un’ultima opportunità di
felicità, assieme alla sua famiglia, lontano dalla città, in un
paesaggio indefinito e melanconico. Stuart vive ora in uno
squallido appartamento nello scantinato di una casa
miserabile, bada al bambino mentre la moglie ha trovato un
impiego, e intanto sogna di utilizzare gli arnesi da lavoro
per riparare oggetti o per affittarli a chi ne ha bisogno. Non
vuole tornare più indietro e ha elaborato una nuova
filosofia fatalista, che assolve tutti coloro che gli hanno
fatto del male, ma anche sé stesso. Non è chiaro se i
personaggi dickiani abitano ormai la terra di nessuno, dove
sta per compiersi la fine dell’utopia americana, o piuttosto
l’utopia di una fine della civiltà (americana), che
permetterà la nascita, come dice il Libro della Rivelazione
biblico, di ‘un nuovo cielo e una nuova terra’. Forse il
profeta nero Beckheim aveva ragione: l’Apocalisse è in
arrivo. In ogni caso, le voci dalla strada si sono spente.

Carlo Pagetti
Philip K. Dick

Voci dalla strada


a S.M.
Trovano più difficile individuare i nemici esterni
che vedersela con le loro condizioni interiori.
La loro sconfitta apparentemente impersonale ha tessuto
una trama tragica sul piano personale ed essi sono traditi
da ciò che di falso c’è dentro di loro.
C. Wright Mills
1
Mattino

Giovedì mattina, il 5 giugno 1952, giunse caldo e


luminoso. La luce umida del sole bagnava i negozi e le
strade. Scintillante sui prati, la fredda brina notturna si
trasformava in vapore e risaliva verso il cielo azzurrissimo.
Era il cielo del primo mattino; ben presto si sarebbe
riscaldato e ingrigito. Una soffocante nebbiolina bianca
sarebbe risalita dalla baia e avrebbe aleggiato opaca sul
mondo. Ma erano solo le otto e trenta; il cielo aveva ancora
due ore da vivere.
Jim Fergesson abbassò soddisfatto i finestrini della sua
Pontiac e, sporgendo il gomito, tirò fuori la testa per
riempirsi i polmoni dell’aria umida di quel mattino d’estate.
Il suo sguardo mite, deformato da un residuo di
indigestione e di affaticamento nervoso, colse la luce del
sole che danzava sui vialetti di ghiaia e sui marciapiedi
mentre entrava da Cedar Street nel parcheggio
semideserto. Si fermò, spense il motore e rimase seduto
per un attimo accendendosi un sigaro. Qualche altra
macchina si infilò e parcheggiò accanto alla sua. Altre
macchine sfrecciavano sulla strada: suoni, i primi
movimenti della gente che nell’aria fredda e tranquilla
traevano echi metallici dai palazzi degli uffici e dalle pareti
di cemento.Fergesson scese dalla macchina e richiuse
rumorosamente lo sportello. Percorse di buona lena il
vialetto di ghiaia e imboccò il marciapiede, con le mani in
tasca e i tacchi che risuonavano forte: era un uomo di
mezza età, piccolo e muscoloso, in un abito blu di lana
leggera, con la faccia arrossata dalle rughe e dalla
saggezza e le labbra paffute che tormentavano il sigaro.
Tutt’intorno a lui i commercianti srotolavano le tende
dei negozi con elaborati movimenti delle braccia. Un nero
stava pulendo la strada con una ramazza, sospingendo la
spazzatura verso il canale di scolo. Fergesson camminò con
dignità sopra la sporcizia. Il nero non fece commenti… era
come una macchina per le pulizie mattutine.
Un gruppo di segretarie affollava l’ingresso della
California Loan Company. Tazze di caffè, tacchi alti,
profumo, orecchini e maglioni rosa, i soprabiti gettati sulle
spalle sporgenti. Fergesson inalò con piacere la dolce
fragranza delle ragazze. Risate e risatine, bisbigli soffocati,
parole intime passavano segretamente da una bocca
all’altra, escludendo lui e la strada. L’ufficio aprì e le
ragazze entrarono in un turbine di nylon e falde di
soprabiti… lui le osservò da dietro con aria di
approvazione. Detta in poche parole, ne avrebbe voluta
una, una qualsiasi, da sistemare in negozio… come ai
vecchi tempi. Una donna aggiunge classe, raffinatezza.
Contabile? Meglio qualcuna che i clienti possano vedere.
Impedisce agli uomini di dire parolacce, li fa solo ridere e
scherzare.
«’giorno Jim.» Da Stein, il negozio di abbigliamento
maschile.
«’giorno» rispose Fergesson senza fermarsi. Tenne le
braccia dietro di sé, con le dita che disegnavano ghirigori
casuali. Si fermò davanti al Modern TV Sales and Service e
tirò fuori la chiave. Esaminò con occhio critico la sua
piccola proprietà un po fuori moda. Come un vecchio
vestito, il negozio sembrava quasi velato alla luce del
mattino. L’arcaica insegna al neon era spenta. Davanti alla
porta si erano ammucchiati dei rifiuti nel corso della notte.
Le radio e i televisori nelle vetrine erano forme oscure,
poco interessanti. Dischi, cartelli, striscioni pubblicitari…
diede un calcio a un cartone di latte spingendolo fuori dalla
porta, sul marciapiede. Il cartone rotolò via, sospinto dal
vento mattutino. Fergesson infilò la chiave nella serratura e
aprì la porta.
Lì non esisteva vita. Sbirciò dentro e fece una smorfia
quando si sentì investire da una zaffata di aria stantia che
aleggiava nel negozio. Sul retro l’azzurro spettrale della
luce notturna sembrava gas che fuoriuscisse da una palude
putrescente. Fergesson si chinò e accese l’interruttore
principale: la grossa insegna al neon sputacchiò e dopo un
momento le luci della vetrina si riscaldarono emanando una
debole luminosità. Poi spalancò la porta e inalò un po
dell’aria dolce che c’era fuori, la tenne nei polmoni e si
mosse nel negozietto buio e umido accendendo le diverse
serie di apparecchi, ventilatori, espositori e macchinari di
ogni tipo. Le cose morte tornarono con riluttanza alla vita.
Una radio blaterò, poi una lunga fila di televisori. Si diresse
verso la luce notturna e la distrusse con un solo gesto della
mano. Diede energia alle cabine di ascolto che
circondavano il bancone frontale, polveroso e
disorganizzato. Afferrò un’asta e aprì il lucernario. Accese il
Philco, che si mise a ronzare tutto eccitato e lo portò sul
retro del negozio. Illuminò il vistoso manifesto della Zenith.
Portò luce, esistenza, consapevolezza nel vuoto. Il buio
scomparve, e dopo il primo momento di impaziente frenesia
Fergesson si calmò e si riposò, e si prese il settimo giorno…
una tazza di caffè nero.

Il caffè in genere giungeva dall’Health Food Store, il


locale accanto. Sotto il bancone frontale del Modern
c’erano mucchi di tazze, cucchiaini e piattini. Frammenti di
ciambelle e focacce andate a male insieme a cicche di
sigarette, fiammiferi, kleenex. Era tutto ricoperto da uno
strato di polvere; passavano gli anni e si aggiungevano
nuove tazze, ma nessuno toglieva mai quelle vecchie.
Mentre Jim Fergesson entrava nell’Health Food Store,
Betty si tirò su a fatica dal retro e sollevò un braccio stanco
per salutarlo. Portava in mano un grosso straccio
arrotolato, tutto gocciolante; aveva il volto segnato dalla
stanchezza e gli occhiali con la montatura metallica a metà
del naso.
«’giorno» disse Fergesson.
«’giorno, Jim» ansimò Betty con un sorriso fiacco,
amichevole. Scomparve sul retro diretta verso la macchina
del caffè Silex.
Fergesson non era il primo cliente. Alcune donne di
mezza età, ben vestite e intente a parlare sottovoce,
sedevano al bancone e ai tavoli mangiando frumento
macinato, e bevendo latte scremato e bibitoni di succhi di
frutta. In fondo al locale un impiegato del negozio di
articoli da regalo, vestito in modo impeccabile, piluccava
senza troppo entusiasmo una fetta di pane tostato senza
burro e un succo di mela.
Giunse il suo caffè.
«Grazie» mormorò Fergesson. Prese una moneta da
dieci centesimi dai pantaloni sommariamente stirati e la
fece rotolare verso Betty. Si voltò e si diresse verso la
porta, oltre le rastrelliere di succhi di frutta senza
zucchero, biscotti a basso contenuto calorico, barattoli di
miele, sacchetti di farina di grano, radici essiccate e noci.
Aprì con un calcio la porta fiancheggiata da un vecchio
espositore di datteri e mele secche, sul quale era stato
appoggiato un poster di Theodore Beckheim, colse il
momentaneo sguardo di disapprovazione del pastore dalla
faccia austera e dalle sopracciglia cespugliose e infine si
ritrovò sul marciapiede, fuori dall’odore pesante di latte di
capra in polvere e di sudore femminile.
Nessuno era entrato nel suo negozio. Olsen, il tecnico
che sembrava un ragno, non era ancora arrivato. E
nemmeno qualcuno dei venditori. Nessuna signora anziana
si era fatta viva con una vecchia radio da riparare. Nessuna
giovane coppia desiderosa di mettere le mani su qualche
nuovo televisore. Fergesson portò con cautela la tazza di
caffè lungo il marciapiede fin dentro il negozio.
Mentre entrava il telefono cominciò a squillare.
«Accidenti» mormorò. La tazza traballò mentre
contrastanti reazioni motorie viaggiavano lungo il suo
braccio. Il denso liquido nero traboccò oltre il bordo mentre
lui appoggiava la tazza sul bancone e rispondeva: «Modern
TV.»
«La mia radio è pronta?» strillò una voce femminile.
Fergesson prestò un ascolto distratto mentre cercava
una matita. La donna gli ansimava rumorosamente
all’orecchio, un animale minaccioso imbavagliato dal
telefono. «Come si chiama, signora?» chiese Fergesson. Si
sentì riempire da una certa qual dolce dose di disperazione
mattutina: era già cominciato.
«Il suo tecnico l’ha smontata la settimana scorsa, e mi
ha promesso di farmela riavere per mercoledì, e fino a ora
non vi siete fatti vivi. Mi sto chiedendo che razza di negozio
sia il vostro.»
Fergesson afferrò il blocco del servizio assistenza e
cominciò a scorrerne le pagine gialle. Dall’esterno del
negozio la luce del sole filtrava ancora umida, limpida e
luminosa. Ragazze snelle dai seni alti parlottavano fra loro.
Le macchine sfrecciavano veloci lungo le strade ancora
bagnate. Ma non poteva ingannarsi: la vita e l’attività
scorrevano fuori, e lui era dentro. La vecchia signora
primordiale era al telefono.
Aggrottando la fronte scarabocchiò qualche parolaccia
sui fogli di carta… intensi fendenti di disgusto. Le macine
avevano cominciato a divorargli l’anima. La realtà della
giornata lavorativa aveva avuto inizio… per lui, quanto
meno. Il fardello gli gravava sulle spalle; mentre i suoi
impiegati poltrivano nel letto o si trastullavano con la
colazione, Fergesson, il titolare del negozio, si sobbarcava
con riluttanza l’impegno gravoso di occuparsi della signora
della radio.

Quella mattina, dalla parte opposta della città,


esattamente alle 5 e 45, Stuart Hadley si svegliò in una
cella del carcere di Cedar Groves. Qualcuno picchiava sulle
sbarre metalliche; sdraiato sulla branda, Hadley si acquattò
furiosamente su sé stesso fino a quando il rumore cessò.
Guardò la parete con espressione accigliata e rimase in
attesa, sperando che fosse finito del tutto. Ma non era così.
Tornò ben presto.
«Hadley» gli strillò il poliziotto. «È ora di alzarsi.»
Lui si raggomitolò, le ginocchia schiacciate contro lo
stomaco, sempre accigliato, sempre aspettando, sempre
sperando che il rumore se ne sarebbe andato. Ma adesso
sentì il suono metallico delle chiavi e della serratura che si
apriva; la porta scivolò rumorosamente di lato e il poliziotto
entrò, dirigendosi verso la branda.
«Muoviti» disse all’orecchio scoperto di Hadley. «È ora
di andarsene da qui, stupido figlio di puttana.»
Hadley si stiracchiò. Gradualmente, in modo risentito,
cominciò a sciogliere il corpo. Dapprima i piedi si estesero,
cercando il pavimento, poi fu il turno delle gambe, lunghe e
dritte. Le braccia si rilassarono; con un grugnito di dolore
Hadley si tirò su a sedere. Non guardò il poliziotto; al
contrario, rimase seduto con la testa bassa, fissando il
pavimento, le sopracciglia tese, gli occhi quasi chiusi,
cercando di tener fuori la dura luce grigiastra che filtrava
dalla finestra.
«Che diavolo stai combinando?» chiese il poliziotto,
punzecchiandolo.
Hadley non rispose. Con le dita si toccò la testa, le
orecchie, i denti, la mascella. Sentì la barba ispida: aveva
bisogno di radersi. La giacca era lacera, la cravatta non
c’era più. Per un po frugò goffamente sotto la branda, e alla
fine trovò le scarpe e le tirò fuori. Il loro peso per poco non
lo fece cadere sulle ginocchia.
«Hadley» ripeté il poliziotto, in piedi di fronte a lui con
le gambe larghe e le mani sui fianchi. «Che cosa ti
prende?»
Hadley infilò le scarpe e cominciò ad allacciarle. Gli
tremavano le mani. Non vedeva bene. Lo stomaco
gorgogliava e sembrava volergli salire fino alla gola. Il
dolore alla testa lo costrinse a unire le sopracciglia in
un’espressione di ansioso corruccio.
«Vieni a prendere i tuoi effetti personali al banco» gli
intimò il poliziotto, che poi si voltò e uscì a grandi passi
dalla cella. Quasi subito, con infinita circospezione, Hadley
lo seguì.
«Firma qui» disse il sergente dietro il banco,
sospingendo dei fogli verso Hadley e poi una grossa penna
stilografica. Da qualche parte c’era un terzo agente che
stava recuperando il sacchetto con gli effetti personali di
Hadley. Altri due stavano presso un tavolo e osservavano
con aria annoiata.
Il sacchetto conteneva il suo portafoglio, la fede, ottanta
centesimi in monete d’argento, due banconote da un
dollaro, l’accendino, l’orologio da polso, una penna a sfera,
una copia del New Yorker e le chiavi. Controllando con
attenzione ogni oggetto, Hadley li sistemò uno dopo l’altro
al loro posto… a parte il giornale, che gettò nel cestino
accanto al banco. Due dollari. Tutti gli altri li aveva spesi,
persi, o gli erano stati rubati. In tutto mancavano circa
trentaquattro dollari. In quel momento notò che aveva una
brutta ferita sul dorso della mano; qualcuno l’aveva coperta
con un cerotto. Mentre la esaminava, il sergente si sporse
in avanti, puntò il dito e domandò: «Che cos’hai nella tasca
della giacca?»
Hadley infilò la mano in tasca e la tirò fuori stringendo
un grosso foglio di carta lucida tutta spiegazzata; l’aprì e la
spianò. Era una riproduzione a colori di un quadro:
Famiglia di clown con scimpanzé, di Picasso. Un bordo era
lacero e frastagliato; probabilmente l’aveva strappata da un
libro di una biblioteca. Ricordava vagamente di essere
entrato in una biblioteca pubblica, proprio mentre stava
chiudendo e le luci si spegnevano una dopo l’altra.
Dopo di che veniva un lungo passeggiare nel buio della
sera. Poi il bar. Poi un altro bar. Poi la discussione. E dopo
la discussione, la rissa.
«Com’è successo?» chiese il sergente.
«Joe McCarthy» farfugliò Hadley.
«Perché?»
«Qualcuno ha detto che era un grand’uomo.» Tremando,
Hadley si lisciò i corti capelli biondi. Avrebbe voluto le sue
sigarette. Avrebbe voluto essere a casa, dove poteva farsi
un bagno, e radersi, e chiedere a Ellen di preparargli un
caffè nero bollente.
«Che sei» disse il sergente «un rosso?»
«Certo» rispose Hadley. «Ho votato per Henry Wallace.»
«Non hai l’aspetto di un rosso.» Il sergente studiò il
giovanotto tutto ingobbito. Anche nei suoi abiti sporchi e
sgualciti, Hadley ricambiò l’esame con un’espressione fiera
e decisa. Capelli biondi, occhi azzurri, viso intelligente
anche se un po grassoccio. Era snello, quasi esile, con una
grazia leggermente femminea. «Mi sembri più un
finocchio» affermò il sergente. «Sei uno dei finocchi di San
Francisco?»
«Sono un intellettuale» dichiarò Hadley con voce
impastata. «Sono un pensatore. Un sognatore. Adesso
posso andarmene a casa?»
«Certo» rispose il sergente. «Ci sono tutte le tue cose?»
Hadley restituì il sacchetto vuoto. «Sì, non manca
niente.»
«Allora vuoi firmare?»
Hadley firmò, attese un momento con immusonita
pazienza, poi si rese conto che il sergente aveva finito con
lui. Si voltò e s’incamminò pesantemente verso le scale
della stazione di polizia. Un attimo dopo era in piedi sul
marciapiede grigio, sbattendo gli occhi e strofinandosi la
testa.
Con i due dollari prese un taxi. Gli ci volle pochissimo
per raggiungere casa sua. Ancora non si vedevano
macchine. Il cielo era di un bianco nebbioso, freddo. C’era
qualche persona in giro che alitava nuvolette di vapore
pallido. Tutto rannicchiato su sé stesso, con le mani
intrecciate, Hadley rifletté.
Ellen si sarebbe messa a strillare. Come faceva sempre
quando succedeva una cosa del genere. E poi il remissivo
silenzio che nell’ultimo mese era cresciuto fino a diventare
insopportabile. Hadley si domandò se valesse la pena
inventarsi una storia complicata. Probabilmente no.
«Ha una sigaretta?» chiese al tassista.
«Fumare fa venire il cancro ai polmoni» rispose l’altro,
con gli occhi fissi sulla strada vuota.
«Questo significa no?»
«No, non ce l’ho, no.»
Sarebbe stata dura spiegare la mancanza dei soldi.
Quella era la parte che lui detestava. Non riusciva
nemmeno a ricordare di che bar si trattasse; probabilmente
più di uno. Gli restava chiaro nella mente solo il ricordo di
quei due teppisti con la giacca nera, di quei due camionisti,
di quei due sostenitori di McCarthy. L’aria fredda fuori dal
bar quando tre di loro erano usciti fuori e si erano messi a
litigare con lui. Il vento pungente, il pugno allo stomaco e
quello in faccia. Il marciapiede, molto grigio e duro e
freddo. Poi la macchina della polizia e il viaggio tormentato
verso il carcere.
«Siamo arrivati, signore» disse il tassista mentre si
fermava. Hadley strappò la ricevuta dal tassametro e scese,
tutto in un solo frenetico movimento.
Niente si muoveva. Il vicinato era assolutamente
silenzioso mentre Hadley apriva il portone del palazzo,
risaliva le scale con la moquette e imboccava il corridoio.
Niente radio. Niente rumori di sciacquoni. Erano solo le sei
e un quarto. Giunto alla porta afferrò la maniglia. Non era
chiusa a chiave. Esitò un attimo, preparandosi, poi aprì ed
entrò.
Il salotto come sempre era buio, in disordine, e puzzava
debolmente di sigarette e di pere troppo mature. Ellen
aveva smesso da tempo di impegnarsi nei lavori di casa. Le
tende erano abbassate; Hadley non vedeva quasi niente
mentre cominciava a sfilarsi la giacca e a sbottonarsi la
camicia. La porta della camera da letto era spalancata; si
trattenne sulla soglia per guardare dentro.
Sua moglie dormiva profondamente nel grande letto
disordinato. Era girata sul fianco, con i capelli castani
arruffati che ricoprivano il cuscino e le spalle nude, le
lenzuola e la camicia da notte azzurra. Il suono del suo
respiro lento e faticoso giunse fino a lui; soddisfatto si voltò
e si diresse rigidamente verso la cucina. Stava riempiendo
la Silex di acqua quando sentì la sua voce, forte e stridula.
«Stuart!»
Imprecando, uscì dalla cucina e tornò verso la camera
da letto. Lei era seduta sul letto, gli occhi marroni tutti
allarmati. «Buongiorno» le disse stancamente. «Scusa se ti
ho svegliata.»
Con le narici che fremevano, il volto deformato, lei lo
trafisse con gli occhi. Hadley cominciò a sentirsi a disagio
mentre i secondi passavano ed Ellen non diceva nulla.
«Che ti prende?»
Con un urlo, Ellen balzò dal letto e puntò verso di lui, le
braccia protese, il viso rigato di lacrime. Hadley si ritrasse,
imbarazzato. Ma la sagoma imponente e rigonfia di sua
moglie gli fu addosso, le sue braccia lo avvinghiarono con
trasporto. «Stuart,» gli disse piagnucolando «dove sei
stato?»
«Sto bene» farfugliò lui.
«Che ora è?» Ellen lo lasciò, cercando l’orologio. «È
mattina, no? Dove hai dormito? Sei tutto… ferito!»
«Sto bene» ripeté lui, irritato. «Torna a letto.»
«Dove hai dormito?»
Lui fece una risatina evasiva. «In un boschetto.»
«Che è successo? Ieri sera sei andato in centro a bere
una birra… e poi volevi andare in biblioteca. Ma non sei
tornato a casa… Sei stato coinvolto in una rissa, vero?»
«Con dei selvaggi, sì.»
«In un bar?»
«In Africa.»
«E sei stato in carcere.»
«Lo chiamavano così» ammise lui. «Ma io non gli ho mai
creduto.»
Per un po sua moglie tacque. Poi la rabbia e
l’esasperazione ebbero la meglio sulla preoccupazione. Il
morbido gonfiore del suo corpo si indurì. «Stuart,» disse
con voce calma, le labbra strette ridotte a due linee sottili
«che devo fare con te?»
«Vendimi» disse lui.
«Non posso.»
«Non ci hai nemmeno provato.» Hadley si diresse verso
la cucina per controllare l’acqua del caffè. «Non ci metti
impegno.»
Tutto a un tratto lei gli fu alle spalle, e gli si aggrappò
disperata. «Vieni a letto. Sono solo le sei e mezza; puoi
dormire due ore.»
«Ho voglia di caffè.»
«Lascia perdere il caffè.» Allungò svelta la mano e
spense il gas. «Ti prego, Stuart. Vieni a letto. Cerca di
dormire un po’.»
«Ho dormito.» Ma era intenzionato a seguire il suo
consiglio; il corpo gli doleva per il bisogno di sonno.
Passivamente si lasciò trascinare fuori dalla cucina fino al
buio ambrato della camera da letto. Ellen si infilò nel letto
mentre lui rimase in piedi a spogliarsi goffamente. Quando
si fu tolto le mutande e i calzini sentì che il corpo gli
crollava per la stanchezza.
«Bene» bisbigliò Ellen mentre Hadley si sdraiava
accanto a lei. «Così va bene» ripeté Ellen premendogli le
dita ruvide sui capelli, sull’orecchio e sulla guancia. Era
questo che voleva: la presenza immediata di suo marito.
Hadley sospirò e si addormentò in un grande sbadiglio,
ma lei rimase sveglia, guardando il vuoto davanti a sé,
stringendosi forte al marito, sentendo i minuti che
scivolavano da lei uno dopo l’altro.
Nel silenzio assoluto della stanza, nella penombra
immobile che rimaneva della notte, la sveglia cominciò a
suonare. Pigolava debolmente con la sua vocina metallica,
quasi lo facesse per sé stessa; poi il suono divenne più
incalzante, e animò la stanza, incontrò la luce fredda e
bianca del mattino che si riversava dalla finestra, che
filtrava attraverso le tende di mussola e si propagava,
pallida e silenziosa, sulle gelide mattonelle del pavimento,
sul morbido tappetino, sulla sedia e sull’armadio e sul letto
e sui mucchi di vestiti. Erano le otto.
Ellen Hadley protese il braccio nudo e abbronzato e
trovò la sveglia. Non fece nessun rumore, proprio nessuno,
mentre abbassava la levetta fredda che sporgeva dalla
parte superiore di ottone. La sveglia si azzittì: continuò a
ticchettare, ma il rumore cessò. Ellen tornò a infilare il
braccio sotto le coperte, via dal freddo della stanza, e si
girò un poco sul fianco per vedere se lo aveva svegliato.
Accanto a lei, Stuart continuava a dormire. Non aveva
sentito la sveglia; il debole suono metallico non era giunto
fino a lui. Grazie a Dio. Ellen desiderò che non dovesse
sentirla mai. Desiderò metterla da parte fino a quando le
rotelle e le molle di metallo non si fossero arrugginite, e le
lancette non si fossero staccate. Desiderò… be’, non aveva
importanza. Perché fra un po lui avrebbe dovuto svegliarsi.
Aveva solo rinviato la cosa.
Sarebbe successa, e non si poteva fare niente per
evitarlo.
Qualche uccello svolazzava fuori dalla finestra; i
cespugli danzavano con violenza mentre gli uccelli vi si
posavano sopra. Un furgone del latte rombò lungo la strada
deserta. Molto più lontano, il treno della Southern Pacific
correva lungo i binari, diretto verso San Francisco. Ellen si
drizzò a sedere, tirando su le coperte e stringendole a sé,
uno scudo fra lui e la finestra. Tagliando fuori i rumori e la
vivida luce del sole. Proteggendolo col suo corpo. Lo
amava; la sua indifferenza, il suo graduale allontanamento
da lei, sembravano solo aumentare il bisogno che aveva di
lui.
E lui continuava a dormire. Nel sonno, aveva una faccia
pallida e inespressiva; i capelli, che gli spiovevano sulla
fronte, erano come paglia. Anche le labbra erano incolori.
La macchia grigia della barba sul mento era scomparsa e si
era confusa con il bianco paffuto della carne. Rilassato,
incurante, lui dormiva, ignaro della sveglia, del furgone del
latte all’esterno, del fruscio degli uccelli. Ignaro che lei si
era messa a sedere sul letto e lo proteggeva.
Nel sonno era senza età. Molto giovane, forse, non
proprio un uomo, e nemmeno un adolescente. E di certo
non un bambino; forse un uomo molto vecchio, così vecchio
da non essere più un uomo, una cosa rimasta da qualche
mondo arcaico, primordiale, ma fredda e innocente come
avorio. Qualcosa di ricavato da un osso, da una zanna:
senza rancore o eccitazione o conoscenza. Una cosa
innocente, troppo vecchia per avere preoccupazioni, viva
ma non ancora bisognosa di qualcosa. Perfettamente
soddisfatta di stare lì, di conseguire qualcosa oltre la
semplice attività… Ellen desiderò che potesse essere
sempre così, assolutamente pacifico, senza bisogni, senza
sofferenze, mai sollecitato dalla conoscenza delle cose. Ma
proprio mentre dormiva, gli angoli della bocca pallida si
piegarono in un broncio infantile. Un improvviso, ansioso
disgusto; e insieme un crescente terrore.
Forse stava sognando la rissa, la sua sfida segreta con il
nemico. Il campo di battaglia gocciolante di nebbia in cui
ombre indistinte lottavano, lui e avversari non meglio
precisati. In un corpo a corpo con qualcuno, lui non capiva
più niente… Ellen lo aveva già visto altre volte. Conosceva
la sua voglia di combattere, una voglia cieca, confusa, a
testa bassa. Una zuffa insensata per scopi troppo tenui da
comprendere, o da esprimere a parole.
Stuart si mosse nel sonno, voltando la testa da un lato.
Un rivolo di saliva gli scivolò lungo il mento, giù lungo la
gola. E lì scintillò, denso e umido, un corpo fluido che
fuggiva da lui, che colava dalla sua bocca rilassata. Forse
sognava ancora la branda dura della prigione. Forse
sognava l’incoscienza. Una mano ferita si sollevò
futilmente, batté in aria e colpì una presenza invisibile.
Sognava ancora la rissa. E la sconfitta.
«Stuart» disse decisa.
Accanto a lei suo marito grugnì, sbatté le palpebre;
tutto a un tratto i suoi occhi azzurri, sereni e sinceri la
fissarono, meravigliati, sconcertati, un po intimoriti, stupiti
di trovarla lì. Non sapeva dove fosse − lui non sapeva mai
dove fosse − e non capiva che cosa gli era successo.
«Ciao» gli disse con un filo di voce. Si chinò e gli sfiorò
dolcemente le labbra timide, ansiose. «Buongiorno.»
Gli occhi ripresero colore; Hadley fece un sorriso fiacco.
«Sei sveglia?» Si tirò su a fatica. «Che ora è?»
«Le otto.»
Hadley se ne stava tutto rannicchiato su sé stesso, con
lo sguardo corrucciato, e si massaggiava il mento ispido. «È
ora di alzarsi, direi.»
«Sì» convenne lei. Si sentì in lontananza il clacson di
un’auto, poi una porta che si apriva e un vicino di casa che
scendeva i gradini di cemento. I suoni soffocati della
gente… l’alito freddo che scintillava nell’aria. «Sembra una
bella giornata» si affrettò a dire Ellen.
«Bella giornata un cavolo.» Disorientato, si esaminò la
mano ferita.
«Che vuoi per colazione?»
«Niente.» Scosse la testa, irritato. L’intero episodio del
bar, la rissa, la polizia… era tutto indistinto, come un sogno.
Già stava scivolando via da lui. «Il doposbornia» farfugliò.
«Cristo.»
«Ti preparo il caffè?» chiese dolcemente Ellen.
«No, il dottore dice che non puoi.» Si afferrò
faticosamente alle coperte, cercando di mettersi in piedi.
«Dio» farfugliò ancora mentre i piedi toccavano il
pavimento. Per un attimo rimase in piedi accanto al letto,
guardandolo con bramosa stanchezza. Cominciò a grattarsi
meccanicamente il petto nudo e villoso. Poi si girò e uscì
faticosamente dalla camera da letto, percorse il corridoio
gelido ed entrò in bagno. Lì, lasciando la porta socchiusa, si
piazzò ciondolante davanti al water e urinò. Alla fine
grugnì, tirò l’acqua e se ne tornò ciabattando verso la
camera da letto. Giunto sulla soglia, si fermò.
«Ho perso dei soldi» le comunicò con voce smorta.
«Non importa.» Lei gli rivolse un sorriso fugace. «Non
ci pensare più e va a lavarti.»
Obbediente, Hadley prese il rasoio e le lamette dal
cassetto dell’armadio e scomparve in bagno. L’acqua calda
scrosciò nella doccia e lui vi s’infilò, riconoscente. Dopo di
che si lavò accuratamente i denti, si fece la barba, si
pettinò e uscì in cerca di abiti puliti.
«Trenta dollari» le disse.
«Ne possiamo parlare più tardi.»
Lui annuì, e ruttò. «Scusa. Posso prendere qualcosa dai
soldi di famiglia?»
«Credo di sì» rispose lei, riluttante.
Hadley prese dall’armadio una camicia bianca
inamidata. Il suo odore lo risollevò. Poi biancheria pulita e
infine i pantaloni blu, accuratamente stirati e appesi alla
stampella. Si sentiva pieno di una specie di frenesia; la
felicità dei tessuti freschi e l’odore di pulito spazzarono via
tutto il rancido della notte. Ma dietro di lui, nel letto buio e
umido, Ellen lo fissava; poteva sentire i suoi occhi avidi su
di lui. I capelli castani che ricadevano sulle spalle, i globi
rigonfi dei seni. Il ventre ingrossato, che sporgeva in modo
grottesco; ormai mancavano poche settimane. Il bambino…
l’estremo fardello. Allora non sarebbe più fuggito, e il
momento già era oppressivamente vicino.
«Non credo che andrò a lavorare» disse cupo.
«Perché no?» Ansiosa, gli chiese: «Non ti senti meglio?
Dopo che avrai mangiato qualcosa…»
«È una giornata troppo bella. Andrò a sedermi nel
parco.» Il corpo si muoveva di continuo. «Magari giocherò
a calcio con i ragazzi.»
«Sono ancora a scuola. E non è ancora la stagione del
calcio.»
«Allora giocherò a pallacanestro. O al lancio dei ferri di
cavallo.» Si girò verso di lei. «Ti va di andare in campagna
questo fine settimana? Andiamocene da qui, andiamocene
fuori, dove si può passeggiare liberamente.»
Ellen si toccò la pancia. «Non dovrei, lo sai.»
«Giusto.» La grande, fragile palla di carne… il centro
dell’universo.
«Tesoro,» disse Ellen «hai voglia di parlarmi di ieri
sera?»
Lui non ne aveva; ma la decisione nella voce di Ellen
significava che era giunto il momento. «Non c’è molto da
aggiungere» rispose. «Ti ho già raccontato tutto.»
«Ti hanno fatto… male?»
«Non è stata una rissa vera e propria. Eravamo troppo
ubriachi… Diciamo che fra noi è volato qualche pugno e
qualche parola di troppo.» Pensieroso, aggiunse a bassa
voce: «Però credo di aver colpito uno di quei bastardi. Uno
grosso. I poliziotti pensano che sia un comunista. Mentre
mi trascinavano via, io stavo urlando: ‘Andiamo, bastardi
fascisti, vi sistemo tutti’.»
«Erano solo due?»
«Quattro poliziotti, due bastardi fascisti.»
«È successo in un bar?»
«Fuori da un bar. È cominciato dentro un bar. O alla
biblioteca pubblica. Magari erano un paio di bibliotecari.»
«Stuart» disse lei «perché è successo? Cos’è che non va
in te?»
Lui s’infilò la giacca blu polvere e si fermò davanti allo
specchio per esaminarsi la faccia, i denti, gli occhi gonfi.
Fece una smorfia e schiacciò un brufolo sul mento appena
rasato.
«È Sally, vero?»
«Sì» disse lui.
«Sei teso.»
«Ci puoi scommettere, che sono teso.» Proprio quel
giorno doveva andarla a prendere.
«Vuoi… che venga con te?»
«Ci vado da solo» rispose, dirigendosi verso la porta.
L’ultima cosa che voleva era avere Ellen in mezzo ai piedi, a
rendere la situazione ancora peggiore. «Magari puoi fare
un po di pulizia in casa.»
«Non fai colazione?»
«La farò in centro.» Prese dalla teiera in cucina tutti i
soldi che c’erano, dieci o quindici dollari, e se li infilò in
tasca. Il salotto, mentre lo attraversava, era in disordine e
puzzava ancora di pere troppo mature. Non si aspettava
davvero che Ellen lo ripulisse; avrebbe cominciato, magari
avrebbe svuotato i portacenere e poi, esausta, se ne
sarebbe tornata a letto. E così l’avrebbe ritrovata, quella
sera, quando fosse tornato a casa insieme a sua sorella. Era
rassegnato.
«Augurami buona fortuna» disse sulla porta del
corridoio.
Adesso lei era scesa dal letto e si stava allacciando la
pesante vestaglia azzurra. «Passerai prima a casa? O
andrai direttamente là?»
«Dipende da come va la giornata» rispose. «Ti
chiamerò.» Non la salutò con un bado ma fece un gesto con
la mano, sorrise e si avviò lungo il corridoio. Poco dopo era
fuori, sul marciapiede, diretto verso il centro.
Quando non pioveva, andava al lavoro a piedi. Ma oggi il
contatto delle scarpe sul terreno gli faceva venire mal di
testa. Appena svoltato in Madison Avenue, la vista cominciò
a ballargli, e gli provocò un senso di nausea; si domandò se
ce l’avrebbe fatta. Al diavolo la colazione: nelle sue
condizioni non sarebbe riuscito a mandare giù nemmeno un
bicchiere di succo di pomodoro.
Al Lucy Market il droghiere italiano stava sistemando i
lunghi scaffali di pompelmi e arance. Fece un cenno con la
mano a Hadley, che rispose meccanicamente al saluto. Fece
un cenno di saluto per abitudine anche all’impiegato della
gioielleria e alla vecchietta rinsecchita del negozio di
cancelleria di Wetherby.
Sulla soglia del Golden State Café la piccola cameriera
dai capelli neri ciondolava nella sua divisa in perfetto
ordine, gonna e blusa rosse, il cappello sbarazzino sepolto
fra i riccioli scuri. «Ciao» lo salutò timidamente.
La vista di lei lo ravvivò per un attimo. «Come stai?» le
chiese, fermandosi.
«È una bella giornata» rispose, con un sorriso
civettuolo. Hadley era un bell’uomo, e aveva molta cura
della sua persona: era un buon partito per una ragazza…
specialmente per una che non sapeva che era sposato e
prossimo ad avere un figlio.
Hadley si accese una sigaretta e domandò: «Quand’è
che stacchi?» Indicò il Modern TV Sales and Service, che si
trovava appena più in là. «Vieni a trovarmi e ti darò una
dimostrazione televisiva gratuita.»
La ragazza fece una risatina smaliziata. «Una
dimostrazione gratuita di che?»
Hadley fece un gran sorriso e proseguì lungo il
marciapiede, entrando poi nella penombra del negozio. In
quel luogo familiare fatto di silenzio e di penombra, dove
lavorava fin da quando andava ancora all’università.

Stuart Wilson Hadley sedeva curvo davanti al suo pasto


in fondo all’Health Food Store, piluccando infastidito il suo
piatto di insalata verde e fettine di manzo con panna su
pane tostato. L’orologio sopra il bancone segnava le dodici
e trenta. Gli rimanevano venti minuti della sua pausa
pranzo. Sedeva lì da quaranta minuti e non aveva mangiato
nulla.
Il locale era pieno di donne che chiacchieravano. Gli
davano fastidio; ogni cosa gli dava fastidio. Aveva lo
stomaco in subbuglio e un dolore sordo alla testa. Cominciò
a strappare senza scopo il tovagliolo di carta, poi ne fece
una palla. Probabilmente Ellen stava dormendo. A volte
restava a letto fino alle tre o alle quattro del pomeriggio.
Avrebbe voluto essere con lei; quell’incessante concerto di
strilli e risate era troppo per lui. Avrebbe dovuto mangiare
da Jack, un ristorantino specializzato in bistecche: un bel
piatto di fagioli rossi, maiale, riso e caffè bollente.
Lo stomaco gli gorgogliava dolorosamente. Da Jack ci
sarebbe stato l’odore di grasso e di patatine fritte
gocciolanti che trasudava dalle pareti. Goccioline di grasso
scintillante, simile a sudore, lungo l’intonaco, infiammate
dal cuoco che friggeva davanti al fornello. Nuvole di fumo
di sigaro emesso da uomini d’affari intenti a raccontare
barzellette sporche, stipati nei séparé come tanti vegetali
dentro una cassetta. Il locale di Jack era una grotta di
rumore da jukebox, una ritirata piena di fumo e di grugniti
da latrina, un bagno turco di pagine sportive e
stuzzicadenti e schizzi di ketchup. Stuart Hadley non
faceva parte di quella palestra di sudaticcio e di hamburger
affumicati pieni di cipolla; come faceva un uomo sensibile
come lui a consumare un pasto in una specie di spogliatoio,
circondato da biancheria sporca e piedi d’atleta?
Mangiare da Jack significava ritrovarsi in un liceo, nel
sudore e nella fatica dei suoi anni giovanili. I grassi uomini
di successo che frequentavano Jack si erano fatti strada fin
lì direttamente dai calzoni corti e dalle scarpe da tennis e
dalle docce in palestra, portandosi i sospensori di un tempo
ormai ridotti a stringhe sfilacciate e marcite. Il tormento,
da Jack, riportava Stuart nell’esatto momento in cui si
arrampicava sulla corda appesa al soffitto della palestra del
liceo di Cedar Groves, il momento in cui era rimasto
tormentosamente sospeso a mezz’aria, circondato da volti
irridenti, pietosamente aggrappato ben sotto il nodo − il
segno del successo − per poi ricadere spossato, senza più
energie, fino al pavimento lucido. Stuart Hadley che
dondolava dal soffitto, una mosca fra le bocche di tanti
ragni… e dietro di lui era salito il piccolo ebreo ossuto, Ira
Silberman, asiatico, capace, sorridente. Jack, e il locale
prendeva il nome da lui, era greco. Sghignazzava dietro il
registratore di cassa e dava il resto con dita competenti,
una mano dopo l’altra, secondo un rituale ripetuto in
eterno.
Hadley si domandò dove stesse andando la gente che gli
passava accanto di corsa. Così veloce… senza dubbio
doveva essere qualcosa di importante. Qualcosa di serio,
per fare qualcosa di vitale. Era incredibile che così tante
persone potessero essere in giro, tutte con incombenze
significative, tutte attratte da traguardi ben precisi.
Coinvolte in schemi e progetti complessi… azioni di portata
cosmica.
Con riluttanza si voltò e attraversò la strada. I passi
erano faticosi; non aveva voglia di tornare in quel misero
negozietto. Doveva trovare qualcosa per non andarci.
Poteva nascondersi per un momento nel gabinetto giù in
basso, ma poi… doveva risalire e affrontare i clienti dalle
facce spente.
Nella vetrina dell’Health Food Store c’era una grossa
fotografia lucida di Theodore Beckheim, sistemata proprio
in mezzo alle cassette di datteri e di noci. Vi si fermò
davanti per la centesima volta; era lì da maggio. Beckheim
stava risalendo la costa da Los Angeles, dove lui e i suoi
avevano il quartier generale.
Il pesante volto scuro dell’uomo restituì lo sguardo a
Hadley; senza sapere bene perché, lui si sentì a disagio.
L’uomo era incredibilmente autoritario, possente. I grandi
occhi neri e la fronte sormontata da sopracciglia massicce
lo facevano sembrare una specie di gigante primordiale,
una leggenda del remoto passato. Sotto la foto di Theodore
Beckheim c’era scritto:
Parlerà nella Sala dei guardiani di Gesù il 6, 7 e 8 giugno alle 20.
Ingresso libero. Sono gradite donazioni. ‘Purezza: la Bibbia ci
racconta l’Ordine Mondiale di Domani’. Conferenza seguita da
una discussione. Tutti sono invitati.
Società dei guardiani di Gesù.

Hadley fissò con aria assente le parole, poi di nuovo


quel volto espressivo. La fotografia stava lì da così tanto
tempo che lui avrebbe potuto descriverne ogni minimo
particolare. Era come se Beckheim fosse davvero qualcuno
che conosceva e non un remoto uomo pubblico, il leader di
una setta religiosa. C’era il nome sul manifesto: Società dei
guardiani di Gesù. Una società presente in tutto il mondo…
pubblicazioni, un settimanale venduto all’angolo delle
strade. Seguaci in America del Sud, in Africa, in Islanda, in
Iran. Il potere della Bibbia… la Parola che guarisce.
Più la esaminava, più l’immagine di Theodore Beckheim
gli sembrava familiare. Per un momento gli ricordò
Franklin Delano Roosevelt; poi fu come suo padre, come
vagamente lo ricordava, grosso e con la voce profonda,
forte. E qualcosa in quella fronte nera e massiccia era lo
sguardo severo del professore di fisica del liceo, un uomo
che marciava lungo il corridoio a passo deciso e veloce, in
una lunga mantella bianca che si rigonfiava dietro di lui
come quella di San Paolo. L’immagine diede a Hadley la
stessa nervosa, imbarazzata sensazione dei manifesti che
invitavano ad arruolarsi nell’esercito. Una parte della sua
mente gli diceva che l’avevano fatta volutamente in quel
modo e che l’intera faccenda era soltanto una creazione
pubblicitaria volta a suggestionare. E un’altra parte esitava
e s’illuminava, e nel petto il cuore si ammorbidiva come
grasso di pancetta dentro una padella.
Era strano come un uomo che non aveva mai visto o
ascoltato potesse farlo sentire in quel modo. Ma era già
successo prima. Almeno, parte di quella sensazione l’aveva
già provata. Era questa la cosa strana: la sua sensazione
era una somma impacchettata di tutte le sensazioni
precedenti, come se fossero presenti in quel momento tutti
gli uomini che lo avevano attratto. D’altra parte lui era
convinto che Beckheim fosse un nero. E i neri non gli erano
mai piaciuti… Non aveva senso. Ed era anche convinto che
quasi tutti i seguaci di Beckheim fossero vecchie acide e
chiacchierone. Odiava le donne come quelle.
L’orologio segnava le quattro. Adesso l’Health Food
Store era quasi vuoto. Le donne erano tornate tutte
zampettando nei loro uffici e nelle loro case. Betty stava
ripulendo di buona lena il bancone dai piatti e dai
portacenere e dalle tazze mezze vuote di caffè in cui erano
stati infilati i tovaglioli di carta appallottolati. A uno dei
tavoli un ometto scialbo con un vestito a righe, gli occhiali
con la montatura metallica appollaiati sul naso, un accenno
di baffi sulla bocca sottile, stava placidamente prendendo
col cucchiaio un budino alla tapioca mentre leggeva un
articolo sul giornale.
Hadley rientrò nel locale e si sedette su uno degli
sgabelli davanti al bancone, le mani strette davanti a sé
sull’umido ripiano cerato.
«Che c’è, Stuart?» chiese stancamente Betty, con un
sorriso appena accennato.
«Dammi una bottiglia di acqua frizzante e uno di quei
piccoli barattoli di estratto di sedano. Così posso fare un
fosfato di sedano.»
Al suo tavolo l’ometto con il vestito a righe mise via il
giornale. «Stuart!» chiamò con una vocetta amichevole.
«Perbacco, come te la passi?»
«Salve, Wakefield» disse Hadley in tono evasivo.
«Vieni, unisciti a me.» Wakefield agitò il cucchiaio con
un gesto invitante, sparandogli un sorriso gioviale con
tanto di dente d’oro. Hadley scese dallo sgabello e si avviò
indifferente verso il tavolo. «Sto leggendo un interessante
articolo sui vaccini» affermò tutto orgoglioso l’ometto, che
sembrava una prugna rinsecchita. «Di Bernard Shaw, il
grande drammaturgo inglese. Potrebbe interessarti.»
«Devo tornare al negozio» fece vago Hadley. «Come va
il mercato dei fiori?»
«Non posso lamentarmi.» Wakefield fece un cenno
d’assenso: era sempre solenne e dignitoso quando si
parlava del suo negozio di fiori. «Fatti vedere qualche volta
e ti regalo un bel garofano rosso da mettere all’occhiello.»
Studiò con aria critica il vestito di Hadley. «Mmh, su quel
vestito magari starebbe meglio una gardenia bianca. Il
rosso striderebbe. Qualcosa di bianco, direi… sì, una
gardenia.» Si chinò verso Hadley e si grattò un orecchio.
«È come pompare arsenico nel sangue di un bambino.
Miliardi di cadaveri di germi morti. Macinati e pompati nel
bambino. Diabolico! Leggiti questo articolo.» Sospinse il
giornale con insistenza verso il polso di Hadley.
«Diffondono la malattia in tutto il mondo. L’unico vero modo
per guarire, come sa ogni persona sana, è attraverso
un’alimentazione corretta. Ricorda, ciò che metti nello
stomaco ti esce dall’anima. Giusto?» Alzò la voce. «Non è
giusto, Betty?»
«Sì, Horace» rispose Betty fiaccamente, mentre portava
le due bottiglie al bancone e sprofondava sul suo sgabello.
«Un dollaro e quaranta, Stuart.»
Wakefield strinse il polso di Hadley con le dita fredde e
sottili. «Lo sai che cosa provoca il cancro? Mangiare carne.
Il grasso del maiale e del manzo, soprattutto del maiale. Il
grasso di agnello è una delle sostanze conosciute più
difficili da digerire. Si deposita nel basso tratto
gastrointestinale e imputridisce. A volte un pezzo di agnello
ci rimane per settimane, marcio e puzzolente.» Le labbra si
ritrassero dal dente d’oro in una smorfia di disgusto; dietro
gli occhiati bordati di metallo gli occhi sgranati danzavano
tutti eccitati. «Un uomo si trasforma in un deposito di
immondizia. Mucchi puzzolenti di avanzi e sporcizia, con
mosche e vermi che ci brulicano sopra. Nel maiale c’è quel
verme della trichinosi. Scava nei muscoli e ti attraversa il
corpo. Piccoli vermi bianchi e morbidi che scavano,
scavano…» Rabbrividì e tornò al suo budino di tapioca.
«Ricordati, Stuart,» disse con calma mentre raccoglieva
accuratamente col cucchiaio ciò che rimaneva del budino
«ciò che metti nello stomaco ti esce dall’anima.»
Hadley pagò le due bottiglie e uscì dal locale nel sole
accecante. In fondo alla sua mente c’era la vaga idea che
rimuginava ormai da diverse settimane; strinse le bottiglie
mentre procedeva lungo il marciapiede. S’immerse nella
fresca penombra del negozio, con gli occhi bassi.
Al banco principale, Fergesson era circondato dai
clienti. Olsen, il grosso tecnico dalle spalle ricurve, era
salito dal seminterrato per aiutarlo. Stava rabbiosamente
cercando una puntina da grammofono per una corpulenta
donna di colore e contemporaneamente rispondeva al
telefono. Fergesson trafisse Hadley con un’occhiataccia
rabbiosa, ma Hadley pensava solo alle due bottiglie. Le
portò con grande cautela attraverso il negozio e su per le
strette scale che portavano all’ufficio.
Seduto alla scrivania, intento a preparare i cartellini
degli oggetti da consegnare, c’era il giovane Joe Tampini,
l’italiano di bell’aspetto dai capelli neri che si occupava
delle spedizioni. Tampini sorrise timidamente quando
Hadley si sedette accanto al tavolo con la macchina da
scrivere e posò meticolosamente le due bottiglie.
«Che cos’ha con sé, signor Hadley?» gli chiese Tampini,
curioso ma educato, un giovanotto pieno di sensibilità che
orbitava alla periferia della vita sociale del negozio.
Hadley cominciò a cercare sulla scrivania invasa da
robacce. Trovò un bicchiere macchiato e alla fine un
apribottiglie. «Qualcosa da bere» borbottò. «Che ti
sembra?»
«Posso averne un po’?» Tampini sorrise speranzoso, ma
Hadley gli voltò subito le spalle e lo ignorò.
«Non ti piacerebbe» gli disse. Circondato da schedari,
mucchi di fatture e bolle di consegna, foto impolverate di
donne nude, penne e matite, la vecchia macchina da
scrivere Royal, Hadley aprì con circospezione la bottiglia e
cominciò a preparare il fosfato di sedano.

«Lo beva» disse Hadley amabilmente, incalzando


Fergesson.
«Che diavolo è, in nome di Dio?» domandò Fergesson.
«Fosfato di sedano. Le farà bene… lo provi. Ha un
sapore insolito, ma una volta abituati è davvero buono.»
Fergesson sbuffò di disgusto. Il negozio era finalmente
vuoto; file di televisori borbottavano da soli sotto di loro.
Olsen se n’era tornato al suo posto di lavoro nel
seminterrato. Tampini era fuori, al furgone, per gli ultimi
dettagli delle spedizioni di giornata. «Dove cavolo sei
stato?» chiese Fergesson. «Ci hai messo un’ora e mezza per
il tuo dannato pranzo… dovrei trattenertelo dallo
stipendio.»
Hadley sentì l’indignazione crescergli dentro. Si riprese
rabbiosamente l’allettante bicchiere di fosfato di sedano.
«Non è vero… sono rimasto bloccato da un semaforo, tutto
qui. Saranno stati al massimo un paio di minuti.» L’intera
faccenda era diventata indistinta per lui; non vedeva
proprio motivo di parlarne. Non aveva appena speso più di
un dollaro per il fosfato di sedano di Fergesson? «Ma
certo» disse, infuriato. «Me lo trattenga pure dallo
stipendio.»
«A che servirebbe?» borbottò Fergesson fra sé e sé.
«Devo andare da un cliente. Tornerò fra mezz’ora… A
questo punto probabilmente sarà morto stecchito.»
Scomparve lungo le scale e uscì di corsa dal negozio.
Hadley sospirò e si accese una sigaretta. Sapeva che
sarebbe dovuto scendere: c’erano tre nuovi combinati
Philco da sistemare e montare. Il lavoro toccava a lui; lui
aveva la pazienza e l’abilità di starsene seduto in eterno ad
aggiustare le cose, giorno dopo giorno. Ma invece di
scendere, se ne rimase alla scrivania dell’ufficio, con la
sigaretta fra le dita, facendo scorrere oziosamente le dita
sul bicchiere di fosfato di sedano. Ne bevve distrattamente
un sorso, ma l’acqua frizzante aveva già cominciato a
svaporare e ciò che rimaneva sapeva solo di verdura e di
stantio, e non era per niente invitante.
Una signora anziana si trascinò nel negozio e restò lì ad
ansimare, piegata davanti al banco, con la grossa borsa
della spesa appoggiata sul pavimento. Hadley la guardò
dall’alto con tenerezza mentre lei, sempre col fiato corto,
farfugliava e lanciava occhiate sospettose nel negozio
deserto, impaziente che il commesso si facesse vedere.
Una stanchezza torpida e ottundente si insinuò nelle
ossa di Hadley. Pigramente, il miasma risalì come fumo
grigio di sigaretta, in ogni parte del suo corpo. Dapprima i
piedi, poi le gambe e i fianchi, infine le braccia e le mani si
addormentarono. Il mento tremolò e gli cedette mentre lui
continuava a fissare la vecchia con aria assente. Gli
ricordava sua nonna, quando era andato a trovarla a
Baltimora. Solo che la sua faccia era troppo dura e gretta. I
suoi occhi continuavano a lanciare occhiatacce. Ed era più
piccola e più vecchia. Hadley si domandò che cosa volesse
quella donna anziana. Magari dentro la borsa rigonfia c’era
una radio Atwater Kent rotta. Magari c’era un mucchio di
vecchie e polverose valvole da controllare, ognuna avvolta
in un foglio di giornale. Magari c’era una sua radio giù nel
seminterrato, un modello immenso di quelli a mobiletto che
solo per portarla su ci volevano tre uomini e un somaro.
Magari voleva un pacchetto di puntine Kacti per il suo
grammofono a molla.
Hadley sbadigliò, e il suono attirò l’attenzione della
donna. Sentendosi in colpa, si mosse. Schiacciò la sigaretta
e scese pesantemente le scale fino al pianterreno. Le
gambe gli tremolavano e riuscì a stento ad arrivare fino al
bancone. La vecchia, il negozio, le file rimbombanti di
televisori, tutto si perse in una nebbia avvolgente di
torpore. Quella mattina si era svegliato troppo
bruscamente. Avrebbe dovuto alzarsi piano, respirando a
fondo a ogni movimento. Aprire la finestra e fare qualcuno
dei suoi speciali esercizi di respirazione. Magari farsi una
doccia gelata. Almeno una regolare colazione. L’intera
giornata era partita col piede sbagliato… E adesso che
stava per finire, le sue ultime riserve di energie si
assottigliavano.
«Posso esserle utile?» chiese alla vecchietta.
Due occhi stanchi, astuti, antichi e scoloriti lo
fulminarono. «Lei lavora qui?» gli domandò la donna.
«Sì» rispose Hadley.
«È strano» disse la vecchia. Sul volto segnato c’era
un’espressione di marcato sospetto. «Non l’ho mai vista
prima.» Una categorica decisione s’insinuò nella sua voce e
vi s’indurì. «Lei non è la persona che mi serve quando
vengo qui.»
Hadley non trovò parole per controbattere.
«No» ribadì la vecchia scuotendo la testa con un gesto
in parte di delusione in parte di stanchezza. «Lei non è la
persona che mi serve. La persona che mi serve è molto più
anziana. Lei è appena un ragazzo.»
«Sono anni che lavoro qui» confermò Hadley, stordito.
«L’uomo che mi serve è più scuro e più basso. Ha un
viso buono. È un uomo gentile, servizievole. Mi serve da
tredici anni. Da quando sono venuta in California e ho
preso la mia camera al National Hotel.»
«Ho una moglie» disse Hadley, impotente. «Non sono un
ragazzo.»
«Quest’uomo è il proprietario del negozio. Mi ha
aggiustato la radio quando nessuno voleva nemmeno
guardarla. Ci sa fare con le radio. Ha in faccia una
gentilezza assennata. Nella sua non c’è nessuna gentilezza.
La sua faccia è vuota e crudele. È una faccia brutta. Lei è
bello e biondo, ma la sua faccia è brutta.»
«Lei cerca il signor Fergesson» riuscì a dire Hadley.
«Non è qui. È andato da qualche parte.»
«Il signor Fergesson è l’uomo che mi serve» disse con
enfasi la vecchietta. «Lei dice che è andato da qualche
parte. Be’, non sa dove? Non sa quando torna? Ho la mia
radio nella borsa. Voglio che me la guardi. Lui può dirmi
cosa c’è che non funziona. Nessun altro può farlo.»
«Tornerà fra una mezz’oretta» farfugliò Hadley. «Se
vuole può aspettarlo. O magari può lasciare la radio.»
«No» disse con decisione la vecchia. «Non posso
lasciare la mia radio.»
«Allora può aspettare.»
«Crede che potrei aspettare per mezz’ora? Una persona
anziana come me non può restare in piedi così a lungo.»
«Le troverò una sedia» propose Hadley.
«No» disse la vecchia. Si avviò verso la porta
trascinandosi dietro la grossa borsa della spesa. «Tornerò
un’altra volta.» Studiò il volto di Hadley con gli occhi
stanchi e delusi. «È sicuro di lavorare qui, giovanotto? Non
l’ho mai vista prima. È sicuro di non essere anche lei un
cliente in attesa?»
«Io lavoro qui» rispose Hadley con voce impastata.
«Non sono un cliente in attesa.»
«Lei sta aspettando che quell’uomo tomi. Il proprietario
del negozio. No, lei non fa parte di questo negozio. Ne sono
sicura. Non so dove lavori, ma non qui.»
Si trascinò via a fatica.
Hadley si mosse, istupidito, e staccò la spina che
alimentava la fila di televisori strepitanti. Divennero
improvvisamente silenziosi e subito la vuota penombra del
negozio si sollevò intorno a lui e lo soffocò. Ne riaccese
qualcuno, poi raggiunse come un ossesso la porta, uscendo
sul marciapiede.
La vecchia stava attraversando la strada con un
mucchio di sacchetti della spesa. Hadley la seguì con lo
guardo fino a quando non scomparve. Che voleva dire
quella donna? Chi era? Dentro il negozio buio un televisore
farfugliava a sé stesso; il suo singolo occhio baluginava
irregolarmente nell’ombra torbida. Le forme andavano e
venivano, figure diffuse di uomini e cose che restavano un
attimo sospese e poi svanivano.
Hadley voltò le spalle al negozio e al televisore.
Convinse le sue orecchie a riempirsi dello strombazzare
delle auto, del battito ritmato di piedi umani sul
marciapiede caldo del tardo pomeriggio; riuscì a escludere
i suoni morti privi di colore e di vita, il vacuo vociare che
proveniva dal negozio. In piedi davanti alla vetrina, le mani
infilate nelle tasche dei pantaloni, inalò con avidità il calore
del sole e della gente, il flusso vitale dell’attività.
Ma le parole della vecchia gli ronzavano ancora
all’orecchio.
Aveva ragione: lui non faceva parte del negozio. Non era
un venditore di televisori. Guardò le persone che passavano
provando un acuto senso di desiderio. Doveva essere là
fuori, insieme a loro, parte di loro. A muoversi, non tagliato
fuori e isolato nell’acquitrino stagnante di un negozietto
ammuffito.
Lungo il marciapiede giunse un giovane ben vestito. Era
un po grassoccio, ma per il resto impeccabile. Un corpo
morbido in un costoso abito inglese, e scarpe ovviamente
fatte a mano. Aveva i capelli sottili, neri, appena lucidi.
Mentre lanciava una rapida occhiata a Hadley, i suoi occhi
rivelarono una vitalità ricca e forte. Unghie, polsini,
portamento, tutto di lui rivelava l’origine continentale.
Lo guardò passare mangiandoselo con gli occhi. Poteva
essere Hadley. In altre circostanze sarebbe stato lui, Stuart
Hadley, con un soprabito sotto il braccio, alto, scuro, pieno
di dignità. Un debole profumo di colonia maschile gli
aleggiava intorno. Hadley poteva immaginare il suo
appartamento: stampe moderne alle pareti, cuscini sul
pavimento, tappeti cinesi, musica di Bartók che suonava in
sottofondo su un giradischi fatto su ordinazione, romanzi
francesi in edizioni economica. Gide, Proust, Céline…
Guardò l’uomo che svoltava in un parcheggio e si
avvicinava a una piccola macchina sportiva europea. Salì a
bordo, avviò il motore e schizzò fuori dal parcheggio sulla
strada. Dopo un attimo auto e guidatore svanirono, persi
dietro un grosso camion della General Motors. Hadley
distolse lo sguardo. Ahimè, non sapeva nemmeno che
macchina fosse. Lentamente, con tristezza, lasciò il
marciapiede e rientrò in negozio.
Per un po restò immobile nell’oscurità finché gli occhi
non si abituarono. Il freddo che quella vecchia trasmetteva,
il lezzo grigio dell’età e della morte avevano finalmente
cominciato a dileguarsi. Hadley prese la grossa macchina
sparagraffette dal banco e cominciò a piantare graffette
qua e là. Quell’attrezzo gli aveva sempre recato conforto:
adorava maneggiarla. Con accanimento le graffette
ticchettarono sulle pareti, sugli espositori, sul pavimento,
dietro i televisori; brandendo l’attrezzo come se fosse una
vera pistola, Hadley si avvicinò al televisore che continuava
a blaterare in mezzo alla fila e gli sparò a bruciapelo. La
graffetta rimbalzò indietro, appagata, e lui si allontanò.
Come faceva spesso, adesso sparò a caso, ma senza
soddisfazione: aveva esaurito tutte le possibilità di
quell’arma. Tornò a gettarla sul banco e si andò ad
appostare sulla soglia, osservando di malumore la gente
che passava e frugandosi in tasca in cerca di una sigaretta.
La vecchietta aveva ragione. Doveva lasciare il negozio.
Ripensò al cane, il cucciolo che aveva preso dalla
scatola nel garage di Pop Michelson. Morto o quasi, gettato
in un barile per la raccolta dell’acqua piovana, scartato
come spazzatura. Fra rifiuti, vecchi giornali e barattoli
vuoti. Salvato per caso… passato di mano in mano. E così
era la sua vita; era così che viveva. Muovendosi senza
meta, errabondo, passando a casaccio da un posto all’altro.
Senza scopo. Salvato per caso, condannato da altri eventi.
In un mondo senza senso.
Dall’altra parte della strada brillava un’insegna al neon
particolarmente attraente. Quella della Peninsula Travel
Agency. Grosse lettere pubblicizzavano un viaggio in
Messico; un manifesto a colori vivaci mostrava una donna
dalla carnagione scura con denti bianchi, capelli neri e
magnifici fianchi seminudi. Benvenuti in Messico. Terra di
calore e di sole. Di canzoni e di risate. Venite nel Messico
assolato. Centoquaranta dollari.
Tirò fuori il portafoglio ed esaminò le banconote infilate
dentro. Dieci dollari, quanto rimaneva del fondo di famiglia
che aveva preso a casa. Trovò ottantaquattro centesimi
nella tasca della giacca, insieme a scatole vuote di
fiammiferi, foglietti e strisce di carta sporca con i nomi dei
clienti, mozziconi di matita e un pezzo di tovagliolo.
Era tutto quello che aveva al mondo. Le ossa, i denti e la
polvere di Stuart Hadley. Ciò che sarebbe rimasto in un
mucchietto nella sua bara per i tempi dei tempi. Una
manciata di robaccia inutile, più dieci dollari e
ottantaquattro centesimi. Gettò nel cestino sotto il banco le
scatole di fiammiferi vuote e si rimise in tasca il denaro.
Quella era la manifestazione dell’inesprimibile entità
chiamata Stuart Hadley… quella, e una moglie rigonfia
intontita dal sonno, sdraiata in un letto sfatto; un cassetto
di conti non pagati; otto o dieci abiti costosi; una quantità
infinita di camicie, calzini e fazzoletti e cravatte disegnate a
mano.
Esaminò il calendario fissato al registratore di cassa.
Mancavano dieci giorni alla prossima paga; e a metà del
mese non c’erano commissioni sulle vendite. Era il sei
giugno di un’estate già impregnata di mosche. Lo aspettava
una processione esasperante di pomeriggi vuoti, e
nient’altro. Non poteva andare in Messico con dieci dollari;
era bloccato, incollato a quell’esistenza.
Ma il sei giugno Theodore Beckheim arrivava da Los
Angeles e teneva una conferenza. Una fame nervosa
tormentava Hadley. Era qualcosa, forse. Qualcosa per
spezzare la monotonia. Una speranza, una pagliuzza a cui
aggrapparsi.
Sarebbe andato a sentire Beckheim. Stuart Wilson
Hadley sarebbe stato lì.

Dave Gold, l’incarnazione vivente dei legami di Hadley


con il passato, se ne stava stravaccato sul divano nel salotto
di Hadley, le maniche della camicia bianca arrotolate fino al
gomito, le braccia magre e pelose sporte all’infuori, la pipa
fra le dita. Stuart Hadley sedeva di fronte a lui nella grossa
poltrona accanto al televisore. In cucina Ellen e Laura Gold
chiacchieravano e ridacchiavano ad alta voce mentre la
cena si cuoceva lentamente in forno.
Da quando aveva finito l’università, il corpo di Dave
Gold era diventato più pallido, più magro, e più peloso.
Aveva cambiato gli occhiali dalla montatura metallica con
un paio bordati di corno. I pantaloni erano ancora troppo
grandi, troppo spiegazzati, troppo sporchi. Le scarpe
avevano bisogno di una suola nuova. I denti non erano
lavati bene. Aveva bisogno di farsi la barba. Non portava la
cravatta; sotto la camicia del giorno prima, stropicciata di
sudore, si vedeva il petto villoso e incavato. Si guadagnava
da vivere vendendo articoli ed editoriali per pubblicazioni
laburiste e di sinistra; in un modo o nell’altro si poteva dire
che fosse abbastanza conosciuto a livello nazionale.
Di fronte a lui il proprietario dell’appartamento
ascoltava indolente ciò che Gold diceva. Stuart Hadley,
rasato di fresco, profumato, ben vestito, bello in un suo
modo fanciullesco, da nordico, con lo sguardo sognante,
non poteva impedirsi di notare come il suo amico Dave
Gold avesse l’aria di un barbone. Gli dava fastidio l’idea che
uno che non portava la cravatta, che non usava deodoranti,
potesse avere una reputazione nazionale di qualsiasi tipo.
Non aveva proprio senso.
«Mi guardi in modo strano» osservò Dave. «Che ti
prende?»
«Stavo solo pensando. Alcune cose non sono cambiate.
Sei ancora com’eri, solo che lo sei di più.»
«Vorrei che lo fossi anche tu» replicò Dave. «Non avrei
mai creduto che ti riducessi così, a lavorare in un negozio
che vende elettrodomestici.»
Al liceo, lui e Dave Gold avevano fatto parte del club di
scacchi. Dave lo aveva convinto a partecipare a una
riunione della Lega dei giovani socialisti, nel corso della
quale Hadley aveva sacrificato venticinque dollari per il
successo della rivoluzione, un concetto di cui fino a quel
momento non sapeva nulla. All’università, Dave aveva
intrallazzato per entrare a far parte dello staff che
pubblicava una rivista letteraria, un mensile umoristico e
un settimanale.
Nel 1948 Dave Gold aveva convinto Hadley a iscriversi
al Partito progressista indipendente, e ad andare a sentire
Henry Wallace e Glen Taylor, candidati del partito. Ellen
Ainsworth preparava i ciclostilati per gli studenti. Quando
Wallace perse ingloriosamente, Stuart Hadley lasciò il ppi.
Dave Gold, dal canto suo, aderì al Congresso per i Diritti
Civili e cominciò a imparare il russo alla scuola operaia di
California, a San Francisco.
In cucina la risata rauca e fragorosa di Laura Gold
copriva il rumore dell’acqua che bolliva. L’appartamento
era caldo, impregnato dell’odore di cibi, illuminato da una
forte luce gialla, e intimo, per la presenza di persone e
oggetti immacolati. C’era meno contrasto fra le due donne.
Ellen, goffa e grassoccia, si muoveva ondeggiando in
cucina, i morbidi capelli castani legati all’indietro con una
fascia elastica, l’abito azzurro premaman che le sporgeva
sul davanti. L’obesità dell’addome faceva sembrare le sue
gambe pallide e rachitiche; indossava calzini corti bianchi e
mocassini senza lacci; niente trucco, né smalto sulle
unghie. Aveva la pelle un po lentigginosa, morbida, quasi
lattea; labbra e occhi erano privi di colore. Laura Gold era
una donna dall’aria perennemente massiccia, con capelli
neri e ruvidi, caviglie grosse, mani sporche e denti
sporgenti. Indossava un maglione grigio, una camicetta
nera spiegazzata e scarpe da passeggio. Aveva il naso
bitorzoluto e piegato.
Mentre Stuart Hadley la fissava di cattivo umore, si
domandò come gli fosse passato per la testa di
immischiarsi con degli ebrei. Ovviamente Dave era diverso
da quasi tutti loro: non era un arrivista. Eppure aveva un
sacco di abitudini ebree: era sporco come loro, masticava il
cibo a bocca aperta, lasciava avanzi grassi di cibo nel
piatto, e chiazze sui libri…
Hadley si sforzò di ricostruire le connessioni: come
aveva cominciato a frequentare Dave Gold? Ricordò
l’insegnante di fisica del liceo con la mantella bianca
svolazzante; era lui che gestiva il club di scacchi e che
parlava con loro di Darwin e di Einstein nei lunghi
pomeriggi in cui non c’era lezione. E naturalmente in quei
giorni tanto lui che Dave erano democratici; entrambi
indossavano i distintivi con le immagini di Roosevelt e
Truman e litigavano ferocemente con i giovani repubblicani
che abitavano nelle case benestanti sulla collina.
A quei tempi entrambi si erano ritrovati dalla stessa
parte, quella del Partito democratico. Dave Gold, con un
padre finitore di legno in un mobilificio, un operaio con la
gamella del pranzo e la tuta da lavoro; Stuart Hadley, con
un padre ricco medico della buona borghesia prima di
perdere la vita in un incidente d’auto. Stuart al liceo
indossava jeans e una camicia bianca, come anche Dave.
Entrambi vestivano in modo semplice, in contrasto con i
ricchi studenti della collina che portavano costosi pantaloni
e maglioni, guidavano auto lucide, facevano parte della
fratellanze e organizzavano feste da ballo. In seguito
l’abbigliamento semplice e l’adesione allo stesso partito
avevano perso importanza. Quella che era sembrata una
profonda comunanza fra loro si era dissolta in una palese
differenza. Guardandosi indietro, Stuart si rese conto che la
Lega dei giovani socialisti era stata per lui soltanto una
conferenza accademica, una presentazione di idee, come la
fisica e gli scacchi. Il padre di Dave Gold era stato un
wobbly1, era stato picchiato e incarcerato. Aveva
partecipato ai picchetti dei lavoratori e distribuito opuscoli
marxisti. Il padre di Hadley era stato un medico rispettabile
con un buon lavoro, uno studio e una reputazione, un
dignitoso professionista che aveva portato moglie e figli a
La-Salle, e aveva fatto parte dell’Associazione dei medici
americani.
«Hai sentito niente?» gli chiese Da ve. «Magari una
parola, di tutto quello che ho detto?»
«No» ammise Hadley. «Scusa… Il lavoro mi sta
sfiancando. Il venerdì è il giorno peggiore della settimana.
Si lavora fino a tardi.»
«Adesso è finita. Puoi rilassarti.»
«Sono troppo stanco per rilassarmi. E poi c’è domani…
sabato!»
«Non riesco a capire come si faccia a lavorare sei giorni
la settimana» disse Dave Gold, sbuffando fumo dalla pipa.
«Non puoi iscriverti al sindacato dei lavoratori del
commercio? Nessuno ha mai cercato di sindacalizzare il tuo
negozio?»
«Piuttosto Fergesson lo chiuderebbe.»
«Questo Fergesson dev’essere proprio un bel tipo. È
quello che ho visto, un uomo di mezza età con un antiquato
vestito blu, il panciotto e l’orologio da taschino? Mio Dio, è
proprio di un altro secolo. Virtualmente un fossile vivente.»
«È proprio lui.»
«Non crede nei sindacati? I piccoli commercianti si
identificano con i grandi affari; probabilmente ambisce ad
aprire una catena di negozi.»
«Proprio così.»
«Credi che ce la farà mai?»
«Può darsi. Sta mettendo da parte i soldi. Ha qualche
affare per la testa.» Di cattivo umore, Hadley lasciò cadere
l’argomento. «Avresti dovuto essere con me ieri.»
«Che hai fatto?»
«Abbiamo consegnato un combinato RCA a un pastore
sulla collina. Una casa immensa. Un giardino immenso. Una
specie di monastero… probabilmente trasportato
dall’Europa. Sua moglie è una di quelle inglesi alte, con i
capelli biondo cenere. Sembravano due re.»
«Un re e una regina» lo corresse Dave.
Hadley fissò cupamente il pavimento e proseguì:
«Abbiamo montato il combinato e sistemato l’antenna sul
tetto. Quando abbiamo finito, Anderton… il pastore, ci ha
offerto da bere. Whisky, birra o quello che volevamo.»
«Magnifico» disse Dave, approvando.
Hadley si irrigidì per la rabbia. «Un pastore! Che offre
alcolici alla gente… lo chiami magnifico?» Si alzò di scatto
e attraversò la stanza per abbassare le tende. Ripensarci
gli fece tornare in mente tutti i sentimenti che aveva
provato, il suo stupore e risentimento, e l’improvviso
disgusto nei riguardi del grande giardino e dei mobili
lussuosi. «Non credo che i ministri dovrebbero avere dei
liquori in casa» disse.
«Hai bevuto qualcosa?»
«Solo per educazione. Volevo andarmene da lì. Se i
ministri offrono whisky chi impedirà alla gente di
comportarsi in modo sbagliato? Non indossava nemmeno
un abito talare, ma vestiva in borghese. E poi tutto quel
lusso… io credevo che un pastore dovesse vivere in una
stanzetta modesta. E che non dovesse sposarsi.»
«Stai pensando ai monaci del medioevo.»
Hadley si mise a passeggiare impaziente per il piccolo
salotto illuminato. «Non vedo nessuna spiritualità in un
pastore che ha una casa lussuosa, un giardino, una moglie,
dei liquori come un qualsiasi uomo d’affari. È questo che
è… un altro uomo d’affari.»
«È vero» convenne Gold.
«Non rimane niente della religione! Vai in chiesa e il
pastore ti legge un romanzo di successo. Non è altro che
uno psicologo. E poi vanno in giro a dire che è giusto
uccidere i nemici in nome di Cristo… è questo che vuole
Dio.»
Gold rifletté. «Quando eravamo a scuola tu speravi che
tutti i giapponesi e i tedeschi venissero spazzati via dalla
faccia della terra. È interessante: adesso non sei più ben
disposto nei confronti dei proclami anteguerra.»
«Hanno fatto presto a scatenare la guerra di Corea»
disse Hadley.
Gold sogghignò. «Sì, avrebbero dovuto aspettare un po
di più. Avrebbero dovuto dare tempo alla depressione di
produrre i suoi effetti, in modo che la gente non vedesse
l’ora di andare a combattere. Questa volta i grandi
strateghi hanno sbagliato i conti.»
Ellen e Laura si trascinarono dalla cucina in salotto.
«Cos’è questa storia degli strateghi?» chiese Laura, mentre
tutte e due si lasciavano cadere sulle sedie. Intanto la cena
continuava pazientemente a cuocersi da sola.
«La guerra» rispose Dave Gold.
«Vorrei che non parlaste della guerra» disse Ellen,
rabbrividendo. «Ne parlano tutti; ogni volta che accendo la
radio o la televisione o leggo un giornale e ne scorro i titoli
non si parla d’altro.» Poi, rivolta a Laura: «Se non
aspettassi un bambino, avrebbero preso Stuart.
Naturalmente i suoi problemi al fegato aiutano… ma non si
sa mai.»
«Vedi,» disse ad alta voce Laura nel suo modo stupido e
spavaldo «hanno bisogno che i bambini crescano per la
prossima guerra. Hanno programmi a lungo termine.» Fece
una risata sguaiata, si piegò all’indietro e si frugò nel
maglione unto alla ricerca di una sigaretta.
Stuart la fissò infastidito. Sua moglie sedeva placida e
indisturbata, come se fosse la fonte del materiale, e non il
contenuto, l’elemento cui obiettare. Andava benissimo che
Laura chiacchierasse di guerra e morte poiché era un
discorso da donne, fatto fra loro, in cucina o nelle sue
vicinanze. Quando ne parlavano gli uomini veniva invasa la
santità della casa. La minaccia della guerra esterna si
faceva più vicina. A Stuart Hadley non era permesso
affrontare argomenti così spaventosi, ma un’altra donna
poteva benissimo sbrodolare il suo repertorio di
superstizioni, le sue paure da comare e i suoi lamentosi
affanni. Laura Gold, strega progressista del presente,
poteva starsene accanto a Laura e riempirle le orecchie con
la rauca spazzatura del suo mestiere senza ricavarne
indignazione, ma solo moderazione e passività. Un’altra
donna − qualsiasi altra donna − era sotto molti aspetti più
vicina a Ellen di quanto lo fosse lui. Anche quella volgare
imitazione di femminilità veniva dall’interno, era parte di
segrete rivelazioni e allusioni. C’erano regioni che lui non
poteva reclamare come sue, aree in cui non poteva entrare,
anche a casa sua. Fra le donne esisteva un’altra
dimensione e lui non vi era mai penetrato. Nessun uomo
poteva. Le donne erano la metafisica del mondo.
«Come si fa a non parlarne?» protestò Hadley. «È
tutt’intorno a noi!»
«È per questo che non voglio sentirne parlare» disse
semplicemente Ellen. Sorrise con aria sognante
guardandosi intorno per tutta la stanza, soddisfatta della
sua misera collezione di ospiti; i suoi istinti di padrona di
casa erano appagati dalla cena preparata per un’unica
sgradevole coppia. «Stuart, metti un po di musica alla
radio, non quel commentatore che non fa altro che
parlare.»
Il matrimonio e la gravidanza l’avevano ammorbidita e
ingentilita. La spigolosa circospezione dei vecchi giorni,
quando esisteva la possibilità di dover imparare a battere a
macchina e a stenografare per guadagnarsi da vivere, si
era rapidamente smussata. Privata dello stimolo alla
competizione economica, Ellen era sprofondata al livello di
un fecondo vegetale: era un principio generativo, non una
persona. Era radicata, piantata. Un melone umido e maturo
dentro pannelli di vetro. Addolcita e ingrassata come una
mantenuta, resa compiaciuta dalla sua veste di
rispettabilità.
E Hadley sapeva che Dave Gold vedeva con tolleranza
questa trasformazione da mogliettina pratica e perspicace
a un voluminoso vegetale; gli occhi calmi e attenti di Dave
scintillavano critici dietro le spesse lenti degli occhiali.
Sbuffando dalla pipa, Dave annuì non di approvazione, ma
di comprensione. «C’è isterismo nell’aria» disse. «Un
freddo vento di streghe… la paura della morte. Uomini
scaltri pregano perché succeda, se ne nutrono. McCarthy,
un uomo sveglio.»
«Non parlarmi di quel sorcio!» protestò Laura, facendo
un rabbioso movimento disgustato, come a sputare. «Quel
fascista!»
Le donne erano unite dal legame di non voler sentire
cose disgustose. Un legame comune che le collegava, la
mistica psicologia della separata razza femminile. Hadley si
rivolse a Dave Gold e riprese con voce rauca la
conversazione da dove si era interrotta. «Certo, approvavo
la guerra contro i nazisti e i giapponesi. Sono stato
felicissimo quando siamo entrati in guerra. Roosevelt ha
detto che l’Asse era il nemico del genere umano e io volevo
spazzarli via dalla faccia della terra. Ero così eccitato, quel
sette dicembre, che non sono riuscito a mangiare.»
«Era una domenica» disse nostalgica Ellen, deviando di
nuovo la conversazione. «Mi ricordo che quel pomeriggio
erano venuti i miei zii. Parenti così rigidi e formali. E io non
vedevo l’ora di andare al cinema… Davano un nuovo film
con Maria Montez.»
Hadley fissò Dave e proseguì: «Roosevelt ci disse che
dovevano essere sconfitti del tutto… senza lasciare in piedi
nemmeno un mattone. Adesso che mi guardo indietro non
capisco come ho fatto a sentirmi in quel modo. C’era un
film, un documentario. Un giapponese che fuggiva da un
bunker di Okinawa. Un soldato lo colpiva col lanciafiamme,
e quello continuava a correre mentre bruciava.» La voce di
Hadley tremava. «Incenerito, una torcia umana. Tutti in
teatro si sono messi a battere le mani e a ridere. Ridevo
anch’io.» Un’espressione fredda a dura gli si dipinse sul
viso. «Devo aver perso la testa.»
Irritata, Ellen si strinse nelle spalle. «In tempo di
guerra…»
«Sì» la interruppe Hadley. «In tempo di guerra. Quando
credi a tutto. Io credevo a tutto quello che mi dicevano.
Perché no? Era solo un ragazzo. Come facevo a sapere che
ci stavano abbindolando? Mi fidavo di loro… Non ho mai
avuto dubbi. Quando dicevano che i giapponesi erano
subumani, bestie, io ci credevo; sì, basta guardarli per
capirlo. Basta guardare quelle gambette scheletriche, quei
denti sporgenti, quegli occhi da miope… selvaggi mezzi
ciechi. Infidi?»
«Sì» confermò Dave. «Erano infidi.»
«Che altro?»
«Sogghignavano» disse Dave. «Mentre violentavano le
donne e infilzavano i bambini con le baionette,
sogghignavano.»
«Proprio così.» Hadley annuì. «Quando ho sentito che
Tokio era stata bombardata e ridotta in cenere ero così
felice che non stavo più nella pelle. Era come se la tua
squadra avesse vinto la partita più importante… gente che
applaudiva, bandiere, vessilli sventolanti. Poi ho visto quel
documentario con l’uomo che bruciava. Quell’ometto magro
e silenzioso che correva cercando di non farsi colpire dal
lanciafiamme. Che usciva dal buco, da quella caverna in cui
si era rifugiato. Sbucava fuori e veniva braccato come una
specie di insetto, come un calabrone con cui giocano i
bambini, per passare il tempo. E quella gente rideva.» La
sua voce assunse un tono amaro. «Fino a quel momento
ridevo anch’io. Ma dopo non più.»
«Adesso sono i russi» osservò Dave. «Però loro non
sogghignano. E sono omoni grandi e grossi. Non piccoli e
con le gambe magre.»
«No» disse Hadley. «Non lo farò. Una volta è più che
sufficiente. Non ci sto più. Non sono disposto a odiare i
materialisti orientali, atei e senza dio. Possono anche venire
a prendersi l’America. Se ci sarà un’altra guerra io me ne
starò qui ad aspettare la bomba. L’abbiamo inventata noi…
L’abbiamo usata sulle donne giapponesi, sui vecchi stanchi
e sui soldati feriti. L’abbiamo usata su di loro, e un giorno
loro la useranno su di noi.» Fece una smorfia. «Credo di
essere anch’io un ateo senza dio.»
«Ma pensa alle vite che abbiamo salvato» disse Ellen,
guardandolo male. «Tanti dei nostri ragazzi sarebbero stati
uccisi… La bomba ha posto fine alla guerra.»
La smorfia di Hadley divenne più accentuata. «La morte
pone fine a tutto, non solo alle guerre. Quando ci
fermeremo? Dopo gli atei senza dio vengono quelli che
muoiono semplicemente di fame.»
«Non è colpa nostra» fece elusiva Ellen. «E guarda
quello che succede quando cerchiamo di aiutarli… ci
odiano. Sono invidiosi.»
«Sono invidiosi» disse Hadley «perché sanno che la
nostra ricchezza non ci appartiene. Sanno che è stata
rubata. Sanno da dove proviene, sanno che in parte
dovrebbe essere loro. Stiamo marcendo nella ricchezza e
nell’opulenza. Meritiamo di essere massacrati. Non lo
capisci? Non lo sai? È il nostro peccato, la nostra colpa. Ci
meritiamo la punizione che sta per arrivare.»
«Non parlare così» si stizzì Ellen; suo marito stava
interferendo sulla rilassata atmosfera sodale che lei aveva
programmato. Ma c’era di più: Ellen riconosceva
quell’espressione sulla sua faccia, quello sguardo duro e
privo di emozioni che emergeva in superficie quando si
toccavano le radia più profonde del suo scoramento. Quello
sguardo la rendeva nervosa e tesa per l’apprensione.
«Siediti e comportati bene» gli disse, secca.
Hadley la ignorò e continuò a passeggiare per la stanza.
«Questo paese è il male. Siamo grossi e ricchi e pieni di
orgoglio. Spendiamo e sperperiamo e ce ne freghiamo del
resto del mondo.» Si rivolse a Laura. «Un pastore che ho
conosciuto ieri mi ha offerto una bevanda alcolica con
ghiaccio. Ha una grande casa lussuosa e una splendida
moglie e un televisore da ottocento dollari e un frigorifero
pieno di liquori.»
«Che c’entra?» disse Ellen, alzandosi in piedi tutta
infervorata. «Anche noi abbiamo liquori in casa; tu te ne vai
sempre in qualche bar scalcinato a bere birra, come l’altra
sera quando sei stato fuori fino alle due e ho dovuto
faticare a svegliarti quando era ora di alzarti per andare al
lavoro.» Rossa in faccia, continuò: «Il modo in cui parli mi
fa venire i nervi. Non piacerebbe anche a te una bella casa
grande? Se potessimo permetterci un televisore da
ottocento dollari ce lo compreremmo, puoi giurarci… e di
chi è la colpa se non possiamo permettercelo? Non
rinfacciare agli altri il loro successo. Tu sei invidioso, ecco
quello che non va in te. Sei invidioso di quell’uomo.» Si
mise ad ansimare. «Che aspetto aveva?»
Hadley sbatte le palpebre. «Chi?»
«Sua moglie.»
Hadley tornò con la memoria sulla scena. Mentre lui e
Olsen se ne stavano accucciati, grugnendo e sudando a
sistemare il televisore, la signora Anderton era comparsa ai
piedi delle scale. Con una mano appoggiata sulla ringhiera
li aveva squadrati con freddezza, una figura esile e alta in
una vestaglia lunga fino a terra, i capelli biondo scuri sciolti
sulle spalle, il volto calmo, nobile. «Era bellissima» rispose
sinceramente Hadley. «Una principessa.»
La faccia di Ellen si contrasse. Prima che potesse
replicare, Laura Gold cominciò a ridacchiare stupidamente.
«Stuart, sei così borghese da fare schifo. E diventi sempre
più borghese.»
Hadley la fulminò con lo sguardo. «Io ho gusto; c’è
qualcosa di sbagliato nell’avere gusto e nel voler vivere
decentemente?»
«Credevo che fossi contrario a ciò che possiede
quell’uomo» disse Dave Gold, stupito e perplesso. «Non ti
seguo, Stuart. Da come parlavi sembrava volessi che quelle
cose venissero spazzate via… e adesso dici…»
«Non credo che dovrebbe vivere in quel modo» ribatté
Hadley, cocciuto. «Non è giusto.»
Ellen si alzò, gelida e ostile. «Sento l’odore dell’arrosto.
Stuart, va a lavarti le mani.» Scomparve in cucina, larga e
ondeggiante. Laura la seguì; voci basse, poi risatine acute
giunsero fino al salotto.
Hadley e Dave Gold si guardarono da una parte all’altra
della stanza.
«Che sai della Società dei guardiani di Gesù?» chiese
Hadley.
Gold soffiò il fumo della pipa. «Non molto.»
«C’è una riunione stasera.»
Gold annuì. «Lo so. Stuart, non sono affari miei, ma
dovresti lasciare il tuo lavoro. Ti stai consumando a
lavorare in quel negozietto da quattro soldi. Non dovresti
lavorare per quell’uomo. Che te ne importa dei televisori?
Vattene via da lì.»
Hadley allargò le mani, impotente. «E come? Cristo, non
è questo il momento di andarsene, con il bambino in
arrivo.»
«Hai messo da parte qualcosa?»
«Un paio di centoni per le spese dell’ospedale.» Non era
vero, non aveva messo da parte così tanto, ma ancora non
sapeva esattamente quanto fosse.
«Non puoi farti dare qualcosa da tua madre?»
«Detesto l’idea di mendicare da lei. Preferisco
cavarmela da solo. Io… non voglio scriverle a meno che non
abbia davvero bisogno di soldi.»
Dave divenne riflessivo. «E da tua sorella?» Frugò nella
memoria. «Che ne è stato di Sally? Non la vedo più dai
tempi del liceo.»
«Si è sposata. Vive a Berkeley. E sono sicurissimo che
non scriverò nemmeno a loro per chiedere soldi.» Hadley si
stava arrabbiando, e si sentiva sempre più infastidito a ogni
momento che passava. «Tu non hai mai conosciuto Sally…
non l’hai mai incontrata in vita tua.»
«Era sempre in giro» disse Dave, accondiscendente.
«Cristo, conoscevo tua sorella e tua madre, le conoscevo fin
da quando facevamo la prima liceo.»
«D’accordo» borbottò Hadley, smanioso di lasciar
cadere l’argomento. Detestava il pensiero del sudicio,
impataccato Dave Gold che conosceva sua sorella,
addirittura l’idea che potesse far parte del suo stesso
mondo. «Se sarà necessario, posso farmi dare un anticipo
sulla mia assicurazione sulla vita.» L’aveva già fatto,
ovviamente, e adesso si domandava se ne fosse davvero
valsa la pena. «Potrei anche farmi dare un anticipo da
Fergesson… Quando ci siamo sposati mi ha prestato un
centinaio di dollari.»
«Briciole» disse Dave, disgustato. «Probabilmente se li
sarà già ripresi dal tuo salario.»
«In quale altro modo poteva riprenderseli?»
Dave scosse la pipa contro un portacenere e pescò nelle
tasche dei pantaloni pieni di macchie in cerca del tabacco.
«Vorrei tanto potervi sindacalizzare, a voialtri colletti
bianchi piccolo borghesi. Dovete essere milioni, ma non vi
fate vedere… Siete un’enorme massa indifferenziata. Vi
vedo a bordo delle vostre dannate automobili, la domenica,
quando ve ne andate in campagna per un picnic. Vi vedo in
fila mentre portate al cinema i vostri figli. Vedo le vostre
mogli nei supermercati che spingono i carrelli. Ma
dannazione, non vi vedo mai alle riunioni sindacali.»
Ellen comparve per un attimo sulla porta della cucina.
«La cena è pronta. Stuart, prendi le sedie e prepara il
tavolo. Sai dov’è la tovaglia, e le posate d’argento.»
Hadley si alzò. «Certo» rispose in tono abulico. Andò a
prendere il cestino con le posate d’argento che i genitori
avevano donato loro per il matrimonio; usate forse sei volte
nel lungo intervallo della loro vita comune: il matrimonio di
Stuart Hadley ed Ellen Ainsworth.

Stava laboriosamente portando i piatti sporchi dalla


tavola in cucina quando Ellen gli sbarrò la strada. «Sarai
fiero di te stesso» gli disse amareggiata. «Sei stato tutta la
cena senza mangiare niente e hai messo il broncio come un
bambino.»
In salotto Dave e Laura stavano discutendo lo stesso
argomento. Hadley sentì la nota di irritazione nelle loro
voci; era vero che aveva rovinato la serata? Non capitava
spesso che qualcuno dei suoi vecchi compagni di scuola
venisse a casa loro: a lui piaceva stare con Dave, a dispetto
di tutto, a dispetto di Laura. «Scusami» farfugliò. «Non mi
sento troppo bene.»
«Non ti senti mai troppo bene» gracchiò Ellen in tono
accusatorio; poi si fece di lato in modo che lui potesse
sistemare i piatti nel lavello. «Se non la smetti di
comportarti in questo modo…» Un tintinnio di stoviglie
coprì le sue parole mentre Hadley prendeva dalla credenza
i piattini per il dolce e il gelato. «Devi proprio piantarla di
fare così! Non lo vedi quanto è ingiusto per tutti?»
Hadley si accalorò. «È ingiusto per me. Che dovrei fare,
accendere e spegnere i miei sentimenti come tu accendi e
spegni la macchina del gas? E va bene…» Tagliò il dolce
direttamente dalla teglia appena uscita dal forno e dispose
le fette gocciolanti sui piattini. «Riderò e racconterò
barzellette… è questo che vuoi?»
Ellen gli rivolse un’occhiata indecisa, un misto di
commiserazione e di risentimento, poi girò sui tacchi e
andò al frigorifero per prendere il gelato. Sbatté la porta
del frigo e sistemò di malagrazia la scatola del gelato
accanto ai dolci. Quando Hadley si guardò in giro in cerca
di un cucchiaio grosso, lei aveva lasciato la cucina,
tornando in salotto da Dave e Laura.
In silenzio, da solo, Hadley prese il gelato molliccio con
il cucchiaio dal contenitore di cartone e lo depose sopra il
dolce. Ellen non aveva avuto il buon senso di metterlo nel
freezer; rivoli gelati gli scolarono lungo il braccio, fino ai
polsini e alle maniche. Prese due piattini e si avviò
mestamente verso il salotto.
Messo di nuovo all’angolo in cucina, mentre controllava
il caffè, Hadley si sorbì una breve, esplosiva tirata di
disperazione. «Non m’importa se ti senti bene o no. Sono
stufa dei tuoi continui lamenti e piagnistei, in te c’è sempre
qualcosa che non va.» Ellen tremava mentre raccoglieva i
piattini sporchi e li metteva nel lavello. «Dio, questo
orribile gelato della drogheria… se non fossimo sempre così
a corto di quattrini avremmo potuto farci portare un bel
gelato direttamente dalla pasticceria.» L’acqua scrosciò sui
piatti. «E non hai nemmeno avuto il buon senso di metterlo
nel freezer.»
«Oh» disse lui, ricordandosene adesso. Era stato lui,
allora. Aveva portato il gelato a casa e distrattamente
l’aveva messo insieme alle mele e alle arance nella parte
bassa del frigo. «Lo sai che avresti potuto prenderlo
stamattina, quando sei andata a fare la spesa» ribatté, sulla
difensiva. «Con i soldi di famiglia.»
Ellen gli andò dietro mentre lui raccoglieva le tazzine
del caffè. «Quali soldi di famiglia? Te li sei presi tu, fino
all’ultimo centesimo… lo sai benissimo. Quella mattina
quando sei tornato a casa dopo esserti ubriacato e aver
passato la notte in carcere. Quando hai avuto quella rissa e
hai picchiato quel tizio.»
«Lasciamo perdere.»
«Certo, lasciamo perdere. Lasciamo perdere i tuoi
trenta dollari, forse di più. Lasciamo perdere che sei stato
arrestato, sbattuto dentro e che sei tornato solo la mattina
dopo. Lasciamo perdere che sono quasi impazzita per la
preoccupazione.»
Il caffè del dopocena venne consumato in un silenzio
sgomento. «Bene» disse alla fine Da ve Gold, mentre
giocherellava con il cucchiaino. «Credo sia ora di andare.»
Laura si mise a starnazzare come un pappagallo. «Non
prima di aver lavato i piatti! Prima di andarsene bisogna
lavare i piatti.»
Ellen si gingillò freddamente con la tazzina. «È tutto a
posto» disse senza alzare lo sguardo. «Non pensarci.»
«Ma…» cominciò Laura.
«Li laverò domani. Credo che guarderò un po la tv e poi
me ne andrò a letto.» Sorrise a Laura in modo meccanico.
«Grazie lo stesso.»
Mentre Dave e Laura cercavano i cappotti, Hadley
guardò l’orologio. Era più tardi di quando credesse… quasi
le undici. Naturalmente doveva essere quasi finita, ma
c’era ancora la possibilità di ascoltarne la parte finale.
«Ehi» disse a Dave. «Vengo con voi, d’accordo? Avete la
macchina, no?»
Si avviarono lungo il marciapiede buio e deserto con i
tacchi che sbattevano forte nella notte. «Credo che sia
meglio che tomi a casa» ragliò Laura. «Tua moglie
s’infurierà con te.»
Hadley non disse nulla. Rimase pazientemente in piedi
accanto alla macchina mentre Dave si frugava in tasca in
cerca delle chiavi. Era una vecchia Cadillac malridotta, un
mucchio rugginoso di metallo pieno di sporgenze, come un
carro armato della prima guerra mondiale. Dave aprì gli
sportelli e tutti salirono rumorosamente a bordo. L’abitacolo
puzzava di birra, di tappezzeria bagnata e di olio bruciato.
Hadley scostò mucchi di vecchie riviste, cuscini, qualche
patata bitorzoluta caduta da una busta della spesa. Si
sistemò sul retro, appoggiato al finestrino, con i piedi
appoggiati sulle molle scoperte del sedile anteriore. Dopo
un attimo Dave gli si sedette accanto con un grugnito.
«Guida Laura» gli spiegò. «Di notte non ci vedo bene.»
Si accese la pipa, che nel buio sibilò e si accese come una
fabbrica lontana. «Mettiti comodo… Ci vuole un po per
riscaldare il motore.»
Al posto di guida Laura armeggiò con i comandi. Il
motore tossicchiò e sputacchiò, poi si avviò con un ruggito
infuriato che riecheggiò per tutta la strada. Si sollevò una
massa di fumo di scarico che prese alla gola Hadley, una
nuvola densa di gas azzurrino che lo circondò, acre e
nauseabondo. Sotto di lui la struttura della macchina
fremette e vibrò; il motore ebbe un ritorno di fiamma, si
ingolfò, riprese vita e finalmente assunse un ritmo regolare.
«Questo sì che è vivere» commentò Dave.
Mentre la grossa macchina si avviava saltellando, Laura
gridò: «Ti va di fermarti a un bar a bere qualcosa? O vuoi
andare direttamente lì?» Si portò rumorosamente al centro
della strada; sempre a singhiozzo, fra un ritorno di fiamma
e l’altro, la Cadillac attraversò rombando un incrocio, senza
rispettare un cartello di stop, e prese lentamente velocità.
«Lasciami in centro» disse Hadley. «Grazie.»
«In centro?» sbraitò Laura al di sopra del fragore. «Che
vuoi dire, in centro? Il centro non è un luogo. Il centro è un
concetto borghese!»
«Fammi scendere e basta» intimò acido Hadley. «Va
bene qualsiasi posto.» Non si sentiva disposto a sottigliezze
di tipo sociale; mentre la grossa vettura procedeva lungo la
strada buia il suo stomaco cominciò ad agitarsi e a
procurargli attacchi di nausea. Probabilmente era colpa dei
vapori velenosi del motore. Probabilmente era colpa dei
sobbalzi della macchina, e dei fari accecanti che
provenivano dalla statale ai margini della città, e della
tensione con Ellen.
Tutti i conflitti della loro esistenza di coppia erano stati
accentuati dalla gravidanza. Inezie di poco conto ingrandite
fino a intrufolarsi come incubi obesi in ogni angolo della
sua vita matrimoniale. Ma adesso che era fuori di casa, il
semplice buon senso gli diceva che non era colpa di Ellen,
era colpa sua. Era quella cosa dentro di lui, l’incessante
insoddisfazione, il cieco desiderio di raggiungere qualcosa
di intangibile e sconosciuto. Non voleva, non poteva,
distruggere il suo matrimonio; significava troppo per lui.
Ellen, e il bambino.
Cercò di immaginarsi il futuro che lo attendeva. Loro
tre, ma poteva anche non essere un maschio. Se fosse stata
una femmina le cose sarebbero state strane, peculiari,
mistiche. Doveva essere un maschio, doveva essere
un’entità che lui capiva. C’erano già troppe cose che
andavano al di là della sua capacità di comprendere; il suo
matrimonio doveva rimanere un nucleo finito attorno al
quale potersi raccogliere.
«Dimmi» gli chiese Dave con voce seria. «Hai davvero
intenzione di andare a quel conclave di Holy Roller?2»
Hadley rifletté. «Sì, ci voglio andare. Intendi la Società
dei guardiani di Gesù?»
«O come diavolo si chiama. Vuoi lasciarti coinvolgere?»
La voce di Dave salì di tono e divenne quasi stridula.
«Insomma, è una pazzia. Parlano di Armageddon. È roba da
svitati!» Era così eccitato che si mangiava le parole. «È la
forma più ignorante di… stupidità! Stupidità, mi hai
sentito? Non lasciarti coinvolgere, dammi retta.»
Laura strillò: «Di che si tratta? Coinvolgere in che
cosa?»
Hadley si accasciò nel sedile, contrariato. «Ho la mente
abbastanza aperta da andarci e sentire quello che hanno da
dire.»
«Te lo dico io quello che hanno da dire. Ci sono passato.
Qualche matto si alza in piedi e comincia a dare di matto,
strilla e sbava… Tutti piagnucolano, si agitano e urlano:
‘Alleluia! Il Signore ci salverà!’» Dave agitò il cannello della
pipa davanti alla faccia di Hadley. «Li sentirai chiamare i
comunisti ‘Orde di Satana’, ‘Anticristo atei senzadio’… gira
la macchina e torna indietro» ordinò a Laura. «Devi essere
uscito di senno.» Si interruppe, a metà fra disgusto e
perplessità. «Credevo che quella robaccia potesse attrarre
solo gli idioti. No, non voglio stare al gioco. Se vuoi
andarci, vacci a piedi.»
Proseguirono in silenzio. «Ho il diritto di andarci» si
lagnò Hadley mentre Laura svoltava in una strada laterale.
«Cristo, ormai sarà quasi finita.»
Laura si voltò e disse qualcosa in yiddish. Lei e Dave
confabularono rapidamente, con le lingue che volavano;
Hadley guardò fuori dal finestrino, infuriato con entrambi.
«E va bene,» disse secco Dave, dopo aver deciso «ti
porteremo là ed entreremo con te. Resteremo un paio di
minuti, così potrai vedere quello che succede.»
«Quando la tua curiosità sarà soddisfatta» proclamò
Laura ad alta voce «allora gli faremo una grossa
pernacchia e ce la fileremo. Ci scoleremo una bella birra
gelata a casa nostra.» Fece una pernacchia a una macchina
che passava.
Hadley era ancora sprofondato nel sedile quando la
Cadillac accostò al palazzo dei guardiani. Le strade
circostanti erano piene di macchine parcheggiate, quasi
tutte vecchie e impolverate, ma anche qualcuna bella
lucida, più moderna e costosa. Tutte scintillavano per una
patina di nebbiolina notturna. Il luogo stesso, un edificio
quadrato di legno, giallo e fatiscente, una trappola per topi,
una reliquia, sfolgorava di luci e bandiere. C’era una
manciata di persone che indugiava davanti agli ingressi con
le braccia piene di volantini.
«Andiamo» sbraitò Laura entusiasta. «Tanto vale finirla
subito.» Parcheggiò in doppia fila davanti a una Chevrolet
grigia e tirò il freno. Tutti e tre attraversarono la strada
diretti verso l’entrata principale, Dave e Laura ai due lati di
Hadley, come una specie di scorta.
Laura divenne silenziosa mentre entravano nell’edificio.
Prima c’era un atrio squallido, con le pareti in formica sulle
quali erano stati attaccati avvisi e fotografie. Da due
piccole porte si accedeva alla sala vera e propria; ne
attraversarono una e all’improvviso furono dentro.
Istupiditi, imbarazzati, rimasero appena oltre la porta,
tutti e tre vicini, improvvisamente consapevoli delle file di
persone immobili, umili e tranquille. Avevano invaso una
sala avvolta nel silenzio e satura di attenzione. Ondate
digradanti di volti assorti, molti dei quali neri, molti dei
quali di normalissimi cittadini, semplici operai in jeans, tuta
da lavoro, abiti dimessi, completi di cotone. La riunione era
quasi alla fine. Sul palco lo speaker stava rispondendo a
una domanda che apparentemente gli aveva rivolto una
donna da un lato della sala. Si stava rivolgendo a questa
donna, e nello stesso tempo all’intera sala.
Nessuno notò i tre che erano appena entrati. Il pubblico
era tutto preso dalle parole dell’uomo, pronunciate in modo
sommesso, con quel sottile trasporto che giunge alla fine di
un protratto momento di tensione. Il rapporto era
incomprensibile ai tre sulla soglia; all’inizio ne rimasero
fuori, ma poi, mentre si lasciavano prendere dal fluire del
discorso, la conferenza terminò all’improvviso. In un
singolo, fluido movimento le file di presenti scivolarono
dalle sedie e puntarono verso i corridoi. Senza la minima
espressione, imperturbabili, cominciarono a uscire
rapidamente fuori.
«Gesù!» esclamò Dave, facendo spostare Hadley e
Laura dalla porta. «Facciamo uscire questa valanga
umana.»
Trovarono rifugio in fondo alle strette scale che
portavano al secondo piano; un momento dopo il torrente si
riversò nell’atrio e uscì in strada. Per breve tempo si sentì
un sommesso brusio, poi lo sciame si sciolse e si disperse
verso le macchine e lungo i marciapiedi, nel buio della
notte. I motori si avviarono; vi fu un furioso intervallo di
sibili e brontolii. Poi il rumore scemò e i tre si ritrovarono
da soli.
«È finita» disse Laura, sconcertata.
«Andiamo.» Dave si avviò verso la macchina. «Usciamo
da qui.»
Avvilito, Hadley li seguì mentre attraversavano la strada
e raggiungevano la Cadillac. Laura accese il motore e un
attimo dopo procedevano rombando lungo la strada, lontani
dal palazzo. I rumori delle altre macchine morirono dietro
di loro via via che si allontanavano dal centro. La notte si
richiuse intorno a loro, viticci mescolati di buio e di freddo,
l’aria fetida dalla Baia, mentre si dirigevano verso
l’appartamento dei Gold.
«Che ti prende?» chiese Dave, rivolto a Hadley. «Di
qualcosa.»
Hadley se ne stava accasciato sul sedile. Si sentiva
stordito e sgomento, e aveva sì e no ascoltato le parole
dell’uomo che gli sedeva accanto. «Per esempio?» farfugliò.
«Non è colpa mia se è finita» gli fece notare Dave.
«Non me la sto prendendo con te.»
«Cristo!» strepitò Laura. «Quell’uomo parlava di Giona
e della balena!» Strombazzò freneticamente quando un
camion del latte spuntò da una traversa. «Ancora come al
catechismo!»
A casa Gold le luci erano accese. Musica e rumori di
gente filtravano attraverso la porta. Dave girò la maniglia,
la porta non era chiusa a chiave. Esitò, aggrottò la fronte,
si strinse nelle spalle e alla fine aprì la porta.
In salotto c’era un gruppo di persone. Salutarono con
entusiasmo Dave e Laura.
«Ciao, Dave!»
Una voce da basso rimbombò. «Dove diavolo siete
stati?»
«La porta non era chiusa» fece eco ridacchiando la voce
di una ragazza minuscola.
E un giovanotto snello aggiunse con voce acuta: «Era
tempo che voialtri tornaste a casa.»
Stuart Hadley richiuse la porta e si aggirò abbacchiato
per il salotto. Rimpiangeva di non essere rimasto a casa;
Dio solo sapeva per quanto tempo sarebbe rimasto lì a
perdere tempo con quella gente. Poteva sempre tornare a
casa a piedi, certo, o prendere un autobus intraurbano.
Gemette per la disperazione. Si era perso Beckheim, aveva
colto solo un’immagine fuggevole di quell’uomo grosso e
scuro, aveva sentito qualche frammento delle sue parole. E
adesso questo.
Quella gente era di un tipo familiare; ci si era già
imbattuto all’università. Stravaccati sul pavimento,
ascoltavano dischi di Paul Robeson, spiritual e canzoni
operaie. Album di jazz giacevano sparpagliati sul
pavimento: Bix Beiderbecke e Mezz Mezzrow. Musica per
liuto del XVI secolo. Ragazze in pantaloni neri da torero e
sandali, maglioni a collo alto, capelli come spaghetti
appiccicati alla fronte, alzarono sguardi istupiditi e
cianciarono un saluto a Dave e Laura. Ragazzi magrissimi
vestiti in modo stravagante, con pantaloni affusolati,
serpeggiarono verso di loro ancheggiando sinuosi, con
noncuranti osservazioni che gli pendevano dalle labbra
come zucchero.
«Come mai siete venuti qui da San Francisco?» chiese
loro Dave.
«Oh,» rispose uno di quei figli del paradiso «siamo
venuti a sentire la conferenza.»
«Siamo venuti a sentire Theodore Beckheim.»
«Ed è stato affascinante!»
Laura stava in piedi in un angolo, sfilandosi il cappotto.
«Questo è il branco di Succubus» farfugliò a Hadley.
Un’espressione scontrosa e risentita prese forma sul suo
viso truccato come un pesce morto che emergesse fra le
alghe. «Avrei dovuto immaginarlo che sarebbero sciamati
qui per questa cosa.»
Hadley era sbalordito. Non gli era mai passato per la
mente che potesse esistere un genere di persona su cui
Laura avesse da ridire. Muta e disgustata, Laura si mosse
circospetta per l’appartamento raddrizzando pile di libri e
riviste, raccogliendo un barattolo di burro d’arachidi, una
scatola di cracker lievitati con bicarbonato di sodio, un
cartone di yogurt.
L’appartamento di Dave Gold puzzava di vecchi tappeti
impolverati e di cavolo andato a male. Tendine lacere,
intrise di grasso, pendevano flosce contro le finestre.
Manoscritti lasciati a metà erano ammucchiati attorno alla
macchina da scrivere Underwood mezza arrugginita,
insieme a copie ingiallite di Nation e di People’s World.
Vestiti sporchi erano ammucchiati in un angolo accanto al
ripostiglio. Gli ospiti non invitati avevano messo da parte
ogni impiccio e si erano comportati come se fossero a casa
loro.
Fra gli ospiti ce n’era uno che spiccava: una donna
appoggiata alla parete, con le mani infilate nelle tasche dei
jeans. Sembrava essere il centro del gruppo di figli del
cielo; era più anziana, più alta, meno stravagante, più
dignitosa.
«Ecco il succubus in persona» gli grugnì Laura
all’orecchio. «Lo dirige lei. Dave ha scritto un articolo per
loro… è tutta una roba pseudoartistica e mistica,
spazzatura reazionaria.» Ciabattò verso il bagno per
esprimersi in privato.
Dave stava in piedi davanti alla donna alta e magra
ripulendo la pipa e giocherellando con il sacchetto del
tabacco. «Lo so» stava dicendo a voce alta, annuendo con
convinzione. L’espressione sulla sua faccia rivelava che non
piaceva nemmeno a lui, come a Laura. «Ci siamo capitati
per un paio di minuti.»
La donna continuò a parlare. Aveva la voce bassa,
controllata. Poteva avere sui trent’anni. Zigomi alti, capelli
rossicci, sottili e tagliati corti… Sui jeans ben stirati
portava una camicia sportiva a quadretti verdi e una cinta
di pelle tipo western con un grossa fibbia d’argento. Per un
momento i suoi occhi grigi si spostarono nella direzione di
Hadley; la curiosità si trasferì momentaneamente si di lui,
poi di nuovo su Dave.
«Che ne pensi?» gli chiese con voce bassa e roca.
Attorno a lei il cerchio di mangiatori di loto alzò gli occhi in
un estatico rapimento.
«Non abbiamo sentito niente. E poi lo sai che cosa
penso di quella robaccia.»
Impassibile, la donna proseguì. «Sto cercando di
scoprire se Beckheim sta basando il movimento sul
quietismo.» Per un momento Hadley non sentì più la sua
voce, persa nel mormorio di suoni e musica che riempiva la
stanza. «…È anche una reazione, ma non dello stesso tipo.
Tu stai pensando alla non violenza; il quietismo era più
simile al concetto quacchero di ispirazione individuale… la
prima eresia… Il senso protestante della coscienza
individuale.»
Hadley inciampò sulla caviglia di una ragazza
accucciata e raggomitolata che ascoltava con aria rapita.
Una cosetta piccola, dai capelli bianchi, con occhi color
porcellana blu e il corpo di un ragazzo di dieci anni. Gli
sorrise dolcemente e tornò ad ascoltare.
«Questi intellettuali di North Beach» gli gracchiò Laura
all’orecchio. «Tutti finocchi, nessuno escluso. Dilettanti
degenerati. Nessuna coscienza sociale.» Aveva le braccia
piene di lattine di birra prese in cucina e le lasciò cadere
rumorosamente al centro del tappeto mangiato dalle tarme.
«Servitevi» sbraitò di malagrazia. «Scusate, niente
bicchieri.»
In sottofondo si sentiva la voce ricca e profonda di Paul
Robeson, ma sempre più bassa; era come se il disco stesse
gradualmente rallentando.
And all your tears of sorrow,
And all your tears of sorrow,
And all your tears of sorrow,
Mamita Mia,
We shall avenge them,
We shall avenge them.

