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California, fine anni Cinquanta: una sorta di terra promessa

già alle prese con il mito postbellico dello sviluppo


economico e della crescita urbana, dove la questione
razziale è ancora aperta. Jim Fergesson e Al Miller sono, o
credono di essere, amici. Il primo è un meccanico avanti con
l’età, amareggiato dalla vita, che da anni affitta al secondo
un lotto di terra adiacente alla sua officina, in cui Miller
vende auto usate, relitti rabberciati alla meglio. Un lavoro
misero e frustrante che però gli basta, dal momento che è
un uomo privo di ambizioni. Ma un giorno Fergesson decide
di chiudere bottega e di andare in pensione, utilizzando i
soldi ricavati dalla vendita per inseguire un sogno di
grandezza. È un brutto colpo per Miller, perennemente
incapace di scuotersi dalla sua apatia esistenziale e lacerato
da conflitti interiori; e così il suo fragile castello crolla. Uno
prova a salire, l’altro a non sprofondare del tutto, ma il
nuovo miraggio americano non permette approssimazioni e
non lascia spazio ai perdenti. Come Humpty Dumpty, il goffo
personaggio di Alice in Wonderland che cade e finisce in
pezzi, entrambi pagheranno sulla propria pelle, sia pure in
modo diverso, la colpa della loro precaria fragilità.
Philip K. Dick

Lo stravagante mondo
di Mr Fergesson

romanzo

Introduzione e cura di Carlo Pagetti


Traduzione dall’inglese di Maurizio Nati

FANUCCI EDITORE
Dello stesso autore abbiamo già pubblicato:

Confessioni di un artista di merdaMa gli androidi sognano pecore


elettriche?
I giocatori di Titano
Visioni dal futuro
Mary e il gigante
In senso inverso
L'uomo nell'alto castello
E Jones creò il mondo
Deus Irae di Philip K. Dick e R. Zelazny
Svegliatevi, dormienti
Confessioni di un artista di merda
Noi marziani
Rapporto di minoranza e altri racconti I simulacri
Le tre stimmate di Palmer Eldritch
Tempo fuor di sesto
Ubik
Occhio nel cielo
Labirinto di morte
Next e altri racconti
I giorni di Perky Pat e altre storie
Divina Invasione
La svastica sul sole
In questo piccolo mondo
La città sostituita
I guardiani del destino
Follia per sette clan
Un oscuro scrutare
Valis
Radio libera Albemuth
La penultima verità
Lotteria dello spazio
L'androide Abramo Lincoln
Cronache del dopobomba
Nostri amici da Frolix 8
L'uomo dai denti tutti uguali
Tutti i racconti voi 1 – 1947-1953
Un oscuro scrutare – il Graphic Novel Illusione di potere
La trasmigrazione di Timothy Archer
Il paradiso maoista
Scorrete lacrime; disse il poliziotto
Voci dalla strada
Tutti i racconti voi. 2 – 1954
Tutti i racconti voi. 3 – 1955-1963
Tutti i racconti voi. 4 – 1964-1981
Mr Lars, sognatore d'armi
La trilogia di Valis
In terra ostile
Dottor Futuro
Redenzione immorale

Prima edizione: marzo 2012


Titolo originale: Humpty Dumpty in Oakland
Copyright © 1986, The Estate of Philip K. Dick
All rights reserved
© 2012 by Fanucci Editore
via delle Fornaci, 66 – 00165 Roma
tel. 06.39366384 – email: info@fanucci.it
Indirizzo internet: www.fanucci.it
Proprietà letteraria e artistica riservata
Stampato in Italia – Printed in Italy
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
Introduzione
di Carlo Pagetti

In viaggio per la Bay Area,


al di qua dello specchio

Lo stravagante mondo di Mr Fergesson appartiene a un


gruppo di romanzi realistici scritti da Philip K. Dick nella
seconda parte degli anni Cinquanta del Novecento, quando
lo scrittore californiano sperava ancora di affermarsi al di
fuori dei generi – la fantascienza, il fantastico – in cui si era
già cimentato con discreto successo. Non a caso, il più
interessante di essi, Confessioni di un artista di merda,
scritto nel 1959, e inedito fino al 1975, è anche il più ibrido,
dal momento che il protagonista, Jack Isidore, è un
appassionato di fantascienza alla ricerca di segnali alieni.
In ogni caso, in quel periodo l’interesse, sicuramente
genuino, di Dick si incentrava sui problemi sociali e
familiari di personaggi comuni, average men, appartenenti
alla Bay Area, la popolosa zona, ricca di corsi d’acqua, di
ponti, di reti stradali, che circonda San Francisco. Nelle sue
memorie (The Search for Philip K. Dick, 1995,
recentemente ristampato), la moglie Anne ricorda che
Philip le aveva parlato della volontà di esplorare ‘il mondo
proletario dall’interno’, non nella prospettiva degli scrittori
borghesi ‘che non conoscevano veramente la vita
proletaria’. In effetti, la condizione dei due protagonisti de
Lo stravagante mondo difficilmente si potrebbe definire
proletaria, almeno nell’accezione marxista del termine, dal
momento che il più anziano, Jim Fergesson, è il proprietario
di una piccola autofficina, e con gli anni ha messo da parte
una discreta somma di denaro, mentre il suo amico-
antagonista Al Miller, poco più che trentenne, sebbene
sempre a corto di soldi, commercia comunque in automobili
usate. Di fatto, siamo in una sfera marginale, in bilico tra
penuria e ambizioni di compiere un salto sodale. Dick
coglie un’ostilità diffusa nei confronti della popolazione
nera – il vero proletariato – che sta aumentando nella Bay
Area, da parte dei residenti bianchi, preoccupati per i
cambiamenti economia e tecnologia che favoriscono le
grandi concentrazioni capitalistiche nei settori della
distribuzione, del commercio, dell’intrattenimento. Si tratta
di una materia narrativa che Mattia Carratello ha
abilmente individuato in un saggio pubblicato nel 2006
(Piccole città, piccoli uomini e un futuro possibile), pur
senza soffermarsi sul presente romanzo: da lui prendiamo
anche il termine ‘preadulto’, che si applica assai tene a un
personaggio come Al Miller e ad altri protagonisti dei
romanzi realistici dickiani dell’epoca, più o meno coetanei
del loro autore (Dick aveva trentadue anni nel 1960), per
indicare la loro immaturità, la difficoltà di crescere, la
spaventosa insicurezza che li fa diffidare di chiunque e li
spinge a compiere clamorosi errori di valutazione.
Per quanto riguarda Lo stravagante mondo di Mr
Fergesson, d troviamo di fronte a un romanzo ormai
perduto, che era stato scritto nel 1955/1956 e il cui titolo
avrebbe dovuto essere A Time far George Stavros. Nel
1960, stimolato dall’interesse della Harcourt Brace, una
importante casa editrice di New York, Dick lo tira fuori dal
cassetto e lo rielabora con il titolo Humpty Dumpty in
Oakland. È quest’ultima versione, rimasta nel cassetto
accanto ad altre opere mainstream, che è stata pubblicata
dopo la morte, in Inghilterra nel 1986, negli Stati Uniti solo
nel 2007, e che arriva ora da noi come Lo stravagante
mondo di Mr Fergesson.
In un certo senso, la complicata composizione del
romanzo si riflette anche nel titolo giocoso, in cui si allude
a un’antica filastrocca inglese, recuperata da Lewis Carroll
nel secondo libro di Alice, Attraverso lo specchio (1871):
Humpty Dumpty sedeva su un muro,
Humpty Dumpty cadde giù a muso duro.
Tutti i cavalli e gli uomini del re a nessun costo
riuscirono a rimettere Humpty Dumpty al suo posto.

Nel sesto capitolo del romanzo carrolliano, Alice segue


un uovo che, crescendo man mano, diventa il ‘celebre’
Humpty Dumpty, una creatura vivente appollaiata in
precario equilibrio su un muro. Humpty Dumpty impartisce
lezioni di lingua inglese alla bambinella, esibendo le sue
buffe, ma non del tutto irragionevoli, conoscenze
semantiche, ben consapevole – come Lewis Carroll e, a
modo suo, anche Dick – che: ‘Quando uso una parola […]
significa esattamente quello che io scelgo che significhi.’ In
uno scambio di battute talvolta sgradevoli, inoltre, Humpty
Dumpty critica Alice, che dichiara di avere sette anni e sei
mesi, quando avrebbe dovuto fermarsi al compimento dei
sette anni. Alice, punta nel vivo, ribatte: ‘Non chiedo mai
consigli sulla mia crescita.’ E insiste: ‘Una persona non può
fare a meno di invecchiare’ (one can’t help growing older).
‘Forse una no, disse Humpty Dumpty, ma due sì’ È quanto
accade a Jim Fergesson e Al Miller, legati da un contorto
legame padre-figlio da cui soprattutto Al non sembra in
grado di liberarsi, e che impedisce loro di entrare in una
nuova fase dell’esistenza.
Del resto, a ribadire la validità del gioco intertestuale,
verso la conclusione del romanzo dickiano, quando tutto
sembra perduto, Al Miller viene esplicitamente accusato di
essere un Humpty Dumpty, un fantoccio privo di volontà,
che cade a terra e non riesce a ricomporsi; mentre, in
precedenza, Jim Fergesson, risalendo per una china
fangosa, era scivolato pesantemente al suolo, tanto da
richiedere l’aiuto di chi gli stava vicino per rimettersi
faticosamente in piedi. Metaforicamente, i due ‘piccoli
uomini’ di Dick vivono barcollando, rischiando in ogni
momento una caduta rovinosa, senza avere la forza di
andare avanti. Fergesson, il più volitivo dei due (ma forse
proprio per questo anche il più fragile), compie un serio
tentativo per raggiungere un maggiore benessere
economico, ma viene sconfitto dalle circostanze avverse. In
quanto ad Al, che sembra dipendere psicologicamente da
Fergesson, passa buona parte del suo tempo a tormentarlo,
a dargli cattivi consigli, a mettergli i bastoni tra le ruote.
Simile a uno dei personaggi delle prime opere di Saul
Bellow (L’uomo in bilico, 1944; La intima, 1947), egli
appare sempre più debole e incerto, privo com’è di fiducia
in sé stesso e negli altri. È evidente che la robusta
vocazione sociologica attiva ne Lo stravagante mondo
tende presto a trasferirsi in una dimensione patologica
nutrita di sensi di colpa, che sfocia nel rancore, nella
paranoia, nel complesso di persecuzione.
In questa prospettiva il romanzo dickiano abbraccia sia
un accidentato terreno autobiografico, sia le proiezioni
allucinate e schizofreniche che emergono nei primi romanzi
di fantascienza, da L’occhio nel cielo a Tempo fuor di sesto.
Si tratta di opere, queste ultime, che oggi noi consideriamo
interessanti ibridazioni di genere, piuttosto che esempi di
fantascienza canonica, e infatti esse presentano a loro volta
risvolti realistici, trattano di un’America spaventata e piena
di ansie – economiche, affettive, anche razziali e di gender –
dietro a cui si intravedono le forze occulte di un potere
politico, economico, tecnologico, che è già incontrollabile e
che prefigura l’Impero del Male immaginato da Dick
nell’ultima parte della sua produzione narrativa.
Anche ne Lo stravagante mondo di Mr Fergesson
troviamo consistenti accenni alla ineluttabilità della
condizione umana che verranno sviluppati in seguito: gli
esseri umani sono ‘topi bianchi’, cavie chiuse in un
labirinto, le prede innocenti dei poteri forti (They got me,
dichiarerà Al verso la fine del romanzo), le vittime di un
destino capriccioso che vanifica ogni appello alle loro
capacità imprenditoriali o al tanto conclamato spirito di
iniziativa americano. Il problema è che, ne Lo stravagante
mondo, il personaggio diabolico, l’incarnazione delle forze
del Male, dovrebbe essere costituito da un businessman di
successo, Chris Harman, che, invece, acquista nello
sviluppo della trama caratteristiche salvifiche, e che
comunque appare in grado di ribaltare tutti i pregiudizi e le
insinuazioni di Al Miller, mostrando un eccezionale
atteggiamento di comprensione anche nei confronti dei
peggiori nemici. Nomen omen, se solo Al fosse stato più
attento, senza neppure fermarsi al nome di battesimo
(Chris): ‘Harm-an’, che utilizza an come suffisso privativo,
equivale a ‘Harm-less’, che vuol dire ‘innocuo, non nocivo’.
Ma il lettore potrebbe chiedersi se la benevolenza perfino
esagerata di Harman non abbia un ruolo negativo nel
conflitto interiore che consuma Jim e Al.
Assai più sgradevole, comunque, appare l’aperto
razzismo di Jim Fergesson, che sospetta di ogni
afroamericano. In generale, come in altre opere dickiane
dell’epoca, la società californiana appare fortemente
multietnica, ma non ancora capace di esprimere segnali
convincenti di integrazione. Ne Lo stravagante mondo di
Mr Fergesson, Dick investe i suoi personaggi di colore di
una simpatia che non esclude però un tratto parodico e
buffonesco: è questo il caso di Tootie Dolittle, che si
presenta ad Al Miller con tutte le credenziali per
comprargli la sua preziosa Marmon da sedici cilindri del
’32, ma che poi sembra campare di espedienti poco puliti o
raccogliendo soldi con il suo cane ammaestrato a inseguire
e azzannare palloncini nei bar. In fin dei conti, il ruolo di
queste figure rimane secondario di fronte alla patetica
tenacia di Jim Fergesson, che tuttavia porta dentro di sé il
marchio della sconfitta, e alle continue oscillazioni di Al
Miller, un preadulto, appunto, vicino al suo creatore, il
quale alberga dentro di sé il desiderio di non crescere mai,
di rimanere in un mondo fittizio a trafficare con vecchie
automobili, a elaborare scenari introspettivi che non gli
consentono alcun passo avanti, neppure quando egli è
sollecitato a dare il meglio di sé da Mrs Lane, la donna
afroamericana che fa la sua puntuale comparsa in alcuni
episodi cruciali del romanzo. Appena meno confuse
appaiono le due mogli, Lydia Fergesson e Julie Miller, la cui
frustrazione riesce talvolta a spingerle all’azione, senza che
neppure per loro si spalanchi un futuro migliore.
Il lettore potrebbe chiedersi se – privo delle qualità
visionarie e problematiche, delle tensioni narrative e delle
lacerazioni ideologiche presenti nella migliore fantascienza
dickiana – Lo stravagante mondo di Mr Fergesson non
rimanga comunque un’opera secondaria, a cui accostarsi
soprattutto con curiosità e senza aspettative troppo
elevate. Vi sono almeno tre motivi, a mio parere, che
arricchiscono notevolmente questo romanzo. Innanzitutto,
vi è una tendenza alla fantasticheria, visibile soprattutto nel
personaggio di Miller, ovvero al fantasy in quanto
atteggiamento morbosamente introspettivo che si
trasforma nell’esplorazione delle radici surreali, tabulatone
del narrare. Vi sono momenti in cui prevalgono
l’incongruenza, il nonsense, dell’esistenza umana, ad
esempio, allorché Al Miller cerca lavoro negli uffici della
ditta dell’odiato Harman e si trova, nel giro di due incontri
ravvicinati, di fronte a due persone diverse che gli
propongono due attività diverse, una più sconclusionata
dell’altra, entrambe legate alla promozione discografica.
Qui e altrove la forza paradossale di certi dialoghi che si
avvitano su sé stessi rinvia a una ispirazione che si accende
di spunti kafkiani, o vicini al teatro dell’assurdo, in voga in
quegli anni. Di fatto, il tessuto realistico viene intaccato, si
sfilaccia, facendo intravedere uno strato sottostante di
significati più complicati. Sul versante fantascientifico si
può pensare a un romanzo più o meno coevo, Tempo fuor di
sesto, in cui la banale routine quotidiana di una cittadina di
provincia copre il segreto di una gigantesca operazione
militare, situata nel futuro. O, piuttosto, è la cittadina di
provincia che è stata ricostruita in modo artificiale per
tenere l’inconsapevole eroe dickiano in un tranquillo stato
adolescenziale, mentre i suoi talenti matematici vengono
sfruttati in una guerra interplanetaria senza quartiere.
In più, uno dei motivi dominanti de Lo stravagante
mondo d porta nel cuore della visione dickiana, quella che
da molto tempo mi induce a considerare lo scrittore
californiano non un postmoderno, ma un postmodernista,
nel senso che egli tenta di portare all’interno della cultura
di massa americana temi e linguaggi della tradizione alta
del modernismo. Penso in particolare al topos della terra
desolata, la Waste Land, che di lì a poco assumerà in modo
più completo le caratteristiche dell’arido territorio
marziano (Noi marziani) o dell’intera America, conquistata
dalle potenze dell’Asse (La svastica sul sole). Anche il
paesaggio della Bay Area appare squallido, privo di
storicità e di memorie, provvisorio e nello stesso tempo
statico, come fosse bloccato nell’attesa inevitabile di uno
spaventoso terremoto o di un bombardamento nucleare.
Nessun richiamo alla bellezza della West Coast
californiana, nessun clamore turistico sprigiona dallo
snodarsi incessante delle strade percorse in auto da Al
Miller e soprattutto da Jim Fergesson.
È proprio quest’ultimo che, faticosamente giunto, come
in un incubo in cui è passato per strade sterrate e nodi di
raccordo a lui sconosciuti, nei paraggi del lotto in
costruzione che dovrebbe dargli l’agognata ricchezza, si
arrampica per una collinetta abbandonata e affonda nel
fango, come un precursore del Wilbur Mercer, colui che si
trascina su per una sorta di Golgota artificiale in Ma gli
androidi sognano pecore elettriche?, senza però assurgere
al ruolo di rappresentante di una umanità martoriata che
spetta a Mercer. È su questo terreno che Jim, tra l’altro,
incontra Carmichael, un impiegato addetto alla vendita
delle future abitazioni. Costui è un lettore occasionale di
fantascienza, in particolare di Poul Anderson, ma della
fantascienza ha un’opinione assai bassa, tanto da ironizzare
sulla facilità con cui vengono spiegati i viaggi spaziali o
sulle fandonie che permettono agli animali di diventare
intelligenti come gli esseri umani nel corso di una notte.
Fergesson non è interessato, non legge fantascienza; e
forse anche Dick, che ambisce a diventare scrittore
mainstream, consiglia ai suoi lettori di tenersi alla larga da
certi prodotti scadenti. In ogni caso, siamo al di qua dello
specchio, che Dick-Alice non ha ancora definitivamente
attraversato per approdare nella wonderland di una
fantascienza più adulta e incisiva.
L’energia narrativa de Lo stravagante mondo risiede
soprattutto, in conclusione, nella rappresentazione della
Bay Area come il regno dell’automobile, anzi, delle
automobili, che compaiono nel romanzo in gran numero e
con gran dispiego di marche e di modelli: oltre alla Marmon
di Al, Plymouth, Studebaker, Ford, Oldsmobile, Packard,
Mercedes… Le automobili sembrano possedere un’identità
più precisa di quella evanescente e incerta dei loro padroni.
Cambiando automobile si cambia identità, come del resto
succedeva allo stesso Dick – almeno secondo quello che
racconta Anne – all’inizio degli anni Sessanta. Guidare la
propria automobile sembra consentire la libertà illusoria di
un tragitto senza limiti e senza controlli. Dal posto di guida
si possono cogliere i cambiamenti dello scenario, senza
esserne direttamente coinvolti. Non occorre, alla fine,
neppure una meta, che – quando esiste – talvolta è fin
troppo scontata (il ritorno a casa, allo squallore del ménage
coniugale), in altri casi richiede di percorrere un labirinto
senza vie d’uscita, come accade a Jim alla ricerca del
cantiere edilizio su cui vuole investire il suo denaro. Nella
chiusa del romanzo la meta da raggiungere in auto è
totalmente sconosciuta, se non addirittura collocata in un
sogno. Ma Al, distrutta la sua Marmon, non è più il
guidatore, è diventato un passeggero.
L’automobile è occasione di guadagno, motivo di
soddisfazione personale, fonte di preoccupazione, va
riparata, lavata, lucidata, e può essere facilmente rovinata
da un incidente, o vandalizzata, come succede alla Marmon
di Al. Essa diviene perfino una simulazione ironica della
creazione artistica, dal momento che Jim si dedica a
restaurare vecchie carcasse, rendendole, almeno in
superficie, belle e splendenti.
Se tutti i personaggi maggiori del romanzo dickiano
sono average men (come del tutto simili, e quindi
irriconoscibili, sono gli esseri umani per l’altezzoso Humpty
Dumpty carrolliano), di diverso nella Bay Area, esplorata
dalla narrazione con una minuziosità che non troviamo in
altre opere dello scrittore californiano, ci sono soltanto le
automobili. Perfino Mrs Lane, che ricompare nelle ultime
pagine come una promettente dea ex machina, porta nel
suo cognome un riferimento preciso alla corsia
autostradale (ovvero, nella versione più ottimistica, al
viottolo di campagna): lane.
L’America è già disumana prima dell’arrivo dei nazisti o
degli androidi. Come imparerà Al Miller, da questa Bay
Area non è possibile uscire, se non nell’ultimo sogno, che
forse promette una rinascita molto improbabile, forse
indica che Jim Fergesson aspetta il suo vecchio amico, ed è
un annuncio di morte.

Carlo Pagetti
Philip K. Dick

Lo stravagante mondo
di Mr Fergesson
1

Mentre guidava Jim Fergesson abbassò il finestrino


della sua Pontiac e, sporgendo il gomito, tirò fuori la testa
per inalare boccate dell’aria estiva del primo mattino. Colse
la luce del sole sui negozi e sul marciapiede mentre
percorreva a velocità ridotta San Pablo Avenue. Tutto
fresco. Tutto nuovo, pulito. La macchina della notte, la
spazzola ronzante della città, gli passò accanto mentre
raccoglieva i rifiuti: la scopa che convogliava le loro tasse.
Parcheggiò in prossimità del marciapiede, spense il
motore, rimase seduto per qualche minuto fumando un
sigaro. Giunse qualche macchina che parcheggiò intorno a
lui. Altre macchine si muovevano lungo la strada. Suoni, i
primi movimenti della gente. Nel silenzio rimandavano echi
metallici dai palazzi e dal cemento.
Bel cielo, pensò. Ma non durerà. Nebbia, più tardi.
Guardò l’orologio. Le otto e trenta.
Scese dalla macchina, richiuse rumorosamente lo
sportello e si avviò lungo il marciapiede. Sulla sinistra i
negozianti calavano i tendoni con elaborati movimenti delle
braccia. Un negro spazzava la sporcizia con una ramazza,
trascinandola dal marciapiede verso il tombino. Fergesson
si mosse con attenzione in mezzo alla spazzatura. Il negro
non fece commenti… una mattiniera macchina per pulire.
Accanto all’ingresso della Cooperativa metropolitana di
Oakland si accalcava un gruppo di segretarie. Tazze di
caffè, tacchi alti, profumo, orecchini e maglioncini rosa, la
giacca gettata sulle spalle. Fergesson annusò l’odore dolce
delle giovani donne. Risate, risolini, parole intime
scambiate in segreto, escludendo lui e la strada. L’ufficio
aprì e le donne entrarono a passo sostenuto in un turbinio
di nylon e soprabiti… Fergesson voltò la testa e le guardò
con aria di apprezzamento. Va bene per gli affari, una
ragazza dietro il bancone che accoglie la gente. Aggiunge
classe, finezza. Alla contabilità? No, dev’essere dove i
clienti possono vederla. Impedisce agli uomini di
imprecare, li costringe a essere spiritosi e gradevoli.
«Buongiorno, Jim.» Dalla bottega del barbiere.
«Buongiorno» rispose Fergesson senza fermarsi; teneva
il braccio dietro, con le dita che si muovevano per conto
loro.
Più avanti la sua autofficina. Imboccò la rampa di
cemento con la chiave in mano. La girò nella serratura e
con entrambe le mani sollevò la serranda, che scomparve in
alto con un clangore sibilante di catene.
Ispezionò con occhio critico il suo locale un po’
all’antica. L’insegna al neon era spenta. Sulla soglia si
erano accumulati i detriti della notte. Scalciò un cartone
vuoto del latte e lo mandò a finire sul marciapiede. Il
cartone rotolò lontano, sospinto dal vento. Fergesson mise
via la chiave ed entrò.
E poi cominciò. Strizzò gli occhi e sputò la prima aria
rancida che aleggiava nel locale. Si chinò e accese
l’alimentatore principale. Le cose morte presero vita
scricchiolando. Spalancò la porta laterale ed entrò un po’ di
sole. Avanzò verso la luce notturna e la distrusse con un
gesto secco della mano. Afferrò un palo e tirò indietro il
lucernario. La radio in alto si mise a ronzare e poi partì a
tutto volume. Attaccò il ventilatore in un accesso di
eccitazione. Accese tutte le luci, i macchinari, gli espositori.
Illuminò lo sgargiante poster della Goodrich, con i suoi
pneumatici. Portò colore, forma, consapevolezza al vuoto. Il
buio svanì, e dopo il primo momento di attività lui si placò e
fece una pausa, e si concesse il suo settimo giorno: una
tazza di caffè.
Il caffè era del negozio di prodotti naturali adiacente
all’officina. Mentre entrava, Betty si alzò e andò a prendere
la caffettiera Silex sul retro. «Buongiorno, Jim. Stamattina
sei di buonumore.»
«Buongiorno» disse lui sedendosi davanti al bancone e
prendendo dalla tasca della giacca una monetina da dieci
cent. Certo che sono di buonumore, pensò. Ho tutte le
ragioni per esserlo. Fu lì lì per dirlo a Betty, ma poi cambiò
idea. No, non a lei. Tanto lo verrà a sapere comunque.
Era ad Al che doveva dirlo.
Attraverso la vetrina del negozio di prodotti naturali
vide passare le macchine. Passare le persone. Qualcuno,
magari uno solo, era entrato nell’autofficina? Difficile
capirlo da lì. La sera prima Al era tornato a casa in una
vecchia Plymouth presa dal suo parco macchine, verde e
con un paraurti ammaccato. Perciò oggi sarebbe venuto
con quella, a meno di non essere riuscito a farla partire. In
questo caso lo avrebbe accompagnato sua moglie: a casa
avevano sempre due macchine. Comunque sarebbe andato
diretto alla sua rivendita.
«Qualche altra cosa, Jim?» chiese Betty mentre ripuliva
il bancone.
«No» disse lui. «Sto cercando Al. Devo andare.»
Sorseggiò il caffè. Ho ottenuto il prezzo che avevo chiesto
per l’autofficina, pensò. Così ci siamo. Ecco come
funzionano le transazioni nel campo delle proprietà
immobiliari: tu stabilisti un prezzo e se a qualcuno va bene
si fa il contratto. Chiedi all’agente immobiliare.
No, Al non avrebbe fatto una scenata, pensò. Magari
una di quelle occhiate oblique, da dietro gli occhiali. E
quella specie di sorrisetto mentre sbuffa il fumo della
sigaretta. Ma non dirà nulla, sarò io a dover parlare. Mi
farà parlare più di quanto abbia voglia.
«L’avrai saputo» disse quando Betty gli passò davanti
un’altra volta. «Sto vendendo l’autofficina» aggiunse. «Per
via del mio stato di salute.»
«Non lo sapevo» disse lei. «Quando è successo?» La sua
bocca vecchia e piena di rughe si spalancò. «Stai parlando
del cuore? Credevo che fosse tutto sotto controllo. Mi hai
detto che il tuo medico ti aveva rassicurato, che era tutto a
posto.»
«Certo che è sotto controllo,» disse lui «se non mi
ammazzassi lavorando su quelle macchine, appoggiato su
una pedana a sollevare un’intera trasmissione. Quegli affari
pesano quasi cento chili. Hai mai provato a sollevarne uno
mentre te ne stai con la schiena appoggiata a terra? Ad
alzarlo sopra la testa?»
Lei disse: «E dopo che farai?»
«Te lo dico io quello che farò» replicò lui. «Mi godrò il
meritato riposo. Me lo merito.»
«Direi proprio» disse lei. «Ma pensavo… Avresti potuto
provare quella dieta a base di riso, no? L’hai mai provata?»
«Il riso non mi aiuta per niente» disse Fergesson,
arrabbiato con lei, con quello stupido negozio di prodotti
naturali, le sue erbe, le sue verdure. «È roba per donne
nevrotiche di mezza età.»
Betty era pronta a tenergli una conferenza sul riso, ma
lui prese il suo caffè, annuì e mormorò qualcosa, poi uscì
sul marciapiede portandosi la tazza nell’officina.
Tanta partecipazione da parte di Betty, pensò. Ma quel
consiglio… chi lo vuole, da una svitata come lei?
Dio, ecco la vecchia Plymouth verde nel parcheggio,
accanto alle altre vecchie macchine che Al aveva
rappezzato per rivenderle. Vicino alla baracca con lo
striscione. In mezzo al lotto di terreno c’era un motore che
girava rumorosamente, e che qualcuno faceva salire di giri.
È arrivato, pensò Fergesson. Già al lavoro. Tenendo la tazza
davanti a sé si infilò nell’autofficina buia e umida. Al riparo
dalla luce del sole. I suoi passi creavano suoni echeggianti.
C’era Al, in piedi.
«Ho venduto l’autofficina» disse Jim.
«Davvero?» disse Al. Brandiva una chiave a rullino.
Aveva ancora addosso la giacca di stoffa.
«È di questo che voglio parlarti» disse Jim. «Ti stavo
cercando. Mi sono stupito che alla fine quel tizio abbia
accettato il mio prezzo; ci pensavo da tempo, come mi pare
di averti detto. Quando ne abbiamo parlato un mesetto fa
forse ti ho accennato che pensavo di chiedere sui
trentamila. Il mio agente mi ha telefonato a casa ieri sera.»
Al lo fissò, continuando ad aprire e chiudere la chiave
con il pollice. Non sembrava che la cosa lo avesse
sconvolto, ma il vecchio non era tipo da farsi ingannare. Le
sopracciglia nere rimasero immobili. E così la bocca. Non
voleva saperne di venire a galla, l’emozione. Dietro le lenti
gli occhi brillavano, fissi su di lui. Sembrava che sorridesse.
«Vuoi che tiri le cuoia sotto qualche macchina?» disse
Jim.
«No» rispose Al dopo un po’. Giocherellava ancora con
la chiave.
«Questo non pregiudica il tuo lotto di terreno» disse
Jim. «Hai un contratto d’affitto. Mi pare che scada ad
aprile.» Sapeva bene che scadeva ad aprile. Cinque mesi.
«Perché diavolo non dovrebbe rinnovartelo? Probabilmente
lo farà.»
«Magari lo vuole per sé» disse Al.
«Quando è venuto» disse Jim «non ha mostrato nessun
interesse.»
«Non trasformerà l’autofficina in qualcos’altro?»
«In che vuoi trasformarla un’autofficina?» Però non lo
sapeva; non aveva voluto saperlo perché non aveva nessuna
voglia di pensare a un altro che gestiva il locale… Non gli
interessava cosa ne avrebbe fatto Epstein: bruciarlo o
pavimentarlo d’oro o trasformarlo in un drive-in. E poi
pensò: magari ne farà davvero un drive-in. Può usare il
terreno per ricavarne un parcheggio. E così finisce
l’Autosalone di Al, appena scadrà l’affitto. Però lui potrà
trasferire le sue auto da qualche altra parte. Andrà bene
qualsiasi pezzo di terra libero, in qualunque parte di
Oakland. Purché si trovi su una strada commerciale.

Più tardi andò a sedersi nel suo ufficio, davanti alla


scrivania. Dalla finestra polverosa entrava la luce del sole
che riscaldava e illuminava l’ufficio, l’unico posto asciutto
dell’autofficina, con le sue pile di fatture, manuali di
riparazione, calendari con donne nude che reclamizzavano i
cuscinetti e le lamiere della Test-High di Emeryville,
California. Faceva finta di consultare il disegno dei punti di
lubrificazione di una Volkswagen.
Ci ho tirato fuori trentacinquemila dollari, pensò, e
passo il mio tempo a preoccuparmi perché un tizio che ha
in affitto un pezzo di terra annesso a questo posto magari
avrà dei problemi senza che io ne abbia nessuna colpa.
Ecco quello che ti può capitare con gli altri, che ti fanno
sentire male quando invece ti dovresti sentire bene. Quel
dannato Al, si disse.
Tutti invidiano qualcuno che ha successo, pensò. Che
pretende, per nemmeno dieci anni di lavoro? Io già
possedevo questo posto quando avevo la sua età. È solo un
inquilino, e lo sarà sempre.
Non posso permettere che mi crei delle preoccupazioni,
decise, perché ne ho già tante di mie. Devo pensare a me
stesso, alla mia salute.
È la cosa più importante.
Che spreco era stato. Tutto il suo lavoro, quella
fissazione di aggiustare le macchine degli altri. In qualsiasi
momento avrebbe potuto vendere tutto e ricavarne la
stessa somma di denaro. Magari anche di più, perché
adesso non poteva aspettare. E non era riuscito a tenerla a
bada, la ragione della vendita. Avrebbe dovuto nasconderla
meglio. E invece se n’era andato in giro cercando di
giustificarsi perché sapeva che certa gente avrebbe fatto di
tutto per creargli sensi di colpa. Riuscendoci. Come adesso.
Tutti quegli anni, pensò. E prima, quando aveva tentato
altre strade. Aveva imparato qualcosa? Suo padre avrebbe
voluto che facesse il farmacista. Aveva un emporio a
Wichita, Kansas. Dopo la scuola lui lo aiutava, inizialmente
aprendo le scatole nel magazzino, poi servendo i clienti. Ma
non andava d’accordo con suo padre, così se n’era andato e
si era messo a fare l’aiuto cameriere in un ristorante. Poi
era diventato cameriere, e dopo aveva lasciato il Kansas.
Giunto in California aveva gestito una stazione di
servizio insieme a un altro. Lavorare alle pompe di benzina
era stato quasi come lavorare nell’emporio di suo padre;
significava che doveva rivolgersi alla gente con voce
gioviale, vendergli delle cose. E questo lo aveva lasciato
fare al suo collega, riservandosi il lavoro di ingrassaggio e
riparazione sul retro, fuori vista. Se l’era cavata piuttosto
bene, così quando aveva aperto un’autofficina tutta sua si
era portato appresso i clienti. Alcuni di loro venivano
ancora oggi, quasi venticinque anni dopo.
Fanno bene, pensò. Gli aggiusto le macchine. Possono
chiamarmi quando vogliono, notte e giorno: sanno che
verrò sempre a rimorchiargli l’auto o a sistemargliela
dovunque si trovi, in panne sul bordo della strada. Non c’è
nemmeno bisogno che siano soci dell’Automobile Club,
perché hanno me. E non li ho mai imbrogliati, né ho mai
fatto lavori che non fossero necessari. Dunque, pensò, è
naturale che rimarranno delusi quando sapranno che
chiudo l’attività. Sanno che dovranno rivolgersi a una di
quelle nuove autofficine in cui tutto è pulito, non c’è un filo
di unto, e arriva sempre qualche ragazzotto con il camice
bianco e la stilografica in mano, sorridente. Loro gli dicono
quello che non va e lui prende appunti. E più tardi, quello
stesso giorno, si fa vivo un meccanico del sindacato con le
mani a sorreggersi l’attrezzatura sotto il cavallo dei
pantaloni, che si mette al lavoro sulla loro macchina con
tutta la calma possibile. E ogni minuto che passa loro
pagano. Il meccanico tiene conto di ogni cosa, e loro
pagano anche quando lui va al cesso o si beve una tazza di
caffè o parla al telefono con qualche altro cliente. Gli
costerà tre o quattro volte di più.
Nel pensarci provò un senso di rabbia per loro, disposti
a pagare così tanto un indolente meccanico del sindacato
che non hanno mai visto e che non conoscono nemmeno. Se
possono pagare quelle somme, perché non pagarle a me?,
si domandò. Io non ho mai chiesto sette dollari l’ora. Ma
qualcun altro glieli chiederà e loro sborseranno.
Però aveva fatto i soldi lo stesso. Aveva sempre avuto
più lavoro di quanto potesse portarne a termine,
soprattutto negli ultimi anni. E aveva fatto i soldi anche
affittando l’appezzamento adiacente all’autofficina ad Al
Miller per la sua attività di compravendita di auto usate. Gli
aveva dato buoni consigli in fatto di catorci e qualche volta
lo aveva anche aiutato quando Al non ce la faceva da solo.
Erano andati sempre d’amore e d’accordo.
Ma si può passare tutta la giornata con una persona
come quella?, si domandò. Insieme a uno che si arrabatta
con vecchie auto, alcune ridotte piuttosto male, e che ne
vende una alla settimana quando gli va bene? Insieme a
uno che indossa lo stesso lurido paio di jeans un mese sì e
l’altro pure? In debito con tutti e incapace perfino di tenersi
un telefono, al punto di costringere quelli della compagnia
telefonica a staccargli la spina per insolvenza? E che non
ne avrà mai più uno, per quanto possa vivere a lungo.
Chissà cosa significa non riuscire ad avere un telefono,
pensò. Doversi rassegnare a farselo tagliare.
Io invece non mi arrenderei. Metterei insieme un po’ di
soldi, pagherei la bolletta e troverei un accordo con loro. In
fondo è così che guadagnano: vendendo servizi telefonici.
Cambierebbero idea.
Ho cinquantotto anni, si disse. Ho il diritto di andare in
pensione, cuore o non cuore. Che ci arrivi lui alla mia età.
Capirà che significa avere paura di rimanere secco ogni
volta che sfila un pneumatico da una macchina.
Poi gli sovvenne una visione spaventosa, che aveva già
avuto in precedenza. Si trovava sotto una macchina, la
sentiva che gli pesava addosso. Cercava di respirare, di
gridare aiuto, ma il peso gli schiacciava il petto. Tutto ciò
che poteva fare era restarsene sdraiato lì sulla schiena,
come una tartaruga o un insetto. Poi arrivava Al
nell’officina come faceva sempre, entrando dalla porta
laterale con un pezzo dello spinterogeno.
Veniva verso la macchina, guardava giù, vedeva il
vecchio schiacciato a terra sotto il veicolo e rialzava lo
sguardo, incapace di parlare.
Rimaneva immobile per un minuto, senza nemmeno
mettere via il pezzo che portava in mano. Si guardava
intorno, vedeva che il martinetto idraulico era scivolato via,
la cosa più tremenda che potesse capitare. Era scivolato via
da sotto il differenziale, oppure il tubo flessibile si era
staccato o chissà che. In ogni caso aveva fatto precipitare
la macchina sul vecchio, e poteva essere successo da un
paio d’ore. Il vecchio poteva solo guardare su verso di lui,
non riusciva nemmeno a parlare. Aveva il petto sfondato. La
macchina lo aveva schiacciato, ma era ancora vivo.
Implorava silenziosamente di essere liberato. Di essere
aiutato.
Al si voltava e si allontanava, sempre stringendo in
mano il pezzo dello spinterogeno.
Seduto alla sua scrivania, Jim sentì la paura, la
pressione sul corpo. Teneva gli occhi fissi sullo schema di
lubrificazione della Volkswagen; poi girò lo sguardo verso il
vetro polveroso, i calendari con le donne nude, le fatture,
gli elenchi dei fornitori di pezzi di ricambio. Ma vide ancora
sé stesso: si vide sdraiato a terra, moribondo, schiacciato,
con il corpo come quello di un insetto sotto la macchina,
sotto la – che macchina era? – la Chrysler Imperial. Mentre
Al si allontanava.
Tutta la mia vita, pensò. Da quando faccio il meccanico
ho sempre avuto paura. Che scivolasse il martinetto. Di
rimanere solo qui, senza che arrivasse qualcuno per ore.
Magari l’ultimo lavoro della giornata, verso le cinque del
pomeriggio. E nessuno che capitasse qui fino al giorno
dopo.
Però sua moglie avrebbe chiamato. Peggio, se fosse
successo prima.
Nessuno avrebbe fatto una cosa simile, si disse.
Lasciare un uomo incastrato sotto una macchina. Diciamo
la verità. Nemmeno Al.
Ma come affermarlo con certezza? Non mostra i suoi
sentimenti. Potrebbe farlo o non farlo.
E poi, nel pensarci, ebbe un’altra visione, una che non
aveva mai avuto prima. Vide, altrettanto distintamente, la
stessa scena con Al che arrivava e lo trovava. Ma questa
volta Al si dava subito da fare, gli toglieva la macchina di
dosso e quindi correva al telefono. Poi l’arrivo
dell’ambulanza, rumore e nervosismo, i medici, la barella, il
viaggio all’ospedale. E Al sempre intorno ad accertarsi che
facessero tutto come si doveva, che lui ricevesse le migliori
cure mediche e via dicendo. E Jim se la cavava. Al era
arrivato in tempo.
Certo, poteva farlo. Sa muoversi con rapidità. I tipi
magri come lui, che non pesano troppo… sono in grado di
agire velocemente.
Ma questa visione di Al che lo trovava e lo salvava non
lo fece sentire meglio. Anzi, lo fece sentire peggio, anche se
non riuscì a capire perché. Dannazione, pensò. Non ho
bisogno che mi salvi lui, so prendermi cura di me stesso.
Molto meglio che se ne stia lontano, non sono affari suoi.
Mise giù il disegno della Volkswagen e aprì l’agenda
accanto al telefono. In un attimo compose il numero del suo
agente, Matt Pestevrides, e parlò con la sua segretaria.
«Pronto?» disse quando ebbe in linea Matt. «Senti,
quanto devo restare ancora qui? Adesso che l’affare è
andato in porto?»
«Oh, diciamo più o meno sessanta giorni» rispose Matt
con voce allegra. «Questo ti darà tutto il tempo di chiudere
i tuoi affari. Immagino che tu voglia salutare i tuoi clienti,
tutti quelli che ti sono stati fedeli per tanto tempo. Come
me.»
«D’accordo» disse Jim, e riattaccò. Due mesi, pensò.
Magari posso venire qui solo per una parte della giornata.
E non farò nessun lavoro pesante. Solo roba di tutto riposo,
come ha detto il dottore.
2

Di fronte al suo autosalone Al Miller passeggiava avanti


e indietro con le mani infilate nelle tasche.
Sapevo che lo avrebbe fatto, pensava. Prima o poi. Non
poteva semplicemente passare l’autofficina a qualcun altro
perché la portasse avanti. Visto che non poteva più gestirla
lui è stato costretto a scaricarla.
E adesso?, si chiese. Non posso accomodare quelle
vecchie carcasse senza il suo aiuto. Non sono bravo come
lui. Sono uno che si arrangia, ma non sono un meccanico.
Si voltò a guardare il lotto di terreno e le dodici auto
che c’erano dentro. Quanto valevano? Sul parabrezza aveva
scritto, a grossi caratteri bianchi, i suoi allettanti messaggi
promozionali. 59 DOLLARI TUTTO COMPRESO. PNEUMATICI IN
BUONO STATO. E POI: BUICK! CAMBIO AUTOMATICO. 75 DOLLARI,
FARI ORIENTABILI, RISCALDAMENTO. PREZZO A OFFERTA, BUONO
STATO, COPRISEDILI. 100 DOLLARI. La sua macchina migliore,
una Chevrolet, costava appena 150 dollari. Rottami, pensò.
Degni solo di essere portati allo sfascio. Per niente sicuri
sulla strada.
Accanto a una Studebaker del ’49 il caricabatteria era al
lavoro, e i suoi cavi neri scomparivano dentro il cofano
aperto della macchina. Ci vuole quello per farla partire, si
rese conto. Un caricabatteria portatile. Ma metà delle
batterie non avrebbero tenuto la carica per tutta la notte, e
al mattino sarebbero state di nuovo giù.
Tutte le mattine quando arrivava lì doveva salire a
bordo di ogni macchina, girare la chiave e avviare il
motore.
Altrimenti, se fosse capitato qualche cliente, Al non
avrebbe avuto nessuna macchina funzionante da
mostrargli.
Dovrei chiamare Julie, si disse. Era lunedì, perciò lei non
era al lavoro. Si diresse verso l’ingresso dell’autofficina, poi
si fermò. Come faccio a parlarle da qui?, pensò. Ma se
attraversava la strada e le telefonava dal bar gli sarebbe
costato dieci cent. Il vecchio gli lasciava sempre usare il
telefono senza farlo pagare, perciò era dura la prospettiva
di dover spendere dieci cent.
Aspetterò, decise. Fino a quando arriverà lei qui.
Alle undici e trenta sua moglie accostò al marciapiede
su una delle macchine dell’autosalone, una vecchia Dodge
con la tappezzeria che pendeva dal tettuccio, i paraurti
arrugginiti e il frontale male allineato. Gli sorrise
allegramente mentre parcheggiava.
«Non fare quella faccia felice» le disse.
«Devono essere tutti musoni come te?» disse Julie
mentre saltava giù dalla macchina. Indossava dei jeans
stinti e le sue lunghe gambe sembravano molto magre.
Aveva i capelli raccolti indietro in una coda di cavallo. Alla
luce della tarda mattinata il suo viso lentigginoso dalla
carnagione appena aranciata irradiava la solita sicurezza; i
suoi occhi danzavano mentre si avviava a passo veloce
verso di lui, la borsetta sotto il braccio. «Hai mangiato?» gli
chiese.
Al disse: «Il vecchio ha venduto l’autofficina. Devo
chiudere il negozio.» Si sentì mentre lo diceva: un tono più
che mai angosciato. Era chiaro anche a lui che voleva
cancellare il buonumore di lei, e anche senza sentirsi in
colpa. «Perciò non essere così allegra» aggiunse. «Siamo
realistici. Non posso continuare a far funzionare questi
relitti senza Fergesson. Cristo, non ne so un bel niente di
riparazioni auto. Sono solo uno che le vende.» Quando era
particolarmente depresso si vedeva così: un venditore di
auto usate.
«A chi l’ha venduta?» chiese Julie. Il suo sorriso rimase,
ma adesso più circospetto.
«Non posso dirtelo» rispose lui.
Julie si avviò subito verso l’ingresso dell’autofficina.
«Glielo chiederò io» disse. «Scoprirò cosa hanno intenzione
di fare; tu non hai abbastanza buonsenso per capirlo.»
Scomparve dentro il locale.
Dovrei seguirla? Al non aveva una gran voglia di
rivedere il vecchio. Ma d’altro canto toccava a lui discutere
le cose, non a sua moglie. Così le andò dietro sapendo che
lei, con il passo veloce delle sue lunghe gambe, sarebbe
arrivata molto prima. E certamente, una volta entrato,
appena avuto il tempo di abituare gli occhi alla penombra
dell’officina, l’avrebbe trovata in piedi davanti al vecchio,
intenta a parlare con lui.
E non lo avrebbe degnato di uno sguardo mentre lui si
avvicinava lentamente.
Il vecchio le stava spiegando ciò che aveva già spiegato
ad Al, con la sua solita voce bassa e roca; diceva più o
meno le stesse cose più o meno con le stesse parole. Come
se, pensò Al, si fosse costruito un discorso da snocciolare
ogni volta. Il vecchio le spiegò che la scelta non dipendeva
da lui, come Julie ben sapeva, ma dal fatto che il suo
medico gli aveva sconsigliato di continuare a svolgere un
lavoro faticoso come riparare automobili, e così via. Al
ascoltò senza interesse, rimanendo quasi sulla soglia, in
modo da poter guardare fuori la strada assolata di
mezzogiorno, le macchine e le persone che passavano.
«Be’, ecco come la penso io» disse Julie con la sua voce
vivace. «Potrebbe essere una cosa positiva, così magari
adesso Al potrà riprendere l’università.»
Nel sentirla Al disse: «Cristo.»
Il vecchio lo fissò strofinandosi l’occhio destro, che era
diventato rosso e gonfio; evidentemente c’era qualcosa
dentro. Infilò la mano nella tasca sul fianco, ne tirò fuori un
grosso fazzoletto e cominciò a toccarsi l’angolo dell’occhio.
Guardò sia Al che Julie con quello che ad Al sembrò una
combinazione di astuzia e nervosismo. Il vecchio aveva
fatto la sua scelta: aveva deciso quale posizione assumere
non solo per quanto riguardava la sua autofficina, ma anche
per quanto riguardava loro due. Se a parere loro avesse
fatto bene o male non aveva nessuna importanza. Non
avrebbe cambiato idea. Al lo conosceva abbastanza bene da
saperlo: il vecchio era troppo testardo. Nemmeno Julie, con
il suo eloquio deciso, poteva scalfirlo.

È
«Te lo dico io» borbottò il vecchio. «È una vita
pidocchiosa lavorare in questo buco umido e pieno di
spifferi. Mi stupisco di non essere morto anni fa. Sarò ben
felice di andarmene da qui; mi merito un po’ di riposo.»
Julie disse, a braccia conserte: «Poteva includere una
clausola nel contratto di vendita per cui il nuovo
proprietario doveva continuare ad affittare quel pezzo di
terra a mio marito per la stessa somma.»
Il vecchio piegò la testa di lato e disse: «Be’, non lo so. È
una cosa di cui si deve occupare il mio agente; gli dirò di
farlo.»
La faccia di Julie era diventata rossa. Al l’aveva vista
poche volte così arrabbiata come adesso: le tremavano le
mani, ed era per questo che aveva incrociato le braccia. Le
stava nascondendo. «Mi ascolti bene» disse con voce quasi
stridula. «Perché non si limita a morire e a lasciare
l’autofficina ad Al? Insomma, non ha figli, non ha una
famiglia.» Poi tacque. Come se, pensò Al, si fosse resa
conto di aver detto qualcosa di brutto. Ed era brutto, pensò
Al. Era ingiusto. L’autofficina apparteneva al vecchio. Ma
ovviamente Julie non lo avrebbe mai ammesso; non si
sarebbe lasciata condizionare dai fatti.
«Andiamo» le disse Al. La prese per un braccio e la
allontanò con forza dal vecchio, che stava farfugliando
qualcosa in risposta, portandola verso l’uscita e la strada.
«Mi fa infuriare» disse lei mentre emergevano alla luce
del sole. «È proprio rimbambito.»
«Rimbambito un cavolo» disse Al. «È un vecchio in
gamba.»
«Come un animale» disse Julie. «Che se ne frega degli
altri.»
«Ha fatto molto per me» disse lui.
«Se vendessi tutte le macchine che hai,» chiese lei
«quanto ne ricaveresti?»
«Circa cinquecento dollari» rispose lui. In realtà un po’
di più.
«Posso tornare a lavorare a tempo pieno» disse Julie.
Al disse: «Cercherò in giro un altro posto.»
«Mi hai detto che non puoi farcela senza il suo aiuto»
disse sua moglie. «Hai detto che non hai abbastanza
capitale per comprare macchine da mettere in vendita
senza dover…»
«Mi accorderò con un’altra autofficina» disse Al.
Julie disse: «Questo per te è proprio il momento di
tornare all’università.» Si fermò e lo squadrò a muso duro.
Secondo lei Al aveva bisogno di una laurea. Doveva
frequentare altri tre anni – uno lo aveva già fatto
all’università della California – e allora sarebbe riuscito a
trovarsi quello che lei chiamava un buon lavoro. Doveva
essere una laurea in qualcosa di pratico: lei aveva scelto
Economia aziendale. Nel corso di quell’anno Al non aveva
ottenuto nessuna specializzazione, aveva seguito solo un
corso generale, un po’ di questo e un po’ di quello. Non gli
era piaciuto, così aveva smesso di andarci.
Per prima cosa non amava stare rinchiuso. Forse era per
questo che era stato attratto dalla vendita di auto usate:
poteva starsene all’aperto per tutto il giorno, al sole. E
naturalmente non aveva padroni. Poteva andare e venire a
suo piacimento, poteva aprire l’autosalone alle otto, alle
nove o alle dieci, andare a mangiare all’una, alle due o alle
tre. Stare fuori mezz’ora o un’ora, o magari pranzare
dentro una delle sue macchine.
Aveva costruito una casetta al centro del terreno,
ricavata da blocchetti di basalto. Aveva delle finestre di
alluminio acquistate a una vendita all’ingrosso; anzi, anche
tutti i fili li aveva acquistati all’ingrosso, così come il tetto e
tutti gli impianti. Era quasi una casa e lui la vedeva come
tale, una casa costruita con le sue mani, che gli
apparteneva, nella quale poteva andare quando ne aveva
voglia e restarci, invisibile, per tutto il tempo che gli
pareva. Ci aveva messo dentro una stufa elettrica, una
scrivania, un armadietto metallico; c’erano delle riviste da
leggere, e tutte le sue scartoffie. A volte c’era anche una
macchina da scrivere che prendeva in affitto per cinque
dollari al mese. Un tempo aveva avuto un telefono, ma
ormai era acqua passata.
Se si fosse trasferito, se avesse lasciato quel pezzo di
terra, si sarebbe portato via la casetta. Gli apparteneva, era
una sua proprietà personale, così come le macchine. Ma
diversamente dalle macchine non era in vendita. E c’era un
altro oggetto, anch’esso non in vendita e anch’esso di sua
proprietà, che lo avrebbe seguito. Come la casa che aveva
costruito. Nella parte posteriore del lotto, nascosta, c’era
una macchina alla quale lavorava da mesi. Ci si dedicava
ogni volta che aveva del tempo libero.
Era una Marmon del ’32. Sedici cilindri e quasi due
tonnellate e mezza di peso. Ai tempi in cui era in grado di
camminare poteva raggiungere i duecentocinquanta
chilometri l’ora. In effetti era stata una delle più belle
automobili costruite negli Stati Uniti, e nuova costava
cinquemila e cinquecento dollari.
Al si era imbattuto nella vecchia Marmon un anno
prima. Era tenuta in una rimessa ed era in condizioni
deplorevoli; dopo diverse settimane di trattative sul prezzo
era riuscito ad aggiudicarsela, insieme a due ruote di
scorta, per centocinquanta dollari. Da quanto sapeva in
fatto di macchine era convinto che la Marmon, una volta
rimessa completamente a posto, potesse valere fra i
duemilacinquecento e i tremila dollari. Perciò al momento
gli era sembrato un buon investimento. Ma era da un anno
che ci lavorava sopra e aveva tutt’altro che finito.
Un pomeriggio, mentre stava trafficando sulla Marmon,
aveva alzato gli occhi e aveva visto due uomini di colore
che lo osservavano. Erano molti i passanti di colore, e lui
vendeva automobili sia ai bianchi che ai negri.
«Salve» disse Al.
Uno dei due negri fece un cenno con la testa.
«Cos’è?» chiese l’altro.
«Una Marmon del ’32» rispose Al.
«Amico» disse il più alto dei due negri. Erano entrambi
giovani. Indossavano giacche sportive, camicie bianche
senza cravatta e pantaloni scuri. Sembravano ben messi.
Uno dei due, quello che aveva parlato, fumava una
sigaretta. «Ascolti» disse. «Magari porto mio padre a dare
un’occhiata. Gli piacerebbe essere alla guida di una
macchina del genere, quando se ne torna in Florida.»
L’altro negro disse: «Già, al suo vecchio piacciono
macchine come quella. Lo portiamo qui, vedrà.»
Al si alzò in piedi e disse: «Questa è una macchina per
collezionisti.» Poi si sforzò di spiegare loro che non era in
vendita, almeno non in termini a loro comprensibili. Non
era un mezzo di trasporto, spiegò, ma un prezioso retaggio
del passato, una di quelle superbe automobili da turismo di
un tempo; sotto certi aspetti la più bella di tutte. E mentre
parlava si accorse che in effetti loro capivano, capivano
benissimo. Era proprio ciò che il vecchio padre del negro
più alto voleva portarsi in Florida. E, ripensandoti, Al
riusciva a capire il loro punto di vista. Però quell’auto aveva
quasi trent’anni e non era in grado di camminare. Anzi, non
camminava più dalla Seconda guerra mondiale.
Il negro più alto disse: «Lei rimetta quell’auto in
condizione di camminare e forse noi l’acquisteremo.» Erano
entrambi molto seri, e annuirono più volte. «Quanto
vuole?» domandò il negro più alto. «Quanto chiede per
quella macchina, una volta che l’avrà rimessa di nuovo in
sesto?»
Al rispose: «Circa tremila dollari.» Ed era la pura verità.
Tanto valeva.
Nessuno dei due batté ciglio. «Ci sta bene» disse il più
alto, annuendo. Si scambiarono un’occhiata, sempre con
dei cenni del capo. «Era più o meno quanto ci aspettavamo
di pagare» disse il negro più alto. «Naturalmente non
paghiamo tutto insieme. Ci serviremo della nostra banca.»
«Proprio così» confermò l’altro. «Diciamo seicento in
contanti e il resto a rate.»
Subito dopo i due negri si congedarono, ripetendogli
che sarebbero tornati con il padre del negro più alto.
Naturalmente Al non si aspettava di rivederli, ma il giorno
dopo eccoli di nuovo lì. Stavolta c’era con loro un vecchio
negro basso e tarchiato con il panciotto, l’orologio
d’argento con la catena e scarpe nere luridissime. I due più
giovani gli fecero vedere la Marmon e gli spiegarono
sommariamente le condizioni proposte da Al. Dopo averci
riflettuto, il vecchio giunse alla conclusione che quella
macchina non faceva al caso suo, e per una ragione più che
logica. Era convinto che sarebbe stato un bel problema
trovare le gomme adatte, anche andandole a cercare lungo
l’autostrada, fra una città e l’altra. Perdo alla fine il vecchio
lo ringraziò in modo molto formale e rinunciò alla
macchina.
L’incontro era rimasto impresso nella mente di Al, forse
perché dopo quell’occasione aveva visto un bel po’ di negri
come loro. Facevano parte di una famiglia di nome Dolittle,
e il vecchio gentiluomo con il panciotto e l’orologio
d’argento con la catena era benestante. O quantomeno lo
era sua moglie. Mrs Dolittle era proprietaria di stanze e
appartamenti da affittare a Oakland. In parte si trovavano
in zone abitate da bianchi e lei affittava ai bianchi tramite
un amministratore. Al era venuto a saperlo dai due più
giovani e dopo un po’ era anche riuscito a procurarsi
attraverso di loro un appartamento migliore per sé e per
Julie. Adesso vivevano in un palazzo di legno a tre piani
ristrutturato sulla Cinquantaseiesima, dalle parti di San
Pablo: abitavano all’ultimo piano e gli costava solo
trentacinque dollari al mese.
I motivi di quel prezzo così basso erano due. Primo,
questo particolare palazzo si trovava in un sobborgo non
esclusivo, il che significava che al pianoterra c’era una
famiglia di negri e all’ultimo un ragazzo e una ragazza
messicani con il loro bambino. A loro non dava fastidio
abitare fianco a fianco con negri e messicani, ma era l’altro
motivo a creare qualche problema: l’impianto elettrico e
quello idraulico erano in condizioni così cattive che gli
ispettori del comune minacciavano sempre di dichiarare il
palazzo inagibile. A volte, per via di un cortocircuito, la
corrente mancava per diversi giorni. Quando Julie stirava, il
muro diventava così caldo da non poterlo toccare. Tutti i
residenti erano convinti che il palazzo sarebbe andato a
fuoco, ma quasi tutti erano fuori casa per gran parte della
giornata e sembravano fiduciosi che in virtù di quello
fossero in qualche modo al sicuro. Una volta il fondo
arrugginito dello scaldabagno si era crepato e l’acqua era
uscita fuori, bagnando i fornelli e schizzando su tutto il
pavimento, riducendo a mal partito buona parte dei tappeti
e dei mobili. Mrs Dolittle si era rifiutata di concedere loro
anche il minimo rimborso. Erano rimasti senza acqua calda
per quasi un mese fino a quando Mrs Dolittle non aveva
trovato un idraulico part time che aveva installato un altro
scaldabagno malandato per una decina di dollari. Quella
donna aveva un esercito di operai al suo servizio in grado di
rappezzare il palazzo quel tanto che bastava per non farlo
chiudere su due piedi dalle autorità cittadine: lo
mantenevano in funzione un giorno dopo l’altro. Al era
venuto a sapere che alla fine lei sperava di rivenderlo
perché fosse demolito. Era convinta che al suo posto ci
sarebbe stato benissimo un parcheggio, e dietro l’angolo
c’era un supermercato che sembrava interessato.
I Dolittle erano i primi negri di classe media con cui Al
fosse mai entrato in contatto o di cui avesse mai sentito
parlare. Possedevano più proprietà di chiunque altro avesse
mai conosciuto da quando si era trasferito nella zona della
Baia da St Helena, e Mrs Dolittle – che tirava di persona le
fila di tutti i suoi affari – era gretta e taccagna come
qualsiasi altro padrone di casa che Al avesse mai avuto.
Essere di colore non l’aveva resa più umana. Non faceva
discriminazioni razziali: trattava male tutti i suoi inquilini,
neri o bianchi che fossero. Mr McKeckney, il negro al
pianoterra, gli aveva detto che un tempo aveva fatto la
maestra. Di certo ne aveva l’aspetto: piccola, con gli
occhietti vispi e i capelli grigi, indossava sempre una gonna
lunga, cappello, guanti, calze nere e scarpe con i tacchi alti.
Gli dava regolarmente l’impressione di essere vestita per
andare a messa. Ogni tanto scoppiavano terribili
discussioni con altri inquilini del palazzo e la sua voce
stridula filtrava dalle assi del pavimento o giù dal soffitto, a
seconda di dove lei si trovasse. Julie ne aveva paura e
lasciava regolarmente che fosse Al a parlarci. Mrs Dolittle
non lo spaventava, ma gli offriva l’occasione di riflettere
sugli effetti che la proprietà aveva sull’animo umano.
Al contrario, i McKeckney non possedevano nulla.
Avevano un pianoforte in affitto e Mrs McKeckney, una
donna prossima alla sessantina, stava imparando a
suonarlo da un libro: Scuola di piano per principianti, di
John Thompson. A tarda sera Al sentiva il minuetto di
Boccherini ripetuto all’infinito, intenzionalmente, con la
stessa enfasi su tutte le note.
Durante il giorno Mr McKeckney se ne stava seduto
fuori, davanti al palazzo, su una cassa per le mele che
aveva dipinto di verde. In seguito qualcuno gli aveva
procurato una sedia, probabilmente il grosso commerciante
di mobili usati in fondo alla strada. Mr McKeckney sedeva
per ore, senza mai alzarsi, annuendo con la testa e
salutando tutti quelli che passavano. All’inizio Al era
rimasto sbalordito dalla capacità dei McKeckney di
sopravvivere economicamente: non gli risultava che
avessero alcuna fonte di reddito. Mr McKeckney non
lasciava mai la casa e anche se la moglie stava fuori per
gran parte del tempo era sempre per fare spese, andare a
trovare degli amici o svolgere dei servizi in chiesa. In
seguito però Al venne a sapere che i loro figli, dopo essere
cresciuti e aver lasciato la casa, si prendevano cura dei
genitori. Vivevano, gli aveva detto orgogliosamente Mr
McKeckney, con ottantacinque dollari al mese.
Il nipotino dei McKeckney, quando veniva a fare visita ai
nonni, giocava per conto suo sul marciapiede o nel pezzo di
terreno libero all’angolo. Non si univa mai alle bande di
ragazzini che abitavano nella zona. Si chiamava Earl. Non
faceva mai chiasso, e parlava pochissimo con gli adulti.
Appariva alle otto del mattino con i suoi pantaloni di lana e
il suo maglione, e un’espressione seria sul volto. Aveva la
carnagione molto chiara e Al pensò che avesse nelle vene
un bel po’ di sangue bianco. I McKeckney gli lasciavano
passare il tempo da solo e lui sembrava abbastanza
responsabile: si teneva lontano dalla strada e non dava mai
fuoco a niente, come invece facevano quasi tutti i ragazzi
del vicinato, bianchi, neri e messicani. In realtà sembrava
un palmo al di sopra di loro, quasi un aristocratico, e ogni
tanto Al si ritrovava a domandarsi che storia avesse alle
spalle.
Solo una volta sentì Earl alzare la voce per la rabbia.
Dall’altra parte della strada vivevano due ragazzi bianchi
dalla testa piccola e tonda, due bulletti con tanto tempo e
niente da fare. Avevano la stessa età di Earl. Quando gli
veniva voglia raccoglievano frutta acerba, bottiglie, pietre e
mucchi di terra e li lanciavano dalla parte opposta della
strada verso Earl che se ne stava tranquillo sul marciapiede
davanti casa. Un giorno Al li sentì strillare con le loro
vocette cattive: «Ehi, tua madre è proprio brutta.»
Lo ripeterono più volte, mentre Earl li guardava male
senza dire niente, con le mani cacciate in tasca e la faccia
che diventava sempre più seria. Alla fine tutte quelle
cattiverie lo fecero reagire.
Con voce forte e profonda gridò: «Attenti, ragazzini.
Attenti, voialtri ragazzini.»
Sembrò funzionare. I due ragazzi bianchi si dileguarono.
Ricordi e pensieri riempivano la mente di Al. Le persone
che venivano a visitare il suo autosalone, adolescenti
squattrinati, operai che avevano bisogno di un mezzo di
trasporto, giovani coppie; mentre se ne stava lì davanti
all’autofficina insieme a sua moglie pensava a loro e non a
quello che lei gli diceva. Adesso gli stava parlando del suo
lavoro di segretaria alla Western Carbon and Carbide, gli
stava ricordando il suo desiderio di licenziarsi in via
definitiva, un giorno o l’altro. E lui avrebbe dovuto
guadagnare un bel po’ di soldi per permetterle di farlo.
«… Ti nascondi dalla vita» concluse lei. «La guardi da
un buco minuscolo.»
«Può darsi» disse Al sentendosi avvilito.
«Sbattuto qui, in questo quartiere derelitto.» Gesticolò
in direzione delle piccole botteghe, del barbiere, del forno,
dell’agenzia di prestiti, del bar dall’altra parte della strada.
E verso l’ambulatorio, dalla cui insegna era sempre
turbata, in cui facevano irrigazioni del colon. «E non credo
di poter sopportare di vivere ancora a lungo in quel buco di
casa.» La voce le si era addolcita. «Ma non voglio metterti
pressione.»
«D’accordo» disse lui. «Magari quello che mi serve è
proprio un’irrigazione del colon» aggiunse. «Di qualunque
cosa si tratti.»
3

