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Einaudi Tascabili.

Vertigo
614
Titolo originale: In Milton Lumky Territory
© 1985 The Estate of Philip K. Dick

© 1999 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino


La sezione Vertigo è curata da Daniele Brolli

www.einaudi.it

ISBN 88-06-473-23
Philip K. Dick
In terra ostile

Traduzione di Daniele Brolli

Einaudi
Avvertenza dell’autore.
Questo è un libro curioso davvero, e tra l’altro è anche
un buon libro, dal momento che gli strani eventi che
accadono sono di quelli che accadono alle persone in carne
e ossa. C’è anche un lieto fine. Cos’altro può aggiungere un
autore? Cosa può dire di più?
1

Al tramonto, l’aria pungente del lago soffiava per le strade


deserte di Montario, nell’Idaho. Con l’aria apparivano
nuvole di mosche gialle dalle ali appuntite che andavano a
spiaccicarsi sui parabrezza delle auto in movimento. I
conducenti si sforzavano di spazzarle via con i tergicristalli.
Mentre in Hill Street si accendevano i lampioni,
cominciarono a chiudere anche i negozi fino a che da una
parte all’altra della città non rimasero aperti che gli
empori. Il cinema Luxor non apriva prima delle sei e mezzo.
I vari caffè non venivano considerati parte della città:
aperti o chiusi, appartenevano alla statale US 95, che in
città diventava Hill Street.
Fischiando e sferragliando e scivolando sui binari più a
nord delle quattordici coppie di rotaie parallele, apparve il
convoglio della Union Pacific, diretto da Portland a Boise.
Non si fermò, ma incrociando Hill Street rallentò fino a che
il vagone postale apparve simile a un palazzo di metallo
verde sporco in mezzo ai magazzini di mattoni che
costeggiavano i binari, appena in movimento, con gli
sportelli aperti e due ferrovieri con un completo a strisce
che si sporgevano con le mani penzolanti. Una donna di
mezza età, avvolta in una trapunta di lana per non
prendere freddo, si affrettò sul marciapiedi e passò
velocemente parecchie lettere a uno dei ferrovieri.
Il segnale suonò e la luce rossa lampeggiò per un bel
pezzo dopo che l’ultimo vagone del treno era sparito alla
vista.
Al banco dove serviva da mangiare nel suo emporio, il
signor Hagopian mangiava un hamburger ben cotto e
fagiolini in scatola leggendo una copia di «Confidential»
preso dall’espositore vicino alla porta. Adesso, alle sei, non
c’era nessun cliente a disturbarlo. Era seduto in modo da
poter guardare la strada fuori. Se arrivava qualcuno, aveva
tempo per smettere di mangiare e pulirsi bocca e mani con
un tovagliolino di carta.
Da lontano, correndo e piroettando all’indietro con la
testa alta, arrivava un ragazzino che indossava un berretto
con la coda alla Davy Crockett. Fece una giravolta e
attraversò la strada. Il signor Hagopian si rese conto che
stava entrando nell’emporio.
Il ragazzino, con le mani in tasca, fece il suo ingresso
nel negozio e si avviò con un’andatura veloce e scomposta
dritto verso i dolciumi mescolati sotto il cartello 3 PER 25
CENTESIMI. Il signor Hagopian continuò a mangiare e a
leggere. Il ragazzo alla fine prese una confezione di Milk
Duds, una bustina di cioccolatini m&m’s e una tavoletta
della Hershey.
– Fred, – disse Hagopian.
Suo figlio Fred emerse dal retro scostando una tenda e
venne a servire il ragazzino.
Alle sette il signor Hagopian disse a suo figlio Fred: –
Puoi anche andare a casa. Non credo che per stasera ci
saranno altri affari che richiedano la presenza di tutti e due
–. Quel pensiero gli dava ai nervi. – Nessun cliente di rilievo
si farà vivo per fare acquisti per il resto della serata.
– Rimango qui un altro po’, – disse Fred. – Tanto non ho
niente da fare.
Suonò il telefono. Era la signora De Rouge di Pine
Street, che aveva una ricetta da ordinare e farsi recapitare
a domicilio. Hagopian prese il libro, e quando controllò il
numero vide che corrispondeva agli antidolorifici della
signora De Rouge. Così le disse che Fred glieli avrebbe
portati alle otto.
Mentre stava preparando le pasticche, capsule di
codeina, la porta dell’emporio si aprì ed entrò un
giovanotto ben vestito, con tanto di giacca e cravatta.
Aveva il naso massiccio e ruvido, e i capelli tagliati corti.
Questo, insieme al suo sorriso che esibiva denti bianchi e
forti, bastò al signor Hagopian per riconoscerlo.
– Posso esserle d’aiuto? – disse Fred.
– Volevo dare solo un’occhiata, – disse il giovane. Si
diresse verso la rastrelliera delle riviste tenendo le mani in
tasca.
Mi chiedo come mai non si sia fatto vivo per un po’,
pensò tra sé il signor Hagopian. È sempre venuto qui. Sin
da quando era un bambino. Cos’è, adesso andava a
comprare da Wickley? Al che l’anziano commerciante sentì
salire un moto di sdegno. Terminò di preparare le pastiglie
della signora De Rouge e le mise in una boccetta, poi si
diresse al banco.
Skip Stevens, il giovane, reggeva una copia di «Life»
davanti a Fred mentre frugava nella tasca dei pantaloni alla
ricerca di moneta.
– Nient’altro, signore? – disse Fred.
Hagopian stava per rivolgere la parola a Skip Stevens
ma proprio in quel momento Skip si piegò verso Fred e
disse abbassando il tono di voce: – Sì, vorrei una confezione
di Trojan –. Al che il signor Hagopian si girò
opportunamente e si mise a fare qualcosa finché Fred non
ebbe incartato la confezione di preservativi e battuto
l’importo sul registratore di cassa.
– Grazie, signore, – disse Fred, con il solito tono
professionale che usava quando qualcuno acquistava dei
contraccettivi. Si scostò dal banco e ammiccò al padre.
Con la rivista sotto braccio, Skip si diresse verso la
porta, dando un’occhiata agli altri giornali e agli scaffali
per dimostrare che non era affatto in imbarazzo. Hagopian
lo raggiunse e disse: – È parecchio che non ci si vede –. Lo
sdegno gli faceva tremare la voce. – Spero che ti vada tutto
bene, a te e ai tuoi.
– Stanno tutti bene, – rispose Skip. – Non li vedo da
quasi due mesi. Adesso vivo a Reno. Lavoro laggiù.
– Oh, – esclamò Hagopian, incredulo. – Capisco.
Fred inclinò la testa, rimanendo ad ascoltare.
– Non ti ricordi di Skip Stevens? – chiese Hagopian a
suo figlio.
– Ah sì, – disse Fred. – Non ti avevo riconosciuto –. Fece
un cenno a Skip. – Erano mesi che non ti si vedeva.
– Mi sono stabilito a Reno adesso, – spiegò Skip. – È la
prima volta che torno a Montario da aprile.
– Mi chiedevo come mai non ti si vedesse più, – disse
Fred.
– Tuo fratello va ancora a scuola sull’altra costa? –
domandò a Skip il signor Hagopian.
– No, – rispose Skip. – Ha finito la scuola e si è sposato.
Questo ragazzo non vive a Reno, pensò il signor
Hagopian. È solo che si vergogna di ammetterlo perché non
è più venuto. Skip si bilanciò da un piede all’altro,
evidentemente a disagio. Era chiaro che voleva andarsene.
– In che ramo sei? – chiese Fred.
– Faccio il direttore dell’ufficio acquisti.
– Per che tipo di ditta?
– Per il B.A.
– È una televisione? – insistette Hagopian.
– No, è il Bazar Affari, – spiegò Skip.
– E che cos’è?
– Una specie di grande magazzino. È un posto nuovo
sulla 40, tra Reno e Sparks.
Allora Fred disse, con una strana espressione in faccia:
– Ah sì, ho capito. Me ne hanno parlato –. Poi, rivolto a suo
padre: – È uno di quei posti con le vendite d’occasione.
All’inizio il vecchio non capì. Poi si ricordò quello che
aveva sentito dire dei magazzini discount. – Sei uno di
quelli che vogliono mandare in rovina i negozianti? – disse
a Skip alzando la voce.
Skip divenne tutto rosso e disse: – Non è diverso da un
supermercato. Fa acquisti in blocco e gira il risparmio
direttamente al consumatore. Che è lo stesso procedimento
applicato da Henry Ford, lavorare sulla quantità.
– Non è lo stile americano, – disse il signor Hagopian.
– E invece è proprio questo, – obiettò Skip. – Significa
uno stile di vita più elevato che deriva dall’eliminazione dei
costi generali e di quelli di intermediazione.
Hagopian tornò al bancone e disse, rivolto al figlio: – La
signora De Rouge ha bisogno di altre pastiglie
antidolorifiche –. Porse la boccetta a Fred. – Le ho detto
che le avrebbe avute prima delle otto.
Non si curò di continuare il suo discorso con Skip
Stevens. Era già abbastanza difficile competere con cinesi e
giapponesi. Per lui i magazzini discount erano anche
peggio; si presentavano come americani, avevano le
insegne al neon e pubblicizzavano i loro parcheggi, e anche
se non sapevi dov’erano sembravano in tutto e per tutto dei
supermercati. Non aveva idea di chi si occupasse di
mandarli avanti. Nessuno aveva mai visto un proprietario di
discount. D’altra parte lui stesso non aveva mai visto un
magazzino discount.
– Non interferisce minimamente con i vostri affari, –
disse Skip osservando Fred che preparava il pacchetto per
la signora De Rouge. – Nessuno si fa ottocento chilometri in
macchina per fare la spesa, se non per cose di costo
elevato, per esempio dei mobili.
Il signor Hagopian preparò lo scontrino mentre suo
figlio incartava.
Skip disse: – D’altra parte ci sono solo nelle grandi città.
Questa città non è abbastanza grande. Magari a Boise.
Né Fred né suo padre replicarono alcunché. Fred si
infilò il cappotto, prese lo scontrino che gli tendeva il padre
e uscì dall’emporio.
Il vecchio si mise a sistemare vari prodotti che erano
arrivati quel giorno. In quel momento la porta si richiuse
alle spalle di Skip Stevens.
Mentre guidava per le strade non illuminate della zona
residenziale di Montario, sulla ghiaia che componeva il
fondo stradale, Bruce Stevens pensava al vecchio
Hagopian, che conosceva da sempre e che di tanto in tanto
gli capitava di rivedere. Anni prima, il vecchio gli aveva
tolto di mano i fumetti e lo aveva buttato fuori dall’emporio.
Per mesi Hagopian aveva mandato giù in silenzio che i
bambini, infilati dietro allo scaffale dell’olio per auto, si
leggessero i fumetti della Tip Top e della King e che
raramente o quasi mai comprassero alcunché. Poi aveva
deciso di mettere fine alla cosa e si era vendicato sul primo
bambino a tiro. Ed era capitato a Bruce Stevens; a quei
tempi lo chiamavano Skip Stevens a causa della faccia
rotonda e lentigginosa e dei capelli rossi. Il vecchio lo
chiamava «Skip» ancora oggi. Diamine, che gente, pensò
Bruce, mentre guardava le case. Lo facevano uscire dai
gangheri oggi come allora. C’era da stupirsi che Hagopian
non avesse chiamato la polizia quando aveva comperato la
confezione di Trojan.
Comunque l’indignazione del vecchio per il fatto che lui
lavorava per il discount a Reno non lo toccava
minimamente, perché sapeva come si sentivano i piccoli
negozianti al minuto; si erano già sentiti così quando erano
stati aperti i primi supermercati dopo la seconda guerra
mondiale. E da un certo punto di vista la loro animosità era
piacevole. Provava che la gente stava iniziando a far
compere nei magazzini discount, o almeno che stava
accorgendosi della loro esistenza.
Quello era il futuro, si disse ancora una volta. Altri dieci
anni e nessuno penserà più di comprare un giorno il rasoio
e quello dopo il sapone. Faranno la spesa al completo in un
solo giorno alla settimana in un luogo dove potranno
trovare ogni cosa che esista, dagli lp alle automobili.
Ma poi si rese conto che non aveva comperato la
confezione di contraccettivi a Reno, bensì proprio là, in un
piccolo emporio, a prezzo intero. Del resto non sapeva
neanche se la gente del discount per cui lavorava tenesse i
contraccettivi in magazzino.
E anche una rivista, si rese conto. Per tenere nascoste le
sue reali intenzioni. Ogniqualvolta aveva comperato degli
anticoncezionali, si era sentito in imbarazzo. Il commesso
alla cassa lo faceva sempre sentire a disagio. Lasciava
cadere la scatolina di metallo cosicché la gente si girava a
guardare. O si faceva sentire in tutto il negozio che diceva:
«Cos’è che voleva, i Trojan o…» qualunque fosse la marca
alternativa. Gli Sheik o un’altra. Sin da quando aveva
diciannove anni, cioè fin dalla prima volta che aveva
cominciato a portarsi dietro dei contraccettivi, era rimasto
fedele ai Trojan. Questa è l’America, disse tra sé. Scegli la
marca. Fidati del tuo prodotto.
Nel suo viaggio da Reno era diretto a Boise, ma
passando dal suo paese natale aveva deciso di fare una
sosta e magari di farsi vivo con una ragazza con cui aveva
avuto una relazione l’anno prima. Avrebbe potuto
rimettersi comodamente in strada il mattino dopo: Boise
era solo venticinque chilometri a nordest, sulla statale 95,
verso il Nevada. Oppure, se le cose non fossero andate per
il verso giusto, poteva proseguire quella notte stessa.
Aveva ventiquattro anni. Il suo lavoro al B.A. gli piaceva,
e anche se non rendeva più di tanto (circa trecento dollari
al mese) gli dava l’opportunità di guidare la sua Mercury
del ’55, di incontrare gente e di contrattare, di ficcare il
naso in diverse situazioni con il perspicace e innato stimolo
della scoperta. E gli piaceva il suo capo, Ed von Scharf, che
aveva dei grandi baffi neri alla Ronald Colman ed era stato
sergente nei marine durante la seconda guerra mondiale,
quando Bruce aveva ancora otto anni.
E gli piaceva vivere da solo in un appartamento a Reno,
lontano dai suoi genitori e lontano da una specie di città
fattoria in uno stato di coltiva-patate che lungo le strade
aveva stampigliato NON FARE L’OIRAIDNECNI, che significa
«non fare l’incendiario», cosa che lo faceva sempre
infuriare quando ci incappava guidando. Da Reno poteva
prendere facilmente per la Sierra verso la California, o
nell’altra direzione verso Salt Lake City, per quello che
poteva valere. L’aria in Nevada era più pulita, priva della
greve foschia salmastra che imperversava a Montario,
carica delle mosche che aveva calpestato e inalato tutta la
sua vita.
Adesso, sul cofano, sui paraurti, sui parafanghi e sul
parabrezza della macchina, giacevano centinaia di quelle
stesse mosche morte schiacciate. Avevano intasato il
radiatore. I loro corpicini esili e pelosi punteggiavano il suo
campo visivo e rendevano ancor più difficile rintracciare la
casa di Peg.
Finalmente la riconobbe, grazie al grande prato, al
porticato e all’albero. Le luci erano accese. E lì vicino erano
parcheggiate parecchie macchine.
Dopo aver posteggiato, mentre stava attraversando la
veranda per suonare il campanello, sentì un rumore
inconfondibile di musica e gente che proveniva dall’interno.
È così che va, si disse mentre suonava.
La porta si spalancò. Peg lo riconobbe e sospirò, sollevò
le mani e scivolò da una parte facendogli strada dentro
casa. – Che sorpresa! Guarda chi c’è!
Della gente se ne stava seduta in soggiorno con il
bicchiere in mano, ad ascoltare i dischi di Johnny Ray. Tre o
quattro uomini e altrettante donne.
– Forse avrei dovuto chiamare, – disse lui.
– No, – rispose lei. – Lo sai che sei sempre il benvenuto–.
Aveva il viso luminoso, piccolo, rotondo e liscio. Indossava
una camicetta arancione e una gonna scura, e i capelli
vaporosi erano raccolti in un’acconciatura. Gli sembrava
molto graziosa e desiderò baciarla. Ma parecchie delle
persone presenti avevano allungato il collo, abbozzando un
sorriso di benvenuto, così non si azzardò.
– Sei arrivato in macchina proprio adesso? – gli
domandò lei.
– Sì, – rispose lui. – Sono partito stamattina alle sette.
Una bella scarrozzata. Avrò viaggiato ai centoventi.
– Devi essere molto stanco. Hai cenato?
– Ho fatto una piccola sosta verso le cinque, – disse
Bruce. – Non ho mai granché fame quando guido.
– Non ti va qualcosa adesso? – Lo accompagnò fuori dal
soggiorno, lungo il corridoio, verso la cucina. Sullo
scolatoio in ceramica erano sparse delle coppette di cubetti
di ghiaccio, bottigliette di gazzosa e bitter, scorze di
limone, e una bottiglia intera di bourbon a poco prezzo.
Mentre apriva il frigorifero, lei disse: – Lascia che ti prepari
qualcosa di caldo da mangiare. Lo so che quando guidi non
butti giù nient’altro che un panino e qualcosa da bere, me
lo ricordo–. Cominciò a mettere in tavola piatti pieni di
cibo.
– No, davvero, – disse lui. – Ascolta… – la fermò.
– Sono solo di passaggio. Devo andare a Boise. Domani
devo occuparmi di un certo affare.
Esitando, lei disse: – Come va il lavoro?
– Non male.
Peg disse: – Vieni di là e lascia che ti presenti agli altri.
– Sono troppo stanco, – disse lui.
– Solo qualche minuto. Ti hanno visto entrare. Sono solo
amici che hanno fatto un salto qua. Abbiamo mangiato a
Boise, al ristorante cinese. Spaghetti, anatra e spezzatino
di maiale. Mi hanno riaccompagnato a casa.
– Non vorrei essere di disturbo.
– Non fare il martire. Avresti dovuto chiamare prima –.
Chiuse lo sportello del frigorifero e gli si fece incontro a
braccia aperte, lanciando che lui la prendesse tra le sue e
la baciasse. – È passato un sacco di tempo dall’ultima volta
che siamo stati insieme. Forse potrei sbarazzarmi di loro. E
comunque se ne andranno tra poco. Rimani un altro po’, e
al lavoro ci pensiamo domani.
– No, – disse lui. Ma lasciò che lei lo riaccompagnasse
per il corridoio fino al soggiorno. Aveva ragione lei, era
passato un sacco di tempo dall’ultima volta, e nei suoi otto
o nove mesi a Reno non aveva ancora incontrato né tanto
meno era entrato in confidenza con alcuna ragazza. Poco
male. Così in quegli otto o nove mesi non aveva combinato
nulla. Adesso, dopo averla baciata e aver sentito le sue dita
calde e un poco umide attorno al polso, cominciava a
sentirne il bisogno. Una cosa era rimanere semplicemente
senza, e un’altra averla a portata di mano, disponibile.
Con un’occhiata capì che si trattava di impiegati che
probabilmente provenivano dall’ufficio in cui lavorava Peg.
Avevano un aspetto striminzito e dimesso, e al tempo stesso
anche la tipica aria da abitante dell’Idaho. Cioè gli
sembravano un po’ duri di comprendonio. Una specie di
ritardo tra il momento in cui udivano una cosa e quello in
cui la capivano, un intervallo apprezzabile. A guardarli,
poteva valutare il graduale svilupparsi delle loro reazioni. Il
loro obiettivo era quello di non essere mai coinvolti. Anche
le cose più semplici dovevano essere sempre rimuginate, e
quelle più complesse… be’, le cose complesse non avevano
spazio nell’Idaho e mai ne avrebbero avuto. Così non c’era
problema.
– Lui è Bruce Stevens, – disse Peg rivolgendosi ai
presenti indistintamente. – È appena arrivato da Reno, ha
passato tutto il giorno in macchina.
Quando lei arrivò a presentarlo anche all’ultimo dei suoi
ospiti, lui aveva dimenticato già il nome del primo. E
quando lei gli preparò da bere, bourbon e ghiaccio, lui
aveva dimenticato già tutti i loro nomi. Quelli erano tornati
ad ascoltare il giradischi, così non importava nemmeno più.
C’era anche una conversazione in corso, qualcosa che
aveva a che fare con i tentativi dei russi per raggiungere la
luna, e se c’erano pianeti abitati. Lui si sedette con il suo
bicchiere, il più vicino possibile a Peg.
Gli impiegati esili e modesti chiacchieravano
ignorandolo. Lui teneva lo sguardo fisso su Peg,
chiedendosi come sarebbe andata a finire, e intanto
continuava a bere. In quell’istante, la porta del bagno si
aprì in un lontano angolo della casa, e una donna entrò nel
soggiorno. Non l’aveva mai vista, evidentemente era
rimasta lì dentro dal suo arrivo. Alzando lo sguardo, vide
che era una donna più matura, con i capelli scuri, molto
attraente, che portava una sciarpetta bianca attorno al
collo e grandi orecchini ad anello. Si sedette sul bracciolo
del divano con uno svolazzo della sottana e lui vide che
portava i sandali. Aveva le gambe nude. Gli sorrise.
– Sono appena arrivato, – disse lui.
– Oh, Susan, – disse Peg riprendendo vita. – Susan,
questo è Bruce Stevens. Bruce, ti presento Susan Faine.
Lui disse piacere.
– Piacere, – rispose Susan Faine. E fu tutto quello che
disse. Voltando la testa tornò alla conversazione con gli
altri, come se in sua assenza fosse andata avanti sullo
stesso argomento. E forse era così. Lui osservò come i
capelli di lei, raccolti in una coda, dondolassero da una
parte all’altra. Sopra la gonna lunga indossava una cintura
di cuoio, molto alta, con una fibbia in simil-rame e un
maglioncino nero. Sulla spalla destra teneva appuntata una
spilla d’argento. Gli sembrava un monile messicano. Anche
i sandali probabilmente lo erano. Più la osservava, più gli
appariva attraente. Peg gli disse in un orecchio: – Susan è
appena tornata da Città del Messico. Ha divorziato laggiù.
– Ah be’, – disse lui annuendo. – Caspita.
Continuò a osservarla, tenendo sollevato il bicchiere di
bourbon affinché sembrasse, o almeno così sperava lui, che
lo stesse scrutando. Le mani di lei si muovevano in maniera
decisa e misurata, e lui ritenne che facesse qualche lavoro
manuale. Sotto il maglioncino nero intravvide le bretelle
del reggiseno e, quando lei si piegò in avanti, un pezzetto
di schiena nuda tra la gonna e il maglioncino.
Lei girò la testa di colpo, consapevole che lui la stava
fissando. Lo guardò con una tale intensità che lui non resse
lo sguardo: smise di fissarla e lasciò che i suoi occhi
vagassero nel vuoto. Sentì anche le guance avvampare. Poi
lei tornò a conversare con i tipi sul divano.
Lui chiese a Peg: – Signorina o signora?
– Chi?
– Lei, – disse indicando Susan Faine con il bicchiere.
– Ti ho appena detto che ha divorziato, – disse Peg.
– Ah già, – disse lui. – Me n’ero dimenticato. Cosa fa? In
che settore è?
– Gestisce un noleggio di macchine per scrivere, – disse
Peg. – È anche dattilografa e fa ciclostilati. Fa dei lavori
anche per noi –. Si riferiva allo studio legale presso cui lei
lavorava come segretaria.
Susan Faine disse: – State parlando di me.
– Sì, – rispose Peg. – Bruce mi chiedeva cosa fai.
– Ho saputo che sei appena tornata dal Messico, –
intervenne Bruce.
– Sì, – confermò Susan Faine, – ma non c’entra niente
col mio lavoro–. Gli altri la presero per una battuta e risero.
– Proprio niente, – precisò lei. – Anche se ti potrà capitare
di sentir dire il contrario.
Poi saltò giù dal bracciolo del divano e si diresse in
cucina con il bicchiere vuoto. Un tipo smilzo dall’aspetto da
impiegato si alzò e la seguì.
Mentre sorseggiava il suo bourbon, Bruce pensò: io la
conosco. L’ho già vista prima.
Cercò di ricordare dove.
– Non vuoi che ti appenda il soprabito? – gli chiese Peg.
– Grazie –. Appoggiò il bicchiere e, pensieroso, si alzò
slacciando il soprabito. La seguì mentre lo portava
nell’armadio in corridoio. – Mi sembra di conoscere quella
donna, – disse.
– Dici? – Lei sistemò il soprabito su una gruccia e
mentre lo faceva accadde una di quelle cose che nessuno
potrebbe immaginare e a cui pochi possono sopravvivere.
Dalla tasca del soprabito cadde la scatolina dei Trojan,
avvolta nella bustina dell’EMPORIO E FARMACIA HAGOPIAN,
finendo sul tappeto.
– Che cos’è? – disse Peg curvandosi per raccoglierla. –
Com’è piccola.
Ovviamente Fred Hagopian aveva avvolto la scatolina in
modo che scivolasse facilmente fuori dalla bustina, visibile
a tutti. Vedendola Peg assunse un’espressione strana e
gelida. Rimise la scatola nella bustina e la bustina nella
tasca del soprabito senza una parola.
Disse chiudendo l’anta dell’armadio: – Be’, vedo che sei
venuto preparato.
Lui desiderò aver proseguito direttamente per Boise.
– Sei sempre stato un ottimista, – disse Peg. – Del resto
non vanno a male, giusto? Voglio dire, possono sempre
venire buoni –. Ritornando in soggiorno gli sibilò: – Non
vorrei che avessi sprecato il tuo investimento.
– Di che investimento si parla? – chiese una delle figure
indistinte sul divano.
Né lui né Peg dissero niente. E questa volta non si fece
problemi a sedersi al suo fianco. Di sicuro adesso non aveva
più speranza. Si sedette a bere il suo bourbon e a chiedersi
come fare ad andarsene.
2

Un’opportunità di andarsene arrivò quasi all’improvviso.


Davanti a lui un impiegato piccoletto e calvo si alzò dal
divano e disse che doveva avviarsi verso casa, in autobus.
Si alzò anche Bruce e disse: – Ti do io uno strappo. Vado
verso Boise comunque.
Nessuno si oppose. Peg fece un cenno di saluto e
scomparve in cucina mentre lui e il signor Muir lasciavano
la casa.
Una volta arrivati a Boise ci volle un po’ per localizzare
la strada dove abitava Muir. L’uomo, non possedendo
un’auto, non si orientava molto bene. Infine, dopo averlo
fatto scendere, Bruce riprese la strada alla ricerca di un
motel. Appena ne ebbe trovato uno con un aspetto decente,
si rese conto che aveva lasciato il soprabito da Peg,
nell’armadio dell’ingresso. La vergogna gliel’aveva
cancellato di mente.
Devo ritornare a prenderlo? si chiese.
O no?
Fermandosi sul ciglio della strada, controllò l’orologio.
Erano le nove passate. Sarebbero state le nove e mezzo
quando fosse arrivato a Montario. Meglio aspettare fino al
giorno dopo? Doveva riprenderselo, non poteva presentarsi
al suo appuntamento senza.
L’indomani, decise. Ma Peg sarebbe uscita presto per
andare al lavoro. Se non l’avesse trovata, avrebbe potuto
anche dire addio al soprabito.
Ridiede gas all’auto e fece un’inversione a U dirigendosi
nella direzione da cui era venuto.
Le auto parcheggiate vicino alla casa di Peg se n’erano
andate. E le luci erano spente. La casa, buia e silenziosa,
aveva un aspetto deserto. Si affrettò per il sentierino fino
alla veranda e suonò il campanello.
Non rispose nessuno.
Suonò di nuovo. Prima cosa, l’esperienza gli diceva che
neanche a Montario si andava a letto alle nove e mezzo;
seconda cosa, la festicciola non poteva essersi interrotta
così in fretta. Magari erano andati tutti da un’altra parte, a
casa di qualcuno. O a Hill Street per prendere
qualcos’altro, a farsi uno spuntino o una birra in qualche
locale, o Dio solo sa cosa.
In ogni caso il suo soprabito era dentro casa. Provò ad
aprire la porta e notò che era chiusa. Allora percorse il
sentiero e attraversò il cancelletto che portava sul retro. La
finestra della lavanderia era tenuta aperta da un puntello,
se lo ricordava. Piazzò una cassetta di legno vicino al muro
e armeggiò per aprire la finestra del tutto e per poi infilarsi
attraverso l’apertura, con le mani in avanti, fino a trovarsi
lungo e disteso sul pavimento all’interno.
Prese come punto di riferimento la luce rimasta accesa
nel bagno. Attraversò il corridoio e trovò l’armadio a muro.
Lo aprì ritrovandovi il soprabito. Grazie a Dio, pensò. Se lo
infilò ed entrò in soggiorno.
Nella stanza aleggiava l’odore del fumo di sigaretta. Un
posto strano e deserto, abbandonato da tutti gli ospiti… il
calore e l’impressione della loro presenza, un pacchetto di
sigarette accartocciato in un posacenere, bicchieri, persino
un orecchino in un angolo del tavolo. Pareva si fossero
dissolti in fumo, come folletti. Pronti a riprendere corpo
appena un mortale, Bruce stesso magari, li avesse evocati.
Restando immobile sentì un fruscio.
Il giradischi era rimasto acceso. La sua piccola spia
rossa brillò quando lui sollevò il coperchio per spegnerlo.
Evidentemente non avevano l’intenzione di rimanere fuori a
lungo, o forse erano usciti all’improvviso sull’ispirazione
del momento.
L’enigma del veliero abbandonato, pensò, mentre si
aggirava in cucina. Cibo sul tavolo… la bottiglia di bourbon
ancora sullo scolatoio, mezza piena. E anche la vaschetta di
cubetti di ghiaccio ormai sciolti, la scorza di limone e altri
bicchieri vuoti. Nel lavabo c’erano dei piatti.
Cosa sto aspettando? si chiese. Ho il mio soprabito.
Perché non prendo su e me ne vado?
Maledizione, pensò. Se non fosse successo
quell’inconveniente con il mio acquisto da Hagopian, avrei
potuto rimanere qui stanotte.
Mentre se ne stava lì, a metà tra la cucina e il corridoio,
con le mani sprofondate nelle tasche, sentì un sospiro.
La qual cosa lo terrorizzò.
Meglio che faccia attenzione, pensò. Senza far rumore
alcuno, attraversò il corridoio fino al soggiorno e
all’ingresso. Alla porta si fermò con la mano sulla maniglia
sentendosi un po’ più sicuro, e rimase in ascolto.
Nessun rumore.
Adesso gli sembrava meno pericoloso. Aprì la porta,
esitò, e poi, lasciandola socchiusa, tornò indietro. La casa
era talmente buia che era certo di non poter essere visto;
almeno non molto bene. Un profilo, al massimo la sua
sagoma, troppo vaga per essere identificata. C’era qualcosa
di eccitante nella situazione, come se fosse un gioco da
bambini. Il ricordo di un tempo ormai andato… Si fermò
ancora, sollevò il capo, mise una mano dietro l’orecchio e,
trattenendo il respiro, rimase in ascolto.
Un respiro ben chiaro proveniente da quella che lui
sapeva essere la camera da letto. La porta era rimasta
aperta. Fremendo di curiosità, si avvicinò un passo alla
volta e sporse la testa oltre la soglia per guardare nella
stanza. La luce era appena sufficiente a distinguere il letto,
il comò e una lampada.
Susan Faine fumava una sigaretta distesa sul letto, con
un braccio piegato sotto la testa e lo sguardo fisso sul
soffitto. Si era levata i sandali. Svariati cappotti e borsette
erano stati accatastati ai piedi del letto, erano quelli degli
altri. Appena si accorse di lui, si alzò a sedere sul letto e
disse: – Già di ritorno?
– No, – farfugliò lui.
Lei lo squadrò con un’occhiata: – Mi sembrava che te ne
fossi andato parecchie ore fa.
– Mi ero dimenticato il soprabito, – disse lui
scioccamente.
– Ce l’hai addosso.
– L’ho indossato adesso, – precisò lui. Dopodiché
aggiunse: – Dove sono finiti tutti gli altri?
– Usciti a farsi un giro.
– Sono entrato dalla finestra, – le spiegò. – L’entrata era
sprangata.
– Ah, ecco cos’era quel rumore. Pensavo che fossero
loro che aprivano la porta. Mi chiedevo come mai se ne
stessero tutti zitti. Devo essermi addormentata. Magari ho
qualche malattia virale. Ho paura di essermi buscata
qualcosa in Messico. Da quando sono tornata non faccio
altro che avere la nausea. Non posso bere niente senza
rimetterlo. E ogni tanto mi sento maledettamente debole e
intontita. E debbo rimanere lunga distesa.
– Oh, – fece lui.
Susan Faine proseguì: – Laggiù ci raccomandavano di
non mangiare verdure a foglia larga, frutta e di non bere
acqua se non era stata bollita. Ma quando vai in un
ristorante non gli puoi dire di bollirti l’acqua che bevi.
Giusto? Né puoi sterilizzare le pietanze che ti servono.
– Non potrebbe essere semplicemente influenza,
l’asiatica? – chiese Bruce.
– Può darsi, – disse lei. – Ho spesso dei dolori di
stomaco–. Si era slacciata la cintura e si sfregava l’addome
piatto. Poi tornò a sedersi, mise da parte la sigaretta e si
alzò dal letto. – Dovrebbero essere di ritorno adesso, – e
infilò i piedi nei sandali. – A meno che non si siano fermati
da qualche parte. Mi sa che mi faccio un caffè. Te ne va un
po’? – Gli passò davanti uscendo dalla stanza. Aveva
movenze agili ma segnate dalla debolezza. Quando la
inquadrò di nuovo nel suo campo visivo, lei aveva acceso la
luce in cucina e se ne stava in punta di piedi per guardare
in una credenza sopra all’acquaio. Trovò un barattolo di
caffè solubile.
– Io non ne voglio, – disse lui piazzandosi vicino al
tavolo.
– Walt, mio marito, o meglio il mio ex marito, un’estate
che eravamo a Mazatlan viveva nel terrore che uno di noi si
prendesse la dissenteria amebica. E dicono sia un affare
serio. Qualche volta fatale. Ci sei mai stato laggiù?
No.
– Ti consiglio di andarci.
Lui aveva una vaga idea del Messico: una volta aveva
parlato con due tipi che erano partiti in macchina da Los
Angeles e che avevano attraversato il confine a Tijuana. Dai
loro racconti aveva ricostruito un panorama di ragazze in
costume da bagno, bistecche gigantesche a poco prezzo,
alberghi di lusso a due dollari per notte, femmine a volontà,
whisky esentasse, e tutti i tipi di intrattenimento che uno
possa desiderare a disposizione a ogni angolo di strada. La
cosa che più gli interessava era che la benzina costava una
sciocchezza, perché nei suoi viaggi di lavoro ne consumava
parecchia. I negozi di abbigliamento vendevano abiti in
lana inglese di qualità ottima a prezzi stracciati.
Naturalmente aveva ragione lei: dovevi stare con gli
occhi bene aperti su quello che mangiavi, ma se ti tenevi
alla larga dal cibo locale, potevi stare tranquillo.
Susan Faine mise a bollire sul fornello un pentolino
d’acqua per il caffè. – Meglio tardi che mai, – fece lui.
– Cosa?!
– Bollire l’acqua, – disse Bruce.
– Questa è per il caffè, – precisò lei in tono serio.
– Lo so. Stavo solo scherzando, anche se mi rendo conto
che non è il caso di fare battute con qualcuno che si sente
poco bene.
Lei si sedette al tavolo, incrociò le braccia sul ripiano e
vi appoggiò sopra la testa. – Vivi qui in città? – gli chiese.
– No. Vengo da Reno.
– Lo sai cos’ho intenzione di fare? – disse lei. – Voglio
mettere un po’ di cognac nel caffè. Ne ho vista una bottiglia
sul ripiano più alto della credenza. Me la prenderesti? È in
fondo e probabilmente nessuno si sarà mai accorto che è lì.
Servizievole, le prese la bottiglia di cognac. Non era mai
stata aperta. Lei la esaminò in lungo e in largo, ne lesse
l’etichetta, tenendola sospesa controluce. L’acqua bolliva.
– Sembra buono, – disse lei. – A Peg non gliene importa
nulla. Probabilmente gliel’ha regalato qualcuno. Comunque
mi sa che vomiterò anche questo–. La restituì a Bruce e lui
capì che lei si aspettava che gliel’aprisse.
La bottiglia aveva il tappo di sughero, la qual cosa gli
diede un po’ di problemi. Dovette stringere la bottiglia tra
le gambe, tenendola a freno come un animale e, facendo
forza con un coltello sul cavaturaccioli, ebbe abbastanza
presa da tirare con tutta la sua forza. Il tappo venne su a
gradi, e alla fine uscì dalla bottiglia per intero, gonfiandosi
all’improvviso. Gli sembrò una specie di umiliazione, e
rimase con il cavatappi in mano senza toccare il tappo.
Per tutto il tempo Susan lo aveva osservato con sguardo
critico. Poi, appena lui ebbe tirato fuori il tappo, lei versò
l’acqua bollente nella tazza, mescolò il caffè solubile, e
aggiunse un po’ di cognac.
– Ne vuoi un po’? – disse.
– No, grazie –. Il brandy non gli era mai piaciuto più di
tanto, in particolare quello francese. Rimanendo in
disparte, si rimise a posto le maniche, che gli si erano
spiegazzate per tirare e far leva.
– Non hai ancora l’età?
– Ce l’ho, – borbottò lui. – È solo che lo trovo troppo
dolce. Preferisco lo scotch.
Lei annuì e si accomodò con il suo caffè corretto. Dopo il
primo assaggio lo mise da parte e rabbrividì. – Non riesco a
berlo, – disse.
– Dovresti farti vedere da un medico, – disse lui. – Per
capire se è una cosa seria.
– Detesto i dottori. Lo so che non è niente di grave. È
psicosomatico. Perché sono preoccupata e ansiosa, e
perché il mio matrimonio è andato all’aria. Dipendevo da
Walt per tutto. E il problema in parte era proprio questo.
Con lui mi comportavo proprio come una bambina.
Lasciavo che fosse lui a prendere tutte le decisioni e non
andava bene. Se qualcosa andava male davo la colpa a lui.
Era un circolo vizioso. Allora abbiamo finalmente capito che
dovevo uscire da quella situazione e cercare di fare la mia
vita. Forse non ero pronta per il matrimonio. Devi aver
raggiunto una certa posizione prima di essere pronta a
farlo. Io non lo ero. Pensavo solo di esserlo.
– Per quanto sei stata sposata? – le chiese.
– Due anni.
– Be’, non è poco.
– Neanche tanto, – disse lei. – Stavamo ancora facendo
conoscenza. E tu sei sposato, ehm…? – Il suo nome non
prese forma.
– Bruce Stevens, – disse lui.
–… Bruce? – disse lei terminando la frase.
– No. Ci ho pensato qualche volta, ma voglio aspettare
finché non ne sarò assolutamente convinto. Non intendo
compiere errori in una questione così seria.
– Non stavi con Peg Googer?
– Ci sono stato per un po’ di tempo, – rispose lui. –
L’anno scorso, più o meno.
– Vivevi qui?
– Sì, – disse lui vago, non volendo tradire il fatto che
veniva da Reno.
– Sei venuto qui in macchina per vedere Peg?
– No. Sono da queste parti per lavoro–. Le raccontò,
allora, del magazzino discount, del suo lavoro e di cosa si
faceva in quel posto. Le raccontò che vendeva merce con
uno sconto del venticinque per cento, senza bisogno di
pubblicità, che aveva spese generali molto basse perché
non c’erano vetrine da allestire e suppellettili da tenere in
ordine, solo un immenso capannone privo di pareti
divisorie, come una fabbrica, con dei banconi e gli
impiegati che non erano neppure tenuti a indossare la
cravatta. Le spiegò che un discount non faceva mai scorte
di linee complete di alcunché, solo di quei prodotti che
poteva ottenere a prezzi abbastanza competitivi. I prodotti
andavano e venivano, a seconda di quello su cui riuscivano
a mettere le mani gli agenti di commercio.
Proprio adesso, le raccontò, lui si stava dirigendo a
Boise per valutare una fornitura di cera per automobili.
La cosa sembrò incuriosirla. – Cera per automobili, –
disse lei. – Davvero? Ottocento chilometri per della cera
per automobili?
– È un prodotto buono, – disse lui. – Una cera in pasta –.
La questione era, spiegò, che la cera in pasta non vendeva
più bene perché richiedeva troppo lavoro. Adesso
esistevano nuovi silicati che si potevano stendere e ripulire
senza sfregare. Ma niente rifiniva a puntino come la buona
vecchia cera in pasta, presa da un barattolo e non da una
bottiglia o uno spray, e ogni proprietario di automobile in
fondo lo sapeva, o credeva di saperlo. E a un prezzo
scontato di novanta cent alla lattina, la cera avrebbe
funzionato. Un uomo avrebbe passato tutto il sabato a
lucidare la sua macchina se sapeva di risparmiare un
dollaro rispetto al normale prezzo al consumo.
Lei lo ascoltò assorta. – E quanto dovrai pagarla?
– Faremo un’offerta per tutto il lotto, – disse lui. Il suo
capo lo aveva autorizzato a cominciare con l’offrire
quaranta cent alla lattina per arrivare a un massimo di
sessanta. L’unico dubbio riguardava quante lattine ci
fossero. E ovviamente, se la cera era troppo vecchia, se si
era seccata, l’affare andava a monte.
– E tu te ne vai in giro in cerca di stock come questo? –
disse Susan.
– Ovunque. Da Denver fino alla costa. Fino a Los
Angeles–. Si crogiolò con un moto di orgoglio.
– Affascinante, – disse lei. – E nessuno sa dove trovate le
cose che vendete. Immagino che i normali negozianti
arrivino da voi infuriati chiedendovi se i loro fornitori vi
hanno venduto le merci con più sconto che a loro.
– È così. Ma noi non riveliamo mai le nostre fonti di
rifornimento–. Eppure in quell’esatto momento stava
rivelando informazioni di solito tenute sotto silenzio. – A
volte naturalmente otteniamo la roba direttamente dai
grossisti locali, al prezzo giusto. E il migliore degli affari
possibili è andare dal fabbricante, con i nostri furgoni, a
caricare la merce sul posto, a cifre da ingrosso o anche
meno. In altri casi qualche esercizio al dettaglio va in
fallimento e noi rileviamo la merce. O acquistiamo
un’eccedenza che non si muove. O anche fondi di
magazzino.
Al tavolo, Susan Faine mescolava il caffè e il cognac
nella tazza con un ritmo così lento e avvilito che lui si rese
conto che le sue parole avevano un effetto negativo. – E
questi affari crescono sempre più? – mormorò lei. – Non c’è
da sorprendersi se non combino più nulla.
– Non avrai mica un negozio, – disse lui. – No?
– Oh, – rispose lei svogliatamente, – vendo a stento
qualche nastro da macchina per scrivere e dei fogli di carta
carbone.
Si alzò in piedi e andò a piazzarsi di fronte a lui, con le
braccia incrociate proprio sotto i seni. La sua cintura,
ancora slacciata, lasciava che la gonna in alto rimanesse
aperta dove avrebbe dovuto essere chiusa, due lembi di
stoffa che pendevano liberi. Aveva i fianchi stretti da donna
al passo coi tempi, e lui ebbe anche l’impressione che se lei
non avesse chiuso la cintura qualcosa sarebbe presto
scivolato fuori. Ma lei non pareva controllarsi; aveva in
volto un’espressione aggrottata e introversa. Lui notò che
le si era sbavato il rossetto, lasciandole sulle labbra
inaridite un colore paglierino, segnato da innumerevoli
linee radianti. Aveva anche la pelle secca, ma era tesa e
liscia. In contrasto con i suoi capelli corvini, aveva la pelle
chiara. E gli occhi, notò Bruce, erano azzurri. Guardandole
i capelli più attentamente, scoprì che avevano la radice
rosso ruggine. Erano chiaramente tinti. Questo spiegava la
loro mancanza di lucentezza.
E ancora una volta pensò che la conosceva. L’ho già
vista, le ho già parlato. Mi è familiare: la voce, i modi, la
scelta delle parole. In particolar modo la scelta delle
parole. Sono già abituato a sentirla parlare. È una voce che
mi è più familiare di qualsiasi altra al mondo.
Mentre stava riflettendoci sopra, un gran rumore arrivò
dall’entrata principale. La porta si spalancò e il gruppo di
persone irruppe all’interno, accendendo le luci e
chiacchierando. Peg e i suoi amici impiegati erano ritornati
a casa con il ginger ale.
Senza battere ciglio, come se non avesse sentito
arrivare nessuno, Susan disse: – È una cosa che mi
interessa molto. Credo proprio che debba tenermi
informata. Che mi piaccia o meno questa è la nuova
tendenza del commercio. Del resto… – si voltò mentre Peg
appariva alle sue spalle con un sacchetto di carta.
– Cosa ci fai tu di nuovo qui? – disse Peg, sorpresa di
vedere Bruce. – Credevo te ne fossi andato–. Gli passò
davanti in fretta e appoggiò il sacchetto sullo scolatoio. La
busta tintinnò.
– Mi ero dimenticato il soprabito, – disse lui.
– E come sei entrato? La porta era chiusa a chiave.
Susan disse: – Gli ho aperto io.
– Credevo che stessi male e che te ne restassi a letto, –
le disse Peg. Uscì dalla cucina per tornare in soggiorno,
lasciandoli lì.
– È arrabbiata con te? – disse Susan. – Si è comportata
in modo strano dopo che te ne sei andato. Sei scappato così
di fretta. Per quanto tempo ti fermerai, prima di tornare a
Reno?
– Dipende da come vanno le cose, – disse lui. – Un
giorno al massimo.
– Mi piacerebbe parlare ancora con te, – disse Susan
appoggiandosi al bordo dell’acquaio.
– Anche a me. Sai, mi sembra di averti già conosciuta.
Ma non riesco a capire come.
– Anch’io ho la sensazione di conoscerti già, – confermò
lei.
– Eh già. È quello che si dice sempre.
– Quel che si dice una «serata magica» –. Lei sorrise. – Il
riconoscimento improvviso dell’amato.
Quella frase accelerò le pulsazioni a Bruce.
– Sai, – disse Susan, – sentirti parlare di comprare e
vendere mi ha fatto sentire meglio. Il mio stomaco ha
smesso di brontolare.
– Bene, – disse lui, confinando quell’affermazione nei
recessi della sua mente. Quell’immagine di lei andava
rimossa, come la loro discussione e tutto il resto.
– Forse è quello di cui ho bisogno, – disse lei. – È stato
tutto così confuso da quando sono tornata da Città del
Messico. Anche se non è passato più di un mese. Sembra
che io non riesca a recuperare il senso delle cose… perché
non ripassi uno di questi giorni e ci vieni a trovare? Ecco, ti
do il nostro biglietto da visita –. Si trascinò fuori dalla
cucina. Lui restò lì. Quando tornò aveva un biglietto da
visita che gli porse con uno svolazzo ufficiale. – Ripassa, –
gli disse. – Potresti portarmi fuori a cena.
– Mi piacerebbe –. Mentre lo diceva, Bruce calcolava già
come e quando sarebbe ritornato a Boise. Valeva la pena
intraprendere un viaggio di oltre mille e cinquecento
chilometri tra andata e ritorno di sua iniziativa? Se avesse
aspettato di averne l’occasione con la ditta sarebbero
passati forse altri sei mesi e per allora, come adesso,
avrebbe avuto a disposizione un giorno o poco più. Mentre
lui dibatteva mentalmente quelle questioni, Susan lo lasciò
e andò a raggiungere gli altri in soggiorno.
Per lei poteva farlo sul serio, pensò. Alla grande.
Pochi minuti dopo aveva già detto arrivederci a tutti e
se n’era andato da quella casa, per la seconda volta.
Mentre era in viaggio sulla sua macchina, diretto
nuovamente verso la strada, rifletté tra sé che una donna
matura sapeva come tenersi. Se appariva bella era perché
sapeva come fare a esserlo, non certo per un caso. Non
perché la natura l’avesse dotata di un bel fisico, bei denti e
belle gambe. Coltivava la sua bellezza.
E come se non bastasse, ne aveva l’assoluta certezza
pur non avendo potuto verificarlo, sapeva bene come
comportarsi.
Aveva quasi imboccato la statale quando, tutto a un
tratto, si ricordò chi era Susan Faine. Lentamente, continuò
a guidare per inerzia, lasciando che l’auto andasse da sé.
Ritornò ai giorni in cui lei viveva a Montario. Nessuno di
loro aveva mai saputo il suo cognome, e di sicuro «Faine»
era il suo cognome da sposata. Naturalmente lei a quel
tempo non si chiamava così. Tutti loro pensavano a lei
come alla signorina Reuben. L’ultima volta che l’aveva vista
era stato nel 1949, quand’era alle medie e ovviamente si
considerava uno studente, e così lo considerava lei. Era
naturale per entrambi che lui non fosse altri che uno
studente.
Susan Faine era la sua professoressa. Alla scuola media
Garret A. Hobart di Montario. Nel 1944, quando Bruce
aveva undici anni.
3

Trascorse la notte in un motel alla periferia di Boise. Il


mattino seguente incontrò la gente degli accessori auto e
trattò con successo la partita di cera.
Alle undici aveva già noleggiato un rimorchio e aveva
cominciato a riempire di quante più scatole poteva sia il
rimorchio che la macchina. I tizi degli accessori auto nel
frattempo avevano verificato il suo assegno. Firmarono la
ricevuta, si accordarono per la spedizione delle scatole
restanti, e si mise in marcia, con il carico e il rimorchio che
gli rallentavano la velocità.
Con un carico simile non poteva fare il viaggio di ritorno
a Reno nell’afa delle ore diurne. Se avesse attraversato il
deserto ora il motore della Mercury si sarebbe
surriscaldato, l’acqua sarebbe evaporata, e di certo
sarebbe andato fuori di testa. Di solito, in circostanze del
genere, con un dollaro o due si assicurava una stanza di
motel anche per il giorno; schiacciava un sonnellino,
prendendosela calma, leggeva e poi, al tramonto,
riprendeva il viaggio.
Si inoltrò per un po’ nella stradina del motel, ma poi
cambiò idea, fece inversione e tornò verso il centro di
Boise.
All’una parcheggiò la macchina e il rimorchio di fronte a
un negozio di scarpe, scese, si accertò che le scatole nel
rimorchio non potessero essere sfilate da qualche
ladruncolo di passaggio, e poi s’incamminò per il
marciapiede, con la gente in giro per compere, fino a che
davanti a sé non si parò un piccolo negozio con un’insegna
appesa che recitava: R&J SERVIZI DI CICLOSTILE.
Sudando per la tensione nervosa, entrò nel negozio
notando che il bancone e le attrezzature erano di foggia
recente. Nella saletta c’era un’altra porta e in un locale
dall’aria moderna c’erano un’agenzia immobiliare e un
ufficio di pratiche notarili. Sul banco un ventilatore
rinfrescava l’aria. Parecchie poltrone scure da sala d’attesa
erano piazzate fuori per i clienti.
Lo accolse una gioviale donna di mezz’età con un
camice addosso. – Salve, – disse.
Bruce disse: – C’è la signorina Reuben? – Si penti
immediatamente di non aver chiesto della signora Faine;
quel nome gli era scappato senza nemmeno rendersene
conto. Se lei lo avesse sentito avrebbe capito che lui l’aveva
già conosciuta in passato.
Ma la donna di mezz’età disse: – Susan non è venuta
oggi. Ha telefonato stamattina verso le nove e ha detto che
non si sentiva bene.
– Che sfortuna, – disse sollevato. Si tranquillizzò. –
Ripasserò un’altra volta.
– Posso esserle utile in qualche modo? – chiese la donna,
con le mani strette tra loro nelle maniche del camice.
Portava degli occhiali con la montatura di tartaruga e i
capelli tirati su in una treccia arrotolata. Aveva un volto
simpatico e rugoso, rotondo e con le guance cadenti.
Quando sorrideva mostrava una collezione di interventi
odontoiatrici d’oro e d’argento.
– No, – disse Bruce. – Sono un suo amico. Vengo da Reno
e avevo pensato di fare un salto per salutarla.
– Che peccato che non l’ha trovata.
– Be’, – disse lui. – L’ho vista ieri notte.
– Ah, da Peg Googer?
– Sì, – disse lui.
– E come si sentiva?
– Non tanto bene, – disse lui. – Si è stesa per un po’.
Diceva di aver paura di essersi presa un virus in Messico. A
me sembrava più un’influenza asiatica.
– Senta, – disse la donna preoccupata, – perché non fa
un salto a trovarla? Lei è in macchina, giusto? – Si
allontanò in fretta ritornando dietro il banco. Mentre
raccoglieva alcuni mucchi di fogli, disse: – Ci sono queste
cose che Susan dovrebbe vedere oggi. Stavo per chiudere
alle quattro e prendere un taxi –. Riemerse con le braccia
cariche. – Assegni da firmare, posta, un manoscritto che ha
portato uno studente con dei simboli matematici. Non
abbiamo quei simboli tra i caratteri ma Susan li può
disegnare… è lei che fa quel genere di cose, io non sono
capace –. Gli porse tutto il carico.
– Non so se posso, – borbottò Bruce, ma lei gli piazzò il
fascio di carte sulle braccia e lui si ritrovò a reggerlo. – Non
ci sono mai stato.
– Non è difficile da trovare Lo prese per una manica del
soprabito e gli fece strada verso una grande cartina lucida
della città. – Qui, – disse lei, indicando una x rossa. – Qui è
dove siamo noi. Lei prenda per questa direzione –.
Descrisse il percorso in dettaglio e annotò l’indirizzo,
chiaramente sollevata dall’aver trovato qualcuno che
recapitasse le cose alla sua collega. – Tante grazie davvero,
– concluse. – Devo occuparmi di un sacco di cose qui
quando Susan non c’è. E per di più è stata all’estero, come
sa anche lei. E ho dovuto fare tutto io, – aggiunse a voce
alta mentre andava a sedersi di là dal bancone, a una
vecchia macchina per scrivere elettrica. Dopo avergli
sorriso da dietro gli occhiali, iniziò a battere sui tasti. – E
adesso vorrà scusarmi, – disse.
– Grazie per avermi spiegato che strada fare, – disse lui,
turbato dal fatto che la donna avesse affidato il libretto
degli assegni a uno sconosciuto per il solo fatto che le
aveva menzionato il nome dell’altra proprietaria dell’ufficio.
Che anima sprovveduta, pensò. E che modo alla carlona di
portare avanti un’impresa. – Crede che ci sia qualche
medicina o altro che io possa portarle? – chiese Bruce. –
Visto che vado da lei…
– No, – gli rispose allegra. – La posta e il libretto degli
assegni sono le cose importanti. E non dimentichi di farle
presente che io o lei dobbiamo chiamare quello studente
prima di iniziare per dirgli quanto verrà a spendere… c’è il
nome sul manoscritto. Ha solo cinquanta dollari.
Bruce salutò e lasciò l’ufficio. Subito dopo aveva già
aperto la portiera della macchina e stava depositando il
mucchietto di carte, buste, assegni e il pesante libro mastro
sul sedile.
Adesso devo andarci per forza, si rese conto.
Avviò l’auto inoltrandosi nel traffico e si diresse verso la
casa di Susan Faine.

Anni prima, quando frequentava le medie, faceva la


consegna dei giornali. Li portava dopo la scuola a Montario,
e la signorina Reuben abitava lungo il suo itinerario. Nei
primissimi mesi non aveva avuto nessun contatto con lei,
visto che non si era abbonata al quotidiano. Ma un giorno,
quando aveva preso su il suo carico, aveva trovato
l’avvertenza che c’era un nuovo abbonato sulla strada 36,
con una copia in più del quotidiano in consegna. Così era
salito su per gli ampi gradini di cemento, aveva
oltrepassato alberi e aiuole fiorite, fino a che non si era
ritrovato sotto la balconata del secondo piano e da lì aveva
lanciato un giornale ripiegato oltre la balaustra fin sotto il
porticato della casa. E da quella volta in poi aveva
cominciato a farlo sei volte alla settimana, per quasi un
anno.
Questa casa non ricordava nemmeno lontanamente
quella bella dimora in pietra con alberi, fontane, vasche
piene di pesci e di uccelli che si lavavano, e un bel sistema
di irrigazione automatica. A quel tempo, lei se ne stava da
sola e divideva la casa con altre tre donne. Non erano
proprietarie, l’avevano affittata. Questa casa, più piccola, si
ergeva squadrata e regolare, ed era di legno, non di pietra.
Le finestre erano piccole. Il cortile sul davanti era privo di
alberi, c’era solo qualche cespuglio, dei fiori e neanche un
po’ d’erba. I gradini erano di mattoni. D’altra parte era una
casa moderna, ben tenuta, e lui vide che dietro a essa si
stendeva un ampio cortile erboso, spianato e ben tenuto, e
gli parve di scorgere lì in mezzo un tavolo da ping pong e
un pergolato di rose… La casa era stata ridipinta di recente
con una piacevole mano di bianco. Dalle gocce secche di
vernice sulle foglie degli arbusti si poteva intuire che il
lavoro era stato fatto il mese precedente o giù di lì.
Chiuse a chiave la portiera della macchina, attraversò il
marciapiede e una volta raggiunta la veranda suonò il
campanello. Tutto questo prima di poter essere assalito da
ulteriori dubbi.
Non rispose nessuno allo squillo. Riprovò.
Si sentiva una radio sintonizzata su un programma di
musica leggera, da qualche parte all’interno. Dopo aver
suonato e atteso, ritornò sul sentierino e fece il giro della
casa, passò da un cancelletto aperto ed entrò nel cortile
posteriore.
A un primo sguardo il giardino gli parve deserto. Stava
tornandosene indietro quando vide Susan Faine, immobile,
che quasi si mimetizzava con il giardino. Era seduta sulla
scaletta sul retro, in mezzo a un mucchio di vestiti dai
colori sgargianti: probabilmente stava rammendando o
cucendo visto che sul gradino dietro a lei c’erano un paio di
forbici e parecchi rocchetti di filo. Aveva in mano dei calzini
da bambino. E lui si accorse anche che il cortile era
disseminato di giocattoli: un cavalluccio di metallo
arrugginito, costruzioni, pezzi di giochi. Susan indossava
una camicetta bianca plissettata, con le maniche corte, e
un gonnone verde spiegazzato di un materiale sottile che
sbatacchiava attorno alle sue gambe ogni volta che la
brezza attraversava il cortile. Le gambe e le braccia erano
di un bianco fuori dal comune. Aveva i piedi nudi ma lui
vide un paio di scarpe di tela buttate da una parte lì vicino.
Anche se fino a un attimo prima stava rammendando
calzini, adesso aveva certamente smesso. Era seduta col
busto piegato in avanti, con un calzettino rosso sulla mano
destra, le dita infilate dentro. Un ditale le brillò all’indice
della sinistra. Ma lui non vide alcun segno di ago o filo.
– Dove sono finiti ago e filo? – disse lui.
Lei alzò la testa. – Come? – disse lentamente,
socchiudendo gli occhi per distinguere chi fosse lui. I
movimenti di lei erano ritardati, come se fosse
semiaddormentata. – Ah, – disse, – sei tu Si piegò in avanti
e frugò il terreno ai suoi piedi. – Mi è caduto, – disse.
Mentre lui si avvicinava, lei ritrovò l’ago, lo sollevò, gli
diede un’occhiata, poi riprese a rammendare. La luce
brillante del sole di mezzogiorno le fece aggrottare il
sopracciglio. Qualche ruga le solcò la fronte e gli occhi,
fissi sul calzino abbacinante, quasi le si chiusero.
– Ho parecchia roba per te, – disse lui, soppesando il suo
carico di carte.
Lei alzò di nuovo la testa.
– Dal tuo ufficio–. Le tese la pila.
– Te le ha date la signora De Lima? – chiese Susan.
– Non so, era una donna dell’ufficio. Di mezz’età, coi
capelli castani.
– Le avevo detto che non mi sentivo bene. Dovrei
proprio farci un salto. Non ci sono stata più di un giorno
nell’ultimo mese.
– Se non ti senti bene non andarci.
– Mi sento bene, – disse lei. – Solo che non riesco
proprio ad andarci. È deprimente. Credo proprio di non
essere tagliata per fare la donna d’affari. Ero abituata a
insegnare a scuola.
Lui annuì.
Susan sospirò. – Appoggiali dentro, documenti e posta.
Cosa c’è nel pacchetto grande?
– Un manoscritto–. Lui le riferì le informazioni che la
signora De Lima gli aveva affidato.
Susan appoggiò per terra i calzettini che aveva in
grembo e si alzò in piedi. – Lo so cosa vuole: che io lo batta
a macchina a casa, sa che ho una macchina per scrivere
elettrica. E credo proprio che dovrei farlo. Che cosa mi
succede? Non dovrei costringerla a fare tutto il lavoro… è
stata davvero gentile con me nell’ultimo mese. Ha fatto
finta di niente. Scusa se sono così lenta… oggi non riesco a
mettere a fuoco le cose Scomparve dentro casa e lui la
seguì.
La veranda sul retro era fresca grazie ai lavandini e agli
scaffali per la biancheria. Susan aveva attraversato la
cucina gialla decorata vivacemente e il corridoio fino al
soggiorno. Quando arrivò anche lui, la trovò abbandonata
su una poltrona d’altri tempi, con le braccia distese sui
braccioli ricoperti di stoffa nera e sdrucita e la testa riversa
all’indietro con gli occhi fissi al soffitto.
Mentre appoggiava la pila di documenti su un tavolo, lui
disse: – Mi ha sorpreso che mi abbia affidato questa roba.
– Perché? – chiese Susan, con gli occhi chiusi.
– Non sa nemmeno chi sono.
– Povera Zoe, – commentò Susan. – È matta. Si fida di
chiunque. È incapace quanto me. Nessuna di noi due ha il
minimo senso degli affari. Non so nemmeno come abbiamo
fatto a cominciare.
– Comunque vi guadagnate da vivere, – disse lui.
– No, non ci guadagniamo da vivere… Bruce? Ti chiami
così, giusto? La cosa che mi deprime è che proprio ora
potrei avere una fonte di reddito. E invece non è così che
va.
– Di chi sono i giocattoli nel cortile? – chiese lui.
– Di Taffy. È mia figlia. Adesso è a scuola. Alle medie.
In quel momento ebbe la tentazione di dirle che lei era
stata la sua insegnante. La frase per poco non gli uscì fuori
da sola; balbettò qualche parola e poi invece disse: – Se sei
un’insegnante, perché non la educhi tu stessa a casa? Mi
sembrerebbe la cosa ideale.
– Il gruppo, – disse Susan. – Un ragazzo ha bisogno di
abituarsi a vivere in un gruppo. Ti va un caffè? – Si alzò
dalla sedia e uscì dalla stanza.
– No, grazie, – mugugnò lui. L’impulso se n’era andato e,
stranamente, non gli era rimasta la benché minima
intenzione di rivelarglielo, neanche il desiderio.
Probabilmente non gli sarebbe mai più venuto in mente di
parlargliene, l’argomento era chiuso per sempre, senza
lasciarsi niente alle spalle. Eccetto che lui sapeva. Se la
ricordava, a quei tempi era una giovane insegnante. Un bel
giorno erano andati a scuola e se l’erano trovata lì.
A quei tempi, pensò, doveva avere ventitré, ventiquattro
anni. Buon Dio, pensò. L’età che ho adesso io.
Mentre ci pensava, cercava anche di figurarsela proprio
com’era allora, non com’era apparsa allo studente
undicenne di prima media che era lui a quei tempi.
L’immagine era davvero confusa. Se chiudeva gli occhi
riusciva a ricordarsi varie vecchie glorie di allora: Nigger
Lips Tate, Bud McVae, Earl Smith, Louis Selkirk, il ragazzo
della palazzina di fronte che un pomeriggio gli aveva tirato
giù i calzoni in mezzo alla strada, la ragazzina del banco di
fianco al suo con i capelli neri lunghi e a cui Gene Scanlan
aveva scritto un biglietto, da parte sua, intercettato dalla
signora Jaffey, la loro vecchia insegnante, la quale, grazie a
Dio, non era stata in grado di decifrarlo. Tutto questo gli
era ancora perfettamente chiaro ma quando pensava a lei,
alla signorina Reuben, vedeva solo una donna col volto
tirato, con gli occhi chiari severi, le labbra contratte, che si
ergeva alta davanti all’aula, a braccia serrate, con addosso
un tailleur blu con dei bottoni bianchi grandi come tappi di
bottiglia. E il potere impetuoso della sua voce, in special
modo nel campetto da pallacanestro durante la ricreazione:
lei rimaneva a sorvegliarli dai gradini davanti al portone
dell’edificio, con un cappottone sulle spalle. Era arrivata
nell’Idaho dalla Florida, e non era abituata al freddo.
Durante l’inverno e all’inizio della primavera rabbrividiva e
si lamentava, anche con loro, contraeva il volto in una
smorfia, ritirava le labbra fino a farle sparire. In classe
parlava sempre della Florida e di come era bello il clima
laggiù, con gli aranci e i limoni, e le spiagge. Loro la
stavano ad ascoltare. Erano obbligati a farlo.
Lui era rimasto spaventato da lei sin dal primo giorno.
Tutti loro avevano notato che era una donna intensa e
decisa, di una forza esuberante, molto diversa dalla vecchia
signora Jaffey, che un giorno si era sentita male ed era
scesa in infermeria nel bel mezzo del pomeriggio, per non
ritornare mai più. Per mesi la signora Jaffey si era
lamentata di sentirsi stanca e febbricitante. Subito dopo
che era uscita dalla stanza, i ragazzini avevano cominciato
a gridare e a tirarsi le gomme da cancellare. Se l’erano
spassata finché non era arrivato il preside e li aveva zittiti.
E poi, pochi giorni dopo, erano entrati nell’aula e ci
avevano trovato la signorina Reuben.
La signora Jaffey era l’insegnante più anziana della
scuola media Garret A. Hobart, e nessuno degli altri
insegnanti aveva legato con lei più di tanto. E comunque
era intenzionata ad andare in pensione alla fine dell’anno
scolastico. Aveva sessantotto anni. A quanto affermava il
preside Hillings, aveva insegnato in quella scuola da
quando era stata inaugurata, quarantuno anni prima, nel
1904.
Lui, Skip Stevens, se l’era cavata alla grande con la
signora Jaffey. Tanto che lei aveva spinto per la sua elezione
a capoclasse, in seguito alla quale era dovuto intervenire
alle assemblee come rappresentante degli studenti del suo
anno e gli erano stati attribuiti poteri decisionali su
questioni quali la scelta del giorno in cui innaffiare l’orto
sul retro della scuola. A quel tempo era un ragazzino ben
piazzato e in salute, con i capelli rossi e le lentiggini, che
eccelleva nel pallone, il primo a uscire dalla mensa a
pranzo per correre sul campo da gioco.
Adesso, ripensandoci, si rese conto che era stato un
vero bulletto. E siccome era più grosso degli altri ragazzi,
quello era il suo ruolo naturale; non si sentiva colpevole.
Uno che faceva il bullo a quell’età doveva esserci per forza.
La signora Jaffey nel suo ultimo mese di insegnamento
era diventata troppo debole e distratta per occuparsi di
chicchessia. Prima ancora che lei avesse abbandonato la
classe per scendere di sotto in infermeria, lui
spadroneggiava già in aula. Un giorno aveva acceso un
fuoco nel guardaroba. E una volta, mentre la signora Jaffey
era uscita per andare al gabinetto degli insegnanti, aveva
rovesciato il cestino sulla scrivania.
Susan riemerse dalla cucina, stringendo un bricco
d’alluminio di caffè, disse: – Bruce, hai la macchina? Non
c’è latte. Mi chiedevo se potevi andare a prendermi una
confezione di latte. Ecco–. Appoggiò il bricco di caffè e
prese la borsetta che era sul divano in soggiorno. Gli porse
una moneta da mezzo dollaro e disse: – C’è un negozio di
alimentari a quattro isolati circa, all’angolo. Come è andata
con la tua cera per automobili? Sei riuscito a combinare?
– Sì, – rispose lui. – Ho concluso l’affare –. Ignorò la
moneta da mezzo dollaro e si diresse verso la porta.
– E quando devi tornare a Reno?
– Questa sera, – disse lui.
– Ah, bene, – commentò lei. – Allora non devi andartene
subito.
– Torno tra un attimo–. Bruce spalancò la porta e uscì in
veranda.
Mentre si allontanava in macchina dalla casa, si chiese
perché mai la cosa non gli seccasse. Il galoppino, pensò.
Ma almeno poteva fare qualcosa per lei.
E questo gli piaceva.
Andava bene così? si chiese. Voglio proprio fare
qualcosa per lei? Una donna che mi spaventava… una
giovane insegnante che mi aveva sgridato, umiliato di
fronte alla classe. Forse, pensò, sto rimettendomi in riga.
Obbedienza. Schiavitù. Le ingiustizie della fanciullezza.
Ma non si sentiva incatenato, non era obbligato a
eseguire i suoi ordini. Anzi la cosa gli piaceva: essere al
volante della Mercury alla ricerca del negozio di
alimentari… si sentiva importante. Utile. Uno su cui
contare.