In piedi accanto alla finestra, Hadley guardò fuori il buio


della notte. I lampioni gettavano qua e là luci giallastre,
senza uno schema o un disegno visibile. Un universo di
casualità… particelle accidentali che turbinavano e si
depositavano senza significato.
Dave lo raggiunse. «La conosci?»
«No» rispose Hadley.
«Dirige questo trimestrale a San Francisco. Articoli
critici su T. S. Eliot e Jung. Racconti del gruppo di Capote…
o peggio.»
«Lo conosco» disse Hadley. «Succubus.»
«Vuoi andare a casa? Ti ci porto io… mi offrirà
l’occasione di uscire da qui.»
«Posso andarci da solo» rispose Hadley. Si domandò
perché a Dave e a Laura quella donna non piacesse. «Non
c’è bisogno che…»
«E invece è quello che farò.» Dave fece un cenno a
Laura; lei gli lanciò un’occhiataccia, ma senza far nulla per
fermarlo. «Forse Marsha se ne sarà andata quando tornerò
a casa.» Aprì la porta di casa.
«Te ne vai?» chiese la donna magra e alta.
«Torno presto» farfugliò Dave, in tono evasivo.
Mentre la porta si richiudeva dietro di loro, Hadley ebbe
un’ultima, fugace visione di Marsha Frazier a braccia
conserte che proseguiva la sua conversazione con lo stesso
tono sommesso e indifferente.
«Non se la piantano mai» disse Dave, rabbiosamente.
«Di parlare, voglio dire. E non è la cosa peggiore. Fosse
tutto qui…» Poi aggiunse, con enfasi: «Avrei dovuto
immaginare che questa storia della Società dei guardiani di
Gesù li avrebbe stanati dai loro buchi. Un maledetto
fungo… sollevi una roccia e guarda che ci trovi sotto.»
Frugando nella memoria, Hadley chiese: «È lei la donna
per cui avevi scritto quell’articolo? Quello che vi ha fatto
litigare e che lei non ha mai pubblicato?»
«Fascisti» sibilò Gold fra i denti. La sua voce era cupa,
preoccupata dal cerchio di infelici premonizioni. «Amici di
Ezra Pound.» Lui e Hadley percorsero a capo chino il
marciapiede e raggiunsero la macchina. «Antisemiti.»
Infuriato, Dave Gold aprì lo sportello con uno strattone.
«Salta su e andiamocene. Magari la macchina ci lascerà
lungo la strada… Ma voglio che te ne vada a casa. Meno
frequenti quella gente, meglio è.»
Jim Fergesson, quarantadue anni, in buona salute,
proprietario del negozio Modern TV Sales and Service, se
ne stava sdraiato in salotto a pensare ai propri profitti. Le
scarpe erano ammucchiate accanto al divano, il giornale
appallottolato sul pavimento. In un angolo sua moglie,
Alice, si dondolava sulla sedia, lavorando uno scialle
all’uncinetto. La radio, parlando sommessamente quasi solo
per sé stessa, decantava una nuova scoperta in fatto di
semi per prati che avrebbe rivoluzionato i cortili interni.
Da un portacenere a forma di conchiglia Fergesson
selezionò l’avanzo fumante del suo sigaro e se lo infilò fra
le labbra. Meditabondo, fece un rutto. «Chiamerò Bud
O’Neill» disse ad alta voce. «Che cosa mi trattiene? Vado là
e chiudo l’affare stasera.»
«Va a dare un’altra occhiata al posto, prima di decidere»
gli suggerì Alice.
«L’ho visto così bene che mi ci potrei muovere anche al
buio. Se non chiudo con lui se lo prenderà qualcun altro.»
Rifletté avidamente sull’incasso lordo. L’alta percentuale
dei guadagni netti. No, i guadagni non chiarivano bene la
situazione; lasciò perdere i profitti e si concentrò sul
quadro generale. Ovviamente i profitti c’erano; un uomo
non si mette in affari solo per vedere il suo nome sul
certificato delle imposte erariali appiccicato sopra il
registratore di cassa. I guadagni stanno agli affari come il
rumore lungo i binari sta a un treno. I profitti sono il
quoziente, il succo spremuto dal torchio… Proclamano che
l’impresa funziona.
Ma i guadagni diventano significativi solo quando
vengono messi in opera, quando vengono reinvestiti.
L’albero motore di una macchina collegato a niente non fa
che girare a vuoto, e diventa come un inutile giocattolo.
Ecco perché era essenziale che acquistasse l’Appliance
di O’Neill, il grande magazzino elegante, sfarzoso, pieno di
luci e di colori, piazzato proprio lungo la nuova statale, con
le sue scintillanti insegne al neon, i faretti, i frigoriferi
bianchi, le cucine, le lavatrici, gli asciugabiancheria, una
vasta esposizione di bagni cromati e di porcellana, un
paradiso di bianche mattonelle smaltate più vicine a Dio
che alla pulizia. Acquistare l’Appliance di O’Neill era un
atto spirituale, quasi un rapporto mistico con
l’Onnipotente. Se Dio da qualche parte teneva d’occhio la
Terra, era lì presente ogni volta che una grossa cassa
veniva aperta e un’abbagliante asciugatrice a centrifuga
Bendix veniva spacchettata e sistemata in bella mostra. Se
mai esisteva un luogo santo, era la vetrina di quindici metri
della Appliance, luminosa come un faro sulla Bayshore
Highway.
Comprando l’Appliance di O’Neill, Fergesson
dimostrava la sostanziale spiritualità del suo animo.
Amava davvero infilare la leva di metallo nero fra le assi
di morbido pino, sfilare i chiodi piegati, estrarre la paglia e
la carta gommata marrone dalla massa torreggiante di
metallo bianchissimo. Provava una forte soddisfazione
nell’acquattarsi sul pavimento per infilare le rotelle a una
pesante lavatrice. Era come in estasi, coinvolto nell’atto
dell’estrema adorazione, quando sballava i vassoi e le
mensole cromate di un frigorifero di due metri e mezzo e li
sistemava al posto loro (si incastravano sempre alla
perfezione). E il magazzino di O’Neill traboccava di
frigoriferi ancora imballati, mai toccati né esaminati.
«Nessun altro se lo prenderà» disse dolcemente Alice.
«È in vendita da un anno e mezzo.» La moglie che Jim
Fergesson aveva scelto aveva undici anni meno di lui.
Rotondetta, capelli neri, con mani abili e le fattezze decise,
vigili di una donna che padroneggia con efficienza ogni
parte della casa. «Di solito non sei così» proseguì. «È
successo qualcosa che ti ha reso così incauto?»
«No» tagliò corto Jim. «Ho aspettato un anno e mezzo;
non si può essere più cauti di così.»
«Ricorda, se compri l’Appliance di O’Neill dovrai
lavorare il doppio di quanto fai adesso.» Alice parlava con
pazienza, ma con decisione. «E già ne hai abbastanza, di
lavoro. Perché non lasci i soldi in banca? Ti danno il due e
mezzo per cento di interessi, probabilmente lo stesso che
ricaveresti dal negozio di O’Neill. E lì le spese di gestione ti
mangerebbero tutti gli interessi.»
«Ne abbiamo già parlato» replicò Jim. Certe volte sua
moglie aveva la capacità di togliere la magia alle cose.
«Voglio ingrandirmi. Voglio crescere.» Consapevole che
Alice stava sorridendo, indulgente, Jim si raddrizzò e mise
il broncio. «Smettila di ridere di me, brutta befana. Se me
rimango fermo i miei affari caleranno. Basta voltare la
schiena e si guadagna di meno.»
Alice rise. «Questo succede perché quando ne stai
lontano te li costruisci nella mente fino a farli diventare
grossi come Macy’s.»
«Io ho dei sogni» disse Jim.
«Tu hai una bella lingua; eri un venditore durante la
depressione, e la tua lingua è rimasta viva. Ti ricordi
quanto parlavi di una vendita da nove dollari? Molto di più
di quanto adesso parli di un combinato da trecento dollari.»
Jim Fergesson tornò con la memoria a quel tempo. «I
nove dollari guadagnati con quegli Emerson ci hanno
permesso di fare una scorta di patate.» Sogghignò fra sé e
sé. «Ti ricordi quell’inverno in cui accesi la stufa sul retro
del negozio? Tu stavi al piano di sopra a battere i conti. Ed
entrò un tizio a vedere gli elettrodomestici… ti domandavi
perché non fossi uscito fuori.» Scoppiò a ridere. «Mi ero
addormentato come un sasso davanti alla stufa.»
«L’unica volta in cui hai perso una vendita.»
Jack fece una risatina nostalgica. «Di certo mi ha
insegnato qualcosa. Quella stufa non l’ho più accesa,
troppe comodità non fanno bene.» Rifletté per un po’.
«Forse è proprio questo che non va nei giovani di oggi:
troppo lusso. Sono viziati. Tutto quello che devono fare è
spingere un pulsante, girare una manopola.»
«Sei tu che gli vendi le macchine, no?»
«Una macchina non è buona o cattiva, è l’uso che se ne
fa… Se uno si compra una macchina per potersi mettere a
dormire all’ombra, è cattivo. Se la compra per poter
lavorare di più, è buono.» Il suo corpo piccolo e muscoloso
si irrigidì, pieno di orgoglio. «Te lo ricordi quanto abbiamo
lavorato duro ai vecchi tempi? Tu curavi i registri contabili
e tenevi pulito il locale mentre io vendevo alla gente radio e
aspirapolvere. Cacchio, dovevamo darci da fare per
vendere; non è che i clienti venivano qui a comprare come
fanno adesso. Chiunque è capace di vendere qualcosa a un
uomo che vuole comprare; questo non è vendere.»
Ridacchiò e fece l’occhiolino alla moglie. «Non abbiamo poi
sofferto tanto, no? Ce la siamo spassata.»
Alice sorrise affabilmente. «Se non altro mi ha permesso
di non mettere su peso.»
«E non sprecavamo mai niente, buon Dio. Non
gettavamo mai via niente. Ti ricordi tutti quegli scatoloni
nel seminterrato? Ci saltavo sopra, li schiacciavo e poi li
imballavo col fil di ferro.» Scosse la testa. «Oggi non è
possibile insegnare a non sprecare le cose. Io vedo che
Hadley usa un foglio di carta carbone e poi lo getta via… lo
usa una volta sola e lo butta nel cestino.»
«Se compri il locale di O’Neill» gli disse Alice misurando
le parole «non riuscirai a gestirlo. Non puoi tenere aperti
due negozi contemporaneamente, dovrai trovare qualcuno
che lo tenga aperto per te… e lo sai quanto ti agiti se non
sei presente a tenere tutto sotto controllo.»
«C’è sempre chi commette errori.»
«Secondo il tuo punto di vista. Ma persone diverse
hanno punti di vista diversi.»
«Li assumo! Li pago bene! Se vogliono lavorare per me
devono adeguarsi alle mie esigenze!» Jim si contorse per il
risentimento. «La cosa che non va in questi ragazzi è che
non sanno lavorare. Si aspettano che il cliente entri e gli
metta i soldi in mano. Non sanno come andarselo a cercare
fuori, il cliente, come facevamo noi. Sono smidollati. È stato
il lusso a ridurli così.»
«Lo so» disse Alice con dolcezza. «Ogni tanto me lo
ripeti.»
Fergesson si alzò in piedi e si diresse di malumore verso
la cucina. «C’è qualcosa di negativo nel troppo benessere.
Un uomo diventa effeminato con tutto quello che gli
vendono oggi. Profumi… lo chiamano dopobarba, ma è un
profumo. Hadley lo usa, ne sento l’odore.» Si fermò
intenzionalmente sulla porta della cucina, con il sigaro fra
le dita. «Alice, io sono un uomo semplice. Ho gusti semplici.
Mi piace un buon pranzo, mi piace leggere il giornale dopo
cena e fumarmi questo.» Agitò solennemente il mozzicone
di sigaro. «Mi piace spassarmela un po’, una volta ogni
tanto. Una partita allo stadio o una gita in campagna.
Quanto tempo è che non andiamo più al cinema?»
«Dio solo lo sa.»
«Mi piace ascoltare un po di musica… non quella roba
da capelloni, qualcosa di semplice e dolce, con una melodia
che posso seguire. Non quella musica classica senza capo
né coda; lo sai, per me la gente che ascolta quel tipo di
musica è matta. O magari fa finta… Magari sa benissimo
che è soltanto un insieme di suoni senza senso.
Naturalmente non vado pazzo nemmeno per quell’hot jazz
che piace tanto ai ragazzi. È musica da neri, ecco che cos’è,
per parlare chiaro. Mi piacciono le cose un po all’antica che
avevamo prima, quelle che puoi canticchiare mentre vai a
spasso. Quelle con cui è facile ballare. Sai, le canzoni che
cantava Rudy Vallee. E John Charles Thomas.» Le puntò il
sigaro addosso, annuendo con enfasi. «Quello è un grande
artista, John Charles Thomas. Una volta l’ho sentito
cantare. Sai, quando canta chiude gli occhi. Se ne sta lì con
gli occhi chiusi e le mani strette; è un uomo semplice, Alice.
È sincero. Lo si capisce ascoltandolo.» Fergesson
scomparve in cucina. «Nelson Eddy era un altro. Che
diavolo gli è successo?»
«È ancora in giro.»
Fergesson frugò rumorosamente nella cucina buia. «Che
fine ha fatto tutta la birra che ho portato a casa la
settimana scorsa? Tu e le tue signore della canasta ve la
siete scolata, eh?»
«Guarda nel frigo, in basso, dove stanno le verdure.»
Fergesson si versò un bicchiere di birra e tornò in
salotto. Sulla sua faccia tonda, venata da rughe rosse, c’era
un intenso cipiglio di concentrazione. Si grattò irrequieto la
frangia di capelli grigio-neri sopra l’orecchio sinistro e
disse: «Alice, che diavolo sto facendo? Non posso passare il
Modern TV a Hadley… lui non è capace di distinguere una
fattura da una ricevuta. Ma sono tutti così! Anzi, forse lui è
il meno peggio, a pensarci bene. Sono una manica di
incapaci, dovrebbero andare a spazzare la strada… Cristo,
non fanno altro che starsene con le mani in tasca, senza far
niente.» Sorseggiò la birra, stizzito. «A guardare la
televisione mentre le persone passano fuori a frotte.»
«Non si usa più prenderle all’amo.»
«Non voglio metterli sotto pressione! Voglio solo
qualcuno a cui piaccia il suo lavoro, a cui piaccia vendere.
Se passo il negozio a Hadley, me lo farà fallire in una
settimana.»
«Puoi sempre fare tu gli acquisti» disse Alice con
pazienza; ne avevano già parlato molte volte. «Se vuoi vado
io a tenere i libri contabili. Puoi prendere qualche liceale
per spolverare i televisori. La scuola sta per finire.»
«Già» ammise Fergesson con riluttanza. «Lo sai, l’altro
giorno per poco non ho licenziato Hadley. Si è presentato di
nuovo con i postumi di una sbronza; non riusciva nemmeno
a trascinare i piedi e tremava come una foglia. Se avessi
avuto un po di buon senso, l’avrei cacciato via. Ma come
faccio? Ha la moglie incinta e un sacco di conti non
pagati… Verso la fine del mese mi chiede sempre un
anticipo di dieci o quindici dollari. È patetico. Ogni volta
che entra in un negozio di abbigliamento si compra una
manciata di cravatte e di calzini, o magari un maglione di
cachemire d’importazione. A che gli serve tutta quella
roba? Credevo che solo le donne si comprassero tanti
vestiti!»
«È un bel ragazzo» gli fece notare Alice. «Dovresti fare
come lui.» Alzò una mano e gli scompigliò criticamente il
ciuffo di capelli. «Sono anni che indossi sempre lo stesso
vestito.»
«Questo è un buon vestito» disse Fergesson con
orgogliosa cocciutaggine. «L’ho comprato prima della
guerra. Non ne fanno più di vestiti così.»
«Sei l’unico uomo che conosco che porta ancora il
panciotto. E un orologio al taschino.»
«Quest’orologio me lo ha dato mio padre.» Fergesson lo
estrasse con destrezza. «Lo sai quanti gioielli ha?»
«Lo so.» Gli occhi di Alice scintillarono, grigi e gentili.
«Nessuno. Tuo padre lo pagò un dollaro e mezzo al tempo
della guerra tra gli indiani e i francesi.»
«Non è così antico.» Fergesson sogghignò. «Stai
cercando di prenderti gioco di me. Anche tu, ragazzina. Ti
ricordi quando mi preparavi una mela, un panino al burro
di arachidi e una pinta di latte e me li mettevi in un
sacchetto? Ogni dannato giorno me lo portavo fino al
negozio. Quanto tempo è passato? Almeno quindici anni.»
«Potresti mettere alla prova Hadley per un po’» gli
suggerì Alice. «Anzi, ti serve proprio una vacanza. Vattene
da tuo cugino a Lake Country per una settimana. È estate…
gli affari sono fiacchi. Hadley non può combinare grandi
danni. Magari se la caverà benissimo. Magari la
responsabilità lo aiuterà a far meglio.»
«Non permetterò che il mio negozio venga gestito da
uno che tracanna fosfato di sedano.»
«Adesso ti comporti da sciocco» gli disse Alice, secca.
«Vuoi anche imporre ai tuoi dipendenti quello che devono
mangiare o bere? Lasciali liberi di vivere la loro vita.»
«Non è questo» ribatté cupamente Fergesson. «Non
quello che beve in sé. È ciò che significa… Un uomo che
beve quella robaccia è un po disturbato.»
«Un uomo che beve birra è disturbato?»
«Lo sai che ho ragione» insistette Fergesson. «C’è
qualcosa che non va in Mezzasega. Lo si capisce dalle cose
stupide che fa. Si infuria in modo sbagliato, non come gli
altri. Prende tutto per il verso storto. C’è un fondo di pazzia
in lui… E le cose la portano in superficie. Un giorno o
l’altro gli succederà qualcosa di brutto. Uscirà per andare a
una festa e finirà in prigione. O peggio.»
«Sciocchezze» tagliò corto Alice.
Fergesson annuì con solennità. «So di che cosa sto
parlando, lo conosco. Non ha autocontrollo… Ti sembra che
ce l’abbia perché ha un bell’aspetto e si agghinda tutto
come fate voialtre donne. No, non ho intenzione di affidare
il mio negozio a un lunatico. Anche se ci sa fare con le
mani… però è capace di starsene tutto il giorno ad
armeggiare con un unico televisore.» Poi aggiunse, in tono
di protesta: «Non posso! Mi capisci? Proprio non posso
affidarlo a lui… non è una persona degna di fiducia.»
«Non alzare la voce» disse Alice, stizzita. «Non sono
sorda.»
Jim Fergesson tacque. Si appoggiò al divano
sorseggiando mestamente la sua birra e ascoltando la radio
che trasmetteva in sottofondo la melassa sinfonica
dell’orchestra di Morton Gould. Alice continuò a lavorare al
suo scialle; ogni tanto dava un’occhiata al marito,
sollevando una palpebra con aria interrogativa, non
riceveva risposta, si stringeva nelle spalle e tornava a
sferruzzare.
Se c’era qualcuno a cui dirlo, era lei. Ma non l’avrebbe
detto a nessuno, almeno non per un po’. Si era preparato la
frase un mucchio di volte, ma in qualsiasi modo la mettesse
la sostanza restava la stessa. Doveva comprare l’Appliance
di O’Neill, perché se non lo faceva non sarebbe rimasto in
affari ancora per molto. Diceva la verità quando parlava di
crescere o morire. La catena di empori Bel-Rex, con filiali a
Oakland, Berkeley, Sacramento, San Francisco e San Jose,
stava prendendo in considerazione l’idea di acquistare
l’Appliance. E quando l’avesse fatto, per Jim Fergesson
sarebbe stata la fine.
Lui non aveva mai operato ad alti livelli. E nemmeno
Bud O’Neill; anzi, O’Neill era proprio un disastro. Faceva
così pena che stava vendendo… pur avendo il luogo, il
magazzino e la vetrina migliori della zona. O’Neill era un
commerciante che aveva il fallimento nel sangue. Aveva
impegnato nel negozio tutto ciò che aveva e adesso era
finito.
La vita e la storia del suo rivale erano incise in modo
indelebile nella mente di Fergesson; non riusciva a
liberarsene, per quanto facesse. Aveva sempre davanti agli
occhi l’esempio di Bud O’Neill, una strada aperta verso la
mediocrità e il fallimento.
O’Neill era quel tipo particolare di idiota che apre un
buco di negozio per riparare radio senza altro in mano che
la capacità di controllare le valvole, sostituire i filtri dei
condensatori e collegare i fonografi alle vecchie radio. Al
liceo, O’Neill si era occupato di radio con entusiasmo;
aveva messo su un’antenna e una trasmittente a onde
corte, aveva ottenuto la licenza e aveva cominciato a fare il
radioamatore. Era successo negli anni Trenta, verso la fine
della Depressione.
All’inizio degli anni Quaranta, O’Neill aveva trovato
lavoro in un impianto della difesa a Richmond, in
California, lavorando alle torrette dei bombardieri. Aveva
fatto un bel po di soldi. Tutti a Richmond se la passavano
bene, braccianti e neri inclusi. Dopo la guerra, le proprietà
avevano perso di valore una dopo l’altra; Richmond aveva
chiuso gli impianti e i cantieri ed era diventata una città di
brutta edilizia abitativa e di sgargianti supermercati, grazie
anche a un forte intervento del governo federale. Le attività
commerciali intraprese per sostenere la forza lavoro che
aveva fatto la guerra erano fallite. Più o meno in questo
periodo O’Neill aveva aperto il suo primo negozio.
Prima era stato un negozio di scarpe. Era nato senza un
minimo di attrezzatura: un unico locale vuoto, con un lurido
bagno sul retro e due mensole di vetro chiazzate da cacche
di mosca dietro una finestra. Le pareti erano intrise di
umidità; vecchi calendari con ragazze nude penzolavano in
mezzo a ragnatele e polvere. O’Neill vi aveva trasferito
l’apparecchio per effettuare i test (costruito a mano), un
paio di banconi usati, uno sgabello e un tappetino di
gomma per evitare di rimanere fulminato, una lampada
fluorescente, aveva fatto fare un’insegna a un tizio e il
negozio era diventato il Richmond One-Day Radio Service.
Nella parte anteriore O’Neill aveva impilato vecchi telai di
radio, tutti arrugginiti, e batterie portatili scariche; aveva
messo su un giradischi e vendeva per venticinque centesimi
dischi provenienti da juke-box dismessi. Nella finestra
aveva disposto dei vivaci manifesti colorati di valvole della
Sylvania e della Tungsol e in seguito alcune piccole radio
personali, che funzionavano con batterie a 67 volt e mezzo,
quelle che non si possono collegare alle prese a muro e
sono perennemente maledette dall’Unione Consumatori.
Le vecchiette cominciarono a presentarsi con le loro
Atwater Kent e con decrepiti Philco, di quelli che non si
fabbricano più, ma che non saranno mai eguagliati. O’Neill
era un uomo grasso e molle, sui trentacinque anni, con una
macchia nera di baffi sulle labbra carnose; indossava una
specie di tuta scolorita e chiazzata che lo faceva somigliare
a un meccanico di un’autostazione. Sopra il taschino si era
fatto cucire dalla moglie la parola bud con il filo rosso. Una
bottiglia di Coca-Cola era appoggiata a un’estremità del
bancone. Metallica musica western usciva chiassosa dalle
radio rovesciate. Ragazzini dalla faccia foruncolosa si
presentavano con sacchetti di carta pieni di valvole
impolverate da farsi controllare gratis. Le ragazze venivano
per le puntine dei giradischi; O’Neill aveva un’ampia scelta
di puntine cromate RCA e Recoton, e ne vendeva
venticinque per un quarto di dollaro. Aveva davvero un
gran senso degli affari.
O’Neill era stupido, lento e lavorava duro. Questa
combinazione non lo portava da nessuna parte; non creava
nulla. Quasi tutti gli apparecchi che riparava si rompevano
entro i trenta giorni di garanzia. Passava ore a discutere
con qualche adolescente squattrinato sulle testine a
riluttanza variabile della GE. Sprecava settimane a spianare
vecchie fatture spiegazzate nel tentativo di capire da dove
provenissero cinquanta valvole 35Z5, e a che gli servissero.
Sedeva rannicchiato al suo banco di lavoro fino alle quattro
del mattino cercando di esaurire partite di componenti che
sporgevano tutt’intorno a lui in bottiglie da un quarto di
pinta. Studiava tutto il giorno il Manuale del radiotecnico di
Rider, tentando di scoprire il segreto per impedire a un
cambiadischi Webster del 1956 di interrompersi a metà
dell’ultimo disco. Dopo un anno e mezzo chiuse l’attività.
Il costoso, appariscente negozio lungo la Bayshore
Highway a sud di Cedar Groves non venne acquistato con i
soldi messi da parte nel lavoro alle torrette dei bombardieri
nell’impianto della difesa… e non venne acquistato con i
proventi del Richmond One-Day. O’Neill utilizzò i soldi della
famiglia di sua moglie, che volevano investire. Una cosa
bisogna dire di O’Neill: aveva parlato con tante vecchiette,
controllato tante valvole, discusso con tanti ragazzi
foruncolosi da essere in grado di partire con il piede giusto.
Imbrogliò la famiglia di sua moglie vendendogli un bel po di
fumo, si fece dare trentamila dollari e mise su l’Appliance
di O’Neill. Nuovi negozi stavano spuntando lungo la
Bayshore come i chioschi di frutta durante l’estate. Un
centinaio di metri sulla destra c’era un negozio di
pianoforti con un’insegna che rimaneva accesa tutta la
notte. Di fronte a lui c’era un gigantesco negozio che
vendeva prodotti di basso prezzo, grande come un cinema.
Anche il bar in fondo alla strada sembrava una residenza
spagnola. O’Neill aveva una buona posizione, scelta dalla
filiale di San Mateo della Bank of America. Aveva una bella
facciata, progettata da un architetto di San Francisco
scelto da suo suocero. Il suo magazzino era il sogno di ogni
casalinga, una caverna traboccante fino a scoppiare di
merci fomite dai grossisti di San Francisco.
Dopo tre anni O’Neill si trovò con l’acqua al collo. Dopo
cinque morì annegato.
O’Neill non aveva buon senso. Era un ex radioamatore,
con una scarsa capacità di tenere in mano una saldatrice o
un oscillatore, nessun senso dell’organizzazione, non
sapeva spendere i suoi soldi e, alla resa dei conti, era
troppo onesto per essere un buon commerciante. Era
pronto a gettare la spugna; gli serviva solo un acquirente
che acquistasse il locale.
L’Appliance di O’Neill era l’unico vero concorrente del
negozio di Fergesson. E O’Neill era un buono a nulla, privo
di raziocinio. Anche la sua pubblicità era fatta male: si
dimenticava di mettere la sua targhetta là dove apparivano
le parole il tuo negozio. L’Appliance non aveva intaccato gli
incassi di Fergesson, il negozio sulla statale era stato
piuttosto un invito ad andare da lui. Faceva fermare le
macchine, faceva scendere le persone, non riusciva a
chiudere l’affare, e alla fine spediva i clienti verso Cedar
Groves a quindici chilometri l’ora con la voglia di
acquistare, i soldi pronti in tasca, disposti a comprare
qualsiasi porcheria venisse offerta da qualcuno con un
garofano all’occhiello del vestito ben stirato, e in mano una
penna stilografica e un blocchetto per commissioni.
Fergesson aveva lavorato sui passanti, sulle vecchie
famiglie, sul traffico continuo. E ci era riuscito bene: aveva
acquistato con saggezza, non si era riempito di vecchi
radiogrammofoni e televisori da dieci pollici. Tutto andava
bene, e lui godeva di un buon vantaggio dal punto di vista
commerciale. Solo che, detta in parole semplici, se fosse
intervenuta la Bel-Rex, Fergesson avrebbe chiuso bottega.
In sei mesi, per Natale, la Bel-Rex avrebbe potenziato
l’Appliance, rifornendola dai magazzini che aveva in tutti
gli stati, con fondi illimitati per investimenti e pubblicità.
Seduto nell’accogliente salotto, mentre ascoltava
Morton Gould alla radio, Jim Fergesson era atterrito. Il suo
corpo grassoccio ma muscoloso tremava tutto, all’interno.
Si sentiva debole nell’anima. Non poteva competere con la
Bel-Rex, era finito. Grandi affari, reclamizzati dai volantini,
dalle radio, dai giornali… Marche famose cinquanta dollari
al di sotto del costo medio di un prodotto. Gardenie offerte
in omaggio alle signore. Lampade gratuite se si acquistava
un televisore. Vendiamo in grandi lotti. Il nostro venditore è
impazzito… venite a svaligiarci. Fari di notte per illuminare.
Venticinque venditori, tutti pagati un tanto a vendita…
astuti come furetti affamati. Spedizioni in ogni parte dello
stato senza spese aggiuntive. Servizio assistenza
immediato.
«Non sono in gamba» gracchiò Fergesson a voce alta.
Alice alzò gli occhi. «Come dici, caro?»
Fergesson si schiarì la gola nervosamente e continuò:
«Non ho mai fatto grandi affari. Non sono capace di
incalzare la gente: posso solo vendere quello in cui credo.»
Alice gli piantò gli occhi addosso. «Questo lo so, caro.»
«Non posso prendere tutte le marche! Cristo, ho già la
Emerson, la General Electric, la Westinghouse, la Philco e
la Zenith… non bastano? Che altro vogliono? Un uomo non
può averle tutte.» La Bel-Rex aveva tutto, rifletté
amareggiato. Fino alle marche più sconosciute, la Sentinel,
la Crosley e la Trav-ler. L’intero settore degli
elettrodomestici. E la linea completa, non solo i prodotti di
punta.
«Prezzi tagliati» borbottò Fergesson. «Compra un
televisore e hai in omaggio un tostapane. Le antenne
interne te le regalano. Cristo, io non riuscirei a dare gratis
nemmeno un fusibile da dieci ampere!»
«Vorrei tanto che mi dicessi cosa c’è che non va» disse
Alice, scrutandolo a disagio. «Hai letto gli annunci
pubblicitari di quel grosso centro commerciale di San
Francisco?»
«Loro non sono così male, hanno classe. Sono quei
grandi negozi pieni di luci che mi spaventano. Quelle che si
rivolgono ai contadini e ai neri. Cristo, sono grossisti che
vendono al dettaglio! Comprano direttamente in fabbrica…
davvero. Comprano più loro in un giorno che io in un anno.
Quando la merce diventa obsoleta la buttano via… nello
scantinato ho ancora dei vecchi Hoffman, i primi che
costruirono. Perdio, li vendo ancora.»
Si alzò in piedi e cominciò a passeggiare avvilito per il
salotto. O si diventa più grossi o più piccoli. Non aveva
scelta: se voleva sopravvivere doveva acquistare
l’Appliance di O’Neill. Accidenti a lui… perché aveva messo
su quel locale? Perché non lo aveva lasciato com’era, un
campo pieno di erbacce, lattine vuote e giornali fradici?
«Lo sai,» disse con voce roca «forse non avrei dovuto
mettermi nel campo delle radio. Guarda quanto è
cambiato… non è più com’era prima. Adesso comanda la
televisione, nient’altro che un grosso schermo colorato, un
tubo nero e l’alta frequenza… Ai vecchi tempi avevamo
radio supereterodine a cinque valvole, tutto lì. E questa
faccenda dell’alta fedeltà, questa roba fabbricata su
ordinazione. Quindicimila cicli… musica per gli uccelli.
Cartucce di riluttanza, registratori a nastro… è un
manicomio. Radio a modulazione di frequenza… è triste.»
«Ci penserò io» disse Alice con pazienza. «Accontentati
di non essere nel campo dei dischi; avresti velocità
differenti, long playing e quelle frittelle a quarantacinque
giri della RCA con il grosso buco in mezzo.»
Fergesson si diresse in cucina e prese una seconda birra
dal frigorifero. Gli tremavano le mani, le mani tozze e
callose con quelle scure cicatrici da bruciatura lungo i polsi
provocate dal fatto di infilare le mani dentro le radio…
«Quello scemo di O’Neill» osservò amaramente.
«Venderà e si terrà i suoi soldi. Magari aprirà un bordello3
con una grossa insegna al neon e la vetrina di cristallo
temperato.»
«Che stai dicendo, caro?» gli chiese Alice dal salotto.
Fergesson rispose con un grugnito e tornò in salotto.
Non aveva nessuna famiglia alla quale rivolgersi; lui aveva
scelto la via più dura, e si era fatto strada con il sudore
della fronte. Aveva lavorato come un somaro… e da un
giorno all’altro la Bel-Rex poteva ammazzarlo.
«Mio padre aveva ragione» disse Fergesson, sempre più
sconfortato. «Ha detto che stavo commettendo un errore.»
«Tuo padre non approvava niente di quello che facevi»
gli ricordò Alice.
«Certo, era un avvocato. Un professionista, un uomo
colto.»
«Era anche uno che speculava sul petrolio e che ha
perso tutto quello che aveva, ed è venuto da te e poi è
morto proprio in questa casa senza un centesimo in tasca.
E tua madre e io lo abbiamo accudito per otto anni prima
che morisse.» La voce di Alice assunse una sfumatura di
rabbia. «E per tutto quel tempo non ha mai smesso di dirti
che il commercio non andava bene per suo figlio. Se ne
stava lì, sdraiato sul letto, e ti insultava tutti i giorni…» Le
si ruppe la voce. «Perché lo tiri sempre fuori? Perché non
puoi dimenticarti di lui?»
«Aveva ragione.» Le dita di Fergesson si richiusero
dentro il taschino del panciotto sull’antico orologio d’oro,
con le sue elaborate incisioni, con le lancette nere, sottili
ed eleganti, e i numeri dal disegno raffinato. Era ciò che gli
aveva lasciato quel vecchio alto, pieno di dignità, quello e
un pesante anello d’argento comprato da un indiano
nell’Utah. E un vecchio portafoglio di pelle pieno di inutili
certificati di trivellazione.
«In un certo senso capisco quello che prova Hadley»
disse amaramente Fergesson. «Sono finito nel campo delle
radio per caso, come lui. Non volevo mettermi nel
commercio… volevo fare l’avvocato, come mio padre.
Magari è proprio questo che non va in Hadley, magari
vorrebbe essere qualcosa di meglio di un venditore di
televisori. Io di certo non vorrei esserlo, preferirei lavare i
piatti. Se avesse un po di sale in zucca dovrebbe mollare
tutto.»
«Per fare che cosa?»
«Qualsiasi cosa. Arruolarsi nell’esercito. Io facevo parte
della Guardia Nazionale e non mi sono trovato male per
niente. Basterebbe un anno per fare di lui un uomo, per
dargli una raddrizzata. Se non fosse così debole e indeciso
si licenzierebbe.» Fergesson agitò le dita in direzione di
Alice. «Se avesse un minimo di capacità dovrebbe
andarsene! Ti dirò una cosa: suo padre era un medico.
Adesso è morto. So già quello che direbbe se fosse ancora
vivo… La stessa cosa che diceva mio padre.»
«Non puoi saperlo.»
«Hadley è stato cresciuto da donne. È come quei tipi del
Dipartimento di Stato, come quel Dean Acheson. Ce n’è
un’intera generazione. Femminucce… senza spina dorsale.»
La sua voce divenne un lamento sconfortato. «Non c’è da
stupirsi se il prestigio dell’America sta precipitando. Non
c’è da stupirsi se i comunisti stanno vincendo, con tutti
quei figli di mamma che conducono la danza. Non è più
come ai vecchi tempi.»
«Non lo è mai» disse realistica Alice.
Fergesson andò verso il divano, si sedette e fissò con
aria vacua la massa dello scialle colorato che sua moglie
stava lavorando all’uncinetto. «Il problema con Hadley è
che non ha dei modelli morali. Non sa distinguere ciò che è
giusto da ciò che è sbagliato; nessuno gli ha insegnato le
cose per cui vale la pena di vivere.»
«Per esempio?»
«Per esempio andare a messa. Per esempio la fede in
Dio e nel paese in cui vive.» Fergesson sorseggiò con
impegno la sua birra. «Questo è un paese magnifico, Alice.
Non dimenticarlo mai. Se uno lavora duro può arrivare
dovunque. Guarda me… quando ho cominciato non avevo
niente. Ho costruito tutto con le mie mani.» Indicò il
pavimento in parquet. «Quel parquet l’ho messo io… ti
ricordi?»
«Certo che mi ricordo» rispose Alice, un po acida. «Ti
ho aiutato io.»
«Le fondamenta… ho tolto io tutti i detriti e le ho rifatte
con le mie mani. E le mattonelle in cucina, quel dannato
lavello. Questa casa, il negozio, tutto… Ho costruito tutto
dal niente. In tutta la mia vita non ho mai fatto un affare
sbagliato… se avessi avuto fra le mani quel negozietto di
O’Neill a Richmond ne avrei fatto un gioiello. Se rilevassi
l’Appliance, dopo un minuto sarebbe un locale pieno di
vita.»
«Per favore, non alzare la voce con me» si preoccupò
Alice. «Ma che diavolo ti prende?»
«Niente» mormorò Fergesson, dando un’altra sorsata
alla birra. «Proprio niente.»

Più tardi, quella stessa sera, Fergesson fece qualcosa


che capiva solo in parte. Si infilò la giacca, andò in garage
e mise in moto la Pontiac. Poco dopo percorreva
silenziosamente le buie strade notturne, diretto verso la
zona commerciale deserta e il Modern TV.
Gli succedeva quando era inquieto, lo sapeva. Quando
era angosciato e indeciso: era allora che lasciava casa di
notte e se ne andava al negozio. Il locale freddo, buio e
silenzioso, con le sue forme spettrali. Con le luci tutte
spente, a parte la lampada notturna che tremolava sopra la
cassaforte. In basso, nell’umida grotta di cemento che era
lo scantinato, c’era sempre qualche insetto che svolazzava
frusciando sul banco da lavoro di Olsen; era l’unico rumore.
Mentre guidava continuò a pensare a Bud O’Neill. Un
completo fallimento, un incompetente senza nessun talento.
Innocuo, di buon carattere, pieno di parole e di progetti
facili. Frastornato dal collasso del suo sgargiante negozio,
ma praticamente incapace di capire perché fosse finito a
gambe all’aria.
Probabilmente si era costruito una elaborata mitologia:
era fallito per via di chissà quale cospirazione segreta. I
suoi avversari si erano messi d’accordo contro di lui.
Fergesson si esaminò le mani, strette attorno al volante.
Mani capaci, lui non era uno come O’Neill. O forse sì? Il
Modern TV un tempo era stato un locale come il Richmond
One-Day; dietro il bancone lui se ne stava più o meno
ricurvo come Bud O’Neill. Anche lui aveva avuto vecchiette
che venivano lì a farsi riparare le loro Atwater Kent. Anche
lui aveva montato nuovi filtri, controllato valvole, collegato
quei vecchi apparecchi ad altoparlanti. Ai vecchi tempi,
all’inizio degli anni Trenta, quando aveva rilevato il
negozio, anche nelle sue vetrine c’erano vecchie batterie
ammucchiate. Tubi, valvole, contatori usati, apparecchi per
testare. E il miagolio delle radio rovesciate sul bancone che
protestavano contro il suo esame.
C’erano tutti gli elementi, in un certo senso. Per
qualunque vecchietta, per qualunque adolescente, per
chiunque entrasse nel suo negozio, non c’era una
differenza sostanziale. Durante la guerra lui era stato
dietro il bancone e non aveva lavorato in un impianto della
difesa. Aveva rilevato il negozio quando il precedente
proprietario non era stato più in grado di pagarlo, e gli
doveva tutti i salari del 1930, del 1931 e della prima parte
del 1932. Fergesson era stato così abile da procurarsi
merce da vendere; non bastava fare riparazioni. Una linea
frugale, essenziale di aspirapolvere, lavatrici e radio…
O’Neill aveva continuato a chiacchierare e a testare valvole
senza farsi pagare nulla, e sarebbe ben presto tornato a
farlo. O’Neill avrebbe finito col diventare un venditore
tracagnotto e sudato in un abito da quattro soldi, in piedi
davanti a una palma in vaso nel negozio pacchiano di
qualcun altro.
Fergesson parcheggiò la Pontiac e spense le luci e il
motore. Scese e si avviò lungo il marciapiede verso il suo
negozio. Vecchi giornali accartocciati erano stati trascinati
dal vento davanti all’ingresso; si piegò e li raccolse in una
manciata. Mentre li portava verso il cestino dei rifiuti vide
che nel negozio c’era una luce accesa, proveniente da
dietro la sala in cui erano esposti i televisori.
Aprì la porta ed entrò. Ellen Hadley, immensa e incinta
in modo grottesco nel suo vestito premaman blu, era
seduta davanti a un lussuoso combinato radio-TV-giradischi
RCA. Fergesson aveva chiuso la porta d’ingresso e giunse
nella sala prima che lei si accorgesse di lui e voltasse la
testa.
«Salve» disse la donna.
Il negozio era gelido, lugubre nella sua aridità. Al
pallido bagliore azzurro della lampada notturna la faccia di
Ellen non sembrava nemmeno rotonda: era una cosa vuota,
simile a un osso appuntito, una struttura rigida a sostegno
dei lineamenti. Gli occhi erano incavati nel cranio. I capelli
sembravano trasparenti, una ragnatela di materiale
disseccato, un copricapo marrone attraverso il quale si
vedevano il cuoio capelluto e le orecchie. Non era truccata,
le labbra erano pallide, sottili.
«Che ci fai qui?» le domandò Fergesson, un po
impaurito. «Non ce l’avete un televisore a casa?»
Dopo un po Ellen fece cenno di sì. «Ero uscita per fare
una passeggiata. Mi sentivo stanca.» Indicò il vasto tumore
del suo ventre. «Così sono entrata per sedermi un po’.» Poi
aggiunse: «Stuart è uscito con degli amici per… per farsi
una birra e quattro chiacchiere.»
«Ti accompagno a casa» disse Fergesson.
«Lei che ci fa qui?»
«Ci vengo.» Si spostò, mettendosi dietro il banco.
Appoggiato sui gomiti, le mani strette in un blocco
massiccio, fissò intensamente la donna, il cui profilo si
stagliava fra la luce notturna e il televisore illuminato. «Ci
vengo ogni tanto per finire il lavoro che nessuno riesce a
completare nella giornata. Qualcuno deve pur mandare
avanti la baracca.»
Ellen annuì.
«Tu e Mezzasega avete litigato?» le chiese Fergesson
senza preamboli.
«No, non esattamente. Credo di essere un po di cattivo
umore, in questi giorni.»
«Quanto manca?»
«Oh, dicono tre settimane. Giorno più giorno meno.»
«Mi hai colto di sorpresa. Non pensavo di trovarti qui.»
Ellen sorrise. «Mi dispiace.»
«Hai abbastanza caldo? Vuoi il mio cappotto?»
«Sto bene» disse lei. «Grazie.»
Fergesson, guardandola da dietro il banco, si meravigliò
del miracolo di quella creatura rigonfia seduta davanti al
televisore, con le mani in grembo e gli occhi
disciplinatamente fissi sulle sagome fioche. A dispetto della
sua massa smisurata, a dispetto delle cavità esangui degli
occhi, c’era in lei una presenza che lo intimoriva
profondamente. Provò un senso di soddisfazione
nell’osservarla, come un uomo che contemplasse
un’immagine religiosa, un’immagine di vetro colorato:
statica, classica, bilanciata. Nell’immensità del suo corpo
c’era una sorta di equilibrio, una completezza, un’interezza.
Era contenuta in sé stessa: era ciò che lui non era. Non le
serviva nulla dal di fuori. Tutto ciò che contava era
conservato all’interno del suo corpo, come gli strati di
nutrimento e di grasso che un animale immagazzina prima
dell’ibernazione per rendersi autosufficiente.
«Hai l’aria sorniona» le disse in tono accusatorio. Come
suonava? Non nel modo in cui avrebbe voluto… L’invidia
nella sua voce era percepibile anche a lui. «Voglio dire,
sembri un gatto che ha mangiato il canarino. Capisci quello
che sto cercando di dire?»
Lei sorrise debolmente. «Sì, credo di sì.»
«Ti dona. In questo modo sembri più vecchia.»
«Oh, di milioni di anni.»
«Hai già pensato a un nome?»
«Margaret, se è una femmina. Peter, se è un maschio.
Stuart ha sempre desiderato farsi chiamare Pete. Ma non ci
è mai riuscito.»
«Adesso lo farà lui.» Dopo un attimo Fergesson le
chiese: «Per che cosa avete litigato?»
«Non lo so bene. Per qualcosa che aveva a che fare con
la guerra e con Dio. Un giorno glielo dirò, ma non adesso.»
«Ellen» disse lui «che c’è che non va in Stuart?»
«Le interessa?»
«So che c’è qualcosa che non va.»
Molto semplicemente, Ellen rispose: «Non conosce
nessuno di cui si possa fidare.»
«Può fidarsi di me. Non lo abbandonerò.»
«Lo ha già fatto.»
«Davvero? In che modo?»
«Stuart vuole crescere. Ma dov’è che può crescere? Ohe
mondo gli avete lasciato?»
«Non l’ho creato io il mondo.»
Ellen sorrise. «Non poteva costruire qualcosa,
un’occasione, un tentativo?»
«È stato fatto» disse Fergesson. «Ce l’ha avuta,
l’occasione. Lui è capitato quando stava succedendo.
Quell’Uomo…»
«Sì» convenne Ellen. «Quell’uomo. E quell’Uomo sta
marcendo sottoterra.»
Avvilito, Fergesson le domandò: «Non gli piaccio, a
Stuart?»
Ellen rifletté. «Credo che nemmeno la veda. Temo che
non abbia mai imparato a vedere nessuno. Quello che
vuole, quello che sta cercando, è troppo vago, troppo
remoto e astratto. Non ha un nome. Cent’anni fa si
chiamava grazia. È la ricerca di qualcuno in cui possa avere
fiducia. Qualcuno che non lo lasci solo.»
«Se potesse vedermi, saprebbe che io voglio che abbia
fiducia in me.»
«Se potesse farlo credo che starebbe bene. Ma non sa
come. Perciò può solo continuare a cercare qualcosa di
invisibile. Qualcosa che nessuno ha mai visto, né vedrà mai
sulla faccia della terra.»
Fergesson andò verso l’angolo del bancone. Fuori dal
negozio, oltre la porta chiusa, passarono un uomo e una
donna, con i tacchi che lasciarono un’eco lamentosa nel
buio assoluto della notte. «Ti accompagno a casa» disse.
«Ho la macchina qui davanti.»
Ellen si alzò subito in piedi. «Sì, grazie. Lo apprezzerei.»
Fergesson entrò nella sala e spense il televisore. Il
sonoro era così basso che solo quando si piegò verso
l’apparecchio il debole brusio gli giunse all’orecchio. «Stavi
davvero guardandolo?» le chiese.
«Non proprio. Pensavo.» Ellen si avviò verso la porta e
lui la seguì, controllando automaticamente se Hadley
avesse spento tutti i televisori prima di andarsene. Aprì la
porta e si fece di lato mentre Ellen usciva sul marciapiede
gelido.
«Fa freddo» disse Fergesson mentre salivano in
macchina. Ellen non replicò. «Anche troppo freddo per
giugno. Accendo il riscaldamento.»
Lei annuì e lui lo accese. Il motore si avviò con un ronzio
regolare e Fergesson si immise lentamente sulla strada
deserta.
«Sarà tornato a casa?» le chiese mentre svoltavano su
Cedar Street.
«Immagino di sì. Non lo so proprio.» Ellen guardò fuori
tranquilla dal finestrino le sagome scure delle case e degli
alberi. «Lei e Alice non avete mai avuto figli, vero?»
«No.» Fergesson non aggiunse altro. Era stato illuso e
compianto fin troppe volte. «È colpa mia» aggiunse alla
fine. «Almeno secondo i medici.»
«Le piacerebbe avere dei figli?»
«Ecco» rispose Fergesson a denti stretti. «Ho il mio
negozio. E il mio piccolo gregge da seguire.»
Percorsero il resto della strada in silenzio.

Horace Wakefield, la sera seguente, visse con


gratitudine il momento esatto in cui giunsero le sei. Libero
dalla schiavitù, Wakefield si affrettò alla porta del negozio
di fiori, la chiuse e girò la chiave, spense il neon esterno e
tornò indietro di corsa per sistemare i banconi per la notte.
In questo poteva contare sull’aiuto della piccola Jackie
Perkins, la ragazza con gli occhi da bambina che gli dava
una mano nelle incombenze minori come preparare i
mazzetti di fiori, dare il resto, avvolgere le piante in vaso,
vendere i semi e spolverare i mobili.
«È ora di andare a casa!» cominciò a strillare Wakefield
con la sua vocetta acuta mentre correva su e giù per il
negozio simulando efficienza. Si precipitò al ripostiglio,
prese il soprabito di finto castoro, si fermò un attimo
davanti allo specchio per controllarsi la gengiva inferiore
ed esaminare le piaghe bianche sulla carne morbida, si
soffiò il naso in un kleenex preso dalla scatola speciale
sotto il bancone, si sfiorò il cinto erniario per accertarsi che
non fosse scivolato all’insù, poi sbatté rumorosamente le
mani.
«Andiamo!» belò. «Fine della giornata! Fine della
settimana! È ora di andare a casa, ragazzi!»
Il negozio era avvolto da una densa nebbiolina
profumata, provocata dai tanti fiori caldi e umidi. Jackie
cominciò a portarne alcuni in frigorifero per la notte, con
un fiacco sorriso sul volto immaturo e le lunghe dita sottili
ben strette attorno al suo fardello, con le unghie giallastre
che vi affondavano dentro come artigli.
«Lei vada pure, signor Wakefield» disse debolmente la
ragazza. Nella sua corta gonna nera e il maglione grigio a
collo alto, sandali ai piedi e braccialetti di rame ai polsi,
Jackie si muoveva veloce, con allegria, avanti e indietro,
stringendo le labbra, con una striscia di sudore che le
scivolava fin sotto il naso. «Chiudo io» aggiunse.
«Grazie, Jackie» replicò Horace Wakefield, contento.
Accettò il tributo alla sua posizione con dignitosa serietà.
«Sì, io vado. Ce l’hai la chiave?»
Jackie indicò il quadratino di stoffa in fondo al bancone
che era la sua borsetta. «I soldi li metto in cassaforte;
comunque devo trattenermi ancora un poco. Bill viene a
prendermi per portarmi in città.»
«Ah» scherzò Wakefield, con il dente d’oro scoperto in
un sorrisetto di condiscendenza. «Uscite stasera? Tutta
vita, eh?»
Un’espressione seria e altezzosa trasformò la faccia di
Jackie in un ghigno di derisione. «Tutta vita, ma non nel
senso che intende lei.» Lo disse come se le parole di
Wakefield fossero state una bassa insinuazione. «Andiamo a
sentire un concerto.»
Wakefield ridacchiò fra sé e lasciò il negozio di buon
umore, uscendo sul marciapiede. Salutò allegramente con
la mano e attraversò con il semaforo verde. Si fermò
davanti alla cassetta delle lettere per infilarvi una manciata
di fatture e cartoline, si lisciò la giacca, perse la sua
espressione gioviale e proseguì con un’aria molto dignitosa
verso l’Health Food Store.
Era chiuso e la tendina era tirata giù. Picchiò un paio di
volte sulla porta, poi una terza, più rapida e decisa, con le
nocche della mano. Da sotto la porta filtrava della luce e lui
poteva sentire il rumore di persone all’interno. Dopo un
attimo qualcuno girò la chiave e la porta si socchiuse.
«Buonasera, Betty» disse solennemente Wakefield.
«Entri, Horace» lo invitò stancamente Betty. Richiuse a
chiave la porta dopo che fu entrato e si trascinò verso il
bancone. «Sieda pure dove vuole. Gradisce un po di tè?»
«Grazie» rispose Wakefield mentre si accomodava al
bancone. Il tè gli venne versato da una luccicante teiera
cinese in una tazza fragile, così piccola che Wakefield ebbe
qualche problema a prenderla per la maniglia. Il tè era di
un colore scuro, ambrato; l’intenso aroma gli solleticò il
naso. Un tè forte, esotico, orientale.
«Zucchero?» grugnì Betty. «Limone?»
Wakefield sorseggiò il tè. «Va bene così, Betty.»
C’erano altre persone sedute al bancone, con le loro
fragili tazze. Per lo più donne; praticamente lui era runico
uomo. Ce n’erano otto o nove, ben vestite, che
chiacchieravano a bassa voce. La tensione si sentiva
aleggiare nell’aria: aspettavano con impazienza le otto,
l’ora della conferenza. I poster di Theodore Beckheim
erano in mostra accanto al registratore di cassa. Opuscoli
gratuiti, copie del Guardiano del Popolo… Il manifesto
centrale nella vetrina era stato corredato da piccoli
riquadri informativi. Theodore Beckheim sembrava essere
presente in tutto il locale, in ogni angolo e anfratto.
Wakefield non aveva nulla da obiettare a quella
invasione della sua intimità, ma la tensione che mostravano
le donne lo infastidiva. Poteva tollerare la faccia scura e
incombente di Beckheim che lo fissava con insistenza da
ogni parte, ma non sopportava l’interminabile mormorio
eccitato che usciva dalle gole secche delle donne.
Normalmente a quell’ora l’Health Food Stare era deserto;
era passata l’ora di chiusura, e soltanto i dipendenti e pochi
altri privilegiati venivano ammessi. Stasera c’era una
specie di orda che lo circondava, che gli rovinava la cena
trasformando quello che di solito era un rito privato in uno
spettacolo pubblico. Wakefield si sentiva irritato. Desiderò
che se ne andassero via; non veniva forse lì tutte le sere da
dieci anni a consumare la sua cena nella tranquilla
penombra del locale chiuso?
«Buonasera» gli disse la donna accanto con voce secca,
soffocata.
Wakefield trasalì e le rivolse un’occhiata furtiva. Era
alta, sui cinquantacinque anni, con i capelli bianchi, e l’aria
severa. Gli occhi accesi sbatterono, le labbra sottili si
contorsero. Sollevò la tazza di tè come in un brindisi.
Wakefield si sentì imbarazzato; si voltò rabbiosamente e si
concentrò sulla vetrinetta sopra di lui con dolci di
marzapane, «’sera» farfugliò preoccupato.
«Lei è il titolare del negozio di fiori» affermò la donna.
«Lo è da tredici anni.»
«Quattordici» la corresse Wakefield. La donna lo faceva
sentire a disagio. Era piuttosto alta; i lineamenti erano duri,
come quelli di un uccello da preda, la carnagione chiazzata,
giallastra, e le sopracciglia folte. La criniera di capelli
bianchi era folta e setolosa; le pendeva sulle orecchie e sul
collo come quella di un vecchio. Le guance erano incavate,
il volto scuro. Sgradevole, bruciava di un’intensa febbre
interiore che a Wakefield fece venire in mente i malati di
tubercolosi.
«La signora Krafft non mangia carne» affermò Betty.
Rivolta alla donna dai capelli bianchi aggiunse: «Lei e il
signor Wakefield dovreste conoscervi meglio.»
La bocca di Wakefield si aprì appena, all’improvviso
provò un certo interesse. Il suo fastidio svanì e lui si voltò
per guardare bene in faccia la signora Krafft. «È vero? A lei
la carne non piace?»
L’espressione febbrile negli occhi della donna si
intensificò. «A me la carne piace» disse forte. «Ma non
posso mangiare la carne di creature superiori che hanno lo
stesso diritto di vivere che ha qualsiasi essere umano. Sotto
certi aspetti ammiro gli animali superiori più dell’uomo. La
loro capacità di sopportare la sofferenza senza lamentarsi e
la loro naturale dignità, la loro nobiltà e la libertà dalla
volgarità materiale…»
«Sì» convenne Wakefield. Il suo volto piccolo si
imporporò; era imbarazzato e compiaciuto, e cominciò a
tormentarsi le mani. Le parole gli uscivano con difficoltà,
ondate di emozione gli attraversarono la gola e lo fecero
tossire, tanto che dovette girarsi di lato in un gesto di
scusa. Si tolse gli occhiali con la montatura metallica e li
lucidò con il fazzoletto, mentre le mani gli tremavano. «Sì,
capisco quello che intende» riuscì a dire. «È una questione
morale.» Tornò a infilarsi gli occhiali sul naso. «Il grasso è
sporco. Non è sano. Tutte le volte che vedo un mercato di
carni penso a un deposito di rifiuti, a tessuti putrefatti e
lattine vuote e immondizia che marcisce.» S’interruppe.
«Non riesco a sopportare la vista della carne.»
«Li ha mai guardati negli occhi?» chiese la signora
Krafft.
«Mi scusi?»
«Quando ero piccola mio padre uccideva il bestiame
nella fattoria. Li colpiva alla testa con un’ascia e gli
tagliava la gola. Io dovevo tenere il mastello. Mentre
morivano li guardavo negli occhi.»
«Sì» convenne distrattamente Wakefield. «I loro occhi.
Una cosa terribile.»
«Quando vedo qualcuno di loro… sono peggiori di
qualsiasi animale della giungla.» La voce della signora
Krafft divenne stridula. «Porci! Oscene creature che
dovrebbero essere eliminate. Nemmeno l’animale più
stupido può sprofondare nell’abisso di violenza e di
brutalità dell’uomo. L’uomo è l’animale più crudele,
l’animale più perfido. L’unico veramente disgustoso. Li vedi
con i loro grossi sigari, che sputano e sghignazzano e si
danno pacche sulla schiena. Che si raccontano barzellette
sporche e ruttano e s’ingozzano di birra e di ostriche
fritte.» Riuscì a riprendere il controllo con qualche
difficoltà. «Quando trascrivo le conferenze, certe volte
cominciano a ridere e a scherzare fra loro. Sono bestie,
creature volgari…» Sul suo viso magro ed eccitato si
delineava un’intera vita di risentimento. La signora Krafft
aveva palesemente sofferto sotto le mani degli uomini, era
stata degradata a cittadina di seconda classe, costretta a
strisciare nell’ombra.
Ma c’era ancora di più. La signora Krafft, capì
Wakefield, stava reagendo alla volgarità del mondo così
come faceva lui; entrambi avevano aderito alla Società dei
guardiani per sfuggire alla crudeltà e alla brutalità, per
entrare a far parte di un ambiente di spiritualità. Lui la
vedeva come una società venale e corrotta, ma la signora
Krafft, essendo una donna, la identificava con gli uomini.
Wakefield si domandò chi di loro due avesse ragione. Se
erano gli uomini, allora lui ne portava la tara. Ore fosse una
donna a pensarla in quel modo era giusto, ma se anche lui
dava credito a quella filosofia…
Immaginiamo che un uomo si ribellasse alla volgarità e
alla crudeltà, alle passioni animali… e vedesse quelle cose
non nella società intorno a lui, ma nella sua stessa natura
di maschio. Allora? L’avversione sarebbe stata per sé
stesso, la lotta tutta interiore. Dove poteva andare un
uomo? Che ne sarebbe stato di lui? Sballottato sulla faccia
del mondo, in un eterno girovagare, tormentato, avverso
alla sua stessa natura, alle sue parti più vili, per dirla tutta.
Wakefield rifletté sulle sue parti più vili e non vide nulla
se non pallida carne rosa, così come il resto del suo corpo.
Non aveva parti vili: andava tutto bene. Si rilassò e sospirò.
Horace Wakefield non aveva che una natura, e quella
natura era pura.
Finì il suo tè cinese e mise da parte la fragile tazza.
«Molto gustoso» disse a Betty.
«Da quanto tempo fa parte del movimento?» gli chiese
la signora Krafft.
«Ho sentito parlare Theodore Beckheim lo scorso
autunno, quando mi trovavo a Los Angeles» rispose
Wakefield, esaminandosi le unghie molto curate. «Credo
che il movimento abbia avuto origine in quell’area.»
La signora Krafft trattenne il fiato e si sentì travolgere
dall’emozione. «Los Angeles! Ha sentito il discorso di Los
Angeles? Darei dieci anni della mia vita per essere stata lì.»
La voce raggiunse livelli trascendenti. «È stato quando ha
curato quella ragazza paralizzata. L’ha fatta mettere in
piedi sul palco. È stato quando cominciava appena a capire
il suo potere di guarigione.»
«Oh,» confermò Wakefield «erano i primi giorni.
Eravamo appena all’inizio. Voglio dire, si trattava di una
semplice guarigione. Non avevamo ancora trovato Dio.» Poi
aggiunse: «Da allora ne abbiamo fatti di passi avanti. In
quei giorni il signor Beckheim era solo un praticante.» La
citazione di Los Angeles gli fece tornare alla mente tutti i
vecchi aspetti del movimento: la cintura magnetica che
aveva acquistato e consumato, le speciali acque radioattive
nelle quali si era immerso, Beckheim che passava le grosse
mani sui corpi nudi dei bambini per curarli dai diversi
catarri e dalle febbri da fieno. «Allora erano solo corpi.
Adesso sappiamo che il corpo non è nulla.» Nella mente di
Wakefield c’era una nebbia densa, quando pensava ai corpi.
«È l’anima che conta.»
«Proprio così» convenne la signora Krafft. «La malattia
è una manifestazione di attitudini mentali non
appropriate.»
Wakefield non ne sapeva nulla. «Be’, immagino che in
un certo senso lei abbia ragione» farfugliò controvoglia.
«Ma io ho sempre avuto l’impressione che la malattia sia il
risultato di una dieta non appropriata, anche se suppongo
che una persona con un’attitudine mentale sbagliata finirà
col mangiare il cibo sbagliato. Ma a me sembra che è
quanto lei mette nello stomaco a determinare la sua
attitudine mentale, capisce quello che intendo dire? Lei è
ciò che mangia, mi segue? Mangiare carne provoca
attitudini bestiali… mangiare frutta e verdure purifica la
mente. Io credo, ma naturalmente potrei anche sbagliarmi,
che gli stati di coscienza siano una conseguenza della
dieta.»
La signora Krafft non riusciva a seguirlo. «Sono
d’accordo con lei sulla carne, certo. Ma non ricordo di
avere mai avuto pensieri volgari quando ero bambina,
quando ancora mangiavo carne. È uccidere gli animali…
nessuno con una mente pura potrebbe eliminare un
animale indifeso. Quando avremo portato la vera purezza al
genere umano non ci saranno più uccisioni di animali
innocenti. Omicidi, odio, malattie verranno cancellati dalla
faccia della terra. E comunque sono la stessa cosa.»
Wakefield giocherellò con la tazza vuota. «Lei crede»
disse lentamente «che il movimento riuscirà mai a
raggiungere tutti gli uomini?»
La signora Krafft ne fu colpita. «Il movimento diventa
più grande ogni giorno! Insomma, siamo presenti in tutto il
mondo; guardi quanto siamo cresciuti dai tempi di Los
Angeles. Se lo ricorda… quel solo palazzo e qualche
migliaio di seguaci appena, praticamente senza fondi. E
adesso ci guardi… ogni paese del mondo, filiali e uffici,
pubblicazioni, seguaci dovunque, a parte nel mondo
comunista, ovviamente.»
«È proprio quello che intendo» disse Wakefield
pensieroso. «L’ha detto lei, signora Krafft: il mondo
comunista. È un mondo enorme… c’è un mucchio di gente
che crede in quelle idee.»
«Negano Dio!»
«Sì» concordò Wakefield. «Negano l’anima… negano Dio
e tutto ciò che è spirituale. Non crede che sia la solita
vecchia storia? Dio contro mammona… Mangiano carne,
signora Krafft. Ogni volta che vedo una foto di Stalin lo
fisso negli occhi e dico: tu sei un mangiatore di carne,
Josip. Sei grosso e pesante e pieno di carne putrescente.
Ora, c’è una cosa di dire su Hitler: lui era vegetariano,
signora Krafft, lo sapeva? Adolf Hitler può aver fatto un
sacco di cose sbagliate nella sua vita − era troppo delirante
e irritabile, penso − ma non ha mai toccato carne né alcol.
Questo devo riconoscerglielo; a ciascuno i suoi meriti, dico
sempre.»
La signora Krafft si piegò verso Wakefield. «Lei lo sa
perché si sono tutti alleati contro la Germania e l’hanno
distrutta?»
«Ecco…» cominciò Wakefield.
La signora Krafft non gli diede il tempo di continuare.
«Perché aveva intenzione di costruire un nuovo mondo
pulito. L’Inghilterra lo ha visto scritto sui muri… è stata
l’Inghilterra, lo sa. Bottegai… ecco come li chiamava
Napoleone. E aveva ragione! Denaro, commercio…» Si
avvicinò ancora di più a Wakefield. «Forse lo sa, ma c’è
sangue ebreo nella famiglia reale.»
«Eh?» fece Wakefield.
«Glielo dico io come fa a esserci. Disraeli. Lui e la
regina Vittoria.» La signora Krafft confermò con un cenno
del capo. «E da allora… ce l’avevano un’anima, fin dai
tempi di William Shakespeare. Ma poi non più. Adesso sono
bottegai, signor Wakefield. E lei sa perché.»
«Be’» disse Wakefield, poco convinto. «Non vedo in che
modo io possa approvare tutta quella violenza. Non penso
che si debba uccidere altra gente.» Nel profondo del cuore
di quell’ometto albergava un sincero orrore per la violenza.
«Quelli del nord certe volte lo fanno. Ricordo un finlandese,
un portiere che viveva in uno scantinato di un palazzo dove
abitavo una volta… anche se di certo adesso non ci abito
più. Un giorno uscì completamente di testa… mi lasci dire,
prese sua moglie e la fece a pezzi in modo orribile. È stata
una cosa spaventosa… chiamarono la polizia e l’ambulanza,
ma…» Wakefield gesticolò «…era troppo tardi. Insomma,
l’aveva sventrata come quando si macella un maiale. Ecco
come sono quei nordici. Berserker, li chiamano.» Concluse,
inquieto: «Dietro quegli occhi azzurri e quei capelli biondi
c’è qualcosa di brutto. Qualcosa che mi spaventa. Hanno un
aspetto così piacevole, ma prima o poi viene fuori… Gli
ribolle dentro e consuma, lacera, distrugge.»
Adesso la signora Krafft non gli prestava molta
attenzione. «La Germania aveva spiritualità!» esclamò
indignata. «La sua musica… Bach, Beethoven, Schubert.
Qui non abbiamo niente di simile. Grandi pittori, artisti,
poeti, studiosi. La Germania era l’anima dell’Europa, signor
Wakefield. E l’hanno uccisa, così come hanno sempre fatto
con chi aveva un’anima. Non sopportano coloro che hanno
un’anima… gli ricorda la propria natura animalesca.
Quando la Germania è morta si è spenta una luce. E da
allora l’oscurità si è fatta strada.» S’incupì. «Le dico una
cosa, signor Wakefield. Dobbiamo raggiungere tutto il
genere umano. Dobbiamo avvisarli, in modo che possano
salvarsi. Quando avrà inizio la Grande Battaglia, avremo
bisogno di tutto l’aiuto che riusciremo a trovare. Sarà una
prova terribile.»
Per un po nessuno dei due disse nulla. Poi Wakefield
chiese titubante: «Crede che la lotta fra il mondo libero e il
comunismo sia… la Grande Battaglia? Voglio dire, siamo
già in vista dell’Armageddon? Nel movimento ci sono
differenti opinioni in proposito. So che alcuni pensano che
lo stiamo già combattendo, quando ci opponiamo
all’ateismo dei comunisti asiatici. Ma ci sono altri che
pensano che noi siamo materialisti e colpevoli quanto i
russi.»
«Noi siamo contaminati» affermò infervorata la signora
Krafft. «Anche l’America lo sta diventando. La purificazione
del mondo non può iniziare prima che la guerra livelli ogni
cosa. Mi creda, signor Wakefield, io non vedo l’ora che
cominci la guerra! Quando le bombe cominceranno a
cadere sulle città degli uomini, quando le mura
cominceranno a crollare dappertutto, come succede adesso
in Corea… so che quella è la pioggia. La stessa pioggia che
cadde sul mondo antico… E ci saranno coloro che verranno
salvati, come Noè venne salvato. E adesso il Signore ci
parla, ci dice di andare e salvarci, ci parla attraverso
quest’uomo…» Gesticolò freneticamente verso l’immagine
di Theodore Beckheim sulla parete sopra di loro. «Sarà per
suo tramite che saremo salvati. E il mondo brucerà e
diventerà puro e pulito attraverso il sacro fuoco di Dio. E
tutti i nidi di iniquità, tutti i mercati, i mattatoi, le città, i
palazzi, tutte le opere che l’uomo vanitoso ha edificato, i
suoi patetici tentativi di governarsi da solo…»
«È vero» convenne Wakefield nervosamente,
desiderando che lei non gridasse così forte. «La Società
delle Nazioni ha fallito, e le Nazioni Unite falliranno allo
stesso modo.»
«L’uomo non può governarsi da solo! L’uomo è troppo
infestato dal peccato, troppo corrotto!» La sua voce crebbe
di tono e di eccitazione. «L’uomo ha negato Dio… l’uomo si
è elevato al rango di Dio e ha detto: a me stesso ci penso io.
E adesso ne stiamo pagando il prezzo! Sono stati gli
scienziati a portarci dove siamo, interferendo con
l’universo. Gli scienziati con le loro bombe… la scienza è la
strada del diavolo. Loro e le loro bombe atomiche e la loro
guerra batteriologica. È il giudizio di Dio!»
Wakefield trasalì allo spruzzo di saliva e di parole che
proruppero dalla bocca appassionata della signora Krafft.
«Sì» farfugliò, e si fece di lato. Era facile sentire le forze
profonde che rumoreggiavano dentro quella dorma dai
capelli bianchi, e quelle forze lo mettevano a disagio. Tutte
le donne che si trovavano nell’Health Food Store erano
così, a parte Betty, che non si scaldava mai di niente, se
non quando lo scarico del gabinetto gocciolava sui barattoli
di albicocche secche giù in cantina. L’intero ambiente
ronzava di emozioni tenute sotto controllo; per Wakefield
era come se venti radio gli tintinnassero
contemporaneamente all’orecchio. Pensò alla sua stanza, al
suo tranquillo appartamentino, camera da letto e
soggiorno. Al suo pianoforte, ai suoi libri e alla sua
poltrona. Alla vecchia lampada fuori moda e alle pantofole.
Nella minuscola cucina poteva prepararsi una tazza di
minestra e delle frittelle di soia, patate e fagiolini freschi.
Magari con delle prugne cotte come dessert. Non era
costretto a mangiare all’Health Food Store; tutto a un
tratto provò l’impellente desiderio di andarsene.
«Buonasera» farfugliò in tutta fretta alzandosi in piedi.
«Grazie per il tè, Betty.»
«Se ne va?» gli chiese sbalordita la signora Krafft.
«Vado a casa» riuscì a dire Wakefield. «Ho delle cose da
fare. Devo preparare la cena, e più tardi vengono degli
amici. Piacere di averla conosciuta.»
«Non ha intenzione di sentirlo?» La signora Krafft non
credeva alle proprie orecchie. Diverse altre signore
avevano smesso di chiacchierare e fissavano stupite
Wakefield mentre lui si avviava esitante verso la porta. «Ci
andiamo tutte insieme… non può aspettare?»
Lui voleva ascoltare di nuovo Theodore Beckheim. Ma
mancava più di un’ora. Come faceva a restarsene lì con la
signora Krafft, a sentire la tensione del suo corpo, ad
ascoltare le rumorose correnti sotterranee dei suoi
risentimenti repressi? Già era abbastanza triste cenare lì,
ma almeno aveva un tavolo appartato dove nessuno lo
disturbava. Perché Theodore Beckheim non andava a
trovarlo a casa sua, loro due e nessun altro?
«Deve aspettare» disse in tono autoritario la signora
Krafft. «Non può andarsene.»
«Si sieda e aspetti» aggiunse Betty in un rantolo.
«Andremo tutti al palazzo con la macchina della signora
Krafft.»
«Ma ho fame» si lagnò Wakefield irritato, sentendosi
preso al laccio e impotente. «Non ho ancora cenato.»
«Le preparo subito la cena» disse Betty. «Lulu!» gridò.
«Vieni fuori e prepara quello che il signor Wakefield
desidera per cena.»
Wakefield si palpeggiò la tasca, preoccupato. Aveva con
sé coltello e forchetta? Tirò fuori la piccola custodia di
cuoio e velluto e l’aprì. C’erano, le due posate scintillanti
d’argento. «Potrei mangiare sul retro?» chiese
nervosamente. «Detesto mangiare qui davanti a tutti.»
«Sistema il tavolo sul retro per il signor Wakefield»
disse Betty all’alta donna di colore dagli occhi scuri che era
spuntata obbediente dal retrocucina con le mani
gocciolanti per l’acqua dei piatti che stava lavando. «Pulisci
tutto e trovagli la sua sedia.»
«C’è riso con salsa di formaggio e uova e pomodoro,
insalata di pasta e fette di banana con panna» annunciò
Lulu. Facendo turbinare la gonna pesante scomparve di
nuovo nel retrocucina attraverso le polverose tende gialle.
Wakefield ebbe un attimo di esitazione, poi la seguì un po
preoccupato.
Si era appena seduto al grosso tavolo di legno e stava
tirando fuori il coltello e la forchetta quando comparve la
signora Krafft.
«Siederò qui con lei mentre mangia» annunciò la donna,
accomodandosi di fronte a lui. Mentre Lulu cominciava a
servire sistematicamente il cibo, la signora Krafft inalò
grandi boccate di quell’aria che sapeva di forno caldo. «Ah»
disse. I suoi occhi svegli e acuti si fissarono su Wakefield.
«Questo posto irradia pace» proclamò all’improvviso.
Wakefield annuì e biascicò qualcosa, troppo sconvolto
dalla sua sventura per parlare.
«Irradia pace» ripeté la signora Krafft. Alzò gli occhi
verso una vetrina in cui c’erano pillole per diabetici e per la
pressione alta, boccette di liquido scuro per l’ulcera e per
le vene varicose, biscotti speciali senza zucchero e pallido
miele essiccato, capsule di vitamine, pacchetti di mais e
crusca in fiocchi. «C’è una tale pienezza, qui dentro. Una
interezza. Non c’è nulla che sia fuori equilibrio. Questo
locale è del tutto compiuto.»
Wakefield attese avvilito il suo riso con salsa di
formaggio, desiderando tanto potersene andare.

Le aveva viste lì dentro. Era passato oltre la porta,


aveva colto la traccia indistinta di un movimento femminile,
aveva sentito le grida stridule e aveva proseguito. Dietro le
casse di frutta e datteri vide di sfuggita Horace Wakefield
seduto in mezzo a loro, con una tazza di tè fra le dita
insicure, che si puliva delicatamente le labbra con un
tovagliolo di carta.
Adesso Stuart Hadley sedeva davanti al bancone del
drugstore dalla parte opposta della strada, con un bicchiere
pieno di acqua ghiacciata accanto al gomito e un menù
appoggiato sul ripiano. Fissava, senza vederlo, il bancone
umido, aspettando che il ricordo e le impressioni
dell’Health Food Store si dileguassero. C’erano pochi
clienti intenti a consumare panini al manzo, caffè, torta di
mele con gelato. Dietro il bancone la piccola, graziosa
cameriera dai capelli neri, sbarazzina e operosa nella sua
divisa bianca inamidata, stava terminando di preparargli un
panino con prosciutto e formaggio.
Il drugstore era fastidiosamente rumoroso per l’aprirsi e
chiudersi del registratore di cassa, per il brusio degli
avventori, per l’andirivieni di donne borghesi che venivano
ad acquistare Alka-Seltzer, aspirine, olio minerale, gomma
da masticare e riviste. In fondo al bancone un uomo
tarchiato con una giacca di pelle nera stava leggendo la
pagina dei fumetti del San Francisco Examiner.
Stuart Hadley era di pessimo umore. Come aveva fatto a
finire lì? In un posto come quello, fra persone come
quelle… La parola gli venne alla bocca come il malore dallo
stomaco. Esaltati. Tutti quanti, esaltati e balordi… svitati.
Non poteva prendersi in giro: era per questo motivo che si
trovava lì, e se si fosse seduto e avesse ascoltato la
conferenza, sarebbe stato un esaltato anche lui.
Un giovanotto biondo in un vestito blu di ottima fattura:
ecco Stuart Hadley. Di bell’aspetto, piacevole, affabile,
socievole… una persona che stava bene con tutti. Un buon
venditore. Un buon marito. Un uomo che portava scarpe
lucide, pantaloni stirati, sempre ben rasato, le ascelle
trattate con solfato di alluminio. Un uomo che si presentava
bene e che aveva un buon odore, un uomo che poteva
entrare nel miglior ristorante ed essere servito subito.
Non un pazzo dallo sguardo invasato con la barba
incolta, sandali, i capelli sporchi e una targhetta
appiccicata che diceva:
GESÙ SALVA

Non riusciva a immaginarsi senza le sue camicie, i suoi


polsini, i suoi vestiti a un petto solo di colori tenui. Non
riusciva a vedersi separato dal suo armadio e dai suoi
cassetti, dal suo flacone di deodorante Arrid, dalla sua
crema per il viso Wildroot, dal suo lucido per scarpe
Dyanshine. Eppure Stuart Hadley doveva essere qualcosa
di più di quello; di certo c’era un nucleo, un centro, al di là
della boccette e dei vestiti, al di là di ciò che veniva riflesso
dallo specchio appollaiato in cima alla credenza.
Poteva quel nucleo, quello Stuart Hadley interiore,
essere pazzo come Horace Wakefield? Dentro il guscio
dell’affabilità c’era un’entità delirante, instabile, che
smaniava dolorosamente per sbucare fuori, una furiosa,
gemebonda larva che si sforzava di emergere e strizzò
sciare in giro, viscida e bizzarra, non umana, non ordinaria,
non bella?
Non c’era niente di bello nell’Health Food Store.
Non c’era niente di attraente in Horace Wakefield con il
suo cinto erniario, i kleenex e gli occhiali. Nella sua faccia
inaridita, negli occhi da pesce morto di piccole prugne
secche come lui c’era una lanugine muffita, stantia. Un
puzzo di malattia aleggiava su di loro, non una comune
malattia, ma una ben più seria. I Wakefield erano un
marciapiede pubblico su cui si starnutiva e si sputava; c’era
su di loro uno strato essiccato di sporcizia così antico da
non potersi nemmeno più identificare come sporcizia.
Sembrava più una cera. Una vernice. Il viso piccolo di
Wakefield era accuratamente verniciato di spazzatura;
dietro quella vernice lui rideva e parlava e portava avanti la
sua attività. L’aveva lucidata fino a farla brillare, e ne era
orgoglioso.
Evocare l’immagine di Wakefield mise Hadley a disagio,
come se lo avesse partorito lui stesso, dal suo corpo e non
dalla mente. Tutto a un tratto ebbe voglia di spaccare il
guscio lucido e scintillante che era Horace Wakefield; una
fuggevole fantasia lo colse per un momento, una visione
della piccola testa che si apriva come un baccello maturo e
il cervello di Wakefield che si sparpagliava in minuscoli
frammenti disseccati, soffiati qua e là dal vento. Magari per
radicarsi e crescere di nuovo in qualche luogo buio e
molliccio, dove c’erano umidità e silenzio per nutrirlo. Una
razza di Wakefield che germogliavano dal suolo notturno
come funghi.
La sua fantasia lo sorprese: come poteva solo pensare di
colpire quel piccolo, inerme invasato? Immaginò Horace
Wakefield che si frantumava al primo tocco, gli occhiali da
una parte, e magari la testa, le gambe e il cinto erniario da
un’altra. Horace Wakefield era la parte interna malata della
sua stessa mente, e lui si vide a saltare e calpestare quel
corpo secco fino a che non ne rimaneva niente. Nello stesso
modo in cui da bambino, a Washington, aveva calpestato
più volte le piante di vesce che crescevano sui prati.
Provò un senso di vergogna che pose fine alla sua
fantasia. Senza volerlo aveva evocato un evento della prima
infanzia; adesso aveva voglia di restituirlo alle parti
nascoste della sua mente, dove non avrebbe avuto bisogno
di pensarlo o di condividerne l’esistenza.
Eccolo lì, un bambino di cinque anni, che sgambettava
sulla fanghiglia gialla e sulla neve di un inverno orientale.
Vestito con guanti rossi, calzoncini pesanti, calosce, un
berretto di lana con pompon calzato fino alle orecchie. Che
stava facendo? Serio in volto, concentrato, stava
inseguendo una bambina, con una paletta stretta fra le
mani. Mentre la inseguiva tentava di colpirla con violenza;
la bambina gridava e piagnucolava mentre tutti e due
correvano sul prato spazioso fra la scuola elementare e la
palestra. Più o meno a metà strada − il ricordo preciso si
rifiutava di venir fuori − picchiava con forza la paletta sulla
testa della bambina. Quest’ultima, con un urlo, cadeva a
faccia avanti sul brecciolino ghiacciato; nel vederla, Stuart
Hadley si era voltato ed era corso via per la strada da cui
era venuto, svuotato di ogni ostilità.
Gli sembrava improbabile che potesse aver compiuto un
gesto simile. Magari era per via di qualcosa che la bambina
aveva detto, forse alludendo alla sua balbuzie. Da piccolo
Stuart balbettava, gli era impossibile esprimere i pensieri e
le sensazioni che lo prendevano alla gola. La bambina
rideva, faceva battute… si meritava quello che le era
capitato. Però lui aveva trascorso i successivi sei mesi in
una scuola speciale, gestita dal comune, per bambini con
problemi.
«Ehi, sta dormendo?»
Hadley grugnì e alzò lo sguardo.
«Ecco il suo panino e la sua Coca.» La ragazza al
bancone, ridendo divertita, gli sistemò il piatto davanti.
«Sveglia.»
«Grazie» disse Hadley, tornando sollevato al presente.
«Grazie mille.»
La ragazza indugiò, timida, innocente, con le guance
arrossate per una scherzosa intimità. «Che ne pensa sua
moglie del fatto che lei se ne sta qui? Non le ha preparato
la cena?»
Sulla mano sinistra di Hadley c’era il cerchio d’oro della
fede nuziale. La accarezzò con aria allusiva. «Stasera si
sente male.»
«Ci scommetto proprio» disse la ragazza, piegandosi
verso di lui. «Non mi prenda in giro» aggiunse. «Invece
scommetto che lei se la vuole spassare. È sabato sera.»
Hadley mangiò il suo panino, le patatine unte, e bevve la
Coca. Si infilò tutto in bocca in modo apatico, gli occhi
vuoti persi dietro qualche pensiero, vedendo solo una
sagoma indistinta di cotone bianco nel punto in cui c’era la
ragazza. Era lì a passare il tempo prima che cominciasse la
conferenza. A bighellonare tutto solo senza meta, senza
Ellen, ad ammazzare due ore finché non fosse stato il
momento di dirigersi verso il palazzo dei guardiani insieme
a tutti gli altri, a tutti i Wakefield e alle donne petulanti e
vestite di tutto punto.
Perché c’erano tutte quelle ricche signore di mezza età?
Che cosa gli interessava? Dovunque spuntava un
movimento di quel tipo, ecco che spuntavano anche quelle
vecchie signore piene di soldi e di ogni altro ben di Dio.
Che pagavano, trovavano i luoghi di incontro, tiravano le
fila, ascoltavano tutto ciò che veniva detto e seguivano
tutto ciò che veniva fatto. Non avevano altro da fare nella
vita? Con le loro grosse case, le Chrysler, i bei vestiti, il
denaro, erano ancora insoddisfatte?
Era un mistero.
Eppure spiegava qualcosa. Le vecchie signore ricche
non erano la stessa cosa di Horace Wakefield; il raggrinzito
negoziante di fiori viveva in un appartamentino in affitto
senza cucina, una cella sterile e pulita in cui nessun uccello
cantava e nessun calore animava i tappeti e i muri asettici.
Il movimento attirava tipi diversi: attirava irrequiete donne
avanti con gli anni e impiegati impotenti; e lui aveva visto
anche facce solenni di neri, fila dopo fila. Che cosa avevano
in comune le figure tarchiate dei neri con le signore tutte
improfumate? Operai insieme alle mogli; aveva visto anche
loro. E giovani… una manciata di devoti ragazzini pelle e
ossa che tracimavano da Youth for Christ4. Fanatici religiosi
pieni di sacro fuoco.
E poi lui.
Tornò a sentirsi travolgere dalla depressione. Per un
breve attimo aveva creduto che il suo io reale fosse stato
rivelato, intrappolato mentre emergeva in superficie. Per
quanto disgustoso, gretto e spaventoso, era il vero Stuart
Hadley: un altro Wakefield. Era rimasto nauseato,
pensando a sé stesso come a un altro dipendente dalla
faccia austera, con un cinto erniario e un pacchetto
personale di kleenex… ma almeno aveva una posizione
precisa. Adesso non c’era più. Si era perso di nuovo: Stuart
Hadley sarebbe andato ad ascoltare Theodore Beckheim,
ma questo non gli diceva chi o che cosa fosse Stuart
Hadley.
Poteva essere un esaltato. Oppure no.
«Qualche altra cosa?» gli chiese la ragazza mentre lui
allontanava il piatto. «Un dolce? Un gelato? Scommetto che
sua moglie le prepara la cena ogni sera e le rammenda i
calzini e a letto le rimbocca le coperte. Lei è così indifeso…
Ha rovesciato l’acqua su tutto il bancone.» Poi aggiunse,
con una punta di malinconia: «Sono sessantacinque
centesimi. Se vuole può avere dell’altro caffè… è gratis.»
Lui pagò e lasciò il drugstore.
Le strade di sera erano fredde e buie. Con le mani in
tasca si avviò verso il palazzo passando accanto ai negozi
moderni e luminosi nella zona commerciale. Proseguì in
direzione dei binari della Southern Pacific che dividevano la
parte più nuova e prosperosa della città dalle vecchie
baracche che erano state Cedar Groves cinquant’anni
prima.
Un treno di pendolari proveniente da San Francisco
stava riversando fuori vapore e file stanche di impiegati
ingobbiti in lunghi cappotti. Le loro mogli li salutarono e si
affrettarono a riportarli a casa, a una buona cena e a un
buon letto. Oltre le rotaie magazzini e fabbriche in disuso.
Il traffico rallentò quando le strade si fecero più strette e
sinuose. Davanti a piccoli bar giallastri oziavano bulletti
neri. Erano delle topaie di legno, sporche e mal tenute.
Grosse donne di colore passavano con buste rigonfie della
spesa. Poi la zona commerciale di quella specie di
baraccopoli: sale da biliardo, alberghi economici,
lustrascarpe in minuscoli bugigattoli, bar scalcinati, luride
lavanderie e un sudicio garage con una quantità di carcasse
rugginose di auto nelle immediate vicinanze.
Qui vivevano i poveri, quando a non più di un chilometro
e mezzo sfolgoravano in modo ostentato moderni negozi di
abbigliamento, barbieri, gioiellerie e negozi di fiori lungo El
Camino Real. Qui c’erano solo vecchi caseggiati fatiscenti
di legno giallo, vecchi mucchi di pattume rimasti lì dalla
fine del secolo. Reliquie che erano sopravvissute al
terremoto. Marciapiedi e canali di scolo erano ingombri da
spazzatura e detriti di ogni genere: frammenti dei palazzi
pericolanti che si erano sfaldati e alla fine erano stati
portati via dal vento.
Gruppi di uomini dalla faccia inebetita si muovevano in
continuazione senza meta, le mani infilate nelle tasche, gli
occhi vuoti e spenti. Ragazze di colore dai capelli lustri
passavano ancheggiando. Operai in jeans che stringevano
in mano la gavetta del pranzo e giornali ripiegati
scarpinavano stancamente verso casa.
Automobili sporche e ammaccate scaricavano irlandesi,
italiani e polacchi dall’aria esausta davanti ai loro popolosi
palazzoni giallastri che puzzavano di cavolo e di urina, con
stretti corridoi ricoperti da tappeti polverosi e ornati da
vasi di piante rachitiche.
Stuart Hadley proseguì nel buio sempre più cupo della
notte, quasi inconsapevole delle insegne al neon che
brillavano qua e là, e degli spintoni e delle gomitate di
tanta gente stanca. Aveva un’altra ora da aspettare. Lo
stomaco gli brontolava fastidiosamente per le patatine
fritte. Gli faceva male la testa. Gli attraversò la mente l’idea
di andare a casa. Per un po ruminò il pensiero, lo masticò,
lo girò e rigirò; alla fine lo rigettò.
Il debole bagliore di un neon rosso lo attrasse. Un bar.
S’infilò nella sua tetra oscurità e si fece strada a tastoni,
oltre il bancone, verso la cabina telefonica sul retro. Si
richiuse dietro la porta e chiamò casa.
«Pronto» fece Ellen con voce inespressiva.
Hadley si leccò le labbra. «Come… stai?»
«Bene.»
«Sei ancora arrabbiata con me?»
«Non ero arrabbiata con te.» Sembrava lontanissima,
remota, stanca. «Aspetta un minuto, vado a spegnere la
televisione.» Il telefono rimase muto per un po’. Poi un
tonfo, e tornò la voce di Ellen. «Da dove mi chiami?»
«Da un drugstore» rispose Hadley.
«Hai mangiato qualcosa?»
Lui le spiegò quello che aveva mangiato. «Ellen… se
vuoi vengo a casa. Non andrò a quella riunione.»
«Ma certo che lo voglio!» La sua voce si ruppe, divenne
malinconica. Si affrettò ad aggiungere: «Va pure, va a
quella riunione. Quando finisce?»
«Non lo so. Verso le undici, penso.»
«Sei solo?»
«Certo.» Hadley era stupito. «Con chi dovrei essere?»
«Non lo so. Con chiunque, suppongo.» Ellen sembrava
allontanarsi sempre più dal telefono. «Pare che tu riesca
sempre a trovare qualcuno.»
Hadley non parlò. C’era ben poco che potesse dire;
davanti a sé aveva il seguito della vecchia discussione,
nient’altro. «Bene, ci vediamo più tardi.»
Nessuna risposta.
«Voglio dire» riprese lui, goffamente «che torno presto.
Dopo la riunione. C’è qualcosa che vuoi? Qualcosa che
posso prenderti?»
Ellen fece una risata metallica e riattaccò.
Rosso in faccia, Hadley lasciò la cabina e puntò verso il
bar. Si arrampicò su uno sgabello, con le orecchie che gli
bruciavano per l’offesa e la vergogna. Gli tremavano le
mani; se le strinse furiosamente, si morse il labbro
inferiore, attese che la pressione sanguigna tornasse a
livelli normali. Quella piccola strega… ricacciò indietro il
pensiero. Quella strega grossa come un pallone che gli
riattaccava in faccia il telefono. Odio e risentimento lo
travolsero a ondate. Provò l’impulso irresistibile di tornare
a casa e prenderla a schiaffoni, di trasformare la sua faccia
furbetta e irrispettosa in un budino di ossa maciullate e
brandelli di carne. Ebbe voglia di saltarle addosso, di
calpestarla, di frantumare le sue ossa e spezzarle come se
fossero di legno. Ebbe voglia di prenderle a calci la testa e
farla rotolare da una parete all’altra.
«Che ti posso servire, amico?» gli chiese il barista.
Hadley si riprese e ordinò bourbon con acqua. C’erano
altri uomini al bar, quasi tutti operai dall’aria istupidita.
Pagò il suo drink e rimase seduto a sorseggiarlo, stringendo
il bicchiere fra le mani e fissando davanti a sé, consapevole
del tremito alla bocca e del velo di costrizione nei tubi
bronchiali.
Solo quando il barista tornò con il bussolotto dei dadi,
Hadley si rese conto di essersi già scolato l’intero
bicchiere.
«Ci giochiamo il prossimo» disse il barista mentre con la
mano colpiva furiosamente una mosca che si andò a
spiaccicare nell’acqua rovesciata sul ripiano del bancone. I
dadi rimbalzarono sul legno umido e corroso. «Sei»
gracchiò il barista. «Andiamo, brutti figli di puttana.» Con
la faccia deformata da una concentrazione feroce, agitò il
bussolotto e lanciò di nuovo i dadi. «Quattro!» Rosso come
un peperone, con le mani che gli tremavano, raccolse i
dadi. «Che mi prenda un accidente!» la voce assunse un
tono isterico. «Andiamo, bastardi…»
Suo malgrado, Hadley scoppiò a ridere, così come un
paio di operai. Il barista si raggelò all’istante, irrigidendo il
corpo, e fulminò Hadley con un’occhiata di invasata ostilità.
«Che hai da ridere?»
«Scusa» rispose Hadley, che però rideva ancora. «È che
tu la stai prendendo così sul serio.»
Il barista contorse le labbra. «Ce la farò. Nessun fottuto
dado può fregarmi.» Sbatté giù i dadi. Uscì un sette; aveva
perso. Lentamente il suo furore si dissolse, e la faccia gli si
afflosciò, grigia e frustrata. Con le dita torpide raccolse i
dadi e li gettò via insieme al bussolotto con un gesto
inconsulto. «Che vuoi? Vuoi un altro bourbon?»
Gli operai ridacchiarono e si diedero gomitate. «Ehi,
Harry,» disse uno «ti va di giocare con me?»
«Andiamo, Harry,» lo incalzò un altro «ti sfidiamo tutti.»
Gli occhi del barista fiammeggiarono. «State lontani da
me, mucchio di…» ringhiò. «Non gioco con nessuno.»
Giunse il bourbon con acqua di Hadley, il drink che
aveva vinto. Uno degli operai sollevò il bicchiere di birra e
Hadley brindò con lui da lontano.
Questa volta bevve più lentamente. Dietro il bancone il
barista si era richiuso su sé stesso, cupo e imbronciato,
rimuginando sulla sconfitta, sulla sua incapacità di gestire i
dadi. Hadley era ancora divertito: lo spettacolo di
quell’uomo che prendeva tanto sul serio una cosa così
stupida era assurdo.
Questo lo fece riflettere. Agitato, si ricordò della
conferenza. Lentamente i suoi pensieri tornarono al
consueto percorso. Ma non era più come prima: stava
bevendo gratis. Qualcosa, nel fatto di bere senza pagare in
uno strano bar, lo fece sentire a disagio, come se le normali
leggi dell’universo potessero essere sospese. Le cose non
andavano poi così male… no, con qualche eccezione.
Guardò l’orologio. Quanto doveva aspettare ancora?
Quarantacinque minuti. Trangugiò convulsamente il suo
bourbon, cercò le sigarette e si preparò a uscire.

Giunse al palazzo in anticipo. La conferenza non era


iniziata e solo un quarto dei posti era occupato. Forme
tranquille e immobili sedevano qua e là, parlottando fra
loro a bassa voce.
All’ingresso principale una donna di colore gli porse un
foglio di carta. Simile a un ciocco di legno scuro, la sua
testa dalla pettinatura approssimativa si volse appena verso
di lui, con gli occhi marroni calmi e grandi che tradivano
una liquida curiosità, puri e innocenti come quelli di una
monaca, «’sera, amico Guardiano. Sei in anticipo.»
Hadley non capì se lei fosse divertita per il suo aspetto
stravolto e tirato, ma non se ne curò più di tanto, «’sera»
rispose laconico. Stringendo in mano il foglio di carta
scomparve lungo il corridoio fra i sedili mezzi vuoti e gli
spazi echeggianti. Scelse un posto a caso, si sfilò il
cappotto e si mise comodo, provando un po di affanno. Il
cuore già ricominciava ad accelerare i battiti.
L’eccitazione gli correva su e giù come una specie di
tremore: lo stesso inquieto brivido che provava quando
andava agli spettacoli mattutini per bambini al teatro
Rivoli, quelli delle dodici e trenta, circondato da centinaia
di ossequienti repliche di sé stesso. Era troppo presto
perché il parlottio sommesso si spegnesse, trasformandosi
in un reverenziale silenzio pieno di aspettativa. Intorno a
lui vibranti mormorii galleggiavano avanti e indietro; la
gente allungava la testa in cerca degli amici, qualcuno si
alzava quasi in piedi. C’era posto per tutte le emozioni.
Alcuni dei presenti erano molto seri, altri divertiti, oppure
intimiditi, inespressivi, appartati: c’era ogni varietà di
espressioni e di persone. Hadley notò che quella sera non
c’era la calca della volta prima. I semplici curiosi erano
venuti e non erano tornati. I fedeli erano numerosi, ma non
abbastanza da riempire la sala. La riunione era rivolta al
futuro: anticipava.
Adesso alzò il foglio di carta per poterlo leggere alla
luce e ne studiò i caratteri neri. Un semplice volantino,
come quelli che venivano distribuiti all’angolo delle strade.
Lo assimilò rapidamente, poi lo appallottolò e le gettò a
terra.
SEI PRONTO PER ARMAGEDDON?
La Bibbia annuncia che la fine del mondo
giungerà presto. Le profezie che si devono
avverare. Fuoco e acqua per ripulire il mondo.
‘Poiché Egli è come il fuoco di un cesellatore.’
…‘Poiché il primo paradiso e la prima terra non ci sono più.’
Abbonati al People’s Watchman, due dollari l’anno.
425 Berry Avenue, Chicago, I11.

