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Lo stravagante mondo
di Mr Fergesson
romanzo
FANUCCI EDITORE
Dello stesso autore abbiamo già pubblicato:
Carlo Pagetti
Philip K. Dick
Lo stravagante mondo
di Mr Fergesson
1
È
«Te lo dico io» borbottò il vecchio. «È una vita
pidocchiosa lavorare in questo buco umido e pieno di
spifferi. Mi stupisco di non essere morto anni fa. Sarò ben
felice di andarmene da qui; mi merito un po’ di riposo.»
Julie disse, a braccia conserte: «Poteva includere una
clausola nel contratto di vendita per cui il nuovo
proprietario doveva continuare ad affittare quel pezzo di
terra a mio marito per la stessa somma.»
Il vecchio piegò la testa di lato e disse: «Be’, non lo so. È
una cosa di cui si deve occupare il mio agente; gli dirò di
farlo.»
La faccia di Julie era diventata rossa. Al l’aveva vista
poche volte così arrabbiata come adesso: le tremavano le
mani, ed era per questo che aveva incrociato le braccia. Le
stava nascondendo. «Mi ascolti bene» disse con voce quasi
stridula. «Perché non si limita a morire e a lasciare
l’autofficina ad Al? Insomma, non ha figli, non ha una
famiglia.» Poi tacque. Come se, pensò Al, si fosse resa
conto di aver detto qualcosa di brutto. Ed era brutto, pensò
Al. Era ingiusto. L’autofficina apparteneva al vecchio. Ma
ovviamente Julie non lo avrebbe mai ammesso; non si
sarebbe lasciata condizionare dai fatti.
«Andiamo» le disse Al. La prese per un braccio e la
allontanò con forza dal vecchio, che stava farfugliando
qualcosa in risposta, portandola verso l’uscita e la strada.
«Mi fa infuriare» disse lei mentre emergevano alla luce
del sole. «È proprio rimbambito.»
«Rimbambito un cavolo» disse Al. «È un vecchio in
gamba.»
«Come un animale» disse Julie. «Che se ne frega degli
altri.»
«Ha fatto molto per me» disse lui.
«Se vendessi tutte le macchine che hai,» chiese lei
«quanto ne ricaveresti?»
«Circa cinquecento dollari» rispose lui. In realtà un po’
di più.
«Posso tornare a lavorare a tempo pieno» disse Julie.
Al disse: «Cercherò in giro un altro posto.»
«Mi hai detto che non puoi farcela senza il suo aiuto»
disse sua moglie. «Hai detto che non hai abbastanza
capitale per comprare macchine da mettere in vendita
senza dover…»
«Mi accorderò con un’altra autofficina» disse Al.
Julie disse: «Questo per te è proprio il momento di
tornare all’università.» Si fermò e lo squadrò a muso duro.
Secondo lei Al aveva bisogno di una laurea. Doveva
frequentare altri tre anni – uno lo aveva già fatto
all’università della California – e allora sarebbe riuscito a
trovarsi quello che lei chiamava un buon lavoro. Doveva
essere una laurea in qualcosa di pratico: lei aveva scelto
Economia aziendale. Nel corso di quell’anno Al non aveva
ottenuto nessuna specializzazione, aveva seguito solo un
corso generale, un po’ di questo e un po’ di quello. Non gli
era piaciuto, così aveva smesso di andarci.
Per prima cosa non amava stare rinchiuso. Forse era per
questo che era stato attratto dalla vendita di auto usate:
poteva starsene all’aperto per tutto il giorno, al sole. E
naturalmente non aveva padroni. Poteva andare e venire a
suo piacimento, poteva aprire l’autosalone alle otto, alle
nove o alle dieci, andare a mangiare all’una, alle due o alle
tre. Stare fuori mezz’ora o un’ora, o magari pranzare
dentro una delle sue macchine.