Quando fu di ritorno a casa di Susan, con il cartone di


latte, la ritrovò in soggiorno. Aveva in mano una penna
stilografica e firmava degli assegni, accigliata, con le
labbra strette. Quella espressione se la ricordava molto
bene: un forte risentimento stampato sul suo volto. Con le
rughe che le attraversavano la fronte. Si era messa sulle
spalle un cardigan a guisa di scialle, sbottonato… un
informe cardigan rosa da nonna, per riscaldarsi. Il
soggiorno gli sembrò freddo, troppo. Buio e silenzioso, e
non ci batteva il sole. Non si sentiva più la musica leggera:
durante la sua assenza, lei aveva spento la radio. E senza
musica la casa sembrava più vecchia, più seria e
imponente. Con quel cardigan anche lei sembrava più
anziana. Si era messa le scarpe, non quelle che lui aveva
visto in cortile, ma un paio di mocassini. E dei calzini
bianchi.
– Il vostro magazzino discount vende anche macchine
per scrivere? – chiese lei senza alzare lo sguardo. – Magari
te l’ho già chiesto.
Lui portò in cucina il sacchetto con il latte. Aveva
comperato anche un paio di bottiglie di birra Lucky Lager e
una confezione di cracker al formaggio. – Abbiamo qualche
modello portatile, – disse lui. – Ma niente per uffici né
macchine elettriche.
Spinse verso di lui un foglio piegato di carta patinata e
disse: – Dimmi cosa ne pensi.
Lui lo lesse. Era la pubblicità di una portatile che usava
un nuovo nastro copiativo.
– Sono venuti i rappresentanti, – disse Susan. – Hanno
cominciato a tirar fuori tutti quei loro discorsi… sai cosa
voglio dire, sembra che decidano loro cosa debba fare un
commerciante. Se lo rigirano.
– Dovete reagire, – disse lui.
– Noi vendiamo poche macchine usate. Non abbiamo
abbastanza denaro per tenere in deposito delle portatili. Se
ce le dessero in conto vendita… c’è scritto quanto vogliono
per questo tipo?
Non vide alcun prezzo segnato sulla pubblicità, né
all’ingrosso né al dettaglio. – No, – disse.
– Grazie per il latte, – disse lei. Si alzò e chiuse il libretto
degli assegni, mise via la stilografica, e si avvicinò a Bruce.
Si fermò all’improvviso, proprio di fronte a lui, molto vicina.
Bruce sentiva in volto il respiro di Susan. Per la prima volta
si rese conto che era molto più bassa di lui. Per parlargli
stando così vicina doveva guardare in alto. Quella posizione
le dava un’aria implorante, come se lo stesse pregando per
qualcosa. – Come possiamo ottenere dei guadagni se non
abbiamo nemmeno i soldi per iniziare? Dobbiamo pensare a
come far fronte alle bollette del gas e della luce. Siamo
nelle mani della compagnia elettrica dell’Idaho. E poi
dobbiamo comprare la carta e il nastro copiativo che
utilizziamo… che ovviamente prendiamo a prezzo di costo.
Tuttavia… – In piedi di fronte a lui, mentre lo interrogava,
non sembrava solo minuta, ma anche fredda e ossuta. Le
sue spalle s’incurvarono sotto il cardigan come se stesse
rabbrividendo. E per tutto il tempo tenne gli occhi fissi sul
suo viso.
Non aveva mai avuto occasione di vederla così da vicino.
Il che gli permise di accantonare ogni ricordo del passato.
E da quel punto di vista scoprì che l’idea che aveva di lei
come donna forte era sbagliata; non era più salda di
qualsiasi altra donna, e lui aveva sempre verificato che in
ogni caso la maggior parte delle donne erano delicate e
fors’anche fragili. E gli parve che anche lei se ne rendesse
conto. Ma senza alcun dubbio lei lo aveva sempre saputo.
Era apparsa loro forte e superba innanzi tutto perché erano
solo dei ragazzini e, inoltre, perché si arrabbiava con loro,
del resto incutergli soggezione e tenerli a freno era parte
del suo lavoro. Ed era per quello che il distretto scolastico
l’aveva scelta: avevano bisogno di un’insegnante che
tenesse in pugno gli alunni. Ma al di fuori del lavoro
probabilmente lei non era diversa da come la vedeva
adesso. Certo, pensò lui, una volta che aveva tardato a
consegnare il giornale a casa di lei, aveva sbirciato la
tavola della cucina apparecchiata con tazzine cinesi. Lei
stava servendo il tè a delle amiche. Non collimava con
l’idea che se n’era fatto. E quell’idea era sempre stata
erronea.
Gli si avvicinò con un suono sordo di passi sul tappeto,
le sue scarpe non facevano rumore. – Oh, – disse, –
scommetto che hai preso il latte scremato. Dovevo
avvertirti di prendere quello intero, così potevamo
scremare la panna –. Aprì la busta di carta marroncina e
vide la birra. – Birra, – disse.
– Oggi fa caldo, – disse lui, imbarazzato.
– Hai preso il latte intero, – osservò lei e tirò fuori la
confezione.
– Proprio così.
– Ti va un caffè?
– Preferirei la birra.
– Per me niente birra. Non posso assolutamente bere
birra –. Prese un apribottiglie dallo scolatoio e gli stappò la
birra. – Cosa ne pensi del nostro servizio di ciclostile alla
R&J? – chiese lei.
– A prima vista mi è sembrato ben fatto. Moderno.
– Ti spiacerebbe dare un’occhiata all’ufficio e dirmi di
cosa pensi avremmo bisogno? So che hai un’esperienza che
noi non abbiamo.
Colto di sorpresa, lui non seppe cosa replicare.
– Sai cosa mi piacerebbe? – disse lei. – Mi piacerebbe
che lo rilevassi e lo gestissi tu. Potresti metterci una serie
di macchine portatili. Così a Natale, quando tutti fanno i
soldi, avremmo anche noi qualcosa da vendere –. Lei gli
scoccò un’occhiata intensissima, con gli occhi che si
facevano piccoli. – Cioè, voglio dire, mentre eri via ci ho
riflettuto sopra. Zoe non va per niente bene. Sono sempre
costretta a starle dietro. Ci devo pensare in ogni caso.
Ognuna di noi ci ha messo dentro tremila dollari: non c’è
altro. Seimila dollari in tutto. L’accordo che avevo raggiunto
con Walt non mi consente di più. Stavo per finire di pagare
la casa, ma credo che quanto finirò per fare, voglio dire
quello che ho intenzione di fare, è di acquistare la parte di
Zoe e portare avanti gli affari da sola. Così potresti rilevare
tutto e farne ciò che ritieni più opportuno. Forse potrei
trovare un accordo con la banca e farmi prestare
abbastanza denaro da farti mettere le portatili, o se non ti
va, potresti metterci quello che ti pare.
Lui era annichilito dall’incredulità.
– Mi voglio tirare fuori da ogni responsabilità, – disse
lei.
– Lo vedo, – mormorò lui.
– Non sono tagliata per il ruolo della spietata affarista.
Voglio restare a casa con Taffy. La vedo solo per un’ora o
giù di lì alla sera. Ho una donna che viene alle due a fare le
pulizie e poi va a prendere Taffy e la porta a casa e rimane
con lei finché non rientro alle sei. Si è presa cura della casa
e di Taffy quando ero in Messico. Walt sta nello Utah, a Salt
Lake City. È lì da almeno un anno.
– Capisco, – commentò lui.
– Allora, pensi che potresti farlo? – chiese lei. –
Occuparti dell’ufficio?
– Credo di sì, – disse lui.
– Ti spiego cos’ho pensato per pagarti. Io e Zoe ne
ricaviamo due stipendi. Tu potresti prenderti la metà degli
utili. Non uno stipendio ma esattamente la metà dei
guadagni. Che te ne pare? Farò tutto quanto posso, non
dovrai preoccuparti degli investimenti.
– È sbagliato, – disse lui.
– Perché?
– Non ti conviene.
Lei disse con voce strozzata: – Devo trovare qualcuno
che mi aiuti –. Si allontanò da lui, con le braccia strette. –
Ho bisogno di qualcuno a cui far riferimento. Walt non c’è
più, ed ero abituata a dipendere da lui. È nel ramo dei tubi
zincati. Dovrei passare tutto il mio tempo con Taffy; non c’è
altro. E deve venire prima. Non so quanto tu sia
impegnato… ma di sicuro riuscirai a fare meglio. Tu sei
brillante e potrai senz’altro far funzionare le cose. Non
pensi? È piccolo ma in un’ottima posizione.
– È vero, – confermò lui.
Lei si voltò di scatto fronteggiandolo. – Bruce, – disse
con voce rauca, quasi lagnosa, – la notte scorsa ero a letto
sveglia e pensavo a te. Sapevo che saresti tornato. Quando
ero seduta fuori in cortile speravo che saresti arrivato. Ho
aspettato tutta la mattina. Sapevo che avevi degli… – fece
un cenno con la mano. – Degli affari da portare a termine.
Ed è la ragione per cui sono rimasta a casa. Non volevo
incontrarti in ufficio. Io e Zoe non andiamo per niente
d’accordo. Non voglio che lei ne sappia nulla finché non è
tutto stabilito e non c’è più niente da organizzare e non
devo far altro che andare da lei e affrontarla decisa e dirle
che voglio acquistare la sua parte. La cosa è già prevista
legalmente nel nostro accordo. Era prevista quando siamo
diventate socie. Mi spaventa dirglielo… siamo amiche da
anni. Da quando vivevamo entrambe a Montario, e io
insegnavo alla Garret A. Hobart.
Lui pensò: forse era una delle donne che avevo visto
dentro casa.
– Ascolta, Bruce, – disse lei con voce stridula. – Voglio
essere proprio sincera con te. Sono costretta a fare una
scelta. Non ricevo alcun alimento da Walt. Non è in
condizione di passarmene. Manda un po’ di soldi ogni
mese, ma sono per Taffy. E non è granché. Per l’esattezza
ho quattromila dollari, che mi spettavano dalla divisione dei
nostri averi, più questa casa. Che ne varrà almeno altri
cinquemila. Lui si è preso la macchina, io qualche mobile
ma nient’altro. Sono davvero disperata. Non ho intenzione
di cercarmi un lavoro, ne ho già avuto a sazietà. Ho smesso
di insegnare quando mi sono sposata. Preferisco crepare
che insegnare di nuovo, o trovare un impiego da segretaria,
dattilografa, contabile… Non voglio scendere a
compromessi. Così dovrei lasciare Taffy a Walt e… – si
interruppe. Fece avanti e indietro, sempre con le braccia
strettamente incrociate, e aggiunse: – Sono molto sola. La
maggior parte dei miei amici mi ha abbandonato, e pensano
che sia colpa mia se Walt e io ci siamo separati. Hai visto
quella gente che c’era da Peg. Sono solo un mucchio di…
– Impiegatucoli.
– Proprio così.
– Ed è quanto di meglio può offrire una cittadina come
questa, – disse lui.
– Forse dovrei cambiare. Andare via e trasferirmi a
Reno. O andare a est, sulla costa. Ma ho questa dannata
attività con ciclostili e macchine per scrivere, Bruce –. Alzò
il tono di voce. – Devo farla funzionare –. Gli si avvicinò. –
Scommetto che se fossi tu a occupartene, funzionerebbe.
Ne sono certa. Se non fossi venuto tu, sarei stata io a
prendere il pullman del Greyhound per Reno e ti avrei
cercato. Ho anche chiamato per verificare gli orari di
partenza. Vuoi vedere? – Scattò fuori dalla stanza. Fu di
ritorno in un attimo, brandendo un pezzetto spiegazzato di
carta sul quale aveva buttato giù a matita gli orari delle
corriere.
– Ci devo riflettere sopra, – disse lui, pensando al suo
lavoro al Bazar Affari, al suo appartamento a Reno, agli
amici che aveva laggiù, al suo principale, Ed von Scharf, da
cui dipendeva, a tutto quello che aveva immaginato nel
proprio futuro.
Ma, pensò, posso farlo rendere. Potrei gestirlo. Uno
sbocco in proprio per la vendita al minuto, un commercio
solo mio. E nessuno a dirmi cosa devo fare. Avrei mano
libera per mettere a frutto il mio talento e la mia
esperienza.
– Non sembra niente male, – ammise.
– Sai quando dovremmo ordinare la merce per Natale?
– In autunno, – disse lui.
– Allora in agosto, – disse lei tesa. – Per allora vorrei
essere pronta e organizzata.
Lui annuì. Poi prese l’apribottiglie e stappò l’altra birra,
prese un bicchiere dallo scolatoio sul lavandino e lo riempì.
Susan osservava assente.
– Bene, – disse lui, porgendole il bicchiere. – Una specie
di brindisi –. Si sentiva goffo e con la lingua impastata.
– Oh no, grazie, – disse lei. – È troppo presto. E
comunque ho quei maledetti assegni da finire –. Se ne andò
e quando lui la raggiunse, la trovò seduta di nuovo con il
libretto degli assegni di fronte, la penna in una mano, che
scriveva e aggrottava le ciglia.
– Mi sembra che siamo d’accordo, – disse lui
disorientato ma consapevole che, per quanto la cosa
apparisse incredibile, in sostanza aveva detto che accettava
la proposta.
– Sia ringraziato il cielo, – disse lei con fervore,
interrompendo il suo lavoro. – Ho davvero bisogno di te,
Bruce, – disse. Poi riprese a compilare assegni.
Lui rimase lì a bere, in mezzo al soggiorno freddo.
4

Quando tornò a Reno con il carico di cera per auto, si


diresse immediatamente al Bazar Affari e cercò il
principale, Ed von Scharf. Lo trovò in un magazzino sul
retro, seduto su una scatola, con un gelato da passeggio in
una mano e un foglio d’inventario ai suoi piedi, sul
pavimento. Vestito con tanto di cravatta, gilè, scarpe nere e
calzoni spigati, il suo principale si era messo a fare
l’inventario circondato di scatole di componenti elettronici.
I capelli neri, punteggiati di briciole marroni delle scatole
di cartone, gli davano un non so che di distinto.
Bruce disse: – È sopraggiunta un’emergenza a Montario.
Devo tornarci subito. Se non posso ottenere un permesso a
tempo indeterminato, credo che dovrò abbandonare il
lavoro–. Mentre guidava si era preparato quello che doveva
dire. – Si è ammalato mio padre, – annunciò, sapendo che
persino un dirigente non poteva lagnarsi di fronte a una
simile motivazione. – Vorrei poter rimanere là fin quando
sarà necessario.
Discussero per un’ora e mezzo. Poi andarono di sopra e
ne parlarono con due dei fratelli Pareti, che erano i
proprietari del B.A. Alla fine i Pareti compilarono un
assegno con la paga di due settimane, gli diedero la mano e
gli dissero che era libero di andarsene. Si congedò con
l’assicurazione che se e quando fosse tornato, avrebbe
ritrovato il posto che aveva lasciato.
Il suo principale lo accompagnò alla macchina,
sconfortato e cupo. – Questa sorpresa non ci voleva, – disse
mentre Bruce sganciava il rimorchio carico di cera per
auto. – Allora restiamo in contatto…
Diede una pacca sulla schiena a Bruce, augurò buona
fortuna a lui e alla sua famiglia e ritornò verso il palazzo
del B.A.
Bruce si diresse alla volta del suo appartamento con un
forte senso di colpa. Ma quantomeno, se le cose non
avessero funzionato, si era garantito il lavoro. Era una
questione pratica.
Dopo aver parlato con la padrona di casa, salì nel suo
appartamento, tirò fuori una valigia e cominciò a
impacchettare i suoi averi. Al tramonto portò tutto di sotto
vicino alla Mercury e caricò dove fino a poche ore prima
c’erano state le confezioni di cera. Poi restituì la chiave
dell’appartamento alla signora O’Neill. Anche lei gli augurò
buona fortuna e si alzò dal tavolo da pranzo per
accompagnarlo all’uscita.
Il suo viaggio di ritorno nell’Idaho iniziò alle otto e
mezzo.

Il mattino seguente arrivò a Boise assonnato. Si fermò


in un motel e prese una stanza. Si spogliò e andò a letto
senza aver scaricato neanche una delle cose che aveva con
sé, poi dormì tutto il giorno. Si alzò che erano le cinque e
mezzo del pomeriggio, si fece una doccia, si sbarbò,
indossò abiti puliti e prese la macchina diretto al centro di
Boise, alla R&J SERVIZI DI CICLOSTILE.
Mentre parcheggiava, Susan Faine fece la sua comparsa
sulla porta d’ingresso, a mezzo isolato circa di distanza, gli
fece un cenno di saluto, poi scomparve all’interno. Lui
completò il parcheggio, scese dall’auto e s’incamminò.
Dentro l’ufficio, Zoe de Lima gli fece un gelido cenno
d’assenso e gli diede subito le spalle. Lui le rivolse un
saluto ma lei non rispose; si era immersa nel lavoro di
dattilografia.
Sapeva già tutto, si disse lui.
Susan lo raggiunse, arrivando dal retrobottega. Aveva
già cappotto e borsetta. – Andiamo, – disse.
Camminarono affiancati sul marciapiede e salirono in
macchina. – Gliel’ho già detto, – disse Susan. – Abbiamo
litigato tutto il giorno. E tu hai già fatto? – Allungò il collo e
vide tutti i suoi vestiti, le valige e scatole con effetti
personali ammassati nel retro. – Sì, hai fatto.
– Ho lasciato il lavoro, – disse. – E anche
l’appartamento.
– È ora di andare a cena, – disse lei. – Sto morendo di
fame.
– La lasciamo lì sola? – domandò lui.
– Perché no? – disse Susan. – Ah, ho capito cosa vuoi
dire. Ma è ancora comunque mia socia. E ha la chiave. Non
posso costringerla ad andarsene. Mi prenderò una
settimana, giorno più giorno meno, per sistemare le
faccende legali. D’altra parte non penso che abbia la
minima intenzione di vendicarsi. È ferita, e mi odia, ma è
pur sempre una persona responsabile. La conosco da anni.
Credo che torneremo a essere amiche.
Lui commentò: – Bene, tu sai meglio di me com’è fatta.
Rimasero seduti nella macchina per un po’. Il riflesso
del tardo pomeriggio dal marciapiede era insopportabile, e
Susan cambiava posizione di continuo, visibilmente a
disagio. – Magari torno indietro e le dico che oggi
potremmo tenere chiuso, – disse. Uscì dalla macchina e si
affrettò verso il negozio. I minuti passavano. Bruce accese
la radio e ascoltò il notiziario. Poi vide che la signora De
Lima lasciava il negozio, camminando spedita in direzione
contraria. Susan chiuse il negozio e tornò sorridente verso
di lui.
– Tutto a posto, – disse prendendo posto al fianco di
Bruce.
– Dove vuoi mangiare? – chiese lui, avviando
l’automobile.
– Devo tornare a casa, – disse Susan. – La signora
Poppinjay, caschi il mondo, se ne va alle sei e tre quarti in
punto. E devo cenare assolutamente con Taffy, non
possiamo farne a meno né io né lei. In genere la signora
Poppinjay mette su qualcosa in forno, poi quando arrivo a
casa ci penso io a terminare la cottura e a mettere in
tavola, così Taffy e io possiamo mangiare insieme. Funziona
a meraviglia. E tu hai già cenato? Non te l’ho nemmeno
chiesto… ho dato per scontato che avresti cenato insieme a
noi.
– Benissimo, – disse lui.
Appena arrivarono a casa sua, Susan lo presentò alla
signora Poppinjay, una vecchietta paffuta e con tutti i
capelli bianchi che dava segno di volersene tornare a casa
dai suoi. Taffy era in camera sua, a colorare con le matite e
a guardare un programma per bambini alla televisione,
dando la schiena ai presenti. Si accorse a malapena di
Susan quando entrò con Bruce, dicendole come si chiamava
e che avrebbe lavorato al negozio.
– Proprio una bella bambina, – disse lui, sebbene non
avesse avuto modo di vedere altro che c’era una bambina,
che stava trafficando sul pavimento e che aveva i capelli
chiari, quasi biondi. – Somiglia più a te o a Walt?
Susan scoppiò a ridere: – Non è figlia di Walt. Dio me ne
scampi. Sono stata sposata due volte.
– Oh, – disse lui.
– Taffy è nata durante la guerra in Corea. E Walt l’ho
conosciuto all’inizio del 1955. Mi ricordo che aveva una
Chevrolet v8 del ’55 nuova fiammante e mi diceva sempre
che era la prima Chevy v8 che avevano fabbricato e che
c’era qualcosa che non quadrava nella ghiera. Andava a
gasolio.
– Già, – disse lui. – È proprio così.
– Walt passava molto tempo sulla strada, come te. In
particolare andava sempre a Salt Lake City e sulla costa, a
Los Angeles. È strano, non credi… pensare a voi due che ve
ne andate in giro. Faceva il rappresentante per conto di
una fabbrica. Aveva incontri e conferenze per le vendite –.
Appese il cappotto e indossò un grembiule.
– Quello del ferro zincato è un mercato in grande
espansione, – disse lui.
– Già, – commentò lei, – e guarda cosa ci ho ricavato io.

Dopo cena rimasero seduti a fumare e a rilassarsi. Taffy


se n’era andata di sua spontanea volontà, e probabilmente
era tornata in camera. Sembrava una bambina calma,
ingegnosa, che non aveva problemi a starsene da sola. La
casa era calda e tranquilla. Profumava d’arrosto.
– Non sono poi male come cuoca, cosa ne dici? – disse
Susan.
– Niente male davvero, – disse lui. Era stato molto
piacevole, specie se messo a confronto con i pasti che si era
dovuto sorbire negli ultimi due anni nei ristoranti e nelle
aree di servizio sulla strada. Niente grasso bisunto. Né
verdure stracotte e insipide.
– Sono entusiasta, – disse Susan.
– Anch’io.
– Sento che sarà un grande successo. E ho parlato con
Zoe, così mi sono tolta un gran peso di dosso. Ho
cominciato a prepararmi da ieri, appena te ne sei andato. E
stamattina quando abbiamo aperto l’ufficio, ho detto: «Zoe,
ti devo parlare». E gliel’ho detto.
– Bene, – mormorò Bruce, sentendosi intorpidito.
– Pensi che sia insensibile? – disse Susan.
– No, – disse lui con un filo di voce, – succede sempre
così.
– Ecco, ho dei brutti presentimenti.
Questo lo risvegliò. – È fatta, – disse. – Eccomi qui: mi
sono licenziato e ho mollato l’appartamento.
Lei annuì. – E andrà tutto benissimo. Domattina
andremo là insieme e ti mostrerò le cose. In realtà
potremmo anche andarci stanotte. No, aspettiamo–. Poi
venne folgorata da un pensiero. – Bruce, forse dovremmo
aspettare finché Zoe non se n’è andata. Non penso che
sarebbe un bene, se tu avessi uno scontro con lei.
Aspetteremo. Come sei messo a soldi?
– Cosa vuoi dire? – disse lui. – Mi hanno dato un assegno
di due settimane di salario. E ho un po’ di contante–. Non
riusciva a capire dove volesse arrivare.
Prendendola alla larga, Susan disse: – Dove dormi?
– Al motel Jack Rabbit Inn, – rispose lui.
– Quanto costa?
– Sei dollari al giorno.
Lei sussultò: – Che sarebbero quarantadue dollari alla
settimana.
– Comincerò a cercarmi una stanza in affitto, – disse lui.
– Non penso di rimanerci più di una settimana. Se non devo
venire subito in ufficio, posso cominciare già a guardarmi
attorno.
Susan disse: – Ma io vorrei che tu venissi subito. Voglio
iniziare alla svelta –. Giocherellò innervosita con la
sigaretta. – Non voglio aspettare… non credi sia meglio? Ti
darebbe davvero fastidio venire mentre c’è ancora Zoe?
– Non mi crea alcun problema, – disse lui. Dubitava che
potesse metterlo in imbarazzo. Dopo tutto non conosceva
quella donna, il suo malumore non poteva dargli alcun
fastidio.
– Vorrei iniziare a pagarti, – disse Susan, – ma non potrò
cominciare finché non saranno firmati tutti i documenti e
lei non avrà ufficialmente più nulla a che fare con il
negozio. Il che significa non prima che abbia ricevuto da
me il corrispettivo della sua parte. E di conseguenza non
potrò darti nulla prima di una settimana.
Bruce si riscosse dal torpore. – Va bene, – disse,
sperando di farcela fino ad allora con i soldi.
– Be’, mi sembra che ti metta comunque in difficoltà, –
disse lei. – Capisco che è così. Mi dispiace, Bruce. Non mi è
venuto in mente prima che decidessimo e tu tornassi a
Reno.
Rimasero entrambi in silenzio.
All’improvviso lei disse: – Senti, perché non ti fermi qui?
Bruce sentì che gli venivano i sudori freddi.
– Naturalmente, – disse lei, sporgendosi e richiamando
l’attenzione di Bruce sfiorandogli la mano, – puoi rimanere
qui a dormire e mangiare. Ci sono due stanze da letto per
gli ospiti e un sacco di posto negli armadi. Perché no?
Lui disse con un tono incerto: – Se la cosa non crea
problemi a nessuno…
– Ti riferisci ai vicini? Sono convinta che non ci faranno
nemmeno caso. Ci conto. Perché dovrebbero? Comunque
abbiamo un sacco di cose da fare. Voglio che tu cominci a
lavorare subito, possiamo tornare insieme in ufficio
stanotte stessa, dopo cena, dopo che Taffy se ne sarà
andata a letto. E ho già preparato una chiave anche per te.
Il fine settimana si avvicina –. Spense la sigaretta e balzò
su. – Andiamo a prendere le tue cose dalla macchina. Hai
con te tutto quello che ti serve?
– Sì, – disse lui. Non aveva lasciato nulla al motel. – Sei
proprio certa di voler fare così? – Gli sembrava un passo
importante.
– So quello che faccio, – disse lei, aprendo la porta
d’ingresso. – È la cosa più naturale da farsi. Mi meraviglio
che non ci abbiamo pensato prima –. Fece una pausa e poi
bisbigliò: – Sempre che tu non ti senta troppo in imbarazzo.
– In imbarazzo? – le fece eco.
– Non proprio. Voglio dire, magari ti senti a disagio.
D’altra parte finiremo per stare insieme tutto il tempo
comunque. Una piccola impresa con due persone
solamente… tu sei abituato a una grande azienda, giusto?
Una piccola impresa è qualcosa di molto privato, quasi
come una famiglia.
Una volta aveva lavorato in un emporio che aveva un
solo commesso, e lui come magazziniere. Sapeva bene
come funzionava.
– Non ho nessun problema ad adattarmi, – disse lui.
– Me lo auguro. Perché per me non è così facile. Ho
degli sbalzi d’umore. Mi deprimo. Quando sei arrivato ieri
ero nel bel mezzo di uno dei miei attacchi depressivi. Ma
grazie a te mi sono ripresa –. Con un gesto spontaneo, lo
prese per la manica e lo guidò per il sentiero fino alla
macchina. – Sei un’ottima terapia per me, – gli disse a
bassa voce.
In meno di un’ora si ritrovò sistemato in una stanza da
letto con il soffitto alto, con le sue scatole e le valigie
accumulate da una parte sul pavimento e i vestiti appesi
nell’armadio. Aveva messo il rasoio elettrico in bagno
nell’armadietto dei medicinali insieme allo stick di
deodorante, al pettine, allo spazzolino e a tutti i flaconi, i
tubetti e i barattoli necessari.
La bambina era andata a letto. La televisione era
spenta. In casa si aggiravano solo lui e Susan, e la
situazione aveva assunto un tono informale fino a una
soglia a lui ignota: non aveva mai provato una simile
mancanza di pressione psicologica.
Erano entrambi seduti in soggiorno, rilassati. Susan ci
mise poco a ricordare i giorni in cui faceva l’insegnante.
Sembrava la base di ogni suo ragionamento.
– Insegnavo ancora quando incontrai Pete, – disse. – Il
padre di Taffy. È stato nel 1949. Voleva che smettessi, cosa
che feci mentre aspettavo Taffy. Così ci trasferimmo da
Montario a Boise –. Estrasse un grosso album da un
cassetto del comò. Dopo essersi seduta al suo fianco,
cominciò a sfogliarlo mostrandogli istantanee e
testimonianze di un recente passato. – Questa è la mia
prima al Garret A. Hobart nel 1948, – disse indicando una
foto.
Lui si aspettava di vedere da un momento all’altro una
foto della sua classe nel 1945. Difatti la sua facciotta
rotonda emerse dalla seconda fila. Eccolo lì, uno dei tanti
ragazzini scontrosi e con l’aria da bullo, perso in mezzo ai
suoi simili e così diverso da com’era adesso che nessuno
sarebbe stato capace di metterlo in relazione. Infatti se non
fosse stato a conoscenza di quella foto, persino lui avrebbe
avuto difficoltà a riconoscersi o anche solo a rendersi conto
che tra tutte quelle facce c’era la sua. Si soffermarono
entrambi sulla foto di classe. Lei era lì, molto facile da
riconoscere. Era in piedi su un lato, rigida e formale, il
sorriso sulle labbra, con gli occhi socchiusi a causa del sole
molto forte. Indossava il tailleur con i bottoni grandi…
sorprendente, pensò lui, rivedere questa foto. Ne aveva
avuta una copia ma sua madre gliel’aveva presa anni prima
e lui non l’aveva più rivista sino a ora.
E, nella fotografia, la signorina Reuben, com’era a quei
tempi, nel 1945, che non era il modo in cui la ricordava lui.
Vide solo una donna giovane e molto carina, ben fatta e
vestita con gusto, abbastanza esile, con un’espressione
ansiosa sulle labbra e negli occhi. Sempre preoccupata,
pensò lui. Tesa, tremendamente consapevole della
responsabilità di dover gestire una classe. Probabilmente
troppo tesa. Troppo ansiosa. Si ricordò che un giorno
durante la ricreazione un ragazzino si era fatto un brutto
taglio con una bottiglietta di gazzosa rotta. La signorina
Reuben era corsa in cerca dell’infermiera, e sebbene
l’avesse portata lì in un attimo, e fatto in modo che gli altri
bambini tornassero alle loro occupazioni, aveva perso il
controllo per qualche istante e, proprio allora, anche quelli
della sua classe si erano resi conto che era sull’orlo di una
crisi isterica. Era rimasta immobile, con il fazzoletto stretto
in mano, dando le spalle a tutti gli altri, strofinandosi occhi
e naso. Allora, ovviamente, si erano messi a ridacchiare. Ai
ragazzi era quasi impossibile tenere a freno l’allegria.
Mentre era lì seduto a studiare la foto, si accorse che
sul retro, in caratteri microscopici, c’erano i nomi degli
allievi. Di certo c’era anche il suo, Bruce Stevens.
Comunque Susan non se ne accorse. Aveva cominciato a
rievocare altri eventi e non era più interessata a quella
pagina.
– Non avrei dovuto mai smettere di insegnare, – disse. –
Ma non ero tagliata per quel lavoro. Tornavo a casa scossa
dalla testa ai piedi. Il rumore e la confusione. Mi faceva
venire il mal di testa. I bambini scappavano da tutte le
parti. Pete diceva che non avevo nessuna propensione a
trattare coi bambini. Diceva che ero nevrotica. Magari
aveva ragione. Ed è una delle ragioni per cui ci siamo
separati. Non andavamo d’accordo su come allevare Taffy.
– Che cosa fa adesso? – chiese Bruce, girando pagina
per coprire il suo nome.
– Sta a Chicago. Non ho la minima idea di cosa faccia.
Quando lo conobbi era uno studente di ingegneria. Avevo
ventisei anni, lui venticinque.
– Quanti ne avevi quando hai iniziato a insegnare?
– Fammi pensare… Ho iniziato a Tampa, in Florida, nel
1943. Me lo ricordo perché il mese in cui mi affidarono la
mia prima classe c’era la battaglia di Stalingrado. Ne avevo
diciannove.
– E quand’è che sei passata alla Garret A. Hobart?
– Nel 1945. Avevo ventun anni.
Allora aveva esattamente dieci anni più di lui. Adesso ne
aveva trentaquattro. Circa quelli che aveva calcolato lui.
– Da allora non ho mai più rivisto nessuno di quei
marmocchi. Sono semplicemente spariti. Tredici anni fa…
adesso devono essere cresciuti. Mio Dio, saranno cresciuti
davvero. Avevano undici anni o giù di lì, così adesso ne
avranno ventiquattro. Sposati, e alcuni di loro con dei
bambini –. Il suo volto assunse un’espressione pensosa. – E
tra i loro figli ce ne potrebbero essere alcuni che
cominciano adesso la scuola. Forse sto esagerando. Ma
sono cose che ti danno da pensare.
– Sono anni piuttosto determinanti quelli tra gli undici e
i ventiquattro, – disse lui.
– Importantissimi. Ma se penso al passato, per quanto
mi riguarda non trovo che mi abbiano cambiata granché.
Da ventuno a trentaquattro. Ma in realtà non dovrebbe
essere così. C’è Taffy, mi sono sposata e ho divorziato due
volte! Dunque non è proprio vero. Ma io mi sento la stessa.
Dentro non mi sento cambiata in questi anni. Anche se
credo che il mio aspetto non sia più lo stesso–. Si rimise a
guardare la sua foto scattata nel 1945.
– Non mi sembri molto diversa, – disse lui. Ed era
proprio così.
– Grazie. È un complimento molto bello.
– Ne sono convinto, – confermò lui.
Lei chiuse l’album. – Mi sento così sconfortata. Non
adesso, voglio dire in generale, negli ultimi anni. Quando
hai fallito due volte con il matrimonio… finisci per chiederti
sempre se c’è qualcosa in te che non va. Lo so che è stata
colpa mia. Pete diceva che non facevo nient’altro che
rimuginare e preoccuparmi, e anche se Walt non me lo
diceva, avrebbe potuto. Diceva che prendevo ogni cosa
come se fosse un cataclisma. Diceva che avevo un
temperamento catastrofico. Temevo disastri in ogni
momento. Come Henny Penny. Il cielo che cade… te ne
ricordi?
Sì.
– Ed entrambi ritenevano che potessi influenzare Taffy–.
Si voltò verso di lui e disse in fretta: – È la ragione per cui
ho bisogno di qualcuno vicino a me che sia di buon umore e
senza patemi, una persona pratica. Come te.
– Non penso che tu debba inculcare roba del genere in
Taffy, – disse lui, considerando che dopo tutto lei lo aveva
terrorizzato per un anno, lasciandogli in testa
un’impressione permanente, e malgrado ciò lui ne era
uscito, era sopravvissuto e arrivato alla maggiore età
diventando sostanzialmente un ottimista. Non era forse la
prova che lei non era stata causa di alcun danno?
Naturalmente, pensò, potrei essere solo fortunato. E pensò
anche: magari qualche conseguenza l’ho subita, e cova
sotto la superficie. Solo che non lo so. Non me ne sono
accorto.

Alle undici e mezzo Susan diede la buona notte e si


diresse verso il bagno per lavarsi prima di andare a letto.
Lui rimase seduto da solo in soggiorno a guardare un
vecchio film in tv.
Me ne sono tornato a Montario, pensò.
No, non proprio a Montario. In realtà era Boise. Ma per
lui faceva lo stesso, era il posto in cui era cresciuto.
Comunque la cosa non lo scoraggiava. Era molto diverso
da un tempo. Niente poteva essere più lontano di quei
giorni, la sua vita quando andava alle superiori e ripiegava i
giornali e li lanciava sotto i porticati… o prima ancora,
quando giocava a bilie dopo la scuola, guardando
Braccobaldo sul televisore da dieci pollici nel soggiorno di
casa sua, mentre suo fratello maggiore Frank pasticciava in
veranda con l’acqua di stagno e il microscopio.
Gli tornò in mente Frank.
Suo fratello maggiore adesso lavorava a Cincinnati per
un’industria chimica, come ricercatore. Aveva frequentato
la Wayne University di Detroit grazie alla borsa di studio di
una ditta di detersivi. Frank era sposato e aveva un figlio di
tre anni. A proposito, quanti ne aveva Frank? Ventisei o giù
di lì. Anche se forse doveva ancora finire di pagarle,
possedeva una casa o una macchina. Secondo i suoi criteri,
Frank era uno che aveva successo: era un professionista
affermato, che faceva quello che aveva sempre desiderato…
aveva talento, prontezza di spirito, esperienza, e un giorno i
suoi studi sarebbero stati pubblicati su una rivista
scientifica. Aveva ottime prospettive: d’altra parte anche
adesso andava benissimo. A scuola Frank era famoso.
Bruce si ricordava di lui che andava in giro con le scarpe da
tennis e i calzoni larghi, i capelli pettinati all’indietro con la
brillantina, la pelle chiara e lucente. Salutava tutti, era un
ottimo ballerino ed era invitato a tutte le feste. Faceva
coppia fissa con Ludmilla Meadowland, la bionda che i
diplomandi avevano eletto Miss Montario alla parata delle
matricole nel 1948. Alla parata del dieci giugno, era scesa
per la Hill su una piattaforma di patate, stringeva una
bandiera che recitava FORZA LICEO MONTARIO SEI TUTTI NOI. Il
preside del liceo di Montario aveva stretto la mano sia a lei
che a Frank, e la foto che li ritraeva tutti e tre insieme era
apparsa sulla «Gazette», il quotidiano che Bruce aveva
distribuito in lungo e in largo, ripiegandolo e lanciandolo,
ripiegandolo e lanciandolo giorno dopo giorno, per due
anni interi.
Per tutta la sua vita c’era sempre stato qualcuno che ci
aveva tenuto a dirgli che suo fratello Frank era il migliore.
Evidentemente, pensò, era vero. Basta vedere dov’è
arrivato Frank. E dove sono arrivato io.
Ma, per quanto ci provasse, non riusciva a crearsi una
sensazione di sconforto. Ne sono felice, pensò, ne traggo
soddisfazione… mi fa piacere. C’era qualcosa che lo
gratificava, una specie di principio di priorità. E di unità.
Che qualcuno che apparteneva alla sua infanzia avesse il
potere di fargli ricordare queste cose lo rendeva
consapevole che tutti quegli anni in fondo non erano
passati per niente. A quei tempi lui non era minimamente
in grado di compiere delle scelte. Faceva quello che
facevano tutti gli altri. Giocavano a bilie dopo la scuola, e
così faceva anche lui. Arrivavano e rimanevano in fila per la
proiezione per i bambini al cinema Luxor il sabato
pomeriggio, e lui era tra loro, qualunque schifezza
proiettassero. Quegli anni futili e ripetitivi erano stati così
noiosi che, di tanto in tanto, si era disperato. Cosa avevano
significato? Cosa ne aveva tratto? Nulla, chiaramente.
In pratica l’unico momento significativo dei suoi primi
quindici anni di vita era venuto per caso. La «Gazette»
aveva bandito un concorso per cui avrebbe regalato dischi
con grandi brani di musica classica in cambio di buoni
ritagliati dal giornale. Dal momento che era il fattorino,
aveva libero accesso ai buoni, così ne aveva messo assieme
un discreto numero e li aveva spediti in Illinois, e dopo
poco più di un mese aveva ricevuto via posta un pacchetto
piatto avvolto in carta da pacchi e chiuso con il nastro
adesivo. Una volta aperto, aveva trovato quattro dischi
protetti da un cartone. I dischi avevano etichette azzurre
con null’altro che «Le più grandi sinfonie del mondo». I
nomi dei musicisti e del direttore d’orchestra non erano
specificati. I tre dischi, privi di qualsiasi confezione, infilati
dentro buste di carta, contenevano la sinfonia n. 99 di
Haydn. Li aveva messi sul giradischi che gli avevano
regalato per Natale quando era ancora alle elementari. Da
allora i suoi gusti musicali erano passati a Spike Jones,
dopodiché erano rimasti più o meno gli stessi. Ma quella
sinfonia aveva avuto un impatto enorme su di lui; lo aveva
commosso fino alla radice. Aveva ascoltato i tre dischi
finché non si erano cancellati, consumati fino a divenire un
sibilo.
Il suo avido interesse per la musica provava che se gli
fosse stata data una scelta avrebbe cambiato la sua vita
come se fosse vissuto in una città diversa con altra gente. E
provava che non era felice. Ovviamente lo sapeva. Ci
rimuginava sopra di continuo, mentre andava da casa a
scuola e viceversa. Che contrasto con suo fratello, che
usciva tutti i giorni con magliette, calzoni e brillantina di
gran qualità.
A quindici anni se ne stava da solo nella sua stanza buia,
ad ascoltare la musica sul giradischi. Ad affilare le spine di
cactus con una macchinetta che aveva comperato per un
dollaro e mezzo e che faceva girare la spina su un disco di
carta vetrata… con una collezione di spine affilate dentro
una scatola di cerotti, ognuna di esse pronta a essere
infilata a mezza strada su un lato del disco, se la puntina
nel braccio cominciava a pesare troppo.
Avrebbe potuto vivere tutta la sua vita in quella stanza,
se qualcuno avesse pensato a spingergli da mangiare
attraverso il buco della serratura. Risucchiando il cibo
attraverso una cannuccia, pensò. Forse era stato quello il
difetto. Fuori dalla stanza lui aveva sofferto. Non ce la
faceva più a tenere la cosa dentro di sé. E gli aveva fatto
piacere andarsene di tanto in tanto e starsene in giro per
vedere cosa c’era da fare. Aveva finito per arrivare a Reno
a lavorare per il Bazar Affari. E allo stesso modo aveva
finito per tornare lì, attratto da cose che erano cadute nella
sua direzione, incapace di rifiutare di dare un’occasione a
qualcosa che prometteva di essere una novità.
Quando finì il vecchio film, spense la televisione, si
accertò che la porta d’ingresso della casa fosse chiusa a
chiave, spense la luce in soggiorno come gli aveva
raccomandato di fare Susan con grande preoccupazione, e
sbirciò in bagno per essere sicuro che Susan ne fosse già
uscita. Sembrava buio e a posto. Così andò in camera sua,
prese un asciugamano dalla valigia e attraversò il corridoio.
Si lavò e strofinò preparandosi per la notte.
Disteso sul letto in camera sua si rigirò senza tregua,
senza riuscire ad addormentarsi. L’insonnia lo aveva
perseguitato nell’infanzia e adesso ritornava, forse perché
era di nuovo a Boise e perché negli ultimi giorni aveva
rievocato così tante cose dei tempi andati.
Aveva con sé una pasticca che poteva prendere? Aveva
un flacone di antistaminici, che servivano per le allergie e
per la rinite, ma aveva verificato che gli antistaminici lo
spingevano a una sonnolenza rilassata, ed era per quello
che ne aveva una boccetta. Senza dubbio era nello
scomparto nel cruscotto della Mercury. Rimase steso
un’altra ora senza addormentarsi. Così alla fine si alzò,
mise su la vestaglia azzurra di lana e le pantofole di pelle, e
si fece strada verso la porta attraverso la casa buia.
Arrivato alla macchina non trovò il flacone nello
scomparto. Tornò verso casa a mani vuote, percorse il
sentierino buio, attraversò la veranda e il soggiorno. Forse
l’aveva infilato nella valigia ed era scivolato sotto, fuori
portata, tra le scarpe. Mentre ci stava pensando percorreva
il corridoio, di ritorno alla sua stanza, di nuovo da capo.
Prima che potesse aprire la porta, se ne aprì un’altra e
Susan si affacciò nel corridoio. – Oh, – disse. – Pensavo che
magari era Taffy.
– Ho dimenticato una cosa in macchina, – disse lui.
Aprì la porta della camera da letto.
– Non vorrei che tu ti preoccupassi, – la sentì dire alle
sue spalle.
– Di cosa?
– No, niente. Mi sembri turbato.
– È solo che non riesco ad addormentarmi, – rispose. –
Sono nervoso Entrò in camera e diede un’occhiata alla
sveglia.
Susan lo seguì all’interno. Indossava una lunga vestaglia
rosa trapuntata, con una fusciacca sottile come un
cordellino. I capelli le cadevano fluenti e luminosi,
apparentemente privi di peso. Le scendevano sulle spalle
più copiosi di quanto lui si fosse reso conto in precedenza. –
Ho del fenobarbital, – disse lei.
– Potrebbe andare, – rispose lui con gratitudine.
Dopo essere andata da qualche parte nella casa e aver
rovistato, tornò con una tazza di plastica gialla e, sul palmo
disteso della mano, una piccola pillola cilindrica.
– Grazie, – le disse prendendo la pillola. Prese il
bicchiere e fece in modo di mandare giù la pillola, anche se
Susan lo stava osservando. Gli seccava avere qualcuno che
lo guardava mentre ingoiava una pillola.
All’improvviso lei sollevò la mano e gliela mise sulla
fronte, sorprendendolo quasi come se gli avesse dato un
calcio. – Ti sei scottato, – disse. – Guidando. Mi sa che è un
piccolo colpo di sole, probabilmente ti sta venendo la
febbre.
– No, – sussurrò lui.
Si aggirò per la stanza e si fermò alla finestra, scostò
tende e tendine per controllare se le imposte erano chiuse.
– Ti sentivo che ti rigiravi, – disse lei. – È perché sei in una
casa che non conosci? Sai, pensavo che forse potrei dire a
Zoe chiaro e tondo che voglio che tu cominci a venire.
Domani vieni in ufficio con me alle nove. D’accordo? Allora
vai a letto e dormi, così domattina sarai riposato. Ti voglio
far vedere tutte le fatture degli ultimi sei mesi, e le cose
che ho ordinato.
Il ricordo delle notti passate con Peg era deturpato dalla
necessità che aveva lei di tenere i bigodini di metallo tra i
capelli. E i suoi capelli, sotto ai bigodini, erano conficcati
nella cute come un’imbottitura dura e ondulata. Ma lì c’era
Susan, con i capelli sciolti e soffici, e la cosa lo sorprese. La
sua esperienza con le donne durante le ore notturne era
davvero limitata. Sua madre di notte se ne andava in giro
per la casa con i capelli stretti in una sacca come in una di
quelle cuffie da mammona negra. Lì terminava la sua
esperienza.
Vide che sotto la vestaglia lei era a piedi nudi.
– Mi sento già riposato, – disse lui.
– Ah, molto bene, – disse lei. – Buona notte, Bruce –. Si
affrettò a uscire e si chiuse la porta alle spalle.
Il fenobarbital aveva cominciato a fare effetto; gli si
offuscarono i sensi, si tolse la vestaglia e le mutande e
scivolò tra le coperte. Perse conoscenza in men che non si
dica.
Dopo vide solo che la porta si riapriva e che Susan
entrava nella stanza. Si avvicinò al letto sempre di più, poi
si chinò fino a essergli proprio sopra. I capelli di lei gli
sfiorarono il volto facendogli venire l’impulso di starnutire.
Sentì il colletto imbottito della vestaglia di Susan premergli
sulla spalla. Gli chiese: – Posso? – Frusciò e si rigirò, ed era
già sotto le lenzuola, distesa di fianco a lui, avvolta nella
vestaglia imbottita.
Lei sospirò e si mise comoda. Si sistemò le coperte
addosso voltandosi verso di lui. Poi si mise a sedere
buttando le coperte da una parte e iniziò a sfilarsi la
vestaglia. Una volta sopra le spalle, la appallottolò e la
buttò giù dal letto, sul pavimento. Lui sentiva il respiro di
lei nel buio. Il letto dondolò quando lei si distese di nuovo al
suo fianco, adesso aveva addosso solo la camicia da notte:
lui non la vedeva, ma ne aveva un lembo sul collo.
Lei rimase immobile. Ma non per molto. Tutto a un
tratto si rigirò ficcandogli i gomiti appuntiti e duri sul
petto, china su di lui fissandolo senza timore alcuno. Come
se, pensò lui, guardandolo con una simile forza lei potesse
illuminare la stanza al punto di vederci. E allo stesso tempo
potesse rendere lui così luminoso da essere visibile. Gli
sembrò che lei lo accendesse, facendolo risplendere in
mezzo alla stanza, da capo a piedi. Ma lo sguardo ostinato
di Susan continuava a indagare su di lui, rendendolo
sempre più luminoso. La propria luminescenza lo ferì.
Emise un rantolo e si alzò per sottrarsi ai gomiti di lei.
– Ciao, – disse Susan.
Lui disse: – A quanto vedo non sei preoccupata.
– E grazie a te. Sei tu che lo impedisci.
– Cosa ti aspetti che faccia?
– Fai quello che ti va –. La voce di Susan aveva un
timbro affettuoso e ubbidiente che gli era ignoto; era un
suono basso, una specie di cantilena. Lei spalancò le
palpebre di scatto fissandolo apertamente; sollevò la mano
e si portò le nocche alla bocca, come se volesse impedirsi di
scoppiare a ridere. – È incredibile, – disse. Rotolò via da lui,
tremante, e si alzò dal letto. Rimase immobile in piedi,
dandogli le spalle in silenzio, a testa china, con una mano
sulla gola e con l’altra a riassettarsi velocemente i capelli.
Si alzò dal letto anche lui, in pigiama, e mettendosi di
fronte a lei, le prese le spalle tra le mani. Gli parve che
avesse le ossa vuote mentre la stringeva tra le dita;
sembrava potesse cedere, rimpicciolirsi. Aveva le braccia
abbandonate lungo il corpo e rimase silenziosa, passiva e,
alla fine dei conti, distante. Ma non appena lui l’aveva
afferrata, le rughe di preoccupazione avevano abbandonato
il suo viso. Lui la strinse ancora più forte, e l’ansia la
abbandonò. Tutto quello che la angustiava svanì, e Susan si
rilassò.
Lasciandole libere le spalle, le prese le mani e la portò a
letto. Lei si tranquillizzò, seguendolo senza reticenze, si
sedette mentre lui le sbottonava la camicia da notte.
– Freddo? – le chiese.
– Non più di tanto, – emise lei con voce assente. – Ho un
po’ di mal di testa, tutto qui.
Quando si strinse a lei nel letto, sentì che dietro di lui le
mani di lei tiravano su le coperte. Si preoccupò di coprire
entrambi, poi lo abbracciò.
– Spero che Taffy non si svegli, – disse diventando
all’improvviso ansiosa e irrigidendosi.
– Non preoccuparti, – le disse.
– Cosa succederebbe se si mettesse a cercarmi e finisse
per entrare qui dentro? Sarebbe tremendo Lo spinse da
parte con un impeto autoritario.
Aveva i fianchi stretti e il ventre, sotto di lui, gli parve
soffice. Aveva un ottimo profumo di sali da bagno. Aveva un
corpo perfetto sotto ogni punto di vista, liscio e snello. Si
era tenuta in forma, come un’atleta o una danzatrice.
Proprio quello che lui aveva sempre desiderato.
5

Dopo che ebbero finito, si sedettero in vestaglia nella


veranda sul retro, nell’aria buia e fresca della notte. Il
vento soffiava intorno a loro e faceva ondeggiare i cespugli
e gli alberi nel giardino. Lo sentivano agitare alberi grandi,
invisibili e distanti, in qualche altro cortile.
Tutto aveva una qualità universale.
Nessuno dei due parlava. Susan si era messa dei
calzettoni di lana, calzettoni pesanti da sci che le
arrivavano fin sopra il polpaccio. Lui aveva un paio di
calzoni, ma anche così tremava e rabbrividiva a intervalli
regolari. Un fremito quasi meccanico. Pensò che
probabilmente era dovuto all’affaticamento muscolare. Si
sentiva stanco da tutte le parti, ma non voleva entrare in
casa. Gli piaceva ascoltare il rumore del vento che stormiva
tra le fronde di alberi che non avrebbero mai visto.
– Mette paura, – sussurrò Susan.
– Non sono d’accordo, – obiettò Bruce. Sentiva il
profumo dei fiori. A un certo punto, una falena volò sopra di
loro, urtò contro la porta e sparì. Forse era entrata in casa:
avevano lasciato la porta spalancata per essere sicuri di
non restare chiusi fuori.
Susan, che gli teneva la mano, strinse la presa, poi
accostò la sua testa a quella di Bruce.
– Non sei mai stato sposato, vero? – chiese.
No.
– Ma avevi già fatto sesso. O è così oppure ti sei letto un
libro molto buono sull’argomento. Non eri affatto
impacciato. Non che pensassi che lo saresti stato. Voglio
che tu ci rifletta sopra. Ho divorziato da Walt. Pensare a un
terzo matrimonio è un bel passo per una donna che è stata
sposata due volte. Ma i matrimoni si fanno e si disfano. È
meglio rischiare e fare un errore che… – Fece una pausa
riflessiva. – La paura non è la cosa ideale da cui lasciarsi
guidare. Trattenersi per paura di commettere un errore.
Ma forse tutto questo è talmente lontano dai tuoi pensieri
da sembrarti ridicolo…
– No, – rispose lui, – non lo è –. In realtà lo era. Adesso
scoprì che aveva voglia di rientrare, andare a letto e
dormire. – Entriamo, – le disse.
– D’accordo. Senti, – disse lei, chiudendo la porta dietro
di loro, – tu vai nella tua stanza e io torno nella mia. La
signora Poppinjay ha la chiave, e dal momento che non
dovrebbe arrivare prima delle nove, possiamo continuare a
dormire.
– D’accordo, – rispose lui, sempre più incline al sonno.
Erano le quattro e mezza e la sua stanchezza era diventata
una sofferenza.
Andando verso la sua stanza, Susan si fermò per dargli
un bacio. – Buona notte, – disse afona, poi lui la perse di
vista nel momento in cui entrambi aprirono la porta.
Che notte, pensò mentre entrava nel letto ancora caldo,
sgualcito dall’umidità e profumato.
Matrimonio, pensò.
Eppure l’idea non lo disturbava. Gli sembrava una cosa
naturale, come se la si fosse potuta prevedere nel normale
corso delle cose.
Credo che ciò farebbe di Taffy la mia figliastra, pensò
tra sé e sé. E chissà l’ufficio, R&J SERVIZI DI CICLOSTILE, il mio
lavoro là. Ne erediterei una parte… diventerei socio?
Suonava bene. Andò a dormire contento, pensando al
domani.
Il mattino seguente, alle dieci e mezzo, lui e Susan
andarono in centro con la Mercury, in ufficio.
Mentre parcheggiavano dall’altra parte della strada,
fuori dalla zona con sosta massima consentita di due ore,
Susan disse: – Senti, devo andare a vedere dei materiali per
l’allestimento della vetrina. Tu entra e ci vediamo lì tra
mezz’ora –. Riparandosi gli occhi si sporse e aggiunse: – La
porta è aperta. Dev’esserci Zoe. Se diventa insopportabile,
esci e siediti qui in macchina o dove vuoi. Ma non credo
che darà noie. Probabilmente non ti parlerà nemmeno. Sarà
occupata a scrivere a macchina.
– Vuoi che le dica qualcosa? – chiese lui, vagamente
irritato.
– No, – rispose lei sul marciapiede, chiudendo lo
sportello della macchina dalla sua parte. In tailleur aveva
un aspetto piuttosto chic e curato. – Ovviamente, non dire
che vivi a casa mia e non fare accenno alla notte scorsa, –
aggiunse, piegandosi sul finestrino della macchina.
Susan si affrettò. Bruce chiuse la macchina, attraversò
la strada e, con un bel po’ di disagio, entrò nell’ufficio.
Come aveva detto Susan, Zoe non fece caso a lui.
Seduta a una scrivania, era intenta al lavoro sulla macchina
per scrivere vecchia e massiccia, girando una pagina dopo
l’altra. Per un po’ lui gironzolò lì davanti, dove
evidentemente dovevano stare i clienti, poi prese il toro per
le corna e oltrepassò il registratore di cassa, accanto a
diverse scrivanie. – Buon giorno, – disse.
– Buon giorno, – rispose Zoe.
– Lavorerò qui.
– Ah, – fece lei, con voce allegra e vivace. – Così mi dice
Susan–. Poi, guardando un attimo nella sua direzione,
aggiunse: – Ovviamente questo ha ben poca importanza per
me, dal momento che me ne vado.
– Capisco, – rispose lui, annuendo come se fosse una
novità.
– Probabilmente tra pochi giorni. Volevo uscire da
questo vicolo cieco da almeno un anno Smise di scrivere a
macchina e girò la sedia in modo da stargli di fronte.
Continuò in modo più lento e deciso: – Abbiamo perso
molto denaro, come forse lei sa. Immagino che Susan le
abbia detto tutto questo. Ha poca fiducia in questa attività,
come me. Non so perché voglia continuare. C’è un grande
magazzino a buon mercato dall’altra parte della strada che
vende risme, nastri e carta carbone. Non possiamo
competere con loro perché comprano molto materiale alla
volta. L’emporio all’angolo vende macchine per scrivere
portatili. Perciò a noi non rimane che noleggiare macchine
e battere manoscritti e ciclostilare, e non sono cose con cui
si guadagni più di tanto. Anche se Susan avesse soldi da
investire non servirebbe a niente, a meno che non
decidesse di trasferirsi da un’altra parte, e se lo farà
perderà quasi tutto quello che abbiamo speso nel sistemare
questo posto.
Lui non disse nulla. Il discorso l’aveva un po’ confuso.
– Per cosa, esattamente, è stato assunto? – chiese Zoe. –
Solo per svolgere il lavoro generale? Sa scrivere a
macchina? Di sicuro Susan non ha intenzione di scrivere a
macchina e di tagliare i ciclostilati… lo faccio io per lo più
–. Un’espressione trionfante apparve sul suo viso rugoso di
mezz’età. Non provava simpatia per lui e per Susan: e
adesso che sapeva che se ne sarebbe andata era diventata
insensibile.
– Che progetti ha per quando se ne sarà andata? –
chiese lui.
– Oh, credo che aprirò un posticino dalle parti di Dallas.
Ho degli amici che vivono laggiù –. Aggiunse poco altro.
– Le auguro buona fortuna, – disse lui.
Zoe rispose in tono deciso: – Le auguro buona fortuna
anch’io, dal momento che lavora con Susan. La conosce da
molto tempo? Se riuscirete a far funzionare questo posto,
sarà merito suo e non di Susan, lei è del tutto priva di
attitudine e di interesse. Desidera solo ricavare quanto le
basta per i suoi bisogni Di colpo smise di parlargli e tornò
al lavoro. Dopo un po’ disse: – Ha esperienza nella vendita
al dettaglio? – Lo chiese in modo tale da far capire che non
si sarebbe sorpresa se lui fosse stato nel settore da anni,
che Susan si fosse procurata qualcuno in grado di
subentrare e gestire il posto con estrema efficienza. Pur
non piacendole, ovviamente Zoe aveva rispetto di Bruce, o
perlomeno timore. Come se, dal momento che l’avrebbe
rimpiazzata, avesse già dimostrato di essere più preparato
per il lavoro. Oltretutto era un uomo. Lui sentì,
osservandola e studiandola, che lei riconosceva
automaticamente una superiorità agli uomini. Era un suo
difetto, una debolezza. Una componente della situazione
che aveva rallentato il tentativo suo e di Susan di fare
affari, complicando i rapporti con i grossisti e i clienti.
Due donne che cercano di condurre un’attività. Uno
svantaggio.
– Mi piacerebbe esaminare le fatture degli ultimi due
mesi, – disse lui.
– Sono nello schedario, dentro l’armadietto. In ordine
alfabetico.
Seduto a una scrivania vuota esaminò le fatture, e
scoprì che gli importi erano calati vistosamente.
– Visto che profitti abbiamo avuto? – chiese Zoe, a un
certo punto.
Si accorse quasi subito che Susan e Zoe avevano
comprato nel peggior modo possibile: piccole quantità ogni
mese ai prezzi unitari più alti. Vide anche che non
andavano mai a ritirare le loro forniture; se le facevano
sempre spedire.
– Dove compaiono i resi? – chiese a Zoe. – I materiali
difettosi da restituire?
– Deve chiedere a Susan, – disse Zoe.
Probabilmente avevano tralasciato la possibilità di
alleggerire le scorte con resi periodici. Girò per l’ufficio,
frugando negli scaffali delle scorte, nelle scatole di nastro,
nei pacchetti piatti di carta carbone e tra le macchine per
scrivere vecchie e malandate che noleggiavano a cinque
dollari o meno al mese. Poteva dire a occhio che quelle
macchine per scrivere antiquate occupavano la maggior
parte dello spazio del deposito; riempivano allineate due
pareti intere, dal soffitto al pavimento. La maggior parte di
esse aveva uno strato di polvere sopra. Anche la vetrina era
piena di macchine da vendere, tutte di seconda mano,
niente di nuovo. Come un negozio di cianfrusaglie, pensò
disgustato. La sua esperienza andava del tutto contro la
mercanzia usata; lo faceva sentire a disagio persino toccare
oggetti impolverati e dall’aria sudicia nei negozi di seconda
mano. Gli piacevano le cose nuove, in igienici pacchi di
cellophane. Immagina di comprare uno spazzolino da denti
usato, pensò tra sé e sé. Cristo…
Si accese una sigaretta meditabondo e cominciò a
riflettere sulle forniture in esclusiva. Se lì vicino venivano
vendute macchine per scrivere nuove, i produttori potevano
essere poco propensi a incoraggiare altri negozi. Ma…
c’erano sempre modi di ottenere la merce. Soprattutto se
l’acquirente aveva denaro contante, e magari la capacità di
rifornirsi rapidamente.
Cominciò a fremere all’idea. Trasformare quel posto.
– Credo che potrò fare molto per aiutare Susan, – disse.
Zoe non rispose.

