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Il libro

S L S .Q
musicisti squa rinati si trovano per caso riuniti in un gruppo da un
talent scout, per sostituire una band famosa che si è sciolta. Jasper alla
chitarra, Griff alla ba eria, Dean al basso e Elf, unica ragazza, alle tastiere
decidono di suonare insieme, sono bravi, scrivono le loro canzoni e – dopo
un esordio piu osto confuso – entrano in sintonia. E se all’inizio si chiamano
Way Out (visto che hanno salvato una serata buca), ben presto decidono di
cambiare nome: saranno gli Utopia Avenue. Mentre le loro vite personali si
complicano – Dean si me e nei guai con donne altrui e droghe psichedeliche,
Jasper sembra rivivere vite passate, in particolare quella del suo avo Jakob de
Zoet, Elf si perde in storie con uomini pessimi e scrive canzoni bellissime;
l’unico che sembra solido è Griff, naturalmente – la loro carriera prende il
volo, in una scena musicale straordinaria. Gli Utopia Avenue incontreranno i
più grandi musicisti della storia, da Dylan a Cohen, dai Beatles a Bowie,
mentre il mondo cambia per sempre. E da Londra, la band parte alla
conquista dell’America. Da New York alla West Coast, tra feste pazze e un
mare di soldi, i qua ro ragazzi britannici sono in piena corsa. Mentre il
grande orologiaio conta il ticche io del tempo.
La storia degli Utopia Avenue, tra musica e scelte personali, è l’ossatura
portante di un grande affresco degli anni Sessanta, un libro travolgente e
pieno di storie, che generosamente riporta in vita lo spirito di un tempo:
selvaggio, appassionato, pieno di speranze. Un mondo nuovo.
L’autore

DAVID MITCHELL è nato nel 1969 a Southport, nel Lancashire, è laureato in


Le eratura inglese e americana e ha conseguito un ulteriore diploma in
Le eratura comparata mentre lavorava in una libreria di Canterbury. Ha
vissuto in Giappone, insegnando inglese, dal 1994 al 2003, quando si è
trasferito in Irlanda con la moglie e i figli, e ora si dedica a tempo pieno alla
scri ura. Con i suoi romanzi ha vinto numerosi premi ed è stato finalista del
Booker Prize. Da L’atlante delle nuvole è tra o il kolossal delle sorelle
Wachowski, Cloud Atlas.
Facebook: davidmitchellbooks
Twi er: @david_mitchell
David Mitchell

UTOPIA AVENUE
Traduzione di Christian Pastore
A Beryl e Nic
per i pe irossi e per gli anni
Paradise Is the Road to Paradise a Lato A

1. Abandon Hope (Moss)


2. A Raft and a River (Holloway)
3. Darkroom (De Zoet)
4. Smithereens (Moss)
5. Mona Lisa Sings the Blues(Holloway)

a. Il paradiso è la strada per il paradiso.


Abandon Hope a

Dean supera in fre a il Phoenix Theatre, schiva un cieco con gli


occhiali scuri, sbuca in Charing Cross Road, oltrepassa una donna
con un passeggino che cammina piano, evita con un salto una
pozzanghera sudicia, svolta in Denmark Street e scivola su una
spessa lastra di ghiaccio. Vola gambe all’aria. Resta sospeso
abbastanza a lungo da vedere cielo e canale di scolo scambiarsi di
posto. Farà un male cane, pensa un a imo prima di sba ere costole,
ginocchio e caviglia contro il marciapiede. Già, fa un male cane.
Nessuno si ferma ad aiutarlo. Malede a Londra. Un tipo con baffi,
bombe a e l’aspe o di un agente di borsa ridacchia di fronte alla
sfortuna del giovinastro capellone, poi passa oltre. Dean si rime e in
piedi, cauto, senza dar peso al dolore pulsante, pregando che non ci
sia niente di ro o. Il signor Craxi non paga la mala ia. Polsi e mani
funzionano ancora, se non altro. I soldi. Controlla che il libre o di
risparmio con il suo prezioso carico, dieci banconote da cinque
sterline, sia al sicuro nella tasca del giaccone. Tu o a posto. Procede
zoppicando. Dietro la vetrina del Gioconda Café, dall’altra parte della
strada, se ne sta seduto Rick «Buona la Prima» Wakeman. Gli
piacerebbe unirsi a lui per un tè, una sigare a, due chiacchiere sul
lavoro da turnista, ma è venerdì ma ina, deve pagare l’affi o e la
signora Nevi lo sta aspe ando nel suo salo ino come un gigantesco
ragno. Questa se imana Dean ce l’ha fa a per un pelo, anche per i
suoi standard. Il bonifico di Ray è arrivato il giorno prima, per
incassarlo gli è toccata una coda di quaranta minuti, quindi tira
dri o. Supera la Lynch & Lupton’s Music Publishers, dove il signor
Lynch gli ha comunicato che tu e le sue canzoni fanno schifo, a
parte un paio passabili. Supera poi la Alf Cummings Music
Management, dove Alf Cummings, appoggiandogli la mano
g g pp gg g
grassoccia all’interno della coscia gli ha sussurrato: «Quello che
posso fare io per te lo sappiamo tu i e due, splendido bastardo. La
domanda è piu osto: cosa farai tu per me?» Supera poi i Fungus Hut
Studios, dove avrebbe dovuto registrare un demo con i Ba leship
Potemkin prima che la band lo cacciasse.
«Aiuto, per favore…» Un tizio paonazzo lo afferra per il bavero.
«Sto…» Si piega in due in preda al dolore. «Mi sento morire…»
«D’accordo amico, siediti qui, sul gradino. Dov’è che ti fa male?»
L’uomo schizza saliva dalla bocca storta. «Il… pe o.»
«Va tu o bene. Allora vediamo, adesso… cerchiamo aiuto.» Dean
si dà un’occhiata intorno, ma la gente gli sfreccia accanto guardando
altrove con i baveri alzati e i cappelli abbassati.
Piagnucolando, l’uomo si aggrappa a Dean. «Ahiii.»
«Mi sa che hai bisogno di un’ambulanza, quindi…»
«Qual è il problema?» Il nuovo arrivato ha l’età di Dean, capelli
corti, e indossa un comodo montgomery. Allenta la crava a
all’uomo collassato e lo fissa negli occhi. «Mi chiamo Hopkins. Sono
un medico. Mi faccia un cenno se capisce.»
Dopo una smorfia, l’uomo annaspa e alla fine un cenno d’assenso
riesce a farlo, uno solo.
«Bene.» Hopkins si rivolge a Dean: «Quest’uomo è tuo padre?»
«Macché, mai visto prima. Dice che gli fa male il pe o.»
«Il pe o, eh?» Hopkins si sfila un guanto e preme la mano contro
una vena sul collo dell’uomo. «Ha una forte aritmia. Può sentirmi,
signore? Credo sia un infarto.»
L’uomo strabuzza gli occhi, ma una nuova fi a di dolore glieli fa
chiudere di sca o.
«In quel bar c’è un telefono», dice Dean. «Vado a chiamare il nove-
nove-nove.»
«Non arriveranno mai in tempo», dice Hopkins. «In Charing
Cross Road c’è un traffico infernale. Non è che conosci Frith Street?»
«La conosco, sì… e so di una clinica dalle parti di Soho Square.»
«Esa o. Corri là più veloce che puoi, digli che un tizio ha avuto
un infarto in Denmark Street, davanti alla tabaccheria, e che il do or
Hopkins ha bisogno di barellieri, subito. Hai capito bene?»
Hopkins, Denmark Street, barellieri. «Ho capito, sì.»
p p
«Bravo. Io resterò qui ad assisterlo per quanto mi è possibile.
Adesso va’, corri come una lepre. Questo povero diavolo dipende da
te.»

Dean a raversa Charing Cross Road, imbocca Mane e Street, si


lascia alle spalle la libreria Foyles e il breve vicolo accanto al pub
Pillars of Hercules. Il suo corpo si è già dimenticato del male che poco
prima si è fa o cadendo. In Greek Street supera alcuni ne urbini che
ribaltano i bidoni in un camion della spazzatura, si lancia in mezzo
alla strada in direzione di Soho Square, fa volare via per lo spavento
un nugolo di piccioni, mentre svolta in Frith Street rischia di finire
una seconda volta gambe all’aria, infine sale i gradini della clinica e
raggiunge l’acce azione. Lì un custode sta leggendo il Daily Mirror.
MORTO DONALD CAMPBELL , annuncia la prima pagina. Dean, senza
fiato, sputa il messaggio: «Mi manda il do or Hopkins… Un infarto
in Denmark Street… Ha bisogno di barellieri, subito…»
Il custode abbassa il giornale. A accate ai baffi ha delle briciole di
sfoglia. Non sembra allarmato.
«Un uomo sta morendo», precisa Dean. «Mi sente?»
«Certo che ti sento. Mi stai urlando in faccia.»
«E allora mandi qualcuno in soccorso! Questo è un cavolo di
ospedale, no?»
Il custode sospira fra sé e sé, a fondo e intensamente. «Dimmi un
po’. Non è che prima di incontrare questo ‘do or Hopkins’ hai
ritirato una discreta somma in banca?»
«Sì, cinquanta sterline. Perché?»
Il custode si leva via alcune briciole dal colle o. «E questi soldi,
figliolo, ce li hai ancora, sì?»
«Ce li ho qui.» Dean si fruga nel giaccone in cerca del libre o di
risparmio. Non c’è. No, deve esserci. Prova a controllare le altre tasche.
Una barella cigola nei paraggi. Un bambino sta strillando a
squarciagola. «Merda. Deve essermi caduto per strada mentre
venivo qui…»
«Mi spiace, figliolo. Ti hanno fregato.»
A Dean torna in mente l’uomo che gli si è accasciato addosso…
«No. Non può essere. Era davvero un infarto. Quello non ce la
faceva quasi a stare in piedi.» Si controlla di nuovo le tasche. I soldi
continuano a non esserci.
«È una magra consolazione», dice il custode, «ma sappi che da
novembre sei il quinto. Si è sparsa la voce. A Londra tu i gli
ospedali e gli ambulatori del centro hanno smesso di mandare
barellieri per un certo ‘Hopkins’. È del tu o inutile. Ad aspe arli
non c’è mai nessuno.»
«Ma quelli…» Dean si sente male. «Quelli…»
«Stai per dirmi che non sembravano borsaioli?»
Dean stava per dirlo, in effe i. «Come facevano a sapere che
avevo soldi addosso?»
«Tu come ti regoleresti se fossi a caccia di un bel portafoglio
gonfio?»
Dean ci rifle e. La banca. «Mi hanno visto ritirare il denaro. Poi mi
hanno seguito.»
Il custode addenta un sausage roll. «Centro al primo colpo,
Sherlock.»
«Ma… la maggior parte di quei soldi mi servivano per la chitarra,
e…» Dean si ricorda della signora Nevi . «Cazzo! Il resto era per
l’affi o. Come lo pago adesso?»
«Puoi andare alla polizia e sporgere denuncia, ma non contarci
troppo. Per gli sbirri, Soho è circondata da cartelli con su scri o:
LASCIATE OGNI SPERANZA O VOI CHE ENTRATE .»
«La mia padrona di casa è una schifosa nazista. Mi sba erà fuori.»
L’adde o tira una sorsata del suo tè. «Dille che hai perso i soldi
mentre cercavi di fare il buon samaritano. Magari avrà pietà di te,
chi può dirlo?»

La signora Nevi è seduta accanto alla sua alta finestra. Il


salo ino puzza di lardo e umidità. Il camine o sembrerebbe
sigillato. Il libro mastro è aperto sullo scri oio. I suoi ferri da maglia
ticche ano, sbatacchiano. Appeso al soffi o, c’è un lampadario
perennemente spento e i motivi della carta da parati, un tempo
floreali, sono stati risucchiati in una selva oscura. Le foto dei tre
mariti defunti incombono minacciosi dalle cornici dorate.
«Buongiorno, signora Nevi .»
«È ancora giorno solo per un pelo, signor Moss.»
«Già, be’…» A Dean si è di colpo seccata la gola. «Mi hanno
derubato.»
Lo sferruzzare s’interrompe. «Una vera sfortuna.»
«Eccome se lo è. Avevo recuperato i soldi per l’affi o, ma due
ladruncoli me li hanno fregati in Denmark Street. Devono avermi
visto prelevare in banca e mi hanno pedinato. Una rapina alla luce
del sole. Le eralmente.»
«Accidenti accidentaccio. Che razza di sventura.»
Crede che stia cercando di farla su, pensa Dean.
«È un vero peccato», prosegue la signora Nevi , «che lei non
abbia tenuto duro da Bre on’s, alla stamperia reale. Era un lavoro
come si deve e in una zona rispe abile della ci à. Niente ‘scippi’ a
Mayfair.»
Il lavoro da Bre on’s era una stronzata da schiavisti, considera
Dean. «Come le ho già de o, signora Nevi , da Bre on’s non ha
funzionato.»
«Questo non è un problema mio, senza dubbio. Il mio problema è
l’affi o. Devo dedurre che voglia più tempo per pagare?»
Dean si rilassa almeno un po’. «Sinceramente, gliene sarei
davvero grato.»
La bocca della donna si contrae, le narici si dilatano. «Allora, per
stavolta e solo per stavolta, prolungherò la scadenza per il
pagamento del suo affi o…»
«Grazie, signora Nevi . Non so dirle quanto…»
«Fino alle due del pomeriggio. E non si dica che sono
irragionevole.»
La vecchia vacca mi sta prendendo in giro? «Le due del pomeriggio…
di oggi?»
«Ha tempo in abbondanza per raggiungere la sua banca e tornare
qui, non ci piove. Stavolta veda di non sventolare il denaro quando
esce, però.»
Dean sente caldo, freddo, ha il voltastomaco. «Il fa o è che ora
come ora il mio conto è a secco. Però verrò pagato lunedì, e quel
giorno le darò tu o.»
La proprietaria tira una corda che pende dal soffi o e prende un
cartello dal suo scri oio: AFFITTASI MONOLOCALE – ASTENERSI NERI E
IRLANDESI – RIVOLGERSI ALL’INTERNO .
«Non lo faccia, signora Nevi . Non ce n’è bisogno.»
La proprietaria a acca il cartello alla finestra.
«E io dove dormo stano e?»
«Dove le pare. Non qui però.»
Prima niente soldi, adesso niente stanza. «Avrò bisogno della mia
caparra.»
«Gli affi uari inadempienti perdono la caparra. Il regolamento è
appiccicato su tu e le porte. Non le devo un centesimo.»
«Quei soldi sono miei, signora Nevi .»
«Non secondo il contra o che ha firmato.»
«Lei avrà un nuovo inquilino entro martedì o mercoledì. Al
massimo. Non può tenersi la mia caparra, è un furto.»
La signora Nevi si rime e a sferruzzare. «Sa, fin dall’inizio ho
avuto il sentore che lei avesse qualcosa del furfante cockney. Però mi
sono de a: ‘No, dagli una possibilità. Gli stampatori di Sua Maestà,
dopotu o, in questo giovane hanno visto un potenziale’. Quindi lei
ha avuto la sua possibilità. E cos’è successo? Ha abbandonato
Bre on’s per una ‘pop band’. Si è fa o crescere i capelli come una
ragazza. Ha speso il suo denaro in chitarre e Dio sa cosa, e così non
le è rimasto nulla per i giorni di magra. E adesso accusa me di furto.
Be’, questo mi insegnerà a non fidarmi troppo delle mie deduzioni.
Ciò che nasce nelle fogne, resta nelle fogne. Ah, signor Harris…» Lo
scagnozzo della signora Nevi che vive lì, un ex militare, è comparso
sulla soglia del salo ino. «Questo…» La proprietaria guarda Dean:
«Questa persona se ne sta andando. All’istante».
«Chiavi», dice Harris a Dean. «Tu e e due.»
«E la mia roba? Vuole rubarmi anche quella?»
«Se la prenda, la sua ‘roba’», dice la signora Nevi . «Che
liberazione. Tu o quello che sarà ancora nella sua stanza alle due,
alle tre si troverà nei magazzini dell’Esercito della Salvezza. Ora
via.»
«Dio onnipotente», borbo a Dean. «Spero che lei crepi presto,
maledizione.»
La signora Nevi non gli dà re a. I suoi ferri da maglia
continuano con il loro clic clac. Harris lo agguanta per la collo ola e
lo trascina via.
Dean riesce a malapena a respirare. «Così mi strozzi, sacco di
merda!»
L’ex sergente Harris spinge Dean nel corridoio. «Fila in camera
tua, fai i bagagli e va ene. Se no, altro che strozzarti, razza di
finocchio lavativo…»

Il mio lavoro almeno ce l’ho ancora. Dean pigia il caffè nel portafiltro,
lo inserisce nella macchine a, abbassa la leve a e la Gaggia sbuffa
vapore. Il turno di o o ore si trascina stancamente, si sente tu o
ammaccato per lo scivolone in Denmark Street. È sera, fuori si gela,
ma il bar Etna, all’incrocio fra D’Arblay e Berwick Street, è caldo, ben
illuminato, pieno di vita. Studenti e ragazzi di periferia parlano,
amoreggiano, litigano. È lì che si ritrovano i mod prima di iniziare a
ba ere i locali per strafarsi e ballare. Uomini maturi in ghingheri
adocchiano le fanciulle con la pelle liscia in cerca di un paparino.
Uomini maturi meno in ghingheri si fermano per un caffè, prima di
fare un salto al cinema a luci rosse o in un bordello. Devono esserci
più di un centinaio di persone stipate qui dentro, considera Dean, e
ognuno di questi tizi stasera ha un le o in cui dormire. Da che ha
iniziato il turno, ha sperato che entrasse qualche conoscente che gli
deve un favore, così da potergli scroccare il divano. Con il passare
delle ore, però, la speranza si è fa a sempre più flebile fino a
sfumare del tu o. Dal jukebox risuona a tu o volume «19th Nervous
Breakdown» dei Rolling Stones. Quando le cose erano più semplici,
ai tempi dei Gravediggers, Dean aveva trovato gli accordi di quella
canzone insieme a Kenny Yearwood. Dal beccuccio della Gaggia il
caffè cola fino a riempire per due terzi la tazzina. Dean sgancia il
portafiltro e vuota il fondo in una vasche a. Il signor Craxi gli passa
davanti con un vassoio pieno di pia i sporchi. Chiedigli di pagarti in
p p p g p g
anticipo, pensa per la cinquantesima volta. Non hai scelta. «Signor
Craxi, scusi, posso…»
Craxi si guarda in giro senza fare caso a lui: «Pru, dai una pulita ai
tavoli davanti, dannazione, sono una veggogna!» Subito dopo riparte
e dietro il punto in cui stava, fra il dispenser di la e freddo e la
macchina del caffè, Dean nota un cliente seduto al bancone. Sulla
trentina, stempiato, il tipo dell’intelle uale, con una giacca pied-de-
poule e occhiali re angolari alla moda dalle lenti blu. Facile che sia
una checca, ma a Soho non si sa mai.
Il cliente solleva lo sguardo da una rivista, Record Weekly, e senza
alcun imbarazzo lo guarda dri o negli occhi. Aggro a la fronte
come se cercasse di farsi venire in mente dove l’ha già visto. Se
fossero in un pub, Dean gli chiederebbe che cos’ha da guardare. Lì
all’Etna, invece, si volta dall’altra parte e sciacqua il portafiltro so o
l’acqua fredda, senza sme ere di sentirsi addosso gli occhi del
cliente. Magari crede di piacermi.
Sharon arriva con un nuovo ordine su un foglie o. «Due caffè e
due Coche al tavolo nove.»
«Due caffè e due Coche, tavolo nove, ricevuto.» Dean si volta
verso la Gaggia, gira la manopola e la schiuma si adagia sul
cappuccino. Sharon lo raggiunge dietro il bancone per riempire una
zuccheriera. «Mi spiace che tu non possa dormire sul mio
pavimento, davvero.»
«Tranquilla», Dean sparge il cacao sul cappuccino e lo appoggia
sul bancone per Pru. «Sono stato sfacciato a chiedertelo, lo
amme o.»
«La mia padrona di casa è per metà un agente del KGB e per metà
una madre superiora. Se provassi a farti entrare di nascosto, ce la
ritroveremmo davanti di colpo e direbbe: ‘Questa è una casa
rispe abile, non un bordello!’ Poi mi sba erebbe fuori.»
Dean carica il portafiltro per un nuovo espresso. «Non c’è
problema, davvero.»
«Non avrai intenzione di dormire so o i portici, no?»
«No, certo che no. Ho diversi amici, lo chiederò a loro.»
Sharon s’illumina. «In questo caso», dice dondolando i fianchi,
«mi fa piacere che tu l’abbia chiesto prima a me. Se c’è qualcosa che
p p q
posso fare, sono qui.»
Dean non è a ra o da questa ragazza, tenera sì ma grassoccia,
con la faccia da patatona e gli occhi minuscoli troppo vicini. Tu avia,
in amore e in guerra tu o è lecito. «Non è che potresti allungarmi
qualche spicciolo fino a lunedì? Sarebbe solo fino a quando mi
pagano.»
Sharon tentenna. «Fai che ne valga la pena, okay?»
To’, guarda che cive a. Dean sfodera il suo mezzo sorriso e stappa
una bo iglia di Coca-Cola. «Lascia che mi rime a in piedi e ti
pagherò con un tasso d’interesse scandaloso.»
Lei arrossisce e lui si sente quasi in colpa per quanto è stato facile.
«In borsa devo avere qualche soldo. Ricordati di me, però, quando
sarai una pop star milionaria.»
«Il tavolo quindici è lì che aspe a!» urla il signor Craxi con il suo
accento a metà fra il cockney e il siciliano. «Tre cioccolate calde!
Muovetevi sfaticati!»
«Tre cioccolate calde», gli fa eco Dean. Sharon scivola via con la
zuccheriera e Pru arriva al bancone per portare al volo il cappuccino
al tavolo o o. Dean infilza il foglie o dell’ordinazione insieme agli
altri. Lo spillone è quasi pieno, Craxi dovrebbe essere di buon
umore. Se non lo è, sono bell’e che fregato. Inizia a preparare i caffè per
il tavolo nove. «Sunshine Superman» di Donovan sostituisce il pezzo
degli Stones. Il vapore esce sibilando dalla Gaggia. Si domanda che
cosa intendesse Sharon con «qualche soldo». Non abbastanza per un
hotel, questo è certo. Ci sarebbe l’ostello in To enham Court Road,
ma non ha la minima idea se abbiano le i liberi e non riuscirebbe ad
arrivarci prima delle dieci e mezzo. Per l’ennesima volta passa al
setaccio la lista dei londinesi che a) potrebbero dargli una mano, b)
possiedono un telefono.
La metropolitana chiude intorno a mezzano e, dunque se si
presentasse con chitarra e sacco a pelo davanti a una porta di Brixton
o di Hammersmith e se nessuno fosse in casa, si ritroverebbe
bloccato là. Prende addiri ura in considerazione i suoi vecchi
compagni dei Ba leship Potemkin, anche se certi conta i sospe a di
esserseli bruciati per sempre.
Dean guarda il cliente con gli occhiali blu. Ha abbandonato la
rivista per un libro: Senza un soldo a Parigi e Londra. Dean si chiede se
non sia un beatnik. Alla scuola d’arte, alcuni ragazzi si a eggiavano
a poeti beat. Fumavano Gauloises, parlavano di esistenzialismo e
gironzolavano con quotidiani francesi.
«Ehi, Clapton.» Pru ha un dono per i nomignoli. «Stai aspe ando
che le cioccolate si facciano da sole?»
«Clapton è una chitarra solista», le spiega per la centesima volta.
«Io sono un bassista, cazzo.» Dean nota che Pru sembra compiaciuta.

Il cortile o dietro la cucina dell’Etna è un pozzo di nebbia


incrostato di fuliggine, c’è spazio solo per i bidoni e poco altro. Dean
osserva un ra o arrampicarsi sul pluviale della grondaia, dire o
verso il riquadro scuro di una nube no urna. Aspira un’ultima
boccata di fumo dalla sua ultima Dunhill. Sono le dieci passate e lui
e Sharon hanno finito il turno. Dopo avergli allungato o o scellini,
lei se n’è già andata a casa. Se tu o dovesse finire in niente, ci comprerò
un biglie o del treno per Gravesend. A raverso la porta della cucina,
sente Craxi parlo are in italiano con l’ultimo nipote arrivato fresco
dalla Sicilia. Il ragazzo parla poco o nulla di inglese, del resto non ha
bisogno dell’inglese per preparare i mastelli di ragù da scucchiaiare
sugli spaghe i, l’unico pia o servito all’Etna.
Ecco comparire il signor Craxi. «Allora, Moss, volevi fare due
chiacchiere.»
Dean spegne la sigare a sul lastricato. Il capo ci fa caso.
Mannaggia. Raccoglie il mozzicone. «Scusi.»
«Allora che vuoi? Non ho mica tu a la no e.»
«Non è che potrebbe pagarmi adesso?»
«Pagarti adesso?» Il signor Craxi si assicura di aver sentito bene.
«Già. Lo stipendio. Stasera. Adesso. Per favore.»
Il signor Craxi sembra sconcertato. «Ma il giorno di paga è
lunedì.»
«Lo so, ma, come le ho de o prima, sono stato derubato.»
La vita e Londra avevano reso Craxi diffidente. O magari è così
dalla nascita.
«Una bella sfortuna. Io comunque pago il lunedì.»
q p g
«Non glielo chiederei se non fossi disperato. Non ho potuto
pagare l’affi o e la padrona di casa mi ha sba uto fuori. Per questo
ho sistemato il sacco a pelo e la chitarra nell’armadie o del
personale.»
«Ah. Credevo andassi in vacanza.»
Dean fa un sorriso di circostanza, casomai fosse una ba uta.
«Magari. No, però, ho seriamente bisogno della paga. Per un le o
all’ostello o qualcosa del genere.»
Il signor Craxi sembra rifle erci. «Sei nella merda, Moss, ma è tua
la merda che ti ha smerdato. Io lo stipendio lo pago il lunedì.»
«Non può allungarmi almeno un paio di sterline?»
«Hai la chitarra. Vai al banco dei pegni.»
Come cavare sangue da una rapa. «Prima di tu o, di quella chitarra
non ho pagato l’ultima rata, quindi non è mia e non posso venderla.
I soldi che si sono presi i ladri erano per quella.»
«Mi hai de o che ti servivano per pagare l’affi o.»
«Un po’ erano per l’affi o, ma la maggior parte per la chitarra.
Secondo, è venerdì sera, sono le dieci passate e i banchi dei pegni
sono chiusi.»
«Non sono la tua banca. La paga è il lunedì. Fine della storia.»
«Ma come faccio a essere qui lunedì, se dopo aver dormito il fine
se imana a Hyde Park mi becco una polmonite doppia?»
Una guancia del signor Craxi si contrae. «Non ci sarai lunedì?
Bene, non ti pago un cazzo. Ti do il benservito e basta, chiaro?»
«Si può sapere che differenza fa se mi paga adesso o lunedì?
Neanche lavoro, io, questo fine se imana!»
Craxi incrocia le braccia. «Sei licenziato, Moss.»
«Ma che cazzo, no! Non può farmi questo, maledizione.»
Un dito tozzo penetra nel plesso solare di Dean. «È semplice. Hai
chiuso. Sloggia.»
«No.» Prima i soldi, poi la casa e adesso il lavoro. «No. No.»
Dean si leva di dosso il dito di Craxi. «Mi deve cinque giorni di
paga.»
«Dimostralo. Fammi causa. Trovati un avvocato.»
Dean si scorda di essere alto poco più di uno e se anta e non due
metri, quindi urla in faccia a Craxi: «Mi devi cinque giorni di paga,
q q g p g
schifoso ladro di merda!»
«Certo, come no. Qui, guarda, ecco cosa ti devo.»
Gli affonda un pugno poderoso nello stomaco. Dean si piega in
due e si ritrova a terra di schiena, ansimante e sconvolto. Oggi è la
seconda volta. Un cane si me e ad abbaiare. Si rialza, Craxi non c’è
più, sulla porta della cucina compaiono due nipoti siciliani. Uno ha
la sua Fender, l’altro regge il suo sacco a pelo. Lo spintonano
a raverso il bar. Al jukebox i Kinks cantano «Sunny Afternoon».
Dean si dà un’occhiata alle spalle. Alla cassa c’è Craxi che lo guarda
torvo con le braccia conserte.
Dean mostra il medio all’ex datore di lavoro.
Craxi si passa un dito sulla gola mimando un taglio.

Una volta in D’Arblay Street senza un posto dove andare, Dean


passa in rassegna le probabili conseguenze a cui andrebbe incontro
se lanciasse mezzo ma one contro la vetrina del bar. Una cella alla
stazione di polizia risolverebbe in un a imo il problema contingente
dell’alloggio, ma alla lunga non gli farebbe comodo avere la fedina
penale sporca. Dean entra nella cabina telefonica all’angolo della
strada. È tappezzata di volantini appiccicati con il nastro adesivo
pieni di nomi di ragazze e numeri di telefono. Senza separarsi dalla
Fender, usa il sacco a pelo per tenere la porta semiaperta. Poi tira
fuori una moneta da sei pence e inizia a sfogliare un quaderne o
nero.
Si è trasferito a Bristol… Gli devo ancora cinque sterline… Se n’è
andato…
Trova il numero di Rod Dempsey. Non lo conosce bene ma è di
Gravesend anche lui. Il mese prima ha aperto a Camden un negozio
di giacche di pelle e accessori per motociclisti. Dean compone il
numero, però non risponde nessuno.
E adesso?
Esce dalla cabina. Una nebbia gelida deforma i contorni delle
cose, pasticcia i volti dei passanti, sfuma le scri e al neon – GIRLS!
GIRLS! GIRLS! – e gli riempie i polmoni. Dean ha quindici scellini, sei
pence e due modi per spenderli. Potrebbe percorrere D’Arblay Street
fino a Charing Cross Road, raggiungere in autobus la stazione di
London Bridge, prendere un treno per Gravesend, svegliare Ray,
Shirl e il nipote e confessare che le sudate cinquanta sterline di Ray,
di cui Shirl non sa nulla, gli sono state soffiate dieci minuti dopo
averle incassate dalla banca, poi chiedere di lasciarlo dormire sul
divano. Lì per sempre, però, non ci potrà stare. E domani? Tornare a
vivere da nonna Moss e Bill? A ventitré anni? In se imana riporterà
la Fender da Selmer’s Guitars e supplicherà il negozio di restituirgli
una parte dei soldi che ha già versato. Una sofferenza in meno.
Riposi in pace il musicista di professione Dean Moss. Harry Moffat
lo verrà a sapere, senz’altro. Si farà grasse risate. Oppure… Dean
guarda Brewer Street, i locali, le luci, il trambusto, i peep show, le
gallerie di negozi, i pub… Oppure me la gioco un’ultima volta. Al Coach
and Horses potrebbe esserci Goof. Nick Woo di solito il venerdì è al
Mandrake. E al Bunjie’s, in quel di Litchfield Street, ci sarà Al. Lui,
forse, lo lascerà dormire sul pavimento fino a lunedì. Domani si
cercherà un altro lavoro in un bar. Preferibilmente a una certa
distanza dall’Etna. Posso campare a pane e crema Marmite finché mi
pagano di nuovo. Ma… E se invece la fortuna aiutasse i prudenti? Che
cosa succederebbe se tentasse la fortuna un’ultima volta, se
spendesse tu o quello che ha per entrare in un locale e dopo aver
a accato bo one con una ragazza di classe con un appartamento
tu o suo, lei sparisse mentre lui è al cesso? Non sarebbe la prima volta.
Oppure se un bu afuori lo scaricasse alle tre del ma ino, sbronzo
come una carogna, su un pavimento gelido e schizzato di vomito
con i soldi per il treno ormai andati? A quel punto, per tornare a
Gravesend non gli rimarrebbe che farsela a piedi. Sul lato opposto di
D’Arblay Street, illuminato da una lavanderia a ge oni, un
senzate o sta rovistando in un cestino stracolmo. E se anche lui, un
tempo, avesse deciso di giocarsela un’ultima volta?
«E se le mie canzoni fossero uno schifo o mediocri?» dice Dean ad
alta voce.
E se credendomi un musicista mi stessi prendendo per i fondelli?
Deve fare una scelta. Tira fuori di nuovo la moneta da sei pence.
Testa: D’Arblay Street e Gravesend.
Croce: Brewer Street, Soho e musica.
Dean lancia in aria la moneta…

«Sei Dean Moss, giusto?» La moneta cade in un canale di scolo e


scompare. I miei sei pence! Si volta e vede l’ipotetica checca beatnik
che se ne stava seduta al bancone dell’Etna. Porta il colbacco come
una spia russa, benché dall’accento sembri americano.
«Gesù, scusa, ti ho fa o perdere la moneta…»
«Proprio così, maledizione.»
«Aspe a, eccola, guarda…» Lo sconosciuto si china e in una crepa
recupera la moneta da sei pence. «Eccola qui.»
Dean la infila in tasca. «E tu chi saresti?»
«Levon Frankland. Ci siamo conosciuti in agosto dietro le quinte
all’Odeon di Brighton per quella serie di concerti, il Future Stars
Revue. Facevo da agente ai Great Apes, o almeno ci provavo. Tu eri
nei Ba leship Potemkin. Avevate suonato ‘Dirty River’, gran pezzo.»
Generalmente Dean prende i complimenti con le pinze, in special
modo se vengono da una checca. D’altro canto, quella specifica,
ipotetica checca è un agente, e lui negli ultimi tempi è a corto di
complimenti, non ne riceve da nessuno e per niente. «L’ho scri a io
‘Dirty River’. È una mia canzone.»
«Lo immaginavo. Come immagino che tu e i Potemkin vi siate
sciolti.»
Dean ha la punta del naso gelata. «Mi hanno cacciato. Per
‘revisionismo’.»
Insieme a una risata, da Levon Frankland sgorgano in ordine
sparso nuvole di fiato so ozero.
«È diverso rispe o a ‘divergenze artistiche’.»
«Hanno scri o una canzone su Mao Tse-Tung, e io ho de o che
era soltanto un mucchio di merda. Il ritornello faceva così:
‘Presidente Mao, presidente Mao, la tua bandiera rossa non è una
vacca sacra, wow’. Giuro su Dio.»
«Starai meglio senza di loro.» Frankland tira fuori un pacche o di
Rothmans e gliene offre una.
«Senza di loro sono senza un soldo, la verità è questa,
maledizione.» Pesca una sigare a con le dita intirizzite. «Senza un
soldo e nella merda fino al collo.»
Frankland accende la sigare a di Dean e poi la propria con uno
Zippo alla moda. «Non ho potuto fare a meno di origliare…» Con un
cenno indica l’Etna. «Quindi stasera non hai un posto per dormire, è
così?»
A poca distanza, un plotone di mod sta marciando con i vestiti
buoni del venerdì sera. Sono fa i di speed e dire i al Marquee,
immagina Dean. «Già. Non ho nessun posto.»
«Ti faccio una proposta», decide Frankland.
Dean rabbrividisce. «Davvero? Una proposta di che genere?»
«C’è un gruppo che suona al 2i’s stasera. Mi piacerebbe avere il
tuo parere di musicista sul loro potenziale. Se mi accompagni, poi ti
farò dormire sul mio divano. Abito in Bayswater. Non è il Ri , ma
farà meno freddo che so o il Waterloo Bridge.»
«Ma non sei l’agente dei Great Apes?»
«Non più. Divergenze artistiche. Ora sono…» Poco lontano
riecheggiano un rumore di vetri ro i e una risata demoniaca. «…In
cerca di nuovi talenti.»
Dean è tentato. A casa sua farà caldo, sarà asciu o. Domani
riuscirà a scroccare qualcosa per colazione, potrà darsi una ripulita e
riprendere in considerazione il quaderne o nero. Uno come quello
un telefono ce l’ha per forza.
C’è un problema però: e se a accato a questa scialuppa ci fosse il
cartellino del prezzo?
«Se ti sentissi troppo vulnerabile sul divano, per dormire c’è il
bagno. Potrai chiudere a chiave la porta», dice Levon divertito.
Quindi è una checca, conclude Dean, e sa che l’ho capito… ma se
lui non si fa menate, perché dovrei farmele io? «Il divano va
benissimo.»

Al 59 di Old Compton Street, lo scantinato del 2i’s Coffee Bar è


caldo, buio, appiccicoso come un’ascella. Due lampadine pendono
nude sopra il palche o fa o di assi e casse del la e. Le pareti
trasudano, il soffi o gocciola. Eppure, solo cinque anni prima, il 2i’s
era una delle vetrine più in voga per i talenti in erba. Cliff Richard,
Hank Marvin, Tommy Steele e Adam Faith hanno iniziato la loro
carriera lì dentro. Stasera sul palco ci sono gli Archie Kinnock’s
p g
Blues Cadillac, ovvero Archie Kinnock voce e chitarra ritmica, Larry
Ratner al basso, un ba erista in gilet con un’a rezzatura troppo
grande per il palco, e un chitarrista alto, smilzo, dall’aspe o
selvatico, con la pelle rosacea, i capelli rossicci e gli occhi un po’ a
mandorla. Ha una giacca viola che è un vortice, i capelli che
ciondolano sul manico dello strumento. Stanno suonando un vecchio
successo di Archie Kinnock: «Lonely as Hell». Nel giro di pochi
istanti, Dean nota che la Cadillac sul palco sta per perdere non una
ma ben due ruote. Archie Kinnock è ubriaco, fumato o entrambe le
cose. Mugola nel microfono la sua lagna blues: «I’m looo-ooonely as
hell, babe, looo-ooonely as hell», continuando a sbagliare la sua parte di
chitarra. Larry Ratner, nel fra empo, è rimasto indietro rispe o al
ritmo. Fa da seconda voce e canta: «You’re looo-ooonely as well, babe,
you’re looo-ooo-ooo-ooonely as well», ma è fuori tempo e il risultato non
è dei migliori. Nel corso della canzone ringhia al ba erista: «Troppo
lento, maledizione!» Il ba erista lo guarda storto. La chitarra solista
si lancia allora in un assolo, sostenendo un’avvolgente melodia
ronzante per tre ba ute prima di tornare al riff scazzato. Archie
Kinnock riprende il ritmo, ricongiungendosi al Mi-La-Sol di
so ofondo, mentre il primo chitarrista si occupa della melodia e la
rivolta in maniera ammaliante. Il secondo assolo colpisce Dean
anche più del primo. Fra il pubblico, in molti allungano il collo per
guardare le dita del chitarrista danzare e scivolare sul manico dello
strumento, pizzicarlo, serrarlo in una morsa, tirare le corde, agitarlo
su e giù.
Ma come fa?

Dopo «I’m Your Hoochie Coochie Man» di Muddy Waters, è il


turno di un successo un po’ meno alla Archie Kinnock, «Magic
Carpet Ride», che sfocia in «Green Onions» di Booker T & the MG’s.
Il chitarrista e il ba erista suonano con verve sempre maggiore, ad
affossare il gruppo sono i due veterani, Kinnock e Ratner. Il leader
conclude la prima parte dell’esibizione salutando i qua ro ga i del
pubblico come se la sua musica avesse appena fa o saltare in aria il
te o della Royal Albert Hall. «Ehi, Londra, sono Archie Kinnock e
sono tornato! Ci rivediamo di nuovo qui fra poco per la seconda
q p p
parte, okay?» I Blues Cadillac si ritirano nel bunker infossato accanto
al palco del 2i’s che fa da camerino, e dalle casse metalliche comincia
a gracchiare «I Feel Free» dei Cream. Metà del pubblico si trascina al
piano di sopra per comprare Coca-Cola, succo d’arancia e caffè.
«Allora?» chiede Frankland a Dean.
«Mi hai portato qui per sentire il chitarrista, giusto?»
«Indovinato.»
«È piu osto bravo.»
Levon fa una faccia come a dire: Tu o qui?
«È incredibile, maledizione. Come si chiama?»
«Jasper de Zoet.»
«Cristo. Da dove vengo io ti linciano per molto meno.»
«Padre olandese, madre inglese. Sono solo sei se imane che è in
Inghilterra, sta ancora prendendo le misure. Ti va un goccio di
bourbon nella Coca?»
Dean gli tende la bo iglie a e riceve un generoso rabbocco.
«Salute. Con Archie Kinnock quel tipo spreca il suo talento.»
«Come te con i Ba leship Potemkin.»
«E il ba erista? Chi è? È bravo anche lui.»
«Peter Griffin. ‘Griff.’ Viene dallo Yorkshire. Si è fa o le ossa
suonando al Nord nel circuito jazz, con il Wally Whitby Ensemble.»
«Wally Whitby il trombe ista?»
«Proprio lui.» Levon tira un sorso dalla sua fiasche a.
«E questo Jasper de Qualcosa sa scrivere musica bene come la
suona?» chiede Dean.
«A quanto pare sì. Ma Archie non gli fa suonare la sua roba.»
Dean avverte una fi a di gelosia. «In lui c’è davvero qualcosa.»
Levon si tampona la fronte lucida con un fazzole o a pois.
«Concordo. Però ha anche un problema. Ha troppa personalità
per collocarsi a dovere in una band già avviata come quella di
Archie Kinnock, ma non può nemmeno funzionare da solo. Ha
bisogno di una squadra selezionata, musicisti dotati quanto lui che
gli siano d’ispirazione e che ne siano ispirati.»
«Che gruppo avresti in mente?»
«Non esiste ancora. Ma mi sa che ho davanti agli occhi il
bassista.»
Dean ridacchia. «Come no, certo.»
«Sono serio. Sto cercando un gruppo di cui occuparmi. E comincio
a credere che tu, Jasper e Griff potreste avere l’alchimia giusta.»
«Mi prendi per il culo?»
«Ti sembra che lo stia facendo?»
«No, ma… loro che ne dicono?»
«Non li ho ancora interpellati. Il primo pezzo del puzzle sei tu,
Dean. Pochissimi bassisti sarebbero precisi a sufficienza per Griff, o
creativi abbastanza per Jasper.»
Dean sta al gioco. «E tu ci farai da agente?»
«Chiaro.»
«Ma Jasper e Griff in una band ci sono già.»
«I Blues Cadillac non sono una band. Sono un cane agonizzante.
Dargli il colpo di grazia sarebbe un a o di pietà.»
Una goccia di condensa si stacca dal soffi o e cade sulla nuca di
Dean. «Il loro agente a uale potrebbe vederla diversamente.»
«L’ex agente di Archie ha tagliato la corda con gli incassi, quindi a
rappresentare il gruppo ora è Larry Ratner. Sfortunatamente, è
portato per fare l’agente come lo sono io nel salto con l’asta.»
Dean ingolla un po’ di bourbon e Coca. «Mi stai facendo
un’offerta, quindi?»
«Una proposta.»
«Non sarebbe meglio fare una prova, almeno, prima di…» Dean si
tra iene dal dire ‘finire a le o insieme’ «…decidere qualcosa?»
«Senza dubbio. Il caso vuole che il tuo basso sia già qui e che il
pubblico sia già caldo. Devi solo acce are.»
Ma di che parla? «Questo è un concerto di Archie Kinnock e un
bassista c’è già. Non possiamo fare un provino adesso.»
Levon si toglie gli occhiali blu e comincia a pulire le lenti. «Ma la
risposta alla domanda ‘Ti va di provare con Jasper e Griff’ è sì,
giusto?»
«Be’, credo di sì, ma…»
«Torno fra un paio di minuti.» Frankland si rime e gli occhiali.
«Ho un appuntamento, non credo ci vorrà molto.»
«Un appuntamento? Ora? E con chi?»
«Arti occulte.»
In a esa che Levon Frankland ritorni, Dean resta nell’angolo a
fare la guardia al basso e al sacco a pelo. A risuonare dalle casse è
«Sha-La-La-La-Lee» degli Small Faces. Sta pensando che quanto a
parole avrebbero potuto fare di meglio, quando all’improvviso sente
una voce familiare: «Mosser!» Si volta e vede il naso aquilino, gli
occhi grandi e il sorriso sghembo di Kenny Yearwood, l’amico dei
tempi della scuola d’arte. «Kenny!»
«Allora sei vivo. Cristo, se hai i capelli più lunghi!»
«E tu più corti.»
«Lo chiamano ‘trovarsi un vero lavoro’. Non posso dire di esserne
entusiasta. A Natale sei tornato a Gravesend? Al Captain Marlow non
ti ho visto.»
«Sono tornato, ma avevo l’influenza, sono rimasto da mia nonna.
Non mi sono fa o vivo con nessuno della vecchia banda.» Non potrei
guardare in faccia nessuno della vecchia banda, più che altro.
«Sei ancora nei Ba leship Potemkin? Ho sentito dire che stavi
firmando per la EMI o qualcosa del genere.»
«No, è andato tu o in malora. Ho mollato il gruppo in o obre.»
«Ah. Ma il mare è pieno di pesci, giusto?»
«Speriamo.»
«Quindi… con chi suoni adesso?»
«Non… ehm… insomma…»
Kenny aspe a che l’amico si spieghi meglio. «Tu o bene?»
Dean decide che dire la verità è meno estenuante che raccontare
una bugia. «È stata una giornataccia, se vuoi saperlo. Stama ina mi
hanno derubato.»
«Cazzo, Mosser.»
«Quei bastardi mi sono saltati addosso in sei. Gli ho rifilato un
paio di pugni, ma sono riusciti a prendermi i soldi dell’affi o, che
poi erano tu i quelli che avevo, quindi la padrona di casa mi ha
sba uto fuori. Ciliegina sulla torta, sono stato licenziato dal bar in
cui lavoravo. In sintesi, amico mio, mi hai beccato nella merda fino al
collo.»
«E adesso dove dormirai?»
«Sul divano di uno, fino a lunedì.»
«E dopo?»
p
«Qualcosa salterà fuori. Ma non dirlo a nessuno a Gravesend,
d’accordo? Te lo chiedo per favore. La gente chiacchiera e nonna
Moss, Bill e mio fratello lo verrebbero a sapere, si preoccuperebbero
e via dicendo, quindi…»
«Sì, tranquillo, facciamo anche un’altra cosa però. Un po’
d’ossigeno finché non ti rime i in piedi. Prendi questi.»
Kenny tira fuori il portafoglio e infila qualcosa in tasca a Dean.
«Sono cinque sterline, non stavo cercando di palparti.»

Dean è mortificato. «Amico, non avevo intenzione di scroccarti


nulla, non…»
«Lo so, figurati. Ma se nella tua situazione ci fossi io, tu faresti lo
stesso, no?»
Dean valuta se restituirgli quel denaro per ben tre secondi. Con
cinque sterline avrà di che mangiare per due se imane. «Dio, Kenny,
non so come ringraziarti. Te li restituirò.»
«Lo so. Ma prima procurati un contra o discografico.»
«Non me ne dimenticherò, giuro. Grazie davvero. Io…»
All’improvviso, esplodono urla e strilli. Un uomo piomba nella
folla abba endo avventori a destra e a manca. Per scansarlo, Kenny
si bu a da una parte e Dean dall’altra. È il bassista dei Blues
Cadillac, Larry Ratner, e sta scappando verso le scale inseguito da
Archie Kinnock, che però inciampa nella custodia della Fender di
Dean, scivolata a terra. Il cantante a erra goffamente, picchiando la
testa sul pavimento. Ratner raggiunge i ripidi gradini e se li beve
due alla volta, superando in fre a i clienti a oniti del 2i’s. Archie
Kinnock si rialza con il naso mezzo ro o e si me e a sbraitare in
direzione delle scale: «Ti strappo il cuore sanguinante! Proprio come
tu l’hai strappato a me!» Dopodiché, prosegue malfermo sulle scale
alle costole dell’altro, e anche lui sparisce.
Tu i si guardano in faccia.
«Ma che diavolo è successo?» domanda Kenny.
Dean rimaneggia un po’ le minacce di Archie e le memorizza: Ti
strappo-strappo-strappo il cuore, come tu l’hai strappato a me.
Riappare Levon Frankland. «Gesù, avete visto?»
«Impossibile perderselo. Levon, lui è Kenny, un amico della
scuola d’arte. Suonavamo insieme una vita fa.»
«È un piacere Kenny. Levon Frankland. Mi auguro che poco fa
siate riusciti a scansare Uragano Kinnock e Ratner.»
«Già», dice Kenny, «per un pelo. Ma cos’è successo?»
Frankland fa spallucce in modo teatrale. «Quello che so sono solo
voci, pe egolezzi, dicerie. Perché darci peso?»
«Voci, pe egolezzi e dicerie a proposito di che?» insiste Dean.
«Larry Ratner, la moglie di Archie Kinnock, una relazione
infuocata, irregolarità finanziarie.»
Dean decodifica quanto ha appena sentito. «Larry si faceva la
moglie di Archie Kinnock?»
«Una goccia d’intuizione in un oceano di mistero.»
«E Archie Kinnock l’ha appena scoperto?» chiede Kenny.
«Proprio adesso? Nel bel mezzo del concerto?»
Levon s’incupisce, sembra pensieroso. «Questo spiegherebbe la
sua furia omicida, immagino. Voi che ne dite?»
Prima che Dean possa analizzare le ulteriori implicazioni, Oscar
Morton, l’impomatato gestore del 2i’s con gli occhi da gufo, passa lì
davanti furibondo, dire o al camerino.
«Ti dispiacerebbe tenere d’occhio un a imo il sacco a pelo di
Dean, Kenny?» chiede Levon. «Potrebbe esserci bisogno di lui e me.»
«Ehm… ma certo.» Kenny sembra confuso quanto Dean.
Tirandolo per un gomito, Levon guida Dean all’inseguimento di
Oscar Morton.
«Dove stiamo andando?»
«Ho sentito bussare. Tu no?»
«Bussare? E chi ha bussato?»
«Un’occasione.»

Nel camerino c’è odore di fogna. Oscar Morton sta interrogando i


due membri superstiti dei Blues Cadillac, e non fa per niente caso a
Dean e Frankland che s’intrufolano dentro. Jasper de Zoet è seduto
su una comoda poltroncina con la Stratocaster in braccio. Il
ba erista, Griff, sembra incazzato. «…Dalla scogliera più vicina,
spero. Per quei coglioni ho de o no a due se imane al Winter
Gardens di Blackpool.»
Il gestore del 2i’s si rivolge a Jasper de Zoet: «Torneranno?»
«Non saprei.» De Zoet suona snob e distaccato.
«Ma che è successo?» chiede Morton.
«È squillato il telefono…» Con un cenno Griff indica un telefono
nero su un tavolo. «Kinnock ha risposto e ha solo ascoltato,
ingrugnendosi sempre di più, per un minuto circa. Poi gli è venuta
una faccia da pazzo scatenato. Ha guardato fisso Ratner e io ho
pensato: Ehi, qui qualcosa non va, ma Ratner non si era accorto di
nulla, stava accordando il basso. Quando quello al telefono ha finito
di parlare, Kinnock ha ria accato senza dire una parola e senza
sme ere di fissare Ratner. A quel punto lui l’ha notato, e ha de o a
Kinnock che sembrava si fosse cagato nei pantaloni, allora quello,
freddo come un cadavere, gli ha chiesto: ‘Ti scopi Joy? Avete
comprato casa insieme con i soldi della band?’»
«Chi è Joy?» chiede Oscar Morton. «La ragazza di Archie?»
«La signora Joy Kinnock», risponde Griff. «La moglie.»
«Ah, fantastico», commenta Morton. «E quindi cos’ha de o
Larry?»
«Niente», replica Griff. «Allora Kinnock ha aggiunto: ‘Quindi è
vero’. E Ratner se n’è uscito con un mucchio di cazzate tipo che
aspe avano il momento giusto per dirglielo, che la casa era un
investimento per il gruppo, che non puoi scegliere a chi dare il tuo
amore. Non appena ha de o quella parola, quella che inizia per A,
Kinnock si è trasformato nell’incredibile Hulk e… l’avrai visto là
fuori, giusto? Se Ratner non fosse stato seduto così vicino alla porta e
non se la fosse data a gambe, probabilmente a quest’ora sarebbe
morto.»
Oscar Morton si massaggia le tempie. «Chi era al telefono?»
«Non ne ho idea», dice Griff.
«Ce la fate voi due da soli a suonare la seconda parte?»
«Non diciamo buffonate», replica il ba erista.
«Fare blues ele rico senza un basso?» Jasper lo guarda perplesso.
«Risulterebbe monodimensionale. E poi chi la suona l’armonica?»
«Blind Willie Johnson aveva solo una chitarra acustica
malandata», dice Oscar Morton. «Niente amplificatori, niente
percussioni, niente di niente.»
«Io posso andarmene anche ora», dice il ba erista, «basta che mi
paghi.»
«L’accordo con Archie è che avrei pagato novanta minuti di
esibizione», riba e Oscar Morton. «Voi ne avete fa i trenta, e finché
non ne sento novanta non vi devo un cazzo di niente.»
«Signori», interviene Levon, «avrei una proposta.»
Oscar Morton si volta verso di lui. «E tu chi sei?»
«Levon Frankland, della Moonwhale Music. E lui è il mio cliente,
il bassista Dean Moss. Potremmo essere noi la vostra via d’uscita.»
Io? pensa Dean. Noi?
«Via d’uscita a cosa?» chiede Morton.
«Al vostro dilemma», dice Levon. «Lì fuori ci sono un centinaio di
clienti che fra poco si me eranno a urlare per essere rimborsati.
Rimborsati, signor Morton. Gli affi i costano. Dalle spese di Natale
non si scappa. Un centinaio di rimborsi sono l’ultima cosa di cui ha
bisogno. Ma se si rifiuta di rimborsarli…» Levon fa una smorfia
affranta. «Metà di quei ragazzi sono strafa i di speed. Le cose
potrebbero diventare molto spiacevoli. Selvagge, perfino. E chissà
come la prenderebbero i giudici di Westminster. Deve trovare subito
un nuovo gruppo. Senza tergiversare.»
«E questo gruppo», dice Griff, «tu, per caso, lo tieni astutamente
nascosto nelle budella?»
«Noi, per caso, il gruppo ce lo abbiamo proprio qui davanti.»
Levon indica i musicisti. «Jasper de Zoet, chitarra e voce, Peter ‘Griff’
Griffin, percussioni, e per la prima volta…» dà una pacca sulla spalla
a Dean, «Dean Moss, prodigio del basso, armonica e voce. Ha qui
una Fender, può suonare.»
Il ba erista scruta Dean. «E com’è che tu hai un basso qui con te
proprio quando il nostro bassista ci ha mollati?»
«Con me ho il basso insieme a tu o ciò che possiedo. Oggi ho
dovuto sloggiare in fre a dal monolocale in cui stavo.»
Jasper, nel fra empo, è rimasto stranamente silenzioso, ma a quel
punto chiede a Dean: «Quanto sei bravo?»
p
«Più di Larry Ratner», replica lui.
«Dean è straordinario», assicura Levon. «Io non lavoro con i
dile anti.»
Il ba erista fa un tiro di sigare a. «E sai cantare?»
«Meglio di Archie Kinnock», dice Dean.
«Questo saprebbe farlo anche un asino castrato.»
«Che canzoni conosci?» chiede Jasper.
«Canzoni che so fare, vediamo… ‘House of the Rising Sun’,
‘Johnny B. Goode’, ‘Chain Gang’. Voi due le sapete suonare queste?»
«A occhi chiusi», dice Griff, «e con un dito su per il culo.»
«Qui chi decide sono io», dice Oscar Morton. «Se questi tre non
hanno mai suonato insieme, come faccio a sapere che saranno bravi,
signor…»
«Levon Frankland. Lei, signor Morton, sa che saranno bravi
perché Jasper è un virtuoso e Griff ha già suonato nel quinte o di
Wally Whitby. Per quanto riguarda Dean, dovrà fidarsi sulla parola.»
A giudicare dai borbo ii, a Griff l’idea non dispiace. Jasper non
sta dicendo no. Non ho nulla da perdere, pensa Dean. Oscar Morton
suda, sembra soffrire, gli ci vuole un’altra spintarella.
«Lo so che il mondo dello spe acolo è pieno di mercanti spara-
cazzate», dice Levon. «Sia io sia lei ne abbiamo conosciuti fin troppi.
Io però non ne faccio parte.»
Il proprietario del 2i’s sospira. «Non fatemene pentire.»
«Non se ne pentirà», prome e Levon. «Per il compenso, direi che
per lei quindici sterline saranno un vero affare.» Si rivolge ai
musicisti: «Signori, vi spe eranno qua ro sterline a testa. Io ne
prendo tre di commissione. Siamo d’accordo?»
«Fermi tu i!» Oscar Morton è esterrefa o. «Quindici sterline per
tre sconosciuti? Mi prendete in giro!»
Levon lo fissa per un istante interminabile. «Devo aver frainteso,
Dean. Sembra che il signor Morton non voglia una via d’uscita.
Meglio andarsene, prima che lì fuori inizino a ringhiare davvero.»
«Alt alt alt!» Il bluff di Morton è scoperto. «Non ho de o che non
vi pago. È solo che Archie Kinnock di sterline ne prendeva dodici.»
Levon lo guarda e abbassa appena i suoi occhiali blu. «Già, ma in
realtà sappiamo entrambi che il compenso di Kinnock era di dicio o
pp p
sterline. Non è così?»
Oscar Morton tentenna troppo a lungo e poi si arrende.
Griff s’inalbera. «Dicio o? Archie ci ha de o che erano dodici.»
«Ecco perché le cose vanno messe nero su bianco», dice Levon.
«Quello che non è scri o con l’inchiostro sulla carta, agli occhi della
legge è come se fosse scri o pisciando nella neve.»
Entra un bu afuori sudato. «Stanno iniziando a fare casino, boss.»
Qualche urlo infuriato riesce ad arrivare fin lì: «Dove cazzo è il
gruppo?» «O o scellini per qua ro canzoni?» «Ci hanno fregato!
Fregato!» «Rim-bor-so! Rim-bor-so! Rim-bor-so!»
«Cosa facciamo, boss?» domanda il bu afuori.

***

«Signore e signori», Oscar Morton si china sul microfono, «a causa di


alcune…» il frastuono del feedback regala a Dean qualche secondo
extra per controllare i cavi «…circostanze impreviste, gli Archie
Kinnock’s Blues Cadillac non ci terranno compagnia per la seconda
parte dello spe acolo…» La folla fischia, partono i buuu. «Ma, ma,
abbiamo preparato in alternativa qualcosa di davvero speciale…»
Dean accorda lo strumento e testa i livelli sull’amplificatore di
Ratner. Jasper dice: «A acchiamo in La maggiore. Griff, sai darci un
ritmo trascinante, una cavalcata alla Animals?» Il ba erista annuisce
e, con un’occhiata, Dean comunica che non è mai stato così pronto.
Levon, con le braccia conserte, ha l’aria soddisfa a. Se questa cosa va
a pu ane, non sarai tu a essere fa o a pezzi da una calca di fan
schizzati di Archie Kinnock, pensa Dean. «Quando vuoi», dice
Jasper a Oscar Morton.
«Il 2i’s è orgoglioso di presentare, solo per questa sera… Ecco a
voi i…»
Dean realizza solo allora che non hanno un nome. D’accordo, un
nome, tirate fuori un nome! sembra dirgli Levon con la sua
espressione.
Jasper guarda Dean e, senza parlare davvero, gli chiede: Tu hai
qualche idea?
Dean sta per proporre… che cosa? I Pickpokets? Gli Evicted? I
Penniless? Gli Anythings? b
«Ecco a voi», urla Oscar Morton, «i Way Out! c»

a. Lasciate ogni speranza.


b. I Borseggiatori? Gli Sfra ati? Gli Squa rinati? I Nulla?
c. I Via d’Uscita.
A Raft and a River a

A tre giorni dalla lite, Elf aveva ammesso con se stessa che stavolta
Bruce avrebbe potuto non tornare. Il dolore non le dava tregua. Il
suo spazzolino, qualsiasi canzone parlasse di separazioni per quanto
melensa fosse, perfino la vista del suo bara olo di crema salata
Vegemite nella dispensa, bastava a farla scoppiare in singhiozzi.
Ignorare dove si trovasse era insopportabile, ma la spaventava
troppo l’idea di chiamare gli amici e chiedere se lo avessero visto. In
caso di risposta negativa, le sarebbe toccato spiegare perché lo stesse
domandando. Al contrario, invece, per lei sarebbe stato umiliante e
per loro imbarazzante se avesse preteso di sapere ogni minimo,
straziante de aglio.
Al quarto giorno Elf era uscita a pagare la bolle a del telefono
prima che glielo tagliassero. Si era fermata all’Etna per un caffè, dove
aveva incontrato Andy del Les Cousins. Prima ancora che le chiedesse
di Bruce, lei aveva blaterato che era andato a trovare dei parenti a
No ingham. Quella bugia l’aveva sconcertata. Era patetico come, da
ragazza moderna che non si sarebbe mai fa a tra are come uno
zerbino, si fosse trasformata in una ex fidanzata grassoccia scaricata.
Si sentiva come Billie Holiday in «Don’t Explain», senza il fascino
tragico della dipendenza dall’eroina…
Ma tu o ciò spiegava solo in parte perché Elf avesse infilato la
chiave nella serratura di casa come un topo d’appartamento. Se, se,
se Bruce nel fra empo era tornato, non voleva coglierlo sul fa o
mentre cercava di ba ersela. Era sciocco? Sì. Irrazionale? Sì. Ma i
cuori infranti non sono né intelligenti né logici. Senza nemmeno uno
scricchiolio, dunque, in un pomeriggio infrase imanale di febbraio,
si era infine decisa a entrare sperando che Bruce fosse lì…
…e c’era la sua valigia. Il suo giaccone, il cappello e la sciarpa
erano appoggiati sopra. Sentendolo muoversi in camera da le o,
aveva respirato davvero per la prima volta in qua ro giorni. Si era
avvicinata la sua sciarpa al viso, inalandone la lanosa umidità orfana
di lui. Le fan filiformi, alla Twiggy, che si facevano vive ai concerti di
Fletcher & Holloway, quelle che fissavano Bruce e guardavano male
lei avevano torto, torto marcio. Lei per lui non era per niente una di
passaggio. Lui la amava. «Ehi, Canguro, sono a casa», lo aveva
chiamato, quindi aveva aspe ato che Bruce replicasse con il suo
«Koala!» e corresse a baciarla.
Ma quando Bruce era comparso, il suo volto era di pietra. Dallo
zaino spuntavano alcuni dischi. «Pensavo fossi fuori, stama ina.»
Elf non capiva. «Be’, sì… comunque, ciao.»
«Sono venuto a prendere il resto della mia roba.»
Lei si era allora resa conto che nella valigia vicino alla porta non
c’erano le cose che Bruce stava riportando indietro, ma quelle che
stava portando via. «Quindi sei venuto mentre ero fuori.»
«Ho pensato che fosse meglio così.»
«Dove sei stato? Ero preoccupata da morire.»
«Da un amico», aveva de o lui con tono spento, come se non
fossero affari suoi.
«Quale amico?» Non era riuscita a tra enersi. Se l’amico fosse
stato un maschio, Bruce da buon australiano lo avrebbe piu osto
chiamato «socio». «Una ragazza?»
Bruce aveva sospirato come un adulto paziente. «Ma perché fai
così?»
Lei aveva incrociato le braccia come una donna offesa
ingiustamente. «Così come?»
«Sei sempre così possessiva. È stato questo ad allontanarmi.»
«In altre parole, tu fai quello che ti pare e se io mi lamento sono
una stronza isterica?»
Bruce aveva chiuso gli occhi come se avesse avuto un mal di testa
lancinante.
«Se mi stai lasciando, basta che mi dici che è finita.»
«Come preferisci.» Bruce l’aveva guardata. «È… finita.»
«E il nostro duo?» Elf riusciva a stento a respirare. «Toby sta per
proporci di registrare un disco.»
«No, non è così», le aveva de o Bruce come se si rivolgesse a una
straniera a cui bisognava parlare ad alta voce. «Il disco non si farà.»
«Non ti va di fare un disco?» La voce di Elf era rido a a un alito.
«A quanto pare la A&B non vuole un disco di Fletcher &
Holloway, dopotu o. Ti cito le parole esa e: ‘Shepherd’s Crook non è
all’altezza delle aspe ative’. Niente disco, quindi. Ci hanno mollato.
Il duo è finito.»
Di so o, in Livonia Street, rombava una moto. Corrieri e criminali
di piccolo calibro usavano quella strada come scorciatoia.
Due piani più in alto, Elf aveva voglia di vomitare. «No, non può
essere.»
«Chiama Toby se pensi che sia una bugia.»
«E i concerti? Andy era riuscito a piazzarci al Cousins sabato alle
nove. Il mese prossimo c’è il Cambridge Festival.»
Bruce aveva fa o spallucce e poi una smorfia. «Cancellali, suona
da sola… Fa’ un po’ come ti pare.» Si era infilato la giacca. «La mia
sciarpa.»
Lei gliel’aveva passata. «Ma se ho bisogno di conta arti…»
Bruce si era sba uto la porta alle spalle. Nell’appartamento
regnava il silenzio. Etiche a discografica: andata. Il duo: andato.
Bruce: andato. Si era bu ata sul le o – solo suo, ora, non più loro – si
era rannicchiata so o le coperte e in quel grembo soffocante aveva
pianto tu e le lacrime che aveva. Ancora una volta.

Nove giorni dopo la lite, la pioggia di febbraio sferza le finestre


Tudor di casa Holloway, cancellando il giardino fangoso e
Chislehurst Road. Lawrence, il ragazzo in giacca e crava a di
Imogen, la sorella maggiore di Elf, si comporta in modo strano.
«Quindi, ehm…» Fa per alzarsi, si risiede, poi si sporge in avanti.
«Quindi…» Si aggiusta la crava a con le dita. «Quindi ho, mm…
una… ehm… annuncio a sorpresa.» Imogen gli rivolge un sorriso
d’incoraggiamento, come a uno scolare o agitato per la recita di
Natale. Mio Dio, pensa Elf, si stanno fidanzando, è ufficiale. Con
un’occhiata capisce che i genitori ne sono già al corrente.
p g g
«Non che per il signor Holloway sia una sorpresa», dice
Lawrence.
«Direi che ora puoi chiamarmi ‘Clive’», annuncia il padre di Elf.
«Non sei d’accordo?»
«Non rubare la scena al giovano o, Clive», lo riprende la madre.
«Io non rubo niente a nessuno, Miranda.»
«Oddio!» Bea, la sorella minore di Elf, assume un’espressione
preoccupata. «Lawrence sta diventando viola.»
Lawrence sta arrossendo in maniera impressionante, in effe i.
«Sto bene, io…»
«Devo chiamare un’ambulanza?» Bea posa il bicchiere di
champagne. «Hai un a acco cardiaco?»
«Bea», la riprende la madre in tono ammonitorio, «basta così.»
«E se prendesse fuoco, mammina? Per eliminare dal tappeto le
tracce di Lawrence ci vorrà ben altro che il bicarbonato.»
Di solito, a un’uscita simile Elf avrebbe riso, ma da quando Bruce
l’ha lasciata nulla la diverte più. Il padre riprende la parola: «Vai
avanti, Lawrence, o cambierai idea sull’opportunità di entrare a far
parte di questo manicomio».
«Lawrence non cambierà per niente idea», interviene di nuovo la
madre di Elf. «Vero, Lawrence?»
«Be’, ehm… Certo che no, signora Holloway.»
«Se papà per Lawrence è ‘Clive’», chiede Bea, «a te, mamma, non
dovrebbe chiamarti ‘Miranda’? Giusto per sapere.»
«Bea», brontola la madre, «se ti stai annoiando levati dai piedi.»
«E perdermi così la misteriosa novità di Lawrence? Una sorella
non si fidanza mica tu i i giorni.» Bea si porta una mano sulla bocca.
«Ops, scusate. Era per caso questa la misteriosa novità? La mia è solo
un’ipotesi molto, molto azzardata.»
Fuori, in Chislehurst Road, il motore di una macchina scoppie a.
Lawrence, sollevato, gonfia le guance. «Sì. Ho chiesto a Immy di
sposarmi. E Immy mi ha de o…»
«E sia, se proprio insisti», riferisce Imogen.
«Clive e io non potremmo essere più ele rizzati», dice la madre.
«A meno che l’Inghilterra non vinca a cricket contro l’Australia»,
aggiunge il padre cercando insistentemente di ravvivare la pipa. Fa
gg g p pp
un occhiolino complice a Lawrence.
«Congratulazioni», dice Elf. «A tu i e due.»
«Su, vediamo l’anello, sorellona», interviene Bea.
Imogen prende una scatolina dalla borse a. Tu i quanti si
avvicinano.
«Caspita!» esclama Bea. «Quello non lo trovi nelle patatine.»
«Accidenti», commenta il padre di Elf. «Qualcuno ci ha speso un
bel po’ di qua rini.»
«In realtà, signor Hollo… Clive… quell’anello me lo ha lasciato
mia nonna per…» guarda Imogen infilarselo «…per la mia…
promessa sposa.»
«Non è romantico?» dice la madre di Elf. «Eh, Clive?»
«Sì, cara.» Il padre di Elf rivolge a Lawrence uno sguardo
sornione. «Ecco due parole magiche che da qui in avanti pronuncerai
spesso.»
Mamma e papà sono una coppia affiatata, considera Elf, come lo
eravamo io e Bruce. Il dolore per la fine di «Bruce ed Elf» le stritola la
gabbia toracica. Fa male.
«Quindi», prosegue la mamma, «facciamo un brindisi a questa
bella coppia, no?»
Sollevano tu i il bicchiere ed esclamano in coro: «Alla bella
coppia!»
«Benvenuto nella famiglia Holloway», dichiara Bea con una voce
da film horror della Hammer. «Adesso sei uno di noi… Lawrence
Holloway.»
«Grazie, Bea, ma…» Lawrence guarda condiscendente la futura
cognata, «le cose non stanno proprio così.»
«È quello che dicevano anche gli ultimi due», replica Bea. «Sono
sepolti so o il patio. Ogni anno il nostro patio si allunga di un metro
e la macabra ballata di Elf, ‘Gli amanti di Imogen Holloway’, si
arricchisce di un nuova strofa. Strano.»
A questa uscita sorride persino la madre, Elf tu avia non se la
sente di fare lo stesso. «Forza allora, prepariamo la tavola.»
Bea studia quella sorella che non sembra davvero lei.
«D’accordo.»
Elf aveva inciso un EP da solista, Oak, Ash and Thorn, e un EP
come duo insieme a Bruce, Shepherd’s Crook. Una sua canzone, «Any
Way the Wind Blows», era poi stata interpretata dalla cantante folk
americana Wanda Virtue, che dopo averla inserita in un LP
milionario l’aveva pubblicata come singolo finendo nella Top 20.
Con i proventi dei diri i lei aveva comprato casa a Soho, un
investimento approvato perfino dal padre, seppure con una certa
rilu anza. Elf è in grado di suonare canzoni folk per novanta minuti
di fronte a trecento estranei. Sa cavarsela con gli ubriachi molesti. Sa
votare, guidare, bere, fumare e fare sesso, e ha fa o tu e e cinque le
cose. Eppure le basta ritrovarsi a tavola con la famiglia, scorgere
l’acquarello della nave HMS Trafalgar dipinto dallo zio Derek (nella
quale da piccola cercava di sparire come facevano i bambini delle
Cronache di Narnia ne Il viaggio del veliero), o l’imperiosa muraglia
dell’Enciclopedia Britannica sul mobile, per vedere la sua personalità
adulta sfaldarsi, rivelando l’adolescente acneica, imbronciata e
insicura che nasconde dentro.
«Basta roast beef per me, papà.»
«Ma sono solo due fe e. Di questo passo sparirai del tu o.»
«Sei pallida, tesoro», osserva la madre. «Spero che non sia colpa
della misteriosa… indisposizione di Bruce.»
Elf aggiunge un nuovo particolare alla sua bugia. «Laringite, ha
de o il medico.»
«Davvero un peccato che si sia perso la grande notizia di Immy e
Lawrence.»
Non sa bene se stia dicendo sul serio. Sospe a che sua madre
tenga un libro nero con una lista dei crimini di Bruce, fra cui
rientrano il vivere nel peccato con Elf, alimentare la sua illusione che
la musica sia una professione, essere un uomo con i capelli lunghi ed
essere australiano. La nostra ro ura la renderà più felice del fidanzamento
di Immy e Lawrence.
All’esterno, la pioggia bombarda i crocus riducendoli a una
poltiglia setosa.
«Elf?» Imogen e tu i gli altri la stanno guardando.
«Caspita, scusate, io…» Si allunga verso la salsiera della senape
senza averne nemmeno voglia. «Ero soprappensiero. Cosa dicevi,
g p pp
Immy?»
«A me e a Lawrence farebbe piacere se tu e Bruce suonaste
qualche canzone per noi. Al nostro matrimonio.»
Confessa che avete ro o, si dice Elf. «Certo, ne saremmo felici.»
«Fantastico.» La madre di Elf controlla i pia i sul tavolo. «Se avete
tu i il vostro Yorkshire pudding, dateci dentro.»
I coltelli tintinnano e dai rumori che fanno, gli uomini sembrano
gradire.
«Questo roast beef è la fine del mondo, signora Holloway», dice
Lawrence. «E l’intingolo è una meraviglia.»
«Miranda adora cucinare con il vino.» Il padre di Elf tira fuori la
vecchia ba uta. «E pensa che ne me e anche un po’ nel cibo.»
Lawrence sorride come se la sentisse per la prima volta.
«Continuerai a insegnare», chiede Bea a Imogen, «dopo che ti
sarai sposata?»
«Non a Malvern. Stiamo cercando casa a Edgbaston.»
«Non ti mancherà?» le chiede Elf.
«La vita è fa a di capitoli», dice Imogen. «Ne finisce uno e ne
inizia un altro.»
La madre di Elf si tampona la bocca con il tovagliolo. «È la cosa
migliore, tesoro. Bisogna sapersi ada are.»
«Ben de o», concorda il padre di Elf. «Essere casalinga e madre è
un lavoro a tempo pieno. Noi, in banca, le donne sposate non le
assumiamo.»
«Secondo me», interviene Bea macinando il pepe, «una regola
concepita per punire le donne che si sposano meriterebbe di
rinsecchire e schia are.»
Il padre coglie la palla al balzo. «Nessuno punisce nessuno. Si
tra a semplicemente di riconoscere che le priorità diventano altre.»
Adesso è Bea a cogliere la palla al balzo. «Significa comunque che
le donne finiscono solo a lavare i pia i e a stirare, per come la vedo
io.»
Tocca di nuovo al padre. «La biologia non si può cambiare.»
«Qui non si tra a di biologia.» La palla è passata a Elf.
«Che diamine.» Il padre si mostra stupito. «E di cosa si tra a,
allora?»
«Mentalità. Non molto tempo fa, le donne non potevano votare,
divorziare, possedere beni o andare all’università. Ora possiamo. E
cos’è cambiato rispe o a prima? Non la biologia. A cambiare è stata
la mentalità. E la mentalità ha cambiato la legge.»
«Ah, che bello essere giovani», dice il padre infilzando una carota,
«e, in automatico, sapere così bene come va il mondo.»

«Ho sentito che tu e Bruce la se imana prossima inizierete a


lavorare al nuovo disco, giusto, Elf?» chiede Lawrence, mentre la
madre serve una generosa cucchiaiata di zuppa inglese dalla terrina
Waterford di cristallo.
«Il piano era questo, ma c’è stato… un malinteso con lo studio di
registrazione. Purtroppo.»
«Quindi lo avete posticipato?» Bea è confusa.
«Solo di una se imana o due.» Elf odia mentire.
«Che genere di malinteso c’è stato con lo studio?» domanda il
padre aggro ando la fronte.
«Lo aveva prenotato anche qualcun altro», risponde Elf. «A
quanto pare.»
«A me questo sembra un comportamento molto poco serio.» La
madre passa la terrina con il dolce al padre. «Non potete registrare
da un’altra parte?»
Non solo odio mentire, rifle e Elf, lo faccio anche di merda.
«Immagino di sì, ma ci piace il tecnico del suono del Regent e
conosciamo già la loro a rezzatura.»
«Con Shepherd’s Crook all’Olympic avevano fa o un buon lavoro»,
osserva Imogen.
«Un lavoro grandioso», le fa eco Lawrence, come se avesse la
minima idea di come s’incide un disco. Elf immagina la coppia,
fresca di fidanzamento, tramutarsi nell’arco di trent’anni in Clive e
Miranda Holloway. Una parte di lei prova ribrezzo, un’altra invidia
Imogen per la prevedibilità della sua vita futura.
«Se avete tu i il dolce», la madre di Elf controlla il tavolo, «dateci
dentro.»
«Come vi siete conosciuti tu e Bruce, Elf?» domanda Lawrence.
Preferirei sbudellarmi piu osto che rispondere, pensa lei, se non
rispondo però capiranno che qualcosa non va, e mamma mi farà
sputare l’intera, sordida storia. «Nei camerini di un locale folk a
Islington. Due Natali fa. Il folk australiano era una novità, quindi
erano tu i curiosi di sentire Bruce. Dopo il concerto gli ho chiesto
come si regolasse con l’accordatura e lui mi ha chiesto di una ballata
irlandese che avevo cantato…» E poi ce ne siamo andati nella sua stanza
dalle parti di Camden Lock, e all’inizio dell’anno nuovo ero già innamorata,
perdutamente, disperatamente, come la protagonista di una canzone folk, e
lui mi amava altre anto. O almeno lo pensavo. Ma forse per lui ero soltanto
un modo per non dormire più sui divani degli amici e spillare birra dalle
parti di Earl’s Court. Non lo saprò mai. Nove giorni fa mi ha ge ato via
come un fazzole o usato… Elf si sforza di sorridere. «È molto più
romantica la tua storia con Immy al campeggio.»
«Voi però siete musicisti affermati.» Lawrence si volta verso la
madre di Elf: «Com’è avere una figlia famosa, Miranda?»
La madre di Elf finisce il vino. «Mi preoccupa, non so come andrà
a finire. I cantanti oggi ci sono e domani non ci sono più.
Specialmente le donne.»
«Cilla Black se la sta cavando bene», riba e Bea. «O Dusty
Springfield.»
«Negli Stati Uniti, Joan Baez», aggiunge Imogen. «Judy Collins.»
«Non dimentichiamoci di Wanda Virtue», dice Bea.
«Ma cosa succederà quando tu i i loro fan che ora le guardano
sognanti inseguiranno una nuova moda?»
«Probabilmente ritroveranno la re a via», dice Elf, «sposeranno
chiunque sia disposto a chiudere un occhio sul loro fosco passato e si
ada eranno alla nuova vita, a stirare camicie e allevare figli.»
Bea ripulisce il cucchiaio con la lingua. «Tuoni, fulmini e sae e.»
«Un dolce sensazionale, Miranda», dice il padre di Elf risultando
involontariamente comico.
La madre di Elf sospira e guarda fuori in giardino.
La pioggia sferza l’acqua nel laghe o dei pesci. Dal naso dello
gnomo cade una goccia, e poi un’altra, un’altra e un’altra ancora…
«Vorrei davvero riuscire a vedere nel canto una professione», dice
la madre di Elf, «ma non ce la faccio. L’unica cosa che vedo è Elf che
perde il treno per un lavoro vero.»
Mi fa rabbia, pensa Elf, perché dà voce alle mie stesse paure.
La pendola nell’atrio ba e le due.
«Magari Elf sarà una pioniera», ipotizza Imogen.

Elf sta suonando il pianoforte della nonna, la sua famiglia e


Lawrence sono seduti ad ascoltarla. È riuscita a non cantare
dichiarando che doveva tenersi buona la voce per dopo, non ha però
potuto fare a meno di suonare, perché Imogen, Bea e la madre
avrebbero sospe ato che c’è qualcosa che non va. Il pianoforte è
verticale, un Broadwood, con i toni più bassi caldi e quelli più alti
cristallini. Elf aveva iniziato imparando a suonare «Twinkle,
Twinkle, Li le Star» su quella tastiera, poi c’erano state le scale, gli
arpeggi, i libri da studiare sempre più difficili. Per lei che canta folk
di mestiere, la chitarra acustica è senz’altro uno strumento che può
avere sempre a portata di mano, però il suo primo amore – Prima che
mi piacessero i ragazzi, prima che mi piacessero le ragazze – è il
pianoforte. Sua nonna era morta quando lei aveva appena sei anni,
ma ha un ricordo nitido dell’anziana donna che le dice: «Un piano è
una za era e un fiume». Anni dopo, un pomeriggio di febbraio, al
nono giorno di cuore infranto, sanguinolento e maltra ato, Elf si
scopre a improvvisare una melodia che prende spunto dalle parole
della nonna: Una za era e un fiume, una za era e un fiume, una za era e
un fiume. È la prima idea musicale che le viene da quando Bruce l’ha
lasciata. Ne è felice, anche per i minuti trascorsi senza pensare a
lui… finora.
Il pezzo si smorza lentamente, la famiglia e il futuro cognato le
tributano un caloroso applauso. Nel vaso sopra il camine o, si sono
schiusi i primi narcisi.
«È bellissima, tesoro», le dice la madre.
«Figurati, mi stavo solo gingillando un po’, davvero.»
«Come s’intitola?» chiede Imogen.
«Un nome non ce l’ha ancora.»
Lawrence sembra spiazzato. «Vuoi dire che te la sei inventata
adesso?»
«Esistono dei trucche i», spiega Elf. «Questione di accordi.»
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«Questo pezzo è davvero brillante. Potresti suonarlo in giugno?»
«Se ne verrà fuori una canzone ada a a un matrimonio, allora sì.»
«I matrimoni in piena estate sono speciali», dice la madre a
Imogen. «Anch’io e vostro padre ci siamo sposati in giugno. Non è
così, Clive?»
Il padre di Elf tira la pipa. «E il sole non ha mai smesso di
splendere.»
«Giugno va bene anche a me», fa notare Bea. «Per allora sarò
ormai una ex studentessa. Terrificante.»
«Imogen mi ha de o che stai facendo le audizioni per essere
ammessa alla Royal Academy of Dramatic Art», dice Lawrence.
«La prima audizione è il mese prossimo. Se passo quella, avrò il
grande onore di essere richiamata a maggio. Proprio quando nella
mia scuola devo dare gli esami.»
«Quante possibilità hai?» chiede Lawrence.
«Ci sono qua ordici posti per un migliaio di richieste, su per giù.
D’altra parte, quante possibilità aveva Elf di firmare un contra o
discografico?»
Il vapore sale avvitandosi dal beccuccio della caffe iera.
«Ecco la prova», proclama Imogen. «Bisogna puntare in alto.»
La pendola nell’atrio rintocca tre volte.
Elf finisce il suo caffè. «Meglio che mi me a in marcia.»
«Non potresti annullare il concerto al Cousins di stasera?» le
chiede Bea. «Facile che Bruce sia troppo malato anche per cantare,
no?»
Elf per un po’ è rimasta artigliata alla speranza che se non avesse
annullato il concerto, Bruce sarebbe magari ricomparso e gli ultimi
nove giorni si sarebbero cancellati. Si è illusa, e ora deve pagare il
conto. «Suonerò da sola.»
«Ma Bruce non ti lascerà senz’altro gironzolare da sola a Soho in
piena no e, no?» le chiede il padre.
«Vivo lì da un anno e non ho mai avuto problemi, papà.»
«Potrei andarci anch’io», dice Bea. «Le farò da guardia del corpo.»
«Non è divertente», commenta la madre con sollievo di Elf.
«Domani hai scuola. Avere una figlia che se la spassa a Soho è già
una disgrazia sufficiente.»
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«Perché non ci andiamo noi, cara?» chiede Lawrence a Imogen.
«Di quel locale folk, il Cousins, ne ho sentito parlare moltissimo.»
«Per raggiungere Malvern domani dovrai guidare parecchio», gli
fa notare Elf. «Fra l’altro, fare un concerto al Cousins è come giocare
in casa. Ci saranno i miei amici.»

Tre mesi prima Elf e Bruce si erano scapicollati lungo la banchina


della stazione di Richmond. A lei ba eva il cuore all’impazzata, le
facevano male le gambe, era a corto di fiato. So o la pensilina, le luci
ele riche erano avvolte nella nebbia. GESÙ SALVA prome eva un
manifesto. Il profumo di castagne che veniva dal bidone di un
caldarrostaio pervadeva il crepuscolo. Una banda dell’Esercito della
Salvezza stava suonando «While Shepherds Watched Their Flocks by
Night». La falcata di Bruce era più lunga, aveva quindi raggiunto
l’ultimo vagone molto prima di Elf ed era balzato su. «State lontani
dalle porte», urlava il capo stazione. «Ripeto, state lontani dalle
porte!» Elf era certa di essere condannata a perdere il treno, ma
all’ultimissimo momento Bruce l’aveva sollevata di peso ed erano
cascati dire amente su un sedile, annaspando felici. «Pensavo»,
aveva de o Elf, «che mi avresti lasciato lì.»
«Vuoi scherzare.» Bruce le aveva schioccato un bacio sulla fronte.
«Sarebbe un suicidio professionale.» Elf si era accoccolata con la
testa so o il suo mento, in quel modo gli teneva l’orecchio sul cuore.
Respirava l’odore della sua giacca di pelle e una remota traccia di
dopobarba. Lui le aveva passato sulla clavicola le dita callose. «Ciao,
fidanzatina», aveva mormorato, e a quel punto i nervi di Elf si erano
messi a sfrigolare, zzzzzzt. Le era venuto in mente un verso per una
canzone: Sca a una foto, sca a una foto di questo con i tuoi occhi
Polaroid… e aveva pensato che anche se fosse campata cent’anni, non
sarebbe mai stata felice di essere viva come lo era in quel momento.
No, non così tanto.

Tre mesi più tardi Elf è di nuovo alla stazione di Richmond, sulla
stessa banchina che si era fa a di corsa insieme a Bruce. Stasera non
ha fre a. Su quella linea, la District, ci sono dei ritardi dovuti a «un
incidente sui binari» a Hammersmith, l’eufemismo preferito dai
trasporti pubblici londinesi per indicare un suicidio. Il tramonto del
sabato cala sui giardini di Londra, filtra dalle crepe e oscura le
strade. Stasera a West London non è asciu o da nessuna parte, non
c’è niente di caldo. Il manifesto GESÙ SALVA è sporco e mezzo
strappato. Per ripassare la vecchia scale a da solista avrà meno
tempo del previsto. La gente del Cousins vedrà un’impreparata Elf
Holloway suonare una scale a fiacca, giungendo alla conclusione
che Bruce Fletcher, andandosene, si è portato via la magia. A
quest’ora lo sapranno sicuramente. Sono l’abbandonata Miss Havisham del
folk. Elf scruta nella vetrina scura di una sala da tè chiusa. La sua
immagine riflessa la guarda truce. Fra le sorelle Holloway non è mai
stata lei quella bella. Imogen è carina, alla sua sobria maniera
cristiana. Il primato di Bea come bellezza di famiglia è indiscusso fin
dall’infanzia. Elf, a de a di tu i i famigliari, ha preso dal padre. Cioè
ricordo un dire ore di banca di mezza età un po’ pingue. Non molto
tempo prima, nel bagno di un locale, aveva sentito per caso una
donna dire: «Elf Holloway? A me sembra più una Goblin Holloway».
«Punta sui capelli, tesoro… Sono la tua carta migliore», le ha
sempre de o sua madre. Ha i capelli biondi, lunghi. Bruce ci
affondava spesso la faccia. Apprezzava le parti del suo corpo
separatamente, mai nell’insieme. Oppure diceva: «Stasera sembri in
forma». Come se ci fossero giorni in cui invece faccio schifo. Elf si è
sempre de a che a compensare il fa o di non somigliare a Joan Baez
o a Wanda Virtue sarebbe stato il suo talento di cantante folk. Il
talento, sperava, avrebbe tirato fuori il cigno che si annidava nel
bru o anatroccolo. Le a enzioni di Bruce le avevano fa o credere
che stesse succedendo, ma adesso lui non c’è più… Mi guardo e penso:
Quanto sei insignificante. Il riflesso nella vetrina le chiede: E se,
semplicemente, non fossi brava come credi?
Un piccione saltella su una zampa sola vicino alle rotaie. A meno
di mezzo metro di distanza, un ra o grasso non ci fa caso.
Vicino ai tornelli della stazione c’è una cabina telefonica. Elf
potrebbe chiamare Andy al Les Cousins, inventarsi che ha la laringite.
Il sabato sera non dovrebbe essere difficile trovare un rimpiazzo per
tappare il buco. Sandy Denny potrebbe essere lì, o Davy Graham o
Roy Harper. Diversi frequentatori abituali hanno inciso un disco, e si
parla di un intero LP, non solo di un EP. Elf potrebbe tornarsene
dri a a casa, al suo appartamento, rannicchiarsi so o le coperte e…
E cosa? Singhiozzare finché non mi addormento? Di nuovo? Non
combinare nulla finché i soldi di Wanda Virtue finiscono, e poi tornare
strisciando da mamma e papà, senza un centesimo, senza un lavoro, senza
un contra o? Se non mi presento stasera al Cousins, avrà vinto Bruce.
Vinceranno gli sce ici. «Senza Bruce che la tiene in piedi, è solo una
dile ante a cui una volta è andata bene con una canzone.» Mamma avrebbe
la dimostrazione di essere nel giusto. «Se ti fossi scomodata a pianificare il
tuo futuro come ha fa o Immy, a quest’ora anche tu avresti al fianco il tuo
Lawrence.»
’Fanculo, pensa Elf.

Il nome Les Cousins viene da un film francese, ma tu i quelli che


conosce lo pronunciano «Les Casins» o solo «Cousins». So o
l’insegna discreta, l’ingresso angusto è strizzato fra il ristorante
italiano al 49 di Greek Street e il negozio alla porta accanto dove
riparano radio. Elf scende la ripida scala lanciando un’occhiata ai
poster di Bert Jansch & John Renbourn, apostoli del revival folk.
L’aria viziata si fa via via più densa di chiacchiere, nicotina e
hashish. In a esa in fondo alla scala, c’è Nobby, un ex fuciliere che si
occupa dei biglie i oltre che di scortare fuori gli ubriachi di turno. La
saluta: «’Sera dolcezza. Fa freddo fuori».
«’Sera, Nobby.» Elf resiste all’impulso di chiedergli a gran voce:
Bruce è qui? Finché non lo domanda è ancora possibile che lui si
faccia vivo per scusarsi e resuscitare il duo. Magari è già sul palco
che si sta preparando…
Andy la vede e si sbraccia dalla zona bar in cui servono Coca-
Cola, tè e caffè. Non avere una licenza per vendere alcolici significa
non avere un orario di chiusura, il che significa concerti tu a la
no e. Ogni cantante folk degno di nota suona al Cousins, e il wall of
fame di Andy può vantare Lonnie Donegan ai tempi in cui nel locale
andava lo skiffle, i Vipers, l’émigré blues Alexis Korner, Ewan
MacColl e Peggy Seeger, Donovan che indica la scri a This Machine
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Kills sulla chitarra, Joan Baez e il prematuramente scomparso
Richard Fariña, Paul Simon e nientemeno che Bob Dylan. Elf l’ha
visto suonare qua ro anni prima la sua nuova canzone, «Blowin’ in
the Wind», proprio su quel palco, davanti alla ruota del carro e alle
reti da pesca. Lo stesso palco su cui un australiano biondo di nome
Bruce Fletcher non la sta aspe ando…
«Elf?» È Sandy Denny, un’altra habitué. «Tu o okay? Ho sentito
di Bruce. Mi spiace davvero, ma davvero davvero.»
Elf prova a fingere di stare bene: «È che…»
«È un vero schifo, ecco cos’è», afferma Sandy Denny. «Ho visto lui
e la sua nuova sciacque a nel bar del Victoria and Albert Museum.»
Elf non riesce né a parlare né a respirare. Devo dire qualcosa. «Ah,
capisco.» Non era quindi alle ragazze in generale che voleva dare un taglio,
il problema ero io.
Sandy si copre la bocca. «Oddio, lo sapevi già, vero?»
«Ma certo, sì. Come no.»
«Grazie al cielo, pensavo di aver fa o una gaffe! Erano lì con una
torta che s’imboccavano a vicenda, pensavo foste voi due, così mi
sono avvicinata e ho de o: ‘Guarda un po’ i due piccioncini’, ma poi
ho capito. Non è Elf, mi sono resa conto. Sono rimasta lì impalata
come uno stoccafisso senza sapere cosa dire.»
Al nostro primo appuntamento, Bruce mi aveva portato nello
stesso bar, ricorda Elf.
«Bruce è stato Mister Sangue Freddo, chiaramente. ‘Ciao Sandy,
lei è Vanessa. È una modella dell’Agenzia Tal dei Tali’, come se
dovessi saperlo o me ne fregasse qualcosa. Quindi ho de o ‘Ciao’ e
la modella ha de o ‘Incantata’, sembrava appena uscita da una
commedia di Noël Coward.»
Vanessa. C’era una Vanessa alla festa di Wotsit in Cromwell Road, era
gennaio. Faceva la modella.
«Uomini», dice Sandy amareggiata. «A volte vorrei…» Sventola
una mano e ne colpisce uno di passaggio. «Oh, scusa, John.»
John Martyn gira la sua testa da uomo dei boschi e guarda chi è.
«Nessun problema, Sandy. In bocca al lupo, Elf.» De o questo, se ne
va.
«Chiedo scusa.» Spunta Andy. «Elf, ho sentito quello che si dice in
giro. Se vuoi rinunciare, la gente capirà.»
Elf guarda l’uscita dietro di lui, e vede come sarà il suo futuro se
deciderà di andarsene in quel momento. Dopo aver trascorso
qualche se imana dai genitori, passerebbe l’estate facendo la
da ilografa in un ufficio, s’iscriverebbe a un corso di formazione per
insegnanti, rimedierebbe un lavoro come maestra di musica in un
istituto femminile, sposerebbe un docente di geografia e tornerebbe
con la mente a quel momento, anzi a questo momento preciso,
quello in cui il suo futuro da musicista si è dissolto. Come un castello
di sabbia travolto da un’onda.
«Elf? Che ti prende?» È Sandy, ha l’aria preoccupata.
«Devi vomitare?» Andy ha l’aria ancora più preoccupata.

Elf regola il Re girando il pirolo della chitarra. I volti le appaiono


neri su uno sfondo ancora più nero, con due macchioline bianche al
posto degli occhi. Le punte incandescenti delle sigare e rischiarano
quel colore cupo, un malinconico terra d’ombra. Non c’è bisogno di
fumare al Cousins, basta respirare. Si sente tesa. È passato un po’ di
tempo da quando ha suonato l’ultima volta da sola. Anche solo un
duo in fin dei conti è una squadra. «Per quelli di voi che sono venuti
a sentire», dillo, «Fletcher & Holloway, vi faccio le mie scuse. Bruce
non è qui…» Ha un nodo in gola. «…Mi ha scaricato per un modello
più vistoso. A essere precisi, per una modella.»
C’è un sussulto colle ivo, insieme a vari «Ooh» e «Cosa?»
Le viene quasi da ridacchiare. «Il duo», dillo a voce alta, «si è
sciolto.»
La cassa del locale fa ding. Il pubblico si scambia sguardi
costernati. Non lo sapevano poi in molti, considera. Be’, ora lo sanno.
«È lui che ha perso qualcosa, Elf, non noi», si fa sentire Sandy
Denny.
Prima che possa scoppiare in lacrime, Elf tira dri o: «Avanti con
‘Oak, Ash and Thorn’». È la sua vecchia canzone d’apertura, e la
prima che abbia mai eseguito di fronte a sconosciuti al Kingston Folk
Barge. La sua voce è impostata, flebile, vacilla su un paio di Re acuti.
Questa versione asciugata, senza Bruce, non è poi così tremenda ma
g p
nemmeno entusiasmante. Una volta conclusa, Elf strimpella gli
accordi di ‘King of Trafalgar’, il suo pezzo migliore nell’EP
Shepherd’s Crook… dopo tre ba ute lascia però perdere intimorita.
Senza la chitarra di Bruce, la canzone in un certo senso risulterebbe
anoressica. Ma cosa suono in alternativa? La pausa si sta facendo
sempre più lunga. Riprende dunque «King of Trafalgar», e sbaglia il
bridge confondendo l’accordo in Sol minore con un Mi se ima. Solo i
chitarristi più scafati se ne accorgono, ma la canzone suona
spompata. C’è un applauso di cortesia. Dopodiché suona «Dink’s
Song», un pezzo pescato dall’antologia curata da Lomax. Bruce
l’accompagnava con una magistrale linea di banjo in so ofondo, che
ora manca, e a mancare sono anche le sue o ave superiori pressoché
perfe e. Versioni migliori di questa di Elf si possono sentire in
decine di locali folk sparsi in ogni angolo del Paese. Elf si rende
conto che sta dando un concerto di Fletcher & Holloway, però senza
Fletcher. E adesso cosa faccio? Le nuove canzoni? Delle qua ro previste
per l’LP Fletcher & Holloway, due sono canzoni d’amore per Bruce, la
terza è un’ode blues al pianoforte dedicata a Soho che non ha ancora
un titolo, e la quarta è una ballata sul tema della gelosia, intitolata
«Never Enough». Dubita che riuscirebbe a eseguire le canzoni di
Bruce senza sciogliersi in una pozza di lacrime, suona quindi «Wild
Mountain Thyme». Si dimentica di ada arla a una voce narrante
femminile, però, quindi si rifugia nel consueto «Will you go, lassie,
go», dove la lassie a cui si rivolge sta per «ragazza», anziché cantare
«Will you go, laddie, go», dove laddie sta per «ragazzo». Prima del
verso «If you do not go with me, I’ll surely find another», immagina
Bruce e Vanessa che si spogliano a vicenda… Mentre io sono qui a
cantare vecchie canzoni trite e ritrite… Elf si accorge che si è bloccata.
Fra il pubblico si sentono colpi di tosse e fruscii.
Alcuni staranno pensando che ho dimenticato le parole.
Altri si domanderanno se sto per crollare.
A questa gente vorrebbe rispondere: Bella domanda.
Si rende conto che le è cascato di mano il ple ro.
So o il trucco è madida di sudore.
Pensa: Ecco come finisce una carriera…
Manda a monte l’esibizione. Va ene con la dignità inta a. Se non altro
con quello che ne resta. Mentre abbassa la chitarra, una sagoma in
prima fila si fa avanti. Il rifle ore illumina di striscio un ragazzo più
o meno della sua età con dei bei lineamenti femminili: viso ovale,
capelli neri che gli arrivano quasi alle spalle, labbra carnose, occhi
intelligenti. Ha in mano il suo ple ro portafortuna. Le dita di Elf lo
recuperano.
Era sicura di dare forfait. Adesso non lo è più.
A sinistra del ragazzo salva-ple ro c’è un tipo più alto con una
giacca viola. Le parla in modo appena udibile, come un suggeritore a
teatro: «If you do not go with me, I’ll surely find another».
Elf si rivolge al pubblico. «Credo che la riada erò un po’…» Inizia
a pizzicare le corde. «Perché rispecchi quel disastro che è la mia vita
amorosa…» Conta il tempo e inizia a cantare: «Even if you go with me,
I’ll still sleep with another… b» Assume un accento australiano:
«…’Cause my name is Brucie Fletcher, and I’ll even do your mother… c»
Tu o il locale è scosso da strilli divertiti. Elf termina la canzone
senza ulteriori rimaneggiamenti e l’applauso è fragoroso.
Già, perché no? Si trasferisce al piano. «Mi piacerebbe farvi sentire
tre nuove canzoni, sarebbe un test on the road. Non sono esa amente
folk, ma…»
«Suonale, Elf», urla John Martyn.
Lei prende il toro per le corna, il toro più indomabile, e suona la
intro di «Never Enough». Durante le o o ba ute del bridge vira su
«You Don’t Know What Love Is». L’ha visto fare a Nina Simone al
Ronnie Sco ’s Jazz Club di inserire il passaggio di una canzone a metà
di un’altra. Le due canzoni risuonano insieme. Elf torna a «Never
Enough» e conclude con uno squillante Fa diesis, lasciandolo in
sospeso. Gli applausi che sgorgano numerosi la ringalluzziscono.
Poco più in là c’è Al Stewart, ba e le mani entusiasta. Elf torna alla
chitarra e suona «Your Polaroid Eyes» e «I Watch You Sleep». Poi
canta a cappella un pezzo folk intitolato «Willie O’Winsbury» che ha
imparato da Anne Briggs, con la mano a coppa sull’orecchio alla
maniera di Ewan MacColl. Canta la parte del sovrano con tono
autoritario, la parte della figlia gravida del re con aria di sfida, e con
un piglio sfrontato la parte di Willie. Non l’ha mai interpretata
meglio.
«C’è tempo per un’altra canzone», dice preparandosi.
«Cantala, Elf», urla Bert Jansch, «o Andy non ti lascerà uscire di
qui.»
Se è vero che «Any Way the Wind Blows» per Elf è diventata un
po’ una pietra al collo, come pietra si è rivelata assai preziosa.
«Allora, l’ultima canzone è il mio grande successo americano.»
Quella corda, il Re, si è di nuovo allentata. «Il mio grande successo
americano… di Wanda Virtue.» La ba uta si guadagna risate sincere.
Elf cantava questa canzone prima di conoscere Bruce, cioè prima che
lui iniziasse a pasticciare con il finale per fonderlo con la sua ballata
su Ned Kelly. Chiude gli occhi. Vai prima sui bassi, poi sugli alti, poi
giù, ancora giù, e quindi di nuovo su. Un respiro profondo…

Un giro di applausi, mezza dozzina di abbracci, numerose


variazioni sul tema «Sei meglio senza di lui» e svariate opinioni sulle
sue nuove canzoni dopo, Elf riesce a raggiungere il ripostiglio che fa
anche da ufficio di Andy. Con grande sorpresa, trova stipati lì dentro
insieme a Andy altri qua ro uomini. Elf ne riconosce due: il salva-
ple ro di bell’aspe o e il vicino spilungone che cercava di darle
l’imbeccata con la strofa di «Wild Mountain Thyme». Il terzo ha
vaporosi capelli castani, baffi stile Regency, ridenti occhi dalle
palpebre pesanti e un’aria da furfante. Il quarto, appoggiato contro
lo schedario, ha qualche anno in più, il faccione ossuto, è stempiato,
ha le lenti degli occhiali celesti e irradia un’aura di sicurezza nel
completo blu di Prussia con i bo oni rosso tramonto.
«La donna del momento», proclama Andy. «Le nuove canzoni
sono una bomba. Qualcuno le inciderà senz’altro, se quelli della A&B
sono così stupidi da non farlo.»
«Lieta che ti piacciano», replica Elf. «Se siete in riunione, torno
dopo.»
«Non è tanto una riunione», dice Andy, «quanto un covo di
cospiratori. Ti presento Levon Frankland. Un vecchio compagno di
scorribande.»
Il tizio con gli occhiali blu si me e una mano sul cuore. «Grande
spe acolo. Sul serio.» È americano. «E quelle tre canzoni nuove?
Dinamite.»
«Grazie.» Elf si domanda se non sia gay. Si volta verso quello più
scuro e più basso. «E grazie per il mio ple ro.»
«Non c’è di che. Dean Moss, piacere. Il concerto mi è davvero
piaciuto. Quella pausa, quando ci hai fa o credere di aver
dimenticato le parole. Una messinscena brillante.»
«Non era una messinscena», confessa lei.
Dean Moss annuisce, come se, dopotu o, la cosa avesse una sua
logica.
Elf ha l’impressione di averlo già visto. «Ci conosciamo?»
«Un anno fa. Alle audizioni per un talent show della Thames TV.
Ero in un gruppo, i Ba leship Potemkin. Tu eri lì a cantare un pezzo
folk.»
«Ma certo. Siamo stati tu i ba uti da quel bambino ventriloquo
con il suo numero antidiluviano», ricorda Elf. «Scusa se non ti ho
riconosciuto.»
«Pfff. È stato uno di quei giorni che uno vorrebbe dimenticare.
Oltretu o, fino al mese scorso lavoravo all’Etna in D’Arblay Street.
Ci venivi abbastanza spesso, ma ero bloccato alla macchina del caffè,
facile quindi che tu non mi abbia notato.»
«Temo proprio che sia così. Però come mai non sei venuto a dirmi:
‘Ehi, sono il tipo di quella roba per la Thames TV’?»
Dean si guarda le mani. «Ero imbarazzato, immagino.»
Elf non sa bene cosa dire. «Questo sì che è essere onesti.»
«Io sono Griff», dice quello arruffato con i baffi. «Suono la
ba eria. Il pezzo che mi è piaciuto di più è ‘Polaroid Eyes’.
Pazzesco.» Che sia del Nord è evidente. «E questa canaglia», Griff
indica con un cenno lo spilungone magro con i capelli rossi, «si
chiama Jasper de Zoet. È il suo vero nome, che tu ci creda o no.»
Jasper stringe la mano a Elf come se seguisse delle dire ive. «Non
avevo mai conosciuto nessuno di nome ‘Elf’.» Dal tono sembrerebbe
di buona famiglia.
«‘El’ sta per ‘Elizabeth’ e ‘F’ per ‘Frances’. Ha cominciato a
chiamarmi così mia sorella Bea quando era piccola, poi mi è rimasto
q p p
appiccicato.»
«È appropriato», dice Jasper. «La tua voce è elfica a tu i gli effe i.
Ho suonato ‘Oak, Ash and Thorn’ più di cento volte. La tua ‘King of
Trafalgar’ ha una», fa roteare le dita da una parte all’altra,
«psicoacustica a tu per tu davvero notevole. Esiste questa
espressione?»
«È possibile», dice Elf, poi aggiunge spontaneamente, «e se
esistesse farebbe rima con ‘I bastoncini di Winnie Pooh’.»
«Oppure con ‘Perché lanci i bastoncini di Pooh?’»
Ooh, pensa Elf. Qualcun altro qui è un paroliere.
Levon si toglie gli occhiali. «Avremmo una proposta per te, Elf.»
«D’accordo. Sei un amico di Andy, ti ascolto.»
«Mi tolgo dai piedi», dice Andy passandole una busta. «Questo è
il tuo compenso. Sarebbe per un duo, ma te lo sei meritato.» Esce.
«Prima di tu o, un breve preambolo.» Levon Frankland chiude la
porta. «Sono un manager. Nato e cresciuto a Toronto, mi sono
trasferito a New York per diventare un colosso del folk. I miei
maglioni a collo alto erano azzeccati, per il resto però è andata male.
Quindi poi ho lavorato un po’ alla Tin Pan Alley. Prima con un
editore musicale, poi con un booking agent che teneva d’occhio le
mosse della British invasion. Sono arrivato a Londra qua ro anni fa
per occuparmi di qualche nome americano in tour da queste parti, e
qui sono rimasto. Ho accumulato parecchia esperienza in studio
facendo il galoppino per Mickie Most, mi sono spostato per un anno
alla A&R, e ora sono un agente. Potresti definirmi un tu ofare.
Persone diverse mi chiamano in modi diversi. Non me la prendo
mai. Sigare a?»
«Come no», dice Elf.
Levon distribuisce le sue Rothmans. «Verso la fine dell’anno
scorso sono stato a cena con due gentiluomini, Freddy Duke e
Howie Stoker. Freddy è un tour agent con sede in Denmark Street. È
della vecchia scuola, ma è aperto a nuove idee. Howie è un
investitore americano che di recente ha rilevato la Van Dyke Talent,
un’agenzia newyorchese di medie dimensioni. Il grande proge o di
Freddy e Howie era ed è quello di fondere le due imprese in
un’agenzia transoceanica, un corpo solo e due teste, un ponte per gli
g p p p g
artisti britannici che vogliono esibirsi negli States e viceversa. A
conoscere il territorio, i tour all’estero sono un campo minato. Le
regole del sindacato musicisti ti fanno passare la voglia di vivere.
Quindi Freddy e Howie mi hanno presentato il loro nuovo proge o.
Ero disposto a occuparmi di una piccola scuderia di talenti, incidere
demo, promuoverli, far firmare loro un contra o, farli incidere,
mandarli in tour grazie all’aiuto della Duke-Stoker e trasformarli in
nomi di spicco? Potevo lavorare dai loro uffici in Denmark Street, ma
in completa autonomia creativa. La Duke-Stoker avrebbe messo il
capitale iniziale, anticipandomi un anno di stipendio in cambio di
una percentuale relativamente modesta sui futuri profi i. Abbiamo
concluso l’accordo con una stre a di mano ancora prima che
arrivasse il carrello dei dolci. Voilà, la Moonwhale Music era nata.»
«Le nuove etiche e discografiche spuntano come funghi», osserva
Elf.
«E durano anche come funghi, per lo più.» Levon fa un tiro di
sigare a. «Si me ono a lavorare con la prima banda di ragazzo i
con la giacca a disegni cachemire che incrociano in Carnaby Street,
sperperano i loro capitali in spese di studio, non riescono a far girare
i pezzi alla radio e nell’arco di dodici mesi muoiono sepolte dai
debiti. Io intendo occuparmi di un gruppo con lo scrupolo di un
artigiano. Niente audizioni alla cieca. E prima di cominciare a fare
concerti, si proverà parecchio, così da risultare impeccabili fin dal
principio. L’aspe o più rivoluzionario è che i miei artisti riceveranno
una fe a congrua della torta, non ruberò quella torta negando che
sia mai esistita.»
«Un approccio innovativo», commenta Elf. «E che tipo di gruppo
avresti in mente?»
«Ce l’hai davanti agli occhi», interviene Griff. «Dean al basso,
Jasper alla chitarra solista, il so oscri o alla ba eria. Loro due
cantano e compongono.»
«Ci manca un tastierista», dice Jasper.
A quanto pare mi stanno offrendo un lavoro, pensa Elf.
«Un tastierista che componga anche», dice Levon. «La maggior
parte dei gruppi non arrivano a sfornare abbastanza materiale di
livello per riempire un album. Ma con Dean, Jasper e Pinco Pallo che
p p p
scrivono tre o qua ro pezzi ciascuno, potremmo tirare fuori un
intero disco di canzoni inedite.»
«Ti viene per caso in mente qualcuno con i requisiti ada i?»
chiede Dean.
«Qualcuno con la giusta psicoacustica», aggiunge Levon.
«Qualcuno che se la cavi con il fraseggio all’organo e con i riff al
piano.»
«Mi sento come se mi stessero invitando a scappare di casa per
unirmi a un circo», dice Elf. «Per essere chiari, voi non siete un
gruppo folk, giusto?»
«Esa o», dice Levon. «Saresti tu a portare lo spirito folk alla festa.
Dean ha una sensibilità blueseggiante, Griff viene dal jazz e
Jasper…»
«È un chitarrista fenomenale», dichiara Dean. «E non lo dico
perché è il mio padrone di casa, ma nonostante questo.»
«Un padrone di casa è qualcuno a cui dai dei soldi», lo prende in
giro Griff, «non qualcuno a cui non fai che chiederli in prestito, no?»
«Elf», le dice Levon, «riesco già a sentire quanto suonereste bene
insieme. Ti chiedo solo di unirti a loro per una prova. Abbiamo uno
spazio per suonare in un bar di Ham Yard. Stiamo a vedere che
succede.»
«Se non ti piace il circo», dice Dean, «potrai comunque dartela a
gambe ed essere a casa per l’ora del tè.»
Elf aspira la sigare a. «Un nome ce l’avete?»
«Avevamo pensato a ‘Way Out’», dice Levon.
«Ma non è definitivo», specifica Dean.
Bene. «E se non siete una folk band cosa siete?»
«Siamo prismatici», dice Jasper. «Rice ivi. So erranei.»
«Lui quando era piccolo ha inghio ito un vocabolario», spiega
Dean.
Elf ci riprova. «D’accordo… A chi vorreste somigliare quando
suonate?»
I tre musicisti rispondono all’unisono: «A noi».
a. Una za era e un fiume.
b. Anche se stiamo insieme, andrò lo stesso a le o con un’altra…
c. …Perché il mio nome è Brucie Fletcher, e mi farei perfino tua madre…
Darkroom a

L’UFO Club vibra mentre i Pink Floyd impostano i comandi


dell’astronave lanciata verso il cuore pulsante del sole. Mecca sta
ballando e lo guarda con i suoi occhi blu Cina. Meduse di luce
colorata rimescolano e riempiono di macchie chi balla, e Jasper inizia
a vagare con la mente.
Abracadabra, è un maschie o, perché non chiamarlo Jasper? Come mai
proprio quel nome e non un altro? Un amico? Jasper come «diaspro»,
la pietra? Un amore perduto da tempo? Sua madre è l’unica a
saperlo, ma riposa in una bara in fondo al mare, al largo della costa
egiziana. Veniamo al mondo, diamo un’occhiata e tiriamo avanti finché la
morte non soffia sulle nostre candele… Lì da dove veniamo siamo molti
di più, un milione per ogni gocciolina di essenza vitale. A stare
dietro a ognuno di noi, Dio amma irebbe senz’altro. Sul palco, Syd
Barre dà una pe inata alle corde allentate della sua Fender. Uno
pteroda ilo che sfoga il suo dolore. Syd non è un virtuoso, vero, ma gli
effe i di scena e l’aria byroniana compensano ampiamente le
carenze. Nel fra empo, all’impianto luci, Hoppy preme un tasto e
un samurai di Kurosawa inizia a farsi un giro lungo le pareti. È il
famoso spe acolo di luci dell’UFO. La mano di Jasper sta
disegnando un 8, lo sta facendo da un po’: «8» è l’infinito, stabilisce.
Lo raggiungono alcune parole, scricchiolano e gracchiano come onde
radio al tramonto… Se le porte della percezione venissero purificate, tu o
apparirebbe all’uomo come in effe i è: infinito. Poiché l’uomo si è talmente
rinchiuso che vede tu o a raverso le anguste fessure della sua caverna… E
questo chi l’ha de o? So che non sono stato io. Toc-Toc? Un antenato?
Una medusa di luce azzurra scavalca Rick. Rick Wright è al Farfisa
con una crava a viola e una camicia gialla. I Pink Floyd hanno
firmato con la EMI il mese prima, e questa se imana l’hanno passata
p q p
agli Abbey Road Studios. «Il tecnico del suono dello studio B era lì
che gironzolava», ha raccontato prima Rick a Jasper, «è entrato e ci
ha de o: ‘I ragazzi stanno facendo una pausa qui di fianco… Vi va di
salutarli?’ Quindi siamo andati. John prendeva per il culo, George
aveva mal di denti, Ringo ha raccontato una barzelle a sporca.»
Avevano ascoltato insieme una canzone di Paul intitolata «Lovely
Rita». Mecca si avvicina a Jasper roteando su se stessa. Le sue sillabe
gli stuzzicano l’orecchio: «Ich bin bereit abzuheben». Il tedesco di
Jasper è arrugginito, ma a ogni ora preziosa che passano insieme,
Mecca sta gra ando via la ruggine. «Ti senti levitare?» gli chiede.
Jasper lo trova abbastanza vero, la miccia del Mandrax è accesa. La
merce dei bu afuori all’ingresso è la più pura che si trovi in vendita
a Londinium, ed ecco che arriva, arriva e punto-punto-punto linea-
linea-linea punto-punto-punto…

…e il corpo di Jasper è ancora dov’era, a ballare all’UFO Club in


To enham Court Road, la sua mente però viene catapultata altrove.
Prima intorno a un pianeta Marte irrigato, poi su, su, e ancora più su
fino al mangia-prole Saturno, poi più veloce, Dio, più lontano,
raggiungendo la velocità della luce dove tempo e spazio si
condensano, e a quel punto c’è di nuovo quella voce stridula: «La
gloria del Signore risplende e intorno a loro, e furono presi da gran
timore. L’angelo disse loro: non temete, allacciate le cinture e
godetevi il viaggio». Bibbia nera e senza stelle, adesso. La coda di
una cometa, un filo d’argento che si dipana e si srotola. Toc-Toc. Chi
è? No, non rispondere. Meglio pensare a cose più sensate. Nick Mason
sta suonando le percussioni. Le percussioni erano qui prima di noi. Il
ritmo del cuore delle nostre madri. Mecca parte lunedì sera.
L’America la inghio irà come la balena con Giona. Adesso pulsiamo
al suono del basso di Roger, un Rickenbacker Fireglo. Il sorriso di
Roger Waters è sia cappa sia spada. Il volto di Mecca diventa
concavo, si allunga, circonda Jasper. Il mio amore vegetale dovrebbe
crescere, più grande di tu i gli imperi e più lento. La faccia di lei rifle e
quella di lui e quella di lui quella di lei, ma quale riflesso ha mai
pensato di essere un riflesso? «Tu credi che la realtà sia solo lo
specchio di qualcos’altro?» chiede Jasper. La risposta di Mecca si fa
p q p p
a endere dietro le labbra ceree da fanciullo: «Ja, bestimmt. Per questo
una foto di qualcosa è più autentica della cosa stessa». Le prende la
mano e se la me e sul cuore. Il volto di Mecca torna normale.
«Congratulazioni, lo sento scalciare. Quale giorno partorisci?»
«L’ho superato il colloquio?»
«Cerchiamo un taxi.»

Fuori dal locale trovano un taxi nero in sosta. «Blacklands Terrace


a Chelsea. Di fronte alla libreria John Sandoe», dice Mecca al
conducente. Accanto a loro sfrecciano strade scure. Amsterdam si
avvolge su se stessa. Londra si apre, si apre, si apre… Mecca gli tiene
castamente la mano. Solo poche finestre ai piani alti sono illuminate.
Jasper sente ancora le percussioni. Un pizzico di Pink Floyd fa molta,
molta strada. Il taxi si ferma. «Tenga il resto», dice Mecca. Una sera
ventosa, un marciapiede, una serratura Yale, scale, una cucina, una
lampada. «Faccio una doccia», dice Mecca. Jasper si siede al tavolo e
quando lei ricompare è molto meno vestita di prima. «Sarebbe un
invito.» Fanno la doccia insieme. Un po’ più tardi sono a le o. Più
tardi tu o tace. Più tardi un camion ruggisce nelle vicinanze un paio
di strade più in là. Chelsea High Street? Potrebbe essere. Mecca sta
dormendo. Sulla schiena ha una grossa voglia sporgente. A Jasper fa
venire in mente Ayers Rock. Passato e futuro si compenetrano. È su
una terrazza panoramica e al di là dei te i, degli abbaini e dei
magazzini vede una baia. Colpo di cannone. Dev’essere un film. Un
tonante staccato gli stravolge i sensi. Il cielo oscilla sui lati. Tu i i
cani si me ono ad abbaiare, i corvi sono impazziti. Un uomo robusto
e abbigliato come nell’era napoleonica, appoggiato alla balaustra
guarda con un cannocchiale verso il mare. Jasper gli domanda se
quello è un sogno o se la pasticca che ha preso all’UFO non fosse
solo anfetamina. L’uomo al cannocchiale schiocca le dita. Clic, si
sente. Scrit-scrit. Jasper sta percorrendo una strada a piedi. Arriva
alla pensione di sua zia a Lyme Regis. Lo zio in sedia a rotelle gli
dice: «Ci hai lasciato per una vita migliore, ricordi? Levati dalle
palle!»
Clic. Scrit-scrit. Jasper supera Swa am House alla Bishop’s
School di Ely. Il preside se ne sta impalato davanti all’entrata come
y p p
un bu afuori. «Circolare, circolare, non c’è niente qui per te.»
Clic. Scrit-scrit. Un pub, il Duke of Argyll in Brewer Street. Jasper
sbircia a raverso il vetro istoriato. Seduti a un tavolo ci sono lui, Elf,
Dean, Griff e Mecca. «Way Out non piace a nessuno. Se dovessimo
inventarci un nome ora, da zero, cosa sceglieremmo?» Puntano tu i
lo sguardo su Jasper, compreso l’altro Jasper, quello all’interno del
pub.
Clic. Scrit-scrit. Qualcosa, che si tra i di neve rischiarata dal
sogno, di un bocciolo vorticante o di falene di filigrana, oscura la
visuale di Jasper. Si è perso in una Soho perfino più labirintica di
quella reale. Cerca un segno e mentre l’oscurità si asso iglia nella
luce, il segno lentamente affiora. Più che un segno è un segnale
stradale, che con i tipici cara eri delle strade di Londra indica:
UTOPIA AVENUE . Clic. Scrit-scrit…

P-E-N-T-A-X , dicono le le ere a pochi centimetri dalla sua faccia.


Clic. La macchina fotografica sta sca ando. Scrit-scrit. Mecca indossa
un maglione a trecce color crema che le arriva alle ginocchia. Fa
partire un altro sca o. Clic. Scrit-scrit. Sopra di lei la luce è quella di
un cielo sporco. I corvi vorticano come calzini in una lavatrice. Che
altro? Una coperta. Fazzole i incrostati. Un fornello ele rico. Un
tappeto. I vestiti di Jasper. Foto in bianco e nero, decine, appuntate
alla parete. Nuvole nelle pozzanghere, certe inclinazioni della luce,
pendolari, vagabondi, cani, graffiti, la neve che soffia all’interno dalle
finestre ro e, gli amanti negli androni, le lapidi semi-illeggibili e
qualsiasi altra fantasticheria di Londra a ira l’a enzione di Mecca e
le fa pensare: Voglio salvarti. Clic. Scrit-scrit.
Poi abbassa la sua Pentax e si siede a gambe incrociate.
«Buongiorno», dice a Jasper.
«Inizi a lavorare presto, vedo.»
«I tuoi occhi erano…» non riesce a trovare la parola giusta «…si
muovevano da pazzi so o le palpebre. Stavi sognando?»
«Sì.»
«Magari ti farò una serie di foto: De Zoet: addormentato; De Zoet:
sveglio. Oppure le intitolerò Paradiso perduto.» Si infila i collant blu
marino. «La colazione è al piano di so o.» Se ne va.
Jasper si chiede se lui e Mecca siano ancora insieme, o se la no e
precedente sia stata per loro la prima e ultima volta. Si veste con
calma, poi passa qualche minuto a osservare con a enzione le foto.