Quel pomposo, grossolano messaggio lo riempì di


disgusto. Si guardò intorno: nessuno sembrava leggere. I
manifestini erano stati accettati e poi gettati via come se
fossero volantini commerciali, e questo lo rincuorò. Si
accese una sigaretta. Pian piano la gente si riversava nella
sala. Una famiglia sedette davanti a lui con gran rumore di
sedie trascinate. Sulla sua destra si era ammucchiato un
gruppetto di neri robusti, con la faccia seria e gli occhi fissi
davanti a sé. C’erano anche diverse signore anziane,
sparpagliate qua e là, da sole o a gruppi di due. Poco dopo
una giovane donna dal volto magro si sistemò
nervosamente sulla sua sinistra. Appoggiò a terra la
borsetta e si sfilò il cappotto.
La sala cominciava a riempirsi, e l’aria a scaldarsi. I
ventagli cominciarono ad agitarsi scricchiolando. Il fumo
delle sigarette si sollevava pesante verso il soffitto; Hadley
si slacciò il colletto della camicia e cominciò a respirare in
modo affannoso, impaziente. Era un’ordalia, quella che lo
attendeva. Era come se avesse aspettato per tutta la vita.
Sempre più gente entrava, scivolava lungo le corsie e si
metteva a sedere rumorosamente dove trovava posto,
riempiendo inesorabilmente la sala.
Hadley si alzò in piedi e guardò velocemente in tutte le
direzioni, le tante persone, le porte alle sue spalle, il
soffitto, il palco, alle cui estremità pendevano flosce
bandiere americane. Indietro, inchiodato alla parete, c’era
un emblema che lui non riconobbe. Una sfera, mezza
bianca e mezza nera: da un lato quella nera si infilava a
spirale in quella bianca, e dall’altro il contrario. L’effetto
era quello di un movimento, come se la sfera fosse un
tornio. Era dinamica, ma completa. C’era in essa una certa
qualità che appagava. La fissò per un po’, e parte della
tensione si sciolse e lo abbandonò.
Mentre stava fissando assonnato l’emblema, Theodore
Beckheim giunse in sala.
Si avvertì una presenza. All’inizio non vi fu un’immagine
fisica, solo la repentina ondata di consapevolezza da parte
dei presenti. Hadley, sbalordito, sbatté gli occhi e si guardò
intorno lentamente. La sala non era ancora piena:
Beckheim avrebbe cominciato lo stesso? Controllò
l’orologio e rimase di sasso: erano già le otto. Un fruscio,
un mormorio, sciamarono di corsia in corsia; lui guardò
dappertutto, ma ancora non si vedeva alcuna entità fisica.
Beckheim era un uccello, una rondine? Svolazzava in alto,
in mezzo al fumo del soffitto? Era una falena, uno spettro,
un turbine di vento? Le luci della sala si abbassarono. Una
minacciosa nebbiolina nera aleggiava su tutto, una gelida
nuvola proveniente da chissà dove, da oltre i confini del
mondo, da oltre i confini dell’universo stesso. Da gialle che
erano le luci divennero di un rosso sbiadito, poi si spensero
del tutto.
Hadley soffocò un grido mentre l’enorme sala buia si
azzittiva intorno a lui. Si sentì sollevare dalla lingua di un
grande mare, sospeso per un attimo su una sacca
sterminata, infinita. Solo, sballottato, lottò freneticamente
per toccare qualcosa nel buio che lo circondava. Seguì un
istante elettrico in cui nulla successe, in cui nulla si
muoveva o viveva. E poi Theodore Beckheim apparve sul
palco, e l’abisso di vuoto s’infranse.
L’effetto fu magico. Il terrore defluì da Hadley e lui
rimase lì come svuotato. Tremava dalla testa ai piedi
quando la gigantesca figura avanzò verso il microfono.
Tutt’intorno il pubblico tremava come Hadley; un rantolo
collettivo, quasi un lamento che tagliava il silenzio.
Beckheim era enorme. Torreggiava su coloro che gli
stavano accanto, un’immensa colonna umana che
appoggiava le mani squadrate sul bordo del podio di
quercia e si piegava in avanti per esaminare le file di
persone di fronte a lui. La fronte era piatta e incisa da
profonde rughe, segnata dalle preoccupazioni, una faccia
come metallo antico, occhi incalzanti, sprofondati nella
testa massiccia. Le labbra erano piene e scure, la pelle di
un marrone ingrigito e come deteriorato. Le orecchie erano
piccole, e attaccate alla testa, i capelli tagliati corti,
nerissimi. Il mento sporgeva, appuntito e poderoso. Era un
nero al di là di ogni dubbio.
Beckheim scandagliò le file di presenti con
un’espressione pensierosa, quasi infelice. C’era
comprensiva saggezza, sul suo viso, e nello stesso tempo un
rimprovero inespresso. Ogni persona seduta in sala si sentì
piccola, e un po sporca, e stranamente insicura di sé stessa
e delle proprie abitudini. Mentre gli occhi del gigante si
posavano su di loro, tutti si ritraevano con un senso di
colpa, vergognosi e improvvisamente consapevoli delle loro
imperfezioni. Erano sollevati quando lo sguardo passava
oltre, ma la loro fiducia non tornava del tutto.
«Sono felice» esordì Theodore Beckheim con voce bassa
e tesa «di avere l’occasione di parlare a tutti voi. Se
rimarrete tranquilli e mi ascolterete, ho delle cose da dirvi
che saranno di grande importanza per le vostre vite.»
Beckheim aveva cominciato senza preamboli, senza la
minima pretesa di convenzione o formalità. La sua voce era
profonda, dura, molto autoritaria. Una voce cruda e diretta
che rimbombava per la sala, severa e inflessibile, quasi
monotona. Penetrò fin nelle ossa di Hadley, e una parte di
essa gli filtrò nel cervello e nelle orecchie e vi danzò
metallica fino a quando lui non fu più in grado di
sopportarne la pressione. Si coprì le orecchie con le mani,
ma il suono giungeva lo stesso, trasmesso dal pavimento,
dalle sedie, dai corpi stessi delle persone che lo
circondavano. L’intera sala e tutti i presenti erano una
cassa di risonanza sulla quale giocavano le poderose
vibrazioni della voce di quell’uomo.
«Voi vivete» disse Beckheim «in un tempo unico.
Spesso, prima di esso, si è creduto che questo tempo fosse
giunto. Più volte uomini perspicaci hanno immaginato che il
tempo fosse arrivato, ma si sono sempre sbagliati. Alla fine
si è avuta la sensazione che questo tempo fosse un mito.
Era stato preannunciato, non era giunto, non sarebbe mai
giunto.
«In passato gli uomini più istruiti avevano idee che oggi
noi riconosciamo come fantasiose. A questi uomini le loro
idee apparivano giuste e naturali. Credevano che il mondo
fosse piatto, che occupasse gran parte dell’universo, che il
sole si muovesse, che i capelli lasciati in acqua
diventassero vermi, che il piombo si trasformasse in oro,
che si potesse guarire un uomo solo pronunciando certe
parole sopra la sua ferita. Una delle cose sbagliate che gli
uomini credevano aveva a che fare con il tempo. Si
sbagliavano sulla forma del mondo, sulla sua origine, sulla
sua composizione, e si sbagliavano sulla sua età. Non si
rendevano conto dell’immensità dell’universo, in tutte le
direzioni. Costoro erano uomini di religione e uomini di
convinzione razionale. Faceva parte del loro modo di
pensare ritenere che dietro di loro ci fossero solo pochi
anni e attorno a loro solo poche miglia.
«Questa incapacità di comprendere la vastità
dell’universo, sia in termini di spazio che di misure,
provocò confusione. Sapevano che il mondo sarebbe finito,
ma pensavano che questo sarebbe successo entro qualche
mese, o qualche anno. Conoscevano soltanto i duemila anni
che li avevano preceduti e non potevano concepire limiti di
tempo molto più ampi. Dire loro che la terra sarebbe durata
per altri duemila anni equivaleva a dirgli che sarebbe
durata in eterno. Per loro duemila anni costituivano l’unità
di tempo più vasta che riuscissero a concepire. Era
virtualmente infinita.
«Adesso sappiamo che duemila anni non sono niente,
così come non sono niente duemila miglia. Vi sono grandi
spazi e grandi energie nell’universo e dunque grandi
periodi di tempo, poiché occorre molto tempo per muoversi
a un’entità delle dimensioni dell’universo. Così come
dobbiamo dividere per dodici le età dei profeti, per via di
un sostantivo ebreo sbagliato, così dobbiamo moltiplicare le
unità di tempo dei profeti per parecchie migliaia. Così
come sappiamo che l’universo non è stato creato in sette
giorni, ma in sette vasti periodi durati ognuno forse miliardi
di anni, così dobbiamo renderci conto che i giorni della vita
di cui parlavano i profeti erano in realtà secoli.
«E gli antichi credevano nei miracoli. Fra le altre
sciocchezze, pensavano che quando una legge naturale
viene sospesa, Dio si rivela. Adesso noi sappiamo che la
sospensione di una legge naturale sarebbe una negazione
di Dio, una dimostrazione che l’universo è caotico,
capriccioso, casuale. Introdurrebbe un elemento di
accidentalità. Non sarebbe un cosmo, e se lassù esiste un
Dio deve esistere un cosmo. Questa confusione fra cose non
spiegate − e a quei tempi ce n’erano molte − e cose che
non hanno spiegazione li portò a immaginare che Dio
operasse in modi innaturali. Che in qualche modo Dio
potesse creare questo universo gigantesco e poi rimetterci
le mani, sovvertire le sue leggi, ignorare la sua complessa
struttura e metterla da parte nella Sua impazienza.
«Oggi noi sappiamo che Dio non opera contro la Sua
manifestazione fisica: l’universo. Opera attraverso di esso,
e questo significa che noi non vedremo mai una
sospensione delle sue leggi. Non vedremo mai i cieli che si
aprono e una mano gigantesca che ne sbuca fuori. Queste
sono immagini, figure del discorso, licenze poetiche.
Apprezziamole pure, certo, ma ricordiamoci che i cieli −
vale a dire il cielo puro e semplice − sono a portata di
mano, e che nessun’altra mano apparirà in questa vita.
«Gli antichi non capivano che Dio era sempre fra loro,
che è impossibile immaginare Dio non presente. Avevano
vissuto con Dio per l’intera loro esistenza; Dio è presente in
ogni oggetto fisico… ciò che vedevano come oggetto fisico
era una manifestazione spaziale di Lui. In ogni uomo Dio è
presente nella sua vera forma: come spirito in movimento.
L’oggetto fisico è un’espressione di Dio: la mente dell’uomo
è Dio… una parte, un’unità, lo Spirito totale.
«Perciò i nostri progenitori furono incapaci di
comprendere che i segni da loro previsti non sarebbero
stati immessi per magia nella struttura della vita
quotidiana. Lo slancio dell’universo è in sé stesso il
processo anticipato dai profeti. Non una cessazione
improvvisa di questo processo, ma la direzione del processo
stesso è la mano di Dio all’opera. E se noi esaminiamo
questo cosiddetto processo naturale, vedremo ogni cosa
che è stata prevista giungere a compimento.
«Vedremo, dal nostro attuale osservatorio privilegiato,
segni indubitabili che gli eventi finali profetizzati dalla
Bibbia stanno entrando nelle loro ultime e più significative
fasi.»
Stuart Hadley, mentre ascoltava quella voce così intensa
e profonda, si rese conto all’improvviso che tutti i presenti
erano come ipnotizzati dal flusso di quella voce quanto lui.
Erano stati conquistati non dalle parole, ma dalla voce pura
e semplice. Eppure Beckheim non stava dicendo cose da
poco. Pronunciava parole di saggezza. O magari
sembravano sagge solo perché era lui a pronunciarle?
Confuso, frastornato, Hadley ascoltava ciò che il grosso
uomo di colore gli stava dicendo. Gli altri nella sala erano
semplici spettatori di una conversazione fra Beckheim e
lui… o almeno così sembrava. Eppure lui sapeva che era
un’illusione. In mezzo a tanta gente non era possibile che
Beckheim avesse scelto proprio lui, che si fosse reso conto
della specifica presenza di Stuart Hadley. Però Beckheim si
esprimeva con la sommessa intensità di un uomo che si
rivolga a un altro, con un’intimità priva di istrionismo e di
artificiosità drammatica. Beckheim non stava cercando di
convincere: stava rivelando quello che sapeva, quello di cui
era stato testimone.
«Loro hanno compreso» proseguì Beckheim «che la
terra non era permanente. In questo senso dobbiamo
capire che il Cielo, più che essere un luogo spazialmente
separato dalla terra, è in effetti l’universo che seguirà
quando la nostra terra sarà distrutta. Noi sappiamo dalla
Bibbia che dopo la morte le nostre anime attenderanno
l’Ultimo Giudizio, che i nostri esseri si trovano in uno stato
di sospensione; vale a dire, nessun tempo, durante il quale
non c’è durata, nessun cambiamento per loro.
«Il Paradiso, più che essere sopra, è avanti. Il Paradiso
si manifesterà qui, non da qualche altra parte. In sostanza,
il Paradiso si manifesterà dovunque; l’Inferno stesso, tutte
le regioni che non sono il Paradiso, verrà ingoiato. Non
avrà senso parlare di ubicazione del Paradiso, poiché non vi
sarà altro.
«La transizione dal nostro mondo a quello che seguirà
sarà contrassegnata da un violento cataclisma. La
transizione sarà un tempo di afflizione e di grande
sommovimento. Questo è uno dei segni dai quali si
riconosce l’avvento. Questo, più di ogni altra cosa, fu
l’indizio da cui gli antichi profetizzarono il Secondo
Avvento. Sapevano che, prima della morte di questa prima
terra, sarebbero state liberate grandi forze, di dimensioni
pressoché illimitate. Si prepararono per questo giorno, ma
esso non giunse nel corso della loro vita.
«Nel corso della nostra vita i segni indicano
un’apparizione più imminente. Siamo entrati nel periodo in
cui debbono essere fatti i preparativi, in cui tutti gli uomini
sono testimoni delle convulsioni di questo mondo, in cui
ognuno deve fare la sua scelta.
«Questa scelta, che una volta sembrava astratta e
teorica, è adesso viva e pressante. Non si può evitare. Ogni
atomo del nostro mondo si sta schierando per la grande
battaglia che ci aspetta; ogni più intima particella di
materia, senza intelletto o coscienza, sta prendendo posto
da una parte o dall’altra.
«Queste particelle inerti, scaraventate qua e là dalle
forze che le controllano completamente, non hanno scelta.
Il loro schieramento è già predeterminato; non sono in
grado di alterare in alcun modo la disposizione finale che è
già stata scelta per loro. Un fucile nella rastrelliera di
un’armeria non può in alcun modo impedire al soldato di
essere preso e usato in battaglia. Non è libero di
protestare, di scegliere l’altro schieramento, di passare da
una parte all’altra, di allearsi con il nemico. Per lui il
nemico è l’esercito che si trova davanti, qualunque esso sia;
per lui un amico è chiunque lo stringa tra le mani.
«Ma gli esseri umani non sono particelle inerti. La
scintilla di Dio è in ognuno di noi. Come le particelle inerti,
noi possiamo essere sballottati a casaccio da una parte
all’altra; possiamo consentire a noi stessi di diventare
strumenti nelle mani di chiunque ci manipoli. Ma possiamo
anche decidere con la nostra testa; ognuno di noi possiede
la capacità morale di prendere una decisione individuale. E
una volta presa quella decisione, non c’è potere in questo
universo o in qualsiasi altro che possa costringerci a
cambiare idea.
«Riflettete su ciò che significa. Significa che alla fine
nemmeno Dio può scegliere per voi. La scelta è nelle vostre
mani; perciò, e questo è fondamentale, voi risponderete
della vostra scelta. Non basterà giustificarsi dicendo che
non avete fatto nessuna scelta. Questo significa, a tutti gli
effetti, come per il fucile nelle mani del soldato, che vi siete
lasciati portare in battaglia da chiunque vi abbia preso
dalla rastrelliera. In questo caso avete fatto comunque una
scelta, che voi lo riconosciate o no.
«Questa battaglia che si sta preparando adesso da ogni
parte sarà totale. Coinvolgerà ogni atomo dell’universo,
ogni particella fisica e ogni essere vivente. Riguardando la
storia come si è venuta manifestando, è facile vedere la
progressione che ha portato a questo punto. La guerra
totale era un concetto estraneo all’inizio delle nostre vite.
Cercate di immaginare che significato avrà assunto il
termine fra un secolo… se fra un secolo esisterà ancora una
terra. Ci sarà una guerra così totale da andare oltre ogni
attuale immaginazione. Se ne dubitate, vi chiedo di
considerare con quale accuratezza un semplice cittadino
del 1852 avrebbe potuto immaginare il napalm e le bombe
atomiche dell’ultima guerra.
«Quando affermo che possiamo avere un secolo davanti
a noi, non intendo dire che sono in qualche modo in grado
di prevedere quanto tempo rimanga. Non lo so, nessuno lo
sa. Le lezioni del passato sono chiare: non è possibile
prevedere, dalla nostra limitata posizione, quando gli
eventi futuri si verificheranno. Nemmeno intuizioni
eccezionali possono fornirci informazioni precise, il giorno,
il mese, l’anno. Sapete chi erano i profeti? Erano uomini
dotati di questo eccezionale intuito, di questo particolare
senso, della capacità di percepire gli avvenimenti futuri, di
ricordarli così come noi ricordiamo quelli del passato.
L’impatto di grandi cose ancora da venire si era inciso nella
loro mente. Tutto ciò che videro avverrà; ma questi eventi
erano di una natura così strana e spaventosa che solo
trasformandoli in elaborate immagini poetiche potevano
adattarli ai tempi in cui vivevano, e rappresentarli a sé
stessi.
«Io vi chiedo di immaginarvi un profeta dei tempi
biblici, un semplice contadino, che all’improvviso diviene
testimone della guerra di Corea, con gli aerei e i carri
armati, i grandi cannoni, le navi, i complicati schermi radar.
Come poteva rendere tutto questo comprensibile alla sua
gente? Come poteva renderlo comprensibile a sé stesso? E
adesso immaginate voi stessi, improvvisamente testimoni di
un mondo lontano duemila anni da oggi. Voi possedete solo
le parole, le definizioni, i concetti del presente; tutto ciò
che vedete deve essere reso con quei simboli.
«Le fasi finali della Grande Battaglia possono anche non
avere luogo prima di molti secoli. Noi abbiamo ancora un
concetto limitato del tempo e dello spazio; possono passare
migliaia, magari milioni di anni, prima che la
trasformazione totale si verifichi. Forse sarà graduale…
forse repentina. A noi questo non interessa. A noi interessa
solo una cosa: la polarizzazione in schieramenti, nel nostro
tempo, è già visibile. Questo ci basta. Non che la battaglia
sia vicina o lontana, ma che le due parti si sono già
schierate: questa è la cosa a cui dobbiamo prestare
attenzione. Questo è ciò che ci deve interessare. I due
avversari stanno già prendendo posizione, in un modo
chiaro e inequivocabile.»
Il grosso nero passò in rassegna l’uditorio e proseguì.
«Nessun uomo può nascondere la testa e fare finta di
non avere davanti agli occhi queste legioni già pronte allo
scontro. Nessun uomo può dire: io non le vedo. È una
menzogna… e Dio non si fa ingannare. Nessun uomo può
restarsene immobile nelle retrovie dicendo: questa
battaglia non mi riguarda. Non ha scelta: lo riguarda,
poiché in questa battaglia si deciderà il destino della sua
anima eterna.
«Cinquanta, cento anni fa c’era confusione. C’erano
segni − ci sono stati segni negli ultimi trecento anni − ma
era difficile decifrarli. Dal fumo e dal fuoco di questa
eterna, infinita battaglia, stanno emergendo le forme reali
dei combattenti. Sono inequivocabili, non si possono
confondere. In questo momento le ultime pretese sono
state lasciate cadere. Le deboli proteste di pietà e santità
vengono messe da parte: nessuno s’inganna più. Si vedono
i segni, i terribili marchi. Dai loro frutti li riconoscerete!
«Noi riconosciamo i segni dai quali si può identificare il
Demonio; ci sono familiari da millenni. Sono questi segni al
momento visibili? Sono evidenti?
«Vediamo odio, crudeltà e violenza dappertutto.
Vediamo ogni nazione del mondo che si prepara, che si
rimbocca le maniche per distruggere chiunque si trovi a
destra o a sinistra. La nuda forza bruta, il potere del pugno
armato, sono emersi da ogni nazione della terra: senza
nemmeno più il travestimento della legge. E la forza bruta
è il segno dal quale noi lo riconosceremo… il Maligno
bollato dal marchio di Dio, cacciato dal Paradiso,
scaraventato in un lago di fuoco.
«In questo scontro finale i segni sono chiari.
Sparpagliati per tutto il mondo, sulla superficie del pianeta,
ci sono gli eserciti di Satana. Può esservi qualche dubbio?
Può un uomo sano di mente immaginare che nella Battaglia
Finale il vessillo di Dio sarà alla testa di bombe atomiche e
napalm, carri armati e artiglieria pesante? Può qualcuno
credere che Colui che creò questo universo abbia
fabbricato anche iprite e agenti batteriologici?
«Dai loro frutti li riconoscerete. Il marchio è su di loro!
Non si può più fingere… la sudicia figura pelosa è di fronte
ai nostri occhi. Li chiama a combattere in suo nome, e a
quel nome loro rispondono. Non c’è vergogna, non c’è
orrore: hanno fatto la loro scelta. Combatteranno al suo
fianco, e quando cadrà nella seconda morte essi cadranno
insieme a lui. Molti precipiteranno insieme a lui: è già
scritto. Molti periranno nel lago di fuoco: ‘E il Demonio che
li ha ingannati venne scagliato nel lago di fuoco e zolfo,
dove sono la bestia e i falsi profeti, e patirà giorno e notte,
nei secoli dei secoli… E il mare restituì i morti che erano in
esso; e la morte e l’inferno restituirono i morti che erano in
essi: ed essi vennero giudicati, ogni uomo secondo le sue
opere. E la morte e l’inferno vennero gettati nel lago di
fuoco. Questa è la seconda morte. E chiunque non fu
trovato scritto nel libro della vita venne gettato nel lago di
fuoco. E io vidi un nuovo paradiso e una nuova terra:
poiché il primo paradiso e la prima terra non c’erano più; e
non c’era più il mare…
«Molti periranno: questo è ciò che è scritto. Ma non
tutti verranno distrutti. Le città verranno rase al suolo; le
pianure diventeranno sterminate distese di cenere;
particelle radioattive cadranno come pioggia bollente; i
raccolti avvizziranno e moriranno, uccisi da nuvole
velenose; batteri mortali verranno trasportati da orde di
insetti; la terra tremerà e si squarcerà per via di grandi
bombe; gli oceani si prosciugheranno all’impatto; l’aria
stessa diventerà contaminata e sporca; il sole scomparirà
dietro nuvole nere di polvere; tutto questo è stato scritto.
Tutto questo si verificherà.
«Ma alcuni vivranno. Alcuni verranno salvati. Dio non
permetterà al genere umano di estinguersi: coloro che
abbandoneranno gli eserciti delle pianure, le città delle
pianure, costoro siederanno con Lui in Paradiso. Egli lo ha
promesso: e la promessa di Dio non è una promessa che si
può infrangere, come quella di un uomo. Dio ha visto tutto
questo; per Dio è già successo.
«Coloro che si salveranno devono agire. Devono cercare
di salvare le loro vite; se non agiscono verranno annientati,
distrutti insieme agli altri. Coloro che siederanno accanto a
Dio devono rinunciare al Demonio, rifiutarsi di sostenerlo.
Devono volgere lo sguardo verso l’alto, dalla parte di Dio.
Devono voltare la schiena all’opera del Demonio, ai suoi
armamenti, ai suoi fucili e alle sue navi, ai suoi carri armati
e ai suoi aeroplani, alle sue possenti legioni infernali. Su
questo pianeta i grandi eserciti cercano di diventare uno
più grande dell’altro; non fanno che rinforzarsi, gonfiarsi,
armarsi sempre più. Le forze del Demonio sono potenti; ma
al cospetto di Dio si indeboliranno e verranno distrutte. E
scaraventate nel lago di fuoco eterno.
«Rinunciate, rifiutate… non lasciatevi trascinare.
Gettate via il fucile quando vi viene offerto. Voltate la
schiena agli strumenti di morte quando qualcuno vi incita a
brandirli. Coloro che uccidono perderanno la loro anima
eterna. Coloro che non uccidono, che credono fermamente
in Dio, che non temono la morte fisica, siederanno con lui
in Paradiso.
«Coloro che rinnegano le città maledette e le macchine
degli uomini, le fabbriche e i palazzi, le strade e le armi, le
bombe e i rifugi antiaerei, le sirene e gli elmetti di metallo,
che si rifugeranno fra le montagne più alte, essi verranno
salvati.
«E nessun altro!»
2
Pomeriggio

Nacque un maschio e venne chiamato Pete.


Pete se ne stava nella culletta e gorgogliava ai raggi di
sole. Si copriva con pezzetti di sole, starnutiva quando gli
arrivavano al naso, sbavava un rivolo di saliva lungo il
mento quando cercava di masticarli, poi si irritava e
bagnava il pannolino.
La mattina di luglio era calda e confortevole; tutte le
finestre dell’appartamento erano spalancate, le tende
sventolavano sonnacchiose quando una raffica di vento si
riversava all’interno e sciamava di stanza in stanza. In
cucina, Ellen Hadley sedeva al piccolo tavolo cromato
davanti a Jim Fergesson, con una sigaretta fra le labbra e
una coppa di fragole in grembo.
Jim Fergesson era appoggiato al lavello, con le braccia
conserte. Visto che era domenica, non indossava il
consueto vestito di cotone blu a doppio petto. Indossava
invece una camicia colorata con le maniche corte, un
vecchio paio di pantaloni da lavoro e le scarpe con cui
lavorava in giardino. Si vedeva che stava ingrassando e che
perdeva i capelli. La pancia strabordava, solida e compatta,
fra i bottoni della camicia. La faccia tonda e rossa era
umida di sudore.
«Credi» le chiese in tono lamentoso «che potrei avere
una birra?»
«Ma certo» rispose Ellen, ripulendo un’ultima fragola
prima di alzarsi in piedi.
«La prendo io» si affrettò a dire Fergesson. In presenza
della ragazza era sempre un po goffo. «Dimmi solo dov’è
quell’accidente di birra… in frigo?»
Ignorando le sue preoccupate proteste, Ellen depose la
coppa di fragole sul tavolo e attraversò la cucina per
andare al frigorifero. Da quando non era più incinta era
tornata magra e agile. Era estate, indossava una delle
camicie bianche di cotone di suo marito, con le maniche
arrotolate, dei sandali e una gonna svasata a pois. I capelli
castani le ricaddero liberamente sulle spalle e sulle braccia
quando lei si chinò per frugare nel cassetto in cerca di un
apribottiglie.
«Lascia, faccio io» mormorò Fergesson. «Non voglio che
ti faccia male.»
Mentre versava la birra in un bicchiere, Ellen disse:
«Magari ne prendo un po anch’io. Posso avere quella che
non entra nel bicchiere?»
«Certo» annuì Fergesson, accettando con gratitudine il
bicchiere pieno di schiuma. «Ma lo sai, se la versi in questo
modo non ne rimarrà molta.»
Ellen lo guardò arricciando il naso. «Capisco quello che
Stuart intende quando parla di lei.»
«Davvero?» Fergesson arrossì e si aggirò a disagio per
la piccola cucina. Nel suo imbarazzo non faceva che
peggiorare la situazione; la presenza della giovane madre
lo rendeva un vero e proprio imbranato. «Dovreste togliere
questo linoleum» disse, indicando l’acquaio. «Metteteci le
mattonelle, così non si forma umidità.» Fece un gesto verso
il rubinetto. «Gesù, di a quel cretino di Mezzasega di
mettere un miscelatore! Se vuole sa fare questi lavoretti.
Potrebbe sistemare tutto l’appartamento se non avesse
sempre la testa fra le nuvole, accidenti a lui.»
Ellen sedette al tavolo e riprese in mano la coppa di
fragole. «Signor Fergesson, lei è un uomo duro.»
A quello Fergesson sbiancò. Era la parola signor che lo
aveva turbato; ricordò tutto a un tratto dove si trovava e
che cosa stava facendo. Tirò fuori il fazzoletto e si asciugò
il sudore dalla faccia rossa e paffuta. «A proposito,»
sussurrò «dov’è? Ero venuto proprio per lui.»
«Stuart?» Ellen si strinse nelle spalle. «È in giro a
comprare qualche stupidaggine per il bambino, immagino.»
«Di domenica?»
«Be’…» Allungò la mano per raccogliere la sigaretta dal
portacenere sul tavolo. «Magari è andato in macchina con
Dave Gold fino alla penisola. Alcuni dei grossi negozi di
giocattoli lungo la statale sono aperti di domenica; se cerca
bene ne troverà uno.»
Vi fu silenzio.
Fergesson aveva il dubbio che quella fosse una risposta
evasiva. Almeno lo sembrava; c’era un’indifferenza,
un’elusiva amarezza che chiudeva il discorso una volta per
tutte. Senza sapere esattamente come riprenderlo,
commentò: «Certo che è proprio partito di testa per il
bambino. Anche al lavoro non fa che parlarne, e perde un
sacco di tempo. Se ne sta intorno al banco con in mano una
di quelle foto a colori che gli ha scattato, e ridacchia come
uno scemo con le vecchiette che capitano in negozio.»
«Sì» convenne Ellen, con voce atona. «Lui pensa tanto a
Pete.»
«Sarà andato davvero a cercare…»
«È andato a prendere sua sorella. La sta portando qui
per vedere il bambino.»
«Sua sorella!» esclamò Fergesson. «Non sapevo che
avesse una sorella.»
«Ce l’ha» disse senza tanti complimenti Ellen. «Vuole
che veda il bambino. Vuole che emetta la sua sentenza… La
stiamo aspettando tutti.»
Fergesson continuò a passeggiare nervosamente per la
cucina. Il caldo di luglio lo rendeva irritabile; si strofinò il
collo, poi si sfregò le mani, sbirciò dalla finestra la strada
ordinata con i suoi prati verdi e le macchine parcheggiate
qua e là, alarne delle quali sottoposte al lavaggio
settimanale. «Da quando è nato il bambino» disse
«Mezzasega è cambiato. È più calmo, credo che finalmente
stia crescendo.»
«Non è il bambino.»
«Che cosa, allora? Ma certo che è il bambino. Sa di
essere padre… ha delle responsabilità. Non può andarsene
per i fatti suoi ogni volta che ne ha voglia.»
Sempre seduta al tavolo di cucina davanti alla sua coppa
di fragole, Ellen disse: «È successo prima che nascesse
Pete. Si ricorda quando venne quel tipo, quel Theodore
Beckheim? C’era una sua fotografia nella vetrina
dell’Health Food Store… L’ho vista un giorno mentre
mangiavo lì con Stuart.»
«Oh, quella setta religiosa» disse vagamente Fergesson.
«Stuart è andato a sentirlo parlare. Me lo ricordo
perché abbiamo fatto una litigata feroce proprio per quello.
Io non ci volevo andare e non volevo che ci andasse lui.
Vede, io già sapevo quello che sarebbe successo, lo so come
la pensa Stuart su queste cose. In un certo senso lo
conosco meglio di quanto lui conosca sé stesso. Era così
eccitato… Quelle cose le prende tanto sul serio.»
«Troppo sul serio» osservò Fergesson.
Ellen spense la sigaretta con un gesto secco e ne accese
un’altra. Alla luce di luglio le sue braccia nude erano
abbronzate e coperte da una leggera peluria, appena umide
di sudore. «No, non troppo seriamente. Perché? Chi è lei
per dire che le prende troppo seriamente?»
Mortificato, Fergesson ribatté: «Intendevo dire che
dovrebbe uscire un po di più e divertirsi. Smetterla di
preoccuparsi… andare a vedere qualche incontro di
baseball o di calcio, farsi qualche partita a bowling. Portarti
fuori, accidenti… Scommetto che non andate mai a un night
o a vedere qualche spettacolo.»
«A Stuart non piace giocare» disse secca Ellen.
«Perché no? Che c’è che non va nei giochi? Quando
organizziamo dei picnic con il negozio lui è sempre di
cattivo umore… non gioca a pallone, non lancia i ferri di
cavallo. Mangia e poi si sdraia sotto un albero e dorme. Un
uomo non dovrebbe essere così musone, e ogni tanto
dovrebbe pensare anche agli altri. È sempre così
dannatamente serio e permaloso, se ne sta sempre lì a
rimuginare su qualcosa.» Con un unico movimento della
mano Fergesson indicò l’intero appartamento. «Io non
capisco, Ellen. Che cos’è che non lo soddisfa? Ha una bella
moglie, un figlio, un bell’appartamento come questo… ha
tutto e ancora non è contento!»
Ellen continuò a ripulire le fragole. Le sue dita si
muovevano con irritazione: qualcuno che non faceva parte
della sua famiglia aveva attaccato suo marito. «Vede delle
cose che lei non vede» disse, infiammandosi. «Qualcosa che
nessuno di noi vede.»
«Di che stai parlando?»
«Vede tutto questo finito. È sensibile… Certe volte ho
l’impressione che sia più donna di me. Ha anche delle
premonizioni. È molto… mistico. Si leggeva da capo a fondo
quelle riviste di astrologia che io portavo a casa, ho smesso
di comprarle proprio per causa sua. Le prendeva così sul
serio… Passava ore e ore a studiarle. Però non è mai andato
in chiesa. Non ha mai avuto una preparazione religiosa. La
sua famiglia era molto moderna, scientifica; è cresciuto
negli anni Trenta in una di quelle scuole progressiste.
Credo che fossero tutti comunisti… quelli che oggi
chiameremmo comunisti. Era tutto molto naturale e
significativo. Lui intesseva stuoie e cuoceva piccole ciotole
di argilla; lo sa come è fatto, gli piace pasticciare con le
cose, gli piace esprimersi con le mani. Gli hanno insegnato
a far crescere i semi e a fare l’inchiostro. Gli hanno
insegnato come si fa il pane e come si munge il latte da una
vacca… lo hanno portato in campagna a vedere gli animali,
lo hanno fatto familiarizzare con la natura. Cose del
genere… hanno fatto di lui un uomo sano. E lui se n’è
riempito l’anima, avidamente.»
«Cristo» esclamò Fergesson «è l’uomo meno sano che io
conosco, lui con il suo mal di pancia e il suo fosfato di
sedano. Sta sempre male… è un ipocondriaco!»
Ellen annuì. «Non capisce? Lo hanno lasciato con un
tale bisogno di essere sano… con il bisogno di stare fuori,
in campagna. Lontano dalla città, dove le cose sono
naturali. Non gli hanno insegnato niente di utile, non gli
hanno insegnato a vivere in questo mondo… Lui non sa
come prendersi cura di sé stesso. E poi c’è la morte di suo
padre.»
«Lo so» disse Fergesson. «È stato terribile.»
«Se suo padre non fosse morto, Stuart forse non
sarebbe diventato così. Aveva solo otto anni. È stato
cresciuto dalla madre e dalla sorella. Sono sempre stati
bene economicamente; il padre gli ha lasciato delle
proprietà e aveva un’assicurazione sulla vita. Stuart ha
fatto sempre una vita comoda.»
«Lo so» convenne Fergesson. «Non ha mai dovuto
lavorare per vivere.»
«Quando l’ho conosciuto voleva diventare un artista. Ci
siamo conosciuti all’università, lo sa. Aveva grandi sogni;
parlava sempre di sé e del suo futuro. Ma c’era quel
desiderio intenso che non capiva; credeva di voler
dipingere, ma non era capace di disciplina. Non sapeva che
cosa volesse dire lavorare per imparare tante tecniche.
Quello che voleva fare era esprimere in qualche modo sé
stesso attraverso le sue mani. Perché era ciò che gli
avevano insegnato a fare. Non era l’arte che lo interessava,
era sé stesso. Desiderava intensamente qualcosa, ma non
sapeva che cosa. Io lo sapevo. Era un fatto religioso, e
sapevo anche che prima o poi lo avrebbe scoperto. Nella
sua crescita la religione era solo un grande spazio vuoto.
Lo mandarono qualche volta alla scuola domenicale…
imparò un paio di salmi, sentì parlare di missionari che
lavoravano in Cina. Losa, un giorno Stuart stava meditando
su Dio, come fa sempre, e mi chiese di quale chiesa facesse
parte la mia famiglia.»
«E tu che gli hai detto?»
«La Prima Presbiteriana. Sono stata educata in modo
molto severo. Da allora lui ha continuato a pensarci. Voleva
sapere perché proprio la Prima Presbiteriana. Io gliel’ho
detto.»
«Raccontami.»
Ellen si alzò dal tavolo e mise la coppa di fragole nel
frigorifero. «Be’, gli ho detto la verità. Abbiamo aderito alla
Prima Chiesa Presbiteriana perché era quella più vicina a
casa nostra. Era appena in fondo all’isolato.»
Fergesson non disse nulla.
«Vede, Stuart non seppe che farsene di questa risposta,
non era quella che voleva. E la cosa lo fece stare male.
Quando è preoccupato o confuso assume
quell’atteggiamento desolato o piagnucoloso. Per giorni e
giorni da allora non ha fatto che girare per casa come uno
straccio. Io ero così dispiaciuta.» Si voltò e guardò
Fergesson con aria infelice. «Lo sapevo che era colpa mia,
ma che altro potevo dire? Non so che fare con lui; non
posso essere il suo padre confessore.»
«Dovrebbe trovarsi un prete o qualcuno del genere»
disse Fergesson annuendo.
«Un giorno, Io scorse mese di giugno, Stuart ha portato
un televisore a un pastore. Non sapeva che quell’uomo
fosse un religioso. Ha visto quella grande casa, tutto quel
lusso, la visto sua moglie, e non riusciva a capire come
quell’uomo potesse essere un pastore. Ha avuto un effetto
tremendo su di lui. Credo che in parte sia stata la causa di
quello che è successo dopo.»
«Vuoi dire la storia di Beckheim?»
Lei annuì. «Sapevo da prima che andasse a quella
conferenza ciò che sarebbe successo. Sapevo che sarebbe
tornato a casa diverso. Era quello che stava cercando e non
lo sapeva nemmeno. Io lo sapevo, e avevo paura.» Un po
parlando a sé stessa, un po a Fergesson, Ellen proseguì:
«Forse mi sbaglio. Magari sarebbe meglio se cambiasse.
Certe volte non ne posso più di vederlo aggirarsi per casa
in quel modo e penso, Dio, qualsiasi cosa è meglio di
questo, anche se uscisse fuori e si sparasse una
revolverata.»
Ma non parlava sul serio. Le lacrime le bruciarono gli
occhi; si allontanò subito da Fergesson e gli volse la
schiena guardando fuori dalla finestra. Che stava facendo?
Lo stava consegnando al nemico, a Fergesson. Stava
parlando di lui, lo stava mettendo in ridicolo. Mentre tutto
quello che voleva fare era salvarlo.
«No» disse. «Non intendevo questo. Non m’importa
quanto stia male, quanto sia preoccupato.» Le si strozzò la
voce. «È mio marito e io lo amo. Voglio tenerlo, non voglio
arrendermi. E se lui cambia forse lo perderò. Forse sono
egoista, non lo so. A me sembra solo che lui sia così… così
fragile, in qualche modo. Sembra grosso e forte… molto più
grosso di lei, molto più di quanto lei sarà mai. Ma non è
come lei, non sa fare le cose. Qualcuno deve prendersi cura
di lui, qualcuno che lo ama.»
Fergesson aggrottò la fronte. «È abbastanza cresciuto
da…»
«No, non lo è.» Le parole le sgorgarono impetuose,
strazianti. «Io voglio prendermi cura di lui… ma anche
Sally. Magari lei si sentiva allo stesso modo, magari si è
resa conto che gli manca qualcosa. Ma non è solo questo.
C’è di più… lui ha qualcosa, lui è qualcosa. Vuole fare
tanto… Ecco che cos’ha. Ecco perché non sta mai fermo, e
si agita e fa cose strane. Quando si sveglia, quando vede il
mondo, lei e il negozio… non capisce come faccia a trovarsi
lì, un semplice venditore. Non è lui. Vuole molto di più. Dio,
quanto vorrei poterglielo dare. Ma nessuno può farlo. Lui
non è in grado di procurarselo da solo… non è possibile.
Aveva tanti sogni, è cresciuto quando quei sogni erano
diffusi, ma adesso sono semplicemente la realtà, e lui non è
capace di affrontarla. E questo lo manda su tutte le furie.»
Qualche frammento sfilacciato delle sue parole giunse
comprensibile a Fergesson. «Già» ammise, o pensò di
ammettere. «Quel suo maledetto carattere. Mezzasega
dovrà tenerlo sotto controllo, non può prendersela con i
clienti. Non m’interessa se è preoccupato, sono affari suoi.
Ma m’interessa se perde le staffe come avviene di solito.
Mio Dio, fa i capricci come un bambino… Quando qualche
vecchietta protesta per qualcosa lui se ne sta lì come un
broccolo e comincia a perdere le staffe…»
«Per un po’» disse Ellen a denti stretti «ha smesso.»
«Smesso! Che vuoi dire?»
Ellen si legò sui fianchi un grembiule di plastica e
cominciò a versare acqua calda e sapone in polvere
nell’acquaio. «Quando è tornato dalla conferenza era calmo
e tranquillo. Come un bambino spaventato; se ne stava lì
con gli occhi sgranati senza dire niente. Lo sapevo che
sarebbe successo… anche se dopo un po in qualche modo
ne è uscito. È venuto da me − io ero a letto, naturalmente
− e si è messo a sedere sul bordo senza parlare. Non lo
avevo mai visto così prima e gli ho chiesto che cosa gli
fosse successo. Ci ha messo un bel po prima di rispondere.»
«Che ti ha detto?» chiese Fergesson, morbosamente
curioso.
«Ha risposto che aveva imparato qualcosa. Aveva
scoperto qualcosa che aveva sempre sospettato. Beckheim
gli aveva detto che il mondo sta per finire.»
Fergesson esitò, poi scoppiò in una risata fragorosa.
«Sono cinquemila anni che il mondo sta per finire!»
«Sì, è buffo, vero?» Ellen raccolse piatti e pentole dalla
cucina. «Avrei voluto che lei fosse presente e vedesse la
sua faccia. Forse avrebbe riso, forse no.» Per un poco
tacque. «Era così… intimorito» disse alla fine. «Stuart ha
sempre visto oltre tutto questo…» Ellen indicò
l’appartamento, sé stessa e Fergesson. «Lui lo sapeva e noi
no. Capisce quello che intendo dire. La guerra.»
«Oh» fece Fergesson. «Che c’entra la guerra?»
«È lei. La fine.»
«La fine del mondo?»
«La fine di tutto. Il pezzo al posto giusto, in una testa
piena di pezzi. Lei dice che è cresciuto… ma per Hadley è
stata una grande scoperta. Tutto a un tratto ogni cosa ha
avuto senso, tutto ciò che aveva visto, tutto ciò che gli era
successo, tutto ciò di cui aveva sentito parlare. L’intero
processo si sommava a formare qualcosa… per la prima
volta nella sua vita. Lei è fortunato… non ha mai vissuto nel
mondo in cui viveva lui. Stuart non ci vedeva nessuno
schema, nessuno scopo… nelle sua vita, o nelle nostre, o
nell’intero universo. Per lui era solo un grosso meccanismo
insensato. E all’improvviso non lo era più. All’improvviso
ogni cosa aveva uno scopo.»
«Per questa storia dell’Armageddon? Dio contro il
Demonio?» Fergesson si mise a passeggiare su e giù senza
posa. «Certo, è questo che hanno insegnato anche a me.
Ma un uomo è uno sciocco se lo prende sul serio! Insomma,
non si può andare in giro a raccontare sul serio questa
roba. Voglio dire…»
«Vuole dire che è roba che si racconta la domenica?»
«Sì.»
«Stuart crede che la guerra distruggerà il mondo intero.
Crede che la civiltà costruita dall’uomo crollerà. Crede che
tutti gli eserciti del mondo, le città, le fabbriche e le strade
saranno rase al suolo. Crede che nascerà un nuovo
mondo.»
«Lo so» disse Fergesson stizzito. «Ho letto la
Rivelazione.» La sua rabbia crebbe. «Ma sono secoli che ne
parlano! Ogni volta che c’è una guerra qualcuno se ne esce
fuori a dire che è la guerra finale, la fine del mondo. Ogni
volta che si avvicina una cometa spunta qualche testa
matta che si mette a sbraitare e a predicare: ‘Preparatevi al
Giorno del Giudizio’.» Improvvisamente si girò verso Ellen.
«Mio Dio, non mi dirai che anche tu credi a queste
fandonie, vero?»
«No.»
«Forse puoi fargli cambiare idea parlandoci. Forse è
solo un momento particolare, che passerà.»
«Io non lo credo… non del tutto. È penetrato in lui, non
è più in superficie; è dentro di lui dove non si può vedere.
Stuart è certo che tutto finirà. Si sente calmo. Non è
eccitato o preoccupato. Lo rilassa l’idea di non avere niente
a che fare con tutto questo.»
«Escapismo!» disse furioso Fergesson. «Ha un lavoro,
ha te e Pete da mantenere! Non può voltare la schiena alle
sue responsabilità.»
Ellen chiuse l’acqua e voltò le spalle all’acquaio. «Ha
letto il giornale?»
Fergesson sbatté gli occhi. «Certo.»
«Tutto, oltre alla pagina sportiva e ai fumetti?»
«Certo! Tutto, da cima a fondo.»
«Ha letto la prima pagina? Sulla guerra?»
«La guerra di Corea? Ma certo. Ho due cugini laggiù. E
io mi sono fatto la prima guerra mondiale. Nei marine…
come volontario.»
«Pensa che fra dieci anni saremo ancora vivi? Pensa che
sopravviveremo a una bomba all’idrogeno?»
La faccia bovina di Fergesson si deformò. «Senti, Ellen,
se cominci a preoccuparti di questo allora non c’è più
speranza. Tu non ci puoi fare niente; o succede o non
succede. È come un’inondazione o una pestilenza: fuori
dalla nostra portata. E allora perché dovremmo
preoccuparcene? Dobbiamo continuare a vivere e limitarci
a sperare che non succeda mai.»
Ellen lo studiò a lungo. L’espressione seria e tirata sulla
sua faccia lo mise in imbarazzo. Gli ricordò il modo in cui lo
guardava sua madre quando era bambino e diceva qualche
oscenità impronunciabile, appresa magari dai contadini.
Cercò di pensare a qualcosa da dire, ma non gli venne in
mente niente. Era confuso. Gli occhi marroni della donna
sembravano volerlo incenerire, le sue labbra erano
tormentate da un tremito silenzioso. Il corpo le tremava
sotto la camicetta bianca di cotone.
«Che ti prende?» riuscì a farfugliare alla fine,
impacciato.
«Lei non capisce, vero? Lei è esattamente come dice
Stuart: non ha la capacità di capire. Lei vive in un piccolo
mondo ammuffito tutto suo.»
«Non parlarmi in questo modo» disse brusco Fergesson.
Mentre si guardavano male giunse un rumore di passi
dal salotto. Fergesson si voltò lentamente. Era arrivata sua
moglie, Alice; stava silenziosa sulla soglia, in pantaloni e
camicetta sportiva a quadretti rossi, con le chiavi della
macchina che danzavano nella sua mano.
«Mi ero stufata di aspettare» disse a suo marito. «Ciao,
Ellen. Dov’è Stuart? Dov’è l’uomo di casa?»
«Non c’è» disse asciutta Ellen.
Alice avvertì che stava succedendo qualcosa e sul suo
viso apparve un’espressione tenera, quasi placida. «Dov’è
Pete? Posso salutarlo? Sai, l’ho visto solo un paio di volte.»
«Certo» disse Ellen, con voce inespressiva. Si asciugò le
mani, si tolse il grembiule e passò davanti a Fergesson. «È
in camera da letto; ho abbassato le tende per farlo
dormire.»
«Non voglio svegliarlo» disse gentilmente Alice.
«Non si sveglierà. Dorme come un sasso. E se si sveglia
lo allatterò, è quasi ora.» Fece accomodare Alice nella
camera avvolta da una semioscurità ambrata.
Pete era sveglio. Spossato dalla lotta con i raggi di sole
che filtravano dalle tende fin sulle coperte, se ne stava
supino, molle e inerte, a fissare il vuoto. Le due donne
rimasero a lungo piegate sulla culla, entrambe pensierose.
«Ha gli occhi di Stuart» disse Alice. «Ma da te ha preso
i capelli castani. Diventeranno morbidi e lunghi, come i
tuoi.»
«Ha i denti di sua nonna» disse Ellen, sorridendo. Prese
il bambino e gli avvicinò la testa alla spalla mentre si
slacciava i bottoni della camicia. «Hai sempre fame, eh?»
disse a Pete. Sorreggendolo nell’incavo del braccio si
spostò la camicia e sollevò un seno all’altezza della bocca
avida del bambino. Tenuto a coppa nel palmo della mano, il
seno era pieno e sodo, con il capezzolo scuro proteso
all’infuori, in attesa. Pete lo afferrò con la bocca, ansioso, e
la ragazza ebbe un brivido. Rise e disse ad Alice: «Devo
essere troppo sensibile… ho l’impressione che gli stiano già
spuntando i denti. Ma non può essere, così presto.»
Alice accostò un poco la porta dietro di loro e rimase a
osservare Ellen mentre allattava il bambino. «Che stava
succedendo quando sono arrivata?» le chiese. «Jim stava
cercando di dirti come devi vivere la tua vita?»
«No» rispose Ellen, indifferente. «Stavamo
semplicemente discutendo della guerra.»
«Se cerca di darti lezioni, tiragli addosso una pentola di
acqua bollente. Io faccio così.» La vista della giovane
madre e del suo bambino suscitarono in Alice un
passeggero moto di invidia. «Quel vecchio caprone»
aggiunse, con sorprendente veemenza. «Accidenti a lui.»
Fuori dalla camera, Fergesson stringeva in mano il
bicchiere di birra e teneva gli occhi fissi sulla porta
socchiusa, ascoltando le voci delle due donne che gli
giungevano come un mormorio indistinto, ogni tanto una
risata e alla fine il pianto del bambino. Probabilmente lo
stavano cambiando. Si spostò appena per osservare; per un
attimo vide Ellen con il bambino in braccio che guardava
assorta verso il basso. Nella luce ambrata della stanza i
seni della ragazza pendevano grossi e scuri, un’immagine
che venne subito sottratta a Fergesson mentre Alice
richiudeva la porta.
Fergesson provò un senso di vergogna, imbarazzato per
aver guardato. E poi un tremendo dolore, così grande da
essere quasi insopportabile. Avvilito, solo, si allontanò con
amarezza dalla porta chiusa, con una fitta che gli bruciava
il petto e i polmoni. Frustrato, si immerse nella luce calda
del salotto e cominciò a girare in tondo senza motivo.
All’esterno c’era chi lavava la macchina e chi ascoltava la
partita alla radio. Come svuotato, perduto, Fergesson non
ne poté più; tutto a un tratto sentì il bisogno di andarsene,
di occuparsi della consegna di televisori. Non poteva
restare in quell’appartamento un secondo di più. All’inferno
Hadley.
«Io me ne vado» gridò da dietro la porta chiusa. «Voi
restate pure qui a chiacchierare… ho da fare!»
Dalla camera da letto non giunse risposta.
Mentre usciva di corsa dall’appartamento, si frugò in
tasca in cerca delle chiavi dell’auto. Le trovò mentre
sbucava sul marciapiede di un bianco abbagliante. Saltò in
macchina, avviò il motore e liberò il freno a mano. Per un
secondo esitò, un po sperando, un po aspettando che Alice
lo raggiungesse. Ma non la vide, e non aspettò oltre. Si
infilò nella strada e dopo un attimo era diretto verso casa,
verso lo scantinato pieno di grossi e pesanti televisori nei
loro voluminosi imballaggi di cartone marrone.

Giunti a San Francisco, la vecchia Cadillac diede segni


di imminente cedimento. Del vapore usciva dal radiatore; il
motore esitava, ruggiva, aveva ritorni di fiamma e sputava
torrenti di fumo nero e puzzolente dal tubo di scarico. A
Market e Third si fermò. I clacson strombazzarono e i
pedoni sciamarono infuriati attorno alla macchina: stavano
bloccando le strisce pedonali.
Guardando fuori le nuvole di fumo nero che uscivano dal
tubo di scarico, Dave osservò: «Sta bruciando un po d’olio.»
«Gesù» disse infelice Laura stringendo le mani sul
volante con un gesto impotente. «Che facciamo? Non
possiamo lasciarla qui.»
Dave Gold e Hadley scesero dalla macchina e si misero
a spingere. Subito un camion che trasportava generi
alimentari li raggiunse, si accodò e suonò il clacson. Dave e
Hadley risalirono a bordo, riconoscenti, mentre il camion si
appoggiava alla macchina con un piccolo tonfo.
D’estate, a metà luglio, la grande città era bellissima. La
calda luce del sole aveva spazzato via la nebbia; i palazzi si
ergevano nitidi e appuntiti, separati da strade strette che
sembravano sentieri. Le macchine risalivano su per le
colline, rallentando, e raggiungevano con difficoltà la
spianata che era l’incrocio successivo. Tutte le colline
discendevano verso l’enorme avvallamento azzurro della
Baia. Prima che le strade e i palazzi scomparissero nella
frigida superficie dell’acqua, c’era una stretta striscia di
magazzini, moli, pontili, un nastro di attività commerciali
che cingeva solidamente la città.
«Laggiù» disse Dave a Laura mentre il motore
riprendeva spasmodicamente vita. «Accosta verso
l’Imbarcadero e parcheggiamo lì. Possiamo arrivare a piedi
a Fisherman’s Wharf.»
La vecchia, grossa macchina imboccò sferragliando Pine
Street, passò oltre la borsa valori e uscì dal distretto degli
affari, ritrovandosi fra i palazzi deserti per uffici della zona
commerciale. In mezzo ai magazzini c’era qualche bar
scalcinato, alcuni chioschi che vendevano hamburger e una
pompa di benzina. Quando raggiunsero la spianata
dell’Imbarcadero, Dave individuò un parcheggio.
«Laggiù. Venticinque centesimi… ma è un furto! Chi se
ne importa, tanto paga Hadley.»
Laura parcheggiò la Cadillac e i tre uscirono irrigiditi,
uno dopo l’altro. Il brecciolino crepitò sotto le scarpe
mentre oltrepassavano un tabellone pubblicitario e
giungevano sul marciapiede. I fatiscenti negozi erano
chiusi: le vetrine erano chiazzate di mosche e ricoperte da
uno strato di polvere. Qualche macchina procedeva senza
meta lungo l’ampia strada, e ogni tanto c’era qualche
pedone che passava accanto alle piattaforme di carico
vuote. Dietro si ergeva la scarpata della città, una solida
rampa di case e palazzi bianchi che continuava a crescere.
La città dava l’impressione di poter scivolare da un giorno
all’altro nella Baia e scomparirvi. Sembrava che stesse già
scivolando.
«Io mi preoccuperei» disse Laura «se vivessi lassù.
Uscirei ogni mattina con un lungo bastone per vedere di
quanto è cresciuto nella notte il livello dell’acqua.»
Camminarono lungo la strada, verso la muraglia di
robusti moli di legno. Qua e là c’era qualche nave ancorata
al molo, piroscafi latino-americani che scaricavano banane
e legname. Sulla destra, oltre i moli, partiva dall’isola di
Yerba Buena il lungo arco del Bay Bridge, una sottile
bacchetta di metallo grigio-azzurro che trafiggeva il verde
batuffolo lanuginoso di alberi e terra, spuntava dall’altra
parte e poi digradava verso la costa orientale della Baia.
Berkeley e Oakland erano come un impasto bianco
irregolare che imbrattava la lunga fila di colline distese a
perdita d’occhio, che poi si perdevano in lontananza in una
nebbiolina azzurra.
«Lo sai esattamente dove ci aspetta?» chiese Dave a
Hadley. La pipa fra i denti, camminava a passi rapidi, con la
falde della giacca che gli sventolavano dietro e gli
abbondanti pantaloni di tweed che svolazzavano al vento
dell’oceano.
«Ci aspetta al molo» ripose Hadley evasivo. «La vedrò.»
Camminarono lungo i binari della ferrovia, sollevando
nuvolette di polvere con le scarpe. I vagoni erano
parcheggiati in ammassi disordinati. L’aria era pulita;
raffiche di vento caldo li investirono mentre attraversavano
un binario dopo l’altro come tre bambini che fanno una
passeggiata, Dave nel suo vestito spiegazzato, Laura in
un’abbondante gonna di lana, maglia di lana e calzini corti.
Stuart Hadley indossava pantaloni marrone scuro, una T-
shirt e scarpe con la suola di para. Nel cielo sopra di loro
strillavano volteggiando grassi gabbiani grigi; si stavano
avvicinando al Wharf.
Sulla sinistra c’era una vasta spianata, nera di polvere e
scorie di metallo. Tutto a un tratto si profilò il pendio della
città, una montagna dove finiva la spianata industriale, in
cui le fabbriche tozze diventavano l’esplosione incontrollata
dei negozi italiani, delle case e dei bar di North Beach. La
bianca parata ondeggiante che si arrampicava lungo il
fianco della montagna poteva essere quella di una città
mediterranea. Fra il groviglio di case e l’azzurro scuro
dell’acqua della Baia, la piatta striscia nera di brutte
fabbriche risaltava come una legione di folletti: le cisterne
delle raffinerie, le impalcature rugginose degli impianti in
cui si fabbricavano sapone, inchiostro e vernici.
Ben presto la calda aria estiva cominciò a puzzare di
pesci morti.
Sulla destra c’era il Wharf, una fila di vistose insegne al
neon montate su squadrati edifici di legno: ristoranti e
chioschi del pesce. Più in là si vedeva una ringhiera sotto la
quale c’era una flotta di piccole imbarcazioni legate alla
rinfusa, come bastoncini portati sulla spiaggia dalla
risacca. Coppie in colorati abiti estivi passeggiavano qua e
là, godendosi il panorama della Baia, le distanti colline
marroni di Marin e, più in là, la striscia dell’oceano.
«Eccola» disse Hadley. Il cuore cominciò a battergli
forte sotto la T-shirt, facendogli quasi male. Erano due anni
che non vedeva Sally.
Sua sorella era insieme al marito alla fine della
ringhiera: non guardava l’acqua, stava lì e basta. Era
cambiata dall’ultima volta che l’aveva vista, ma la
riconobbe subito e si diresse senza esitazione verso di lei.
Dave e Laura lo seguirono al piccolo trotto, poco convinti.
Hadley arrivò molto prima di loro.
Sally indossava, ovviamente, un costoso abito realizzato
su misura di stoffa inglese d’importazione color grigio
chiaro, stretto in vita e tagliato con linee semplici e severe.
Tacchi alti, gambe lunghe con calze costose, un cappellino
elaborato sui capelli biondi pettinati all’indietro, guanti,
una borsa quadrata di pelle sotto un braccio… e orecchini
di rame ad anello. Forse era un po troppo truccata per una
calda giornata di luglio; anche su un semplice molo di
pescatori vestiva come se si trovasse in un locale esclusivo.
Mentre le si avvicinava, Hadley si sentì avvolgere dal suo
profumo, e gli tornarono alla mente in un attimo tutti gli
odori e le sembianze che avevano formato il mondo di Sally,
il suo corpo e le sue cose, tutte le stoffe e le ciprie e gli
indumenti e i colori della sua stanza.
«Ciao» disse Sally nel suo bisbiglio basso e rauco,
sorridendogli. Per un momento lo strinse a sé, gli sfiorò la
guancia con un bacio. Le sue labbra conservavano una
traccia di rosso e di umido; li sentì che rimanevano qualche
secondo sulla pelle, per poi dissiparsi ed evaporare nella
calda aria estiva. Il nastrino del cappello danzò fra lui e i
lineamenti familiari che gli erano stati così cari, che lo
avevano intimorito e ipnotizzato per tutta la vita. Si rivide
ancora una volta nei suoi pallidi occhi azzurri. La sua
voluminosa cascata di capelli gialli e folti come sciroppo di
mais era l’estrema estensione, si rese conto senza fiato,
della propria zazzera disordinata. Era tutto lì: la sua bocca,
il mento, gli zigomi, il collo lungo con le vene in rilievo, le
narici allargate che dall’ultima volta si erano ristrette
appena un filo. Adesso era matura, pienamente matura.
Ventinove anni, solida e all’apice della sua forma fisica…
Hadley si sottrasse al suo stordimento e strinse le mani del
marito.
«Ciao» disse Bob laconico, stritolando la mano di
Hadley in una stretta fin troppo virile. «Come va, Stu?»
«Bene» rispose Hadley. Fece le presentazioni: Dave e
Sally si ricordavano vagamente l’uno dell’altra dai tempi
del liceo. Si salutarono formalmente, senza entusiasmo.
Bob, severo e minaccioso nel suo cappello stile western,
jeans, camicia di tela e stivaloni, con i capelli rasati che
formavano una macchia color caffè sulla distesa convessa
del cranio, gli occhietti maligni che si spostavano dall’uno
all’altro mentre si dirigeva verso la grossa Nash lucidissima
parcheggiata sul ciglio del marciapiede.
«Dove si va?» chiese sgarbato mentre si sistemava al
volante. Rivolse un’occhiataccia cinica e gelida a Dave e
Laura. «Dirigiamoci subito verso la statale e la penisola;
dobbiamo tornare presto.»
Mentre si sistemava accanto al marito, Sally disse: «Ho
fame… prima di muoverci mettiamo qualcosa sotto i denti.»
Il volto duro e ossuto di Bob si piegò in una smorfia.
«Quando saremo arrivati ci penserà Ellen a preparare
qualcosa. Non puoi aspettare… o è chiedere troppo?»
«Andiamo a Chinatown» lo pregò con insistenza Sally.
«Per favore… voglio un pasto cinese. In fondo non
capitiamo qui tutti i giorni.» Si contorse con una leggiadra
movenza e indicò a Hadley di salire sul sedile anteriore
accanto a lei. «Piccolo, conosci un buon ristorante cinese?
Bob non ha mai assaggiato la cucina cinese.»
Hadley tremò nel sentire quel vecchio nomignolo; erano
passati anni, ma l’antica parola gli rimbalzò addosso viva e
vitale. E tornò a essere piccolo, il fratello minore di sua
sorella, che la fissava con aria reverenziale, adorante.
«Certo» farfugliò, infilandosi goffamente e chiudendo lo
sportello. «Conosco un locale sulla Washington dove
possiamo andare.»
«Per me niente cibo da musi gialli» affermò con enfasi
Bob mentre si avviava. «Io mangio uova e pancetta tutti i
giorni.» La macchina guadagnò velocità e si immise nel
traffico; sul sedile posteriore Dave e Laura fecero appena in
tempo a richiudere lo Sportello. Silenziosamente la Nash
svoltò su una stretta strada laterale, sfiorò una Ford coupé
parcheggiata e cominciò a risalire la collina, verso la
cornice di case in alto.
«Dimmi dove devo voltare» disse Bob a Hadley. «Non
conosco questa città; ci vengo solo quando proprio non ne
posso fare a meno.»
Sul retro Dave e Laura sedevano rannicchiati e
silenziosi, intimiditi dall’uomo massiccio al volante. Sia Bob
che Sally erano alti e ben piantati, e al loro confronto i Gold
facevano la figura dei nani. Nello specchietto retrovisore le
loro facce scure, irregolari e sformate erano flaccide e
cascanti: le mani in grembo, erano costretti a una supina
obbedienza. Hadley si meravigliò della loro trasformazione;
in presenza di sua sorella e di suo cognato, quei due ebrei
si erano lasciati ammaliare, tornando all’argilla
primordiale.
Per la prima volta nella sua vita, Hadley si convinse di
trovarsi di fronte a due razze diverse. Dave e Laura
accettavano senza ribellarsi la loro condizione di servi;
muti e istupiditi, guardavano avanti con occhi vacui,
dondolando al rollare della macchina, mentre Bob la
guidava con mano esperta attraverso stretti incroci, in
mezzo alle altre macchine, i pedoni, i camion, gli autobus.
Non c’era nessun suono, solo il sibilo dell’aria e il ronzio
oleoso del motore. Accanto a lui, sua sorella sorrideva
felice, le labbra rosse e scure socchiuse quel tanto che
bastava per mettere in mostra i denti bianchi e duri che le
aveva sempre invidiato.
«È bello rivederti» disse Sally a bassa voce. Allungò la
mano guantata e strinse quella del fratello. Hadley tremò
quando sentì la pressione delle dita lunghe e affusolate, che
si soffermarono un poco, quasi in una carezza. Non la
guardò in faccia; fissò i negozi e i palazzi che passavano, le
insegne dipinte, i primi edifici di Chinatown con la loro
ornata architettura.
«Come va il lavoro nel campo dei televisori?» gli chiese
acidamente Bob, sempre con quel tono secco e deciso.
«Tira ancora?»
«Certo» rispose Hadley. Cercò di replicare con una
domanda sul lavoro in campo immobiliare, ma le sue corde
vocali si rifiutarono di dar voce a quella formalità sociale.
Che gliene importava del lavoro nel campo immobiliare?
Bob Sorrell non gli piaceva; ne era impressionato, era
rispettoso e correttamente timoroso di lui, ma non
apprezzava la presenza di quell’uomo.
«A noi ci butta bene» disse Bob senza che nessuno
glielo avesse chiesto. «Credo tu sappia che il lotto della
Woodhaven è nostro.»
«Oh, certo» mormorò Hadley. «Quel nuovo lotto lungo la
statale.»
«Ci vorrà un bel po prima di recuperare i nostri
investimenti. Ci stiamo sistemando un mucchio di militari a
prezzi da svendita. Questo non è ancora sufficiente; i
cinquecento dollari che pagano all’inizio coprono le spese
vive, tutto qui. Abbiamo fatto prestiti quarantennali…»
Costrinse un camion a spostarsi sul ciglio della strada in
modo da poterlo sorpassare. «Gli interessi si sommano… e
un bel po di quei militari alla fine non ce la faranno più a
pagare e dovranno vendere. Ci riprenderemo le baracche
entro sei, otto anni. Naturalmente a quel punto dovranno
essere ricostruite praticamente da cima a fondo.»
Affascinato, Hadley ascoltava le parole che rotolavano
fuori dalla bocca dell’uomo. Tranquillo, sicuro di sé,
rilassato, del tutto privo di emozioni, Bob Sorrell non
mostrava orgoglio né vergogna. Stava semplicemente
elencando dei fatti.
«Bob si è preso un intero lotto di proprietà rurali» disse
Sally, con un empito di entusiasmo che le arrossò le
guance. I suoi occhi azzurri sprizzavano scintille di
eccitazione. «Fattorie, botteghe, e anche un giornale locale.
Su a St. Helena… il mese prossimo ci andremo e ci
resteremo per una settimana, in modo da conoscere bene il
luogo. La nostra vacanza!»
«Già, be’,» disse Bob con la sua voce dura e impassibile
«erano quasi tutte proprietà della Napa County Land and
Investments. Le abbiamo acquistate lo scorso maggio.»
Alzò il tono della voce. «Dove diavolo è questo locale? Io
vedo un sacco di posti dove si cucinano bistecche; o ne hai
uno particolare in mente?»
La Nash percorreva veloce la Grant Avenue; su un lato
una fila di macchine parcheggiate, per il resto un flusso
ininterrotto di traffico. I negozi cinesi con le vetrine piene
di scacchi d’avorio, rotoli di seta, pigiami da mandarino,
bruciatori d’incenso, tagliacarte, vassoi di bambù, uccelli
artificiali, gioielli di giada e di argento, vasi di erbe
essiccate, radici contorte, alghe marine, biscotti alle
mandorle, zenzero in conserva, gabbie piene di anatre e
conigli, cesti di patate bitorzolute e tuberi vari, tutto questo
a Bob Sorrell non interessava. Agli incroci improvvisi
squarci di colline e ponti interrompevamo
momentaneamente la processione di botteghe, bar e
ristoranti, e poi discese così ripide che se un pedone fosse
scivolato e caduto sarebbe facilmente potuto rotolare fino
alla Baia.
«Oh, guardate!» esclamò Sally. «Ecco un tram a fune!»
Su per lo scosceso pendio, l’arcaica scatoletta arrancava
carica di passeggeri, aggrappata al suo cavo d’acciaio.
Sferragliando e stridendo attraversò l’incrocio e continuò a
salire, un vagone saltellante di legno e metallo trainato da
un cavo sotterraneo.
«Da che parte?» chiese seccamente Bob, infuriato con
tutti i pedoni che gli facevano perdere tempo.
«Un altro paio di isolati» rispose Hadley. «Sulla
sinistra.»
Alla Washington svoltarono e risalirono la collina.
C’erano degli strilloni che vendevano giornali cinesi. Vecchi
rinsecchiti con lunghe barbe vendevano dolci al melone:
batuffoli di zucchero e grasso che gocciolava succo di
frutta. Sopra la strada i balconi protetti da inferriate degli
alti palazzi quasi si toccavano. Lungo gli stretti marciapiedi
correvano e sgambettavano bambini cinesi, lanciando urla
stridule. Ingressi di scantinati, improvvisi squarci neri nei
marciapiedi, si aprivano su buie rampe di scale che
scendevano. Musica orientale − gemiti e repentini schianti
− filtrava al di sopra del rumore della strada. Angusti vicoli
pieni di immondizia, dove entrava una macchina sola, si
aprivano fra i ristoranti, luridi ricettacoli di lattine vuote e
piume secche dentro pozze di sangue.
«Eccolo» disse Hadley.
Una piccola, antiquata insegna al neon, persa nel
groviglio di tubature multicolori, sporgeva al di sopra
dell’ingresso di uno scantinato. Una lunga fila di gradini
conduceva verso il basso e svoltava in prossimità di una
vetrata sotterranea dietro la quale pendevano uccelli morti
spiumati e con le zampe legate. Al di là si intravedevano
tavoli neri, séparé protetti da tende, camerieri dalla barba
ispida con tuniche bianche, un vecchio registratore di
cassa. Commercianti cinesi leggevano i giornali mentre
mangiavano.
«Dove diavolo posso parcheggiare?» protestò Bob. «Non
posso lasciare la macchina in questo vicolo!» Il ristorante
scomparve dietro di loro mentre la Nash risaliva
rapidamente la collina, disperdendo i pedoni a ogni
incrocio. «Lasciamo perdere e andiamo verso la costa. Sono
già le due e mezza!»
«Puoi parcheggiare a Stockton» disse Hadley. «Lassù si
trova sempre posto.»
Bob non disse niente mentre la Nash svoltava dalla
Washington sulla Stockton. Erano usciti da Chinatown; file
di tetri palazzi si allungavano, isolato dopo isolato, e
negozietti di calzature e di abbigliamento senza insegne né
cartelli. «Là» disse Sally. «Davanti a quel drugstore; quella
donna sta uscendo.»
La Nash rallentò, si fermò per un attimo, poi s’infilò nel
parcheggio. Toccò la macchina dietro con i paraurti, poi
quella davanti. Bob sfilò la chiave dal cruscotto e con un
solo movimento spalancò lo sportello e uscì. «Su» ordinò.
«Muoviamoci, non abbiamo tutta la giornata.»
Bob e Sally si avviarono lungo il marciapiede. Hadley
riuscì a stargli dietro; i tacchi alti di Sally ticchettavano
seccamente proprio davanti ai suoi occhi e lui si ritrovò a
fissarne le punte aguzze che colpivano il cemento. Attorno
alla sua caviglia snella fasciata di nylon c’era un minuscolo
braccialetto d’oro. Scintillava e danzava al sole, in sintonia
con il movimento delle gambe. Hadley si tenne dietro la
sorella, seguendo a rispettosa distanza la sua figura avvolta
in abiti eleganti e costosi, con una venerazione che lo
pervadeva, che era automatica e totale, che rappresentava
ogni parte di lui. Era sempre stato così.
Dietro Hadley seguivano al piccolo trotto Dave e Laura,
che sembravano più nani di prima. Due budini tozzi e scuri
di carne quasi umana, in abiti sporchi e chiazzati, due
sagome informi e dall’aria malaticcia, con la faccia
aggrottata e il corpo flaccido. Hadley provò un senso di
orgoglio: poteva vantare una certa superiorità su di loro.
Arrancava dietro sua sorella, ma era pur sempre uno di
loro. Ne aveva tutta l’ereditarietà fisica; erano tutti della
stessa razza, dello stesso ceppo e sangue. Chissà come le
circostanze gli avevano impedito di essere all’altezza del
suo rango, ma la potenzialità c’era ancora tutta. Un giorno,
quando fosse stato più vecchio…
Strano che in presenza di sua sorella lui dovesse
rattrappirsi nella sua vecchia abitudine, vedersi come
troppo giovane. Però era così: mentre seguiva
passivamente l’incedere deciso di quella donna con
l’espressione altezzosa, faccia alta e mento che andava su e
giù, lui era un ragazzino, un bamboccio, un moccioso. Con
le mani in tasca, diede un calcio a una lattina di birra, corse
per qualche passo, saltò e divenne un adolescente dai
capelli color stoppa per mosse ed espressioni. Tenne il
passo di Sally e di suo marito lungo la Washington,
ansimando.
«Da quella parte!» gridò, e all’improvviso ripiombò nella
confusione. Dopo avergli rivolto una breve occhiata, i due
svoltarono silenziosamente l’angolo e imboccarono la ripida
discesa. Imbarazzato, Hadley corse dietro di loro, con i
Gold che arrancavano immusoniti dietro di loro.

Nel buio séparé che sembrava una grossa scatola,


sedettero attorno a un tavolo dal piano di pietra,
esaminando i menù chiazzati di zuppa. Dietro la tenda
uomini d’affari cinesi erano chini su ciotole di riso bollito e
pesce fumante, e si portavano il cibo alla bocca con i
bastoncini. In mezzo al tavolo c’era una scodella di salsa di
soia, contenitori di sale e pepe, e altri menù.
«Ordina tu» disse Sally a suo fratello, sollevando la testa
e richiudendo il menù. «Tu conosci meglio la cucina cinese.
Ti ricordi quando venivamo qui a mangiare?»
Hadley annuì. Esaminò il menù, eccitato, e si sentì
travolgere da un’ondata di disponibilità tutta infantile: in
un empito di frenetica sconsideratezza ordinò tutto quello
che c’era. Il piccolo cameriere dalla faccia di bambola, con i
capelli neri imbrillantinati che scintillavano sotto la luce del
soffitto, depose una dopo l’altra le ciotole fumanti di fronte
a loro. Minestrina con uova strapazzate. Wonton fritti
bollenti. Pollo con le mandorle. Manzo con asparagi. Carne
con verdure saltate condita con una densa salsa dolce.
Frittelle dolci e unte ripiene di carne e verdure. Davanti a
ognuno di loro c’era una tazza bianca e tonda senza manico
nella quale Hadley versò il tè caldo e bollente da una
antiquata teiera smaltata.
Bob Sorrell ignorò le ciotole di cibo fumante e fece un
cenno al cameriere mentre stava uscendo dalla tenda.
«Avete una Seven Up? Mi porti una bottiglia di Seven Up.»
«No Seven Up» farfugliò il cameriere.
La faccia dura di Bob si scurì. Quasi sillabando ogni
parola chiese: «Tu capisce Coca-Cola? Poltale Coca-Cola
subito?»
Il cameriere scomparve. Un momento dopo tornò con
una bottiglia di Coca in cui aveva infilato una cannuccia. La
depose sul tavolo e se ne andò senza una parola.
«Non voglio saperne di questa roba cinese» disse Bob a
Sally. «Mangerò un panino al volo lungo la statale.» Diede
un’occhiata all’orologio. «Posso aspettare, non ci vorrà
molto.»
Dave e Laura trangugiarono ansiosamente il loro cibo,
temendo che non gli fosse consentito di finirlo. Le ciotole
vennero svuotate rapidamente; Hadley e sua sorella erano
entrambi affamati. Mangiarono di gusto, come sempre
facevano quando erano adolescenti e venivano in città per
visitare la spiaggia, il parco dei divertimenti, i chilometri di
erba verde e fiori che erano il Golden Gate…
Tutti e due scarpinavano lungo l’interminabile striscia di
spiaggia, in jeans e maglietta, a piedi nudi, con il sacchetto
del pranzo che gli ballonzolava alla cintura. Il sole
picchiava, alto, caldo e piccolo sopra di loro. Il vento gli
sputava raffiche di sabbia bruciante sulla faccia, tanti
puntini che scottavano come fuoco sulle braccia e sulle
gambe nude. Con i jeans arrotolati, tutti e due arrancavano
faticosamente sulla battigia, e Hadley osservava la schiuma
lattiginosa che avvolgeva le caviglie nude di sua sorella,
qualche passo avanti a lui.
La vista di Sally, quella figura flessuosa stagliata contro
la distesa di oceano e spiaggia, delle sue natiche che
fremevano sotto i jeans stinti, del suo corpo sano e
abbronzato, dei biondi capelli che le sventolavano dietro,
della sua faccia che rideva silenziosa quando si voltava a
guardarlo, respirando forte per riprendere fiato… quella
era un’immagine che aveva di lei, fra le molte altre. E alla
sera gli interminabili viaggi tortuosi sui vecchi tram
cigolanti, per tutta la distanza da San Francisco alla
stazione di Third e Townsend. Uno di fronte all’altra,
esausti, accalcati fra pendolari e persone che ritornavano
dalla spesa, donne anziane con le loro borse rigonfie,
impiegati dalla faccia stanca, e poi il rumore stridulo delle
ruote, il traffico e i colpi di clacson. Si muovevano in
continuazione, entrambi accasciati sui sedili, con la faccia
inespressiva, dondolando al movimento del tram. E poi
all’improvviso la sorprendeva a sorridergli, un fremito
intimo e nascosto delle labbra, un battito di ciglia. Sul
sedile opposto, con in mezzo persone aggrappate ai
sostegni, una fuggevole visione del suo viso unico, così
familiare, il magnifico riflesso del suo. Un rapido,
insignificante contorcersi dei suoi lineamenti, fatto solo per
lui, e poi il corpo incappottato di un operaio di mezza età li
nascondeva l’uno all’altra, e tornava l’inerte spossatezza.
«Bene» disse Bob fissando Hadley con freddezza. «Puoi
dire all’esercito di andare a farsi fottere.»
Sbigottito, Hadley abbassò lentamente la tazza di tè
caldo e dolce. «Cosa?» mormorò.
«Hai un figlio, un altro familiare a carico! Perciò non ti
recluteranno, no?»
«Non lo so.» Hadley si sentiva confuso. «Penso di no…
ho dei problemi epatici; mi hanno già classificato come 4-
F.»
«No» disse Bob con enfasi, chiudendo il discorso. «Non
ti prenderanno se hai un figlio.» I suoi occhi non facevano
che guardarsi intorno; le sue dita grosse e appuntite
tamburellavano sul piano del tavolo. «Lavori sempre in quel
negozio?»
«Sì» ammise Hadley.
«Che fai, il capo del personale?»
«No,» rispose Hadley «sono addetto alle vendite, con
commissioni.»
«Cinque per cento?»
Hadley annuì.
Bob Sorrell fece due conti. «Che ci guadagni, circa
trecentocinquanta puliti al mese?»
«Diciamo duecento» replicò Hadley.
Gli occhi stretti e maligni di Bob si socchiusero. Occhi
piccoli, freddi e scivolosi come rocce. «Dài, io per una
somma del genere direi al vecchio coglione di andarsi a
buttare a fiume. Te li darebbe chiunque. Puoi guadagnarli
con le bande di neri che spaccano pietre sulle massicciate
delle ferrovie!»
La faccia scura di Dave divenne di un grigio terreo e lui
smise di colpo di mangiare. All’improvviso lui e Laura
sembravano due bambini stanchi e arrabbiati che avevano
fatto troppo tardi. Si agitarono infelici sui sedili e fissarono
il tavolo senza vederlo, muti e immobili.
Bob gli rivolse una rapida occhiata e li valutò all’istante.
Li giudicò con una sola occhiata. La posa rigida delle sue
spalle li soppesò e li respinse. Bob li ignorò e tornò a
guardare Hadley.
«Per quanto andrà avanti? Svegliati, uomo, non puoi
mantenere una moglie e un figlio con quei quattro soldi.
Visto come sta crescendo questo paese, per quanto tempo
hai intenzione di rimanertene lì nel tuo buco senza fare
niente?»
Hadley brandì goffamente la forchetta. «Ho la
possibilità di dirigere il negozio. Se Fergesson acquista
quell’altro locale di cui parla…» Esitò, gli mancò la voce.
«Forse mi affiderà il Modern. Una volta ha detto che lo
avrebbe fatto.»
«Sul serio?» La voce granulosa di Bob aveva una
sfumatura di scherno. «Proprio un brav’uomo, eh? Che ti
sventola la carota davanti agli occhi?»
«Penso che lo farà» replicò cocciuto Hadley, incapace di
fronteggiare la faccia dura come un sasso di suo cognato.
«Credo che voglia veramente comprare il locale di O’Neill.»
«E quanto ci guadagnerai?»
Le dita di Hadley si contorsero mentre lui le studiava
intensamente. «Una sera, dopo la chiusura, Fergesson e io
ci siamo fermati a parlarne. Ha detto che mi avrebbe dato
trecentocinquanta di stipendio, più il mio cinque per cento
su quello che si vendeva. E un altro zero cinquanta per
cento sull’incasso lordo. È un’offerta piuttosto buona.»
Sally si entusiasmò. «Dài, mi sembra notevole!» Diede
un’occhiata al marito. «Non sembra anche a te un’offerta
interessante?»
Bob non si lasciò impressionare. «È una promessa? Te lo
ha messo per iscritto?»
«Certo che no» rispose Hadley. «L’accordo con O’Neill
non si è ancora concluso.»
Bob emise un suono disgustato, agitò la grossa mano,
poi tornò a controllare l’orologio fissato al braccio peloso.
«È ora di andare» annunciò mentre si alzava in piedi.
«Andiamo, gente.» Fissò i Gold con ostilità; era giunto il
loro momento. «E voi due che fate? Venite via o che?»
«Abbiamo la nostra macchina» affermò Dave con voce
roca.
«Dov’è? Da queste parti?»
Dopo un attimo, Laura rispose: «In un parcheggio. Giù
all’Imbarcadero.»
Bob non ne poteva più dei due. Hadley lo sapeva bene,
ma non poteva fare niente. Bob li scaricò senza scrupoli,
come uno schiacciasassi. «Va bene» disse. «Vi accompagno
laggiù e vi lascio lì.»
Uscì dal séparé, si fermò tenendo scostata la tenda con
il corpo e attese.
«Adesso?» chiese stancamente Laura.
«Certo» rispose Bob. «Perché no,? Avete finito di
pranzare… ne avete mangiata per sei, di quella sbobba.»
Poi, rivolto a Hadley: «Aspetta qui con Sally. Torno fra un
qualche minuto, non ci metterò molto.»
Dave e Laura uscirono come istupiditi dal séparé e lo
seguirono. Hadley rimase solo con sua sorella.
Per un po nessuno dei due disse nulla. Hadley piluccò
distrattamente il cibo freddo e acquoso. Sally aveva
allontanato il piatto vuoto; si appoggiò all’indietro, e si
accese una sigaretta. Nuvole di fumo azzurrino si levarono.
Subito dopo Sally si sbottonò la giacca e se la sfilò,
appoggiandola sullo schienale della sedia che suo marito
aveva lasciato libera. Indossava un maglione d’angora
celestino con le maniche lunghe e il collo alto, che aderiva
al suo corpo e metteva il risalto il segno del reggiseno
rigido, bianco, terribilmente costoso.
«È passato tanto tempo» disse, e gli rivolse un rapido
sorriso: occhi azzurri, bocca rossa e piena, viso fiero rivolto
all’insù. Quel vecchio fremito di caldo divertimento era
tornato a formarsi sulle sua labbra. La familiare vampata di
tenerezza fra di loro. Soffiando fumo azzurro dalle narici,
pigramente appoggiata alla sedia, i gomiti sul tavolo, la
sigaretta vicina alle labbra, fissò suo fratello con intenso
affetto. «È così adesso hai un figlio. Il mio piccolo ha un
bambino…»
Apparve il cameriere con una teiera di tè appena fatto.
Si scusò con un sorriso e la sostituì a quella fredda, per poi
sparire oltre la tenda.
«Come ci si sente?»
«Bene.»
«Lo sai, Bob non vuole ancora avere figli. Vuole
aspettare finché non ci saremo sistemati. Quando sarà.»
«Bob è un uomo in gamba.»
«È un grande lavoratore. C’è sempre qualcosa che si
muove in quella sua testaccia dura.» Arricciò il naso,
ironicamente. «Perché non te li tagli anche tu a spazzola, i
capelli? Già, ti è sempre piaciuto portarli lunghi.» Si piegò
per schiacciare la sigaretta nel piatto vuoto, e una nube di
profumo tornò ad aleggiare intorno a lui, profumo e l’odore
caldo del suo corpo sotto il maglione, le braccia, il collo e i
capelli. «Ricordo che stavi sempre davanti allo specchio a
pettinarti e a riempirti di olio e brillantina. Usi ancora
quella roba?»
«Sì,» sorrise «la uso ancora.»
«Il mio fratellino. Che elegantone sei sempre stato.
Peggio di una ragazza.» Si accese lentamente un’altra
sigaretta, tenendo l’accendino fra le dita con le unghie
laccate, gli occhi fissi su di lui e la sigaretta penzoloni fra le
labbra. «Che ne pensa Ellen di come ti agghindi e…» inalò
una lunga boccata «…e di come ti vesti? Credo che tu abbia
preso da me.»
Stuart Hadley ne convenne. Rapito in una sorta di estasi
si abbeverò della presenza di sua sorella; era incredibile,
ma l’aveva tutta per sé, completamente in suo possesso
dopo tanti anni. Quell’intervallo gli svanì dalla mente; era
uno sterile interludio di separazione, un tempo fermo in cui
non era successo nulla di importante. Si rese conto
dolorosamente che Bob sarebbe tornato quasi subito; da un
momento all’altro, anzi. Cercò disperatamente di riempirsi
di lei, tutto insieme, di consumarla e assorbirla nei pochi,
preziosi minuti che rimanevano.
«Che c’è che non va, piccolo?» gli chiese a bassa voce,
con gli occhi azzurri che mostravano dolcezza, consapevole
che gli stava capitando qualcosa di doloroso.
«Niente.»
Sally si era tolta i guanti e li aveva appoggiati sulla
borsa, accanto all’accendino d’argento. Allungò la mano e
prese nuovamente la sua. Aveva le dita lunghe, fredde,
incredibilmente snelle. Le unghie laccate di rosso
risaltavano come vetro levigato contro la pelle, mentre lei
stringeva forte, in modo convulso. «Vorrei che mi dicessi
che cos’è. Va… va tutto bene? Sei felice?»
«Sì» mentì lui.
«Davvero?» Sally lo osservò attenta, chinandosi verso di
lui, i gomiti appoggiati sul tavolo. «Lo sai, piccolo, posso
leggerti come un libro aperto. Dimmi la verità.»
«Sto bene» replicò Hadley.
Sally scosse la testa. «Piccolo, quanto vorrei aiutarti.»
Gli accarezzò il braccio con le dita, piano, con tristezza. «Si
tratta di te ed Ellen?»
«No… ci troviamo bene.» Si corresse. «Come sempre.
Qualche litigata ogni tanto. Niente di nuovo.»
«Quanto conterà il bambino?» E cantilenando in un
bisbiglio arrochito ripeté: «Il piccolo del mio piccolo. D
piccolo del mio piiiccolooo.» Allungò la mano e gli
scompigliò i capelli biondi ben pettinati. Le sua labbra
rosse ripeterono la cantilena: «Il piccolo Peter del mio
piccolo Peter.»
Ridacchiarono entrambi, si dondolarono, si toccarono
con la testa e si ritrassero, questa volta con una gran
risata.
«E va bene» disse Sally. «Va benissimo. Ehi, mi sei
mancato maledettamente, lo sai?» Gli soffiò in faccia il
fumo azzurrino. «Certo, adesso hai una dolce mogliettina…
è proprio una donna deliziosa. Non hai più bisogno di me.»
«Invece sì» sibilò Hadley a denti stretti.
«No.» Lei scosse la testa. «Non posso più prendermi
cura di te. Ti ricordi che lo facevo sempre? Ti ricordi quella
volta in cui hai perso una scarpa al cinema e l’abbiamo
trovata io e la maschera? Mentre tu te ne stavi nell’atrio a
piangere come uno scemo?»
«Me lo ricordo» disse Hadley.
Sally si concentrò sulla sua voce, come se cercasse di
afferrare qualcosa che era al di là, nel profondo, nascosta
dove non era possibile vederla. «Mi sembri così… oh, mio
Dio, piccolo.» I suoi occhi azzurri erano pieni di tristezza
per lui. «Mi sembri così abbattuto.»
Lui non capiva. «Che vuoi dire?»
«Non ci provi nemmeno! È tutto passato… non c’era
molto con cui cominciare, e quello che c’era non c’è più.»
Lo aggredì, infervorata. «Piccolo, devi tirarti su… non come
fa Bob, magari. Benché anche quello non ti farebbe male!»
Gli puntò addosso la sigaretta, con violenza. «Accidenti a
te, piccolo, mi uccide vederti così. Come qualcosa portato
via dalla marea, quelle cose che prendevamo a calci sulla
spiaggia… e ci saltavamo sopra. Te lo ricordi? Te lo ricordi,
lo so. Ce lo ricordiamo entrambi. È colpa mia, ti ho fatto
perdere tutto lo spirito. Avresti dovuto pensarci tu, a te
stesso… Una volta volevi farlo, ma io non te l’ho permesso.
Dovevo prendermi cura di te… Volevo prendermi cura di te.
Ti ho reso debole; tu non eri mai stato debole.»
«Sto bene» disse goffamente Hadley. «Di che ti
preoccupi?»
«Tu non stai bene, piccolo» ribatte sua sorella con voce
bassa e gentile. «Sei in pessima forma… Mi fai venire
voglia di piangere, accidenti a te.» Glielo disse quasi in un
ringhio, con gli occhi azzurri gonfi di lacrime. «Io volevo
che tu fossi qualcosa.»
«Come Bob?» domandò Hadley con amarezza.
«No. Non lo so… qualsiasi cosa. Avevi un tale
carattere… Prendevi fuoco per niente. Te lo ricordi? Non
eri indolente come adesso. Lattiginoso.»
Sinceramente stupito, Hadley le chiese: «Che intendi?
Che genere di carattere?»
«Ti infuriavi, avevi degli attacchi. Quando non ne potevi
più aggredivi. Ti mettevi con la schiena alla parete… e tutto
a un tratto cominciavi a muoverti minacciosamente verso
tutto e verso tutti. È questo che voglio… capisci? Ed è stata
colpa mia; sono stata io a farti perdere quel carattere,
quella spina dorsale. Ti abbiamo stuzzicato… ti abbiamo
svuotato della tua personalità. E io credevo che fosse
giusto. Credevo che tu dovessi imparare, diventare…
disciplinato. Autocontrollo, crescita… Cose del genere.
Volevo che imparassi la disciplina… come una madre. E ci
sono riuscita, eh? Adesso tutto quello non c’è più. Qual è
stata l’ultima volta che hai perso la calma?»
«Continuo a perderla anche adesso» disse Hadley.
«Davvero? Ne sei ancora capace?» Si chinò verso di lui,
ansimante, i gomiti puntati sul tavolo, le mani serrate.
«Allora perché non reagisci? Dov’è la tua spina dorsale?»
«C’è ancora» ripeté Hadley.
«Come una volta? Avevi l’abitudine di rompere i
giocattoli; ti ricordi come improvvisamente li mettevi tutti
in fila e li spaccavi uno dopo l’altro?»
Lui lo ricordò, adesso che Sally glielo diceva. Ma solo
adesso; un attimo prima lo avrebbe negato. «Già» ammise.
«Tutte le tue cose, tutto ciò che avevi. Qualcosa su cui
avevi lavorato, qualcosa che stavi costruendo. Te ne stavi lì
per ore, a volte per giorni, a sgobbare su un oggetto. E poi,
quando non ti veniva bene, quando non aveva l’aspetto che
volevi, te lo mettevi in grembo. Io c’ero e avevo imparato a
riconoscere i segni premonitori. Stavi seduto lì, come
svuotato, mentre la faccia ti diventava rossa come un
peperone. Sempre più rossa, e non dicevi una parola. E poi,
all’improvviso, saltavi su e lo spaccavi, qualsiasi cosa fosse,
lo facevi a pezzi, ci saltavi sopra. E poi venivamo io o papà
a sculacciarti.»
«Già» convenne Hadley. Era una cosa che anche adesso,
dopo tanti anni, capiva solo in modo vago e confuso.
«Chissà perché lo facevo. Tutto a un tratto lo facevo e
basta. Mi veniva voglia di distruggere tutto quello che per
me aveva più importanza.»
«Io credo che tu rompessi tutto ciò che avevi, prima o
poi… Ma alla fine ti passò. Cominciasti a litigare. Picchiavi i
bambini. Ti ricordi quella bambina che colpisti con la
zappetta?»
«Certo» disse Hadley.
«Eri un bastardo. E io mi misi in testa di cambiarti.
Adesso vorrei tanto che fosse allora.»
«È allora» disse Hadley. «È sempre lì, non se n’è andato.
Sento che è ancora lì.» Le sorrise. «Una cosa del genere si
può seppellire, non eliminare del tutto.»
Sally distolse lo sguardo, stringendo le labbra. Per un po
rimase ferma, rigida e silenziosa, senza guardare suo
fratello. Fuori dal séparé voci stridule si scambiavano
banalità in cantonese. Suoni di sedie trascinate, il
registratore di cassa che sbatteva. Da qualche parte un
uomo tossì, si raschiò la gola e sputò rumorosamente.
«Mi dispiace per i tuoi amici» disse alla fine Sally,
tornando a voltarsi verso di lui. «Ho dimenticato di dire a
Bob che venivano anche loro. Lui detesta le persone che si
presentano quando non le conosce.» Abbozzò un sorriso.
«Vorrei che avessi di nuovo la macchina; tu ed Ellen
potreste venirci a trovare. E anche Pete. Caspita!» Il suo
viso tradì tutta l’eccitazione. «Sono così eccitata all’idea di
vederlo! Ti somiglia?»
«Un po’. È presto per dirlo.»
«Come papà?»
«Certo.»
Lei era deliziata. «Sono così felice.» Per un poco rimase
a fumare con gli occhi che si spostarono da lui alle pareti
del séparé, alla foto incorniciata di un cane addormentato
appesa sopra la fila di attaccapanni. «Come sarà?» gli
chiese. «Quando cresce. Ci hai pensato?»
«Sì» rispose Hadley. «Ci ho pensato molto. Sarà
qualcuno… Arriverà da qualche parte.»
«Non pensarci troppo, piccolo» gli disse sua sorella con
voce ansiosa. «Me lo prometti? Mi prometti che penserai a
te stesso? Capisci quello che voglio dire?»
Lui fece finta di no. «Ho tante cose a cui pensare.
Questa faccenda del negozio…»
«Guardami.» Sally allungò la mano e gli spostò la faccia
verso di lei. «Piccolo, la vuoi piantare? Non puoi scaricare
tutto su tuo figlio… non puoi addossargli questo fardello.
Non è giusto… sei così maledettamente giovane. Lo sai
quanto sei giovane? Sei appena un ragazzo, un bambino
con i capelli biondi. Hai ancora tutta una vita davanti.
Potresti essere così…»
«Certo» la interruppe Hadley, senza emozione.
«Tu non vuoi esserlo.» Fu scossa da un brivido. «Eri così
attivo… anche da bambino. Ti ricordi quel piccolo motore
elettrico che hai costruito? E tutti i tappeti e i canestri che
facevi, le cose che fabbricavi. La tua scatola del meccano…
Costruivi sempre qualcosa. E ti piaceva aggiustare gli
orologi!»
Dopo un attimo, Hadley disse: «Sally, mi è successo
qualcosa.»
Lei strinse i pugni. «Sai che cosa?»
Hadley rise. «Ma certo! Non intendevo in quel modo…
come se fosse un incantesimo maligno o qualche malattia
delle ossa.»
Lei lo fissava a disagio. «Che intendi dire?»
«Ho conosciuto una persona.»
«Non dirmelo a puntate… chi hai conosciuto? Tu ed
Ellen vi state separando? Hai conosciuto un’altra donna?»
Sembrava compiaciuta.
Hadley prese un tovagliolo e lo appallottolò. «No, niente
del genere.» Le rivolse un sorriso timido e tirato. «Tu ed
Ellen… pensate subito a una certa cosa. Pensate che
magari me la spasso con qualche cameriera di un
supermercato.»
Sally sorrise dubbiosa. «Piccolo, non me ne importa
niente se ti porti a letto la Vergine Maria. Lo sai… sei tu
che m’importi e nient’altro. Diciamoci la verità… per me
Ellen è una ragazza dolce e di lei penso tutto il bene del
mondo. Ma somiglia a tante altre ragazze con i capelli
castani e grandi occhi sognanti. Ne ho viste a migliaia… Lo
sai, piccolo, se ti trovassi una moglie capace di aiutarti…»
Si strinse nelle spalle. «Non sono affari miei. Ma a te serve
qualcosa di più di…» Gesticolò e gli sorrise in modo
canzonatorio. «Ammettilo… donne così ne trovi dove vuoi…
giusto? Non c’è bisogno che te le sposi. Sei un bel ragazzo,
piccolo. Mi ricordo quello che dicevano di te alcune mie
amiche.» I suoi occhi azzurri si velarono, indolenti, astuti e
femminili, della latente nebulosità del sesso. «Quanto
tempo è passato? Otto, nove, dieci anni… avevi quindici
anni.»
«Sedici.»
«Bugiardo. Lo sai quanti anni avevi… Io ne avevo
quattro quando sei nato. Mi ricordo il giorno preciso.» Alzò
il tono della voce. «Perciò non provare a imbrogliarmi.»
«Non ti ho mai imbrogliato» si limitò a dire Hadley.
«Insomma, non ci sono mai riuscito.»
«E allora non ti azzardare mai ad accusarmi. Non sono
una moralista.» I suoi occhi azzurri danzavano. «Lo sai
come la penso in proposito.»
«Lo so.» Hadley fece una smorfia che voleva essere un
sorriso.
Mentre si accendeva un’altra sigaretta, Sally proseguì.
«Il problema con Ellen è…» Alzò lo sguardo. «Ti dispiace?»
«No.»
«Che può fare per te? Che cos’ha da darti? È dolce,
piccolo, ma a te serve di più. La posta in gioco è troppo
alta… ma non te ne rendi conto? Niente dovrebbe
trattenerti. Tu vuoi una donna che possa lavorare insieme a
te… qualcuna che abbia le tue stesse capacità. Tu ne hai
tante, di capacità.»
«Cristo,» disse Hadley sommessamente «non dipingo
più dai tempi dell’università.»
«Non intendevo solo quello, ma anche quello. Voglio
dire, tu sei una persona unica, piccolo. Ci sono delle cose
sepolte dentro di te. Strati su strati. Hai una tale
profondità… sei complicato. Ellen ti capisce davvero? Lo
vorrebbe, di questo sono convinta.» Sally scoppiò in una
risata argentina. «Sei un maledetto sciocco, piccolo… non
dovresti permettermi di dire queste cose su tua moglie.»
Con gli occhi bassi sul tavolo, Hadley mormorò: «Tu
puoi dire tutto quello che vuoi. O fare tutto quello che vuoi.
Non hai mai fatto una cosa sbagliata in tutta la tua vita.»
«Secondo te.» Sospirò. «Vorrei che Bob la pensasse così.
Secondo lui tutto quello che faccio è sbagliato. Lui ne
gode… se sbaglio diventa ironico, sprezzante. Quando
rompo un piatto o mi scivola una bottiglietta in bagno,
qualsiasi cosa di cui mi renda colpevole. Sul retro ha quel
maledetto laboratorio, con tutte quelle mole e gli
attrezzi…» Si interruppe all’improvviso. «Allora chi è? Non
è una donna? Questo restringe il campo.» Lo fissò
dubbiosa, preoccupata. «Piccolo, per un po all’università te
la sei fatta con quella banda… quando dipingevi. Allora era
giusto, io lo capivo. Ma se sei ancora immischiato con
loro…»
«No» disse Hadley. «È un’altra cosa. Io… ho sentito
parlare un uomo.»
«Da come lo dici sembra quella famosa canzone…
Nature Boy. Dio, che cosa orribile.»
Hadley puntò gli occhi sulla sorella e disse: «È qualcosa
che ancora non capisco bene. Non so in che modo mi
influenzerà… Non l’ho assorbita del tutto. Sento che c’è di
più; ancora sta lavorando dentro di me.»
La faccia di Sally perse quell’aria divertita. «Che genere
di uomo?» Seria in volto si appoggiò allo schienale,
convinta dalla tensione che avvertiva nella voce di lui.
«Parli sul serio?»
«Certo. Lo sai che certe cose per me non hanno mai
avuto senso. Le cose che la gente fa, tutto questo
attivismo… come tuo marito.»
Sally avvampò, risentita. «Piccolo…» Poi alzò le spalle.
«Be’, chi la fa l’aspetti.»
«Non voglio parlare male di lui. Lo rispetto molto, ma
non lo capisco. Non capisco a che serve tutta questa
agitazione, questo correre di qua e di là, questo continuo
lottare. Certe volte me ne sto seduto all’Health Food Store
e osservo la gente che passa sul marciapiede. Sono pazzi!
Ma dove corrono tutti? Sciamano come formiche… Non ha
senso.»
«Ti è sempre piaciuto abbandonarti ai sogni» disse Sally
con un filo di voce. «Sei sempre stato il grande sognatore.
Con grandi idee nella testa, tutte le cose che avresti fatto.
Progetti… Tu sei un venditore nato. Scommetto che fai
innamorare tutte le vecchiette.»
«E adesso lo capisco» proseguì Hadley. «Adesso, quando
li vedo, non ho più dubbi.»
Preoccupata, sua sorella scosse la testa. «Che cosa
capisci, piccolo?»
«Quello che fanno. Dove vanno. Perché stanno lì ad
arrancare.»
«Perché?»
Con le mani strette, Hadley rispose: «Non posso dirtelo
senza che tu ti metta a ridere. Quando lo dico sembra così
dannatamente stupido.»
«Dillo.»
«La fine del mondo sta arrivando.»
Vi fu silenzio. Le mani di Sally tremavano quando scrollò
la cenere della sigaretta. «Che vuoi dire? Parli della
guerra?»
Lui annuì. «Sì, in un certo senso. Ma c’è dell’altro. La
guerra è solo una parte.»
«Però ti riferisci alla guerra. Sei preoccupato per la
guerra.» Sally imprecò con voce roca, furibonda. «Accidenti
a loro… stanno ancora cercando di farti arruolare? Con un
figlio?»
«Non è questo.»
«Che cosa, allora?» Schiacciò con rabbia la sigaretta.
«Intendi dire che hai paura? Cristo, piccolo, ma sei proprio
una donnetta, una femminuccia paurosa. Sei spaventato
dall’idea di finire a brandelli. Piccolo, sei proprio uno
smidollato. Mi fai proprio vergognare di te…» Si controllò,
rabbrividì. «Ma posso capire. Immagino che quando si ha
un figlio da crescere… Mi preoccuperei anch’io. Be’,
vattene da qui, trasferisciti in campagna. Nasconditi. C’è
tanta terra. Comprati una fattoria e coltiva verdure… Ti è
sempre piaciuto. Lascia il paese, vattene in Messico.»
«Non esiste posto che sia sicuro.»
Gli occhi azzurri di Sally avvamparono. «E così è questo
che ti sei immaginato? Che tutti verranno uccisi, e l’unica
cosa che dovrai fare sarà startene fermo ad aspettare? È
questo che stai facendo, semplicemente aspettare che
comincino a cadere le bombe atomiche? Chi diavolo è
quest’uomo?»
Hadley, sempre con gli occhi fissi sul tavolo, rispose:
«Theodore Beckheim. Probabilmente non lo hai mai sentito
nominare.»
«No, infatti.»
«È il capo di un gruppo religioso, la Società dei
guardiani di Gesù. Hanno un movimento sparso in tutto il
mondo. Molti seguaci in Africa.»
«Fanatici religiosi? Holy Roller?»
«Credo di sì, solo che a me non sembra fanatico. Ha
ragione e basta. Come se ci avessi sempre creduto, ma non
fossi mai riuscito a mettere insieme tutti i pezzi. Quando
l’ho sentito sono rimasto quasi inchiodato sulla sedia.»
«Che hai intenzione di fare?» Con un gesto isterico,
Sally raccolse di corsa la giacca e la borsetta, e infilò
l’accendino in una tasca. «Ecco Bob, lo sento che strilla
fuori.» Alzò la voce. «Siamo qui… nel séparé.»
La tenda si aprì e apparve Bob Sorrell, piantato sulle
gambe, la faccia scura e aggrottata. «Perché non avete
lasciato aperta quella dannata tenda, così potevo vedervi?»
chiese.
«Siamo pronti per andarcene» disse Sally con una
vocetta sottile, un po smozzicata. «A meno che tu non
voglia qualcosa.»
«Io?» Bob fece una risata acida. «Andiamo… vediamo di
metterci in marcia.» Diede una pacca sulla spalla di Hadley
mentre lui si alzava dalla sedia. «Quei tuoi amici sono
proprio degli svitati. Dove li hai raccattati? Cristo, quando
ho visto quel vecchio trattore che chiamano macchina…
con quell’aggeggio non percorreranno nemmeno tre
chilometri.» Scoppiò in una risata fragorosa. «E comunque
non è solo il motore, che non funziona.» Strappò il conto
dalle mani inerti di Hadley e si allontanò. «Offro io, amico.»
Raggiunse a grandi passi la cassa, tirando fuori delle
monete d’argento dal portafogli. Si voltò verso Sally e
Hadley, ridacchiò, poi gli fece l’occhiolino.
«Stavolta tocca a me» gridò in mezzo al ristorante
mentre passava accanto ai cinesi che mangiavano in
silenzio. «Ma quando arriviamo a Cedar Groves, Ellen ci
preparerà un pasto come si deve.»

Il vento caldo e pesante della notte turbinava stizzoso


per tutto l’appartamento attraverso le finestre aperte.
Mosche, falene e altri insetti ronzavano e picchiettavano
sulle lampadine, friggevano e poi cadevano sul tappeto
ridotti a frammenti sfrigolanti. In salotto tutti se ne stavano
sdraiati senza fare niente, guardandosi con involontaria
freddezza. Erano le otto e mezza. In cucina i piatti sporchi
della cena erano stati ammucchiati nell’acquaio, sulla
macchina del gas, sul tavolo, sulla credenza. Era stato
ricavato uno spazio abbastanza grande per aprire bottiglie
di gin e tonic e per sistemare i bicchieri. Su un vassoio i
cubetti di ghiaccio si stavano squagliando pigramente;
tutt’intorno cavatappi, pezzi di carta stagnola, pozzanghere
di Gilby Deluxe, scorze di limone.
«Fa caldo» mormorò Sally. «Credo che adesso sia più
caldo di oggi pomeriggio. È così… appiccicoso.»
Dopo un po Ellen disse: «Penso che ci sia più umidità
qui che nella parte della Baia dove abitate voi.»
«Siete maledettamente vicini all’acqua» le fece notare
Bob. «Ogni tanto arrivano zaffate della zona coperta di
giorno dall’alta marea.»
«Cedar Groves è proprio cresciuta da quando ci sono
stata l’ultima volta» osservò Sally. «Quando è stato, almeno
un anno fa, vero? Il Natale in cui siamo stati tutti insieme…
direi anche due anni fa. Comunque allora la città era più
piccola.»
Sally allungò la mano per prendere il bicchiere dal
tavolino. Vi guardò dentro, osservando i pezzetti di limone
che galleggiavano nel gin.
«Aspetta di averlo usato un paio di volte» disse eccitata
a Ellen. «Fa una grandissima differenza. Te lo mandiamo
per posta domani mattina.»
«Di che stai parlando?» le chiese Bob.
«Del frullatore Waring. Quando eravamo in cucina ho
detto a Ellen che le avremmo dato quello da due pinte;
davvero, per noi è troppo piccolo. Così quando torneremo
qui la prossima volta potrà prepararci un bel daiquiri… e tu
non dovrai accontentarti di quello.» Indicò il bicchiere che
suo marito stringeva fra le mani.
Bob Sorrell sedeva di malumore con il suo bicchiere di
gassosa allo zenzero. Quando le cose non erano
esattamente di suo gradimento, non beveva.
Accanto a lui, Sally si era sfilata le scarpe dai tacchi alti
e le calze di nylon. La maglia, il cappello e l’abito che
portava prima adesso erano appesi in camera da letto; si
era messa addosso una camicetta gialla di cordoncino e
una delle gonne corte estive di Ellen. I capelli color miele
erano tirati sulla nuca, e si era tolta quasi tutto il trucco.
Pensosa, soggiogata, se ne stava rannicchiata sul divano
con le gambe nude ripiegate sotto di lei e un braccio pallido
allungato all’indietro. Stringendo il bicchiere con l’altra
mano, gli occhi semichiusi, sbadigliò, sorrise, sorseggiò il
gin e ascoltò distrattamente il sommesso mormorio del
televisore.
Appoggiata alla porta della cucina, Ellen Hadley aveva
lo stesso vestito che aveva indossato per tutto il
pomeriggio. La pelle morbida, molto giovanile, era una
macchia abbronzata nella luce soffusa della stanza. Senza
espressione, con gli occhi vuoti, sorseggiò il suo gin.
Abbassò la mano e toccò orgogliosa suo marito sulla spalla;
Stuart Hadley sedeva stravaccato nella grossa poltrona,
con gli occhi chiusi e la bocca aperta, ignorando il
bicchiere appollaiato sul bracciolo con dentro solo cubetti
di ghiaccio mezzi sciolti che galleggiavano sul fondo.
«È proprio un bell’appartamentino» disse Sally con voce
assonnata. «Ma lo sapete, pagare un affitto significa
buttare i soldi dalla finestra. Noi abbiamo deciso di
comprarne uno… È stato cinque anni fa. Naturalmente,
visto che Bob lavora in campo immobiliare, pagare un
affitto ci sembrava un’eresia. E comunque avete visto casa
nostra, no?» Sbadigliò di nuovo. «Dio, quest’aria calda mi
fa venire sonno…» Schiaffeggiò svogliatamente una
zanzara che le ronzava vicino all’orecchio. «Ho come la
sensazione di stare per addormentarmi del tutto.» Esaminò
il bicchiere. «Non è questo… praticamente è tutt’acqua.»
«Per come la vedo io,» intervenne Bob Sorrell «in dieci
anni di affitto uno ha pagato l’intero costo della casa al
proprietario, dopo di che tutto il resto è guadagno pulito
per il padrone di casa. Se vuoi andare in affitto, alza la voce
su tutto… tinte, tubature, spessore delle pareti, il numero
dei fili elettrici nelle prese…»
«Che sarebbe?» chiese Sally.
«Be’, dovresti avere prese a tre fili. Due non bastano.
Due significa che non c’è la terra, e che può prendere
fuoco. Un inquilino dovrebbe fare il diavolo a quattro su
queste cose. Esigi il rispetto dei tuoi diritti o non arriverai
da nessuna parte. In questo mondo bisogna farsi sentire
bene, ragazzi, perché nessuno lo farà al posto tuo.»
Sally annuì docilmente.
«E l’impianto di condizionamento… niente tubature
centralizzate, niente gas allo zolfo. Troppo pericoloso… i
tubi si spaccano da qualche parte dentro il muro e ci va di
mezzo tutto il palazzo.» Bob picchiettò sulla parete. «Oggi
come oggi questo pannello in cartongesso da quattro soldi
non passerebbe un’ispezione. Ragazzi, stanno diventando
sempre più severi. Quando abbiamo costruito quel palazzo
di dodici piani a East Oakland, quei bastardi l’hanno
controllato palmo a palmo. Ci hanno fatto tirare fuori ogni
cavo, uno dopo l’altro. Abbiamo dovuto riposarli come
dicevano loro, non semplicemente fra le scatole dei fusibili
e gli appartamenti. Insomma, questo posto non passerebbe
un esame nemmeno con il più cieco degli ispettori.»
«Quanto pagate di affitto?» chiese Sally a Ellen.
Ellen si mosse appena. «Cinquantadue e mezzo.»
A questo Bob Sorrell non riuscì più a trattenersi.
«Quanti appartamenti ci sono in questo palazzo? Diciotto?
Si può immaginare un entrata lorda di almeno novecento
dollari al mese. Naturalmente se sono tutti affittati. Questo
è il grosso rischio degli investimenti in campo immobiliare:
se cinque dei tuoi appartamenti come questo rimangono
sfitti, ci rimetti. Questa gente cerca la strada più facile:
alza il costo dell’affitto, strappa qualche dollaro in più a
ciascun inquilino e alla resa dei conti si ritrova con mezza
dozzina di appartamenti vuoti. E alla fine dell’anno si
chiede come mai sia in perdita.»
«Raccontagli di quel posto giù a San Jose» disse Sally.
«Quell’affare che abbiamo fatto con le case popolari.»
La faccia di Bob rispose con una deprimente intensità.
«Ecco, il governo aveva preso in affitto quelle terre da
investitori privati. Per un periodo di dieci anni, per
costruirvi alloggi popolari da destinare a coloro che ci
lavoravano quando c’era la guerra. Adesso i dieci anni sono
passati e gli investitori rivogliono indietro le loro proprietà
per costruire qualcosa di duraturo. Si sono messi a strillare
come galline.»
«Quegli alloggi del tempo di guerra sembrano fatti di
cartone» gli confidò Sally. «Siamo andati a vedere, e le
pareti sono tutte crepate… puoi passare da una parte
all’altra solo prendendole a cala.»
Bob continuò inflessibile, con la voce aspra e forte che
rimbombava nella piccola stanza. «Ho fatto un’offerta per
gli arredi… era tutta roba del governo. Gli inquilini, per lo
più neri e braccianti che venivano dal sud, non avevano
lasciato altro che le scarpe… quando le avevano. Cristo,
ognuno di quei palazzi comprende sei appartamenti… il che
significa sei frigoriferi, sei macchine del gas, sei divani, sei
letti matrimoniali, sei armadi e via dicendo. Sei
appartamenti di tre camere pieni di mobili. Naturalmente i
palazzi sono stati condannati. Hanno dato a tutti sessanta
giorni per lasciarli, poi li hanno delimitati con un cordone e
hanno cominciato ad abbatterli. C’era una settimana per
portare via tutti i mobili… abbiamo fatto un’ultima offerta
di settantacinque dollari.»
«Per quanti palazzi?» chiese Sally in un bisbiglio. «Non
erano cinquanta o sessanta?»
«Cinquantasette.» Bob si mise a giocherellare con il suo
bicchiere di gassosa. «Non ci furono altre offerte. Ci siamo
accaparrati i mobili di trecentoquarantadue appartamenti
di tre camere per settantacinque bigliettoni.» Sogghignò e
scosse la testa ossuta, sempre eccitato da quella storia. «La
merce che non riuscivamo a vendere ai mercatini dell’usato
la riutilizzavamo per arredare gli appartamenti dei nostri
palazzi. Ragazzi, quello sì che è stato un affare. Là dentro
c’erano mobili per un valore di ventimila dollari.»
Senza fiato, rossa in faccia, Sally disse: «Bobby, che ne
dici di quel posto… sai di che cosa parlo. Non credi che gli
piacerebbe? E mio fratello potrebbe fare il pendolare; non
c’è un treno che arriva diretto da lì? O magari potrebbe
venire in macchina.» Si volse ansiosa verso Hadley. «Una
macchina te la devi fare comunque.» Poi tornò a voltarsi
verso il marito e proseguì: «Che ne pensi? Sta andando in
rovina, ed è un posto magnifico.»
«No» la contraddisse Bob con decisione. «Non
funzionerebbe. Certo, sembra a posto, ma quando metti
mano alle fondamenta e vedi quello che c’è sotto…» Fece
un rumore schifato, una specie di pernacchia che non
ammetteva repliche. «No, quello va bene per un
investimento a breve termine, ma quello che loro vogliono è
qualcosa di permanente.»
Le labbra rosse di Sally si piegarono in un broncio
contrariato e deluso. «Per me è perfetto. Proprio la
dimensione giusta… una camera da letto per loro e una per
Pete. E potremmo andarli a trovare quando vogliamo;
passando attraverso il ponte a pedaggio di San Mateo ci
metteremmo un attimo.» Sempre rossa in faccia, si avvicinò
a Ellen e Stuart. «È una casetta deliziosa a Mount Eden. La
compagnia di Bob l’aveva venduta a della gente, ma questi
si sono rivelati inadempienti. In un certo senso adesso
appartiene a Bob. Voglio dire, possiamo sistemare tutto dal
punto di vita amministrativo, fare un contratto vero e
proprio… ci siamo capiti. Potete averla per quasi niente.
Credete che vi piacerebbe?»
Bob alzò la voce. «Ti ho detto che non va bene. Ha
bisogno di fondamenta nuove… per la miseria, è
semplicemente appoggiata su un blocco di calcestruzzo!»
«Be’,» gridò Sally di rimando «potrebbero sistemarla!
Togliere il calcestruzzo e metterci una bella base solida!»
«È inutile mettersi a discutere con una donna» disse
Bob, chiudendo l’argomento. «Non farti prendere
dall’eccitazione» aggiunse rivolto a Hadley, come se
quest’ultimo avesse detto qualcosa. «Resta coi piedi per
terra… Ti andrà meglio la prossima volta.» Piantò gli occhi
freddi e maligni su Stuart e proseguì: «Più che una casa a
basso costo dovresti procurarti un’automobile decente. Con
una bella sportiva potresti andartene dove ti pare. Cristo,
nei fine settimana noi arriviamo tranquillamente fino a
Sonora… In autostrada la Nash raggiunge tranquillamente
i centotrenta. Va che è una meraviglia.» Disegnò un
ghirigoro nell’aria. «Ti sembra di stare su una nuvola.»
Sally piegò la testa, con i riccioli biondi che si agitavano
nel brivido palese di un compiaciuto divertimento. «Bob è
vicesceriffo a Napa County. Hai visto la luce rossa sul retro
della macchina… e ha la sirena.»
Dopo un attimo Ellen disse, con voce tirata: «Che cos’è
che ti crea più problemi, Bob… i ladri di bestiame?»
Bob la fissò per niente divertito. «I ragazzini che rubano
le macchine» rispose. Si appoggiò al divano e si lanciò in
un’altra delle sue storie. «Ho pizzicato una coppia di
pachucos5 che si aggiravano in modo sospetto intorno alla
mia Dodge… ti ricordi la Dodge azzurra che avevamo lo
scorso Natale? Sally e io eravamo al cinema, su a Napa.
Siamo usciti − era circa l’una e mezza − e c’erano quei tipi
intorno alla macchina.»
«Lo sai come fanno» intervenne Sally. Si ingobbì,
imitando la posa dinoccolata di un adolescente. «Con le
mani in tasca. Bob aveva appena fatto lucidare la Dodge…
Oh, era bellissima. Bianca sui lati, doppi fari… tutto.»
«Sentivo la puzza di quei pachucos da un chilometro di
distanza» riprese Bob, implacabile. «Be’, avevo in mano un
bel po di monetine… per pura combinazione.» Fece un
ghigno sarcastico, crudele. «Uno di loro mi si avvicina e mi
chiede: ‘E se ci dessi un passaggio fino in città? Volevano
venire con noi, che fossimo d’accordo o no.»
«Bob lo ha colpito dritto in mezzo agli occhi» non seppe
trattenersi dal dire Sally. «Il ragazzo è caduto giù come un
sacco di patate. Gli altri sono rimasti lì a guardarlo come
istupiditi. Nessuno di loro si muoveva, stavano immobili a
fissarlo. Poi siamo saliti in macchina, Bob ha fatto marcia
indietro e ce ne siamo andati.»
Bob rise forte, una risata secca, simile a un latrato.
«Cavolo, quando abbiamo svoltato l’angolo stavano
portando via quel figlio di puttana… strusciava sul terreno,
lo trascinavano tenendolo sotto le ascelle. Amico, era
proprio fuori combattimento. E lo sarebbe rimasto a
lungo!»
La stanza rimase silenziosa per un po’, a parte il ronzare
degli insetti e il mormorio del televisore.
Stuart Hadley si alzò lentamente in piedi, appoggiandosi
alla poltrona. Appariva stanco, completamente prosciugato
dalla calura della serata di luglio. Si mosse barcollando per
la stanza, strascicando i piedi a passi brevi e irregolari, con
il corpo irrigidito che non ne voleva sapere di rispondere.
Ellen lo seguì con lo sguardo, preoccupata.
«Stu,» gli disse «dove vai?»
Hadley si fermò davanti alla porta della camera da letto
e si girò verso di lei. Era pallido in faccia, e un po gonfio, e
aveva gli occhi chiusi. Sbatté le palpebre, tossì, e tornò a
voltarsi verso la camera da letto. «Vado a vedere come sta
Pete» borbottò.
«Dorme» disse Ellen. «Ho controllato poco fa.»
Hadley non replicò. Scomparve in camera da letto e
richiuse piano la porta dietro di sé.
La camera era buia e abbastanza fresca. Sull’armadio
nell’angolo il ventilatore elettrico emetteva un ronzio
gracchiante e mandava un soffio di aria irregolare per tutta
la stanza. Hadley rimase fermo per un po’, abituandosi
all’oscurità.
Peter Hadley dormiva profondamente nel lettino.
Respirava forte e russava nervosamente, con la pelle
appiccicosa per il sudore, e chiazzata di rosso per il caldo.
Si agitava, si dimenava, si rigirava sul fianco e continuava a
russare senza svegliarsi. Era un bel bambino, sano e
robusto. Quando Hadley gli si avvicinò e si chinò a
guardarlo sentì un leggero odore di latte inacidito.
Dal salotto giungeva il suono secco e brutale della voce
di suo cognato. Come un martello che picchiasse su un
incudine la voce vibrava attraverso le pareti − pareti sottili
− fino in camera da letto. Bob Sorrell rise, alzò il tono,
parlò a Sally, a Ellen. Hadley, in piedi nell’ombra accanto al
lettino di suo figlio, sentì il suo nome pronunciato da
quell’uomo. Sorrell voleva sapere dove fosse andato e che
cosa stesse facendo. Doveva trovare una giustificazione per
il suo comportamento. Da un momento all’altro Sorrell
poteva alzarsi in piedi e raggiungerlo rumorosamente in
camera da letto.
Si domandò che cosa fare. Pensò di dire a Sorrell di
andarsene… di dirlo a tutti e due. Ecco: a tutti e due, anche
a sua sorella. Come era arrivato a quel punto? Cercò di
ricostruire gli eventi; quando gli era venuto per la prima
volta il pensiero, quand’è che aveva avuto il primo sentore
che dovessero andarsene entrambi, e non solo Bob? Non
riuscì a scoprirne l’origine; il pensiero era spuntato dal
nulla in un momento non precisato. E una volta entrato
nella sua mente non c’era modo di rimuoverlo. Non poteva
evitarlo, ne era responsabile. Desiderava liberarsi di
entrambi, desiderava con tutto il cuore che se andassero,
che tornassero a casa lungo la costa a bordo della grossa
Nash verde, per non tornare mai più finché vivevano.
La porta si aprì. Ellen scivolò nella penombra, richiuse
piano la porta dietro di sé e corse verso di lui. «Per l’amor
del cielo» disse con voce rauca «Che ci fai qui dentro? Te
ne stai lì impalato… Pete sta bene?»
«Certo» rispose Hadley.
«Allora che c’è?» La contrarietà e la preoccupazione le
segnavano la faccia. «Tesoro, devi tornare di là, non puoi
nasconderti qui dentro.»
Hadley alzò la voce, infuriato. «Non mi sto
nascondendo! Ho tutto il diritto di venire qui a vedere come
sta mio figlio.»
«Non puoi andartene e lasciarmi sola con loro.» Il volto
di Ellen si irrigidì, divenne freddo. «Non li sopporto e non
ho intenzione di farmi carico di tutto il peso della serata. È
tua sorella, non la mia. Farò la mia parte, starò al gioco…
ma non da sola. Mi capisci?»
«Va bene» concordò Hadley. «Va bene, torniamo di là
prima che Bob sfondi la porta.» In salotto continuava a
rimbombare e a riecheggiare la voce forte di suo cognato.
«Come ha potuto sposarlo?» si domandò Hadley, impotente.
«Come ha fatto a immischiarsi con un uomo come quello?»
«A lei sembra un uomo meraviglioso» disse Ellen in tono
scherzoso.
«Non ha senso.» Hadley si mosse a casaccio nelle
penombra della stanza, diretto verso la porta. «Ogni volta
che lo vedo… è sempre lo stesso. È sempre stato così, lo
era anche prima che si sposassero: rumoroso e volgare.»
Ellen lo prese per un braccio. «Tesoro, dovevi
aspettartelo. Lei ha la sua vita… e noi la nostra. Buon Dio,
ha quasi trent’anni. È di una generazione diversa dalla
nostra; che abbiamo in comune con loro? Guardali… ci
trattano come se fossimo bambini, con sufficienza, ci
dicono quello che dobbiamo fare…»
«Gliel’ho detto» la interruppe Hadley.
«Detto che cosa?»
«Della Società.»
Per un attimo Ellen rimase perplessa. «Intendi la storia
dei guardiani? Di quel Beckheim?»
«E lei si è messa a ridere.»
«No» disse Ellen con foga. «Stuart, non ci credo. Adesso
sei sconvolto e confuso, come un bambino che fa i capricci.
Torna in salotto… dico sul serio, io non so proprio che fare
con te.» Poi, in tono più rilassato: «Ci rendi tutti così
infelici… E poi ti stupisci se Sally non ti capisce? Non puoi
aspettarti che…»
«È colpa di Bob» tagliò corto Hadley. «Sally prima non
era così. Lui è una scimmia, non è umano. L’hai sentito
come si vantava di aver picchiato quel ragazzino
messicano? Un adolescente grosso la metà di lui. È un
mostro… e lei lo trova meraviglioso! Avresti dovuto vedere
come ha trattato Dave e Laura… è stato orribile.
Praticamente li ha sbattuti fuori, li ha costretti ad
andarsene.»
Ellen si affrettò a prenderlo sottobraccio. «Be’, lei non è
così sciocca. È riuscita ad agganciare il proprio vagone a
un treno vincente; è il minimo che si possa dire di lei. Non
è sciocca per niente, tesoro.»
Hadley si liberò con uno strattone. «Hai sentito che ho
detto? Gliel’ho raccontato e lei si è limitata a scuotere la
testa. Pensavo che avrebbe capito… pensavo che fosse una
persona con cui potermi confidare, e invece si è comportata
come tutti gli altri. Un mucchio di stupide parole, di
osservazioni sensate.»
Con un profondo dolore che le accecava gli occhi, Ellen
replicò: «E così quella persona ti ha deluso? Mi dispiace. È
brutto, vero? I tempi sono cambiati, non puoi più adagiare
la testa nel suo grembo.»
«Che intendi dire?»
«Andiamo,» disse Ellen «possono sentirci; usciamo
fuori. Ne parleremo più tardi.»
«Io voglio parlarne adesso!» Le sbarrò la strada. «Che
vuoi dire?» L’afferrò per le spalle: le flebili luci della sera le
illuminavano appena il viso minuto, gli occhi grandi e scuri,
lucidi di lacrime, le labbra socchiuse, il mento che tremava.
«Dannazione…» Stava quasi urlando. «Tu ne sei felice!»
«Certo che ne sono felice. Tesoro, sono così felice che
ho voglia di gridarlo a squarciagola.» Ellen fece un
disperato tentativo di sorridere; le lacrime le scivolarono
lungo le guance e gocciolarono sulla camicetta bianca
inamidata. «Lei è il suo dannato frullatore Waring. Mi darà
quello vecchio, quello piccolo, quello che non possono
usare perché per loro è insufficiente. E ci procureranno una
casa, così potremo andarli a trovare tutte le settimane…
potremo sorbirci la nostra razione settimanale di istruzioni
e consigli. Così potranno guidare le nostre vite, dirci quello
che dobbiamo fare, così come lei ha sempre detto a te che
cosa fare della tua vita. A te non importa, tu pensi che sia
una bella cosa… ma a me importa! Non sarà quella tua
maledetta sorella a dirmi come portare avanti la casa e
come vivere la mia vita…» Gettò le braccia al collo di Stuart
e lo strinse a sé, affondando disperata la testa sul petto,
quasi soffocandolo con i soffici capelli castani. «Perché
diavolo non vieni a raccontarle a me, le tue storie? Io ti
capirò… anche se non capisco. Se tu lo vuoi, è quello che
voglio anch’io. Io sarò con te; pregherò e mi rotolerò sul
pavimento, qualunque cosa… È di te che m’importa.»
Pete si era svegliato nel lettino, per il rumore delle loro
voci. Cominciò a piangere furiosamente, in modo stridulo; il
suo pianto divenne quasi un urlo assordante. In salotto
Sally e Bob si alzarono e corsero ansiosi verso la camera da
letto; Bob bussò rumorosamente alla porta e tuonò: «Cristo,
ma che succede là dentro?»
Hadley afferrò sua moglie. «Non sopporto che parli di
lei in questo modo. Vattene da qui, se hai intenzione di
parlarne male.»
«Nemmeno per sogno!» Ellen si mise a singhiozzare.
«Questa è casa mia… non ho nessuna intenzione di
andarmene e tu non puoi cacciarmi. Per anni ti ho sentito
parlarne… e non ne posso più di sentirlo. Sono arrivata al
limite… ho sopportato tutto il sopportabile.» Si liberò dalla
stretta. «E non trattarmi così.» Le lacrime scorrevano
copiose, la camicetta era rigata da grosse chiazze bagnate.
«E non ti azzardare mai più a prendermi in quel modo.»
Hadley dovette urlare per superare le grida del
bambino. «Non accetterò questo né da te né da chiunque
altro. Avessi solo la metà della classe che ha lei… se solo le
somigliassi minimamente…» Gli si strozzò la voce per
l’emozione. «Tu non sei degna nemmeno di pronunciare il
suo nome. Non sei altro che una scopata facile! Ecco quello
che sei, ha ragione lei… sei solo una da portarsi a letto!»
Sconvolta, terrorizzata, Ellen lo fissò senza quasi
riuscire a parlare. «Ti prego, non dirmi queste cose.» Si
guardò intorno pateticamente in cerca di aiuto, e la sua
voce si ridusse a un bisbiglio. «Stuart, per favore, non farlo
più. Per favore!»
Lui la afferrò di nuovo e la strinse a sé fino a farle
scricchiolare le vertebre. «Non ce la faccio più» disse in un
rantolo. «È finita. Me ne vado… mollo tutto.»
«No» disse Ellen, senza più forze per lo spavento.
«Dimentica quello che ho detto, lascia perdere. Ti prego,
lascia perdere… scusami.»
La faccia di Hadley divenne di un brutto rosso acceso.
Preoccupata, Ellen si ritrasse mentre lui la lasciava. Era
un’espressione che aveva già visto prima: la temeva più di
qualsiasi altra cosa al mondo. Lui stava per fare qualcosa,
lo sapeva. Quell’espressione significava sempre qualcosa,
senza volerlo portò in alto il braccio a protezione della
faccia. Una volta, solo una volta, l’aveva picchiata. Ma era
stata lei a colpirlo per prima, e poi lui l’aveva presa a
schiaffi. Subito dopo si era seduto sul divano ed era
scoppiato a piangere come un bambino, e lei aveva tentato
di consolarlo. Poi Hadley si era rialzato e le aveva dato un
pugno su un occhio. Ma adesso non stava per fare questo,
stava per andarsene. Desiderò forsennatamente che la
colpisse, voleva che la picchiasse. Qualsiasi cosa era meglio
che lasciarlo andare, perderlo per sempre.
«Non farlo» ansimò, mettendosi fra lui e la porta.
Adesso pregava che la colpisse. «Non lascerò che te ne
vada, non puoi andartene.»
Le labbra di Hadley si contorsero. Alzò le braccia in un
gesto convulso; Ellen vide i gomiti sollevarsi, duri e aguzzi,
un triangolo di ossa dentro il morbido tessuto delle
maniche. Poi, tutto a un tratto, lui grugnì e scattò
all’indietro, con la mano che annaspava in cerca della
maniglia. «Abbi cura di te stessa» disse ambiguamente.
«Spassatela. Ti scriverò.»
In quel momento Sally spalancò la porta ed entrò nella
camera da letto buia. «Santi numi, volete farvi sentire da
tutto il vicinato? Venite fuori da lì…» Li costrinse
bruscamente a tornare in salotto. «Adesso baciatevi e fate
pace.» Poi tagliò corto e guardò l’orologio. «È ora che ci
muoviamo; dobbiamo andarcene prima delle dieci.»
Bob si era voltato e stava passeggiando in cucina. «È
possibile avere del caffè fresco?» Cominciò a frugare negli
armadietti sopra il lavello. «Ellen, dove diavolo è la tua
Silex? Non ho intenzione di mettermi in autostrada senza
un po di caffè bollente che mi tenga sveglio.»
Per un breve istante, Stuart e sua moglie si presero per
mano, poi Hadley si allontanò. «Ci vediamo dopo» disse.
«Dove vai?» chiese timorosa Ellen, correndogli
appresso. «Ti prego… portami con te! Non m’importa dove
vai; posso venire anch’io?»
«Vado da Dave» disse Hadley sulla soglia di casa.
«Qualcuno dovrà scusarsi con loro.»
Ellen, che non riusciva a trattenere le lacrime, lo
trattenne. «Stuart, ti prego, fammi venire con te. Ho paura
che non tornerai.»
«Devi rimanere con Pete.»
«Lo portiamo con noi.»
Hadley fece una risata stridula. «A piedi? Non abbiamo
la macchina, te lo ricordi?»
Sulla porta della cucina, Bob Sorrell stava in piedi con
la Silex in mano, il volto largo che tradiva tutta la sorpresa.
Mentre apriva la porta per uscire, Hadley vide lo stupore di
Bob trasformarsi in un rabbioso risentimento. Poi la porta
si richiuse alle sue spalle; era fuori, nella penombra afosa
del corridoio.
Corse verso le scale e le discese a due a due, con le
mani sulla ringhiera. Attraversò al volo l’atrio, uscì dalla
porta aperta e si ritrovò sul largo marciapiede di cemento.
L’aria notturna era fresca e limpida. Ne inalò una boccata,
ebbe un attimo di esitazione, poi si diresse a buon passo
verso la casa dei Gold.
Per un tempo che gli sembrò infinito percorse le strade
calde e buie con le mani infilate nelle tasche, rimuginando
e cercando di riordinare i pensieri.
Già si stava pentendo di quello che aveva detto a Ellen.
Attraversò la strada, oltrepassò squallide sale da
biliardo, bugigattoli di lustrascarpe, bar e alberghi da
quattro soldi. Si stava avvicinando alla zona in cui
abitavano i Gold. Affrettò il passo.