A mezzogiorno Susan entrò in ufficio carica di pacchi. Si


fermò da Zoe e cominciò a mostrarle diversi articoli. Bruce,
benché consapevole della sua presenza, continuò a
lavorare. Alla fine fu lei ad andare da lui.
– Ciao, – disse.
– Ciao, – rispose lui. – Sto facendo progressi –. Aveva
scoperto i rendiconti dei crediti e stava ricavando il totale
non pagato.
– Sembri così occupato, – disse Susan.
Dalla scrivania, Zoe disse: – Se non avete nulla in
contrario credo che andrò a mangiare Coprì la macchina
per scrivere e mise via il suo grembiule da lavoro.
– Vai pure, – disse Susan, preoccupata. Appena Zoe
lasciò l’ufficio, si sedette di fronte a Bruce. – Com’è andata?
– chiese incalzante. – Ha parlato parecchio?
– Pochissimo, – rispose lui. Gli era seccato molto entrare
in ufficio da solo. Riteneva che lei avrebbe dovuto
accompagnarlo.
– Bene, – commentò Susan, sollevata. – Sa che deve
accettare la tua presenza qui –. Si sporse verso di lui e
chiese: – Ti ha detto che abbiamo cercato di avere
l’esclusiva della Underwood e non ce l’hanno concessa? –
Lo studiò ansiosa.
– No, – rispose lui. – Ma stavo riflettendo sulle esclusive.
– Se potessimo mettere insieme abbastanza denaro per
fare un ordine iniziale davvero grosso, ce la
concederebbero. Non sei d’accordo? Tu sai tutto su queste
cose.
– Vedremo, – disse lui.
– Conto su di te per ottenere il materiale da vendere.
– Lo so, ma non sono in grado di trovare i soldi.
– Ma puoi gestire le trattative in modo che non costi così
tanto. E puoi ottenere merce in conto deposito. Non credi?
– Dipende.
– Cosa ne pensi dei banconi? Se prendiamo delle nuove
portatili avremo bisogno di un posto dove esporli.
– A proposito di soldi, lavoro ufficialmente per te?
– Come… voglio dire, – disse lei, raddrizzandosi sulla
sedia e corrugando la fronte, ansiosa e preoccupata, – sì,
certo, hai cominciato a lavorare questa mattina, appena sei
arrivato. Ti considero un membro ufficiale della ditta.
Con grande tatto e cautela Bruce chiese: – Come ci
regoliamo con il mio stipendio?
– Devi prelevarlo dalle entrate, come facciamo noi. Fino
a un certo limite, chiaramente. E lo scriviamo sempre;
abbiamo un modulo regolare che riempiamo, come una
ricevuta, e che firmiamo entrambe.
– Ma quanto?
– Quanto… credi che ti serva?
Era come parlare al muro. – Non è questo il punto. È
questione di definire l’accordo in modo da sapere come
stanno le cose.
Quella precisazione la preoccupò e la confuse
immediatamente. – Decidi tu, – disse, in un impeto di
impulsività. – Qualsiasi cosa tu dica mi va bene.
Specialmente se, – si fermò e si guardò alle spalle, – se
procediamo secondo i tuoi piani, cosa che spero vivamente
faremo–. Abbassò il tono di voce. – Bruce, voglio che tu ti
senta libero di decidere quanto vuoi. Ti porterò i libri e
potrai vedere quanto abbiamo prelevato Zoe e io.
Dopo che gli ebbe mostrato i libri, e che ebbero discusso
a lungo la faccenda, decisero che lui poteva prelevare fino
a trecentocinquanta dollari al mese.
– Ti sto derubando? – chiese lui ansioso.
– No, – rispose lei, felice di aver sistemato la cosa. –
Voglio pagarti di più. Meriti di più. Forse più avanti, quando
avremo qualcosa da vendere –. Stringendo i pugni Susan
esclamò: – Maledizione, dobbiamo assolutamente trovare
qualcosa da vendere!
Era entrato un cliente, e lei si alzò per riceverlo.

Più tardi Bruce andò a fare un giro al grande magazzino


dall’altra parte della strada per vedere di persona che cosa
vendevano e cosa no.
Il banco della carta e il materiale per le macchine per
scrivere era disposto da una parte, non visibile dalla strada;
il banco successivo vendeva bigiotteria e bottoni. I loro
nastri erano ammucchiati in due scompartimenti. Ogni
nastro era venduto a 89 cent, una marca sconosciuta, e lui
vide che erano nastri ultrasottili di qualità inferiore, buoni
solo per battere a macchina lettere, assolutamente inadatti
per macchine da ufficio. Vide anche che il negozio non
forniva nastri per tutti i tipi di macchine. La loro carta da
battitura era in pacchi da 10 e 25 cent, non in risme.
Anch’essa era economica e di qualità scadente, non quella
carta filigranata in pasta di stracci o di lino preferita dai
dattilografi per la prima copia. La cosa gli infuse coraggio.
E vendevano carta carbone blu.
Andò all’emporio.
Difatti l’emporio aveva quattro marche di portatili a
prezzi stracciati, e ognuna di esse era messa ben in mostra.
Le macchine erano disposte alla fine del banco delle
forniture per le foto, accanto a macchine fotografiche e a
registratori poco costosi. Notò che l’emporio proponeva
solo le portatili meno costose di ogni linea, e non macchine
da ufficio.
Quando la ragazza si avvicinò per servirlo, le chiese
della garanzia sulle macchine portatili. Era di novanta
giorni, gli disse.
– E se si rompe qualcosa la porto da voi?
– No, – rispose la ragazza, senza dimostrare il minimo
interesse. – Deve portarla a questa officina di riparazioni…
– Si abbassò dietro il banco cercando una cartella grinzosa.
– Qui non si fanno tutti i servizi. È sulla strada per
Pocatello.
– Sa se c’è un posto qui vicino dove posso fare battere a
macchina dei documenti?
– Credo che ci sia un posto in fondo alla strada, –
rispose la ragazza.
Bruce ringraziò e uscì dall’emporio.
Era chiaro che non avevano puntato molto sulle
macchine per scrivere. Miravano più che altro agli studenti
delle superiori e a uomini d’affari che avevano bisogno di
una macchina a casa per usarla occasionalmente. La sua
conoscenza del sistema delle esclusive tornò utile. Ricordò
che spesso veniva concessa un’esclusiva che permetteva al
negoziante di vendere solo gli articoli meno costosi di una
linea, non la linea completa. Poteva facilmente scoprire se
l’emporio aveva una concessione per vendere macchine più
grandi, sempre che avesse intenzione di usarla. Forse non
poteva.
Riattraversò la strada in direzione dell’ufficio.
In piedi nel mezzo della stanza, dietro il banco, c’era un
uomo basso, bruno, con le spalle cadenti, che indossava un
abito a un petto solo grigio e impeccabile e una cravatta a
farfalla. Una nuvola di fumo di sigaretta lo avvolse quando
espirò. Si accorse di Bruce e lo squadrò da dietro gli
occhiali con la montatura di corno. Fece una smorfia, sputò
un pezzo di cartina da sigaretta, e disse con voce rauca ma
cordiale: – Non posso servirla. Non lavoro qui.
Accanto all’uomo Bruce vide una valigetta di pelle, una
cartella coi manici. Evidentemente era un agente di
commercio. Guardò Bruce con aria sarcastica e amara,
come se volesse servirlo ma si considerasse incompetente e
certamente fuori luogo. Come se, stando dietro il banco ma
non lavorando lì, stesse barando. Sembrava volersi scusare.
– Non c’è problema, – disse Bruce, oltrepassandolo.
L’uomo spalancò gli occhi. – Ah, – grugnì. – Uno schiavo.
– Esatto, – rispose Bruce. Non vide traccia di Susan, e
nemmeno di Zoe. – Dove sono? – chiese all’uomo.
Scrollando le spalle, l’uomo disse: – Zoe è andata in
bagno. Susan non c’è. Mi chiamo Milt Lumky–. Gli tese la
mano, e Bruce vide che l’uomo aveva braccia corte, gambe
corte, e mani grandi e piatte, nodose ma assolutamente
linde, con le unghie curate professionalmente. La pelle del
viso era butterata. Ma i denti erano ben tenuti. Le scarpe,
nere e probabilmente d’importazione, erano consunte ma
lucidate.
– Per chi lavora? – chiese Bruce mentre si stringevano la
mano.
– Christian Brothers Brandy, – disse Lumky con la sua
voce roca. Poi chinò la testa con una smorfia e borbottò: –
Non è una cosa stupida da dire? Questo è uno dei miei
giorni liberi. Mi colpisce venire qui e non trovare nessuno.
Non c’è da meravigliarsi che ci sia una recessione. Scherzo,
sono della Whalen, fornitura carta. Ma pensi, una
compagnia di alcolici che si chiama Christian Brothers. Un
po’ come la Jesus Christ Firearms Works. Ho notato
l’insegna nel bar di là dalla strada. Non me ne ero mai
accorto prima.
Bruce disse a Lumky il suo nome.
– Da quanto tempo lavora qui? – domandò Lumky. –
Vengo qui non più di una volta ogni due mesi.
Bruce gli disse che aveva appena cominciato.
– Gestirà questo posto? – chiese Lumky. Aveva un tono
pacato e condiscendente. – Questo è ciò di cui hanno
bisogno, qualcuno che possa subentrare. Altrimenti non
prendono decisioni. Tutto scivola via. Dov’era prima?
Gli disse che aveva lavorato per il B.A.
– Dovrei prenderla a calci per questo, – disse Lumky.
– Non approva i grandi magazzini?
– Non se vendono caramelle stantie.
Era una storia che non aveva mai sentito. Gli sembrò
strana e rise, pensando che Lumky stesse scherzando. Ma
l’uomo si raddrizzò altezzoso e determinato a convincerlo.
– Ho comprato una scatola di Mounds in un grande
magazzino a Oakland, in California, – disse Lumky,
tossendo attraverso il fumo della sigaretta, mentre
insisteva a esporre le sue ragioni. Diradò il fumo con la
mano. – Sapeva di sapone. Devono avere trovato delle
scorte avanzate dai vecchi px della seconda guerra
mondiale.
– Non è sempre così.
– È la sua parola contro la mia, – disse Lumky. Spense la
sigaretta e porse un pacchetto di Parliaments a Bruce. –
Credo che fallirete perché voi dei grandi magazzini non
lavorate come venditori. È una follia, come le ghiacciaie da
casa. Dovete vendere alla gente –. Parlò in tono cupo, come
se fosse un fatto che non approvava necessariamente, ma
che accettava. Le mani gli tremavano mentre accendeva
una nuova sigaretta; l’estremità della sigaretta ondeggiò
davanti al suo accendino Ronson rivestito di pelle ed egli
dovette spingerla indietro col pollice. – Comunque, lei ha
detto la sua, – disse da un angolo della bocca. Il fumo gli
era andato nell’occhio sinistro, che cominciò ad arrossarsi
e a lacrimare. Fece un sorriso strafottente a Bruce.
Entrando nell’ufficio, Susan disse: – Oh, ciao, Milt.
Milt Lumky mise l’accendino nella tasca della giacca;
l’oggetto formava un gonfiore che comprometteva la giusta
linea del vestito. – Dove sei stata? Mi sono servito da solo
con i soldi nella cassa, solo per darti una lezione.
– Non c’è Zoe?
– È al cesso, – disse Lumky. – Ti va una tazza di caffè?
– Ho appena mangiato. Ecco dov’ero. Non credo ci sia
niente che vogliamo comprare questa volta. Mi dispiace. A
meno che tu non abbia qualcosa di nuovo da farci vedere.
– Che ne dici di una linea di calcolatrici economiche?
– No, – rispose lei.
– Computer digitali.
No.
– Il modello da casa della Univacs per 17 dollari e 95
cent. È il prezzo che ti faccio. Di listino mi pare vada a 49
dollari e 95. Un bel profitto. Un regalo di Pasqua ideale.
Lo cinse con un braccio e gli diede una pacca sulla
schiena. – No, – disse. – Un’altra volta. Dobbiamo pensare a
riorganizzare le cose a fondo. Ci sono un sacco di progetti.
Girando la testa per guardare Bruce, Lumky gli disse: –
Che ne dice di prendere una tazza di caffè con me?
– Questa potrebbe essere una buona idea, – disse Susan.
– Milt, questo è Bruce Stevens. Si occuperà degli acquisti –.
Poi aggiunse a voce bassa: – Zoe lascerà l’azienda.
– Andiamo, – disse Lumky, piegando la testa in direzione
della porta per condurre con sé Bruce. – Lascerò qui la mia
robaccia, – disse a Susan, riferendosi alla sua cartella di
pelle. – Se vuoi comportarti in maniera infantile, ci puoi
frugare dentro.
Poco dopo lui e Bruce erano seduti al bancone di una
caffetteria poco distante.
– Così Zoe de Lima se ne va, – disse Lumky, accendendo
una terza sigaretta e sedendo con i gomiti sul bancone e le
mani davanti al naso, i pollici premuti sulle narici. – Susan
sta facendo una cosa intelligente. Sarebbe dovuta uscire da
questa situazione due anni fa. Susan è capricciosa e Zoe è
una codarda integrale. Che magnifica combinazione.
Arrivarono i loro caffè.
– Con Susan almeno si può ragionare, – disse Milt. – Ma
non si può mai comunicare con Zoe de Lima. È marcia
dentro, come una vecchia tavola di pino. Tutto quello di cui
ha bisogno Susan è qualcuno che le dica cosa fare –.
Trangugiò il caffè, con un tovagliolo pigiato sul mento.
– È in una buona posizione, – disse Bruce, un po’ preso
alla sprovvista da Milt Lumky e dalla sua franchezza. Era
più abituato a rappresentanti entusiastici e falsamente
sinceri che non dicevano mai la verità.
– Conosco Susan da anni, – disse Milt cupamente. – È
una brava persona. Mi sono sempre chiesto una cosa: come
sia al di fuori del lavoro–. Si stuzzicò un dente, aggrottando
le ciglia. – Senta, non crede anche lei che sia davvero
attraente?
– Sì, – rispose Bruce, in tono vago.
– Ho sempre avuto la fissazione di provare a portarla
fuori una sera. A cena o qualcosa del genere. E cercare di
penetrare quell’atteggiamento di efficienza per scoprire
com’è veramente. Riesce a credere che faceva
l’insegnante? È come scoprire che l’uomo che ti consegna il
carbone è Albert Einstein che fa la cosa che più gli piace.
Per inciso Einstein è morto. Leggo «Time», quindi queste
cose le so. È un modo per tenersi informati sugli
avvenimenti del mondo. Non crede? Magari può servirti a
concludere un buon affare, non si sa mai.
– Vive qui vicino? – chiese Bruce.
Lumky rispose: – Sì, dannazione. Il mio territorio
include l’intero Nordovest sul Pacifico, se riesce a crederci.
Ho vissuto in Oregon, ma c’era troppo da guidare. Così
adesso vivo qui nell’Idaho. Quasi nel mezzo. Vado da
Portland a Klamath Falls, poi a Est fino a Pocatello. È
squallido viverci –. Si fece silenzioso. – Odio proprio questo
posto, – disse alla fine. – L’Idaho mi deprime. Specialmente
guidare da qui a Pocatello. Ha mai visto una strada così
brutta, disastrata e merdosa? In qualsiasi altro stato
sarebbe una viuzza secondaria per contadini che
trasportano carichi di meloni. Qui è la strada statale. E poi
ci sono le cimici intorno a Montario. Quelle cimici
svolazzanti, gialle e sataniche con un pungiglione
gigantesco… ne ha mai tenuta in mano una morta e l’ha
osservata da vicino? Quella maledetta cosa ti guarda in
cagnesco. Come una cimice possa guardare male senza
denti o gengive o labbra non lo so.
– Sono nato a Montario, – disse Bruce.
– Io lo terrei per me, – commentò Lumky.
– Se potesse scegliere, – chiese Bruce, – dove vorrebbe
vivere?
Lumky fece una smorfia. – Vivrei a Los Angeles.
– Perché?
– Perché quando vai in un drive-in e prendi un latte al
malto, la ragazza che te lo porta ha un culo come quello di
Marilyn Monroe.
E con questo rispose alla sua domanda.
– Non pensi che me ne stia seduto a meditare sul culo
delle donne, – continuò Lumky con la sua voce roca. –
Infatti non ci pensavo da un anno. Ecco cosa ti succede, a
vivere in Idaho. E non c’è niente da fare, leggere o vedere.
Ci sono un paio di bar sudici, schifosi e bui, ma è tutto qui.
Forse sono i cappelli da cowboy che mi danno fastidio. Non
mi fido mai di uno che indossa un cappello da cowboy.
Penso sempre che sia suonato. Non sono portato per
vendere carta. Se ne è accorto? Non è evidente? Se lo
ricordi la prossima volta che vengo a mostrarle il
campionario estivo. Mi dica di no e me ne andrò. Non mi
importa niente se lei compra qualcosa o no. In effetti spero
che non compri. Se vendo mi tocca compilare un ordine.
Non so neanche se ho ancora la stilografica Si tastò la
giacca. – Vede, questa schifezza cola ovunque. Che casino–.
Si riabbottonò la giacca con fare nevrotico.
– Le piacerebbe Reno, – disse Bruce.
– Può darsi, – commento Milt. – Bisognerà che ci vada
una volta o l’altra. Come pensa di impostare il lavoro per
Susan?
– Procurandomi qualcosa da vendere. Liberandomi delle
cianfrusaglie di seconda mano.
– Ha ragione, – disse Milt.
– Mi piacerebbe tenere delle nuove portatili, ma se ne
occupa già l’emporio.
– Le dirò io in cosa dovrebbe investire molto. E io non
me ne occupo, quindi sappia che non sto cercando di
imbrogliarla.
– Mi dica pure.
– Portatili d’importazione.
– Quelle italiane? Le Olivetti?
– C’è una portatile giapponese che arriverà sul mercato.
Elettrica. La prima al mondo di cui io sappia.
– La Smith-Corona produce una portatile elettrica, –
ribatté Bruce.
Milt sorrise. – Ma quella ha un ritorno manuale. Questa
macchina giapponese è tutta elettrica.
– Quanto costa?
– È questo il problema grosso. Avevano intenzione di
assumere degli operatori commerciali e vendere
direttamente. Importarle su base diretta. Ma un paio di
grandi produttori di macchine per scrivere americani si
sono spaventati e hanno cominciato a negoziare. Intanto, le
macchine non sono mai arrivate sul mercato. Le stanno
trattenendo finché non stabiliscono la base del contratto di
distribuzione. Dovrebbe esserci almeno un magazzino pieno
di macchine del genere qui intorno.
– Non l’ho mai sentito dire, – commentò Bruce, mentre
la sua febbre per il commercio saliva.
Ne discussero un po’, poi finirono il caffè e tornarono
alla R&J SERVIZI DI CICLOSTILE.
Accanto al marciapiede, Bruce vide un’automobile che
non conosceva, una berlina verde chiaro con un radiatore
vecchio modello ma molto classico. Aveva un aspetto
antiquato, ma le sue linee pulite suggerivano un design di
concezione moderna. Lasciando Milt andò a ispezionarla.
Lo stemma con una stella a tre punte attirò la sua
attenzione. Era una Mercedes-Benz. La prima che lui
avesse mai visto.
– Ecco una macchina che non mi dispiacerebbe avere, –
disse beandosi soddisfatto a quella vista. – È pressoché
l’unica macchina straniera che mi piaccia. Guardi l’interno
in pelle –. Per lui, i sedili di pelle robusta erano l’ultimo
grido in fatto di eleganza.
Milt disse: – È mia.
– È davvero sua? – Non ci credeva. Senza dubbio quel
basso e grinzoso rappresentante di carta stava di nuovo
scherzando.
Estraendo una chiave dall’aspetto insolito, Milt aprì lo
sportello destro anteriore della Mercedes. Nel retro della
berlina erano state ammucchiate pile di campioni di carta;
alcuni erano scivolati a terra. – Ci ho fatto quasi
cinquantamila chilometri, – disse Milt. – L’ho portata in tutti
i quattordici stati dell’Ovest e non mi ha mai dato problemi.
– È una otto?
– No, no, – rispose Milt secco. – Una sei. Questa è una
macchina davvero attaccata alla strada. Ha semiassi
flessibili dietro. Il cambio sincronizzato. Nuova costa circa
tremilaquattrocento dollari.
Bruce aprì e chiuse lo sportello. – Come chiudere una
cassaforte, – disse. Lo sportello combaciava perfettamente.
Dopo che Milt ebbe richiuso l’auto, entrarono
nell’ufficio. – Pensavo che se avessi avuto una macchina
come quella, – disse Milt, – mi sarebbe piaciuto guidare
ovunque. Ma non fa una gran differenza. Solo un po’.
Quello di cui ho davvero bisogno è un altro lavoro.
– Vuoi venire a lavorare qui? – chiese Susan, sentendolo
per caso.
– Non c’è niente di peggio, – disse Milt. – Vendita al
dettaglio. La peggiore tra tutte le occupazioni degradanti
nel mondo.
Susan gli scoccò un’occhiata franca. – La pensi così?
Avrei voluto saperlo prima. Non ne avevo idea. Che cosa
credi che faccia, che rovini?
– No. Corrode solo il rispetto di sé. Cominci a sminuirti.
– Io non mi considero una venditrice al dettaglio, – disse
Susan.
– Certo che lo sei. Che attività svolgeresti altrimenti?
– Svolgo un servizio professionale.
Milt sorrise. – È ridicolo. Lo sai meglio di me. Tu vuoi
vendere qualcosa e fare soldi come chiunque altro. Ecco a
cosa serve questa strada. Ecco cosa voglio io. Ecco perché
hai assunto questo professorino, perché i tuoi affari
rendano.
– Sei troppo cinico, – disse Susan.
– Non abbastanza. Se fossi cinico a sufficienza avrei
abbandonato questo mestiere. Sono solo cinico quel tanto
che basta a non farmi piacere il lavoro che faccio. Ricorda,
sono un bel po’ più vecchio di te, quindi so quel che dico.
Tu lavori da troppo poco tempo.
Bruce non aveva dubbi che Lumky stesse scherzando.
Ma Susan lo prese assolutamente sul serio. Se ne andò in
giro per il resto della giornata con un’espressione tesa in
viso, e con una preoccupazione tale che alla fine lui le
chiese se stesse bene.
– Sta bene, – disse Zoe. – È solo che non sopporta di
sentire i fatti della vita.
– Ti stava solo prendendo in giro, – disse Bruce.
– Credo di sì, – convenne Susan. – Ma è così difficile
capirlo con lui. Ha sempre quel tono ironico.
Ovviamente, allora Lumky se n’era già andato con la sua
Mercedes, serio fino alla fine.
– È una persona molto intelligente, – disse Susan a
Bruce. – Ti ha detto che si è laureato alla Columbia? In
storia europea, credo.
– Com’è finito a vendere carta all’ingrosso? – chiese
Bruce.
– Suo padre è uno dei soci della Whalen. Hai visto la
macchina e i vestiti. Ha un bel po’ di soldi. È un tipo
strano… Ha trentotto anni e non è mai stato sposato. È
probabilmente la persona più sola che abbia mai
conosciuto, ma è impossibile avvicinarsi a lui; è così amaro
e sarcastico.
Alla sua scrivania, Zoe de Lima fece schioccare la lingua
di fronte alla macchina per scrivere.
– A lei non piace, – disse Susan.
– Puoi scommetterci, – disse Zoe, senza fermarsi. – È
volgare e sboccato. È il peggior rappresentante di quelli
che vengono qui. Ho paura a voltargli le spalle perché temo
che mi dia un pizzicotto. Credimi.
– L’ha mai fatto? – chiese Susan.
– Non ne ha mai avuto la possibilità. Non con me,
comunque –. Alzò la testa e chiese in tono grave: – E con
te?
– Non è volgare, – disse Susan a Bruce, ignorando Zoe. –
Ha molto buon gusto. In parte, il linguaggio che usa è una
corazza esteriore. Fa sempre il sarcastico sugli uomini con
cui deve lavorare. È la sua amarezza nei confronti del
mondo degli affari e dei rappresentanti in generale. E molti
uomini di bassa statura sono infelici e soli. Si tengono tutto
dentro.
– Lo conosci molto bene? – le chiese Bruce.
– Prendiamo il caffè insieme, quando passa di qui. Una
volta mi ha chiesto di andare a cena con lui, ma non potevo.
Taffy era ammalata e dovevo tornare subito a casa. Non
penso che mi abbia creduta. Era sicuro che non ci sarei
andata comunque. Gli ho solo provato che aveva ragione.
6

Quella sera, mentre lui e Susan tornavano a casa in


macchina, lei disse: – Non hai parlato con Milt del fatto che
stai a casa mia, vero? Ma certo che non gliel’hai detto.
– No, – rispose lui. Sapeva bene che i venditori
chiacchierano in giro da un capo all’altro dello stato.
– Dobbiamo fare attenzione, – continuò lei. – Sono
stanca. Non abbiamo dormito molto. E questa tensione con
Zoe… Mi passerà quando se ne sarà andata. Ho visto che
hai esaminato le fatture. Hai notato qualcosa di importante
che vorresti cambiare?
Lui delineò le diverse questioni che aveva rilevato. Per
lo più parlò del bisogno di comprare all’ingrosso. A metà
strada, quando si fermò a un semaforo, le lanciò
un’occhiata e vide che lei stava pensando a qualcos’altro;
quell’espressione rapita e lontana era apparsa di nuovo sul
suo viso e lui sapeva che aveva sentito poco o niente di
quello che aveva detto.
– Mi dispiace, – disse lei, quando lui cercò di attirare la
sua attenzione. – Ma ho così tante cose per la testa. Sono
preoccupata per come reagirà Taffy non vedendo più Walt.
Era diventato un padre per lei. Spero che tu lo diventerai. È
così che dev’essere. Non riesco proprio a interessarmi a
questi piccoli e insignificanti dettagli di lavoro. Credo che
Milt abbia ragione: corrodono il rispetto di sé.
Bruce disse: – Io non la penso così. A me piace.
Sporgendosi, Susan lo baciò. – Ecco perché non vivi più
a Reno. Sai, abbiamo un futuro meraviglioso davanti a noi,
tu e io. Non pensi sia così? Mi sento come se stessi
tornando a vivere. So che sembra banale, ma è così che mi
sento. Probabilmente è una condizione fisiologica
perfettamente normale a provocarmi questa sensazione…
probabilmente tutto il metabolismo ne è condizionato.
Anche il sistema endocrino. Nuovi enzimi che liberano
energie intatte –. Gli strinse il braccio con tale forza che lui
perse quasi il controllo della macchina. – Fermiamoci e
prendiamo qualcosa di speciale per cena. Sai che cosa mi
piacerebbe? Delle crêpe suzette in scatola. Quando ho
preso le sigarette al supermercato ho notato che le
vendono.
Bruce fermò la macchina nel parcheggio del
supermercato, e mentre lei aspettava, si affrettò a scendere
dalla vettura, prese le crêpe suzette e fece la fila, pagò e
tornò.
– Devo fermarmi anche all’emporio, – l’informò, mentre
proseguivano. – È una cosa che devo comprare io; non puoi
andare a chiederla tu.
Mentre lui parcheggiava in doppia fila, Susan si diresse
lentamente verso l’emporio. Una macchina dietro di lui
suonò il clacson finché fu costretto a spostarsi e a fare il
giro dell’isolato. Quando tornò indietro non vide traccia di
lei, e fece il giro un’altra volta. Questa volta la trovò ad
aspettarlo, intenta a misurare a passi lunghi il marciapiede.
– Dov’eri andato? – chiese dopo essere saltata su e aver
chiuso lo sportello. – Credevo che mi avresti aspettata.
– Non potevo, – rispose lui.
Lei teneva in grembo un pacco rettangolare incartato
con carta marrone e spago bianco. Lui distolse lo sguardo
dall’oggetto, avvertendo una certa malinconia. La
particolare schiettezza di Susan lo infastidiva; l’aveva
infastidito sin dall’inizio.
– Sei così taciturno, – disse lei dopo un po’ di tempo.
– Stanco, – rispose lui. Aveva comprato il barattolo di
crêpe suzette con i suoi soldi, e non ne aveva molti. La qual
cosa non gli andava proprio giù, e rimase a tormentarlo.
– Quando pensi che sarai in grado di subentrare? –
chiese Susan.
– Difficile a dirsi.
– Tra una settimana?
– Forse.
Lei sospirò. – Lo spero. Così potrò dedicare tutto il mio
tempo a prendermi cura di Taffy–. Aggiunse in tono
energico: – Vedi, appena potrò smettere di chiamare la
signora Poppinjay, risparmierò duecento dollari e passa al
mese. Che è tanto, anche di questi tempi. E mi sentirò
molto meglio, quando potrò rimanere a casa con Taffy,
accompagnarla a scuola e andarla a prendere per poi stare
insieme.
– Significa che non verrai in ufficio? – Era la prima volta
che sentiva parlare di questo. – Devono esserci due
persone. E io non so battere a macchina né tagliare i
ciclostilati –. Aveva osservato Zoe farlo, e senza alcun
dubbio era di per sé un lavoro a tempo pieno.
– Posso farne un bel po’ a casa, – disse Susan.
– Dovrai stare in ufficio.
– Ci starò a volte.
Lasciò perdere l’argomento.
– Sapevi che volevo che tu subentrassi, – disse lei.
– Se lasci andare Zoe, dovrai stare in ufficio quasi
quanto ora. Se riusciamo a ottenere qualcosa da vendere,
quello sarà un lavoro, quello più la gestione generale, poi
battere a macchina e tagliare i ciclostilati sarà un altro. Più
avanti potremo probabilmente lasciar perdere la battitura a
macchina e il ciclostile, ma di certo non ora.
– Come dici tu. Lo sai meglio di me, – disse Susan, ma
per il resto del viaggio verso casa mantenne un’espressione
distante.
Dopo cena, mentre lui e Susan lavavano i piatti, suonò il
telefono. Lei si asciugò le mani e andò a rispondere.
– Per te, – disse tornando indietro. – È Milt Lumky.
Bruce andò al telefono e disse «pronto», chiedendosi
cosa volesse Milt.
– Ciao, – brontolò Milt. – Immaginavo che molto
probabilmente ti avrei trovato lì. Finita la cena?
– Sì, – rispose Bruce, un po’ risentito.
– Che ne dici di una birra? Ho bisogno di qualcuno con
cui parlare. Ti passo a prendere e andiamo in centro a bere
una birra.
– Vuoi dire solo io? O io e Susan?
– A quanto mi risulta ha una figlia piccola.
– Sì, – ammise Bruce.
– Se non vuoi, dimmi semplicemente di no, – disse Milt.
– Era solo un’idea estemporanea. Sarò qui in giro un altro
paio di giorni poi andrò a Pocatello. Tornerò tra una
settimana. Qui ho solo una stanza con bagno e ingresso
privato. Non basta a trattenermi. Mangio sempre fuori.
– Solo un attimo, – disse Bruce. Tornò in cucina.
– Che cosa voleva? – chiese Susan. – Mi ha detto solo
ciao e ha chiesto se tu eri qui.
– Vuole che vada in città e beva una birra con lui.
– Oh, deve sentirsi solo. Perché non vai? Tanto sono
stanca; credo che andrò a letto appena ci va Taffy. Potrei
leggere o guardare la tv.
Mentre tornava al telefono, Bruce ci rimuginò sopra. –
Grazie comunque, – disse a Lumky. – Abbiamo un sacco di
lavoro di cui discutere. Forse un’altra volta. E offrirò io.
– Cosa?!
– Così mi riservo l’invito per un’occasione successiva.
– Che cosa sei, comunista? D’accordo, se la pensi così.
Forse posso trovare qualcuno a Pocatello.
– Spero che questo non significhi che la nostra
conoscenza termina qui, – disse Bruce.
– No, – rispose Lumky. – Probabilmente no.
Si salutarono e riagganciarono.
– Gli ho detto di no, – disse a Susan. Non se la sentiva di
stare seduto in un bar ad ascoltare i problemi di qualcuno.
– Sono felice dove sono, – aggiunse, il che era senza dubbio
vero. A Reno andava in giro per bar, solo come non mai, e
sperava che tutto ciò fosse finito. C’erano, al mondo,
milioni di uomini non sposati che bevevano birre da soli. E
che volevano parlare con qualcuno.
– Dal momento che non esci, – disse Susan, quando finì i
piatti e mise via il grembiule, – non andrò a letto subito.
L’ho detto perché così ti saresti sentito libero di andare e
venire a tuo piacere. Non voglio che tu ti senta legato, con
me. A questo proposito, ho qualcosa che ho preso per te
oggi pomeriggio ma che avevo dimenticato di darti –. Andò
nel salotto a prendere la borsa. Ne estrasse una chiave, che
gli regalò. – Di casa, – disse. – Oh, e anche… – pescò nella
borsa e questa volta estrasse un anello da cui pendevano
molte chiavi. – … dell’ufficio, – disse, estraendo una chiave
dall’anello. – Vedi come mi sento libera e a mio agio con te?
Le due chiavi migliorarono l’umore di Bruce. Gli diedero
un attimo di euforia, e disse: – Spero che tu non ti penta
mai.
– So che non accadrà. Non mi deluderai, Bruce. Non è
poi difficile capire come sono le persone. Non abbiamo
parlato molto d’amore. Tu ci hai pensato?
– In un certo senso… – rispose lui, impacciato.
– Non ti sbilanci molto, – osservò Susan. – Di solito una
persona si ritrova a parlare di tutto in una situazione in cui
è così coinvolto. Invece tu quello che senti non riesci a
dirlo. Non sono mai stata molto eloquente. E non pretendo
elaborate dichiarazioni d’amore… se non riesco a farne io,
non vedo che diritto ho di riceverne in cambio. Credo di
poter dire cosa pensi. Questo ti dà molto, non è vero? So
davvero poco di com’eri prima. Posso soltanto immaginare
com’eri prima di incontrarmi. Eri solo, quella notte da Peg?
– Sì, – ammise lui. – Ero venuto in macchina da Reno. È
un viaggio solitario –. Non voleva dire che di solito andava
in giro da solo; per qualche ragione evitava di ammetterlo.
Forse perché sarebbe sembrato che era stato attratto da lei
semplicemente per la solitudine, e non era vero.
Susan disse: – Non so neanche di quante ragazze sei
stato innamorato. O quanto ti lasci coinvolgere,
emotivamente intendo. Forse non sei uno che si lega alle
persone molto spesso o molto a lungo. Credo che lo dirà il
tempo. Voglio dire su noi due.
– Non fare la depressa.
– Oh, non sono depressa. Non ho mai dato a nessuno la
chiave dell’ufficio prima. Tranne ovviamente Zoe, che ha la
sua.
– E la chiave di casa?
– La signora Poppinjay ne ha una. Naturalmente Walt
aveva la sua chiave. So cosa vuoi dire. No, Bruce –. Lo
ribadì con voce infantile, molto bassa e convinta.
A mezzanotte circa sentirono qualcosa che batteva fuori
dalla porta nella veranda. Erano insieme in camera da
letto, e anche se il campanello non aveva suonato, si
fermarono e tornarono in salotto, entrambi arruffati.
– C’è qualcuno lì fuori, – disse Susan, lisciandosi i
capelli.
Bruce aprì la porta. In piedi sotto il porticato,
nell’oscurità, c’era Milt Lumky. – È la tua Mercury quella là
fuori? – chiese Lumky. – Hai la targa del Nevada? –
Entrando in casa, porse un pezzo di carta rinsecchito,
spiegazzato e strappato a Bruce. – Mi sono preso la libertà
di staccare questo.
Erano i rimasugli dell’adesivo del B.A. che era stato
incollato al finestrino posteriore.
Milt salutò con un cenno del capo Susan. Il suo viso,
arrossato, irradiava calore. Indossava una camicia sportiva
a maniche corte, giallo acceso, di nylon sgualcito. E
pantaloni grigi larghi, senza cintura. E scarpe con la suola
di para.
– Che cosa c’è? – chiese Milt. – Non potete uccidere uno
solo perché vi viene a trovare. Passavo di qui e ho visto la
tua macchina ancora qua, così ho capito che non te n’eri
ancora andato Si sedette sul divano.
– Se non sembro felice di vederti, – disse Susan, – è
perché ho molte cose per la testa –. Dandogli le spalle fece
un’espressione scocciata a Bruce. Per entrambi quella
visita poteva diventare una sofferenza. Dipendeva da
quanto Milt era deciso a restare.
– Hai una bella casa, – disse Milt, trincerato nel mezzo
del salotto, con le mani sulle ginocchia. Sembrava a
disagio, conscio di aver fatto irruzione in casa contro la loro
volontà, ma allo stesso tempo voleva rimanere. Voleva stare
lì. Ovviamente non aveva altro posto dove andare. – Credo
che vi stiate chiedendo come liberarvi di me, – disse con il
suo grugnito rude e contrito, ma determinato. – Non
rimarrò molto. Me ne andrò insieme a Bruce.
Cosa intendeva dire con ciò, solo Dio lo sapeva. La cosa
mise Bruce a disagio; ebbe l’intuizione che l’uomo sarebbe
andato in giro barcollando fino a fare qualche danno, per
sbaglio o intenzionalmente… Si chiedeva se Susan ne
sapesse di più. Lei continuava a squadrare Milt stando sul
chi vive, ma allo stesso tempo sembrava divertita. Forse
perché lui aveva bevuto. La esasperava e la divertiva al
tempo stesso, e Bruce pensò a tutte le volte che si era
sentito così nei confronti di amici che avevano bevuto.
Doveva stare all’erta… e in quella situazione, ancora di più.
Milt non aveva niente contro di loro, come aveva già detto.
Aveva bisogno della loro compagnia, della loro amicizia.
Ma non era un buon momento. Non erano abituati a
ricevere visite; non erano nello stato d’animo giusto per
essere di buona compagnia. Aveva fatto un errore. Il suo
modo di fare risoluto dimostrava che se n’era accorto,
anche se forse non capiva perché fosse un errore così
grosso. Adesso cominciava a meditare. Perché sembravano
così dispiaciuti di vederlo? Bruce intuì che tipo di pensieri
cominciavano a circolare nella mente dell’uomo. Dovevano
essere cordiali con lui o avrebbe capito la natura della loro
relazione. Non ci avrebbe messo molto a scoprire che
Bruce non se ne sarebbe andato. Dovevano stare attenti
con lui.
La vista di Milt Lumky con la sua camicia di nylon gialla
sportiva e pieno di birra fino all’orlo, fece scattare in Susan
un atteggiamento malizioso e sbadato che Bruce non aveva
mai notato prima. Aveva conosciuto persone che traggono
divertimento continuo dalla vista di ubriachi. Milt,
ovviamente, non era ubriaco. Ma aveva perso la capacità di
tenere a freno la lingua. E ciò liberò Susan dall’obbligo di
essere gentile. Le dava coraggio. Anche lei poteva dire
quello che voleva; poteva almeno lasciar perdere alcune
preoccupazioni. Poteva ribattere a Milt con impudenza, e
Bruce pensò tra sé e sé che il fatto che una situazione del
genere la divertisse significava forse che dentro di lei
rinchiudeva qualcosa che aveva paura di esprimere o che
non sapeva come esprimere. È un brutto segno, pensò,
guardando gli altri due. Cosa succederebbe se cominciasse
a prendersi gioco di lui? Odiava quel tipo di cose. Non
riusciva a capire quelli che tormentavano una persona con i
riflessi rallentati dopo aver bevuto qualche bicchiere.
Storpi, ubriachi e animali non l’avevano mai ispirato. Anzi,
di solito lo deprimevano. Sentiva sempre che avrebbe
dovuto fare qualcosa per loro, ma non sapeva mai cosa.
– Che fine ha fatto la tua giacca? – chiese Susan. – L’hai
lasciata da qualche parte?
Milt borbottò: – È in macchina.
– Avrai preso freddo ad andare in giro senza.
– No. Non ho preso freddo.
– Vuoi dire che non senti freddo.
– Come vuoi tu. Ciao signorina, – disse guardando in
direzione del corridoio. – Vieni qui.
Girandosi, Bruce vide che Taffy, nel suo pigiama a righe
rosse, era uscita dalla sua stanza e stava sulla porta del
salotto, fissandoli tutti.
– Parla? – chiese Milt.
Susan disse: – Si è svegliata e ha sentito la tua voce.
Probabilmente pensava che fosse Walt Alla bambina,
disse: – Torna subito a letto. Verrò a rimboccarti le coperte.
Non è Walt. Vedi che non è lui.
Milt disse: – Mi chiamo Milton Lumky e sono un
idraulico di Philadelphia Allungò la mano. – Vieni qui e
siediti, invece di stare là.
Camminando prudentemente verso di lui, Taffy chiese: –
Perché hai la faccia tutta rossa?
– Non lo so, – rispose Milt, come se fosse un indovinello.
– Perché ho la faccia tutta rossa?
Taffy fece una risatina. – Te l’ho chiesto prima io.
Milt si abbassò e la issò sul divano. – Perché mai hai
detto che avevi il morbillo quella sera di novembre del 1956
quando volevo fare una bella cenetta e andare a ballare?
Ridendo, Taffy rispose: – Non lo so.
Rivolto a Bruce, Milt disse: – Hai mai conosciuto un
bambino che non fosse bugiardo? Quanti anni hai? – chiese
a Taffy.
– Sette e mezzo.
– Vedi? – disse Milt a Bruce.
– È vero, – intervenne Susan. – Ha sette anni e mezzo.
– Qui, – disse Milt a Taffy. – Ho qualcosa per te. Cercò
nella tasca e tirò fuori un oggetto di metallo cilindrico. –
Una combinazione di apribottiglie e penna a sfera, – disse.
L’oggetto, fatto di latta e plastica, aveva stampato sopra:
CON I COMPLIMENTI DELLA WHALEN INC. SPOKANE WASH. – Per
scrivere all’interno delle bottiglie, – disse Milt, mostrandole
come tracciare linee blu sul dorso della mano. – Non si può
cancellare. Ti rimane per tutta la vita. Adesso ti faccio un
tatuaggio–. Le disegnò una barca che navigava sul polso,
con dei gabbiani che volavano intorno. Taffy rideva senza
sosta, imbarazzata.
– Cosa se ne fa di un apribottiglie? – chiese Susan.
– Potrebbe staccarci la testa alle bambole, – rispose
Milt.
Vedendo lui e la bambina, Bruce si rese conto che non
l’aveva mai presa in considerazione nella sua relazione con
Susan. Lui e Taffy non avevano alcun contatto, e nessuno
dei due si aspettava di svilupparne in futuro. Ma Taffy era
andata subito da Milt Lumky, incuriosita e ben disposta.
Gli venne in mente, allora, che non aveva mai avuto
nessun rapporto con i bambini. E certamente non aveva
esperienza; non sapeva cosa fare o dire, così non faceva né
diceva niente.
Susan voleva qualcuno a cui piacessero i bambini, si
chiese, oppure no? Non aveva fatto nessun tentativo di
attirare il suo interesse su Taffy. Forse non le importava.
Forse voleva fare tutto lei, ricoprire tutti i ruoli. Se Taffy
cominciava a dipendere da lui, sarebbe stato difficile per
Susan se lui se ne fosse andato come avevano fatto Walt e
Pete, e forse altri.
Non è per questo che mi vuole, decise, far dondolare
Taffy in grembo, raccontarle storie e giocare con lei. E, per
la prima volta, ebbe una profonda sensazione di
abbattimento. Susan non aveva assolutamente un’idea di
una relazione equilibrata. Quella totale disuguaglianza gli
si presentò davanti come una rivelazione, chiara e
ineludibile.
Ma come poteva lamentarsi? Non aveva fatto niente per
avvicinarsi alla bambina. Non serviva a niente biasimare
Susan; le aveva mostrato di non fare caso o di non
preoccuparsi di Taffy. Adesso era troppo tardi. Ma forse, se
l’avesse fatto, come Lumky era impegnato a fare, avrebbe
messo fine alla relazione con Susan. Vide l’espressione sul
suo viso mentre osservava Milt Lumky. Era priva di
dolcezza. Non provava piacere a vedere l’interesse di
Lumky per la bambina. Solo freddezza, cautela. Quasi vera
e propria ostilità, come se, al primo pretesto, fosse pronta a
schioccare le dita e a richiamare Taffy.
Ora, Milt aveva cominciato a disegnare sull’altro polso
di Taffy il busto di una donna. – Questa è la storia di Gina
Lollobrigida e la balena, – disse Milt, abbozzando un seno
enorme. Taffy rise stupidamente. – Una volta Gina
Lollobrigida stava passeggiando lungo la costa della
soleggiata Italia quando apparve una balena gigante che si
tolse il cappello e disse: «Signora, ha mai pensato di fare
l’attrice? Ci pensi, con un fisico del genere lei sta
sprecando il suo tempo».
– Basta così, – disse Susan.
Milt smise di disegnare. – Adesso sto per disegnare il
maglione magico, – disse. – Va tutto bene: non ti
preoccupare.
– Basta così, – ripeté Susan.
– Il maglione magico è importante, – disse lui, ma si
fermò. – Il resto della storia, – disse a Taffy, – ha a che fare
con l’industria della biancheria e non ti interesserebbe –.
Lasciò andare il braccio della bambina delusa.
– Può tenere la penna-apribottiglie, – disse Susan, in un
tono che rivelava che aveva elaborato questa soluzione
come un compromesso ragionevole.
– Bene, – disse Milt, allungando l’oggetto a Taffy.
– Che cosa dici? – chiese Susan.
Milt rispose: – Dico che è un mondo maledettamente
freddo e meschino quando non puoi fare cose carine per i
bambini.
– Non mi riferisco a te, – disse Susan. – Voglio dire,
Taffy, come si dice quando qualcuno ti regala qualcosa?
Farfugliando e sorridendo, la bambina riuscì a dire: –
Grazie.
– Grazie, zio Lumky, – disse Milt.
– Grazie, zio Lumky, – fece eco lei, poi saltò e sfrecciò
via dalla stanza di nuovo verso il corridoio. Susan andò con
lei, nella camera, per metterla a letto.
Rimasero Milt e Bruce.
– È una bambina davvero carina, – disse Milt sottovoce.
– Sì.
– Pensi che assomigli a Susan?
Fino ad allora non ci aveva mai pensato. – Un po’, –
rispose.
– Non so mai cosa dire ai bambini e cosa no, – disse
Milt. – Una volta ho fatto voto di non fare il moralista con
loro, ma forse sto esagerando in senso opposto.
– È inutile chiederlo a me, – disse Bruce. – È un
argomento di cui non so nulla.
– Mi piacciono i bambini. Mi sento sempre triste per
loro. Quando sei così piccolo non puoi prendertela con
nessuno. Tranne che con i bambini più piccoli. E quello non
vale molto Si strofinò il mento e studiò il salotto,
l’arredamento e i libri. – È sistemata bene qui. Adesso che
ci penso, non c’ero mai stato prima. È confortevole.
Bruce annuì.
Una volta tornata nella stanza, Susan disse: – Mi ha
chiesto perché il tuo alito aveva un odore così strano. Le ho
detto che avevi mangiato del cibo stranissimo che noi non
abbiamo.
– Perché le hai detto così?
– Non volevo dirle che era birra.
– Non era birra. Non ho bevuto birra. Non ho bevuto
niente.
– So che l’hai fatto, – ribatté Susan. – L’ho capito da
come ti sei comportato appena sei arrivato. E il tuo viso è
molto arrossato.
Il suo viso arrossì ulteriormente. – Sul serio, non ho
bevuto niente –. Si alzò in piedi. – È la pressione alta. Devo
prendere la reserpina –. Frugò nella tasca ed estrasse una
pillola avvolta nella carta velina. – Per abbassare la
pressione.
Rimasero entrambi in silenzio, meravigliati.
– Tutti sono così sospettosi verso gli altri nel mondo, –
disse Milt. – Non c’è più fiducia nel prossimo. E la
chiamano civiltà cristiana. I bambini mentono sulla propria
età, le donne ti accusano di cose che non hai fatto–.
Sembrava davvero in collera.
– Non te la prendere, – disse Bruce.
– Spero che quando tua figlia sarà cresciuta vivrà in una
società migliore –. Si diresse verso la porta.
– Bene, – disse imbronciato, – ci vediamo quando ripasso
di qui.
Mentre gli apriva la porta, Susan disse: – Non andartene
arrabbiato. Ti stavo solo prendendo in giro.
Fronteggiandola tranquillo lui rispose: – Non ce l’ho con
te Le diede la mano, poi la diede a Bruce. – È solo che mi
deprime; tutto qui Poi chiese a Bruce: – Dove alloggi? Ti
cercherò quando ritorno.
Susan rispose: – Non si è ancora sistemato.
– Brutta cosa. È maledettamente difficile sistemarsi in
una città nuova. Spero che trovi un buon posto. Comunque
posso sempre trovarti alla R&J SERVIZI DI CICLOSTILE.
Diede la buonanotte, poi chiuse la porta dietro di sé.
Sentirono subito una macchina avviarsi e partire.
– Pensavo di doverglielo dire, – disse Susan.
– Hai fatto bene, – commentò Bruce. Ma la cosa l’aveva
infastidito.
– Non volevo che fossi costretto a prenderti la
responsabilità di rispondere. Non c’è ragione per cui debba
ricadere sulle tue spalle. Credi che sia venuto per
controllare? Forse sospettava di noi. Ma non ha
importanza. È qui in giro solo poche volte l’anno. Credo che
sia ancora interessato a me, e che ciò lo renda geloso.
– Può essere, – disse Bruce. Ma dentro di sé pensava
che fosse semplicemente solo e desiderasse compagnia.
– Se sbrigassimo le questioni legali saremmo immuni da
questo tipo di situazioni. Altrimenti continuerà a succedere.
Dovrai pensare alla tua posta… e non devi dare all’ufficio
comunale il tuo indirizzo permanente? E la tua patente. Un
milione di dettagli simili. Anche i dettagli della tua ritenuta,
li devo compilare, come tuo datore di lavoro.
Il mio datore di lavoro, pensò lui. Proprio così.
– Non è un motivo sufficiente per sposarsi, – disse
Bruce.
Susan lo guardò male. – Nessuno ha detto che lo sia. Ma
non mi piace nascondere la verità alla gente. Mi fa sentire
a disagio. So che non facciamo niente di sbagliato, ma se
dobbiamo mentire allora cercare di tenere nascosta la cosa
sembra quasi un’ammissione di colpevolezza.
– Io non sono contrario.
– A sposarmi?
– Sì.
Ci pensarono su entrambi.
Dopo aver dato un giro di chiave e spento le luci si
chiusero in camera da letto, come prima che arrivasse Milt
Lumky. Per molto tempo furono liberi di godere l’uno
dell’altra. Ma tutto a un tratto, senza un rumore o un
preavviso qualsiasi, la porta della camera da letto si aprì.
Susan balzò nuda dal letto. Sulla soglia c’era Taffy.
– L’ho perso, – singhiozzò Taffy. – È caduto e non riesco a
trovarlo.
Susan, pallida e levigata nelle tenebre, la afferrò al volo
e la portò fuori dalla stanza. – Puoi trovarlo domani, – la
sua voce arrivò a Bruce mentre giaceva nel letto, sotto le
coperte disordinate, col cuore che batteva. Altri sussurri,
sia di Susan sia di sua figlia, poi una porta che si chiudeva.
Susan tornò indietro e si infilò di nuovo a letto. Il suo corpo
era freddo a contatto con quello di Bruce. Si strinse a lui
tremante.
– Accidenti a Milt Lumky e al suo apribottiglie con
penna a sfera, – disse Susan. – Taffy l’ha fatto cadere
dentro al letto ed è andata a dormire. Ha sparso
l’inchiostro o qualunque cosa sia, china, credo, sul cuscino.
Bruce disse: – Mi ha spaventato.
Il corpo magro e freddo premeva sempre più vicino. Lei
lo abbracciò stretto. – Che notte, – disse. – Non
preoccuparti. Era così assonnata che sapeva a mala pena
cosa stava facendo. Non credo che si sia resa conto che eri
qui.
Ma dopo quel fatto lui rimase in uno stato di disagio.
– Lo so, – disse Susan, sdraiata accanto a lui. – Disturba.
E tu non sei abituato ad avere un bambino vicino. Io sì.
Insegnavo ai bambini. È una mia seconda natura, pensare
in termini infantili. Per l’amor di Dio, non proiettare mai i
tuoi sentimenti di adulto su una bambina di otto anni. È
riuscita a vedere solo me; è la mia stanza e sa che io sono
qui. Un bambino è un bambino.
Bruce cercò di immaginarsi a quell’età. A entrare nella
camera da letto dei suoi genitori. La scena rimase confusa.
– Forse è così, – ammise.
– Sono sempre stata sposata da quando è nata, – disse
Susan. – Anche se avesse avuto una qualche idea che tu eri
qui, le sarebbe sembrato naturale. Un uomo è un uomo. Per
una bambina di quell’età.
Ma lui sapeva che doveva andare o in un modo o
nell’altro. O si trasferiva e trovava un posto suo, o doveva
andare fino in fondo e sposarla. Anche lei lo riconobbe.
Voleva sposarla?
Che cos’ho da perdere, si disse. Posso sempre
divorziare.
Accanto a Bruce, Susan si era addormentata con la
mano di lui sul seno. La teneva lì con la propria mano. Tra
le dita poteva sentirla respirare, con la regolare, lenta
cadenza del sonno. Andare a dormire così, pensò lui, con la
mia mano appoggiata su di lei. Non è questa la cosa
importante in tutta la storia? Non l’ufficio o scoprire un
modo per fare molti soldi, ma momenti come questo, a
tarda notte. E cenare insieme, e tutto il resto.
È per questo che mi sono fermato a Montario, pensò.
Infatti, è per questo che mi sono fermato all’emporio di
Hagopian. Ovviamente non dovette usare i suoi Trojans.
Susan aveva su qualcosa di permanente, e aveva comprato
un ricambio tornando a casa.
– Sei sveglia? – le chiese.
– Sì, – rispose lei.
– Credo di poter andare fino in fondo.
Nel buio Susan rotolò verso di lui e gli mise una mano
sul braccio. – Bruce, – disse, – sai che sono molto più
vecchia di te.
– Hai dieci anni più di me, – disse lui. – Ma va bene. Però
voglio dirti una cosa.
– Dimmi.
– Sono stato un tuo allievo. In prima. Nel 1945.
– Non mi importa di chi sei stato allievo–. Lo abbracciò
nuovamente. – Non è strano, ecco perché ti sembra di
conoscermi. Ma io non avrei mai avuto modo di saperlo–.
Sbadigliò, si sistemò finché non fu comoda, poi,
gradualmente, le sue mani si rilassarono e lasciarono la
presa. Si era addormentata di nuovo. Il suo viso, contro le
spalle di Bruce, si contraeva debolmente.
Tutto qui? si chiese lui, un po’ stupito.
Ma che peso si era tolto.