C’è una cucina a disposizione di chi lavora nello studio. Mecca è lì


dentro che mangia una ciotola di cereali Weetabix e sfoglia una
rivista di moda. Il bollitore ele rico borbo a, sibila. Da dietro le
tende, Jasper sbircia fuori: è un vicolo di Chelsea. Raffiche di vento
smuovono mucchi di foglie morte, scuotono un salice e con uno
stra one rivoltano l’ombrello di un prete. In fondo alla cucina c’è un
piccolo ballatoio. Jasper lo raggiunge e so o vede un grosso studio
fotografico con una sfilza di tendaggi, a rezzature, luci e treppiedi.
Utilizzando alcune balle di fieno e un paio di chitarre acustiche come
ogge i di scena hanno allestito un set. «Caruccia la tana», dice Jasper
citando le parole di Dean la prima volta che ha messo piede da lui,
nell’appartamento di Chetwynd Mews.
«Tana?»
«L’alloggio. Puoi chiamare così sia un grosso appartamento che
un monolocale.»
«Perché ‘tana’ però? Mi fa venire in mente qualcosa che si scava.
Perché?»
«Non ne ho idea. Non l’ho creata io la mia lingua.»
Mecca assume un’espressione che Jasper non sa interpretare. «Dal
lunedì al sabato, Mike, il mio capo, è qui con le modelle, i vari
collaboratori eccetera. Io sbrigo il lavoro pesante, aiuto con gli sca i,
faccio parecchia roba. In cambio ho la ‘tana’ gratis, Mike mi dà la
pellicola e mi perme e di usare la camera oscura.»
«Le tue foto sono speciali.»
«Ti ringrazio. Sto ancora imparando.»
«Ho visto diversi sca i di un picche o.»
«Portuali in sciopero nell’East End.»
«Come hai fa o a convincerli a posare per te?»
«Gli ho semplicemente spiegato come stavano le cose: ‘Ciao, sono
una fotografa tedesca, posso farti una foto per favore?’ Un paio mi
hanno de o: ‘Vaffanculo’, un altro ‘Fotografati un po’ il mio uccello,
g p
signorina Hitler’, ma la maggior parte ha risposto: ‘D’accordo’. Se
qualcuno ti sca a una foto è come se ti stesse dicendo: ‘Tu esisti’.»
«È come se fossero lì a fissare chi li guarda, cercando di capire se è
un nemico oppure no», rifle e Jasper ad alta voce, «eppure tu i loro
non sono che reazioni chimiche su carta. La fotografia è una strana
illusione.»
«Giovedì, nella tana di Heinz, tu hai suonato una canzone
spagnola.»
Il bollitore sta vibrando. «‘Asturias’ di Isaac Albéniz.»
«Sì, quella. Mi ha fa o venire Gänsehaut… pelle d’oca, dite voi?»
«Esa o.» Il bollitore ha finito di bollire, sca a.
«La musica è fa a di vibrazioni nell’aria, nient’altro. Ma queste
vibrazioni generano reazioni fisiche. Perché? Per quanto mi riguarda
è un mistero.»
«Come funziona la musica – la teoria, la pratica – lo si può
imparare.» Jasper svita il tappo del caffè. «Perché funzioni, invece, lo
sa solo Dio, e nemmeno lui, forse.»
«Per la fotografia è uguale. L’arte è un paradosso. Non ha senso,
eppure è il senso. Quel caffè sa di merda di topo. Meglio un tè.»
Jasper prepara una teiera e la porta al tavolo.
«Dopo qui dove vai?» gli chiede Mecca.
«Alle due ho le prove con il gruppo. Torno a Soho.»
«Siete bravi?»
«Credo che ci stiamo arrivando.» Jasper soffia sul tè. «Abbiamo
iniziato a suonare insieme il mese scorso, stiamo ancora cercando un
nostro sound. Levon vuole che eseguiamo alla perfezione dieci
canzoni, prima di iniziare a fare concerti. Dice che dobbiamo uscire
già pienamente formati dalla testa di Zeus.»
Mecca mangia una cucchiaiata di Weetabix.
«È il tuo ultimo giorno in Inghilterra, quindi magari dovrai
salutare molta gente. Se però sei libera, potresti farmi compagnia.»
Il mezzo sorriso di Mecca significa qualcosa. «Uscire di nuovo
insieme?»
Jasper teme di aver frainteso l’intera situazione. «Se non ti sembra
prematuro.»
«Prematuro?» È plausibile che sia divertita. «Abbiamo appena
fa o sesso. Per essere prematuri è un po’ tardi.»
«Scusa. Non ho mai imparato come ci si comporta. Sopra u o
con le donne.»
«Noi ci siamo conosciuti solo tre giorni e due no i fa?»
«Perché?»
Mecca soffia sul tè. «Mi sembra molto di più.»

Tre giorni e due no i prima Heinz Formaggio gli aveva aperto la


porta del suo appartamento in uno sfarzoso edificio a mezzaluna
davanti a Regent’s Park. Indossava un completo, una crava a
ricamata con equazioni algebriche e occhiali dalla montatura severa.
«De Zoet!» aveva esclamato abbracciando il suo vecchio compagno
di scuola. Jasper lo aveva lasciato fare. «Lo sapevo che eri tu. Molti
di quelli che passano a trovarmi si a accano al campanello – bzzzzzz
– ma tu hai fa o bazzz-bim-bazzz-bazzz, bazzz-bazzz. Dio santo, guarda
che capelli! Sono più lunghi di quelli di mia sorella.»
«Tu ti stai stempiando», gli aveva de o Jasper. «E sei più grasso.»
«Vedo che sei ancora un maestro di ta o. Ma sul mio girovita hai
ragione, ahimè. Quelli di Oxbridge, sto scoprendo, mangiano da re.»
Dal corridoio alle sue spalle filtravano un chiacchiericcio da party e
«My Favorite Things» di John Coltrane. Formaggio aveva accostato
la porta ed era sga aiolato fuori.
«Prima di entrare, come va?»
«A novembre ho avuto il raffreddore, poi un accenno di psoriasi
su un gomito.»
«Parlavo di Toc-Toc.»
Jasper aveva tentennato. Non aveva ancora osato rivelare ciò che
sospe ava a nessuno della band. «Credo stia tornando.»
Formaggio lo aveva fissato. «Cosa te lo fa pensare?»
«Lo sento. O almeno credo.»
«Lo senti bussare? Come in passato?»
«È ancora flebile, quindi non posso esserne certo, però… sì, credo
di sì.»
«Sei ancora in conta o con il do or Galavazi?»
Jasper aveva scosso la testa. «Ormai è in pensione.»
p p
Dalla casa di Formaggio erano sgusciate delle risate. «Ce l’hai
pronta quella medicina, se mai ne avessi bisogno?»
«No.» Lo sguardo di Jasper si era spinto nel corridoio curvo del
peculiare edificio a mezzaluna che ospitava il pied-à-terre londinese
dello zio di Formaggio. Gli specchi erano grandi e numerosi, una
scocciatura. «Avrei bisogno di essere indirizzato a uno psichiatra. Mi
preoccupa però a cosa potrebbe portare un consulto. Se mi
rinchiudessero, da queste parti non ci sarebbe nessuno a tirarmi
fuori.»
«Il do or Galavazi potrebbe fare qualche telefonata. Dico bene?»
Jasper non ne era così convinto. «Ci penserò.»
«Pensaci.» La fronte corrugata dell’amico si era distesa. «E adesso
entriamo. Sono tu i ansiosi di conoscere dal vivo un autentico
chitarrista professionista.»
«Sono più un semiprofessionista, ora come ora.»
«Non dirlo. Sai, stavo tessendo le tue lodi. Fra gli ospiti c’è un
fotografo tedesco itinerante, una lei, una lei notevole tra l’altro. Mi è
stato riferito da persone fidate che è una Wunderkind. Mi sono
scervellato cercando di capire chi mi ricordasse e di colpo mi è
venuto in mente: tu, De Zoet. Sei tu al femminile. Inoltre, guarda
caso, è libera…»
Jasper si era domandato perché Formaggio glielo stesse dicendo.

***

La cena da Heinz Formaggio aveva la puzza so o il naso, sapeva di


accademico e non c’erano droghe: il contrario dei raduni di musicisti
che aveva frequentato Jasper da quando era arrivato a Londra, in
novembre. A mezzano e quelli del catering se n’erano andati ed
erano rimasti solo cinque ospiti. Jasper era intenzionato a rifarsela a
piedi fino a Chetwynd Mews, ma il freddo polare, il brandy, Kind of
Blue di Miles Davis, la forza di gravità e un tappeto in pelle di pecora
gli avevano fa o cambiare idea. Si era mezzo appisolato mentre
alcune voci lubrificate dall’alcol discutevano del futuro. «Al tardo
capitalismo do ancora vent’anni», aveva prede o un sismologo.
«Entro la fine del secolo il mondo intero avrà un governo
comunista.»
A quel punto, un filosofo se n’era uscito con la crepitante risata da
corvo tipica della gente di Liverpool. «Stronzate! Da quando il
mondo è venuto a sapere dei gulag, l’impero sovietico è in
bancaro a morale. Il socialismo è un cadavere agonizzante che si
contorce.»
«Ben de o», aveva concordato un keniota. «La fe a rosa-
grigiastra dell’umanità non spartirà mai il potere con noi. E se
facessero a noi quello che noi abbiamo fa o a loro? Ecco cosa pensate tu i
quanti.»
«La bomba H riduce le possibilità di avere un futuro, uno
qualunque», aveva continuato il climatologo. «Il futuro è un deserto
radioa ivo. Una volta che un’arma viene inventata, poi verrà usata.»
«Con la bomba H potrebbe andare diversamente», aveva replicato
Mecca la fotografa. A Jasper quella voce piaceva, gli ricordava le
spazzole sui pia i della ba eria. «Se uno la usa e se anche il nemico
ce l’ha, a morire saranno anche i figli di chi l’ha lanciata per primo.»
«Siete davvero uno spasso, voialtri», era intervenuto un
economista. «Che mi dite delle colonie su Marte? E dei
videotelefoni? E dello zaino-jet, dei vestiti d’argento, dei robot che
dicono ‘Affermativo’ anziché ‘Sì’?»
Il keniota aveva sbuffato. «Scomme o che vedendo l’Homo sapiens
riprodursi come un coniglio e distruggere il pianeta, i robot
intelligenti faranno la cosa più saggia: useranno le loro armi per
spazzarci via.»
«Il musicista che ne dice?» aveva chiesto il climatologo. «Dove ci
porterà il futuro?»
«Impossibile saperlo.» Jasper si era raddrizzato a fatica. «Quante
persone cinquant’anni fa avevano previsto Hiroshima, Dresda, il
bli su Londra, Stalingrado, Auschwi ? E il grosso muro che divide
Berlino in due? E la televisione? La decolonizzazione? Cina e
America che comba ono una guerra per procura in Vietnam? Elvis
Presley? Gli Stones? Stockhausen? Jodrell Bank? La plastica? La cura
per la polio, il morbillo, la sifilide? La corsa allo spazio? Il presente è
un sipario chiuso, la maggior parte di noi non può vedere cosa c’è al
p gg p p
di là. E a quelli che ci riescono – per fortuna o chiaroveggenza –
basta vederlo per modificarlo. Ecco perché è impossibile sapere dove
ci porterà il futuro. Fondamentalmente. Intrinsecamente. Gli avverbi
mi piacciono.»
La canzone «Flamenco Sketches» era terminata in quel momento.
Il disco si era zi ito con un clic. Il silenzio era fertile, avvolgente.
«Il tuo, Jasper, è un po’ un parlare a vanvera», aveva commentato
il filosofo. «Ti abbiamo chiesto una previsione e ti sei limitato a
rispondere in maniera altisonante che non ne hai idea.»
Jasper non aveva la carica mentale necessaria per confutare a
parole un filosofo. Aveva recuperato la chitarra di Formaggio.
«Posso?»
«Non c’è neanche bisogno di chiederlo, maestro», aveva risposto
Formaggio.
Aveva suonato «Asturias» di Isaac Albéniz. La chitarra dell’amico
non era il massimo, ma i sei presenti erano vi ime di un incantesimo
che cullava la luna, incrinava il sole e pompava il sangue. Quando
Jasper aveva finito, erano rimasti tu i immobili. «Fra cinquant’anni»,
aveva allora de o lui, «o fra cinquecento, o fra cinquemila, la musica
sarà ancora in grado di fare alla gente l’effe o che fa oggi. La mia
previsione è questa. È tardi.»

Si era risvegliato sul divano dello zio di Formaggio. Da lì era


andato in cucina, si era riempito una tazza di la e, acceso una
sigare a, si era messo a sedere accanto alla finestra rigata dalla
pioggia e aveva guardato gli alberi tetri e spogli che costeggiavano la
strada a mezzaluna. Le aiuole erano disseminate di crocus. Un
la aio con in testa un cappello impermeabile da pescatore sostituiva
di porta in porta le bo iglie vuote con quelle piene, piazzando dei
bara oli di vetro sui tappi di stagnola per impedire agli uccelli di
arrivare al la e. «Ti svegli presto», aveva de o Mecca. Pallida e
so ile, la giovane donna indossava una giacca di velluto nero e
sembrava pronta per andarsene.
Jasper non sapeva bene che cosa dire. «Buongiorno.»
«Suoni la chitarra in modo magnifico.»
«Ci provo.»
p
«Dove hai imparato?»
«In una serie di stanze, nel corso di sei o se e anni.»
Il volto di Mecca si era fa o indecifrabile.
«Ho dato una risposta stramba? Scusa.»
«No, non c’è problema. Heinz dice che sei molto… wörtlich?
Le erario?»
«Le erale. Cerco di non esserlo, ma cercare di non esserlo è dura.
Hai una voce rilassante. Come le spazzole d’acciaio sui pia i della
ba eria.»
L’espressione di Mecca era tornata quella di pochi istanti prima.
«Anche questa era un’uscita stramba, eh?»
«Spazzole d’acciaio sui pia i. Mi piace.»
Chiediglielo, si era de o Jasper. «I Pink Floyd li conosci?»
«Ne parlavano alcuni assistenti di Mike.»
«Suonano all’UFO domani sera. Conosco Joe Boyd, il gestore del
locale. Ci farà entrare, se ti va di andarci.»
Le sopracciglia di Mecca si erano sollevate. Stupita. «È
ufficialmente un appuntamento romantico?»
«Ufficialmente, non ufficialmente, romantico, non romantico.
Come preferisci.»
«Una signorina in una ci à straniera deve fare a enzione.»
«Vero. Che ne dici allora se prima, a cena, mi fai un
interrogatorio? Se ti sembro troppo strano, potrai sempre sparire
mentre sono in bagno. Senza rancore. Non so neanche bene se lo so
provare, io, il rancore.»
Mecca aveva esitato. «Hai un numero di telefono?»

Tre giorni, due no i e una domenica ma ina dopo il ristorante Ho


Kwok’s è immerso nel vapore, così come nel chiasso per via del cinese
parlato a tu o spiano. Con una zampa dondolante, un ga o di
porcellana bianca invita la buona sorte a entrare da Lisle Street.
Jasper e Mecca sono fortunati ad aver trovato posto vicino alla
vetrina.
«Chinatown è come Soho», dice Jasper. «È fa a da forestieri e le
regole abituali non valgono.»
«Una Enklave. Si dice così anche nella tua lingua?»
g
Jasper annuisce. Una cameriera porta del tè al gelsomino e prende
nota delle loro ordinazioni – wonton noodle – senza dire nulla.
All’esterno, i baveri sono alzati e i cappelli ben calcati. Sull’altro lato
della strada, tra un’erboristeria cinese e una lavanderia, un uomo
prende una chitarra malrido a da una custodia di cartone in cui
me e qualche moneta di tasca sua. Con voce roca a acca a
squarciagola «Satisfaction» dei Rolling Stones, ma prima di arrivare
alla seconda strofa spuntano dal nulla tre nonnine cinesi. Hanno in
mano delle scope e gli dicono: «Va’ via! Va’ via!» L’artista di strada
protesta: «Questo è un Paese libero, che diavolo!» Le nonnine
iniziano a prendergli a scopate le caviglie. Alcuni si fermano a
godersi il teatrino, e una ragazza magra sfreccia via da lì insieme alle
monete della custodia. L’artista corre come un fulmine dietro alla
ladra, inciampa, a erra nel canale di scolo del marciapiede, il manico
della chitarra si spezza. Resta a fissare incredulo lo strumento ro o e
si guarda intorno, in cerca di qualcuno con cui lamentarsi, da
incolpare o contro cui sfogarsi. Scopre di essere solo. Le folate di
vento marzolino fanno rotolare una la ina lungo il canale di scolo,
oltre i suoi piedi. L’ex artista di strada incespica fino alla custodia
della chitarra, vi adagia lo strumento e se ne va zoppicando verso
Leicester Square.
«He can’t get no satisfaction», commenta Mecca.
«Avrebbe dovuto scegliersi meglio il posto. Non puoi
semplicemente sistemarti dove ti pare e sperare che vada tu o per il
meglio.»
«Tu ci hai suonato molto per strada?» chiede Mecca.
«Ad Amsterdam sì, in piazza Dam. Londra è più rischiosa, come
hai appena visto. Oppure c’è sempre gente che vuole suonare con
te.»
La cameriera porta quello che hanno ordinato e qua ro bacche e
di plastica. Jasper si china sulla pozza calda di noodle, maiale, mezzo
uovo spruzzato di soia e cavolo cinese. Il vapore gli ammorbidisce le
palpebre. Clic, scrit-scrit. Guarda di traverso nell’occhio circolare
della Pentax di Mecca e clic, scrit-scrit, sente di nuovo. Lei rime e il
tappo sull’obie ivo.
«Non ti prendi mai una pausa dal lavoro?» le chiede Jasper.
p p p
«Voglio un souvenir. Prima che il tuo gruppo diventi famoso.»
«Anch’io voglio un tuo souvenir. Mi presteresti un a imo la
macchina fotografica?»
«La tua chitarra tu la presteresti a chiunque?»
«A chiunque no. A te sì.»
Mecca gli cede la Pentax. Jasper guarda nel mirino i clienti che
risucchiano noodle, annuiscono, scherzano, siedono silenziosi. Il
mirino inquadra questa donna così fuori dal comune, Mechthild
Rohmer, che fissa l’obie ivo come farebbe un sogge o fotografico.
«Non è così che ti voglio ricordare», le dice Jasper.
«E come mi vorresti ricordare?»
«Immagina di essere stata due anni in America. Immagina di
essere finalmente a casa. Immagina di suonare il campanello dei tuoi
genitori. Non ti stanno aspe ando. È una sorpresa. Immagina di
sentire i loro passi nel corridoio…» La faccia di Mecca sta
cambiando, non è ancora del tu o quella giusta però. «Immagina il
rumore del chiavistello che si apre. Immagina l’espressione sul volto
dei tuoi genitori quando si rendono conto che sei tu.» Clic, scrit-scrit.

Il giro di boogie-woogie di Elf, i colpi secchi sull’anello del


rullante di Griff e il basso di Dean, da a utiti che erano si fanno
impetuosi non appena Jasper apre al terzo piano la porta con la
scri a CLUB ZED . Il gruppo stava suonando «Abandon Hope», il
grandioso blues in dodici ba ute di Dean. Mecca è indecisa. «Sicuro
che non do fastidio?»
«Perché dovresti?»
«Sono un’estranea.»
Jasper la prende per mano e, a raversando una tenda di velluto,
la conduce in un’ampia stanza che ricalca un salo o mi eleuropeo.
So o lampadari dalla luce fioca, i tavoli sono circondati da
imponenti poltrone. Dipinti e fotografie degli eroi di guerra polacchi
vigilano sulla situazione dalle pareti. Una bandiera polacca zeppa di
buchi di pallo ole che risalgono alla rivolta di Varsavia è
incorniciata in cima al bancone rivestito di specchi opachi, dietro il
quale se ne stanno inanellate centinaia di bo iglie di vodka. Spesso,
sta imparando Jasper, a Soho un ingresso anonimo è un portale che
conduce in un tempo diverso e in un posto diverso. Oltre che di
polacchi, il Club Zed è un ritrovo di jazzisti, ospita un bel pianoforte
a coda Steinway e una ba eria o o pezzi Ludwig che Elf e Griff
stanno suonando, mentre Dean spreme ululati dall’armonica a bocca.
Il pubblico di due persone è composto da Levon e Pavel, il
proprietario del Club Zed, entrambi stanno fumando sigari. Quando
Dean si accorge di Mecca, «Abandon Hope» va rumorosamente fuori
sesto. Elf e Griff alzano lo sguardo e sme ono di suonare qualche
nota dopo.
«Scusate il ritardo», dice Jasper. «Ho avuto un contra empo.»
«Puoi dirlo forte», commenta Griff guardando Mecca.
«Sarebbe lei, quindi?» chiede Dean a Jasper.
«Sì, sarei io», replica Mecca. «E immagino che tu sia Dean.»
Griff fa roteare una bacche a fra le dita e colpisce due volte la
ba eria, tump tump.
Presentala, si ricorda Jasper. «Allora gente, sì… questa è Mecca.
Mecca quello è Levon, il nostro manager, e lui è Pavel, che ci
perme e di provare qui.»
La salutano tu i a eccezione di Pavel, che inclina la testa
lenineggiante. «Tedesca, se non vado errato.»
«No, non vai errato. E volendo azzardare un’ipotesi…» Mecca si
dà un’occhiata intorno, «tu vieni dalla Polonia.»
«Sono di Cracovia. Magari ne hai sentito parlare.»
«Ma certo, perché non dovrei conoscere la geografia polacca?»
«Mmm», Pavel sembra meditabondo. «Voialtri preferite
dimenticarvi della storia. I giorni di gloria del Lebensraum.»
«Molti tedeschi non li definiscono certo ‘giorni di gloria’.»
«Sul serio? Quelli che hanno confiscato la casa alla mia famiglia lo
facevano. Quelli che hanno sparato a mio padre lo facevano.»
Perfino Jasper riesce a percepire l’ostilità di Pavel.
Mecca replica calibrando le parole: «Mio padre insegnava storia a
Praga. Questo prima che la Wehrmacht lo arruolasse e lo spedisse in
Normandia. Non avrebbe voluto andarci, ma se si fosse rifiutato gli
avrebbero sparato. Mia madre scappò con me da Praga a
Norimberga prima dell’arrivo dei russi. La storia la conosco, quindi.
g p q
Lebensraum. Genocidi. Crimini di guerra. So tu o. Però sono nata nel
1944. Non sono stata io a dare certi ordini. Non sono stata io a far
piovere le bombe. Mi dispiace che tuo padre sia morto. Mi dispiace
che la Polonia abbia sofferto. Mi dispiace che abbia sofferto tu a
l’Europa. Ma se tu te la prendi con me… per quello che sono, una
tedesca, cosa ti rende tanto diverso da un nazista che dice: ‘Tu i gli
ebrei sono così’, oppure: ‘Tu i gli omosessuali sono così’ o ‘Tu i gli
zingari sono così’? Questo è un modo di pensare da nazista. Tu
comportati pure così, se ti va, ma io non lo farò. È esa amente
questo modo di pensare che ha fa o scoppiare la guerra. No, io dico:
‘Vaffanculo a tu e le guerre’. Vaffanculo ai vecchi che le hanno
iniziate e che hanno mandato i giovani a morire. Vaffanculo all’odio
che la guerra crea. E vaffanculo alla gente che nutre quell’odio anche
vent’anni dopo. Okay, ho finito i vaffanculo.»
Griff scarica qualche rapido colpo fra grancassa, rullante, timpani
e charleston.
«Me ne vado subito dal tuo bar, se lo desideri», dice Mecca.
Non farlo, pensa Jasper. Pavel fissa Mecca per un po’. Sono tu i in
a esa. «In Polonia apprezziamo i buoni discorsi», dice Pavel. «E
quello che hai appena fa o lo era. Ti va di bere qualcosa? Offre la
casa.»
Mecca gli restituisce lo sguardo. «In tal caso, sarei lieta di provare
la vostra vodka polacca migliore. Grazie.»

«No, no, no», sbo a Elf. «Sol, La, Re, Mi minore.»


«È quello che ho suonato, maledizione, un Mi minore», s’inalbera
Dean.
«No che non è così», dice Elf. «Hai suonato un Mi. Guarda.»
Scarabocchia qualcosa sul suo taccuino, strappa la pagina e gliela
tende. «Parti con il Mi minore alla fine della seconda e della quarta
linea, qui, quando canto le parole raft and river, e di nuovo su forgiven
and forgiver. Griff, potresti essere un po’ più… leggiadro?»
«Leggiadro?» Griff aggro a la fronte. «Come Paul Motian?»
Ora è Elf ad aggro are la fronte. «Paul chi?»
«Il ba erista di Bill Evans. Ha un suono fluido, arioso,
sussurrato.»
«Prova così. Jasper, puoi accorciare il tuo assolo di due ba ute?»
«D’accordo.» Jasper nota che Levon sta bisbigliando qualcosa a
Mecca nell’orecchio.
«Dall’inizio, allora», dice Elf. «Un, due…»
«Scusate, ragazzi, perdonatemi.» Levon si alza. «Breve riunione
del gruppo.» Griff dà una rullata a un pia o. Elf lo guarda. Dean
molla la chitarra, a reggerla è solo la tracolla. Jasper si domanda se
possa c’entrare Mecca.
«Avremo bisogno di qualche foto», dice Levon, «per i manifesti,
per la stampa e anche per le copertine degli album, chi lo sa? Per una
fortunata coincidenza una fotografa è approdata fra noi. La mozione
è: affidiamo a Mecca l’incarico di sca are un paio di rullini? Subito,
dico.»
«Ma non parte domani per gli Stati Uniti?» chiede Elf.
«Sì. Vi fotograferei adesso, sviluppo la pellicola stasera e domani,
mentre vado in aeroporto, lascerò gli sca i migliori in Denmark
Street.»
«E i vestiti, i capelli e roba del genere?» domanda Griff.
«Mecca vi fotograferà mentre suonate», risponde Levon. «In loco.
Niente di patinato. Pensate ai ritra i sugli album della Blue Note.»
«Hai de o ‘Blue Note’ solo per farmi acce are», mugugna Griff.
«Sai leggermi nell’anima», replica Levon.
«Io voto sì», dice Elf.
«Ho visto il lavoro di Mecca», dice Jasper. «Voto sì.»
«Non per offendere Mecca», dice Dean, «ma non sarebbe meglio
prendere un fotografo famoso? Terence Donovan. David Bailey.
Mike Anglesey.»
«I fotografi celebri», dice Levon, «applicano le tariffe delle
celebrità.»
«A questo mondo la qualità si paga», riba e Dean.
«Più di duecento sterline. A sca o.»
«L’ho sempre de o», commenta Dean, «i fotografi famosi sono dei
mercanti senza scrupoli del cazzo. Io voto Mecca. Tu Griff ci stai?»
«Puoi farmi somigliare a Max Roach?» chiede il ba erista alla
fotografa.
Mecca sembra rifle ere. «Se ti trucchiamo molto e stampiamo in
negativo, la madre di Max Roach ti scambierà per suo figlio.»
«Ehi, affilata come una lama e secca come il Sahara», dice Griff.
«Vincono i sì, cazzo. La mozione è approvata.»

Il Duke of Argyll in Brewer Street la domenica apre alle sei. Pochi


minuti dopo le sei, il gruppo più Mecca si intrufola in un cantuccio
vicino alla vetrina. Il vetro è satinato, ma a raverso un punto in cui è
inciso uno stemma Jasper riesce a vedere i passanti e la farmacia
dall’altra parte della strada. È un pub di classe, in stile vi oriano, con
finiture in o one, seggiole dagli schienali imbo iti e cartelli con su
scri o: VIETATO SPUTARE . Griff apre un cartoccio pieno di ciccioli e li
rovescia in un posacenere più o meno pulito, poi il gruppo e Mecca
fanno tintinnare in un brindisi i loro bicchieri spaiati. «Alle foto di
Mecca», dice Dean. «Che finiscano sulla copertina del nostro primo
LP.» Scola mezza pinta di London Pride. «Non fa male essere
o imisti.»
«E un brindisi per ‘A Raft and the River’», dice Griff. «Che diventi
un singolo.»
«O un eccezionale lato B.» Dean si asciuga le labbra dalla
schiuma.
Elf alza la mezza pinta di panaché verso Mecca. «Buon viaggio
negli States. Sono gelosa marcia. Pensa a me ogni tanto, bloccata qui
con loro mentre tu viaggi in lungo e in largo come un personaggio di
Jack Kerouac.»
Dean e Griff la trovano divertente, Jasper si sforza quindi di
sorridere.
«Presto in America ci andrete in tour», preannuncia Mecca.
«L’alchimia fra voi qua ro è speciale. È fühlbar… Come si dice
fühlbar? Posso sentirla.»
«Palpabile», suggerisce Elf.
Entra un gruppo sfoggiando un abbigliamento alla Carnaby Street
e capelli più lunghi di quelli di Jasper. Nessuno si scandalizza. A
Soho i veri freak sono i tipi regolari.
«Ragazzi», inizia Elf. «Stavo pensando…»
«Ahi», la interrompe Dean. «La cosa sembra seria.»
«Ho cercato di farmi piacere il nome Way Out, davvero. Però non
ce l’ho fa a. E metà di quelli con cui ne ho parlato continuano a
confondersi con ‘Far Out’. È un nome che non fa presa. Non
possiamo, per favore, farcene venire in mente un altro?»
«In che senso?» interviene Dean. «Adesso dici?»
«Fra poco sarà tardi per cambiarlo», spiega Elf.
Jasper si accende una Camel. «Ehi, ce la fai a fo ere una bionda?»
gli chiede Griff.
«Ce la fai a fo ere una bionda…» Dean non capisce o finge di non
capire per fare lo spiritoso, Jasper non sa bene quale delle due. «Se
dici ‘fo ere una bionda’ uno poi potrebbe fraintendere. Riprovaci.»
«Scrivi un libro di barzelle e partendo dal tuo senso del ritmo»,
riba e Griff.
«Mi ci ero più o meno abituato al nome Way Out», riprende Dean.
«Perché accontentarsi di un nome a cui ti sei dovuto abituare?»
chiede Elf. «Perché non possiamo averne uno che fin dalla prima
volta che lo senti ti fa pensare: Che nome eccezionale! Mecca,
sentiamo. A te Way Out piace?»
«Ti darà ragione», dice Dean. «È una donna anche lei.»
«Le darei ragione anche se fossi un uomo», riba e Mecca. «Way
Out è scialbo. Non riesce nemmeno a essere veramente bru o.»
«Okay, ma tu sei tedesca», dice Dean. «Senza offesa.»
«Essere tedesca per me non è un’offesa.»
«Quello che voglio dire è che hai un orecchio tedesco, e noi siamo
una band britannica.»
«Non vuoi vendere dischi in Germania Ovest? Siamo sessanta
milioni. È un grosso mercato per la musica britannica.»
Dean bu a fuori il fumo, che raggiunge il soffi o. «Giusta
osservazione.»
«Solo per farvi notare una cosa ovvia», dice Griff, «la maggior
parte dei gruppi sono ufficialmente ‘the’ qualcosa. The Beatles. The
Rolling Stones. The Who. The Hollies.»
«Un buon motivo per non unirci al gregge», osserva Dean.
«Gregge.» Griff valuta un nuovo nome per il gruppo collegato a
quella parola. «Ba Ba Black Sheep»?
q p p
Sorseggiando la sua London Pride, Dean replica: «La mia seconda
scelta per il nome dei Gravediggers era Lambs to the Slaughter».
«Grande», dice Elf. «Potremmo arrivare sul palco con dei
grembiuli insanguinati e una testa di maiale infilzata su un bastone,
tipo Lord of the Flies.»
Jasper intuisce che è sarcastica, ma ne è un po’ meno sicuro
quando Dean chiede: «Cosa cantano questi Lord of the Flies?»
Elf lo guarda cupa e un a imo dopo gli chiede: «Sei serio?»
«Perché?»
«Lord of the Flies è un romanzo di William Golding, Il signore delle
mosche.»
«Oh, chiedo venia», risponde Dean con un accento spocchioso.
«Sai, non tu i abbiamo studiato le eratura inglese all’università.»
Jasper si augura che sia solo uno scambio di ba ute piccato e non
un duello verbale all’ultimo sangue.
«I nuovi gruppi americani», dice Griff smorzando un ru o,
«hanno nomi che ti si stampano in testa. Big Brother and the
Holding Company. Quicksilver Messenger Service. Country Joe and
the Fish.»
Elf fa roteare un so obicchiere. «Niente di troppo prolisso o a
effe o. Niente che dia l’impressione di voler richiamare a tu i i costi
l’a enzione.»
Dean si scola il resto della pinta. «Quindi quale sarebbe il nome
perfe o, Elf? Fairy Circle? The Folk Tones? Illuminaci.»
Griff rumina un cicciolo. «The Illuminators.»
«Se avessi in mente qualcosa di straordinario, lo proporrei», dice
Elf. «Ma ci vorrebbe come minimo qualcosa di meno casuale di un
paio di parole fraintese dal tipo del 2i’s. Un nome che faccia capire
chi siamo veramente come gruppo.»
Dean fa spallucce. «E chi siamo? Chi siamo come gruppo?»
«Siamo un lavoro in corso», risponde Elf, «ma tenendo conto di
‘Abandon Hope’ e di ‘A Raft and a River’, siamo ossimorici.
Paradossali.»
Dean la guarda storto. «Cos’hai de o?»
«Un ossimoro è una figura retorica costituita da termini
contraddi ori. ‘Silenzio assordante’, rhythm and blues folkeggiante’,
y gg
‘cinici sognatori’.»
Dean ci ragiona su. «D’accordo. Considerando il nostro repertorio
di due canzoni, toccherebbe a te, Jasper. Moss, una; Holloway, una;
De Zoet, zero.»
«Non posso mica cagare canzoni a comando», replica Jasper.
«Mi sa che questa non è una delle metafore migliori», suggerisce
Mecca.
Griff scoppia a ridere. «Signore e signori, fate un bell’applauso a…
i Song Shi ers!»
«Tu credi ci serva un nuovo nome?» chiede Elf a Jasper.
Lui ci rifle e. «Sì.»
«E hai qualche asso da sfoderare in quelle maniche ricamate?»
chiede Dean.
A distrarre Jasper è un occhio che appare nel vetro satinato, in
uno svolazzo trasparente dello stemma che vi è inciso. È a un
centimetro dalla vetrina ed è verde. Incrocia il suo sguardo, si chiude
e si riapre rapidamente, poi il proprietario dell’occhio se ne va.
«Scusa», gli dice Dean. «Ti stiamo annoiando?»
Sono già stato qui. «Aspe a…» Neve rischiarata dal sogno, un bocciolo
vorticante o falene di filigrana… un segnale stradale, su un muro…
Jasper chiude gli occhi. Le parole emergono bisbigliate dalla
memoria: «Utopia Avenue».
Dean fa una faccia contrariata. «Utopia Avenue?»
«Utopia significa ‘non luogo’. Una avenue invece è un luogo. Così è
la musica. Quando suoniamo bene io sono lì, ma sono anche altrove.
Questo è il paradosso. L’utopia è irraggiungibile. Le avenue sono
dappertu o.»
Dean, Griff ed Elf si guardano l’un l’altro. Mecca fa tintinnare il
bicchiere di vodka contro la Guinness di Jasper. Nessuno dice sì.
Nessuno dice no.
«La camera oscura mi reclama», annuncia Mecca. «Sarà una serata
impegnativa. Potresti farmi da assistente», propone a Jasper. «Se ne
hai voglia.»
Dopo aver dato un colpo di tosse ciascuno, Dean e Griff si
scambiano un’occhiata.
Questo significa qualcosa, che cosa non lo so.
g fi q
Elf alza gli occhi al cielo. «Discreti come una ma onata, non c’è
che dire.»

***

Nella stazione di Piccadilly Circus Jasper e Mecca aspe ano la


metropolitana sulla banchina. Gemiti, colpi di vento ed echi
provenienti dalla bocca del mondo so erraneo si riducono a voci
mescolate insieme. Ignorale. Jasper accende una Marlboro per Mecca
e una per sé. La linea Piccadilly è la più profonda nel centro di
Londra, stando a Dean, per questo le sue stazioni vennero sfru ate
come rifugi antiaerei durante il bli . Jasper immagina la gente
ammassata lì dentro, ad ascoltare le esplosioni in superficie mentre
dal soffi o si stacca e cade la polvere. Poco più in là un ubriacone
acculturato canticchia «I Am the Very Model of a Modern Major-
General» di Gilbert e Sullivan, ma continua a scordarsi le parole e
ogni volta ricomincia da capo.
«Posso farti una domanda, anche se non sono affari miei?» chiede
Mecca.
«Certo.»
«Dean si sta approfi ando di te?»
«Non mi paga l’affi o, questo è vero. Ma non lo pago nemmeno
io. Io sono lì a badare alla casa per conto di mio padre. Dean è in
miseria, davvero. L’appartamento di Elf ha solo una camera da le o.
Stessa storia per Levon. Griff vive da suo zio in un capanno da
giardino riada ato. Quindi, o Dean sta nella mia stanza degli ospiti,
o lascia Londra, e a quel punto avremmo bisogno di un nuovo
bassista. Ma io non lo voglio un nuovo bassista. Dean è di quelli
buoni. E sono buone anche le sue canzoni.» Le rotaie vibrano. Un
treno si avvicina. «Il sussidio lo spende quasi tu o in provviste.
Cucina. Pulisce. Se lui si approfi a di me e io mi approfi o di lui, si
può ancora parlare di approfi arsi?»
«Immagino di no.»
Una pagina di giornale ruzzola lungo il binario.
«Mi impedisce di affondare troppo e per troppo tempo nella mia
testa.»
Mecca fa un tiro di sigare a. «È molto diverso da te.»
«Lo stesso vale per Elf. Ha un taccuino su cui si segna quello che
compra. E anche per Griff. Il re del caos. Siamo tu i piu osto diversi.
Se Levon non ci avesse riuniti, non esisteremmo.»
«E questo è un punto di forza o un punto debole?»
«Quando lo capirò, te lo farò sapere.»
Il treno in arrivo divampa nella luce sudicia.

***

La camera oscura nello studio di Mike Anglesey è fra il nero e il


cremisi, a parte un piccolo re angolo luminoso so o il proie ore. Le
esalazioni delle sostanze chimiche ispessiscono l’aria. È silenziosa
come una chiesa chiusa a chiave.
Mecca sussurra: «Cento secondi».
Jasper imposta il timer e preme il pulsante. Con una pinza, Mecca
immerge la stampa nella bacinella del liquido sviluppatore e la
sposta avanti e indietro inclinandola, in modo che il liquido si sparga
bene sulla carta. «Anche dopo un milione di volte, è sempre una
magia.»
So o i loro occhi, un fantasma di Elf spunta sulla carta, rapita e
concentrata allo Steinway di Pavel. Mecca in quel momento ha la
stessa espressione. «È come un lago che restituisce i suoi morti»,
commenta Jasper.
«È il passato, e restituisce un momento.» Il timer ronza. Mecca
solleva la stampa, la lascia sgocciolare e la trasferisce nel bagno di
arresto. «Trenta secondi.»
Jasper imposta il timer. Mecca gli ha chiesto di inclinare la
bacinella con il liquido di fissaggio, mentre lei registra le tempistiche
e i tipi di filtro. Quando il timer ronza, accende la lampadina in alto.
So o la luce gialla, gli occhi di Jasper vibrano. Mecca sciacqua via il
liquido dalla stampa. «La fotografia richiede un mucchio di acqua,
come tu e le cose viventi.» Appende la nuova foto di Elf sopra il
lavandino perché si asciughi, vicino a una Elf che canta a
squarciagola e a una che accorda la chitarra. Un po’ più in là ci sono
un Griff in modalità pazzo scatenato, un Griff con una sigare a che
p g
gli pende dalle labbra e un Griff che fa roteare una bacche a. C’è uno
sca o delle mani di Dean sui tasti della chitarra sormontate da un
volto sfocato, un altro di lui che suona l’armonica e uno di lui che
fuma.
Il tempo passato è un inganno della mente?
La salute mentale è una matrice di questi inganni?
Mecca si volta verso Jasper. «Tocca a te.»

Le pulsazioni impazzite rallentano fino a farsi acquatiche. Il


coccige di Mecca preme contro la cicatrice dell’appendicite di Jasper.
Lui la respira e lei si insinua mulinando nei suoi polmoni. Il cuore di
Jasper pompa Mecca qua e là nel proprio corpo. Lui protegge con la
coperta di lei la loro forma fusa. Il sudore si raccoglie in un incavo
del collo lanuginoso di Mecca. Jasper lo lecca. «Du bist ein Hund»,
mormora delicatamente lei.
«Una volpe», le dice Jasper.
In un angolo, c’è una lampada a braccio ricurva.
Più tardi, Mecca si divincola da lui, lo scavalca, s’infila la camicia
da no e, lo scavalca di nuovo e sprofonda nel sonno.
01 e 11, dice l’orologio. Sul Danse e di Mecca c’è un disco di
musica classica. Jasper fa sca are il braccio del giradischi e la musica
parte. Un oboe ha smarrito la strada, ma dopo aver sentito un
violino tra i rovi imbocca un sentiero che lo porta là, trasformandosi
in ciò che sta cercando. È bellissimo e insidioso. Il sonno rallenta
Jasper, lo stato ipnagogico si impadronisce di lui. Nulla di lei si
dissolve, ma subisce una metamorfosi marina per divenire qualcosa di ricco
e strano. Ben al di sopra, lo scafo del piroscafo oscura il mare lilla.
Guarda. Una bara cola a picco, le bolle le fanno da strascico. Dentro
c’è la madre di Jasper, Milly Wallace. Da dentro la bara Jasper sente
venire un toc… toc… toc… Delicato, sì, a utito, sì, persistente, sì.
Reale? Sì.
Jasper si sveglia. Sono le 4 e 59 del ma ino. Ascolta quel bussare
finché non se ne va. Le spirali nell’orecchio di Mecca formano un
punto interrogativo.
So o il neon, nella cucina degli adde i ai lavori, Jasper studia un
disco: The Cloud Atlas Sextet. Davanti, sulla copertina, non ci sono
altre parole a eccezione della scri a Composto da Robert Frobisher e
Assoli sovrapposti per pianoforte, clarine o, violoncello, flauto, oboe e
violino. Dietro sono perfino più rade: Registrato a Lipsia da R. Heil, J.
Klimek e T. Tykwer nel 1952, poi c’è l’etiche a discografica,
Augustuspla Recordings. Nulla sui solisti, i tecnici del suono, gli
arrangiatori e lo studio di registrazione. Jasper ha voglia di
ascoltarlo di nuovo, ma il giradischi è nella stanza di Mecca, che sta
dormendo della grossa. Utilizzando una biro e un blocco che trova in
un casse o, Jasper disegna un pentagramma e canticchia quello che
ricorda della melodia di Cloud Atlas. È in 4/4, piu osto facile, e inizia
con un Fa. No, è un Mi. No. Un Fa. Più va avanti, più si distacca dalla
melodia di Robert Frobisher… però mi piace. Alla sedicesima ba uta
si rende conto che sta scrivendo la sua prima canzone da quando è a
Londra. Ricorda di aver visto una chitarra nello studio al piano di
so o, era su una balla di fieno, faceva da scenografia. Jasper ci va e la
trova. È uno strumento talmente scadente che non c’è neanche il
nome del produ ore, ma basterà.
Dopo aver elaborato un ritornello, Jasper inizia a cercare le parole.
Gli tornano in mente le frasi di Mecca della sera prima. Gli stava
spiegando i rischi della sovraesposizione. «Senza il buio non c’è
visione.» Cosa fa rima con visione? Collisione. Arancione.
Manomissione. È una rima ardita. Ma come trovare un collegamento
apparentemente introvabile fra schiavitù e fotografia? Scrivere è una
foresta di sentieri indistinti, vicoli ciechi, buche nascoste, accordi
irrisolti, parole che non vogliono fare rima. Puoi perdertici per ore.
Per giorni, addiri ura.
Jasper ci si tuffa.

«Hai addosso una tovaglia», sbadiglia Mecca sulla porta. «Sembri


la nonna di Rotkäppchen, Cappucce o Rosso.»
Secondo l’orologio sono le 8 e 07. «Cosa? Chi?»
«Sembri il lupo che ha mangiato la nonna.» I capelli di Mecca
sono un groviglio scuro dai riflessi dorati e indossa una coperta a
mo’ di poncho. «La bambina sperduta nel bosco.» La finestra della
p p
cucina è ancora buia, ma Blacklands Terrace si sta risvegliando.
Passa un furgone dal carburatore catarroso.
Sul tavolo c’è una tazza di tè che Jasper non ricorda di aver
preparato, il torsolo di una mela che non ricorda di aver mangiato e
una pagina fi a di pentagrammi, note e parole che sa invece di aver
scri o. «Hai addosso una coperta.»
Mecca entra lentamente e dà un’occhiata ai suoi appunti. «È una
canzone?»
«Già.»
«È buona?»
Jasper guarda di nuovo la pagina. «Forse.»
Mecca nota il disco: Cloud Atlas. «Ti piace?»
«Molto. Non avevo mai sentito parlare di Robert Frobisher.»
«Lui è… obskur. Oscuro. La parola è più o meno uguale, no?»
Jasper annuisce. Mecca si rannicchia con le gambe sulla sedia. «Il
nome Robert Frobisher non si trova sull’Enzyklopädie, quindi ho
chiesto informazioni a un collezionista in Cecil Court. Era inglese.
Negli anni Trenta ha studiato con Vyvyan Ayrs. È morto giovane, si
è suicidato a… a Edimburgo o a Bruges? Non me lo ricordo. Quel
disco è la sua unica opera. Un incendio ha distru o il magazzino
dove erano custodite tu e le copie, quindi è rarissimo. Il
collezionista offriva dieci sterline per una copia in buone condizioni.
Il valore reale è maggiore, penso. Dieci era la sua prima offerta.»
«Tu quanto l’hai pagato?»
«Zero.» Mecca si accende una sigare a. «A Natale Mike, il mio
capo, ha dato una festa qui e il ma ino dopo ho trovato il disco. Per
magia. Venderlo non mi sembra giusto. Quindi, se ti piace,
prendilo.»
Di’ grazie. «Grazie.»
«E adesso», dice Mecca, «è il momento del mio ultimo bagno
inglese.»
«Hai bisogno di aiuto per lavarti i capelli?»
Lei ha un’espressione inintelligibile. «Finisci la tua canzone.»
«È finita», riba e lui.
«Me imi in un verso, così quando la trasme eranno alla radio,
potrò vantarmi con chiunque dicendo: ‘Questa sono io’.»
p q
«Ci sei già.»
«Posso sentire la canzone?»
«Adesso?»
«Adesso.»
«D’accordo.»
Jasper la suona da cima a fondo. Mecca annuisce con espressione
seria. «Sì, puoi lavarmi i capelli.»

Sul primo pianero olo in cima alle scale che partono da Denmark
Street, c’è una targhe a a cara eri neri su fondo dorato che recita:
AGENZIA DUKE-STOKER . Jasper socchiude la porta. «Bu o un occhio»,
dice. All’interno c’è una reception, la scrivania dell’adde o, una
palma in un vaso e alcune foto incorniciate di Howie Stoker e
Freddy Duke con Harry Belafonte, Bing Crosby, Vera Lynn e altri.
Dietro un séparé c’è un ufficio in fibrillazione, due telefoni squillano
con tonalità differenti, i tasti di una macchina da scrivere
schiaffeggiano un foglio. E poi c’è Freddy Duke, che si sente ma non
si vede e sta abbaiando al telefono: «Sheffield è il ventise e e Leeds il
vento o… non Leeds il ventise e e Sheffield il vento o. Ripetilo!»
Salgono la seconda rampa di scale fino a una porta su cui è
impresso un logo, il profilo di una balena con la luna sullo sfondo:
MOONWHALE MUSIC . Quell’ufficio è molto più tranquillo, molto più
piccolo e molto meno affollato della caotica agenzia so ostante.
Strati di polvere ricoprono il pavimento e Bethany Drew, assunta da
Levon alla Moonwhale per fare qualsiasi cosa lui non faccia, è in
cima a una scala pieghevole che ritocca con un pennello la cornice
del soffi o. Bethany ha trent’anni e a volte la scambiano per Audrey
Hepburn; è nubile, imperturbabile ed elegante perfino con la
salope e imbra ata che indossa al momento. «Jasper… e la
signorina Rohmer, immagino. Benvenuta alla Moonwhale. Io sono
Bethany, capufficio, galoppino e imbianchino.»
«Jasper mi ha de o che lei è davvero in gamba, signorina Drew.»
«Non si fidi di quel vecchio adulatore. Le stringerei la mano, ma
non possiamo farla partire per l’America sporca di vernice. Mi
sembra di capire che vada dire amente all’aeroporto da qui, giusto?»
«Sì. Il mio volo per Chicago è alle sei.»
«E cosa la porta a Chicago?»
«Un benefa ore mi farà fare una piccola mostra. Poi andrò in
cerca di avventure e fotograferò le mie scoperte.»
Jasper si domanda perché Bethany lo stia guardando. «Sembra
davvero il lavoro di un professionista», dice. «La tinteggiatura.»
«Sì, per il momento sta venendo bene. Levon vi sta aspe ando…»
Bethany indica con un cenno il suo ufficio, separato da due porte
scorrevoli. Sono mezze aperte e s’intravede Levon che cammina su e
giù concentrato su una chiamata, con il telefono in mano,
trascinandosi dietro il filo. Due minuti, mima con le labbra.
Jasper e Mecca vanno alla finestra affacciata sulla strada, dove c’è
una panca. Mecca tira fuori la Pentax per studiare un’inquadratura.
Jasper si siede e chiude gli occhi. Non sarebbe sua intenzione
origliare la telefonata di Levon, non ha neanche i tappi nelle orecchie
però. «Sezione due, clausola tre», sta dicendo il loro manager. «È
qui, nero su bianco. Peter Griffin è stato ingaggiato come turnista,
non è un artista assoldato dalla Balls Entertainment per l’eternità.
Non c’è nessuna buonuscita da pagare perché non c’è niente da cui
debba uscire.» Jasper immagina che Levon stia parlando con l’agente
di Archie Kinnock, il leader del suo vecchio gruppo. «Non sono nato
ieri, Ronnie. Ti direi ‘bel tentativo’, se non fosse che è un tentativo
idiota.»
Clic, la macchina di Mecca sca a. Scrit-scrit.
Dalla corne a di Levon fuoriescono fio i di rabbia dal rumore
metallico.
Levon li blocca con una risata tagliente. «Mi appendi fuori dalla
finestra? Davvero?» Non ha l’aria di sentirsi in pericolo. «Ascolta,
non ce l’hai un caro amico che ti prenda da parte e ti dica: ‘Ronnie,
bello, se vai avanti così, farai la fine dei dinosauri, sme i di fare il
manager finché ti resta qualche spicciolo in banca’. O magari è già
troppo tardi, eh? Sono vere le voci su una tua imminente bancaro a?
Non sarebbe terribile se tu i venissero a sapere che continui a fare
affari pur essendo insolvente?»
Levon me e fine a un’esplosione d’insulti riagganciando. «Che
fenomeno da baraccone. Ciao, Jasper, e benvenuta, Mecca, nel mio
p
minuscolo impero.»
«Un minuscolo impero splendidamente tinteggiato», osserva
Mecca.
«Dio, è davvero eccezionale», dice Bethany a Jasper,
confondendolo.
«Tu o qui quello che ti porti in America?» Levon guarda la
modesta valigia e lo zaine o della ragazza.
«Non possiedo altro.»
«Invidiabile», commenta Levon.
«Era quel Ronnie Balls al telefono?» chiede Jasper.
«Lui», dice Levon. «L’ex agente di Archie Kinnock.»
«Archie lo chiamava ‘il mio ex distruggente’.»
«A suo dire, Griff sarebbe ancora so o contra o con la Balls
Entertainment, ma rinuncerebbero a lui per la modica cifra di
duemila sterline.»
«Quanto?»
«È una stronzata e Ronnie Balls lo sa benissimo.»
«L’affascinante mondo dello show business, Mecca», dice
Bethany.
«Somiglia molto all’affascinante mondo della fotografia che si
occupa di moda.»
«A proposito di fotografia», dice Levon, «posso dare una sbirciata
con i miei occhie i a una cosa che inizia con la ‘P’ di ‘portfolio’?»
Mecca recupera le foto. «È ora che tu le veda.»
«Andiamo nella mia tana.»

«Cazzarola.» Levon esamina le foto sparse sul tavolo da biliardo:


qua ro a testa di Jasper, Elf, Dean e Griff, più una manciata di sca i
della band in posa, il primo al Club Zed, poi un paio all’aperto in
Ham Yard durante un fortunato momento di sole. «Questa», Levon
indica la foto di Elf al piano, «somiglia più a Elf della vera Elf.»
«Mi fa piacere che le tue dieci sterline siano state spese bene», dice
Mecca.
Levon sembra sorridere. «Chi ha de o che i tedeschi non sono
sagaci?»
«Uno che non è mai andato in Germania?»
Levon tira fuori la casse a dei contanti e prende dieci sterline, a
cui ne aggiunge un’undicesima. «Per la tua prima cena a Chicago.»
«Brinderò a te.» Mecca infila le banconote nella cintura porta-
soldi. «Ci sono anche i provini a conta o e i negativi, quindi puoi
sviluppare altre foto.»
«Perfe o», dice Levon. «Verranno buone per la stampa e per i
manifesti con cui pubblicizzeremo i primi concerti del gruppo. Il
mese prossimo.»
È una novità, realizza Jasper. «Pensi che siamo pronti per
suonare?»
«Vi stiamo fissando qualche data il mese prossimo nei circoli
studenteschi. Sono solo i primi passi verso la ve a della celebrità, ma
serviranno a tastare il terreno. L’unica cosa che mi preoccupa è che
non avete pezzi originali.»
«In realtà», osserva Mecca, «lui ne ha scri o uno stama ina.»
Levon piega la testa all’indietro e solleva le sopracciglia.
«È solo un’idea con cui mi sto trastullando», dice Jasper.
«Si chiama ‘Darkroom’», continua Mecca. «Sarà un successo.»
«Lieto di saperlo, davvero. Ora passiamo alle altre novità.» Levon
scrolla la sigare a nel posacenere. «Mi ha chiamato Elf. Ieri al Duke
of Argyll hai riba ezzato il gruppo, a quanto ho capito.»
«La mia era solo una proposta», dice Jasper. «Ce ne siamo andati
subito dopo.»
«Elf mi ha de o che lei, Dean e Griff sono tu i convinti per Utopia
Avenue. Ha tu a l’aria di essere ormai cosa fa a.»
«A me Utopia Avenue piace più di Way Out», interviene Bethany.
«Di gran lunga.» Osserva le foto con a enzione. «Mio Dio, che
immagini favolose.»
«Sono soddisfa a», amme e Mecca.
Levon è ancora concentrato sul nome del gruppo. «Utopia
Avenue… Mi piace, però non mi torna del tu o. Suona vagamente
familiare. Da dove viene?»
«È il regalo di un sogno», gli risponde Jasper.

A metà della scala che porta in Denmark Street, Jasper e Mecca si


fanno da parte per lasciar passare un tizio che sale di buon passo. Il
p p p p
suo trench si gonfia, sbatacchiando come il mantello di un supereroe.
Si ferma. «Tu sei quel chitarrista?»
«Sono un chitarrista», replica Jasper. «Non so se sono quello.»
«Bella ba uta.» Il tizio scosta la frangia rivelando un viso so ile,
pallido, con un occhio azzurro e uno nero come la pece. «Jasper de
Zoet. Che meraviglia di nome. Una J e una Z. Un o imo punteggio a
Scrabble. Vi ho visto in gennaio al 2i’s. Pazzesco cos’avete tirato fuori
dal cilindro.»
Jasper fa spallucce. «Tu chi sei?»
«David Bowie, artista a piede libero.» Stringe la mano a Jasper e si
rivolge a Mecca: «Incantato. Ti chiami?»
«Mecca Rohmer.»
«Mecca? Come il luogo a cui portano tu e le strade?»
«Già, o anche come ‘gli inglesi non sanno pronunciare
Mechthild’.»
«Sei una modella, Mecca? Un’a rice? Una dea?»
«Faccio foto.»
«Foto?» le dita di Bowie corrono ai bo oni dorati del trench,
grandi come monete di cioccolato. «Foto di cosa?»
«Se fotografo quello che mi va di fotografare», dice Mecca, «allora
lo faccio per me stessa. Quando fotografo quello che sono pagata per
fotografare, invece è per soldi.»
«L’arte per l’arte e i soldi per Dio, eh? Il tuo accento non sembra
esa amente di queste parti. Deutschland?»
A raverso la mimica facciale Mecca risponde Ja.
«Ho sognato Berlino solo l’altra sera», dice David Bowie. «Il muro
era alto più di un chilometro. A livello del suolo tu o era immerso in
un crepuscolo perenne, come ne L’impero delle luci di Magri e. Gli
agenti del KGB cercavano di inie armi eroina nelle dita dei piedi.
Secondo voi che significa?»
«Non farti di eroina a Berlino», suggerisce Jasper.
«I sogni sono fondamentalmente spazzatura», suggerisce Mecca.
«Potreste avere ragione entrambi.» Bowie si accende una Camel e
con un cenno del mento indica le scale. «Quindi siete amici di
Frankland?»
«Levon è il nostro manager», replica Jasper. «Suono in un gruppo
con Dean e Griff, quelli della serata al 2i’s, e alle tastiere c’è Elf
Holloway.»
«Ho visto suonare Elf al Cousins. Dovete essere bravi. Come vi
chiamate?»
«Utopia Avenue.» Suona bene. Adesso sì che siamo noi.
Bowie annuisce. «Dovrebbe funzionare.»
«Stavi pensando di lavorare con Levon?» chiede Jasper.
«No, la mia è solo una visita di cortesia, ho venduto l’anima
altrove. Il mese prossimo uscirà un mio singolo per la Deram.»
«Congratulazioni», si ricorda di dire Jasper.
«Già.» Dalle narici di David Bowie spunta un po’ di fumo. «‘The
Laughing Gnome.’ Un vaudeville psichedelico, lo si potrebbe
definire.»
«Devo accompagnare Mecca alla stazione degli autobus di
Victoria. Buona fortuna con il tuo gnomo, allora.»
«Come disse il Salvatore: ‘È più facile che un cammello passi per
la cruna di un ago, che trasformare la musica in denaro’. Ci si vede.»
Per salutare Mecca sca a sull’a enti ba endo i talloni. «Bis
demnächst, Mechthild Rohmer.» E facendo turbinare trench e capelli,
David Bowie riprende la sua scalata verso la cima.

Rumori di motori, fumi e nervosismo agitano la stazione degli


autobus di Victoria. Sulle stru ure di rinforzo e di sostegno se ne
stanno appollaiati i piccioni. Jasper sente in bocca un sapore di
metallo e di gasolio. La gente in coda sembra stanca, infelice.
LIVERPOOL. DOVER. BELFAST. EXETER. NEWCASTLE. SWANSEA . Jasper non
è mai stato in nessuno di questi posti. Se la Gran Bretagna fosse una
scacchiera, ne conoscerei meno di una casella.
«Hot dog, hot dog», grida un venditore con un carre o.
Mecca e Jasper trovano l’autobus per Heathrow solo un minuto
prima della partenza. Mentre Mecca dà lo zaino all’autista per
stivarlo nel vano bagagli, una donna agile e corpulenta con un
foulard in testa infila in mano a Jasper un garofano mezzo avvizzito,
poi gli chiude le dita intorno. «Solo uno scellino, dolcezza. Compralo
per la signorina.» Intende Mecca.
Jasper glielo restituisce, o almeno ci prova.
«Non farlo!» La donna sembra scioccata. «Potresti non rivederla
mai più. Pensa a come ti sentiresti se dovesse succedere qualcosa…»
Mecca cava Jasper dall’impaccio prendendo il garofano,
ficcandolo nel cesto della donna e dicendole: «Ca iva!»
La donna sibila qualcosa contro Mecca, ma poi se ne va.
«Stando a Dean, io sono una calamita per gli svitati», dice Jasper.
«Secondo lui do l’idea di essere vulnerabile e al tempo stesso di uno
con un po’ di soldi in tasca.»
Mecca aggro a la fronte. Per Jasper quell’espressione risulta
ancora più difficile da decifrare dei sorrisi. Sarà arrabbiata? Lei gli
prende la faccia tra le mani e lo bacia sulla bocca. Lui ha la
sensazione che quello sarà il loro ultimo bacio. Premi PLAY e registra.
«Non cambiare», dice Mecca. «Grazie per gli ultimi tre giorni. Mi
sarebbe piaciuto che avessimo tre mesi.» Prima che lui possa
risponderle, una famiglia indiana numerosa sale sull’autobus,
costringendo Jasper e Mecca a spostarsi. La nonna è l’ultima della
fila e squadra Jasper. Un altoparlante della Tannoy annuncia
gracchiando che l’autobus per Heathrow è in partenza.
Jasper immagina di doverle dire: Ti scrivo, o: Quando potrò
rivederti?, ma il futuro di Mecca non è una cosa su cui lui può
avanzare pretese, lei non avanza pretese sul suo. Ricordatela com’è ora,
viso, capelli, giacca nera di velluto, questi pantaloni verde muschio. «Posso
venire con te?»
Mecca sembra perplessa. «A Chicago?»
«All’aeroporto.»
«Elf e Dean ti aspe ano a casa.»
«Di solito Elf riesce a indovinare cosa può essere successo.»
Mecca sfodera un nuovo sorriso. «Ma certo.»

I lavori in corso su Kensington Road procedono a rilento. Jasper e


Mecca guardano i negozi, gli uffici, le code alle fermate, i bus a due
piani pieni di esseri umani che leggono, dormono o sono seduti a
occhi chiusi, le file di case intonacate annerite dalla fuliggine, le
gg
antenne delle televisioni che setacciano l’aria sporca a caccia di un
segnale, gli alberghe i e i palazzoni dalle finestre lerce, le bocche
delle stazioni della metropolitana che inghio ono centinaia di
persone al minuto, i ponti ferroviari, l’acqua marrone del Tamigi, la
Ba ersea Power Station che sembra un tavolo capovolto con il fumo
che zampilla dalle tre ciminiere in a ività, i parchi fangosi dove i
narcisi appassiscono intorno alle statue di gente dimenticata, le zone
colpite dalle bombe dove bambini cenciosi giocano accanto a pozze
sudicie e a cumuli di macerie, un cavallo scheletrico che tira il carro
di un robivecchi, un pub di nome Silent Woman sulla cui insegna c’è
una donna senza testa, un venditore di fiori in sedia a rotelle, i
cartelloni pubblicitari delle sigare e Dunhill, dei villaggi turistici
Pontings, di un concessionario British Leyland, lavanderie affollate
di clienti che fissano le lavatrici, tavole calde Wimpy, sale
scommesse, cortili in ombra sul retro delle case dove file di panni
stesi umidi restano umidi, officine del gas, orti urbani colle ivi,
rivendite di fish and chips, chiese chiuse con camposanti occupati da
tossicodipendenti che dormono sdraiati sui morti. L’autobus risale la
sopraelevata di Chiswick e accelera. Te i, comignoli e abbaini
scivolano via. Jasper considera quanto la condizione abituale del
mondo sia la solitudine. Amici, famiglia, un amore o una band sono
rare anomalie… Nasci solo, muori solo e sei solo per la maggior parte di
ciò che c’è in mezzo. Bacia Mecca su un lato della testa, sperando che il
bacio le a raversi il cranio e si accomodi stabilmente in un anfra o
del suo cervello. Il cielo risplende di una luce grigia. I chilometri
scorrono. Mecca si porta alle labbra il dorso della sua mano e lo
bacia. Quel bacio può non voler dire niente. O tu o. O qualcosa.

Né Jasper né Mecca sono mai stati in un aeroporto prima d’ora.


Gli sembra qualcosa di futuristico. Un uomo fa il check-in del
bagaglio di Mecca, scambia il suo biglie o con una «carta
d’imbarco» e li indirizza verso un ingresso con la scri a: PARTENZE . I
passeggeri sono vestiti quasi tu i come se dovessero andare a un
matrimonio o a un colloquio di lavoro. Arrivano a una porta su cui si
legge: AMMESSI SOLO I PASSEGGERI MUNITI DI BIGLIETTO . È la fine. Si
abbracciano. Chiedile se puoi andare a trovarla a Chicago. Chiedile di
ripassare da Londra sulla via del ritorno. Gli occhi di Mecca lo
prosciugano all’interno. Prosciugami. Che cosa dire? Dille che la ami…
ma come faccio a sapere che è così? «Lo sai e basta», gli ha rivelato
Dean… Però come fa uno a sapere che ‘lo sa e basta’? «Non voglio che tu
parta», dice Jasper.
«Vale lo stesso per me», risponde Mecca. «Proprio per questo è
bene che parta.»
«Non capisco.»
«Lo so.» Solleva le nocche di Jasper all’altezza della bocca, poi la
coda di gente la trascina via. Si guarda indietro un’ultima volta,
come ti me ono in guardia dal fare miti e fiabe. Lo saluta
sventolando una mano dal gate e va avanti, ancora avanti… è
andata. Una persona è qualcosa che se ne va. Jasper percorre a ritroso la
strada e si unisce a un’altra coda per un autobus che lo riporti a
Victoria. È una fredda sera di marzo. Si sente come quando si perde
qualcosa, prima però che ti venga in mente di che cosa si tra i. Non
è il portafoglio, non sono le chiavi… Nella tasca della giacca trova
una busta con una scri a stampata: Mike Anglesey Studio. Aprendola,
vede la foto che ha fa o a Mecca: all’Ho Kwok’s appena il giorno
prima, quando le aveva chiesto di immaginare il suo ritorno a casa a
Berlino. Per una volta non devo tirare a indovinare cosa sta pensando una
persona. Lo so. Dietro la foto c’è un messaggio di Mecca.

a. Camera oscura.
Smithereens a

Per un turista smarrito la porta al 13A di Mason’s Yard a Mayfair


non vale una seconda occhiata. Per Dean, invece, era il portale
magico a raverso cui accedere al mondo dove se la spassa la gente
giusta, quello frequentato dagli scout delle case discografiche, dai
produ ori, da critici che potevano fare la tua fortuna o distruggerti
entro l’ora di pranzo dell’indomani, dai padroni del regno e dalle
loro figlie in cerca di un esotico scossone rock’n’roll, dagli stilisti che
creavano gli abiti dell’anno successivo, dalle modelle che li
avrebbero indossati e dai fotografi che li avrebbero immortalati, e
anche dai musicisti che avevano smesso di sognare il successo
perché il successo ormai ce l’avevano; dai Beatles e dagli Stones,
dagli Hollies e dai Kinks; da quelli di passaggio in Inghilterra, i
Monkees, i Byrds, i Turtles; da Gerry, con o senza Pacemaker; o da
quel musicista famoso, futuro collega di Dean, che gli avrebbe de o:
Mandami un demo, gli darò un ascolto, o anche: Il gruppo che ci fa
da spalla non funziona, non è che potrebbero sostituirlo gli Utopia
Avenue? Dietro la porta al 13A di Mason’s Yard c’è, insomma, lo
Scotch of St James Club. Entrata riservata ai soci.

«Lascia parlare me», aveva de o Dean a Jasper.


Dopo aver suonato il campanello sulla porta, si era aperto uno
spioncino, e un occhio onniveggente aveva esaminato i due. «I
signori sono?»
«Amici di Brian. Mi ha de o che ci avrebbe messo in lista.»
La replica non si era fa a a endere: «Brian Jones o Brian
Epstein?»
«Epstein.»
«Controllo subito… Ah, ecco qui, Brian aspe ava… sì… Siete per
caso Neil e Ben?»
Dean non poteva credere alla sua fortuna. «Sì, siamo noi.»
«Perfe o. Perme etemi allora di controllare anche i cognomi…
Lei sarebbe quindi il signor Neil Lome o e il suo amico il signor Ben
Loprendo?»
«Proprio così», aveva risposto Dean, e solo in quel momento
aveva afferrato il gioco di parole.
L’Occhio Onniveggente aveva brillato e lo spioncino si era
richiuso.
Dean, di nuovo, aveva suonato il campanello. Lo spioncino si era
aperto e aveva fa o capolino l’Occhio Onniveggente. «I signori
sono?»
«Poco fa sono stato scorre o. Scusa, quindi. Ma siamo musicisti.
Suoniamo negli Utopia Avenue. Domani siamo in concerto al
politecnico di Brighton.»
«Fate domanda di ammissione versando un contributo, e la
direzione prenderà in esame la vostra candidatura. Oppure finite su
Top of the Pops, in questo caso il contributo potrebbe non essere
necessario. E ora, per cortesia, fatevi da parte.»
Un ciuffo, un naso e un voluminoso colle o erano passati
rapidamente accanto a Dean superandolo. La porta al 13A si era
aperta per metà e ne era trapelato un: «Come se la passa, signor
Humperdinck?» Dopodiché si era richiusa.
Dean aveva pigiato tre volte il campanello.
Lo spioncino si era aperto di sca o. «I signori sono?»
«Dean Moss. E lui è Jasper de Zoet. Ricordateli questi nomi. Un
giorno o l’altro entreremo.»
Poi si era allontanato di buon passo lungo Mason’s Yard.
Jasper, per stargli dietro, aveva dovuto tro are. «Forse è meglio
così. Domani abbiamo il nostro primo concerto. Un dopo-sbronza
non ci gioverebbe.»
«Quella merda arrogante si comporta come un cazzo di
pappone.»
«Davvero? A me è sembrato piu osto a modo.»
Dean si era bloccato. «Ma possibile che non t’incazzi mai?»
p
«Ci ho provato, però non risulto convincente.»
«Non è questione di convincere! È una cazzo di emozione!»
Jasper aveva sba uto le palpebre. «Esa o.»

***

Il traffico da Waterloo fino a Croydon scorre lentamente, Dean non


riesce mai a lanciare la Belva oltre i cinquanta chilometri orari. Il
cambio è duro come l’inferno e il furgone si spegne a ogni incrocio.
A sud di Croydon rimangono bloccati dietro una carovana di
roulo e, quindi solo ora, dove la A23 risale le South Downs,
superato il paesino di Hooley che basta uno sbadiglio per
perderselo, la strada si fa sgombra a sufficienza perché Dean possa
affondare il piede sull’acceleratore.
«Non si può dire che questo coso sia fa o per correre», commenta
Dean.
«È una lei, non un coso», protesta Griff da dietro. «E dentro ci
sono qua ro musicisti con l’a rezzatura.»
Quando il contachilometri tocca i se anta all’ora, la Belva
comincia a sobbalzare in modo sinistro.
«Non è un buon segno», dichiara Elf.
Dean decelera fino a sessanta e i sobbalzi diminuiscono. «Griff, di’
la verità, l’hai mai provato su strada questo ammasso di ferraglia?»
«A caval donato non si guarda in bocca.»
Per pagare il suo quarto di quel «dono» Dean ha dovuto farsi
prestare quindici sterline dalla Moonwhale. Ancora debiti… Di questo
passo mi toccherà rime ermi a servire caffè. «A un cavallo donato
bisognerebbe guardare in bocca sempre. Non è mai un vero dono.»
«C’era bisogno di un furgone e l’ho trovato», dice Griff.
«Già… c’era bisogno di un furgone. Non di un ex carro funebre
pieno di buchi so o da cui si vede l’asfalto.»
«Non mi sembra che tu ti sia sba uto troppo», dice Griff.
«Be’, io trovo che la Belva abbia cara ere», dichiara Elf.
«Basta che riesca a portarci da un punto A a un punto B», osserva
Jasper.
«Vi ringrazio per le vostre opinioni da esperti», riba e Dean.
«Quando l’albero motore si romperà alle due del ma ino a bordo
strada, Elf, te lo lascerò aggiustare con un po’ di ‘cara ere’. E tu
quando prenderai la patente?» domanda a Jasper. «Così almeno
potrai fartela tu dal punto A al punto B.»
«Non sono così certo che mi fiderei di me stesso al volante.»
«Troppo comodo.»
Jasper, com’è prevedibile, non riba e nulla. Sarà arrabbiato?
Intimidito? Oppure se ne frega? Dean continua a non capire che cosa
pensa il suo coinquilino nonché compare nella band. Indovinarlo si
sta facendo stancante.
«C’è un tizio in Galles», dice Griff, «che fa l’esame di guida al
posto tuo. Gli dai venticinque sterline e due se imane dopo ti arriva
la patente. Keith Moon la sua l’ha presa così.»
L’aneddoto meriterebbe un commento, Dean però lo conosceva
già. «Non è che qualcuno ha una sigare a?» Nessuno risponde. «Per
favore.»
Elf accende una Benson & Hedges e gliela passa.
«Grazie. Se questa è la velocità massima della Belva…» Dean fa
un tiro, «ci a ende un lungo viaggio, maledizione. Come se non
bastasse, la radio non funziona.»
«Se qualcuno ti regalasse un milione di sterline», dice Griff, «tu ti
lamenteresti che non sono impacche ate come si deve.»
«Compagni», dice Elf con tono da maestrina, «stasera abbiamo il
nostro primo concerto. Faremo la storia della musica. Lasciamo
quindi che pace e amore regnino sovrani.»
La A23 curva fuori dalla boscaglia e s’inerpica per una collina. Il
Sussex si estende fino alla Manica. Nel pomeriggio dorato s’insinua
come un filo un fiume d’argento.

Il cielo diventa scuro. Dean succhia una caramella mou mentre la


Belva a raversa Pease Po age, un paesino meno pi oresco del nome
che porta. «Se dovessi scegliere un concerto fra tu i quelli che ho
visto, sarebbe quello di Li le Richard all’Odeon di Folkestone. Più o
meno dieci anni fa. Mi ci aveva portato Bill Shanks. Bill aveva un
negozio di dischi a Gravesend, è stato lui a vendermi la prima
g p
chitarra. Ha portato me, mio fratello Ray e un paio di altri amici a
Folkestone con il suo furgone. Li le Richard… Gesù, quell’uomo ha
la carica di una centrale ele rica. Le sue urla, l’energia, la teatralità.
Le ragazze. Ero lì e pensavo: Bene, ora so cosa farò da grande. Poi, a
metà di ‘Tu i Fru i’, Li le Richard stava facendo il suo classico
numero, saltava sul pianoforte, ululava come un lupo mannaro… e
di colpo si è bloccato. Si è stre o le mani al pe o e dopo uno
spasmo… è cascato sul piano come un sacco di patate.»
La Belva supera uno spiazzo con degli zingari accampati.
«Faceva parte dello spe acolo, giusto?» chiede Elf.
«È quello che abbiamo pensato anche noi. ‘Li le Richard è una
vera sagoma’, ci siamo de i, ‘ci sta prendendo in giro.’ Ma poi anche
la sua band si è preoccupata e ha smesso di suonare. Dopodiché,
silenzio di tomba. Li le Richard giaceva lì, scosso dai tremiti…
finché a un certo punto non si è più mosso. Il suo agente, nel
fra empo, era salito di corsa sul palco e aveva provato a sentirgli il
ba ito. ‘Signor Richard! Signor Richard!’ si era messo a gridare. Si
sarebbe sentito cadere uno spillo. L’agente si è alzato, pallido come
un cencio, sudato, e ha chiesto se c’era un medico. Ci siamo guardati
tu i pensando: ‘Maledizione, Li le Richard sta morendo davanti ai
nostri occhi’… Allora uno ha risposto: ‘Io sono un medico, fatemi
passare, largo’. Ha raggiunto in fre a il palco, ha preso il polso a
Li le Richard, ha tolto il tappo a una bo iglie a, gliel’ha messa so o
il naso e…» Dean sorpassa un tra ore che trasporta letame di
cavallo, «a un volume spacca-timpani è risuonato: ‘Awop-bop-a-loo-
bop a-lop-bam-boom!’ Li le Richard è saltato in piedi e la band gli è
andata dietro a accando di colpo con il ritornello. Era stata una
messinscena. Faceva tu o parte dello spe acolo.»
La pioggia scroscia sul parabrezza.
Il tergicristallo stride sul vetro senza risultati.
Dean decelera fino a cinquanta chilometri orari. «Dopo il
concerto, Shanks, Ray e gli altri sono spariti in un pub. Mi avevano
lasciato lì a sfangarmela da solo; ho pensato quindi di farmi fare un
autografo da Li le Richard. Ho de o al bu afuori dell’Odeon che
ero suo nipote, e che se non mi lasciava entrare sarebbe finito nei
guai. Mi ha mandato affanculo. Allora ho fa o il giro, sono andato
g g
dietro e mi sono unito ai fan davanti all’uscita degli artisti. Dopo un
po’ è spuntato il manager e ha de o che Li le Richard se n’era già
andato. Gli hanno creduto tu i. Era lo stesso tizio che prima se n’era
uscito con quella bella trovata, quello che aveva chiesto se c’era un
medico eccetera. Sono stato al gioco, ma un minuto dopo sono
sga aiolato di nuovo lì e, nel mentre, tre piani più in alto si è aperta
una finestra. Eccolo. Li le Richard. Il gigante. Si è fa o un paio di tiri
di spino, ha sparato via il mozzicone e ha richiuso la finestra. Io ho
fa o quello che avrebbe fa o qualsiasi fan dodicenne dell’Uomo
Ragno. Mi sono arrampicato su per il tubo che portava alla
grondaia.» La Belva si avvicina a un autostoppista coperto di fango
con un cartello che dice: OVUNQUE . L’inchiostro se ne sta andando.
«Non ce l’abbiamo un buco per quel povero Cristo?» chiede Dean.
«No», risponde Griff, «a meno che non ci stia nel posacenere.»
«Quindi dicevi che sei salito su per il tubo», lo incalza Elf.
La Belva supera l’autostoppista. «Sono arrivato al terzo piano, e lì,
con una mano, ho afferrato la grondaia che portava alla finestra di
Li le Richard… ma la grondaia si è staccata dal muro! A quindici
metri d’altezza! Mi sono lanciato verso il tubo verticale, mi ci sono
aggrappato e ho sentito la grondaia schiantarsi al suolo. Sembrava
lontano un chilometro. La mia unica speranza era calarmi sul
davanzale di Li le Richard e fare toc-toc-toc sul vetro. Era uno di quei
vetri opachi che non ti fanno vedere a raverso. Nessuno rispondeva.
Ero aggrappato al tubo come un koala, ma mi stava venendo un
crampo alle mani e i piedi non riuscivano a fare presa. Ho bussato di
nuovo. Niente. Credevo di essere spacciato, e lo sarei stato davvero
se al terzo tentativo la finestra non si fosse aperta scivolando verso
l’alto. Era lui, Li le Richard in persona con il suo ciuffo
imbrillantinato e i baffe i a fiammifero, e stava fissando me, quel
ragazzino le eralmente aggrappato con le unghie che gli fa: ‘Salve,
signor Richard, posso avere un suo autografo?’»
Un autobus inonda con uno schizzo spumoso il parabrezza. Dean
guida alla cieca finché l’acqua non se n’è andata.
«Non puoi concludere così, lasciando il finale in sospeso», dice
Griff.
«Primo, Li le Richard mi ha trascinato dentro e mi ha sgridato
perché avevo rischiato di ammazzarmi, io però pensavo: Incredibile,
mi sono guadagnato una predica da Li le Richard. Poi mi ha chiesto
chi c’era lì con me a tenermi d’occhio. Gli ho risposto mio fratello, e
che però era al pub. Gli ho de o il mio nome e cognome e ho
aggiunto che sarei diventato una stella della musica anch’io. Questo
lo ha ammorbidito un po’. ‘Ragazzo’, mi ha de o, ‘nessuna stella si è
mai chiamata Moffat.’ Allora gli ho de o che il nome da nubile di
mia madre era ‘Moss’, e lui mi fa: ‘Dean Moss andrà bene’ e su una
foto mi ha scri o: A Dean Moss, che si arrampica fino alle stelle, da Li le
Richard. Poi uno dei suoi mi ha accompagnato all’uscita
oltrepassando il bu afuori che non mi aveva fa o entrare: la mia
avventura era finita. Ray e gli altri pensavano che mi fossi inventato
tu o, finché non ho tirato fuori la prova fotografica.»
Un cartello dice che mancano quarantatré chilometri a Brighton.
«Ce l’hai ancora?» chiede Griff. «La foto.»
«No che non ce l’ho.» Glielo dico? «L’ha bruciata il mio vecchio.»
Elf è sconvolta. «Perché mai tuo padre avrebbe fa o una cosa
simile?»
I borghesi non hanno uno straccio di idea di come va il mondo.
La cicatrice sul labbro di Dean si me e a pulsare. «È una lunga
storia.»

***

«Nina Simone al Ronnie Sco ’s», proclama Elf. La Belva sferraglia


a raverso un paesino di nome Handcross. «Avevo diciasse e anni. I
miei genitori non mi avrebbero mai lasciata andare da sola a Soho,
ma Imogen e un ragazzo della parrocchia mi hanno fa o da
anfitrioni nel covo di Satana. Me la svignavo al Folk Barge di
Richmond fin da quando avevo quindici anni, Nina Simone però era
di un altro livello. Molto più alto. Ha a raversato flu uando il
Ronnie Sco ’s come Cleopatra sul suo vascello. Con quel vestito
sembrava un’orchidea nera. Perle grosse come sassi. Si è seduta e ha
annunciato: ‘Sono Nina Simone’, come se ti sfidasse a contraddirla.
Tu o qui. Nessun ‘Grazie per essere venuti’, nessun ‘Sono onorata di
q p
essere qui’. Toccava a noi ringraziarla per essere venuta. Eravamo
noi quelli onorati di essere lì. Insieme a lei c’erano un ba erista, un
bassista e un sassofonista, punto. Ha suonato una serie di pezzi
blueseggianti, folkeggianti. ‘Co on-Eyed Joe’, ‘Gin House Blues’,
‘Twelfth of Never’, ‘Black Is the Color of My True Love’s Hair’.
Niente chiacchiere. Niente ba ute. Niente a acchi di cuore fasulli.
Però, a un certo punto, una coppia ha sospirato a un volume troppo
alto. Lei ha guardato con tanto d’occhi i colpevoli e ha de o: ‘Scusate
tanto, canto troppo forte?’ La coppia è avvampata per la vergogna.»
Un cartello stradale dice che a Brighton mancano trentadue
chilometri.
«Nina Simone mi me eva così in soggezione che non ho mai
cercato di essere lei», continua Elf. «Sono una cantante folk inglese
bianca. Lei è un genio di colore che si è formata alla Juilliard. Lei
suona il blues con la mano sinistra e Bach con la destra. Gliel’ho
visto fare. Io non volevo altro che qualche grammo della sua
sicurezza. Lo vorrei ancora adesso. Turbare Nina Simone sarebbe
come turbare una montagna. Impensabile. Insensato. Alla fine ha
de o al pubblico: ‘Canterò ancora una canzone, una soltanto’. Era
‘The Last Rose of Summer’. Quando ha lasciato il locale, ero vicina al
guardaroba con mia sorella. Una donna ha sollevato un disco e una
penna, ma Nina si è limitata a dirle: ‘Sono qui per cantare, non per
firmare’. Una guardia del corpo le ha aperto la porta, e una volta
fuori è partita per il suo palazzo segreto a Londra. Prima pensavo
che per diventare una star uno dovesse avere delle hit. Ma dopo quel
concerto ho iniziato a pensare: No, star si nasce, le hit vengono di
conseguenza.»
Una ruota della Belva centra una buca. Il furgone sobbalza ma
prosegue a sessanta all’ora.
«E questo probabilmente è il motivo per cui non sono una star.»
«Fino a stasera», dice Griff. «Fino a stasera.»

Una Triumph Spitfire Mark II rosso ciliegia sorpassa la Belva


lungo un tra o in discesa costeggiato da fru eti. Se gli Utopia
Avenue dovessero mai fare soldi veri, pensa Dean, me ne comprerò
una. Andrò con quella a Gravesend, rallenterò davanti alla casa di
q
Harry Moffat e darò una sgasata come a dire: Fo iti, e poi un’altra
come a dire: Sì, tu.
La Triumph Spitfire, quella vera, sfreccia via nel futuro.
La strada è disseminata di pozzanghere che rifle ono il cielo.
«E qual è il tuo concerto migliore, Zooto?» chiede Griff a Jasper.
Il chitarrista ci pensa un po’. «Big Bill Broonzy una volta ha
suonato ‘Key to the Highway’ solo per me. Questo vale come
concerto?»
«Ma piantala», dice Griff. «Big Bill Broonzy è morto un mucchio
di anni fa.»
«Io di anni ne avevo undici ai tempi. Era il 1956. Era estate e mi
trovavo a Domburg, in Olanda. Mio nonno olandese era un vecchio
amico del vicario della ci adina, e ogni anno dovevo passare le
vacanze con lui e la moglie. Quell’estate mi ero fa o un aeroplanino
di legno, un modellino di balsa. Era uno Spitfire, volava che era una
meraviglia. Era il migliore che avessi mai fa o. Una sera l’ho lanciato
un’ultima volta, e per via di un colpo di vento è finito al di là di un
alto muro. Il muro delimitava l’ultimo posto in cui avresti voluto che
a errasse il tuo aliante preferito. Il giardino del capitano Verplancke.
Durante la guerra era nella Resistenza, e aveva una certa fama. Gli
altri ragazzi mi avevano de o che avrei fa o meglio ad andarmene e
a tornare con il vicario. Il punto era che un ragazzino non bussava al
capitano Verplancke alle o o di sera. Ma io pensavo: Male che vada
non me lo renderà. Quindi sono andato fino alla porta e ho bussato.
Non ha risposto nessuno così ho bussato di nuovo. Niente. Allora
sono andato sul retro della casa e lì dove mi trovavo, sull’isola di
Walcheren, a un tiro di schioppo dal Mare del Nord, ho visto una
scena che sembrava presa a prestito dall’etiche a di un whisky del
Mississippi. Un portico, una lanterna, una sedia a dondolo e un
omone nero che suonava la chitarra. Canticchiava in inglese con voce
roca, fumando una sigare a rollata a mano. Prima di allora non
avevo mai parlato con qualcuno che non fosse bianco. Nessuno mi
aveva mai parlato della chitarra blues, e va da sé che non ne avevo
mai sentita una. Per quello che ne sapevo, avrebbe potuto essere un
marziano che suonava musica marziana. Eppure ero ipnotizzato.
Che cos’era? Come faceva una musica a essere così triste, scarna,
dilatata, spigolosa, e tu e queste cose a un tempo? Dopo non molto,
l’uomo alla chitarra mi ha notato, ma ha continuato a suonare. Ha
suonato ‘Key to the Highway’ da cima a fondo e solo alla fine mi ha
parlato: ‘Allora qual è il tuo verde o, nanero olo?’ Gli ho chiesto se
sarei mai riuscito a suonare come lui. ‘No’, mi ha risposto, ‘perché’ –
e questo me lo ricorderò per sempre – ‘non hai vissuto la vita che ho
vissuto io, e il blues è una lingua con cui non si può mentire.’ Ma se
davvero lo volevo, ha aggiunto, un giorno avrei imparato a suonare
come me stesso. A quel punto è arrivato il vicario e si è scusato per la
mia intrusione, e lì è finito il mio colloquio con il misterioso
straniero. Il giorno dopo, la domestica del capitano Verplancke è
passata a casa del vicario con il disco di Big Bill Broonzy e
Washboard Sam. C’erano il suo autografo e queste parole: Suonalo a
modo tuo.»
Un cartello dice che a Brighton mancano solo sedici chilometri.
«Spero che quel disco non l’abbia bruciato nessuno», commenta
Griff.
«Un giorno di questi te lo farò vedere», dice Jasper.
«L’hai poi riavuto il tuo modellino di Spitfire?» chiede Elf.
Un a imo di silenzio. «Non me lo ricordo.»

La Belva rallenta nel parcheggio dell’associazione studentesca,


dove Levon li sta aspe ando appoggiato alla sua Ford Zephyr del
1960. Dean dirige la Belva nello spazio libero adiacente e spegne il
motore. Non c’è traccia del furgone di Shanks. È ancora presto. C’è un
dolce silenzio, e dolce è anche l’aria quando scendono. Dean si
sgranchisce. Da una finestra vicina si riversano le note di
«Tomorrow Never Knows». La luna è una palla bianca da biliardo
scheggiata.
La Belva a ira l’a enzione. Un joker di passaggio grida: «Ehi,
amico, dov’è Batman?»
Lo stesso Levon esamina con un certo interesse il nuovo acquisto
del gruppo. «Be’, decisamente non è roba che fa gola a un ladro di
macchine amante della velocità.»
«Lei è una robusta cavalla da tiro, è la Belva», dichiara Griff. «E
grazie a mio zio è stato un affare, cazzo.»
g
Levon si gra a un orecchio. «Come se la cava?»
«Come un carro armato», dice Dean, «a parte sulle curve, dove
invece è una bara. Per di più, non vuole saperne di superare i
se anta.»
«L’abbiamo comprata per trasportare l’a rezzatura», dice Griff,
«non per ba ere qualche record di velocità. Tu, Levon, quando sei
arrivato qui?»
«Sufficientemente presto per recuperare il nostro assegno
dall’associazione studentesca. Chi si fa fregare una volta con la solfa
del ‘te lo mandiamo lunedì’, la seconda fa più a enzione.»
Una ragazza che mastica una gomma passa davanti a Dean,
squadrandolo come se lei fosse un ragazzo e lui una ragazza. Sì,
pensa Dean, sono in una band.
«Bene», dice Levon, «le vostre cose non saliranno le scale da sole.»
«Hai dato ai nostri roadie la serata libera, eh?» chiede Griff.
«Quando vi guadagnerete un disco d’oro», dice Levon,
«parleremo dei roadie.»
«Quando ci farai firmare con una casa discografica», bofonchia
Griff, «parleremo di disco d’oro.»
«Fate un centinaio di concerti travolgenti, reclutate una legione di
fan e firmerete quel contra o. Fino ad allora l’a rezzatura la
trasporteremo noi. Basteranno tre viaggi. Meglio che uno resti a fare
la guardia. Regolatevi come se gli unici a non volervi rubare
l’a rezzatura siano quelli che hanno meno di cinque anni o più di
cento, e forse ce la farete a non perderla. Che cosa c’è, Jasper?»
«Noi.» Jasper indica una bacheca.
Gli occhi di Dean scorrono su vari manifesti. SIT-IN CONTRO LA
GUERRA IN VIETNAM ; DITE NO ALLA BOMBA , UNITEVI OGGI ALLA
CAMPAGNA PER IL DISARMO NUCLEARE ; PERCHÉ NON PROVARE A
SUONARE LE CAMPANE? Poi trova la propria faccia. È all’interno di
una griglia composta dai ritra i dei vari membri del gruppo sca ati
da Mecca.
Le copie sono venute pulite. UTOPIA AVENUE è stampato in
cara eri stile luna park, e so o c’è un re angolo bianco per inserire
luogo, ora e prezzo del concerto, se previsto.
«Benvenuti nel giro grosso, ragazzi e ragazze», dice Griff.
«È venuto piu osto bene», commenta Elf.
«Sembra una taglia», dice Dean.
«È un bene o un male?» chiede Jasper.
«È il lato fuorilegge del rock’n’roll», dice Elf.
«Più che ‘fuorilegge’», osserva Griff studiando il ritra o di Elf,
«direi che è il lato ‘impiegato del mese’. Senza offesa.»
«Figurati. Più che ‘fuorilegge’», Elf studia il ritra o di Griff, «direi
‘terzo posto a un concorso di King Charles Spaniel con la parrucca’.
Senza offesa.»

La sala è lunga e stre a come una pista da bowling, con un bar


vicino alla porta e un palche o all’estremità opposta. Su un lato, una
fila di finestre offre la vista serale di un campus universitario privo
di alberi. A Dean quel posto sembra fa o tu o di Lego.
L’imbianchino che l’ha dipinto doveva andare ma o per il color
liquame lucido. La sala potrebbe ospitare tre o qua rocento persone.
Stasera, considera Dean, ce ne sono cinquanta. Altre dieci sono
riunite intorno al biliardino. «Spero che nessuno si faccia male nella
ressa quando iniziamo.»
«Noi non cominciamo prima delle nove», dice Elf. «C’è un sacco
di tempo, potrebbe entrare ancora uno squadrone di mille persone.
Nessun segno della gang di Gravesend?»
«Evidentemente no.» Che domanda stupida.
«Okay, scusa se esisto.»
Due studenti si avvicinano dal bar. Lui ha una barbe a da
mosche iere e una camicia di seta color malva, lei un casche o nero,
grandi occhi mascarati e un abitino senza maniche con una stampa a
zigzag che le copre a malapena le cosce. Non le direi di no, pensa
Dean. Mentre il mosche iere inizia a parlare, la ragazza fissa Elf.
«Ciao, sono Gaz e i miei poteri dedu ivi mi dicono che siete gli
Utopia Cul-de-Sac.»
«Avenue.» Dean appoggia a terra il suo amplificatore.
«La mia voleva essere solo una ba uta», dice Gaz.
Ha fumato parecchio, conclude Dean.
«Sono Levon, il loro agente. Al telefono ho parlato con Tiger.»
g p g
«Sì, be’, Tiger è impegnato altrove, mi ha chiesto di sostituirlo qui
e di guidarvi al palco. Il palco…» lo indica, «è lì.»
«Io sono Jude», si presenta la ragazza. Lei non ha fumato e parla
con l’accento nasale dell’Ovest. «Sono impazzita per ‘Oak, Ash and
Thorn’, Elf.»
«Grazie», dice lei. «La musica che suoneremo stasera però sarà un
po’ più… selvaggia del mio lavoro da solista.»
«Se è selvaggia, va bene. Quando ho sentito da Tiger che c’eri tu
nella band, gli ho de o: ‘Elf Holloway? Invitali immediatamente’.»
«Già, è andata proprio così.» Gaz le piazza una mano sul sedere
come se fosse di sua proprietà.
Peccato, pensa Dean. «Meglio se facciamo il sound-check.»
«Basta che suonate forte», dice Gaz. «Non siete alla Royal Albert
Hall.»
«Posso chiederti…» Elf guarda il palco, «dov’è il pianoforte?»
Gaz aggro a la fronte e le sue sopracciglia si fondono l’una
nell’altra. «Quale pianoforte?»
«Il piano che Tiger ha promesso di farci trovare accordato sul
palco per il concerto di stasera», risponde Levon. «Me l’ha ripetuto
due volte.»
Gaz eme e un fischio so ile. «Tiger prome e un sacco di cose.»
«Ma un piano ci serve, assolutamente», insiste Elf.
«Sono i gruppi a portare gli strumenti.»
«No che non lo portano un piano», dice Griff. «A meno che non
arrivino qui con un camion, cazzo.»
«Non m’importa se Tiger è impegnato altrove o no», riprende la
parola Levon. «È pagato per occuparsi della logistica. Fallo venire
qui e basta.»
«Tiger ha subito una metamorfosi», spiega Gaz. «Gli si è aperto il
terzo occhio. Qui.» Gaz si tocca la fronte. «È sparito martedì e
nessuno lo ha più visto da allora. Su scala cosmica…»
«Senti, Gaz», lo interrompe Levon, «non me ne importa un cazzo
della scala cosmica. Noi siamo sulla scala ‘ci serve subito un
pianoforte’. Procuracene uno all’istante.»
«Il tuo fare aggressivo mi sta scocciando, bello. Non sono mica il
tuo sgua ero. Non è l’a eggiamento giusto questo. Sto facendo un
g gg g q
favore a Tiger solo a stare qui. Non sono io l’organizzatore di eventi.
‘Fanculo, bello.» Lancia un’occhiata a Jude, che sembra dispiaciuta,
poi punta verso l’uscita.
«Ehi, testa di cazzo!» Dean fa per seguire lo sballone in fuga.
«Non…»
«Non sprecare energie», dice Levon agguantandolo per un
braccio. «Temo che con le associazioni studentesche ogni tanto
queste cose capitino.»
«Sei tu che ci ha trovato questo concerto. Si può sapere perché ci
siamo scomodati a venire, maledizione?»
«Perché le associazioni studentesche pagano relativamente bene, e
sono relativamente affidabili anche per chi è relativamente un
nessuno. Ecco perché siamo qui.»
«Ma a Elf serve un pianoforte. Come lo facciamo il concerto?»
«Lo sapevo che avremmo dovuto caricare l’Hammond»,
commenta Griff.
«Se lo sapevi, Grande Saggio Onnisciente», riba e Dean, «perché
non l’hai de o quando ho chiesto: ‘Non sarebbe meglio caricare
l’Hammond?’ e da parte vostra è stato tu o un: ‘No, non serve,
Levon gliel’ha fa o presente due volte, là ci sarà un piano al cento
per cento’?»
Griff si avvicina a Dean quanto basterebbe a tirargli una testata.
«Se qualcuno qui ha il diri o di essere incazzato, Mister Perdo Le
Staffe, quella è Elf. Tu sei a posto. Il tuo basso ce l’hai.»
«Piangere sul la e versato non serve», interviene Elf. «La
prossima volta caricheremo l’Hammond. Che si fa ora, Levon?
Annulliamo il concerto e ce ne andiamo?»
«Il problema è che se l’associazione studentesca annulla l’assegno,
non potrò rifarmi legalmente su di loro. Se riuscite a suonare per
un’ora, invece, i soldi sono nostri. Quaranta sterline. Divise per
cinque.»
Dean pensa ai suoi debiti e al suo libre o di risparmio.
«Consideriamola un’esercitazione per il gruppo», dice Jasper. «In
fondo, tra il pubblico non ci sono né giornalisti né critici.»
«Ma cosa suono?» Elf si gra a il collo. «Se avessi almeno una
chitarra, potrei fare un paio di pezzi folk.»
p p p
Un grido di trionfo rimbomba nella zona biliardino.
«Scusate se m’impiccio.» È Jude, non se n’è andata via con Gaz.
«Avrei una chitarra da prestarvi. Se per voi va bene.»
Elf approfondisce. «Hai portato qui una chitarra?»
Jude sembra un po’ in imbarazzo. «Speravo che me
l’autografassi.»

Di Ray ancora nessuna traccia, ma il telefono non ce l’ha, Dean


chiama dunque casa di Shanks da una cabina telefonica all’ingresso.
Vuole assicurarsi che siano almeno partiti. Nessuno risponde. Sono
solo in ritardo, hanno trovato traffico, hanno bucato, se ne sono
dimenticati… tu o può essere. Quando torna nella sala, la no e ha
tinto di nero la fila di vetri lungo la parete. Dev’esserci una bella
dispersione di calore in questo posto. Sopra il palco incombe un
impianto luci elementare, ma il tecnico è in sciopero, quindi le
smorte barre luminose sono sempre accese. «Ho visto obitori con
un’atmosfera più allegra di questa», dice. Griff dà gli ultimi
aggiustamenti alla ba eria. Accanto al palco, in uno sgabuzzino che
puzza di umido e candeggina, Elf ha finito di accordare la chitarra
acustica che le ha prestato Jude. Si sta ritoccando il rosse o davanti a
un piccolo specchio. «Notizie di tuo fratello?»
Dean scuote la testa. «Possiamo anche iniziare.»
«Credo che non verrà più nessuno», dice Jude.
«Prima iniziamo», dice Griff, «prima ce ne torniamo a casa.»
«In bocca al lupo», dice Levon.
«Dammi un branco di lupi e ti faccio vedere io», mormora Dean.
Salgono i tre gradini che portano al palco, nelle cui vicinanze si sono
raggruppate svogliatamente una se antina di persone. Parte qualche
applauso, sulla scia di quello di Jude. Dean si avvicina al microfono.
Il novanta per cento della sala è vuoto. Tu ’a un tra o si sente
nervoso. Non suona dal vivo dal concerto al 2i’s, e lì si tra ava di
classici R&B a presa rapida. La scale a di stasera è incentrata sulle
loro canzoni: scri e da Dean ci sono «Abandon Hope» e «Dirty
River», che appartiene al suo periodo con i Potemkin, poi di Jasper la
mai collaudata «Darkroom» e «Sky Blue Lamp», uno strumentale,
infine di Elf «A Raft and a River», composta per pianoforte, ma da
p p p
suonare senza, oltre a «Polaroid Eyes» e a qualche pezzo virato al
folk. «Okay», dice Dean, «siamo gli…» Dagli altoparlanti il feedback
esplode come un urlo e il pubblico ha un sussulto. Ecco a cosa serve il
sound-check. Armeggia con il microfono e lo allontana una trentina di
centimetri. «Siamo gli Utopia Avenue. La nostra prima canzone è
‘Abandon Hope’.»
«Noi la speranza l’abbiamo già abbandonata, amico!» grida dal
bar un ma acchione.
Dean fa sca are un affe uoso dito medio in quella direzione,
innescando qualche gratificante «Oooh!» Si scambia un’occhiata con
Jasper, Elf e Griff. Griff tira un sorso dalla sua bo iglia di Gold
Label. «Quando sei pronto», dice Dean. Griff gli mostra rapidamente
il dito.
«E one e two e one-two-three…»

Griff seppellisce il finale di una traballante «Abandon Hope» so o


una pioggia di percussioni. Da Pavel non ci era mai venuta così di
merda, pensa Dean. L’applauso spompato che ne deriva è perfino
più di quanto si meritino. Dean si avvicina a Griff. «Hai suonato
troppo veloce», gli dice.
«Sei tu, cazzo, ad andare troppo lento.»
Dean gli volta le spalle esasperato. Elf ha suonicchiato la chitarra
senza convinzione, le armonie erano spente. L’assolo di Jasper non ce
l’ha fa a a carburare. Anziché offrire tre minuti di spe acolo
pirotecnico, c’è stato solo un minuto di petardi mosci. In fin dei conti,
Dean non può incolpare nessuno fuorché se stesso per aver sbagliato
le parole del terzo verso o per le note gracidanti, stentate o mancanti.
Fino a stasera ha creduto che ‘Abandon Hope’ fosse la migliore
canzone che avesse mai scri o. Mi sono preso in giro? Chiama Elf e
Jasper per una riunione d’emergenza, a cui si aggiunge Levon. «Era
una merda.»
Levon inizia a dire: «Ma no, non credo che fosse proprio…»
«Se proviamo a fare ‘Darkroom’ senza piano», dichiara Dean,
«non reggerà per niente.»
«Che ne dite di ‘House of the Rising Sun’?» propone Jasper.
Dean sembra poco entusiasta. «Senza organo?»
p g
«È una vecchia canzone folk americana», fa notare Elf. «Precede
gli Animals di sei decenni, come minimo.»
Dean si domanda per quanto ancora riuscirà a sopportarla.
«Vi stiamo facendo fare tardi?» urla il ma acchione dal bar.
«A te cosa piacerebbe suonare?» chiede Elf.
Dean si accorge di non averne idea. «Vada per ‘Rising Sun’.»
«Una volta che li avremo conquistati», dice Jasper, «suoneremo
un nostro pezzo.»
Dean raggiunge Griff, che sta aprendo un’altra bo iglia di Gold
Label. «Dimenticati la scale a, suoniamo ‘House of the Rising Sun’»
«Sissignore, nossignore, agli ordini signore.»
«Falla finita e suonala.»
Jasper va al microfono. «La prossima canzone è su una casa con
una ca iva reputazione a New Orleans, dove…»
«There is… a house… in New Orleans…» intonano quelli al
biliardino, che da quando sono arrivati non hanno mai smesso di
giocare.
«Questa non l’ho mai sentita», urla il ma acchione dal bar.

Fino a quel momento, Dean pensava che «The House of the Rising
Sun» fosse una canzone ina accabile, ma gli Utopia Avenue stanno
dimostrando che aveva torto. La voce di Jasper suona costipata,
altezzosa, fighe a. La linea melodica di Elf in una canzone che parla
di rimorso maschile risulta stonata. Dean si allontana troppo
dall’amplificatore e quella merda di basso si stacca da quella merda
di amplificatore. Mentre sca a all’indietro per ria accare lo spino o,
il pubblico si me e a ridere. Jasper non lo copre e si lancia nella
seconda strofa senza il basso a sostenerlo. Griff suona moscio ed è un
deliberato «vaffanculo», sospe a Dean, per aver osato dirgli che era
troppo veloce in «Abandon Hope». Nessuno del pubblico sta
ballando. Nemmeno dondolando un po’. Si limitano a rimanere
impalati: Bella merda, dice il loro linguaggio del corpo. Un gruppo si
stacca, se ne va. Jasper fa di nuovo cilecca con l’assolo. Se si fosse
dimostrato così scarso al 2i’s, pensa Dean, non mi sarei mai unito al
gruppo. La porta a doppio ba ente vicino al bar continua a sba ere.
Stiamo svuotando questo posto. Si ricollega alla terza strofa, sperando
q p g p
che Jasper capisca al volo che deve farla finita con l’assolo. Non lo
capisce. Pizzica le corde per le ultime qua ro ba ute senza ba eria e
basso, come la intro di Eric Burdon nella versione degli Animals, ma
questo non fa che me ere in luce quanto la loro performance sia
inferiore. Non c’è stato un briciolo di spe acolo, considera Dean. Un
vero disastro.
All’ultima ba uta, il feedback sgorga fragoroso dalle casse, e non
in modo figo alla Jimi Hendrix, ma tipo sistema di amplificazione da
festa di paese.
«Ho sentito di meglio!» urla qualcuno.
Dean non può che essere d’accordo. Dà un’occhiata a Levon che,
con le braccia conserte, guarda il pubblico in calo.
Si riuniscono intorno alla ba eria. «Era abbastanza una merda»,
dice Griff.
«‘Abbastanza una merda’ a dir poco, se vuoi la mia opinione»,
dice Dean.
«Che canzone facciamo adesso?» chiede Elf. «‘A Raft and a River’
senza un piano affonderà senza lasciare traccia.»
«Che ve ne pare di una versione ele rica di ‘Any Way the Wind
Blows’?» propone Levon. «Al Club Zed l’avete fa a un paio di volte.»
«Stiamo solo perdendo tempo», dice Dean, pensando che il
cavallo di ba aglia di Elf abbia bisogno di percussioni quanto un
albatros di eliche.
«A questo punto non abbiamo un accidenti da perdere», dice
Griff.

«Any Way the Wind Blows» per il momento è il pezzo che


funziona meno peggio. Griff impone un ritmo più lento rispe o alla
versione incisa da Elf, e Jasper impreziosisce ogni strofa. Dean e
Griff finalmente sulla stessa lunghezza d’onda proseguono di pari
passo. Il microfono riesce a ca urare appena la chitarra acustica di
Elf, ma a guardarli sono rimaste solo venti persone. Jude è ancora lì a
mani giunte. Sorride a Dean, e lui prova a restituirle il sorriso. Le
porte in fondo alla sala si spalancano, piombano dentro sei o se e
ragazzi. Guai, pensa Dean. Sono vestiti più da mod che da studenti.
Il barista incrocia le braccia. Un urlo: «Cinque birre, ho de o, cazzo!»
q
Lo si sente sopra la musica e ciò che resta del pubblico si volta a
guardare. La band continua a suonare. Dean si augura che qualcuno
chiami la cavalleria, e che la cavalleria del politecnico di Brighton
non sia soltanto un custode asmatico. Sente altre urla: «Ah, è così?
Bene, se non ci vuoi servire lo farò io!» C’è un fuggi fuggi dalla zona
bar. Anche quelli al biliardino si bloccano e se la ba ono. I mod si
stanno servendo le birre da soli. Per una cosa del genere dovrebbero
chiamare la polizia, ma Dean dubita che si precipiterebbero lì. Il
gruppo arriva alla fine della canzone, ad applaudire però sono solo
Jude e un paio d’altri. Il resto del pubblico si dissolve non appena i
mod si avvicinano al palco birra in mano. Il capo ha un collo da toro,
denti da ra o, occhi da squalo. Fa un gestaccio a Elf. «Che cosa
aspe a a farci vedere le te e?»
«Non è quel genere di spe acolo», gli fa notare Elf.
«Il cliente ha sempre ragione, pasticcino», replica Occhi da
Squalo.
«Ragazzi?» Lui e la sua banda si prendono a bracce o e si
esibiscono in un can-can con la malizia isterica che hanno i mod fa i
di speed. Avanzano fino a pochi metri dal palco, giunti lì il can-can
s’interrompe di colpo com’è iniziato.
«Forza, suonate qualcosa», dice un mod con la Union Jack
stampata sulla giacca.
«E che non sia una delle vostre stronzate da hippie», li ammonisce
un altro.
Levon si me e di fronte al palco. «Noi suoniamo quello che
suoniamo. Se la musica non vi piace, quella è la porta.»
Occhi da Squalo esaspera in maniera gro esca il suo stupore:
«Uno…yankee? Ma che cazzo. E tu che cosa ci fai qui?»
«Sono canadese», dice Levon, «e sono il loro manager, quindi…»
«Se sembra un finocchio», Occhi da Squalo scarica un grosso
sputo sul pavimento, «si veste da finocchio e strilla come un
finocchio, allora significa che…»
«La nostra musica non vi piacerà», dice Jasper. «Potete anche
andarvene.»
«Potete anche andarvene!» gli fa il verso quello con la Union Jack
stampata sulla giacca. «Voi, bru i manigoldi! E tu chi saresti, il piccolo
p g g p
Lord?»
«Ehi!» Griff si alza in piedi. «Qui noi stiamo lavorando,
dannazione!»
Con quel gilet e i capelli da barbaro selvaggio, Griff sembra
abbastanza pazzo da poter costituire una minaccia, ma non per
Occhi da Squalo, che inizia a ridere. «Uno yankee, un damerino, una
vacca hippie e uno yeti dello Yorkshire! Sembra l’inizio di una
barzelle a del cazzo. E tu chi saresti?» chiede indicando Dean. «Il
folle o pigliainculo?»
Da un lato della sala un braccio fa partire un missile rotante
contro Dean. Lui si abbassa, ma Griff barcolla all’indietro e,
afferrandosi la testa, cade sulla ba eria. I pia i cozzano fra loro
come a chiudere la barzelle a.
«Cento anta», urla quello con la Union Jack sulla giacca come
uno che tiene i punti a frecce e.
I mod esultano, ridono, Griff però non si rialza. Levon ed Elf
corrono da lui. Dean valuta l’entità dei danni. Sulla faccia ha uno
squarcio che gronda sangue. Il tappo dentellato della bo iglia,
pensa, o uno spigolo della ba eria…
«Griff?» sta dicendo Levon con il sangue del ba erista sulla
camicia. «Griff!»
«Lsciach’mrime npied’eglilafacciovder’aquellostrnz…» biascica
Griff.
Levon ruggisce verso il bar: «Barista! Un’ambulanza, presto! È
un’emergenza! Ha mezzo occhio di fuori!» Dean non crede
assolutamente che abbia un occhio di fuori… ma questo i mod non lo
sanno.
Con il telefono in mano il barista urla di rimando: «Ho avvisato il
custode! Sta chiamando la polizia e un’ambulanza!»
Dean indica i mod i cui sorrise i stanno sfumando e grida ai
presenti: «Ricordatevi le loro facce! I polizio i vorranno le
deposizioni dei testimoni». Poi indica Griff: «Sono cinque anni a
testa per lesioni personali gravi!»
Parte un flash. È Jude con una macchina fotografica. I mod fanno
un passo indietro, e un altro e un altro ancora, a eccezione di Occhi
da Squalo, che marcia verso Jude ringhiando: «Dammi quella
q g q
stramalede a macchina fotografica!» Dean molla la Fender e salta
giù dal palco. Occhi da Squalo è impegnato in una specie di tiro alla
fune con la ragazza per impadronirsi della macchina fotografica.
«Dammela, troia!» sbraita. La ba aglia è a senso unico, finché Dean
non strappa a uno spe atore una bo iglia di birra e la picchia in
testa a Occhi da Squalo più forte che può. Sente un crac. Occhi da
Squalo lascia perdere la macchina fotografica, confuso si volta a
guardare chi l’ha aggredito. ’Fanculo, pensa Dean, non è che adesso
sarò io a finire in prigione per cinque anni? Con suo grande sollievo,
la banda di Occhi da Squalo trascina via il capo dalla scena del
deli o.

La pioggerella riveste con una patina fredda e umida il


parcheggio del circolo studentesco e chiunque vi si trovi lì. La
maggior parte della gente se n’è andata. I mod sono svaniti nella
no e. «La ferita del vostro amico sembra più grave di quello che
probabilmente è», dice il tipo dell’ambulanza riguardo a Griff. «Ma
immagino che al pronto soccorso vorranno tra enerlo in ospedale
per il fine se imana. Gli faranno una lastra, avrà bisogno di punti e
con i colpi in testa c’è sempre il rischio di una commozione cerebrale.
In generale, comunque, è una fortuna che non abbia perso un
occhio.»
«La seguo in macchina fino all’ospedale», dice Levon.
«Vengo con te», interviene Elf.
«Non è necessario.»
Lei non gli dà re a. «Dean può riportare a casa la Belva e…» Dean
immagina che stia per dire: Jasper non sarà di grande aiuto a
nessuno, ma Elf ribadisce invece: «Io vengo con te».
«Possiamo salutare Griff?» chiede Dean a quello dell’ambulanza.
«Fate in fre a e non aspe atevi una conversazione brillante.»
«È il ba erista», commenta Dean. Fa il giro dell’ambulanza e sale.
Dentro è pulito, color panna, Griff è lì seduto su una barella. Con
metà della faccia bendata, lancia un’occhiata a Dean. «Ehilà,
stronze o, sei proprio tu? Devo essere morto e finito all’inferno.»
«La cosa positiva», gli dice Dean, «è che se la cicatrice viene bene,
avrai un lavoro assicurato nei film horror.»
«Come ti senti?» chiede Elf tenendo la mano al ba erista.
«Poverino.»
«Su da noi a Hull, prendere una bo igliata non è niente di
speciale», dice Griff. «Chi è che sta tenendo d’occhio la mia ba eria?
Di questi studenti non mi fido.»
«È già nella Belva», lo tranquillizza Jasper. «La terremo a casa
mia.»
«E se dovessi tirare le cuoia, la piazziamo al tuo sostituto»,
aggiunge Dean.
«Auguri. Non sarà facile trovare un ba erista che sappia farti
andare a ritmo.»
«Disturbo?» dice una voce femminile alle loro spalle. Dean si
volta e vede Jude, esitante, vicino al portellone dell’ambulanza.
«Posso?»
«Accomodati», la invita Levon.
«Scusate se mi introme o. È che… sono così dispiaciuta. Per voi,
intendo.»
«A scusarsi dovrebbe essere il circolo studentesco», dice Elf, «tu
non ne hai motivo.»
«La vostra musica è stata fantastica.» Jude si sistema una ciocca
ribelle dietro un orecchio. «Finché non vi hanno interro o
brutalmente.»
«Mi piacerebbe poterti dare ragione», dice Dean, «comunque
grazie lo stesso.»
«Ma tornerete a finire il concerto?» chiede Jude.
I membri del gruppo si guardano l’un l’altro. «No, a meno che
non ci risarciscano per il sangue versato», dice Dean. Levon sbuffa.
«Prima di definire le nostre prossime mosse aspe eremo che Griff si
rime a del tu o.»
Jude guarda Dean. «Quindi è arrivato il momento di salutarci…»

Quando la Belva prende le curve, i catarifrangenti della A23


scompaiono dalla visuale. Un momento li vedi, un momento dopo non li
vedi più. Gli amplificatori, le percussioni e le chitarre di dietro si
spostano da una parte all’altra. All’andata eravamo in qua ro, pensa
Dean, al ritorno solo due. Jasper si è chiuso in Jasper. O magari sta
p p g
dormendo. C’è differenza? Sarebbe felice se la radio della Belva
funzionasse. Ha la mente sovraccarica. Grazie a Dio Ray non ha
assistito a questo schifo di concerto. Shanks, Ray e compagnia avrebbero
avuto la meglio sui Mod, ma in quel caso il disastroso debu o degli
Utopia Avenue avrebbe avuto dei testimoni degni di fede. Suonare
come si deve alle prove non conta un cazzo se poi non riusciamo a farlo sul
palco. Una band è una band solo se è convinta di esserlo, e Dean non
è così sicuro che per lui, Jasper, Elf e Griff le cose stiano così. Quando
è il momento di darci dentro sul serio, qualcosa s’inceppa. Lui sente
di avere una certa affinità con Griff, hanno entrambi radici
proletarie, ma Jasper è di un altro pianeta. Il pianeta degli strambi di
buona famiglia. Sono o o se imane che vive con lui, eppure non può
ancora dire di conoscerlo. Elf considera Dean un buzzurro. Come
potrebbe essere altrimenti? La parolaccia peggiore che le ha sentito
pronunciare è «Dannazione». I genitori la tirerebbero fuori dai guai
se le sue avventure nel mondo dello spe acolo andassero storte.
Vive la vita con una rete di protezione. Perfino Griff si è conquistato
una sua rete di protezione.
«Io no», mormora Dean.
«Hai de o qualcosa?» chiede Jasper.
«No.»
La Belva infila una galleria fa a di tronchi e rami. Sulla
carreggiata c’è un fagiano spiaccicato.
Ho bisogno di loro più di quanto loro abbiano bisogno di me,
pensa Dean. Per Jasper sarebbe facile abbandonare la nave anche
domani, qualsiasi band di Londra lo prenderebbe. Al che potrei anche
dire addio per sempre all’appartamento a Mayfair. Griff ha i suoi conta i
nel circuito jazz. Elf ha una carriera da solista a cui tornare. Levon ha
la Moonwhale, un ufficio in Denmark Street e dopo stasera,
immagina Dean, anche seri dubbi sull’opportunità di ge are un bel
gruzzolo alle ortiche. E io cos’ho? Gli Utopia Avenue. In teoria, il suo
futuro avrebbe dovuto prendere il volo quella sera.
È esploso sulla rampa di lancio.
Frantumi.
a. Frantumi.
Mona Lisa Sings the Blues a

«Lo abbiamo già stabilito un’ora fa», si lamenta Elf. «La registrazione
migliore è la terza.»
«Ma la sesta è più precisa.» Levon parla al microfono dalla cabina
di regia. «Nella terza Dean ha steccato in quella scala discendente.»
«È un tocco in più», insiste Elf. «È successo quando Jasper ha
de o la parola broken. È una di quelle fortunate coincidenze che…»
«In generale, Jasper ha cantato meglio nella sesta registrazione»,
insiste Levon. «E anche Griff ha suonato più tic-toc-tic-toc.»
«Se vuoi un tic-toc-tic-toc», dice Elf, «basta che me i in un angolo
un gigantesco metronomo peloso in gilet e registri quello.»
«Se al gigantesco metronomo peloso è concesso dire una
parola…» interviene Griff sdraiato su un divano sfa o con la nuova
cicatrice da ca ivo sulla tempia sinistra. «Il basso di Mosser sporcava
il mio rullante. Possiamo farla una se ima volta comprimendo il
suono?»
«Non l’ho compresso di proposito», dice Digger, il tecnico del
suono ai Fungus Hut. «Come i Rolling Stones. Loro cercano apposta
il suono sporco.»
«E allora?» Senza preoccuparsi che gli altri lo vedano, Dean se ne
sta appollaiato su un amplificatore con le dita nel naso. «Non siamo
mica i cloni degli Stones.»
«Prendere spunto dagli Stones, ragazzi, non farà di voi dei cloni»,
dice l’abbronzato coproprietario della Moonwhale dai denti
sbiancati, Howie Stoker, un tipo da Playboy. «Quei tizi sono una
miniera d’oro.»
«Sono una miniera d’oro perché hanno trovato un loro stile,
Howie», riba e Dean, «e non l’hanno trovato comportandosi come
degli stupidi pappagalli.»
g p p pp g
«Alla Chess Records non sarebbero d’accordo sul fa o che gli
Stones non siano dei pappagalli.» Griff espelle dalla bocca un anello
di fumo.
«Tu o questo non c’entra niente!» Elf si sente intrappolata in un
incubo circolare. «Possiamo, per favore, semplicemente…»
«No. Però, ragazzi, mi è venuta un’idea.» Howie Stoker dà risalto
a ciò che dice gesticolando come un karateka. «Lasciate perdere
quella strofa, ‘Down in the darkroom where a lie becomes the truth’, e
sostituitela con uno ‘sha-la-la-la-la-da sha-la-la-la-la-ba’. La se imana
scorsa ero a cena con Phil Spector, lui dice che gli sha-la-la stanno
tornando di moda.»
«Davvero una bella idea, Howie», dice Levon.
Dovrete prima spararmi, pensa Elf. «Dean, la parte di basso è tua.
Terza registrazione o sesta. Scegline una. Poni fine alle nostre
sofferenze.»
«Le ho ascoltate così tante volte che le mie orecchie sono entrate in
sciopero.»
«Questo è il motivo per cui Dio ha inventato i produ ori», dice
Levon. «Digger, Howie e io siamo d’accordo… La sesta è quella
buona.»
«Eravamo tu i d’accordo sulla tre», riba e Elf cercando di non
urlare, farebbe la figura della donne a isterica, «finché tu…»
«La terza registrazione era in testa», si spiega Levon, «ma la sesta
è rimontata alla grande e ha raggiunto il traguardo per prima.»
Dio, dammi la forza. «Una metafora poco calzante non è un
argomento vincente. Jasper. La tre o la sei. La canzone è tua.»
Jasper sbircia fuori dal cabino o del cantante. «Nessuna delle
due. Sembro Dylan con il raffreddore. Mi piacerebbe farne un’altra
con un tono più caldo.»
«Phil Spector ha un mo o», dice Howie Stoker. «L’o imo è
nemico del buono. Ha ragione o ha ragione?»
«Direi che questo consiglio sul suono suona davvero saggio,
Howie», dice Levon.
Leccaculo che non sei altro, tu e tuoi giochi di parole, pensa Elf.
«Se avessimo a disposizione tu a la se imana sarei d’accordo per
riprovarla cinquecento volte. Ma per fare altre due canzoni ci restano
p q p
solo…» l’orologio segna le 8 e 31 del ma ino «…qua ro ore e
ventinove minuti, e il motivo è che ci siamo fermati un sacco su
questa.»
«‘Darkroom’ è sul lato A», dice Levon. «È la canzone che verrà
trasmessa da un milione di stazioni radio. Dev’essere perfe a.»
«Non dovremmo sentire come vengono le canzoni mie e di Dean
prima di decidere quale me ere sul lato A?» chiede Elf.
«Altrimenti…»
«No, ma…» inizia a dire Dean, e a quel punto nel cervello di Elf
salta un fusibile. Picchiando i pugni sulla tastiera me e in guardia i
presenti: «Se qualcuno mi interrompe ancora mentre parlo, gli
pianto il Farfisa su per il culo».
A parte Jasper, gli altri sembrano scioccati. Poi si scambiano
un’occhiata come a dire: Ahi ahi ahi, qui qualcuno ha il ciclo.
«Signorina Holloway?» Deirdre, la receptionist dei Fungus Hut, fa
capolino dalla porta. «C’è sua sorella. Dice che la stava aspe ando.»
Bea dev’essere stata inviata per impedirmi di uccidere qualcuno,
pensa Elf. «D’accordo. Ascoltatemi tu i. Con quella malede a
canzone fate un po’ come vi pare. Non mi interessa più. Me ne vado
al Gioconda, sarò di nuovo qui per le nove.»
«Vai pure», replica il loro agente. «Ti farà bene.»
«Non ti stavo chiedendo il permesso, Levon.» Elf recupera
cappo o e borsa ed esce senza guardarsi indietro.