Aveva costruito una casetta al centro del terreno,
ricavata da blocchetti di basalto. Aveva delle finestre di
alluminio acquistate a una vendita all’ingrosso; anzi, anche
tutti i fili li aveva acquistati all’ingrosso, così come il tetto e
tutti gli impianti. Era quasi una casa e lui la vedeva come
tale, una casa costruita con le sue mani, che gli
apparteneva, nella quale poteva andare quando ne aveva
voglia e restarci, invisibile, per tutto il tempo che gli
pareva. Ci aveva messo dentro una stufa elettrica, una
scrivania, un armadietto metallico; c’erano delle riviste da
leggere, e tutte le sue scartoffie. A volte c’era anche una
macchina da scrivere che prendeva in affitto per cinque
dollari al mese. Un tempo aveva avuto un telefono, ma
ormai era acqua passata.
Se si fosse trasferito, se avesse lasciato quel pezzo di
terra, si sarebbe portato via la casetta. Gli apparteneva, era
una sua proprietà personale, così come le macchine. Ma
diversamente dalle macchine non era in vendita. E c’era un
altro oggetto, anch’esso non in vendita e anch’esso di sua
proprietà, che lo avrebbe seguito. Come la casa che aveva
costruito. Nella parte posteriore del lotto, nascosta, c’era
una macchina alla quale lavorava da mesi. Ci si dedicava
ogni volta che aveva del tempo libero.
Era una Marmon del ’32. Sedici cilindri e quasi due
tonnellate e mezza di peso. Ai tempi in cui era in grado di
camminare poteva raggiungere i duecentocinquanta
chilometri l’ora. In effetti era stata una delle più belle
automobili costruite negli Stati Uniti, e nuova costava
cinquemila e cinquecento dollari.
Al si era imbattuto nella vecchia Marmon un anno
prima. Era tenuta in una rimessa ed era in condizioni
deplorevoli; dopo diverse settimane di trattative sul prezzo
era riuscito ad aggiudicarsela, insieme a due ruote di
scorta, per centocinquanta dollari. Da quanto sapeva in
fatto di macchine era convinto che la Marmon, una volta
rimessa completamente a posto, potesse valere fra i
duemilacinquecento e i tremila dollari. Perciò al momento
gli era sembrato un buon investimento. Ma era da un anno
che ci lavorava sopra e aveva tutt’altro che finito.
Un pomeriggio, mentre stava trafficando sulla Marmon,
aveva alzato gli occhi e aveva visto due uomini di colore
che lo osservavano. Erano molti i passanti di colore, e lui
vendeva automobili sia ai bianchi che ai negri.
«Salve» disse Al.
Uno dei due negri fece un cenno con la testa.
«Cos’è?» chiese l’altro.
«Una Marmon del ’32» rispose Al.
«Amico» disse il più alto dei due negri. Erano entrambi
giovani. Indossavano giacche sportive, camicie bianche
senza cravatta e pantaloni scuri. Sembravano ben messi.
Uno dei due, quello che aveva parlato, fumava una
sigaretta. «Ascolti» disse. «Magari porto mio padre a dare
un’occhiata. Gli piacerebbe essere alla guida di una
macchina del genere, quando se ne torna in Florida.»
L’altro negro disse: «Già, al suo vecchio piacciono
macchine come quella. Lo portiamo qui, vedrà.»
Al si alzò in piedi e disse: «Questa è una macchina per
collezionisti.» Poi si sforzò di spiegare loro che non era in
vendita, almeno non in termini a loro comprensibili. Non
era un mezzo di trasporto, spiegò, ma un prezioso retaggio
del passato, una di quelle superbe automobili da turismo di
un tempo; sotto certi aspetti la più bella di tutte. E mentre
parlava si accorse che in effetti loro capivano, capivano
benissimo. Era proprio ciò che il vecchio padre del negro
più alto voleva portarsi in Florida. E, ripensandoti, Al
riusciva a capire il loro punto di vista. Però quell’auto aveva
quasi trent’anni e non era in grado di camminare. Anzi, non
camminava più dalla Seconda guerra mondiale.
Il negro più alto disse: «Lei rimetta quell’auto in
condizione di camminare e forse noi l’acquisteremo.» Erano
entrambi molto seri, e annuirono più volte. «Quanto
vuole?» domandò il negro più alto. «Quanto chiede per
quella macchina, una volta che l’avrà rimessa di nuovo in
sesto?»
Al rispose: «Circa tremila dollari.» Ed era la pura verità.
Tanto valeva.