Quella sera, mentre Jim Fergesson risaliva i gradini di


cemento verso casa, la veneziana dietro il vetro della porta
si mosse e si spostò di lato; un occhio vivo, cauto, sbirciò
fuori. Poi la porta si spalancò. C’era sua moglie, Lydia, che
ridacchiava compiaciuta, arrossendo nel vederlo come
faceva sempre quando lui tornava a casa. Era una sua
abitudine, forse dovuta alle sue origini greche. Lo fece
entrare nel corridoio, parlando svelta.
«Oh, sono così felice che tu sia finalmente a casa. Che
giornata hai avuto stavolta? Senti, lo sai che ho fatto?
Avevo tanta voglia di farti contento, e so che lo sarai;
indovina cosa ti ho preparato? E che sta cuocendo proprio
in questo momento?»
Lui annusò.
Lydia disse: «È pollo, pollo stufato con spinaci.» Rise
mentre lo precedeva dentro casa.
«Stasera non ho tanta fame» disse Jim.
Lei si voltò e gli disse: «Vedo che sei di cattivo umore.»
Jim si fermò davanti all’armadio per appendere il
soprabito. Si sentiva le dita stanche e rigide. Lydia lo seguì
con gli occhi, con l’espressione attenta di un uccellino.
«Ma adesso sei a casa e dunque non c’è motivo di
essere di malumore» disse. «Non è così? È successo
qualcosa oggi?» Tutto a un tratto la sua faccia divenne
ansiosa. «Non è successo niente, ne sono sicura. Sono
convintissima che non potrebbe succedere niente al
mondo.»
Lui disse: «Ho solo avuto una piccola discussione con
Al.» La oltrepassò ed entrò in cucina. «Stamattina.»
«Oh» fece lei, annuendo con aria seria per mostrargli
che capiva. Nel corso degli anni aveva imparato a cogliere i
suoi stati d’animo e a rifletterli, ad allinearsi – almeno
all’apparenza – con essi, in modo che fosse possibile
stabilire una comunicazione.
Sua moglie era l’ideale per quello, per una discussione
esauriente dei suoi problemi; a volte scopriva degli aspetti
che a lui erano sfuggiti. Lydia era andata all’università;
anzi, seguiva ancora dei corsi, alcuni dei quali per posta.
Conosceva il greco, quindi era in grado di tradurre i filosofi.
E conosceva anche il latino. La sua capacità di apprendere
le lingue straniere lo impressionava, ma d’altra parte non
era mai riuscita a imparare a guidare la macchina, anche se
si era iscritta a una scuola guida.
In ogni caso ascoltava sempre quello che lui le diceva
sulle macchine, anche se molti dei concetti le rimanevano
incomprensibili. Non l’aveva mai vista reticente ad
ascoltarlo, quale che fosse l’argomento.
La tavola nel tinello era apparecchiata e adesso Lydia si
muoveva per la cucina, prendendo i tegami dal forno e
portandoli a tavola. Jim si mise a sedere sulla panca fatta a
mano e cominciò a slacciarsi le scarpe. «Faccio in tempo a
fare un bagno?» chiese. «Prima di cena?»
«Ma certo» rispose Lydia, tornando a infilare i tegami
nel forno. «Senza dubbio ti sentirai molto più in pace con il
mondo dopo un bel bagno.»
Così Jim andò a farsi un bagno.
L’acqua calda frusciava su di lui mentre se ne stava a
mollo: la lasciò scorrere, più per il rumore che per altro.
Qui, con la porta chiusa e il vapore che saliva e lo
scrosciare dell’acqua, si sentiva rilassato. Chiuse gli occhi e
si concesse il lusso di galleggiare un poco nella vasca quasi
piena. Le mattonelle scintillavano per la condensa. Le
pareti e il soffitto si inumidirono e il bagno si riempì di
nebbia trasformando gli arredi in sagome confuse,
inconsistenti e sgocciolanti. Come una vera sauna, pensò.
Una sauna svedese, con le persone sedute e gli accappatoi
e gli asciugamani bianchi. Appoggiò le braccia sul bordo
della vasca e con le dita dei piedi richiuse il rubinetto,
riducendo l’uscita dell’acqua a uno sgocciolio; fece in modo
che l’acqua in arrivo compensasse esattamente quella che
usciva dallo scarico.
Qui, adesso, lontano dall’autofficina, rinchiuso nel
calore e nell’umidità del suo bagno – viveva in quella casa
da sedici anni – andava tutto bene. Com’era solida quella
vecchia casa, con i suoi pavimenti di parquet e i suoi
armadi con le ante di vetro. Negli anni le assi di legno
erano diventate dure come il ferro, assorbendo il prodotto
antitermiti che lui vi aveva passato sopra il primo autunno.
I successivi strati di vernice che avevano ricoperto le assi
all’esterno erano diventati una sorta di seconda casa che
proteggeva la prima, quella di legno. Ma questa, la casa
smaltata che aveva tirato su strato dopo strato nel corso
degli anni, gli bastava e gli avanzava: in fondo le vespe
costruiscono i nidi con la carta, e nessuno le disturba.
Ma non era una casa di carta, quella in cui viveva.
Prendiamo i tre porcellini: li batto tutti alla grande. Potrei
dirgli un paio di cosette, anche all’ultimo, quello che fa la
figura migliore. Gli chiederei quanto durerà la sua casa. La
mia durerà molto più a lungo. A quei tempi, negli anni
Trenta, sì che sapevano costruire. Roba d’anteguerra,
allora si guardavano bene dall’usare legname non
stagionato.
E mentre se ne stava a mollo nella vasca, regolando
l’uscita dell’acqua con i piedi, cominciò a pensare. Ritornò –
lasciò liberi i suoi pensieri di tornarci – a quel vecchio
argomento. Gli venne in mente che esisteva una cosa
chiamata guadagno.
Sì, pensò, ecco cosa ho ottenuto. Trentacinquemila
dollari. Un bel po’ di soldi.
E non devo fare niente, pensò ancora. È già tutto lì,
tutto scritto, una cosa certa. Anche mentre me ne sto qui
nella vasca, aspetto, e quella cosa si avvicina. Posso
contarci senza più la preoccupazione di dover lavorare.
Così adesso non doveva più pensare al lavoro. Era stato
il lavoro a infilarsi a forza nella sua testa, un anno dopo
l’altro. Che si tengano pure le loro dannate macchine e se
le ficchino nel culo, pensò.
Credo che non ci tornerò più, derise. All’officina. Credo
che me ne resterò a casa.
Non potete costringermi a tornare là, si disse. E pensò
con autentica rabbia a quelli che lo volevano ancora al
lavoro. Provò un odio profondo.
Che ne farò di questi soldi?, si chiese. Questa somma
consistente, una piccola fortuna. Ecco quello che ne farò: li
lascerò a mia moglie. Questo gruzzolo mi ripaga per tutto
quello che ho fatto… Sarò morto e lei li spenderà. E non ne
ha nemmeno bisogno.
È stata accanto a me?, si chiese ancora. Ha lavorato al
mio fianco? Se anche lo ha fatto non me ne sono accorto. È
per la biblioteca pubblica di Oakland che ha lavorato, non
per me. Per l’università della California e per i suoi
professori, e soprattutto per i suoi studenti con le loro
magliette sportive. Vestono bene e hanno le unghie curate.
Hanno un sacco di tempo e preparazione per sapere come
si fa.
Un leggero rumore sulla porta del bagno attrasse la sua
attenzione. La maniglia girò, ma la porta non si aprì: era
chiusa a chiave.
«Che c’è?» strillò lui.
«Volevo…» La voce di sua moglie, soffocata dal rumore
dell’acqua.
Jim chiuse il rubinetto. «È chiusa a chiave» gridò.
«Ce l’hai un asciugamano?»
«Sì» rispose lui.
Dopo una pausa lei disse: «La cena è pronta. Voglio che
sia cotta alla perfezione per te.»
«Va bene» disse lui. «Arrivo subito.»
Più tardi, seduto a tavola di fronte a Lydia, sorseggiava
la sua minestra. Come sempre lei aveva apparecchiato in
modo impeccabile: aveva acceso le candele, messo una
tovaglia bianca e dei tovaglioli di lino. Indossava una
collana sottile. E si era messa il rossetto. I suoi occhi neri
brillavano e un sorriso le affiorò spontaneo quando si
accorse che lui la stava guardando.
«Perché sei così triste?» disse. «Non è molto meglio per
te e per tutto il genere umano adottare un atteggiamento
più sereno?» Quando lui non disse nulla, lei proseguì: «E
alla fine questo ha un effetto negativo anche sulla tua
psiche, almeno secondo quanto sostengono le teorie di
William James e di Lang.»
«L’hai imparato al tuo corso?» le domandò Jim.
Secca, senza la minima intenzione di mettere da parte il
suo stato d’animo, lei rispose: «Sì, l’ho imparato al mio
corso, signor musone.» Era impegnata in una bella lotta per
la felicità, notò lui. Il suo sorriso era confortato dalla
determinazione: lo stava sfidando. In qualsiasi condizione,
dietro ogni reazione, lei aveva questo dalla sua: la fede. Jim
non aveva speranze.
In questa casa, pensò, a casa mia, non posso nemmeno
essere depresso. Almeno non in modo palese. Non è
tollerato, come non è tollerata la sporcizia.
Fuori dalla porta con un colpo di scopa.
Lei si muoveva un po’ più veloce. Le sue mani volavano
dal piatto del burro alla tazza del caffè al tovagliolo. Non è
la vitalità che le manca, pensò lui. Ore se ne farà quando
tirerò le cuoia e me ne starò sotto un bel tappeto di
margherite? Magari sopra di me non cresceranno
margherite, ma cavoli fetidi, decise. Immaginate Lydia
davanti alla mia tomba con un bel mazzo di fiori colti dal
giardino dietro casa, rose e tutto il resto; e lì per terra tanti
cavoli fetidi che puzzano come l’inferno e crescono come
funghi. Si mise a ridere.
«Ah» disse lei con una voce di gola.
Lo colpì in quel momento, mentre la guardava, quanto
fosse più giovane di lui. Naturalmente lo sapeva già, la cosa
era sempre stata sotto i suoi occhi. Ma di solito non si
soffermava a pensarci. Le sue mani. Ancora lisce e
morbide. Be’, non doveva rovinarsele quattro volte al
giorno con il detersivo per lavare i pavimenti. Chi li puliva?
Una ragazza di colore che veniva due volte alla settimana:
era lei che faceva i lavori pesanti, il lavoro sporco. Lydia si
limitava a spolverare, a lavare i piatti, a fare la spesa, a
preparare da mangiare. Il resto del tempo era fuori a
studiare.
«Che hai imparato oggi?» le chiese.
«Ti interessa?» disse lei con voce soave.
«Certo» rispose lui. «Visto che pago io.»
«Il denaro» disse Lydia «è quello che decide ciò che ha
valore in una società di barbari, che li identifica quando
vedono un’iscrizione sacra nel tempio fatto d’oro.» I suoi
occhi si fissarono su di lui. Non c’era timidezza.
Lui disse: «Uno di questi giorni diventerai una barbara a
tempo pieno.»
Gli occhi insistettero a fissarlo.
«Trentacinquemila» disse Jim con tale veemenza che
alla fine lei smise di sorridere. «Perché non creare una
fondazione? La Fondazione Fergesson per gli accattoni.
Pagarli per dormire tutto il giorno.» La sua voce crebbe di
tono. «In salotto!» gridò. «Sul divano!» Adesso la voce era
gracchiante, spezzata. «Qui a casa mia!»
Lei non disse nulla. Lo osservava.
«Forse andrò a trovare Louis Malzone» disse lui. «Il mio
avvocato. Magari mi prenderò la briga di investire i soldi in
azioni.» Ma a quale scopo?, si chiese. Perché tanto alla fine
sarebbero finiti a lei, in cambio di niente, senza aver fatto
niente. E lui, invece, dopo tutto quello che aveva fatto… che
aveva ottenuto?
Ma si sentiva stanco. Mangiò il suo panino con il burro –
vero burro – spalmato sopra. E lei sempre lì a guardarlo.
«Parlami di questa discussione che hai avuto con Al» gli
disse.
Lui non disse nulla. Continuò a mangiare.
«È da lì che deriva questa immagine sempre più
sbagliata delle cose per quello che sono» disse lei.
Jim si mise a ridere.
«Quell’uomo,» proseguì sua moglie «che spreco
deliberato ha fatto della sua vita. E poi la sua attitudine nei
confronti degli altri per quello che c’è veramente nella sua
natura più intima. Quando lui e sua moglie – l’ultima di cui
mi importi qualcosa, e tu lo sai – vennero a cena da noi
quella particolare domenica pomeriggio, ebbi una
sensazione più forte che mai.»
«Che sensazione?»
«Non lo sai già?» disse Lydia. «Perché l’abbia avuta non
saprei spiegarmelo. So che in passato mi sono affannata a
discuterne con te. Da quanto tempo ha in affitto quel pezzo
di terra vicino all’autofficina per le sue macchine? A questo
punto un bel po’ di anni. In questo periodo ho visto in te un
cambiamento. Non è una coincidenza. Che ti ho detto
appena sei entrato in casa stasera? Che eri di cattivo
umore. Conosco quello stato d’animo. Prima non tornavi a
casa con quell’umore. Che cos’è lui nella tua vita? Ti
mostra la via per la stupidità assoluta, senza speranza.
L’uomo che si rende stupido da solo. Ma sei tu a fartene
carico, senza avere la minima responsabilità.»
Lui guardò su e vide che Lydia gli puntava il dito contro
e aveva aggrottato la fronte.
«Perché» proseguì lei «ha sciupato la sua vita col non
far niente, e riesce a farti sentire come se gli dovessi
qualcosa, ma in realtà runica cosa che devi fare è mollarlo.
Lasciarlo al suo destino.»
«Solo perché veste male» disse Fergesson.
«Come dici, caro?»
«Cristo» disse lui. «Ha fatto cadere quel fottuto
posacenere. Vuoi sapere che ne penso? Tanta bella teoria,
ma lo sai perché dici così? Solo perché la prima volta che è
venuto qui ha rovesciato il posacenere. E per il modo in cui
veste.»
«Perdonami» disse Lydia. «Lo so bene io come stanno le
cose, caro mio. Quell’uomo prova disprezzo. Dimmi, che
scelta ha fatto?»
Jim non aveva capito. Sua moglie si era lanciata nel suo
modo tipicamente greco, frenetico, di esprimersi, e quando
lo faceva, quando lo affrontava in quel modo, a lui sfuggiva
gran parte di ciò che diceva.
«Qual è la sua confessione religiosa?» si spiegò meglio
Lydia.
«Come faccio a saperlo?» disse lui.
«Nessuna» disse lei.
«Può darsi» disse Jim.
«Lo sai» insistette sua moglie «che secondo Freud ciò
che un uomo crede a proposito di Dio rappresenta
esattamente il suo atteggiamento nei confronti del padre? E
che un uomo che non ha la capacità di trovare in sé stesso
il giusto rispetto verso il Padre celeste, ed è proprio la
parola giusta, non ha un padre sulla terra sul quale poter
contare? Voglio sapere che ne pensi. Che cos’è che forma il
È
carattere in questo nostro vecchio mondo? La famiglia. È
nella famiglia che cresce il bambino sorridente. Chi è che lo
tiene d’occhio da sopra il bordo della culla?»
«La madre» disse Fergesson.
«La madre,» disse Lydia «lui la conosce attraverso la
mammella, la fonte dell’eterna abbondanza.»
«D’accordo» disse lui «ma la vede anche.»
«La vede come un nettare» disse Lydia. «Come il cibo
degli dèi. Invece dal padre non riceve niente. Fra lui e il
padre c’è una separazione. Laddove con la madre c’è unità.
Capisci?»
«No» disse lui.
«Il padre» disse lei «è l’intera società e il suo rapporto
con essa. Quando ce l’ha non la perderà più. Ma se non ce
l’ha non riuscirà mai a ottenerla.»
«Ottenere cosa?» chiese Jim.
«La fiducia e la speranza» rispose Lydia.
«Ci rinuncio» disse lui. «Forse è meglio se ti metti a
studiare l’inglese, oltre a Platone.»
«Io so» disse Lydia «che se avessi avuto accanto a te un
uomo più felice adesso non guarderesti avanti con l’aria
così sperduta. Un altro uomo che va in pensione dopo avere
accumulato tutti quei soldi, al posto tuo… cosa proverebbe?
Lascia che te lo dica io, caro mio. Gioia.»
«Gioia» ripeté lui, con amarezza e una punta di
divertimento.
«La gioia del domani» disse sua moglie.
«Sto male» disse lui. «Sono stanco e sto male
fisicamente. Chiedilo al dottore, chiedilo al dottor Frat.
Chiamalo. Voglio dire, fatti spiegare come stanno le cose
invece di stordirmi con la tua filosofia. A spese mie! Che
dovrei fare, mettermi a seguire qualche corso universitario
insieme a te? Leggere tutti quei libri? Che ne sai tu? Vorrei
tanto vederti armeggiare con qualche semplice riparazione,
come cambiare un filo della luce. Riparalo tu e poi vieni a
raccontarmelo.»
«Assomigli tanto a quell’uomo» disse lei.
Lui grugnì e cominciò a massaggiarsi la fronte.
«Lui è quella parte di te» disse lei. «Ma tu sei di più. Lui
è solo quello, uno sconfitto e basta. Perché gli manca quella
fede.»
Alla fine Jim riprese a consumare la sua cena, a
sorseggiare la sua minestra e a raccogliere col cucchiaio il
pollo stufato con le sue ossa ben cotte, morbide ed esangui.

Dopo cena Jim Fergesson fece qualcosa che gli era


diventato naturale da qualche anno. Accese il televisore e ci
sistemò davanti la sua poltrona imbottita con i braccioli.
Non di nuovo, avrebbe detto sua moglie se fosse stata a
casa. Ma quella sera Lydia aveva un seminario; erano
venuti a prenderla in macchina… Un colpo di clacson e lei
era uscita con i suoi libri, il soprabito e le scarpe con i
tacchi bassi. E dunque non era lì a dirlo.
Però lo diceva la mente di Jim per lei.
Sullo schermo Groucho Marx insultava un tizio in tuta
che era spuntato fuori sghignazzando. L’uomo continuava a
ridere, a dispetto di quello che diceva Groucho. Era
divertentissimo. Ma mentre lo guardava Jim Fergesson si
ritrovò ad agitarsi irrequieto. Alla fine spense il televisore.
Tutto qui quello che trasmettono?, si disse. Tornò a
riaccenderlo subito dopo, provando gli altri canali. Qualche
film western, una tavola rotonda… Lo spense di nuovo. Che
branco di idioti, pensò. Specialmente quei tipi effeminati,
quei giovanotti dai grandi sorrisi che adulano le donne,
regalano piatti e badano sulla guancia le vecchie signore.
Quelli che fanno domande assurde ai quiz. Meno male che i
più disonesti li hanno tolti di mezzo, pensò. Almeno quelli
non ci sono più. Soprattutto quello, quell’intellettuale. Che
razza di impostore. A Lydia piaceva molto, quel Van Doren.
Prendeva tutti per il sedere, pensò il vecchio. Ma a me non
mi ha mai fregato con i suoi modi. Con quelle schifezze ben
confezionate. Con quell’eleganza di facciata.
Prese il soprabito dall’armadio. Fece una cosa che,
anche se non spesso, in passato gli capitava di fare ogni
tanto. Dopo aver sceso le scale ed essere uscito in strada
chiuse a chiave la porta di casa (peggio per lei, se non
aveva con sé le chiavi) e salì sulla macchina parcheggiata.
Un momento dopo guidava lungo la strada buia, diretto
verso San Pablo Avenue, verso la sua autofficina.
Ecco che dovrebbero fare all’università, pensò mentre
guidava. Darti gli strumenti per capire quando ti trovi di
fronte un brav’uomo. E invece prendete Lydia, infatuata di
quel Van Doren. E prendete Alger Hiss, guardate come tutti
pendevano dalle sue labbra perché aveva quell’aria
raffinata, quella faccia magra, la dignità e il portamento e
le buone maniere, anche se era una spia comunista… anche
Stevenson aveva abboccato. Potevamo ritrovarci ad avere
un presidente che avrebbe consegnato il Paese a quei
finocchi di Harvard del dipartimento di Stato con i loro
calzoni a strisce. L’unico che ci aveva visto lungo era stato il
vecchio Joe, e gli avevano dato addosso, si erano alleati
contro di lui perché era troppo schietto. Perché diceva pane
al pane e vino al vino.
Joe McCarthy aveva capito bene le menzogne e gli
imbrogli che stanno alla base di questa società, pensò Jim.
E adesso è morto per quello.
Quando gli apparve davanti San Pablo Avenue con le sue
luci, Jim Fergesson accostò al marciapiede e rallentò, ma
non si fermò davanti all’autofficina. Si fermò invece un
isolato più avanti, davanti all’insegna rossa al neon del
Ring-a-Ding Club, un bar che frequentava quando gli veniva
voglia.
C’erano diverse persone all’interno; quando aprì la
porta il rumore si rovesciò fuori avvolgendolo,
procurandogli piacere. E anche gli odori della gente, quei
piacevoli odori caldi: cameratismo, risate, il baccano della
vita, con il suo caratteristico movimento e colore. Si trovò
un posto in cui accomodarsi davanti al bar e ordinò una
Burgie.
C’erano anche alcune donne nel bar. Però quasi tutte
piuttosto avanti con gli anni. Un’occhiata gli confermò che
si trattava di vecchie battone. Distolse lo sguardo.
Accanto all’ingresso un negro alto, sui trentacinque, con
un soprabito lungo e un golf marrone chiaro stava
gonfiando un palloncino. A terra accanto a lui uno spaniel
paffuto bianco e nero ansimava con la lingua penzoloni.
Tutti sembravano tenere d’occhio il cane. Il negro continuò
a gonfiare e il palloncino s’ingrandì; i presenti gridavano
cose diverse, perlopiù suggerimenti.
Che roba è?, si domandò Fergesson. Si girò a guardare
anche lui.
Il cane, sempre ansimando, si era drizzato sulle zampe
posteriori. Aveva gli occhi fissi sul palloncino, che adesso
era diventato grosso come un cocomero. Era rosso. L’uomo,
ridendo, se lo tolse dalla bocca e si pulì le labbra con il
dorso della mano. Rideva troppo per continuare a gonfiarlo.
«Dammelo» disse uno dei presenti allungando la mano.
«Dallo a me, amico.»
«No, lascia che lo gonfi io. Gli piace di più se lo gonfio
io.» Riprese a soffiare; il palloncino divenne più grosso e il
cane lo seguì con lo sguardo. All’improvviso l’uomo alzò le
spalle e lasciò andare il palloncino, che schizzò via
sibilando. Alcune mani fecero per prenderlo mentre
rimbalzava sul pavimento. Il cane guai e si lanciò verso il
palloncino, poi si ritrasse. Il suo corpo rotondo fremeva.
Appoggiato alla parete l’uomo rideva silenziosamente,
mentre i suoi amici si affannavano fra i tavoli e le sedie per
afferrare il palloncino ormai sgonfio.
«Ne ho degli altri» disse l’uomo infilando la mano nella
tasca del cappotto. Ne uscirono altri palloncini, come dita
di guanti. «Amico,» disse ancora affannato «ne ho quanti ne
vuoi. Lascialo perdere, quello, è sporco.»
Questa volta gonfiò un palloncino giallo. Il cane
deglutiva, con la lingua che andava su e giù. Strano, pensò
Fergesson. Come mai il cane è così interessato? Ripensò al
suo cane, morto schiacciato sotto le ruote della macchina di
un cliente. Dormiva in officina, sotto le vetture alle quali
lavorava Fergesson. Ormai erano passati diversi anni.
Il palloncino giallo si era gonfiato e il negro fece un
nodo all’imboccatura. Beane, ritto sulle zampe, uggiolava di
desiderio alzando e abbassando la testa.
«Lancialo» disse una donna. «Non farlo aspettare.»
«Dai» disse un uomo a un tavolo.
«Sì, molla quel palloncino.»
Il negro sollevò in alto il palloncino e lo lasciò cadere. Il
cane lo colpì con il naso e lo rimandò su. Il palloncino risalì
e veleggiò verso un tavolo. Il cane lo seguì e tornò a
colpirlo. Il palloncino tornò su e ricadde, sempre incalzato
dal cane. I presenti fecero spazio. Il cane zampettò
disegnando un cerchio con il corpo grassoccio che girava
su sé stesso e la bocca spalancata. Vedeva solo il palloncino
e quando andò a sbattere contro un uomo quello si spostò e
il cane proseguì la sua corsa.
Fergesson disse all’uomo che gli stava accanto: «Ehi,
dovrebbero rinchiuderlo, quel cane.» Cominciò a ridere.
Rise finché non sentì le lacrime che gli sgorgavano dagli
occhi; si appoggiò al bancone e rise ancora,
rumorosamente. Il cane incespicò nelle sedie e nei piedi dei
presentì, saltò verso il palloncino, lo colpì più volte mentre
era in aria e poi, alla fine, lo morse e lo fece scoppiare.
«Wof!» fece affannosamente il cane, e si bloccò con
un’espressione perplessa negli occhi, poi si accucciò
rantolando in modo violento e rumoroso. Sembrava
intontito. Un giovane di colore con una camicia rossa
raccolse i frammenti del palloncino, li esaminò e poi se li
infilò nella tasca della giacca sportiva.
«Gesù» esclamò Fergesson mentre si asciugava gli
occhi. Il cane si era accasciato per riposare e l’uomo stava
gonfiando un altro palloncino. Questo era blu. «Ci risiamo»
disse al suo vicino, che osservava anche lui sorridendo.
«Che ha intenzione di fare, andare avanti tutta la notte? Ma
non si stanca mai?»
«Basta così» disse il negro, lasciando uscire l’aria dal
palloncino.
«No, continua» disse una donna.
«Un altro ancora» disse un uomo accanto al bar.
«È troppo stanco» disse il proprietario del cane,
infilandosi in tasca il palloncino. «Magari più tardi.»
Fergesson si rivolse all’uomo che stava accanto a lui e
gli disse: «Non ha senso. Che ne ricava il cane?»
L’uomo scrollò la testa, facendo una smorfia.
«È contronatura» disse Fergesson. «È una perversione.
Probabilmente non fa che pensare ai palloncini, notte e
giorno. Solo ai palloncini.»
«Peggio di certa gente» disse l’uomo accanto a lui.
«Gli animali non hanno buonsenso» disse Fergesson.
«Non sanno mai quando fermarsi. Si fissano su un’idea, e
non pensano ad altro. E non la mollano mai.»
«Istinto» disse l’uomo accanto a lui.
Il proprietario del cane, il negro alto, si spostò di tavolo
in tavolo con una scatola di sigari aperta. Si chinò, parlò
con i presenti e alcuni ci lasciarono cadere dentro qualche
moneta. Poi raggiunse il bar.
«Per il cane» disse. «Vuole andare a scuola e imparare
un mestiere.»
Fergesson mise nella scatola una moneta da dieci cent.
«Come si chiama?» chiese. Ma il negro era già passato
oltre.
«Quel tizio di colore» disse l’uomo accanto a Fergesson
«probabilmente lo ha addestrato per farlo esibire in tv. Se
ne vedono tanti che fanno spettacoli del genere.»
«Una volta» disse Fergesson. «Oggi molto meno. Oggi
trasmettono film western, più che altro per i ragazzi. Io di
certo non li guardo.»
«Crede che se lo vedesse in tv, un cane che insegue un
palloncino, si metterebbe a ridere?»
«Certo che mi metterei a ridere» rispose Fergesson.
«Non ha visto quanto ho riso poco fa? Stavo ridendo fino a
farmela sotto. È esattamente quello che voglio vedere in tv,
uno spettacolo come si deve.»
«Io non credo che visto in tv sarebbe divertente» disse
l’altro. «Sul piccolo schermo.»
«Il mio televisore ha uno schermo da ventisei pollici»
disse Fergesson. Poi decise di ignorare il suo vicino;
sorseggiò la sua birra e si mise a guardare da un’altra
parte.
E vide Al Miller in un séparé, insieme a sua moglie Julie.
E con loro c’era il negro con il soprabito lungo, il
proprietario del cane; stavano parlando e tutti e tre
sembravano divertirsi un mondo, ed essere grandi amici.
In effetti, dal modo in cui gesticolava Al, Jim Fergesson
si rese conto che era proprio sbronzo.
Era la prima volta che vedeva Al ubriaco sul serio. Lo
aveva visto ogni tanto concedersi qualche bicchiere, come
quando era venuto a cena a casa sua: aveva qualche
problema di coordinazione, ma non come adesso. Adesso
era proprio partito, e il vecchio si mise a ridacchiare. Voltò
la testa in quella direzione per poter vedere bene. E così
anche il malinconico Al, che camminava sempre tutto
ingobbito senza mai scherzare o ridere, se non qualche
volta con sarcasmo… anche a lui capitava di tanto in tanto
di lasciarsi andare. Allora, pensò il vecchio, anche lui era
umano, in fondo. Magari potrei andare lì e unirmi a loro,
pensò. Sarà una buona idea?
Osservando meglio si accorse che Al stava cercando di
comprare il cane dall’uomo di colore. Gli stava offrendo un
assegno che aveva davanti a sé e che stava compilando con
la stilografica. Julie cercava di togliergli l’assegno da sotto
le mani, scuotendo la testa, aggrottando la fronte e
affannandosi a parlare con i due uomini. Teneva una mano
sulla spalla di Al e l’altra sulla spalla del negro.
A Fergesson sembrò buffo, così buffo che ricominciò a
ridere con le lacrime agli occhi. Appoggiò il bicchiere e
scese dallo sgabello. Si mise le mani a coppa attorno alla
bocca e gridò, cercando di superare il rumore del bar: «Ehi,
Al, quello è proprio un lavoro per te.»
Non sembrò che Al lo avesse sentito. I tre continuarono
a discutere, con i due uomini molto presi dalla trattativa.
Allora Fergesson strillò di nuovo.
Questa volta Al sollevò lo sguardo. Non portava gli
occhiali e i capelli gli ricadevano sulla fronte. Senza
occhiali aveva uno sguardo assente, sfocato. Guardò, mezzo
cieco, poi tornò alla sua trattativa. Strappò l’assegno con
un grande sforzo delle dita, sparpagliò i pezzi, prese il
portafoglio e cominciò a compilarne un altro.
Il vecchio fece una risatina, tornò a voltarsi verso il bar
e riprese la birra. Che affare per Al, pensò. L’affare perfetto.
Un cane che colpiva palloncini colorati nei bar, e poi Al
poteva passare con il cappello a raccogliere le offerte. Così
il cane potrà andare all’università al posto di Al, pensò
Fergesson.
«Ehi!» gridò, girandosi di nuovo. Ma la sua voce si perse
nel frastuono. «Può andare all’università al posto tuo e
prendersi quella laurea.»
Questa volta Al lo sentì: vide il vecchio e lo salutò con
un cenno della mano.
Fergesson si allontanò dal suo sgabello e si fece strada
cautamente in mezzo alla calca fino al séparé. Era davvero
difficile sentire: anche quando giunse al séparé faticava a
capire le parole di Al. Si chinò e appoggiò la mano sul
bordo, con la testa vicina a quella di Al.
«Non ho sentito quello che hai detto» gridò Al.
«Manda il cane all’università» disse il vecchio,
ridacchiando di quello che aveva detto, di quello che gli era
passato per la testa. «Al posto tuo.» Strizzò l’occhio a Julie,
ma lei lo ignorò.
Al disse: «Cavolo, lo sto comprando per ucciderlo. Odio
quel maledetto cane. È un abominio.»
«Oh» fece il vecchio, sempre ridendo. Rimase lì per un
po’ di tempo, ma nessuno gli prestò attenzione. Erano
troppo impegnati a trattare.
«Lui è Tootie Dolittle» disse Al presentando il negro, che
alzò gli occhi e fece un cenno educato con la testa. «Un mio
conoscente.»
Il vecchio farfugliò qualcosa, ma non si azzardò a
stringergli la mano.
«Credo che me ne andrò» disse poi. Non gli avevano
chiesto di accomodarsi. Adesso non aveva più voglia di
ridere. Non gli sembrava più così buffo e si sentiva stanco.
Devo ancora passare all’autofficina a lavorare, si ricordò.
Non posso trattenermi qui, e chi se ne frega se non mi
hanno invitato a stare con loro. «Ci vediamo» disse.
Al annuì mentre il vecchio si allontanava.
Tanto non mi sarei seduto comunque, pensò mentre
sospingeva la porta del bar e usciva al freddo sul
marciapiede. L’aria fresca gli soffiava intorno mentre si
dirigeva verso la macchina parcheggiata. Fece diversi
respiri profondi che gli schiarirono subito le idee. Al
diavolo, pensò. Da quando in qua mi metto a sedere
insieme ai negri?
Avviò il motore e guidò per tutto l’isolato fino
all’officina.
Poco dopo era sotto una Studebaker, solo nel grande
palazzo quasi buio con la radio che suonava dallo scaffale.
Mentre allentava i bulloni che fissavano il basamento sotto
il motore pensò: Perché me ne sto qui a fare questo?
Sdraiato sulla schiena, sotto una macchina… solo
nell’officina, senza che nessuno sappia che mi trovo qui.
Che senso ha?
Però continuò, svitando i bulloni. Faticando. Perché quel
tizio possa riaverla domani?, si domandò. Senso del dovere
verso un vecchio cliente? Magari è così. Non lo sapeva.
Tutto quello che sapeva era che non aveva nessun altro
posto in cui andare, nessun posto in cui stare. Ma non c’era
nessun problema, perché era arrivato lì senza nemmeno
pensarci, perché lo aveva fatto altre volte. Quando alla
televisione non c’era niente da vedere, o Lydia era fuori e
lui non aveva nessuno con cui parlare, o al Ring-a-Ding
Club non c’era niente da fare.
Lavorerò per un’oretta, decise. Poi chiamerò casa e
vedrò se Lydia è tornata. Non mi tratterrò a lungo.
4

Ad Al Miller sembrava chiaro che ben presto avrebbe


dovuto rinunciare al suo lotto di terra. Gliel’avrebbero
portato via in vista di chissà quale grandioso progetto. Il
nuovo proprietario avrebbe raso al suolo l’autofficina e ci
avrebbe costruito un supermercato, un negozio di mobili o
un complesso di appartamenti. Era così che andavano le
cose da parecchi anni a Oakland e a Berkeley. Gli edifici
antichi venivano abbattuti, anche le vecchie chiese. E se si
potevano buttar via le vecchie chiese, allora la stessa cosa
si poteva fare anche con l’autofficina di Fergesson. E con
l’autosalone di Al.
Il pomeriggio successivo, con il morale a terra, percorse
San Pablo Avenue fino a un’agenzia immobiliare in cui
lavorava una donna con la quale aveva già trattato in
passato. Non era un caso che Mrs Lane fosse una donna di
colore: l’aveva conosciuta attraverso i Dolittle. Molte delle
proprietà che gestiva le aveva avute proprio da Mrs
Dolittle. Era spedalizzata in compravendite e affitti di
immobili situati nella zona senza restrizioni di accesso – ma
Al la vedeva come la zona fatiscente – di Oakland. Sapeva
di non poter sperare nulla di più. Che altro era una
rivendita di auto usate, se non l’incarnazione della Oakland
più degradata?
Con questi pensieri in testa entrò nell’agenzia Lane e si
avvicinò al bancone di quercia verniciata. Sulla destra,
sopra un tavolo, c’era un ficus dentro un vaso con una
fascia color zafferano legata intorno. Accanto alla pianta
c’era una pila di copie del Saturday Evening Post e un
posacenere.
Tutto quello che l’agenzia Lane aveva in fatto di arredi
era una scrivania e una macchina da scrivere e, sulla
parete, una cartina della zona orientale della Baia. Mrs
Lane sedeva alla scrivania, battendo a macchina, ma
quando lo notò si alzò e andò verso il bancone sorridendo.
«Buongiorno, Mr Miller» disse.
«Buongiorno» disse lui.
«Cosa posso fare per lei?» Mrs Lane aveva una voce
bassa e morbida. Indossava un abito scuro e aveva al dito
un grosso anello d’oro, molto bello. Era ben pettinata, ed
era truccata in modo piuttosto pesante: come sempre aveva
un aspetto imponente. Doveva avere fra i quarantacinque e
i cinquantanni, giudicò Al. Poteva essere una brava
direttrice o la responsabile di un qualsiasi circolo, a parte
naturalmente il fatto che aveva la pelle nera. E a parte
anche il fatto che quando sorrideva metteva in evidenza
due grossi incisivi d’oro, gioielleria anche quella, come il
suo anello: quello a sinistra aveva un’incisione a forma di
un seme di quadri, e quello a destra di fiori.
«Sto cercando un nuovo terreno» disse Al.
«Capisco» disse Mrs Lane. «Sulla San Pablo? Ne ho uno
su Telegraph Avenue.» Lo guardò con aria indagatrice, per
capire se era ciò che voleva.
«Non m’importa dov’è» disse Al. «Basta che sia una
bella zona.» Non gli venne in mente un modo per arricchire
quella frase; si sforzò, senza trovare qualcosa di meglio. La
donna gli sorrise amabilmente: voleva aiutarlo, senza
dubbio. Era il suo lavoro. E metteva il cuore nel suo lavoro.
Al lo sentiva.
«Immagino che non abbia intenzione di spingersi troppo
oltre» gli disse Mrs Lane. «Con il prezzo dell’affitto.»
«No» ammise lui.
«Potrei accompagnarla in quel posto sulla Telegraph»
disse Mrs Lane. «Magari gli può dare un’occhiata.»
«Non mi serve subito» disse Al. «Ho circa un paio di
mesi. Non c’è fretta. Voglio essere sicuro di trovare
qualcosa di buono.»
«Certo, è quella la cosa importante» disse Mrs Lane.
«La vendita di auto usate non rende molto bene» disse
lui.
«Dev’essere come il settore immobiliare» ribatte Mrs
Lane con un sorriso.
Può essere, pensò Al. Siamo sulla stessa barca. O forse
ti sto facendo un’ingiustizia mettendoti in mezzo.
Trascinandoti in un’impresa disperata. Una donna raffinata
come te. Che saresti diventata se fossi nata bianca?
Referente locale del Partito repubblicano? Moglie di
qualche industriale? E che sarei diventato io se fossi nato
nero? Un buono a nulla e basta. L’ennesimo buono a nulla.
«Mr Miller,» disse Mrs Lane con la sua voce profonda e
suadente «lei oggi ha proprio un’aria triste.»
«Lo sono» disse lui, convenendo.
«Non sia così avvilito» disse lei. «Guardi il lato
positivo.» Tornò alla scrivania e prese dal cassetto una
serie di chiavi di automobili. «Vuole che l’accompagni in
quel posto di cui le ho parlato? Sarei felice di farglielo
vedere.»
«Magari più avanti» disse lui.
«Perché non adesso?»
«Non lo so» disse lui sentendosi balbettare. «Devo
tornare all’autosalone.»
«Potrebbe perdere quest’occasione» disse lei.
«Può darsi» disse lui, stanco, come se qualcosa gli
gravasse addosso.
«Mi ascolti, Mr Miller» disse la donna a voce bassa,
appoggiando le grosse braccia scure sul bancone. «Lei deve
muoversi, altrimenti si lascerà sfuggire un’opportunità. È
una cosa che ho imparato nei tanti anni in cui ho lavorato
in campo immobiliare: se vuole ottenere qualcosa, deve
sfruttare la situazione e muoversi. Lo sa?» Attese, ma lui
non disse nulla: si limitò a tenere gli occhi a terra,
sentendosi la mente troppo vuota per formulare una
risposta. «O si muove lei o sarà il mondo a muoversi contro
di lei. Insomma, vinceranno gli altri. Non c’è niente di male
a darsi da fare.» La sua voce era paziente, gentile, piena di
calore, sembrava quasi il dolce rimbrotto di una mamma.
«Non farà del male a nessuno. Credo sia questo a
preoccuparla: lei ha paura di fare un torto a qualcuno.
Perché si trova in una situazione in cui tutti le dicono così.»
Lui annuì.
Mrs Lane proseguì: «Ci siamo già parlati altre volte e
me ne sono accorta, l’ho detto anche a Mr Jones, che mi dà
una mano qui: lei è una brava persona che lavora con Mr…
com’è che si chiama? Mr Fergesson. E anche lui è
onestissimo. Gli porto la mia macchina…» Non finì la frase.
«Ecco, ce l’ho, un meccanico.»
Un meccanico negro, si disse Al. Non avrebbe mai osato
portarla a Jim Fergesson, per quanto fosse onesto. Perché
lui probabilmente non gliel’avrebbe aggiustata, la
macchina. Forse sì forse no. Però lei non può correre il
rischio. Non ne vale la pena.
«Posso farle vedere quel posto?» disse Mrs Lane
facendo dondolare le chiavi della macchina.
«No» rispose lui. «Un’altra volta, grazie.»
Mentre lasciava l’agenzia notò che lei lo stava seguendo
con lo sguardo, e continuò a farlo finché lui non svoltò oltre
l’angolo di un palazzo. Non poteva più vederlo e lui non
poteva più vedere lei.
Tornò indietro, si fermò sulla soglia e le disse: «Magari
fra un paio di giorni. Quando avrò le idee più chiare.»
Mrs Lane gli sorrise. Con compassione, gli sembrò.
Compassione e comprensione. Allora se ne tornò verso la
macchina.
Vuole solo vendermi qualcosa, si disse. Ma sapeva che
c’era di più, non era solo quello. Ma cosa? Amore, pensò.
Amore per lui. Grossa, di mezza età, di aspetto piacevole,
con la pelle non troppo scura. Una donna d’affari negra,
pensò. Vuole farmi da mamma, se possibile. Si sentiva
depresso ma, allo stesso tempo, aveva come la sensazione
che il suo fardello si fosse in parte alleggerito. Non si
sentiva male come prima. Quella è una donna in gamba,
una venditrice che sa il fatto suo. Conosce i suoi polli,
pensò. È una vera professionista. Tornerò, e lei lo sa.
È stato quel vecchio stronzo con la mentalità da
contadino e con il cervello di gallina a cacciarmi in questa
situazione, si disse. E adesso devo fare affidamento su
questo, su una donna a cui faccio pena. Quando non ho
nient’altro a cui aggrapparmi, non ho mezzi di
sopravvivenza, non me la so cavare da solo. Devo affidarmi
al cuore tenero di una donna che fa l’agente immobiliare.
Quello che dovrei fare, pensò, è mandare all’aria la sua
vendita, sputtanarla per sempre; dovrei aprire un bordello
su quel lotto di terra e fare in modo che il vecchio si ritrovi
fra le mani una proprietà invendibile. Dovrei trasformarlo
in… in cosa, che già non assomigli a un posto in cui si
vendono auto usate?
Chi è che mi guarda dall’alto in basso? Tutti? Ogni
persona?
Non aveva voglia di tornare all’autosalone. Mise in moto
la macchina, senza dirigersi verso una meta precisa; si
limitò a muoversi nel traffico del centro di Oakland,
godendosi la sensazione della guida. La sua era una
vecchia, solida Chrysler con i sedili in pelle. Non si riusciva
a inserire la retromarcia però, e infatti l’aveva pagata
settantacinque dollari, ma era una buona macchina. Buona
almeno per qualsiasi persona ragionevole. Una macchina
perfetta per l’autostrada.
Mentre guidava immaginò di venderla e si costruì nella
testa un bel discorso per magnificarne le qualità. Vi indugiò
a lungo, per tenersi occupato.

Quando tornò al negozio vide che la grossa serranda


bianca dell’autofficina era abbassata. Il vecchio aveva
chiuso, ma non solo per il pranzo, visto che la Pontiac non
c’era. L’antiquata insegna di cartapesta sulla porta
mostrava l’immagine di un orologio con le lancette
orientate in modo che tutti leggessero:

TORNO ALLE 14:30

Mentre sistemava la sua in mezzo a quelle che aveva in


vendita vide che una seconda macchina, una Cadillac quasi
nuova, lo aveva seguito e stava parcheggiando dietro di lui,
accanto alla Chevrolet. Scese, e lo stesso fece l’autista della
Cadillac.
«Salve» disse l’uomo a voce alta.
Al richiuse lo sportello della macchina e si diresse verso
di lui. L’uomo, che doveva appena aver passato la
cinquantina, indossava un abito scuro di ottimo taglio, una
cravatta – di quelle strette allora di moda – e delle scarpe a
punta di fattura italiana che Al aveva visto nelle pubblicità
e nelle vetrine del centro. L’uomo gli sorrise. Aveva modi
piuttosto amichevoli; i capelli erano ricci e grigi, un po’
lunghi, ma tagliati alla perfezione. Al provò un senso di
timore reverenziale.
«Salve» gli disse. «Come va oggi?» Era il suo saluto
standard.
Nel suo vecchio autosalone non c’era proprio niente che
potesse interessare quell’uomo ben vestito e ovviamente
benestante, che guidava una Cadillac dell’anno prima. Per
un attimo Al si sentì a disagio: magari era un agente delle
tasse mandato dallo Stato, o magari dal governo federale…
Gli si affollarono diverse idee nella testa mentre se ne stava
davanti a lui con un sorriso di benvenuto dipinto sulla
faccia.
Poi lo riconobbe. Era un vecchio cliente di Fergesson.
Con ogni probabilità aveva portato la macchina
all’autofficina per qualche piccola riparazione e aveva
trovato chiuso.
«Sto cercando Jim» disse l’altro con una voce piena, di
grande effetto. «Però vedo che la serranda è chiusa.»
Sollevò il braccio e guardò l’orologio che spuntava da sotto
il polsino con il gemello d’argento. Al guardò il gemello e
l’orologio e si sentì dentro una grande amarezza e un
grande imbarazzo. Era qualcosa che aveva sempre
desiderato: un bell’orologio, del tipo che aveva visto sul
New Yorker.
«Probabilmente è andato a procurarsi qualche pezzo»
disse Al. «O forse qualcuno ha avuto un guasto per strada.
Chiamano lui, invece dell’Automobile Club.»
«Capisco perché» disse l’uomo.
Se avessi anche solo tre macchine buone, pensò Al,
potrei attrarre clienti come lui. Se avessi qualcosa di
decente da fargli vedere… Si sentiva avvilito e si mise le
mani in tasca, ondeggiando avanti e indietro sui calcagni
con gli occhi bassi. Non gli veniva in mente nulla da dire.
«Sono quattro anni e mezzo che vengo da lui» disse
l’uomo. «Per ogni piccola cosa, anche per farmi cambiare
l’olio.»
«Ha venduto l’autofficina» disse Al.
L’uomo sgranò tanto d’occhi. «No» disse, sgomento.
«Proprio così» disse Al. Il suo avvilimento aumentò;
trovava quasi impossibile parlare, così continuò a
dondolare avanti e indietro.
«Troppo anziano?» chiese l’uomo.
«Il cuore, o qualcosa del genere» mormorò Al.
«Be’, mi dispiace davvero» disse l’uomo. «Mi dispiace
tanto. È la fine di un’era. La fine dell’artigiano di una
volta.»
Al annuì.
«Non lo vedo da circa un mese» disse l’uomo. «Quando
lo ha deciso? Dev’essere successo da poco.»
«Sì» disse Al.
L’uomo gli tese la mano. Al la vide, sussultò, allungò la
sua e gliela strinse. «Mi chiamo Harman» disse l’uomo.
«Chris Harman. Lavoro nell’industria discografica. Sono il
proprietario della Teach Records.»
«Capisco» disse Al.
«Lei non pensa che tornerà» disse Harman, tornando a
guardare l’orologio. «Be’, non posso aspettare. Gli faccia
sapere che sono passato. Lo chiamerò al telefono e gli dirò
quanto sono dispiaciuto. Arrivederci.» Fece un cenno con la
testa, salutò amichevolmente Al con la mano, risalì sulla
sua Cadillac, richiuse lo sportello, inserì la retromarcia e
dopo un attimo lasciò l’autosalone immettendosi nel traffico
della San Pablo. Poco dopo la macchina scomparve alla sua
vista.
Mezz’ora più tardi apparve la Pontiac del vecchio.
Mentre Fergesson parcheggiava, Al gli andò incontro.
«È passato uno dei tuoi vecchi clienti» disse. «Gli è
dispiaciuto quando ha saputo che hai venduto
l’autofficina.»
«Chi?» chiese Fergesson mentre girava la chiave nella
serranda e la sollevava con entrambe le mani. Entrò con
un’espressione preoccupata. «Maledizione» disse. «Sono
dovuto uscire e sono rimasto indietro con quel lavoro.»
«Harman» disse Al, seguendolo dentro.
Il vecchio disse: «Sì, Cadillac del ’58. Ben vestito, capelli
grigi. Sulla cinquantina.»
«Ha una fabbrica di dischi o roba del genere.»
Il vecchio accese una lampada d’emergenza e trascinò il
lungo cavo di gomma sul pavimento unto di grasso verso
una Studebaker sollevata dall’argano idraulico. «Conosci
quel palazzo di mattoni sulla Ventitreesima, appena fuori la
Broadway? Dove ci sono quelle nuove concessionarie
automobilistiche? Vicino a dove si gira per andare verso il
lago? Insomma, lui lavora lì. L’intero palazzo è suo, ed è lì
che ha la sua ditta. Produce dischi. È lì che li stampa.»
«Così ha detto» disse Al. Attese per un po’, seguendo
con lo sguardo il vecchio che si sdraiava sulla schiena
stendendosi sul carrello con le ruote orientabili. Fergesson
rotolò abilmente sotto la Studebaker e riprese a lavorare.
«Senti» disse poi da sotto la macchina.
Al si chinò.
«Fa dei dischi osceni» disse il vecchio.
A quelle parole Al si sentì drizzare i capelli in testa.
«Quel tipo così elegante? Con quella macchina?» Non
riusciva quasi a crederci; nella testa si era fatto un’idea
completamente diversa. Un uomo che produceva dischi
osceni… doveva essere basso, sporco, vestito male, magari
con gli occhiali verdi, un’espressione furtiva, denti guasti,
voce roca, e con uno stuzzicadenti in bocca. «Non mi stai
prendendo in giro» disse.
«È solo una delle cose che fa» disse il vecchio. «Ma
rimanga fra noi: non è una cosa che si deve sapere.»
«D’accordo» disse Al, interessato.
«Sopra non c’è il suo nome, Teach Records. È una di
quelle etichette inventate, quelle fatte per le occasioni
private. In pratica è come se non ci fosse.»
«Come lo sai?»
«È capitato qui un anno fa. Sono diversi anni che viene
da me a farsi sistemare la macchina. Ha portato una scatola
di dischi osceni e voleva che glieli vendessi.»
Al rise. «Stai scherzando.»
«Io…» Il vecchio rotolò fuori per un attimo e, sempre
sdraiato sulla schiena, fissò Al. «Mi sono tenuto la scatola
per un po’, ma non ne ho venduto nessuno. C’erano anche
dei pieghevoli.» Si rimise faticosamente in piedi.
«Dovrebbero esserne rimasti un paio. Erano dei pieghevoli
con delle frasi sconce che reclamizzavano i dischi.»
«Mi piacerebbe vederli» disse Al. Seguì il vecchio
nell’ufficio, dove rimase in piedi mentre Fergesson
rovistava nei cassetti strapieni. Alla fine, dentro una busta,
trovò quello che cercava.
«Ecco.» Passò la busta ad Al.
Al l’aprì e trovò alcuni pieghevoli stampati
grossolanamente, del formato da poter mettere in una pila
su un bancone. Sul davanti c’era il disegno di una ragazza
nuda, e le parole ELENCO DELLA PRODUZIONE ESTIVA DELLA SPREE
RECORDS (PER SOLI UOMINI), e all’interno una serie di titoli.
Che però non avevano nulla di sconcio.
«Canzoni?» chiese. «Come Ruth Wallace?»
«Perlopiù monologhi» disse il vecchio. «Ne ho ascoltato
uno. Parlava di Eva che attraversa il ghiaccio. Sai, La
capanna dello zio Tom.»
«Era sconcio?»
«Molto sconcio» rispose il vecchio. «In ogni parola che
ho sentito. C’era un tizio che leggeva. Secondo Harman era
un uomo di spettacolo che scrive molto… anzi, che scriveva
molto; mi ha detto che era morto. Credo che lavorasse per i
giornali più importanti. Era uno abbastanza conosciuto.
Forse ne hai sentito parlare. Bob qualcosa.»
«Non te lo ricordi?»
«No» disse Fergesson.
«Che mi prenda un colpo» disse Al. «Non ho mai
conosciuto uno che fa dischi osceni. È illegale, no? Dischi
del genere…»
«Certo» disse il vecchio. «Ma fa anche un mucchio di
altre cose. Però io ho visto solo quello, nient’altro. Credo
che produca anche dischi di jazz e di musica classica. Roba
da intenditori. Ha diverse linee.»
Al tornò a guardare il pieghevole e vide che non c’era
nessun indirizzo, né il nome di chi l’aveva realizzato. «Lo
avrei detto un banchiere» disse. «O un avvocato o un uomo
d’affari.»
«È un uomo d’affari.»
Già, lo era. Al annuì.
«Fa un sacco di soldi» disse il vecchio. «Hai visto che
macchina ha.»
«Tanti hanno una Cadillac» disse Al. «Anche se non
hanno il becco di un quattrino.»
«Dovresti vedere casa sua. Io l’ho vista. Un giorno ce
l’ho accompagnato. Abita a Piedmont. Praticamente è una
villa, con alberi e siepi tutt’intorno. Un cancello di ferro
battuto. Sui lati della casa cresce l’edera. E poi ha una
moglie proprio di classe, e almeno un’altra macchina. Una
Mercedes-Benz sportiva.»
«Magari non l’ha nemmeno pagata» disse Al. «Forse si è
anche ipotecato la casa. Però devo ammettere che veste
bene.»
«Eppure è venuto qui» disse il vecchio. «E andava su e
giù, parlava con me e non aveva la puzza sotto il naso: non
si comportava come uno che avesse addosso un vestito
come quello che aveva e si trovasse in un’autofficina.»
«Alcuni lo fanno» disse Al. «Un vero signore lo fa. Ha
buone maniere. Anche quello significa essere un autentico
aristocratico.» Però, si disse, non era quello il genere di
professione ne che lui aveva sempre identificato con
l’aristocrazia. «Spero che stiamo parlando della stessa
persona» aggiunse.
«Chiediglielo quando lo vedi di nuovo» disse il vecchio.
«Probabilmente tornerà se ha bisogno di qualche lavoretto
sulla macchina. Chiedigli se vende o no dischi con etichette
d’occasione.»
«Magari lo farò» disse Al.
«Te lo dirà in faccia. Non se ne vergogna. È un’attività
commerciale come un’altra.»
«Non direi proprio» ribatté Al. «Non è come un’altra,
considerando che è illegale. Con quello che sai
probabilmente potresti farlo finire in galera. Sarà meglio
che non lo dica a nessuno; non è che lo vai a raccontare a
tutti quelli che incontri, eh? Non ti ha detto di tenerti la
cosa per te?»
Fergesson arrossì e disse: «Non l’ho mai detto a
nessuno, solo a te. E adesso vorrei non averlo fatto. Levati
dai piedi.» Così dicendo rotolò di nuovo sotto la Studebaker
e riprese a lavorare.
«Non volevo offenderti» disse Al. Uscì dall’officina,
emergendo di nuovo alla luce del sole.
Potrei ricattarlo, pensò. L’idea gli attraversò la mente
per un attimo, spazzando via tutto e lasciandolo tremante.
Ovviamente Harman non faceva più dischi osceni: era
una cosa che apparteneva al passato. Probabilmente a quei
tempi non era ricco, ben vestito, non era un uomo di
mondo. Magari cominciava allora, non era ancora arrivato.
E quello era un periodo della sua vita che sperava di tenere
nascosto per sempre.
Nel pensarci si sentì diventare freddo, poi ancora più
freddo: gli sembrò che il cuore perdesse i battiti per un
momento. Questo trasformava davvero l’idea del ricatto in
qualcosa di realistico.
Me lo dirà in faccia un accidente, pensò. Se Harman
sapesse che lo so, probabilmente diventerebbe nero in volto
e perderebbe i sensi.