L’aria fresca soffia dentro la reception da Denmark Street. Bea sta


guardando una parete zeppa di foto dei clienti più famosi dei
Fungus Hut. Elf contempla ammirata il nuovo taglio alla maschie a
della sorella, il basco viola, la giacca lilla e gli stivali al ginocchio.
Unghie e labbra hanno la stessa sfumatura color prugna.
«Sorellina. Accidenti, guardati.»
Le sorelle si abbracciano. «Ho esagerato? Puntavo a Mary Quant,
ora però ho paura di essere diventata come la protagonista di quella
filastrocca: ‘Mary Mary Quite Contrary’.»
«Se nella giuria ci fossi io, ti offrirei un posto anche solo per il tuo
genio sartoriale.»
«Tu sei di parte.» Le indica una foto di Paul McCartney. «Se resto
qui per un po’, c’è la possibilità che Paul approdi sull’onda della
favolosità?»
«Temo di no», interviene Deirdre sollevando lo sguardo dalla
scrivania. «È una foto di marzo. Gli studi di Abbey Road quella sera
erano completamente prenotati. È stata un’eccezione.»
«Andiamo a fare colazione», propone Elf. «Meglio ammazzare un
sandwich al bacon che un produ ore.»
Howie spunta dalla porta della sala d’incisione sistemandosi i
pantaloni con un colpo secco. «Gesù Gesù. Ma chi è questa deliziosa
signorina?»
«Mia sorella Bea», dice Elf. «Bea, questo è il signor Stoker, che…»
«Ha messo in piedi la Moonwhale.» Howie stringe la mano a Bea.
«Ma continuo ad avere le mani in pasta in molte altre faccende.»
Bea ritira la mano. «Che eccitante appiccicume dev’essere per lei.»
Howie sfodera un sorriso smagliante. «E tu, Bea, a che punto sei
in questa grande avventura che è la vita?»
«Sto finendo il liceo, punto all’accademia d’arte drammatica.»
«Brava. L’ho sempre de o io che la bellezza ha il dovere di essere
vista dal pubblico, il più vasto possibile. Ti piacerebbe lavorare nel
cinema?»
Con un colpo vigoroso, Deirdre riassesta il carrello della macchina
da scrivere.
«A tempo debito, magari», risponde Bea.
«Interessante che la pensi così», dice Howie. «Il mio vecchio
amico Benny Klopp, che è un pezzo da novanta alla Universal
Studios, mi ha incaricato di scovare qualche rosa inglese durante il
mio soggiorno a Londra. E tu, Bea… posso chiamarti Bea, giusto? Tu,
Bea, sei una di quelle rose. Hai un tuo mezzobusto?»
Bea lo guarda confusa. «Cosa dovrei avere?»
«Un mezzobusto. Una foto del tuo…» Howie traccia una cornice
immaginaria intorno al seno di Bea «…volto. Benny si sta occupando
del cast per un film su Caligola. L’imperatore. In toga tu saresti fa-
vo-lo-sa.»
«Sono lusingata», dice Bea, «ma non ho nemmeno iniziato la
scuola di recitazione. Domani ho un esame al liceo per il diploma.»
p p
«Non è mai troppo presto per crearsi buoni conta i nel mondo
dello spe acolo. Non ho ragione, Elf?»
«Se sono sinceri. Ci sono molti squali, truffatori e uccellacci rapaci
che sguazzano in quelle acque. Non ho ragione, Howie?»
«Tua sorella», dice Howie a Bea, «sulle sue solide e giovani spalle
ha la testa di un vecchio saggio. Conosci Martha’s Vineyard?»
«No», risponde Bea. «Fa parte della pasta in cui ha le mani?»
«Martha’s Vineyard è una zona di villeggiatura in Massachuse s.
Ho una casa là, con spiaggia privata, molo privato, yacht privato. Fra
i miei vicini c’è Truman Capote. Mi è venuta un’idea interessante.
Quando gli Utopia Avenue voleranno da quelle parti alla conquista
degli Stati Uniti», Howie congiunge i palmi come un indiano che
dice namasté, «verrai anche tu e sarai mia ospite a Martha’s Vineyard.
Ti farò conoscere Benny Klopp. Quelli che contano a Broadway. Phil
Spector.» Il sorriso di Howie si fa ancora più smagliante. «La tua vita
cambierà, Bea. Fidati. Fidati del tuo istinto. Cosa ti dice in questo
istante il tuo istinto su di me?»

«‘Ma vai a castrarti con un cucchiaio arrugginito, lurido maiale’,


ecco le parole che mi sono saltate in testa.» Bea guarda in entrambe
le direzioni prima di a raversare Denmark Street insieme a Elf. «Ma
poi ho pensato: Questo è il capo di mia sorella…, allora ho tenuto la
bocca chiusa.»
«Tecnicamente», dice Elf, «è il capo di Levon, però è vero, può
sempre premere il pulsante per sba erci fuori. Quindi grazie.»
Un corriere in bici sfreccia loro accanto. «L’amico avvocato di
papà li controlla ancora certi contra i, giusto?» domanda Bea.
«Sì. E fortunatamente è all’altezza del compito. I musicisti che non
sono stati fregati si contano sulle dita di mani invisibili.»
«Edizione straordinaria! Edizione straordinaria!» strilla a
squarciagola un edicolante dal suo minuscolo chiosco. «Harold
Wilson trovato morto in una bara con un pale o nel cuore! Edizione
straordinaria! Edizione straordinaria!»
Bea ed Elf si bloccano. Guardano entrambe l’edicolante e lui fa:
«Mi diverto a controllare se qualcuno ascolta. Ascoltare è un’arte in
via d’estinzione. No, dico, guardate tu i quanti».
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La gente cammina di fre a lungo Denmark Street so o il sole di
maggio.
«Magari ti sentono», azzarda Elf, «però pensano solo: To’,
l’ennesimo eccentrico di Soho.»
«No», replica l’edicolante. «La gente sente solo quello che si
aspe a di sentire. Su cento persone nemmeno una ha orecchie come
le vostre.»

Tre ragazzi che stanno uscendo dal Gioconda si scansano per


lasciare entrare le sorelle. E per guardare meglio Bea. Dalle cartelle e
ammaccate e dall’abbigliamento, Elf suppone si tra i di studenti del
Saint Martins College of Art, che è a un minuto da lì in Charing
Cross Road. Bea passa leggiadra accanto ai ragazzi, come se non
esistessero, e loro escono in fila dalla tavola calda.
«Cosa ti offro?» chiede Elf.
«Solo un caffè. La e, niente zucchero.»
«Non è granché come colazione.»
«Prima di uscire ho mangiato mezzo pompelmo.»
«A costo di sembrarti papà», dice Elf, «mezzo pompelmo ti
sembra abbastanza prima di un’audizione? Ti ordino uno scone.»
«No, davvero. Ho già lo stomaco pieno di farfalle.»
«Come vuoi.» Elf ordina un panino al bacon più due caffè alla
signora Biggs, matriarca del Gioconda, che a raverso un portello
passa l’ordinazione a uno schiavo in cucina. Le sorelle si siedono al
tavolo accanto alla vetrina. «Che monologo hai scelto per
l’audizione?»
«Quello di Giovanna d’Arco nella prima parte dell’Enrico VI. Per
l’esibizione canora, invece, ho scelto un piacevole motive o intitolato
‘Any Way the Wind Blows’, della talentuosa cantante inglese Elf
Holloway. Non le ho chiesto il permesso. Se la prenderà?»
«Direi che la signorina Holloway, che guarda caso conosco alla
lontana, ne sarebbe oltremodo deliziata. Come mai proprio quella
canzone?»
«È splendida anche senza accompagnamento e poi, guarda caso,
io ero al piano di sopra proprio mentre tu la componevi… e questa è
una storia che potrei lasciarmi scappare con chi mi giudicherà, perché
p pp g p
in effe i sono una che per fare carriera non si fa scrupoli a
snocciolare nomi di conoscenti importanti. Dov’è il gabine o?»
«Giù per le scale, so o l’immagine della Monna Lisa. Stai in
guardia. È un po’ come fare un viaggio al centro della Terra…»

Alla radio si sente Waterloo Sunset dei Kinks. Elf guarda fuori in
Denmark Street. Passano centinaia di persone. La realtà cancella se
stessa mentre si riregistra, rifle e Elf. Il tempo è il Grande
Dimenticatore. Prende il taccuino dalla borsa e scrive: I ricordi sono
inaffidabili… L’arte è il ricordo reso pubblico. Sulla lunga distanza il
tempo ha la meglio. I libri diventano polvere, i negativi si
deteriorano, i dischi si consumano, le civiltà bruciano. Ma finché
l’arte tiene duro, una canzone, uno scorcio, un pensiero o un
sentimento che qualcuno una volta ha pensato valesse la pena
conservare, sarà al sicuro e continuerà a poter essere condiviso. Altri
potranno dire: Anch’io provo la stessa sensazione.
Dall’altra parte della strada, davanti al portone di un edificio con i
ma oni a vista e so o un manifesto pubblicitario dei collant
Berkshire, una coppia si sta baciando. È probabile che per via
dell’angolo di osservazione di Elf, per il portone così defilato e per il
traffico pedonale così frenetico, lei sia l’unica a vedere gli
innamorati. Tengono le fronti appiccicate l’una all’altra, parlano.
Proge i, paroline dolci, promesse, arrivederci… Lui non è male, nella
media, ma lei, stabilisce Elf, è il primo giorno di primavera in un
corpo di femmina. Il suo portamento, i vestiti, il piglio da
maschiaccio, i capelli neri lunghi fino alle spalle e, sopra u o, quel
mezzo sorriso selvaggio. La stai mangiando con gli occhi. Elf cerca nella
borsa il pacche o di Camel, fruga ancora un po’ per trovare
l’accendino e si accende una sigare a. Non la mangiavo con gli occhi, la
guardavo e basta. Ricorda la voce che ha sentito sull’autobus, il 97, che
viaggiava lungo Cromwell Road…

Il campanello al 101 di Cromwell Road aveva strillato come una


furia. La musica rimbombava. «La festa dev’essere già iniziata»,
aveva de o Bruce. Erano tornati quel giorno stesso da Cambridge,
lei quindi avrebbe preferito rimanersene a casa, Wotsit, però, era il
q p p
più caro amico di Bruce a Melbourne, era appena arrivato a Londra e
Bruce voleva andare a trovarlo. Elf aveva paura che se non ci fosse
andata anche lei, lui non sarebbe rientrato fino al ma ino dopo,
pieno di bugie verosimili su dove avesse passato la no e. Ad aprire
la porta al numero 101 era stato un tizio allampanato con una giacca
afgana color pesca, collana di perline e baffoni incolti. «Brucie Fletch!
Entrate, fuori si gela!»
«Wotsit! Come diavolo te la passi?»
«Sono vivo. Sto bene. Idra era un paradiso, devi andarci.»
«Dio, non sai quanto mi piacerebbe. Ma sono bloccato qui, per
ora.»
«Questa», Wotsit si era girato verso Elf, «dev’essere… ehm…»
Bruce aveva ripreso la parola: «La sola, unica, Elf Holloway».
Elf aveva stre o la mano ossuta di Wotsit. «Bruce mi ha parlato
moltissimo di te.»
«E come mai fra tu i gli splendidi maschi australiani che ci sono a
Londra», Wotsit le aveva sorriso a trentadue denti, «hai scelto
proprio questa teppa spudorata?»
«Magnetismo sessuale», aveva de o Bruce. «Genio. I miei vasti
possedimenti.»
«Già, dev’essere questo», aveva commentato Elf, che pagava da
sola tu e le bolle e e le spese.
Wotsit li aveva accompagnati in un corridoio, superando il murale
di un elefante, un Buddha di giada in una nicchia e, appesa
all’altezza della scala, una bandiera di preghiera con un Om sopra. Il
disco «Freak Out!» dei Mothers of Invention riecheggiava a tu o
volume a raverso uno stagnante puzzo d’erba, lenticchie e incenso.
Nel lungo soggiorno, trenta o quaranta persone stavano
chiacchierando, bevendo, fumando, ballando, ridendo. «Ehi, gente»,
aveva annunciato Wotsit, «questi sono Bruce e la sua dolce signora,
Elf.» Si era levato un piccolo coro di «Ciao, Bruce!» e «Ciao, Elf!»
Qualcuno aveva passato una birra a Elf e lei le aveva dato un paio di
sorsate. A quel punto si era materializzata una tipa longilinea tu a
rame e oro con il kajal intorno agli occhi. «Elf, ciao, sono Vanessa. A-
doro i tuoi dischi.» Accento delle Home Counties. «Shepherd’s Crook è
travolgente. A tempo perso lavoro come modella ed ero a Chelsea
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nello studio di Mike Anglesey per il brindisi di Natale, quando Mike
ha messo su il tuo EP e ha de o a tu i quanti» – aveva imitato il
cockney come farebbe una ragazza ricca – «‘drizzate le orecchie su
questo!’ e… wow!»
«Grazie, Vanessa», aveva de o Bruce. «Ne siamo orgogliosi.»
Qualcuno aveva tamburellato sulla spalla di Elf. Si era girata e si
era trovata davanti gli occhioni da cane di Marc Bolan. «Ma dove ti
eri nascosta, Riccioli d’Oro?»
«Marc, ciao! Bruce e io siamo stati…»
«Ho sentito l’EP, Shepherd’s Crook.» Marc aveva una giacca di
pelle, un foulard annodato e il mascara. «C’è molta roba degna di
nota lì dentro. Le canzoni migliori mi hanno ricordato il nuovo
lavoro del so oscri o, in realtà. Ho pronte delle canzoni nuove che
sarebbero perfe e per la tua casa discografica. Ne ho abbastanza per
un disco intero, non scherzo. Sai con chi dovrei parlare?»
«Alla Avebury? Con Toby Green. Ma è solo una piccola…»
«Toby Green. Ricevuto. Verrà nelle mutande quando sentirà la
mia idea: una canzone per ogni membro de La Compagnia dell’Anello,
con un interludio dedicato a Gollum e un climax per l’Unico
Anello.»
Elf aveva intuito che Marc si aspe ava di sbalordirla. Si era data
un’occhiata intorno in cerca di Bruce, ma si era volatilizzato. Al pari
di Vanessa.
«L’hai le o, vero, Il Signore degli Anelli?» le aveva chiesto Marc
Bolan.
«Bruce mi ha prestato il primo volume. A dire la verità, però…»
«Lo dico sempre alle ragazze: ‘Se vuoi capirmi, leggi
immediatamente Il Signore degli Anelli’. È così semplice.»
A Elf sarebbe piaciuto avere la faccia tosta di dirgli: In tal caso lo
eviterò come la peste. Invece aveva de o: «Buona fortuna con le
canzoni».
Bolan si era baciato la punta dell’indice e lo aveva piantato in
mezzo alle sopracciglia di Elf. «Dirò a Toby Green che mi hai
mandato tu.»
Elf si era sforzata di sorridere, anche se avrebbe voluto sciacquarsi
la faccia. «Bruce è qui in giro. Vorrà parlare con te anche lui…»
q g p
Bruce non era da nessuna parte. I corpi si facevano sempre più
fi i e l’aria sempre più fumosa. La musica era quella della Bu erfield
Blues Band. Era passata un’ora e mezza. Elf aveva appena respinto
un noiosone folk che, prendendola da parte, l’aveva accusata di aver
deturpato nel suo EP Oak, Ash and Thorn la purezza della versione
del 1765 di Sir Patrick Spens. In quel momento era riapparso Bruce.
«Koala, fa i portare via da questo casino.»
«Ma dov’eri? Sono appena rimasta incastrata con…»
«La vera festa è di sopra, nella stanza di Wotsit. Andiamo.» Bruce
parlava a voce bassa. «Stanno tu i aspe ando.»
«Senti, non so se sono dell’umore giusto per…»
«Fidati.» Bruce le aveva fa o un occhiolino complice. «Le
prossime ore potrebbero cambiare la tua vita.» L’aveva guidata in
mezzo ai corpi su per delle scale, scale ripide, superando
pomiciatori, e ancora su, per scale ancora più ripide, fino a una porta
viola. Aveva bussato con una sequenza di tocchi identici. All’interno,
una catenella era stata sganciata.
«Ah-ah.» Ad aprire era stato Wotsit. «Scusate l’atmosfera da
complo o…» aveva esordito riagganciando la catenella non appena
erano entrati, «ma se si sparge la voce, la plebaglia mi tirerà giù la
porta a calci.»
La stanza di Wotsit era illuminata da una lampada di carta su un
treppiede. Il fascio luminoso ruotava come quello di un faro,
percorrendo le pareti gialle, le assi del pavimento dipinte di viola e
giallo e un camine o murato. Dentro un vaso nero c’erano dei
tulipani neri. La finestra offriva un panorama no urno di South
Kensington: comignoli, antenne e grondaie. Sei persone occupavano,
sedute o sdraiate, delle poltrone a sacco, un le o basso e qualche
cuscino. La Vanessa di prima aveva de o: «Pensavamo di averti
persa. Syd lo conosci?» Syd Barre , il cantante dei Pink Floyd, stava
strimpellando una chitarra e cantava e ricantava a ripetizione le
parole: «Have you got it yet?» Non sembrava essersi accorto di Elf. Un
uomo con una barba maestosa, una camicia piena di rose stampate e
la zucca lucida le si era invece presentato: «Al Ginsberg. È un piacere
conoscerti, Elf. Bill Graham per questo perderà la testa». E,
sollevandolo, aveva mostrato l’EP Shepherd’s Crook di Fletcher &
Holloway.
«Allen Ginsberg il poeta?» Elf aveva scrutato Bruce per una
conferma. «Quell’Allen Ginsberg?» Bruce l’aveva guardata con
un’espressione del tipo: Be’, che ti avevo de o?
«Non credere a tu o quello che leggi sul mio conto», le aveva
consigliato Allen Ginsberg. «Credi solo alla maggior parte delle cose.
Per combinazione, il mio amico Bill dirige il Fillmore Auditorium.
Hai già sentito parlare del Fillmore, giusto?»
«Ma certo. A San Francisco è senz’ombra di dubbio il posto
numero uno in cui suonare.»
«Vi calzerebbe a pennello», aveva de o Ginsberg. «Siete più folk
di un mucchio di altra gente, però non siete semplicemente folk.»
«Arriveremmo in un lampo», era intervenuto Bruce, «se il signor
Graham ci rimediasse un biglie o aereo. Giusto, Elf?»
Elf era troppo sbigo ita per reagire in qualche modo se non
annuendo. «Assolutamente.»
«Sono Aphra Booth», aveva de o una donna in completo denim
seduta contro il muro più lontano. «E questo scapestrato», aveva
indicato un ragazzo con un vaporoso taglio afro che, sdraiato con la
testa sul suo grembo, aveva sollevato pigramente una mano, «è Mick
Farren.» Anche Aphra Booth era australiana. «Tu a questa storia
delle Porte della Percezione mi lascia perplessa, ma in nome
dell’indagine scientifica mi piacerebbe sperimentare dire amente
l’ogge o della mia perplessità.»
Quelle parole per Elf non avevano molto senso, ma
l’a eggiamento composto di Aphra Booth l’aveva spinta a replicare:
«Giustissimo».
A Syd Barre si era scordata la chitarra e continuava a cantare
«Have you got it yet?» in un circolo tranquillo e demoniaco.
«Allora, Elf», Wotsit le aveva mostrato uno scaffale pieno di
alcolici, «qual è il carburante che ti manda in orbita? Brandy? Un
cube o di zucchero?»
«Scusami se sono troppo seria, ma prendo solo una Coca, grazie.»
«Se tu fossi troppo seria», le aveva de o Wotsit, «non saresti qui.»
«Voglio che Elf si sieda qui con me.» Vanessa stava dando delle
pacche alla poltrona a sacco che aveva accanto. «Anche se il suo
talento mi fa diventare verde d’invidia. Suonare sia il piano sia la
chitarra? Non è me ersi fin troppo in mostra?»
Elf era sprofondata nel sacco, chiedendosi se Vanessa fosse
davvero lì con Syd Barre e Allen Ginsberg. In quanto a classe
superava di gran lunga Wotsit. «Con la chitarra non sono poi così
brava. Bruce mi chiama ‘Grinfia’.»
«Be’, allora io penso che Bruce sia un vero mostro.»
Wotsit le aveva passato la Coca-Cola. «Goditi il viaggio.»
Elf aveva pensato che fosse un modo di dire australiano. «Grazie»,
e aveva fa o un sorso di quella scura dolcezza.
«È chiaro che non sei vergine», aveva osservato Aphra Booth.
Elf l’aveva scambiata per la classica franchezza da femminista.
«Ehm… Neanche tu, immagino.»
Aphra era sembrata confusa. «Non mi hai ascoltato prima?»
«Allora, Elf.» Bruce aveva il suo sorriso da monello. «Io e Wotsit ti
abbiamo fa o un regalo di compleanno in anticipo.»
«Davvero?» Si era guardata in giro e non c’era traccia di doni.
«Ci siamo fa i tu i di acido dieci minuti fa», le aveva annunciato
il suo ragazzo, «ma senza di te non sarebbe stato lo stesso, quindi…»
Elf aveva seguito lo sguardo di Bruce verso la Coca-Cola, aveva
però scartato l’idea che potesse aver corre o la sua bibita con l’LSD,
giudicandola ridicola. Questo fino a quando Wotsit non si era messo
a ridacchiare sfoderando i denti storti.
«A volte c’è bisogno di una spintarella, Koala», le aveva de o
Bruce.
Inorridita, aveva posato la bo iglia. Lo shock aveva avuto la
meglio sulla rabbia, ma l’ansia aveva avuto la meglio sullo shock:
non aveva nessuna intenzione di farsi un viaggio davanti a quegli
sconosciuti. Non aveva intenzione di farsi un viaggio, punto. Bruce
si era già fa o di acido con qualcuno del Cousins, ma Elf non era
a ra a dalle storie di arcangeli, di dita che si tramutano in peni o di
morte dell’ego.
«Ho capito bene?» aveva domandato Aphra a Bruce. «Hai messo
l’LSD nella bibita della tua ragazza senza dirglielo?»
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«Basta che ti lasci andare», aveva de o Bruce a Elf.
Lei si era tra enuta dal gridargli: Stupido idiota, come ti sei
permesso? Allen Ginsberg era lì che osservava, e non superare l’acid
test poteva significare dire addio a un concerto al mitico Fillmore. Elf
aveva guardato la bo iglie a di Coca. Ne aveva bevuto solo un
quarto.
Bruce aveva messo il broncio nella sua poltrona a sacco. «È il tuo
regalo di compleanno. Non è da te fare la noiosa… Non è una
noiosa», aveva poi aggiunto rivolto ad Allen Ginsberg.
«Have you got it yet?» cantava Syd Barre . «Have you got it yet?»
«Una mente davvero autonoma», aveva de o Allen Ginsberg,
«non è mai noiosa. E se Elf non se la sente, un bad trip è tu ’altro che
improbabile.»
Elf aveva allungato la Coca-Cola a Wotsit. «Mi racconterai delle
vostre avventure doma ina.» Bruce sembrava scocciato. «Lo puoi
tenere d’occhio tu?» aveva chiesto Elf ad Aphra Booth.
«Certo che no. Ti sembro sua madre, per caso?»

In Cromwell Road la no e aveva calato una lieve cortina di


pioggia. L’autobus 97 era arrivato cigolando alla fermata. In basso
era pieno da scoppiare, così Elf era salita e aveva occupato gli ultimi
due posti liberi sul davanti. Appoggiata la testa al finestrino, aveva
ripercorso la scena nella stanza di Wotsit, rivedendola da diverse
angolazioni. Aveva appena rifiutato un biglie o vincente all’acido
lisergico per San Francisco? Aveva fa o fiasco in un rito di
passaggio? Che fosse una prigioniera troppo pavida per evadere
dalla prigione della mente? L’autobus si era fermato davanti al
Natural History Museum. Una donna caraibica dall’aria stanca era
spuntata in cima alle scale dell’autobus, facendo a raffica tu i i
calcoli che le donne si trovano a fare quando devono scegliere un
posto: Dove ci sono meno probabilità che mi molestino? Essere nera oltre
che donna doveva essere doppiamente difficile, aveva immaginato
Elf. Come una sorella, le aveva dunque indicato con un cenno il
sedile accanto al suo, per dirle che poteva sedersi lì. La donna aveva
preso posto replicando a sua volta con un cenno silenzioso. Si era
addormentata nel giro di un minuto ed Elf aveva studiato il suo
g
profilo. Avevano la stessa età, più o meno, ma l’altra aveva la pelle
più liscia, le labbra più piene, più carnose, e i capelli che uscivano
dal foulard più ricci. Una croce d’argento riposava sulla sua
clavicola, dietro il colle o di una divisa da infermiera…

Elf Holloway è una lesbicaccia, aveva dichiarato Imogen.


Elf era rimasta seduta, rigidissima. In quel momento Imogen si
trovava a Malvern, a oltre duecento chilometri di distanza, non a
South Kensington sull’autobus 97.
Lesbicaccia, aveva ripetuto la voce della sorella. Lesbicaccia,
lesbicaccia, lesbicaccia.
O era impazzita o quella era un’allucinazione sonora.
Vai a le o con i ragazzi per nascondere ciò che sei, diceva la voce di
Imogen. Hai preso in giro i tuoi amici, hai preso in giro i nostri genitori,
hai preso in giro Bea, hai preso in giro te stessa… ma non puoi prendere in
giro me. Sono tua sorella maggiore. Quando menti, lo capisco. È sempre
stato così. So cosa stai pensando non appena lo pensi. Bruce è una
copertura. Non è forse vero, Vostra Lesbiconeria?
Elf aveva chiuso gli occhi, dicendosi che era la Coca-Cola corre a
con l’acido. Imogen non era lì. Non stava impazzendo. Chi è davvero
pazzo non me e in discussione la propria sanità mentale.
Stronzate, aveva de o allora la voce di Imogen. E ho notato che non
neghi di essere lesbica. L’hai forse fa o, Vostra Lesbiconeria?
Starsene seduta buona e fare finta che non ci fosse nulla di
sbagliato o di strano era già sbagliato e strano, non sapeva però che
cos’altro fare.
Un taxi l’avrebbe riportata a casa più in fre a, ma se non ne
fossero passati il suo trip sarebbe iniziato vicino a Hyde Park in
versione invernale. E lei avrebbe potuto credersi un pesce fuor
d’acqua, saltare nel Serpentine e affogare.
Evviva, un po’ di spazzatura in meno. Sei grassa. Le tue canzoni sono
stupide. Sembri un uomo con la parrucca. Sei una fallita. La tua musica è
una buffonata. Bea ti parla solo per pietà…

«Per la miseria, sul gabine o avevi ragione.» Bea si risiede, qui e


ora, dentro il Gioconda in un bel giorno di maggio, un centinaio di
g gg
giorni dopo rispe o a quando Elf si era raggomitolata nel suo
appartamento so o la coperta, aspe ando che la Imogen partorita
dalla sua mente se ne andasse. «È davvero un viaggio al centro della
Terra. A raverso le piastrelle del pavimento ho sentito scorrere e
ribollire il magma.» Bea nota i due innamorati nel portone dall’altra
parte di Denmark Street, stanno ancora amoreggiando. «Santo cielo,
quei due ci danno dentro.»
«Lo so bene. Non so più dove guardare.»
«Io sì. Lui è figo. Di lei mi piace la minigonna. Te lo ricordi il
verde o di mamma sulle minigonne? ‘Se una merce non è in
vendita…’»
«‘…non me erla in vetrina.’»
Gli innamorati si separano, le loro dita restano intrecciate fino
all’ultimo. Si voltano, fanno un paio di passi, si voltano di nuovo e si
salutano con la mano.
«È come un balle o», dice Bea.
La gente fa su e giù per Denmark Street. Elf si rigira sul dito un
anello d’argento che ha trovato su una bancarella al mercato di
King’s Lynn. Era una domenica ma ina, prima di un concerto di
Fletcher & Holloway. Non è stato Bruce a comprarglielo, regalare
anelli non è nel suo stile, ma è la prova che quella domenica sia
esistita davvero, che ci sia stato un tempo in cui lui l’amava.
«Quindi quando dovrebbe tornare Bruce dalla Francia?» chiede
Bea.

Ieri Elf era tornata a casa esausta dopo o o ore di prove. Ad


aspe arla c’erano una bolle a del telefono, un invito destinato a
Fletcher & Holloway per suonare in un locale folk nelle Ebridi
Esterne in agosto, e una cartolina della Torre Eiffel. Solo a vedere la
scri ura le si era contra o lo stomaco:
Elf aveva catalogato i propri pensieri. Primo, c’era l’esasperazione
perché quel bastardo le aveva spedito un’unica, miserabile cartolina
dopo cento giorni di nulla. Secondo, c’era la rabbia per il suo tono
scherzoso, come se non le avesse straziato il cuore e segato Fletcher
& Holloway a metà per poi lasciarla sola a risolvere il casino. Terzo,
c’era una mortificante beatitudine per le parole «Cara», «Koala»,
«Canguro», e per quell’«avec bises»… unita allo smarrimento per quel
«ci vivo insieme ad altri». Chi erano questi altri? Très amicables
ragazze francesi, magari? Quarto, c’era il sospe o che con quella
cartolina lui si stesse cautelando, che si stesse organizzando per
avere un le o a Londra quando fosse tornato. Quinto, c’era la rabbia
inedita per il modo in cui lui la stava usando. Sesto, aveva deciso di
sba ergli la porta in faccia se si fosse presentato in Livonia Street.
Se imo, c’era la paura che non ne sarebbe stata capace. O avo, era
disgustata che una miserabile cartolinuccia innescasse un a acco di
«mal di Bruce». Aveva riempito una vasca d’acqua calda, ci si era
immersa e, per distrarsi da Bruce Fletcher, si era messa a leggere Il
taccuino d’oro di Doris Lessing. Alla fine, tu avia, era stato Bruce
Fletcher a distrarla da Doris Lessing. Aveva continuato a
immaginarselo in una vasca da bagno con una ragazza francese, con
addosso un bel niente a esclusione del suo cappello con i tappi.

«Bruce si fermerà a Parigi ancora per un po’», dice Elf a Bea. Un


cieco passa lì davanti con un cane guida. «Quando sono qui, agli
australiani piace vedere quanto più possibile dell’Europa.» Si gira
verso Bea, non vuole che pensi che stia evitando il suo sguardo di
proposito.
Alla radio è il turno di «Happy Together» dei Turtles.
«Quindi il discorso Fletcher & Holloway per il momento è in
pausa?» chiede Bea.
«Più o meno.» La parte peggiore della faccenda è mentire a lei,
pensa Elf.
«E nel fra empo incidi con gli Utopia Avenue?»
Elf si accorge di un accendino incastrato fra una bo iglie a di
ketchup e una di salsa HP. Su un lato dell’accendino c’è smaltato un
diavolo rosso con corna, coda e forcone. Elf dà un colpe o alla
rotella dell’accendino e spunta la fiamma. «Chissà se l’ha
dimenticato qui uno di quegli studenti d’arte bellocci.»
«Quali studenti bellocci?»
Elf sospira. «Dovrai recitare meglio di così alla RADA.»
Bea fa il sorriso malizioso tipico di Bea. «Se questa fosse una
favola, uno di loro tornerebbe indietro e direbbe: ‘Avete visto un
accendino?’ e tu diresti: ‘Quale, questo?’ e lui direbbe: ‘Grazie al
cielo l’hai trovato, me l’ha dato mia madre in fin di vita sul le o di
morte’ e i vostri destini si intreccerebbero per l’eternità.»
Il sorriso di Elf viene risucchiato da un poderoso sbadiglio.
«Scusa.»
«Devi essere esausta, poverina. Ti sei svegliata alle sei?»
«Alle cinque. Le sessioni no urne sono più economiche. Howie
Stoker sarà anche un playboy milionario, ma ciò non significa che gli
piaccia ge are via i soldi così con gli Utopia Avenue.»
«Se la domanda non è inopportuna, state facendo soldi?»
«Non è inopportuna. E la risposta è no. Ci siamo esibiti solo
qua ro volte e per un compenso irrisorio. Irrisorio e da dividere per
cinque. Guadagnavo di più quando ero una delle a razioni
principali ai festival folk.»
«Ci state perdendo tu i a suonare in un gruppo?»
«Più o meno. Anche se con il contagocce, a me continuano ad
arrivare i soldi di Wanda Virtue. Jasper sta centellinando l’eredità del
nonno e vive a Mayfair in un appartamento di proprietà del padre.
Dean si è trasferito lì, quindi anche lui non deve pagare l’affi o. Griff
vive a Ba ersea, nel cortile dietro la casa di uno zio. Prima, ai
Fungus Hut, avrei dovuto invitarti a entrare e presentarti, ma… mi
veniva la nausea solo a guardarli.»
«Oddio, perché? Cosa ti hanno fa o?»
Elf si prende un po’ di tempo per rispondere. «La loro reazione
automatica a qualunque mia idea è spiegarmi perché non va bene.
Un’ora dopo arrivano alla mia stessa idea, ma non ricordano di
avermela mai sentita esprimere. Davvero, mi stanno facendo
amma ire.»
«Nel teatro è lo stesso. Come se ‘regista femmina’ fosse un
ossimoro, un po’ come ‘primo ministro donna’. Ma loro sono sempre
così tremendi?»
Elf fa una smorfia. «No, non sempre. Dean è una boccaccia, ma
perché è un insicuro. Penso. Lo penso nei giorni in cui mi sento
magnanima.»
«È carino?»
«Le ragazze trovano di sì.»
Bea la guarda sorniona.
«No, no e no. Neanche in un milione di anni. Il ba erista, Griff,
so o la dura scorza da uomo del Nord ha un cuore d’oro. Anarchico,
sboccato, bevitore. Gran ba erista. È più a proprio agio nella sua
pelle di quanto non lo sia Dean. Jasper è… Mister Enigma. A volte è
talmente distante con la testa che è come se non fosse qui. Altre
invece è talmente presente da consumare tu o l’ossigeno nella
stanza. Non dirlo a mamma e papà, ma in Olanda è stato ricoverato
per un po’ in una clinica psichiatrica, e ogni tanto pensi che sì,
insomma, non è poi una cosa così difficile da credere. Legge molto.
A Ely frequentava un collegio privato, nel ramo olandese della sua
famiglia circolano parecchi soldi. Dovresti sentire però come suona
la chitarra. Quando è in forma, mi lascia senza parole.»
«Due caffè», annuncia la signora Biggs arrivando al tavolo, «e un
panino al bacon.»
Le sorelle ringraziano ed Elf dà un grosso morso al panino.
«Grazie al cielo, ne avevo bisogno.»
«Quindi che musica fanno gli Utopia Avenue?» chiede Bea.
Elf mastica. «È una miscela del rhythm and blues di Dean, dei
virtuosismi anomali di Jasper, delle mie radici folk e del jazz di
Griff… Spero solo che il mondo sia già pronto per noi.»
«I concerti come sono andati?»
«Il debu o è stato una catastrofe. Alla fine Griff si è preso una
bo igliata ed è dovuto andare in ospedale. Ha rimediato una
cicatrice degna di Frankenstein.»
Bea si copre la bocca. «Gesù, non me l’avevi de o.»
p
«Ci è mancato tanto così», Elf allarga le dita a indicare un
centimetro, «dal chiudere baracca e bura ini. Levon ci ha obbligati a
esibirci una seconda volta, al Goldhawk, e lì è andata meglio. Finché
non si sono fa i vivi alcuni fan di Archie Kinnock, che si sono
scagliati contro Griff e Jasper per aver ‘pugnalato Archie alla
schiena’. Ce ne siamo andati dalla porta di servizio. Il nostro terzo
concerto era al White Horse di To enham, e sono venuti a sentirci in
dieci. Dieci. Dopodiché, tanto per chiudere in bellezza, alla fine sono
arrivati alcuni fanatici del folk che mi hanno accusata di ‘essermi
venduta per trenta denari’.»
«Dev’essere stato tremendo. E tu cos’hai de o?»
«‘Quali denari?’ Ecco cosa gli ho de o. Il proprietario del locale si
è rifiutato di pagarci. Levon ha preferito mantenersi in buoni
rapporti e non fare scenate, quindi quella sera le mie uniche entrate
sono state mezza panaché e un pacche o di arachidi.»
«Avresti dovuto parlarmene.»
«Tu avevi già gli esami e le audizioni di cui preoccuparti. Tu o
questo l’ho scelto io. Come direbbe mamma: ‘Hai voluto la bicicle a,
ora pedala’.»
Bea si accende una sigare a. «E del quarto concerto che mi dici?»
Elf è alle prese con una fe a di bacon croccante. «È stato al
Marquee.»
«Cosa? Avete suonato al Marquee? Quel Marquee? E non mi hai
invitata? Il Marquee di Wardour Street? A Soho?»
Elf le fa cenno di sì. «Non odiarmi.»
«Perché non me l’hai de o? Avrei mobilitato mezza Richmond!»
«Lo so. Ma se ci avessero fischiato?»
Il crepitio e lo sfrigolio delle fri ure sguscia fuori dalla cucina.
Bea non sembra convinta. «L’hanno fa o?»
Elf lascia cadere una zolle a di zucchero nella tazza e mescola il
caffè…

Il Marquee di Wardour Street era un so erraneo in cui, come in un


serbatoio, si riversava una folla di sei o se ecento persone. Se
qualcuno fosse morto lì dentro, sarebbe rimasto dri o in piedi per
via della folla fin dopo mezzano e. Elf era stata sul punto di
p p
vomitare per la paura che l’a anagliava. Gli Utopia Avenue erano i
secondi a esibirsi in una serata intitolata «Tu o può succedere», in
cui si sarebbero alternati cinque gruppi in ordine di celebrità, durata
della scale a e compenso. Prima degli Utopia Avenue toccava a un
quinte o di Plymouth, i Doomed to Obscurity. Dopo, invece, c’erano
tre concerti di primo piano: i Traffic, che con il singolo «Paper Sun»
si erano piazzati nella Top 5, i Pink Floyd, il gruppo underground
londinese lanciato verso il sole, e i Cream, il cui LP Fresh Cream stava
girando sui giradischi di milioni di ragazzi. Si era sparsa la voce che
in sala ci fosse Jimi Hendrix, o che ci fosse passato, o che lo avrebbe
fa o. Nell’ufficio, giusto in cima alle scale, c’era Steve Winwood alle
prese con un’intervista di Amy Boxer per il New Musical Express. Dio
solo sa quali fili avesse tirato Levon perché anche gli Utopia Avenue
fossero della partita, fa o sta che per il momento il «Tu o può
succedere» era la loro più importante esibizione. Se avessero fallito
lì, probabilmente, sarebbe stata anche l’ultima.
Elf era rimasta a lato del palco a guardare i Doomed to Obscurity,
sperando che tenessero fede al proprio nome. Nessuno dei fan dei
Pink Floyd, Traffic o Cream aveva poi chiesto un bis. «Entrate fra un
a imo, Elf.» Levon e un factotum del Marquee l’avevano superata
portando il suo Hammond. Per lei era stata dura non darsela a
gambe…

***

…e a un tra o era venuto il momento. Elf aveva ordinato al suo


corpo di salire sul palco. Griff stava sistemando la ba eria. Dean e
Jasper avevano riportato gli amplificatori al volume che si erano
segnati durante il sound-check. Il corpo di Elf non voleva saperne di
muoversi. Le tremava la mano sinistra, come a sua nonna morta di
Parkinson. Avevano a disposizione trenta minuti. E se avesse fa o
cilecca con gli accordi sul middle eight di «Darkroom»? E se il
pubblico avesse odiato la versione ele rica di «Any Way the Wind
Blows»? E se si fosse dimenticata le parole di «A Raft and a River»,
come le era successo al White Horse?
«Andrà bene», le aveva de o Sandy Denny.
y y
«Quando ho bisogno di te, ci sei sempre.»
«Un po’ di coraggio marocchino?» La cantante le aveva offerto
una canna accesa.
«Sì.» Lei aveva aspirato e aveva tra enuto il fumo torbato per poi
ribu arlo fuori. L’effe o era stato istantaneo. «Grazie.»
«C’è un bel po’ di gente», le aveva de o Sandy. «Sono un tantino
gelosa.»
«Non è per noi che sono qui.» Le formicolava la punta delle dita.
«Oh, non diciamo stronzate, nessuno è…» Sandy, agitandosi,
aveva sollevato una mano di colpo rovesciando la birra di un tecnico
di passaggio. «Ops, scusa, caro… Vi ho sentito provare. Avete
qualcosa, voi qua ro. Basta che lo tiriate fuori. E se, se, il pubblico è
troppo stupido per apprezzare», Sandy aveva picchiato una mano
sui Marshall incolonnati, «sparate al massimo questi mostri.
Vaporizzate quei bastardi.»
Era comparso Dean. «Ciao, Sandy. Tu sei pronta, Elf?»
Aveva notato in quel momento che la mano era di nuovo ferma.
«Ora o mai più.»
«Più tardi dovremo levare parecchi calici», le aveva assicurato
Sandy.
Elf si era fa a avanti e aveva preso posto alla tastiera. Un
disturbatore grassoccio aggrappato al palco aveva urlato: «Lo strip
club è dall’altra parte della strada, tesoro!» e i suoi accoliti erano
scoppiati a ridere. Grazie al fumo che l’aveva liberata dalla paura
delle conseguenze, Elf aveva mimato con le dita una pistola, mirato
agli occhi del disturbatore e, con espressione terribilmente seria,
aveva finto di sparargli tre volte, con tanto di rinculo del gomito. Lo
stupido ghigno del disturbatore era svanito. Elf aveva soffiato via
dalla pistola un fumo immaginario, aveva fa o girare la finta arma
intorno al dito che aveva premuto il grille o, l’aveva infilata in una
finta fondina e si era chinata sul microfono. A presentare il gruppo
avrebbe dovuto essere l’impresario del Marquee, Elf però gli aveva
fa o segno di lasciar perdere. «Siamo gli Utopia Avenue», aveva
annunciato al Marquee, a Soho, a tu a l’Inghilterra, «e abbiamo
intenzione di farvi secchi.» Aveva dato un’occhiata a Griff, che,
apparentemente stupito, aveva già in mano le bacche e in posizione
pp p g p
di partenza, poi a Dean, che con un cenno di assenso le stava
dicendo: Pronto, e a Jasper in a esa che lei dicesse: E one e two e…

Elf lascia cadere una seconda zolle a nel caffè. «È andata


abbastanza bene. Abbiamo iniziato con ‘Any Way the Wind Blows’.
Poi abbiamo fa o un pezzo più rock di Dean, ‘Abandon Hope’. Poi
una canzone nuova di Jasper: ‘Darkroom’. E poi la mia nuova: ‘A
Raft and a River’.»
«Fortunati quelli che erano al Marquee. Non è giusto però. Io
quando potrò sentirvi?»
«Presto, sorellina. Presto.»
«L’hai conosciuto Steve Winwood?»
«Be’, se vuoi saperlo è spuntato dopo il nostro bis e mi ha de o
due parole gentili su come avevo suonato l’Hammond.»
«Mio Dio», dice Bea. «E tu cosa gli hai de o?»
Elf inala il vapore del caffè. «Ho solo balbe ato ‘Grazie’, poi ho
sparato qualche sciocchezza tipo flusso di coscienza e l’ho guardato
andarsene.»
«Bel culo?»
«Onestamente non ci ho fa o caso.» Dalla radio della tavola calda
viene «Puppet on a String» di Sandie Shaw. «Se dovessi mai incidere
qualcosa di così lezioso, ti chiedo di farmi un discorso serio sui
trenta denari per cui mi sono venduta.»
«Scomme o che lei ne sta facendo ben più di trenta di denari.
Questa canzone è dappertu o.» La ascoltano fino al ritornello.
All’improvviso Elf non ce la fa a tra enersi. «Abbiamo ro o. Io e
Bruce. Il duo non esiste più. Lui resta a Parigi. Mi ha mollata a
febbraio. È finita.» Il cuore le ba e come se stesse succedendo tu o
in quel momento. «Ora lo sai.» Non piangerò. Sono passati tre mesi. Si
ricompone preparandosi allo shock e all’indignazione di Bea.
Bea non sembra affa o sconvolta. «L’avevo immaginato.»
«Perché?»
«Ogni volta che veniva fuori il suo nome cambiavi argomento.»
«E che mi dici di mamma, papà e Immy?»
Bea si studia le unghie color prugna. «Se l’ho capito io, l’avrà
capito anche mamma. Papà non sospe a nulla. Immy? Ho una
p p p y
mezza idea che per le nozze non stia facendo conto sugli intermezzi
musicali di Holloway & Fletcher. Negli ultimi tempi ha mai
accennato a Bruce o al fa o che dovreste organizzarvi per il suo
matrimonio?»
In realtà no. «Ma come mai non mi hai de o nulla?»
«Ta o.» Bea finisce il caffè. «Bruce aveva il suo fascino, ma il
fascino in un ragazzo è un segnale d’allarme. Come le strisce gialle e
nere che in natura significano: ‘A enzione, vicino a questo miele ci
sono dei pungiglioni’.»
Elf sta tremando e non sa bene perché.
I suoi occhi incrociano la Monna Lisa appesa sopra la cassa della
signora Biggs. Il mezzo-sorriso più famoso del mondo le dice: La
sofferenza è una promessa che la vita mantiene sempre.
«Devo proprio andare.» Bea si alza, me e il cappo o. «Va’ e incidi
un capolavoro. Vuoi che lo dica io a Immy?»
«Sì, grazie.» È la strada più facile. «Dillo anche a mamma.»
«Dopo l’audizione passerei a casa tua, se ti va.»
«Sì, certo.» Elf guarda l’orologio: 8 e 58. «Dimmi una cosa, Bea. Io
ho fa o l’università. L’ho abbandonata. Sono sopravvissuta al
mondo della musica per tre anni. Tu studi ancora. Com’è allora che
tu la sai così lunga e io non so un bel niente? Com’è possibile?»
«In linea di massima», dice Bea abbracciando la sorella per
salutarla, «non mi fido della gente.» La lascia andare. «E, in linea di
massima, tu sì.»

a. Monna Lisa canta il blues.


Paradise Is the Road to Paradise Lato B

1. Wedding Presence (De Zoet)


2. Purple Flames (Moss)
3. Unexpectedly (Holloway)
4. The Prize (De Zoet)
Wedding Presence a

Al termine del suo viaggio di o o minuti dal sole, la luce a raversa


il vetro istoriato della St Ma hias Church a Richmond, Londra, ed
entra nella doppia camera oscura dei bulbi oculari di Jasper.
Bastoncelli e coni riuniti nella retina convertono la luce in impulsi
ele rici che viaggiano lungo i nervi o ici fino al suo cervello, poi
quello stesso cervello traduce le lunghezze d’onda variabili della
luce in «blu Madonna», «rosso sangue di Cristo», «verde
Getsemani», e interpreta le immagini come i dodici apostoli,
ciascuno dei quali occupa un segmento del rosone. La vista inizia nel
cuore del sole. Jasper nota che i discepoli di Gesù erano,
fondamentalmente, degli hippie: capelli lunghi, camicioni,
espressione da sballati, lavoro irregolare, convinzioni spirituali,
alloggi approssimativi per la no e e un guru. Il rosone inizia a
girare, al che Jasper serra gli occhi e si oppone a quella deriva
nominando i dodici, rovistando fra le lezioni di religione e le messe
frequentate da bambino: Ma eo, Marco, Luca, Giovanni, alias i Fab
Four; Tommaso, il preferito di Jasper, quello che aveva chiesto le
prove; Pietro, che aveva goduto della migliore carriera solista; Giuda
e Ma ia, turnisti; e Giuda Iscariota, il capro espiatorio più sadicamente
sfru ato dal Padre Celeste. Tu avia, prima che Jasper riesca a finire la
lista, sente bussare. Ritmicamente, flebilmente, una stanza sonica o
due so o la voce del vicario. Inconfondibile.
Toc-toc, toc-toc, toc-toc.
Apre gli occhi. La vetrata ha smesso di girare e anche il bussare
cessa. Però l’ho sentito. È sveglio.
Gliel’avevano de o che quel giorno sarebbe arrivato. Se non altro
è finita l’agonia dell’incertezza. La mia è sempre e solo stata una fase di
remissione. Jasper guarda Griff, alla sua destra, in ghingheri con un
p g g g
completo da matrimonio raffazzonato. Le mani del ba erista
tamburellano delicatamente sulle cosce. A sinistra, Dean sta
cercando di ruotare un indice in senso orario e l’altro in senso
antiorario. Suonare con questi tizi mi piace, non voglio che finisca.
Forse il Queludrin potrebbe rallentare il processo.
Forse.

Jasper aveva quindici anni. I ciliegi intorno al campo da cricket


erano sbocciati come un bianco abito nuziale. Jasper non aveva la
corporatura ada a al rugby e la resistenza necessaria per il
cano aggio, aveva però la coordinazione, la velocità e la pazienza
per figurare fra gli undici titolari della squadra di cricket. Giocava
dunque in difesa quando la sua scuola, la Bishop di Ely, aveva
affrontato la Peterborough Grammar School. L’erba era stata tagliata
di fresco, il sole picchiava e la ca edrale di Ely incombeva immobile
sul fiume Ouse come un’arca di Noè. Il capitano, un ragazzo di nome
Whitehead, era corso verso il wicket e aveva lanciato basso. Il
ba itore aveva colpito la palla in direzione di Jasper. C’erano state
delle urla. Jasper era già sca ato per interce arla e l’aveva presa in
corsa pochi metri prima del limite del campo, impedendo agli
avversari di realizzare qua ro punti. Il suo lancio verso Whitehead
era stato preciso e aveva fa o guadagnare qualche secondo,
strappando un meritato applauso ai tifosi locali. Dietro, fra, o sopra
gli applausi, per la primissima volta Jasper aveva sentito il toc-toc,
toc-toc, toc-toc che avrebbe cambiato, ridefinito e quasi messo fine alla
sua vita. Era come se delle nocche ba essero contro una porta
remota, in fondo a un corridoio… O come un martelle o sul lato
opposto di una parete. Jasper si era guardato intorno per capire da
dove venisse. Gli spe atori erano tu i all’estremo opposto della
fascia centrale del campo. Il ragazzo più vicino era un suo compagno
di classe, Bundy, che distava una trentina di metri. Jasper lo aveva
chiamato: «Bundy?»
La voce del compagno era nasale per la febbre da fieno. «Che c’è?»
«Lo senti?»
«Cosa?»
«Questo bussare.»
Avevano teso le orecchie verso la musica indistinta di una ma ina
nel Cambridgeshire: un tra ore in un campo nelle vicinanze,
macchine, corvi. Le campane della ca edrale avevano iniziato a
ba ere le dodici. E in so ofondo c’era un toc-toc… toc-toc… toc-toc…
«Quale bussare?» gli aveva chiesto Bundy.
«Questo toc-toc… toc-toc…»
Bundy aveva di nuovo teso le orecchie. «Se ti dà di volta il
cervello e gli uomini in camice bianco ti portano via, posso avere la
tua mazza da cricket?»
Un aereo militare all’orizzonte sembrava aprire il cielo come una
cerniera. Oltre il bordo del campo, una farfalla di un blu gessoso
pascolava sui fiori di cerfoglio. Jasper aveva provato quello che si
prova quando qualcuno abbandona una stanza. Whitehead stava
iniziando la lunga corsa per andare a segno. Il bussare si era fermato.
O se n’era andato. O forse l’udito di Jasper era particolarmente fino e
aveva sentito qualcuno che tagliava la legna. O forse se l’era del tu o
immaginato. Whithead aveva lanciato la palla. Il wicket si era
staccato da terra. «Hoooowwww-zzzzzzaaaaaaaaa t?»

«I doni li si può custodire per sempre, o scordare in un a imo.» Il


vicario della St Ma hias Church a Jasper ricorda molto il Primo
Ministro Harold Wilson. Ha una voce pia a e ronzante, come un’ape
intrappolata in una la ina. «I doni possono essere sinceri, o
manipolatori. I doni possono essere materiali. I doni possono essere
invisibili – un favore, una parola gentile, un broncio che scompare.
Un passero nella tua case a per uccelli. Una canzone alla radio. Una
seconda occasione. Un consiglio imparziale. Acce azione. Il dono
della gratitudine che ci perme e di riconoscere i doni come tali. La
vita è un continuo dare e ricevere. Aria, luce del sole, sonno, cibo,
acqua, amore. Per i cristiani la Bibbia è il dono della parola di Dio, e
proprio nascosto in questo enorme dono scopriamo parole preziose a
proposito dei doni, rivolte da Paolo alla Chiesa di Corinto, allora in
difficoltà: ‘Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da
bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò
che era da bambino. Adesso noi vediamo in modo confuso, come in
uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco
p
in modo imperfe o, ma allora conoscerò perfe amente, come
anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la
fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tu e è la carità’.»
Jasper preme l’orecchio contro una colonna di pietra e sente un
cuore.
Il vicario continua: «‘La più grande di tu e è la carità.’ Quando la
fede vi volta le spalle, suggeriscono gli apostoli, provate ad amare.
Quando la speranza si è spenta, provate ad amare. Dico a Lawrence
e a Imogen: nei giorni in cui il matrimonio non ricorda un giardino
fiorito, e ne capiteranno, provate ad amare. Provateci. Il vero amore
non è che l’a o di provare ad amare. Un amore senza sforzi è
sospe o quanto il prendersi cura senza sforzi di un giardino…»
Jasper guarda i fiori disposti intorno all’altare. Così questo è un
matrimonio. Non era mai stato a un matrimonio prima d’ora. Pensa a
sua madre, si chiede se abbia mai sognato per sé un matrimonio
come quello. O se, quando aveva scoperto di essere incinta, quel
sogno fosse appassito. A dare re a a ciò che si racconta, alle
commedie romantiche o alle riviste patinate, il giorno delle nozze è il
giorno più felice nella vita di una donna. Un monte Everest della
gioia. Dentro la St Ma hias Church sembrano tu i piu osto seri. In
una chiesa, a West London, su una palla di roccia che sfreccia nello spazio a
108.000 chilometri orari…

«Oh, eccolo il misterioso commensale mancante.» L’uomo nella


sala banche i dell’Epsom Country Club è troppo grosso per la sedia.
«Don Glossop, Dunlop Tyres, sono un vecchio amico del padre di
Lawrence», si presenta. La sua stre a di mano è una morsa.
«Salve, signor Glossop. Mi ricordo di lei.»
«Davvero?» Don Glossop protende la mandibola. «E dove ci
saremmo visti?»
«In chiesa.»
«Ah, giusto, adesso è tu o chiaro.» Lascia la mano di Jasper. «Lei
è Brenda, la mia dolce metà, o almeno così mi è stato de o. Da lei.»
Brenda Glossop ha capelli scolpiti, gioielli appariscenti e un modo
inquietante di dire: «Piacere».
«Spiegami una cosa», dice Don Glossop, poi starnutisce come un
asino che raglia. «Perché oggigiorno così tanti giovani scelgono di
conciarsi come ragazze? Siamo arrivati al punto che non sono più
sicuro di chi sia chi.»
«Forse dovrebbe guardarli più da vicino», suggerisce Jasper.
Don Glossop si acciglia, come se la risposta di Jasper non
c’entrasse con quanto ha appena affermato. «Ma i capelli, perché non
te li vai a tagliare, in nome di Dio?»
Sul pulmino partito dalla St Ma hias Church, Griff e Dean erano
con Jasper. Quanto vorrebbe non averli persi di vista!
Don Glossop lo guarda dri o in faccia: «Il ga o ti ha mangiato la
lingua?»
Jasper riavvolge il nastro. Perché non te li vai a tagliare, in nome di
Dio? «Mi piace avere i capelli lunghi. Il motivo è semplicemente
questo, davvero.»
Il signor Glossop lo guarda storto. «Ma, dannazione, sembri una
femminuccia!»
«Soltanto a lei, signor Glossop, e…»
«Ogni singola persona in questa sala dandoti un’occhiata pensa:
Femminuccia! Te lo garantisco.»
Jasper fa finta che non lo stia guardando nessuno. Beve un sorso
d’acqua.
«Credo tu ti renda conto che quella è la mia acqua», dichiara una
voce.
Concentrati. «Se ogni omosessuale sulla terra, se è questo che
intende con ‘femminuccia’, avesse avuto i capelli lunghi, la sua
affermazione potrebbe avere una logica. Ma i capelli lunghi vanno di
moda solo da qualche anno. Gli omosessuali che ha conosciuto in
precedenza avevano senz’altro i capelli corti.»
Don Glossop sembra spaesato, e Jasper cerca di aiutarlo con
qualche esempio.
«In prigione, in marina o a scuola, magari. Un insegnante a Ely
era famoso per molestare i bambini, e aveva una parrucca come la
sua. La sua logica non sta in piedi, a mio parere. Con tu o il
rispe o.»
«Cosa?» Don Glossop è diventato rosso granata.
p g
Forse è duro d’orecchio. «Stavo dicendo: un insegnante a Ely era
famoso per molestare i bambini, e aveva una parrucca…»
«Mio marito», interviene Brenda Glossop, «intende dire che
‘personaggi’ di quella risma non ne ha mai e poi mai frequentati.»
«Allora come fa a essere un esperto di ‘femminucce’?»
«Lo sanno tu i!» Don Glossop si sporge in avanti, la crava a gli
penzola nel cibo. «Le femminucce hanno i capelli lunghi!»
«Quegli orribili Rolling Stones hanno i capelli lunghi!» esclama
una donna con un’aureola crespa di capelli color glicine. «E sono una
vergogna.»
«Il servizio militare li avrebbe messi in riga, ma ormai anche
quello è andato, ovvio.» Il nuovo oratore ha una crava a regimental
e una medaglia. «Un altro chiodo nella bara.»
«Questo, generale, è esa amente il mio punto di vista», dice Don
Glossop. «Non abbiamo conciato i nazisti per le feste solo perché una
banda di bifolchi spacca-chitarre riducesse la Gran Bretagna a una
terra di yeah yeah e ooo-baby.»
«Il padre di quel Keith Jagger lavorava in fabbrica», dice Brenda
Glossop. «E adesso il figlio gironzola in un palazzo stile Tudor.»
«E grazie all’Evening News», dice Aureola Crespa, «cosa succede lì
dentro lo sappiamo benissimo, vero?»
«Spero che il giudice Block faccia di loro un caso esemplare», dice
il generale. «Senza dubbio tu li consideri il non plus ultra.»
Jasper si ricorda di essere lì. «Non li ho mai incontrati. Ma i loro
pezzi migliori sopravvivranno a tu i noi, ci me o la mano sul
fuoco.»
«Quei loro richiami di accoppiamento primitivi non sono musica»,
rincara la dose Don Glossop. «Musica è ‘Strangers in the Night’ di
Frank Sinatra. Musica è ‘Land of Hope and Glory’. Questo
cosidde o ‘rock’n’roll’ è piu osto un baccano velenoso.»
«Magari a Sir Edward Elgar», dice Jasper, «poteva sembrare un
baccano velenoso ‘Strangers in the Night’. Le generazioni passano. I
canoni estetici evolvono. Dove sarebbe la minaccia?»
«Jasper.» È la sorella di Elf, Bea, quella che va alla RADA. «Ehm, ti
sei seduto al tavolo sbagliato.»
«Puoi dirlo forte, per Giove», riba e il generale.
p g
«Ops.» Jasper si alza dal tavolo sbagliato e rivolge un lieve
inchino ai suoi occupanti. Sii educato. «Be’, è stato un piacere
conoscervi…»
Una volta al tavolo giusto, Jasper sopravvive al cocktail di scampi
e al coq au vin, ma giunto al dessert tu e quelle chiacchiere lo
travolgono. Levon sta parlando di cambiamenti nel sistema fiscale
con un commercialista dublinese. Dean sta parlando di Eddie
Cochran con il testimone di Lawrence. Griff sussurra qualcosa
nell’orecchio rosa acceso di una damigella ridanciana. Guardali, tu i
quanti. Domanda, risposta, ba uta di spirito, dato di fa o, nota
pe egola, reazione. Con che naturalezza lo fanno. Jasper parla
fluentemente inglese e olandese, un buon francese, un tedesco e un
latino passabili, ma il linguaggio del volto e i toni di voce gli
risultano impenetrabili come il sanscrito. Sa quali segni rivelatori
non gli vengono bene: ruotare in diagonale il capo, fare un cenno del
mento in segno di partecipazione, stringere gli occhi. Può farla
passare per eccentricità, ma dopo un’ora crolla. Non capisce se la sua
dislessia, facciale e tonale, sia una causa o un effe o della sua
dislessia emozionale. Sa cosa sono il dolore, la rabbia, la gelosia,
l’odio, la gioia e tu o lo spe ro delle normali emozioni, ma le
sperimenta semplicemente come lievi variazioni di temperatura.
Quando i Normali vengono a sapere di questa sua cosa, si fanno
diffidenti, Jasper è quindi condannato a recitare la parte del Normale
senza riuscirci. Quando non ci riesce, i Normali pensano che sia
scostante, o che li prenda in giro. Solo qua ro esseri umani e
un’entità incorporea lo hanno acce ato per quello che davvero è. Di
questi, Trix vive ad Amsterdam, il do or Galavazi è in pensione e
grootvader b Wim è morto. Formaggio è vicino, a Oxford, ma il
cammino di Jasper e quello del Mongolo non s’incroceranno più.
Mecca, che potrebbe essere il quinto essere umano, è dispersa in
America. Una persona è qualcosa che se ne va. Jasper calcola il tempo
necessario al dessert, al caffè e a qualche altra chiacchiera. Il suo
orologio fa le 10 e 10. Non ha senso. Se lo avvicina all’orecchio. Il
tempo si è fermato. Incapace di imbastire una scusa plausibile, se la
svigna e basta. Si ritrova in un corridoio tappezzato di sciami di
pallini in cui se ne stanno allineati degli innocui panorami inglesi.
p g p g
Un manipolo di golfisti si riversa all’interno dalla porta principale.
Parlano a una velocità e a un volume sconcertanti. Una rampa di
scale gli offre una via di fuga…

La terrazza sul te o ha una panca, vasi di fiori e regala una vista


sul campo da golf, sui te i e sugli alberi di Epsom. È un pomeriggio
sonnolento, intriso di polline. Jasper si accende una Marlboro e si
sdraia sulla panca. Nuvole-reli i flu uano alla deriva libere da
ormeggi. Inspira ed espira. Jasper si ricorda le estati a Domburg, alla
Rijksdorp Clinic, e ad Amsterdam. Il tempo è ciò che impedisce alle cose
di accadere tu e insieme. Si ricorda del mercoledì appena trascorso:
guardava fuori dalla finestra dell’ufficio di Levon al terzo piano. Le
esalazioni dell’immondizia rifluivano all’interno. Un paio di strade
più in là, su un te o pia o, tre donne prendevano il sole in bikini. È
possibile che fosse una casa d’appuntamenti, tra andosi di Soho, e
che le donne fossero in pausa tra un cliente e l’altro. Due erano di
pelle nera. Una aveva acceso una radiolina e Jasper aveva colto un
vago refolo di Ringo Starr che intonava «With a Li le Help from My
Friends».
«Ti dispiacerebbe unirti a noi, Jasper?» lo aveva chiamato Levon.
«Sono qui.» Jasper si era voltato.
«Quindi cos’hanno de o?» aveva chiesto Dean. «Abbiamo
concluso un accordo?»
«Rispondo prima alla seconda domanda», aveva de o Levon.
«No, non lo abbiamo concluso. Tu e e qua ro le case discografiche
hanno de o di no.»
Per un a imo nessuno aveva fiatato.
«Be’, alleluia!» aveva esclamato Dean. «Il Signore sia lodato.»
«Avresti anche potuto dircelo al telefono», aveva fa o presente
Griff.
«Che cos’hanno de o?» aveva chiesto Elf.
«A Tony Reynolds della EMI i demo sono piaciuti, ma come band
underground hanno già i Pink Floyd.»
«Ma io ed Elf non c’entriamo niente con i Pink Floyd», aveva
obie ato Dean. «I demo li ha ascoltati tu i e tre? Non è che ha
ascoltato solo ‘Darkroom’?»
«Li ha ascoltati tu i, ero con lui, però non gli hanno fa o
cambiare idea.»
«E Vic Walsh della Philips?» aveva domandato Elf.
«A Vic il suono in linea di massima piaceva, però continuava a
chiedere: ‘Chi di loro è il Mick Jagger? Chi è il Ray Davies? Chi è il
volto della band?’»
«E chi cazzo sarebbe il volto dei Beatles?» era intervenuto Griff.
«È quello che ho de o anch’io», aveva replicato Levon. «E Vic mi
ha risposto: ‘I Beatles sono l’eccezione che conferma la regola’, al che
ho riba uto: ‘No, i Beatles rappresentano la regola secondo cui ogni
grande gruppo è un’eccezione’ e lui: ‘Gli Utopia Avenue non sono i
Beatles’, e io: ‘È esa amente questo il punto’.»
«E si può sapere Pye che cazzo di scusa si è inventato?» aveva
chiesto il ba erista.
«Il signor Elliot mi ha de o che i ragazzi non si sentirebbero,
testuali parole, ‘parte della tribù’ per via di Elf, e che sempre per via
di Elf nel gruppo, le ragazze non si ‘bagnerebbero le mutandine’ per
Dean e Jasper.»
«Questo è… assurdo, offensivo e in un certo senso incestuoso,
tu o in una volta», aveva riba uto Elf. «È davvero fiacca come scusa
per non farci firmare.»
«Il signor Elliot ha lasciato intendere che se scaricassimo Elf e
facessimo diventare gli Utopia Avenue dei cloni degli Small Faces,
sarebbe interessato.»
Elf aveva emesso una specie di sibilo, come se qualcuno le avesse
tirato un pugno.
«Ovviamente», aveva continuato Levon, «l’ho mandato a quel
paese.»
«O tu i o nessuno», aveva proclamato Griff.
Dean si era acceso una sigare a. «Dalla Decca cosa dicono?»
«Derek Burke», Levon si era ge ato stancamente all’indietro
facendo cigolare la sedia, «vi ha visto al Marquee. Gli piace la vostra
energia, ma non si fida abbastanza dello stile ibrido da investire i
soldi della Decca.»
«A fregarci è essere quello che siamo, quindi», aveva commentato
Griff. «Bene, le qua ro etiche e di punta ci hanno dato il benservito,
q p
qual è la prossima mossa?»
«Non posso negare che sia una ba uta d’arresto», aveva ammesso
Levon, «ma…»
«Io sono più a secco che a gennaio», si era lamentato Dean. «Da
sei mesi vivo d’aria e cosa mi ritrovo in mano?»
«Una grande band», aveva replicato l’agente, «tre grandi demo,
una corte di fan piccola ma in crescita, cinque o sei grandi canzoni.
Animo, su.»
«Se siamo così bravi», aveva borbo ato Griff, «dov’è il nostro
contra o per incidere un disco? Chas Chandler ne ha procurato uno
a Hendrix in tre se imane.»
«E di loro che mi dici?» Dean aveva indicato i manifesti di Dick
Sposato e delle Spencer Sisters. «A loro un contra o l’hanno fa o.»
Levon aveva incrociato le braccia. «Hendrix è un mostro della
chitarra R&B. Dick è un vecchio crooner che ho scelto di
rappresentare per fare un favore a Freddy Duke. Le Spencer Sisters
cantano motive i buoni per la massa e per il pubblico di Songs on
Sunday. È tu a roba facile da piazzare. Gli Utopia Avenue non lo
sono. Voi siete inclassificabili, dunque la gente vi rifiuterà, all’inizio.
Se la cosa vi irrita, o se pensate che non mi stia facendo il culo, quella
è la porta. Siete liberi. Dirò a Bethany di farvi avere i documenti che
vi dispensano da ogni obbligo nei miei confronti.»
Griff e Dean si erano scambiati un’occhiata e non si erano mossi.
Jasper aveva guardato gli orologi sopra la testa di Levon. Uno
indicava l’ora locale, uno quella di New York, un altro quella di Los
Angeles.
«Ho un po’ esagerato», aveva ammesso Dean.
Griff aveva fa o un respiro profondo. «Sì. Probabilmente
anch’io.»
«Acce o le vostre mezze scuse», aveva de o Levon.
Elf aveva scrollato la sigare a. «Prossima mossa?»

Intorno a un tavolo basso sono seduti qua ro uomini: un abate


dalla testa rasata il cui volto è scolpito nella memoria di Jasper,
l’assistente dell’abate, il magistrato della ci à e il suo fidato
segretario. Illuminati dal sogno, i paraventi sono adorni di
g g p
crisantemi. L’accolito versa in alcune tazze tozze e nere come il
carbone un liquido lucido da una zucca rosso sangue. Il cingue io
degli uccelli è variopinto, sfavillante.
«Vita e morte sono indivisibili», dichiara il magistrato.
Allo strano brindisi del padrone di casa, i qua ro sollevano le
tazze. L’abate beve solo quando vede il magistrato bere per primo. Si
scambiano qualche facezia, poi Jasper si rende conto che è presente
anche un quinto ospite: la Morte. Prima dell’arrivo degli ospiti, in
quelle tazze ruvide è stato aggiunto un pizzico di veleno inodore. Il
veleno si è dissolto nel vino di riso, adesso è nel sangue dei padroni
di casa e dei loro invitati. Per essere sicuri che l’abate bevesse il
veleno, lo hanno bevuto anche il magistrato e il segretario. L’abate se
ne rende conto. Il copione è già scri o. Fa per prendere la spada, ma
il suo braccio è rigido, di legno. Tu o quello che può fare è sferrare
un pugno alla coppa, che ruzzola sul pavimento sgombro. «I Credo
funzionano, bru a termite umana!» dice al magistrato. «L’olio delle
anime funziona!» Parlano di vende a, giustizia, donne sepolte e
bambini sacrificati finché il segretario crolla in avanti, tremante,
sparpagliando le pedine bianche e nere del go. Poi è il turno
dell’assistente. Dalle bocche schiumano saliva e sangue. Una farfalla
nera si posa su una pietra bianca e spiega le ali…
Toc-toc… Toc-toc… Toc-toc…
«Eccoti qui, Bella Addormentata.»

Jasper apre gli occhi e vede Bea a pochi centimetri, lo sta


guardando dall’alto. Si china ancora un po’ e lo bacia sulle labbra.
Jasper la lascia fare. Le dita della ragazza si fermano sul suo viso. È
piacevole. Il cingue io degli uccelli è variopinto e sfavillante. Lui e lei
si sono già incontrati due volte: la prima quando Elf l’ha portata al
Club Zed di Pavel a vedere le prove del gruppo, e una volta al Les
Cousins, dove gli Utopia Avenue si sono esibiti in un concerto
semiacustico. Bea ritrae la testa. «Non dirlo a Elf.»
«Come vuoi», dice lui.
«Quando t’imba i in una Bella Addormentata, c’è una sola cosa
da fare. Che non ti vengano strane idee, però.»
«Non mi verranno, incantevole principessa.»
p p
Bea si siede su una panca davanti a lui.
Il giardino panoramico. Il country club. La festa di matrimonio.
Jasper si gira su un fianco e si solleva. Nuvole-reli i flu uano alla
deriva, libere da ormeggi. Inspira ed espira. «I discorsi sono finiti?
Quanto ho dormito? Mi sa che fra poco dovremo suonare.»
Bea snocciola le risposte: «Quasi. Non ho fa o partire il
cronometro. Sì, suonate tra poco». Indossa un abito aderente blu
inchiostro. Ha una bellezza vitale e dirompente che manca alle
sorelle.
«Ti sei cambiata», dice Jasper.
«Gli abiti da damigella non fanno per me. Elf mi ha mandata a
cercarti e a comunicarti un messaggio.» Più in basso, si sente sba ere
la portiera di un’automobile. Bea prende una Marlboro di Jasper e se
l’accende.
Lui resta pazientemente in a esa.
Bea bu a fuori il fumo. «Il messaggio dice: ‘Porta il culo sul palco
entro venti minuti’. Era cinque minuti fa, quindi te ne restano
quindici.»
«Dille: ‘Grazie per il messaggio, ci sarò’.»
Bea lo guarda stranita.
Sta aspe ando qualcos’altro? «Grazie», aggiunge.
«Com’è essere in un gruppo con mia sorella?»
«Ehm… Piacevole?»
«Perché?»
«Ha talento. È una brava tastierista. Ha una voce roca ed eterea.
Le sue canzoni sono intense.» Passa un aeroplano. Bea si sfila le
scarpe e si siede a gambe incrociate. Le unghie dei piedi sono
azzurro cielo, come la lampada di Trix.
Forse si aspe a che le faccia una domanda. «Come facevi a sapere
dove cercarmi?»
«Mi è bastato fingere di essere te, poi ho pensato: Come posso
andarmene da qui?» risponde Bea facendo un’imitazione piu osto
buona di Jasper.
«È stato difficile o facile?»
«Ti ho trovato, sbaglio?»
Una brezza estiva fa ondeggiare la lavanda nei vasi.
gg
Bea fa un tiro e passa a Jasper la sigare a. È rosa per via del
rosse o. «Suona ‘Darkroom’», gli dice. «Mi piacciono anche
‘Abandon Hope’ e ‘Raft and a River’, ma credo che ‘Darkroom’ sia il
pezzo forte. È un po’ alla Sgt. Pepper’s. Nei colori. Nell’umore.»
Jasper si chiede che cosa succederebbe se le toccasse una mano,
Trix però gli ha de o di aspe are che a prendere l’iniziativa sia la
donna. Ha la gola secca.
«L’hai sentito Sgt. Pepper’s, giusto?»

La finestra a ghiglio ina di Levon era mezza aperta, l’aria faceva


svolazzare la tenda. Sdraiato sul divano, Jasper guardava gli altri
ascoltare il lato A. Elf, rannicchiata sulla poltrona di velluto, studiava
le parole. Dean era disteso sul tappeto. Levon era seduto al tavolo e
fissava una ciotola di mele. Griff era appoggiato al muro, le mani e i
polsi si agitavano empatizzando con Ringo. Nessuno parlava. Jasper
aveva riconosciuto la canzone di cui gli aveva parlato Rick Wright
all’UFO. Dopo la carnevalesca «Being for the Benefit of Mr Kite!»,
Levon aveva girato il disco. Il sitar di George Harrison si era sparso a
cascata come una cometa scintillante… per poi tramutarsi nell’oboe
di «When I’m Sixty-Four». Jasper aveva notato come due suoni ne
formassero un terzo. L’ultima traccia, «A Day in the Life», era una
miniatura dell’intero album, così come il Libro dei Salmi è una
miniatura dell’intera Bibbia. Le parole «scelte» di Lennon
contrastavano con i versi spicci di McCartney. Insieme
risplendevano. A chiudere la canzone era un incubo orchestrale a
occhi aperti, un gran finale che saliva avvitandosi fino all’ultimo
accordo, pestato su decine di pianoforti al contempo. Il tecnico aveva
alzato i livelli di registrazione mentre la nota svaniva. A Jasper aveva
ricordato la fine di un sogno, quando il mondo reale comincia a
insinuarsi. A concludere il tu o, un’esilarante farneticazione senza
senso.
La puntina si era sollevata, e con un rumore sordo il braccio del
giradischi era sca ato all’indietro.
Era giugno, i piccioni tubavano sugli alberi di Queens Gardens.
«Porca troia.» Dean aveva tirato un lungo e arioso sospiro.
«Wow», aveva commentato Levon. «Wow. È un diario di viaggio
interiore.»
«Ringo mi è sempre sembrato solo un fortunato bastardo», aveva
de o Griff, «però… come ha fa o a suonarle certe parti? Non ne ho
la minima idea, cazzo.»
«L’intero studio è un meta-strumento», aveva spiegato Elf. «È
come se avessero registrato su un sedici piste. Ma di mixer a sedici
piste non ne esistono.»
«Il basso», aveva osservato Dean, «è così limpido che è come se lo
avessero infilato all’ultimo, sovraincidendolo. È possibile?»
«Solo se hanno registrato le altre parti con una traccia ritmica che
stava dentro le loro teste», aveva ipotizzato Elf. «Ma questo è
possibile?»
«Hanno fa o bene a lasciar perdere i tour», aveva de o Dean.
«Questo disco non potrebbero mai e poi mai suonarlo dal vivo.»
«È l’essersi sbarazzati dei concerti», aveva replicato Griff, «che ha
permesso loro di fare questo disco. Hanno pensato: ’Fanculo,
incideremo quello che diavolo ci pare.»
«Solo i Beatles possono cavarsela senza fare concerti», aveva
commentato Levon. «Nessun altro. Neanche gli Stones. Postilla
manageriale.»
«Guardate la copertina.» Elf l’aveva sollevata. «I colori, il collage,
il modo in cui si apre rivelando le parole delle canzoni. È
stupefacente.»
«Anche il nostro LP dovrà essere così elegante», aveva de o Dean.
«Una cosa simile», aveva chiarito Levon, «richiede vero amore da
parte della casa discografica.»
«Le parole di ‘Darkroom’ sono spinte, ma ‘Lucy in the Sky with
Diamonds’? Sta sicuramente per LSD, no?» aveva suggerito Griff.
«E nell’ultima canzone, quando dice quella cosa tipo ‘mi
piacerebbe accendervi’?» aveva aggiunto Dean. «Non credo stia
parlando di interru ori della luce.»
«Che i Beatles, in un certo senso, abbiano appena so errato la
psichedelia?» si era chiesta Elf. «Chi potrebbe fare di meglio?»
«Hanno acceso una miccia», aveva risposto Levon. «‘Darkroom’ è
perfe a per l’estate di Sgt. Pepper’s. Questo è quanto, per come la
p p g pp q p
vedo io. Il primo singolo degli Utopia Avenue dev’essere
‘Darkroom’.»
Da un furgoncino dei gelati usciva la canzoncina «Oranges and
Lemons». Gli accordi squillanti riecheggiavano sugli stucchi delle
facciate georgiane di Queens Gardens. In quel momento, Jasper
aveva sentito pronunciare il proprio nome.
Lo stavano guardando tu i. «Che c’è?»
«Ti chiedevo cosa pensi del disco», aveva risposto Dean.
«Perché appiccicare etiche e alla luna? È Arte.»

***

Due se imane dopo, Jasper vede un volto familiare nello specchio


sopra il lavandino accanto al suo. Il volto riflesso appartiene al padre
di Elf.
«Congratulazioni per il matrimonio, signor Holloway.»
«Ah, Jasper. Ti stai divertendo?»
Jasper si tra iene dal rispondere no, ma un sì sarebbe una bugia,
quindi dice: «Il cocktail di scampi era eccellente».
Per qualche strano motivo, il signor Holloway lo trova divertente.
«Occasioni simili sono fa e per, e gestite da, donne. A enzione,
però, questo io non l’ho mai de o.»
Jasper constata che ora condivide un segreto con la sorella di Elf e
uno con il padre. «Grazie per aver chiesto al suo avvocato di dare
un’occhiata ai nostri contra i.»
«Sarà il tempo a confermare l’integrità del signor Frankland a
livello finanziario, ma il mio avvocato mi ha garantito che per
stavolta non avete venduto l’anima firmando.»
Jasper tenta una ba uta. «Mi è stato de o che torna utile.»
Il riflesso del signor Holloway si acciglia. «Prego?»
È andata a vuoto. «Ehm… nel folklore e in ambito religioso, è
buona cosa tenersi stre a l’anima. Tu o qui.»
L’asciugamano a rullo sferraglia. «Ah», cambia tono l’anziano.
«Mi diceva Elf che hai frequentato la Bishop di Ely. Fra i pezzi grossi
della mia banca ci sono alcuni ex studenti.»
«Sono stato a Ely solo fino a sedici anni. Poi mi sono trasferito nei
Paesi Bassi. Sa, mio padre è olandese.»
«E come ha preso il fa o che tu abbia rinunciato ai vantaggi di
un’educazione di massimo livello per un ‘gruppo pop’?»
Jasper guarda il padre di Elf asciugarsi le mani, un dito alla volta.
«Mio padre mi lascia fare le mie scelte.»
«L’ho sentito dire che gli olandesi sono permissivi.»
«Trovo che ‘indifferenti’ sia più appropriato di ‘permissivi’.»
Il signor Holloway prepara l’asciugamano per chi dovrà usarlo
dopo. «Di una cosa sono sicuro: chiunque cerchi lavoro nella mia
banca, verrebbe rifiutato se avesse suonato in una band. Qualsiasi
scuola abbia fa o.»
«Quindi lei disapprova gli Utopia Avenue?»
«Sono il padre di Elf. Il gruppo pregiudica le sue prospe ive
future… E che dire dei rischi professionali? Se a Brighton quella
bo iglia avesse colpito lei? Le cicatrici possono anche andare su un
ragazzo, ma una ragazza la sfigurano e basta.»
«Nei locali peggiori ci sono gabbie per proteggere i musicisti.»
«Questo dovrebbe rassicurarmi?»
«Be’…» Una domanda trabocche o? «Sì.»
La risata tagliente del signor Holloway rimbomba contro le pareti.
«Come se non bastasse, questa cosidde a ‘cultura underground’ è
zeppa di droga.»
«La droga è dappertu o. Statisticamente, un quinto degli invitati
a un matrimonio è so o Valium. Poi ci sono il tabacco, l’alcol…»
«Stai facendo il tonto di proposito?»
«Non ho idea di come si faccia a essere tonti di proposito, signor
Holloway.»
Il dire ore di banca aggro a la fronte come se una colonna di cifre
non quadrasse. «Parlo di droghe illegali. Droghe che ti ‘agganciano’
e… ti fanno saltare giù dai palazzi e così via.»
«Intende l’LSD, nello specifico?»
«Stando al Times è un’epidemia.»
«Mi sembra una parola altisonante. La gente sceglie di fare uso di
droghe ricreative. Potrebbero farne uso anche alcuni suoi
dipendenti.»
p
«Ti assicuro che non è così!» Il padre di Elf alza la voce.
«Come lo sa?» Quella di Jasper resta bassa.
«Perché nessuno di loro è un ‘tossico’!»
«Lei ogni tanto si gusta un bicchiere di vino, ma questo non fa di
lei un alcolizzato. Lo stesso vale per le droghe. È lo schema ripetitivo
dell’assunzione a fare danni. L’eroina è un’eccezione, comunque.
L’eroina è terribile.»
In uno dei bagni, la casse a di scarico fa pic, pic, pic. Il signor
Holloway si prende la testa fra le mani. Esasperazione? «Ho sentito la
tua canzone, ‘Darkroom’. Le parole sono… Be’, amme erai che la
canzone prende spunto da…»
Jasper sa che non si concludono le frasi di altri.
«…esperienze personali di… assunzione di droga?»
«A ispirare ‘Darkroom’ è stata una giovane fotografa tedesca che
ho conosciuto. Aveva una camera oscura. Le sostanze psicotrope e io
non andiamo d’accordo. Ho una patologia che l’LSD potrebbe
esacerbare. Le anfetamine non sono poi così pericolose, ma salto le
note, sbaglio le parole eccetera, se le prendo. Temo, insomma, di
essere alquanto salutista.»
Il signor Holloway stringe gli occhi, si guarda in giro nel bagno
degli uomini e torna a fissarlo. «E, ehm… Elf?» Sta sudando.
«Vale lo stesso per Elf.»
«Ah.» Il signor Holloway annuisce. «Sei una strana bestiola,
giovano o. Ma mi fa piacere che abbiamo parlato.»
«Se sono una strana bestiola, sono una strana bestiola sincera.»
La porta si apre di sca o e Griff s’intrufola nel bagno
camminando all’indietro. Ha i capelli arruffati, la cicatrice livida e la
crava a annodata in testa.
«Re Griff torna presto», fa sapere ad almeno due donne
sghignazzanti. «Lasciatemi solo affondare la Bismarck.» La porta si
richiude. «Ehi, Zooto. Dean credeva che fossi volato via insieme a
Puff il Drago Magico.»
Il signor Holloway guarda Griff a bocca aperta. Stupore?
Il signor Holloway guarda di nuovo Jasper. Rabbia?
Il signor Holloway esce in un lampo. Chi lo sa?
«Che gli prende?» chiede Griff. «È un matrimonio, non un
funerale.»

Gli Utopia Avenue aprono il loro siparie o con «Any Way the
Wind Blows». Elf canta e suona la chitarra acustica, Griff si limita a
un lavoro di spazzola fuorché nel punto della canzone in cui al
politecnico di Brighton l’ha colpito la bo iglia. Arrivato a quel
punto, infa i, picchia sulla grancassa, fa roteare per aria una
bacche a e la riacciuffa come un capobanda.
La seconda canzone è «Mona Lisa Sings the Blues», quella nuova
su cui Elf sta ancora lavorando. La suona al piano. Dean va a
integrare le sue note basse, mentre Jasper improvvisa un assolo nel
mezzo. Le donne prestano a enzione alle parole, che sono cambiate
a ogni prova. Griff toglie di torno le sue bacche e per una robusta
versione di «I Put a Spell on You», con Dean alla voce ed Elf ad
accompagnarlo con lo stesso giro di piano. Alcuni degli ospiti più
giovani iniziano a ballare, il gruppo la tira quindi per le lunghe.
Jasper suona un assolo tipo saxofono con la sua Stratocaster.
Sollevando lo sguardo, vede che la sposa e lo sposo stanno ballando.
Se fossi più bravo a invidiare quei due, li invidierei: hanno le loro famiglie e
hanno l’uno l’altra. Anche Bea sta ballando con uno studente alto,
bruno e di bell’aspe o, tu avia guarda Jasper. Lui cede l’assolo a
Dean, che parte in slap su una linea di basso. Clive e Miranda
Holloway restano seduti. Gli piacerebbe saper leggere l’espressione
del padre di Elf. Ha posato una mano su quella della moglie, quindi
forse è di nuovo calmo. La musica conne e. I Glossop sono seduti a
braccia conserte, rigidi, visibilmente disgustati, tanto che persino
Jasper se ne accorge. La musica non può conne ere tu i quanti…
Eppure, nota, Don Glossop quasi imperce ibilmente sta ba endo
un piede, e la testa della moglie annuisce a tempo con il ritmo.
O forse sì.

Quel suono, il bussare che Jasper aveva sentito sul campo da


cricket durante la partita contro la Peterborough Grammar, non si
era più ripresentato quel giorno, o quello dopo, o quello dopo
ancora. Jasper si era convinto che in realtà non ci fosse mai stato. Un
p
pomeriggio sul tardi, il preside di Swa am House lo aveva
mandato alla ca edrale con una cartella piena di partiture per il
capocoro. Si stava alzando un vento di ponente, che strappava ciò
che restava della fioritura dei ciliegi e sospingeva Jasper lungo la
Gallery, una delle vie medievali di Ely. Poco più avanti aveva sentito
una porta spalancarsi e richiudersi sba endo, spalancarsi,
richiudersi e poi spalancarsi ancora. Mentre a raversava un
passaggio a volta, una porta di legno dai cardini allentati si era
staccata dalla parete davanti a lui con un vigore demoniaco, e,
mancando per non più di trenta centimetri la sua testa di sedicenne,
si era schiantata contro il muro opposto riducendosi in legna da
ardere. Avrebbe potuto rompergli l’osso del collo, spaccargli le
costole, sfondargli il cranio. Scosso dal fa o di esserci rimasto quasi
secco, Jasper si era comunque sbrigato a proseguire verso la
ca edrale, aveva varcato il portone e si era ritrovato nella cavernosa
oscurità della chiesa. Le candele tremolavano. L’organista stava
tessendo un accordo. Girava qualche turista, ma lui non si era
fermato a contemplare quel capolavoro dell’archite ura medievale.
Era una bru a serata per andare a spasso. Aveva percorso i chiostri
fino alla sala capitolare, dove si trovava il capocoro. Si era avvicinato
alla porta e stava per bussare, quando…
Toc-toc…
Jasper non aveva ancora bussato, il rumore però lo aveva sentito.
Si era guardato intorno in cerca di una spiegazione.
Una spiegazione non c’era. Con cautela, aveva sollevato le nocche
per riprovare a bussare…
Toc-toc…
Non aveva toccato la porta.
Che qualcuno stesse bussando dall’interno?
E perché? Uno scherzo? Doveva essere divertente?
Ma come faceva a essere sincronizzato con lui? Non c’era nessuno
spioncino.
Per la terza volta, Jasper aveva preparato il pugno per bussare.
Toc-toc… Nella stanza del capocoro doveva esserci qualcuno.
Aveva provato ad aprire la porta. Ce l’aveva fa a a fatica.
Il capocoro era dietro la sua scrivania, sul lato opposto della
stanza che leggeva il Times.
«Ah, De Zoet. Un ragazzo con la tua educazione dovrebbe sapere
benissimo che non si entra in una stanza senza bussare.»

a. Presenziare a un matrimonio.
b. Nonno in olandese. (N.d.R.)
Purple Flames a

Al volante della Belva, Dean abbandona la A2 all’altezza della


rotonda di Wrotham Road. È un miracolo essere arrivati così lontano. A
Blackheath avevano bucato. Dean e Griff avevano cambiato la
gomma, Jasper nel mentre se ne stava seduto a bordo strada. Ma
come fanno i ricchi a dominare il mondo? Sono talmente inutili. Il motore
della Belva arranca. Se il carburatore è fo uto, se ne vanno
tranquillamente altre quindici sterline, che si aggiungono alle cinque per la
gomma nuova. Malgrado i due o tre concerti a se imana deve ancora
alla Moonwhale e a Selmer’s Guitars una quantità spropositata di
soldi. Avevo più denaro in tasca quando lavoravo da Craxi… Ci serve un
contra o per un disco, ci serve un pezzo di successo, ci serve che ci paghino
di più per i concerti. Superano una tavola calda Watling Street aperta
ventiqua rore su ventiqua ro, apprezzata dai camionisti a lungo
raggio che viaggiano sul tra o Londra-Dover-Europa Continentale.
Superano la vecchia caserma dell’esercito, messa in naftalina fino alla
prossima guerra. Superano un dedalo di case popolari dove, quando
Dean era un ragazzino, c’era solo campagna. Continuano lungo il
ciglio di Windmill Hill, lì la forza di gravità prende il sopravvento e
trascina la Belva fino ai te i sparsi di Gravesend, le strade schiacciate
l’una contro l’altra, i vicoli, le aree bombardate, i cantieri, le gru, la
ferrovia per Ramsgate e Margate, i campanili, l’officina del gas, il
nuovo ospedale che spunta dal suolo come una scatola, i grossi
condomini e il Tamigi color liquame dove i barconi a raccano
davanti alle fabbriche, la Imperial Paper, la Smollet Engineering, la
Blue Circle Cement e più in là sull’altra sponda, nell’Essex, la
centrale ele rica di Tilbury. Il fumo delle ciminiere sovrasta quel
torrido, immobile pomeriggio di fine luglio.
«Benvenuti in paradiso», annuncia Dean.
p
«Se questo posto ti sembra triste», dice Griff, «dovresti dare
un’occhiata a Hull a metà gennaio.»
«Il paradiso è la strada per il paradiso», interviene Jasper.
Chissà che cazzo significa, pensa Dean.
«Sembra tu o così… autentico», osserva Elf.
Prende per il culo? «Cioè?» le chiede.
«Niente», risponde lei. «Era tanto per dire.»
«Scusa, sai, se non è tu o carino come a Richmond.»
«No, sono io che mi scuso per essere una ragazzina ricca e
sprovveduta che non ha idea di come va il mondo. Guarderò in
televisione Coronation Street per fare ammenda.»
Dean me e in folle e lascia che la Belva scenda dalla collina.
«Credevo mi prendessi per il culo.»
«Perché dovrei?»
«È difficile capirlo con voi…»
«Noi ragazzine ricche e sprovvedute?»
Dean non dice nulla per un po’. «Sono nervoso. Scusa.»
Elf sbuffa. «Già. Be’, suonare per il pubblico di casa tua è una cosa
grossa.» La discesa si fa più ripida e la Belva guadagna slancio. A
dirla tu a, pensa Dean, mi preoccupa che Jasper ed Elf dando
un’occhiata a nonna, Bill e Ray pensino: Chi sono questi trogloditi?
Mi preoccupa che nonna, Bill e Ray dando un’occhiata a Jasper e a
Elf pensino: Cristo, chi sono questi snobbe ini? Mi preoccupa che al
Captain Marlow ci fischino. Mi preoccupa che potremmo fare una
figura ridicola. E, sopra u o, più mi avvicino a Harry Moffat, più
provo freddo e mi sento fragile…

«Si può sapere a che stramalede o gioco stai giocando?» aveva


de o suo padre squadrandolo dall’alto. Il mercato di Queen Street
era in piena a ività e il gruppo skiffle di Dean, formato quella
se imana stessa, stava suonando «Not Fade Away». Bill e nonna
Moss avevano organizzato una colle a e il giorno in cui Dean aveva
compiuto qua ordici anni gli avevano regalato un’autentica
Futurama cecoslovacca. Non si era scordata per una canzone intera e
lui aveva già raggranellato qualche spicciolo in una scatole a di la a
per il tabacco. Kenny Yearwood e Stewart Kidd cantavano e
p y
suonavano uno washboard, ma la band era di Dean, era lui che
aveva imparato gli accordi, lui che aveva trovato l’angolo in cui
esibirsi, lui che aveva impedito a Kenny e Stewart di tirarsi indietro.
A guardarli, c’erano delle ragazze. Alcune sembravano colpite. Per la
prima volta dopo mesi si sentiva felice, invece che fiacco, nauseato e
grigio. Finché non era arrivato suo padre.
«Ti ho chiesto a che stramalede o gioco stai giocando.»
«Stiamo solo suonando un po’ per strada, pa’», era riuscito a
rispondergli.
«Suonando? Questo è acca onaggio.»
«No, signor Moffat», aveva tentato di replicare Kenny Yearwood.
«È diverso da…»
Il padre di Dean gli aveva puntato un dito contro. «Levatevi dalle
palle. Tu i e due.»
Kenny e Stewart avevano guardato Dean impietositi e se n’erano
andati.
«Cosa direbbe tua madre? Eh?»
Dean aveva mandato giù un groppo di saliva. «Ma mamma suona
il piano. Lei…»
«A casa! Per i fa i suoi! Non dove la possono vedere tu i!
Raccogli quella.» Il padre di Dean aveva guardato schifato la
scatole a delle monete e lo aveva portato dall’altra parte della
strada, davanti all’edicola del signor Dendy, fino a una casse a delle
offerte destinate ai cani guida. Era nera, a forma di Labrador. «Via
tu o. Fino all’ultima monetina.» Dean non aveva avuto scelta. Ogni
moneta era scivolata nella fessura sulla testa del cane. «Un’altra
bravata del genere e la tua chitarra è spacciata. Me ne sba o di chi te
l’ha comprata. Chiaro?»
Dean odiava suo padre, odiava se stesso perché non riusciva a
tenergli testa e odiava suo padre perché lo costringeva a odiarsi.
«Chiaro?»
Esalazioni di vodka e tabacco. L’odore di Harry Moffat. I passanti
rallentavano incuriositi.
Dean avrebbe voluto uccidere il padre seduta stante.
Dean sapeva che la sua Futurama era in pericolo.
Dean, rivolgendo lo sguardo al cane-salvadanaio, aveva risposto.
«Sì.»

***

Elf a acca l’assolo di «Moon River» sul piano di nonna Moss. Dean
respira l’odore di lardo, moque e vecchia, gente vecchia e le iera
per ga i. Tu o il pianoterra di nonna, immagina, riuscirebbe
comodamente a starci nel soggiorno di Jasper a Chetwynd Mews.
Jasper appare più a suo agio di quanto non sia mai stato, e le qua ro
generazioni miste di Moss e Moffat sono più curiose che diffidenti
verso i suoi esotici compagni. Per ora. Anche Griff è cresciuto in un
piccolo edificio a due piani come quello, lì si sentirebbe a casa, ma è
andato con la Belva al Captain Marlow: voleva rime ersi in sesto e
vedersi con un amico dei tempi di Archie Kinnock. Nonna Moss, con
i capelli bianchi e il viso rugoso, ondeggia e canticchia sulle note di
«Moon River». Bill, marito di fa o di nonna e lui stesso bravo
pianista, approva annuendo lo stile di Elf. La chiassosa zia Marge e
la silenziosa zia Dot osservano benevole. L’ultima sorella, la madre
di Dean, guarda la scena dalla sua foto in cornice. Lì vicino ci sono
Ray, il fratello di Dean, la moglie incinta di Ray, Shirl, e Wayne, il
figlio di due anni che con le sue automobiline Dinky sta simulando
un incidente stradale dopo l’altro. Jasper è seduto in un angolo del
salo ino di nonna so o uno schieramento di anatre di porcellana.
Dean studia il suo coinquilino. Si sono spartiti pacche i di sigare e,
confezioni di Durex, cartoni di uova, tube i di dentifricio, libri,
bo iglie di la e, corde di chitarra, flaconi di shampoo, raffreddori e
cibo d’asporto cinese… A volte risulta indifeso alla maniera di un
bambino, altre è come un alieno che si spaccia per un terrestre. Gli
ha de o qualcosa riguardo a un esaurimento che ha avuto ai tempi
della scuola, e a un periodo in una clinica olandese. Dean non ha
approfondito. Gli sembrava sbagliato. Non è neanche sicuro se il
distacco dal mondo reale di Jasper sia una causa o piu osto una
cicatrice di quei giorni.
Elf conclude «Moon River» con un glissando sognante.
La piccola platea la ripaga con un caloroso applauso.
p p p g pp
Wayne fa cozzare un’automobilina contro un camion, «Bam!» dice.
«Oh», dichiara nonna, «che bellezza. Ho ragione, Bill?»
«Una bellezza davvero. Da quanto suoni, Elf?»
«Da quando avevo cinque anni. Me l’ha insegnato mia nonna.»
«Iniziare da piccoli è la cosa migliore», dice nonna Moss. «‘Moon
River’ era il pezzo preferito della nostra Vi, la madre di Dean. Anche
Marge e Dot suonavano il piano, ma quella davvero portata era lei.»
«Un momento fa», dice zia Marge, «a chiudere gli occhi sembrava
che a suonare fosse Vi. In quel punto complicato in mezzo,
specialmente.»
«Se avesse fa o una vita diversa», osserva zia Dot, «Vi avrebbe
potuto diventare qualcuno, ve lo dico io. Musicalmente, intendo.»
«È chiaro che Dean ha ereditato il suo talento», dice zia Marge.
«Non vorremo far raffreddare il pasticcio di rognone, eh?»
interviene Bill.
Zia Dot e zia Marge cominciano a riempire i pia i.
«Come fa il pubblico a sentire il piano», chiede Ray a Elf, «mentre
migliaia di ragazze urlanti lanciano le mutandine a quel rubacuori?»
Con un cenno indica Dean.
«Per il momento le mutandine non gliele lanciano», spiega Elf.
«Quando sarà andato a Top of the Pops, magari. L’acustica dipende
dalla sala, dai microfoni, dagli amplificatori. Nel furgone abbiamo
un Farfisa. Ho anche un Hammond, però pesa una tonnellata.
Insieme sono una bella bo a.»
«Non ci vuole coraggio», Shirl sta me endo il bavaglino a Wayne,
«a salire su un palco di fronte a una folla di sconosciuti?»
«Direi di sì», risponde Elf, «ma o superi la paura del palcoscenico
o molli. Nonna, il mio pia o è gigantesco.»
«Un esercito marcia solo a pancia piena», dice la matriarca.
«Bene. Se ci siamo serviti tu i…» Congiungono le mani e nonna
recita una breve preghiera: «Per quello che stiamo per ricevere,
rendiamo grazie al Signore. Amen». Si uniscono in coro a quell’amen
e iniziano a mangiare. Dean pensa a quanto il cibo, così come la
musica, unisca le persone.
«Questo pasticcio è la perfezione», dichiara Jasper come se stesse
valutando un assolo.
«Sa fare dei bei complimenti, lui», commenta zia Marge.
«In realtà», precisa Dean, «non fa nessun complimento. Dice solo
le cose per come le vede.»
«Il mio naso è una bocca.» Wayne si ficca una carotina in una
narice.
«Wayne, è disgustoso», dice Shirl. «Tirala subito fuori dal naso.»
«Ma tu hai de o di non me ere le dita.»
«Ray, digli qualcosa.»
«Fai come dice tua madre.» Ray si tra iene dal ridere.
Wayne infila il mignolo nella narice. «È troppo su.» Adesso è
meno divertente. «Non viene!» Con uno starnuto fa schizzare la
carota nel pia o di Dean, e perfino Shirl coglie il lato buffo della
faccenda.
«Allora, chi vuota il sacco su com’era Dean da ragazzino?» chiede
Elf.
«Oh, cielo», esclama Bill. «Quante ore abbiamo?»
«Ci vorrebbero giorni», interviene Ray, «e solo per iniziare a
vuotarlo.»
«Bugie, nient’altro che bugie», riba e Dean.
«Senti senti. E chi è il ribelle rock’n’roll adesso, eh?» Ray infilza
con la forche a un pezzo di rognone. «E chi è invece il marito
responsabile?»
Solo perché hai sparato il tuo seme nella passera di Shirl quando le uova
erano mature. Raccoglie dal pavimento il cucchiaio di Wayne.
«Non è stato facile per Dean», dice nonna Moss, «dopo che sua
madre ci ha lasciato. Non è stato facile per nessuno. Suo padre a…»
«A raversava un momentaccio», interviene Bill, cogliendo
un’occhiata di Dean.
«Esa o», continua nonna. «Ray se n’era andato a Dagenham per il
praticantato, e Dean era tornato a vivere con suo padre nella vecchia
casa in Peacock Street, ma le cose non hanno funzionato. Quindi si è
trasferito qui con me e Bill per tre anni o giù di lì mentre frequentava
la scuola d’arte di Ebbsfleet. Eravamo così orgogliosi.»
«Ma invece di diventare il futuro Picasso», aggiunge Ray, «si è
trasformato nel geniale chitarrista che conosciamo e amiamo.»
«Il chitarrista geniale è lui», Dean agita un pollice in direzione di
Jasper. «Al Marquee c’eri anche tu, Ray.»
«Se so suonare», dice Jasper, «è perché mi sono esercitato tanto
anziché vivere. Non è un metodo che consiglio.»
«A questo mondo», replica Bill, «se vuoi farcela in qualcosa, devi
darci dentro. Il talento non basta. Ci vuole disciplina.»
«Dean ha realizzato alcune fantastiche opere d’arte», dice zia
Marge. «Quello sopra la radio lo ha fa o lui.» Guardano tu i un
disegno del molo di Whitstable. «A enzione, però, il suo cuore era
sempre per la musica. Se ne stava su, in camera, a provare le canzoni
che componeva finché non erano perfe e.»
«Fa così anche adesso.» Jasper infilza un fagiolo. «I bassisti meno
dotati procedono per umpa-umpa, come suonatori di tuba. Dean
invece fa queste cavalcate fluide», posa la forche a per mimarlo.
«Bam-bam-ba-damb-damb, bam-bam-ba-damb-dam. Suona il basso come
una chitarra ritmica. È grande.» Jasper mangia il fagiolo.
Il complimento è così schie o che Dean si sente un po’ in
imbarazzo.
«La vedete quella targa?» Nonna indica un trofeo e recita
l’iscrizione: «Migliore band, Gravesend 1964, The Gravediggers. Era il
gruppo di Dean. Fra un po’ tiriamo fuori l’album con le foto.»
«Oooh, l’album con le foto.» Elf si sfrega le mani.
Fuori passa una moto a tu a velocità, le tazze sulla credenza
vibrano.
«È quel Jack Costello», borbo a zia Marge. «Me e suo figlio
Vinny nel sidecar e tra a questo paese come se fosse la sua pista
privata.»
«Scusa se te lo chiedo, Jasper», dice zia Marge, «ma tu sei dei
quartieri alti? Parli benissimo, capperi. Come un annunciatore della
BBC.»
«Fino a sei anni mi ha cresciuto mia zia a Lyme Regis. Gestiva una
piccola pensione, i soldi non bastavano mai. Ma poi sono andato in
un collegio privato a Ely, che in effe i è per gente dei quartieri alti.
Sfortunatamente un accento da riccone non garantisce un conto in
banca da riccone.»
«Com’è che tua zia poteva perme ersi una scuola da ricchi?»
chiede Bill.
«Ci ha messo lo zampino la famiglia di mio padre, i De Zoet. Sono
olandesi.»
Zia Marge si aggiusta la dentiera. «E loro sono benestanti, eh,
Jasper, se posso chiedertelo?»
«Possiamo risparmiare il terzo grado a questo poveraccio?»
domanda Dean.
«Oh, a lui non dà fastidio. Non è così, Jasper?» prosegue zia
Marge.
Jasper non sembra infastidito. «I De Zoet di Zelanda li definirei
ricchi, più che benestanti.»
«Benestanti e ricchi non è la stessa cosa?» chiede Shirl.
«I benestanti sanno quanti soldi possiedono. I veri ricchi ne hanno
così tanti da non esserne mai completamente certi.»
«E in tu o questo tua madre dov’era?» chiede zia Marge.
«Mia madre è morta quando sono nato.»
Il volto delle donne si contorce in una smorfia empatica. «Povero
tesoro», commenta zia Marge. «Almeno Ray e Dean la mamma
l’hanno conosciuta. Non averne nessun ricordo dev’essere davvero
dura. Avresti dovuto avvisarci, Dean.»
«Vi avevo de o di non fargli il terzo grado.»
L’orologio di nonna fa cucù se e volte.
«Non possono essere già le se e», dice Elf.
«Buffa cosa il tempo», osserva zia Dot.

Dean aveva quindici anni. Il cancro e la morfina avevano mezzo


spazzato via sua madre. Andarla a trovare nel suo reparto gli
me eva paura, e sapeva che quella paura faceva di lui il figlio
peggiore di tu a l’Inghilterra. La morte rendeva ogni altro
argomento un futile diversivo, eppure come fa chi non sta morendo
a discutere di morte con chi sta per morire? Era una domenica
ma ina. Ray era a Dagenham, suo padre stava facendo gli
straordinari al cementificio, nonna Moss e le zie erano in chiesa.
Dean non aveva mai capito il punto di vista della chiesa. «Dio opera
per vie misteriose» non sembrava diverso da «Testa vinco io, croce
p
perdi tu». Se le preghiere avessero funzionato, sua madre a quel
punto non sarebbe stata in fin di vita. Dean si era portato
all’ospedale la sua Futurama. Quando era arrivato la madre
dormiva, quindi Dean aveva fa o un po’ di pratica a un volume
moderato. Si stava esercitando con un insidioso arrangiamento
pizzicato di «The Tennessee Wal », e, giunto alla fine una voce
fragile aveva de o: «Era bella, tesoro».
Dean aveva alzato lo sguardo. «Mi stavo esercitando.»
L’ombra di un sorriso. «Bravo ragazzo.»
«Scusa se ti ho svegliata.»
«Non c’è modo migliore di essere svegliati.»
«Ne vuoi sentire un’altra?»
«Suonala ancora, Sam.»
Dean aveva quindi rifa o «The Tennessee Wal ». Si era
concentrato sulle note, perdendosi il momento esa o in cui la madre
se n’era andata.

Jasper suona un assolo pirotecnico alla fine di «Smithereens». Elf


con l’Hammond sfodera fasci di accordi incandescenti. Griff fa
partire tuoni e fulmini dalla ba eria. Sono le dita di Dean, non lui, a
suonare i suoi giri di basso, perme endogli di scrutare dall’alto le
duecento e più teste nel retro del Captain Marlow. Adocchia amici che
fanno il tifo per lui, rivali di un tempo che sperano si impappini e
mandi tu o a pu ane, uomini più anziani che vedono nella band
qualcosa che avevano una volta o che avrebbero potuto avere,
giovani in giro a sbronzarsi e a fare due tiri a biliardo, ragazze con
Campari, Babycham e sigare e. Gravesend, pensa Dean, mi hai
preso a pugni in faccia, a calci nelle palle, mi hai de o che ero un
buffone inutile, un idiota, una checca, ma ascolta un po’ gli Utopia
Avenue, maledizione! Stiamo andando alla grande, cazzo, e dietro
quella smorfia, quel ghigno, tu lo sai benissimo.
Ci sarà anche qualche amiche o di Harry Moffat laggiù. Fagli
sapere che faremo saltare in aria questo posto. Jasper arriva alla fine del
primo giro. Dean si dà un’occhiata intorno e, come si aspe ava, vede
Jasper con gli occhi incollati al manico della sua Strato per segnalare
che vuole un altro giro. Gran parte della gente non ha mai sentito dal
g p g
vivo un wah-wah, e Jasper controlla quel pedale in maniera eccelsa.
A enzione, per questo pezzo mi pagheranno i diri i, quindi grazie tante.
Un paio di prove prima, Elf aveva proposto di cambiare le parole da
«All dreams end as smithereens b» in «Smithereens are seeds of dreams c».
Dean le aveva provate, e la canzone da pessimista era diventata
o imista. Jasper aveva suggerito che Elf facesse da seconda voce sul
verso di «seeds of dreams», e tu i nella sala, compreso Pavel Z, si
erano lasciati andare a gemiti di piacere. Nel periodo finale con i
Ba leship Potemkin, Dean aveva rinunciato a proporre le sue
canzoni, non facevano che peggiorarle. Con gli Utopia Avenue
succede il contrario. Il gruppo è una macchina affina-canzoni. Jasper
sta per finire il suo assolo, Dean guarda Griff, che annuisce. Qua ro
ba ute e via… tre ba ute e via… due… una… Elf con un’occhiata gli
sta dando l’okay… poi Jasper si blocca, contano tu i il tempo su un
orologio comune – uno, due, tre, qua ro – e fanno esplodere il finale
in un vortice di molecole percosse, martellate, pizzicate, vibranti…

Gli applausi sono la droga più pura, pensa Dean. Si asciuga la


faccia con una tovaglie a di spugna e dà una buona sorsata alla sua
pinta di Smithwick. «Salute, a tu i quanti.» Gli applausi non
vogliono saperne di interrompersi. In mostra fra il pubblico, si vede
meno vellutino rispe o a un concerto a Londra; ci sono più camicie
in tinta unita, denim, coppole. Il Captain Marlow è un pub di quelli in
cui trovi un po’ di tu o, sia carne sia pesce. Solo un paio di porte lo
separano dal circolo dei lavoratori di Gravesend, ed è il primo pub
di buon livello che gli operai della Blue Circle Cement raggiungono
con la paga in tasca. Ad a irare la gente più alla moda – più alla
moda per i canoni di Gravesend – sono un flipper, un jukebox e
un’esibizione dal vivo due volte al mese. Giù dal palco, su un lato,
accanto a Levon c’è un uomo che Dean non conosce. Se è un suo
fidanzato, conviene che stiano a enti. Gli applausi stanno scemando, si
avvicina al microfono. «Grazie per essere qui, e grazie a Dave e Sylv
per averci invitato.» Fissa il bancone in fondo, dove Dave Sykes, il
proprietario con la faccia da orsacchio o, lo saluta agitando una
mano. «Mi chiamo Dean Moss, sono nato e cresciuto a Gravesend,
quindi se da quando me ne sono andato devo ancora cinque sterline
q q q
a qualcuno, sappia che gliele restituirò dopo il concerto.» Dean
stringe il pirolo del Do: «Basta che prima me ne presti dieci».
Griff fa partire un pssh… ta-bum! come per un numero di cabaret.
«Quindi ecco a voi la band: alle tastiere, Elf Holloway!»
Elf suona con l’Hammond l’inizio della Quinta Sinfonia di
Beethoven.
«Puoi suonare il mio organo quando vuoi, tesoruccio!» grida un
genio.
Elf dà la sua risposta standard: «Devi scusarmi, ma non suono
strumenti gioca olo». Griff fa partire un altro pssh… ta-bum!
«Alla ba eria», prosegue Dean, «dalla Repubblica Popolare dello
Yorkshire: Peter ‘Griff’ Griffin… Per gli amici Griff!»
Applausi. Il ba erista si scatena in una tempesta di percussioni, si
alza e fa un inchino.
«Alla chitarra», dice Dean, «Mister ‘Jasper’ de Zoet!» Jasper suona
con il wah-wah il finale dell’inno «God Save the Queen». Applausi.
«Vorrai dire: Jasper la fatina dei miei coglioni», grida un tizio.
Il chitarrista fa un passo avanti, si scherma gli occhi e scruta la
folla in cerca del guastafeste. «Chi è che mi stava dicendo qualcosa?»
«Quaggiù», il guastafeste alza una mano. «Tagliati quei malede i
capelli.»
Merda, pensa Dean, qui ci scappa un politecnico di Brighton a o
secondo.
Jasper aguzza lo sguardo. «Per poi somigliare a te?»
Aveva de o la prima cosa che gli era passata per la testa, ma era
scoppiato a ridere perfino il guastafeste. Intanto che la situazione è
ancora so o controllo, Dean cerca di fare in fre a.
«La prossima canzone l’ha scri a Jasper. S’intitola ‘Wedding
Presence’. E one e two e one-two-three…»

Vengono poi una vecchia canzone di Dean, «Seemed Like a Good


Idea at the Time», una grintosa e viscerale «Mona Lisa Sings the
Blues», «Green Onions» di Booker T, «Darkroom», e una versione di
dieci minuti di «Abandon Hope». Prima che sia finita, tu a la sala
sta cantando a squarciagola: «I’ll rip-rip-rip your heart out, just like you
ripped mine»; è come se la conoscessero da anni. Poi è la volta di «A
pp
Raft and a River», di una versione alla Animals di «House of the
Rising Sun», di una vigorosa «Any Way the Wind Blows» e di «Day
Tripper» dei Beatles cantata da Elf che trasforma i «lei» del testo in
«lui». Per il secondo bis optano per «Six Feet Under», la canzone più
bella dei Gravediggers, scri a da Dean a diciasse e anni. I due
timori del bassista – che l’impronta trippeggiante delle canzoni di
Jasper si sarebbe persa nel profluvio di birra scura, o che Gravesend
non avrebbe fa o suonare Elf senza darle il tormento
bombardandola di commenti osceni – non si erano trasformati in
realtà. Quando Dave Sykes riaccende le luci del locale, Dean è
sudato, ha la voce roca e i polpastrelli scorticati, ma è su di giri per
via del concerto. Lui, Jasper, Elf, Levon e Griff si radunano all’istante
accanto alla ba eria in una mischia chiusa tipo rugby.
«Abbiamo fa o fuoco e fiamme, cazzo!» esclama Griff.
«Puoi dirlo forte», dice Elf.
«Abbiamo fa o fuoco e fiamme, cazzo!» urla il ba erista dello
Yorkshire.
«Questa ba uta è talmente vecchia», dice Elf.
«Sensazionali», interviene Levon. «Succederà qualcosa. È
impossibile suonare così bene senza che si sparga la voce.»
Spero davvero che sia così, pensa Dean.
«Tocca a te, Jasper», dice Elf.
Tu i lo guardano. «Tocca a me cosa?»
«Dire come ti senti, maledizione, bru o invertito», sbraita Griff.
Jasper rifle e. «Mi sembra che stiamo… migliorando?»

Il loro circolo di cinque persone viene investito e disperso dal


resto del mondo. «Mi sa che quelle cinque sterline potrai
restituirmele molto presto», dice Kenny Yearwood.
«Credimi», riba e Dean, «non sto più nella pelle.»
«Se ti avesse visto mamma», dice Ray. «Sarebbe stata così
orgogliosa.»
«Lei ha visto tu o, caro», commenta zia Marge pizzicando una
guancia a Dean.
Gli incontri con ex compagni di scuola, insegnanti e gente dei
vecchi tempi continuano fino a quando, dopo un paio di pinte, gli
p q p p p g
compare davanti una ragazza. «Non puoi ricordarti di me», inizia a
dire, «ma…»
«Jude. Del politecnico di Brighton. Hai prestato una chitarra a Elf.
Come va?»
Sembra compiaciuta. «Devono farvi un contra o. Subito.»
«Ho scri o a Babbo Natale», dice Dean. «Incrociamo le dita.»
«È solo luglio. Ma tu hai fa o il ca ivo o hai fa o il bravo?»
Sta flirtando. «Come sta Gaz? Si chiamava così, vero?»
«Non lo so e non m’interessa saperlo.»
Dio sia lodato. «Non hai idea di quanto mi dispiaccia sentirtelo
dire.»
«Già, ci scomme o.»
Dean respira il suo profumo. «Cosa ci fai qui a Gravesend?»
«A mio fratello piace la musica che fanno in questo posto, ed è
stato lui a dirmi che suonava un gruppo di nome Utopia Avenue. Mi
si sono drizzate le orecchie ed eccoci qui.»
«Mi sorprende che ti sia presa la briga di venire, dopo l’ultima
volta.»
«Non sarei mancata per niente al mondo.»
Alle spalle di Jude compare di bo o Shanks. Gli fa segno che
devono andare.
Dean gli fa segno invece che ha bisogno di altri due minuti. «Io e
Jasper dormiamo da un amico. Ti va di…»
Gesù Gesù, dicono le sopracciglia alzate di Jude. «Un passo alla
volta, Speedy Gonzales. Mio fratello sta per riaccompagnarmi a
Brighton. Ho trovato lavoro come parrucchiera. Ma…» sventola un
pezzo di carta piegato, «se sei libero» ed è come se dicesse: Se non
vedi nessuna, «questo è il mio numero del lavoro. Meglio che fingi di
essere un cliente, altrimenti il mio capo sospe erà qualcosa. Sappi
anche che l’ho scri o su un foglio alla Mission Impossible, e che
quindi si polverizzerà fra quaranto o ore.» Gli apre la giacca, infila il
foglio e gli dà un bace o su una guancia. «Chiama. O te ne pentirai.
A parte gli scherzi… il gruppo è eccezionale. Diventerete famosi.»

Shanks prende il bocchino fra le labbra e il fumo si avvolge a


spirale prima nel collo del narghilè – calderon gorgoglia, fatica e doglia
p p g g g g f g
– poi nei suoi polmoni ben rodati… e infine fuori, in una nuvola a
forma di cavolo.
«Questa roba è legale?» chiede Kenny.
Shanks mima la bilancia della Giustizia. «L’a rezzo sì. Il cocktail
erbaceo nel braciere potrebbe invece far innervosire gli sbirri. Pago
l’assicurazione.» Cala un vivido e prolungato silenzio. Jim Morrison
sta cantando qualcosa a proposito della Fine. «Ehi, Deano, te la stai
godendo?»
«Molto», dice Dean. Prende la punta del bocchino e lo strizza fra
le labbra come un capezzolo, pensa a Jude… Tira forte, fai tante belle
bolle, eccolo che arriva, ora tienilo dentro… Poi lo lascia uscire. «È… È
come…» Stasera non mi vengono le parole. «Essere alla ati e insieme
levitare.»
Suo fratello Ray è scosso dalle risate. Senza eme ere alcun suono.
«Tu e Jasper», dice Kenny, «siete come una coppia sposata.»
La faccia di Jasper mentre ci rifle e ricorda a Dean quella di Stan
Laurel. «Speriamo di non arrivare a quel punto.» Tira dal bocchino.
Il narghilè non è affa o una novità per il chitarrista. Jasper viveva ad
Amsterdam.
«Ad Amsterdam potrebbero apprezzarci?» gli chiede Dean.
Le parole di Jasper riverberano con un po’ d’anticipo. «Prima
abbiamo bisogno di un contra o discografico. Altrimenti per noi ci
sarebbe solo l’ora del dile ante.»
Il nostro contra o discografico è in fondo all’arcobaleno. Dean si sente
perso nello spazio, ha bisogno di ritrovare l’orientamento.
L’appartamento di Shanks è sopra il suo negozio, il leggendario
Magic Bus. No e fonda. Chi è chi? A parte lui ci sono Shanks the
Shanks, la sua amica Piper, il fratello Ray, Kenny Yearwood, Jasper e
una ragazza che è spuntata subito dopo il concerto con proge i
piu osto evidenti su Herr De Zoet. Dice di chiamarsi Ivy. Se ne
stanno immobili tu i e sei. Un Rembrandt. Visto? L’arte la conosco.
Dipinto dalle pennellate di una candela sull’incombente fondo
scuro…

…finché Shanks disperde l’incantesimo di Rembrandt con uno


sfarfallio di parole. «Stasera voi qua ro eravate una cosa a parte,
p q p
niente a che vedere con questo mondo folle! Presto, uno di questi
giorni, potrò dire ad alta voce: ‘Ma certo, io e Dean Moss ci
conosciamo da una vita, abbiamo visto insieme Li le Richard, sono
stato io a insegnargli i primi accordi…’ Quelle canzoni! ‘Darkroom’,
‘Smithereens’, ‘Mona Lisa’… potrebbero essere tu e dei successi.
Non sei d’accordo, Piper?»
«A Sea le, le radio si leccherebbero le dita.»
«Spero succeda in fre a. Non ho nemmeno gli occhi per
piangere.»
Jasper non li sta ascoltando. Al suo orecchio sta sussurrando
qualcosa Ivy, Ivy, Ivy. Il chitarrista lancia un’occhiata a Shanks, che
gli legge nel pensiero. «In fondo al corridoio, ragazzi, c’è la stanza
per gli ospiti. A disposizione c’è solo un le o singolo. Oserei dire che
può tornarvi utile.» Ivy se ne va alla maniera dei ga i, dissolvendosi
nell’ombra. Dean controlla che il numero di Jude sia al sicuro. È
ancora qui, nella giacca.
«Amico», fa presente a Jasper fratello Ray, «sono colpito. Il mio
uccello è andato per il fumo quanto me.» Jasper fa spallucce.
«Un avvertimento», salta su Kenny, «un fa o scientifico. Le
ragazze di Gravesend sono ovuli a due zampe, basta starnutirci
sopra e di colpo hanno un ritardo di tre mesi. A quel punto la
famiglia ti bu a giù la porta chiamandoti in coro papà. Il nostro Ray,
qui, sa di cosa parlo.»
Ray mima un cappio, poi prende il sacro bocchino e… un lembo
fumoso dopo l’altro espelle un genio. «Vedi di me erti il coso. Sei
venuto qui preparato, spero, no?»
Jasper fa il saluto scout e raggiunge Ivy.
«E tu? Non hai nessuna in questo periodo?»
Piper si lascia trascinare via dalla corrente. «Be’, credo che qua a
qua a mi ritirerò, ragazzi, vi risparmio i miei rossori da verginella.
Ci vediamo doma ina.»
Dean lo sballone fa un altro tiro. Tira forte, tante belle bolle, tienilo
dentro e bu a fuori. Spera che nel fra empo siano passati a un altro
argomento.
«E tu?» gli sta chiedendo Ray. «Non hai nessuna in questo
periodo?»
p
Qualsiasi cosa per un po’ di quieto vivere. «Niente di che. Al
matrimonio della sorella di Elf c’era una ragazza della St John Wood.
Siamo stati da lei un fine se imana. Per giugno questo è tu o.»
«Fortunello che non sei altro», dice Kenny. «Tracy non fa che
dirmi: ‘Niente anello di fidanzamento, niente sesso… Sono stata
abbastanza chiara?’ Dovrei lasciarla adesso, ma suo padre è il mio
capo. È un incubo, cazzo, da qualsiasi punto di vista.»
È il turno di Ray: «Alcuni giorni sono buoni. Mi piace essere un
padre. Il più delle volte succede quando Wayne sta dormendo. Ma
Shirl è una vacca lunatica, praticamente sempre. Vedevo più gnocca
quando ero single. Ogni giorno che passa diventa sempre più simile
a sua madre. Il matrimonio è una prigione costruita dai carcerati. Sei
d’accordo con me, Shanks? Tu per il tritacarne ci sei passato due
volte».
Shanks rinfila il disco dei Doors nella copertina e me e i Velvet
Underground. «Il matrimonio è come un’ancora, ragazzi miei. Ti
impedisce di andare alla deriva contro gli scogli, ma al tempo stesso
ti impedisce di viaggiare.»
La prima traccia del lato A, «Sunday Morning», risucchia Dean.
Nico è un filo stonata, ma per quella canzone va benissimo.
Ray si raddrizza e chiede: «Ed Elf con chi si vede?»
Dean è troppo rilassato per rispondere. Ray gli assesta un calcio
su un piede. «Elf con chi si vede?»
Il bassista solleva la testa. «Con un certo proiezionista di Leicester
Square.»
«E tu o Griff», chiede Kenny, «non lo avete mai fa o un
assaggino?»
«Un assaggino di Elf? Gesù, Kenny, no. Sarebbe come sba ermi
tua sorella.»
Ora è Kenny a me ersi seduto. «Cosa? Quand’è che ti sei sba uto
Jackie?»