Nessuno dei due batté ciglio. «Ci sta bene» disse il più
alto, annuendo. Si scambiarono un’occhiata, sempre con
dei cenni del capo. «Era più o meno quanto ci aspettavamo
di pagare» disse il negro più alto. «Naturalmente non
paghiamo tutto insieme. Ci serviremo della nostra banca.»
«Proprio così» confermò l’altro. «Diciamo seicento in
contanti e il resto a rate.»
Subito dopo i due negri si congedarono, ripetendogli
che sarebbero tornati con il padre del negro più alto.
Naturalmente Al non si aspettava di rivederli, ma il giorno
dopo eccoli di nuovo lì. Stavolta c’era con loro un vecchio
negro basso e tarchiato con il panciotto, l’orologio
d’argento con la catena e scarpe nere luridissime. I due più
giovani gli fecero vedere la Marmon e gli spiegarono
sommariamente le condizioni proposte da Al. Dopo averci
riflettuto, il vecchio giunse alla conclusione che quella
macchina non faceva al caso suo, e per una ragione più che
logica. Era convinto che sarebbe stato un bel problema
trovare le gomme adatte, anche andandole a cercare lungo
l’autostrada, fra una città e l’altra. Perdo alla fine il vecchio
lo ringraziò in modo molto formale e rinunciò alla
macchina.
L’incontro era rimasto impresso nella mente di Al, forse
perché dopo quell’occasione aveva visto un bel po’ di negri
come loro. Facevano parte di una famiglia di nome Dolittle,
e il vecchio gentiluomo con il panciotto e l’orologio
d’argento con la catena era benestante. O quantomeno lo
era sua moglie. Mrs Dolittle era proprietaria di stanze e
appartamenti da affittare a Oakland. In parte si trovavano
in zone abitate da bianchi e lei affittava ai bianchi tramite
un amministratore. Al era venuto a saperlo dai due più
giovani e dopo un po’ era anche riuscito a procurarsi
attraverso di loro un appartamento migliore per sé e per
Julie. Adesso vivevano in un palazzo di legno a tre piani
ristrutturato sulla Cinquantaseiesima, dalle parti di San
Pablo: abitavano all’ultimo piano e gli costava solo
trentacinque dollari al mese.
I motivi di quel prezzo così basso erano due. Primo,
questo particolare palazzo si trovava in un sobborgo non
esclusivo, il che significava che al pianoterra c’era una
famiglia di negri e all’ultimo un ragazzo e una ragazza
messicani con il loro bambino. A loro non dava fastidio
abitare fianco a fianco con negri e messicani, ma era l’altro
motivo a creare qualche problema: l’impianto elettrico e
quello idraulico erano in condizioni così cattive che gli
ispettori del comune minacciavano sempre di dichiarare il
palazzo inagibile. A volte, per via di un cortocircuito, la
corrente mancava per diversi giorni. Quando Julie stirava, il
muro diventava così caldo da non poterlo toccare. Tutti i
residenti erano convinti che il palazzo sarebbe andato a
fuoco, ma quasi tutti erano fuori casa per gran parte della
giornata e sembravano fiduciosi che in virtù di quello
fossero in qualche modo al sicuro. Una volta il fondo
arrugginito dello scaldabagno si era crepato e l’acqua era
uscita fuori, bagnando i fornelli e schizzando su tutto il
pavimento, riducendo a mal partito buona parte dei tappeti
e dei mobili. Mrs Dolittle si era rifiutata di concedere loro
anche il minimo rimborso. Erano rimasti senza acqua calda
per quasi un mese fino a quando Mrs Dolittle non aveva
trovato un idraulico part time che aveva installato un altro
scaldabagno malandato per una decina di dollari. Quella
donna aveva un esercito di operai al suo servizio in grado di
rappezzare il palazzo quel tanto che bastava per non farlo
chiudere su due piedi dalle autorità cittadine: lo
mantenevano in funzione un giorno dopo l’altro. Al era
venuto a sapere che alla fine lei sperava di rivenderlo
perché fosse demolito. Era convinta che al suo posto ci
sarebbe stato benissimo un parcheggio, e dietro l’angolo
c’era un supermercato che sembrava interessato.