Quella del ricatto era un’idea totalmente nuova per fare


soldi. Che gli aveva detto Mrs Lane? Qualcosa a proposito
del fatto che, o ti dai da fare o perdi l’occasione. Magari è
una profetessa, pensò. Come si chiama? Una medium, una
che vede il futuro. Un’indovina.
Era l’occasione ideale per guadagnare.
Non serviva nessun capitale, né in soldi né in azioni.
Nessun investimento, nessun ufficio. Nemmeno un
annuncio pubblicitario o un biglietto da visita. Nemmeno
un’autorizzazione statale.
Ma il ricatto era una cosa sbagliata. Eppure lo era
anche la compravendita di auto usate. Lo sapevano tutti.
Niente era più meschino che vendere auto usate, e lui lo
faceva da un bel po’ di anni. Ricattare uno che fabbricava
dischi osceni era forse peggio che vendere auto usate?
Difficile da dire.
Mentre se ne stava alla scrivania nella casetta al centro
del suo lotto vide una vecchia Cadillac marrone che si
accostava al marciapiede. Ne scese una corpulenta donna
di colore che indossava una giacca di panno. Si diresse
verso di lui sorridendo, e Al si accorse che era Mrs Lane.
Si alzò e uscì per andarle incontro.
«Come sta, Mr Miller?» disse lei, con una voce piacevole
eppure in qualche modo un filo beffarda. «Come va? A
quanto pare ci siamo visti meno di un’ora fa ed eccomi di
nuovo qui a farle una visita.» Il suo sorriso si allargò.
«Si accomodi» disse lui, tenendo aperta la porta del suo
affido.
«Grazie.» Lei entrò e rimase in piedi mentre Al le
trovava una sedia. «Grazie» ripeté, poi si sedette, accavallò
le gambe e si lisciò la gonna. «Mr Miller,» disse quando
anche lui si fu accomodato «lei mi stava parlando di un
pezzo di terra? Per la sua attività di rivendita di auto
usate?» Poi aggiunse, aggrottando la fronte come se fosse
immersa in chissà quali pensieri: «Ho chiamato diverse
persone e trovato diverse soluzioni, una delle quali mi
sembra possa avere un particolare interesse per lei.
Sarebbe un posto ideale per vendere auto usate, anche se
non è stato mai utilizzato per quello scopo.» La sua voce,
morbida e indistinta, lo avvolgeva come una nuvola: rimase
seduto, lasciandola fare.
All’esterno un passante si fermò a osservare una delle
sue macchine. Ma Al non si mosse, rimase inchiodato sulla
sedia.
«Questo lotto di terreno» disse Mrs Lane «si trova nel
centro di Oakland, dalle parti della Decima. In una vera
zona commerciale, dove non ci sono altre attività come la
sua. Voglio dire, non è una di quelle strade in cui c’è un
rivenditore di auto dopo l’altro.»
«Capisco» disse lui. Poi, spostandosi sulla sedia, disse:
«Le dirò, sto prendendo in considerazione un altro genere
di attività. Da quando ci siamo visti mi è capitata fra le
mani un’opportunità del tutto nuova.»
Lei alzò lo sguardo e gli rivolse un’occhiata dubbiosa.
«Intende dire da quando ha parlato con me? Un’ora fa,
quando era nel mio ufficio?»
«Sì» rispose lui.
La donna lo fissò per un certo tempo. «Santo cielo»
disse.
«È una cosa completamente diversa» disse lui. «Me ne
stavo qui seduto a rifletterci su.»
«Non ha ancora deciso» disse lei «con certezza.»
«No» ammise Al.
«Mr Miller,» disse Mrs Lane «ovviamente non ho idea di
che attività stia parlando, tuttavia so che potrebbe
intraprenderla e cavarsela alla grande; di questo non
dubito. Però devo farle notare che la vendita di auto usate è
quel che lei fa da diverso tempo e secondo me non c’è
dubbio che quella sia la professione per lei.» Si interruppe:
adesso non sembrava più così sicura, sembrava che stesse
cercando di sondarlo, di farlo sbottonare. La notizia di uria
nuova opportunità di lavoro l’aveva palesemente colta alla
sprovvista. Proseguì: «Mi piacerebbe accompagnarla nel
posto di cui le ho parlato, se lei vorrà permettermi di farlo.
Per me è un’offerta sempre valida, e sarò sempre lieta di
farlo.»
«Lo so» disse Al. «Grazie.»
Lei tornò a fissarlo con quella che sembrava
un’espressione quasi ansiosa e disse: «E non si deve
ritenere obbligato. Su questo ci conti, Mr Miller.» Aprì la
borsetta e vi frugò dentro. «Voglio che lei faccia la scelta
più giusta. Molti commettono un errore proprio a questo
punto. Quando si trasferiscono. È un momento difficile. Non
sanno come fare e si preoccupano, diventano apprensivi.»
L’ultima parola le uscì spezzata.
«Immagino che si buttino sulla prima cosa che trovano»
si sentì dire Al. Ma era un’osservazione di circostanza; in
realtà adesso non provava più nessun interesse. Pensava
ancora a Harman.
Mrs Lane disse: «La sua intera vita dipende da questo
tipo di decisione. Dico sempre questo ai miei clienti. Loro
non se ne rendono conto, anche se ne dovranno scontare le
conseguenze per anni. Quanto a questo ne so più di loro: mi
sono fatta una bella esperienza nei quasi quattordici anni di
attività come agente immobiliare in piena regola dello Stato
della California. Ci sono tante persone che acquistano
grazie a me un terreno o una casa, vedendolo come un
modo per fare soldi o come un investimento… e questo
cambia le loro vite. Dopo non sono più come prima. Potrei
farle parecchi esempi, ma so che lei è un uomo molto
intelligente, Mr Miller, e non c’è bisogno che entri nei
particolari. Tipo, ripensare a come ha conosciuto Mr
Fergesson e considerare come proprio questo abbia fatto di
lei una persona diversa.» La sua voce aveva un tono
sommesso, sincero, non come uno che volesse vendere
qualcosa. Al si ritrovò ad ascoltarla, come gli era successo
all’agenzia, mentre gli parlava con quell’aria materna,
mentre gli dava lezioni di vita o quel che fosse. Qualsiasi
cosa fosse, però, non aveva niente del convenzionale
scambio fra venditore e acquirente, almeno per come gli
risultava avvenire fra i bianchi.
«Credo che lei abbia ragione» riuscì a dire, sentendosi
assonnato, quasi incapace di tenere gli occhi aperti.
Mrs Lane richiuse la borsetta e se la mise in grembo,
stringendola fra le grosse mani stranamente chiare. Che
belle mani che ha, notò Al Miller. Sembrano quelle di un
uomo. Assolutamente affidabili, come se tutti i possibili
muscoli e tendini fossero al servizio di qualche capacità
particolare. Come se quelle mani fossero state dappertutto,
avessero fatto ogni cosa. E com’erano rugose. Tutto il resto
era liscio, lei aveva la carnagione di una ragazzina. Adesso
si era tolta la giacca, e Al si scoprì di nuovo attratto dalle
sue braccia nude. Sembrava che non sudasse nemmeno.
Incredibile, si disse. Poi tornò alle mani… Per consistenza,
colore, forma, non assomigliavano per niente al resto del
suo corpo. Quelle mani erano tutt’ uno con lei, decise. Le
palme avevano una tonalità che dava sul rosa. lì la pelle era
piuttosto spessa, pensò, simile a cuoio. E molto secca.
Studiandolo con i grandi occhi fumosi, disse: «Ho visto
che si è fermato qui qualcuno che conosco. Lei può essersi
fatto un’esperienza dal suo ufficio, come io me la faccio dal
mio: può vedere per tutta la lunghezza della strada, e
quando non viene nessuno lei può guardar fuori, tanto per
curiosità. Non era Mr Harman quello che è capitato qui con
la sua coupé de ville, poco tempo fa, dopo che lei ha parlato
con me?»
Al confermò con un cenno della testa.
«Lo conosco» disse Mrs Lane. «Mi permetta di
chiederglielo…» Poi aggiunse, con una voce esitante,
preoccupata: «È con lui che ha intenzione di mettersi in
affari?»
Al Miller emise un suono che non era né un sì né un no.
Adesso si era risvegliato. Così Mrs Lane conosceva
Harman: questo lo rese lucido, interessato. E anche
prudente.
«Deduco dal suo tono» disse la donna «che lei ha
avviato una trattativa con Mr Harman e che si riferiva a
quella quando mi ha detto che dopo aver parlato con me le
è capitata fra le mani una nuova opportunità. Be’, voglio
dirle una cosa.» Adesso appariva anche un po’ spaventata,
o così gli sembrò. Si umettò le labbra, esitò, strinse la
borsetta con le mani e si agitò sulla sedia. «È una sedia
piccola» disse.
«Sì» convenne Al.
«Lo conosco» disse la donna «da circa cinque anni.
Naturalmente sento un sacco di cose. È il mio lavoro.
Capita spesso da me, in agenzia. Compra e vende, come
dice lui. Muove le cose. È quello che chiamano un
operatore.»
«Capisco» disse Al.
«Ha un bel po’ di…» Fece una pausa. Poi, con un sorriso
improvvisamente ampio, mostrando i denti d’oro che aveva
davanti, proseguì: «Be’, non è come lei, Mr Miller. Voglio
dire, non si pone il problema di fare del male al mondo.»
Al annuì. Il tono amabile della donna si era alterato, era
diventato stranamente secco e duro. Harman non le va
proprio a genio, si rese conto Al. Mrs Lane era uscita allo
scoperto perché non era un’ipocrita. Non riusciva a fingere
di farsi piacere qualcuno, se non le piaceva.
«Lei crede» disse Al «che farei meglio a tenermi alla
larga da Harman.»
Adesso il suo sorriso era tornato a essere più dolce. Più
pensoso. «Ecco,» disse misurando le parole «questi sono
affari suoi, ovviamente. Magari lei lo conosce meglio di
me.»
«No» disse lui.
«Io penso che lei sia un uomo onesto e che lui non lo
sia.» Lo squadrò con un’espressione pacata. Eppure dietro
quella pacatezza c’era agitazione. È così difficile, pensò,
per un negro. Sedere qui insieme a un bianco e parlare in
termini non lusinghieri di un altro bianco. In qualsiasi
momento può capitarle qualcosa di spiacevole. Potrei
interromperla, cacciarla. Ma non era esattamente di questo
che lei aveva paura; più che altro temeva che lui smettesse
di prestarle attenzione. Che si rinchiudesse nei suoi
pregiudizi di uomo bianco e ignorasse quello che lei gli
stava dicendo.
«Lo so che lei ha a cuore il mio interesse» disse Al, ma
anche se lui era sincero, c’era qualcosa di falso. Era una
frase e basta.
Lei mosse la testa su e giù.
«Starò attento» disse Al.
5

Non molto dopo, mentre Jim Fergesson se ne stava sul


pavimento dell’officina sotto una Buick, sentì una macchina
avvicinarsi poco lontano e poi fermarsi. Dal rumore giudicò
che fosse nuova. Rotolò fuori e si ritrovò davanti il paraurti
di una Cadillac quasi nuova. Lo sportello si era già aperto e
ne stava scendendo un uomo in completo elegante e scarpe
nere lucidissime.
«Salve, Mr Harman» disse il vecchio tirandosi su. «Vedo
che è tornato. Ero fuori quando è passato qui, prima.
Niente di serio con la sua macchina, vero? Una Cadillac
quasi nuova come quella.» Rise nervosamente, perché non
aveva la minima voglia di lavorare su quella macchina: non
aveva né gli attrezzi né l’esperienza per quel genere di
auto, un nuovo modello costoso e con una serie
interminabile di marchingegni e accessori.
Harman disse, sorridendo: «Ogni macchina ha le sue
magagne, Jim. Come mi ha sempre detto lei.»
«Questo è verissimo» disse Fergesson.
«Niente di serio» disse Harman. «C’è solo da
ingrassarla.»
«D’accordo» disse Fergesson, sollevato.
«Jim, mi è stato detto che chiude l’attività» disse
Harman.
«Mi metto a riposo» disse il vecchio.
«Per sempre?»
«Ho già venduto» disse lui.
«Capisco» disse Harman.
«Mi ascolti» disse il vecchio, facendo per appoggiare la
mano sulla spalla di Harman e cambiando subito idea;
cominciò a pulirsi le mani unte con uno straccio. «Ci sono
un paio di buone autofficine in città; lei non deve
preoccuparsi. Conosco un paio di meccanici di cui ci si può
fidare. Di questi tempi, con quei dannati sindacati…»
«Sì» lo interruppe Harman. «I datori di lavoro devono
assumere quelli che gli mandano i sindacati. Che siano
capaci o no.»
«Siamo entrambi in affari» disse Fergesson. «Sappiamo
come vanno le cose.»
«Ti ritrovi con gente che se ne sta con le mani in mano
senza lavorare» disse Harman. «E se provi a licenziarli…»
Gesticolò.
«È impossibile» disse Fergesson.
«Illegale.»
«Ed è per questo che ti capita solo gente che al massimo
sa raccogliere le foglie col rastrello. Come ai tempi della
WPA, quando davano lavoro a tutti. È socialismo.» Il vecchio
si sentì eccitato, provò una sorta di frenesia. Com’era
piacevole starsene lì con quell’uomo, quel suo cliente ben
vestito, Mr Harman che guidava una Cadillac del’58, e
parlare con lui da pari a pari, un uomo d’affari con un altro.
Ecco come stavano le cose: erano sullo stesso livello. Le sue
mani ebbero un gesto inconsulto, lo straccio gli scivolò via
e lui dovette allontanarlo con un caldo perché non gli
andasse a finire sull’orlo dei pantaloni. «Lavoro per conto
mio da tanto tempo e guardi come mi hanno ridotto le
tasse. È parte del loro sistema far sì che un uomo si senta
ridicolo se dedica al lavoro tutta la sua vita, perché quando
ha finito che gli rimane? Solo tasse da pagare.» Sputò sul
pavimento.
«Sì» disse Harman con la sua voce calma, da uomo
raffinato. «L’imposta sul reddito è definitivamente parte del
progetto socialista.»
«Hanno costretto gli americani ad accettarla» disse il
vecchio. «Durante l’amministrazione di Franklin Roosevelt.
Ogni volta che penso a quel Roosevelt… e a quel suo figlio,
quel colonnello…»
Harman accennò un sorriso non senza allegria e disse:
«Mi fa tornare indietro nel tempo. Ripensare a Elliot come
a un colonnello.»
«Basta così» disse il vecchio.
«No» disse Harman.
«Lei ha tante cose da fare e anch’io. Le dico una cosa,
Mr Harman, entrambi abbiamo troppo da fare. L’unica
differenza fra noi è che lei ha la vitalità e la giovinezza per
farle e io no. Io sono da buttare. Ecco la verità: sono finito.»
«Cavolo, no» disse Harman.
«È un fatto.»
«Perché? Mio dio, quando sono arrivato…»
«Certo, ero sotto la Buick, ma mi stia a sentire.» Il
vecchio si avvicinò quanto più possibile a Harman – quel
tanto che bastava per non sporcarlo di grasso – e disse a
bassa voce: «Un giorno, mentre mi trovo sotto quella
macchina… vuole sapere una cosa? Mi prenderà un attacco
di cuore e morirò.» Fece un passo indietro. «Ecco perché
devo andarmene via da qui.»
«Con tutta la sua bravura» disse Harman.
«È un peccato» disse il vecchio. «Ma devo dare ascolto a
Fratt: lui conosce il suo mestiere. Io mi affido agli esperti,
non sono un dottore. Tutto quello che so è che per anni ho
sofferto di cattiva digestione e così sono andato da Fratt, e
all’inizio lui non ha trovato niente, ma poi mi ha misurato la
pressione.» Disse a Harman quale era la sua pressione.
Spaventosa, e lesse la reazione sulla faccia di Harman.
«È un vero peccato, Jim» disse Harman.
«Ma se me la prendo con calma… non voglio dire oziare
per casa, ma trovare qualcosa di meno pesante da fare.
Sollevare sempre quei pesi…» Fece una pausa.
Harman disse: «Ha mai pensato di assumere qualcuno?
Che faccia il lavoro pesante per lei?»
«Non troverei mai qualcuno di cui possa fidarmi.»
«Ne ha discusso con il suo agente?»
«Intende dire Matt Pestevrides?»
«Il suo avvocato» disse Harman. «O il suo consulente.
Con chi parla dei suoi affari? Con chi si è consultato prima
di vendere il suo locale?»
Il vecchio rimase in silenzio.
«Non ne ha parlato con qualcuno che abbia esperienza
in materia commerciale? Poteva incaricare qualcuno di
gestire la vendita dell’officina, un mediatore. È così che si
fa. Qualsiasi consulente immobiliare poteva occuparsene al
posto suo e trovare un acquirente affidabile; è una
questione che richiede attenzione e studio, una procedura
precisa.»
Il vecchio non trovò niente da dire.
«Mi sorprende il comportamento del suo agente» disse
Harman.
Il vecchio disse: «L’ho solo chiamato e gli ho detto che
volevo vendere l’officina per motivi di salute.»
«Ha venduto per necessità. Non ci ha rimesso?»
«Sì» ammise Fergesson.
«Mi scusi se glielo chiedo, ma a quanto ha venduto?»
«Trentacinquemila.»
Harman diede un’occhiata in giro. «Mi sembra un
prezzo equo.» Rifletté, strofinandosi il labbro inferiore con
una nocca. «Mi stia a sentire, Jim» disse. «Ovviamente
discutere su un eventuale uso che lei avrebbe potuto fare
della sua officina a questo punto sarebbe fiato sprecato.
Però ha ottenuto il suo prezzo. Ha monetizzato.»
«Sì» disse il vecchio, provando un senso di orgoglio.
Harman lo guardò dritto negli occhi. «Spero che non si
sia accontentato di un pezzo di carta.»
«Un pezzo di carta?»
«Cambiali, o roba del genere.»
«Oh, no» si affrettò a dire Fergesson. «Diecimila subito
in contanti e il resto a duecento dollari al mese.»
«A che interesse?»
Il vecchio non riusciva a ricordarlo. «Glielo faccio
vedere.» Lo precedette verso il suo ufficio ingombro di
cose. Harman lo seguì a grandi falcate. «Ecco.» Prese le
carte dal cassetto, le dispose sulla scrivania e si fece da
parte per permettere a Harman di vedere.
Harman le esaminò per un po’. «Credo che lei abbia
fatto un affare» disse alla fine.
«Grazie» disse il vecchio, sollevato.
In piedi accanto alla scrivania, Harman picchiettò sulle
carte come se fosse immerso in chissà quali pensieri.
Continuò a farlo più volte. «Le dirò una cosa. Mi ascolti.
Vuole un… come chiamarlo? Non un consiglio.» Tornò a
sollevare le carte e le sfogliò. «Dall’altra parte della Baia,
nella contea di Marin. Stanno costruendo molto. Si stanno
espandendo.» Squadrò il vecchio.
«Sì» disse lui, trattenendo il fiato.
«Stanno ricostruendo da zero interi tratti
dell’autostrada 101. Un progetto multimilionario che
richiederà degli anni. Ci è mai stato?»
«Non nell’ultimo anno.»
«Ci sono già diversi centri commerciali» disse Harman.
«Uno a Corte Madera. Un’opera davvero magnifica. Ora mi
stia a sentire.» La sua voce aveva un tono secco, brusco:
penetrava, e il vecchio andò a chiudere la porta dell’ufficio,
anche se Harman non gli aveva detto di farlo. «Non si
illuda» disse Harman. «È lì che c’è sviluppo, non qui. Non
nella zona orientale della Baia. Il piano strategico…» Rise.
«Non c’è più spazio. Questa parte della Baia è piena. E così
la penisola. L’unico posto in cui si può ancora crescere e
costruire è nella contea di Marini» Squadrò il vecchio
sgranando gli occhi.
«Già» disse Fergesson, facendo cenno di sì con la testa.
Harman infilò la mano nella tasca interna della giacca,
prese un portafoglio piatto, color grigio scuro, lo aprì e ne
estrasse un biglietto da visita. Con la stilografica scrisse, in
modo volutamente lento, qualcosa sul retro del biglietto e
glielo porse.
C’era un numero di telefono, con il prefisso ripassato
più volte a colpi di inchiostro. Un prefisso che Fergesson
non conosceva. «Du…» lesse.
«Dunlap» disse Harman. «Lo chiami.»
«Perché?»
«Chiami quel numero entro le prossime ventiquattr’ore»
insistette Harman. «Non perda tempo, Jim.»
«Che cos’è?» chiese lui, che voleva sapere, voleva
disperatamente sapere.
Harman si mise a sedere sulla scrivania ingombra e
incrociò le braccia, fissando il vecchio per un lungo tempo.
«Me lo dica» insistette il vecchio, fremendo, e
rendendosi conto che anche la sua voce fremeva,
assumendo un tono lamentoso. Un tono che non aveva mai
sentito in tutta la vita.
«Quest’uomo» disse Harman «è Achilles Bradford. Se
stesse anche minimamente nel giro ne avrebbe sentito
parlare. Se lo trova prima che lui abbia preso una
decisione, prenda la macchina e vada da lui con il suo
avvocato. Lui fa affari, vuole fare affari, ma non ha tempo
da perdere. Ha già investito di suo circa un milione di
dollari.» Con voce più controllata proseguì: «È un centro
commerciale, Jim. Sull’autostrada 101, fuori San Rafael,
andando verso Petaluma. A Novato. Lassù c’è la base aerea
di Hamilton Field. Molte lottizzazioni, e se ne aggiungono
continuamente di nuove.»
«Capisco» disse il vecchio, che però non capiva niente.
«Da quanto ho sentito» disse Harman «stanno cercando
di ottenere l’autorizzazione per un autocentro. Una
concessionaria, probabilmente della Chevrolet, ma forse
della Ford. O magari di uno degli importatori che contano,
come la Volkswagen. Comunque ci sarà un’autofficina,
questo è certo. Quelli fanno i pendolari, Jim. Su e giù da
San Francisco. Percorrono trecento chilometri al giorno su
un’autostrada a otto corsie, e all’ora di punta si ritrovano
uno attaccato all’altro. E ascolti bene. Non esiste un
servizio di treni. Capisce che significa? Quella gente ha
bisogno di manutenzione per la macchina. L’autocentro
sarà completo. Vendita di auto nuove, fornitura di pezzi di
ricambio, autofficina… ed è sulle riparazioni che si gioca
tutto. E stiamo parlando di un’officina molto grossa, Jim.
Non come questa, con un uomo solo che ci lavora. Assistere
tutti quegli automobilisti significa offrire un servizio a
tempo pieno, ventiquattr’ore su ventiquattro. Con qualcosa
come dieci, quindici meccanici al lavoro per tutto il tempo.
Carri attrezzi, un mezzo che faccia ogni giorno la spola con
la città per prendere i pezzi di ricambio. Comincia a farsi
un’idea?»
«Sì» disse lui. Ed era così.
«È un concetto nuovo nell’evoluzione dell’autofficina.
Orientato verso il futuro. L’officina di domani, in un certo
senso. In grado di assumersi tutte le responsabilità del
traffico di domani. Entro cinque anni l’officina meccanica di
una volta sarà obsoleta. Lei ha fatto benissimo a vendere in
questo momento: è stato molto in gamba.»
Fergesson annuì.
«Potrebbe cogliere questa occasione» disse Harman.
«Ce la fa ad andarci? A chiamare il suo avvocato e a fare la
sua mossa?»
«Non lo so» disse il vecchio.
«Oppure ci vada senza di lui. Ma ci vada comunque.»
Tutto a un tratto Harman saltò giù dalla scrivania. «Devo
scappare, sono in ritardo.» Si diresse verso la porta
dell’ufficio, spalancandola.
Fergesson gli andò dietro e disse: «Ma il mio stato di
salute… Il problema è proprio che non posso più fare un
lavoro da meccanico.»
Harman si fermò e rispose: «La persona che investe
nell’autofficina mette il capitale iniziale e fa da supervisore.
Contribuisce con la sua capacità tecnica e con l’esperienza.
Il lavoro vero e proprio verrà svolto dai meccanici del
sindacato. Mi segue?»
«Oh» fece il vecchio.
Harman allungò la mano e disse: «Ci vediamo, Jim.»
Fergesson gliela strinse, un po’ a disagio.
«Il resto» disse Harman «tocca a lei.» Gli fece una
strizzatina d’occhio: convinta, amichevole, ottimistica. «È
una sua scelta.» Lo salutò con un cenno della mano,
raggiunse a grandi passi la Cadillac e salì su. Mentre
avviava il motore disse a voce alta: «L’ingrassaggio lo
facciamo domani, adesso non ho più tempo.»
La Cadillac scomparve nel traffico.
Jim Fergesson la seguì a lungo con lo sguardo. Poi, pian
piano, se ne tornò verso la Buick alla quale stava lavorando.
Un’ora più tardi squillò il telefono in ufficio. Quando
Fergesson andò a rispondere si ritrovò a parlare con
Harman.
«Cosa ha detto?» gli chiese Harman.
«Non l’ho chiamato» rispose il vecchio.
«Cosa?» Harman sembrava sbalordito. «Be’, farà meglio
a darsi da fare, Jim; non butti via questa occasione.» Disse
un paio di altre cose sullo stesso tono, poi riattaccò, dopo
aver chiesto al vecchio di informarlo quando avesse parlato
con Bradford.
Fergesson si trattenne in ufficio a riflettere, seduto alla
scrivania.
Non mi farò mettere fretta, si disse. Nessuno può
costringermi a fare le cose di corsa. È contro la mia natura.
Non chiamerò, si disse poi. Né adesso né mai.
Quello che farò, decise, è andare laggiù, nella contea di
Marin. Vedere quel posto, quel centro commerciale, con i
miei occhi. E poi se mi piace quello che vedo, magari
parlerò con quel tizio.
Sentì riemergere dentro di sé la sua vera natura, la sua
furberia. E si mise a ridere. «Al diavolo» disse ad alta voce.
Telefonare a uno sconosciuto senza sapere niente? Soltanto
per la parola di una persona?
Perché dovrei credere a Harman? Perché dovrei credere
a chiunque? Non sono arrivato fin qui facendo affidamento
su quello che mi dicevano gli altri. Sulle chiacchiere.
Però doveva essere sicuro di vedere il posto giusto. Così
alzò la cornetta e chiamò il numero di telefono vicino a
quello di Harman nella sua agenda di vecchi clienti.

Quella sera, tornato a casa, passò accanto a sua moglie


senza dire una parola. Andò direttamente in bagno, chiuse
a chiave la porta, e prima che la voce di Lydia potesse
distrarlo aprì al massimo il rubinetto per riempire la vasca.
Mentre se ne stava immerso nell’acqua pensò: So dov’è,
posso trovarlo.
La sua idea era di andarci la mattina dopo, il più presto
possibile, per essere di ritorno all’officina verso
mezzogiorno. Sdraiato sulla schiena dentro la vasca,
mentre fissava il soffitto già intriso di umidità, riesaminò
ogni particolare del suo piano. Lo migliorò, ripassandolo a
mente, e rendendolo quanto più perfetto possibile, facendo
in modo di non lasciare niente al caso.
Un posto completamente nuovo, pensò, in ogni suo
aspetto. Niente grasso, niente odore di rancido; l’umidità, il
senso di vecchio, il mucchio di pezzi scartati in un angolo…
Basta con tutto questo. Spazzato via. Cataste e pozze
d’acqua, polvere. Mai più.
Che vadano al diavolo, pensò. Avrò un ufficio con le
pareti a vetri, a prova di rumore da dove potrò tenere
d’occhio i meccanici. Controllerò tutto, con tanti telefoni
interni. Magari di quelli senza fili. Lampade fluorescenti in
ogni ambiente, come nelle fabbriche nuove. Tutto
automatizzato, tutto organizzato: nessuno spreco di tempo
e di denaro.
Una cosa tutta scientifica, si disse. Atomica, come in un
laboratorio. Come a Livermore, dove hanno inventato la
bomba.
Si vide come parte del nuovo mondo, insieme a Harman,
insieme a tutti gli altri imprenditori. Questa è l’America,
pensò. Una visione. Quello che fai con il capitale e con
l’immaginazione. E io ho l’uno e l’altra.
Decisione, pensò. Bisogna essere decisi. Addirittura
spietati. Sennò ti mettono i piedi in testa. Sono sempre lì
che aspettano il momento di trascinarti giù al loro livello.
Naturalmente quando arrivi a quel punto ce l’hanno con te.
Ti invidiano. Ma tu ignorali. Come fa Nixon: lui se ne sta
tranquillo e sghignazza quando lo insultano, gli tirano i
sassi, o magari gli sputano addosso. Rischia la vita.
Con gli occhi socchiusi, sommerso dall’acqua calda che
scendeva spumeggiando, il vecchio si vide così, non perso
nella lurida, insignificante San Pablo Avenue, piena di
drive-in: si vide insieme alle persone importanti, quelle che
contavano. Sono in affari, pensò. Non in politica, non è il
mio campo. Questo Paese è fondato sugli affari. Ne sono la
spina dorsale.
Un investimento! Sto investendo sul futuro dell’America.
Non per me – cavolo, non per il profitto – ma per far
crescere l’economia. E conterà. Quello che farò conterà.
6

La strada, al mattino presto, era umida, e su tutte le


case gravava una nebbiolina abbastanza bagnata da creare
goccioline che scendevano lungo le superfici verticali. Non
c’era nessuno in giro, ma qua e là si vedevano rettangoli di
luce gialla: cucine, immaginò Jim, in cui gli uomini se ne
stavano davanti ai tomi aperti a scaldarsi il sedere.
Si fece la barba e mise a friggere della polenta di
granturco avanzata dalla sera prima, bevve un po’ di caffè
nero e farinoso che era rimasto nel bricco e poi, con il
soprabito sulle spalle, scese le scale fino al garage
sotterraneo dove aveva parcheggiato la Pontiac. Lydia
dormiva ancora. Nessuno lo aveva sentito, nessuno lo vide
andare via.
L’umidità aveva raggiunto il motore, che si spense due
volte mentre Fergesson procedeva a marcia indietro per
uscire. Il suo tossicchiare cavernoso continuò mentre
percorreva Grave Street, e lui non poté fare a meno di
pensare che, se ne avesse avuto il tempo, avrebbe smontato
la macchina da cima a fondo. Quasi ogni pezzo era
consumato e tutto funzionava male. Non accelerò, ma
rimase in seconda fino a che raggiunse un semaforo, si
guardò attorno accuratamente e, senza fermarsi, svoltò a
destra. Ben presto si ritrovò ad attraversare Oakland a
cinquanta chilometri l’ora. Dopo aver percorso un paio di
chilometri il motore si era ormai riscaldato e funzionava
meglio. Accese la radio e ascoltò un programma dei Figli
dei pionieri.
Quasi tutti gli automobilisti lungo la Eastshore Freeway
pensavano solo a raggiungere San Francisco. Il traffico che
gli veniva incontro era pesante, ma le corsie davanti a lui
erano quasi vuote mentre puntava verso Richmond. I
finestrini della Pontiac erano alzati e il riscaldamento
acceso. Fergesson si sentiva a suo agio, sonnacchioso, e
quella musica western lo cullava. Gradualmente scivolò da
una corsia all’altra e quando sentì una macchina alle sue
spalle che suonava il clacson sussultò sul sedile e ritrovò la
concentrazione. Erano le sei e trenta.
Lungo la piatta linea costiera della Baia orientale, sulla
sua destra, si stendeva il parco acquatico. A questo punto
aveva raggiunto una velocità di novanta chilometri l’ora, e
questo gli bastava e avanzava. A quanto pareva non
percorreva quella strada da più tempo di quanto
ricordasse: c’erano stati dei cambiamenti nell’autostrada,
erano state costruite nuove rampe sopraelevate e c’erano
deviazioni e interruzioni che lo confondevano. E si accorse
che le corsie erano già diventate dodici. Era proprio
necessario allargarla ancora? Il fondo stradale era di
cemento bianco e non c’erano aree di sosta. La piattezza
della strada gli piaceva. Strinse il volante con entrambe le
mani e si mise a osservare le case e le colline sulla destra.
Adesso aveva il problema di trovare Hoffman Boulevard.
Doveva spostarsi sulla destra, altrimenti non ce l’avrebbe
fatta a uscire dall’autostrada. Così scivolò lentamente di
lato, pensando che fosse il modo migliore per farlo. Le
macchine sulla destra, però, non la pensavano così: un coro
di strombazzate lo fece trasalire. Allora affondò il piede
sull’acceleratore e s’infilò in uno spazio libero sulla corsia
più a destra, quasi a ridosso della spalletta. Un momento
dopo la sua auto costeggiava la parte iniziale, stretta e
irregolare, della Hoffman: a un incrocio sfrecciò oltre un
semaforo verde e passò sotto un minaccioso cavalcavia di
ferro nero con enormi cartelli di pericolo e luci gialle
lampeggianti. Queste ultime si alternavano secondo uno
schema che gli fece provare, mentre ci passava sotto, la
sensazione di una grave minaccia imminente. Il varco sotto
il cavalcavia era così stretto da fargli temere per un attimo
che la macchina non ce l’avrebbe fatta a passare. Gli
sembrò che dovesse strusciare su entrambe le fiancate e
non poté fare altro che tenere le mani ben strette sul
volante. Ma durò poco: uscì dall’altra parte e si ritrovò di
nuovo la Baia sulla sinistra.
Alcuni chilometri più avanti la Hoffman raggiunse una
fila di stazioni di servizio che vendevano benzina a prezzi
scontati, diversi bar per i camionisti, e poi la parte più
brutta, le baracche dei negri più fatiscenti che avesse mai
visto. Il traffico avanzava molto lentamente, con enormi
autocarri diesel alternati alle automobili. Capì di trovarsi a
Richmond. I marciapiedi pieni di crepe erano ingombri di
rifiuti.
Sulla sinistra scorse fabbriche e attrezzature portuali.
Siamo vicini all’acqua, si rese conto. Binari dei treni, uno
dopo l’altro. Poi, più avanti, un pendio ripido con delle case.
La strada svoltò bruscamente. Vide uno spazio aperto e
subito dopo l’immensa raffineria della Standard Oil. Tutto a
un tratto la strada divenne di nuovo un’autostrada, in
salita, con le auto che acceleravano da tutti i lati. Imboccò
a velocità sostenuta un’ampia curva sopra la raffineria, e si
ritrovò davanti la Baia e il ponte che ne collegava la parte
orientale con la contea di Marin. Era il ponte più brutto che
avesse mai visto, ma non gli fece perdere il buonumore:
anzi, lo fece ridere.
Rallentò in prossimità del casello, pagò i suoi
settantacinque cent e si ritrovò sul ponte. Lo avevano
costruito in modo che il guidatore non potesse vedere nulla,
né l’acqua, né le isole, né la sua destinazione: Fergesson
vedeva solo le pesanti travature metalliche.
Che genio, si disse. E che razza di progetto. Rise di
nuovo.
Alla fine, però, qualcosa la vide chiaramente, poco più
avanti, e vi si soffermò con lo sguardo: la prigione di San
Quintino, una serie di edifici color argilla simili a un
vecchio forte messicano, distesi sul bordo dell’acqua e tutti
in ottime condizioni. Il ponte passava sulla destra della
prigione e diventava poi una larga autostrada costellata da
una serie di deviazioni. Fergesson si sentì di nuovo confuso,
ma poi un cartello gli segnalò quale deviazione prendere
per raggiungere la 101 verso nord. La prese.
Percorse una distesa pianeggiante a velocità sostenuta,
con macchine davanti e dietro. Il vento sferzava la sua
Pontiac. Ecco San Rafael e poi la 101: era quasi arrivato, e
non c’era voluto poi così tanto. Era addirittura in anticipo, e
il suo buonumore crebbe.
Quando vide una stazione di rifornimento su una
stradina laterale, mise la freccia e lasciò l’autostrada. Dopo
diverse svolte raggiunse la stazione, accostando al più
vicino gruppo di pompe. Aprì lo sportello e si accorse che
l’aria del mattino era calda. Il vento increspava i fili d’erba
nei campi vicini.
Aprì il cofano, prese un foglio di giornale e sfilò
l’asticella dell’olio per controllare il livello. Era basso, così
prese una latta da un quarto di gallone dalla rastrelliera
accanto alla pompa di benzina. L’addetto, un ragazzotto con
la tuta bianca, si mise a correre mentre il vecchio svuotava
l’olio in una tanica lì vicina.
«Ehi» disse il ragazzo, indignato. «Cosa fa?»
«Scusa» disse Fergesson, ricordando che adesso non si
trovava nella sua officina. «Cinque di normale.» Aveva già
allungato la mano verso il tubo, poi fece finta di voler solo
leggere il prezzo. La benzina costava trentanove cent al
gallone. Rimase sorpreso dal prezzo mentre il ragazzo
estraeva il tubo.
Era ancora preoccupato. Si diresse verso la parte
posteriore della macchina e svitò il tappo del serbatoio
senza mai perdere d’occhio Fergesson, quasi timoroso che
si mettesse di nuovo ad armeggiare con cose non sue.
Imbarazzato, il vecchio risalì a bordo e rimase lì fino a
quando il ragazzo venne a pulirgli il parabrezza. «No, no»
disse porgendogli alcuni biglietti da un dollaro. Aveva fretta
di ripartire.
Il ragazzo gli diede il resto e recuperò la tanica.
Richiuse rumorosamente il cofano e il vecchio lasciò la
stazione per tornare sulla strada. Si immise proprio davanti
a un camion per il trasporto del latte, che gli strombazzò
contro.
Mentre guidava il suo disagio aumentò. Ormai poteva
vedere da un momento all’altro il cartello che indicava la
direzione per Marin County Gardens. Però non si trovava
più sull’autostrada, e la stradina che aveva imboccato non
lo riportò alla 101, ma su una via residenziale. C’era un alto
recinto anticicloni di rete metallica che lo separava
dall’autostrada, e al di là di esso le macchine sfrecciavano a
velocità impressionante. Proseguì lo stesso senza perdersi
d’animo, pur separato com’era dall’autostrada.
Evidentemente era entrato a San Rafael, una città in cui
capitava raramente, per non dire mai.
Guidò sui quaranta chilometri l’ora fra le case
silenziose, con isolati piccoli. Vide degli uomini che
camminavano a passo rapido, diretti al lavoro, qualcuno in
tuta, qualcuno in abiti normali. Tutti si muovevano a
velocità accelerata, come in un vecchio film. Anche quello
lo divertì.
Per un po’ attraversò la città, sempre tenendo d’occhio
l’autostrada, domandandosi dove fosse finito ma
prendendola con filosofia. Alla fine vide qualcosa che gli
aprì il cuore. La distesa di terra dissodata che, riuscì a
capire, era la zona in costruzione oltre l’autostrada. Grandi
tubazioni di drenaggio tutte in fila, il sistema di scarico in
ceramica che andava collocato per primo. E macchinari
parcheggiati. Enormi. Di quelli che il governo federale
usava per i suoi lavori. Li aveva visti quando avevano rifatto
la Eastshore.
Poi giunse proprio sul limitare del cantiere e si fermò:
non aveva altra scelta, perché il fondo stradale terminava
in una serie di rilievi irregolari, già tutti segnati da crepe.
La strada su cui si trovava era stata spazzata via dalle
grandi scavatori. Guardò giù, in un avvallamento. Solo
terra. La parte sotterranea che di solito non vedeva
nessuno. Si sentì spaventato e tirò il freno a mano. Le
macchine, pensò, avevano portato tutto via da lì, senza
lasciare nulla. Che potenza ci voleva, per rimuovere tutta
quella terra! Niente poteva resistere… Guardò a destra e a
sinistra. Un lungo solco, a perdita d’occhio, e così
dannatamente largo. Poteva attraversarlo, una macchina?
Era possibile scendere e raggiungere l’autostrada dall’altra
parte? Guardò su e vide dei puntolini che correvano. Le
macchine sull’autostrada.
Parallela a essa correva un doppio tracciato. Segni di
battistrada sul terreno, schiacciato dalla pressione.
Qualche veicolo. Allora riavviò il motore e scese lungo il
pendio, uscendo dall’asfalto. La macchina saltellò, cigolò, si
piegò prima su un lato, poi sull’altro. Fergesson guidò con
prudenza lungo il tracciato irregolare. Sentì la macchina
che vibrava, mentre frantumava le pietre sotto le ruote.
Strinse forte il volante e accompagnò la marcia, dentro e
fuori dalle buche.
A un certo punto passò accanto a un gruppo di operai
che lo fissarono a bocca spalancata, poi a una serie di
macchinari, e infine vide una grossa sagoma metallica che
gli si avvicinava frontalmente.
Fermò la macchina e l’oggetto divenne un bulldozer. Il
guidatore, appollaiato nel suo sedile in alto, strinse la mano
a pugno e si mise a sbraitare, fermandosi anche lui: i due
veicoli si ritrovarono uno di fronte all’altro. Fergesson non
scese, rimase al volante.
Il guidatore del bulldozer saltò giù e si avviò verso di lui.
«Chi cavolo sei? Porta via da qui il tuo macinino.»
Per Fergesson il bulldozer e il suo guidatore infuriato
erano irreali. Sentì l’uomo che ansimava e vide la sua faccia
rossa inquadrata nel finestrino, ma ancora non si mosse.
Non sapeva che fare.
«Torna indietro!» gridò l’uomo. «Torna sulla strada!
Andiamo, amico!»
Fergesson disse: «Conosce Mr Bradford?»
Giunsero altri operai e insieme a loro c’era un uomo in
abito scuro. Indicarono la Pontiac di Fergesson e fecero
cenno ad altri operai di raggiungerli. Lungo la scarpata
formata da attrezzature e terra si formò una fila di figure:
curiosi.
L’uomo ben vestito si avvicinò al finestrino e disse:
«Devo chiederle di prendere la sua macchina e di
tornarsene da dove è venuto. Questa è una strada privata
per uso dello Stato.»
A Fergesson non venne in mente nulla da dire. Aveva
percorso più di un chilometro lungo quel tracciato
sconnesso a marcia bassa. L’idea di tornare indietro lo
atterriva. Si sentiva confuso e non riusciva a spiccicare
parola.
«Ma che gli prende?» stava strillando il guidatore del
bulldozer. «Cristo, io devo andare avanti… non posso
restarmene qui a cazzeggiare.»
Uno degli operai disse: «Forse non parla inglese.»
«Mi faccia vedere la sua patente» disse l’uomo ben
vestito.
«No» replicò Fergesson.
«Non sa come andare a marcia indietro» disse un altro
operaio.
«Si tolga» disse l’uomo elegante, aprendo lo sportello.
«La sposto io. Scenda giù, amico. Senta, possiamo
denunciarla: lei si trova su una proprietà dello Stato, è un
trasgressore. Non ha il diritto di stare qui. Non è una
strada, è un progetto edilizio.»
Sospinse Fergesson verso il sedile del passeggero,
richiuse lo sportello, inserì la retromarcia e, guardandosi
alle spalle, cominciò a rinculare. Il guidatore risalì a bordo
del suo bulldozer e lo seguì. Ci volle un bel po’ di tempo per
tornare al punto in cui finiva la strada normale. Fergesson
guardò in basso senza dire niente.
«Ci siamo» disse l’uomo, tirando il freno a mano e
scendendo. «È tutta sua.»
«Come faccio a uscire?» chiese Fergesson.
«Vada su per la salitella, da dove è venuto.»
Fergesson indicò la distesa di terra, e l’autostrada che
correva più lontana.
«Tomi indietro» ripete l’uomo. «Fino a San Rafael, e lì
trovi una strada per andare dall’altra parte.» Si allontanò in
tutta fretta e Fergesson rimase solo. Poteva sentire il
frastuono del bulldozer e il rumore degli operai che
iniziavano la giornata di lavoro. Inserì la prima – facendo
grattare il cambio – e tornò indietro goffamente lungo la
strada, per poi ritrovarsi di nuovo nella zona residenziale di
San Rafael, in mezzo alle case e ai prati.
Quando vide un uomo che camminava lungo il
marciapiede si sporse dal finestrino e gli gridò: «Come
faccio a passare di là?»
L’uomo gli rivolse un’occhiata e proseguì senza
rispondere. Fergesson tirò su il finestrino. Si sentiva
frastornato e depresso e non tentò di raggiungere il
passante. Ormai erano le nove e il cielo si stava scaldando.
La luce gialla del sole avvolgeva gli alberi e i marciapiedi, e
i prati scintillavano. Un postino camminava lentamente
lungo la strada e Fergesson accostò.
«Come faccio a raggiungere la 101?» gli chiese.
«Dove vuole andare?»
«Marin County Gardens» rispose lui, abbandonandosi
contro il sedile per rilassarsi.
Il postino sembrò riflettere. «No» disse. «Mai sentito.
Vada in comune e chieda lì. Senta qualcuno di loro, lo
sapranno certamente.» Si rimise in cammino.
Da quel momento il vecchio guidò a casaccio, senza
sapere bene dove andare o a chi rivolgersi. Sembrava
allontanarsi sempre di più dalla parte centrale della città:
le strade divennero più ripide e le case più vecchie. Alla
fine giunse in quella che sembrava una zona abitata: le case
erano malandate e i giardini pieni di erbacce.
Una volta vide un poliziotto, ma gli sembrò scostante e
poco disponibile, così non si fermò. Ormai erano le dieci
meno un quarto. Ma che razza di casino, si disse. Dove mi
trovo? Ancora a San Rafael? Oltre la zona abitata scorse un
tratto di aperta campagna. Campi coltivati e colline in
lontananza.
Alle dieci e trenta raggiunse un incrocio in cui c’era una
piccola costruzione in finta pietra con sopra un cartello:
IMMOBILIARE DOWLAND. AFFITTI PUBBLICI CON GARANZIA NOTARILE.
Parcheggiò ed entrò.
Dietro una delle tre scrivanie era seduta una donna di
mezza età, con un vestito a quadri e un cappello, che stava
parlando al telefono. Gli sorrise, concluse la conversazione
e poi si avvicinò al bancone. «Buongiorno» disse.
Fergesson disse: «Voglio andare a Marin County
Gardens.»
La donna rifletté. Aveva un aspetto elegante, con i
capelli grigi e ondulati tirati all’indietro. Indossava abiti
costosi e odorava di cipria e profumo. «Non è roba nostra»
disse. «È una delle nuove lottizzazioni che stanno
costruendo dall’altra parte della 101.» Poi aggiunse, con
qualche esitazione: «Francamente non so nemmeno se è
già visitabile.»
«Voglio vedere Mr Bradford» disse Fergesson.
La donna appoggiò i gomiti sul bancone e si picchiettò i
denti con una matita gialla. «Deve tornare indietro per
quasi due chilometri e poi attraversare. Oppure proseguire
oltre. La sua lottizzazione si trova lungo l’autostrada,
andando verso Petaluma, perciò le conviene seguire quella
direzione. Ci sono lavori dappertutto, stia molto attento. È
facile perdersi.»
La donna portò una mappa sul bancone e riuscì a
indicargli un percorso comprensibile. Fergesson la
ringraziò e tornò alla macchina sentendosi di nuovo
fiducioso. Forse stavolta ci riesco, si disse. Almeno esisteva:
quella donna ne conosceva il nome.
Si rimise in marcia e si ritrovò di nuovo nell’area in
costruzione. La strada divenne un intrico di terra e asfalto
smozzicato, a quanto riuscì a capire, da quei pesanti
macchinari. Però attraversava l’autostrada e lui riuscì a
raggiungere l’altra parte, dove c’era un gruppo di
macchine e un vecchio in blue jeans che indicava la
direzione con una bandierina. Di lì fu indirizzato sulla
sinistra lungo una vecchia strada asfaltata piena di buche
che seguiva il tracciato dell’autostrada, ma a una distanza
di circa un chilometro e mezzo. Sui due lati c’erano
piantagioni di alberi da frutta ormai morti, non riuscì a
capire a causa di cosa.
Gli giungeva all’orecchio il frastuono dei macchinari. Poi
li vide, in lontananza, come insetti industriosi. Ma a questo
punto aveva la certezza quasi matematica di poter vedere
Marin County Gardens; quantomeno sul fianco di un’ampia
collina marrone si vedeva un nuovo complesso urbano in
costruzione. Fergesson riusciva a scorgere la zona in cui il
terreno era stato spianato, erano state tracciate nuove,
piccole strade e gettate le fondamenta. Sentendosi
rinfrancato abbassò i finestrini e lasciò che l’aria calda
dell’estate entrasse nell’abitacolo, l’aria secca della
campagna, così diversa da quella della città. L’odore
pungente di erba tagliata gli sembrò gratificante e la vista
di quei campi piatti gli diede l’assoluta certezza di essere
finalmente giunto a destinazione; lo spettacolo che adesso
gli si presentava oltre il parabrezza impiastrato di polvere e
di insetti morti corrispondeva pienamente alle sue
aspettative.
Poi, con sua grande soddisfazione, apparve il cartello.
Quando ci passò davanti riuscì a leggere solo le lettere più
grandi; l’avviso, vergato su legno in una vistosa vernice
verde e rossa, si dilungava riga dopo riga in dettagli
sull’anticipo da versare, le planimetrie, il numero dei
mattoni che formavano il caminetto, i colori. Lesse:

MARIN COUNTY GARDENS


QUATTROCENTO METRI PIÙ AVANTI
APERTO PER L’ISPEZIONE PUBBLICA

Non era un progetto edilizio statale o federale,


quell’area di terreno e macchinari che si ritrovava davanti:
era un’iniziativa privata. Ma quadrava. Si inseriva
nell’animazione generale, nel movimento. Tutto
combaciava, e qui entrava in azione lui: qui era lui a
quadrare. I polsi e le mani gli bruciavano per il sudore;
sbatté le palpebre e provò un nuovo genere di sensazione, o
forse uno vecchio, un ricordo dell’infanzia. Non vedeva
l’ora di precipitarsi fuori dalla macchina e poggiare i piedi
a terra: aveva voglia di correre e saltare e afferrare cose da
lanciare.
La strada conduceva a un piccolo fabbricato con il tetto
di carta catramata e un parcheggio di fianco. C’era
posteggiata un’unica macchina, una Ford nera incrostata di
sporcizia. Il terreno era di fango compatto; Fergesson vide
diversi rotoli di carta catramata ammucchiati ai lati del
piccolo edificio, e un sacchetto di cemento vuoto per metà.
Dopo aver parcheggiato e tirato il freno a mano – si
costrinse ad agire con metodo – puntò verso la costruzione
a passi lenti e misurati. La porta dava su un ufficio dove
c’era un uomo seduto a una scrivania con i piedi sollevati e
incrociati. Stava leggendo un tascabile. L’ambiente odorava
di vernice. Sopra la scrivania c’erano un telefono e dei
portadocumenti, e su una parete era appeso un calendario
su carta lucida, nuovo fiammante, con l’immagine di una
ragazza dalla lunga gonna a fiori.
«Salve» disse l’uomo. Girò le pagine del libro, quasi a
scartare la parte non letta. Poi lo gettò rumorosamente
sulla scrivania e incrociò le braccia. Era giovane, con una
lunga faccia cavallina e i capelli folti. Indossava un vestito
informale a un petto solo. Aveva i denti sporgenti e la pelle
del collo era rossa e ruvida. Stranamente i calzini erano
arrotolati sulle caviglie. «Lei legge questa roba?» disse,
indicando con il pollice il tascabile chiuso.
«No» rispose Fergesson, ansimando per lo sforzo e per
l’eccitazione.
L’uomo raccolse il libro e lo esaminò. «Quoziente mille»
disse. «Di Poul Anderson. Fantascienza. Io leggo tutti questi
libri di fantascienza. Solo nell’ultimo mese devo averne letti
una cinquantina. Ce ne sono un mucchio, sulla scrivania.
Me li regalano, non ho bisogno di comprarli.»
Fergesson, che fremeva per l’impazienza, si ritrovò
prigioniero in quel piccolo momento senza tempo.
Gigantesche opere pubbliche, protratte per decenni,
spiegavano le ali in prossimità di quell’ufficio e di
quell’uomo, e lui si era uniformato al loro punto di
osservazione. Seduto alla sua scrivania con quella pila di
libri era come un funzionario egiziano. Privo di emozioni,
tagliato fuori, aveva accolto Fergesson con indifferenza.
«No» disse Fergesson, desideroso di riportare
quell’uomo all’attività, di ricondurlo nel tempo. «Senta,
conosce Mr Bradford?»
L’uomo annuì.
«È qui?»
«Bradford non è qui» disse l’uomo. Si alzò in piedi e
protese la mano, che Fergesson trovò pesante e troppo
asciutta. L’uomo si chinò per non sbattere la testa contro il
soffitto basso dell’ufficio, quasi incassandosi nelle spalle.
«Mi chiamo Carmichael. E lei?» Lo chiese con un moto
protratto della voce, come se già lo sapesse, ma se ne fosse
dimenticato e si aspettasse di riconoscerlo appena lo
avesse risentito.
«Jim Fergesson.»
«Salve, Jim» disse Carmichael, piegando la testa ad
angolo e guardandolo di traverso. «È un cognome
irlandese?»
«Credo di sì» rispose Fergesson. Adesso cominciava a
calmarsi, sentendo la pressione che scendeva a livelli
normali.
«Si sieda, Jim.» Carmichael trascinò una sedia verso di
lui e tornò alla sua, dall’altra parte della scrivania. Strofinò
le due mani secche come la selce portandole verso l’alto a
formare una superficie verticale. Poi, con l’unghia del
pollice, si abbassò il labbro inferiore e prese a tormentarsi
la gengiva. «Bene, Jim» disse. «Che posso fare per lei?
Posso venderle una casa?»
«No» rispose Fergesson. «Voglio parlare con Mr
Bradford. Ho qualcosa da discutere con lui. Dov’è?»
«Lei non vuole comprare una casa» disse Carmichael.
«In realtà non pensavo che avesse intenzione di farlo. Mr
Bradford è capitato qui una volta, che io sappia. Al
momento fa parte del gruppo finanziario che sovvenziona
questo posto. Il lavoro lo fanno Gross e Duncan… gli
appaltatori.» Adesso parlava più piano. «Io rappresento la
compagnia, perciò può parlare con me.»
Fergesson aveva deciso di non svendersi, di fingere di
essere qualcosa di diverso e non ciò che era veramente. Si
trovava lì proprio per accertarsi di quanto si stava
realizzando: stava passando in esame Marin County
Gardens e il lavoro e i progetti di quelli che c’erano dietro.
In lui c’era la capacità di deridere, non semplicemente di sé
stesso, ma di tutti loro. E Carmichael rientrava perché
anche su di lui doveva prendere una decisione: era parte
della lottizzazione e del nuovo centro commerciale, così
come lo erano l’operaio con il bulldozer e l’uomo ben
vestito che aveva guidato in retromarcia la sua Pontiac. E
in un certo senso anche il poliziotto e il postino e la donna
dell’agenzia immobiliare e tutti gli altri.
«Voglio vedere quello che state facendo» disse
Fergesson. «Possiamo dare un’occhiata?»
«Perché no?» disse Carmichael, ma senza accennare ad
alzarsi. Sembrava rassegnato e amabile, ma non
particolarmente coinvolto. «In che campo lavora, Jim?»
«Meccanica» rispose Fergesson.
«Che fa, le macchine le progetta, le inventa o le
costruisce? Lei lavora con le macchine?»
«Con le automobili» disse Fergesson.
«Davvero?» Carmichael sembrava interessato. «Una
volta avevo una vecchia macchina che avevo truccato.
Durante la guerra facevo parte del genio militare. Ho
lavorato su certi progetti… perlopiù modifiche al
carburatore. Alimentazione separata per ogni cilindro. Ecco
perché leggo questa roba.» Raccolse i suoi libri di
fantascienza e poi tornò a gettarli sulla scrivania. «Vede,
quelli che scrivono queste cose… le navi spaziali e le
macchine per il viaggio nel tempo e i motori in grado di
raggiungere velocità superiori a quella della luce, roba del
genere. Se lei vuole che il suo eroe si trovi su Marte deve
fargli dire qualcosa come: ‘Attivò i tubi per l’incremento
automatico della propulsione.’ Questo non è troppo male,
ma certi sono proprio brutti. Se ne vanno sempre in giro
per l’universo. Dev’essere facile scrivere queste cose, mi sa
che ci mettono poco a finire un libro.»
«Capisco» disse Fergesson, che invece non capiva dove
Carmichael volesse andare a parare con le sue chiacchiere.
«Mi piacerebbe conoscere uno di questi autori di
fantascienza. Mi offrirei come consulente tecnico.»
Carmichael snudò i grossi denti da cavallo in un sorrisetto
ironico. «Per il dieci o quindici percento di quanto prende
lui. Questa roba è tutta fasulla, vanno avanti a furia di
invenzioni. Prenda questo romanzo qui» disse poi,
agitandolo davanti al naso di Fergesson in modo che
potesse vederlo bene. «Racconta del quoziente intellettivo
di tutti che cresce dalla sera alla mattina.» Scoppiò
improvvisamente a ridere, una risata forte e rumorosa che
lo fece sobbalzare. «Gli animali che diventano intelligenti
come gli esseri umani. Ha mai letto roba del genere?»
«No» rispose Fergesson. Non aveva nessuna voglia di
star lì a perdere tempo; andò verso la porta e guardò fuori
le case in costruzione.
«Che ci fa con le macchine?» gli domandò Carmichael
dalla scrivania.
«Le aggiusto. Ho un’autofficina, a Oakland.»
«Quale parte di Oakland?»
«San Pablo Averne» rispose lui, e aprì la porta per
uscire.
Carmichael spinse indietro la sedia e lo seguì. Appoggiò
la mano sulla spalla di Fergesson. «Dice che vuole dare
un’occhiata in giro?» Si avviò lungo il vialetto di ghiaia a
fianco di Fergesson. «Be’, l’accompagno io.»
«Grazie» disse Fergesson. Sforzandosi riuscì a vedere la
zona di terreno pianeggiante in fondo alla collina; un
sentiero fangoso scendeva e poi attraversava un profondo
fossato, oltre mucchi di condutture e di legname
accatastato. Squadre separate di operai lavoravano a
gettare le fondamenta. Una betoniera mescolava il cemento
e il baccano echeggiante di un martello straziava l’aria di
mezzogiorno. Aria che odorava di legna appena tagliata.
«Niente male» disse Carmichael, fermandosi per
accendere una sigaretta. Gettò il fiammifero a una bella
distanza. «Non le sembra, Jim?»
«Sì» disse Fergesson.
Si avviarono giù per il sentiero. Sotto le scarpe si
appallottolavano grumi di fango e Fergesson barcollò
quando le scarpe scivolarono sulla melma. «Attento a dove
mette i piedi» gli disse Carmichael da dietro. Lui invece
scendeva tranquillo. «No, Bradford non viene qui. Vede,
Jim, glielo spiego io come stanno le cose. Bradford non ha
niente a che fare con la costruzione. Loro mettono i soldi e
Gross e Duncan fanno il lavoro. La vendita è gestita da due
o tre agenti. Adesso l’accordo che io ho con loro è di vivere
qui in questo lotto. Mi hanno dato una delle case ad affitto
gratuito per il primo anno, o fino a quando il lotto è pieno.
Per ogni casa che vendo mi pagano cinquecento dollari
puliti. A parte questo non ho nessun salario. Ma mi basta
vendere due case al mese. Eccola laggiù casa mia, è una di
quelle che si mostrano agli acquirenti. Rena di mobili dei
grandi magazzini e con una cucina elettrica completa di
tutto. Dentro c’è mia moglie.» Indicò e Fergesson vide una
casa con le tendine alle finestre. Era una casa in stile ranch
californiano, a un piano solo, con un garage e una
staccionata di legno e un prato circondato da fiori. Un
vialetto di cemento portava a una distesa fangosa che era la
strada. Tutte le altre case erano incomplete, non rifinite e
vuote. Gli scheletri erano identici. Fergesson non notò
alcuna variazione nelle file di costruzioni.
«Ci sono quattro stili diversi» disse Carmichael. «Ma da
qui non può vedere la differenza. È nel colore, nella
struttura e nel numero di camere da letto.»
«Capisco» disse Fergesson.
«Laggiù sorgerà il centro commerciale» disse
Carmichael gesticolando. «Quella è un’iniziativa separata.
Pensano che sia una scommessa e vogliono che vada avanti
per conto suo. Sono sicuri che le case si venderanno, ma il
centro commerciale è tutta un’altra cosa.»
«Perché?» chiese Fergesson. «La gente deve pur
comprare, e vive qui.»
«Vive qui,» convenne Carmichael «ma lei ha mai visto
una donna che abbia voglia di fare la spesa vicino casa? Le
signore vogliono andare in città. Non faranno la spesa qui,
preferiranno spostarsi a San Francisco. Gli offrirà la scusa
per andare nei grandi magazzini del centro. Magari qui
apriranno un mercato alimentare. Un mercato e una
stazione di servizio e una tavola calda. Ma loro parlano in
termini di…» Allargò le braccia. «Panetterie, negozi che
vendono ceramiche, una biblioteca circolante, un
calzolaio.»
«Una città» disse Fergesson.
Carmichael lo guardò. «Opere d’ingegneria, sì.»
«Lei non crede che renderà?»
«Be’, a loro importa poco.»
«Non rischiano niente.»
«No» convenne Carmichael. «Lo lasceranno a sé stesso.
Se affonda loro rimarranno comunque a galla.»
«L’autorimessa» disse Fergesson. «Pensavo di investire
in quella.»
Carmichael lo stava ancora fissando e Fergesson capì di
essere stato messo sotto esame fin dall’inizio. Quell’uomo lo
aveva valutato: era il suo mestiere. Fergesson si inoltrò nel
terreno pianeggiante e si fermò quando raggiunse un
gruppo di operai. Stavano preparando le forme per la
colata di cemento, per le fondamenta della casa.
«Bene» disse Carmichael, al suo fianco. «Le costerà
quaranta o cinquanta.»
«Sì» disse Fergesson.
«E la sua autofficina a Oakland?»
«L’ho venduta. Anzi, la sto vendendo.»
«Perché?»
Fergesson non rispose. Si sentiva teso e infastidito, e si
allontanò da Carmichael con le mani in tasca.
Dopo un po’ Carmichael lo seguì. «Torniamo in ufficio»
disse. «Lì potremo parlare.»
Fergesson disse: «Quanto chiedete per queste?» Si
riferiva alle case.
«Centoventi o centoquaranta. Sono buone. Niente di
speciale, ma sono ben costruite. Gross e Duncan conoscono
il loro mestiere. Nessuno si è mai lamentato.» Carmichael
schiacciò la sigaretta nel terreno fangoso. «A un certo
punto ho pensato anch’io a quella faccenda delle
automobili, alla vendita di pezzi di ricambio, voglio dire.
Per me. Ma quelli accettano solo gente che paghi
sull’unghia. Non me lo potevo permettere. Quando si parla
di cifre del genere io sono tagliato fuori. La questione delle
automobili se la stanno giocando bene. Chi vive così
lontano non potrà andare in città per i pezzi di ricambio e
per farsi aggiustare la macchina. Dovranno fare tutto qui,
perché quando verrà fuori un problema non potranno
risolverlo da un’altra parte.»
«È quello che ho pensato io» disse Fergesson, poi gli
venne in mente un’altra cosa. «Le donne non andranno in
un’autofficina. Sono gli uomini che ci portano la macchina.»
«Da quanto tempo lavora come meccanico?»
«Da quasi tutta la vita.»
«E le piace?»