L’incantesimo del narghilè sta svanendo. Dean resta sdraiato sul


tappeto turco di Shanks. Ricorda quello che gli aveva de o suo
padre: «Sei rimasto con tua nonna abbastanza tempo. È ora che torni
a casa». E a nonna Moss aveva de o: «Grazie per tu o quello che hai
p q
fa o, ma Dean deve stare con me. Tua figlia Vi sarebbe d’accordo,
che Dio la benedica». Chi avrebbe potuto obie are qualcosa? Dean
era tornato a casa il giorno di Capodanno. La madre era morta in
se embre. Via via che l’inverno si trasformava in primavera, la lista
di lavore i che era tenuto a fare si allungava. Cucinare, fare la spesa,
pulire, lavare i panni, stirare, lucidare le scarpe. Prima tu e quelle
cose le faceva sua madre. «Il mondo non ti deve nulla, e io
tantomeno.» A Harry Moffat era sempre piaciuto farsi qualche
bicchiere, ma vederlo bere una bo iglia al giorno di Morning Star,
una pessima vodka da due soldi, era sconvolgente. Nessuno lo
avrebbe sospe ato, non i vicini, non al lavoro. Lui era il solito
quando era fuori di casa: per tu i era ancora un affascinante
bellimbusto. Ma in Peacock Road le cose andavano di male in
peggio. Gli aveva imposto delle regole. Regole impossibili. Regole
che continuavano a cambiare. Quando Dean era in giro, allora stava
solo ciondolando. Se stava in casa era perché aveva il culo pesante.
Quando non parlava, era un musone del cazzo. Quando parlava, era
una boccaccia insolente. «Hai voglia di fare a bo e? E allora colpisci,
forza. Avanti. Vediamo che succede.» Dean non aveva mai osato. Il
padre lo aveva incastrato recitando la parte del nobile vedovo, ma
ogni giorno Dean era costre o a bu are le bo iglie vuote in un
bidone diverso. Anche rispondere al telefono era un dovere di Dean,
così quando il padre era sbronzo marcio gli toccava dire che era
appena uscito. Faceva ciò che andava fa o, esa amente come sua
madre. A Ray mentiva. «Sì, non mi lamento, e a Dagenham come
va?» Cos’avrebbe potuto fare Ray, d’altra parte? Abbandonare il suo
apprendistato? Cercare di far ragionare quell’uomo? Se la voce della
ragione funzionasse con gli alcolizzati, gli alcolizzati non
esisterebbero. Ma quando Dean aveva iniziato la scuola d’arte,
qualcosa doveva per forza succedere…

Era la no e dei falò. Aveva sedici anni. Tornando a casa dopo una
festa con tanto di fuochi d’artificio a Ebbsfleet, aveva trovato il padre
al tavolo della cucina, concentrato sul Mirror. La bo iglia quotidiana
di Morning Star era vuota. «’Sera», si era limitato a dire Dean.
«Il ragazzo si è meritato un premio.»
g p
Scostando le tende della cucina, Dean aveva notato un piccolo falò
in cortile, nell’inceneritore in cui il sabato di solito bruciavano
spazzatura, foglie ed erbacce. Quel giorno però era un venerdì. «Hai
bruciato della roba, vedo.»
«C’era della vecchia merda che andava bruciata.»
«Be’, buonano e, allora.»
Il padre di Dean aveva girato la pagina del quotidiano.
Dean era andato di sopra, in camera sua, e una volta lì aveva
preso a o delle assenze strazianti, una via l’altra, come pugni nello
stomaco. La sua chitarra Futurama. Il suo giradischi Danse e. I suoi
manuali Impara da solo a suonare la chitarra. La foto autografata di
Li le Richard. Aveva sentito il crepitio del falò. Si era precipitato giù
per le scale, aveva superato il colpevole ed era corso fuori nell’aria
gelida per vedere che cosa poteva ancora salvare…
Il falò bruciava che era una meraviglia.
Restava solo la tastiera della chitarra, la vernice faceva le bolle. Le
fiamme purpuree lambivano il manico. Del giradischi non rimaneva
che il perno centrale e un po’ di bachelite annerita. I libri erano veli
di cenere. La foto di Li le Richard con l’autografo era
completamente andata. Il padre di Dean aveva aggiunto al tu o un
po’ di carbonella e diavolina. Le fiamme purpuree arrostivano il
volto di Dean. Era un fumo oleoso, tossico.
Era tornato dentro casa. «Perché?» gli tremava la voce.
«Perché cosa?» Lo sguardo del padre era ancora puntato sul
giornale.
«Perché l’hai fa o, che senso ha?»
«Fino a oggi sei stato un froce o capellone scansafatiche con una
chitarra. Adesso sei solo un froce o capellone scansafatiche. E
questo», il padre di Dean aveva sollevato lo sguardo, «è un passo
avanti nella giusta direzione.»
Dean aveva recuperato lo zaino e ci aveva stipato nove LP, venti
quarantacinque giri, una confezione di corde di chitarra, i biglie i di
buon compleanno della madre, i suoi vestiti migliori, le scarpe di
coccodrillo stampato, un album di foto e il quaderne o su cui
scriveva le canzoni. Aveva salutato la sua vecchia stanza per l’ultima
volta ed era sceso. Prima che potesse sbloccare il chiavistello, si era
p
sentito scaraventare a terra nel corridoio. Mentre cadeva, aveva
sba uto l’orecchio contro lo stipite di una porta. Sentiva i passi sul
linoleum avvicinarsi. Era scivolato lungo lo stipite, ma si era rimesso
in piedi.
«E adesso? Vuoi rinchiudermi qui dentro?»
«Nessuno dei miei figli è uno strimpellone finocchio con la testa
fra le nuvole.»
Dean aveva fissato quegli occhi duri e li aveva odiati. Possibile che
fosse suo padre? Era la vodka a parlare?
«Hai ragione da vendere, Harry Moffat.»
«Cosa?»
«Io non sono tuo figlio. Tu non sei mio padre. Me ne vado.
Subito.»
«Stai abbaiando al vento. È ora che la sme i di trastullarti con
arte, musica e stronzate del genere e ti trovi un lavoro vero. Come ha
fa o Ray. Io ti avevo avvisato, ma adesso, adesso… sono passato
all’azione. Un giorno mi ringrazierai.»
«Ti ringrazio subito. Mi hai aperto gli occhi, Harry Moffat.»
«Ridillo un’altra volta, una sola, e perdio te ne pentirai.»
«Cos’è che non devo ridire, Harry Moffat? Che Io-non-sono-tuo-
figlio oppure…»
La mandibola di Dean aveva fa o crac, il cranio aveva colpito la
parete e c’era stato un tonfo, il corpo che cascava sul linoleum. In
bocca aveva il sapore del sangue. Il dolore alla testa e alla mandibola
pulsava al ritmo del polso. Aveva alzato lo sguardo.
Harry Moffat lo osservava dall’alto. «Lo vedi cosa mi hai fa o
fare?»
Dean si era rialzato e si era controllato la bocca allo specchio. Un
taglio sul labbro, sangue, una gengiva in pappa. «Era questo che
dicevi alla mamma quando la pestavi, eh? Lo vedi cosa mi hai fa o
fare?» Il sorrise o beffardo di Harry Moffat era sparito. «Non ci sono
segreti a Gravesend. Lo sanno tu i. Ecco Harry Moffat, ba eva sua
moglie come un tappeto, si è beccata il cancro e adesso è morta. Non te lo
dicevano in faccia. Ma sapevano.»
Dean aveva sganciato la catenella della porta e si era avviato nel
buio no urno di novembre.
«Con te ho chiuso!» aveva gridato Harry Moffat. «Mi hai sentito?»
Lui aveva continuato a camminare. Le tende sba evano
contorcendosi. Peacock Street odorava di brina e di fuochi d’artificio.

A se e anni da allora e a mezzo chilometro da quella casa, Dean si


risveglia con il rumore della pioggia e Kenny che ronfa sul divano.
Qualcuno gli ha sistemato un cuscino so o la testa. Ray sta
dormendo in poltrona. Intorno al narghilè ci sono bicchieri, bo iglie,
posacenere, gusci di arachidi e carte da gioco. Cammina in punta di
piedi fino alla cucina e si riempie una tazza d’acqua. Rispe o a
quella di Londra, l’acqua di Gravesend sa meno di sapone. Si siede al
tavolo sgranocchiando un cracker Jacob’s. Da una mensola in alto,
una pianta, un falangio, stende le lunghe foglie sull’arazzo di un dio
con la testa da elefante e su una foto di Shanks e Piper in un’assolata
località straniera. Il luogo più lontano da Gravesend in cui Dean
fosse mai stato era Wolverhampton, per un concerto dei Ba leship
Potemkin. La sua fe a di guadagni ammontava a meno di una
sterlina: avrebbe guadagnato di più suonando per strada a Hyde
Park Corner. E se gli Utopia Avenue fossero un buco nell’acqua? Ieri sera
ce la siamo cavata bene, ma è stato come giocare in casa… Se invece non
piacessimo a nessuno? Da Queen Street i te i digradano sino al fiume.
I rimorchiatori stanno trascinando un mercantile fuori dal molo di
Tilbury. Non appena la sezione centrale del mercantile oltrepassa
l’ospedale lungo il fiume, il nome si rivela a Dean una le era alla
volta: STAR OF RIGA .
La Gibson acustica di Shanks è appoggiata a una sedia davanti a
lui. Dean l’accorda, e accompagnato solo dal tamburellare della
pioggia e dai propri pensieri lascia che le dita la strimpellino e la
pizzichino liberamente…
«È vostro?» Ray è fermo sulla porta della cucina di Shanks.
Dean alza lo sguardo dalla chitarra. «Che?»
«Questo pezzo.»
«Stavo solo cazzeggiando.»
Ray beve un po’ d’acqua. «Zia Marge aveva ragione, mamma
sarebbe così fiera. Direbbe: Ma certo, dei due l’artista è sempre stato
Dean.»
«È di te che mamma sarebbe fiera. ‘Ma certo, dei due quello serio
è sempre stato Ray.’ E poi vizierebbe Wayne da fare schifo.»
Ray si siede. «Tu e papà avete intenzione di seppellire l’ascia di
guerra prima o poi?»
Dean fa partire un suono metallico e distorto. «È lui che ha
impugnato l’ascia per primo.» Un rivolo di pioggia scivola lungo la
finestra. «Per me Bill è stato più di un padre. E anche tu. E Shanks.»
«Non sto cercando di giustificarlo, ma ha perso tu o.»
«Ne abbiamo già discusso, Ray. ‘Colpa della vodka’, ‘Anche suo
padre prendeva a schiaffi lui e la madre’, ‘Ha a raversato le pene
dell’inferno quando ha visto morire mamma’, ‘Rifiutarsi di
chiamarlo papà è segno di un rancore infantile che mi fa soffrire
terribilmente’. Mi sono dimenticato qualcosa?»
«No. Ma sappi che se lui potesse far risorgere dalle ceneri la tua
chitarra, lo farebbe.»
«E questo te l’ha de o lui, giusto?»
Ray fa una smorfia scocciata. «Non è il tipo che parla di ciò che
prova.»
«Basta. Non è rancore il mio, ma una semplice conseguenza. Se tu
vuoi che sia presente nella tua vita, benissimo, buon per te, è una tua
scelta. Ma io nella mia non ce lo voglio. La mia decisione è questa.
Fine della storia, davvero… basta.»
«Le persone della sua età possono cadere stecchite di colpo, e
succede. Specialmente quando il loro fegato è fo uto. La morte non
firma tra ati di pace. E poi è comunque tuo padre.»
La morte non firma tra ati di pace, bella frase. «Geneticamente e
legalmente sì, lui è mio padre. Ma in qualsiasi altro senso no. Io ho
un fratello, un nipote, nonna, Bill, due zie, però un padre non ce
l’ho.»
Ray si abbandona a un lungo sospiro. I tubi gorgogliano.
In corridoio, il telefono di Shanks si me e a squillare.
Dean non va a rispondere. Shanks ha le mani in pasta un po’
dappertu o, a chiamarlo potrebbe essere chiunque. La porta della
camera del padrone di casa si apre, i suoi passi risuonano pesanti nel
corridoio. «Sì?» C’è una lunga pausa. «Sì, è… Sì… Chi devo dire?»
g p
Shanks spunta in cucina. «Dean, ragazzo. È il tuo agente.»

«Levon? Come lo sapevi che ero qui?»


«Arti occulte. Con te c’è anche Jasper?»
«Più o meno. È con una ragazza.»
«Ho bisogno che tu i e due veniate subito in Denmark Street.»
«Ma è domenica ma ina.»
«Lo so. Griff ed Elf stanno già arrivando.»
Tira aria di ca ive notizie. «Cos’è successo?»
«Victor French, questo è successo.»
«Chi è Victor French?»
«Uno scout della Divisione artisti e repertorio per conto della Ilex
Records. Ieri sera era al Captain Marlow. Vuole ingaggiare gli Utopia
Avenue.»
Vuole ingaggiare gli Utopia Avenue. Cinque piccole parole.
Ho un futuro, dopotu o. Il corridoio di Shanks è in ascolto.
«Pronto?» Levon suona impensierito. «Ci sei ancora?»
«Ci sono», dice Dean. «Ti ho sentito. Questo è… Porca pu ana.»
«Aspe a a comprarti una Triumph Spitfire, per il momento.
Victor ha messo sul pia o un’offerta per tre quarantacinque giri.
L’album verrà poi, se, e dico se, crescerà la curiosità nei vostri
confronti. La Ilex non è fra le qua ro etiche e di punta, ma la loro è
un’offerta di tu o rispe o. Per il gruppo essere un pesce di media
taglia in un piccolo stagno potrebbe andare meglio che essere un
girino in un lago. Victor voleva farvi firmare già ieri sera, ma ho
insistito per un compenso maggiore e gli ho de o che anche la EMI
stava sondando il terreno. Stama ina ha chiamato il suo capo ad
Amburgo per avere il via libera e lui ha risposto sì.»
«Non ci avevi de o che il concerto di ieri sarebbe stato un
provino.»
«Nessun manager che si rispe i lo avrebbe fa o. Adesso vestiti,
recupera Jasper, salite sul primo treno per Charing Cross e
raggiungete la Moonwhale. Prima della riunione alla Ilex domani,
dobbiamo discutere alcuni de agli.»
«D’accordo, ci vediamo presto allora. E… grazie.»
«Non c’è di che. Ah, Dean…»
«Sì?»
«Congratulazioni. Ve lo siete meritato.»
Dean riaggancia. Il telefono eme e un tintinnio.
Abbiamo un contra o, cazzo!
«Cosa succede?» Il fratellone di Dean sbuca dalla cucina, sembra
quasi preoccupato. «Ti senti bene? Hai un’aria da funerale.»

La te oia della banchina gocciola. L’entrata della galleria gocciola.


Segnaletica, cavi e cartelli gocciolano. I piccioni tubano sulle travi
gocciolanti della gocciolante passerella. La banchina è un arcipelago
di chiazze umide fra una pozzanghera e l’altra. Il piede destro di
Dean è fradicio. Dovrà riportare le scarpe dal calzolaio. No, si rende
conto d’un tra o. No che non devo. Entrerò da Anello e Davide in
Covent Garden e dirò: «Salve, sono Dean Moss, suono negli Utopia
Avenue, abbiamo appena firmato per la Ilex Records, sarebbe quindi così
cortese da mostrarmi le scarpe migliori che avete in vendita, maledizione?»
Gli scappa da ridere.
«Cosa c’è di divertente?» chiede Jasper.
«La mia mente continua a divagare, per un a imo è come se me
ne dimenticassi, poi penso: Ma com’è che mi sento così alla grande?
E allora mi ricordo: Ah, sì, giusto, abbiamo un contra o! e a quel
punto fa di nuovo tu o bum!»
«È una buona notizia», concorda Jasper.
«Il West Ham che vince tre a zero contro l’Arsenal è una ‘buona
notizia’. Avere un contra o è una notizia… da orgasmo. E tu l’hai
perfino ricevuta al culmine di un orgasmo vero e proprio. Dovresti
essere in estasi.»
«Immagino di sì.» Jasper apre il suo pacche o di Marlboro. «Le
ultime due.»
Le accendono. «Ho un po’ paura di risvegliarmi sul pavimento di
Shanks e scoprire che è solo un sogno da narghilè», dice Dean.
Jasper allunga una mano. Le gocce di pioggia si infrangono sul
palmo. «Questa pioggia non può essere un sogno. Troppo bagnata.»
«Sei un esperto in materia, eh?»
«Sfortunatamente sì.»
Dean guarda le rotaie che portano a Londra. Pensa alle volte in
cui, anni prima, ha fissato quelle stesse rotaie, quando portavano a
un futuro indefinito. Gli piacerebbe spedire un telegramma indietro
nel tempo: Ti fregheranno, ti deruberanno e ti cacceranno, ma poi ci
saranno gli Utopia Avenue. Resisti. Le rotaie si me ono a vibrare. «Ecco
il treno.»

Dean e Jasper trovano posto accanto al finestrino. Dean guarda in


fondo alla banchina, verso la sala d’a esa per i treni dire i a est, e
accanto al vetro vede seduto Harry Moffat. Sta leggendo un giornale.
Prima che Dean possa nascondersi, Harry Moffat alza gli occhi e gli
restituisce lo sguardo. Nello sguardo non c’è malizia, non c’è
condanna, non c’è sarcasmo, non c’è disperazione, non c’è supplica. È
semplicemente un: Sì, ricevuto, come un centralinista che deve
passare una telefonata. Moffat non può essersi organizzato in
anticipo per vederlo. Fino a dieci minuti prima nemmeno Dean
sapeva che avrebbe preso quel treno. Ma perché mai Harry Moffat si
me erebbe in viaggio verso Margate in un’uggiosa domenica
ma ina di luglio? Una vacanza? Harry Moffat non va in vacanza.
Harry Moffat si rime e a leggere il giornale e… da quell’angolazione
Dean non può più giurare che si tra i davvero di lui. Dopotu o ci
sono due piovose vetrate e una piovosa ventina di metri a separarli.
La somiglianza è innegabile – gli occhiali, la postura, i capelli neri e
folti, ma… potrebbe anche non essere lui. Il treno dire o a Londra si
anima, sobbalza, parte. L’uomo nella sala d’aspe o non solleva più
lo sguardo.
«Che succede?» chiede Jasper.
La stazione di Gravesend scivola via, nel passato.
«Niente, qualcuno che pensavo di conoscere.»

a. Fiamme purpuree.
b. Tu i i sogni finiscono in frantumi.
c. I frantumi sono semi di sogni.
Unexpectedly a

Nell’auto parcheggiata di Levon faceva caldo, non c’era aria. Dopo


aver sbadigliato, Elf stava controllando il trucco nel suo specchie o.
Può andare. «Oggi è giovedì?» Una betoniera ruggiva a poca
distanza, rimescolando fumo e polvere.
«Venerdì.» Dean era sdraiato dietro con il quaderno aperto sul
pe o. «Stasera c’è Oxford. Domani Southend. Non guardare fuori:
sta passando una ‘lovely Rita meter maid’ b.» Una vigilessa li aveva
superati esaminando il parchimetro. Dean l’aveva salutata: «Bella
giornata, eh?» Lei non aveva replicato.
Elf aveva sbadigliato di nuovo. «L’ultima volta in cui io e Bruce
abbiamo suonato a Oxford, uno studente ci ha accusato di depredare
il proletariato delle sue canzoni. Bruce gli aveva de o che era nato in
un posto in cui per andare al cesso doveva a raversare una boscaglia
infestata dai serpenti, e che quindi un ragazze o iscri o a Oxford
poteva anche baciargli il culo.»
«Mmh.» Dean non la stava ascoltando ed Elf si era chiesta che
cosa stesse facendo Bruce in quel momento.
Chi se ne importa? Ho trovato Angus. «Dunque Oxford è stasera. E
domani Southend.»
«Domani Southend, sì.»
«Ci hai mai suonato da quelle parti?»
Dean aveva appena scri o qualcosa sul quaderne o. «Una volta,
sì. Con i Ba leship Potemkin, allo Studio di Westcliff. Un sacco di
mod. Ci odiavano, spero che non mi riconoscano.»
Elf aveva acceso l’autoradio, c’era «Even the Bad Times are Good»
dei Tremeloes. «Ma perché questa canzone è al quindicesimo posto
in classifica e ‘Darkroom’ non è da nessuna parte? È solo
spazzatura.»
p
«La passano e la ripassano alla radio. La parte al piano non è
male.»
«Ma perché non passano noi alla radio? Il piano in ‘Darkroom’ è
grandioso.»
«Se lo dici tu.»
«Lo dico eccome.»
«È un po’ come la storia dell’uovo e della gallina. Se non scaliamo
le classifiche, non ci passano alla radio. Ma se non ti passano alla
radio, non entri in classifica.»
«Come ci riescono le altre band?»
Dean si era appoggiato il quaderno sul pe o. «Se la fanno con i
DJ. Hanno una casa discografica abbastanza ricca da foraggiare le
stazioni radio. Scrivono una canzone talmente irresistibile che in
pratica si suona da sola.»
Elf aveva cambiato frequenza, c’erano le ba ute finali del più
grande successo dell’estate. Il DJ le aveva fa e sfumare: «Sco
McKenzie sta sempre andando a San Francisco e ha ancora i fiori tra
i capelli. Siete sintonizzati sul Bat Segundo Show di Radio Bluebeard
sui 198 kHz, gentilmente offertovi dal nostro sponsor Dental-dazzle
Gum, ora disponibile nei gusti tripla menta e fru a. È il momento
per un altro pezzo forte dell’estate: ‘I Was Made to Love Her’. E non
lo siamo un po’ tu i, Mister Wonder, fa i per amare una lei?»
Elf aveva spento la radio e aveva sospirato.
«Cosa c’è che non va in Stevie Wonder?» aveva chiesto Dean.
«Ogni volta che non trasme ono noi mi sento male.»
Dean aveva svitato il tappo del suo thermos e si era riempito una
tazza d’acqua fresca. «Sete?»
«Ho la gola arsa. Da che parte hai bevuto?»
«Non ne ho idea.» Dean le aveva passato la tazza a raverso la
fessura fra i sedili. «Che vuoi che sia un po’ di herpes labiale fra
membri della stessa band?»
«Da quand’è che sei un esperto di herpes labiale?»
«No comment.»
Elf aveva bevuto. Un ragazzo e una ragazza li avevano superati su
uno scooter. «Com’è che Jasper e Griff sono di nuovo scampati a una
di queste visite di cortesia?»
q
Dean aveva sbuffato dal naso. «Griff è così sgarbato che Levon
non osa mandarlo. Jasper nemmeno, perché sembra drogato.»
«Quindi io e te veniamo puniti per essere educati e sani di
mente?»
«Per quanto mi riguarda, preferisco queste visite di cortesia
insieme a te piu osto che starmene bloccato con Griff nel ventre
della Belva a portare in giro l’a rezzatura.»
Era ora di pranzo, e una signora con una pale a si era piazzata
vicino alle strisce pedonali per aiutare un serpentone di bambini ad
a raversare la strada.
La punta della penna di Dean graffiava il quaderne o.
«Stai scrivendo le parole di quella canzone?» gli aveva chiesto Elf.
«Quando tu non mi fai domande, sì.»
«Posso dare un’occhiata? Sono mooolto annoiata…»
Dean aveva ceduto e le aveva allungato il quaderno.

Fireworks split the sky at night


A hundred rockets screamed and fell.
You swung the axe with all your might
At my guitar and gave it hell.

My record player was next to catch


It. Li le Richard had to pay.
You poured on paraffin, one match
Lit – awop-bop-a-loola-awop-bam-bay c

Elf aveva sorriso e Dean le aveva chiesto: «Cosa c’è? Cos’hai?»


«Bel pezzo. Quello di ‘Awop-bop-a-loola’.»
Dean era sollevato. «Cosa ne pensi di…»
«Shh. Fammi finire di leggere.»

Hope that bonfire in the garden


Still burns purple in your eyes,
Still turns my future into carbon,
Still smoulders, your November prize.
«Don’t dream bigger than I do.
You are what I say you are.
You’ll do what I tell you to.» Go
Tell your friend, the morning star. d

«Una radiografia dell’anima», aveva commentato Elf. «È su tuo


padre?»
«Be’, non esa amen… più o meno… Sì.»
«L’hai già trovato un titolo?»
«Stavo pensando a ‘Still Burning’.»
Non è granché, aveva pensato Elf mentre leggeva i versi.
«Non ti piace? Te n’è venuto in mente uno migliore?»
Elf continuava a rileggere i versi. «Che ne diresti di ‘Purple
Flames’?»
Dean ci aveva pensato su. Un tir era passato rombando.
«È un tetrametro trocaico, vedo.»
«Per quello mi hanno prescri o una pomata. Dopo la scomparsa
dei sintomi non si può comunque fare sesso per una se imana.»
Elf si era messa a tamburellare sulla pagina. Dum-da dum-da dum-
da dum-da. «Hope that bon fire in the garden. Ogni ‘dum-da’ è un
trocheo. Anche la parola ‘trocheo’ è un trocheo, il che dimostra
quanto ai Greci piacesse strafare. La parola giambo, che invece è un
‘da-dum’, è a sua volta un giambo. Ogni tuo verso è composto da
qua ro trochei – a parte alcuni pezze i un po’ rigidi – quindi è un
tetrametro trocaico.»
«Allora è questo che imparate nelle scuole da ricchi.» Dean si era
ficcato in bocca una caramella alla fru a e gliene aveva offerta una.
Elf l’aveva acce ata. Limone. «Nelle scuole da ricchissimi, come
quella che ha fa o Jasper, si impara la metrica latina e greca. Non
solo l’inglese.»
«Nelle scuole merdosissime, tipo la mia, si impara a fumare, a
bigiare, a sfangarsela e a rubacchiare.»
«Competenze fondamentali per lavorare in Gran Bretagna.» Elf si
era messa a rileggere il testo con la saliva al limone che le inondava
la bocca. «Niente ritornello, niente bridge?»
«Non sono sicuro che ce ne sia bisogno. Se una radiografia
dell’anima avesse un ritornello acca ivante, sarebbe ancora una
radiografia dell’anima?»
«Tell your friend, the morning star. Questo verso è isolato.»
«La vodka Morning Star, la stella del ma ino, era la prima fonte
di nutrimento di Harry Moffat.»
Quando si parlava di padri, Dean tendeva a cambiare argomento,
ma Elf aveva sentito che in quella porta sbarrata si era appena aperto
uno spiraglio. «Se prima o poi si rifacesse vivo con te e se, per
esempio, dovessimo incidere quella canzone… come ti regoleresti?»
Dean non aveva risposto niente per un po’. «A Gravesend l’ho
visto di sfuggita, di tanto in tanto. Seduto dal barbiere. Al mercato.
Mentre aspe ava il treno. Il punto però è che l’ho cancellato. Ed è
stato incredibilmente facile. Dopo quella no e dei falò», indica con
un cenno del mento il quaderne o, «non abbiamo più parlato.
Neanche una volta.»
«E quando si sono sposati Ray e Shirl?»
«Ray ha fa o in modo che in municipio ci fosse Harry Moffat, e
che alla festa di nozze ci fossi io. Non ci siamo mai incrociati. È
andata bene.»
Elf aveva guardato ancora il testo. «Queste parole non sono un
ramoscello di ulivo, ma un messaggio: ‘Tu esisti, e io penso ancora a
te’. Se per te fosse morto e sepolto, in effe i, perché scriverne?»
Dean aveva scrollato la cenere della sigare a fuori dal finestrino.
Si sta innervosendo. «Scusa se ho oltrepassato il limite.»
«No, figurati. Sai che ti invidio? Perché quando ti va di dire una
cosa, la dici e basta. Sarà per via dell’educazione che hai ricevuto? O
dipende dal fa o che sei una ragazza?»
«È facile passare per quella illuminata quando si tra a delle
famiglie altrui.» Elf aveva sventolato una mano per farsi aria.
«Quindi perché una canzone su tuo padre proprio adesso?»
Dean aveva aggro ato la fronte. «Ho qualcosa dentro che
continua a dire ‘Tocca a me’ e che non mi lascia in pace finché non lo
faccio. A te non capita?»
Finora ho creduto di conoscere Dean abbastanza bene, mi sbagliavo,
però. «S-sì. Dev’essere complicato. Harry Moffat, intendo.»
p p y
«‘Complicato’ a dir poco. Se lo incontri una volta sola potresti
anche pensare: Questo tizio è l’anima della festa. Quando lo conosci
un po’ meglio invece pensi: È un tipo abbastanza simpatico, ma ha
qualcosa che non va. Se fai parte della sua famiglia capisci perché
non ha amici. Lui non beve per ubriacarsi. Lo fa per comportarsi in
maniera normale. E la sua idea di normalità è disgustosa.»
Un camion della ne ezza urbana era passato accanto. Aggrappati
ai lati c’erano due ne urbini a torso nudo, uno con un fisico da
Action Man, l’altro da giocatore di frecce e.
«Come mai tua madre non l’ha lasciato?» aveva chiesto Elf.
Dean si era accigliato. «È stata la vergogna. Una madre che pianta
il marito è una fallita. È così che la pensa un sacco di gente.
Immagino che a preoccuparla fosse anche quello che poteva
succedere a me e a Ray. Aveva paura che sarebbe stata una vita di
abiti usati, a pane e cipolle, senza mai una vacanza. Quando c’è un
divorzio, i soldi per un avvocato decente ce li ha chi porta a casa la
pagno a. E poi, c’è sempre una specie di speranza contorta. La
speranza che l’ultima volta sia davvero l’ultima. Che lui si
addolcisca un po’.»
«In questo caso a essere contorta è la logica, più che la speranza»,
aveva commentato Elf.
«Sono d’accordo.» Dean aveva ge ato il mozzicone dal finestrino.
«Ed è la logica che va per la maggiore.»
«Tuo padre vive ancora nella casa in cui sei cresciuto tu?»
«Fino a un anno fa circa era ancora là, poi ha avuto un incidente
in macchina. Lui se l’è cavata con qualche graffio, ma la Mini che ha
centrato era rido a un ro ame. Un padre di famiglia è finito sulla
sedia a rotelle e la figlia di dieci anni ha perso un occhio.»
«Dio mio, Dean. È terribile.»
«Già, prima o poi doveva succedere. Siccome era ubriaco
l’assicurazione non ha pagato nulla, quindi ha dovuto vendersi la
casa. Adesso vive in una casa popolare. Il cementificio l’ha
licenziato. È costre o a farsi mantenere dal governo. Buffo, no? Era
per questo che ce l’aveva a morte con me, era sicuro che a fare il
musicista sarei finito a campare con il sussidio. I suoi compagni di
sbronze hanno smesso di offrirgli da bere. I pub gli hanno vietato
g p g
l’ingresso. A un certo punto ho pensato: Be’, se non fosse Harry
Moffat un po’ di pietà la proverei… È Harry Moffat, però. Quindi ho
pensato: Ti sei scavato la fossa da solo, adesso accomodati.»
«Non ha provato a farsi aiutare?»
«Ray mi ha de o che va agli incontri degli Alcolisti Anonimi. Chi
lo sa cosa può succedere? Cos’è Harry Moffat senza la sua Morning
Star?»
Levon era tornato in quel momento, era salito in macchina e con
un fazzole o a pallini si era asciugato la faccia dal sudore. «Per la
miseria. Quando lavoravo per Buster Godwin e dovevo piazzare i
suoi musicisti in classifica bastavano dei cioccolatini, qualche moina
e il gioco era fa o. Ora vogliono il tuo primogenito.» Levon aveva
preso una busta dal vano portaogge i del crusco o e aveva infilato
cinque banconote da una sterlina. «Una spudorata mazze a.»
«Posso averli io?» aveva chiesto Dean. «O se no, non potremmo
semplicemente comprare nei negozi un milione di copie del nostro
singolo?»
«La cruda verità è che al mondo non frega un cazzo di
‘Darkroom’ e abbiamo solo un paio di se imane per risvegliare la
sua a enzione. Quindi, qualunque cosa sia necessaria per piazzare
questo singolo, noi la faremo. Ciò significa che io devo corrompere
un coglione in un negozio di dischi di Slough in modo che lui
riferisca dati sulle vendite gonfiati. E significa anche che tu», aveva
guardato Elf, «verrai con me a blandire il verme. E che tu», si era
rivolto a Dean, «corteggerai le ragazze del negozio con delle rose
mezzo appassite. Siete pronti? E allora via, di nuovo in pista…»

«Peter Pope», si era presentato il proprietario dell’Allegro Records


stringendo mellifluo la mano di Elf. «Al tuo servizio.» Sullo stereo
Engelbert Humperdinck cantava «There Goes My Everything».
«Benvenuta nel mio quartier generale.»
Elf aveva ritirato la mano. «Sembra super, signor Pope.»
«Vantiamo filiali anche a Maidenhead e a Staines. Il sabato c’è il
boom di vendite. Non è così, ragazze?»
«Assolutamente, signor Pope», avevano intonato le due assistenti.
Erano entrambe giovani, dell’età di Elf, ma avevano le gambe più
g g p
lunghe ed erano più snelle.
«Mmmmmm», aveva fa o le fusa Peter Pope. «Abbiamo sei
cabine per ascoltare i dischi. Sei. I nostri concorrenti vicino alla
stazione ne hanno tre.»
«L’Allegro Records è l’unico negozio rispe abile di Slough e
dintorni», aveva dichiarato Levon. «Posso offrirle una sigare a,
signor Pope?»
Peter Pope si era intascato il pacche o intero. «Abbiamo dischi
per tu i i palati, da Ellington a Elvis a Elgar. Non è così, ragazze?»
«Assolutamente, signor Pope», avevano risposto le due assistenti.
«Vi presento Becky Chiara e Becky Scura», aveva continuato Peter
Pope. «Ragazze, la signorina Elf Holloway è un vero usignolo
inglese.»
«Piacere di conoscervi», aveva de o Elf.
Il sorriso di Becky Chiara stava a significare: Questo lo vedremo.
Quello di Becky Scura stava a significare: Okay, sei in una band, e
d’accordo, hai fa o uscire un singolo, chi di noi però è qui a
elemosinare favori?
«Ecco un piccolo pensiero», Dean aveva dato un mazzo di fiori a
ciascuna Rebecca, «da parte degli Utopia Avenue.»
«Ma guarda un po’», aveva de o Becky Scura. «Dodici rose
rosse.»
«Cosa diremo ai nostri ragazzi?» si era inquietata Becky Chiara.
«Che sono i due tizi più fortunati di Slough, Maidenhead e
Staines», aveva riba uto Dean.
A Elf veniva da vomitare, ma le due Becky si erano guardate come
giudici piacevolmente stupiti.
«L’inventario non va avanti da solo, ragazze», le aveva richiamate
Peter Pope.
«Certo che no, signor Pope», e si erano ritirate in magazzino.
Il proprietario si era voltato verso Levon: «Dunque, Franklin, la
mia mancia?» Levon gli aveva allungato la busta con i soldi, che in
un lampo era svanita nella giacca di Peter Pope. «Ho il tuo disco,
‘Oak, Ash and Thorn’, signorina Holloway. Tu e quell’EP siete una
delizia.»
Elf aveva cercato di sembrare lusingata. «Grazie, signor Pope.»
g g p
«Nel mio ufficio c’è un pianoforte.» Gli occhi del proprietario
avevano puntato una porta. «Tanto tempo fa il mio negozio vendeva
anche strumenti musicali.»
«Davvero?» aveva risposto Elf. «E come mai non li vende più?»
«Quel giro d’affari se l’è accaparrato mio fratello.» Peter Pope si
era morso l’interno delle guance. «Già. Hai capito bene.»
«Non sembrerebbe un comportamento molto fraterno», aveva
rilevato Levon.
«Non ho mai sprecato neanche un pensiero per quel ladro che mi
ha pugnalato alle spalle, o per quel porcile di negozio che ha vicino
alla stazione. Non c’è vende a più dolce del successo. Comunque,
signorina Holloway, visto che siete a disposizione sia tu sia un
pianoforte, sarei troppo sfacciato se ti chiedessi una canzone? Una
tu a per me, intendo.»
«Oggi la nostra agenda è serratissima, temo», aveva spiegato
Levon.
«Una mance a come questa», Pope aveva dato un colpe o alla
tasca della giacca, «gonfia di poco i dati delle vendite destinati a chi
fa le classifiche del Melody Maker. Ma un concerto privato della
signorina Elf Holloway che esegue ‘Any Way the Wind Blows’
moltiplicherà certi numeri per… dieci.»
Elf riusciva a sentire l’odore di Peter Pope.
Levon l’aveva guardata come a dire: Sta a te decidere.
Era un’occasione per dare una mano a «Darkroom» nelle
classifiche e a quel punto un DJ avrebbe potuto drizzare le orecchie e
regolarsi di conseguenza. «D’accordo, solo una canzone.»
«Noi ascolteremo dal buco della serratura», aveva aggiunto Dean
fra il serio e il faceto.
«Potreste farlo», aveva risposto Peter Pope arricciando le labbra in
una smorfia di trionfo, «se quella porta avesse un buco della
serratura. Mmmmm.»
Elf si era de a che non c’era niente di cui preoccuparsi. Si tra ava
solo di una canzone.

L’ufficio nel retro dell’Allegro Records era beige, in perfe o ordine


e affacciava su alcuni bidoni dell’immondizia. Allineati lungo le
g
pareti c’erano degli schedari. Di fronte alla scrivania, sulla parete
opposta, si stagliava un pianoforte nero a muro. In cima, c’era la foto
incorniciata di una donna austera con un vestito abbo onato fino al
collo. Peter Pope aveva chiuso la porta dell’ufficio e, abbassando la
voce, aveva de o: «Signorina Holloway, devo avvertirti. Il tuo
agente, credo sia… sì, insomma… un…»
Elf non intendeva discutere dell’omosessualità di Levon.
«La sua vita privata sono affari suoi, signor Pope, e…»
Pope esalava un odore di uova marce. «Affari, questo è il punto!
Non conta nient’altro per quelli della sua risma. L’hai le o Il
mercante di Venezia?»
Elf era rimasta spiazzata. I punti neri di Peter Pope sembravano
una scri a in braille. «Il mercante di Venezia?»
«Se il tuo agente è uno di loro», aveva puntato rigidamente il dito
a salsiccia verso la porta, «temo moltissimo per la tua carriera.»
Elf non capiva. Poi di colpo aveva realizzato. «Un momento… Mi
sta chiedendo se Levon è ebreo?»
Peter Pope aveva dilatato le narici. «Ma certo. È così?»
D’istinto Elf stava per dirgli: No, per niente!, poi però aveva
tentennato: negare il sospe o di Peter Pope sarebbe stato come
avvalorare la gravità dell’accusa, e che cosa c’era di male nell’essere
ebrei, tanto per cominciare?
A quel punto Peter Pope stava sorridendo soddisfa o per le
proprie capacità dedu ive.
«Loro lo nascondono. Ma io indago. E lo scopro. Mmmmmm. È
questione di fiuto.»
«Che cosa? Sarebbe più contento se avessero una stella di David
ricamata addosso?»
«Oh, voi ragazzo i alla moda vi pappate la loro propaganda come
caramelle. Sveglia! La campagna per il disarmo nucleare? Gestita
dagli ebrei. La BBC? Idem. E l’LSD? Inventato dagli ebrei. Bob
Dylan? Un ebreo. Brian Epstein? Un ebreo. Elvis Presley? Un ebreo.
La vostra controcultura è uno specchie o per le allodole.»
«Crede davvero a quello che sta dicendo?»
«Chi pensi che lo abbia portato Hitler al potere? I Rothschild.
Sapevano che la via per arrivare allo Stato di Israele doveva passare
p p p
per i campi di concentramento. Per l’intero corso della storia sono
stati loro a tirare i fili. Ho descri o la faccenda al Times, ma la mia
denuncia è stata censurata.»
«Forse al Times avevano bisogno di prove», gli aveva suggerito
Elf.
«Dei dile anti potrebbero seminare prove qua e là, ma non i
sionisti. È per questo che non è possibile stabilire con certezza che
hanno in mano tu o.»
«Quindi la sua unica prova sarebbe la mancanza di prove?» aveva
chiesto Elf.
«Non essere ridicola. Esa amente quaranta giorni dopo aver
spedito la mia denuncia al Times, mi hanno invitato a unirmi alla
loggia massonica di Slough. Ma li ho cacciati, quegli acca oni. Peter
Pope non è in vendita.» Si era acceso una sigare a di Levon e aveva
fa o un paio di tiri.
Prima suono, prima uscirò di qui. Elf si era seduta al piano e per
sgranchire le dita aveva suonato una rapida scala di Re maggiore…

***

…Sul verso finale aveva sentito sca are un paio di forbici accanto
all’orecchio, aveva spostato in fre a la testa per evitare le lame. Peter
Pope stava osservando con a enzione una lunga ciocca dei suoi
capelli, la teneva stre a fra pollice e indice. Aveva la faccia di uno
che sta godendo sessualmente. Lei era balzata via dallo sgabello
picchiando un ginocchio. Tremava. «Perché… Perché mi ha tagliato i
capelli?»
«Un uomo ha diri o a un souvenir.» Peter Pope si era fa o roteare
le forbici intorno al dito. Poi si era strofinato una guancia con la
ciocca di capelli, assaporando il disgusto di Elf e provando piacere.
«I tuoi capelli sembrano quelli di mia madre.» Lei aveva raggiunto in
fre a la porta. Come in un incubo, il pomolo non voleva saperne di
girare. Lo aveva ruotato allora nel senso opposto, senza avere il
coraggio di guardarsi alle spalle, ed era finalmente uscita,
ritrovandosi in un negozio di dischi a Slough un venerdì
pomeriggio.
p gg
Sullo stereo del negozio Lulu cantava «Let’s Pretend». Levon
stava spulciando fra i dischi jazz. Dean ci stava provando con Becky
Chiara, a quanto pareva. Il campanello sulla porta del negozio aveva
squillato mentre un cliente entrava. Levon aveva alzato lo sguardo.
«Non ci è voluto molto. Tu o bene?»
Elf stava per dirgli: No, quel pervertito mi ha appena tagliato una
ciocca di capelli! Levon però cos’avrebbe potuto fare? Dire a Peter
Pope di restituirle la ciocca? Non la rivoleva certo indietro. Se avesse
denunciato il proprietario alla polizia, l’agente di turno le avrebbe
riso in faccia. Quale legge aveva infranto, in fondo? E se quel viscido
verme avesse riferito al Melody Maker che nei suoi tre negozi
«Darkroom» aveva venduto o ocento copie anziché o anta, magari
sarebbe stata una spintarella per la Top 50, no?
«Conserverò come un tesoro il ricordo del mio concerto privato.»
Era rispuntato Peter Pope. Dei capelli nessuna traccia. «Fino al
giorno della mia morte.»
Elf non se l’era sentita di replicare.
«Dunque, signor Pope», aveva de o Levon, «possiamo contare sul
suo appoggio?»
«La mia parola è sacra.» Peter Pope le aveva sorriso aprendo e
chiudendo il pugno, come un moccioso che fa ciao ciao. «Non
sparire, mio usignolo», e le aveva mandato un bacio con quelle sue
labbra da trota.

***

La trota che Elf ha nel pia o la fissa dal basso. Il chiacchiericcio


dell’ora di pranzo riempie il ristorante di Seven Dials. Sua madre,
Imogen e Bea la stanno fissando. Ti hanno chiesto qualcosa. «Non stavo
ascoltando, scusate. Mi ha distra o la trota. Mi ricorda un
negoziante. Uno di Slough.»
«Deve aver fa o colpo», dice la madre di Elf.
«Mmmmmm.» Elf affonda la forche a nell’occhio della trota.
Bea si me e a recitare la poesia di John Betjeman: «‘Venite, amiche
bombe, cadete su Slough! Ora non è fa a per gli esseri umani. Non
c’è erba per ingrassare le vacche. Sciama tu ’intorno, o Morte!’ Be’,
p g
certo, poi le bombe lì sono cadute sul serio. Betjeman dev’esserci
rimasto malissimo».
«A Slough ci sono stata una volta per un seminario dida ico.»
Imogen si pulisce la bocca con il tovagliolo. «Esistono posti
peggiori.»
Bea infilza un cetriolino. «Me li vedo i cartelli stradali: BENVENUTI
A SLOUGH: ESISTONO POSTI PEGGIORI, FIRMATO IMOGEN HOLLOWAY .»
«Imogen Sinclair, ormai», le ricorda la madre.
«La mia testa non ci ha ancora fa o il callo», replica Bea. «Forza
mamma, c’è un petit gou e nella bo iglia.» Aggiunge il rimasuglio di
champagne nel bicchiere della madre. «Cinquant’anni si compiono
una volta sola.»
«Salute, cara», dice la madre. «Gou e, goccia, però è femminile, si
dice quindi une petite gou e. A confondere i generi potresti avere dei
problemi.»
«Con la grammatica francese e anche con certi locali di Soho»,
precisa Bea. La madre e le sorelle la fissano. «Così mi è stato de o.
Da Elf.»
«Divertente.» Elf spezze a la trota con la forche a. «Prima che mi
dimentichi, Levon ha de o di porgerti i suoi saluti.»
La madre di Elf è lusingata: «Salutamelo anche tu. Al matrimonio
di Immy si è dimostrato un vero gentiluomo. Si presentava e parlava
così bene. Immagino sia un capo molto corre o».
«Siamo fortunati», dice Elf. «Nel mondo dello spe acolo, parecchi
agenti sono solo un filino meglio dei gangster dell’East End, i
gemelli Kray.»
«Anche Bea abbandonerà il nido, il prossimo se embre», ricorda
Imogen alla madre. «Non hai pensato di riprendere a lavorare?»
«Ho già pochissimo tempo adesso, come farei poi con il Rotary
Club, il Women Institute, il giardino? Per non parlare di tuo padre.»
Bea taglia la quiche. «A te insegnare non manca, Immy?»
Imogen esita a rispondere. «Ho indugiato un po’ troppo, vero?»
«Abituarsi al matrimonio richiede tempo», dice la madre. «Sarà
così sia per te sia per Lawrence. Non ti preoccupare, però. Ci
riuscirete.»
Imogen schiaccia i piselli con la forche a. «È quello che
so oscriviamo, no? Casa e ancora casa e via dicendo.»
«Ma, nel fra empo», dice Bea, «grazie alla nostra scatenata sorella
scala-classifiche possiamo vivere indire amente una vita
rock’n’roll.»
Elf eme e un suono lamentoso. «Non arrivo neanche a sfiorarle,
le classifiche.»
«Siete solo all’inizio», osserva Imogen.
Elf affonda una forche a carica di pesce in una patata burrosa.
«Ed è qui che si ferma la maggior parte delle band. Il pop non è
artigianale come il folk. I costi sono maggiori. Le tariffe degli studi di
registrazione. Il marketing. Quarantanove band su cinquanta
falliscono prima di annusare celebrità e successo anche solo da
lontano.»
«Allora voi sarete quel gruppo su cinquanta», la conforta Imogen.
«I miei amici non fanno che parlare delle canzoni che avete suonato
al mio matrimonio.»
«A me è piaciuta molto ‘Mona Lisa’», dice la madre. «Da pelle
d’oca. Come mai non avete scelto quella come singolo, tesoro?»
Bella domanda. «Perché negli Utopia Avenue ci sono altri due
autori, e tu i abbiamo bisogno di una sferzata di o imismo.»
«Ma come avete deciso quale doveva essere il vostro primo
singolo?» chiede Bea.

Tre mesi prima, all’indomani del concerto a Gravesend, il primo


pensiero di Elf era stato: Deve essere «Mona Lisa». Dean però aveva
proposto «Abandon Hope» e Jasper aveva votato «Darkroom», ecco
il problema.
«Facciamo finta che io sia Victor French», aveva suggerito Levon.
«Cercate di spiegarmi perché la canzone giusta dovrebbe essere la
vostra.»
«Il riff di ‘Abandon Hope’ è grandioso», aveva de o Dean. «Ha
tu e le carte in regola per avere successo. E poi a me i soldi servono
più che a Elf e a Jasper.»
Elf non aveva sorriso. «Se come singolo scegliamo ‘Abandon
Hope’, ci etiche eranno come blues band. È un pezzo molto
p p
maschile.»
«E ‘Mona Lisa’ è molto femminile», aveva obie ato Dean.
«Ma voi siete uomini», gli aveva fa o presente Elf, «quindi gli
uomini ci ascolteranno comunque. Se facciamo uscire ‘Mona Lisa’, il
nostro disco lo compreranno invece anche le donne.»
Era il turno di Jasper. «‘Darkroom’ ha un’atmosfera psichedelica.
È la nostra canzone per la Summer of Love inglese.»
Gli orologi sulla scrivania di Levon ticche avano. «Tu e e tre
potrebbero essere delle hit», aveva ammesso l’agente. «Avere un
problema di questo tipo è una fortuna. Tu, Griff, come la vedi?»
«Non lo so», aveva risposto il ba erista. «Ma la questione va
risolta con imparzialità. Quando il primo gruppo di Archie Kinnock
era arrivato agli sgoccioli, Ratner, Kinnock e gli altri non facevano
che litigare su quei cazzo di diri i.»
«Quindi cosa suggerisci?» gli aveva chiesto Dean. «Me ere
insieme tu i i soldi che vengono dai diri i delle canzoni e dividerli
in parti uguali?»
«Oppure accreditarci tu i e tre come autori per tu e le canzoni»,
aveva proposto Jasper. «Lennon-McCartney. Jagger-Richards.»
«Ho fa o così con Bruce per l’EP di Fletcher & Holloway», aveva
de o Elf. «Ma ha creato più problemi di quanti non ne abbia risolti.
E se l’EP avesse venduto bene, i problemi sarebbero soltanto
peggiorati.»
«Possiamo lasciarla sbrigare alla Ilex», aveva bu ato lì Levon.
«Dire: Decidete voi, noi ne restiamo fuori.»
«No, grazie», aveva riba uto Dean. «La musica è nostra e noi
decidiamo.»
«Allora ci conviene giocarcela a dadi», aveva dichiarato Jasper.
«Sembreresti… serio, a guardarti», aveva azzardato Levon.
«E lo sono. Il nostro primo singolo sarà quello di chi fa il numero
più alto. Il secondo numero più alto deciderà il secondo singolo e il
terzo deciderà il terzo.»
«È pura follia, cazzo», aveva de o Dean. «È troppo perfino per
te.»
«Un dado. Nessuna responsabilità. Niente carognate. Cosa ci trovi
di così folle?»
Elf aveva guardato Dean che aveva guardato Levon che aveva
guardato Elf.
Jasper aveva appoggiato su un tavolino un dado rosso con i
pallini bianchi.
«A volte sei tu ’altro che un coglione fuori di testa, sai, Zooto?»
aveva commentato Griff.
«È un bene o un male?» aveva chiesto Jasper.
Griff aveva scrollato le spalle, sorriso e aggro ato la fronte a un
tempo.
Dean aveva preso il dado. «Lo stiamo facendo davvero??»
«È un tantino bizzarro», aveva de o Levon, «ma devo amme ere
che è… imparziale.»
«Sempre meglio di una lite furibonda che non porta a nulla»,
aveva concordato Elf.
«Le cose più importanti si sono sempre decise a testa o croce»,
aveva de o Griff.
«Dunque la risposta è sì», aveva concluso Dean. «Lo stiamo
facendo.»
Dopo un a imo di silenzio, i tre autori avevano annuito.
Levon aveva sollevato i palmi rassegnato. «Bene. Che non lo
vengano mai a sapere quelli della Ilex, però. E nessuno della stampa.
È una cosa… originale. Chi è che lancia per primo?»
«Io», aveva risposto Jasper. «Si lancia in senso orario a partire dal
proprietario del dado.»
«D’accordo», aveva de o Dean, «come se ci fosse un vero
regolamento.»
«C’è», aveva replicato Jasper. «Regola numero uno: se escono
numeri uguali, tirano di nuovo solo quelli che li hanno tirati uguali.
Regola numero due: se il dado finisce fuori dal tavolo, si tira di
nuovo. Regola numero tre: il dado si scuote fra le mani per cinque
secondi e poi si tira, non si appoggia. Regola numero qua ro: il
risultato è definitivo. Niente lamentele. Niente sfide ulteriori.»
«Caspita», aveva esclamato Dean. «D’accordo. Allora tira tu per
primo, proprietario del dado.»
Jasper aveva agitato energicamente il dado nelle mani a coppa e lo
aveva lanciato. Si era fermato sul tre.
«Si può fare peggio.» Dean aveva raccolto il dado. «Ma si può fare
anche meglio.» Si era baciato le mani, aveva agitato il dado e l’aveva
tirato. Dopo aver sbatacchiato sul vetro del tavolino, il dado era
scivolato in avanti per poi fermarsi sul due. «Merda.»
Senza fare una piega e senza cerimonie, Elf aveva agitato il dado e
l’aveva lanciato. Era cascato sul tavolino e si era fermato sul sei… poi
però era caduto oltre il bordo, sul pavimento.
«Ritira!» aveva de o Dean. «Regola numero due. Devi tirare di
nuovo.»
«Non sono sorda, Dean.» Elf aveva ritirato. Stavolta aveva fa o
uno.

«Abbiamo tirato un dado», amme e Elf nel ristorante di Seven


Dials.
«Un dado?» chiede la madre convinta di non aver sentito bene.
«Un dado, hai de o?»
«Ci è sembrato meglio che imporci a suon di urla.»
Bea mastica un gambo di sedano. «Lo sanno alla casa
discografica?»
«Non ce n’è bisogno. Quando è successo, Victor della Ilex voleva
già che il singolo fosse ‘Darkroom’. Può darsi che ora come ora se ne
stia pentendo. La canzone non ha portato a nulla.»
«Nessuno può accusarvi di ba ere la fiacca.» Sua madre sembra
indignata. «State tu i lavorando come muli.»
«È vero.» Elf dà fondo al suo champagne, ormai sgasato. «Eppure
non c’è niente a dimostrarlo.»
«Non è così.» Imogen riapre il Melody Maker della se imana e
legge ad alta voce la recensione: «Prendete un taglio di prima scelta di
Pink Floyd, aggiungete una spruzzata di Cream, un pizzico di Dusty
Springfield, lasciate a marinare per una no e e cosa o errete? ‘Darkroom’,
un folgorante debu o servito dagli esordienti Utopia Avenue. Sembrano
destinati a fare grandi cose».
«Una buona critica di una trentina di parole è meglio di una
ca iva.» Elf preme il pollice sulle briciole di pane. «Ma se non ci
passano in radio, siamo solo degli sfigatelli volenterosi disposti a
pagare per suonare in una band.»
p g p
«Non bu arti giù», dice Bea.
«A me registrare piace, sempre che i ragazzi non facciano…» i
coglioni, «gli stupidi. Adoro suonare dal vivo. Come autori ci diamo
manforte per migliorarci a vicenda. Ma gli squali, i pervertiti, le
ba ute d’arresto, le centinaia di chilometri in furgone, la sensazione
che nessuno ci dia re a… tu o questo ti logora. Non posso dire che
non mi avevi messa in guardia, mamma.»
«Amme erlo ti fa onore, tesoro.»
«E c’è una cosa che voglio aggiungere. Avere due genitori
premurosi è un dono su cui Dean e Jasper non possono contare.
Accidenti, straparlo. È lo champagne.»
«Se tu puoi dare la colpa allo champagne», dice la madre, «allora
posso farlo anch’io. Quando ci hai de o che volevi lasciare
l’università per darti al folk, io e tuo padre abbiamo avuto qualche
perplessità.»
«A dir poooo-co!» intona Bea cantilenante.
«Avevamo paura che si approfi assero di te. Che tu…»
«Finissi senza un soldo e incinta», suggerisce Bea in un sussurro.
«Grazie, Bea. Eppure guarda cosa sei riuscita a fare, Elf. Una
canzone su un LP americano che è diventata disco d’oro. Due EP.
O ocento persone hanno pagato per vederti suonare nel municipio
di Basingstoke. Stai facendo quello che vuoi fare, insomma,
malgrado tu i gli ostacoli. Ed è per questo che io, noi, io e tuo padre,
siamo molto fieri di te.»
«Non potrebbe andare meglio di così», dice Bea sollevando il
bicchiere.
Tu e e qua ro li fanno tintinnare sopra il tavolo. «A ‘Darkroom’.»
Bevono. Elf registra quel momento nella memoria.
Imogen si schiarisce la voce. «A proposito di rimanere incinta…»
Elf, Bea e la madre le puntano gli occhi addosso. Le bocche si
stanno già spalancando.
«Volevo aspe are il caffè per dirvelo», spiega Imogen, «ma lo
champagne ha dato alla testa anche a me…»

Diventerò zia. Denmark Street è calda per i motori accesi e odora di


catrame. I piccioni se ne stanno in fila nell’aria umida, senza volare.
p
Ancora mezza brilla per lo champagne e su di giri per via del caffè,
Elf a raversa Charing Cross Road. Le porte della libreria Foyles sono
aperte per rinfrescare un po’ l’interno ombroso, e lei si sente a ra a
da quel labirinto di scaffali… Ma di libri non le i da aggiungere al
mucchio ne ho bisogno quanto di un’afta in bocca. In fondo a Mane e
Street, percorre i dieci metri di galleria so o il pub Pillars of Hercules.
Un ragazzo, una marche a che lavora di pomeriggio, le dice: «Il tuo
cappello mi fa impazzire, dolcezza». Elf lo ringrazia con un cenno. In
Greek Street c’è odore di fogna. Maniche e gonne sono corte. Supera
due donne dall’aria caraibica che chiacchierano a mitraglia nel loro
diale o. Una sta facendo fare il ru ino alla bimba, che vomita un
liquido appiccicoso e la eo sulla madre.
Diventerò zia. Elf accelera il passo lungo Bateman Street e, girato
l’angolo, si dirige all’edicola internazionale. Fa scorrere un pollice
sullo scaffale con Le Monde, Die Welt, Corriere della Sera, de Volkskrant.
Lei e Bruce fantasticavano spesso su Parigi. Adesso lui è là… mentre io
mi sto facendo il culo per piazzare un singolo che nessuno vuole. Un
cestino pullula di mosche ronzanti. Un ra o me e fuori il naso.
«White Rabbit» dei Jefferson Airplane scappa dalla porta aperta di
Andromeda Records. Elf resiste, non entra per controllare quante copie
di «Darkroom»… No, cede alla tentazione e torna indietro. Sullo
scaffale delle novità conta qua ordici copie del singolo, quando ha
controllato prima erano sedici. In due ore ne hanno vendute due. Se
fosse andata così, diciamo, in 500 negozi di dischi in tu o il Paese,
farebbero 1000 copie vendute a partire dalle 11 del ma ino, o 4000 in
un giorno lavorativo di o o ore… nel giro di sei giorni, significherebbe
ventiqua romila copie… Ma chi voglio di prendere in giro? Questa è
Soho, qui gli Utopia Avenue sono conosciuti. Quante copie di
«Darkroom» avranno mai venduto negozi come quello di Peter
Pope? Elf esce preoccupata.
Chissenefrega. Diventerò zia. Nella vetrina di Primo’s, un ragazzo
prende un po’ di gelato dalla coppa della fidanzata. Si sfila di bocca
il cucchiaio pulito. È un tipo ordinario. Lei invece è uno schianto,
una mangiauomini, una lupa. Mi piacerebbe essere lui.
Elf reprime con forza quel pensiero e a raversa Dean Street
raggiungendo Meard Street. La strada si stringe in un vicolo cupo
gg g g p
come il crepuscolo nel quale una prostituta trascina un cliente oltre
una porticina appartata, agganciandogli la cintura con un dito. Il
vicolo catapulta Elf sul lato assolato di Wardour Street. Sul banco di
un fru ivendolo ci sono delle ciliegie luccicanti. Elf si me e in coda.
Qualche metro più in là c’è una cabina del telefono. Manca un
pannello di vetro e si sente la donna all’interno che urla: «Non c’è di
mezzo nessuna divina concezione, Gary! È tuo! Me lo avevi
promesso! Gary? Gary!» La donna piomba nel silenzio. Classico
materiale da canzone folk, pensa Elf. La donna incespica fuori dalla
cabina. Le cola il mascara. È incinta. Si immerge, singhiozzando,
nella folla del mercato. La corne a che penzola dal cavo ruota come
un corpo da una fune.
Diventerò zia. Elf chiede un e o di ciliegie. L’uomo le pesa, le
passa il sacche o di carta marrone e intasca le monete. «Sembri
pallida oggi, cocchina. Se bruci una candela su entrambi i lati, presto
non avrai più nessuna candela.» Elf archivia quella frase nella
memoria e s’incammina lungo Peter Street, gustandosi una ciliegia.
L’estate filtra a raverso la pelle disidratata e scaldata dal sole. Sputa
il nocciolo, che precipita con un plop in un canale di scolo.
Un corteo funebre sta bloccando Broadwick Street. Aspe ando
che passi, entra in una lavanderia a ge oni. La signora Hughes,
fumatrice incallita, spunta con un cesto pieno di bucato e i bigodini
in testa. «La se imana scorsa è morta Nelly Macroom. Il suo negozio
di fish and chips in Warwick Street se lo è accaparrato la famiglia.»
La signora Hughes scrolla la sigare a sul pavimento. «Quando è
successo, era a farsi la permanente da Brenda come al solito. Il
sonnellino che si stava facendo so o il casco si è rivelato eterno. Però
è stata fortunata, in un certo senso.»
«Perché fortunata?»
«Be’, l’ultima acconciatura gliel’ha offerta la casa.»
Il carro funebre guadagna terreno. Elf vede per un a imo la bara
fra i corpi dei vivi.
«Alla tua età», dice la signora Hughes, «uno pensa che
invecchiare e morire siano cose che riguardano gli altri. Alla mia età
invece pensi: Dove sono finiti tu i quanti? Quindi se hai voglia di
fare qualcosa, falla e basta. Il tuo turno di ritrovarti in quella scatola
q q
arriva presto, stai sicura. Non c’è do ore, dieta, niente di niente che
potrà impedirlo. Arriverà…» schiocca le dita ed Elf strabuzza gli
occhi, «così.»

Livonia Street è una via lastricata a fondo chiuso tagliata da un


vicolo che conduce a Portland Mews. Ci passano solo quelli di Soho,
o i turisti che si sono persi. Elf infila la chiave nel portone
contrassegnato da un 9, fra un fabbro a dir poco riservato e una
piccola sartoria gestita da svariate sorelle russe. L’appartamento di
Elf è sopra quello del signor Watney, un vedovo che vive al primo
piano con i suoi corgi, si fa gli affari suoi e praticamente è sordo,
cara eristica che torna utile quando la tua vicina di casa è una
pianista. Varcato lo squallido ingresso, Elf trova tre le ere e una
bolle a so o lo zerbino comune, tu e per il signor Watney. Gliele
appoggia su una mensola accanto alla porta, poi sale due rampe di
scale consunte. Dentro casa, le scarpe di Angus sono piazzate l’una
accanto all’altra, e alla radio c’è Ray Charles che canta «Blueberry
Hill». Angus si fa sentire dal bagno: «La signorina Holloway,
suppongo». Elf si toglie le scarpe: «Il signor Kirk, mi auguro».
«Se sei in compagnia», Angus ha un marcatissimo accento delle
Highlands, «ti avviso che sono nudo come un verme.»
«Riposo, soldato, sono sola.» Elf appende borsa e cappello
all’appendiabiti e raggiunge il bagno, immerso nel vapore. Angus è
nella vasca, sta leggendo Oz. Ha l’inguine nascosto so o un mucchio
di schiuma. «La tua foglia di fico ha la stessa forma dell’Antartide.»
Elf recupera una sedia. «Sembra che ti abbiano lessato, per quanto
sei rosso.»
«Com’è andata a pranzo?»
«Diventerò zia. Imogen è incinta di tre mesi.»
«O ima notizia, dico bene?»
«Assolutamente.»
«Potrai mostrare al frugole o come si rolla una canna. Poi,
quando Imogen lo scopre, il frugole o le dirà: ‘Ma, mamma, zia Elf
ha de o che potevo!’»
Elf si sgranchisce le dita dei piedi. Sono stanchi per via dei tacchi.
«Cosa danno stasera al Palace?»
«In sala uno La calda no e dell’ispe ore Tibbs. Io sono adde o a
Gangster Story in sala due. Posso farti entrare di nascosto, se ti va.»
«Stasera suoniamo a Basingstoke.»
«E tu digli che preferisci startene con il tuo bel maschione delle
Highlands.»
«Non vorranno saperne, ahimè. Hanno già venduto seicento
biglie i.»
Angus fa un verso stupito. «A che ora esci?»
«Alle cinque. La Belva è a casa di Jasper. Tu inizi alle sei?»
«Sì, ma devo passare prima dal mio monolocale, lasciare le
mutande sporche e recuperare qualcosa di pulito, quindi uscirò di
qui alle qua ro.»
Elf dà un’occhiata all’orologio. «Sono quasi le due e mezzo,
quindi… abbiamo novanta minuti tu i per noi, signor Kirk.»
«Potremmo fare tre partite a Scrabble.»
«Oppure bollire venti uova in sequenza.»
«O ascoltare Sgt. Pepper’s. Due volte.»
Elf si siede sul bordo della vasca, piega all’indietro la testa di
Angus e lo bacia. Ripensa alla lupa nella vetrina di Primo’s.
Apre gli occhi per controllare se Angus la sta guardando. Bruce la
guarda sempre. La guardava. Angus mai. La fa sentire come se avesse
lei il controllo della situazione.
«In profondità, so o le gelide distese dell’Antartide», recita
Angus, «un’antica minaccia si risveglia…»

Angus crolla addormentato. Elf si chiede come sia essere un


ragazzo. Il suo cuscino preme sulla faccia di Angus, deformandola
quasi. Ogni amante è una lezione, e la lezione di Angus è che la
dolcezza è sexy. Su Radio Bluebeard i Beach Boys cantano «Don’t
Talk (Put Your Head on My Shoulder)». Quella canzone è più strana
di quanto non voglia amme ere di essere, considera Elf. I cigni
selvatici della giostrina appesa sopra il le o continuano a mulinare
nel loro volo infinito a raverso il tempo. L’ha fa a Bea per dare un
tocco di calore alla casa. Nel sonno, Angus eme e una specie di
ringhio. Quello scozzese goffo dagli occhi infossati le piace sempre
di più. Si sono conosciuti in maggio, aveva passato un paio di no i
p gg p p
da lei in giugno, e adesso sono più le no i in cui si ferma da lei di
quelle in cui non lo fa. L’ha presentato al gruppo la se imana prima.
A Dean è piaciuto e a Jasper anche, per quanto qualcuno possa
piacere a Jasper. Griff sembrava un po’ distaccato. A lei piace l’idea
di stare con un non-musicista, è una novità. Angus pensa che la
musica sia magia, e di conseguenza Elf è una maga. Non ama Angus
follemente come amava Bruce, ma il fa o che le piaccia basta e
avanza. Angus è anche la prova che le piacciono gli uomini, e che la
voce sull’autobus 97 era una bugia crudele, non una verità nascosta.
Giusto?
Certo che sì.
Elf si accende una sigare a e soffia il fumo verso i cigni. Ringrazio
Dio per la pillola e per il medico di base donna che la prescrive. Le armonie
dei Beach Boys finiscono, e la canzone successiva le è così familiare
che a Elf è necessario qualche secondo per riconoscerla, e qualche
altro per crederci…
«Darkroom», i suoi accordi, il suo Farfisa, stanno uscendo dalla
radio Hacker. Ecco il basso di Dean, il rullante di Griff, poi ci sono i
versi alla Lennon di Jasper: «You took me to your darkroom and you
slipped inside my mind…»
Il cuore di Elf ha un sussulto. Siamo noi!
«…where negatives turn positive, where IOUs are signed…» Quanto
sia folto il pubblico di una radio pirata nessuno lo sa, di certo però a
sentire gli Utopia Avenue in quel momento sono decine di migliaia
di persone. Cinquantamila? Centomila? E se ci odiassero? E se capissero
che non sono autentica? E se invece ci adorassero? E se corressero subito a
comprare il disco? Elf vuole nascondersi. Prima vuole assaporare
quella sensazione unica nella vita. Vuole dirlo a chiunque conosca.
«Angus!»
«Eh? Cosa? Cosa c’è?»
«Ascolta! Alla radio!»
Angus ascolta. «Sei tu.»
Elf riesce solo ad annuire. Sentono la canzone per intero. Bat
Segundo inizia a parlare solo dopo il refrain conclusivo di Elf.
«Questo assaggio di perfezione pop era ‘Darkroom’, una canzone
nuova di zecca degli Utopia Avenue. Sono inglesi, esistono davvero,
g p g
ed è loro la nostra canzone ‘Punta al Top’ della se imana,
gentilmente offertavi grazie al graditissimo contributo di Rocket
Cola, la bibita pop al passo con i tempi per gente al passo con i
tempi, e se non vi ha fa o venire la pelle d’oca vi consigliamo di
chiamare il vostro medico, perché potreste essere già morti. Prima
degli Utopia Avenue abbiamo ascoltato i Beach Boys con ‘Don’t Talk
(Put Your Head on My Shoulder)’ e tra poco, prima delle notizie…»
Angus spegne la radio. «Finirai a Top of the Pops.»
«Solo se manderanno una limousine a prendermi», dice Elf.
Angus non ride, lei quindi aggiunge: «Stavo scherzando».
«Io no», replica lui. «Ed è solo l’inizio.»
Non osare neanche sognarlo, si rimprovera Elf.

Dean risponde al telefono: «Ci ha appena passato Bat Segundo».


«Lo so. Lo so eccome! Ci ha sentito anche Jasper?»
«Boh. È fuori. E Griff non è ancora arrivato. Come dovrò
ba ezzarlo il mio primo figlio, Bat o Segundo?»
«Dean Bat Bluebeard Segundo Moss.»
«Stiamo per decollare, Elf. Lo sento, cazzo.»
«Anch’io. Anch’io.»
Dean sta ridendo. «Io… Dio… Alla radio! Noi. Con i Beach Boys!»
«Chiamo la Moonwhale. Ci vediamo dopo.»
«A dopo.»

Risponde Bethany: «Moonwhale Management, buonasera».


«Bethany, ciao…’Darkroom’ era nel programma di Bat Segundo.»
Il tono di Bethany si fa squillante per la gioia: «L’hai sentita con le
tue orecchie?»
Elf ride. «Sì, l’ho sentita.»
«Ti passo Levon.»
Levon si mostra contento alla sua maniera, una maniera urbana e
tipicamente canadese. «Congratulazioni. È l’inizio dell’inizio. Siete
partiti.»
«Lo sapevi già?»
«No, per una volta non sapevo nulla. È buffo, però, prima mi ha
chiamato Victor French per dirmi che John Peel domani farà
p
ascoltare ‘Darkroom’ su Perfumed Garden, e Bat Segundo l’ha ba uto
sul tempo. John Peel la farà girare solo due volte, ma per innescare
una reazione a catena ne basta una. Il ministero degli Interni…»
Angus, sulla porta, saluta Elf agitando una mano. Lei gli manda
un bacio volante. Lui finge di essere trafi o al cuore ed esce
barcollando.
«…bloccherà le navi delle radio pirata da un giorno all’altro,
quindi addio Radio Bluebeard o Radio London. Ma so da fonti
a endibili che John Peel e Bat Segundo sono in conta o con la BBC
per continuare a lavorare su Radio One. Siamo in buoni rapporti, e
un pranze o con tu i e due potrebbe essere un investimento
lungimirante, se sei libera la se imana prossima.»
«Puoi scomme erci.»
«Organizzerò qualcosa. E… scusa Elf, mi sta dicendo Bethany che
la Ilex è in a esa sull’altra linea.»
«Vai.»
«Ci vediamo più tardi, a Palazzo De Zoet.»

Elf si sposta alla finestra della cucina per guardare Angus che, più
in basso, sbuca dall’edificio in Livonia Street. Sparisce in Berwick
Street senza guardarsi indietro. Elf va in bagno e chiede al suo
riflesso nello specchio se gli Utopia Avenue alla radio fossero solo un
sogno.
È successo davvero, le dice il riflesso.
«Continuerai a essere la mia faccia se diventerò famosa?»
Baciami, replica il riflesso.
Elf esegue, sulle labbra.
Jasper ha ragione… gli specchi sono davvero strani.
Il suo riflesso ride, poi Elf va a rifare il le o, ma ci ha già pensato
Angus. Torna in cucina, si versa un bicchiere di la e, e proprio in
quel momento sente una chiave girare nella toppa. Che cosa può
aver dimenticato? Il giaccone?
«Ehi, Koala!»
Il pavimento oscilla come il ponte di una nave.
«Ehi», dice Bruce, «ti sta cadendo a terra il la e!»
Anch’io sto cadendo a terra. Appoggia la bo iglia.
pp gg g
«Riproviamo», dice Bruce. «Ehi, Koala!»
Ogni cosa è immobile, silenziosissima.
«C-c-cos… Perché? Come…»
«Traghe o no urno.» Bruce ge a lo zaino vicino all’appendiabiti.
«È da Calais che non mangio… e ci sono davvero pochissime cose che
non farei per un panino con prosciu o e formaggio. Be’, si può
sapere come diavolo te la passi?» Si fa scorrere le mani tra i folti
capelli d’oro. È molto abbronzato e un pizzico più vecchio. «Dio, se
mi sei mancata.»
Elf fa qualche passo indietro verso la credenza. «Aspe a un
momento… Io…»
Bruce sembra confuso, ma un a imo dopo non lo è più. «Ah…
Non hai ricevuto la mia cartolina, o sbaglio?»
«No.»
«Tu a colpa delle poste britanniche. O magari è stato il facteur
francese a mandare tu o a pu ane.» Bruce raggiunge il lavello, si
spruzza un po’ d’acqua in faccia, si riempie un bicchiere e beve. Alza
gli occhi su di lei. «La pe inatura è nuova, giusto? Hai perso anche
qualche chilo.» Si accomoda sul divano e si indica la pancia.
«Formaggio e so aceti andranno bene, se non hai il prosciu o.»
Elf si sente come se quella fuori posto fosse lei. «Tu mi hai
scaricata. Sei sparito a Parigi. Te lo ricordi questo?»
Bruce si mostra sbigo ito. «Scaricata? Avevamo solo bisogno di
respirare un po’. Siamo artisti.»
«No. Non te lo ricordi.» Elf affila la voce: «Allora vediamo, tu mi
scarichi, mi spezzi il cuore, poi a un certo punto risalti fuori e ti
comporti come se gli ultimi sei mesi non fossero mai esistiti».
Bruce me e il broncio, un broncio scherzoso, però, come a dire:
Sono in castigo?
«Sto parlando sul serio.»
Il broncio scherzoso di Bruce se ne va. «Pensavo ti facesse piacere.
Sono venuto dri o qui da Charing Cross. Io…»
«Magari farà piacere a Vanessa. I miei sentimenti invece sono
molto contrastanti.»
La faccia di Bruce raggrinzisce, quasi stia facendo uno sforzo per
ricordare a chi appartiene quel nome… «Oh, quella dici? Be’, Koala,
pp q q
la gelosia non ti si addice.»
Quindi lei lo ha scaricato. «Prova ad andare da Wotsit.»
«Wotsit è di nuovo in Grecia. Le persone voltano pagina.»
«E se avessi voltato pagina anch’io?»
Lui fa finta di niente. «Ehi, ho saputo degli Utopia Avenue. Una
recensione su Melody Maker. E anche buona. Posso?» Prende dal
tavolino una Camel e se l’accende. Elf resiste all’impulso di fargliela
volare via di mano. «Ne hai fa a di strada dall’Islington Folk Den,
eh? Sono fiero di te.»
Elf si rende conto che non ha nessuna voglia di fargli sapere di
«Darkroom» al Bat Segundo Show. «Senti, stasera ho un concerto,
quindi…»
«Figo. Vengo con te, sorveglierò la tua borsa a costo della vita.
Potrei anche suonare, se vi manca un chitarrista. Dov’è il concerto?»
«A Basingstoke, ma…»
«È uno di quei posti sperduti?»
Elf sospira. Adesso glielo dico. «Tu te ne sei andato, Bruce. È finita.
Abbiamo chiuso. Rivorrei indietro le mie chiavi.»
Lui inarca un sopracciglio, come un insegnante in a esa che la
verità venga a galla. «Stiamo per caso ‘vedendo’ qualcuno?»
«Dammi le chiavi, per favore.» Elf quel «per favore» lo odia, ma la
spavalderia di Bruce scompare. Il frigorifero vibra di colpo nel
silenzio.
«Quello che vale per te, vale anche per me, immagino.» Bruce
posa la chiave sul bracciolo del divano. «Scusa. Per febbraio, dico.
Per tu o. Più sono stronzo, più faccio lo spaccone. Lo so che non ho
la bacche a magica per riparare al danno…» Gli trema la voce. «O
per riportare indietro Fletcher & Holloway.»
A Elf si stringe la gola. «Vero.»
«Ma sapere che mi odi ancora… è questa la cosa peggiore. Prima
che vada a ge armi dal ponte di Waterloo», fa un’espressione
solenne, «posso… possiamo… salutarci da buoni amici?»
A enta. Elf incrocia le braccia. «Le tue scuse arrivano con qualche
mese di ritardo, comunque d’accordo. Salutiamoci da buoni amici.
Addio.»
Bruce chiude gli occhi. Con grande sorpresa di Elf, comincia a
piangere. «Dio, odio quando a volte mi lascio trascinare dalle
emozioni.»
«Riesco anche a capire perché. A volte.»
Lui si asciuga gli occhi con la camicia. «Merda, scusa Elf… ma
sono un tantino nei guai.»
Droga? Sifilide? Un deli o? «Dimmi.»
«In Francia sono finito nella merda. Gli sbirri mi hanno picchiato
perché suonavo sugli Champs-Élysées e si sono presi la chitarra.
Quello che viveva con me è scappato con i miei soldi, i miei vestiti,
tu o. Sono a terra. Mi sono rimasti due franchi, se e centesimi, o o
scellini e una moneta da tre penny. Io… sono passato dall’ufficio di
Toby Green.» Bruce è paonazzo e sta sudando. «Lui non c’era, ma la
segretaria ha controllato le nostre royalty di Shepherd’s Crook.»
«Non è molto.»
«Non ci compri neanche un sacche o di mangime per i piccioni.
So che sono il re degli stronzi a chiederlo a te fra tu i quanti, ma…
davvero, non ho nessun altro a cui rivolgermi. Quindi…» fa un
respiro profondo per ricomporsi «…ti supplico. Se puoi aiutarmi in
qualche modo… in qualunque modo… per favore… aiutami.»

a. Inaspe atamente.
b. Canzone dei Beatles che ha per protagonista una sorta di vigilessa, una meter maid
appunto.
c. La no e i fuochi d’artificio squarciavano il cielo / Un centinaio di razzi urlavano e
cadevano. / Hai affondato l’ascia con tu e le tue forze / Nella mia chitarra e l’hai mandata
all’inferno. / Subito dopo è toccato al mio giradischi. / Li le Richard la doveva pagare. /
Ci hai versato sopra la paraffina, un fiammifero / Acceso e… awop-bop-a-loola-awop-bam-
boo.
d. Spero che il falò in giardino / Continui a bruciare purpureo nei tuoi occhi, / Che continui
a trasformare il mio futuro in carbone, / Che continui ad ardere anche so o la cenere, il
tuo premio di novembre. / «Non sognare più in grande di me. / Tu sei quello che dico io.
/ Farai quello che ti dico di fare.» / Vallo a dire al tuo amico, stella del ma ino.
The Prize a

«Signore e signori, buona, buonissima sera e benvenuti tu i


all’appuntamento se imanale con Top of the Pops. Mi auguro che
stiate bene e siate in forma, e se così non è spero che la prossima
mezz’ora vi risollevi il morale.» Con la sua zazzera bionda Jimmy
Savile sorride alla telecamera. «Bene, che ve ne pare allora se
partiamo dalla scoppie ante esibizione di uno dei migliori nuovi
gruppi dell’estate… e signori, non correte a sintonizzare meglio il
vostro televisore quando vi cadrà l’occhio sulla smaccheramellosissima
tastierista! Ma bando alle ciance, al diciannovesimo posto in
classifica con la loro prima canzone, ‘Darkroom’… i soli, unici,
meravigliosi… Utopia Avenue!»
La scri a ele rica APPLAUSI si illumina, parte lo scroscio, Jasper
dietro le quinte guarda Levon, Bea, la ragazza di Dean, Jude e Victor
French della Ilex. Ci siamo. La intro si diffonde dagli amplificatori e i
trenta, quaranta giovani fighe i selezionati per la pista da ballo
ondeggiano sugli accordi di Elf, che finge di suonare il suo Farfisa
scollegato. Bea e Jude ci hanno messo tre giorni per trovarle il look
giusto: è vestita da squaw con in testa una fascia di cuoio ricamata
con le perline. Dean indossa una redingote rosa antico che ha
comprato da Marshmallow Cricket Bat. Guarda la telecamera
arricciando il labbro come Elvis. Griff, percuotendo la ba eria
coperta da sordine di gomma e uno speciale pia o di plastica che fa
tshh!, sfoggia un’ampia camicia da jazzista e un pancio o
psichedelico. Tocca alla voce. Jasper si china sul microfono e
sincronizza il movimento delle labbra con il playback. Una seconda
telecamera si avvicina a Elf. Uno dei produ ori ha dichiarato che è in
assoluto la prima donna a suonare, si fa per dire, uno strumento a
Top of the Pops. Jasper ci dà dentro al microfono:

You took me to your darkroom


Where secrets get undressed.
Jerusalem is east of there,
And Mecca’s to the west… b

Dean raggiunge Elf al microfono per il secondo ritornello. Fissa la


lente della telecamera, e il suo sguardo raggiunge milioni di
televisori sparsi in tu a la Gran Bretagna. Dopo il bridge, una terza
telecamera si fa avanti e inquadra l’esplosione percussiva di Griff,
che precede l’assolo di Jasper. Jasper lo suona sulla Stratocaster
scollegata come farebbe in un vero concerto, con le note tirate a
sfumare. La telecamera torna su Elf e Dean per l’ultimo ritornello,
troncato a metà dall’entusiasmo del pubblico. APPLAUSI . I loro tre
minuti sono finiti.
Un operatore sgombra il palco dal gruppo, mentre Jimmy Savile
annidato in mezzo a uno sciame di ragazze in minigonna presenta
gli artisti successivi che si esibiranno sul palco vicino. «Allora che ve
ne pare, signore e signori? Non è una vera bomba questa ‘Darkroom’
degli Utopia Avenue? Dunque dunque dunque, tre indizi sui nostri
prossimi ospiti. Indizio numero uno: sono tu i abbastanza small.
Indizio numero due: hanno tu i una face. Indizio numero tre: si può
dire che sono itchy c e che vivono in un park. Chi saranno mai? Forza,
sono gli Small Faces e questa è la loro scombiccherata ‘Itchycoo
Park’!»

A lato del palco, Jasper e Griff guardano Diana Ross e le


Supremes interpretare «Reflections» in playback. Jasper si concentra
sul bianco degli occhi di Diana Ross. Arriva anche Elf. Diana Ross,
Mary Wilson e Cindy Birdsong fanno sembrare qualsiasi altra
esibizione roba da dile anti. Compresi noi. Il portamento, la pelle
scura, gli abiti d’argento sono perfe i per la televisione in bianco e
nero. Jasper, e insieme a lui praticamente tu a la Gran Bretagna,
immagina, è ipnotizzato dalla coreografia minimale, da come
incarnano la canzone, da come la propongono e la trasme ono. Un
pezzo in cui tu i credono, dall’autore al pubblico, realizza Jasper con
stupore, mentre non si può dire lo stesso per gli altri pezzi presenti
nel programma: «Itchycoo Park», «Hole in My Shoe» dei Traffic,
«Flowers in the Rain» dei Move e «Let’s Go to San Francisco» dei
Flowerpot Men.
Quando «Reflections» finisce, Diana Ross risponde all’applauso
fragoroso con un sorriso, sollevando appena una mano, prima che lei
e le Supremes vengano accompagnate fuori. Quando lei lo
oltrepassa, Jasper respira qualche molecola rimasta nella sua scia.
«Pensi che ci andremo un giorno?» chiede Elf a bassa voce.
«Dove?»
«In America.»
Jasper rifle e sulla domanda.
«Se ce l’hanno fa a quei cazzoni degli Herman’s Hermits»,
borbo a Griff, «ce la faremo anche noi.»

Mentre Engelbert Humperdinck chiude lo show con «The Last


Wal », il party per gli adde i ai lavori nei Lime Grove Studios della
BBC – «Slime Grove», per chi ci bazzica abitualmente – apre il lungo
fine se imana di un certo panorama londinese che va dal giovedì
alla domenica. Musicisti, agenti, groupie, mogli, giornalisti e
scrocconi assortiti vagano qua e là, confabulano, flirtano, si lagnano e
si pugnalano alle spalle. In un angolo ci sono Levon, Jasper e Howie
Stoker insieme a Victor French e Andrew Loog Oldham. Elf e Bruce,
lui con una mano sul fianco di lei, sono con Bea, Jude e Dean, stanno
chiacchierando con due dei Traffic. La ricomparsa dell’ex ragazzo di
Elf e la repentina espulsione di Angus dalla sua vita aveva fa o
sca are un’accesa discussione al Pavel Z, quando Elf aveva portato lì
Bruce per presentarlo alla band. A quanto aveva capito Jasper, Dean
si era arrabbiato con Elf perché si era rimessa con Bruce. Secondo
Dean, infa i, se Bruce si era comportato male con lei in passato
avrebbe potuto farlo ancora. Bruce se n’era quindi andato via,
dicendo a Elf che le avrebbe fa o trovare la cena pronta al ritorno.
Lei allora si era arrabbiata con Dean, visto che a suo giudizio non
g
stava a lui giudicare le sue scelte in fa o di fidanzati, a maggior
ragione perché stava cornificando Jude con la cameriera della
Patisserie Valerie di Scunthorpe. Questo aveva fa o infuriare Dean
ancora di più, il che aveva reso Elf perfino più aggressiva. Griff
aveva iniziato a scaldarsi alla ba eria con qualche esercizio, e così
facendo aveva a irato su di sé la rabbia di Dean e di Elf. Griff allora
aveva picchiato ancora più forte. A quel punto Jasper era totalmente
disorientato. Perché, si era chiesto, i Normali si preoccupano tanto di
chi fa sesso con chi? Quello che è certo è che se due vogliono andare
a le o insieme lo faranno, finché uno dei due o entrambi non ne
avranno più voglia. E poi sarà finita. È come la fine della stagione
dell’accoppiamento nel regno animale. Se tu i si limitassero ad
acce are la cosa, non ci sarebbero più cuori infranti.
Dean, forse, sta iniziando ad acce arlo. Griff è su un divano con
alcune ragazze ridacchianti e un Keith Moon dagli occhi a palla, che
gesticola per raccontare un’animata storiella. Fra sé e sé, Jasper fa il
punto in base ai fa i: Sono in una band, abbiamo un contra o, ho
scri o una canzone, è la diciannovesima in classifica, l’abbiamo
appena presentata in playback a Top of the Pops. L’hanno sentita
milioni di persone.
Sì, questi fa i dovrebbero essere a endibili.
A Jasper, «Darkroom» evoca una nuvola di soffioni che flu uano
sulle onde radio me endo radici nelle menti, dalle Shetland alle
Scilly. I soffioni volano anche a raverso il tempo. Forse «Darkroom»
farà presa sulle menti di persone non ancora nate, o di cui non sono
ancora nati neppure i genitori. Chi può dirlo? Jasper urta un casche o
d’oro con una camicia verde lime e una crava a rosso magenta.
Rivolge le sue scuse a Brian Jones dei Rolling Stones. «Niente di
ro o», replica Brian Jones. Poi s’infila una sigare a in bocca e gli
chiede: «Hai da accendere?»
Jasper annuisce e gli allunga l’accendino. «Complimenti per ‘We
Love You’.»
«Ah, ti è piaciuta? Davvero?»
«Ti stende senza darti tregua.»
Brian Jones tra iene il fumo per un po’ prima di bu arlo fuori.
«In quella canzone suono il mellotron. Il mellotron è una ro ura di
q
palle, sai, per via del ritardo con cui a acca. Noi due ci
conosciamo?»
«Mi chiamo Jasper. Suono la chitarra. Utopia Avenue.»
«Buon posto per una vacanza. Non mi piacerebbe viverci.»
Jasper si domanda se sia una ba uta. «Come mai sei l’unico degli
Stones da queste parti?»
Brian Jones s’incupisce. «De o tra noi… Non lo so bene.»
«In che senso?»
«A volte mi fisso su certe cose.»
«Cose di che tipo?»
«Be’, ero convinto che stasera dovessimo presentare ‘We Love
You’ a Top of the Pops. Quindi ho mollato tu o e mi sono fa o
accompagnare qui in macchina da Tom… solo per ritrovarmi in
mezzo a un sacco di tizi della BBC che, spiazzati, mi giuravano che
no, i Rolling Stones non si stavano esibendo lì e non l’avrebbero
fa o.»
«Quindi… qualcuno ti ha fa o uno scherzo telefonico, è questo
che vuoi dire?»
«No. Era più un messaggio nella mia testa.»
A Jasper viene in mente Toc-Toc. «Un messaggio?»
Brian Jones si stravacca contro la parete. «O forse, piu osto, il
ricordo di un messaggio. Ma quando cerco di capire da dove venga,
non trovo niente. È come… una scri a sul muro che svanisce mentre
cerchi di leggerla.»
«Sei fa o?» chiede Jasper.
«Lo spero.»
«Hai mai ricevuto visite da esseri incorporei?»
Spostando la frangia bionda dagli occhi inie ati di sangue, Brian
Jones fissa Jasper. «Parliamone.»

Nei dieci anni trascorsi alla Bishop di Ely, Jasper non si era mai
fa o nemici degni di questo nome e aveva un unico amico. Il suo
compagno di stanza, Heinz Formaggio, era figlio di scienziati
svizzeri. Tre se imane dopo il primo toc-toc sul campo da cricket,
quando il numero degli «episodi» era diventato a due cifre, Jasper
aveva raccontato a Formaggio del rumore che sentiva. Erano so o
gg
una quercia, durante un’ora buca. Nella mezz’ora in cui gli aveva
parlato, Formaggio era rimasto appoggiato all’albero. Per un po’ non
aveva replicato nulla. Le api esploravano il trifoglio. Le linee
melodiche dei diversi cingue ii si intrecciavano fra loro. Un treno
dire o a nord a raversava la pianura acquitrinosa.
«L’hai raccontato a qualcun altro?» aveva infine chiesto
Formaggio.
«Non è una cosa che mi va di sbandierare troppo.»
«Be’, maledizione, come darti torto.»
Un robusto giardiniere stava spingendo un tosaerba.
«Hai una tua teoria?» aveva chiesto Jasper.
Formaggio aveva aperto la mano come chi lavora a maglia con le
dita. «Di teorie ne avrei qua ro. La Teoria A postula che i toc-toc
siano una tua messinscena per a irare l’a enzione.»
«Non sono una messinscena.»
«Tu sei sincero a un livello morboso, De Zoet. La Teoria A è
quindi da escludere.»
«Bene.»
«La Teoria B postula che a produrre il rumore sia un’entità
sovrannaturale. Potremmo ba ezzare lui, lei o questa cosa con il
nome di ‘Toc-Toc’.»
«È un lui. ‘Entità sovrannaturale’ non suona poi così scientifico.»
«Fantasmi, demoni e angeli sono antiscientifici, eppure, se ci fosse
un sondaggio, scomme o che sarebbero più numerosi quelli che
credono in certe cose di quelli che credono nella teoria della
relatività. Perché sostieni che sia un ‘lui’?»
«Non lo so come faccio a saperlo. Però è un lui. E la Teoria B non
mi entusiasma granché. Far parte della maggioranza non significa
necessariamente essere nel giusto.»
Formaggio aveva annuito. «Per di più, i fantasmi appaiono. Gli
angeli intervengono. I demoni terrorizzano. Non si limitano a
bussare. Un rumore simile puzza di seduta spiritica di quart’ordine.
Scartiamo la Teoria B, per il momento.»
A raverso le finestre aperte dell’aula di musica dall’altra parte del
prato giungeva il canto di trenta ragazzi che intonavano «Sumer is
icumen in…»
«La Teoria C ti piacerà ancora meno. Postula che Toc-Toc sia una
forma di psicosi, senza alcun fondamento reale. In parole povere,
tu i quei toc significano che sei toccato.»
I ragazzi erano usciti dall’Old Palace e si erano precipitati giù per
il pendio.
«Ma sento Toc-Toc con la stessa chiarezza con cui sento te.»
«Giovanna d’Arco sentiva davvero la voce di Dio?»
Una nuvola, passando, aveva ge ato sulla quercia una rete
screziata di luci e ombre.
«Dunque più Toc-Toc sembra vero, più io sono pazzo?»
Formaggio si era tolto gli occhiali per ripulire le lenti. «Esa o.»
«Prima di quella partita di cricket nella mia testa c’ero solo io. Ora
siamo in due. So che Toc-Toc è presente anche quando non bussa.
Sembro folle, me ne rendo conto. E non posso dimostrare di non
esserlo, immagino. Tu però sapresti dimostrare che lo sono?»
Dalla finestra dell’aula di musica arrivava la voce dell’insegnante:
«No, no, così non va!»
«Quale sarebbe la Teoria D?» aveva chiesto Jasper.
«È piu osto una Teoria X. La Teoria X amme e l’ipotesi che Toc-
Toc non sia né una messinscena, né un fantasma, né un episodio
psicotico ma un’incognita, una X.»
«Non è che la Teoria X è solo una maniera raffinata per dire: Non
ho alcuna spiegazione?»
«Di spiegazioni vere e proprie non ne abbiamo. La Teoria X si
propone di trovarle. Tu hai provato a interagire con Toc-Toc?»
«Ogni giorno, durante le preghiere, in un certo senso trasme o
via etere un messaggio: ‘Parlami’, oppure ‘Chi sei?’ o ‘Cosa vuoi?’»
«Nessuna risposta per il momento?»
«Per il momento no.»
Formaggio si era soffiato via una coccinella dal pollice.
«Dobbiamo ragionare in modo scientifico. Non come farebbe un
ragazzino che ha paura di essere squilibrato o posseduto.»
«E in modo scientifico come si ragiona?»
«Registrando la durata, la frequenza e lo schema delle bussate.
Analizzando i dati. Queste visite capitano a casaccio? Ci sono schemi
ricorrenti? Devi fare a enzione. Toc-Toc è collegato
g
indissolubilmente a Ely o a luglio ti seguirà in Zelanda?» Erano
suonate le campane, le colombe tubavano, il tosaerba tosava l’erba.
«Toc-Toc non potrebbe essere un messaggero di qualche tipo? E se
così fosse, qual è il messaggio?»

«Un toc-toc-toc nella testa non mi sembra granché come


messaggio.» Brian Jones interrompe Jasper prima che gli racconti il
seguito. «Quello che hai lì è un puntolino indù o una voglia?» Con le
pupille contra e di chi ha assunto certe droghe, il Rolling Stone lo
sta fissando in mezzo alle sopracciglia. Inizia a tamburellargli un
dito sulla fronte. «Qui. Si sta chiudendo. È timido. Noi due ci
conosciamo?»
«Mi chiamo Jasper. Suono la chitarra. Utopia Avenue.»
«Nel Gloucestershire chiamano jasper le vespe.» Brian Jones si
me e a parlare con qualcuno alle spalle di Jasper: «Mi stavo
chiedendo, Steve, se anche voi scellerati dell’East End chiamate
jasper le vespe».
«Noi non le chiamiamo in nessun modo quelle stronze. Le
spiaccichiamo e basta.» Steve Marrio degli Small Faces allunga una
birra scura a Jasper. «Benvenuto ai massimi livelli. E per Sua
Satanica Maestà…» Steve Marrio ficca una scatole a di tabacco da
fiuto Ogden’s nel palmo di Brian Jones. «Buon compleanno.»
«È oggi?» Brian Jones dà un’occhiata alla scatole a. «Tabacco?»
Steve Marrio si preme una narice con un dito e simula una
pippata.
«Ah. In questo caso andrò a incipriarmi il naso…»
Jasper beve un sorso di birra.
«Hai appena infranto la prima regola», gli dice Steve Marrio .
«Mai acce are un bicchiere da uno sconosciuto. Potrebbe essere
corre o.»
«Tu non sei uno sconosciuto», dice Jasper. «Sei Steve Marrio .»
Il cantante sorride come se fosse una ba uta. «La pollastra che c’è
nel tuo gruppo. È una trovata pubblicitaria o suona sul serio?»
«Elf non è una trovata. Suona. Canta. Scrive canzoni.»
L’altro sporge la mandibola. «È una novità, devo amme erlo.»
«C’è anche Grace Slick. Dei Jefferson Airplane.»
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«Lei canta ed è sexy da morire, però non suona.»
«Rose a Tharpe.»
«Rose a Tharpe non è in una band. Ha una band.»
«La Carter Family.»
«Quelli sono prima di tu o una vera famiglia, che poi è diventata
un gruppo musicale.»
«Dunque dunque dunque.» Una mano stringe la spalla di Jasper e
una voce nasale dello Yorkshire gli riempie le orecchie. «In questa
sala brillano abbastanza stelle da illuminare tu o l’Essex, ma vengo
dire amente da te, mio buon Sir Jasper, a congratularmi per la tua
prima volta a Top of the Pops.» Jimmy Savile fa un tiro da un grosso
sigaro. «Come ti è sembrato?»
«È stato tu o un po’ confuso», amme e Jasper.
«È quello che dicono sempre le fanciulle al giovane Stephen qui
presente.» Jimmy Savile lancia un’occhiata sarcastica a Steve
Marrio . «Risorto dalle sue ceneri.»
«Non mi ero accorto di essere morto, Jimmy», riba e Steve
Marrio .
«Gli artisti sono sempre gli ultimi a sapere. Tornando a noi,
Jasper, Capitan Didgeridoo, là in fondo, si sba e la vostra gagliarda
e maliarda suonatrice d’organo?»
«Se intendi Elf e Bruce, sì, vivono insieme.»
«Per te è un po’ troppo vecchia, Jimmy, non ci piove», dice il
cantante degli Small Faces. «Ha più di sedici anni, voglio dire.
Insomma, la legge sarebbe dalla tua.»
«Upf!» Jimmy Savile sporge il mento in avanti. «Il gancio destro di
Marrio colpisce ancora! Era questo a cui puntavi quando la tua
avventura nel mondo delle celebrità ha iniziato a perdere colpi? Il
pugilato? Non riesco a immaginarti. Non con quel fisico. Vi chiamate
Small Faces non a caso. Come ci si sente, dimmi, giovane Steven, a
essersi fa i spennare completamente, sonoramente fino all’ultimo
penny da Don Arden? Neanche i vestiti che indossi sono tuoi. Non
vorresti marcire e crepare una volta per tu e? Al posto tuo, io lo
vorrei.»
Perfino Jasper riesce a capire che il volto di Steve Marrio trasuda
odio.
«Mi scuso davvero se ho toccato un nervo scoperto», conclude
Jimmy Savile. «Se vuoi ti presto i soldi per l’autobus che ti porterà a
casa, che ne dici?»

Tin-tinggg! In una sala privata del Durrants Hotel, Howie Stoker,


tornato di fresco da Saint-Tropez sfoggia un blazer turchese e fa
tintinnare un bicchiere con un cucchiaio. La se imana a Saint-Tropez
ha accentuato la sua abbronzatura. Se fosse un pollo arrosto, pensa
Jasper, diresti che è stato in forno venti minuti di troppo. Tinggg! Lo
sguardo di Howie fa il giro della stanza. Fra gli ospiti ci sono Freddy
Duke, della Duke-Stoker Agency che sta so o la Moonwhale, Levon
con un completo a righe lampone e vaniglia, Bethany con i capelli
raccolti, perle nere e abito nero, Elf con lo stesso look da squaw
indiana di Top of the Pops, Bruce Fletcher con una camicia di flanella
color ruggine e una collana con un dente di squalo, Bea Holloway
vestita come una studentessa di recitazione della RADA, uno
smunto studente d’arte di nome Trevor Pink che è lì con Bea e ha le
mani sporche di vernice rosa, così è facile ricordarselo, Dean con una
giacca stampata con la Union Jack, la sua fidanzata Jude che è
appena appena più alta di lui, Griff e Victor French, ovvero l’uomo
della A&R con la faccia a uovo tipo Humpty Dumpty, e l’adde o
stampa Nigel Horner, che invece ha la faccia da levriero. Troppi occhi.
Gli incontri mondani sono test mnemonici, le occhiate partono come
frecce.
Tingggggg! Cala il silenzio.
«Amici», inizia Howie Stoker, «amici della Moonwhale e amici
degli amici. Vorrei dire solo due parole, quindi eccole. Quando ho
raccontato ai miei amici di New York che stavo per avventurarmi nel
mondo musicale londinese, la tipica reazione di tu i è stata: ‘Howie,
ti ha dato di volta il cervello? Sarai pure un asso a Wall Street, ma
nello show business sei un pivello, quelle carogne di inglesi ti
spremeranno come un limone!’ I miei nemici non facevano che
ridere, fino alle lacrime, all’idea che Howie Stoker rimanesse in
mutande. Bene. Sono sicuro che adesso quei figli di buona donna
non stanno più ridendo! Non da quando il primo singolo del primo
gruppo che ho ingaggiato è nella Top 30 britannica!»
g pp g gg p
Scoppiano urrà e applausi.
«Se siamo qui oggi è per via di cinque individui di notevole
talento», continua Howie Stoker. «Ma voglio nominarli e me erli in
imbarazzo uno per uno.»
Cinque? si domanda Jasper. Probabilmente è compreso anche
Levon.
«Prima: la nostra splendidamente proporzionata pizzicatrice di
lira, titillatrice di tasti d’avorio regina del folk. La sola e unica, Elf
Holloway!»
Applausi. Sguardi aristocratici scrutano la sala dai dipinti sulle
pareti. Jasper è colpito dal sorriso di Elf, gli è difficile interpretarlo.
Howie Stoker si volta verso Dean. «Un mucchio di gente sostiene
che un bassista è un chitarrista fallito. ‘Fesserie!’ dico io. Un
bell’applauso, forza!»
I presenti applaudono. Dean alza il bicchiere con briosa
disinvoltura.
Howie Stoker prosegue: «I ba eristi sono ingiustamente
protagonisti di molte barzelle e. Barzelle e come…» Apre un foglio
di carta ripiegato e si me e gli occhiali. «Qual è la differenza fra un
ba erista e un buono del tesoro? Nessuno lo sa? Uno dei due
maturerà e fru erà soldi.» Qualche sorriso di circostanza. Griff
annuisce come se certe ba ute le avesse già sentite tu e. «Qual è
quella cosa che ha tre gambe e un solo coglione? Non ci arrivate? Lo
sgabello su cui siede un ba erista. Ne volete un’altra? Eccola: come
si chiama una bellissima donna al braccio di un ba erista?»
«Tatuaggio», risponde Griff con le mani a megafono.
«Griff, così mi rovini le ba ute! Ma avanti il prossimo, l’uomo che
ha firmato il primo successo degli Utopia Avenue, il primo di molti,
non ho dubbi. Il nostro re della Stratocaster, Jasper de Zoet!» E dopo
aver pronunciato male il nome, solleva il bicchiere. Il chitarrista evita
tu i gli sguardi concentrandosi a fondo su una briciola appiccicata al
bavero di Howie Stoker.
Tingggggg. «Non sono un tipo che se la canta e se la suona», dice
Howie Stoker scrollandosi il bavero, «quindi non voglio annoiarvi
illustrandovi quanto sia stato determinante il mio apporto nella
creazione e nell’orchestrazione – tra andosi di musica il doppio
pp
senso è voluto, chiaro – degli Utopia Avenue. Lascerò che siano i
risultati a parlare e farò invece un paio di riflessioni su ciò che mi ha
fa o da mentore e da guida: l’istinto che mi viene dalle viscere.
Essere competenti è un gioco da ragazzi. La competenza la puoi
imparare, prendere in prestito, rubare. Ma l’istinto? O ce l’hai o non
ce l’hai. Non ho ragione, Victor?»
L’uomo della A&R solleva il bicchiere all’indirizzo di Howie.
«Altroché se ce l’hai, Howie.»
«Che vi dicevo? Be’, quando ho incontrato per la prima volta
Levon sulla Se ima Avenue da Bertolucci’s, un ristorante che
annovera fra i suoi clienti Robert Redford, Richard Burton e
Humphrey Bogart, le viscere mi hanno de o: ‘Howie, questo è il tuo
uomo’. Stessa storia quando ho sentito le registrazioni del gruppo al
Marquee. Le mie viscere hanno le eralmente sobbalzato e hanno
de o: ‘Questa è la tua band’. E quando ho conosciuto Victor al
Dorchester – perché andare altrove quando sei a Londra per
folleggiare? – le viscere mi hanno de o: ‘Questa è la tua casa
discografica’. Bang bang bang! Più di sedicimila copie vendute e una
straordinaria esibizione sul palcoscenico televisivo inglese per
eccellenza dimostrano che le mie viscere non hanno perso il fiuto per
gli affari.»
«Le viscere», sussurra Griff nell’orecchio a Jasper, «Sono piene di
merda.»
«E volete sapere la parte migliore?» Il sorrise o di Howie Stoker
sonda la sala. «Questo è solo l’inizio. Victor, credo sia giunto il
momento del tuo annuncio a sorpresa. S’il vous plaît.»
«Grazie per lo stimolante discorso, Howie», dice Victor French.
«In effe i ho buone notizie. Mi ha chiamato da Amburgo Toto
Schiffer, il grande capo della Ilex. Abbiamo finito da poco di parlare
e ci ha dato il via libera per incidere non solo un secondo singolo
dopo ‘Darkroom’… ma anche un intero LP.»
Bea, Jude ed Elf esplodono in uno «Iu-uuu!» liberatorio.
«Palla in rete, cazzo!» esclama Griff.
Dean inclina la sedia all’indietro. «Credevo che non ce l’avreste
mai chiesto.»
«Dovrete me ercela tu a», dice al gruppo Victor French.
«Vogliamo il disco nei negozi prima di Natale.»
«Nessun problema», prome e Levon. «La band ha un mucchio di
canzoni rodate in concerto pronte per andare su vinile.»
«L’ideale sarebbe pubblicare il secondo singolo una se imana
prima dell’album», dice Nigel Horner. «Fare più rumore possibile,
questo è il gioco.»
«Per prima cosa rivedrò il calendario dei concerti», dice Levon.
«Ne annullerò qualcuno di poco conto per dare spazio alle sessioni
in studio.»
«C’è qualche possibilità di avere un vero studio di registrazione,
stavolta?» chiede Dean.
«Quelli dei Fungus Hut con ‘Darkroom’ se la sono cavata
abbastanza bene», fa notare Victor French. «E a prezzi competitivi.»
Levon si sistema la crava a. «Sono sicuro che il gruppo saprà
ripagare la fiducia di Schiffer con uno dei migliori dischi dell’anno.»
«Ti vedo molto silenzioso, Jasper», commenta Howie.
Jasper non sa bene se sia una critica o un invito a parlare. Fa per
bere un sorso di vino e scopre che il bicchiere è vuoto.
«Abbiamo bisogno di un paio di canzoni delle tue», dice Nigel
Horner. «Qualcosa di acca ivante come ‘Darkroom’. D’accordo?»
«Farò del mio meglio.» Jasper vuole che tu i gli occhi sme ano di
fissarlo. Deve concentrarsi su ciò che teme di sentire.
«Di canzoni ne scriviamo anche io ed Elf, sai?» dice Dean.
Eccolo… Nocche che colpiscono il legno a un ritmo costante.
Toc… toc… toc… Il suono è più discreto delle proteste di Dean, ma
più rumoroso di qualche giorno prima. Non lo sente nessun altro.
Quel messaggio ha un unico destinatario.

Jasper aveva seguito il consiglio di Formaggio e aveva tenuto un


taccuino intitolato T2 per dodici mesi, fra l’aprile del 1962 e l’aprile
del 1963. All’interno aveva registrato orari, durate e contesti degli
episodi di Toc-Toc, riportando il tu o in olandese. Per descrivere i
vari stili delle bussate, Jasper aveva ado ato la notazione musicale: f
per forte, ff, fff, cresc. per crescendo, bruscamente, rubato, eccetera. Quei
dati avevano messo in luce diversi fa i. Le visite di Toc-Toc
tendevano a concentrarsi intorno a mezzogiorno e a mezzano e.
Capitavano indifferentemente sia quando Jasper era solo sia quando
era in compagnia, mentre faceva la doccia, mentre studiava, nel coro,
al refe orio. Via via che l’anno procedeva, la frequenza era
aumentata da due, tre o qua ro visite alla se imana a due, tre o
qua ro visite al giorno. Toc-Toc aveva accompagnato Jasper fino a
Domburg in Zelanda, dove passava l’estate. Le bussate si erano
estese dalla triple a di toc-toc uditi sul campo da cricket a sequenze
complesse che potevano durare anche un minuto. Erano anche
cresciute di intensità e si erano fa e più ravvicinate. Dietro le
bussate Jasper percepiva un’intelligenza. A volte sembravano
disperate, o rabbiose oppure cupe. I tentativi di comunicare con Toc-
Toc – un colpo per un sì, due colpi per un no – non avevano portato
a nulla. Nonostante l’a ività in aumento, con il passare dei mesi
Jasper si era sempre più abituato a lui. Fra le varie e possibili
allucinazioni uditive, il rumore di una bussata era relativamente
innocuo. Non era una voce che si proclamava Dio, o il diavolo che
gli suggeriva di uccidersi, e nemmeno il giacobita impiccato che
secondo le credenze infestava la scalinata di Swa am House. A
confronto dei compagni di classe che avevano affrontato l’epilessia, i
postumi della polio, la perdita di un occhio o anche solo una grave
balbuzie, Toc-Toc era una croce facile da portare. Il fedele Formaggio
non ne aveva fa o parola con nessuno e aveva continuato a
mostrarsi incuriosito dalla stramberia del suo compagno di stanza,
ma potevano passare giorni senza che i due ne parlassero. Giorni che
Jasper si sarebbe presto lasciato alle spalle, e a cui avrebbe guardato
come al finale di un’età dell’oro.

«Quelle parole», dice Victor French a Jasper, «nell’ultimo verso di


‘Darkroom’: We hid under trees from the rain and the dice; but under the
trees the rain rains twice d. Cosa significhino non lo so, però è come se
lo sapessi, in realtà.» Un cameriere versa il caffè nelle tazze di
porcellana da una caraffa d’argento con il beccuccio stre o. Il porto
viene servito a tu i su vassoi d’argento. «Da dove ti vengono parole
come queste?»
Jasper preferirebbe festeggiare l’esibizione a Top of the Pops
fumandosi una canna sul lago Serpentine, a bordo di una barche a a
remi, lontano da Victor French, Howie Stoker e da chiunque
pretenda una qualunque risposta da lui. «È difficile parlare di come
si scrive. Le mie parole le pesco dallo stesso posto in cui tu peschi le
tue: la lingua che si autodefinisce ‘inglese’. Quello che ti salta
all’occhio, o all’orecchio, è il modo in cui le ho combinate. Le idee
che flu uano al loro interno come semi derivano dal mondo,
dall’arte, dai sogni. O magari mi saltano in testa e basta, come o
perché non lo so. A quel punto avrò un verso, che poi proverò a
plasmare in modo che combaci con il ritmo complessivo. Devo
tenere conto anche delle rime. L’ultima parola che sto scegliendo è
facile da far rimare con un’altra? La rima risulterebbe addiri ura
troppo facile? Regolarsi secondo questo cliché è ingannevole. Mai
usare la rima ‘amore-cuore’. Oppure, mai scrivere ‘stringimi forte
fino alla morte’. Se una rima è troppo artefa a suona forzata. ‘Pepsi
Cola’ e ‘Angola’, per esempio.»
«Affascinante», Victor French dà un’occhiata all’orologio.
Bruce sostituisce il bicchiere di porto vuoto con uno pieno e dice:
«Elf era fantastica sui monitor della BBC. Le telecamere hanno perso
la testa».
«Ce la siamo cavata bene tu i», commenta Elf.
«Io sto solo aspe ando che mi chiami Vogue e mi proponga la
copertina», dice Griff. «Pensavo a una cicatrice sull’altro lato della
faccia per fare pendant.»
«Qualsiasi donna finisca a Top of the Pops viene inquadrata
spesso», dice Elf. «In quello show siamo una specie esotica.»
«Sono le tue origini folk», dice Bruce. «Il folk è tu a una questione
di rapporto dire o e autenticità. È questo che riescono a cogliere le
telecamere.»
Dean esala una lama di fumo. «Secondo te la musica folk ha il
monopolio dell’autenticità, è così, Bruce?»
«Se t’incasini con la musica in un locale folk, non hai modo di
nasconderlo. Non ci sono orde di ragazzine urlanti a coprire il
suono. Chi suona è nudo.»
«A quanto pare, sono stato nei locali sbagliati», scherza Howie.
q p g
«La domanda quindi è», continua Bruce, «quale delle canzoni di
Elf diventerà il prossimo singolo degli Utopia Avenue?»
«È meglio se di questo ne parliamo in un altro momento», dice
Elf.
«Questo aspe o lo abbiamo già definito in giugno, Bruce», Dean
cerca un posacenere, alla fine usa un pia ino, «mentre tu facevi
dentro e fuori, fuori e dentro e dentro e fuori nell’allegra Parigi. A
Jasper è spe ato il singolo di debu o, a me quello dopo e a Elf il
terzo. Anche per questo motivo sul lato B di ‘Darkroom’ c’è un pezzo
di Elf. Per il quale lei prende le stesse royalties che spe ano a Jasper
per il lato A, fra l’altro.»
«Prima di decidere in questo senso», dice Victor French, «sarebbe
più saggio vedere cosa succederà durante le prime sessioni ai
Fungus Hut.»
«Victor ha ragione», dice Bruce. «Ha già visto un centinaio di
gruppi con una hit da favola morire precocemente perché si sono
fo uti con il secondo singolo. Il secondo dovrà per forza rivelare
l’ampia gamma di gusti della band.»
Dean è diventato paonazzo. «Non siamo mica una cazzo di
gelateria.»
«Amico», dice Bruce, «questo è l’autunno della Summer of Love.
Quando ascolto ‘Abandon Hope’ sento rovina e tristezza. Per rifarmi
a un conce o sintetico di Howie: non è molto a uale. La nuova
canzone di Elf, invece, ‘Unexpectedly’, è così a uale da incarnare
l’anno che verrà. Giusto, Howie?»
Jasper non crede che Howie abbia mai ascoltato «Unexpectedly»,
ma il responsabile degli investimenti della Moonwhale serra le
labbra e annuisce. «Vedere cosa viene fuori dalle prime sessioni non
farà senz’altro male.»
«Ringrazio tu i per l’interessamento», dice Elf, «ma…»
«Se la seconda hit sarà una canzone di Elf Holloway», dice Bruce,
«i nostri fan scopriranno che gli Utopia Avenue sono sia yin sia
yang. Si diranno: ‘Non c’è nulla che questo gruppo non sia in grado
di fare’. E a scoprire la band saranno anche le ragazze. ‘Abandon
Hope’ è una canzoncina fantastica, Dean, non fraintendermi, ma se
sarà lei a uscire dopo ‘Darkroom’, gli Utopia Avenue finiranno in
p g p
una piccola nicchia, verranno etiche ati come ‘cloni dei Cream’. E a
quel punto, quando nel terzo singolo a cantare sarà Elf, tu i gli
amanti del blues penseranno: Che ci fa questa ragazza nella mia
band preferita? Immagina un nuovo singolo dei Rolling Stones
cantato da una tipa. Di-sa-stro. È tempo di stabilire che Elf è
fondamentale nel ruolo di cantante. Ora.»
«Non glielo dice nessuno?» domanda Dean al resto della sala.
«Dire cosa?» Il sorriso di Bruce a Jasper risulta indecifrabile.
«Che andare a le o con Elf non basta a darti diri o di voto.»
Qualcuno sussulta, qualcuno borbo a, tu i guardano Elf.
«Ragazzi», dice Levon, «vediamo di rilassarci un po’…»
«Come si diverte Elf nel suo tempo libero è affar suo», dice Dean.
«Il gruppo però è affar mio. E il nocciolo, Bruce, è che tu non puoi
esprimere la tua malede a opinione su quello che riguarda gli
Utopia Avenue. Mai.»
Elf sospira. «Possiamo farla finita? Dovremmo essere qui a
festeggiare.»
«Non è che voglio esprimere la mia opinione, Dean.» Bruce gli
parla come un insegnante paziente. «Sì, sto con Elf, e sì, sono un
uomo fortunato, e no, non sono nella band. Ma se vedo che state
andando a sba ere contro un gigantesco iceberg, allora non me ne
starò zi o. Urlerò: ‘A enti a quel gigantesco iceberg, dannazione!’ E
se il vostro prossimo singolo sarà ‘Abandon Hope’, allora temo
proprio che stiamo parlando di un iceberg.»
«Rinfrescami la memoria», riprende Dean. «Quanti successi hai
piazzato di recente nella Top 20, signor McCartney? Mi è sfuggito o
me ne sono dimenticato.»
Bruce sorride, me endo in confusione Jasper. «Non devi far parte
dei Beatles per avere opinioni valide su come funzionano gli affari in
campo musicale. Dean.»
«Comportandoti come il re dello show business, quando hai
mandato la tua carriera a pu ane, fai la figura del fesso. Fesso.»