La Laura Gold che gli aprì la porta era calma e


trattenuta. «Ciao, Stu» disse con una voce così debole che
lui riuscì appena a sentirla. «Entra pure e prendi un po di
vino.»
Simile a budino andato a male, Laura ciabattò per la
stanza e andò a buttarsi su una poltrona. Hadley rimase
titubante accanto alla porta, dandosi una sistemata. C’era
gente. Dave Gold, seduto alla scrivania, fumava con aria
immusonita e lo stava guardando; due bambini e una donna
magra in pantaloni sportivi e camicia a quadretti.
«Come sta il pittore?» gli chiese la donna magra.
Hadley era confuso. Fece per guardarsi dietro, poi si
rese conto che la donna si era rivolta a lui. La riconobbe:
era Marsha Frazier. In mezzo alla stanza c’era un
bottiglione di vino rosso appoggiato su un tavolino basso,
insieme a dei bicchieri, un sacchetto di patatine fritte, un
malloppo di formaggio blu con un coltello infilato dentro,
una scatola di biscotti lievitati con bicarbonato e un vasetto
di burro di arachidi. Il ragazzo se ne stava raggomitolato in
fondo al vecchio divano malconcio dei Gold, immobile e
annoiato, con la testa affondata in un giornale. Poteva
avere nove anni, e indossava jeans scoloriti, scarpe da
tennis e una T-shirt. Come Marsha, aveva i capelli tinti di
un color rosso ruggine. Una bambina sui tre anni con un
abitino sportivo dormiva profondamente su una poltrona
nell’angolo.
«Sono i suoi figli?» chiese Hadley alla donna.
«Non conosce la mia progenie?» Marsha fece un cenno
della testa in direzione del ragazzo. «Quello è Timmy.»
Il ragazzo si illuminò per un attimo. «Ciao» tuonò con un
vocione, per poi tornare al suo giornale.
Marsha indicò la bambina che dormiva. «Quella è Pat.»
Sollevò il bicchiere di vino e lo bevve assorta, con gli occhi
puntati su Stuart Hadley che stava cercando goffamente un
posto per sedersi.
Fu Dave a parlare. «Marsha ci ha riaccompagnato a
casa.»
«La Cadillac si è rotta» disse Laura con voce fiacca,
ancora segnata dallo shock. «Abbiamo percorso solo
qualche isolato e poi abbiamo dovuto lasciarla; abbiamo
preso un autobus che ci ha portato a casa di Marsha,
dall’altra parte della città.»
Marsha Frazier era alta, angolosa; aveva la faccia
ossuta, con profonde rientranze. Non era truccata. Aveva
gli occhi grigi, la pelle cosparsa da qualche lentiggine. In
lei c’era una desolazione ascetica… ma Hadley la trovò lo
stesso attraente. Linee pulite: il suo corpo era agile come
quello di un ragazzo, schietto e semplice come quello di suo
figlio. Un corpo disadorno, senza inutili sporgenze di carne.
Le braccia, sotto le maniche arrotolate della camicia, erano
ossa e muscoli, prive di morbidezza. Le mani erano forti e
capaci. Come l’altra volta, la conversazione si muoveva
attorno a lei: ne era il fulcro naturale. Sia Dave che Laura
erano sprofondati nel loro apatico silenzio, forzati a una
stoica accettazione.
«È la sua coupé quella parcheggiata qui davanti?» le
chiese Hadley. «Quella Studebaker grigia?»
Marsha annuì. «Ha bisogno di una lavata.»
«È una macchina molto bella.»
«Va bene» ammise lei. «Ma non ha molta potenza. Ed è
facile vedere al di fuori… il retro dell’abitacolo è quasi tutto
di vetro.»
«Lo so» disse Hadley. «L’ho guidata. Bella macchina.»
«La Cadillac non si può aggiustare» disse Laura con
voce sgomenta. «Credo che dovremo rottamarla. Ci faremo
venti dollari.» Poi aggiunse: «È parcheggiata sulla Mission.
Ma tanto penso che domani la polizia di San Francisco la
rimuoverà.»
«Che peccato» esclamò Hadley. Cercò di dirlo
esprimendo il proprio dispiacere, ma la sua partecipazione
alle sventure dei Gold stava rapidamente scemando. Le loro
facce scure e sgradevoli gli suscitavano repulsione. Due
folletti, pensò. Folletti con la voce cavernosa, grandi piedi e
mani a badile. Ispidi e bitorzoluti, come nelle favole. Aveva
già perso ogni interesse in loro; la sua attenzione era
adesso tutta rivolta verso la donna magra dagli occhi grigi.
Si versò un po di quel vino da quattro soldi. «Perché mi
ha chiamato pittore?» le chiese.
«Glielo abbiamo detto noi» intervenne Laura. «Le
abbiamo detto dei tuoi quadri… lo sai.»
«È un bel po di tempo che non dipingo più niente» disse
Hadley. Ma questo lo fece sentire strano; scoprì di poter
facilmente pensare a sé stesso come a un pittore. «Lei
dirige una rivista?» le domandò. «È il direttore di
Succubus?»
«Proprio così» rispose Marsha con la sua voce atona da
contralto. Una voce razionale, decisa, efficiente e sicura di
sé stessa. «Ma noi siamo come lei… sono sei mesi che non
pubblichiamo una copia.»
«Come mai?»
«Niente soldi.»
Vi fu una pausa mentre tutti pensavano al denaro. I Gold
apparivano vuoti, inutili. Timmy, con le ginocchia tirate su e
il giornale in grembo, un trimestrale d’arte, era del tutto
disinteressato. Probabilmente era abituato a vederseli
intorno, così come Stuart era cresciuto con la rivista
ufficiale dell’Associazione dei medici americani.
Fuori dall’appartamento, oltre i riquadri bui delle
finestre aperte, le macchine strombazzavano e i semafori
cambiavano colore. L’odore pesante della Baia filtrava
dentro, unitamente a quello della gomma consumata e
dell’olio bruciato. Nell’appartamento accanto si sentiva la
radio che strepitava qualcosa. Rumore di passi soffocati
proveniva dal piano di sopra. La stanza stessa, ingombra di
libri e riviste, aveva un pesante odore di polvere, di cibo
andato a male, di sporcizia e avanzi.
«Quanto costa pubblicare una rivista?» chiese Hadley.
Marsha sorrise; i suoi denti, come i capelli, la pelle e gli
occhi, avevano una tonalità che era una via di mezzo: non
scintillanti, non metallici. Come se fossero composti di
legno e ossa, strofinati e invecchiati con una finitura opaca,
avevano la sbiadita ruvidezza del legno levigato dal mare.
Nel suo corpo c’era una solida qualità terrena; a dispetto
della magrezza, del volto piccolo e delle braccia esili, lei
appariva forte. «Dipende» rispose «da quale tipo di rivista
si vuole pubblicare. Il SEP, per esempio, costa centinaia di
migliaia di dollari.»
«Che sarebbe?» chiese Hadley.
«Il Saturday Evening Post. Noi non abbiamo grandi
entrate; qualcosa rimediamo dalle confraternite
universitarie, e un migliaio ogni tanto dalla Fondazione
Ford.» Fece una smorfia amara. «Ma li abbiamo persi…
niente più da loro.»
Hadley si domandò se dirle che non aveva mai visto una
rivista di nome Succubus. Cercò di immaginare che aspetto
avesse. Ricordava il trimestrale letterario dell’università;
probabilmente doveva essere una cosa simile: pagine
regolari e asettiche di poesie e prose, senza titoli in lettere
maiuscole sulla copertina, e il nome stampato con caratteri
moderni. Carta pesante, bianca e porosa. Cinquanta
centesimi. Composto in prevalenza da saggi su Capote,
Proust, Gide, Willa Cather. Niente pubblicità, a parte forse
quella di qualche occasionale libreria.
La stanza era tranquilla, troppo tranquilla per
conversare o per pensare. Hadley si rilassò, rasserenato, si
appoggiò allo schienale e bevve il suo vino. Nessuno
parlava. La tensione era svanita, come la domenica
pomeriggio sulla panchina di un parco: non c’era pressione
del tempo né lotta o ambizione. La stessa Laura, di solito
portata a straparlare, non aveva niente da dire,
l’esperienza vissuta in quella giornata l’aveva privata della
volontà. I Gold si erano imbattuti in un muro di mattoni che
aveva la forma di Bob Sorrell. La sua grande, brutale
crudeltà li aveva ridotti all’impotenza. Non avevano
protestato, non avevano reagito. Messi di fronte al fatto
avevano ceduto di schianto, afflosciati sotto il peso
massiccio della sua indifferenza. Bob Sorrell era il tipo che
calpestava gente come i Gold, e loro erano incapaci di
ripagarlo con lo stesso trattamento. Sotto la loro scorza, un
continuo di chiacchiere e gesticolare, c’era una gentilezza
che era facile mettere a nudo. Come Hänsel e Gretel, erano
stati attirati con la lusinga nel mondo e poi
sistematicamente annientati. La disorientata piattezza dei
loro sguardi era rannuvolata dallo stupore; ancora non
comprendevano come avessero, fatto a lasciarsi
strapazzare, mettere da parte, scaricare e comandare in
quel modo. Erano stati trattati come oggetti inorganici, la
loro fondamentale umanità era stata ignorata. In loro non
c’era reazione, non c’era adattamento. Messi di fronte alla
brutalità erano semplicemente morti.
Ma Hadley si rilassò e si godette quel vuoto. L’assenza di
parole pronunciate troppo forte lo cullava; era riconoscente
per il silenzio di Laura. E la tranquillità che dimostrava
Marsha Frazier non era lo stupore sgomento dei Gold. La
sua compostezza proveniva dalla fiducia, non dalla paura.
Lei era nel pieno controllo della situazione, era il suo modo
di vivere.
«Come pittore» disse la donna «dovrebbe essere
interessato ai materiali. Inchiostri e carte… Abbiamo
sperimentato diversi procedimenti e siamo piuttosto
interessati ai nuovi metodi di riproduzione tipografica.»
Hadley annuì. Il suo assenso faceva parte della finzione
che sapeva in essere: Marsha era perfettamente
consapevole che lui non era un pittore, ma aveva scelto di
parlare di lui come se lo fosse. Ne era compiaciuta, e a lui
spettava reggere il gioco. E la cosa lo trovava d’accordo;
sorpreso, notò quanto lo facesse sentire diverso. E proprio
quello, forse, era il motivo della finzione. Scaltra, attenta,
lei lo stava creando. Quello che diceva lo colpiva, lo
cambiava; con poche semplici parole era riuscita a
rimodellare nettamente Stuart Hadley.
«Vogliamo» proseguì lei «impegnarci di più in quelle
xilografie… con i blocchetti di legno. Che rallentano la
velocità di stampa e il numero di riproduzioni. Ma…» di
nuovo quel sorriso sottile, senza colore né spirito «…non
abbiamo mai nemmeno cominciato a vendere quello che
stampiamo. Non abbiamo mai avuto quel problema.»
In un angolo della scrivania, Dave Gold sbuffava fumo
dalla pipa, fissava il pavimento e ascoltava ciò che veniva
detto. Il suo corpo morbido e floscio, informe
nell’abbondante vestito di tweed, pesante e mal stirato,
invitava all’attacco. Una lumaca indifesa da calpestare.
Dave Gold completava l’unità di cui Sorrell era l’altra parte.
Colui che colpisce e colui che viene colpito. Nei Gold c’era
una certa qualità esasperante: che parlassero e stessero
zitti, stimolavano ostilità.
Hadley era venuto a casa loro per scusarsi. Aveva
pensato di esprimere loro il suo rammarico, la sua
vergogna per quanto era successo. Adesso, al contrario, era
arrabbiato. Invece di essere contrito, provava lui la
sensazione di essere offeso; all’improvviso si convinse di
essere venuto proprio per completare ciò che aveva
cominciato Bob Sorrell. Dave e Laura lo fissavano, muti,
aspettando che gli infierisse il colpo di grazia. Tutte le
conversazioni a voce alta di un tempo erano diventate
stimoli a reagire; i due se ne stavano seduti in casa loro,
preparati a subire ciò che li aspettava.
Ma Hadley non disse nulla. Si limitò a ignorarli e a
parlare con Marsha Frazier. Ricordava quello che avevano
detto di lei, e ne fu divertito. A loro non piaceva. Il suo
divertimento aumentò. Per un po non si sentì più malato e
infelice, si stava rianimando. Di fronte a quella donna
magra, sicura di sé, aveva riguadagnato la virilità, rimesso
le penne. Marsha si interessava di lui… Poi gli venne in
mente di chiederle dei due bambini.
«È tutta opera sua?» le domandò. «I due bambini,
Timmy e Pat.»
Lei rise. «Partenogenesi? No… sono divorziata. Ero
sposata con un maggiore dell’esercito.» Poco dopo
aggiunse: «Durante la seconda guerra mondiale.»
Stuart Hadley studiò i due bambini e capì che quanto gli
aveva detto Marsha non era vero. La bambina, Pat, poteva
avere tre anni al massimo, e la guerra era finita da oltre
sette. Però gli sembrava giusto così. Si adattava alla
rilassatezza dell’ambiente: la verità era stata dissolta dalla
soddisfazione. L’artista in lui, il sognatore, il venditore, tutti
rispondevano allo stesso modo. Il bambino bugiardo che
faceva grandi progetti per il futuro risalì in superficie e gli
si adagiò sopra, di nuovo, come una familiare pelle calda.
Tutto in Stuart Hadley rispondeva a questa geniale
flessibilità, dove il piccolo diventava grande, e il grande
incredibile. Riconoscente, cominciò a scivolare all’indietro
a un’età più felice, al nucleo primordiale della sua vita. Se
Marsha Frazier si prendeva il disturbo di fare
un’affermazione, questa risuonava della massima
autenticità del piacere. Era vera, nel vecchio senso,
nell’antico senso che lui ricordava così bene: procurava
diletto a chi parlava e a chi ascoltava.
«Ho visto la sua rivista» disse Hadley, Prometeo liberato
dalle catene. «Si presenta bene… non ho avuto la
possibilità di leggerla nei dettagli, ma quello che ho visto
mi è sembrato ben fatto.»
La sua affermazione venne valutata attentamente, e
accettata. Fra i due esisteva un rapporto dal quale i Gold
erano esclusi. «Mi piacerebbe farle vedere il numero che
abbiamo in programma per l’autunno» disse Marsha,
annuendo. «Il menabò è già pronto, ma dobbiamo aspettare
che la situazione finanziaria si chiarisca.»
Stuart Hadley attese, contemplando l’idea di un
menabò. Che genere di rivista era? Che cosa ne sapeva lui
veramente? Ma in fondo non importava. Lui era contento di
manifestare la sua conoscenza, e lei di sentirla.
Era una strana relazione, quella che si stava costruendo
fra loro. Nessuno dei due sapeva niente dell’altro; entrambi
avevano fatto ricorso a una forma di conoscenza superiore,
intuitiva. Per Marsha lui era un pittore… Che cos’era lei per
lui? Se lo domandò, cercando di ricucire il tessuto delle sue
stesse speranze, dei suoi desideri, la materia di cui era
fatto il suo mondo.
«Ero piuttosto attivo nei circoli letterari» annunciò con
la sua solita voce, una citazione casuale che lo riportò quasi
con violenza alla realtà. Ma non c’era nessuna verità in
quell’affermazione. «Ho dato una mano a mettere insieme
una pubblicazione universitaria, niente d’importante. Ero il
curatore artistico.»
Dai magri avanzi del passato era riuscito ad assemblare
questo capolavoro di disinformazione. Al liceo aveva
contribuito a un fumetto per l’annuario semestrale: Verde e
Cremisi. Era uscito con una ragazza che correggeva le
bozze dei manoscritti. Si era interessato di fotografia:
mentre venivano scattate le foto dei diplomati, lui si
occupava dell’illuminazione. Se l’era cavata bene nel
disegno meccanico; e per un po si era interessato anche di
progetti e impaginazione. E aveva effettivamente fatto
parte dello staff di quella rivista universitaria, il lavoro
glielo aveva trovato Dave Gold. Tutto questo era stato
messo insieme per formare un nuovo oggetto. Manipolato
dalla sua mente, l’oggetto prese vita e si annunciò.
«Abbiamo provato diverse tecniche litografiche»
affermò attraverso gli organi vocali e la bocca di Hadley.
«Ovviamente, per il tipo di materiale che stavamo
presentando non esisteva un vasto pubblico. Non siamo
riusciti ad avere una risposta di massa… ma questo non mi
sorprende.»
Accasciato sulla sua scrivania, Dave Gold non diede
cenno alcuno di aver sentito questa fantastica invenzione.
Forse l’aveva sentita. Forse si sentiva impotente a reagire
in qualsiasi modo. Forse gli sembrava inutile, insignificante,
precisare che Hadley non aveva fatto niente se non fissare
le matrici ai fogli da imprimere. Era del tutto fuori luogo.
Insonnolito dal calore della serata estiva, con il
bicchiere di vino fra le mani, Hadley si mise comodo e
continuò a conversare con Marsha Frazier. Suo figlio
Timmy si era addormentato; Dave Gold non faceva che
afflosciarsi sempre più sul tavolo, la pipa spenta, il corpo
inerte. Laura se ne stava seduta come un pezzo di
ciambella andata a male. Fuori, lungo il marciapiede, la
gente continuava a passeggiare per combattere
l’irrequietezza notturna.
Quando Marsha e i bambini uscirono, Hadley se ne andò
insieme a loro. Portò in braccio la bambina fino alla strada,
e la sistemò sul sedile posteriore della Studebaker. Pat si
mosse e si sistemò sull’imbottitura. Marsha lo seguì giù per
le scale tenendo in mano Timmy. Imbronciato, il bambino
raggiunse la macchina e si arrampicò sul retro, dove si
rannicchiò accanto alla sorella in una specie di palla
sonnacchiosa.
Hadley rimase indeciso sul marciapiede mentre Marsha
si spostava sull’altro lato della macchina, con le sue lunghe
gambe, leggera ed eterea nel buio della notte. «Salga»
disse senza complimenti. «L’accompagno a casa.»
«È sicura…» balbettò Hadley. Continuò a protestare, ma
salì a bordo e richiuse lo sportello. «Non è lontano, posso
arrivarci a piedi.»
Marsha, con la sigaretta non accesa fra le labbra, avviò
il motore. «Bisogna aspettare un minuto perché si scaldi.»
Si chinò per accendere la sigaretta. «Dover chiedere aiuto
a me li ha distrutti, quei due. Dave e Laura. Erano con il
morale sotto i tacchi.»
«Lo so» disse Hadley.
«La loro capacità di funzionare si incrina al primo colpo
serio. È tutta un’apparenza.» Fissò davanti a sé,
osservando il lontano movimento di auto e persone, e il
grappolo luminoso di neon che indicava il centro
commerciale della città. «Apparenza, apparenza,
apparenza.» Avviò la macchina, accese le luci e partì.
Parcheggiò di fronte al palazzo in cui abitava Hadley e
per un po rimasero seduti, gli unici due svegli che si
vedessero in giro. I bambini dormivano profondamente sul
sedile posteriore. Sui marciapiedi bui non si vedeva
nessuno. I semafori cominciavano a spegnersi uno dopo
l’altro lungo le strade silenziose. Era quasi l’una.
«Lei è sposato?» gli chiese Marsha.
Hadley le parlò di Ellen e di Pete.
«Quanto ha il bambino? Un mese?» Scrollò la sigaretta
fuori dal finestrino aperto. «Lei è fortunato. Ha un bel
futuro davanti… Mi ricordo di quando Timmy era piccolo. È
tutto un altro mondo. Ogni cambiamento in lui è un
cambiamento in noi stessi.»
«Viene spesso giù nella penisola?» le domandò Hadley.
«Ogni tanto. Quando ne ho voglia. Ero giù nei giorni in
cui parlava Beckheim… È stato allora che ci siamo
conosciuti. Lei era venuto con Dave e Laura. Lo aveva
sentito… ma solo la parte finale, ha detto.»
«Ci sono tornato la sera dopo e l’ho ascoltato fino alla
fine.»
«Davvero?» Marsha divenne riflessiva. «Che cosa ne
pensa?»
«Io ho pensato… mi è sembrato che facesse un certo
effetto.» Hadley lasciò andare il fiato tutto insieme. «Ho
avuto l’impressione che parlasse bene.»
«È un uomo insolito. Anch’io mi sono interessata.
Conosce qualcosa di lui? Le dirò quello che so io, per
quanto possa valere. Theodore Beckheim ha
cinquantacinque anni, anche se lui non ne è del tutto
sicuro. È nato a Vinegar Bend in Alabama.»
«È un nero, no?» chiese Hadley.
«Esatto. A tredici anni è scappato a New Orleans e ha
trovato lavoro in una torrefazione. Ogni giorno percorreva
a remi la baia e saliva a bordo delle navi che trasportavano
il caffè dal Brasile. Provava i diversi tipi di caffè e per
questo gli davano venticinque centesimi l’ora. A diciotto
anni si sposò ed ebbe tre figli, tutti maschi. Sua moglie
morì nel 1916. Nel 1918 si arruolò nell’esercito e lo
spedirono oltremare. Non tornò subito… Viaggiò in Africa e
giunse fino alla Costa d’Oro. In Sud Africa lavorò in una
miniera. Tornò negli Stati Uniti poco prima della Grande
Depressione. Aveva qualche soldo… e investì acquistando
dei terreni in Virginia. Voleva diventare contadino, lui e i
suoi tre figli. Sopraggiunta la Depressione persero i terreni;
non riuscirono a pagare le rate del mutuo. Lasciarono la
campagna e si sistemarono in città. Chicago. Nella Black
Belt6.»
«È stato lui a… dare vita alla Società?»
«No» rispose Marsha. «Nei primi anni Trenta a Chicago
c’era un gran fervore religioso: addirittura un culto dei neri
maomettani, e un’eresia mediorientale denominata Baha’i.
Un mucchio di sette e movimenti mistici. La società dei
guardiani venne fondata nel 1887. Un gruppo di
fondamentalisti fuoriusciti dai battisti. La dirigeva un
vecchio, un piccolo nero di nome John Middleton Frisbey.
Avevano una cucina per preparare cibi caldi… con il cibo
allettavano la gente. Per poter mangiare bisognava
ascoltare la loro storia e leggere il Guardiano del Popolo.
Beckheim e i suoi figli capitarono nella missione, e
accettarono il cibo e l’imbonimento. Erano tempi difficili…
Lei non se li ricorda.»
«E lei?» le chiese Hadley.
Marsha sorrise, fece per rispondere, poi sorrise di
nuovo. «Lei che ne pensa? Che età dimostro? Una donna
avanti negli anni con due figli…»
Hadley tirò a indovinare. «Sui… trenta?»
«Ne ho ventisei. Quando è nato Timmy avevo sedici
anni. Un giorno o l’altro glielo racconterò. No, non mi
ricordo di quei tempi, ma ho sentito Beckheim che ne
parlava.»
«In privato? Parlando con lui?»
Lei annuì. «Oh, sì.»
«Dov’è?»
«A San Francisco. Ha avuto un attacco cardiaco
all’inizio di questo mese.» Lo disse in modo spassionato. «Si
sta riprendendo… Dopo andrà a nord, a Sacramento, poi su
fino all’Oregon e allo stato di Washington.»
«Guarirà?»
«Credo di sì. Però dovrà darsi una calmata. Fa troppe
cose… Non si rende conto che sta invecchiando.»
«Lei che ne pensa della Società?» le domandò Hadley.
«Non posso darle una risposta. Io stessa non lo so. Ci ho
pensato a lungo. Sul prossimo numero − se uscirà mai −
vorremmo pubblicare un articolo in cui se ne parla.
Abbiamo delle buone fotografie, e dei disegni, credo.» Gli
rivolse un’occhiata. «Mi dica che ne pensa di quest’idea.
Schizzi del tipo di gente che fa parte della Società. Mentre
ascoltano Beckheim… durante una delle sue conferenze.
Naturalmente possiamo scattare tutte le fotografie che ci
pare, ma io voglio di più.»
«Sì» convenne Hadley.
«Il menabò in parte è già pronto. Abbiamo ancora dei
vuoti qua e là. Ma tanto non c’è fretta… non abbiamo
scadenze da rispettare.» All’improvviso gettò la sigaretta
dal finestrino. «Be’, un altro giorno.» Allungò la mano e
aprì lo sportello dal lato di lui. «Magari ci rivedremo.
Buonanotte.»
Senza preavviso Hadley si ritrovò in piedi sul
marciapiede. La macchina ripartì, Marsha gli fece un
rapido cenno di saluto con la mano e poi scomparve nel
buio.
Per un po rimase lì. Poi si voltò e si avviò lentamente
verso il palazzo. Tutte le cose che erano successe, tutto ciò
che era stato detto e visto, gli turbinavano nella mente
senza controllo. Rinunciò a combattere; era troppo, perché
potesse assimilarlo subito. Magari più tardi. O forse no.
Trovò la chiave, aprì la porta ed entrò nell’atrio.
Da sotto la porta di casa filtrava solo il bagliore della
luce notturna. Sally e Bob se n’erano tornati sulla costa a
bordo della loro magnifica Nash verde. Entrò, grato per il
silenzio. La porta della camera da letto era aperta; Peter
dormiva nel lettino. Ellen era una sagoma informe al centro
del letto matrimoniale. Dormiva profondamente… Hadley
richiuse la porta e cominciò a slacciarsi le scarpe.

Era fuori per il pranzo, il giorno dopo, quando Marsha


portò la copia di Succubus.
Al banco c’era Olsen con il telefono appiccicato alla
testa, impegnato in una accesa discussione con un cliente.
Fergesson si trovava nella sala dei televisori e stava
facendo vedere un voluminoso combinato Westinghouse.
Hadley scese di corsa le scale per andare in bagno. Urinò
rapidamente, si lavò le mani, si lisciò i capelli, si esaminò
allo specchio la faccia e i denti osservando che aspetto
avesse. Si pulì i denti, sputò nel lavello, sbottonò la camicia
e si spruzzò un altro po di Arrid nelle ascelle accaldate, poi
tornò di sopra a tutta velocità.
Olsen aveva smesso di parlare al telefono e si stava
dirigendo verso il laboratorio.
«Dove diavolo eri?» gli domandò in tono burbero. «È
venuta una bella passera a cercarti… non tua moglie.»
Indicò verso il banco con un dito. «Ha lasciato qualcosa per
te… ha aspettato un po e alla fine ha portato via il suo
sedere.»
«Chi era?» gli chiese Hadley con il cuore in subbuglio.
«Mai vista prima.» Olsen scomparve giù per le scale
scendendole a tre a tre. «Comunque gira e rigira sono tutte
uguali.»
Hadley cercò dietro il banco e trovò una busta piatta di
cartoncino. Tremando, l’appoggiò sul ripiano, l’aprì e ne
estrasse il contenuto. All’inizio rimase deluso. Pubblicità?
Un campione gratuito? Era un periodico, una rivista. Poi
capì di che si trattava. Sentì un fremito alla base del collo e
rabbrividì mentre leggeva le lettere nere in caratteri
tipografici marcati:

SUCCUBUS
Una rivista per gente che vuole sapere

Lo rigirò. Un foglio di carta scivolò a terra; lo raccolse.


C’era scritto, in una nitida, ordinata calligrafia femminile:
«…non potevo aspettare. Ci vediamo domani a
mezzogiorno. Mi deve un dollaro per la copia… m.f.»
Hadley infilò il biglietto nel portafoglio. Poi si mise a
sedere sul cassetto più basso dell’armadietto che conteneva
le valvole e cominciò a sfogliare nervosamente, con gesti
rigidi, la copia di Succubus: la rivista per la gente che non
poteva fare a meno di sapere.
Non era quello che si aspettava. Trascorse tutto il
tempo libero fino alla fine della giornata studiandolo con
attenzione.
Non era una pubblicazione accademica. Non c’era il
marchio stantio dell’università, né articoli critici su Henry
James. Mentre sfogliava le pagine cominciò a respirare
lentamente, a piccole boccate.
Succubus era un giornale politico.
Lo tenne a lungo fra le mani, domandandosi cosa
venisse dopo. Quando entrava un cliente lo gettava dietro il
banco, si riprendeva e si dedicava a lui. Appena se n’era
andato, tornava a sfogliarlo.
Non politico nel senso comune; non un rivista di
attualità o un organo di partito. Non un ‘periodico di
approfondimento’, con contributi di Elmer Davis, Clifton
Fadiman, John Flynn, Frieda Utley o altri nomi del
giornalismo che lui conosceva. Era patinato… e già questo
combaciava con le sue aspettative. La copertina era lucida,
multicolore, un’opera d’arte. C’era una specie di provetta
da alchimista medievale come sfondo, con sopra, a grossi
tratti d’inchiostro, una simbolo comunista.
Gli ci volle un po per decodificare la copertina, e anche
allora non fu certo di esserci riuscito del tutto. In
apparenza voleva mostrare l’infiltrazione dei comunisti
nelle università: il comunista si atteggiava a erudito.
Dentro l’apparato alchimistico (simbolo della conoscenza)
c’era la barba, la mano insanguinata, la falce e il martello
gocciolanti.
All’interno c’era un editoriale. La carta era lucida,
pesante, i caratteri neri e nitidi. Il formato era quello visto
più volte, ma accettabile. Non aveva pretese artistiche: era
solido e deciso. Hadley sfogliò a caso e vide una serie di
fotografie di palazzi progettati da Frank Lloyd Wright. Poi
disegni di come sarebbe stata Berlino se i nazisti avessero
vinto la guerra.
C’era anche una sezione di un pannello murale, anzi, di
un progettato pannello murale. Figure massicce, rigide.
Operai, soldati, che brandivano bandiere e stavano
ammassati insieme. Madri con bambini. Contadini dalla
faccia grossa. Tutti tarchiati, dall’aria sana. Molto sana.
Uomini che lavoravano la terra, che separavano il grano.
Diede una rapida occhiata a un articolo su Hollywood:
una foto di Sam Goldwyn lo fissò in tutta la sua carnosità.
Poi una foto di Barney Balaban. Una di Bernard Baruch.
Una di Henry Morgenthau.
GLI EBREI CONTROLLANO L’INDUSTRIA DEL CINEMA:
CINQUE MILIARDI IN VELENO

Un altro articolo non si poteva ignorare:


DENTRO WALL STREET
LA COSPIRAZIONE PLUTOCRATICA INTERNAZIONALE

E un altro:
KARL MARX: PROFETA DEL SIONISMO
Fiaccamente, Hadley tornò a infilare Succubus nella sua
busta. Capiva perché a Dave e Laura non piaceva Marsha,
perché il fatto di dover chiedere aiuto proprio a lei li avesse
demoralizzati fino a quel punto. Adesso era in grado di
capire quanto fosse profondo l’abisso che li separava, e
perché Dave non scrivesse per quel giornale.
Succubus era una pubblicazione razzista, neofascista.
Ma non ne aveva l’aspetto: non era crudo e ampolloso.
Hadley si sarebbe aspettato che un giornale razzista
venisse stampato su carta economica: magari un
ciclostilato di quattro pagine fatto male, equivoco, con
titoloni a effetto, un insulto all’intelligenza e al buon gusto.
Si sarebbe aspettato molta spazzatura, attacchi scomposti,
affermazioni e denunce al limite del delirio.
Qualcosa che puzzasse di stravaganza, che traboccasse
di violenza. Un foglio militante, fanatico, pornografico e
disgustoso, con errori di ortografia e grammatica
zoppicante: opera di persone ignoranti, avvelenate, di
uomini da poco, inariditi e inaciditi dall’odio. Un
giornalaccio sgradevole, farneticante. Una cosa volgare.
Succubus era elegante, di buon gusto, stampato in modo
magnifico. Non era d’avanguardia, il formato o l’aspetto
non aveva nulla di sperimentale. Era serio, tradizionale…
come gli uomini e le donne ritratti nei pannelli murali. Non
era azzardato, dal punto di vita estetico, era un prodotto
solido, ben confezionato e bene impostato. Gli articoli erano
scritti in modo lucido, con competenza e compostezza.
Senza farneticazioni, senza il peso del fanatismo;
l’impressione complessiva era di moderazione. Come
faceva un giornale fascista, razzista, a essere moderato?
In Succubus non c’era niente che rinviasse all’ala
estremista. Hadley si rese conto con crescente stupore che
quella pubblicazione era stata progettata per arrivare nelle
case dei benestanti. A suo modo era rispettabile. Sopra un
tavolino di mogano importato dalle Filippine, accanto a un
portacenere intarsiato, a una bella lampada, Succubus
avrebbe fatto un figurone. Avrebbe aggiunto decoro al
soggiorno più elegante.
Dopo lo shock iniziale, Hadley rifletté a lungo. Non fece
che aprire e richiudere la busta, sbirciando il malloppo di
bianca carta patinata. Un dollaro. Era più o meno come
Fortune: una sua versione politica, più artistica. Però non
circolava. Probabilmente veniva distribuito una copia per
volta. Quel numero non aveva data: senza dubbio i fascicoli
venivano inviati direttamente per posta, non distribuiti
nelle edicole. Hadley non riusciva a immaginare Succubus
esposto in un’edicola.
Dopo le due del pomeriggio cominciò a farsi domande
su Beckheim. Che gli diceva quel giornale sulla Società?
Non molto. Non poteva collegare il Guardiano del Popolo, o
le file di volti rispettosi alla conferenza, con quella
pubblicazione elegante. Questa aveva classe, prestigio. Non
era rivolta al genere di persone che si erano radunate per
sentire Beckheim.
Tutto a un tratto Hadley capì in quale mondo vivessero
Dave e Laura. Con nemici organizzati pronti a distruggerli;
e proprio loro erano stati costretti a chiedere aiuto a uno di
questi nemici. Si erano consegnati a lui, non avevano
potuto resistere. Era sbagliato; lui sapeva quanto fosse
stato sbagliato, e che non c’era altro posto a cui potessero
rivolgersi.
Non erano stati i Gold a richiedere quel mondo, non più
di lui. Ci erano nati senza volerlo. E adesso che c’erano la
loro presenza era avversata, come se in qualche modo
avessero cospirato per esistere, come se la loro nascita
facesse parte di chissà quale progetto occulto. Come se,
essendo nati e sforzandosi di vivere come chiunque altro,
ne ricavassero chissà che cosa. Il frutto di chissà quale
impresa disonesta.
E i grandi denunciatori prestavano attenzione solo a
quell’impresa. Puntando il dito sui Gold dimostravano la
veridicità della cospirazione. Per il solo fatto di essere nati,
i Gold convalidavano la teoria. Bastava che occupassero
spazio e respirassero aria per offendere i teorici. Avevano
già chiesto fin troppo. I teorici dovevano semplicemente
rivelare che gli ebrei esistevano: era più che sufficiente.
Mostrando che gli ebrei si potevano incontrare agli angoli
delle strade, o seduti al cinema, o alla guida di autobus, o a
raccontare barzellette alla radio… dovunque esistesse un
ebreo egli dimostrava il dogma dei teorici. Un ebreo poteva
essere al sicuro solo smettendo di esistere. Solo morendo
rapidamente poteva cancellare la macchia, la colpa di
cercare di sopravvivere.
Pensando a questo, Hadley si rese conto di quanto i
Gold gli fossero simili. Nemmeno lui aveva un posto.
Però non provava simpatia per loro, poiché non la
provava nemmeno per sé stesso. In un modo terribilmente
intimo, che giungeva fin nel fondo della sua anima, li
disprezzo per essere vittime, così come disprezzava sé
stesso per essere vittima. Non voleva essere come loro.
Non voleva essere preso per uno di loro, per uno del
gruppo da vittimizzare. Voleva uscirne, arrampicarvisi
sopra.
Non era soddisfatto, come non lo erano i Gold. Tutto ciò
che loro desideravano era tenersi stretto quel poco che
possedevano, non chiedevano altro. Ma lui chiedeva di più.
E li detestava per aver permesso a Sorrell di camminargli
sopra. Li detestava per aver permesso a lui, a Hadley, di
camminargli sopra.
I Gold erano l’immagine stanca, muta e angariata di sé
stesso e, nella sua rabbia, era proprio lui a emergere da
quell’immagine. Non la sopportava più. Stuart Hadley:
vittima. E Marsha Frazier, anche la sua immagine si stava
delineando. Era un’altra parte di sé stesso, forte,
calcolatrice, spietata, efficiente. Che sapeva ciò che voleva,
e faceva ciò che voleva. Senza permettere che qualcosa la
fermasse. In lui qualcosa rispondeva. In lui qualcosa
ammirava quelle cose di lei, la sua sicurezza,
l’inequivocabile senso del proprio io. Hadley l’ammirava… e
ne era spaventato. Marsha era come una presenza
fantasma che lo attirava nella sua orbita; e in quella
direzione lui si stava spostando.
«Che cos’hai lì?» gli chiese Fergesson gioviale,
spuntando davanti a lui con la mano protesa. «Fammi
vedere.»
Hadley sbatté le palpebre. Imbarazzato, esitò e si
irrigidì. Non lo aveva visto arrivare. «Non credo che le
interessi.»
Fergesson perse la sua giovialità. «A me interessa tutto
quello che leggi mentre lavori per me.» Avvertì una
colpevole resistenza. «Che roba è, una lurida rivista
pornografica?»
Hadley gli porse con riluttanza la copia di Succubus.
Fergesson lo depose sul banco e ne scorse rapidamente le
pagine. «Lo vede?» lo aggredì Hadley, con le orecchie che
cominciavano a bruciargli. «Glielo avevo detto che non le
interessava.»
«Cristo» mormorò Fergesson.
«Che succede?»
La faccia di Fergesson si deformò per il disgusto.
Allontanò il giornale come se fosse pieno di vermi. «Dove
hai preso questa spazzatura?»
«Me l’ha data qualcuno» farfugliò Hadley, evasivo.
Fergesson lo fulminò con un’espressione oltraggiata e
minacciosa. «Ma che ti prende? Come fai?»
Infastidito, umiliato, Hadley riuscì a dire: «Come faccio
che cosa?»
«Santo Dio… riesci sempre a cacciarti in qualche cosa di
folle. Hai proprio del talento: se c’è qualcosa di
strampalato, ti ci infili dentro. Ti ci butti a pesce, in questa
robaccia da svitati, vero? Mi dici come fai?»
Tremante, Hadley si riprese la rivista. «Quello che leggo
sono affari miei.» Tornò a infilarla nella busta, annebbiato
dalla rabbia: «Questo è un paese libero; posso leggere
quello che mi pare. Lei non può impedirmelo. Non può
proibirmi di leggere questo giornale. Mi ha capito?»
Fergesson scosse la testa e se ne andò, scuro in volto.
Hadley non si portò a casa Succubus. Lo infilò in un
armadietto nel retrobottega, dietro alcuni vecchi cartelloni
della Atwater Kent, dove nessuno l’avrebbe trovato.
Tornato a casa quella sera ci pensò su. In che cosa si
stava cacciando? Forse Fergesson aveva ragione. Era facile
immaginare Horace Wakefield che si portava appresso una
copia di Succubus, che la tirava fuori da sotto la giacca per
mostrarla agli amici. Che metteva segretamente a
conoscenza di quegli articoli i pochi eletti di cui poteva
fidarsi. Che lo aveva con sé all’Health Food Store mentre
mangiava il suo budino alla tapioca e l’insalata di carote.
Come l’articolo di G.B. Shaw sulla vaccinazione… altri
proiettili da sparare contro un mondo corrotto.
Poteva immaginarsi Wakefield estasiato dalla mistica
conoscenza del potere mondiale degli ebrei. I Protocolli
degli Anziani di Sion: se Wakefield lo avesse saputo, chissà
quanto ne sarebbe stato felice ed eccitato!
Ellen portò in tavola un piatto di gelato alla vaniglia
mezzo sciolto che aveva preparato lei e poi messo nel
freezer. «Stu,» gli disse «a che stai pensando?»
«A niente» rispose lui, prendendo il gelato.
«Ti… ti ha detto niente Fergesson, a proposito
dell’acquisto di quel negozio? Credo che abbia davvero
intenzione di prenderlo, da quanto mi ha raccontato
Alice…»
«No» tagliò corto Hadley. «Non mi ha detto niente.»
Il discorso morì lì, e lui continuò a riflettere. Si stava
muovendo in un lungo corridoio del quale non si vedeva la
fine. Eppure era proprio quello che lo aveva attirato. Era
nuovo. Non era una minestra riscaldata di cose vecchie, di
azioni ripetitive del suo passato. Non aveva mai conosciuto
prima un uomo come Theodore Beckheim, e non aveva mai
conosciuto una donna come Marsha Frazier, né messo le
mani su Succubus. Non sapeva nemmeno che significasse
quel titolo.
Andò a prendere un dizionario nella libreria e cercò la
definizione. Non sapeva che cosa aspettarsi, ma in ogni
caso ne fu sorpreso. Succubus: demonio che assume forma
femminile per allontanare gli uomini dal sentiero della virtù
avendo rapporti sessuali con loro durante la notte. La
parola derivava dal latino succubare: giacere sotto. E dal
latino succubo: prostituta. Era proprio un bel titolo per una
rivista. Chiuse il dizionario e lo rimise a posto.
Il giorno dopo, martedì, si organizzò per bene in
anticipo. «Devo incontrare una persona a pranzo» disse a
Fergesson. «A mezzogiorno… d’accordo? Voglio uscire
senza problemi.»
Fergesson, che stava controllando le fatture, grugnì
qualcosa e annuì senza rispondere. Mentre scendeva le
scale verso il piano terra Hadley si rese conto di stare
camminando su una corda sottilissima: c’erano tanti modi
in cui Ellen poteva venire a saperlo. Poteva dirglielo
Fergesson. Poteva capitare lei stessa in negozio e vederlo
mentre era con Marsha. Poteva parlargliene Dave Gold. E
via dicendo.
Avrebbe dovuto portare la faccenda alla luce del sole…
oppure dimenticarsene del tutto.
Mentre stava meditando sulla seconda ipotesi, Marsha
Frazier entrò a grandi passi nel negozio.
Come l’altra volta portava pantaloni sportivi, aderenti e
senza tasche, una grossa cinta di cuoio, una camicia
pesante a quadrettini. I capelli color sabbia erano pettinati
all’indietro. Portava sotto il braccio una gigantesca borsa di
pelle. Giunta davanti al banco principale si fermò, diede
una rapida occhiata in giro e lo vide.
Lui si precipitò. «Salve» le disse. «Ho avuto la rivista.»
Lei annuì, pensierosa. «Può lasciare il negozio?»
Hadley corse di sopra, comunicò a Fergesson che se ne
stava andando, prese la giacca e tornò giù alla stessa
velocità. Marsha si era allontanata: adesso stava
sull’ingresso, inespressiva, con l’aria di una che non ha
voglia di perdere tempo. La raggiunse ansimando.
«Dove vuole andare?» le domandò. Era giusto
mezzogiorno; cominciava a vedersi parecchia gente in giro.
«Che ne dice di quello?» Indicò l’Health Food Stare. «Le va
bene?»
Marsha lo precedette dentro il locale, una figura
solenne che si diresse lentamente verso i tavoli sul retro.
Diede una rapida occhiata alla cassetta della frutta secca,
poi tirò indietro la sedia e si accomodò. Stava tirando fuori
un pacchetto di sigarette quando Hadley si sedette
goffamente di fronte a lei.
Betty giunse respirando affannosamente, il volto simile
a grigia pasta di lievito piegato in una smorfia allusiva.
«’giorno, Stuart.» Fece un cenno a Marsha. «Buon giorno,
signorina. Bella giornata, vero?»
Hadley ne convenne. «Molto bella.» Marsha non parlò.
«Oggi c’è tagliata di manzo in salsa con crostini» recitò
monotona Betty. «Insalata di maccheroni, piselli verdi e
budino alla crema di banana.»
«Solo caffè» disse con decisione Marsha.
Hadley ordinò da mangiare per sé, e Betty andò a
passare l’ordine al cuoco di colore. Cominciavano a entrare
diverse donne ben vestite, massicce, di mezza età. Era
cominciato il consueto brusio di sussurri e risatine.
«Che ne pensa di questo posto?» chiese Hadley a
Marsha.
«È interessante.» L’espressione sulla sua faccia, però,
rivelava che lei non era per niente interessata. «Ha avuto
occasione di esaminare il giornale?»
«Sì» rispose lui. Senza elaborare a risposta; non sapeva
che cosa dire perché non sapeva quello che provava. A
questo punto era del tutto incapace di capire la sua mente.
«Che gliene pare?» Calma, spassionata. Ma era una
domanda alla quale avrebbe dovuto rispondere.
Hadley si mise a giocherellare con il cinturino
dell’orologio. Studiò le vetrine di barattoli di frutta senza
zucchero, dietro la testa di Marsha, alti fino al soffitto,
scaffale su scaffale di insipide pesche, pere, prugne
conservate in acqua per i diabetici. «Mi ha sorpreso» disse
alla fine. «Non era come mi aspettavo.»
«Che cosa si aspettava?»
«Non lo so… forse una rivista letteraria. Come il nostro
trimestrale dell’università.»
Marsha gli rivolse il suo sorriso esangue, tirato. La sua
faccia era come un teschio, ossuta. Gli occhi infossati nelle
orbite, ombre scure sotto le pupille grigie e fredde. «No»
convenne. «Noi non pubblichiamo poesie su Venezia e
racconti di aborti nella Carolina del Nord. Ha un
bell’aspetto, non trova? Bella carta, buona stampa. La
copertina è in cinque colori.»
«Infatti mi è sembrata insolita.»
Giunse il cibo e Hadley cominciò a divorarlo. Di fronte a
lui Marsha sorseggiò il suo caffè e guardò Hadley con
un’espressione dura come la pietra. «Ha avuto modo di
leggere qualcuno degli articoli?»
«No» rispose lui. «Non l’ho portato a casa, l’ho lasciato
al negozio.»
«Perché?»
Lui esitò. Non poteva dirle la verità. «Me ne sono
dimenticato» rispose. «Lo porterò a casa stasera.» Non
poté fare a meno di chiedere: «C’è una ragione particolare?
Voglio dire, ha fretta?»
Il suo modo di esprimersi gli suonò sbagliato. Ma aveva
la sgradevole sensazione di essere sottoposto a un
interrogatorio, e la cosa non gli piaceva. Sentiva di essere
stato ingannato, in qualche modo; Succubus non era ciò
che si era aspettato, e le riviste con dovevano mai riservare
sorprese. In questo modo semplice, elementare, era in
grado di sentirsi risentito; e questo quasi controbilanciava
il suo senso di colpa. Cercò di far finta che la cosa avesse a
che fare con il meccanismo commerciale della
compravendita; si disse che si trovava di fronte un
venditore che gli aveva offerto un’immagine ingannevole
del suo prodotto. Provò un’indignazione tutta americana.
Eppure, nello stesso tempo, Hadley sapeva che la
situazione era infinitamente più complessa; non si trattava
per niente di una transazione commerciale. Marsha non
stava cercando di vendergli una copia di Succubus e
nemmeno un abbonamento… Lei non stava cercando di
spillargli denaro. Perseguiva qualcosa di molto più grande.
«Questo caffè è terribile» constatò Marsha.
«Non è vero caffè. È farina di crusca, un prodotto
naturale. Senza caffeina.»
«Perché?»
Hadley agitò la mano. «Ecco… niente di stimolante;
niente che non sia genuino.»
Marsha si alzò in piedi e attraversò la sala diretta verso
il bancone. Tornò un momento dopo con un bicchiere di
succo d’arancia. Hadley la osservò con interesse mentre si
sedeva. Aveva trasportato il bicchiere con intensa serietà,
come se fosse una cosa molto importante.
«Lei è peggio di me» le disse scherzando Hadley.
«Prende le cose troppo sul serio.»
«Glielo dicono gli altri?»
«Mi dicono che dovrei andare a vedere qualche partita.
Spassarmela. Smetterla di preoccuparmi e di pensare.»
«Lei ci va a vedere le partite?»
«No.»
Marsha annuì. «Non è una persona frivola.»
Lui non la vedeva in quel modo. «Che intende dire?»
«Pensano unicamente a divertirsi… È l’unica cosa che
interessa loro. La massa pensa solo in termini di piacere.
Vogliono eccitazione, brividi artificiali. Parchi di
divertimento, corse di macchine, partite di baseball,
liquori… sensazioni a buon mercato. Sono stufi,
insofferenti, annoiati.»
«Sì» concordò Hadley.
«Ma questi sono sintomi. Soltanto indicazioni… non la
causa. Il sabato sera i ragazzi vanno in giro per le strade a
gruppi, in cerca di qualcosa che riempia le loro esistenze
vuote. Bighellonano davanti ai locali, aspettano e basta.
Aspettano per… per cinque, sei ore? Ma che cosa
aspettano? Le ragazze gli passano vicine… e loro si
limitano a guardarle.»
«Si lasciano coinvolgere nelle risse» aggiunse Hadley.
«Stavo leggendo un articolo sul Chronicle in cui si parlava
dell’aumento della delinquenza giovanile.»
«Anche le risse sono un sintomo. È un ritorno spontaneo
a un modo naturale e primitivo di combattere. Uscire in
bande, come le antiche tribù. Tutti uniti, leali l’uno all’altro,
legati da giuramenti di sangue. Dare battaglia, il concetto
medievale del valore… la virtù in senso romano: la
mascolinità. La prova, la purificazione, il metallo contro il
metallo. Conosce Wagner? La forgiatura della spada
Notung dai frammenti di quella antica, giù nelle fucine
fumose di Mime.» Gli sorrise da sopra il bicchiere di
aranciata. «Nei profondi, oscuri abissi sotto la superficie
della terra, dove crebbe Siegfried… senza sapere chi fosse,
senza conoscere suo padre, sua madre.»
Affascinato, Hadley chiese: «Chi erano suo padre e sua
madre?»
«Suo padre era Siegmund, un superstite dell’antica
razza di guerrieri… i Volsunghi. Sua madre era Sieglinde…
la sorella di Siegmund.»
«Fratello e sorella?» domandò Hadley con voce roca,
improvvisamente teso, bloccato nell’atto di mangiare.
«Erano… sposati?»
I freddi occhi grigi erano fissi su di lui. «È un vecchio
mito. Il Niebelungenlied. L’oro del Reno… il simbolo
maledetto di tutto il potere terreno.»
«Potere terreno» ripeté lentamente Hadley. Era
ammaliato. «Era maledetto? Perché?»
«Perché era stato rubato. Il lascivo nano Alberico lo
aveva rubato alle figlie del Reno… Si era nascosto per
guardarle mentre facevano il bagno. Rubò l’oro… E loro gli
scagliarono addosso una maledizione. Chiunque possedesse
l’oro sarebbe stato distrutto.»
«E funzionò?» Hadley era come un bambino in grembo
alla madre, che pendeva dalle sue labbra mentre lei gli
raccontava una favola.
«I nani litigarono per l’oro… Alla fine gli dèi glielo
portarono via. Ma a causa dell’oro gli dèi divennero vecchi
e avvizziti… Persero la loro virilità.» Marsha sorseggiò il
succo d’arancia e aggiunse, in tono sbrigativo:
«Naturalmente è stato detto che i nani simboleggiavano gli
ebrei. La loro avidità per il denaro e per il potere. Lo sa, nel
Faust di Goethe Mefistofele rappresenta l’ebreo che cerca
di allontanare Faust dal suo destino. Che lo tenta con le
lusinghe terrene: le gioie e i piaceri della carne di cui
stavamo parlando prima.»
Eccole. Il suo corpo si raggelò mentre sentiva quelle
parole. Perché era come se fosse lui a parlare, come se
quelle parole le pronunciasse una parte di lui. Una sua
immagine orribile si era manifestata, ed era lì, seduta di
fronte, magra e sorridente. Succubus… un demonio sotto
forme femminili. Sì, era lei. Ed era anche lui.
Il suo timore crebbe… ma non pose termine
all’incantesimo. Marsha lo aveva detto ad alta voce, ma
quella parte di lui che credeva a quelle cose aveva paura.
Non poteva esprimersi: era troppo debole. Non osava farlo.
Suo malgrado continuava ad ammirarla.
«Lo sa,» disse con voce rauca «lei è spietata. Come un
falco, un uccello da preda. Io me ne sto qui ad ascoltare
perché non posso fame a meno… perché dentro di me
qualcosa reagisce.»
«Lo so» disse Marsha in tono assente. «Lei reagisce.»
«E so che è sbagliato. So che è la parte spietata di me,
la parte che vuole essere forte e crudele. Come lei… senza
sentimenti. Indifferente agli altri. Alla sofferenza e alla
debolezza. Anzi, che disprezza la debolezza.»
«Lei proprio non vuole ascoltare» dissentì Marsha. «Lei
ha paura. È grazie alla paura che resiste.»
«No» ribatté Hadley. «È grazie alla coscienza.»
Per un poco Marsha rifletté. «Una volta c’era un
ragazzino che stava assistendo a una sfilata e vide passare
il re. Il re non aveva vestiti addosso. Tutti lo sapevano, tutti
lo vedevano, tutti lo toccavano con mano, ma nessuno era
capace di dirlo ad alta voce poiché avevano insegnato loro
che era una cosa orribile da dire. Ma il ragazzino non se ne
diede per inteso e lo disse. E alla fine ne parlarono anche
tutti gli altri, perché sapevano che era vero. Prima ne
discutevano fra loro, privatamente. Tutta quella gente se ne
stava lì a guardare il re che sfilava nudo e nessuno diceva
niente. Lei crede che fosse meglio stare zitti? Crede che se
una verità è sgradevole debba essere nascosta?»
«Ma è una verità?»
«Mi racconti quello che dice lei. Non lei come persona
singola… ma tutti voi, nell’intimità delle vostre case e uffici.
Cosa affermate degli ebrei?»
«Anche noi siamo depravati. Tutti noi, almeno un po’.»
«Esiste una cosa che si chiama folklore. Lo sa che cos’è?
Un corpo di conoscenze evolute nella mente collettiva della
gente. La saggezza della razza. La sua saggezza più alta…»
Hadley sedeva silenzioso e inorridito. Ma quella
personificazione del suo io-ombra lo ipnotizzava; le parole
pronunciate da Marsha penetravano a fondo dentro di lui.
Gli abissi vergognosi erano messi a nudo; lei non faceva
segreto di ciò che era, di ciò che provava. Nessun senso di
colpa, nessun peccato di cui vergognarsi.
«Lei è una strana persona» disse Hadley, preoccupato.
«È come uno di quei… come si chiamano? Telepatici?»
Lei non rise. «Sì, noi abbiamo un rapporto. L’inconscio
razziale ci unisce. Lei pensa a sé stesso come a un’entità
unica, crede di essere tagliato fuori da tutto. Separato e
tremendamente isolato.»
«Sì.»
«Non lo è. Solo il guscio esterno è unico… Nel profondo
lei fa parte di un’entità collettiva. Non ha mai provato
questa sensazione? Non ha mai sentito che questa
separazione è artificiale? Che lei non dovrebbe essere
tagliato fuori?»
Lui annuì.
«C’è tanta ignoranza» disse Marsha. «Jung ha dovuto
lasciare l’Occidente, giungere fino in Cina, per ottenere ciò
che voleva. Un giorno le presterò qualcuno dei suoi libri.
L’uomo moderno in cerca di un’anima. Lo ha mai letto? Jung
ha lavorato sulla poesia classica cinese, ha studiato il
buddismo. Il Tao. Il bramanesimo… È un grande studioso,
uno dei giganti del nostro tempo. È tornato nel Medioevo…
agli alchimisti.»
Hadley non sapeva che cosa dire. «Ciò di cui mi parla mi
sembra così…» Non sapeva nemmeno quello. «Che diavolo
significa?»
«Non ha la sensazione di capire? Non verbalmente,
magari. Non le sembra che abbia senso?»
«Non lo so.» Era completamente nel pallone. «Nelle
ultime settimane ho avuto la testa piena di cose. La nascita
di Peter, questa storia di Beckheim. E non mi sono sentito
bene. Credo ci sia qualcosa che non funziona in me.
Fergesson vuole che mi faccia vedere dal suo medico di
fiducia, ma che diavolo… ho visto tanti maledetti dottori
nella mia vita. E nessuno di loro mi ha mai fatto bene.»
«Non c’è niente che non funziona nel suo corpo» disse
Marsha. «Fisicamente lei è sano. Anzi, sta piuttosto bene.»
«E allora che cos’è?»
«La sua anima.»
Nessuno gli aveva mai detto che aveva un’anima. Ebbe
voglia di scoppiare a ridere. Cos’era? Dove si trovava?
Forse l’aveva persa; forse già non c’era più. Forse qualcuno
gli aveva rubato l’anima. Forse lui l’aveva venduta, o data
in prestito, e poi se n’era dimenticato. O forse le persone
non nascevano più con l’anima. Ma la parola non era vuota,
Hadley reagiva ad essa. Quella parola lo blandiva, come se
in qualche modo la responsabilità di un’anima lui l’avesse.
O avere un’anima fosse una cosa unica: una conquista.
Ebbe la sensazione che Marsha vedesse in lui qualcosa che
nessun altro vedeva. Qualcosa che nessuno aveva preso in
considerazione.
Fece un sorriso poco convinto. «Parole come ‘anima’,
‘paradiso’, ‘diavolo’. Non significano più niente.»
«Beckheim le usa.»
«Lo so.» Hadley fece una smorfia. «Ma lì sembrava
giusto. Come in chiesa… tutti che ascoltano, il pubblico, un
grand’uomo come lui. Ma qui, alla luce del sole.» Indicò gli
scaffali di frutta, i tuberi secchi, i barattoli di succhi di
verdura. «È… irreale. È come cercare di guardare un film
in pieno giorno… Si intravedono le immagini sullo schermo,
ma non ti convincono.»
«Vuole dire che l’illusione non c’è più.»
«Credo di sì.»
«Forse ‘anima non è la parola esatta. È difficile trovare
le parole esatte per le cose spirituali. E va bene, Stuart
Hadley. Useremo le parole che vuole lei.» I gelidi occhi
grigi danzavano. «Quale preferirebbe?»
«Non preferirei niente. Non mi sento bene. Mi fa male
la testa e ho lo stomaco in disordine.» Guardò l’orologio. «E
poi devo tornare al negozio.»
«Io ho provocato tutto questo?»
«No… mi sento sempre male. In me c’è sempre qualcosa
che non va.» Cercò di esprimersi meglio. «Sono sempre
stato male, in tutta la mia vita.»
Marsha annuì. «Lo so.»
«Che intende dire? Come fa a saperlo?» Era infuriato; la
rabbia gli bruciava dentro. «Lei non sa un bel niente di me!
Ci siamo appena conosciuti!»
«Tutti stanno male. Non si può vivere qui senza stare
male. Non capisce? Beckheim ha ragione. Dobbiamo
rinascere. Non può andare avanti in questo modo,
sporcizia, corruzione, venalità. Dev’esserci un ritorno
spirituale… ci siamo messi a camminare a quattro zampe,
come gli animali. Ce la spassiamo e andiamo in cerca di
emozioni forti… Siamo bestie! Dobbiamo solo tornare
indietro; prima era tutto pulito e semplice. Adesso è
diventato tutto complicato, meccanico, abbagliante…»
Indicò fuori dalla vetrine l’insegna del palazzo della Bank of
America. «Come quello. Soldi e cartelloni sgargianti.
Affarismo, luride fabbriche… Dobbiamo tornare alla terra.
Abbiamo bisogno di radici… dobbiamo riscoprire la terra,
ritrovare i modi semplici di una volta.»
Hadley la seguiva, ma era spaventato. «Ma tutto questo
odio… voi odiate gli ebrei.»
«Noi odiamo la venalità e l’ingordigia. Odiamo la
corruzione. È una cosa cattiva?» La sua voce rimase calma,
rarefatta. «Odiamo i ricchi plutocrati che macinano le
persone e le trasformano in robot. Schiavi nelle fabbriche.
La macchina sta distruggendo l’uomo. L’ideale comunista:
tutti gli uomini sono uguali… triturato a denominatore
comune. L’operaio che lavora in fabbrica: brutale, bestiale,
ricoperto di fuliggine e di sporcizia. Come una scimmia
nella foresta.»
«Anche Beckheim la pensa così?» chiese Hadley. «Tutte
queste cose. Succubus… È questo che appoggia
Beckheim?»
«Beckheim» disse lei pacatamente «è un nero. Ma le
forze della rinascita operano attraverso di lui. Abbiamo
atteso una sorta di risveglio spirituale… Beckheim è un
profeta involontario. Non ne se ne rende conto. Pensa come
un primitivo… È un primitivo. Ha categorie ingenue di
pensiero, come un bambino. Paradiso, inferno,
Armageddon, salvezza. Ma ha anche integrità.» Alzò il tono
della voce. «Parla per tutti noi. Il bambino puro, l’idiota
senza macchia che viene a salvarci. Parsifal… capisce?»
Hadley non rispose. Finì di mangiare e allontanò il
piatto. Mentre attaccava il budino alla crema di banana
chiese: «Che ne pensa Beckheim del suo giornale?»
Marsha aggrottò la fronte. «Gli interessa.» Lo disse in
tono vago. «Potrebbe anche finanziarlo.»
«È perché…»
«Ne abbiamo parlato, qualche volta. L’argomento viene
fuori… Ci sono molte cose su cui non siamo d’accordo.»
Sorrise. «È un uomo potente, Stuart Hadley. È un
grand’uomo… più che un uomo. È una forza.»
«Dev’essere un’esperienza conoscerlo.»
«Lo è.» Parlò con l’aria di chi ne è convinto. «È come
sedere nella stessa stanza con Dio.» Finì il suo succo
d’arancia. «Aspetterò che lei abbia avuto il tempo di
leggere la rivista. Magari avrà voglia di chiedermi qualcosa
sui suoi diversi aspetti.»
«Forse.» Hadley si tenne sul vago. Poi, tutto a un tratto,
domandò: «A lei che gliene importa se la leggo o no? Com’è
che ci tiene tanto?»
Marsha affrontò il suo sguardo infuriato con calma.
«Credo che lei abbia le potenzialità per comprenderla.
Abbiamo tutti vissuto sotto una nebbia. Come gli dèi…
vecchi e avvizziti per via di una maledizione. L’oro ci ha
corrotto… Non siamo in grado di stare eretti, di essere noi
stessi. Di essere giovani e forti. Non possiamo vedere le
cose come realmente sono.» Con uno slancio di eccitazione,
le guance scavate di un rosso acceso, esclamò: «Stuart
Hadley, lei ha così tanto da imparare! Ci sono tante cose
davanti a lei, e tante da gettare via! Come una cicala che
esce dal vecchio guscio. Come una larva che esce dal
bozzolo e si trasforma in una farfalla. Non capisce… tutti
questi armi hanno segnato il tempo per lei, lo hanno tenuto
sospeso… nel bozzolo. Lei ha atteso… non se ne rende
conto?»
«Sì» disse lui lentamente. «Ma non pensavo che sarebbe
successo qualcosa. «Poi proseguì: «Non avevo molta
speranza.»
«Deve averne! C’è così tanto nel mondo… è grande e
pieno di cose. C’è un fondamentale nucleo di vitalità; il
mondo è ricco di energia e di eccitazione. Una volta che lei
sarà penetrato, che avrà percorso tutta la strada, che avrà
raggiunto il nocciolo più profondo, dietro tutte le
menzogne…» Spostò all’indietro la sedia e si alzò in piedi di
scatto. «C’è una sera in cui è libero? La verrò a prendere
con la macchina e risaliremo la costa, lungo la litoranea
che porta a San Francisco.»
«Perché?» chiese lui.
«Perché così potrà conoscere Theodore Beckheim.»
Hadley non seppe cosa dire.
«Sta con me» proseguì Marsha «finché non si sarà
ripreso dall’attacco cardiaco. Voglio farglielo conoscere
prima che se ne vada.»
Uscì rapidamente dal locale senza voltarsi indietro. Una
figura impeccabile, fanciullesca, con il mento aguzzo
all’insù e i capelli rossicci come una corona attorno al
cranio ossuto. Dopo un attimo era sparita.
Stordito, Hadley continuò a mangiare il suo budino,
alzando e abbassando il cucchiaino in una serie di
movimenti automatici. Marsha era scomparsa. Tutto ciò
che rimaneva di lei era un bicchiere di succo d’arancia
vuoto; se n’era andata con la stessa rapidità con cui era
arrivata.
Si domandò impaurito in quale sera sarebbe stato
libero. Conoscere Theodore Beckheim… Si sentiva
sopraffatto. Per quello avrebbe fatto quasi tutto. Avrebbe
sopportato tutto. La sua ansia bramosa crebbe… conoscere
Theodore Beckheim. Parlare con lui, stare con lui. Toccarlo.
Parlargli faccia a faccia.
Giovedì? Ellen portava Pete a casa dei suoi. Ma come
avrebbe fatto a mettersi in contatto con Marsha?
Ovviamente non toccava a lui farlo. Mentre se ne
rendeva conto provò un brivido di paura. Quello spettro
minaccioso, quella presenza affascinante ma pericolosa
contro la quale il suo organismo si stava già muovendo per
proteggersi, ci avrebbe pensato lei. Sarebbe stata Marsha
Frazier a mettersi in contatto con lui.

Mercoledì mattina, quando Stuart Hadley uscì dalla sala


dimostrazioni con lo straccio per lucidare e la bottiglia fra
le mani, si accorse che il telefono era fuori dalla forcella. Lo
fissò con attenzione mentre si spostava con lo straccio e la
bottiglia verso i televisori in vetrina. Nessuno stava usando
il telefono, e nessuno era nei paraggi. Una sensazione di
disagio, una sorta di premonizione, gli attraversò le ossa;
avvertiva una presenza invisibile che attendeva in silenzio,
pazientemente, all’altro capo della linea. Che aspettava lui.
«Che succede?» chiese a Jack White quando lo vide
risalire le scale. «Ceri tu al telefono?»
«Oh» disse White tutto allegro, ricordando. «È per te,
me n’ero dimenticato. Una signora ti ha chiamato.»
Agghiacciato, Hadley si portò la cornetta all’orecchio.
C’era solo il ronzio della linea libera: la signora aveva
riattaccato.
«Quando è stato?» chiese Hadley mentre riappendeva.
«Era Ellen?»
«Forse un quarto d’ora fa,» rispose White «e non era tua
moglie. Scusa, Mezzasega. Sono sceso a cercarti e mi sono
messo a parlare con Olsen.» Si raddrizzò la cravatta di seta
disegnata a mano: era un ometto magro in doppiopetto
grigio, baffetti, scarpe lucidissime. «È colpa mia.»
Un’ora dopo lei richiamò, e questa volta rispose Hadley.
Con un brivido di sgomento riconobbe quella voce calma e
fredda non appena lei disse: «Potrei parlare con il signor
Stuart Hadley, per favore?»
«Sono io» rispose lui riluttante. Si sorprese per il suo
stesso disgusto: lo ripugnava così tanto? Dentro di lui
l’avversione per quella donna stava crescendo. Sentiva
sempre più tutto ciò che di malato c’era in lei, quel non so
che di frigido, come se fosse un rettile, un serpente. Ma lei
era il suo unico contatto con Beckheim, e Hadley doveva
raggiungere il grande uomo nero. «Da dove mi sta
chiamando?» le domandò.
«Da San Francisco. Ho telefonato prima, ma quel
signore − chiunque fosse − non è più tornato. Per un po
sono stata combattuta… Ho pensato che forse lei stava
cercando di mollare tutto, ma poi ho deciso che
probabilmente era solo un equivoco… Lei non poteva
sapere con certezza chi fosse.»
«È stato un equivoco» assicurò Hadley con voce roca.
«Quale sera è libero?»
«Giovedì. Ellen porterà Pete dai suoi. Come ho detto,
non si aspetta che ci vada anch’io. Alla sua famiglia non
sono mai andato molto a genio.» Il tono della sua voce era
monotono; se si aspettava di conoscere Beckheim avrebbe
dovuto metterci un po più di vita. «Perciò possiamo
incontrarci… giusto?»
Silenzio per un attimo. Hadley poteva immaginarla:
faccia ossuta con gli occhi incavati, sguardo fisso davanti a
sé, labbra pallide appena socchiuse, che analizzava le sue
parole, il tono della sua voce. Vi leggeva ora questo ora
quello, cercando di decidere ciò che lui provava. Sarebbe
stata un’impresa… le sue emozioni erano un guazzabuglio
incomprensibile. E probabilmente Marsha lo avvertiva;
sembrava sapere ciò che succedeva dentro di lui.
«D’accordo» acconsentì. «Lei stacca alle sei?»
«Un po più tardi. Devo contare i soldi e rimettere la
carta al registratore di cassa. Spegnere tutto e chiudere il
negozio. Diciamo più o meno le sei e un quarto.»
«Verrò con la macchina. Stuart?»
«Che c’è?»
«Porti qualcuno dei suoi lavori.»
Per un attimo lui non riuscì a capire che cosa intendesse
dire, poi capì che si riferiva ai suoi quadri. «Va bene» disse,
incapace di opporsi. Poi si rese conto di quanto sarebbe
stato difficile portarli fuori di casa. «Volevo dire…»
«Ci vediamo alle sei e un quarto» lo interruppe gelida
Marsha. «Arrivederci, tesoro… devo scappare.» Riattaccò.
Sudato e preoccupato, Hadley si voltò a guardare due
anziane signore che stavano davanti al banco con l’aria
imbronciata, con in mezzo a loro una borsa della spesa di
rete. Ovviamente Marsha aveva in mente qualcosa.
Complicati progetti fatti senza averlo messo al corrente, e
senza la sua approvazione. «Posso esservi utile?» chiese in
modo automatico allungando la mano verso la borsa. Vi
scorgeva dentro il profilo squadrato di una vecchia
radiolina Scottie. «Qualche problema?» chiese in tono
assente. Era inutile tentare di immaginare che cosa avesse
in serbo per lui; poteva essere tutto. Però lui voleva
conoscere Beckheim. E ne sarebbe valsa la pena. Avrebbe
fatto qualsiasi cosa pur di conoscerlo. «Che genere di
problema?» domandò alle due vecchiette. «Che cos’ha la
vostra radio?»

Sotto molti aspetti era un errore… e lui lo sapeva. Ma a


dispetto del suo presentimento, della sensazione che aveva
di buttare all’aria la sua vita, la sua personalità e il suo
mondo più intimo, la mattina di giovedì Hadley tirò fuori i
quadri dall’armadio. Erano le otto e dieci. Ellen era ancora
a letto addormentata. La lasciò dormire. Si preparò da solo
la colazione, poi si lavò e si fece la barba di corsa, finì di
vestirsi senza fare rumore, prese giacca e cappello ed entrò
in punta di piedi nella camera.
Ellen stava distesa in mezzo al letto, con i capelli castani
che ricoprivano il cuscino e le lenzuola, e un braccio
abbandonato di lato. La sentì respirare in modo basso e
sonoro, come chi dorme profondamente. Prese dall’armadio
il pacco polveroso che conteneva la sua collezione di
quadri, un malloppo marrone legato con uno spago. Lo
portò fuori dall’appartamento e lo appoggiò nel corridoio
mentre si richiudeva dietro la porta, poi corse verso il
negozio.
I quadri rimasero giù nel magazzino, appoggiati dritti
contro le pile di televisori e di asciugatrici, fino al tardo
pomeriggio.
Alle quattro il lavoro cominciò a diminuire. Il sole caldo
e cocente di luglio splendeva sul marciapiede e fin dentro il
negozio; le file di televisori si erano ridotte a grigi riquadri
di ombre poco convincenti. Le automobili continuavano a
scorrere in file ininterrotte. Fergesson salì a bordo della
sua Pontiac per consegnare un radiofonografo che aveva
venduto a un amico di vecchia data. Alle cinque e mezza,
Olsen tornò con il camioncino della ditta ed entrò, carico di
carcasse di radio.
Mentre Hadley stava mostrando un televisore portatile
Zenith da diciassette pollici a una giovane coppia, Marsha
entrò nel negozio. Lui se ne rese conto senza nemmeno
girare la testa; bastò il movimento fluido della sua figura
snella a fargli capire che era arrivata. Hadley guardò
l’orologio. Mancava un quarto alle sei; Marsha avrebbe
dovuto attendere per un’altra mezz’ora.
Si sistemò in fondo al banco, in una posa silenziosa e
vigile. Come un arredo permanente, si mise lì a braccia
conserte, la borsa accanto al tester delle valvole, appena
appoggiata al registratore di cassa. Con il corpo magro
piegato ad angolo, osservò la nuca di Hadley e la giovane
coppia interessata al televisore: tutti e tre sentirono i suoi
occhi su di loro.
«Dobbiamo pensarci» disse il giovanotto, sorridendo
nervosamente. «Sono un bel po di soldi, per questi tempi.»
La moglie gli tirava insistentemente il braccio.
«Torneremo… dobbiamo solo pensarci un po su… capisce.»
Hadley diede loro il suo biglietto da visita e li
accompagnò fino al marciapiede infuocato. Esitò un poco
prima di rientrare. Sarebbe stato bello restare lì a guardare
la gente che passava, ad annusare l’aria calda di luglio. Ma
doveva tornare indietro, lo sapeva. Non aveva scelta.
Quando rientrò lei lo stava ancora osservando. Non gli
aveva mai tolto gli occhi di dosso.
«Salve» disse lui goffamente.
«È quello il genere di persone con cui lei fa più affari?»
gli chiese lei, senza preamboli.
Hadley si strinse nelle spalle, stizzito. «Varia.» Prese dal
registratore gli scontrini della giornata e cominciò a
sistemarli. «È in anticipo, non uscirò prima di mezz’ora.»
«Dovevo fare degli acquisti al drugstore; ho pensato di
venire qui e di accertarmi che lei non si fosse dimenticato.
Ha portato i quadri?»
«Sono giù nello scantinato.»
«Ha una sigaretta?»
Rassegnato le porse il suo pacchetto. Lei ne prese una e
Hadley gliel’accese. In fondo al negozio c’era Jack White, le
mani dietro la schiena, le gambe larghe, come un soldato a
riposo. Osservava Hadley e Marsha con aperto interesse,
con la curiosità morbosa e sfacciata di un venditore.
«Chi è quell’uomo?» chiese Marsha, socchiudendo gli
occhi.
«Jack White. Un venditore… come me.»
«È quello che mi ha risposto al telefono la prima volta
che ho chiamato?»
«Proprio lui.»
Marsha squadrò con freddezza White mentre prendeva
la borsa e si avviava verso la porta. Oggi, al posto dei
pantaloni e della camicetta, indossava un severo abito
estivo di taglio inglese, mascolino e costoso, scarpe di cuoio
con tacchi bassi, una grossa borsa quadrata appesa alla
spalla con una cinghia. «L’aspetto in macchina» disse. «È
parcheggiata all’inizio della strada, a un isolato di distanza,
davanti al negozio di liquori.»
«Bene» disse Hadley, sollevato. E così non se la sarebbe
ritrovata fra i piedi. «Cercherò di sbrigarmi a chiudere.
Non si preoccupi se non sarò lì per le sei e un quarto…
Certe volte chiudo anche alle sei e mezza.»
Marsha annuì e uscì di buon passo dal negozio.
Quasi aspettandosi che potesse rientrare, Hadley tenne
gli occhi fissi sull’ingresso fino a che l’ultimo cliente non fu
uscito e la porta non fu chiusa a chiave. Nessun segno di
lei. La luce notturna era stata inserita; Jack White controllò
gli apparecchi in basso e spense gli interruttori principali;
davanti al registratore di cassa Hadley cominciò a contare i
soldi e a sistemarli dentro grigi sacchetti di stoffa.
«Un altro giorno, un altro dollaro» annunciò Jack White
mentre passava davanti al banco con l’intenzione di
andarsene. «Ce la fai a finire da solo, vecchio mio?»
«Certo» rispose Hadley, felice di vederlo andar via.
«Esci pure.»
White indugiò. «Chi è quella signora?»
«Quale signora?» Hadley si mise subito sul chi vive.
«Quella che stava qui prima. Quella che ti aspetta in
fondo all’isolato.»
Hadley si tenne sul vago: quello era esattamente ciò
aveva temuto… e sapeva che difficilmente lo avrebbe
evitato. «Come fai a sapere che quella signora mi aspetta in
fondo all’isolato?»
«Cristo, l’ho sentita che lo diceva.» White s’illuminò e
diede una pacca sul braccio di Hadley, cinicamente.
«Quando il gatto non c’è, eh? Spassatela e ricordati di
tenere abbottonati i calzoni.» Aprì la porta con la chiave, lo
salutò con un gesto gioviale della mano, e se la richiuse alle
spalle. L’eco dei suoi tacchi duri e concreti si perse lungo il
marciapiede affollato, e Hadley rimase solo.
In tutta fretta portò il denaro alla cassaforte, vi infilò i
sacchetti e la richiuse. Infilò il nuovo nastro nel
registratore di cassa e lo chiuse. Una rapida occhiata gli
rivelò che tutto era stato spento e tutto era al suo posto;
prese la giacca dall’armadietto sul retro e seguì i passi di
Jack White, uscendo dal negozio.
L’aria era calda, soffocante. La luce accecante gli faceva
venire mal di testa. Desiderò che quella donna non fosse
mai venuta, desiderò stare così male da non essere in
grado di raggiungere la macchina; provò più volte la
maniglia per accertarsi di avere chiuso bene, poi si avviò
lentamente lungo il marciapiede verso il negozio di liquori.
La prima cosa che disse Marsha quando lo vide fu: «Si è
dimenticato i quadri.»
Per attimo lui prese in considerazione l’idea di mandare
al diavolo l’intera faccenda. Il buon senso gli diceva di
uscirne adesso, finché era ancora possibile. Marsha aveva
abbassato i finestrini e stava ascoltando della musica alla
radio: un’orchestrina jazz, stridula e rumorosa. Per un
attimo si guardarono in faccia, poi Hadley alzò le spalle,
sconfitto. «Vado a prenderli» disse.
«Vuole che l’accompagni in macchina?»
«No, vado a piedi.»
Tornò lentamente al negozio. Si sentiva i piedi pesanti;
solo con grande sforzo riuscì a girare la chiave nella troppa
e ad aprire la porta. La stanchezza di otto ore di lavoro gli
pesava addosso, e il suo stomaco affamato e agitato
protestava brontolando. Mentre passava davanti al banco
con il pacco di quadri sottobraccio, il telefono cominciò a
suonare.
Aspettò tre squilli prima di rispondere. Poteva essere un
cliente che voleva sapere come mai Olsen non avesse
riconsegnato qualche apparecchio. Poteva essere
Fergesson che chiamava per qualcosa. O poteva essere
Ellen.
Era Ellen.
«Sono contenta di averti trovato.» La sua voce, dolce e
triste, sembrava provenire da lontanissimo. «Come stai?»
«Alla grande» rispose lui. Tirò quanto più poté il cavo
del telefono in modo da allungare la mano e chiudere la
porta del negozio. Non voleva che si presentasse Marsha
mentre stava parlando con Ellen. «Che vuoi?»
«Mi stavo chiedendo…» Ellen esitò, avvilita. «Stuart,
perché non vieni anche tu? Mamma dice che tu sei sempre
il benvenuto, e lo sai. E Pete sta strillando come un matto.»
«Perché?»
«Perché sente la tua mancanza.» Poi aggiunse, con una
nota lamentosa: «E anch’io. Ti prego, vieni con noi. Non
sarai costretto a trattenerti; vieni e resta con noi per un
po’.»
Il tono stucchevole, infantile della sua voce, l’implorante
timbro femminile che detestava così tanto, valsero a
convincerlo. Fissando il calendario sopra il cartellone delle
valvole, Hadley rispose: «Tesoro, non posso. Ho detto a
delle persone che sarei stato da loro per cena. Sono già in
ritardo. Se mi avessi chiamato prima…»
«Quali persone?» Non c’era sospetto nella sua voce,
solo sconsolato interesse. «Dave e Laura?»
«Clienti che conosco» spiegò Hadley, gli occhi sempre
fissi sul calendario. Tanto valeva raccontarla bene. «Credo
che tu nemmeno li abbia mai visti. Sono stato a casa loro
un paio di volte per mostrargli un combinato RCA. Sono
brava gente, hanno circa dieci anni più di noi. Lui è un
agente di borsa.»
«A… a che ora tornerai a casa?»
«Non lo so di preciso. Probabilmente tenterà di
vendermi delle azioni… Potrei fare tardi.» Poi aggiunse:
«Magari mi fermerò a bere qualcosa sulla via del ritorno.
Sono al verde, ma un bicchierino posso permettermelo.»
La voce di sua moglie si rannuvolò per la
preoccupazione. «Quanti soldi hai? Siamo quasi alla fine
del mese… Io ho finito tutti quelli che mi avevi dato.»
«Ne ho a sufficienza» rispose impaziente Hadley; aveva
sentito il rumore di un motore all’esterno. Una macchina si
stava avvicinando alla zona di carico e scarico
contrassegnata dalle linee gialle. «Senti, tesoro, devo
scappare. Se posso ti chiamo più tardi da casa loro.»
«Divertiti» disse Ellen con voce fiacca e sconfortata. «E
non mangiare cipolle; lo sai quanto ti fanno male. Me lo
prometti?»
«Ci vediamo» replicò brusco Hadley, e interruppe la
comunicazione. Si affrettò verso la porta con i suoi quadri,
l’aprì e usò fuori.
La Studebaker grigia di Marsha era parcheggiata nella
zona gialla. Hadley richiuse a chiave la porta del Modern TV
e la raggiunse. «Cosa l’ha trattenuta?» chiese lei mentre gli
apriva lo sportello.
Lui scivolò in macchina. «Una telefonata. Un cliente che
voleva informazioni su un televisore.»
La macchina fece marcia indietro senza problemi; un
momento dopo procedevano lungo Cedar Street verso la
Bayshore Highway. Davanti a loro c’era un muro solido di
traffico: pendolari dalla faccia triste che se ne tornavano a
casa da San Francisco.
«Quel traffico non ci darà nessun fastidio» constatò
Marsha. «Vengono tutti in questa direzione.» Svoltò con
molta disinvoltura a sinistra sulla statale. «Quasi nessuno
va verso la costa, a parte noi. È l’ora migliore per
viaggiare.»

Mentre guidavano lungo la statale, Marsha chiese:


«Perché è venuto? Io non le piaccio… mi trova sgradevole.»
«Ho dovuto lottare» ammise lui.
«Ho ragione, vero? A lei non piace stare con me.»
«Non è piacevole, no. Ma questo non significa che lei
non mi piaccia.» Rise nervosamente. «Mio Dio, come
potrebbe essere piacevole? Guardi quello che sto facendo.
Potrei perdere mia moglie e mio figlio, la mia famiglia. E
che ne ricaverei?»
Marsha rifletté. «E allora? Lei che cosa pensa di
ricavarne? Penserà pure di averne qualcosa in cambio.»
Era una bella domanda. Hadley osservò i campi marroni
che sfilavano sui due lati della macchina, piatti, brulli e
deserti. Ogni tanto appariva un cartello stinto e malridotto:
QUANDO SARETE A SAN FRANCISCO FERMATEVI DA MARK HOPKINS…
LA PROSSIMA VOLTA PRENDETE IL TRENO… MOBILGAS E MOBILOIL
SONO A VOSTRA DISPOSIZIONE POCO PIÙ AVANTI. «Ecco» rispose.
«Potrò conoscere Beckheim.»
«Tutto qui?» gli chiese Marsha con vivacità «È l’unica
ragione per cui lei è qui?»
«Se non fossi qui, dove sarei? Seduto nel mio
appartamento di due camere a guardare la televisione o a
leggere il Time.» Gli sembrò la cosa migliore da dire per
esprimere ciò che provava. «O magari in un locale. Se
avessimo trovato qualcuno che sta con il bambino. Una
cena e poi a ballare per un’oretta. Un’orchestrina
scalcinata come quelle che c’erano ai balli del liceo. Tizi in
giacca verde e cravatta a farfalla che suonano il sassofono.
Coppie di mezza età che si prendono a gomitate.»
«Sono sicura che lei deve avere ben altra
immaginazione! Non riesce a trovare un modo migliore di
passare il suo tempo?» Indicò il pacco di quadri. «Che mi
dice di quelli?»
«È tutta roba del passato. Diciamoci la verità… io non
sono un artista, sono un venditore di televisori. Guardi
questo vestito e mi dica se è il genere di vestito che
indosserebbe un artista.»
Dopo un attimo Marsha disse: «Nel suo intimo lei sa di
non essere un venditore di televisori. Crede che un uomo
sia semplicemente il lavoro che svolge? Herman Melville
era un ispettore della dogana. Borodin era un medico.
Kafka lavorava in banca. James Joyce era un traduttore
della Berlitz School.»
«D’accordo» la interruppe Hadley, irritato. «Ho afferrato
l’idea.»
«Davvero? Io ne dubito. L’intera dottrina comunista
punta a fare identificare le persone con la loro funzione
economica… in questo paese come in qualsiasi altro posto.
Ma lei sa che la sua vita interiore non ne viene toccata… la
sua vera personalità non entra in gioco quando lei vende un
televisore. Non sente la differenza fra l’uomo che vende
televisori e l’uomo che lei è veramente?»
«Be’,» ammise con po contrariato Hadley «certe volte
ho come la sensazione di portare avanti una mistificazione.
Certo, io odio il mio lavoro. Certo, non ne ricavo nessuna
soddisfazione… ma che scelta mi rimane? Non sono lì
perché mi piace.»
«Lo molli.»
«Per fare che cosa? Morire di fame?»
«Lei non morirà di fame… nessuno muore di fame in una
moderna società industriale. Riprenda a dipingere… Ne ha
le capacità.»
Hadley arrossì violentemente. «Lei non ha mai visto un
mio quadro, non lo sa quello che sono capace di fare.» Era
lusingato e disgustato nello stesso tempo. Voleva sentire
parole come quelle… ma non se ne lasciava ingannare più
di tanto. Era assurdo. Era la parodia di una lode. Una
donna che aveva visto appena due o tre volte, che non
sapeva niente della sua vita, del suo lavoro, gli veniva a
dire che aveva capacità artistiche. «Per quanto ne sa lei,
quelle tele potrebbero essere bianche.»
«Posso dire che sono buone» replicò lei con calma
«perché conosco lei. Sarebbero una sua espressione,
un’espressione del suo vero essere. E io so com’è fatto.»
Infastidito, Hadley lasciò perdere e non fece commenti.
Si chiuse in sé stesso e cominciò a riflettere. Marsha
parlava in modo serio, quasi intenso… ma era impossibile
dire cosa ci fosse dentro di lei. Quanto faceva e diceva era
separato da ciò che veramente era; c’era un intervallo di
tempo, un vuoto aperto: non c’era spontaneità. Tutto era
misurato, studiato in anticipo. Marsha era spettatrice delle
sue stesse azioni: era al di sopra, remota e distaccata, e
manovrava passo passo una marionetta a grandezza
naturale. Ecco il vero inganno. Marsha non era tangente in
nessun punto al mondo esterno: era capace di isolarsi del
tutto, come una sfera che ruotasse regolarmente su sé
stessa, in silenzio, senza mai toccare l’universo. Sospesa in
un medium invisibile, a un niente dal mondo della materia.
«Ha mai letto Sartre?» gli chiese Marsha.
«No.»
«Ho un suo libro che le presterò… è molto piccolo. Le
basi dell’esistenzialismo. È una filosofia che vale la pena di
approfondire… specialmente per una persona come lei.»
«Perché dice così?» Hadley era incuriosito, dal momento
che si stava parlando di lui. «Perché proprio io in
particolare?»
«Dovrei trascinarla in quelle che ritengo le cause
basilari del suo dilemma.»
«Faccia pure.»
Marsha sospirò. «Devo proprio? Be’, lei è un
intellettuale rinnegato. Ecco la cosa più importante. Lei si
nasconde… se ne va in giro con il suo vestito color blu
polvere e i polsini francesi, mascherato da giovane e
brillante venditore, da commerciante. E in realtà a lei il
commercio non interessa affatto. Apparenza, tutta
apparenza, non è così? Ma lei non può tornare al mondo da
cui è fuggito… Non vuole nemmeno quello. Non virole
essere un Dave Gold: impotente e pieno di parole. Che si
muove in modo stravagante, che mastica complicate
dottrine. Lo sa, Louis Fischer domandò a una vecchia
contadina russa in che modo le cose fossero cambiate per
lei dopo la rivoluzione… la sto annoiando?»
Hadley scosse la testa. «No.»
«La vecchia rispose: ‘Ecco, la gente parla di più’. Io
credo che questa sia la sintesi del marxismo. Lei non vuole
tornare alle parole vuote, al parlare per il parlare… Ha
visto quei gruppetti di avanguardia che se ne stanno seduti
a discutere, e quelle piccole schegge socialiste. Solo parole
vuote. Si parla e non si agisce. E le parole portano ad altre
parole. Dogmi. Volumi, trattati, libri, e poi discussioni,
dibattiti, proposte, risoluzioni.» Emise un suono disgustato.
«Sartre dimostra che un uomo esiste solo attraverso le sue
azioni. Capisce? Non si tratta di ciò che lei pensa, ma di ciò
che lei fa. Quello che lei pensa non ha nessun significato…
Può starsene seduto a pensare in eterno… che differenza
farebbe? È l’azione che conta. Sono i fatti.»