I Dolittle erano i primi negri di classe media con cui Al
fosse mai entrato in contatto o di cui avesse mai sentito
parlare. Possedevano più proprietà di chiunque altro avesse
mai conosciuto da quando si era trasferito nella zona della
Baia da St Helena, e Mrs Dolittle – che tirava di persona le
fila di tutti i suoi affari – era gretta e taccagna come
qualsiasi altro padrone di casa che Al avesse mai avuto.
Essere di colore non l’aveva resa più umana. Non faceva
discriminazioni razziali: trattava male tutti i suoi inquilini,
neri o bianchi che fossero. Mr McKeckney, il negro al
pianoterra, gli aveva detto che un tempo aveva fatto la
maestra. Di certo ne aveva l’aspetto: piccola, con gli
occhietti vispi e i capelli grigi, indossava sempre una gonna
lunga, cappello, guanti, calze nere e scarpe con i tacchi alti.
Gli dava regolarmente l’impressione di essere vestita per
andare a messa. Ogni tanto scoppiavano terribili
discussioni con altri inquilini del palazzo e la sua voce
stridula filtrava dalle assi del pavimento o giù dal soffitto, a
seconda di dove lei si trovasse. Julie ne aveva paura e
lasciava regolarmente che fosse Al a parlarci. Mrs Dolittle
non lo spaventava, ma gli offriva l’occasione di riflettere
sugli effetti che la proprietà aveva sull’animo umano.
Al contrario, i McKeckney non possedevano nulla.
Avevano un pianoforte in affitto e Mrs McKeckney, una
donna prossima alla sessantina, stava imparando a
suonarlo da un libro: Scuola di piano per principianti, di
John Thompson. A tarda sera Al sentiva il minuetto di
Boccherini ripetuto all’infinito, intenzionalmente, con la
stessa enfasi su tutte le note.
Durante il giorno Mr McKeckney se ne stava seduto
fuori, davanti al palazzo, su una cassa per le mele che
aveva dipinto di verde. In seguito qualcuno gli aveva
procurato una sedia, probabilmente il grosso commerciante
di mobili usati in fondo alla strada. Mr McKeckney sedeva
per ore, senza mai alzarsi, annuendo con la testa e
salutando tutti quelli che passavano. All’inizio Al era
rimasto sbalordito dalla capacità dei McKeckney di
sopravvivere economicamente: non gli risultava che
avessero alcuna fonte di reddito. Mr McKeckney non
lasciava mai la casa e anche se la moglie stava fuori per
gran parte del tempo era sempre per fare spese, andare a
trovare degli amici o svolgere dei servizi in chiesa. In
seguito però Al venne a sapere che i loro figli, dopo essere
cresciuti e aver lasciato la casa, si prendevano cura dei
genitori. Vivevano, gli aveva detto orgogliosamente Mr
McKeckney, con ottantacinque dollari al mese.
Il nipotino dei McKeckney, quando veniva a fare visita ai
nonni, giocava per conto suo sul marciapiede o nel pezzo di
terreno libero all’angolo. Non si univa mai alle bande di
ragazzini che abitavano nella zona. Si chiamava Earl. Non
faceva mai chiasso, e parlava pochissimo con gli adulti.
Appariva alle otto del mattino con i suoi pantaloni di lana e
il suo maglione, e un’espressione seria sul volto. Aveva la
carnagione molto chiara e Al pensò che avesse nelle vene
un bel po’ di sangue bianco. I McKeckney gli lasciavano
passare il tempo da solo e lui sembrava abbastanza
responsabile: si teneva lontano dalla strada e non dava mai
fuoco a niente, come invece facevano quasi tutti i ragazzi
del vicinato, bianchi, neri e messicani. In realtà sembrava
un palmo al di sopra di loro, quasi un aristocratico, e ogni
tanto Al si ritrovava a domandarsi che storia avesse alle
spalle.
Solo una volta sentì Earl alzare la voce per la rabbia.
Dall’altra parte della strada vivevano due ragazzi bianchi
dalla testa piccola e tonda, due bulletti con tanto tempo e
niente da fare. Avevano la stessa età di Earl. Quando gli
veniva voglia raccoglievano frutta acerba, bottiglie, pietre e
mucchi di terra e li lanciavano dalla parte opposta della
strada verso Earl che se ne stava tranquillo sul marciapiede
davanti casa. Un giorno Al li sentì strillare con le loro
vocette cattive: «Ehi, tua madre è proprio brutta.»