È
«Mi sta bene.» Fergesson si sentiva impaziente. «È un
lavorando infilarsi sotto le macchine.»
«Le piace quello che vede qui?»
«Sì» rispose lui.
«È una cosa proprio strana» disse Carmichael. «Forza,
torniamo indietro.» Aiutò Fergesson con un braccio e tutti e
due si diressero verso il fossato e il pendio. «La gente viene
fin qui, si fa tutta quella strada dalla città… Sanno che non
è finito, sanno che l’autostrada non c’è ancora, e che non ci
sono nemmeno le case, e quando arrivano qui si guardano
intorno e gli prende il mal di panda, come se… al diavolo.
Ma che vogliono, Cristo santo? Io lo vedo, questo posto:
basta saper guardare. Tempo due o tre anni e ci saranno
prati, mamme che allattano i figli, e bambini che
scorrazzano dappertutto. Che gli serve di più? Queste case
si assomigliano tutte… e con questo? Non si
assomiglieranno più quando ci andranno ad abitare. Sono
le persone che fanno sembrare diverse le case. Prenda uno
qualsiasi dei sei isolati di case vuote: fa paura. Poi ci
portano dentro i loro mobili, le tende…»
«Quante case ha venduto?» chiese Fergesson.
«Sei. Anzi sette. Ci sono altri venditori, giù in città.»
Attraversarono il fossato e si fermarono in modo che
Fergesson potesse riprendere fiato. «Ci sarà qualcun altro
oltre a lei?» gli chiese Carmichael.
«No.» Aveva il respiro pesante per lo sforzo della salita.
Quasi a scusarsi si voltò a guardare le case, per vederle
un’ultima volta prima di riprendere il cammino. «Posso
gestirla da solo, la parte finanziaria.»
«Ma dovrà assumere dei meccanici.»
«Sì» disse Fergesson.
«È sposato? Ha una famiglia?»
«Sì» disse lui.
Carmichael riprese a salire senza fatica la collinetta e
Fergesson lo seguì. Le sue scarpe affondavano nella melma
giallastra e l’erba alla quale si aggrappava in cerca di
sostegno gli scivolava fra le dita. Carmichael saliva dritto,
senza difficoltà, parlando lentamente.
«Sta a lei scegliere. Non c’è nessun motivo per cui non
dovrebbe funzionare. Hanno investito una fortuna in questo
posto e quanto all’autostrada è già tutto approvato. Hanno
previsto più o meno quando dovrebbero aver venduto la
maggior parte delle case. In ogni caso lei dovrebbe avere
un ritorno dal suo investimento fin dall’inizio, perché qui
intorno ci sono un sacco di altri lotti, molti dei quali già
finiti, e la gente sta cominciando a trasferirsi da Petaluma.
E nei fine settimana c’è un gran traffico di persone che
vanno al Russian River. Ha visto quante macchine ci sono
sulla 101. Questa è una zona piena di movimento, e lo
diventa sempre di più ogni giorno che passa. Che altro può
fare se non crescere?»
Jim Fergesson saliva con grande difficoltà. Davanti a lui
Carmichael continuava a parlare e lui si sforzava di
ascoltare. Aveva le mani umide e doloranti per i fili d’erba
che le irritavano. A un certo punto incespicò e cadde sul
terriccio umido; affondò le dita e annaspò, poi chiuse gli
occhi. Carmichael era giunto in cima e fece per proseguire,
ma si fermò quando vide che il vecchio era rimasto indietro.
Fergesson si tirò su e si arrampicò con tutta la forza che gli
era rimasta. Raggiunse anche lui la cima con altri tre passi.
Lì c’era un mucchio di putrelle d’acciaio e mentre si
avvicinava un piede gli si impigliò in un groviglio di erbacce
che era cresciuto intorno. Fece un passo avanti e il corpo
gli cedette. L’aria gli uscì in un rantolo e lui piombò
nell’oscurità, così all’improvviso che non riuscì a dire nulla.
Fu come se il suolo lo avesse attratto a sé. Si accasciò con
la faccia irrigidita, a braccia larghe; non sentì il terreno
venirgli incontro e non ebbe la sensazione di cadere. Un
momento prima si stava arrampicando faticosamente dietro
Carmichael, il momento dopo giaceva faccia a terra nella
fanghiglia.
Carmichael, che stava ancora parlando, mosse qualche
passo, poi esclamò: «Oh, cavolo!» e tornò indietro e si
chinò, con la placida faccia cavallina a un palmo dalla nuca
di Fergesson. Il vecchio avvertì la sua presenza e grugnì,
tentando di tirarsi su. Ma non ci riuscì, non aveva più
energia. Tutto ciò che poteva sentire era un ronzio lontano,
e anche se riconosceva la voce di Carmichael non riusciva a
coglierne davvero il suono.
Carmichael prese il vecchio per un braccio e cercò di
sollevarlo. Tirò con entrambe le mani, ma Fergesson non si
mosse; non riusciva a smuoverlo e il vecchio avvertiva il
proprio peso inerte, quasi morto, schiacciato al suolo dal
terreno magnetico. Si sentiva come imprigionato e non
poteva fare o dire nulla: poteva solo aspettare. Sperò che
Carmichael avesse una risposta pronta.
«Ehi» disse Carmichael ad alcuni operai al lavoro lungo
il pendio. «Datemi una mano.»
Gli operai accorsero subito. Fergesson non provava
intontimento o paura; solo un senso di fastidio allo
stomaco, e il petto cominciava a dolergli. Poteva tracciare
con gli occhi della mente il profilo di quelle putrelle. Erano
sotto di lui. La pressione divenne dolore e lui trasalì.
«Che è successo?» chiese un operaio.
«È caduto» rispose Carmichael. Aiutarono il vecchio a
rimettersi in piedi e lo sostennero perché non cadesse.
Fergesson si ritrovò in posizione eretta, sgocciolando
melma ed erbacce intrise d’acqua. Però sentiva ancora
quella pressione sul petto: sollevò la mano e se la passò
istintivamente sulla faccia: gli sembrò gonfia e bagnata,
come se stesse sanguinando.
«Grazie» disse Carmichael; gli operai se ne andarono.
«Ehi» disse poi a Fergesson. «Ha fatto proprio un bel
capitombolo.»
Fergesson annuì. La fitta al petto lo intontiva. Si toccò
con le dita irrigidite, ma non sentì niente. E poi non
riusciva nemmeno a parlare. Adesso sì che aveva paura.
«Andiamo in ufficio» disse Carmichael. Gli pose una
mano sulla spalla e lo accompagnò verso la baracca con il
tetto catramato. «Che ne direbbe di una tazza di caffè?»
«No» disse Fergesson. La sua voce gli sembrò
lontanissima da lui, e discordante. Come se si stesse
ascoltando attraverso un cavo telefonico. «Devo tornare a
casa.»
«Vuole rimettersi alla guida?»
Fergesson fece cenno di sì e Carmichael lo accompagnò
fino alla Pontiac parcheggiata. Gli aprì lo sportello e il
vecchio sedette al volante. Si appoggiò allo schienale e
respirò a grandi boccate. L’aria gli ferì la gola, come se
anch’essa si fosse irritata per via della caduta. Si tenne la
mano contro il petto e spinse.
«Come si sente?» gli chiese Carmichael.
Lui fece un cenno di assenso con la testa.
«Stia attento alla terra bagnata, è pericolosa.»
«Sì» disse Fergesson. La testa cominciava a schiarirsi e
lui ci vedeva già meglio. Però si sentiva ancora dolorante, al
punto di convincersi di avere subito qualche lesione
interna. Tremava ed era spaventato: desiderava solo che
Carmichael se ne andasse. Voleva tornare a Oakland.
Carmichael, appoggiato allo sportello, parlava a ruota
libera, continuando la sua discussione come se non fosse
successo niente. La sua calma olimpica non si era
minimamente incrinata: il vecchio era caduto e lui aveva
fatto in modo che si rimettesse in piedi. Fergesson,
appoggiato al sedile, sudava e stava pensando al viaggio di
ritorno. Era sicuro di potercela fare; se necessario poteva
anche fermarsi ogni tanto. Voleva andarsene subito, così
aprì gli occhi e lo interruppe. «Grazie, Mr Carmichael. Ci
vediamo.» Girò la chiave con la destra e affondò il piede
sull’acceleratore. Il motore salì di giri.
«Aspetti» disse Carmichael. «Le do il mio biglietto da
visita.»
Fergesson accettò il biglietto e se lo infilò in tasca. La
macchina avanzò di un metro, accompagnata da
Carmichael. Fergesson guardò attraverso il parabrezza e
sbatte le palpebre mentre il sudore gli scendeva attraverso
le sopracciglia fin dentro gli occhi. Il dolore era più intenso,
più sordo. Lo sentì localizzato nel cuore e improvvisamente
si rese conto di avere avuto un attacco cardiaco: non grave,
un piccolo infarto, dovuto alla salita e all’eccitazione.
«Arrivederci» disse. Si avviò lungo la strada, annuendo
all’unisono con il movimento della macchina.
«Ci vediamo, Jim» disse Carmichael, già lontano dalla
visuale di Fergesson. Il suono della sua voce scemò.
Fergesson guidava con le mani strette sul volante. Quando
ebbe percorso quasi due chilometri rallentò e tornò ad
appoggiarsi allo schienale, cercando di mettersi comodo. Il
dolore sembrava meno intenso, adesso, e lui ne fu contento.
Quando riuscì a ritrovare l’autostrada era già in grado
di stare seduto in posizione eretta. Il dolore, una specie di
crampo, scemava sempre più. Tremando, inserì per la
prima volta una marcia alta. Il rombo del motore diminuì.
Era ancora spaventato e mentre guidava canticchiava
fra sé: «Bum bum. Bum bum.» Non significava niente, e lui
non aveva mai pronunciato suoni del genere; li ripete con le
labbra, più volte, come se fossero importanti. «Bum bum.»
Gli si aprì il cuore quando vide San Rafael sui due lati della
strada, perché significava che di lì a poco avrebbe
raggiunto il ponte e sarebbe rientrato nella zona orientale
della Baia. «Bum bum.» si disse ancora, cogliendo l’eco
della propria voce. Guadagnò velocità e lo disse più forte. Il
sole, a metà giornata, era molto caldo e il sudore gli
sgocciolava lungo le guance e giù per il collo. Aveva il
vestito appiccicato addosso e quando si muoveva sentiva
sulla pelle la tessitura vischiosa della stoffa. Forse, pensò,
quelle travi metalliche gli avevano squarciato il petto.
7

Quel giorno nessuno aveva aperto l’autofficina; le porte


di legno erano chiuse. Il vecchio parcheggiò la Pontiac
davanti all’entrata e scese, non senza qualche difficoltà, per
aprire il lucchetto che teneva insieme le porte. Mentre le
apriva fu investito da una zaffata d’aria umida e puzzolente.
Dopo aver portato dentro la Pontiac andò in ufficio e si
sbottonò la giacca. Toccò con le dita la pelle sotto la
camicia e la canottiera e scoprì che la stoffa era intrisa di
sangue. C’era una profonda incisione lungo le costole, e
sanguinava ancora. Andò subito in bagno e con il pezzo di
sapone che usava per lavarsi le mani cominciò a pulire il
sangue. L’incisione era bianca e la carne non era proprio
ferita, ma piuttosto intaccata.
Perciò, si disse tornato in ufficio, il dolore era stato
causato dall’impatto, dall’urto: l’acciaio lo aveva colpito in
pieno petto e non c’era nessun motivo per pensare a
qualcosa di più serio. Adesso il dolore era sparito, ma lui si
sentiva debole, preda di un leggero malessere. Si chinò,
aprì il cassetto più basso della scrivania e vi rovistò in
cerca della bottiglia di Christian Brothers. L’unico bicchiere
che riuscì a trovare fu una vecchia coppetta di gelato piena
di foglietti di carta. Dopo aver bevuto una sorsata di brandy
si sedette e giocherellò con i foglietti sul piano della
scrivania. Alla fine gli capitò sotto gli occhi quello su cui
era scritto il numero di telefono di Harman. Lo compose.
«Pronto?» disse. «Harman? Mr Harman?»
«Solo un attimo» disse la ragazza. «La metto in
comunicazione con Mr Harman.» Una serie di clic,
un’attesa. Poi la voce di un uomo.
«Sì, sono Harman.»
«Sono Fergesson» disse lui. «Quel posto mi interessa,
ma non riesco a parlare con Mr Bradford.»
«Oh, certo» disse Harman, sembrando sul momento
perplesso.
«Ci sono andato, ma lui non c’era.»
Dopo una pausa la voce di Harman disse: «Amico mio,
ho pensato a lei e a questo affare. Credo sia meglio che
lei… ce l’ha un avvocato o no?»
«No» disse Fergesson.
«Be’, chi si è occupato dei documenti per la sua
autofficina?»
«Matt Pestevrides, un agente immobiliare.»
Harman disse: «Per me, se lei va a parlare con Bradford
deve farlo attraverso qualcuno. Senza offesa, Jim, però per
lei sarebbe molto meglio se avesse con sé un
rappresentante che è abituato a trattare con operatori
come Bradford. Che sappia parlare il suo linguaggio, se
capisce quello che intendo.»
«Voglio quel posto» disse Fergesson.
«L’officina?»
«Voglio comprarlo!» disse Fergesson all’orecchio di
Harman, così forte che il suono sembrò rimbalzare indietro.
«Allora senta,» disse Harman «si trovi un avvocato.
Lasci che sia lui a parlare con Bradford. Gli dica di
informarlo che c’è un cliente interessato e che vuole
saperne di più. Lui saprà come affrontare la situazione.
Probabilmente Bradford e i suoi soci hanno già disponibile
un prospetto informativo: lei sa cos’è, un rendiconto
finanziario che fornisce tutti i particolari. Lo faccia
consultare dal suo avvocato e veda cosa ne pensa. Oppure
si trovi un mediatore finanziario, qualcuno che ha
esperienza con questo genere di cose. O magari lo porti a
me, se vuole.»
«Lo porterò a Tsarnas.» Era l’avvocato bulgaro esperto
in transazioni immobiliari che lo aveva assistito quando
aveva acquistato l’autofficina. «Grazie.»
«Se le fa piacere posso fornirle il nome del mio
avvocato» disse Harman. «È molto in gamba.»
«No.» Il petto aveva ripreso a dolergli. «Grazie.»
Riappese la cornetta.
Perché, si domandò, non poteva vedere Bradford?
Perché doveva muoversi attraverso qualcun altro? Bradford
era come dio in cielo, invisibile, conosciuto solo grazie alle
sue opere. I grandi uomini, i finanziatori, avrebbero sentito
parlare di Jim Fergesson indirettamente e per gradi, e la
consapevolezza che esisteva al mondo un uomo di nome Jim
Fergesson sarebbe cresciuta forse in modo infinitesimale, e
non ne era nemmeno certo. E quanto sarebbe stato
importante per loro? Quanto avrebbe contato? Però ormai
aveva preso la sua decisione: voleva andare avanti.
Compose il numero dell’ufficio di Tsarnas. Rispose la
figlia.
«Mi faccia parlare con Boris» disse Jim. «Sono
Fergesson.»
Chiese a Tsarnas di procurarsi tutte le informazioni su
Marin County Gardens e poi, dopo aver riattaccato, aprì il
cassetto della scrivania e trovò un sigaro Dutch Masters
ancora avvolto nel cellofan. Aveva un buon sapore e riuscì a
farlo rilassare. Giù nel petto il dolore era diventato una fitta
sorda e uniforme che si era messa a pulsare.
Fuori dall’ufficio c’erano macchine a cui doveva
lavorare, macchine con il cofano ricoperto di polvere
metallica perché la settimana prima aveva smerigliato le
valvole. Una Plymouth era quasi finita, ancora sollevata
dall’argano idraulico: si era dimenticato di rimetterla giù.
Se ne stava lì da tre giorni ed era già un miracolo che l’aria
non fosse uscita dall’argano. Dopo aver finito di fumare il
sigaro lasciò l’ufficio e prese degli attrezzi dal banco da
lavoro. Spinse fuori con un calcio il carrello di legno e ci si
sistemò sopra.
Era di nuovo al lavoro sotto una macchina, in
quell’oscurità umida, in mezzo a sagome indistinte. Trovò il
cavo della lampada di sicurezza e la tirò verso di sé: la luce
gialla si allargò sulla trasmissione e sul volano della
macchina.
Quando si girò per prendere una chiave a bussola il
petto gli scricchiolò: spalancò subito la bocca e lasciò
andare la chiave. Il dolore riemerse e fu di nuovo lì, come
prima, lo travolse impedendogli di respirare. Ingollò aria
dalla bocca, rantolando come se avesse la gola chiusa.
«Cazzo» disse quando riuscì a parlare e si voltò di nuovo
sulle spalle: a faccia in su, le braccia appoggiate ai fianchi e
il bagliore della lampada tutt’intorno. C’era qualcosa che
non andava dentro di lui. Qualcosa si era rotto in via
permanente. Non era guarito affatto.
Per un po’ giacque sotto la macchina, poi fece scivolare
via il carrello. Scaraventò gli attrezzi sul banco da lavoro e
se ne tornò in ufficio. Rimase lì per un’ora, senza far niente.
Erano ormai le tre e trenta e non mangiava dalle sei. Oltre
il riquadro assolato della porta c’era gente che passava. Si
domandò se sarebbe entrato qualcuno. In tal caso poteva
chiedergli di andargli a prendere un panino al bar in fondo
alla strada.

Nel tardo pomeriggio, quando i raggi del sole non erano


più così caldi, Al Miller tirò fuori la tanica da un gallone di
polish e cominciò a lucidare una Oldsmobile del’54 che
aveva ritirato da un grossista. Mentre aspettava che la cera
si asciugasse attaccò il tubo e cominciò a dare una
sciacquata alle altre macchine, puntandolo di qua e di là. A
quest’ora del giorno c’era una luce molto intensa e lui
aveva inforcato gli occhiali da sole. Proprio per via di quella
luminosità aveva le spalle rivolte alla strada e al
marciapiede.
Mentre si muoveva dietro una macchina si voltò e notò
qualcuno che veniva verso di lui, una figura che era già
entrata nel lotto senza che lui se ne accorgesse. La donna
procedeva a passo veloce, seguendo una linea retta. Puntò
su di lui che se ne stava lì con il tubo sgocciolante in mano:
Al si schermò gli occhi con la mano e cercò di capire chi
fosse, se fosse qualcuna che conosceva. Spesso capitava
che si fermassero da lui delle donne che avevano bisogno di
spiccioli per il parchimetro, in genere sempre piuttosto
sbrigative e decise.
La donna, grossa, di mezza età, si mise improvvisamente
a strillare nella sua direzione. «Oh, eccola qui, razza di
cialtrone. Con le mani in mano come sempre.» Ripeté
quelle parole più volte, rimescolandole; Al la fissò a bocca
spalancata, colto completamente alla sprovvista.
Si accorse in quel momento che era Lydia Fergesson.
«Se ne sta qui a oziare!» gli gridò, allungando la faccia,
sporgendola, quasi mutandola dall’interno. «Non fa mai
niente in questo grande mondo, se non quello che interessa
a lei, brutto egoista.»
«Cosa?» disse lui mentre andava a chiudere il tubo.
Lydia indicò l’officina.
«Non c’è» disse Al. «È stato fuori tutto il giorno. L’ho
cercato verso le due.»
Lydia disse: «Invece c’era, e stava male.»
Oh mio dio, pensò Al. Era successo. «Male come?»
chiese. «Me lo dice?» Anche la sua voce crebbe di tono,
diventando stridula quasi come quella di lei. «Isterica
straniera psicopatica!» le strillò, avvicinandosi così tanto da
poter vedere ogni poro della sua pelle, ogni ruga, grinza e
capello. Lei fece un passo indietro, spaventata. «Se ne vada
da qui!» gridò Al. «Esca dal mio terreno.» Mentre Lydia
indietreggiava lui le corse dietro. «Che gli è successo?»
gridò ancora, lasciando cadere il tubo e afferrandola per la
manica. «Me lo dica!»
«Ha avuto un attacco» disse lei.
«Dov’è?»
«A casa.» Adesso la sua voce era più bassa, e senza più
quel tono accusatorio. «Un bravo cliente che gli vuole bene
e si preoccupa per lui è capitato qui e lo ha trovato seduto
in ufficio; non era nemmeno in grado di fare una telefonata.
E l’ha portato da un medico che gli ha fatto i raggi e lo ha
fasciato.»
Un po’ della paura di Al svanì. «Da come l’ha detto
sembrava che fosse morto, che avesse tirato le cuoia.»
Tremava tutto e anche la voce gli usciva a fatica.
«Addio» disse Lydia. «Sono venuta qui in taxi per dirle
che conseguenze avrebbe potuto avere il suo
comportamento.»
«Quale comportamento?» La seguì fino al limite del
terreno. Lì, in un parcheggio, c’era il taxi, nuovo, giallo e
lucido; l’autista se ne stava seduto a leggere il giornale.
«L’accompagno io a casa» disse Al. «Posso vederlo? Posso
salire a vedere come sta?»
«Guiderà con prudenza?» disse Lydia.
«Certo» rispose lui, già diretto verso la sua auto
migliore, una Chevrolet. Salì a bordo, avviò il motore e lo
fece salire di giri affondando il piede sull’acceleratore. Poi
scese, raggiunse il taxi parcheggiato e pagò l’autista. Al
ritorno scoprì che Lydia era già salita sulla Chevrolet, sul
sedile posteriore. Guardava fisso davanti, con la faccia
inespressiva… di proposito, decise Al mentre si
accomodava al posto di guida, dietro il volante.
È venuta qui per farmi sentire in colpa perché non l’ho
trovato.
Guidò attraverso il traffico. Nessuno dei due parlò.
Giunto a Grove Street precedette Lydia sui gradini fino
al portico. La porta però era chiusa e così dovette aspettare
che arrivasse lei. Non appena Lydia ebbe girato la chiave
lui entrò in casa.
Trovò il vecchio in salotto, praticamente uguale a
com’era sempre, a parte che indossava una vestaglia di
lana blu e un paio di pantofole al posto della tuta da lavoro
e delle scarpe. Sedeva nel mezzo del divano con i piedi
appoggiati su un cuscino e guardava la tv, il cui rumore
riempiva la stanza. Al si fermò e rimase lì a guardare il
vecchio, che non sembrava essersi accorto della sua
presenza.
Alla fine andò verso il televisore e abbassò il volume. A
questo punto il vecchio voltò la testa e lo notò.
«Che ti è successo?» gli chiese Al.
«Mi sono ferito al petto» rispose il vecchio.
«Tutto qui?»
«Forse ho una costola incrinata. Il dottore mi ha fatto
una radiografia e mi ha messo una fasciatura.»
«Com’è successo?»
«Sono caduto» rispose il vecchio.
«Sei scivolato sul grasso?»
«No.»
Al attese. «E allora come?» disse alla fine.
«Sull’erba bagnata» rispose il vecchio.
«Era nella contea di Marin» disse Lydia alle sue spalle.
«Ti sei preso una vacanza?» chiese Al.
«Ero lì per affari» rispose il vecchio. Per un po’ rimase
seduto in silenzio, con un’espressione torva sulla faccia.
Non aggiunse parola e ad Al non venne in mente nulla da
dire; rimase lì in piedi, riprendendo fiato e calmandosi. La
situazione non sembrava poi così brutta. Ovviamente la
donna era fuori di sé e aveva esagerato.
«Hai bisogno di qualcosa?» disse Lydia, avvicinandosi al
marito.
«Magari un po’ di caffè» rispose il vecchio. «Ne vuoi una
tazza?» chiese poi ad Al.
«D’accordo» disse lui.
Lydia scomparve in cucina e i due uomini rimasero soli,
sempre in silenzio.
«Mi ha fatto prendere un colpo, tua moglie» disse poi
Al.
Il vecchio non fece commenti, né mostrò alcuna
espressione.
«Ti senti abbastanza bene, no?» disse Al. «Quand’è che
potrai tornare al lavoro? Che ha detto il dottore?»
«Mi chiamerà quando avrà il risultato della lastra.»
Al annuì. «C’è qualcosa che posso fare?» si affrettò a
chiedere.
«No» rispose il vecchio. «Grazie.»
«Vuoi che chiami qualcuno dei tuoi clienti per te?»
«No.»
«Va bene» disse Al. «Fammi sapere, allora.»
Il vecchio annuì.
Lydia chiamò dalla cucina ad alta voce. «Mr Miller, per
favore, venga qui un attimo.»
Lui imboccò il corridoio e la raggiunse in cucina.
Lydia Fergesson se ne stava accanto alla credenza,
preparando il caffè, e gli dava le spalle. «La prego, se ne
vada da questa casa, adesso che lo ha visto abbastanza a
lungo.»
Al disse: «Mi stia a sentire, lavoro con quell’uomo da
anni.» Si sentì travolgere dalla rabbia, dal rancore che
provava verso di lei.
«Fin troppi» disse lei in tono secco e autoritario, ma
vivace, quasi frivolo, mentre prendeva le tazze per il caffè.
«Che avrò mai fatto?» chiese lui.
Lydia si girò verso di lui e disse: «Nonostante quello che
dice, lui è malato. È un uomo malato.»
«Certo» disse Al.
«Gli permetta di restare a casa sua e di riprendersi. Non
faccia richieste.»
«Tipo?» replicò lui. «Quali richieste? Che intende dire?
Che pensa che gli possa fare o gli chieda di fare per me?
Lei è convinta che stia sempre lì a chiedergli di aggiustare
le mie macchine? Forse è questo.» Provava odio per lei, e
nello stesso tempo avvilimento, il suo solito, vecchio
avvilimento. Certamente era così: si serviva del vecchio. E
non era mai andato a genio a Lydia. Anche lei lo usava, e
quindi poteva facilmente capire come stavano le cose.
«Pensi invece che sono io a dargli una mano» disse. «Con i
lavori pesanti. Ci ha pensato? Sarà meglio che lo faccia.»
Lei non disse nulla. Continuò ad armeggiare in cucina
senza prestargli attenzione, sempre con quel sorriso
stampato sulla faccia. Stava aspettando che lui se ne
andasse, adesso che aveva fatto la sua sparata.
Per un po’ Al rimase lì. Si sforzò di farsi venire in mente
qualcosa da dire, ma aveva la testa vuota. A parte la
malinconia. Alla fine girò sui tacchi e se ne tornò in salotto.
Trovò il vecchio di nuovo intento a guardare la tv, con il
volume sempre basso: la fissava, tutto assorto sulle figure
grigie e acquose.
«Ci vediamo» disse Al. «Devo andare.»
Il vecchio annuì subito. Al attese, ma Jim non parlò.
Allora si cacciò le mani in tasca e si diresse verso la porta
di casa.
Un attimo dopo era fuori sul marciapiede, e poi a bordo
della sua Chevrolet.
Non avrei dovuto andarmene, pensò mentre si
allontanava. Dovevo restare lì e salvarlo da quella strega.
Da quella vecchia arpia.
Ma non gli venne in mente nessuna scusa per tornare,
nessun modo per giustificare un eventuale ripensamento.
Sono proprio un incapace, si disse. Sono solo un fallito,
un buono a nulla. Niente di strano che non riesca a
ottenere nessun risultato nella vita. Non ho spinta, non ho
ambizione. Sono condannato e lo so. Non c’è nessun posto
per me. Non ho il coraggio di ricavarmene uno da nessuna
parte.
Non tornò alla rivendita; anzi, vedendo che erano quasi
le cinque se ne tornò a casa, nel vecchio palazzo di legno
grigio a tre piani.
Quando aprì la porta sentì dei suoni e dei profumi: Julie
era tornata a casa prima di lui e stava in cucina a preparare
delle costolette per la cena. Al entrò e la salutò.
«Ciao» disse lei. Portava jeans e sandali e questo gli
ricordò che era uno dei giorni in cui lei non lavorava. «La
cena non sarà pronta prima di mezz’ora. Sei in anticipo.»
Lui andò al frigo e prese una bottiglia di sherry.
«Ti ha chiamato qualcuno» disse Julie. «Una donna.»
«Come si chiama?»
«Mrs Lane. Ha lasciato il numero. Ha detto che doveva
riferirti qualcosa di importante. Sarà meglio che la chiami
per sapere che vuole.»
«Un’agenzia immobiliare» disse lui, sedendosi al tavolo.
«Oggi il vecchio ha avuto un incidente. È caduto. Lo hanno
portato a casa.»
«Che peccato» disse Julie, senza la minima reazione
nella voce, né sorpresa, né dispiacere o preoccupazione.
«Non t’importa?» le chiese Al.
«Non vedo perché dovrebbe» rispose lei.
«Sto pensando di tornarci» disse lui. «A casa sua.»
«Non dimenticare la cena» disse Julie.
«Vuoi dire che farei meglio a non andarci. A restare
qui.»
Julie disse: «Non ho nessuna intenzione di prepararla,
se tu te ne vai lì. Perché dovrei farlo?»
A quello Al non aveva risposta. Se ne restò seduto a
giocherellare con la bottiglia di sherry.
«Vuoi chiamare o no quell’agenzia immobiliare?» disse
poi Julie. «Quella Mrs Lane?»
«No» rispose Al. «È una scocciatrice.»
«Mi è sembrata molto gentile.»
«Se richiama dille che sono fuori» disse lui.
Mentre sua moglie preparava la cena, Al rimase seduto
al tavolo bevendo lo sherry. Subito cominciò a ripensare
all’idea che aveva avuto di ricattare quel grosso uomo
d’affari, Chris Harman. Aveva deciso che il modo migliore
era quello di essere assolutamente diretto, di chiamare
Harman al telefono, o a quello dell’ufficio o a quello di casa,
e di dirgli, appena avesse risposto: «Senta, io so che lei
fabbricava dischi osceni, e questo è contro la legge. Mi dia
dei soldi oppure andrò a riferirlo alla polizia.» Per quanto ci
avesse provato, non era riuscito a escogitare un approccio
migliore di quello.
Magari dovrei farlo proprio adesso, pensò. Mentre sono
dell’umore giusto. Così appoggiò il bicchiere e andò in
salotto, dove c’era il telefono. Si mise a sedere e sfogliò le
pagine dell’elenco telefonico finché giunse alla lettera H.
Alla fine trovò il numero di Christian Harman, che viveva a
Piedmont. L’indirizzo gli sembrava giusto. Prese la cornetta
e cominciò a comporre il numero.
Ma appena formato il prefisso cambiò idea; abbassò il
telefono e tornò a riflettere. Probabilmente esistevano
tecniche migliori e più consolidate per farlo, note a
qualcuno che lavorava nel campo. Chi poteva saperlo?
Qualcuno come Tootie Dolittle, forse. Aveva fatto di tutto.
«Chi stai chiamando?» gli chiese Julie dalla cucina.
«Quella donna dell’agenzia?»
«No» disse lui. Si alzò e andò a chiudere la porta, in
modo che lei non sentisse. Gli era anche venuto in mente
che Harman poteva riconoscere la sua voce.
Dopo aver composto il numero di Tootie rispose una
voce femminile.
«Vorrei parlare con Tootie» disse Al.
«Non è ancora tornato a casa» rispose la donna. «Chi lo
vuole, prego?»
Al le diede il suo nome e le chiese di dire a Tootie di
richiamarlo.
«È tornato adesso» disse la donna. «È appena entrato
dalla porta. Solo un momento, prego.» Sentì il rumore del
telefono sbattuto giù, poi dei mormorii soffocati, e infine la
voce di Tootie.
«Salve, Al.»
«Ascoltami,» disse lui «c’è una cosa che io non posso
fare e che tu puoi fare per me. Ci vorrà solo un secondo. Si
tratta di una telefonata.» Non era la prima volta che si
scambiavano favori del genere.
«A chi?» chiese Tootie.
«Ho qui il numero» disse Al. «Devi chiedere di Chris.
Quando ti risponde digli che sai del disco Little Eva.»
«D’accordo» disse Tootie. «Gli dirò che so del disco
Little Eva. E lui che dirà?»
«Dovrebbe preoccuparsi» rispose Al.
«Si preoccupa.»
«Poi tu gli dici: ‘Però potrei dimenticarmi di sapere del
disco Little Eva…’ o qualcosa del genere. Qualcosa che gli
faccia capire che vuoi trattare con lui.»
«Dimenticarmi del disco Little Eva» ripeté Tootie.
«Poi chiudi subito il telefono, ma prima digli che lo
richiamerai. Subito dopo riattacca. Non restare in linea.»
«Io chiamo da una cabina telefonica» disse Tootie. «È
così che lavoro, in questo genere di cose.»
«Bene» disse Al.
«Da quella che si trova davanti al negozio di liquori»
aggiunse Tootie.
«Bene.»
«Dopo chiamo te e ti riferisco quello che ha detto.»
«Bene» disse Al.
«Qual è il numero? Dammelo.»
Al gli diede il numero di Harman. Riattaccò e rimase ad
aspettare.
Mezz’ora dopo il telefono squillò e quando lui rispose si
ritrovò a parlare con Tootie.
«L’ho chiamato» disse Tootie. «Gli ho detto: ‘Ehi, amico,
so di quel Little Eva. Che hai intenzione di fare?’ Va bene
così?»
«Bene» disse Al.
«Lui mi dice: ‘Cosa?’ Io ripeto quello che gli ho già
detto.»
«Ti è sembrato nervoso?»
«No, per niente» disse Tootie.
«E come ti è sembrato?»
«Non mi è sembrato niente. Mi ha chiesto quanti ne
volevo.»
«Cosa?» disse Al, stupito.
«Mi ha detto: ‘Quanti Little Eva vuoi?’ Voleva
vendermene un po’. Quello ha una fabbrica di dischi. Mi
sono segnato il nome.» Una pausa. «Si chiama Teach
Records.»
«Cristo d’un dio» esclamò Al. «Ha pensato che fossi un
negoziante di dischi che voleva fare un ordine.»
Tootie disse: «Mi ha detto che vende solo in pacchi di
venticinque con il quaranta percento di sconto. E poi ha
aggiunto: ‘Quanti pieghevoli le servono? Quelli sono
gratis.’»
«E tu che hai risposto?»
«Gli ho detto che avrei richiamato e ho riattaccato. Ho
fatto bene?»
«Hai fatto bene» disse Al. «Grazie mille.»
«Ascolta» disse Tootie. «Quel Little Eva ha a che fare
con la gente di colore e con i suoi problemi?»
«No» rispose Al. «È una canzone. Un disco.»
«Mia moglie dice che Little Eva è una persona di
colore» disse Tootie.
Al ringraziò ancora Tootie e riattaccò.
Be’, la cosa non aveva funzionato per niente.
Julie apparve dalla cucina. «La cena non può aspettare
di più» disse.
«D’accordo» disse Al, preoccupato. Quel tipo non è per
niente nervoso a proposito dei suoi dischi osceni, pensò Al
mentre entrava in cucina e trascinava una sedia verso il
tavolo. E non sono uno scheletro nell’armadio per lui;
riesce ancora a venderli in pacchi da venticinque.
Mentre cenava riferì a sua moglie come Lydia Fergesson
lo avesse sbattuto fuori di casa. La faccia di Julie avvampò.
«Che dio la stramaledica» disse, fuori di sé. «Ha fatto
una cosa del genere? Se fossi stata lì gliel’avrei fatta
vedere io. Sul serio.» Lo fissò, trascinata così intensamente
dalle sue emozioni che non riusciva a parlare.
«Magari lui morirà e mi lascerà qualcosa» disse Al.
«Magari mi lascerà tutto. Non hanno figli.»
«Non me ne importa niente!» strillò Julie. «Mi importa
di come ti hanno trattato. Prima lui ti lascia all’oscuro delle
sue intenzioni, anche se la tua vita, dal punto di vista
economico, dipende tutta da quel pezzo di terra, e poi ti
trattano senza rispetto. Dio, come avrei voluto essere lì. E
lei si è fatta accompagnare a casa da te. Come se fossi il
suo autista!»
«È stata una mia idea,» disse lui «riaccompagnarla a
casa, così potevo vedere come stava.»
«Questa parte della tua vita è finita» disse lei. «Non
ripensare mai più a quel vecchio, dimenticati di averlo mai
visto o conosciuto… pensa al futuro. Non andare mai più a
casa loro. Io non cambierò mai idea, non dopo il modo in
cui si sono comportati con me.»
«A essere sincero» disse Al «stavo proprio pensando di
tornarci stasera.»
«Perché?» lo disse di getto, tremando.
«Non mi piace essere sbattuto fuori. Penso di dover
tornare, se ho un minimo di orgoglio e di senso dell’onore.»
«Tornarci per fare cosa? Lei ti insulterà e basta. Tu non
sei in grado di tenere testa a nessuno dei due, sei troppo
debole per affrontarli. Non debole, ma…» Julie gesticolò:
aveva smesso del tutto di mangiare. «Sei incapace di
affrontare le situazioni più difficili.»
«Adesso devo proprio tornarci» disse Al. «Dopo che hai
detto questo.» Almeno era così che lui la vedeva. Non
esisteva altra via onorevole. Anche mia moglie, pensò, mi
disprezza.
«Allora farai meglio a prendere una di quelle pillole»
disse Julie. «Quelle pillole di Dexymil che hai. Quando ne
prendi una diventi un po’ più combattivo.»
«È una buona idea» disse Al. «Lo farò.»
«Stai parlando seriamente?» disse Julie. «Vuoi proprio
continuare a sbattere la testa contro quella gente, senza
nemmeno la prospettiva di ricavarci nulla?»
Al disse: «Andrò da lui e gli chiederò che diavolo ci
faceva nella contea di Marin nel bel mezzo di un giorno
lavorativo. Mi incuriosisce.»
Ma in effetti si trattava solo di rendere la pariglia a
Lydia Fergesson: sentiva che doveva vendicarsi. Sua moglie
lo aveva portato a quella decisione, o quantomeno aveva
accelerato il processo. Tanto, derise Al, in un giorno o due
ci sarei arrivato da solo.
8

Sentendo una macchina che parcheggiava lungo il


marciapiede sotto casa, Lydia Fergesson andò alla finestra
e guardò giù. Disse: «È tornato quell’uomo disgustoso e
nauseante. Quell’Al.»
«Bene» disse il vecchio. Accasciato sul divano in salotto
aveva pensato fra sé che sarebbe stato bello avere
compagnia. Era ancora depresso. Si sentiva privo di
energie, e non aveva nemmeno la forza di vestirsi; aveva
ancora addosso la vestaglia e Lydia gli aveva servito la cena
lì, invece che a tavola.
«Non lo farò entrare» disse la donna.
«Fallo entrare» disse lui. Già sentiva i passi di Al sui
gradini. «Possiamo farci una birra. Va’ a prendere un po’ di
birra. Prima se n’è dovuto andare in fretta e furia.»
Suonò il campanello.
Lydia disse: «Non sarò io ad aprire la porta e nemmeno
a sbloccarla. Lo sai che l’ho bloccata? Ci ho messo la
catena.»
La cosa non lo sorprese. Si alzò faticosamente in piedi e,
passo dopo passo, attraversò il salotto; lei lo seguì con lo
sguardo mentre si avvicinava sempre di più alla porta. Gli
ci volle un bel po’ di tempo, ma alla fine ce la fece: liberò la
catena e abbassò la maniglia.
«Ciao» disse Al. «Felice di vederti in piedi.»
«Ti abbiamo sentito parcheggiare» disse il vecchio,
tenendo la porta aperta. «Scusa se devo tornare a sedere.»
Al entrò in casa e lo guardò mentre riattraversava il
salotto per tornarsene al divano. Non c’era più traccia di
Lydia: era scomparsa. Il vecchio sentì una porta chiudersi
da qualche parte, probabilmente quella della camera da
letto. Meglio così, visti i suoi sentimenti nei confronti di Al.
«È carino qui» disse Al. Sembrava più teso del solito:
era rimasto in piedi con le mani infilate nelle tasche della
giacca e sorrideva in quel suo modo accigliato e poco
divertito che Jim conosceva così bene. Gli occhi
scintillavano dietro gli occhiali.
«Siediti» disse Fergesson. «Tua moglie non è venuta.
Immagino che ce l’abbia ancora con me.»
Al si sedette di fronte a lui.
«Sto comprando una nuova autofficina» disse il vecchio.
Dopo un momento Al cominciò a ridere.
«Parlo sul serio» disse il vecchio.
«Non lo metto in dubbio» disse Al.
«Sei sorpreso? Sì, lo sei.»
«Certo» disse Al. «E quando è successo? Oggi?»
«Oggi sono andato a dare un’occhiata» disse il vecchio.
«È su a nord, nella contea di Marin. Ho avuto una buona
soffiata, così ho fatto un salto lì a vedere. Ci sono di mezzo
un bel po’ di grossi finanziatori. Hai mai sentito parlare di
Achilles Bradford? Lui è il pezzo da novanta dietro tutto il
progetto. Girano milioni di dollari.»
«Girano dove?» chiese Al. «Non capisco.» Non rideva
più, e adesso sembrava perplesso.
«In un centro commerciale» rispose il vecchio. «Si
chiama Gardens.» Per quanto si sforzasse non riusciva a
ricordarne il nome: gli era sfuggito. «Marin Gardens» disse
poi. «Uno di quei lotti lungo l’autostrada.» Fece una pausa.
Parlare gli aveva fatto venire il respiro pesante; rimase
seduto a riprendere fiato, massaggiandosi il petto con la
mano. Al notò il movimento, la cura con cui Jim si tastava e
si esplorava. Poi il vecchio tolse la mano e l’appoggiò sul
bracciolo del divano.
«Che mi prenda un colpo» disse Al, lentamente.
«Non farò nessun lavoro» disse il vecchio. «Nessun
lavoro fisico. Farò solo il supervisore.»
Al annuì.
«Che ne pensi?» gli chiese il vecchio.
«Mi sembra una buona idea» disse Al.
«È proprio quello che stavo cercando» disse il vecchio.
«Nuovo come il domani.» Era esattamente ciò che pensava:
gli era venuta in mente quell’espressione, e calzava alla
perfezione. «È parte del mondo atomico» disse. «Capisci:
moderno, tutto moderno.» Smise di nuovo di parlare e
rimase seduto in silenzio.
«Bene» disse Al.
«Non mi sembra vero di fame parte» disse il vecchio.
«Mi hanno dato una bella imbeccata dall’interno. Ho
qualcuno che lavora per me, che tiene i contatti. È una cosa
che non sa quasi nessuno, questa. Non l’ho detto nemmeno
a Lydia.»
«Capisco» disse Al.
«Dovresti cercarti qualcosa del genere» disse il vecchio.
«Ci vogliono i soldi.»
«Certo» disse il vecchio. «Devo tirar fuori qualcosa
come quarantacinquemila dollari.»
La faccia di Al tradì una forte reazione: era rimasto
impressionato.
«Sono un bel po’» disse il vecchio sorridendo. «Un sacco
di bigliettoni. Trentacinquemila li rimedio dall’autofficina,
gli altri dieci ce li ho già. In azioni e titoli. Su un conto di
deposito fruttifero.»
«Ci investi tutto quello che hai?» chiese Al. «Dovresti
pensare bene a quello che fai.»
«Ci penso» disse lui.
«Hai un’assistenza legale?»
«Certo» rispose il vecchio. «Senti, lo sai chi tratterà con
Bradford per conto mio?» Ci aveva riflettuto e aveva preso
una derisione. «Boris non sa niente di questo genere di
cose» disse. «Ci vuole un esperto.»
«Boris è il tuo avvocato.»
«È vero.» Il vecchio riprese, respirando a fatica: «Sarà
Harman a rappresentarmi e a trattare con i pezzi grossi.»
«Chris Harman?» disse Al. «Quello dei dischi osceni?»
«Sì» rispose il vecchio. «Quello che ha una Cadillac
del’58 e una fabbrica di dischi, la Teach Records. Te ne ho
parlato.»
«Quel figlio di buona donna è un imbroglione» disse Al.
«No» disse il vecchio. «Col cavolo.»
«Lo è.»
«Ma tu che ne sai? Come puoi esserne certo?» Jim sentì
il polso che si affaticava. Il suo corpo che si affaticava.
«Senti, tu non lo conosci. Io invece lo conosco da quasi sei
anni. Siamo entrambi uomini d’affari.»
«È stato lui a tirarti dentro questa storia?» disse Al.
«Vuole i tuoi soldi.»
«Tu non sai un bel niente» disse il vecchio. «Che ne vuoi
sapere, tu? Quanto hai messo da parte? Niente.» La voce
gli uscì a fatica, tremante e farfugliata. Si schiarì la gola e
aggiunse: «Una catasta di vecchi rottami.»
«Stammi a sentire» disse Al a bassa voce. «Quel tizio è
un poco di buono. Lo so. Probabilmente è lui il proprietario
di quel posto, Gardens o come si chiama. Lo sanno tutti che
è un truffatore.»
«Chi?»
«Mrs Lane, l’agente immobiliare.»
Il vecchio si tirò su e disse: «Quella donna di colore?»
Al annuì.
«Uno dei tuoi amici dalle pelle nera? È così che lo sai?»
«Già» disse Al. «Parla con lei. Chiamala.»
«E così dovrei chiamare una persona di colore e
chiedergli un consiglio?» disse il vecchio.
«Fallo adesso» disse Al. Poco alla volta il suo viso si
stava arrossando.
«Io non sto a sentire la gente di colore» disse il vecchio.
«E stai a sentire quell’imbroglione ben vestito perché ha
una Cadillac.»
Tacquero, guardandosi in faccia, entrambi respirando a
fatica dalla bocca.
«Non so che farmene dei tuoi consigli.»
«E sbagli. Stai diventando vecchio.»
Jim non seppe cosa replicare.
«Devi aver battuto la testa» disse Al. «La tua fottuta
testa. Chiama il tuo avvocato e digli che sei stato raggirato
da un imbroglione. Chiama il procuratore distrettuale. Anzi,
lo chiamo io, sarà la prima cosa che farò domani mattina.»
«Tu restane fuori» disse il vecchio con tutta la forza che
poté. «Fatti gli affari tuoi.»
Tutto a un tratto Lydia fu nella stanza. Nessuno dei due
l’aveva vista entrare, ed entrambi voltarono la testa nello
stesso momento.
Lydia disse: «Cos’è questa storia di un imbroglione che
ti vorrebbe fregare i soldi?» Si diresse verso il vecchio, con
gli occhi neri che scintillavano. «A che si riferisce Mr
Miller? Perché non mi hai detto che hai investito la somma
ricavata dall’autofficina in questo posto di cui non conosci
nemmeno il nome?»
«Sono affari miei» disse il vecchio, senza guardare
nessuno dei due, ma limitandosi a fissare il pavimento.
Nessuno parlò.
«Quel tizio è un truffatore» disse Al rivolto a Lydia. «Lo
so per certo.»
Lydia andò al telefono e prese la cornetta, poi la porse
ad Al e disse: «Chiami quest’uomo, chiunque sia, e gli dica
che mio marito ha cambiato idea, che non vuole più avere
niente a che fare con questa storia.»
«Certo» disse Al, e fece per prendere la cornetta. «Ma
non conterà niente quello che dico io» aggiunse.
«Allora parlaci tu» disse Lydia, rivolta al marito. «Lo
chiami e glielo dici adesso. Non c’è niente di scritto, vero?
Non hai firmato niente, eh? So che non l’hai fatto. Sono
sicura che Dio non ti ha permesso di farlo, io ci credo.»
Alla fine Jim disse: «No, non ho firmato niente.»
«Grazie a Dio che ci protegge dai cieli» disse Lydia.
«Come dice Schiller. ‘È un’ode alla gioia del Padre celeste
al di là del cerchio delle stelle.’» Gli occhi sprizzavano
sollievo e felicità.
Il vecchio disse: «Lo vedrò domani.»
«No, non lo vedrai» disse lei.
Al disse: «Non c’è problema; tutto quello che lei deve
fare è rivolgersi al procuratore distrettuale e dimostrare a
suo marito che questo Harman è coinvolto nel progetto
immobiliare, in quel centro commerciale in cui vuole che
Jim investa.»
Il vecchio disse: «Ma certo che è coinvolto. Sennò come
faceva a saperlo?»
«Intendo dire che c’è una connessione fra lui e
Bradford» disse Al. «Il tizio con cui vuoi che sia Harman a
trattare per conto tuo.»
«Se non ci fosse una connessione» disse il vecchio
«come avrebbe fatto Harman a esserne a conoscenza?» Poi,
tutto concitato, aggiunse: «La questione è tutta lì. Io lo so
che è coinvolto, ecco il punto.»
«Intendo coinvolto perché ci ha messo i soldi lui» disse
Al. «Quel centro commerciale è suo, in termini finanziari.»
«Allora ci crede sul serio» disse il vecchio. «Se è
disposto a investirà i suoi soldi. Questo dimostra che
secondo lui è affidabile. Mi ha proposto un buon
investimento proprio dove ha investito anche lui. Certo che
lo ha fatto; voi non sapete niente, non sapete un bel niente
di tutta questa faccenda. Restatene fuori…» Agitò le mani
in direzione di Al Miller e della moglie. «Restatene fuori
tutti, donne e bambini. Questa è una scelta mia, e si fa
quello che dico io!»
Adesso nessuno sorrideva più; Al aveva perso quel
sogghigno amaro ed era svanito anche il sorrisetto alla
greca, fisso e vetroso, di Lydia. Al aveva cominciato a
sembrare depresso: strofinava una scarpa sul pavimento e
si tormentava il bordo della giacca, poi si mise a tirare su e
giù la chiusura lampo. Il vecchio ebbe invece l’impressione
che Lydia fosse sul punto di fare marcia indietro. Aveva il
viso inespressivo, come se non ce la facesse più a
sopportare la situazione, come se fosse troppo per lei. E nel
vederla provò una sensazione di trionfo: si sentiva la
vittoria in pugno.
«Statemi a sentire» disse. «Nessuno di voi due ha
nemmeno mai visto quel posto. Perdo che ne volete sapere?
Siete stati nella contea di Marin?» I due non risposero.
«Solo io ci sono stato» proseguì lui. «State parlando di
qualcosa che non avete nemmeno mai visto.» Poi, a Lydia, a
voce più alta: «E tu non hai nemmeno mai visto Mr
Harman, perdo non sai proprio niente.»
Lo fissarono entrambi senza replicare. Era Jim a
condurre le danze.
«Sarebbe il caso che gli dessi un’occhiata» disse rivolto
ad Al. «Prendi la macchina e vallo a vedere.»
«Col cavolo» disse Al. «Io non voglio vedere niente. Ti
sto solo dando un consiglio. Il mio consiglio.»
«Certo» disse il vecchio. «Solo un consiglio. Non vuoi
andare a vedere, lo sai che se ci andassi dovresti
ammettere di avere torto.» Quasi rantolò per l’eccitazione:
li aveva battuti entrambi. «Sono in affari da un bel po’ di
tempo, da molto più di te. Tu sei solo un fallito, un fallito
che non combina mai niente. Lo sai quello che fai? Tu…»
Gli mancò la voce.
«Vendo macchine usate» disse Al con voce legnosa.
«Alla gente di colore» aggiunse il vecchio.
Al rimase in silenzio.
«Ed è quello che farai sempre» disse il vecchio.
«Ho diversa carne al fuoco» disse Al.
«Almeno non sei pazzo» disse il vecchio, ridendo. «Non
è così?»
Al alzò gli occhi su di lui.
«Come me» disse il vecchio.
Al si strinse nelle spalle.
«Potrai venirmi a trovare mentre me ne sto seduto
lassù» disse il vecchio. «Nella mia nuova autofficina con i
meccanici. Tutto tirato a lucido.»
«Va bene» disse Al, che sembrava non avere più
energia, più nessuna voglia di lottare.
Lydia sgattaiolò via dalla stanza. Sul retro,
probabilmente in cucina o nella camera da letto; comunque
non era più lì. Rimasero i due uomini.
«Ha un seminario» disse il vecchio.
«Cosa?» mormorò Al.
«Deve andare a lezione.»
«Be’, è meglio che me ne vada» disse Al.
«Ci vediamo» disse il vecchio.
Con le mani in tasca, Al si avviò lungo il corridoio verso
la porta.
«Non essere così depresso» gli disse dietro il vecchio.
«Allegria.»
«Certo» disse Al, girandosi. «Buona fortuna.»
«Anche a te» replicò il vecchio.
Al aprì la porta di casa. Esitò, fece per dire qualcosa, poi
se la richiuse alle spalle. Subito dopo il vecchio sentì la
porta che si riapriva furtivamente. Gli sta andando dietro,
pensò, ridendo tutto contento. E rise ancora, accoccolato
sul divano nella sua vestaglia, pensando ad Al e Lydia che
confabulavano in segreto sul portico, cercando di trovare
un modo per affrontare la situazione. Un modo per
fermarlo.

Mentre stava aprendo lo sportello della macchina, Al


Miller sentì una voce alle sue spalle. Lydia Fergesson si
precipitò giù per i gradini e lungo il marciapiede. «Mi
ascolti, Mr Miller» disse. «Solo un momento, così che possa
parlarle.»
Lui si sedette al volante e aspettò.
«Solo lei mi può aiutare» disse, con gli occhi neri
piantati su di lui.
«Cavolo» disse Al. «Io non posso fare niente.» Si sentiva
rabbioso e impotente. «Lo faccia lei.»
«Non mi avrebbe mai detto niente» disse lei. «Non ne
ha nemmeno accennato, mi ha raccontato solo della sua
caduta; sarebbe andato avanti e avrebbe dato i suoi soldi a
quel truffatore senza che io ne sapessi mai niente,
lasciandomi con un pugno di mosche in mano. Sono questi i
sentimenti che nutre per me.»
Al richiuse lo sportello, avviò il motore e se ne andò.
Perché mai sono andato da loro?, si chiese. Perché non
me ne sono rimasto a casa?
Sono fuori di testa, tutti e due, si disse.
Come ne posso uscire? Io ho i miei problemi, a quelli
loro ci pensino da soli. Non ho tempo, non riesco nemmeno
a risolvere i miei; con loro non ho cavato un ragno dal buco,
e hanno problemi meno complicati. Devo solo trovare un
altro posto per il mio autosalone.
Poi gli si presentò un altro pensiero, dal profondo del
suo animo; non se ne era reso conto, ma era stato sempre
lì. Spero proprio che si faccia imbrogliare, pensò. Spero che
Harman gli porti via tutto quello che ha. È esattamente ciò
che si merita, quello che si meritano tutti e due, lui e quella
sua svitata moglie greca.
Quello che dovrei fare è trovare un modo per
imbrogliarlo io. Ecco, proprio così.
Lavorava con Jim Fergesson da anni, e se c’era qualcuno
che si meritava di avere quei soldi era lui, Al Miller, non un
cliente azzimato con una bella Cadillac che conosceva il
vecchio solo perché qualche volta gli ingrassava la
macchina. Lo conosco meglio di chiunque altro, si disse Al,
è il mio migliore amico. Perché deve finire tutto a Harman e
niente a me?
Però, si disse, se cercassi di fregargli i soldi farei un
casino e finirei in galera. È inutile anche provarci. Non
sono capace di imbrogliare il vecchio o di ricattare
Harman. Non ne ho il talento.
Perché non posso essere come lui?, si domandò. Sono un
fallito, e Chris Harman è tutto ciò che dovrei essere io, è
tutto ciò che io non sono.
Però, si disse ancora, come si fa a essere così?
Non c’era un modo semplice. Mentre guidava lungo la
strada, Al Miller passò in rassegna ogni possibile modo:
come faceva una persona come lui a diventare una persona
come Chris Harman? Era un completo mistero, per lui. Un
enigma.
Non c’è da stupirsi che tutti mi guardino dall’alto in
basso, pensò.
Quello che farò, decise, è andare a casa di Harman e
quando verrà alla porta dirgli che voglio lavorare per lui.
Mi piacerebbe essere un venditore di dischi osceni. Gli dirò
questo. Può trovare qualcosa per me; se non quello,
qualche altro lavoro. Posso riparare gli stampi per i dischi.
Oppure posso lavorare a casa sua, alle sue macchine;
adesso non ha un meccanico. Posso dedicare tutto il mio
tempo alla sua Cadillac e alla sua Mercedes-Benz. Posso
lucidarle e ingrassarle e allineare gli anteriori.
Quello che dovrei fare, pensò, è mostrare una vera
ambizione e fare qualcosa di davvero buono; potrei dirgli,
per esempio, che ho un’abilità mistica, che so guarire le
macchine malate, o le presse per dischi malate. Si fa
imponendo le mani. Oppure cantando. Qualcosa che attiri
sul serio la sua attenzione. Non è così che ce l’hanno fatta
in passato i grandi americani? Tutti avevano un talento.
Quando avevano, diciamo, diciannove anni sono entrati per
un minuto nell’ufficio di Andrew Carnegie e gli hanno detto
che non avevano mai tirato la cinghia, o che un’ora del loro
tempo costava venticinque dollari. Aveva funzionato.
Devo fare le cose esattamente come si deve, si disse.
Devo pensare fino a che non mi verrà quell’idea davvero
grandiosa che farà il miracolo. Nulla di meno, o sarò
condannato: andrò avanti come sono, e non sarò mai niente
di diverso da quello che sono.
Questa è l’occasione per riscattarmi, per essere
qualcosa.
La mia intera vita, si disse, il mio intero futuro,
dipendono da questo. Posso farcela? Devo farcela. Lo devo
a Julie, e a me stesso; in realtà a tutta la mia famiglia. Non
posso aspettare di più, non posso continuare ad andare alla
deriva in questo modo. È un’opportunità che bussa alla
porta, questo Chris Harman. È così che è stato deciso, e se
me la gioco male non mi verrà concessa una seconda
possibilità. È sempre così che vanno le cose.
Poi gli venne in mente un’altra cosa. Devo essere fuori
di testa, pensò. Tutta quella faccenda, la discussione con il
vecchio mi ha fatto perdere la lucidità. Ho il cervello fuori
uso.
Eppure c’era qualcosa, in quell’idea. Che diventerò,
dopo aver lavorato per un po’ alle dipendenze di Chris
Harman?, si domandò. Potrebbe offrirmi qualcosa di
davvero buono. Probabilmente ha le mani in così tanti affari
da avere lavori in abbondanza da offrire. Probabilmente ha
centinaia di dipendenti.
In effetti, pensò, probabilmente Harman assume e
licenzia tutti i giorni.
Dovrei chiamare il procuratore distrettuale e
denunciare le attività disoneste di Harman? O forse dovrei
ricattarlo per aver tentato di imbrogliare il vecchio? O
magari dovrei presentarmi a casa sua, o nel suo ufficio, e
convincerlo ad assumermi? O dovrei semplicemente andare
a casa sua, portarmi a letto la moglie e la mattina dopo
alzarmi e tornare al mio autosalone?
Difficile trovare una risposta. Proprio non ci riusciva,
per quanto si sforzasse.
Quello che mi serve è bere qualcosa, si disse. Più avanti
si vedevano le luci verdi e gialle di un bar in cui lui non era
mai stato, ma pur sempre un vero bar, uno che aveva la
licenza per vendere vino e birra. Così parcheggiò la
macchina, scese e attraversò la strada, entrando nel bar.
Tutta quella discussione mi ha proprio distrutto, si disse
mentre si faceva strada in mezzo alla gente e si dirigeva
verso il bancone per ordinare. Scoprire che Harman aveva
raggirato il vecchio e poi vedere che lui mi ride in faccia e
mi insulta perché gli ho detto la verità. È troppo. Ecco che
ci ho guadagnato tentando di farlo ragionare, capì. È quello
che mi merito per avergli raccontato le cose come stanno:
lui non vuole sentirle e se la prende con me.
«Birra Hamm» disse al barista.
Povero vecchio zuccone malato, pensò. Infagottato nella
sua vestaglia con le pantofole ai piedi, inchiodato a
guardare la tv. Che ne sarà di lui? Magari avrà un attacco
di cuore, o più di uno, e morirà. Forse sta già morendo
adesso. Forse ha avuto un infarto e metà del suo cervello
non funziona più. Potrebbe proprio essere così.
Ma è sempre stato così, si rese conto Al. Non è diverso,
solo più determinato. Stupido vecchio coglione.
Poi gli venne un pensiero terribile, peggiore di qualsiasi
altro. E se Mrs Lane stesse solo cercando di non perdere un
cliente? Se stesse provando a impedirmi di mettermi in
affari con qualcuno che ha già a disposizione tutte le
proprietà che vuole? Se quello che ha detto di Harman
fosse solo l’espediente di un venditore per tenermi al
laccio?
Quella è una donna dannatamente furba, si rese conto.
Può rigirarmi fra le dita, un po’ come faceva mia madre, su
a St Elena. Forse mi sbaglio su Harman, forse non sta
cercando di imbrogliare il vecchio, dopotutto. Mio dio, forse
quello che gli ho detto non è vero. E magari ha ragione lui,
a proposito di me e dei miei amici di colore, e di tutto il
resto.
Bevve la sua birra e ne ordinò un’altra. Si trattenne al
bar fino a tarda sera, bevendo da solo, rimuginando,
ripetendosi all’infinito – sembrava non riuscire più a
liberarsi di quella fissazione – che non aveva proprio la
capacità di vedere le cose come stavano veramente.
Sembrava il suo difetto più grande, e più ci pensava, più
continuava a vederselo davanti. Quel difetto non se ne
voleva andare: era reale, e gli stava rovinando la vita.
Che poteva fard?
Parecchie ore più tardi si convinse di avere la risposta.
Si fece strada a fatica attraverso il bar fino alla cabina
telefonica. Trovò il numero di Mrs Lane, infilò una moneta
da dieci cent e chiamò.
Quando lei rispose, disse: «Salve, sono Mr Chris
Harman. Perché racconta bugie sul mio conto? Cos’ha
contro di me?» Avrebbe voluto dire molto di più, ma a quel
punto Mrs Lane lo interruppe, più con la sua risata che con
le sue parole.
«Che mi combina, Mr Miller?» Continuò a ridacchiare.
«Conosco la sua voce, non può farmi fessa. Pare che lei sia
da qualche parte a festeggiare.»
«Io non imbroglierei mai quel vecchio» disse lui. «Ha
fatto funzionare le mie macchine per anni. Lei deve essere
fuori di testa. Dovrei trovarmi un avvocato e denunciarla.
Come farò con le mie macchine, adesso che lui sta per
vendere l’autofficina? Dovrebbe dispiacersi per me invece
di perseguitarmi.»
«Intende Mr Fergesson?» disse Mrs Lane. «Sta parlando
di lui?»
«Lei ce l’ha con me» disse Al.
Mrs Lane disse: «Non ho mai sentito qualcuno fare una
scena simile. Dove si trova?»
«Sono al club Forty-One» disse lui, tirando su la scatola
di fiammiferi che gli aveva dato il barista. «Su Grove Street.
Un locale esclusivo.»
Mrs Lane fece un’altra risatina e disse: «È meglio che se
ne vada a casa, Mr Miller. E lasci che sua moglie la metta a
letto.»
«Perché non fa un salto qui? Le offro una birra» disse
lui. «Porti anche suo marito, se ne ha uno. E se non ce l’ha
lo porti lo stesso.»
«Lei è proprio matto» disse Mrs Lane. «Se ne vada a
casa. Mi ha sentito? Se ne vada a casa.»
«L’ho sentita» disse lui.
Riappese la cornetta, lasciò il bar, si guardò intorno fino
a che vide la macchina, salì a bordo e andò a casa.
9

Il giorno dopo Jim Fergesson si sentiva abbastanza bene


e abbastanza riposato da vestirsi e andare all’officina. Non
aveva in programma di fare lavori pesanti, voleva solo
occuparsi di cose poco impegnative e trovarsi lì se avesse
telefonato qualche cliente. Aveva intenzione di spiegare
loro quello che era successo, il suo incidente e ciò che
aveva intenzione di fare.
Alle nove, subito dopo che il vecchio ebbe aperto le
grosse porte di legno, passò il postino. In mezzo ai soliti
volantini pubblicitari e alle bollette, Fergesson trovò una
missiva dall’aria insolita. Era all’interno di una busta
piuttosto particolare e non aveva l’aspetto di una
comunicazione commendale. Il nome e l’indirizzo – i suoi –
erano stati vergati con una vecchia macchina da scrivere:
le lettere non erano ben allineate, in parte rosse, e sbafiate.
Sedette alla scrivania e aprì la busta. Anche la lettera
era stata scritta con la stessa macchina.
Caro Mr Fergesson,
sono venuto a sapere che lei sta per mettersi in affari con Mr
Christian Harman, il proprietario della fabbrica di dischi all’angolo
della Venticinquesima. Trovandomi nella condizione di essere bene
informato su questioni di tal genere, le consiglio di essere molto
prudente poiché Mr Harman non è una persona rispettabile. Mi
firmerei con il mio nome, ma Mr Harman è un uomo potente e potrebbe
denunciarmi. Comunque so quello che dico. E mi dispiace anche che lei
abbia venduto l’autofficina.

Non c’era nessuna firma.