Il quattro del mese, lui e Susan andarono in aereo a


Reno e si sposarono. Poi vi passarono tre giorni e
tornarono. Quella notte lo dissero a Taffy a cena. Non
sembrò sorpresa. A Reno Bruce le aveva comprato un
piccolo bowling elettrico, e la vista di quel regalo la riempì
di stupore.
7

Durante una delle prime sere dopo il matrimonio, trovò


Susan da sola in salotto con un grande album in grembo.
– Fammi vedere, – lo apostrofò lei porgendogli l’album. –
Sei sicuro? O volevi dire che sei andato alla Gatter A.
Hobart? – Dopo essersi seduto accanto a lei, Bruce si mise
a sfogliarlo. Susan lo osservava assorta.
– Qui, – disse. Indicò se stesso nella foto di classe. Il viso
infantile rotondo con gli occhi maliziosi, i capelli
scarmigliati. La pancia grassoccia che debordava dalla
cintura. Sentiva di avere molto poco a che fare con la
fotografia, eppure era lui.
– Sei tu? – chiese Susan, cingendolo da dietro, con la
mano che ciondolava davanti alla gola di Bruce e le dita che
lo sfioravano nervosamente. Il suo respiro risuonava
pesante e accelerato nelle orecchie di Bruce. – Adesso non
fare il timido, – disse Susan. Rintracciò la didascalia sotto
la foto. – Sì, dice Bruce Stevens. Ma non mi ricordo
nessuno in quella classe che si chiamasse Bruce. Ne sono
sicura –. Esaminò a fondo la fotografia poi disse in tono
trionfante e stridulo: – Ti chiamavi Skip!
– Sì.
– Oh, ho capito, – esclamò lei, emozionata. – Tu eri Skip
Stevens? – Lo osservò minuziosamente, confrontandolo con
la fotografia. – È vero. Mi ricordo di te. Tu eri il ragazzino
che il custode sorprese in infermeria, mentre cercava di
sbirciare per vedere le femminucce in mutande.
Arrossendo, Bruce ammise: – Sì, esatto.
Gli occhi di Susan si spalancarono per poi assottigliarsi.
– Perché non l’hai detto?
– Che cosa avrei dovuto dire?
– Skip Stevens. Eri insopportabile. Eri il cocchino della
signora Jaffey; ti lasciava fare tutto quello che volevi. Ho
fatto presto a mettere fine alla cosa. Ma come… – Rimase
senza fiato per lo sdegno e si allontanò da lui,
arrabbiandosi sempre di più. – Avevate perso ogni freno,
tutti voi. Tu accendesti un falò in bagno. Non sei stato tu?
Bruce annuì.
La mano di Susan si allungò verso il suo viso. – Vorrei
prenderti per un orecchio, e girartelo. Eri un prepotente!
Dico bene? Ma sì, facevi il bullo con i più piccoli ed eri
grande e grosso.
Con una certa amarezza, Bruce disse: – Adesso sai
perché non te l’ho detto. Ho aspettato finché sono stato
abbastanza sicuro della nostra relazione. Non vedo perché
questo dovrebbe interferire col nostro rapporto.
L’attenzione di Susan era tornata alla foto di classe.
Picchiettò su di essa e disse: – Però eri molto bravo in
aritmetica. E hai fatto un bel discorso all’assemblea. Ero
così fiera di te quel giorno. Ma quella faccenda di spiare le
ragazze in infermeria… Perché l’hai fatto? Fu una
vergogna. Eri là, a spiare dal buco della serratura.
– E non l’hai mai dimenticato.
– No.
– Ne facevi un gran parlare tutte le volte che ti infuriavi,
dopo quel giorno.
– È strano, – disse Susan. Chiuse di colpo l’album. –
Sono d’accordo. Meglio dimenticare quest’episodio. Ma
voglio sapere una cosa. Non mi avevi riconosciuta la prima
volta che mi hai vista, vero? È passato un po’ di tempo.
– Solo dopo aver lasciato casa di Peg.
– Non eri attratto da me perché… – si fermò a riflettere.
– … la tua reazione non si è basata sul fatto che mi avevi
riconosciuta. No, so che non è stato così. Almeno non in
modo consapevole.
– Credo neanche inconsciamente.
– Nessuno sa cosa succede nel proprio subconscio.
– Be’, non serve a niente discuterne.
– Hai ragione, – convenne Susan e mise via l’album. –
Pensiamo a qualcos’altro. Ti ho detto che ho avuto indietro
la chiave da Zoe?
– No, – rispose Bruce. Era stata via circa un’ora, e non
gli aveva detto che cosa aveva fatto.
– Non ci sarà domani. Le daremo i soldi solo alla fine del
mese, ma le ho spiegato che tu e io ci siamo sposati e che
saremmo stati lì entrambi, e lei non vuole proprio più
venire. Così l’abbiamo vista per l’ultima volta. Prenderà il
mese completo di stipendio, ovviamente.
– È ancora socia legalmente?
– Penso di sì. Fancourt lo saprà.
Quel nome gli era nuovo. – Chi è? – chiese.
– Il mio legale.
– Sono venuti dei revisori contabili a esaminare i registri
e ad accertarsi dell’effettivo valore dell’impresa?
Susan divenne all’improvviso vaga. – È venuto qualcuno.
Hanno guardato tutto. Hanno fatto un inventario. E credo
che abbiano controllato i registri e i conti.
– Tu non c’eri? – si chiedeva perché lei non avesse
assistito alla cosa.
– È successo mentre eravamo a Reno. C’era Zoe,
naturalmente. Fancourt è il mio avvocato, non il suo. Quindi
va tutto bene. No, non avrei lasciato che revisionassero i
libri contabili in mia assenza se non fosse stato il mio legale
a farlo. È un buon avvocato. L’ho conosciuto quando
lavoravo in politica, nel ’48. È un uomo molto astuto. Tra
l’altro, ho conosciuto Walt tramite lui.
– Cosa mi dici di Zoe? Le è stata fatta una verifica
contabile separata?
– Sì. Sono sicura che l’hanno fatta senz’altro.
Lasciò perdere. Da un certo punto di vista non lo
riguardava affatto. Ma da un altro lo preoccupava molto. –
Spero che tu non la stia pagando troppo, solo per
sbarazzarti di lei.
– Oh, no.
– Ti domando solo una cosa. Il conteggio delle fatture da
incassare. È stato eseguito per intero?
– Credo di sì, – rispose lei, esitando.
– Metti che alcuni di quei creditori lascino un insoluto.
Tutto il rischio ricade su di te. Ti ricordi a quanto
ammontava circa il credito? – Pensava ai clienti cui si
fatturava mese per mese per acquisti passati o servizi a
loro carico.
– Un paio di centinaia di dollari, non molto. Non tanto
da preoccuparsi.
– Quanto di questo credito è stato maturato dopo il
nostro incontro? – Aveva idea che una gran parte fosse
stata fatturata mesi prima.
Susan, sorridendo, rispose: – Ricorda, ci siamo
incontrati anni fa. Quando avevi… undici anni.
– Sai cosa voglio dire.
– Abbiamo sistemato la maggior parte della questione in
marzo. Abbiamo avuto un terribile litigio. Avevamo
intenzione di separarci allora. Ma il mio matrimonio stava
andando in fumo, e francamente non potevo sopportare che
tutto andasse a pezzi intorno a me. Ho sistemato la cosa
con Zoe, e almeno è durata per un po’. Ma sapevo che non
poteva continuare. Quando sono tornata dal Messico volevo
rilevare la sua quota; te l’avevo detto. Ti ricordi? Quando
me l’hai chiesto la prima volta.
Gli aveva detto qualcosa di quel genere; non ricordava
le parole esatte.
– Bruce, – disse Susan. – O devo chiamarti Skip?
– Skip no, – rispose lui deciso.
– Quando eri un ragazzino delle medie, nella mia classe,
avevi delle fantasie sessuali su di me? Avviene di frequente.
– No.
– Che cosa provavi nei miei confronti? – aveva
abbandonato il suo tono serioso. – La vecchia signora Jaffey
era così indulgente con tutti voi… Ti sembrava che fossi
troppo severa?
Non era facile rispondere alla domanda. – Vuoi che ti
dica che cosa pensavo allora? O come me lo ricordo
adesso? Non è la stessa cosa.
Susan balzò in piedi e prese a camminare su e giù per la
stanza, con le braccia incrociate sotto i seni, sostenendoli
come a volerli trasportare con attenzione. Ancora una volta
apparvero sul suo viso rughe di preoccupazione e le sue
labbra si strinsero. – Che cosa provavi allora?
– Avevo paura di te.
– Ti sentivi in colpa e avevi paura di essere… scoperto?
– No, – rispose Bruce deciso. – Ero semplicemente
terrorizzato.
– Da che cosa?
– Da quello che potevi fare o dire. Avevi potere assoluto
su di noi.
Sbuffando, Susan disse: – Oh, andiamo. Sai che non è
vero. E i genitori, allora? Terrorizzano gli insegnanti. Li
fanno licenziare ogni giorno. Un genitore infuriato
nell’ufficio del preside ha più peso di tutti i sindacati di
insegnanti del mondo. Sai perché ho abbandonato
l’insegnamento? – Smise di camminare e si lisciò
nervosamente la camicetta. – Mi hanno chiesto di smettere.
Ho dovuto. A causa delle mie idee politiche. Nel 1948.
Durante le elezioni. Ero diventata membro del partito
progressista; ero tra i sostenitori di Henry Wallace. Così
quando il mio contratto scadde, non lo rinnovarono. E mi
chiesero di andarmene in silenzio e senza creare problemi.
Naturalmente chiesi perché –. Fece un gesto. – E me lo
dissero. E così non creai alcun problema. Era colpa mia. E
in seguito firmai quella maledetta petizione per la proposta
di pace di Stoccolma. Me lo fece fare Walt. Anche lui era
molto attivo nel partito progressista. Ovviamente sono tutte
cose del passato.
– Non l’avevo mai saputo.
– Alcuni genitori protestarono perché insegnavo ciò che
chiamavano «universalismo» in classe. Avevo del materiale
delle Nazioni Unite. E poi quando fecero delle ricerche su
di me scoprirono che ero stata membro del partito
progressista. Quindi andò così. Mi sembra un’altra era,
come parlare di Hoover. Provai rancore per un po’, ma
comunque è passata. Credo che potrei insegnare di nuovo.
Forse non nell’Idaho, ma in altri stati come la California.
Adesso che hanno tanto bisogno di insegnanti. Hanno
distrutto il sistema scolastico con la loro caccia alle
streghe… Hanno reso gli insegnanti così timorosi che non
c’era da meravigliarsi che non venisse insegnato niente. Un
insegnante che parlava di educazione sessuale o controllo
delle nascite o guerra atomica veniva subito licenziato.
Come vedi non ce l’avevo proprio questo potere assoluto di
cui parlavi, – commentò, ricordando quello che lei stessa
aveva chiesto. – Che cosa provi per me adesso?
Si sedette accanto a lui e gli mise le mani sulle spalle. –
Voglio che tu mi dia una risposta sincera.
– Lo faccio sempre, – rispose lui con fervore.
– Non ti scaldare. Ma potresti sentirti in dovere di
essere gentile. Di non offendermi. Ricorda, è finita l’epoca
dell’insegnamento, quindi se vado a picco o sto a galla non
dipende da quant’ero brava come professoressa. Non mi
immagino più in quel ruolo, ormai da molti anni. Ma mi
sono sempre chiesta che effetto facessi. Naturalmente sono
portata a pensare, specialmente quando sono scoraggiata,
che non facessi alcun effetto. I ragazzini sono sottoposti a
così tanti stimoli caotici provenienti dall’esterno.
Bruce ascoltò il suo discorso, sapendo che stava
correndo ai ripari in previsione di quello che lui avrebbe
potuto dire.
– Ascolta, – continuò Susan, – te lo dico sinceramente,
non mi offenderò.
– Non è questo il punto, – disse lui. Si protese a baciarle
la bocca tesa e rigida, senza che lei ricambiasse il bacio. –
Per me è molto più importante che per te; non è a te che
sto pensando.
– Perché?
– Eri adulta. Eri formata –. Bruce non voleva rivelarle
che lei era stata uno dei principali fattori che avevano
condizionato la sua vita. – Supponi che io fossi stato il
peggior studente che tu avessi mai avuto: che differenza
faceva? Avevi molti altri studenti. E poi si trattava solo di
un anno! – Ciò lo feriva. Solo un anno per lei, meno di un
anno dal momento che non aveva insegnato per tutto il
periodo. Ma per lui, allora, si trattava di una realtà che si
estendeva in modo indefinito. Quale studente di prima
media può immaginare la fine della prima media? Penserà
che dovrà durare per sempre. – Trenta alunni e solo un
insegnante, – sottolineò Bruce.
– Racconta, – disse lei, ormai turbata.
Bruce spiegò riluttante: – Rappresentavi la più grande
paura della mia vita.
– Vuoi dire che ti ho reso infelice diverse volte.
Immagino che tu fossi triste dopo che ti portammo
nell’ufficio del signor Hillings, quel giorno che ti
sorprendemmo a spiare.
– No, – spiegò Bruce, – la cosa continuò. Non fu solo
quell’incidente. Voglio dire che avevo sempre paura di te.
Che cosa c’è di così complicato da capire? Vuoi dire che
non ci hai mai neanche pensato? Non ti ricordi il giorno in
cui Jack Koskoff si rifiutò di venire a scuola perché era
terrorizzato da te?
Susan annuì lentamente, cercando di capire.
– Ho avuto paura di te per anni.
Lei esclamò seccata: – Ho insegnato nella tua classe per
neanche un anno!
– Ma mi ricordavo di te.
– Non avevo nessuna autorità su di te, dopo che sei
uscito dalla Garret A. Hobart. E poi non ti ho neanche più
rivisto!
– Ti consegnavo a domicilio il tuo maledetto giornale, –
disse Bruce, tremando per il disagio, adesso che si rendeva
conto che lei non se ne ricordava.
– Davvero? – chiese Susan sorpresa.
– Quando abitavi in quell’enorme casa di pietra insieme
ad altre donne. Non ti ricordi di quando hai cercato di
pagarmi solo una volta ogni tre mesi, e io ti ho spiegato
pazientemente che forse non avrei consegnato giornali in
quel quartiere per tre mesi, e in quel caso avrei perso i
soldi, e il fattorino seguente avrebbe intascato il denaro
senza fare nulla?
– Mi ricordo vagamente. Eri tu? – Rise nervosamente. –
Lo sapevo che eri tu, a quel tempo?
Adesso che ci pensava, non era sicuro di averglielo mai
fatto presente. Lei lo salutava, allora, come se lo
conoscesse. Ma forse aveva semplicemente dato per
scontato di averlo visto prima, di averlo avuto come allievo,
senza identificarlo come uno in particolare. Senza aver
pensato al suo nome. Senza averlo riconosciuto veramente.
– Forse ho semplicemente pensato che tu sapessi che
ero io, – disse Bruce. – Ma mi salutavi tutte le volte che mi
vedevi. Mi chiedevi anche come stava mia madre.
– Ti ho mai chiamato Skip?
– No. Non che mi ricordi.
– Non ho vissuto là per molto tempo.
– Comunque, io mi ricordavo di te.
– Era naturale, – disse Susan sospirando.
– Mi rattrista molto scoprire che forse non mi avevi
riconosciuto, allora.
– Perché?
– Io volevo… – Cercò di spiegarglielo. – Entrare in casa.
Lei scoppiò a ridere. – Scusami. Come hai fatto a casa di
Peg… insomma, da una finestra?
– Voglio dire che volevo essere accolto e accettato;
camminavo lì intorno e vi vedevo tutte in casa che
prendevate il tè o qualcosa del genere –. Era inutile cercare
di farle capire l’angoscia che aveva provato nei suoi
confronti.
– Non era tè, – disse Susan. – Vuoi sapere che cosa
bevevamo noi quattro, di pomeriggio, intorno alle cinque,
specialmente d’estate quando faceva caldo? Mescolavamo
insieme vecchi fondi di liquore, e li bevevamo nelle tazze.
Così se qualcuno… – Puntò il dito su di lui. – Proprio per
quel motivo. Così se il ragazzo del giornale avesse guardato
dentro casa avrebbe detto: stanno bevendo il tè. Molto
inglese. Molto raffinato–. Continuò a ridere.
Neanche lui riuscì a trattenere un sorriso.
– Criminali, – continuò Susan. – Dovevamo fare
attenzione. Era il 1949, e avevo tutti quei problemi con il
consiglio scolastico di Montario. Saresti potuto entrare;
infatti entrasti. Mi ricordo. Un mese non avevo spiccioli a
portata di mano, e ti dissi di entrare. Era inverno. E tu
entrasti e ti sedesti in salotto mentre io giravo come una
dannata per tutta la casa a cercare i soldi. Non c’era
nessuno a casa tranne me. Alla fine trovai un dollaro e
mezzo in un cassetto.
Si ricordava di essere rimasto seduto da solo nel grande
salotto vuoto con il pianoforte e il camino, mentre di sopra,
da qualche parte, la signorina Reuben cercava
affannosamente i soldi. L’aveva sentita imprecare
esasperata, e si era sentito soltanto un seccatore. Sul
tavolino c’era un libro aperto… lei stava leggendo.
Interrotta dal ragazzo del giornale, alle sette e mezzo di
sera. Come posso liberarmi di lui? Maledizione, dove
saranno gli spiccioli? E, mentre stava seduto, desiderava
ardentemente farsi venire in mente qualche brillante
spunto di conversazione da sfoggiare quando lei sarebbe
riapparsa, magari un’osservazione sui volumi della libreria.
Li aveva esaminati febbrilmente, ma non ne conosceva
nessuno. Erano solo titoli. Li aveva passati in rassegna con
una trepidazione e un timore che lo avevano reso muto e
stupido, incapace di fare alcunché al ritorno di lei, se non
prendere il resto, borbottare grazie e buonanotte, e infilare
la porta.
– Mi ricordo che cosa indossavi, – disse lui, in tono
accusatorio.
– Davvero? Interessante, perché io non mi ricordo.
– Portavi dei calzoni neri.
– Pantaloni da torero. Sì. Di velluto nero.
– Non avevo mai visto niente di così eccitante.
– Non erano eccitanti. Li portavo sempre in giro per
casa. Anche quando facevo giardinaggio.
– Avrei voluto dire qualcosa di interessante.
– Perché non hai semplicemente chiesto se potevi
sederti e parlare? Mi avrebbe fatto piacere un po’ di
compagnia –. Poi aggiunse: – Quanti anni avevi allora?
– Quindici.
– Be’, avremmo potuto parlare dei vecchi tempi. Ma
scommetto che quello che volevi fare davvero era
strapparmi di dosso quegli stretti ed eccitanti pantaloni
neri da torero e saltarmi addosso. Non è quello che
qualunque ragazzino di quindici anni che recapita i giornali
desidererebbe fare? È proprio l’età in cui leggono quelle
riviste in carta patinata che si comprano negli empori.
Bruce pensò: mio Dio. E pensare che ora questa donna è
mia moglie.

Prima di andare a letto, quella notte, Susan riempì la


vasca e fece il bagno. Lui l’accompagnò in bagno e sedette
sulla cesta dei panni a guardarla; a lei non dispiaceva, e lui
sentiva un forte desiderio di farlo. Non cercò di spiegarlo o
giustificarlo.
Lo scroscio dell’acqua li trattenne dal parlare per un
po’. Aveva messo del bagnoschiuma nell’acqua, che
formava massicci strati di spuma rosa, mentre lei aspettava
che la vasca si riempisse. Alla fine l’acqua raggiunse un
livello soddisfacente. Bruce si meravigliò della quantità
d’acqua di cui lei aveva bisogno. Susan non la voleva
bollente; aprì con cautela l’acqua fredda rovinando buona
parte della schiuma. Bruce trovò tutta l’operazione un po’
maldestra, ma non commentò. Si tenne in disparte,
restando a guardare.
Entrata nella vasca, Susan si sdraiò appoggiando la
testa sul bordo di porcellana.
La schiuma la ricoprì.
– Come un film francese, – disse Bruce.
– Vedi, non ci avrei mai pensato, – commentò Susan. La
schiuma aveva cominciato a diradarsi. La mosse, e quella si
dileguò ancora più in fretta. – Non dura niente, – disse.
– Saresti dovuta entrare mentre la vasca si stava
riempiendo.
– Oh, davvero? Aspetto sempre. Ho paura di scottarmi.
– Non riesci a manovrare i rubinetti con le dita dei
piedi?
– Oh mio Dio, che idea morbosa. E bizzarra. Mi sentirei
una scimmia.
In tutta la sua vita di adulto, quando faceva il bagno,
Bruce aveva sempre manovrato i rubinetti con i piedi,
entrando nella vasca appena c’era abbastanza acqua da
coprirlo. Abbastanza da non toccare direttamente la fredda
porcellana.
– C’è differenza tra gli uomini e le donne.
– Se riguarda ciò che fai, tienitelo per te –. Aveva
raccolto i capelli in una cuffia di plastica, e anche quello
era diverso. Cominciò a strofinarsi la schiena con una
spazzola dal manico lungo, e a sfregarsi le unghie con una
spazzolina di nylon. Sorprendente, pensò Bruce. Così tante
differenze in un evento tanto semplice come fare il bagno.
Per mezz’ora rimase immersa nella vasca. Lui non c’era
mai stato più di dieci minuti. Appena l’acqua si raffreddava,
lui saltava subito fuori. Invece lei si metteva a sedere,
apriva l’acqua calda, e ne faceva scorrere abbastanza da
riscaldare la vasca.
– Adesso non hai paura di scottarti, – disse Bruce.
Lei lo guardò inespressiva.
Dopo avere fatto il bagno si asciugò e si avvolse in un
telo bianco grande quanto un tappeto. S’infilò delle
pantofole di stoffa che aveva portato da Città del Messico,
andò verso camera sua, dove aveva lasciato tutti i suoi
vestiti ordinatamente sistemati sul letto.
– Forse non mi vesto, – disse Susan. – Tanto siamo quasi
pronti per andare a dormire, non è vero? – Lo fece andare
in cucina a guardare l’ora; l’orologio della camera da letto
si era fermato. Erano le undici e mezzo, e lui glielo riferì.
– Come vuoi tu, – disse Bruce. Il viaggio da Reno non
l’aveva stancato molto. Abituato com’era a guidare, non gli
dispiacevano i viaggi aerei.
– Sono emotivamente esausta, – disse, avvolta nella sua
vestaglia bianca, ancora umida per il bagno. – Ma ho voglia
di fare qualcosa di folle –. Tirò da parte lo scuretto della
finestra. – È una notte buia. Ho voglia di correre nel
giardino senza niente addosso.
– Non è un granché, – disse Bruce. – Specialmente dopo
un bagno. E ti riprenderesti la tua influenza asiatica.
– Vero. Ma voglio fare qualcosa. C’è niente da
mangiare? Mangiamo qualcosa. Sai cucinare?
– No, – rispose Bruce.
– Detesto cucinare. Non sono per niente brava. Prepara
qualcosa da mangiare, – disse Susan in tono mellifluo, ma
con una sfumatura di fermezza.
Alla fine lui andò in cucina ed esaminò il cibo in scatola
e quello surgelato. – Che ne dici di un po’ di gamberetti
saltati nella birra? – C’era ancora una lattina di birra di
quelle che aveva portato lui il primo giorno.
– Stupendo, – disse Susan, sedendosi al tavolo di cucina
in vestaglia, con le mani incrociate in atteggiamento di
attesa. – Te li lascerò preparare; mi godrò il lusso di avere
qualcuno che fa le cose per me.
Così Bruce fece friggere i gamberetti nella pastella e li
servì per entrambi.
– Bruce, – disse lei mentre mangiavano, – francamente
non sono sicura di quale sia l’inquadramento legale del tuo
ruolo in ufficio. Era mio, voglio dire, la mia quota
apparteneva a me, prima che ci sposassimo.
– È ancora tua, – rispose lui, che aveva ben compreso la
questione e non voleva discuterne.
– Ma quando si ingrandirà acquisirai una quota del
capitale. Non sarà solo come se tu ci lavorassi come
impiegato. Diventerà una comproprietà. Dovrò farmi
spiegare la legge da Fancourt, per il tuo bene e per il mio.
Voglio che tu prenda una quota di capitale. Infatti, ho
pensato di fargli redigere il contratto in modo che tu risulti
comproprietario. Io farei così: ti darei i tremila dollari come
regalo, tutti in una volta, senza vincoli, e tu compreresti la
metà che apparteneva a Zoe, e acquisiresti i miei stessi
diritti.
– Diavolo, no, – disse Bruce irritato.
– Perché no?
– Non me lo sono meritato. Voglio solo far crescere il
negozio.
– Ma ciò ti rende un semplice impiegato, che guadagna
uno stipendio fisso ogni mese, per il proprio lavoro.
– Va bene. Sono il direttore dell’ufficio. Il responsabile –.
Responsabile, pensò, della mia vita e di me stesso. Non ci
sono davvero molte persone da amministrare. Ma era
convinto che Susan gli avrebbe permesso di decidere sugli
affari: aveva già dimostrato che voleva appoggiarsi a lui.
– Tu hai pieni poteri là dentro, – disse lei annuendo
lentamente. – Potrai firmare per il ritiro della merce, fare
gli ordini, staccare assegni, scrivere annunci pubblicitari
per il giornale, eccetera. Ma sai, è difficile per me
ammetterlo, tutti i nostri soldi devono arrivare da quel
posto. Non è come una volta; potevo vivere facilmente con i
guadagni di Walt quando l’ufficio era in perdita. Bisogna
mantenere due adulti e una bambina che fa le elementari.
Due persone e mezzo. Ciò significa che come minimo si
deve tirare su una somma netta che si aggira sui
cinquemila l’anno, non meno.
– Sarebbero solo quattrocento dollari al mese, – disse
Bruce.
– Non abbiamo mai guadagnato quattrocento netti al
mese. Per tutto il tempo in cui siamo state in attività. Sai,
tutt’a un tratto ho i piedi freddi –. Appoggiò la forchetta. –
Ho paura. Panico vero e proprio.
Bruce si sedette accanto a lei e la cinse tra le braccia,
ma Susan rimase seduta, più rigida che poteva. – Ricordati
che mi hai assunto perché mi consideravi un esperto, –
disse lui. Sembrava una cosa distante, la relazione d’affari
che avevano instaurato all’inizio, quando lei l’aveva voluto
perché lavorava come responsabile dell’ufficio acquisti di
una catena di grandi magazzini di discreto successo.
– Ma non hai mai diretto un posto, – disse Susan.
Sentirla parlare così lo fece raggelare. Susan era capace
di cambiare idea in un batter d’occhio, qualunque cosa
dicesse, anche se non era niente di importante. Era capace
di ritrattare tutto, costringendo entrambi a ricominciare
dopo essere giunti in fondo e quindi, forse, ad arrivare a
una conclusione completamente differente.
– L’avevamo stabilito, – disse lui. – È acqua passata. Hai
già preso una decisione, quindi non discuterò.
– Mi dispiace. Devi impedirmi di ritornare sui miei passi;
so che è uno dei miei difetti principali. Me lo fanno notare
tutti. Dico qualcosa, poi il giorno dopo mi dimentico di
averlo detto.
– So di poter gestire l’ufficio, – tagliò corto Bruce, –
quindi possiamo lasciare perdere l’argomento.
Sembrava davvero contrita.
Mentre lui metteva i piatti nel lavandino, Susan disse
dal tavolo: – Andiamo da qualche parte. In un locale o in un
altro posto. Mi sono abituata bene a Reno. Continuo a voler
correre fuori e divertirmi. Abbiamo qualcosa da
festeggiare.
– E Taffy?
– Se stiamo fuori solo per un po’ non si sveglierà, – disse
Susan. Dal momento che erano cose nuove per lui, Bruce
chiese: – E se si sveglia?
– Non si sveglierà.
– Ti credo sulla parola –. Si asciugò le mani. – Meglio
che ti metti qualcosa, comunque.
Susan scomparve nella camera da letto. Dopo qualche
esitazione decise di indossare un abito nero semplice. – Va
bene? – chiese.
Infilandosi una giacca sportiva, Bruce approvò, poi
sgattaiolarono fuori di casa verso la Mercury. Ben presto si
ritrovarono a parcheggiare nella ghiaia davanti a un
cocktail bar sulla statale. Mentre uscivano dall’auto
avviandosi lungo il porticato, Bruce disse: – Non sarebbe un
bel colpo se mi chiedessero i documenti?
– Vuoi dire che potrebbero pensare che sei troppo
giovane per ordinare alcolici?
– Già, – rispose lui nel più gentile dei modi. Ma voleva
prepararla in anticipo; a volte gli capitava ancora.
– Allora ce ne andremmo.
– No, mostrerei la mia carta d’identità. Non sono troppo
giovane –. Dovresti saperlo, pensò ironicamente.
La cameriera li servì senza fare commenti. Il posto
sembrava tranquillo e accogliente, e non c’era chiasso. A
dire il vero non c’era praticamente nessuno a parte loro. Si
sedettero a un tavolo appartato sul retro, lontano dal
jukebox. Subito dopo, comunque, entrarono un uomo e una
donna, entrambi visibilmente affaticati per il viaggio che
stavano compiendo. Si sedettero al bar, e mentre vuotavano
i loro bicchieri aprirono una cartina dell’Idaho e dello Utah
e cominciarono a discutere a voce alta e con toni polemici.
– Stanno facendo una sosta di viaggio, – disse Bruce.
– Sì, – rispose Susan indifferente.
La coppia, di mezza età e ben vestita, non riusciva a
decidere che strada prendere per attraversare l’Oregon.
C’erano tre strade in tutto. La cameriera e il barista non ne
avevano mai percorsa nessuna, quindi non potevano essere
d’aiuto.
– Andrò a parlargli un attimo, – disse Bruce. Si alzò e
andò al banco. – Ho fatto quella di mezzo, – disse alla
coppia, che smise di parlare e ascoltò con gratitudine. – La
statale 26. Non sono mai stato sulla 20, ma mi hanno detto
che attraversa un bel pezzo di deserto. La 26 passa per lo
più tra i boschi. È comoda. Pochissimo traffico, qualche
graziosa cittadina, e il panorama è splendido.
– Che cosa mi dice della 30?
– L’unica parte della 30 che conosco è quella che
attraversa l’Idaho, ed è schifosa. Ma tutte le strade
nell’Idaho sono schifose.
– Ce ne siamo accorti, – disse la donna. – Abbiamo
pensato di attraversare l’Idaho invece del Nevada questa
volta, e ce ne siamo pentiti. Farei sempre la 40 o la 50,
piuttosto che la 30. È una specie di mulattiera che segue le
fiancate dei canyon, ed è fatta veramente coi piedi. Siamo
esausti.
– Andrà meglio una volta arrivati nell’Oregon, – disse
Bruce.
L’uomo domandò: – Lei vive da queste parti?
Bruce stava per rispondere: «No, vivo a Reno». Ma non
era vero, adesso. – Vivo qui a Boise, – disse. – Mi sono
appena trasferito–. Aggiunse: – Mi sono appena sposato.
L’uomo e la donna avevano notato Susan, e adesso si
voltarono verso di lei per salutarla gentilmente con un
cenno e farle le congratulazioni.
La cameriera, che aveva sentito per caso, andò dal
barista, si consultò con lui, poi portò un vassoio con dei
bicchieri per Bruce e Susan. – Regalo di nozze, – disse il
barista, dall’alto sgabello su cui sedeva.
– Grazie, – disse Bruce. Si sentì in imbarazzo.
– Come si chiama sua moglie? – chiese la donna.
Lui glielo disse, e l’uomo ribatté che i loro nomi erano
Ralf e Lois McDevitt e che lui si occupava di esche per
trote. La sua azienda fabbricava esche per pescatori.
Bruce li invitò a unirsi a lui e Susan, e loro accettarono.
I quattro chiacchierarono e scherzarono per un po’, anche
se a Bruce sembrava che Susan non partecipasse molto;
rispondeva in modo gentile, ma parlava poco di sua
iniziativa e la sua voce rimaneva fievole, senza entusiasmo.
E non sembrava che seguisse la conversazione.
Ralf McDevitt gli chiese di cosa si occupava, e Bruce gli
disse che lui e Susan fornivano servizi di ciclostile e
battitura a macchina. Poi aggiunse che voleva cambiare
quello che attualmente era un ufficio di servizi in un
esercizio commerciale. Per molto tempo lui e McDevitt
discussero di commercio al dettaglio. Lui raccontò a
McDevitt dell’emporio di là dalla strada, e del grande
magazzino, e della macchina per scrivere portatile
giapponese di cui gli aveva parlato Milt Lumky. Una volta,
si accorse che Susan lo guardava imbronciata.
Evidentemente non approvava il fatto che lui parlasse così
apertamente d’affari, così riportò la conversazione sulla
guida e sulle varie autostrade. Quello rimase l’argomento
per almeno mezz’ora. Susan si estraniò dalla
conversazione.
– Sarà meglio che andiamo, – disse lui, decidendo che
Susan era stanca.
I McDevitt gli fecero di nuovo le congratulazioni,
diedero la mano a Bruce e gli lasciarono il loro indirizzo in
California, poi Bruce e Susan augurarono la buonanotte e
uscirono dal locale. Là, di fianco alla sua Mercury, era
parcheggiata la Buick inzaccherata dei McDevitt, con una
borraccia per l’acqua che penzolava dal paraurti
posteriore, migliaia di cimici morte e agonizzanti sul
cofano, sul parabrezza, sui paraurti e i parafanghi anteriori,
e, all’interno della macchina, pile di bagagli.
Si fece un’idea della strada. Stavano lì, ai margini della
strada che portava alla costa, attraversando uno stato dopo
l’altro. Chilometri e chilometri di strada… nell’oscurità
della notte se ne scorgevano solo pochi metri. Il resto
svaniva. Ma osservando la macchina dei McDevitt percepì
l’enormità delle distanze.
E sentiva anche l’odore caldo e rarefatto dell’olio che
aveva cominciato a colare giù dalla testata del motore.
Quell’auto era andata talmente lontano, e il motore si era
talmente scaldato dopo tante ore di marcia che l’olio
adesso impregnava tutto l’interno del motore.
C’erano voluti anni perché imparasse che cos’era
quell’odore. L’odore si presentava solo quando le ripetute
combustioni avevano consumato l’olio e l’avevano quasi
esaurito; si era formato del carbonio nelle valvole, e delle
incrostazioni sui pistoni; dei residui erano precipitati ed
erano stati espulsi dalla testata attraverso il tubo di
scarico; e la schifezza acquosa che rimaneva era stata
spinta oltre il sigillo dell’olio in fondo al collo d’oca, per
sfociare nell’alloggiamento della frizione in forma di getto
vaporizzato che gradualmente, ora dopo ora, si mescolava
con la polvere e la sporcizia della strada e i corpi delle
cimici e i frammenti di roccia e olio più vecchio proveniente
da macchine precedenti, e l’odore delle ruote, e l’odore
dell’intera automobile, la sua carrozzeria, la gomma, il
grasso e la stoffa, anche l’odore del pilota e del passeggero
che erano stati seduti sui sedili fin dall’alba, uscendo solo
per andare in bagno alle stazioni di servizio o per mangiare
nei ristoranti lungo la strada e per chiedere informazioni
nei bar e per vedere che cosa causava quello strano rumore
nelle curve a gomito. Per Bruce quell’odore aveva
un’oscura, segreta forza nauseante. Significava che un
motore era stato usato e abusato, troppo, e che lo si
sarebbe dovuto revisionare o almeno controllare, munire di
nuovi anelli, specialmente gli anelli per raschiare l’olio,
perché l’olio veniva spinto fuori sotto la pressione
accumulata nella testata, ma allo stesso tempo pensò a quel
motore che si consumava sui pendii di montagna, su per le
Sierre, e nelle lunghe distese di deserto che lo rendevano
sempre più caldo; il motore non si era rotto, si era
consumato facendo quello per cui era stato costruito. Aveva
fatto più di centotrentamila chilometri di strada.
Venticinque volte in lungo e in largo per il paese…
– Che diavolo ti ha preso per metterti a chiacchierare
con loro dei nostri affari privati? – chiese Susan brusca,
quando entrarono nella Mercury. – Quasi non credevo alle
mie orecchie.
– L’uomo si occupa di esche artificiali per trote. Non vive
neanche in città; sono di passaggio. Che male potrebbe
venirci? – Si era preparato alla sua accusa. Se l’aspettava.
– La prima regola degli affari è che devi tenerti per te i
tuoi affari, – disse lei, ancora in collera.
– Non ho fatto niente di male.
– È una questione di principio. Che cosa è stato, l’alcol?
È per quello che hai parlato a ruota libera? Stavo quasi per
alzarmi e andarmene; l’avrei fatto, ma mi sono trattenuta
per te.
Viaggiarono in silenzio per un po’.
– Lo farai di continuo? – chiese lei.
– Continuerò a fare ciò che ritengo sia la cosa migliore.
– Non vedo come… – si interruppe. – Comunque, è fatta.
Ma spero che tu abbia più buon senso in futuro.
– Che cosa c’è che non va? – chiese lui, sapendo che
c’era in ballo qualcosa di più profondo.
– Niente, – rispose Susan bruscamente, muovendosi in
modo spasmodico, incapace di trovare una posizione
comoda. – Ti sei davvero divertito a parlare di macchine e
guida, vero? Credevo che tu e lui non vi sareste più fermati.
È così tardi. Non ti rendi conto che Zoe non sarà là ad
aprirti domani? Dobbiamo andarci noi!
– Non te la prendere. Sei stanca. Calmati.
All’improvviso, lanciando un grido acuto, Susan sbottò: –
Senti, non darò i soldi a Zoe. Li ho ancora io; li terrò e terrò
lei come comproprietaria.
Bruce si sentì come se avesse perso il controllo di ogni
cosa intorno a sé; tutto quello che poteva fare era
continuare a guidare la macchina. Il volante che gli era
sempre stato tanto familiare gli sembrava ora strano tra le
mani, come se fosse vivo. Girava per conto suo, e Bruce lo
riafferrò.
– Non ce la faccio, – disse Susan con voce cantilenante e
affannata. – Non posso farlo. Mi dispiace. Mi dispiace
davvero. Se non le do i soldi è tutto inutile. Resterà, che lo
voglia o no. So che posso fare marcia indietro, finché non le
ho dato realmente il denaro. L’avevo chiesto a Fancourt già
in origine. Ma questo non ti riguarda –. Si voltò verso di lui.
Nelle tenebre i suoi occhi brillavano a intermittenza. – Tu
dirigerai il posto comunque, so che Zoe non avrà niente da
ridire.
Bruce non riusciva a pensare a niente da dire. Guidò.
– Non ci darebbe da vivere, – disse Susan. – Non
possiamo rischiare, non vedi, dovrebbe cominciare a
fruttarci fin da subito, perché io non ho soldi. E non
saremmo mai in grado di approvvigionarci della merce da
vendere. Tu hai dei soldi?
– No.
– Puoi ottenerli?
– No.
– Non possiamo farcela, – disse Susan, con un tono
perentorio così triste e amareggiato che lui provò più pena
per lei che per ogni altra cosa.
– Se Zoe rimarrà, puoi stare sicura che l’attività non ci
darà da sopravvivere, – disse Bruce. – Non è vero?
– Ma avremmo i tremila dollari. È questo che continua a
tormentarmi. Una volta che glieli avrò dati, saranno andati
per sempre. Capisci? Terremo i tremila dollari; avremo
quelli, e allora il negozio non dovrà necessariamente
mantenerci.
– Almeno per un po’.
Susan disse, inopinatamente: – Bruce, vendiamo il
negozio. Perché no? Può rilevarlo Zoe. Ci offriremo di
venderglielo, per qualsiasi cifra vorrà pagare. Forse per
una ratealizzazione mensile. Quanto guadagnavi in quel
grande magazzino?
Imbarazzato, Bruce rispose: – Trecento.
– Sarebbe sufficiente, ma con i tremila dollari potremmo
cavarcela finché tu guadagnerai di più, e io potrei battere a
macchina dei manoscritti di sera. Puoi riottenere il tuo
lavoro?
Per ragioni a lui sconosciute, le disse la verità: – Sì.
– Facciamolo–. Aveva l’urgenza di un bambino. –
Trasferiamoci a Reno. Ho sempre pensato che fosse
stupendo laggiù. L’aria è molto più sana, non è vero? È per
quello che ti sei trasferito; mi ricordo che me l’avevi detto.
Ho dimenticato quando. È un bel posto dove fare crescere
un figlio; è così pulito e moderno. Molto cosmopolita.
– È vero, – ammise Bruce.
– Che ne diresti? – Seduta accanto a Bruce, desiderava
ardentemente le dicesse che era una grande idea. Il suo
atteggiamento, la sua tensione lo supplicavano di
acconsentire.
– Cambi idea troppo spesso, – disse lui.
– Bruce, devo essere sicura di poter contare su un
mezzo di sussistenza. So che hai talento, e che sai come
comprare e rivendere, ma è un azzardo eccessivo. Questo
non ha niente a che fare con te; si tratta di quanto capitale
possiamo rimediare, e dell’attività in sé. È un cattivo affare.
Lo so. Io me ne occupo da diversi anni; tu no.
– Ho intenzione di provare.
– Ma questo significa comprare la quota di Zoe e cedere
i tremila dollari –. Il bisogno di conservare il contante era il
fattore che più condizionava i suoi pensieri. Evidentemente
adesso che era arrivato il momento di darlo via, non ci
riusciva proprio.
– Compra la sua quota, – disse Bruce, – come volevi fare.
– No, – rispose lei, ma la sua voce ondeggiava.
Bruce ripeté: – Compra la sua quota. Faremo un
tentativo. Se non riesco a fare in modo di mantenerci,
troverò un lavoro e tu potrai anche cedere l’attività per il
prezzo che riuscirai a ottenere, o potrai gestirlo da sola.
Vedremo quando sarà il momento.
– Pensi sinceramente che potresti guadagnarci? Adesso?
– Credo di sì, – rispose lui, abbastanza deciso da
colpirla; le fece capire chiaramente che non aveva dubbi.
– E se ti sbagliassi?
– Non moriremo. Non faremo la fame. La cosa peggiore
che può capitare è che tu perda la tua quota di capitale. Ma
appena trovassi un lavoro saremmo autosufficienti.
Saremmo come qualunque coppia sposata; potremmo
facilmente mantenere noi e Taffy con quello che
guadagnerei io. E abbiamo la casa. La maggior parte della
gente non ce l’ha. Anche se non rende. Non essere così
timorosa. Nessuno muore di fame in questo paese.
– Vorrei avere la tua fiducia.
– Dalle i soldi, – ripeté Bruce.
– Io… ci penserò.
– No. Non pensarci. Daglieli e basta. Possiamo andare
da lei adesso e darglieli subito. Svegliala e sbattiglieli in
faccia. Dove abita?
– Glieli darò domani, – disse Susan, soccombendo alla
sicurezza di Bruce.

Quella notte, a letto, si mosse finché non fu sotto di lui,


afferrandolo con le ginocchia e le braccia, con ogni parte
del suo corpo esile e levigato. Voleva addormentarsi in quel
modo, ma Bruce non era capace di dormire con lei sotto di
sé; era una superficie troppo dura, troppo irregolare. Allora
Susan decise di vedere se poteva distendersi su di lui. Si
sdraiò con la testa sul suo petto, le braccia intorno al collo,
le gambe dentro le sue. Per molto tempo le ossa del suo
pube premettero contro di lui, ma alla fine si rilassò e si
assopì. Intorno al suo collo le braccia si abbandonarono.
Aveva girato la testa da una parte, e il suo respiro soffiava
sull’ascella di Bruce; lo solleticava e lui non riusciva ancora
a dormire.
Comunque, pensò Bruce, lei dorme.
La cosa seguente di cui si rese conto fu il suono della
sveglia, e Susan stava scivolando via da lui per alzarsi dal
letto. Era riuscita a stare su di lui tutta la notte. Quando
tirò giù le coperte e si alzò dal letto, Bruce si ritrovò tutto
indolenzito e dolorante. Sulla sua gamba si era formato un
livido scuro. Causato dalla punta ossuta del ginocchio di
Susan.
8

Quel mattino, in ufficio, si sedette con Susan e fece


pressione finché lei non telefonò a Jack Fancourt per dirgli
di venire. Poi convocò anche Zoe de Lima. Quando li ebbe
tutti e tre insieme li persuase uno dopo l’altro, e alla fine
Fancourt diede a Susan il via libera. Col volto irrigidito
dalla paura, compilò un assegno di tremila dollari, lo firmò
e lo passò a Zoe. L’atmosfera della stanza era funerea.
Appena ricevuto l’assegno, Zoe annuì freddamente e se
ne andò.
Fancourt disse qualcosa, diede una rapida occhiata a
vari moduli legali e poi se ne andò a sua volta.
Seduta alla scrivania, Susan disse: – Mi sento come se
stesse per succedere un’orribile disgrazia. Non mi voglio
neanche alzare. Voglio stare seduta.
Lui sbloccò la serratura della porta principale, in modo
che potessero cominciare a lavorare.
– Una cerimonia, – disse lui.
– Dio mio. Be’, è fatta.
Circa un’ora dopo squillò il telefono. Quando rispose,
Bruce si ritrovò a parlare con Peg Googer.
– Ho sentito che ti sei sposato, – disse lei.
– È esatto, – rispose Bruce.
In sottofondo, si udiva il suono attutito di una risata
idiota; non c’era dubbio che stesse chiamando dal suo
studio legale e che le altre voci fossero quelle delle altre
segretarie.
– Non ci posso credere, – esclamò lei. – Allora è vero.
Be’, congratulazioni. Dovrò mandarvi un regalo di nozze.
Il tono della sua voce non gli piaceva. – Non c’è bisogno,
– le disse.
– È proprio incredibile, l’avevi appena conosciuta.
Quella notte. Come nelle favole –. Fece una pausa per
trattenere un risolino; all’altro capo del telefono si sentiva
una gran confusione. Lui sopportò, non avendo altra scelta.
– Sentite un po’, – disse Peg, – voi due dovete venirci a
trovare. Organizzeremo una festa in vostro onore.
– D’accordo, ci vediamo, – disse lui.
Ancora i risolini soffocati. Lui salutò e riagganciò,
troncando la comunicazione nel bel mezzo di una pausa.
Che deficiente, disse fra sé e sé. Quella telefonata lo
mise di pessimo umore, ma si sforzò di lasciar perdere. È
una cosa che non sono tenuto a tollerare, decise. Le
allusioni di segretarie ignoranti con i loro pensieri volgari e
maliziosi e la testa vuota. Il loro chiacchiericcio demente e
la stupidità per far passare la giornata di lavoro.
Che differenza tra loro e Susan… un contrasto di cui era
pienamente consapevole fin da quella prima notte. Le
commesse chiacchierone e infantili, e poi Susan, composta
e seria, fin troppo severa nel suo maglione nero. Ma una
vera donna. Lontanissima da tutte loro. A modo suo
distante, riflessiva, ma una che lui poteva rispettare. Una
donna degna d’attenzione. E dell’amore più profondo.
Ora, in quel momento, Susan lavorava a un manoscritto
con la migliore delle numerose macchine per scrivere
elettriche; stava ciclostilando qualcosa.
È ora di rimettersi al lavoro, si disse Bruce.
– Te la cavi da sola per un po’? Voglio uscire, – le disse.
– Sì, – rispose lei, con un sorriso forzato.
Raggiunse la Mercury attraversando il marciapiede e
partì per andare a un paio di appuntamenti.
Non molto tempo dopo fu di ritorno, con la macchina
piena di portatili Underwood e Royal e una gran quantità di
materiale da esposizione, comprese piattaforme girevoli
azionate da un motorino elettrico.
– Ciò che voglio fare, – disse a Susan, – è trasformare
questo ufficio in un posto dove una persona possa
acquistare una macchina per scrivere. Una macchina per
scrivere nuova –. Cominciò a trascinare la roba dentro al
negozio.
Dopodiché tolse le macchine di seconda mano dalla
vetrina, che lavò con detersivo e acqua calda e asciugò con
degli stracci, poi tirò fuori barattoli di vernice e smalto a
presa rapida e cominciò a dipingere il legno di un colore
pastello chiaro.
– Domattina preparerò la vetrina, – disse a Susan.
Telefonò a un fornitore di attrezzature per la
verniciatura e noleggiò uno spruzzatore, un apparecchio
elettrico per la rimozione della vernice vecchia, una scala,
e in più acquistò della vernice. Caricò tutto il materiale
personalmente dentro la macchina. Dopo aver indossato
abiti smessi, cominciò a scrostare la vernice precedente dal
soffitto e dalle pareti. Fiocchi di pittura secca cadevano sul
pavimento, sulle scrivanie e sulle macchine di seconda
mano. Non importava, dal momento che voleva
rimodernare l’ambiente con i nuovi materiali di copertura
in plastica.
– Hai bisogno d’aiuto? – chiese Susan.
– No. Continua a ciclostilare.
– Grazie, – disse lei, ritirandosi in un angolo fuori vista.
– Voglio procurarmi un’insegna.
– Tutte quelle portatili le hai comperate? – chiese lei
nervosamente.
– No, sono in conto vendita. Non mi aspetto di darne via
molte. Voglio solo far vedere alla gente che vendiamo
macchine per scrivere.
Durante una pausa, con qualche telefonata si fece
un’idea del costo delle insegne al neon. Alla fine decise di
aspettare finché non si fosse accaparrato una o due
esclusive; eventualmente avrebbe potuto dividere il costo
con un produttore. E in quel modo avrebbe potuto avere
un’insegna più grande.
Dopo la chiusura, alle sei, lui e Susan si misero a
verniciare. Andò a casa a prendere Taffy, che rimase lì in
giro mentre loro due lavoravano. Staccarono alle otto per la
cena, e poi ricominciarono. Susan acquistava gradualmente
vigore.
– È buffo, – gli disse, con addosso un vecchio grembiule
strappato che era appartenuto a Zoe. La vernice le
imbrattava il viso e, anche se aveva raccolto i capelli in un
tovagliolo, le era sgocciolata sulle braccia e sul collo. – È un
lavoro molto creativo.
– Darà a questo posto un aspetto più nuovo, – commentò
lui.
Con un pennellino di setole di cammello, Taffy dava i
ritocchi. A scuola aveva fatto qualche esperienza in
materia. L’idea di stare alzata fino a tardi le piaceva. Si
lasciarono aiutare da lei fino alle dieci, poi Bruce portò
Taffy e Susan a casa e ritornò, da solo, per proseguire.
Continuò fino alle due e mezzo.
Fa una bella differenza, disse fra sé e sé, osservando il
lavoro appena completato.
Il mattino seguente arrivò presto e cominciò con la
vetrina. Per le nove, quando arrivò Susan, aveva finito.
– Che effetto fa?
– Davvero stupendo, – disse lei, in piedi con il soprabito
addosso, mentre si guardava attorno incantata e con gli
occhi spalancati.
Finito l’allestimento della vetrina, si rimise in marcia
con la Mercury per andare a comprare il materiale per il
bancone. Prese un rivestimento color pino in materiale
sintetico, confezionato in rotoli da incollare, una specie di
impiallacciatura. Poi esaminò attentamente i registratori di
cassa. Troppo cari. Si accontentò di prendere una macchina
per le ricevute che stampava in tripla copia. Avrebbero
continuato a tenere i soldi nel cassettino del contante.
Per tutto il pomeriggio incollò e inchiodò i rivestimenti.
Quando ebbe finito, lui e Susan avevano davanti un nuovo
bancone.
– Non ci posso credere, – disse lei.
– Queste nuove impiallacciature in finto legno sono una
gran cosa, – osservò lui.
Poi si rese conto di quanto sarebbe costato incollare i
rivestimenti su tutte le pareti interne. Troppo dispendioso.
Allora tirò fuori i pennelli per la vernice e riprese la
tinteggiatura delle pareti.
L’ultima operazione del giorno fu l’acquisto e la
sistemazione di un faretto per illuminare la vetrina durante
la notte. Era puntato su una macchina portatile color oro. Il
faretto e la piattaforma girevole rimanevano accesi tutta la
notte.
– Tenerlo acceso costa, ma funziona come una luce
notturna. Spande luce nel negozio, così se c’è un ladro
all’interno la polizia può vederlo, – disse a Susan.
I nuovi colori con cui aveva dipinto le pareti e il soffitto
rendevano il negozio molto più luminoso e davano
l’impressione che fosse più grande. Sembrava che le pareti
e il soffitto si fossero distanziati.
– Abbiamo guadagnato spazio, – disse a Susan.
Mentre andavano alla macchina Bruce le disse che il
giorno dopo voleva mettere del linoleum sul pavimento.
Sapeva dove prenderli all’ingrosso.
– Questo, e tutto il resto, non ci costerà troppo? – chiese
Susan.
– No.
– Che altro intendi fare?
– Voglio fare delle modifiche sulla facciata. Ma per
questo ci vorranno dei carpentieri professionisti. Lascerò
stare finché non potremo permettercelo. Magari più avanti
in questo stesso anno. E butterò via tutti quei vecchi ruderi.
Le macchine usate. Quei maledetti modelli Underwood 5
che stai cercando di vendere a 15 dollari. Non meritano lo
spazio che occupano. Devi capire il valore dello spazio. In
un negozio questo piccolo spazio vale molto. Puoi rivestire
e riverniciare e comprare nuove scansie, ma non puoi
creare spazio Questo gli ricordava che voleva cercare
qualche nuovo lampadario, magari al neon.
– Spero che non andremo in fallimento solo per
comprare le vernici, – commentò Susan.
– Falliremo quando dovremo comprare le cose da
vendere, – replicò lui. Quello era il grosso problema.
Qualcosa da vendere.
Maledizione, pensò, devo trovare qualcosa da vendere!

Prese con sé i libri contabili del negozio – ora lo


considerava un negozio, non un ufficio – e si presentò alla
Banca Centrale dell’Idaho, filiale di Boise, per informarsi su
un fido.
Dopo varie ore di discussione la banca lo informò che,
tutto considerato, potevano eventualmente concedere al
negozio un prestito a lungo termine di duemila dollari. Ci
sarebbe voluta almeno una settimana per l’approvazione.
Ma molto probabilmente alla fine poteva andare in porto.
Lasciò la banca di buon umore.
Quella sera Bruce si procurò una babysitter per Taffy.
Poi imboccò in auto con Susan una strada provinciale che li
condusse alla fattoria in cui vivevano i suoi genitori. I
sobbalzi dovuti al fondo sconnesso causarono un po’ di mal
d’auto a Susan. Quando alla fine parcheggiarono, lei disse:
– Possiamo rimanere seduti per un po’? Prima di entrare?
– Vorrei entrare prima io, da solo–. Non aveva detto ai
genitori del suo matrimonio.
– Per me va bene, – disse lei. Si era messa i guanti
bianchi e un cappello; era molto elegante e molto truccata,
e aveva la stessa aria teatrale da cui lui era rimasto così
colpito quella prima notte. Ma le sue guance erano scavate
e attorno agli occhi si erano formate delle rughe. Non c’era
nessun dubbio che aveva bisogno di un po’ di riposo.
– Ci sono alcune cose che voglio discutere con loro,
prima, – disse lui. La baciò, uscì dalla macchina e percorse
il vialetto di ghiaia fino al cancello.
Eccola di nuovo lì, la grande, grigia, vecchia casa
colonica, con il suolo arido tutto attorno, le erbacce e i
gerani che spuntavano dalla terra bruna. Niente prato.
Niente piante, salvo l’edera che cresceva sulla staccionata
e sul cancello. Sul porticato della facciata una fila di vasi da
fiori mostravano pallidi segnali di crescita.
Vide una sedia di vimini e una fioriera con sopra una
pila di «Reader’s Digests».
Pensa che sei nato in un edificio fatiscente come questo,
si disse, mentre apriva il cancello.
Fuori, sul retro, un cane abbaiava con grande foga. Vide
una luce gialla dietro gli scuretti del soggiorno. E sentì il
rumore di un televisore. Parcheggiata vicino al garage
diroccato c’era la vecchia carcassa di una Dodge del 1930,
inutile e arrugginita come sempre; da bambino si divertiva
molto dentro quell’auto.
Abitavo qui quando andavo alla scuola media Garret A.
Hobart.
Le finestre del seminterrato avevano delle ragnatele
dietro ai vetri; una aveva un buco, che era stato tappato
con un vecchio straccio. Così suo padre non dormiva più lì
di sotto, adesso che tanto lui quanto Frank se n’erano
andati. Senza dubbio dormiva di sopra in una delle loro
camere da letto.
Suo padre andava a letto di giorno, e si alzava alle dieci
di sera, sollevando la botola e sbucando fuori per farsi la
barba, mangiare e andare al lavoro. Durante il giorno
dormiva sotto i loro piedi, sotto le assi di legno. Insieme
alle conserve di albicocche e la legna da ardere e i fili
elettrici. La mattina, tornato dal lavoro, si levava di dosso
la polvere bianca che lo ricopriva; il suo lavoro alla
Panetteria Bianca Neve lo faceva stare immerso nella farina
fino al gomito. Poi, nel seminterrato, si ricopriva di un’altra
polvere bianca: polvere di gesso, a causa dei suoi continui
tentativi di riorganizzare la disposizione degli ambienti.
Voleva dividere il seminterrato in diverse stanze, per creare
un appartamento separato con i servizi e poi affittarlo. La
guerra aveva interrotto il suo rifornimento di materiali.
Davanti alla casa, sul vialetto, rotoli di cavi e mucchi di assi
si erano ricoperti di escrementi di uccelli, ruggine e
marciume. I sacchi di cemento si erano bagnati e
deteriorati, permettendo alle erbacce di germogliare
all’interno. Nel seminterrato, prima di ritirarsi alle due del
pomeriggio, suo padre segava le assi, riempiendosi i
polmoni di segatura. Inspirava pazientemente polvere di
legno, farina, gesso e, d’estate, polline dei campi.
Bruce, nel sentiero, notò nel buio del crepuscolo che gli
albicocchi vicino alla porta sul retro erano morti. Grazie a
Dio, pensò. Nessuno aveva mai apprezzato le albicocche; le
migliaia di vasi di frutta sciroppata nel seminterrato non
sarebbero mai stati aperti. Da bambino aveva trascinato
fuori i vasi e li aveva presi a sassate, facendoli esplodere in
cascate di succo appiccicoso e vetro e attirando i calabroni.
D’estate le pozze di sciroppo d’albicocca erano diventate
una palude ronzante, che brulicava dei dorsi gialli dei
calabroni. Nessuno aveva osato avvicinarvisi.
Su per i gradini, adesso, pronto a bussare alla porta
principale. Sotto i suoi piedi le assi del porticato si
piegavano; l’intera veranda si inclinò. Una volta, anni
prima, la casa e il porticato erano stati dipinti di un grigio
da nave da guerra. Adesso la casa era scheggiata e
scrostata al punto che si vedevano le assi nude, strisce di
marroncino giallognolo che spuntavano sotto al grigio.
Alzò il battente di metallo e lo lasciò ricadere
rumorosamente.
La porta si aprì e lì c’era Noel Stevens, con il viso non
ancora rasato, le bretelle e la camicia con le maniche
arrotolate. Fece entrare Bruce senza parlare. Dopodiché,
con movimenti pesanti e rallentati, alzò la mano e in
silenzio chiamò con un cenno la madre di Bruce, che era in
cucina. A Bruce, il padre era sempre sembrato un operaio
di inizio secolo, il tipico muratore idraulico svedese,
massiccio, onesto e non troppo sveglio, che era emigrato
direttamente in Minnesota senza aver mai imparato la
lingua né visitato le città. Il viso dell’uomo era largo,
luminoso tranne che per le guance e il mento, con un naso
carnoso e lungo dalla punta schiacciata. Aveva gli occhi
incavati, e la pelle era piena di chiazze sui toni del marrone
che sembravano macchie di fegato.
– Be’, accidenti… – disse suo padre. Gli tese la sua mano
rossastra e priva di peli, e Bruce la strinse.
Dalla cucina apparve sua madre, il viso minuscolo,
abbronzato e vispo, gli occhi vivaci e l’aria da donna di
chiesa. Qui, in casa sua, lei indossava abiti semplici e puliti
che lui associava ai contadini, la gente delle piccole città
dell’Idaho. Gli sorrise, e i suoi denti finti, grigiastri e
traslucidi, del colore di un pettine di celluloide, furono
colpiti dalla luce e brillarono.
– Ciao, – disse Bruce, con la mano ancora stretta al
palmo e alle dita piatte, umide e flaccide del padre. – Come
state?
– Bene, – disse suo padre, lasciandogli infine la mano e
rimettendosi a sedere nella sua poltrona capiente. Le molle
cigolarono sotto il suo peso.
Sua madre lo strinse e lo baciò sulla guancia; lo fece
così in fretta che si ritirò prima che lui potesse muoversi.
– Che bello vederti! – esclamò. – Com’è Reno?
– Non vivo più a Reno, – rispose. Si mise a sedere, e sua
madre fece lo stesso. Lo guardarono entrambi con aria di
grande attesa, lo sguardo di suo padre era ottuso, quello di
sua madre allegro e gentile, capace di cogliere ogni suo
gesto, ogni sua parola. – Vivo a Boise. Mi sono sposato.
– Oh! – esclamò sua madre, sussultando per lo stupore.
Suo padre rimase tranquillo.
– Proprio l’altro giorno, – aggiunse.
Suo padre continuò a non replicare.
– Non ci credo, – piagnucolò la madre.
Suo padre le disse: – Non te lo direbbe se non fosse
vero.
– No, non ci credo. Chi è lei? – chiese, rivolgendosi
prima all’una poi all’altro.
– Non lo so, – disse suo padre, dandole dei colpetti sul
ginocchio. – Mettiti a sedere Poi disse a Bruce: – È quella
che è in macchina?
– È qui fuori? – esclamò la madre, saltando in piedi e
correndo alla finestra. – Come sapevi che era là fuori? –
chiese al padre di Bruce.
L’uomo rispose col suo tono flemmatico: – Ho sentito la
macchina fermarsi, così ho guardato fuori e ho visto chi si
stava fermando.
– Falla entrare, – disse la madre, andando verso la porta.
– Come si chiama?
– Non andare a prenderla, – ordinò il padre.
– Sì, – replicò la madre. Aprendo la porta si avviò verso
il porticato.
– Vieni qui e siediti! – disse il padre a voce alta.
La madre tornò, confusa e col viso rosso. – Perché l’hai
lasciata in macchina? – chiese a Bruce.
– Te lo dirà, – disse il padre.
– Ha il mal d’auto, – spiegò Bruce.
– Dille di venire dentro a sdraiarsi, – disse la madre.
– Prima voglio parlare con voi. Non la porterò qui finché
non giurerete sulla Bibbia di non dirle niente di sgarbato.
– Nessuno dirà niente di sgarbato, – assicurò il padre.
– Non la porterò qui finché voi due non vi deciderete a
fare quello che dovete fare e non quello che vi sentite di
fare. Se le dite qualcosa di sgarbato, me ne andrò e non ci
rivedrete mai più. Ci ho pensato su e mi dispiace ma non
voglio che la mettiate a disagio.
Il padre disse: – Ha ragione.
– Sì, – convenne la madre, – possiamo vederla?
– È più vecchia di me.
– Quanto più vecchia? – chiese la madre.
– Non ha importanza, – disse il padre. – Se Bruce l’ha
sposata è meglio che tu ti preoccupi di questo. Non sta a te
decidere.
– Dieci anni, – disse Bruce. – Ha trentaquattro anni.
Sua madre cominciò a piangere.
– Dieci anni sono molti, – disse il padre, in tono serio.
– Adesso ve l’ho detto.
Sedettero entrambi incupiti, cercando di controllare le
proprie emozioni.
– Che cosa volevi discutere con noi prima? – chiese il
padre.
Bruce disse: – Volevo sapere in che condizioni
finanziarie siete in questo periodo. Sentite. Avete mandato
Frank all’università ma io ho dovuto lavorare subito dopo la
scuola superiore; a dire il vero già lavoravo durante la
scuola. Che ne direste di un regalo di nozze?
– Ti faremo un regalo di nozze, – disse suo padre.
– Non intendo una banconota da dieci dollari. Abbiamo
bisogno di migliaia di dollari, sei o settemila.
Suo padre annuì, come se gli sembrasse assolutamente
naturale.
– Volevo chiedervelo prima di portarla qui, – spiegò
Bruce. – È per me, quindi non ha niente a che fare con lei.
Così posso avviarmi negli affari –. Gli parlò un po’ del
negozio. Ascoltarono entrambi, ma dubitava che capissero.
Erano assolutamente paralizzati. Assolutamente colti alla
sprovvista. – Non posso girarci tanto intorno. Non ho tempo
di fare troppe smancerie: ne abbiamo bisogno subito. Li
voglio ora, prima di portarla qui –. La sua voce si era alzata
al punto che gridava; loro sedevano sprofondati nelle loro
sedie, senza interromperlo. Era riuscito a impaurirli, e
questo era l’unico modo in cui poteva sperare di ottenere il
denaro. Parlava e parlava e loro ascoltavano; spiegò loro
l’intera faccenda poi li aggredì con questa pretesa: – Avete
mandato Frank all’università: è ora che facciate qualcosa
per me, e questo è il momento in cui ne ho davvero
bisogno–. Ignorò il fatto che Frank avesse vinto una borsa
di studio dopo l’altra. – Che cosa dite? – chiese.
Suo padre disse: – Abbiamo sempre avuto intenzione di
aiutarti una volta che avessi deciso la tua strada –. Parlava
in tono pacato.
– Bene, – disse Bruce, felicissimo: li aveva battuti. Con il
semplice peso della sua voce gli aveva fatto accettare
quello che diceva; era andato oltre la loro naturale
parsimonia e il senso comune. – Ora, che cosa potete fare
per me? Sentite, voglio portarla dentro; sta prendendo
freddo là fuori e le avevo detto che sarei tornato dopo un
paio di minuti.
Balzò in piedi e si mise a camminare ossessivamente,
trasferendo a forza la sua impazienza su di loro.
I suoi genitori vacillavano nel desiderio di sistemare le
cose. Suo padre, che sedeva nella sala da pranzo, si alzò e
cominciò a cercare lentamente il suo libretto degli assegni;
sua madre corse di sopra per prendere una penna
stilografica. Un attimo più tardi ebbe un assegno di suo
padre di mille dollari. Gli dissero che avrebbero voluto
potergliene dare di più. Sua madre, piangendo di nuovo,
voleva solo vedere Susan; non le importava dei soldi. Suo
padre borbottò in tono di scusa che forse più avanti,
quando avrebbe avuto la possibilità di dare un’occhiata alle
obbligazioni che aveva in città nel suo deposito bancario,
avrebbe potuto aggiungere qualcosa alla somma.
– Vado a prenderla, – disse Bruce, come se adesso si
sentisse liberato. Uscì a grandi passi sul porticato; i suoi
genitori lo accompagnarono fino ai gradini e si fermarono
timorosi quando aprì lo sportello della macchina.
Susan disse: – Mi sento meglio. Quelli sono i tuoi
genitori? – Li poteva vedere sul porticato. – Vorrei non
dover entrare, ma credo che mi toccherà –. Facendo
attenzione a tenere giù la gonna, si alzò dal sedile. Lui le
tenne lo sportello aperto e lei gli si mise accanto, con in
mano la borsetta e i guanti, preparandosi.
– Non staremo molto, – le disse mentre salivano insieme
i gradini del porticato.
– Le assi si piegano, – disse Susan.
– È sempre stato così. Non crollerà –. Le prese il
braccio. La luce del porticato era stata accesa, e nel
riverbero irregolare il viso di Susan assunse un’impronta
screziata. I genitori di Bruce guardavano in giù verso di
loro in uno stato vicino all’isteria. Bruce non aveva mai
visto nessuno così impressionato dalla vista di qualcun
altro. Appena Susan raggiunse il porticato, muovendosi nel
modo più lento e più armonioso possibile, sua madre la
squadrò e la spinse in casa. Le due donne sparirono per un
po’, ma le loro voci, provenienti da diverse parti della casa,
rimasero udibili.
Suo padre, accompagnandolo in casa, disse: – Nessuno
immaginerebbe mai che ha dieci anni più di te.
Non era vero, ma pensò che fosse detto a fin di bene. –
Si chiama Susan, – disse. Poi, per la prima volta, gli venne
in mente che forse uno o entrambi i suoi genitori potevano
averla conosciuta quando insegnava; c’erano stati degli
incontri di insegnanti e genitori. Vorrei averci pensato
prima, si disse, perché adesso è troppo tardi. – Non
possiamo stare molto, – disse.
– Come hai fatto a conoscerla? – chiese suo padre.
Bruce gli fece uno scarno resoconto.
– Allora è di Boise, – disse suo padre, compiaciuto. –
Non di Reno.
Se scoprono che è stata la mia insegnante in prima
media, pensò, probabilmente rivorranno indietro i mille
dollari. A quel pensiero, rise.
In cucina sua madre stava mostrando a Susan un
servizio di strani piatti decorati che le aveva spedito
un’amica dall’Europa, e Susan si mostrava sorpresa per la
loro bellezza. Bruce cominciò a sentirsi un po’ più rilassato.
Sulla strada del ritorno, si fermò nel centro di Boise a
un emporio, dicendo a Susan che voleva prendere le
sigarette. In realtà comprò una confezione di buste e alcuni
francobolli da tre centesimi. Mise l’assegno in una busta e
la indirizzò a sé e a Susan, vi appiccicò un francobollo e lo
diede al commesso perché l’imbucasse.
– Che reazione hanno avuto i tuoi genitori nel vedermi?
– chiese Susan diverse volte durante il viaggio.
– Vedremo, – rispose Bruce. Non le aveva detto
dell’assegno.
– Che cosa intendi dire con vedremo?
– Se gli piaci, lo dimostreranno in modo concreto. Con
persone del genere, gente di campagna all’antica, non c’è
niente da interpretare. In qualche modo reagiranno; lo
saprai.
– Me lo chiedevo, perché non l’ho proprio capito. Tua
madre è stata dolce, ma sembrava turbata, e lui era gentile,
ma non riuscivo a capire quanto fossero sinceri.
Il giorno seguente la busta con l’assegno di suo padre
arrivò al negozio. Lui l’aprì e la mostrò a Susan.
– Vedi? – disse. – Approvano.
Paralizzata, Susan disse: – Bruce, ci salva la vita.
Guarda cosa puoi comprare a prezzo di ingrosso con quelli
–. Le fece davvero cambiare umore. Per il resto della
giornata fece progetti e piani e considerò un numero
infinito di soluzioni future. – Che brave persone sono, –
disse a Bruce. – Dobbiamo scrivergli o anche tornare da
loro e ringraziarli di persona. Mi sento così strana, ma
credo che sia giusto accettarli.
– Certo.
– Perché non telefonare per ringraziarli?
– Lascia che ci pensi io.

Con i mille dollari in contanti Bruce poteva assicurarsi il


prestito dalla banca. L’avrebbe ottenuto alla fine del mese;
adesso aveva duemila e cinquecento dollari con cui
acquistare articoli da rivendere. Ma non sapeva ancora che
cosa comprare. Mise i soldi in un conto con un tasso di
interesse attivo del quattro per cento, e l’interesse sul
totale non era molto meno dell’interesse dovuto sul prestito
della banca di millecinquecento dollari.
Ma devo trovare presto un negozio all’ingrosso pieno di
qualcosa, si rese conto. Altrimenti chiedere in prestito e
pretendere questi soldi sarebbe un errore. Per adesso non
stiamo facendo niente. Dovremo cominciare ad attingere
dal conto per pagare le nostre bollette mensili.
Forse finirò per usare i soldi per coprire gli interessi
mensili sul prestito. Sarebbe un modo nuovo di fare affari.
Per adesso aveva esplorato l’area di Boise e non aveva
trovato niente. Disse a Susan: – Credo che dovrò mettermi
in viaggio.
– Per dove? – chiese lei. – Vuoi dire un lungo viaggio?
– Forse per Los Angeles. O Salt Lake City. O Portland.
Un posto dove possa trovare qualcosa all’ingrosso. Non
posso lasciare quei soldi a riposare.
Cominciò a fare telefonate in altri stati, cercando di
scoprire qualcosa prima di muoversi.