I freni stridono sul lastricato di Mason’s Yard. Sono spuntate le


stelle. Un paio di ingressi più in là, la Indica Gallery è aperta fino a
tarda sera per qualche visita privata. Jasper sente delle risate. «Eccoci
p q p p
di nuovo qui», dice Dean. I due sono davanti alla porta del 13A.
Sono trascorsi qua ro mesi da quando hanno provato a imbucarsi
facendo il nome di Brian Epstein. Il manager dei Beatles si è tolto la
vita solo due se imane prima. Per un paio di giorni la notizia ha
fa o il giro del mondo. «Il tuo nuovo amiche o ha promesso che
avrebbe inserito i nostri nomi nella lista, giusto?»
«Sì», risponde Jasper. «Però me l’ha de o dopo una bo a di coca
nei bagni della BBC… Quindi non garantisco.»
«Chi non risica non rosica.» Dean preme il campanello dorato.
Squilla. La griglia dello spioncino si apre di sca o e appare l’occhio
onniveggente. «Buonasera, signori.»
«Salve», dice Dean. «Siamo, ehm…»
«Signor Moss. Signor De Zoet», dice l’occhio. «Come state?»
Dean guarda Jasper, poi di nuovo l’occhio. «Bene, e lei?»
«Congratulazione per Top of the Pops», continua l’occhio
onniveggente. «La prima di molte esibizioni, non ci sono dubbi.»
«Grazie», risponde Dean. «Non mi aspe avo che, be’…»
Lo spioncino si richiude e il 13A si apre, rivelando un uomo calvo
con un fisico da lo atore abbigliato come un cocchiere. In
so ofondo, si sentono musica e chiacchiere. «Benvenuti allo Scotch of
St James. Io sono Clive, la direzione mi ha incaricato di proporvi
l’iscrizione al club. La segreteria spedirà i documenti necessari alla
Moonwhale domani in ma inata, ma per stasera, prego,
accomodatevi…»

***

Soffi i alti, bella gente, vestiti che andranno di moda l’anno dopo,
occhi che non se ne fanno scappare una, un corridoio che sfocia in un
salone. Il fumo è denso, la luce delle lampade dorata, gli specchi
potrebbero essere passaggi che danno su altre sale, oppure
semplicemente specchi. Jasper li evita, per quanto gli è possibile.
Diamanti che penzolano, boomerang di risate, champagne
spumeggiante e pareti tartan, sugli scaffali file di bo iglie, i
pe egolezzi si spargono a macchia d’olio, i volti sono famosi ma
hanno angolazioni strampalate, il talento è affamato, il talento è
g p
giudicato, le labbra sono lucide, i denti messi in mostra, i profumi
sono francesi, i bru i ceffi sono del Nord, i novizi ciondolano e
flirtano con chi capita, la vecchiaia corteggia la gioventù, la gioventù
valuta i pro e i contro, i sensi si rimescolano. Lungo i muri ci sono
file di tavolini appartati. Ferma in un angolo, c’è una vera carrozza.
Dal seminterrato palpita fuori la musica. «Resta con me, piccola!»
esclama una voce maschile, «scoreggerai nella seta per tu a la tua
vita.» Jasper si sente come se fosse a spasso in uno zoo senza gabbie.
Dean gli bisbiglia in un orecchio: «Guarda! C’è Michael Caine. E
c’è anche George Best! No, che fai, non guardare!» Jasper guarda. Il
noto a ore ride per quello che gli sta dicendo un uomo barbuto,
bruno e più basso di lui. «Ma chi è George Best?»
«Sei serio? Davvero non sai chi è George Best?»
«Sono serio, non lo so chi è George Best.»
«Uno dei tre più grandi calciatori del pianeta.»
«Bene. Vado a prendere da bere. Tu cosa vuoi?»
Dean si fa serio. «Cosa andrà bene bere in un posto del genere?»
«Mio nonno diceva sempre: ‘Nel dubbio, chiedi un whisky con
ghiaccio’.»
«Perfe o, grazie. Faccio un salto al cesso. Torno fra un a imo.»
Jasper si apre un varco verso il bancone, dove tre voci altissime
cercano di penetrare il baccano indistinto. «Sì, Eppy ha fa o dei
Beatles un patrimonio ambulante», dice Voce Uno, «ma poi ha fallito
con il merchandising. Eppy era solo un venditore di mobili molto,
molto fortunato.»
«E com’è che i ragazzi sono rimasti invischiati con lui?» chiede
Voce Due.
«Be’», risponde Voce Tre, «il mio autista ha sentito dall’autista di
Ringo che erano tu i d’accordo di dargli il benservito quando
tornavano dal fine se imana in Galles con il Maharishi.»
«Ma a Eppy è giunta voce del vile complo o», dice Voce Uno.
«Visto? La sua ‘overdose accidentale’ inizia a sembrare meno
accidentale.»
«Chiacchiere senza fondamento», sostiene Voce Due. «Ha
ingollato troppe pillole, tu o qui. Eppy è sempre stato più vizioso di
quanto sembrasse…»
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«O la borsa o la vita.» Sfoggiando un sombrero, Brian Jones se ne
sta appartato a un tavolo con due ragazze. «Il tuo whisky o la vita,
per meglio dire. Mi fa piacere che tu sia qui.» Non c’è traccia di
Dean, Jasper gli cede quindi il bicchiere di Kilmagoon. Quando si
rifarà vivo, posso sempre prenderne un altro. «Ti presento la signorina
Cressy…» Brian Jones indica una ragazza longilinea dai riccioli
scuri, «e l’amica del cuore della signorina Cressy…»
«Nicole.» Nicole agita una mano. «Ciao.» Una frange a alla Mary
Quant le nasconde gli occhi per metà. «Ti conosco? I tuoi capelli mi
dicono qualcosa.»
«Jasper era a Top of the Pops proprio stasera», spiega Brian Jones.
«Lo sapevo!» Nicole si premia applaudendosi forte.
«Sono i capelli a fare il personaggio. Come il magico casco d’oro
di Brian.»
«La fonte della mia virilità da dio del sole», concorda lui.
«Se glieli tagliamo», aggiunge Cressy, «nessuno lo distinguerà da
una versione sbiancata di Mr Potato. Tu sei del segno del leone», dice
poi a Jasper.
«Pesci.»
«È proprio questa l’origine della tua sofferenza. Sei un Leone
nello spirito intrappolato nel corpo di un Pesci.»
Jasper immagina che ci stia provando, anche se Cressy sembra
giovane abbastanza da avere scuola il ma ino dopo. «Non mi
lamento», commenta.
«Adesso è il leone a parlare», interviene Nicole. «Gli uomini sono
quasi tu i dei piagnucoloni paurosi. Dovrebbero provare cosa
significa strapparsi i peli nelle parti intime. Ops.» Si preme un dito
sulle labbra. «Mi è scappato. Sono un poche ino brilla. Colpa del
signor Jones.»
Brian Jones brinda con Jasper. «Alla salute del salmone!» Fa un
tiro dalla sigare a di Nicole. Apollo si sta squamando.
«Prima stavi per raccontarmi qualcos’altro sui messaggi nella tua
testa», dice Jasper. «Poi è arrivato Steve Marrio .»
Brian Jones scocca delle occhiate intorno alla faccia di Jasper. «Era
solo stasera? È come se fosse passato molto più tempo.»
«Posso fare un incantesimo che ti protegga», dice Nicole. «Ho
fa o un corso da strega. In una vita precedente, la mia maestra era la
fata Morgana.»
«Signorina Cressy», salta su Brian Jones. «Via le dita dai miei
capezzoli, per favore. C’è un tempo e un luogo per tu o.»
«Non diceva così nel bagno del Flamingo», rivela Cressy a Jasper.
«Ops. Mi è scappato.»
«Signore», dice Brian Jones, «io e il mio amico abbiamo bisogno di
un po’ di privacy. Andate a divertirvi da sole per qualche minuto.»
«Noiosoni», me e il broncio Nicole. Le due abbandonano il
tavolo.
Brian Jones si sporge in avanti. La falda del cappello sfiora la testa
di Jasper. «Io, Keith e Mick ai tempi vivevamo in una topaia a
Chelsea. È lì che sono cominciati. Vanno e vengono. A volte i
messaggi sono amichevoli. Mi dicono: ‘Hai fa o proprio un bel
lavoro, Brian’. Altre volte mi dicono che razza di merda sono. Altre
volte ancora mi spediscono qua e là come un’oca impazzita senza
che ce ne sia bisogno. Come stasera: ‘Lime Grove Studios! Vai vai vai!’
Pensi che sia semplicemente il mio inconscio? Magari mi sono fa o
troppi acidi. Sembro svitato?»
«Non me la sento di giudicare nessuno. Sono stato due anni in
manicomio.»
Brian Jones è un tipo difficile da decifrare. «Può essere che ci
conosciamo già.»
A poca distanza si rovescia un vassoio pieno di bicchieri. Parte un
applauso.
Svelto. «La voce che senti ti è mai sembrata diabolica?»
Brian Jones beve il suo whisky. «Perché me lo chiedi?»

Jasper era sdraiato nell’infermeria della Bishop di Ely. Un


semplice mal di testa era diventato devastante. La capoinfermiera gli
aveva dato un’aspirina, poi se n’era andata a sbrigare altre faccende.
Un tuono era riecheggiato per gli acquitrini. Quel pomeriggio di
maggio era scuro come un’eclissi. Jasper aveva sentito un toc-toc alla
porta.
Chiunque fosse, aveva aspe ato che si decidesse a entrare o se ne
andasse.
Un nuovo toc-toc alla porta.
«L’infermiera non c’è», aveva de o lui ad alta voce.
Un nuovo toc-toc alla porta.
«Avanti, allora.»
Un nuovo toc-toc alla porta.
Aveva pensato che fosse uno studente del primo anno un po’
timido. Si era alzato di slancio dalla branda e con il cervello che gli
sba eva contro le pareti del cranio aveva raggiunto la porta.
Fuori, in corridoio, non c’era nessuno. Aveva pensato che fosse
uno scherzo e aveva richiuso.
Nel giro di un istante c’era stato un toc-toc alla porta.
Jasper l’aveva spalancata di sca o.
In corridoio non c’era nessuno. Nessuno.
Si era sentito scoppiare i timpani. Aveva i brividi.
«Toc-Toc?» aveva mezzo de o e mezzo pensato. «Sei tu?»
Nessuno aveva risposto e aveva richiuso.
Un nuovo toc-toc alla porta.
Quelle bussate potevano essere solo nella sua testa.
I primi proie ili di pioggia ba evano contro la finestra. Come
nocche che colpivano una superficie di legno, era arrivato un nuovo
toc-toc.
Sentiva che Toc-Toc lo stava scrutando a entamente, come un
cecchino, uno psicologo o un rapace. La pioggia tamburellava sulle
antiche pietre di Ely, sulle vecchie lastre di ardesia, sul fiume,
sull’asfalto e sui te ucci delle automobili. Una vera e propria
cacofonia si era abba uta su Jasper: toctoctoc-TOC-TOC-TOC-
tocchete-toc. Barcollando, era tornato alla branda e si era tirato la
coperta fin sopra la testa. Non sono pazzo, non sono pazzo, non sono
pazzo… si ripeteva, sapendo che era esa amente quello che
facevano i pazzi quando sprofondavano nel gorgo del delirio. Di
colpo le bussate si erano interro e.
Jasper aveva aspe ato, credeva si sarebbero rifa e vive.
Era riemerso dalla coperta. Non pioveva più, c’era solo il gocciolio
residuo dell’acqua.
q
Un nuovo toc-toc alla porta.
L’unica cosa che poteva fare era rifiutarsi di rispondere.
Dopo un ennesimo toc-toc la porta si era aperta. Era entrato un
impacciato studente del primo anno con un’uniforme di due taglie
più grande.
«Ciao. L’infermiera non c’è? Il signor Kingsley dice che sembro un
cadavere.»

Quella no e Jasper aveva fa o un sogno nitido come un film. La


neve cadeva su un tempio di montagna, fra alte pareti, te i spioventi
e abeti. Il sogno era ambientato in Giappone. C’erano delle donne,
spazzavano alcune passerelle di legno con scope rudimentali. Molte
di loro erano gravide. Una galleria rischiarata da una luce onirica
conduceva in una sala sormontata da una cupola. La sala ospitava
una dea voltata di spalle, dal busto ere o e inginocchiata, tre o
qua ro volte più grande di una donna umana, scolpita in un blocco
di cielo no urno. L’incavo delle mani giunte a conca aveva le
proporzioni di una culla. Gli occhi della statua fissavano
quell’incavo. La bocca da predatrice era spalancata. Se il tempio di
Shiranui è una domanda, stava affermando il pensiero di qualcuno,
allora questo luogo è la risposta. Le fiamme che ondeggiavano erano
mute, azzurre come l’ipomea. Rendendosi conto che era stato a irato
in quel posto per essere sacrificato, Jasper era fuggito a ritroso verso
il tempio a raverso la tortuosa galleria. Alle sue spalle, scivolando
orizzontalmente, dei paraventi di legno si richiudevano l’uno dopo
l’altro. Toc, toc, toc, toc. Jasper aveva raggiunto la sua stanza di
Swa am House, in questo mondo, aveva chiuso la porta a chiave e
si era nascosto nel le o. Continuava però a sentirlo. Toc-toc, toc-toc…
Una bussata dopo l’altra, Toc-Toc stava scavando un buco nella
parete che divideva il tempo nevoso in Giappone dalla sua stanza a
Ely. Una cosa simile non doveva assolutamente succedere… peccato
fosse già successa.

«Merda», dice Brian Jones. «Sembra un bad trip.» Il fumo dentro lo


Scotch of St James fa virare la luce sul marrone. Jasper continua a bere
il suo whisky, eppure il bicchiere non è mai vuoto. «Vi facevate tu i
di acido in quella scuola?»
«L’unica roba acida che girava erano le caramelle al limone, quelle
dure, sai, oppure l’acido cloridrico e quello delle ba erie. Era solo il
1962.»
«Heinz Formaggio è un nome vero? Heinz come i fagioli stufati
Heinz? E Formaggio scri o come quello che si mangia?»
«Sì. È di origine italo-svizzera-tedesca. Bad trip a parte, hai mai
sperimentato qualcosa di simile a Toc-Toc?»
Brian Jones si concentra. «I miei messaggi a volte sono sgradevoli,
ma il tuo Toc-Toc…»

***

«È un incubo, De Zoet!» Una voce familiare lo aveva raggiunto


a raverso un vasto spartiacque. «Stai avendo un incubo. Jasper!
Svegliati!»
Si era drizzato a sedere in un lampo, con gli occhi puntati su una
faccia che conosceva, pur non capendo bene se appartenesse all’Ora,
al Poi o al Sarà. La faccia apparteneva a Formaggio. Pur
confusamente, si trovavano nella loro stanza. Jasper pensava di
essere ancora in infermeria. Il bussare era cessato.
«Stavi parlando in una lingua straniera», aveva de o Formaggio.
«E non in olandese. Intendo una lingua straniera davvero. Cinese, o
qualcosa del genere.»
La sveglia faceva l’una e un quarto del ma ino.
«Che ti è preso?» aveva chiesto Formaggio.
Un toc-toc alla porta.
Jasper aveva guardato l’amico, sperando che lo avesse sentito
anche lui.
Un nuovo toc-toc alla porta.
«Lo senti?» Stava tremando.
«Sento cosa? Mi stai facendo preoccupare.»

Formaggio aveva assunto un’espressione torva. «Quindi adesso è


peggio che mai?»
p gg
«È come se il mio cranio fosse un chiodo e il rumore un martello.»
«Hai continuato a prendere nota dei dati?»
«Preoccuparmi per la mia salute mentale, Formaggio, è il
massimo che riesco a fare.»
«Ma non c’è stato nessun dialogo?»
«Nessuno. Bussa e basta. Non molla mai.»
«In questo momento sta bussando?»
«Sì.»
«Dev’essere terribile.»
«Solo ora so cosa significa davvero quella parola.»
«Posso fare un tentativo io?»
«Quello che vuoi.»
Formaggio aveva guardato negli occhi Jasper come se stesse
osservando l’interno di una caverna dall’entrata. «Toc-Toc,
vorremmo farti qualche domanda. Bussa una volta per dire no e due
volte per dire sì, per favore. Hai capito?»
Il bussare si era interro o. Il silenzio di Swa am House era
idilliaco. «Si è zi ito», aveva de o Jasper. «Credo che lui…»
Toc-toc, la risposta era arrivata forte e chiara.
Jasper era sconcertato. «Due bussate. Le hai sentite?»
«Io no, ma…» Formaggio stava rifle endo. «Se mi sente,
dev’essere collegato al sistema nervoso del tuo apparato uditivo.
Toc-Toc? Possiamo chiamarti così?»
Toc-toc era stata la replica. «Sì», aveva de o Jasper. «Due bussate.
Questa novità mi rende più pazzo o meno pazzo?»
«Toc-Toc, conosci il codice Morse?»
Dopo un a imo di silenzio era arrivato un solo toc. «No», aveva
de o Jasper.
«Peccato.» Formaggio si era avvicinato al le o. «Toc-Toc, tu esisti
indipendentemente da De Zoet?»
Toc-toc. «Sì», aveva confermato Jasper.
«Toc-Toc. Vedi te stesso come un demone?»
Una pausa. Toc. «No», aveva de o Jasper.
«Una volta avevi un corpo, come me e De Zoet?»
Toc-toc. «Questo era un sì deciso.»
«Toc-Toc, conosci il nome del Paese in cui ci troviamo?»
Toc-toc. «Sì», aveva risposto Jasper.
«È la Francia?»
Toc. «No.»
«È l’Inghilterra?»
Toc-toc. «Sì.»
«Dunque sai anche che siamo nel 1962, Toc-Toc?»
Toc-toc. «Un altro sì.»
«Toc-Toc, da quanti anni vivi dentro De Zoet? Ti dispiacerebbe
bussare una volta per ogni anno?»
Lentamente, come per assicurarsi che Jasper non perdesse il
conto, Toc-Toc aveva bussato sedici volte. «Sedici.»
«Sedici? Da quando De Zoet è nato, quindi?»
Toc-toc. «Sì.»
«Sei più vecchio di De Zoet?»
Un toc-toc deciso. «Sì.»
«Quanti anni hai?»
A dieci nuove bussate aveva fa o seguito una pausa. «Dieci»,
aveva de o Jasper, ma le bussate erano subito proseguite fino a
venti. «Venti.» Le bussate erano salite a trenta. «Trenta.» Jasper
aveva continuato così fino a cento. Duecento. Erano trascorsi un paio
di minuti prima che le bussate finalmente si interrompessero, al che
Jasper aveva riferito: «Seicentonovantatré». Il silenzio di Swa am
House era assoluto.
«Proviamo così.» Formaggio era andato alla sua scrivania e aveva
disegnato su un foglio una griglia con delle le ere. L’aveva portato
fino al le o di Jasper e lo aveva appoggiato sulla coperta.

1 2 3 4 5

1 - a b c d e

2 - f g h i j

3 - k l m n o

4 - p q r s t
5 - u v w x y

6 - z

«I numeri rappresentano le coordinate x-y», aveva spiegato


Formaggio con la sua voce a misura di Toc-Toc. «Devi scandire le
parole le era per le era, prima rifacendoti alle colonne verticali, poi
alle righe orizzontali. Se vuoi scandire la parola ‘sole’, dunque,
dovrai bussare qua ro volte» – Formaggio indica la quarta colonna –
«fare una pausa, poi bussare altre qua ro volte per o enere la S»,
indica la quarta riga, «poi cinque volte e poi tre per la O, due volte e
poi tre per la L, cinque volte e poi una per la E. Capito?»
Un secco toc-toc. «Ha capito.»
«Grande. Allora, Toc-Toc, cosa vuoi?»
Toc-Toc aveva bussato due volte e aveva aspe ato che Jasper
dicesse «Due», poi aveva bussato cinque volte. V. Formaggio aveva
scri o la le era su un blocco. C’erano state altre qua ro bussate e
due a seguire per la I, e così via finché era apparsa la scri a:

v-i-t-a-e-l-i-b-e-r-t-a

Jasper non aveva mai considerato che chi occupava la sua testa
potesse anche esserne prigioniero. Formaggio aveva chiesto: «Come
possiamo darti vita e libertà?»
Toc-Toc si era rimesso all’opera.

d-e-z-o-e-t-d-e-v-e

Toc-Toc si era fermato lì, o almeno sembrava.


Le vecchie tubature nei muri si erano messe a sobbalzare e a
gorgogliare.
«De Zoet deve… cosa?» aveva domandato Formaggio.
I colpi erano ricominciati. La parola che avevano scandito le era
dopo le era era:
m-o-r-i-r-e

Formaggio e Jasper si erano guardati. A Jasper si era rizzato ogni


singolo pelo che aveva sulle braccia.
«Perché?» aveva chiesto Formaggio. «Cosa ti ha fa o De Zoet?»
La replica di Toc-Toc era arrivata rapida e ne a:

h-a-s-c-o-n-f-i-n-a-t-o

«Ma sei tu a essere nella sua testa», aveva cercato di fargli notare
Formaggio.
Colpo dopo colpo, le bussate avevano scandito la risposta:

n-e-l-s-a-n-g-u-e

Jasper era rimasto a fissare quelle le ere.


«È come un cruciverba cri ografato», aveva commentato
Formaggio.
Un cruciverba lo sarà per te, aveva pensato Jasper, per me è una
condanna a morte. «Formaggio, non voglio andare avanti.»
«Ma è la cosa più incredibile che abbia mai…»
«Basta. Ti Prego. Basta così. Ora.»

a. Il premio.
b. Mi hai portato nella tua camera oscura / Dove i segreti si me ono a nudo. / A est c’è
Gerusalemme, / E verso ovest La Mecca…
c. Irrequieti.
d. Ci siamo nascosti so o gli alberi dalla pioggia e dal dado; ma so o gli alberi la pioggia
piove il doppio.
Stuff of Life a Lato A

1. The Hook (Moss)


2. Last Supper (Griffin-Holloway)
3. Builders (Musica: Utopia Avenue – Parole: Frankland)
4. Prove It (Holloway)45tg

a. L’essenza della vita.


The Hook a

«Piglia un bastardello bello grasso.» Il padre di Dean aveva preso un


verme dal bara olo e lo aveva sollevato avvicinandolo all’amo.
«Schiaccialo piano, molto piano. Qui, so o la testa. Non è che lo
vogliamo uccidere, vogliamo solo fargli aprire la bocca… e deve
aprirla bene, questo è il punto… Vedi? Poi lo infili nell’amo… Come
un filo in un ago.» Dean guardava con a enzione, affascinato e
schifato. «Fagli uscire l’amo dal culo, in modo che si veda solo la
punta. Ecco qui, capito? In questo modo non può scivolare via ma
può ancora muoversi un po’, e il pesce che è un amo con un verme
non lo capisce. L’unica cosa che pensa è: To’ guarda, si mangia,
gnam, morde, inghio e… allora l’amo gli s’incastra per bene dentro.
E a quel punto, sentiamo un po’, a chi è che tocca di essere
mangiato?» Suo padre aveva sorriso. Era uno spe acolo raro. Aveva
sorriso anche Dean. «Controlla un’altra volta che il piombino e il
galleggiante siano ben legati, ci ho speso dei soldi, e poi sei pronto
per ge are la lenza.» Il padre si era rialzato, coprendo metà della
distanza che mancava a toccare il cielo. «Stai indietro, non sei tu a
doverti incastrare nell’amo e poi volare nel fiume. Tua madre non
sme erebbe mai di rinfacciarmelo.» Dean era sca ato indietro lungo
il molo, fin quasi alla sponda del fiume. Suo padre aveva alzato la
canna, preso lo slancio e ge ato la lenza. Piombino, galleggiante,
amo e verme erano volati sull’acqua scintillante del Tamigi e ci erano
finiti dentro diversi metri più in là con un plop e uno splash. Dean era
tornato da lui tro erellando. «Hai lanciato a un chilometro!» Il padre
si era seduto sul bordo del molo con i piedi penzoloni. «Prendila.
Stringila bene. Due mani.» Dean aveva ubbidito, nel mentre il padre
si faceva qualche sorso da una bo iglia avvolta in un sacche o di
carta. Il fiume scorreva. E scorreva. E scorreva. Dean avrebbe voluto
che fosse sempre così. Poi padre e figlio non avevano parlato per un
po’.
«Il mistero della pesca è questo», aveva de o tu o a un tra o suo
padre. «Qual è l’amo? Chi tiene la canna? Chi è il verme? Chi è il
pesce?»
«E perché sarebbe un mistero, pa’?»
«Lo capirai quando sarai più grande.»
«Ma si capisce benissimo chi è chi e cosa è cosa, no?»
«Tu o cambia, figliolo. In un ba er d’occhio.»

Amy Boxer imprime la punta di un canino nel labbro.


«Quando chiacchiero con John o con Paul, o con gli Hollies, parlo
con gente che si è conosciuta a scuola. Sono come fratelli. Si sono
arrangiati con i concerti per giovani talenti, sono sopravvissuti ai
circuiti degli spe acolini, hanno fa o la gave a in topaie tipo il
Cavern. Rispe o a loro, non vi sentite un po’…» la giornalista del
Melody Maker è costre a ad alzare la voce per imporsi su un martello
pneumatico «…artificiali?»
Alla Moonwhale, oggi, l’ufficio di Levon non è un’oasi di pace.
Nei gabine i dell’ufficio so ostante, quello della Duke-Stoker, è
esplosa una casse a di scarico. Gli idraulici che stanno riparando il
danno fanno molto rumore.
«La nostra musica dà l’idea di essere artificiale?» chiede Jasper.
«Stai dicendo che siamo come i merdosi Monkees?» domanda
Griff.
«A quanto pare i Monkees non vi fanno impazzire, giusto?»
chiede Amy Boxer.
Interviene Levon: «Auguriamo a Davy, Michael, Peter e… ehm…»
«Pezzo di Scroto», borbo a Griff sdraiato sul divano dove sta
cercando di riprendersi da una sbronza, con un cappello nero da
cowboy a coprirgli la faccia.
«Micky Dolenz», dice Elf. «Non fare il ca ivo.»
«Ai Monkees auguriamo solo il meglio», dice Levon.
Il nylon delle calze a rete di Amy Boxer fruscia mentre accavalla le
gambe. Dean cerca di concentrarsi sulle mani. Tre o qua ro anelli su
ognuna, unghie color rubino. La sua biro traccia una scia di parole. I
g g p
tendini dell’avambraccio si fle ono. Ha un accento dell’Essex.
«Auguriamo… solo… il meglio… Ricevuto. Dunque, Elf, quella sera
al Les Cousins, quando un garbato canadese, un diomenescampi di
Cockney, un vichingo denutrito e un ba erista selvaggio ti hanno
invitato a unirti alla loro allegra combriccola, che cosa ti è passato
per la testa?»
«Aspe a un a imo», s’introme e Dean. «‘Un diomenescampi di
Cockney’?»
Levon abbozza un gesto che significa: Lascia perdere, lascia
correre.
«I le ori adorano conoscere le origini leggendarie di un gruppo.
‘Abbiamo iniziato dopo essere rimasti chiusi insieme in una stalla’ o
‘Eravamo alla deriva su una scialuppa e abbiamo rischiato di
mangiarci a vicenda’ suona molto più intrigante di ‘Il nostro
manager ci ha assemblato come un modellino della Airfix’. Le nostre
le rici, Elf, sono anche curiose di sapere cosa significhi essere l’unica
donna in un gruppo di uomini.»
Nell’ufficio di Bethany, tre macchine da scrivere ticche ano e
tintinnano: è stato fa o posto a due segretarie di rinforzo della
Duke-Stoker.
Elf le rigira la domanda: «E tu come te la passi al Melody Maker?
Le riviste musicali non sono famose per il rispe o che dimostrano
alle donne».
«Dio, Elf, non darmi il la. Uomini volgari, vanitosi e arrapati che
riscrivono le regole a loro uso e consumo. Ti dice qualcosa?»
Elf annuisce stancamente. «Se un uomo fa uno sbaglio, è solo uno
sbaglio. Se lo fa una donna, invece, sca a subito il ‘Te l’avevo de o!’.
Ti dice qualcosa?»
Levon si mostra neutrale. Jasper sta fissando nel vuoto. Griff resta
immobile so o il suo cappello. «Ehi, per caso qui c’è qualcuno che ti
tra a in questo modo?» interviene Dean.
«In studio mi tra a così chiunque abbia un paio di testicoli.»
«Io no, cazzo.»
«Facci caso. Guarda come reagiscono tu i a qualsiasi mia idea, e
come reagiscono invece se l’idea viene da un uomo. Guarda e
impara.»
p
Dean si accende una Dunhill. Qualcuno oggi ha il ciclo, o certe idee
gliele sta ficcando in testa Bruce.
«Concentriamoci sulle origini del gruppo», suggerisce Levon.
«Allora, come mai hai deciso di unirti a questa banda di maschi?»
La penna di Amy Boxer lavora alacremente. La giornalista appare
soddisfa a di se stessa.
Elf beve un sorso di caffè. «Dopo esserci conosciuti al Les Cousins,
la ma ina successiva siamo andati al Club Zed in Ham Yard, giusto
per suonare un po’ insieme. L’intesa era buona, considerato che
eravamo qua ro estranei.» Indica la copertina di Paradise Is the Road
to Paradise, in bella vista sul tavolino di vetro. «E da quel momento in
poi non ha fa o che migliorare.»
«Bene…» La penna di Amy Boxer scarabocchia qualcosa. Parte il
rumore di qualcuno che sega. «L’anno scorso tu e il tuo ragazzo,
Bruce Fletcher, avete pubblicato un EP, Shepherd’s Crook, che fra
l’altro a me è piaciuto. Sono curiosa: Bruce è invidioso del tuo
successo con gli Utopia Avenue?»
«Sei autorizzata a rispondere ‘No comment’», dice Levon a Elf.
«Bruce è contento per me e per il gruppo…» replica lei.
Solo perché ci sono più soldi da spremere, pensa Dean.
«…e adesso ha messo insieme un demo di canzoni tu e sue. Il
nostro successo ha permesso alla sua vena creativa di sgorgare alla
grande.»
Da Bruce Fletcher non sgorga nulla, pensa Dean. Quello fa acqua
da tu e le parti, punto.
Amy Boxer sembra avere qualche dubbio. «E fino a questo
momento ne è venuto fuori qualcosa di buono?»
«Per ora sta andando tu o bene. La Duke-Stoker sta lavorando su
alcuni conta i negli Stati Uniti, e il giro di Dean Martin sembrerebbe
interessato. Gladys Knight. Shandy Fontayne.»
«Shandy Fontayne?» Colpita suo malgrado, la giornalista guarda
Levon. «Quando la prima canzone di Bruce diventerà disco d’oro,
magari intervisterò lui. Ma, tornando a noi, Elf, non ti manca la tua
indipendenza artistica, ora che per decidere qualsiasi cosa devi
accapigliarti con questi tre?»
«Quanto ti piace seminare zizzania, cazzo», mormora Dean.
p
La giornalista appare divertita. «Faccio solo il mio lavoro.»
Elf tentenna. «In una band funziona come in una democrazia,
ovviamente.» Scrolla la cenere della Camel. «Ogni tanto le cose
vanno come piace a te, ma se pretendi che sia sempre così, meglio
che ci dai un taglio con le band, e per sempre.»
Amy Boxer trascrive la dichiarazione. «Tu, Jasper, che te ne stai
seduto zi o in disparte. Prima di tu o, il tuo cognome, De Zoet. Lo
pronuncio corre amente?»
«No. Si pronuncia ‘Zut’.»
«Scri o. È vero che vieni da un ceppo aristocratico?»
«Una volta mio padre era sessantesimo nella linea di successione
al trono olandese, ma gli ultimi nati l’hanno espulso dalla Top 100.»
La notizia giunge nuova agli altri membri del gruppo. «Non me lo
avevi mai de o», commenta Dean.
«Non è mai saltato fuori l’argomento», dice Jasper.
«Come cazzo fa un argomento simile a saltare fuori da solo?»
chiede Griff.
Jasper scuote le spalle. «Fa qualche differenza?»
Dean sta quasi per dire alla giornalista: Quello vive nel suo
mondo. Ma Amy Boxer sta già domandando a Jasper: «Ti senti più
inglese o olandese?»
«Non ci penso mai, a meno che qualcuno non me lo chieda.»
«E quando qualcuno te lo chiede, tu cosa rispondi?»
«Rispondo: ‘Mi sento tu e e due le cose’. Però di solito quel
qualcuno riba e: ‘Non puoi essere tu e e due le cose’. Allora io
ripeto: ‘Mi sento tu e e due le cose’, e la conversazione finisce lì.»
Amy Boxer si picchie a la biro sui denti. «Cosa pensa la Bishop di
Ely del fa o che un suo alunno sia finito a Top of the Pops?»
«Non ne ho idea», dice Jasper. «So che là dentro i televisori sono
banditi.»
«Diversi musicisti che ho intervistato questo mese hanno usato la
parola ‘genio’ per descrivere il tuo lavoro con la chitarra. Che ne
pensi?»
«Penso che la gente dovrebbe ascoltare Jimi Hendrix ed Eric
Clapton, prima di sbilanciarsi a usare una parola simile riferita a
me.»
«Quanto ti si sei sentito gratificato nel vedere la tua ‘Darkroom’
entrare nella Top 20?»
Si è piazzata al sedicesimo posto, pensa Dean, poi è affondata
come una malede a pietra nonostante Top of the Pops.
«A scrivere le canzoni sono anche Dean ed Elf», ricorda Levon
alla giornalista. «Per questo Paradise è così vario e del tu o privo di
retorica.»
«Una curiosità», dice Amy Boxer. «La prima volta in cui avete
fa o sentire il vostro album alla casa discografica, qual è stata la
reazione?»

Günther Marx era seduto nel suo ufficio, con la vista del Tower
Bridge sullo sfondo, e non proferiva una sillaba. Una pioggia
scrosciante si era abba uta sul Tamigi. So o una tela astra a fa a di
puntolini rossi e gialli era seduto il responsabile della sezione A&R,
Victor French. L’adde o stampa Nigel Horner era invece seduto
accanto a un avanguardistico giradischi Grundig. Qua ro casse Bose
diffondevano a tu o volume Paradise Is the Road to Paradise. Mentre
ascoltavano «Smithereens», l’indice nodoso di Günther, forse, aveva
tamburellato per un a imo. Durante l’assolo di Elf al piano in «Mona
Lisa Sings the Blues» c’era stata un’oscillazione della testa. Alla fine
del lato A, Günther con un cenno aveva comunicato a Nigel Horner
di girare il disco. «Wedding Presence» di Jasper e «Unexpectedly», la
ballata di Elf, si erano avvicendate senza che lui facesse una piega.
Durante «Purple Flames» Dean aveva sudato freddo. Elf si era
inventata un assolo di organo alla Procol Harum, a Dean era piaciuto
molto e lo avevano affidato a Digger perché lo inserisse nella
versione registrata in precedenza. Un assolo simile impediva però al
pezzo di diventare un singolo, il che per Dean significava restringere
il campo delle canzoni destinate a un possibile successo, e i relativi
incassi, ad «Abandon Hope» e «Smithereens». A metà di «The
Prize», che aveva scri o Jasper, la testa di Günther si era messa,
molto lievemente, a fare su e giù a ritmo. A Dean era venuta la
nausea. Al termine di «The Prize» la puntina si era sollevata. Poi il
Grundig si era spento con un clic.
Né Victor French né Nigel Horner si sarebbero arrischiati a
esprimere un’opinione prima del loro signore e padrone. E lui non
aveva parlato finché Dean non aveva perso la pazienza. «Le è
piaciuto o no, Günther? Dobbiamo tirare a indovinare?»
Nigel Horner e Victor French erano trasaliti.
A quel punto Günther aveva congiunto la punta delle dita delle
mani, come a formare la guglia di un campanile. «‘Darkroom’ ha
fa o il suo dovere. La maggior parte dei gruppi si limiterebbe a
seguire una formula già collaudata. Dico bene?»
«Spessissimo», aveva risposto Victor French, «generalmente va
proprio così.»
«Eppure l’unica canzone di questo LP che ricorda ‘Darkroom’»,
Günther si era messo comodo, «è ‘Darkroom’. È come se il disco lo
avessero inciso tre gruppi differenti. Non uno solo.»
«E questo è un bene o un male?» aveva chiesto Dean.
Günther aveva prelevato una scatola di legno da un casse o della
scrivania e l’aveva aperta. Dean si era accorto che Victor French stava
scoccando un’occhiata a Nigel Horner. Günther aveva preso un
sigaro dalla scatola e gli aveva mozzato la testa con una piccola
ghiglio ina. Dean aveva accavallato le gambe. «Paradise Is the Road to
Paradise», aveva annunciato Günther, «sarà nei negozi ed entrerà in
classifica fra i primi quaranta entro Natale. O imo lavoro.»
Dean era stato travolto da un’ondata di sollievo.
«Non ho dubbi che funzionerà molto, molto bene», aveva
commentato Levon.
Günther continuava a mozzare sigari. «Ci bu eremo con tu e le
nostre forze su Paradise e su un nuovo singolo. Radio, concerti,
interviste sui giornali, tu o. E adesso fumiamoci un sigaro.» Ne
aveva passato uno a tu i quanti. «Per me è una piccola tradizione.
Risale ai tempi in cui prestavo servizio sui sommergibili.»
«C’è scri o Cuba su quella scatola?» aveva chiesto Elf.
«Questi sono cascati da una nave», le aveva risposto Günther.

«Alla Ilex hanno adorato il disco», racconta Levon ad Amy Boxer.


«Ogni volta che una canzone finiva, Günther, l’amministratore
delegato, diceva: ‘Questa sì che è un capolavoro’. E quando
g p q
terminava quella dopo, era la stessa solfa. Alla fine del disco ha
de o: ‘Per la miseria, un album intero di capolavori’.» Levon parla in
modo così convincente che Dean quasi crede che sia tu o vero.
«Non è stato un azzardo affidarsi alla Ilex? Hanno un nutrito
catalogo di musica classica, ma in pratica siete i primi artisti pop a
firmare con loro.»
«La EMI e la Decca si erano mostrate interessate», risponde
Levon, «però no, ci siamo de i. Il futuro appartiene alle etiche e più
dinamiche e voraci.»
Amy serra le labbra. Se lo dici tu, sembra pensare. «Passiamo a te,
Griff. Qual è la tua storia?»
Il ba erista scosta il cappello da cowboy e apre un occhio.
«Cinque pinte al Ronnie Sco ’s e un paio di bicchierini di roba forte,
poi le cose hanno cominciato a farsi confuse.»
«Che sei il comico del gruppo lo avevo già notato. Te lo chiedo
seriamente, però.»
Griff eme e un brontolio, si raddrizza sul divano e beve un sorso
di caffè. «Il Racconto del Ba erista. Ero un bambino malaticcio e ho
passato un sacco di tempo in ospedale, il Royal Infirmary di Hull.
C’era un gruppo musicale di bambini e a me sono toccate le
percussioni. Quando sono uscito, mi sono fa o incastrare da una
banda di o oni come tamburino. Tempo dopo, Wally Whitby mi ha
preso so o la sua ala.»
«Wally Whitby piace a mio padre: ‘Yes, Sir, That’s My Baby’.»
«Wally mi ha portato in giro a fare concerti nel circuito
se entrionale. Il villaggio vacanze Pontins a Southport. Il Butlin’s di
Skegness. Mi piaceva quella vita. E con la ba eria piacevo di più alle
signore. Wally è un vecchio amico di Alexis Korner, quindi quando
sono arrivato a Londra in cerca di fortuna, Alexis mi ha fa o
lavorare nei locali jazz e blues. Il che mi ha portato fino all’Archie
Kinnock’s Blues Juggernaut. Molte disavventure dopo, Archie ha
fa o un provino a Jasper per il suo nuovo gruppo, i Blues Cadillac.
Che non è durato molto…»
«L’incidente al 2i’s sta diventando leggendario», dice Amy. «Le
signore continuano ad apprezzarti con la ba eria?»
«Questo genere di cose chiedile a Dean, Miss Sfacciatella.» Griff si
sdraia di nuovo. «‘Lo stallone di Gravesend’ lo chiamano. Bru o
svergognato.»
«Da ora in poi lo chiameranno ‘Il forgiacanzoni di Gravesend’»,
interviene Levon. «E questo grazie ad ‘Abandon Hope’. Esce oggi.
L’autore è Dean.»
«Mmm…» Amy Boxer finisce di appuntarsi la storia di Griff, poi
guarda Dean. Ha quell’insolenza scopereccia che a Jude manca del
tu o. Jude è a posto, dolce, leale, e se Dean non avesse mai lasciato
Gravesend e cercasse una brava ragazza con cui accasarsi, una come
lei sarebbe perfe a. Ma la celebrità cambia le regole. Una giornalista di
Melody Maker lo capisce, una parrucchiera di Brighton no. «Dunque»,
dice la giornalista. «‘Abandon Hope’ come secondo singolo è una
scelta coraggiosa.»
«Perché, signora Boxer?»
Lei fa un sorrise o affilato. «Puoi chiamarmi Amy. Non sono mia
madre. È una scelta coraggiosa perché è un pezzo R&B che va dri o
al sodo. Non c’è nessuna infiore atura psichedelica.»
«Il gancio di quella canzone non è dri o per niente. Una volta che
ti ca ura, non te ne liberi più. E ce n’è uno nel verso e uno nel
ritornello.»
«E una canzone funziona quando funziona il suo gancio, è così
che la vedi?»
A mo’ di risposta, Dean intona il gancio di «You Really Got Me»
dei Kinks, da-da-da-da-da-da-da, e lo ripete finché Griff non dice il
titolo del pezzo. Poi Griff fa lo stesso con un’altra canzone, e
accompagna il suo da-da colpendo una ba eria immaginaria. Dopo
pochi secondi, Jasper dice: «‘Taxman’, l’album è Revolver». Il
chitarrista rifle e un a imo e si me e a canticchiare senza parole la
melodia del gancio che ha scelto; finiti tre fraseggi, Elf interviene sul
quarto appiccicandoci le parole di «Hound Dog». «Devo dire però
che da come la stavi interpretando, sembrava più la colonna sonora
di Nata libera», aggiunge Elf.
«A quanto pare questo gioco lo fate spesso», rileva Amy.
«Grazie a ‘Darkroom’», replica Elf, «i nostri viaggi sulla Belva
durano sempre di più. La Belva è il nostro furgone. Il gioco del
p p g g
gancio è un classico.»
«Il talento nell’aggancio di Dean è ben noto», dice Griff ad Amy,
«in particolare nei cessi degli uomini in Soho Square.»
«Ovviamente Griff sta scherzando», precisa Levon.
Amy scribacchia qualcosa. «Quando dicevo che ‘Abandon Hope’ è
una scelta coraggiosa intendevo questo: non pensate che chi ha
amato ‘Darkroom’ ascoltando ‘Abandon Hope’ si sentirà
disorientato?»
«In Sgt. Pepper’s, il pezzo indiano di Harrison va a bracce o con
‘When I’m Sixty-Four’. Dal sitar si passa all’oboe in un a imo,
così…» Dean schiocca le dita. «Una cosa simile ti disorienta, oppure
pensi: Porca vacca, ma quant’è bello?»
Amy Boxer non sembra convinta. «Nessuna delle due canzoni che
hai appena menzionato è un singolo. È stata la Ilex a scegliere
‘Abandon Hope’, o è stata una decisione del gruppo?»
«L’abbiamo scelta noi.» Dean guarda gli altri. Jasper è partito con
la testa, si trova su Jasperlandia. Elf si studia le unghie. Griff è so o il
suo cappello. Grazie a tu i, maledizione.
Un piccolo pugnale d’argento è sospeso sul baratro della gola di
Amy Boxer. «La Ilex ha acce ato subito? Oppure avete dovuto
me erli alle corde?»

«Per quanto riguarda il prossimo singolo», aveva dichiarato


Günther nel quartier generale della Ilex, «sono molto indeciso.»
L’ufficio era immerso nel fumo dei sigari. «‘Mona Lisa Sings the
Blues’ o ‘The Prize’? Voi come la pensate?»
«Il gruppo», aveva de o Levon, «propone ‘Abandon Hope’.»
«La prima canzone del primo lato», aveva specificato Dean.
Günther aveva arricciato il naso. «Troppo nichilista.»
Dean quella parola non l’aveva mai sentita. «È nichilista al punto
giusto.»
«Come pezzo d’apertura è intenso», era intervenuto Victor French,
«ma questo non lo rende necessariamente il singolo migliore.»
Il muso da criceto di Nigel Horner si era riempito di grinze. «La
domanda, Dean, è perché i giovani di oggi dovrebbero perdere la
testa per una canzone che parla di quanto poco conti essere derubati
p p q p
e sfra ati visto che i russi, comunque, ci spazzeranno via con la
bomba nucleare?»
«I giovani la testa per la canzone la stanno già perdendo», aveva
riba uto Dean. «Ai nostri concerti.»
«Un singolo come ‘Mona Lisa’ me erebbe in luce Elf», aveva de o
Victor French. «M’immagino già le ragazze che corrono a fro e a
comprarlo. Si identificherebbero in una donna impegnata a
comba ere le discriminazioni in un mondo ostile.»
«Su ‘Abandon Hope’ sono d’accordo con Victor», si era intromesso
quel ruffiano di Nigel Horner, «ma come prossimo singolo opterei
per ‘The Prize’. Qualsiasi ragazzo con dei sogni di gloria la adorerà,
e se c’è un genere di canzone che i DJ amano far girare, è quello che li
esalta.»
Dean aveva guardato Levon. L’agente sembrava un tipo indeciso
fra il cagare e il non cagare. Eravamo d’accordo! L’ha deciso quel
dado malede o! avrebbe avuto voglia di urlare Dean. «No. Noi
abbiamo già scelto ‘Abandon Hope’. Ha grinta e rende bene l’aria da
fine del mondo che tira adesso. Per di più, se facciamo uscire un’altra
canzone di Jasper, la gente penserà a noi come a un surrogato dei
Pink Floyd.»
«Ti spiego come stanno le cose.» Günther aveva spento il sigaro.
«La Ilex ha speso tredicimila sterline per Paradise Is the Road to
Paradise. Quindi a scegliere i singoli è la Ilex.»
Anche Dean aveva spento il sigaro. «No.»
Günther, Nigel Horner e Victor French lo avevano guardato,
prima come se volessero accertarsi di aver sentito bene, poi come se
si fossero resi conto che aveva de o proprio così. «Cosa intendi con
‘no’?» gli aveva chiesto Günther in tu a tranquillità.
«Il singolo lo sceglie il gruppo.»
In un ba ibaleno, Levon era entrato in azione. «La Moonwhale e il
gruppo sono riconoscenti alla Ilex per l’investimento, Günther, su
questo non ci sono dubbi…»
«Silenzio.» Günther aveva fa o segno a Levon di tacere. «Elf, non
ti piacerebbe dimostrare che questa band non si riduce a un gruppo
di uomini con l’unica novità di un tastierista in gonnella?»
«Divide et impera, eh, Günther?» aveva subodorato Dean.
«Astuto.»
Elf aveva guardato fuori dalla finestra. «Ho acce ato di aspe are
il mio turno.»
«Grazie», le aveva de o Dean. «Bene, come vede…»
Günther non sembrava in vena di lasciarsi distrarre. «Che
significa ‘acce ato’? ‘Turno’? Ne devo dedurre che c’è…» aveva
disegnato un ovale nell’aria, «un complo o?»
«Il gruppo ci tiene a…» Levon aveva scelto bene le parole «…
troncare sul nascere ogni invidia comportandosi in modo equo con i
membri che scrivono le canzoni.»
Günther ci aveva ragionato su. «Mi state dicendo che avete
cospirato… fra voi… per pubblicare prima la canzone di De Zoet, poi
una canzone di Moss, poi una canzone di Holloway. È questo il…»
aveva cercato la parola giusta «…succo?»
«È un accordo fra gentiluomini», aveva risposto Dean.
«E la mia opinione», Günther aveva emesso il suono di un
palloncino che si sgonfia, «è irrilevante? Tu, Elf, dimmi, com’è che
vieni dopo gli uomini? È questo il femminismo ai giorni nostri?»
«Se Elf è l’ultima, non è perché è una donna», aveva dichiarato
Jasper. «È l’ultima perché ha fa o uno.»
Dean aveva malede o la sincerità di quell’idiota beneducato.
Günther era trasalito. Nigel Horner e Victor French guardavano
storto Jasper. «Di che parli?»
«Quando Elf ha tirato il dado», aveva spiegato Jasper, «io ho fa o
tre, Dean due ed Elf uno. È per questo che a lei tocca il terzo
singolo.»
A Günther era scappato un «Eh?» E poi: «Se credete che prenderò
un’importante decisione commerciale basandomi su un dado, vivete
nel mondo delle nuvole. Anzi no, vivete nella cella imbo ita di un
manicomio nel mondo delle nuvole. Aprite bene le orecchie…»
«Aprile tu le cazzo di orecchie!» Griff si era sporto in avanti.
«Siamo noi, cazzo, a trascinare i nostri culi sulla M2 una no e gelida
dopo l’altra mentre tu te ne stai al calduccio nel tuo le o. Noi. Siamo
noi a schivare le bo iglie che ci lanciano i mod strafa i, e a volte non
le schiviamo neanche.» Si era toccato la cicatrice. «Quindi, se rivuoi
indietro le tue tredicimila sterline, il singolo lo scegliamo noi. Non
tu. Noi. E il prossimo singolo è ‘Abandon Hope’.»
Grazie, aveva pensato Dean. Alla buon’ora, maledizione.
«Quindi», aveva riassunto Günther, «la vostra minaccia sarebbe
questa: fate quello che diciamo, o saboteremo la nostra stessa
carriera.»
«Qui nessuno sta minacciando nessuno», aveva de o Levon, «le
chiedo semplicemente di concederci questo singolo. È quello che
vuole la band.»
«Io firmo gli assegni e noi», Günther aveva indicato Victor French
e Nigel Horner, «scegliamo i singoli. Così voglio io.»
«’Fanculo.» Griff aveva spento il sigaro sul bracciolo del divano,
l’aveva ge ato sul tappeto, si era alzato e aveva abbandonato
l’ufficio.
«Sta bluffando», aveva proclamato Nigel Horner. «Tornerà.»
«Figurarsi», aveva de o Elf. «È dello Yorkshire.»
«I ba eristi contano come il due di picche», aveva proclamato
Victor French. «Se lui molla, e a quanto pare lo ha appena fa o, ne
ingaggeremo uno nuovo, tu o qui.»
«No che non andrà così.» Dean si era alzato con aria di sfida. Elf si
era alzata decisa. Jasper si era alzato e si era alzato anche Levon. Be’,
fantastico, aveva mormorato il manager fra sé e sé.
«Che cosa?» Il tono di Günther Marx si era impennato
vertiginosamente. «Nessuno lavora più? Uno sciopero? Non la trovo
una mossa così furba. Semplicemente, vi licenzierò tu i quanti.»
«Quindi dirà addio alle tredicimila sterline che ha investito?» gli
aveva chiesto Dean. «Che effe o farà a Toto Schiffer quando glielo
riferirà nella sede di Berlino?»
Il volto di Günther era mutato. «Un rica o?»

«Fra tu e le case discografiche con cui ho avuto a che fare, la Ilex


si è dimostrata la più disponibile ad andare incontro alle esigenze
dei propri artisti», dice Levon ad Amy Boxer. «Günther Marx è un
visionario. Per gli Utopia Avenue è uno di famiglia. Puoi riportare le
mie parole alla le era.»
«Caspita», replica Amy. «È un’opinione molto positiva. Ma,
tornando a te, Dean. Non sembri imparentato con l’aristocrazia, no?»
«Shhh. Sono il figlio illegi imo del duca di Edimburgo, ma non
dirlo a nessuno.»
«La band nutre un profondo rispe o per la famiglia reale», dice
Levon.
Amy beve un sorso di caffè e lancia un’occhiata a Dean che
significa: È un tipo apprensivo il vostro agente o sbaglio? «I tuoi
titoli», dice, «sono nichilisti. ‘Smithereens’, ‘Abandon Hope’, ‘Purple
Flames’. Sei il giovane arrabbiato del pop?»
Di nuovo quella parola. «Cosa intendi con ‘nichilisti’?»
«Disperati. Feroci. Convinti che la vita non abbia senso.»
«Oh, giusto, come no. Be’, il fa o è che se una cosa mi fa
incazzare, devo scriverci una canzone. Questo non significa però che
considero la vita senza senso.»
«Quali sono le cose che ti fanno incazzare?»
Dean si accende una Dunhill e fa un tiro. Riparte il martello
pneumatico al piano di so o. «Cosa mi fa incazzare? I critici musicali
che si credono Dio. La gente che usa paroloni per farti sentire
inferiore. Gli uomini che picchiano le donne. Gli sbirri corro i. Quei
vecchi che dicono: ‘Ho fa o la guerra per voialtri’ e credono basti
questo a chiudere ogni discussione. I pezzi grossi che hanno
affondato le radio pirata. Tu i quelli che cagano sui sogni degli altri.
Le torte in cui c’è più aria che ripieno, o la classe dirigente, perché si
prende sempre la fe a con più crema. E odio noialtri, che
perme iamo a quei bastardi di passarla liscia.»
«Bene, a questo proposito avrei una domanda», dice Amy. «Jasper
non fa forse parte di quella classe dirigente?»
Il suo coinquilino gli rivolge un’occhiata. «No, Jasper è uno a
posto.»
«E io appartengo al popolo più dei calli», interviene Griff, «quindi
quando Dean parla di fure i, case con i cessi all’aperto o socialismo,
sono sempre pronto.»
Il pugnale d’argento di Amy Boxer si rianima con un luccichio.
«Se entrate nel giro di quelli che contano, farete ancora parte del
popolo quando vi comprerete una villa nel Surrey detraendo la
p p q p y
spesa dalle tasse? Un assaggio di notorietà lo avete avuto. Le cose
non stanno già iniziando a cambiare?»

«Che mi venga un colpo, cazzo! Deano!» Stewart Kidd era


immobile nell’atrio, l’appartamento di Jasper lo aveva lasciato a
bocca aperta.
«Quando si dice cascare in piedi.» Kenny Yearwood era senza
parole.
Gli occhi di Rod Dempsey sfrecciavano da ogge o a ogge o, da
de aglio a de aglio.
Probabilmente si sta facendo due conti su quanto può valere tu o
quanto, immaginava Dean. «Non penserai mica di svaligiare questo
posto, eh, Rod?»
Rod si era limitato a ridacchiare, i suoi occhi continuavano a
prendere le misure.
«Questa è veramente la tua tana?» si era assicurato Stew.
«È la mia tana», aveva replicato Dean.
«Sembra uscita da Playboy», aveva de o Stew. «C’è la tele. C’è lo
stereo. Sul te o c’è anche una pia aforma per l’elico ero, vero?»
«La casa l’ha comprata il padre di Jasper come investimento.
Jasper è qui a tenerla d’occhio e io sono qui a tenere d’occhio Jasper,
mi sa.»
«E Jas-pah dov’è adesso?» Kenny aveva pronunciato il nome con
un accento altolocato.
«A Oxford. Torna domani. E giusto perché tu lo sappia, non è uno
che ti prenderebbe per il culo per il tuo accento.»
«Deve solo provarci, gli faccio schizzare fuori gli occhi a forza di
pugni.»
Stew stava ancora fissando l’appartamento. «Vivi qui da gennaio e
ci inviti a dare un’occhiata solo adesso?»
«Non è colpa sua», aveva dichiarato Rod Dempsey. «È un gioco
duro lo show business. Scomme o che Dean ha a malapena il tempo
di andare al cesso.»
«Dici bene», aveva commentato Dean. «Via le scarpe, Stew.
Regole della casa.»
Stew se n’era uscito con un: «Eh?», ma Rod Dempsey si stava già
togliendo gli stivali da motociclista. «Questo parquet vale più della
casa di tua zia Nelly con tu o quello che c’è dentro.»
«Compresa tua zia Nelly», aveva aggiunto Kenny. «Che costava
un bel po’ di soldi ai suoi tempi. Ma li valeva fino all’ultimo
centesimo, non ci piove. Proprio come tua madre.»
«Divertente.» Stew si era tolto le scarpe. «Posso andare a farmi
una pisciata, o la tazza del cesso d’oro rischia di sporcarsi?»
«La trovi nel corridoio, seconda porta a sinistra.»
Stewart aveva seguito le indicazioni, nel fra empo Kenny
ispezionava la collezione di dischi.
«Sono contento per te, Dean.» La reputazione di Dempsey a
Gravesend non era propriamente immacolata. A sedici anni lo
avevano spedito a Borstal dopo che aveva dato fuoco alla macchina
del tizio che notificava le assenze a scuola. A dicio o anni si era
unito a una gang di motociclisti. A venti era precipitato da un
lucernario durante una rapina e aveva perso un occhio. Uscito di
prigione, non aveva un posto dove stare, era senza lavoro e senza un
centesimo, tu avia Bill Shanks gli aveva prestato il necessario per
aprire al mercato un banco di ricambi per le moto. Adesso aveva un
negozio a Camden Town.
«Anch’io sono contento per te», gli aveva de o Dean.
«Ognuno sfru a i propri talenti. A proposito…» Dalla giacca
aveva tirato fuori una scatole a di pastiglie alla liquirizia Nipits e
gliel’aveva passata. Dentro c’era un pezzo di hashish grosso come un
pollice. Dean lo aveva sollevato. «Pronto per il decollo…»

***

Are You Experienced di Hendrix risuonava a tu o volume dalle casse


di Jasper. Disteso su un soffice tappeto di lana, Dean stava
sprofondando nel basso di Noel Redding in «The Wind Cries Mary».
A tingere l’oscurità era uno gnomo fluorescente, di quelli che gli
olandesi chiamano kabouter. Kenny gli aveva passato la canna. «Ora
vuota il sacco, rockstar.»
Dean aveva fa o qualche tiro. Gli sembrava di flu uare su e giù.
«Di che sacco parli?»
Stew lo aveva capito. «Quante ragazze hanno già testato la Dean
Moss Experience in questo tuo scannatoio?»
«Non saprei, non ho inciso tacche sul comodino.»
«L’hai già raggiunto un numero a due cifre?» aveva indagato
Kenny. «Te la sba i ancora quella parrucchiera di Brighton?»
Dean aveva passato la canna a Rod. «Questa roba se la fuma Dio
in persona.»
«Nero di Helmand, dire amente dall’Afghanistan, era nascosto
negli sportelli laterali di una Volkswagen. In nome della vecchia
amicizia posso farti un buon prezzo.»
Dean aveva realizzato di colpo che gli affari di Rod Dempsey non
si limitavano ai ricambi per motocicle e. «Lo terrò presente.»
«La parrucchiera», gli aveva ricordato Kenny. «Stai
tergiversando.»
Era come se avesse ripreso coscienza dell’argomento con un
ceffone. «Jude la vedo ogni tanto.»
«Razza di bastardo», aveva bofonchiato Kenny. «Quando mai ho
lasciato perdere la musica! Lo odio il mio lavoro di merda. Il
capocantiere è un frocio. E il rappresentante del sindacato è un
fesso.»
«Però ti sei trovato una ragazza», gli aveva fa o notare Stew.
«Tu a scenate e niente scopate.» Il fumo scioglieva la lingua a
Kenny. «Io le dico: ‘Piantala, facciamolo e basta’, ma lei si me e a
frignare, non fa che ripetere: ‘Mi prendi per un’idiota, Kenny?’ Se
fossi Dean, se ci fossi finito io a quel cazzo di Top of the Pops, le darei
il benservito e me ne andrei a zonzo per Soho fa o di acido, mi
scoperei le modelle, le pollastre hippie, e la mia vita avrebbe un
senso. Invece sto morendo a Gravesend.»
«Segui le orme di Dean, allora», aveva de o Rod. «Chi non risica
non rosica.»
Kenny aveva fa o un tiro. «Lo farei domani, anche per due soldi.»
Dean aveva valutato se confessare in tu a onestà che il modesto
anticipo della Ilex non aveva appianato i suoi debiti con la
Moonwhale, con Selmer’s Guitars e con suo fratello, e che la sua fe a
di introiti su «Darkroom» non valeva tre buste paga del lavoro
stabile di Kenny… ma il sapore della loro invidia era troppo buono.
«Non è tu o rose e fiori.»
«Disse quello con una casa a Mayfair…» Stew aveva preso la
canna. «Con il tè sempre a portata di mano e una tipa che ‘vede ogni
tanto’.»
«Tu a scopate e niente scenate», aveva so olineato Kenny.
A quel punto Stew gli aveva chiesto: «Ti sei fa o qualche amico
famoso?»
Per un paio di secondi Dean aveva considerato di rispondere no.
Era stato il basso di «3rd Stone from the Sun» a farlo partire in
quarta. «Brian Jones conta?»
«Brian Jones?» Stew lo aveva guardato a bocca aperta. «Brian
Jones dei Rolling Stones?»
«Eccome se conta!» aveva de o Kenny. «Brian Jones, porca troia!»
Dean era su di giri per il fumo. «Ci siamo incrociati qua e là.
Abbiamo parlato di chitarre, posti in cui si suona, etiche e
discografiche. De o tra noi, quando si tra a di offrire da bere ha un
po’ il braccino corto.» Le piccole bugie di Dean si facevano via via
più robuste. «A differenza di Hendrix. Jimi sarebbe capace di
rimanere in mutande, talmente è generoso.»
«Conosci Hendrix?» aveva chiesto Kenny. «Non ci posso credere!»
Invece ci credevano, e la sua fuga da Gravesend non gli era mai
sembrata un buon investimento e un trionfo come in quel preciso
momento. Dean aveva passato la canna a Rod: il suo unico occhio
ospitava il minuscolo riflesso dello gnomo fluorescente e ghignante.
Lui la verità la sapeva benissimo.

Più tardi quella sera, Dean e Kenny erano in a esa al bancone del
Bag o’ Nails. Rod e Stew stavano cercando un tavolo. Dean aveva
fa o scivolare una banconota da cinque sterline in tasca all’amico.
«Sono quelli che mi hai prestato l’anno scorso al 2i’s, non stavo
cercando di palparti.»
«Grazie, Dean. Pensavo te ne fossi dimenticato.»
«Mai. Mi hai salvato il culo, e sono io che ti ringrazio.»
«Ne hai fa a di strada.»
«Già, mi sa che è così.»
«Davvero, anch’io voglio un assaggio di tu o questo. Londra. Che
ne dici di farmi bivaccare sul tuo divano per un po’?»
Dean già se lo immaginava a spacciarsi in giro come il migliore
amico di Dean Moss. L’idea non lo solleticava. «E cosa faresti qui?»
«Quello che hai fa o tu. Prendo una chitarra, scrivo un paio di
canzoni e me o su una band. A Gravesend non ero da bu are come
chitarrista, dopotu o.»
«È una lo a all’ultimo sangue, amico.»
«Mi sembra che a te stia andando abbastanza bene.»
«Okay, ma io la chitarra la suono da anni… e anni.»
«Altrimenti potrei rispolverare il mio diploma alla scuola d’arte e
iniziare a lavorare per Oz, o per l’International Times. O se no mi
me erò a vendere antiquariato a Portobello. Oppure mi piazzo come
fotografo. Tu o quello che mi serve è una base. Quindi, dove
eravamo rimasti… il tuo divano?»
Non sa quello che dice, pensa Dean. «Il fa o è che il divano non è
mio ma del padre di Jasper, e può sba erci fuori da un momento
all’altro. Se fai sul serio, devi cercarti un posto più stabile, ed è con
Rod che dovresti parlare.»
Prima ancora che Kenny si rendesse conto di essere stato mandato
a quel paese, Dean aveva richiamato l’a enzione del barman.
«Qua ro pinte di Smithwick’s!»

A suonare per ultimi al Bag o’ Nails erano stati cinque tizi di


Ipswich, gli Andronicus. Niente di eccezionale, ma avevano tirato
fuori un ritmo trascinante, ballabile, e Dean con il suo cappo o
napoleonico comprato da I Was Lord Kitchener’s Valet, si era inventato
un nuovo ballo che aveva ba ezzato «Il Fenico ero». Quel cappo o
non avrebbe potuto perme erselo, aveva però dato per scontato che
sarebbe stato in grado di farlo presto. Dean si sentiva traboccare
d’amore. Amore per chi gli era fratello o sorella in ambito musicale,
per Jasper, Elf e Griff. Amore per Levon, nel cui nome si celava la
parola love. Amore per sua madre, che se n’era andata sulle note
della magnifica, meravigliosa, splendida «Tennessee Wal ». Si era
asciugato le lacrime. Amore per Li le Richard, che all’Odeon di
g p
Folkestone aveva salvato la vita a quel moccioso, a quel piccolo
Tarzan. Amore per nonna Moss e Bill. Dean si era ripromesso di
comprargli una case a, magari a Broadstairs, con il primo assegno
che gli sarebbe arrivato grazie ai diri i di «Abandon Hope», o con il
secondo, o con il terzo. Amore per Ray, per il nipotino Wayne e (ma
sì, perché no) anche per la cognata gravida Shirl. Harry Moffat la sua
benevolenza poteva pure aspe arla all’inferno, perfino le pillole
della felicità di Rod avevano i loro limiti. Ma Dean provava amore
anche per Rod con il suo occhio da pirata, che quelle pillole magiche
gliele aveva vendute a prezzo di costo. Amore per gli Andronicus e
ogni altro gruppo mediocre, perché con le loro esibizioni spente
facevano risplendere gli Utopia Avenue di una luce ancora più
intensa. Amore per Jude, che stava dormendo profondamente a
Brighton. Anche lui, Dean, era stato una persona come tante, e
neanche troppo tempo prima. Amore per Stew e il suo vecchio amico
Kenny, per quanto Dean non avesse voglia di fargli da baby-si er.
L’amore faceva ruotare il proprio fascio luminoso come un faro su
una scogliera. Finito il concerto degli Andronicus, era andato al
bancone e aveva de o al barman: «Da bere per i miei amici!»
«I tuoi amici chi sono?»
Dean aveva guardato le facce nel locale. «Tu i quanti!»
Il barman sembrava titubante. «Tu i?»
«Tu i, sì! Segna sul mio conto!»
«Come hai de o che ti chiami?» aveva replicato il barman.
«Dean Moss. La mia band sono gli Utopia Avenue. Il mese scorso
eravamo a Top of the Pops. E mi piacerebbe aprire un conto qui.»
Il barman a quel punto non aveva de o: Mi scusi, signor Moss,
non l’avevo riconosciuta, ma: «Non posso aprire nessun conto senza
l’autorizzazione del capo».
La pillola magica blu non gli era stata d’aiuto e, in modo confuso,
si era reso conto che i venti clienti in ascolto avrebbero de o ad altri
venti, i quali lo avrebbero fa o sapere ad altri venti ancora, che al
Bag o’ Nails un coglione di nome Dean Moss aveva fa o la figura del
perfe o idiota.
«Va tu o bene, Dermo .» Alle spalle di Dean era apparso Rod
Dempsey. «Per il conto garantisco io. Solito budget.»
p y g g
L’espressione del barman era cambiata all’istante. «Oh, be’, in
questo caso», aveva guardato di nuovo Dean, «il signor Moss avrà il
suo conto.»
Dean era colmo di gratitudine. «Rod, io…»
Rod gli aveva fa o cenno di lasciar perdere.
Dean allora era saltato su un tavolo. «Gente del Bag o’ Nails! Di
qualsiasi cosa abbiate voglia, chiedetela al bancone e segnatela sul
conto di Dean Moss. Dean Moss, avete capito bene. Suono negli
Utopia Avenue. Il nostro album è Paradise Is the Road…» Un’orda si
era scaraventata verso il bancone e Dean aveva rischiato di cadere
dal suo trespolo sul pavimento appiccicoso. Lo avevano sollevato fra
le risate, e una sfilza di fraterni amici nuovi di zecca aveva brindato
alla sua salute a suon di Singapore Sling, Manha an, tripli scotch,
Babycham e pinte di scura che Dean, il talento di Dean e la
generosità di Dean avevano pagato a tu i quanti. Quei suoi nuovi
amici avevano adorato «Darkroom», e Dean aveva giurato loro che
per «Abandon Hope» avrebbero perso la testa. La no e era diventata
liquida. Le ragazze esclamavano: «Allora sei davvero una pop star!»
E lui replicava: «È uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo»,
oppure: «Adesso sì, ma quando ho iniziato ero solo un ragazzo con
un folle sogno». Le ragazze che gli chiedevano se conoscesse
qualcuno degli Stones o dei Beatles ascoltavano tu ’orecchi le sue
sfacciate bugie. Poi alcune lo avevano trascinato sulla pista da ballo.
Una di loro gli aveva fa o scivolare la mano intorno alla nuca.
Doveva averle chiesto come si chiamava, perché come un pesce che
mordicchia un verme all’amo, lei gli aveva avvicinato le labbra
all’orecchio. «Izzy Penhaligon.»

«Se mi sentirò ancora parte del popolo», Dean ripete la domanda,


«con una villa nel Surrey, una Triumph Spitfire e roba simile?»
Amy Boxer, Amy per gli amici, annuisce come se conoscesse già
la risposta. Un piccione a erra con una zampa sola sul davanzale
della finestra di Levon.
Chissenefrega? «Richiedimelo quando succederà.»
«‘Quando’ succederà?» ripete Amy. «Non ‘se’?»
«Proprio così, ‘quando’.» Vacca impertinente.
p q p
Grit, grit, grit fa la penna di Amy sul foglio.
«Hai intenzione di dipingermi come un idiota?»
Amy solleva lo sguardo, non risponde né sì né no.
«Amy è okay», dice Levon a Dean. «Ci conosciamo da una vita.»
Dean si sente prudere in fondo alla schiena e si dà una gra ata.
«Quello che ha scri o sui John’s Children li ha fa i sembrare dei
beoti.»
«Non c’è stato bisogno del mio aiuto», riba e Amy, «per farli
sembrare dei beoti.»
«I John’s Children?» Elf li conosce. «Di recente non hanno cercato
di rubare la scena agli Who aizzando il pubblico a devastare la sala?»
«Se gli Who cagassero uno stronzo a testa in un secchio», ringhia
Griff, «in quel secchio ci sarebbe comunque una band migliore dei
John’s Children.»
«Ooh, posso riportarla pari pari questa?» chiede Amy.
«Gli Utopia Avenue», dice Levon, «augurano ai John’s
Children…»
«Certo che puoi, e scrivi che l’ho de o io», le risponde Griff.
La biro di Amy continua a graffiare il blocco. «Vorrei fare
un’ultima domanda a tu i voi. Quando ho sentito Paradise Is the Road
to Paradise, mi veniva da pensare alla politica. Viviamo in tempi
rivoluzionari. La Guerra Fredda. La fine degli imperi. La
disgregazione dell’autorità costituita. L’a eggiamento nei confronti
di sesso e droghe. Lo specchio della musica non dovrebbe cambiare
di conseguenza? La musica non dovrebbe provare a innescare un
cambiamento? Potrebbe riuscirci? E voi, voi potreste riuscirci?»
«È più semplice quando ti chiedono del tuo cagnolino o del tuo
cibo preferito», borbo a Griff da so o il cappello.
«‘Abandon Hope’ si chiude con la bomba atomica», dice Elf.
«Alla radice di ‘Mona Lisa’ c’è il femminismo», osserva Jasper. «È
una canzone di ‘sorellanza’, per così dire, come ‘Four Women’ di
Nina Simone.»
«Anche in ‘Darkroom’ c’è una vitalità da amore libero in linea con
i tempi», fa notare Dean. «Non è esa amente una ‘I Want to Hold
Your Hand’.»
«Ognuno di voi ha nominato la canzone di un altro», dice Amy.
g y
«Questo siamo», borbo a Griff. «Una grande famiglia felice.»
«D’altra parte, ‘A Raft and a River’ è un’ode alla musica», continua
Amy. «‘The Prize’ parla degli alti e bassi del successo. ‘Purple
Flames’ che, fra parentesi, per quanto mi riguarda è una delle
canzoni dell’anno», Amy guarda Dean vibrare di piacere prima di
ricordare a se stesso che i critici sono il nemico, «è profondamente e
palesemente intimista. E queste non sono canzoni politiche.»
«Chi lo dice che una band non può essere un po’ questo e un po’
quello?» chiede Elf.
«Ogni tanto senti una canzone che oltre a essere un bel pezzo
musicale lancia un messaggio», dice Dean. «‘For What It’s Worth’,
‘Mississippi Goddam’, ‘A Change Is Gonna Come’. Ma un album
intero che si sforza di essere politico con la P maiuscola? No, non
può venirne niente di buono, e credo di poterlo dire per esperienza.
Ero nei Ba leship Potemkin.»
«I Beatles, gli Stones, gli Who, i Kinks», interviene Griff. «Loro
non cercano di cambiare il mondo. Loro non comprano ville
scrivendo inni a favore del disarmo o di un paradiso socialista. Sono
qui per fare musica malede amente buona, e questo è quanto.»
«Le migliori canzoni pop sono arte», dice Jasper. «E fare arte è già
un a o politico di per sé. L’artista rifiuta la versione dominante nel
mondo, ne propone una nuova. Più che una versione, una
sovversione. È questione di etimo, subversio. I tiranni fanno bene a
temere l’arte.»
«E la musica gli fa una paura fo uta», dice Dean. «Sono i ganci.
Una volta che la musica ti entra dentro, ci resta per sempre. La
musica migliore è una forma di pensiero. O piu osto un modo per
ri-pensare. Non ubbidisce agli ordini.»
Accidenti, pensa Dean. Sembro quasi intelligente.

Domenica ma ina presto, all’indomani del Bag o’ Nails e impalato


davanti alla casa di Izzy Penhaligon, Dean si era sentito un cretino.
Gli angoli e le insegne di Londra erano offuscati da una nebbia
gelida dalla quale il suo cappo o napoleonico riusciva a stento a
ripararlo. In giro non c’era nessuno. La no e si era rivelata
deludente. Izzy Penhaligon aveva continuato a respingerlo e le sue
y g p g
ultime parole erano state: «Credo sia meglio che ora tu te ne vada».
Non si erano nemmeno scambiati il numero di telefono. Dean si era
incamminato per Gordon Street, e solo all’altezza di Euston Road si
era accorto di aver camminato verso nord anziché verso sud. Aveva
aspe ato alla fermata dell’autobus che passasse il 18. Si era
domandato che fine avessero fa o la sera prima Kenny e Stew.
Aveva de o ai due amici che avrebbero potuto dormire a Chetwynd
Mews, una promessa di cui si era opportunamente dimenticato non
appena Izzy Penhaligon gli aveva de o: «Vieni da me». Gli era
tornato in mente Harry Moffat, quanto avesse bisogno della vodka
per sentirsi normale, e si era chiesto se per sentirsi normale lui non
avesse invece bisogno del sesso, o di sentirsi amato, o famoso, o
vero. L’idea era sgradevole ma plausibile. L’autobus numero 18 non
si vedeva ancora, dunque Dean si era rimesso in marcia lungo
Euston Road. Il 18 gli era sfrecciato accanto trenta secondi dopo. Il
conducente lo aveva guardato come se niente fosse mentre si
sbracciava, poi l’autobus era stato inghio ito dalla nebbia.
Dean aveva svoltato in Gower Street. Via via che procedeva sul
marciapiede con passo deciso, una linea di chitarra marciava con lui.
Aggiustava il tiro, la mandava in distorsione, sia comprimendola sia
rendendola più metallica, erano due ba ute. La prima metà della
frase faceva una domanda e la seconda metà rispondeva. Un gancio
perfe o. Stava costeggiando Bedford Square. Dagli alberi
penzolavano foglie morte. Alla sua sinistra si spalancava Morwell
Street, dove viveva un tempo, e lui si era infilato nel suo stre o
esofago. Non si vedeva a più di dieci passi o giù di lì. Aveva
superato la casa della signora Nevi . Pensava alle cinque sterline che
gli aveva rubato. Sul davanzale c’era quel suo cartello: AFFITTASI –
ASTENERSI NERI E IRLANDESI. RIVOLGERSI ALL’INTERNO . Gli era saltato
all’occhio un sasso nel canale di scolo accanto al marciapiede, e
aveva deciso che si trovava lì per una ragione ben precisa.
Controllando a destra e a sinistra che dalla nebbia non stesse
spuntando nessuno, Dean aveva scagliato il sasso contro la finestra.
L’aveva ro a facendo pochissimo chiasso, solo un breve, melodioso
rumore di vetri in frantumi. Dean se l’era data a gambe in preda
all’euforia. Nessuno gli aveva urlato niente, nessuno lo aveva visto,
era un segreto che si sarebbe portato nella tomba.
A popolare Oxford Street erano solo pochi superstiti del sabato
sera. In Soho Square, un cane nero secco secco stava montando una
cagna grassoccia di pelo chiaro. Il sesso è il grande bura inaio, aveva
pensato, e con una biro aveva bu ato giù quelle sei parole su un
vecchio biglie o dell’autobus. Come diceva Elf: «Se non lo scrivi,
non è mai esistito». In testa gli sbocciavano varie rime:
immondezzaio, guaio, paio. Stava superando la clinica in cui l’aveva
mandato Hopkins mesi prima a trovare in fre a una barella. Londra
era come un gioco. Faceva da sé le sue regole mentre la partita era in
corso. Uno dei nipoti del signor Craxi stava lavando il pavimento
dell’Etna. Dean aveva considerato se presentarsi di punto in bianco
da Elf in Livonia Street con qualche croissant della pane eria
francese, ma poi si era ricordato che ci sarebbe stato anche Bruce. Se
con uno schiocco di dita avesse potuto cancellare dal mondo Bruce
Fletcher senza che ci fossero poi domande e indagini sull’omicidio,
non avrebbe esitato un a imo. Le dita comunque le aveva schioccate
davvero, nella vaga speranza che potesse funzionare. Elf l’avrebbe
vista alle prove al Pavel Z. Quella sera avevano un concerto a Brixton.
Con il furgone non ci avrebbero messo troppo. Sbucando da Soho,
era piombato in Regent Street, un canale curvo di nebbia, e l’aveva
a raversato per raggiungere Mayfair. Aveva deciso di farsi un bagno
e poi chiamare Jude. Aveva deciso anche di tra arla meglio. Perfino
Griff aveva cominciato a dargli del bastardo. Avrebbe dovuto
mandarle dei fiori. I fiori alle donne piacciono. Avrebbe potuto
trasformare il suo nuovo gancio in una canzone e dedicargliela,
stava considerando, oppure scrivere una canzone che parlava di lei,
come «Darkroom» parlava di Mecca. Nella drogheria polacca di
Brook Street aveva comprato un cartone di uova, una pagno a, il
Daily Mirror e un pacche o di Dunhill. «Che nebbia, eh?» gli aveva
de o il commesso. «Che nebbia, già», aveva concordato lui. Poi
aveva raggiunto Chetwynd Mews e aveva salito i cinque o sei
gradini che conducevano al portone. Era arrivato sano e salvo a casa,
la fortuna era dalla sua parte. Aveva tirato fuori le chiavi.
Dentro, in anticamera, c’erano un paio di stivali da donna
sistemati con cura. A quanto pareva Jasper era tornato da Oxford di
buon’ora e con qualcuno.
«Jasper?» aveva chiamato Dean.
Nessuna risposta. Probabilmente erano a le o. L’aria era intrisa di
hashish. Mister Kabouter era ancora acceso. Dean aveva a raversato
la sala per far entrare un po’ d’aria e un po’ di luce, ma aveva fa o
un salto alla vista di Jude seduta in poltrona che lo osservava.
«Merda, Jude! Mi hai fa o venire un infarto!»
Lei non aveva de o niente.
Gli stivali in anticamera erano i suoi. «Ero uscito un a imo a
comprare dell’aspirina. A dire il vero sono stato fuori un po’. Era
tu o chiuso. Ho dovuto girare mezza ci à. Solo per un’aspirina!
Incredibile. Ti vanno delle uova?» Aveva aperto il cartone. Tre erano
ro e. «Uova pre-strapazzate. Oppure preferisci una fri ata?»
Jude lo fissava.
«Allora… ehm… Jasper è in casa?»
«È arrivato quando sono arrivata io», gli aveva risposto con voce
smorta. «Mi ha de o di restare, poi è uscito subito. Non gli ho
chiesto dove stava andando.»
«Okay. Be’, mi fa piacere vederti.»
«Ti ho chiamato ieri sera per sapere se ti era passata l’influenza,
ma non mi ha risposto nessuno. Quindi ho pensato di venire
dire amente qui a prendermi cura di te. Ho preso il primo treno per
Victoria Station. Ma poi, sulla porta, di nuovo non mi ha risposto
nessuno.»
«Devi avermi mancato per un pelo. Dovevo essere appena
uscito.»
«Come bugiardo non vali niente, Dean.»
Lui si era mostrato sbigo ito. «Perché dovrei mentirti?»
«Non farlo, per favore.»
«Non fare che?»
«Non tra armi come la scema che sono.»
Dean avrebbe voluto già trovarsi al riparo nel futuro, quando
quello che stava capitando sarebbe stato solo un errore del passato e
lui non si sarebbe più sentito il re degli stronzi.
p g
Jude si era asciugata gli occhi. «Mi dicevano tu i che eri uno di
quelli per cui le regole valgono solo per gli altri. Ti ho difeso. Ho
de o che avevi i piedi ben piantati a terra.» Si era alzata dalla
poltrona e dire a alla porta, si era infilata cappo o e stivali. «Mi
piacerebbe dirti: ‘Ti faccio i miei migliori auguri’, ma non voglio che
le mie ultime parole siano una bugia. Quindi ti dico… spero che tu
riesca a diventare una persona migliore. Per il tuo bene.»
Dean si faceva più schifo di un sacco di alghe marce.
Jude si era richiusa la porta alle spalle.

«Dean?»
Amy lo sta guardando. Come tu i nell’ufficio di Levon. Nella
stanza accanto squilla il telefono di Bethany: «Moonwhale,
buonasera».
Gli orologi sulla parete scandiscono i minuti sui diversi fusi orari.
«Scusa. Cosa mi stavi chiedendo?»
«Dicevo semplicemente che se hai voglia di raccontarmi un altro
aneddoto di depravazioni varie, di qualunque genere, lo ascolterei
con piacere.»
«Ah, giusto, scusa. No, non ho niente da raccontarti. La sera do
un’occhiata a una rivista di golf, bevo una cioccolata calda e alle
dieci vado a le o. Sono fa o così.»
«Già, ti ci vedo.» Amy sistema le sue cose nella borsa e si alza.
«Bene, credo di essere a posto, quindi… Vi lascio in pace.»
Levon si alza e le apre la porta. «Quando hai de o che dovrebbe
uscire l’articolo?»
«La se imana prossima.»
«E la recensione del disco?» chiede ancora Levon.
«Quella l’ho già scri a.»
Dean sonda l’espressione di Amy in cerca d’indizi.
Il canino di lei s’imprime nel labbro. «Rilassatevi. Se avessi prima
massacrato il disco, perché scomodarmi dopo a scrivere o ocento
parole sul gruppo?»
Dean le stringe la mano. Amy lo guarda dri o negli occhi.

***
Dean fissava la poltrona su cui Jude era stata seduta. C’era ancora
una lieve traccia di calore corporeo. A scatenare tu o quel casino era
stata la lussuria. Dare la caccia alle ragazze era una specie di
dipendenza. Il sesso con le sconosciute non gli dava nessun vero
piacere. Aveva giurato a se stesso che da quel momento in poi
avrebbe tra ato tu e le donne come tra ava Elf. Come persone, in
sintesi. Aveva sentito squillare il telefono. Aveva spento l’acqua della
vasca ed era andato a rispondere.
«Sì, chi parla?»
«Buongiorno, lurido vagabondo.»
«Rod. Scusa per ieri sera, sono… scomparso, diciamo.»
«Non devi scusarti di nulla, Romeo. Hai concluso?»
«Sono un gentiluomo, non lo saprai mai.»
«Un dio del rock mandrillo, questo sei. Un po’ della tua magia,
comunque, se l’è beccata anche Kenny.»
«Davvero?»
«Davvero. L’ultima volta in cui l’ho visto stava andando a
Hammersmith con una pulzella incantatrice. Al ragazzo è andata
bene. Una così l’avrà fa o schizzare fino alle narici. Stew invece ha
dormito da me a Camden su un divano. Se n’è andato poco fa.»
«Tu o bene quello che finisce bene, mi viene da dire.»
«Giusto. E dopo una serata così fantastica mi sento un po’ cafone
a parlare di soldi, però come preferisci pagare, assegno o contanti?»
Il tempo aveva inchiodato di colpo, come un treno. «Parli delle
pillole?»
«Macché, lascia perdere le pillole. Il tuo conto al Bag o’ Nails,
intendo.»
Se n’era ricordato solo in quel momento. «Già, certo. Che
ammonta a…»
«Novantasei sterline e qualche spicciolo.»
Il tempo era uscito dai binari, stavolta il treno aveva avuto un
grave incidente.
Dean non ce le aveva novantasei sterline da parte.
Dean da parte non aveva neanche un pezzo da cinque.
«Dean?»
«Eh? Sono qui, sì.»
q
«Ah, bene. Credevo fosse caduta la linea. Dopo che te ne sei
andato il conto l’ho pagato io. Sai, il Bag o’ Nails non è il bar più
economico di Londra. Il tuo è stato un gesto generoso, la gente però
ha preso subito la palla al balzo. Ho fa o bene a pagare, no?»
«Sì, certo. Grazie.»
«Ma il tuo telefono funziona? È come se ci fossi sì e no.»
Mentre Dean tentava di capire come comunicare a un amico che
non poteva restituirgli i soldi della bevuta, inaspe atamente un
mucchio, i suoi pensieri avevano ripiegato sul ricordo di un amo che
s’infilava nella bocca di un verme: «Fagli uscire l’amo dal culo»,
aveva de o Harry Moffat, «in modo che si veda solo la punta. Ecco
qui, capito?»

Nel dopo-intervista, Elf e Jasper fanno sparire le tazze di caffè e


Bethany elenca a Levon le telefonate che sono arrivate mentre era
occupato. Griff è immobile so o il suo cappello da cowboy. Sul
bracciolo del divano, Dean nota un guanto femminile. «To’, Amy ha
lasciato qui un guanto.»
«Ma pensa.» Elf guarda Dean come una che la sa lunga.
«Vedo se riesco a raggiungerla.»
«A quest’ora sarà già per strada», dice Jasper.
«Oppure», replica Elf in maniera vaga, «potrebbe essere molto,
molto più vicina.»
«Da quando in qua le aragoste si pescano con un guanto?» chiede
Griff.
Dean corre fuori dall’ufficio di Levon, fuori dalla Moonwhale, poi
giù fino al pianero olo della Duke-Stoker Agency. Lì trova Amy che
sta fumando una sigare a. Dean le fa dondolare davanti il guanto.
«Ogge i smarriti: guanto in pelle scamosciata.»
«Ma tu guarda.» Fa per prenderlo. Dean lo stringe più forte. La
faccia di Amy dice: Sei carino, non carino fino a questo punto, però.
Molla il guanto.
«Ho diri o a una ricompensa?» Dean tira fuori il suo pacche o di
Dunhill.
«Puoi darmi il tuo numero di telefono.»
Tu, infida, bellissima, sinuosa, formosa pu ana.
fi f p
«Se ti do il mio numero come faccio a sapere che mi chiamerai?»
«Non lo saprai.» Amy solleva l’accendino.
Denmark Street inghio e e spazza via le scale.
Dean tende la sigare a verso la sua fiamma.

a. L’amo, il gancio.
Last Supper a

Mentre aspe ava l’ennesima Guinness al primo piano del Duke of


Argyll, Griff si era messo a contare i presenti. So o un’aureola di luci
natalizie, Bethany, il fidanzato regista teatrale e Petula Clark erano i
numeri 1, 2 e 3. Un elegante quarte o, il 17, il 18, il 19 e il 20, era
composto da Levon, un biochimico di nome Benjamin, Pavel Z e il
manager dei Move. Jasper, Heinz Formaggio e lo scienziato keniota
erano il 36, il 37 e il 38. I DJ John Peel e Bat Segundo erano il 44 e il
45, Elf e Bruce, che si stavano godendo un momento d’intimità in un
angolino, erano il 59 e il 60. Bruce premeva la fronte contro quella di
Elf, le stava parlando e lei sorrideva come solo gli innamorati
sorridono. Griff era in pensiero. Stava per succederle qualcosa di
bru o. Il ba erista aveva prelevato una benzedrina da un
portapillole che teneva in una tasca della giacca, si era voltato verso
la finestra e aveva ingollato quella dispensatrice di pace e felicità
universale. So o, in Brewer Street, i lavoratori si affre avano verso
casa con i baveri alzati e i cappelli calati. Sull’altro lato della strada,
sopra un fru ivendolo, un ragazzino di una decina d’anni fissava
Griff alla finestra. Griff aveva sollevato una mano per salutarlo. Il
ragazzo era scomparso nell’oscurità.
«La sofferenza è l’unica promessa che la vita mantiene sempre.»
Girandosi, Griff si era trovato davanti due giovani donne
appariscenti con labbra rosso sangue, spilloni dall’aria letale, guanti
a rete, stola di pelliccia e scollatura strategica. Non era sicuro di
quale delle due avesse parlato. «Già», si era limitato a commentare.
«Ufficialmente non ci conosciamo ancora», aveva de o una.
«Però vi abbiamo visti suonare», aveva de o l’altra. «Spesso.»
«Siamo le vostre più grandi fan», avevano de o insieme.
Griff era disorientato perché l’avevano preso alla sprovvista, ma al
tempo stesso gli veniva da ridere.
«Io sono Venus», aveva de o una. «Come la dea.»
«Io sono Mary», aveva de o l’altra. «Come la Vergine.»
«Eccoti la tua Guinness, selvaggio uomo del rock.» Dean gli aveva
passato la pinta. «Al bancone è un carnaio. Ma chi abbiamo qui?»
aveva chiesto poi lanciandogli un’occhiata da vecchia volpe, a cui
Griff aveva replicato con uno sguardo come a dire: Mai viste prima.
«Loro sono Venus e Mary», aveva replicato. «In carne e ossa.»
«Ciao, Dean.» Venus e Mary avevano parlato perfe amente in
stereo.
Dean aveva guardato prima l’una e poi l’altra. «Caspita.»
«Vi abbiamo visti in concerto undici volte», aveva de o Mary.
«Abbiamo ascoltato Paradise Is the Road to Paradise più di duecento
volte», aveva aggiunto Venus. «Ed è già la terza copia che
compriamo.»
«Sappiamo a memoria le parole. Collezioniamo tu i gli articoli su
di voi. Anche quelli della gazze a di Hull. Sappiamo quando sono i
vostri compleanni.»
«Di che colore sono le porte di casa nostra lo sapete?» aveva
chiesto per scherzo Dean.
«Quella tua e di Jasper è di un rosso acceso», aveva risposto
Venus. «Quella di Elf in Livonia Street è di metallo, ma la porta
interna, quella del suo appartamento, è nera. La tua una volta era di
legno tra ato con il creosoto.» Venus stava guardando Griff.
«Adesso invece è color purea di piselli.»
Prima che Griff riuscisse a farsi un quadro chiaro della situazione,
era arrivata Amy con un gigantesco Martini. «È un manicomio
laggiù al bancone.» Vedendo le due groupie aveva subito capito che
cosa stava succedendo. «Dio, quanto mi piace come siete vestite. I
pizzi dei corse i…»
«Abbiamo saccheggiato i guardaroba delle nostre defunte nonne»,
aveva de o Mary.
«Abbiamo pensato: Perché lasciar mangiare questa roba alle
tarme?» aveva aggiunto Venus.
«Già, perché?» aveva chiesto Amy. «Siete sorelle?»
p y
«Sorelle in Utopia Avenue», aveva spiegato Venus. «Abbiamo
apprezzato il tuo contributo, Amy. Sei la penna migliore di Melody
Maker.»
«Di gran lunga», aveva aggiunto Mary. «Tu ai gruppi il culo non
lo lecchi mai, però non li ricopri neanche di merda. Secondo noi sei
la tipa giusta per Dean.»
Amy aveva guardato rapidamente Dean e aveva bevuto un sorso
di Martini. «Lieta che mi giudichiate degna di lui.»
«Ora sì che brilla», aveva de o Venus. «Più di quando usciva con
la parrucchiera. A enta a non spezzargli il cuore, però…»
«Altrimenti ti sbudelliamo», avevano intonato in coro.
Amy non era riuscita a fare a meno di sorridere. «Non si può dire
che non mi abbiate avvisata.»
Mary aveva sfiorato la pinta di Griff. «Posso bagnarmi il becco,
Griff?»
Senza rendersene conto, il ba erista le stava già allungando la
scura. Mary ne aveva prosciugato un quarto e l’aveva passata a
Venus, che ne aveva bevuto un quantitativo simile. «La Guinness per
chi ha sete…» aveva iniziato a dire Mary.
«…è come il sangue per i vampiri», aveva continuato Venus. «È
per via del ferro.» Poi aveva restituito a Griff il bicchiere mezzo
vuoto.
Levon, in piedi su una sedia, con le mani a megafono stava
richiamando l’a enzione della sala. «D’accordo, gente, okay, solo
due parole per favore…» Il baccano era calato. «Grazie a tu i per
essere qui al termine di una giornata frenetica di una se imana
frenetica di un anno frenetico. Oggi abbiamo molto da festeggiare.
Non solo l’uscita del nuovissimo singolo degli Utopia Avenue,
‘Abandon Hope’ di Dean…»
I bicchieri si erano alzati, Dean aveva sollevato una mano.
«…ma anche di Paradise Is the Road to Paradise.» In mezzo ad
applausi e urrà ancora più chiassosi Levon aveva mostrato l’LP.
«Solo undici se imane fa, per il gruppo era solo un remoto sogno
all’orizzonte. Solo undici se imane fa, Elf, Jasper, Dean e Griff
avevano appena finito di registrare l’ultima canzone ai Fungus Hut.
Per quanto mi riguarda, i risultati parlano da soli.» Qualche grido di
approvazione, nuovi applausi.
«Un paio di critici hanno provato a romperci le uova nel
paniere…»
Levon aveva smorzato alcune grida tipo: «Morte a Felix Finch!» e
«Eunuchi in un harem!»
«…ma in linea di massima l’album ha avuto l’accoglienza che
speravamo. In tu a la stampa musicale inglese non c’è critico più
acuto di Amy Boxer di Melody Maker, che si dà il caso sia con noi
stasera.»
Gli urrà erano divampati. Amy aveva agitato una mano e Dean
aveva applaudito con forza.
«Se Amy non ha nulla in contrario», aveva proseguito Levon,
«leggerò ora la recensione che ha scri o per Paradise.» Con un cenno
la giornalista gli aveva dato il via libera, mentre Levon tirava fuori
una copia di Melody Maker, si infilava gli occhiali e sfogliava le
pagine fino a trovare quella giusta. «Eccola qui. Domanda: Cosa o ieni
se incroci un giovane bassista arrabbiato con una veterana del folk, un
semidio della Stratocaster e un ba erista jazz? Risposta: gli Utopia Avenue,
un gruppo come nessun altro. Il loro LP d’esordio, Paradise Is the Road to
Paradise, è uno degli imperdibili di questo 1967. La varietà e la qualità
delle composizioni è formidabile. Il bassista Dean Moss ci propone ‘Abandon
Hope’, un assaggio di R&B dei bassifondi, ‘Smithereens’, un ululato
solitario che parla di sogni infranti, ‘Purple Flames’, se e epici minuti di
riff, energia, introspezione e maturità espressiva.»
Nel silenzio erano esplosi un «Senti senti» e un «Ben de o, Amy».
Levon aveva bevuto un goccio di rum. «La voce eterea e grintosa di Elf
è ben nota a legioni di ammiratori. In Paradise, tu avia, i suoi interventi
come tastierista sono una rivelazione. Ascoltate il rovente assolo di
Hammond in ‘Purple Flames’, o i cromatismi sonori di ‘Darkroom’. Di
prim’ordine sono anche le nuove canzoni firmate da Elf Holloway: ‘A Raft
and a River’ è un’ode ele ro-folk alla musica, mentre ‘Unexpectedly’ è una
canzone su un amore disperato la cui fiamma non si è ancora spenta.»
«È incandescente, piccola!» Bruce aveva ge ato in aria le braccia,
come un campione sportivo, e aveva baciato Elf. Griff aveva
guardato Dean, poi avevano alzato entrambi gli occhi al cielo.
g p g
«‘Mona Lisa Sings the Blues’ è la più potente delle tre. Mai era stato
inciso su vinile un compendio più sagace delle regole con cui deve
destreggiarsi una donna in un mondo di uomini, come canta James Brown.
Un futuro singolo a tu i gli effe i, dico bene?» Levon aveva sollevato lo
sguardo e si era rivolto alla sala. «Mi sa che siamo tu i d’accordo,
eh?»
Ancora applausi. Venus e Mary applaudivano all’unisono con lo
stesso ritmo, aveva notato Griff, come un unico paio di mani.
«Il che ci porta», aveva continuato Levon, «a Jasper de Zoet. I
paragoni con Clapton e Hendrix per una volta sono meritati. De Zoet
alterna passaggi acustici, feedback laceranti e blues cosmici con una rapidità
da lasciare sbigo iti. Sua è la dirompente hit degli Utopia Avenue,
‘Darkroom’, la canzone d’amore più strana mai approdata a Top of the
Pops. ‘Wedding Presence’ è un valzer sognante da danzare fra i candelabri.
La terza proposta di De Zoet è ‘The Prize’, che parla di un viaggio verso il
baratro della celebrità. Richiama alla lontana ‘Desolation Row’ di Dylan,
ma al pari dell’LP che va a chiudere è una bestia magnifica con uno stile
tu o suo.» Applausi.
Griff aveva pescato una Marlboro, se l’era ficcata in bocca e si era
dato un paio di colpe i sulle varie tasche per localizzare l’accendino.
Mary era già pronta con un fiammifero. Venus l’aveva spento
soffiandoci sopra. I loro occhi erano qua ro lune piene.
«E per finire…» aveva de o Levon. «So ovalutare l’importanza di
Griff Griffin negli Utopia Avenue sarebbe un deli o. Con la sua ba eria ha
il tiro dri o e inesorabile di Charlie Wa s, esplode come Keith Moon ed è
ecle ico come Ginger Baker.»
Venus e Mary avevano strizzato con delicatezza i bicipiti di Griff,
a destra e a sinistra. Lui lo trovava inquietante ed eccitante insieme.
«La sezione ritmica Moss-Griffin è la forza invisibile che dona uniformità a
un album particolarmente eterogeneo. Paradise Is the Road to
Paradise…» Levon aveva lasciato vagare lo sguardo per tu a la sala
«…ha tu i i numeri per diventare un classico. Amy, cara, non avrei
saputo dichiarare il mio amore per gli Utopia Avenue con altre anta
maestria.» Ancora applausi. Per Griff si stava facendo tu o troppo
smielato. Aveva appoggiato il bicchiere sulla mensola del camine o.
«Dove vai?» gli aveva chiesto Dean.
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«A pisciare, mi sta scoppiando la vescica.»

Sulla parete rosa sopra l’orinatoio c’era una scri a all’altezza degli
occhi. Poteva tra arsi di un’oscenità idiota, o magari di un’oscenità
arguta, ma Griff non aveva l’energia sufficiente per trasformare le
le ere in parole. Aveva dunque lasciato perdere quei geroglifici. Lo
scarico aveva gorgogliato e lui aveva aspirato ciò che restava della
sua Marlboro con un ultimo tiro. Aveva ge ato il mozzicone nella
piccola pozza giallognola, la sigare a aveva emesso un breve sibilo.
Di colpo si era spalancata la porta e all’interno del bagno si erano
riversati i tipici rumori di un venerdì sera al pub. Un a imo dopo
Dean si stava tirando giù la lampo nell’orinatoio accanto, cantando
la colonna sonora di Nata libera. «Bene bene», aveva de o. «Venus e
Mary.»
«Venus e Mary cosa?»
«Dalle fusa che fanno è ovvio che ti vogliono spupazzare il
batacchio.»
«Le groupie sono groupie.»
«Quindi?»
«Quindi vogliono la popstar. Non me.»
«E allora? Il godimento c’è lo stesso. I godimenti, in questo caso.»
Griff pensava a Elf e Bruce.
«Bu ati e basta», aveva de o Dean. «Di cos’hai paura?»
«Delle pia ole e di cinque varietà di scolo, tanto per cominciare.»
«Lo sai cosa si dice a Gravesend dell’igiene femminile?»
«Ho come la sensazione», aveva commentato Griff, «che le
prossime parole che ti usciranno di bocca mi faranno digiunare fino
a Pasqua.»
Dean aveva finto di offendersi. «Il mio non è altro che un sano
consiglio a un vecchio compagno d’armi: ‘Se puzza di pollo,
continua a leccarla. Se puzza di trota, levati dal cazzo’.»
Griff si era sforzato di non ridere. «Coglione.»
«Fanne tesoro.» Dean si era tirato su la lampo. «No, davvero, le
storie a tre non capitano tanto spesso, e la tua vecchia magia ha
bisogno di esercizio. Per questo sei così pallido, silenzioso e hai
l’aria… affamata.»
Due se imane dopo, in piedi con il suo vassoio di fish and chips e
una bo iglia di Coca-Cola, Griff si guarda in giro nell’autogrill Blue
Boar. A popolare quel luogo di no e sono due tribù ben distinte. I
camionisti hanno capelli corti, camicie a quadri, schiene malandate e
pance gonfie. Sono concentrati sulle pagine del Mirror, dello Sporting
Post o sulle mappe stradali. Discutono di percorsi, di chilometri per
litro di carburante, di controlli della velocità e di curve pericolose. La
tribù della gente di spe acolo comprende musicisti e artisti vari,
oltre a manager, roadie e al resto dell’entourage quando incluso. I
capelli degli uomini tendenzialmente sono lunghi fino alle spalle, e
la moda quest’anno prevede motivi cachemire, vellutini, pizzi e
sbuffi. Spe egolano di case discografiche, contra i, sale concerti,
strumenti musicali e di certi promoter che prima di pagare
dichiarano misteriosamente fallimento. Del fratello di Griff, Steve,
nessuna traccia. Griff non si preoccupa. È una serata gelida e il
traffico scorre più lento del solito. Il tavolo dei Beatles è libero, si
dirige lì con il vassoio per accaparrarselo. Chi è in giro per concerti
in Inghilterra, nessuno escluso, fa rifornimento nell’area di sosta Blue
Boar di Watford Gap, confine ufficioso fra il Nord e il Sud
dell’Inghilterra che, malgrado il nome, non si trova dalle parti di
Watford. Quando Jimi Hendrix era venuto a Londra per la prima
volta, aveva sentito citare il Blue Boar talmente spesso da credere che
fosse un locale alla moda di Knightsbridge o di Soho.
Griff sceglie di sedersi dove di solito si sedeva Ringo, da
quell’angolazione può tenere d’occhio la Belva parcheggiata accanto
alla tavola calda. Difficile che un fratello musicista sia messo così
male da rompere il finestrino di un furgone e rubare un
amplificatore, ma preferisce non darlo per scontato. Si me e
comodo. Dopo aver guidato fino a Birmingham, aver suonato alla
Carlton Ballroom prima dei Move e aver di nuovo guidato al ritorno,
non vede l’ora di mangiare. Per i canoni di Hull il pesce che servono
lì non è fresco, ma è troppo affamato per dare peso alla cosa. Griff
prende la bo iglie a appiccicosa, irrora a profusione d’aceto e si
avventa sul trancio di merluzzo. Arriva Jasper, si siede, nel suo
pia o ci sono uova, fagioli, pomodori grigliati e pane tostato.
«Qui dentro mi piace, è accogliente. Questo è il tavolo dei
Beatles?»
«Già. E tu sei seduto nel posto di George.»
Jasper ritaglia un quadratino perfe o in una fe a di pane tostato,
a cui sovrappone un carico di fagioli stufati. «Tu sei seduto nel posto
di Ringo?»
«Non ti sfugge nulla, Zooto.»
Il chitarrista mastica lentamente. «‘The Hook’ è venuta bene.»
«È la canzone migliore di Dean. Non dirgli che te l’ho de o.»
Subito dopo arriva Dean, con un panino al bacon e una
montagnola di patate fri e. Si siede nel posto di McCartney. «Avete
visto chi c’è lì nell’angolo?»
Griff segue il cenno del mento del bassista. «Sono quei cazzo di
Herman’s Hermits. Dispensatori di orecchiabili motive i all’acqua di
rose, così zuccherosi da far cascare i denti.»
«Grazie a quei motive i all’acqua di rose se ne andranno in tour
negli Stati Uniti. Hanno venti date», dice Dean. «Secondo voi
potremmo fargli da spalla?»
Elf si siede nel posto di John Lennon. Sul vassoio ha un tortino. «I
miei occhie i hanno appena interce ato qualcosa che inizia per
HH.»
«Stavo appunto dicendo…» commenta Dean, «non sarebbe
grandioso se fossimo noi ad aprire i loro concerti in America?»
Elf si infila un tovagliolino di carta nella camice a. «Preferirei che
in America ci arrivassimo con le nostre gambe, anziché sfru are un
passaggio degli Herman’s Hermits.»
«Alle nostre gambe toccherà fare un bel po’ di strada per
a raversare l’Atlantico», commenta Dean. Affonda torvo la forche a
in una patatina. Ovverosia, traduce Griff fra sé e sé, ci vuole più di
una hit al sedicesimo posto in classifica e di un fiasco che si è
piazzato al se antacinquesimo.
Dopo il concerto a Birmingham, Levon aveva comunicato al
gruppo che il loro secondo singolo era uscito dalla Top 100, e Dean si
era mostrato insolitamente silenzioso nel lungo viaggio di ritorno.
«Non siamo abbastanza neutri per funzionare come
apriconcerto», osserva Jasper. «I gruppi di punta vogliono qualcuno
p p g pp p g q
che li faccia risaltare.»
«È andata così anche stasera», dice Elf. «Il manager dei Move
prima di iniziare era tu o un ‘Fate un grande concerto’ e così via, ma
dopo che abbiamo suonato ‘The Prize’ ha de o a Levon: ‘Falli
sme ere, dovevano solo scaldare l’ambiente, dannazione’.»
«Archie Kinnock una volta ha ingaggiato gli Yardbirds per aprire
un suo tour nel Nord, dodici serate», dice Griff. «Lo sapete quanto
sono durati? Tre date. Tu e le volte gli hanno rubato la scena alla
grande. Ad Archie non è andata giù.»
Griff immerge una grossa patatina nel purè di piselli.
«Cambiando discorso, non è stato pazzesco quando Elf stasera, per
invitare il pubblico a comprare, ha de o scherzando: ‘Se me ete il
biglie o davanti a una fiammella apparirà la scri a È in vendita il
nostro disco’, e quel coglione l’ha fa o davvero e il suo biglie o ha
preso fuoco?»
«È una trovata che ho rubato a Peggy Seeger.» Elf spruzza il
ketchup sulle patatine di contorno. «A quanto pare ‘The Hook’ ha
fa o il bo o anche stasera, Dean.»
Il bassista guarda mogio il suo panino al bacon. «A differenza di
‘Abandon Hope’, che è stata un disastro. La Ilex non l’ha spinta
abbastanza. Questo è il problema. Avrebbero fa o meglio a piazzare
un po’ di pubblicità su New Musical Express e Melody Maker.»
Griff lancia un’occhiata a Elf e lei gliela restituisce. «Molte grandi
canzoni vendono da schifo, signor muso lungo», dice Griff a Dean.
«Molte canzoni schifose invece vendono come il pane. Guarda gli
Herman’s Termites. Per il momento, comunque, la Ilex non ci
abbandonerà.»
«Griff ha ragione», interviene Elf. «Non è la fine del…»
«È una catastrofe, cazzo.» Dean spinge via il pia o.
«Merda!» Griff perde la pazienza. «Una carestia in Cina, un
terremoto nelle Filippine, l’Hull City che perde contro il Leeds:
questi sono disastri, porca troia. Fa ene una ragione, oppure molla
tu o e trovati un lavoro in un bar.»
Dean sbuffa, ringhia. «La prossima volta in cui cercherò di
proporre qualcosa alla Ilex, se ci sarà una prossima volta, mi
risponderanno semplicemente: Non pensarci nemmeno; ti ricordi di
quando credevi che ‘Abandon Hope’ sarebbe entrata nella Top 10?»
In quel momento il melenso so ofondo musicale del Blue Boar è
«Astro del ciel».
«Se avessimo fa o uscire ‘Mona Lisa’», dice Dean, «a Natale
avremmo avuto una canzone fra le prime dieci in classifica.»
«Questo non possiamo saperlo», dichiara Elf.
«Amy la pensa così. E anche tu.»
«L’autocommiserazione non ti si addice per nulla, Dean.»
«Ehi.» Jasper mostra il suo orologio. «È ufficialmente la vigilia di
Natale.»
«Dai, via, un bacio e facciamo la pace», dice Griff. «Altrimenti
finirete nella lista dei bambini ca ivi.»
«Lui non lo bacio», s’inalbera Elf. «Piu osto bacio…»
«Peter Pope?» la provoca Dean.
La rabbia di Elf si smorza un po’. «Mmm.»
«Scusa», dice Dean.
«È colpa del dado», interviene Elf.
«Un brindisi alla speranza, che non va mai abbandonata. Ad
‘Abandon Hope’.» Jasper alza il bicchiere di Tizer. Alle volte lascia
trapelare un debole per i doppi sensi.
«E un brindisi agli Utopia Avenue», dice Dean. «Presenti in tu i i
migliori negozi di dischi, fra la T di Shirley Temple e la V di Gene
Vincent.»
Griff si accende una sigare a. «Abbiamo bu ato giù nove canzoni
in due se imane. Nella maggior parte degli LP c’è anche della
merda, sono costre i a me ercela per farcire il panino. Non è il caso
del nostro.»
«Tu o quello di cui abbiamo bisogno», dice Dean, «è che un
milione di persone siano d’accordo con te e…» A distrarlo è
qualcuno alle spalle di Griff. «Marcus?»
Griff si volta e vede un tizio con un caftano rosa, occhiali turchesi,
un mantello nero sulle spalle e una fascia con le rune legata alla
testa.
«Dean! Mi fa piacere vederti qui.»
«Se non lo sai questo è il Blue Boar. Elf, Griff, Jasper, lui è Marcus
Daly. Il chitarrista dei Ba leship Potemkin.»
«Il Marcus», chiede candidamente Jasper, «che ha cacciato Dean
perché trovava che la canzone sul presidente Mao fosse una
gonorrea sonica?»
Marcus non sembra dargli peso. «Ne è passata di acqua so o i
ponti. Dean dovrebbe ringraziarmi, in realtà. Top of the Pops? Un
disco? No, dico… mica cazzi.»
Dean soffoca un ru o. «E questo tuo nuovo look da stregone?
Non credo sia il massimo per i picche i fuori dalle fabbriche.»
Marcus si gra a il collo. «Chris è diventato un contabile, Paul ha
seguito una in India, quindi io e Tom abbiamo formato i Ba leship
Aquarius.»
Dean lo fissa. «E che ne è stato dell’idea di usare il pop capitalista
per convertire il proletariato al marxismo?»
«Una sera, durante un concerto a Dartford, è scoppiato un
ba ibecco mentre suonavamo ‘Workers United’. È degenerato in una
rissa. Abbiamo dovuto abbandonare il palco. Volavano sedie, voglio
dire. Denti. Allora sono arrivati gli sbirri che hanno arrestato o o
persone, e altre dieci o giù di lì sono finite in ospedale. Quando
siamo tornati a recuperare l’a rezzatura, ci avevano fo uto tu o.
Non restava che tornarcene a casa. Questo però non era possibile,
perché ci avevano preso anche il furgone. È in quel momento che me
ne sono reso conto: la vera rivoluzione, quella che la gente invoca a
gran voce, non è politica ma spirituale.»
«Quindi fammi capire», dice Griff, «hai sba uto fuori Dean
perché non si è prostrato davanti alla tua bandiera rossa, e poi su
quella stessa bandiera tu ci hai scarabocchiato delle rune cosmiche?»
«Tu o avviene per una precisa ragione», dice Marcus. «A
Dartford a parlarmi è stato il cosmo. Ho scri o una manciata di
canzoni a tema mistico, ho aggiornato la nostra immagine…» mostra
il mantello, «e, udite udite, ogni volta che suoniamo in giro
becchiamo cinquanta sterline.»
Dean strabuzza gli occhi. «Cinquanta o cinque?»
«Cinquanta. Cinque-zero. Abbiamo un manager adesso. È in
conta o con la Decca. È tu a una questione di flusso energetico. Con
q g
i Potemkin era bloccato. Con gli Aquarius scorre. Venite a sentirci al
Middle Earth a Capodanno. La nostra musica si farà capire molto
meglio di me. Devo scappare, Buon Natale e tu o il resto. È stato un
piacere conoscervi, tu i quanti… Ta-da.» Marcus Daly scompare.
«Sembri so o shock», dice Griff a Dean.
«Una volta pretendeva che lo chiamassimo ‘compagno’.»
«Questo decennio sta diventando davvero folle», dice Elf.
«È un bene o un male?» domanda Jasper.

Steve arriva meno di un minuto dopo. «Buonasera a tu i.»


Indossa una giacca di pelle rosso scuro, un maglione pesante e un
sorriso soddisfa o. «Elf, Jasper, Dean, è un piacere rivedervi e, un
a imo…» Guarda serio Griff. «Come si chiama il ba erista? Il suo
nome me lo scordo sempre.»
«Di nome faccio Anche-Se-Sei-Più-Vecchio-Di-Me e di cognome
Ti-Prendo-Lo-Stesso-A-Calci-Nel-Culo-Malede o-Cazzone», riba e
Griff.
Steve ridacchia e si siede. «Scusate il ritardo. C’era un incidente
vicino a Luton.» Il sorriso sfuma. «Si viaggiava su una sola corsia.»
«Anche noi ci abbiamo messo un po’ a tornare da Birmingham»,
spiega Elf.
«La strada era come una pista da pa inaggio in certi tra i»,
commenta Dean. «C’era una nebbia gelida.»
«Noi abbiamo appena finito la nostra sbobba», dice Griff. «Tu hai
fame?»
«Prima di partire, ho mangiato una sfoglia. Meglio se ce ne
andiamo in fre a. Per caso è rimasto un po’ di tè? Ho bisogno di
bagnarmi la gola.»
«Vado a prenderti una tazza», dice Dean.
«Allora, com’è andato il concerto a Birmingham?» chiede Steve.
«Non malaccio.» Griff guarda Jasper ed Elf.
Elf fa un cenno di assenso. «Da quando sei venuto a sentirci a
Derby abbiamo qualche canzone in più. Griff, qui, ha suonato come
un demonio. Al solito.»
«Tu sei proprio uguale a lui.» Lo sguardo di Jasper passa da Steve
a Griff per poi tornare su Steve. «E sei anche proprio diverso.»
p p p p
«A me sono toccati bellezza e cervello», dice Steve. «Com’è
evidente.»
«E anche il gusto di sparare cazzate», aggiunge Griff. «Com’è
evidente. Sei riuscito a ritirare la macchina senza problemi?»
«Sì, tu o bene. L’amico di zio Phil abita parecchio fuori Wembley,
e dalla parte giusta oltretu o. È una Jaguar. Ha tre anni e poco più di
trentamila chilometri all’a ivo. Con quelle sospensioni sembra di
galleggiare sull’aria. Meritava decisamente il viaggio.»
«È anche cascata a fagiolo per riportarvi a casa a Natale», fa
notare Elf. «Mi sento come un malavitoso che chiude la partita con
un testimone.»
«Se lui non fosse rientrato a Hull per Natale», dice il fratello di
Griff, «mamma lo avrebbe fa o rapire e riportare a casa chiuso nel
baule di una macchina. Adesso almeno starà davanti.»
Dean si rifà vivo con la tazza. «Ecco qui, vossignoria.»
«Grazie, bello. È quello che mi ci vuole.» Steve la riempie, fa un
bel sorso e ge a la testa all’indietro. «Adesso sì che va meglio, già.
Avrei un lavoro per voi, prima che mi dimentichi.» Tira fuori tre
copie di Paradise Is the Road to Paradise e un pennarello nero. «Vi
dispiacerebbe firmarmeli?»
«La cosa mi fa sempre un certo effe o», commenta Dean
afferrando il pennarello. «Per chi sono?»
«Uno è per Wally Whitby, un altro per nostra madre e nostro
padre, e un altro per me. Quando sarete più famosi dei Beatles
venderò quel disco e sme erò di vendere macchine.»
«Wally lo sa che non facciamo jazz classico, giusto?» si accerta
Griff.
«Chiaro. Vi ha visto suonare ‘Darkroom’ a Top of the Pops e il
ma ino dopo è subito corso da Price’s Records. Ha raccontato a tu i
che a scoprirti quando avevi dodici anni è stato lui. Continua a
portare a mamma i ritagli delle riviste musicali che parlano del
gruppo.»
Dean passa a Griff dischi e pennarello.
«Immagino che la copertina vi abbia soddisfa o», dice Steve.
Guardano tu i la foto sca ata al Gioconda Café, con Elf, Jasper,
Dean e Griff seduti accanto alla vetrina. Sfru ando la lunga
g
esposizione, la fotografa ha ca urato le scie sfumate di chi stava
passando, un cane e un ciclista. Appeso al muro in alto a sinistra c’è
un cartello con la scri a UTOPIA AVENUE , e in fondo a destra, esposta
in bella vista sul marciapiede, la prima pagina di un quotidiano dal
titolo Paradise Is the Road to Paradise.
«Mi fa impazzire, cazzo», replica Dean a Steve.
«Per o enere l’effe o giusto c’è voluto un po’ di tempo», aggiunge
Jasper.
«Abbiamo speso il doppio del budget messo a disposizione dalla
Ilex», dice Elf.
Griff me e la firma in uno spazio più chiaro della foto.
«Un album è come un bambino», osserva Elf. «E l’abbiamo fa o
noi qua ro…»
«…senza sapere bene dove saremmo andati a parare», dice Dean.
Lei s’indispone. «Lo sai cosa intendo. Uno spera che ciò che ha
fa o abbia una faccia come si deve. La copertina è la faccia.»

L’aria gelida penetra nel giaccone di Griff staccandogli la carne


dalle ossa. «Merda, è come stare in Siberia qui fuori!» Ogni parola è
uno sbuffo di vapore bianco. I cinque raggiungono la Belva. «Bene»,
dice Griff ai compari. «Ci si vede il trenta, allora.»
«Io e Jasper prepareremo qualcosa da mangiare a Palazzo de
Zoet», lo informa Dean. «La nostra ultima cena del 1967 non può
assolutamente essere al Blue Boar.»
«Così si parla», dice Griff. «Io porto il tubo per la lavanda
gastrica.»
«Non aprire il tuo regalo prima di Natale», dice Elf, «o si
dissolverà in una nuvole a di rimorso. E passa dei bei giorni con la
tua famiglia.»
«Sarà fa o. Anche tu.»
Jasper gli stringe la mano. È una stre a solenne e perfino calorosa,
a suo modo.
«Buon Natale, cazzone del Nord che non sei altro», gli dice Dean.
«Che la pace sia con te, invertito del Sud dei miei coglioni»,
replica Griff.
Gli Utopia Avenue meno Griff salgono sulla Belva. Elf si siede al
volante e la riporta in vita al terzo tentativo, con l’aria tirata.
Ripulisce il parabrezza dalla condensa e, sventolando una mano,
saluta il ba erista un’ultima volta prima di imme ersi nuovamente
sulla carreggiata.
Steve fa strada a Griff fino a una Jaguar S-Type illuminata dalla
luna.
«Ma guarda che roba.» Griff accarezza il cofano.
«Te la senti di guidare?»

La M1 riemerge dall’oscurità del Nord con un cartello, HULL 164 , e


le luci sugli alti pali autostradali. Fissi davanti, a un centinaio di
metri di distanza, ci sono i fanali posteriori di un tir colossale.
Rispe o alla Belva, la Jaguar è più calda, confortevole, silenziosa. Va
che è una favola. È anche più sicura, considera Griff. «Se l’album
venderà bene, ci pensi tu a trovarci un furgone migliore? Un
Bedford, magari.»
«Ma certo», dice Steve. «Avrete bisogno anche di uno che vi porti
in giro.»
«Prima o poi, sì. Perché me lo chiedi? Hai voglia di farlo tu?»
«Debs non ne sarebbe molto contenta. Sai, con tu e quelle
groupie.»
Griff pensa a Venus e Mary e risponde perplesso: «La vita di un
musicista non è poi quella gran cosa che ci s’immagina dall’esterno».
«La celebrità sta diventando stressante, sbaglio?»
«Per una canzone nella Top 20 non si può parlare di ‘celebrità’.»
«La gente per strada ti riconosce?»
«Direi di no. In televisione ci siamo stati una volta sola. Dean è il
belloccio, Jasper è Mister Dio della Chitarra ed Elf la Fanciulla d’Oro
in una banda di scavezzacollo. La gente del ba erista si dimentica. A
me sta benissimo.»
Una Triumph Spitfire li supera sull’altra corsia.
«Rallenta, coglione», urla Steve al guidatore.
«Debs come sta?» gli chiede Griff. «Lavora ancora come
parrucchiera?»
«Debs, già. Debs è un po’… Non è facile per lei, tu e le sue
amiche stanno per partorire, oppure sono al secondo o al terzo figlio,
e Debs è contenta per loro, ma ogni volta che c’è un ba esimo è quasi
come se dicesse: Quando tocca a noi? Quindi ogni mese si dice:
Magari è la volta buona. Poi però tu i i mesi la risposta è: No, no che
non lo è. Per lei è sempre un duro colpo.» Steve si accende una
sigare a. È la prima volta che suo fratello parla così apertamente
dell’argomento. Si rende conto che non è cosa da poco. «Non
dev’essere facile.»
«Arrivi a un punto in cui pensi: Forse a noi non succederà. E
così… be’, Pete, ecco la grande novità. Abbiamo preso
appuntamento a gennaio con quelli delle adozioni. Per capire un po’
come funziona.»
Griff gli lancia un’occhiata. «È un passo importante, Steve.»
«Un passo importante, sì.» Steve estrae un lussuoso posacenere
dal crusco o e ci scrolla la sigare a. «Sento che è la cosa giusta. Va
bene sperare che tu o si sistemi da sé, ma… dopo cinque anni uno
inizia a dirsi: Un a imo. Sto solo facendo lo struzzo, cazzo. È il
momento di tentare un’altra via.»
«Mamma lo sa?»
«Sì che lo sa. È stata lei a dare a Debs la spintarella che mancava.
Ci stavamo già pensando, ma insomma, il primo passo è difficile.»
Griff sorpassa una lentissima Morris Minor. «Lo immagino.»
Superano un cavalcavia a o anta chilometri orari.
«E immagino anche che tu e Debs sarete degli o imi genitori.»
«Incrociamo le dita.»
«Insegnerò ai tuoi figli a suonare la ba eria.»

***

Un cartello con la scri a HULL 102 brilla, si fa più grande ed è già alle
spalle.
«La parola ‘Hull’ mi è sempre piaciuta perché è brevissima», dice
Griff.
«Capisco.»
«Ha lo stesso numero di le ere di home. Inizia anche con la H.»
«Occhio, anche hell inizia con la H.»
«Già.»
«A sud ci sono un sacco di posti che iniziano con la B. Brighton,
Bristol, Bournemouth, Bedford. Sono infidi. Si mischiano tu i in un
unico grande ‘Brigstolmouthford’.»
«Gli altri del gruppo lo sanno?»
«Elf l’ha intuito, ma è troppo educata per chiedermi qualcosa.
Quando guido, lei legge i cartelli ad alta voce, come se parlasse fra sé
e sé. Dean non si è accorto di nulla. Dubito anche solo che abbia mai
sentito parlare di dislessia. Jasper… boh, vallo a capire.»
«Jasper è un po’…» Steve pensa alla parola giusta. «Tocco?»
«È un tipo strano. Quando Archie Kinnock l’ha preso nei Blues
Cadillac ho pensato: Ha la puzza so o il naso. E quando poi l’ho
conosciuto meglio mi sono de o: Mi sa che tu i i ricconi sono così.
Jasper però non è un riccone. Suo padre è un milionario, ma lui si
barcamena con i qua ro soldi che gli ha lasciato il nonno. Anche lui
ha bisogno degli Utopia Avenue, deve lavorare o è fo uto. Ora come
ora di Jasper penso che sì, è un po’ suonato, ma chi non lo è in un
modo o nell’altro? Vivi e lascia vivere, giusto? Chi mi manda fuori di
testa è Dean. È un cazzo di yo-yo umano! Metà del tempo si crede un
dono di Dio, l’altra metà ha i nervi a fior di pelle e, di sicuro, non è
un dono di Dio. D’accordo, la madre è morta quando era solo un
ragazzino, il padre lo menava, però vaffanculo. Una storia
strappalacrime ce l’abbiamo tu i, ma non tu i ci comportiamo come
dei piantagrane del cazzo.»
«È dura come con Archie Kinnock?» chiede Steve.
«No, neanche lontanamente. A confronto di Archie Kinnock,
Dean è una passeggiata.»
La luna si staglia nitida sopra una pallida collina.
Steve alza il riscaldamento. «E di Elf che mi dici?»

***

Tempo prima, una ma ina di novembre, l’ultimo giorno di sessioni


di Paradise, Jasper e Dean erano in ritardo di venti minuti
p
all’appuntamento in studio. Griff aveva ascoltato «Take Five» di
Dave Brubeck e stava cercando di tenere un ritmo in 5/4, giusto per
scaldarsi prima di registrare. Elf si era aggiunta suonando la parte al
piano. Quante donne al mondo sarebbero in grado di farlo? si era
domandato Griff. A un certo punto, sme endo d’improvvisare, Elf
aveva chiesto a Digger di preparare i microfoni per registrare le
percussioni, e a Griff di inventarsi una traccia ritmica in 5/4. Lui si
era rifa o a quella linea anomala per cinque minuti buoni, fino a
quando Elf, calatasi totalmente nel ruolo di produ ore, gli aveva
fa o segno di fermarsi. Aveva de o a Digger di far partire quella
traccia ritmica nelle cuffie di Griff e aveva chiesto a Griff di
improvvisarci sopra a colpi di pia i, charleston, gong, campane
tubolari. Come preferiva, insomma, con l’unico limite dei 5/4. Elf si
era tenuta le cuffie premute su un solo orecchio per seguire sia la
traccia ritmica registrata in precedenza, sia la nuova
improvvisazione da sovraincidere. «Non pensare troppo, Griff.
Suona quello che hai dentro e basta.» Lui era partito colpendo un
tom-tom e gli era venuto fuori un assolo di un minuto stile Cozy
Cole. Poi aveva impugnato saldamente le bacche e e si era lanciato
in un nuovo assolo, andandoci giù pesante fra backbeat e rimshot,
con un intermezzo di rullante. Elf guardava le sue mani con un
sorriso distante. Griff aveva inanellato impeccabilmente una rullata
alla Art Blakey, un eterogeneo e vivace ostinato, una pulsante terzina
rullata alla Elvin Jones, un po’ di pia i dal sapore swing e un
impetuoso crescendo free. Elf allora aveva sollevato una mano,
lentamente… per poi farla ricadere di colpo. Griff aveva interro o la
sua improvvisazione e il tappeto ritmico era proseguito da solo per
cinque ba ute.
Tump! two three four five
Tump! two three four five
Tump! two three four five
Tump! two three four five
Tump! two three four five e…
Stop.