L’aveva scritta Al? Fergesson cominciò a ridacchiare fra
sé e sé mentre rileggeva la lettera. Era il genere di trovata
che Al poteva tranquillamente escogitare. Gli sembrava
quasi di vederlo mentre si procurava una macchina da
scrivere, tanto meglio se vecchia, tanto meglio se con i tasti
sporchi, e poi si arrovellava il cervello per articolare le
frasi, facendole sembrare il più possibile lontane dal suo
stile. Come se le avesse scritte un contadino ignorante
dell’Oklahoma, o magari un negro. Sì, pensò… come se le
avesse scritte una persona di colore.
Però, si disse, poteva anche non essere di Al; chissà
quanti già sapevano che era stato nella contea di Marin e
aveva visto le lottizzazioni. La voce si era sparsa fra gli altri
commercianti di San Pablo Avenue.
Nel pensarlo il vecchio provò un senso di rabbia. Perché
non si facevano gli affari loro? Magari sono invidiosi, si
disse. Ce l’hanno con me perché sto per abbandonare
questa parte degradata della città. Magari era stata Betty,
del negozio di prodotti naturali. Più ci pensava più gli
sembrava che fosse esattamente il genere di lettera che
poteva scrivere la vecchia Betty, con i suoi problemi e le
sue fisime. Mi sa che andrò proprio lì, decise, e gliela
sbatterò sotto gli occhi e la costringerò ad ammettere che
l’ha scritta lei.
Stanno tutti parlando di me?, si chiese. Si sono messi
insieme per spettegolare? Che dio li stramaledica, pensò,
infuriato con loro, con l’intera combriccola.
E se invece non fosse stata Betty? In tal caso,
mostrandola a lei avrebbe fatto la figura dello sciocco.
Meglio non farla vedere a nessuno, nemmeno ad Al, nel
caso non l’avesse scritta lui.
Ma poi sopravvenne una nuova sensazione; penetrò in
lui poco a poco, a tal punto che all’inizio non se ne rese
nemmeno conto.
Il fatto che parlassero di lui lo compiaceva.
Certo che ne stanno parlando, derise. La notizia è
trapelata, è stato Al a diffonderla, e questa lettera ne è la
prova.
In quella strada le notizie circolavano sempre troppo
veloci da un negozio all’altro. Chiacchiere e pettegolezzi
sugli affari di tutti.
Fergesson lasciò l’ufficio e uscì dall’officina sul
marciapiede. Un attimo dopo stava aprendo la porta del
negozio di prodotti naturali, salutando al contempo Betty.
«Salve, Jim» disse lei, alzandosi e dirigendosi verso la
Silex. «Come stai oggi?»
«Tutto bene» disse lui accomodandosi davanti al
bancone. C’erano un paio di clienti, donne di mezza età che
lui non conosceva. Si guardò intorno, ma non c’era nessuno
che gli fosse familiare, a parte Betty.
«Qualcosa insieme al caffè?» chiese Betty. «Un panino?»
«Va bene» disse lui girando lo sgabello in modo da poter
tenere d’occhio l’ingresso dell’officina. «Senti,» disse poi
«hai saputo di me, no? Di quello che ho fatto?»
Betty si fermò davanti al ripiano dei panini. «Mi hai
detto che hai venduto l’autofficina» disse.
«Sai,» disse lui «ne ho comprata un’altra.»
La faccia rugosa e senile di Betty mostrò
compiacimento. «Ne sono felice» disse. «Dove?»
«Nella contea di Marin» disse lui. «Una nuova. Sto
mettendo insieme un bel po’ di soldi, più di quelli che ho
ricavato dalla vendita di quella vecchia. Ho avuto
un’imbeccata dall’interno. Naturalmente non posso dirti
esattamente dove sia. Lo saprai al momento opportuno. Ci
vuole tempo per queste cose.»
«Sono proprio contenta» disse Betty. «Davvero,
contentissima.»
Il vecchio prese da lei la tazza di caffè e disse:
«Immagino che tu conosca quel tipo, Chris Harman. Spesso
porta le sue macchine da me; ha una Cadillac del’58. È un
uomo molto elegante.»
«Ti confesserò una cosa» disse Fergesson. «Sto
correndo un rischio, un grosso rischio.» Si sentiva sempre
più eccitato: le parole gli uscivano così veloci che faticava a
pronunciarle. «Devo tenere d’occhio quest’uomo, questo
Harman. Molta gente non coglierebbe l’occasione.» Diede
una sbirciata a Betty, ma lei lo guardava senza capire. «Ha
una certa reputazione» aggiunse.
«Che genere di reputazione intendi?»
«Molti pensano che sia un grosso imbroglione» disse il
vecchio.
La faccia di Betty mostrò sgomento. «Jim,» disse «sii
prudente.»
«Sono prudente» disse lui ridacchiando. «Non
preoccuparti di me. È davvero un grosso imbroglione. Ha
truffato un sacco di gente, e potrebbe truffare anche me.
Può succedere.» Rise forte. Adesso la faccia della donna
tradiva preoccupazione e nervosismo. «Magari mi ritroverò
senza più officina né soldi» disse. «Non sarebbe un bel
casino? Cose del genere succedono, le si legge sul giornale
ogni giorno.»
«Jim, devi essere prudente» disse Betty. «Attento a come
ti muovi. Hai impiegato degli anni a mettere da parte i soldi
che hai adesso.»
«Oh, potrebbe fregarmi» disse il vecchio. «È in gamba.»
Bevve un’altra sorsata di caffè, poi appoggiò la tazza.
«Devo tornare all’officina» disse. «Sono venuto solo per
informarti della novità.» Si rimise cautamente in piedi
evitando qualsiasi movimento troppo brusco, e si avviò
verso la porta. «Se mi vedi passare con un piattino» disse
sulla soglia «saprai perché.»
«Accertati di fare le cose per bene» gli stava dicendo
Betty mentre lui si richiudeva alle spalle la porta del
negozio e attraversava il marciapiede per tornare
all’officina.
Tutti parlano, si disse. Sanno che potrebbero fregarmi
tutto quello che ho. E questo offrirà loro un argomento di
conversazione per un po’ di tempo. Sanno che Harman è un
imbroglione, un vero professionista: lo si capisce da come
veste, dai suoi abiti costosi. Fatti su misura da un sarto. E
poi la macchina, basta vedere quella, una Cadillac del’58.
In tutto questo non c’è niente di modesto, si disse. E la casa
in cui abita, e le conoscenze che ha, e le sue imprese. Ha le
mani praticamente dappertutto. È proprio un grand’uomo.
Un importante uomo d’affari.
Sanno che ha fatto un bel po’ di soldi. È davvero ricco;
potrebbe avere addirittura due o trecentomila dollari.
Magari Marin Gardens è tutto suo. Magari non esiste
nessuno che si chiama Bradford, o se anche esiste è
soltanto un prestanome. Qualcuno che Harman ha assunto
per rappresentarlo, come quel suo dipendente, quel
Carmichael.
Ma c’è una cosa su cui non possono esserci dubbi, si
disse mentre rientrava nell’officina. Sopra Harman non c’è
nessuno, nessuno da cui prenda ordini. È lui il vero padrone
della situazione. Lo conosco da anni, e lui non è il servo di
nessuno. È lui che comanda.
Chissà a chi altro potrei dirlo, si domandò. Magari al
barbiere dall’altra parte della strada. Più tardi poteva
andare da lui a farsi tagliare i capelli.
L’euforia che lo aveva invaso dopo aver letto la lettera
continuava a crescere, gli era penetrata in ogni parte del
corpo. Gli faceva fremere le mani e i piedi per l’urgenza di
fare qualcosa, di essere attivo. È una cosa che mi ha preso
sul serio, si disse.
Per un momento rimase sulla soglia dell’officina,
tendendo l’orecchio per sentire se il telefono stesse
squillando; contemporaneamente scrutava nell’interno buio
per vedere se fosse entrato qualche cliente che lo stesse
aspettando. Non sentì nulla e non vide nessuno, così dopo
un momento si diresse verso il terreno di Al. Andrò a fare
una visita al buon vecchio Al, si disse, per vedere che sta
combinando.
Con sua grande sorpresa si accorse che il lotto era
chiuso; la catena fra i due paletti d’angolo era ancora lì e la
porta della baracca aveva il lucchetto. Notò anche alcune
lettere che spuntavano da sotto la soglia; quel giorno Al
non si era fatto vedere. Non era venuto ad aprire il suo
autosalone e ormai erano quasi le dieci e trenta.
Il vecchio rimase fermo lì, depresso. Accidenti a lui, si
disse, mentre l’antica rabbia riemergeva. Che vada al
diavolo, pensò poi voltandosi e tornando verso l’officina.
In ogni caso non vedo proprio perché mai dovrei parlare
con lui, decise. Che ha fatto, se non denigrare tutto quello
che mi riguarda? Gli tornarono alla mente alcune delle
parole che Al aveva pronunciato la sera prima, e si sentì le
orecchie e il collo che prendevano fuoco. Che se ne vada
per la sua strada e io per la mia, si disse. Lui affonderà e io
andrò avanti, perché siamo differenti, opposti.
Non c’è modo in cui possiamo comunicare, si disse
mentre riapriva l’officina. Non abbiamo niente da dirci. Non
se ha intenzione di assumere quell’atteggiamento, di essere
invidioso del successo degli altri, come gli capita sempre,
perché lui è così amareggiato per il suo fallimento da
ridursi a una nullità. È la solita vecchia storia: se al mondo
ottieni qualcosa ne ricavi solo invidia e malizia. Tutti ti
odiano perché vorrebbero essere come te e sanno che non
ne saranno mai capaci. Ecco perché tutti odiano Chris
Harman, ed ecco perché odiano me.
Mentre rientrava in ufficio si disse che probabilmente Al
era a casa a smaltire una sbornia. Quando ha lasciato casa
mia si sarà infilato in un bar… Sarebbe proprio da lui. E
adesso non ce la fa nemmeno a venire ad aprire la sua
rivendita. Magari sarà ancora a letto. E sua moglie fuori al
lavoro, per mantenere entrambi. Per mantenere quel buono
a nulla di suo marito.
E non cambierà mai, pensò il vecchio. Non coglierà mai
l’opportunità di crescere, sarà sempre il fallito che è adesso
fino a quando morirà.

Quella mattina alle dieci in punto Al Miller sedeva nella


sua macchina parcheggiata all’angolo fra la
Venticinquesima e Pershing Avenue. Davanti a lui il palazzo
a tre piani della Teach Records Inc. dominava il quartiere,
facendo molta più impressione della palazzina adiacente
con la clinica odontoiatrica o gli uffici contabili di una
catena di supermercati.
Se ne stava seduto in macchina da mezz’ora, osservando
quel palazzo, fumando, seguendo con gli occhi la gente che
andava su e giù per il marciapiede e i furgoni che
caricavano e se ne andavano.
Entro o no?, si domandò.
Se lo faccio, pensò, la mia vita cambierà. Devo essere
sicuro di volerlo e devo decidermi adesso, perché una volta
dentro sarà troppo tardi. Questa cosa è a senso unico: si
può entrare, non tornare indietro.
Si era portato appresso un flacone di Anacin pieno di
pillole: per assisterlo, non per consigliarlo. Era il momento.
Lo aprì e prese una grossa pastiglia piatta, di colore verde,
che sembrava un cuore di caramella candita. Questa era di
Dexymil, e la mandò giù con l’aiuto di un po’ di coca in una
bottiglietta che aveva portato con sé. Lo fece sentire meglio
quasi subito; lo mise nella condizione di chi si aspetta
qualcosa di buono, perché sapeva per esperienza che ben
presto sarebbe stato invaso dal buonumore e che quel
buonumore avrebbe dato frutti positivi. Ma c’era anche il
problema che quando assumeva del Dexymil tendeva a
parlare troppo e troppo in fretta. Così, per bilanciare
l’effetto della pastiglia verde a forma di caramella candita
ne mandò giù un’altra, una pillola rossa e rotonda dal
rivestimento lucido: Sparina, simile in tutto e per tutto a
una coccinella con le zampette ritratte. La Sparina non era
uno eccitante, ma un tranquillante. Sperò che le due pillole
insieme avrebbero suscitato in lui lo stato d’animo
desiderato, quello giusto per ciò che aveva intenzione di
fare.
Per buona misura prese anche due compresse di Anacin.
E con quello aveva finito; richiuse il flacone e se lo infilò in
tasca.
Subito dopo si ritrovò ad attraversare la strada. Poi era
in piedi in un ufficio con le lampade fluorescenti davanti a
una ragazza seduta a una scrivania con un centralino. La
ragazza, molto giovane, con gli orecchini, guardò su e
disse: «Sì, signore?»
«Voglio vedere Mr Teach» disse lui.
«Mr Teach non è qui» disse la ragazza. «È morto.»
«Morto!» ripeté Al Miller, sbalordito. «Quando è
successo? Non lo conoscevo, ma che diavolo gli è
capitato?»
«Qualcuno gli ha sparato nella Carolina del Nord»
rispose la ragazza. «Uno che si chiamava Mayhard o
Maynard.» Attese, ma lui non seppe come replicare. Rimase
muto davanti alla scrivania. «Potrebbe parlare con Mr
Knight» gli disse lei. «È lui il dirigente. Di che si tratta?»
«Va bene» disse Al, ma poi si ricordò che non era affatto
Mr Teach la persona con cui voleva parlare; quel nome gli
era venuto in mente leggendo l’insegna sul palazzo. Era
Chris Harman che voleva vedere. «Voglio vedere Mr
Harman» disse.
«In questo momento Mr Harman è impegnato» disse la
ragazza. «Se vuole lasciarmi il suo nome e accomodarsi
informerò la sua segretaria e vedrò se in mattinata ha il
tempo di riceverla.»
Al fornì alla ragazza il suo nome, poi andò a sedersi su
una delle moderne poltrone dell’ufficio.
Dopo un tempo che gli sembrò brevissimo la ragazza
prese a fargli dei cenni. Mollò la copia di Life che stava
leggendo e andò da lei.
«Mr Harman ha qualche minuto da dedicarle» gli disse.
«Può riceverla, se non si tratta di una cosa troppo
lunga.» Gli indicò un corridoio. «Il primo ufficio sulla
destra.»
Assomigliava allo studio di un medico, tutto vetro e
plastica, con dei cubicoli laterali. Al trovò l’ufficio e vide
Chris Harman, seduto.
«Buongiorno, Mr Miller» disse Harman in modo affabile,
indicandogli una sedia. «Che posso fare per lei?»
Al si sedette e disse: «Mi dispiace per quanto ho saputo
di Mr Teach. Come ho detto alla ragazza non lo conoscevo,
ma conosco il catalogo Teach e…»
«È successo tanto tempo fa» lo interruppe Harman,
sorridendo. «Nel 1718.»
«Mi scusi?» disse Al. «Oh, credo di capire.» Rise.
Doveva essere una battuta o qualcosa del genere. Non
riusciva a seguirlo, così lasciò cadere l’argomento. «È lei
che comanda?» chiese. «Il proprietario di questo posto?»
Mr Harman annuì, con un sorriso appena accennato.
«Mi ascolti» disse Al. «Lei si ricorda di me?»
«Credo di sì» disse Harman. «So di averla già vista
prima.» Guardò giù e Al capì che Mr Harman stava
passando in rassegna i suoi vestiti, la giacca, i calzoni, le
scarpe, la camicia sportiva. Lo stava valutando per ciò che
indossava.
«Sono un venditore di auto usate» disse Al.
Mr Harman annuì. «Ah, capisco» disse.
«Si ricorda adesso?»
«Credo di sì.»
«Sono un imbroglione buono a nulla» disse Al. «Uno dei
peggiori venditori di auto usate che esista al mondo.»
Mr Harman smise di sorridere e i suoi occhi divennero
più grandi. La bocca gli si aprì appena. «Oh, davvero?»
mormorò.
«Credo di essere venuto qui per parlarle con
franchezza» disse Al.
«La prego, lo faccia» disse Harman.
«Pur di vendere sono disposto a fare qualsiasi cosa»
disse Al. «Non mi interessa minimamente in che condizioni
sia la macchina, basta che riesca a venderla. Guardiamo in
faccia le cose. Le macchine che ho nella mia rivendita…»
«Sì» lo interruppe Harman. «Lei commercia in auto
usate. L’Autosalone di Al. Adesso mi ricordo.»
«Sono tutti bidoni» disse Al. «Catorci. Bisognerebbe
rottamarli. Lasci che le faccia un esempio. Ha un po’ di
tempo?»
Harman annuì.
«L’altro giorno ho preso un vecchio taxi che non esercita
più. Si può dire che un taxi ha sempre quattro porte, e che
di solito è della Plymouth o della Studebaker. Non ha
accessori, a parte il riscaldamento, ed è la vettura più
economica del settore. Poi dipingono sugli sportelli il nome
della compagnia. E sul tettuccio ci sono dei fori su cui si
fissa la targhetta. Insomma, sapevo che era un taxi. Era
proprio un rottame. Doveva avere fatto almeno
cinquecentomila chilometri. L’ho comprato per cento
dollari. L’ho riverniciato, ripulito, gli ho dato un aspetto
allettante e poi mi sono inventato una storia per venderlo.»
«Ha scaricato il contachilometri?» chiese Harman.
«L’odometro» precisò Al. «Sì, l’ho portato a diciottomila
chilometri. Come una macchina dell’anno scorso.»
Harman si accese una Benson & Hedges con un
accendino intarsiato d’oro; avvicinò il pacchetto ad Al, ma
lui declinò l’offerta. Era troppo preso da quello che stava
dicendo per aver voglia di fumare.
«Ho raccontato» continuò Al «che era la macchina di
mia moglie.»
Gli occhi grigi di Harman lampeggiavano.
«Ho detto che ci andava a scuola» disse Al. «Ha una
fobia per gli autobus, non sopporta di sentirsi chiusa
dentro. L’avevo presa nuova dal concessionario della
Plymouth sulla Broadway, a un prezzo da ingrosso, perché
lo conosco. Così potevo risparmiare sulle tasse. L’avevo
presa per lei, ma in effetti non avevamo bisogno di due
macchine. Lei la usava solo una volta al giorno, per andare
a scuola, o magari per fare un po’ di shopping. E io dovevo
lavarla e lucidarla. E poi occupava spazio in garage nei fine
settimana, perché quando andavamo da qualche parte
prendevamo la mia Chrysler.»
«Capisco» disse Harman.
«Così alla fine le avevo detto che non potevamo tenerla.
L’avrei venduta e lei avrebbe potuto usare quei soldi per
farsi una vacanza alle Hawaii. Non m’interessava
guadagnare sopra, l’avrei data via per milletrecento.»
«E l’ha venduta?»
«Non subito» rispose Al. «È venuto un tizio e gli ho
raccontato quella storia, ma lui si è accorto che la
macchina era stata riverniciata, e questo lo ha insospettito.
Io gli ho raccontato che mia moglie aveva scelto il colore
originale, un grigio-rosa elefante, ma che poi si era
stancata subito di quel colore e l’aveva fatta riverniciare da
quelli della Plymouth mentre era ancora in garanzia. Però
lui si è accorto anche che gli ammortizzatori non erano in
buone condizioni, così ha capito che era un usato anche
abbastanza vecchio. Comunque alla fine l’ho data via.» Al
fece una pausa. «A un ubangi.»
«Prego?» disse Harman, mettendosi la mano a coppa
sull’orecchio.
«A un negro.»
«Ah» fece Harman. «Ubangi.» Sorrise.
«Naturalmente non aveva tutti i soldi in contanti. Mi ha
dato quattrocento e il resto gliel’ho fatto avere attraverso
la mia società finanziaria dall’altra parte della strada.»
Harman rise.
«Devo solo attraversare la San Pablo» disse Al. «Fino
alla Mutua di West Oakland. Mi fanno il dodici percento di
interesse composto sul debito non pagato, spese e tasse
incluse. E se abbiamo bisogno di riprenderci la macchina,
l’ubangi è sempre responsabile per l’intero importo non
pagato. È un contratto di trentasei mesi. In effetti, tutto
sommato, l’interesse arriva a un realistico ventiquattro
percento, perché è quello che chiamiamo scontato.»
«Credo di conoscerlo» disse Harman. «Probabilmente
me ne sono servito anch’io.»
«Insomma, alla fine da quel taxi dismesso ci ho tirato
fuori quasi duemila dollari» disse Al. «All’origine mi è
costato solo milleseicento, più o meno. Ho solo dovuto
riverniciarlo e pulirlo. E quando l’ho verniciato non ho
nemmeno dovuto raschiare via la ruggine, o pareggiare le
ammaccature. Ho riempito tutto con un composto e ci ho
passato la vernice sopra.»
Mr Harman rise di nuovo. Sembrava piuttosto
interessato: non mostrava segni di impazienza, né voleva
che Al tagliasse corto e arrivasse al dunque, o che se ne
andasse. Anzi, l’impressione era che si divertisse ad
ascoltare.
«Voglio dire» riprese Al «che farei qualsiasi cosa per
vendere una macchina. Io ricostruisco sempre pneumatici
lisci.»
«Di che si tratta?»
«Prendo delle gomme lisce – senza più battistrada – e le
incido con un ago rovente. Ci ricavo dei solchi fasulli e poi
dipingo tutto di nero, in modo che sembrino nuove.»
«Non è pericoloso?»
«Certo che lo è» disse Al. «Basta passare sopra un
fiammifero acceso e la gomma scoppia. Però il cliente è
convinto di avere delle belle gomme nuove, così si lascia
convincere a concludere l’affare, cosa che altrimenti non
farebbe. È parte del gioco: lo fanno tutti, o quasi tutti.
Bisogna muovere la merce. La cosa più importante è avere
sempre pronta una storia che spieghi tutto. Se non si riesce
a far partire una macchina diremo che manca la benzina.
Se un finestrino non va su o giù diremo che la macchina è
arrivata quella mattina stessa e che il nostro meccanico
non ha avuto ancora il tempo di metterci le mani. Bisogna
essere bravi a inventarsi qualcosa. Se il cliente nota che il
tappetino è troppo consumato gli spiegheremo che alla
guida c’era una donna che portava scarpe con i tacchi alti.
Se il coprisedile è strappato, magari per colpa dei bambini,
diremo che il proprietario aveva un cane che in una
settimana l’ha distrutto con le unghie. Bisogna sempre
avere una storia a disposizione.»
«Capisco» disse Harman, sempre più attento.
«Se il motore è molto rumoroso perché ha i cuscinetti
consumati, basterà dire che è un problema di regolazione
delle punterie.»
Harman annuì.
«Se le marce non entrano gli spiegheremo che abbiamo
appena montato una nuova frizione e che non è stata
ancora registrata.»
Harman, pensieroso, chiese: «E se i freni non
funzionano? Mettiamo che lei fa fare al cliente un giro su
una delle sue macchine e quando prova a frenare quella
non si ferma. Che gli dice?»
«Gli dico che durante la notte qualche teppistello si è
fregato il liquido dei freni» rispose Al. «E giù a mandare
sacramenti su quei giovinastri che rubano gli accendisigari
e le lampadine e le mote di scorta. Fingendo di essere
davvero fuori di me.»
Harman annuì. «Capisco.»
«Ho messo su una bella attività» disse Al. «Mi piace,
mettere a confronto le mie capacità con quelle della gente.
È eccitante, stimolante. Non farei mai un altro lavoro. È
tutta la mia vita. Sono nato per quello e conosco tutti i
trucchi del mestiere.»
«A quanto pare sì» disse Harman.
«Però devo mollarla.»
«Come mai?»
«Non è abbastanza per darmi da vivere» rispose Al.
«Ah» fece Harman.
«Mi stia a sentire» disse Al. «Io sono un filo sotto
tensione. Devo muovermi. Non posso essere frenato da
cose di piccolo conto. Per me vendere macchine usate è
stata una palestra di vita. Mi ha insegnato tutto sul mondo.
Adesso sono pronto per qualcosa di degno, qualcosa che mi
metta davvero alla prova. Prima era una sfida, ma adesso
non lo è. Perché…» Assunse un tono di voce basso e
tagliente. «So che posso vincere. In ogni momento. Non
possono competere con me, me li metto in tasca come e
quando voglio. Una volta entrati nel mio lotto di terra…»
Fece un movimento con la mano, come a voler spazzare via
qualcosa. «Li ho in pugno. Non c’è più gara.»
Harman rimase in silenzio.
«Questa è un’economia in espansione» continuò Al. «Un
Paese che cresce con un destino davanti a sé. Un uomo, o
diventa più grande o più piccolo; o cresce insieme
all’economia, o va a fondo. Diventa una nullità. Io mi rifiuto
di diventare una nullità. Ho intenzione di adeguarmi al
sistema americano che offre spazio a un uomo provvisto di
iniziativa e di autenticità.»
Harman lo studiò.
«Ecco perché posso farcela» disse Al. «Ecco perché
posso sempre avere la meglio su di loro, sempre. Perché io
credo in quello che faccio.»
Harman annuì lentamente.
«Non è solo un lavoro» disse Al. «Non si tratta solo di
far soldi. I soldi in sé e per sé non contano niente, per me:
mi interessa ciò che rappresentano. I soldi sono la prova…
la prova che un uomo ha ambizione e volontà e che non ha
paura dell’opportunità quando ci sbatte il grugno. I soldi
dimostrano che non ha paura di essere sé stesso. E conosce
altri come lui. Li riconosce subito perché hanno la sua
stessa spinta, lo stesso rifiuto di farsi piegare o abbattere
dalla sconfitta.»
«Perché è venuto qui alla Teach?» gli chiese Harman.
«Per parlare con lei» rispose Al. «Ecco la risposta.» Fece
un gesto, come a dire che non avrebbe aggiunto altro.
Vi fu silenzio.
«Bene» disse poi Harman. «Che vuole da noi? Fino a ora
mi ha solo raccontato la sua storia.»
«Voglio lavorare per Christian Harman. Più semplice di
così.»
Harman inarcò le sopracciglia. «Che io sappia non
abbiamo posti scoperti.»
Al non disse nulla.
«Che aveva in mente? Lei non ha nessuna esperienza
nel campo dei dischi.»
«Posso essere sincero?» disse Al.
«La prego.» Harman sorrise di nuovo.
«Non so niente di dischi» ammise Al. «Siamo realistici.
Ma un venditore non vende il suo prodotto. Vende sé
stesso. E questo è ciò che so, Mr Harman. Conosco me
stesso. E con questo posso vendere qualsiasi cosa.»
Harman rifletté. «Lei accetterebbe qualsiasi lavoro
presso di noi? Da quanto mi dice deduco che sarebbe
disposto a…»
Al lo interruppe. «Mi permetta di chiarire. Io intendo
lavorare per qualcuno che possa servirsi di me. Non
m’interessa marcire qui. Ho bisogno di essere usato, e
usato nel modo giusto. Non si stringe una valvola con una
zappa. Non si usa una pistola fatta a mano da un grande
artigiano europeo per sparare ai barattoli.» Fece una
pausa. «Ma è lei, Mr Harman, a sapere dove mettere
qualcuno. È lei che conosce l’azienda e quello di cui ha
bisogno, e a quanto ne so è l’azienda che viene prima di
ogni altra cosa. Sono stato chiaro?»
«Direi di sì» replicò Harman. «In altre parole lei
preferirebbe che deridessi io?»
«Esattamente» disse Al.
«Bene» disse Harman, grattandosi il naso. «Le propongo
di fare così: lei lascerà alla segretaria il suo nome e le dirà
dove possiamo trovarla. Io ne parlerò con Mr Knight e con
Mr Gam e vedremo. In genere lascio che sia Gam a
occuparsi delle assunzioni.»
Al si alzò improvvisamente in piedi. «Grazie, Mr
Harman» disse. «Lo farò. E non le ruberò altro tempo.»
Allungò la mano verso Harman e attese. Mr Harman
allungò la sua, gliela strinse e subito dopo Al uscì a grandi
falcate dall’ufficio.
All’esterno si fermò al tavolo della segretaria. «Mr
Harman mi ha detto di darle certe informazioni» le disse
sbrigativo.
La ragazza gli diede un blocchetto di fogli di carta e una
matita, ma lui tirò fuori la sua penna a sfera e scrisse nome,
indirizzo e numero di telefono, intestato al cognome da
nubile di sua moglie. Poi sorrise alla ragazza e lasciò il
palazzo.
Appena uscito in strada il sole caldo lo colpì e subito
cominciò a dolergli la testa. Stava cominciando a finire
l’effetto dell’Anacin, capì. E anche quello della Spanna e del
Dexymil. Adesso si sentiva stanco e depresso. Si avviò
lentamente verso la macchina, aprì lo sportello e si mise a
sedere.
Chissà se si farà vivo, pensò.
In ogni caso ci ho provato. Ho fatto tutto quello che
potevo.
Dopo un po’ avviò il motore e si allontanò, diretto verso
l’Autosalone di Al.

Il venerdì, quando lui aveva praticamente smesso di


sperare, una macchina accostò al marciapiede
dell’autosalone e ne scese un giovanotto in cravatta e
maniche di camicia.
«Mr Miller?» disse.
Al uscì dalla casetta e disse: «Sono io.»
«Vengo dalla Teach Records» disse il giovane. «Mr Gam
ha tentato di mettersi in contatto con lei. Vorrebbe che lo
chiamasse appena possibile.»
«Benissimo» disse Al. «Grazie.»
Il giovane risalì in macchina e se ne andò.
Ci siamo, si disse Al. Attraversò la strada fino al bar ed
entrò nella cabina telefonica. Un attimo dopo stava
parlando con la centralinista della Teach Records.
«Sono Mr Miller» disse. «Mr Gam ha chiesto di parlare
con me.»
«Oh sì, Mr Miller» disse la ragazza. «Abbiamo mandato
qualcuno a cercarla sul luogo di lavoro. È riuscito a
trovarla?»
«Sì» disse Al.
«Solo un attimo e la metto in comunicazione con Mr
Gam.»
Ben presto Al sentì all’altro capo del telefono la voce
bassa di un uomo di mezza età. «Mr Miller,» disse l’uomo
«sono Fred Gam. Lei è venuto qui per chiedere a Mr
Harman di essere assunto da noi. Se è ancora interessato,
ne abbiamo discusso e siamo giunti a una conclusione.
Forse sarebbe meglio che lei facesse un salto qui, diciamo
all’inizio della settimana prossima.»
«Potrei venire anche oggi» disse Al. «Cancellerò tutti i
miei impegni.»
«Bene» disse Mr Gam. «Allora l’aspetto… facciamo
verso le quattro.»
Alle quattro Al chiuse l’autosalone e guidò fino alla
Teach Records. Scoprì che Mr Gam era un uomo cordiale e
tarchiato con i capelli grigi e che aveva un ufficio dalle
dimensioni molto simili a quello di Mr Harman.
«Felice di conoscerla» disse Gam stringendogli la mano.
Sul ripiano della scrivania aveva alcune carte che si mise a
esaminare in quel momento. «Bene, Mr Miller» disse. «A
quanto pare lei vuole entrare a far parte dell’azienda.»
«Giusto» disse Al.
«Allora venga con me.» Gam si alzò e fece un cenno ad
Al, che lo seguì lungo un corridoio, superando una porta
dopo l’altra.
Giunsero in un’area molto spaziosa dove lavoravano
alcuni uomini. L’aria era impregnata dell’odore dei
macchinari. Il rumore colpì le orecchie di Al, un regolare
rimbombo meccanico.
«Questa è l’area operativa» gli spiegò Mr Gam. «Dove
stampiamo i dischi.»
Ad Al sembrò uno di quei locali in cui si ricostruiscono i
battistrada: vide le stesse macchine rotonde con la parte
superiore che si apriva e si richiudeva, ognuna manovrata
da un operaio.
«Lei non lavorerà qui» disse Mr Gam. Condusse Al via
da quella zona lungo un altro corridoio.
Al disse: «Considero Chris Harman l’uomo più
stimolante che abbia mai avuto il privilegio di conoscere. E
nel mio lavoro vedo una buona fetta di umanità.»
«Sì, Chris ha detto di averla conosciuta al suo
autosalone. Ovviamente lei è stato molto sincero con Chris,
perciò noi saremo altrettanto sinceri con lei. È capitato
proprio nel momento giusto. Non avrebbe potuto sceglierne
uno migliore, nemmeno se avesse avuto un infiltrato
nell’azienda.» Si fermò e squadrò Al. «Tre giorni fa questo
ruolo non esisteva, e deve essere ricoperto proprio adesso.
È un buon lavoro, Mr Miller. Una chicca.»
«Bene» disse Al.
«Vuole sapere com’è andata, Miller?»
«Sì» disse Al.
«Viva la sincerità» disse Gam. «Non la perda mai, è così
maledettamente rara in questa nostra società.»
«Non potrei mai perderla» disse Al. «Perché l’ho
guadagnata in un momento di grande coraggio e pericolo.
L’ho guadagnata in Corea. Quando i rossi mi avevano
incastrato, quando ho visto la morte in punta a una
baionetta e negli ocelli a mandorla esaltati di un muso
giallo. Ho imparato a conoscermi, Mr Gam. Mi sono dato
una bella occhiata, a tutto quello che sono, a tutto quello
che il mio creatore voleva che fossi. E non è qualcosa che
un uomo può perdere.»
Dopo un attimo Gam disse: «Vorrei che fosse possibile
condividerla, che si potesse trasmettere da un uomo
all’altro. Non avrò mai quello che ha lei.»
«Temo di no» disse Al.
«Lei ha detto a Chris che non era una questione di soldi.
Questo lo ha colpito. Anche per lui non è mai una questione
di soldi. Non lo è mai stato e non lo sarà mai. Perché si è
interessato di dischi? Perché voleva migliorare le condizioni
dell’uomo medio attraverso l’unica cosa che può
migliorarle: non automobili più grandi o televisori più
moderni, ma l’arte, la musica.» Mr Gam spinse una pesante
porta che conduceva a un parcheggio: entrambi la
attraversarono lentamente. «Naturalmente ha dovuto
accettare dei compromessi. Un’impresa deve rendere, lo
sappiamo. È la dura realtà. Ecco perché esistono la Glee
Records e – diciamocelo francamente – anche la Teach
Records. Ovviamente lei conosce il catalogo. Perlopiù è
spazzatura. E lo è volutamente, perché è al servizio del
mercato, rock and roll, combinazioni di jazz e di musica
nera, quella che chiamano etnica. Insomma, musica
country, quella che si suona con la chitarra hawaiana o
roba del genere. E poi musica popolare. Abbiamo avuto
qualche disco che ha venduto molto bene. La Teach ha
raggiunto la top ten, e lo ha fatto spesso. Frank Fritch ha
lavorato per anni con la Teach.»
«Lo conosco» disse Al.
«Le divagazioni per piano di Frank Fritch sono state uno
dei nostri più grandi successi. E anche Georgia O'Hare e i
suoi Merrymen of Song. Attualmente il nostro disco in
catalogo meglio posizionato in classifica è Pride. Lo avrà
sentito in molti locali per tutta l’America.»
Entrarono in un altro edificio.
«Lei si occuperà della nuova etichetta» disse Mr Gam.
«Quella che Chris Harman ha sempre voluto lanciare, senza
mai riuscirci fino a oggi. Si chiama Antiqua. L’ha resa
possibile il disco a trentatré giri. Lei sarà incaricato della
promozione. Riceverà uno stipendio di settecentocinquanta
dollari al mese, oltre le spese di viaggio… Il solito sistema
di rimborso che perfezioneremo col tempo, quando ci
conosceremo meglio. E al momento giusto il suo stipendio
aumenterà.»
«Capisco» disse Al.
«Abbiamo acquistato questo palazzo» disse Mr Gam
mentre percorrevano un corridoio dipinto di fresco. «Lo
stiamo rimodernando. Non è ancora finito. Il suo ufficio
sarà qui.» Tirò fuori una chiave e aprì una porta; Al si
ritrovò a guardare un ufficio che odorava di vernice.
«Cosa ci sarà nell’etichetta Antiqua?» chiese poi.
«È il grande progetto di Mr Harman» rispose Gam.
«Musica sacra medievale e rinascimentale e opere corali.
Palestrina, Des Pres, Orlando di Lasso. Musica polifonica e
monodica. Canto gregoriano, se possibile… se ci sarà
mercato.»
Un bel salto dalla rivendita di auto usate, pensò Al
mentre osservava la stanza asettica, dipinta e arredata da
È
poco. È questo che mi tocca in cambio della mia filippica
con Harman? È questo che ha visto in me, e in quello che
ho detto?
È lui l’uomo che sta cercando di imbrogliare Jim
Fergesson? Quello che ha tirato fuori la versione oscena di
Little Eva on the Ice?
Si sentì stanco e scoraggiato. L’intera cosa non aveva
senso per lui, e sfortunatamente non aveva pillole con sé,
né Dexymil né Sparina, che potessero aiutarlo. Non aveva
altra scelta che continuare ad ascoltare quello che diceva
Mr Gam. Si era spinto troppo in là, troppo dentro la Teach
Records e l’azienda di Chris Harman per poter tornare
indietro.
10

Quella sera, mentre Al Miller se ne stava seduto a tavola


di fronte a sua moglie, tornò ad assalirlo più e più volte
l’orribile pensiero che Chris Harman fosse un uomo dalla
reputazione impeccabile, e non un truffatore.
Mi ha offerto quel lavoro, si disse, per riabilitarmi.
«Ho delle novità» disse alla fine a Julie, abbandonando il
suo atteggiamento introspettivo. «Mi hanno offerto un
lavoro.»
Subito lei replicò, tutta interessata: «Che lavoro?»
«Per settecentocinquanta al mese» disse lui. «Oltre al
rimborso spese. Ed è solo lo stipendio iniziale.»
«Settecentocinquanta dollari?» ripete lei sgranando
tanto d’occhi. «Dimmi tutto. Che hai dovuto fare? Chi te
l’ha offerto?»
«Una ditta che produce dischi» rispose Al. «Mi
occuperei di pubbliche relazioni.» Il suo tono era così cupo,
così rassegnato, che sua moglie cambiò espressione. «È
solo un colpo di fortuna» aggiunse Al. «Non sono
qualificato per quel lavoro. Durerei due settimane. O due
giorni.» Continuò a mangiare.
«Ma perché non accettarlo?» disse Julie. «Magari ti
sbagli; lo sai, sei sempre così pessimista, rimani passivo e
lasci che le cose succedano… Questo lavoro ti piove
addosso e tu te ne stai lì con le mani in mano. Non ti dai da
fare.»
«Io mi sono dato da fare» ribatte Al. «Sono andato lì e
ho avuto il lavoro.»
«Allora devi convincerti che puoi svolgerlo» disse Julie.
«Non è logico? Hai solo dei dubbi, quelli che hai sempre. Lo
sai che puoi farcela.»
«Mi ha offerto il lavoro solo perché gli facevo pena»
disse Al. Non riusciva a sgombrare la mente da quell’idea:
era rimasta sempre lì, fin da quando aveva lasciato la Teach
Records.
«Che gli hai detto? Non è che ti sei tirato indietro, eh?»
«Ho detto che ci avrei pensato» rispose lui. «Ho detto
che gli avrei dato una risposta per lunedì mattina.» Gli
rimanevano tre giorni.
«Va bene» disse Julie in tono pratico e sbrigativo.
«Ammettiamo pure che tu gli faccia pena. Che importanza
ha?» La sua voce crebbe d’intensità. «È pur sempre un
buon lavoro, paga bene. Che te ne importa delle loro
motivazioni? Questa è paranoia!» Gesticolò eccitata con la
forchetta. «Come si chiama quel posto? Vado io a parlare
con loro; anzi, li chiamo al telefono… ecco quello che farò.
E gli dirò che sono la tua segretaria e che dopo averci
riflettuto molto hai deciso di accettare l’offerta.»
Il mondo intero è impazzito, pensò Al. È tutta una
mistificazione.
«Se hai il buonsenso di uscire e procurarti l’opportunità
di un lavoro ben retribuito» disse Julie «avrai anche il
buonsenso di accettarlo e di svolgerlo al meglio. Non te lo
avrebbero offerto se non fossero stati convinti che puoi
farcela. Accettalo, Al, oppure – e non esagero – se lo molli,
io mi conosco e so che reagirò pensando che non sarai stato
leale con me. Abbiamo fatto dei voti, col matrimonio. Tu
dovresti onorarmi e obbedirmi.»
«È difficile obbedire in una situazione come questa»
disse Al.
«Non intendevo obbedirmi, adesso» disse lei. «Ma
onorarmi e rispettarmi. Trovandoti un lavoro decente in
modo che possiamo avere dei figli e tutte le altre cose che
vogliamo fare e che ci meritiamo di fare.» La sua voce era
diventata aspra per l’ansia: Al riconobbe il tono. «Non
deludermi di nuovo, Al; ti prego, non cedere alle tue
paranoie. Promettimelo.»
«Vedremo» disse lui. Quell’offerta di un lavoro vero,
degno di questo nome e con una buona paga, gli suonava
come una sconfitta bruciante, e adesso questa reazione,
questa sensazione che le cose avessero preso una piega
sbagliata, cominciava a preoccuparlo. Viste dal di fuori le
sue reazioni sembravano strane, a dir poco. Forse Julie
aveva ragione; forse adesso che finalmente qualcuno si era
degnato di aver fiducia in lui, di offrirgli un’opportunità,
aveva cominciato a emergere la sua intima convinzione di
esserne indegno. Era un nevrotico, come aveva detto Julie.
Era vero.
Sconfitta o successo, per me è la stessa cosa, decise. È
tutta una fregatura. Una trappola e un’illusione. Chi le
vuole? Io no, nessuna delle due.
«Tu hai paura» riprese Julie «di mettere fuori il collo. Se
fallisci sprofonderai ancora di più nella tua apatia, e questo
lo sai. Dentro di te hai questa sensazione: preferisci restare
come stai perché il rischio del fallimento è grandissimo, e
avrebbe conseguenze devastanti su di te. Non è così?»
«Credo di sì» disse lui.
«Così continuerai ad andare avanti come hai sempre
fatto. Alla deriva. Senza mai approdare a nulla. Al…» Lo
fissò con un’espressione dura. «Io proprio non lo so se ce la
faccio ad andare avanti. Non lo so, davvero. Lo vorrei, ma
non ci riesco. Penso proprio che non ne sarò capace. Se tu
mi deludi anche questa volta.»
Al grugnì una replica senza significato.
Dopo cena fece un salto da Tootie Dolittle. Sia lui che
sua moglie erano in casa: stavano pulendo i bruciatori della
cucina a gas. C’erano giornali sparsi dappertutto e il lavello
era pieno d’acqua saponata, color grigio sporco.
Al si sedette a distanza ed espose il suo progetto di
lavoro a Tootie, che ascoltò con attenzione tutti i
particolari.
«Forse è una copertura» disse Tootie quando Al ebbe
finito.
Quell’idea non lo aveva nemmeno sfiorato, e gli tirò su il
morale: metteva l’intera situazione sotto una luce
completamente nuova, sia l’offerta di lavoro che lo stesso
Harman. «Può darsi» disse Al. «Intendi dire che vogliono
ancora tenermi all’oscuro. Che vogliono creare una cortina
di fumo.»
«Certo, e dopo un po’ che avrai lavorato con loro la
toglieranno di mezzo. Quando ti conosceranno meglio. È
naturale.» E proseguì raccontando ad Al i particolari di un
lavoro che aveva svolto, facendo da autista a una donna che
gestiva una clinica per aborti. Gli ci erano voluti dei mesi
per rendersi conto che quello non era un centro per
massaggi svedesi; glielo avevano tenuto nascosto il più a
lungo possibile.
Poi condusse Al nell’altra stanza, in modo che i due
potessero parlare in privato.
«C’è un’altra cosa che forse ti è sfuggita» disse Tootie.
«Guarda caso, ne so un po’ sulla Teach Records perché mi
interesso di musica. Hanno un buon catalogo, ma lo sai
perché hanno scelto quel nome? Sono un’etichetta pirata.»
«Che significa?» chiese Al.
«Hanno rubato i dischi master. Voglio dire che si sono
fregati quelli originali e li hanno copiati. Non hanno alcun
diritto legale sui master da cui stampano, ma scelgono
sempre qualcosa di un’etichetta che non è più in attività, o
di un autore che è morto, cose del genere. O magari di
un’etichetta straniera. Comunque Teach era un pirata.
Barbanera, ma il suo vero nome era Edward Teach.»
«Capisco» disse Al, compiaciuto. «Non avevo visto il
collegamento.»
«Perciò non c’è dubbio che cose del genere le fanno»
disse Tootie. «E allora forse basta solo questo fatto per
sollevarti il morale. Ovviamente sei convinto che solo
qualcuno che sta facendo qualcosa di illegale può pagarti
quasi ottocento bigliettoni al mese. Se fosse onesto, non ti
pagherebbe niente o quasi. Questo perché tu sai come
stanno le cose, e questo lo dico perché sono tuo amico e ti
conosco abbastanza bene, e cioè sai di non valere un bel
niente.»
«Vuoi un bel pugno sul naso?» disse Al.
«E io te ne do subito un altro» disse Tootie. «E adesso
stammi a sentire. Tu non vali niente perché non hai niente
da vendere. Vuoi bene a tanti ragazzi di colore che
emigrano verso nord, nelle città, dalle zone agricole del
Sud. Tu vieni da una cittadina di campagna, su nella contea
di Napa. E a quei ragazzi gli vuoi più bene di quanto credi.
Io però lo so. Vedo in te un bel po’ delle stesse cose che
vedo anche in loro, ma tu sei troppo ignorante per
accorgertene: voglio dire ignorante di quanto, guarda caso,
io so, anche se sei piuttosto in gamba per altre cose. Ecco
quello che hanno da vendere quando arrivano in città: il
loro lavoro. Sgobbano da qualche parte, negli impianti della
Chrysler, o alla guida di un camion, o a montare pneumatici
in un centro commerciale Montgomery Ward. Perché
qualcuno li paga? Perché tu li paghi? Se hai qualche soldo
da parte li fai venire da te per lavare le macchine che
rivendi; altri posti come il tuo lo fanno, hanno un ragazzo di
colore che lavora per loro. Tu sei così povero che sei tu
stesso, il ragazzo di colore.»
«E con questo?» disse Al.
«Con questo c’è che qualcuno non vuole andare avanti
così» disse Tootie. «C’è chi vuole crescere e vestirsi bene, e
allora si inventa qualcosa da vendere: trova qualcosa da
fare che interessa a qualcun altro al punto di essere
disposto a pagarlo. Ma tu sei troppo scemo. Non hai mai
imparato a fare niente. In questo senso sei diverso da quasi
tutti gli altri, bianchi e di colore. Devi imparare a fare
qualcosa che gli altri vogliono. Come il mio cane, dottor
Mudd. Lui ha imparato a colpire i palloncini col muso, così
tutti pagano per guardarlo: è molto più sveglio di te.
Nessuno ti paga per fare qualcosa perché sei tonto. Te ne
stai in disparte. Continui a essere quello che sei invece di
essere quello che gli altri pagano per guardare. Magari
quando sarai vecchio te ne renderai conto, ma allora sarà
troppo tardi. Devi sviluppare una personalità più vivace.
Vivi come se fossi una persona pericolosa, che fa paura,
come una spia o roba del genere. Devi muoverti in modo da
creare mistero. Così nessuno sa mai quando vai o vieni, o
quello che fai. Ascolta, questo è esattamente ciò che fa Mr
Harman. Lui fa in modo che tutti raccontino storie
significative su di lui, e così uno non sa bene quello che fa o
quello che è. Però tutti sanno chi è Al Miller: ce l’ha scritto
in fronte.»
Al rimase in silenzio.
«Tu non hai fascino» disse Tootie. «Per dirlo in una
parola. Sei solo acqua stagnante su due gambe.»
«Forse è così» disse Al.
«La vita è come il programma di Ed Sullivan» disse
Tootie. «Io lo guardo tutte le settimane. È lo spettacolo più
forte che c’è in tv, adesso che Milton Berle è andato in
pensione. Io li vedo, quelli che partecipano: non hanno
talento, ecco la verità. Quello che hanno è personalità. Chi
ha talento di questi tempi? Al Jolson: quello non ha mai
avuto talento. Nat Cole non sa cantare. Frank Sinatra non
sa cantare, Fats Waller non sa cantare, sembra un rospo
che gracida. Johnny Ray è un cantante spaventoso, Sammy
Davis jr non è altro che un grosso cazzone, ma è molto
popolare. Il Kingston Trio, solo una manica di scolaretti.
Però tutti hanno personalità. Devi imparare come si fa.»
«Non ci riesco.»
«Lo hai fatto per un minuto, quando sei andato
nell’ufficio di quell’uomo. Sennò non avrebbe deciso di
assumerti. Lo hai fatto una volta, perciò puoi farlo di nuovo,
e non solo per una seconda volta, ma sempre. Vivi come se
fossi una specie di agente segreto francese a Tangeri,
inventati delle storie per renderti interessante, e ben presto
si interesseranno a te. Se ci riesci mandando giù un paio di
quei calmanti, allora ti servono; butta via quel flacone che
porti con te e fallo da solo, di tua iniziativa. So che puoi. E
per dio, tu li vali ottocento dollari al mese come stipendio
iniziale: quello fa bene a pagarti.»
Al non disse nulla, rimuginando su quanto aveva detto
Tootie.
«Sarò sincero» disse Tootie. «Darei il braccio destro per
trovarmi al posto tuo adesso. Per avere una proposta come
quella. Ma non me la faranno mai. In parte perché nessuno
assume gente di colore per lavori che contano, se non
nell’industria dello spettacolo, e in parte perché non ho
talento. Ecco perché devo guadagnarmi la pagnotta
facendo il commesso all’ufficio sanitario della contea,
scrivendo i rapporti sui cessi pubblici. Sono solo un
commesso. Ma tu di fondo sei un bel contaballe: di fondo
hai già una tua linea di comportamento. Devi solo portarla
fuori.»
«Mi è stato insegnato che è bene dire la verità» obbiettò
Al.
È
«Certo, se dici la verità finisci in paradiso. È lì che vuoi
andare? È quella la tua destinazione? O invece hai
intenzione di vivere una vita felice qui? In questo caso
impara a tener fede alla tua linea e a non fermarti mai, a
non mollare mai. Finché non sarai morto. Allora potrai dire
la verità; al momento non sei un ricco imprenditore di Boise
che possiede sei pozzi di petrolio ed è il presidente della
locale Camera di commercio.»
Al si sentiva profondamente dilaniato.
«E comunque la verità è piuttosto sopravvalutata»
continuò Tootie, quasi parlando a sé stesso. «La verità vera
è che tutto puzza. La vita è una fregatura. Tutto quello che
vive morirà. La verità è che non vale la pena di fare niente,
che tanto tutto finisce male. Riconoscilo: non stai facendo
un favore a nessuno.»
«Non è l’unico aspetto della realtà» disse Al.
«D’accordo, forse no. Qual è l’altro aspetto? Dimmelo
tu.»
Al rifletté, ma non riuscì a trovare una risposta. Però
sapeva che Tootie si sbagliava. Tootie era amareggiato,
magari a ragione, ma il suo modo di vedere le cose era già
stato avvelenato anni prima: nei fatti dal suo lavoro
impiegatizio e nell’immaginazione dai suoi sogni di gloria.
Niente di strano che bazzicasse i bar insieme al dottor
Mudd, attirando l’attenzione come meglio poteva e
cercando di tirarci fuori qualcosa; faceva bene a farlo, ma
senza dubbio esistevano altre, migliori vie d’uscita.
«Fondamentalmente tu sei uno che prova risentimento»
disse Al. «Ho la sensazione che odi la gente. Che odi me.»
«Col cavolo» disse Tootie.
«Saresti compiaciuto se mi abbassassi a diventare ciò
che vuole Chris Harman.»
«E che vuole?» disse Tootie in tono di dileggio. «Non lo
sai nemmeno. Evidentemente hai fatto centro per un caso
fortunato, in quel minuto. Potresti continuare ad avere
fortuna, oppure no.»
«Non ho nessuna intenzione di provarci» disse Al.
«Oh, finalmente mi pare che ci stai arrivando» disse
Tootie. «Se riesci a far funzionare la materia grigia e a farti
un’idea. Ci vuole tempo, e tu chiacchieri tanto, ma prima o
poi ci arrivi. Tu hai solo paura di non farcela, hai paura di
provare e di fallire. Cosa c’è di tanto virtuoso in questo?»
Al non riuscì a trovare una risposta alla domanda. Forse
Tootie aveva ragione, forse gli mancava semplicemente il
coraggio di provare a uniformarsi alle linee di condotta che
Chris Harman gli indicava. Il coraggio e il talento.
«Sei uno stupido» disse Al. «Sei roso dall’invidia perché
ho avuto questa buona offerta di lavoro. Stai solo cercando
di farmi sentire a disagio. Stai solo cercando di rifarti su di
me.»
«Senti, paparino,» disse Tootie «attento a come parli.»
«Ci sto attento» disse Al. «Abbastanza da non darti più
buone notizie.»
«Allora sono buone notizie» disse Tootie. Poi fece una
smorfia. «Dentro di te sei felicissimo di questo lavoro; in
segreto ti stai gonfiando tutto… non hai potuto aspettare e
sei venuto a dirmelo subito. Un riccone qualsiasi ti offre
ottocento dollari al mese… e tu quasi te la fai sotto
pensando a tanto ben di dio. Una bella vita, magari ti
comprerai subito un buon Old Forester invece di quello
schifo di liquore che vendono al negozio, quel bourbon
Colonel St Masterson che sembra uscito dallo scarico di
una fogna.»
La porta della cucina si aprì. Mary Ellen Dolittle infilò la
testa dentro. «Ehi, ragazzi, mi pare che vi state scaldando
un po’ troppo. Sarà meglio che vi diate una calmata.»
«D’accordo» disse Al. Tootie annuì, impacciato.
«Mi sorprendete» disse la donna con la sua vocetta
delicata. «State sempre a discutere; stasera siete sobri e
discutete lo stesso. Sembra che non vi faccia bene essere
sobri.» Rimase lì mentre loro due tenevano gli occhi bassi.
«Te lo dico qual è il tuo problema, Al Miller» disse poi.
«Mentre pulivo i fornelli ho sentito tutto quello che
dicevate attraverso la porta. Quello che non capite è che
non avete fede in Dio, come invece dovreste avere. Lo so
che ve ne siete andati via dalla cucina perché sapevate che
mi sarei messa a parlare di Dio, ma peggio per voi perché
tanto ve ne parlo lo stesso, che lo vogliate o no. Nessun
uomo adulto può fare del bene a un suo simile se non va in
chiesa almeno una volta alla settimana a meditare sul
valore della parola che ci giunge dall’alto. Lo sai, Al Miller,
il mondo andrà a rotoli e uno di questi giorni ci sarà un
Armageddon. E il cielo si arrotolerà come una pergamena e
il leone dormirà con l’agnello.»
Tootie disse: «Mary Ellen, sei una scema. Va’ a pulire e
lasciaci in pace. Come moglie sei peggio di una vecchia
comare.»
«Io dico la pura verità» disse Mary Ellen. «È tutto
scritto in quel settimanale che costa cinque cent, La torre
di guardia, che noi testimoni pubblichiamo e distribuiamo.
Mr Miller, tu non te ne andrai da questa casa se non avrai
sganciato cinque cent per La torre di guardia, che porta la
parola di Dio in novanta lingue – almeno mi pare – in tutto il
mondo.»
Tootie disse: «A volte sembra appena uscita dalla
giungla. È come essere sposato a un selvaggio o qualcosa
del genere.» Aveva il volto deformato dalla vergogna e dalla
rabbia.
«Me ne vado a casa» disse Mary Ellen a bassa voce,
chinandosi. «Un giorno o l’altro. Me ne torno a casa.»
«Intende nel Missouri?» chiese Al. Sapeva che era nata
lì; abitava in California solo da tre anni.
«No» rispose lei. «Intendo in Africa.» La porta si
richiuse: Mary Ellen se n’era tornata in cucina a pulire.
«Cristo» disse Tootie. «Chiama l’Africa casa e non è mai
stata più a est del Missouri. È tutta colpa di quella robaccia
religiosa, di quei testimoni di Geova. Non ha nemmeno mai
conosciuto qualcuno che venisse dall’Africa, a parte quando
ci sono quelle loro conferenze con oratori che vengono
dall’Africa.»
Si scambiarono un sorriso tirato.
«Che ne diresti di un goccetto?» disse Tootie, alzandosi.
«Un buon Colonel St Masterson, un anno di
invecchiamento.»
«Va bene» disse Al. «Con acqua.»
Tootie andò in cucina a prendere i bicchieri.
La mattina dopo, sabato, Al Miller aveva deciso di
accettare il lavoro.
Mentre scioglieva la catena dell’autosalone e si piegava
per prendere la posta si rese conto che la prima persona a
cui dirlo non doveva essere Julie, e nemmeno Chris
Harman, ma il vecchio.
Le porte dell’autofficina erano aperte; Jim Fergesson,
come al solito, era al lavoro, almeno per la mattinata del
sabato. Probabilmente sarebbe rimasto lì fino a
mezzogiorno o l’una, a seconda di quanto aveva da fare.
E questo, si rese conto Al, è il momento di dirglielo.
Prima possibile, adesso che mi sono deciso. Anche in
considerazione di quanto gli ho detto a proposito di Chris
Harman.
Così lasciò la rivendita e s’infilò nell’officina dalla porta
laterale. Il vecchio l’aveva aperta perché entrassero più
aria e luce.
Lo trovò in ufficio, intento ad aprire la posta. Guardò su
quando vide entrare Al, con gli occhi cerchiati di rosso e
acquosi. Con voce roca disse: «È un po’ che non ci si vede.»
La sua attenzione tornò alla lettera che stava leggendo.
Così Al si mise seduto e aspettò.
«Notizie dal tuo dottore?» chiese Al quando Fergesson
ebbe finito di leggere la lettera.
«Ha detto che ho avuto un leggero attacco di cuore»
rispose Fergesson.
«Cavolo» disse Al, avvilito.
«Sta facendo altri esami.» Il vecchio cominciò ad aprire
un’altra lettera: Al notò che gli tremavano le mani. «Scusa»
disse il vecchio. «Devo leggere la posta.»
Al trasse un profondo respiro e disse: «Ascoltami. Quel
tizio, Chris Harman… Ne parlavamo l’altro giorno. Forse mi
sbagliavo, forse non è per niente un imbroglione.»
Il vecchio drizzò la testa e fissò Al, sbattendo forte le
palpebre, ma non disse nulla.
«Non sono un buon giudice per gente come quella»
disse Al. «Per gente così in alto. Non ho esperienza e
comunque mi basavo su informazioni di seconda mano.
Potrebbe anche essere un imbroglione, ma il punto è che
non lo so. Non posso dimostrarlo in nessun modo; per me
rimane un mistero.» Fece una pausa. «Sono stato là.»
Il vecchio annuì.
«Ho fatto una lunga chiacchierata con lui» aggiunse Al.
«Oh, già» mormorò il vecchio, quasi fosse preoccupato.
«Ce l’hai ancora con me?» chiese Al.
«No» rispose il vecchio.
«Ho pensato che ti avrebbe fatto sentire meglio» disse
Al «se fossi venuto e avessi ammesso onestamente che non
so niente di Chris Harman, né in un senso né nell’altro.
Dovrai decidere con la tua testa.»
A questo punto aveva pensato di proseguire e di
raccontargli la parte in cui aveva chiesto un lavoro a
Harman, ma non ne ebbe la possibilità.
«Senti» disse il vecchio. «Vattene da qui.»
Oddio, pensò Al.
«Non voglio parlare con te» disse il vecchio.
«Ho pensato che ti avrebbe fatto stare meglio» disse Al,
incapace di capire cosa stesse succedendo. «E adesso ti
dispiace» aggiunse «sentirmi dire che non credo che sia un
imbroglione.» Era la cosa più incredibile che avesse mai
sentito. «D’accordo» disse. «Me ne vado, vecchio scemo.»
Si rimise rapidamente in piedi. «Vorresti che fosse un
imbroglione?» disse. «Vuoi essere truffato? È questo?»
Il vecchio tacque. Continuò a leggere la sua posta.
«E va bene» disse Al. «Me ne vado. Vattene al diavolo.
Tu non vuoi parlare con me… io non voglio parlare con te.»
Fece per uscire dall’ufficio. «Non capisco» disse.
Il vecchio non alzò nemmeno la testa.
«Sei proprio rincretinito» disse Al dalla soglia. «Ti sei
bevuto il cervello. Dev’essere stato quell’attacco di cuore.
Una volta ho letto un articolo; molti pensano che a
Eisenhower sia successa la stessa cosa. Ciao, ci vediamo.»
Si avviò goffamente verso la porta dell’officina e uscì.
È la cosa più folle che abbia mai sentito, si disse. Sua
moglie ha ragione, bisognerebbe proprio impedirgli di fare
danni. Dovrebbe chiamare un avvocato e lasciare che sia lui
a occuparsene.
Capisco che uno si senta dispiaciuto quando gli si dice
che lo stanno imbrogliando, pensò. Ma non uno che si sente
dispiaciuto quando gli si dice il contrario. Non è umano.
Dovrei procurarmi uno di quegli opuscoli dell’ufficio di
igiene mentale e infilarglielo nella buca delle lettere. Sarà
un inferno rimanere qui insieme a lui, si disse. Insieme a un
pazzo.
Che mondo di pazzi, pensò. Il vecchio vende la sua
officina senza dirmelo… mi rovina la vita, mi lascia senza
lavoro, e poi se la prende con me. Senza nemmeno
parlarmi.
Attraversò la strada e andò al bar, si chiuse nella cabina
telefonica e lasciò cadere una moneta da dieci cent nella
fessura. Compose il numero telefonico di casa e subito
rispose Julie.
«Ho intenzione di andare avanti e di accettare quel
lavoro» disse.
«Bene» disse lei. «Che sollievo. Avevo paura che non lo
accettassi e invece è una cosa molto buona, no?»
«Mi pagano bene» disse lui. «E promette di essere
interessante. Comunque devo fare qualcosa. Non posso più
stare qui a perdere tempo.»
«Ti ci è voluto un bel po’ per capirlo» disse Julie.
«Ecco,» disse Al «qui mi ritrovo insieme a un vecchio
pazzo. Lo capisco, naturalmente; si vede benissimo.»
Riattaccò, fece una pausa e poi, dopo avere infilato un’altra
moneta, fece il numero della società di Harman. Rispose la
centralinista. «Teach Records.»
Non sarei mai riuscito a dirglielo, pensò Al. Al vecchio.
Sono andato da lui e non me ne ha dato la possibilità.
«Vorrei parlare con la persona con cui ho parlato l’altra
volta. Mr Gam, mi pare che si chiami.»
«Mi spiace, signore» disse la ragazza. «Mr Gam non
lavora più con noi.»
Spiazzato da quella affermazione, Al disse: «Ma gli ho
parlato da poco. L’altro giorno.»
«Con chi vuole parlare, signore?» disse la ragazza. «Dal
momento che non posso metterla in contatto con Mr Gam?»
«Non lo so» disse lui, completamente frastornato. «Mi
hanno offerto un lavoro. Era stato Mr Gam a occuparsi di
tutto.»
«Lei è Mr Miller?»
«Sì» rispose Al.
«Le passo Mr Knight» disse la ragazza. «Mr Gam e Mr
Harman gli hanno parlato di lei. Conosce la situazione. Un
attimo solo, Mr Miller.» Ci furono una serie di ticchettii, poi
la voce cordiale di un uomo gli trafisse l’orecchio.
«Mr Miller!»
«Sì» mormorò Al.
«Sono Pat Knight. Lieto di conoscerla, Al.»
«Anch’io» mormorò Al.
«Mr Gam non è più con noi. Gli è capitata un’occasione
che non poteva rifiutare e se n’è andato. Ha fatto la sua
scelta. È così che deve essere. Di tanto in tanto ricapiterà
in ufficio. Allora, ha intenzione di unirsi a noi?»
«Sì» rispose Al.
Knight disse: «Bene, adesso mi ascolti, Al. Ci sono un
paio di cose che sarà meglio discutere. Quando Mr Gam le
ha parlato era un po’ confuso: aveva tante cose per la testa,
questo nuovo posto al quale era interessato. L’ha scambiata
con un’altra persona che ci aveva mandato Mr Harman, un
certo Joe Mason o Marston, che però non si è mai fatto
vivo. Lui, cioè questo Marston, era un venditore al dettaglio
di Spokane. Volevamo che si occupasse per noi del nostro
repertorio classico, quello più per addetti ai lavori, e Gam
ne ha parlato con lei. L’ha scelta per quel lavoro, convinto
che fosse ciò che voleva Harman.» Knight rise.
«Capisco» disse Al, sentendo parte della sua mente che
si intorpidiva, come se avesse smesso di funzionare. Si
limitò a restare al telefono facendo su e giù con la testa,
ascoltando e basta.
«Abbiamo un lavoro per lei» riprese Pat Knight, più
lentamente e con voce più bassa. «Senta, voglio essere
chiaro. Proprio qui e in questo momento, al telefono. Quello
che ci serve è un giovane agguerrito, che abbia voglia di
lavorare e che non abbia paura di sollevarsi al di sopra
degli altri e di fare qualcosa della sua vita. Lei è così?»
«Certo» farfugliò Al.
«I guadagni sono alti» disse Knight «e anche la
responsabilità. Dovrà essere capace di affrontare il
pubblico. Può farlo. Vedo dalla sua cartella che lei vende
automobili.»
Al fu sfiorato dall’idea di rispondergli che non lo era; le
cose non stavano esattamente così. Detta in quel modo
faceva pensare a una grossa concessionaria che vendeva
auto nuove, con i divisori di vetro, automobili lucidissime,
venditori in abiti eleganti accanto a vasi di palme… Quello
non sono io, avrebbe voluto dire.
«Sono un commerciante» disse.
«Che significa?» chiese Knight.
«Ho un locale tutto mio» disse lui.
«Che mi prenda un colpo» disse Knight. «Allora lei è
senza dubbio la persona che stiamo cercando. Adesso
capisco perché Mr Harman ci ha detto di tenerle gli occhi
addosso. Be’, le propongo di fare un salto qui così
sistemiamo tutto. C’è stata un po’ di confusione da noi, ma
possiamo appianare ogni cosa con soddisfazione di tutti. Il
lavoro che abbiamo le va proprio a pennello, Al. So che non
potrà dire di no.»
«Di che si tratta?» chiese Al, a voce un po’ più alta.
«Mi stia a sentire» disse Knight, stavolta in un tono un
po’ freddo. «Voglio incontrarla faccia a faccia, Al. Devo
vedere con che tipo di persona ho a che fare. Non posso
offrire lavori al telefono, come se fossero biglietti di
auguri.» Adesso sembrava un po’ stizzito. «Quando posso
vederla?» disse, con una voce secca e formale. «Diciamo fra
un’ora? Posso ritagliare un incontro con lei esattamente
alle tredici e trenta, per circa quindici minuti.»
«Va bene» disse Al, annuendo. «Ci sarò.» Riattaccò e
lasciò la cabina.
Non posso far niente, si rese conto. Mi hanno incastrato
come un insetto in un vasetto di maionese. Appena ho detto
che volevo il lavoro mi hanno pugnalato.
Mi hanno fregato sul mio stesso campo, si disse. Il
vecchio trucco della permuta. Chiunque venda automobili
lo usa. Promette al cliente un prezzo alto per il suo usato,
così quello deve tornare per forza: non può mollare l’affare.
E quando torna scopre che nel frattempo l’offerta è stata
ritirata: è venuta fuori una nuova spedizione, oppure il
venditore che ha fatto l’offerta non lavora più con la ditta…
e a questo punto il cliente è incastrato. Ha già preso la
decisione di trattare con loro.
Come me, pensò Al. Ho deciso di unirmi all’azienda di
Harman, anche se non so di che lavoro si tratta o quanto mi
pagano. Non so niente, se non che ho deciso di fare la mia
mossa. È come la scena di un film con il poliziotto buono e
quello cattivo, capì Al. Con protagonisti Harman, Gam e
Knight; e io ci sono cascato come un pollo. A tal punto che
sto per andare da loro ad accettare il lavoro che mi offrono,
il lavoro che avevano in mente per me fin dall’inizio,
qualunque esso sia. E credo di sapere qual è, si disse. Si
tratta di vendere, vendere dischi. Ecco cosa cercano: un
tirapiedi con un cravattino, i capelli corti, una borsa e una
mano sempre pronta a stringerne altre. Cercano me: ciò
che sarò fra non molto. Il mio destino.
Mi hanno inquadrato subito, pensò mentre
riattraversava la strada per tornare alla sua rivendita di
auto usate. Il ragazzo di campagna. Il contadinotto di St
Helena che non ha scelta, non ha speranza nella grande
città di Oakland, California.
Salì a bordo di una delle macchine in vendita e tornò
verso casa per cambiarsi d’abito. Per infilarsi una camicia
pulita, giacca e cravatta, in modo da fare colpo su Mr
Knight.
Ecco come ti spezzano, comprese. Ecco come incrinano
il tuo spirito pezzo per pezzo. Non ti si presentano subito
con un’offerta, non ti guardano dritto negli occhi e dicono:
Abbiamo un lavoro da venditore per te, prendere o lasciare.
No, organizzano tutta una manfrina, e sono loro a vendere
te. Cosa c’è di strano? Sono molto più bravi di te, come
venditori. Guarda dove stanno, guarda chi sono. E poi
guarda te.
Dovevo immaginarlo, pensò. Harman era abbastanza in
gamba da mettere su un’azienda del genere, da avere il
tipo di casa e di macchine che ha e da vestire come veste;
abbastanza da ridurmi in polpette. Non avrei mai dovuto
fidarmi di un trafficone come lui, si disse. Harman conosce
un milione di trucchi dei quali io non ho nemmeno sentito
parlare. Io sono un dilettante. Lo siamo tutti, a paragone
con lui.
E sanno di avermi preso all’amo, pensò. Sanno bene che
ormai non posso più tornare indietro: accetterò il lavoro,
qualunque sia. Sono maestri della manipolazione, e sono
bravissimi a servirsi della psicologia.
Sono la loro cavia, si disse. E a questo punto sono
dentro il labirinto, troppo dentro per usarne. Più provo a
fare il furbo, a comportarmi in maniera intelligente, più mi
ci trovo invischiato dentro. È organizzato in quel modo: è
parte del sistema attraverso il quale tutto funziona.
Ho detto a mia moglie e ai miei amici che sto per
ottenere un lavoro coi fiocchi; loro sanno che l’avrei
raccontato in giro, che avrei sparso la voce. Adesso sono
costretto a fingere, devo cominciare a vivere una
menzogna: devo continuare a raccontare a tutti – e anche a
me stesso – che ho trovato un lavoro favoloso con uno
stipendio favoloso per una ditta favolosa, e che arriverò
chissà dove. Ma in effetti non arriverò da nessuna parte. E
comunque non devo dirlo a nessuno, devo tenerlo solo per
me.
E la prova di quanto mi abbiano in pugno è proprio che
dovrò tenerlo per me. Sorriderò sempre, dovrò farlo per
forza: d’ora in poi non ho scelta.
11