Due giorni dopo fece lubrificare e controllare


interamente la Mercury, fece avvitare le ruote, e poi, con
una valigia nel portabagagli, partì da solo sulla statale 26,
diretto a ovest in Oregon e in California.
9

Nella prima tappa del viaggio attraversò in auto tutto


l’Oregon e la California settentrionale. Proseguendo verso
sud, passò per le Cascate Klamath, superò la stazione di
confine, poi affrontò la difficile strada che passa per il
Monte Shasta e prosegue per i pendii scoscesi vicino a
Dunsmuir, nel cuore della zona boschiva, con laghi e corsi
d’acqua sempre in vista.
Di prima mattina lasciò la zona boschiva montuosa e
arrivò in una vallata agricola tremendamente calda e
piatta. Esausto, abbandonò la strada al primo motel.
Il motel non era altro che un insieme di prefabbricati,
ordinati in due file parallele, con della ghiaia intorno e
gigantesche piante secolari davanti alla porta della
direzione. Una coppia di mezz’età dormiva su due sdraio di
tela, sotto un ombrellone. Diverse macchine avevano
abbandonato la strada e parcheggiato là. Bruce vide e udì
alcuni bambini giocare nella polvere all’ombra, vicino alla
veranda di un prefabbricato.
Comunque, aveva già spento il motore. Dopo avere
contrattato con il proprietario del motel, arrivò a un
accordo accettabile: l’uso di uno dei monolocali per un
periodo di otto ore a un dollaro e mezzo. Il suo affitto non
gli permetteva di fare il bagno o andare a letto, ma poteva
lavarsi il viso, usare l’asciugamano per le mani ma non
quello per la doccia, stendersi sul letto senza spostare le
coperte né toccare le lenzuola, e naturalmente poteva
usare il water. Alle otto del mattino chiuse a chiave la sua
auto, entrò nel monolocale poco ventilato e si sdraiò per
fare un sonnellino.
Alle quattro del pomeriggio il proprietario lo svegliò.
Cominciavano ad arrivare diverse macchine, e doveva
liberare l’alloggio. Bruce prese l’orologio, che si era tolto, e
le scarpe, e si diresse malfermo all’esterno, nella luce del
sole ancora accecante. Appena fu fuori, la moglie del
proprietario corse nella camera con un asciugamano pulito
e del sapone.
– C’è un posto qui vicino dove posso mangiare? – chiese
al proprietario, un uomo basso, pelato e dall’aria seccata.
– Ci sono una caffetteria e un distributore a una
quindicina di chilometri da qui, – rispose l’uomo,
camminando a grandi passi per dare il benvenuto a una
Plymouth carica di passeggeri che era arrivata facendo
scricchiolare la ghiaia mentre lui si recava presso la
direzione del motel.
Bruce tornò nella sua auto, accese il motore, e si rimise
in strada.
Quando vide la caffetteria, accostò la macchina alle
pompe del distributore, disse al benzinaio di fargli il pieno,
e, lasciando l’auto lì, attraversò la statale diretto alla
caffetteria. Mentre consumava il suo pasto a base di
polpette al sugo, piselli in scatola, caffè e torta di more,
vide che il benzinaio controllava l’acqua, le gomme e la
batteria.
Si accese una sigaretta e rimase seduto di fronte al
piatto vuoto, conscio della propria solitudine.
Il fatto di aver guidato tutta la notte non gli aveva dato
alcun gusto. La luce dei fari dalla corsia opposta l’aveva
infastidito più del solito. E aveva fatto fatica, ora dopo ora,
a rimanere sveglio per stare attento alla segnaletica
catarifrangente che indicava le curve. Aveva ascoltato la
radio tutta la notte, sentendo per lo più dei ronzi di statica
e qualche frammento indistinto di canzoni famose che
provenivano da stazioni radio troppo lontane per essere
identificate. Andavano e venivano. Deboli voci di
annunciatori che parlavano da oltreconfine, reclamizzando
prodotti in vendita presso negozi che non avrebbe mai
visto.
E naturalmente aveva investito diversi animali durante
il tragitto, alcuni erano conigli, altri forse serpenti e
lucertole. E proprio al sorgere del sole due uccelli dai colori
vivaci gli erano volati davanti e poi erano scomparsi. Più
tardi, a una stazione di servizio, alzando il cofano aveva
trovato entrambi gli uccelli morti e spappolati in fondo al
radiatore. Non era riuscito a schivare nessuna delle
bestiole investite, e ciò lo deprimeva. Era impossibile
guidare in autostrada senza far fuori un animaletto dopo
l’altro. E non si contava il numero di bestiole già
spiaccicate sul fondo stradale che aveva incontrato al suo
passaggio.
Di notte, lungo la statale, attraversava città immerse nel
silenzio e senza neppure una luce accesa. Quelle città lo
preoccupavano. Nessuna persona, nessun movimento.
Nemmeno macchine parcheggiate davanti ai negozi grigio
scuri. Anche i distributori di benzina erano vuoti e deserti;
una vista terribile per il guidatore. Ma prima o poi appariva
un distributore illuminato, spesso con uno o più camion
giganteschi parcheggiati lì vicino, con il motore acceso, e
gli autisti dentro il bar a mangiare panini imbottiti. Una
macchia di luce gialla, con il jukebox acceso, i gabinetti con
la porta socchiusa, le piastrelle bianche luccicanti e
l’orinatoio, gli asciugamani di carta, lo specchio. Entrando,
Bruce si lavò il viso, guardando fuori dalla porta in
direzione dei boschi fitti. Si soffermò a scrutare la piatta
oscurità fuori dal gabinetto. Era tutto così solitario. Così
silenzioso.
Una volta che ti abitui a passare la notte con qualcun
altro, queste cose ti stendono, pensò Bruce. Una volta che
impari che cosa si prova a svegliarsi e a vedere un altro
viso accanto al tuo. E ad avere un’altra persona che dorme
su di te nelle prime ore dell’alba quando la stanza si
raffredda. È meglio del sesso. Il sesso finisce in pochi
minuti. È una sensazione di serenità che continua finché lei
è distesa accanto a te. Pone fine a una cosa terribile e dà
inizio alla cosa migliore del mondo.
Cambia tutto, pensò Bruce. Si espande e sovrasta ogni
genere d’evento.
Era qualcosa che non si era mai aspettato in
precedenza, né aveva avuto modo di conoscere. Andare a
letto una notte ogni tanto con una ragazza non aveva niente
a che fare con tutto questo. Ogni previsione di come
sarebbe stato con Susan non aveva trovato alcun riscontro
nella realtà. Sua moglie esercitava su di lui un’influenza
maggiore di quanto si sarebbe aspettato. Quei nove o dieci
giorni lo avevano cambiato completamente, modificando le
sue idee e le sue preferenze, influenzando anche questo, il
suo senso della guida, la sua percezione della strada…
Dopo pranzo, prese la macchina e proseguì verso la Bay
Area. Arrivò a tarda notte, attraversò il Bay Bridge in
direzione di San Francisco. Trovò un sottopassaggio che lo
portò fuori dalla superstrada, e alla fine raggiunse Market
Street. Parcheggiò e scese dalla macchina, debole ma
emozionato.
Qualcosa era cambiato in Market Street. Percorse il
marciapiede ben illuminato, oltrepassò i cinema
giganteschi e lussuosi, poi comprese di cosa si trattava. I
vecchi tram rumorosi non c’erano più. Al loro posto, degli
autobus sfrecciavano silenziosi lungo la strada.
Con le mani in tasca passeggiò in direzione del litorale.
Quando raggiunse l’incrocio tra la Prima e Market Street,
notò dei negozietti che vendevano rimanenze militari,
suppellettili, vestiario e scarpe, poi attraversò la strada e si
rimise in cammino. Tra la Quinta e Market Street perlustrò
una viuzza laterale, poi un’altra, osservando tutti i
negozietti, alcuni fiorenti e altri no. Dopo un’ora circa si
ritrovò a fissare vetrine con radioregistratori, macchine
fotografiche e macchine per scrivere, tra cui c’era una
piccola portatile di alluminio che non aveva mia visto
prima. La marca era Mithrias. Notò subito un filo che
pendeva dal retro. Era elettrica. E Bruce riusciva a
scorgere una cinghia che dal carrello spariva all’interno del
motore, quindi aveva un ritorno automatico. Non c’era
niente che dicesse che era d’importazione, ma lui
riconobbe in essa la portatile giapponese di cui gli aveva
parlato Milt Lumky.
Si riusciva a leggere in parte l’etichetta. Bruce la lesse,
dava informazioni ordinarie, in una lingua corretta e
colloquiale. Ma sapeva che quella era la macchina
giapponese. Glielo dicevano il suo istinto e il suo talento.
Il negozio, ovviamente, era chiuso. Ma Bruce non aveva
bisogno di sapere niente di più: la macchina, entro certi
limiti, era stata distribuita nella Bay Area. Qualcuno l’aveva
venduta all’ingrosso a questo rivenditore. Naturalmente
San Francisco e Los Angeles erano i punti in cui era più
probabile trovarla, dal momento che le macchine
arrivavano via nave e queste erano città portuali. Come
Seattle e San Diego. Ma il commercio al dettaglio era
maggiore, qui.
Un’occhiata gli fece capire che quello non era un
regolare punto vendita di macchine per scrivere. Non vide
le marche più diffuse in vetrina, e non c’era materiale in
esposizione. Si trattava soltanto di un piccolo
commerciante intraprendente che vendeva un po’ di questo
e un po’ di quello, dai microscopi alle stoffe stravaganti, dai
sassi che brillavano al buio agli accendini di madreperla,
fino alle fioriere da muro in legno di sequoia. Qualcosa di
simile a un negozio di articoli da regalo, specializzato in
oggetti di metallo, vetro e plastica, piuttosto che in
anticaglie.
Ciò accrebbe le speranze di Bruce. I responsabili della
Mithrias non avevano ancora stabilito l’accordo per
l’esclusiva, o non erano stati in grado di ritirare le
macchine già vendute. In ogni modo, le macchine erano
uscite dagli ordinari punti vendita autorizzati. Non c’era
motivo al mondo per cui lui non le potesse comprare alle
stesse condizioni di qualsiasi altro rivenditore. Ovviamente,
avrebbe dovuto pensare a come portarle a Boise. Ma non
gliene servivano molte.
A meno che non voglia fare un grosso acquisto, pensò
Bruce. Prendere tutte quelle che posso. Guadagnare solo
pochi spiccioli da ognuna di esse, pubblicizzarle con
insegne luminose, omaggi floreali e furgoni con
altoparlanti.
Un’offerta speciale. Compri una portatile elettrica per
un tot e te ne viene una seconda per una cifra irrisoria.
Ma doveva ancora scoprire un magazzino, uno di cui il
proprietario si volesse liberare. La sua scommessa migliore
sarebbe stata forse non a San Francisco o a Los Angeles,
ma in un posto più piccolo a metà strada, dove un grossista
locale avesse provato a fare nella propria città quello che
era stato fatto altrove. Una città intermedia come
Bakersfield, dove forse un punto vendita di una qualche
catena di empori o grandi magazzini o supermercati aveva
tenuto un certo numero di macchine senza riuscire a
venderle.
Le città della valle. Salinas, Fresno, Stockton,
Livermore. Avrebbe dovuto setacciarle a tappeto, una dopo
l’altra.
Forse ci sarebbero volute settimane.
No, non poteva permettere che ci volessero settimane.
Una settimana al massimo. Quindi se voleva seriamente
individuare un ingrosso di Mithrias portatili, doveva trovare
una strada diretta per arrivarci.
Maledizione, pensò. Quando lavorava per il B.A. aveva
sempre seguito i tempi della ditta, libero di andare in cerca
del bottino e curiosare con calma. A volte lui e il suo capo
Ed von Scharf passavano un mese, a intervalli, a scovare un
acquisto e ad azzardare diverse offerte inconsistenti e al
limite del ridicolo, finché, quasi per semplice noia, il
proprietario lasciava che le cose andassero a modo loro.
Pensò al suo capo, con i baffi neri e tutto il resto, seduto
tra contenitori di cartone, a mangiare ghiaccioli e a
compilare un inventario. Un professionista con due decenni
di esperienza in acquisti, dai tempi delle rimanenze
militari, e che rimanenze!, e poi le drogherie all’ingrosso, e
poi le ghiacciaie domestiche e qualche mezza fregatura nel
piano di rateazione, e poi tutta la vendita diretta al cliente
senza sovrapprezzo, e, alla fine, in società con i fratelli
Pareti e l’ingrosso che vendeva direttamente al pubblico.
Tornando alla sua auto consultò una mappa. Poteva
prendere la statale 40 o la 50 diretta dalla East Bay ed
essere a Reno in quattro ore. La durata di una partita di
baseball lunga.
Allora era, controllò, l’una e trenta. Poteva essere a
Reno prima dell’alba. Meglio ancora, dormire un paio d’ore
in macchina e poi partire, così ci sarebbe stata la luce del
giorno quando sarebbe arrivato alle Sierre. Poi, una volta a
Reno, sarebbe andato a casa di un amico per fare il bagno e
radersi e cambiarsi la camicia, forse scroccare una
colazione, per poi entrare al B.A. e parlare con Ed von
Scharf.
Mise in moto la Mercury e si diresse verso l’Oakland
Bay Bridge.

La strada che attraversava la valle di Sacramento era


ampia e liscia, il sogno di qualunque automobilista. Si
divertì a percorrere ad alta velocità la strada circondata dai
campi e alla fine passò per un ponte stretto costruito non
sopra un corso d’acqua ma su chilometri e chilometri di
canneti. La ringhiera di metallo del ponte sussultava
chiassosamente, e quel rumore e quella vicinanza eccessiva
lo innervosirono. Aveva già percorso questo tratto di strada
nelle tenebre, ma ora, mentre entrava a Sacramento, il
cielo a est cominciava a schiarire. Se intendeva
attraversare la città prima che i grandi rimorchi e i camion
e gli autotreni provenienti da oltreconfine bloccassero la
strada a tutti, doveva affrettarsi.
Ma nel centro di Sacramento si perse, anche se le
strade erano vuote. Cartelli stradali con su scritto «strada
camionabile» indicavano diverse direzioni. Alla fine si
ritrovò a guidare su e giù per strade sterrate e
ombreggiate, costeggiate da baracche, negozi di ricambi
fatti di lamiera ondulata e capannoni. Poteva essere la
superstrada in uscita da Sacramento? Attraversò
goffamente un ampio incrocio di binari, sudiciume e
vicoletti, e arrivò a una statale a due corsie con ristoranti,
bancarelle di frutta e distributori di benzina disposti su
ogni lato. Voltando a sinistra seguì la carreggiata. Si
avvolgeva intorno a una collina, in salita, e sul ciglio Bruce
vide quattro camion con i fari accesi, i motori diesel che
borbottavano riscaldandosi. I camion stavano per tornare
sulla strada. Gli autisti avevano dormito tutta la notte ma
adesso erano svegli e in attività. Bruce aumentò la velocità,
volando nelle curve.
La strada continuava a salire. Rimaneva stretta, ma ben
tenuta. Le bancarelle di frutta si diradarono e Bruce vide la
campagna fitta di vegetazione. Intanto, il cielo si era
illuminato. Brillava di un bianco vivace, e una volta
raggiunta la cima di un’altura gli parve di scorgere una
catena montuosa.
Più tardi entrò in una cittadina abbarbicata sulle pendici
di una collina, costruita interamente di legno; non si vedeva
pietra né metallo, solo il legno rossastro, che appariva
scuro nella foschia dell’alba. Non si muoveva nulla. Ma
appena passato il centro abitato si imbatté in altri camion
vibranti e impazienti di tornare sulla strada. Era solo
questione di tempo e ne avrebbe incontrato una colonna
già in movimento. E allora sarebbe stato costretto a
rallentare; li avrebbe seguiti su per le salite fino in cima, e
poi giù dall’altra parte, per l’intero tragitto fino a Reno.
Adesso la strada si faceva ripida davvero. Le foreste si
erano trasformate in pinete. Era una regione ricca di
legname. Era difficile credere che questa strada angusta
fosse la superstrada principale, la statale us 40: che ne era
stato dell’ampia carreggiata a quattro corsie tra Vallejo e
Sacramento? Questa sembrava una strada sostitutiva, una
provinciale usata da sciatori e pescatori, non da
autotrasportatori interstatali. La segnaletica era scarsa. La
terra a entrambi i lati era stata ammucchiata in cumuli
talmente alti che la strada sembrava tagliare di netto
masse di terriccio rossastro, che schizzava fino all’altezza
della macchina. Di quando in quando si intravedevano delle
attrezzature da costruzione messe da parte e coperte da
teloni.
Subito dopo una curva gli si parò davanti il retro di un
camion. Bruce rallentò, poi lo affiancò e lo sorpassò. Ecco il
primo camion, pensò. E non aveva neppure raggiunto la
cima.
Le Sierre intorno a lui, anzi, quelle che le carte stradali
delle Standard Nations indicavano come Sierre,
sembravano una grande area adibita ad attività ricreative,
deturpata da stradine laterali, cataste di tronchi e i solchi
gemelli lasciati dai trattori e dai bulldozer. Di quando in
quando un cumulo di immondizie, per lo più piatti da picnic
e lattine di birra, gli ricordava la moltitudine di
prefabbricati per turisti appena fuori dalla vista, oltre la
pineta. Ogni stradina sterrata conduceva in direzione dei
prefabbricati. E quando raggiunse la vetta si rese conto che
avrebbe visto uno o più laghi.
Il cuore delle Sierre, pensò. Che paesaggio deprimente.
Davanti a lui la strada saliva solo leggermente; anzi, quasi
non capiva se stesse ancora salendo. Forse c’era un dolce
pendio quasi pianeggiante. Un campo coltivato si estendeva
sul versante destro, e Bruce vide che un paio di macchine si
erano fermate. La cima, decise. All’improvviso si sentì
indolenzito e infreddolito. Aveva bisogno di andare in
bagno. Così accostò la macchina, parcheggiò e spense il
motore.
Le montagne erano silenziose. Niente vento. Niente
voci. Solo il senso dello spazio aperto. Spalancò lo sportello
della macchina e scese barcollando. Che ore erano? Le
sette e mezzo del mattino. Era lassù, da solo. E che posto
desolato. Una macchina gli sfrecciò davanti, lungo la
strada, e le ruote fecero un gran baccano. Con i muscoli
rattrappiti, barcollò in giro, le mani dentro le tasche,
sentendosi a pezzi.
Questo non è posto per me, si disse. Una specie di
terreno libero per chiunque, con qualche albero. Non gli
sembrava di trovarsi particolarmente in alto. Ma l’aria era
fredda, leggera e maleodorante. Non era l’odore degli aghi
di pino o della terra: era un puzzo acre che offendeva le
narici. Sotto le scarpe, le protuberanze del suolo lo
facevano incespicare. Fiancheggiando un mucchio di
terriccio scese fino a un angusto passaggio in mezzo a
cespugli ed erbacce, barcollando goffamente fino alla
macchina.
Sento che il motore non partirà, pensò, mentre chiudeva
lo sportello. A certe altitudini lo starter automatico
funzionava sempre male. Pensa se dovessi essere costretto
a restare qui una settimana intera… ma il motore si avviò.
Aspettando che una macchina gli sfrecciasse davanti,
riguadagnò strada e in pochi attimi aveva già superato la
cima della collina successiva. A un tratto il sole, che prima
era nascosto dalle colline e dagli alberi, appari e gli trafisse
gli occhi; l’abbagliante chiarore lo spaventò e lo confuse
tanto che fermò la macchina. Un camioncino pick-up, da
dietro, lo affiancò e lo sorpassò.
Me ne ero dimenticato. Raggiungere la cima all’alba
significa che devo guidare col sole in faccia per il resto del
viaggio. Non aveva mai visto il sole del primo mattino così
vasto, così grande.
Diede subito un’occhiata al lago. Anzi, a dire il vero
c’erano due laghi. Si stendevano al margine della strada, a
una certa distanza da lui, piatti, piacevolmente azzurri,
incastonati in quello che sembrava un altopiano. Gli alberi
crescevano più fitti in prossimità dei bacini. Guardava
continuamente fuori dal finestrino verso i laghi, ma poi una
discesa improvvisa della strada, come la superficie sferica
di una palla, lo convinse a mantenere la concentrazione
sulla guida. Una volta superata la vetta si trovò a scendere
molto più repentinamente di quanto fosse salito; la
pendenza lo fece scendere a precipizio, e fu così
impressionante che Bruce neanche si accorse di avere
superato il confine di stato e di essere entrato in Nevada.
Le colline diventarono scarse, insignificanti.
Oltrepassati dei massi rocciosi, si trovò in una zona arida,
brulla. Questo è proprio il Nevada, pensò. Fine della
vegetazione. Niente più acqua. Presto sarebbe arrivato nel
deserto. E presto vi giunse, senza ulteriore indugio.
Che delusione. Come già quella volta che era venuto in
macchina da queste parti. Non erano proprio montagne…
piuttosto una sorta di barriera di vegetazione che
ostacolava il commercio e che alla fine, per la soddisfazione
di tutti, era stata spianata e caricata sui camion in forma di
terriccio e legname.

Quel pomeriggio, a Reno, Bruce si accomodò con Ed von


Scharf al piano superiore del Bazar Affari, luogo a lui ben
noto, evitando il piano principale, rumoroso proprio come
un vero bazar. Il suo vecchio capo fece sapere che era in
pausa per un caffè, così nessuno tentò di interromperli. Per
cominciare, Bruce gli disse del suo matrimonio,
mostrandogli un’istantanea di Susan che era stata scattata
a Reno il giorno del loro matrimonio.
– È più vecchia di te? – chiese Von Scharf.
– Sì. Ha trent’anni.
– Sei sicuro che sai quello che stai facendo?
– Certo–. Descrisse l’R&J SERVIZI DI CICLOSTILE. Spiegò
ogni dettaglio. Il suo vecchio capo ascoltò con grande
attenzione.
– C’è abbastanza viavai sul marciapiede?
– Sì. Ci sono molte persone che lavorano negli uffici lì
attorno, tra le undici e l’una.
Il suo vecchio capo disse: – Non credo che tu stia
usando la testa. Che cos’hai veramente? Una buona sede,
un piccolo capitale da investire e una specie di punto
vendita con attrezzature minime e una vetrina. Perché
pensi alle macchine per scrivere?
– Perché è un posto da macchine per scrivere.
– No, invece. Che cosa hai imparato qui? Comprare
qualsiasi cosa che sia a un buon prezzo e che abbia un
potenziale di vendita. Dovresti andartene in giro a cercare
qualsiasi cosa che tu possa ottenere a poco prezzo e
rivendere, si tratti di macchine per scrivere o di frutta e
verdura, poco importa. Ma concentrandoti su un unico
articolo distruggi la tua posizione. Entri in un mercato di
venditori. Appena ne saprai qualcosa, ti metterai a fare
un’offerta per quelle macchine giapponesi. Senti, tu non sai
niente di macchine per scrivere. Secondo, non hai ragioni
per supporre che riuscirai a rivenderle. Ti dirò io che cosa
va adesso. Benzina. C’è una terribile guerra del carburante
sulla costa. Sulla costa il carburante venduto al dettaglio,
quello normale, è sceso a 19 centesimi al gallone
nell’ultimo mese. I grossisti là sono sovraccarichi.
– Non possiamo vendere carburante, – disse Bruce.
Chiese a Von Scharf se avesse mai visto le macchine
Mithrias.
– No. Non ne ho neanche mai sentito parlare. Per
quanto ne so, non ne è arrivata nessuna qui.
– Allora avremmo campo libero.
– Quante ne potresti comprare con duemilacinquecento
dollari? Immagina che tu le debba pagare cento dollari al
pezzo. Sarebbero solo venticinque. Non ha senso.
Fino ad allora non aveva fatto i conti. La cosa lo
scoraggiò.
– Non è abbastanza per disturbarsi, – disse il suo
vecchio capo. – Non hai abbastanza capitale.
– Potrei riuscire a comprare uno stock di Mithrias per
meno di cento al pezzo, – ribatté ostinatamente Bruce.
– Forse. Be’, che cosa volevi sapere da me?
– Sono venuto per chiedere informazioni su dove potevo
acquistarne qualcuna.
– Non lo so. Non ho neanche mai visto un annuncio o
una lista d’inventario. Posso chiedere in giro, se vuoi.
– Grazie.
Il suo vecchio capo telefonò a diverse persone,
compreso uno dei fratelli Pareti che era stato sulla costa est
per un po’. Nessuno sapeva niente delle Mithrias, ma uno
di loro credeva di avere già sentito il nome. Ricordava di
aver letto un articolo su una rivista che aveva a che fare
con l’Inghilterra.
– Quella è un’altra cosa, – disse Bruce. – Una tomba che
hanno riportato alla luce. Una tomba antica.
– Be’, mi dispiace, – disse Von Scharf.
– È colpa mia, – commentò Bruce. Dopo tutto, avrebbe
potuto telefonare dalla costa e risparmiarsi il viaggio.
Von Scharf disse: – Faresti meglio a investire il tuo
denaro in macchine per scrivere giocattolo.
– Sul serio?
– Sì. Puoi comprarle subito. Venderle a Natale.
– Quello che credo farò è cercare di rintracciare l’uomo
che mi aveva parlato delle macchine originariamente, Milt
Lumky.
– Oh, lui, – commentò Von Scharf, sorridendo. – Sì,
rappresenta un produttore di carta nel Nordovest. Un tipo
piccolo con una voce profonda.
Non sapeva che lo conoscesse.
– Abbiamo preso della carta tramite lui, una volta. Un
uomo con cui è difficile trattare, ma scrupoloso. Ti ha
parlato lui di queste macchine giapponesi? Be’, è furbo.
Forse ne ha un deposito e se ne vuole sbarazzare.
Bruce spiegò che Lumky era da qualche parte lì intorno,
tra Seattle e Montpelier.
– Puoi rintracciarlo, – disse Von Scharf. – Potresti
chiamare la sua ditta e chiedere quale sia il suo
programma. Oppure potresti lasciare detto che si metta in
contatto con te la prossima volta che li chiama. Oppure
potresti metterti in contatto con un grosso compratore di
carta sulla sua strada e dirgli che ti facciano chiamare da
lui.
Bruce meditò. – Credo che la sua ditta sappia dove
trovarlo.
Chiamò la Forniture Carta Whalen dal telefono del B.A. e
gli disse che voleva mettersi in contatto con Milt Lumky, il
loro rappresentante per la zona del Nordovest, costa del
Pacifico. Dopo averlo tenuto un po’ in attesa l’informarono
che Lumky era sulla strada tra Pocatello e Boise, ma che il
nove del mese sarebbe stato di sicuro a Pocatello. Aveva un
appuntamento con il proprietario di un piccolo caseificio
che voleva ordinare dei contenitori di cartone per il latte di
un nuovo tipo. Quelli della Whalen gli diedero l’indirizzo del
caseificio e l’ora esatta dell’appuntamento. Bruce li
ringraziò e riagganciò.
– Oggi è il sette, – disse il suo vecchio capo,
mostrandogli un calendario.
– Credo che andrò fino a Pocatello, – decise Bruce.
– Se vuoi stare qui a Reno questa notte puoi cenare con
mia moglie e me e per quanto mi riguarda puoi dormire sul
divano in salotto.
– Grazie, ma voglio mettermi in viaggio.
– Te la prendi se ti do qualche consiglio?
– Nient’affatto.
– Assicurati di non spendere tutto quello che hai. Cerca
di fare in modo che se tutto dovesse andare in fallimento ti
rimanga ancora qualcosa. Non restare a mani vuote.
– Mia moglie sta investendo più di me.
Il suo vecchio capo chiese scusa e andò di sotto al piano
principale. Tornò poco dopo con un pacchetto confezionato,
sigillato con il fermaglio speciale della ditta, che veniva
sempre apposto al momento dell’acquisto.
– Così non te ne andrai di qui amareggiato, – disse Von
Scharf.
– Non sono amareggiato, – rispose Bruce. Aprì il
pacchetto. Era un quarto di whisky d’importazione che il
suo vecchio capo era sceso ad acquistare per lui al reparto
liquori. – Grazie, – disse Bruce.
– Hai sempre detto che ti piace lo scotch –. Il suo
vecchio capo gli diede la mano, una pacca sulla schiena, e
lo accompagnò fuori dal palazzo, fin sul marciapiede.
Quando entrò in macchina pensò: adesso devo guidare
per mille chilometri. Ma questa era una strada che
conosceva perfettamente. Si fermò a una drogheria e
comprò del cibo da portare con sé, poi si mise in viaggio
sulla statale 40, andando a est verso il raccordo stradale
con la 95. E ora vediamo di trovare Milton Lumky, pensò.
Che è da qualche parte in Idaho a vendere carta
all’ingrosso in una città o in un’altra, guidando la sua
Mercedes-Benz e indossando la sua camicia sportiva color
limone a maniche corte e i pantaloni grigi, ascoltando la
sua autoradio e fumando un sigaro White Owl.
10

La strada lo portava sempre più vicino a Boise, e cominciò


a sentire il desiderio di fermarsi lì. Desiderava
ardentemente passare la notte a casa con Susan e Taffy. Ma
vicino a Winnemucca aveva forato una gomma, e ciò l’aveva
bloccato per diverse ore. Non era il caso che giungesse a
destinazione con i tempi così stretti; doveva arrivare a
Pocatello con molto anticipo.
Comunque il ritardo alterò la sua tabella di marcia e lo
fece arrivare a Boise alle tre del mattino. Ovviamente aveva
la chiave di casa, ma temeva che se si fosse fermato
avrebbe voluto rimanere per la maggior parte del giorno
seguente. Sarebbero emersi problemi per i quali Susan
avrebbe avuto bisogno d’aiuto; una volta tornato a casa,
probabilmente non sarebbe più riuscito ad andarsene.
Potrei semplicemente rimanere, pensò.
Così continuò a guidare nel buio, si avvicinò a Boise e
tirò dritto, lungo la statale 30, sul rettilineo che precede i
micidiali tornanti e le discese. C’era poco traffico. Aveva
tutta la strada per sé.
All’alba si fermò sulla corsia di emergenza, girò
faticosamente intorno alla macchina, si trascinò sui sedili
posteriori e si mise a dormire. Appena prima di
mezzogiorno il sole caldo lo svegliò. Ritornò al posto di
guida e seguì la strada finché non trovò un ristorante.
Mangiò e si riposò. Il proprietario gli permise di usare il
bagno del ristorante; Bruce si fece la barba, si lavò la parte
superiore del corpo, si cambiò d’abito, si diede il
deodorante, e tornò alla macchina di umore migliore.
Mentre guidava, gli venne in mente che adesso era
entrato nel territorio di Milton Lumky. Avrebbe potuto
scorgere la sua Mercedes da un momento all’altro. E se
stava andando nella direzione opposta? Avrebbe dovuto
fare inversione a u e seguirlo? Probabilmente stava
andando verso Pocatello, quindi avrebbe dovuto soltanto
raggiungerlo e proseguire; la Mercury di Bruce aveva una
velocità massima superiore e non sarebbe stato difficile.
Ma se poi non si fosse trattato di Milton Lumky e della sua
Mercedes? Se fosse stata una Mercedes del tutto diversa
con uno sconosciuto all’interno? pensò. E se lo inseguissi
per chilometri, sempre più lontano da Pocatello… Ma
quante Mercedes grigie potevano circolare in quella parte
dell’Idaho proprio a quell’ora? Eppure, ne bastava una sola.
Una sola oltre a quella di Milt.
Oppure potrei incontrarlo in un caffè sulla strada o a un
distributore di benzina, pensò. In un motel. In un emporio
di una piccola città, mentre compriamo entrambi olio
abbronzante o sigarette o birra. Potrei fermarmi a un
semaforo rosso e vederlo camminare per strada in una
cittadina. Potrei trovarlo sul bordo della strada che
sonnecchia nel retro della sua Mercedes. Potrei vederlo a
Pocatello, quando arrivo, che attraversa a un incrocio, o
che gira con la sua cartella. Ovunque, in qualunque
momento. Adesso che sono nel territorio di Milton Lumky.
Giunse a Pocatello quella sera, proprio al tramonto.
L’appuntamento che Milt aveva con il caseificio era fissato
per il mattino seguente, alle dieci e mezzo. Quindi era
arrivato con largo anticipo. Si fermò a un motel che si
chiamava Grand View, prese una stanza, parcheggiò la
macchina, portò la valigia in camera e l’appoggiò sul letto.
È anche possibile, pensò, che la prossima macchina che
arriva qui al Grand View Motel sia la sua Mercedes grigia.
L’aria della sera era calda. Lasciò aperta la porta
scorrevole mentre faceva la doccia nel bagno minuscolo.
Gli venne in mente che gli avrebbe fatto comodo
conoscere l’ubicazione esatta del caseificio. Così, dopo
essersi fatto la doccia e avere indossato il suo abito
elegante a un petto solo, salì in macchina per cercarlo. Il
proprietario del motel gli diede indicazioni molto
dettagliate, e trovò il caseificio in pochi minuti.
Naturalmente erano andati tutti a casa. Una fila di camion
era parcheggiata sul retro, vicino alla piattaforma di carico
in metallo. I camion vuoti gli comunicarono un senso di
desolazione, poi tornò in città. Che cosa schifosa guidare
per millecinquecento chilometri, pensò tra sé e sé. Ma di
giorno sarebbe stato più piacevole.
Non avendo nient’altro da fare, percorse su e giù la
statale di Pocatello, da entrambi i lati, tenendo gli occhi
bene aperti per individuare la Mercedes. A ogni motel
rallentava per fare una lunga e accurata ispezione delle
macchine parcheggiate tra le cabine prefabbricate o nello
spazio antistante le porte numerate. Vide ogni tipo di
macchina e ogni genere di modello, ma non c’era traccia
della Mercedes. Continuò per ore, guidando avanti e
indietro, rallentando a ogni motel o ogni volta che vedeva
una macchina parcheggiata. In tarda serata il traffico
cominciò a diradarsi, e alle due percorreva una per una
tutte le strade della città da solo. Continuò a guidare; non
ne aveva molta voglia, ma d’altra parte non gli interessava
chiudersi nella sua stanza di motel e andare a dormire. Alle
tre i suoi riflessi erano troppo appannati per continuare.
Senza avere ottenuto alcun risultato, tornò al suo motel,
parcheggiò, entrò e si preparò per andare a letto.
Il mattino seguente andò al caseificio.
Alla luce del sole il luogo gli fece un’impressione
migliore, anche se notò pochissimi segni di vita.
Evidentemente il latte era stato portato all’alba,
imbottigliato e trasportato per essere distribuito: i camion
che aveva visto allineati la sera prima non si vedevano. Gli
uffici del caseificio erano in una piccola costruzione a un
capo dell’impianto di imbottigliamento e pastorizzazione.
Bruce aprì la porta ed entrò.
Dietro a un banco di quercia verniciato era seduta una
donna graziosa dall’aspetto campagnolo, che indossava un
vestito a fiori. Gli chiese che cosa poteva fare per lui, e
Bruce le spiegò che, quando arrivava, voleva incontrare il
signor Lumky.
– Dovrebbe essere qui da un momento all’altro, – disse
la donna. Gli indicò una sedia dove poteva sedersi e
qualche numero del «Saturday Evening Post» da leggere.
Ma lui preferì restare davanti a una finestra a guardare il
parcheggio dell’azienda. Cercava la Mercedes, come aveva
fatto dal momento in cui era entrato nel territorio di Milton
Lumky. Era diventata un’ossessione, uno scopo fine a se
stesso, non era Lumky che voleva vedere, ma la Mercedes.
Poco dopo la segretaria si avvicinò a lui e disse: – Mi
scusi, ma il signor Lumky ha chiamato e ha detto che non
riuscirà a rispettare l’appuntamento con il signor Ennis.
Bruce la guardò basito.
– Ha detto che è ammalato, – disse la donna.
– Quando verrà, allora? – chiese Bruce.
– Ha detto al signor Ennis che si metterà in contatto con
lui molto presto.
– È qui in città?
– Oh, sì, – disse lei. – Sta qui da qualche parte.
– Ha scoperto dove?
– No. Ha detto che ci avrebbe contattati lui.
Bruce lasciò il suo nome e il numero di telefono del
motel, e uscì dall’edificio.
Adesso non aveva idea di cosa fare. Fece quello che
aveva fatto fino a quel momento: girò intorno a Pocatello,
prima per una strada poi per un’altra, in cerca della
Mercedes. Non c’era niente a cui pensare. Aveva fatto tanta
strada e di certo non se ne poteva andare. Quindi girò in
tondo, e al tramonto non c’era ancora traccia della
Mercedes, in movimento o parcheggiata.
Alle sei e mezza cenò in un ristorante. Poi si fermò al
motel per vedere se Lumky aveva chiamato. Lumky non
aveva telefonato. Così si rimise alla guida.
Se Lumky era ammalato, qual era la natura della sua
malattia? Quanto era malato? Aveva avuto un incidente per
strada? Era soltanto una scusa per liberarsi di questo
appuntamento al caseificio? E se quel Lumky non fosse
affatto andato a Pocatello e si fosse fermato in qualche
altra città e avesse telefonato da là? Forse non sarebbe
venuto affatto a Pocatello questa volta. Forse sarebbe
andato al caseificio solo al prossimo giro, di lì a qualche
settimana.
Continuò comunque a guidare.
Il traffico intorno a lui rimase intenso fino alle nove o le
dieci, poi, come la sera prima, cominciò a diminuire. All’una
del mattino si incrociava solo qualche macchina ogni tanto.
Alle due del mattino Bruce vide la Mercedes.

Davanti a lui, a un semaforo, la Mercedes passò con il


giallo. Dovette fermarsi e guardarla proseguire. Quando
arrivò il verde Bruce la inseguì, memorizzando il modello
dei suoi fari di coda. La targa era illeggibile: non poteva
avvicinarsi abbastanza. Forse è un’altra Mercedes, pensò
tra sé e sé. Di notte tutte le macchine, tranne quelle molto
chiare e quelle molto scure, sembrano grigie. Rimase
appiccicato all’auto, avvicinandosi sempre più, e alla fine
l’affiancò. Sullo sportello della macchina vide dipinta la
scritta:

FORNITURE CARTA WHALEN


DISTRIBUZIONE IN TUTTO IL NORDOVEST

Dunque era Milton Lumky. Cominciò a suonare il


clacson. Siccome la strada era buia, non riusciva a vederlo
in faccia. Non aveva modo di sapere se Lumky l’aveva
riconosciuto. La Mercedes proseguì. Bruce la seguì, a volte
davanti, a volte di fianco a essa. Verso la periferia la
macchina cominciò ad acquistare velocità. Così accelerò
anche lui.
A uno stop riuscì a fermarsi davanti alla macchina.
Tirando il freno a mano, saltò fuori dall’auto e corse verso
la Mercedes. Quella aveva cominciato a fare retromarcia,
con l’intenzione di sorpassare la sua Mercury.
– Ehi, – disse Bruce, bussando sullo sportello. La
Mercedes continuò ad andare indietro, poi l’autista cambiò
marcia e avanzò, dirigendosi verso di lui tanto che Bruce
dovette togliersi di mezzo. Riuscì ad afferrare la maniglia
dello sportello e aprirlo.
All’interno, dietro al volante, c’era un ragazza, con gli
occhi spalancati per la paura. Indossava una gonna
svolazzante, e aveva i capelli acconciati in lunghi riccioli,
capelli biondissimi, tanto che gli ricordò una scolaretta ben
pettinata e ben vestita, tirata a lucido fino a risplendere. A
occhio non aveva più di sedici o diciassette anni.
– Sto cercando Milt, – disse Bruce aggrappandosi alla
maniglia mentre la macchina avanzava.
– Cosa? – chiese lei con un gridolino.
– Ferma questa dannata macchina. So che è la macchina
di Milt. È davvero ammalato?
La ragazza mise il piede sul freno; indossava sandali
senza stringhe. – Milt Lumky? – chiese, con la sua voce
acuta da soprano.
– Sono venuto da Reno per parlargli, – disse Bruce
ansimante e quasi farneticante.
Fissandolo, la ragazza disse: – Mi lasci prendere fiato.
– Si tolga dalla strada, – ordinò Bruce. Altre macchine
avevano cominciato a suonare il clacson. Tornò di corsa alla
sua Mercury, saltò dentro e accostò vicino al marciapiede.
La Mercedes sfarfallò dietro di lui e si fermò a sua volta.
Questa volta Bruce si avvicinò al lato del passeggero,
afferrò la maniglia dello sportello e la ragazza gli aprì.
Adesso non sembrava così spaventata, ma i suoi lineamenti
pallidi e delicati erano proprio quelli di una bambina; Bruce
non riusciva a credere che lei potesse guidare quella
macchina, o qualunque altra macchina. I suoi piedi
arrivavano a mala pena ai pedali. A dire il vero, però, era
seduta su un cuscino. Vide, adesso, che aveva un nastro
legato in mezzo ai riccioli biondi. Il vestito aveva una
scollatura profonda sul davanti, ma lei non era per niente
formata. Erano il vestito di una bambina e il corpo di una
bambina.
– Lei è un amico di Milt? – chiese con la sua vocina.
– Sì, avevo appuntamento con lui al caseificio.
– Non ha potuto rispettare il suo appuntamento. Stavo
girando in cerca di un emporio ancora aperto, o di un posto
in cui comprare del succo d’arancia ghiacciato per lui.
– Lui dov’è?
– Nel mio appartamento. Viviamo insieme.
Ciò spiegava perché non aveva visto la Mercedes
parcheggiata in nessun motel. – Ho notato un emporio
ancora aperto, – disse Bruce. Aveva percorso talmente
tante strade che conosceva ogni parte di Pocatello. – Le
mostrerò dov’è, se vuole seguirmi.
Poco dopo, avevano parcheggiato davanti a un piccolo
emporio a gestione familiare che aveva ancora le luci e
l’insegna accese.
– Come si chiama? – chiese la ragazza mentre entravano
nel negozio. Quando Bruce glielo disse, la ragazza
commentò: – Non l’ha mai nominata.
– Non sapeva che sarei venuto.
Mentre il proprietario del negozio batteva l’importo,
Bruce si fece dare l’indirizzo dalla ragazza. Adesso, anche
se si fossero separati, avrebbe sempre potuto rintracciare
Milt. Divenne euforico. Di che cosa doveva preoccuparsi?
Una possibilità su un milione… dopo due giorni di giri in
città. E solo perché Milt voleva del succo d’arancia
ghiacciato.
Di norma non si sarebbe aspettato di dover venire a
capo di una situazione così complicata, ma qui, nel
territorio di Milton Lumky, gli sembrò perfettamente
naturale. Adesso che era accaduto non lo stupiva.
In piedi accanto a lui nell’emporio, la ragazza gli chiese
per quale motivo volesse vedere Milt. Con i suoi sandali
senza tacchi, gli arrivava al secondo bottone della camicia.
Bruce pensò che non doveva essere più di un metro e
cinquantacinque. Adesso, con un’illuminazione migliore,
vide che la sua pelle era arida e più ruvida di quella di una
bambina, e le sue mani, quando le allungò per prendere il
pacchetto dell’emporio, non avevano niente in comune con
quelle di una ragazzina. Le dita erano nodose e le nocche
rosse e secche. Le unghie, una volta smaltate ma ora
scheggiate e irregolari, erano state evidentemente
rosicchiate. Le palme delle mani avevano solchi profondi.
Le braccia erano insolitamente muscolose; indossava una
camicetta senza maniche, e Bruce notò, sul braccio, la
cicatrice bianca di una vaccinazione che senza dubbio era
vecchia di anni. A un dito portava un anello d’oro che
sembrava una fede.
Bruce rispose che voleva discutere con Milt di un affare.
La donna annuì. Evidentemente le sembrava naturale. Lui
le chiese come si chiamava, e lei gli rispose che era Cathy
Hermes e che era sposata. Suo marito, Jack, viveva da
qualche parte a Pocatello, ma non con lei; si erano separati
un anno prima o qualcosa del genere. Aveva conosciuto
Milt nel posto in cui lavorava, un ufficio del comune di
Pocatello; lei faceva l’impiegata ed era una dattilografa,
Milt era passato di lì a vendere forniture di carta. Da mesi
vivevano insieme, proprio come se fossero sposati.
– Da quanto tempo Milt è a Pocatello? – le chiese Bruce,
mentre tornavano alle macchine.
Lei rispose che Milt era in città da quasi una settimana;
non era riuscito a proseguire perché si era sentito male
lungo la strada a est di Montpelier e quindi si era fermato.
– Che cos’ha? – Tenne lo sportello della Mercedes aperto
alla donna.
Rispose che nessuno di loro due lo sapeva; o, se lui lo
sapeva, non lo diceva. Era una malattia cronica che si
manifestava ogni tanto. Di lì a pochi minuti avrebbe potuto
vedere di persona: l’appartamento non era molto lontano.
Bruce salì sulla Mercury e seguì le luci posteriori della
Mercedes finché la ragazza svoltò nel vialetto di una strada
residenziale e parcheggiò in un garage di legno privo di
porte. Bruce parcheggiò dietro di lei, sul viale. Cathy gli si
avvicinò con la borsa dell’emporio.
– È di sopra, – disse. – Possiamo salire dal retro–. Gli
fece strada su per una scalinata esterna con i gradini in
legno, superando file di bucato steso ad asciugare e pile di
giornali e vasi di fiori. Superarono diverse porte e giunsero
infine al piano superiore. Tenendo in equilibrio la borsa
dell’emporio, lei estrasse una chiave e aprì la porta.
Attraversarono un corridoio che odorava di sapone.
Quando lei accese la luce, Bruce scoprì che si trovava in
un edificio molto vecchio, che aveva ancora tubature di
ottone a vista e candelieri finti alle pareti e sulle porte
elaborati pomelli a forma di uova che ricordava
dall’infanzia. Le pareti erano dipinte di giallo. Il corridoio
era piuttosto stretto, ma in fondo a esso Bruce si ritrovò in
una stanza ampia con il soffitto alto; qui, il candeliere era
stato tolto e dei fili elettrici correvano dal soffitto al
pavimento, dove qualcuno aveva fissato un attacco per la
lampada e la radio.
– Milt, – disse la ragazza, scomparendo in un’altra
stanza. Tornando, disse a Bruce: – Solo un istante –. Portò
la borsa della drogheria in cucina mentre lui aspettava. La
stanza sembrava fredda, e lui vide la ragazza accendere il
forno della vecchia stufa nera con un fiammifero da cucina.
– Milt, – ripeté, passandogli davanti un’altra volta,
diretta nell’altra stanza. – C’è un uomo che è venuto da
Reno per parlarti –. La porta si chiuse dietro di lei e Bruce
non poté né sentire né vedere. Aspettò.
Attraverso la porta chiusa udì del movimento e un uomo
che borbottava. Poi la voce della ragazza. Sembrava che
stessero discutendo. Alla fine il rumore cessò e Bruce non
sentì nulla.
La porta si aprì, lei ne uscì e la chiuse dietro di sé. – Le
dispiace rimandare la sua visita?
– D’accordo, – disse Bruce, tenendo a freno
l’impazienza.
La ragazza entrò in cucina e cominciò a preparare il
succo d’arancia.
– Che sintomi ha? – chiese Bruce alla ragazza.
– Ha la febbre. Gli mancano le forze, e ha un gonfiore
intorno agli occhi. E ha problemi a orinare.
– Si direbbe un’infezione renale.
– Sì, – rispose la ragazza, preparando il succo d’arancia
in un vasetto usato di maionese. – Prende delle pillole. Va e
viene. Non sta male quanto ieri.
– Gli ha detto il mio nome?
– Adesso è troppo intontito.
– Vuole dire che non sa che ci sono qui io?
– Si sente così indisposto che non vuole vedere nessuno
finché non starà meglio–. Non glielo avrebbe detto, se Milt
si ricordava di lui o no. – So che vorrà parlare con lei più
tardi quando si sentirà meglio.
Le disse che poteva restare a Pocatello solo per poco.
– Forse domani, – disse la donna. – Probabilmente si
sentirà più in forze quando si sveglierà domattina. Adesso
sa a mala pena quello che dice. Se vuole parlare con lui
d’affari farà meglio ad aspettare.
Un rumore proveniente dall’altra stanza le fece
appoggiare il barattolo di succo d’arancia e la fece uscire
dalla cucina. Bruce sentì lei e Milt parlare, poi udì la
ragazza che si spostava da una stanza all’altra. Si sentì
versare acqua in un catino, poi il rumore di qualcosa che
veniva riempito, poi altre parole.
Quando la ragazza tornò, Bruce le disse: – Passerò
domattina, allora.
– Sì, – convenne lei. – Di qua, la farò uscire dalla porta
principale. Adesso che è sveglio–. Gli fece strada attraverso
l’appartamento e nella stanza in cui Milt era disteso sul
divano, avvolto nelle coperte, con la testa su un cuscino
bianco. Passandogli accanto, vide che era senza alcun
dubbio Milt Lumky. Aveva gli occhi chiusi e respirava
rumorosamente. Le braccia e il viso avevano un colore
scuro, malato. La stanza odorava di malattia. Sul pavimento
intorno al divano c’erano bicchieri, bacinelle e medicine.
Tenendogli la porta aperta, la ragazza lo condusse fuori
in un corridoio. – Buona notte, – disse, e chiuse la porta
quasi all’istante dietro di lui.
Comunque l’aveva visto: sapeva con certezza che era
Milt.
Tornò al motel.
11

Quando tornò all’appartamento di Cathy Hermes il mattino


seguente, trovò la porta chiusa con un biglietto appuntato
sopra.

Caro signore,
il signor Lumky si è sentito meglio ed è andato al
caseificio per l’appuntamento. Io sono al lavoro. Sarò a
casa per le cinque e mezzo.
Cordiali saluti,
signora Cathy Hermes

Provò ad aprire la porta. Che cosa gli ricordava questa


situazione? Gli ricordava della notte in cui era tornato da
Peg Googer per prendere il soprabito, aveva trovato la casa
chiusa a chiave e deserta ed era entrato da una finestra
scoprendo Susan che fumava una sigaretta in camera da
letto. Ma adesso le cose stavano diversamente… andò sul
retro del fatiscente edificio a tre piani e salì le scale; anche
la porta sul retro era chiusa, e così pure l’unica finestra che
dava sul porticato. La signora Hermes era troppo prudente.
La Mercedes, ovviamente, non c’era; il garage era
vuoto. Uno dei due se n’era andato con l’auto, con ogni
probabilità Milt. Si chiese se Milt sarebbe tornato oppure,
una volta concluso l’affare con il caseificio, sarebbe
sfrecciato verso la città successiva per riguadagnare il
tempo perduto.
Incapace di pensare a una qualunque azione alternativa,
parcheggiò la macchina proprio di fronte alla casa e
aspettò seduto al volante.
Circa un’ora dopo una scossa che fece balzare in avanti
la macchina, lo fece sussultare. La Mercedes gli era
arrivata alle spalle e aveva colpito il paraurti posteriore;
Bruce schizzò fuori dall’auto e si ritrovò di fronte a Milt
Lumky, che gli sorrideva dal posto di guida della Mercedes.
– Salve, professorino, – disse Milt sporgendosi dal
finestrino. Spense il motore e uscì dalla macchina con la
sua cartella di pelle e diversi pacchetti di campioni.
– Pensa da furbo, sii furbo, – disse. Aveva l’aspetto di
sempre; non c’erano segni di malattia. Con il suo cravattino
elegante, la camicia rosa e il vestito sportivo passò davanti
a Bruce e salì i gradini dell’edificio.
– Vieni, – gli disse facendogli strada.
– Sono davvero felice di vederti, – disse Bruce. – Temevo
che fossi già partito per un’altra città.
Di sopra, all’ultimo piano, Milt lesse il messaggio
attaccato alla porta, poi lo strappò e lo mise nella tasca
della giacca. Mentre apriva, chiese: – Che ne pensi di
Cathy?
– Molto premurosa, – rispose Bruce.
– Devo fare i bagagli, – disse Milt, tenendo la porta
aperta per Bruce. – Sono in ritardo di due giorni sulla
tabella di marcia.
Mentre Bruce stava a guardare, lui prese le camicie da
un armadio e le mise in valigia. Nel bagno raccolse gli
oggetti per radersi.
– Scusami se non ho parlato con te la notte scorsa, –
disse Milt, mentre infilava delle paia di scarpe nelle tasche
laterali della valigia.
– Non c’è problema. Puoi parlarne adesso?
– Di cosa?
– Sono interessato alle macchine per scrivere
giapponesi. Le Mithrias. Ne ho vista una a San Francisco.
– Certo. Puoi acquistarle là sulla costa. Come sta Susan?
– Bene.
– Avete mandato via Zoe?
– Sì. Adesso abbiamo un po’ di contante da investire Per
qualche motivo era riluttante a dire a Milt del suo
matrimonio con Susan. – Sai dirmi come fare ad acquistare
le Mithrias? Me ne avevi parlato quando ci eravamo visti
l’altra volta.
– Quanto hai da spendere?
– Abbastanza, se il prezzo è buono.
– Non me ne occupo più.
– Significa che avevi degli interessi nel settore?
– No. Ma ero più informato. Avevo valutato l’idea di
mettermi nel giro.
– E adesso non più?
– Se avessi quelle macchine, non saprei cosa farmene.
Dovrei tenerle e cercare di piazzarle come merce di stock a
qualche dettagliante.
– Ciò che voglio fare io è venderle. Pubblicizzarle. Ma
tutto dipende dal prezzo.
– Sono soldi tuoi?
– Miei e di Susan.
– Quello che posso dirti è che so per certo che c’è un
ingrosso. Ma non è da queste parti. È a Seattle.
– Va bene –. Si aspettava che fosse sulla costa; se ce
n’era già uno da quelle parti, allora qualcosa doveva essere
andato storto.
– Già, – disse Milt chiudendo la valigia. – Tu sei la
persona giusta per i lunghi viaggi in macchina. Cathy dice
che sei venuto da Reno–. Infilò diversi oggetti nelle tasche e
ne cercò altri in giro. – Quando le volevi prendere? Il
problema è che non tornerò a Seattle per un paio di
settimane.
– Le voglio prendere al più presto. Se mai ci riesco.
– Ne hai provata una?
No.
– Non credi che sarebbe meglio?
– Lo farò, prima di investirci dei soldi.
– Sai, tu sei un vero compratore. Non ti frega neanche
un po’ della macchina: la consideri solo un investimento.
Sei distaccato. Asettico, come uno scienziato Diede un
colpo a Bruce sul braccio. – Andiamo. Siamo pronti.
Andarono di sotto. – Voglio sistemare quest’affare, –
disse Bruce, – e non vedo come posso fare se tu salti sulla
tua Mercedes e te ne vai.
– Non puoi venire con me? – Poi notò la Mercury. – Oh, –
fece. – Avevo pensato che potevo darti un passaggio fino a
Montpelier e potevamo chiacchierare durante il viaggio.
Avevo voglia di compagnia. Perché non lasci qui questo
carro armato? Starò a Montpelier circa un giorno poi
tornerò di nuovo qui. Puoi recuperare la macchina allora.
– E poi?
– Dipende da cosa decidiamo–. Di colpo Milt si fece
serio; in tono cupo e dimesso aggiunse: – Sai, quasi
impazzisco a guidare da solo. Ho davvero voglia di
compagnia. Sul serio. E magari ci viene in mente qualcosa
su quelle macchine giapponesi.
A quel punto Bruce si chiese quanto fosse malato
quell’uomo. Se avesse bisogno di cure costanti. Si avvilì al
pensiero di dover diventare l’infermiera di Milt Lumky,
come Cathy Hermes. E come forse altre persone nel
territorio di Milton Lumky. Ma doveva sistemare l’affare
delle macchine per scrivere. E se non avesse accettato
l’idea di andare a Montpelier, allora Milt gli avrebbe
semplicemente detto arrivederci, e se ne sarebbe andato;
aveva già acceso il motore ed era al volante. Aveva davvero
fretta. C’era da stupirsi del fatto stesso che fosse tornato
all’appartamento.
– Non puoi restare un altro po’, tanto per discutere?
– Non è questo il punto, la questione è che bisogna
cominciare a muoversi per l’affare. Butta la tua roba nel
bagagliaio e saremo a Montpelier in un paio d’ore. La tua
macchina sarà al sicuro qui; togli solo tutta la roba che c’è
dentro e chiudila a chiave.
Controvoglia, Bruce gli diede retta. Aggiunse la sua
valigia al mucchio di scatole di campioni nel portabagagli
della Mercedes, e un attimo dopo Lumky si tuffò a tutta
velocità nel traffico di mezza mattina di Pocatello.

Il viaggio da Pocatello a Montpelier non fu tremendo


come quello da Boise a Pocatello. Se la passarono bene,
incrociando sul cammino per lo più fattorie e frutteti; il
fondo stradale era in buone condizioni e diverse parti erano
state sistemate di recente. Il traffico era scarso. Lumky non
andava veloce, ma manteneva una buona velocità di
crociera, da professionista del volante, sorpassando veicoli
lenti e dando strada alle Buick e alle Cadillac nuove che
sfruttavano tutta la velocità che potevano spremere dal loro
motore da trecento cavalli. Mantenne una media di poco
più di cento chilometri all’ora, che, su quella strada, non
era male.
Nel pomeriggio raggiunsero Montpelier. Le strade locali
erano in condizioni terribili, quasi in rovina. In alcuni punti
il fondo stradale era completamente franato, lasciando solo
macerie. Tutte le case avevano un aspetto arcaico e
desolato; non era un problema di tinteggiatura o di
ristrutturazione: erano tutte di un cupo colore neutro,
indefinibile. Le abitazioni sembravano case coloniche
addossate le une alle altre, con prati coperti di erbacce e
aiuole fiorite tra l’una e l’altra. Molte delle automobili
parcheggiate avevano gomme da neve, il che suggeriva che
quando pioveva il fango riduceva le strade a un pantano
per i maiali. Il primo motel che videro aveva solo un
acquitrino dove parcheggiare; gli alloggi erano baracche
fatte di assi e l’insegna era dipinta a mano su legno, niente
neon. Poi oltrepassarono un garage in rovina e due o tre
distributori di benzina, un baracchino di gelati, la strada
principale della città con i suoi bar, negozi di tute per
operai, piccoli cinema, e capannoni abbandonati in cui,
all’epoca dei trasporti pesanti, si riparavano i treni. L’aria
era satura di polvere. Tutte le automobili che vedevano
erano grigie di polvere. Gli uomini sui marciapiedi
indossavano cappelli da cowboy a tesa larga. Quella vista
scoraggiò sia Bruce sia Lumky.
– Che postaccio, – disse Lumky. – Ci sto il meno
possibile. È proprio oltre il confine dello Utah… – Indicò
con il dito. – Appena ci arrivi ti ritrovi in una foresta, e poi
sbuchi fuori a Logan. Mi piacerebbe stare lì. È pulito. Tutto
lo Utah è pulito.
– Lo so, – disse Bruce. E pensò: questo è il limite
estremo del territorio di Milton Lumky. La sua frontiera.
– Nello Utah non lasciano mai che la polvere si sparga, –
disse Lumky, cercando un parcheggio. I posti erano quasi
tutti già occupati dai pick-up imbrattati di fango, usati
come veicoli da lavoro in quella zona di fattorie. – Hanno
acqua che scorre sottoterra, nei condotti. È tutto fertile. È
così che ce la fanno: grazie all’L.S.D.
– L.D.S., – lo corresse Bruce.
– Sì, insomma, quella loro congregazione dei santi
apocalittici. Ovviamente è lì il trucco. Se vivi nello Utah
devi unirti alla chiesa. È una bella seccatura, ma non ti
lasciano in pace, altrimenti. Non puoi comprare sigarette o
alcolici. Se bevi caffè ti guardano in modo strano. Non puoi
affittare una stanza o andare al bagno–. Trovò un posto
libero e parcheggiò la Mercedes. – Alla gente di qui non
frega un cavolo di niente. Tutta la città sta andando in
malora –. Scese dalla macchina e salì sul marciapiede,
allacciandosi la cintura; mentre guidava l’aveva tenuta
slacciata.
Durante la guida entrambi si erano sentiti soffocare.
Bruce non era abituato a fare il passeggero mentre guidava
qualcun altro e aveva subito cominciato a tormentare
Lumky. Ma adesso che erano fuori dalla macchina
iniziarono entrambi a sentirsi meglio.
– Che ne dici di mangiare qualcosa? – disse Lumky.
– Quando devi vedere queste persone?
– Prima possibile. Ma ho fame. Se vado senza mangiare,
lo stomaco si metterà a brontolare –. Si avviò. – E questo
uccide gli affari.
Si ritrovarono in un caffè buio, lungo come una galleria,
pervaso da un suono gracchiarne di chitarra elettrica
proveniente dal jukebox, con la superficie grigia d’unto per
il fumo d’olio bruciato. Al bancone sedeva una fila di
uomini, tutti con il cappello in testa, che mangiavano da
alcuni vassoi. Le pareti del locale erano state dipinte di
nero. Tre donne di mezz’età dall’aria stanca lavavano piatti
senza sosta.
– Questo è il limbo, – disse Milt. – Ma si mangia bene.
Prendi un po’ di prosciutto fritto–. Individuò due sgabelli
liberi e si sedette su uno di essi. Bruce prese posto in
quello accanto.
Il cibo, quando arrivò, non era male.
– Ci sono posti peggiori di Montpelier, – disse Milt
mentre mangiavano. – Non lasciarti deprimere.
– Il posto peggiore che ho visto è dalle parti di
Cheyenne, sulla strada che da Denver passa per Greeley, –
disse Bruce.
– Il marito di Cathy possiede alcuni di quei depositi di
demolizione auto in Colorado, – disse Milt. – Un inquinatore
ritardato. Non mi è mai passato per la testa che qualcuno
potesse mettere di proposito quell’immondizia ai bordi
della strada. Ma lei dice che lui ce la scarica con molta
attenzione. Probabilmente crede che sia bella.
Consumarono il loro pasto, poi bevvero il caffè. – Mi
chiedo a quanto posso comprare le macchine per scrivere
giapponesi, – disse Bruce. – Cadauna.
– Sono in magazzino da un paio d’anni, ormai, – disse
Milt. – Tutto quest’affare dell’importazione dal Giappone è
un casino. Non dovrebbero chiederti troppo.
– Meno di cento dollari?
– Molto meno.
Ciò migliorò decisamente il suo umore. – Dammi un’idea
generale.
– Mi sembra che costassero circa quaranta dollari l’una.
Nelle scatole originali. Ce n’erano circa duecento in questo
magazzino, quando le ho viste. Ciò farebbe… – calcolò. –
Circa ottomila dollari per tutta la partita. Hai così tanto?
– No. Sono sui duemilacinquecento.
– Si direbbe che tu abbia venduto l’automobile, –
chiocciò Milt. – È più o meno il prezzo di una Mercury
usata. A dire il vero è esattamente quanto ho speso per
questa Mercedes, e l’ho comprata usata. Ovviamente, non
c’è bisogno di prendere duecento macchine per scrivere. Te
ne basterebbero sessanta; così andrebbe più o meno bene,
per un negozio delle dimensioni del tuo. Ma te ne
venderanno sessanta a quel prezzo?
– Sessanta sarebbe un gran bell’aiuto, – disse Bruce.
Molto meglio di venticinque. Forse ne era valsa la pena
dopo tutto, il lungo viaggio, tutte le difficoltà per
rintracciare Milt Lumky.
– So che sono state vendute al dettaglio a circa
centottanta dollari, – disse Milt. – Per essere competitive
con la Smith-Corona. Dovrai mettere in conto di dover dare
una garanzia di qualche tipo, immagino. Di questo non so
proprio niente. Faresti meglio a informarti bene al
riguardo–. Giocherellò con un avanzo di cibo, poi disse: –
Forse potrei prestarti altri soldi. Abbastanza per comprare
tutto il magazzino. Sempre che non lo suddividano in
partite con un prezzo decente –. Guardò Bruce. – Intendo
dire a Susan. Per Susan. Non solo per te.
– Potrebbe essere un regalo di nozze, – disse Bruce in
tono scherzoso, poi si rese conto di quello che aveva detto.
Di colpo la testa di Milt scattò all’indietro, e Bruce poté
vedere le differenti reazioni. – Tu e Susan?
– Sì.
– Quando?
– Proprio pochi giorni fa.
Rimasero seduti in silenzio.
– Sul serio, – disse Milt, con voce addolcita. – Non riesco
a crederci. Be’, congratulazioni, – commentò, allungando la
mano. Si strinsero la mano. Quella di Milt era umida e
tremava. – Sai, l’avevo sospettato la notte che sono passato
e tu eri là. Ma l’avevo rimosso. Eravate… sposati allora?
– Non ancora.
– È sorprendente. Non pensavo che si sarebbe risposata
così presto. Be’, non si finisce mai d’imparare. Di certo non
è una menzogna. Ti pagherò il pranzo–. Prese i due conti e
scivolò giù dallo sgabello. Senza aggiungere altro andò
all’entrata del caffè e tirò fuori il portafogli per pagare al
cassiere.
Bruce, raggiungendolo sul marciapiede, disse: – Non so
perché non te l’ho detto subito.
– Me l’hai detto abbastanza presto, – commentò Lumky
in modo brusco. – A me sembra presto, – disse mentre
saliva in macchina. Il suo viso era grigio e abbattuto. –
Forse le telefonerò per farle le congratulazioni, – borbottò
sedendosi al volante senza accendere il motore. – No,
adesso devo vedere queste persone di cui dicevo–. Guardò
l’orologio sul cruscotto. – Si tratta di bicchieri di carta o
roba del genere. Riesci a concepire l’idea di guidare
migliaia di chilometri per vendere a un tipo di un paesino
dei bicchieri di carta? Vendere è proprio uno strano
mestiere.
– È vero, – convenne Bruce, a disagio.
– Cerca nel retro, – disse Milt. – C’è una scatola di
cartone lunga e sottile. Piena di bicchieri.
Dopo che Bruce l’ebbe trovata, Milt l’aprì e si assicurò
che i bicchieri fossero intatti.
– Tu stai qui, – disse, uscendo con i bicchieri. – Scarico
questa roba e torno. È quell’albergo un paio di porte più in
giù. Gli dirò di chiamarci se vogliono i bicchieri. Devono
avere la possibilità di decidere –. Se ne andò, lasciando
Bruce, la macchina e la sua cartella.
Passò del tempo e alla fine tornò, senza i bicchieri.
– Ecco fatto, – disse, scivolando dentro la macchina.
Mise in moto e cominciò a reimmettersi nel traffico. –
Andiamo a casa. Al diavolo Montpelier, Idaho.
Un autobus della Greyhound suonò il clacson. Milt
rispose premendo furiosamente il suo clacson.