Al crepuscolo imboccarono la statale litoranea verso


San Francisco. C’erano poche macchine sulla strada; una
vuota distesa di cemento grigio si stendeva davanti e dietro
alla piccola Studebaker. Il terreno digradava desolato verso
l’oceano, ricoperto da verdi sterpaglie. Un vento freddo
soffiava attraverso i cespugli trascinando frammenti di
vecchi giornali, foglie e rametti, facendo rotolare lattine
rugginose di birra e detriti giù per il pendio scosceso, fino
all’acqua color piombo. Ogni tanto dei cartelli con su scritto
divieto di scarico alleviavano la monotonia. Sulla destra le
linee ricurve del telegrafo ondeggiavano sinistre. Uniformi
colline di un color marrone bruciato si stendevano sul lato
opposto all’oceano e si perdevano nel buio incombente.
Non si vedeva essere vivente.
«È triste da queste parti» osservò Hadley.
Marsha ne convenne, mentre manovrava abilmente il
volante. «A parte quello» disse indicando davanti.
Solo e abbandonato, un camion era parcheggiato su una
collinetta di terra a lato della strada. Un grosso cartello
dipinto a mano diceva UOVA FRESCHE 59 CENT LA DOZZINA, e
sventolava tristemente al vento della sera. Un uomo e un
ragazzo stavano caricando ceste di uova sul retro del
camion; ormai per loro la giornata era finita. Le loro
sagome si distinguevano appena nell’oscurità. Attorno al
camion il vento aveva ammucchiato uno strato di rifiuti alto
fino alla caviglia. Bianca sporcizia urbana che era stata
espulsa dalle macchine di passaggio, e poi raccolta dal
vento dell’oceano.
Mentre osservava il camion che rimaneva indietro,
Hadley si sentì sopraffare dalla depressione. La spettrale,
desolata linea costiera lo innervosiva; l’uomo e il ragazzo
che si affannavano in silenzio a raccogliere le uova non
vendute erano il simbolo della futilità di ogni sforzo. Senza
dubbio i due erano stati lì tutto il giorno, mentre auto
lussuose sfrecciavano accanto.
«Chissà se ne hanno venduta qualcuna» rifletté ad alta
voce. Per lui quell’uomo solitario e suo figlio
rappresentavano tutti quelli di cui si preoccupava, tutti i
deboli, gli indifesi, gli oppressi che aveva a cuore. La gente
inerme che Marsha aveva cancellato con un gesto della
mano.
«Lo stesso prezzo dei supermercati della città» osservò
Marsha. «Roba per babbei.» Infilò la seconda quando la
strada cominciò a salire. «Gli automobilisti cercano sempre
di acquistare fuori città, e la gente di campagna li frega alla
grande.»
«Non mi piace questo posto» disse Hadley. «È così
dannatamente deserto. E se la macchina avesse un
guasto?»
«Non succederà» rispose tranquilla Marsha.
«Ma potrebbe succedere. Potremmo rimanere bloccati
qui; chi diavolo verrebbe a cercarci? Nessuno. Magari
resteremmo qui per sempre. È come scivolare in un
crepaccio nel terreno.»
«Un giorno» replicò Marsha «qui sarà tutto costruito.
Casette suburbane tipo ranch californiano, con Chrysler
parcheggiate davanti, o magari Ford. Tante piccole case a
un piano, tutte uguali.»
Stavano entrando a San Francisco. Sulla destra c’era un
lungo parco, sulla sinistra una fila di alberi, e al di là
l’oceano.
«Questo è un circolo sportivo» gli spiegò Marsha. «Per i
ricchi colonnelli del Presidio. Così la plutocrazia può avere
un posto per giocare a golf.»
Gli alberi erano pozze nere di ombra. Nel cielo viola
carico sopra di loro cominciavano ad apparire le stelle. In
lontananza, oltre il circolo sportivo, le luci gialle
ammassate della città ammiccavano e scintillavano, fila
dopo fila, scomparendo dietro i blocchi neri delle
montagne. Nella quasi oscurità del tramonto San Francisco
poteva apparire come una specie di cosmica città mineraria
che lavorava senza rumore, senza sforzo, infiniti
macchinari che spuntavano dal terreno per poi svanire
negli strati di nebbia che aleggiavano sopra la Baia.
Hadley guardò con desiderio quelle luci, si godette fino
in fondo la visione di quell’attività piena di significato.
«Magnifico» disse con un filo di voce. Le macchine li
superavano a tutta velocità, con gli abbaglianti accesi. I
rumori della vita umana gli rimbombavano nelle orecchie: il
dolce baccano di motori, traffico, radio, voci metalliche a
tutto volume. Provò sollievo per essere uscito dallo spazio
desolato fra una città e l’altra. Era quello che la campagna
significava per lui: spazi vuoti in cui non viveva né capitava
nessuno. La campagna era la terra arida al di fuori delle
città, niente più.
«Ci siamo» disse Marsha con voce cupa; la sua reazione
era virtualmente l’esatto contrario.
Lasciarono la litoranea e si infilarono rapidamente nella
città. Sui due lati scorrevano moderni palazzi per
appartamenti di cemento bianco; la strada era ampia e
liscia, illuminata da lampioni gialli al sodio. Hadley abbassò
il finestrino e si sporse fuori. Mentre s’imbeveva della
presenza della città lasciò che il fresco vento notturno gli
soffiasse dritto in faccia, e gliene fu riconoscente. Godette
fino il fondo quello schiaffo pungente; socchiuse gli occhi e
si guardò intorno compiaciuto.
«Questo le dà sicurezza» osservò acidamente Marsha.
«Lei vuole perdersi nella massa. Rendersi indistinguibile.
La sicurezza nell’imitazione.»
«Dannazione» fece Hadley, risentito. «A me piace la
gente. Mi piace stare insieme a loro. Che c’è di così
innaturale in questo?»
«La stanno triturando! La stanno trascinando al loro
livello. Si guardi…» Marsha fece un gesto con la mano. «Lei
e il suo vestito, la cravatta e i polsini; assomiglia a un
milione di giovani, brillanti venditori, o vicepresidenti, o
dirigenti di borsa, o funzionari di ogni tipo. Ma lei non lo è.
Sotto sotto, non lo è!»
«Che cosa sono?» chiese Hadley, sempre curioso.
«È un artista, naturalmente. E lo sa. Perciò non faccia
finta! Non cerchi di strisciare via e nascondersi sotto quel
travestimento da venditore; accidenti a lei, dovrà pure
mettersi in piedi come un uomo e affrontare il suo destino.»
Hadley aggrottò la fronte, rabbuiato; sapeva che non
era vero… ma allora era falso? Evidentemente Marsha ci
credeva. Forse aveva ragione lei e lui si sbagliava. Forse ci
voleva qualcuno dall’esterno per capirlo; forse un uomo
non poteva mai sapere chi o che cosa fosse; bisognava che
qualcuno glielo dicesse.
«Ci fermiamo a casa mia per bere qualcosa» gli
comunicò Marsha. Guardò l’orologio. «Poi andremo a
trovare Ted.»
Hadley sentì un freddo sudore nervoso che gli bagnava
le palme delle mani. La realtà di Theodore Beckheim era
sempre più vicina; cominciava a diventare convincente.
Umettandosi le labbra secche disse: «Non voglio
disturbarlo, se ha da fare. Probabilmente avrà tanti
impegni.»
«Certo. Ma è importante che lei lo conosca. Gli ho
parlato di lei, e desidera incontrarla.»
Hadley sbuffò. «Questa è tutta da ridere! Che razza di
storia mi sta raccontando? E lei che ci guadagna? Cristo,
non sono una specie di vitello da prendere per il naso e
portare al mattatoio per farmi squartare. Al mattatoio non
ci vado di mia libera volontà… lei deve pensare che sono
proprio innamorato di me stesso.»
«Io la sto allontanando dal mattatoio» disse Marsha in
tono mite.
La strada era diventata più stretta. La Studebaker
cominciò a risalire una lunga collina; gli appartamenti
moderni lasciarono spazio alle alte case di legno vecchio
stile, unite da un muro comune. Non si vedevano piante o
erba, solo i grigi marciapiedi di cemento. Il fondo stradale
era ruvido e irregolare. Ogni tanto passava qualcuno.
Piccoli negozi, sporchi e sciatti, ammiccavano nel buio della
sera: rivendite di liquori, salette di lustrascarpe, drogherie
scolorite, agenzie di credito, bar.
«Questo è il distretto di Hayes» spiegò Marsha mentre
la Studebaker giungeva in cima alla collina, esitava, e poi
cominciava a ridiscendere lentamente dall’altra parte.
«Questa via che scende si chiama Hayes Hole. Io abito più
giù, a tre quarti della strada.»
Le macchine erano parcheggiate sui marciapiedi e sui
vialetti. In fondo alla discesa c’era un’altra strada in salita,
piena di luci e di traffico. Gli autobus risalivano rapidi; agli
incroci sciami di persone ammassate attraversavano tutte
insieme con il verde. Ben presto Marsha rallentò, tirò fuori
dal finestrino il braccio magro, tagliò la linea centrale verso
sinistra e attraversò la corsia opposta infilandosi in uno
stretto vicolo con il fondo in cemento fra due torreggianti
case di legno. La macchina emerse in un parcheggio
circolare, davanti a una fila di garage fatiscenti. Marsha
fermò la macchina in un groviglio di erbacce umide e
sporcizia, il vialetto di una delle case. Tirò il freno a mano e
spense il motore.
«Bene» esclamò in tono vivace. «Siamo arrivati.»
Hadley scese rigido dalla macchina. Una nebbiolina
fredda e umida ammantava ogni cosa; il cielo era coperto.
Sulla destra c’era un recinto di legno gocciolante che
racchiudeva un cortile ingombro di lattine arrugginite di
birra e di grosse erbacce. Pacchi di giornali inzuppati erano
impilati contro la fila di garage. C’era anche una vasca da
bagno rovesciata e mezza sepolta. Attorno al guscio
annerito di un inceneritore c’erano avanzi di spazzatura
bruciacchiata. Il palazzo stesso finiva in un guazzabuglio di
scalini piegati, tubi dell’acqua, lastre crepate di
calcestruzzo, una veranda e una ringhiera, grigie e
arrugginite.
«Non è molto bello, vero?» osservò Marsha.
Hadley ricordò le squallide colline fra le città; lì c’era lo
stesso abbandono e la stessa rovina. Rabbrividì e si avviò
verso il palazzo. «Come si entra?» chiese impaziente.
Marsha lo precedette su per una rampa di scalini
malfermi, oltre file di panni svolazzanti e ricoperti da un
velo di rugiada, fino a una doppia porta. La aprì e lo fece
entrare in una cucina che puzzava di pancetta e di verdure
irrancidite che ammuffivano dentro barattoli neri. Una luce
pioveva dall’alto, nuda e abbagliante. Un lato della cucina
era composto da un grosso acquaio e da una credenza; i
piatti sporchi erano ammucchiati in grandi pile tutt’intorno.
Bottiglie vuote di birra e di vino riempivano sacchetti di
carta sul pavimento di linoleum. Il tavolo era pieno di
bicchieri vuoti e portacenere zeppi di cicche, pacchetti
appallottolati di sigarette, cavatappi e turaccioli.
«Di qua» disse Marsha, guidandolo con decisione fuori
dalla cucina. Hadley la seguì malinconicamente in un
corridoio ricoperto da tappeti. L’odore di un vecchio bagno
aleggiava dappertutto e ristagnava negli angoli. La donna
raggiunse un salotto e allungò la mano verso la cordicella
della luce. La trovò e il salotto prese vita lentamente.
Hadley scoprì di essere in una vasta stanza dall’alto
soffitto che era stata ridipinta a mano. Le pareti erano blu
scuro, il soffitto verde. Sul pavimento erano state posate
delle mattonelle. Al posto delle sedie c’era un ingombrante
letto in stile hollywoodiano; sul lato opposto del pavimento
erano ammucchiati dei cuscini di varie dimensioni. In
mezzo alla stanza c’era un tavolo basso fatto di lastre di
ardesia dell’Arizona. Sopra c’era una scacchiera. In un
angolo era poggiata una scultura. Metà della stanza era
una libreria costruita con assi di legno e mattoni, piena
zeppa di libri rilegati ed economici. Le pareti erano coperte
da stampe fissate con puntine da disegno. In ogni angolo
c’erano mucchi di giornali e riviste. In fondo al letto
hollywoodiano Hadley notò una grossa scatola di Succubus
non rilegati.
«Si sieda» gli ordinò Marsha. «Vado a versarle qualcosa
da bere. Cosa gradisce, scotch o bourbon?»
«Bourbon» mormorò Hadley, mentre si affrettava a
sedersi sul grosso letto. Dal pavimento sotto di lui
proveniva il suono metallico e acuto di una radio.
All’esterno le macchine strombazzavano e passavano
veloci. Una vibrazione sorda faceva ballare la lampada e il
tavolo… probabilmente l’impianto di condizionamento del
palazzo. La stanza era fredda e umida; Hadley rabbrividì e
si frugò in tasca in cerca delle sigarette. Marsha cercò in
giro dei bicchieri puliti.
Mentre se ne stava seduto a fumare e a pensare, entrò
un gigantesco cane bianco che si mise a fissarlo. Il cane
annusò, poi si rigirò per andarsene.
«Tertulliano!» gli gridò Marsha in tono autoritario.
Il cane si fermò e girò la testa verso di lei.
«Torna nella tua cuccia e resta lì» gli ordinò Marsha.
Il cane ciondolò oltre Hadley e andò in cucina.
Scomparve sotto la macchina del gas; con un sospiro si
rannicchiò sopra un pagliericcio pieno di peli e si mise a
guardare fuori con aria inespressiva, al di sopra della
pallide zampe arruffate.
Dopo un po’, Marsha tornò svelta in salotto portando
due alti bicchieri di whisky. «Bene» disse, sedendosi sul
letto e appoggiando i bicchieri in mezzo al tavolo di
ardesia. «Si serva pure.»
Hadley prese morbosamente il suo bourbon. «Questo
posto mi avvilisce» osservò all’improvviso, mentre si
rigirava il bicchiere freddo fra le mani. «Senta, tutto questo
è sincero… o sta solo cercando di prendersi gioco di me?»
I gelidi occhi grigi di Marsha incrociarono i suoi. «Che
intende dire? Cosa è sincero?»
«Questa Storia di Beckheim. Come faccio a sapere che
non mi sta ingannando?» Il suo sguardo percorse
corrucciato tutta là stanza. «Non vedo nessun segno di lui;
dove diavolo è?»
«Non è qui» rispose seccamente Marsha. La sua voce
crebbe di tono. «Perché dovrebbe essere qui? Ha qualche
motivo per aspettarsi di trovarlo qui?»
«Si calmi» disse Hadley, a disagio.
Marsha sorseggiò il suo drink.
«Non capisco perché lei debba sospettare di me»
mormorò.
«Sospettare di lei? E per cosa?»
«Lasciamo perdere.» Stava tremando visibilmente.
«Non posso permettere che lei sospetti di me. È questo che
prova nei miei confronti? Non ha proprio la minima fiducia
in me?» Con gli occhi lucidi e accesi, proseguì d’impeto:
«Mi sono mai comportata in modo da farla sentire in questo
modo? No, è qualcosa in lei. È colpa sua, non mia.»
«Di cosa diavolo sta parlando?» chiese lui, irritato.
«Di niente. Non sopporto l’idea che lei provi questo
sentimento verso di me, tutto qui. Per favore…» Tutto a un
tratto s’interruppe e voltò la testa di lato. «Non voglio
parlarne.»
Per un po nessuno dei due disse nulla. Hadley era
rimasto molto colpito, era la prima volta che vedeva
davvero all’interno del fragile guscio che lei si era costruita
intorno. Adesso, per un breve lasso di tempo, era emersa
tutta l’appiccicosa insicurezza sotterranea della donna.
«Lei è terrorizzata» osservò Hadley, sbalordito.
«Continua a chiacchierare, decisa e implacabile, ma la mia
disapprovazione la terrorizza.»
«Lasciamo perdere.» Marsha annaspò alla cieca, in
cerca di qualcosa. «Mi offrirebbe una sigaretta?»
Le porse una sigaretta dal pacchetto; lei allungò
nervosamente la mano tremante. Per un momento i loro
volti furono vicinissimi: Marsha odorava leggermente di
sapone e di un profumo forte e legnoso. E di paura, una
paura frammentata, instabile. Poi lei si ritrasse di corsa,
appoggiò le scapole magre alla parete, unì le gambe e le
raccolse sotto di sé, incrociò le braccia, tirò una lunga
boccata dalla sigaretta, sollevò un poco i seni e rivolse un
fiacco sorriso a Hadley.
«Dovrà imparare…» fece con voce debole, strozzata.
«Non può trattare la gente in questo modo.»
«Cerchi di calmarsi» le disse lui. «È sconvolta, ma non è
successo niente. Nessuno la sta trattando in nessun modo.»
Marsha continuò a fissarlo con uno sguardo attento fino a
quando lui non si alzò in piedi e si mise a passeggiare
nervosamente per la stanza. «E poi non mi piace questa
attesa» aggiunse in tono di protesta.
Marsha si sporse per scrollare la cenere della sigaretta;
quella smorfia inquieta, ma rigidamente controllata,
rimase.
«Quanto durerà ancora?» chiese Hadley. «Per quanto
dovremo rimanere qui a guardarci in faccia? Se devo
incontrarlo, facciamo in modo che succeda presto.»
Misurando le parole, Marsha replicò: «Non ci vorrà
molto. Cerchi di sopportare la mia compagnia per un altro
po’.»
«Perché non andiamo adesso?»
Lei continuò a osservarlo con insistenza; non vi fu
risposta. Forse Hadley doveva dedurne che era in atto
qualche processo cosmico? Un inesorabile rituale al di là
del controllo dell’uomo? La sua tensione aumentò;
l’instabilità di Marsha divenne per lui sempre più
insopportabile, fin quasi a sopraffarlo. All’improvviso si
mise a urlare: «Chiudiamo qui tutta questa faccenda! Io me
ne torno indietro!»
«Si sieda e beva il suo drink.»
«No.» La fronteggiò con aria di sfida; entrambi si
guardarono con una sorta di muto isterismo crescente, e
alla fine fu lei a rabbrividire e a distogliere lo sguardo.
«Stuart,» gli disse stancamente «ha un’aria così sciocca lì
in piedi. Per favore, si metta a sedere e si comporti come
un adulto.»
Hadley arrossì e si rimise giù; appoggiò la schiena al
muro e riprese il bicchiere.
«Così va meglio» fece Marsha, compiaciuta di avere
riguadagnato l’iniziativa. «Che vuole sentire?»
«Sentire?» sbottò lui. «Che intende?»
Marsha gli indicò una sezione della parete. Si vedevano
delle manopole, e i profili di porte incassate. «Impianto ad
alta fedeltà fatto in casa.» Scivolò in piedi con molta
naturalezza. «Glielo mostro; è montato nella parete.»
«Non m’interessa» borbottò Hadley rabbiosamente, ma
rimase seduto e la seguì con lo sguardo. Una porzione del
muro venne spinta all’indietro, rivelando diversi album di
dischi. Un’altra porzione rivelò un grosso altoparlante e
mucchi di fili aggrovigliati. Venne fuori un cassetto con un
complesso apparecchio cambiadischi e relativo braccetto
con puntine.
«Puntine di diamante» gli spiegò Marsha. «Una per i
long-playing e una per i vecchi 78 giri.»
«Bello» osservò Hadley.
«Ha qualche preferenza?»
«Metta quello che vuole. Se proprio deve suonare
qualcosa.»
«Quasi tutta la musica moderna è degenerata» affermò
Marsha mentre prendeva una manciata di LP. «Il ciclo di
Schönberg… musica atonale. Tutta la roba viennese, fatta
da ebrei.» Sfilò un disco dalla foderina rigida; prendendolo
per i bordi lo sistemò sul piatto e avviò l’apparecchio.
«Vediamo che ne pensa di questo.»
Con violenza, con uno stridore metallico, il giradischi
sparò il suono aspro e possente di una grossa orchestra
sinfonica.
«La trascrizione di un brano per pianoforte di Schubert»
spiegò Marsha mentre tornava a sedersi. «Schubert non è
vissuto abbastanza per sentirlo… Non è delizioso?»
«Magnifico.»
Per un po tacquero entrambi. L’uno di fronte all’altra,
ascoltarono lo strepito dell’impianto ad alta fedeltà. In
cucina i bicchieri e le tazze tintinnavano all’unisono.
All’inizio il rimbombo fragoroso dei suoni aggredì con forza
il cervello di Hadley; cominciò a fargli male la testa,
cominciarono a fargli male gli occhi. Si dimenò e cercò di
opporre resistenza a quell’aggressione. Ma poco a poco la
musica gli assordò il cervello, per poi recedere e divenire
un suono soffocato e remoto, senza forma né significato.
Obnubilò il pensiero e le preoccupazioni, e di questo lui fu
riconoscente. Ogni cosa nella stanza veniva catturata e
assorbita dalla musica; la stanza stessa, con tutto ciò che
conteneva, cominciò a scuotersi e a vibrare di eccitazione.
Alla fine Hadley si arrese e si abbandonò del tutto alla
musica. Stanco e rassegnato, smise di opporre resistenza.
Dopo di che l’esperienza divenne quasi piacevole.
La stanza sembrò offuscarsi. Gli oggetti persero la loro
forma e si fusero insieme in modo indiscriminato.
Probabilmente era solo stanchezza degli occhi; Hadley
rimase seduto a fissare il vuoto, mezzo ipnotizzato, mentre
la sua sigaretta si consumava sul portacenere sopra il
tavolo. La frenesia del giradischi divenne quasi visibile,
manifesta nei colori delle pareti, negli schemi delle
mattonelle. Una sorta di scura nebbiolina metallica
cominciò ad aleggiargli intorno, e lui l’accettò. In cucina,
nel suo giaciglio sotto la macchina del gas, Tertulliano si
era appisolato.
Quando finì il primo lato del disco, Marsha si alzò e
attraversò la stanza diretta verso l’amplificatore. Con un
gesto brusco delle dita spense il complicato apparecchio. Il
rumore sembrò rinculare dall’altoparlante e la stanza
divenne silenziosa. Marsha tornò verso il letto a passi
nervosi; era tesa e immusonita come Hadley.
Lui, dal canto suo, si sentiva come se fosse stato
sottoposto a una specie di crudele e non precisata prova
del fuoco, il cui scopo gli sfuggiva del tutto. Forse sfuggiva
anche a Marsha. In ogni caso era finita. Respirò a fondo e
allungò la mano verso il bicchiere. Sbatté le palpebre, si
risistemò sul letto e bevve qualche sorsata.
«Dove sono i suoi figli?» le domandò. «Non li vedo in
giro.»
«Sono fuori.» Marsha scrollò con un gesto irritato la
sigaretta sul portacenere. «Su nella contea di Sonora, in un
campo estivo.»
«Vive qui da sola?»
«No.»
«Lei è in affitto qui dentro, vero?»
Marsha annuì rigidamente. Tutto a un tratto saltò su e
tornò verso il giradischi. Lo riaccese, rigirò il disco e lo fece
suonare a volume più basso, quasi in sottofondo. Poi tornò
a sedersi, rigida e impettita. Hadley sentì che la sua
tensione era diminuita; tutto merito della musica. Aveva
tenuto duro, e adesso si trovava nella condizione di sentire
l’inevitabilità delle cose. Era evidente che gli eventi stavano
procedendo secondo le loro leggi; erano all’opera
dinamiche nascoste. Non poteva aspettarsi di accelerarle o
di posporle: poteva solo aspettare. E aspettò, rasserenato.
Mentre Stuart Hadley stava lì ad ascoltare, la porta
dell’appartamento si aprì e un uomo entrò. Non gli sembrò
strano o sorprendente che quell’uomo fosse Theodore
Beckheim. Vestito con un abito blu scuro, il cappello sulla
testa, un soprabito pesante sotto il braccio, il grosso nero si
richiuse la porta alle spalle, appoggiò giacca e cappello su
un tavolo nell’atrio e poi entrò in salotto.
Hadley si alzò in piedi. I due uomini si ritrovarono uno
di fronte all’altro, e Marsha si affrettò a mettere da parte il
suo drink per fare le presentazioni.
Theodore Beckheim protese la mano e Hadley gliela
strinse. Era un uomo vecchio, dalle spalle tonde, e immenso
nella sua antichità; il vestito era stazzonato e consunto, un
abito di stoffa spessa, molto fuori moda, rigido e formale,
troppo stretto sulla vita, troppo corto sui polsi. Le antiquate
scarpe nere erano lucidissime, logore ma dignitose. Portava
un panciotto, abbottonato, in piena estate.
«Come va, signor Hadley?» Beckheim squadrò il
giovanotto biondo con aria inespressiva; aveva gli occhi
grandi e in qualche modo scoloriti. Le pupille intense erano
avvolte in un fluido giallastro. Diede un’occhiata fuggevole
a Marsha, poi tornò a guardare Hadley. La pelle del vecchio
era ruvida e marezzata come cuoio, secca e incallita, una
sorta di cotenna che aderiva alle ossa angolose della testa e
delle guance. Le labbra nere erano sottili e screpolate,
ritratte sui denti con otturazioni d’oro. I capelli erano di un
grigio scuro, corti e lanuginosi. Emanava un debole aroma
di muffa, l’odore di vestiti vecchi, dietro il quale veniva
quello del sudore stantio del suo corpo. Era un uomo
appesantito, vecchio e stanco. Hadley pensò che
dimostrava almeno settant’anni. Era difficile dirlo. Adesso
si vedeva ben poco della sua vitalità, di quel fuoco che si
riversava fuori da lui quella sera all’auditorio.
Ma Hadley non era deluso. Era intimidito. Quella sera
Beckheim era stato uno strumento impersonale che parlava
davanti a un pubblico. Stasera, invece, era un individuo in
carne e ossa; e la transizione lo colpì più di qualsiasi
ripetizione della sua vivace oratoria. Gli sembrò che fosse
ben più di quanto avesse potuto sperare; Beckheim era un
uomo al quale poteva parlare, e che poteva anche
ascoltare. L’abisso che separava i due si poteva colmare…
almeno in quel momento. Beckheim, stanco e scompigliato,
era sceso dal palco. Qui non doveva recitare un ruolo, né
lanciarsi in declamazioni o profezie oratorie, Davanti a
Hadley c’era solo un grosso uomo di colore in un antiquato
vestito con panciotto, che gli stringeva la mano e lo
guardava con curiosità.
«L’ho sentita parlare» fece Hadley.
Le labbra sottili di Beckheim si mossero, si torsero
debolmente; uno spasmo nervoso che era quasi un sorriso,
quasi un sogghigno. «Dove?» gli chiese.
«Giù a Cedar Groves. Lo scorso mese.»
Beckheim annuì in modo obliquo. «Oh, sì.» Si allontanò
da Hadley con leggerezza, lasciandogli la mano.
«È venuto con la signorina Frazier?» Beckheim e
Marsha si appartarono in un angolo della stanza; Beckheim
cominciò a parlarle in modo rapido e sommesso. All’inizio
Hadley pensò che stessero discutendo di lui; pensò che
Beckheim le stesse chiedendo perché lui fosse lì. Ma poi si
rese conto che i due non si vedevano da un bel po’;
Beckheim le stava dando informazioni di carattere generale
e le stava rivolgendo domande che non avevano nulla a che
fare con Hadley. Per un attimo riemerse la figura pubblica,
impersonale, poi Beckheim e Marsha uscirono dalla stanza,
dirigendosi in corridoio e poi in cucina. Hadley rimase solo.
Teso, imbarazzato, cominciò a passeggiare per la
stanza, con le mani in tasca, senza fare niente,
semplicemente aspettando, senza guardare o ascoltare.
Alla fine si lasciò andare tremante sul letto voluminoso e
tirò fuori le sigarette. Se ne stava accendendo una con la
mano malferma, quando Marsha rientrò nella stanza, con il
solito sorriso esangue e autoritario sulle labbra, e prese i
due bicchieri di whisky. «Basta con questi» disse asciutta.
«Lo dice Ted.»
Scomparve, e i drink insieme a lei. Dalla cucina giunse
rumore di attività. L’enorme figura si stagliò incombente
mentre tagliava il corridoio davanti alla cucina; quando
involontariamente nascose la luce, Hadley guardò su.
Beckheim si era sfilato la giacca scura e adesso la teneva
sottobraccio. Sotto portava una camicia celeste e una
cravatta nera. I polsini erano visibilmente consunti. Sotto le
ascelle c’era una grossa macchia di sudore. Senza la giacca
era ancora più ricurvo di prima. Si grattò il mento,
mormorando qualcosa, continuò a muoversi di qua e di là,
diede una sola rapida occhiata a Hadley, sorrise appena,
poi tornò a distogliere lo sguardo.
I due tornarono insieme dalla cucina, camminando in
coppia, senza toccarsi, le facce assorte. «Mi scusi» disse
Beckheim a Hadley, distogliendo l’attenzione dalla sua
conversazione, qualunque fosse. «Questioni sodali… di
nessun interesse. Nessuna intenzione di escluderla.» Tornò
quell’espressione preoccupata. Le parole di Beckheim non
erano, palesemente, un’affermazione spontanea; erano una
dichiarazione attentamente misurata, quasi formale, della
decisione da lui presa.
«Non c’è problema» mormorò Hadley con voce roca
mentre si alzava goffamente in piedi, mettendosi davanti ai
due. Stava tremando; adesso aveva l’impressione che
Beckheim si fosse proprio diretto verso di lui. Lo aveva
visto: Hadley era riuscito a richiamare l’attenzione di
quell’uomo.
«Si sieda.» Beckheim gli indicò il letto con modi gentili e
tutti e tre si misero a sedere. Una parte della tensione che
aleggiava nella stanza venne meno, e Hadley sorrise
nervosamente.
«Ho messo su il caffè» disse debolmente Marsha, in
tono diffidente, guardingo. Sedeva rigida e compassata;
non nervosa, ma silenziosa, obbediente, attenta, come una
bambina bene educata. «Insieme ci saranno anche dei
biscotti di pastafrolla. Fra un paio di minuti.»
Beckheim sedeva con le grosse mani nere appoggiate
sulle ginocchia. Le unghie, come i capelli, erano grigie e
luminose, in parte trasparenti. Sotto si vedeva la
carnagione scura, come attraverso l’acqua. «Lei vive a
Cedar Groves?» gli chiese Beckheim. La voce era bassa,
rauca, priva di connotazione razziale o geografica. Non
aveva una qualità particolare: a parte la sua profondità, il
suo timbro insolitamente basso, era una voce maschile del
tutto ordinaria. Si esprimeva in modo informale: Hadley si
sentì molto vicino a lui, per quell’intervallo finito, per
quella sottile sezione di tempo ritagliata dal flusso
illimitato.
«Sì» rispose Hadley. «Mia moglie e io viviamo lì.»
Avvertì, e gliene fu molto grato, il tono amichevole
dell’uomo. Ma capì allo stesso tempo che l’attenzione di
Beckheim era forzata, che si poteva spezzare da un
momento all’altro, che poteva cessare da un momento
all’altro, per non tornare mai più.
«Ha dei figli?» gli domandò Beckheim.
«Sì. Un bambino, Pete.» Hadley si frugò
automaticamente nelle tasche della giacca, con le dita
nervose e frenetiche, poi cambiò idea, consapevole che il
tempo scivolava via. «Ha solo un mese, o poco più.»
«Da quanto tempo è sposato?» chiese Beckheim.
«Da parecchi anni.» A questo punto non sapeva
nemmeno da quanti.
«Che genere di lavoro fa?»
«Sono un venditore.» Con riluttanza, con molta
trepidazione, aggiunse: «In un negozio di televisori.»
Beckheim rifletté, guardò Marsha con un’espressione
che Hadley non riuscì a decifrare, e poi chiese: «Lei va in
chiesa?»
Con difficoltà, Hadley ammise: «No, non ci vado.»
«Di che fede è la sua famiglia?»
«Protestante.»
Beckheim sorrise gentilmente, con aria comprensiva.
«Siamo tutti protestanti, signor Hadley. Intendevo dire, di
quale parte della fede protestante è la sua famiglia?»
«Non lo so. Congregazionalisti, qualcosa del genere.»
«Modernisti?»
«Sì.»
Dopo un momento Beckheim chiese: «Lei è venuto a
sentirmi?»
«Sì» rispose Hadley. Cercò di mettere nella parola tutte
le sue emozioni, cercò di fargli capire quanto fosse stato
importante per lui.
«Perché?»
Hadley aprì la bocca, ma non gli venne in mente nulla
da dire. Provava sensazioni troppo forti; tutto ciò che riuscì
a fare fu scuotere silenziosamente la testa.
Con gli occhi fissi su Hadley, il grosso nero chiese: «Sta
male, signor Hadley?»
Riconoscente, lui si affrettò a rispondere: «Sì. Molto
male.» Abbassò gli occhi sul pavimento, tremante e
terrorizzato.
«Abbastanza male da morire?»
«Sì» riuscì a replicare, annuendo con vigore.
Le labbra di Beckheim si ritrassero. «Be’, stiamo tutti
abbastanza male da morire, signor Hadley. Questa è una
grande malattia, e tutti ne soffriamo molto.»
«Sì» convenne Hadley, con fervore, travolto
dall’emozione. Aveva voglia di piangere. Non riusciva a
staccare gli occhi dal pavimento; sedeva silenzioso e
immobile, le mani strette, il sudore che gli scendeva lungo
il collo. Attorno a lui e a Beckheim la stanza era buia;
niente si muoveva, niente avveniva.
«Lei vuole star bene?» gli chiese subito Beckheim. «Sì.»
«Molto?»
«Sì, molto.» Rapido e palpitante di un terrore assoluto,
il respiro sembrava grattargli la gola. In un certo senso
aveva come l’impressione di stare recitando un rituale
macabro ed esteriore, tutta forma e niente contenuto. Ma
d’altro canto le parole che venivano pronunciate avevano
grande significato, e lui ascoltava con crescente emozione
tutto quanto Beckheim gli diceva. Le sue parole, le sue
risposte, partivano sul suo cuore, ma nello steso tempo
c’era in esse una qualità impersonale, senza tempo.
Hadley voleva che le parole avessero un significato;
voleva accettarle, e subito la sensazione del rituale diminuì.
Ma non andò via del tutto. Mentre sedeva di fronte a
Beckheim una parte del suo cervello rimaneva in disparte,
una spettatrice fredda e distaccata, divertita e
risolutamente cinica. Hadley detestava quella parte di sé,
ma non aveva autorità su di essa. Per quella parte del
cervello, Stuart Hadley e il grosso uomo di colore che gli
stava davanti erano assurde, grottesche marionette che
danzavano e gesticolavano scioccamente. Quella parte del
cervello cominciò silenziosamente a ridere, mentre lui
rimaneva immobile ad ascoltare.
«Chi crede che potrebbe farla stare bene?» gli chiese
Beckheim con la sua voce atona e controllata. «Lei crede
che io potrei farla stare bene?»
Hadley esitò, rabbrividendo in uno spasmo di emozione.
«Io… non lo so.»
«No» disse Beckheim. «Io non posso farla star bene.»
Hadley ne convenne con un cenno della testa.
«Ma lei può» continuò Beckheim. «È lei che deve farlo.»
Hadley convenne anche su quello. Per un po i due si
fissarono in silenzio, in attesa, come se nell’intervallo di
tempo successivo potesse verificarsi qualche cambiamento
palese. Come se Hadley dovesse guarire in quell’istante,
diventare sano da un momento all’altro, senza ulteriore
ritardo. La tensione crebbe fino a superare la soglia di
sopportazione di Hadley. Tutti gli occhi, e sembravano
essercene a milioni, erano fissi su di lui, immobili,
impietosi, senza nessuna emozione dentro. Come se
qualcuno lo passasse al vaglio da oltre il mondo, da oltre
l’universo.
Poi Beckheim si rivolse improvvisamente a Marsha. «Il
caffè sta bollendo.»
«Oh» fece Marsha, imbarazzata, e si alzò subito. «Panna
e zucchero?» chiese a Hadley.
«Sì» rispose lui stordito, sbattendo le palpebre, mentre
riemergeva in superficie accecato dall’improvvisa luce della
stanza. Frese la sigaretta e la schiacciò con violenza.
L’incantesimo si era rotto e Beckheim aveva tirato fuori un
giornale dalla tasca della giacca; lo stava aprendo e
cominciava a sfogliarlo. Il momento era passato, Hadley era
stato congedato. Lui non si era reso conto di quanto fosse
andato giù… se ‘giù era la parola giusta. In ogni caso si era
allontanato di molto. Si domandò in quale direzione.
In cucina, Marsha era affaccendata a preparare il caffè
e i dolci. Lo sbattere di piatti aveva svegliato Tertulliano dal
suo pagliericcio sotto la macchina del gas; il cane guardò
su, vigile e bramoso, poi abbassò il muso quando la donna
gli passò accanto sospingendo un carrello verso il
soggiorno.
Hadley prese automaticamente la sua tazza e cominciò a
mescolare il caffè. In mezzo al carrello c’era un piatto pieno
di biscotti senza colore. Rimasero lì dopo che ognuno ebbe
preso la sua tazza, un circolo di ciambelle esangui
comprate in un negozio, infilate in una scatola e avvolte nel
cellofan, ogni ciambella esattamente uguale all’altra.
Subito Beckheim ne scelse una e cominciò a masticarla.
Affascinato, Hadley osservò l’uomo mentre mangiava.
Beckheim prese una seconda ciambella, poi una terza. Le
infilava in bocca, masticava e poi deglutiva, una dopo
l’altra, come una macchina. Era evidente che non gli
piacevano. Mangiava senza piacere né interesse; era solo
un processo funzionale che non aveva nessuna importanza
per lui. La sua mano continuò a muoversi verso il piatto,
mentre la sua attenzione era focalizzata esclusivamente sul
giornale spiegazzato, e su nient’altro.
«Vedo» disse poi, leggendo dal giornale «che i piloti
americani si lamentano perché non ci sono più obiettivi
importanti nella Corea del Nord. Dicono che è inutile
tentare di bombardare un cinese che trasporta un carico di
munizioni su una montagna.» Chiuse il giornale e aggiunse:
«Ai villaggi e ai raccolti ci ha pensato il napalm.»
Hadley non replicò. Sorseggiò in silenzio il suo caffè,
diventato adesso un semplice spettatore, lontano e
distaccato dai due che erano con lui nella stanza. Come una
tranquilla coppia di coniugi Beckheim e Marsha sedevano a
bere caffè e a leggere il giornale, un circolo chiuso dal
quale lui era escluso. Non protestò tuttavia, accettò il suo
ruolo senza agitarsi.
Tutto a un tratto Beckheim mise via il giornale e si alzò
in piedi di scatto. «Se vuole scusarmi» disse a Hadley. Si
allontanò dal tavolo di ardesia, tirò fuori un contenitore
dalla tasca e s’infilò sul naso un paio di occhiali neri dalla
montatura di corno. Si arrotolò le maniche della camicia e
lasciò lentamente la stanza, con un’espressione di profonda
meditazione sul volto. Hadley vide un piccolo studio pieno
di carte e libri; in un angolo c’era un vecchio scrittoio con
alzata a scomparsa, con una lampada a collo d’oca e una
sedia girevole di legno. Beckheim si sedette allo scrittoio e
cominciò a frugare in mezzo alle pile di carte.
Marsha si alzò e gli andò dietro. «Vuoi le lettere?» gli
domandò. Rovistò fra grosse scatole di cartone piene di
stampati; Hadley riconobbe i brutti volantini che la Società
distribuiva a ogni angolo della strada.
«Le hai selezionate?» chiese Beckheim nel suo vocione
soffocato.
La conversazione divenne un mormorio indistinto e
Hadley si girò dall’altra parte. Ma non c’era nient’altro da
guardare, o a cui pensare; il grosso uomo di colore
incurvato sullo scrittoio era il solo centro di attività in tutta
casa. Marsha, in piedi dietro di lui e piegata sulla sua
spalla, stava indicando diverse carte a mano a mano che
uscivano dalle scatole di cartone. Beckheim stava
selezionando la posta. I gomiti neri appoggiati sul ripiano
dello scrittoio, studiò con attenzione una lettera, poi la mise
via e ne scelse un’altra. Dopo un po Marsha si voltò e tornò
in salotto.
«Altro caffè?» chiese a Hadley.
«No, grazie.»
Marsha si mise a sedere e cominciò meccanicamente a
ricavare striscioline da una busta di carta. «C’è molto
lavoro da fare» gli spiegò. «Una cosa come questa è un
impegno a tempo pieno, tenere in ordine i conti, le pratiche
da sbrigare.»
Nello studio Beckheim era sempre impegnato con il suo
mucchio di lettere. Da alcune estraeva dei fogli di carta
inseriti dentro − assegni o banconote − e li riponeva
accuratamente in una cassetta metallica quadrata. Ogni
lettera veniva letta e studiata lentamente, poi
contrassegnata da uno scarabocchio scuro con la pesante
stilografica d’oro. Sopra lo scrittoio c’era il ritratto
incorniciato del giovanotto barbuto onnipresente con le
fatue labbra socchiuse e gli occhi rivolti verso l’alto:
l’immaginaria, romantica riproduzione del giovane Cristo.
Da un lato c’era una stufetta elettrica di ottone, e subito
dietro tre poltrone di vimini una attaccata all’altra. Sul
bracciolo di una c’era un maglione rosso sbrindellato.
Senza alzare la grossa testa o posare lo sguardo su di
lui, Beckheim chiese: «Signor Hadley, come si chiama sua
moglie?»
«Ellen» rispose Hadley, tornando subito in vita.
Dopo un po’, quando la grossa stilografica d’oro ebbe
contrassegnato un’altra mezza dozzina di lettere, Beckheim
continuò: «E quanti anni ha?»
«Ventidue.»
Beckheim si affrettò a chiedere: «E lei?»
«Venticinque.»
Per un po Beckheim continuò a lavorare in silenzio;
l’unico rumore era il grattare della penna e il frusciare
della carta. «Ha mai pensato» domandò subito dopo «di
aderire alla Società?»
Subito la tensione di Hadley oltrepassò la soglia critica.
Con la bocca secca e la vista ondeggiante, abbassò gli occhi
al pavimento e rispose: «Non ci ho mai pensato molto. Non
in quel senso. Più che altro volevo conoscerla… come
persona.»
Per un altro po di tempo nessuno disse più nulla, e la
tensione di Hadley si alleviò. Si alzò in piedi e andò verso lo
studio. Beckheim continuò a lavorare quando Hadley gli si
mise alle spalle e rimase lì impacciato con le mani in tasca,
umettandosi le labbra secche e chiedendosi cosa dire.
Beckheim sembrava attendere; quanto meno non aveva più
niente da domandare o da aggiungere.
«Non ho mai prestato troppa attenzione alla religione»
spiegò goffamente Hadley. «Anzi, non ne so proprio
niente.»
Beckheim annuì appena e continuò a lavorare. In salotto
Marsha se ne stava seduta da sola sul letto hollywoodiano,
con la tazza di caffè in mano e il volto inespressivo. Fuori
dall’appartamento si sentivano i rumori ovattati di una
grande città di notte. Una nebbia umida che risaliva dalla
Baia aleggiava attorno alle finestre deformate.
«Come si chiama suo figlio?» gli chiese Beckheim.
«Peter.»
«Ha una sua fotografia?»
Questa volta Hadley tirò fuori il portafoglio, poi rimase
lì, tenendolo in mano, indeciso, mentre Beckheim
continuava a lavorare. Tutto a un tratto, Beckheim mise da
parte le lettere e allungò la mano verso il portafoglio. Tirò
fuori la foto, la depose sullo scrittoio e la studiò con aria
critica.
«Ha l’aria sana» osservò mentre si rimetteva al lavoro.
«Sì, è sempre stato vivace e pieno di salute.» Dopo un
attimo d’incertezza, Hadley riprese il portafoglio e se lo
rimise in tasca. «Naturalmente teniamo le dita incrociate…
ma fino a ora sembra che stia benissimo.»
«Ha una foto di sua moglie?»
Hadley estrasse di nuovo il portafoglio e lo aprì, poi lo
posò doverosamente sullo scrittoio; dopo un po Beckheim lo
guardò, con la penna sospesa su una lunga lettera scritta
con una tremante calligrafia femminile. Dietro la busta di
plastica macchiata, quasi opaca, l’immagine di Ellen era in
bella vista, perché il vecchio la potesse esaminare.
«È una ragazza molto carina» osservò Beckheim. «Ellen
Hadley… Stuart Hadley. Ho visto molte giovani coppie
come voi.» Mise giù la penna e si rigirò sulla sedia per
fronteggiare Hadley. «Ma non uguali; ognuno è diverso
dall’altro. Lei è unico… Ogni uomo è una combinazione
nuova, in un modo o nell’altro. Non ha mai provato questa
sensazione?»
«Credo di sì» disse Hadley.
«Che succederebbe se Stuart Hadley morisse? Che cosa
verrebbe a prendere il suo posto? Potrebbe esserci un altro
Stuart Hadley?» Dietro gli occhiali cerchiati, i grossi occhi
neri si sollevarono verso Hadley. «Io credo che non
potrebbe esserci. Lei che ne pensa?»
«No» ammise Hadley.
«Dice sul serio?»
«Sì» annuì Hadley. «L’ho provato.»
«Però lei morirà. Come lo spiega? Qual è la risposta a
questo paradosso?»
«Non lo so.»
«Ma certo che lo sa! Conosce la risposta quanto me, usi
la testa… Lei non ha voglia di pensare, tutto qui. Il suo
cervello è arrugginito; per lei è doloroso pensare. Apra i
cancelli della sua mente… Non rimane molto tempo.»
«No» convenne Hadley. «Non c’è molto tempo.»
Beckheim prese il portafoglio di Hadley. «Questo è
Stuart Hadley» disse tenendo fra le mani il consumato
malloppo di cuoio, carta e plastica. «Denaro» aggiunse,
esaminando le banconote infilate dentro. «Spiccioli.» Tirò
fuori qualche monetina dallo scomparto. «Questo è un
portafoglio da dorma, lo sapeva?»
«No» esclamò Hadley, sbalordito.
«Solo i portafogli da donna hanno lo scomparto per le
monete.» Beckheim estrasse un mucchio di bigliettini
spiegazzati. «Questi sono per i clienti? ‘Stuart Hadley,
venditore di televisori, Modern TV Sales and Service, Cedar
Groves, California’.» Beckheim esaminò un cartoncino
macchiato e gualcito sul quale era stampato un rozzo
disegno di un asino che ragliava. In fondo al cartoncino
c’era scritto ‘Venite alla festa dei somari. Sentitevi voi
stessi un asino perfetto’. «Che roba è?»
Mortificato, Hadley farfugliò: «Solo uno scherzo. Una
burla, non significa niente.»
Beckheim mise da parte il cartoncino e continuò a
frugare. Estrasse una serie di fogli di carta ripiegati e
schiacciati sui quali erano scritti a matita nomi, indirizzi e
numeri di telefono. «Clienti» ipotizzò Beckheim. «Potenziali
acquirenti.»
«Sì» ammise Hadley. «E amici personali.»
«Chiavi.» Beckheim tirò fuori la chiave di una macchina
e due di porte. «Una di casa sua. L’altra è del negozio?»
«Esatto» disse Hadley. «E la terza è la chiave del
camioncino; a volte vado a prenderlo io al garage.»
«E questo cos’è?» Beckheim estrasse un dischetto piatto
e scuro, di un metallo non meglio precisato. Nel centro
c’era un foro quadrato.
«Il mio talismano portafortuna» rispose Hadley,
imbarazzato. «Una moneta cinese; l’ho trovata sulla
spiaggia quando ero piccolo.»
Beckheim aprì volutamente gli scomparti di plastica
trasparente. Esaminò uno a uno i documenti di Hadley. «La
tessera della Previdenza sociale, la patente, il foglio di
congedo… lei è un 4-F?»
«Problemi al fegato» spiegò Hadley.
«La tessera degli Elks7.» Beckheim esaminò gli altri
documenti infilati nelle consumate e ingiallite buste di
plastica. «Una copia del suo certificato di nascita. Lei è
nato a New York?»
«Proprio così. E sono cresciuto a Washington.»
«La tessera della biblioteca.» Beckheim tirò fuori dei
documenti nascosti dietro altri documenti. «Carta di
ricovero al Blue Cross. Matrici di biglietti del concorso a
premi della Regal Gasoline.» Ignorò le foto di Peter e di
Ellen. Dall’ultima busta prese un’istantanea sistemata in
modo difficile da vedere. «Chi è questa donna? Non è sua
moglie, vero?»
«No» ammise di malumore Hadley. «È una ragazza con
cui uscivo tanto tempo fa.»
Beckheim la studiò con solenne attenzione; mostrava
una ragazza italiana sorridente, dall’aria timida, con folti
capelli neri e labbra carnose: indossava un abitino estivo
aderente di cotone che metteva in rilievo dei seni fin troppo
prominenti. «E lei tiene ancora con sé questa fotografia?»
gli domandò Beckheim.
«Non l’ho mai gettata» rispose Hadley, sulla difensiva.
«E comunque adesso quella ragazza vive da qualche parte
dell’Oregon.»
Beckheim aveva esaminato il portafoglio per intero. Vi
rimise tutto dentro, lo richiuse e lo restituì a Hadley. «E
tutto questo può essere spazzato via, distrutto in un istante.
Dopo di che… cosa succede?»
«Non lo so» disse Hadley.
La faccia di Beckheim divenne ancora più scura per la
rabbia. «Lei non lo sa! Perché continua a dire di non
saperlo? Cosa non sa? Pensa di poter essere spazzato via
come queste carte? Pensa che il fuoco possa distruggere
tutto ciò che la costituisce? Non esiste qualcosa che non
brucerà, che il fuoco non potrà consumare?»
«Immagino di sì. Non lo so.» Confuso, Hadley scosse la
testa. «Non so che pensare.»
Beckheim, con la voce sempre più roca, gli domandò:
«Allora ha intenzione di starsene lì ad aspettare? Senza
fare niente?»
«Io… io credo di sì.»
Il vecchio fece un sorriso sbieco e allargò le grandi
mani. «Allora, amico mio, non c’è niente che qualcuno
possa fare per lei. Vuole davvero aiuto?»
«Sì» rispose subito Hadley.
Beckheim sospirò e riprese in mano la stilografica d’oro.
Tornò a girarsi verso lo scrittoio, prese un mucchio di
lettere e cominciò a esaminare la prima. «Vorrei che ci
fosse più tempo. Così tanta gente, e così poco tempo… il
tempo scorre, ne rimane sempre di meno ogni giorno.
Leggo sui quotidiani che uno di questi giorni potremmo
ritrovarci in guerra con la Cina. Quattrocentocinquanta
milioni di persone… Naturalmente le bombe atomiche
ridurranno quel numero. Ma sono sempre tantissimi… e
dopo di loro il resto dell’Asia. Nazione dopo nazione,
milioni e milioni. E infine il resto del mondo. La torcia, la
spada.»
Hadley non replicò.
«Apra il cassetto» gli disse Beckheim senza alzare lo
sguardo. «Il primo.»
Con gesti goffi, Hadley tirò il pesante cassetto di legno.
Dentro era pieno di boccette di inchiostro, matite, fogli di
carta, fasci di cartoncini legati con elastici, opuscoli e
blocchetti per appunti. «Che cosa le serve?» chiese,
indeciso.
Mentre scriveva, Beckheim osservò: «Lei ha delle mani
interessanti… Lo sapeva?»
«Credo di sì» rispose Hadley.
«Mi dia uno di quei cartoncini azzurri. Lì, nella parte
anteriore del cassetto, vicino alla boccetta della colla.»
Hadley prese il mucchietto di cartoncini, ne sfilò uno e
lo porse a Beckheim, impacciato.
Beckheim richiuse il cassetto e prese il cartoncino. Con
la stilografica scrisse il nome Stuart Wilson Hadley nello
spazio vuoto al centro, un segno deciso di inchiostro nero
proprio in mezzo agli ornati caratteri di stampa. Con
precisione, con misurata dignità, scelse un tampone di
carta assorbente e asciugò la scritta. Poi porse il cartoncino
a Hadley.
Hadley lo rigirò fra le mani e si accorse che era una
tessera della Società dei guardiani di Gesù.
«La metta nel portafoglio» disse Beckheim. «Insieme
alle altre carte. Insieme al resto di Stuart Hadley.»
Lui lo fece, con le dita intorpidite. Per un momento
rimase accanto allo scrittoio, ma Beckheim continuò a
lavorare. Quasi subito, allora, Hadley rinunciò e cominciò a
muoversi come istupidito verso la porta.
«Un dollaro e mezzo» disse Beckheim senza voltare la
testa.
Hadley tornò indietro. «Come ha detto?»
«Un dollaro e mezzo. Per la sua adesione.»
Rosso come un peperone, Hadley tirò fuori un dollaro e
due quartini. Li strinse fra le mani, poi li lasciò cadere con
un gesto convulso sul ripiano dello scrittoio. Beckheim posò
la penna e prese i soldi; li allargò, tirò fuori un grosso
registro dal cassetto centrale e annotò l’incasso. Le tre
monete vennero poi sistemate in una casettina metallica
quadrata insieme agli altri contanti e assegni. Dopodiché
Beckheim riprese a lavorare.
Quando Hadley tornò in salotto, Marsha stava
raccogliendo le tazze e i piattini. Gli sorrise fugacemente,
con preoccupazione. «Altro caffè? Vuole qualcosa da
mangiare?»
«No» rispose Hadley, secco.
Marsha si affrettò a portare le stoviglie in cucina.
Quando riapparve si stava allacciando una corta giacchetta
di camoscio. Mentre Hadley parlava con Beckheim, lei si
era cambiata d’abito. «È ora di andare» gli spiegò. «La
riaccompagno a casa…» Indicò la schiena massiccia di
Beckheim, ricurva sullo scrittoio. «Lui ha da lavorare.»
«Lo vedo» convenne Hadley con voce impastata e
avvilita.
Marsha aprì la porta che dava sul corridoio principale;
l’odore acre di scarichi intasati filtrò fin nel salotto, insieme
al tintinnio metallico di radio e voci umane.
Mentre la porta si richiudeva dietro di loro, Hadley
colse un’ultima immagine di Beckheim. L’uomo non alzò gli
occhi; continuò a lavorare, con silenziosa concentrazione, i
gomiti appoggiati sullo scrittoio, leggendo solennemente il
mucchio di lettere.
Prima di lasciare San Francisco, Marsha fermò la
macchina nel parcheggio di un supermercato illuminato da
un’insegna al neon e tirò il freno a mano.
«Aspetti qui» disse a Hadley uscendo dalla macchina.
«Torno subito.»
S’infilò nell’ingresso posteriore del supermercato, snella
e fanciullesca nei suoi pantaloni e giacca di camoscio.
Hadley rimase ad aspettarla, immusonito, osservando i
clienti che entravano e poi uscivano, risalivano in macchina
e scomparivano nelle strade buie.
Era difficile da credere. Aveva conosciuto Beckheim, gli
aveva parlato, e poi era stato messo alla porta. Il momento
era passato; già aveva cominciato a sprofondare nel
passato, come un oggetto che affondasse lentamente
nell’acqua color piombo.
Si sentiva truffato. Risentito, si accese una sigaretta, ma
la gettò subito fuori. Che si era aspettato? Un miracolo,
forse. Qualcosa di più di quella breve conversazione e poi
del congedo. Però non era rimasto deluso… Si era sentito
intimorito, questo sì, e nello stesso tempo ingannato. C’era
il potere in quel vecchio uomo annerito e ricurvo con la sua
pelle callosa, il corpo massiccio che puzzava di sudore
stantio e di sgabuzzini ammuffiti, e l’aria di uno che fosse
già passato sotto il fuoco di Armageddon e ne fosse uscito
vivo. Beckheim aveva potere… ma lo aveva tenuto per sé.
Era stato quello l’inganno: avrebbe potuto salvarlo,
aiutarlo, ma non lo aveva fatto.
Mentre rimuginava su tutto questo, Hadley vide la
figura affilata di Marsha che usciva di corsa dal
supermercato e attraversava il parcheggio. Le aprì lo
sportello e lei scivolò ansimante al posto di guida. Teneva
in grembo una grossa busta di carta; quando gliela prese,
vi sentì dentro qualcosa di liquido.
«Che cos’è?» le chiese, aprendola. Nel sacchetto c’era
un quinto di whisky scozzese John Jameson.
«È per noi» gli spiegò Marsha mentre avviava la
macchina. «Lei non è riuscito a bere il suo drink; Dio,
adesso posso averne uno anch’io.»
Percorse la striscia luminosa di Market Street, penetrò a
Tenderloin. Piccoli negozi si accalcavano in file disordinate,
allargandosi su entrambi i lati delle stradine strette; c’era
una folla di persone che si muoveva confusamente dall’uno
all’altro dei localetti scadenti. Marsha svoltò, attraversando
una zona di fabbriche e magazzini industriali deserti; poco
dopo si immise nell’ampio nastro d’asfalto della statale.
«Questa volta faremo prima» gli spiegò mentre la
piccola Studebaker guadagnava velocità. I lampioni al sodio
sfrecciavano sui due lati; la carreggiata opposta era un
interminabile viavai di fari scintillanti. «Girerò a San
Mateo.»
Per un po proseguirono senza parlare. Alla fine Hadley
chiese: «Da dove viene?»
«Beckheim? È nato in Alabama, gliel’ho detto.»
«Non mi ero reso conto che fosse così vecchio.»
«Non è poi tanto vecchio. È stanco… Ha lavorato tanto.»
Si girò incuriosita verso di lui. «Che ne pensa?»
«È difficile dirlo.» Hadley sentiva che Marsha era
preoccupata per la sua reazione, era insicura di sé stessa
fino a che non avesse capito quello che lui provava; come
se lei non avesse ancora deciso quale opinione personale
avere.
«È… rimasto deluso?» gli domandò.
«No. Naturalmente no…» Sempre di cattivo umore,
Hadley si interruppe. «Mi hanno dato fastidio tutte quelle
domande. Non lo riguardavano, tutte le cose che mi ha
chiesto. Non erano affari suoi. Ellen, Pete… ha addirittura
frugato nel mio portafoglio.»
Hadley guardò fuori dal finestrino la campagna buia
oltre la statale. Ogni tanto brillava qualche insegna al neon.
Il cielo notturno aveva un colore quasi porporino, con una
spruzzata di stelle scoperte dalla nebbia che si era
allontanata. Hadley abbassò il finestrino e il vento caldo
della notte cominciò subito a sferzarlo, un vento pulito che
sapeva di campi bruciati e di steccati di legno cadenti.
Si domandò se avrebbe mai più rivisto Beckheim. Le
parole del nero sbiadirono e divennero indistinte quando
cercò di ricordarle. Che cosa gli aveva detto veramente?
Che cosa intendeva dire? Hadley si toccò il portafoglio;
c’era dentro la tessera d’iscrizione, ma che significato
aveva?
La sentiva, un seme infilato lì dentro, quasi a contatto
con la sua carne. Riscaldato dal suo corpo forse avrebbe
messo radici e sarebbe cresciuto. Forse la tessera era viva.
Beckheim l’aveva sepolta nel corpo di Hadley, e Hadley
l’aveva accettata, nel bene e nel male, qualunque cosa
significasse. E quello era tutto ciò che era venuto fuori dal
momento d’incontro fra i due: una sottile tessera di
cartone. Un’iscrizione alla Società del costo di un dollaro e
mezzo, per lui come per migliaia di altre persone: operai,
neri, gli elementi ai gradini più bassi di ogni città e paese.
Marmaglia inutile, insoddisfatta, balordi e teste matte.
Senza dubbio Wakefield aveva una tessera come la sua. E
anche Marsha, seduta accanto a lui al volante: forse in
qualche parte della sua borsa c’era un cartoncino uguale.
Solo che non era più così rigido; lo aveva avuto tanto tempo
prima, e adesso era floscio e consunto.
Marsha teneva il volante con una sola mano, e il braccio
sinistro sporgeva dal finestrino aperto. Era appoggiata allo
schienale, con il mento all’insù e i capelli rossicci
scompigliati dal vento. La giacca di camoscio svolazzava.
Marsha si girò all’improvviso e gli sorrise, mostrando i
denti bianchi e irregolari alla debole luce dei lampioni al
sodio.
«Bello» osservò. «Il vento, il movimento della macchina.
Questa piccola macchina è così facile da guidare… sembra
di volare.» Premette l’acceleratore e la Studebaker sembrò
galleggiare sulle piccole irregolarità della strada. Non si
sentiva il rumore del motore, solo il muggito del vento che
penetrava nell’abitacolo e stormiva fra i due. Ben presto i
lampioni al sodio finirono e la statale divenne buia. Adesso
c’era poco traffico. Marsha si piegò in avanti e spense le
luci del cruscotto: i numeri, le lettere, i quadranti illuminati
morirono, e l’interno cadde nel buio più totale. Davanti a
loro la striscia luminosa di fari era un cerchio arancione
che tagliava la notte.
Consapevole che la macchina stava gradualmente
guadagnando velocità, Hadley chiuse gli occhi e si
appoggiò allo schienale. Sentì il pericoloso mormorio della
vettura che si muoveva sotto di lui; seppe, senza vederlo,
che stava guadagnando troppa velocità. Ma non c’erano
altre macchine; non c’era nient’altro al mondo se non la
piccola Studebaker e la snella figura accanto a lui. Hadley
si sentiva stanco. Il colloquio con Beckheim lo aveva sfinito.
Adesso che poteva ripensarci si rendeva conto della
tensione che creatasi fra loro due; nelle poche parole che si
erano scambiati c’era una sorta di spietato giudizio di Dio,
volto alla scoperta e all’indagine.
Si domandò oziosamente se Beckheim era così curioso
di tutti gli altri come lo era stato di lui. Si domandò se
sondava e punzecchiava chiunque entrasse nella sua sfera.
I pensieri di Hadley vagabondavano nella mente intontita.
Forse quell’uomo aveva nutrito un interesse particolare… Il
fatto che gli avesse dato la tesserai poteva avere un
significato importante. Poteva essere un segno. Hadley
poteva chiedere a Marsha se era una cosa comune.
Beckheim aveva preferito lui… Sbadigliò e si rilassò. Era
stato scelto. Nella nebulosa confusione dei suoi pensieri
riemerse brevemente l’immagine di Beckheim, grosso e
massiccio, con gli occhiali cerchiati, le maniche arrotolate.
Nell’aria calda della notte, Hadley avvertiva l’odore di
quell’uomo nero, come se le nebbie estive che si
addensavano sui campi e sulle strade fossero sudore che
trasudava da quel corpo antico.
Riaprì gli occhi e vide una lunga catena di colline sulla
destra della statale. La macchina stava puntando in quella
direzione. In quelle alture corrugate immaginò i lineamenti
di Beckheim: il naso e la fronte, le labbra sottili. Una parte
del profilo era la mascella e il mento di Beckheim. Era lì,
tutto intorno a lui, e il pensiero gli fu di piacevole conforto.
Hadley poteva allungare la mano attraverso il finestrino
aperto, nella notte, e toccare Beckheim. Allungare la mano
e toccare la sua guancia scura e ruvida. Far scorrere le dita
sugli zigomi ossuti, sulle marcate protuberanze delle arcate
sopraccigliari.
La macchina si fermò con un sobbalzo improvviso.
Hadley si drizzò subito a sedere, allarmato; Marsha aveva
parcheggiato sul ciglio e aveva spento il motore. Lui si era
addormentato; la fila di colline non c’era più, e loro non si
trovavano più sulla statale. La notte era di una immobilità e
di un silenzio assoluti. Il vento era cessato. Non c’erano
suoni o movimenti, solo il debole frinire dei grilli in
lontananza. E ogni tanto l’occasionale fruscio di qualche
cespuglio.
«Dove siamo?» mormorò, mentre cercava di riprendersi
e di riordinare i pensieri. «Che ora è?»
«Circa mezzanotte.» Marsha accese un fiammifero
nell’oscurità; avvampò momentaneamente poi si abbassò e
divenne rosso cupo quando accese la sigaretta.
«Dove siamo?» ripeté Hadley. Non vedeva niente oltre la
macchina, solo il profilo della sterpaglia e la superficie
sassosa della strada. Sulla destra c’era una vaga presenza
opaca che poteva essere una casa. In apparenza si
trovavano fra una città e l’altra, in aperta campagna, e la
cosa non gli piacque nemmeno un po’.
«Siamo quasi arrivati» lo rassicurò Marsha. «Ancora
qualche chilometro. Lei si è addormentato.»
Hadley tirò fuori dalla tasca il pacchetto spiegazzato
delle sigarette. Si piegò verso Marsha per farsela
accendere. «Lo so. Quella faccenda con Beckheim mi ha
tolto tutte le energie.»
Nel buio la sigaretta di lei si illuminò mentre accendeva
la sua; Hadley inalò una lunga boccata, la mano sul sedile
dietro la spalla di Marsha, ricevendone luce e calore.
L’odore acre del fumo si mescolò a quello dei suoi capelli e
della sua pelle: la distingueva vicinissima a lui, invisibile e
viva, piegata in avanti: per poco le loro fronti non si
toccarono.
«Grazie» disse lui, ritraendosi. Qualcosa sembrò
irrigidirsi dentro il suo petto; respirò a fondo, lentamente,
costringendosi a rilassarsi.
Dopo un momento Marsha disse: «Prenda un bicchiere;
ce n’è uno nello scompartimento portaoggetti.» Tirò fuori
una chiave della borsa e la diede a Hadley. Mentre apriva il
compartimento e vi frugava dentro, lei cominciò ad aprire
la bottiglia.
«Lo vede?» gli domandò.
Hadley trovò il bicchiere e lo tirò fuori. Marsha lo riempì
e i due cominciarono a passarselo: gli sportelli erano aperti
e l’aria notturna penetrava all’interno. Adesso Hadley
riusciva a vedere Marsha. Alla debole luce delle stelle
aveva i lineamenti netti e piccoli, traslucidi come antica
cartapecora. I caldi processi del suo corpo si erano come
calcificati: lei era dura come pietra levigata, la faccia
debolmente luminosa, gli occhi e le labbra senza colore.
Con un mezzo sorriso sulle labbra socchiuse, il mento
sporto verso l’alto, sedeva fissando qualcosa in lontananza,
una figura vereconda, pensosa, in pantaloni e giacca di
camoscio. Dopo un po scalciò via le scarpe; nella penombra
i suoi piedi erano nudi e pallidi, spettrali.
Da qualche parte, molto tempo prima, Hadley era stato
nel silenzio e nell’oscurità di una macchina accanto a una
donna. La sua mente mise a fuoco l’immagine, e lui ricordò.
Non era una donna, ma solo una ragazza. Lui e Ellen
sedevano in quel modo, nella sua piccola Ford coupé, di
notte, in mezzo alle colline. Sognando e parlando a bassa
voce, scambiandosi progetti e stravaganti speranze. Gli
sembrava che fosse passato chissà quanto tempo, ma era
stato appena qualche anno prima. Una situazione molto
simile a questa: gli stessi grilli che frinivano in mezzo ai
cespugli, il cielo estivo color viola, l’odore di lana cotta
della tappezzeria. Ma allora c’erano state birra e patatine
fritte, e alla radio le sorelle Andrews che cantavano. I jeans
e le magliette dell’adolescenza… Il corpo pieno e sodo della
sua fidanzata, carne al posto di pietra levigata. La donna
accanto a lui adesso era fredda e matura. Lo scheletro
temprato, scalpellato e rifinito dall’esperienza.
Gli sembrava impossibile che Marsha potesse essere
mai stata una ragazza, giovane come sua moglie,
sciocchina e svanita e piena di espansiva dissennatezza.
Capace di ridacchiare e di mormorare e di escogitare
fantasiosi giochi erotici di cattura e di conquista, di
scherzare e folleggiare fino all’alba. L’elaborato rituale
dell’amore… Marsha era spoglia e austera, con una finalità
immutabile. Fuori del tempo, forse. Non soggetta alle leggi
della crescita e del decadimento.
«Sta rimuginando» fece Marsha con un filo di voce.
«Vero, Stuart Hadley? Sta rimuginando, e riflettendo, e
martoriando la sua vita.» Allungò la mano e gli toccò il
braccio. «Lei si preoccupa troppo… in continuazione. Lo sa,
ha delle rughe… ha la fronte di un vecchio.»
Lui fece una smorfia. «Sono i suoi profeti di sventura
che mi fanno preoccupare. Quando vado al lavoro il sabato
capita sempre una vecchietta con un pacco di quei volantini
in cui c’è scritto: ‘Preparati al giorno del giudizio’.»
Marsha rifletté. «No… è tutto il contrario. La vecchietta
spaventata è lei, Stuart Hadley. Tutte le vecchiette
spaventate prima o poi se ne vanno in giro con i loro
volantini. Esistono perché la gente ha già paura.»
«Stavo solo scherzando» disse Hadley. Con un corpo di
donna così intimo e vicino a lui, non si sentiva
particolarmente predisposto a discutere di argomenti
astratti. Preferiva pensare a ciò che aveva disposizione, alla
realtà immediata della macchina.
«Non le piacere essere chiamato ‘vecchietta’, vero?»
«Certo che no.» Hadley si strinse nelle spalle. «Ma non
importa.»
«Non volevo ferire i suoi sentimenti. Ted lo ha fatto?»
«No.» Hadley chiuse subito l’argomento. Bevve qualche
altro sorso di whisky: lo sentì denso e vivo mentre si faceva
strada giù per la gola. Una struttura fluida e patinosa,
senza forma definita… l’acqua della vita. Aveva qualche
problema a mandarlo giù; non era abituato a berlo liscio. E
poi era tiepido.
Sbadigliò assonnato. «Sono stanco. Ma non nel solito
modo. Sono rilassato… questa roba scioglie.»
«Si ricordi che domani mattina deve andare a lavorare.»
La voce di lei gli sembrò lontanissima. Piccola e remota. «È
tardi.»
«Magari non ci vado, a lavorare» considerò Hadley con
derisione.
«E che farà?»
Non ci aveva pensato. Così tante cose… Il mondo era
scivolato nell’essere infinito. Ma niente di specifico, solo la
vaga sensazione di futilità che l’indomani al lavoro gli
avrebbe portato. «Qualsiasi cosa» rispose pigramente.
«Raccogliere mele giù nella valle, spalare sassi lungo la
strada. Guidare un camion, spegnere un incendio in una
foresta.»
«Lei è un ragazzo romantico» gli disse dolcemente
Marsha.
«Può darsi.» Guardò stupidamente davanti a sé, nel
buio, la mente ottenebrata dalla stanchezza e dai fumi del
John Jameson. Il calore che si scioglieva lo aiutò a
sprofondare più facilmente; non riusciva più a trovare il suo
posto nel tempo e nello spazio. Stordito, si domandò dove
fosse… quando fosse. Quale Stuart Hadley era, lungo la
catena dei tanti Stuart Hadley? Il bambino, l’adolescente, il
venditore, il padre di mezza età… I sogni frusciavano
soporiferi nella sua mente. Mosse da angoli e
compartimenti, mescolanze di ambizioni e paure
galleggiavano qua e là provocando correnti vorticose che
erano sempre state parte di lui.
«Via da qui» farfugliò. «Non lei» spiegò poi a Marsha.
«Alle api dentro.»
Lei sorrise. «Le api dentro? Lei è uno strano tipo, Stuart
Hadley.»
Infastidito, lui la guardò male. «Perché mi chiama
sempre Stuart Hadley? O Stuart o Hadley, non tutti e due
insieme.»
«Perché no?»
Lui si concentrò, ma non gli venne nessuna risposta.
Scacciò la domanda con irritazione. «Per l’amor del cielo,
ma che razza di gente siete? Non capisco niente di voi… un
gruppo di funghi velenosi che spunta dal terreno, che vive
alle nostre spalle… cosa cercate?» Si scostò rabbiosamente
da lei. «Che cosa dovrei fare, mettermi a quattro zampe e
pregare?» Il suo risentimento lo sorprese; gli ribolliva
dentro e tutt’intorno, portandosi via la sua lingua. «Sono
venuto fin quassù… ma lui cosa vuole che faccia? Mi ha
detto che dipende da me; lei crede che se sapessi cosa fare
sarei qui?»
Marsha lo ascoltò con attenzione, seria in volto, poi
disse: «Non immaginavo che fosse così arrabbiato.»
«Certo che sono arrabbiato! Mi sono fatto tutta questa
strada per niente…» La sua voce si appannò in una confusa
frustrazione. «Penso che non sia giusto. Non ha fatto
niente; se n’è stato lì a lavorare e basta.»
«Cosa voleva che facesse?»
«Non lo so.»
«Una guarigione miracolosa?» Poi continuò, con
dolcezza: «Non è un santo, non può resuscitare i morti e
moltiplicare i pani.»
«Almeno poteva ascoltarmi!»
«Cosa aveva da dirgli?» chiese Marsha con voce strana.
Hadley scosse la testa, frastornato. «Lui avrebbe dovuto
saperlo. Credevo lo sapesse. Volevo il suo aiuto… e non ho
ottenuto un accidente, a parte una tessera azzurra. E mi è
costata un dollaro e mezzo.»
«Forse» disse Marsha «è troppo tardi per aiutarla. Non
lo so nemmeno io. Probabilmente lui la capisce meglio di
me… Glielo chiederò.»
«Come può essere? Ha solo guardato verso di me un
paio di volte.»
I denti bianchi e regolari di Marsha avvamparono in una
risata. «Si è fatto un’opinione su di lei, Stuart Hadley.»
Una paura stordita travolse Hadley. «Oh, intende dire
che non sono stato all’altezza?» Gli mancò la voce. «Non
sono degno di essere salvato? Non faccio parte del gruppo
di eletti, è questo?»
«Stuart Hadley…»
«La smetta di chiamarmi così!»
Le narici della donna si allargarono. «Nessuno decide
chi può essere salvato. Nessuno sceglie, come fa un
consiglio di leva con gli uomini da arruolare. Uno è salvato
per lo stesso motivo per cui una palla rotola verso il
basso… a causa di leggi naturali.»
Hadley grugnì, contrariato, e si calmò. «Non ha senso.
Predestinazione… mi ricordo di quella roba. I salvati e i
dannati.» La voce crebbe di tono, piena di amarezza.
«Dannazione, non ho intenzione di restarmene così. Non è
giusto. Devo fare qualcosa; speravo che lui mi avrebbe
detto che cosa…» Si interruppe.
«Dovrà prendere lei una decisione» disse Marsha.
«Questo le ha detto, ricorda? Lei è il solo che può farlo.»
«Lasciamo perdere.» Hadley mandò giù un altro po di
whisky. Cominciava a sentirsi male; aveva lo stomaco in
subbuglio, e un doloroso deposito metallico cominciava a
formarsi in fondo alla gola, rendendogli difficile parlare. Si
voltò stancamente e rovesciò quello che rimaneva nel
bicchiere sull’asfalto scuro.
«Che sta facendo?» gli chiese seccamente Marsha.
«Sto urinando.»
Lei rise. «Ha bevuto troppo; mi dia la bottiglia.» Prese il
quinto di whisky e ne riavvitò il tappo. Poi un improvviso
rumore metallico: l’aveva infilato insieme al bicchiere nel
compartimento portaoggetti e aveva richiuso lo sportello.
«Forse farò qualcosa» affermò Hadley dopo un po’.
«Ovvero?»
«Ancora non lo so. Non parliamone più.» Il vento
notturno cominciava a diventare freddo; Hadley allungò la
mano e richiuse lo sportello.
«Vuole che andiamo via?» Marsha sollevò il polso sottile
e guardò l’orologio. «Si sta facendo tardi, l’accompagno a
casa.»
«Aspetti.» Convulsamente le afferrò la mano mentre lei
stava per girare la chiave nel cruscotto. «Non ancora.»
Marsha tenne per un attimo la mano dov’era, poi sorrise
e sfilò la chiave. «L’uomo d’azione si fa valere.»
«Ancora non voglio tornare a casa. E non mi piace
essere portato in macchina da una donna.» Poi aggiunse:
«Per il resto della strada guido io.»
«Sa guidare?»
«Ma certo. Guido il camioncino spessissimo.»
Marsha alzò le spalle con indifferenza. «Come vuole. Ma
non possiamo restare qui ancora per molto… si sta facendo
freddo e poi devo ritornare a San Francisco.»
Tutto a un tratto Hadley spalancò lo sportello e scese
sulle gambe malferme. Lo richiuse con violenza dietro di sé
e mosse qualche passo esitante nell’oscurità.
«Dove sta andando?» gli chiese Marsha con voce
stridula.
«A casa. Lei parta pure… io vado a piedi.» Inciampò
sulla spalletta sporgente della strada, riuscì a riguadagnare
l’equilibrio e cominciò a camminare lungo l’acciottolato.
«Per l’amor di Dio» esclamò Marsha, eccitata. Balzò
fuori dalla macchina e gli corse dietro. «Non conosce
nemmeno la strada; non sa quello che sta facendo!»
Esasperata lo afferrò con tutte e due le mani e lo scosse
con vigore. «Tomi in macchina e si comporti da adulto!»
«Mi tolga le mani di dosso.» Stordito e amareggiato,
Hadley staccò le piccole mani fredde di lei dal bavero della
giacca e le allontanò. «So dove abito, troverò la strada di
casa. Ho percorso distanze anche maggiori di questa.»
«Maledetto imbecille!» Per metà ridendo, con la voce
tremante per il freddo che raggiungeva toni isterici,
Marsha gli si affiancò. «Potrebbe svenire ed essere
investito da una macchina.»
«Non io» disse Hadley. Poi rifletté su quanto aveva detto
e mentre procedeva barcollando aggiunse: «Perché no?
Facciamola finita. In fondo non ci vorrà molto. Lo dice
Beckheim: ascolta il Signore.» Passò dalla strada alla zona
di sterpaglia secca che costeggiava la spalletta. «E va bene,
camminerò qui. Fuori dalla maledetta carreggiata.»
Marsha gli corse davanti e gli bloccò il cammino,
infuriata. «Basta!» disse in un rantolo. Con le mani che gli
artigliavano le spalle lo sospinse verso la macchina. «Salga
su e la porto a casa. Santo cielo, ci sono delle abitazioni qui
intorno… qualcuno potrebbe sentirci.»
Hadley le afferrò le braccia e si appoggiò a lei. Sentì
sotto le dita i tessuti sodi, i muscoli e i legamenti del suo
corpo; non c’era eccesso di carne, solo il meccanismo che
faceva di lei una macchina funzionante. Il camoscio della
giacca era bagnato per l’umidità della notte e fra i suoi
capelli luccicavano particelle di luce. Le sollevò le braccia
costringendola ad allentare la presa su di lui; la prese per i
gomiti e tirò su, fino a che lei fece una smorfia di dolore.
«Basta» bisbigliò lei, voltando la testa. All’improvviso si
sentì terrorizzata da Hadley; avvertiva la profonda violenza
e l’odio che c’era dentro di lui. Non era più un essere
umano, era una forza, impersonale, al di là della ragione.
«Per favore» disse, sempre con un filo di voce.
Lui mosse un passo verso la strada trascinandosela
dietro. Nel buio della notte sentiva il suo respiro: forte e
rapido, vicinissimo. Si rese conto di averla completamente
in suo possesso. Non c’era niente che lei potesse fare. In
silenzio, mordendosi le labbra, Marsha aspettò immobile,
sperando che Hadley mollasse la presa e la lasciasse
andare.
Non era un comportamento sessuale, il suo. Non
provava desiderio né passione, solo un dolore freddo,
un’amarezza crescente. Il corpo di lei gli suscitava
repulsione, la sua vicinanza gli faceva accapponare la pelle.
Asciutto, appena tiepido, il corpo di Marsha era come
quello di un serpente… Erano disprezzo e disgusto, i
sentimenti che sentiva crescere dentro di sé, e un desiderio
di vendetta.
«Maledizione,» sbottò «non è giusto.» Tutta la sua
delusione stava venendo in superficie, tutta la frustrazione
che aveva radici profonde. Era stato ingannato di nuovo, ed
era colpa di quella donna. «Non è giusto!» urlò, e nel suo
dolore la strinse con forza sempre maggiore.
«Basta» ripeté Marsha con voce tremante. Colta dal
panico, cercò di liberarsi. «Mi metterò a gridare… per
l’amor di Dio!» Una piccola mano si liberò e scattò verso di
lui, con le unghie aguzze scintillanti alla fredda luce delle
stelle. Hadley la allontanò dal suo viso e la strattonò,
facendole compiere un mezzo giro. Un po portandola in
braccio, un po trascinandola, si avviò pesantemente verso
la macchina e la scaraventò sul sedile.
«Niente erbacce» le disse con voce impastata. «Non fra
le erbacce e la sporcizia.»
Marsha smise di lottare. «Mi arrendo» gracchiò. «Mi
vuole lasciare andare? E va bene, lo farò. Andiamo, mi
lasci!»
Tutto a un tratto la lasciò e lei si drizzò a sedere,
tirandosi indietro i capelli e frugando nel sedile. Adesso
almeno Hadley aveva messo le cose su un piano che lei
poteva capire: aveva finalmente incanalato la sua pulsione
in una forma riconoscibile. O così le sembrava. Pensò che
fosse desiderio sessuale, quello che provava lui, attrazione
fisica provocata dalla sua presenza, dalla notte buia e dal
liquore; ma si sbagliava. «Credo di aver perso la borsa là
fuori» disse con voce incerta, mentre cominciava appena a
riprendersi.
«Eccola.» Hadley trovò la borsa sul pavimento della
macchina e gliela porse con malagrazia.
«Grazie.» Marsha la prese con le mani tremanti. «Grazie
a Dio le chiavi sono dentro.» Per un attimo rimase
appoggiata sul volante, cercando di riprendere fiato.
«Senti, lo sai quello che stai facendo? O sei ubriaco?»
Cercava di guadagnare tempo.
«Lo so.» E lo sapeva sul serio; era vero. Era lei quella
che si sbagliava… Poteva avvertire l’equivoco in ogni linea
del suo corpo magro e orgoglioso. E la sua impietosa
ostilità crebbe.
«Lo vuoi davvero? Tu sei pazzo.» La sua voce si affievolì
per la stanchezza. La paura stava passando; era tornata a
sentirlo come una persona, non più come un indemoniato. E
ciò che lo aveva posseduto, qualsiasi cosa fosse, non c’era
più. In questo momento era di nuovo un uomo
comunissimo. «È tardi e sono sfinita» gli disse. «Non qui…
Oh, ti sbagli su tutto. Pensi che sia il posto giusto. E poi
tutto questo atteggiamento autoritario.» Le si ruppe la voce
per la disperazione. «È colpa mia. È un posto schifoso,
Stuart Hadley. Non funzionerà… È tutto sbagliato.»
«Andrà benissimo» insisté lui, cocciuto; si sentiva
dentro una cupa, profonda determinazione. Intendeva finire
ciò che aveva iniziato. «Su, cominciamo.»
«Maledetto idiota. Per favore… Oh, all’inferno. Ci
rinuncio.» Respinse le mani che Hadley era tornato a
metterle addosso. «Lasciami fare, almeno.» Tremando per
il freddo e per la tristezza si sfilò la giacca di camoscio e la
gettò sul sedile posteriore. «È questo che vuoi?»
«Sì.»
Marsha si sbottonò concitatamente la camicetta e se la
tolse, gettandola via con violenza. Poi slacciò il gancio del
reggiseno. Piegandosi in avanti si sfilò le spalline e gettò a
terra il reggiseno.
«E adesso?» domandò. «Anche il resto? E va bene.»
Quasi singhiozzando scalciò via con violenza le scarpe e
sbottonò i pantaloni. «Devo alzarmi. Per favore, spostati in
modo che possa tirarmi su.»
Hadley uscì goffamente dalla macchina e Marsha lo
seguì. La nebbia della notte le turbinò intorno mentre si
appoggiava sulla fiancata umida della macchina, cercando
di sfilarsi i pantaloni. Il suo corpo era come Hadley se lo
aspettava: pallido e sodo, senza un filo di carne in più del
necessario. Un corpo agile, capace, alto e aggraziato, quasi
del tutto glabro, seni piccoli e con i capezzoli appuntiti.
Rabbrividendo, Marsha si voltò per infilare in macchina gli
indumenti che si era tolta.
«E adesso?» chiese senza fiato, con i denti che
battevano per il freddo. «Muoviamoci… per l’amor di Dio,
cominciamo se proprio dobbiamo farlo.»
Hadley la seguì ansiosamente in macchina. Mentre le
sue mani si chiudevano su di lei, sentì i suoi seni che
danzavano e fremevano; attratti dal calore del suo corpo, i
capezzoli si drizzarono e si inturgidirono contro la gola di
Hadley. Sotto di lui Marsha rabbrividì e si dimenò, mentre
le sue unghie gli si conficcavano nella schiena. Ansimando
e rantolando lottò per tirarsi su… i capezzoli gli sfiorarono
la faccia e poi lei non ci fu più, allontanandosi da Hadley. La
presenza calda e pulsante del suo corpo era cessata.
«Tu non ti togli i vestiti?» gli chiese quasi urlando. «Non
vuoi nemmeno sfilarti le scarpe?» Per una tormentosa
frazione di secondo lei cambiò visibilmente idea; i capezzoli
si afflosciarono e le rassegnate aperture del suo corpo si
richiusero. Raggelata gli si avventò contro, lo allontanò e
riuscì raggiungere a furia di calci lo sportello della
macchina. Lo aprì e ruzzolò fuori, rimettendosi poi subito in
piedi come un animale.
«Torna qui.» Inutilmente Hadley l’afferrò per i polsi e la
trascinò dentro la macchina. Lei crollò sul bordo del sedile,
le ginocchia piegate nude e ossute alla debole luce delle
stelle.
«Non funzionerà» gli ringhiò, con gli occhi impazziti che
lanciavano fiamme, il corpo scivoloso per l’umidità. «No,
non voglio farlo.» Raccolse i vestiti aggrovigliati e cominciò
lentamente a metterli in ordine. Le lacrime scendevano
lungo le guance scavate e le cadevano sulle cosce, mentre
cercava di dare una sistemata al mucchio di vestiti che
aveva in grembo. «Siamo pazzi tutti e due. È colpa di quel
maledetto liquore, e poi è tardi e sono stanca morta.» Le
mancò la voce, soffocata dall’amarezza; per un momento
rimase immobile appoggiata allo schienale a testa bassa,
con la massa scura dei capelli rovesciata in avanti, il mento
sprofondato contro la clavicola. Alla fine si riprese con un
brivido e ricominciò lentamente a ordinare i vestiti.
«Scusami.» Nervoso e supplichevole, Hadley le toccò la
spalla nuda. «Andiamo da qualche altra parte, in un motel o
qualcosa del genere. Dove possiamo parlare e…» Si
interruppe, frustrato. «Dove andrà tutto bene, non come
qui. Non come in questa landa dimenticata da Dio.»
Lei scosse la testa. «Mi dispiace, Stuart Hadley. Non è
colpa tua.» Uscì di nuovo tremando dalla macchina.
«Scusami un momento.» Mentre lui la seguiva impensierito
con lo sguardo, Marsha infilò i lunghi pantaloni, poi indossò
il reggiseno e lo agganciò. Poco dopo rientrò in macchina.
«Mentre mi vesto» riuscì a dire «mi accenderesti una
sigaretta?»
Lui lo fece e gliela infilò fra le labbra molli.
«Grazie.» Gli sorrise nervosamente mentre la prendeva
e la appoggiava sul posacenere del cruscotto per indossare
la camicetta. «Si gela… Adesso accendo il riscaldamento.»
«Il riscaldamento non partirà, vero?» farfugliò lui. «Se
non accendo il motore.»
«No» replicò lei con una risatina. «Certo che no. Be’,
che diavolo, fra un po partiamo.» Per un momento
interruppe i suoi movimenti rapidi. Dopo una pausa si chinò
in avanti e allungò una mano verso di lui. La sua mano
piccola e fredda gli camminò sulla faccia, poi gli scompigliò
i capelli con le dita, mentre lo guardava con aria infelice, le
labbra frementi, la bocca vicinissima alla sua. Il suo alito
era caldo e concitato contro la guancia di Hadley.
«Non capisco» disse lui, sgomento. «Perché no? Per via
di Ellen?»
Marsha finì di allacciarsi la camicetta, poi prese la
sigaretta dal posacenere e diede una lunga tirata, fino a
farla risplendere di un arancio vivo. «Stuart, non avrei mai
dovuto immischiarmi con te. È ora di fermarsi. Ti riporto a
casa e ti lascio lì, punto e basta. Non voglio vederti più…
non posso vederti più. Torna al tuo negozio di televisori e
alla tua famiglia.»
«Ma di che stai parlando?» esclamò lui, punto sul vivo.
«Che dici?»
«Magari più avanti» continuò lei in modo convulso,
senza prendere fiato. «Se avrai cominciato a camminare
con le tue gambe… o se mi avrai aspettato. Ma non
adesso.» Guardò su con gli occhi sgranati e la bocca che si
torceva dolorosamente, quasi con espressione di sfida. «Se
tu non fossi un ragazzo con la testa piena di ovatta, te ne
saresti accorto. Chiunque se ne sarebbe accorto. Io vivo
con Ted. Per essere precisi, lui vive con me. È casa mia;
tutto quello che c’è dentro è mio, a parte lo scrittoio. L’ha
portato lui. Forse ci sposeremo, forse no. Non lo so, in certi
stati non si può.»
Con voce roca Hadley domandò: «Vuoi dire che… dormi
con lui?» Furono il suo corpo, i suoi polmoni, le corde
vocali, la gola, la lingua, il palato, a formulare le parole.
«Vivi con quel grosso negraccio?»
Marsha lo schiaffeggiò e lui si appoggiò allo sportello e
cominciò a guardare fuori, nel buio della notte. Marsha finì
di vestirsi, gettò la sigaretta fra le erbacce e avviò il
motore. Tornò rapidamente alla statale, fece un’ampia
curva con grande stridore di gomme e puntò verso Cedar
Groves, portando brutalmente la velocità della macchina
fino a oltre cento chilometri l’ora.
Nessuno dei due disse nulla. Alla fine il brullo panorama
di colline e sterpaglia svanì, e cominciarono a luccicare le
prime luci della città. Ben presto a lato della statale
apparve una stazione di servizio illuminata della Standard,
e dopo un po una trattoria e un’altra stazione di servizio,
questa della Shell.
Giunta a un semaforo, Marsha rallentò. Erano arrivati a
Cedar Groves. Qualche macchina li sorpassò. Dopo un po
passarono accanto a case buie e negozi chiusi.
«Ci siamo» disse Marsha bruscamente. Parcheggiò la
Studebaker davanti al palazzo in cui abitava Hadley, sulla
parte opposta della strada.
Lui esitò, reticente a uscire. «Mi dispiace» cominciò.
«Buonanotte.» La sua voce era controllata, priva di
emozione. Marsha guardava davanti a sé, con una mano
sulla leva del cambio e il piede sull’acceleratore,
respirando rapidamente, in rantoli brevi e secchi.
«Senti,» fece Hadley «smettila di comportarti in questo
modo; cerca di capire come mi sento. Se avessi un po di
sensibilità capiresti…»
«Non importa. Torna da tua moglie, e al tuo negozio di
televisori.» La macchina si mosse in avanti; lo sportello
aperto dondolò avanti e dietro.
Hadley scese lentamente sul marciapiede. «Stai
parlando sul serio. Sei davvero così pazza. Per quanto ti
riguarda è finito tutto.»
Per un attimo la maschera calcificata che era la faccia
della donna rimase impassibile. Poi, come se si incrinasse
dall’interno, si incavò improvvisamente e si dissolse. Un
gemito flebile, stridulo, uscì da lei, un dolore così grande
che Hadley si sentì paralizzare. «Proprio così!» gli urlò
Marsha sulla faccia incredula. «È finito tutto!» Allungò la
mano per richiudere lo sportello mentre le lacrime le
scendevano irrefrenabili dagli occhi e le rigavano le
guance. «Mi dispiace; non è colpa di nessuno. Io ho
commesso un errore… tu hai commesso un errore. Ci siamo
sbagliati tutti.»
«Tutti?» chiese Hadley. Infilò rapidamente la testa
dentro la macchina, tentando di afferrarla, di farsi strada
con la forza nella sua personalità in frantumi. «Lui si è
sbagliato? Non startene lì a raccontarmi bugie; stai
cercando di farmi credere…»
La macchina rombò e si allontanò nel buio. Le parole gli
rimasero appese alle labbra, frustrate e non dette. Non
c’era più nessuno a cui fare domande, era rimasto solo.
Poteva urlare quanto voleva: non faceva nessuna
differenza. Per un po rimase lì sul marciapiede, impotente,
seguendo con lo sguardo la macchina. Poi si voltò e
attraversò la strada diretto verso casa, frugandosi
automaticamente nelle tasche in cerca della chiave.
Quando tirò fuori il portafoglio il bordo affilato della
tessera azzurra della Società gli graffiò la mano. La prese,
restò lì a fissarla e poi la fece a pezzi, rabbiosamente. I
frammenti svolazzarono a terra; una raffica di vento li
raccolse e li portò via.
Quando ebbe aperto la porta del palazzo, tutti quei
pezzettini di carta erano sparpagliati sul bordo della strada,
insieme agli altri detriti, ai giornali vecchi e alle altre
sporcizie, alle lattine vuote e ai pacchetti di sigarette.
Spazzatura che il comune avrebbe raccolto e portato via.
Salì con andatura rigida le scale ricoperte dalla
squallida moquette che portavano al suo piano, il corpo
tremante per il freddo. Fu solo quando ebbe aperto la porta
di casa e fu entrato nell’appartamento buio e senza vita che
si ricordò dei quadri. Li aveva lasciati nella macchina di
Marsha.
E ormai era troppo tardi per andarseli a riprendere.
3
Sera