Al Miller faceva anticamera da più di un’ora nella


moderna sala d’attesa di Mr Knight. Indossava il suo vestito
migliore, la camicia e la cravatta migliore e le scarpe
migliori, nere e tirate a lucido. Nessuna traccia di Mr
Knight, fino a quel momento: la porta del suo ufficio
rimaneva chiusa, anche se ogni tanto si sentivano dei
rumori.
La mia mente conosce ciò che il mio corpo ignora, pensò
Al. La mia mente sa che questa è tutta una macchinazione,
un imbroglio. Ma il mio corpo si muove in un’altra
direzione: è convinto che si tratti di un momento magico.
Che si tratti di un successo. Ha rilasciato tutti i suoi
ormoni… di proposito, perché così hanno voluto coloro che
muovono i fili. Hanno il controllo del mio corpo, si rese
conto. C’è solo questa minuscola parte della mia mente che
guarda giù e vede. Vede le menzogne e la messinscena.
Anche questa lunga attesa. È voluta, per farti diventare
sempre più indifeso. Più dipendente. Pregare che ti
ricevano. Quando la ragazza mi dirà che Mr Knight può
ricevermi sarò tutto contento di entrare. E sarò ben felice
di accettare il lavoro; lo sarò davvero. Non dovrò fingere.
Perché al momento c’è una possibilità ancora peggiore. Che
abbia fatto tutto questo per nulla.
«Adesso Mr Knight può riceverla» disse la ragazza dalla
scrivania.
Immediatamente, come una macchina, Al fu in piedi.
Girò sui tacchi con eleganza e si avviò verso la porta
aperta, nell’ufficio di Knight.
Lì dentro, seduto, c’era un uomo appena più vecchio di
lui, ma con una faccia rotonda, liscia, rosa, ben rasata e col
doppio mento. Un uomo con una quantità di carne addosso,
ben vestito, con le unghie curatissime: un uomo di
bell’aspetto con l’aria accomodante. Un uomo rilassato che
non aveva nulla di cui preoccuparsi, né ragione di essere
malinconico.
«Si sieda» disse Knight indicandogli una sedia.
Al si mise a sedere.
«Come va oggi?» chiese Knight.
«Bene, grazie» rispose Al.
«Mi scusi se l’ho fatta aspettare» disse Knight.
«Non c’è problema» disse Al.
«Lei non ha mai lavorato nel campo dei dischi» disse
Knight picchiettando pensierosamente la matita.
«No» rispose Al.
Knight rifletté. Tutto a un tratto alzò gli occhi e scrutò
Al con una silenziosa ferocia. I suoi occhi chiari emanavano
un tale potere che Al si sentì paralizzato: poté solo fissarlo
impotente.
«Va bene» disse Knight. «Proviamo con lei, ragazzo.» Si
alzò dalla poltrona. «Affare fatto. Non è l’esperienza che
cerchiamo, ma l’uomo giusto.» Adesso le parole gli
uscivano tutte insieme. «Abbiamo idea che il prossimo
botto discografico – cavolo, nella musica popolare o in tv o
dovunque lei voglia – sarà la musica barbershop.»
«Capisco» disse Al.
«Un quartetto di voci maschili» disse Knight. «Ma non il
vecchio coretto, quello sentimentale, all’unisono. Qui
stiamo parlando di barbershop con un sound tutto nuovo,
elettronico. Di forte impatto. Dilagherà in tutta la nazione.
La scienza di oggi fornirà quello che a questo tipo di
musica è sempre mancato, una qualità moderna alla quale
la gente di oggi, come gli adolescenti, possa riferirsi.
Stiamo dando vita a una nuova linea. Si chiamerà Harman-
E. Pubblicherà solo barbershop, e si tirerà dentro ogni altra
cosa entro sei mesi.» Knight si rimise a sedere e tornò a
esaminare Al. «Lo sa» disse «da dove verranno i grandi
artisti di questo genere?»
«No» rispose Al.
«Dai piccoli centri» disse Knight. «Proprio dalla
California. Da località come Modesto, Tracy, Vallejo. Non
proprio campagna e non proprio città. La vera spina
dorsale dell’America, da cui tutti proveniamo e dove tutti
vogliamo tornare.»
«Io sono nato a St Helena» disse Al.
«Lo so» disse Knight. «È per questo che è stato scelto.
Lei sa cantare?»
«No» rispose Al.
«Io sì» disse Knight. «Canto proprio barbershop. In
effetti sono appena tornato da una convention di
appassionati di barbershop, a El Paso, Texas. Ecco.» Aprì il
cassetto della scrivania, vi frugò dentro e tirò fuori una
fotografia lucida che porse ad Al.
La foto mostrava Knight con un antiquato gilè a strisce
insieme ad altri tre uomini, tutti vestiti esattamente nello
stesso modo. E ognuno di loro aveva in mano una
bombetta.
«Il mio gruppo» disse Knight. «Cantiamo tre sere a
settimana per organizzazioni di veterani, ospedali, feste
private, gruppi di ragazzi. E mia moglie…» Tirò fuori
un’altra foto da mostrare ad Al, in cui c’erano quattro
giovani donne con gonne di taffetà che stringevano piccoli
parasole. «Questa da un lato è Nora» disse Knight.
«L’orecchio è un oscilloscopio, lo sapeva? Può captare suoni
separati da soli due cicli al secondo. Già, è un fatto. La
nostra musica è temperata. Bach già faceva musica
temperata. Quello che fa il barbershop è tornare alla
musica non temperata della polifonia rinascimentale. Si
legge dal basso verso l’alto, non da sinistra a destra, lo sa.
Noi ci sforziamo di fare risuonare gli accordi. Ci vogliono
circa cinque anni di pratica. Un accordo si dice risonante
quando le voci si fondono a non più di due cicli di distanza.
Il suono si rinforza. Ecco, le faccio sentire.» Andò verso un
grosso fonografo in un angolo dell’ufficio. «Questo gruppo»
disse mentre prendeva un disco a trentatré giri e lo posava
sul piatto «ha vinto il Campionato interazionale di musica
barbershop nel 1959. Gli Aristotelians.»
Fece partire il disco. Era When You Wore a Tulip.
Mentre ascoltava, Al cercò di capire come mai avesse un
suono così sgradevole. All’inizio pensò che fosse perché la
musica era molto alta. Knight aveva alzato il volume al
massimo e l’ufficio vibrava tutto. Ma non era quello il
motivo, perché Al si era spesso trovato al bar ad ascoltare
musica sparata da un juke-box, e non aveva mai provato
quella sensazione: non si era mai sentito tanto colpito
fisicamente dal suono come in quel momento. Alla fine si
rese conto che era la qualità perforante delle voci. Faceva
qualcosa al fluido delle sue orecchie, lo faceva sentire
stordito e poco in equilibrio. Anche dopo che il brano fu
finito, quello stordimento rimase; dovette mettersi a sedere
con gli occhi bassi, restando immobile.
Il suono era penetrato come pura vibrazione, come pura
perturbazione dell’aria. Era suono ridotto a cicli per
secondo, come aveva detto Knight, suono rinforzato che
emanava da quattro sempliciotti che vocalizzavano e che
riuscivano ad accordarsi fino all’identica tonalità, intervalli
esclusi, e poi questo suono era stato irrobustito da tutte le
moderne diavolerie elettroniche, effetti di risonanza e tutto
il resto. E alla fine non aveva più la minima relazione con
quello che avevano prodotto i cantanti, per brutto che
fosse. Al suono originale ci si poteva sottrarre, ma il
prodotto finale, capì Al, avrebbe raggiunto chiunque
attraverso il cemento, i sacchi di sabbia e l’acciaio. O anche
in un rifugio antiatomico, e addirittura nella tomba. Era,
come aveva detto Knight, il naturale passo successivo nella
produzione di massa di musica popolare; forse si sarebbe
rivelato il più grande successo. Tanto per cominciare era la
musica stessa a non avere alcun pregio: i cantanti erano
dilettanti, probabilmente proprio come Knight, gente che
faceva una vita tranquilla, gente ottimista, con tre serate
alla settimana da dedicare alla musica barbershop dopo
cena, appena conclusa la giornata lavorativa. E tutti
ovviamente vivevano in piccole atta.
«I toni» stava dicendo Knight. «Le linee armoniche. Il
Budapest String Quartet riesce a produrle ogni tanto.
Lavorano su strumenti a corda con tastiera.» Stava sempre
in piedi accanto al fonografo. Lo spense. «Mai sentito
niente del genere?»
«No» disse Al.
«Non è come la vecchia musica barbershop, vero? Non è
una semplice riproposizione dei Mills Brothers.» Mise a
posto il disco e si girò verso Al. «Che ne pensa?» gli chiese,
fissandolo con un’espressione molto seria.
«È la roba più schifosa che abbia mai sentito in vita
mia» rispose Al.
L’espressione seria sul volto di Knight non mutò di una
virgola. «Lei ha ragione» disse. «Ha detto le cose
esattamente come stanno, ma le sfugge un punto. È buona
proprio perché è così brutta. C’è un sacco di tempo e un
sacco di talento e di ingegnosità in quello che ha sentito.
Per produrre quel suono ci sono voluti tanta passione e
tanto sudore. E quel suono ne è pieno, li si può sentire.
Questa roba non è arrivata per caso, non è che qualcuno
l’ha tirata fuori in mancanza di meglio. Non è mediocre, Al.
Questo suono è qualcosa che lei ricorderà. Non riuscirà a
toglierselo dalla mente. Fra sei, dieci settimane sarà ancora
dentro la sua testa. Ha fatto breccia. Una cosa mediocre
non fa breccia, si dimentica appena sentita. Crede di poter
dimenticare gli Aristotelians che cantano Ghenga Yole Ore
a Tulio? Non si illuda, non ci riuscirà. Ed è questo a dare al
prodotto qualcosa che gli garantirà il successo, qualcosa
senza il quale al giorno d’oggi non esiste popolarità nel
mercato. Identità. Questo suono ha identità. Quando gli
Aristotelians cantano When You Wore a Tulip lei sa di che si
tratta; non può scambiarlo per qualche altra cosa. Sì, è
brutto. Così brutto da conquistarsi un posto alla pari di…
be’, diciamo di Al Jolson o Johnny Ray o uno qualsiasi dei
grandi. Delle Andrews Sisters.»
«Capisco» disse Al.
«Capisce davvero?» disse Knight. «Lei dice che è brutto.
Lei chiama brutto qualcosa che entrerà nel cuore degli
americani, dovunque, e farà parte delle loro vite. È questa
la sua idea di brutto? Qualcosa che darà piacere e un
momento di sollievo dalle preoccupazioni e dalle paure di
questa nostra epoca della bomba H? Strana idea di cosa sia
brutto, Al. Cosa è bello per lei? Qualcosa che aumenta le
paure? Qualcosa che rende le nostre vite un po’ più difficili
da sopportare?»
Vi fu silenzio.
«Questi ragazzi,» riprese Knight «gli Aristotelians – li
conosco di persona, sono tutti miei buoni amici – si sono
divertiti moltissimo a produrre questo disco. Non sono
intellettuali, non sono andati a scuola, non hanno letto
Kant. Sono soltanto dei bravi, semplici ragazzi che amano
riunirsi la sera per cantare. E noi trasmetteremo questo
loro piacere, lo condivideremo, pubblicando su un disco i
loro accordi. È il nostro lavoro. Siamo qui per questo. Lei
sarà qui per questo, se riterrà opportuno unirsi a noi. Non
stiamo cercando di cambiare il mondo, non siamo educatori
o censori. Noi offriamo piacere, non istruzione. È una cosa
così negativa?»
«No» disse Al. «È una cosa buona.»
«Sì, è buona» disse Knight. «Ciò che hanno fatto questi
ragazzi è buono, buono per la gente. L’unica cosa che
conosciamo. Quando i musicisti di professione sentono
questa roba danno di matto. Dico sul serio. Dovrebbe
vedere che faccia fanno, vale proprio la pena di guardarli.
Sanno di ascoltare dei suoni che sono scomparsi centinaia
di anni fa, suoni che credevano di non sentire mai più. Ora,
ecco che intenzioni abbiamo con lei, Al, qui alla Teach. La
spediremo nelle piccole città di provincia che lei conosce
così bene, dove lei ascolterà i diversi gruppi di musica
barbershop fino a trovare quelli che valgono qualcosa. A
quel punto si metterà in contatto con il nostro responsabile
della sezione artisti e repertorio e noi invieremo una
squadra con un registratore Ampex e un foglio di carta per
appunti e metteremo tutto su nastro.»
«Crede che abbia la preparazione necessaria per una
cosa del genere?» chiese Al.
«Quando c’è qualcosa di nuovo,» replicò Knight
«qualcosa di veramente nuovo, la preparazione non
centra.»
«Io non sono un musicista» disse Al. «Perché non
assumete un esperto di musica?»
«Questo non ha niente a che vedere con la musica. Noi
registriamo un suono. Come quello degli scarichi delle
macchine sportive che, detto per inciso, è stato uno dei
nostri più grandi successi. Suoni da Sebring. Lo sa, è stato
dimostrato che i fagioli crescono più rapidamente quando
viene trasmessa una registrazione di sottofondo con il
rumore dello scarico di una macchina da corsa.»
«E dopo che viene?»
«La musica sinfonica» ripose Knight. «Crescono bene
anche con quella.»
«Credo che abbiate scelto la persona sbagliata» disse
Al. «Io m’intendo solo di macchine usate.»
«La paga è di cinquecentocinquanta dollari al mese»
disse Knight. «Oltre alla benzina e all’olio per la macchina,
naturalmente. Dopo novanta giorni, se tutto funziona come
si deve, la paga sale a seicento, poi dopo altri sei mesi a
seicentocinquanta. Lo vuole o no? Se non lo vuole ho molto
da fare.» Knight tornò alla sua scrivania e si rimise a
sedere, prese delle carte, se le sistemò davanti e cominciò a
sfogliarle.
«Lo voglio» disse Al.
Era un lavoro migliore di quanto si fosse aspettato. Lo
stesso valeva per lo stipendio. E in fondo non doveva
vendere nulla.
E poi si rese conto di essere stato imbrogliato di nuovo.
Avevano utilizzato un altro trucchetto da commercianti: gli
avevano fatto credere che fosse una cosa più brutta di
quanto lui pensava, così quando gli avevano detto
chiaramente come stavano le cose lui era stato così felice
da accettare subito l’offerta.
E non era tutto. Perché lo avevano assunto? Perché lo
volevano? Perché proveniva da St Helena. Ecco il motivo.
Non aveva nient’altro da offrire che potesse interessarli, né
talento né esperienza, solo il suo passato rurale.
«E se venisse fuori che vi ho mentito?» disse tutto a un
tratto. «Se io non fossi nato a St Helena? Se invece fossi
nato a Chicago?»
«Abbiamo controllato» disse Knight.
«È questo tutto ciò che vedete in me?» disse Al. «Non
c’è nient’altro?» Gli sembrava terribilmente importante.
«Lei conosce quelle piccole città» disse Knight. «Point
Reyes, Tracy, Los Gatos, Soledad. Sono il suo habitat.»
Frugò fra le carte. «E conosce quelle strade di campagna.
Non si perderà. Sono una minaccia continua, tutte ghiaia e
buche. Il genere di strade in cui lei è cresciuto.» Gli puntò
lo sguardo addosso. «Rintracciare questi gruppi che fanno
musica barbershop in cittadine del genere significa stare a
lungo in macchina. Giornate intere passate al volante.»
Mentre tornava alle sue carte aggiunse, quasi parlando con
sé stesso: «E se la sua macchina si impantana o si rompe
potrà provvedere lei stesso. Sa come fare.»
Dopo un po’, Al disse: «Quando dovrei cominciare?»
«Lunedì» mormorò Knight. «L’aspettiamo per allora. Si
presenti alle nove del mattino e chieda di Bob Ross. Sarà
lui il responsabile del progetto. Ross è il genero di Harman.
Questo è il grande progetto di Harman, quello in cui sta
investendo tutto.»
«Credevo che puntasse su quello di musica sacra» disse
Al.
«L’etichetta Antiqua? Il pubblico non è pronto per
quello. Forse l’anno prossimo.» Era ovvio che Knight non
aveva più voglia di parlare con lui; era tutto preso dalle sue
carte. Non c’era altra soluzione che andarsene, così Al si
alzò e uscì dall’ufficio, richiudendosi la porta alle spalle.

Anche se ad Al sembrava una calamità che gli avessero


offerto un lavoro solo perché era nato a St Helena, sua
moglie la prese in un altro modo. Lo considerò un colpo di
fortuna.
«Pensa se non fossi nato a St Helena» disse Julie quella
sera mentre Al gliene parlava. «Non avresti ottenuto il
lavoro. Oppure pensa se non fossero stati interessati al
progetto di registrare musica nelle piccole città.» Andò
avanti con un’eccitazione quasi mistica. Quel lavoro
l’affascinava perché per Al significava andare a lavorare
fuori dall’area della Baia. «Magari potremmo trasferirci
dalle parti di Sonoma» disse. «Ho sempre desiderato vivere
in quella zona. O più su, dalle parti del Russian River. Mi
piacerebbe abitare vicino all’acqua.»
«Mi hanno umiliato» disse Al.
«No, è tutta una tua invenzione. Tu proietti le tue
paranoie sul mondo intero; solo perché lavori nel campo
delle macchine usate pensi che tutti stiano cercando di
imbrogliarti con gli stessi trucchetti che usi tu. Loro
avevano un lavoro per te, poi quel progetto non ha
ingranato, e sono stati così bravi da scavare nel tuo passato
fino a trovare un’altra qualità che tu possedevi e che a loro
poteva far comodo. È una cosa che promette bene, secondo
me. A quanto pare sono persone intelligenti, piene di
risorse. Non vedo l’ora di conoscere Mr Harman.»
Al disse: «Forse riuscirò a sfondare ad Arroyo del Seco.»
Era una cittadina fuori mano, a quanto riusciva a ricordare.
«E lavorerai alle dirette dipendenze del genero del
capo» disse Julie. «Questo significa che avrai la possibilità
di arrivare fino in vetta. È come se avessi una strada
spalancata davanti.»
«Uccidendolo?» disse Al. «E prendendo il suo posto?»
Sembrava una cosa uscita dal Macbeth.
«Rendendoti immediatamente indispensabile» disse
Julie. «È quella la chiave del successo. L’ho letto in un
articolo su una rivista femminile; aspetta… vado a
prenderla.» Cominciò a rovistare per tutta la casa.
Non c’è nessun successo, pensò Al Miller, in un lavoro
che richiede a un uomo di mettersi a cercare da un
paesetto all’altro i peggiori gruppi musicali che esistano
sulla faccia della terra. E poi, una volta scoperti i peggiori,
registrarli con le peggiori tecniche disponibili oggi. Si vide
girovagare sempre più lontano, in cerchi via via più larghi,
per poi ritrovarsi alla fine in un posto che non era più
nemmeno in California. La sua ricerca dei peggiori gruppi
musicali esistenti si sarebbe allargata all’Oregon e
all’Idaho, poi al Wyoming, al Nuovo Messico, al Nebraska e
al Mississippi, e infine a tutti gli Stati Uniti d’America. In
conclusione avrebbe trovato, nel trionfo finale, il peggio del
peggio, sarebbe stato responsabile di aver portato alla luce
un gruppo così brutto da non poterne trovane uno
peggiore, per quanto la sua ricerca potesse prolungarsi. A
quel punto poteva anche andare in pensione, dopo aver
svolto il suo lavoro per la patria e per la razza.
«Povero dottor Mudd» disse ad alta voce.
«Cosa?» disse Julie interrompendo la ricerca.
«Il cane di Tootie Dolittle» disse Al. «Lui è escluso.
Quello che fa non si sente, non si può registrare.» In nessun
suono nuovo o vecchio, pensò Al. Un cane che va a caccia
di palloncini non potrà più far parte della via americana al
successo perché non potrà essere suonato in alta fedeltà.
Se dottor Mudd fosse capace di canticchiare spiritual
mentre colpisce il palloncino con il muso, pensò Al,
potrebbe avere qualche possibilità. Ma questo significa
chiedere l’impossibile. Anche per l’industria elettronica
deve esserci un limite.
E il povero Tootie Dolittle, pensò. Convinto che la chiave
del successo fosse avere un bel po’ di fascino. Niente di
strano che anche Tootie fosse rimasto fuori. Quei giorni
erano andati. L’esotico, il sensazionale, non lo voleva più
nessuno. Adesso andava di moda il fatto in casa. Tutta roba
popolare. Il successo era nelle mani di terzetti sorridenti di
ragazze grassottelle alle prime armi con indosso gonne del
ballo studentesco di fine anno che sculettavano di qua e di
là cantando Down by the Old Mill Stream. L’errore di Tootie
era stato quello di non essere nato a St Helena o a
Montpelier, Idaho, o in qualche posto del genere. Era stato
condannato fin dalla nascita.
E quanto a me, pensò Al, per poco non sono rimasto
fuori anch’io. Ma adesso mi è stata mostrata la strada.

Lunedì mattina Al Miller si presentò all’azienda di


Harman. Una centralinista lo spedì in un ufficio al secondo
piano dove trovò due uomini ad aspettarlo, uno dei quali
era un tecnico del suono e l’altro il genero di Harman, Bob
Ross. In mezzo a loro c’era un registratore Ampex
alimentato a batteria e bobine di alluminio con nastri da
quindici pollici, oltre a microfoni, amplificatori per
riproduzione e altoparlanti portatili.
Ross indossava un vestito marrone di lana con un
panciotto, una cravatta stretta e occhiali spessi. Salutò Al
con voce baritonale, quasi quella di un annunciatore, e la
cosa lo colpì perché contrastava con la sua faccia paffuta,
quasi da bambino. Senza dubbio era vestito in modo
impeccabile, ma era così sproporzionato da sembrare ad Al
un adolescente troppo cresciuto. Aveva inoltre dei modi
seriosi da studentello secchione.
«Lei è l’autista?» chiese Ross.
«Credo di sì» rispose Al. «Sono stato appena assunto.»
«Milton» disse Ross.
«No» disse lui. «Miller.»
«È in grado di guidare un camion chiuso a quattro
marce?»
«Certo» rispose Al.
«Andiamo» disse Ross. «Carichiamo la roba a bordo e
muoviamoci; è inutile stare qui a perdere tempo.»
Al cominciò a raccogliere l’attrezzatura; il tecnico del
suono lo aiutò mentre Ross esaminava dei fogli su una
cartelletta. Il tecnico si mosse per primo, facendo strada
giù per le scale verso il parcheggio dove c’era un autocarro
chiuso GM da ima tonnellata e mezza, vecchio di diversi
anni.
«Dove si va?» chiese Ross ad Al quando ogni cosa fu
caricata a bordo.
«Fort Bragg» rispose Al senza esitazione.
«E lì che la troveremo?» chiese Ross.
«Certo» rispose Al. Aveva scelto una città a caso. Non
c’era mai stato. Ci sarebbe voluta l’intera giornata per
arrivarci e tornare indietro, e lui non vedeva l’ora di
godersi quel viaggio.
«Non dovremmo cominciare da un posto più vicino?»
chiese Ross. «Ci sono un sacco di località fra qui e Fort
Bragg.»
«Sono state già passate al vaglio» disse Al.
«Cavolo» disse il tecnico del suono. «Se arriviamo fin
laggiù potremmo non tornare prima di un paio di giorni.»
«Siamo realistici» disse Al. «Dobbiamo uscire fuori dalla
zona in cui il segnale televisivo arriva bene. La tv ha
rovinato la cultura popolare genuina per un raggio di
centocinquanta chilometri da qui.»
Ross disse: «Lei sembra molto sicuro del suo giudizio.»
«Ho lavorato per anni in questo campo» replicò Al.
«Se dobbiamo spingerci così lontano sarà meglio che
chiami mia moglie» disse il tecnico del suono. Si scusò e
andò al telefono.
Ross tirò fuori una pipa e una sacchetto di plastica
autosigillante e, mentre l’accendeva, disse ad Al: «In tutta
franchezza, uscire dall’area metropolitana della Baia non
mi alletta per niente. Fino a ora abbiamo fatto la maggior
parte delle nostre registrazioni in club di San Francisco.
Quasi tutti i cantanti popolari sono ben disposti a venire qui
e in posti come Fack’s Number Two, Blackhawk e Hungry I
si trovano parecchie personalità del pop e del jazz.»
«D’accordo» disse Al. «Lei aspetti al Fack’s Number
Two e veda quanto ci mette a farsi vivo un autentico
quartetto di barbershop. Uno che non sia già sotto
contratto.»
Ben presto furono in viaggio, con Al alla guida. Bob Ross
tirava boccate dalla sua pipa e leggeva una rivista
spedalizzata. Il tecnico del suono se ne stava appoggiato
allo sportello del furgone e ben presto si addormentò.
«Ammiro il suo coraggio» disse Ross alzando gli occhi
dalla rivista. «La sua voglia di parlare e di difendere il suo
punto di vista.»
«Grazie» disse Al.
«Andremo d’accordo» disse Ross. «Però credo che
faremo una breve sosta a casa di mio suocero e ne
discuteremo con lui. Prima di spingerci così lontano.»
Indicò ad Al di puntare verso le colline di Piedmont,
lungo strade con alberi alti e ampi giardini terrazzati, cinti
da muretti di pietra ricoperti di edera. Ben presto
parcheggiarono davanti a una casa molto defilata rispetto
alla strada, dietro una fila di pioppi.
«Andremo noi due» disse Ross mentre scivolava oltre il
tecnico ancora addormentato e scendeva dal camion sul
marciapiede. «Si è preso un giorno libero. Un attacco di
febbre da fieno.»
Risalirono insieme un vialetto lastricato, accanto ad
aiuole di vecchie rose e gladioli. Ross precedette Al lungo il
fianco della casa, fino al patio sul retro. Trovarono Chris
Harman sdraiato su un asciugamano di spugna: indossava
calzoncini da bagno e ascoltava musica da una radiolina
portatile FM mentre prendeva il sole. Accanto a lui aveva
un grosso bicchiere di tè ghiacciato e una pila di U.S. News
& World Report. Mentre si avvicinavano voltò la testa.
«Salve» disse.
«Non ti disturberemo per più di un minuto» disse Ross.
«Nessun disturbo» disse Harman appoggiando il mento
sulle braccia incrociate per vederli.
«Siamo diretti a Fort Bragg» disse Ross. «A caccia di
qualche quartetto di barbershop ancora disponibile.»
Subito Harman disse: «Oh, no.»
«Perché no?» disse Al.
«Non è quella la zona. Fort Bragg è troppo vicino
all’acqua. Fa freddo e c’è nebbia, lungo la costa. È un
territorio per fare legna. Il barbershop lo si può trovare
nelle cittadine rurali, nella valle di Sacramento, o in quella
di Sonoma. Dove fa caldo e il terreno è secco e
pianeggiante. Si fidi di me.» Si mise seduto. «Non è per
sminuire la sua scelta, Miller, ma vada fino a Sonoma e dia
un’occhiata dalle parti di Petaluma.»
«Lei conosce Petaluma?» chiese Al.
«Oh, certamente» rispose Harman sorridendo. «Bazzico
sempre da quelle parti. La capitale del mondo in fatto di
uova e di galline.»
«Andremo là» disse Ross. «Ci vogliono non più di un
paio d’ore.»
«E ricordate,» disse Harman con il suo sorriso affabile e
raffinato. «Ci sono altre città nei paraggi. Sebastopol, Santa
Rosa, Novato. È un’area rurale ben tenuta, e molto calda. E
anche abbastanza noiosa. Ideale per il barbershop.» Si alzò
in piedi e cominciò a infilarsi un accappatoio bianco e blu,
che legò con una cintura a cordoncino. «Col passare del
tempo lei avrà tante occasioni di mettere alla prova il suo
giudizio, Miller» disse. «Mi dispiace di averle dovuto
imporre la mia opinione, ma come Ross ben sa ho un fiuto
molto spiccato per questo genere di cose.»
«Ho fatto esperienza con lui» disse Ross.
«Sempre felice di imparare qualcosa» disse Al. «Mi
considero ragionevolmente preparato in questo settore, ma
posso sempre migliorare. Un uomo non smette mai di
andare a scuola di vita.»
«Che ne direste di bere qualcosa?» propose Harman.
«Prima di affrontare quel lungo viaggio sotto il caldo?»
«Sarebbe fantastico» disse Ross.
«Grazie» disse Al. «Lo apprezzerei davvero.»
«Allora scusatemi» disse Harman, che poi scomparve in
casa oltre una porta-finestra, lasciando da soli i due uomini
sul patio. La radiolina continuava a trasmettere musica.
«Imparerà un bel po’ di altre cose» disse subito Ross
«lavorando nell’azienda di Harman. Chris è davvero un
uomo sorprendente, un vero gigante. Per esempio, lei si
sarà fatto probabilmente l’idea che lui si interessi
soprattutto della produzione di dischi. Nulla potrebbe
essere più lontano dalla verità. Fondamentalmente è un
investitore.»
«Capisco» disse Al.
«Vale circa due milioni di dollari» disse Ross. «Tutto
compreso. Eppure è uno dei maggiori contribuenti dell’ADA
di Oakland: sa, quelli dell’azione democratica. Negli anni
ha sostenuto ogni sorta di cause liberali. È un uomo colto e
garbato, con un ricco bagaglio di studi umanistici. Tanto
per dire, so che ha letto Platone nell’originale greco. Uno
dei suoi hobby è collezionare francobolli. È il più
importante collezionista dei primi francobolli inglesi in
tutta la costa occidentale.»
«Cristo santo» esclamò Al.
«La inviterà a casa sua» disse Ross. «Adesso che anche
lei fa parte del gruppo. Qui ci vengono tutti. Chris è
tutt’altro che uno snob, credo non sappia nemmeno che
significhi essere snob. Quando entra in un negozio per
comprare qualcosa, per esempio il giornale del mattino, è
sempre affabile e cortese con gli impiegati…» Ross
gesticolò «così come lo è con la sua famiglia e con i suoi
amici. Per lui un uomo è un uomo. E non sto scherzando.»
«Che mi prenda un colpo» disse Al.
«Quello è il marchio del vero aristocratico» disse Ross.
«Immagino di sì» disse Al.
«Lo sostengono anche quelli che ce l’hanno con lui»
disse Ross.
«Chi ce l’ha con lui?» chiese Al. «Come può essere?»
«C’è tanta gente che non lo sopporta» rispose Ross. «Ne
sarebbe sorpreso. Si è fatto un sacco di nemici che gli
augurano le cose peggiori e che non si fanno scrupolo di
parlar male di lui – in genere alle sue spalle – appena ne
hanno l’occasione.»
«Perché?» domandò Al.
«Me lo sono domandato anch’io per un bel po’ di tempo.
È per via della sua fortuna. Possono perdonargli le sue
buone maniere, la sua educazione, il suo talento nel campo
degli affari e della cultura, ma non la sua fortuna.
Potrebbero anche perdonargli la ricchezza. Ma la
fortuna…» Ross gesticolò di nuovo, facendo cadere il
tabacco dalla pipa. Un frammento acceso cadde a terra e
lui si bagnò accuratamente le dita e lo rimosse subito.
«Credono che dovrebbero averla anche loro» disse Al.
«Giusto» disse Ross. «Dovrebbe essere distribuita in
maniera equa in tutto il mondo civile. Naturalmente, se
questo fosse vero, non esisterebbe più una cosa chiamata
fortuna; nessuno saprebbe più nemmeno il significato della
parola. Voglio dire, pensiamo a cos’è la fortuna.»
Al disse: «La fortuna è quando le cose si mettono bene
per te.»
«La fortuna è riuscire a fare buon uso dell’occasione»
disse Ross. «Significa che quando qualcosa va storto puoi
rivolgerlo a tuo vantaggio. Non significa, diciamo, avere
sempre una buona mano a poker. Non significa avere
sempre tre assi e due re.» Si girò a guardare Al e disse:
«Significa che quando hai delle brutte carte puoi ancora
vincere, perché in qualche modo sfugge a tutti noi che si
possa trasformare una brutta mano in una mano vincente.
Mi segue?»
«Sì» disse Al. «Ed è un nuovo concetto davvero
affascinante.»
«Allora forse potrà spiegarlo a me» disse Ross. «Ormai
sono sei anni che lo osservo, e francamente non riesco a
capirlo. Mettiamo che acquista un’azienda che ripara
orologi. Il giorno dopo inventano una macchina che ripara
orologi automaticamente e qualcuno ne piazza una proprio
sul marciapiede dalla parte opposta della strada: basta
infilarci dentro l’orologio e dopo cinque secondi quello
viene fuori aggiustato. Per, diciamo, pochi cent. Questo
farebbe fallire chiunque.»
«Assolutamente» disse Al.
«Ma non Chris.»
«E perché?»
«Non lo so.»
«Magari ha capitali a sufficienza per ammortizzare la
spesa.»
«No. Chissà come riesce a volgere la cosa a suo
vantaggio. Ne trae beneficio. Ci guadagna, almeno a lungo
termine. La macchina, quella macchina che aggiusta un
orologio in cinque secondi proprio davanti alla sua azienda,
in realtà gli fa guadagnare a lungo termine più che se
nessuno l’avesse messa lì, o se non fosse stata nemmeno
inventata.»
«È incredibile» disse Al.
«L’ho visto entrare nell’ufficio di qualcuno» disse Ross
«solo per dargli un regalo, come un campione dei suoi
dischi o una bottiglia di whisky, e proprio perché si trova
per caso lì in quel momento gli capita fra capo e collo
qualche grossa occasione. Magari ha appena attraversato
la strada per regalare a qualcuno un biglietto da cento
dollari e gli salta all’occhio un cartello AFFITASI lì vicino e
subito prende in affitto un posto qualsiasi e in sei mesi lo
trasforma in una gallina dalle uova d’oro, qualunque sia
l’uso che ne fa. Guarda caso era proprio quello che stava
cercando, o quello che il pubblico voleva. Prenda questa
storia del barbershop. È stata una sua idea, lo sa?»
«Sì» disse Al.
«Non si sbaglia mai. Se si impegna seriamente in questo
genere di musica, può star certo che sarà la prossima
moda. Magari lo diventa proprio perché lui se ne interessa,
non lo so. E questo rapporto che ha con la realtà si estende
entro certi limiti all’intera azienda. Giurerei che la mia
fortuna è sostanzialmente migliorata da quando ho
conosciuto Chris Harman, anni fa. È la buona sorte ad
andargli incontro, addirittura; si può ben dire che il
processo comincia da lì. La sua buona sorte, Miller, è già
cominciata. Non lo sente?»
«Eccome» disse Al.
«Voglio dire, adesso ha una direzione in cui andare. Non
si limita a restarsene fermo in un posto. È stato notato.»
La porta-finestra si aprì e riapparve Chris Harman nel
suo accappatoio bianco e blu, portando un vassoio con uno
shaker d’argento pieno di Martini e tre bicchieri dall’aria
ghiacciata, ciascuno con un’oliva dentro.
«Eccoci qua» disse Chris.
12

Jim Fergesson, alla sua prima incombenza di quella


mattina, uscì di casa e guidò fino alla Bank of America dove
trasferì i suoi soldi, lasciando solo dieci dollari, dal suo
conto di deposito fruttifero al suo conto corrente bancario.
Mentre lasciava la banca diede un’occhiata al libretto di
risparmio e lesse con soddisfazione la somma di 41.475
dollari.
Era meglio tornare a casa? Jim voleva essere vestito nel
modo giusto. Magari mi fermo a comprarmi una cravatta
nuova, si disse. Una di quelle strette. Così procedette lungo
la San Pablo finché non vide un negozio di abbigliamento;
parcheggiò, scese dalla macchina stando bene attento a
muoversi con cautela e a non affaticarsi troppo. Ben presto
fu dentro il negozio, e si mise a esaminare le cravatte nella
rastrelliera accanto alle giacche.
Un giovane cinese grassoccio in maniche di camicia
venne verso di lui sorridendo. «Buongiorno» disse a
Fergesson. Indossava una bella cravatta: grigia a pois rossi.
Il vecchio continuò a frugare e ne trovò una identica.
Costava quattro e cinquanta, il che gli sembrò un prezzo
eccessivo per una cravatta. «Quella è bella» disse il cinese.
«Fatta a mano da un tizio di Sausalito. L’ha firmata.»
Fergesson ne comprò più di una e lasciò il negozio,
sentendosi soddisfatto.
Ma ancora non aveva voglia di andare a casa. C’era
Lydia e lui si sentiva nervoso all’idea di ritrovarsela fra i
piedi. Seduto in macchina aprì la busta delle cravatte e con
l’aiuto dello specchietto retrovisore cominciò ad annodarne
una attorno al colletto della camicia. Mentre lo faceva –
portava cravatte così di rado che gli si intrecciarono le dita
e non riuscì a fare in modo che le due parti combaciassero
in lunghezza – si rese conto che il cinese era uscito dal
negozio fin sul marciapiede e gli stava facendo dei cenni
con la mano, come se volesse aiutarlo. Così scese dalla
macchina e lasciò che il cinese gli facesse il nodo. Fu
bravissimo, abile e amichevole con le dita.
«Grazie» disse Fergesson un po’ imbarazzato, ma allo
stesso tempo gratificato. «Ho questo importante
appuntamento di affari al quale non posso mancare.» Diede
un’occhiata all’orologio da polso per fargli capire quanto ci
tenesse.
Il cinese gli sorrise e lo seguì con lo sguardo mentre lui
risaliva in macchina e si allontanava. Mi augura buona
fortuna, si disse Fergesson mentre guidava in mezzo al
traffico. È un buon segno.
Adesso si sentiva meglio di quanto si fosse mai sentito
negli ultimi mesi. È davvero un’occasione speciale, si disse.
Si rese conto di aver comprato cravatte per oltre
venticinque dollari. Caspita! Era qualcosa, dimostrava
qualcosa.
Offrono un servizio quei cinesi, pensò. Ecco come
riescono a far rendere quelle loro piccole attività:
aggiungono un extra per niente, cosa che un bianco non
farebbe mai. Credo che valga la pena andare sempre lì,
quando devo comprarmi un capo d’abbigliamento: so che
riceverei un’attenzione personale, tutta per me.
Prese un appunto mentale dell’indirizzo. Così potrò
ritrovarlo, si disse.
Scommetto che quel cinese ha messo da parte un bel po’
di soldi, pensò mentre svoltava a sinistra a un incrocio.
È proprio una bella giornata, si disse poi quando vide il
cielo e il sole; abbassò il finestrino e annusò l’aria. Spero
che quel maledetto smog non venga fuori, pensò. La fa
morire, la gente, altro che chiacchiere: provoca il cancro ai
polmoni come le sigarette.
Non posso sentirmi così bene per tutto il giorno, si
disse. Già cominciava a provare un po’ di stanchezza:
guidare era faticoso, dover tenere d’occhio le altre
macchine, stare attento alle fermate e alle partenze. Ecco
cosa provoca lo smog, si disse. Gli scarichi delle macchine,
tutti quegli autobus e camion; c’è troppa gente che si
muove per Oakland… è troppo affollata.
Adesso sentiva il peso di una forte influenza che gli
gravava addosso, come quando l’aveva bloccato a letto
l’asiatica: gli ci era voluta una settimana prima di capire
che stava male, perché i sintomi della malattia non lo
avevano fatto sentire diverso, ma solo un po’ peggio. Aveva
accresciuto la sua stanchezza, la sua irritabilità, e il
malumore e il senso di sconfitta si erano intensificati. Non
aveva fatto che prendersela con tutti e non era riuscito a
svolgere bene il suo lavoro; non si era mai messo a letto e
poi una mattina si era sentito troppo stanco per alzarsi dal
tavolo dove aveva fatto colazione. Così Lydia lo aveva
costretto a restare a casa.
Mi sento come allora, pensò mentre rallentava. Un
senso di pesantezza dappertutto, in particolare sulle
braccia; le mani pesavano sul volante come se fossero di
cemento, la testa gli girava. Anche i muscoli degli occhi,
pensò: cominciò a vedere male il traffico che lo precedeva.
Gli oggetti si fondevano e poi si separavano. Il mio dannato
occhio sinistro se ne sta andando per i fatti suoi, pensò.
Come se fossi strabico. I muscoli non funzionano bene.
Be’, si disse, quello che mi serve è un po’ di vitamina
B1. Quella che tonifica. Continuò a guidare fino a che poté
svoltare e tornare sulla San Pablo; a un semaforo rosso girò
a sinistra e si immise sulla corsia più esterna. Ecco cosa mi
ha aiutato l’altra volta, si disse: quella e un paio di belle
saune. Ma questa volta non poteva fame perché gli era
stato proibito. Doveva tenersi lontano dall’acqua, il dottore
era stato chiarissimo. Perciò doveva farsi bastare la
vitamina.
C’era una zona gialla di fronte al drive-in e Jim
parcheggiò lì. Scese dalla macchina e si avviò, stando molto
attento a come camminava, verso il negozio di prodotti
naturali. Gli sembrò che i piedi sprofondassero nel
marciapiede, come se l’asfalto si fosse liquefatto. Affondano
di un palmo buono, si disse, sollevando il piede destro,
riabbassandolo, poi il sinistro, il destro, il sinistro e così via,
fino alla porta a soffietto del negozio. Si bloccò lì e per un
attimo riprese fiato, facendo smorfie di rabbia fra sé, quindi
sospinse la porta con il dorso della mano.
«’Giorno, Jim» disse Betty.
Jim si mise a sedere, crollando come di schianto e
borbottando, sul primo sgabello che trovò. Incrociò le
braccia sul bancone e per un momento vi appoggiò la testa;
lo faceva, anni prima, a scuola. Sentì la fronte premere sul
polso. Come in terza elementare, pensò. Il pisolino di
mezzogiorno. Fece un cenno a Betty, che giunse subito.
«Senti,» le disse «ce l’hai una boccetta di quelle
vitamine che tirano su? Quelle terapiche.»
«Oh, che ti prende adesso?» mormorò Betty. «Parli del
Theragran?» Si spostò lungo lo scaffale. «Grosse pillole
rosse?»
Lui vide la boccetta che voleva e la indicò col dito. Betty
la prese.
«Mi ricordo» disse lei. «Complesso B. Gruppo
niacinamide e pantenolo. È ottimo, Jim. Contiene un po’ di
fegato; lo usano per gli anemici. Ma dentro non c’è la
vitamina B12: è l’unico inconveniente.» Allungò la mano per
prendere un’altra boccetta. «Qui c’è quello che cerchi, B12,
ma costa un po’ di più. Sono entrambe formule
ematiniche.» Lo osservò, stringendo entrambe le boccette.
«Voglio solo quella per i nervi» disse Jim. «B1.» Protese
la mano verso la boccetta familiare e lei gliela porse.
«Posso avere un po’ d’acqua?» chiese.
«Certo» disse lei, andando a riempire un bicchiere.
Ingoiò al bancone due delle pillole e poi, portando con
sé la boccetta, si avviò verso l’uscita.
«Te la metteremo in conto» disse Betty andandogli
dietro. «Spero che abbia l’effetto sperato, Jim. Oggi mi
sembri molto stanco. Lo sai, potresti prenderla in gocce;
magari sarebbe più facile trovarla.» Uscì con lui sul
marciapiede.
«Giusto» disse lui, dirigendosi verso la macchina e
salendo a bordo. Appena si fu seduto di nuovo si sentì
meglio: una parte del peso lo aveva abbandonato.
Quel dannato smog, pensò mentre avviava il motore. È
diventato difficile respirare. E lo smog, pensò poi, aveva
anche cominciato a cancellare i colori dei palazzi. La San
Pablo non era più tutta visibile: si perdeva nella nebbia e lui
non riusciva più a scorgere il centro di Oakland come
riusciva a fare solo pochi minuti prima. Ma che importa?, si
disse poi mentre si immetteva nel traffico. Il centro di
Oakland lo conosco bene.
E comunque una volta arrivato nella zona collinare non
ci sarebbe più stato smog. Ecco perché abitano lassù, si
disse mentre guidava lungo una strada larga che puntava a
est. Non la conosceva, ma c’era una linea di autobus che la
percorreva, perdo doveva portare dritta alla Broadway. Lì
girerò a sinistra, decise, e questo mi porterà dritto fino a
Piedmont. Dopodiché non avrò più difficoltà.
E infatti alla fine la strada incrociò la Broadway. A quel
punto, mentre si dirigeva verso l’incrocio con la McArthur,
notò che si era lasciato indietro lo smog. Non gli
permettono di salire fin qui, si disse compiaciuto.
Probabilmente esiste qualche regolamento urbanistico che
limita il traffico. Nel pensarlo rise fra sé e sé, sentendosi di
nuovo meglio. Le vitamine avevano già fatto effetto. L’aria
pulita gli aveva restituito la capacità di respirare, e le
vitamine l’energia. Si toccò la tasca della giacca, il libretto
di risparmio e il carnet degli assegni. Alla grande, si disse.
Sarà un giorno memorabile.
Giunto alla McArthur svoltò a destra, poi a sinistra su
una lunga strada residenziale costeggiata da alberi. A
questo punto non c’era quasi più traffico. Il rumore si perse
dietro le sue spalle e lui rallentò, rendendosi conto di
quanta pace ci fosse in quel quartiere. Pile di foglie sulle
cunette, in attesa di essere bruciate. Un furgone del latte
parcheggiato. Un giardiniere al lavoro, vecchi jeans e
camicione, intento a tagliare il bordo di un prato. Fergesson
risalì la collina in seconda, oltrepassando grandi case,
ringhiere metalliche, edera… Cercò la casa. La strada era
quella, no? Piegò il collo per guardare all’indietro. Un alto
muro di pietra, una fila di pioppi. L’aveva sorpassata?
Vide un cartello stradale. Strada sbagliata: non l’aveva
ancora trovata. Riprese velocità e svoltò a destra.
Fa caldo, pensò. Il sole picchiava su di lui, sul
marciapiede. Anche la cravatta gli faceva sentire caldo, e il
collo era diventato scivoloso per il colletto troppo stretto.
Lo allentò con il pollice sinistro, ma senza sbottonarlo. E il
riscaldamento: era in funzione. Si chinò per spegnerlo…
Un urto lo scaraventò in avanti, contro il volante. La
testa sbatté e le mani scivolarono via, urtando il
parabrezza. Rimbalzò all’indietro e giacque raggomitolato
con la bocca aperta. La macchina si era fermata, il motore
si era spento.
Davanti a lui c’era una grossa Chrysler bianca, ferma,
con il paraurti anteriore incastrato nel suo. E fuori dalla
Chrysler c’era il guidatore, che era sceso di corsa e
sbatteva i pugni e strillava parole che Jim non sentiva. Una
donna, notò il vecchio. Una donna magra con una lunga
giacca marrone, arrabbiata, spaventata, che correva verso
di lui.
«Ha visto che ha combinato?» La sua faccia tremante
prese forma dal finestrino, a pochi centimetri dalla sua. Lo
abbassò. «Guardi che ha fatto; mio dio, cosa dirà mio
marito?» La donna si allontanò, chinandosi per controllare
il parafango. «Oh mio dio, ma guardi che disastro.»
Ancora intontito, il vecchio riuscì a scendere dalla
macchina. Si erano fermate altre macchine e adesso la
strada era bloccata. La sua macchina e quella della donna
la ostruivano completamente, per via della fila compatta di
auto parcheggiate sui due lati.
«Guardi.» La donna tremava in tutto il corpo. «E devo
andarlo a prendere all’una e trenta. È colpa sua, stava
guidando in mezzo alla strada; non mi ha nemmeno visto.
Non ha sentito che suonavo il clacson? Non ha guardato
su… lei stava guardando giù… anzi non stava guardando
per niente, non prestava la minima attenzione.»
«No» disse lui.
«Non se ne stia impalato lì» disse lei guardandolo male.
«Faccia qualcosa. Cerchi di separarle.» Si allontanò e risalì
in macchina. Poi, tutto a un tratto, ridiscese. Jim non riuscì
a seguirla con lo sguardo: se la ritrovò alle spalle. «Vuole
darsi da fare? O ha intenzione di rimanere lì con le mani in
mano?»
Lui si acquattò e osservò senza vederli i due paraurti.
Aveva la testa vuota e non aveva la minima idea di cosa
fare, né di quanto era successo.
Dietro di lui la donna disse: «Avrei voglia di ucciderla.
Non sa guidare? Entro dieci minuti devo essere al
Claremont Hotel: non ce la farò mai. Le dispiacerebbe
chiamare un carro attrezzi? Voglio il suo numero di targa.»
Corse alla macchina in cerca di qualcosa su cui scrivere.
Fergesson toccò i paraurti. Una delle due macchine
avrebbe dovuto essere trainata via.
«È assicurato?» chiese la donna mentre tornava.
«Immagino di no; non lo è quasi mai nessuno. Vado in
quella casa per chiamare un taxi al telefono. Adesso ho il
suo numero di targa.» Si allontanò e lui la vide correre su
per il vialetto fino al portico della casa e cominciare a
suonare il campanello. Dopo un momento Jim rivolse di
nuovo la sua attenzione ai due paraurti.
Un uomo si avvicinò e gli chiese: «Serve aiuto?»
«No» disse Fergesson. «Grazie.»
«Vuole che chiami un carro attrezzi?»
«No» disse lui. Andò al bagagliaio e tirò fuori il
martinetto. Poi aprì il bagagliaio della Chrysler e prese il
martinetto che c’era dentro, più grosso. Usandoli entrambi
sollevò il muso della Chrysler. I paraurti erano ancora
incastrati. Si inginocchiò e fece uscire l’aria dalle gomme
anteriori della Pontiac, che si abbassò lentamente con un
gemito. Il vecchio afferrò il paraurti verde ripiegato della
Pontiac e tirò. Alla fine il metallo cedette e le due macchine
si liberarono.
Rimise a posto i martinetti e percorse il sentiero fino
alla casa in cui la donna era entrata. La porta d’ingresso
era aperta: vide la donna al telefono nel corridoio.
Comparve la proprietaria della casa. «Le dica che può
ripartire» rantolò il vecchio. Poi si voltò e tornò giù per il
sentiero, lontano dalla casa.
Ricomparve la donna, ancora pallida e tremante.
«Grazie mille» disse in tono gelido.
«Le ho separate.» Si frugò nel portafoglio: aveva le dita
così rigide che sembravano lì lì per spaccarsi. «Ecco il mio
biglietto da visita.»
La donna afferrò il biglietto e salì a bordo della Chrysler.
Il motore si accese e la vettura si allontanò, zigzagando,
per poi scomparire dietro un angolo.
Le altre macchine che erano rimaste bloccate ripresero
a circolare, ma l’uomo che si era offerto di dargli una mano
rimase lì. La sua piccola macchina di marca straniera era
parcheggiata in un vialetto. «E la sua macchina?» gli disse.
«Ha due gomme a terra.»
«Ce la farò» disse il vecchio. «Ho un’autofficina. Ecco il
biglietto che ho dato a quella signora. Il biglietto da visita
della mia officina.»
«Vedo» disse l’uomo. «Be’, buona fortuna.» Si infilò
goffamente a bordo della sua macchina straniera. «Ci
vediamo.»
Rimasto solo, Fergesson spostò a spinta la Pontiac dalla
strada, accostandola al marciapiede. Bloccava due vialetti,
ma adesso il traffico poteva scorrere. In effetti potevano
passare anche prima, si disse, ma c’erano quelli che si
fermavano a curiosare. Bastardi. Che gliene importa a loro
se mi becco una contravvenzione per aver lasciato la
macchina in questo modo. Ma non poteva fare altrimenti.
Non era lontano dalla casa di Mr Harman, così cominciò
a camminare lungo il marciapiede senza nemmeno fermarsi
per riprendere un po’ di fiato. Aveva dei puntini rossi che
gli disturbavano la vista, e gli bruciava la gola. Camminava
respirando dalla bocca, grandi rantoli sibilanti che fecero
sussultare due passanti. Rivolse loro una specie di sorriso e
proseguì. Devo ancora percorrere solo un isolato, si disse.
Già gli sembrava di vedere la casa, e da dove si trovava
poteva tagliare attraverso gli alberi, risparmiando così un
po’ di strada.
Sì, pensò. Era arrivato. C’era un autocarro parcheggiato
davanti, uno di quelli di Harman; c’era il nome della ditta
scritto sopra. Così aveva la conferma che era la casa giusta.
Finalmente ce l’aveva fatta. Tagliò dal marciapiede sul
prato e risalì verso un’aiuola di rose, senza tentare di
trovare il vialetto lastricato. Non ne aveva il tempo. Devo
andare subito là, si disse. Ho questo importante affare da
concludere con lui, non posso permettermi di perdere
tempo. Si ritrovò a inerpicarsi in mezzo agli alberi. Questa
non ci voleva. Si toccò la giacca per accertarsi che il
libretto di risparmio e il carnet degli assegni fossero ancora
lì.
Mentre attraversava l’aiuola di rose scivolò e cadde
all’indietro, ritrovandosi seduto a respirare
affannosamente; si rialzò quasi subito, un po’ malfermo
sulle gambe, e si ripulì alla bell’e meglio dalla terra. Si era
sporcato la giacca. Fece altri tre passi e scivolò di nuovo.
Questa volta perse proprio l’equilibrio: le gambe andarono
in direzioni diverse e lui annaspò in avanti, aggrappandosi
al terreno con entrambe le mani per tenersi. Riprese a
salire, reggendosi in equilibrio sulle dita, e raggiunse il
piano di cemento del portico anteriore. Mentre si rialzava
lasciò una scia di terriccio e fertilizzante. Tremando
indolenzito si ripulì le mani sfregandole fra loro, in piedi
sotto il portico davanti alla porta. Si pulì anche le scarpe e
poi, dopo essere rimasto un po’ di tempo fermo e aver
recuperato un minimo di fiato, quando sentì che era in
grado di parlare – doveva sostenere una conversazione e
voleva essere sicuro di poterlo fare – allungò la mano e
cominciò a bussare.
Qualcuno si mosse dentro casa.
Ho bussato troppo presto, si disse. Non sarò in grado di
parlare. Ancora faticava a respirare, come avrebbe potuto
parlare? Fu assalito dal panico. Troppo presto, si disse
ancora. Qualcuno stava venendo alla porta. Aspetta a
venire, si disse. Se smetto di bussare tu non verrai più,
d’accordo? Rimase lì senza bussare, senza emettere il
minimo rumore, a parte il respiro pesante. Ma la persona
stava venendo verso la porta.
Bastardi, si disse. Mi avete colto nel momento sbagliato;
non sono pronto. Ma non poteva farci nulla. Ormai non
poteva più fermarli. La porta cominciò a schiudersi.
«Salve» disse. «Salve, posso entrare? C’è Mr Harman?»
Si esercitò, sempre più veloce, muovendosi all’unisono con
la porta mentre si apriva. «Senta, sono venuto per vedere
Mr Harman, se non è occupato. È una cosa molto
importante.» Si toccò la giacca, il carnet degli assegni, la
zona dolorante del petto. «Dobbiamo parlare di affari»
disse. Continuava ad ansimare sempre più forte fra sé e sé,
come una cosa inerte. La testa gli andava avanti e indietro
come quella di un cuculo, a tempo con la porta. «Salve,
salve.»
«Salve» disse. «Salve.»
La porta si aprì del tutto. Una donna ben vestita,
elegante. Che sorrideva di traverso, con la mano – anello,
dita – appoggiata allo stipite, unghie color rosso pallido.
Tappeto nel corridoio e un tavolo, un arco ricurvo. Uno
sguardo al di là: un caminetto.
«Salve» balbettò. «Mi dispiace. Mi scusi per quello che
è successo.» Calore intorno al collo, dove c’è la cravatta
nuova. La mano allungata verso il riscaldamento, il sole che
gli picchia addosso, che lo incrina, gli spacca la testa in
due. Me ne vado da qui. Ma non posso tornare indietro.
Magari può farlo lei. «Mi scusi, mi scusi, disse alla donna.»
Indietreggiò da lei, si ritrasse.
«Sì?» disse lei.
«Caldo» disse lui. «Posso sedere per un minuto? Ho la
mia boccetta di pillole. Emo-titiche.» Rise, risero entrambi
e lei tenne aperta la porta per farlo entrare, così lui
raggiunse il corridoio buio e fresco, senza emettere
rumore: tutto perso nel tappeto. Pareti bianche alla
spagnola, vecchie di un migliaio di anni. Non osava
nemmeno respirare.
«Mio marito è in casa» disse lei, precedendolo mentre
camminavano. «Ecco, se vuole sedersi.»
«Grazie» disse lui, trovando una poltrona. Pelle nera; vi
passò sopra le mani, riconoscendola subito al tatto.
«Solo un minuto.» Gli volse le spalle, dall’altra parte
dell’arco, la stanza più lontana. Tende.
«Starò bene» disse lui mentre si sedeva.
«Sicuro?»
«Sì» disse Jim. «Grazie.» Guardò il pavimento. Poi, nelle
sue mani, in equilibrio precario, una tazza di porcellana con
dentro il caffè, cucchiaino e tutto il resto. La fissò
inorridito: la tazza sbatacchiò, scivolò, tornò a posto.
Un’unica goccia nera, grossa come una caramella, scivolò
lungo il fianco della gamba, macchiando i pantaloni; la
contemplò con occhi fissi, annuendo. Fuori vista. Quello che
non ti aspetti. Incrociò le gambe per nasconderla.
«Non si preoccupi» disse la donna.
«Oh, cavolo, no» disse lui, facendo di tutto per non
ridere. «È lei che non deve preoccuparsi di me.» Si spostò
da un fianco all’altro.
È così che sono. Come una barca.
Ci si fa l’abitudine.