Mentre tornavano verso casa, passando davanti a


fattorie che avevano visto solo un’ora prima o poco più,
Milt sedeva curvo, con il mento in fuori e gli occhi fissi sulla
strada. La radio della macchina, che aveva acceso lui,
andava a tutto volume e rendeva impossibile la
conversazione. Milt dava tutti i segni di essere entrato in
un cupo letargo; il suo controllo della macchina divenne
labile, e non reagiva prontamente ai cambiamenti del
traffico. Ma alla fine si raddrizzò, spense la radio e afferrò il
volante con entrambe le mani.
– Verrò sulla costa con te, – dichiarò Milt.
– A Seattle?
– Sì, prenderemo le tue macchine per scrivere.
– Fantastico.
– Quanto pensi che ci vorrà?
– Dipende se prendiamo entrambe le automobili.
Faremmo prima se ne prendessimo una sola e ci
alternassimo alla guida.
– Devo tornare di nuovo là, – disse Milt.
– Tornerò insieme a te.
Discussero sulla scelta della macchina. La Mercury,
essendo più spaziosa, poteva essere più comoda. E con
quella potevano fare prima. D’altra parte, la Mercedes
avrebbe consumato meno benzina.
– Come ti senti al pensiero che qualcun altro guidi la tua
macchina? – chiese a Milt. – A me non importa di chi guida
la Mercury.
Milt disse: – Sarebbe più facile trovare i ricambi per la
tua auto. Pneumatici e fusibili e merda del genere –. Non
rispose direttamente alla domanda. Alla fine decisero di
prendere la Mercury; quello che non stava al volante
poteva stendersi e dormire più facilmente nell’auto più
spaziosa.
Circa un’ora più tardi rientrarono a Pocatello. Un
funerale rallentò la loro andatura; una sfilza di automobili
con i fari accesi passò orgogliosamente davanti a loro,
protetta dagli uomini di un corpo di polizia speciale che
indossavano uniformi lucide ed elmetti. Milt, al volante, li
osservò prima in silenzio, poi cominciò a maledire le
macchine. – Guardali, – disse, interrompendosi subito dopo.
– Dev’essere il sindaco–.
Le macchine, per lo più nuove e costose, andarono in
quello che sembrava essere un parco pubblico ma che era
probabilmente la più bella camera mortuaria della città. – È
morto quello stramaledetto bastardo fottuto e puzzolente
del sindaco di Pocatello La sua voce aumentò di volume. –
Guarda gli elmetti laccati di quei poliziotti. Sembra di
essere nella Germania nazista –. Con il finestrino abbassato
gridò in strada: – Branco di dannate s.s. naziste che ve ne
andate in giro impettite!
La polizia non fece caso a lui. Alla fine l’ultima macchina
della processione passò davanti a loro, la polizia suonò i
fischietti e il traffico riprese a circolare.
– ’Fanculo, – disse Milt, mettendo in moto la macchina e
tenendo il motore al minimo.
– Veramente non abbiamo perso molto tempo, – disse
Bruce, ma Milt non rispose.
Arrivati a casa, parcheggiarono la Mercedes nel garage
senza porte e cominciarono a trasportare le valigie dal
sedile posteriore e dal bagagliaio nella Mercury.
Mentre erano intenti a compiere quell’operazione, una
macchina si fermò sul ciglio della strada. Lo sportello si
aprì e saltò fuori Cathy Hermes, che chiuse la porta e
salutò con la mano. La macchina, una Chrysler del 1949,
partì e girò a sinistra all’angolo.
– Suo marito, – disse Milt, sollevando una manciata di
campioni dal retro della Mercedes. – La accompagna a casa
dal lavoro e la lascia lì. Lei abita con me.
Con la giacca di panno marrone che le svolazzava dietro
la schiena, Cathy si affrettò verso di loro. – Sei tornato così
presto? – chiese, stringendo la borsa e cominciando a
correre. – Che cosa stai facendo? Vai da qualche parte con
la sua macchina?
Milt rispose: – Partiamo di nuovo.
– Per dove? – Lo raggiunse e si mise di fronte a lui,
impedendogli di caricare altre cose nella Mercury.
– A Seattle.
– Adesso? Subito? – Respirava affannosamente,
guardandolo imbronciata nel riverbero del tardo
pomeriggio. – Perché tanta fretta? Credevo che saresti
ripartito fra tre giorni, che saresti rimasto a riposarti qui
almeno fino a martedì.
– Tornerò.
A quelle parole, Cathy si scosse e disse con la sua voce
sottile e insistente: – Non dovresti fare un viaggio così
lungo tutto in una tirata. Sai che è troppo faticoso per te. E
poi perché devi andare per forza con lui? Lasci qui la
Mercedes?
– Puoi usarla, – disse Milt, spostando la donna da parte
in modo da poter caricare i campioni nella Mercury. – Ecco
la chiave.
– Ce l’ho una chiave, – disse Cathy. – Vuoi spiegarmi di
cosa si tratta? Credo di avere diritto di saperlo, dal
momento che sarò io a dovermi prendere cura di te.
Milt rispose: – Lui e una mia amica si sono sposati e
voglio concludere quest’affare per loro come regalo di
nozze.
Si ritirarono entrambi in un angolo per discutere. Bruce
non voleva intromettersi nella loro discussione, così
continuò a caricare la sua macchina con tutto ciò che
trovava nella Mercedes.
Chiamandolo con un cenno, Milt disse: – Devo prendere
un po’ di cianfrusaglie di sopra. Tornerò tra un paio di
minuti –. Entrò nell’edificio, trascinando i piedi, cupo e
taciturno.
Cathy rimase indietro nel viale, con la borsa, bloccata
dall’ingresso di Milt in casa.
– Credo che sia colpa mia, – disse Bruce, mentre
caricava.
– Lui sa che non dovrebbe andare, – commentò Cathy.
– Guiderò io, per la maggior parte del tempo.
Rossa in viso la ragazza disse: – Non dovrebbe stare
seduto per così tanto tempo, e quando è per strada tra le
città non si ferma abbastanza spesso per andare in bagno.
Questo e tutti i sobbalzi. Non potrebbe semplicemente
telefonare per questo suo affare?
– Dovrebbe essere lui a saperlo, – rispose Bruce
imbarazzato. – Non io.
Quando Milt tornò, Cathy gli chiese: – Perché non ti
limiti a telefonare?
– No, – disse Milt. Mise le cose che aveva portato giù
nella Mercury. – Starò bene. Mi sdraierò dietro e lascerò
guidare Bruce.
– Questa donna dev’essere davvero una tua ottima
amica, – disse Cathy. – Forse può prendersi cura lei di te.
Se ti ammali a causa di questo viaggio, io non ti curerò –. Si
avviò dentro casa.
– Come vuoi, – disse Milt, entrando nella Mercury. –
Andiamo, – disse a Bruce.
Dal porticato Cathy esclamò: – Non tornare qui.
– D’accordo, – rispose Milt.
Lei gettò la chiave verso la Mercedes; cadde nella
polvere del vialetto. – Lascia che sia il tuo amico di Boise a
prendersi cura di te, – disse. Aprì la porta principale della
casa, entrò, e la sbatté dietro di sé.
– Andiamo, – ripeté Milt.
Dietro al volante, Bruce mise in moto la Mercury.
Partirono, entrambi in silenzio.
– Vedremo che cosa dirà quando torno, – disse Milt, un
po’ dopo. Adesso aveva preso il volante.
– Si preoccupa sul serio per la tua salute, – disse Bruce,
sentendosi profondamente responsabile, ma sapendo allo
stesso tempo che se volevano prendere le macchine per
scrivere questo era forse l’unico modo.
Milt disse soltanto: – Susan probabilmente si sente nello
stesso modo nei tuoi confronti. Probabilmente pensa che io
abbia una cattiva influenza su di te.
– Non sa dove sono.
– Se lo sapesse ti direbbe di stare alla larga da me. Le
donne la pensano sempre in questo modo sugli amici dei
mariti. È istintivo. Temono che il marito sia in realtà un
invertito.
– Non credo che sia per questo che lei è arrabbiata, –
disse Bruce. – Tu sì?
– No, – ammise Milt.
– Non mi sembra che si possa dedurre da questo che
uno di noi o entrambi siamo invertiti Ciò l’infastidiva, anche
solo l’idea.
Milt, sorridendo leggermente, disse: – È solo così per
dire.
Dopo un po’ di tempo Bruce chiese: – Che effetto fa
guidare una macchina americana, dopo la tua Mercedes?
– Come correre su una lastra di ghiaccio.
– Perché dici così? – chiese Bruce risentito.
– Va in qua e in là come un’oca in libertà, – spiegò Milt,
oscillando il volante in modo che la macchina andasse a
zigzag, da una parte all’altra della linea bianca poi sul
bordo della strada. – Sei sicuro che questo volante sia
attaccato a qualcosa sotto? Non ha alcun senso della
strada. È come guidare un sacco di piume di gallina. Bei
finestrini, comunque –. Colpì Bruce nelle costole. – Come
quel treno con le carrozze panoramiche.
– Prova ad aprirlo, – disse Bruce, – e ti accorgerai della
differenza. Questa macchina viaggerà ai novanta tutto il
giorno.

Continuarono lungo la statale 30, nell’Oregon del Nord,


senza fermarsi a Boise. Di mattina presto, prima dell’alba,
Milt suggerì di fare una sosta per mangiare. Trovarono un
caffè sulla strada, si rifocillarono, e tornarono di nuovo in
strada. Ma adesso Milt sembrava intorpidito e un po’ a
disagio. Lasciò guidare Bruce; appoggiandosi contro lo
sportello dalla sua parte, si strinse le mani intorno al corpo
ma non dormi. Mentre guidava, Bruce ascoltava il respiro
di Milt.
– Stai bene?
– Certo. Sto facendo un riposino.
– Hai male ai reni?
– Non ce li ho, i reni.
– Forse dovremmo trovare un posto per fermarci, – disse
Bruce, ma in realtà voleva continuare a guidare. Forse
potevano raggiungere Seattle senza soste, fare l’intero
viaggio in una sola tappa. L’eccitazione della guida
cominciò a prendere il sopravvento, nella sua mente, sul
loro proposito di andare a Seattle prima di tutto. I suoi
viaggi lunghi erano stati per lo più sofferenze solitarie,
senza nessuno con cui dividere la guida o con cui parlare.
Riusciva a capire perché Milt aveva voluto compagnia. Era
davvero molto diverso. Qui erano insieme, come lui e il suo
vecchio capo Ed von Scharf una volta, prima che imparasse
abbastanza per andare a fare acquisti da solo. Quanto gli
ricordava quei tempi, questa situazione… solo che in un
certo senso le cose erano ribaltate. Adesso era lui a guidare
per la maggior parte del tragitto e a decidere quando si
presentava una scelta. Accanto a lui, il suo compagno
diventava sempre più inerte. Alla fine sarebbe stato tutto
nelle sue mani.
Ma in un certo senso gli piaceva avere il volante per sé,
con Milt che se ne stava tranquillo nel sedile accanto al
suo. Ne trasse la sensazione che senza di lui non sarebbero
potuti arrivare affatto a Seattle; almeno, non in questo
modo, guidando senza mai fermarsi. In parte era una
questione di età. E di condizioni fisiche generali. Ma questa
era anche la sua specialità. Crescendo a Montario si sentiva
davvero tagliato per il volante; quando faceva le superiori
aveva guidato fino a Reno, diciassette anni e già desideroso
di…
Milt l’interruppe. – Che cosa c’è che non va in te? – Lo
guardò con disprezzo, e, tirandosi su, brontolò: – Perché fai
così? È una posa?
Preso di sorpresa, Bruce disse: – Spiegati meglio.
Muovendosi nervosamente, Milt indicò la strada e la
campagna circostante. – Ti nutrì di questo. Ti ho osservato,
la divori. Più è, meglio è. Come fa una persona a diventare
così? Me lo sono chiesto ripetutamente. Non hai bisogno di
niente oltre a te stesso? Gli esseri umani non significano
niente per te.
La tirata, arrivando senza preavviso, ed essendo così
sconclusionata, fece si che Bruce si chiedesse che cosa
fosse preso a Milt. – Che cosa stai dicendo?
Calmandosi un po’, Milt disse: – Sei fin troppo
autosufficiente, diamine. No, peggio. Non ti importa niente
di nessun altro; forse non ti importa neanche di te stesso.
Che vivi a fare? – In tono accusatorio, continuò: – Sei come
uno di quei magnati miliardari che agiscono senza
rispettare i sentimenti altrui –. Parlò con tale fervore e
sincerità che a Bruce scappò da ridere. Allora, il discorso di
Milt divenne ancora più sconnesso. – Sì, è davvero strano, –
riuscì a dire. – Ti importa almeno di tua moglie? O l’hai
sposata solo per ereditare il negozio? Diavolo, sei un pazzo
Lo fissò.
– Non sono pazzo, – disse Bruce, e doveva combattere
gli attacchi di riso. Lì, accanto a lui, abbattuto, imbronciato,
Milton Lumky era diventato paonazzo e gli occhi erano
pronti a schizzargli via dalla testa. E per cosa? Impossibile
dirlo. – Senti, – disse Bruce, – se ti ho fatto arrabbiare…
– Non mi hai fatto arrabbiare, – l’interruppe Milt. – Mi
fai pena.
– Perché?
– Perché non ami nessuno al mondo.
– Tu non puoi saperlo.
– Non hai legami affettivi con nessuno. Ti ho capito. Non
hai cuore –. All’improvviso, si colpì sul petto con trasporto e
gridò: – Non hai un fottuto cuore, vero? Ammettilo.
Incredibile, pensò Bruce, che qualcuno potesse parlare
a quel modo. Credere in espressioni così vuote. Immondizia
che aveva letto e gli veniva fuori, dalla bocca e dalla voce.
Ma senza alcun dubbio, per Milt era una faccenda seria.
Ciò lo fece calmare e disse: – Mi sento molto legato a
Susan.
– Che mi dici di me? – chiese Milt.
– Che significa «che ne dici di me»?
– Lascia perdere.
In vita sua non aveva mai sentito nessuno parlare a quel
modo. – So che cosa ti infastidisce, – disse Bruce. – Questo
paesaggio deprime te e non deprime me. Questo ti fa
arrabbiare e ti preoccupa.
– Ti senti mai depresso? Per una cosa qualsiasi?
– Non per il paesaggio, – rispose Bruce. Ma poi ricordò
come si era sentito quando aveva attraversato le Sierre.
L’aspetto sciatto e abbandonato delle montagne. La
vegetazione scarsa. Il silenzio. – Certo, – disse. – A volte mi
butta giù. Non mi piace molto tra una città e l’altra. Credo
che tutti quelli che guidano la pensino così, specialmente
qui dove dobbiamo andare, nel Gran Deserto dell’Ovest.
– Non posso guidare in quel deserto, – disse Milt. – Fino
al Nevada –. Adesso sembrava di nuovo malato e debole; si
sistemò contro lo sportello. Il rossore era scomparso dal
suo viso, permettendo ai lineamenti di rilassarsi. Per molto
tempo nessuno di loro parlò. Alla fine Milt si mosse e disse:
– Fermiamoci e dormiamo un po’–. Chiuse gli occhi.
– D’accordo, – disse Bruce riluttante.
All’alba raggiunsero un piccolo motel distante dalla
strada, con l’insegna che indicava camere libere ancora
accesa e lampeggiante. La proprietaria, una donna di
mezz’età che indossava una vestaglia, li condusse in un
alloggio, e poco dopo avevano chiuso a chiave la macchina,
portato dentro le valigie, e si trascinavano in due letti
singoli.
Mentre si stava addormentando, Bruce pensò
trionfalmente: solo altri trecentocinquanta chilometri di
strada da fare. Ci siamo quasi.
No, pensò, forse cinquecento. Ma non faceva una gran
differenza. Possiamo farcela senza alcun problema.

Si svegliò alle undici del mattino seguente. Scendendo


dal letto si diresse a passi felpati verso il bagno, si liberò
dei vestiti sgualciti e scomodi e si godette una doccia. Poi si
fece la barba, si pettinò e si mise dei vestiti puliti, in
particolare una camicia bianca di cotone inamidata di
fresco. Ciò lo fece sentire decisamente meglio. Tuttavia
c’era qualcosa che indugiava in un angolo della sua mente
e che lo deprimeva. Qualcosa lo buttava giù. Che cos’era?
Un disagio ricordato solo parzialmente. Nel bagno indugiò
davanti allo specchio agitandosi con il talco, cercando di
scoprire la natura del peso che lo opprimeva. Fuori dal
motel, il caldo sole faceva scintillare le macchine che
passavano lungo la strada e lui si sentì pronto ad andare
via: d’un tratto voleva partire. Con impazienza uscì dal
bagno e ritornò nella stanza principale.
Nel letto Milt Lumky era coricato su un fianco, con le
gambe rannicchiate e la faccia nascosta dalle coperte. Non
si muoveva, ma era sveglio. Bruce poteva vedere i suoi
occhi. Senza sbattere le palpebre, Lumky fissava un angolo
della stanza.
– Come stai? – chiese Bruce.
– Bene, – rispose Lumky. Continuò a fissare, poi disse: –
Detesto farlo, ma devo dirti che sto male.
Raccogliendo la valigia, Bruce cominciò a metterci
dentro le sue cose. – Male quanto?
– Molto male.
Bruce sentì che aveva paura. Gli tremarono le gambe.
Questa era la cosa schifosa sommersa in un angolo della
sua mente, e ora era venuta a galla. Comunque continuò a
fare la valigia. Dal letto Milt lo osservava. – È un peccato, –
disse Bruce. – Mi dispiace di sentirti dire questo. Certo che
non è proprio una sorpresa per nessuno di noi due. Dopo
ieri, un po’ ce lo aspettavamo.
Milt disse: – Dovrò stare a letto per un po’–. Parlava
lentamente, ma senza alcun segno di esitazione. Sembrava
che conoscesse così bene la sua situazione che non potesse
esserci spazio per alcuna discussione.
– Forse allora Cathy aveva ragione. Giusto? – chiese
Bruce.
– Aveva ragione, – confermò Milt.
– Maledizione. Che situazione del cavolo–. Bruce smise
di fare la valigia e rimase lì senza fare nulla.
– Mi secca terribilmente doverla scaricare su di te, ma
non possiamo farci niente, – commentò Milt. Evidentemente
non sentiva il bisogno di scusarsi. La sua voce era rauca.
– Vuoi la tua medicina?
– Forse più tardi. Per ora me ne starò qui tranquillo Non
accennò nemmeno ad alzarsi. Sembrava calmo, comunque,
né in preda a dolore fisico, né allarmato. Solo rassegnato, e
in qualche modo sopraffatto. Senza nessuna voglia di
provare a scherzarci su.
Sapeva che cosa stava per succedere? Bruce se lo
chiedeva. Scommetto di sì. Forse questo è il suo modo di
arrivare di nuovo a noi. Anche perché ci siamo sposati. È
geloso di me, pensò. Simili pensieri gli balenarono in testa
mentre osservava Milt Lumky nel letto. Dopotutto, Milt
stesso aveva detto che Susan gli interessava.
– Penso che non andremo a Seattle, – disse.
– Più avanti, – ribatté Milt.
– Voglio dire, forse non ci andremo per niente.
Milt non disse nulla. Poi fece una smorfia, o a causa del
dolore o perché pensava a qualcosa. Si contorse nel letto,
con le sue corte, tozze dita ora visibili, afferrò il cuscino per
tirarselo sotto la testa. Le coperte gli ricaddero sulla faccia.
Dava le spalle a Bruce, ora.
Passato un po’ di tempo Bruce aprì la porta e uscì nel
parcheggio riservato andando alla macchina. Avevano
tirato su i finestrini dell’auto, e Bruce poteva vedere che
l’interno era umido e opprimente. Quindi aprì la portiera e
abbassò i finestrini. La tappezzeria gli bruciò la mano
appena vi si appoggiò sopra. L’automobile aveva odore di
tessuto e di polvere, come sempre di mattina. Si sedette al
volante, accese una sigaretta e fumò.
Non posso abbandonarlo. Non posso andare via e
lasciarlo qui da solo. Sta veramente male. E comunque,
senza di lui non posso organizzarmi per le macchine per
scrivere, si rese conto.
Senza Lumky non poteva fare nulla: aveva le mani
legate. Tutto quello che poteva fare era rimanere in zona,
aspettare e sperare che Lumky si riprendesse.
Lumky lo aveva intrappolato lì. Non poteva tornare da
Susan a Boise né andare a Seattle per le macchine per
scrivere, né tornare a Reno né da nessun’altra parte.
Bloccato in un motel di quarta categoria, a due passi dalla
strada, da qualche parte nel Nord dell’Oregon o forse nello
stato di Washington; non sapeva nemmeno se erano entrati
nello stato di Washington oppure no. Non sapeva nemmeno
il nome del motel.
12

Percorse il corridoio in direzione della reception del motel.


All’interno la proprietaria, una donna di mezza età con gli
occhi chiari, era intenta a strofinare il distributore bianco
smaltato della Seven-Up; quando entrò gli sorrise.
– Buongiorno, – disse ad alta voce, riprendendo a
strofinare.
In un angolo dell’ufficio c’era un bambino che leggeva
un fumetto. Accanto alla porta, un espositore girevole di
cartoline con vedute dello stato di Washington e
dell’Oregon. Sulla sinistra si scorgeva la cassa, sulla destra
c’era il telefono a gettoni. L’ufficio era pulito, e alla luce del
sole appariva confortevole.
– Conosce un dottore qui nei paraggi? – chiese Bruce. –
Chi mi consiglierebbe?
– Il suo compagno è ammalato? – Smise di strofinare e si
raddrizzò. – Ho notato che non siete andati in giro questa
mattina. Ieri notte quando siete arrivati ho pensato fra me
e me che sembrava stanchissimo.
Mise via lo straccio e la latta di cera olandese. – Siete
parenti? – chiese la donna, guardandolo dal bancone.
– No, – rispose Bruce, irritato.
– Pensavo che potesse essere un suo parente, forse suo
fratello maggiore.
Con una risata nervosa si piegò sotto al bancone e prese
un taccuino. – Ci sono molti dottori in gamba qui nei
paraggi… solo un attimo–. Si mise a sfogliare le pagine.
Dalla porta sul retro apparve il marito, un uomo magro,
austero, con la tipica fisionomia dell’Oklahoma.
– Per che cosa? – chiese a Bruce Che genere di malattia?
– Non so che cos’abbia. Qualcosa di cronico Dal
momento che i due lo stavano fissando attentamente, Bruce
disse: – Non lo conosco molto bene; è un collega di lavoro.
– Sarà meglio che scopra cos’ha, – disse l’uomo.
Si scambiarono un’occhiata poi la moglie aggiunse:
– Scopra se è contagioso, per favore –. I due coniugi
seguirono Bruce fino alla porta dell’ufficio.
– So che non è contagioso, – disse lui. – È un disturbo ai
reni.
– Ci sono disturbi ai reni contagiosi, – disse l’uomo alle
sue spalle, dalla soglia dell’ufficio.
Mentre Bruce tornava verso la camera, sentiva ancora i
due nell’ufficio alle sue spalle che discutevano a bassa
voce.
Probabilmente diranno che farlo stare qui è contro la
legge, pensò tra sé e sé. Probabilmente ci faranno andare
via.
Ovviamente, c’erano altri motel. Sempre che Milt stesse
abbastanza bene da muoversi.
Non aveva voglia di tornare nella stanza, così rimase
fuori in veranda. Sulla strada le macchine passavano una
dopo l’altra. Da dove si trovava non riusciva a vederne le
ruote; sembrava quasi che slittassero sull’asfalto. Come
giocattoli di metallo tirati da uno spago, sul pavimento,
sempre più velocemente. Quella vista lo riempì di
inquietudine. Bruce aprì la porta della stanza.
– Ciao, – borbottò Milt dal letto.
– Sai come posso trovare Cathy?
– Perché?
– Voglio un suo consiglio.
– Lei non può dirti niente. Non credi che io sappia già
che cos’ho?
Dopo avere discusso, Bruce riuscì a ottenere il nome
dell’ufficio di Cathy al Municipio di Pocatello, l’ufficio degli
accertamenti tributari della città.
– Non voglio che tu la chiami, – disse Milt, tirandosi su
nel letto. Il suo viso mostrava che aveva cominciato a
soffrire molto: la pelle sotto agli occhi si era raggrinzita e
sciupata. – Starò bene dopo avere riposato un po’. Devo
solo evitare di stare in piedi. Devo restarmene steso.
Probabilmente entro sera sarò di nuovo in forma.
– Dimmi esattamente che cos’hai.
Milt disse: – Nefrite. L’ho presa in seguito a un attacco
di scarlattina che ho avuto da bambino.
– Quanto è grave?
– Va e viene. È quel figlio di puttana di dolore alla
schiena che mi distrugge. Non ci puoi fare niente. Quindi
non chiamare Cathy. Non preoccuparti. Saremo a Seattle
per domani notte –. Si distese sul letto, con le braccia lungo
i fianchi.
– Sei sicuro che non posso fare niente per te?
– Esci e vai a fare colazione.
Bruce uscì dalla stanza e vagabondò in giro, attraversò
un campo e un pascolo recintato dove un paio di cavalli
brucavano l’erba. L’aria sapeva di letame e fieno. La terra
gli si sbriciolava sotto le scarpe, come se stesse
calpestando la tana di un roditore. Chinandosi, osservò
delle grosse formiche rosse all’opera. Lontano, sulla strada,
circolavano le macchine.
Un giorno, in giugno, si era fermato in panne nei pressi
di Wendover, in Nevada. Dopo aver accostato a un lato della
strada, era rimasto ad armeggiare con la coppa dell’olio
rotta dalle dieci del mattino all’una e mezzo del
pomeriggio, sapendo anche mentre si dava da fare che non
aveva alcuna possibilità di ripararla. Quello che cercava di
fare era mostrare alle macchine che passavano che stava
bene, che sarebbe tornato presto al volante. Per tutto il
tempo aveva dato le spalle alla strada e aveva tenuto la
testa china sul cofano, pieno di vergogna e di rabbia, ma
sperando che nessuna delle macchine si fermasse. Alla fine
era apparso un camion a rimorchio proveniente da
Wendower; un automobilista l’aveva notato e aveva fatto la
segnalazione. Perché si era sentito così in colpa per essere
rimasto bloccato al margine della strada? Non lo so,
pensava adesso. Non l’aveva saputo allora. Ma qui era di
nuovo bloccato, e per un periodo di tempo maggiore. La
cosa che temeva di più.
Penso che ridano di me? si domandò.
Pensò: Come il vecchio Hagopian quando avevo
comprato la scatola di preservativi. Tutti si erano divertiti.
Ricordando quell’episodio, arrossì.
Cristo, pensò. Che cosa c’era di così divertente?
Comunque a tutti capita di comprarli prima o poi. Finché
non si sposano, e allora è la donna che deve comprare una
cosa in scatola. Più simile a una medicina.
Un giorno aveva visto un ragazzino di colore che aveva
trovato un preservativo, probabilmente in strada. Il ragazzo
se ne andava tranquillamente a spasso, e intanto lo
gonfiava come un palloncino.
Dio, e non c’era dubbio che fosse usato. Non aveva
saputo se ridere o schifarsi. O toglierlo di mano al
ragazzino. Comunque aveva proseguito impassibile,
fingendo di non vedere.
Era davvero esilarante.
Non avrebbe riso chiunque di una cosa del genere?
Devo proprio andarmene da qui, pensò. Anche se Milt
fosse un parente consanguineo, come pensava la signora,
dovrei andarmene lo stesso.
Ma sarebbe davvero meschino lasciarlo qui. Qualcuno
deve stare con lui.
Riattraversò il campo e tornò al motel, nell’ufficio. La
signora e il suo uomo dell’Oklahoma non erano in vista. Al
telefono a gettoni tirò fuori il pezzo di carta con il numero
di Cathy e infilò un decino nel telefono. Il centralinista gli
disse quanto inserire e Bruce mise la somma richiesta. Gli
fu data la linea. Una donna, non Cathy, rispose al telefono.
Bruce chiese della signora Hermes, e dopo una pausa si
ritrovò a parlare con lei.
– Sono Bruce Stevens, – disse.
– Chi è? – chiese Cathy, senza aspettare, tutt’a un tratto
consapevole del motivo della chiamata.
– È a letto, – spiegò Bruce. – È esausto.
– Fin dove siete arrivati?
– Abbastanza lontano, – rispose lui. Ora sapeva che si
trovava nello stato di Washington, appena fuori da una città
chiamata Pasco. – Adesso siamo in un motel. Abbiamo
passato la notte qui. Non mi ero reso conto fino a questa
mattina di quanto stesse male. Mi sono ricordato che lei mi
aveva avvertito, ma comunque ormai ci siamo dentro. Che
cosa ne dice?
– Non posso fare niente, – rispose la donna.
– Lei ha la macchina di Milt. Potrebbe venire dopo il
lavoro –. Cominciò a spiegarle dove si trovava il motel, ma
lei lo interruppe.
– Non ho le chiavi. Gliele ho tirate dietro.
– Sono nel viale, – disse Bruce.
– No, non ci sono. Ci ho guardato questa mattina e non
le ho viste. Ho anche fatto tardi al lavoro perché ho perso
un sacco di tempo a cercarle in giro.
– So che sono là, – disse Bruce. – Lui non le ha prese.
Cathy ribatté: – So che non ci sono.
– Potrebbe venire in autobus, allora?
No.
– Devo proseguire per Seattle. Bisogna che sistemi
quest’affare.
– Mi sta dicendo la verità? Partirebbe davvero e lo
lascerebbe lungo e disteso, malato nel letto di un motel?
– Devo, – disse Bruce. Dal momento che la donna non
diceva niente aggiunse: – Comunque la macchina è mia.
– Ho le chiavi della Mercedes.
Ciò non sorprese Bruce. – Allora la porti qui, – disse lui.
Le diede un lunga e complicata serie di indicazioni.
– Mi ci vorrà molto tempo, – disse la donna, in tono
titubante e ansioso. – Non posso arrivare così lontano in
una sola tappa. Dovrò fermarmi lungo la strada; non penso
che riuscirò ad arrivare là prima di dopodomani. Dovrò
prendere accordi per il permesso dal lavoro. Non so
neanche se posso farlo. Significa che lui sarà solo fino ad
allora, oppure lei resterà finché non arrivo?
– Dovrei partire adesso, – rispose Bruce.
Sul punto di piangere, Cathy disse: – Allora non ha
senso che io venga. Se lei se ne va, e mentre tento di
arrivare se ne va lui?
– Non può partire perché non ha una macchina con cui
andarsene.
– È vero, – ammise lei. – No, – decise. – Non parto. Lei
deve stare con lui. È comunque colpa sua.
Il telefono fece clic. Aveva riagganciato.
Adesso cosa devo fare? si chiese tra sé e sé.
Riagganciò. Dovrei richiamare? Ma non posso fare
niente per telefono; non posso costringerla a venire fin qui
in macchina, o a prendere l’autobus. Se non verrà allora va
bene. E quando dice che è colpa mia ha ragione. Ma non
vedo come possa non venire. Pensavo che sarebbe saltata
dritta in macchina e si sarebbe precipitata qui. Non si era
fatta tutta Pocatello in macchina quella notte in cerca di un
succo d’arancia per lui? Ed è una macchina facile da
guidare. E poi lei ci è abituata.
Uscendo dall’ufficio del motel diede un’occhiata
all’esterno, fra gli alloggi, in cerca della proprietaria. La
trovò in una stanza vuota, che sistemava degli asciugamani
puliti. – Posso avere degli spiccioli? – le chiese. – Per il
telefono?
– Ha scoperto che cos’ha il suo amico? – chiese la
donna, mentre tornavano in ufficio.
– È nefrite, – rispose Bruce. – Non è contagiosa.
Nell’ufficio la donna gli cambiò una banconota da
cinque dollari. – Ha una famiglia? Una moglie?
– Credo di sì, – rispose lui. Mettendo i soldi nel telefono
chiamò Susan a Boise. La donna del motel stazionò lì per
un attimo, poi uscì dall’ufficio. – Ho delle cattive notizie, –
disse Bruce al telefono. – Sono qui nello stato di
Washington con Milt Lumky, e lui sta male Le spiegò a
grandi linee quello che aveva spiegato alla proprietaria del
motel, ma lei l’interruppe.
– So del problema di Milt ai reni.
– Sembra che l’abbia da una vita.
– Sarà meglio che tu stia con lui, – commentò Susan. –
Hai abbastanza soldi con te? Te ne posso spedire un po’–. Si
erano messi d’accordo in modo che quando sarebbe
arrivato il momento di comprare lei gli avrebbe spedito i
soldi.
– Me la caverò, – disse Bruce.
– Quando gli viene un attacco di solito si mette a letto
per un paio di giorni. Ed è molto doloroso.
– Avevo ricevuto un sacco di segnali. La ragazza con cui
vive a Pocatello me l’aveva detto, e quando sono arrivato
qui stava già male. Quindi non posso biasimare nessuno. Di
certo non posso prendermela con lui.
– Certo che puoi, – disse Susan in tono prudente e
razionale. – Sta a lui giudicare, e se è venuto con te, allora
non è colpa tua. Devi presumere che lui sappia cosa sta
facendo: è un uomo adulto. Non puoi pensare di dare
giudizi sulle malattie di qualcun altro, specialmente
qualcuno che conosci appena. Perché non viene quella
ragazza a prendersi cura di lui?
– Le ho parlato per telefono, ma dice che non se la
sente.
– Non è un tuo problema. A meno che tu non voglia
renderlo un tuo problema. A meno che tu non ti senta
responsabile. C’è anche questo aspetto indefinibile.
– Sento che è colpa mia, perché se non avessi
cominciato a parlare delle macchine per scrivere lui non
sarebbe venuto con me; dopo tutto, questo viaggio ha lo
scopo di farmi ottenere le macchine per scrivere. Lui non ci
guadagna niente. È un favore che mi sta facendo.
– Non puoi permetterti di restare impantanato per molto
tempo, – puntualizzò Susan.
– Vero, – commentò lui. – Ma sento che devo farlo.
– Va bene. Fatti sentire.
– Ti richiamerò –. Le disse di non preoccuparsi poi
riagganciò. Dopo un attimo o poco più uscì dall’ufficio del
motel e camminò in direzione della stanza.
È proprio una di quelle situazioni, pensò. Quando una
persona è ammalata ha la precedenza su tutto il resto,
specialmente nelle questioni pratiche. Non puoi fare
sempre quello che ritieni possa essere la miglior cosa per il
tuo tornaconto. Nessuno può vivere a questo modo. Il
guadagno economico non è tutto. Non è la cosa più
importante. So che se fossi io a essere ammalato Milt
resterebbe. È per questo che lui è qui innanzi tutto. Perché
mette la sua amicizia con me davanti alle considerazioni
pratiche. Quindi al diavolo. E non ci si può fare proprio
niente.
Quando aprì la porta della stanza Milt, a letto, mormorò:
– Mi sento meglio. Questa maledetta cosa va e viene –. Si
era messo a sedere, con il cuscino dietro la schiena. –
Chiudi la porta, – disse. – La luce è accecante.
Chiudendo la porta, Bruce disse: – I padroni del motel
hanno paura che sia la peste bubbonica.
– Allora digli di cominciare a scappare, – commentò
Milt. – Senti, ci ho pensato su. Forse tu dovresti proseguire.
Guarda nel portafoglio nella tasca della mia giacca. Ho il
nome di quell’uomo scritto sul retro di un biglietto da
visita. Il tizio che ha le macchine per scrivere.
– Non c’è problema, – disse Bruce. – Non mi muoverò.
– Prendimelo, – ordinò Milt.
Prese il portafoglio e lo porse a Milt. Grugnendo per lo
sforzo, Milt scartabellò tra i biglietti e i foglietti di carta
piegati. Mentre li esaminava si soffermava su ognuno di
essi, riflettendo e cercando di ricordare cosa significasse e
perché l’avesse conservato. Alcuni biglietti si erano
appiccicati insieme, e lui li avvicinava agli occhi mentre li
divideva con cautela. Una delle carte lo mandò quasi in
trance, e per un lasso di tempo considerevole non parlò né
si mosse.
Alla fine ricominciò a frugare, finché non trovò quello
che cercava. – Phil Baranowski, – disse, leggendo il retro
del biglietto. – Ecco il suo indirizzo e il suo numero di
telefono. Phil è un tipo strambo. L’avevo conosciuto a un
raduno di grossisti. In seguito mi ha mostrato le macchine
per scrivere, tra il resto delle schifezze che aveva e voleva
vendere. È stato sei o sette mesi fa. Probabilmente le ha
ancora tutte sul groppone.
– Non ci vado, – disse Bruce. – Un po’ perché è ovvio che
se tu non ci sei non mi venderà le macchine, e un po’
perché penso di non poterti lasciare da solo. Non credo che
tu stia abbastanza bene.
– Te le venderà se userai la tua intelligenza. Digli
chiaramente che mi conosci.
Alla fine si decise ad accettare il biglietto da visita. Ma
la preoccupazione continuò a tormentarlo. Avrebbe potuto
fare il viaggio da solo, arrivare a Seattle per poi vedersi
negare da Baranowski la disponibilità a concludere affari
con lui. Anche se non aveva intenzione di andare, anche se
voleva restare al motel con lui, disse: – Potresti scrivere un
appunto per lui? O telefonargli?
Milt scrollò le spalle. – Non è necessario, – disse,
aggrottando le ciglia.
– Se dovessimo discuterne, posso farti telefonare da lui?
– Si sentiva in colpa, ma non poteva permettersi di
rischiare nella questione.
Sollevandosi un po’, Milt rispose: – Se vuoi. Se riesci a
raggiungermi. Qui non c’è un telefono.
– Ce n’è uno nella direzione del motel.
Milt annuì.
Sedendosi nelle sedia nell’angolo, di fronte a Milt, Bruce
cercò di rilassarsi. Ma la sua inquietudine crebbe. – Senti, –
disse, alzandosi. – Credo che andrò a fare un giro e forse a
comprare qualcosa da leggere. Vuoi niente? Una rivista, un
libro?
Milt era affondato gradualmente nel letto. Aprì gli occhi
e lo guardò, poi disse: – Bruce, c’è una cosa che avevo
intenzione di dirti. Ci ho pensato su, cercando di capire
cosa c’è che non va in te, perché sei come sei. Credo di
averti capito alla fine. Tu non credi in Dio, vero?
Questa volta rise. Questa volta la domanda era troppo
sciocca ed era posta in modo troppo serio; iniziò a
ridacchiare e una volta cominciato non riuscì più a
smettere. Si ritrovò steso sulla sedia, con le mani sugli
occhi, ad ansimare e piangere, ad ansare, mentre dall’altra
parte Milt continuava a guardarlo cupamente. E ancora non
riusciva a smettere. Più tentava di calmarsi, più difficile
diventava farlo. Alla fine perse la capacità di emettere
suoni. Anche la sua risata era muta. Dai tempi della scuola
elementare, dal sabato pomeriggio alla matinée per ragazzi
al Luxor, a guardare una commedia dei Tre Marmittoni:
non aveva riso così tanto da allora. Sapeva che Milt stava
scherzando. Adesso si rendeva conto che Milt aveva
scherzato anche prima, in macchina. Per tutto il tempo
aveva scherzato restando serio. Guardandosi indietro,
rendendosi conto che Milt l’aveva preso in giro, rise
sempre di più, finché gli fecero male le costole e si ritrovò
completamente spossato, con le vertigini.
Finalmente fu in grado di alzarsi in piedi. – Ti chiedo
scusa, – riuscì a dire, e andò lentamente in bagno. Là
chiuse la porta e si sciacquò il viso con acqua fredda. Si
strofinò la faccia con l’asciugamano, si pettinò i capelli, si
guardò allo specchio, poi tornò nella stanza.
Nel letto, Milt giaceva come prima.
– Mi dispiace, – disse Bruce traballante, tornando a
sedersi sulla sedia.
Milt disse: – Mi sa che sto sognando. Ti faccio una
domanda semplicissima e tu quasi muori dal ridere.
– Non farlo più, – disse Bruce con voce fioca, alzando la
mano.
– Non fare più cosa?
– Non lo sopporto.
Milt lo fissò poi chiese inferocito: – Sei fuori di testa?
Fermati un attimo a guardarti. Che genere di persona sei
per ridere di una domanda come quella? – Si mise a sedere
sul letto e sistemò il cuscino dietro di sé. Il suo viso era
diventato rosso e rugoso, come se la mandibola e i denti
fossero stati estratti, fossero scivolati all’interno e si
fossero dissolti.
– Ti ho detto che mi dispiace, – disse Bruce. – Che altro
posso dire? – Si alzò e si avvicinò a Milt, porgendogli la
mano.
Milt gli strinse la mano, e disse allo stesso tempo: –
Sono davvero preoccupato per te. Non proverei a parlarti
seriamente se non fossi preoccupato per te –. Gli lasciò la
mano. – Sei furbo e di bella presenza; non c’è ragione per
cui non dovresti andare lontano. Non sopporto di vederti
accettare un compromesso.
– Che compromesso?
– Lasciar perdere quello che vuoi davvero. Tu hai
puntato tutto su una vita materiale fatta di acquisti, vendite
e profitti. Ti sei dedicato esclusivamente a… – cercò la
parola. – Dovresti occuparti di qualcosa di spirituale.
Bruce disse, con difficoltà: – Mi dispiace, ma sto per
mettermi a ridere di nuovo –. La sua mascella cominciò a
tremare spontaneamente; dovette tenersi il mento con le
mani per farla star ferma.
– Perché lo trovi divertente?
– Non lo so.
– C’è solo un motivo per cui una persona si mette in
affari, – disse Milt. – Per fare soldi.
– No, – replicò Bruce.
– Cos’altro allora?
– Dà soddisfazione.
Balle.
– Vuoi dire che dovrei fare il vigile del fuoco o il
cowboy?
– Dovresti avere dei valori nella vita, qualcosa di
permanente.
– Come te? – chiese Bruce, ridendo, incapace di
smettere di ridere.
– Non voglio che tu sia come me, – disse Milt.
– Non avresti dovuto fare il rappresentante di
commercio, se ti senti così. Personalmente, non ci vedo
niente di male.
– È quello che volevo dire.
Bruce disse: – Gestire un negozio è un valore
permanente, per me. L’ho sempre desiderato. Sin da
quand’ero bambino.
– Forse lo credi adesso. Ti prendi in giro da solo.
– Ti pare che io non lo sappia meglio di te?
– Una persona estranea può vederlo meglio, – disse Milt.
– Nessuno ha capacità di introspezione.
– Puoi dirmi che cosa voglio meglio di me? – chiese lui. –
Tu non puoi leggermi la mente. Non sai cosa succede nella
mia mente.
– Posso dirti che cosa è meglio per te. Che cosa dovresti
fare, invece di sprecare la tua vita.
– Non sto sprecando la mia vita.
– Certo che sì. Che cosa sei, se non un ragazzino che
tenta di rubare delle macchine per scrivere giapponesi da
due soldi? Che cosa c’è da essere orgoglioso?
– Vai al diavolo.
– Sì. Andiamo tutti al diavolo. Io, Susan, tutti gli altri.
Ma guarda in faccia la realtà. Io so qual è il tuo problema.
Tu non hai la maturità per preoccuparti di nient’altro che di
valori da ragazzino. Sei egoista e immaturo. Sei un bravo
bambino e piaci a tutti, ma non sei proprio un adulto, come
ti piacerebbe essere. Hai ancora molta strada da fare, e se
ci vuoi arrivare, faresti meglio a imparare che cosa è degno
e spirituale nella vita.
– Segui il tuo stesso consiglio.
– Io so perché sei come sei, – disse Milt.
Bruce disse a Milt: – Credo che andrò a fare un giro e a
prendere qualcosa da leggere –. Aprì la porta, la luce del
sole li abbagliò entrambi.
A letto, Milt non disse nulla.
– Ci vediamo dopo, allora, – disse Bruce, ancora
indugiarne. Ma Milt non disse più niente.
Uscendo, Bruce si chiuse la porta alle spalle.

Circa un’ora più tardi, quando Bruce rientrò nella


stanza con la sua rivista, trovò Milt seduto a letto a
compilare un assegno.
– Ecco, – disse Milt, porgendogli l’assegno. – Questo è
quello che ti avevo promesso. Il tuo regalo di matrimonio.
L’assegno era di cinquecento dollari.
– Non posso accettarlo, – disse Bruce.
– Non avrai le macchine per scrivere senza questo.
Comunque non lo sto dando a te; lo sto dando a Susan.
Questa è la mia ultima possibilità di farle sapere quello che
provo –. Accennò un sorriso. – Dopodiché diventerà un
delitto. Comunque, ho un sacco di soldi e nessuno per cui
spenderli.
Bruce accettò l’assegno, lo mise nel portafogli e disse: –
Grazie.
Nessuno di loro disse niente della discussione.
– Ti ho detto che ho chiamato Cathy? – chiese Bruce.
No.
– Ha trovato le chiavi della macchina. Quindi può venire
qui. Le ho dato l’indirizzo del posto.
Milt annuì.
– E quelli del motel sanno che sei ammalato. Conoscono
tutti i medici della zona. Stavo giusto domandando i nomi.
– Bene, – commentò Milt. – Probabilmente possono
portarmi quello che mi occorre –. Sembrava impassibile.
– Come ti sentiresti, allora, se io proseguissi?
– Te l’ho detto io di farlo.
– Se pensi che starai bene, credo che andrò.
– Tornerai per questa strada quando avrai finito a
Seattle?
– No. Pensavo di seguire la Coast e ritornare per la
statale 26, attraverso l’Oregon.
Milt disse: – Mi dispiace che tu abbia chiamato Cathy.
Non c’è ragione per cui debba venire in macchina fin qui.
Sarò in piedi nel giro di un giorno o poco più e non c’è
motivo per cui non possa tornare là in corriera.
Si distese e fissò il soffitto. Di lì a poco disse: – Spero
che tu concluda l’affare delle macchine per scrivere.
– Non sopporto di partire con te ancora di cattivo
umore.
– Sono solo turbato.
– Non preoccuparti per me.
– D’accordo.
– Anche se non credo in Dio, posso sempre avere una
vita piena.
– C’è proprio qualcosa di morto in te.
No.
– Sei come questi scienziati che fanno le bombe H.
Maledettamente freddi. Maledettamente razionali.
– Ma senz’anima.
Milt annuì.
– Forse salteremo tutti in aria. E allora non avrà
importanza.
– Sarei pronto a scommettere che neanche quello ti
colpirebbe.
– Sì, invece.
– Non te ne accorgeresti nemmeno.
Cominciò a raccogliere le sue cose dal bagno,
mettendole nella valigia aperta.
– Forse sarebbe una cosa buona dopo tutto, – disse Milt.
– La bomba, voglio dire. Forse sveglierebbe la gente.
– Ne dubito. Dubito che sarebbe una cosa buona.
– La gente deve affrontare la realtà prima o poi –. Lo
disse con amarezza e convinzione.
Dopo avere sistemato le sue cose, Bruce andò
nell’ufficio del motel e spiegò ai proprietari la situazione.
Gli diede il numero di telefono di Cathy e, quasi ci avesse
ripensato, quello suo e di Susan a Boise. Per finire scrisse il
nome e l’indirizzo della ditta di Milt. E gli disse
chiaramente che il suo amico aveva abbastanza soldi per
pagarsi le spese. Voleva essere sicuro che Milt venisse
trattato bene dopo la sua partenza.
– Non si preoccupi per lui, – disse la donna,
accompagnandolo alla macchina. – Lo terremo d’occhio –.
Lo aiutò gentilmente a scaricare le cose di Milt.
Bruce portò i bagagli nella stanza. – Be’, ci vediamo, –
disse a Milt. Si fermò sulla soglia. – Stammi bene.
– Stammi bene anche tu, – replicò Milt, senza guardarlo.
– Non accettare nichelini di legno.
Poco dopo si era rimesso in strada, lasciandosi alle
spalle il motel e Milt.
13

Arrivò a Seattle quella sera e subito parcheggiò davanti a


un distributore per telefonare a Phil Baranowski, al numero
che gli aveva dato Milt.
– È piuttosto tardi, – disse Baranowski, quando Bruce gli
spiegò che cosa voleva e chi era. – Sono le dieci.
Non essendosi reso conto di quanto fosse tardi disse: –
Che ne dice di domani mattina? – Comunque aveva bisogno
di dormire: non si sentiva abbastanza in forma per parlare
di affari dopo essere stato sulla strada tutto il giorno.
Decisero di incontrarsi alle nove e mezzo del mattino
all’angolo di una strada del centro che Baranowski gli
assicurò non avrebbe fatto fatica a trovare. Baranowski non
si sbilanciò sulla possibilità di trattare l’affare. Disse
soltanto che era disposto a discutere delle macchine e
niente di più.
Riagganciando, Bruce si sentì contrariato. Dopo tutta
quella strada… adesso era qui, a parlare con l’uomo che
realmente possedeva un deposito di quelle macchine per
scrivere. Ed era una voce normale all’altro capo del
telefono, una voce da uomo d’affari molto simile a qualsiasi
altra.
Il mattino seguente parcheggiò all’angolo e aspettò che
arrivasse Baranowski.
Alle nove e tre quarti, un uomo coi capelli scuri che
indossava uno sgargiante gessato a doppio petto blu
percorse a grandi passi il marciapiede in direzione della
Mercury. Dimostrava circa quarantacinque anni.
Facendo un cenno a Bruce si chinò sul finestrino e disse:
– Vuole andare con la sua macchina o con la mia? Possiamo
anche prendere la sua Saltò accanto a Bruce e partirono,
con Baranowski che dava le indicazioni. L’uomo aveva un
modo di fare animato e forbito; gli brillavano gli occhi e
gesticolava in continuazione. Sembrava onesto ma
affaticato. Bruce ebbe l’impressione che per Baranowski lo
stock di macchine per scrivere non valesse molto. L’uomo
aveva un’idea precisa del loro valore e non le avrebbe
cedute per meno. Ma per lui il valore era basso; erano solo
pezzi d’inventario, e mentre andavano dal centro di Seattle
al magazzino, Baranowski gli accennò a certi altri articoli
di cui si occupava. Evidentemente il principale interesse
dell’uomo era orientato verso le attrezzature ottiche
importate dal Giappone e dall’Europa, lenti e prismi e
binocoli e microscopi. Disse a Bruce che aveva cominciato
anni prima come smerigliatore di lenti per una ditta di
Portland che produceva occhiali; alla fine aveva aperto un
suo negozio in società con un optometrista, poi si era
occupato di materiali bellici negli anni Quaranta, e adesso
di questo. Senza dubbio aveva dei contatti diretti con gli
esportatori in Giappone che gli fornivano le lenti, e le
macchine per scrivere erano venute fuori come una delle
loro linee secondarie.
– Milt pensava che avrei potuto prenderle per circa
cinquanta dollari l’una, – disse Bruce, mentre parcheggiava
vicino a un ampio capannone di legno di fronte a una
azienda chimica con le cisterne sopraelevate. Il fondo
stradale era irregolare, danneggiato dai camion.
– Milt è stato ottimista, – disse Baranowski, uscendo
dalla macchina. – Le ha detto che sono tutte nelle scatole
originali? – Aprì una porta laterale del magazzino con una
chiave ed entrarono entrambi.
Il luogo era buio e asciutto. Baranowski accese diverse
luci sul soffitto. – Posso dargliene fino a quattrocento.
Assolutamente identiche –. Allungò le braccia verso una
lunga pila di piccole scatole di cartone quadrate e ne tirò
giù una; porgendola a Bruce gli mostrò i segni del codice
stampato. – Non immagina quante volte ci imbattiamo in
scatole di cartone contenenti merce diversa da quella che
dovrebbe contenere. Ma queste sono giuste. Le abbiamo
fatte controllare prima che lasciassero lo spedizioniere –.
Poi raccontò a Bruce di un ricco mediatore in pensione che
aveva ordinato una cassa di whisky Cutty Sark, e quando
era arrivata l’aveva aperta e aveva trovato la cassa di legno
riempita di mattoni. – E veniva dalla Scozia, – concluse
Baranowski.
– Posso aprirla? – chiese Bruce.
– Prego.
Aprì la scatola ed estrasse la macchina per scrivere.
Senza dubbio era quella che aveva visto nella vetrina del
negozio a San Francisco. – Posso accenderla e provarla? –
chiese Bruce. La macchina era più leggera di quanto si
aspettasse. Non più pesante di un libro. E più piccola di
come la ricordava. Ma le rifiniture sembravano buone;
esaminò le diverse viti, ed erano state tutte avvitate con
cura, le singole teste accecate in modo uniforme.
Baranowski gli diede una pacca sulla spalla. – La prenda
con sé, – disse. – Vado di fretta. Torni al suo motel o dove
sta e la metta alla prova. Le riservi il trattamento più duro
che può. Io ne ho una che uso da sei mesi. Non ho avuto
nessun problema; sono costruite splendidamente –. Spense
le luci e condusse Bruce verso la porta. Su entrambi i lati,
nell’oscurità, erano state accatastate le scatole di cartone
delle Mithrias, una sull’altra, un’intera caverna di scatole.
E, oltre a quelle, Bruce vide altre scatole di cartone, altre
macchine. – Si assicuri di essere soddisfatto, poi mi dia uno
squillo. D’accordo? Sa dove trovarmi.
Tornarono in macchina nella zona commerciale del
centro, e Baranowski gli disse dove voleva essere lasciato.
Bruce lo vide sparire in un palazzo adibito a uffici, con le
mani in tasca. La Mithrias rimase sul sedile della macchina
accanto a Bruce. L’uomo gliel’aveva lasciata senza
esitazione, senza neanche averlo mai visto prima.
Nella sua stanza di motel Bruce sistemò la macchina per
scrivere sul letto, inserì la spina, e vi appoggiò accanto una
risma di fogli e di carta carbone. Peccato, pensò, che non
sono un dattilografo. L’accese e la macchina cominciò a
ronzare. Ma lui si intendeva di roba elettrica. Quasi subito
si rese conto che era stata progettata con molta
ingegnosità. Il ritorno automatico del carrello lo
affascinava; non funzionava per mezzo di una puleggia, ma
grazie a un semplice sistema a molla con bloccaggio, come
lo scatto di una balestra. Si potevano ottenere due tipi di
battuta, quella leggera per un solo foglio, quella pesante
per diversi fogli. Il tipo di pressione sui tasti non si poteva
cambiare se non regolando una vite sul retro della
macchina. Anche i tabulatori dovevano essere azionati dal
retro, e manualmente, come nelle vecchie macchine
anteguerra. Non importava, comunque. La cosa principale
era la solidità della sua fattura e la generale velocità e
affidabilità del funzionamento. Inseriti due fogli di carta,
Bruce cominciò a scrivere. La macchina era rumorosa, con
i tasti che risuonavano acuti, ma era così per tutti gli
apparecchi elettrici. Bruce scoprì che una volta che era
stato premuto un tasto, la lettera non appariva finché il
tasto non veniva lasciato completamente. Così c’erano
poche probabilità di ribattere per sbaglio una lettera. Con
due dita, il meglio che riusciva a fare, cominciò a battere le
lettere F e j più velocemente possibile. Si accorse che i due
caratteri non potevano confondersi. La macchina gli teneva
dietro. Rappresentava un vero e proprio oggetto elettrico,
per la sua velocità e per il tocco leggero.
Con un cacciavite rimosse la piastra sottostante ed
esaminò gli ingranaggi. La macchina sfruttava un vecchio
tipo di rullo di gomma che alzava il tasto e
simultaneamente lo rilasciava. La cinghia dal rullo al
motorino elettrico sembrava produrre molto attrito;
probabilmente sarebbe stato necessario sostituirla di tanto
in tanto. Infatti, fra i meccanismi si potevano notare diversi
punti di frizione. Il motore veniva sottoposto a uno sforzo
considerevole. Il logorio era piuttosto intenso. Lasciò
accesa la macchina, con il motore attivo, per una buona
parte della giornata. Non si scaldò molto. Bruce si rese
conto che i tasti, se lasciati bloccati, avrebbero
probabilmente innescato un processo di grippaggio che
avrebbe bruciato il motore in un’ora circa. Ma questo era
un rischio tipico della maggior parte dei dispositivi elettrici.
Lo stile dei caratteri, anche se non particolarmente
originale, era chiaro ed efficace. Copiato senza dubbio dalle
normali macchine per scrivere americane.
Mettendosi comodo, cominciò a sovraccaricare di lavoro
la macchina; spinse il ritorno automatico di continuo, per
più di un’ora. Il ritorno andava avanti e indietro, facendo
strisciare la macchina progressivamente sul letto. Ma il
meccanismo non smise mai di funzionare. Allo stesso modo
provò ripetutamente ogni comando. Resistette
perfettamente, anche se diverse volte, quando incominciò a
battere, i tasti si incepparono e dovette spegnere il motore
per sbloccarli.
La stampa carbone sembrava abbastanza uniforme. I
tasti pigiati battevano tutti con la stessa forza. Controllò
l’allineamento delle righe di composizione. C’era qualche
imperfezione. Probabilmente dovevano essere riallineate di
tanto in tanto. Scoprì che la N era già fuori allineamento.
Mise un foglio di carta pulito e cominciò a scrivere
laboriosamente una lettera a Susan. Battere a macchina
con due dita richiedeva molto tempo, ma alla fine ottenne
ciò che voleva. La informò che questo era un campione del
lavoro delle Mithrias, e che stava a lei giudicarlo; la
conoscenza di Bruce si limitava all’aspetto meccanico.
Dopo tutto, lei si guadagnava da vivere facendo la
dattilografa professionista. Per quanto riguardava le
possibilità di vendita, Bruce riteneva che se fosse riuscito
ad avere le macchine a un prezzo abbastanza conveniente,
di sicuro sarebbero riusciti a rivenderle. Poi le disse di
telefonargli appena avesse deciso. Scrisse il numero di
telefono del motel, sigillò la lettera insieme a un primo e
quinto foglio di carta carbone, la portò all’ufficio postale
principale e la spedi a Boise con un espresso per posta
aerea.
Il giorno seguente portò la macchina in un’agenzia di
riparazioni di macchine per scrivere che offriva servizio per
tutte le marche e i modelli.
Il giovane paffuto con i capelli ricci dietro al bancone
esaminò la macchina e disse: – Che diavolo è? Una di quelle
portatili italiane? Le Olivetti? – La girò sottosopra e la
osservò attentamente.
– No, – disse Bruce. – È giapponese.
– Che cos’ha che non va?
– Niente, – rispose Bruce. – Voglio solo scoprire se voi
potete prestare assistenza in caso di bisogno.
– Aspetti che chiamo il tecnico, – disse il giovane dai
capelli ricci. Sparì dietro una tenda e quando tornò con lui
c’era un uomo massiccio più anziano con i capelli neri e le
braccia nude e pelose. L’uomo indossava un grembiule blu e
aveva le mani sporche di inchiostro e di grasso. Senza dire
una parola sollevò la macchina, inserì la spina e l’accese,
l’ascoltò e la saggiò con le dita.
– La fanno in Giappone, – disse Bruce.
Il tecnico lo guardò attentamente. – Lo so, – disse. –
Dove l’ha presa?
– A San Francisco. In un negozio.
– Che genere di garanzia le hanno dato?
– Perché?
– Pura curiosità.
– Nessuna.
Il tecnico disse: – Be’, le dirò. Io non l’avrei presa.
– Perché? – Aveva fatto questa domanda proprio per
avere l’opinione di un tecnico di macchine per scrivere.
– Non può procurarsi i pezzi di ricambio. Dove li
troverà? Scriverà in Giappone? C’è qualcuno in questo
paese che vende i pezzi? – Accese e spense le macchina,
agendo sull’interruttore.
– Credo di no, – rispose Bruce, recitando la parte.
– Non è fatta male, – disse il tecnico, scuotendo la
macchina e facendo scattare il ritorno automatico.
– Quelli sono furbi e hanno le dita piccole: possono
intrufolarsi e assemblare dove il pollice di un uomo bianco
non può passare. Guardi qui –. Mostrò a Bruce quanto
fossero state accostate le parti rimovibili.
– È per questo che riescono a costruirle così piccole. Ma
diavolo, quando hai bisogno d’assistenza, come si può
infilarci un attrezzo in mezzo? – Avvicinò la punta di un
cacciavite e mostrò a Bruce che non si adattava a nessuna
delle viti visibili. – Bisogna praticamente smontarla per
pulirla.
– Vi è mai capitato di ripararne qualcuna?
– Un paio, – rispose l’uomo più giovane con i capelli
ricci.
– Meglio affidarsi ai prodotti americani, – disse il
tecnico. – È come per tutte le altre cose: comprare sempre
una marca che si conosce.
Prendendo su la sua Mithrias, Bruce lo ringraziò e lasciò
il negozio di riparazioni.
Tanto per togliersi lo sfizio provò un altro negozio. Lo
servì un uomo dall’aria cupa. Sembrava che non avesse mai
visto una Mithrias prima; la guardò da ogni angolazione,
senza dire nulla, senza accenderla né chiedere niente. Alla
fine girò la testa e disse: – È una cosa nuova che stanno
mettendo sul mercato? Alcuni bulloni sono metrici. Avremo
dei problemi con queste.
– Potete lavorarci?
– Oh, certo che possiamo lavorarci. Che cos’ha che non
va? – Adesso l’aveva accesa e aveva inserito un pezzo di
carta piegata intorno al rullo.
– Niente per ora.
– Oh, si sta solo informando in anticipo. È sua?
– Non proprio. Potrebbe. Quanto crede che dovrei
pagarla?
– È nuova? – L’uomo picchiettò il rullo di gomma. – È
stata usata. Guardi i segni dei tasti sulla piastra.
Ne discussero e decisero che la Mithrias elettrica
portatile, nuova, sarebbe dovuta costare circa duecento
dollari. Probabilmente avrebbe sempre avuto problemi a
farla riparare. Ma sembrava ben fatta e se aveva fortuna
l’avrebbe potuta usare a lungo. Il tecnico batté
laboriosamente qualche parola, con un dito invece di due,
ingarbugliando i tasti e arrendendosi alla fine.
– Non sono un gran dattilografo, – ammise.
– Neanch’io, – disse Bruce. Ringraziò l’uomo e se ne
andò con la sua Mithrias sotto braccio.
Quindi ci si poteva lavorare sopra, se il tecnico ne aveva
voglia. Il problema non era maggiore di quello con le
macchine fotografiche o le automobili straniere; la
manutenzione era un rischio calcolato. Questo lo rallegrò.
Avrebbero potuto vendere le Mithrias con la coscienza
pulita.
Andò in macchina in centro, all’indirizzo dove lavorava
Phil Baranowski. La scritta sulla porta dell’ufficio diceva
WEST COAST OPTICS, e quando aprì la porta si ritrovò di fronte
a un tavolo espositivo di articoli ottici illuminato e
drappeggiato di velluto.
– Ha deciso? – chiese Baranowski, da un punto fuori dal
campo visivo di Bruce. Poi si palesò, con le maniche
rimboccate, stringendo in mano una leva. Fuori dall’ufficio
Bruce vide una stanzetta adibita a magazzino; Baranowski
stava togliendo il coperchio da una cassa. – Non faccia caso
se continuo a lavorare –. Tornò alla cassa e prese una
sigaretta che ci aveva lasciato sopra.
Bruce disse: – Dipende da quanto mi chiede, ma sono
senz’altro interessato.
– Sono ben assemblate, non è vero? Oltre oceano non
hanno catene di montaggio come le nostre; non ne sputano
fuori una dopo l’altra. Le cose vengono fatte
rigorosamente. Prima ci lavora un uomo, poi va da quello
successivo e poi passa da un altro ancora. Possono fare
articoli di qualità professionale in un garage. In un
seminterrato. Con un paio di torni a cinghia. Durante la
guerra facevano a mano lenti e specchi in cantine colpite
dai bombardamenti. Fanno le attrezzature elettroniche più
complesse con dei banchi da lavoro da cento dollari. Se un
negozio giapponese avesse avuto a disposizione quello che
un fai-da-te medio ha nel proprio garage oggi, si sarebbero
fabbricati la bomba atomica prima di noi.
– Quanto vuole per le portatili?
– Le vuole tutte?
– No. Non potrei mai sperare di venderle tutte. A nessun
prezzo. Troppi problemi per le riparazioni.
– Non ci sono problemi per le riparazioni –. Baranowski
smise di lavorare e gesticolò con la sbarra. – Cosa intende
dire?
– Non ci sono ricambi. E viti metriche. E spazio per
lavorare. Tutti i pezzi sono montati troppo ravvicinati. Non
si riesce ad arrivare all’interno.
– Si aspetta che si rompano?
– Tutte le macchine si rompono. Tutte le macchine per
scrivere elettriche hanno bisogno di una manutenzione
costante.
– Lasci che se ne occupi il cliente.
– Dobbiamo dargli una qualche garanzia.
– Non faccia notare la questione dell’importazione. Non
gli dirà che sono fatte in Giappone, vero?
No.
– Be’, questo risolve già il cinquanta per cento del
problema. Se crederanno che sono fatte in questo paese
non gli verrà in mente di preoccuparsi delle riparazioni.
– Non siamo una ditta da quattro soldi. Non è così che
facciamo affari.
– E questa non è una macchina per scrivere da quattro
soldi, – ribatté Baranowski secco. Rinunciò ad aprire la
scatola e tornò in ufficio, facendo ondeggiare in aria la leva.
– È un pezzo di ottima fattura e chiunque capisca qualcosa
di macchine lo riconoscerà.
– Quanto? – chiese Bruce, percependo che l’uomo stava
sulla difensiva.
– Per quante? Non voglio spezzare il magazzino. Se lo
mantengo intatto posso offrire l’esclusiva a qualcuno. Se ne
vendo un po’ a lei e un po’ a qualcun altro, sarete in
competizione.
– Non ho intenzione di venderle in questa zona.
– Dove, allora?
– Nel sud dell’Idaho.
– Intorno a Boise?
– Sì.
– Da qualche altra parte?
– No.
– Potrei vendergliene duecento.
– A quanto?
Baranowski si sedette alla sua scrivania e cominciò a
scrivere delle cifre. Alla fine disse: – Quindicimila.
Lo sbalordì. Fece il conto e arrivò a una cifra di
settantacinque dollari a macchina. – Troppo, – disse, – e
troppe macchine.
– Quante, allora? Questo è il prezzo più basso che posso
fare, – disse Baranowski accigliato.
– Che ne dice di cinquanta?
Baranowski chiese in tono calmo: – Sta scherzando? È
quasi una quantità da dettagliante.
– Nessuno entra in una rivendita al dettaglio e compra
cinquanta macchine per scrivere.
– Che prezzo crede di potere ottenere su una quantità
come quella? Di che genere di vendita si occupa? È chiaro
che lei non ha esperienza Baranowski si riavviò verso il
magazzino.
– D’accordo. Facciamo settantacinque.
– Settantacinque, a circa cento dollari l’una.
– No. Settantacinque a quaranta dollari.
– Be’, è stato un piacere Dando le spalle a Bruce,
Baranowski ricominciò ad aprire la cassa.
Bruce disse: – Comprerò settantacinque macchine a
quaranta dollari l’una. Tremila in contanti. Ho il contante.
Niente garanzie, ma devono essere identiche alla macchina
che mi ha prestato, e in scatole originali sigillate.
Nel magazzino Baranowski non disse nulla.
– La chiamerò tra un giorno o due, – disse Bruce.
– Arrivederci –. Mentre si avviava verso l’ingresso
aggiunse: – Le ho riportato la macchina che mi aveva dato
in visione. È sul tavolo.
La porta si chiuse dietro di lui. Un po’ scosso, scese le
scale verso il piano terra e uscì in strada.