***
Elf aveva scosso la testa approvando. «Fantastico.»
Dalle casse si era sentita la voce di Digger: «Fa o, ce l’abbiamo».
Griff si era levato le cuffie. «Ora si può sapere a che ti serve? Stai
lavorando su una nuova canzone o…»
«Direi piu osto che stiamo lavorando su una nuova canzone. Se ci
farò qualcosa, anche tu sarai accreditato come autore.»
Griff aveva immaginato i loro nomi fra parentesi al centro del
disco: (Holloway-Griffin). La porta dello studio si era aperta di colpo
e Dean e Jasper si erano precipitati dentro. «Vicino a To enham
Court Road la metropolitana è rimasta bloccata nel tunnel. Un
poveraccio che si è bu ato so o. Cos’avete fa o nel fra empo? Vi
stavate girando i pollici?»

«Quando hanno fabbricato Elf hanno bu ato via lo stampo», dice


Griff al fratello. «All’inizio non ero sicuro su di lei. Non ce la vedevo
a sopravvivere allo sgobbo da un locale all’altro. Pensavo che Dean,
Jasper e io andassimo già bene come trio. Ma Levon insisteva che le
dessimo una possibilità, e… be’, aveva ragione. Mi ero sbagliato io.
Elf guida il furgone. Carica e scarica l’a rezzatura. Gli scocciatori le
fanno il solletico. Sul palco è come due musicisti al prezzo di uno:
una tastierista con i controcoglioni e… poi c’è la voce. La riconosci
all’istante.»
«Quella canzone, ‘Mona Lisa’, ti entra nella pelle. Debs piange
ogni volta che la sente.»
«L’unico problema di Elf sono i suoi gusti in fa o di uomini», dice
Griff. «Un problema cronico. È tornata insieme a quel cantante
australiano…»
«L’amore è cieco», dice Steve, «e non va ma o per gli oculisti. E…
la prospe iva di voi due insieme come la vedi?»
«Io ed Elf?» A Griff viene da ridere. «No. No e poi no.»
«Cosa ci trovi di così buffo? In fondo ha le curve nei punti giusti e
tu o il resto.»
Griff risponde come secondo lui risponderebbe Elf. «Magari se
non fossimo nella stessa band… il sesso comunque non può
competere con la musica.»
«Se lo dici tu. Quindi chi è che ti stai facendo?»
«Io?»
«Oh, sentilo l’angiole o.»
A Griff vengono in mente Mary e Venus. Si erano trasferite nel
suo nuovo appartamento la sera della festa per Paradise al Duke of
Argyll. Ha dato loro le chiavi e vanno e vengono a piacimento, la
no e però la passano quasi sempre nel suo le o. Cucinano e
puliscono la casa. Fumano erba insieme. Di loro non rivelano niente
o quasi, e Griff ha smesso d’indagare. Se vengo a sapere troppo, teme
quasi Griff, svaniranno in un ba ibaleno come un sogno. Non avanzano
le solite pretese. Non vogliono regali. Non vogliono imbucarsi alle
feste. Sono loro ad avere il controllo della situazione, e a Griff va
benissimo cedere il controllo. Dubita che la loro relazione, sempre
che sia questa la parola giusta, possa durare a lungo. Forse proprio
per questo non ne ha parlato con nessuno, nemmeno con Dean che le
ha conosciute di sfuggita. Mary e Venus sono uno dei capitoli più
strani della sua vita. «Nessuna», mente al fratello. «Sono ancora a
caccia…»

HULL 40 , dice un cartello. La lance a sul contachilometri della


Jaguar tocca i sessantacinque all’ora. I conti li so fare anch’io. Sono le
due e un quarto del ma ino, quindi imboccheranno Albert Avenue
più o meno fra un’ora.
«Pensi che papà sarà ancora sveglio?» chiede Griff.
«Lo troveremo sul divano», predice Steve. «Già me lo sento:
‘Perbacco, guarda un po’ cosa ci ha portato Babbo Natale’. Poi vedrà
i tuoi baffi e dirà: ‘Hai qualcosa a accato alle labbra, figliolo. Non è
che è un topo spiaccicato?’»
«Caro vecchio papà. Sempre pronto con un grosso ago luccicante,
casomai uno faccia troppo il pallone gonfiato.»
«Non credere che in questo momento non sia orgoglioso come un
pavone. Si parla dello stesso uomo che una volta si è vantato con i
passeggeri del suo autobus perché il figlio era il più giovane
ba erista professionista dello Yorkshire. Adesso che sei stato alla
BBC niente lo ferma più. Ha anche tirato fuori quella ba eria di la a
che io e lui avevamo costruito per te con una scatola di bisco i.»
Griff lo guarda con la coda dell’occhio. «Stai scherzando.»
«L’aveva conservata nel capanno.» Il bagliore arancione di una
luce autostradale deforma il volto di Steve. Sta ridendo. «Ha
perfino…»
Steve sgrana gli occhi, di colpo sembra terrorizzato. Quando Griff
torna a guardare davanti a sé, vede il gigantesco tir che ha di fronte
fare un mezzo testacoda e ribaltarsi. Un secondo camion, in arrivo
sulla corsia opposta, squarcia la barriera che si è creata in mezzo alla
strada. Il telaio riempie per intero il parabrezza della Jaguar. Griff
tira uno strappo al volante come un marinaio al timone durante una
tempesta. Le gomme stridono. Lo sterzo si blocca. Ci vorrebbe un
miracolo per…

«Va tu o bene.» È la voce di Steve, ad anni luce di distanza


eppure a pochi centimetri. Una specie di gracidio. C’è qualcosa che
preme su Griff. È schiacciato. Il camion ci ha beccato. È andata male.
Sono vivo. Lo è anche Steve. Finché c’è vita c’è… Apre un occhio. L’altro
occhio è andato. La ba eria posso suonarla anche con un occhio solo. Una
gamba, un braccio, senza di loro sarebbe più dura. Con un occhio solo però
posso farcela. Nella macchina accartocciata filtra una luce arancione.
Steve è piegato come un pupazzo con gli arti girati al contrario. Dove
dovrebbe esserci il te uccio c’è il pianale. Ci siamo capo ati. Griff
cerca di muovere il braccio destro. Non succede nulla. Non va un
cazzo bene. Prova a muovere le gambe. Niente. Non sente dolore. Una
grazia. Una grazia nefasta. Il dolore non lo senti quando ti sei ro o la
spina dorsale. Dalla bocca del fratello esce un rumore. Nessuna
parola. È un gorgoglio. Griff fa per dire: «Stiamo bene, staremo
bene», ma quello che viene fuori è: «Sscht’mbne, sscht’rmbne». Parla
come suo nonno dopo l’ictus. O come se fossi ubriaco fradicio. Dalla
bocca di Steve esce sangue. Gli cola lungo la faccia nel verso
sbagliato. Con la luce arancione è nero come la pece e si raccoglie
nelle orbite degli occhi. Gli gocciola sulle sopracciglia. Steve eme e
un flebile biascichio. «Resta qui, Steve», dice Griff, ma gli viene fuori
un: «Rshtqqui, Schtv…» Poi un’onda spazza via tu o.
Tump-tump, tump-tump, tump-tump, tump-tump, tump-tump. L’onda
si ritira. Griff rientra nel proprio corpo. Il mio ba ito. Un gemito roco.
Ha freddo. È un buon segno. La gente che muore congelata sente
caldo. Steve è accanto a lui. Immobile. Magari sta risparmiando le
forze. Mi piacerebbe poter vedere le stelle. Dovrebbero esserci. Ci sono
Steve, il te uccio e un migliaio di schegge di vetro sparse a terra.
Che poi è il te uccio. Ci sono i pedali. Frizione, freno, acceleratore.
Sono così vicini da poterli toccare. Se solo mi funzionassero le braccia.
Le luci della M1 arrivano come scintille color ambra. E poi voci.
Lontanissime. Oppure sono vicine, minuscole e metalliche. Vengono
da una cassa, una sera tardi so o le coperte, nella vecchia stanza sua
e di Steve in Albert Avenue. È «Love Me Tender». Dean ogni tanto la
canticchia imitando Elvis. C’è Elf che guarda dall’altra parte del
tavolo dei Beatles al Blue Boar. Jasper alza gli occhi alla fine di
«Purple Flames», pronto a chiudere di colpo la canzone su quella
stessa ba uta, brusco che più brusco non si può. «Cyril! Qui, presto!
Porta gli a rezzi, dobbiamo tagliare le lamiere!» Perché mai devono
tagliare delle lamiere? L’incidente. Quale incidente? Questo qui. Griff
cerca di farsi sentire, vuole avvisarli che Steve è il primo ad aver
bisogno di aiuto. La voce non funziona. Non funziona e punto.
Finché c’è vita c’è speranza. Non va sempre così, tu avia. Una canzone.
Parla di quel genere di cose che è facile leggere nella Bibbia. Sua
madre la cantava mentre stendeva il bucato in cortile. Stelle. Un
giorno di primavera. Griff era un bambino alla finestra. Stelle.
Aspe ava che la vita avesse inizio.

a. Ultima cena.
Builders a

La pioggia ba eva sugli ombrelli e sul coperchio della bara. La


pioggia rimescolava l’acqua nel buco re angolare: poco più di due
metri di lunghezza, poco meno di un metro di larghezza e, come da
protocollo, un metro e o anta di profondità. Levon compativa i
becchini che avevano dovuto spalare più di tre metri cubi di terra
fredda e umida. Fra la gente c’era chi piangeva a diro o. Quando la
campana della cappella si era zi ita, il pastore che era molto
raffreddato aveva iniziato a parlare: «Con il sudore del tuo volto
mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tra o:
polvere tu sei e in polvere tornerai!» Come teppisti, alcuni corvi
appollaiati sui rami dei tassi avevano mezzo soffocato il Libro della
Genesi con i loro versi. La voce del pastore cominciava a incrinarsi e
a perdere colpi, sembrava un amplificatore morente. «Una
tragedia… È solo dell’Onnipotente sapere… Ha dato tanto, e tanto
ancora aveva da dare.» Un bum bum bum percussivo, profondo come
una grancassa, rimbombava ai margini dell’udito di Levon. Il Mare
del Nord, forse. Aveva i piedi bagnati. Le calze assorbivano acqua dal
terreno zuppo. Mentre il pastore concludeva il suo breve discorso, la
gente si me eva in coda per testimoniare le condoglianze con una
firma su un registro. A giudizio di Levon sarebbe stato meglio
firmare durante la cerimonia nella cappella, lontano dalla pioggia.
Sessanta o se anta persone sfilavano davanti al signor Griffin, alla
signora Griffin e al figlio e alla figlia, entrambi sulla trentina. Erano
lì, mano guantata nella mano guantata. Levon aveva stre o quelle
mani una dopo l’altra. I tra i di famiglia saltavano subito all’occhio.
«Mi dispiace», aveva de o al padre di Griff, conducente di autobus.
Com’erano inadeguate certe parole, pensava Levon, ma del resto
quali parole sarebbero riuscite ad alleviarne il dolore? Il signor
q p g
Griffin lo aveva guardato con gli occhi di uno che non riusciva a
capacitarsi che quel giorno fosse vero. «Mi dispiace», aveva ripetuto
Levon alla madre di Griff, da cui il ba erista aveva ereditato il
mento. I suoi occhi erano rossi e infossati. Un fremito le aveva
a raversato le labbra, come se stesse per dire: Grazie, ma non ne era
uscito alcun suono. Levon dubitava che lei lo conoscesse. Alla fine
della coda, un sacrestano offriva una cazzuola a chiunque volesse
ge are un po’ di terra sulla bara nella fossa. Lo aveva fa o circa la
metà dei presenti. Elf, davanti a Levon, aveva rifiutato la cazzuola
scuotendo la testa e inghio endo il magone. Dean l’aveva presa
so obraccio e accompagnata via. Jasper aveva invece preso la
cazzuola e si era guardato intorno come un antropologo curioso alle
prese con una ricerca sul campo. Lo sbatacchiare sordo della terra
bagnata sul legno era, per le orecchie di Levon, il suono più triste che
avesse mai udito.

Tornati al Royal Infirmary di Hull, bendato, ingessato e in


trazione sul le o, Griff aveva ascoltato il resoconto di Levon sul
funerale. L’agente aveva evitato di guardarlo. Cercava di non posare
gli occhi sul cranio pelato di Griff; per fissare la placca di metallo
avevano dovuto infa i rasarlo a zero. Si era a enuto ai fa i senza
divagare, erano già fin troppo eloquenti di per sé. In fondo al
corridoio qualcuno stava sputando l’anima a furia di tossire. Erano i
colpi di tosse, incessanti e a malapena umani, di un fumatore
incallito. Il tizio steso nel le o era Griff, solo che Griff non era più
Griff. Quel Griff aveva l’aria di uno che non aveva mai sorriso in vita
sua e che mai l’avrebbe fa o. Alla radio dell’ospedale Frank Sinatra
cantava con voce calda «Have Yourself a Merry Li le Christmas»,
per quanto Natale fosse già bell’e che passato. «Vuoi ancora un po’
d’uva?» aveva chiesto Elf a Griff.
«No, grazie.»
«E una sigare ina?»
«Lascia stare.»
«Ti ho portato un pacche o di Dunhill nuovo di zecca.» Dean gli
aveva infilato in bocca una sigare a e l’aveva accesa.
Griff aveva tra enuto il fumo nei polmoni per un po’. «Non so se
tornerò a suonare.» La sua voce era l’ombra di ciò che era stata.
«Non riesco neanche a pensarci alla ba eria. O ai concerti, o alle
posizioni in classifica. Steve è morto.»
«Ti capiamo», aveva de o Levon.
«No che non capite.» Griff si era asciugato gli occhi rossi. «Pensate
che una cosa simile la stia dicendo solo perché Steve è morto. Ma la
verità è che non so se ne ho più voglia, in assoluto. È dura, cazzo.
Sera dopo sera dopo sera dopo sera.»
«Non ti riconosco, amico», aveva riba uto Dean.
«È proprio questo il punto. Non sono più quello di prima. Mio
fratello è morto. A guidare ero io.»
«Nessuno ha dato la colpa a te per quello che è successo», aveva
de o Elf.
«Già», le aveva dato ragione Dean. «Non l’hanno fa o i polizio i.
Non l’ha fa o neanche la moglie di Steve. Nessuno.»
«Colpa», aveva sospirato Griff. «Colpa, colpa, colpa. Quando
chiudo gli occhi sono di nuovo lì. In autostrada. Sono lì e so cosa sta
per succedere. Il camion. Io e Steve dentro la macchina. A testa in
giù come due cazzo di pipistrelli. Non riesco più a dormire,
maledizione.»
«Di questo ne hai parlato con il medico?» aveva chiesto Elf.
«Per cosa? Altre pillole? Sono già rido o a una farmacia
ambulante. No, non esa amente. Sono una farmacia sdraiata,
merda.»
«Tuo padre ha de o che il do ore ha de o…»
«Il funerale avrebbe potuto essere il mio. Se la cintura non fosse
stata allacciata. Se il camion ci avesse travolto in maniera diversa. Se
la macchina si fosse ribaltata in un altro modo. Tu o un cazzo di
universo, un fantastiliardo di piccoli se. Se, se, se… Bastava un
niente e in quella bara avrei potuto esserci io…»
L’uomo nel le o accanto stava russando. In circostanze diverse
avrebbe anche potuto essere divertente.
«Non sei tu però quello morto nella bara», aveva rilevato Jasper.
«No, è Steve. Ed è questo che mi uccide, Zooto.»
Pioveva ancora il ma ino successivo, quando il treno del ritorno
aveva lasciato Hull di buonora. Te i, un estuario, una flo a di
pescherecci, una ci adina spigolosa, uno stadio, nuvole gonfie di
pioggia, tu o si avvicendava e spariva nel passato. Nessuno aveva
voglia di parlare di sciocchezze, e c’era solo un argomento che non
faceva parte delle sciocchezze: cosa ne sarebbe stato degli Utopia
Avenue? Elf aveva tirato fuori La campana di vetro di Sylvia Plath.
Jasper aveva con sé La montagna incantata di Thomas Mann. Dean
stava leggendo il Daily Mirror. Pensare ad altro non era un lusso che
un manager poteva perme ersi. Levon aveva cancellato il concerto
di Capodanno all’Odeon di Hammersmith e tu e le date di gennaio,
il che significava qua rocento sterline di compensi che non
sarebbero più arrivati alla Moonwhale. C’erano spese che non
potevano aspe are. Il proprietario dei muri della Moonwhale,
l’ufficio delle tasse e la compagnia telefonica, loro della tragica morte
di Steven Griffin se ne fregavano. Levon doveva ancora pagare
Bethany. I Fungus Hut. L’assicurazione contro gli incendi. Paradise Is
the Road to Paradise si era arrampicato fino al cinquanto esimo posto
nella classifica degli album più venduti, ma «Abandon Hope» aveva
fa o fiasco. La Ilex era «delusa». Victor French gli aveva comunicato
che il terzo singolo avrebbe dovuto «comportarsi ne amente
meglio» di «Darkroom». Non aveva avuto bisogno di aggiungere: O
molleremo il gruppo. Levon ripensava all’aforisma di Don Arden,
secondo il quale una casa discografica andava corteggiata tre volte:
la prima alla firma del contra o, la seconda quando serviva il loro
denaro per promuovere la band, la terza per convincerli a rispe are
il contra o dopo che una canzone aveva fa o fiasco. Levon rifle eva
sull’aforisma di John Keats: «La vi oria ha moltissimi padri, la
sconfi a è orfana». Guardando il paesaggio desolante all’esterno si
era sentito un po’ orfano anche lui. L’idea che avevano in tanti
dell’agente di una band si rifaceva allo scaltro sfru atore prepotente
di A Hard Day’s Night. La realtà era molto più complicata. A seconda
della band che aveva rappresentato, Levon era stato un galoppino,
uno che prestava soldi o rimediava stupefacenti, un capro espiatorio,
uno strizzacervelli, un pappone, un pompa-ego, un baby-si er, un
sacco da prendere a pugni o un diplomatico, in base alla situazione.
p p g p
Se chi rappresentavi diventava ricco, potevi fare soldi. Se il tuo
rappresentato restava povero, diventavi ancora più povero. Gli
Utopia Avenue erano l’ultimo e miglior colpo di Levon. Come
persone gli piacevano. Il più delle volte. Adorava la loro musica. Ciò
nonostante era sfinito. Londra lo stava facendo a pezzi. Il tempo era
sempre grigio. Il mondo gay era infestato da rica atori, agenti della
buoncostume e approfi atori. Gli mancava qualcuno da amare. La
vita di un agente era massacrante e ingrata. Non avrebbero potuto
dirgli: Grazie, Levon, perché credi in noi e ti fai il culo per noi giorno
e no e? Sarebbe bastata una volta. Quando a un gruppo le cose
andavano bene, era merito del genio che gli aveva dato Iddio.
Quando le cose andavano male, la colpa era del manager.
Punto uno: il gruppo aveva bisogno di un nuovo singolo per
l’anno nuovo, «Mona Lisa Sings the Blues», e avrebbero dovuto
promuoverlo con tu e le loro forze da un capo all’altro della Gran
Bretagna, da Land’s End a John o’ Groats. E anche nel resto
d’Europa.
Punto due: questo senza un ba erista non poteva succedere.

Dean era arrivato all’ultima pagina del Daily Mirror. Levon


vedeva distintamente la prima, che propagandava la campagna I’m
Backing Britain per salvare l’industria britannica. I lavoratori
avrebbero dovuto lavorare gratis mezz’ora in più al giorno. A favore
dell’iniziativa, la Pye Records stava per far uscire un singolo cantato
dal volto televisivo Bruce Forsyth, e già da nove giorni il DJ Jimmy
Savile prestava servizio come portantino volontario all’ospedale di
Leeds. Jimmy sta facendo la sua parte! E tu? recitava il titolo del
giornale. Per Levon l’intera campagna rientrava nel territorio del
Pessimo, Stupido e Ingenuo. Il dondolio del treno stava facendo
addormentare Dean, Jasper ed Elf. Gli stava per arrivare un mal di
testa terribile, Levon lo sentiva, lui però doveva rifle ere, era il suo
lavoro. Griff non era sicuro del fa o che sarebbe tornato. Ma era
stato davvero lui a dirlo? O era solo l’a o primo di un esaurimento
nervoso? Oppure era il genuino desiderio di dare un taglio alla vita
devastante del musicista? La Moonwhale avrebbe fa o meglio a
rescindere il contra o di Griff? Come si sarebbero regolati con i
g
futuri introiti? Howie Stoker e Freddy Duke pretendevano un
ritorno sui loro investimenti. Levon non aveva altro da mostrargli
che una modesta hit e un LP che aveva venduto poco. E se
«Darkroom» fosse stata un colpo di fortuna? Se fosse stata
«Abandon Hope», invece, il vero indicatore degli appetiti della Gran
Bretagna verso la band che lui aveva creato? Che le cose avessero
smesso di girare intorno a Londra? Che l’epicentro del mondo
musicale si fosse spostato a San Francisco?
Il gruppo lo faceva diventare pazzo. Le richieste di denaro da
parte di Dean, denaro che non aveva ancora guadagnato. Le
insicurezze di Elf. L’inutilità di Jasper nella vita di tu i i giorni. E
adesso Griff che vacillava. Levon si era acceso una sigare a e aveva
guardato fuori dal finestrino. Era ancora il Nord, ancora piovoso,
ancora grigio. Gli era tornato in mente il suo arrivo a New York. Ai
tempi era ingenuo a sufficienza da credere che sarebbe diventato,
simultaneamente, un Baudelaire in esilio del Greenwich Village, un
cantante folk beatnik e l’autore del Grande Romanzo Canadese. A
dieci anni da allora, l’unica parte che avesse un fondo di verità era
«in esilio». Mosso da un impulso che non sentiva da anni, Levon
aveva girato l’ultima pagina del quaderno su cui teneva i conti.

L’orologio insisteva che fossero trascorsi novanta minuti. Dalle


cinque pagine di scarabocchi indecisi e cancellature erano emerse
qua ro semplici strofe. Levon le aveva trascri e in bella copia su una
pagina bianca.

Amore mi trovò quand’ero giovane


Una tenda, un lago, una stella cadente
Costruii Utopia dentro la mia testa, dove
Avremmo potuto essere ciò che eravamo.

Mi picchiarono, mi cacciarono,
Mi diedero in pasto alle loro fiamme divine.
«Pervertito», «mostro», «deviato»
Furono solo alcuni dei nomi più gentili.
Conformati, conformati, o sarai bandito.
Il dogma è potente
Costruire una tua Utopia è
Un reato grave.

Le tue trame verranno alla luce.


A quello che hai costruito cederanno le fondamenta.
Le buone intenzioni verranno dimenticate.
Viene da chiedersi: che senso ha?

Levon sapeva che non erano i versi di un Robert Lowell o di un


Wallace Stevens, ma si erano rivelati un buon passatempo.
Compatirsi risollevava l’umore, a volte. Il paesaggio adesso era
pia o come una prateria e fradicio, solcato da ampie rogge e dai
canali di drenaggio. Sospesa sull’orizzonte c’era una ca edrale.
Levon si era domandato quale fosse. Di Lincoln? Di Peterborough?
«Ely.» Jasper aveva sbadigliato. «È lì che andavo a scuola.»
«Dunque Ely è quella. Bei ricordi?»
«Ricordi», aveva replicato Jasper.
Levon aveva chiuso il quaderno.
«Hai scri o una poesia?» gli aveva chiesto il chitarrista.
Se la domanda fosse venuta da Elf o da Dean, Levon magari
avrebbe mentito. «Sì», aveva risposto.
«Posso leggerla, per favore?»
A incuriosire Levon era stata la curiosità che Jasper dimostrava.
Aveva reagito d’istinto dicendo: «È solo qualche verso», poi gli aveva
passato il taccuino.
Gli occhi di Jasper si erano illuminati via via che leggeva.
Dopodiché aveva guardato i versi una seconda volta.
Il treno sussultava seguendo un suo ritmo.
Jasper gli aveva restituito il quaderno. «Funziona.»

Il treno si era fermato in una stazione di campagna, ma non


appena l’aveva lasciata si era di nuovo bloccato. Le luci nel vagone si
erano spente. Il conducente aveva informato i passeggeri che c’era un
«problema meccanico». Levon si era aperto uno spiraglio per
l’occhio nel finestrino appannato. Aveva le o il nome della stazione:
GREAT CHESTERFORD .
«Un luogo tristemente noto per i guasti», aveva de o Jasper.
Mezz’ora dopo il conducente aveva fa o un altro annuncio: «È
stato inviato un meccanico a individuare il problema meccanico».
«Amo le tautologie», aveva commentato Elf.
«Dannate ferrovie britanniche», si era lamentato Dean.
Sulla zona acquitrinosa si era abba uta una grandinata. Il vagone
soffocante era diventato ancora più soffocante. Tre poppanti
strillavano all’unisono. Alcuni passeggeri starnutivano,
disseminando germi nell’aria. Levon aveva qualche aspirina, ma
versando il tè nel tappo del suo thermos per sciogliere le compresse,
aveva scoperto che era contaminato da minuscole schegge del vetro
che rivestiva l’interno della fiasca. Per inghio ire le robuste pastiglie,
Levon aveva raccolto un po’ di saliva nella bocca disidratata. Gli si
erano fermate nell’esofago. Aveva succhiato una Polo alla menta, e
alla fine le pastiglie erano scese. A quel punto aveva spia ellato la
verità: «Abbiamo bisogno di un singolo di successo. Al più presto».
«Un singolo di quel tipo lo vorremmo tu i», aveva de o Dean.
«No. Ne abbiamo bisogno, bisogno per davvero. Altrimenti è
finita.»
«Cosa intendi per ‘finita?’»
«Parlo del nostro accordo con la Ilex.»
Elf sembrava spiazzata. «Vogliono scaricarci?»
«E questo chi cazzo lo dice?» aveva chiesto Dean.
«Lo dice Günther Marx. E le logiche di mercato.»
«Ma Griff l’hai visto», gli aveva fa o presente Elf. «Mentalmente,
fisicamente e spiritualmente non è ancora pronto a tornare.»
«È vero, Elf. Ed è altre anto vero che se non tiriamo fuori una
canzone di successo e non ci facciamo il culo per promuoverla, non
esisterà più un gruppo a cui tornare.»
«Griff si rime erà presto», Dean sembrava indignato. «E se la Ilex
non ci vuole si fo a. Passeremo a un’etiche a che ci apprezza.»
«Dimmene una.» Il mal di testa di Levon stava peggiorando.
«L’ultimo singolo ha fa o fiasco. Paradise non sta vendendo bene.»
«Quindi ci stai dicendo di trovare un nuovo ba erista?» aveva
chiesto Dean. «’Fanculo anche a questo. Merda, se Ringo Starr
venisse centrato da un grosso camion…»
«I Beatles hanno milioni in banca e un repertorio alle spalle che
caga soldi a ogni ora che passa. Gli Utopia Avenue in banca non
hanno un cazzo di niente, Dean, e alle spalle non abbiamo nessun
repertorio.»
«Un momento, Levon», era intervenuta Elf. «Un momento. Ci stai
dicendo che vuoi licenziare Griff perché suo fratello è appena morto
in un tremendo incidente e lui è troppo addolorato per suonare? Sei
serio?»
«Sto solo esponendo i fa i. Qualcuno deve farlo, o per il gruppo è
finita. È chiaro che daremo tempo a Griff, ma certo. Però Griff lo
avete sentito. Lo avete visto. È plausibilissimo che non voglia
tornare.»
«I ba eristi come Griff non crescono sugli alberi», aveva de o Elf.
«Credi che non lo sappia? Sono stato io a sceglierlo! Ma un
ba erista che non può ba ere sui tamburi non è un ba erista. Jasper,
di’ qualcosa.»
Jasper stava disegnando una spirale sul vetro appannato. «O o
giorni.»
«Dillo nella nostra lingua, non parlare per enigmi. Per favore, ho
un mal di testa terrificante.»
«Mio nonno olandese diceva: ‘Se non sai cosa fare, non fare niente
per o o giorni’.»
«Perché o o?» aveva chiesto Dean.
«Meno di o o è prematuro. Più di o o è tergiversare. Al mondo
bastano o o giorni per mischiare le carte e concederti un’altra
mano.»
Senza preavviso, il treno si era rimesso in moto con uno stra one.
Dai passeggeri si erano levati ironicamente degli evviva sfiniti.

L’applauso per «Wal for Debby» si spegne lentamente. «Grazie»,


dice Bill Evans. «Grazie davvero. Allora, dunque, il prossimo pezzo
l’ho scri o quando mio padre se n’è andato. S’intitola ‘Turn Out the
Stars’ e… be’, eccolo…» Il taciturno americano appoggia la sigare a
pp gg g
nel posacenere e si piega sul pianoforte. Socchiude gli occhi. Le sue
mani prendono il controllo.
A Levon viene in mente Elf sei mesi prima, mentre suona la sua
«Mona Lisa Sings the Blues». Aveva appena finito di comporla e
l’aveva suonata in una pozza di luce solare su quello stesso
Steinway. Pensa a Griff nel suo le o d’ospedale. Tu o quel lavoro,
gli appuntamenti, le telefonate, le le ere, i favori che sono passato a
riscuotere, la merda che mi sono beccato da Howie Stoker, da Victor
French, da tu i… solo perché Paradise venisse inciso e distribuito,
solo perché tu o finisse in merda…
Silenzio e ascolta. Il più grande pianista jazz del mondo sta suonando a
meno di dieci metri da te. Arriva Pavel, che posa un bicchiere di vodka
sul tavolino. Per consolarlo gli dà una pacca affe uosa sul ginocchio,
nessun eterosessuale lo farebbe mai in quel modo, poi se ne va,
rivelando a Levon un cliente seduto lì vicino. Quell’uomo ha visto. A
placare il disagio e l’involontario senso di colpa dell’agente sono
l’espressione comprensiva e il sopracciglio inarcato del tizio. Levon
quella faccia tondeggiante e leggendaria la conosce. Quasi
sessant’anni, ciuffo grigio, un aspe o quasi angelico, le cose però
erano andate diversamente… È Francis Bacon. Con un cenno del
mento il pi ore abbozza maliziosamente un saluto. Levon guarda a
destra e a sinistra… Io? Le labbra di Francis Bacon si curvano in un
sorriso impertinente.

La fluidità con cui Bill Evans interpreta «Never Let Me Go»


risveglia i ricordi di Levon. Ricordi intimi, dolorosi, vividi. Che cos’è
successo, che cosa non è successo, che cosa sarebbe dovuto
succedere. E poi che cosa sta succedendo in quel preciso momento,
nel primo weekend dell’anno nuovo. La numerosa tribù dei
Frankland e i membri predile i della parrocchia del padre si saranno
riuniti nella casa di famiglia a Kleinburg, a un tiro di schioppo da
Toronto, per dare il benvenuto al 1968. Ci sarà ancora l’albero di
Natale. Sono dieci anni che non è ospite gradito da quelle parti. Non
l’hanno invitato nemmeno ai matrimoni delle sorelle. Ci ho fa o il
callo… ho superato la cosa molto tempo fa. A Natale e Capodanno è
dura, tu avia.
«Sono Francis, posso disturbare?» Francis Bacon gli si siede
accanto. «Sai, il mio amico Humph mi ha a irato qui descrivendo il
signor Evans in termini entusiastici… francamente però brancolo nel
buio, come si suol dire.» L’artista parla un inglese da checca con un
marcato accento irlandese. «Ho notato quanto eri rapito, dunque ho
trovato il coraggio per chiederti lumi.»
Francis Bacon ci sta provando con me? si interroga Levon. «Non
che io sia un esperto di jazz, però… certo, cercherò di risponderti
meglio che posso.»
«Sei esperto quanto basta, per quel che mi riguarda. Allora
vediamo, ‘Perché non si limita a suonare quel malede o pezzo così
com’è’ sarebbe una domanda sciocca?»
«Sì, sempre che lo sia anche questa: ‘Perché Van Gogh non
dipinge quei malede i girasoli così come sono?’»
Francis Bacon eme e una risatina, poi finge di schermirsi.
«Penserai che sono un vecchio imbecille.»
«No. Imbecilli sono quelli che non fanno domande. Il punto è che
per i pianisti come Bill Evans una melodia in sé conta meno di quello
che una certa melodia evoca. Debussy, per esempio. Quando hanno
fa o la loro comparsa i préludes, i vari titoli – ‘Des pas sur la neige’,
‘La cathédrale engloutie’, e così via – li aveva fa i stampare in fondo
alle partiture, in modo che a parlare fosse solo la musica, senza
interferenze testuali. Per Bill Evans, un brano immediatamente
orecchiabile rappresenta un’interferenza. Il brano in sé è il mezzo,
non la destinazione.»
Alcune persone davanti a loro si spostano, regalando un’o ima
visuale di quel pianista dalla mascella quadrata, scavato dall’eroina.
«Non so se ora hai le idee un po’ più chiare rispe o a prima.»
«Stai dicendo che è un impressionista?»
Che io sia finito in un romanzo francese? Uno di quelli in cui i
personaggi parlano di arte per pagine e pagine? «Esa o», risponde
Levon.
«Be’, questo aiuta.» Bacon punta gli occhi su di lui. «Sei un
habitué di Soho? O quella a cui mi sto aggrappando è solo una
modesta speranza?»
«Non ci siamo mai incontrati. Mi chiamo Levon.»
«Dio santo. Non mi era mai capitato di conoscere un Levon in
carne e ossa. Il tuo accento viene da lontano. Canadese?»
«Sono colpito. La maggior parte delle persone mi scambia per
americano.»
«No. Tu hai un’aria colta e civile.»
«Sei un adulatore, signor Bacon. Sono un po’ uno zingaro, in
realtà. Ho lasciato Toronto a diciannove anni. E per diverse ragioni
non ci sono più tornato.»
«Io vengo dalla cupa Wicklow e non ho alcuna intenzione di
tornarci.» Francis Bacon rabbrividisce al pensiero. «Il tuo bicchiere è
vuoto.» Si guarda intorno come la spia di uno sceneggiato, poi tira
fuori una fiasche a. «Gradisci qualcosa per riscaldarti? Niente
paura, non ti risveglierai nudo nella mia mansarda. A meno che tu
non insista.»
Solo a Soho. «Perché no?» Levon si ricorda di quando aveva
corre o con un po’ di whisky la Coca di Dean al 2i’s. Anche quello
era un tentativo di seduzione, in un certo senso. «Devo essere
sincero, stasera non credo di essere il massimo in fa o di
compagnia.»
Francis Bacon versa. «E come mai?»
«Una faccenda che riguarda gli affari. Non voglio annoiarti. Sono
qui solo perché il proprietario, Pavel, mi ha obbligato a uscire.»
«Alla salute degli amici che sanno quando è il caso di obbligarci»,
l’artista fa tintinnare il bicchiere contro quello di Levon, «e a una
rapida soluzione.»
«Lo spero.»
«Ah, Humph.» Il pi ore si rivolge a un uomo sulla quarantina con
un maglione a coste. «Avanti, posa qui le tue stanche membra, come
dicono alcuni. Ti presento il mio nuovo amico, Levon. Non siamo
ancora arrivati a confessarci i cognomi.»
«Levon Frankland», dice Levon porgendogli la mano. Humph ha
un volto amabile e una stre a decisa. «Humphrey Ly elton. Sei un
fan di Bill, quindi.»
«Sì. E dopo stasera anche di più. Sei per caso l’Humphrey
Ly elton che suona la tromba?»
«Sono noto per tormentare con quello strumento chi ha la
disgrazia d’incrociarmi, sì. E tu sei per caso il Levon Frankland
manager musicale?»
Levon si stupisce. «In effe i, sì.»
«Allora so cos’è successo al tuo ba erista. Sono amico di Wally
Whitby, il vecchio mentore del ragazzo. Come se la sta cavando?»
Da dove comincio? «Il fratello è morto. Era lui che guidava. Si sente
responsabile. Tu a questa faccenda per lui è stata un colpo
durissimo.»
«Una volta conoscevo uno stalliere», interviene Francis Bacon.
«Diceva questo: ‘Il dolore è il conto che ti presenta l’amore quando il
tempo è scaduto’. Non ricordo la sua faccia e neppure il nome, però
mi ricordo quella frase. Non è strano quello che ci resta appiccicato
addosso?»

Le pareti del Colony Room Club sono verde melma. Trenta o


quaranta facce arrossate dall’alcol, sfigurate dall’alcol e liberate
dall’alcol gironzolano qua e là in quello spazio striminzito e
soffocante. Un pianista sta suonando «Whisper Not» su un
pianoforte a muro nell’angolo. Decorazioni natalizie e aneddoti vari
si intrecciano al bancone. Una voce scozzese gracchia: «Così il
giudice mi ha guardato dall’alto e mi ha chiesto: ‘Non le è sembrato
strano che tu i gli uomini stessero danzando insieme?’ Al che gli ho
de o: ‘Vostro onore, io sono nato e cresciuto a Inverness. Che ne so
di come passate il sabato sera voi del Sud?’»
I lampadari barocchi si rifle ono nello specchio costellato di
macchie opache. Brillano bo iglie insolite e occhiate curiose,
ribollono e spumeggiano pe egolezzi, dalle foto in cornice i caduti
in disgrazia e i dimenticati osservano immobili, nei vasi di bronzo
sve ano le aspidistre e Muriel Belcher, glaciale imperatrice del
Colony, è appollaiata su uno sgabello in fondo al bancone, a
sorseggiare gin rosa strapazzando un barboncino bianco. «Utopia
Avenue?» Ha la voce roca di chi fuma sessanta sigare e al giorno.
«Suona come una distesa di ville e ai margini di Milton Keynes.»
«Merda, se fosse così sarei molto ma molto più ricco.» Levon tira
un gran sorso dal bicchiere, dentro c’è qualcosa di torbido e turco. Di
g q
che liquore si tra i non saprebbe dirlo con esa ezza, visto che quel
liquido corrosivo gli ha appena strappato le papille gustative.
«Credevo che il lavoro del manager fosse una strada facile per
o enere fama e fortuna, con ostriche e champagne à gogo», dice
George dei Bassifondi. «L’agente di Francis ha guadagnato un
capitale, e pensa che non ha fa o altro che organizzare qualche
festicciola di tanto in tanto.»
«Non osare malignare di Valerie della galleria», lo rimprovera
Francis Bacon. «È come se mordessi la mano che ti nutre.»
«Mi era parso d’intuire», dice Lucian l’Artista con i suoi occhi da
volpe, «che fo ere gli artisti facesse parte del mestiere dell’agente,
come una sorta di gratifica.»
«A quale dei due sensi di ‘fo ere’ stiamo alludendo?» chiede
Gerald, dalle folte sopracciglia bianche scarmigliate.
«A nessuno dei due», replica Levon. «I ragazzi sono etero e a me
manca quello che ci vuole per fregarli.»
«Il padre di Levon è un reverendo.» Francis arrota le R.
«Mi sa che qualcuno qui andrà dri o all’inferno, allora»,
commenta Muriel.
«È esa amente quello che mi ha de o lui l’ultima volta in cui ci
siamo visti», si lascia scappare Levon che maledice il liquore turco.
«Testuali parole.»
«Le ultime parole che mi ha rivolto mio padre», interviene Gerald,
«sono state, aperte le virgole e: Se rime i piede in questa casa ti
appenderò a una corda e ti frusterò finché non sarai buono per i
corvi, chiuse le virgole e.»
«Con ‘a me manca quello che ci vuole per fregarli’», chiede
l’artista Lucian a Levon, «intendevi: ‘Non so come fregarli’ o
piu osto ‘Sono troppo onesto per fregarli’?»
«L’ultima che hai de o», replica Levon. «Preferisco vederli come
un investimento a lungo termine.» O come una specie di famiglia, ora
che ci penso.
«Ma in che modo quindi un agente potrebbe fregare una band?»
dice George dei Bassifondi. «Se tu non ti facessi tu i questi scrupoli,
per esempio.»
Il bicchiere di Levon misteriosamente è di nuovo pieno. «Alcuni
agenti truccano i conti e intascano la differenza fra ciò che dichiarano
ufficialmente e i guadagni effe ivi. Poi ci sono i contra i capestro,
con cui impegni il tuo cliente a cederti i diri i in cambio di un pia o
di minestra o di una percentuale ridicola. Da quel momento in poi la
gallina non fa che covare uova d’oro solo per te. Esistono sistemi
complessi per imbrogliare sulle tasse. Concerti di beneficenza che di
beneficenza non sono. Insomma, i modi sono tanti.»
«E com’è che gli artisti non lo capiscono e non fracassano la testa
all’agente con un grosso tubo di piombo?» chiede George dei
Bassifondi.
«Spesso chi ha talento non vuole capirlo, perché questo
proverebbe che è un fesso e che si è fa o raggirare. Preferiscono fare
finta di niente. Un manager che conosco riempie i suoi artisti di
droga, li fa diventare tossici, così poi sono troppo fa i per
preoccuparsi dei soldi.»
«Ma con una strategia di questo tipo non finirà per uccidere i suoi
clienti?» chiede Gerald.
«Esa o. I morti non ti denunciano per frode. Ne conosco un altro
che ha fa o firmare alla sua band una pagina bianca su cui ha poi
stampato una procura a proprio favore. Li ha ripuliti. E quando alla
fine hanno raggranellato i soldi per fargli causa, ha tirato fuori un
secondo documento ufficiale so oscri o da tu i quanti con cui
rinunciavano al diri o di fargli causa, a prescindere da qualsiasi
circostanza, inclusa la falsificazione di documenti.»
«Una specie di genio, per quanto contorto», dichiara la
proprietaria Muriel. «Allora perché, esa amente, credi che paghi
essere onesti?»
«Una fe ina di una grossa torta è più grande della metà rubata di
una torta minuscola», risponde Levon. «È così che la vedo io.»
«La frode è qualcosa di squallido», dichiara Jerome, un cliente
abituale. «Io passo segreti di Stato al mio conta o nell’ambasciata
sovietica. Questo è tradimento. Un crimine di tu o rispe o.» Gli altri
alzano gli occhi al cielo. «Si può perfino essere impiccati, sapete.»
«Tu cosa ne pensi, Francis?» domanda una voce fra le tante.
«Quello che penso io è che dobbiamo festeggiare con stile la
nostra prima Colony-zzazione del 1968… Ida?» Il barman si volta.
«Champagne per tu i! Avanti con il Krug!»
Il bancone intero esulta. Per un momento Levon è nel panico, ha
solo un paio di sterline, ma Francis ge a a Muriel una mazze a di
banconote. Alcune cascano al suolo flu uando.
«Queste sono abbastanza, mammina?»
A Muriel basta una rapida occhiata per fare i conti. «Direi di sì.»
«Il resto donalo alla casa di riposo per vecchie checche di Soho.
Jerome avrà presto bisogno di un te o sulla testa.»
Jerome finge di trovarlo spassoso e raccoglie le banconote cadute.
Alcune se le infila in tasca, nota Levon. Lo champagne viene
stappato, i bicchieri riempiti. Il pianoforte sme e di suonare.
«Regine, finocchi, mummie, etero, barbosi, generosi, parassiti,
mediocri, fratelli artisti, ipocriti, furfanti, anime candide, vecchi
amici», Francis incrocia lo sguardo di Levon, «stranieri belli e
tenebrosi e Muriel, che mantiene in vita questo incantevole
avamposto di Utopia. Per un breve periodo condividiamo tu i lo
stesso palco. Altri verranno presto a sba erci fuori. Mentre siete qui,
però, scrivete per voi stessi una parte degna. E recitatela bene.» Ge a
uno sguardo da una parte all’altra del bancone. «Recitatela bene.
Non c’è altro da dire, perché da dire non c’è più nulla. Le perle di
saggezza non sono che banalità vestite a festa.»
Qualcuno dalle retrovie urla: «Buon anno anche a te, povero
coglione!» E Francis fa un inchino. Levon scola in un sorso lo
champagne. Sa di luce stellare liquida…

Levon beve una galassia. Il pianista è alle prese con «I’ve Got You
Under My Skin». Lucian gli offre un Pisco Sour. Vuole farmi ubriacare
anche lui? Si sente confuso. È un osservatore etero che si abbassa a
frequentare finocchi… Francis gli dice due parole all’orecchio: «Il
cognato della mia gallerista ha aperto un locale in cui suonano,
nascosto dietro Regent Street. Hanno organizzato una cena
all’Harkaway’s. Ti andrebbe di aggregarti come mio ospite? Magari
sarà una noia terrificante, ma posso prome erti i fru i di mare più
freschi di tu a Londra». Levon non ricorda più che cosa gli ha
p g
risposto, adesso però sta percorrendo Bateman Street con Francis
l’artista e Jerome il fantasista. Un vento ghiacciato lo molesta nei
punti del corpo più sensibili, e questo lo fa tornare un filo più lucido.
Francis si ferma all’incrocio tra la Bateman e Dean Street. «Ho voglia
di fare una puntata al casinò, sapete? Facciamo un salto da
Penrose’s.»

Serviti in un pia o da portata ovale di porcellana verde pisello, i


gusci delle ostriche sono grigio selce all’esterno e bianchi all’interno.
Il ristorante Harkaway’s si trova al pianoterra del Kingly Street Hotel.
Le candele sono di cera d’api, il lino della tovaglia è inamidato e le
posate sono pesanti. Levon non potrebbe neanche lontanamente
perme erselo, ma da quando, la ma ina di Natale, ha ricevuto la
tremenda notizia dell’incidente di Griff è la prima volta che non
pensa al gruppo, ed è piacevole. Jerome si sta vantando della sua
vincita alla roule e. I ricordi del casinò Penrose’s sono per Levon
frammentati e distanti, una sfilza di sconfi e a blackjack osservata
a raverso un caleidoscopio impugnato al contrario. Francis, Jerome
e Levon si sono poi uniti a una festa più affollata, popolata da gente
danarosa. In quel contesto, Levon appare come un personaggio
secondario. «Il nostro povero cugino canadese ha appena patito le
pene dell’inferno a blackjack», cerca di punzecchiarlo Jerome, ma i
suoi spilli non sono abbastanza appuntiti per scalfirlo. I ricordi che
ha Jerome del Penrose’s, peraltro, appaiono inaffidabili quanto i suoi.
Levon rammenta vagamente di essersi imba uto in Samuel Becke
al bar del casinò, non c’erano però testimoni e un incontro casuale
del genere parrebbe inverosimile, del resto pare inverosimile anche a
Levon. Seduta accanto a lui c’è una presunta duchessa di
Rothermere, o magari di Windermere, o forse addiri ura Van der
Meer. A meno che questo lui non se lo sia sognato, è la vedova di
George Orwell. «Queste ostriche sono un or-ga-smo. Ne assaggi
una.» Gli avvicina un guscio alle labbra, Levon lo risucchia e si
sciacqua la bocca con un bicchiere di Château Latour. Francis ne ha
ordinate sei bo iglie. Perfino il cameriere ha mostrato un moderato
stupore di fronte a quell’ordine che avrebbe di fa o triplicato il
conto.
«Non avevo mai conosciuto un magnate della musica prima
d’ora», dice la duchessa.
Se fossi Dean, le salterei addosso in un lampo. «E io non avevo mai
conosciuto una vedova di George Orwell.»
«C’è qualcosa che dovrei sapere sul suo conto?» domanda la
duchessa.
Che mi piacciono gli uomini, pensa Levon. «Sì. Che non sono
esa amente un magnate.»
«È lei però a decidere quali stelle brilleranno domani, o mi
sbaglio?»
«Lo decido come un giocatore ‘decide’ in una sala scommesse
quale cavallo vincerà la seconda corsa all’ippodromo di Aintree. Ora
come ora ho so o contra o un solo nome importante, e si tra a di
un’importanza relativa. È un nome ‘potenzialmente importante’,
me iamola così. Come vede non sono un magnate, quindi.»
«Se avevi dei proge i sul grano di Levon, meglio che ci ripensi»,
interviene Jerome. «Qualcuno qui ha mai sentito parlare degli
Utopia Street?»
«Avenue.» Correggendolo, Levon realizza troppo tardi che
Jerome ha sbagliato il nome di proposito. Faccia di culo.
«Scomme o che quelli che hanno sentito parlare del gruppo pop
di Levon sono più numerosi di quelli che hanno sentito nominare te,
Jerome Blisset, eminente spia, esperto parassita e saltuario
imbra atele.»
Jerome reagisce con un sorriso al sarcasmo di Francis. Francis
tu avia non sta sorridendo. Levon intuisce che, nel profondo,
Jerome è a pezzi.
«Si è tagliato un labbro», sussurra a Levon la duchessa. «È stato il
guscio dell’ostrica. Colpa mia, probabilmente.»
«Non è nulla.» Levon si tampona il labbro con il tovagliolo e si
lascia inspiegabilmente ipnotizzare da come il lino assorba il sangue.
Osmosi.
«Come vanno i quadri per la prossima mostra, Francis?» chiede
una macchie a dickensiana.
«Sono uno schiavo contemporaneo. Valerie della galleria ne vuole
altri sei entro… qualche mese. La data esa a non me la ricordo.
q
Presto, comunque.»
«Per il momento, quello che hai dipinto ti soddisfa?» domanda la
vedova di George Orwell.
«Un artista non è mai soddisfa o del proprio lavoro», risponde
Francis. «A eccezione di Henry Moore.»
Jerome ingolla un’ostrica. «Il mese scorso ho incontrato Salvador e
Gala Dalí a Parigi. Sta lavorando a una nuova mostra anche lui.»
«Ma pensa. Da quando in qua il Grande Masturbatore si occupa
di arte?»
«Ho visto la retrospe iva su Jackson Pollock al Metropolitan
Museum di New York», dice la duchessa di Va elapesca. «Lui ti
piace?»
«Mi piace sopra u o come merle aio», replica Francis.
È una lo a senza esclusione di colpi, considera Levon. Sta
seppellendo i suoi rivali uno dopo l’altro. Arriva una sogliola alla
mugnaia su un le o di fagiolini. Profuma di burro, pepe e mare.

Diversi bicchieri di Château Latour dopo, la porta del bagno per


gli uomini oscilla da una parte all’altra. Levon le ordina di stare
ferma. La porta ubbidisce, stizzita. Levon svuota la vescica nel
pisciatoio. Pisciatoio. Quella P maiuscola: P come Passivo. Una
sagoma familiare si trascina alla periferia del suo campo visivo.
Sente chiudere uno dei vari gabine i. Le piastrelle sono bianco
sporco e blu inchiostro. Gli ricordano le ceramiche di Delft sulla
credenza di sua madre, nella casa parrocchiale di Kleinburg, vicino a
Toronto.
Di tu i i componenti della band incluso me, pensa Levon, solo
Griff ed Elf hanno un rapporto sano con il padre. Passa qualche
secondo. Ne passa qualcuno ancora. E poi ancora. Levon si
abbo ona la pa a e va a lavarsi le mani. «Ma guardati, a folleggiare
fra casinò e locali no urni con un famoso pappone.» È Jerome a
parlare, quella nello specchio è la sua faccia. «Ricordati questo però:
io lui lo conosco da anni. Sono un artista, io. Tu sei solo un contabile
da due soldi. Un pidocchio. Togliti dalle palle o conta erò i miei
amici del KGB e ti faranno sparire loro. Il tuo corpo non lo troverà
neanche la polizia.»
p
Più Jerome cerca di fargli paura, più gli fa pena. Jerome interpreta
a torto il silenzio di Levon come una prova che le sue minacce siano
andate a segno. «Il tuo piano non funzionerà mai.»
Levon a questo punto si incuriosisce. «Quale piano?»
«Non credere di essere il primo ad aver avuto l’idea, tesoruccio.
Fartelo me ere nel culo in cambio di qualche dipinto firmato Francis
Bacon per poi piazzarli e fare vita da pascià.»
Levon si asciuga le mani, ge a la salvie a nel cestino, si gira e
guarda negli occhi l’avversario. «Primo, il mio culo non è in vendita
e…»
«Oh, davvero? Quindi credi che quel vecchio succhiacazzi
rimbambito ti abbia invitato in giro perché sai parlare come si
deve?»
«Secondo, perché mai dovrebbe regalare la sua arte a uno
sconosciuto? Non è mica pazzo. E terzo…»
«George gli ha spremuto non so quanti soldi, e adesso la sua
famiglia sta rica ando l’imbecille.»
«Avresti decisamente fa o meglio ad ascoltare il ‘punto tre’.»
«Avanti, non vedo l’ora.»
Si sente il rumore di uno sciacquone. Dal cubicolo sbuca un
artista.
«Francis!» strilla quasi Jerome. «Stavamo…»
«Di’ pure ai tuoi compagni a Mosca di ospitarti», lo interrompe
Francis, «perché qui hai chiuso. A Londra non ti avvicinerà più
nessuno, nemmeno per sputarti addosso.»
Jerome si sforza di sorridere. «Io e te siamo troppo cresciuti per
me erci a bisticciare a causa di uno stupido malinteso.»
«Se sarai ancora qui quando avrò finito di lavarmi le mani», dice
Francis raggiungendo il lavandino, «dirò al maître di farti pagare il
conto.»

Un vicolo nero come una caverna inghio e Levon e Francis in


Dufours Place. Dopo una svolta alla quale fa subito seguito un’altra
curva, riemergono in un cortile o dal fondo dissestato su cui
incombono finestre con le grate. Un’insegna al neon di due parole
spicca nel buio rivestito di ma oni: LAZARUS DIVES . Una
dichiarazione, una promessa o un avvertimento b?
Non appena Francis si avvicina la porta si apre, per poi
richiudersi alle loro spalle. All’interno regna una penombra
rossastra. «Bentornato, signore», dice una voce. Francis mormora
qualcosa. «Ma certo, signore, basta che garantisca per lui», e un
a imo dopo si sente: «Davvero generoso da parte sua, signore,
grazie». Una scala scende fino a uno scantinato dal soffi o a volta,
che vibra per le note incandescenti dell’Hammond di Jimmy Smith e
del vulcanico sassofono di Stanley Turrentine. Levon non saprebbe
dire quanto sia grande il club, se così si può definire. Tavoli appartati
circondano la pista da ballo in pietra. Avrebbe potuto essere una
cripta, molto tempo prima. La clientela del Lazarus Dives è
prevalentemente maschile, ma a ballare tra le checche ci sono anche
alcune donne, come se non ci fosse nulla di male. Al bancone gli
uomini flirtano, si tengono le mani, si toccano. Su Levon si posano
parecchi sguardi. La cosa lo lusinga, tenuto conto che si è vestito per
un concerto di Bill Evans e non per un club di Soho dove avvengono
incontri intimi fra uomini. Ma no, idiota, è perché sei nientemeno che con
Francis Bacon. Il volto più distante è pericolosamente a raente. Folti
riccioli neri, pelle scura, camicia aperta a mostrare il pe o fino al
plesso solare. Somiglia a un satiro della mitologia greca. Ho
intenzione di conoscerti a fondo, pensa Levon, ma rinuncia all’idea.
«È ora di un Bloody Mary», suggerisce Francis.
«Un Bloody Mary mi andrebbe proprio, in effe i. Come facevi a
saperlo?»
«Una serata degna di questo nome significa sia piazzare bombe
che disinnescarle. Due Bloody Mary, grazie…» Un barman
corpulento annuisce di rimando. Un mod implume e un hippie
barbuto sono avvinghiati in un bacio appassionato.
«Non ho mai sentito parlare di questo posto», dice Levon.
«Soddisfa ogni genere di palato.» La faccia dell’artista è a pochi
centimetri dalla sua. Levon lo fissa, quell’uomo ha il doppio dei suoi
anni. Protendendo le labbra, Francis piazza uno strano, lento bacio
sulla bocca di Levon. I loro occhi restano aperti. Non c’è rapimento.
È solo un rituale. Francis si ritrae e inizia a massaggiare i muscoli e la
pelle sul volto di Levon, né troppo piano né troppo forte. «Chi ci
perseguita sostiene che gli… ‘omosessuali’», Francis esala la parola a
malincuore, «violino la legge di natura. È una decrepita menzogna.
La legge di natura è oblio. Gioventù e vigore sono aberrazioni
effimere. Questa verità è la tela su cui dipingo.»
Un ragazzo con i tra i di una ragazza, o una ragazza con i tra i di
un ragazzo, spalanca una scatole a di fiammiferi Swan Vesta.
Dentro ci sono due pillole bianche. Francis se ne me e in bocca una e
la inghio e. Levon osserva l’altra. Chiedere di che cosa si tra i non è
neanche da considerare. Acido, aspirina, vitamina C, un placebo,
cianuro… potrebbe essere qualsiasi cosa.
La inghio e. «Bravo ragazzo», gli dice Francis.

Un bassista, un ba erista e un tastierista si fondono in una drone


music oscillante dal riverbero forte. Quel suono convince a ballare
anche i non ballerini come Levon. C’è un uomo dal volto dipinto in
camicia da no e che fa roteare dei pia i in cima a dei bastoni. I pia i
sono tredici. Uno per ogni ospite dell’Ultima Cena, rifle e il figlio del
reverendo. È come l’UFO Club prima che lo invadessero i turisti. Un
tipo smilzo con gli occhiali da sole si unisce al trio con un sax e inizia
a improvvisare sulla drone. Le sue note pugnalano, zigzagano, si
scapicollano e ululano. Perfino Stockhausen è commerciale al
confronto, ma per il Lazarus sono perfe i. Il Satiro, incredibile, sta
continuando a girare intorno a Levon, oppure è vero il contrario. Qui
dentro potrebbe avere chiunque. Ha le labbra carnose, serie, e i suoi
occhi danno le vertigini. Potrei cascarci dentro senza mai raggiungere il
fondo. Una luce rossa e scura lambisce la sua pelle imperlata di
sudore. La pillola sta aguzzando i sensi di Levon come farebbe lo
speed, e si sente raggiante come con il Mandrax. Nessuna
allucinazione, per fortuna, a meno che non lo sia questo posto, o questa
serata, o la mia vita da cima a fondo. Il Satiro trascina Levon fuori dalla
pista. I suoi palmi sono irruviditi dai calli, è ovvio che faccia un
lavoro manuale. A raverso una porta secondaria entrano in una
piccola stanza approntata per quel tipo d’incontri: un le o singolo,
lenzuola pulite, una sedia, alcune corde. È calda come un corpo
p p
umano. Una lampadina rossa brilla come brace. Il basso della band
senza nome sta pulsando. Il Satiro prende una caraffa e versa a
Levon un bicchiere d’acqua. È fresca, dissetante. Il Satiro beve dal
suo stesso bicchiere. Avvicina una mela alla bocca di Levon. È
acidula, agrumata. Il Satiro morde la stessa mela.

Nella nuda oscurità parlano appena. Entrambi sono cauti nel dare
de agli. In cima a quella magica scalinata ci a ende la cruda realtà, e la
prudenza non è mai troppa. Il Satiro è nato a Dublino, si chiama Colm e
si definisce un «nero irlandese», un discendente dei marinai spagnoli
dell’Invencible Armada alla deriva. «Anche se questa è solo una
storiella buona per coprire un’infinità di peccati», chiarisce. Levon
gli racconta che lavora nell’industria discografica. «Io sono un
aggiustacavi», ma notando che Levon non ha capito, Colm aggiunge:
«Un ele ricista». Poi gli chiede: «È vero che quel tuo vecchio zie o
ciccione è uno dei più grandi pi ori di questo secolo?» Levon
replica: «Il più grande in assoluto, a mio parere». Colm gli domanda
se sta con lui. «No», risponde Levon, «abbiamo solo fa o un giro
insieme.» Estrae una biro dalla giacca e scrive il suo numero sul
palmo sinistro di Colm. «Così puoi sciacquarmi via, oppure
richiamarmi.» Colm ha una croce tatuata all’altezza del cuore. Con
estrema delicatezza, Levon la succhia. Dopodiché Colm gli chiede se
Levon sia il suo vero nome. «Sì, e Colm?» Anche Colm è il suo vero
nome. Quando Levon si risveglia, il Satiro non c’è più. Controlla
scrupolosamente che portafoglio, penna e orologio siano ancora al
loro posto nella giacca e nei pantaloni. Ogni cosa è al suo posto.

Immagini della Natività disegnate a pastello. Pupazzi di neve.


Occhi sui menti so osopra. Torte fatate. Barzelle e sulla gente di
Terranova e della Nuova Scozia. Reti segnate nel torneo giovanile di
hockey. Recensioni di libri. Una griglia per raffreddare le torte.
Preghiere a Dio per farlo diventare normale. Fazzole i incrostati. Un
falò di poesie d’amore scri e per Wes Bannister. Viale i spalati in
mezzo alla neve. In campeggio con i Giovani Avventurieri Ba isti. I
trastulli con Kenton Lester in tenda nell’Adirondack Park. «Quel
gioche o», lo chiamava Kenton. «Vogliamo fare quel gioche o?» Il
g g q g
viso di Kenton stravolto dal piacere. Stelle cadenti. Poi, dopo,
furibonde smentite. Un oltraggio! Promesse a se stesso di fare più
a enzione. Promesse quando la famiglia di Kenton si era trasferita a
Vancouver. Fantasie appiccicose. Prove scri e. Esami. Il suo le o in
una stanza all’università di Toronto. Amici. Discussioni su Freud,
Marx, Northrop Frye. Al cinema per vedere i film stranieri. Sigare e
rollate. Poesie. Capatine nei locali in cui suonavano il folk. «Quel
gioche o», un sabato, con un giudice sposato, al sedicesimo piano
dell’hotel con vista sul parco. Un altro sabato. Un altro ancora.
Scandalo. Suo padre che urla. Sua madre che piange. Un
appuntamento in una clinica per so oporsi a ele roterapia. Una
decisione. Sei ore di viaggio in autobus fino a New York. Le
decorazioni per la sua stanze a di Brooklyn. Poesia. Un lavoro a
Wall Street nell’ufficio spedizioni di una società di intermediazione.
Soldi a sufficienza per comprare una chitarra. Canzoni. Gite al
Greenwich Village. Un consiglio di Dave van Ronk: «Ragazzo,
ognuno di noi è su questa terra per un motivo, ma molestare quella
chitarra come fai tu non è un motivo valido». Sesso con ragazzi di
una decina di razze, credo e dimensioni. Già, dimensioni. Un lavoro in
un negozio di dischi sulla Ventinovesima Strada e in uno sulla Terza.
Una scrivania nell’agenzia Mayhew-Reeves. I Beatles allo Shea
Stadium. Il loro agente, Brian Epstein, è uno di noi… Un ufficio
striminzito alla Broadway West Agency. La domanda per il
passaporto. Londra! Viaggi con gli artisti a Parigi, Madrid, Bonn.
Interventi di riparazione su personalità fragili. Le ere alla madre e
alle sorelle. Il suo terzo, quarto, quinto Natale lontano dal Canada.
Una le era della sorella maggiore: Carissimo Lev, questa situazione è
ridicola, sei mio fratello… Fotografie. Il ricongiungimento con una
parte della famiglia alle cascate del Niagara. Un ufficio alla Pye. Un
breve periodo da manager dei Great Apes. Un appartamento
all’ultimo piano in Queens Gardens. Rapporti cordiali con la gente
della A&R. Una stre a di mano con Howie Stoker e Freddy Duke.
Una telefonata a Bethany Drew. Proge i. Un salto al concerto di
Archie Kinnock per veder suonare Jasper de Zoet. Un salto al 2i’s
con Dean Moss. Gli Utopia Avenue, o almeno tre quarti di loro. Elf
Holloway. Si parte! Brevi tour. Un contra o con Victor French della
y p
Ilex. «Darkroom.» L’album. Nuove date per il nuovo anno. Un
viaggio a Hull. Cancellazioni. Scuse. Siamo quello che facciamo.
Levon si sta svegliando.

S’insinuano luci fredde. È sdraiato su un divano malrido o in un


salo o incasinato. Libri. Bo iglie. Ciotole. Ogge i. C’è anche uno
specchio ro o, le sue schegge compongono un fiore irregolare.
Levon non ha idea di dove si trovi. Si ricorda di Colm, ricorda però
anche che Colm se n’era andato. Si raddrizza un po’. Piano. Le
finestre a ghiglio ina affacciano su un cara eristico vicolo. Somiglia
a dove vive Jasper, ma le case sono più alte. Il cielo invernale è
gravido di pioggia, ricorda la carta igienica zuppa. Levon è
completamente vestito. Ha bisogno di un bagno. Le chiavi e il
portafoglio sono sul bordo di un tavolino. C’è un odore penetrante di
sigare e e di manzo. Si apre una porta, Francis Bacon fa capolino
con una giacca da smoking infilata sopra il pigiama. Ha un occhio
nero e un labbro spaccato. «Oh, sei vivo, allora. Questo rende tu o
più facile.»
«Cosa ti è successo?»
«Nulla.»
«Ma la tua faccia! Ti hanno pestato a sangue…»
«Ti sbagli», commenta distra amente l’altro per chiuderla lì.
Levon ricorda cosa gli ha de o sul Lazarus Dives: «Soddisfa ogni
genere di palato».
«Tieni, chiodo scaccia chiodo.» Francis gli porge un bicchiere di
succo di pomodoro.
Levon lo annusa. «Bloody Mary?»
«Non discutere con l’infermiera.»
Levon beve un sorso dell’intruglio rosso e si sente meglio. «È
buono.»
«Ho rifle uto un po’ sul tuo dilemma.»
«Quale dilemma?»
«Il ba erista, il gruppo, i dubbi, il fallimento e via dicendo.»
«Ti ho raccontato tu e queste cose?»
«Quando eravamo in taxi, hai vuotato completamente il sacco, per
così dire.»
Adesso che ne fa cenno, pensa Levon, mi sa che è andata davvero
così… Francis Bacon si accende una sigare a e rabbocca il suo
Bloody Mary con una generosa dose di vodka. «Non ti conosco da
chissà quanto, Levon. Potrà capitare di rivedersi oppure no, Londra
è una metropoli e insieme un villaggio. Tu non sei un artista in senso
stre o, ma sei il tramite grazie al quale gli artisti realizzano la
propria arte. Un tramite, questo sei. E un assemblatore. Un
costru ore. Questa è una vocazione. Non ti toccherà la gloria. Non
sarai tu a essere ricordato. Però non sarai neanche divorato. E potrai
fare un bel po’ di soldi. Se per te non è abbastanza, molla tu o e da i
al golf.» Su una mensola accanto alla spalla di Francis, un topo
osserva la scena da dietro un bara olo di trementina. «Se questo tuo
ba erista riemerge dall’abisso in cui è precipitata la sua anima, allora
tu o bene. Se invece non ce la fa, trovane un altro. In ogni caso,
sme i di commiserarti in questo modo, maledizione, e torna al
lavoro.» Il pi ore bu a giù il suo Bloody Mary. «Ora me ne andrò
nel mio studio a seguire il mio stesso consiglio. Quando te ne vai,
chiudi bene la porta. Devi farla sba ere, forte.»

Se gennaio fosse un luogo, sarebbe i Kensington Gardens quella


ma ina. Gli alberi sono spogli e tenebrosi. Le aiuole prive di fiori. È
domenica, giorno di festa in teoria, ma il cielo è tu ’altro che festoso.
In un certo senso, è come se non ci fosse. Gabbiani, oche e anatre che
gravitano nella zona del laghe o, il Round Pond, strillano e
starnazzano. Fa freddo. Nessuno si ferma troppo a lungo. Nessuno si
ferma affa o. Levon è lieto di aver rubato una sciarpa
dall’appendiabiti di Francis Bacon. Gliela restituirà, se il rimorso
continuerà a tormentarlo, ma dubita che ciò accada. I negozi intorno
a Paddington sono quasi tu i chiusi. Passano poche macchine. Non
c’è neanche un bambino che gioca nei Queens Gardens. Sale nel suo
appartamento, apre l’acqua della vasca, si lava i denti, prepara il tè,
lo porta in bagno su un vassoio. Recupera il quaderno dal casse o, si
immerge nell’acqua calda e schiumosa della vasca e rilegge le qua ro
strofe che ha scri o in treno tornando da Hull. C’è bisogno di una
strofa finale. Sa che è sulla buona strada. Una nuova strofa perché la
poesia gli torni del tu o. Si chiede se Colm avrà lavato via il numero
p g
che gli ha scri o a biro sulla mano, o se magari il telefono squillerà
quel giorno stesso.
Forse nel giro di qualche minuto.
Forse nel giro di qualche secondo.

a. Costru ori.
b. Il riferimento è a una parabola del Vangelo: la parabola di Lazzaro e del ricco Epulone.
(N.d.R.)
Prove It a

Illuminate dalle luci di scena del McGoo’s ci sono o o ragazze con le


loro pinte di birra appoggiate sul palco. Qua ro di loro sono in
lacrime. Due recitano le parole delle canzoni con un fervore
religioso. Ma tu guarda, pensa Elf. Fino a due giovedì prima gli
Utopia Avenue erano considerati un gruppo maschile R&B a tinte
acide, l’unica novità era che fra le loro file militasse anche una
ragazza. Elf aveva il sospe o che, nella maggior parte dei casi, le
donne ai loro concerti fossero fidanzate trascinate lì di peso. Da
quando ha cantato in playback «Mona Lisa Sings the Blues» per i
dieci milioni di telespe atori del The London Palladium Show, tu avia,
le cose sono cambiate. Il McGoo’s di Edimburgo abitualmente è un
locale da maschiacci, la se imana dopo suoneranno lì Steve Marrio
e gli Small Faces, ma quella sera la sala è occupata per metà da
signorine. Quando Elf tocca il Mi alto nel ritornello in chiusura e
Jasper, Dean e Griff iniziano a suonare a un volume più basso, ad
accompagnare la sua voce ci sono almeno duecento robuste voci
femminili che intonano in coro la canzone al massimo volume. Non
riuscirei a stonare neanche se volessi, pensa, e rispe o alle altre volte
raddoppia la lunghezza della parola finale: «Bluuu uuu-uuu uuu
es…» ‘Fanculo, vado avanti altre qua ro ba ute… Il sorriso che le
rivolge Dean è un Wow! Jasper prolunga la sua nota declinante. Griff
sfodera qualche colpo extra sulla ba eria prima del crescendo ai
pia i. Il gruppo è solo alla seconda canzone delle dodici in scale a e
Griff è fa o di antidolorifici, ma se la cava comunque bene. Il suono
finale del suo gong è sepolto da urla, piedi che pestano, applausi.
«Grazie», dice Elf al microfono guardando le o o ragazze in prima
fila. Una, che con i folti capelli neri sciolti e le braccia d’acciaio
sembra una regina vichinga, urla con le mani a megafono: «Ce la
g g g
siamo fa a da Glasgow per sentire questa canzone, Elf, e cazzo se ti
è venuta bene!»
Elf le rivolge un «Grazie» solo muovendo le labbra, poi si avvicina
al microfono. «Grazie a tu i. Ci sarebbe piaciuto venire qui già mesi
fa.» Altri applausi, urla indistinte, gente che grida il suo nome e
fischia entusiasta.
«Dio santo, quanto mi mancava tu o questo. Più di una volta,
negli ultimi due mesi, il futuro ci è sembrato tu ’altro che roseo…»
«Lo sappiamo cos’hai passato, Elf!» grida la Regina dei Vichinghi.
«…Ma siete stati voi a farci risorgere, voi di Edimburgo, di
Glasgow e…»
Dal pubblico si alzano delle urla: «Perth!» «Dundee!»
«Aberdeen!» E c’è anche un: «Tobermory, cazzo!»
Elf ride. «E va bene… Voi, voi scozzesi, avete spazzato via le
tenebre. Allora, la nostra prossima canzone è…» Cerca la scale a e
non la trova. «Be’, il foglio con le canzoni deve aver preso fuoco.
Dean, qual è la prossima?»
Dean la guarda e dice: «Che ne dici della tua nuova?»
Elf è titubante. È quasi sicura che la terza canzone fosse
«Smithereens», e Dean non è tipo da rinunciare ai rifle ori. «Intendi
‘Prove It’?»
«Scozia», adesso è Dean che parla al microfono, «abbiamo bisogno
di una mano per decidere. Elf ha scri o una nuova canzone che è
grandiosa, giuro. La volete ascoltare o no?»
Il McGoo’s esplode in un boato di sì. Griff fa rullare i tamburi.
Dean si avvicina una mano all’orecchio. «Ehi, Scozia, mi sa che non
ho capito bene. La canzone che volete è una vecchia cazzata delle
nostre, o è la nuova canzone di Elf?»
Il boato si esprime con chiarezza: «La nuova di Elf!»
Dean lancia un’occhiata inequivocabile a Elf: Be’, cosa vogliono
mi pare chiaro.
«D’accordo, okay, avete vinto.» Elf fle e le dita e introduce il
pezzo con qualche nota di piano. Cala il silenzio. Si ferma. «Questa
canzone s’intitola ‘Prove It’ ed è, insomma, più o meno…
semiautobiografica… De o questo, parla di ferite ancora fresche,
quindi se a metà dovessi scappare via dal palco lasciandomi dietro
q pp p
un’umida scia di dolore e lacrime, sapete perché.» Torna alla intro di
piano. Il frammento con la terzina di base giaceva da anni nel suo
taccuino, in cerca di una collocazione. Una volta suonate le prime
sedici, fumose ba ute, guarda Dean, che si scambia un’occhiata
d’intesa con Jasper, che ne lancia una a Griff che allora dice: «One,
two, one-two one-two», e a acca con la ba eria. Bum! Chacka-bum!
Chacka-chacka-chacka-chacka-bum! A quel punto entrano il basso di
Dean a passo di marcia e il tenebroso riff di piano; alla quinta ba uta
il pubblico ba e già le mani a tempo. Elf si china sul microfono:

«They’re jealous of me!» He left with a shout.


She was his fool so she followed him out.
He was the Romeo, she his sub-plot.
A dignified scene I’m afraid it was not.
«I’ll prove it», she cried, «my love for you –
I’ll prove it! I’ll prove it! I’ll prove it.» b

L’orologio dei Fungus Hut segnava le se e e cinque minuti. Elf


aveva dovuto fare il punto: erano le se e e cinque del ma ino o le
se e e cinque di sera? Di sera, si era de a. In novembre il gruppo
aveva iniziato le sessioni per il primo album basandosi sulle canzoni
già scri e. Erano come fru i maturi da cogliere, ma in studio
avevano continuato a rifinirle. Il venerdì della prima se imana –
quinto giorno dei dieci messi in conto – erano ancora alla terza, «A
Raft and the River» di Elf. Molto in ritardo quindi rispe o alla
tabella di marcia che prevedeva una canzone al giorno. Lei voleva
che le percussioni suonassero più jazz e aveva lavorato con Griff a
un arrangiamento tu o spazzole variegato e discontinuo. Alla
decima registrazione si era de a soddisfa a. Quando la scri a
RECORDING si era spenta, Bruce si era intrufolato nella cabina di regia
strizzandole l’occhio e recuperando uno sgabello in un angolo.
Digger aveva premuto il tasto per far riascoltare la traccia, il nastro si
era messo a girare e la canzone era iniziata. Lei aveva continuato a
guardare Bruce. Bruce che se ne stava seduto ad ascoltare con gli
occhi chiusi. A Elf quella registrazione piaceva molto, avrebbe
voluto che piacesse molto anche a lui.
«Una meraviglia», aveva de o Levon.
«È bell’e che pronta», aveva commentato Dean.
«O imo lavoro», aveva dichiarato Griff.
«Concordo», aveva aggiunto Jasper.
Bruce all’apparenza non se n’era ancora fa o un’idea precisa.
«Grande!», aveva esclamato Elf. Il fa o che lei e Bruce si
amassero, si era de a, non significava che gli dovesse piacere per
forza tu o quello che lei incideva.
«Per il master tengo buona questa, allora», aveva de o Digger.
«Potete suonare ancora fino alle o o meno un quarto, poi devo
cacciarvi.»
«Dopo di noi a chi tocca?» aveva chiesto Dean.
«C’è un ragazzo di Joe Boyd. Il nome non mi resta in testa. Nick
Duck, Nick Lake, qualcosa del genere. Prima che arrivi devo ripulire
un po’ della vostra roba.»
«Ce la facciamo a provare una volta ‘Wedding Presence’? Vi
farebbe risparmiare tempo doma ina», aveva suggerito Levon.
Elf non era più riuscita a tra enersi: «A te è piaciuta, Bruce?»
Sentiva che Dean, Levon e Griff si stavano scambiando delle
occhiate.
Bruce aveva inspirato. Bruce aveva espirato. «Vuoi un parere
sincero?»
Il cuore di Elf aveva perso un ba ito. «Ma certo.»
«Be’, se quello che volevate era un eccentrico motive o folk-jazz,
allora missione compiuta. Non faccio parte del gruppo, lo so», Bruce
guarda Dean, «ma visto che è stata richiesta la mia opinione, io dico
che questa canzone è soffocante. Cosa c’è che non va nel picchiare
sulla prima e sulla terza ba uta?»
«Ho chiesto a Griff di ‘suonare il ritmo di un fiume’» aveva
replicato Elf.
«Okay», aveva de o Bruce dopo un a imo di silenzio.
«Se la mia ragazza avesse scri o una canzone come ‘A Raft and a
River’», aveva proclamato Griff, «io non sarei un pezzo di ghiaccio,
porca troia!»
p
Bruce aveva sbuffato. «Io ed Elf crediamo che la sincerità sia
importante.»
«La sincerità? Ma davvero? Come quando te ne sei andato
affanculo a Parigi?»
Elf si era sentita bruciare collo, faccia e orecchie.
Bruce aveva sorriso tranquillo. «La canzone è buona, ma a
soffocarla ci sono troppe sofisticherie. Vi do un consiglio: se volete
scoprire come registrare Elf su disco, ascoltatevi Shepherd’s Crook.»
«Potremmo magari riprovare a suonarla», aveva iniziato a dire
Elf, «in una versione con un ritmo meno elaborato…»
«No», l’aveva interro a Dean. «Va benissimo così.»
«Io non la toccherei», aveva de o Jasper.
«Non esiste, merda», si era fa o sentire Griff.
«Be’, Griff, se una traccia ritmica standard è oltre le tue
possibilità», aveva riba uto Bruce, «la suono io e tu puoi…»
«Posa anche un solo dito sulla mia ba eria e ti sfondo la…»
«Basta così», li aveva interro i esasperata Elf. «Fatela finita.
Basta.»
«Se c’è bisogno di difendere i tuoi interessi, è mio dovere farlo»,
aveva de o Bruce alla sua ragazza.
«La tua esibizione nella parte del cavaliere dalla lucente armatura,
Sir Bruce, risulterebbe più convincente se non fossi la sanguisuga del
cazzo che sei.»
Bruce si era messo a ridere. «Ah, così la sanguisuga sarei io?
Spiegamelo un po’, allora, Dean, com’è che vivi in un lussuoso
appartamento a Mayfair?»
Dean era sca ato in piedi. «Che ne dici di discuterne fuori?»
«Ragazzi, vediamo di darci una calmata», era intervenuto Levon.
«Io sono calmissimo.» Bruce si era infilato il giaccone. «No, Dean,
non ho voglia di ‘discuterne fuori’. E non perché ho paura di te,
semplicemente non ho più quindici anni. Elf, amore, noi ci vediamo
dopo.»
Bruce se n’era andato senza aggiungere altro.
«Dean!» Elf vibrava di rabbia. «Come ci saresti rimasto se avessi
insultato Jude o una delle tue tante ragazze, giusto per me ere il dito
nella piaga? E tu, Griff, come ti sei permesso di tirare fuori Parigi?
p g p g
Bruce cercava solo di dare una mano… e voi lo fate a fe e? Ma che vi
prende? È davvero incredibile, cazzo!»
Dean e Griff si erano guardati senza ba ere ciglio. Recuperata la
borsa, Elf se n’era andata in fre a e furia.

Tre mesi più tardi, sul palco del McGoo’s, Elf affronta con voce da
soprano l’ultimo «I’ll prove it!» della prima strofa, marcando il più
possibile la T di «it». Jasper tira il Sol, come una moto che risale
rombando la parete scoscesa di una cava. Poi guarda Elf, che rivolge
un cenno d’intesa a Griff mentre lui dà dei colpe i leggeri sul
charleston: five, six, seven, eight… Strofa successiva. Elf guarda la
Regina dei Vichinghi e le Se e Sorelle. La fissano tu e con gli occhi
sgranati, fumano, muovono la testa a ritmo, la canzone le ha
ca urate alla grande. La voce su chi e che cosa l’abbia ispirata
dev’essere arrivata fino in Scozia, considera Elf… Sempre che la parola
giusta sia «ispirata». La se imana prima perfino Felix Finch ha parlato
nella sua rubrica sul Daily Post dei pe egolezzi che circolano intorno
alla canzone di Shandy Fontayne in ve a alle classifiche. Levon si
era complimentato con il gruppo per essersi guadagnato il primo
spazio su un quotidiano vero e proprio, e senza che lui avesse mosso
un dito. Sempre che a raccontarlo a Finch non sia stato proprio
Levon, viene in mente a Elf solo in quel momento, ma si rifiuta di
crederlo. Chiunque glielo avesse rivelato, comunque, le colonne
dedicate all’argomento erano raddoppiate il giorno seguente per via
della secca smentita da parte dei legali di Shandy Fontayne e della
le era alla Moonwhale. Prome evano di distruggerli in tribunale nel
caso in cui la calunnia diffusa pubblicamente ai danni di Bruce
Fletcher fosse riconducibile a Elf Holloway. Ma non era ancora finita,
senza dubbio. Il Melody Maker e il New Musical Express stavano
rimestando nel torbido. La se imana dopo, al loro approdo nelle
edicole, la storia sarebbe diventata rovente. A chiunque le avesse
fa o domande Elf era tenuta a rispondere: «Il nostro avvocato mi ha
suggerito di non rilasciare commenti». Quello stesso avvocato, Ted
Silver, non le aveva però vietato di cantare qualcosa in merito alla
faccenda. Elf entra con un glissando nella seconda strofa e con
affilato sarcasmo canta:
He’d write a hit that’d prove ’em all wrong
And he’d run at the front of the pack. But
He hunted a hit and no hit came near.
He stared at the page but the page stared back.
‘I’ll prove it’, he swore, ‘I’ve the Midas touch –
I’ll prove it, I’ll prove it, I’ll prove it’. c

Dopo essere corsa fuori dai Fungus Hut, Elf aveva raggiunto
Bruce davanti al Gioconda. Erano entrati, si erano seduti in fondo alla
sala e avevano ordinato due panini al bacon. Alla radio c’era «Hole
in My Shoe» dei Traffic. «Poco fa Dean e Griff si sono comportati
come delle merde. Eppure tu sei così calmo. Sei… grande, non c’è
che dire.»
Bruce aveva girato lo zucchero nel caffè. «Come ha de o il buon
Dio: ‘Chi non si è mai comportato come una merda scagli la prima
pietra’. E poi…» Aveva assunto un’espressione colpevole. «Su una
cosa avevano ragione. Parigi. Me ne vergogno.»
Elf si era baciata il dito indice, lo aveva allungato dall’altra parte
del tavolino e glielo aveva piazzato in mezzo alle sopracciglia. «È
acqua passata.»
Non ti merito, sembrava volerle dire il sorriso di Bruce. «Il fa o è
che, secondo, me Fletcher & Holloway rendono gli Utopia Avenue
un po’ insicuri. ‘Darkroom’ nel suo piccolo è stata una hit, ma cosa
sarebbe senza le tonalità e le armonie di Elf Holloway? Una ‘See
Emily Play’ di quart’ordine. Cos’hanno fa o quelli che si possa
paragonare a Shepherd’s Crook? Griff ha suonato la ba eria in due LP
minori di Archie Kinnock. Dean nel suo curriculum ha i Ba leship
Potemkin che hanno registrato appena due demo, e Jasper ha
piazzato ‘Darkroom’. Per quanto riguarda Levon, certo, come
manager non è male, ma aver fa o da galoppino a Mickie Most per
qualche mese non significa saperci fare al timone. Vorrei solo che
fossero abbastanza uomini da dire: ‘Bruce sa delle cose che noi non
sappiamo. Impariamo qualcosa da lui’. Però la gente con cui hai a
che fare è questa. Idioti da competizione.»
A Elf avrebbe fa o piacere che la sua famiglia conoscesse questa
versione migliore di Bruce, ma dalla casa di Chislehurst Road non
g
erano arrivati inviti. Bea era passata ogni tanto da lei dopo le lezioni
di recitazione, e a Bruce aveva fa o piacere. Diceva di essere
disposto ad aspe are, che avrebbe dimostrato con le proprie azioni
quanto fosse maturato negli ultimi dodici mesi.
La signora Biggs era arrivata con i panini al bacon. Bruce aveva
affondato i denti nel suo facendo colare fuori il ketchup. «Ci voleva
proprio.» Elf gli aveva ripulito il mento con un tovagliolino di
carta… e una fi a all’addome le aveva comunicato che stava per
arrivarle il ciclo. Non che fosse in ritardo, ma si era sentita
comunque sollevata. Poi si era chiesta che aspe o avrebbe avuto una
co-creazione metà-Fletcher metà-Holloway, se ipoteticamente lei e
Bruce avessero mai avuto un figlio.
«Ho finito ‘Whirlpool in My Heart’», le aveva de o lui. «Modestia
a parte, non mi sembra per niente male.»
«Cos’hai deciso poi per il ritornello?»
«Era come dicevi tu. È meglio più lento, grazie.»
«Non c’è davvero ma davvero di che. Quello che stai facendo è
grande.»
«Sei tu a ispirarmi, Koala. Tu, la nostra ‘Any Way the Wind Blows’
e i signori Moss, Griffin e De Zoet. Anche se i tuoi amici non mi
apprezzano granché, li ammiro per come hanno scosso l’albero
musicale di Soho in a esa che cascasse qualche fru o. I migliori
maestri non sempre sono i tuoi amici. A volte sono i tuoi sbagli.»
«Questa frase scrivila», gli aveva de o convinta Elf, «o non sarà
mai esistita.»
Bruce aveva ubbidito scrivendo con una biro su un tovagliolino.
«Le cose non sarebbero più semplici se me essi insieme un
gruppo?» aveva chiesto lei.
Bruce aveva fa o schioccare la lingua, poi con la testa aveva fa o
cenno di no. «Ne abbiamo già parlato, dolcezza. Se anch’io fossi in
giro spesso come voi qua ro, finiremmo per separarci. Non voglio
perderti una seconda volta. Non ci penso nemmeno. E poi considera
quanti grandi solisti non scrivono i pezzi che cantano perché non ce
la fanno, o perché preferiscono non farlo. Elvis. Sinatra. Tom Jones.
Cilla. Ce ne sono a bizzeffe, davvero. Cliff Richard è un altro. Io lo so
fare. In casa ho un pianoforte e ho anche già dei conta i: Freddy
p g y
Duke, Howie Stoker, Lionel Bart. Guarda dove ti ha portata ‘Any
Way the Wind Blows’. Tre o qua ro pezzi come quello in giro, e
finalmente potrò iniziare a proge are il nostro futuro insieme.
Quindi: autore di canzoni su commissione. Eccola la scala che mi
porterà alle stelle, e non ho intenzione di mollarla.»
Allungandosi sul tavolo, Elf aveva baciato il suo ragazzo.
«Non ti merito, Koala», le aveva de o dopo essersi succhiato le
dita.
«Farò di tu o per aiutarti, Canguro. Quello che è mio è tuo.»

Nel bel mezzo di «Prove It», Jasper incastra un assolo diverso da


tu o quello che ha sperimentato in precedenza. Titanico. Non so come
riesca a suonare in quel modo. Elf guarda Dean e lui con un’occhiata le
dice: Non lo so neanch’io. La teatralità tipica dei chitarristi non
appartiene a Jasper, ma la musica riesce a trapelare dal suo volto. C’è
un’ombra di beatitudine quando l’accordo è delicato, un accenno di
stupore quando un’improvvisazione trasporta altrove, o una ferocia
seminascosta quando fa ululare la sua Stratocaster. Soltanto mentre
suona, realizza Elf, la sua faccia è decifrabile. L’assolo di Jasper
termina con un incandescente latrato metallico, e lo sguardo che le
rivolge significa: Tocca a te. Elf riprende la parte al piano e la
espande in un assolo boogie-woogie. Lo amo questo lavoro. Se esiste al
mondo una soddisfazione maggiore del vedere fro e di sconosciuti
in completa sintonia con una canzone che lei stessa ha scri o, ancora
non l’ha scoperta. A livello musicale «Prove It» è più vicina a un
Chicago blues che al folk a cui si è dedicata nelle varie tappe della
sua vita, a partire dal Folk Barge di Richmond fino al Les Cousins.
Forse ci starebbero bene dei fiati se mai dovessimo inciderla. Ai suoi
occhi, comunque, il folk è più un’a itudine che un genere musicale
con dei parametri fissi. Quando una canzone decide di rappresentare
le vite degli umili, dei servi, dei poveri, dei truffati, degli immigrati e
delle donne, allora la considera folk nello spirito. È una questione
politica. È come dire: Noi siamo importanti e questa canzone su di
noi lo dimostra. Elf finisce l’assolo in Re2, il secondo Re a partire dal
fondo, la sua nota preferita sulla tastiera. Guarda fra il pubblico la
Regina dei Vichinghi insieme alle sorelle e ripensa alle cameriere nei
g g p
dipinti di Toulouse-Lautrec. Consumate, stanche, maltra ate, malate di
illusioni, piene di sogni, vorrebbero una vita diversa… ma sono anche
indistru ibili. I ragazzi adesso suonano piano per introdurre la
«strofa onirica». Elf si a acca bene al microfono, così da poter
cantare con voce più tenue:

As Soho dreamed deep she played her piano,


The chord came first, the lyrics by stealth.
He lay in her bed and he liked what he heard –
«What’s hers is mine», – she said it herself –, «so
I’ll take it, adapt it, and smarten it up,
And improve it, improve it, improve it.» d

La ma ina successiva al funerale di Steve a Hull, Elf si era


svegliata nel buio che precede l’alba. La ci à suonava la sua musica
di so ofondo, nel mentre Bruce russava piano. Elf aveva sentito un
valzer. Veniva dal suo pianoforte, dall’angolino che occupava in
cucina. Non si era spaventata. Nulla di spaventoso avrebbe saputo
suonare una musica così profonda, così divina. Aveva visto le mani
del pianista. La destra alternava delle minime: da Do a Do, un’o ava
so o, poi da Fa a Fa, sempre un’o ava so o, e da Si bemolle a Si
bemolle, poi da Mi a Mi. La mano sinistra suonava delle sestine
come avrebbe fa o un jazzista, un jazzista malinconico, non uno
infuocato. Terminata la musica, Elf aveva voglia di risentirla. Il
pianista non glielo aveva negato. Stavolta lei aveva fa o a enzione
alle terzine della mano destra: Mi e Sol, Re e Fa, Do e Mi, quindi un
rapido ritorno al La e al Sol, lì la mano si apriva, il pollice sul Fa e il
mignolo sul Si bemolle… Elf si era infilata la vestaglia, era andata al
pianoforte, aveva preso un foglio già scri o e aveva aggiunto la
sequenza Do, Fa, Si bemolle, Mi. Dopodiché aveva fa o in modo che
la topografia del valzer si levasse nuovamente… Ecco. La prima
metà era davvero simile all’esecuzione del pianista che aveva
sognato. Il terzo tempo aveva bisogno ancora di qualche rifinitura.
Elf aveva suonato un paio di accordi, più silenziosamente che
poteva. Quando era arrivata al tempo finale, il furgone del la e stava
scampanellando in Livonia Street. Elf aveva dovuto comporre le
p p
ultime ba ute da sola, sfru ando la logica musicale della prima
metà. A quel punto era fa a. Tre pagine di musica. Aveva suonato di
nuovo tu o il pezzo, consapevole che non mancasse più nulla.
«Buongiorno, Koala», si era fa o vivo Bruce. «È carina.»
«Scusa se ti ho svegliato. È che mi è arrivata una canzone in
sogno.»
Bruce si era trascinato fino a lei, aveva sbadigliato e aveva dato
una sbirciata al manoscri o.
«Ha un titolo?»
Elf si era resa conto in quel momento che ce l’aveva. «‘Wal for
Griff’.»
Bruce aveva fa o una smorfia. «Immagino che dovrò fare anch’io
un incidente quasi mortale sulla M1. La mia canzone la potrai
intitolare ‘Ballad of Bruce’.»

Due se imane dopo il funerale, Levon aveva riportato il gruppo a


Hull per vedere Griff. La visita non era stata un successo. Erano
passati davanti al Blue Boar, ma nessuno aveva avuto cuore di
proporre uno stop. Griff era stato dimesso dall’ospedale e viveva dai
suoi. Il padre era fuori a sostituire un collega malato. La madre, oltre
che stremata dal lu o, era in ansia per le condizioni di Griff. Non era
mai uscito di casa, lasciava a malapena la sua stanza e non voleva
parlare con nessuno. La donna aveva servito in salo o tè e dolce i.
Elf l’aveva aiutata con i fiori. A un certo punto, era sceso Griff. Le sue
ferite andavano molto meglio, la placca in testa non c’era più e i
capelli avevano iniziato a ricrescere, ma il senso dell’umorismo e la
curiosità se n’erano andati. Le sue risposte erano secche e stringate.
«Pensi di tornare prima o poi?» gli aveva chiesto Levon.
Il ba erista aveva guardato da un’altra parte, si era acceso una
sigare a e aveva fa o spallucce.
«Direi che per un’alzata di spalle ci siamo fa i un bel pezzo di
strada», gli aveva fa o presente Dean.
«Non ve l’ho chiesto io di venire.»
«Non vogliamo me erti fre a», aveva continuato Levon. «Ma…»
«E perché cazzo siete qui, allora?»
«Il McGoo’s di Edimburgo ci ha proposto di suonare il terzo
sabato del mese prossimo», aveva spiegato Levon. «Sono qua ro
se imane da oggi. La paga è buona ed è un’o ima vetrina. Se
facciamo questo concerto, forse riuscirò a convincere la Ilex a
pubblicare ‘Mona Lisa’ come singolo. Ma poi, in marzo, dovremo
per forza promuoverlo suonando dappertu o come Dio comanda.
Lo capisco che sei in lu o. E capisco che non è giusto chiedertelo.
Però abbiamo bisogno di saperlo. Ci sarai o no?»
Griff aveva chiuso gli occhi ed era sprofondato nella poltrona.
Fuori era sfrecciata una moto. A Elf era tornata in mente la casa
della nonna di Dean a Gravesend. Era un luogo più allegro, degno di
tempi più allegri.
«C’è qualcosa che possiamo fare per facilitarti il ritorno?» aveva
chiesto Levon.
Griff non aveva replicato nulla.
Elf aveva sentito un treno in lontananza.
«Steve cos’avrebbe voluto che facessi?» era intervenuto Jasper.
La domanda era stata così brusca da far trasalire Elf.
Griff aveva fissato Jasper con sguardo assassino.
Anche Jasper lo stava guardando, ma come se stessero parlando
del tempo.
Doveva essere passato un minuto.
«’Fanculo», aveva de o Griff, e aveva abbandonato il salo o.
Erano tornati a Londra praticamente in silenzio. Elf pensava a
quanto girasse veloce la ruota della fortuna. Il futuro degli Utopia
Avenue era andato gambe all’aria tu o d’un colpo. Una se imana
prima, però, Bruce aveva venduto per o ocento dollari all’etiche a
di Andy Williams un’opzione su un suo pezzo, «Whirlwind in Your
Heart». Si parlava solo di un’opzione, ma i soldi erano veri.
Quando Elf era finalmente arrivata a casa, era già tardi. Dopo
averle versato un bicchiere di vino, Bruce le aveva massaggiato i
piedi e aveva ascoltato il triste resoconto della triste giornata. Poi lei
si era fa a un bagno ed erano andati a le o.

Il basso ciondola dal collo di Dean mentre con piglio da assetato


suona l’armonica e plasma le note ba endo il palmo sul retro del
p p
piccolo strumento. Il suono piroe a vorticoso in quella caverna
angusta che è il McGoo’s. È un assolo alato con le zanne, la linea di
basso la improvvisa Elf al piano, Griff tiene il tempo percuotendo il
bordo del rullante, Jasper suona la sua Stratocaster come una
chitarra ritmica. La folla è entrata nel pezzo anima e corpo. Non c’è
sensazione migliore, tu scrivi una canzone, ci lavori, la ceselli, dai qualche
tocco qua e là, la suoni e vedi centinaia, migliaia di persone che ci si
tuffano… Porca vacca se mi piace quello che faccio. Va ancora aggiustata
un po’, ma Elf è certa che «Prove It» farà la fortuna del prossimo LP.
Se quelli della Ilex dovessero mai volerne un altro. Non se la sente di
sfidare la sorte dando per scontato che andrà così, ma con quel
concerto si augura che gli Utopia Avenue siano tornati in tu o e per
tu o, e in un certo senso anche meglio di prima. Le voci correranno
fino a Victor French. È anche avere di nuovo Griff alla ba eria a
darle speranza. Lo guarda. Non accompagna ancora i numeri più
estremi di Dean con l’energia che lo cara erizzava, ma se la sta
cavando bene…

Levon aveva cercato di parlare con Griff ai primi di febbraio. Griff


si era fa o negare al telefono. Levon gli aveva spedito un
telegramma, gli aveva scri o di fare uno squillo alla Moonwhale.
Griff non aveva risposto in alcun modo. Levon aveva guidato di
nuovo fino a Hull, con Elf. Al loro arrivo, la madre di Griff era in un
mare di lacrime. Il figlio era sga aiolato fuori di casa due giorni
prima, lasciando solo un messaggio che, scri ura dislessica a parte,
probabilmente significava: Starò via per un po’, non preoccupatevi. Ma
era dura convincersene. Nessuno degli amici o dei parenti di Hull
sapeva dove fosse, e in realtà loro avevano sperato che fosse tornato
a Londra. Levon aveva lasciato al padre di Griff una le era da dargli
per quando fosse tornato. Gli dava tempo fino a venerdì per
comunicare se intendesse proseguire con la band oppure no. Se non
avessero avuto sue notizie, lo avrebbero preso per un no e avrebbero
cercato un sostituto. Elf e Levon si erano rimessi in viaggio verso
Londra per la seconda volta in dieci giorni. Mercoledì all’ora di
pranzo, il telefono era squillato mentre lei, barcollando, a raversava
l’appartamento con i panni sporchi suoi e di Bruce. «Pronto?»
pp p p
C’erano stati un breve pigolio e il rumore di una moneta che cadeva,
poi un tizio dello Yorkshire aveva de o: «Ehilà».
«Griff.»
«Elf.»
«Vuoi lasciare il gruppo?»
«Non essere sciocca. Perché dovrei? Mi vuoi fuori dai piedi?»
«Non essere sciocco tu. Nessuno di noi vuole una cosa simile. Tu
però ti eri volatilizzato.»
«E ora mi sono de-volatilizzato.»
«L’hai già de o a Levon e agli altri?»
Una pausa di silenzio. «Puoi dirglielo tu?»
«S-sì, certo. Ci provo. Levon era fuori ci à e Dean e Jasper
potrebbero essere usciti. È davvero una grande notizia, ma…»
«Cosa?»
«Credevamo di averti perso. Cos’è che ti ha fa o cambiare idea?»
Un’altra pausa. Elf sente i rumori di un pub.
«Niente… Ho capito che Steve avrebbe voluto così.»
Elf aspe a che le dica altro, ma lui non lo fa. «D’accordo.»
«Oggi provate da Pavel?»
«Sì», dice lei controllando l’orologio.
«Ci vediamo lì, allora. Si comincia all’una come al solito?»
«Ehi, un a imo… significa che sei già a Londra?»
«Certo. Al Duke of Argyll.»
«Vuoi dire che sei qui dietro l’angolo?»
«Ho finito le monete.» Di nuovo il pigolio.

***

Alla fine dell’assolo l’armonica di Dean si sfilaccia, il McGoo’s


esplode in un boato e lui impugna di nuovo il basso. È orgoglioso,
orgogliosissimo, e in effe i conquistarsi il plauso di seicento
scozzesi, in particolare quando sei inglese, è uno dei traguardi più
difficili da tagliare, roba da medaglia d’oro. Dà un’occhiata a Elf e lei
annuisce: Pronta. La linea di basso si sovrappone a quella che teneva
Elf con la mano sinistra, perme endole di affrontare la strofa
successiva. Uno degli elementi più tipici del folk è
g p p
l’immedesimazione dell’artista nel protagonista della canzone, vale a
dire che, dopo un lungo assolo, Elf dovrebbe rientrare nei panni del
personaggio quale che sia, e passare in un a imo dal ruolo della
solista a quello di una ex vergine tradita, di un brigante, di un
baleniere. Il pubblico è tenuto a stare al gioco. Se «Prove It» sta
funzionando, però, è perché Elf sta cantando davvero se stessa
me endosi a nudo. È per questo motivo che fa così male, ed è per lo
stesso motivo che risulta tanto potente. Guarda la Regina dei
Vichinghi e le racconta la vera storia del suo amore, del suo
tradimento e della sua perdita:

One Wednesday morning she ironed his shirts,


When she heard her own song on the radio.
«How dare you?» she cried. «Calm down», he said,
«I taught you all that you know… and
Prove that it’s yours, if you can, go ahead.
Just prove it, in court, just prove it.» e

«Quindi ci sei di nuovo», aveva de o Dean a Griff al Pavel Z. Elf


non ce l’aveva fa a a rintracciare né lui né Jasper all’ora di pranzo, e
per quanto riguardava Levon, aveva chiamato la Moonwhale, ma era
riuscita solo a lasciare un messaggio a Bethany. Al locale di Pavel
erano arrivati tu i e tre nello stesso momento.
Il proprietario stava asciugando alcuni bicchieri con uno straccio.
Griff si era messo a regolare lo sgabello della ba eria. «Già»,
aveva risposto a Dean.
Levon aveva lanciato un’occhiata a Elf: Tu lo sapevi?
Lei aveva risposto con un’altra occhiata: Lascia perdere, stiamo a
vedere.
Griff aveva stre o un bullone.
Sullo Steinway Elf aveva suonato qualche accordo di Bill Evans.
«Sei abbastanza in forma per viaggiare?» gli aveva chiesto Levon.
Griff aveva fa o piovere una serie di colpi qua e là sulla ba eria,
in ultimo sul pia o. «Direi di sì. E voi?»
Dean e Levon si erano voltati verso Jasper.
Gli eroi della Polonia li guardavano dalle pareti.
g p
Dal lucernario il sole penetrava come una cortina sfavillante.
Griff aveva tirato fuori una sigare a, cercava i fiammiferi.
Jasper si era avvicinato facendo sca are il suo Zippo.
«Grazie mille.» Il ba erista si era allungato con la Dunhill in bocca
verso la fiamma.
«Non c’è di che.» Messo via l’accendino, Jasper aveva aperto la
custodia della chitarra. «Allora, stavamo lavorando su una nuova
canzone di Elf…»

Era trascorsa una manciata di giorni. Elf ascoltava Radio 1 mentre


stirava. In quel momento c’era «Jennifer Eccles» degli Hollies.
Rispe o all’ultimo singolo del gruppo, «King Midas in Reverse»,
quella canzone era meno intrippata. Elf si chiedeva se la psichedelia,
come aveva sempre sostenuto Dean, non fosse solo un fuoco di
paglia. Tony Blackburn aveva presentato il brano successivo: «È il
momento della straordinaria Shandy Fontayne, una cantante texana
che tre o qua ro anni fa ha infilato una serie di successi. Spero che
‘Wal for My Guy’, il suo bellissimo nuovo pezzo, vi piaccia quanto
piace a me, perché credo che sarà una delle hit di questo 1968…»
L’apertura le era sembrata familiare, non avrebbe saputo dire
bene perché. Il Do, il Fa, il Si bemolle e il Mi in sequenza davano un
tocco jazz alla canzone, ma una sezione di fiati la trascinava in un
territorio più blueseggiante. A quel punto Shandy Fontayne aveva
iniziato a cantare la melodia. Elf si era resa conto che riusciva ad
anticipare ogni piega che prendeva. Al ritornello, la rivoltante verità
era venuta a galla colpendola come uno schiaffo: «Wal for My
Guy» era la sua «Wal for Griff». Di diverso c’erano solo i fiati di
contorno e il testo; melodia e accordi non erano semplicemente
simili, erano gli stessi. Era un furto. Elf aveva sentito odore di cotone
bruciato. La camice a appena comprata da Liberty stava andando a
fuoco.

***

La chiave di Bruce stava girando nella toppa. «Dio», aveva de o una


volta dentro, «quei tizi non riescono ancora a suonare ‘Greensleeves’
q
senza massacrarla… Be’, cos’hai? Che ti prende?»
«Hai rubato la mia canzone e l’hai venduta a Shandy Fontayne.»
Bruce aveva fa o una delle sue facce tipo: Nella-Mia-Completa-
Innocenza-Credo-Di-Non-Aver-Capito-Bene-Ciò-Che-Hai-Appena-
De o. «Cosa?»
«Hai venduto la mia canzone a Shandy Fontayne. O magari è
stata la Duke-Stoker. Ma insomma qualcuno l’ha venduta. Tony
Blackburn l’ha appena passata su Radio 1.»
«Hai de o che l’ho rubata?» Bruce sembrava sbigo ito. «Ma ti
senti? Perché mai dovrei rubare una canzone a qualcuno? Freddy
Duke dice che so scriverle da me le canzoni. Lionel Bart dice che so
scriverle da me. E lo dicono anche molti clienti di Howie. Possibile
che tu e queste persone si sbaglino? È questo che stai dicendo?»
«Quello che sto dicendo», Elf si era sentita mancare l’ossigeno, «è
che ‘Wal for My Guy’ è ‘Wal for Griff’, con parole diverse e
l’aggiunta di un coro sdolcinato.»
«Devo proprio dirtelo, Elf, mi sembri molto strana…»
«No, no, no. Non cercare di incantarmi. Non ci provare.»
Bruce era immobile. Fuori, in Livonia Street, stava abbaiando un
cane. «Ascolta. Noi viviamo, respiriamo, mangiamo e dormiamo
insieme. Magari, e dico magari, avrò involontariamente assorbito
qualcosina della musica. Ti sembra il caso di dare di ma o così?»
«Qualcosina? È esa amente la stessa canzone!»
«Ma ‘Wal for My Guy’ ha un coro. Ha i fiati. E poi ci sono le
parole. Le mie parole. Come fai a dire che ‘è esa amente la stessa
canzone’? Comunque sia, io ti ho dato milioni di idee.»
«Dimmene cinque. Tre. Anzi no, dimmene una.»
«Le parole di ‘Unexpectedly’.»
«Stai scherzando, vero? Ti ho chiesto solo cosa ne pensavi di un
paio di versi. Io non ho rubato una tua canzone e tu non l’hai
scoperto sentendola alla radio, c’è una bella differenza.»
Bruce aveva scosso il capo, come sconcertato dall’illogicità del
cervello femminile. «Ma non riesci a essere contenta e basta? Quando
‘Darkroom’ è entrata nella Top 20, nessuno era più felice di me. Se
‘Wal for My Guy’ funzionerà anche solo la metà di quello che
prevedono i collaboratori di Shandy Fontayne, io, noi, sguazzeremo
nel lusso.»
Era come avere a che fare con una macchina lanciapalle su un
campo da tennis: pop, pop, pop, ne colpisci una e te ne spara fuori
un’altra. «Credevi che non me ne sarei accorta? Credevi che il disco
sarebbe stato un fiasco? O più semplicemente te ne sei sba uto?»
Bruce aveva sospirato. «Ma perché devi sempre comportarti
così?»
Era scontato che lei chiedesse: Così come? Quindi non lo aveva
fa o.
Lui aveva comunque proseguito sulla sua linea. «Ti piace fare la
vi ima. Non ti ho rubato un bel niente. ‘Wal for My Guy’ è una
canzone di Bruce Fletcher.»
Elf era ormai oltre il punto di non ritorno. «Questo significa che
Bruce Fletcher è un bugiardo e un ladro.»
La maschera del fidanzato offeso era svanita di colpo. «Ah, sì?»
Anche la sua voce era cambiata. «Dimostralo.»

Al McGoo’s Jasper si siede sulla pedana della ba eria e continua a


suonicchiare la chitarra. Dean fa un cenno a Elf: Un ultimo giro ed
esco di scena. Elf si scatena in una serie di accordi diminuiti e
aumentati, in rapida progressione. Tony Blackburn non si era
sbagliato su «Wal for My Guy»: dopo appena due se imane era
undicesima in classifica negli Stati Uniti e terza in Inghilterra,
preceduta solo da Petula Clark e dai Monkees. La se imana prima,
Shandy Fontayne era volata dall’America fino ai Lime Grove Studios
per Top of the Pops. A quanto aveva scri o Felix Finch nella sua
rubrica, Bruce, che faceva parte dell’entourage di Shandy, era in
compagnia dell’ammaliante modella Vanessa Foxton. Stando a Dean, a
cui lo aveva de o Rod Stewart, uno che di certe cose se ne intendeva,
Bruce le stava «strimpellando il perizoma» fin da quando era tornato
da Parigi. Adesso Bruce indossava abiti italiani di sartoria. Le sue
credenziali erano eccellenti. Presto i proventi delle royalties
avrebbero iniziato a scrosciare. Elf non vedrà un penny, un
centesimo, un Pfennig, uno yen, una lira. Ted Silver, il
rappresentante legale della Duke-Stoker Agency e della Moonwhale
pp g g y
Management, aveva dedo o che a dispe o delle forti analogie tra
«Wal for Griff» e «Wal for My Guy», l’avvocato della controparte
avrebbe contestato che Elf non poteva dimostrare né di aver
composto «Wal for Griff», né che Bruce l’avesse sentita da lei e
neppure che la sua versione fosse un plagio. C’era il rischio che alla
fine Elf dovesse accollarsi le spese legali di Bruce oltre alle proprie. E
se avesse raccontato la faccenda ai giornali, Bruce avrebbe potuto
querelarla per diffamazione, così lei ci avrebbe rimesso non una
bensì due volte. «Quindi cosa dovrei fare?» aveva chiesto. «Spilloni e
una bambola vudù», le aveva consigliato Ted Silver.
Griff, Dean e Jasper sme ono di suonare, lasciando che a
concludere «Prove It» sia lei al piano. Sul McGoo’s cala il silenzio,
nessuno vuole perdersi una parola. I rifle ori illuminano il
pianoforte. Negli occhi della Regina dei Vichinghi il riflesso della
luce forma due puntolini. La sua pelle diventa d’oro. E così le mani
di Elf…

A thief needs a fool to ply his trade,


A gullible fool who’ll trust anyone;
A lover needs a cure for a serious illness.
A singer needs a lawyer and a gun.
«I’ll prove crime pays», said Romeo. «I will,
I’ll prove it, I’ll prove it.» He’s proving it still. f

a. Dimostralo.
b. «Sono gelosi di me!» urlò lui prima di andarsene. / Lei era il suo bura ino, quindi lo
seguì fuori. / Lui era Romeo, lei solo un personaggio di contorno. / Temo che quella scena
non avesse nulla di dignitoso. / «Lo dimostrerò», gridava lei, «dimostrerò quanto ti amo.
/ Lo dimostrerò! Lo dimostrerò! Lo dimostrerò.»
c. Lui doveva scrivere una canzone di successo per dimostrare a tu i che sbagliavano / E
che sarebbe arrivato in ve a alle classifiche. Però / Inseguiva una canzone di successo e la
canzone di successo non si lasciava raggiungere. / Fissava la pagina bianca, ma la pagina
lo fissava di rimando. / «Lo dimostrerò», giurava lui, «ho il tocco di re Mida io. / Lo
dimostrerò, lo dimostrerò, lo dimostrerò.»
d. Mentre Soho era immersa nei sogni lei suonava il piano, / Prima erano venuti gli accordi,
poi di soppia o le parole. / Lui era sdraiato nel suo le o e quello che sentiva gli piaceva –
/ «Quello che appartiene a lei appartiene a me», – era stata lei a dirlo –, «quindi / Lo
prenderò, lo ada erò, lo renderò più bello, / E lo migliorerò, lo migliorerò, lo
migliorerò.»
e. Un mercoledì ma ina gli stava stirando le camicie, / Quando sentì alla radio la canzone
che lei stessa aveva composto. / «Come hai potuto?» gli urlò. «Da i una calmata», disse
lui, / «Tu o quello che sai te l’ho insegnato io… e / Dimostralo che è tua, fai pure se ci
riesci. / Dimostralo, dimostralo in tribunale, dimostralo.»
f. Un ladro per fare il suo mestiere ha bisogno di uno sciocco, / Uno sciocco credulone che si
fiderebbe di chiunque; / Un amante per una grave mala ia ha bisogno di una cura. / Un
cantante ha bisogno di un avvocato e di una pistola. / «Dimostrerò che il crimine paga»,
disse Romeo. «Lo farò, / Lo dimostrerò, lo dimostrerò.» E lo sta ancora dimostrando.
Stuff of Life Lato B

1. Nightwatchman (De Zoet)


2. Roll Away the Stone (Moss)
3. Even the Bluebells (Holloway)
4. Sound Mind (De Zoet)
5. Look Who It Isn’t (Moss)
Nightwatchman a

I motori fanno ribollire l’acqua in superficie, il mare sudicio si gonfia,


la Arnhem si stacca dal molo di cemento di Harwich. Jasper sente il
ponte della nave sollevarsi, ricadere e oscillare fra le onde del mare
aperto.
«Amsterdam», dice Griff. «Arriviamo.»
«Fumo libero», dice Dean. «Arriviamo.»
«Tollerato, non libero», lo corregge Levon. «Massima discrezione,
mi raccomando. Avere guai con la polizia potrebbe comprome ere i
futuri concerti.»
La Arnhem fa esplodere tre colpi con la sua poderosa sirena.
«È vero», chiede Griff, «che nel quartiere a luci rosse le pu ane
sono dentro a cabino i di vetro che vedi dalla strada?»
«È vero», gli risponde Jasper.
«Pia o ricco mi ci ficco, eh?» interviene Elf. «Riviste zozze senza
la rivista.»
Jasper è più o meno sicuro che sia sarcastica.
«Se ci vai», dice Elf a Dean, «non dirmelo. Non voglio mentire ad
Amy. Non lo farò, in realtà.»
«Sono candido come un giglio io.» Il bassista si porta una mano
sul cuore.
«È questa la nave che prendevi tu e le estati?» chiede Levon a
Jasper.
«Sì. Tu e le estati un autista veniva a prendermi a Ely, mi portava
a Harwich e mi faceva salire a bordo. All’arrivo, c’era mio nonno che
mi portava a Domburg.»
«È a Domburg che vivono i De Zoet?» chiede Elf.
«I De Zoet vivono a Middelburg, capoluogo della Zelanda. Di
solito alloggiavo da un parroco di Domburg, sulla costa.»
gg p g
«E perché non stavi più semplicemente con i tuoi?» s’informa
Dean.
«Regole di famiglia», replica Jasper.
«Non ti dispiaceva essere spedito dall’altra parte del Mare del
Nord, tu o solo, per stare con degli estranei?» chiede Elf.
Jasper rivede se stesso davanti a quella balaustra, sferzato dal
medesimo vento del Mare del Nord, mentre guarda qualsiasi cosa
abbia mai conosciuto rimpicciolire all’orizzonte in uno sbaffo
bitorzoluto. «Un rifiuto non era contemplato. Non avevo un altro
posto dove andare. Le navi mi piacciono. Io sono nato su una nave.»
«Eh, la classe dirigente», sospira Dean.
L’aria salmastra riempie loro i polmoni. Ombre fuggiasche
solcano rapidamente il mare increspato. I gabbiani volteggiano
accanto alla Arnhem. «Era un’avventura», dice Jasper. «Mi sentivo
come il protagonista di una storia.»

Intrusione nel sangue. Se e anni prima, all’indomani di quando lui


e Formaggio avevano comunicato con Toc-Toc, Jasper si era
svegliato con una paura malsana nelle viscere e un ne o e ostinato
toc-toc-toc-toc-toc-toc nel cranio. Era come un vicino furioso che dal
piano di so o colpiva il soffi o con il manico di una scopa. A ogni
minuto si fermava e ripartiva più volte, un po’ alla maniera della
tortura cinese della goccia, quasi fosse determinato ad annientare la
salute mentale del ragazzo. Non avendo appetito, Jasper aveva
saltato la colazione. Alla prima ora aveva storia, ma Toc-Toc non gli
faceva sentire la lezione del signor Humphries sulla Guerra dei
Cent’anni, così aveva chiesto di uscire con la scusa del mal di testa.
Prima di raggiungere l’infermeria era passato dalla sua stanza, dove
aveva recuperato la «matrice alfabetica» tracciata da Formaggio la
sera prima. L’infermiera gli aveva dato un’aspirina, che non sortiva il
minimo effe o sulle bussate, e poi si era messa a sferruzzare.
Quando era uscita, Jasper aveva chiesto ad alta voce al suo
persecutore che cosa volesse in cambio della pace. La risposta era
stata una raffica di forti toc-toc-toc, da cui aveva capito che non
doveva riprovare a comunicare. Formaggio era passato a trovarlo
prima di pranzo. «Cristo, hai un aspe o terrificante. Sta ancora…» e
p p p
aveva ba uto le nocche tre volte. Jasper aveva annuito. Imbastire
frasi era come cercare di fare un conto a mente con qualcuno che ti
urlava in faccia numeri a casaccio. «Manda un telegramma a mio
nonno. Se m’internano qui in Inghilterra non ho un tutore che possa
farmi uscire dall’ospedale.»
Con un cenno, Formaggio gli aveva fa o capire che se ne sarebbe
occupato, poi era uscito. So o una fi a pioggia di energiche bussate
si erano accavallate, lente, parecchie ore. Le bussate si erano fa e più
rumorose. Jasper aveva la sensazione che l’a accatura dei capelli,
lacerandosi, gli stesse penetrando nel cervello. Il preside era arrivato
con il do or Bell dell’ambulatorio giù in ci à per farlo visitare come
si doveva, il telegramma di Formaggio doveva aver raggiunto
grootvader Wim. Con la forza di un cannone, Toc-Toc aveva sparato
una serie di colpi che gli avevano fa o venire le lacrime agli occhi.
Dopo aver controllato il polso, i riflessi, la pressione, la vista e l’udito
di Jasper, il do or Bell aveva azzardato la sua diagnosi: «Severa
emicrania di origine nervosa». Gli aveva prescri o dei sonniferi e
una blanda soluzione oppiacea. Formaggio era ripassato dopo cena,
ma a quel punto parlare gli era quasi impossibile. «Non so se sia una
possessione demoniaca, pazzia o un tumore al cervello», gli aveva
de o Jasper. «So solo che mi sta ammazzando.»
Formaggio aveva chiesto all’infermiera e al preside il permesso di
far dormire l’amico nella loro stanza. Ci sarebbe stato qualcuno al
suo fianco pronto a soccorrerlo se le sue condizioni si fossero
aggravate. Il preside si era de o d’accordo e Jasper aveva preso due
sonniferi prima di andare a le o. Anziché contare le pecore, si era
immaginato l’uno dopo l’altro i modi in cui uno studente avrebbe
potuto farla finita a Swa am House: ricavare un cappio dalla
crava a della scuola, affogare nel fiume Ouse, tagliarsi le vene con il
coltellino svizzero, appoggiare la testa sui binari e a endere il treno
che da King’s Lynn portava a Londra…
…Toc-Toc gli aveva fa o riprendere conoscenza. La sveglia
segnava le due. Formaggio stava dormendo. A Jasper risultava
estraneo il suo stesso corpo, come se mentre dormiva la sua mente
fosse stata trapiantata altrove. Il bussare era implacabile, spietato…
Un qualche istinto lo aveva indo o a scendere dal le o e a darsi
q
un’occhiata nello specchio dell’armadio. E lì dentro c’erano gli occhi
di uno sconosciuto che lo fissavano. Il tizio aveva bussato con le
nocche sulla superficie interna dello specchio, e per una dolorosa
frazione di secondo aveva rivelato la sua vera forma: un uomo più
vecchio e più basso di Jasper, dagli occhi a mandorla, con una veste
cerimoniale. Aveva la testa rasata a zero. Poi non c’era più.
Di propria iniziativa, le nocche di Jasper avevano colpito di nuovo
lo specchio, la figura era riapparsa e, impadronitasi del pugno di
Jasper… TOC-
TOCtoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoc
toctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctoctocto
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OC-TOC-TOC-TOC-TOC-TOC-TOC.
«De Zoet! De Zoet! De Zoet!»
Formaggio lo aveva trascinato via dallo specchio e lo teneva
inchiodato sul le o. Le nocche di Jasper erano insanguinate e piene
di tagli. «Ti sei alzato nel sonno! Stavi sognando!»
«Non era un sogno», aveva replicato Jasper.

Gli Utopia Avenue percorrono il molo di Hoek van Holland. Un


arcobaleno spezze ato spunta sopra depositi e pontili. Levon ha con
sé due valigie, una per mano. Dean e Jasper trasportano basso e
chitarra. A fornire amplificatori, tastiere e percussioni saranno lo
studio televisivo e il locale dove suoneranno, il Paradiso, Griff ed Elf
quindi hanno solo un bagaglio leggero. Entrano nell’area doganale
del porto. Jasper si sente rinfrancato dal design degli interni, dai
cara eri sui cartelli, dal suono della lingua olandese e dalle tipiche
espressioni facciali della gente del posto. Dopo aver fa o la coda,
p g p p
porge il suo passaporto olandese a un agente ben piazzato, che una
volta studiata la foto, si acciglia davanti ai capelli lunghi di Jasper.
«Qui ci sarebbe scri o che sei un maschio.» Parla con accento
fiammingo.
È una ba uta. Per via dei capelli. «Sì, me lo fanno notare abbastanza
spesso.»
L’agente indica la custodia della chitarra. «È una mitragliatrice?»
Un’altra ba uta? Jasper gli fa vedere la Stratocaster.
L’agente fa un’espressione incomprensibile e guarda alle spalle di
Jasper, verso Elf, Griff, Dean e Levon. «È il tuo gruppo?»
«Sì. Il più vecchio è il nostro manager.»
«Allora siete famosi.»
«Non molto. Magari però lo saremo presto.»
«E come vi chiamate?»
«Utopia Avenue.»
L’agente controlla con a enzione il nome sul documento. «Sei
imparentato con i De Zoet di Middelburg, gli armatori?»
L’esperienza aveva insegnato a Jasper che era meglio essere
evasivi. «Solo alla lontana.»