Lo ripeterono più volte, mentre Earl li guardava male
senza dire niente, con le mani cacciate in tasca e la faccia
che diventava sempre più seria. Alla fine tutte quelle
cattiverie lo fecero reagire.
Con voce forte e profonda gridò: «Attenti, ragazzini.
Attenti, voialtri ragazzini.»
Sembrò funzionare. I due ragazzi bianchi si dileguarono.
Ricordi e pensieri riempivano la mente di Al. Le persone
che venivano a visitare il suo autosalone, adolescenti
squattrinati, operai che avevano bisogno di un mezzo di
trasporto, giovani coppie; mentre se ne stava lì davanti
all’autofficina insieme a sua moglie pensava a loro e non a
quello che lei gli diceva. Adesso gli stava parlando del suo
lavoro di segretaria alla Western Carbon and Carbide, gli
stava ricordando il suo desiderio di licenziarsi in via
definitiva, un giorno o l’altro. E lui avrebbe dovuto
guadagnare un bel po’ di soldi per permetterle di farlo.
«… Ti nascondi dalla vita» concluse lei. «La guardi da
un buco minuscolo.»
«Può darsi» disse Al sentendosi avvilito.
«Sbattuto qui, in questo quartiere derelitto.» Gesticolò
in direzione delle piccole botteghe, del barbiere, del forno,
dell’agenzia di prestiti, del bar dall’altra parte della strada.
E verso l’ambulatorio, dalla cui insegna era sempre
turbata, in cui facevano irrigazioni del colon. «E non credo
di poter sopportare di vivere ancora a lungo in quel buco di
casa.» La voce le si era addolcita. «Ma non voglio metterti
pressione.»
«D’accordo» disse lui. «Magari quello che mi serve è
proprio un’irrigazione del colon» aggiunse. «Di qualunque
cosa si tratti.»
3
È
«Mi sta bene.» Fergesson si sentiva impaziente. «È un
lavorando infilarsi sotto le macchine.»
«Le piace quello che vede qui?»
«Sì» rispose lui.
«È una cosa proprio strana» disse Carmichael. «Forza,
torniamo indietro.» Aiutò Fergesson con un braccio e tutti e
due si diressero verso il fossato e il pendio. «La gente viene
fin qui, si fa tutta quella strada dalla città… Sanno che non
è finito, sanno che l’autostrada non c’è ancora, e che non ci
sono nemmeno le case, e quando arrivano qui si guardano
intorno e gli prende il mal di panda, come se… al diavolo.
Ma che vogliono, Cristo santo? Io lo vedo, questo posto:
basta saper guardare. Tempo due o tre anni e ci saranno
prati, mamme che allattano i figli, e bambini che
scorrazzano dappertutto. Che gli serve di più? Queste case
si assomigliano tutte… e con questo? Non si
assomiglieranno più quando ci andranno ad abitare. Sono
le persone che fanno sembrare diverse le case. Prenda uno
qualsiasi dei sei isolati di case vuote: fa paura. Poi ci
portano dentro i loro mobili, le tende…»
«Quante case ha venduto?» chiese Fergesson.
«Sei. Anzi sette. Ci sono altri venditori, giù in città.»
Attraversarono il fossato e si fermarono in modo che
Fergesson potesse riprendere fiato. «Ci sarà qualcun altro
oltre a lei?» gli chiese Carmichael.
«No.» Aveva il respiro pesante per lo sforzo della salita.
Quasi a scusarsi si voltò a guardare le case, per vederle
un’ultima volta prima di riprendere il cammino. «Posso
gestirla da solo, la parte finanziaria.»
«Ma dovrà assumere dei meccanici.»
«Sì» disse Fergesson.
«È sposato? Ha una famiglia?»
«Sì» disse lui.
Carmichael riprese a salire senza fatica la collinetta e
Fergesson lo seguì. Le sue scarpe affondavano nella melma
giallastra e l’erba alla quale si aggrappava in cerca di
sostegno gli scivolava fra le dita. Carmichael saliva dritto,
senza difficoltà, parlando lentamente.