Il mattino seguente gli telefonò Susan. – Ho ricevuto la


tua lettera, – disse. – Sembra meraviglioso. Comprale pure.
Ne sono proprio entusiasta. Quante pensi di poterne
prendere?
– Staremo a vedere.
Il giorno trascorse. Quel pomeriggio, sul tardi, il
telefono della sua camera d’albergo squillò. Era proprio
Baranowski.
– Le farò una proposta, – disse Baranowski. – Prendere o
lasciare. Non sono disposto a trattare. Sessanta macchine a
cinquanta dollari il pezzo. So che ha tremila dollari da
spendere, ed è quello che costano.
– Ci sto, – disse Bruce.
– Va bene, – disse Baranowski. – Non ne sono felice, ma
è chiaro che lei non ha esperienza quindi al diavolo. Però la
prossima volta non venga da un grossista per cercare di
comprare un quantitativo trascurabile come questo.
Poco dopo, Bruce uscì in macchina per incontrare
Baranowski nel magazzino nella zona industriale. Scrissero
un contratto con una delle macchine, pagò con un assegno
circolare, e poi insieme caricarono sessanta scatoloni
sigillati nella Mercury.
Bruce li esaminò uno per uno per essere sicuro che i
codici fossero identici.
– Credo che li aprirò, – disse all’improvviso.
Baranowski mugugnò.
– Dal momento che le venderò al dettaglio, – disse, – a
lei non dispiacerà se lo faccio. – Mentre Baranowski
aspettava con aria indifferente, Bruce tolse tutti i sessanta
scatoloni dalla macchina e li riammucchiò sulla piattaforma
di carico. Uno per uno, con la punta affilata di un
cacciavite, aprì i cartoni, estrasse le macchine e si assicurò
che stesse prendendo ciò per cui aveva pagato. In nessuna
delle sessanta confezioni trovò sorprese, salvo una
macchina che aveva un lato ammaccato. Baranowski, senza
dire una parola, prese un’altra scatola dal magazzino e
glielo diede in mano.
– Buona fortuna, – disse Baranowski, poi scomparve
dentro il magazzino, per sempre.
Bruce partì con le sue sessanta macchine per scrivere
portatili, sentendo la lentezza della Mercury sotto il peso
del carico. Aveva fatto bene? Troppo tardi per
preoccuparsene adesso.
Tornando al motel fece i bagagli, pagò quello che
doveva, e cominciò il viaggio di ritorno a Boise con le sue
macchine per scrivere.
14

La notte seguente, all’una, arrivò a Boise. Parcheggiò la


macchina davanti a casa, la chiuse e salì le scale della
veranda. Entrò con le chiavi, andò in camera da letto e
rimase ai piedi del letto finché Susan non si svegliò.
– Oh! – esclamò lei, fissandolo.
– Sono tornato.
Di colpo Susan uscì dal letto e prese la vestaglia. –
Vediamole, – disse, abbottonandosela. – Sono ancora in
macchina, vero?
Bruce rispose: – Sono troppo stanco –. Seduto in fondo
al letto cominciò a togliersi le scarpe. – Ho fatto più in
fretta che ho potuto. Ho dormito solo poche ore.
Chinandosi, Susan lo baciò. – Sono felice che tu sia
tornato.
– Che sfacchinata, – disse Bruce. Finì di spogliarsi e,
senza mettersi il pigiama, si infilò sotto le lenzuola. Il letto
era caldo e profumava di Susan. Si addormentò quasi
subito.
– Bruce, – disse lei, svegliandolo. – Posso uscire a
prenderne una? Voglio vedere come sono fatte.
– Va bene, – mormorò lui. E si riaddormentò.
Quando riaprì gli occhi vide che Susan era seduta sul
bordo del letto, in vestaglia e pantofole. Aveva
l’impressione che fosse lì da un bel po’ di tempo. – Ciao, –
farfugliò.
Susan disse: – Bruce, sei abbastanza sveglio da
guardare una cosa?
Il tono della sua voce lo risvegliò completamente, per
quanto fosse esausto. Si tirò su e guardò l’orologio. Era
passata un’ora e mezza. – Che cosa c’è?
Alzandosi dal letto, Susan andò alla porta della camera
da letto. – Voglio che tu dia un’occhiata a una cosa.
Bruce si alzò, si mise i pantaloni, e la seguì lungo il
corridoio verso il salotto. Sul tavolo era stata appoggiata
una Mithrias familiare portatile tra due risme di carta da
macchina per scrivere, una bianca e una di protocollo.
Susan l’aveva provata.
– Qui, – disse. Gli allungò un librettino, che Bruce
riconobbe come il libro delle istruzioni.
– Che c’è?
– Aprilo, – disse Susan.
Bruce lo aprì. Sulla copertina c’era solo la parola
Mithrias, e la prima pagina era uno schema della macchina
con ogni comando numerato. Esaminò la seconda pagina.
Le istruzioni erano in spagnolo.
Dopo un attimo disse: – Allora non sono arrivate a
Seattle da una nave proveniente dal Giappone. Non
direttamente. Devono essere state scaricate prima in
Messico o in America Latina.
Susan disse: – Non ho il coraggio di dirtelo –. Era
sconvolta, ma non aveva le lacrime agli occhi. – La tastiera
non è standard.
– Che cosa significa?
– Un dattilografo professionista non può usarle. Ne ho
portate dentro dieci Le indicò e Bruce vide che Susan aveva
portato in casa dieci scatole, le aveva aperte e aveva
esaminato dieci macchine.
– Probabilmente sono tutte uguali.
– Spiegamelo, – disse Bruce. Ma aveva già capito. –
Pensavo che le tastiere fossero standardizzate.
– No. Variano da paese a paese. Questa è una tastiera
spagnola. Vedi. Il punto interrogativo rovesciato. La N
speciale con la tilde sopra. Un accento acuto –. Batté a
macchina i simboli. Bruce non gli aveva dedicato più
attenzione che al segno di percentuale o al segno di etc.
– Alcune lettere sono nella stessa posizione delle nostre
tastiere, ma altre no. Anche in questo paese una volta
c’erano diversi tipi di tastiera; solo in questo paese.
Rimasero entrambi in silenzio per un po’.
– Un dattilografo se ne accorgerebbe? – chiese infine
Bruce.
– Sì. Appena cominciasse a scrivere a macchina senza
guardare la tastiera.
– Insomma, qualunque dattilografo professionista?
Susan disse: – Non possiamo venderle a meno che non
abbiano una tastiera standard. Le macchine senza la
tastiera standard non si vendono più. Non esistono più da
anni. È sottinteso. È dato per scontato. Che cos’ha detto il
tizio che te le ha vendute? Voglio vedere il contratto.
Bruce tirò fuori il contratto e lo esaminarono.
Naturalmente non diceva niente della tastiera.
– C’è tempo prima che l’assegno venga incassato? –
chiese Susan. – Comunque era un assegno circolare, vero?
Quindi è già fuori. Possiamo andare da Fancourt e sentire
che cosa dice. Pensavo avresti voluto che ti svegliassi e te
lo dicessi.
– Credo di sì, – disse Bruce, intontito.
– Hai ancora dei soldi?
No.
– Come le avresti pubblicizzate, allora?
– Ne avrei vendute un paio, poi avrei comprato uno
spazio.
– Vado a vestirmi –. Andò in camera da letto e riapparve
vestita e con i capelli raccolti.
– Hai una sigaretta? – chiese, cercando in salotto.
– Vedi, – disse Bruce, allungandole il pacchetto. – Mi
chiedo se Milt lo sapesse, – disse.
– Certo che no, – commentò Susan.
– Io credo di sì.
– Milt non te le avrebbe mai fatte comprare se lo avesse
saputo. Conosco Milt Lumky da anni.
– Non pensi che fosse arrabbiato e volesse vendicarsi di
noi?
– Per che cosa?
– Per esserci sposati.
– Perché? – chiese lei.
– A causa del suo interesse nei tuoi confronti.
– Immagino che adesso tu voglia tornare là e
chiederglielo.
– Non importa –. Dentro di sé era convinto che Milt lo
sapeva. – Dobbiamo sbarazzarci delle macchine.
– Sì, – commentò Susan, – se ci riusciamo.
– È possibile vendere qualsiasi cosa, – disse Bruce. –
Dipende tutto dal prezzo. Forse ci si può lavorare. Si
possono cambiare i tasti.
– Non abbiamo soldi. Se tu avessi risparmiato un po’,
forse avremmo potuto farlo.
– Se avessi risparmiato un po’ di soldi, non avremmo
potuto acquistare le macchine per scrivere.
Susan ribatté con stizza: – Non sarebbe stata una gran
perdita.
– Ho passato due giorni a esaminare la faccenda.
– E non ti sei mai accorto della tastiera.
– Io non batto a macchina.
– Ma non ti è neppure venuto in mente.
– No. Mai. Be’, sono cose che succedono.
– Io non ci sono abituata, – commentò Susan, con voce
quasi irriconoscibile. – Non ho mai lavorato per un ingrosso
che acquista articoli che si deprezzano per chissà quale
ragione.
– Il problema è che non abbiamo abbastanza capitale
circolante per ammortizzarlo, – disse Bruce, cercando di
non badare a quello che stava dicendo Susan. – È questo
che mi preoccupa. È una brutta situazione –. Non la guardò
perché non riusciva a sostenere l’espressione del suo viso.
Lo sguardo duro e cupo che aveva avuto in passato,
l’angoscia e l’impazienza. – Andiamo a letto, – concluse
Bruce. – Daremo un’occhiata alle altre macchine domani.
Forse non sono tutte così.
Susan disse: – È per questo che volevo smetterla di
tenere un negozio. Per queste cose terribili, quando
qualcuno ti truffa.
Scrollando le spalle, Bruce disse: – Be’, se le vendevano
a un prezzo così basso doveva esserci un motivo. Adesso
l’abbiamo scoperto. Ma forse possiamo fare qualcosa.
Senti, – si interruppe. – Sistemeremo tutto.
– Altri affari?
– Qualcosa, – borbottò Bruce.
– Mi sento così strana, – disse Susan con una voce esile
e tremante. – È colpa mia se siamo rimasti invischiati in
questo modo. Non sto accusando te.
– Non c’è motivo di accusare nessuno.
– Vero, – commentò Susan, battendo insieme le mani. –
Cioè, è colpa mia. Volevo qualcuno che potesse parlare
questo tipo di linguaggio. Ho avuto ciò che volevo, allora
perché continuare? – Cominciò a camminare nel salotto,
sistemando le cose sulla mensola del camino, rimettendo a
posto le riviste sul tavolino basso. – È la mia punizione.
Avrei dovuto semplicemente abbandonare tutto. Vendere la
mia quota a Zoe.
Bruce non disse nulla.
– Dopo tutto, avrei dovuto sapere come si comportano i
grossisti.
– Possiamo liberarcene, – disse Bruce.
– Come?
– In blocco. Al prezzo a cui le abbiamo pagate. A
qualcuno che può permettersi di sistemarle. Se avessimo il
capitale forse potremmo farlo noi.
– Certo, potresti provare a fare quello che quell’uomo ha
fatto a noi. Potresti vedere se qualcuno non se ne accorge.
Se non te ne sei accorto tu, forse c’è qualcun altro.
– Esatto, – convenne Bruce. La sua mente cominciò a
riflettere sulla cosa. – Potrei andare a Reno. È solo un’idea.
Parlerò al mio vecchio capo. È possibile che riesca a
interessarlo alle macchine. Sarebbe un buon affare per
loro.
– Glielo dirai? Della tastiera.
– Be’, come si dice, «Acquirente, attento a te».
– Se lo farai, non pensare di tornare qui.
– Cosa?
– Se ci vai gli telefonerò: so come si chiama. Gli dirò
della tastiera.
– Perché? – chiese lui.
– Non voglio scaricarle a qualcun altro. Non ho mai fatto
affari in questo modo. Preferirei rimetterci.
– Non possiamo rimetterci.
– Vuoi dire che io non posso rimetterci. Il negozio è mio,
non tuo. Io posso rimetterci. Uscirò dagli affari piuttosto
che appioppare queste macchine a qualcun altro. Se le
vuole qualcuno che sa cos’hanno che non va, va bene. Non
lo capisci, vero?
– Capisco che sei arrabbiata e che abbiamo bisogno di
dormire. Andiamo a letto, per Dio! Sono stato in giro per
una settimana intera –. Si girò e percorse il corridoio
tornando in camera. Si sedette sul letto e slacciò i
pantaloni, si alzò in piedi, se li tolse e si infilò sotto le
coperte.
Susan apparve sulla porta. – Ascolta, – gli disse, – ne ho
avuto abbastanza. Non posso sopportare di più.
Bruce uscì dal letto e si vestì di nuovo, questa volta
completamente. Indossò la camicia, la cravatta, le scarpe e
i calzini, poi la giacca. – Ci vediamo, – le disse.
– Dove stai andando? – chiese Susan, seguendolo nel
corridoio verso il salotto.
– Che importa? – disse Bruce. Aprì la porta principale. –
Ci vediamo, – ripeté, imboccando le scale in direzione della
macchina.
Dietro di lui Susan sbatté la porta così forte che il suono
echeggiò per chilometri, su e giù per le strade buie e
deserte. Dei cani, in lontananza, cominciarono ad abbaiare.
Bruce entrò in macchina e mise in moto. Un attimo dopo
aveva tolto il freno e si stava allontanando da casa.

Per un’ora circa guidò senza meta, poi si ritrovò sulla


statale 95. Svoltò subito in direzione di Montario. Perché
no? si chiese.
Quando raggiunse Montario imboccò la strada che gli
era familiare per la casa di Peg Googer. Mentre
parcheggiava non notò alcuna luce. Naturalmente, si disse.
Erano le tre o le quattro del mattino. Uscì dalla macchina e
percorse il sentiero in direzione della veranda. Per un po’
bussò. Non rispose nessuno. Fece il giro della casa e bussò
a quella che sapeva per esperienza essere la finestra della
camera da letto.
La porta sul retro si aprì. Peg, avvolta in una vestaglia
bianca, sussurrò: – Mio Dio, è Bruce Stevens–. Era agitata,
a disagio. – Che cosa c’è? Ti sei dimenticato di nuovo il
soprabito?
– Che ne dici di farmi stare qui per il resto della notte?
Sono appena tornato da Seattle.
– Oh no, – disse lei, chiudendo la porta. – Hai una moglie
adesso. O ti è passato di mente?
– Sono troppo stanco per arrivare a Boise –. Le passò
davanti ed entrò in casa. Quando Peg riuscì a chiudere a
chiave la porta e a seguirlo, Bruce aveva già appeso la
giacca nell’armadio della camera da letto. Voleva solo
dormire; non fece caso a Peg che stava in piedi a gridargli
contro. Appena si fu tolto i vestiti si gettò sul letto e si tirò
addosso le coperte.
– E io dove dovrei andare? – chiese Peg, lievemente
isterica.
Bruce chiuse gli occhi e non disse niente.
– Dormirò nell’altra stanza, – disse Peg. Raccolse i
propri vestiti e le boccette dal tavolino della toeletta, e
lasciò la stanza. Quando tornò disse: – Cos’è tutta quella
roba nella tua macchina? Hai impacchettato tutte le tue
cose e ti sei trasferito? Muoio dalla curiosità –. Gironzolò
intorno al letto, in attesa di una risposta. – Se hai
intenzione di dormire qui farai meglio a dirmelo. Credo che
sia contro la legge, no? Ora che sei un uomo sposato. Non è
che Susan verrà a cercarti?
No.
– Non ti addormentare, – disse Peg allegramente. –
Voglio parlarti –. Accese la lampada accanto al letto. – Sei
davvero distrutto. Sembra che tu non ti faccia la barba da
un mese. Sei reduce da uno di quei weekend terribili?
Bruce non disse nulla. Alla fine Peg spense le luce e
lasciò la stanza.
– Buona notte, – disse dal corridoio. – Devo alzarmi
presto e andare a lavorare domani, quindi probabilmente
non ci vedremo. Ci sono delle uova e delle salsicce nel
frigorifero. Chiudi a chiave quando te ne vai. Te ne vai, dico
bene? – fece un altro giretto.
– Sì, – rispose Bruce.
Alla fine Peg chiuse la porta, e lui poté finalmente
dormire.

A mezzogiorno del giorno successivo si alzò, fece il


bagno, si fece la barba, si vestì, fece colazione nella cucina
di Peg, poi tornò a Boise.
Trovò Susan alla R&J SERVIZI DI CICLOSTILE, seduta a una
delle scrivanie con un gran mucchio di carte davanti a sé.
Vedendolo, appoggiò improvvisamente la sigaretta e disse a
bassa voce: – Ciao.
– Ciao, – rispose Bruce.
– Mi dispiace che abbiamo litigato, – disse Susan. Stava
seduta con il mento tra le mani, grattandosi la fronte e
guardando in basso con occhi vacui. – Bruce, – continuò, – è
la fine per questo posto. Spero solo che non sia la fine della
nostra relazione.
– Lo spero anch’io, – disse Bruce, avvicinandosi e
accostando una sedia accanto a lei. La cinse con le braccia
e la baciò. Lei aveva la bocca secca e poco partecipe.
Susan disse: – Se vuoi provare a fregare qualcun altro
facendogli comprare quelle macchine… – Gli occhi le si
riempirono di lacrime. – È colpa mia. Sono io la
responsabile.
– Perché?
Gli occhi di Susan erano segnati da occhiaie scure, e lui
vide che la sua gola era raggrinzita dalla tensione. – Dopo
tutto, – continuò Susan con voce malferma, – sono stata la
tua insegnante. Ho contribuito a formare la tua moralità.
A questa frase Bruce sorrise. – È una mancanza di
moralità così grave? – chiese lui. – Che cosa fai quando ti
danno una banconota falsa? Non la passi a qualcun altro?
No.
– Davvero? – Gli sembrava che lo dicesse solo per
puntiglio. – Tutti le passano.
– Vedi? È questa la differenza tra noi. Tu credi che stia
scherzando.
– Non credo che tu stia scherzando. Ma credo che in
pratica… – si interruppe. – La teoria è una cosa. Dobbiamo
liberarci delle macchine. Non è vero? Non possiamo
assorbire la perdita. Un grande negozio come il B.A.
potrebbe assorbire la perdita e non accorgersene mai.
Hanno una certa percentuale di perdite ogni anno;
comprano stock di cattiva qualità e se l’aspettano. Fanno
migliaia di affari all’anno e per la legge dei grandi numeri
alcuni devono essere sbagliati.
Susan annuì, seguendo ciò che Bruce le stava dicendo.
– Ma per noi è diverso.
– Tutti nel mondo degli affari la pensano come te, – disse
Susan. – Non è vero? È solo un mondo completamente
estraneo al mio, Bruce. Non ha niente a che vedere con ciò
che è giusto o sbagliato; è solo che so che non posso fare
una cosa del genere. Siamo bloccati con quelle macchine, o
forse qualcun altro può farne qualcosa, ma devi dirgli cosa
compra. Dicevo sul serio. Se vai a Reno gli telefonerò; mi
ricordo il suo nome. Ed van Scharf o von Scharf–. Gli
mostrò un blocco. Aveva scritto il nome su una pagina, e il
numero di telefono della ditta.
– Posso stare a casa stanotte?
– Certo che sì, – rispose Susan, accarezzandogli il
braccio e la spalla e fissandolo intensamente, come se,
pensò Bruce, stesse cercando un segnale. Qualcosa che le
dicesse cosa fare. – Potevi restare anche ieri notte. Non
dovevi andartene. Dove sei stato?
– Ho dormito in macchina.
– Non devi farlo mai. Non sono tornata a letto; sono
rimasta alzata fino al mattino, a pensare. Non avrei dovuto
rimproverarti per avere lavorato per un grossista. Ma è
vero, Bruce. La tua educazione e la tua visione delle cose
sono diverse dalle mie. Ho chiamato Fancourt e verrà qui
dopo la chiusura, intorno alle sei. Voglio spiegargli la
situazione. So che lui non può farci niente, ma voglio
esserne sicura.
– È una buona idea, – commentò Bruce, anche se non ne
vedeva l’utilità.
– E poi cederò questo posto. Mi ha fatto imparare la
lezione. A parte i tremila dollari dobbiamo saldare solo la
metà del mutuo. Possiamo ottenere abbastanza da pagare
facilmente il prestito e averne un bel po’ d’avanzo. Può
anche darsi che Zoe voglia comprarlo. Credo che chiederò
circa cinquemila dollari. Voglio solo togliermelo dai piedi e
andarmene da qui. E quando avremo fatto questo, ci
guarderemo in giro e vedremo che cosa vogliamo fare –.
Susan gli sorrise piena di speranza.
– Non vuoi fare un tentativo per liberarti delle
macchine?
Esitando, Susan rispose: – Io… non credo che possiamo.
– Possiamo, – disse Bruce.
– Tu non lo sai, Bruce.
Alzandosi in piedi, Bruce disse: – Andrò a casa a
prendere le dieci macchine che hai portato dentro.
– E poi?
– Anche se vendi questo posto, dobbiamo comunque fare
qualcosa di quelle macchine.
– Andrai a Reno?
– Sì. A meno che non salti fuori qualcos’altro.
– Quando tornerai, spero di avere venduto questo posto
–. Lo disse in modo tale che lui le credette. Diceva sul serio.
Se avesse potuto, l’avrebbe venduto sicuramente. Ma non
si può fare così in fretta, pensò lui. Ci vorrebbe un po’ di
tempo. E bisognerebbe darsi da fare.
– Posso prendere cinquanta dollari per le spese? – le
chiese. Aveva finito tutti i soldi che aveva.
– Credo di si –. Susan guardò nella cassa, poi gli diede
venticinque dollari dalla sua borsa e venti dalla cassa e, per
finire, una scatolina cilindrica piena di nichelini. – Quasi
cinquanta, – disse.
– Mi bastano, – disse lui. – Ho la carta di credito per fare
benzina.
– Mi hai creduto quando ho detto che avrei chiamato il
tuo vecchio capo?
– Vedremo, – rispose lui. Bruce non credeva che se lui
fosse andato a Reno Susan avrebbe messo in pericolo la
vendita. Capivano entrambi la situazione: non potevano
permettersi il lusso di dire a nessuno delle tastiere. Come
Baranowski, avrebbero dovuto stare zitti e sperare che non
se ne accorgesse nessuno. Forse anche Baranowski se n’era
accorto solo dopo avere acquistato le quattrocento
macchine…
Tutto lineare, pensò. Le macchine che passano da una
mano all’altra. Da una città all’altra. Dal Messico a Seattle,
attraverso San Diego e Los Angeles, San Francisco e
Portland, forse anche alcune altre città più piccole.
E adesso lui ne aveva un mucchio.
Adesso sta a noi fare girare la ruota, liberarci delle
macchine, rimettere in moto le cose.
Dentro di sé credeva che anche Susan la vedesse così.
Era una questione troppo seria. Che altro modo c’era?
Susan disse: – Sai, quando mi hai chiamata da là, e mi
hai detto di Milt… mi sono preoccupata. Ho pensato che
avresti potuto andartene e lasciarmi. Credo che prima o poi
mi lascerai, come la notte scorsa. Quando avrai fatto i tuoi
calcoli e avrai scoperto che non ti conviene stare con me.
Quando arriverai al punto in cui non riterrai possibile
guadagnarti da vivere con questo posto, o non sopporterai
più l’idea di essere sposato con me. Forse posso
esprimermi nel tuo stesso linguaggio. Penso che si possa
campare stando con me. Probabilmente sono in grado di
mantenermi da sola. L’ho sempre fatto. Almeno da
quando… stavo per dire da quando avevo la tua età. Ma
veramente è da quando avevo diciannove anni. Non è una
cosa che devi tenere presente? Una moglie che può
mantenersi, o forse mantenere anche te?
– Sai che non ho mai pensato niente di simile.
– Forse non consciamente.
– Che discorso del cavolo, – commentò Bruce
amareggiato.
– Non hai voluto appoggiarti a me, inconsciamente? La
situazione lo dimostra chiaramente. Una donna più vecchia
che tu consideri una figura di riferimento e da cui ti facevi
guidare.
– Non sono mai dipeso da te, – rispose Bruce, sulla
soglia dell’ufficio. – Avevo paura di te. Non vedevo l’ora che
te ne andassi dalla mia scuola.
– Bugiardo. Avevi bisogno di qualcuno che ti guidasse.
Avevi bisogno di essere indirizzato.
– Non essere vendicativa, – sbottò Bruce, a malapena in
grado di ascoltare cose del genere dette da Susan. Cose
ovviamente inventate al solo scopo di offenderlo. Stava
dicendo tutto quello che le veniva in mente.
– Eri un bambino fragile, – disse Susan, col viso pallido
ma composto. – Un ragazzino debole che seguiva la guida
degli altri.
– Non è vero, – disse Bruce, riuscendo a parlare a fatica.
– È così. Avevi un fratello maggiore. Lui fa il ricercatore
in campo farmaceutico, vero? Ha vinto un sacco di borse di
studio. Ricordo di avere visto le sue pagelle. Era uno
studente eccellente, me lo ricordo.
– Ti diverti? Divertiti. Divertiti pure.
– Posso capire che tu voglia dimostrarmi che sei adulto e
che sei capace di starmi al fianco da pari a pari, – disse
Susan, con l’acidità maligna che affiorava quando era
terribilmente in collera, determinata ad averla vinta a ogni
costo. – Se solo fossi stato capace di concludere questo
affare. Vorrei che tu fossi stato davvero in grado di fare ciò
che dicevi di avere l’esperienza per fare, per il tuo bene e
anche per il mio, certo. Credo che non dovrei dirti questo
genere di cose, vero? Non sei abbastanza forte
psicologicamente per sentirle. Mi dispiace –. Anche mentre
si scusava, Susan aveva lo sguardo crudele; stava ancora
cercando qualcos’altro da dire. – Prima o poi dovrai
imparare chi sei, – proseguì Susan, e la sua voce si alzò fino
a raggiungere quel tono brusco, coinvolgente e solenne che
gli era entrato nelle ossa anni prima e non l’aveva più
abbandonato. Sussultò a quel suono. Lo umiliò e lo fece
sentire colpevole e spaventato, e gli ricordò la sua
disperata avversione per Susan. All’improvviso, con aria
trionfante, lei gli puntò il dito contro e disse: – Credo di
avere capito le nostre motivazioni: tu l’hai fatto apposta,
hai voluto comprare queste macchine, sapendo
inconsciamente che erano difettose, per ricambiarmi
dell’ostilità che hai provato nei miei confronti quando avevi
undici anni. Tu hai ancora undici anni. Emotivamente, stai
vivendo la vita di un bambino delle medie –. Lo fissò
ansimando, in attesa di sentire cosa aveva da dire.
Non c’era niente da dire. Bruce lasciò l’ufficio senza
rispondere. Per un po’ di tempo non seppe dove stava
andando, e non gli importava. Vagò per Boise,
completamente svuotato.
Che meschinità, pensò. Qualsiasi cosa pur di mettere a
segno un colpo.
Forse era vero. Forse, inconsciamente, si era accorto
che la tastiera non era a posto. Dopo tutto aveva avuto
molte occasioni di esaminarla. Allo stesso modo in cui Milt
Lumky aveva stabilito di sentirsi male al momento
opportuno, per ricambiare Susan e lui.
Come era possibile saperlo? si chiese.
Forse non importa, pensò. Forse non vuol dire niente di
speciale.
Aveva effettivamente comprato le macchine e Milt si era
davvero ammalato. Non c’erano motivazioni o ragioni
segrete. Devo ancora sbarazzarmi delle sessanta macchine
per scrivere portatili elettriche Mithrias.
E che sia dannato se dirò a qualcuno delle tastiere. Che
se ne accorgano da soli.

Aspettò fino al tramonto e poi si avviò per la strada.


Farei meglio a inventarmi una storia credibile, si disse.
Perché la prima cosa che vorrà sapere sarà perché sto
cercando di svenderle. O riuscirò a venderle o fallirò.
Mentre era alla guida, rimuginava.
Non gli venne in mente niente per diverse ore. E poi, dal
nulla, escogitò una delle balle più sensazionali mai
immaginate. Una spiegazione assolutamente perfetta per i
suoi scopi.
Doveva liberarsi delle Mithrias perché il rappresentante
di una grande ditta di macchine per scrivere americana – la
Royal, la Underwood o la Remington – era venuto a sapere
che lui le aveva e stava per venderle al minuto. Il
rappresentante della ditta era andato da lui e gli aveva
detto che se le avesse vendute al dettaglio non avrebbe mai
avuto l’esclusiva di una macchina per scrivere americana
finché fosse vissuto. E inoltre non avrebbe ottenuto
neanche pezzi di ricambio o forniture ulteriori: l’avrebbero
fatto fallire. D’altra parte, se avesse venduto le Mithrias
fuori dall’area, si sarebbero resi conto che aveva un buon
contratto di esclusiva. Era la superiorità delle Mithrias che
aveva spaventato i commercianti di macchine per scrivere
americane. Un ingrosso come il B.A. avrebbe fatto i salti di
gioia per avere le macchine, una volta ascoltata una storia
del genere. A patto che ci avessero creduto.
Mentre guidava, pensava: se ci credono, allora le
venderò. Se non ci credono, non le venderò. E se le
compreranno, le compreranno a un buon prezzo.
Probabilmente posso vendergliele con un bel guadagno.
Non a cinquanta dollari la macchina, ma piuttosto a
settantacinque. Vorrebbe dire un profitto netto di
millecinquecento dollari. Un utile del cinquanta per cento,
che va bene per tutti.
Ovviamente non potrò mai più mettere piede in Nevada.
Mi chiedo se posso farcela, si disse. L’idea lo stuzzicava
e l’eccitava. Non solo il fatto di liberarsi delle macchine, ma
di ricavare un buon profitto. E venderle non a chiunque ma
a un magazzino discount. Quello da cui aveva imparato a
fare affari.
Vendere le macchine ai suoi datori di lavoro
precedenti… era una sfida.
15

Nell’ufficio al piano superiore che dominava il piano


principale del palazzo del Bazar Affari, Ed von Scharf
accolse Bruce e si sedette con lui.
– Diamogli un’occhiata, – disse von Scharf in tono
pungente.
Bruce disse: – Sembrava che mi stesse aspettando.
– Ha telefonato tua moglie, – commentò von Scharf. – Ci
ha spiegato la situazione. Quanto le hai pagate?
Imbarazzato, Bruce borbottò: – Cinquanta dollari l’una.
– Voglio far venire qui qualcuno dal reparto delle
macchine per scrivere –. Von Scharf si scusò. Quando tornò,
con lui c’erano il responsabile del magazzino discount che
si occupava delle macchine per scrivere e Vince Pareti, uno
dei fratelli Pareti. I tre si accalcarono sulla Mithrias che
Bruce aveva portato con sé.
– Possiamo ricavarne una tastiera standard, – disse alla
fine il responsabile di reparto. – Con un paio di differenze
minime. Niente di rilevante. Tutte le lettere e i numeri
saranno esatti. Ed è quello che conta –. Fece un cenno del
capo a Pareti e a Von Scharf e si avviò.
– Quanto? – gli chiese Pareti. – Calcolando la
manodopera.
– Al nostro costo, – disse l’esperto mentre faceva i conti,
– al massimo cinque dollari a macchina.
Dopo che se ne fu andato, Von Scharf si ritirò nel retro
dell’ufficio mentre Pareti conduceva le trattative. – Le
prendiamo dalle tue mani, – disse Pareti a Bruce. – Ti
pagheremo quarantacinque dollari a pezzo, e le vogliamo
tutte e sessanta più il nome del tuo fornitore. Quante altre
ne ha, che tu sappia?
– Circa altre trecentoquaranta, – disse Bruce.
– Quanto vorrebbe?
– Non lo so, – rispose Bruce, avvertendo la futilità della
questione Probabilmente potete tirare sul prezzo fino a
scendere sotto i cinquanta dollari l’una. Che è quello che
ho pagato io.
– Sì, – disse Pareti. – È quello che ci ha detto tua moglie.
Volevamo solo esserne sicuri. Non vogliamo che tu abbia
una perdita, ma capisci che ci costerà sistemare le
macchine in modo da poterle vendere. Che cosa ne dici di
quarantacinque al pezzo? Perderesti solo trecento dollari. È
una cifra da niente.
– Per lei, forse.
– Io gli darei subito tutti i cinquanta per pezzo che ha
pagato, – disse Von Scharf.
– Oh no, – rispose Pareti, in tono perentorio.
– Le ha portate qui per noi. E soprattutto è andato a
cercarle: questo deve pur valere qualcosa. Sua moglie dice
che è stato in giro per una settimana. E le metteremo in
listino per quasi duecento dollari.
– Sono contrario, – disse Pareti, – ma se vuoi, fagli pure
un assegno di tremila dollari. – Disse a Bruce: – Come ti
senti? Te ne sei sbarazzato e non hai perso un nichelino.
Bruce disse debolmente: – Credo che valgano più di
cinquanta dollari.
I due uomini sorrisero.
– Lancia una moneta, – disse Von Scharf. Tirò fuori una
moneta da cinquanta centesimi e la fece girare in aria. –
Testa vendi, croce non vendi. – La moneta mancò la sua
mano e cadde a terra. – Croce, – disse Von Scharf. – Non
vendi –. Raccolse la moneta e la rimise in tasca.
Bruce disse: – Datemi un’ora per decidere. D’accordo?
Annuirono entrambi.
Mentre Bruce lasciava l’ufficio, Von Scharf gli diede una
pacca sulla schiena e si incamminò con lui verso la porta
d’uscita. – Sai, – disse, – mi sorprendi un po’. Non le hai
accettate senza vederle, vero?
– No, – rispose Bruce. – Le ho guardate.
– Se avessi lavorato per noi, adesso saresti stato
licenziato.
– Ci vediamo tra un’ora, – disse Bruce. Dandogli le
spalle andò nel parcheggio e alla macchina.
Per un’ora guidò senza meta poi si fermò a un baretto
drive-in e prese un succo d’ananas. Quando faceva dei
lunghi viaggi trovava che il succo d’ananas gli facesse
sentire di meno il sapore rustico e arido della campagna.
Gli faceva venire in mente le ragazze, le spiagge e l’acqua
azzurra, le radio portatili e i balli, la felicità dei suoi giorni
del liceo. La poca che gli era toccata.
Le macchine vicine alla sua erano per lo più occupate da
adolescenti. Bimbetti con le loro ragazzine, parcheggiati
nelle loro Mercury decappottabili, ad ascoltare l’autoradio
mangiando hamburger e sorseggiando orzate.
Mi chiedo se dovrei vendergli le macchine, disse tra sé e
sé. Se loro riescono a sistemarle per cinque dollari al pezzo
posso farlo anch’io. Capì che non era così. Quello è il loro
costo. Hanno dei banchi da lavoro sul retro e degli operai
specializzati in grado di metterci mano.
Come ultima possibilità gli venne in mente che avrebbe
potuto tentare di fare il lavoro da solo. Gli sarebbe costato
almeno trecento dollari. Probabilmente di più. Ma non
avrebbe dovuto modificare tutte le macchine in una volta:
avrebbe potuto cominciare con alcune, venderle, e con i
soldi modificarne altre, e così via.
Finendo il suo succo guidò finché non vide un negozio di
riparazioni di macchine per scrivere. Parcheggiò, scese
dall’auto e portò con sé la Mithrias. La mostrò al tecnico e
gli chiese quanto sarebbe costato modificare la tastiera.
L’uomo, un tipo piccoletto e serio, ben vestito, in camicia
bianca, cravatta e pantaloni di fustagno, trafficò all’interno
della macchina poi fece un preventivo per una cifra dai
venti ai venticinque dollari.
– Così tanto? – chiese Bruce, abbattuto.
L’uomo spiegò che per alcune modifiche le barre di
metallo della macchina dovevano essere dissaldate. Oppure
si potevano tagliare le righe di composizione, invertire i
tasti e saldarle di nuovo in un ordine diverso. Ma alcuni
tasti dovevano essere tagliati, e quello era un lavoro
complicato.
– È possibile che riesca a fare il lavoro da solo? – chiese
Bruce.
L’uomo rispose: – Dipende da quanto è bravo.
– Occorrono degli attrezzi?
– Sì, ne avrebbe bisogno. Ma per una macchina sola…
– Ne ho sessanta.
L’uomo disse: – Quello che dovrebbe fare è mettersi
d’accordo con qualcuno del mestiere. Che abbia un
negozio, gli attrezzi, e che sappia come farlo. Se lei prova
da solo danneggerà un paio di lettere, e così avrà rovinato
la macchina. Perché scommetto che per queste non si
trovano pezzi di ricambio.
Dopo avere ringraziato l’uomo, Bruce uscì dal negozio.
Ecco come stavano le cose. A meno che, ovviamente,
non riuscisse a mettersi d’accordo con un tecnico. Magari
allungandogli qualcosa di più sottobanco.
E chi conosceva? Nessuno. Nessuno di qualificato,
perlomeno.
Mi hanno in pugno, si disse. Compreranno le macchine,
faranno le modifiche e otterranno un ottimo profitto. Tutto
il mio lavoro e tutti i chilometri che mi sono fatto e i
progetti e i giri… e la r&j servizi di ciclostile o comunque
l’avremmo chiamata alla fine. Ci restituirebbero i nostri
soldi, la maggior parte, ma dubito molto che faremmo passi
avanti. Infatti, so che non ci sarebbero grandi progressi.
Come potremmo? Dove andremmo?
Ho qui le macchine, pensò, e non posso farmene niente.
Non posso sistemarle e non posso venderle. Ho solo
bisogno di soldi. Soldi. Poche centinaia di dollari. Un
migliaio. Meglio ancora, duemila. Ma comunque qualcosa.
E dove posso prenderli? Alla banca ne dobbiamo
millecinquecento più gli interessi. Ho ferito la mia famiglia,
e Milt Lumky. Non è poco. Niente da vendere, affittare,
scambiare, fornire come garanzia.
E la mia automobile?
Non valeva poi tanto. Era fuori discussione.
Forse la casa di Susan. Ipotecarla. Abbastanza a lungo
per sistemare quelle dannate macchine e poterle vendere.
Lei ha telefonato, pensò. Li ha davvero chiamati e gli ha
detto delle tastiere. Forse non voglio continuare. Forse è il
momento di fermarsi.
Che cosa immorale da fare, si disse. Anche se
ovviamente a lei non era sembrato così. Infatti, lei ha
pensato che fosse un comportamento onesto.
Era quella la cosa peggiore. L’aveva fatto per dovere
morale.
Ma per lui era quanto di più deleterio potesse fare,
l’aveva messo in una situazione terribile. Tua moglie ci ha
telefonato, aveva detto Ed von Scharf. Tua moglie ce l’ha
detto. Ti ha fatto lo sgambetto, ridicola canaglia. Pagliaccio.
In nome di che cosa? Per aiutare i magazzini B.A., che lei
non aveva mai visto e che chiaramente non le piacevano?
Non lo saprò mai, pensò. Non la capisco. Quindi al
diavolo.
La chiamò da un telefono a gettone in un emporio.
– Ce le comprano, – disse.
– Oh, grazie a Dio, – commentò Susan trepidante.
– A quanto?
– Quarantacinque al pezzo.
– Oh che sollievo –. Sospirò. – Bruce, è meraviglioso.
Significa che riavremo quasi tutti i nostri soldi. Quanto
perdiamo? Trecento dollari? Sono troppo agitata per
calcolarlo. Potremmo considerarli soldi di Milt, parte dei
cinquecento che ci ha dato come regalo di nozze. L’ho
chiamato, fra l’altro. L’ho trovato a Pocatello, a casa di
un’amica. Cathy Hermes, l’hai conosciuta.
Come sta?
– Molto meglio. È di nuovo in gamba. Mi ha chiesto se
abbiamo preso le macchine per scrivere e gli ho detto… –
esitò. – Gli ho detto che abbiamo deciso di non prenderle.
– Perché?
– Perché, be’, ho pensato che forse si sarebbe
preoccupato.
– Perché avrebbe dovuto preoccuparsi?
– Ci ho pensato su e ho deciso che forse hai ragione.
Forse inconsciamente lo sapeva. Così se gli dicevo che le
avevamo acquistate si sarebbe sentito in colpa. Credo sia
per questo che ci ha dato i cinquecento dollari, per avere la
coscienza a posto. Mi stavo chiedendo se… sono proprio un
sacco di soldi.
– Ho solo pensato che fossero in nome dei vecchi tempi,
– disse Bruce. – Perché tu e lui eravate così amici.
– No, – disse Susan. – Che cosa te l’ha fatto pensare?
Probabilmente non lo conosco affatto meglio di te.
– Devo vendergli le macchine, allora?
– Sì, sì. A ogni costo. Prima che cambino idea.
– Non cambieranno idea, – disse Bruce. – Ci
guadagneranno qualcosa come novemila dollari, contando
qualche ora di manodopera per le riparazioni.
Susan disse: – Il signor Von Scharf ti ha detto niente del
tuo lavoro?
– Perché? – chiese Bruce, raggelato.
– Mi chiedevo se l’aveva fatto. Se chiuderemo il negozio
dovrai pensarci un po’ su. Ho intenzione di chiuderlo,
Bruce. Ho parlato a Fancourt dopo che sei partito e lui mi
ha detto che pensava fosse una buona idea. Così potrei
stare a casa con Taffy.
Bruce chiese: – Hai detto niente a Von Scharf a questo
proposito?
– Io… gli ho detto che pensavo che forse ci saremmo
trasferiti a Reno.
– Lui che cos’ha detto?
– Ha detto che il tuo lavoro è disponibile.
– Va bene, ci vediamo –. Fece per riagganciare.
– Sarai a casa domani?
– Sì, – rispose Bruce. Riagganciò.
Per Dio, pensò, gli ha parlato del mio lavoro.
Probabilmente hanno preso accordi tra loro. Il tempo, la
paga, i compiti.
Tornò alla macchina. Per qualche minuto rimase seduto,
poi avviò il motore e tornò al negozio di riparazioni di
macchine per scrivere dove l’ometto ben vestito gli aveva
fatto il preventivo.
– Vedo che è tornato, – disse l’uomo con il suo modo di
fare serio e calmo, quando Bruce entrò con la Mithrias.
– Voglio che faccia lei il lavoro. Può farlo
immediatamente?
– Penso di sì, – rispose l’uomo. – La metta qui –. Prese la
macchina e la sistemò sul suo tavolo da lavoro. – Di certo
non è molto pesante, – disse.
– Mi piacerebbe guardare, – disse Bruce. – Non le darà
fastidio, vero? – Estrasse una penna a sfera e della carta e
si sistemò vicino all’uomo.
– Vuole vedere come si fa, giusto?
Sf.
– Cerchiamo di essere onesti. Se la cosa dovrà tornarle
utile, dovrà saperne di più di quello che imparerebbe a
guardarmi lavorare. – L’uomo pensò. – Va di fretta? Per
esempio, potrebbe trattenersi fino a questa sera?
– Credo di sì.
L’uomo disse: – Venga qui dopo cena. Intorno alle sette.
La riparerò davanti ai suoi occhi, le mostrerò di quali
attrezzi ha bisogno. E lei potrà esercitarsi qui sul mio
banco da lavoro finché sarò certo che lei abbia ben capito.
Altrimenti rovinerà le sue sessanta macchine per scrivere.
– Lei crede che possa imparare?
– Senza dubbio. A lei costerà circa trenta dollari per la
mia fatica. Io farò fare il lavoro a lei per quanto possibile.
Così ci veniamo incontro a vicenda –. L’uomo mise da parte
la Mithrias. – Ci vediamo alle sette, allora.
Sentendosi un po’ meglio, Bruce lasciò il negozio. Dietro
di lui, al banco da lavoro, l’uomo impassibile si rimise a
lavorare su una vecchia ibm elettrica, con la cravatta che
oscillava davanti a sé.
E dire che è una persona che non ho mai visto prima,
pensò tra sé e sé.
Quella sera tornò al negozio. L’uomo lo fece entrare e
cominciò a lavorare sulla macchina per scrivere. Non
sembrava difficile. Quando ebbe finito si mise a sorvegliare
Bruce mentre affrontava una seconda macchina. Alle dieci
aveva imparato la saldatura, il taglio e la risaldatura, e
stava tagliando a metà un tasto. Dopodiché l’uomo gli
mostrò come allineare i tasti, usando attrezzi speciali che
stringevano e piegavano le righe di composizione.
– Dovrà comprare gli attrezzi, – disse l’uomo. Scrisse
ordinatamente i nomi delle marche e le dimensioni per
Bruce con una calligrafia antiquata e regolare. – Ecco i
nomi di due posti dove può provare; se non li hanno, può
mandarli a prendere sulla costa oppure a est. Può
riutilizzarli per altri tipi di lavori. Sa, se ha intenzione di
vendere macchine per scrivere dovrà fornire lei stesso i
servizi. Assuma un operaio, allestisca un banco da lavoro.
Altrimenti le costerà troppo.
Bruce pagò l’uomo, lo ringraziò e se ne andò.
So di poter fare le modifiche da solo, si disse mentre
rientrava in auto. Ho solo bisogno degli attrezzi. Aveva
scritto tutto, passo dopo passo, e poi aveva riparato una
macchina seguendo le istruzioni scritte. A una settimana o
a un mese di distanza avrebbe potuto rifarlo. Secondo
l’uomo gli attrezzi non gli sarebbero costati più di quindici
dollari, se fosse riuscito a fare un buon affare col saldatore.
E lui sapeva dove comprarlo: nel reparto di ferramenta del
Bazar Affari.
Quella notte, con le sessanta macchina per scrivere
ancora nel bagagliaio, intraprese il viaggio di ritorno a
Boise.

Quando Susan vide le scatole di cartone ancora


ammucchiate in macchina disse: – Perché non le hai
vendute? Hanno ritirato l’offerta?
– No. Sono stato io.
– Perché?
– Le sistemerò. Un tipo a Reno mi ha mostrato come
fare.
– Ma tu non sei un tecnico di macchine per scrivere!
– Faccio solo questo lavoro –. Aveva già preso gli attrezzi
che gli servivano, a Reno. – Non ci costerà niente. A meno
che tu non voglia calcolare la manodopera come costo.
Prendendo il carrello a mano cominciò a riempirlo con le
scatole di cartone.
– Non sta a te decidere.
– Ho già deciso.
– Quando gli ho parlato al telefono, – disse Susan, – gli
ho detto che gli avresti portato le macchine per venderle.
– Non siamo riusciti a metterci d’accordo, – disse Bruce.
– Non c’era niente da concordare. Abbiamo preso tutti
gli accordi per telefono. Hai cercato di convincerli a
pagarle di più, vero? Hai cercato di spuntare un prezzo
migliore e loro non hanno accettato, così ti sei precipitato
fuori? – Sembrava più stupita che arrabbiata. Non capiva
perché fosse tornato con le macchine e sapeva che doveva
esserci una ragione. L’aveva fatto apposta; Susan sembrava
intuirlo. Mentre lo guardava trasportare le macchine, non
riusciva a decidersi tra la curiosità e l’indignazione.
Intanto, continuò il suo discorso. Bruce non le badava.
– Farò il lavoro qui in ufficio, – disse quando Susan
smise di parlare. – Se riesco a liberare un banco. Non c’è
bisogno di sistemare tutte le macchine, solo qualcuna da
mettere in vendita Mise in vetrina le due che erano già
state riparate. – Ce ne sono già due.
Susan si piegò su di esse, chiedendosi che cosa fosse
stato fatto. Allora Bruce smise di scaricare e glielo mostrò.
– Le rovinerai, – disse Susan.
– No, – ribatté lui.
Adesso Susan aveva ripreso il controllo. Incrociando le
braccia fece un profondo sospiro e disse con voce bassa e
affaticata: – Be’, ti ho assunto per prendere le decisioni
sugli acquisti.
Bruce si rese conto che questa frase avrebbe potuto
significare qualsiasi cosa. – Esatto, – disse lui. – E quando
assumi qualcuno per fare qualcosa, il sistema più pratico è
di lasciarlo in pace e lasciargli fare il suo lavoro. Qualunque
grossa impresa te lo direbbe.
Susan lo guardò con un’espressione indecifrabile.
– È così che il presidente Eisenhower agi in Europa, –
commentò Bruce.
Dopo un po’, Susan disse: – Forse dovresti tenere una di
queste per usarla come modello.
– È tutto scritto –. Aprì i fogli che contenevano gli
appunti. – Vedi?
– Tienine una come modello, comunque.
– Dovremo escogitare un tipo di contratto con
pagamento a tempo, – disse Bruce.
– Eh, già, – borbottò Susan, in un tono che poteva anche
sembrare sarcastico. Ma Bruce non riuscì a sentirla
abbastanza bene da capirlo.
Mentre lei lo stava a guardare, a braccia incrociate,
Bruce finì di scaricare. Nessuno di loro disse niente. Ma
mentre lavorava Bruce pensava: deve riconoscere che è per
questo che mi ha assunto. Questo è il mio lavoro. Sono io
che decido.

Quella sera Bruce lavorò fino a tardi, da solo, in ufficio,


modificando le macchine. Ne finì un paio poi, stanco,
spense le luci e attraversò in macchina la città diretto a
casa. Susan ovviamente era già andata a letto. Che bello
essere tornato, pensò mentre faceva la doccia in quel
bagno così familiare. Indossò un pigiama pulito e si infilò
nel letto accanto a lei.
Il mattino seguente dormì fino a tardi. Quando si svegliò
vide che Susan si era già alzata, vestita, aveva mangiato ed
era uscita. Per un po’ rimase a letto, disteso sulla schiena, a
godersi la pace. Poi si alzò anche lui. Fece colazione con
comodo, si fece la barba, indossò una camicia pulita di
cotone rigato, una cravatta, dei pantaloni, poi, assaporando
il senso di possesso della casa, gironzolò per le stanze.
Dalla finestra del soggiorno si vedeva il cortile. Il prato
e i cespugli di rose. Il tubo per innaffiare avvolto su se
stesso.
Bella vista, pensò. Ben lontano dalla strada. Un furgone
del latte arrivò rumorosamente; Bruce lo guardò fermarsi,
e il conducente saltò giù. Vedere il lattaio che percorreva di
gran fretta una lunga rampa di scale dall’altra parte della
strada gli diede una certa soddisfazione. È bello vedere
qualcun altro che si affretta, decise. Il lavoro del mondo.
Ognuno ha la propria nicchia, e devo dire che non sono
troppo scontento della mia.
La fine di un lungo viaggio, pensò. Un viaggio faticoso e
interminabile.
Indossando la giacca uscì di casa, andò alla sua
macchina, entrò e accese il motore.
Adesso stava guidando in direzione dell’ufficio.
Sul marciapiede, davanti alla R&J SERVIZI DI CICLOSTILE,
era parcheggiato un pick-up giallo con la sponda
ribaltabile. Quel furgone ha un aspetto familiare, pensò
Bruce mentre si avvicinava. Entrò in un parcheggio, fermò
la macchina e spense il motore. Rimanendo seduto, osservò
il pick-up.
La porta principale dell’ufficio era aperta, tenuta ferma
con un mattone. Un attimo dopo apparve un ragazzo con
una camicia e un paio di pantaloni color kaki, che
trascinava un carrello a mano. Nel carrello c’erano delle
scatole di cartone. Il ragazzo guidava il carrello con fare
esperto, lo spinse sulla sponda del pick-up, e poi fece
scivolare i cartoni sul pianale del furgone. Saltando giù
allegramente si riavviò verso l’ufficio con il carrello vuoto e
scomparve.
Lo conosco, pensò Bruce.
Quel figlio di puttana è del Bazar Affari, e quel furgone è
loro. Sta prendendo le macchine per scrivere. Le stava
caricando mentre io ero a casa a dormire.
Spalancando lo sportello della macchina balzò fuori e
fece il marciapiede di corsa verso il pick-up. – Ehi, – disse
senza fiato. – Che diavolo stai facendo?
Il ragazzo, apparendo di nuovo dal negozio con il suo
carico di scatole di cartone, gli lanciò un’occhiata e lo
riconobbe. – Salve, – disse, un po’ confuso. – Vediamo, lei
lavorava al B.A. Aspetti un attimo che mi faccio venire in
mente il suo nome –. Piegando indietro il carrello, rifletté,
battendosi la fronte. Aveva circa diciassette anni, capelli
corti, guance carnose e braccia grosse e muscolose.
Bruce chiese: – Lei è dentro?
– La signora Stevens, vuole dire? – disse il ragazzo. Poi
fece un gesto con la mano ed esclamò: – Ecco chi è lei.
Bruce Stevens.
Bruce entrò nell’ufficio. Nel retro, Susan era seduta a
una delle scrivanie, a fumare una sigaretta. Indossava un
tailleur verde scuro; aveva i capelli in piega e sembrava
seria e controllata. Quando Bruce entrò, lei lo guardò. Ma
non disse niente.
Bruce, con la voce più naturale possibile, chiese: – Che
cosa significa tutto questo?
Susan disse: – Ho deciso di licenziarti.
Oh Dio, pensò Bruce.
– Quello che hai detto era vero. Ti avevo assunto per
prendere le decisioni sugli acquisti.
– Che io sia dannato, – disse Bruce, e questa volta la sua
voce tremava ed era fievole. Dovette mettere le mani in
tasca per evitare che tremassero anche loro. Intanto, dietro
di loro, il ragazzo riprese a caricare le scatole; spingeva il
carrello avanti e indietro con discrezione, senza dire niente
e facendo il minor rumore possibile.
Bruce si mise di fronte a Susan e le chiese: – Siamo
ancora sposati?
– Oh, sì, – rispose lei con enfasi, battendo un po’ le
palpebre come se fosse stata colta di sorpresa.
Così l’aveva licenziato. Bruce non aveva più un lavoro;
durante la notte e la mattina presto lei ci aveva pensato su
e aveva deciso. Aveva telefonato al B.A. e adesso il furgone
stava ritirando le macchine per scrivere. Come aveva fatto
ad arrivare così in fretta? Forse l’aveva chiamato la notte
prima, mentre lui stava lavorando alle macchine. Susan
aveva già deciso prima ancora che lui tornasse a casa e
andasse a letto. Si era messa d’accordo con loro appena
possibile; era uscita dall’ufficio ed era andata direttamente
a un telefono. Forse aveva deciso appena aveva visto le
macchine. Ma non aveva detto una parola.
– Perché diavolo non me l’hai detto? – chiese Bruce. La
sua voce era un po’ più ferma.
– Ero stufa di discutere.
A quella risposta, Bruce non trovò niente da replicare.
– Mi era sembrato che fosse una perdita di tempo
parlarne ancora. Sapevo che avevi deciso e che non si
riusciva a ragionare con te.
Bruce disse: – Credo che questo sia un colpo basso.
– È il mio negozio, – ribatté Susan. – Dobbiamo entrambi
tenere presente che la proprietaria sono io –. Guardandolo
fisso, aggiunse: – Le macchine appartengono a me. Non è
vero? Detesto essere dura al riguardo, ma sono mie. Sono
state comprate con i miei soldi.
– Non erano tutti soldi tuoi. Che mi dici dei soldi che ci
hanno dato i miei?
– La metà sono miei. Quindi ti rimangono solo
cinquecento dollari.
– E i soldi che ci ha dato Milt.
– La metà di quelli mi appartiene legalmente.
– Alcune macchine sono mie.
A quel punto Susan annuì. Ma non sembrava che le
importasse molto.
– Prenderò le mie.
– Accomodati, – disse Susan. Finì di fumare rapidamente
la sua sigaretta.
Bruce andò al pick-up. Il ragazzo stava chiudendo la
sponda ribaltabile. Aveva legato gli scatoloni, così non si
sarebbero spostati durante il viaggio di ritorno a Reno. –
Accidenti a te, – disse Bruce, – alcune macchine sono mie.
Sulla porta dell’ufficio apparve Susan. – È vero, – disse
al ragazzo. – Alcune sono sue –. Fece dei calcoli con un
blocco di carta e una penna.
– Al diavolo, – disse Bruce. Si girò e se ne andò, lontano
dal pick-up e da loro due, tornando alla sua Mercury.
Entrando sbatté la portiera, mise in moto, e si allontanò
subito dal bordo della strada per immettersi nel traffico.
Passò accanto al pick-up e un attimo dopo se l’era lasciato
alle spalle, ancora fermo al bordo della strada con il suo
carico di scatoloni, e sul marciapiede lì accanto Susan e il
ragazzo che discutevano animatamente.
Che se le tengano, pensò. Possono ficcarsele in culo.
Tremando, rallentò, accostò sulla destra e girò l’angolo.
Si fermò in una strada laterale tranquilla. I rumori del
traffico erano spariti dietro di lui. Quiete. Spense il motore.
La macchina scivolò un po’ in avanti. Tirò il freno a mano.
Devo andare a casa e prendere la mia roba? si chiese.
No, probabilmente non ci tornerò più. Non vedo alcun
motivo per farlo. Che peccato. Dopo tutto il lavoro che
avevo fatto. Guarda che cosa doveva succedere. Come
aveva potuto fare quel genere di ragionamento, calcolando
esattamente quante macchine le appartenessero, e i motivi
per cui erano sue. Forse aveva chiamato il suo avvocato.
Adesso posso anche rimettermi in strada, pensò. Ma non
si sentiva di farlo. Mise in moto, e proseguì, oltre le case.
La zona residenziale. Prati e viali. Per un po’ guidò senza
meta.
Non avrei mai pensato che sarebbe andata così, si disse.
Non si può mai dire. La conoscevo da tanto di quel tempo.
Dalla scuola media. Poi l’ho rivista quando facevo le
superiori e le portavo il giornale. Quella volta che avrebbe
dovuto darmi la mancia, quando non ero stato invitato a
entrare in casa. È sempre la stessa cosa. Avrei dovuto
capirlo.
Forse la cosa migliore da fare è prendere in affitto una
stanza, decise. Ne affitterò una da qualche parte qui in
città e ci resterò per un po’ finché mi sarò riposato. Poi
potrò pensare meglio e decidere cosa fare.
Al momento non si sentiva in grado di pensare.
Più tardi potrò fare progetti, decise.
Quindi, diresse la macchina verso la zona della città
dove si trovavano le camere in affitto. Alla fine arrivò a una
grande pensione bianca con diversi campanelli e cassette
postali. A una delle finestre principali era appeso un
cartello che recitava: camere in affitto. Bruce parcheggiò e
scese dalla macchina.
Un quartiere niente male, pensò mentre saliva i gradini
verso la veranda. Lì c’era uno scatolone di bottiglie vuote di
Coca Cola. Suonò il campanello in alto. La porta si aprì
subito e Bruce si trovò di fronte un uomo di mezza età in
pantaloni e canottiera, con una pancia enorme che
debordava dalla cintura.
– Che cosa c’è? – chiese l’uomo, portandosi un dito
all’occhio per grattarselo.
Bruce spiegò all’uomo che era interessato alla stanza.
L’uomo disse di non essere il responsabile, era solo uno
degli inquilini, un pompiere che dormiva di giorno. Ma
condusse Bruce su per una rampa di scale ricoperte da un
tappeto, oltre una pianta di caucciù in un vaso, e gli mostrò
la stanza libera. Era stata imbiancata di fresco e profumava
di pulito. In un angolo c’era un divano; nell’altro un
radiatore a gas. Le finestre avevano sia scuretti sia tende. Il
pompiere rimase sulla soglia, continuando a grattarsi
l’occhio.
– Va bene, – disse Bruce.
– Può trasferirsi immediatamente, – disse il pompiere,
girandosi e incamminandosi giù per le scale. – Il padrone di
casa sarà qui questa sera e potrà pagargli l’affitto allora.
Sono venti dollari, mi sembra di ricordare, ma sarà meglio
che si metta d’accordo con lui.
Bruce aveva ancora nella macchina cose a sufficienza.
Aveva i suoi vestiti, ed era quello che contava. E aveva i
suoi prodotti per il bagno, la sua spazzola e il dopobarba e i
gemelli e le scarpe. Portò la valigia nella stanza di sopra e
sistemò le cose nei cassetti della credenza e nell’armadietto
di cartone. Poi chiuse la porta, si tolse la camicia e si stese
sul letto a una piazza. C’erano le lenzuola, la coperta e
anche un cuscino. Tutto quello che mi serve, pensò, disteso
supino con le braccia lungo i fianchi. Dovrò mangiare fuori,
ma ci sono abituato.
Starò qui qualche giorno, pensò. Finché non prendo una
decisione.
Nel portafoglio aveva venti o trenta dollari, forse di più.
Pensò di alzarsi per guardare nel portafoglio, ma dopo
averci pensato un po’ decise di non fare quella fatica. Ci
sono abbastanza soldi. Me la caverò bene.
La stanza gli sembrava confortevole e tranquilla. Di
sotto, per strada, passarono una o due macchine. Bruce
ascoltò il rumore dei motori. Potrebbe essere molto peggio.
In realtà non mi va poi così male. Diavolo. Ho la salute e la
giovinezza. Dicono che se hai questo non hai niente di cui
preoccuparti. E ho imparato qualcosa. Si trae sempre
profitto dall’esperienza. E se voglio posso tornare indietro e
reclamare le macchine per scrivere che mi appartengono.
Ma perché darsi pensiero? Che se le tenga. Se per lei è così
importante. Che faccia dei soldi, se vuole.
Rimase lì disteso, a pensarci.
16