Nel camerino di AVRO TV ci sono qua ro sedie di fronte a


qua ro specchi illuminati da qua ro lampadine, un appendiabiti,
due scarafaggi spiaccicati sulle piastrelle ro e del pavimento e una
vista panoramica su alcuni bidoni dell’immondizia.
«Adesso sì che siamo nel giro giusto», mormora Dean.
«Be’, almeno non puzza di birra e piscio», osserva Elf.
«Rilassatevi qui per una ventina di minuti», dice un assistente.
Jasper distoglie lo sguardo dagli specchi. Ne dubito.
«Potete prepararvi qui», prosegue l’assistente. «Due minuti prima
del vostro numero vi accompagnerò sul palco nello studio.
Suonerete ‘Darkroom’ e ‘Mona Lisa Sings the Blues’. Poi Henk vi
farà una breve intervista. Avete bisogno di qualcosa?»
«Di una palla d’oppio grande come la mia testa», gli risponde
Dean.
«Quella potrai comprarla in ci à. Dopo lo spe acolo.»
Gli applausi si riversano nel corridoio esterno non appena gli
Shocking Blue, un quarte o psichedelico proveniente da L’Aia,
danno il via allo show.
«Ritorno fra poco.» L’assistente esce e chiude la porta.
«Ma porco cane.» Dean si volta verso Jasper. «Non c’è modo di
fermarvi a voi scatenati freak bohémien olandesi?»
È ironico, sarcastico o sta dicendo sul serio? Jasper opta per un’alzata
di spalle buona un po’ per tu o.
«Voglio fare due chiacchiere con l’agente degli Hollies.» Levon
infila gli occhiali blu. «Non fate niente che io non farei.»
«Questo ci offre un’ampia gamma di possibilità», riba e Elf.
Jasper appende la giacca a una gruccia che aggancia sopra lo
specchio, si siede e tira fuori le Rothmans.
«Si può sapere perché gli specchi ti spaventano tanto?» chiede
Griff. «Non sarai una meraviglia, d’accordo, ma non sei neanche così
rivoltante.»
«Mi fanno venire i brividi, tu o qui.» Jasper evita di approfondire.
«Udite udite, ha parlato Capitan Mistero», commenta Griff.
«Le paure sono irrazionali», spiega Elf. «È questo il punto.»
«Le cose di cui ho paura io sono tu e abbastanza sensate», dice
Dean. «Sciami di api. La guerra atomica. Sopravvivere a una guerra
atomica.»
«Io ho paura delle epidemie», aggiunge Griff. «O delle trombe
degli ascensori. Tu, Elf?»
Lei ci rifle e. «Dimenticare le parole sul palco. Sbagliare le
canzoni.»
«Se dovesse capitarti», le suggerisce Dean, «basta che canti in
pseudo-ungherese e se poi la gente ti domanda cos’era, tu rispondi:
‘Avanguardia’.»
«Avanguardia un corno», esclama Griff. «Ho lasciato gli occhiali
da sole in sala trucco. Torno subito.» Si alza per andare.
«Li conosco questi gioche i», dice Dean. «La verità è che vuoi il
numero della truccatrice, vecchia volpe. Vengo con te. Non ho
nessuna intenzione di perdermi la tua faccia quando ti respinge.»
«Io voglio vedere gli Shocking Blue», dice Elf. «Vieni con me,
Jasper?»
p
Pace, silenzio e sigare a sono una tentazione troppo forte per il
chitarrista. «No, resterò qui.»

C’è un toc-toc-toc sulla porta del camerino.


Va tu o bene, si rassicura Jasper. «Sì?»
Un volto dalla mascella quadrata, sguardo intenso, capelli castani.
«Sei Jasper de Zoet, immagino.» Il visitatore ha un marcato
accento americano.
Jasper lo conosce, era nei Byrds. «Tu sei Gene Clark.»
«Già, ciao. Ti disturbo?»
«Accomodati. Fai a enzione agli scarafaggi però.»
Gene Clark si china a esaminare gli inse i spiaccicati. «Grazie a
Dio non è toccato a me.»
Jasper non sa bene come commentare una frase del genere, fa
quindi spallucce sperando che sia abbastanza. Il nuovo venuto
indossa una camicia fucsia, un crava ino color malva mezzo
slacciato, pantaloni verdi e stivale i lustri di Anello & Davide.
Prende una sedia. «Volevo solo dirti che ho perso la testa per il
vostro disco. La tua chitarra è la fine del mondo. Hai imparato da
solo?»
«Per un po’ ho avuto un maestro brasiliano. Ma per lo più, sì, ho
imparato da solo. In una lunga e ininterro a serie di stanze.»
Il cantante lo guarda come se la sua risposta fosse strana. «Be’, hai
imparato bene. Quando ho sentito la prima volta ‘Darkroom’, ho
pensato: Come diavolo hanno fa o i Pink Floyd a convincere Eric
Clapton a suonare con loro? Incredibile.»
Questo è un complimento, si rende conto Jasper. Devo fargliene
uno anch’io.
«Ti ringrazio. Il disco che hai prodo o con i Gosdin Brothers è
una goduria. ‘Echoes’ è davvero notevole. Quell’accordo in salita di
Fa se ima maggiore l’ho trovato geniale.»
«E così sarebbe un Fa se ima maggiore?» Gene Clark scrolla la
cenere. «Io lo chiamo ‘Fa impazzito’. Anche a me piace com’è venuto
l’album. Peccato non abbia venduto un cazzo. È uscito quando il mio
vecchio gruppo ha pubblicato Younger than Yesterday, ed è svanito nel
nulla…»
Jasper suppone che tocchi a lui parlare. «Sei in giro per concerti?»
«Solo poche date, qui in Olanda e poi in Belgio. In Olanda piaccio.
E questo, per un promoter, è un buon motivo per farmi fare
comunque un lungo volo.»
«Pensavo avessi lasciato i Byrds perché avevi paura di volare.»
Gene Clark spegne la sigare a. «Li ho lasciati perché di volare ero
stufo. Stufo di quella vita, delle urla, dei volti, della fama. Quindi ho
mollato. La fama ti si stampa in faccia. Poi ti stampa la faccia. La
fama ti immunizza rispe o alle regole abituali. Per questo non siamo
graditi alle forze dell’ordine. Se un freak con una chitarra non deve
so ostare alle regole che decidono cos’è buono e giusto, allora
perché dovrebbero farlo gli altri? Il problema è che la fama è una
droga, quindi è difficile uscirne.»
«Ma tu l’hai fa o, signor Clark. Te ne sei andato dai Beatles
americani.»
Gene Clark si guarda i calli sulle mani. «L’ho fa o, sì. E indovina
un po’? Ora che la fama non c’è più la rivorrei indietro. Come posso
guadagnarmi da vivere, senza la fama? Suonare nei bar in cambio di
un paio di birre non basta. Mi manca essere qualcuno. Quando ce
l’avevo, la fama mi stava uccidendo. Ora che se ne è andata a
uccidermi è l’anonimato.»
«Lucy Brown Is Back in Town» degli Shocking Blue riecheggia nel
corridoio. L’assolo al sassofono è grandioso. Non la canzone in sé.
«Ti accoglieremo negli Utopia Avenue», dice Jasper.
Gene Clark sfodera un rapido sorriso, come se l’altro stesse
scherzando. «Sono lo zimbello della vita? Il pop è solo una moda
passeggera? Saremo tu i rimpiazzati da qualche nuovo Johnny
Thunder and the Thunderclaps dopo un tot numero di anni? Oppure
quando avremo sessantaqua ro anni saremo ancora in giro? Chi può
dirlo?»
«Il tempo», risponde Jasper.

Mentre sfumano gli ultimi accordi in playback di «Mona Lisa


Sings the Blues», l’assistente di produzione solleva un cartello in
olandese con la scri a: APPLAUSI . Il pubblico esegue. Jasper riconosce
Sam Verwey, un vecchio amico che suonava per strada con lui e
come lui frequentava il conservatorio. Verwey lo guarda con i pollici
alzati. Il gruppo viene fa o accomodare su un divano accanto a
Henk Teuling. Il presentatore di Fenklup somiglia a un tricheco
travestito da impiegato statale. Rivolto alla telecamera, parla un
olandese molto impostato, come se dovesse fare ammenda per le
immagini hippie del suo show. «Ecco a voi la band britannica Utopia
Avenue che ha appena eseguito ‘Darkroom’ e ‘Mona Lisa Sings the
Blues’. Il loro chitarrista, Jasper de Zoet, è per ‘metà olandese’ ed è
un discendente della nota famiglia di armatori De Zoet. È corre o?»
«Più o meno sì», replica Jasper. «Possiamo parlare in inglese?»
«Naturalmente.» Henk Teuling fa un sorriso magnanimo e con
un’occhiata indica Elf. «Perché prima di tu o non ci presenti questa
deliziosa signorina?»
«Si chiama Elf. ‘Mona Lisa’ l’ha scri a lei.»
Con fare disinvolto Elf fa «ciao» alla telecamera e si lancia in un
coraggioso: «Goodag, Nederlands».
«Sei grande, Elf!» urlano alcuni tra il pubblico.
«Te lo devo assolutamente chiedere», prosegue il condu ore, «che
cosa ci fai in un gruppo insieme a tre ragazzi? È davvero inconsueto.
Sei tu che ti sei proposta o sono stati loro a domandartelo?»
«In un certo senso… ognuno di noi ha fa o un provino agli altri.»
«Alcuni hanno alluso al fa o che tu sia stata assunta come una
sorta di figura magica.»
Elf s’incupisce. «Mi sarebbe un po’ difficile risponderti di sì, non
credi? Tu sei stato assunto come una figura magica?»
«Tu ti chiami Elf, però, e un elfo è una piccola creatura magica con
le orecchie a punta. Eppure non sei piccola, non sei magica e non hai
le orecchie a punta.»
«Elf è un nomignolo che mi hanno dato i miei da bambina. Sul
mio certificato di nascita il nome è ‘Elizabeth Frances’. ‘El’ più ‘F’ fa
‘Elf’.»
Henk Teuling ne prende a o. «Capisco. Amsterdam ti piace?»
«La adoro. È così… inverosimile. E invece eccomi qui.»
«Esa amente.» Henk Teuling passa a Griff. «E tu saresti…»
Griff aggro a la fronte. «Cosa diavolo dovrei essere?»
gg
«Il ba erista degli Utopia Avenue.»
Griff guarda stupito la ba eria. «Cazzo, hai proprio ragione. Ecco
cosa sono, il ba erista…»
«E stasera farai il tuo debu o internazionale qui ad Amsterdam
sul palco del Paradiso. Cosa significa questo spe acolo per te?»
«Significa essere intervistato da Henk Teuling.»
Henk Teuling annuisce come se stesse meditando su una teoria di
Immanuel Kant, poi passa a Dean. «Tu sei Dean Moss. Il bassista.
Hai scri o una canzone che prima non abbiamo ascoltato, ‘Abandon
Hope’. Era uscita come secondo singolo, ma è stata un fiasco.
Perché?»
«È uno dei grandi misteri, tipo ‘A te chi ti ha assunto?’»
Il sorriso di Henk Teuling è insondabile. «Il noto umorismo
britannico. Io in Olanda sono un eminente critico musicale, dunque
ampiamente qualificato per condurre questo programma. Il che ci
porta all’LP degli Utopia Avenue, Paradise Is the Road to Paradise.»
Mostra alla telecamera una copia dell’album. «Alcuni hanno definito
questo LP schizofrenico. Cosa replicate? Qualcuno vuole dire la
sua?»
«Come fa un disco a essere schizofrenico?» interviene Dean.
«Sarebbe come dire che un elico ero è maniaco-depressivo.»
«Be’, in realtà in questo album è possibile ascoltare rock
psichedelico, folk con elementi psichedelici, rhythm and blues,
intermezzi folk, passaggi jazz. ‘Schizofrenico’ in effe i è un agge ivo
appropriato per uno stile così incoerente.»
«Non sarebbe più appropriato ‘ecle ico’?» suggerisce Elf.
«In quale categoria di musica», chiede Henk Teuling rivolgendosi
ai tre uomini del gruppo, «possono essere collocati gli Utopia
Avenue? I nostri spe atori a casa si staranno ansiosamente
interrogando su questo. La categoria.»
«Collocatelo nella categoria ‘Ecle ica’», taglia corto Dean.
Jasper si distrae e nota che Sam Verwey sta mimando un cappio a
cui finge d’impiccarsi. Scherza, si dice Jasper mimando un sorriso. Si
rende conto che con gli occhi sta cercando Trix. «Tu hai un’opinione
sull’argomento, Jasper?» domanda l’eminente critico.
«Mi ricordi uno zoologo che chiede a un ornitorinco: ‘Sei
un’anatra che somiglia a una lontra, o una lontra che somiglia a
un’anatra? Oppure sei un mammifero oviparo?’ Per l’ornitorinco non
conta nulla. Lui scava, nuota, caccia, mangia, si accoppia, dorme. Per
me vale lo stesso che per l’ornitorinco, non m’interessa. Facciamo la
musica che ci piace e speriamo che piaccia anche ad altri. Tu o qui.»
L’assistente di produzione fa segno che è ora di terminare.
«Concludiamo qui», dice alla telecamera Henk Teuling. «Alcuni
troveranno la musica di questi qua ro ornitorinchi poco centrata,
confusionaria e chiassosa. Altri invece potrebbero perfino
apprezzarla. Non voglio influenzare nessuno. Proseguiamo con una
band che per la terza volta è qui a Fenklup, oggi con il suo più recente
successo, ‘Jennifer Eccles’. Sono fiero di presentarvi un autentico
miracolo del pop… gli Hollies!»

L’acqua nera del Singel rifle e i lampioni disseminati lungo le


anse sinuose del canale. Pallidi globi di luce si disperdono e si
ricompongono, si disperdono e si ricompongono. Jasper a raversa il
ponte e prende Roomolenstraat, esa amente il tipo di strada che
immaginano gli stranieri pensando ad Amsterdam: un lastricato,
lampioni, case alte e stre e con finestre alte e stre e, te i spioventi e
vasi di fiori. A metà della via, non particolarmente lunga, Jasper
trova il numero che stava cercando, e in cima al campanello d’o one
una targhe a con un nome: GALAVAZI . Con il pollice già sul
campanello, tu avia, la sua risolutezza viene meno. Non è un
esperto di etiche a, ma è più o meno sicuro che la gente normale
faccia una telefonata prima di ripresentarsi davanti a una porta dopo
cinque anni. E, cosa ancora più importante, se premi questo campanello il
ritorno di Toc-Toc sarà certo. Jasper intuisce che in quel momento il
presente si biforca. Posso anche andarmene e sperare che vada tu o bene.
Un furgone di muratori passa rombando per Roomolenstraat. Per
lasciarlo passare, Jasper deve sostare davanti alla porta. Il furgone
rallenta e sia l’uomo al volante sia il passeggero – un figlio? – lo
fissano con a enzione, come se stessero memorizzando il suo volto
per un identikit. Avrei potuto essere te, pensa guardando quel figlio,
niente di più facile. È tu o uno svincolo, una biforcazione, tu o da
cima a fondo… Il pollice è ancora sul campanello. Solo un po’ di
pressione in più e un futuro si realizzerà alle spese di un altro. No.
Ma la porta si apre comunque. «Tempismo eccellente, Jasper.» Il
do or Ignaz Galavazi si rivolge a Jasper nel suo olandese spruzzato
di frisone. «Entra, fuori fa freddo. La cena è pronta.»

La caotica cucina del do or Galavazi è immacolata e giallo


narciso. «Mia moglie è a Maastricht a trovare i parenti.» Il medico
riempie la scodella di Jasper con una mestolata di stufato. È
invecchiato, sul collo la pelle è più cascante, però porta ancora i
capelli bianchi sparati all’indietro, come se fossero controvento. «Le
dispiacerà non averti incontrato.»
«Me la saluti», si ricorda di dire Jasper. Il fumo intriso di erbe
aromatiche che sale dalla scodella è un toccasana per la pelle
infreddolita.
«Non mancherò. Allora, com’è Londra?»
«Labirintica.»
«Sia io sia mia moglie abbiamo trovato il tuo disco di grande
valore. Io, naturalmente, quando sento parlare di ‘musica moderna’
penso a Poulenc o a Bri en, ma d’altro canto, se la cultura non
evolve muore. Ne ho spedito una copia anche a Claude e Dubois.
Insegna a Lione ora. È felice come una pasqua, per te e gli Utopia
Avenue.»
«Mi saluti anche lei, per favore.»
«Sarà fa o. Quando le ho lasciato sperimentare le sue strampalate
idee a Rijksdorp, francamente non avevo idea che stessimo
coltivando il ‘Jimi Hendrix olandese’. È così che ti chiama il De
Telegraaf, e Jimi Hendrix lo conosco perfino io. Bon appétit.»
Jasper indaga con le papille gustative. Lingua di vitello, rosmarino,
chiodi di garofano… «Aspe ava qualcuno, do ore?»
Il medico spezza un panino croccante. «Perché me lo chiedi?»
«Lo stufato. Ce n’è abbastanza per sfamare una squadra di
rugby.»
Il do or Galavazi storce la bocca. «È una vecchia rice a ebraica di
mia madre, molto laboriosa. Trovare tu i gli ingredienti è
g g
un’impresa, dunque ne ho fa o in abbondanza perché valesse il
disturbo. Adesso abbiamo un frigorifero. Si conserverà per una
se imana. Inoltre avevo il presentimento, e la speranza, che un
vecchio paziente sarebbe passato a trovarmi.» Lo guarda in un certo
modo. È un’espressione divertita?
Jasper è a caccia di un indizio. Un vecchio paziente. «Io?»
Il medico si gusta la birra e dopo un sorso dice: «E chi se no?»
«Avrà certo molti altri vecchi pazienti.»
«Non sono molti quelli con il nome stampato a cara eri cubitali
fuori dal Paradiso. E non molti di loro si esibiscono in televisione a
Fenklup.»
«A Rijksdorp diceva che la televisione trasforma il cervello umano
in la e cagliato.»
«Già, ma nel tuo caso ho fa o un’eccezione e l’ho guardata. Sono
andato da un vicino, l’ho fa a vedere anche a lui. Il programma era
demenziale, ma voi avete suonato in maniera superba, secondo me.
Era tale e quale al disco.»
Jasper addenta un fagiolo cremoso. «In tivù suoniamo solo per
finta.»
«Davvero? Santi numi, in questo caso è davvero un peccato che
anche Henk Teuling la sua intervista non l’abbia solo mimata. Prendi
ancora un po’ di stufato. Mi fa piacere vedere che mangi.»

Nel suo studio zeppo di libri, lo psichiatra serve il tè verde e si


accende la pipa. Certi aromi a Jasper riportano alla mente Rijksdorp.
Con voce rassicurante, il do or Galavazi chiede: «La tua, Jasper, è
solo una visita di cortesia, o devo pensare che abbia a che fare con la
mia professione?»
«Non era andato in pensione, do ore?»
«Noi vecchi strizzacervelli in pensione non andiamo mai.
Semplicemente spariamo in una nuvole a di teoria.» Beve un sorso
di tè. «Vedendoti prima davanti alla porta, ho pensato che fossi
venuto a farmi lavorare un po’.» Beve un altro sorso. «Mi
sbagliavo?»
Fuori, un ciclista di fre a sta suonando a più non posso il
campanello della bici.
p
Dillo. «Credo di sentirlo di nuovo.»
Il do ore eme e un brontolio, rimugina. «Toc-Toc? Il Mongolo? O
questa volta è un altro?»
«Ricorda ancora il mio caso.»
Il fumo della pipa odora di cicoria, torba e pepe. «Devi sapere che
il tuo caso si è rivelato proficuo per la mia carriera. Dopo che
Psychiatry Forum ha pubblicato il resoconto sul caso JZ, mi hanno
conta ato diversi colleghi da Vancouver a Brasilia, da New York a
Johannesburg, e tu i per testimoniare lo stesso identico fenomeno:
pazienti con diagnosi di schizofrenia che riferivano la presenza di
un’entità in grado di migliorare le loro condizioni. Lo scorso maggio,
a Boston, abbiamo tenuto una conferenza sui ‘Sogge i autoguarenti’,
i cosidde i SAG. Se il mio può sembrarti lo zelo di un vampiro, ti
chiedo scusa… però sì, ricordo molto bene i fa i relativi al tuo caso.»
«Se gli psichiatri non fossero un po’ vampiri, la psichiatria non
esisterebbe e io probabilmente sarei morto.»
Il medico non perde tempo a negarlo. «Cercherò di aiutarti in
ogni modo.»
Certe cose costano. «La ringrazio, ma mio nonno è morto e non ho
un vero stipendio su cui contare, perciò…»
«Tu non avrai spese. Ti chiedo solo di poter pubblicare quello che
scoprirò.»
«Affare fa o.» Jasper immagina che a quel punto una stre a di
mano sia d’obbligo.
Il do or Galavazi sorride, gli stringe la mano e recupera un
blocco. «Bene. Quanto tempo ci rimane?»
«Il sound-check al Paradiso è alle o o.»
L’orologio del medico indica le se e meno cinque. «Allora
analizzeremo solo i fa i salienti, per il momento. Perché pensi che
Toc-Toc stia tornando?»
«Negli ultimi mesi ho percepito la sua presenza. È ancora
distante, ancora flebile, ma è sveglio. Credo di averlo sentito la
prima volta in un locale a Londra, circa un anno fa.»
Il medico grugnisce concentrato. «Avevi preso qualche droga
quella volta?»
«Un’anfetamina. Poi l’ho visto anche in un sogno.»
g
«Il monaco nello specchio?»
«Sì.»
Un altro grugnito. «Forse, sarebbe strano che tu non la sognassi,
una figura così traumatica della tua vita.»
«Se… un uomo invisibile si trasferisse in questa casa, do ore, lei
non riuscirebbe a vederlo, però ne percepirebbe la presenza. Io Toc-
Toc lo percepisco qui…» Si tocca una tempia. «È come a Ely, e anche
a Rijksdorp, prima che intervenisse il Mongolo. Il Mongolo diceva
che avrei avuto cinque anni. E i cinque anni sono passati.»
La biro del do or Galavazi annota frenetica. Jasper pensa ad Amy
Boxer, che, a partire da novembre, ha dormito parecchie volte nella
stanza di Dean a Chetwynd Mews.
«Hai mai preso allucinogeni?»
«No, ho seguito il suo consiglio.»
«Stai prendendo il Queludrin, o qualche altro antipsicotico?»
«No. Non ne ho. Non ho conta ato nessun altro medico. Gli
inglesi rinchiudono più gente di quanto si pensi.»
Il do or Galavazi dà una tirata alla pipa. «Cos’è successo in quel
sogno con Toc-Toc?»
«Era come guardare un film. Un film storico, ambientato secoli fa.
Vedevo Toc-Toc – un monaco o un abate – avvelenato da una specie
di governatore…» Jasper tira fuori il diario dalla borsa a tracolla. «Lo
trova nella prima pagina. Ci sono anche altri sogni che mi
sembravano significativi, li ho descri i tu i. Per ognuno c’è la data.»
Lo psichiatra prende il diario. Sembrerebbe soddisfa o, a
giudicare dall’espressione. «Posso averlo in prestito e trascrivere le
parti che ritengo utili?»
«Sì.»
Apre la prima pagina. «Un’o ima abitudine, questa del diario.»
«Come dice il mio amico Formaggio: ‘Tu o quello che non viene
scrupolosamente documentato, è una mera voce di corridoio, una
conge ura’.»
«Ha ragione. Siete rimasti in conta o?»
«Sì. Studia il cervello a Oxford.»
«Salutalo da parte mia. È un ragazzo brillante. Immagino che da
quando Toc-Toc, come dire, si è ‘risvegliato’, tu non abbia avuto
q g
notizie del Mongolo.»
«Esa o. Il Mongolo se n’è andato per sempre tempo fa.»
«Mi avevi raccontato che a Rijksdorp si era palesato di sfuggita
nei panni di un ‘guaritore itinerante’.»
«Anche questo è esa o.»
«E a ualmente credi ancora… che sia successo davvero?»
La pendola scandisce lenta i secondi per mezzo minuto.
«Sì, sfortunatamente.»
«Perché ‘sfortunatamente’?»
«Se la sua teoria è corre a, se il Mongolo era una specie di sceriffo
mentale che avevo creato per imprigionare la mia psicosi, avrei la
speranza di riuscire a ricrearlo. Ma se è come la vedo io, se il
Mongolo era reale e a Rijksdorp ci era passato per caso, la mia
prognosi non è favorevole.»
«Guarda dove vai!» urla una donna fuori in strada.
«Ti sentirai come un guardiano no urno, Jasper, consapevole solo
del fa o che il pericolo sta per arrivare, ma senza sapere quando o
da dove arriverà.»
«È una buona metafora.»
«Be’, ti ringrazio.» Il do or Galavazi beve un altro sorso di tè
verde. «Vorrei leggerlo», solleva il diario, «esaminerò i fa i e quando
ne avremo il tempo ti farò molte più domande al riguardo. Per ora ti
prescrivo il Queludrin. Vai in una farmacia con la rice a prima di
ripartire; se dovesse verificarsi una ricaduta vera e propria avrai
almeno un po’ di sollievo.»
Ringrazia. «Grazie.»
Lo psichiatra sembra rifle ere. «Un’ultima cosa. A Boston ho
conosciuto uno psicologo, lavora alla Columbia University di New
York. È un personaggio strano e i suoi metodi sono poco ortodossi,
per usare un eufemismo. Ma ho imparato a rispe arlo enormemente.
Lo interessano i casi SAG, in generale, e in particolare il paziente JZ.
Posso parlargli, più tardi, di quello che mi hai raccontato?»
«Sì. Come si chiama?»
«Do or Yu Leon Marinus. È cinese. Se non altro all’apparenza. Ma
la storia è più complessa. In molti lo chiamano semplicemente
Marinus.»
Il lungo assolo in «Purple Flames» dura perfino più del solito, è
come se Jasper stavolta trovasse un passaggio segreto in cui infilarsi.
All’interno del Paradiso, l’alto soffi o, la volta ombrosa, gli archi e le
vetrate rimandano alle sue origini di luogo di culto protestante della
frangia anticonformista. È un luogo di culto anche in questo
momento, considera Jasper. Non siamo noi a essere venerati, ma la
musica stessa. La musica che libera l’anima dalla prigione del corpo.
Che sa trasformare una folla in un unico organismo. Impilati l’uno
sull’altro, i Marshall gli fanno vibrare le ossa. Sfioriamo il divino. La
sua Stratocaster parla di estasi e disperazione. Non siamo dei, ma
canali per qualcosa che somiglia a un dio. Potrebbe morire lì, in quel
momento, e non avrebbe nulla da recriminare con la vita. Guarda
Dean, il bassista sa che ha quasi finito. Jasper conclude tirando
vistosamente due corde della chitarra, quelle più alte, e Dean
irrompe nella strofa finale come una fiamma ossidrica. La sua voce è
due volte più potente dell’anno prima. Un po’ è grazie a Jack Bruce
dei Cream, che era spuntato dietro le quinte dopo il concerto al
McGoo’s di Edimburgo e gli aveva dato alcune dri e per cantare
meglio mentre si suona il basso. Dean aveva preso anche qualche
lezione di canto vera e propria, e adesso ha una mezza o ava in più
su entrambi i fronti, note basse e note alte, rispe o a quelle che già
padroneggiava. Elf non ne vuole sapere di essere messa in ombra, si
ge a quindi in un assolo di Hammond particolarmente pirotecnico.
Jasper si domanda se fra il pubblico del Paradiso ci siano Guus de
Zoet o i suoi fratellastri. Improbabile. Si sarebbero fa i sentire, no? Chi
può dirlo? Se già le persone normali sono difficili da interpretare, i De Zoet
sono cruciverba cri ografati…

Finito il concerto, Jasper perde gli altri membri del gruppo in una
sarabanda di volti che sembrano conoscerlo. Sam Verwey è uno dei
pochi a cui sappia dare un nome. «Allora, De Zoet. Hai lasciato
Amsterdam che non eri nessuno e ritorni che sei una rockstar a tu i
gli effe i. I miei allievi ti vedono come un dio. Quando gli dico che
suonavamo per strada insieme in piazza Dam pensano che li prenda
per il culo, quindi adesso faccio una foto di noi due insieme…
Sorridi!»
Il flash esplode negli occhi e nel cervello di Jasper.
«Un trionfo!» esclama un tale sfoderando un sorrisone.
«Un’incoronazione! Un’apoteosi!»
«Hai bisogno di qualcosa?» domanda un muso da rospo con il
completo gessato. «Funghi, fumo, benzedrina, dexedrina? Dimmi un
nome e ci penso io.»
Sorrisone si è trasformato in Risatona. «Perché diavolo sei stato
via così tanto? Amsterdam ha bisogno di te, amico…»
«A quest’ora, al quartier generale dei De Zoet staranno cagando
vomito freddo», rileva la regina dei Paesi Bassi in persona, che non
può però essere davvero lì, su quella balconata, e per di più con una
canna in bocca.
«Mi chiamo Thijs Ogtrot, scrivo per Hitweek», s’introme e una
faccia da becchino. «È vero che hai passato due anni nel manicomio
di Rijksdorp?»
Dalla balconata, Jasper individua il gestore del Paradiso. Nel bar
so ostante sta parlando con Levon ed Elf. Come posso raggiungerli?
«La domanda perciò è», gli sta chiedendo un compagnone con
una pacca su una spalla, «chi ti rappresenta in questo momento è in
grado di farti fare il salto di categoria?»
Jasper infila la scala sbagliata. «Il suo unico amico era la chitarra»,
spiega un docente del conservatorio. «Il pezzo che aveva presentato
il giorno del diploma s’intitolava ‘Who Shall I Say Is Calling?’. Era
come se il suono piovesse goccia a goccia…»
«Coca, erba, anfetamine di ogni ordine e grado», mormora Mister
Rospo all’orecchio di Jasper. «Soddisfazione garantita. L’hai mai
provato un acido?»
«O altrimenti staranno vomitando merda fredda, no?» chiede
Giuliana dei Paesi Bassi. «Tu, lo scheletro nell’armadio di famiglia,
invitato in televisione a Fenklup! Impagabile!»
«Io e te lunedì abbiamo fa o l’amore», gli dice una che si è dipinta
la faccia come un test di Rorschach. «Nel piano astrale. Sì, ero
proprio io.»
Jasper è nel bagno degli uomini, si sta lavando le mani. «Magari lo
hai fa o con Eric Clapton», suggerisce alla signorina Rorschach.
«Ora che sei famoso», inizia a dire Sorrisone una volta al bar,
«all’improvviso sbucheranno parassiti ovunque…»
«Thijs Ogtrot dell’Hitweek», si ripresenta Faccia da Becchino. «Hai
scri o ‘Darkroom’ dopo esserti fa o un acido con John Lennon
mentre lui scriveva ‘Lucy in the Sky with Diamonds’. Vero o falso?»
«…ti chiederanno favori o denaro», prosegue Sorrisone. «E non ti
basterà certo un semplice ‘Rot op!’, sparisci, per sbarazzartene.»
«La domanda è», continua Compagnone con un’altra pacca sulla
spalla, «fino a che punto un solista geniale come Jasper de Zoet
riesce a esprimersi entro i confini angusti di una band?»
«Chi è che ti ha piazzato la merce?» L’espressione di Mister Rospo
si è fa a tesa. Rabbia. «Non sarà mica stato uno stronze o di belga
tarchiato con un ciuffe o alla Tintin?»
Il docente gli passa una canna. «Allora, il re ore vorrebbe che
tenessi una lezione per l’anniversario della fondazione…»
«Mondo infame!» esclama Dean barcollando. «Al cesso c’erano
due uomini che limonavano avvinghiati! Brrrr…»
«…su un argomento a tua scelta», dice il docente. «‘Arte, amore e
morte’, ‘Notizie di Soho’, ‘Controcultura’… Non puoi dire di no.»
«Thijs Ogtrot dell’Hitweek», interviene di nuovo Faccia da
Becchino. «Tuo padre vuole tagliarti fuori dal testamento di tuo
nonno. Vero o falso?»
«E insomma ho bisogno solo di cinquecento fiorini per pagare lo
studio di registrazione», spiega Sorrisone. «In contanti è meglio.»
Jasper nota che la signorina Rorschach ha una mano infilata nella
camicia di Griff. «Lunedì noi due abbiamo fa o l’amore nel piano
astrale, ma stasera…» gli bisbiglia in un orecchio, e con la mano si fa
largo verso il basso.
«Investi i soldi che ti darà la produzione per le vendite future»,
dice Sorrisone. «Ne verranno fuori dei bei profi i, te lo garantisco.
Cos’hai da perdere?»

Quella no e di marzo è grigio antracite, indaco e illuminata dalle


stelle. L’aria lungo Prinsengracht è fresca e pungente. La primavera è
alle porte. Trilla il campanello di una bici. Jasper si toglie di mezzo, il
ciclista lo supera con un sommesso «Dank». Una canzone del tempo
p p
che fu e un’appetitosa zaffata di polpe ine fri e locali, le bi erballen,
escono da una tavola calda dalle luci ambrate. Jasper si ferma
all’angolo di Amstelveld e solleva un pollice per verificare quanto sia
affilata la mezza luna. È piacevole essere di nuovo uno del posto, un
Amsterdammer. Gli inglesi non si fidano della duplicità, per loro è
sinonimo di un’insidia in agguato. Ma nei Paesi Bassi se uno dei tuoi
genitori è tedesco, francese, belga o danese non c’è nulla di cui
stupirsi. È mezzano e, le campane ci adine iniziano a suonare. Il
bronzo rimbomba con un fragore metallico, e colpo dopo colpo le
case austere e le chiese si dissolvono. Svaniscono il conservatorio e la
stanze a angusta sopra la pane eria in Raamstraat, dove Jasper ha
vissuto per tre anni. Sono in procinto di svanire gli squallidi bordelli,
gli uffici degli spedizionieri e i bare i scia i, ed ecco… sono svaniti
anche loro. Gli hotel rispe abili, i ristoranti pacchiani, le sale da
concerto. Il Paradiso, il Rijksmuseum, gli studi televisivi della ARPO.
Piazza Dam, i negozie i chiusi di souvenir e la casa di Anna Frank, i
reparti maternità e i cimiteri. Il Vondelpark con il suo laghe o, i
castagni, i tigli e le betulle ancora spogli. Svaniscono dalla ci à i
dormienti e gli insonni. Perfino le campane nelle torri, artefici di
tu e queste impossibili sparizioni, si sciolgono e scompaiono, finché
in un remoto futuro tu o ciò che resta di Amsterdam è una palude
salmastra spazzata dalle tempeste, abitata solo da anguille, gabbiani,
baraccati con le barche scassate e cani famelici…

***

Caso eccezionale fra i tanti canali di Amsterdam, il


Grafgraversgracht non porta da nessuna parte. I turisti ci finiscono
per sbaglio quando cercano una scorciatoia per lo zoo. Diverse
persone nate e cresciute ad Amsterdam hanno de o apertamente a
Jasper che un canale simile non esiste, e che è proprio quel nome,
«Canale dello Scavafosse», a dimostrare che è solo uno scherzo.
Eppure è lì, davanti a lui, la targa che indica il nome della strada è
rischiarata dalla mezza luna e ben leggibile. I suoi rispe abili
abitanti stanno dormendo, ma in fondo, dalla finestra triangolare
della mansarda al numero 81, filtra una lama di luce azzurro cielo.
Jasper percorre il breve tra o di canale che lo separa dal portone
sovrastato dalla finestra illuminata. Preme il campanello in cima e
risuonano le note di una ninnananna olandese: «Boer wat zeg je van
mijn kippen…» Pausa. «…Boer wat zeg je van mijn haan?» Jasper
a ende.
Forse sta dormendo e si è dimenticata di spegnere la luce.
Jasper a ende. Conto fino a dieci, poi me ne vado…
Qua ro piani più in alto la finestra si spalanca. Una chiave cade
tintinnando sul lastricato della strada. Lui la raccoglie. È a accata a
un portachiavi di Superman. Silenzioso come un ladro, Jasper entra
e sale le scale fino al quarto piano superando bicicle e, bombole di
gas con il fornello per cucinare e un vecchio tappeto arrotolato.
Mentre si avvicina, la porta in cima si apre.

La stufe a ele rica è incandescente, rossa come lava. Si fonde con


la luce azzurro cielo della lampada, dando origine a un bagliore
purpureo. Sul giradischi Helen Merrill sta cantando con la sua voce
di seta «You’d Be So Nice to Come Home to.» Trix indossa un
accappatoio peloso con una scri a ricamata: Hotel Il Duca, Milano.
Trent’anni, slanciata, ha un che di giavanese, i capelli raccolti e
sprigiona vapore per via del bagno caldo.
«Buon Dio, guarda chi c’è, il signor Ornitorinco.»
«Posso entrare?»
Trix inarca un sopracciglio. «Anche a me fa piacere vederti.»
Avrei dovuto salutarla prima. «Scusa. Ciao. Che piacere vederti.»
Trix si fa da parte, lo lascia passare e richiude la porta. «Stavo per
andare a le o e me ermi a piangere fino a crollare nel sonno.
Pensavo che le groupie stessero ormai banche ando con le ossa della
mia povera volpe rossa.»
Jasper appende il cappo o a due corna di cervo. «Questa è
ironia.»
«Santo cielo, a Londra non ci siamo dati una svegliata?»
Jasper si sfila le scarpe. «Sarcasmo?»
«Non diventare troppo bravo a fare il normale.»
«Non c’è pericolo, direi.»
Trix riempie due bicchieri di rum e ghiaccio.
p g
L’orologio sulla mensola fa le cinque.
Secondo quello al polso di Jasper mancano tre minuti a
mezzano e.
«Si è fermato mesi fa», spiega Trix. «Il tempo fa troppo rumore.»
Si siedono alle opposte estremità del divano con i piedi appoggiati
sopra, l’uno di fronte all’altra. «Proost, signor Ornitorinco.»
«Proost.» Bevono. Jasper sente l’esofago bruciare.
«Com’è andata al Paradiso?»
«Il concerto bene, la festa dopo per me era troppo. Sono scappato
mentre nessuno mi guardava.»
«Il tuo disco sta vendendo come le aringhe fresche. I De Zoet di
Middelburg avranno inde o una riunione d’emergenza su di te. Me
lo immagino tuo padre che dice agli azionisti: ‘Lo scheletro
nell’armadio di famiglia suona la chitarra a Fenklup! Qual è la vostra
posizione ufficiale al riguardo?’ Caruccio il tuo bassista.»
«Dal vivo Dean è meno alto di quanto non appaia in televisione.»
«Voi qua ro sembrate molto legati.»
«Se suoni in un gruppo, alla fine ci si conosce tu i bene.»
«Come in una famiglia?»
«Non sono un esperto in materia, ma probabilmente sì. Io vivo
con Dean. Si prende cura di me, o così mi pare. Si assicura che non
mi dimentichi certe cose. Griff non ha paura di niente e niente lo
preoccupa, sa vivere come si deve. Elf è come una sorella. O almeno
credo. È brava a capire le persone per quello che sono. Come te. Loro
tre e anche Levon, il nostro agente, immagino che siano tu i
consapevoli della mia dislessia emozionale. Non se ne parla.
Semplicemente mi coprono quando ne ho bisogno.»
«Un a eggiamento, questo, davvero molto inglese.» Trix si
accende una sigare a turca. «Com’è essere famosi?»
«Al Paradiso continuavano a chiedermelo, e quando rispondevo
‘Non sono una vera star’, la gente diventava… difficile da
interpretare.»
Trix ci rifle e. «Probabilmente pensano che tu non glielo voglia
dire perché non li consideri degni di essere illuminati.»
«La realtà è del tu o diversa dalla fantasia.»
«E quando mai avrebbe avuto importanza una cosa simile?»
q p
Jasper finisce il rum e scruta a raverso il fondo del bicchiere le
fiamme delle candele, il soffi o inclinato della mansarda, i tessuti
drappeggiati, la stufe a ele rica, la divinità indiana che diffonde
l’incenso.
«Mi mancavano le tue lezioni di antropologia, Trix.»
«Sei tu quello che ha a raversato la Manica in cerca di fortuna,
lasciandomi qui sola e disperata a strapparmi i capelli.»
Ho fa o questo? E lei ha fa o quello? No, sta sorridendo. «Ironia.»
Lei gli dà un calce o su un polpaccio. «Evviva, il ragazzo merita
un premio.»

La mezza luna risplende a raverso la finestra di Trix, illuminando


il le o a baldacchino artigianale. Un corpo celeste non muore mai,
dice Jasper alla luna, d’altra parte non ti capita neanche mai di
rannicchiarti insieme a un altro corpo.
«Sei stato fortunato a suonare al Paradiso questa metà di marzo»,
dice Trix. «Sto per trasferirmi in Lussemburgo. In pianta stabile.»
«Come mai?»
«Mi sposo con uno del posto. Sei la mia ultima scappatella.»
Dille: Congratulazioni. «Congratulazioni.»
«Me le fai per il mio matrimonio, o perché sei tu la mia ultima
scappatella?»
Starà scherzando? «Intendevo per il tuo matrimonio.»
«Be’, era arrivato il momento. Non sto certo ringiovanendo.»
«Vero.»
Il torso di Trix si irrigidisce per un a imo. Sorride.
«Cosa c’è di divertente? Perché sorridi?»
Trix si rigira i capelli di Jasper fra le dita. «Nessuna gelosia da
parte tua. Nessun: ‘Come hai potuto? Come hai osato?’ Sei quasi
l’uomo ideale.»
«Non sono molte le donne che ti darebbero ragione.»
Trix fa un verso che esprime sce icismo. «Quel gioche o con la
lingua non l’hai certo imparato oggi, no?»
A Jasper vengono in mente Mecca e la stanza sopra lo studio
fotografico. In America è ancora ieri. «Cosa succederà al tuo negozio
quando te ne sarai andata?»
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«L’ho venduto a Niek e Harm. Continueranno a tra are dischi
brasiliani sconosciuti e a fare sconti agli studenti poveri del
conservatorio.»
«Senza di te Amsterdam non sarà più la stessa.»
«Grazie infinite, ma Amsterdam non si rende più conto di un bel
niente. La ci à è cambiata da quando stavamo svegli fino a tardi a
ridisegnare il futuro o cercavamo di rovinare il matrimonio reale.»
Trix fa scorrere l’indice lungo la clavicola di Jasper. «Te le ricordi le
bicicle e bianche a disposizione di tu i? Adesso non c’è più nessuno
che le ripari. Non lo può fare qualcun altro? Così pensa la gente. O
se no le verniciano di nero e se le tengono. Il movimento Provo sta
per sparire. Oggi i rivoluzionari che impugnano il megafono sono di
un altro genere. Un genere senza alcun senso dell’umorismo. Un
genere che cita Emiliano Zapata come se fosse un amico intimo. ‘È
meglio morire in piedi che vivere in ginocchio.’ Ti diranno che non si
può fare una fri ata senza rompere le uova, come se la spina dorsale
di un dimostrante, la testa di un polizio o o la finestra di un’anziana
vedova fossero solo uova. È tempo per noi utopisti di sgomberare il
campo, di lasciarlo alle brigate con le molotov. Non voglio essere
parte di questo.»
«E chi è il futuro monsieur Trix van Laak?»
«Un allevatore di cavalli. È un po’ più vecchio di me e non è
esa amente un adone, ma è abbastanza ricco da essere il migliore
dei miei ultimi spasimanti, abbastanza in gamba da apprezzare una
moglie intelligente e abbastanza navigato da fare in modo che il mio
passato resti nel passato.» Trix dà a Jasper un colpe o sulla punta
del naso. «Sua madre non approva. Mi definisce un’arrampicatrice
sociale. Io lei la definisco invece un’alpinista con le bombole e
d’ossigeno. Alla fine l’avrò vinta io.»
La brace sta divorando un bastoncino d’incenso. Sandalo.
«Andrai a cavallo tu i i giorni», osserva Jasper.
«Già», amme e Trix. «Andrò a cavallo tu i i giorni.»

Il do or Bell di Ely non era così certo che a Jasper avrebbe giovato
una traversata mari ima di dodici ore in preda a un esaurimento
nervoso e con il solo Formaggio a vegliare su di lui, ma il preside era
gg g p
stato irremovibile. Il preside era stato cade o nell’esercito a sedici
anni, e a suo giudizio qualche vigorosa ventata di acqua salmastra
poteva essere la medicina ada a al giovane De Zoet. A causa della
campagna condo a da Toc-Toc contro la sua salute mentale, Jasper
era troppo malconcio per esprimere una sua opinione. Suo nonno
aveva ricevuto diversi telegrammi, ad a enderlo a Hoek van
Holland ci sarebbe stato lui.
Tempo dopo, Jasper aveva realizzato che le preoccupazioni della
scuola miravano sopra u o ad allontanarlo il più possibile da
Swa am House prima che perdesse la bussola, e a trasferirlo
possibilmente in un altro Paese. A Harwich lo avrebbero
accompagnato in macchina. Il do or Bell aveva affidato a Formaggio
alcune pillole da dare all’amico se le sue condizioni fossero
peggiorate. Le condizioni di Jasper erano peggiorate, quando l’auto
dire a a Harwich non era ancora a metà strada. I toc-toc-toc-toc
stavano per fondersi in un unico colpo massiccio. In effe i, le pillole
alleviavano il rumore almeno un po’, ma non fermavano l’assalto.
Jasper e Formaggio si erano imbarcati sull’Arnhem. Il mare era
agitato. I ragazzi avevano due posti a sedere in seconda classe, e
Formaggio abbandonava l’amico solo per spostarsi sul ponte e
ge are al di là del parape o l’ennesimo sacche o pieno di vomito.
Impeccabili nelle loro uniformi, alcuni militari dire i nella Germania
Est all’inizio non facevano che ridere vedendo Formaggio che
continuava a vomitare e la pessima cera di Jasper, ma a un certo
punto erano stati mossi a pietà. «Fatevi un sorso di questo, poveri
bastardi.» Una borraccia dell’esercito, tè e gin per rime ere in sesto
lo stomaco. L’Arnhem aveva a raccato so o un cielo no urno. Subito
dopo aver augurato loro buona fortuna, i soldati erano stati
inghio iti dal mondo. Grootvader Wim era lì che li aspe ava nella sua
Jaguar, vicino all’ufficio dove controllavano i passaporti dei nuovi
arrivati. «Mi ricorderò della tua gentilezza», aveva de o in inglese a
Formaggio. «Jasper, ti porto dire amente in una clinica nei dintorni
di Wassenaar. Andrà tu o bene. Sei in Olanda, adesso.»

Jasper scende le scale che dalla mansarda di Trix conducono al


Grafgraversgracht. Alla decima o dodicesima rampa, si rende conto
g g p
che il suo corpo è ancora nel le o di Trix, di gran lunga più in alto.
Eppure i gradini proseguono, finché il sognatore non si ritrova in
una galleria terrosa. Ad aspe arlo c’è una vecchia che si porta un
dito davanti alla bocca: «Zi o!» Poi gli indica uno spioncino in un
muro. Jasper guarda a raverso. Dall’altra parte c’è un ossario, o la
cella di una prigione, o tu e e due le cose. Toc-Toc, con la sua veste
cerimoniale, è seduto su un osso di balena: la mandibola; in una
mano ha un coltello e nell’altra una tibia. Nella tibia sono incise delle
tacche. Anche Robinson Crusoe, rifle e Jasper, teneva conto così dei
giorni sull’isola. Lo sguardo di Toc-Toc incrocia quello di Jasper. È
come se sca asse un meccanismo. I due si scambiano di posto. Jasper
adesso è prigioniero nel so erraneo più profondo della mente di
Toc-Toc, senza nessuna speranza di fuggire o di essere salvato. Non
può nemmeno giocarsi a dadi la libertà. L’occhio allo spioncino,
l’occhio di Toc-Toc, scompare. Jasper rimane solo per l’eternità a
incidere la tibia facendovi scorrere sopra il coltello avanti e indietro,
come l’arche o di un violino…
…e uno stridore metallico riempie la testa di Jasper. Si sveglia nel
le o di Trix al rumore delle rotaie d’acciaio di un tram. Il cuore gli
rimbomba.
Lo invade il sollievo di non essere più in quell’ossario senza via
d’uscita. Passato il tram, gli unici suoni sono il respiro di Trix, il
lamento della pioggia sui te i e sui canali di Amsterdam, la caldaia
distante dello stabile all’81 del Grafgraversgracht e la no e che piano
piano si ritira. È difficile distinguerli. Confidiamo che i nostri amanti
non ci facciano del male.
Le campane di Oosterkerk rintoccano cinque lacrimose volte.
Jasper prende in prestito l’accappatoio peloso di Trix e va in bagno.
Unguenti, bara oli di creme e bo iglie e di roba appiccicosa.
Evitando di guardarsi allo specchio, si spruzza un po’ d’acqua in
faccia. Sente qualcosa che potrebbe definire «dolore da
cambiamento», non sa però se sia un’emozione o meno. Si sposta nel
cucino o e mangia un’arancia. Scalda il bollitore sul fornello, ma lo
toglie dalla fiamma prima che il fischio possa svegliare la padrona di
casa. Appoggia la tazza di tè sul tavolo di Trix. Un cavallino
d’argento con gli occhi d’opale lo sta fissando. Le ultime ore
nascondono dei versi. Jasper si me e a cercarli.

A song, a crowd, a coronation,


A merry-go-round, a deal –
A city so improbable,
It’s not exactly real.

Doctor, liar, teacher, leech;


Pusher, mistic, hack – they
Crashed the gates of Paradise.
I snuck out through the back.

Gravedigger’s night, a sky-blue light,


A chime, the key that turned your lock.
Stairs, the dark, a magic lamp,
A fox who didn’t have to knock.

A cigare e from Istanbul,


A glass of fire and ice –
A clock that wound down months ago.
A clock we wound up, twice.

A silver horse with opal eyes,


Incense from Hindustan –
I, who rarely understand,
you, who often can.

You slept on like a tiny bird,


A bell, all’s well, a far-off call –
I slept like a fugitive,
If I slept at all.

A curse, a demon, maybe worse,


A knife, a bone, a notch –
I am the lone nightwatchman.
This is my night watch. b
a. Guardiano no urno.
b. Una canzone, una folla, un’incoronazione, / Una giostra, un accordo – / Una ci à così
improbabile, / Non è esa amente reale. / Medici, bugiardi, insegnanti, sanguisughe; /
Spacciatori, mistici, scribacchini – tu i / S’intrufolano nel Paradiso. / Io sono sga aiolato
via dal retro. / Una no e da scavafosse, una luce azzurro cielo, / Un campanello
melodioso, la chiave che ha aperto la tua serratura. / Scale, il buio, una lampada magica, /
Una volpe che non ha bisogno di bussare. / Una sigare a da Istanbul, / Un bicchiere di
fuoco e ghiaccio – / Un orologio che si è fermato mesi fa. / Un orologio che abbiamo
caricato, due volte. / Un cavallo d’argento dagli occhi d’opale, / Incenso indostano – / Io,
che raramente capisco, / Tu, che spesso ci riesci. / Dormivi come un uccellino, / Una
campana, va tu o bene, una chiamata remota – / Ho dormito come fa un fuggiasco, /
Sempre che abbia dormito. / Una maledizione, un demone, forse peggio, / Un coltello, un
osso, una tacca – / Sono il guardiano solitario. / Questa è la mia ronda no urna.
Roll Away the Stone a

All’aeroporto di Roma sei polizio i raggiungono il check-in; dietro


di loro un ufficiale si toglie gli occhiali da sole e studia la gente in
coda. Dean immagina una sparatoria davanti al banco dell’Aeroflot,
tra sbirri e uomini d’affari che in realtà sono agenti del KGB. Urla,
confusione, sangue. Dean schiva le pallo ole per salvare
un’appetitosa signorina b con una giacca rosa. Gli agenti del KGB
vengono uccisi. Il re d’Italia gli appunta al pe o una medaglia. La
signorina in rosa lo presenta a suo padre, proprietario di un castello
che si staglia su un vigneto di quaranta e ari. «Non avevo un erede
maschio», dice il padre al prode figlio d’Albione, «fino a oggi…»
Tornando alla realtà, accanto all’ufficiale adesso c’è un fotografo.
Ha un aspe o familiare. In effe i lo è. In hotel aveva sca ato diverse
foto al gruppo. Individuati Dean, Griff, Jasper e Levon, li indica
all’ufficiale, che si fa avanti con passo deciso seguito dai suoi uomini
schierati a V. Non sembra in cerca di un autografo. «Ehm… Levon?»
dice il bassista.
Il manager sta parlando con l’adde o ai controlli. «Arrivo, Dean,
un momento.»
«Ho paura che non ce l’abbiamo un momento.»
L’ufficiale è davanti a loro. «Siete voi il gruppo c? Gli Utopia
Avenue?»
«Come possiamo esserle utili?» replica Levon.
«Guardia di Finanza, sono il capitano Ferlinghe i.» Dà un paio di
colpe i alla borsa di pelle che Levon tiene premuta contro di sé.
«Che c’è qui dentro?»
«Documenti. Cose importanti.»
Il capitano Ferlinghe i fa un gesto inequivocabile. «Apra.» Levon
ubbidisce. L’ufficiale prende una busta dalla borsa. «Questa cos’è?»
p
«Duemila dollari in contanti. La band li ha guadagnati per i
qua ro concerti. Sono puliti. Il nostro promoter, Enzo Endrizzi…»
«No che non lo sono.» Il capitano si ficca i soldi in tasca. «Venite
con noi. Subito. Abbiamo delle domande da farvi.»
Levon è troppo sconcertato anche per muovere un passo. Lo sono
tu i. «Che cosa?»
«Concerti d in Italia, guadagni in Italia, tasse in Italia.»
«Ma le carte sono in ordine. Guardi.» Levon tira fuori una fa ura
in italiano. «Questa è del nostro promoter. Ed è ufficialmente…»
«No. Non è valida e», dichiara il capitano Ferlinghe i.
Levon cambia tono. «Devo dedurre che questa è un’estorsione?»
«Preferite che vi arresti qui? A me non cambia nulla.» L’ufficiale si
rivolge all’adde o al check-in dell’Alitalia sparando parole a raffica.
Dean capisce solo la parola passaporti f. Nervosamente, l’adde o fa
per consegnare i loro documenti all’ufficiale, ma Dean li interce a e
se li infila nella giacca. Il capitano Ferlinghe i lo guarda dri o negli
occhi. «Dammeli.»
So riconoscere uno sbirro corro o quando ne vedo uno. «Il nostro aereo
parte fra mezz’ora. E adesso noi ci saliamo con i nostri malede i
soldi. Perciò…»
Una fi a all’inguine lo piega in due. L’area partenze
dell’aeroporto gli vortica intorno. Sba e la guancia sul pavimento. A
pochi centimetri dalla faccia esplode una supernova, il flash di una
macchina fotografica. Levon protesta. Dean recupera la vista. Il
fotografo gli si sta avvicinando per uno sca o ad altezza pavimento.
Dean si volta dall’altra parte e scalcia all’indietro come un cavallo.
Con un tacco manda in pezzi la macchina fotografica contro la
mandibola del fotografo. Un urlo. Iniziano a prenderlo a calci. Si
rannicchia in posizione fetale riparando mani e testicoli. «Bastardo!
Bastardo!» sta urlando il capitano Ferlinghe i, o forse ciò che urla è:
«Basta! Basta! g» I calci si fermano. Gli me ono i polsi dietro la
schiena e lo ammane ano. Gli sfilano i passaporti dalla giacca. Viene
fa o rialzare in malo modo mentre Griff protesta imprecando. Dean
sente una serie di ordini in italiano. Il gruppo al completo viene
trascinato via. «Ci saranno conseguenze legali», sta dicendo Levon,
«ve lo garantisco.»
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«Le conseguenze h per voi cominciano adesso.» Il capitano inforca
gli occhiali da sole. «A garantirvelo sono io.»

«È davvero un periodo frenetico», aveva de o Elf a Dean qualche


tempo prima. «Amsterdam in marzo, sei serate come supporto agli
Hollies… e ora stiamo andando in Italia. In aereo, poi.» Dean aveva
guardato fuori. Il velivolo era arrivato all’inizio della pista. «Lo
sapevi che in Italia ‘Purple Flames’ è nona in classifica? Non mi
ricordo se te l’ho già de o.»
«Be’, erano già dieci minuti che non me lo dicevi, me iamola
così.»
«Levon avrebbe dovuto insistere per farci avere dei posti in prima
classe.»
«Come no, e io avrei dovuto insistere perché Gregory Peck
venisse a prendermi all’aeroporto e mi portasse in giro come Audrey
Hepburn.»
Dean aveva dato un’occhiata a Jasper, seduto vicino al corridoio.
Era di un pallore malsano, si nascondeva dietro gli occhiali da sole e
masticava una gomma. «Su con la vita, amico. Se l’aereo precipita
non potremo farci un cazzo, quindi perché preoccuparsi?»
Le dita di Jasper avevano artigliato il bracciolo.
Al microfono si era sentita la voce della hostess: «Assicuratevi che
le cinture siano allacciate corre amente, per favore…» I potenti
motori si erano messi a rombare e l’aeroplano a vibrare.
Elf aveva sbirciato dietro Jasper e Griff, dove c’era Levon. «È
normale?» gli aveva chiesto.
«Assolutamente», l’aveva rassicurata il manager. «Il pilota ha un
piede sull’acceleratore e uno sul freno, quindi quando molla il freno,
l’aereo è pronto per…»
La brusca partenza del Comet 4 aveva schiacciato i passeggeri
contro i sedili. Un «Uouuu» sordo aveva riempito il velivolo, e Dean
si era accorto che Elf gli aveva piantato le dita nel polso… C’erano
stati alcuni violenti scossoni, le gocce di pioggia sul finestrino si
erano allungate in strisce, il pavimento si era inclinato verso l’alto e
l’orizzonte verso il basso, poi l’aeroplano si era staccato da terra con
Elf che bisbigliava: «Mio Dio mio Dio mio Dio…» So o si vedevano
g
depositi, un parcheggio su più piani, alberi, un lago artificiale,
l’autostrada M4, le statali, tu o se ne andava… Una miniatura zuppa
dell’Inghilterra precisa fin nei minimi de agli: il serpeggiante
Tamigi, Richmond Park, la serra di vetro simile a un’arca nei Kew
Gardens… poi al di là del finestrino era comparsa la nebbia e la
fusoliera aveva tremato, come se una mano gigantesca l’avesse
afferrata e poi scossa. «È normale?» aveva chiesto di nuovo Elf.
«È solo una lieve turbolenza», le aveva risposto Levon. «È tu o a
posto.»
Dean aveva dato un colpe o sulla mano della ragazza. «Elf… il
mio polso… non è che potresti…»
«Oddio, scusa. Sembra che ti abbia morso un cane. Oh… Gesù,
guarda lì!» Vedevano le nuvole dall’alto. Lambite dal sole, bianche
come la neve o color malva, gonfie come panna montata, sgualcite,
satinate…
«Ray non mi crederà mai», aveva commentato Dean.
«Come si potrebbe trasme ere una cosa simile musicalmente?» si
era chiesta Elf.
«Jasper, questo spe acolo devi vederlo, non scherzo», aveva
cercato di coinvolgerlo Dean.
Jasper, sempre che lo avesse sentito, aveva fa o finta di niente.
Dean ed Elf avevano continuato a guardare le nuvole. «È la cosa più
bella che abbia mai, mai visto», aveva dichiarato la ragazza.
«Anch’io.» Da un leggero solletico Dean si era accorto che una
ciocca di Elf gli era rimasta impigliata nella barba di due giorni.
L’aveva tolto delicatamente. «Questa la restituisco alla legi ima
proprietaria.»

Due agenti della squadra antisommossa sono seduti insieme al


gruppo nel retro della camione a. Dentro somiglia a quelle della
polizia inglese, nota Dean. Lungo le pareti ci sono due panche, la
luce penetra solo da una griglia robusta in cima all’abitacolo del
guidatore. Il bassista si sente pulsare addome, chiappe e inguine; i
lividi non ci me eranno molto a spuntare. È ancora ammane ato. I
polizio i stanno fumando. A differenza di quelli inglesi hanno le
pistole. «Ehi, tu. Ehi, amico i», gli fa Dean, «me la daresti una
sigare a, per favore ji?»
Il polizio o scuote la testa divertito, come a dire: Amico io?
Sicuro?
«I soldi nella borsa», domanda Griff a Levon. «Erano puliti sul
serio?»
«Fino all’ultimo centesimo», risponde Levon. «Ma ormai nella mia
borsa non ci sono più.»
«Non è un po’ rischioso portarsi dietro tu i quei contanti?»
«Se pensi che questo sia rischioso», riba e Levon, «prova ad
acce are un assegno da un promoter straniero con cui non hai mai
lavorato prima. Quando sarai tornato a casa, ti accorgerai che è stato
magicamente annullato.»
«Quello sbirro sapeva che ce li avevi», osserva Dean, «e sapeva
anche in quale borsa trovarli. Se vuoi sapere come la penso io, qui c’è
puzza di marcio, maledizione.»
Levon sospira. «Già. E l’unico a sapere che avevo i soldi era
Enzo.»
«Perché mai il nostro promoter dovrebbe averci tradito?»
domanda Griff.
«Enzo si tiene il ricavato dei qua ro concerti che hanno fa o il
tu o esaurito a teatro, il capitano si prende la sua bella fe a e sono
tu i felici e contenti. ‘Fanculo. Avrei dovuto far venire con noi anche
Bethany e rispedirla a casa con i soldi. Nel mondo dello spe acolo
venire truffati fa parte del gioco, ma quanto a questo, credo di aver
già dato. Ora, se Enzo si fa vivo per tirarci fuori gli farò le mie scuse.
Ma se si dà per disperso, sapremo com’è andata.»
Nessuno dice nulla per più o meno un minuto. «Grazie a Dio Elf
ha preso l’aereo prima», commenta Dean. «Meno male davvero.»
«Dici bene», aggiunge Griff.
La camione a sobbalza per una buca.
«I soldi sono solo soldi», dice Jasper. «Ne guadagneremo altri.»
«Ted Silver non potrebbe farceli riavere?» chiede Griff.
«Siamo in Italia», risponde Levon. «Il nostro caso non arriverebbe
in tribunale prima del 1975, se va bene. Dico sul serio. No, la cosa
migliore che ci può capitare è essere rimpatriati in fre a.»
g p p p
«E la peggiore?» domanda Dean.
«Meglio non pensarci, ma a meno che qualcuno della vostra
ambasciata non vi dica che è sicuro, non firmate assolutamente
nulla. I polizio i corro i li hanno inventati in Italia, ricordatevelo.»

Sba endo le palpebre, abbagliati, i qua ro escono dalla


camione a e si ritrovano nel cortile cintato di una stazione di polizia.
È un bru o edificio basso con il te o pia o. Dean barcolla. Griff lo
sostiene. Al di là del muro sormontato dal filo spinato si vedono un
cavalcavia, la ciminiera di una fabbrica e alcuni condomini. Una
guardia li scorta all’interno. Chiunque nella sala d’aspe o sta
fumando, che si tra i di un bambino di dieci anni, di un prete o di
una donna incinta, fino al polizio o dietro il banco. Quando quegli
strani forestieri fanno il loro ingresso, le chiacchiere si interrompono
e tu e le teste si girano a guardarli. Superata una massiccia porta
blindata, il gruppo viene condo o nella sala degli interrogatori. Ad
a enderli c’è il capitano Ferlinghe i. «Allora k, vi piace il mio hotel?»
«È un vero cesso», dice Dean con aria falsamente cortese. «Pieno
di merda. Proprio come voi.»
«Calmati, Dean», mormora Levon. «Calma.»
«Siete qui tu i quanti per una violazione delle norme valutarie, e
tu», comunica a Dean il capitano con un sorrise o, «per aggressione
a pubblico ufficiale.»
«Che cazzata. Siete stati voi ad aggredire me.»
«Chi crederà a un criminale ladro e bugiardo? Svuotate le tasche,
qui.» Indica sulla scrivania qua ro scatole basse di legno.
«Ci avete già rubato duemila dollari», dice Griff, «come facciamo
a sapere che rivedremo la nostra roba?»
«No, non è così che è andata. Siete voi ad aver derubato il popolo
italiano.»
«Capitano Ferlinghe i», interviene Levon, «telefoni a Enzo
Endrizzi, per favore. Chiarirà questo malinteso.»
Da Ferlinghe i trapela chiaramente una certa soddisfazione. «E
chi è questo Enzo Endrizzi?» domanda, ma la smorfia ghignante dice
altro: Sto mentendo e non me ne frega un cazzo se lo sapete. Questo,
secondo Dean, conferma che a organizzare tu o è stato il loro
g
promoter. Nel fra empo Levon, Griff e Jasper si sono svuotati le
tasche come ordinato. «Come faccio a svuotare le tasche con le mani
legate, eh, Capitan Genio?»
«Hai ragione. Vorrà dire che ci penserò io.» Il capitano fa il giro
della scrivania e affianca Dean.
«Potrebbe semplicemente togliermi le mane e», fa notare il
ragazzo.
Ferlinghe i gli svuota le tasche della giacca sulla scrivania. Ne
escono alcune monete e un tocco informe di qualcosa, avvolto nella
stagnola.
Che diavolo è, maledizione? «Non è mio quello.»
«Viene dalle tue tasche. L’ho visto cascare fuori. E l’ha visto anche
il mio luogotenente.»
«Sì l», conferma dall’altra scrivania l’assistente di Ferlinghe i.
Il capitano apre la stagnola, dentro c’è un pezzo di hashish.
Ferlinghe i strabuzza gli occhi come farebbe un pessimo a ore.
«Cannabis? Spero di no.»
Adesso Dean è davvero preoccupato. «Ce l’hai messo tu!»
Ferlinghe i lo annusa. «Dall’odore sembrerebbe cannabis.» Lo
incide con l’unghia del pollice, che poi appoggia rapidamente sulla
lingua. «Anche dal sapore.» Scuote la testa. «È proprio cannabis.
Male. Molto male.»
«Vogliamo un avvocato», dichiara Levon, «e vogliamo parlare con
l’ambasciata britannica e con quella canadese. Subito.»
«Sì, come no», lo deride Ferlinghe i. «Siete in Italia, oggi è
domenica.»
«Telefonata, avvocato, ambasciata. I nostri diri i li conosciamo.»
Il capitano si sporge sulla scrivania. «Questa non è Londra, è
Roma. Li decido io i vostri diri i. E la mia parola», dà un colpe o sul
naso a Levon, «è no.» La testa di Levon si ritrae di sca o per via di
quella strana aggressione al naso.
Un agente inizia a trascinare Dean in un corridoio.
«Ehi!» Dean si rende conto che potrebbero esserci in serbo per lui
cose ben peggiori di un tra amento umiliante. «Dove mi state
portando?»
«In una suite privata dell’Hotel Cesso», gli risponde il capitano.
p g p p
«Non firmare nulla, Dean», sente gridare Levon alle spalle.
«Nulla!»

***

All’arrivo in aeroporto, il promoter italiano non c’era a ricevere il


gruppo, così Levon era uscito a cercare una cabina per conta are
l’ufficio di Endrizzi. La prima idea che si era fa o Dean sugli italiani
era che sorridessero più spesso e con più allegria degli inglesi. Erano
pe inati e abbigliati con maggior cura, inoltre si esprimevano con
mani, braccia e occhi quanto con le parole. Stava guardando due
marcantoni salutarsi con un bace o sulle guance. «La cosa positiva»,
aveva bofonchiato Griff a bassa voce per non farsi sentire da Elf, «è
che se in Italia gli uomini sono quasi tu i gay, in un certo senso
questo ci lascia campo libero.»
Dean assorbiva l’aria tiepida a raverso i pori. «Mi piace molto
qui.»
«Ma se non abbiamo nemmeno lasciato l’aeroporto», gli aveva
fa o notare Elf.
«Gli unici, inimitabili Utopia Avenue.» Un uomo con un dente
d’argento si era avvicinato a braccia spalancate. Aveva una camicia
color crema e la voce tonante: avrebbe fa o bene ad abbassare il
volume di parecchie tacche. Si era portato una mano al cuore e aveva
de o: «Sono Enzo Endrizzi, il vostro promoter, ammiratore e amico.
E tu», si rivolge per primo a Jasper, «tu sei Jasper de Zoet, il
maestro m».
«Signor Endrizzi», replica Jasper porgendogli la mano.
Il promoter afferra la mano del chitarrista nelle sue. «Per voi sono
solo Enzo, ci mancherebbe.» Si gira verso Dean. «Dean Moss, il
cronometro n?»
Cronometro? «Grazie per averci voluto qui, Enzo.»
«Sono stati i vostri fan a volervi! Mi hanno scri o, mi hanno
chiamato per telefono o, sono impazziti per ‘Purple Flames’! L’hai
scri a tu quella canzone, no, Dean?»
Il bassista si gonfia d’orgoglio. «Be’, sì, si dà il caso che sia una
delle mie.»
«Una canzone stu-pen-da p. Faremo concerti, interviste q e la
se imana prossima saliremo su, su, fino al primo posto della
classifica italiana. E poi ci sei tu, Elf, la nostra sirena incantatrice.» Le
aveva fa o il baciamano.
«È un piacere conoscerla, signor Endrizzi. Enzo.»
«Farai breccia in diecimila cuori questa se imana. A Torino, a
Napoli, a Milano, a Roma.» Si era voltato verso Griff. «Levon non sei
tu, vero? Ma no, no. Tu sei ‘Griff Griffin’, e me ne farai vedere delle
belle, eh?» Enzo, con una mano, aveva imitato una pistola e si era
messo a schiamazzare: «‘Mani in alto! O la borsa o la vita!’ È così,
eh?»
«Levon sarà qui da un momento all’altro», aveva de o Elf. «Era
uscito per telefonarti. Ci siamo capiti male sull’orario dell’arrivo.»
«Per gli anglosassoni il tempo è padrone», aveva sospirato Enzo.
«Per noi mediterranei è servitore.»

Il pulmino Fiat di Enzo percorreva lo stradone a una velocità due


volte superiore a quella della Belva spinta al massimo. A guidare era
un silenzioso energumeno che Enzo aveva presentato come
«Santino, il mio braccio destro… e pure sinistro». Tu ’intorno,
c’erano colline marroncine, in cui le parti verdi non sembravano
risentire del sole bruciante. Alcuni quartieri periferici spuntavano fra
le macerie di zone bombardate. Qua e là sve avano delle gru.
C’erano alberi alti e scuri con i rami che si avvitavano verso l’alto. Le
macchine sterzavano da una parte all’altra, infischiandosene del
codice stradale. Anziché me ere la freccia, la gente suonava il
clacson, i semafori sembravano meramente ornamentali. Jasper era
ancora di un pallore cadaverico, come in aereo.
«Sei nato a Roma, tu, Enzo?» aveva chiesto Elf.
«Tagliatemi un braccio e al posto del sangue vedrete scorrere il
Tevere.»
«Dove hai imparato a parlare inglese?» gli aveva domandato
Dean.
«Dai soldati americani e inglesi, qui a Roma durante la guerra.»
«I bambini non venivano evacuati nelle campagne vicine?» si era
informata Elf.
«Di posti sicuri non ce n’erano, l’Italia era tu a un campo di
ba aglia. Certo r, Roma per le bombe era una vera calamita, ma lo
stesso valeva per altre ci à. Il punto era che se ti trovavi nel posto
sbagliato al momento sbagliato, allora bum! Nel 1943, in luglio, un
grooosso bombardamento ha distru o San Lorenzo. La Royal Air
Force. Tremila morti. C’erano anche i miei genitori.»
«È terribile», aveva commentato Elf.
«È successo venticinque anni fa. Ne sono successe di cose da
allora.»
«Anche Londra se l’è vista bru a con i bombardamenti», aveva
de o Dean.
A Enzo per un a imo era brillato il dente d’argento. «Per colpa
dell’aviazione italiana?»
«Mussolini stava con Hitler o sbaglio?»
«Certo s. Sai, gli uomini di Mussolini hanno ammazzato i miei zii e
i miei cugini, che comba evano al Nord con i partigiani. In un film,
in una storiella, è tu o più semplice: ci sono i buoni contro t i ca ivi.
Ma nella realtà», prima agita le dita e poi le intreccia, «funziona
così u.»
Dean si era domandato se la storia dell’Europa potesse essere più
complicata dei film di guerra che aveva visto da ragazzino.
«La tragedia è madre dell’opportunità», aveva proseguito Enzo.
«Al loro arrivo, i soldati americani regalavano i fume i della Marvel,
io ho imparato l’inglese e loro avevano i dollari, gli procuravo quello
di cui avevano bisogno, prendevo la mia fe a, e anche per quel
giorno riuscivo a mangiare. Quelli che facevano mercato nero mi
davano una mano, e io davo una mano a loro. Funziona così in Italia.
Essendo tanto giovane ero tranquillo. Se la polizia militare beccava
un uomo che faceva mercato nero, gli sparava. Quando invece
beccavano un bambino, di solito non succedeva. È stata la mia scuola
di vita, ho imparato a sfangarmela.»
«Cos’hai de o, Enzo?» aveva chiesto Griff.
«A sfangartela?» aveva ripetuto Dean.
«Già. A sfangarmela. È un talento che uso ancora come
promoter.»
Uno scuolabus aveva tagliato la strada al pulmino Fiat. Santino si
era a accato al clacson e, sporgendosi dal finestrino, gli aveva urlato
qualcosa contro, pazienza che alla velocità a cui stavano andando le
parole non potessero raggiungere l’altro conducente. I bambini si
erano affacciati e avevano tu i indirizzato lo stesso gesto a Santino: il
pugno chiuso con l’indice e il mignolo tesi.
«Che significa?» aveva chiesto Dean.
«Cornuto.»
«Le canzoni folk sono piene di cornuti», aveva osservato Elf.
Erano passati accanto a un casale di campagna. Il te o era solo
leggermente inclinato, le finestre erano stre e, i muri di una pietra
color bisco o. I campi scoscesi che aveva intorno, per via dei filari, a
Dean sembravano coltivati a luppolo come nel Kent.
«È una vigna», aveva spiegato Enzo. «Uva. Per il vino.»
Dean si era chiesto che tipo di persona sarebbe stato se fosse nato
in quel casolare e non a Gravesend in Peacock Road. Forse a
disegnare l’identità di ciascuno, anziché l’inchiostro indelebile, è solo
il tra o leggero di una matita 5H, aveva rifle uto.

La finestra con le sbarre in cima alla parete non deve essere alta
più di trenta centimetri e larga più di quindici. Una testa forse
potrebbe passarci, ma non un corpo intero, considera Dean. Una
lama di luce polverosa lambisce il le o arrugginito e il materasso
sporco. Nell’angolo, da una turca di ceramica imbra ata di merda
proviene un odore fetido. A fare da pavimento c’è solo cemento
umido. I muri disseminati di scri e sono chiazzati di muffa. La porta
d’acciaio ha uno spioncino in alto e uno sportello in basso, all’altezza
del pavimento. L’unico posto in cui sedersi è il materasso. E adesso?
Sente il baccano a utito dello stradone, frammenti distanti d’italiano
e lo sgocciolio ininterro o di una cisterna.
Speriamo che Ferlinghe i voglia solo spaventarci per farci dimenticare i
duemila dollari.
Non ha idea di che cosa preveda la legge in Italia in materia di
droga. Le accuse per droga ai Rolling Stones sono state cancellate di
recente. Ma si tra a degli Stones, e quella è l’Inghilterra.
I minuti scorrono. La sua indignazione va scemando. Le bo e che
ha preso cominciano a fare male. Si domanda che cosa stia facendo
Elf in quel momento, e come se la stia cavando Imogen. La morte di
un bambino gli fa sembrare la propria situazione meno grave.
Levon, Jasper e Griff sanno che lui si trova lì. Non è stato sequestrato
in assenza di testimoni. È un ci adino britannico. L’Italia non è la
Russia, o la Cina o l’Africa. Lì potrebbero anche trascinarmi dietro un
angolo e piazzarmi una pallo ola in testa. Portarlo in tribunale, se si
arrivasse a tanto, sarebbe un gra acapo estenuante e costoso. Perché
disturbarsi, quando possono semplicemente espellerlo? E poi lui non
è esa amente un signor nessuno. È uno che ha una canzone ai primi
posti in classifica in Italia. La sera prima, a Roma, gli Utopia Avenue
hanno riempito duemila posti a sedere.

«Duemila persone!» gli aveva quasi urlato Griff in un orecchio per


sovrastare il frastuono, dietro le quinte del Teatro Mercurio. «Da
Archie Kinnock a questo in qua ordici mesi! Cazzo, non è che sto
sognando?» Fradicio di sudore, Dean aveva stre o la spalla a Griff
mentre beveva. Si era sgolato, si sentiva a pezzi e al tempo stesso
baldanzoso e indistru ibile. Quell’ultima tornata di urla e applausi
era per la band, ma anche per la nuova canzone di Dean, «The
Hook», ancora in via di miglioramento. Al Teatro Mercurio era
piaciuta quanto «Darkroom» e «Mona Lisa». L’applauso si era
compa ato in un gigantesco clap, clap, clap, clap, clap, clap, clap, clap,
clap a ritmo di marcia.
Poi era spuntato Levon. «Che ne dite di un terzo bis? Lo
vogliono.»
Elf stava tracannando acqua da una borraccia. «Io ci sto.»
«Non dico mai di no a duemila romani», aveva dichiarato Griff.
«Rifiutare sarebbe scortese», aveva concordato Dean. «Tu, Jasper,
ci stai?»
«Ma certo.»
Era apparso Enzo, sorridendo come avrebbe fa o qualsiasi
promoter all’ultima data di un tour redditizio. «Amici miei siete stati
fantastici v, tu i quanti!»
«Anche il pubblico», aveva commentato Dean. «Sono
completamente impazziti.»
«In Inghilterra, voi…» Enzo aveva mimato una cerniera che sigilla
le labbra. «In Italia…» aveva proseguito assumendo una posa da
cantante lirico, «a noi piace esibire! Questo rumore è il rumore
dell’amore.»
«E cantiamo anche in un’altra lingua», aveva de o Elf
considerando la cosa. «Immaginatevi una platea inglese che
impazzisce così per un concerto italiano.»
«Studiano le parole», aveva spiegato Enzo, «la musica la sentono
con il cuore. Le tue canzoni, Elf, dicono: ‘La vita è triste, è gioia, è
emozione’. Un messaggio universale. Le canzoni di Jasper invece
dicono: ‘La vita è strana, un paese delle meraviglie, un sogno’. Chi è
che a volte non la vede così? E quello che dicono le tue canzoni,
Dean, è: ‘La vita è una ba aglia, è dura, ma non sei solo’. Tu, Griff,
sei un ba erista intuitivo w. Inoltre, il vostro promoter italiano è un
genio.»
Un uomo serioso aveva sussurrato qualcosa nell’orecchio a Enzo.
«Per favore, suonatene un’altra prima che facciano a pezzi il teatro»,
aveva trado o Enzo.
«Abbiamo già fa o tu o l’album», aveva riba uto Griff.
«E anche tu o il repertorio di cover», aveva aggiunto Dean.
«La nuova canzone di Jasper», aveva proposto Elf. «Siamo tu i a
favore?»
«Sì!» avevano esclamato all’unisono il gruppo e Levon.
«La presento io», si era proposto Dean.
Tornati sul palco, dove erano stati accolti da un ruggito alla
Godzilla, Jasper aveva imbracciato la chitarra. Griff aveva preso
posto alla ba eria ed Elf si era seduta al piano. Dean si era
avvicinato al microfono e aveva urlato: «Grazie Roma, anche noi ti
amiamo! x», come gli aveva insegnato Enzo.
Una ragazza aveva strillato: «Dean, ti voglio, bambino!» o forse:
«Dean, voglio un bambino da te!»
«Grazie a tu i y», aveva de o Dean. «Un’altra canzone?»
Roma aveva urlato a più non posso: «Sìììììì!» e «Yeeeesss!»
Dean si era portato una mano all’orecchio. «Che cosa? z»
p
La risposta aveva fa o più rumore del Comet 4 al decollo.
Questa è una droga, aveva realizzato Dean, e io ne sono
dipendente. Aveva guardato Elf e lei con un’occhiata gli aveva de o:
Sei un sedu ore nato.
«E va bene, Roma. Hai vinto. La prossima canzone è davvero
l’ultima di stasera…»
Un gigantesco gemito di delusione si era abba uto sulla terra.
«Vi prome o però che torneremo in Italia molto presto.»
Il gemito si era risollevato fino a impennarsi in un urlo di gioia.
«Questa è di Jasper. S’intitola ‘Nightwatchman’.»

***

Volavano tappi di champagne. Il profumo di gigli inebriava fino a


dare le vertigini. Erano arrivati molti amici carissimi di Enzo.
Sembrava che metà dei romani lo fossero. Uno di loro aveva
incrociato Dean nel bagno e gli aveva offerto una lunga striscia di
coca di prima qualità. Un’intera galassia gli era esplosa nel cervello.
Un vino purpureo si era sostituito allo champagne. I loro camerini si
erano trasformati in un’enclave VIP, simile a quei locali no urni che
lui si era sempre solo immaginato, con enormi lampadari di cristallo
e donne piene di diamanti che parevano appena sbucate da un film
di James Bond. Gli uomini ridacchiavano oziosamente fumando
sigari e chiacchieravano riuniti in piccoli gruppi. Un ragazzo italiano
bello come se fosse appena uscito da un affresco rinascimentale stava
bisbigliando nell’orecchio di Elf, lei sorrideva. Dean le aveva rivolto
un’occhiata inequivocabile: Ci sta provando, a quanto pare. Elf aveva
replicato con un’altra occhiata: Cosa ci posso fare? Il carissimo amico
di Enzo con la cocaina lo aveva trascinato in un altro bagno per un
altro giro. Mentre un terze o jazz suonava «I Got It Bad and That
Ain’t Good» erano comparsi Enzo e Levon, tu i e due con
un’espressione molto seria. Avevano preso da parte Elf e le avevano
de o qualcosa. Il viso di lei era cambiato. Si era coperta la bocca con
una mano. Levon sembrava smunto, patito. L’a raente corteggiatore
nel fra empo era sparito.
Dev’essere morto qualcuno, aveva immaginato Dean. Si era
avvicinato. «Che succede?» Elf aveva aperto la bocca, ma non
riusciva a parlare. «Il nipote di Elf», aveva risposto Levon. «Il figlio
di Imogen, Mark. È morto all’improvviso nel sonno ieri no e,
quando esa amente non si sa.» Gli altri ospiti continuavano a
folleggiare come se niente fosse accaduto.
«Gesù», aveva de o Dean. «Ventiqua r’ore fa?»
«Il mio assistente me lo ha riferito solo adesso», aveva spiegato
Enzo Endrizzi. «Il telefono aa non funziona bene fra Inghilterra e
Italia…»
Elf stava tremando, aveva l’affanno. «Devo tornare a casa.»
«Ripartiamo domani nel primo pomeriggio», le aveva ricordato
Levon.
«Voglio prendere il primo aereo doma ina.»
Levon aveva guardato Enzo, che aveva annuito. «Si può fare. Il
fratello di un mio carissimo amico è un pezzo grosso dell’Alitalia…»
Elf si guardava intorno, non riusciva a elaborare nessuna
informazione.
«Ti riporto in hotel», le aveva de o Dean. «Devi preparare i
bagagli. Resterò con te, dormirò sul divano…»

La sera s’insinua nella cella. Tagliato dalle sbarre della finestra, il


re angolo di cielo diventa arancione, poi color bronzo. Dean sente
male dappertu o per via del pestaggio. Una lampada smorta
imbullonata al muro sopra la porta eme e una luce tremula. Saranno
le o o? Le nove? La polizia gli ha preso l’orologio.
Mi sa che per stano e resterò qui, pensa il prigioniero.
Si domanda se anche gli altri siano in isolamento. L’aereo su cui
avrebbe dovuto salire il gruppo sarà già a errato a Heathrow.
Elf dev’essere a Birmingham, a casa di Imogen.
Io sarò anche nei guai, ma Imogen sta vivendo l’inferno.
La no e prima né lui né Elf hanno dormito molto. Lei gli ha
raccontato delle tre volte in cui era andata a trovare il nipotino, e di
come l’ultima volta Mark avesse farfugliato qualcosa alla zia. Elf
piangeva. Dean aveva ventilato di andarsene, pensava volesse
rimanere sola, ma lei gli aveva chiesto di restare. Si erano appisolati
per un’ora o poco più. Poi era arrivato il taxi.
Elf starà pensando che sono già a Londra.
Nessuno avrà ancora notato che lui e Jasper non sono a casa. Chi
abita con Griff non avrà lanciato nessun allarme. Domani Bethany ci
me erà un po’ a sentire puzza di bruciato, ma con un pizzico di
fortuna conta erà Enzo Endrizzi nel pomeriggio. Dopodiché sarebbe
arrivata la cavalleria. Lo spero.
Lo sportello all’altezza del pavimento si apre. Spunta un vassoio.
Dean si inginocchia davanti alla porta e parte con una raffica di
domande: «Ehi! Dove sono i miei amici? Dov’è il mio avvocato?
Quanto ancora…»
Lo sportello si richiude. Sente un rumore di passi che si
allontanano. Due fe e di pane spalmate di margarina e un bicchiere
di plastica pieno d’acqua tiepida. Il pane sa di carta. L’acqua sa di
pastelli a cera. Alla faccia della grande cucina italiana.
Il tempo passa. Lo sportello si riapre. «Vassoio bb», dice una voce
maschile.
Dean si accovaccia di nuovo. «Avvocato.»
«Vas-so-io cc.»
«Ferlinghe i. Fer-lin-ghe i.»
Lo sportello si richiude, poi sente sferragliare delle chiavi e
cigolare l’imponente serratura. Entra un grosso polizio o panciuto
con un gran naso e dei gran baffi. Raccoglie il vassoio, lo mostra a
Dean e gli dice: «Vas-so-io».
«Vassoio, okay, ho capito. E tu che mi dici dell’avvocato, di
Ferlinghe i e dell’ambasciata?»
Il grugnito nasale del polizio o equivale a un: Te lo scordi.
«Grazie mille, Roma. Anche noi ti amiamo dd», dice Dean citando la
frase che gli ha insegnato Enzo al Teatro Mercurio.
Il polizio o gli consegna uno striminzito rotolo di carta igienica,
una coperta e se ne va richiudendo la porta con un colpo secco. Dean
si sdraia, gli piacerebbe tanto avere una mela, la chitarra, un giornale
o magari anche un libro. I pensieri gli sussurrano: E se Günther Marx
e la Ilex ti lasciassero in pasto ai lupi? E se Ferlinghe i decidesse di
tenerti in prigione giusto per farsi due risate?
p g g p
La luce sopra la porta si spegne con un clic. Nella cella regna il
buio. Una luce fievole filtra da so o la porta. E questo è tu o.
Perché sono stato così geloso e ipocrita con Amy?

Avrebbe dovuto lasciar perdere, due se imane prima, quando


aveva visto Marcus Daly dei Ba leship Aquarius sbavarle intorno al
100 Club di Oxford Street. Non avrebbe dovuto proporre ad Amy di
andare via, così lei non avrebbe avuto modo di rispondere: «Vai
pure, se vuoi, io resto qui». Questa replica l’aveva obbligato a
lasciare il locale, se fosse rimasto sarebbe sembrato un idiota senza
palle. Quando poi Amy era tornata a casa (casa di Amy, peraltro) lui
non avrebbe dovuto dirle: «Ti sembra l’ora di arrivare?» Era una
frase che avrebbe potuto dire un padre, non un amante. Non
avrebbe dovuto neanche iniziare a interrogarla come un ispe ore di
Scotland Yard. Non avrebbe dovuto definirla una «parassita con la
macchina da scrivere». Non avrebbe dovuto darle della stronza
paranoica quando lei gli aveva de o che sapeva della ragazza
olandese ad Amsterdam. Come faceva a saperlo? Non avrebbe dovuto
scagliare un posacenere di marmo contro il vetro della sua credenza,
stile Harry Moffat dopo tre giorni di bevute. Avrebbe dovuto essere
abbastanza uomo da chiederle scusa il giorno dopo, invece di
starsene rintanato a Chetwynd Mews, invece di me ere Amy nella
condizione di lasciare una scatola con dentro la sua roba alla
Moonwhale. Quando Dean era passato di lì per vedersi con il resto
del gruppo, lo sguardo di Bethany diceva solo una cosa: Vigliacco.
Non poteva darle torto. Non era stato un bel modo di dirsi addio.

Dean si sveglia all’Hotel Cesso. Si sente prudere, si dà un’occhiata


al pe o. È disseminato di morsicature d’inse o e molte sono sporche
di sangue, dev’essersele gra ate mentre dormiva. Cosa non darei per
una sigare a. Si alza e va a pisciare nella turca. La sua urina odora di
brodo di pollo. Ha sete. Fame. Nelle ultime ventiqua r’ore ha
mangiato… un cazzo, ecco cosa. Picchia le nocche contro la porta fino
a sbucciarsele. «C’è qualcuno?» Non arriva nessuno. «C’È
QUALCUNO? » Nessuno. Non mollare.
Ba endo le nocche riproduce il giro di basso di «Abandon Hope».
Rimbombano dei passi. Lo spioncino si apre. A Dean viene in mente
lo Scotch of St James. «Stai morendo? ee» Chissà che cosa significa.
«Acqua, per favore ff», dice.
Parte una raffica di parole in un tono spazientito. Lo spioncino si
chiude di sca o.
Il tempo passa lentamente. Si apre lo sportello destinato al cibo.
La colazione somiglia molto alla cena. Il pane è più secco. In una
tazza di alluminio c’è un po’ di caffè, ma la schiuma in superficie ha
un’aria sospe a, sembrerebbe catarro. Valuta se non sia il caso di
levarla e bere il caffè che sta so o, ma poi immagina la soddisfazione
di Ferlinghe i e decide di lasciarlo intonso sul vassoio. Rifle e su
come i borghesi, i vari Clive e Miranda Holloway sparsi un po’
ovunque, continuino a credere da che vengono al mondo fino a
quando muoiono che tu i i polizio i siano servitori devoti della
legge. E a quel punto dai recenti ricordi di Dean si alza un coro:

’Fanculo gli sbirri!


’Fanculo gli sbirri!
’Fanculo gli sbirri!

DrinDrinDrin!
DrinDrinDrin!
DrinDrinDrin!

Dean si era svegliato al suono del campanello di Chetwynd


Mews. Sentiva la testa pulsare. Il giorno prima, il gruppo aveva
suonato a un festival in un campo dalle parti di Milton Keynes.
Dopo il concerto Elf era ripartita verso Birmingham per andare a
trovare Imogen, Lawrence e Mark, il nipotino nato da poco. Dean,
Griff e Jasper avevano riportato la Belva a Londra, avevano bu ato
giù una pastiglia ed erano finiti all’Ad Lib Club. Jasper si era defilato
a un certo punto con una cavallerizza olimpica di Dulwich, Griff con
una venditrice porta a porta della Avon, e Dean era rimasto da solo a
corteggiare una mezza cipriota dallo sguardo allegro (questo finché
non si era palesato Rod Stewart e gliel’aveva soffiata). Alle due di
no e, della piscina piena di pesci che era l’Ad Lib era rimasta solo
una pozzanghera. Dean era tornato a casa a piedi con il forte
sospe o che i favolosi anni Sessanta non fossero poi questo granché,
neanche per un musicista che era stato in televisione non una ma
due volte…
DrinDrinDrin! «Ehi, Deano, lo so che ci sei, vedo le tue scarpe!»
Kenny Yearwood. Il senso di colpa aveva fa o schizzare Dean
verso la porta. Il suo vecchio amico viveva in una comune di
Hammersmith con una le rice di tarocchi mangia-lenticchie di nome
Floss. Era andato a trovare il suo compagno della scuola d’arte,
nonché compagno di band ai tempi dei Gravediggers, esa amente
una volta. Kenny gli aveva fa o ascoltare un paio di canzoni
tu ’altro che indimenticabili scri e di suo pugno, poi gli aveva
proposto di aggiungere qualche tocco finale e inciderle con gli
Utopia Avenue a nome Yearwood-Moss. Dean aveva riso a quello
scherzo, finché non si era reso conto che diceva sul serio. Non si
erano più visti da allora. In un paio di occasioni, Kenny aveva
telefonato e aveva lasciato de o di richiamarlo, ma Dean si era
autoconvinto di essere troppo impegnato. Quindi c’era stato
l’incidente di Griff, e Kenny era scomparso dalla lista delle cose da
fare.
«Apri. Altrimenti soffierò, soffierò e soffierò fino a spazzare via la
tua casa», vociava Kenny a raverso la fessura della porta come il
lupo dei tre porcellini. Quando Dean aveva aperto, la metamorfosi
radicale di Kenny l’aveva scioccato. Da ex mod di Gravesend era
diventato un hippie londinese: caftano, fascia nei capelli, poncho.
«Puoi scappare, ma non puoi nasconderti per sempre.»
«’Giorno, Kenny. ’Giorno, Floss. Come andiamo?»
«È tardi, scemo, il giorno se ne sta andando. Ed è già
pomeriggio», lo aveva informato Kenny.
«Il pomeriggio della grande manifestazione», aveva aggiunto
Floss.
«Che? Quale grande manifestazione?»
«La più grande manifestazione del decennio», aveva spiegato
Floss, «contro il genocidio americano in Vietnam. Ci riuniamo tu i
in Trafalgar Square e marceremo verso l’ambasciata americana. Vieni
con noi?»
Se il governo degli Stati Uniti era determinato a trasformare una
sventurata nazione asiatica in una valle di lacrime, costringendo a
partire e a comba ere i giovani americani, Dean dubitava che
percorrere a piedi Oxford Street con un fischie o in bocca li avrebbe
convinti a cambiare idea. Prima che riuscisse a rispondere, risalendo
i gradini fino alla porta di Jasper era apparsa una ragazza. In mano
aveva un pacche o di Marlboro e aprendolo aveva de o: «Ciao
Dean, sono Lara. Che ne dici se parliamo camminando? Non voglio
perdere il discorso di Vanessa Redgrave».
Lara sembrava sovrimpressa su quel grigio pomeriggio di marzo.
Indossava un parka nero maschile aperto sul davanti, jeans e stivali.
I capelli neri erano striati di rosso, aveva l’aria di una pronta a tu o.
All’improvviso si era ringalluzzito. «Recupero il cappo o.»

Fuori dalla National Gallery risuonavano discorsi tipo: «La


macchina da guerra americana non si fermerà finché ogni uomo,
donna, bambino, albero, bue, cane, ga o sarà morto…» Trafalgar
Square era piena fino all’orlo di hippie, studenti, sindacalisti,
sostenitori della campagna antinucleare, tro kisti e ci adini di ogni
ordine e grado interessati alla faccenda. «La crisi economica che
stanno vivendo Gran Bretagna e Stati Uniti affonda le radici in
questa guerra suicida in Vietnam…» Centinaia di altre persone
guardavano dai margini della piazza mentre la polizia teneva
d’occhio gli sbocchi su Whitehall e Pall Mall, che conducevano a
Downing Street e a Buckingham Palace. «Siamo venuti fin qui dalla
Germania Ovest per una nuova società e un futuro migliore, in cui
l’imperialismo, la guerra e il capitalismo saranno ormai relegati
all’immondezzaio della Storia…» Con la sua sola presenza, una folla
simile bastava a generare un sordo boato. Kenny aveva ipotizzato
che ci fossero diecimila persone, Floss ventimila, Lara pensava
invece che fossero quasi trentamila. A prescindere da quante fossero
in realtà, riunite tu e insieme vibravano di un’impressionante
energia. Dean sentiva che persino il suo sistema nervoso aveva
iniziato a farne parte, era come una rete ele rica. Un mucchio di
p
bandiere vietcong erano assiepate ai piedi della colonna di Nelson. I
cartelli di protesta si avvicendavano come pagine di un libro: «NO,
NO, IO NON CI ANDRÒ! »; «VITTORIA AI VIETCONG! »; «SIAMO NOI LA
GENTE DA CUI I NOSTRI GENITORI CI METTONO IN GUARDIA ». Dean si
era chiesto se quella roba potesse impedire ai B52 di bombardare i
villaggi vietnamiti. Dopo i discorsi, la folla aveva cominciato a
defluire in Charing Cross Road. Kenny, Floss, Lara e Dean avevano
seguito la corrente. Avevano superato il Phoenix Theatre, Denmark
Street e Selmer’s Guitars, dove Dean, alla buon’ora, era riuscito a
pagare il suo debito. Avevano superato l’ingresso del defunto UFO
Club. Giunta in Court Road, la gente proseguiva a sinistra in Oxford
Street. Una giovane recluta dal volto acneico era spuntata dalla
stazione della metropolitana. «Quanti bambini hai ucciso,
soldatino?» gli avevano urlato con violenza i manifestanti per la
pace, finché, con fare paterno, un polizio o lo aveva fa o rientrare
nella stazione. «Lunga-vita-a Ho Chi Minh! Lunga-vita-a Ho Chi
Minh!» scandiva la folla. L’intera Oxford Street aveva già chiuso
porte e serrande, come se fosse pronta a un’invasione. A Dean
sembrava di aver visto Mick Jagger, ma non ne era sicuro. Floss e
Kenny avevano sentito dire che John Lennon e la sua nuova ragazza,
Yoko Ono, erano lì a marciare insieme agli altri. Quale che fosse la
verità, Dean percepiva una grande forza. Lui e gli altri erano un
tu ’uno. La strada apparteneva a loro. Tu a la ci à apparteneva a
loro.
«Lo senti anche tu?» gli aveva chiesto Lara.
«Sì», le aveva risposto. «Lo sento.»
«E lo sai come si chiama quello che stai sentendo?»
«No, come?»
«Rivoluzione.»
Dean l’aveva guardata perplesso.
Lara aveva continuato a fissarlo. «Noi oggi stiamo marciando con
le suffrage e, con la Colonna Durruti, con i comunardi, i cartisti, le
teste rotonde di Cromwell, i livellatori, Wat Tyler…»
I nomi di quei musicisti Dean non li aveva mai sentiti, ma non
aveva osato amme erlo.
«…con chiunque nella propria epoca abbia mostrato il dito medio
e urlato ‘vaffanculo’ ai succhiasangue che comandano. Le ragioni per
cui ba ersi cambiano, ma la nostra è una forza in divenire, la
titolarità per incarnarla è temporanea.»
«Qual è il tuo cognome, Lara?»
«Perché me lo chiedi?»
«Un giorno sarai famosa.»
La ragazza si era accesa una Marlboro. «Mi chiamo Lara Veroner
Gubitosi.»
«Però. È… lungo come nome.»
«Be’, quasi tu i i nomi della terra sono più lunghi di Dean Moss.»
«Sì, credo di sì. Sei italiana, quindi?»
«Sono di molti posti.»
Avevano girato in North Audley Street, dove i manifestanti si
incanalavano in direzione sud. «Giù-le-mani-dal-Vietnam! Giù-le-
mani-dal-Vietnam!» Diversi volti guardavano la folla dalle palazzine
di Mayfair. A due isolati di distanza c’era Grosvenor Square.
Cordoni di polizio i e una fila di camione e erano schierati come
una muraglia a difesa dell’ambasciata americana, un compa o
bunker modernista di cinque piani sovrastato da un’aquila.
«L’aquila ce l’avevano anche i nazisti, giusto?» aveva chiesto Floss.
La ressa nelle retrovie aumentava a mano a mano che i
dimostranti alla testa del corteo riempivano la strada che circondava
la piazza. La vasta area verde al centro di Grosvenor Square era
prote o da un muro di polizio i. Avevano so ovalutato la quantità
di persone che dovevano tenere a bada. Le vie d’uscita circostanti
erano tu e bloccate, le migliaia di manifestanti che raggiungevano la
piazza non potevano quindi andare da nessuna parte. La gente si era
ammassata contro le barriere intorno al parco, finché non avevano
ceduto in diversi punti, tu e nello stesso istante. Qualcuno era finito
addosso a Dean facendolo cadere, un tacco gli aveva premuto un
ginocchio nella terra soffice. Si era sollevato un boato, come all’inizio
di una partita di calcio o di una ba aglia. Se il resto della giornata
era stato simile a un successo pop estivo, adesso il disco stava
girando, rivelando il sapore più cupo e più rock del lato B.
***

Era stata Lara Veroner Gubitosi a risollevare Dean da terra, e dopo


avergli bisbigliato all’orecchio: «Che la festa abbia inizio», era
scomparsa nella calca. I fischie i impazzavano, il fumo colorava
l’aria. Non riusciva a vedere Kenny e Floss da nessuna parte. Il sole
aveva cominciato a oscurarsi. «’Fanculo gli sbirri! ’Fanculo gli sbirri!
’Fanculo gli sbirri!» Gli agenti che presidiavano il parco erano
arretrati fino alla falange di polizio i davanti all’ambasciata. Chi era
dalla parte di chi? Quali erano le parti? La gente lanciava roba a
raffica, poi c’era stato un rumore di vetri ro i e qua e là delle voci
esultanti: «Abbiamo beccato una finestra!» Di nuovo le voci
esultanti: «Un’altra!» Grida varie. «Ho! Ho! Ho Chi Minh! Ho! Ho!
Ho Chi Minh!» Un terremoto? A Londra? No, erano i cavalli che
caricavano, una decina o anche di più, dri i verso Dean. In sella, i
polizio i agitavano i manganelli come in epoca vi oriana la
cavalleria agitava le spade. La gente si rifugiava so o gli alberi, i
rami erano troppo bassi perché la polizia a cavallo potesse infierire.
Dean si era ge ato nella scia di un cavallo, di un altro e di un altro
ancora, poi era inciampato schivando per un pelo una manganellata
che gli avrebbe sfondato il cranio. A pochi centimetri dalla sua testa,
uno zoccolo era affondato nel terreno. Era sca ato in piedi,
scoprendo di avere un lembo di cuoio capelluto appiccicato a una
mano. Un uomo con una maschera da Lyndon Johnson aveva
lanciato un fumogeno contro la polizia. Dean si era messo a correre
in direzione opposta, ma dopo un a imo non sapeva più che
direzione fosse. La linea di comba imento si spostava di continuo.
«Ho! Ho! Ho Chi Minh! Ho! Ho! Ho Chi Minh!» sentiva recitare a un
volume sempre maggiore. Una squadraccia di sbirri aveva acciuffato
un tizio e ci dava dentro senza freno con i manganelli e le scarpate.
«Allora? Questo è abbastanza pace e amore per te?» Poi lo avevano
trascinato via per i capelli. «Fate largo!» Un polizio o trasportato in
barella con la faccia più insanguinata del bancone di una macelleria.
Dean voleva andarsene subito da Grosvenor Square. Il gruppo
sarebbe dovuto partire per l’Italia entro ventiqua r’ore. Essere
arrestato sarebbe stato un problema, una mano calpestata un
p p
disastro. Dove la trovava però una via d’uscita? La polizia bloccava
l’accesso a Brook Street con un muro di camione e, in cui i
dimostranti venivano indiscriminatamente ge ati. «’Fanculo gli
sbirri! ’Fanculo gli sbirri! ‘Fanculo gli sbirri!» Un cavallo nero si era
parato davanti a Dean impennandosi. A quel punto una mano
l’aveva agguantato per la collo ola e tirato verso un portone.
«Mick Jagger?»
Il soccorritore aveva scosso la testa. «Macché, sono un imitatore.
Ti conviene andare in quella direzione. Questo non è un buon posto
per un lo atore di strada.» Gli aveva indicato l’imboccatura di
Carlos Place, dove la polizia lasciava uscire la gente dalla piazza.
Mentre a raversava la barriera di uniformi, Dean aveva tenuto gli
occhi bassi. Gli era venuto in mente il finale di quella filastrocca: Here
comes the chopper to chop off your head gg. Si era incamminato per
Adam’s Row. Al di là di un’arcata aveva visto tre tizi prendere a
calci un hippie steso a terra. Avevano le teste rasate, come quelle dei
monaci, sulla maglia di uno c’era la bandiera a stelle e strisce. Di che
banda facevano parte? Non erano né mod né rocker né teddy boys.
Si accanivano sulla loro vi ima, raggomitolata in una palla tremante.
Una testa rasata si era accorta che Dean li stava guardando. «Be’? Ne
vuoi un assaggio anche tu, coglione?»
Dean aveva valutato che probabilità avesse di farcela contro di
loro. Se n’era andato…

…come un vigliacco. Rivive quella scena su un materasso infestato


di pulci nella cella di una periferia romana. Kenny era stato arrestato
e si era ro o il naso, aveva scoperto il giorno dopo. E ora tocca a me
passare una no e in cella. Se Harry Moffat lo vedesse in quel
momento, rinchiuso in prigione, si sbellicherebbe dal ridere. «Te
l’avevo de o, cazzo!» O magari no, non lo farebbe. Il giorno prima di
partire per l’Italia, Dean aveva ricevuto una le era di Ray. Un
conta o degli Alcolisti Anonimi aveva rimediato a Harry Moffat un
lavoro come guardiano no urno. Solo un passo falso, tu avia, e
l’avrebbero sba uto fuori. Per il momento, però, è un guardiano
no urno. Come nella canzone di Jasper. Ray dice che è molto cambiato.
Magari ha ragione Ray, ma forse gliel’ho giurata così tanto che non me ne
accorgerei neppure.
Una zanzara entra nel suo campo visivo. Si ferma sulla parete,
vicino alla sua testa. Dean la spiaccica e osserva quel che ne rimane.
Ti sei dimenticato che quel vecchio bastardo prendeva mamma a cinghiate?
Non è un motivo sufficiente per odiarlo per tu a la vita?
Arriva il pranzo. In una tazza c’è della zuppa liofilizzata;
dall’odore non riesce però a capire di che zuppa si tra i. Spera solo
che non ci abbiano sputato dentro. Ci sono anche una mela e tre
bisco i. Non sanno di molto, ma un po’ di zucchero non può che
fargli piacere. Sente dei passi avvicinarsi e una chiave girare. È il
polizio o grosso, gli fa segno di seguirlo. «Vieni hh.»
In Dean si riaccende la speranza. «Mi fate uscire?»
«Hai un visitatore ii.»

La sala degli interrogatori non ha finestre, a illuminarla c’è solo un


tubo al neon chiazzato di mosche vive e morte. Dean si siede al
tavolo, da solo. Al di là della porta sente ba ere a macchina. Due
uomini stanno ridendo. I minuti scorrono lenti. I due uomini stanno
ancora ridendo. Si apre la porta.
«Signor Moss», lo saluta un inglese con un completo chiaro prima
di me ersi a scartabellare i fogli che ha portato con sé. Guarda Dean
da dietro gli occhiali con la montatura dorata. «Mi chiamo Morton
Symonds. Mi occupo di pratiche consolari per conto dell’ambasciata
di Sua Maestà.»
Un ex militare, pensa Dean. «Buongiorno.»
«Non per lei, no davvero.» Se ne sta seduto dri o come un fuso.
Tira fuori un quotidiano, lo me e davanti al ragazzo e gli indica una
foto. «Questo non è il genere di pubblicità che si augurava il suo
signor Frankland.»
Nella foto c’è Dean Moss che viene scortato in mane e fuori
dall’aeroporto. «È un quotidiano nazionale?»
«Senza dubbio, sì.»
Allora, se lo conosco un po’, il mio signor Frankland sarà al se imo cielo.
«Almeno hanno fotografato il mio profilo migliore.»
Morton Symonds lo guarda fisso per un a imo. «Crede che sia
uno scherzo?»
«Non so se è uno scherzo. So solo che il modo in cui sono stato
tra ato è ridicolo. Che ne hanno fa o degli altri?»
«Il signor De Zoet e il signor Griffin sono stati rilasciati senza
accuse. Sono in una pensione jj vicino all’aeroporto. Il signor
Frankland invece lo stanno interrogando in merito a obblighi fiscali e
violazioni del traffico monetario.»
«Sarebbe a dire?»
Morton Symonds sospira. «Non si possono portare cinquemila
dollari fuori dal Paese. Ci sono leggi che lo vietano.»
«Non erano cinquemila. Erano duemila. E poi che c’è di male? Li
abbiamo guadagnati.»
«Questo è ininfluente. E per quanto riguarda lei, è l’ultimo dei
suoi problemi. È accusato di aggressione», controlla un documento,
«aggressione a pubblico ufficiale, resistenza all’arresto e, cosa più
grave, traffico di droga.» Solleva lo sguardo dal foglio. «Pensa ancora
che sia uno scherzo?»
«Una stronzata, ecco cos’è. Sono stati loro a prendermi a pugni.
Vuole vedere?» Dean si alza, solleva la maglia e gli mostra i lividi.
«Io magari avrò anche mollato un calcio a un giornalista perché mi
ha sparato il suo flash in faccia, ma il fumo… me l’hanno piazzato
addosso.»
«Le autorità la pensano diversamente.» Il console fa scorrere lo
sguardo sull’articolo di giornale. «Le leggo cosa c’è scri o: Il capitano
Ferlinghe i della Guardia di Finanza ha dichiarato ai giornalisti: ‘La nostra
gestione di questi teppisti è un messaggio alle celebrità straniere: se violate
le leggi italiane, ve ne pentirete’.» Symonds torna a guardare Dean.
«Rischia il carcere, signor Moss.»
«Ma non ho fa o quello di cui mi accusano.»
«È la sua parola contro quella di un capitano della polizia italiana.
Rischia un minimo di tre anni, se verrà dichiarato colpevole.»
Non possono arrivare a tanto. Non possono. «Avrò un avvocato, o il
processo si farà da solo come per magia?»
«Lo Stato provvederà a farle avere un avvocato. Per così dire. I
tempi della giustizia italiana, però, sono molto più lenti di quelli
p g p p q
inglesi. Resterà dentro almeno dodici mesi.»
«E che mi dice della libertà vigilata?»
«Impossibile. Il giudice la considererà a rischio di fuga.»
«Quindi come mai lei è qui, signor Symonds? Per gongolare
davanti a un buzzurro con i capelli da donna? O magari dà una
mano anche a quelli che non sono andati a Oxford o a Cambridge?»
Symonds si mostra blandamente divertito. «Presenterò una
richiesta standard di clemenza, menzionando la sua giovane età e la
sua inesperienza.»
«E quando lo saprò se la sua richiesta è andata a buon fine?
Oggi?»
«Il lunedì in Italia è un giorno lento. Mercoledì, se tu o va bene.»
«Esistono anche giorni veloci in Italia?»
«No. E le elezioni imminenti non aiutano.»
«Quanto possono tra enermi prima di accusarmi ufficialmente?»
«Se antadue ore. Sempre che un magistrato non disponga una
proroga. Il che è assolutamente verosimile in un caso come il suo.»
«Posso vedere i miei amici?»
«Farò richiesta perché questo avvenga, ma il capitano mi dirà che
non può perme erle di orchestrare qualche storiella.»
«L’unica storia che conosco io è questa: ‘Un duce o corro o ha
piazzato della droga addosso a un ci adino britannico innocente’.
Uno spazzolino posso averlo? E magari anche la mia valigia, lì
dentro ci sono dei vestiti puliti. La mia cella è una latrina,
maledizione.»
«Non è previsto che sia l’Hilton, signor Moss.»
Che imbecille. «Non sto chiedendo l’Hilton. Chiedo un materasso
che non sia pieno di pulci. Guardi i segni dei morsi.»
Symonds dà un’occhiata. «Accennerò al materasso.»
«Non è che per caso ha un pacche o di sigare e da darmi?»
«È contro le regole, signor Moss.»

Di nuovo in cella, le ore scorrono lentamente. Dean immagina


Ferlinghe i immaginare lui che inizia a crollare. L’unica
contromossa concessa a un detenuto è proprio quella di non crollare.
Dean immagina anche di avere una Gibson a tracolla, e ripercorre le
g p
linee di basso in Paradise Is the Road to Paradise, canzone dopo
canzone. Con una chitarra acustica inesistente suona poi «Blues Run
the Game». Immagina l’appartamento in Chetwynd Mews e lo
ispeziona stanza per stanza, in cerca di de agli che non si era reso
conto di avere memorizzato: odori, la sensazione delle assi del
pavimento a raverso le calze, quella pianta, il falangio, la scatole a
di tabacco in cui tiene l’erba, il pirata stampato sulla scatole a, la
resistenza che oppone il coperchio quando la apre. Immagina di
dover immaginare cose per tre anni. Sente aprirsi una crepa dentro
di sé. Basta. Dallo sportello vengono spinti dentro una brocca piena
d’acqua, una scheggia di sapone e uno spazzolino usato. Dean beve
metà dell’acqua e usa quella che avanza per lavarsi alla bell’e meglio
in piedi sulla turca. Rinuncia allo spazzolino. A giudicare dalla
finestra con le sbarre, il suo secondo pomeriggio in ca ività sta
sbiadendo. La lampada si accende. Dean sente una nuova zanzara, la
vede, la segue, la uccide. Scusa, amica, o tu o io. Fa un centinaio di
addominali. Le mutande gli si appiccicano alla pelle. La luce si
spegne. E se da qui non uscissi più? E se non rivedessi più Elf, Ray,
Jasper, Griff, nonna Moss o Bill? Dean si sdraia sul le o. Cigola. No, io
li vedrò ancora. Griff invece suo fratello non lo vedrà più. Imogen non vedrà
più suo figlio. Elf suo nipote. Quelle candele si sono spente, in un soffio. La
mia sta ancora bruciando…

Nel dedalo eterno noto come Roma, un giorno Dean si era


ritrovato in una piazza nascosta. Su un cartello blu arrugginito c’era
scri o: PIAZZA DELLA NESPOLA . Alcuni anziani si sfidavano a scacchi
all’ombra di un albero. C’erano donne che chiacchieravano. Ragazzi
che facevano gli spacconi e ridevano giocando a calcio con le ragazze
che li guardavano. Dean aveva visto un cane con tre zampe. Il caldo
che c’era in quella piazza a Gravesend non lo aveva mai provato. Le
lastre di pietra e il selciato rilasciavano il calore accumulato a
mezzogiorno. Dean aveva sentito un clarine o, non aveva però
capito da che finestra o da che balcone lo stesse chiamando la
melodia. Gli sarebbe piaciuto annotarsi tu o, come facevano Elf e
Jasper. Sapeva che se avesse aspe ato, le idee sarebbero svanite.
Sapeva che avrebbe dovuto tornare in hotel, al di là del fiume, al di
là del ponte, eppure un qualche incantesimo lo tra eneva lì. Su un
muro rosa carne, sull’intonaco scrostato, sui ma oni di terraco a,
c’erano scri e che dicevano: Chiediamo l’impossibile, o Lucrezia ti amerò
per sempre o Oppressione = terrorismo kk. Gli storni si riversavano da
uno spiazzo di cielo all’altro. Un cancello alto e stre o aveva
condo o Dean davanti a sei gradini e poi in una chiesa. L’oro
luccicava nel buio. Nell’aria aleggiava profumo d’incenso. La gente
entrava, accendeva candele, pregava e se ne andava, come in un
ufficio postale. Dean non era religioso, ma in quel momento non
aveva importanza. Aveva acceso una candela per i morti: sua madre,
Steven Griffin e Mark, il nipote di Elf. Un’altra l’aveva accesa per i
vivi: Ray, Shirl e Wayne, nonna Moss e Bill, Elf, Jasper, Levon e Griff.
Stava cantando un piccolo coro. Quelle voci pure e sovrapposte
salivano fino alla volta distante. Dean doveva andarsene, ma una
parte di lui non l’avrebbe mai fa o. Nel ricordo e nel sogno, era
tornato a visitare quella breccia nel tempo e nello spazio. La piazza
era ormai parte di lui. Ogni vita, ogni giro di ruota, aveva in sé un
paio di brecce simili. Un molo su un estuario, un le o singolo so o
un lucernario, un palco con un’orchestra in un parco al crepuscolo,
una chiesa nascosta in una piazza nascosta. Le candele sull’altare
non si consumavano.

Il terzo giorno ha inizio. Martedì. A quest’ora Bethany ed Elf lo sanno


per forza. Le pulci lo avevano di nuovo mangiucchiato. Chissà se
Symonds aveva parlato del materasso a Ferlinghe i. Cosa non darei
per una sigare a. Rod Dempsey aveva raccontato a Dean che un
carcere inglese è come un ostello spartano. Ci sono bande e tribù, ma
se non alzi troppo la cresta ce la fai. Era possibile sopravvivere così
anche in un carcere italiano? Dean non parlava la lingua. E una volta
che fosse uscito cosa sarebbe successo? Dopo essere stato in prigione,
Johnny Cash era riuscito a gestire bene la sua carriera, lui però non
era Johnny Cash. Jasper ed Elf non potevano certo aspe arlo fino al
1971 girandosi i pollici. Sente avvicinarsi dei passi. Lo sportello si
apre. Spingono dentro il vassoio della colazione.
«I miei amici? Il mio avvocato? Ferlinghe i?»
g
Sul vassoio c’è la stessa roba del giorno prima.
«Una nuova cella no?» domanda Dean dallo sportello. «Un nuovo
materasso? L’ambasciatore? Sigare e? Qualcuno che si renda conto
della mia malede a esistenza?»
Lo sportello si richiude. Dean mangia il pane. Si sbarazza della
schiuma che c’è sopra e prova il caffè. Gli vengono in mente la torta
di mele e il merluzzo impanato con le patatine di nonna Moss. Me e
il vassoio vicino allo sportello. «Non bisogna inimicarsi i secondini»,
gli aveva spiegato Rod Dempsey. «Quei bastardi hanno potere di
vita e di morte su di te…»
Dean si domanda se Symonds abbia già fa o richiesta di
clemenza. Si domanda se Elf o Bethany lo credano così stupido da
entrare in un aeroporto con della droga addosso. Si domanda come
vadano le cose a casa della sorella di Elf. Passi in avvicinamento. È
più o meno sicuro che sia il polizio o grosso. Lo sportello si apre. Il
vassoio viene sostituito con mezzo rotolo di carta igienica. Lo
sportello si chiude. Rispe o al giorno prima il rotolo ha più carta.
Significa che non andrò da nessuna parte?
Dean pensa a quella cosa chiamata libertà.
L’ha avuta tu a la vita e non se n’era neanche accorto.
Il tempo passa. E passa. E passa.
Passi in avvicinamento. Lo sportello si apre.
Spingono il vassoio all’interno. Pane, acqua e una banana.
Pranzo. La banana è vecchia, quasi marcia. Dean se ne sba e.
Symonds ha de o che l’accusa a suo carico deve sca are
ufficialmente entro se antadue ore.
Ferlinghe i ha messo in chiaro chi è davvero la legge lì dentro.
Dean lascia il vassoio vicino allo sportello.
Sissignore, nossignore, le spazzo anche il cortile, signore…
I bravi prigionieri potrebbero aver diri o a una banana
supplementare.
Pensavo di aver conosciuto la noia, ma in realtà non avevo idea di che
cosa fosse, maledizione. Non c’è da stupirsi se metà della gente in prigione
si droga.
Non è tanto per sballarsi, ma per ammazzare il tempo prima che il tempo
ammazzi te.
Plotoni di giorni, se imane, mesi e anni si me ono a marciare
verso Dean dal futuro. Una prima udienza. Trasferimento in una
vera prigione. Quando sarò rinchiuso in una cella con uno psicopatico
sessualmente frustrato con tanto di pia ole, mi tornerà in mente questa
noia e penserò: Cristo, quelli sì che erano bei tempi…
S’impone un centinaio di addominali.
Come se servissero a tenerti al sicuro nel braccio di una vera prigione.
Le sue mutande sono in condizioni disgustose. Una borsa piena di
biancheria pulita lo sta aspe ando nella lavanderia a ge oni vicino a
Chetwynd Mews. Sarà fresca, profumerà di detersivo. Ma potrebbe
anche essere sulla luna.

La luna sezionata dalle sbarre illumina il suolo di cemento. Il


terzo giorno è trascorso senza che nessuno gli abbia rivolto la parola.
Quella se imana Dean avrebbe dovuto andare ai Fungus Hut a
registrare il demo di «Nightwatchman». O di «The Hook». Gli
brontola lo stomaco. La cena del giorno consisteva in una brocca
d’acqua, un panino raffermo, un centimetro di salame e un budino di
riso freddo in una tazza. Gli avrebbe fa o piacere un po’ di
conversazione. Ovvio che la gente in prigione perda la testa. «Finché
c’è vita c’è speranza», dicono, ma ogni modo di dire ha un suo lato B
e questo s’intitola «La speranza t’impedisce di ada arti a una nuova
realtà». Dean è un detenuto. Un detenuto non può essere una
popstar. Si chiede se su Melody Maker abbiano parlato del suo
arresto. Probabilmente Amy si sarebbe a enuta a questa linea:
Speriamo che gli italiani bu ino via la chiave. Negli uffici di Fleet
Street le avranno dato il via libera, sempre che qualcuno si sia
accorto che l’autore meno dotato degli Utopia Avenue è in prigione
in Italia. «Ben fa o, Italia! Rinchiudete quella canaglia!» Il pubblico
non crederà alla storia che il fumo gli sia stato messo addosso. Il
pubblico crede a quello che dicono i giornali. Con nonna Moss e le
zie andrà diversamente, magari, ma Harry Moffat ci crederà eccome.
Vorrà crederlo a ogni costo… E se morisse mentre sono in prigione?
Gli alcolisti non hanno fama di essere longevi.
«Harry Moffat per me è già morto», spiega Dean alle pareti della
cella.
Se fosse vero, perché pensi così tanto a lui?
Tanto tempo prima, alla stazione di Gravesend, una banda di
mocciosi aveva lanciato la sua cartella sulle rotaie e lui era tornato a
casa in lacrime. Suo padre l’aveva fa o salire in macchina, poi
avevano girato per Gravesend finché Dean non gli aveva indicato i
bulli. «Aspe ami qui, figliolo.» Harry Moffat era sceso e li aveva
raggiunti. Dean non poteva sentire le parole del padre, ma aveva
guardato le facce dei bambini. Da spavalde si erano fa e livide di
paura. Harry Moffat era rientrato in auto e aveva de o: «Dubito che
ti daranno ancora fastidio, figliolo».
Quando pensava a Harry Moffat come a un mostro le cose erano
più semplici. La luna è scomparsa. La cella è più buia. Forse il cielo
no urno si è rannuvolato. Forse la luna ha cambiato posizione.

Il rumore della pioggia. Quarto giorno. Martedì. No. Mercoledì.