«Sta a lei scegliere. Non c’è nessun motivo per cui non
dovrebbe funzionare. Hanno investito una fortuna in questo
posto e quanto all’autostrada è già tutto approvato. Hanno
previsto più o meno quando dovrebbero aver venduto la
maggior parte delle case. In ogni caso lei dovrebbe avere
un ritorno dal suo investimento fin dall’inizio, perché qui
intorno ci sono un sacco di altri lotti, molti dei quali già
finiti, e la gente sta cominciando a trasferirsi da Petaluma.
E nei fine settimana c’è un gran traffico di persone che
vanno al Russian River. Ha visto quante macchine ci sono
sulla 101. Questa è una zona piena di movimento, e lo
diventa sempre di più ogni giorno che passa. Che altro può
fare se non crescere?»
Jim Fergesson saliva con grande difficoltà. Davanti a lui
Carmichael continuava a parlare e lui si sforzava di
ascoltare. Aveva le mani umide e doloranti per i fili d’erba
che le irritavano. A un certo punto incespicò e cadde sul
terriccio umido; affondò le dita e annaspò, poi chiuse gli
occhi. Carmichael era giunto in cima e fece per proseguire,
ma si fermò quando vide che il vecchio era rimasto indietro.
Fergesson si tirò su e si arrampicò con tutta la forza che gli
era rimasta. Raggiunse anche lui la cima con altri tre passi.
Lì c’era un mucchio di putrelle d’acciaio e mentre si
avvicinava un piede gli si impigliò in un groviglio di erbacce
che era cresciuto intorno. Fece un passo avanti e il corpo
gli cedette. L’aria gli uscì in un rantolo e lui piombò
nell’oscurità, così all’improvviso che non riuscì a dire nulla.
Fu come se il suolo lo avesse attratto a sé. Si accasciò con
la faccia irrigidita, a braccia larghe; non sentì il terreno
venirgli incontro e non ebbe la sensazione di cadere. Un
momento prima si stava arrampicando faticosamente dietro
Carmichael, il momento dopo giaceva faccia a terra nella
fanghiglia.
Carmichael, che stava ancora parlando, mosse qualche
passo, poi esclamò: «Oh, cavolo!» e tornò indietro e si
chinò, con la placida faccia cavallina a un palmo dalla nuca
di Fergesson. Il vecchio avvertì la sua presenza e grugnì,
tentando di tirarsi su. Ma non ci riuscì, non aveva più
energia. Tutto ciò che poteva sentire era un ronzio lontano,
e anche se riconosceva la voce di Carmichael non riusciva a
coglierne davvero il suono.
Carmichael prese il vecchio per un braccio e cercò di
sollevarlo. Tirò con entrambe le mani, ma Fergesson non si
mosse; non riusciva a smuoverlo e il vecchio avvertiva il
proprio peso inerte, quasi morto, schiacciato al suolo dal
terreno magnetico. Si sentiva come imprigionato e non
poteva fare o dire nulla: poteva solo aspettare. Sperò che
Carmichael avesse una risposta pronta.
«Ehi» disse Carmichael ad alcuni operai al lavoro lungo
il pendio. «Datemi una mano.»
Gli operai accorsero subito. Fergesson non provava
intontimento o paura; solo un senso di fastidio allo
stomaco, e il petto cominciava a dolergli. Poteva tracciare
con gli occhi della mente il profilo di quelle putrelle. Erano
sotto di lui. La pressione divenne dolore e lui trasalì.
«Che è successo?» chiese un operaio.
«È caduto» rispose Carmichael. Aiutarono il vecchio a
rimettersi in piedi e lo sostennero perché non cadesse.
Fergesson si ritrovò in posizione eretta, sgocciolando
melma ed erbacce intrise d’acqua. Però sentiva ancora
quella pressione sul petto: sollevò la mano e se la passò
istintivamente sulla faccia: gli sembrò gonfia e bagnata,
come se stesse sanguinando.
«Grazie» disse Carmichael; gli operai se ne andarono.
«Ehi» disse poi a Fergesson. «Ha fatto proprio un bel
capitombolo.»
Fergesson annuì. La fitta al petto lo intontiva. Si toccò
con le dita irrigidite, ma non sentì niente. E poi non
riusciva nemmeno a parlare. Adesso sì che aveva paura.