Al Miller disse: «È l’onore che bisogna avere. Come il


credito nel mondo della finanza. Un assegno passa per
venti mani prima di trasformarsi in soldi veri. Il mio punto
di vista è che l’onore deve essere dato per scontato, così
come prendiamo un assegno per buono. Altrimenti l’intero
sistema cade a pezzi.»
Avvolto nel suo accappatoio, gli occhi nascosti dagli
occhiali scuri, Chris Harman fissava il cielo della tarda
mattinata. Non rispose; sembrava intento a meditare.
«Lei intende all’interno di un’azienda» disse Bob Ross.
«Esattamente» disse Al.
Harman drizzò la testa e disse lentamente: «Ma
qualcuno può infilarsi in un’azienda, Al. Qualcuno che ha
altri scopi.» Allungò la mano e prese il suo bicchiere. «Non
ci si può basare sulla cieca fiducia. Bisogna proteggersi.
Non credo si renda conto di quanto ci siano tutti vicini, ogni
momento.»
«Prego?» disse Al, che non lo seguiva.
Harman si appoggiò sui gomiti e disse: «Gran parte di
quanto raccogliamo – o dovremmo raccogliere – deve
tornare indietro. Deve essere reinvestito, ma a questo
scopo: proteggere noi stessi. Immagino lei abbia letto di
come la Southern Pacific ha acquistato in segreto le azioni
della Western Pacific. La Western lo è venuta a sapere solo
quando la Southern ha annunciato improvvisamente di
possedere il dieci percento e, che dio mi aiuti, si stava già
appellando alla Commissione interstatale per acquistare il
rimanente. Mio dio, si sarebbero presi tutto.»
«Davvero spaventoso» disse Ross.
«Ma questo non è l’unico modo in cui si può arrivare al
cuore di un’azienda» disse Harman. «Ci sono anche le spie,
gli informatori e gli infiltrati, come nel mercato delle auto,
dove si cerca di carpire ogni segreto.»
«Posso testimoniarlo» disse Al. «Per esperienza
personale.»
«Assolutamente» convenne Harman. «Lei è bene
informato. Ma ho visto altre cose, Al, che magari lei non
conosce. Lasci che le faccia un esempio. E se lo tenga per
sé, ovviamente.» Diede un’occhiata a Ross. «Bob già lo sa.»
«Ah, sì» disse Ross, tranquillo. «Quel contatto.»
«Ci hanno sondato» disse Harman.
«E chi è stato?» chiese Al, nel tentativo di far vedere
che seguiva ancora il filo del discorso; filo che in realtà
aveva perso da tempo. Sia Harman che Ross sembravano
invece convinti del contrario.
«Sono stati loro» rispose Harman. «Stavano… Diciamoci
la verità, stavano cercando un anello debole. Non l’hanno
trovato, ma continuavano a tentare. Avevano un sacco di
soldi… Non stiamo parlando della Southern Pacific,
naturalmente, ma nemmeno del tabaccaio all’angolo. Con
questo non voglio dire che siano dei volgari maneggioni;
sono qui per restarci.»
«Capisco» disse Al.
«Bisogna conoscere i propri amici» disse Ross.
«Proprio così» disse Harman. «Ora, qui siamo tutti
amici, noi tre, ma lei verrà avvicinato.» Si tolse gli occhiali
scuri e fissò Al dritto in faccia. «Succederà. Uno di questi
giorni.»
«Cristo» esclamò Al.
«E lei non se ne accorgerà nemmeno» aggiunse Ross.
«No» confermò Harman. «Non subito.»
«Digli del contatto» disse Ross.
«L’ho capito subito» disse Harman. «Ma solo perché è
già successo prima, e perché ho capito qual è la loro linea
di comportamento, la loro logica. Perlopiù operano da fuori
città, probabilmente dal Delaware, attraverso una società
finanziaria. Ammesso che abbiano una copertura di
legittimità, probabilmente controllano tutti i loro punti
vendita al dettaglio.»
«Vendono a sé stessi» disse Ross.
«Ma quello che veramente vogliono o fanno» disse
Harman «noi non lo sappiamo. Sono sulla costa occidentale
da almeno undici mesi. A giudicare dai cambiamenti nel
panorama generale, direi che operano soprattutto nella
contea di Marin. Probabilmente lei avrà letto del
gigantesco progetto di edilizia abitativa pubblica che è nato
a Marin City; una serie di strutture davvero complesse. I
contribuenti pagano, e Berkeley va in rovina per quello:
praticamente si sono impadroniti della città in toto. Ci sono
voluti quindici anni, ma ormai è fatta.» Fece una smorfia ad
Al.
«Chi sono?» chiese Al.
«Negri» rispose Bob Ross.
«È questo che ha tradito il loro contatto» disse Harman.
«Anche al telefono la voce era riconoscibile. L’intonazione
da negro.»
Al lo fissò a bocca spalancata.
«Mi fecero un’offerta» continuò Harman. «Un’offerta
molto semplice e diretta. Stetti al gioco.» Adesso sembrava
che gli tremasse la voce. «Mi comportai come se non avessi
idea di cosa stessero parlando. Capisce? Così il loro piano
non andò a buon fine.» Fece un’altra smorfia; era diventato
una specie di tic. «Solo a ripensarci mi sento ancora teso»
disse. Poi sorseggiò il resto della sua bevanda. «In ogni
caso» aggiunse «contavano su un certo fattore che
pensavano di potere usare per scendere in campo;
dovevamo raggiungere un accordo. Dopodiché avrebbero
potuto assorbirci, e prendere le redini.»
«Hai voglia ad aspettare» disse Ross.
Harman scrollò le spalle. «Non si può mai dire»
commentò. «Hanno un bel po’ da mettere in campo. Lo dirà
il tempo. Fino a ora non hanno spinto sull’acceleratore.
Forse stanno anche un po’ brancolando nel buio.»
«O forse ci tengono appesi all’amo» mormorò Ross «per
divertirsi di più.»
«È una sporca faccenda, la loro» disse Harman.
«Ricatto. Un brutto approccio al mercato.» Rimase
silenzioso.
«Perché negri?» chiese Al.
«È una lunga storia» rispose Harman. «C’era un certo
cantante popolare di colore; parliamo del 1940, o giù di lì, e
la nostra era un’azienda con poco capitale. Subito prima
della guerra, a San Francisco.» Diede un’occhiata
all’orologio. «Un giorno, quando avremo tempo, le
racconterò tutta la storia.»
«Ma adesso abbiamo un lavoro da fare» disse Ross,
alzandosi in piedi e appoggiando il bicchiere. «Ci aspetta
un bel viaggio.»
«Chissà se è ancora vivo» disse Harman.
«Chi?» chiese Ross.
«Shoeless Lacy Conkway. Banjo a cinque corde. Era
nella stessa prigione con Leadbetter… Leadbelly, come lo
conosci tu. Ho incontrato Leadbelly un bel po’ di volte,
prima della sua morte. In effetti abbiamo addirittura
realizzato un paio di album.»
«E anche uno di Shoeless Lacy Conkway» aggiunse
Ross.
I due uomini si scambiarono un’occhiata triste.
«Intende dire che questo buzzurro suonatore di banjo ce
l’ha con lei?» disse Al. «Dopo tanto tempo?» Era per via
della telefonata fatta da Tootie Dolittle, certo. Per ovvi
motivi avevano immaginato che si trattasse di qualcun
altro. «Perché non lo ha fatto eliminare?» chiese.
I due risero, Ross e Harman. Poi Harman, con voce lenta
e introspettiva, disse: «Ah, forse ce l’hanno con me, ma
saremo noi ad avere la meglio su di loro. Come suggerisce
lei. Non si faccia illusioni, c’è troppo in ballo.»
La porta di casa si aprì e una donna uscì nel patio: una
donna di classe dai capelli grigi che Al Miller riconobbe
subito come Mrs Harman. Si diresse verso suo marito e
disse: «Chris, c’è un uomo che vuole vederti; ti aspetta in
soggiorno, ma si comporta in modo molto strano.» La sua
voce tradiva una certa tensione; sorrise fuggevolmente a
Ross, poi ad Al. «Forse faresti meglio a…» Si avvicinò a
Harman per parlargli a bassa voce, e non fu possibile
capire quello che gli diceva.
«Va bene» disse Harman alzandosi in piedi. «Che tipo di
uomo?» Guardò Ross. «Lo hai mai visto prima?»
Ross disse: «Forse faremmo meglio a non andare via
adesso.» Scambiò un’occhiata con Al.
«Non l’ho mai visto» disse Mrs Harman.
«Questo è Al Miller» le spiegò Harman indicando Al. «Al
momento lavora con noi. Mrs Harman, Al.» Lui si strofinò il
mento e disse: «Che è venuto a fare? Che ha detto?»
«C’è qualcosa che non va in lui, credo» disse Mrs
Harman, rivolta a Bob Ross. «Magari è ubriaco.» Poi
aggiunse: «È anziano, sui sessanta.»
Harman si avviò verso la casa, ma giunto alla porta si
fermò e tornò indietro per dire un’altra cosa ad Al. «Vedrà
molte cose» disse «d’ora in avanti. Sarà una bella
esperienza. Capirà quello che intendo dire, per quanto
riguarda i problemi di cui parlavamo. I problemi che
l’azienda si trova davanti e che non deve mai dimenticare.»
«Veniamo dentro con te» disse Ross.
«Magari» disse Mrs Harman.
Tutti e quattro attraversarono la casa fino al soggiorno.
Era una casa magnifica, e l’attenzione di Al veniva
continuamente attirata da raffinati particolari. Trotterellò
in coda al gruppetto e fu l’ultimo ad arrivare in soggiorno;
dovette sbirciare da dietro gli altri.
Là, seduto sul divano, in giacca e cravatta, con una
tazza e un piattino sulle ginocchia e un sorriso ebete sulla
faccia, c’era Jim Fergesson. Non sembrò accorgersi di loro:
continuò a fissare davanti a sé con l’aria imbambolata. Al
notò che aveva tracce di fango sul vestito. E il volto
arrossato e striato di sudore.
Appena lo vide Harman sbottò, con una voce piena di
vigore: «Jim, che mi prendesse un accidente.» Fece un
cenno con la mano e Mrs Harman si ritrasse
immediatamente. Ross si spostò di lato per non essere
inopportuno.
Il vecchio girò la faccia e vide Harman. Appoggiò la
tazza e il piattino con un movimento lento e tremante,
facendoli tintinnare, si alzò in piedi e mosse un paio di
passi verso Harman. Protese la mano e disse con voce roca:
«Come va, Mr Harman?»
«Cristo d’un dio» esclamò Al. «Sei qui?» Era stato colto
completamente alla sprovvista.
Il vecchio riconobbe Al. Puntò il dito verso di lui e
cominciò a ridere. La sua faccia, rossa e gonfia, si accese
mentre rideva; cercò di parlare ma sembrò non esserne
capace. Continuò a indicare Al, con il dito che ondeggiava,
come se ci fosse qualcosa che voleva comunicare a tutti i
costi, ma più ci provava e più trovava difficoltà a
esprimersi.
«Che mi venga un colpo» riuscì a dire alla fine.
Sputacchiò, si deterse la bocca con la lingua e scoppiò di
nuovo a ridere, un riso silenzioso che era più che altro una
convulsione della faccia. «Senti,» disse poi, avvicinandosi
ad Al «l’hai scritta tu quella lettera?»
«Quale lettera?» chiese Al.
«Quella…» Jim fece una pausa, quasi strozzandosi.
«Quella lettera anonima.»
«Cavolo, no» disse Al. «Non so niente di nessuna
lettera.»
Intervenne Harman, in un tono amabile, da salotto.
«C’era una lettera anonima, Jim? Che riguardava me?»
«Sì» rispose Fergesson.
Ross disse qualcosa di incomprensibile e si mise a
passeggiare su è giù, per conto suo, stringendo e aprendo i
pugni.
«Bene» disse Harman, sempre continuando a sorridere.
«Ma perché avrebbe dovuto scriverla il nostro Al?»
«Non l’ha scritta lui» disse il vecchio. «Lo sapevo che
non l’ha scritta lui. Lo stavo solo prendendo in giro.» Diede
una gomitata ad Al: il suo alito caldo e umido raggiunse la
faccia di Al, stordendolo. Aveva un che di spaventosamente
appiccicaticcio, e lui si ritrasse d’istinto.
Harman gli indicò il divano e disse: «La prego, si
rimetta a sedere.»
Mentre tornava a sedersi, Fergesson disse: «Non posso
credere che qui ci sia anche il vecchio Al.» Scosse la testa,
ancora con quel sorriso stampato sulla faccia, e la risata
che sembrava non riuscire a controllare.
Harman sedette anche lui e disse: «Al lavora per
l’azienda, Jim.»
Il vecchio spalancò gli occhi al punto che sembrarono
volergli uscire dalle orbite. «No!» disse. Sembrava
sopraffatto dallo stupore e dal divertimento.
«È così che va il mondo» disse Al. «Voglio dire, per me è
lo stesso. Fa parte del gioco.»
«Ehi» disse il vecchio. Si rimise faticosamente in piedi e
andò verso Al; gli diede un’altra gomitata e disse a voce
alta: «Siamo tutti sulla stessa barca.» Passò in rassegna
tutti i presenti.
«Sì» disse Harman sorridendo. «Credo di sì.» Aveva in
faccia un’espressione cordiale, tollerante.
«Mi stia a sentire» disse il vecchio a Harman, andando
verso di lui e prendendolo per la manica. «Harman, vede, è
da un po’ che io e Al non ci parliamo. Lo sapeva?»
«Non lo sapevo» disse Harman.
«Ero davvero arrabbiato con lui» disse il vecchio. «Però
adesso non lo sono più. Mi ha proprio deluso, ma non
m’importa. Sono anche andato dove lavora lui, e per me è
stato un passo difficile, ma l’ho fatto. Faceva comunella con
mia moglie: si sono alleati contro di me.» Andò avanti, ma
Al perse il filo: le sue parole divennero confuse. E in ogni
caso non erano riferite a lui. Il vecchio si stava confidando
con Harman, gli stava vicino e gli farfugliava qualcosa
sputacchiando, in un tono monocorde.
Bob Ross si accostò ad Al e gli chiese: «Chi è
quest’uomo?»
«Ha un’autofficina» rispose Al.
«Oh» fece Ross con l’aria di chi la sa lunga. «Mi ricordo.
Chris me ne ha parlato. È in pensione, giusto?»
«No, sta per andarti» disse Al.
«Mi sembra di ricordare» disse Ross. Sbuffò parecchie
volte dalla pipa. «Be’, mi sa che oggi non partiremo per
Petaluma.»
13

Seduto in mezzo al divano nel soggiorno di Chris


Harman, il vecchio parlava a ruota libera. Al non lo aveva
mai sentito vaneggiare in quel modo. Aveva la faccia lucida
e gli occhi non facevano che spostarsi dall’uno all’altro:
prima su Harman, poi su Bob Ross, poi di nuovo su
Harman, su Mrs Harman e, per un attimo, sullo stesso Al
Miller. Gli fece l’occhiolino.
«Ve lo spiego io» disse il vecchio. Stava parlando del
caldo secco e di quello umido. «Si dice che non si possa
vivere su a Sacramento, ma quello è il caldo di una valle:
non è così brutto. Quando è secco in quel modo si riesce
anche a sopportare una temperatura di cinquanta gradi.
Invece non si sopporta in Texas, sul golfo; il vento che tira
lì…» Agitò la mano. «Laggiù è terribile.»
Era un po’ come quando lui attaccava bottone con i
clienti, pensò Al. Emise un gemito.
«Tu che ne pensi?» si affrettò ad aggiungere,
interrompendo il flusso di parole. «Intendo Al Miller,
laggiù.» Guardò Al a bocca aperta e attese.
«Amarillo non è così male» disse Al.
Tutto eccitato, con le parole che ruzzolavano una
sull’altra, il vecchio sbottò: «È nel Nord del Texas, dove non
c’è il vento, il vento del golfo. È esattamente quello che
volevo dire: caldo secco.»
«Quando mai ci sei stato?» chiese Al.
«Sono nato là, da quelle parti… in Kansas. È lo stesso
vento che attraversa il Kansas; così caldo che la macchina
ti va subito in ebollizione, a qualsiasi velocità. Lo sai che
sono cresciuto in Kansas.»
«Già,» disse Al «ma non ci abiti più da un sacco di
tempo.»
«È sempre lo stesso» disse Bob Ross. «Di recente siamo
capitati da quelle parti per fare delle registrazioni. A
Oklahoma City.»
«Ehi, Al» disse il vecchio. «Ti ricordi quella vecchia
Packard che guidavi la prima volta che ci siamo conosciuti?
Era, del’37?»
«Già» disse Al. «Una Packard Twelve.»
«Ecco come ho conosciuto Al» disse il vecchio. «Voleva
che gli aggiustassi quella Packard e gliela facessi
camminare in eterno. Quella macchina gli piaceva un sacco.
Non è così, Al? Ti ricordi quella volta in cui quei ragazzi ti
hanno sfidato a fare una corsa con partenza da fermo? E tu
andasti in Black Point Road; erano arca le due del mattino.
Gli hai fatto mangiare la polvere, con quella vecchia
Packard, e correvi a… a quanto? A quasi centoquaranta
chilometri l’ora, e ti è partito un pistone. E l’hai dovuta far
rimorchiare fino a Vallejo. Quanto ti è costato? Hai provato
a convincermi ad andare fin lassù a rimorchiarla, me lo
ricordo bene. Cosa ne è stato alla fine di quella Packard?»
«Lo sai» disse Al. «Sono andati i cuscinetti.»
«Perché la facevi partire a freddo.»
«Col cavolo» disse Al. «Perché l’ho portata da te e tu hai
equilibrato male l’albero a gomiti.»
«Un mucchio di stronzate» disse il vecchio a voce alta.
«In tutto il mondo solo io potevo rimettere in sesto quella
Packard, visto come la trattavi male. Ehi, la sai una cosa? Ti
ricordi quel ragazzo che rubò quella Ford coupé dalla tua
rivendita? L’ho visto l’altro giorno. Era alla guida di una
Oldsmobile nuova.»
Fece un sorriso stentato verso Harman e disse: «Questa
devo proprio raccontargliela, Harman. Al aveva questa
Ford coupé tutta sgangherata che qualcuno aveva usato per
caricare sacchi di cemento e legname; una di quelle coupé
multiuso. Era tutta sporca e ammaccata… Quanto l’hai
pagata, Al? Una settantina di dollari. Comunque Al la
voleva rimettere in vendita e la portò da un carrozziere – io
non ci avrei nemmeno messo le mani, sapevo in che
condizioni era – e lo pagò per riverniciarla. Gli costò trenta
dollari. Poi venne da me perché provassi a sistemarla dal
punto di vista meccanico, ma era comunque un disastro: le
fasce elastiche erano completamente andate… e perdeva
olio dappertutto. Però lui era deciso a venderla. La piazzò lì
davanti, con sopra un cartello con il prezzo. Non hai anche
messo un annuncio sul Tribune? Provò a mollare quel
relitto a tutti quelli che passavano, ma nessuno la volle.
Così il vecchio Al ci fece diversi altri lavoretti. La portò a
un’officina e si mise d’accordo con loro: dovevano rifare le
fasce elastiche e levigare le valvole. Dev’essergli costato
altri cinquanta dollari. A quel punto ne aveva già buttati
arca duecento. Ma ancora non si vendeva, così comprò dei
coprisedili nuovi. Ancora niente. A questo punto…» Il
vecchio fece una pausa. «Credo che alla fine ci abbia anche
messo quattro pneumatici rigenerati. Insomma, lo sapete
come andò a finire? Quel ragazzo la rubò e ci andò a
sbattere. Non ne rimase niente, solo un mucchio di rottami.
Alla fine quanto a hai guadagnato, Al? Dieci dollari dallo
sfasciacarrozze?» Gli strizzò l’occhio.
«Stai dando i numeri» disse Al. «Mai esistita una
macchina del genere.»
«È esistita, eccome» disse il vecchio, balbettando e
sbattendo le palpebre. Appoggiato allo schienale della
poltrona in modo da poter vedere in faccia Al, Chris
Harman gli rivolse una lunga occhiata indagatrice, ma non
disse nulla.
Al si alzò in piedi. «Scusatemi» disse.
«Che succede, Al?» chiese Harman nel suo tono
educato.
«Devo andare in bagno» rispose Al.
Dopo una pausa Harman disse, sempre nello stesso
tono: «Segua il corridoio. La seconda porta sulla destra,
dopo il quadro.»
«Dopo il Renoir» disse Bob Ross, mordicchiando la pipa.
«Grazie, Chris» disse Al imboccando il corridoio.
Anche dopo aver chiuso la porta del bagno e girato la
chiave sentiva ancora il vecchio che parlava. Anche lì
dentro, pensò, mentre si sbottonava i calzoni, se li calava e
si sedeva sul water. Quel suono lo raggiungeva ancora,
coprendo quello che produceva lui.
Rimase in bagno a lungo senza far niente, restando
semplicemente seduto con le mani giunte davanti a sé,
tutto accucciato in modo da stare più comodo. Non aveva
pensieri nella testa, né alcuna consapevolezza del tempo; la
voce del vecchio gli era diventata indistinta, priva di parole
individuabili.
Qualcuno bussò piano alla porta, facendolo trasalire; si
drizzò su di scatto.
«Quanto tempo ha intenzione di restare là dentro?»
chiese Harman vicino alla porta, con voce bassa e secca.
«Non lo so» rispose Al. «Lo sa come vanno queste cose.»
Attese, ma Harman non disse nulla. Anzi, Al non capì
nemmeno se fosse ancora lì fuori, subito oltre la porta. «È
runico bagno?» disse.
«Farà meglio a sbrigarsi» disse Harman, sempre con
quel tono insistente e sostenuto.
«Perché?» disse Al. «Non voglio mettere in discussione
la sua autorità e il suo giudizio in materia, Chris, ma queste
cose richiedono tempo.» Attese di nuovo. Harman non disse
nulla. Alla fine Al lo sentì che si allontanava lungo il
corridoio.
«Ehi, Al!» disse il vecchio, così forte che Al sussultò.
Qualcuno bussò di nuovo, con violenza, facendo vibrare la
porta. Stavolta era Fergesson. «Ehi!» strillò; la maniglia
girò e cigolò. «Vieni via da quel cesso. Abbiamo molto da
fare, amico. Vuoi passare tutto il giorno là dentro?»
«Esco fra un minuto» disse Al, fissando le mattonelle
della doccia.
Il vecchio, che sembrava parlare da subito dietro la
porta, disse: «Ti stai trastullando da solo, Al?»
«Esco fra un minuto» ripeté Al.
Il vecchio se ne andò. Tornato in soggiorno ricominciò a
parlare senza sosta. Poi, dopo un po’, ci fu silenzio.
«Senti» disse il vecchio, nuovamente dietro la porta del
bagno. «Mi senti, Al?»
«Sì» rispose lui.
«Andiamo a pranzare in un ristorante che conosco»
disse il vecchio. «Parleremo lì dei nostri affari. Perciò esci
da questo bagno e vieni con noi, o ti lasceremo qui.»
«Esco subito» disse Al.
«Andiamo con la Mercedes» disse il vecchio. «Senti, Al.
Puoi guidare tu. Chris vuole che guidi tu.»
«D’accordo» disse Al.
«Vieni fuori o no?»
Al si mise in piedi e tirò lo scarico. Il vecchio disse
qualcosa, ma le sue parole furono soffocate dal rumore
dell’acqua.
Quando aprì la porta, Al trovò il vecchio che lo
aspettava fuori.
«Non riesco mai a finire» disse Al.
Il vecchio gli diede una pacca eccitata sulla spalla
mentre percorrevano il corridoio verso il soggiorno. «Ti
offro il pranzo» gli disse. «Stiamo trattando.»
«Va bene» disse Al.
Harman lo fissò con aria inespressiva. Mentre Al si
trovava in bagno aveva indossato una camicia sportiva
italiana, nera e lavorata a maglia, calzoni anch’essi sportivi
e scarpe con la para: era pronto a uscire. «Spero che
c’entreremo tutti nella Mercedes» disse precedendoli verso
la porta.
«Sennò» disse Al «uno di noi può venire dietro con il
camion.»
«Dovrebbe essere una battuta?» disse Harman.
«No» rispose Al.
Harman non replicò. Scesero una breve rampa di scale e
raggiunsero il garage, dov’era parcheggiata la Mercedes.
Harman tirò fuori le chiavi e aprì lo sportello, tenendolo
aperto per lasciar salire il vecchio.
«Al ha una vecchia Marmon» disse il vecchio mentre si
accomodava sul sedile di pelle nera sul retro, con le mani
sulle ginocchia. «Vero, Al? Sedici cilindri.»
«Davvero?» mormorò Harman mentre salivano lui e
Ross. «Dev’essere una macchina coi fiocchi. Un pezzo da
collezionista.» Diede ad Al le chiavi.
«Non posso guidare» disse Al.
«Perché no?» chiese Harman, con voce calma e lenta.
«Ho perso la patente» rispose Al.
Dopo una pausa il vecchio disse: «Ehi, Al, ci stai
rovinando il divertimento. Sei sempre così cupo, così
musone.» Poi, rivolto a Harman: «È sempre così. Ce l’ha
con il mondo.»
«Non è vero che ho perso la patente» disse Al. «Solo che
non mi va di guidare.»
«Ecco che intendevo» disse il vecchio. Respirava in
modo convulso e sedeva con le mani schiacciate contro la
giacca. La faccia aveva un aspetto tirato, appiattito,
segnato da una sorta di passività. Parlando come se
provasse dolore disse: «Mi ha messo nella lista dei cattivi
perché ho venduto l’autofficina. Voleva che lo mantenessi
per il resto della sua vita.» Tacque, fece un ghigno. «Che gli
aggiustassi i suoi catorci.»
Harman si stava tormentando pensosamente le labbra.
Non sembrava preoccupato né sconcertato: rifletté, guardò
per un attimo il vecchio e poi Al, e infine si girò sul sedile,
aprì lo sportello e scese. «Non c’è problema» disse. «Mrs
Harman sarà ben lieta di prepararci il pranzo.
Concluderemo qui i nostri affari.»
Sempre seduto sul retro della Mercedes, il vecchio disse
con voce tirata: «Io… proprio non vorrei creare dei
problemi alla signora.»
Ross disse: «Potremmo anche farci portare da mangiare
a casa.» Scese anche lui dall’auto. Subito dopo lo seguì il
vecchio, aggrappandosi allo sportello. Solo Al rimase a
bordo.
«Non ci sono problemi» disse Al.
«Cosa?» chiese Harman.
«Ho detto non ci sono problemi.» Al scese dalla
macchina. «Sto morendo di fame» aggiunse. «Andiamo
dentro. Le dica di non preoccuparsi e di arrangiare
qualcosa di buono.»
«Certo» disse il vecchio, boccheggiando. «Tu non vuoi
fare niente per nessuno, ma pretendi che gli altri ti
servano.» Poi, rivolto a Harman: «Non è così la natura
umana? Glielo dico io, è proprio strano. Quest’uomo
dovrebbe essermi riconoscente. Per quel pezzo di terra che
gli serviva gli ho chiesto un affitto onesto, mi creda. Ecco
perché è così scontroso: sa che non troverà più qualcuno
che risolva i problemi per lui, come ho fatto io.» Si avviò
per rientrare in casa e disse, voltandosi: «Non so proprio
come le sia passato per la testa di assumere uno come lui.
Ha commesso un grosso errore.»
Mentre entravano in sala da pranzo, Harman prese Al
da parte. «Questa ostilità fra voi…» disse. «Non ho
intenzione di immischiarmi nei vostri problemi personali,
ma sarebbe stato meglio se almeno me ne avesse accennato
prima, non le pare? Da un semplice punto di vista pratico.»
«Forse è così» disse Al.
«In ogni caso probabilmente farebbe meglio a ricordarsi
che è una persona anziana, e che è stato molto male.
Naturalmente non spetta a me darle consigli.»
«C’è qualcosa di vero» disse Al.
«Credo che sia buona regola» disse Harman «tenere
separate la vita privata e quella lavorativa. Mi colpisce il
fatto che lei le abbia mischiate, a detrimento di tutti noi.
Adesso cerchiamo di rimettere le cose sul piano del buon
vivere civile e in seguito…»
«È inutile, Chris» lo interruppe Al.
«Che significa?» chiese Harman dopo un attimo di
silenzio.
«La recita è finita» rispose Al.
Harman lo studiò a lungo. Apparve Ross, ma Harman gli
fece cenno di allontanarsi. Il vecchio, in fondo alla sala da
pranzo, stava chiacchierando di cibo con Mrs Harman; la
sua voce permeava l’intera stanza. Sembrava aver
recuperato quasi tutte le sue energie.
«L’abbiamo fatta noi, quella telefonata» disse Al.
«Quale telefonata?» chiese Harman. La fronte gli era
diventata bianca come una zanna d’avorio. Lì non c’erano
peli, notò Al; era assolutamente lucida e pulita. Brillava.
«Miller,» disse «lo sa cosa sto cominciando a pensare di lei?
Che è uno che racconta stronzate. Avrei dovuto capirlo
dall’inizio. Lei non ha fatto altro che raccontarmi
stronzate.» Non sembrava particolarmente contrariato: il
tono della voce era controllato.
Al continuò: «Quel tizio di colore che l’ha chiamata
parlando del disco Little Eva. Non è vero che ha
chiamato?»
La testa di Harman si mosse su e giù.
«Lei gli ha risposto» disse Al «che poteva vendergliene
uno. Ma noi non ci siamo cascati. C’è voluto un bel po’,
Chris, ma ce l’abbiano fatta.»
«A fare cosa?» chiese Harman.
«Siamo entrati» disse Al. «Ci siamo infiltrati nella sua
azienda. Aveva ragione. Adesso siamo dentro.» Fece una
pausa. «Non è così, Chris?»
Nemmeno stavolta gli occhi di Harman tradirono
qualche reazione. Era come se quell’uomo non lo stesse
nemmeno a sentire, pensò Al. Come se non avesse sentito
una sola parola.
«E lui» disse Al, indicando col dito il vecchio. «Siamo
arrivati anche a lui. Ha sentito che ha detto. Della lettera.»
Harman si voltò e si allontanò da lui, puntando verso
Ross, sua moglie e il vecchio.
«Non può andarsene» gli disse Al.
Harman non fece una piega, ma il vecchio smise di
parlare. La stanza cadde nel silenzio. Il vecchio, Bob Ross,
Mrs Harman, tutti fissarono Al.
«È da un bel po’ di tempo che teniamo d’occhio le sue
attività» disse Al. «Nel complesso abbiamo scoperto che lei
è un operatore capace. Ci ha interessato. Ma anche le belle
cose non possono durare per sempre. E a lei sono andate
proprio bene, non è così, Chris? Ma adesso è giunto il
momento.» Uscì dalla sala da pranzo e andò in corridoio.
«Adesso scopriremo gli altarini. Quelli di tutti voi.»
Giunto al telefono compose un numero, tenendo
d’occhio i tre uomini e la donna. Tutti rimasero dov’erano,
in sala da pranzo. Harman stava dicendo loro qualcosa che
Al non riuscì a sentire. Non ci provò nemmeno.
La cornetta ticchettò e una voce femminile disse: «Buon
pomeriggio.» Una voce calda, familiare, rassicurante.
«Agenzia immobiliare Lane. Sono Mrs Lane.»
Al disse: «Sono Al.» Adesso le persone in sala da pranzo
avevano smesso di parlare. Le loro voci si erano affievolite.
«Oh, sì» disse Mrs Lane. «Come va oggi, Mr Miller? Mi
stavo chiedendo di lei, come se la passasse. Anzi, ero un po’
preoccupata, ma immagino lei sappia quello che fa.»
«Potrebbe venire a prendermi?» le chiese Al.
La donna esitò, poi disse: «Io… lei non si trova
all’autosalone, lo so. Posso vederlo da qui. Dov’è?»
«Non ho la macchina» rispose lui. «Sono a Piedmont.»
Le diede l’indirizzo. «Lo apprezzerei molto» aggiunse.
«Ecco,» disse lei «dal tono della sua voce riesco a
percepire che è successo qualcosa. So che altrimenti non
mi chiamerebbe. D’accordo, Mr Miller. Non ci sono bar in
quella zona, perdo non è da un bar che mi sta chiamando,
come l’altra volta. Verrò appena posso. Devo suonare il
clacson o…»
«No» disse lui. «Venga fino al portico. Se vuole.»
«Scenderò dalla macchina» disse Mrs Lane «ma non
andrò oltre il marciapiede. Dovrà scendere lei. Adesso la
saluto.» Riattaccò.
Al mise giù il telefono e tornò in sala da pranzo. Gli altri
quattro lo osservarono in silenzio mentre si avvicinava.
«È fatta» disse.
Mrs Harman unì le mani e disse: «Chris, sta succedendo
qualcosa di brutto?» Si spostò per avvicinarsi a suo marito.
Bob Ross aveva riacceso la pipa. Sembrava
completamente disorientato. Fece per aprire bocca, poi si
allontanò borbottando qualcosa. Forse, pensò Al, era troppo
per lui.
«Vuole fare affari?» disse Al a Harman. «Con me?»
Il vecchio intervenne con la sua voce gracchiante.
«Senti, Al… tu sei geloso di me e vorrei tanto che sparissi
da qui. Non è così? Stai facendo tutto questo solo per
ripicca.» Anche lui sembrava confuso; la sua mano,
premuta contro la giacca, prima tastò la tasca e poi vi si
infilò dentro. La estrasse stringendo una busta, da cui tirò
fuori un carnet di assegni e un libretto di risparmio. Li
studiò, muovendo le labbra. «Lo sai cosa c’è qui dentro?»
disse ad Al. «Lo vuoi sapere? Ascolta questo.» Ciondolò la
testa su e giù, tremando, deglutì, si schiarì la gola.
«Quel libretto è un trucco» disse Al.
Tutti si irrigidirono, gli occhi puntati su Al.
«Non lo sapeva?» disse Al, rivolto a Harman. «Ci è
cascato anche lei? Dio, a me è riuscito a fregarmi, anni fa,
la prima volta che ci siamo messi in affari. Quel libretto va
in giro dal 1949, da undici anni. Lo usa per dimostrare di
avere un credito. Lo esibisce di qua e di là, come sta
facendo adesso. Con lei.»
Bob Ross rise.
Harman ruotò la testa di scatto e disse: «Cosa c’è di
tanto divertente, Bob?»
«Non ho potuto fame a meno» disse, poi rise di nuovo.
«Non sto ridendo di te» aggiunse, ma ovviamente era così;
si spostò nell’altra stanza. Lo sentirono che rideva ancora.
Harman accennò un sorriso.
«Forse è matto» disse Al, annuendo in direzione del
vecchio. «Me lo sono domandato. Magari è davvero
convinto di avere tutti quei soldi. Ecco che ne è stato
dell’autofficina. È finito in bancarotta. Gliel’hanno portata
via. Questo spiega perché è andato in pensione. Non ne ha
ricavato niente, anzi, deve a suo cognato settemila dollari e
a me cinquecento. Si è indebitato fino al collo.»
Dopo un po’ Harman disse, con aria distratta: «Be’, non
c’è bisogno di dilungarsi su questo adesso.» Si mosse verso
la cucina. «Ci sarà un altro giro di drink, poi si mangia.»
Quindi, rivolto a sua moglie: «Che ne diresti di sandwich al
prosciutto cotto e caffè? E magari potresti preparare
un’insalata.» Poi, ad Al: «Abbiamo dell’ottimo pane
francese.»
Mentre Mrs Harman lo oltrepassava per andare in
cucina, Harman sorrise ad Al. Aveva recuperato del tutto la
padronanza di sé. O quantomeno mostrava padronanza, e
nient’altro. Questo è proprio un grand’uomo, si disse Al. Sa
di poter controllare tutto in meno di mezz’ora: gli basta
fare un paio di telefonate alle banche qui in città e allora
saprà tutto quello che c’è da sapere sulla situazione
finanziaria del vecchio. Non sprecherà tempo nel tentativo
di risolvere la questione parlando. Nessuna resa dei conti a
parole, non in un’occasione del genere.
Lo avevo quasi in pugno, si rese conto Al Miller. Lo
avevo quasi preso all’amo con le parole, ma in fatto di
parole lui è uno che la sa lunga. Sa bene che non contano
nulla.
Il vecchio non aveva più parlato: se ne stava ancora lì
con il suo libretto in mano. Poi lo ripose nella giacca e si
allontanò dalla sala da pranzo verso la parte anteriore della
casa. Al gli andò dietro. Mentre entrava in soggiorno vide il
vecchio riprendere ancora il libretto, dargli una rapida
occhiata e poi tornare a infilarselo in tasca.
«Vaffanculo» disse il vecchio nel vederlo.
«Anche tu» disse Al.
Tacquero entrambi.
È inutile dirgli che gli ho fatto risparmiare i soldi, pensò
Al, perché tanto non gl’importerebbe. E in ogni caso non
glieli ho fatti risparmiare perché domani, o stasera o la
prossima settimana firmerà comunque un assegno a
Harman. Perciò non importa. Ma, pensò ancora, almeno
non sarò costretto a essere presente mentre lo fa.
«Bella casa» disse il vecchio con voce roca.
«Già» disse Al.
«Deve costare almeno settantacinquemila» disse il
vecchio.
«Non lo so» disse Al. «Lo stucco comincia a mostrare
qual che crepa. Credo che ci sia stata un’infiltrazione
d’acqua. È quella che rovina lo stucco.»
Alle loro spalle la voce di Harman disse: «Non c’è
nessuna infiltrazione d’acqua dietro lo stucco di casa. Posso
assicurarvelo, signori.»
«Al sa tutto» farfugliò il vecchio. «È inutile discutere
con lui, è un signor So-tutto-io.»
«A quanto pare» disse Harman. «Be’, anche quello può
far comodo al mondo. Qualsiasi capacità può essere utile,
dipende da dove viene applicata.» Rivolse ad Al un sorriso
amabile.
Qui dentro non ci sono sentimenti negativi, pensò Al.
Quell’uomo può permettersi di essere magnanimo; sa
quello che so io, che quanto non è riuscito a ottenere oggi
lo otterrà comunque domani. E sa anche che ho fatto tutto
quello che potevo: mi sono esposto del tutto, messo
completamente a nudo, senza ricavarne nulla. Ho sparato
le mie cartucce a salve. Se mai sono giunto a costituire una
minaccia per lui, quella minaccia è venuta meno quando ha
chiesto a sua moglie di preparare panini e caffè; in quel
momento ha ripreso la situazione in mano, e non ne
perderà più il controllo.
«Ohe ne direbbe di un aumento?» disse a Harman.
Colto di sorpresa, Harman replicò: «Per…» Poi restò a
bocca aperta e divenne rosso.
«Credo di valere più di quanto mi date» disse Al.
«Vedremo» mormorò Harman in modo automatico,
evidentemente in mancanza di una risposta migliore. Poi si
riprese. «Penso proprio di non essere d’accordo» disse.
«No, non sono affatto d’accordo.»
«Allora mi licenzio» disse Al.
A quello Harman non seppe opporre risposta.
Da fuori, dalla strada, giunse il suono di un clacson.
«Ci vediamo» disse Al. Andò alla finestra e guardò giù.
Sul marciapiede in basso, accanto alla sua Cadillac color
grigio spento, c’era Mrs Lane in un lungo giaccone pesante
che guardava su verso la casa di Harman. Aveva i capelli
legati da una sciarpa di seta; non aveva avuto il tempo di
agghindarsi come faceva di solito. Nel vederlo gli fece un
cenno di riconoscimento. Lui fece altrettanto e si avviò
verso la porta principale di casa Harman.
Mrs Harman uscì dalla cucina e disse subito: «Piacere di
averla conosciuta, signor…» Le mancò la voce.
Bob Ross se ne stava in un angolo a fumare: non disse
nulla, si limitò a osservare la scena con un’espressione
ironica sulla faccia.
Harman andò alla finestra e guardò fuori; fu lì lì per
parlare, per salutare Al, ma poi riconobbe Mrs Lane.
«A presto, Harman» disse Al. «Ci rivedremo.»
Aprì la porta e uscì sul patio. Un attimo dopo stava
discendendo il vialetto lastricato, diretto verso la Cadillac.
Non si guardò indietro. Probabilmente starà firmando
l’assegno proprio in questo momento, pensò. Addirittura
prima che sia uscito di casa. Ma non poteva farci niente,
così proseguì verso la macchina parcheggiata. Mrs Lane
era risalita al volante; non appena Al aprì lo sportello e si fu
seduto, lei si immise sulla strada.
«Lo so di chi è quella casa» disse subito lei.
«Sì» disse Al.
«Matto di un Al Miller» disse la donna. «Che sbuca fuori
da quella casa come uno che ha fatto non si sa che. Lei lo
sa?»
«No» rispose lui.
«Ci è riuscito?» chiese lei. «A fare quello che voleva,
qualsiasi cosa fosse? Con sua soddisfazione?»
Lui non disse nulla.
«Non ci è riuscito» disse lei.
«No» ammise Al.
«Peccato» disse lei. «Proprio peccato. Però lei ne è
usato. È già qualcosa.»
«Lo spero» disse lui.
«Però non ci tomi. Me lo prometta, Mr Miller. Da piccolo
commerciante di West Oakland a piccolo commerciante di
West Oakland.»
Lui non replicò.
«Sennò» disse Mrs Lane «alla fine l’avrà definitivamente
in pugno.»
«Può darsi» disse lui.
«So che è così» disse la donna.
Proseguirono fino ad arrivare alla sezione commerciale
della Broadway.
«Dove vuole andare, Mr Miller?» chiese Mrs Lane. La
sua voce si era un po’ addolcita. «Dove lavora, o a casa?»
«Voglio andare a casa» rispose lui.
Lei lo accompagnò fin sotto il vecchio palazzo grigio di
tre piani in cui abitava.
«Grazie» le disse mentre scendeva dalla macchina. Si
sentiva stanco e avvilito.
«Si faccia un bel sonno» disse lei. «E domani vedrà le
cose con occhi nuovi.»
Al si allontanò e salì le scale di casa, troppo stanco
anche solo per dire arrivederci.

Quella notte, molto sul tardi, fu svegliato da sua moglie


che lo strattonava e gli strillava insistentemente
all’orecchio.
«Non hai sentito il telefono?» gli stava gridando Julie.
«No» disse lui.
«E me che parlavo? E che cercavo di svegliarti e farti
parlare con lei?»
«Con chi?»
«Con Lydia» rispose sua moglie.
«È morto,» disse Al «vero?» Scese dal letto e andò in
bagno per sciacquarsi la faccia con l’acqua fredda.
Mentre si lavava Julie si mise a sedere sul bordo della
vasca: aveva indosso l’accappatoio e le pantofole, e
sembrava del tutto sveglia e padrona di sé. «Ha avuto un
attacco di cuore verso le dieci e trenta di ieri sera» disse.
«Lo hanno portato di corsa all’ospedale Alta Bates e lo
hanno messo sotto una tenda a ossigeno. È morto, mi pare
di aver capito da quanto mi ha detto lei, alle tre del
mattino. Adesso sono le cinque.»
«Le cinque» ripete lui asciugandosi la faccia.
«Lydia ha detto che è stato per via della tensione
provocata da un grosso assegno che ha emesso ieri. Glielo
ha raccontato lui quando è tornato a casa verso le sei.»
«E così gliel’ha fatto» disse Al.
Julie disse: «Ne hanno discusso, ma lei mi ha raccontato
che lo ha visto stanco in modo eccessivo, a tal punto che
non gli ha fatto storie ma ha lasciato che se ne andasse a
letto. Erano circa le nove. Si è addormentato subito e
sembrava dormire profondamente. Fino all’attacco.»
«Può bloccare l’assegno» disse Al. «So dannatamente
bene che non può averlo già incassato.» Ma non lo sapeva
per certo, lo sperava soltanto.
«È quanto mi ha detto lei» disse Julie. «Ha intenzione di
bloccarlo. A quanto pare si tratta di una somma molto alta.
Tutti i loro soldi. Parliamo di decine di migliaia.»
«Bene» disse lui.
«Non sembri molto colpito» disse Julie.
«Cavolo» disse lui. «L’ho visto che stava per succedere.
Lo sapevamo tutti che mancava poco.»
«Lydia vuole che la incontri nell’ufficio del suo avvocato
alle sette e trenta» disse Julie. «Mi ha supplicato perché tu
ci andassi.»
«Sette e trenta?» disse lui.
«Sì. Così possono essere sicuri di bloccare l’assegno.»
«Cristo» disse Al, tornando verso il letto.
«Ci andrai» gli disse lei, seguendolo. «Devi andarci, per
tutto quello che c’è in ballo. Lei deve avere qualcuno a cui
appoggiarsi. Vorrei tanto che le avessi parlato. L’avrebbe
fatta sentire meglio, e tu avresti le idee più chiare. È
davvero spaventoso. Erano sposati da quasi trentacinque
anni.»
Lui si infilò a letto e si tirò addosso la coperta.
14

Alle sette e trenta del mattino successivo Al Miller si


presentò all’indirizzo che gli era stato dato. Era un palazzo
per uffici su Shattuck Avenue, e davanti all’ingresso trovò
Lydia Fergesson che lo aspettava insieme a un ometto
tondo e calvo che stringeva una valigetta e indossava un
antiquato vestito a doppiopetto. Lydia glielo presentò come
Boris Tsarnas, il suo avvocato. Lei era vestita come Al
l’aveva sempre vista, e in quell’occasione non aveva un
aspetto particolarmente diverso.
Appena lo vide corse verso di lui, parlando a voce alta.
«L’uomo che lei conosce, quel criminale, ha in mano
l’assegno. Come si chiama? È quello che vogliamo sapere
subito.»
L’avvocato gli spiegò che per le otto poteva essere in
contatto con un funzionario della Bank of America. Se
l’assegno non era già stato versato era possibile bloccarlo,
anche se poteva essere stato incassato da qualche altra
parte, magari in una filiale. Parlò molto rapidamente, in un
tono monocorde e accentato. Al decise che anche lui era
greco, o sicuramente dell’area balcanica.
«Se si tratta di una legittima iniziativa imprenditoriale»
disse Tsarnas «questo Mr Harman può intraprendere
un’azione legale per ottenere il pagamento coatto. Ma se è
il truffatore che lei e Mrs Fergesson sembrate ritenere non
si azzarderà a trascinarci in tribunale. Si renderà conto
della situazione. Probabilmente non ha la minima idea che
suo marito, Mr Fergesson, è deceduto durante la notte,
perciò abbiamo un vantaggio su di lui di almeno mezza
giornata per riuscire a chiudere il conto, se decidiamo di
farlo. È un conto congiunto, questo sul quale è stato
spiccato l’assegno, giusto?»
«Sì» rispose Lydia.
Al aggiornò l’avvocato sulle attività di Harman, la sua
residenza, le circostanze in cui era stato emesso l’assegno.
Tsarnas sembrò soddisfatto e per tutto il tempo mantenne
un atteggiamento stranamente neutrale. Alla fine Al giunse
alla conclusione che quell’uomo era stato anche l’avvocato
di Fergesson e che, se l’investimento era affidabile, voleva
accertarsi che rassegno venisse effettivamente pagato.
Aveva una visuale astratta dell’intera faccenda: per lui non
esistevano persone, solo aspetti legali. Quell’atteggiamento
lasciò Al sbalordito.
A quell’ora non c’era quasi nessuno, solo poche
macchine che percorrevano Shattuck Avenue. L’aria era
fredda, e tutti i negozi erano chiusi per la notte. Molte
insegne al neon, notò Al, erano ancora accese, pallide sotto
la luce del mattino.
«E adesso?» chiese a Lydia, dopo che l’avvocato se ne fu
andato via in macchina. I due rimasero insieme sul
marciapiede.
«Dio solo sa quante cose ho da fare» disse Lydia. «È
tutto una specie di sogno. Lei mi è stato molto d’aiuto, Mr
Miller. Boris ha il testamento. Io ne conosco il contenuto,
comunque deve essere letto formalmente. Il suo nome non
figura.»
«Credo che sopravvivrò» disse Al. «Invece il suo nome
c’è?»
«La legge impone che ci sia» rispose Lydia con voce
decisa, la stessa che usava dal primo momento che l’aveva
incontrata quella mattina.
«È stata proprio una sorpresa» disse Al.
«È stata una fortuna che sia morto stanotte» disse Lydia
«perché bastava anche solo un giorno di ritardo e sarebbe
stato troppo tardi per bloccare l’assegno.»
Il senso pratico di lei lo sopraffece. Era come se si
trovasse davanti la sua vera anima contadina, che
emergeva dalla sua cultura e dalla sua educazione. La
stessa dedizione materiale e mondana che aveva visto nel
vecchio: una coppia perfetta, la loro. Ma in ultima analisi
non ne ricavò una impressione negativa. Gli sembrò una
cosa naturale, addirittura ciò che il vecchio si meritava.
Mentre si avviavano verso la macchina di Al, Lydia
disse: «Questo individuo che ha l’assegno, questo Chris
Harman, nutrirà un certo risentimento nei suoi confronti,
visto quello che lei ha fatto per me.»
Lui alzò le spalle. «Può darsi.»
«Non è preoccupato?»
Al non sapeva se esserlo o no. Era troppo presto, ancora
troppo presto.
«Può contare sulla mia gratitudine» disse Lydia. «So che
in una situazione che ancora non riesco a immaginare forse
potrò restituirle il favore.»
Al non disse nulla.
Lei gli diede una pacca sul braccio. «Sia ottimista.»
«Perché?» chiese lui.
«Solo dio può saperlo» rispose Lydia e si avviò in
direzione del taxi che la stava aspettando.
Adesso non ho più un lavoro, si disse Al mentre saliva un
po’ intontito in macchina, una Chevrolet di quelle che
rivendeva. Non ho niente. Il vecchio è morto e io non figuro
nel testamento; non che mi aspettassi di esserci, o che ci
abbia mai anche solo pensato. Con l’azienda di Harman ho
chiuso. La mia attività è rovinata al di là di ogni dubbio, e
non fra due mesi, ma fin da adesso. Tutto quello che il
vecchio possedeva verrà vincolato dal tribunale, e il terreno
apparteneva a lui, fa parte del suo patrimonio.
Naturalmente quando il tribunale esaminerà per bene le
carte arriverà alla conclusione che la vendita è stata
effettuata in piena legalità, ma ci vorrà del tempo.
Mi sa che l’ho ammazzato io, pensò. L’ho ammazzato ieri
a casa di Harman, quando ho raccontato quella storia che il
suo libretto di risparmio è falso. Però ci ha messo un po’.
Grazie a dio non è crollato stecchito a terra proprio lì e in
quel momento. Grazie a dio la macchina del suo corpo ha
continuato a funzionare ancora per un po’, probabilmente
più per abitudine che per reale intenzione.
Si è sempre aspettato di finire schiacciato sotto una
delle macchine nella sua officina, pensò Al. Ecco come
aveva previsto la sua morte. E invece non è andata così. È
rimasto ucciso da uno stuolo di parole. Le mie parole.
Avviò il motore e partì in cerca di un bar dove fare
colazione.
***

Lungo Sacramento Averne trovò un bar che conosceva e


lì ordinò la colazione. Quasi tutti i clienti erano uomini:
leggevano le pagine sportive dell’edizione del mattino del
Chronicle, bevevano il loro caffè e mangiavano le loro
patate fritte con uova strapazzate e pancetta. Il locale era
caldo, giallo di luce, e tirò un po’ su il morale di Al. Lo fece
sentire meno solo.
Mentre stava mangiando un cliente negro lo raggiunse e
si sedette accanto a lui. «Lei non è Mr Miller?» gli chiese.
Al conosceva appena quell’uomo: era passato da lui un
paio di volte. Perciò annuì.
L’uomo disse: «Il dottore la sta cercando.»
«Quale dottore?»
«Il dottor Do» rispose l’altro, poi scivolò dallo sgabello e
uscì furtivamente dal bar sul marciapiede.
Appena ebbe finito di mangiare, Al andò alla cabina
telefonica e compose il numero di Tootie.
«Ehi, amico» disse Tootie quando riconobbe la voce di
Al. «Ti stanno cercando.»
«Chi?»
«Quei tizi. E non significa niente di buono per te.»
«Meeerda» disse Al, cedendo al linguaggio da strada.
«Meglio non dirlo» disse Tootie. «Meglio che ti ficchi in
quella zucca vuota che sei nei pasticci.»
«Dimmi come si chiamano.»
«Non lo so chi sono, ho solo sentito dire che ti stanno
cercando per prenderti. Gli hai fatto qualche sgarbo?
Dimmi la verità. Non ti stanno alle calcagna per niente.»
«Che ne so» disse Al.
«Da quanto sento hai fatto fuori qualcuno» disse Tootie.
«Balle» disse Al.
«E questo gli costa un bel po’ di soldi. Ho sentito
qualcuno dire che ci hanno rimesso circa centomila
dollari.»
«Non sono centomila per niente» disse rabbiosamente
Al, sorpreso suo malgrado dalla folle cifra di Tootie.
«Che vuoi fare?» gli chiese Tootie.
«Niente» disse Al.
«Ti conviene comprarti una pistola e volare basso.»
«Stronzate» disse Al.
«Comunque io ti ho avvisato» disse Tootie. «Io le sento,
queste voci, e finisce sempre che sono vere. Mi sa che tu,
che lo sappia o no, ti sei messo contro qualcuno che conta.»
«Va bene» disse Al e fece per chiudere la telefonata.
«Ho sentito il rumore» disse Tootie. «Eri pronto a
riattaccare.»
«Andrò dal procuratore distrettuale» disse Al «e gli dirò
tutto quello che so. Non mi faranno niente.»
«Chi hai ammazzato?»
«Non lo so.»
«Ma certo che lo sai.»
«Solo uno che si è messo in mezzo.»
«Tu sei proprio suonato» disse Tootie. «Adesso sono io
che riattacco.» Il telefono ticchettò. Al abbassò subito la
cornetta e uscì dalla cabina.
È stato gentile ad avvisarmi, si disse.
Forse ha ragione, pensò. Dovrei comprarmi una pistola e
volare basso. Ma dove posso andare? L’azienda di Harman
sa tutto di me, conosce tutto quello che mi riguarda: ogni
posto in cui ho vissuto, dove sono nato, dove lavora mia
moglie, quello che ho fatto fin da quando andavo alle
elementari. Probabilmente possono rivolgersi a uno
psicologo e lui potrà prevedere esattamente quello che
farò. Sapranno con precisione dove trovarmi, in quale
strada, a quale numero, in quale particolare stanza. Questo
può fare la tecnologia di oggi.
Comprò una copia del Chronicle e dopo essersi seduto
di nuovo al bancone cominciò a leggere gli annunci di
lavoro per uomini. Non ce n’era nessuno per cui valesse la
pena di perdere tempo. Potrei fare il commesso viaggiatore,
si disse. O magari vendere distributori di chewing gum.
Allora rilesse gli annunci personali, e subito dopo quelli di
personali in ambito commerciale. Vediamo come fanno a
campare certe persone, pensò. Verrò a casa vostra e vi farò
smettere di fumare con l’ipnosi. O se preferite mi
presenterò alla festa di compleanno di vostro figlio e farò
uno spettacolo di marionette. Tornò agli annunci personali.
‘Una voce anonima dal manicomio’ lesse. ‘Ringrazio il St
Jude per avermi salvato i beni di famiglia.’ Cristo. Mise via
il giornale.
***
Nel primo pomeriggio Julie rientrò in casa. Al si stava
concedendo un pisolino. Si tirò su, stupito nel vederla così
presto. Ma prima che potesse parlare, Julie disse: «Mi
hanno licenziata.» Cominciò a sfilarsi le scarpe e le calze.
«Perché?» domandò lui.
Julie rispose: «Ha chiamato un cliente e ha detto al
direttore che non credevo in Dio. Lui mi ha chiamata nel
suo ufficio e mi ha chiesto se fosse vero e io gli ho risposto
che era così, ma che la cosa non riguardava la Western
Carbon and Carbide. Lui ha detto che invece la moralità
degli impiegati riguardava la Western Carbon and Carbide,
e ha aggiunto che secondo loro le universitarie non
funzionano. Non sono mai soddisfatte del loro lavoro,
creano sempre problemi.» Appese la giacca nell’armadio.
Così Tootie aveva ragione. Gli stavano addosso.
«Senti» disse Al. «Che ne diresti di lasciare la Baia?»
«Per andare dove?»
«Non lo so» rispose lui. «Ma ci faremo venire un’idea.»
«C’è un sacco di lavoro nell’area della Baia» disse Julie
andando in cucina e cominciando ad ammucchiare i piatti
nel lavello. «Non avrò problemi. Mi sono già iscritta a
qualche agenzia di collocamento. Cose del genere bisogna
aspettarsele. E poi tu hai il tuo lavoro.»
«No» disse lui.
«No cosa? Cosa vuoi dire? Che dopo solo mi giorno non
lavori più lì, per quell’uomo?» Smise di occuparsi dei piatti
e tornò in camera da letto per guardarlo in faccia. «Come
mai sei già a casa? Perché non sei al lavoro?»
«Siamo nei guai» disse Al.
«Ti sei tenuto quel lavoro per un solo giorno, vero?»
disse Julie. «Quell’ottimo lavoro.»
Lui annuì.
«Ti sei licenziato?»
«Sì» disse lui alla fine.
«Vuoi dirmi perché?»
«Non lo so perché» disse Al. «So quello che è successo,
ma non so perché. Devi prendermi sulla parola. Non c’era
nient’altro che potessi fare.» La guardò in faccia anche lui,
con le mani nelle tasche. Sua moglie aveva incrociato le
braccia attorno a sé, come se avesse freddo. La sua faccia
si era come avvizzita, una sua antica espressione, e tutti i
suoi lineamenti, naso occhi e bocca, divenivano via via più
piccoli. Anche le ossa sembravano ritrarsi. Come se, pensò
Al, la forza vitale dentro di lei si stesse assottigliando.
Trasformandosi in aria, svanendo, esalando via mentre lei
espirava e inspirava. Magari era solo quella, semplice aria.
Solo aria dentro di loro, che li teneva in vita.
«Voglio divorziare» disse Julie.
Al fece un movimento verso di lei, per rassicurarla. Per
riscaldarla e riportarla a una qualche forma di vita. Ma lei
si ritrasse, lo evitò.
«Non è il momento» disse lui «per queste cose.»
«Immagino che mi picchierai» disse Julie. «Come hai
fatto con quel poveraccio.»
«Quale poveraccio?»
«Quell’ubriaco che è venuto nel tuo lotto, e tu l’hai
colpito.»
Non se ne ricordava. Non aveva idea di cosa stesse
parlando sua moglie. «Siamo entrambi senza lavoro» disse
«e dovremo ricominciare da capo, probabilmente da
qualcosa di completamente nuovo. Ma ce la faremo a tirar
su la testa. Ho imparato molto da questo.»
«No» disse lei. «Abbiamo chiuso.»
Dopo un po’ Al disse: «Senti una cosa. Farò un patto con
te. Dammi un mese. Se noi…» Esitò.
«Sì» disse sua moglie con la voce piena di amarezza.
«Se noi non troviamo uno straccio di lavoro. Noi. Non tu.»
«Se non ho niente di decente fra le mani entro un mese»
disse lui «allora ci separeremo.»
«Non posso fare un patto con te» disse Julie «perché…
lo vuoi sapere perché? Ce la fai a guardare in faccia la
verità? Tu non sei onesto. Non ci si può fidare di te.» Si
ritrasse ancora di più, come se avesse paura, temesse la
sua reazione. Ma lui non fece nulla. «E adesso colpiscimi»
aggiunse lei. «E dimostrami quanto sei affidabile. Quanto
sei onesto.»
Squillò il telefono.
Mentre Julie lo precedeva per andare a rispondere, Al
disse: «Lascia perdere.»
«Sarà probabilmente una delle agenzie» disse lei. «Per
me.» Alzò la cornetta, rispose. Poi coprì il telefono con la
mano e gli chiese: «Conosci uno che si chiama Denkmal?»
«Dio, no» rispose lui.
«Comunque è per te» disse Julie. Gli porse il telefono.
Lui scosse la testa, per dire di no.
Julie, sempre con la mano sul telefono, gli disse a bassa
voce: «Non ho nessuna intenzione di mentire per te. D’ora
in avanti dovrai farlo da solo.» Tornò a porgergli la
cornetta.
Allora lui la prese e rispose.
«Al Miller?» disse una voce maschile.
«Sì» rispose lui.
«Senta, Miller, mi chiamo Denkmal. Ho il negozio di
barbiere, sa, proprio di fronte a lei. Da qui posso vedere la
sua rivendita. Farà meglio a venire qui.»
Lui riattaccò, corse oltre Julie e uscì di casa, giù per le
scale e lungo il marciapiede, fino alla Chevrolet.
Quando accostò al marciapiede davanti all’autosalone, il
barbiere in camice bianco attraversò la strada, in mezzo al
traffico, e lo raggiunse. Rimasero lì in piedi, di fronte al
lotto di terra. Era tutto tranquillo.
Denkmal disse: «Non so cosa abbiano fatto. Credevo che
fossero clienti, gente che stava guardando le macchine.»
«Sono andati sul retro?» chiese Al. Entrò
nell’appezzamento, seguito dal barbiere. Le macchine in
prima fila sembravano a posto.
«Stavano facendo qualcosa» disse il barbiere.
Era la Marmon, sul retro. Avevano rotto tutti i finestrini,
squarciato le gomme, strappato i sedili e infranto le spie
del cruscotto. Quando aprì il cofano vide che avevano
anche tagliato i fili e spaccato diversi componenti. E la
vernice della carrozzeria era tutta rovinata. L’avevano
incisa e graffiata, e con un martello avevano ammaccato il
cofano e gli sportelli. Al guardò in basso e vide l’acqua che
scolava, formando una pozzanghera. Avevano rotto anche il
radiatore.
«Sarà meglio chiamare la polizia di Oakland» disse
Denkmal «L’aveva risistemata quasi del tutto, vero? Io l’ho
tenuta d’occhio; santo dio, saranno un paio d’anni che ci
lavorava.»
«Quei figli di puttana» disse Al.
«Non mi sembra opera di adolescenti» disse Denkmal.
«Di solito sono loro a commettere vandalismi.»
«No» disse Al. «Non sono stati dei ragazzi.»
«La polizia dirà che sono stati dei ragazzi» disse
Denkmal.
Al ringraziò il barbiere per averlo chiamato. Quello
riattraversò la strada e se ne tornò al suo negozio. Al
rimase lì in piedi, con le spalle alla macchina distrutta,
osservando lo scorrere del traffico. Poi entrò nella baracca
di basalto, richiuse la porta e si mise a sedere, da solo.
Che altro possono fare?, si chiese. Hanno portato via il
lavoro a mia moglie, e il mio era già andato. Sono arrivati
alla Marmon. Forse Tootie aveva ragione, forse mi
infileranno un coltello in pancia, o mi picchieranno a morte.
O violenteranno Julie. Chi può dirlo? Lui non lo sapeva. Era
costato almeno quarantamila dollari a Harman, forse di più.
Ricordò come da ragazzo avesse avuto fra le mani
un’arma da fuoco. L’unica volta. Era stato incaricato di
nutrire le galline e le anatre nei loro recinti. Ci era andato e
aveva visto dei ratti di campagna che scorrazzavano per il
pollaio. Allora gli avevano dato il fucile calibro 22 e lui si
era arrampicato sul tetto del pollaio e si era messo seduto a
gambe incrociate, tenendo d’occhio i ratti che uscivano
dalle loro tane. Aveva sparato a uno di loro e lo aveva
colpito nella parte posteriore, e quello si era messo a girare
su sé stesso come una trottola, agitando le zampe. Aveva
continuato a girare e poi, proprio quando lui pensava che
stesse per morire, era schizzato come un razzo verso la
tana ed era scomparso.
Si costruì nella mente l’immagine di un uomo colpito da
qualche parte che ruota e ruota su sé stesso. Non posso
farlo, si disse. Cazzo, non mi comprerò una pistola.
Per un tempo indefinito, ma piuttosto lungo, rimase lì
alla scrivania, a riflettere. E poi notò diverse auto
parcheggiate un po’ più giù lungo il marciapiede. Le porte
dell’autofficina erano state aperte e ne stava uscendo Lydia
Fergesson. Insieme a lei c’erano diversi uomini in completo
scuro, tutti con l’aria molto seria.
Notando che si trovava dentro la casetta, Lydia venne
verso di lui. «Mr Miller,» disse aprendo la porta «siamo
riusciti a bloccare l’assegno. Ho ritirato il denaro e l’ho
messo in una cassetta di sicurezza.» Le brillavano gli occhi
mentre parlava. Era truccata pesantemente e aveva una
stola di pelliccia sul collo, cappotto nero, calze nere e una
grossa borsa di pelle. Il suo intero corpo vibrava di
tensione, quasi di una specie di eccitazione. Prossima alla
frenesia.
«Bene» disse Al.
«Il corpo è esposto in una camera mortuaria chiamata
Qui tollis peccata mundi, miserare nobis. Eh, Mr Miller?»
Gli mise sulla scrivania un cartoncino bianco con una
scritta in rilievo. «La cerimonia funebre sarà domani
mattina alle undici. Dopo il corpo verrà cremato.»
Lui annuì, prendendo il cartoncino.
«Ha intenzione di andare a vedere la salma?» chiese
Lydia.
«Non lo so» disse lui. «Non ho ancora deciso.»
«C’è sempre il problema di quale vestito mettergli»
disse la donna. «Mi hanno chiamato per parlarne. Aveva
delle nuove cravatte che si era comprato, ma sono giunta
alla conclusione di non mettergli nulla che non gli fosse
familiare. Il ministro è unitariano. Conosce qualche
canzone che gli piacesse?»
«Cosa?» disse Al.
«Suoneranno all’organo canzoni che gli piacevano.»
«No» disse Al.
«Allora suoneranno degli inni» disse Lydia.
«Purtroppo.»
Al disse: «Ho affrettato la sua morte litigando con lui a
casa di Harman, lo sapeva?»
«Stava facendo ciò che doveva.»
«Come lo sa?»
«Mi ha raccontato per filo e per segno quello che è
successo. Ha riconosciuto che lei stava tentando di salvarlo
da sé stesso.»
Al abbassò gli occhi sulla scrivania.
«Non gliene faceva una colpa.»
Al annuì.
«La prego, vada a vedere la salma» disse Lydia.
«Va bene» disse Al.
«Oggi» disse lei. «Perché se non lo fa oggi, non ci sarà
più nessuna salma da vedere.»
«Va bene» disse lui.
«Lei non ha intenzione di andarci» disse Lydia. «Perché
no?»
«Non ne vedo il motivo» rispose Al.
Lydia disse: «Nessuno può costringerla a fare qualcosa,
Mr Miller; ho capito questo di lei. Lei fa esattamente ciò
che vuole. Oggi stavo pensando a lei: è spesso nei miei
pensieri. Voglio prestarle un po’ di soldi in modo che possa
ricominciare.»
Lui la guardò senza sapere cosa dire.
«Starà pensando» disse la donna «che sarebbe come
condividere i suoi soldi.»
A quello Al rise.
«Si metta a posto la coscienza» disse Lydia. «Lei non ha
niente di cui sentirsi in colpa.»
«Io voglio sentirmi in colpa» disse lui.
«Perché, Mr Miller?»
«Non lo so» rispose lui.
«Magari vorrà condividere la sua morte.»
Al non disse nulla.
«Invece di vederlo» disse lei. «È questo che lei fa. È il
suo sistema.»
Lui alzò le spalle, sempre con lo sguardo basso sulla
scrivania.
Lydia aprì la grossa borsa di pelle, vi frugò dentro e ne
ritrasse la mano che stringeva qualcosa; Al vide che era un
biglietto da cinque dollari. Glielo infilò nel taschino della
camicia. Mentre Al lo fissava, lei disse: «Voglio che compri
dei fiori e li faccia esporre nella camera mortuaria.»
«Posso comprare benissimo dei fiori da solo» disse lui.
«No, lei non può» ribatte con calma. «Vero? Lo ha mai
fatto? Mai una volta nella sua vita, mio giovane amico. E
non è nemmeno mai andato a un funerale. Non sa come si
fa. Ci sono tante cose in questo mondo che lei
personalmente non sa come affrontare. Oserei dire, se
questo non la offende, che lei è un barbaro.»
«Un barbaro» ripeté lui.
«Ma ha degli istinti» disse lei. Stava uscendo dalla
casetta, richiudendosi dietro la porta. «Buoni istinti che la
salveranno, se non l’hanno già fatto. Deve dipendere da
loro e anche, mio giovane buon amico, dal permettere a
qualcun altro di mostrarle come muoversi in questo nostro
mondo crudele che, ahimè, lei capisce così poco. Così
spaventosamente poco.»
«Dio del cielo» disse Al alzando gli occhi verso di lei.
Quella singolare scelta delle parole per un momento lo
spaventò.
Lydia sorrise. «Cosa pensa? Cosa prova? Me lo dica
adesso, quello che i suoi istinti le suggeriscono in fatto di
sopravvivenza. Come dovrebbe cominciare la sua vita,
veramente per la prima volta.»
Mi suggeriscono di uccidermi, pensò Al. Ma si guardò
bene dal dirlo ad alta voce. Rimase silenzioso.
La porta si chiuse del tutto. Lydia se n’era andata. Al
rimase dov’era, felice di essere di nuovo solo, felice che lei
fosse andata via. Ma un attimo dopo la porta si riaprì. «Mr
Miller,» disse la dorma «noto che quella sua magnifica
macchina è in pezzi. Che è successo?»
«Se la sono presa con la macchina» disse Al.
«È quello che ho pensato» disse lei «quando l’ho vista
con i vetri rotti e la tappezzeria strappata.» Rientrò e si
mise a sedere alla scrivania, di fronte a lui. «Quello che
farò per lei» disse «è comprargliela. So da quanto ho
sentito dire in passato, perlopiù da lei, quanto si aspettava
di ricavarci. Circa duemila dollari. Non è così?»
Lui annuì.
«Allora gliela compro per quella cifra.» Prese un carnet
di assegni e con una stilografica cominciò a compilarne
accuratamente uno.
«Va bene» disse lui.
Lei gli sorrise mentre scriveva.
«Non è sorpresa che l’accetti?» disse Al, sorpreso a sua
volta dalla sua stessa reazione. Dalla sua accettazione.
«Duemila dollari mi fanno comodo» disse. Più semplice di
così. Con duemila dollari poteva ripartire, senza no.
Probabilmente quei duemila dollari gli avrebbero salvato la
vita, e quella di sua moglie.
Subito dopo che Lydia se ne fu andata, Al chiuse la
rivendita e si recò nella banca presso la quale era stato
emesso rassegno. Gli diedero i soldi in contanti senza fare
storie, e lui li convertì in assegni al portatore, dopodiché se
ne tornò subito a casa.
Quando entrò trovò Julie in camera da letto, intenta a
infilare i suoi vestiti in una delle valigie.
«Ho denaro a sufficienza per andarcene da qui e
ricominciare da qualche altra parte» le disse.
«Ma davvero?» disse lei, continuando a preparare la
valigia.
Al si sedette sul vecchio letto accanto alla valigia e tirò
fuori gli assegni al portatore.
Dopo un bel po’ Julie disse: «Dove avresti intenzione di
portarci?»
«Intanto partiamo» disse lui. «Decideremo lungo la
strada.»
«Adesso?» Lo guardò mentre lui prendeva l’altra valigia
e cominciava a metterci le sue cose.
«Saliremo su un autobus appena finito di fare i bagagli»
disse lui.
Julie non replicò e tornò alla sua valigia. Lavorarono
insieme, fianco a fianco, finché non ebbero impacchettato
praticamente tutto quello che valeva la pena di portarsi via.
«Mentre eri fuori c’è stata un’altra telefonata» disse
Julie. Gli fece vedere il taccuino. «Mi sono segnata il
numero. Quell’uomo ha detto di richiamarlo appena fossi
tornato.»
Al vide che era il numero di telefono di casa Harman.
«Parlava in modo molto strano» disse Julie. «Metà di
quello che ha detto non l’ho capito. All’inizio ho pensato
che avesse sbagliato numero; si comportava come se stesse
parlando con una ditta.»
«Con un’azienda» disse Al.
«Sì, continuava a dire ‘voialtri’.»
«Siamo pronti» disse Al.
Julie prese la sua valigia e si diresse verso la porta. «Mi
dispiace tanto lasciare qui tutta questa roba.» Si fermò per
toccare un posacenere sul tavolino. «Non sarà più qui
quando ritorneremo. Non rivedremo mai più nessuna di
tutte queste cose.»
«A volte è necessario andare via» disse Al.
Sempre ferma domerà, lei disse: «Mi piace la zona della
Baia.»
«Lo so» disse lui.
«Hai fatto qualcosa di davvero orribile» disse Julie.
«Non è vero? L’ho capito appena sono tornata a casa oggi.
Ha a che fare con la morte di Jim Fergesson? Ci ho pensato
su. Magari hai cercato di prendere i suoi soldi, non lo so.»
Scosse la testa. «Non me lo dirai mai. Immagino che cose
del genere avvengano in continuazione. Non mi è mai
piaciuto, e comunque non aveva nessun diritto di tenersi
quei soldi. Ti ripeto quello che ti ho già detto: avrei voluto
che morisse. Ti ha trattato molto male.» Julie fissò suo
marito.
Anche Al prese la sua valigia e si diresse verso la porta,
spingendo sua moglie davanti a sé fino al corridoio esterno.