Alice Fergesson, la faccia arrossata e congestionata dal


caldo, correva avanti e indietro, soddisfatta che la sua
grande casa fosse pronta per gli ospiti, che la cena fosse a
buon punto in tutte le sue complicate fasi di preparazione,
e che non fossero ancora le otto.
In salotto c’era suo marito, le mani infilate nelle tasche,
affacciato alla finestra con un’espressione cupa sul viso.
Alice si fermò un attimo e lo richiamò in modo brusco. «Che
stai combinando? Te ne stai lì senza fare niente? Potresti
darmi una mano, lo sai.»
La figura piccola e tarchiata si mosse senza troppo
entusiasmo; Jim Fergesson si girò verso di lei e le fece un
cenno impaziente con la mano, come a dirle di lasciarlo in
pace. Stava riflettendo di nuovo: non aveva fatto altro, nel
corso dell’ultima settimana. La sua faccia rossa da prugna
avvizzita era contorta in un’espressione sdegnosa e
preoccupata; si cacciò fra i denti il mozzicone di sigaro e le
voltò bruscamente la schiena.
Alice riprese a cucinare e provò una fitta di
compassione. C’era qualcosa di infelice e di patetico
nell’immagine di quell’ometto grassoccio che masticava il
suo sigaro e tentava di far quadrare nella mente tutti i suoi
progetti e problemi. Lei si concentrò sulle fette sfrigolanti
di pesce spada sulla griglia del forno e si costrinse a non
disturbarlo.
«Che ora è?» le chiese alle spalle Jim Fergesson,
improvvisamente vicino e insistente.
Alice si raddrizzò di scatto. «Mi hai messo paura.»
«Che ora è?» ripeté, brusco e rumoroso, con quella
schiettezza quasi infantile che prevaleva in lui quando era
preoccupato. Come se fosse impellente, come se dal fatto di
saperlo dipendesse qualcosa di vitale, insisté: «Accidenti,
dove hai messo l’orologio elettrico? Stava sul lavello;
adesso che fine ha fatto?»
«Non te lo dico,» replicò con decisione Alice «se
continui a gridare in quel modo.»
Fergesson invece gridò ancora di più. «Ho il diritto di
sapere che ora è!» Arrossì per la rabbia. «Voi donne non
siete mai soddisfatte. Non ho forse passato un pomeriggio
intero a sistemare il cavo elettrico per quell’orologio?»
«Prendi questi.» Gli mise dei piatti sulle mani e lo
sospinse fuori dalla cucina, verso la camera da pranzo. «Poi
tira fuori le posate buone d’argento; stanno in quella
vecchia scatola di feltro grigio… sai, quella di tua madre.»
«Perché? Per Mezzasega?»
«Perché sono per gli ospiti.»
«Può usare le normali posate d’argento che usiamo noi
tutti i giorni.» Risentito, Fergesson cominciò a sistemare i
piatti sopra il lungo tavolo di quercia. «Non trasformare
questa serata in chissà quale occasione… Ma che diavolo vi
passa per la testa, a voi donne?» Fulminò sua moglie con
un’occhiataccia. «Tu e Ellen Hadley vi siete di nuovo
alleate? Questa storia è tutta una messinscena!»
Alice lo ignorò e rivolse la sua attenzione all’insalata. Il
vassoio di panini bianchi ai semi di papavero era pronto a
essere infornato, non appena le fette di pesce spada fossero
state pronte. La salsa bernese era stata già preparata. I
piselli surgelati erano nel loro cartone umido e si stavano
scongelando. Si era dimenticata qualcosa? La gelatina al
vino e i biscottini di pastafrolla erano pronti dalla sera
prima… Rimaneva solo da finire di rosolare le patate
arrosto; riposavano come rotelle inerti nella parte alta del
forno, rifiutandosi di cuocere in modo rapido e regolare.
Dal salotto provenivano rumorosi segni di attività:
Fergesson stava aprendo i cassetti della grossa credenza in
cerca dell’argenteria. Per un momento Alice pensò di
andarla a prendere lei stessa; tutto quel frastuono la
infastidiva. Cos’era che lo agitava tanto? Stava contagiando
anche lei… Fergesson stava infettando tutta la casa con la
sua tensione e il suo atteggiamento apprensivo. Alice si
inginocchiò con un sospiro e tornò a controllare il pesce
spada.
Sotto la fiammella azzurra del forno le fette trasudavano
grasso bianco ed emanavano un languido vapore; sulla
superficie grigia indurita sfrigolavano pezzetti di pancetta
bruciacchiata. Be’, i filetti di pesce erano ideali per una
calda serata d’estate. Ideali per la cuoca, almeno; non c’era
bisogno di tenere acceso il forno per tutto il pomeriggio.
Alice cercò di ricordare se Stuart mangiava il pesce;
secondo Ellen c’erano diverse cose che non mangiava.
Ma il pesce fresco di mare non aveva mai fatto male a
nessuno. Richiuse il forno con impazienza e si tirò su.
Stuart era un ragazzo grande e grosso; era ora che
qualcuno lo facesse sedere in tavola e lo facesse mangiare.
Visto da fuori, almeno, era sano e ben pasciuto; in effetti
stava cominciando a mettere su qualche chilo.
Per un attimo si soffermò a riflettere su come doveva
comportarsi. C’erano tante cose da tenere a mente:
un’intera serata in cui evitare a Fergesson e a Hadley di
litigare; cercare di impedire a Ellen di rannicchiarsi sul
divano come un gatto ammalato, pretendendo che tutti la
servissero; sforzarsi di fare in modo che la conversazione
non degenerasse in pettegolezzi da salotto e luoghi comuni
sul tempo e sullo stato della nazione. Cercare di
armonizzare quattro persone che, prese a due a due, non
andavano d’accordo, per non parlare del gruppo intero.
Alice afferrò il vassoio dei panini e lo infilò in forno con un
gesto secco.
Poi si chinò, preoccupata, per ripulire la gonna che si
era un po sporcata; stare inginocchiata davanti al forno era
il modo migliore per rovinarsi i vestiti. Frugò rapidamente
nell’armadietto in cerca di un grembiule più lungo. Non ce
n’erano, e richiuse irritata il piccolo sportello di
compensato. Probabilmente Ellen si era presa in prestito il
grembiule lungo di plastica blu… Alice poteva capire
l’impazienza di Fergesson nei confronti di Hadley; era come
se quel giovanotto se ne stesse sempre con le mani in mano
e quel sorrisetto sulla faccia, l’espressione fatua, credula e
fiduciosa di un bambino. Stuart ed Ellen. Che prendevano
le cose in prestito, facevano domande, dipendevano sempre
da qualcuno… Del resto sua madre aveva detto la stessa
cosa di lei, tutto già sentito.
In camera da pranzo Fergesson passeggiava
immusonito, senza niente da fare; aveva trovato
l’argenteria e l’aveva deposta sul tavolo. Alice lo sentiva
andare su e giù senza posa, rimuginando sui due negozi,
sulle sue responsabilità crescenti. Perché diavolo l’hai
comprato?, avrebbe voluto chiedergli, esasperata. Se tutto
quello che sai fare è caricarti di preoccupazioni, allora per
l’amor del cielo rivendilo!
Sentì dall’esterno rumore di voci e calpestio di scarpe.
Una frazione di secondo dopo il campanello suonò; il suo
cuore sussultò e lei corse a dare un’ultima occhiata al
forno. Erano arrivati. La serata aveva avuto inizio.
«Vai tu?» chiese ansiosamente a Fergesson. «Io devo
controllare il pesce.»
Fergesson grugnì qualcosa, contrariato, e ciabattò lungo
il corridoio verso la porta di casa. Alice ne colse
un’immagine fuggevole mentre si fermava un momento
davanti allo specchio per darsi una controllata; piegò la
testa e si esaminò con aria critica la chiazza di calvizie che
faceva capolino da sotto i capelli mal pettinati. Il suo
povero, vanitoso, scarmigliato marito pieno di grattacapi…
Fergesson spalancò la porta, e Stuart ed Ellen entrarono in
casa.
Stuart era molto più alto di Fergesson; Alice lo notò in
un attimo, e poi rimosse subito il pensiero. Agile, biondo,
impeccabile, entrò tranquillamente con il braccio posato
sulla spalla di Ellen, accompagnandola oltre il gradino. Per
l’occasione aveva indossato una giacca sportiva marrone e
dei pantaloni scuri di gabardine stirati alla perfezione…
scarpe con la suola di gomma e un papillon a pois. Curato,
elegante, il mento ben rasato e con un velo di talco, le
orecchie di un rosa pallido, i capelli tagliati corti e ben
pettinati, Stuart Hadley salutò allegramente Alice con un
cenno della mano.
«Salve» le fece.
Lei ricambiò con un sorriso. «Siete in anticipo.»
Anche Ellen sorrise. Aveva in mano il fagotto azzurro di
coperte in cui dormiva Pete, e tutto il resto
dell’armamentario del bambino. Carica com’era, aveva il
viso tondo e radioso, soffuso di legittimo orgoglio. Esibì il
bambino più a lungo che poté; sembrava che non avesse
intenzione di metterlo giù. Poi Stuart l’accompagnò nella
camera da letto in fondo alle scale; le loro voci si spensero
mentre Fergesson li seguiva scuro in volto.
«…non ci sarà troppa corrente d’aria, vero?» giunse
ancora la voce di Ellen.
«È agosto!» protestò irosamente Fergesson, come se lei
avesse mancato di rispetto alla struttura stessa della sua
casa. Rumore di oggetti spostati, una finestra che veniva
chiusa… Poi i tre tornarono su, con Fergesson sempre
torvo, le mani cacciate nelle tasche e il sigaro infilato fra i
denti, come sempre.
Sotto la fredda luce gialla del salotto i colori della
carnagione e dei capelli di Ellen risaltarono e presero vita.
Giovane e piena di salute… Alice non riuscì a reprimere un
moto di invidia. Ellen, in piedi in mezzo alla stanza mentre i
due uomini si mettevano a sedere, si girava di qua e di là
mettendo in mostra la sua figura nuovamente snella, e il
grazioso abitino estivo. I capelli bruni che le ricadevano
abbondanti sulle spalle e il grazioso ondeggiare della gonna
di seta verde, che metteva in risalto le gambe flessuose…
pattinò sui tacchi alti fino in cucina e salutò Alice.
«Posso dare una mano?» domandò con gli occhi che
scintillavano.
«No, grazie» disse. «Torna pure di là e intrattieni i
ragazzi; è quasi pronto.»
Con gli occhi luminosi e le labbra socchiuse, Ellen si
mosse per la cucina. Il suo petto alto e pieno sembrava
fremere di eccitazione… era incredibile quanto potesse fare
un reggiseno costoso di marca. «Qui è tutto magnifico…»
Fece scorrere le dita sulla superficie cromata e sulle
mattonelle dell’acquaio che Fergesson aveva montato con
le sue mani. «Mi piace molto. E i rubinetti sono così belli.»
Alzò lo sguardo verso i tubi di ventilazione in alto. «Li ha
messi Jim?»
«Ha fatto tutto lui» disse sbrigativa Alice mentre
rovesciava i piselli ancora gelati in una pentola di acqua
bollente. «Come sta Pete?»
«Bene» rispose allegra Ellen. «Alice, lei ha una casa
stupenda… Sono tanto invidiosa! Tutti quei bei pavimenti di
legno… e sono tutti lucidati!»
«Passati a cera» la corresse Alice.
«Come trova il tempo di tenere in ordine una casa così
grande? E poi il giardino… in pratica è una residenza
signorile!»
«Basta organizzarsi» considerò distrattamente Alice,
con la testa sempre rivolta alla cena. «Alla fine ci si fa
l’abitudine.»
In salotto i due uomini si stavano consultando a voce
alta, con decisione. Uno di fronte all’altro, a gambe
incrociate, stravaccati nelle poltrone, discutevano gli affari
della giornata appena conclusa.
«Quella spedizione di Leo J. Meyberg è arrivata?» stava
chiedendo Fergesson.
«È arrivata con la Trans-bay. E in gran parte è già stata
consegnata.»
«Ci sono molti ordini arretrati? Ho intenzione di
cancellarli; stiamo accumulando troppa roba. Quello è un
racket… lo sanno che la roba si duplica. Abbiamo cinquanta
valvole termoioniche, il doppio di quanto possiamo
permetterci. La metà le rimanderò indietro.»
«Finalmente siamo riusciti a dare via quel grosso
combinato Zenith» disse Hadley.
«Ho visto la fattura. L’hai venduto tu?»
«Insieme a White… Me li sono lavorati io, poi l’affare
l’ha concluso lui. Sono tornati.»
«Avresti dovuto chiudere la prima volta» obiettò acido
Fergesson.
«Nessuno tira fuori quattrocento dollari la prima volta
che entra in un negozio.»
«Se fai uscire un cliente» disse arrabbiato Fergesson «lo
hai perso. Hai il loro nome?»
La conversazione si spense in un mormorio astioso.
«Sono arrivati subito al punto» osservò Ellen in tono
fatuo. «Sono così… seri.»
«E lo saranno per tutta la cena» aggiunse Alice,
rassegnata.
Intimorita, con i grandi occhi marroni spalancati, Ellen
le confidò: «Sono così contenta quando si sveglia e
dimostra interesse per le cose… Di solito è sempre tanto…»
Si strinse nelle spalle e sorrise. «Lo sa. Sempre perso
dietro qualche sogno.» Poi aggiunse in tutta fretta:
«Naturalmente ha un sacco di idee. Spero che abbia la
possibilità di parlargli di quella sua proposta sui nuovi
banconi; ha buttato giù alcuni schizzi e sono proprio
fantastici. Alice, lei lo sa che ha delle capacità. Avrebbe
dovuto fare l’architetto o qualcosa del genere.» la seguì
ansiosamente in giro per la cucina. «Non c’è niente che
posso fare?»
«Va benissimo così» le disse sbrigativa Alice.
Ellen aprì il frigorifero e giocherellò con le cose che
c’erano dentro. «Posso metterci il biberon di Peter?»
domandò, piena di speranza.
«Ma certo» disse Alice.
«Grazie.» Ellen lasciò la cucina per andare a prendere il
biberon. «È in camera da letto insieme alle altre cose.»
Alice continuò a preparare la cena. Ellen si era fermata
momentaneamente in salotto per rivolgere un sorriso ai
due uomini… ma quando la ragazza tornò in cucina, Alice
notò che aveva la fronte increspata per la tensione.
«Rilassati» le consigliò.
Il dolce, insulso sorriso si allargò come miele sulla
faccia di Ellen. «Oh, Alice… lei è così brava in queste
faccende sociali. Vorrei avere il suo savoir faire.»
Il pesce spada bollente uscì dal forno e venne sistemato
sul piatto di portata, circondato da fette di limone, poi
portato dalla cucina in camera da pranzo. Tutti rimasero a
guardare in silenzio mentre Alice faceva concitata avanti e
indietro dalla cucina, portando i piselli, la salsa bernese, le
patate arrosto, l’insalata, la caffettiera e i panini.
«Sembra una gran cena» disse Hadley mentre si
avvicinava al grosso tavolo di quercia con la sua solenne
esibizione di antiche posate d’argento, piatti di porcellana e
salviette di lino in portatovaglioli di corno. Fece un gran
sorriso di approvazione. «Un vero festino.»
Senza far caso alle formalità Fergesson si mise a sedere
e cominciò versare il caffè bollente nella tazza. «Su» disse.
«Cominciamo a mangiare.» Si aggiunse panna e zucchero
alla tazza mentre Hadley si accomodava insieme alla
moglie e Alice correva in cucina a prendere il burro.
La cena iniziò in silenzio, in un’atmosfera tesa. Alice
mangiò a grossi bocconi, in modo sbrigativo, con gli occhi
fissi sui due uomini e sulla donna seduti attorno al tavolo.
Fergesson si immerse nel pasto senza fare commenti, con
la faccia arrossata del tutto priva di espressione,
ramazzando il cibo come uno scaricatore. Al suo fianco
Ellen piluccò con delicatezza dal piatto, un boccone ogni
tanto, con le labbra rosse piegate in un sorriso irrequieto.
Più di una volta si scusò e andò in camera da letto a
controllare Pete; osservando la gonna della ragazza che
svolazzava intorno alle sue gambe snelle, Alice si domandò
se stesse recitando, o se fosse nervosa, o entrambe le cose.
Probabilmente entrambe: quando Ellen riemergeva dalla
camera da letto, Alice coglieva ogni volta nei suoi occhi
marroni una fuggevole espressione di genuino panico.
Mentre sua moglie si impegnava perché tutto filasse
liscio, Stuart Hadley trangugiò spensieratamente il pesce,
le patate, i piselli e i panini, con il bel viso schietto e
innocente come sempre.
Per un po nessuno disse nulla. Alla fine, quando il
silenzio cominciava a diventare pesante, fu Fergesson a
parlare. «Bene» disse, non rivolto a qualcuno in particolare.
«Vedo che hanno elevato di nuovo le quote dei coscritti.»
«Non fanno che elevarle» replicò Hadley con la bocca
piena. Mandò giù il cibo con un po di caffè. «Tanto non mi
prenderanno mai. Non con i problemi al fegato che ho.»
Fergesson lo osservò. «Te ne fai proprio un vanto, di
stare male. A me non sembri per niente malato; non c’è
niente che non va in te.»
«Per l’esercito c’è» ribatté sprezzante Hadley.
«Io mi sono offerto volontario nella prima guerra
mondiale» borbottò Fergesson. «In marina… seconda
battaglia della Marna, foresta di Belleau. Non mi è
successo niente.»
«Non eri sposato» gli ricordò Alice. «È diverso quando
si ha famiglia.»
«Quando si ha famiglia,» pontificò Fergesson «c’è ben di
più per cui combattere. Abbiamo un impegno con la nostra
nazione. Un uomo dovrebbe essere felice di avere
l’occasione di restituire al suo Paese una parte di quello
che gli deve, in cambio di quanto è stato ha fatto per lui.»
Si pulì la bocca con il tovagliolo. «Sei un 4-F?» gli
domandò. «Non lo cambieranno?»
«No» disse subito Ellen. «Ha un certificato in cui c’è
scritto che è inabile in modo permanente.»
Fergesson grugnì e tornò al suo cibo.
«Con gli accordi di pace,» fece Alice «la guerra
dovrebbe finire presto.»
«Mai» ribatté Fergesson con voce piatta. «Quei rossi
stanno solo tergiversando; non firmeranno mai. Non è
possibile parlare con loro; l’unico di linguaggio che
capiscono è la potenza militare. I democratici finiranno con
il consegnargli la Corea… quello che ci serve è una vittoria
militare chiara e netta. Lo sanno anche i bambini.»
«Lei vorrebbe combattere la Cina rossa?» gli chiese
Hadley.
«Quando verrà il momento» rispose Fergesson «in cui lo
zio Sam si stuferà di sopportare quel branco di orientali…»
Trangugiò fieramente il suo caffè. «Ecco quello che non va
oggi nella gente; è rammollita! Una bella bomba atomica e
quei cinesi se la daranno a gambe. Dobbiamo mostrare un
po di forza, dobbiamo far vedere loro di che tempra siamo
fatti. Parole, parole, parole… sanno solo parlare.
Nient’altro… si siedono attorno a un tavolo e
chiacchierano. E mentre noi ce ne stiamo a perdere tempo
a Panmunjom8, quei rossi si prendono tutto il mondo.»
Puntò il dito verso Hadley. «Non ti farebbe male parlare di
meno e lavorare di più: a quanto mi risulta ieri hai passato
quasi tutto il tempo a chiacchierare con quel venditore di
Basford.»
Hadley avvampò. «Cercavo di farle risparmiare un po di
soldi; stavo rifiutando quella fornitura che avevano
preparato per il mercato di Natale.»
«Lascia che di questo me ne occupi io» disse Fergesson.
«Ho già detto a H. R. Basford che non accettiamo forniture
del genere; vogliamo lo sconto regolare e la possibilità
della resa, non tanta roba tutta insieme. Dov’è l’ordine che
hanno inviato? Lo userò come carta per appunti.»
«E va bene» lo rimproverò Alice. «Non potete aspettare
dopo cena?»
Fergesson allontanò impetuosamente il piatto. «Io ho
finito.»
«C’è ancora il dolce» gli ricordò Alice.
«Be’, allora portalo in tavola.»
Intorno al tavolo tutti avevano smesso di mangiare.
Ellen, con il piatto ancora mezzo pieno, fissò ansiosamente
Fergesson, poi suo marito. Sul momento Alice provò
compassione per lei; ce n’era abbastanza per scoraggiare
chiunque. Si alzò in piedi e cominciò a raccogliere i piatti.
«Resta lì» intimò a Ellen quando la ragazza fece per alzarsi.
«Ci penso io.»
«È quel lucernario in alto» stava dicendo Fergesson
quando lei tornò con la gelatina al vino. «Copri quell’affare,
così non passerà troppa luce. Oppure gira i televisori
dall’altra parte.»
«Si deve vedere dalla strada» replicò Hadley. «La gente
passa e vede i televisori accesi, si ferma e guarda; sennò se
ne vanno senza nemmeno accorgersene.»
«Mettine uno in vetrina» grugnì Fergesson.
«Non va bene! Così sembra quasi di stare al cinema,
dove uno paga il biglietto e guarda lo spettacolo. Dobbiamo
sistemare i televisori dove la gente può entrare e toccarli…
farsi l’idea che sono in vendita, qualcosa che può andare
bene per casa loro.»
«Immagino che tu abbia ragione» ammise Fergesson.
«Fosse per me, io non ne vorrei uno per casa.» Accettò la
gelatina al vino con un certo sospetto. «Che roba è?»
«Mangiala insieme ai biscotti» gli disse per tutta
risposta Alice. Lei si servì per ultima, poi si mise a sedere.
«Prima che si scaldi.»
Fergesson colpì con la punta del cucchiaio la
montagnola iridescente color giallo scuro. «Ci hai messo il
vino dentro?»
Ellen assaggiò il dessert e si voltò entusiasta verso
Alice. «È semplicemente deliziosa» esclamò quasi senza
fiato. «È così… non saprei, sembra…» si sforzò di trovare la
parola giusta «…continentale.»
Hadley era ancora impegnato nella conversazione con il
suo capo. «Io credo che lei non abbia ancora le idee chiare
sulla televisione. Non la si può commercializzare come le
radio da quindici dollari. Prenda la nostra pubblicità: è
poco più che zero, appena un paio di riquadri nei volantini
di Shopping News. Quello che ci serve sono un paio di
annunci a tutta pagina ogni settimana… quelli che fanno la
Emerson, la Zenith, la RCA, tutte le grandi marche. Sul San
Francisco Chronicle o sull’Oakland Tribune, non sul San
Mateo Times; quello non lo legge nessuno. I nostri migliori
clienti dovrebbero essere i ricconi che vivono fuori città,
che hanno un sacco di soldi da spendere. Dovremmo
procurarci qualcuno dei combinati fatti su ordinazione,
qualcosa di meglio degli Admiral e dei Philco. Almeno i
DuMont.»
«Non ci penso nemmeno ad appesantire il mio
magazzino con quegli affari che costano mille dollari»
replicò acido Fergesson.
Per niente disposto a mollare, Hadley lo incalzò:
«Accidenti, non si rende conto di quello che perde? Una
volta agganciata quella gente si possono fare soldi a palate.
Lei lavora tutto il giorno per vendere un misero Admiral da
tavolo; il suo guadagno netto può essere, diciamo, venti
dollari, una volta tolte le spese generali e la commissione…
giusto? Vendere a un manovale o a un operaio e a sua
moglie un piccolo Admiral di plastica le costa lo stesso
impegno che vendere a una persona benestante un
lussuoso televisore fuori serie che costa mille dollari!
Questi ricconi vogliono comprare, hanno soldi da spendere.
Lo sa dove si vanno a procurare il loro televisore? Su a San
Francisco. Ai grandi magazzini del centro… nei negozi di
lusso di Stonestown, per esempio.»
«Io non sono un operatore su larga scala» disse
scontroso Fergesson. «Mi accontento della mia quota.»
La cena si concluse in un imbarazzato silenzio. Appena
il suo piatto fu vuoto Ellen si scusò e corse in camera da
letto senza più riemergere. Poi finì Hadley e scomparve
dietro di lei. Fergesson e Alice rimasero soli.
«Sei proprio un vecchio orso» osservò Alice. «Non fai
che brontolare.»
Fergesson si accese un sigaro e ruttò. «Andrò a letto
presto» annunciò senza preamboli. «Domani mi devo alzare
alle cinque e mezza.»
«Perché?»
«Vado in città con la macchina; devo vedere alcuni dei
grossisti. Voglio controllare delle vecchie bolle di consegna
di O’Neill… Secondo loro, ho un sacco di merce che non mi
appartiene.» La sua mandibola inferiore si afflosciò. «Ho
pagato per quella roba, è mia.»
In camera da letto Ellen e Hadley stavano parlando a
bassa voce. La conversazione si interruppe bruscamente;
Ellen apparve sulla porta della camera da pranzo, diede
un’occhiata ad Alice, poi corse verso di lei: «Li lavo io i
piatti» disse con voce ansimante. «Dov’è il grembiule?» Poi
corse in cucina e ne riuscì mentre si allacciava sulla vita un
elegante grembiule bianco. Cominciò rapidamente a
raccogliere dalla tavola i piatti del dessert e le tazze del
caffè. Hadley la raggiunse lentamente e rimase lì in piedi.
Fergesson si alzò. «Andiamocene via» disse a Hadley
«da tutta questa confusione.»
«Ottima idea» convenne Hadley.
L’uomo anziano ciabattò immusonito verso il lungo
divano in salotto, seguito da lui. Si sedettero uno di fronte
all’altro. La stanza era fredda; Fergesson aveva montato in
cantina un complesso sistema di condizionamento dell’aria.
Un’arietta leggera turbinava tutto intorno a loro. Fuori la
notte di agosto era calda e afosa; poche persone si
muovevano abuliche lungo i marciapiedi, uomini in
maglietta, donne in pantaloni macchiati di sudore e abitini
prendisole appesantiti dall’umidità.
«Che ne pensi del mio impianto di condizionamento?»
chiese Fergesson.
«Pare che funzioni.»
«L’ho scavata con le mie mani, quella dannata cantina.
Ci ho faticato come un nero, su questa casa. Ho messo delle
fondamenta nuove… credo di aver portato via con la
carriola qualche tonnellata di terra. E con quella ci ho
costruito un patio sul retro.»
«Mi ricordo di quando non veniva in negozio perché
aveva da fare.»
«L’ho montato appena in tempo, questo impianto. Dio, il
caldo faceva gonfiare tutta la carta da parati, qui dentro. Ci
prendiamo tutto il calore che viene dalla Baia. Dalle nove
del mattino fino a mezzogiorno ce lo becchiamo tutto noi. E
ho messo anche il riscaldamento a pannelli radianti.»
Orgoglioso, Fergesson indicò il pavimento a mattonelle.
«Comunque c’era un parquet dipinto. A me piacciono
queste mattonelle. Ho sistemato tutti i tubi e poi ci ho
messo sopra le mattonelle. Funziona benissimo.»
«Lei ha lavorato tanto» disse meditabondo Hadley. Dopo
un momento gli chiese: «Che cosa ne ricava? Una
sensazione di stabilità?»
Fergesson alzò le spalle. «Qualsiasi lavoro si debba fare,
tanto vale farlo bene. Dovresti saperlo… invece di
comportarti da lavativo dovresti finire quello che cominci.
In negozio lasci i lavori a metà. Ci vuole sempre qualcuno
che sistemi le tue cose.»
Hadley lo ignorò e fece un gesto con la mano che
includeva la stanza, il pavimento, la casa intera. «Si sente
più radicato? Fare tutti questi lavori le dà la sensazione di
essere più ancorato? Di avere un centro?»
Fergesson aggrottò la fronte. «Non capisco di che
parli.»
«Lasciamo perdere» disse Hadley.
«Mi dà una sensazione di orgoglio. Quando ti guardi
intorno e sai che quelle cose le hai fatte tu… quando sai
che non dipendi da nessun altro.»
Hadley si umettò le labbra. «Quando uno sta per conto
suo si possono mettere a frutto le idee… si può realizzare
qualcosa.»
«Che cosa, per esempio?» chiese seccamente
Fergesson.
Un fremito attraversò la faccia di Hadley,
un’espressione di febbrile necessità. «Si possono mettere le
cose in movimento.» Sollevò le mani in un gesto
incontrollato. «Prendiamo il Modern; ci sono un sacco di
miglioramenti che si devono apportare. Il Modern… fa
ridere. Ha una delle facciate più antiche della strada.»
«Va abbastanza bene così» replicò in tono asciutto
Fergesson.
«Vent’anni fa, forse. Ma le cose sono cambiate, devono
espandersi! Lei non può immobilizzarsi…»
«Io non sono immobilizzato» lo interruppe Fergesson.
«Ho appena preso il locale di O’Neill; questo per te
significa immobilizzarsi?»
Hadley gesticolava sempre più. «Lei non vede il Modern
come lo può vedere uno che si muove in città su una grossa
Cadillac gialla. Abbiamo questo negozietto angusto da una
parte e quei bei locali moderni dall’altra: naturalmente lui
si guarderà bene dall’entrare proprio in un buco come
quello. Preferirà una bella vetrina, un’illuminazione
efficace…» Hadley stava cominciando a scaldarsi. «Li ha
mai visti quei posti che hanno una base tutta a mattoni alta
fino al ginocchio, o magari proprio di marmo? E sopra una
fila di fioriere, un po di piante, magari lungo un bel
davanzale? E poi la vetrina con una bella tenda… e
lampade incassate che illuminano da sotto i fiori; non un
faro nudo e crudo, ma una specie di radiosità. E dentro il
negozio tutto bene esposto, così chiunque entri si trova
davanti la merce in bella vista. Niente scale… una specie di
ascensione graduale.»
«Con i miei soldi? Lo sai quanto costerebbe una cosa del
genere? Migliaia di dollari… E poi lo sai che l’immobile non
è mio! È di Mason e McDuffy: significa buttare via il
denaro. Ho un contratto d’affitto per cinque anni, se non
me lo rinnovano…»
«Si rifarà delle spese in due anni» lo interruppe Hadley
impaziente. «Mi dia retta, una facciata come quella che le
ho appena descritto è la facciata del futuro… lei deve
averla. Da quando lavoro qui non ha mai fatto una
miglioria, solo quella mano di vernice bianca.»
In cucina, mentre le due donne lavavano e asciugavano i
piatti, Ellen parlava svelta. «Non sono riuscita a
convincerlo a portare con sé quei disegni che ha fatto; se
Jim li potesse vedere capirebbe quello che vuole dire
Stuart. È difficile spiegarlo… quando cerchi di creare un
ideale, la gente ti guarda senza capire, e questo è ciò che
ha Stuart: un ideale da realizzare. È davvero creativo,
Alice. Tante persone sono così… ecco, così ordinarie… non
hanno quella scintilla, capisce. Sono come immobili,
inerti… non vedono le cose, non vedono il modo in cui la
realtà si può migliorare e rendere più bella. Stuart ha
proprio questo magnifico senso della bellezza; sa lavorare
con i materiali, pietre, legno, fiori… sa lavorare con la
plastica e con i tessuti. Ha un occhio incredibile per i
colori.» Quasi rapita, con disperazione, finì con impeto.
«Stuart è un vero artista, Alice. Ha una meravigliosa
sensibilità nelle mani…»
«Lo so» disse Alice, comprensiva. «Ma se vuoi che abbia
una minima possibilità, digli di non esagerare. Lo sai
quanto diventa sospettoso Jim quando qualcuno parla
troppo. Pensa sempre che gli voglia vendere qualcosa.»
«Ma deve capire!» gridò Ellen, in tono quasi
agonizzante. «Voglio dire, potrebbe fare così tante cose per
quel negozio… davvero, Alice. Potrebbe trasformarlo. Non
sarebbe più lo stesso negozio.»
«È proprio questo che mi spaventa» disse Alice acida.
«Che gli dica di chiudere il becco.»
Appoggiò l’ultimo piatto sullo scolapiatti e andò a
prendere le pentole e i tegami dalla macchina del gas.
Ellen, con lo strofinaccio in mano, restò impotente ad
aspettare, rivolgendo di tanto in tanto un’occhiata verso il
salotto, nel tentativo di ascoltare e giudicare quello che si
stavano dicendo.
«Certe volte è meglio non calcare troppo la mano»
proseguì con dolcezza Alice. «Rilassarsi e prendersela con
calma. Andiamo a sederci anche noi… cerchiamo di evitare
che la conversazione si trasformi in un dibattito sulle
politiche commerciali del negozio.» Poi aggiunse:
«Specialmente in una discussione su come affrontare il
venditore di Meyberg.»
Finirono di sistemare le stoviglie, pulirono la credenza e
l’acquaio, si tolsero i grembiuli e si trasferirono in salotto.
«Una monetina per i tuoi pensieri» disse nervosa Ellen a
suo marito. Sprofondò sul bracciolo della poltrona accanto
a lui e gli cinse il collo con le braccia morbide.
Alice si mise a sedere sul divano e chiese: «Voi due
avete finito di strillare come aquile? O c’è dell’altro?»
«Non stavamo strillando» replicò Fergesson. «Stavamo
discutendo questioni d’affari.»
«Avete finito?» ripeté Alice.
Fergesson si mosse sul divano. «Che vuoi dire? Certo
che non abbiamo finito. Come potremmo? Che cosa vuoi,
che me ne freghi e molli tutto, lasciando che i negozi
vadano in malora? Che razza di commerciante sarei? Per
quanto tempo ancora pensi che potremmo continuare a
pagare i nostri conti, e tu potresti permetterti di comprarti
tutti quei bei vestiti, e scarpe, cappelli e tutto il resto?» Gli
si appesantì la voce. «Sono stanco. Stasera devo andare a
letto presto.»
Ellen sbiancò, le braccia strette convulsamente attorno
al collo del marito. Hadley se ne liberò con dolcezza.
«Certo» disse a voce alta. «E io devo occuparmi di quei
Philco che arrivano domani. Devo fare spazio giù nello
scantinato.»
«Accertati che quei colli non tocchino il pavimento» lo
avvisò cupamente Fergesson. «Adesso è tutto a posto, ma
fra un paio di mesi l’intero scantinato trasuderà umidità. Fa
in modo che niente tocchi il cemento.»
«Potremmo chiedere al comune di spostare quelle
tubature» propose Hadley. «C’è una perdita, per questo
comincia così presto. Non è acqua piovana, viene giù dalla
collina.»
«Sciocchezze» lo contraddisse Fergesson. «Quei tubi
sono sigillati: buon Dio, passano sotto cinquanta negozi e
mille case… l’intera città. Se ci fosse qualche perdita…»
«Adesso statemi a sentire» lo interruppe Alice,
esasperata. «Noi non abbiamo nessuna voglia di starvi ad
ascoltare mentre blaterate di fogne cittadine.»
Per un po nessuno parlò. Alla fine Fergesson ruppe il
silenzio. «Posso chiedere a Hadley se ha chiamato la West
Coast Supply per quell’armadio danneggiato?»
«Li ho chiamati» disse Hadley. «Mi hanno detto che
dovevano mandare un ispettore a controllare.»
Fergesson annuì. «Bene.»
«Penso che verranno» osservò Hadley. «Naturalmente
abbiamo tenuto da parte il cartone. Così potranno vedere
che scolava.»
«Perbacco,» disse Ellen con voce lamentosa «sembra di
essere a Natale. Vi ricordate di quando siamo stati insieme
quel Natale?»
Un flusso di ricordi travolse Alice. Era stato un giorno
freddo e umido; la pioggia batteva sulle le finestre, un
vento gelido sferzava gli alti cedri lungo il vialetto. La
grande casa era piena di gente: Jack V. White, sua moglie
Peggy, e i loro due figli; Stuart e Ellen; Joe Tampini e la sua
ragazza; Olsen e sua moglie; una manciata di vicini, e poi
parenti e vecchi amici. Era stato servito un grosso tacchino
su due tavoli e dopo si erano seduti tutti in salotto ad
ascoltare la pioggia e a sorseggiare piccoli boccali di birra
schiumosa. La radio a modulazione di frequenza
trasmetteva in sottofondo una musica natalizia, una cantata
di Bach per Natale. Tutti erano tranquilli e in pace.
«Me lo ricordo» disse Fergesson, sorridendo ad Alice.
«Chi era tutta quella gente? Amici tuoi, immagino.»
«Sembra proprio di essere a Natale» ripeté Ellen. «Solo
che non è freddo, ma caldo. E non c’è tanta gente.»
«Così è meglio» disse Hadley. Si alzò in piedi e si
diresse verso il radiofonografo nell’angolo. Dopo un attimo
lo accese e si mise a girare le manopole. C’era solo jazz
popolare, così lo spense.
«La radio è terribile» constatò Ellen. «Sono costretta ad
ascoltarla tutto il giorno… ci sono solo quelle commediole
scipite e pubblicità. Detesto la pubblicità cantata, mi fa
ammattire.»
«È proprio quello che dovrebbe fare» osservò
Fergesson.
«Se è così, è spaventoso» replicò Ellen. «Chi mai può
pensare cose come quelle? Dovrebbe esserci della buona
musica… La radio è così insipida, così di basso livello.
Certo, suppongo che all’uomo medio piaccia questo genere
di cose… I programmi devono puntare a raggiungere la
maggior quantità di pubblico possibile.»
«Il che significa gli idioti» aggiunse Hadley.
Fergesson si tormentò un labbro e chiese: «Hai mai
conosciuto qualcuno a cui piacesse la pubblicità cantata?
Se facciamo un’indagine in tutto il paese non troveremo
una sola persona a cui piaccia.»
«E allora perché la trasmettono?» domandò Ellen.
«Perché fa vendere i prodotti» rispose Fergesson. «È
irritante, ripetitiva… la gente la odia, ma ricorda il nome
dello sponsor. Funziona, ecco perché continuano a
mandarla.»
«Senta» disse Hadley. «Che ne dice di questo? Le ci
vorrebbe mi programma televisivo o radiofonico; lei non
può raggiungere tanta gente attraverso i giornali. Voglio
dire…» si affrettò ad aggiungere «non c’è bisogno che lei
finanzi un programma, le basta pagare per qualche
annuncio pubblicitario. La sera, magari, verso le sei o le
sette. In una delle grandi emittenti di San Francisco, come
la KNBC. Potrebbe portare qui gente dalla zona della Baia,
dall’intera penisola.» Concluse tutto eccitato: «La KNBC ha
un bel segnale, si prende fino giù a Bakersfield.»
Alice lo fissò, desiderando che per una volta nella vita la
piantasse di avere idee. Era facile leggere la sfiducia sulla
faccia di Jim; guardava con sospetto tutte le innovazioni,
soprattutto quelle che gli costavano soldi.
Si alzò di scatto e andò verso la cucina. «Torno subito»
disse senza voltarsi. Prese dal frigorifero una bottiglia
ghiacciata di brandy francese all’albicocca e senza perdere
tempo tirò fuori dei piccoli bicchieri da liquore. Ne riempì
quattro, li mise su un vassoio e tornò rapidamente in
salotto.
Fergesson accolse il brandy con entusiasmo. «Ottima
idea» mormorò riconoscente, tirandosi su per prendere un
bicchiere. Tutto contento, fece una battuta: «Quanti per
me? Due? Tre?»
«Solo uno» rispose con aria severa Alice, allontanando
da lui il vassoio e porgendolo a Hadley e Alice.
«Grazie» fece Hadley. Accettò il brandy, ma non lo
bevve. Lo appoggiò sul bracciolo della poltrona e guardò
fissamente davanti a sé, con gli occhi azzurri annebbiati dai
pensieri. Aprì la bocca per parlare, ma Alice lo batté sul
tempo.
«Forse tu non dovresti prenderlo» disse a Ellen. «O
adesso va tutto bene?»
«Va tutto bene» rispose timidamente Ellen allungando la
mano verso un bicchiere. «Grazie tante, Alice. Sembra
magnifico…» Ne bevve un sorso. «Anzi, è proprio un
nettare.»
Alice sospirò dentro di sé. Prese l’ultimo bicchiere
rimasto e si mise a sedere.
«Ho saputo che Joe Tampini si sta per sposare» disse
Fergesson. «Con quella ragazza?»
«Sempre la stessa» replicò Hadley. «Quella bella rossa.»
«Credo che mi chiederà un aumento di stipendio» si
lagnò stancamente Fergesson. «Come hai fatto tu quando ti
sei sposato.»
«È una ragazza adorabile» disse Ellen. «Io invidio
sempre le donne con i capelli rossi come i suoi.»
«Le donne con i capelli rossi o sono bellissime o sono
brutte come la fame» commentò Fergesson. Poi, rivolto a
Hadley: «Ti ricordi quella ragazza che veniva sempre al
negozio quando avevamo quella pila di dischi da juke-box?
Occhi verdi, capelli rossi… Le piacevano molto, quei dischi
con musiche per tromba.»
«Me la ricordo» disse Hadley. «Si chiamava… Joan
qualche cosa. Una volta sono riuscito a scrivere il suo nome
su un ordinativo per un disco di Bix Beiderbecke.»
«Non doveva avere più di diciotto anni.»
«Diciotto un cavolo. Era una liceale.»
Fergesson rifletté. «Stavo pensando che ci servirebbe
una ragazza al Modern… per renderlo più attraente alle
famiglie. Durante la guerra andava bene così… ci
limitavamo ad aggiustare radio. Appesi alla parete c’erano
quei calendari di ragazze con le tette grosse e nessuno
protestava; per lo più la nostra clientela era composta da
uomini. Ma adesso ci sono sempre più coppie che vengono.
Se avessimo qualche ragazza, magari una che segua la
contabilità, o che accolga i clienti… Potrebbe controllare le
valvole, rilasciare gli scontrini, rispondere al telefono.»
«Una centralinista» disse Hadley.
«Ci sarebbe abbastanza lavoro per tenerla impegnata?
Non ho intenzione di pagare un’impiegata perché stia solo
lì a sculettare ai clienti; deve anche pulire e tenere in
ordine il locale. Credo che una donna sia meglio per
questo; pulire e spolverare è roba da donne.»
«Oh, certo» convenne subito Hadley. «C’è un bel po di
lavoro che potrebbe fare. Rilasciare le ricevute, come dice
lei. Tenere a posto l’archivio, seguire le pratiche…»
«Però non la vogliamo segregata in ufficio» gli fece
notare Fergesson. «La vogliamo al pubblico, dove la gente
possa vederla.»
«Questo è giusto» osservò Hadley. «Ed è interessante,
perché stavo pensando proprio la stessa cosa. L’altro giorno
ci ho riflettuto, e glielo dico per quello che vale. Magari lei
non ci troverà niente. Ma io credo, che dovremmo ampliare
il reparto dischi. E le spiego perché… porterebbe dentro un
bel po di gente a cui potremmo poi vendere televisori e
radiogrammofoni. Due reparti uno vicino all’altro…
potremmo abbattere il muro del retrobottega e metterà le
cabine per ascoltare i dischi, magari mettercene anche
qualcuna in più.»
Fergesson scosse la testa. «Non se ne parla nemmeno»
disse con enfasi. «Il Modern non diventerà mai un negozio
di dischi.» Fissò intensamente il soffitto. «È meglio il locale
di O’Neill. Lì c’è molto più spazio per sistemare gli
espositori. I dischi ne richiedono tanti.» Concluse acida: «E
poi i dischi si rompono in continuazione.»
«Non i nuovi LP» gli fece notare Hadley.
«Quelli si graffiano.» Fergesson si studiò le mani, che
teneva strette. «Naturalmente non ti affiderei mai il locale
di O’Neill… Quello è per me. Tu rimani al Modern.»
«Lo so» disse Hadley.
«Se allestissi un reparto pieno di dischi magari troverei
qualche finocchio che viene ad ascoltarne uno da
Berkeley… come si vedono nei negozi di Berkeley. Gli
piacciono tutti quei classici, come Lily Pons e Toscanini.
Non voglio avere niente a che fare con quella roba.»
«Giusto» convenne Hadley. «Quella è musica da
specialisti.»
«E allora dimenticati dei dischi. Però vediamo di
metterci dentro una ragazza. Pensi che una liceale
potrebbe andare?»
«Meglio una che frequenta la scuola di ragioneria» disse
Hadley. «Quel posto che sta al secondo piano, nel palazzo di
fronte al Modern. Sono più anziane e più esperte. Capisce
quali intendo? Tacchi alti e maglioncini… quelle che si
vedono all’ora di pranzo da Woolworth.»
«Credevo che fossero segretarie.»
«No, vanno a scuola di ragioneria. Cercano un lavoro
come disperate.»
«Bene,» fece Fergesson «uno di questi giorni ci faccio
un salto e vedo quello che si può fare.»
«Questa idea non mi piace molto» disse insospettita
Alice. «Ti vedo un po troppo interessato.»
«Non ne sono convinta nemmeno io» pigolò Ellen, a
metà fra la battuta e la preoccupazione sincera. «A me
sembra che il Modern vada bene così.»
Fergesson ignorò le due donne e proseguì.
«Ripensandoci, forse è meglio che te ne occupi tu. Fa come
credi meglio. Dovremo pagarla duecento al mese… sono
duemila e quattrocento dollari all’anno, e per cinque giorni
di lavoro a settimana.»
«È vero» ammise Hadley. «C’è una legge dello Stato.»
«Preferiresti avere duemila dollari a disposizione per
ammodernare un po la facciata? Magari in quel modo si
potrebbe rendere il negozio più luminoso… una nuova
illuminazione, quella vetrina di cui parlavi.» Fergesson
agitò la mano. «Insomma, roba alla moda.»
La stanza cadde improvvisamente nel silenzio. Tutti si
raggelarono, fissando Hadley.
«Dovrò verificare i costi di manodopera» disse alla fine
lui. Strinse forte le mani sui braccioli della poltrona e
aggiunse con voce impastata: «Il grosso problema è il
personale, con tutte le complicazioni sindacali.»
«Be’, bisognerà pensarci su. Tanto non c’è fretta.»
Fergesson drizzò la testa e guardò di sbieco il giovanotto
biondo che gli stava davanti. «Ma se vuoi gestire quel
locale dovrai imparare a prendere le decisioni.»
«Certo» disse Hadley con voce roca.
Fergesson continuò a masticare il suo sigaro. C’era
tensione e nervosismo nella stanza; nessuno osava
muoversi o respirare. Fuori passò qualcuno lungo il
marciapiede, ridendo e chiacchierando. I rumori morirono
nel silenzio e rimase solo il ronzio del condizionatore che
Fergesson aveva installato con le sue mani.
«Hadley, mi sembra che tu ti sia un po calmato, adesso
che hai un figlio. Forse mi sbaglio, ma ho l’impressione che
tu stia cominciando a crescere.»
La faccia di Hadley mostrò che stava cercando di
trovare qualcosa da dire, ma senza riuscirci.
«Adesso hai una moglie e un figlio» continuò Fergesson.
«Hai delle responsabilità che non avevi prima. C’è un
grande futuro davanti a te, basta che tu ti metta d’impegno
a costruirlo.»
«Certo» disse Hadley annuendo, con voce quasi
inaudibile.
«Naturalmente» proseguì inesorabile Fergesson
«adesso hai anche molte più spese. Oggigiorno far crescere
un figlio costa un sacco di soldi. Medicine, abbigliamento,
cibo… tutto speciale.»
Alice fece un sorriso stentato. «L’autorità» bisbigliò, in
modo che suo marito non sentisse. Non aveva senso ferire i
suoi sentimenti.
«Me ne rendo conto» disse Hadley. Si toccò il
portafoglio. «Già cominciato a essere più vuoto.»
«Tu guadagni duecentocinquanta al mese,» proseguì
Fergesson «più il cinque per cento. Gestire il Modern TV
significa che non potrai più volare così basso; avrai compiti
più importanti, dovrai muoverti di più… probabilmente
venderai meno di quanto vendi in questo momento.»
«Immagino di sì» riuscì a dire Hadley.
Fergesson si studiò le mani e meditò. «Non posso offrirti
più di trecento. Sulle commissioni mi prenderò il cinque per
cento di quello che vendi e ti darò l’uno per cento secco
sull’incasso lordo del negozio. Questo significa su ogni
genere di merce soggetta a commissioni… con esclusione
di valvole, puntine per giradischi e riparazioni.»
«Capisco» si affrettò a dire Hadley.
«Questo significa anche che non dovrai competere con
Tampini e White; puoi lasciare che siano loro a chiudere le
trattative, mentre tu impedisci al soffitto di venir giù. Sarà
un grosso impegno… a lungo termine guadagnerai di più,
ma dovrai darti da fare. E se assumi una ragazza, magari
una liceale… dovrai fare in modo che pulisca e tenga in
ordine, e non fare lo stupido con lei.»
«Certo» assentì Hadley. «Lo so.»
«Che ne pensi?» domandò Fergesson in tono aggressivo.
«Lo so che trecento possono sembrare pochi, ma sotto
Natale quell’uno per cento sugli incassi lordi dovrebbe
garantirti una buona entrata.»
«Mi sembra una buona proposta» disse Hadley.
«Grazie a Dio» mormorò Alice e si mise in piedi con un
sospiro di sollievo. «Sono proprio contenta che sia tutto
finito.»
«Ma di che stai parlando?» ruggì Fergesson, offeso.
«Maledette donne, ve ne state sedute lì come un branco
di streghe… avete organizzato tutto voi!»
Stuart Hadley e sua moglie tornavano lentamente verso
casa lungo le strade calde e buie. Nel cielo ammiccavano
grappoli di stelle. Un leggero vento notturno faceva
frusciare i rami degli alberi lungo High Street. Le file di
case erano scure e silenziose, con i portoni spalancati per
fare entrare l’aria fresca. Ellen stringeva fra le braccia il
fagotto formato da Pete, dai suoi vestitini e tutto
l’occorrente per nutrirlo.
«Allora?» disse Ellen. «Che cos’hai da dire?»
«Credo che accetterò l’offerta.»
«Che… che cosa ne pensi?» Gli si avvicinò, ansiosa, e gli
strinse il braccio. «Dimmi come ti senti, Stuart. Sei felice?
È quello che volevi, no?»
Stuart Hadley si frugò nella mente in cerca di una
risposta. Si immaginò come direttore del Modern TV Sales
and Service: non era una fantasia, era tutto vero.
L’indomani mattina avrebbe aperto il negozio come
direttore. Jack White, Joe Tampini, Olsen e anche la
ragazza, se l’avesse assunta, erano tutti sotto di lui.
Responsabilità, posizione, potere sugli altri… Il negozio era
un oggetto che lui poteva plasmare e modellare a suo
piacimento, un oggetto malleabile a cui dare forma, più di
una volta.
Pensò al mondo fuori dal negozio. Un infinito caos di
sagome in movimento… Fuori non c’era nulla a cui
appoggiarsi, solo ombre gelide e la luce fioca delle stelle,
troppo lontane per toccarle. Il negozio era un cosmo
piccolo e pulito, una casella ordinata di solidità attorno alla
quale ruotava e turbinava un universo senza significato.
Tutto a un tratto si sentì terrorizzato: al di fuori del
negozio quell’universo gli metteva paura. Anche adesso,
mentre camminava lungo le strade buie e tranquille
insieme a sua moglie e a suo figlio… lo sentiva pericoloso,
un rischio troppo grande. Il mondo era fuori controllo. Non
c’era nulla da cui poter dipendere… Il terreno sotto di lui si
inclinava dovunque mettesse il piede, e lo scaraventava
verso le ombre.
Nella sua mente si formò l’immagine vivida di sé stesso
che apriva il negozio in una luminosa mattina d’estate.
L’aria umida e frizzante, ancora profumata di rugiada
notturna, faceva scintillare le automobili e i marciapiedi. Le
segretarie sempre di corsa, i commercianti che srotolavano
i tendoni, i neri che raccoglievano l’immondizia e la
mettevano nei cassoni, il rumore della gente, il movimento
di una città che tornava alla vita e iniziava il suo tran tran
di tutti i giorni. Il caffè all’Health Food Store… il telefono
che suonava… Olsen che si arrampicava a bordo del
camioncino per andare a fare le sue riparazioni giornaliere.
«Certo» disse Hadley, con disperazione. Aumentò il
passo; l’oscurità lo terrorizzava. Gli ricordava di quella
notte con Marsha, la strada deserta, la macchina
parcheggiata, i grilli. Quella desolata solitudine così totale,
così assoluta. «Andiamo a casa a dormire… domattina mi
devo alzare presto.»
«Fa freddo» disse Ellen. Rabbrividì contro di lui e
affrettò il passo anche lei. «Portalo un po tu, Pete.»
Hadley prese il bambino, che si mosse appena ma non si
svegliò. In alto le stelle sembravano più remote a ogni
momento che passava; era un universo enorme, troppo
grande perché un uomo solo potesse tenergli testa. Hadley
si domandò come avesse mai potuto desiderare di
avventurarvisi: arido e ostile, si allungava fino all’infinito,
del tutto indifferente alle faccende degli uomini. Anche
adesso lui sentiva un bisogno disperato di quel negozio
familiare; era stato costruito dall’uomo, era sotto controllo.
Ed era l’unico mondo aperto a lui. Hadley non vedeva l’ora
di entrarvi dentro, di lasciarsene avvolgere.
«Sono contenta» stava dicendo Ellen, col fiatone. «È
andato tutto benissimo… è splendido.»
Hadley non la stava ascoltando. La sua paura cresceva,
ed era la paura di sé stesso, la paura di quello che avrebbe
potuto fare. Poteva anche distruggersi; poteva esplodere
all’improvviso, in modo irrazionale, e distruggere la
sicurezza del suo microcosmo. Nella sua furia antica poteva
frantumare, demolire, abbattere l’unico mondo nel quale
poteva esistere.
Nella sua mente c’erano forze che potevano
distruggerlo; e in lui c’era la possibilità, l’energia per
annichilire sé stesso e il suo minuscolo universo. Come
prima, come in tutta la sua vita. Non era una cosa nuova,
c’era sempre stata. In un momento Hadley poteva
smantellare ogni frammento di sé. Quello era il terrore;
quello era ciò che rendeva l’universo spaventoso e sinistro.
Rischiava di avventurarsi nuovamente in quelle infinite
regioni ostili, nel tentativo di trovare qualcosa, di
aggrapparsi a qualcosa di esile e vago, qualcosa che poteva
non trovare mai. Qualcosa che era al di là della portata
delle sue mani.
«Cammini troppo veloce» protestò Ellen, senza fiato,
mentre gli correva dietro cercando di mantenere il suo
passo. Lei lo ascoltava, soppesava con fervore la sua voce,
si sforzava di capire come si sentisse. «Sono così contenta»
gli disse. Corse ancora, disperata, per non rimanere
indietro. «Voglio che tu sia felice, voglio che abbia quello di
cui hai bisogno. È meraviglioso, vero? Tutto questo…
finalmente si è realizzato.»
Hadley non rispose.
«Lo sai» continuò sua moglie in un rantolo, con la voce
ridotta a un bisbiglio implorante. «Credo di non essere mai
stata tanto felice in tutta la mia vita. Che ne pensi? Non è
meraviglioso?»
Non vi fu risposta. Hadley continuò a marciare di buon
passo tenendo stretto il figlio addormentato. Trascinandosi
dietro sua moglie lungo le strade buie e deserte.
Tutti i giovedì, grazie a un fantastico accordo che
operava in completo dissenso con le leggi di Dio e del
commercio, gli asili nido dovevano restare chiusi. Poiché il
negozio di fiori nel quale lavorava faceva parte dell’asilo
nido di Cedar Groves, Horace Wakefield aveva il giorno
libero. Perciò quella particolare mattina di un caldo giorno
di fine agosto si alzò alle otto invece che alle sette. E per
colazione si concesse prugne cotte e panna al posto dei
fiocchi d’avena.
La sua stanzetta era pulita e ordinata. Tutte le sue
riviste antivivisezione erano ammucchiate in bell’ordine
negli angoli e lungo le pareti. Spalancò le finestre e fece
circolare l’aria fresca. Lui adorava agosto; gli piacevano
quei giorni così lunghi, asciutti e caldi. Lungo la strada la
luce del sole danzava e traeva bagliori dall’asfalto. Il
postino si muoveva lentamente, appesantito dalla sua
sacca, la faccia lucida per il sudore. All’angolo era
parcheggiato un furgone della lavanderia e l’autista stava
risalendo con un grosso fardello bianco la rampa di scale
che portava a un palazzo.
Wakefield riempì un secchio d’acqua nella vasca da
bagno e lo portò sul balcone. Rose e crisantemi di grandi
dimensioni crescevano in vasi e fioriere basse. Innaffiò le
piante con cura, poi si fermò per un attimo a godersi il
profumo impregnato d’umidità che saliva dal terriccio nero
concimato. Il mondo che si stendeva sotto di lui da tutti i
lati lo faceva sentire praticamente un gigante. Alto
chilometri, guardò verso il sole e il cielo di un azzurro
intenso, riempiendosi i polmoni d’aria.
Aveva l’intero giorno tutto per sé. Ripassò nella mente
le cose che doveva fare. Per cominciare, c’erano le tre
lettere ai giornali che doveva scrivere e inviare. Il furgone
della lavanderia gli ricordò che le sue camicie aspettavano
al Pioneer Laundry. Doveva portare l’orologio dal gioielliere
per farlo pulire, doveva cambiare le lenzuola del letto;
poteva anche farlo la domestica, ma Wakefield preferiva
occuparsene di persona.
E poi c’era il lavoro vero e proprio.
Wakefield tornò nella sua stanza. Indossò il cappello e la
giacca e scese di buon passo la scalinata lunga e buia, con
la sua elaborata ringhiera di quercia, fino al piccolo atrio
dove lo specchio antico e l’attaccapanni a stelo lo
salutavano ogni mattina della sua vita. Si diede una
sistemata ai capelli neri e radi, si sistemò gli occhiali, si
soffiò il naso e poi spinse la grossa porta di casa e uscì nel
sole accecante.
Visto che era una giornata così bella, Wakefield
attraversò la città a piedi fino al palazzo della Società dei
guardiani di Gesù. Detestava quegli autobus affollati; in
particolar modo detestava le nuvole di vapori velenosi che
esalavano dai tubi di scarico, il frastuono del motore e la
loro andatura a scossoni. Mentre camminava continuò a
inalare grandi boccate d’aria e a compiacersi di essere vivo
in una giornata così splendida in un mondo così splendido.
Più si avvicinava al palazzo più sentiva il movimento.
L’aria vibrava di attività. La sala irradiava un grande senso
di urgenza; le cose stavano avvenendo, gli eventi erano in
corso d’opera. Wakefield si scoprì quasi a correre. Quando
arrivò era senza fiato, e ansimava per l’eccitazione. Il
desiderio di non perdere quell’occasione gli fece salire di
corsa le due ripide rampe di scale fino alle stanze sopra il
salone principale, che la Società utilizzava come uffici. Il
salone era stato trasformato in un centro organizzativo e di
reclutamento: vi si raccoglievano i contributi, vi si
assegnavano gli incarichi.
Si rese conto di nuovo che un movimento religioso era
molto più di una banda di individui uniti da un credo
comune: era un meccanismo in piena attività. Credere e
basta non era sufficiente in quel mondo… Coloro che
credevano si organizzavano in modo che anche altri lo
facessero. In quel palazzo, e in molti altri uguali sparsi in
tutto il mondo, era in azione tutto il macchinario della
Società. Zelanti signore di mezza età cuocevano i dolci,
raccoglievano i vestiti usati e organizzavano le lotterie…
ma quello non era tutto, non era per niente tutto. Si
stampavano volantini, si pubblicavano dischi, si
preparavano copioni per la radio, si raccoglieva il denaro.
Sotto il livello delle donne piene di buone intenzioni c’era lo
zoccolo duro di scaltri organizzatori per i quali la religione
era un lavoro a tempo pieno, un modo di vita. Un mondo,
non semplicemente un’attività.
Intimorito dalla vista di quegli instancabili funzionari,
Horace Wakefield rimase impalato davanti all’ingresso. Li
ammirava, e ne aveva paura. La loro immagine lo riportò ai
giorni della sua infanzia, ai raduni di risveglio religioso a
cui suo padre portava l’intera famiglia sulla loro piccola,
fedele Ford, lungo strade lunghissime di terra battuta che
passavano in mezzo a campi sterminati di peschi e
albicocchi. In quei raduni, sotto il vasto tendone di sporca
tela marrone, uomini e donne si accalcavano e ascoltavano
con attenzione, in modo spassionato, un uomo che urlava e
saltellava e agitava le braccia e schiumava dalla bocca. Non
era il revivalista che aveva terrorizzato Wakefield: era
l’improvvisa, inesplicabile visione di una donna
normalissima dai capelli sporchi e scarmigliati, o di una
giovane contadina, o magari di una ragazza grassoccia,
tutta gente ordinaria, che la domenica andava a fare la
spesa nei paesi della zona, la sera sedeva fuori dalle
fattorie e masticava lunghe caramelle morbide e
appiccicose… chiunque, in realtà, saltasse su all’improvviso
e si lanciasse sul palco con gli occhi da pazzo a
testimoniare la sua fede.
Quelle testimonianze lo terrorizzavano come niente al
mondo poiché a lui sembrava una sorta di pazzia, come il
morso di una tarantola che costringe la vittima a ballare
fino alla morte (o almeno così aveva sentito dire). Da
bambino era stato seduto, rannicchiato contro suo padre,
mordendosi le labbra e stringendo i pugni, pietrificato dalla
paura di essere colpito da quella pazzia anche lui: balzare
su, dimenarsi, farsi strada come un ossesso lungo la corsia
centrale fino al palco e poi, davanti ad amici e parenti,
cominciare a strillare, a strapparsi i vestiti, a sbraitare e
sbavare, e alla fine a immergersi nella tinozza piena
d’acqua in cui le vecchie anime diventavano nuove.
Un’acuta consapevolezza interruppe i suoi pensieri e lo
riportò al presente. Mary Krafft stava in piedi accanto a un
enorme grafico sulla parete, gesticolando e chiacchierando
con un gruppo di donne ben piantate. Sgomento, Wakefield
si rese conto di essere stato visto; la donna fece un cenno
con la testa e gli indicò a grandi gesti di raggiungerla. A
passi lenti, con riluttanza, lui entrò nella stanza… Fra tutti,
Mary Krafft era quella che lo irritava di più. Quando
raggiunse il gruppo di donne il suo buonumore era svanito:
si sentiva disamorato e senza più entusiasmo.
«’giorno» farfugliò.
Respirando pesantemente, la signora Krafft lo prese per
un braccio e lo fece girare su sé stesso per metterlo di
fronte al grafico. «Allora,» gli strillò «che gliene pare?»
Wakefield non capiva nulla di quel grafico: mostrava una
mappa degli Stati Uniti con piccole spille colorate
sistemate a casaccio. Liberò il braccio e rispose con
dignità: «Mi sembra molto bello, naturalmente. Molto
pulito e ordinato.»
«Dappertutto!» gli sbraitò la signora Krafft all’orecchio.
«Non lo vede? Contributi da ogni stato dell’Unione. Stiamo
facendo giungere il nostro messaggio in tutto il Paese… lo
stiamo accendendo!»
Wakefield sbatté le palpebre e cercò di spostarsi. «Molto
carino» farfugliò. «Davvero impressionante.» Il cerchio di
donne si aprì e lui se la svignò tornando al centro della
stanza rimbombante. Rimase lì senza sapere bene cosa
fare: aveva voglia di farsi avanti e dare una mano, ma non
voleva trovarsi coinvolto con quelle donne arcigne che
sembravano non stare mai ferme.
«Di qua» ordinò una voce autoritaria; una grossa
matrona di colore si stava avvicinando a lui. «C’è troppo da
fare per starsene lì in piedi con le mani in mano; venga qui
e le troverò un lavoro.»
«Oh, sì» disse Wakefield mentre tornava alla vita,
provando un senso di colpa. Corse verso la donna. «Volevo
dire, sono venuto apposta. Che cosa vuole che faccia?»
La donna di colore passò in mezzo ai tavoli, dirigendosi
verso un angolo della stanza. Wakefield le trotterellò dietro,
sperando che fosse qualcosa di importante, sperando di
essere stato scelto per un incarico di responsabilità. La
donna si fermò davanti a un lungo tavolo sul quale erano
ammucchiati fogli di carta e buste già affrancate. «Prepari
queste. Oppure può lavorare al mimeografo, scelga lei.»
Confuso e demoralizzato, Wakefield riuscì a dire: «Be’,
forse preferisco infilare le lettere nelle buste.» Rimase lì
con l’aria infelice. «Non c’è proprio altro?»
«Che vuole fare?» replicò la donna in tono aggressivo.
«Vuole pregare lei mentre il signor Beckheim infila le
lettere?» Si allontanò a passo di marcia lasciando Wakefield
impietrito davanti al tavolo.
Si mise a sedere, avvilito, e cominciò a infilare i fogli
mimeografati dentro le buste. Uno di essi si aprì e lui lo
guardò con aria istupidita. Beckheim aveva lasciato San
Francisco e stava ripercorrendo il lungo viaggio a ritroso
verso Los Angeles. Il volantino pubblicizzava in enormi
caratteri grossolani un’altra conferenza di Beckheim a
Cedar Groves quando vi fosse passato. Wakefield ripiegò il
volantino e lo infilò cupamente dentro una busta.
In piedi davanti all’ingresso del Modern TV Sales and
Service, Stuart Hadley controllava la strada battuta dal
sole di agosto. Era un pomeriggio caldissimo; il sole
infieriva sui passanti che strisciavano lungo i bordi dei
marciapiedi infuocati. Passarono due giovani donne in
pantaloncini e magliette scollate; Hadley guardò le gambe
lucide di sudore fino a quando non scomparvero oltre un
angolo.
Alle sue spalle il negozio era freddo e buio.
Dal basso filtravano attutiti i rumori metallici di Olsen al
suo banco di lavoro. Nella saletta sul retro Jack White stava
mostrando un grosso combinato RCA a una famiglia di
quattro persone. Impaziente, Hadley scrutò la strada resa
quasi opaca dall’afa: Joe Tampini doveva rientrare dalla
pausa pranzo da un momento all’altro. E allora sarebbe
toccato a Hadley uscire per il caffè del primo pomeriggio.
Il vecchio Berg, dell’omonima gioielleria, si stava
avvicinando, furbo e rinsecchito, con gli occhietti che
brillavano. Piantò la mano a forma di artiglio sulla spalla di
Hadley e gli bisbigliò all’orecchio: «Dimmi, ragazzo, ho
saputo che adesso comandi tu.»
«Proprio così» rispose Hadley, con un mezzo sorriso
distratto.
Le dita robuste del vecchio affondarono nella carne di
Hadley. Un alito rancido che sapeva di cipolle gli invase la
faccia mentre il vecchio proseguiva con voce raspante: «E
dimmi, te la cavi bene per essere così giovane, vero? Sei
arrivato in cima, Hadley. Come vanno gli affari di questi
tempi? L’estate ti ha creato qualche problema? Si vende un
po di meno?»
«Non posso lamentarmi» disse Hadley in tono gioviale.
Il vecchio rise e sputacchiò saliva sulla giacca di Hadley.
«Sei un bravo ragazzo, Stuart. Ti ho visto, come lavori lì
dentro. Hai avuto quanto ti meritavi; lo sapevo che saresti
arrivato al vertice.» Puntò un dito ossuto al petto di Hadley,
gli strinse il braccio e poi si chinò verso di lui, rantolandogli
rumorosamente all’orecchio: «Ricorda questo e non ti
sbaglierai mai: non fare credito ai neri. Non fidarti mai di
loro; falli pagare in contanti… mi hai sentito?»
«Certo» assentì Hadley.
Il vecchio gli diede una pacca sulla spalla. «Bene,
ragazzo. Abbi cura di te. Hai avuto quello che ti meritavi, io
l’ho sempre detto.» Si allontanò a piccoli passi lungo il
marciapiede; giunto davanti al negozio di abbigliamento
incrociò due donne anziane e cominciò una fitta
conversazione con loro.
Dentro il negozio il telefono cominciò a squillare. Hadley
si voltò e rientrò di malavoglia, nel buio del locale. La scopa
era in un angolo, appoggiata all’armadio delle valvole; non
aveva ancora finito di pulire. Sparpagliati sul banco c’erano
frammenti di cartoncini colorati: Hadley stava progettando
un allestimento particolarmente elaborato per lo Zenith.
Aveva già tolto dalle vetrine le radio impolverate e sporche
di cacche di mosca e i piccoli televisori; dal basso era stato
portato su un grosso combinato Zenith che aveva preso il
loro posto. Stava lì, bloccando un passaggio dietro il banco,
un solido blocco di finto legno e congegni elettronici.
«Modern TV» disse al telefono. Si appoggiò alla vetrina
delle batterie e si mise comodo, con una mano sul grosso
blocco degli ordini. Da dove stava si vedeva il cestino della
carta pieno fino all’orlo: prese nota mentalmente di
svuotarlo. Batterie scariche, carta da pacchi appallottolata,
pezzi di corda, valvole rotte erano sparpagliate a terra
intorno a lui. Stracci per lavare, vecchie ricevute, i resti
ammuffiti del pasto di qualcuno, una quantità
impressionante di tazzine di caffè vuote…
«Pronto» disse una burbera voce maschile al telefono.
«La settimana scorsa ho portato la mia radio, volevo sapere
se è pronta.»
«Può dirmi il numero della sua ricevuta?» gli chiese
Hadley. «E che tipo di radio era?»
Scese nello scantinato, al servizio riparazioni. Lì sotto
faceva freddo; Olsen se ne stava appollaiato sul suo
sgabello, con le gambe arrotolate intorno ai pioli e la faccia
aggrottata in un’espressione di intensa concentrazione,
mentre infilava le dita all’interno di una piccola Philco
capovolta sul banco di lavoro.
«Accidenti a lui!» strillò Olsen scagliando la radio verso
l’oscilloscopio e saltando giù dallo sgabello. «Mi sono rotto
di tutto questo dannato casino! Io esco! Che vada a fare in
culo!» Afferrò la giacca da un gancio sopra lo sgabello e si
avviò verso le scale: era il suo modo di andare in pausa
pranzo. «Che vuoi, Hadley? Che ti rode?»
«Sto cercando una radio» replicò Hadley, sprofondato
fino al ginocchio in una massa di apparecchi riparati
ammucchiati in mezzo al pavimento. Diede a Olsen il
numero e la descrizione. «È pronta?»
La furia di Olsen ruppe gli argini. «Cristo, quel vecchio
coglione ce l’ha appena portata!» Paonazzo in volto, Olsen
abbrancò la radio in questione e diede una occhiata
rabbiosa all’etichetta. «Digli di andare a farsi fottere! Digli
che sarà pronta l’anno prossimo. Merda, ci parlo io.» Olsen
si lanciò verso le scale, fuori di sé. «Dov’è? Di sopra?»
«Al telefono» disse Hadley con una smorfia. «Tu va a
mangiare, me ne occupo io. Pensi che sarà pronta per
domani?»
Olsen, quasi preso dalle convulsioni, sbottò: «Aggiustala
tu, che sai fare tutto! Adesso sei diventato un pezzo grosso,
qui dentro… ti prendi tutti i meriti, tanto vale che lavori
anche un po’.» Mentre scompariva su per le scale, salendo i
gradini tre alla volta, gli gridò: «Digli per domani sera. Oh,
al diavolo… non torno nemmeno, mi arruolo nell’esercito!»
Hadley salì le scale e attraversò il negozio per andare al
telefono. Informò il cliente che la sua radio era in
riparazione; il tecnico voleva accertarsi che fosse riparata
alla perfezione e chiedeva tempo fino all’indomani.
«Va bene» disse l’uomo. «Passerò domani.»
Mentre Hadley riagganciava, entrò in negozio Joe
Tampini. «Scusi se ho fatto un po tardi» disse Tampini.
Col il suo impeccabile abito a un pezzo, scarpe marroni
e cravatta di seta, e i capelli neri riccioluti accuratamente
imbrillantinati e pettinati, Tampini faceva un figurone. «È
successo qualcosa? Hanno comprato qualcosa?»
«Quelli a cui hai mostrato il modello da tavolo Admiral e
che dovevano tornare» rispose Hadley. Sospinse la ricevuta
lungo il banco verso Tampini. «L’ho chiuso io per te…
ripasseranno oggi pomeriggio.»
Tampini arrossì tutto contento. «Non mi prende in
giro?» Fece un calcolo mentale della sua commissione e
non lo nascose. «Cavolo, sono dodici bigliettoni!»
«È meglio che vai a controllare» disse Hadley. «Credo
che la sintonia verticale vada regolata; l’ho acceso per un
paio di minuti e l’immagine era un po storta.»
«Ma certo» acconsentì Tampini, frugando dietro il banco
in cerca di un cacciavite. «Dov’è lo specchio?
Probabilmente è rimasto nel camioncino. Resta qui o stava
uscendo? Lei è piuttosto in gamba a risolvere questi
problemi.»
Hadley rimase abbastanza a lungo da aiutare Tampini a
sistemare l’Admiral. Spostò a lato del banco lo Zenith
ancora da mettere in vetrina, riportò la scopa nel
ripostiglio, poi uscì di nuovo sul marciapiede caldo e
assolato.
Pian piano la giornata aveva preso il suo consueto corso.
Era come era sempre stata; dopo la prima ora, già Hadley
si sentiva come uno che dirigesse da sempre il negozio.
Non c’era proprio nessuna differenza. Il negozio era lo
stesso: stesso bancone, stesse vetrine, stesse sfilate di
televisori, lo scantinato umido, il bagno sudicio, l’ufficio al
piano di sopra ingombro di carte, il telefono che squillava…
tutto era uguale a prima. La realtà permanente di un
piccolo negozio al dettaglio.
Si accese una sigaretta e si piazzò accanto al tombino,
coprendo il fiammifero con le mani. Osservò
sonnacchiosamente la gente che passava. Donne ben
vestite, uomini d’affari in camicia bianca con le maniche
arrotolate, bambini in bicicletta, automobili. Agitò il
fiammifero per spegnerlo e lo gettò nel tombino, poi
attraversò la strada diretto verso l’Health Food Store.
L’odore pesante delle prugne secche e dei sacchi di
farina di grano integrale ristagnava sopra i bassi sgabelli e
le vetrine, sul linoleum scorticato, sugli interminabili
scaffali pieni di barattoli, lattine e scatolette. Hadley
sedette al bancone, accanto alla vetrinetta con i dolci di
marzapane. C’erano solo due persone che stavano
mangiando, una donna grassa intenta a consumare
un’insalata di pere e formaggio non fermentato, e un
ometto con gli occhiali dalla montatura metallica che
sorseggiava un bicchiere di latte.
«Stuart!» gridò Horace Wakefield, compiaciuto,
facendogli un gran cenno di saluto al di là della donna e
della sua insalata. Si alzò in piedi e portò il suo bicchiere di
latte fino al bancone, sedendosi poi sullo sgabello libero
vicino a quello di Hadley. «Come va?»
«Bene» rispose Hadley, in tono distratto.
Dal retro Betty si fece strada attraverso le tende e
venne stancamente verso di loro. «Buon pomeriggio,
Stuart» disse quasi boccheggiando. La faccia soda e
carnosa era tutta sudata. Scacciò una mosca con la mano.
«Be’, fra poco sarà inverno.» Appoggiò le mani paffute sul
bancone e domandò: «Cosa posso fare per te? Un bel tè
ghiacciato? Una bella torta di mele in salsa forte?»
«Solo caffè» replicò Hadley, tirando fuori una moneta da
dieci centesimi e facendola rotolare sul bancone.
Betty tirò giù con attenzione una tazza bianca con
piattino dallo scaffale dietro il bancone.
Mentre vi versava dentro il caffè bollente disse: «Lo sai,
Stuart, praticamente hai al negozio tutte le nostre tazze.
Vorrei che ce le riportassi.»
«Certo, lo farò» ribatté Hadley. «Ci puoi scommettere.»
Betty rimise la Silex sul fornello e disse a Wakefield: «Le
cose cambieranno. Adesso Stuart è il direttore del Modern.
Lo sapeva?»
Fu divertente vedere l’eccitazione che dimostrò
Wakefield. Il viso piccolo si riempì di stupore e lui si alzò a
metà dallo sgabello, sgranando gli occhi e spalancando la
bocca. «Stuart!» esclamò. «Ma è vero? Sei tu il direttore?»
Hadley rise. «Certo, perché no?»
«Ma…» Wakefield sputacchiò per lo sbigottimento. «Ehi,
è meraviglioso! Dov’è il signor Fergesson? È andato in
pensione?»
«Jim si è comprato un altro negozio» gli spiegò Betty,
mentre prendeva la moneta di Hadley e gli rilasciava lo
scontrino. «Non so come si chiama, però si trova da
qualche parte lungo la statale.»
«Il locale di O’Neill» precisò Hadley.
Wakefield ancora non riusciva a riprendersi dallo
sbalordimento. «Ancora non riesco a crederci. Mio Dio, ma
è splendido.»
«E lui ha anche un delizioso bambino che si chiama
Pete» aggiunse Betty, con un sorriso radioso che tradiva la
stanchezza, e il dente falso.
Wakefield riuscì solo ad aprire e richiudere la bocca.
«Sua moglie è così carina, adesso che ha riguadagnato
la linea» disse Betty. «È una ragazza adorabile, Stuart…
Guarda tu se non devi essere riconoscente. Devi per forza…
hai una moglie splendida, un bambino sano e bellissimo e
adesso sei diventato anche il direttore del negozio.» Scosse
la testa rassegnata. «Come se la cava Jim nel nuovo
locale?»
«Benissimo» rispose Hadley. «C’è molto da lavorare, e
lui ci sta dentro per tredici ore al giorno. Ma gli piace
farlo.»
Quando Betty se ne fu andata, Wakefield continuò: «Non
posso crederci. Il signor Fergesson deve avere tanta fiducia
in te, Stuart. Quel negozio è stato la sua vita fin da quando
riesco a ricordare. Vent’anni almeno… da molto prima che
arrivassi tu. Sai, tu ci hai lavorato solo per pochi anni. Non
avrei mai creduto che il signor Fergesson cedesse a
qualcuno il suo negozio finché era in vita.»
«Be’, adesso ha quello nuovo» disse Hadley con voce
assente. Stava cercando di stare attento al telefono, e da
dove era seduto lo sentiva appena. Si chiese se non fosse
meglio rinunciare al caffè e tornare indietro… Adesso che
nessuno gli copriva più le spalle, era difficile capire che fine
avessero fatto i suoi privilegi.
«Dimmi,» insistette Wakefield, goffamente «perché non
lasci che ti offra il caffè? Una specie di festeggiamento…»
Hadley rise. «È già pagato.»
«Allora ti offrirò un panino con l’hamburger alla soia»
propose ansioso Wakefield. «Lo sai, mi rende proprio felice
vedere un giovane che arriva a ottenere qualcosa così
presto nella vita. Abbi cura di te, Stuart; come dice Betty,
hai molto di cui essere riconoscente. Ti invidio davvero…
specialmente invidio la tua famiglia. Naturalmente io ho il
mio lavoro…» La voce gli mancò e l’ometto divenne
improvvisamente imbarazzato e infelice. «Quello è
qualcosa, almeno. Non il lavoro al negozio di fiori; intendo
quello vero, giù al palazzo.»
Hadley si irrigidì mentre sorseggiava il caffè. «Come
vanno le cose?» chiese in tono secco. Tirò la tazza verso di
sé e cominciò ad alzarsi. Non aveva nessuna voglia di
sentire la risposta.
«Vanno bene» rispose Wakefield. «Lo sapevi, vero, che il
signor Beckheim tornerà qui fra qualche giorno?»
«No» disse Hadley rigidamente. Si mise sulla difensiva.
«Non lo sapevo.»
«Ci stiamo preparando per un’altra conferenza. Tu c’eri
all’ultima, no?»
«Sì, c’ero» disse Hadley. Un torpore freddo e spaventoso
gli strisciò dentro, costringendolo a rimettersi seduto.
«C’ero, come sa benissimo.»
Wakefield sussultò per la durezza della sua voce. «Che
intendi dire, Stuart? Non sei rimasto deluso, vero? Mamma
mia, a me ha fatto proprio un grande effetto.»
«Devo tornare al negozio» disse bruscamente Hadley.
Stava lottando per combattere il torpore. «Quel maledetto
telefono sta squillando.» Questa volta si rimise in piedi con
un solo movimento del corpo. «Ci vediamo. Abbia cura di
sé.»
Ma Wakefield non aveva intenzione di mollarlo. «Stuart,
scommetto che con tutte le nuove responsabilità non avrai
voglia di venirci. Speravo invece che l’avresti fatto. Per
dirla tutta, sono proprio i giovani come te che dovrebbero
venire. Noi vecchi non ci saremo ancora per molto, lo sai.»
«Questo vale per ognuno di noi» replicò Hadley con
voce dura. «Il mondo non sta per finire?»
«Naturalmente» disse Wakefield con dignità. «Ma non
subito… non per un po’. Lo sai, Stuart, ho l’impressione che
tu stia molto meglio da quando sei andato a sentire il
signor Beckheim. Stavo pensando che forse può esserci una
relazione fra il fatto che tu sia andato a sentirlo e la buona
salute di cui godi adesso. Mi sembra di ricordare che fossi
piuttosto debole di stomaco. Non era così, non avevi
problemi di stomaco?»
«Ci può scommettere,» disse Hadley «e ce li ho ancora.»
Wakefield rimase deluso. «Credevo ti fossero passati. Lo
sai, Stuart, la buona salute non è qualcosa che creiamo noi;
viene direttamente da Dio. Lui ce la da e Lui ce la può
togliere. So che quelli di Christian Science parlano sempre
di avere pensieri puri, ma a me sembra…» Si interruppe.
«Vorrei tanto che venissi, Stuart» riprese con voce
lamentosa. «Ci sono tutte quelle donne anziane, e io
detesto le donne anziane. Vorrei che ci fossero più uomini.»
«Ci sono andato» disse seccamente Hadley. «Mi sono
iscritto, mi hanno dato la tessera azzurra.»
Wakefield era dubbioso. «Oh, no» lo contraddisse. «Non
puoi iscriverti e avere la tessera azzurra. Quella la può dare
solo il signor Beckheim.» Tirò fuori il portafoglio e mostrò a
Hadley la sua tessera: era bianca. «Questa è la tessera che
ti danno quando ti iscrivi. Magari più tardi, quando sarai
stato per anni e anni nella Società, allora forse il signor
Beckheim si accorgerà di te e ti darà la tessera azzurra. È
qualcosa che fa di persona, in cambio di un servizio
straordinario.» Aggiunse, con rammarico. «Credo ne abbia
date solo una dozzina.»
Hadley tornò nuovamente a sedersi sullo sgabello. «Non
lo sapevo» disse. Una spaventosa sensazione di panico
bruciante gli artigliò la trachea e rimase lì. «Credevo che
fosse la tessera normale.»
«Ce l’hai?» Wakefield si sporse verso di lui, incuriosito.
«Posso vederla? Fammi dare un’occhiata.»
«L’ho strappata.»
Wakefield fece una risatina. «Mi stai prendendo in giro.»
«Mi dica,» gli domandò deciso Hadley «è vera questa
storia della tessera azzurra?»
«Certo. Ma solo Beckheim può dartela; se te l’ha data
qualcun altro, allora non è autentica…»
«Me l’ha data lui. Ci ha scritto sopra il mio nome e me
l’ha data di persona. Per un dollaro e mezzo.»
Per un attimo Wakefield non capì, e la cosa fece
infuriare Hadley; era troppo coinvolto con il turbinare di
pensieri che gli affollavano il cervello per ripetere parola
per parola la frase a quell’ometto. «Ho incontrato
Beckheim a San Francisco» disse in breve. «Che c’è di
tanto grande in questo? È una divinità o qualcosa del
genere? Sono andato lì e l’ho conosciuto, tutto qui.
Abbiamo parlato e lui ha compilato una tessera. Dopo l’ho
strappata.»
Wakefield si umettò le labbra e disse con voce roca:
«Non riesco a immaginare perché l’abbia strappata,
Stuart.» Era visibilmente colpito. «Perché non me lo hai
detto? Io non l’ho mai visto da vicino, non gli ho mai
parlato. È una cosa terribile…» Gli mancò la voce. «Per
l’amor del cielo,» riprese, tremando vistosamente «vuoi
avere la decenza di dirmi perché l’hai strappata?»
Hadley non aveva mai visto arrabbiato il piccolo Horace
Wakefield. Dietro gli occhiali i suoi occhi fremevano;
all’improvviso tirò fuori il fazzoletto e si soffiò
rumorosamente il naso. Poi ripose il fazzoletto e fissò
indignato Hadley, aspettando una spiegazione.
Un po in imbarazzo, Hadley rispose: «Mi dispiace,
Horace, non voglio lasciami coinvolgere in questa cosa.
Non capisce?» Con pazienza tracciò una linea col dito sul
ripiano umido del bancone. «Voglio vivere una vita
normale… non una vita da esaltato. Mi scusi se questo la
offende, ma me l’ha chiesto lei.»
«Continua» disse Wakefield in un sussurro.
Hadley, che non voleva ferire i sentimenti di
quell’ometto, ebbe qualche problema a esprimersi. «Voglio
un’esistenza ordinaria, una moglie e una famiglia, una casa
in cui vivere. Questo lavoro… è perfetto.» Ma mentre lo
diceva le parole gli suonavano vuote, e lui si domandò se
parlasse davvero sul serio. No, non parlava sul serio: il
lavoro non era perfetto. «Senta,» aggiunse infervorato «io
desideravo essere un mucchio di cose: volevo fare strada.
Questo non mi basta: dirigere un negozio di
elettrodomestici è roba da poco rispetto a quello a cui
aspiravo… rispetto a quello a cui ancora aspiro. Ho ancora
un sacco di idee e di progetti. Trasformerò il negozio in
qualcosa di importante; in tutti questi anni Fergesson ha
sempre tenuto un profilo basso e io voglio cambiare tutto.
Quel maledetto negozio dovrà decollare; ho grandi idee e
so che funzioneranno. In ogni caso voglio provarci.»
«Ma questo non significa che…» cominciò Wakefield.
«Significa che voglio rimanere fuori dalla vostra
maledetta Società!» sbottò Hadley. «Ci sono tante cose in
questo mondo da fare; c’è tanta gente straordinaria, tanti
posti bellissimi… prima di cominciare a buttare tutto a
mare voglio guardarmi un po intorno. Voglio restare qui più
a lungo; non sono pronto per arrendermi, non ancora. Non
sono pronto per la fine del mondo.» Ne era più che
convinto, e concluse: «Mi piacerebbe vivere una vita sana,
che abbia un significato; voglio che la mia vita porti a
qualche cosa. Forse posso trovarla qui, forse no. Nel
frattempo non voglio avere niente a che fare con degli
svitati come voi.»
Wakefield sussultò. Con le dita che gli tremavano si
raddrizzò la cravatta e si lisciò la giacca; si tirò su e guardò
in faccia Hadley. «Non puoi» disse con voce rauca. «Tu vivi
in un mondo di pazzi, Stuart. Non è possibile ritagliarsi un
percorso pulito e tranquillo; questo è un mondo di guerre e
di fanatici, e tu ci stai dentro, che ti piaccia o no.» Si sporse
verso di lui e aggiunse, quasi gracchiando: «In un mondo di
pazzi sono proprio i pazzi che hanno le idee più chiare. Tu
sai che noi abbiamo ragione, tu sai che questo tuo negozio,
questo lavoro, tutto è un’assurdità! Vendere televisori
quando già stanno cominciando a sganciarci addosso le
bombe atomiche!»
«È il mio lavoro» disse Hadley in tono di sfida. «Io lo
voglio e me lo tengo stretto.»
«Tu morirai» replicò Wakefield con un filo di voce.
Hadley si rimise in piedi: tremava vistosamente. «Le ho
già detto che ho chiuso con voialtri esaltati. La fine del
mondo…» Afferrò con violenza la tazza del caffè e si avviò
verso la porta. «Un branco di fanatici religiosi. Voi siete
matti… siete degli invasati!»
La porta sbatté dietro di lui. Hadley vide la piccola
figura ancora seduta davanti al bancone; Horace Wakefield
aveva ripreso meccanicamente in mano il suo bicchiere di
latte e cercava di tornare alla normalità del quotidiano. La
donna grassa, che aveva ascoltato tutta la conversazione,
osservò Stuart con un’espressione di aperta curiosità.
Hadley rientrò nel Modern con la tazza che dondolava e
gli versava caffè sulla mano e sul polsino. Era diventato
tiepido. Furioso, la scaraventò sotto il banco insieme alle
altre e si voltò per affrontare i clienti in piedi accanto al
banco, in attesa di essere serviti.
Alice Fergesson era seduta tranquilla nell’ufficio al
piano di sopra con una sigaretta fra le dita e la borsa
appoggiata sulla scrivania ingombra. All’inizio Hadley non
la notò; aveva servito i clienti ed era salito a cercare un
rotolo nuovo di carta per il registratore di cassa quando si
accorse di lei. Alice non disse nulla finché Hadley non ebbe
risalito tutte le scale e non le fu di fronte.
«Salve» le disse, un po irritato. «Da quanto tempo si
trova qui?»
«Da un’oretta, più o meno» rispose Alice. Seria e
pensierosa alzò lo sguardo su di lui, circondata da una
nuvoletta di fumo grigio che saliva lentamente. A gambe
incrociate, vestita con una gonna leggera stampata e una
camicetta bianca, aveva continuato a guardarlo in silenzio
mentre lui cercava il rotolo, a seguire ogni movimento,
senza che nessuno si accorgesse di lei.
Seduto sulla ringhiera da dove poteva vedere di sotto,
Hadley disse: «Mi scusi, sono un po agitato. Quell’ometto
mi dà sui nervi.» Si passò ansiosamente le mani sui capelli
biondi tagliati corti. «Horace Wakefield… lo conosce?»
«L’ho visto al negozio di fiori» rispose Alice. Appariva un
po stanca, era stata in giro a fare spese.
«Si è lasciato invischiare da quella setta, quella Società
dei guardiani. Mi ha spinto a partecipare alla prima
conferenza, e adesso vuole che ci vada di nuovo.» Hadley
richiuse la bocca di scatto e tacque all’improvviso.
Dopo un momento Alice gli chiese: «Ci sei già andato
una volta?»
«Ci sono andato, ho ascoltato.» Poi con rabbia aggiunse:
«Non ho nessuna intenzione di farmi coinvolgere di nuovo;
una volta è più che sufficiente. Volevo solo sapere di che si
trattava; c’è forse qualcosa di sbagliato?»
Alice lo studiò con attenzione. «È importante?»
«Sì» rispose semplicemente Hadley. «Ci sono entrato e
sono andato fino in fondo.» In un certo senso stava
esagerando; non era andato poi fino in fondo… solo una
conferenza e una breve conversazione con Beckheim: ma lo
avrebbe fatto, se avesse potuto; se ne avesse avuto la
possibilità avrebbe volentieri abboccato all’amo e si
sarebbe lasciato catturare. Si rivolse ad Alice in tono quasi
implorante: «È stato così stupido? Mio Dio, mi ero così
stancato di starmene sempre qui al negozio, giorno dopo
giorno…» Si interruppe, rendendosi conto che non riusciva
a esprimersi come voleva. «Credo che non dovrei perdere
la calma.»
«Io vorrei che… parlassi. Se ne hai voglia.»
Per un momento Hadley soppesò gli aspetti pratici della
faccenda; alla fine Alice era la moglie del capo.
«Io parlo troppo» osservò quasi con morboso
compiacimento.
«Perché sei così contrariato?» Poi sorrise e aggiunse:
«Non è un po tardi?»
«Sono contrariato per quello che ho fatto. Mi sono
lasciato invischiare; c’era qualcosa che mi attirava… e c’è
ancora. Sentir parlare di loro mi suscita una strana
sensazione. Mentre Beckheim parlava ho provato una sorta
di pace. Mi sono abbandonato sulla sedia e ho chiuso gli
occhi: non dovevo preoccuparmi di niente. Non mi
aspettavo di risvegliarmi e di trovare…» annaspò in cerca
delle parole giuste «…trovare che il mondo aveva fatto un
altro passo verso la fine. Era come se lui tenesse insieme le
cose, come se attorno a lui ci fosse una regione ferma,
stabile.»
«Allora» disse Alice «tu senti… di solito senti che le cose
stanno andando in pezzi?»
Lui annuì.
«Lo senti anche adesso?»
«In un certo senso sì. Non qui, non al negozio. Al di
fuori… tutto il resto, il mondo intero… e alla fine anche al
negozio. Mi sembra abbastanza fermo, ma…» Lottò ancora
per esprimersi nel modo giusto. «Non lo so. C’è qualcosa di
sbagliato anche qui. È abbastanza stabile, abbastanza
robusto… ma non è un mondo. Non crede? Non è
abbastanza grande per essere un mondo. Non si può vivere
in un negozio. Dovrò consumare i miei pasti in questo
ufficio? Lavarmi nel cesso? Farmi la barba e vestirmi…
dormire qui dentro? Io non posso vivere qui, non posso
farci crescere una famiglia. Devo uscire.» Alzò la voce,
confuso. «Non voglio passare la mia vita qui! È troppo
piccolo, maledizione!»
«Sì» disse Alice. «Tu hai sempre avuto grandi progetti…
Avevi in testa qualcosa di molto più grande.»
«Certo, ho sempre voluto fare un sacco di cose. E ho
sempre avuto l’impressione che il mondo fosse vasto, che ci
si potesse fare chissà cosa. Era un’opportunità… a adesso
non la sento più. È finito tutto. Il mondo è diventato un
posto squallido e triste. Invece delle opportunità ci sono
colline deserte e lattine di birra arrugginite.»
Alice ascoltò senza capire bene. «Che intendi dire?»
«Mi sembra stia scivolando via tutto. Uno allunga la
mano verso qualcosa e quella cosa svanisce. Opportunità…
è tutto un imbroglio. Un mucchio di bugie che ti gettano
addosso, come le canzoni popolari. Parole senza
significato.»
«Ma devi vivere in questo mondo.»
«Devo viverci nonostante tutto, forse. È tutto quello che
spero. Già mi basterebbe.»
«Quando tu ed Ellen siete venuti a casa nostra, quella
sera in cui Jim ti ha affidato il negozio… eri così eccitato.
Avevi il volto radioso come una volta.» Alice sorrise
fiaccamente. «In effetti era fin troppo radioso. Eri tornato
alle tue vecchie idee, ai tuoi vecchi progetti.»
«Che altro potevo fare?» replicò Hadley candidamente.
«Quale alternativa avevo? Dove altro potevo andare?»
«Allora» disse Alice «tutto questo non ti interessa
davvero. Tu non volevi davvero il negozio. Lo hai accettato
perché non avevi altro.»
«Non mi sono inventato le cose che ho detto» replicò
Hadley. «Mi sono costretto a essere eccitato, volevo essere
eccitato, dovevo esserlo. Però non ci riesco più.»
«Credi che potresti tornare a quella… Società?»
Hadley rifletté. «No» disse alla fine.
«Davvero? Ne sei sicuro?»
«Non posso tornare alla Società. Non credo più in quella
roba.» Avvilito e pensieroso, aggiunse: «Ha ancora meno
senso. Almeno questo lo capisco… lavoro nel negozio da
così tanto tempo che so tutto quello che c’è da sapere. È
parte della mia vita, è la mia vita.»
«E la Società…»
«Mi è estranea. La volevo, ne ero attratto. Un sacco di
gente ci crede. Se avessi avuto gli insegnamenti giusti fin
da piccolo forse potrei crederci anch’io. Wakefield ci crede:
per tutta la vita gli hanno parlato di Dio e della Bibbia. A
me no, a me hanno insegnato che non c’è nessun dio.
Adesso è troppo tardi; non potrei crederci, anche se lo
volessi. E lo voglio! Ci ho provato, oh se ci ho provato!»
«Capisco» fece Alice.
«La parola non ha nemmeno senso… è logora, vuota,
senza senso. Mentre Beckheim parlava ho sentito che c’era
dietro un significato, e così tutti gli altri. Ma loro sono
diversi da me. Io non sono capace di comprendere nessuna
delle vecchie parole; nessuna di esse significa niente per
me. Dio, la nazione, la bandiera, tutti gli antichi concetti in
cui la gente credeva… per me sono solo suoni indistinti, per
quanto mi sforzi. È sbagliato?»
«Non c’è niente che puoi fare» disse Alice.
«Credo di averne sentito parlare troppo tardi. Adesso
cerco di pensare a che diavolo posso aver sentito al posto
di quello, e non ci riesco. Niente… nella mia vita non c’è
mai stato niente. Idee, forse. Sono cresciuto con grandi
idee al posto di cose reali.»
«Sì» convenne Alice. «Ne sei sempre stato attratto.»
«Ho messo troppa fede nelle idee. Adesso so che non
sono reali. Parole, chiacchiere… ecco cosa è stata la mia
vita. Una vita inutile.»
«Non del tutto.»
Hadley sogghignò. «No? Si ricorda come si sentiva
quella sera, quando io stavo parlando con suo marito? Non
aveva la sensazione che fosse solo aria fritta?»
«Immagino di sì. Avresti potuto moderarti…»
«Stavo tentando di crederci di nuovo, di offrirmi
un’ultima possibilità.»
«E non ha funzionato.»
«Be’,» disse Hadley «mi ha procurato il lavoro. Sono
qui, adesso dirigo io.»
«Quanto… quanto tempo pensi di poterci restare?»
«Non lo so. Bisognerà vedere.»
«Credi a lungo?» chiese Alice, poi continuò: «Stuart,
forse troverai più di quello che ti aspetti. In una famiglia
può esserci tanta soddisfazione; adesso hai un figlio, e
questo significa molto. Magari renderà tutto questo
meraviglioso: tu non lavori per te stesso, come quando stavi
all’università e guadagnavi qualche dollaro per uscire con
le ragazze, farti qualche birra o un giro in macchina.
Adesso lavori per Ellen e Pete.»
«In un mondo come questo non si può avere una
famiglia.»
Alice replicò con amarezza: «Jim e io daremmo qualsiasi
cosa per avere un figlio. Un bambino come Pete.»
«No» disse Hadley. «È inutile mettere al mondo figli in
questo mondo. Sta andando in pezzi. Il giorno in cui una
bomba atomica ci cadrà addosso io sarò impegnato a
vendere un televisore… a recitare un ruolo insulso, come
un animale senza intelletto.» Rimuginò, poi mormoro: «Io
non ne uscirò vivo… magari Pete ce la farà, non lo so.
Magari qualcuno sopravviverà.»
«Sì» si affrettò a dire Alice. «Qualcuno sopravviverà…
c’è sempre qualcuno che sopravvive.»
Hadley strinse i pugni. «Ma forse è una cosa buona,
forse è quello che ci meritiamo… Siamo stati noi a
cominciare tutto. È colpa nostra; veniamo ripagati per ciò
che abbiamo fatto. Bisognerebbe buttare via tutto… è un
mondo malato, in decomposizione. È maligno, bisognerebbe
spazzarlo via… un oceano d’acqua prima, un lago di fuoco
adesso.» Gli mancò la voce, pregna com’era di odio e di
ripugnanza, la voce di un uomo stanco e disgustato. «Il
fuoco purificatore che si porta via tutto. Finché non
rimarranno solo ceneri e macerie. E magari dopo verranno
cose migliori.»
I due tacquero.
«Vorrei poterti aiutare» disse Alice. «Sento che è colpa
mia.»
«Perché?»
«È tutta colpa nostra. Mia e di Jim… specialmente sua.»
La sua voce si riempì di amarezza. «Ha lavorato con te per
tutto questo tempo e non ha mai capito quello che provavi.
Non ha mai fatto niente.»
«È tutto preso dai suoi affari» disse Hadley. «Ha
acquistato un altro negozio per avere ancora più successo.»
Alice schiacciò furiosamente la sigaretta. «Accidenti a
lui! È così cieco e meschino. È un uomo da poco.»
«Non lo biasimi. Non può farci niente, è fatto così. E lo
stesso vale per me. Riconduciamo pure i miei problemi fino
a lei, e ancora più indietro. Questo dove ci porta? Sempre
più indietro, all’infinito.» Hadley si scostò dalla ringhiera;
un cliente era entrato nel negozio e attendeva impaziente
davanti al banco. «Magari avessimo parlato prima… adesso
è maledettamente tardi.»
«È davvero troppo tardi?» chiese Alice, impotente.
«Non lo so. Credo di sì. Quasi tutto è già successo, e non
rimane molto. Io sono qui; sono un direttore, ho Pete ed
Ellen. Non torna alla Società.»
Mentre si avviava giù per le scale, Alice lo chiamò
improvvisamente. «Stuart, forse dovresti andartene! Forse
dovresti mollare questo posto!»
«No» disse lui.
«È sbagliato… è troppo piccolo per te. Tu non vuoi
essere questo, tu vuoi di più. Va bene per Jim, ma non per
te. Lui non vede oltre… Tu non sai che fartene di questo
mondo così piccolo!»
«Dove altro potrei andare?» chiese Hadley.
«Fuori!»
«Fuori dove? Non c’è niente. Se me ne vado sarebbe la
mia fine. Questo è l’unico mondo che conosco… l’unico
posto in cui posso stare. L’ho lasciato e ci sono tornato. So
che non posso giungere fino alla Società, per me è una
porta chiusa. Altri possono andarci… Beckheim può salvare
tanti di loro, ma non me. Se lascio questo negozio morirò.»
«Vuoi vivere qui?»
«Sì» rispose Hadley. «Certo che lo voglio.» Ricominciò a
scendere le scale.
«Aspetta» gli disse Alice, correndogli dietro col fiato
corto. «Non andare giù; resta qui e parliamo.»
Per un momento, Hadley rimase appoggiato alla scala.
«E quel vecchio laggiù?» disse. «Vuole essere servito.»
«Perché?» domandò lei, fuori di sé. «È così
importante?»
«Ha una radio sotto il braccio. Vuole che sia
aggiustata.»
«Lascia perdere la radio.»
«Non posso» ribatté Hadley con un filo di ironia nella
voce. «È in piedi laggiù, mi sta aspettando, vuole che mi
occupi di lui. È sicuro che si tratti solo di una valvola. In
realtà non è una valvola; è il trasformatore, e gli costerà
dodici dollari e cinquanta centesimi.»
Alice non disse nulla.
«L’apparecchio» continuò Hadley «non vale più di dieci
dollari. Discuteremo per mezz’ora e alla fine lo porterò giù
per farlo riparare. Fra due settimane lui tornerà perché la
radio non funzionerà di nuovo.»
«Perché no?» chiese Alice avvilita, mentre lui scendeva
un altro gradino.
«Perché Olsen avrà collegato male i cavi del
trasformatore.»
«E perché… dovrebbe averlo fatto?»
«Perché ha gettato via gli schemi elettrici che la Philco
ci aveva inviato per quel modello.»
Alice si irrigidì e chiese: «Perché li ha gettati via?»
«Perché nessuna fottuta società può dirgli come
collegare i cavi.»
Alice afferrò la borsa. «C’è altro?» chiese quando
Hadley smise di parlare.
«No» rispose Hadley. «Non c’è altro.»
«Che farai?»
«Resterò qui più a lungo che posso. Finché ce la faccio.»
«Posso… aiutarti?»
«No» disse Hadley. «Nessuno può aiutarmi. Credevo che
potesse farlo Beckheim, ma adesso so che non è così. Non è
colpa sua, ha fatto quello che poteva. Ma non tornerò da
lui. Questa è una cosa di cui sono certo… Vedere Wakefield
e sentirlo parlare me lo ha fatto capire una volta per tutte.»
Scese un altro gradino.
«Ascoltami» si disperò Alice. «Voglio parlarti ancora.
Non possiamo farlo adesso? Il vecchio può aspettare.»
«Deve fare diverse commissioni. Ha una fretta
terribile.»
«Può farlo domani.»
«Ha le gambe stanche a furia di stare in piedi.»
«Può sedersi su uno dei televisori.» Alice si diresse
verso di lui. «Tu non vuoi parlare con me! Tu hai già preso
la tua decisione… mentre stavi qui a parlare con me hai
preso la tua decisione.»
«No» disse Hadley. «Non ho preso nessuna decisione.
Non farò nulla.»
«Ma tu sei sicuro. Non sei indeciso.»
«So che non posso essere come Wakefield. Non posso
vivere in quel modo. Se quello è runico modo di
sopravvivere, non fa per me. La croce e la bandiera. Cibi
sani, il revivalismo religioso, preghiere e piante in vaso. E
lo sa anche lui. Ne è spaventato. È un uomo piccolo,
insignificante, e andrà avanti. Io non posso. Io ho chiuso,
finito. Sono fuori. Loro vogliono gente sottomessa, come
Wakefield. Io non sono sottomesso… io voglio un mucchio
di cose. Troppe, per me e per la mia famiglia. Per tutti.
Voglio milioni di cose per milioni di persone. Grandi sogni.
Grandi idee. Tutte stronzate.»
«Non credi più in niente?»
«In niente che esista. Quello in cui credo sono
stronzate.»
«E allora cosa esiste?»
«Cose terribili. Cose con cui non voglio avere niente a
che fare. Ne ho abbastanza. Forse dormo troppo poco.
Forse è tutto qui.» Sorrise ad Alice, ma fu quasi una
smorfia. «Potrei quasi crederci. Tanto riposo, tanta aria
buona, un bel sermone in chiesa la domenica mattina…»
Alice rabbrividì. «Mi dispiace… Vorrei poter fare
qualcosa. Ti prego, non c’è proprio niente?»
«No, non adesso.»
«Mai?»
«Forse mai. Grazie.» Le fece un cenno con la mano. «È
tutto a posto… non si preoccupi. Non è stata lei a costruire
l’universo. Forse non lo ha fatto nessuno. È tutta casualità,
senza nessun significato. Perciò non se ne faccia un
problema.»
Scese le scale e camminò lentamente verso la parte
anteriore del negozio. Il vecchio lo stava ancora aspettando
davanti al banco; aveva messo giù la radio e se ne stava
pesantemente appoggiato al registratore di cassa, stanco e
risentito.
«Eccomi, signore» gli disse Hadley con un gran sorriso.
«Cosa posso fare per lei?»
C’era ancora luce quando quella sera Hadley se ne
tornò a piedi verso casa. Con la giacca sottobraccio se la
prese comoda lungo la strada, riempiendosi i polmoni
dell’aria calda e pulita della sera, osservando con desiderio
la gente e le case, gli uomini che innaffiavano i prati, i
ragazzi che correvano e giocavano e i vecchi che se ne
stavano seduti in silenzio sulle verande.
Trascinava i piedi. Camminava il più lentamente
possibile, assaporando fino in fondo tutto ciò che vedeva e
odorava, fino a quando non giunse a casa. Per un po rimase
a guardare dietro a sé il leggero pendio della collina, verso
la zona commerciale. Erano passate da poco le sette; i
rumori delle radio giungevano ovattati dagli appartamenti,
mescolati agli odori di cucina. Dall’altra parte della strada,
una donna anziana stava innaffiando scrupolosamente i
fiori del giardino con un secchio. Le andava dietro un gatto
grigio piuttosto malandato che annusava le foglie e gli steli
umidi e poi si drizzava sulle zampe per annusare anche i
petali gocciolanti.
A Hadley quelle immagini così semplici e normali della
sera sembrarono bellissime, piene di vita. Aveva voglia di
restare lì a guardare il più a lungo possibile; era
dolorosamente consapevole che, proprio mentre guardava,
tutto cambiava, si modificava, decadeva. La vecchia finì di
innaffiare e ripose il secchio. Il grosso gatto grigio indugiò;
urinò su alarne felci, poi trotterellò via. Uno dopo l’altro i
bambini smisero di giocare e rientrarono in casa alla
spicciolata.
Si stava facendo buio. L’aria cominciava a impregnarsi
dell’umidità estiva. Stava scendendo la notte, e insieme a
essa minuscoli frammenti ballerini di opacità: i corpi
svolazzanti di oscuri insetti notturni. Qua è là cominciarono
ad accendersi delle luci. I suoni della gente diminuirono e
infine svanirono quando si chiusero le finestre per evitare
che penetrasse l’umidità.
Hadley si voltò ed entrò nel palazzo. Percorse in silenzio
il corridoio deserto ricoperto di moquette che portava al
suo appartamento. Da sotto la porta filtrava una lama di
luce, e fuoriusciva un forte odore di agnello fritto. Quando
entrò trovò il salotto illuminato quasi a giorno. Pete stava
dentro la culla, avvolto nelle coperte, e dormiva un sonno
agitato. Il ventilatore ronzava in un angolo sopra la libreria;
la serata si era fatta fresca, ma Ellen non si era ancora
ricordata di spegnerlo. Hadley posò la giacca e andò verso
la cucina. Vide Ellen che si dava da fare per preparare la
cena. Lo scoppiettio e il sibilo dell’olio bollente e il
borbottio dell’acqua che bolliva lo salutarono quando si
affacciò alla porta e si fermò un attimo a guardare
quell’immagine, che cercò di trattenere più a lungo
possibile.
Ellen si voltò subito. «Oh» fece. «Ciao!»
«Ciao» disse Hadley. L’immagine, la visione, tutto gli
scivolò fra le dita e scomparve. «Sono arrivato.»
«Stanco?»
Lui annuì. «Sì, sono proprio stanco.»
Ellen gli si avvicinò e lo osservò con attenzione. Si mise
in punta di piedi e gli scoccò un rapido bacio sulla bocca.
«La cena è quasi pronta.»
«Lo vedo.» Riconoscente si sedette al tavolo. «Sembra
buona. Posso fare qualcosa?»
«Resta seduto.» Ellen mise sul fornello il mais alla
panna. «È quasi tutto pronto.» Si tolse una ciocca di capelli
castani dagli occhi e si fermò un attimo per abbassare la
spallina del reggiseno. «Oggi è stato caldo. Una vera e
propria giornata d’estate.»
La cucina era ancora riscaldata dai vapori della cottura.
Il volto della ragazza era rosso e striato di sudore;
goccioline scintillanti le scendevano anche giù per le
braccia nude, lungo il collo e dentro la maglietta. Sorrise
fuggevolmente a Hadley e cominciò a prendere i piatti dallo
scolapiatti. Lui ricambiò il sorriso.
«Com’è andata oggi?» gli domandò Ellen.
«Tutto bene.»
Ellen scomparve in salotto per apparecchiare la tavola.
Quando tornò aveva in mano un grosso pacco avvolto in
carta marrone e legato con uno spago pesante. «Guarda»
disse. «Sono tornati.»
Il cuore di Hadley mancò un battito. «Tornati?»
«I tuoi quadri. Li ha lasciati una donna, un’amica dei
Gold.» Ellen gli scaricò il pacco in grembo e tornò a
cucinare. «Li avevi lasciati da loro, non ti ricordi?»
«Sì» disse Hadley lentamente. «È vero.» Fissò il pacco
come istupidito. «Quando è venuta?»
«Circa un’ora fa. Li ha lasciati e se n’è andata… non
l’avevo mai vista prima. Alta, magra, più anziana di noi…
sulla trentina. Aveva con sé un grosso cane.»
«È… venuta sola?»
«Credo di sì. Fuori c’era una macchina; l’ho sentita
quando ripartiva. Guarda dentro il pacco, credo che ci sia
un biglietto per te.»
Hadley avvicinò goffamente la mano al lato aperto del
pacco. Le dita si chiusero su una busta, e la tirò fuori. La
busta era spiegazzata e macchiata; quando la rigirò vide
che non era stata chiusa; il lembo era stato infilato
all’interno, e non incollato alla carta. La strappò ed
estrasse un foglio di carta per appunti. Una breve nota
scritta a matita con una mano sicura, precisa, una
calligrafia femminile, efficiente.
Stuart… Ted e io abbiamo rotto del tutto. Ho chiuso con
la Società, non fa per me. Ti racconterò tutto quando ci
vedremo. Magari domani? Verrò al negozio; mi trovo a San
Mateo con degli amici. Scusa se ho tenuto così a lungo i
tuoi quadri… vorrei parlarne con te, sono molto belli.
Marsha
Hadley rimase a lungo con il foglio di carta fra le mani.
Solo quando Ellen lo ridestò dal suo intontimento si decise
a metterlo via e ad alzarsi.
«È ora di mangiare» stava dicendo lei. «Che ti prende?
Non è ancora tempo di dormire… prenditi una sedia e
cominciamo.»
Ancora stordito da una furia crescente, Hadley cercò
alla cieca una sedia.
«Hai appetito?» gli chiese ansiosa Ellen.
«Sto morendo di fame» mormorò lui quasi con violenza.
«Spero che non ti sia stufato delle cotolette di agnello.»
Hadley non replicò. Si mise a sedere e cominciò
rigidamente ad aprire il tovagliolo.
Polke e ballate, e una chitarra spagnola. Chiuse gli occhi
e la gente danzò freneticamente al suono delle
fisarmoniche e dei violini. Battiti di mani, birra che
scorreva a fiumi, lunghe gonne che volteggiavano, risate,
calore… la macchia indistinta e rumorosa di persone
semplici che si divertivano… Marsha Frazier ascoltò fino a
quando riuscì a sopportarlo, poi spense la radio e riaprì gli
occhi.
Sul lato opposto della strada buia il Modern TV Sales
and Service era illuminato. Il suo orologio le disse che
erano quasi le nove; poteva arrivare da un minuto all’altro.
Impaziente, allungò la mano e girò la chiave nel cruscotto.
Il motore si avviò con un ruggito soffocato e lei si allontanò
dal marciapiede immettendosi nel traffico lento della sera.
Starsene lì seduta ad aspettare l’aveva fatta quasi
impazzire; schiacciò il piede sull’acceleratore e la piccola
coupé Studebaker fece un balzo in avanti.
Girò per due volte intorno all’isolato, andando a bassa
velocità per via delle altre macchine che procedevano piano
e dei capannelli di pedoni che bloccavano il traffico a ogni
incrocio. Le insegne dei negozi, rosse, verdi e di un bianco
abbagliante, sfolgoravano lungo tutto il viale; il venerdì
sera era tutto aperto. Sopra la città aleggiava la distesa
sonnacchiosa della caligine di agosto, con la Baia vicina che
soffiava polvere e umidità. Ai drive-in e ai bar i ragazzini si
raccoglievano in sciami colorati, ingurgitando gelati,
bottiglie di Coca-Cola, hamburger pieni di unto. Giovani e
sani, andavano su e giù per la città ridendo e scherzando,
sciamando sulle loro macchine ridotte all’essenziale,
oziando intorno ai locali, ammazzando il tempo con le
sigarette o con qualche scazzottata fra loro.
Quando tornò in prossimità del negozio, Marsha rallentò
di nuovo fin quasi a fermarsi. Guardò fuori e si fece ombra
sugli occhi con la mano per coprire il bagliore accecante
delle insegne al neon. Tutta quella luce la irritava; aggrottò
la fronte e andò un po più avanti cercando di vedere bene
l’ingresso fortemente illuminato del negozio. C’erano delle
ombre che si muovevano, uomini e donne. Qua e là si
vedevano le sagome dei grossi televisori. Il registratore di
cassa sulla sinistra. Per un attimo, una figura maschile
emerse da quel caos di luci e di oggetti: era Stuart Hadley.
Parlava con una giovane coppia e mostrava loro un
combinato tv; il suo profilo si stagliò sulla porta, alto,
giovanile, camicia bianca e pantaloni perfettamente stirati.
Hadley gesticolò. Si chinò per armeggiare con le manopole
dell’apparecchio, poi svanì nuovamente nelle profondità del
negozio.
Marsha fece un nuovo giro dell’isolato, sempre a bassa
velocità. Questa volta, quando ripassò davanti al Modern, la
porta d’ingresso era stata chiusa. Le luci erano ancora
accese, ma la tenda era stata abbassata. Lungo tutta la
strada le diverse insegne si stavano spegnendo una dopo
l’altra. I commercianti chiudevano a chiave le porte; per un
po le persone continuarono a muoversi su e giù, senza una
meta precisa, poi si diressero verso le macchine
parcheggiate e se ne andarono via. Marsha infilò la
Studebaker in un parcheggio e spense il motore. Non
poteva mancare molto: il quadrante scuro dell’orologio
della Bank of America diceva che erano le nove e dieci.
Mentre aspettava, vide un uomo e una donna che si
avvicinavano all’ingresso del Modern TV e provavano la
maniglia. La porta era chiusa; i due rimasero lì per un
attimo, poi rinunciarono e se andarono. Marsha esultò
mentre si allontanavano… Non sarebbe più entrato
nessuno. Non appena fossero stati serviti quelli che stavano
dentro, sarebbe tutto finito.
I clienti lasciarono il negozio uno dopo l’altro. Ogni volta
Stuart Hadley si fermava un attimo per tenere aperta la
porta, e per augurargli la buonanotte con grandi sorrisi e
saluti nel buio della notte. Risate, le battute innocenti di
una serata d’estate. Marsha digrignò i denti e soffrì fino
all’ultimo. Erano le nove e mezza quando uscì l’ultima
persona e la porta si richiuse finalmente in modo definitivo.
Hadley cominciò scrupolosamente a spegnere tutti i
televisori e tutte le luci. Lei lo guardò mentre si spostava
da un apparecchio all’altro, provava le manopole,
ispezionava le spine. La tenda della porta era stata
risollevata; adesso le luci al neon del soffitto erano state
spente e l’interno del negozio era piombato nell’oscurità.
La figura alta di Hadley continuò a muoversi, indistinta:
andò al registratore di cassa, lo svuotò, poi cambiò il
nastro, accese la luce notturna e scomparve sul retro…
probabilmente per prendere la giacca. I minuti sembravano
ore. Quando vide Hadley che si fermava davanti al banco
per fare una telefonata, Marsha ebbe voglia di mettersi a
urlare. Per un intervallo interminabile lui rimase
appoggiato all’apparecchio per controllare le valvole, con il
telefono sulla bocca, lo sguardo perso nel buio della notte,
la bocca aperta, la giacca sottobraccio, prendendo a calci
una pila ancora chiusa di pacchetti marroni davanti a lui.
In qualche modo Marsha sopravvisse. Alla fine Hadley si
fece una risata, mise giù la cornetta, si frugò in tasca in
cerca della chiave e si avvicinò alla porta. Si fermò un
attimo per spegnere le luci esterne, poi uscì, si richiuse la
porta alle spalle e girò la chiave nella serratura. Provò una
volta la maniglia; poi, soddisfatto, si buttò la giacca sulla
spalla e si allontanò dal negozio.
Con le labbra strette Marsha avviò il motore e si infilò in
tutta fretta nel traffico. Ignorando un autobus che
strombazzava, occupò il centro della carreggiata e
all’incrocio successivo svoltò con grande stridore di gomme
a sinistra. Schiacciò il freno e si fermò appena al di là del
semaforo, con il posteriore della Studebaker sopra le
strisce pedonali.
Hadley stava arrivando lungo il marciapiede,
dondolando la giacca e fischiettando piano. Marsha attese
finché lui non fu sceso dal marciapiede sulle strisce
pedonali, poi spalancò lo sportello. Sembrava che Hadley
fosse un po miope; non la riconobbe finché lei non gli parlò.
«Sali» gli disse, schiacciando il pedale dell’acceleratore.
«Svelto.»
Per un attimo Hadley rimase fermo sulle strisce a fissare
lei e la macchina. Sulla sua faccia calò un’ombra scura e
cattiva, come una maschera dura e ostile che subito la mise
a disagio. Gli occhi di lui si spensero; vi si formò sopra una
pellicola impersonale, qualcosa di cieco e di profondo che
scaturiva da sotto il livello della coscienza individuale. Era
come se Hadley fosse svanito e qualcosa di orribile avesse
preso il suo posto, guardando attraverso i suoi occhi,
scrutandola da dietro la sua faccia. Raggelata, Marsha si
ritrasse.
Un’altra macchina aveva svoltato dopo di lei; rallentò
bruscamente e ingranò la seconda.
«Andiamo» ripeté innervosita, Marsha, che aveva perso
tutta la sua compostezza. «Devo togliermi subito da qui.»
Hadley si avvicinò lentamente alla fiancata della
Studebaker e salì sul sedile del passeggero. Lei allungò la
mano, richiuse lo sportello e ripartì di scatto. Agitandosi
inquieta, senza guardare l’uomo che le sedeva accanto,
Marsha diede gas e si allontanò a tutta velocità
dall’incrocio. Soddisfatta, la macchina dietro di loro li
seguì, poi andò per la sua strada. Quella macchina,
quell’ignoto guidatore, avevano deciso gli eventi.
Marsha si sistemò sul sedile e cercò di concentrarsi sul
traffico e sulle luci.
Per un bel po di tempo, più a lungo che poté, Hadley
non disse nulla. L’interno familiare della piccola, elegante
Studebaker lo mise di cattivo umore; lui detestava la vista
del cruscotto essenziale e pulitissimo, la mascherina della
radio, il cofano basso oltre il parabrezza, il portacenere
tirato fuori e pieno di cicche. La conosceva in ogni
dettaglio; l’aveva guardata abbastanza a lungo da
memorizzare ogni vite e ogni decorazione cromata. In un
certo senso detestava la macchina più di Marsha.
«Ti stai comportando in modo infantile» disse alla fine
Marsha.
Hadley grugnì e si richiuse in sé stesso. Non aveva
voglia di parlare con lei, non voleva nemmeno vederla. Così
seguì con lo sguardo il profilo di un panificio sulla destra,
un gigantesco edificio a mattoni rossi con i camion
parcheggiati in fila davanti, pronti a caricare. Dai finestrini
aperti penetrava il profumo del pane appena sfornato.
Concentrandosi su quell’odore semplice e sano, Hadley
riuscì a ignorare la donna seduta accanto a lui. Almeno fino
a quando lei non gli parlò di nuovo, con durezza.
«Accidenti a te, guardami! Non startene lì seduto come
un bambino col broncio; tirati su e comportati da adulto!»
«Che diavolo vuoi, tu?» replicò brutalmente Hadley.
«Credevo non dovessimo vederci più.»
La carne dura e liscia della faccia di Marsha perse ogni
colorito, diventando bianchissima. Gli zigomi rilucevano
come ossa levigate, freddi e desolati sotto la luce riflessa
della strada. «Non mi parlare con quel tono» gli disse in
tono tagliente, freddo come ghiaccio. Senza preavviso
schiacciò il piede sul freno e la macchina si fermò stridendo
e sobbalzando. «Scendi di qui. Andiamo… scendi!.»
Lui non si mosse. Rimase seduto con le braccia sulle
ginocchia e le mani che gli dondolavano in grembo, senza
guardarla. Non aveva nessun motivo per andarsene; aveva
deciso che sarebbe rimasto in macchina e quello avrebbe
fatto. Era una decisione irrevocabile.
«Senti,» disse Marsha con voce strozzata, sconnessa
«non c’è ragione di continuare a comportarsi così, giusto?
Non devi trattarmi come se fossi una nemica… Io non ti
sono ostile.» Poi, in tono implorante, mormorò: «Hai visto il
mio biglietto?»
«Certo.» Hadley si mosse appena e sporse il braccio dal
finestrino. «Sei venuta fino a casa mia e lo hai dato a mia
moglie. Come potevo non vederlo?»
Si erano fermati al centro della strada, in mezzo a un
complesso industriale buio e deserto. Qualche isolato più
avanti c’erano i binari della ferrovia, la piattaforma di
carico e la forma opaca della stazione. Qua e là c’era
qualche macchina parcheggiata. Nulla si muoveva.
«Andiamocene da qui» disse cupamente Hadley. «Odio i
quartieri come questo.»
Marsha ingranò la prima e ripartì. Mentre guidava le
sue mani tremavano in modo palese; si mordeva le labbra e
guardava convulsamente davanti a sé. «Sei rimasto
sorpreso?» gli chiese, dopo aver deglutito.
«Di che cosa?»
«Che… che ho lasciato Ted.»
Lui ci pensò su. «No» rispose alla fine. «Mi sembra
naturale. Probabilmente non è stato il primo.»
«Non proprio» ammise Marsha in un sussurro affranto.
«Uno di una lunga fila. Ma è stato il primo…» Non riuscì a
pronunciare la parola. «Quello che hai detto tu. Ted è stato
l’unico nego. Non ce n’è mai stato un altro. Volevo dirtelo.»
«Non ha importanza.»
«L’hai sollevato tu, il problema, quella sera. So quello
che hai detto, e lo sai anche tu.»
«Mi dispiace» disse Hadley, lontanissimo. «Comunque
non importa. Non ne parliamo più.» Indicò fuori dal
finestrino il bagliore rosso del palazzo del Farmers
Commercial Trust. «Se svolti da quella parte passerai dalle,
parti di casa mia. Puoi lasciarmi praticamente dovunque.»
Dopo un po’, mentre proseguivano Marsha mormorò con
un filo di voce: «I tuoi quadri mi sono piaciuti.»
«Lo hai scritto sul biglietto.»
«Dico sul serio.» Gli si rivolse quasi in tono di preghiera,
ansiosa, con gli occhi accesi. «Non mi credi? Non è quello
che volevi? Non è più importante per te?»
«In un certo senso» rispose Hadley in tono evasivo.
«Sono felice di sapere quello che pensi.»
Marsha, che abbrancava il volante come un automa,
disse: «Quando rimedieremo un po di soldi proveremo a
fare qualche litografia. Hai mai lavorato con la litografia?»
«No.»
«Ti… interessa?»
Hadley sospirò. «No.» Non lo interessava davvero. Si
sentiva sfinito; era stata una giornata lunga e faticosa. Le
gambe e le braccia gli dolevano per la stanchezza. Aveva le
gambe doloranti poiché era stato in piedi per tredici ore.
Era da un po di tempo che l’intestino non gli funzionava
bene, e le dieci o dodici tazze di caffè che aveva bevuto nel
corso della giornata avevano rivestito il suo stomaco di un
deposito metallico e granuloso. Provò il desiderio ozioso di
un bel bicchiere di succo di frutta. Di arancia, pieno fino
all’orlo. E magari di un panino al formaggio con lattuga.
La macchina si stava muovendo con riluttanza verso
Bancroft, in direzione del palazzo in cui abitava Hadley. In
effetti non aveva nessun desiderio di andare a casa, non ci
pensava proprio. Era lì, di sua libera volontà, lo aveva
deciso lui e non aveva la minima intenzione di cambiare
idea. Tutto era stato pensato, esaminato e riflettuto, nelle
silenziose ore della notte prima. Ma godeva nel farle male,
poteva vedere la sofferenza nelle linee rigide e tirate del
suo viso. Si appoggiò allo schienale del sedile e si godette
malignamente il viaggio in macchina.
«Ci siamo» disse, indicando il palazzo. «Ti va di venire
su? Ti posso presentare la mia famiglia… Ellen già la
conosci. Ti farò conoscere Pete.» Sadicamente continuò:
«Che ne diresti di cenare con noi? Non abbiamo ancora
mangiato… io mangio sempre quando torna a casa.»
La donna aveva più coraggio di quanto lui immaginasse.
O forse era stato lui a giudicare male i sentimenti che lei
provava nei suoi confronti. «No, grazie» replicò, gelida.
«Magari un’altra volta. Stasera non mi sento troppo bene;
non voglio mangiare niente e non voglio incontrare
nessuno.»
In apparenza aveva accettato il fatto che Hadley stesse
per scendere dalla macchina e andarsene. Marsha si era
ripresa, e lui dovette ammirarla per come aveva
stoicamente assunto un’espressione decisa e nascosto la
delusione dietro uno sguardo imperscrutabile. Senza
subbio sarebbe stata in grado di uscirne indenne. La
situazione la stava lacerando, ma lei era capace di gestirla:
anche Marsha aveva preso la sua decisione.
«Be’» disse lei con un filo di voce. «È stato bello parlare
di nuovo con te.» Lo guardò di sfuggita. «Hai un
bell’aspetto.»
«Devo averlo per forza. Adesso dirigo io il negozio.»
«Eh?» Poi Marsha annuì. «Bene. Più soldi.»
«Molti di più. E anche più potere… Ho del personale alle
mie dipendenze.» Aggiunse: «Tutto sotto la mia
responsabilità, l’intero negozio. Devo ordinare, acquistare,
prendere decisioni. È il mio piccolo regno.»
Marsha parcheggiò la macchina sul lato opposto della
strada rispetto a casa sua; era, notò Hadley, più o meno lo
stesso punto in cui lo aveva lasciato quella famosa sera.
Dopo aver spento il motore e le luci, Marsha si voltò verso
di lui. Pallida, ma con aria di sfida, disse: «Vedo che vuoi
farmela pagare per quella sera. D’accordo, sto pagando.
Ma perché? Cosa avrei dovuto fare?»
«Dimenticare» rispose Hadley, già con la mano sulla
maniglia.
Gli occhi grigi di lei si mossero, scintillarono; respirando
forte si affrettò a dire: «Sapevo che avrei dovuto dirtelo…
ma, accidenti, non è una cosa che si va a raccontare, no?
L’ho rimossa; ho atteso troppo a lungo. Ho provato
interesse per te e poi ho avuto paura di dirtelo. Perciò mi
sono rinchiusa in me stessa… non potevo venire a letto con
te, no? Non quando stavo con Ted; non sarebbe stato
giusto, io non faccio cose del genere. E tu non avresti
voluto che le facessi, vero?»
«No» concordò lui in tono indolente.
«Per tutto questo mese ho avuto voglia di mettermi in
contatto con te. Volevo venire qui. Volevo vederti e parlarti.
Ho provato anche a scrivere; Dio, scrivevo le lettere, le
mettevo dentro la busta… e poi le strappavo. Ti ho pensato
in continuazione. Tutto si è sfasciato…» Distolse lo
sguardo, strinse i pugni e rabbrividì. Un singhiozzare
strozzato e raspante le fece aprire la bocca e si fece strada
fra le mascelle rigide; seppellì la faccia contro la
tappezzeria della macchina e per un po nessuno dei due
disse nulla.
«Piantala di recitare» esclamò poi Hadley, spietato.
«Io non…» Marsha si schiarì la gola, la sua voce era
debole, quasi inaudibile. «Io non sto recitando. Io ti amo.»
Hadley ne fu sconvolto. Una lenta, dolorosa sensazione
di bruciore gli risalì strisciando lungo le guance. Infuriato e
imbarazzato, si ritrasse con forza da lei, come se fosse
avvenuto qualcosa di disgustoso. Come se lei avesse fatto
una cosa animalesca, come se si fosse macchiata di chissà
quale indicibile depravazione. Hadley desiderò con tutte le
sue forze che non fosse stato lui a farle pronunciare quelle
parole; che non l’avesse spinta proprio lui fino a quel punto.
Era qualcosa che non aveva previsto. Nauseato, scosso,
spalancò lo sportello e poggiò un piede a terra.
«Te ne vai?» chiese Marsha, con la voce
pericolosamente vicina alla soglia dell’isterismo. «Buona
notte, Stuart Hadley. Magari ci rivedremo. Un giorno o
l’altro.»
«Calmati» le disse lui.
«Sono calma.»
«Allora abbassa la voce.» Richiuse lo sportello e si
risedette. «Sono troppo stanco per sopportare la gente che
grida. Ho lavorato per tredici ore in quel negozio; per oggi
ho avuto la mia quota di rumore.»
Con uno sforzo tremendo, Marsha riuscì a riprendere il
controllo. «Posso augurarmi che rimani?» gli chiese in tono
esitante. «Almeno per un paio di minuti?»
«Un paio di minuti, sì» acconsentì lui.
Scegliendo con cura le parole, Marsha disse: «Ti offende
avermi portato a dire quello che provo? Ma questo non
cambia nulla, te lo ridirei ancora. E provo ancora lo stesso
sentimento.»
«Non dirlo di nuovo» ribatté Hadley, con decisione. Si
mosse a disagio sul sedile, nel tentativo inutile di mettersi
comodo. «Non significa niente. Sono parole vuote, senza
valore.»
«Non per me» riuscì a dire Marsha.
«Allora tienitele per te!» Infuriato, Hadley infierì: «È
come quando ci si alza in piedi e si recita il giuramento di
fedeltà alla bandiera. Chi lo prende sul serio? Chi ci crede?
Qualcuno deve crederci, te lo fanno dire, ti fanno stare in
piedi ogni mattina con la mano sul cuore per tutti gli anni
che passi a scuola. Ma tu non ti aspetti mai di conoscere
qualcuno che ci crede… Come i versi dei canti popolari.
Non ti aspetti mai di incontrare qualcuno nella vita reale
che si esprima in quel modo.»
«È così che ti sembro?» gli chiese Marsha con voce già
più viva.
«A me sì. Magari a qualcun altro sembrerai diversa,
magari c’è un sacco di gente che prende sul serio questa
roba. Forse sono il solo che non sopporta di sentirla.» Si
strofinò la fronte, contrariato. «Non lo so. Sentirti parlare
così mi fa vergognare di te… mi viene voglia di guardare
altrove e di far finta che non sia successo niente. È il modo
in cui mi sento quando qualcuno emette un rumore
disgustoso. Qualcosa che rivela uno strato differente, uno
strato animalesco.»
Marsha rise, e la sua risata fu un rumore secco, freddo,
senza allegria. «Sei un borghese… ti fa pensare al sesso.
Temi che ti porterà a qualcosa di fisico.»
«Non prenderti in giro da sola!» Hadley si voltò e la
fissò intensamente. Continuò a studiarla, fino a quando,
imbarazzata e insicura, Marsha si ritrasse e
involontariamente abbassò lo sguardo sulla gonna e sulla
camicetta. «No,» proseguì Hadley «le cose non stanno così.
Io non sono preoccupato delle cose reali, non sto cercando
di evitare cose che esistono. E tu, invece?»
Marsha fece per parlare, poi cambiò idea.
«Sei tu» insisté lui. «Sei tu che hai paura; ecco perché
parli in questo modo… Ecco perché dalla tua bocca escono
discorsi del genere. Tu non provi vero amore… provi quello
che provo io, ma non puoi dirlo, non puoi parlarne. Sei
come tutti gli altri; si esprimono in quel modo perché
hanno paura di parlare delle cose reali.»
«Quali cose reali? Che vuoi dire?» Due chiazze di un
color rosso vivo le imporporarono le guance. «Non credi
che abbia parlato sul serio?»
Con un gesto impaziente della mano Hadley troncò la
sua domanda. «Tu lo sai che cosa esiste veramente fra me e
te; è la stessa cosa che esiste fra ogni uomo e ogni donna
che se ne stanno seduti come noi. Questa è l’unica
relazione che c’è; tutto il resto è solo un mucchio di aria
fritta.» Si girò verso di lei. «Cos’è? Cosa c’è veramente?»
Lei attese di sentire, ansiosa.
«Puoi spiritualizzare quanto vuoi, ma in sostanza la
faccenda si riduce a una semplice realtà biologica.»
Allungò la mano e la richiuse attorno a un lembo di stoffa
della gonna di tweed di Marsha. «Quello che voglio è un po
della roba che hai là sotto. Voglio entrarci; ecco perché
sono qui ed ecco perché ci sei anche tu. Ecco perché siamo
su questa terra… Perché io possa tirarti su la gonna e
arrampicarmi su di te, e alla fine entrare dentro di te.»
«Capisco» disse Marsha con voce piatta. «È… è questo
ciò che hai sempre provato?»
Dopo un attimo, Hadley ammise: «No. Avevo un sacco di
idee sballate, un sacco di illusioni da nuvoletta rosa, come
chiunque altro. Ma poi sono giunto a vedere le cose in
modo più realistico.»
Marsha trovò una sigaretta e se la infilò fra le labbra.
L’accese e si appoggiò allo schienale, grattandosi
meccanicamente il bottone della manica. Alla fine chiese:
«Vuoi che ti dica perché ho lasciato Ted?»
«Se ti va di sprecare il fiato.»
Marsha trasalì. «Io… io non credo di poter sopportare
tutto questo.»
«Vuoi che scenda adesso?»
Lei rifletté. «No.» Poi aggiunse, con voce più vivace:
«Be’, comincerò dall’inizio; mi sento meglio quando riesco
a parlarne. Non credo che quell’espressione sulla tua faccia
significhi nulla: penso che tu mi stia ascoltando, giusto?»
«Sì.»
Era uno sforzo terribile per lei, ma continuò. «Ho
lasciato Ted subito… sono tornata solo per un paio di
giorni. È stato orribile… peggio di qualsiasi cosa avessi
vissuto prima. Lui non ha detto niente, ha semplicemente
continuato a lavorare.» Soffiando fumo grigio dalle narici
contratte, Marsha disse: «Credo che sia l’uomo più buono
che sia mai vissuto. È buono in modo assoluto. Non è come
gli altri quando sono buoni, non è per niente la stessa cosa.
È proprio che non ha la capacità di fare del male… La
bontà fa parte del suo corpo fisico. Lo impregna da cima a
fondo.»
«È per questo che all’inizio ti sei messa con lui?»
Per un certo tempo Marsha rimase silenziosa. «Ne ero
attratta. La prima volta che l’ho visto e l’ho sentito
parlare… ho capito che era unico. Ha un potere: è una cosa
magnetica, come la gravità. Attira a sé le persone. Ha
attirato anche te… non è così? Allunga le mani e trascina
tutti verso di lui. Ci sono capitata anch’io. Volevo essergli
vicina, volevo toccarlo ed essere parte di lui. Ciò che è
successo è stato uno sviluppo del tutto naturale… non era
stato programmato. Non era una specie di cospirazione, è
stato spontaneo.» Fissò qualcosa oltre Hadley, con
l’espressione seria e preoccupata. «Ma vedi, anche vivendo
con lui, dormendo con lui, non gli sono mai stata vicina. Lui
è lontanissimo, ascolta sempre cose che io non posso
sentire, vede cose che io non posso vedere. La sua mente
è…» Si strinse nelle spalle. «Lo sai, hai cercato di
raggiungerlo anche tu. Non si può. Non è per nessuno di