«Andiamo in ufficio» disse Carmichael. Gli pose una
mano sulla spalla e lo accompagnò verso la baracca con il
tetto catramato. «Che ne direbbe di una tazza di caffè?»
«No» disse Fergesson. La sua voce gli sembrò
lontanissima da lui, e discordante. Come se si stesse
ascoltando attraverso un cavo telefonico. «Devo tornare a
casa.»
«Vuole rimettersi alla guida?»
Fergesson fece cenno di sì e Carmichael lo accompagnò
fino alla Pontiac parcheggiata. Gli aprì lo sportello e il
vecchio sedette al volante. Si appoggiò allo schienale e
respirò a grandi boccate. L’aria gli ferì la gola, come se
anch’essa si fosse irritata per via della caduta. Si tenne la
mano contro il petto e spinse.
«Come si sente?» gli chiese Carmichael.
Lui fece un cenno di assenso con la testa.
«Stia attento alla terra bagnata, è pericolosa.»
«Sì» disse Fergesson. La testa cominciava a schiarirsi e
lui ci vedeva già meglio. Però si sentiva ancora dolorante, al
punto di convincersi di avere subito qualche lesione
interna. Tremava ed era spaventato: desiderava solo che
Carmichael se ne andasse. Voleva tornare a Oakland.
Carmichael, appoggiato allo sportello, parlava a ruota
libera, continuando la sua discussione come se non fosse
successo niente. La sua calma olimpica non si era
minimamente incrinata: il vecchio era caduto e lui aveva
fatto in modo che si rimettesse in piedi. Fergesson,
appoggiato al sedile, sudava e stava pensando al viaggio di
ritorno. Era sicuro di potercela fare; se necessario poteva
anche fermarsi ogni tanto. Voleva andarsene subito, così
aprì gli occhi e lo interruppe. «Grazie, Mr Carmichael. Ci
vediamo.» Girò la chiave con la destra e affondò il piede
sull’acceleratore. Il motore salì di giri.
«Aspetti» disse Carmichael. «Le do il mio biglietto da
visita.»
Fergesson accettò il biglietto e se lo infilò in tasca. La
macchina avanzò di un metro, accompagnata da
Carmichael. Fergesson guardò attraverso il parabrezza e
sbatte le palpebre mentre il sudore gli scendeva attraverso
le sopracciglia fin dentro gli occhi. Il dolore era più intenso,
più sordo. Lo sentì localizzato nel cuore e improvvisamente
si rese conto di avere avuto un attacco cardiaco: non grave,
un piccolo infarto, dovuto alla salita e all’eccitazione.
«Arrivederci» disse. Si avviò lungo la strada, annuendo
all’unisono con il movimento della macchina.
«Ci vediamo, Jim» disse Carmichael, già lontano dalla
visuale di Fergesson. Il suono della sua voce scemò.
Fergesson guidava con le mani strette sul volante. Quando
ebbe percorso quasi due chilometri rallentò e tornò ad
appoggiarsi allo schienale, cercando di mettersi comodo. Il
dolore sembrava meno intenso, adesso, e lui ne fu contento.
Quando riuscì a ritrovare l’autostrada era già in grado
di stare seduto in posizione eretta. Il dolore, una specie di
crampo, scemava sempre più. Tremando, inserì per la
prima volta una marcia alta. Il rombo del motore diminuì.
Era ancora spaventato e mentre guidava canticchiava
fra sé: «Bum bum. Bum bum.» Non significava niente, e lui
non aveva mai pronunciato suoni del genere; li ripete con le
labbra, più volte, come se fossero importanti. «Bum bum.»
Gli si aprì il cuore quando vide San Rafael sui due lati della
strada, perché significava che di lì a poco avrebbe
raggiunto il ponte e sarebbe rientrato nella zona orientale
della Baia. «Bum bum.» si disse ancora, cogliendo l’eco
della propria voce. Guadagnò velocità e lo disse più forte. Il
sole, a metà giornata, era molto caldo e il sudore gli
sgocciolava lungo le guance e giù per il collo. Aveva il
vestito appiccicato addosso e quando si muoveva sentiva
sulla pelle la tessitura vischiosa della stoffa. Forse, pensò,
quelle travi metalliche gli avevano squarciato il petto.
7
Collezione Ventesima
Azienda carbon-free