Disteso sul letto, ripensò al primo giorno in cui l’aveva


vista, la nuova giovane insegnante in piedi alla lavagna.
Solo nella stanza in affitto richiamò alla mente quel giorno
importante, anni prima, quando lui era entrato in classe e
aveva visto l’insegnante scrivere a grandi e chiare lettere:

SIGNORINA REUBEN

La signorina Reuben indossava un completo blu, non un


abito normale. A tutti loro sembrò che si fosse messa
elegante per un’occasione speciale, per andare in chiesa o
a trovare qualcuno. Il colore dei suoi capelli li stupì, e
qualcuno sussurrò dei commenti in proposito. Erano biondi,
non nerogrigi come quelli della signora Jaffey. Nessuno di
loro aveva mai visto un’insegnante con i capelli così biondi:
erano come quelli di una delle bambine, non sembravano
per niente i capelli di un’insegnante.
Quando si girò verso la classe, di spalle alla lavagna,
videro che stava sorridendo, a tutta la classe, non a uno di
loro in particolare. Alcuni ne furono spaventati e si
sedettero nel fondo dell’aula. Aveva il viso tondo,
lentigginoso e rossastro, liscio e particolarmente vivace.
Anche gli occhi avevano un che di preoccupante: sembrava
che osservassero tutto nella stanza. Non si fissavano su
niente. Alcuni bambini notarono che aveva un mazzo di fiori
bianchi appuntati al tailleur, dove i due lembi della giacca
si univano e si abbottonavano. Anche i bottoni del tailleur
blu erano bianchi; i bambini lo notarono.
Suonò l’ultima campanella.
Sedendosi alla cattedra della signora Jaffey, la signorina
Reuben disse: – Bene, ragazzi –.I pochi di loro che stavano
parlando smisero. – Sarò la vostra insegnante fino alla fine
del semestre. La signora Jaffey non tornerà. È molto
malata. Adesso farò l’appello –. Sulla cattedra c’era il
registro della signora Jaffey. – So che dovreste essere
seduti in ordine alfabetico, ma vedo che non lo siete.
Nessuno di voi è al suo posto.
Tutti i ragazzi si erano spostati da una parte, lasciando
le bambine da sole. E non c’era nessuno in prima fila. E
così la signorina Reuben se n’era accorta. Ma si sentirono
tutti a disagio. Com’era sveglia. La signora Jaffey non
l’avrebbe mai notato, e invece la signorina Reuben l’aveva
visto subito.
Una bambina si alzò e disse: – Sono l’incaricata della
signora Jaffey. Faccio sempre l’appello per lei.
Era vero. Ma la nuova insegnante, la signorina Reuben,
disse: – Grazie, ma oggi farò l’appello da sola. Ecco cosa
voglio che facciate –. Sorrise di nuovo a tutta la classe. –
Quando leggo il nome di un alunno non voglio che risponda.
Avete capito?
Presi alla sprovvista, i ragazzi rimasero in silenzio. Si
erano messi d’accordo di rispondere «presidente», come
avevano fatto con la supplente nell’ultimo giorno e mezzo.
– Quello che dovete fare, – disse la signorina Reuben,
seduta con le mani incrociate sulla cattedra, – è questo.
Quando dico il nome di un alunno voglio che tutti gli altri
ragazzi, insieme, puntino il dito in sua direzione. E non
voglio che quell’alunno dica una parola. Avete capito tutti?
Poi la signorina Reuben chiamò un nome. Alcuni allievi
indicarono quel ragazzo. La signorina Reuben lo osservò e
scrisse un’annotazione sul registro. Chiamò un altro nome.
Questa volta più alunni indicarono. Quando ebbe finito di
fare l’appello, gli alunni si indicavano entusiasticamente
l’un l’altro.
– Bene. Adesso credo di avervi tutti ben presenti. Vi farò
mettere a sedere in ordine alfabetico, come aveva fatto la
signora Jaffey. E se vi chiamo e dico male il vostro nome,
voglio che tutti gli altri me lo dicano subito Sorrise. –
Quindi vi prego di alzarvi in piedi e mettervi a sedere ai
vostri soliti posti.
Mentre lo facevano, li fissò attentamente, come se
stesse osservando qualcosa in particolare. Nessuno di loro
sapeva cosa fosse, e persino i ragazzi scatenati che stavano
in fondo alla classe restarono zitti mentre tornavano ai loro
posti abituali. – Bene, – disse la signorina Reuben,
quand’ebbero finito.
Tutto era immobile. La scolaresca sedeva in attesa,
sopraffatta dalla paura.
– Voi ragazzi vi siete divertiti parecchio nelle ultime due
settimane, – disse la signorina Reuben. – Avete fatto le
vacanze estive in anticipo. Avete fatto tutto quello che
volevate. Spero che vi siate divertiti, perché il prossimo
mese vi guarderete indietro e penserete a quanto siete stati
fortunati. Volete sapere qual è stato il risultato del vostro
comportamento? Avete allontanato da questa scuola una
vecchia signora. Una vecchia signora che era stata uno dei
primi insegnanti qui alla Garret A. Hobart. Da prima che
nascessero i vostri genitori. E il mese prossimo sarebbe
andata in pensione. Le avete reso l’ultimo mese di
insegnamento impossibile. Le avete impedito di lavorare
per l’ultimo mese, e lei meritava di farlo. L’avete fatta
ammalare. Ovviamente, so che non siete tutti responsabili
allo stesso modo. Ho parlato a lungo con la signora Jaffey.
Le ho chiesto chi era responsabile. Chi di voi. Sapete che
cos’ha detto? La signora Jaffey non ha fatto nomi. «Sono
tutti bravi alunni», ha detto. Che cosa ne pensate? L’avete
cacciata da questa scuola in cui ha insegnato per
quarantun anni e l’avete fatta ammalare, e pensate che
abbia fatto la spia? No, non una parola.
Anche i ragazzi più grossi e spavaldi si stavano agitando
nelle sedie, visibilmente in tensione. Tutti erano colpiti
dalla vergogna e dalla tristezza.
– Sapete che cosa farete? – disse la signorina Reuben,
con una voce che diventava sempre più alta. – Scriverete
alla signora Jaffey per dirle quanto vi dispiace. Scoprirò chi
sono tra voi i furbacchioni. Lo scoprirò. Lo so. Ho insegnato
a ragazzi molto più grandi di voi. A est, da dove provengo,
ho insegnato in una scuola superiore. Alcuni di voi
aspetteranno l’occasione buona e mi metteranno alla prova.
D’accordo. Vedremo. Sto aspettando.
Dal fondo della classe risuonò un versaccio.
La signorina Reuben si alzò dalla sedia. – Bene, – disse.
Percorse lentamente il corridoio tra i banchi verso il fondo.
Aveva il viso rosso e la fronte e le labbra gonfie. Mentre
passava davanti a loro, gli alunni videro che aveva gli occhi
intensi, acuti e luccicanti, come quelli di un uccello.
Nessuno diceva niente. Erano intimoriti.
Sul fondo dell’aula la signorina Reuben si fermò di
fronte al banco di un ragazzo. Non aveva fatto lui il verso.
La signorina Reuben lo fissò finché lui non si mosse
nervosamente. Tutti lo videro tremare, e alcuni
ridacchiarono. All’improvviso la signorina Reuben si girò e
disse: – State buoni!
La classe si azzitti all’istante.
– Alzati, – ordinò la signorina Reuben a quel ragazzo.
L’alunno si alzò in piedi, spingendo goffamente indietro
la sedia.
– Come si chiama? – chiese la signorina Reuben alla
classe.
Risposero tutti in coro: – Skip Stevens, signorina
Reuben.
Deglutendo nervosamente, Skip Stevens disse: – Non
sono stato io.
– A far cosa? – chiese la signorina Reuben. – Non ti ho
accusato di niente –. Lo disse in modo tale che tutto il resto
della classe capì che lo prendeva in giro, e scoppiò a ridere.
Appena ebbero smesso, Skip Stevens raccolse le forze e
disse in tono più fermo e chiaro possibile: – È stato lui –.
Indicò Joe St. James, che aveva fatto il verso.
La signorina Reuben gli disse: – Vieni davanti, Skip.
Starai seduto di fronte alla cattedra Senza guardarsi
indietro ripercorse il corridoio di passaggio verso la
cattedra. Skip Stevens sapeva che doveva seguirla. Non
aveva fatto niente, ma doveva andare con lei. A testa bassa,
conscio della mortificazione, si trascinò dietro di lei.
– Prendi una sedia, – gli ordinò la signorina Reuben.
Skip andò a prendere una sedia dal fondo. Ma la
signorina Reuben disse: – Qui. Proprio accanto a me. Dove
posso tenerti d’occhio.
Così dovette trascinare una sedia e sedersi proprio
accanto a lei. Tentò di tenere gli occhi bassi; tentò di far
finta che lei non fosse lì, vicino a lui.
Passò del tempo. La classe era muta: temevano che li
avrebbe visti e gli avrebbe domandato qualcosa o gli
avrebbe fatto fare qualcosa.
Che cos’ho fatto di male? si chiedeva lui tra sé e sé, a
testa bassa, con gli occhi fissi sul pavimento. Perché sono
qui? Come mai è successo?
Non c’è motivo che lei faccia una cosa del genere,
pensò. È ingiusto. In lui crebbe un odio nei confronti
dell’insegnante, e oltre a questo gli rimaneva un senso di
colpa, la sensazione di avere commesso un errore. L’odio
sparì, ma la paura di non essere stato in grado di fare la
cosa giusta perdurò. È colpa mia, pensò. Ho commesso un
errore e sto pagando per questo. Lei ha ragione. La odio,
ma ha ragione. Che sia maledetta.
Si mise le mani sugli occhi, coprendosi il viso.
– Qualcuno di voi è mai stato a New York? – disse allora
la signorina Reuben, sorridendo di nuovo alla classe in
modo severo, efficiente e impersonale.
Alla fine, mentre nessuno diceva niente o osava
muoversi, una ragazzina alzò la mano.
– Quando? – chiese la signorina Reuben.
L’alunna rispose: – Tre anni fa, signorina Reuben.
L’insegnante disse a Skip Stevens: – Vai nell’armadietto
e prendi la carta a righe e distribuiscila alla classe –. Gli
mostrò le dimensioni del foglio che aveva in mente. – Per
prima cosa questa mattina, – disse, alzandosi e andando
alla lavagna, – voglio che facciate un tema Sulla lavagna
scrisse a grandi lettere stampate:

LA MIA IDEA DI NEW YORK CITY

– Voglio che immaginiate di fare un viaggio verso est, a


New York. Voglio che mi diciate tutte le cose che pensate
che vedreste. Scrivete della metropolitana, se volete. O di
Coney Island. O della borsa. O della squadra degli Yankee.
Come pensate sarebbe assistere a un incontro di baseball.
O dei musei. Tutto quello che volete.
Senza opporre resistenza, ogni alunno prese il foglio di
carta che gli veniva dato. Cominciarono subito a scrivere.
Skip tornò al proprio posto, vicino alla cattedra della
signorina Reuben, e prese la matita per scrivere il proprio
nome in alto a destra sul foglio. Gli unici rumori nella
classe erano la carta che veniva maneggiata, il respiro
degli studenti, le matite e le gomme.
Il posto di Skip era così vicino alla signorina Reuben che
riusciva a sentire l’odore dei fiori che lei aveva addosso.
Nella stanza senz’aria e chiusa quel profumo gli ricordava
le more. Stare distesi in un giardino, un tardo pomeriggio
di fine estate, tra le more dolci e calde sotto i rampicanti.
Che diavolo ne so di New York, pensò. Non ci sono mai
stato. Ho girato parecchio, ma non sono mai stato tanto a
est. È solo un’altra cosa per farmi soffrire. Qualcosa per
farmi provare più vergogna.
Non posso farlo, decise.
Allora la signorina Reuben disse: – Skip Stevens–. Aveva
gli occhi fissi su di lui, lo guardava direttamente dalla
cattedra. – Perché non scrivi?
Skip aveva messo da parte il foglio e appoggiato la
matita. Sul foglio c’erano solo il suo nome e il titolo del
tema.
– Non posso farlo, – le disse. Si accasciò sulla sedia ed
evitò di guardarla. La sua voce divenne un mormorio che si
udiva a mala pena. – Va bene se non scrivo? – chiese.
La signorina Reuben disse: – Tutti gli altri continuino a
scrivere –. Spostando la propria sedia si sporse verso di lui
e sovrastandolo gli disse: – Perché non puoi scrivere di New
York?
– Non ci sono mai stato L’odore di more divenne così
forte che Skip trattenne il fiato. Non osava respirare; si
sentiva accaldato, e aveva prurito dappertutto. Gli stava
anche venendo da starnutire.
– Non potresti fare finta? – gli disse dolcemente
l’insegnante in un orecchio, piegandosi in modo da parlare
solo a lui, in un sussurro che nessuno degli altri alunni
doveva sentire. La voce dell’insegnante perse la durezza. A
testa bassa, Skip chiuse gli occhi. Sopra di lui, vicino a lui,
la voce dell’insegnante sussurrava e mormorava. – Pensa
solo a come sarebbe, – diceva, con le labbra quasi dentro al
suo orecchio. – Non sarebbe molto bello?
– Credo di sì, – rispose lui, non osando alzare la testa o
aprire gli occhi. Sì, pensò, sarebbe bello. Ma è troppo
lontano. Troppo irreale. Non c’è motivo che mi preoccupi di
qualcosa di così distante. – Mi piacerebbe andare a New
York, – le disse. – Mi piacerebbe fare un sacco di cose. Ma
diavolo, conosco i miei limiti. Non ci arriverò mai.
Cerchiamo di essere realisti.
Lei disse: – Allora su cosa ti piacerebbe fare il tema?
Non voglio farlo su niente, pensava mentre stava
appoggiato sulla schiena, con le mani sul viso. Perché
dovrei? Che cosa ci guadagnerei? Non posso trovare niente
di piacevole? Immagina questo o quello; un viaggio
immaginario in una terra tranquilla e confortevole. Prese la
matita e pensò. Qualsiasi cosa? si chiese. Su qualsiasi
argomento? Sono libero di farlo? Inventarmi tutto quello
che voglio?
– Credo che scriverò di quello che succederà, – disse.
Immaginerò il futuro tra qualche mese. Ancora di più:
tra diversi anni. Come sarebbe andata tra di noi. Se fosse
andato tutto bene. Se avessi potuto riportare indietro
quelle dannate macchine per scrivere e ci avessi potuto
lavorare in ufficio, di sera, finché non le avessi trasformate
a costo quasi nullo in modo da poterle vendere a un buon
prezzo. Se lei non avesse agito alle mie spalle e non se ne
fosse sbarazzata e poi, quando io l’ho scoperto, cosa che
doveva inevitabilmente succedere, non avesse scaricato
anche me. E non avesse messo fine a tutto. Così tutto
quello che posso fare è stare qui disteso e comporre un
tema immaginario.
Il titolo, si disse, è:

COME ABBIAMO FATTO UN COLPACCIO


CON LE MACCHINE PER SCRIVERE GIAPPONESI.
E COSA È STATO DI NOI PER COLPA DI QUEST’AFFARE.

Quando le Mithrias saranno vendute, decise, avremo


abbastanza soldi per destare l’interesse di alcune delle più
importanti ditte di macchine per scrivere americane. Una
volta ottenuta l’esclusiva potremo diventarne i
rappresentanti. Forse non vorranno distribuire altre
esclusive a Boise. Ma questo non ci preoccuperà. Potremo
aprire un negozio da qualche altra parte con tutti i soldi
che avremo fatto. Potremo lavorare dovunque vorremo.
Per esempio, potremmo aprire un negozio a Montario,
pensò. Conosco maledettamente bene la città, avremmo già
un giro. Dovrò andarci da solo, una domenica. E vedere
com’è la situazione.

Il cinema Luxor era aperto, dal momento che era


domenica, e un gruppetto di ragazzi in jeans e ragazze in
gonna e camicetta si era raccolto intorno alla biglietteria.
Da ogni parte della città gli empori erano aperti e
stavano facendo affari, ma esclusi quelli, i bar e i cinema,
era tutto chiuso. La maggior parte dei parcheggi era vuota.
I marciapiedi e le strade erano ricoperti di polvere e
cartacce. Oltre le linee ferroviarie i distributori di benzina a
prezzo scontato facevano buoni affari con le macchine
provenienti da altri stati. Davanti al motel Roman Columns,
sul prato, una donna in calzoncini sedeva a leggere una
rivista.
Sceso dalla macchina, Bruce cominciò a gironzolare qua
e là, guardando le vetrine.
Molti dei negozi erano lì da quando era nato, ma adesso
li vedeva da una prospettiva diversa; non era un bambino e
neanche un cliente ma un potenziale collega che voleva
aprire il suo negozio. E questo non era un sogno ma una
possibilità molto reale e vicina.
All’angolo, nel suo emporio, il signor Hagopian
armeggiava con un insetticida. Ecco il vecchio ciccione,
pensò Bruce. Sempre cupo. Se mi vedesse tornerebbe ad
avercela con me. Finché vive.
Mi chiedo che cosa penserebbe il vecchio Hagopian se
aprissi un negozio accanto al suo, pensò.
Gli verrebbe un attacco di cuore? Mi rincorrerebbe con
una scopa? O forse non capirebbe che sono io.
Con le mani in tasca continuò a vagare, lungo i binari,
poi oltre i magazzini abbandonati. Sulla panchina della
stazione un uomo anziano con un bastone sedeva a colpire
le mosche di lago dalle ali lunghe che si radunavano
nell’aria pomeridiana.
Lontano, sulla strada, si sentì il clacson di un camion.

In agosto chiusero il negozio a Boise e trasportarono


tutto a Montario. Avevano preso in affitto quella che prima
era stata la più vecchia ferramenta della città. Era rimasta
vuota per mesi, un edificio stretto, polveroso, schiacciato
tra una panetteria scandinava e una lavanderia. Ma l’affitto
era basso. E non dovettero comprare l’arredamento: il
proprietario gli lasciò tranquillamente smontare i vecchi
banconi e le vecchie luci e buttare via tutto.
La mattina presto lui e sua moglie arrivavano con
addosso degli abiti smessi. Prima pulirono e poi
imbiancarono. Quindi, usando blocchi di basalto e un
mortaio, Bruce costruì una nuova facciata della lunghezza
di una vetrina. Installò una robusta cassetta di fiori in
pietra per dei cespugli e piantò un paio di sempreverdi e
delle piante perenni a stelo corto. E infine tolse la porta e
ne montò al suo posto una moderna in vetro e rame con la
serratura a forma di stella.
Gli affari, almeno all’inizio, andavano discretamente. Ma
nel corso del secondo o terzo mese, Bruce si accorse di una
cosa che né lui né Susan avevano previsto.
Non c’era più niente che gli interessasse in quella città.
Pur gestendo un’attività in proprio, Bruce si annoiava: la
stessa vecchia Hill Street che gli si parava di fronte ogni
giorno dalla sua infanzia, e gli stessi agricoltori dell’Idaho…
Anche con una buona attività stabile non sarebbe mai stato
davvero felice. Così cominciò a guardarsi intorno, in cerca
di nuove opportunità. Adesso, per la prima volta, cominciò
a pensare a un trasferimento vero e proprio; non solo una
ventina di chilometri di strada, ma un trasferimento in una
città che non aveva mai visto prima, in un altro stato, forse.
Questo era pur sempre territorio di Milton Lumky.
Un pomeriggio Lumky passò con la sua cartella di pelle,
durante i suoi giri ufficiali per la Forniture Carta Whalen.
– Dov’è la tua macchina? – chiese Susan. – Non la vedo.
– L’ho venduta, – spiegò Milt. – Troppo difficile ottenere
assistenza per strada. – Indicò fuori dalla finestra una
berlina straniera parcheggiata sul bordo della strada. – L’ho
scambiata con una macchina svedese.
– Non avrai problemi a trovare assistenza per una
macchina svedese? – chiese Bruce. Uscirono dal negozio e
andarono dall’altra parte della strada a vedere la macchina.
– È nuova, – disse Milt. – Non avrò bisogno d’assistenza.
Da dove si trovavano riuscivano a vedere Susan dentro
il negozio, al lavoro dietro una delle scrivanie.
– Come mai vi siete stabiliti in una piccola città fuori
mano come Montario? – gli chiese Milt.
Bruce disse: – Sono nato qui. Sono cresciuto qui.
– Esatto. Sei un ragazzo dell’Idaho. Continuo a
immaginarti come un uomo di una grande città. Quel tuo
grande magazzino non era giù a Reno? – Riflettendo, Milt
aggiunse: – Qualcun altro è vissuto qui per un po’. Sì, era
Susan. Una volta mi ha detto che aveva insegnato qui alle
medie.
– Ero un suo alunno in prima, – disse Bruce.
Un’espressione ottusa e incredula apparve sul viso di
Milt.
– È vero?
– Sì.
– Non so mai quando crederti. Ti diverti un sacco a dire
cose per sorprendere la gente.
– Non capisco cosa ci sia di stupefacente in questo, –
commentò Bruce.
Tornarono verso il negozio, e allora Lumky, in preda a
emozioni contrastanti, disse: – Lo sapevi quando l’hai
sposata?
– Certo.
– E lei?
– Certo, – rispose. Poi fu preso da un piacere malizioso e
non poté trattenersi. – È per questo che ci siamo sposati, –
aggiunse.
Preso da un terribile sospetto, Milt chiese: – Che cosa
intendi dire?
– Voglio dire che abbiamo appagato il nostro reciproco
affetto infantile. Allora era impossibile dal momento che lei
aveva una ventina d’anni e io solo undici.
– Che tipo d’affetto? – Adesso erano entrati nel negozio.
L’atteggiamento che aveva assunto Milt fece alzare lo
sguardo a Susan dal proprio lavoro. Milt le disse:
– È vero che sei stata la sua insegnante in prima media?
– Oh sì, – rispose Susan. Lanciò uno sguardo a Bruce, e
lui la ricambiò con un’occhiata di scanzonata allegria.
Senza esitare Susan riprese da dove era rimasto Bruce;
spiegò tutta la situazione. – Era il mio alunno preferito. Non
perché fosse intelligente. Perché era molto maturo, e con
questo voglio dire che era sessualmente molto attraente.
Milt non riusciva a dire nulla.
– Ho ancora una sua foto di quando aveva undici anni, –
disse Susan con la sua voce calma e moderata.
– Quando era possibile, lo facevo sedere alla cattedra
con me mentre insegnavo alla classe. Ma anche così
abbiamo dovuto aspettare. Ci siamo visti in segreto per
anni. Mi veniva a trovare a casa mia quando faceva le
superiori. Allora aveva quasi l’età giusta… stavamo quasi
per farlo, allora. Ma dovemmo ancora aspettare un altro
po’. Vuoi vedere la fotografia?
– No, – borbottò Milt.
– Valeva la pena di aspettare, – disse Susan. – Più ti
trattieni, meglio è. Non è vero, Bruce?
Il disagio di Milt era diventato così evidente che
smisero. Ma Milt rimase cupo e taciturno, gironzolando nei
paraggi per il resto del pomeriggio, incapace di andarsene
ma senza più riuscire a parlare con loro. Alla fine si
congedò e andò alla sua macchina svedese. Li salutò con la
mano, ma senza guardare nella loro direzione, mise in moto
e partì.
– Non avremmo dovuto prenderlo in giro, – disse Bruce.
Ma era stato divertente. Avevano provato gusto a farlo, e
adesso si scambiavano sorrisi. Se ne avessimo la possibilità
lo rifaremmo, si rese conto Bruce.
In seguito venne a sapere una cosa da un
rappresentante che arrivava dal Colorado. A Denver c’era
un negozio di macchine per scrivere, un piccolo locale il cui
proprietario era morto in un incidente d’auto. I parenti
dell’uomo non erano interessati all’attività e non avevano
stabilito un prezzo troppo alto per il negozio. Secondo il
rappresentante nell’acquisto erano comprese molte buone
esclusive, oltre a una facciata moderna, delle attrezzature e
un magazzino non troppo ammuffito. E Denver si stava
espandendo di giorno in giorno.
Bruce capì che se il posto era un affare poteva essere
soffiato da qualcun altro. Così questa volta non andò in
macchina; prese un aereo. Un parente del proprietario
defunto lo andò a prendere all’aeroporto e lo accompagnò
al negozio in macchina. Aveva un’insegna al neon, e il
registratore di cassa abbastanza nuovo valeva da solo
quattrocento dollari. La maggior parte delle scorte era
costituita da costose macchine da ufficio, ma Bruce non
dubitava che avrebbe potuto scambiarle con modelli meno
costosi. Il posto gli piaceva. Ovviamente non conosceva
Denver, ma il quartiere commerciale sembrava vivace, e
vide molto traffico. E gli altri negozi, specialmente quelli
dalla stessa parte della strada, sembravano piuttosto
moderni e curati.
Tornò a Boise in aereo, prese la macchina e andò a
Montario a discutere con Susan del negozio di Denver.
Aveva portato con sé delle foto. Gliele mostrò e lei
convenne che aveva un bell’aspetto. E avevano davvero
bisogno di qualcos’altro. Il negozio a Montario non era
abbastanza.
– Dovrei vendere la mia casa a Boise? – chiese Susan.
L’avevano data in affitto, pensando che forse un giorno
avrebbero deciso di tornarci.
– Vendila, – disse Bruce. – Venderemo tutto. Denver è
troppo lontana per trasportare tutto quanto. Comunque, il
posto ha attrezzature migliori di quelle che abbiamo qui.
– Non perderemo dei soldi se venderemo qui?
– Quando abbiamo venduto la R&J SERVIZI DI CICLOSTILE
non ci abbiamo rimesso, – rispose Bruce.
Susan annuì. – Vuoi fare un’offerta per il posto a Denver,
allora? Io non l’ho visto, ma se pensi che sia quello che
vogliamo, e pensi che possiamo liberarci del negozio qui…
— gli sorrise. – Lascerò decidere a te.
– Gli farò un’offerta. Vedremo come andrà.
Tramite il loro avvocato Fancourt offrirono alle persone
di Denver dodicimila dollari per le scorte, le attrezzature, le
esclusive e la locazione. Dopo settimane di cavilli, quelli di
Denver accettarono l’offerta.
Verso la fine dell’anno terminarono gli accordi per
vendere il MONTARIO TYPEWRITER CENTER e subentrare nel
negozio di Denver. La cosa si trascinò per le lunghe, dal
momento che il negozio di Denver faceva parte di
un’eredità divisa tra molti eredi. Ma alla fine fu sbrogliata
ogni questione. Lui e Susan fecero un ultimo viaggio a
Montario, poi subentrarono come proprietari a Denver. E
questo fu tutto.

Gli affari a Denver andavano bene e si resero conto che


avrebbero ottenuto ciò che volevano se avessero tenuto
duro abbastanza a lungo. Gradualmente Susan lasciò il
negozio e Bruce prese a gestirlo da solo. Comprava quello
che pensava di poter vendere, e le decisioni riguardo al
negozio spettavano a lui; Susan non si lamentava della sua
gestione ed erano entrambi rilassati quando di sera erano a
casa insieme. Comprarono una casa a Denver. Taffy iniziò a
frequentare la scuola pubblica; capirono di aver fatto la
cosa giusta e che probabilmente non ci sarebbero stati
cambiamenti sostanziali da quel momento in poi. Avrebbero
continuato a occuparsi della vendita al dettaglio di
macchine per scrivere a Denver, e avrebbero vissuto l’uno
per l’altra, finché non fosse accaduto qualcosa a loro, o al
paese e alla comunità intorno a loro. Se il mondo in cui
vivevano fosse riuscito a rimanere stabile, probabilmente
avrebbero potuto mantenere il negozio, la casa e la
famiglia. I loro dubbi, col passare dei mesi, diminuirono e
sparirono. In un momento imprecisato l’angoscia li
abbandonò. Non ne ebbero piena coscienza: accadde
naturalmente, nel corso delle normali giornate lavorative.
L’estate seguente Bruce venne a sapere per via indiretta
che Milt Lumky era morto.
Aveva ancora l’indirizzo di Cathy Hermes a Pocatello,
così lui e Susan le scrissero. Circa una settimana dopo
ricevettero una lettera dalla donna, che forniva alcuni
dettagli sulla morte.
Secondo Cathy era morto del suo male ai reni. Pensava
che se Milt si fosse curato non sarebbe successo. Nella
lettera Bruce trovò un’amarezza indiretta rivolta verso di
lui, ma probabilmente era diretta contro tutti, contro tutto
quello che aveva a che fare con Milt, compreso Milt. Cathy
rimproverava ripetutamente se stessa e Milt, guardando al
passato. Milt avrebbe dovuto smettere di viaggiare su e giù
per il suo territorio, innanzi tutto. Avrebbe dovuto trovarsi
un lavoro d’ufficio da qualche parte, in modo da poter
andare in bagno quando ne aveva bisogno, e riposarsi
quando ne aveva bisogno. Nella lettera la sua insistenza su
questi punti affiorava di continuo. Sarebbe stato meglio se
lei avesse divorziato, così lei e Milt si sarebbero potuti
sposare e sistemare a Pocatello. Dopo che Bruce e Susan si
erano sposati, diceva, Milt ne aveva parlato, ma alla fine
aveva lasciato cadere la cosa. E il discorso non era più
stato affrontato.
Oltre a ciò la lettera era piena di frasi formali. Cathy
sembrava avere un atteggiamento realistico sulla morte di
Milt.
Qualche giorno più tardi il loro telefono di casa suonò, e
quando Susan rispose, Bruce la sentì dire:
– Sarà meglio che parli con Bruce.
– Chi è? – chiese lui, alzandosi dalla sedia.
Con una strana espressione in viso, Susan disse: – È
Cathy Hermes, chiama da Pocatello Mentre Bruce si
dirigeva nell’ingresso verso il telefono, Susan disse:
– Si tratta di soldi.
– Quali soldi? – chiese Bruce.
– Sarà meglio che le parli.
Bruce prese il ricevitore e rispose. – Sono la signora
Hermes, – disse una voce di donna al suo orecchio.
– Volevo chiederle una cosa, signor Stevens–. Dopo
avere menato il can per l’aia, alla fine Cathy disse che Milt,
prima di morire, le aveva parlato di varie persone che gli
dovevano dei soldi, e che aveva detto diverse volte che
Bruce gli doveva cinquecento dollari.
– Le ha detto per cosa? – chiese Bruce, reagendo in
maniera incerta.
Cathy rispose: – Mi ha detto che glieli aveva prestati per
comprare qualcosa. Non voglio seccarla, ma se vuole fare
qualcosa per lui adesso che non c’è più, forse potrebbe
darli a me –. Si dilungò a raccontargli quanto erano stati
uniti lei e Milt.
– Mi faccia parlare con mia moglie, – disse Bruce.
– Posso richiamarla uno di questi giorni o scriverle?
Evidentemente convinta che non avrebbe mai visto i soldi,
Cathy disse: – Qualsiasi cosa facciate lei e Susan per me
andrà benissimo. Capite che non c’è niente di scritto a
questo proposito.
– Sì, – disse Bruce. Le disse che era contento di averla
sentita, poi riagganciò.
– Ha detto che li hai avuti in prestito? – chiese Susan. –
Te li ha regalati, non è vero?
– Li ha regalati a tutti e due, come dono di nozze.
– Pensi che Milt le abbia detto che era solo un prestito?
Forse si era dimenticato di averceli regalati, o aveva
cambiato idea. Sai com’era.
Tirando fuori le bollette che erano arrivate nel corso
dell’ultima settimana, Bruce si mise a sedere e cominciò a
calcolare i loro debiti immediati. – Possiamo farlo, – decise
alla fine. – Ma sarebbe molto più semplice se potessimo
dividerli in due parti, una rata al mese. Duecentocinquanta
questo mese e il resto il mese prossimo.
– Fa’ quello che vuoi, – disse Susan, con un tremito di
disagio. – Se pensi che non ci metterà in una brutta
situazione. Ti lascerò decidere.
– Le farò un assegno e lo imbucherò immediatamente, –
disse Bruce.
Nell’ultimo anno aveva preso l’abitudine rigorosa di
tenere sotto stretto controllo tutte le spese, e questo gli
dava la possibilità di disporre di liquidità in caso avesse
dovuto dare dei soldi a qualcuno.
– Deve averne bisogno, – disse Susan, – o non avrebbe
fatto una cosa del genere. Chiamare e chiederli.
Alla fine Bruce spedì un assegno a Cathy Hermes per
tutti i cinquecento dollari. Ma non gli diede alcun senso di
sollievo.
La morte mi è sempre stata estranea, pensò. I miei
genitori sono vivi. Anche mio fratello. La volta che mi ha
sfiorato più da vicino, in passato, è stato quando la signora
Jaffey si ammalò e lasciò la Garret A. Hobart, e alla fine
morì. E poi naturalmente abbiamo avuto questo negozio a
Denver perché un uomo che non abbiamo mai visto è morto
in un incidente stradale. Ma non mi ha mai toccato da
vicino.
È possibile che Milt sia andato in giro a protestare per i
soldi? A lamentarsi perché non glieli avevo restituiti? pensò
per un attimo.
Comunque, adesso si tratta solo di una somma da poco
che qualcuno che conosco a mala pena vuole e che deve
uscire dai nostri libri contabili, come qualsiasi altra spesa
di cinquecento dollari. I motivi per cui Milt me li ha dati
sono passati. Svaniti. Io non lo saprò mai. A Cathy Hermes
non importa. E Milt non può pensarci in nessun modo. Ma è
davvero sgradevole, sapere che porterò sempre con me
questo peso. Non avere mai saputo ciò che Milt pensava o
provava: se aveva cambiato idea, o se semplicemente non
pensava davvero quello che aveva detto. Non l’avevo
capito. Non c’era stato abbastanza contatto fra noi.
Allora gli venne in mente che oltre a Milton Lumky non
aveva mai avuto amici, e certamente non ne aveva nessuno
adesso. Susan e il negozio costituivano tutta la sua vita.
L’aveva voluto lui? O si era ritrovato in questa situazione?
Per quanto mi riguarda, sono abbastanza, decise. Che
sia giusto o meno. È quello che voglio.
In cucina, Susan, mentre stava lavando i piatti, disse: –
Bruce. Voglio chiederti una cosa. Milt non ti manca?
No.
– Sei sicuro?
Bruce rispose: – Ho troppe cose a cui pensare perché mi
manchi qualcuno.
– Proverò io a fattici pensare, – disse lei. – Legarti
ancora così giovane. È una cosa spaventosa quando
succede con una donna più vecchia.
Lui ci rifletté.
– Avreste potuto attraversare tutti gli stati uno dopo
l’altro sulle vostre macchine, tu e Milt. Avere tante donne;
lo sai.
– Lo so, – disse Bruce.
– E invece eccoti qui, a ventisei anni, con una moglie più
vecchia di dieci anni, una figliastra, una casa e un lavoro a
cui badare. L’altra notte mi sono svegliata e sono dovuta
uscire dal letto. Tremavo tutta. Sono rimasta seduta per
quasi un’ora. Te ne sei accorto?
– No, – rispose lui. Non si era svegliato.
Susan aggiunse: – Pensi ancora che un giorno potresti
andare via e lasciarmi? – Lo fissò. – Non credo che riuscirei
a sopportarlo. In effetti sono sicura che non potrei.
– Vuoi dire che morirò per un disturbo renale perché
non vado in bagno abbastanza spesso durante la giornata
lavorativa?
– Quando sei andato a Reno per vendere le macchine
per scrivere giapponesi al signor Von Scharf, – disse lei, –
ero convinta che non saresti tornato.
– È per questo che hai chiamato?
– Forse.
Bruce rise.
– Ero così contenta di vederti quando sei tornato, –
aggiunse lei. – Non mi importava che avessi con te le
macchine o meno.
– Capisco, – disse lui. Non le credeva. Ma non era
importante. Era tornato, e ora era lì.
– Mi sono divertito, a suo tempo, – riprese. – Prima che
fossimo sposati. O forse non ti ricordi di Peg Googer?
Continuando a fissarlo Susan gli domandò: – Sei felice
con me?
– Sì, – rispose lui.
In quel momento Taffy entrò in cucina in vestaglia e
ciabatte, reclamando il permesso di guardare un
programma televisivo fino alla fine. Poi, li rassicurò,
sarebbe andata a letto.
Il programma aveva a che fare con la vita nei
sottomarini, e Bruce si mise a guardarlo con lei. Si
sedettero insieme sul divano, davanti al televisore.
Nella quiete del salotto Bruce si abbandonò, si rilassò e
si appisolò. Le avventure subacquee, la lotta per la
sopravvivenza del sottomarino contro oscuri mostri marini
e mine atomiche sovietiche e poi i cowboy e gli astronauti e
gli investigatori e tutti le interminabili e fracassone
avventure western sfumarono davanti ai suoi occhi. Sentiva
sua moglie in cucina, sapeva che la bambina era accanto a
lui, e questa per lui era la felicità.
Appendice
Postfazione
di Daniele Brolli

Nei suoi pezzi autobiografici, nelle riflessioni


metafisiche ed esegetiche, nelle escursioni bizzarre e
gnostiche alla ricerca di meccanismi superiori e segreti che
determinano i flussi dell’esistente e l’aspetto visibile di ciò
che indichiamo come realtà, o anche nelle folli discese nei
gironi della società dell’economia di mercato, Philip K. Dick
evita sempre di affrontare qualsiasi componente realistica.
Non basta dire che Dick è un visionario per descrivere
pienamente il suo imbarazzo verso quanto pare concreto e
derivato da un’osservazione documentaria del reale. Non è
solo una distanza teorica ad allontanarlo da tutto questo: la
radicalità del suo evitare una tipologia e un approccio
narrativi che abbiano a che fare con la corrente ufficiale
della letteratura americana non è motivato dalla posizione,
parte esoterica parte controculturale, che gli fa definire
l’allucinazione come una realtà non condivisa. Dick si tiene
in disparte dalla centralità della letteratura (che per
entrare nella storia, almeno in tutta la fase della modernità,
deve fornire insegnamenti) e dichiara con sospetta
modestia di essere uno scrittore commerciale. Nel suo
brano di riflessione autobiografica Autoritratto del 1968,
Dick si sofferma a un certo punto sui romanzi «venduti»
fino ad allora per valutare quanto di buono ci fosse in essi,
ribadendo la sua appartenenza all’ambito della scrittura di
genere e popolare. Le sue opere estranee al genere, in cui
aveva riversato l’ambizione di divenire uno scrittore capace
di non farsi ghettizzare dalla fantascienza, le aveva già
scritte tutte, anche se nessuna di esse era stata mai
pubblicata. Ma nella sua lista non ne fa menzione, sono
state inghiottite dall’oblio. Il suo tentativo di scrivere una
narrativa realistica, contemporanea, si scontrava con il
rifiuto radicale, istintivo di aderire a una realtà
consensuale.
Il tentativo di Dick di accedere al mercato della
letteratura maggiore fu completamente infruttuoso: i suoi
romanzi vennero spesso rifiutati e in alcuni casi acquistati
ma non pubblicati. Eppure avevano un certo gusto
pessimistico e malinconico, con una vena crepuscolare che
gli attribuiva alcune ascendenze tra Sherwood Anderson e
William Faulkner, inserendolo in qualche modo in quel
certo ambito di scrittori americani «minori» e affezionati al
racconto della crudeltà repressa e autolesionista che
comprende anche Carson McCullers, Nathaniel West e
Flannery O’Connor. Certo, diversamente da quanto
avveniva nelle opere degli autori citati, i romanzi di Dick
erano scritti con uno stile ordinario spesso minato da un
lessico limitato e da un linguaggio anonimo. In essi sono
totalmente assenti le dimensioni della parodia e dell’epico
che si avvicendano in tutta la narrativa americana, giocata
tra il mito della frontiera e l’arte di arrangiarsi. La
provincia di Dick è comunque un luogo inquietante, in cui
le ambizioni e i caratteri sono meschini, con personaggi che
si muovono su uno sfondo muto che non svela mai tutte le
sue ragioni. Dick ha scritto i suoi romanzi realistici nel
corso di quasi due decenni, da Mary and the Giant del 1953
a Humpty Dumpty in Oakland del i960, molti dei quali
contigui alle opere di fantascienza che stava scrivendo
nello stesso periodo. Il presente In Milton Lumky Territory
è del 1958 come Time Out of Joint (noto in Italia con il
titolo L’uomo dei giochi a premio). Questa prossimità rende
più visibili alcuni elementi comuni ai due romanzi che
fanno da ponte tra le concezioni più estreme di quanto
viene riconosciuto come realtà. In entrambi i casi lo
scenario gioca un ruolo ineluttabile, soverchiarne, e non
lascia scampo ai protagonisti. È un sistema deterministico
in cui la fuga può essere tentata solo attraverso
l’intuizione. Ed è qui che entra in gioco il potere della
fantascienza: il protagonista de L’uomo dei giochi a premio,
che immerso in una provincia americana anni Cinquanta
risolve gli enigmi più difficili accumulando ricchezze,
intuisce di essere l’elemento di un sistema chiuso gestito
da altri a sua completa insaputa. La realtà in cui vive è
provvisoria come un set cinematografico ed è un’enclave
costruita perché lui si trovi a suo agio nel muovere i propri
passi. Non è contemplata però l’uscita dai confini e quando
lui tenterà la fuga, scoprendo la finalità di tutta la messa in
scena, questa si rivelerà espressione di un incubo ben
organizzato più plausibile della realtà che lo ha reso
necessario. Invece la realtà in cui vaga Bruce, il
protagonista di questo romanzo, è una trappola da cui non
si esce. L’unica soluzione è arrendersi alle sue regole. La
paranoia non è sufficiente a sconfiggerla e Bruce finisce
per abbandonarsi passivamente alla sua logica come un
animale malato che sente l’ineluttabile approssimarsi della
morte. Lo sbocco da un mondo che non finisce oltre le
quinte è l’integrazione.
Questo è un romanzo tipicamente dickiano, in cui non
viene meno nessuno degli elementi caratteristici
dell’autore, a cominciare dalla costante ossessione per la
presenza di un manufatto che emerge dallo sfondo per
catalizzare incongruamente l’universo del protagonista.
Questa volta si tratta di macchine per scrivere. La paranoia
per la manipolazione e per l’arte segreta che si nasconde
sotto l’involucro di una creazione artigianale è simile a
quella per un feticcio che nella propria forma possa
contenere ragioni inesplicabili, assorbite e rese simboliche.
L’aspetto esoterico del manufatto si traduce nella capacità
di interpretarne correttamente il funzionamento, e tocca a
Bruce riassemblare i segni (i tasti) per ottenere la giusta
chiave di lettura di simboli segreti. Bruce prova a entrare
in confidenza con la ragione ontologica delle macchine per
scrivere ma è destinato a essere sconfitto dall’impulsività di
Susan che risulta combinazione di due opposti logici:
intuizione e buon senso. Spesso in Dick l’anamnesi, ovvero
la perdita dell’oblio, passa attraverso un oggetto ben fatto,
che nel suo equilibrio di forma e funzione ci riporta
all’esistenza di una logica ineluttabile delle cose. È un
processo di conoscenza gnostico a cui Dick si è avvicinato
consapevolmente nel corso degli anni. Nel suo pezzo del
1978 Come costruire un universo che non cada a pezzi
dopo due giorni ricostruisce parte del processo di
svelamento che motiva ogni suo brano narrativo, secondo
un paradossale itinerario di avvicinamento ai contorni
dell’indefinibile. Dick descrive in quello stesso articolo la
realtà come «quella cosa che, anche se si smette di
credervi, non scompare» e dichiara di essersi sempre
chiesto come affrontarla attraverso ogni sua opera di
fantascienza, d’altra parte la citazione del titolo di un
codice gnostico in cui si imbatte, il Dio irreale e gli aspetti
del suo universo inesistente, dice già tutto sulle sue scelte.
La memoria è per Dick sempre un elemento di disturbo
nell’equilibrio psichico dei suoi personaggi. The World
Jones Made del 1954 (Il mondo che Jones creò) racconta
l’ambiguità di un veggente il cui predire appare infine non
come semplice racconto del futuro ma come
determinazione dei fatti a venire. Anche il Milton Lumky
del presente romanzo sembra godere, seppure in maniera
più metaforica, di questo potere e la sua scomparsa finale
libera Bruce e Susan da qualcosa che incombe invisibile
come il fato. Del resto una versione più esplicita di Milt si
sarebbe sviluppata in una delle idee contenute in Ubik del
1969, ovvero che esistano due classi di persone, i vivi e i
semivivi, e che personalità dotate di particolare forza o
carisma possano determinare le scelte altrui. Gli elementi
di affinità di In Milton Lumky Territory con i romanzi
fantascientifici di Dick sono innumerevoli e non si spiegano
semplicemente attribuendoli al repertorio dell’autore.
Perché questo romanzo sembra essere l’altra faccia di
un itinerario tematico, un tentativo di mettere alla prova le
stesse ossessioni in un territorio da un certo punto di vista
meno aleatorio di quello della fantascienza.
Leslie Fiedler sostiene che i romanzi molto seri
finiscono per morire. Come se la loro pesantezza teoretica,
il loro volersi imporre al lettore come opera li rendesse
indigesti una volta allontanatisi dal carisma del loro autore
e dall’epoca che li ha partoriti. C’è qualcosa di vero
nell’affermazione di Fiedler, che contiene anche un
evidente elemento di provocazione culturale, e Dick è uno
degli esempi più duraturi di una forma narrativa che, nata
nell’ambito di un genere come la fantascienza, riesce a
essere, nel suo aspetto dichiarato di intrattenimento,
occasione di riflessione subliminale prima che esplicita. Per
questo ha forse senso recuperare anche la sua produzione
apparentemente più marginale, quella con cui puntava un
po’ pateticamente a diventare uno scrittore di successo,
perché oggi non è più il suo valore letterario a mettersi in
gioco, conta maggiormente la sua capacità di raccontarci
alcuni aspetti controversi della forma ineludibile di realtà
chiamata mondo.
Einaudi Tascabili
Ultimi volumi pubblicati:

386 L. Romano, Le parole tra noi leggere (3* ed.).


387 Fenoglio, La pagi del sabato (2“ ed.).
388 Maupassant, Racconti di vita parigina (2* ed.).
389 aa.vv., Fantasmi di Terra, Aria, Fuoco e Acqua. A cura
di Malcolm Skey.
390 Queneau, Pierrot amico mio.
391 Magris, Il mito absburgico (2* ed.).
392 Briggs, Fiabe popolari inglesi.
393 Bulgakov, Il Maestro e Margherita (4* ed.).
394 A. Gobetti, Diario partigiano.
395 De Felice, Mussolini l'alleato 1940-43
I. Dalla guerra «breve» alla guerra lunga.
396 De Felice, Mussolini l'alleato 1940-43
II. Crisi e agonia del regime.
397 James, Racconti italiani.
398 Lane, I mercanti di Venezia
(2ed.).
399 McEwan, Primo amore, ultimi riti. Fra le lenzuola e
altri racconti (2* ed.).
400 aa.vv., Gioventù cannibale (Stile libero) (6* ed.).
401 Verga, I Malavoglia.
402 O’Connor, I veri credenti (Stile libero) (3* ed.).
403 Mutis, La Neve dell’Ammiraglio (2* ed.).
404 De Carlo, Treno di panna (5* ed.).
405 Mutis, Ilona arriva con la pioggia (2“ ed.).
406 Rigoni Stern, Arboreto sabatico (2* ed.).
407 Poe, I racconti. Vol. I (Serie Scrittori tradotti da
scrittori).
408 Poe, I racconti. Vol. II (Serie Scrittori tradotti da
scrittori).
409 Poe, I racconti. Vol. III (Serie Scrittori tradotti da
scrittori).
410 Pinter, Teatro. Vol. II (2* ed.).
411 Grahame, Il vento nei salici.
412 Ghosh, Le linee d'ombra.
413 Vojnovič, Vita e straordinarie avventure del soldato
Ivan Conkin.
414 Cerami, La lepre.
415 Cantarella, I monaci di Cluny (2* ed.).
416 Auster, Moon Palace (2* ed.).
417 Anteime, La specie umana.
418 Yehoshua, Cinque stagioni.
419 Mutis, Un bel morir.
420 Fenoglio, La malora (3* ed.).
421 Gawronski, Guida al volontariato (Stile libero).
422 Banks, La legge di Bone.
423 Kafka, Punizioni (Serie bilingue).
424 Melville, Benito Cereno (Serie bilingue).
425 P. Levi, La tregua (7* ed.).
426 Revelli, Il mondo dei vinti.
427 aa.vv., Saggezza stellare (Stile libero).
428 McEwan, Cortesie per gli ospiti (3° ed.).
429 Grasso, Il bastardo di Mautàna.
430 Soriano, Pensare con i piedi.
431 Ben Jelloun, Le pareti della solitudine.
432 Albertino, Benissimo! (Stile libero).
433 Il libro delle preghiere (4" ed.).
434 Malamud, Uomo di Kiev.
435 Saramago, La zattera di pietra (3* ed.).
436 N. Ginzburg, La città e la casa (2* ed.).
437 De Carlo, Uccelli da gabbia e da voliera (5* ed.).
438 Cooper, Frisk (Stile libero) (3* ed.).
439 Barnes, Una storia del mondo in io capitoli e ½ (2*
ed.).
440 Mo Yan, Sorgo rosso.
441 Catullo, Le poesie.
442 Rigoni Stem, Le stagioni di Giacomo.
443 Mancinelli, I casi del capitano Flores. Il mistero della
sedia a rotelle (2° ed.).
444 Ammaniti, Branchie (Stile libero)
(4* ed.).
445 Lodoli, Diario di un millennio che fugge.
446 McCarthy, Oltre il confine (2' ed.).
447 Gardiner, La civiltà egizia (2* ed.).
448 Voltaire, Zadig (Serie bilingue).
449 Poe, The Fall of thè House of Usher and other Tales
(Serie bilingue).
450 Arena, Decaro, Troisi, La smorfia (Stile libero).
451 Rossellit Socialismo liberale.
452 Byatt, Tre storie fantastiche.
453 Dostoevskij, L’adolescente.
454 Carver, Il mestiere di scrivere (Stile libero) (3* ed.).
455 Ellis, Le regole dell’attrazione (2a ed.).
456 Loy, La bicicletta.
457 Lucarelli, Almost Blue (Stile libero) (5* ed.).
458 Pavese, Il diavolo sulle colline (2* ed.).
459 Hume, Dialoghi sulla religione naturale.
460 Le mille e una notte. Edizione a cura di Francesco
Gabrieli (4 volumi in cofanetto).
461 Arguedas, I fiumi profondi.
462 Queneau, La domenica della vita.
463 Leonzio, Il volo magico.
464 Pazienza, Paz (Stile libero) (5* ed.).
465 Musil, L’uomo senza qualità (2 v.) (2* ed.).
466 Dick, Cronache del dopobomba (Vertigo).
467 Royle, Smembramenti (Vertigo).
468 Skipp-Spector, In fondo al tunnel (Vertigo).
469 McDonald, Forbici vince carta vince pietra (Vertigo).
470 Maupassant, Racconti di vita militare.
471 P. Levi, La ricerca delle radici.
472 Davidson, La civiltà africana.
473 Duras, Il pomeriggio del signor Andesmas. Alle dieci e
mezzo di sera, d’estate.
474 Vargas Liosa, La Casa Verde.
475 Grass, La Ratta.
476 Yu Hua, Torture (Stile libero).
477 Vinci, Dei bambini non si sa niente (Stile libero) (4*
ed.).
478 Bobbio, L’età dei diritti.
479 Cortazar, Storie di cronopios e di famas.
480 Revelli, Il disperso di Marburg.
481 Faulkner, L ’urlo e il furore.
482 McCov, Un bacio e addio (Vertigo).
483 Cerami, Fattacci (Stile libero).
484 Dickens, Da leggersi all’imbrunire.
485 Auster, L’invenzione della solitudine (2* ed.).
486 Nove, Puerto Piata Market (Stile libero) (3* ed.).
487 Fo, Mistero buffo (Stile libero) (3“ ed.).
488 Höss, Comandante ad Auschwitz (2* ed.).
489 Amado, Terre del finimondo (2* ed.).
490 Benigni-Cerami, La vita è bella (Stile libero) (3* ed.).
491 Lunario dei giorni di quiete. A cura di Guido Davico
Bonino (3* ed.).
492 Fo, Manuale minimo dell’attore (Stile libero).
493 O’Connor, Cowboys & Indians (Stile libero).
494 L'agenda di Mr Bean (Stile libero).
495 P. Levi, L’altrui mestiere.
496 Manchette, Posizione di tiro (Vertigo).
497 Rucher, Su e giù per lo spazio (Vertigo).
498 Vargas Liosa, La città e i cani.
499 Zoderer, L ’«italiana».
500 Pavese, Le poesie.
501 Goethe, I dolori del giovane
Werther.
502 Yehoshua, Un divorzio tardivo (3* ed.).
503 Vassalli, Cuore di pietra.
504 Lucarelli, Il giorno del lupo (Stile libero) (3* ed.).
505 Quel che ho da dirvi. Autoritratto delle ragazze e dei
ragazzi italiani. A cura di Caliceti e Mozzi (Stile libero).
506 Dickens, Grandi speranze.
507 Boncinelli, I nostri geni.
508 Brecht, I capolavori (2 volumi).
509 Mancinelli, I casi del capitano Flores. Killer presunto.
510 Auster, Trilogia di New York (3* ed.).
511 Saramago, Cecità (3* ed.).
512 Dumas, I tre moschettieri.
5x 3 Borges, FJogio dell’ombra.
5x4 Womak, Futuro zero (Vertigo).
515 Landsale, La notte del drive-in (Vertigo).
516 Fo, Marino libero! Marino è innocente (Stile libero).
517 Rigoni Stern, Uomini, boschi e api (2* ed.).
518 Acitelli, La solitudine dell’ala destra (Stile libero).
519 Merini, Fiore di poesia.
520 Borges, Manuale di zoologia fantastica.
521 Neruda, Confesso che ho vissuto.
522 Stein, La civiltà tibetana (2“ ed.).
523 Albanese, Santin, Serra, Solari, Giù al Nord (Stile
libero).
524 Ovidio, Versi e precetti d’amore.
525 Amado, Cacao (2* ed.).
526 Queneau, Troppo buoni con le donne.
527 Pisón, Strade secondarie (Stile libero).
528 Maupassant, Racconti di provincia.
529 Pavese, La bella estate (2* ed.).
530 Ben Jelloun, Lo specchio delle falene.
531 Stancanelli, Benzina (Stile libero) (2* ed.).
532 Ellin, Specchio delle mie brame (Vertigo).
533 Marx, Manifesto del Partito Comunista (2* ed.).
534 Del Giudice, Atlante occidentale.
535 Soriano, Fútbol(2“ ed.).
536 De Beauvoir, A conti fatti.
537 Vargas Liosa, Lettere a un aspirante romanziere (Stile
libero).
538 aa.vv., Schermi dell’incubo (Vertigo).
539 Nove, Superwoobinda (Stile libero) (2* ed.).
540 Revelli, L’anello forte.
541 Lermontov, L ’eroe del nostro tempo (Serie bilingue).
542 Behn, Oroonoko (Serie bilingue).
543 McCarthy, Meridiano di sangue.
544 Proust, La strada di Swann.
545 Vassalli, L’oro del mondo.
546 Defoe, Robinson Crusoe.
547 Madieri, Verde acqua. La radura.
548 Amis, Treno di notte.
549 Magnus, Lo sconosciuto (Stile libero) (2* ed.).
550 aa.w., Acidi scozzesi (Stile libero).
551 Romano, Tetto murato.
552 Frank, Diario. Edizione integrale. (2* ed.).
553 Pavese, Tra donne sole (2* ed.).
554 Banks, Il dolce domani.
555 Roncaglia, Il jazz e il suo mondo.
556 Turgenev, Padri e figli.
557 Mollica, Romanzetto esci dal mio petto.
558 Metraux, Gli Inca.
559 Zohar. Il libro dello splendore.
560 Auster, Mr Vertigo.
561 De Felice, Mussolini l’alleato 1943-45
II. La guerra civile.
562 Robbe-Grillet, La gelosia.
563 Metter, Ritratto di un secolo.
564 Vargas Liosa, Conversazione nella «Catedral».
565 Wallace, La ragazza con i capelli strani (Stile libero)
(2“ ed.).
566 Enzensberger, Il mago dei numeri.
567 Roth, Operazione Shylock.
568 Barnes, Amore, ecc.
569 Zolla, Il dio dell’ebbrezza (Stile libero).
570 Evangelisti, Metallo urlante (Vertigo).
571 Manchette, Fatale (Vertigo).
572 De Filippo, Cantata dei giorni pari.
573 Sfiga all’OKCorral. A cura di Stefano Bartezzaghi (Stile
libero) (2* ed.).
574 Spettri da ridere. A cura di Malcolm Skey.
575 Yehoshua, Ritorno dall’India.
576 Lunario dei giorni d’amore. A cura di Guido Davico
Bonino.
577 Ricci, Striscia la tivù (Stile libero).
578 Ginzburg, Le piccole virtù.
579 Hugo, I miserabili (2 volumi).
580 I fioretti di san Francesco.
581 Ovadia, L ’ebreo che ride (Stile libero) (3* ed.).
582 Pirro, Soltanto un nome sui titoli di testa.
583 Labranca, Cialtron tìescon (Stile libero).
584 Burton, La morte malinconica del bambino ostrica e
altre storie (Stile libero) (3* ed.).
585 Dickens, Tempi difficili.
586 Letteratura e poesia dell’antico Egitto. A cura di Edda
Bresciani.
587 Mancinelli, I casi del capitano Flores. Persecuzione
infernale.
588 Vinci, In tutti i sensi come l’amore (Stile libero).
589 Baudelaire, I fiori del male e altre poesie (Poesia).
590 Vacca, Consigli a un giovane manager (Stile libero).
591 Amado, Sudore.
592 Desai, Notte e nebbia a Bombay.
593 Fortunato, Amore, romanzi e altre scoperte.
594 Mattotti e Piersanti, Stigmate (Stile libero).
595 Keown, Buddhismo.
596 Solomon, Ebraismo.
597 Blissett, Q (Stile libero) (3* ed.).
598 Solženicyn, Una giornata di Ivan Denisovič. La casa di
Matrjona. Alla stazione.
599 Conrad, Vittoria.
600 Pavese, Dialoghi con Leucò.
601 Mozzi, Fantasmi e fughe (Stile libero).
602 Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa. Nuova
edizione riveduta e ampliata (2 voli.).
603 Fois, Ferro recente.
604 Borges-Casares, Cronache di Bustos Domecq.
605 Nora K. - Hösle, Aristotele e il dinosauro. La filosofia
spiegata a una ragazzina (Stile libero).
606 Merini, Favole Orazioni Salmi.
607 Lane Fox, Alessandro Magno.
608 Stuart, Zona di guerra.
609 Márquez, Cronaca di una morte annunciata.
610 Hemingway, I quarantanove racconti.
611 Dostoesvkij, Il giocatore.
612 Zaimoglu, Schiuma (Stile libero).
613 DeLillo, Rumore bianco.
614 Dick, In terra ostile (Vertigo).
615 Lucarelli, Mistero blu (Stile libero).
616 NesseWilliams, Perché ci ammaliamo (Grandi
Tascabili).
617 La vie, Il meraviglioso mondo del sonno (Grandi
Tascabili).
618 Naouri, Le figlie e le loro madri (Grandi Tascabili).
619 Boccadoro, Musica Ccelestis (Stile libero con CD).
620 Bevilacqua, Beat & Be bop (Stile libero con CD).
621 Hrabal, Una solitudine troppo rumorosa.
622 McEwan, L’amore fatale.
623 James, Daisy Miller (Serie bilingue).
624 Conrad, Cuore di tenebra (Serie bilingue).
625 Marìas, Un cuore così bianco.
626 Burgess, Trilogia malese.
627 Saramago, Viaggio in Portogallo.
628 Romano, Inseparabile.
629 Ginzburg, Lessico famigliare.
630 Bassani, Il giardino dei FinziContinì.
631 Auster, Mr Vertigo.
632 Brautigan, 102 racconti zen (Stile libero).
633 Goethe, Cento poesie (Poesia).
634 McCarthy, Il buio fuori.
635 Despentes, Scopami (Stile libero).
Einaudi Tascabili. Vertigo

Sulla superstrada le macchine passavano una dopo


l’altra. D a dove si trovava non riusciva a vederne le
ruote: sembrava quasi che slittassero sull’asfalto.
Come giocattoli di metallo tirati da uno spago. Quella
vista lo riempì di inquietudine.

Stati Uniti, anni Cinquanta. Bruce Stevens è un viaggiatore


di commercio come tanti, con una vita monotona scandita
dalle tappe nei motel della costa ovest. Bruce è la faccia
perdente del sogno americano, non sa affrontare grandi
progetti, e ogni volta che si avventura a pensare al proprio
futuro naufraga nella sua infelicità priva di desideri. Poi
incontra Susan, una donna che affiora dal suo passato e che
gli ricorda quel periodo della giovinezza in cui poteva
ancora immaginare un avvenire diverso. Dietro il loro
amore compare l’ombra di Milton Lumky, un accidioso
rappresentante di materiale di cartoleria. Bruce ha
inconsapevolmente invaso il territorio dell’ambiguo Milt e
dovrà pagarne le conseguenze. Anche un universo
minimale e apparentemente rassicurante come quello della
provincia americana più sonnolenta, fatto di macchine per
scrivere e registratori di cassa, ciclostili e penne
stilografiche, cera per automobili e forniture di carta da
ufficio, può nascondere un lato di inquietudine e disagio.

Philip K. Dick (192882) è l’autore del testo da cui Ridley Scott ha tratto
Blade Runner e di centinaia tra racconti e romanzi di fantascienza.
Della sua sterminata produzione vanno segnalati La svastica sul sole,
Ubik, I simulacri e in questa collana Cronache del dopobomba.

In copertina: Impostazione grafica di Pierluigi Cerri. Fotografia di


Amendolagine e Barracchia.

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