noi.»
«Lo so» disse Hadley. «Anch’io ne sono rimasto fuori.»
«Abbiamo vissuto insieme solo per un mesetto circa.
Non lo sa quasi nessuno; i Gold non lo sanno, naturalmente.
Non è che gli sono mai stata tanto appresso… me ne stavo
nel mio appartamento. È venuto lui, era un posto in cui
stare; gliel’ho aperto e lui è venuto in modo naturale…
nello stesso modo in cui è venuto da me quando mi sono
aperta a lui. È venuto e ha preso, tutto qui… ha preso così
come dà. Come un bambino. Con la mano protesa,
fiduciosa. E poi, quando ha ricevuto, se ne va. Però…» Rise.
«Ecco, lo hai visto mangiare, no? Mangiare non significa
niente per lui: si limita a portare il cibo alla bocca, in
continuazione, come una macchina. E lo stesso è per
qualsiasi cosa fisica… la fa, la esegue, la porta a
compimento, la esaurisce. Ma non se ne lascia mai
realmente coinvolgere: quella cosa non lo tocca mai, non
penetra mai dentro di lui.»
«Non è contro i rapporti sessuali?» chiese Hadley.
«Fra noi ce ne sono stati pochissimi.» Marsha aveva
tutte le intenzioni di parlare apertamente con lui, di essere
franca e diretta. Hadley l’aveva ferita nell’intimo; in
apparenza lei non poteva andare oltre, non aveva
nient’altro da perdere. O così sembrava pensarla. «La
prima volta» disse. «Lo abbiamo fatto allora, e poi in poche
altre occasioni, di tanto in tanto. Ho dimenticato quante
volte. Veniva a casa mia, si faceva il bagno, si cambiava i
vestiti, sparpagliava il suo lavoro sullo scrittoio e si metteva
a lavorare. Poi mi raggiungeva a letto, tutto qui. E si
metteva a dormire. Ne ho un ricordo offuscato…» Scosse la
testa, infelice. «Immagino desse per scontato che anch’io la
pensassi nello stesso modo, che non avesse nessuna
importanza per me come non l’aveva per lui. Invece io
volevo che significasse di più.»
«Le donne ne fanno sempre una grande tragedia» disse
Hadley.
«Aveva ragione lui, Suppongo» proseguì Marsha,
ignorandolo in modo ostentato. «Ho provato a pensarla
anch’io nello stesso modo, ma sapevo che era sbagliato. Gli
davo molta importanza, come chiunque altro. Nemmeno io
posso liberarmene, come te. È parte di me; io sono nata
qui, questo è il mondo che mi ha formato. Volevo andare
avanti insieme a lui e vedere le cose come le vedeva lui, ma
non ne sono capace.» Aggiunse, in tutta onestà: «È troppo
buono, Stuart. Ho resistito finché ho potuto, poi ho mollato.
È stato difficilissimo, perché lui era così gentile. Mi ha
lasciato andare senza problemi, non ha avanzato nessuna
pretesa, accidenti a lui.» Alzò gli occhi. «E accidenti a te. È
anche colpa tua.»
«Non prendertela con me.»
«Oh, sì, invece. Quella sera, quando hai detto quella
cosa. Lo hai chiamato negraccio. Io non lo sopportavo
perché era vero. Lui è un nero, non posso dimenticarlo, e
nemmeno tu.»
«Ti ho già detto che mi dispiace» disse irosamente
Hadley.
«È troppo tardi. È questo che voglio dire… Nessuno di
noi è abbastanza buono. Nessuno di noi è alla sua altezza,
non siamo degni. Non è così? Quando hai pronunciato
quella parola, e quando io ho replicato, sapevo che non
eravamo le persone adatte per stargli intorno.»
Hadley annuì controvoglia. «D’accordo.»
«È vero?» insistette lei.
«Sì.»
Marsha continuò: «E così ci siamo dentro entrambi,
Stuart Hadley. Sono tornata a San Francisco già sapendo
che fra me e Ted era finita. Mi fa vergognare di me stessa,
e nello stesso tempo sono inquieta e insoddisfatta. Il tipo di
vita che voglio è qualcosa di brutto… Non potrei mai
viverla con lui. Non brutta, a volere essere precisi… Non so
come definirla. Quando mi sono resa conto che eri il mio
tipo, sapevo che potevo capirti, e capire il tuo modo di
vivere. E poi… sei un bell’uomo. Io sono sempre andata
pazza per il tipo nordico, biondo e dolce. Sono stata
fisicamente attratta da te fin dall’inizio.» Rise
nervosamente. «Perciò vedi, è colpa tua se ci siamo lasciati.
Sei tu il responsabile… così come io sono responsabile di
aver messo sottosopra la tua vita.»
«Lo avresti lasciato comunque» obiettò Hadley.
«Certo. Ma non per un po’, comunque non così presto.»
«Con quanti uomini hai vissuto prima d’ora?»
«Ho trentadue anni» disse Marsha. «Hai visto due dei
miei due figli; ho un’altra figlia in Oregon, in una scuola
privata. Ha quattordici anni. La cosa ti sconvolge? Avevo
appena finito il liceo, avevo diciotto anni e vivevo a Denver.
Ero una ragazza di campagna del Midwest. Volevo
diventare giornalista. Charlotte, la mia prima figlia, è nata
nel 1936.»
«Cristo!» esclamò Hadley. «Io avevo appena dieci anni.»
«Suo padre era un uomo magnifico, un giovane
ingegnere. Don Frazier è morto nella seconda guerra
mondiale. Ti interesserà sapere che ci siamo sposati dopo,
nel 1940, subito prima che scoppiasse la guerra. Durante la
guerra ce ne sono stati molti altri, ho perso il conto. Per un
po ho vissuto in Inghilterra; facevo parte delle corpo delle
ausiliare dell’esercito, collegato all’ufficio informazioni.
Mentre ero lì ho conosciuto sir Oswald Mosley. Quasi tutte
le mie opinioni politiche si sono formate allora. Ero delusa
dalla guerra… avevo vista troppe mostruosità.»
Incuriosito, Hadley chiese: «Al momento sei ancora la
moglie di qualcuno, dal punto di vista legale? Ti sei
risposata?»
«Questa parte storia la conosci. Ho sposato un maggiore
dell’esercito mentre ero di stanza in Inghilterra. Timmy e
Pat sono figli suoi.»
«Sei ancora sposata con lui?»
«Sì.»
Hadley si rabbuiò. «Non so se crederti o no.»
«È la verità.» Impassibile, lei gli soffiò in faccia una
nuvola di fumo. «Non importa; non so dov’è, probabilmente
a New York con qualcuna. L’ultima volta che l’ho visto stava
insieme a una donna benestante… Continuerà, di questo
sono sicura.»
Non finì il discorso, e Hadley non trovò niente da
aggiungere. Dopo un po lui si girò e aprì di nuovo lo
sportello.
«Dove stai andando?» si affrettò a chiedergli Marsha.
«A casa, naturalmente. Ho fame, voglio cenare.»
Con gli occhi grigi puntati su di lui, Marsha disse:
«Proprio non vuoi perdonarmi, vero? Vuoi farmi soffrire
perché quella sera non sono voluta venire a letto con te?»
Hadley non aveva bisogno di rispondere, era ovvio. Ma
non era tutta la verità. «Io ti credo» fece poi ad alta voce
«quando dici che non avresti potuto. Credo che lo volessi,
ma che non avessi il coraggio di farlo.»
«Allora perché farmi soffrire?»
«Perché» rispose semplicemente Hadley «soffro anch’io.
E voglio che qualcuno condivida la mia sofferenza.»
«Non andare» lo piegò Marsha a denti stretti,
allungando la mano e toccandogli il braccio. «Resta con me.
Farò quello che vuoi. Non ci sono più legami, niente. Sono
libera, padrona di me stessa. Ho visto Ted per l’ultima volta
ieri. Non è più come prima, adesso è diverso.»
«Capisco» lo pregò pensieroso Hadley. «In altre parole,
tu hai deciso che vorresti andare a letto.»
Il volto della donna si raggrinzì. Lei si rannicchiò su sé
stessa, sconfortata, con gli occhi grigi che mandavano
bagliori.
«Allora?» disse Hadley. «Sì o no?»
Lei annuì senza dire una parola.
«Rispondimi!» la incalzò lui.
«Sì.»
Hadley rifletté. «Ho fame. Prima voglio mangiare
qualcosa.»
Marsha dovette lottare per trovare le parole. «Possiamo
fermarci a un drive-in.» Girò la chiave con la mano che le
tremava e avviò il motore, poi accese i fari. «Per favore, ti
dispiace chiudere lo sportello? Non posso guidare con lo
sportello aperto.»
«Certo.» Con la massima calma, richiudendolo.
Con le lacrime che le rigavano le guance, Marsha tolse
il freno a mano e si immise sulla strada buia e silenziosa.
Al drive-in ordinarono dei panini e dei frullati di latte.
Hadley chiese alla ragazza di mettere tutto in due
sacchetti, la pagò e la ragazza si allontanò con il piccolo
vassoio di metallo. C’erano altre macchine ferme nel
parcheggio circolare che girava intorno al palazzo, per lo
più con a bordo studenti e giovani coppie. Il suono
metallico della musica da ballo scivolò nell’oscurità fino a
Hadley e per un po lui rimase ad ascoltarla, con il frullato e
il panino in grembo dentro il sacchetto di carta.
«Mi riporta indietro» disse a Marsha.
Dopo un momento lei mormorò: «In che senso?»
«Non ho più una macchina dai tempi dell’università.
Starmene seduto qui mi ricorda i vecchi tempi, quando
cominciai a uscire con Ellen. E anche prima, quando facevo
il liceo, come quel ragazzo laggiù.»
Un giovane liceale in camicia bianca con le maniche
arrotolate che scoprivano le braccia abbronzate e pelose,
jeans scuri e stivaletti che strusciavano rumorosamente sul
terreno, capelli lunghi e imbrillantinati, basette
lunghissime, passò davanti alla Studebaker e raggiunse la
sua auto truccata.
«Eri come lui?» gli chiese debolmente Marsha, che
aveva cominciato a ritrovare un po di padronanza. «Non
posso crederci… Sei così biondo…»
«Vestivo come lui. Dave Gold e io vestivamo nello stesso
modo, a parte che lui portava la giacca, una tutta
consumata di tweed marrone.»
«Li hai più visti, i Gold?» chiese Marsha.
Hadley divenne serio. «No. Non li ho più visti da quel
giorno a San Francisco, quando mio cognato li ha scaricati.
Quando vennero da te per farsi riaccompagnare.»
«Di certo avevano il morale sotto i tacchi…» disse
Marsha. «Non ho mai capito che cosa fosse successo,
hanno solo borbottato qualcosa.»
«È stata colpa mia» spiegò Hadley di cattivo umore.
«Non ho fatto niente per evitare che lui li trattasse male.
Quel grosso bastardo… E io non ho mosso un dito, in effetti
l’ho assecondato.» Scese dalla macchina, l’aggirò e andò
dalla parte opposta. Aprì lo sportello e intimò: «Scendi.»
Marsha si staccò con reticenza dal volante. «Perché?»
«Voglio guidare io. Voglio vedere come funziona
quest’affare.» Si sistemò al posto di guida e richiuse lo
sportello. «Sei pronta?»
«Sì» disse Marsha nervosamente. «Credo di sì.»
Hadley avviò il motore e uscì a marcia indietro dal
parcheggio, immettendosi in strada. Al suo fianco la donna
lo osservò preoccupata mentre lui inseriva le marce fino
alla quarta e guadagnava velocità.
«Te la cavi bene» constatò lei.
«Perché non dovrei? Guido da quando ero un ragazzo.»
Rallentò a un semaforo e aggiunse: «Non è male, questa
macchinetta. È un veicolo a sangue freddo… è lenta come
una lumaca, ma si guida benissimo.»
«Non consuma molta benzina» disse Marsha. «È
piuttosto economica.» Prese i due sacchetti, quello suo e
quello di Hadley. «Dove… stiamo andando?»
Con grande stridore di gomme Hadley svoltò,
allontanandosi dalla città e dirigendo verso la statale. Si
ritrovò davanti file di luci accecanti. Automobili che
procedevano ad alta velocità da San Francisco verso San
Jose. Oltrepassò senza fermarsi un semaforo giallo, si
spostò sulla prima corsia, poi sulla seconda, e dopo qualche
secondo raggiunse il centro della strada. Con il piede
premuto sull’acceleratore, scuro in volto, portò la piccola
vettura fino a centodieci chilometri all’ora.
«Rallenta» disse Marsha con un filo di voce. Sulla loro
sinistra, oltre la barriera divisoria, la sfilata di fari formava
una striscia abbagliante. Lei socchiuse gli occhi e si
ritrasse sul sedile. «Non mi piace questa corsia… È troppo
vicina all’altra parte della strada. E corrono tutti come
matti.»
Hadley la ignorò e innestò l’overdrive. Sotto di loro il
motore smise subito di rombare: la macchina sembrava
volare sulla superficie della statale. Si sentiva solo il
rumore del vento, non si vedeva nulla se non il turbinio di
fari sulla sinistra. «Non lo usi, l’overdrive?» chiese Hadley.
«La macchina mi serve solo per girare in città… mi ero
dimenticata di inserirlo.» Poi aggiunse, esitante, con un filo
di voce: «Non mi capita spesso di guidarla sulla statale, di
solito ci giro per San Francisco.»
Si trovavano in una zona fra una città e l’altra. Sui due
lati della strada c’erano campi scuri e qualche linea
elettrica. Il cielo era coperto, e il vento che irrompeva
nell’abitacolo era freddo e pregno dell’odore acre della
Baia.
«Non hai paura di prendere una multa?» gli chiese
preoccupata Marsha.
«Non nella corsia dei suicidi. Qui è praticamente
impossibile fermare una macchina.» Poco dopo aggiunse:
«E comunque non stiamo andando troppo veloci.»
Accostò sulla destra e rallentò fino ai novanta. Poi, sceso
ulteriormente a ottanta, si spostò sulla corsia più interna.
Le macchine li superarono a tutta velocità sulla sinistra e
scomparvero più avanti nell’oscurità.
Marsha rabbrividì. «Mi fa sentire un po male, andare
così veloci. Mi chiedo sempre che succederebbe se
scoppiasse una gomma.»
«Faremmo una brutta fine.» Hadley rallentò ancora,
scese a sessanta, poi a cinquanta. Più avanti c’era una
deviazione, una strada secondaria asfaltata che portava a
un grappolo di edifici illuminati: una stazione di servizio,
qualche bar, delle case, una fabbrica. Hadley seguì la
deviazione tenendosi sotto i cinquanta all’ora e lasciò la
statale.
«Dove siamo?» chiese Marsha.
«Siamo quasi arrivati. Fra poco potremo bere i nostri
frullati al latte.» Fece un’ampia curva e portò la macchina
sul lato più lontano del gruppo di edifici. Poi svoltò su una
stradina laterale, mise la seconda e cominciò a risalire il
fianco di una collina dall’aria minacciosa. Sui due lati della
strada sfilarono alberi e case; si stavano arrampicando
lentamente verso un paesino collinare.
«Non sono mai stata qui» disse Marsha, visibilmente
contrariata.
«Si chiama San Sebastian Heights… è un centro
rurale.» La macchina giunse in cima alla collina; Hadley la
fermò e indicò con il dito. Davanti a loro il terreno
digradava in modo brusco, e sotto si stendeva un’ampia
vallata, una solida distesa di luci ordinate. Stavano
guardando una immensa zona residenziale, così vasta che i
suoi confini si perdevano nella nebbiolina notturna.
«Ogni casa è identica all’altra» spiegò Hadley mentre
imboccava la discesa. «Stile ranch californiano, così
dicono.»
Ai piedi della collina svoltò a destra e oltrepassò un
palazzo illuminato: era il centro amministrativo. Oltre il
palazzo la strada si allargava in un centro commerciale.
Quasi tutti i negozi erano chiusi; solo il drugstore e il bar
erano ancora aperti. L’enorme supermercato era buio e
deserto, così come i diversi negozi, da quello di
abbigliamento a quello delle calzature a quello che vendeva
prodotti a basso costo. Hadley superò una stazione di
servizio Shell malamente illuminata e poi una lavanderia.
«Ci siamo» disse.
Davanti a loro si vedeva la luce rossa dell’insegna al
neon di un motel. Hadley infilò la seconda e imboccò
lentamente il vialetto, oltre il primo anello di cottage, oltre
il riquadro scuro del prato, fino alla baracca che fungeva da
ufficio. Era esposto il cartello stanze libere; Hadley si fermò
e tirò il freno a mano.
«C’è sempre qualche stanza libera» le spiegò con calma.
«È troppo lontano dalla statale; l’hanno costruito quando
quasi tutte le case erano in vendita e la gente veniva giù da
San Francisco per vederle. Adesso non ci viene quasi
nessuno.»
Dall’ufficio uscì una figura ondeggiante che indossava
un soprabito pesante. L’uomo si avvicinò borbottando alla
macchina e scrutò all’interno dell’abitacolo puntando la
torcia, «’sera» disse sospettoso mentre esaminava le facce
dei due occupanti. «Ne è rimasta una, siete fortunati.»
Hadley si fece una gran risata e infilò la mano in tasca
in cerca del portafoglio. «Meglio per noi. Quant’è?»
«Quattro e cinquanta» grugnì l’uomo; i suoi occhi
luccicavano e guizzavano sulla grossa faccia rossa. «Viene
dalla città, vero?»
«Proprio così» annuì Hadley, porgendo una banconota
da cinque dollari. «Quale cottage è?»
«Al diavolo» disse l’uomo, rassegnato. «Niente bambini,
immagino.» Si frugò nella tasca del soprabito cercando il
blocchetto delle ricevute. «Già, voglio essere pagato in
anticipo» disse accettando la banconota. «Qualcuno se la
fila prima, sennò.»
Compilò la ricevuta con un mozzicone di matita,
ricopiando i nomi dai documenti nel portafoglio di Hadley.
«Va bene, signore e signora Hadley» fece, staccando la
ricevuta e porgendogliela. «Terzo cottage a destra.» Gli
diede le chiavi e se ne tornò imbronciato verso l’ufficio.
«Dolci sogni» augurò loro mentre scompariva dentro.
Hadley riavviò prontamente la macchina. «Questi posti
sono più riservati,» le spiegò «una volta che ti hanno
lasciato entrare.»
Parcheggiarono quasi subito davanti al piccolo cottage
scuro. Hadley si mise in tasca le chiavi della macchina,
spense le luci e scivolò sul vialetto di brecciolino. Mentre
saliva i gradini d’ingresso Marsha gli andò dietro
lentamente con i sacchetti delle cibarie. La porta si aprì e i
due entrarono, Hadley un passo avanti mentre tastava il
muro in cerca dell’interruttore.
La luce rivelò una stanzetta che sembrava la cella di un
monaco. Nuda, austera, senza nessun ornamento, era
illuminata da una luce bianca che le dava un aspetto ancor
più freddo. Hadley diede un’occhiata in giro, e ispezionò il
bagno con il vano che fungeva da doccia. Il luogo era
essenziale, ascetico nella sua semplicità. Gli piacque. Era
proprio come lo ricordava da anni prima, quando ci aveva
portato qualche ragazza… Una di loro era stata Ellen. Gettò
la giacca su una sedia e tornò a richiudere la porta.
«Sarebbe difficile commettere peccato qui dentro» disse
mentre tirava giù le tende.
«Già, lo tengono in modo impeccabile» ammise Marsha.
Rabbrividì e cominciò a passeggiare per la stanza. «Fa
freddo, ti dispiace accendere il riscaldamento?»
Hadley avvicinò un fiammifero alla minuscola stufetta a
gas e dopo un attimo cominciò subito a far caldo. Accese
una lampada da terra e spense la luce abbagliante sul
soffitto. Sotto quell’illuminazione più morbida i colori dei
vestiti di Marsha attrassero la sua attenzione; notò per la
prima volta che lei indossava oltre la gonna di tweed una
maglietta a colori vivaci.
Divertito osservò: «Non ti avrei quasi riconosciuta.»
Impacciata, Marsha si portò le mani sui seni. «Perché
dici così?»
«Sembri quasi femminile. Ti giova… quei vestiti ti
stanno proprio bene.» Hadley si lasciò cadere su una
poltroncina dallo schienale diritto e prese i due sacchetti.
Mentre li appoggiava sul tavolino disse: «Ci scommetterei
che siamo gli unici. Non ho visto altre macchine;
probabilmente tutti gli altri cottage sono vuoti.»
«Non dirlo» replicò Marsha, preoccupata. «È così
morboso; in alcuni di essi mi sembra di aver visto delle
luci.»
«Fantasmi» affermò Hadley.
«Piantala!» Marsha continuò a passeggiare
nervosamente per la stanza, agile e snella sulle sue gambe
lunghe. «Hai le sigarette? Le mie le ho lasciate in
macchina.»
Hadley le lanciò il pacchetto, poi tolse il coperchio al
contenitore di cartone. Conteneva succo di pompelmo
ghiacciato, l’unico succo di frutta che fosse riuscito a
trovare. Ne mandò giù una lunga sorsata, riconoscente.
Subito dopo Marsha si sedette e cominciò a scartare un
panino all’insalata di pollo.
«Vorrei avere qualcosa di caldo» mormorò. «Per tirarmi
su.» Con gli occhi grandi e scuri disse: «Mi sento sola. E tu
non sai fare altro… che startene lì a bere quel dannato
succo di frutta.» Poi proseguì, in tono lamentoso: «Vorrei
che mi dimostrassi maggiore attenzione.»
«Lo farò» replicò Hadley senza scomporsi.
Finì il suo succo e aprì il frullato. Lo sorseggiò e nello
stesso tempo attaccò il panino al prosciutto e formaggio.
Marsha piluccò tristemente le patatine fritte che la ragazza
aveva ammucchiato in fondo al sacchetto.
«Alla reception c’è un telefono a gettoni» dichiarò
Hadley.
«Chi vuoi chiamare?»
«Mia moglie.»
«Oh» fece Marsha, arrossendo. «Be’, magari dovresti…»
Alzò lo sguardo con coraggio. «Che cosa le dirai?»
«È venerdì sera; di solito il venerdì sera sparisco per la
mia consueta baldoria settimanale.»
«E a lei non importa?»
«Le importa,» rispose Hadley «ma non la sorprende.» Si
alzò e andò verso la finestra. Tirò su la tenda e si mise a
fissare l’oscurità. L’idea di tornare indietro gli sembrava
vaga e irreale; già l’immagine di sua moglie aveva
cominciato a svanire. Succedeva sempre così quando non
era fisicamente con lei. Certe volte aveva difficoltà a
ricordare come fosse fatta… Nei primi mesi del loro
matrimonio, Hadley era stato terrorizzato dall’idea di
incontrarla un giorno per la strada e di non riconoscerla.
«Io sarei venuto a letto con te» disse ad alta voce
«anche se sono sposato… anche se ho un figlio. Invece tu
non lo faresti con me.»
«No» ammise Marsha a denti stretti. «Non ne sarei
capace.»
«Ci è mancato poco.» Sorrise ironicamente. «Se mi fossi
tolto le scarpe lo avresti fatto.»
Le dita magre di Marsha quasi strapparono il panino.
«Può darsi. Adesso non lo so. Lo volevo.»
«Guardiamo in faccia la realtà» osservò Hadley. «Siamo
fatti nello stesso modo… Nessuno di noi due ha la minima
traccia di lealtà. Tu tradiresti Beckheim, io tradirei mia
moglie. Lo stiamo già facendo.»
«Io non lo considero tradire Ted. L’ho lasciato, lui lo sa
che fra noi è finita.»
«L’hai tradito quando ti sei fatta vedere al negozio, quel
giorno. E io ho tradito Ellen tanto tempo fa. Forse è questo
che non va in noi… Forse è per questo che non riusciamo a
trovare radici da nessuna parte. Le abbiamo tagliate con la
nostra mancanza di lealtà. A chi sei leale, tu? A qualcuno?»
Marsha non rispose.
«Io non sono leale a nessuno» disse Hadley. «Non mi è
mai passato per la mente di essere leale a una persona…
solo a un ideale astratto. Non sono mai stato leale con il
mio capo, o con mia moglie. Ho tradito i miei amici… e
quella è stata la cosa peggiore. Tutti… il mio Paese, la
società in cui sono nato. E poi mi chiedo perché non riesco
a trovare qualcosa in cui credere. Mi chiedo perché non
posso fidarmi di nessuno. Cerco qualcuno in cui avere
fede… ma sono disonesto io per primo. Non so nemmeno
che cosa significa essere onesto. Sì, c’è qualcosa che non
va… ed è colpa mia.»
«Ma noi siamo ribelli, Stuart» disse Marsha. «Stiamo
cercando di costruire un mondo nuovo.»
«Non siamo ribelli… siamo traditori.»
Vi fu silenzio.
«E poi» concluse Hadley, mentre tirava giù la tenda
«non siamo nemmeno leali fra noi. Tu ti fidi di me? Io non
mi fido di te, ci puoi scommettere; so che mi mollerai così
come hai mollato Beckheim quando ti è saltato il ghiribizzo
di farlo. Siamo tutti e due persone indegne, fin nel
profondo.»
«Non dire così» protestò Marsha, allungando una mano
verso di lui con un gesto quasi isterico. «Tieni, prendi un po
del mio panino; io non riesco a finirlo.»
Hadley scoppiò a ridere. «Va bene. Magari questo
cambierà le cose. Festeggerò la raggiunta comprensione di
me stesso. Se avessimo qualcosa da bere potremmo anche
brindare come si deve.»
Marsha gli porse il panino e disse: «Vado alla macchina,
torna subito.» Aprì la porta e scomparve nel buio. Hadley la
sentì calpestare rumorosamente il brecciolino, aprire lo
sportello e frugare dentro la macchina.
Un attimo dopo tornò con un quinto di Haig & Haig.
Richiuse la porta dietro di sé e tirò su la bottiglia, con le
guance rosse e il fiato mozzo. «Va bene?» chiese in un
rantolo.
«Va bene» rispose Hadley prendendo la bottiglia. Le
mani della donna erano gelate, e anche la bottiglia era
umida per la nebbia notturna. «Va a metterti davanti alla
stufa» le disse. «Lo verso io.»
Svuotò ciò che rimaneva dei frullati nel lavandino del
bagno, sciacquò i bicchieri di carta e vi versò il whisky.
Quando tornò nella stanza, Marsha si era raggomitolata sul
divano con gli occhi sgranati, le mani serrate, il volto triste
e desolato.
«Che ti prende?» le chiese.
«Io… io non credevo che sarebbe andata così.» Gli
sorrise avvilita, tormentandosi le labbra. «Stavo tornando
da te, tutto doveva essere bellissimo. Noi due… lo sai.»
Accettò il bicchiere. «Grazie.»
«Non è quello che provi sempre?» le domandò spietato
Hadley. «Ogni volta che ne scegli uno nuovo, non speri che
sia quello giusto?»
Marsha si rannicchiò ancora di più su sé stessa e
abbassò gli occhi a terra, sconfortata. Poi scosse la testa
senza dire niente.
«Per me è sempre così» la incalzò Hadley, inesorabile.
Sorseggiò il whisky e rimase a fissarla. Lui non nutriva
praticamente nessun sentimento verso di lei; in un modo
del tutto distaccato stava godendo di quello che faceva.
«Credo che andrò avanti così» proseguì. «Fino a che sarò
troppo vecchio per sperare.»
La donna non si mosse.
«Bevi il tuo whisky» la esortò Hadley.
Lei alzò il bicchiere, obbediente, come una bambina
abbandonata, e bevve.
«Bene» disse Hadley soddisfatto. Bevve ancora anche
lui; il whisky giunse in fondo allo stomaco e vi ristagnò, un
malloppo duro che lo fece stare male. Si preannunciava
quel genere di bevuta, con nausea e irritabilità. Nessuna
via di fuga per lui: mentre beveva il cervello divenne
ancora più lucido, i suoi pensieri più freddi e affilati. La
stanza assunse un aspetto brillante, metallico; il leggero
torpore nelle braccia e nella testa lo fece solo sentire più
lontano e distaccato, come se né lui né la donna seduta sul
divano fossero reali. Come se la stanza stessa fosse
artificiale, solo un’imitazione.
«Bevi» le ordinò di nuovo con durezza.
Per un attimo la donna rimase seduta tenendo fra le
mani il grosso bicchiere di cartone. Poi, sempre più
disperata, cominciò a stringere in modo convulso: il
bicchiere si accartocciò e si ruppe, e il whisky si riversò fra
le dita gocciolando sul tappeto. Ai suoi piedi si formò una
pozza di liquido, come urina di un animale. La testa le
ricadde in avanti e lei scivolò giù in un mucchietto inerte e
senza vita.
Hadley posò il suo bicchiere e si inginocchiò accanto a
lei. «Mi dispiace» disse. Ma continuava a non provare
nulla; nel suo intimo era freddo come acciaio. Protese la
mano e le scostò dagli occhi i capelli neri. «Non dicevo sul
serio. Sono stanco.»
Lei annuì.
«Tutta colpa di questa robaccia.» Si alzò, afferrò il
bicchiere di whisky, andò alla porta e lo gettò fuori. Il
bicchiere rimbalzò sui gradini; Hadley richiuse la porta e
tornò da Marsha.
«Sto bene» disse lei. «Mi prenderesti la borsa? L’ho
appoggiata sulla cassettiera.»
Hadley trovò la borsa e gliela porse. Marsha si asciugò
gli occhi, si soffiò il naso e sedette stringendo in mano il
fazzoletto.
«Vuoi tornare indietro?» le domandò Hadley.
«E tu?»
Era una bella domanda. Ma lui aveva già la risposta
pronta, sapeva quello che provava fin da prima di lasciare il
negozio. «No» rispose. «Io non torna indietro. Vado fino in
fondo.»
«Anch’io» bisbigliò lei. Si alzò in piedi, malferma sulle
gambe, e andò verso il bagno. «Scusami. Torno subito. Ti
prego.»
Lui la lasciò andare e Marsha si richiuse la porta alle
spalle.
Quando riuscì sorrideva. Si era lavata la faccia e
truccata un po’. Ma aveva gli occhi rossi e gonfi; mentre gli
si avvicinava le labbra le tremavano. «Non devo avere un
aspetto molto invitante» disse in tono patetico.
«Non stai poi così male» commentò Hadley, evasivo.
Marsha si era pettinata e si era messa un profumo; colonia,
probabilmente. O forse deodorante profumato.
Non che la cosa gli interessasse troppo; per lui quella
donna era una forma vuota, senza personalità e senza
particolare attrazione. Hadley era consapevole del groppo
di risentimento che si portava dentro fin da quando riusciva
a ricordare; al di là di quello non c’era molto altro. E il
risentimento stesso non era qualcosa che lui capiva, o
controllava del tutto… Non sembrava davvero una sua
proprietà esclusiva.
Con un tono quasi implorante, Marsha disse: «Faresti
una cosa per me? Una specie di regalo?»
«Che cosa?»
«Vorrei che mi baciassi.»
Hadley sorrise. «Fallo tu. Tira fuori la gavetta.»
«Che significa?»
«È un modo di dire dell’esercito. Significa…» Le mise le
mani sulle spalle magre. «È difficile da spiegare. In questo
caso significa che mi fai vergognare un poco.»
Marsha piegò la faccia verso l’alto e lui la badò
fuggevolmente sulla bocca. Le sue labbra erano fredde e
umide, e leggermente appiccicose. Dopo un attimo lei
richiuse le braccia attorno al collo di Hadley e lo tirò
vogliosamente verso di sé. Senza la sua maschera di
cinismo, senza i modi sprezzanti da intellettuale del loro
primo incontro, Marsha era fragile e leggera, e Hadley non
provava più quella paura reverenziale che aveva avuto
prima. Per un momento lasciò che le mani esperte di lei gli
scompigliassero i capelli, poi si ritrasse e le voltò la
schiena.
«Non così» decise. «È un divano-letto apriamolo, è più
comodo.»
«D’accordo» disse lei, rassegnata.
Tirarono fuori il letto dalla parte interna del divano.
Nella cassettiera Marsha trovò lenzuola e coperte. Fece il
letto con precisione, in modo scrupoloso: le lenzuola erano
fresche, inamidate e bianchissime.
Mentre lei si rialzava, Hadley spense la lampada. La
stanza cadde nel buio, a parte la luce che filtrava dalla
porta socchiusa del bagno. «La porta è chiusa a chiave?» le
chiese Hadley.
«Credi che sarebbe meglio?»
«Credo di sì» rispose lui mentre andava a girare la
chiave nella serratura. «Questa volta, almeno.»
Quando si girò, Marsha era seduta sul bordo del letto
con gli occhi puntati su di lui e le mani strette. Attese e
continuò a fissarlo, poi si alzò a metà mentre Hadley si
avvicinava.
Hadley infilò un dito nel nodo della cravatta e rallentò.
«Forza. Spogliati.»
Le dita di Marsha armeggiarono con la zip della gonna.
«Io…» cominciò, ma lasciò la frase a metà.
Hadley la ignorò, si sfilò la cravatta, poi la camicia. Le
appoggiò sul bracciolo della poltrona e si mise a sedere per
slacciarsi le scarpe. Accanto al letto Marsha si fece passare
lentamente la maglietta sopra la testa. Se ne liberò
dimenandosi e la gettò sulla cassettiera, poi cominciò a
slacciarsi la gonna. Un pezzo dopo l’altro, i due si tolsero
tutti i vestiti. Nessuno disse nulla, nessuno guardò l’altro;
quando Hadley ebbe finito di spogliarsi vide Marsha in
piedi accanto al letto, nuda e con un’aria patetica: il suo
corpo magro era una pallida macchia bianca nella
penombra della stanza.
«Posso… fumare una sigaretta prima?» chiese lei.
«No.» Hadley la prese e la tirò verso il letto; lei
incespicò e venne giù, cercando qualcosa a cui
aggrapparsi. «Andiamo, non perdiamo tempo.»
Marsha scostò le coperte con il corpo e scivolò verso il
lato più lontano, quello addossato al muro; lui la seguì e per
un attimo la squadrò con aria impassibile. Sotto
quell’esame freddo la donna si ritrasse impaurita, con le
gambe ben strette, le spalle incurvate, le braccia
rigidamente conserte. Alla fine, visto che Hadley non
diceva niente, non riuscì a trattenersi. «Stuart, per l’amor
del cielo, piantala, ti prego. Per favore, lasciami in pace!»
Metodicamente, lui si abbassò e cominciò ad
accarezzarla. Sotto la sua mano la carne di Marsha
fremette e si increspò; sul ventre e sui fianchi si formò la
pelle d’oca. Lei emise un piccolo gemito e si allontanò,
schiacciandosi contro la parete, finché Hadley non la prese
e non la riportò a sé con decisione.
«È troppo tardi per tirarsi indietro» disse. «Hai fatto il
letto tu; adesso vedi di sdraiarti.»
Lei emise un grido stridulo quando Hadley le allargò le
gambe e la penetrò; le sue unghie si appoggiarono tremanti
sulla schiena di lui e vi affondarono. Con una spinta brutale
del ginocchio Hadley le sollevò la schiena, la costrinse a
piegare il corpo e inarcare le cosce, comprimendole le
natiche fino a farla ansimare di terrore. Proprio sotto di lui,
con la faccia deformata e stravolta, gli occhi chiusi, le
labbra contratte fino a mostrare il bianco delle gengive,
Marsha rantolava e boccheggiava, voltando la testa di qua
e di là; il sudore le scorreva lungo il collo in grosse gocce
gelate. Hadley drizzò il petto quanto più possibile:
fissandola impassibile da quell’altezza cominciò a mettere
in atto con puntualità gli intricati spasimi muscolari del
sesso, con intensità crescente, fino a quando le dita che gli
artigliavano la schiena lo costrinsero a ritrarsi da lei.
Si mise a fumare e attese, guardandola. Marsha
respirava pesantemente, con gli occhi sempre chiusi e le
lenzuola tirate su. Spossata, spaventata, si girò di fianco e
si portò le ginocchia allo stomaco assumendo una strana,
impressionante posizione fetale che gli diede da pensare
mentre attendeva. Dopo un po accese una seconda
sigaretta e gliela porse. Lei la prese con le dita intorpidite e
riuscì a mettersela fra le labbra. Quindi si tirò su un poco,
debole e svuotata, fissandolo in silenzio e sollevando
pateticamente il lenzuolo a coprire i seni piccoli e appuntiti.
Senza capire lo vide spegnere la sigaretta, prendere la
sua e spegnere anche quella. Solo quando la sospinse di
nuovo giù e le tolse di dosso il lenzuolo Marsha capì che
stava ricominciando. Lottò con tutta la forza che aveva, lo
colpì al petto, gli graffiò la faccia, lo morse, urlò e imprecò
e gemette, nel tentativo vano di allontanarlo da sé. Senza
emozione, con la mente distaccata e remota, Hadley le
allargò le gambe e per la seconda volta fece entrare il suo
ego smisurato in quel corpo che protestava
disperatamente. Nella sua cavità palpitante riversò tutto
l’odio, l’infelicità, il risentimento che alloggiavano dentro di
lui come una pozza di acqua stagnante.
Quando ebbe finito scese dal letto e la ricoprì con le
lenzuola e le coperte. La notte era diventata più fredda; era
quasi l’una e mezza. Marsha giacque scossa da un tremito
stupito, respirando forte dalla bocca, con il corpo umido e
flaccido è le braccia abbandonate lungo i fianchi. Si mosse
appena quando lui le scostò i capelli dalla faccia; il suo
corpo fremette e un rivolo di saliva apparve all’angolo della
bocca.
In silenzio, senza accendere la luce, Hadley cominciò a
rivestirsi. Stava in piedi accanto alla cassettiera,
sistemandosi la cravatta e abbottonandosi i polsini, quando
la donna parlò.
«Stuart?» disse in un bisbiglio.
Per un momento le si avvicinò. «Che vuoi?»
«Direi che te ne stai andando.»
«Proprio così.»
«Con la macchina?»
Hadley si sedette per infilarsi le scarpe. «Ti lascio
abbastanza soldi per tornare in città; sono sulla
cassettiera.»
Dopo un attimo lei riuscì a dire: «Grazie.»
Hadley infilò la giacca e si esaminò allo specchio del
bagno. La sua faccia era desolata, inespressiva. Una faccia
dura, crudele, più vecchia di quanto lui ricordasse. La
carne morbida e paffuta attorno al collo sembrava sparita;
il blu nebuloso dei suoi occhi si era ridotto a uno spento
color pietra, senza traccia di emozione.
Si distolse dallo specchio, rientrò nella stanza e si chinò
sulla forma prona della donna. Marsha si tirò su appena e si
sforzò di guardarlo in faccia: allungò una mano esitante,
fece per parlare, ebbe voglia di toccarlo.
«Stuart?»
«Che c’è?»
Per un attimo lei rimase in silenzio, appoggiata al muro,
guardandolo senza parlare, cercando di trovare qualcosa
da dire. Hadley lesse tutto sulla sua faccia: aspettò
indifferente, preparato a sentire qualsiasi cosa lei avesse da
dire.
«Abbi… cura di te stesso» bisbigliò con un filo di voce.
«Lo farò» ribatté lui. E in modo molto deliberato alzò il
braccio. Istantaneamente, come un animale, lei rotolò via;
con un debole gemito strisciò su un lato e scivolò giù dal
letto, stringendosi addosso la coperta. Mentre passava
davanti a lui Hadley misurò la distanza, calcolando il
movimento rapido del suo corpo, la direzione del suo
panico, poi la colpì leggermente sotto lo zigomo, mirando ai
suoi denti debolmente luminosi.
Non vide ciò che avvenne dopo. Lei cadde nel buio
accanto al letto, portandosi silenziosamente una mano sulla
faccia, si girò di lato e barcollò, cercando poi di strisciare
via. Hadley si piegò, trovò la sua testa e sistematicamente
la schiaffeggiò con la mano aperta. Lei ringhiò, un rauco
grugnito di odio e di sofferenza, e tentò di graffiarlo.
«Sei pazzo!» esclamò sputando sangue e saliva. «Sei
una bestia impazzita!» Alzò le mani e si ritrasse da lui
scossa dai brividi; la sua voce divenne vuota, resa indistinta
e confusa dal terrore. «Bestia…» Hadley le andò dietro.
Quando ebbe finito aprì la porta e uscì nell’aria
notturna, fredda e silenziosa. La donna sul letto non si
mosse: giaceva a faccia in giù stringendo convulsamente le
coperte. La porta si richiuse dietro di lui, e la escluse dalla
sua vista.
Ci vollero cinque minuti per riscaldare il motore gelato
della Studebaker. Hadley inserì la prima, fece un’ampia
curva e uscì deciso dal cancello, oltre la reception ormai
buia, imboccando la strada di campagna. Non si vedevano
luci né automobili quando passò alle marce più alte e
affondò il piede sull’acceleratore. La macchina risalì
rombando il fianco della collina e ridiscese dall’altra parte,
poi svoltò a sinistra con uno strattone del volante,
oltrepassò il gruppetto di case buie e imboccò la statale a
tutta velocità. Poi fece un’azzardata inversione a U, s’infilò
in un varco nella barriera divisoria e passò nella
carreggiata opposta.
Giunto a Cedar Groves, Hadley lasciò la statale ed entrò
in città. Le strade erano buie e deserte. Raggiunse il suo
appartamento senza problemi, parcheggiò la macchina
lasciando il motore acceso e salì di corsa le scale.
Quando entrò in casa Ellen dormiva. Senza fare rumore
attraversò la stanza verso il lettino di Pete, si chinò di
scatto e raccolse il bambino con tutte le coperte; riportò
indietro il fagotto, attraverso il salotto, poi uscì in corridoio.
Poco dopo risalì a bordo della Studebaker. Avvolse
accuratamente Pete nelle sue coperte e lo sistemò sul
sedile posteriore. Il bambino si mosse nel sonno,
gorgogliando dalle labbra qualche gemito di protesta.
Hadley richiuse lo sportello e mise in moto la macchina.
Svoltò all’angolo e si diresse verso il centro della città.
Si fermò al primo bar; parcheggiò sul ciglio della strada
deserta accanto al retro di una piattaforma di carico di un
alimentari chiuso. Alzò i finestrini e chiuse gli sportelli,
lasciò la macchina e si avviò lungo il marciapiede. I tacchi
picchiavano rumorosamente nel silenzio opprimente della
notte; per terra c’erano foglie di lattuga, frammenti di
scatole e altri avanzi. Svoltò all’angolo ed entrò nel bar.
Davanti al bancone tirò fuori il portafoglio e ne esaminò
il contenuto. Aveva lasciato un biglietto da dieci dollari per
Marsha sulla cassettiera… si domandò se sarebbe stata
capace di afferrare l’ironia sottintesa. Gli rimanevano solo
tredici dollari; era quasi la fine del mese e il suo stipendio
stava per finire.
«Desidera?» chiese il barista, una specie di gorilla con
la barba lunga e ispida. Gli unici altri clienti erano due
operai neri e un giovanotto appartato, in giacca di pelle
nera, con l’aria vistosamente da pappone, una bottiglia di
birra davanti e uno stuzzicadenti fra le labbra.
«Scotch e acqua» disse Hadley allungando una
banconota da un dollaro. «Senza ghiaccio.»
Con tredici dollari non sarebbe andato lontano. Magari
per quella sera sarebbero bastati, ma non di più. E lui non
poteva mettere in atto il suo piano quella sera, doveva
aspettare fino a sabato.
Prima o poi avrebbe dovuto passare al negozio. Gli
serviva il suo stipendio… Quel pensiero gli si piantò nella
mente e vi rimase mentre prendeva il bicchiere e lo
tracannava d’un fiato, metodicamente, sistematicamente. Il
primo di una lunga serie.
Jim Fergesson era intento a pulire il negozio di O’Neill
quando Jack White gli telefonò per dargli la notizia. Erano
le dieci di sabato mattina, e la giornata di fine agosto non
era ancora calda. La luce del sole filtrava umida e fredda
sulla statale, sulle macchine parcheggiate e sulla gente che
faceva la spesa.
«Chiamalo a casa» disse arrabbiato Fergesson, mentre
un brivido minaccioso gli serpeggiava nelle ossa, e vi
rimaneva. «Probabilmente non si è svegliato. Ieri sera ha
lavorato fino alle nove passate.»
Gli giunse alle orecchie la voce calma, quasi
compiaciuta di White. «L’ho già chiamato a casa, non è lì.
Ieri sera non è tornato a casa dopo il lavoro. Sua moglie era
fuori di sé e non sapeva quello che diceva. Ha detto che il
bambino è sparito. A quanto pare Hadley è rientrato a casa,
stanotte, si è preso il figlio e l’ha portato con sé a fare
bisboccia.»
Fergesson riattaccò e fece il numero di Hadley. Poco
dopo gli rispose Ellen.
«Dov’è?» le domandò Fergesson. «Non è venuto al
lavoro e oggi è sabato.»
«Non è qui» rispose Ellen con voce fiacca. La sua voce
andava e veniva, sotto controllo ma vuota. «È tornato a
casa solo per prendersi Pete. Io dormivo; dev’essere stato
nel cuore della notte. Poi mi sono svegliata e il bambino
non c’era più.»
«Come fai a sapere che è stato Stuart?» le chiese
insospettito Fergesson.
«C’era la sua chiave ancora nella toppa… l’ho trovata
spalancata.» La sua voce riguadagnò un temporaneo
vigore. «Se avessi un minimo di buon senso dovrei
lasciarlo, ma non lo farò. Non è colpa di Stuart; è colpa sua,
Jim, e di tutti gli altri. Lui sta solo cercando di vivere. Vuole
solo la sua vita.»
«Se oggi non si fa vedere,» disse Fergesson «ha chiuso.
Non voglio più averlo fra i piedi. Diglielo.»
Lei s’infiammò. «Lei e il suo maledetto negozio. E poi si
domanda perché Stuart è così. Per lei non è una persona…
non si è mai preoccupato di lui. Magari è morto, magari
sono morti tutti e due.»
Fergesson strinse più forte il telefono e disse: «È più
probabile che stia dormendo in qualche prigione. Dirigere
un negozio è stato un po troppo per lui. Gli concedo fino a
mezzogiorno, poi basta.» Sbatté giù la cornetta e si
ritrasse, tremando per la rabbia.
Non ci era voluto molto tempo, solo pochi giorni: se
Hadley avesse potuto aspettare solo un giorno in più per
andare a gozzovigliare… Fergesson si accese un sigaro con
le mani che gli tremavano e si mise sulla porta del negozio,
fissando senza vederlo il traffico che scorreva lungo la
statale. Una rabbia cieca lo avvolgeva come una nuvola.
Solo pochi giorni. Riprese il telefono e chiamò Jack White al
Modern.
«Se viene chiamami» gli disse. «Anzi, digli che mi
chiami lui.»
«D’accordo» fece White, infastidito. In sottofondo si
sentiva il rumore della gente e dei televisori.
«Ce la fate tu e Tampini a tirare avanti da soli?»
«Penso di sì.»
«Ci vediamo stasera» concluse Fergesson. «Giochi con
noi, giusto?»
«Certo» disse White. «Come vuole lei.»
«Non ho intenzione di annullare la partita» esclamò
deciso. «Qualunque cosa combini Mezzasega. Ci vediamo
dopo cena, alla solita ora. Ho con me i gettoni.»
«Giochiamo qui?» chiese White.
«Lo facciamo sempre, no? Perché questa volta dovrebbe
essere diverso?»
«Allora farò preparare la sala grande» disse White.
«Piuttosto, credo che anche Tampini avrà voglia di
giocare.»
«Bene» replicò Fergesson. «Vediamo come se la cava;
posso capire tante cose su un uomo solo vedendo come
gioca a poker.» Riattaccò e tornò al suo lavoro.
A mezzogiorno Hadley non si era fatto vivo. Alle due
Jack White si fermò al locale di O’Neill con il camioncino, di
ritorno da una consegna. Lui e Fergesson parlarono
brevemente fuori sul marciapiede.
«Forse quel bastardo è morto» ipotizzò White,
imperterrito. «Sua moglie telefona ogni quarto d’ora. Ha
chiamato la polizia, il carcere, gli ospedali, tutto quello che
le è venuto in mente. Amici, parenti, bar… mezzo mondo.»
«Nessun segno di lui?»
«Nemmeno uno.»
Fergesson prese a calci il cestino della spazzatura e lo
scaraventò verso il tombino. «È finito. Se torna mandalo qui
e gli darò il benservito. Non voglio più avere niente a che
fare con lui.»
«Non è un po troppo duro?» osservò White.
«Qui si tratta di affari. Credi che un uomo che si
comporta così sia in grado di dirigere un negozio?»
White si strinse nelle spalle, indifferente. «Ha avuto
tante cose per la testa. Questo incarico improvviso, tante
responsabilità in più…» S’interruppe e si avviò verso il
camioncino. «Faccia come crede, il capo è lei.»
Alle quattro Hadley non era ancora comparso e non
c’era nessun motivo per ritenere che lo avrebbe fatto. La
tensione di Fergesson crebbe, e alle cinque e mezza era
troppo sconvolto per lavorare. Ignorando i clienti telefonò
al Modern e parlò con Joe Tampini; White era troppo
impegnato per rispondere al telefono.
«Ancora niente?» chiese Fergesson.
«No, signore» disse Tampini ossequiente.
«Sua moglie continua a chiamare?»
«Sì, signore. In continuazione.»
«Va bene» fece Fergesson, ormai indurito nella
rassegnazione. «Non verrà più. È troppo tardi.»
Riappese il telefono e non chiamò più. Era inutile,
l’inevitabile era successo.
Quella sera mandò giù di corsa una cena frettolosa,
afferrò il soprabito blu, salutò la moglie stupefatta con un
cenno della mano e guidò veloce lungo la strada sempre più
buia verso il Modern TV Sales and Service. Non fece caso
alla gente che passeggiava dovunque e si concentrò nella
ricerca di un parcheggio. Poi scaricò dalla macchina un
pesante tavolino da gioco, quattro mazzi di carte e due
grossi pacchi di gettoni. Tenendo tutto in equilibrio sul
ginocchio aprì la porta del negozio e scomparve all’interno.
Erano le sette e mezza. Il negozio aveva chiuso già da
più di un’ora. L’interno era buio e silenzioso mentre lui lo
attraversava, scendendo poi nello scantinato fino al
magazzino in cui erano impilati in bell’ordine i grossi
scatoloni che contenevano i televisori. Stava cominciando a
sistemare il tavolo da gioco quando qualcuno si mise a
bussare con insistenza alla porta e lui dovette tornare su di
corsa.
«Ciao» disse sbuffando Ed Johnson. «Chi c’è?»
«Solo io, fino a ora. Resta quassù e fa entrare gli altri.»
«Non ti serve aiuto con le sedie?»
Fergesson accettò la cassa di birra che Johnson aveva
portato e se la trascinò via. «Tu rimani quassù e tieni gli
occhi aperti; quando arrivano mandali giù. La chiave è
nella toppa.»
«Ma chi è tutta quella gente che se ne va in giro
stasera?» chiese Johnson. «Le strade sono piene.»
«Devono essere quegli svitati religiosi» disse Louis
Garfinkel entrando nel negozio. «Gente di Los Angeles.
Stasera c’è una conferenza, o qualcosa del genere.»
«Maledetti» disse Henry R. Porter mentre Johnson lo
faceva entrare nel negozio. «Un culto per il risveglio dei
neri. Ho visto i manifesti, c’è la faccia di un grosso nero.»
«Che cavolo succede?» domandò Garfinkel mentre si
raggruppavano oziosamente intorno alla porta. «È il clima
di laggiù?»
«La mia teoria» intervenne Johnson «è che sia colpa
dello smog. Lo smog è prodotto dalle fabbriche; è creato
dall’uomo ed è pieno di scorie metalliche. Le scorie
metalliche penetrano nel loro cervello attraverso il naso ed
ecco spiegato perché sono così fuori di testa.»
«Io direi» obiettò Garfinkel «che lo smog gli penetra nel
corpo attraverso il culo.»
Giunse Jack White, che si stava ancora ripulendo la
bocca dagli avanzi di una cena mandata giù in tutta fretta,
consumata davanti al bancone del Golden Bear. Qualche
minuto dopo giunse anche Joe Tampini, timidamente: era la
prima volta che gli veniva permesso di partecipare alla
partita mensile di poker.
Fergesson e White si fermarono brevemente in cima alle
scale. «Nessun segno di lui?» mormorò Fergesson.
«Stavo per chiederglielo io» disse White. «No, niente.»
«Maledetto idiota» esclamò amaramente Fergesson.
«Aveva tutto quello che si può desiderare al mondo e l’ha
buttato via.»
Dal momento che non mancava più nessuno, la porta
d’ingresso venne chiusa e tutti scesero le scale ansiosi
verso lo scantinato. Fergesson si era dato da fare per
preparare il tavolo da gioco, e si poteva iniziare la partita.
Si strofinò le mani e cominciò a passeggiare nervosamente
per il locale fino a quando non si furono tutti seduti. Poi
prese posto anche lui a capotavola e afferrò un mazzo di
carte. Le scartò e le mischiò, passandole poi per farle
tagliare. Infine si ricordò che bisognava scegliere il
banchiere.
«Questa volta sarai tu il banchiere» disse a Jack White.
Il taccuino macchiato fu passato a White, che cominciò a
segnare i pagamenti sotto i diversi nomi. Vennero
distribuiti i gettoni. Gli uomini allentarono le cinture,
accettarono le prime birre, ruttarono allegramente, si
strofinarono le mani e i polsi, si scambiarono insulti,
sogghignarono e divennero improvvisamente freddi e
spietati quando venne distribuita la prima mano di carte.
«Naturalmente» borbottò teso Fergesson «giochiamo un
draw. Due fanti o più per aprire. Cristo, mettete giù gli
inviti. Andiamo, White. Dammi una carta.»
«Niente di eccitante?» chiese Johnson, già del tutto
preso dalla sua mano.
«Stavolta niente.»
«A me tre carte» disse Garfinkel.
«Tocca prima a me, pezzo di stronzo. Vedi di stare
calmo.»
«Vaffanculo.»
«Piantatela di scoreggiare e giocate» grugnì Porter.
La partita seguì l’andamento consueto per una
mezz’ora. Nello scantinato del negozio di televisori, sotto il
livello della strada, circondati da pareti di solido cemento e
acciaio, i sei uomini giocarono con concentrazione e
vivacità. Verso le otto e un quarto si concessero una pausa
e uno dopo l’altro raggiunsero la stanza adiacente per
liberare la vescica nel gabinetto lurido.
Johnson si accese un sigaro e si appoggiò placidamente
allo schienale della sedia. «Bella partita,» disse a Fergesson
che stava contemplando di malumore la sua pila
tentennante di gettoni «vero?»
«Stasera sto perdendo di brutto.»
«Cristo, ti rifarai lunedì. Vendi un televisore in più.»
Fergesson si alzò e si stiracchiò. Si tolse la cravatta e si
frugò in tasca. Dopo un attimo si sfilò il gilè e slacciò i
primi bottoni della camicia.
Mentre si stava ancora sistemando sulla sedia si sentì
un tonfo lontano che riverberò per tutta la stanza. Dopo un
po giunse di nuovo… più forte.
«Che è stato?» chiese White mentre usciva dal gabinetto
con la zip dei pantaloni ancora abbassata.
«Quegli imbecilli che marciano… diretti verso il palazzo
della Società. Quel branco di esaltati che va a sentire la
conferenza.» Garfinkel si sedette e aprì un nuovo mazzo di
carte. «Magnifico, stasera mi dice proprio bene! Guardate
quelle pile.» Indicò i due mucchi di gettoni. «Sono più
grosse delle tette di Marilyn Monroe.»
«Dove l’hai rimediata quella fotografia che c’è appesa
nel cesso?» chiese Porter a Fergesson. «Amico, mi
piacerebbe spupazzarmela, quella bambola.»
«Non l’hai mai vista al cinema? Non sa proprio
recitare.»
«Recitare un cavolo. Quella è brava solo a letto. Chissà
come ha fatto a diventare così famosa, quel pezzo di figa.»
«Ragazzi, quello è un barattolo di miele che aspetta solo
di essere aperto!»
Si andò avanti così, con battute spinte, ma Fergesson
non ascoltava. Era intento a sentire qualcos’altro, il
continuo pestare di piedi sopra di lui, il fastidioso battere e
rimbombare che veniva dalla strada.
«Mi entra sotto la pelle» borbottò alla fine mentre
prendeva le carte e cominciava automaticamente a
mescolarle. «Dannazione, non riesco a giocare con tutto
quel casino lassù!»
«Stanno andando alla riunione» gli fece notare Johnson.
«Comincia fra poco.»
«E tu come lo sai?» lo aggredì Fergesson.
Johnson arrossì. «Ecco, mia moglie ci va.»
Contando con calma la sua pila di gettoni, Jack White
disse: «Non mi stupirei che ci fosse anche Mezzasega. So
che l’altra volta ci è andato.»
Il mazzo di carte per poco non cadde dalle mani di
Fergesson; le riprese e cominciò a tagliarle lentamente, con
rabbia. «È vero, me lo ricordo. Me l’ha detto Ellen.»
«Certo» disse subito White. «Mezzasega è uno dei
fedeli. Una donna è venuta al negozio a cercarlo, una delle
piccole dame della Società.»
«Una nera?» chiese Fergesson, urlando.
«Una tipa alta e secca. Ha lasciato per lui un giornale.»
Fergesson ricordò. «Un giornale… l’ho visto.» Scosse la
testa, confuso e sconcertato. «È terribile, non posso
crederà. Ma avrei dovuto capirlo… ho visto quella robaccia
con i miei occhi. Se ne stava lì a leggerlo, durante il
lavoro.» Con un gesto incontrollato Fergesson sbatté le
carte di fronte al timido, silenzioso Joe Tampini. «Servi!»
urlò, con la voce strozzata. «Per l’amor di Dio, vediamo di
andare avanti!»
Nella tetra oscurità dell’abitacolo, Stuart Hadley sedeva
tenendo in grembo un mucchio di coperte e di abitini da
bambino. Accanto a lui Pete piagnucolava e si agitava;
muoveva futilmente i braccini nel tentativo di afferrare
qualcosa, ma riusciva solo a stringere l’aria fredda che
entrava nella macchina dall’esterno.
Ben presto Hadley si ricordò che aveva intenzione di
cambiare il bambino. Frugò nel mucchio di abiti inzuppati e
sporchi; li aveva già usati tutti almeno una volta. Perplesso,
li spianò uno per uno e continuò a cercare, sperando di
trovare qualcosa di pulito, qualcosa che potesse fargli
indossare. Pete continuava a piangere e ad agitarsi sul
sedile del passeggero.
Alla fine Hadley aprì il bagagliaio e vi rovistò dentro.
Trovò un plaid unto e spiegazzato e lo strappò senza
difficoltà, ricavandone tante pezze; ben presto ebbe una
pila di panni non puliti, non stirati, ma almeno usabili.
Avvolse Pete in una delle pezze, richiuse la grossa spilla di
sicurezza, poi gli avvolse intorno le coperte, che puzzavano
di urina. Pete lo fissò con aria infelice, con l’aria di chi si
sente male, ha fame e non può fare niente.
Hadley scese dalla macchina e attraversò il parcheggio
buio fino al cassonetto dell’immondizia adiacente a uno
squallido bar. Vi gettò dentro il mucchio di abiti sporchi e
tornò alla macchina. Per un attimo restò lì senza sapere
bene cosa fare; il bambino si era appisolato in un sonno
leggero e irregolare, respirando dalla bocca, la faccetta
tonda tutta tirata in un cipiglio aggrottato. Doveva
mangiare, ovviamente. E subito.
Hadley si accertò che le prese d’aria della macchina
fossero aperte, tirò su i finestrini e chiuse gli sportelli.
Lasciò il parcheggio e si avviò lungo il marciapiede deserto.
Si stava facendo sera, il sole era quasi al tramonto.
Cominciò a camminare con le mani sprofondate nelle
tasche dei pantaloni.
Quando giunse a un piccolo parcheggio quadrato in
mezzo alle sagome tozze dei magazzini e delle fabbriche si
fermò e si sedette su una panchina per riposare e riflettere.
Il suo piano era deriso, chiaro e assolutamente
definitivo. Gli era venuto in mente durante il viaggio con
Marsha lungo la statale, e nella sua mente era cresciuto,
aveva preso forma, si era sviluppato del tutto, come se
fosse sempre esistito. Era l’unica soluzione; tutto ciò che
rimaneva era soltanto metterlo in atto.
Non poteva tornare da Beckheim perché non era
all’altezza. Era troppo tardi. Lui era indegno, e non poteva
essere salvato. Ma non era tardi per suo figlio. Il piano era
semplicissimo. Beckheim avrebbe preso Pete e lo avrebbe
allevato, e Pete sarebbe stato salvato; sarebbe diventato
quello che Hadley non era diventato, avrebbe fatto e
sarebbe stato tutte le cose che Hadley non aveva fatto e
non era stato, avrebbe raggiunto ciò che lui non era
riuscito a raggiungere. Per Hadley adesso era tutto finito,
ma per suo figlio il mondo era solo all’inizio.
Per un periodo interminabile, rimase a fissare il sole che
si abbassava oltre il margine nebbioso della Baia. Fu solo
quando si accesero i lampioni e un vento freddo cominciò a
fargli sventolare i pantaloni che si rimise faticosamente in
piedi e riprese a camminare.
I suoi vestiti erano sgualciti e sporchi, poiché ci aveva
dormito la notte prima dentro la macchina. Aveva bisogno
di radersi, e il mento era di un insano color grigio-bluastro.
Mentre camminava si rese conto che la sua andatura era
irregolare: gli dolevano le ossa e ci vedeva male.
Giunse a un drugstore, entrò e scelse una barretta
candita dall’espositore. Trovò in tasca una moneta da dieci
centesimi… Era tutto quello che gli rimaneva: una manciata
di spiccioli nelle tasche.
Mentre mangiava la barretta, Stuart Hadley vagabondò
per la città, dimentico della folla del sabato sera. Pian
piano si rese conto che attorno a lui si era radunato un
gruppo di persone. Aveva raggiunto il centro e adesso si
stava muovendo insieme ai guardiani di Gesù, i fedeli
diretti al palazzo della Società. Si unì a loro, impaziente.
Il flusso di persone lo trascinò con sé e ben presto si
ritrovò di fronte alla familiare struttura gialla squadrata,
con le luci accese e la distesa di vessilli svolazzanti. Per un
po si tenne indietro, poi lasciò che la marea di uomini e
donne mormoranti lo sospingesse su per le scale, fino
all’atrio disadorno. La folla si divise ed entrò nella sala.
Giunto alla porta interna, Hadley venne bloccato da un
nero gigantesco che indossava un abito nero lucido e
portava una fascia al braccio. «La sua tessera, signore»
ripeté il nero protendendo la mano. «La tessera di
adesione, signore. Questa serata è riservata solo ai membri
della Società dei guardiani di Gesù.»
«Che cosa?» chiese stupidamente Hadley.
Una mano massiccia gli bloccò il braccio, e lo
immobilizzo. «Questa non è una conferenza aperta a tutti,
signore» ripeté il nero, con decisione e con insistenza.
Dietro Hadley la folla premeva impaziente, desiderosa di
passare e di trovare posto: non ne erano rimasti molti. «Ha
una tessera, signore? Deve averne una bianca o una blu,
signore.»
Stordito, Hadley si voltò e si fece strada verso l’uscita,
giù per la scalinata, fino al marciapiede. Il mormorio delle
voci si attenuò mentre le persone attorno a lui risalivano le
scale verso la sala. Coloro che venivano respinti si
dispersero gradualmente, e in breve Hadley rimase solo.
Si mise a sedere su una cassetta quadrata per i rifiuti e
attese. Per un po pensò di tornare alla macchina: l’aveva
lasciata in un parcheggio aperto con orario continuato
qualcuno poteva cominciare a controllare. Si domandò
confusamente se fosse di nuovo ora di dare da mangiare a
Pete. Aveva perso del tutto la cognizione del tempo; doveva
ancora nutrirlo, o lo aveva già fatto? Si frugò in tasca e ne
tirò fuori monetine per ventitré centesimi: bastavano
appena per un quarto di latte, ma non sarebbe stato
sufficiente. E poi doveva anche comprargli dei pannolini
nuovi; cereali, pannolini, un’altra coperta… la mente di
Hadley si perse in un turbine caotico e lui rinunciò a
pensare. Invece se ne rimase seduto, ad aspettare.
La cosa successiva che venne a sapere fu che la
conferenza era finita: il pubblico cominciò a sciamare
dovunque e lui si ritrovò circondato da persone. La notte si
era fatta più fredda; era molto tardi. Si mise faticosamente
in piedi e cominciò a farsi strada in mezzo a loro; nella sua
mente non c’era altro che il bisogno di entrare nel palazzo,
un desiderio insistente di farsi strada oltre la porta fino a
Theodore Beckheim. Sapeva che se fosse riuscito a
raggiungerlo, il grande uomo nero avrebbe accettato Pete;
di questo Hadley era sicuro. Una volta giunto fino a
Beckheim, non ci sarebbero stati più problemi. La sala,
naturalmente, era vuota; la folla l’aveva abbandonata.
Rimase lì a guardare mentre gli ultimi uscivano, divertito
dal palco e dal podio vuoti sui quali quasi certamente
Beckheim era stato fino a poco prima.
«Dov’è Beckheim?» chiese a una donna grassa di mezza
età che passava con le braccia piene di opuscoli.
Lei scosse la testa. «Non ne ho idea.»
Hadley tornò di corsa verso le scale; all’improvviso era
sicuro che Beckheim se ne fosse andato. Giunse al
marciapiede e guardò dappertutto, cercando disperato,
spostandosi di qua e di là, senza nemmeno rendersi conto
della folla che si accalcava intorno a lui.
Sul cordolo attendeva una grossa berlina Chrysler color
giallo ostrica a quattro porte. Appena la vide capì che era
quella di Beckheim: l’eccitazione lo spinse a muoversi e a
correre per raggiungerla. C’era un capannello di persone,
neri e bianchi, che cercavano di arrivare alla macchina.
Uno degli sportelli si aprì e una donna anziana con un
pesante cappotto di pelliccia salì a bordo.
Dietro la donna venne Beckheim.
La folla si accalcò e spintonò attorno a Hadley, ma lui
non ci fece caso; si aprì la strada a forza in mezzo a loro,
verso il cordolo e la lunga Chrysler gialla. Il terrore lo
travolse: il motore era acceso e la macchina stava per
mettersi in movimento. Al volante c’era un bianco; suonò il
clacson e fece cenno con la mano alla folla di spostarsi. Si
accesero i fari, illuminando la scena quasi a giorno; Hadley
sbatté le palpebre, piegò la testa e continuò ad avanzare a
forza di spallate.
Una figura proprio davanti a lui si rifiutava di muoversi.
Delle mani lo afferrarono, mentre grida stridule gli
rimbombarono nelle orecchie. Hadley si liberò con uno
strattone e cercò di passare oltre la figura, ma quella non
voleva saperne di spostarsi.
«Stuart!» strillò. Era Laura Gold. Stravolta in faccia,
scarmigliata, gli bloccò la strada alzando le braccia, con il
corpo massiccio piantato davanti a lui. «Stuart, che ci fai
qui? Ellen ti sta cercando dappertutto… lo sapevamo che ti
avremmo trovato qui.»
Da dietro Laura giunse sgambettando Dave Gold.
Afferrò la giacca di Hadley e lo trascinò via dal cordolo, di
nuovo verso il palazzo, fuori dalla calca di gente che
circondava la Chrysler. «Dove diavolo sei stato?» gli stava
dicendo. «Hadley, sei usato di testa… che c’è che non va?
Dov’è il bambino… sta bene? Che cavolo stai facendo?»
Hadley si liberò della presa di Dave. «Lasciami andare»
gli disse con voce impastata.
Dave Gold continuò a cercare di afferrarlo con
impazienza. Tutt’intorno a loro la folla strillava e si
spostava quasi con furia cieca. Da ogni lato cominciarono a
muoversi diverse automobili, suonando il clacson per
allontanare le persone dalla strada. Il buio era squarciato
con violenza dalle luci dei fari. Sopra il brusio e le grida
rombavano i motori e stridevano le gomme.
«Ma che ti prende?» gridò Dave Gold a Hadley.
«Dannato imbecille… piantala di comportarti in questo
modo!»
Laura tremava per la preoccupazione. «Lascialo
andare» disse balbettando al marito, con gli occhi vitrei.
«Attento, Dave. Sta per succedere qualcosa.»
«Chiudi il becco» le rispose il marito a brutto muso.
«Cos’è che ti tormenta, Hadley? Vieni con noi o no?» Gli
tirò la manica. «Andiamo da qualche parte dove possiamo
respirare. Voglio parlarti.»
«Toglimi di dosso quelle manacce da ebreo» gli disse
Hadley, con una voce che non era la sua.
Il volto di Gold sembrò dissolversi e poi riformarsi
lentamente. «Sei ancora sotto l’effetto di quella testa di
cazzo?» gli chiese.
Hadley lo colpì alla cieca. Laura urlò mentre gli occhiali
di Gold volavano via e lui precipitava all’indietro,
mulinando le braccia. «Vattene da qui, Dave!» strillò
Hadley.
Gold cadde giù, rotolò, poi si rimise in piedi non senza
fatica. Caricò Hadley a testa bassa, come un toro. Il suo
corpo filiforme piombò su quello dell’amico e per un po i
due lottarono strenuamente. L’alito caldo e sbavante di
Gold raggiunse Hadley in piena faccia, e lui colpì tutto
quello che gli capitava a portata di mano. Era come
soffocato, sepolto dal quel corpo infuriato e combattivo.
Scalciò, si dimenò, lottò con disperazione. Non vedeva
niente, attorno a lui c’erano solo sagome confuse, ombre
ammassate che crescevano… Anche solo respirare gli
faceva male alla gola e ai polmoni.
Ci fu un grande menare di mani, da qualche parte il
gemito di una sirena. Hadley incespicò e cadde all’indietro,
ritrovandosi lungo sul marciapiede. La sua testa urtò
qualcosa di duro; scoccarono scintille come se un martello
avesse colpito un incudine. Un bang assordante echeggiò
più volte nelle sue orecchie, e per un periodo che gli
sembrò infinito si sentì avvolgere dall’oscurità, vide solo
delle ombre indistinte e si rese conto solo confusamente
delle sensazioni che provava. Un piede lo colpì, un braccio
gli mollò un pugno in faccia. Hadley reagì, riuscì a
rimettersi in piedi a metà. Accecato, con il sangue che gli
rigava le guance, le mani piene di tagli e abrasioni, si
allontanò barcollando, andò a sbattere contro qualcosa, poi
oltrepassò il cerchio di forme.
Seguì un periodo confuso nel quale corse e si fermò per
riprendere fiato e ascoltare. Non c’era più nessuno intorno
a lui. Strade buie, le stelle sopra la testa. Palazzi e negozi
avvolti nel silenzio, qualche macchina. Si mise a sedere su
un cordolo e tirò fuori il fazzoletto per asciugare il sangue
che gli usciva dal naso rotto.
Era ridotto un disastro. Gli rimbombava ancora la testa,
e sentiva un forte dolore su tutto il fianco sinistro.
Probabilmente una costola rotta.
Giunse a una stazione di servizio e s’infilò nel bagno
degli uomini. Si sfilò la giacca e si lavò la faccia nel catino
scintillante. Si pulì le braccia e le mani con le salviette di
carta, poi sedette su uno dei water e cercò di riprendersi.
Quando ebbe riguadagnato sufficiente energia si
asciugò la faccia e si lisciò all’indietro i capelli umidi. Si
rimise la giacca lacera e sporca, fece quanto poteva per
dare una sistemata alla camicia spiegazzata e lasciò il
bagno.
L’aria fredda della notte lo aggredì mentre percorreva la
Fremont Avenue. Dieci minuti dopo aprì la porta del
Modern TV Sales and Service e scese nello scantinato.
I sei uomini che giocavano a carte alzarono gli occhi
sbalorditi quando comparve Hadley. Fergesson abbassò le
carte e si alzò in piedi. «Dove diavolo sei stato?» gli chiese
mentre osservava la faccia ferita di Hadley e il suo
abbigliamento in disordine.
Hadley si appoggiò allo stipite della porta. «Voglio i miei
soldi.»
Fergesson attraversò la stanza piena di fumo e
raggiunse Hadley. «Sei ubriaco?» Sbiancò quando vide il
sangue che gocciolava dal suo naso rotto, lungo il mento e
dentro il colletto. «Santo Dio, che ti è successo?»
«Qualcuno deve averlo conciato per le feste» mormorò
Jack White. Si alzarono tutti e si avvicinarono in silenzio.
«Mi dia i miei soldi» ripeté Hadley. «Li ho guadagnati.
Sono miei.»
«Intende lo stipendio» disse Jack White.
Fergesson seguì Hadley su per le scale. «Stammi a
sentire, Hadley… non puoi entrare qui dentro in quel modo.
Esci e vattene a casa. Se hai un minimo di sale in zucca
cerca di rimetterti in sesto e di tenerti fuori dai guai.
Dovrei licenziarti per non essere venuto oggi, ma visto
quello che ti è successo penso che ti…»
«Chiuda quella boccaccia» lo interruppe Hadley,
puntando verso il registratore di cassa. «E apra
quell’affare.»
Fergesson strabuzzò gli occhi. Per un attimo la sua
faccia tradì tutta l’emozione, un’ondata di sgomento e di
dolore, come se stesse per piangere, poi si indurì e divenne
fredda, senza emozioni, un muro di impassibilità. «Stupido
ubriacone» disse. «Ti concedo un’ultima occasione di
andartene da questo negozio.»
«Vada a farsi fottere.» Hadley tirò con forza il cassetto
del registratore fino a scardinarlo. Afferrò una manciata di
banconote.
Fergesson diede un’occhiata al calendario. Poi, con le
dita che volavano, contò cento dollari, rimise a posto il
cassetto, fece allontanare Hadley e mise le banconote sul
banco. «E va bene, Hadley, ecco i tuoi soldi. Ti pago due
settimane. Sei licenziato. Ti restituirò per posta la tua
bottiglia di fosfato di sedano.»
Hadley prese i soldi e li infilò nella tasca della giacca.
«Vada a farsi fottere, Fergesson» ripeté mentre apriva la
porta e usciva. «E anche i suoi amici e parenti, i suoi negozi
e tutti i suoi televisori e le sue partite a poker.» Sbatté la
porta e scomparve.
Poco dopo entrò nel bar illuminato appena oltre l’angolo
e si lasciò cadere su uno sgabello. «Scotch e acqua» disse
mentre il barista lasciava perdere i dadi e si avvicinava
lentamente. «Senza ghiaccio.»
«Certo, Stu» disse il barista. Cominciò a preparare il
drink, osservando nervosamente Hadley. «Come sta il
bambino? Va tutto bene?»
«Tutto bene» rispose Hadley.
«Mi sembri piuttosto malmesso.» L’uomo gli servì il
whisky e prese un biglietto da venti dollari dalle dita
intorpidite di Hadley. «Sei sicuro di sentirti bene? Perdi
sangue dal naso.»
«Sto bene.»
Il barista prese il resto dalla cassa e tornò lentamente
verso di lui. Un paio di clienti stavano fissando Hadley con
inorridita curiosità. «Ti hanno conciato piuttosto male»
ripeté il barista. «Chissà che faccia avrà quell’altro.»
Hadley trangugiò il suo whisky e non rispose. Mentre il
barista si allontanava, lui raccolse il resto e cominciò a
fame mucchietti ordinati. Nel tentativo di risistemare, in
scala microscopica, i frammenti del suo piano andato in
fumo.
Era buio, ma non del tutto. Suono e movimento
tutt’intorno a lui. Anche Hadley si muoveva. Una grande
forma incombeva su di lui; le sue orbite accecanti lo
perforarono e lui piegò la testa. La forma si fece più vicina,
poi svoltò di lato. Un’ondata di puzzo nauseante gli esplose
intorno. Cominciò a sentirsi soffocare; si mosse a fatica, si
dimenò, sputò.
Un’altra bestia si delineò, lo studiò minacciosa con gli
occhi gialli e immobili, ruggì e tuonò rumorosamente, poi
gli guizzò accanto. Lui boccheggiò di nuovo e si sentì
strozzare dalla nuvola di vento puzzolente che era stata
espulsa dal suo enorme posteriore.
Una mano lo tirò. Lui se ne liberò; Dave Gold stava
tentando di afferrarlo. La mano tornò. Voci. Vicine, e forti
nell’orecchio. Luci ammiccarono in alto, una serie di cerchi
gialli disposti irregolarmente nell’oscurità. I fumi non
c’erano più, ma nuove forme avevano sostituito quelle di
prima.
«Povero bastardo» disse una voce. La voce di un uomo,
vicina a lui. Cercò di capire chi parlasse, ma non ci riuscì.
Annaspò nel buio; le forme guizzavano e ammiccavano
intorno a lui. Si spostavano di lato e cambiavano direzione
in modo astuto, operando con incredibile velocità e
intelligenza. Mosse qualche passo, incespicò e per poco
non cadde.
«Guardalo.» La voce di una donna.
«Ti ridurresti così, se fossi un uomo?»
«No.»
Hadley sbirciò, ammiccò. Cerchi di luce in alto, a
distanze regolari… le stelle finalmente in ordine, secondo
uno schema e un disegno preciso. Buio tutt’intorno, nero e
denso. Forme vaghe meno buie che si muovevano quando
lui le avvicinava. Si tenevano lontane. L’aria fredda gli
lambì i vestiti e lui rabbrividì vistosamente.
«Vieni qui» grugnì, allungando le mani per afferrare una
forma. Ma quella si ritrasse, guardinga. Era come un gioco;
lui era all’interno di un cerchio, bendato, e cercava di
prendere qualcuno. Uno qualsiasi. A cui passare la benda.
Così non avrebbe più dovuto portarla sugli occhi. Era
stanco di portarla. Tutto a un tratto non sopportava più
l’idea di averla addosso.
«Vieni qui!» gridò. La sua voce rotolò via e si perse nelle
ombre echeggianti. Un soffocato scampanio metallico che
vibrò e danzò intorno a lui. Fu colpito dal frastuono che
continuava; strinse i denti e irrigidì il corpo, ma il rumore
non cessò. E le forme si tenevano sempre a prudente
distanza.
«Guardalo. Guarda i suoi vestiti.»
«Ne vedi tanti così?»
«Uno ogni tanto. Specialmente il sabato sera.»
«Che gli sarà successo?»
«Difficile dirlo.»
«Pensi che forse qualcuno dovrebbe…»
«No. Se la caverà.»
«Sarà meglio che se ne vada da qui.» Una nuova voce.
Dura e sinistra. Hadley smise di muoversi e divenne rigido.
La paura gli serpeggiò dentro. Si voltò faticosamente e
cominciò ad allontanarsi zoppicando nel buio. I cerchi di
luce gli passarono docili sopra la testa.
«Guarda, se ne va.»
«Povero bastardo.»
«Forse sarebbe meglio…»
«No. Lasciamolo andare. È colpa sua. Guarda i suoi
vestiti. Guardalo. Guarda.»
Le voci svanirono. Hadley corse via alla cieca, con le
mani allargate. Improvvisamente picchiò con violenza
contro qualcosa di duro. Un grande rumore metallico e
ondate luminose lo stordirono. Scivolò sulle ginocchia e il
mento toccò qualcosa di freddo. I denti batterono e sangue
caldo gli si riversò nella bocca, gocciolando poi lungo il
mento mentre lui giaceva ansimante. Si mosse debolmente;
tutto gli girava intorno.
Era stato Dave Gold a colpirlo. Lui doveva rialzarsi e
colpirlo a sua volta. Oppure era stato Fergesson? Fergesson
lo aveva colpito. C’erano di nuovo delle forme intorno a lui.
Forse erano state tutte loro. Tutte che lo colpivano
all’unisono. Che lo accerchiavano, lo stringevano da tutti i
lati.
«È caduto.»
«È andato a sbattere contro quel palo.»
«Forse sarebbe meglio…»
«No. Se la caverà. Lasciamolo in pace. Starà benissimo.
È colpa sua.»
Hadley gemette. Riuscì a mettersi seduto. Con grande
sforzo scosse la testa e si tolse i capelli dagli occhi. Gli
dolevano le mani, gli doleva il corpo intero. La bocca gli
sanguinava. Sputò frammenti di denti insieme a saliva e
sangue. Il buio stava cominciando lentamente a
rischiararsi; le luci vorticanti smisero di muoversi.
Aveva le mani ferite e ammaccate; nella pelle erano
penetrati pezzetti di sassolini e di sporcizia. Quando era
successo? Di recente, o da molto tempo… o l’una o l’altra. E
i vestiti erano sporchi e strappati.
Inalò rabbrividendo una lunga boccata d’aria e si
concentrò. Il sipario di oscurità ondeggiò, si ritrasse e tutto
a un tratto si sollevò. Si trovava in una stazione di autobus.
Una stazione della Greyhound. Era notte tarda. Lui era
all’esterno, sulla piattaforma. Pochi autobus, vuoti e
silenziosi, erano parcheggiati all’interno dei loro box.
Dall’altra parte ce n’erano degli altri pronti a caricare.
Uomini e donne formavano capannelli qua e là. La
piattaforma era quasi deserta. Il vento gelido della notte
turbinava intorno a lui. In alto c’erano fredde luci gialle
sistemate dentro le travature di metallo e cemento che
emanavano un bagliore violento.
Nei paraggi c’era un gruppetto di pendolari che lo
osservava con spento interesse. Un uomo anziano in un
completo blu stinto, che teneva in mano un giornale
arrotolato. Un signore robusto, ben vestito, con tanto di
gilè e cravatta di seta. Una giovane donna con un cappotto
pesante. Un paio di marinai. Un operaio di colore. Nessuno
di loro si mosse quando Hadley riuscì dolorosamente a
rimettersi in piedi. Si aggrappò a un sostegno per non
cadere e vi si tenne stretto, con gli occhi chiusi, respirando
a fondo e ingoiando sangue.
La testa gli doleva e gli pulsava. Emanava cattivo odore;
i vestiti erano inzuppati di fango e sporcizia. Fu travolto
dalla nausea, e da una sensazione di vertigini. Avanzò un
poco barcollando e vomitò sull’asfalto, sulle scarpe e sui
risvolti dei pantaloni.
Un autobus giunse rombando carico di gente, un grande
oggetto illuminato che ruggiva e tuonava e sventagliava
minacciosamente i suoi fari immensi. Si ritrasse
automaticamente, allontanandosi dal mostro e rifugiandosi
nell’ombra. Poi vide la scritta illuminata sopra il
parabrezza:
Il terrore lo ghermì. Un’ondata ottenebrante di panico
che lo sferzò e lo fece barcollare come una marionetta
appesa a un filo. Era in città. Il terrore aumentò fino a
cancellare ogni cosa; si sentiva come una pagliuzza
sballottata in un mare sterminato di paura. Boccheggiò,
rantolò, cercò ancora di riprendersi, lottò con tutte le sue
forze per respirare, mentre le ondate di terrore
sciabordavano e rotolavano attorno a lui. Alla fine riuscì ad
avere il sopravvento: lo ricacciò indietro ed emerse.
Era arrivato lungo la costa fino a San Francisco. Era
solo; aveva lasciato l’auto a Cedar Groves con Pete dentro.
Era passato del tempo, quanto non lo sapeva. Era tardi…
probabilmente mezzanotte passata.
Attraversò la piattaforma ed entrò nella sala d’attesa.
Era praticamente deserta. Le lampade illuminavano le
panchine spettrali, i portabagagli, i distributori automatici
di gomme e sigarette, le fontanelle, i giornali gettati via.
Individuò la biglietteria e vi si avvicinò.
Giunto a mezza strada si fermò e tirò fuori il portafoglio.
Gli restavano cinquanta dollari, due banconote da venti
e una da dieci. Si frugò in tutte le tasche. C’era ancora il
biglietto per il tragitto fino a San Francisco, il fazzoletto
inzuppato di sangue, cinque o sei scatole di fiammiferi
avute in omaggio dai bar di Cedar Groves. In una aveva
diverse monete. Le contò con sgomenta disperazione: in
tutto aveva cinquantatré dollari e ventidue centesimi. Era
tutto quello che gli rimaneva dei cento che aveva all’inizio.
Gli altri li aveva persi… o li aveva spesi.
Si avvicinò alla feritoia della biglietteria. «Quando parte
il prossimo autobus per Cedar Groves?» chiese con voce
roca.
«Fra trentacinque minuti.»
Hadley acquistò un biglietto e si allontanò avvilito.
La sala d’attesa era fredda. Trovò un grosso orologio a
muro e lesse l’ora: l’una e un quarto.
Sapeva, naturalmente, perché era venuto a San
Francisco. Stava ancora cercando Theodore Beckheim, e
aveva provato a ricostruire l’itinerario che portava al luogo
in cui aveva abitato, aveva provato a trovarlo come era già
riuscito a fare una volta. Ma Beckheim non abitava più
nell’appartamento di Hayes. Marsha lo aveva lasciato e
dunque non poteva più essere lì.
Eppure dentro Hadley rimaneva quel bisogno
irrazionale e impellente.
Tornò a frugarsi nelle tasche; fissò affascinato le sue
mani in movimento, domandandosi che cosa cercassero. Gli
ci volle un po per capirlo: tutto a un tratto si fermò e
rimase immobile, inerte, mentre una sensazione di
disperata impotenza lo travolgeva.
Non conosceva l’indirizzo di Marsha.
L’elenco del telefono non gli fu di nessun aiuto. Non vi
compariva nessuna Marsha Frazier; quello non era il suo
vero cognome. Si faceva ancora chiamare Frazier, ma non
era legalmente corretto. Dio solo sapeva come si chiamasse
veramente. Rinunciò e lasciò stancamente la cabina
telefonica.
Dopo di che si mise a passeggiare per la sala d’attesa, in
preda a un grande sconforto. Non riusciva a stare seduto;
qualcosa lo costringeva a muoversi, un male interno che
faceva lavorare braccia e gambe a dispetto della grande
stanchezza. Voleva fare qualcosa… ma che cosa? Che gli
rimaneva da fare?
Alla fine uscì in strada, entrò in un bar aperto tutta la
notte e ordinò un caffè. Se ne rimase seduto davanti al
bancone tutto ricurvo a sorseggiare la bevanda bollente
strofinandosi la bocca ammaccata. Aveva la mente
ottenebrata. In quel momento non c’era nessun pensiero.
Era consapevole solo dei denti rotti, del naso ferito, dei
vestiti strappati, della grande spossatezza, della sensazione
di dolore, della disperazione e di nient’altro.
Due autisti entrarono e si misero a sedere poco lontano
da lui. Giovanotti robusti e di bell’aspetto. Gli lanciarono
un’occhiata incuriosita, leggermente critica e sprezzante.
«Hai fatto a pugni, amico?» gli chiese uno.
Hadley scosse la testa. «No.»
«Hai festeggiato?»
Hadley si girò dall’altra parte senza rispondere. Gli
autisti risero e ordinarono focacce e prosciutto. Il bar era
caldo e fortemente illuminato. Odorava di caffè e di
prosciutto fritto. Il juke-box cominciò a suonare in un
angolo Anvil Chorus di Glenn Miller; uno degli autisti ci
aveva messo dentro una moneta. La musica uscì ad alto
volume e si mischiò con il mormorio sommesso delle voci
degli autisti e della cameriera che se ne stava dietro il
bancone a braccia conserte e chiacchierava con il cuoco
impegnato cucinare.
Era una via di mezzo fra il ristorante di Jack e la cucina
di casa sua. Tutto a un tratto Hadley si rimise in piedi e
uscì, risalendo rapidamente il marciapiede con le mani in
tasca. La fredda notte di San Francisco lo aggredì. Si
rannicchiò su sé stesso e tenne gli occhi socchiusi, con la
faccia verso il basso. Attraversò la Mission e puntò verso
Market Street con la mente vuota, avanzando in modo
automatico.
Vi giunse quasi subito. In giro c’era solo qualche
macchina, e pochi autobus qua e là. La notte era limpida.
La grande strada si allungava per chilometri, scomparendo
alla fine in un groviglio di insegne luminose e lampioni. Sui
lati c’erano teatri, gigantesche luci al neon che
ammiccavano e ronzavano. Uomini e donne passavano
veloci davanti a lui e ai riquadri abbaglianti delle vetrine di
ogni teatro. Bar, macchine parcheggiate, negozi chiusi di
ogni genere. Solo i teatri erano ancora aperti. Hadley evitò
il bagliore di quelle insegne e attraversò Market Street,
infilandosi nel buio di una strada laterale.
Entrò nel primo bar che incontrò. Un locale piccolo,
piuttosto appartato.
Si fece strada attraverso un’orda vociante e ridente di
ragazzi che bloccavano l’ingresso, e giunse fino al bancone,
fatto tutto di legno invecchiato. E di legno erano anche i
tavoli sparpagliati in giro. Per terra c’era della segatura, e
in un angolo un vecchio pianoforte verticale. Sulle pareti a
pannelli neri c’erano stampe moderne, e qualche originale,
sempre di arte moderna. Il luogo era buio e opaco; Hadley
scivolò su uno sgabello e tirò fuori meccanicamente le
monete.
«Desidera?» gli chiese il barista, un uomo basso
dall’aria sgarbata, con i capelli biondi tagliati corti. La sua
voce era sottile e raspante.
Hadley studiò i pannelli di legno, strofinandosi la fronte,
poi disse a fatica: «Bourbon con acqua.»
Il barista se ne andò. Lungo tutto il bancone c’erano
ragazzi ben vestiti, quasi tutti in maglione e pantaloni
sportivi. Qualcuno indossava jeans e un maglione scuro a
collo alto. Ridevano e chiacchieravano; le loro voci eccitate
crebbero d’intensità intorno a lui e si trasformarono in coro
disarmonico e stridulo. Come un grande sciame di api. Era
peggio che all’Health Food Store. Cercò di ignorarli mentre
contava le monete per pagare il suo bourbon.
Il giovane sulla sua destra lo stava fissando con
interesse. Un ragazzo snello con una giacca sportiva, golf e
cravatta di seta. Pantaloni grigi, scarpe a due colori.
Attraverso il fumo di una sigaretta Hadley scorse due
intensi occhi marroni fissi su di lui e una bocca atteggiata
in un leggero sorriso.
«Ti sei fatto male?» gli chiese educatamente il ragazzo
con una melodiosa voce da tenore.
Hadley annuì controvoglia.
«Non sarebbe meglio che ti medicassi?» La mano del
ragazzo corse alla sua faccia. «Santo cielo, ma stai
sanguinando!»
«Che succede?» Apparvero altre tre o quattro ragazzi e
si affollarono ansiosamente attorno a Hadley. «È ferito?»
«È caduto?»
«Si è fatto male?»
Adesso Hadley ne aveva addosso un bel gruppetto. Mani
incuriosite gli svolazzarono come falene sulla faccia e sul
collo. «Oh, poverino!»
«Guardatelo!»
«Povero caro!»
«Qualcuno gli ha fatto del male. Guardate i suoi vestiti!
Devono avergli fatto qualcosa di orribile!»
Il mormorio, le presenze calde, i nugoli di mani pallide e
ansiose che gli si agitavano intorno stordirono Hadley.
Confuso, li respinse. «Levatevi dai piedi» farfugliò.
«Dannate checche» Ma le mani continuavano a svolazzare,
e le forme rimasero. Lui tentò di nuovo, debolmente, poi si
lasciò andare sul bancone, sopraffatto dalla disperazione e
dalla stanchezza. Tutto intorno a lui, immagini e suoni, si
confondeva e turbinava. Chiuse gli occhi e appoggiò la
testa, riconoscente. Il calore di quel luogo gli faceva venire
sonno.
«Non morire!» bisbigliavano ansiosamente le voci.
«Guardatelo, sta morendo!»
«No, si è solo addormentato. Povero tesoro, è esausto.»
«Dobbiamo prenderci cura di lui.»
«Ce l’avrà un posto dove andare?»
Un alito caldo e fragrante gli soffiò sulla guancia. Una
voce cantò: «Dove abiti, dolcezza?»
Hadley grugnì.
«Guardagli nel portafoglio.» Delle mani si infilarono
sotto la giacca ed estrassero abilmente il portafoglio per
esaminarlo. Li sentì che bisbigliavano tutti eccitati fra loro.
«Abita lontano da qui.»
«Si è perduto.»
«Il poverino si è perduto. Ecco il biglietto dell’autobus.»
«Ma è troppo tardi. Ormai non può tornare… è passato
troppo tempo. Dovrà restare qui.»
Seguì un confabulare intenso e prolungato. Hadley si
era appisolato. Discussioni, parole irate, un improvviso
trambusto di gesti e rumori. Lui continuò a dormire; tutto
gli giungeva da una distanza immensa. Alla fine si
raggiunse una decisione.
«Lo porto con me.»
«Brutta puttana, ti dice sempre bene.»
«Non è lei che si becca sempre il meglio?»
Una mano gentile e insistente toccò Hadley sul collo.
«Forza, dolcezza. È ora di andare. La Ringhiera sta per
chiudere.»
Altre mani si protesero per aiutarlo. «Va con lei. Si
prenderà cura di te.»
«Vieni, tesoro.»
Hadley aprì gli occhi. Accanto a lui c’era un ragazzetto
dai capelli castani che aspettava tutto eccitato con gli occhi
accesi e le labbra che si torcevano avidamente. «Vieni con
me, dolcezza. Mi prenderò cura di te.»
«E come…» convennero altre voci.
Hadley scivolò impacciato dallo sgabello. Le mani lo
guidarono; il ragazzo dai capelli castani lo aveva preso con
decisione per un braccio. Venne trascinato verso la porta,
in mezzo all’orda di ragazzi ben vestiti. Ma giunto sulla
soglia si impuntò.
«No» disse.
Un fremito di eccitazione di sgomento. «Che c’è?»
«Non aver paura» si affrettò a dire qualcun altro.
«Tommy si occuperà di te. Ti darà da mangiare e ti farà
sentire meglio.»
«Sì, ci penserà lui.»
«Ti metterà a letto e ti curerà.»
«Ti metterà a letto e tu potrai mangiare dei dolci,
dormire, riprenderti e non dovrai mai più fare niente.»
«No» ripeté Hadley. «Toglietemi di dosso quelle
manacce da ebrei.»
«Che sta dicendo?»
«Che dice il tesorino?»
Hadley restò lì intontito. Aveva sentito bene? Stavano
davvero dicendo quello che aveva sentito? Scosse la testa,
ma non gli si schiarì. Tutto era incerto e nebuloso. Quelle
forme agili e aggraziate continuavano a svolazzargli
intorno. Le facce, le pareti del bar, ogni cosa si confuse e si
oscurò, poi tornò con riluttanza. Lui cercò di dargli
sostanza, ma tutto rimase dolorosamente etereo e
inafferrabile. Anche il terreno sotto i suoi piedi era molle
come gelatina. Ondeggiava e sembrava dissolversi.
«Andatevene» grugnì facendo un passo avanti e
mulinando le braccia. «Lasciatemi in pace!»
La sua violenza li terrorizzò. I ragazzi si ritrassero
chiocciando e starnazzando, e formarono un cerchio a
distanza di sicurezza. Attendevano con gli occhi eccitati
fissi su di lui, parlottavano a bassa voce, agitavano le mani,
non stavano mai fermi.
«Non lasciarlo andare» dissero le voci. Il ragazzo di
nome Tommy venne sospinto in avanti. «Non lasciare che si
allontani da te. È bello. Guarda che viso dolce, che capelli
biondi, che bocca piccola, che occhi azzurri. Tommy, quello
se ne va! Il tuo amante sta per filarsela!»
«Non è bello» lo contraddissero altre voci. «È paffuto.
Guarda gli occhi. Sono rossi, sembra una gallina.»
«Ma una gallina bella e morbida.»
«Troppo morbida. È troppo flaccido.»
«Sembra una ciambella. È appiccicoso.»
Il timbro delle voci crebbe assumendo una cadenza
rabbiosa. «No, non lo è!» protestò qualcuno. «Smettila di
dire così! Non è vero!»
«Sembra una ragazza. Non è altro che una stupida,
lurida ragazza.»
«È pigro. Stupido e pigro.»
«E ha lasciato sua moglie.»
«Già, è scappato con una puttana. Ha perso il suo lavoro
e ha lasciato sua moglie e ha colpito il suo migliore amico.
E ha lasciato quel povero bambino chiuso dentro una
macchina.»
«È un fallito. Non è stato capace di tenersi quel misero
lavoro da venditore.»
Una voce protestò: «Si è licenziato!»
«Non è riuscito nemmeno a tenersi un lavoretto da
quattro soldi come quello. Neanche quello, è riuscito a
fare.»
«Ma lui era troppo bravo. Non era fatto per un lavoro
come quello. Guardategli le mani. È un artista. Guardategli
la faccia. Non è una persona comune. Ha un’aria nobile. Ha
la faccia e le mani di un nobile. È fatto per grandi cose.»
«Non è capace di guadagnarsi da vivere e di mantenere
sua moglie.»
«Brutto rospo! E adesso chi la manterrà?»
«Per lui era una pietra al collo. Lui si merita cose ben
più alte. Non è fatto per quello.»
«Per cosa è fatto?»
«Tommy, scoprilo tu per cosa è fatto. Vedi se riesci a
saperlo, nel bene e nel male.»
«Fino alla morte.»
«Fino a che morte non lo separi.»
Hadley trovò la porta e la sospinse. Una raffica di vento
gelido lo colpì in piena faccia, e lui boccheggiò. Il vento gli
soffiò addosso furiosamente quando uscì dalla porta e si
avviò lungo il marciapiede grigio e silenzioso.
Una folla si riversò fuori dal locale dopo di lui. Forme
luminose che risplendevano di un bianco pallido, simile a
cera. Gli galleggiarono intorno guizzando, toccando e
volando via, come foglie trascinate dal vento. Come foglie
fosforescenti nella notte.
«Non andare!» gridò una di loro debolmente.
«Torna indietro!» dissero altre voci lamentose.
«Resta con noi!»
«Tu ci appartieni!»
«…appartieni…»
I frammenti di luce danzarono e furono spazzati via dal
vento notturno. Bacchette magiche nel buio gelido, perse
dietro di lui quando svoltò a un angolo e corse via alla
cieca. Era l’unica cosa vivente. Strade vuote e deserte.
Grandi edifici abbandonati. Un cielo vuoto sopra di lui.
Stelle lontane. Il vento continuò a sferzarlo mentre correva
a bocca aperta e occhi socchiusi, ansimando per respirare.
Corse come un pazzo, oltre un altro angolo e poi in
mezzo alla strada, sempre più veloce. Alle sue spalle si
gonfiò un grande suono. Un enorme rimbombo che crebbe
con spaventosa rapidità. Si ritrovò illuminato senza
preavviso, e la sua ombra proiettata sul fianco di un
palazzo.
Si fermò, sbalordito. Il rombo gli feriva le orecchie. Un
forte ruggito, una specie di tuono mescolato a un gemito
stridulo. E la luce. Ne fu accecato. Si mosse in un
semicerchio confuso, coprendosi gli occhi con le mani…
Qualcosa lo colpì. Senza peso volò silenziosamente nel
cielo notturno. Un minuscolo frammento che galleggiava
nel buio, trasportato dal vento. Non sentiva nulla. Non
c’era suono, né peso, né sensazioni di sorta.
Anche quando andò a sbattere non provò nulla. Solo
l’indistinta consapevolezza di essere immobile. Poi
l’oscurità dissolse ciò che rimaneva di lui. Vi fu solo un
baratro vuoto, una infinita tenebra informe, là dove era
stato prima.
Si risvegliò lentamente. Tutto era strano. Con una fitta
bruciante di panico andò a caccia della propria identità. Chi
era? Dove…
Riuscì a mettere a fuoco la vista. Si trovava in una
piccola stanza, strana e non familiare. Era giorno; la luce
grigia e smorta di metà mattina filtrava dalla finestra. Il
cielo era coperto, e stava piovendo. Una nebbia umida e
fredda aleggiava sopra uno steccato di legno gocciolante in
un cortile ingombro di erbacce e lattine vuote. La stanza
stessa sapeva di vecchio. Un soffitto incredibilmente alto.
Una tinta gialla. Un antiquato candelabro di ferro appeso
all’estremità di una massa intricata di fili neri. Un armadio
di legno sbeccato, dipinto di bianco, alto e severo, con
maniglie rotonde di porcellana. Il pavimento era ricoperto
da un linoleum stinto e rovinato. Il letto era di metallo,
largo e alto. La finestra era stretta, con le veneziane logore
e delle tendine di merletto strappate e consunte dall’età. In
una libreria sull’angolo che andava dal pavimento al soffitto
erano allineati disordinatamente antichi libri rilegati in
pelle. Accanto al letto c’era una sedia col fondo di vimini,
con i suoi vestiti appoggiati sopra.
Mentre li guardava senza capire, si rese conto che nella
stanza c’erano un uomo e una donna che lo osservavano.
Era una coppia di persone anziane: due figure fragili e
avvizzite strette l’una all’altra che lo fissavano con occhi
ansiosi neri come spilli. La donna portava uno scialle di
cotone lavorato e un vestito sformato, con sopra ciò che
rimaneva di una vestaglia da camera. L’uomo indossava una
camicia marrone, bretelle rosse, calzoni scuri troppo larghi
e una specie di pantofole. I capelli di entrambi erano fini e
grigi, come ragnatele aggrappate ai loro crani raggrinziti.
Crani incartapecoriti, vecchi, segnati dal tempo…
La vecchia parlò per prima. La sua voce era impastata,
gutturale, con un accento pesante. Erano tedeschi; le facce
erano color paglia, i nasi larghi e rossi, le labbra
prominenti. Contadini tedeschi, con mani e piedi grossi.
«Bitte» biascicò la vecchia «es tut uns fruchtbar leid,
aber…» Si interruppe, tossì, rivolse un’occhiata al marito e
riprese: «Come si sente, signore? Come sta?»
«Sto bene» rispose Hadley.
L’uomo tossì, si pulì la bocca con il dorso della mano e
disse con voce burbera: «L’abbiamo investita con il furgone.
Lei stava in mezzo alla strada.»
«Lo so» disse Hadley.
Subito la dorma si affrettò ad aggiungere: «Non è stata
colpa nostra; lei stava fermo lì in mezzo. Selbstmord…»
Guardò preoccupata suo marito. «Er wollte selbst
vielleicht…» Poi tornò a rivolgersi a Hadley: «Perché si
trovava lì? Che ci faceva?»
«Lei è fortunato» borbottò l’uomo. «Nessun osso rotto.
Stavamo tornando a casa dalla campagna, da Point Reyes
Station. Mio fratello ha un emporio da quelle parti.» Lo
spettro di un sorriso poco convinto, la debole traccia di una
consapevolezza condivisa e nascosta, gli fecero torcere le
labbra carnose. «Ah, lei era ubriaco, nicht wahr?
Betrunken, mein lieber junger Mann.»
«Proprio così» concordò impassibile Hadley. Non
provava nulla, solo un vuoto torpore.
Il vecchio risucchiò il fiato tutto eccitato; si rivolse alla
moglie e le puntò addosso un dito. Seguì un flusso di parole
in tedesco; parlarono tutti e due allo stesso tempo,
gesticolando e agitando le mani. Sui loro volti antichi e
segnati c’era un’espressione di trionfo: si erano levati un
bel peso dalle spalle.
«Ubriaco» ripeté soddisfatto il vecchio. «Lo vede? Lei
era ubriaco.» Puntò il dito su Hadley e gridò in modo
eloquente: «È stata colpa sua!»
«Certo» disse Hadley in tono abulico. «Colpa mia.»
La tensione era stata rotta. La coppia di vecchi assunse
un atteggiamento cordiale e amichevole; riconoscenti, si
precipitarono attorno al letto con i volti che sprizzavano
felicità. «Lo vedi,» spiegò il vecchio a sua moglie «te lo
avevo detto. Il sabato sera junge Leute freuen sich… Ich
erinnere mich ganz.» Fece l’occhiolino a Hadley. «Lei è
stato fortunato, signore» ripeté. «La prossima volta
potrebbe non andarle così bene. Sì, noi l’abbiamo raccolta
e portata qui. Ci siamo presi cura di lei, abbiamo fatto in
modo di trovarle una sistemazione.»
Hadley sapeva che avevano avuto paura di chiamare la
polizia, che avevano avuto paura di fare qualsiasi cosa se
non raccoglierlo, caricarlo in macchina e portarlo a casa
con loro. Ma non disse nulla. Non aveva importanza… non
gli importava più nulla né del loro terrore di prima né del
buonumore di adesso. Stava pensando a Pete sul sedile
posteriore della Studebaker. Erano passate dodici ore.
«E adesso guardi» stava dicendo il vecchio. «Lei non
può crearci nessun problema; potrebbe essere arrestato
per ubriachezza. Verstehen Sie? Ha» farfugliò, annuendo
assennatamente, con la scaltrezza eterna dei contadini.
«Noi siamo stati molto buoni con lei; l’abbiamo portata qui,
e le abbiamo dato una sistemata. Ci siamo presi cura di
lei… Si guardi in faccia… Le abbiamo fatto una fasciatura.
Sì, mia moglie è un’infermiera diplomata. L’abbiamo
trattata bene.»
Entrambi lo fissavano intensamente, aspettando che
dicesse qualcosa. Erano fiduciosi, non avevano più nulla da
temere.
Hadley si tastò cautamente la faccia. Gli avevano messo
sulle labbra una specie di pomata. E anche sulle mani. Era
pieno di ammaccature. Gli doleva l’intero corpo, che
sentiva come non suo. I suoi vestiti, ammucchiati sulla
sedia accanto al letto, erano un mucchio sconosciuto di
stracci. Ma erano proprio i suoi? All’improvviso provò una
gran voglia di guardarsi la faccia allo specchio, provò a
chiedere alla vecchia di procurargli uno specchio, ma
scoprì che aveva difficoltà a parlare. Ci provò un’altra
volta, poi rinunciò. Invece si appoggiò alla testata metallica
del letto e si passò le dita leggermente sul naso rovinato.
Era stato lavato e in parte curato. Il dolore gli esplose sulle
tempie e lui lasciò perdere.
«Desidera qualcosa?» gli chiese il vecchio. «Che cosa
vuole?»
«Voglio qualcosa da mangiare» farfugliò Hadley.
I due si scambiarono un’occhiata, poi parlottarono fra
loro. «Che vuole mangiare?» chiese sospettosamente il
vecchio. «Non abbiamo una gran scelta; oggi è domenica,
lo sa.»
Hadley esitò e rifletté e a lungo. «Vorrei del burro di
arachidi e un panino alla gelatina» rispose alla fine con
solenne convinzione.
Gli occhi dei due si spalancarono per lo sbalordimento.
«Un che?»
«Per favore…» Hadley voleva proseguire il discorso, ma
non gli venne in mente nulla da dire. Rimase in silenzio e
attese speranzoso.
«Non preferirebbe una scodella di brodo caldo di
gallina?» chiese la donna.
Lui scosse la testa.
I due confabularono di nuovo. «Va bene» acconsentì la
vecchia di malagrazia. Si mossero entrambi verso la porta.
«Senta, non può restare qui molto a lungo» gli disse la
donna in tono ammonitore. «Non possiamo permetterci di
nutrirla; la gente come noi non ha tanti soldi.»
«Me ne rendo conto» osservò Hadley.
Il vecchio si umettò le labbra carnose, e i suoi occhi
mandarono uno scintillio. «Se rimane qui dovremo
chiederle di pagare» gli disse con voce roca.
«Va bene» convenne Hadley.
I due uscirono insieme sul corridoio. «Non ce l’ha una
famiglia?» gli chiese a bruciapelo la vecchia. «Eine Frau,
und… entschuldigen, bitte… wir haben das Bild von deinem
Sohn in dem…» Fece una risatina, quasi per scusarsi. «Un
bel bambino, ist deiner?»
«Sì» rispose Hadley. Avrebbe risposto qualsiasi cosa pur
di vederli uscire dalla stanza. «Sì, è mio figlio.»
«Lei gioca a scacchi?» gli domandò il vecchio mentre la
donna scompariva lungo il corridoio verso le scale. Sua
moglie lo chiamò a voce alta, e lui piegò la testa di lato.
«Parleremo dopo» promise a Hadley. E a sua volta urlò:
«Ich komme!»
Hadley rimase ad ascoltare. Li sentì salire le scale, un
rumore soffocato che si attenuò e poi morì. Subito dopo, in
lontananza, sentì aprire qualcosa e sbattere. Piatti, posate.
Il basso mormorio di voci che discutevano.
Hadley si tirò su e gettò via le coperte. Con un violento
sforzo allungò le gambe fuori dal letto e scese a terra. Si
sentiva il corpo rigido, come fosse di metallo; quasi urlò
quando cercò di prendere i vestiti. Braccia e gambe gli
bruciavano come se dentro vi scorresse il fuoco; poteva
muovere solo le dita.
Si vestì il più rapidamente che poteva, a parte le scarpe.
Le infilò nelle tasche della giacca e si diresse zoppicando
verso la finestra. Era chiusa. Aprì senza problemi
l’elaborato chiavistello rugginoso, poi provò la maniglia di
metallo corroso. Non si aprì; era arrugginita anche quella,
e coperta da una mano di vernice. Tirò con tutta la forza
che aveva. La finestra cedette di schianto e si sollevò verso
l’alto con un cigolio di protesta. Hadley infilò le braccia
sotto, si inginocchiò e spinse verso l’alto. La finestra si aprì
a metà. Era sufficiente.
Uscì in uno stretto balcone metallico, e si ritrovò
circondato da una nebbia fredda e umida. Un rivolo di
acqua puzzolente gocciolava lentamente verso il basso.
Oltre il cortile ingombro di rifiuti c’era lo steccato e poi un
garage fatiscente. Si arrampicò sulla ringhiera e balzò giù
dal balcone.
Il piede nudo colpì il suolo con lancinante violenza.
Aveva mancato il tratto erboso ed era atterrato sul
cemento. Un gran dolore si irradiò su per le gambe
martoriate. Cadde a terra e giacque lì dimenandosi,
cercando di trattenere le urla che gli salivano dalla gola.
Per lungo tempo rimase immobile, lottando per respingere
il tocco allettante dell’oscurità e aspettando che i suoi piedi
ritrovassero la sensibilità. Sopra di lui, dalla finestra,
provenivano dei suoni eccitati. Due volti si affacciarono e si
ritrassero subito. Grida stridule, e il suono di qualcuno che
correva.
Doveva affrettarsi. Riuscì dolorosamente a rimettersi in
piedi e a percorrere barcollando qualche passo. Tenendosi
al lato della casa raggiunse un cancello di ferro battuto.
Le dita fredde e intorpidite di Hadley afferrarono il
cancello e lo tirarono. Alla fine riuscì a spostarlo e a
oltrepassarlo. Una stretto viottolo di cemento passava fra
due grosse e antiche case di legno. Lui si affrettò, diretto
verso la strada che c’era al di là. Qualche macchina gli
passò accanto, sollevando spruzzi d’acqua. Vide altre case,
gradini di cemento, un’ampia collina di appartamenti che
spuntavano dalla nebbia turbinante. Il viottolo sembrava
proseguire all’infinito. Una delle scarpe gli cadde dalla
tasca e lui dovette fermarsi per recuperarla.
A quel punto si acquattò e cominciò a infilare le scarpe.
Le dita non riuscivano a lavorare sui lacci, così le lasciò
slacciate e riprese la sua marcia zoppicante. La strada si
avvicinava con agonizzante lentezza. Era quasi arrivato.
Dovette chinarsi per passare sotto l’anta sporgente di una
finestra. Un altro passo, poi un altro, e un altro…
Una figura gigantesca si stagliò davanti a lui e gli tagliò
la strada. Un uomo in maglietta e pantaloni sporchi, una
faccia larga e baffuta, rotoli di carne rossiccia, denti guasti,
occhi piccoli cerchiati di rosso, bocca aperta e inespressiva.
Dietro l’uomo sgambettavano i due piccoli tedeschi, che
strepitavano con le loro vocette stridule.
«Fang ihn an!» gli urlarono. «Presto!»
Una grossa mano pelosa si protese verso Hadley, che si
girò e scappò via incespicando goffamente. La mano
abbrancò l’aria con animalesca lentezza mentre lui la
evitava sgattaiolando agilmente. Piegandosi quasi in due
passò sotto un’altra finestra che sporgeva; il gigante si
voltò senza dire una parola e lo seguì. Raggiunse la finestra
e si piegò appena per inseguire Hadley. La punta di un
trave di legno lo colpì subito sopra la tempia.
«Ugh» esclamò l’uomo. Sul suo volto si disegnò
un’espressione di sorpresa. Si girò lentamente verso la
finestra con il braccio proteso e la mano stretta a pugno.
Hadley scappò via, raggiunse il marciapiede e corse verso
la strada.
Un autobus stava procedendo a bassa velocità sulla
superficie scivolosa della strada che scendeva dalla collina.
Hadley, ormai inzuppato di nebbia, cominciò a correre a
perdifiato. Agitò le braccia e gridò qualcosa all’autista; il
veicolo prese a rallentare sputando acidi vapori di
monossido di carbonio. L’autista, un uomo abbronzato di
mezza età, puntò doverosamente verso la fermata in fondo
all’isolato. Scalò le marce e la velocità dell’autobus diminuì
ancora.
Hadley continuò a correre dietro all’autobus. I
passeggeri osservavano, alcuni incuriositi, altri
preoccupati, qualcuno divertito. L’autobus rallentò
ulteriormente e poi si fermò. Le porte si aprirono e ne
scesero tre ragazze. Hadley si arrampicò ansimante,
oltrepassò l’autista e scelse il primo posto libero.
«Un decino, signore» disse pazientemente l’autista.
Hadley si sentì paralizzare dal panico. Si gettò sul sedile
e cominciò a frugarsi in tasca. Non aveva spiccioli, c’era
solo un biglietto da cinque dollari tutto stropicciato. Si alzò
a fatica e corse verso la porta posteriore… ma l’autobus si
era già rimesso in movimento. Rimase stupidamente lì in
mezzo, senza sapere cosa fare: l’unica cosa che sapeva con
certezza era che non aveva ciò che l’autista gli aveva
chiesto.
«Dove vuole scendere, signore?» gli chiese lui con
educata stanchezza. «Qui, signore?»
Hadley non riuscì a rispondere. Si afferrò alla barra
metallica di sostegno e vi si tenne stretto; le case e le auto
sfrecciavano fuori dall’autobus, annebbiate dall’umidità. I
passeggeri si girarono a guardarlo con paura o con
curiosità, domandandosi cosa avesse intenzione di fare, e
se il suo stato di disagio potesse in qualche modo costituire
un pericolo per loro.
Alla successiva fermata l’autobus si arrestò e le porte si
aprirono automaticamente. Hadley saltò giù; dopo una
pausa l’autobus ripartì rombando, e cominciò a risalire la
collina. Scomparve insieme al puzzo e al rumore.
Hadley respirò a fondo e si avviò a piedi. Sulla sua
destra c’era la zona commerciale, la sfilata di negozi chiusi
di Market Street. Da qualche parte più in là c’era la
Mission, le borgate, le catapecchie e i locali equivoci di
Tenderloin. E il deposito della Greyhound.
Puntò in quella direzione.
Erano le due del pomeriggio quando scese dall’autobus
della Greyhound a Cedar Groves. Una pioggia ostile e
silenziosa cadeva sulle case e sulle strade; curvo in avanti,
riprese a camminare.
Gli ci volle poco per raggiungere la zona industriale; il
deposito degli autobus si trovava proprio ai suoi margini.
Riconobbe il magazzino familiare e lo squallido parcheggio
deserto subito dietro. Là, nell’angolo più lontano, dove
l’aveva lasciata, c’era la Studebaker grigia e umida.
Ma qualcosa non andava. I finestrini erano stati tirati
giù… mentre lui li aveva richiusi. Qualcosa scintillava
sull’asfalto bagnato dalla pioggia: una scheggia di vetro.
Capì subito: qualcuno aveva rotto i finestrini e aveva aperto
la macchina. Qualcuno che si era accorto di Pete.
Attraversò lentamente il parcheggio. Entrò in un piccolo
bar e ordinò una tazza di caffè. Seduto al bancone accanto
al juke-box che suonava sorseggiò il caffè e tenne d’occhio
il parcheggio, preoccupato. Ci volle un po’, più di mezz’ora,
ma alla fine quello che si era aspettato avvenne. Un
poliziotto in un impermeabile scuro dell’esercito comparve
sulla strada, l’attraversò e si diresse verso il parcheggio.
Dall’ombra spuntò un altro poliziotto; i due si scambiarono
qualche parola, poi si separarono. Tornarono ai loro posti e
si confusero con il paesaggio smorto.
Hadley allontanò la tazza e si mise in piedi. Aveva perso
Pete, e la polizia lo stava cercando. Spalancò la porta e uscì
dal caldo locale giallo sulla strada battuta dalla pioggia.
Cominciò subito a camminare sulla destra senza guardarsi
indietro. Nessuno lo seguì.
In tasca aveva tre biglietti da un dollaro, il resto del
biglietto della Greyhound. Cercando accuratamente trovò
una moneta da cinquanta centesimi, un quartino e due
decini. Poco più avanti si vedeva il profilo poco invitante di
un alberghetto economico per clienti di passaggio. Hadley
vi si diresse.
«Quanto?» chiese all’impiegato appoggiato sul bancone
sporco. «Una singola… senza bagno.»
L’impiegato lo studiò a fondo prima di rispondere. Era
un giovane alto con il colorito giallastro e la pelle
foruncolosa, e i capelli lunghi e unti che gli scendevano
disordinati dietro le orecchie; indossava una lurida camicia
azzurra e dei pantaloni tutti chiazzati. «Pare che le sia
successo qualcosa» osservò languido.
Hadley non replicò.
«Tre dollari» disse l’impiegato. «Niente bagagli?»
«No» disse Hadley.
«Anticipati.»
Era più di quanto si aspettasse, ma firmò il registro e gli
porse le tre banconote. L’impiegato gli diede
cerimoniosamente la chiave con la pesante targhetta di
plastica rossa con sopra scritto il nome dell’albergo e il
numero della stanza, e poi gli indicò con un gesto s del
corpo una rampa di scale di legno; lo seguì con lo sguardo
finché non giunse al secondo piano.
La camera era larga, scialba e non pulita. Hadley aprì
subito la finestra e lasciò entrare l’aria umida del
pomeriggio. Le tende grigie e sfilacciate sventolarono
sinistra. Fuori dall’albergo qualche camion procedeva
rumorosamente lungo la strada bagnata, con le gomme che
sguazzavano lamentose nelle pozzanghere. La giornata era
buia, di un grigio plumbeo. C’era poca gente in giro che si
muoveva di fretta sotto pesanti impermeabili e ombrelli. Il
freddo umido fece dolere la mascella di Hadley; attorno a
uno dei denti rotti la gengiva stava cominciando a gonfiarsi
e a infettarsi.
Non sopportava quella stanza.
Hadley uscì di corsa nel corridoio, sbatté la porta dietro
di sé e scese nell’atrio. C’era solo l’impiegato. Una radio
portatile di plastica gialla trasmetteva musica western per
chitarra a tutto volume da una mensola sopra la sua testa,
e lui se ne stava chino a leggere un libro aperto sul
bancone. Hadley percorse un insensato, sconsolato giro che
lo portò accanto alla finestra dell’atrio, dove si lasciò
cadere su una malandata poltrona di vimini.
Si domandò cosa fare. Si domandò dove andare, e come.
Del suo piano non rimaneva nulla. Non c’era più niente,
niente di niente.
Per un po tenne d’occhio il distributore di sigarette
nell’angolo. Preparò gli spiccioli, ma poi li rimise via. Tutti i
soldi che aveva dovevano bastargli per mangiare, il suo
stomaco aveva già cominciato a brontolare dolorosamente.
Ma che poteva concedersi con settantacinque centesimi?
La pioggia picchiava contro il vetro della finestra, e
dalla porta aperta penetrava il suono pesante di piedi che
calpestavano il marciapiede fradicio. Hadley si rannicchiò
su sé stesso, avvilito, e cominciò a sentire i primi allarmanti
segni del panico.
Mentre se ne stava seduto a riflettere, un uomo venne a
sedersi sul divano mezzo sfondato accanto a lui. Un signore
calvo di mezza età, con dei baffoni neri, che indossava una
giacca marrone tutta sgualcita, un maglione grigio,
pantaloni di tela ed eleganti scarpe di cuoio.
L’uomo gli fece un cenno con la testa, «’giorno.»
«’giorno» biascicò Hadley.
«Lei si è ferito alla mascella, amico mio» osservò
solennemente l’uomo.
«Sì» replicò Hadley.
L’uomo tirò fuori un portasigarette, tutto ammaccato e
di similoro. Ne prese una sigaretta con il filtro, poi lo porse
a Hadley.
«Grazie» fece Hadley riconoscente, accettandone una.
«Guardi» disse l’altro; aveva una voce leggermente
accentata. Si chinò in avanti e accese la sigaretta di Hadley
da un angolo del portasigarette: era una combinazione di
portasigarette e accendino. Con un largo sorriso pieno di
denti l’uomo si ritrasse e accese la sua. «Simpatico, non è
vero?»
«Certo» concordò Hadley, distrattamente.
L’uomo si guardò intorno. Gli occhi erano grandi e
rotondi; la bocca si aprì in un’espressione di stupore.
«Questo albergo ha un aspetto orribile» considerò con voce
un po intimorita.
Hadley annuì.
L’uomo si appoggiò allo schienale. Fece un sorriso
sbieco e alzò le spalle. «È mio.» Protese una mano grande e
morbida; portava due anelli d’oro alle dita. «Ha sentito
parlare di me? Sono Preovolos. John Preovolos.» Indicò con
la mano. «Sono il proprietario del negozio di tabacchi e di
quello che vende merce usata laggiù.» Agitò di nuovo la
mano. «Il ristorante dall’altra parte… che serve l’albergo.
Non è poco, no?»
«Certo» replicò Hadley, un po divertito da quel greco
bene in carne.
«Mi ascolti» disse teso Preovolos, piegandosi in avanti e
avvicinando la faccia a quella di Hadley. «Questo posterò
messo male, vero? Mi dia la sua opinione.»
«Lo è» ammise Hadley.
Preovolos sospirò. «Lo immaginavo.» Accettò la notizia
con calma filosofica. Dopo un momento domandò con voce
lamentosa: «Anche le camere? È la stessa cosa, secondo
lei?»
«Temo di sì» disse Hadley. «Forse peggio.»
Preovolos si accasciò. «È quello che pensavo. Appena
entrato mi sono detto: ‘Le camere sono anche peggio’.»
Alzò uno sguardo ansioso su Hadley. «Lei sembra provenire
da una buona famiglia. Che mi dice?»
«Sì» ammise Hadley. «Vengo da una buona famiglia.
Vivono a New York. Tanti soldi.»
«Suo padre è in affari?»
«Era un medico» rispose Hadley.
«Un professionista.» Preovolos annuì compiaciuto. «L’ho
pensato subito quando l’ho vista. ‘Il padre di quel
giovanotto è in affari, oppure è un medico o un avvocato’.
Mi stia a sentire» aggiunse poi, serio. «Le dirò una cosa.
Questo albergo è niente.» Sembrò volerlo cancellare con un
gesto della mano, mentre aggrottava rabbiosamente la
fronte. «Le dirò una cosa che pensavo stamattina. Questa
città è morta. Finita. Lo sa dov’è che sta succedendo
davvero qualcosa?»
«Dove?» chiese Hadley.
«Milpitas.»
«Che succede a Milpitas?» domandò Hadley, sorridendo
suo malgrado.
Preovolos divenne agitatissimo. «Mi ascolti,» disse
boccheggiando «su a Milpitas una grossa società… non
posso dirle il nome, ma sta comprando dei terreni. Migliaia
di acri in mezzo al nulla. Una grossa società che è uscita di
testa? Neanche a parlarne. Questa società – non posso
fame il nome – sta per organizzare delle operazioni, uno di
questi mesi. Milpitas crescerà. Milpitas è destinata a
crescere.»
«E lei ci sarà dentro?» chiese Hadley. «Sposterà laggiù
questo albergo?»
Con solennità, il volto massiccio pieno di soddisfazione,
Preovolos disse: «Questo albergo non è niente. Ho già
comprato il terreno per costruirne uno nuovo. Quando lo
aprirò, questo lo farò abbattere. Non ho nemmeno
intenzione di venderlo; gli darò fuoco e lascerò solo le
macerie. Butto via tutto, non voglio neanche più vederlo.»
Un’espressione rapita gli comparve sulla faccia, una sorta
di estasi spirituale, quasi una trance. «Il mio albergo di
Milpitas» sussurrò, con gli occhi chiusi. «Che posto.
Quando lo avrò fatto costruire…» Senza preavviso balzò in
piedi e diede una pacca sul ginocchio di Hadley. «Felice di
averla conosciuta» disse sbrigativo. «Ci vediamo. Mi faccia
sapere se il servizio non è di suo gradimento o se posso
fare qualcosa per rendere più piacevole il suo soggiorno.»
Si voltò di scatto e sparì in un ufficio sul retro. L’atrio
era vuoto, a parte Hadley sempre seduto sulla poltrona di
vimini e l’impiegato dietro il bancone che leggeva il suo
romanzo di Mickey Spillane.
Dopo un po Hadley si alzò in piedi e uscì dall’atrio sul
marciapiede cupo e inzuppato di pioggia. Grazie a John
Preovolos in lui si era riformata una certa misura di
serenità. Oltrepassò il ristorante di Preovolos: era
scalcinato e malconcio, come il suo albergo, come tutto ciò
che il greco possedeva, probabilmente. Si domandò dove si
trovasse Milpitas. Si domandò come mai il greco avesse
scelto proprio quel luogo per il suo mondo illusorio… Non
suonava troppo eccitante.
Hadley raggiunse una stazione di servizio della
Standard e chiese: «Che genere di mappe avete qui? Vorrei
vederle.»
L’inserviente lo fissò con disgusto, poi indicò una
rastrelliera a muro. «Si serva pure.»
Per un attimo Hadley le sfogliò. Trovò una mappa della
zona della Baia, una della contea di San Mateo, una carta
stradale di Cedar Groves. «Tutto qui?» domandò.
«Che vuole,» replicò stizzito l’inserviente «una mappa
del tesoro?»
«Voglio» disse Hadley «delle mappe di certi stati. Avete
una mappa del Messico? O del Canada?»
«Non ce l’abbiamo nemmeno della California» ribatté
l’inserviente e si diresse verso le pompe di benzina quando
vide che si era fermata una macchina.
Hadley lasciò la stazione e vagabondò senza meta.
Giunto alla High Street svoltò a destra. Poco più avanti era
parcheggiata una grossa Buick a quattro porte, azzurra e
bianca, con i finestrini abbassati. Sul retro, dietro lo
schienale, c’era un mucchio di mappe. Hadley proseguì,
esaminando ogni macchina parcheggiata. Giunto davanti a
una che aveva la targa del Maryland si fermò e provò la
maniglia. Lo sportello si aprì e lui si infilò subito dentro;
era una Oldsmobile vecchia di almeno dodici anni. Frugò
nel vano portaoggetti e trovò una manciata di mappe statali
unte e spiegazzate.
Hadley richiuse lo sportello e se ne tornò da dove era
venuto, stringendo le mappe. Salì le scale dell’albergo due
alla volta, entrò in camera e si sbatté la porta alle spalle.
Poco dopo aveva sparpagliato tutte le carte sul letto.
Mentre le studiava il suo cuore pompava dolorosamente.
Mappe del Colorado, Utah, Texas… stati che non aveva mai
visto, aree che una Oldsmobile di prima della guerra aveva
raggiunto e attraversato.
Non riuscì a sopportare l’eccitazione. Tremando si
rimise in piedi e cominciò a passeggiare nervosamente in
tondo per la stanza. Si esaminò la faccia nello specchio
sopra la cassettiera. Attorno alla mascella danneggiata si
stava formando una patina grigio bluastra: aveva bisogno
di radersi. I capelli erano sporchi e spettinati. Per i vestiti
non poteva fare niente: giacca e pantaloni erano laceri, la
camicia strappata e macchiata. Le labbra erano ancora
gonfie, le guance piene di tagli, ma anche lì c’era poco da
fare. In ogni caso poteva darsi una ripulita.
Raccolse gli spicci e scese di corsa le scale. Uscito sul
marciapiede entrò nel drugstore all’angolo e acquistò un
rasoio di sicurezza di poco prezzo e un pacchetto di
lamette. Quanto gli rimaneva? Diciannove centesimi…
Comprò una saponetta profumata e lasciò il negozio.
Nella stanza da bagno comune in fondo al corridoio si
concesse un bagno lungo e generoso. La pioggia fredda
martellava e gocciolava sul davanzale mentre lui se ne
stava immerso fino al collo nell’acqua bollente
dell’immensa vasca metallica, mezzo addormentato. Il cielo
era alto su di lui, striato di ragnatele, remoto. Gli arredi del
bagno erano antiquati. Appeso a una mensola c’era un
asciugamano ingiallito, consumato dall’uso frequente.
Hadley aveva ammucchiato i vestiti sull’unica sedia.
Quando ebbe finito di fare il bagno, l’ambiente era
saturo di vapore. Hadley tolse il tappo e uscì dalla vasca,
poi cominciò ad asciugarsi il corpo indolenzito. L’aria calda
e pesante sapeva di sapone, un profumo di bosco,
pungente, che lo fece rilassare e lo insonnolì. Si rase
stando in piedi nudo, chino davanti al lavandino, con il
corpo ricoperto da una patina di vapore e di sudore. Poi si
sciacquò accuratamente la faccia con l’acqua fredda,
cercando di farsi meno male possibile alla mascella. Si
pettinò e si vestì. Lisciò e spianò i vestiti meglio che poté,
stando attendo alla costola incrinata. Deterse lo specchio
con l’asciugamano e vide che, tutto considerato, non aveva
un aspetto così disastroso.
Mentre passava davanti al banco, l’impiegato lo guardò
con sospetto. Hadley gli restituì una specie di sogghigno,
attraversò l’atrio e uscì. Aveva smesso di piovere; c’era una
nebbiolina che aleggiava sui marciapiedi intristiti e sulle
macchine parcheggiate. Si avviò lungo la strada a grandi
passi, diretto verso la ferrovia e le file di palazzi che
sorgevano al di là.
Il primo autorivenditore era chiuso; una catena era stata
pesta fra un paletto e l’altro e il piccolo ufficio stuccato era
chiuso anch’esso. Nella nebbia le file di macchine
scintillavano sinistre, silenziose, come tanti animali
metallici che dovevano sopravvivere al fine settimana.
Hadley indugiò nell’esame di una grossa Cadillac rossa e
crema, poi attraversò la strada, verso un altro rivenditore.
Qui la catena era abbassata; un uomo e una donna si
muovevano disinvoltamente fra le file di macchine
parcheggiate, toccandole e parlottando animatamente fra
loro. L’uomo toccava le gomme con la punta dei piedi,
studiava il contachilometri, si acquattava e faceva scorrere
le dita sui parafanghi e sui paraurti. La donna, a braccia
conserte, gli andava dietro imbronciata. A qualche metro di
distanza c’era un uomo dai capelli rossi in maniche di
camicia che li osservava con distaccata allegria. Aveva il
volto abbronzato e spellato: era lui il venditore.
Hadley entrò e si avvicinò alla prima macchina che vide,
una Mercury azzurro pallido. Le sue dimensioni lo
stupirono; le girò intorno toccando il cofano liscio,
asciugando le gocce di pioggia dallo specchietto laterale ed
esaminando, intimorito, la tappezzeria e la gran quantità di
quadranti e manopole e leve che c’erano sul cruscotto.
Cercò di immaginare quanto potesse costare. Sul
parabrezza, a caratteri cubitali, c’era scritto:
speciale: la macchina dei tuoi sogni!
Lo sportello era aperto. Gli sembrava impossibile che
tante macchine grandi e scintillanti potessero trovarsi
insieme da un unico rivenditore. E con gli sportelli aperti…
c’erano addirittura le chiavi nel cruscotto. La macchina era
pronta a partire. Era un miracolo.
Seguì la fila delle auto ed esaminò una Buick, una Ford,
altre due Buick, una Oldsmobile, una DeSoto verde e infine
una grossa Hudson che sembrava un carro armato. Era
color grigio piombo, e luccicava per le goccioline sulla
carrozzeria come se fosse stata appena estratta da un
fiume, un ghignante mostro marino di cromo e acciaio e
vetro. Aprì timidamente lo sportello e fissò il cruscotto, il
volante, i quadranti e i pulsanti lucidi. Non ne aveva mai
visti tanti in tutta la sua vita.
Mentre era chino a esaminare la Hudson, l’uomo dai
capelli rossi mosse qualche passo e si fermò a pochi metri
di distanza.
Hadley indietreggiò goffamente. «È proprio una bella
macchina» disse imbarazzato.
L’uomo annuì con un gesto di indulgente assenso. «Lo
è.» Si appoggiò al parafango di una Chrysler cabriolet a
braccia conserte, la camicia umida di nebbia, la faccia
assente e benevola, per niente disturbato dall’aspetto
malmesso di Hadley. Adesso la coppia era uscita in strada
per discutere, e Hadley era rimasto l’unico cliente.
«Quanto costa?» chiese con voce tirata.
L’uomo si strofinò il mento con il pollice, come se stesse
facendo un calcolo su due piedi. Invece di rispondere
cominciò a muoversi attorno alla macchina. «Le ha tenute
benissimo, le gomme» disse.
«Chi?» chiese incerto Hadley.
«Il precedente proprietario. Il vicepresidente della Bank
of America, qui a Cedar Groves. La usava ogni tanto per
andarci in campagna. La banca gli ha fornito una Chevrolet
di servizio, con tanto di conto spese.» L’uomo infilò il
braccio dalla peluria rossa dentro l’abitacolo della Hudson
e premette un pulsante. Il cofano si sollevò e lui lo mise in
posizione di blocco. «Naturalmente quando prese questa
Hudson non sapeva che gli avrebbero offerto un’auto
aziendale. L’ha tenuta poco più di un anno e poi l’ha
venduta a noi. Guardi là, il filtro dell’olio.»
Hadley guardò.
«Lo vede?» chiese l’uomo indicando l’intreccio di fili e
congegni. «E la pompa della benzina è pulitissima.»
Disgustato, aggiunse: «Immagini di avere una macchina
come questa e di tenerla chiusa in un garage. È un
crimine.»
Hadley lo seguì remissivo attorno alla vettura mentre
l’altro gli spiegava le diverse caratteristiche.
«Idraulica, ovviamente» disse, rilasciando la frizione.
«Valvole con guarnizione di sicurezza, radio, riscaldamento,
c’è tutto. Ha fatto installare tutto lui, e la differenza non si
nota.» Richiuse il cofano con il palmo della mano. «Vernice
protettiva anticorrosione e antiruggine. Lei pensa di usarla
in città?»
«No» rispose Hadley esitante. «Più che altro per
viaggiare, strade statali e autostrade.»
L’uomo accettò la risposta senza fare commenti. «Vedrà
che ripresa. Schizza via che è una bellezza… come un gatto
ustionato.» Senza intonazione particolare proseguì: «Salga
su e si faccia un giro. Coraggio, la chiave è nel cruscotto.»
Hadley si sentiva debole. Aprì lo sportello e si accomodò
al volante, con gli occhi fissi sul pannello scintillante dei
comandi. «No» disse con voce roca. «Grazie, comunque.
Quanto… può costare una macchina come questa al giorno
d’oggi?»
L’uomo si concentrò. Fissò il cielo, aggrottò la fronte e
alla fine mosse le labbra. Hadley tese le orecchie, ma non
riuscì a sentire l’importo. «Quanto?» chiese di nuovo.
«Oh, diciamo quattrocento in contanti, e circa
quarantacinque al mese.» Non gli disse il prezzo preciso, e
rimase in attesa.
Hadley giocherellò con i comandi. «È una bella
macchina. Proprio bella.»
«Con questa arriverà dove vuole» convenne l’uomo
amabilmente, ed entrambi risero per l’audacia
dell’affermazione.
Con un sorriso spento sulle labbra, Hadley scese dalla
macchina. «D’accordo, questo mi da un’idea di ciò che
voglio. Devo pensarci sopra. Tornerò.»
Senza battere ciglio l’uomo replicò: «Questa macchina
non ci sarà più quando lei tornerà.»
«No?» disse Hadley, domandandosi perché.
«Oh, no» confermò l’altro. «Non questa macchina. C’è
una coppia che deve tornare a vederla oggi pomeriggio.» Si
guardò intorno quasi si aspettasse di vederli arrivare. «È
un prodotto di qualità.»
«Dovrò correre il rischio» ribatté Hadley. Quante volte
aveva detto ai suoi clienti quelle parole? Ogni parola, ogni
inflessione di quella frase erano costruite a regola d’arte;
Hadley l’aveva ripetuta per anni, sei giorni a settimana.
Però voleva la macchina. La voleva in modo spasmodico. Si
leccò le labbra gonfie e si diresse con riluttanza verso il
limitare del piazzale.
«Tornerò» promise convinto.
L’uomo annuì; trattenne il disprezzo, lo salutò con un
cenno della mano e gli voltò la schiena, spostandosi verso
l’altro lato, lontano da lui.
Hadley si affrettò lungo il marciapiede. Quale sarebbe
stata la sua prima meta? Nevada, Oregon, magari su fino al
Canada. Il mondo era spalancato davanti a lui; una
macchina come quella poteva arrivare dovunque, non
c’erano limiti. Ma lui non era sicuro di potersi procurare la
somma necessaria per la Hudson; rallentò, mentre la sua
eccitazione scemava. Quattrocento dollari come anticipo…
probabilmente il prezzo definitivo superava i mille e
ottocento.
Tutto dipendeva da quando denaro avrebbe trovato.
Cercò di ricordare come lo gestiva Fergesson… Almeno
una parte degli incassi del sabato se li portava a casa per il
fine settimana, ma nel peggiore dei casi dovevano esserci
quattro o cinquecento dollari nella cassaforte.
A un angolo tirò fuori il portafoglio e vi guardò dentro.
La piccola chiave di ottone della cassaforte era lì, insieme a
quelle della macchina di Marsha. La tirò fuori e riprese la
marcia tenendola stretta in mano. Più si avvicinava al
negozio, meglio si sentiva. Quando svoltò su Cedar Street
stava praticamente correndo. Il respiro gli sibilava nel
naso, il cuore gli batteva forte.
Le strade erano deserte. Si fermò un attimo per
guardarsi intorno: don c’era nessuno che lo guardava. E
comunque non aveva importanza. Erano abituati a vederlo
entrare nel negozio. Esaminò fuggevolmente la familiare
facciata vecchiotta, le vetrine e l’insegna al neon spenta.