Invece di prendere la macchina raggiunsero con un taxi


la stazione degli autobus della Greyhound. Al comprò due
biglietti per Sparks, Nevada. Un’ora più tardi, dopo avere
atteso alla stazione, erano a bordo di un autobus a due
piani con aria condizionata in viaggio lungo l’autostrada 40,
attraverso il vasto territorio pianeggiante della valle di
Sacramento.
Era il tardo pomeriggio e l’aria si era rinfrescata. Gli
altri passeggeri sonnecchiavano, leggevano o guardavano
fuori. Julie guardava ogni tanto dal finestrino, facendo
commenti sui campi e le fattorie che attraversavano.
Quando giunsero a Sacramento c’era ancora un po’ di
luce. L’autobus si fermò per consentire ai passeggeri di
cenare, poi ripartì. Adesso era buio. L’autobus cominciò a
risalire la vecchia autostrada serpeggiante che da
Sacramento portava alle Sierras. Il traffico era in gran
parte formato da grossi camion. Al sbirciò fuori e vide
lungo la strada piccole caffetterie, banchetti che vendevano
frutta e stazioni di rifornimento. Si erano lasciati alle spalle
i campi coltivati.
«Questa zona è un po’ deprimente» disse Julie. «Sono
contenta che non possiamo vederla. Però mi piacerebbe
vedere le Sierras.»
«Eccole» disse Al. «È tutto così, cartelli pubblicitari e
bar.»
«E dall’altra parte com’è?»
«Lo scopriremo» rispose lui.
«Comunque» disse Julie «l’aria ha un buon profumo.»
15

A Sparks, Nevada, Al comprò dei biglietti per Salt Lake


City. Avevano trascorso qualche ora a passeggiare per
Sparks; era abbastanza vicina a Reno, e molto moderna e
curata. E il deserto del Nevada era proprio a due passi.
Erano le tre e trenta del mattino.
Entrambi dormivano. Non c’era niente al di fuori
dell’autobus, né luci, né vita. L’autobus avanzava rombando,
senza fermarsi.
Quando Al si svegliò il sole era già sorto; vide
tutt’intomo il terreno pietroso, colline di roccia sbreccata,
striminzite piante grigie e, qua e là lungo la strada, dei
rifiuti abbandonati. Erano le otto e un quarto. Secondo
l’orario dovevano essere quasi al confine con lo Utah.
Giunto a Wendover l’autobus si fermò perché tutti
potessero fare colazione. Era l’ultima fermata in Nevada,
con le ultime slot-machine. La città si allungava parallela
all’autostrada, con tanto spazio fra case e negozi e un
terreno sabbioso su cui non cresceva niente. Per
sgranchirsi le gambe lui e Julie passeggiarono per tutta la
lunghezza della città e poi se ne tornarono a un bar a
consumare focacce calde e pancetta.
«Potremmo quasi essere in qualsiasi parte della
California» disse Julie guardandosi intorno. «Gli stessi
séparé, lo stesso registratore di cassa. Il juke-box.» Il bar
sembrava essere stato costruito da poco: tutto era dipinto
di fresco e con un certo gusto. «L’unica differenza»
aggiunse Julie «è il giornale. E quel terreno così strano
all’esterno.»
C’erano diversi altri passeggeri seduti nel bar, e questo
li rassicurava sul fatto che l’autobus non ripartisse senza di
loro.
«Ci fermeremo a Salt Lake City?» chiese Julie.
«Forse» rispose Al. Gli sembrava un posto buono come
un altro per risistemarsi. Almeno da quanto ne aveva
sentito dire.
«In un certo senso è eccitante» disse Julie.
«Un’avventura come questa… senza sapere dove stiamo
andando. Ci muoviamo e basta, senza fermarci. Ci tagliamo
fuori dal passato, dalle nostre famiglie.» Gli sorrise. Aveva
la faccia smunta per la mancanza di sonno, e i vestiti tutti
spiegazzati. Lui non era in condizioni migliori. E aveva
bisogno di radersi.
Tutto a un tratto ebbe un presentimento. Salt Lake City
era una città troppo grande. Avrebbero avuto un
rappresentante in loco.
«Penso che ripartiremo appena arrivati a Salt Lake
City» disse. Tirò fuori la carta geografica ed esaminò le
diverse possibilità. Una città abbastanza piccola da non
avere importanza per Harman, ma abbastanza grande da
potergli offrire un lavoro o l’occasione di rimettersi in
affari. Aprire un’altra rivendita di auto usate, pensò. Poteva
farseli bastare, i soldi, se riusciva ad acquistare in modo
avveduto.
«Mi piacerebbe vedere Salt Lake City» disse Julie. «L’ho
sempre desiderato.»
«Anch’io» disse Al.
«Però non possiamo.» Lo studiò.
«No» disse lui.
«Io non ho parola in tutto questo?»
«Sarà meglio che lasci decidere a me» disse lui.
Allora Julie riprese a mangiare. E lo fece anche lui.
Dopo aver lasciato il bar si avviarono a piccoli passi in
direzione dell’autobus Greyhound parcheggiato. Riuscivano
a vedere l’autista: stava fuori a chiacchierare con due
donne di mezza età. Perciò se la presero comoda.
«È molto carino, questo paese» disse Julie. «Ma qui non
c’è niente da fare. Abbiamo visto tutto. È solo un posto in
cui la gente si ferma per mangiare, per controllare la
macchina e per farsi un’ultima giocata.» Si voltò verso di
lui e aggiunse: «Qui ti senti più al sicuro? Probabilmente
no. Non ti sentirai mai al sicuro. È qualcosa che è dentro di
te.»
«Cosa?» chiese lui.
«Il conflitto. La cosa da cui stai scappando. Gli psicologi
dicono che ci portiamo appresso i nostri problemi.»
«Può darsi» disse Al, che non aveva nessuna voglia di
discutere con lei.
Giunsero all’autobus. La porta era aperta e lui cominciò
a salire gli scalini metallici.
«Non credo che salirò a bordo» disse Julie.
«Va bene» disse lui, tornando a terra.
«Non credo che salirò più a bordo.» Julie non si tirò
indietro: lo guardò dritto negli occhi. «Ho deciso che non
voglio più andare avanti. Credo che ci sia qualcosa in te che
non stai affrontando, che non hai mai affrontato. E ci stai
trascinando anche me. Se provi a costringermi a salire
sull’autobus mi metterò a gridare e loro ti fermeranno.
Laggiù vedo un agente della stradale, o qualcosa del
genere.» Fece un cenno con la testa e Al vide la macchina
della polizia stradale parcheggiata, con la sua antenna.
«Vuoi rimanere a Wendover?» le disse angosciato.
«No. Prenderò il prossimo autobus per Reno e resterò lì
per qualche giorno e farò un po’ di spese, e poi se mi piace
mi fermerò e chiederò il divorzio secondo la legge del
Nevada, e naturalmente mi troverò un lavoro. E se non mi
piace tornerò a Oakland. E divorzierò secondo la legge
della California.»
«Sulla base di che?»
«Non vuoi darmi la mia parte dei soldi?»
Lui rimase in silenzio. Gli altri passeggeri, vedendoli
accanto all’autobus, stavano cominciando ad arrivare,
timorosi di essere lasciati a terra. L’autista stava finendo di
parlare con le due donne di mezza età.
«Vorrei che tornassi indietro con me» disse Julie. «Ma
probabilmente non lo farai; continuerai a scappare.»
Lui gemette.
«Sì» disse lei. «Gemi pure, perché sai che è la verità.»
Lui disse: «Sono stronzate.»
«Tu dammi solo un po’ di soldi. Nemmeno la metà,
diciamo cinquecento dollari. So quanti sono; questo te ne
lascia quasi mille e cinquecento. Secondo la legge
californiana sulla comunione dei beni la metà sarebbe mia,
ma non m’importa. Voglio solo porre fine a questa…
malattia. A questa…» Non finì la frase. C’era altra gente
che stava arrivando per salire a bordo.
«Dovrò firmare gli assegni al portatore, altrimenti non
varranno niente» disse Al.
«Bene» disse lei.
Al tenne gli assegni appoggiati contro la fiancata
dell’autobus e ne firmò per un valore di cinquecento dollari.
Li diede a sua moglie.
«Ecco,» disse lei con voce tranquilla «me ne hai dati
cinquecento giusti giusti. Pensavo che magari ti saresti
offerto di darmene la metà, ma non ha importanza.» Gli
occhi le si riempirono di lacrime, poi si rivolse all’autista,
che era già salito e gli disse: «Vorrei il mio bagaglio; non
parto più. Posso, per favore?» Tirò fuori lo scontrino della
sua valigia. L’autista rivolse un’occhiata a lei, poi ad Al, e
alla fine accettò lo scontrino.
Al salì a bordo e tornò a sedersi, da solo. Sotto, fuori
dall’autobus, l’autista stava scaricando la valigia di Julie.
Sbatté il portello metallico dopo avergliela consegnata e si
affrettò a risalire al volante. Un attimo dopo il motore
ruggì, sbuffando fumo grigio dallo scarico. Gli ultimi
passeggeri salirono in tutta fretta e raggiunsero i loro
sedili.
Seduto nell’autobus, Al vide sua moglie allontanarsi con
la valigia, diretta verso il deposito. La porta si richiuse
dietro di lei, poi si chiusero anche le porte dell’autobus, che
cominciò a muoversi.
Al sentì la rottura, la spaventosa, insensata rottura. Che
importava adesso, se andava avanti o no? Ma era già in
movimento; era in viaggio da solo verso Salt Lake City e
quello che ne sarebbe seguito, qualunque cosa fosse. Forse
è meglio così, pensò. Che ci separiamo. Almeno non ci
prenderanno entrambi. Era stata una scelta disperata fin
dall’inizio tentare di farla venire con lui. Non si può
costringere la gente a fare qualcosa, pensò. Non potevo
costringere Julie a fare quello che volevo, non più di quanto
Lydia poteva costringermi a mandare fiori o ad andare alla
camera mortuaria. Ognuno di noi ha la sua vita da vivere,
nel bene e nel male.

Il Gran Lago Salato era incredibilmente caldo, bianco e


indistinto. Verso mezzogiorno l’autobus l’aveva attraversato
e aveva raggiunto la parte verde e fertile dello Utah, con
alberi e piccoli laghi; ancora una volta vide un panorama
non dissimile da quello della California. Sull’autostrada
c’era un traffico piuttosto sostenuto. Più avanti si
scorgevano le propaggini di una grande città.
Al trovò Salt Lake City affollata, convulsa e piena di case
come l’area della Baia; come Oakland aveva intorno una
serie di città più piccole così vicine da fondersi l’una con
l’altra. Le zone residenziali e commerciali, pensò mentre
guardava fuori dal finestrino, sono più o meno uguali
dappertutto. Motel, empori, stazioni di servizio, lavanderie,
grandi magazzini… Le case sembravano costruite perlopiù
di mattoni o pietra, oppure, se erano di legno, avevano
un’aria ugualmente solida. Le strade erano ben tenute e
rumorose. Vide numerosi adolescenti sulle loro macchine,
le stesse macchine con il motore truccato che per tutto il
giorno scorrazzavano su e giù per San Pablo Avenue.
Sotto molti aspetti, decise Al, Salt Lake City appariva la
città ideale per chi rivendesse macchine usate. Sembrava
che guidassero tutti, e si vedeva anche una gran quantità di
vecchie auto.
Sceso dall’autobus nel centro di Salt Lake City, due
poliziotti in borghese lo prelevarono e lo condussero su un
lato del deposito. «Lei è Alien Miller di Oakland,
California?» gli chiese uno dei due, mostrandogli il
distintivo.
Al era così frastornato che accennò di sì con la testa.
«Abbiamo un mandato di arresto nei suoi confronti» gli
disse uno dei due poliziotti, tirando fuori un foglio di carta
ripiegato. «Con l’obbligo di ritorno nello Stato della
California.» Cominciarono a sospingerlo, in mezzo a loro,
verso il marciapiede e la loro auto parcheggiata.
«Con quale accusa?» chiese Al.
«Truffa» rispose uno di loro mentre lo facevano salire
sulla macchina. «Per essersi fatto consegnare denaro in
modo fraudolento.»
«Quale denaro?» chiese lui. «Chi lo afferma?»
«La parte in causa che ha sporto denuncia nella contea
di Alameda, California: Mrs Lydia Fergesson.» Il poliziotto
avviò la macchina, che si immise nel traffico del centro. Nel
frattempo, sul sedile posteriore, l’altro poliziotto stava
perquisendo Al, che non oppose resistenza. «Resterà qui un
paio di giorni e poi la rispediremo a casa.»
Al non seppe cosa obiettare.
«Lei conosce questa Mrs Fergesson?» gli chiese uno dei
due, facendo un cenno d’assenso all’altro.
«Certo» rispose Al.
Dopo un po’ un poliziotto disse: «È una vedova?»
«Sì» disse Al.
«Grassa? Di mezz’età?» Al non disse nulla.
«Lei che lavoro fa?» chiese il poliziotto.
«Vendo auto usate» rispose Al.
«Ha fatto strada» disse il poliziotto, e ridacchiò.

Il giorno dopo venne organizzato il viaggio di ritorno. Al


venne rispedito in California insieme a un altro prigioniero
bianco dello Stato dello Utah, sotto la custodia di un
vicesceriffo. Fecero il viaggio in aereo e appena qualche ora
dopo aver lasciato l’aeroporto di Salt Lake City atterrarono
in quello di Oakland, dove li aspettava una macchina della
polizia che li caricò e li portò al Palazzo di giustizia della
città.
Erano passati solo due giorni e mezzo da quando lui e
Julie erano partiti per il loro viaggio. Chissà dove sarà,
pensò Al mentre sedeva al banco di una delle aule in attesa
di essere processato. Era tornata a Reno? Sarà lì adesso?
Strano, si disse poi, essere di nuovo qui. Si era aspettato di
non rivedere mai più Oakland. Attraverso una finestra
dell’aula poteva vedere gli uffici pubblici della contea di
Alameda, e da qualche parte, non troppo lontano, doveva
esserci il lago Merritt. Dove molte volte era andato a fare
canoa.
Il ritorno in aereo faceva sembrare la distanza più
breve. Non sono andato molto lontano, decise. Qualche ora
di viaggio, tutto qui, per chi vola in aereo. Non gli era mai
passato per la testa di prendere un aereo. Forse è a questo
che si riferiva Lydia, pensò, quando ha detto che conosco
molto poco il mondo.
Qualcuno, evidentemente del Palazzo di giustizia, giunse
da lui e gli disse che doveva scegliersi un avvocato.
«D’accordo» disse Al. L’intera faccenda gli appariva
vaga. «Lo farò.»
«Vuole fare una telefonata?»
«Magari più tardi» replicò lui. Non gli veniva in mente
nessuno a cui telefonare e rimpianse di non avere con sé le
sue pillole. Chissà, forse le aveva: cominciò a frugarsi in
tutte le tasche, ma senza successo. No, si ricordò poi. Il
flacone di Anacin era in un altro paio di calzoni. O magari
gli era stato sequestrato dalla polizia: avevano frugato fra
le sue cose. Forse è questo che mi è successo, pensò: chissà
come mi hanno separato dalle mie pillole.
La persona che entrò successivamente nell’aula era un
uomo basso, calvo, dall’aria straniera, con un vestito a
doppiopetto. Lo conosco, si disse Al. Forse è il mio
avvocato. Ma poi si ricordò: era l’avvocato di Lydia, come
diavolo si chiamava.
Diverse persone conferirono con l’avvocato e poi Al si
ritrovò scortato fuori dall’aula lungo un corridoio. Sono
davvero nelle loro mani, si disse. Mi spostano a loro
piacimento. Un poliziotto gli indicò una porta aperta e Al
entrò in una sala laterale, una specie di ufficio con un
tavolo e alcune sedie.
«Grazie» disse al poliziotto, che però se ne era già
andato via.
La porta si aprì e l’avvocato basso, calvo e straniero di
Lydia entrò con la sua valigetta; muovendosi rapido,
dandosi molta importanza, si sedette di fronte ad Al e aprì
la lampo della valigetta. Per un momento frugò fra le carte,
poi alzò gli occhi. Sorrise. Sorridono tutti, pensò Al. Magari
li si riconosce da questo.
«Sono Boris Tsarnas» disse l’avvocato. «Ci siamo già
visti.»
«Già» disse Al.
«Mrs Fergesson non ha voluto incontrarla, almeno in
questo momento. Io sono il suo avvocato, capisce, per
quanto riguarda questa particolare situazione.» La sua voce
calò di tono, diventando quasi una cantilena. «Così come mi
occupo di altre questioni relative ai beni immobili del suo
defunto marito e via dicendo.» Studiò Al così a lungo che
lui si sentì in imbarazzo. L’uomo aveva occhi vivi e
intelligenti, per quanto piuttosto piccoli. «L’investimento»
gli disse Tsarnas «è risultato del tutto affidabile.»
Ecco come stavano le cose, dunque. Questo spiegava
tutto. Al annuì.
«Abbiamo passato al vaglio tutta la documentazione
finanziaria, le dichiarazioni contabili. Il guadagno netto del
suo investimento sarà probabilmente molto alto: come
minimo il dieci percento, forse il dodici. Harman ha agito
senza tornaconto personale. Non aveva nessun
coinvolgimento nell’impresa, a parte che conosceva sia Mr
Bradford che il defunto Mr Fergesson. A quanto pare stava
facendo esattamente ciò che aveva promesso, offrendo la
sua guida informata per assicurare al defunto un eccellente
investimento che adesso si rivela vantaggioso per la sua
erede, Mrs Fergesson. E in questo senso le ho consigliato di
accettare.» Richiuse la valigetta con uno scatto, poi disse in
tono amichevole: «Ho pensato che fosse interessato a
saperlo. Lei sembrava avere qualche riserva sull’affidabilità
di Mr Harman. Quando l’assegno in questione è stato
bloccato dietro insistenza di Mrs Fergesson, Mr Harman si
è attivato per garantirlo di persona, cioè, ha anticipato
quarantunomila dollari a Mr Bradford per coprire l’importo
fino a quando sarebbe stato possibile incassare l’assegno.
Dunque ha rischiato un bel po’ di tasca sua per accertarsi
che venisse garantita l’opportunità dell’investimento e che
quindi la vedova del defunto non ci rimettesse nulla.»
«Lydia sa tutto questo?» si affrettò a chiedere Al.
«Non appena siamo venuti al corrente della situazione
contabile l’abbiamo informata. Questo posto, Marin
Gardens, è molto apprezzato da chi effettua investimenti
immobiliari nella contea di Marin. Molti che abitano
dall’altra parte della Baia, e anche alcuni di qui, hanno
acquistato nella speranza di ricavarne un guadagno.»
Al disse: «Ma tutto questo che c’entra con il fatto che lei
mi ha fatto arrestare?»
«Lei si è fatto consegnare una grossa somma di denaro
da Mrs Fergesson adducendo false pretese. Ha affermato
che mentre si dava da fare per proteggere i suoi interessi
ha subito importanti perdite e l’ha accusata di esserne
responsabile, chiedendole di risarcirla. Appena la signora
mi ha raccontato quello che aveva fatto le ho consigliato di
avviare un’azione legale per bloccare quell’assegno.» Gli
occhi dell’uomo danzavano. «Ma naturalmente lei l’aveva
già portato all’incasso. Allora Mrs Fergesson mi ha chiesto
di consigliarla su come dovesse comportarsi. Siamo venuti
a sapere che lei aveva lasciato la California appena
incassati i soldi.» Il suo sorriso si allargò. «La banca ci ha
informato che lei aveva convertito i duemila dollari in
assegni al portatore, e abbiamo scoperto che lei e sua
moglie avevate fatto i bagagli ed eravate partiti insieme.
Anzi, sua moglie aveva fatto i bagagli mentre lei andava a
incassare l’assegno.» Continuò a sorridere ad Al, quasi
come se lo ammirasse.
«Le ho venduto una macchina» disse Al.
«Una macchina di trent’anni ridotta un rottame. Da uno
sfasciacarrozze potevano pagargliela al massimo qualche
dollaro.»
Era vero. Al dovette ammetterlo. «Ma me l’avevano
distrutta» disse.
«Chi?» Gli occhi di Tsarnas ebbero un fuggevole guizzo.
«Harman e i suoi scagnozzi.»
«Sciocchezze. Sì, le ha raccontato anche questo. La
polizia di Oakland ha catturato i vandali. La macchina era
stata danneggiata addirittura prima della morte di Mr
Fergesson da alcuni ragazzi che per mesi hanno compiuto
atti di vandalismo a West Oakland.»
«Adolescenti» mormorò Al.
«Sì» disse Tsarnas.
«Harman ha fatto licenziare mia moglie» disse Al.
«Sua moglie non è stata licenziata» replicò Tsarnas.
Al lo fissò senza capire.
«Io non so se sia importante stabilire questo, e
francamente dal mio punto di vista non lo è, ma noi – voglio
dire l’azienda di Harman – abbiamo fatto un controllo
presso il datore di lavoro di sua moglie. Si è licenziata lei,
signore. Ha detto che adesso suo marito aveva un impiego
decente e che lei da tempo voleva smettere di lavorare.
Non è stata una cosa inaspettata. Non avevano idea di dove
voi due poteste essere andati; lei si è semplicemente
licenziata e ha lasciato l’ufficio. Le hanno mandato a casa
un assegno, ma sua moglie non ha nemmeno aspettato di
riceverlo.» L’avvocato studiò Al. «Secondo me lei era
interessato ai soldi di Fergesson: i soldi ricavati dalla
vendita dell’autofficina. O forse si è trattato di semplice
risentimento perché l’aveva venduta? Perché si è affannato
tanto a raggirare Mrs Fergesson, ingannandola
sull’investimento proposto da Mr Harman, per poi
accontentarsi di duemila invece di…»
«Non ho niente da dire» lo interruppe Al. Chissà come si
ricordava quella frase: gli sembrava quella giusta per
l’occasione, quella che lui voleva dire.
Tsarnas rifletté, poi dopo un po’ disse: «Mrs Fergesson è
interessata a riavere indietro il suo denaro, non a mandarla
sotto processo. Lei ha i soldi?»
«In buona parte» rispose Al.
«Si può sistemare tutto» disse Tsarnas. «Cioè, se lei
restituirà l’intera somma l’accusa verrà ritirata. Ci sono
state spese consistenti per il suo arresto nello Utah e per il
suo ritorno qui; probabilmente bisognerà inventarsi
qualcosa con entrambi gli Stati, non lo so. Comunque, se lei
è disponibile e in grado di…»
«Lo sono» disse Al. «Sono disponibile e in grado. Posso
vendere la mia attività e le macchine che mi rimangono per
rimediare i soldi.»
«Lei non ha precedenti?» chiese Tsarnas. «Nessuna
vicenda di truffa come questa?»
«Nessun precedente» disse Al.
«Ha fatto tutto da solo?» chiese Tsarnas. «La mia è
semplice curiosità. Mi risulta che Mrs Fergesson nutriva
molto affetto e ammirazione per lei, fino al momento in cui
si è resa conto – e immagino che non volesse proprio
rendersene conto – che le aveva estorto duemila dollari.
Buon dio, ma lei non ha lavorato per anni con suo marito?»
«Sì» rispose Al. «Ho lavorato per diversi anni con suo
marito.»
«Lei deve proprio aver covato un rancore di lunga data»
disse Tsarnas «per agire quando era morto da poco.
Quell’uomo era stato appena cremato.»
«Com’è stata la cerimonia?» chiese Al.
«Non ho avuto la possibilità di essere presente.»
Tutto a un tratto Al si rese conto di avere ancora con sé
il biglietto da cinque dollari che Lydia gli aveva dato per
comprare i fiori. Era ancora nel taschino della camicia; lo
tirò fuori e lo tenne fra le mani. Le aveva estorto anche
quello. Perciò porse la banconota all’avvocato. «Questo
appartiene a Lydia» disse.
L’avvocato lo infilò in una busta e lo ripose nella
valigetta.
«Come ha fatto a sapere dove avevo intenzione di
andare?» chiese Al. «In che modo ha scoperto che ero
diretto nello Utah?»
«Non ha fatto che cambiare quegli assegni al portatore
lungo tutto il viaggio. Ogni volta che si fermava a mangiare.
E alla biglietteria della Greyhound di Sparks ha pagato con
uno di quegli assegni. Subito dopo è stato emesso un
mandato ed è stata allertata la polizia.»
«E mia moglie?» chiese Al.
«Si è messa in contatto con noi» rispose Tsarnas. «Da
Reno. Si era accorta che lei si stava comportando in modo
strano e non se l’è sentita di seguirla nel viaggio. Perciò è
scesa dall’autobus con un pretesto in una cittadina lungo la
strada. Wendover.»
«Certo che mi comportavo in modo strano» disse Al. «Ce
l’avevano tutti con me. Complottavano per uccidermi.»
«Perciò è probabile che adesso sia tornata qui» disse
Tsarnas, quasi parlando con sé stesso mentre si alzava. «Ha
avuto la sensazione che lei avesse bisogno di un aiuto
psichiatrico. Forse è così. Se fossi il suo avvocato le
consiglierei di affidarsi al servizio sanitario della contea o
dello Stato. Senza dubbio potrebbe ottenerlo e le cliniche
private sono spaventosamente costose.»
«Harman ce l’ha con me» disse Al. «Ha trascinato tutti
dalla sua parte. Sono circondato, ecco perché dovevo
lasciare questo Stato.»
Tsarnas lo osservò, poi disse: «Provi a considerare
questo. Mr Harman avrebbe fra le mani un’arma
inattaccabile per trascinarla in tribunale, se davvero
volesse perseguitarla… come lei sembra credere.
Diffamazione, visto che lei lo ha accusato di fronte a
testimoni di essere un criminale, un truffatore. E si può
dimostrare che questo lo ha danneggiato dal punto di vista
finanziario: ha pregiudicato i suoi interessi commerciali,
non è così?»
«Di fronte a chi lo avrei detto?» A casa di Harman non
aveva detto niente contro di lui, ne era sicuro. «Quali
testimoni?» Il vecchio, che lo aveva sentito dire certe cose,
era morto.
«Mrs Fergesson» disse Tsarnas.
Era vero. Al annuì.
«Non ho ragione di credere che Harman abbia in mente
qualche azione civile nei suoi confronti» disse Tsarnas.
«Glielo sto solo facendo notare, per sua informazione, così
forse farà appello al suo buonsenso.»
«Lo sto facendo» disse Al. «Lo faccio sempre.»
«Il dolore e lo shock per la morte di Fergesson hanno
provocato in lei un temporaneo turbamento?» chiese
Tsarnas. «In preda alla pressione emotiva lei ha perso la
capacità di capire ciò che stava facendo, sotto il profilo
morale? Be’, non importa. Se lei si comporta bene e usa la
testa, non finirà comunque davanti a un giudice.» Salutò Al
con un cenno della testa e lasciò l’ufficio. La porta si
richiuse dietro di lui.
Un’ora più tardi gli dissero che poteva andarsene.
Lasciò il Palazzo di giustizia e rimase fuori sul
marciapiede con le mani infilate nelle tasche della giacca.
Mi hanno proprio dato una bella dimostrazione, si disse
mentre osservava l’andirivieni di gente e di traffico, il
pesante traffico del centro di Oakland con i suoi autobus e i
suoi taxi. Mi hanno fatto vedere che possono trascinarmi
qui ogni volta che vogliono. E possono fare tutto a modo
loro, privilegiare la loro versione dei fatti e demolire la mia.
Così come hanno demolito la mia Marmon. E si sono presi
tutto, si rese conto Al, anche mia moglie. Anche se, capì
poi, lei non sa niente e non saprà mai niente.
Chi è che lo sa?, si domandò. Lydia Fergesson?
Probabilmente no. Quell’avvocato? Troppo avveduto; non
riuscirò mai a sapere con certezza, in un modo o nell’altro,
se lui ci crede o se sa che sono solo un mucchio di stronzate
legate fra loro e ben presentate. La polizia? A loro non
gliene importa niente. Sono soltanto una macchina che fa
quello che i comandi la costringono a fare, come un
aspirapolvere che risucchia tutto quello che si trova
davanti, e che è abbastanza piccolo da farsi risucchiare.
Harman lo sa, si disse. Questa forse è l’unica cosa di cui
posso essere sicuro. Certamente non Bob Ross, non Knight,
non Gam o chiunque altro lavori per Harman. Nemmeno
Mrs Harman. Solo Chris Harman, è questa la differenza fra
lui e tutti noi. Lui sa bene quello che succede, sa cosa
muove tutto. E poi lo so io, si disse Al.
Con le mani nelle tasche si incamminò verso la fermata
dell’autobus aspettandone uno che lo riportasse verso casa.
Sfruttano i deboli, si disse. Cioè i malati come il vecchio.
I disperati come me. Le vedove come Lydia Fergesson. E ci
hanno in pugno. Non abbiamo modo di lottare per liberarci,
perché la stessa lingua agisce contro di noi. Le stesse
parole sono state fabbricate per spiegare la loro situazione
in modo che appaia buona, e la nostra brutta. Così brutta,
infatti, che ci sentiamo sollevati se ci lasciano uscire dal
carcere, se ci permettono di andare a spasso per strada.
Immagino che mi lasceranno tornare al mio lavoro di
rivenditore di auto usate, pensò. Dovuto prima. Non davo
fastidio a nessuno. Stavo al posto mio, così come Tootie sta
al posto suo.
Ma la differenza fra me e Tootie, capì, è che Tootie
conosce la linea di confine, lui sa fino a che punto spingersi
prima che qualcuno gli pesti i piedi. E io no. Credevo che se
avessi usato tutte le parole, se avessi parlato come parlano
Harman e Ross e Knight e Gam avrei potuto farcela anch’io.
Come se la cosa che mi separava da loro fosse solo il
parlare.
Giunse l’autobus giallo della Key System. Vi salì insieme
alle altre persone assiepate alla fermata; le porte si
richiusero sibilando e l’autobus ripartì. Al stava tornando a
casa, in quel palazzo a tre piani dove vivevano i McKeckney
e la giovane coppia messicana. Dove lui aveva dato vita al
suo tentativo, dove era cominciata la sua vita di menzogne
e di crimini.
Chissà se Julie sarà lì, si chiese. Non se la sentiva di
rientrare a casa e trovarla vuota.
16

La porta del suo appartamento non era chiusa a chiave


e quando Al l’aprì sentì delle voci provenire dall’interno.
Dunque è tornata a casa, pensò. Spinse la porta così forte
da farla sbattere. Ma dentro non trovò Julie. Nel salotto
c’era Bob Ross, che fumava la sua pipa e sfogliava una
rivista di automobili presa dal tavolo. E nell’altra stanza
c’era Chris Harman. Era al telefono.
Quando vide Al concluse la telefonata e riattaccò, poi
venne in salotto e disse: «Stavamo controllando proprio
adesso, cercando di scoprire dove si trovi sua moglie.»
«Capisco» disse Al. «L’avete trovata?»
«A quanto pare è da qualche parte in Nevada» rispose
Ross. «O forse sul versante californiano del lago Tahoe.
Potrebbe trovarsi in uno di quei centri residenziali sul lago,
tipo l’Harrah's Club.»
«Si farà viva» disse Harman nel suo consueto tono
garbato, amichevole; sorrise ad Al, e anche quel sorriso gli
era familiare. «Probabilmente sarà in bolletta, ma ben
felice di tornare a casa.»
«A lei che importa?»
Harman disse: «Lei ha subito fin troppe perdite in tutto
questo, Al. Sono personalmente molto interessato che si
possa rifare.»
Accanto a lui Ross gesticolò per manifestare il suo
accordo e mise giù la rivista.
«Quali perdite?» chiese Al.
«L’umiliazione,» rispose Harman «in primo luogo.» La
sua mano si mosse. Ross, nel vedere il movimento, piegò la
testa e lasciò la stanza, uscendo in corridoio. «Arrivo fra
circa un quarto d’ora» gli gridò dietro Harman.
«Sarò in macchina» disse Ross richiudendosi la porta
alle spalle.
«Non ho sofferto nessuna umiliazione» disse Al. «Mi
mostri quando.»
«Forse non è la parola giusta, mi perdoni. A volte,
quando cerco di esprimere i miei sentimenti più profondi,
divento un po’ goffo. Lei non merita quello che le è
capitato, Al. Lo sa lei e lo so io. E lo sa anche Bob. In effetti
ne stavamo parlando tutti l’altra sera, quando abbiamo
saputo che lei era stato fermato a Salt Lake City e che si
trovava in prigione. In particolare mia moglie, Bodo, era
ansiosa che si facesse qualcosa per lei. Mi sono messo in
contatto con l’avvocato di Mrs Fergesson...» Harman fece
una pausa e sorrise di nuovo, quasi una smorfia. «È una
persona incredibile, quella Lydia. Naturalmente non l’avevo
mai vista prima. Poi c’è stata questa faccenda. Devo dire
che è un’esperienza vera e propria starle vicino per un po’
di tempo. Ma con nostra grande sorpresa abbiamo scoperto
di avere molte cose in comune, in termini di interessi. È
una donna raffinata ben al di là dei suoi modi; una volta
riusciti a penetrare la sua vera essenza… non si vede l’ora
di conoscerla meglio.»
Al annuì.
«Potrebbe fare la sua figura in ogni salotto» disse
Harman. «In qualsiasi parte del continente.»
Al annuì.
«Lei cosa prova verso di me?» gli chiese Harman.
Al scrollò le spalle.
«Non è troppo ostile» disse Harman. «Non è qualcosa
che lei non possa imparare a gestire, col tempo. Anche se,
dio lo sa, lei non ha nessun motivo per nutrire una qualsiasi
animosità nei miei confronti. Ma lasciamo perdere. La
mente è uno strano congegno.» Rifletté. «A ogni modo,»
disse poi, passeggiando per la stanza «voglio riabilitarla.»
«Capisco» disse Al.
«Sento» disse Harman «che è mia responsabilità. Sotto
molti aspetti. In un modo che lei non capirebbe.»
Tacquero entrambi.
«Che intende con ‘riabilitare’?» chiese Al. «Vuole forse
spedirmi da uno psichiatra?»
«Oh, diavolo, no» rispose Harman. «Che razza di
riabilitazione sarebbe? Uno strumento sociale di
circostanza che nasconde una forma di assistenza
detentiva, oppure una sorta di religione freudiana per
gente fuori di testa che si arricchisce alle spalle delle
signore nevrotiche. Io intendo attraverso un lavoro decente
che le possa restituire la sua autostima e la dignità.
Canalizzando le sue capacità.» Poi aggiunse: «Di cui lei
abbonda. Forse ne ha più di quante creda.»
«Lavorerei per la sua azienda?» disse Al. «O vuole dire
che metterà una buona parola per me da qualche parte?»
«Francamente» disse Harman, guardandolo
direttamente negli occhi «mi piacerebbe averla con me. Ma
se l’idea non le aggrada…» Alzò le spalle, sempre
sorridendo. «Per me va bene. Mi accerterò che lei trovi una
sistemazione da qualche altra parte.» Guardò l’orologio.
«Deve andare?» gli chiese Al.
«Sì, fra un minuto. La morte di Jim è stata una prova
terribile per tutti noi. Dio, era così…» Harman gesticolò.
«Così vivace, così vitale. Così carico di quel vecchio spirito
di una volta. Esattamente come quando ho cominciato a
portargli le mie macchine. Una miniera di battute.»
«Piene del vecchio Jim» disse Al.
«Come se» disse Harman «ciò che era rimasto di lui si
fosse… non so come dire. Come se fosse andato in
ebollizione tutto d’un tratto. E si fosse consumato.
Dopodiché non è rimasto niente.»
«Proprio triste» disse Al. «È una cosa che fa riflettere.»
«Ci penserà?» gli chiese Harman. «A fare marcia
indietro e ad accettarlo? Voglio dire, il lavoro?»
«Oh, sì» disse Al. «Certo.»
«Bravo ragazzo» disse Harman. «Lo sa, Al, lei deve
sempre essere capace di rialzarsi. Se riesce a imparare
questo il più è fatto. Se ce la fa a buttarsi alle spalle le
avversità e a ricominciare. Ricominciare e ricominciare,
mai smettere di farlo. Perché… be’, ecco, è come la vedo io,
Al. Nulla è così importante, nemmeno la morte. Capisce?»
Lui annuì.
La mano di Harman scattò in avanti. Al gliela strinse,
poi Harman aprì la porta del corridoio, fece un cenno di
saluto, gli rivolse un rapido, intenso, sorriso carico di
significati, e tornò indietro. «Di fondo lei non nutre dei
sentimenti negativi nei miei riguardi, vero, Al?» gli disse a
brutto muso.
«No» rispose Al.
Harman annuì e richiuse la porta. Questa volta se n’era
andato per davvero.
Al rimase a lungo alla finestra dell’appartamento vuoto,
da solo, osservando la strada al di sotto. Julie non era
tornata nemmeno per le sei e lui cominciava ad avere
troppa fame per aspettare ancora. Andò in cucina e
armeggiò con piatti e barattoli, ma senza risultato. Così le
scrisse un biglietto e uscì.
Mentre camminava lungo il marciapiede buio vide una
sagoma in movimento nell’ombra, che saltellava su e giù.
All’inizio pensò che fosse un animale, invece era Earl
McKeckney impegnato in qualche sua misteriosa attività,
come al solito senza fare rumore. Quando Al gli passò
accanto il ragazzo drizzò la testa. Si scambiarono
un’occhiata senza dirsi nulla, e poi Al proseguì per il
marciapiede, con le mani in tasca.
Un suono martellante lo fece fermare all’angolo. Alle
sue spalle Earl McKeckney correva all’indietro lungo il
marciapiede. Non urtava in nessun ostacolo, ma sterzava
ogni volta che giungeva in prossimità di un palo della luce e
del muro; raggiunse Al, gli danzò intorno percorrendo un
cerchio, poi continuò così, sempre al contrario, senza mai
sbattere.
«Ehi» gli gridò Al. «Come fai?» Forse il ragazzo aveva
memorizzato la posizione di ogni oggetto dell’isolato.
Earl gridò a sua volta, senza fermarsi: «Ho il mio
anello.» Sollevò la mano; al dito aveva un anello con dentro
un frammento di vetro, uno specchietto. «Il mio anello
periscopico segreto di Capitan Zero.» Con gli occhi fissi
sull’anello, ma la faccia rivolta verso Al, Earl ripartì
sfrecciando sempre più veloce nell’oscurità, fino a
scomparire.
Davvero strano, pensò Al. Non riesco proprio a capire
come ci riesca.
Proseguì finché non raggiunse un ristorante italiano
dove lui e Julie avevano mangiato spesso. Lei non c’era, ma
Al entrò lo stesso e ordinò la cena.
Dopo aver mangiato vagabondò per un po’ di tempo
lungo le strade buie, poi puntò in direzione della casa di
Tootie Dolittle.

«Ciao» gli disse quando Tootie lo fece entrare. I Dolittle


stavano ancora cenando; Al vide il tavolo pieno di piatti,
padelle e posate. Prese Tootie da una parte e gli disse:
«Senti, voglio che tu mi procuri una cosa.» Voleva che
Tootie gli procurasse una pistola.
«Quella cosa?» chiese Tootie. «Quella di cui abbiamo
parlato e che tu dovresti avere?»
«Proprio così» disse Al.
Tootie diede un’occhiata a sua moglie e disse a bassa
voce: «Basta che entri in un negozio di ferramenta e te ne
compri una, amico.»
«Oh» fece Al.
«Solo che sarà registrata, e tu lo sai come sono bravi
con quelle pallottole.» La voce di Tootie era praticamente
inaudibile. «Intendi una pistola trovata da qualche parte?
Una che nessuno ha comprato?»
«Sì» disse Al.
«Non lo so» disse Tootie. «Comunque vieni a mangiare
qualcosa con noi.» Sospinse Al verso il tavolo.
«Come va, Al?» disse Mary Ellen Dolittle quando si fu
seduto anche lui. «Benvenuto e ti prego, mangia qualcosa
con noi.»
«Ciao» disse Al. «Grazie.» Assaggiò un po’ dei fagottini
e delle costolette di agnello. Tootie aveva già aggiunto un
piatto, le posate, un tovagliolo, un bicchiere di plastica e un
piattino davanti a lui; Al abbassò gli occhi sbalordito. Gli
oggetti sembravano materializzarsi dal nulla.
«Hai proprio l’aria stanca» disse Mary Ellen con
partecipazione. «Credo di non averti mai visto così
distrutto, Al.»
Tootie disse: «Ce l’hanno ancora con te?»
«No» rispose Al.
«Hanno rinunciato?»
«No» disse Al. «Mi hanno preso.»
Gli occhi di Tootie si allargarono, poi si restrinsero.
«Allora non sei qui. Sei morto.»
Al piluccò i fagottini e le costolette senza replicare.
«Mi piacerebbe sapere che succede» disse Mary Ellen.
«Ma so che nessuno di voi due me lo dirà mai, perciò mi
risparmio la fatica. Hai intenzione di andare avanti così per
il resto della tua vita, Al Miller? Sono venuta a sapere che
hai rimediato un buon lavoro e neanche questo ti fa
cambiare?» Attese, ma Al non replicò nemmeno stavolta.
«No» disse allora lei. «Neanche questo.»
«Tanto Al non ce l’ha più quel buon lavoro» disse Tootie.
«Perciò lascialo in pace.»
Mary Ellen disse: «Be’, Al Miller, mangia la tua cena e
poi vattene.»
Lui la guardò. Era seria.
«Non scherza» disse Tootie. «Ci ha rinunciato, con te.
L’ho già vista mollare la gente, ma mi sorprende che lo
faccia a questo punto. È questa la vera strada di Dio, buttar
fuori un uomo? Io dico al diavolo te e tutta questa religione
da zio Tom che vai sbrodolando.» La voce di Tootie crebbe
d’intensità fino a far vibrare i piatti; Mary Ellen si ritrasse,
ma non tentò di interromperlo. «Mi hai proprio stufato» le
gridò Tootie. «Sei tu la disperata. Sei tu che te ne vai, hai
capito? Mi hai sentito?» Urlava con la faccia vicinissima a
quella di lei, che alla fine scattò goffamente in piedi.
«Vattene» continuò a gridare Tootie, saltando su anche lui.
«Lascia questa casa e non tomaie mai più.» Poi si lasciò
ricadere sulla sedia; afferrò la tazza del caffè, la strinse fra
le due mani scure e poi la scaraventò via dal tavolo
facendola scivolale sul pavimento. Si infranse addosso al
muro e schizzi di caffè macchiarono la parete fino alla
fotografia di Gesù che Al aveva sempre visto appesa lì fin
da quando frequentava quella casa.
«Hai finito?» disse subito Mary Ellen.
«Ohe ne sai del vecchio Al?» disse Tootie. «Niente.» La
sua faccia aveva un’espressione severa, corrucciata. Scosse
la testa. «Non sai un bel niente.»
«Non volevo creare problemi» disse Al riprendendo a
mangiare. Lo aveva colpito il fatto che Mary Ellen gli
avesse detto di andarsene, e non riusciva più a guardarla in
faccia. Ma poi fu lei ad andargli vicino e a mettergli una
mano sulla spalla.
«Forse mi sono comportata male» disse. Le sue dita gli
accarezzarono la spalla, dita schiette. «Senti, Al» aggiunse,
spostando la sua sedia in modo da avvicinarglisi a tal punto
che le sue ginocchia premevano contro i pioli. «Io lo vedo,
quello che ha detto Tootie, e l’ho visto appena sei entrato. È
tutto su di lui» disse poi, rivolta a suo marito. «Dentro di lui
e intorno a lui.»
«Vedi cosa?» chiese Al.
«Che morirai presto» rispose Mary Ellen.
«Oh» fece Al.
«Non ti preoccupa nemmeno» disse Mary Ellen.
«No» ammise lui.
«Fa’ qualcosa» disse Mary Ellen.
Lui continuò a mangiare. Quando ebbe finito si alzò dal
tavolo. «Che mi dici?» chiese a Tootie.
Sempre accigliato, sempre aprendo e stringendo le
mani, Tootie disse: «Naaa.»
«Davvero?» disse Al. «Non me la procurerai?»
«Naaa» ripeté Tootie.
«Allora addio» disse Al.
«Te lo spiego io perché» disse Tootie. «Tu la vuoi per
vendicarti di loro. Ma quando ci metti le mani…» Osservò i
cocci della tazza di caffè e gli schizzi per tutta la stanza.
«Allora la prenderai e te la punterai alla testa e la farai
finita. Adesso non lo sai, non vuoi ammetterlo o guardarlo
in faccia, ma è così.»
Lo è?, si domandò Al. Forse.
«Non avete saputo niente di mia moglie, vero?» chiese
allora. «Non ha chiamato qui?»
«No» rispose Mary Ellen. «Non lo sai dov’è?»
«Ti ha piantato, amico?» intervenne Tootie.
«Può darsi» rispose Al.
«Sei proprio un bamboccio, come Humpty Dumpty»
disse Tootie. «Te ne stai fermo lì e ti guardi intorno mentre
ti succedono le cose. Non sai fare altro che rimanere
appollaiato come un uccello a guardare. E così adesso non
hai più nemmeno una moglie. Una brava moglie come
quella.»
«Perché non vai a cercarla?» gli chiese Mary Ellen.
Tootie disse: «Ho trattato male Mary Ellen perché ti ha
detto di andartene. Adesso penso che aveva ragione. Devi
andartene. Devi uscire a cercarla, poi torna e ci sediamo
qui, okay?»
Al si infilò la giacca e lasciò l’appartamento. Lo
seguirono entrambi con lo sguardo mentre si richiudeva la
porta alle spalle.

Se ne stava in piedi accanto alla Marmon semidistrutta,


prendendo a calci un cilindro che aveva fatto parte del
sistema di accensione. Quasi tutto l’appezzamento era al
buio, ma l’insegna al neon del bar dall’altra parte della
strada proiettava luce sufficiente per vedere quanto aveva
già visto: non c’era nessuna speranza di risistemare la
Marmon. Chiunque l’aveva ridotta così sapeva cosa stava
facendo. C’era un’idea che gli era passata assurdamente
per la testa: non si poteva aggiustare, almeno non senza
impiegare settimane e settimane di lavoro e a quel punto
non avrebbe avuto più importanza. Si era visto alla guida
della Marmon danneggiata lungo l’autostrada, di sera tardi,
in quella parte della notte in cui c’è poco traffico. Fino al
ponte di Richmond e poi a centoventi chilometri l’ora
addosso alla fiancata di cemento e metallo del ponte e giù
verso l’acqua. Ma era fuori questione, e in ogni caso era
solo una visione, un sogno della sua morte.
Un carro funebre, pensò. Per tutto questo tempo, questi
mesi: è in quello che volevo trasformarla mentre la
risistemavo? Un grosso carro funebre nero, pesante e
silenzioso, che percorre le strade a tutta velocità con me
dentro, supino, con le mani giunte sul petto e gli occhi
spalancati. Magari con la lingua fuori di un centimetro,
rigida, rigonfia; a meno che il becchino l’abbia spinta
dentro o mozzata. Io che sporgo la lingua mentre vengo
trascinato lungo la strada, che faccio linguacce anche dopo
morto. A quei figli di puttana.
Poi ebbe un altro sogno, un’altra visione; questa era così
nitida che Al cominciò subito a lavorarci sopra. Non esitò.
Corse verso la casetta di basalto, aprì la porta e cominciò a
frugare in giro fino a trovare un sacchetto di carta avanzato
da un pranzo. Lo portò fuori e, chinandosi, cominciò a
raccogliere la sabbia dal terreno. Era stata messa lì per
assorbire l’unto che sgocciolava dalle macchine. La
raccolse con le mani facendone un mucchietto e poi la infilò
nel sacchetto.
Forse posso arrivare a tutte e due, si disse. Alla
Mercedes-Benz e alla Cadillac. Purché non abbiano il
serbatoio con la chiusura a chiave, pensò. Non riusciva a
ricordarlo.
Mentre se ne stava lì ai margini del terreno, con il
sacchetto pieno di sabbia in mano e cercando di ricordare,
una macchina suonò il clacson. Al si voltò e vide una
Cadillac, vecchia ma pulita, sul bordo del marciapiede. Si
era fermata e l’autista lo stava guardando: Al vide i suoi
occhi alla luce riflessa dei lampioni.
L’autista abbassò il finestrino, si sporse e lo salutò.
«Ehi!» Era una donna. Per un attimo lui fu certo che fosse
sua moglie; si riscosse e si avviò di corsa verso di lei. Ma
non era Julie, e lui lo sapeva. Era Mrs Lane. Le andò
incontro comunque, più lentamente, portando con sé il
sacchetto di sabbia.
Rimase sul marciapiede senza dire niente.
«Salve, Mr Miller» disse Mrs Lane, con la labbra ritratte
a mostrare i suoi denti d’oro; i due segni delle carte
sull’anello scintillavano. «Che ci fa tutto solo al buio? Mi è
sembrato di averla vista raccogliere qualcosa che le era
caduto.»
Lui non disse nulla.
«Vuole che venga dentro in modo da farle luce con i
fari?» disse lei.
«No» disse lui. «Grazie.»
«Indovini che sto facendo» disse la donna, sempre
sporta verso di lui. Adesso Al riuscì a sentire il suo
profumo: era così intenso che fuoriusciva dalla macchina e
lo avvolgeva anche a quella distanza. «Ecco, le faccio
vedere.» Mrs Lane spense il motore della Cadillac, si
contorse per uscire, aprì lo sportello dal suo lato e scese.
Indossava un abito a maglia, tacchi alti e cappello: era
vestita di tutto punto, ovviamente stava andando da
qualche parte. «Non le sembra che abbia un bell’aspetto?»
disse.
«Sì» convenne lui. Non l’aveva mai vista così ben messa,
così elegante. I suoi capelli, la pelle, gli occhi, tutto di lei
luccicava. Aveva un unico gioiello: una spilla accanto al
colletto.
«Mi sono messa a dieta» disse lei. «Non ho nemmeno
una guaina, se mi permette di dirlo.» Si toccò lo stomaco.
«È piatto» disse. «Piatto come il fondo di una teglia. Dopo
tutti questi anni sono più magra di tante di quelle liceali
che vanno a spasso succhiando ghiaccioli e stringono le
spalle per mostrare la scollatura e si piegano tutte per far
vedere che bel alletto che hanno.» Rise. Poi si volse verso il
lampione e gli fece capire, senza bisogno di commenti, che
non portava nemmeno il reggiseno. «Il fatto è» disse «che
qui sotto non mi serve niente ed è esattamente quello che
ho ottenuto.» Sollevò le braccia e saltellò.
«Proprio niente» convenne Al.
«Evviva» esclamò lei, con gli occhi che le brillavano.
«Dov’è suo marito?» le chiese lui.
«Oh, lui» disse la donna. «È fuori per lavoro. È un
appaltatore. È su nella contea di Shasta per vedere un
importante edificio pubblico. Tornerà fra una settimana. Io
sto andando a una festa.» La sua voce prese vigore e salì di
tono. «Arrivederci» disse mentre riapriva lo sportello.
«Devo scappare. Passavo da queste parti e ho visto che lei
era qui, così mi sono fermata per farmi ammirare. Non
capita tutti i giorni.»
«Sta proprio bene» disse Al.
«Mr Miller,» disse lei «ha l’aria così triste. Che fine
hanno fatto le sue battute e il suo grande senso
dell’umorismo?»
Lui alzò le spalle.
È
«Ho capito» disse lei fissandolo. «È quello? Ho saputo di
Mr Fergesson. Adesso dove andrà? Che farà?»
«Sto cercando mia moglie» disse lui.
«Se n’è andata anche lei? Se ne vanno tutti? A quanto
pare nessuno la vuole. Niente moglie, niente amico, niente
lavoro. Non la vedo bene per niente. Come ha fatto a
ridursi così, Mr Miller? La vita è sconcertante, sotto certi
aspetti. Un giorno ha tutte queste cose, il giorno dopo non
le ha più. E che ha fatto nel frattempo? Da quanto riesco a
capire non ha fatto niente. A volte viene da domandarsi se
quella gente che va sempre in chiesa non abbia ragione. Io,
per quanto mi riguarda, non ci vado mai in chiesa e non
credo a niente. Ci sono già passata, e questo vale anche per
tutto il resto. Penso che tutti e due saremmo dei pazzi a
vivere come le altre persone, anche se lo vorremmo.»
Lui annuì.
«Cosa c’è nel sacchetto?» gli chiese Mrs Lane.
Lui non capì a cosa si riferisse. Si guardò intorno.
«Quello che ha in mano» disse lei.
Glielo mostrò.
«Sabbia» disse lei, guardandolo mentre glielo teneva
aperto. «Raccoglie la sabbia come un bambino.» Gli tolse il
sacchetto dalla mano e lo depose accanto a una delle
macchine parcheggiate. «Tutto qui, quello che ha
imparato? Alla sua età, trent’anni e rotti? Non c’è da
stupirsi che non abbia nulla di divertente da dire. E adesso
me ne vado alla mia festa. Risalgo in macchina e me ne
vado lasciandola qui. E le tolgo anche il sacchetto dalle
mani. Se lo faccio sono una donna cattiva, proprio cattiva.
Sono qui tutta bella ed elegante e la butto a ridere.
Davvero un comportamento meschino.»
«È tutto a posto» disse lui. «Non dovevo andare da
nessuna parte. Non si preoccupi.»
«Lei non mi invidia perché vado a una festa» disse. «Lo
so, Mr Miller.» Dopo un attimo allungò la mano e lo prese
per un polso. «Credo che la porterò con me» disse.
«Dove?» chiese lui.
«Non a quella festa per vecchi. La porto a casa mia.» Lo
tirò e lui la seguì lungo il marciapiede, oltre la macchina.
Lei aprì lo sportello, lo fece sedere, poi tornò indietro e si
sedette al volante. «Guido io» gli disse «perché conosco la
strada.» Accese il motore.
Al si sporse verso di lei e l’abbracciò.
«Sì» disse la donna. «Stasera sono proprio in forma.
Erano almeno quindici anni che non stavo così, credo.» Lo
attirò a sé, lo tenne contro la spalla e lo accarezzò. Poi
inserì la marcia e partì, tenendo il volante con la sinistra.
«È una bella cosa che questa macchina abbia la guida
automatica,» disse «sennò ci metterei poco a investire
qualcuno mentre cambio marcia.»
Ben presto raggiunsero strade che lui non aveva mai
visto prima. Strade che non conosceva.
«Fino a oggi non ho mai messo sotto nessuno» disse Mrs
Lane.
Dal catalogo Fanucci Editore

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Questo libro è stampato col sole

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Finito di stampare nel marzo 2012 presso


Grafica Veneta – via Malcanton, 2 – Trebaseleghe (PD)
Printed in Italy
Philip K. Dick nasce a Chicago il 16 dicembre 1928. Nel
1955 esce il suo primo romanzo, Lotteria dello spazio.
Durante un'esistenza segnata dalle difficoltà economiche,
scrive capolavori come La svastica sul sole, Ma gli androidi
sognano pecore elettriche?, da cui è tratto Biade Runner di
Ridley Scott, e Ubik. Negli anni Settanta esce la sua ultima
opera, La Trilogia di Valis, pubblicata da Fanucci Editore in
un unico volume. Muore il 2 marzo 1982. La notorietà di
Philip K. Dick deve molto agli adattamenti cinematografici,
tra cui Atto di forza (1990), Screamers – Urla dallo spazio
(1995), Impostor (2002), Minority Report (2002), Paycheck
(2003) e Un oscuro scrutare (2006). Nel 2008 è uscito il film
Next, con Nicholas Cage, tratto dal racconto The Golden
Man; mentre I guardiani del destino (2011) trae ispirazione
dal racconto Squadra riparazioni. Fanucci Editore pubblica
in esclusiva tutta la produzione di Philip K. Dick, considerato
uno dei più importanti autori della narrativa americana del
secondo dopoguerra.

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