MODERN TV SALES AND SERVICE

La combinazione della cassaforte era scolpita nella sua


mente; la conosceva da anni, fin dalla prima volta in cui
aveva sbirciato da dietro la spalla di Fergesson mentre lui
riponeva il denaro.
Attraverso la vetrina, l’interno del negozio era una
distesa sfocata di forme nebulose. Le file di televisori si
susseguivano immobili fino sul retro. La luce notturna
emanava una spettrale luminosità azzurrina. Stuart Hadley
si chinò e infilò la chiave nella serratura.
La chiave non girò. Non entrava fino in fondo. Hadley
rimase lì per qualche secondo, confuso, senza capire. Poi
alla fine, incredulo, capì… e il suo sbalordimento si
trasformò in una rabbia sdegnata.
Fergesson aveva cambiato la chiave. Tutt’intorno al
pannello si vedeva un bordo di legno nuovo, messo di
recente, e la serratura stessa era di metallo lucidissimo,
appena montato. Fergesson doveva averlo fatto sabato sera
dopo la partita di poker, prima di tornare a casa.
Hadley non poteva entrare, era bloccato fuori. In uno
spasimo di rabbiosa frustrazione si voltò e scagliò con
violenza la chiave lontano da sé, verso la canaletta di scolo.
La chiave rimbalzò e poi finì in mezzo alla sporcizia e alle
foglie trascinate via dal rigagnolo scuro che correva verso
la fogna.
Sconvolto, Hadley si allontanò dalla porta. Aveva voltato
la schiena al negozio e si era già avviato lungo la strada
senza una meta precisa, quando colse un movimento con la
coda dell’occhio. Girò su sé stesso di scatto, tornò alla
vetrina e vi sbatté la mano sopra. Seduto nell’ufficio al
piano di sopra c’era Jim Fergesson, con un mucchio di
cartellini segnaprezzo sparpagliati davanti a lui. Fissò
Hadley con un’espressione dura come pietra, spietata e
impassibile. Senza dire niente, senza fare niente. Dopo un
po si alzò in piedi e si mise accanto alla scrivania con in
mano una manciata di carte e fatture, sempre fissando
Hadley.
Indignato, accecato da un’ondata di crescente,
esasperata indignazione, Hadley cominciò a picchiare sul
vetro. «Mi faccia entrare!» gridò. Poi corse verso la porta e
prese a pugni anche quella. «Andiamo… mi apra! Mi faccia
entrare!»
Ma Fergesson non mosse un muscolo.
Poco dopo mezzogiorno, quella stessa domenica, Jim
Fergesson era andato da solo al Modern TV Sales and
Service. Mentre apriva la porta ed entrava, quel lugubre
silenzio lo colpì con violenza; per poco non si voltò per
andarsene.
Odiava il modo in cui le sue scarpe risuonavano sul
pavimento. Odiava la luce notturna. Si chinò e accese la
elegante vetrina con le puntine Walco, poi si raddrizzò a
fatica. Stava invecchiando. Accese anche una piccola radio
da tavolo e dopo un po quella si mise a sparare a tutto
volume la radiocronaca di un incontro di baseball.
Tirò fuori la nuova serratura Yale dalla scatoletta di
cartone che teneva sotto il braccio. Trovò un martello e un
cacciavite sotto il banco, e dopo un po era già al lavoro
sulla porta. Gli ci vollero solo quindici minuti per rimuovere
la vecchia serratura e montare quella nuova. Provò tutte le
chiavi, sia dall’esterno che dall’interno. Soddisfatto, si
richiuse la porta alle spalle, gettò la vecchia chiave nel
cestino dei rifiuti sotto il banco, poi salì lentamente al piano
di sopra.
L’ufficio era pieno di impicci, e sporco. Dovunque c’era
uno strato di polvere; c’erano mucchi di tazze e bicchieri,
piatti sporchi, carta cerata accartocciata; il cestino della
carta era pieno zeppo e c’era immondizia tutt’intorno. La
scrivania era ingombra di trucioli di matite temperate e
portacenere traboccanti di cicche; c’erano pubblicazioni
specializzate, fatture, memorandum impilati sotto il
telefono, carte e riviste e libri e numeri di telefono
scarabocchiati.
Spostò tutto da un lato e tirò fuori i cassetti con i conti
creditori.
All’esterno pioveva a dirotto; all’interno l’aria era umida
e quasi fredda. Dentro il negozio non entrava quasi mai la
luce, né l’aria fresca; era un vecchio palazzo con un solo
lucernario, oltre alle vetrine e alla porta, da cui poteva
entrare il sole. Fergesson desiderava ardentemente una
tazza di caffè caldo.
Nell’angolo, sotto il tavolino con la macchina da
scrivere, c’era la bottiglia di estratto di sedano che gli
aveva dato Hadley, e la sua bottiglia di acqua frizzante.
Entrambe erano impolverate e ricoperte di ragnatele; si
trovavano lì fin da quando Hadley ce le aveva portate le
prima volta. Nel negozio c’erano altre sue cose, le ultime
tracce che non si potevano cancellare. Il suo registro delle
vendite doveva trovarsi da qualche parte dentro un
cassetto. Sulla scrivania c’erano mucchi di cartellini che
aveva preparato lui. Al piano di sotto, nell’armadietto dei
medicinali, c’era una boccetta di Arrid, delle gocce nasali,
un po di Anacin e un tubetto di dentifricio che Hadley
usava per lavarsi i denti dopo pranzo. E poi tutti gli
interminabili, insignificanti progetti di Hadley: piccole
riparazioni, mucchietti di cavi e bulloni ai quali lavorava in
continuazione, senza requie. Cose che rabberciava,
esaminava, migliorava.
Ricordi di lui erano dappertutto. Hadley lavorava lì da
anni. In tutto quel tempo, all’interno di un piccolo negozio,
rimane molto di un uomo. Fergesson afferrò le due bottiglie
impolverate e cercò di infilarle nel cestino della carta
straccia, ma il cestino era troppo pieno. Alla fine lo prese, si
infilò le bottiglie sotto il braccio e si decise a portare tutto
giù nello scantinato, nel grosso contenitore dei rifiuti.
Lo scantinato era freddo, e faceva un po paura. L’angolo
dove c’era il servizio riparazioni era immerso nel buio quasi
completo; c’era solo una lampadina gialla sul soffitto che
riluceva debolmente quando Fergesson svuotò il cestino, si
lavò le mani e si avviò su per le scale. Buio, decadimento e
silenzio. Il caos primordiale all’opera, nel suo processo di
creazione. Sporcizia, avanzi dappertutto; il bancone da
lavoro era ingombro di batterie di vecchie radio, fili,
mucchi di valvole scartate. Nel piccolo magazzino erano
accumulate scatole vuote, segatura, assi di legno, chiodi
piegati, bottiglie di lucido, vecchi libretti di istruzioni,
martelli, cacciavite. Nessuno aveva mai il tempo di dare
una ripulita. Nessuno aveva il tempo di far funzionare bene
il negozio, come avrebbe dovuto essere.
Fergesson portò al piano di sopra scopa e straccio da
spolvero e cominciò a pulire la sala principale in cui erano
esposti i televisori. Erano tutti coperti di polvere; i ragazzi
del liceo vi avevano scritto sopra i loro nomi e anche
qualche parolaccia. Sopra un enorme combinato RCA c’era il
disegno di due grosse tette. La polvere primordiale era
stata rimossa da una creazione abortita, non fatta da lui.
Cancellò freneticamente i disegni: quelli non si erano mai
mossi, né avevano mai vissuto. Trovò uno straccio unto e
cominciò a lucidare con vigore i televisori.
Nell’ufficio al primo piano, chissà dove, perso in mezzo
al guazzabuglio di carte e biglietti, c’era il nome di un
venditore che quelli della RCA gli mandavano ogni tanto. Un
uomo magro dalla faccia inespressiva che sembrava
perennemente raffreddato. Lento e trasandato, dalla
parlantina incerta, con un sorriso meccanico e il pomo di
Adamo che andava sempre su e giù. Proprio quello che ci si
poteva aspettare dalla RCA. Una lumaca, una tartaruga che
se ne andava in giro strisciando con un sorriso ebete sulle
labbra. Un uomo mediocre senza nessuna possibilità.
Qualche trucco del mestiere, un’infinita pazienza,
impermeabile agli insulti: il perfetto venditore moderno.
Colui che doveva sostituire Stuart Hadley.
C’era Joe Tampini, ma Tampini non aveva la stoffa. Non
era un venditore nato. Era troppo timido, troppo remissivo
con la gente. Tampini non aveva grinta, non era in grado di
rimboccarsi le maniche e catturare il cliente. Non aveva la
capacità di raccontare storie intriganti, di manipolare il
cliente nel corpo e nel cervello; Tampini non architettava
incantesimi magici attorno alla sua preda. Non sarebbe
stato mai niente di più che un taccuino e una penna:
lasciava sempre che fosse il cliente a scegliere.
Stuart Hadley, seppure sepolto nel profondo, aveva
qualcosa dentro. Lì aveva avuto una possibilità. Se solo
Fergesson lo avesse incontrato prima… se fosse riuscito ad
addestrarlo, a insegnargli la via, a tirarlo su come si doveva
dall’inizio… Ma quattro o cinque anni non bastavano. Ci
voleva una vita intera.
Fergesson pensò a come sarebbe stato se avesse potuto
avere Hadley, diciamo, all’età di quindici anni. Quando
andava ancora al liceo, un ragazzino in jeans e maglietta
bianca. O ancora più giovane… a dieci anni. Quando andava
ancora alle elementari, quando era appena un bambino.
Seguire il suo addestramento mano a mano che cresceva.
Metterlo sulla strada giusta. Accertarsi che non si
riempisse di tutte quelle stupide nozioni di cui i ragazzi
oggi avevano la testa piena.
Hadley aveva venticinque anni, era nato nel 1927. Se
solo fosse riuscito a metterci le mani sopra prima di
Franklin Delano Roosevelt… prima del New Deal. Durante
tutti quegli anni folli di liberalismo idealista, quegli anni in
cui i sinistrorsi erano a capo della nazione. E la
governavano ancora. Sidney Hallman, quell’ebreo russo.
Morgenthau, un altro ebreo. E il peggiore di tutti: Harry
Hopkins.
Il ricordo di Harry Hopkins passò come un lampo
davanti a Fergesson e al grosso Philco che stava lucidando.
Il corpo ricurvo, angoloso. Il sorriso sghembo. Le guance
scavate, gli occhi febbrili. L’andatura penosa da ‘mezzo
uomo’. Qualcosa di simile al venditore che gli aveva
mandato la RCA. Sempre più spesso venivano su in quel
modo. Uomini alti dallo sguardo vacuo, che sorridevano in
modo ebete e bonaccione, segnati dall’impronta di
Roosevelt. Gli uomini piccoli, seri e scrupolosi non c’erano
più. La vecchia razza, quelli che erano venuti prima e
avevano costruito il paese. Gli uomini che fumavano sigari.
I piccoli uomini pratici che avevano generato questi
sognatori dagli occhi vuoti.
Se avesse avuto un figlio, sarebbe venuto su in quel
modo? Fergesson continuò a lucidare con sempre maggior
vigore. No, suo figlio non sarebbe stato così. Suo figlio
sarebbe cresciuto in modo differente. Se ne avesse avuto
uno, sarebbe dovuto crescere dritto.
Dopo aver finito di lucidare, Fergesson gettò sotto il
banco lo straccio unto, spense la radio e se ne tornò in
ufficio al piano di sopra. Tolse la fodera alla calcolatrice e
cominciò a battere l’elenco dei conti creditori. Mentre se ne
stava seduto alla scrivania a controllare la strisciata, giunse
un debole suono che riecheggiò, secco e metallico, nel
silenzio del negozio.
C’era qualcuno alla porta. Fergesson alzò gli occhi, con
la matita appoggiata sulla striscia di carta. Sulla soglia
c’era una forma indistinta, scura e opaca. Gli ci volle un
momento per riconoscerla; all’inizio pensò che fosse un
cliente distratto che cercava di entrare, magari per farsi
riparare una radio o sostituire una valvola. Poi si accorse
con una fitta di angoscia che era Stuart Hadley.
Per un momento si alzò in piedi e rimase a guardare
Hadley che tentava inutilmente di aprire la serratura, lo
vide arrossire di rabbia e gettare la chiave per strada. Lo
vide allontanarsi dalla porta, poi voltarsi all’improvviso e
tornare indietro, appoggiando la mano e la faccia sul vetro.
Il suono della voce di Hadley gli giunse fiacco e ovattato
dallo spesso vetro antiurto. «Mi faccia entrarci»
Un suono spettrale. Fergesson ascoltò, sentì le parole,
poi rimise a posto il nastro della calcolatrice… Aveva
cominciato a scivolare giù. Si sforzò di ignorare Hadley,
cercò di far finta che in strada non ci fosse nessuno che
picchiava e strillava. Il rumore attutito dei pugni di Hadley
sul vetro si riverberava per tutto il negozio, così sinistro e
minaccioso da disturbare il suo lavoro e rendergli
impossibile continuare.
Dopo un po il rumore cessò. Immobile e impotente,
Hadley continuò a sbirciare stupidamente dentro il negozio.
Quella scena fece innervosire Fergesson; non lo capiva,
quell’idiota, che non poteva entrare? Cercò di riprendere il
lavoro, ma non ci riuscì. Quella forma opaca rimaneva fuori
dalla porta, nascondendo alla vista il marciapiede grigio e
le macchine parcheggiate.
«Mi faccia entrare!» gridò di nuovo Hadley.
Fergesson trasalì; il nastro gli scivolò dalle dita e lui
sedette immobile a testa bassa, in attesa della prossima
sfuriata. Capì che stava per arrivare; si preparò e irrigidì il
corpo.
Non avrebbe mai immaginato che in Hadley ci fosse
tanta ostilità. Non aveva mai compreso fino in fondo la
reale portata della sua rabbia; adesso stava emergendo
tutta insieme. Fergesson ne fu stupito e spaventato. Tentò
di nuovo di ricominciare a lavorare, ma era inutile. Non
c’era nessuna possibilità di ignorare ciò che stava
avvenendo al di fuori del suo negozio; non poteva fingere
che non ci fosse nessuno.
Echi rimbombanti percorsero tutto il locale; Hadley
stava picchiando sul vetro con tutto il peso del corpo.
Sconvolto, Fergesson alzò involontariamente gli occhi.
L’espressione sulla faccia di Hadley era cupa e cattiva: una
repressa frenesia animalesca gli offuscava gli occhi e gli
arrossava le guance, dandogli un’aria malata. Era tutto
schiacciato contro la porta, guardava dentro senza vedere
niente, in cerca di qualcosa di vivo su cui concentrare
l’attenzione.
Non aveva intenzione di andarsene.
Fergesson si sentì travolgere dalla paura e dalla
vergogna. Non per sé stesso, ma per Hadley. Dietro di lui si
era formato un piccolo capannello di gente, passanti attirati
dal fracasso. Gli lanciavano occhiate rapide, ironiche…
Fergesson si voltò, umiliato, domandandosi se sarebbe
riuscito a sopportare ciò che stava avvenendo.
Domandandosi se poteva esserci un senso o un significato
in un mondo nel quale certe cose erano permesse.
«Mi faccia entrare!» urlò Hadley.
Era inutile dire di no. Non c’era bisogno di dirlo, era
evidente. Fergesson non si prese nemmeno il disturbo di
guardare; si concentrò sulla striscia di carta sul bordo della
scrivania. Il fermacarte era un globo vuoto dentro il quale
si vedeva una scena in miniatura, una piccola casa, un
albero, un vialetto di ghiaia. Sopra il tetto della casa
svolazzavano frammenti bianchi: particelle che fluttuavano
nel liquido all’interno del globo quando lo si rigirava.
Silenzio.
Fergesson alzò cautamente lo sguardo. Hadley era
scomparso. Se n’era andato? Aveva rinunciato? Aveva
finalmente capito che non poteva più tornare indietro, che
si era giocato il diritto di essere accettato in quel luogo per
via dei suoi stessi comportamenti, per colpa sua? Mentre
Fergesson cominciava a riprendere fiato, Hadley
ricomparve. Stringeva qualcosa in mano. Un mattone.
Fergesson balzò in piedi. Abbrancò il telefono e
compose un numero. «Mandate un poliziotto» disse al
centralinista che gli rispose dal centro operativo.
«Sissignore» fece pacatamente il centralinista. «A quale
indirizzo?»
Fergesson gli diede l’indirizzo e sbatte giù il telefono.
Era a metà delle scale, quasi al piano terra, quando il
mattone infranse il vetro. Lo sentì, più che vederlo, sentì il
vetro esplodere con fragore mentre la porta si rompeva.
Giunto nella parte anteriore del negozio vide che Hadley
era riuscito ad aprire nel vetro un buco grosso come un
pallone da basket. Dal buco faceva capolino la sua testa,
infuriata e distorta, segnata da sottili strisce di sangue
dove i bordi scheggiati lo avevano ferito.
Mentre Fergesson guardava, Hadley riuscì a infilare un
braccio e armeggiò in cerca della maniglia interna. Non
faceva nessuna differenza; la porta era chiusa a chiave e la
chiave era nella tasca di Fergesson. Hadley continuò a
tastare l’interno, staccando ed esaminando le schegge di
vetro che gli bloccavano il passaggio. Poi, all’improvviso,
appoggiò la spalla al buco e spinse con tutta la forza che
aveva.
Il vetro si riversò nel negozio, cadendo rumorosamente
al suolo. Un’intera sezione cedette e precipitò verso
l’interno; il buco era diventato una fessura diagonale alta
quaranta centimetri e larga venti. La giacca di Hadley era
strappata e gli penzolava a brandelli sulle braccia e sulle
spalle. Nessuno si mosse, nessuno fece il minimo tentativo
di avvicinarsi a quell’uomo impazzito. Osservavano tutti,
pallidi in volto, affascinanti e terrorizzati, mentre Hadley si
ritraeva e si piantava a gambe larghe, ansimando e
detergendosi il sangue dalla faccia.
«Mi faccia entrare!» lo implorò. Adesso la sua voce gli
giungeva distinta, un suono nudo, straziato, non
particolarmente umano. Ma Fergesson non fece la minima
mossa per aprire ciò che rimaneva della porta. Si limitò ad
ascoltarlo, teso e rigido, domandandosi dove fosse la polizia
e perché non era ancora arrivata.
Sapeva ciò che avrebbe fatto Hadley prima ancora che
si muovesse. Per un momento si bilanciò sulla pianta dei
piedi, ondeggiando e cercando di trovare l’equilibrio giusto.
Poi, a testa bassa e spalle in avanti, si lanciò verso lo
squarcio frastagliato nella porta. Colpì con forza
incredibile: il vetro esplose e schizzò dappertutto, addosso
a Fergesson, sul pavimento, sui televisori, sul banco.
All’esterno la folla seguiva la scena inorridita.
Hadley era incastrato nel buco. Straziato, un grottesco
oggetto sanguinante, si dimenava impotente. Il corpo era
piegato in modo innaturale, era solo un conglomerato
passivo di muscoli e riflessi, privo di un’intelligenza
centrale. Le dita ferite si facevano strada sul bordo
frastagliato di vetro; un brivido lo scosse, poi Hadley
cominciò lentamente a strisciare verso l’interno. Dalla
schiena e dalla braccia gli pendevano schegge di vetro
incastrate nella carne. Il bianco scioccante degli zigomi
trasudava un liquido scintillante. L’occhio sinistro
penzolava sulla guancia; parte della mandibola era stata
tranciata.
Mentre quella cosa fremente, ancora animata, si
trascinava dentro il negozio, la sirena dell’ambulanza
genette sinistra sul marciapiede. Apparvero dei poliziotti, e
la folla si spostò di lato per farli passare. Si avvicinarono
subito alla porta del negozio.
Fergesson avanzò e aprì. Riuscì a farlo prima di sentirsi
male, molto male, in un angolo all’estremità del banco,
dove l’azzurro spettrale della luce notturna baluginava
desolatamente. La squadra medica entrò nel negozio. Dopo
un prolungato intervallo sistemarono Hadley sulla barella e
lo portarono via. Poco dopo la sirena tornò in vita e
l’ambulanza si fece strada nel traffico.
«È lei che ha chiamato?» stava dicendo un poliziotto a
Fergesson. «Lei è il proprietario del negozio?»
«Sì» biascicò Fergesson, e poi si accasciò sul bordo
della vetrina, fra i cartelloni e gli stracci per spolverare,
accanto alla pistola sparagraffette. «È molto grave? Se la
caverà?»
«Starà benissimo» rispose il poliziotto. «Lo
rappezzeranno. In buona parte, almeno.» Aveva tirato fuori
la penna e il taccuino, mentre un altro poliziotto stava
allontanando la folla di gente incuriosita e spaventata.
«Conosce quell’individuo?»
«Sì» rispose Fergesson. «Lo conosco. Conosco
quell’individuo.»
«Vuole sporgere denuncia? O preferisce lasciar
perdere?» Il poliziotto girò un foglio del taccuino. «Forse
sarebbe meglio che lasciasse perdere.»
«Lascio perdere» acconsentì Fergesson. «Non voglio
sporgere nessuna denuncia.»
«Lei è assicurato?» chiese il poliziotto, indicando i
frammenti della porta a vetri. Uno degli altri poliziotti stava
goffamente cercando di richiuderla.
«Sì» disse Fergesson. «Sono assicurato da vent’anni.»
Dallo squarcio disuguale della porta filtravano suoni, il
mormorio delle auto e il parlottare soffocato della gente.
Suoni discontinui portati dal vento, voci mescolate, umane
e meccaniche, che venivano dalla strada.
«Chiamerò sua moglie» disse Fergesson rimettendosi
faticosamente in piedi.
«Possiamo chiamarla noi» si offrì il poliziotto.
«È colpa mia» replicò Fergesson, dirigendosi verso il
telefono e afferrando la cornetta. «Perciò la chiamo io.»
4
Notte

Sul sedile anteriore della Hillman Minx, Dave Gold


stringeva il volante e studiava solennemente la strada
davanti a sé. Guidava con prudenza, consapevole della sua
responsabilità. Evitò le buche e i solchi della strada: la
minuscola auto inglese scivolò in mezzo al traffico, oltre i
binari della ferrovia, oltre le fabbriche e i luridi negozietti,
oltre le torreggianti case di legno, sciupate dall’età e dalla
consunzione.
«Ti fa male la costola?» chiese ansiosamente Laura,
voltandosi sul sedile per guardare Stuart Hadley.
«È tutto a posto» replicò Stuart.
Seduta accanto a lui, Ellen gli strinse la mano. «Siamo
quasi arrivati. Spero che non rimarrai troppo male… non
assomiglia molto alla casa che avevamo. È piccola…»
Gesticolò nervosamente. «Insomma, è ridotta male, tesoro,
ma si può sistemare; può diventare deliziosa.»
Laura Gold continuava a fissare intensamente Stuart.
«Come va la mandibola?» gli chiese.
«Bene» rispose lui sorridendo appena. «Guarirà del
tutto.»
Soddisfatta, Laura si lasciò andare sul sedile e rivolse
l’attenzione alla strada. «Fa caldo» constatò. «Dave, metti
l’aria condizionata. Sto cuocendo.»
«Non so come si fa» ribatté Dave. «Guarda nel vano
portaoggetti, dovrebbe esserci il libretto di istruzioni.»
«Che l’hai comprata a fare se non sai farla funzionare?»
gli domandò Laura. Ridacchiò e si voltò verso Stuart ed
Ellen. «Ha voluto tutti gli extra. Ha perso la testa, il
cretino.»
«Devo avere una macchina» disse cocciuto Dave. «Mi
serve per lavorare.»
«Non vuole che la porti io» aggiunse Laura. «È troppo
bella perché la guidi io. È la sua macchina, non la mia.»
Fece l’occhiolino a Ellen. «Il leone afferma la sua autorità.»
Poi fece lo stesso con Hadley. «Se così si può dire.»
All’inizio Hadley non vide la casa. Si trovava sul lato
sinistro della strada, quello dal quale non vedeva. Ellen
guardò ansiosa, stringendo Pete, mentre Hadley scendeva
faticosamente dalla macchina sul marciapiede. Il sole
ancora caldo di fine settembre gli picchiava addosso e lui
rimase lì, sbattendo gli occhi e adattandosi a tutta quella
luce. Poi allungò la mano per prendere Pete e Ellen lo
seguì.
«Che te ne sembra?» gli chiese subito, con gli occhi
accesi e indagatori.
Mentre Hadley studiava l’edificio decrepito, la Hillman
Minx si riavviò tossicchiando e lo superò. Dave e Laura
rivolsero loro grandi saluti con le mani; la piccola macchina
scomparve rapidamente nel traffico. Stuart e Ellen
rimasero da soli sul marciapiede.
«Dove vanno?» chiese Hadley, con una leggera
curiosità.
«Torneranno più tardi.» Ellen lo prese dolcemente per
un braccio. «Vuoi entrare? Ti senti pronto?»
«Certo» disse Hadley. Dimenticò i Gold e si avviò con
passo rigido verso la casa.
L’antica struttura di legno era stata un tempo una
residenza rispettabile e imponente; quando quella parte di
città era nuova, la casa dominava l’isolato. I suoi pinnacoli
ornati indicavano che il suo periodo migliore lo aveva
vissuto a cavallo fra i due secoli. I lati erano tutti ricoperti
da sassi scuri che sembravano capelli ruvidi; macchiati e
spezzati, i sassi si allungavano in file disuguali fino al tetto.
La casa aveva tre piani. Una ringhiera di ferro arrugginito
cingeva l’ampio terreno circostante; in un angolo, accanto a
quello che una volta era stato un garage, c’era una palma
ridotta piuttosto male. Dalle finestre dei piani superiori
penzolavano tendine lacere. Il tetto di asfalto era di un
rosso opaco e corroso. Attorno al vialetto di cemento grigio
pieno di crepe c’erano dei gerani secchi. La grossa veranda
anteriore era ridotta a una serie di assi piegate e
scheggiate, una distesa di blu sbiadito su cui poggiavano
una sedia di vimini e una pianta in vaso; in un angolo c’era
una pila di giornali mezzi marciti.
«Una mano di tinta» disse speranzosa Ellen «gli
darebbe certamente un altro aspetto.» Guidò il marito su
per i tre gradini di cemento, fino al pesante cancello e
rimase ad aspettare mentre lui armeggiava doverosamente
con il chiavistello. «Dev’essere piuttosto vecchio.»
«Qual è la nostra parte?» Spostò il cancello per farla
entrare, poi lo richiuse. Debole e indeciso si avviò verso la
veranda; Ellen lo bloccò e lo condusse con dolcezza lungo il
fianco della casa.
«Non dobbiamo andare in quella direzione, abbiamo il
nostro ingresso.» Mentre camminavano gli spiegò, eccitata:
«La proprietaria, la signora Nevin, vive all’ultimo piano. Ha
la casa piena di mobili; li ho visti quando ho risposto
all’annuncio. Il secondo piano, secondo lei, è abitato da una
giovane coppia di Los Angeles, due tipi piuttosto
strampalati; lui è uno scrittore e lei hai degli amici che la
vengono a trovare quando lui non c’è. Quelli che stanno al
piano terra sono molto tranquilli, anche se ogni tanto
danno qualche festa, ma non dura mai fino a tardi, a parte
quella volta in cui la signora Nevin è scesa giù e ha detto
loro di smetterla.»
«E noi?» chiese Hadley.
«Noi siamo in basso. Nello scantinato.» Ellen si chinò e
abbassò la maniglia di una porticina. «È chiusa.» Tirò fuori
la chiave e l’aprì. «Comunque qui ci abitiamo noi. Ci
presentiamo come il signore e la signora Mole. Ti
dispiace?»
A lui non dispiaceva. Entrambi si ritrovarono in un
ambiente buio e umido; Ellen scostò una tenda impolverata
e la luce del sole si riversò dentro. Il soffitto era ingombro
di tubi del riscaldamento, grossi condotti metallici ricoperti
di ragnatele e di sporcizia. Lungo la parete correvano le
tubature dell’acqua e del gas: la stanza era lunga,
opprimente, con il soffitto basso, senza il minimo rumore.
Non c’erano mobili. Due pareti erano prive di finestre, e
oltre una terza si vedeva la vecchia palma. Da un lato c’era
una porta che si apriva su un’altra stanza; Hadley passò
Pete a sua moglie e vi entrò.
In fondo al lungo e basso salottino c’era una minuscola
cucina rimediata alla meglio. Una grossa ghiacciaia era
appoggiata in un angolo; un acquaio e una macchina del
gas consumata e annerita completavano l’arredo
dell’ambiente. «Niente credenza?» chiese Hadley, divertito.
«Nella stanza successiva» disse Ellen, seguendolo.
Oltre la cucina si diramava una serie di piccole celle, un
labirinto di passaggi che terminavano in un tinello, due
camere da letto, un bagno, una cabina doccia e infine una
lavanderia. C’era inoltre una stanza aggiuntiva, ricavata
dalla cantina originale, e ancora non reclamata; il
pavimento era sporco, bagnato e irregolare. Le pareti di
cartongesso erano ingiallite e piene di chiazze. Su tutto
l’appartamento gravava un odore pesante di umidità e di
muffa. Un topo sgambettò da qualche parte dentro i muri,
ma a parte quello non si sentiva alcun suono. La palma
tagliava fuori i rumori della strada. Il soffitto sopra di loro
era denso, impenetrabile. Erano del tutto isolati.
«Direi» commentò Ellen, nostalgica «che è una specie di
segreta.»
«Va bene» disse Hadley. «E non parliamo di segrete.»
Ellen arrossì, sentendosi colpevole. «Scusa. Volevo dire,
tu non la pensi così, vero? Non è poi così squallido;
possiamo dargli una sistemata.»
«Credo di sì» concordò Hadley. Si mise a girellare con le
mani in tasca, esaminando ogni stanza. In uno sgabuzzino
si ritrovò improvvisamente di fronte a sé stesso: dai
frammenti di uno specchio rotto infilato in una scatola per
scarpe scorse la sua immagine ferita e deformata. Fu un
colpo duro; richiuse la porta e uscì a passo pesante dallo
sgabuzzino nella dispensa.
«Una cosa la so» disse ironicamente a Ellen. «Non sarò
più il bel ragazzo dietro il banco. Quello è morto e sepolto.»
«Davvero?» replicò Ellen senza capire. «Bene, ne sono
contenta.»
Hadley indicò la cavità vuota in cui aveva alloggiato il
suo occhio. «Intendevo questo.» Si toccò la mandibola
bendata e sformata. «E tutto il resto.»
Ellen si mise a sfaccendare con l’acquaio. «Qui bisogna
pulire per bene; mio Dio, è lurido.» Staccò alcuni giornali
fissati al muro con puntine da disegno. «Ci sarà da
scrostare tutto, l’appartamento intero.»
«Mettiamoci al lavoro» disse Hadley.
«No!» Ellen si voltò di scatto, ansiosa in volto, quasi
implorante. «Tu non devi fare niente; devi stare a riposo
almeno per altri due mesi. La tua costola…» Gli appoggiò le
mani sulle spalle e lo guardò seria negli occhi. «Ti prego.»
Hadley andò alla porta e si chinò per spalancarla. Con la
punta del piede vi incastrò sotto un pezzo di cemento e
rimase per un po sulla soglia, voltando la schiena alla
moglie. Pete, appoggiato in un angolo della stanza,
cominciò a lamentarsi: aveva la faccia gonfia e paonazza e
dimenava furiosamente le braccia.
«Che gli prende?» domandò Hadley girandosi verso di
lui.
«Si è punto sulla mano.» Ellen gli tolse qualcosa. «Ecco
qui, qualunque cosa sia. Un chiodo, credo.» Si sfilò la
giacca e la gettò sul davanzale. Per il lavoro che l’aspettava
aveva indossato un paio di vecchi jeans scoloriti e una
camicetta di tela tutta macchiata di vernice; scalciò via le
scarpe e cominciò a raccogliere gli oggetti che aveva già
portato la settimana prima.
«Ci siamo» annunciò. Portò il secchio di zinco in cucina
e ci versò dentro del sapone in polvere; mentre l’acqua
calda lo faceva gorgogliare, strappò delle strisce di cotone
da un lenzuolo dimesso e si coprì i capelli con una specie di
bandana. «Tu mettiti seduto» ordinò al marito «oppure
esci. Io comincio dalle pareti.»
Infilò la grossa spazzola nell’acqua saponata e cercò
qualcosa su cui salire. «Non riesco a raggiungere il
soffitto» disse con voce lamentosa. «Vedi… se trovi
qualcosa.»
Hadley andò nel decrepito garage e le procurò una
cesta di legno sulla quale Ellen poteva arrampicarsi. Lei vi
salì sopra, riconoscente, e cominciò a spazzolare il soffitto;
l’acqua sporca gocciolò lungo le sue braccia nude, dentro le
maniche arrotolate, e anche sulla faccia. Gli sorrise felice,
con gli occhi grandi e pieni di speranza.
«Sono brava?» gli chiese.
«Te la cavi benissimo» replicò Hadley. «Ma credo che
sia ora di fare una pausa e concederci una birra.»
«Dovremo procurarci del ghiaccio» gli ricordò Ellen.
«Per la ghiacciaia… Anzi, credo sia meglio pulire quella per
prima.» Arricciò il naso. «Non ha un buon odore.»
Hadley si sedette con cautela sui gradini, a ginocchia
larghe, stringendo le mani. La luce calda del sole autunnale
gli picchiava sulla faccia; socchiuse gli occhi e guardò da
un’altra parte. C’era una leggera brezza che agitava le
foglie della palma, un fruscio metallico, sonoro e pesante,
come un uccello molto vecchio che si agitava irrequieto nel
sonno.
Il sole lo fece sentire meglio. Ne godette fino in fondo; il
suo corpo si rilassò, e un po di quella sofferenza sorda che
gli martoriava le giunture se ne andò. Ogni parte del suo
corpo gli faceva male, dove più dove meno, e quel dolore
costante era diventato un sottofondo, una presenza discreta
che pian piano si era ritirata al di sotto del livello della
coscienza. La vuota oscurità di una parte del suo cervello…
quella era la cosa peggiore. Concentrò volutamente
l’attenzione su una gatta che avanzava in mezzo alle
macchine dall’altro lato della strada. Però ci vedeva
abbastanza bene, era ancora in grado di camminare da
solo. E col tempo la sua costola si sarebbe sistemata.
Quasi tutto di lui sarebbe guarito. Se fosse rimasto
seduto al sole abbastanza a lungo, forse anche il suo occhio
sarebbe ritornato, gli sarebbe ricresciuto, piccolo all’inizio,
poi sempre più grosso fino a raggiungere le dimensioni
giuste. Anche se non gli sembrava troppo probabile. Più ci
pensava, più dubitava che una cosa del genere potesse
verificarsi. L’idea si dileguò rapidamente, e lui la lasciò
andare via con qualche rimpianto. Quello che gli era
successo aveva lasciato un marchio permanente; migliorato
o peggiorato che fosse, non era più lo stesso Stuart Hadley.
In effetti, sotto molti punti di vista, non era per niente
Stuart Hadley. Una volta si era domandato chi fosse Stuart
Hadley. Adesso non aveva importanza, visto che lui aveva
solo un rapporto remoto e distaccato con Stuart Hadley. Il
nome non gli smuoveva niente dentro, era un’eco che lo
lasciava quasi indifferente, nonostante apparisse su tutti i
suoi documenti. Era qualcosa a cui rispondere, e fino a quel
punto lo tollerava.
Insonnolito, tirò fuori le sigarette e i fiammiferi. Ne
accese una e allungò cautamente le gambe. Dei bambini
passarono oltre la ringhiera metallica sospingendo una
bicicletta. Lo guardarono, e le loro voci si spensero non
appena notarono il suo volto massacrato. Lui non disse
nulla, e i bambini si allontanarono subito, ma stavolta più
silenziosi.
Era destino che andasse così. Era marchiato, e
marchiato dove si vedeva. Nessuna vecchietta sarebbe più
venuta a chiedergli di riparare la sua radio. Niente più
battute con la bella brunetta al sifone della soda di
Woolworth. Però non provava risentimento nel rendersi
conto di questo: il sole caldo lo faceva rilassare e lo
rasserenava.
«Posso avere una sigaretta?» chiese Ellen con il fiato
grosso, scendendo dalla cesta e tirandosi via i capelli dagli
occhi. Andò verso di lui e si accucciò; l’acqua sporca si era
rappresa sulla faccia e sulle mani. Mentre Hadley le
porgeva la sigaretta, lei si sporse in avanti e lo baciò alla
base del collo.
«Molto presto potrò darti una mano» le disse. «Per
quando ci trasferiremo.»
«Ci trasferiremo dopodomani» lo contraddisse Ellen,
sbrigativa. «Adesso sto solo dando una pulita per renderlo
abitabile; più tardi potrai lavorarci per migliorarlo.»
«Quanta roba vuoi far portare da casa dei tuoi?»
«Solo i nostri letti. E i nostri vestiti. Piatti… oggetti
personali.» Si raddrizzò. «Non ti dispiace restarci ancora
per un paio di giorni, vero?»
«No» rispose lui. Ormai poteva sopportare tutto.
«Potremmo stare con i Gold.»
«Non importa. Hai tenuto i mobili del salotto? Quelli
erano stati pagati.»
«Sì» rispose Ellen. «I mobili del salotto, i letti, quella
grossa lampada, i tappeti e l’argenteria. Tutta la roba
piccola l’ho impacchettata. Tutto a parte il frigorifero, la
macchina del gas e il televisore. Ho lasciato che se li
portassero via… Non valeva la pena di pagare per farli
trasportare.»
«Vuoi dire che non avevamo scelta?»
«Tu… tu li volevi?»
«No» disse Hadley. «Possiamo usare la ghiacciaia.»
Cinque settimane nella prigione dell’ospedale di contea gli
avevano insegnato a fare a meno di un sacco di cose.
Ellen tornò al suo secchio e ai suoi stracci. «Abbiamo
ancora il tostapane e la caffettiera elettrica e il frullatore
Waring. Tutti gli attrezzi di cucina…» La sua voce assunse
un tono sconfortato. «Non potevo darli indietro… e
comunque ci avremmo ricavato solo pochi dollari.»
«Bene» esclamò Hadley in tono allegro.
«Però direi che qualcosa possiamo spendere.»
«Staremo benissimo» disse Hadley. Soffiò una nuvoletta
di fumo verso il cortile, in mezzo ai gerani e alle iberidi
sempreverdi. Si domandò oziosamente se esistesse un
modo per segare una palma adulta.

Hadley trascorse il mese successivo riposando e


riprendendosi, gironzolando per i diversi ambienti dello
scantinato. Lentamente il suo corpo stava guarendo, e pian
piano gli tornavano le forze. Era stato molto male, e ci
voleva un bel po di tempo per recuperare ciò che aveva
perduto. E non tutto lo recuperò. Alla fine rinunciò ad
aspettare; sapeva che non c’era più niente in arrivo, quanto
aveva era tutto ciò che avrebbe mai avuto, per il resto della
sua vita.
Prima di dipingere l’appartamento passò tutte le pareti
con una spazzola d’acciaio. Raschiò la vecchia tinta dalla
struttura di legno e fece di tutto per recuperare il colore
originale. Sotto la patina di economico smalto bianco c’era
un delizioso legno di noce, piuttosto antico; lentamente,
con riluttanza, la grana e il colore originale riemersero. Ci
lavorò a lungo e con pazienza.
Mentre Hadley raschiava, strofinava e ripuliva, Ellen
non faceva che andare avanti e indietro dal lavoro; mentre
Hadley si riprendeva, lei aveva trovato un impiego come
stenodattilografa presso un ufficio commerciale del centro.
Hadley si prendeva cura di Pete e dell’appartamento. Per la
prima volta nella sua vita ebbe lunghe mattine vuote
durante le quali pensare e familiarizzare con sé stesso. Nei
giorni feriali non c’ erano rumori, a parte radio lontane che
trasmettevano commedie ad alto volume, e lo stridore dei
freni quando i furgoni del lattaio e del panettiere
arrivavano sfrecciando lungo la strada.
A mano a mano che la sua costola guariva, riuscì anche
a cominciare a pitturare. Passava ogni sabato nei negozi
che vendevano accessori per pittura immerso fra colori di
ogni tonalità, flatting, smalti, vernici a olio e ad acqua, e
quelle nuove a base di gomma, pennelli e rulli, pistole
spray, trementina, carta vetrata e tutto ciò che riguardava
la verniciatura della casa. Quando acquistava sceglieva con
calma, con solennità, e si portava a casa un cartone di
colori semplici e materiali di base con cui lavorare.
Con molta attenzione, passo dopo passo, si costruì la
strada per andare avanti. Fu lento e doloroso: se ne stava
tutto il giorno su uno sgabello a scartavetrare, a ripulire, a
tamponare, a togliere la polvere e lo sporco di anni, a
scorticare fino alla sostanza autentica che c’era sotto, al
materiale genuino che era stato ricoperto, sepolto sotto
strati di artificioso vecchiume. Mentre lavorava, dalla solida
struttura sottostante cominciarono a emergere tinte
semplici e misurate. Si dedicava a un metro quadrato per
volta, con l’attenzione tutta concentrata su ciò che
facevano le sue mani, mettendo tutto sé stesso nel lavoro.
Dopo aver ripulito e ridipinto, fu la volta degli arredi.
Ordinò in un grande magazzino una serie di tubi
fluorescenti e trascorse un’intera giornata ad assemblarli, a
collegare gli starter, a strappare i vecchi fili consumati e a
sostituirli con nuovi cavi in solido alluminio. Di notte
l’appartamento odorava di vernice, e di gas che fuoriusciva
dalla vecchia cucina. Dalle finestre aperte penetrava
l’odore dell’erba d’autunno che si seccava nei campi e nei
giardini. Ellen sedeva sul letto e rammendava i buchi
provocati dalle tarme nel copriletto, mentre Hadley si
dedicava pazientemente a riparare lo scarico del gabinetto.
Avrebbe voluto anche installare un riscaldamento
migliore, ma quello poteva aspettare, visto che ancora
mancava un po di tempo all’arrivo dell’inverno. Procedeva
metodicamente, un passo dopo l’altro; imparò di nuovo
tutto quello che c’era da imparare, ripartì dall’abc.
Progrediva con lentezza, come può succedere a un uomo
indebolito, in convalescenza da una terribile malattia. Si
rendeva conto di quanto fosse stato male, e si prendeva
tutto il tempo necessario per guarire e tornare quello di
prima.
Con addosso un vecchio paio di jeans sdruciti e
macchiati, scarpe da tennis e camicia di cotone pesante, il
collo cotto dal sole, le braccia sudate, si acquattò in
giardino e cercò di preparare nuovi gradini di cemento. Era
una cosa di cui non sapeva niente: all’inizio fallì, e per il
momento mise da parte l’idea. Non poteva aspettarsi di
riuscire subito… Tornò nell’appartamento a riesaminare la
situazione delle tubature.
Un pomeriggio, mentre stava lavorando alla canna
fumaria della cucina, vennero a trovarlo Olsen e Joe
Tampini.
«Sta venendo piuttosto bene» osservò timidamente
Tampini muovendosi per l’appartamento. La vista del
camioncino del negozio parcheggiato fuori suscitò una
strana sensazione in Hadley; la ignorò e versò le birre per i
due ospiti.
«È un quartiere da schifo» borbottò Olsen accettando la
birra. «Grazie.»
Si sedette impacciato sul divano e si piegò in avanti,
senza sapere bene cosa dire. «È un bel po che non ci si
vede» osservò alla fine. «Come te la passi?»
«Bene» rispose Hadley.
«Certo che hai combinato un bel casino» considerò
Olsen studiandolo brevemente. «È toccato a me montare la
porta nuova.»
Hadley annuì senza rispondere.
«Il vecchio Fergesson si è preso una bella paura per
colpa tua» continuò Olsen, leccandosi la schiuma della
birra dal labbro superiore baffuto. «Per poco non se la
faceva sotto… E da allora non è stato più lo stesso. Lo hai
proprio sconvolto.»
Tampini confermò. «È diventato molto più tranquillo.
Adesso non strilla mai a nessuno.»
«Mi fa piacere sentirlo» disse distrattamente Hadley.
Non gli dispiaceva sentire parlare del negozio, ma faceva
fatica a concentrarsi sul pensiero. «Come va il lavoro?»
«Di merda» rispose accalorato Olsen. «Fergesson ha
licenziato Jack White e lo ha sostituito con un coglione che
gli ha mandato la Meyberg.»
«Io sto al piano» spiegò Tampini. «Oggi ho venduto un
combinato Zenith; siamo qui perché lo dobbiamo
consegnare.»
«Bene» disse Hadley sorridendo. «Come sta la tua
ragazza?»
«Ci siamo sposati» riuscì a rispondere Tampini, travolto
dalla timidezza. Sotto la camicia Arrow il petto era gonfio
di orgoglio. «Senta, perché qualche volta non venite a cena
da noi? Virginia è un’ottima cuoca.»
«Lo farò» promise Hadley.
I due uomini esitarono. «È stato bello rivederti,
Mezzasega» disse poi bruscamente Olsen. «Quel buco non
è più lo stesso.» Non guardò in faccia Hadley. «Mi dispiace
che te ne sei andato, ma sono felice che abbia detto il fatto
suo a quello stronzo di Fergesson. Magari una volta fallo
anche per me.»
Hadley non replicò.
«Ho sempre pensato che tu non fossi il tipo da stare in
un cesso di negozio come il Modern» proseguì Olsen. «Se
avessi un po di fegato, anch’io gli direi di andare a farsi
fottere e mi licenzierei subito. Ma so già che non lo farò. Lo
so bene che sono un coniglio.»
«Io non l’ho mai pensata così» disse Hadley.
«Be’,» ribatté Olsen, ruttando «forse non ne valeva la
pena.» Gesticolò in direzione della faccia di Hadley. «Hai
un aspetto orribile con quell’occhio mancante; perché non
te ne metti imo di vetro? C’è un tizio, un amico mio, che ha
perso un occhio in guerra e se n’è fatto mettere uno di
vetro. Comunque sono contento che tu abbia fatto quello
che hai fatto. E tutto sommato non hai un’aria così brutta.
Sembra che non te la passi poi tanto male.»
Meditabondo, Hadley replicò: «Mi sento abbastanza
bene. Sono solo un po’ stanco.»
I due uomini si alzarono. «Dobbiamo andare» disse Joe
Tampini, serio in faccia. «Magari prima a poi ci rifacciamo
vivi.»
«Posso venire da te a mangiare?» domandò secco Olsen.
«Ogni tanto mi andrebbe qualcosa di cucinato come si
deve. Quelle dannate tavole calde mi stanno rovinando le
budella.»
«Certo» rispose Hadley con una smorfia. «Quando vuoi.
Ti chiamerò io.» Mentre si avviavano verso la porta,
aggiunse: «Pensi che a Fergesson importerà se mi venite a
trovare?»
«Che vada a farsi fottere» ruggì Olsen mentre scendeva
il vialetto di cemento tutto piegato in avanti, con la testa
girata come un grosso granchio.
«Credo che sia dispiaciuto» osservò Tampini,
arrossendo. «Ecco, io ho la sensazione che si senta in colpa.
Lo sa…» Si interruppe, confuso. «Non sono affari miei, ma
per me si considera responsabile.»
Hadley annuì.
«Ha dei problemi a trovare le persone giuste per
dirigere i due negozi» si affrettò ad aggiungere Tampini.
«Credo…»
«Andiamo!» strepitò Olsen dal camioncino. «Muovi il
culo… dobbiamo consegnare questo mucchio di robaccia e
tornare al negozio.»
Il veicolo si allontanò rumorosamente e Hadley rientrò
in casa per riprendere il suo lavoro. Per un po continuò a
pensare a Fergesson e al negozio, poi le immagini
svanirono, e lui fu ben felice di essersene liberato.
Cessarono di ballargli intorno e lui tornò a concentrarsi
sulla stufa corrosa.

Il messaggio vero e proprio giunse attraverso Alice.


Mentre Hadley e sua moglie stavano montando le
mattonelle in cucina, Ellen disse: «Devo dirti una cosa. Non
so cosa ne pensi, e forse non dovrei nemmeno parlartene.»
Hadley posò il barattolo della colla e si sedette al tavolo.
Era tardi, quasi mezzanotte: le finestre erano spalancate
alla pesante aria notturna. Lungo la strada c’era solo
silenzio e immobilità. Qualche grosso insetto ronzava e
svolazzava attorno ai tubi fluorescenti sul soffitto.
«Penso di sapere di che si tratta» ribatté Hadley.
«Tampini mi ha accennato qualcosa quando è venuto qui
con Olsen.»
Mentre continuava a mettere le piastrelle, Ellen disse:
«Oggi è venuta in ufficio Alice Fergesson; ha saputo dove
lavoro da mia madre. Si è trattenuta per un paio d’ore.»
Sollevò lo sguardo ansiosa verso suo marito. «Ti dispiace se
te ne parlo?»
«Non mi dispiace.»
«Voleva sapere come stiamo. Ha chiesto di Pete. E di te,
naturalmente. Ti ricordi che è venuta a trovarti in
ospedale?»
«Vagamente» fece Hadley. L’intero periodo passato
nell’ospedale della polizia, i colloqui con il giudice, l’attività
degli avvocati, gli accordi legali erano ricordi indistinti
nella sua mente. «Come sta?»
«Sta bene. Lei…» Ellen esitò. «Ecco, lei dice che
Fergesson ha detto che, se vuoi, puoi tornare a lavorare da
lui.»
«Lo so» disse Hadley dopo una pausa. «Me lo
immaginavo.»
«Non sapeva come l’avresti presa… e nemmeno io,
perché non ci ho mai pensato. Io… lo consideravo un
capitolo chiuso. Capisci che cosa voglio dire?»
«Sì» replicò Hadley, annuendo. «Capisco che cosa vuoi
dire.»
«Mi ha colto completamente di sorpresa… le ho detto
che te ne avrei parlato.» Ellen prese alcune piastrelle e
riprese a lavorare in modo febbrile, concentrato.
«Insomma, ecco quello che mi ha detto, e poco altro…
Naturalmente è venuta a trovarmi proprio per questo. Non
è scesa in particolari… Credo che non avrebbe cambiato
nulla.»
«Lo sapevo che sarebbe successo» rifletté Hadley.
«Aspetta una risposta?»
«Dovrei richiamarla.»
«Dille che ringrazi Fergesson e che non ho intenzione di
tornare.»
Ellen liberò rumorosamente il fiato. «Grazie a Dio.»
«Significa che per il momento devi continuare a
lavorare. Fino a quando non avrò organizzato qualcosa.»
«Non dovresti ancora lavorare!» protestò Ellen.
«Mi sento abbastanza bene» replicò Hadley con
decisione. «Posso cominciare a cercare qualcosa.»
Ellen disse subito, con una vocetta sottile: «Che genere
di cosa, tesoro? Che hai intenzione di fare?» Impallidì e
aggiunse: «Mi stavo domandando… io lo so che tu vuoi fare
qualcosa di nuovo. Di diverso.»
«Vedremo» replicò Hadley. «Ci ho pensato a lungo, e ho
quasi deciso… ma voglio prendermela comoda.» Si alzò e
tornò accanto a sua moglie per riprendere il lavoro. «Non
voglio fare le cose di fretta.»
Il lavoro che trovò non era particolarmente eccitante. In
una locale fabbrica di tubi se ne stava ogni giorno
appollaiato su una panca in un lungo magazzino e porgeva
gli attrezzi agli operai da mezzanotte alle nove del mattino.
Lo pagavano bene; Hadley si iscrisse al sindacato e
cominciò a fare il pendolare con l’autobus, portandosi
appresso una gavetta con la roba da mangiare e indossando
pantaloni di tela e una camicia di cotone. Passati pochi
mesi, un po dopo Natale, lasciò il lavoro; dopo attenta
ricerca se ne trovò uno presso il comune, come operatore
addetto alla manutenzione dei sette o otto miniparchi della
città.
Fra un lavoro e l’altro imparò qualcosa sui macchinari
pesanti, imparò a far funzionare e a riparare utensili
meccanici di base, imparò a tenere gli attrezzi puliti e oliati
e a rimetterli nel luogo in cui li aveva presi. La disciplina
della manutenzione degli attrezzi gli venne insegnata.
All’inizio della primavera lasciò anche questo impiego con il
comune e andò a lavorare in una pista di pattinaggio su
ghiaccio del luogo, con l’incarico di seguire e far funzionare
l’apparecchiatura per congelare la pista, tenendola sempre
in ordine e garantendone il funzionamento.
Lavorare con le macchine lo affascinava. Comprò per
casa un vecchio frigorifero Westinghouse a cinghia e
cominciò ad armeggiarci. Per un po si baloccò con l’idea di
seguire un corso sulla refrigerazione, ma poi ci rinunciò, in
parte per il fatto che poteva apprendere di più da un lavoro
vero e proprio, in parte perché corsi del genere
sembravano non esistere.
Come si era aspettato, la riparazione di un frigorifero
non era qualcosa che poteva imparare da un libro, magari
studiandoti sopra. E nemmeno, scoprì, parlandone. Per
giorni sedette con i pezzi del frigorifero sparpagliati
intorno a lui, esaminandoli e osservandoli, mettendoli
insieme e poi riseparandoli. Imparò molto sui frigoriferi.
Il lavoro che aveva lasciato, quello con il comune, gli
rimase in mente. A maggio, mentre ci pensava, buttò
all’aria il pavimento di casa e vi installò un impianto di
riscaldamento a pannelli radianti. I tubi e la pompa
dell’acqua calda li montò con le sue mani… e con quelle di
Olsen, che venne a fare il supervisore.
«Per uno che ha un occhio solo,» commentò Olsen «te la
stai cavando bene.» Poi aggiunse, imbronciato: «Ma se
perdessi anche l’altro saresti proprio nella merda.»
Tutti e due sostituirono il pavimento e ispezionarono il
termostato della pompa. La pompa ronzava e vibrava
mentre sparava acqua calda nelle tubature sotto il
pavimento. Più o meno funzionava.
«Probabilmente brucerai tutto il giunto» gli disse quella
sera a cena Olsen, seduto fra Ellen e Stuart, mentre un po a
disagio trangugiava bistecche di agnello e focaccine.
«Queste vecchie trappole per topi vanno come
lanciafiamme, quando qualche idiota riesce a farle partire.»
Hadley e sua moglie si scambiarono un sorriso; Ellen
allungò la mano e toccò quella di suo marito.
«Pensi» domandò Olsen «che prima o poi ti verrà mai
voglia di tornare a lavorare al Modern? Fergesson farebbe
carte false per riaverti indietro, questo è poco ma sicuro.»
Poi aggiunse: «Il vecchio coglione sta per rivendersi il
locale di O’Neill. Non riesce a gestirli entrambi, è troppo
vecchio e troppo rimbambito.»
«Mi dispiace sentirlo» fece Hadley, improvvisamente
turbato.
«E allora?» strillò Olsen, sputacchiando cibo sulla
tavola. «Allora perché non tomi?»
«Non voglio tornarci» ribatté lentamente Hadley. «No,
non ci torno. Peccato per il negozio di O’Neill…» Per un po
se ne rimase accigliato a fissare il suo piatto.
Non disse nulla; il suo viso era solcato da rughe, e
solenne.
«Che cosa pensi di fare?» gli chiese Olsen mentre si
tracannava il caffè e poi si asciugava il mento. «Non avrai
intenzione di restare a lavorare in quella pista di
pattinaggio, vero?»
«No» convenne Hadley.
«E non vuoi tornare al Modern? Dici sul serio?»
«Stavo pensando…» disse Hadley. «Quel lavoro che
facevo nei parchi… quello mi piaceva, lavorare all’aria
aperta.»
«Che vuoi diventare,» si scaldò Olsen «un dannato
cavallo?»
Dopo cena sedettero in salotto. Pete dormiva
profondamente nella sua cameretta; nella stanza che non
aveva destinazione precisa la pompa dell’acqua calda
lavorava senza requie. «Ecco a che cosa pensavo»
considerò Hadley. «Adesso un sacco di persone si fanno le
cose da sole, cose che prima pagavano perché qualcuno le
facesse. Dipingono le case, posano i pavimenti, sistemano
le tubature, fanno i collegamenti elettrici, tutto da soli. Chi
è che chiama qualcuno a lucidargli i pavimenti, al giorno
d’oggi? È un lavoro che ti puoi fare da solo… se sai far
funzionare una lucidatrice.»
«La gente l’ha sempre fatto» lo contraddisse Olsen. «C’è
sempre stato chi si costruisce da solo la gabbietta degli
uccelli con il compensato sul banco da lavoro in garage.»
«Non intendevo questo» disse Hadley. «Non quelle cose
da piccolo meccanico. Hobby del sabato pomeriggio,
lavoretti fatti tanto per passare il tempo. Io intendevo i
servizi fondamentali di costruzione e manutenzione… come
gettare il calcestruzzo. Due anni fa nessuno avrebbe
gettato da solo il calcestruzzo… adesso lo fanno tutti.»
«Se sanno far funzionare l’impastatrice» si affrettò ad
aggiungere Ellen.
Hadley riprese, tenendo le mani strette: «Tante di quelle
cose richiedono attrezzature costose. Per fare un lavoro da
un dollaro ti occorrono attrezzi elettrici che possono
costare anche duemila dollari. Se fosse facile avere accesso
agli attrezzi, si potrebbe fare quasi tutto… sistemare la
macchina, mettersi la copertura di asfalto sul tetto, gettare
il calcestruzzo, lucidare i pavimenti… Cristo, si potrebbe
costruire casa e tutto quello che c’è dentro. E tessersi i
vestiti da soli.»
«Quello potrebbero farlo le donne» osservò Ellen. «E
anche le scodelle e i piatti in cui mangiare. Tutto quello che
serve è un tornio e un bel po di argilla.»
«E va bene» disse Hadley. «Diciamo che vuoi lavorare
l’argilla e ricavarne una scodella. Ti serve un tornio da
vasaio… dove lo trovi?»
«Non lo so» replicò lei. «Non ci ho mai pensato.»
«Non esiste un posto» la informò Hadley. «Sono gli
appaltatori che ce l’hanno, e lo fanno usare alle loro
squadre. Cerca di affittare una impastatrice, una
sabbiatrice, o un vaporizzatore professionale per vernici, e
ti rideranno dietro. Devono ridere per forza… se li
affittassero a te ci rimetterebbero. Non c’è limite a quello
che un uomo può fare da solo, quando ha gli strumenti
giusti.»
«Immagino che tu pensi anche di costruirti da solo il tuo
dannato televisore» disse asciutto Olsen.
«Se mai ne vorrò un altro,» rispose tranquillo Hadley «il
che è improbabile, me lo costruirò con le mie mani. Tutto
quello che serve è una saldatrice da due dollari e un paio di
pinze.»
Olsen sprofondò in un cupo silenzio. «E allora che ne
sarà di me?»
Hadley si sporse verso di lui. «Ecco quello che voglio
fare. Voglio mettere su un posto in cui la gente possa
prendere in affitto tutti questi strumenti. Passavo tutto il
giorno seduto nella fabbrica di tubi a porgere gli attrezzi
agli operai… Quando lavoravo per il comune ho guidato
macchine per tagliare l’erba e per triturarla, ho usato
tagliasiepi elettriche e nebulizzatori… mi sono passati tutti
sotto le mani, quei dannati aggeggi. Alla pista di
pattinaggio ho un intero edificio pieno di pompe e
serpentine e pulegge di cui prendermi cura.»
«E con questo?» chiese Olsen.
«Penso di sapere quello che sto facendo. Mi serve un
posto piccolo, vicino al centro, un negozio, magari con un
parcheggio in cui la gente possa arrivare con la macchina e
caricare il materiale sui carrelli a rimorchio. Darò in affitto
attrezzature per ogni genere di lavoro; la gente non avrà
più bisogno di acquistarle. Tutto, dai cacciaviti ai trapani
pneumatici. Materiale per demolire, ruspe, tomi elettrici,
macine… una vera e propria officina. Qualsiasi cosa tu
voglia fare, io avrò gli strumenti per farlo. A ora, a
giornata, come desidera la gente.»
«Dovrai imparare un bel po di cose sugli attrezzi» disse
dubbioso Olsen. «Dovrai averli tutti disponibili. Ti verrà il
mal di testa.»
«Credo di potercela fare» ribatté Hadley, rivolgendo in
alto lo sguardo. «Tu non ci credi?»
«No, non hai abbastanza esperienza» replicò a brutto
muso Olsen. «Falliresti. E poi ti ci vorrebbero un sacco di
soldi per procurarti tutti quegli attrezzi… costano cari.»
«Ma dell’idea in sé che ne pensi?»
«È grande» disse Olsen. «E naturalmente alla fine mi
farà perdere il lavoro. Nessuno chiamerà più un tecnico
della tv, se quest’idea va in porto.»
«Perché non ti metti con me?» gli chiese Hadley. «Tu
l’esperienza ce l’hai… Sai quello che fai. Durante la guerra
lavoravi con un tornio verticale… mentre io perdevo tempo
all’università.»
La faccia di Olsen si deformò per la sofferenza.
«Dannazione, vorrei poterlo fare. È un’idea magnifica.»
Indirizzò un’occhiata infelice a Ellen. «Lo vorrei, davvero,
ma non me la sento.»
«Perché no?» gli chiese Hadley. «Non devi metterli tu, i
soldi; posso scrivere e farmeli dare da mia madre.»
«E allora che vuoi da me?»
«Solo la tua esperienza e il tuo buon senso.»
Olsen rifletté. «No» esclamò con enfasi.
«Perché, che cosa rischi?»
«Io sono un vagabondo» rispose semplicemente Olsen.
«Sono stato al Modern fin troppo tempo. Devo muovermi,
andare fuori città, questo lo sai. Non posso restare fermo in
un posto… Rimarrei con te per un po’, e dopo ti mollerei.
Non è giusto, ti lascerei da solo a tirare la carretta.»
«Non pensi che potresti trovare questo lavoro
soddisfacente?»
«Sono una persona irrequieta, lo sono sempre stato e lo
sarò sempre.» Olsen si alzò in piedi e cominciò a
passeggiare cupamente per la stanza, un pezzo d’uomo
tutto piegato, con le guance scure per la barba lunga, i
capelli un groviglio disordinato. «Mi dispiace tanto, ma non
sono un tipo affidabile. Proprio non ci riesco a stare
fermo.»
«Nemmeno io» disse pensieroso Hadley.
«È diverso. Tu stavi cercando qualcosa, volevi qualcosa
di meglio di un lavoretto da venditore. Non era per te… Tu
hai talento, io no. Io non ho niente. Magari avessi la metà
delle qualità che hai tu.» Si strinse nelle spalle. «Ma non ce
le ho.»
Ellen si alzò anche lei e corse in cucina a preparare il
caffè.

Con una vecchia Chevrolet che Joe Tampini lo aveva


aiutato a rimettere in sesto, Hadley ed Ellen stavano
facendo una gita in campagna. Ellen era alla guida, mentre
Hadley guardava fuori dal finestrino i campi e le montagne
color marrone bruciato. Era la fine di luglio, l’aria era calda
e senza vento. In giro c’erano poche macchine. Una
nebbiolina azzurra si stagliava immobile sopra la linea
costiera. All’interno le mucche sonnecchiavano sotto
boschetti di querce antiche.
«È tranquillo qui» gli fece notare Ellen.
La strada si arrampicava lungo una sfilata di colline;
dietro di loro si stendeva la vallata, una scacchiera di
marrone e grigio-azzurro, le cui caselle erano le fattorie, i
pascoli e i frutteti. Davanti alla macchina c’era un piccolo
centro rurale accovacciato sul lato della strada, formato
per lo più da massicci, decrepiti fienili. Sulla destra si
vedeva un grosso magazzino che vendeva granaglie e
alimenti per animali. Sulla sinistra spiccavano un albergo
malmesso, un barbiere, un emporio. Alla periferia del paese
c’era un moderno centro commerciale: supermercato,
farmacia, sifone della soda. Più avanti ancora un
distributore Shell e un garage mezzo sfondato. Sulle colline
che sovrastavano i negozi c’erano casette grigie e bianche.
Ellen parcheggiò, e con Hadley e Pete scese dalla
macchina per farsi un giro. Imboccarono uno stretto
viottolo di ghiaia; il sole caldo picchiava su di loro e sulla
spianata di campi marroni.
«Fa caldo» disse Ellen.
«Siamo piuttosto lontani dalla città.» Hadley indicò con
un gesto della mano un cartello su un antiquato deposito
ferroviario di colore giallo: i carrelli erano abbandonati
lungo i binari.

STAZIONE DI WOODVALLEY

«Ecco come si chiama» esclamò Ellen mentre esaminava


la mappa. «Stazione di Woodvalley, altitudine quattro metri.
La città più vicina è Petaluma.»
Non c’era praticamente segno di vita. Il paese era
silenzioso, immobile, profondamente addormentato nel
calore di mezza estate. Sulla destra del viottolo c’era un
piccolo bungalow bianco e verde; dei cespugli crescevano
lungo i lati e dentro il giardino c’erano degli albicocchi
rachitici. Una grossa donna anziana sdraiata in una sedia a
dondolo sulla veranda anteriore li osservò con uno sguardo
inespressivo mentre passavano.
«È come da noi» disse Ellen. «Si vedono dovunque
donne anziane sedute in veranda.»
«Quella non si vede dappertutto» ribatte Hadley,
indicando il cortile interno. Legata a un albero da frutta
c’era una capretta, che alzò la testa e cominciò a belare in
modo aggressivo finché non si furono allontanati. Poi
riprese a brucare sospettosamente.
«Se vivessimo qui potremmo avere una capra.» Hadley
posò a terra Pete per potersi fumare una sigaretta. Pete,
nel suo vestitino estivo rosso e bianco, si avviò con
andatura barcollante verso il recinto, diretto al cortile in
cui c’era la capretta. «A Pete piacerebbe. Potrebbe portarla
nel bosco tutti i giorni e caricarla di fascine.»
«È così che vivremmo?» chiese Ellen sorridendo.
«Sarebbe un problema… Da queste parti non ci sono molte
piste di pattinaggio su ghiaccio.»
Dopo un momento Hadley osservò: «Non c’è niente.
Niente negozi, solo spacci e rivendite di prodotti per
l’agricoltura.»
«E il barbiere. E la pompa di benzina.»
«Che succede quando le cose si rompono? Come fanno
quando si bruciano le valvole delle loro radio?»
«Magari non hanno radio» ipotizzò Ellen.
«Tutti i contadini hanno una radio.»
«Allora forse se le fanno aggiustare in quel garage
laggiù.»
Accanto all’emporio c’era una piccola agenzia
immobiliare. Hadley e la sua famiglia vi entrarono e si
sedettero davanti all’antiquata scrivania di quercia.
«Che genere di proprietà avete in mente?» chiese loro il
vecchio agente tutto pelle e ossa, mentre si sistemava gli
occhiali e li esaminava. Svitò il coperchio della penna
stilografica e sgombrò il piano della scrivania da alcune
carte. «La nostra non è una zona residenziale, lo sapete.
Quella si trova più su, attorno al fiume Russian. Ho un
magnifico rustico, proprio sulla riva; alla gente di città
piace quella zona, con tutti i boschi di sequoia.»
«A me non interessa» disse Hadley. «Io cerco qualcosa
qui, nella zona rurale.»
In banca avevano quanto bastava per un lotto di terra,
niente più. Lasciarono l’agenzia stringendo il mano la
ricevuta del deposito e sentendosi sciocchi e intimiditi.
«Che ce ne facciamo?» chiese Ellen. «È solo un pezzo di
terra senza niente… nient’altro che erbacce e una vecchia
quercia. Non possiamo viverci, ti pare?» Preoccupata,
prese suo marito per un braccio, mentre lui spostava Pete
dalla parte opposta. «Sai costruire una casa? Non puoi
costruirla da solo.»
«Sì, se tu mi aiuti» replicò Hadley.
«Quando?» Tutta eccitata, Ellen allungò il passo per
tenergli dietro mentre tornavano alla macchina. «Subito?»
«Non per un po’» rispose Hadley. «Non c’è fretta. Voglio
scoprire che genere di servizi mancano qui… voglio capire
che cos’è che questo paese non ha e che potrebbe
servirgli.» Si fermò per dare un’occhiata intorno. «Vedi
qualche segno di un impianto del ghiaccio?»
«Impianto del ghiaccio?»
«Sto solo pensando» disse Hadley aprendo lo sportello.
«Dove credi che vadano a farsi riparare le scarpe?» Sul
viso, sul suo viso massacrato ed eroso, c’era un’espressione
serissima.
«Tu non sai riparare le scarpe» considerò dolcemente
Ellen.
«Non sta a me decidere. Dipende da ciò che vogliono
loro.»
«Non dipende da… ciò che vuoi tu? Credo che sia
importante anche questo.» Poi aggiunse: «Per me lo è.»
«Devo scoprire che cosa gli serve» ripeté Hadley,
convinto. «Torneremo qui ogni tanto… Non ci corre dietro
nessuno. Parlerò con la gente e lo scoprirò. Ce la
prenderemo comoda.»
Ellen avviò il motore e rimasero ad aspettare che il
rumore diventasse regolare. Accanto a lei Stuart sedeva
con Pete in grembo, le mani appoggiate sullo stomaco del
bambino. L’espressione seria era ancora lì, non era
scomparsa. E probabilmente non sarebbe scomparsa in
futuro. Faceva parte della sua faccia, parte di quell’insieme
di ossa e tessuti danneggiati che era diventato Hadley.
Ellen allungò la mano e gli accarezzò dolcemente i
capelli biondi, lisciandoglieli dietro le orecchie. Il caldo
vento estivo li aveva scompigliati, disorganizzati, aveva
mandato a monte la paziente opera di pettinatura cui
Hadley si sottoponeva ogni mattina. Stuart sorrise alla
pressione delle sue dita.
«Grazie» le disse.
«Posso baciarti?» chiese speranzosa Ellen.
«Certo.» Hadley si piegò un poco, sempre stringendo il
bambino. Ellen si sporse verso di lui, sostenendosi su una
mano e volgendo il viso contro il suo. Per un breve attimo le
loro labbra si toccarono; la bocca di lui era distesa, non
tirata, ma quasi senza emozione.
Turbata, Ellen si ritrasse. «Non sei molto… voglio dire,
sembri così lontano.»
«No» replicò lui. «Sono qui.»
E poi lei ricordò ciò che aveva scoperto quella mattina,
mentre si chinava su di lui nel momento del risveglio. Il
terrore che era emerso in quel momento, la timida paura
che fremeva sulla bocca di Hadley mentre lo baciava.
Adesso quella paura non c’era più.
«Non hai più paura» gli disse meravigliata. «Non me
n’ero accorta.»
«È sparita» convenne lui. «Finalmente.»
«Credi…» cominciò Ellen, esitante. Era difficile dirlo,
perché temeva la risposta. «Credi davvero che qui saresti
felice? Lontano dalla città?»
La risposta che temeva giunse senza esitazione. «Sì.»
Preoccupata, lei continuò: «Non ci sarebbe molto da
fare! Qui non c’è niente… Non c’è proprio niente, è solo
uno squallido paesetto di campagna.» Piantò
coraggiosamente gli occhi su quel volto rovinato e gli
domandò: «Non vuoi di più? Le tue capacità…»
«Ti sbagli» la interruppe Hadley. «Qui c’è un sacco da
fare.»
Ma lei vedeva oltre, vedeva ciò che lui sembrava non
sapere o capire. Era quella la parte terribile, quella che lei
non riusciva a sopportare. Hadley non sembrava rendersi
conto che nulla di lui era sopravvissuto. Nulla dei sogni,
nulla di quella furia incontenibile che lo aveva fatto
schiantare, impazzito e senza più controllo, contro
l’indistruttibile vetrata del mondo. Era stato lui a rompersi
contro quel vetro, mentre il mondo era rimasto intatto. E
lui non lo sapeva.
«Davvero?» gli domandò, accalorata. «Davvero qui c’è
qualcosa per te? Saresti soddisfatto?»
Lui le prese la mano; Ellen sentì le sue dita forti e dure
attorno ala propria carne. Non c’era amarezza in quella
pressione, solo totale certezza. Non aveva rancore. Non
biasimava nessuno, non sé stesso, non lei, nulla e nessuno.
Era contento.
«Non è colpa di nessuno» le disse. «Una cosa come
questa è…» Sorrise. «Il risultato della legge naturale.
Appoggi la mano sulla stufa e ti bruci. Sbatti al buio contro
una porta e ti viene un occhio nero.»
Ellen rilasciò alla cieca il freno a mano e la macchina si
mise in moto.
Hadley guardò fuori dal finestrino fino a quando il
garage diroccato non scomparve alla vista. «Un sacco di
cose» mormorò, pensieroso, assorto, recitando qualcosa di
imparato a memoria, ripetendo qualcosa che era scolpito
nella matrice più profonda della sua mente. «Un sacco di
cose da fare.»
Collezione Immaginario Philip K. Dick

Ma gli androidi sognano pecore elettriche?


I giocatori di Titano
Mary e il gigante
In senso inverso
L’uomo nell’alto castello
E Jones creò il mondo
Deus Irae di Philip K. Dick e R. Zelazny
Divine invasioni + video ‘Il vangelo secondo Dick’ di Lawrence Sutin
Svegliatevi, dormienti
Confessioni di un artista di merda
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Rapporto di minoranza e altri racconti
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Le tre stimmate di Palmer Eldritch
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Nostri amici da Frolix 8
L’uomo dai denti tutti uguali
Tutti i racconti vol 1 – 1947-1953
Un oscuro scrutare – il Graphic Novel
Valis
Divina Invasione
La trasmigrazione di Timothy Archer
Il paradiso maoista
Scorrete lacrime, disse il poliziotto
Next e altri racconti
Voci dalla strada

Collezione Vintage
L’ambigua follia di Mr Black di Chris Abani
Razza bastarda di Cristina Masciola
Sporco denaro di Richard Powers
I guerrieri della notte di Sol Yurick
L’allegra compagnia del sogno di James G. Ballard
Intrigo a Oriente di Colin Cotterill
La ragazza dal cuore d’acciaio di Joe R. Lansdale
Un pacifico matrimonio di Doris Lessing
Ombre su Shanghai di Andy Oakes
La città delle piccole luci di Patrick Neate
La strana vita di Cutter e Bone di Newton Thornburg
Una comunità perduta di Doris Lessing

Gli Aceri

I tuoi occhi viola di Stephen Woodworth


L’ultimo dei perfetti di Andreas Eschbach
Il minotauro di Barbara Vine
Il sangue dei martiri di David Hewson
Una fine in lacrime di Ruth Rendell
Echi perduti di Joe R. Lansdale
Angeli nell’ombra di Anne Perry
L’ultima spia di Gayle Lynds
Il killer del ricamo di Stephen Woodworth
Il mistero del lago di Nora Roberts
La Villa dei Misteri di David Hewson
Lo strappo di Brunella Schisa e Antonio Forcellino
L’eredità Scarlatti di Robert Ludlum
La verità nascosta di Ruth Rendell
La Stella di Babilonia di Barbara Wood
Il codice Laena di Ridley Pearson
Luci d’inverno di Nora Roberts
Miniature di Paola Rondini
Nel cuore della tormenta di Suzanne Brockmann
Il sangue non mente di Daniel Kalla
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Finito di stampare nel febbraio 2008 presso


Puntoweb – via Variante di Cancelliera snc, 2 – Ariccia (RM)
Printed in Italy
Philip K. Dick nasce a Chicago il 16
dicembre 1928 insieme alla gemella
Jane, che morirà poche settimane
dopo. Nel 1955 esce il suo primo
romanzo, Lotteria dello spazio.
Durante un’esistenza segnata dalle
difficoltà economiche, Philip K. Dick
scrive capolavori come La svastica sul
sole, Ma gli androidi sognano pecore
elettriche?, da cui è tratto Biade
Runner di Ridley Scott, e Ubik. Negli
anni Settanta pubblica l’ultima sua
opera, la trilogia di Valis. Muore il 2
marzo 1982, stroncato da una serie di
attacchi cardiaci. La notorietà di Philip
K. Dick deve molto agli adattamenti
cinematografici, tra cui Atto di forza
(1990), Screamers - Urla dallo spazio
(1995), Impostor (2002), Minority
Report (2002), Payeheck (2003) e Un
oscuro scrutare (2006). Nel 2008 è in
uscita il film Next, diretto da Nicholas
Cage.

Illustrazione di copertina:
Antonello Silverini
1)

Nomignolo dei membri dell’iww (Industrial


Workers of the World), sindacato di
lavoratori precari e stagionali, molto attivo
negli Stati Uniti dall’inizio del secolo XX
agli anni Trenta (N.d.T.). ↵
2)

Seguace di una setta cristiana pentecostale


che portava all’estremo la manifestazione
del fervore religioso, con comportamenti al
limite del fanatismo (N.d.T.). ↵
3)

Gioco di parole fra warehouse, grande


magazzino, e whorehouse, bordello
(N.d.T.). ↵
4)

Organizzazione cristiana con ramificazioni in


tutto il mondo (N.d.T.). ↵
5)

Giovane messicano-americano (N.d.T.). ↵


6)

Ristretta zona nella parte meridionale di


Chicago, dove nella prima metà del XX
secolo si insediarono numerosissimi neri
americani giunti dal sud in cerca di lavoro
(N.d.T.). ↵
7)

Elks, o Benevolent and Protective Order of


Elks of the usa. Organizzazione fondata nel
1868, con ramificazioni in tutto il mondo,
ma soprattutto nei piccoli centri
americani, che persegue finalità sociali e
assistenziali (N.d.T.). ↵
8)

Villaggio ai confini fra le due Coree in cui si


svolse la trattativa per la pace, poi firmata
nel 1953 (N.d.T.). ↵

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