Mercoledì? Oggi deve succedere qualcosa. E perché?
Perché mai dovrebbe succedere qualcosa?
La turca puzza più del solito. Dean piega la coperta della prigione
e si sfrega i denti con lo spazzolino della prigione. E adesso?
Cosa non darei per una sigare a. O anche per un blocco e una penna.
Gli piacerebbe dedicarsi a una canzone, ma se gli venisse in mente
un buon testo e poi se ne dimenticasse non si darebbe pace.
Allora devo fare in modo di ricordarmelo. Inizia da un vecchio canone
blues: Svegliarsi all’Hotel Cesso. No, così non va. La BBC me erebbe
il veto e affosserebbe il singolo. Un’alternativa potrebbe essere… Si
sente sferragliare una chiave nella serratura. Ecco il polizio o grosso
e annoiato che gli fa segno di andare con lui.

Levon si alza non appena Dean entra nella sala degli


interrogatori. È sbarbato di fresco e ha una camicia pulita. Buon
segno. Il polizio o grosso li chiude dentro. «Maledizione», dice Dean,
«mi viene quasi voglia di abbracciarti.»
Levon spalanca le braccia. «Prome o di non perdere il controllo.»
Dean non sorrideva da tre giorni. «Puzzo come un animale. Se mi
avvicino ancora un po’, rischi di svenire. Cosa succede? Dove sono
gli altri? Tu sei fuori?»
g
«Sì. Jasper e Griff stanno bene, sono solo preoccupati per te.»
«Elf?»
«Sì è tenuta in conta o con Bethany. Quello che è successo è
terribile, ovvio. Ma una cosa alla volta. Tu come te la cavi? Ce la fai?»
«Dipende da cosa succederà. Quel tizio, Symonds, ha parlato di
una condanna di tre anni o giù di lì.»
«Stronzate. Gli avvocati di Günther si sono fa i sentire. Anche
prima del gioche o con cui hanno fa o saltare fuori la droga, il tuo
arresto faceva acqua da tu e le parti. Ma non abbiamo molto tempo,
Dean, quindi lasciami andare al punto. Da un momento all’altro
Symonds e il capitano entreranno con una confessione con tanto di
scuse da firmare: ‘Mi scuso per aver preso a pugni quell’agente così
gentile. Non sapevo che la cannabis fosse illegale. Lasciatemi andare
e me erò giudizio’. Firmala e potrai andartene…»
Dean si sente invadere dal sollievo. Sto per tornare a casa.
«Io però ti chiedo di non firmare.»
«Che? Stai scherzando.» No che non scherza. «Perché?»
«Domenica sono riuscito a conta are il console canadese e l’ho
incaricato di fare qualche telefonata a Londra. Lunedì Bethany ha
avuto il suo bel da fare e ha chiamato alcuni nostri alleati, fra cui una
certa signorina Amy Boxer.»
Dean trasecola. «Amy un’alleata?»
«Quando ha smesso di ridere, ha scri o un articolo di trecento
parole sui maltra amenti arrecati agli Utopia Avenue da alcuni
biechi mangia-spaghe i, e l’ha spedito a un amico dell’Evening
Standard, che l’ha pubblicato lunedì stesso.»
Dean è confuso. «Amy ha fa o questo per me?»
«Amy l’ha fa o per Amy, comunque l’ha fa o, ed è questo che
conta. Poi, non appena l’Evening Standard è uscito in edicola, anche il
Mirror si è fa o sentire.»
«La rivista di musica? Il Record Mirror?»
«No, il Daily Mirror. Distribuzione nazionale, cinque milioni di
copie di tiratura. Perciò ieri, a partire da metà ma ina, tu i i suoi
cinque milioni di le ori erano a conoscenza del fa o che Dean Moss,
eroe proletario del pop inglese, stava rischiando trent’anni di
prigione all’estero per un crimine che non aveva commesso.»
p g p
«Trenta? Symonds mi ha de o che probabilmente sarebbero stati
tre.»
Levon fa spallucce. «È colpa mia se non hanno controllato
scrupolosamente i fa i? Ma non hai ancora sentito il meglio: due
pagine d’intervista in esclusiva sull’Evening Standard alla fidanzata di
Dean Moss, la giornalista musicale Amy Boxer. Titolo: La fidanzata
della star dichiara: ‘Che Dio aiuti il mio Dean in quel buco infernale nel
Terzo Mondo’. È il sogno proibito di qualsiasi ufficio stampa.»
«Le ultime parole che le ho sentito dire sono state: ‘Sto per
chiamare aiuto’.»
«Questo è successo nella realtà. Sulla carta, ed è quello che
interessa a noi, le cose sono andate diversamente. Amy si è anche
fa a fotografare in una chiesa ca olica vicina a Soho Square mentre
prega per te.»
«Amy crede in Dio come Mao Tse-Tung.»
«Sapevo già che aveva talento, ma questo è puro genio. Bat
Segundo ha dedicato a te la sua trasmissione e ha fa o ascoltare
‘Purple Flames’, ‘Mona Lisa’ e ‘Darkroom’ una via l’altra. Il Financial
Times ha citato il tuo caso in un articolo dedicato ai ci adini
britannici alle prese con la corruzione degli ordinamenti giuridici
stranieri. Ma il meglio l’ho tenuto alla fine: abbiamo un presidio.»
«Un presidio?» domanda Dean. «Cosa intendi esa amente per
‘presidio’?»
«Duecento fan riuniti dall’alba al tramonto di fronte all’ambasciata
italiana. Cartelli con la scri a: LIBERATE DEAN MOSS . Un altro
ammiratore che vive in un appartamento proprio lì davanti sta
facendo risuonare ininterro amente dalla sua finestra le canzoni di
Paradise. Harold Pinter ha fa o sapere che domani ci sarà anche lui.
E a quanto dice ci sarà anche Brian Jones, sempre che riesca a
scendere dal le o. Elf farà un discorso, malgrado la disgrazia
capitata a Imogen. Persino la meteorologia è dalla tua parte.
L’imbarazzo degli italiani è ai massimi livelli.»
Dean cerca di afferrare tu o quanto. «E come mai gli sbirri non
sono ancora intervenuti?»
«Per via di una peculiarità comunale. All’ambasciata italiana a
Mayfair si accede a raverso una strada senza uscita che è una via
privata, al proprietario occorre quindi una notifica di sfra o per
cacciare la gente. Ci vorrebbero se imane. La polizia, dunque, può
fare la guardia all’edificio ma non può disperdere il presidio.»
Dean sta iniziando a capire. «E al tempo stesso si parla del
gruppo, se ne parla un sacco.»
«Bethany sta cercando di stare dietro alle chiamate dei giornalisti,
ne arrivano a tu e le ore. Comprese quelle dei corrispondenti
americani a Londra. Arrivano valanghe di ordini. Partono vinili su
vinili. Ha telefonato anche Günther. ‘Buongiorno’, ha de o, ‘la Ilex
sta stampando trentamila copie di Paradise.’ E…» Levon lo fissa con i
polpastrelli delle mani che si toccano «…se ti fai un’altra no e dietro
le sbarre, il London Post doma ina spedirà subito qui Felix Finch. Ci
intervisterà, dopodiché si unirà a noi per il tuo trionfale ritorno in
patria. Dovresti uscire venerdì.»
«Il London Post ce la pagherà questa intervista?»
«All’inizio avevano offerto due, ma ho millantato un interesse da
parte di News of the World, al che ci siamo accordati per qua ro.»
«Qua rocento sterline per un’intervista? Cazzarola!»
Levon gli sorride intenerito. «Beata innocenza. Qua ro…mila.»
Dean lo guarda fisso. «Quando si parla di affari, non scherzi mai,
vero?»
«Non scherzo, infa i. La cifra l’ho proposta io. Metà dei
qua romila andranno a te. Sei tu l’uccellino in gabbia. I duemila che
restano andranno a compensare la paga dei concerti che si è
intascato Ferlinghe i, quindi anche di questi ti spe erà il venti per
cento. Lo trovi acce abile?»
Duemila sterline in cambio di sei giorni in cella a farmi mordere il culo
dalle pulci? È più di quello che Ray guadagna in un anno. «Merda, sì.»
Entrano in scena Symonds e Ferlinghe i.
«Signor Symonds, capitano Ferlinghe i», li saluta Dean.
Si siedono. A parlare è Symonds: «Il signor Frankland le avrà già
fa o presente quanto è fortunato a potersela cavare così, con una
semplice lavata di capo». Ferlinghe i me e di fronte al ragazzo una
penna e un foglio scri o a macchina. I vari paragrafi sono sia in
p g p g
inglese sia in italiano. Dean lo esamina, scoprendovi parole come
confesso, misfa o, non provocato, possesso di cannabis, chiedo scusa e
tra ato con dignità.
Strappa in due la confessione. A Ferlinghe i casca la mandibola
come a un ca ivo dei cartoni animati. Cercando di non darlo a
vedere, Symonds fa un respiro profondo. L’espressione di Levon è
chiara: Bravo il mio ragazzo.
«Non vuoi andare a casa?» domanda Ferlinghe i.
«Certo che voglio», dice Dean rivolto a Symonds, «ma non ho mai
picchiato uno sbirro e la cannabis mi è stata messa addosso. Magari
adesso mi crede. Se fossi davvero colpevole, lei non sarebbe qui,
no?»
Symonds sembra preoccupato. «Lo Stato italiano le sta
concedendo la grazia. Le consiglio di acce are.» Ferlinghe i sciorina
una serie di vocaboli dal suono pungente all’indirizzo del
funzionario. Symonds resta seduto tranquillo fino a quando il
capitano non ha finito. «Non è scontato, mi ha appena de o, che la
grazia le venga offerta di nuovo.»
«Allora non ci siamo capiti», replica Dean. «La polizia italiana mi
ha conciato per le feste. E questo…» Dean indica il capitano senza
guardarlo negli occhi «…questo Ferlinghe i, qui, mi ha piazzato
addosso della droga. Non voglio nessuna grazia, caro Symonds.
Voglio delle cazzo di scuse e le voglio per iscri o. Finché non le
riceverò», si alza e unisce i polsi come se fossero pronti per le
mane e, «me ne resto qui all’Hotel Cesso.»
Ferlinghe i sembra furioso ma anche preoccupato, nota Dean.
Symonds parla con Levon: «Se cerca pubblicità, devo avvisarla:
sta giocando una partita a poker molto rischiosa, e la posta in gioco è
la libertà del ragazzo».
«Solo un momento.» Levon scarabocchia rapidamente qualcosa
sul suo blocche o. «L’editorialista Felix Finch del Post, che arriverà
domani, mi ha chiesto nel fra empo di prendere nota di come
evolvono i fa i. Dunque, dicevamo… ‘poker’ e ‘pubblicità’. Ma no,
no, stia tranquillo, questa è una decisione di Dean. Io gli avevo
suggerito di acce are quel patetico compromesso. Tu avia, come
vede, è un uomo con una robusta fibra morale.»
«Tu o sommato, lei è un tipo a posto, signor Symonds»,
interviene Dean. «È solo che siamo partiti con il piede sbagliato, e di
questo mi scuso, ero spaventato. Adesso però mi guardi negli occhi.
Se lei fosse nei miei panni, cioè innocente, la firmerebbe quella
confessione?»
Il console di Sua Maestà tira su con il naso, guarda altrove, torna a
guardare Dean, si prende per un a imo il naso fra le dita e fa un
respiro profondo…

Albert Murray, membro del Parlamento che alla Camera dei


Comuni rappresenta Gravesend, accoglie il volo BA546 sulla pista di
Heathrow insieme al fotografo del Post. Il cielo serale ha l’intensità e
i colori di una dirompente ba aglia. Dean, Levon, Griff e Jasper
(ancora scombussolato per il volo) vengono fa i accomodare accanto
a Murray per le presentazioni e le stre e di mano di rito, non prima
però che cinquanta, sessanta o se anta ragazze, adocchiando il
gruppo dalla pia aforma panoramica in cima all’aeroporto, strillino
«Deeeaaan!» Lungo la balaustra c’è uno striscione: BENTORNATO
DEAN . Lui si sbraccia per salutarle. Ad accogliere i Monkees e i
Beatles le ragazze sono centinaia, ma senz’altro anche loro avranno
iniziato da qualche decina. Non può fare a meno di notare che sullo
striscione c’è scri o Dean, non Jasper e non Griff. «Deeeaaan!»
urlano.
Levon lo obbliga a girarsi verso il parlamentare. «Il fa o che lei
abbia trovato il tempo per essere qui ha profondamente colpito il
gruppo, signor Murray. E anche per aver allestito un cielo così
sfolgorante in occasione del ritorno a casa di Dean.»
«Niente è mai troppo per un eroe di Gravesend. Prima eravamo
orgogliosi della sua musica, ma adesso a renderci orgogliosi è la sua
tempra.»
S’introme e Felix Finch. «Sono Felix Finch, signore, editorialista
della rubrica ‘Qua ro chiacchiere con Finch’. Può dire qualcosa in
più ai nostri le ori sulla tempra di questo ragazzo?»
«Con piacere. La Gestapo italiana ha fa o l’impossibile per
spezzarlo, ma si è forse spezzato, lui, il nostro Dean? Col cavolo. Di
tanto in tanto leggo la sua rubrica, Finch, so bene quindi che
politicamente le nostre convinzioni sono alquanto diverse. Ma anche
se io sono un socialista e lei un conservatore convinto, non possiamo
non essere d’accordo sul fa o che a Roma, in quella cella dimenticata
da Dio, Dean abbia mostrato il vero spirito di un mastino britannico.
È così o no?»
«Non si può che darle ragione.» La penna di Finch registra ogni
parola appena pronunciata. «Ha reso l’idea in maniera superba.
Davvero superba.»
«Bene», dice Albert Murray. «È il momento di sca are qualche
foto.»
L’editorialista, il politico, l’agente e gli Utopia Avenue restano
immobili mentre i flash impazzano e li abbagliano.

***

Un ufficiale dell’aeroporto scorta il gruppo a raverso l’entrata VIP.


L’adde o al controllo passaporti comunica a Dean che non è
necessario che mostri il suo, in compenso gli chiede se può scrivere
A Becky, con affe o e fare la sua firma sull’album degli autografi della
figlia. Dean non ha niente in contrario. Alcuni gradini li portano in
un corridoio, poi ci sono altri gradini e infine una stanza, a igua a
una piccola sala conferenze che, a giudicare dal rumore, sembra
stracolma. Lì, ad aspe are Dean e gli altri, ci sono Elf, Bethany, suo
fratello Ray, Ted Silver, Günther Marx e Victor French della Ilex. Per
prima cosa, Dean abbraccia Elf. Sembra svuotata, così come lo era
Griff nei giorni successivi alla morte di Steve. «Grazie per essere
venuta», le mormora.
«Bentornato, galeo o. Sei dimagrito.»
«Lo sapevo che te la saresti cavata in Italia», dice Bethany.
«Nonna Moss, Bill e le zie ti mandano un bacio», gli fa Ray. «Si
stavano già organizzando per farti evadere, non scherzo.»
«Con quello che ha fa o, Enzo Endrizzi è diventato il truffatore
più famoso d’Europa», dice Ted Silver. «A livello professionale è
stato un suicidio.»
«Non è che hai scri o una di quelle ballate da carcerati?» chiede
Victor French.
«Potremmo lanciarla prima del prossimo album», aggiunge
Günther.
Dean rifle e sulla frase. «Prossimo album?»
Il tedesco sta quasi sorridendo. «La tra ativa è a ualmente in
corso.»
Non pensavo che per oggi potesse andare ancora meglio. Dean guarda
Levon, che glielo conferma. «Günther ha insistito per darti
personalmente la buona notizia.»
«Varrebbe la pena di finire in galera più spesso», commenta Griff.
«La prossima volta, però, dentro ci finisci tu.»
Il ba erista sghignazza. Jasper sembra contento come non mai. Elf
è difficile dirlo. Victor French sta spiando la sala accanto da una
veneziana. «Ehi, venite a vedere.» Gli Utopia Avenue e il loro agente
vanno a dare un’occhiata. In a esa della conferenza stampa, fra
reporter e fotografi devono esserci una trentina di persone. Davanti
c’è una telecamera, e su un lato della telecamera c’è scri o: THAMES
WEEKEND TELEVISION .
«Si apre un nuovo capitolo», osserva Levon.

a. Fai rotolare via la pietra.


b. In italiano nel testo.
c. In italiano nel testo.
d. In italiano nel testo.
e. In italiano nel testo.
f. In italiano nel testo.
g. In italiano nel testo.
h. In italiano nel testo.
i. In italiano nel testo.
j. In italiano nel testo.
k. In italiano nel testo.
l. In italiano nel testo.
m. In italiano nel testo.
n. In italiano nel testo.
o. In italiano nel testo.
p. In italiano nel testo.
q. In italiano nel testo.
r. In italiano nel testo.
s. In italiano nel testo.
t. In italiano nel testo.
u. In italiano nel testo.
v. In italiano nel testo.
w. In italiano nel testo.
x. In italiano nel testo.
y. In italiano nel testo.
z. In italiano nel testo.
aa. In italiano nel testo.
bb. In italiano nel testo.
cc. In italiano nel testo.
dd. In italiano nel testo.
ee. In italiano nel testo.
ff. In italiano nel testo.
gg. Ecco che arriva la mannaia che ti taglierà la testa.
hh. In italiano nel testo.
ii. In italiano nel testo.
jj. In italiano nel testo.
kk. In italiano nel testo.
Even the Bluebells a

Il taxi se ne va. Elf guarda la casa di Lawrence e Imogen. Ai piedi ha


la valigia. Intorno al portico è fiorito il caprifoglio. Nel viale o,
parcheggiata dietro la Morris di Lawrence, c’è la Rover di suo padre.
La terza macchina dev’essere quella dei genitori di Lawrence. Elf
non ha dormito, la giornata è stata una macchia indistinta. I saluti a
Dean e agli altri a Roma, il viaggio in auto fino all’aeroporto, il volo,
a raversare Heathrow, l’autobus fino a Birmingham, il taxi che
aveva preso dopo, per tu o il tempo non ha fa o che pensare: Più
veloce, più veloce. Adesso che è lì, tu avia, il coraggio l’ha
totalmente abbandonata. Che cosa devo dire a Immy? Che cosa posso
fare? Il tardo pomeriggio di aprile è crudelmente perfe o. A
pochissima distanza risuona il canto di un tordo. A un tra o le viene
in mente la parola «trenodia». Se una volta ne conosceva il
significato, ora non lo sa più. Non ti sentirai mai pronta per una cosa
simile, quindi tanto vale che ti muovi. Prende la valigia e s’incammina
verso la porta. Le tende della camera da le o al primo piano sono
tirate, tamburella quindi sulla finestra vicina all’entrata senza fare
troppo rumore, casomai Imogen stia dormendo. Una tenda di tulle si
scosta e a pochi centimetri da lei spunta il volto di sua madre.
Normalmente le si sarebbero illuminati gli occhi, ma quel giorno non
ha niente di normale.

Lawrence e i genitori, Bea, suo padre e sua madre la accolgono in


soggiorno. Sono tu i lì che sospirano. Imogen è di sopra «a
riposare». Suo marito ha un aspe o pietoso, è distru o. Rispe o a
quando Elf è andata a trovarli due se imane prima sembra
invecchiato di cinque anni. Gli dice che le dispiace, e a colpirla è
quanto quella frase suoni inadeguata. Lawrence l’asseconda con un
q q g
cenno del mento. Dal padre di Elf e dal signor Sinclair trapela
incertezza, incertezza su ciò che è giusto lasciar trapelare. Gli occhi
di sua madre, della signora Sinclair e di Bea sono rossi e gonfi di
lacrime. Bea porta Elf in cucina. «Mark si era addormentato. Immy lo
aveva alla ato venerdì a mezzano e e poi l’aveva messo a nanna. Lei
e Lawrence se n’erano andati a le o. Quando Immy si è svegliata alle
sei e mezzo, ha pensato: Bene, Mark ha dormito come un sasso.
Allora è andata da lui.» Bea chiude gli occhi e inizia a piangere.
Inspira, espira, inspira, espira. Elf l’abbraccia. «Dunque, sì, Mark era
al suo posto, nella culla dove l’aveva lasciato. Solo che… non era
vivo.»
Il bollitore ele rico ha finito di scaldare l’acqua e si spegne.
«Lawrence ha chiamato l’ambulanza, ma… per Mark era troppo
tardi. Hanno dato un sedativo a Immy. Lawrence ha telefonato
subito ai suoi, e loro hanno telefonato a mamma e papà. Sono
arrivati ieri, io stama ina. Papà ha chiamato l’ospedale dove
avevano portato Mark.» Bea ha un nodo alla gola, deglutisce
rumorosamente. «Il medico ha de o che la causa potrebbe essere
stata un dife o congenito del cuore, ma bisogna aspe are l’autopsia,
domani o martedì, dipende…» la sua concentrazione vacilla «…
dipende da quanta gente è morta a Birmingham nel fine se imana.
Scusa. Non so trovare un modo più delicato di dirlo. Non ho
dormito.»
«Neanch’io. Non ti preoccupare.»
Bea prende un fazzole o di carta. «Ne abbiamo consumati pacchi
interi. Per un po’ non dovrò perdere tempo a truccarmi.»
«Immy l’hai vista?» chiede Elf.
«Solo pochi minuti stama ina. Sta da schifo. Ieri ha dormito quasi
tu o il giorno. Restare sveglia per lei è una tortura. Sta prendendo il
Valium. Per pochi minuti ha visto anche mamma. Lawrence fa
dentro e fuori dalla sua stanza, giusto per… tenerla d’occhio. Ieri ho
chiamato la Moonwhale alle… boh, saranno state le due. Bethany ha
conta ato l’ufficio del vostro promoter italiano, e mi ha richiamato
per farmi sapere che aveva lasciato un messaggio alla sua segretaria
a Roma… Cosa c’è, Elf?»
Elf si rende conto in quel momento che Enzo Endrizzi sapeva di
Mark prima del concerto al Mercurio e che però non le aveva de o
nulla. Così non ha dovuto annullarlo. «Io l’ho saputo solo… verso
mezzano e.»
«Be’, non avrebbe fa o nessuna differenza. Preparo un po’ di tè.
Devono esserci dei bisco i allo zenzero da qualche parte…»
Un rumore di passi, qualcuno sta scendendo le scale. È Lawrence.
«Dice che le farebbe piacere vederti, Elf. Solo te per il momento.» Elf
scalpita, ma si sente anche in colpa, perché a essere convocata è lei,
non Bea, e nemmeno le due madri sulle spine. «Ora?»
Lawrence annuisce. «Sì, sempre che tu, insomma…»
«Ma certo», replica Elf. «Certo che sì.»
«Preparo una tazza di tè anche per lei, la me o su un vassoio»,
dice Bea.
«Parlare con sua sorella le farà bene», commenta il signor Sinclair.

Elf sale le scale ricoperte di moque e fino al piano superiore.


Guarda le le ere M, A, R e K sulla porta della camere a. Rivedere
quelle le ere è doloroso, ma rimuoverle lo sarà ancora di più,
immagina Elf. Dà una rapida occhiata all’interno. Le stesse pareti,
due blu e due rosa. Gli anatroccoli da tirare con la corda, la semplice
croce appesa, i pannolini impilati sul fasciatoio. Nell’aria c’è ancora
profumo di borotalco. L’orsacchio o che ha comprato Elf, e che ha
ba ezzato John Wesley Harding, è ancora sulla casse iera.
Mark è morto. Lui e tu i i Mark futuri: un bimbo che impara a
stare in piedi, un ragazzino che marina la scuola, un giovano o che
si sistema i capelli per il primo appuntamento, un uomo che lascia la
sua ci à natale, un marito, un padre, un vecchie o che, guardando la
televisione, esclama: «Il mondo ha completamente perso la testa!»
Nessuno di loro sarebbe più esistito. Elf appoggia il vassoio. Si
ricompone. Percorre il pianero olo fino alla camera da le o.
«Immy?»

«Elf?» Imogen, distru a dal dolore ed esausta, è distesa nel le o


con un cuscino a sostenerle la testa. È in camicia da no e, sopra
indossa una vestaglia. Ha i capelli arruffati. È la prima volta in tanti
anni che Elf la vede senza un filo di trucco. «Sei qui.»
«Sì, sono qui. E Bea ci ha preparato un tè.»
«Mmm.»
Elf si avvicina al comodino con il vassoio. Nota un posacenere e
un pacche o di Benson & Hedges. Imogen ha smesso di fumare da
tre anni. «Sto prendendo il Valium», dice lentamente con voce fiacca.
«È come la marijuana?»
«Non lo so. Il Valium non l’ho mai preso.»
«È vero che sei tornata oggi in aereo dall’Italia?»
«Ma certo.»
«Sarai stanca.» Le indica la poltrona davanti alla grande finestra.
Su quella stessa poltrona la madre aveva alla ato Imogen, Elf e Bea.
Era sempre su quella poltrona che Imogen, per se e se imane, aveva
alla ato Mark.
Il sole filtra a raverso la tenda con le margherite.
Elf si ricorda di respirare. «Non so cosa dire, davvero.»
«Mi hanno de o: ‘Mi dispiace tanto’. Mi hanno de o: ‘È terribile’.
Mi hanno de o: ‘È come un bru o sogno’. Per lo più le persone
piangono. Ha pianto anche papà. Mi è sembrato così strano che per
qualche secondo non ho pensato a Mark. Le persone sono… sono…
Scusa, non riesco a finire bene le frasi.»
«Valium e dolore fanno questo effe o, credo.»
Imogen si accende una sigare a e sprofonda di nuovo nel cuscino.
«Ho ripreso a fumare.»
«Non sarò certo io a farti la predica. Fumo più o meno venti
sigare e al giorno.»
«Si può piangere fino a non avere più lacrime. Lo sapevi?»
«No», risponde Elf. Apre la finestra per cambiare l’aria.
«È come quando continui a vomitare finché non rimane più niente
nello stomaco, però vai avanti a vomitare ed è solo aria. È andata
così, ma con le ghiandole lacrimali. Come in quella canzone, ‘Cry Me
a River’. Chi è che la canta?»
«Julie London.»
«Julie London, giusto. Sto imparando un sacco di cose. Mark era
avvolto nella sua copertina di Winnie the Pooh, e quando quello
p q q
dell’ambulanza doveva portarlo via, le mie braccia, il mio corpo, non
volevano saperne di lasciarlo. Le braccia lo serravano in una morsa.
Come se servisse a qualcosa, a quel punto. Dov’ero invece quando il
suo cuore ha smesso di ba ere? Qui. Qui che dormivo.»
Elf cerca di nascondersi gli occhi. «Meglio se non pensi a certe
cose.»
«E come faccio, Elf? Tu riesci a controllare i tuoi pensieri?»
«Non troppo. Ma distrarsi aiuta, almeno un po’.»
«Mi fa male il seno. Continua a produrre la e, non si è ancora
reso conto di quello che è successo. Il medico mi ha de o che per far
uscire il la e devo usare le mani o mi verrà la mastite. Questa storia
puoi usarla, casomai volessi scrivere la canzone più triste del
mondo.»
Elf sente affiorare le lacrime. Prende una sigare a della sorella.
«Una canzone simile non la scriverò mai e poi mai.»
Lo sguardo di Imogen raggiunge Elf dopo aver a raversato un
vuoto. «Sembro ma a?»
Con la luce della sera, i fiori in boccio fuori dalla finestra sono
belli da spezzare il cuore. «Non sono una psicologa», dice Elf, «ma
sono quasi certa che i veri ma i non si chiedono se stanno
impazzendo. Immagino che… lo siano e basta.»
Il respiro debole di Imogen si fa ancora più distante. «Tu sai
sempre qual è la cosa giusta da dire», mormora.
Elf guarda la sorella addormentarsi. «Fosse vero.»

A decorare il Cricketer’s Arms Hotel, vicino alla rotonda di


Sparkbrook, ci sono cimeli del mondo del cricket, foto d’epoca e
alcune mazze autografate esposte in piccole teche. Bea, Elf e il padre
dormono lì, e stanno cenando nel ristorante dell’albergo. Elf racconta
in maniera succinta del tour italiano del gruppo, e il padre si sforza
di descrivere la serata di gala al Rotary Club di Richmond. Bea parla
del ruolo che dovrà interpretare di lì a poco, Abigail Williams, la
malvagia protagonista de Il crogiuolo di Arthur Miller. Il
drammaturgo terrà un paio di lezioni nella sua scuola la se imana
successiva. Parlare del più e del meno come stiamo facendo, rifle e
Elf, è come riempire le crepe con lo stucco per non vedere che si
p p p
allargano. Arriva il cibo. Pasticcio d’agnello e piselli per suo padre,
omele e e insalata per Bea, minestra per lei. In quella minestra, a
pezze ini, c’è tu o quello che si trova sul menu.
«È terribile vederla così», dice Bea.
«È terribile non poter fare niente», commenta Elf.
«Non è sola ad affrontare la cosa», interviene il padre. Fuori
dall’hotel, oltre il parcheggio, le macchine imboccano
incessantemente la rotonda. «Vostra sorella non soffrirà così per
sempre. Prima o poi tornerà quella di prima, ed è nostro dovere fare
in modo che questo accada. Ma adesso cosa vi prende, tesorini?»
Nel vedere Bea in lacrime, Elf non è riuscita a tra enere le sue.
«Alla faccia delle mie sagge parole di conforto», commenta il
padre.

I tre membri della famiglia Holloway hanno il salo ino


dell’albergo tu o per loro. Bea ed Elf si scordano di fingere di non
fumare, e il padre si scorda di manifestare il suo disappunto. Il
telegiornale mostra la polizia francese che irrompe nel Quartiere
Latino per abba ere le barricate dei dimostranti. Gas lacrimogeni,
lanci di pietre, centinaia di feriti, centinaia di arresti. «È così che
volete costruire un mondo migliore?» domanda il padre di Elf.
«Tirando pietre alla polizia?»
A Bonn, una folla di studenti aveva marciato fino al parlamento
per protestare contro le nuove misure d’emergenza. «Se fosse per
me», dice il padre, «gli darei un Paese tu o per loro. Il Belgio, per
esempio. ‘È tu o vostro’, gli direi. ‘Toccherà a voi garantire il cibo a
milioni di persone, occuparvi delle fogne, delle banche, dell’ordine
pubblico e delle scuole. Di tu a la roba noiosa e pratica. Apparecchi
acustici. Chiodi. Patate.’ Dopo dodici mesi voglio proprio vedere che
razza di porcheria ne verrebbe fuori…»
In Vietnam, i nordvietnamiti avevano conquistato un avamposto
americano, Kham Duc. Nove aerei militari degli Stati Uniti erano
stati abba uti, centinaia di soldati e di civili erano stati uccisi. «Il
mondo», dichiara il padre di Elf, «ha completamente perso la testa.»
Le due figlie si scambiano un’occhiata. Capitava di rado che il
padre guardasse il telegiornale senza pronunciare quella frase a un
p g g p q
certo punto.
«Io vado a le o», dice Elf. «È stata una giornata pesante.»

Il lunedì è nuvoloso. Elf telefona dall’albergo alla Moonwhale per


chiedere a Levon di annullare i concerti della se imana. In vita sua
non ha mai cancellato un’esibizione di cui siano già stati venduti i
biglie i. Il telefono della Moonwhale è occupato. Girando intorno al
campo da cricket, il padre accompagna lei e Bea a casa di Imogen. La
madre li fa entrare.
«Com’è andata ieri sera?» sussurra il marito.
«Da schifo, più o meno.»
«Possiamo vederla?» chiede Bea alla madre. «È sveglia?»
«Più tardi, tesoro. Dorme ancora. Lawrence e suo padre sono
andati all’ospedale a parlare con il medico per l’autopsia.»
«Bene», dice il padre di Elf. «Allora, vediamo. Quel prato ha
bisogno di essere tosato.» Bea ed Elf stendono la biancheria in cortile
ad asciugare, poi vanno a fare le spesa e a comprare le sigare e. Alla
radio, dal giornalaio, c’è Shandy Fontayne che canta «Wal for My
Guy». Bea guarda Elf che commenta: «Rido per non piangere».
Compra un pacche o di Benson & Hedges per Imogen e l’ultimo
numero di Melody Maker. Di ritorno a casa, trovano la sorella al
pianoterra, sta fissando il puzzle con il campo di tulipani e il mulino
a cui si sta dedicando la madre. A Elf farebbe piacere poterle dire: Ti
trovo meglio, sarebbe però una spudorata menzogna. Elf cerca di
richiamare la Moonwhale, ma la linea è ancora occupata. Prova
allora a telefonare a casa di Jasper e nessuno risponde. Forse c’è
qualcosa che non va, si chiede, ma poi si dice che non è il caso di
essere paranoica. Quando i Sinclair arrivano, Elf e Bea stanno
preparando un’insalata. Entrano dalla porta sul retro. «Be’», riferisce
il padre di Lawrence, «sul certificato il medico ha scri o Morte
improvvisa del la ante. Il che significa tu o e niente.» Si sente un forte
singulto. Imogen è lì, con le mani sulla bocca.
«Oh, cara», dice mortificato il signor Sinclair. «Non ti avevo visto,
io…»
Imogen si gira, vorrebbe correre di sopra, ma a bloccare la strada
c’è la madre, dunque fa una giravolta e, sbandando a raverso la
q g
cucina, si precipita in giardino.
«Credevo fosse di sopra», si giustifica il padre di Lawrence.
«È colpa del messaggio, non del messaggero», lo rassicura la
madre di Elf. «Vado fuori, voglio stare con lei.»
Elf prepara una vinaigre e, Bea affe a i cetrioli. Il rumore della
falciatrice si interrompe. A un certo punto, la madre rientra, sembra
scossa. Con lei c’è il padre. «Immy preferisce stare da sola.»
«Non so davvero dirvi quanto mi dispiaccia», ribadisce il signor
Sinclair.
«Non c’è nulla di cui sentirsi in colpa», dice il padre di Elf. «In un
modo o nell’altro doveva pur saperlo, e adesso che è fa a potrà…
elaborare la notizia. È un bene che sia andata così.» Si sposta in
soggiorno, deve chiamare in ufficio.
In cerca di un po’ di musica di so ofondo, Bea accende Radio 3.
C’è un pezzo di Mozart, vivace e arzigogolato.
Imogen rientra dal giardino con gli occhi arrossati, distru a. È
come una pièce teatrale, pensa Elf. Uscite ed entrate non stop.
«Mangia un po’ d’insalata, cucciola», dice la signora Sinclair.
«Non ho fame.» Imogen va di sopra e Lawrence la segue.
Elf ricorda il pranzo in Chislehurst Road per il loro fidanzamento
l’anno prima, a febbraio. Se avessimo potuto leggere il copione del futuro,
non avremmo mai girato pagina. «Credo che farò un salto fuori»,
annuncia la madre. «Darò un’occhiata a qualche negozio. Un po’
d’aria mi farà bene.»
Elf e Bea lavano i pia i. Pochi minuti dopo sentono Imogen
singhiozzare.
«È un momento durissimo», dichiara il signor Sinclair.
«Il più duro in assoluto», concorda il padre di Elf.
Su Radio 3 parte un notiziario. A Parigi, per tu a la ma inata,
sono proseguiti tumulti e arresti. «A noi l’istruzione universitaria
non è stata servita su un pia o d’argento. Non è così, Ron?»
«Il problema è proprio questo, Clive. Siccome gli è stata servita su
un pia o d’argento, non si rendono conto di quanto valga. Spaccano
tu o come bambini viziati. Tu a colpa della teppaglia di sinistra. Da
noi alla British Leyland, appena i dirigenti si fanno vedere, vengono
insultati e bersagliati di uova. Dove andremo a finire?»
g
«Il mondo», aggiunge il padre di Elf, «ha completamente perso la
testa.»
«Hai visto roba simile, Elf, la se imana scorsa in Italia?» chiede il
signor Sinclair.
La ragazza spiega che per una se imana non hanno fa o altro che
viaggiare in furgone, prepararsi per il concerto in programma,
suonare e cercare di assicurarsi qualche ora di sonno prima di
rime ersi in marcia il giorno dopo. «Se i marziani avessero invaso la
Terra non ce ne saremmo accorti.»
Dopo il caffè, Bea annuncia che tornerà in hotel. «Qui non avete
bisogno di me. E devo scrivere una tesina su Brecht.» Infilandosi il
cappo o, aggiunge: «Vado a piedi», me endo così fine alla
discussione sorta fra il padre di Elf e quello di Lawrence su chi
debba riaccompagnarla in macchina al Cricketer’s Arms.
Un po’ più tardi, Lawrence scende le scale sospirando. «Ha preso
una pillola. Adesso dorme.» Anche lui esce di casa.
«Niente di meglio di un po’ d’aria fresca», dice il padre di Elf.
«Ben de o», concorda il signor Sinclair. «Ben de o…»
Elf prova a chiamare la Moonwhale per la terza volta. La linea è
ancora occupata. Ritenta con la Duke-Stoker Agency. Nulla. Cerca
nuovamente di telefonare a Jasper. Nessuno risponde. Chiede al
padre se per caso quel giorno è festa. «Direi proprio di no, tesoro.
Perché me lo domandi?»
È come se gli Utopia Avenue avessero smesso di esistere. «No, niente.»

***

L’aria tiepida odora di erba appena tagliata. Elf prende dal capanno
degli a rezzi guanti e cesoie e va in fondo al giardino a occuparsi di
rovi ed erbacce. Le fronde del salice ondeggiano. Le campanule
spuntano dal terreno argilloso delle Midlands, e un tordo cingue a
nelle vicinanze. Sarà lo stesso di ieri? Continua a non mostrarsi. Elf
pensa al suo appartamento, vuoto da una se imana, spera che non
sia successo nulla di spiacevole. La porta è solida e la finestra
inaccessibile, ma Soho è Soho. La bo iglia di la e che aveva nel frigo
sarà ormai diventata yogurt.
y g
«Hai saltato un pezze o.» È la voce di Imogen.
Elf solleva lo sguardo. La sorella si è messa un montgomery sopra
la camicia da no e e ai piedi ha degli stivali di gomma. Il barlume di
umorismo che trapela dalla sua osservazione è del tu o assente sul
suo volto. «Le ortiche non le strappo. Servono alle farfalle. Il tuo è un
nuovo look alla moda o che?»
Imogen si siede sul mure o che divide la parte più alta del prato
dal fondo del giardino, basso e fangoso. «Prima ero un po’
frastornata.»
«Hai il diri o di essere frastornata quanto ti pare.»
Imogen guarda la sua casa. Spezza un ramoscello.
«Vuoi che dica a tu i di lasciarti in pace?» le chiede Elf.
Il rombo di una moto scuote l’indolente pomeriggio della
periferia.
«No. Resta, per favore. Il silenzio della casa mi fa paura.»
La moto se ne va. Il fracasso svanisce poco a poco.
«Ogni volta che mi sveglio», dice Imogen, «per i primi momenti
non ricordo quello che è successo. Il dolore è lì che preme, non so
però a cosa sia dovuto. Quindi, per un solo a imo, lui è di nuovo
qui. Vivo. Nella sua culla. Stava iniziando a riconoscerci. Da
pochissimo aveva preso a sorridere. L’hai visto anche tu. Ma poi…»
chiude gli occhi, «mi ricordo e… è sabato ma ina e tu o ricomincia.»
«Cazzo, Imogen, dev’essere una tortura.»
«Sì. Eppure quando la tortura finisce… quando sme o di sentirmi
così… lui se n’è andato davvero. La tortura è tu o quello che mi
rimane di lui. La tortura e il la e nel seno.»
Un’ape appesantita dal polline traccia degli ovali nell’aria.
Non ho idea di che cosa dirle, pensa Elf. Nessuna.
Imogen guarda il mucchio di erbacce strappate dalla sorella.
«Se ho fa o fuori anche qualche rara meraviglia botanica, ti
chiedo scusa», dice Elf.
«Io e Lawrence stavamo pensando di me ere qui un gazebo. Ma
adesso, forse, lasceremo crescere le campanule.»
«Non ho niente in contrario sulle campanule. Sono così blu che
anche il loro profumo sembra blu.»
«Ho portato fuori Mark quando stavano sbocciando. Tre o qua ro
volte. Sono state le uniche occasioni in cui… ha sentito sulla faccia il
respiro della Natura.» Imogen volta lo sguardo, poi lo posa sulle
mani. Le unghie sono un disastro. «Uno dà per scontato di avere
tu o il tempo del mondo. Invece avevamo se e se imane.
Quarantanove giorni. Perfino le campanule sono durate più a
lungo.»
Una lumaca si sta arrampicando sul mure o. Vita appiccicosa.
«Hai avuto un parto difficile», dice Elf. «Per riprenderti avevi
bisogno di tempo.»
«Non c’è stata solo la lacerazione del perineo. L’utero ha subito un
danno e… a quanto pare… non potrò più rimanere incinta.»
Elf è immobile. La giornata prosegue. «È una cosa sicura?»
«Secondo il ginecologo sarebbe ‘altamente improbabile’. Gli ho
chiesto: ‘Altamente quanto?’ E la sua risposta è stata: ‘Signora
Sinclair, altamente improbabile in ambito ginecologico è un modo
meno traumatico per dire impossibile’.»
«Lawrence lo sa?»
«No. Stavo aspe ando il momento giusto per dirglielo. Ma poi…
sabato…» Imogen cerca le parole giuste e non ce la fa. «Quindi ora
l’ho de o a te invece che a mio marito. Non potrò più essere madre.
E Lawrence padre. Non un padre biologico, se non altro. Lui
potrebbe anche dire: Questi non erano i pa i, a me così non sta bene
e… Oh, ci penso e ci ripenso di continuo.»
Un bambino, da qualche parte, sta prendendo a calci una palla
facendola rimbalzare contro un muro. Tump, fa la palla, tump, tump.
«Il corpo è tuo», dice Elf. «La notizia l’hai ricevuta tu e decidi tu
quando rivelarla.»
Tump, fa la palla, tump, tump.
«Se questo è il femminismo», commenta Imogen, «allora
iscrivimi.»
Tump, fa la palla, tump…
«Non è femminismo. È semplicemente… la verità.»
Tump, tump…

***
Elf è seduta al piano nella sala ricevimenti deserta del Cricketer’s
Arms, si sta esercitando su alcuni arpeggi. È tu a la sera che pensa a
Imogen. La sua mente ha bisogno d’altro, almeno per un po’. Fuori
piove. Nella sala ricevimenti la voce del condu ore del telegiornale
si sente appena, ma le parole sono chiare. C’è una melodia che la sta
aspe ando per venire alla luce, Elf lo percepisce. A volte sono le
melodie stesse a cercarti, come è successo per «Wal for Griff», ma a volte
sei tu a doverle rintracciare, basandoti sulla conformazione di un territorio,
indizi, odori, quasi… Disegna un pentagramma a mo’ di dichiarazione
d’intenti. Con la mano destra parte in Mi bemolle minore – Che scala
splendida – e con la sinistra improvvisa armonie e disarmonie, a enta
alle scintille che possono sprizzare fuori. L’arte non può essere
soggiogata, l’unica cosa che puoi fare è dare prova di essere pronto a
coglierla. Le scelte sbagliate, scartate, rivelano la strada giusta. Come
l’amore. Beve un sorso di panaché. Spunta suo padre. «Vado a
dormire. Ci vediamo domani, Beethoven.»
Elf alza gli occhi. «Okay, papà. Dormi bene e sogni d’oro…»
«Senza pulci a fare il coro… Buonano e bambolina.»
Elf prosegue, collegando a un passaggio riuscito il passaggio
riuscito successivo. L’arte ti sta accanto, non davanti. L’arte è diagonale.
Prova a fare il contrario, a suonare degli arpeggi bassi
sovrapponendo note alte. L’arte è un’illusione o ica. Trascrive le note
sul pentagramma che ha disegnato, ba uta dopo ba uta. Ogni
qua ro ba ute c’è un nuovo interrogativo musicale a cui lei
risponde. Prova a suonarle in 8/8 ma preferisce in 12/8: dodici crome
per ba uta. S’imba e in una parte centrale, una radura in un bosco
piena di campanule, nella quale riconosce «Il Signore è il mio pastore»,
a cui più o meno dev’essersi ispirata, solo che è suonata al contrario.
Nel finale riprende il tema d’apertura. Dopo la parte centrale sembra
diverso, come l’innocenza dopo l’esperienza. Suona un rubato, un legato,
segue la dinamica. Ripercorre la musica da cima a fondo. Funziona.
C’è da limare qualcosa qua e là, certo, ma… Non c’è nulla di forzato.
Nulla di pacchiano. Nulla di rigido. Mancano le parole. Non c’è un
titolo. Non c’è fre a. Per ora. «Ci sai fare, maledizione», mormora.
«Mi scusi», dice un tizio.
Elf alza lo sguardo.
g
È il barman. «Devo chiudere per la no e.»
«Oddio, scusi. Ma che ore sono?»
«Mezzano e e un quarto.»

***

La ma ina, quando Elf raggiunge con Bea il ristorante del Cricketer’s


Arms per la colazione, dall’espressione del padre intuisce che è
successo qualcosa. Imogen, pensa subito, ma si sbaglia. Clive
Holloway fa scivolare sul tavolo il giornale, il Telegraph, indicando
un articolo. Elf e Bea leggono:

GUAI SERI PER GLI UTOPIA AVENUE


I membri degli Utopia Avenue, il gruppo pop-rock noto per
aver conquistato con le canzoni «Darkroom» e «Prove It» le
zone alte delle classifiche, nel primo pomeriggio di
domenica sono stati trattenuti all’aeroporto di Roma dalle
autorità italiane mentre cercavano di lasciare il Paese.
L’agente della band, Levon Frankland, sospettato di
evasione fiscale, è attualmente in stato di fermo, mentre
il bassista Dean Moss è stato arrestato per possesso di
droga. L’ambasciata britannica a Roma ha confermato che
entrambi hanno richiesto assistenza consolare, non sono
però stati forniti ulteriori dettagli. Di seguito, la
dichiarazione rilasciata dall’avvocato del gruppo, Ted
Silver: «Dean Moss e Levon Frankland sono assolutamente
innocenti rispetto a queste accuse infamanti e montate ad
arte, ci proponiamo dunque di riabilitare il loro nome al
più presto».

«Ma por…» Elf corregge l’espressione volgare – degna di Griff –


che le stava scappando in: «Ma che diavolo».
«Questo sì che è un colpo di scena», commenta Bea.
«Avrebbe potuto succedere a te.» Il padre parla con calma, così da
non farsi sentire dagli altri clienti seduti a fare colazione.
«Non mi stupisce che nessuno mi rispondesse.»
p p
«Immagino che lascerai il gruppo, vero?» le chiede il padre.
«Vediamo prima come sono andati davvero i fa i, papà.»
«Questo è il Telegraph, Elf. I fa i sono qui.»
«Una persona è innocente finché non viene dimostrata la sua
colpevolezza, o sbaglio?» domanda Bea.
Intorno a loro tintinnano le posate.
«La National Westminster Bank», la voce del padre si abbassa
ulteriormente, «non amme e che un dire ore abbia un famigliare
immischiato con certa gentaglia. Droga? Evasione fiscale?»
«Solo un idiota, papà, entrerebbe in un aeroporto con della droga
addosso», replica Elf. «In particolar modo, se è un ragazzo con la
chitarra e i capelli lunghi.»
«Magari, allora, Dean è un idiota.» Le dita del padre tamburellano
sul giornale.
Per certi versi sì, lo è, ma non in questo caso.
«La polizia inglese me e la droga addosso a gente innocente.
Perché quella italiana non dovrebbe fare lo stesso?»
«Le forze dell’ordine britanniche fanno invidia al mondo intero.»
Elf si sta scaldando. «E tu come lo sai? L’hai chiesto a qualcuno in
giro per il mondo?»

«Se nell’articolo ci fosse il nome di Elf», interviene Bea, «e avrebbe


anche potuto esserci, se fosse andata in aeroporto insieme agli altri,
tu a chi crederesti? Alla sua parola o a quello che dice la polizia
italiana?»
A raverso gli occhiali, Clive Holloway scruta le figlie
a entamente. «Crederei a Elf perché è stata tirata su come si deve. È
un vero peccato che non si possa dire lo stesso di altri.» Ripiega il
giornale mentre la cameriera si avvicina al tavolo. «Una colazione
completa, per favore. E il bacon lo voglio croccante.»

Bethany risponde al secondo squillo, Elf infila una monetina nel


telefono. «Ciao, Bethany, sono Elf.»
«Elf! Grazie al cielo. Hai sentito le notizie?»
«So solo quello che c’è scri o sul Telegraph.»
«Be’, c’è molto altro. Da dove mi stai chiamando?»
«Da una cabina. Sono in un hotel di Birmingham.»
«Dammi il numero. Ti richiamo subito.»
Un a imo dopo, il telefono squilla. Elf risponde. «Sono tu a
orecchi.»
«Tanto per cominciare, una buona notizia. Jasper e Griff sono stati
rilasciati. Se ne stanno rintanati in un albergo vicino all’aeroporto. La
bru a notizia, invece, è che Levon e Dean sono ancora in stato di
fermo. Günther ha assunto degli avvocati italiani, possiamo
perme erci i migliori grazie ai marchi tedeschi della Ilex, e ha
promesso di farsi vivo non appena ci saranno novità.»
«E che fine ha fa o Enzo Endrizzi in tu o questo?»
«Si è misteriosamente volatilizzato, il che puzza tanto di
fregatura. L’a enzione della stampa è alle stelle. Amy Boxer, in
particolare, sta andando al contra acco sfru ando l’Evening
Standard.»
«Ho paura a chiederlo, ma da che parte stanno i giornali?»
«Dalla nostra. Al Telegraph sono più distaccati, ma sul Mirror si
legge: Mangia-spaghe i, giù le mani dal nostro ragazzo, e sul Post: Italioti
corro i vogliono fregare una star britannica! Un amico di Ted Silver al
ministero degli Esteri pensa che la polizia, a Roma, volesse usare il
pugno di ferro contro ‘l’influenza straniera’. Però non avevano
immaginato un polverone simile. Amici e fan del gruppo stanno
organizzando un presidio davanti all’ambasciata italiana a Mayfair.
È l’incubo di ogni diplomatico.»
Elf sente che l’ingranaggio ha iniziato a muoversi. «Cosa devo
fare?»
«Non farti notare. Sto bu ando giù un comunicato stampa. Dirò
che sei al sicuro in Inghilterra, che in questo fosco momento sei
occupatissima a sostenere gli Utopia Avenue e così via, ma se la
storia continua a montare, i pennivendoli potrebbero cominciare a
cercarti.»
«Oddio, no. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno sono i
giornalisti davanti alla porta.»
«Per l’appunto. Come sta Imogen?»
Elf non sa da dove cominciare…
Dagli occhi gonfi di Imogen sgorgano calde lacrime. Elf le passa
un fazzole o. «Probabilmente se n’è reso conto. Probabilmente
voleva la sua mamma. Probabilmente aveva paura,
probabilmente…» Imogen trema e si rannicchia come farebbe un
bambino per infilarsi in un nascondiglio. «Ieri no e l’ho sentito
piangere. Ero pronta per alla are, mi sono alzata al buio ed ero quasi
arrivata alla sua porta quando di colpo mi sono ricordata tu o. Ho
sentito la camicia da no e umida, il la e, così ho preso quel
malede o tirala e e quando ho finito ho versato nel lavandino
quello che era venuto fuori, poi…» Imogen cerca disperatamente di
riprendere fiato, come se la sofferenza si fosse tramutata in un
a acco d’asma. Elf le afferra le mani. «Respira, respira sorellina,
forza…» Al piano di so o, in cucina, c’è accesa Radio 3. Le tende
tirate impediscono alla luce del sole di entrare.

Dopo pranzo, a cui Imogen non partecipa, Elf torna in fondo al


giardino e si rime e a strappare le erbacce. Si dimentica del tempo e
il tempo si dimentica di lei.
«Hai saltato un pezze o», dice qualcuno a un tra o.
È Lawrence, regge un vassoio con una teiera.
«Sono le stesse parole che mi de o ieri Immy.»
«Davvero? Be’, ehm… Mia madre ha fa o i bisco i di pan di
zenzero, quelli a forma di omini.»
«Che meraviglia, grazie. Fammi solo…» Taglia un groviglio di
rovi, si toglie i guanti e lo raggiunge sul mure o. «Imogen dorme
ancora?»
«Sì. Per lei il sonno è un’oasi di pace. Finché non sogna.»
Elf inzuppa nel tè il suo omino di zenzero, partendo dalla testa.
«Mmm, che buoni.»
«Hanno chiamato per la cremazione. La cerimonia di Mark è
domani. Alle qua ro. C’è stata una disde a, a quanto pare.»
«Chi è che disdice una cremazione?»
«Be’… non mi è venuto in mente di chiederlo.»
«Dimentica quello che ho de o. Sono un’idiota insensibile.»
«Tuo padre mi ha de o di Dean e Levon. Sono bloccati in Italia,
sarai preoccupata.»
p p
È preoccupata, infa i, ma la morte di Mark non lascia spazio ad
altro. «Con loro ci sono gli avvocati. Voi siete la mia famiglia. Il mio
posto è qui.»
Lawrence si accende una sigare a. «Non avevo mai pensato a
quanto una morte possa incasinare il linguaggio. Ora che Mark non
c’è più, io e Immy siamo ancora una ‘famiglia’? O siamo retrocessi
allo stato di ‘coppia’? Almeno finché… non lo so.»
Elf si ricorda di che cosa le ha de o la sorella il giorno prima. È un
segreto incredibilmente pesante da custodire. Beve un sorso di tè.
«Se dico ‘Mark è mio figlio’», continua Lawrence, «è come se
negassi che se n’è andato. Sembro un pazzo…»
Il bambino invisibile sta ancora prendendo a calci il pallone, si
sentono i rimbalzi contro il muro. Elf suppone che lo faccia sempre a
quell’ora, come allenamento, e magari non è un bambino ma una
bambina.
«Se però dico ‘Mark era mio figlio’, è…» Lawrence si alza.
«Insostenibile. È troppo…» Quasi si me e a ridere accorgendosi che
sta per piangere. «…Triste. Dio, qualcuno dovrebbe inventarsi un
tempo verbale da usare per quelli che… non ci sono più.»
Intorno a loro le fronde del salice frusciano e schioccano. Come le
code dei cavalli. «Usa il presente, è», gli dice Elf. Poi pensa allo strano
distacco di Jasper. A volte è un superpotere. «Quando gli altri mi
credono pazza, be’, io glielo lascio credere.»
Tump, tump, tump.

***

La ma ina di mercoledì è luminosa. Le finestre nel ristorante del


Cricketer’s Arms sono aperte. Il calore dell’aria si insinua all’interno.
Elf e Bea sono vestite di nero, così come il padre. Quel giorno ha
comprato il Post. Mostra alle figlie l’articolo di Felix Finch:

PRESIDIO PER GLI UTOPIA AVENUE


Duecento fan del gruppo musicale inglese Utopia Avenue
hanno organizzato ieri un presidio a Mayfair, fuori
dall’ambasciata italiana di Three Kings Yard, per
protestare contro la detenzione a Roma del bassista Dean
Moss e del manager Levon Frankland. I due sono accusati
dalle autorità italiane di possesso di sostanze
stupefacenti e irregolarità fiscali. «Non è così!»
sostengono i membri della band al pari dei fan, che per
chiedere il rilascio di Dean e Levon hanno presentato una
petizione a un funzionario dell’ambasciata. Con la forza
dell’entusiasmo, più che con abilità tecnica, la gente ha
cantato i pezzi dell’artista detenuto. Brian Jones dei
Rolling Stones si è unito al presidio e ha rilasciato al
sottoscritto, il vostro devoto Finch, la seguente
dichiarazione: «Anch’io in passato sono stato oggetto di
certa giustizia decisamente sommaria, e non ho dubbi che
gli italiani stiano facendo lo stesso sporco gioco. Se
possono davvero provare che Dean e Levon hanno commesso
quei reati, allora che li incriminino ufficialmente. Se non
possono, però, che li lascino andare subito… e presentando
le loro scuse per aver fatto perdere tempo a tutti quanti».
All’opinione di Brian Jones ha fatto eco quella di Rod
Dempsey, un caro amico di Dean Moss che sfoggiava una
giacca con stampata sopra la bandiera britannica. «È uno
scandalo che i ricconi del ministero degli Esteri non
vogliano sporcarsi le mani per difendere il buon nome di un
artista inglese del calibro di Dean. Si mostrerebbero
altrettanto menefreghisti se avesse studiato a Eton?»
Chiedendogli poi se aveva intenzione di rifarsi vivo al
presidio anche l’indomani, Rod Dempsey ha dichiarato che
starà lì fin quando sarà necessario. Indipendentemente dal
fatto che la musica degli Utopia Avenue piaccia o no, il
vostro devoto Finch prova per il raduno in Three Kings Yard
un certo rispetto. Questo raduno dimostra che i giovani
inglesi sanno dare voce alle proprie opinioni senza
ricorrere alla violenza, senza che si producano le scene
vergognose che stanno divampando in tutta Europa. Se il
presidio continuerà a rispettare i limiti imposti dalla
legge, non posso che concordare con il cartello agitato da
una manifestante con un’eccentrica capigliatura rosa: GIÙ LE

ZAMPE DA DEAN MOSS!

«Per quanto un membro dei Rolling Stones non rappresenti ai


miei occhi un prode cavaliere in difesa dei giusti», commenta il
padre di Elf, «Felix Finch potrebbe davvero fare la differenza.»
«È un miracolo che gli sbirri non li abbiano presi a mazzate», dice
Bea.
«Sbirri?» esclama il padre come farebbe un genitore inorridito.
«Mazzate?»
«Sono sorpresa che gli amici agenti», riprende la figlia con falsa
modestia, «non abbiano disperso i dimostranti. Tu, Elf, l’hai mai
incontrato questo Rod Dempsey?»
«Solo di sfuggita.» Si tiene per sé che è lo spacciatore di Dean e
che una volta ci abbia scaltramente provato con lei.
«Hai intenzione di presentarti a questo ‘presidio’?» le chiede il
padre. «Sarei molto più tranquillo se te ne tenessi alla larga.»
«Oggi voglio pensare solo a Mark.»

Il crematorio di Edgbaston è un edificio rivestito d’intonaco


grezzo a forma di scatola di scarpe. A accato alla facciata c’è un
portico finto-greco, e dietro un’alta ciminiera. Gli abeti rossi non
riescono a nascondere una zona industriale, il cavalcavia
dell’autostrada e sei condomini identici. A Elf quelle case nel cielo
sembrano prigioni verticali. Ad aspe are nell’atrio della stru ura c’è
Bernie Dee, un’amica di Imogen, che Elf ricorda di aver visto al
matrimonio della sorella. Avvolge Imogen in un abbraccio. «Oh,
povera amica mia.» La croce d’argento che porta al collo è degna di
un cacciatore di vampiri.
Due porte sono contrassegnate rispe ivamente dalle scri e SALA
COMMEMORATIVA A e SALA COMMEMORATIVA B . Le le ere rimovibili
sulla porta A annunciano KIBBERWHITE 15.30 , e quelle sulla porta B
SINCLAIR 16.00 . Un’interpretazione a squarciagola di «When the
Saints Go Marching In» riecheggia dalla A. Quando si conclude, la
porta si spalanca e almeno cento persone si riversano all’esterno
dell’edificio, nella luce del pomeriggio. A giudicare dai volti e dalle
voci sono quasi tu i di origine caraibica. Al nero si mischiano i colori
dei tropici. «A Bessie è sempre piaciuto farsi una bella cantata
insieme», dichiara una signora. Al che una sua amica replica: «Si è
aggiunta nel finale, lo giuro. L’ho riconosciuta dalle stecche…»
Una volta che la comitiva Kibberwhite se n’è andata, la sala
d’a esa sembra più tetra di prima. Bernie Dee, la madre di Elf e la
signora Sinclair stanno scambiando due chiacchiere. Imogen e
Lawrence sono seduti in silenzio. Pochi minuti prima delle qua ro, il
responsabile fa accomodare i nove convenuti in una sala che
potrebbe ospitare trenta o quaranta persone. L’illuminazione è
aggressiva, il parquet graffiato. Le pareti sono piene di macchie color
tabacco. In un angolo c’è un pianoforte. Su un nastro trasportatore,
immobile, c’è la piccola bara di Mark. Somiglia a un pacco in un ufficio
ogge i smarriti. Sulla bara c’è un coniglio blu di peluche praticamente
nuovo. La madre prende per mano Imogen e l’accompagna davanti
al feretro. Elf vorrebbe tanto che una scena simile non le facesse
venire in mente il giorno del matrimonio della sorella. Le rose sono
bianche.

Il discorso di Bernie Dee è ben stru urato, le intenzioni sono


buone, ma in sintesi l’unico conce o che esprime è: «Dio opera in
modo misterioso». Non che io sappia quale significato a ribuire alla
morte di Mark. «Mentre diciamo addio», conclude Bernie Dee, «al
corpo che ha ospitato per un tempo così breve l’anima di Mark,
ascolteremo uno degli inni preferiti di Imogen.» Lancia un’occhiata
all’impresario di pompe funebri, che abbassa una puntina su un
disco scricchiolante e un coro a acca «O God Our Help in Ages
Past».
Anche se tremante, la voce di Imogen è chiara: «No».
Tu i la guardano, incluso l’impresario di pompe funebri.
«No. Spenga la musica, per favore.»
L’uomo solleva la puntina.
«C’è stato un malinteso, Immy?» si preoccupa Bernie.
«No, è quella che ho scelto io, però ho sbagliato.» Imogen ha un
groppo in gola, deglutisce. «Mark nella vita avrebbe sentito musica
g pp g g
di tu i i tipi. Ninnenanne, canzone e pop, musica da ballo, qualsiasi
cosa. Io non voglio che… ci lasci… con un inno che si suona ai
funerali.»
«Ma non abbiamo portato altri dischi», le fa notare la madre.
«Elf.» Imogen guarda la sorella. «Suona qualcosa tu.» Cerca di
soffocare le lacrime. «Per favore.»
«Certo, Immy. Lo farò.» S’incammina verso il piano. L’impresario
di pompe funebri alza il coperchio che ripara i tasti. Si siede sullo
sgabello. Però cosa suono? «A Raft and a River»? Suonare a memoria la
Sonata al chiaro di luna di Beethoven potrebbe andare bene, ma il
minimo inciampo si sentirebbe a un chilometro. Scarla i è troppo
vivace. Poi si ricorda della composizione che ha scri o la sera prima
al Cricketer’s Arms. Ce l’ha in borsa, casomai le fosse venuto in mente
qualche verso. Appoggia lo spartito sul leggio e suona dall’inizio alla
fine quelle sessantasei ba ute ancora senza titolo. Le interpreta più
lentamente e il pezzo assume una nuova sfumatura. Fa in modo che
duri più o meno cinque minuti. Mentre suona, Imogen recupera
l’autocontrollo. Raggiunge la bara di Mark e si china a baciare il
coperchio. Lo stesso fa Lawrence. Si stringono in un abbraccio.
Piangono. Le due nonne vestite a lu o si uniscono a loro insieme a
Bea.
La composizione di Elf giunge al termine.
Ciò che ne resta, un’ombra, riempie il silenzio che segue.
Imogen dice all’impresario di pompe funebri: «È ora».
Elf si avvicina e prende il coniglio blu.
Appoggiano tu i le mani sulla bara bianca.
Senza far rumore l’uomo preme un pulsante.
Il nastro trasportatore si avvia.
Il coperchio scivola liscio so o le loro dita.
La bara di Mark a raversa una tenda.
Alle spalle della tenda cala una lastra di metallo.
Perfino le campanule sono durate più a lungo.

Giovedì ma ina Elf ha appuntamento con Bethany nel vorticoso


trambusto della stazione di Piccadilly Circus. A ogni minuto dai
tunnel secondari della metropolitana sbucano nuovi londinesi,
p
ognuno con i suoi drammi, le sue storie, le sue commedie e i suoi
amori. I lustrascarpe lavorano sodo e alacremente. I venditori di
quotidiani servono in tu a fre a i clienti in coda. Bethany indossa
un elegante cappello blu, un foulard di seta e occhiali da sole alla
Jackie Onassis.
«Per poco non ti riconoscevo», le dice Elf.
«L’idea era questa. Fuori dalla Moonwhale c’è un giornalista in
agguato. Ha provato a estorcere qualche pe egolezzo anche al
fa orino in bicicle a. Imogen come sta?»
«È andata a Richmond con i miei.» Elf cerca le parole giuste. «Il
lu o è un pugile, mia sorella il sacco su cui scarica i pugni, noi non
possiamo fare altro che tenerla d’occhio.»
«Fatelo, allora. E ricucitele le ferite, o datele una mano a rime ersi
in piedi quando è al tappeto.»
Elf annuisce. Non c’è altro da dire. «Bene, allora. Cosa sta
succedendo con Levon e Dean?»
«Ne parlano tu i i giornali, è come un virus. Questo è del Post…»
In un quaderne o Bethany ha incollato un articolo. C’è una foto di
Dean sul palco del McGoo’s e so o c’è scri o:

«NON SENZA IL MIO ONORE!»


La saga dell’idolo rubacuori Dean Moss, arrestato domenica
a Roma con una nebulosa accusa di spaccio, ieri ha assunto
una nuova, STRAORDINARIA piega quando il bassista degli
Utopia Avenue ha rifiutato di sottoscrivere un’ammissione
di colpa che gli avrebbe garantito il rimpatrio. Dean Moss,
che ha firmato successi balzati ai primi posti in
classifica come «Darkroom» e «Prove It», insiste che la
merce illegale in questione gli sia stata PIAZZATA ADDOSSO
dall’ufficiale di polizia che l’ha arrestato. Il manager
del gruppo, Levon Frankland, è già stato scagionato dalle
accuse di irregolarità fiscali. In una dichiarazione
rilasciata tramite il suo avvocato, Moss ha spiegato così
la sua coraggiosa decisione: «Farei quasi di tutto per
mettere fine a questo calvario e rivedere i miei amici, la
mia famiglia e il mio Paese, ma sottoscrivere una
confessione fasulla per un crimine che non ho commesso è
inaccettabile».

«Riesco a sentire le note di ‘Land of Hope and Glory’», commenta


Elf.
«Levon e Freddy Duke, invece, sentono i registratori di cassa dei
negozi di dischi in tu o il Paese. Ah, Ted Silver mi ha de o di
avvisarti che la BBC ha mandato un reporter in Three Kings Yard.
Probabilmente ce ne saranno anche altri.»
«Non mi dirai che sarò nel notiziario all’ora di pranzo?»
«All’ora di pranzo e all’ora di cena.»
Elf pensa a suo padre intento a mangiarsi un panino in ufficio. E
se dicessi qualcosa di sbagliato?
«Darei l’okay ad Amy Boxer per un’intervista, se a te va bene.»
«Nessun problema.» Immagina Dean in cella in Italia. Il suo
destino potrebbe dipendere da lei, da come si comporterà in questa
faccenda. «Per il resto però non mi sento pronta, Bethany.»
«Mi hanno riferito che domenica duemila italiani pendevano dalle
tue labbra.»
«Sì, ma quella era un’esibizione.»
«Lo è anche questa. È il motivo per cui ci siamo incontrate prima.
Adesso troviamo un angolino tranquillo, ci sediamo davanti a un
caffè e c’inventiamo qualcosa da dire…»

A raverso un passaggio a volta Elf entra in Three Kings Yard


accanto a Victor French della Ilex e al legale della Moonwhale Ted
Silver. Lo spiazzo è affollato. Si levano urla di entusiasmo, non si
placano. Di colpo vorrebbe scappare via. Dean ha bisogno di questo.
Decine di persone gridano il suo nome. Nel giro di qualche secondo
diventa un coro: «Elf! Elf! Elf! Elf! Elf! Elf! Elf! Elf! Elf!» Ragazzi, per
lo più, e qualche faccia un po’ più vecchia. Gente vestita di tu o
punto. Hippie con la barba lunga. «Elf! Elf! Elf! Elf! Elf! Elf!» Una
manciata di mod. Un terze o di giocolieri. Un venditore di hot dog.
Un suonatore di ghironda. Harold Pinter? «Elf! Elf! Elf! Elf! Elf! Elf!»
Da una finestra esce una loro canzone, «Smithereens».
Alcuni giornalisti le sbarrano la strada: «Arthur Hotchkiss del
Guardian», si presenta un segugio a caccia di notizie con una giacca a
quadre i. «Quali sono le tue speranze e i tuoi timori per la
controcultura?» «Elf! Elf! Elf! Elf! Elf! Elf!» A spingere via il segugio
è un bulldog calvo: «Frank Hirth, Morning Star. Qual è il punto di
vista degli Utopia Avenue sulle proteste del proletariato?» «Elf! Elf!
Elf! Elf! Elf! Elf!» S’insinua un galle o: «Willy Davies, News of the
World. Quali sono le tue misure, Elf, e chi è il più figo nel mondo del
pop?» «Elf! Elf! Elf! Elf! Elf! Elf!» Lei schiva tu i bruscamente e sente
una voce americana che dice: «Non dimenticarti di respirare». È
giovane, ha un’aria spagnoleggiante ed è splendida. «Elf! Elf! Elf!
Elf! Elf! Elf!» La ragazza le avvicina la bocca a un orecchio: «Sono
Luisa Rey di Spyglass, ma questo non conta… Buona fortuna e
respira, mi raccomando».
Elf respira. «D’accordo.»
Ted Silver la scorta nella ressa fino a una cassa so o un lampione.
Victor French le me e in mano un microfono. E se dimentico che cosa
devo dire? Bethany le stringe le spalle: «Ti ricordi fino all’ultima
parola le canzoni folk. Ce la farai anche con questo discorso».
Elf abbozza un sì e sale sulla cassa. Il coro «Elf! Elf! Elf!» esplode
di nuovo, più forte e più a lungo di prima. «Smithereens» si
interrompe. Centinaia di facce si me ono a fissarla e decine di
macchine a sca are. La gente la guarda anche dalle finestre
circostanti. Con un cenno della mano, Elf placa il ruggito. Respira.
«Buongiorno a tu i.» La sua voce esce da un amplificatore fissato al
lampione e le parole rimbalzano contro le pareti di Three Kings
Yard. «Sono Elf Holloway degli Utopia Avenue e sono qui…»
«Lo sappiamo chi sei, Elf!» grida una donna.
«To’. Ciao, mamma, grazie per essere venuta.» La ba uta strappa
una risata calorosa. «A parte gli scherzi, grazie a tu i per il vostro
appoggio. Sono qui perché il mio amico Dean sta marcendo in una
cella a Roma…»
Parte uno stuolo di «Buuu! Vergogna!»
«…dove è stato picchiato, e dove gli è stato impedito di parlare
con un avvocato. La polizia italiana gli ha dato dello spacciatore.»
«Frasi brevi», le aveva suggerito Bethany. «Hemingway, non
gg y g y
Proust.» «Questa è una bugia bella e buona. Dean è stato messo di
fronte a una scelta. Dare credito a quella bugia e tornare libero, o
rifiutarsi di firmare una confessione e tornare in cella. Lui ha
rifiutato.»
C’è un nuovo boato, ma non assordante come il primo, le teste
annuiscono, approvano.
«Qualcuno dice che Dean Moss è in cerca di pubblicità. Qualcuno
dice che ha provocato la polizia italiana sino a farsi arrestare, perché
voleva i rifle ori puntati su di sé. Assurdo. Quale individuo sano di
mente rischierebbe di finire per anni in prigione all’estero in cambio
di qualche articolo sul giornale?»
Un tizio le sta puntando un microfono in faccia, regolando il
volume su una specie di scatole a. «Qualcuno dice che Dean Moss è
un teppista e un delinquente. Menzogne. Dean la violenza la odia, e
seguite il suo esempio, ve ne prego. Siate gentili con chi lavora
nell’ambasciata, fatelo per lui. Non c’entrano niente con quello che è
successo. Pertanto, fate in modo che per i polizio i di guardia sia
una tranquilla giornata di lavoro. Sono di Londra come voi.»
Non dimenticarti di respirare. «Finora vi ho de o cosa Dean Moss
non è. Adesso vi dirò invece chi è. È un ragazzo del popolo, e sa cosa
significa avere le tasche vuote. Non è un santo, ma si strapperebbe di
dosso la camicia se qualcuno ne avesse più bisogno di lui. È un tipo a
posto. È gentile. Scrive canzoni che mostrano la vita per quello che è,
nel bene e nel male. Canzoni che ci dicono che non siamo soli al
mondo. Dean è un mio amico. Quindi, per favore, lo facciamo
tornare a casa?»
Un potente boato riempie lo spiazzo.
«Lo facciamo tornare a casa?»
La folla replica con un boato ancora più forte.
Tre è il numero fortunato. «Lo facciamo tornare a casa?»
Il boato è gigantesco. Elf scende dalla cassa. La folla si ge a in
avanti e lei si ritrova abbagliata dai flash delle macchine fotografiche.
Ted Silver, Victor French, Bethany e un paio di tizi robusti prece ati
da Bethany si schierano a falange per portarla via da Three Kings
Yard e me erla su un taxi. Il taxi parte. Il cuore di Elf sta ba endo
all’impazzata. «Ma come ho fa o?»
p
a. Perfino le campanule.
Sound Mind a

La casa di Anthony Hershey è una grande villa edoardiana in


Pembridge Place. Sull’alto muro di cinta ci sono degli spuntoni.
Davanti al cancello di ferro ba uto, due bu afuori controllano su
una lista i nomi degli invitati prima di far entrare la gente. Dalla
strada, Jasper intravede nel giardino la cima di un tendone a strisce.
«A chi vive qui non mancano certo i qua rini», dice Griff. «Una
casa come questa in una strada elegante come questa… secondo te
quanto può valere, Deano? Centomila sterline?»
«Facile. Guarda quelle macchine. Una AC Cobra. Una Austin-
Healey… e una Jensen Interceptor. Dite che sono tu e sue?»
«Asciugati la bava dalla bocca», gli consiglia Elf. «Quando il
nuovo album avrà venduto milioni di copie, potrai perme ertele
anche tu.»
«Con le nostre royalties? Sarò fortunato se riuscirò a me ere le
mani su una Mini arrugginita. Pensate che a questa festa ci saranno
delle star del cinema?»
«È alquanto probabile», replica Elf. «Il padrone di casa è un
regista. Potresti ricordarmi se sei ufficialmente single in questo
periodo? Devo amme ere che ho perso il filo.»
Dean si porta le mani al cuore come se gli avessero appena
sparato. Sta facendo la commedia, pensa Jasper.
«L’unico suo film che ho visto è Getsemani», confessa Dean. «Tu a
quella roba su Gesù, tossicodipendenti e compagnia bella. Non
posso farcela.»
«Al conservatorio di Amsterdam il cineforum aveva organizzato
una retrospe iva su Anthony Hershey», ricorda Jasper. «I suoi film
migliori sono fenomenali.» Controlla l’orologio: 17 e 07. «Levon è in
ritardo.»
«Magari è rimasto bloccato in una situazione Colm-plicata»,
commenta Griff.
Elf fa una smorfia, Dean sorride e sogghigna insieme. Jasper
intuisce che gli sfugge qualcosa, a salvarlo è l’arrivo di un taxi. È
Levon. L’agente paga e salta giù dalla macchina. «Incredibile, siete
tu i puntuali.»
«Per chi ci hai preso?» sbo a Dean. «Per una congrega di rockstar
deficienti che pensano di avere il mondo ai loro piedi?»
Ironia? Jasper non fa in tempo a scoprirlo, perché in quel
momento gli altri si accorgono del vistoso completo nuovo di Levon
con bordature turchesi.
Griff se ne esce con un lieve fischio d’approvazione.
«Qualcuno ha fa o compere», dice Elf.
Dean tasta il risvolto della giacca. «Savile Row?»
«Per concludere buoni affari bisogna avere l’aspe o giusto, cari
miei. Come va con la nuova canzone, ‘Roll Away the Stone’, sta
prendendo forma?»
«Siamo alla ventesima registrazione», lo informa Jasper.
Levon fa una faccia che Jasper non sa interpretare. Delusione?
«Meglio se vi sbrigate, ragazzi. Victor parlava seriamente quando
ha de o che dev’essere il prossimo singolo.»
«Digli che la sentirà solo quando avremo sviluppato a regola
d’arte il suo potenziale melodico», dice Dean. «Vale la pena di
aspe are.»
Levon si accende una sigare a. «Vi prego di non usare tu o il
budget messo a disposizione per l’album per una sola canzone. Ora
che Paradise è nella Top 30 la Ilex è disposta a investire di più, ma
non significa che per voi non ci siano limiti.»
«A quanto pare, Dean, dovrai rinunciare alle cornamuse e al coro
bulgaro», dice Elf. «Comunque, come mai siamo qui?» Indica con un
cenno la casa di Hershey. «A Bethany non l’hanno spiegato.
Abbiamo pensato che potrebbe esserci in ballo una colonna sonora.»
«Oppure», aggiunge Dean, «il mese scorso Hershey deve aver
notato sui giornali la mia innegabile bellezza e ha pensato: Eccolo il
mio protagonista.»
«Ma certo, proprio così», dice Griff. «Deve girare un film dal titolo
‘L’orrendo segaiolo della Laguna Nera’ e si sarà de o: Con questo
Dean Moss risparmierò sul trucco.»
«Che coglione», commenta Dean. «E se invece Hershey ci volesse
a suonare nel film come quel tizio italiano che ha messo gli Yardbirds
in Blow-Up?»
«Michelangelo Antonioni», lo informa Levon. «L’intuizione giusta
credo sia quella di Elf: una colonna sonora. Considerate la giornata
di oggi come un precolloquio per un lavoro ancora da definire.
Divertitevi, quindi, ma non troppo.»
«Perché, mentre lo dici, guardi me?» chiede Dean.
«Sei paranoico. Bene, direi che è ora di bu arsi nella tana del
lupo, no?»
Levon guarda a destra e a sinistra e a raversa la strada.

Nel suo secondo giorno al sanatorio di Rijksdorp, il do or


Galavazi aveva diagnosticato a Jasper una grave schizofrenia a
livello uditivo. Aveva poi identificato un farmaco in grado di
alleviarne i sintomi, il Queludrin, un antipsicotico tedesco che era
risultato il tra amento più efficace. La sensazione che Toc-Toc
abitasse dentro di lui non se ne andava, ma il «martellio interno» era
cessato. Jasper aveva la sensazione che quell’intruso mentale fosse
stato confinato in una soffi a. Il sedicenne era finalmente libero di
fare il punto sui nuovi dintorni. La stru ura psichiatrica si trovava in
posizione defilata, in un’area boschiva fra la ci adina di Wassenaar e
la frangia sabbiosa di costa che dava sul Mare del Nord. Una clinica
su un unico livello collegava due ampie dimore costruite negli anni
Venti, che facevano da ala maschile e femminile e ospitavano
complessivamente solo trenta pazienti. Tu o intorno c’era un alto
muro e il cancello era sorvegliato. I residenti non potevano chiudere
a chiave le stanze, tu avia il cartello NIET STOREN veniva in genere
rispe ato. Nella camera di Jasper, all’ultimo piano, c’erano un le o,
una scrivania, una sedia, un armadie o, alcune mensole e un
lavandino. Visto che aveva insistito, lo specchio era stato rimosso. La
finestra con le sbarre affacciava sulle cime verdeggianti degli alberi.
Jasper era soprannominato De Jeugd, La Giovinezza. Era l’ospite più
giovane di Rijksdorp. C’erano poi i Trappisti, un gruppo di maniaco-
depressivi che parlavano raramente e solo con frasi brevi. I
Drammaturghi, che trascorrevano le loro giornate fra pe egolezzi,
intrighi e lo e intestine. I Cospiratori, che alimentavano teorie
deliranti sugli Anziani di Sion, api comuniste e una base segreta
nazista nell’Antartico. Nel corso del suo internamento, Jasper si era
mantenuto fra i Neutrali. All’interno della clinica le relazioni sessuali
erano proibite in teoria e difficili in pratica, benché non inesistenti.
Due uomini al suo piano di tanto in tanto ci davano dentro, ma dopo
aver trascorso dieci anni in un collegio privato inglese, per Jasper
l’intra enimento furtivo fra persone dello stesso sesso non era una
novità. La sua libido era, probabilmente non a caso, stemperata dal
Queludrin. A Rijksdorp le giornate iniziavano con la campana delle
se e, a cui faceva seguito quella delle o o che annunciava la
colazione. Jasper occupava un tavolo neutrale e mentre mangiava
panini al formaggio bevendo caffè non parlava quasi. Dopodiché, in
ordine alfabetico, gli ospiti si presentavano in infermeria per farsi
dare i farmaci. Il cognome di Jasper iniziava con la Z, pertanto lui era
l’ultimo. Le ma ine erano dedicate ai tra amenti previsti in base alle
diagnosi di ciascun sogge o: psicoterapia, terapia comportamentale
o semplicemente «lavoro comunitario» per quelli che volevano e
potevano svolgere qualche piccola mansione in cucina o in giardino.
I pomeriggi erano a completa disposizione dei pazienti. I puzzle
andavano per la maggiore, così come il ping pong o il biliardino.
Alcuni imparavano a memoria poesie, canzoni o «numeri» per lo
spe acolo del sabato dei Drammaturghi, ogge o di accesi diba iti.
Grootvader Wim e il do or Galavazi avevano inizialmente
incoraggiato Jasper a proseguire con il programma scolastico di Ely,
ma quando aveva riaperto i libri di testo si era reso conto che con la
scuola aveva chiuso per sempre. Un ex docente di latino e greco di
Apeldoorn, soprannominato il Professore, lo aveva scelto come
avversario a scacchi. Le partite con lui erano lente e agguerrite. Una
suora di Venlo aveva messo in piedi un campionato di Scarabeo. Pur
di vincere s’inventava nuove parole e cambiava le regole, e se
qualcuno protestava scagliava maledizioni a sfondo religioso.
q p g g
Le se imane di degenza erano diventate mesi. In agosto Jasper
aveva acce ato la proposta del do or Galavazi di me ere il naso
fuori dai confini di Rijksdorp. Dopo qualche metro, il ba ito
cardiaco gli era aumentato, la forza di gravità sembrava schiacciarlo
e gli era andata insieme la vista. Convinto che a tenere Toc-Toc a
bada non fosse solo il Queludrin ma c’entrassero anche le mura di
Rijksdorp, si era sbrigato a ria raversare il cancello. Amme eva che
tale convinzione fosse irrazionale, però lo era altre anto un monaco
orientale che appariva solo negli specchi e cercava di farlo impazzire.
Il do or Galavazi, temendo che il suo giovane paziente fosse troppo
dipendente dal Queludrin, aveva rido o la dose da dieci a cinque
milligrammi. Dopo un giorno, Jasper aveva udito risvegliarsi Toc-
Toc. Dopo due aveva sentito un rumore a utito, tud-tud, tud-tud, tud-
tud, sulle pareti del cranio. Dopo tre giorni aveva visto un pallido
riflesso di Toc-Toc in un cucchiaio. Al quarto giorno il dosaggio di
Jasper era risalito a dieci milligrammi. In autunno, grootvader Wim
gli aveva fa o visita di frequente.
Se definire «piacevoli» quelle visite sarebbe stato improprio,
Jasper apprezzava comunque che qualcuno andasse a trovarlo. Le
frasi di Jasper non superavano mai le tre o qua ro parole, ma Wim
de Zoet era stato soldato nella Grande Guerra e di uomini colpiti da
stress post-traumatico dovuto ai comba imenti ne aveva già visti.
Parlava lui per tu i e due, lo intra eneva con aneddoti sui De Zoet e
notizie di a ualità, gli parlava di Domburg, di libri, di episodi della
sua vita.
Guus, il padre di Jasper, si era fa o vivo solo una volta. Non era
andata troppo bene. Guus de Zoet, a differenza di Wim, non era
riuscito a celare il disagio riguardo alla fragilità del figlio, o l’aperto
disprezzo verso i pazienti che apparivano palesemente folli. La
moglie di Guus e i fratellastri non gli avevano mai fa o visita. A
Jasper non importava. Meno gente assisteva impietosita al suo crollo
meglio era. A parte il nonno, l’unico altro suo legame con il mondo
era Heinz Formaggio, che ogni se imana gli scriveva da Ely, da
Ginevra o da qualsiasi altro posto in cui gli capitasse di trovarsi.
C’erano se imane in cui gli mandava solo una cartolina
scarabocchiata, altre volte si tra ava di un poema di dieci pagine.
p p g
Jasper provava a rispondere, restando a fissare per mezza giornata le
prime parole, «Caro Formaggio», perdendosi in ogni possibile inizio
finché non rinunciava. Non ricevere nessuna risposta non aveva mai
fa o desistere il suo vecchio compagno di stanza.

A novembre, Claude e Dubois, una prote a del do or Galavazi


all’università di Lovanio, aveva iniziato a Rijksdorp un tirocinio di
o o se imane. La sua tesi ipotizzava che la musica potesse avere
effe i positivi su certi pazienti psichiatrici, e non vedeva l’ora di
testare alcune di queste idee. «Accomodati», aveva de o a Jasper
non appena aveva messo piede nella sala visite. «Sei la mia prima
cavia in assoluto.» Su un tavolo erano disposti vari strumenti a fiato,
a corde e percussioni. Sorridendo come una monella colta sul fa o,
la signorina Dubois gli aveva chiesto di sceglierne uno. Lui aveva
preso una chitarra fabbricata in Spagna, una Ramirez. La sensazione
della chitarra posata sulla coscia era piacevole. Mentre strimpellava
a casaccio, aveva l’impressione che il suo futuro avesse appena avuto
una svolta. Grazie a un paio di lezioni che aveva preso dopo
l’incontro con Big Bill Broonzy a Domburg, le sue dita ricordavano il
Sol, il Re, il La e il Fa. Jasper aveva parlato con la signorina Dubois di
quell’incontro. Erano mesi che non pronunciava così tante parole. Le
aveva anche chiesto se per quel giorno potesse prestargli la chitarra.
Lei gli aveva dato lo strumento e un manuale scri o dal chitarrista
inglese Bert Weedon, intitolato Play in a Day, suona in un giorno.
Jasper aveva inteso alla le era il titolo come se fosse un ordine, e
ce l’aveva con se stesso perché all’appuntamento dell’indomani era
riuscito a imparare solo due terzi del metodo Bert Weedon. C’era
voluto un cero o per ognuno dei suoi polpastrelli. La signorina
Dubois era rimasta colpita, ma si era de a disposta a lasciargli
ancora la Ramirez solo a condizione che si esibisse nello spe acolo
del sabato. Jasper non aveva avuto scelta. Suonando, dimenticava di
essere un disada ato impaurito che, mollata la scuola, marciva in
una stru ura psichiatrica olandese. Quando suonava, era servo e
signore della Musica. Il sabato aveva suonato una versione
semplificata di «Greensleeves». In futuro avrebbe sperimentato dal
vivo l’adorazione di migliaia di persone, eppure nessun applauso
g p pp pp
avrebbe mai eguagliato quello che gli tributò quel giorno un
variegato gruppo di schizofrenici, depressi, visionari, medici,
infermiere, cuochi e adde i alle pulizie. Voglio migliorare, aveva
pensato.

Prima di tornare a Lovanio, la signorina Dubois aveva affidato la


sua Ramirez a Jasper, dicendogli che si aspe ava ulteriori progressi
in primavera. Poco prima di Natale aveva suonato per suo nonno
«Yes Sir, That’s My Baby» e «Forty Miles of Bad Road» di Duane
Eddy. Il nonno aveva saltato un paio di visite – era malato – ed era
rimasto entusiasta e impressionato dai rapidi progressi del nipote.
Aveva assunto a L’Aia un chitarrista brasiliano sposato con
un’olandese perché desse a Jasper delle lezioni se imanali a
Rijksdorp. I suoi «numeri» nello spe acolo del sabato si facevano via
via più lunghi e complessi. Infilava anche qualche pezzo composto
da lui, descrivendolo, se gli veniva chiesto che cosa fosse, come
«canzone folk argentina tradizionale». Per Natale, aveva ricevuto un
giradischi Philips completo di cuffie dalla «Famiglia de Zoet», il che
significava da grootvader Wim. La signorina Dubois gli aveva
regalato la musica di Bach e Manuel Ponce interpretata da Abel
Carlevaro, e il suo insegnante brasiliano Master of the Spanish Guitar
di Andrés Segovia e Ode a Sings Ballads and Blues di Ode a. Jasper
aveva trascorso l’intera giornata a trascrivere le canzoni di Ode a,
nota dopo nota, accordo dopo accordo, strofa dopo strofa. Non si
considerava un cantante, ma aveva bisogno di accompagnare la
musica mormorando la melodia della canzone, a quel punto, quindi,
perché non cantare dire amente le parole? Quando al primo
spe acolo di sabato del 1963 Jasper aveva suonato e cantato «Santy
Anno», gli avevano poi chiesto il bis. Avrebbero voluto che la facesse
una terza volta, ma l’insegnante brasiliano gli aveva de o che un
musicista deve sme ere quando il pubblico non ne ha ancora avuto
abbastanza. L’inverno era stato molto rigido. In tu a l’Olanda i
canali erano gelati, ma la Elfstdentocht, la gara di pa inaggio sul
ghiaccio che a raversava la Frisia, era stata comunque rovinata. Dei
diecimila partecipanti solo sessantanove non si erano ritirati per
l’ipotermia e il congelamento. Jasper aveva lavorato fino a
p g p
padroneggiare gli esercizi alla chitarra di Francisco Tárrega. Prima
di partire come ogni anno per il Sud Africa, suo padre era andato a
trovarlo a Rijksdorp. Jasper gli aveva suonato «I’ve Got It Bad (And
That Ain’t Good)» ed «Étude in C» di Tárrega, e quella volta se n’era
andato più tardi del previsto. Una se imana dopo, la suora di Venlo
era morta nel sonno. Jasper aveva composto in suo onore «Requiem
per l’Imbrogliona dello Scarabeo». Alcuni pazienti si erano
commossi fino alle lacrime. Jasper aveva assaporato la sensazione di
potere prodo a dalla loro reazione.
La primavera aveva portato i tulipani e un’inversione di tendenza.
Una ma ina di aprile gli era sembrato di sentire un lontano toc, toc,
toc… Prima di sera ne era certo. Il do or Galavazi aveva ipotizzato
che stesse sviluppando un’assuefazione al Queludrin. Aveva provato
alcuni psicotropi alternativi, le bussate tu avia si erano fa e più
vicine e sonore, finché il medico non si era risolto ad aumentare il
dosaggio del Queludrin a quindici milligrammi. Formaggio gli
aveva spedito la serie completa di Anthology of American Folk Music
di Harry Smith. Jasper aveva percepito un’affinità con i brani blues.
Insieme all’insegnante brasiliano aveva imparato «Recuerdos de la
Alhambra» di Tárrega. Quel pezzo era talmente bello da togliergli
quasi il fiato. I germogli si schiudevano. Gli inse i ronzavano. I
picchi martellavano. I boschi intorno a Rijksdorp traboccavano di
cingue ii melodiosi. Jasper era scoppiato in violenti singhiozzi, non
avrebbe saputo dire perché. La clinica aveva organizzato una gita nei
dintorni, dove c’erano i campi di tulipani. Lui era salito sull’autobus,
ma prima ancora di uscire dalla boscaglia di Rijksdorp aveva
cominciato a diba ersi in cerca di ossigeno. L’autobus aveva dovuto
riportarlo indietro. Il suo primo anniversario come paziente era
arrivato ed era passato. Ce ne sarebbe stato un secondo, un terzo, un
decimo?
Le bussate erano ricominciate e il do or Galavazi aveva
aumentato la dose di Queludrin a venti milligrammi. «È l’ultima
volta», lo aveva avvisato. «Ti sta distruggendo i reni.» Jasper si era
sentito come un ga o giunto alla nona vita.
Un giorno d’agosto grootvader Wim era comparso con Heinz
Formaggio, che, oltre a essere quindici centimetri più alto e più
gg q p p
piazzato, sfoggiava una barbe a e un completo di gabardine. Il
giorno seguente si sarebbe imbarcato a Ro erdam dire o a New
York. Un’università di Cambridge, nel Massachuse s, gli aveva
conferito una borsa di studio. I due amici si erano messi a sedere
so o un mandorlo. Jasper aveva suonato «Recuerdos de la
Alhambra». Formaggio aveva parlato dei compagni di classe di Ely,
di teatro, di un’esperienza in barca a vela in Grecia e di una nuova
scienza chiamata cibernetica. Le notizie di Jasper si limitavano alla
routine dell’ospedale psichiatrico. Avrebbe voluto con tu e le sue
forze ge arsi alle spalle la ba aglia contro il demone o, se aveva
ragione il do or Galavazi, contro una psicosi che si fingeva un
demone. Più tardi, mentre una macchina di grootvader Wim
conduceva Formaggio verso il suo radioso futuro, Jasper aveva
capito che la morte è una porta. E si era chiesto: Uno cosa fa con una
porta?

La porta si apre su un atrio turbinante di risate e di aneddoti, con


l’LP Ge /Gilberto che risuona a tu o volume. Gigli e orchidee
traboccano da anfore greche. Una scala curva verso un lampadario
modernista. Un uomo sulla quarantina va loro incontro,
accogliendoli con una cordialità da padrone di casa. «Dean lo
conosco per via dei giornali del mese scorso. Elf è la ragazza e Jasper
quello con più capelli. Restano Griff… e Levon. Chi altri potreste
essere se no? Benvenuti al mio Ballo di Mezza Estate.»
«È un onore, signor Hershey», dice Levon.
«Chiamatemi Tony», risponde con tono fermo il regista. «Niente
formalità qui. Mia moglie mi ha raccontato che quando vi ha
telefonato stavate registrando. Non ditemi che ho disturbato il
vostro flusso creativo. Non ditemi che sono stato il vostro ‘uomo di
Porlock’, tanto per parafrasare Coleridge. Non me lo perdonerei
mai.»
«Hai scongiurato un omicidio», lo rassicura Griff. «Per via di un
certo assolo alla tastiera le cose si stavano me endo male.»
«Queste sono l’anticamera e la scala dove hai girato la scena della
festa in Cat’s Cradle?» domanda Jasper.
«Che occhio! Avevo esaurito il budget a disposizione per il film,
quindi girando qui ci sarebbe stato un set in meno da preparare. Ma
dov’è Tiff? Tiff!» Fa un cenno a una bionda con una voluminosa
messa in piega, una casacca che è un tripudio di blu e rosa, pantaloni
a zampa d’elefante e braccia scoperte. «Guarda un po’ chi è
arrivato!»
«Gli Utopia Avenue», si fa avanti sorridente. «E il signor
Frankland, immagino.» Jasper considera che deve avere quindici
anni meno del marito. «Sono felice che ce l’abbiate fa a con così poco
preavviso.»
«Non saremmo mancati per niente al mondo», replica Elf. «Hai
una casa mozzafiato, Tiffany.»
«Il commercialista di Tony ci ha consigliato di investire i soldi di
Ba leship Hill in ma oni e cemento, o di pagarci dire amente le
tasse. È perfe a per le feste ma starle dietro è un incubo.»
«È Tiffany che mi ha fa o conoscere il vostro disco, Paradise», dice
il regista. «È successo prima di quell’orribile faccenda in Italia. Lo
trovo sublime.»
È un complimento, rifle e Jasper. «Grazie.» Sii cortese. «Lo troviamo
sublime anche noi.» Tu i lo guardano. Devo aver de o qualcosa che non
va.
«La cosa impressionante», dice Tiffany Hershey, «è che a ogni
ascolto ho una nuova canzone preferita.»
«E in questo momento la preferita qual è?» le chiede Dean.
«Da dove comincio? ‘Unexpectedly’ mi fa vibrare il cuore.
‘Darkroom’ mi dà i brividi, ma se proprio proprio mi costringeste a
fare una scelta…» Guarda dri o Dean. «Allora è ‘Purple Flames’.»
Dean non replica nulla. Jasper suppone che sia soddisfa o.
«Se non è troppo sfacciato, Tiffany», Elf tira fuori dalla borsa un
libre o, «ti dispiacerebbe farmi un autografo?»
«Che dolce», replica Tiffany prendendo la penna. «È così strano,
sono secoli che non firmo nulla a parte gli assegni.»
«Mia madre aveva portato me e mia sorella Bea a vedere
Thistledown all’Odeon di Richmond. Alla fine del film mia sorella
aveva dichiarato solennemente: ‘Diventerò un’a rice’. E adesso è al
primo anno di recitazione alla RADA.»
p
«Caspita!» esclama Tiffany. «Questa sì che è una storia!»
«Lo vedi, Tiff?» commenta Hershey. «I tuoi fan sono ancora tu i
lì.»
A Bea Holloway, sorella nella recitazione, Tiffany Seabrook, scrive
Tiffany Hershey.
«Ti ringrazio, lo me erà in cornice», dice Elf.
«Di cosa parla il tuo nuovo film, Tony?» domanda Jasper.
«È quello che Hollywood definisce un road movie. A una pop star
londinese viene comunicato che gli resta solo un mese di vita, decide
quindi di raggiungere in autostop l’isola di Skye per affrontare certe
questioni mai risolte. Ad accompagnarlo c’è il fantasma della sorella
morta, Piper. Avventure ed epifanie lungo la strada sono garantite.
Una catarsi. Un finale ina eso. The End… Finché non fioccheranno
gli Oscar.»
«Se non sono indiscreto, chi farà la pop star?» chiede Levon.
«La questione è controversa e urgente. Albert Finney o Patrick
McGoohan? Oppure un cantante vero che, come dire, conosce sul
serio l’argomento?»
«Meglio scegliere l’originale. Sempre», dice Dean. «La faccio io.
Nei prossimi mesi avrò un sacco di tempo libero, giusto, Levon?»
Dall’espressione e dal tono sembra parlare sul serio, però tu i
sorridono, Jasper quindi ne deduce che stia scherzando, che non si
stia proponendo davvero. Si sforza di sorridere a sua volta. «C’è già
un titolo?»
«Lo stre o sentiero verso il profondo Nord», risponde Tiffany.
«È molto evocativo», commenta Elf. «Mi piace.»
«È anche un titolo di Basho», osserva Jasper. «Il poeta
giapponese.»
«Abbiamo fra noi un le ore onnivoro», dice Tiffany.
«Da giovane avevo parecchio tempo per leggere.»
«Intendi prima di entrare a far parte del Club dei Vecchi
Bacucchi?» chiede il regista con un mezzo sorriso, ma Jasper non
afferra la ba uta.
«Tiffany tornerà a recitare nel ruolo di Piper.» Hershey sorseggia
il suo Pimm’s. «Dopo qua ro anni di assenza dalle scene.»
«Cinque», lo corregge lei. «Sei, quando uscirà il film. Quella tua
canzone, Jasper, ‘The Prize’, mi ricorda ‘Tomorrow Never Knows’.
Era voluto?»
«Non proprio», risponde Jasper. Per un a imo nessuno dice nulla.
Non ho de o abbastanza?
«C’è qui anche John», annuncia Anthony Hershey.
«No, non ci credo, cazzo!» esclama Griff. «Lennon è qui? A questa
festa?»
«Credo sia in soggiorno», dice l’ospite. «Vicino al punch. Tiffany,
li presenti tu? Io devo trovare qualche oliva per Roger Moore…»

«Tre fa i.» Vicino al punch non c’è John Lennon ma un uomo più
vecchio con i denti guasti, un dente di squalo appeso al collo e occhi
infervorati. Tiffany e gli altri proseguono oltre, Jasper no, i fa i gli
piacciono. «Fa o numero uno: durante il Neolitico alieni provenienti
da un altro sistema solare hanno visitato la Terra. Fa o numero due:
le linee temporanee presenti sul nostro pianeta li hanno aiutati nel
corso della navigazione. Fa o numero tre: nei punti in cui tali linee
convergono avvenivano gli a erraggi. Stonehenge era l’aeroporto di
Heathrow dell’Inghilterra preromana.»
«Un vero archeologo potrebbe obie are», interviene una donna
australiana, «che un fa o è un fa o solo quando si basa su prove.»
«Come siamo fortunati, per oggi gli anarchici sono riusciti a fare a
meno di Aphra Booth», replica l’ufologo. «Le Brigate della Torre
d’Avorio hanno già levato belati di protesta contro il mio libro, e ho
dato loro la risposta che do ora alla signorina Booth: ‘Nei miei libri ci
sono seicento pagine di prove, basta rompere i coglioni e leggetele
come si deve’.» Si ferma per godersi le risate. «Credete che abbiano
seguito il mio consiglio? Certo che no. Il pensiero degli accademici è
psicocontrollato dalla culla alla tomba. Durante i miei ultimi anni a
Oxford sono stato alle loro conferenze. Avevo un’unica domanda:
‘Com’è possibile che società umane così distanti, la Valle del Nilo, la
Cina, le Americhe, Atene, Atlantide, India e via dicendo, abbiano
inventato la metallurgia, l’agricoltura, la legge e la matematica a
distanza di pochi decenni l’una dall’altra?’ E qual è stata la loro
risposta?» L’ufologo mima qualcuno con il Parkinson che cerca una
p g q
parola. «‘Be’, fammi controllare sul mio libro di testo…’» Lo mima
mentre gira le pagine. «‘Ah, sì, ecco… È stata una coincidenza!’
Coincidenza. L’ultimo rifugio della bancaro a intelle uale.»
«Se il cielo sopra Stonehenge un tempo pullulava di omini verdi,
dove sono finiti?» chiede Aphra l’Australiana.
«Sono volati via in preda al disgusto.» Il ghigno dell’ufologo
svanisce. «I visitatori ci hanno donato la saggezza delle stelle. Noi
l’abbiamo usata per creare la guerra, la schiavitù, la religione e i
pantaloni per le donne. Eppure i nostri miti, le leggende e la
le eratura pullulano di entità appartenenti ad altri piani dell’essere.
Angeli e spiriti, bodhisa va e folle i. Voci nella testa. Le mie ipotesi
fanno un tu ’uno di simili fenomeni: queste creature hanno un’origine
extraterrestre. Hanno continuato a farci visita per millenni, per vedere
se l’Homo sapiens fosse pronto per la Rivelazione Finale. La risposta è
sempre stata: ‘Non ancora’. Ma quel ‘non ancora’ si sta trasformando
in un ‘molto presto’. Gli avvistamenti di UFO sono sempre più
numerosi. Le sostanze psichedeliche ci stanno guidando verso stati
più elevati di coscienza. Presto gli extraterrestri daranno il via a un
cambiamento epocale. Nel mio libro lo definisco più precisamente
‘cambiamento stellare’.»
Cala un silenzio meditativo. «Mega», dice qualcuno.
A Jasper quell’espressione è del tu o nuova. Immagina che
significhi: «Wow!»
«Se tu fossi uno scri ore di fantascienza», continua Aphra Booth
scuotendo la sigare a, «penserei: Be’, sono fesserie trite e ritrite, ma
ai suoi ammiratori sembreranno mega’. Oppure, se tu avessi fondato
una se a, penserei: Se quelli di Scientology, gli Hare Krishna e il
Vaticano smerciano le loro cretinate, anche lui ha il diri o di
smerciare le sue. Quello che non mi va giù è che tu le faccia
diventare fesserie anche peggiori a ribuendo loro un valore
scientifico. Stai pisciando nel pozzo della sapienza.»
«Dovremmo tu i ringraziare la signorina Booth», dice l’ufologo,
«per averci mostrato come ragiona il mondo accademico, ovvero: ‘Se
non ci credo io, non è sapienza’.»
Aphra Booth soffia fuori il fumo della sigare a. «Quando
ripenserai a queste stronzate fra cinquant’anni morirai di vergogna.»
p q q g g
«Fra cinquant’anni sarai tu a pensare: Perché il mio pensiero era
così impastoiato e anale?»
«Impastoiato e anale?» Aphra Booth spegne la sigare a. «Dio mio,
come siamo caduti in basso…» Andandosene lascia passare Elf. È
con una fanciulla dall’aspe o esotico vestita di velluto nero, con
alcuni tocchi d’argento.
«Jasper, c’è qualcuno che voglio che tu conosca. Lei è Luisa.»
«Ciao, Luisa», dice lui.
«Amo la tua musica.» Dall’accento è americana. «È meglio che
aggiunga in fre a che adoro anche le canzoni di Elf», le due si
scambiano un’occhiata vivace, «‘Wedding Presence’, però, l’ho
sentita così tanto da consumare il disco. È numinosa, se mi passi il
termine.»
Numen, pensa Jasper, in origine «volontà divina». «Grazie. Sono
comete quelle ricamate sulla tua giacca?»
«Già, proprio così. Comete stilizzate.»
«Le ha fa e lei», aggiunge Elf.
«Da piccola, a scuola, avevo preso un’insufficienza in cucito e
so o il voto c’era scri o: Devi impegnarti di più. Mi ha traumatizzato a
vita.»
«Tu sei un’ufologa o una stilista?» chiede Jasper all’americana.
Luisa trova la domanda divertente. «Né l’una né l’altra. Studio
giornalismo con una borsa di studio del programma Fulbright. Sono
fortunata, no?»
«Qui la fortuna non c’entra niente», obie a Elf.
«Oh, piantala. Io ero in Three Kings Yard quando Elf ha avuto il
suo momento ‘Martin Luther King’.»
«Mio Dio, è stato tu o così confuso», dice Elf. «Cos’ho de o non
me lo ricordo, ma sono arcisicura che non fosse ‘I have a dream’.»
«Sei troppo modesta, Elf. Mi stavo occupando di quella storia per
la rivista Spyglass, ho riportato testualmente le tue parole e voilà, è
saltato fuori il mio primo articolo su una testata internazionale.
Insomma, sono in debito con te.»
«Sciocchezze.» Era da prima della morte del nipote che Jasper non
sentiva Elf ridere così.
«Per caso avete intenzione di andare in tour negli Stati Uniti?»
chiede Luisa. «A New York o a Los Angeles per voi si
strapperebbero i capelli.»
«È un bene o un male?» s’informa Jasper.
«Oh, un bene», risponde Luisa. «Decisamente.»
«La nostra casa discografica sta valutando un breve tour
americano», dice Elf. «Adesso Paradise sta vendendo abbastanza
bene. Chissà.»

Mentre sta scendendo la scala curva, a metà strada Jasper sente


una voce.
«Ciao, Mister Famoso.» Il proprietario della voce ha un occhio
azzurro e uno scuro. Indossa un completo nero orlato di bianco con i
bo oni d’argento. «Ci siamo incontrati sulle scale anche l’altra volta»,
dice David Bowie. «In quell’occasione stavo salendo, ora invece
scendo. Che sia una metafora?»
Jasper scuote le spalle. «Se vuoi che lo sia.»
David Bowie dà un’occhiata alle spalle di Jasper. «E… Mecca è
qui?»
«L’ultima volta che mi ha scri o era a San Francisco.»
«E dove se no? Novantanove persone su cento te le dimentichi
all’istante. Ma come Mecca ce n’è una su cento. Su cinquecento. Lei
brilla.»
«Sono d’accordo.»
«Fra i demoni che ti tormentano non mi pare ci sia la gelosia.»
«Le donne vanno con chi vogliono.»
«Ecco, appunto. Quasi tu i gli uomini sono più ‘Io Tarzan tu
Jane’. Io comunque sono geloso di quanti dischi avete venduto. Se la
domanda non è troppo sfacciata», David Bowie gli si avvicina, «è
stato Levon a organizzare tu a la faccenda?»
Per coincidenza, Levon si trova in quel momento nel campo visivo
di Jasper. È ai piedi delle scale e sta riempiendo di vino il bicchiere
di Peter Sellers. «No, a meno che non sia dieci volte più astuto di
quanto sappiamo.»
«Il mio agente invece è dieci volte più ine o di quanto pensassi. I
miei singoli non li hanno mai passati in radio. La mia etiche a
g p
discografica non ha pubblicizzato l’album. E anche quello, come i
singoli, è stato un fiasco.»
«Io l’ho comprato, David. Ci ho trovato molte cose belle.»
«Ah. Se mi avessi messo davanti un bicchiere di whisky e un
revolver saresti stato più gentile.»
«Non volevo offenderti, scusa.»
«Ma no. Scusami tu se ho la scorza delicata.» David Bowie si
passa le mani nei capelli rossi. «È da quando ho mollato la scuola
che sono ‘la prossima grande star’, eppure sono ancora in miseria.
Socializzare con le celebrità al Ballo di Mezza Estate di Hershey non
è male, però domani sarò di nuovo in un ufficio di merda a fare
fotocopie. E se il mio unico talento fosse far credere alla gente che ho
talento?»
Due donne con gli stivali a mezza coscia li superano silenziose.
«Per diventare famosi da un giorno all’altro ci vogliono anni.»
David Bowie fa mulinare il ghiaccio nel bicchiere. «È andata così
anche a te?»
«Ho suonato tre anni per strada in piazza Dam. Dopo…» Potrò
fidarmi? «…un lungo ricovero in una stru ura psichiatrica.»
David Bowie lo guarda dri o negli occhi. «Non lo sapevo.»
«Una clinica discreta in Olanda. Non ho fa o pubblicità.»
David Bowie esita un a imo prima di parlare. «Terry, il mio
fratellastro, fa dentro e fuori dall’ospedale di Cane Hill. I miei
vivono lì vicino.»
Jasper scuote la testa come farebbe un Normale. Sarebbe meglio
annuire?
«Quando ha avuto il suo primo episodio, ero con lui. Stavamo
camminando in Shaftesbury Avenue e ha iniziato a urlare che
l’asfalto si stava spaccando e che sgorgava lava. Per qualche secondo
ho pensato che scherzasse. Gli ho de o una cosa tipo: ‘Okay, Terry,
adesso basta’. Faceva sul serio, però. Due sbirri credevano che fosse
drogato, quindi l’hanno sba uto a terra, vale a dire nella lava, Terry
quindi si sentiva bruciare la carne. La psicosi è davvero terrificante,
cazzo.»
A Jasper torna in mente Toc-Toc negli specchi. «Sì.»
Bowie sgranocchia un cube o di ghiaccio. «Ho paura che sia
anche dentro di me. Che stia ticche ando come una bomba a
orologeria. Certe cose sono ereditarie.»
Quello che so è che dentro di me ticche a. «Io ho due fratellastri. Per il
momento stanno bene. Il ramo De Zoet della famiglia dà la colpa a
mia madre.»
«Come hai fa o a tenerla a bada?»
«Psichiatria. E la musica aiuta. E poi…» Come definirlo il Mongolo?
«…una specie di mentore.» Jasper beve il suo punch ed espone la sua
teoria. «Il cervello costruisce un modello di realtà. Se il modello non
è troppo diverso da quello della maggior parte della gente, vieni
etiche ato come sano. Se il modello è diverso, invece, vieni
etiche ato come genio, disada ato, visionario o fuori di testa. In casi
estremi, uno viene etiche ato come schizofrenico e internato. Senza
il sanatorio di Rijksdorp a quest’ora sarei morto.»
«La pazzia però non è un’etiche a che puoi staccarti di dosso.»
«Scrivi di questo, David. O di condizioni mentali atipiche. Magari
sarà la tua fobia a renderti famoso.»
Il sorriso nervoso di Bowie va e viene. «Hai una sigare a? Lennon
mi ha scroccato l’ultima, da buon milionario di Liverpool qual è.»
Jasper tira fuori un pacche o di Camel. «È ancora qui?»
«Sì, penso. Poco fa era nel cinema.»
«Quale cinema?»
«Anthony Hershey ha un cinema nel seminterrato. Incredibile
come viva l’altra metà del mondo, eh? Prendi il corridoio e supera
quella specie di grande vaso Ming», lo indica, «non puoi sbagliare.»

***

I ripidi gradini scendono ad angolo re o. Lungo le pareti smaltate si


susseguono locandine di film. Les yeux sans visage. Rashōmon. Das
Testament des Dr. Mabuse. I gradini proseguono più di quanto ci si
potrebbe aspe are. Finiscono in una sale a che odora di mandorle
amare. Su una poltroncina c’è una donna che ricama concentrata.
Non ha capelli. «Mi scusi, il cinema è qui?»
La donna alza gli occhi. Il suo sguardo è vuoto. «Popcorn?»
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Jasper non vede traccia di popcorn. «No, la ringrazio.»
«Perché fate questi gioche i con me?»
«Non capisco.»
«Dite sempre così.» Tira una cordicella. Delle tende si aprono e
svelano un muro di tenebre. «Vieni dentro, su.»
Jasper ubbidisce. Non riesce neanche a vedersi le mani. Un’altra
tenda gli sfiora la faccia. Entra in un piccolo auditorium con sei file
di sei sedie ciascuna. Sono tu e occupate, a parte una laterale sul
davanti. Proie ata in un riquadro sullo schermo, a raverso il fumo
delle sigare e c’è una scri a: Panopticon. Mentre Jasper raggiunge la
sedia libera, in basso intravede la sua ombra. Se John Lennon fosse lì,
non riuscirebbe a riconoscerlo. Il film inizia. In una ci à invernale in
bianco e nero, un omnibus si fa largo tra la folla. Un passeggero di
mezz’età logorato dalle preoccupazioni guarda fuori. La neve fi a, i
venditori di giornali, alcuni polizio i che picchiano un tizio sorpreso
a fare mercato nero, volti scavati nei negozi vuoti e lo scheletro di un
ponte bruciato. Jasper considera che il film potrebbe essere stato
girato oltre la Cortina di Ferro. Prima di scendere, il passeggero
chiede un’indicazione al conducente. Questi con un cenno gli indica
di malavoglia un muro gigantesco che oscura il cielo. Il protagonista
cammina fino alla base del muro in cerca di una porta. Crateri,
ro ami, cani randagi. Rovine circolari dove un pazzo dalla chioma
leonina parla a un fuoco. Alla fine, l’uomo trova una porta di legno.
Si incurva e bussa. Toc-toc. Nessuna risposta. Toc-toc. Da un filo che
scompare nel muro ciondola una la ina, inizia a parlarci dentro. «C’è
nessuno?» I so otitoli sono in inglese, la lingua che parlano sembra
fa a di sibili, schiocchi e fruscii. Ungherese? Serbo? Polacco? «Sono
il do or Polonski. Warden Bentham mi sta aspe ando.» Si avvicina
la la ina all’orecchio e quello che sente ricorda a Jasper dei marinai
che affogano. Toc-toc-toc. La porta della prigione si apre. Una cappa
di stanchezza si addensa intorno alla testa di Jasper. Cede…

***

…e si risveglia in un piccolo cinema, illuminato dal bagliore dello


schermo sgombro simile a mercurio. Si guarda intorno. Sono andati
g g
via tu i. Il film è finito. «Mi dispiace che tu te lo sia perso», dice una
voce istruita vicina a lui. Jasper si volta e vede una faccia che ha già
notato sulla copertina di un disco: Syd Barre . L’ex cantante dei Pink
Floyd è stampato in bianco e nero sul bagliore fioco che illumina il
buio. «Com’era il film? Mi sono appisolato.»
Syd Barre si fa scorrere una cartina lungo la lingua. «Quelli che
non hanno mai valicato il Mondo della Sanità Mentale non possono
capire.»
«Capire?»
Syd Barre pressa la lunga canna picchie andola sul filtro. «È
terribilmente triste qui fuori. Hai da accendere?» Jasper recupera
l’accendino di grootvader Wim e fa sca are la fiamma. Syd si china
con la grossa canna in bocca. Si riempie di fumo e gliela passa. A
Jasper fa effe o all’istante. Non è semplice cannabis. Le parole di
Syd gli arrivano in ritardo, frammentate, come se rimbalzassero
contro la luna. «Crediamo di essere un Uno, io e te però sappiamo
che ‘Io’ significa ‘Molti’. Esistono Me Bravi Ragazzi. Me Psicopatici.
Me Che Picchiano La Moglie. Me Narcisisti. Me Santi. Me Che Degli
Altri Se Ne Fregano. Me Suicidi. Il Me Che Non Osa Pronunciare Il
Mio Nome. Me Globi Neri. L’Io è un impero di innumerevoli Io.»
Jasper pensa a Toc-Toc. Si domanda se in realtà abbia mai
trascorso un minuto intero senza pensare a Toc-Toc. Solo nella
musica. «Chi è l’imperatore, Syd?»
Barre lo fissa a raverso due buchi neri, apre la bocca e si spegne
la canna sulla lingua. Sfrigola.

Inizia un altro film. Lo schermo rifulge d’azzurro. Un mare fa o


di puntini, un cielo di smalto, una costa color garza. Sullo schermo
un transatlantico White Star riempie l’inquadratura. La sirena della
nave risuona tre volte. Una scri a in sovrimpressione recita: AL
LARGO DELLA COSTA EGIZIANA, NOVEMBRE 1945 .
Stacco sul ponte della SS Salisbury. Il capitano sbircia in un libro
di preghiere: «Signore, con il potere della Tua Parola hai placato il
caos dei mari primordiali…» È un uomo del Nord, poco portato per
l’enfasi. Recita la preghiera come se stesse leggendo un protocollo
della Marina: «Hai fa o ritirare le impetuose acque del diluvio, e hai
calmato la tempesta nel Mare di Galilea».
Stacco che rivela il ponte per intero. I passeggeri e la ciurma sono
intorno a una bara. Una balia macilenta regge fra le braccia un
bambino di tre giorni. Il piccolo sta piangendo. Il capitano tira dri o:
«O Signore, mentre affidiamo le spoglie terrene di Milly Wallace agli
abissi, concedile la pace…»
Stacco. Due dame inglesi guardano la cerimonia funebre dalla
balaustra del ponte di prima classe. «Una tragedia», dichiara la
prima dama.
«La mia domestica ha sentito dalla figlia della signora Davington
che lei», la donna punta un dito guantato verso la bara, «non era
affa o la ‘signora’ Wallace, ma una ‘signorina’ non sposata.»
«Le serve sono pe egole incorreggibili.»
«Come se non avessero niente di meglio da fare. A quanto pare,
comunque, la signorina Wallace al principio era un’infermiera che
aveva raggiunto Bombay insieme a una ‘flo a di pescherecci’, se mi
consente questa espressione plebea. Una di quelle giovani donne,
insomma, che vanno in India allo scopo di ca urare un pesce
migliore di quello che rimedierebbero a casa. La signorina Wallace,
sembrerebbe, ha sopravvalutato il proprio talento di pescatrice. È
stata lei, piu osto, a essere presa all’amo da un olandese che»,
bisbiglia, «aveva già moglie e figli a Johannesburg…»
Gli occhi della prima dama si spalancano. «Ma davvero? E non è
stato portato davanti a un giudice? Il governatore sarà senz’altro
intervenuto.»
«Una volta scampata la minaccia dei sommergibili tedeschi, il
mascalzone se l’è svignata in Sud Africa. La signorina Wallace è
rimasta sola in quello stato a Bombay, con nient’altro che un biglie o
di terza classe. Poi ci sono stati i ritardi a Bombay e a Aden, e la
natura ha fa o il suo corso prima del previsto…»
«È vero che per ballare il tango bisogna essere in due», dice la
prima dama facendosi aria con un ventaglio, «ma bisognerebbe
proprio avere il cuore di pietra per non provare pena per quella
povera disgraziata.»
Zoomata… sulla bara e su Jasper a tre giorni d’età. Voce fuori
campo della seconda dama: «Guardi quel povero piccino. Senza una
madre, illegi imo. Non è esa amente il migliore degli inizi, no?»
Qua ro marinai in uniforme trasportano la bara fino alla
balaustra. Un quinto suona alla tromba The Last Post.
Stacco. So ’acqua. Più in alto galleggia lo scafo della Salisbury. Il
sole è una sfera abbagliante. La bara s’immerge a raverso la
superficie. I pesci sfrecciano via. La bara di Milly Wallace
sprofonda… sprofonda… sprofonda fino a posarsi sul fondale
increspato. Le eliche della Salisbury vorticano e rombano. La nave se
ne va. Impigliate nella sua scia rimangono le note di «Aquarium» di
Saint-Saëns. I pesci ispezionano quell’ultima offerta.
Per la prima volta nella vita, a quanto ricorda, gli occhi di Jasper si
riempiono di lacrime. È una sensazione aliena e stupefacente. Così è
questo che si prova.
Milly Wallace potrebbe avere un messaggio? La bara cresce finché
il coperchio non riempie lo schermo. Jasper preme un orecchio
contro il legno…
Toc…
Toc toc toc…
TOC! TOC! TOC!
TOC! TOC! TOC!
Jasper si alza e corre verso l’uscita.

Il corridoio è pieno di gente che parla, flirta, beve, fuma, litiga.


Jasper annaspa in cerca di un po’ d’aria. Il cuore gli ba e nel pe o a
più non posso. Le bussate non l’hanno seguito lungo i ripidi gradini
di quella scalinata alla Escher, la sensazione di una condanna a
morte sì. Toc-Toc sta riemergendo e non posso farci niente. Compare
Brian Jones, con indosso un mantello tu o oro e perline. «C’è una
cosa di cui noi due dobbiamo discutere.» L’alito gli puzza di lievito e
mala ia. «Le parole di ‘The Prize’. Ho riconosciuto un paio di versi.
Li hai presi da quella sera allo Scotch.» I pensieri di Jasper deviano
da Toc-Toc a quel membro malconcio degli Stones. «È vero. Alcune
parole sono tue. Grazie.»
«Ecco la parola magica.» Brian Jones disegna una croce nell’aria.
«Ego te absolvo. Vedi? Avrei tonnellate di idee per Mick e Keith, ma
tu o quello con cui mi ripagano è sarcasmo. Dovrei scrivere canzoni
anch’io, sai? Ne hanno concessa una perfino a Wyman in Satanic
Majesties. È deciso. Inizio. Domani. Hai qualche droga?»
«Lord de Zoet di Mayfair e Re Brian di Cotchford Farm.» Rod
Dempsey, lo spacciatore di Dean, si avvicina furtivo. «Se l’udito non
m’inganna, ho appena sentito le mie tre parole preferite. ‘Hai
qualche droga?’, hai de o così, no?»
«Salvami, Sir Rodney di Gravesend», replica Brian Jones. «Di
questi tempi non oso uscire di casa neanche con un’aspirina.»
«Per te, vossignoria», Dempsey gli fa scivolare un pacche o nella
tasca del pancio o, «il medico è sempre in servizio.» Si gira verso
Jasper. «Stimolanti, MDA, erba. Acidi puri come neve immacolata.»
«Magari un’altra volta.»
«Appaio in un soffio e in un soffio scompaio, così sono fa o io.
Brian, passo dalla tua tana la se imana prossima e sistemiamo il
conto. Sta salendo. Né prendere in prestito né prestare, così si dice.»
Strizza l’occhio e abbandona la scena aprendosi un varco fra i corpi.
Dean s’insinua a raverso lo stesso varco. «Jasper. Signor Jones.»
«Compagno galeo o!» Brian Jones afferra Dean per le spalle. «Mi
è venuta un’idea pazzesca. Io e te dobbiamo fare un film carcerario
insieme. Mick ne sta facendo uno. Una stronzata gangster. Lui e
Anita sono nudi in una vasca da bagno, Keith è geloso marcio.
Questa io la chiamo giustizia… Comunque, il nostro film lo faremo
dirigere a Hershey. S’intitolerà The Unbreakables. Che ne dici?»
«Dico: ‘Quant’è la grana?’ e ‘Dove devo firmare?’»
«‘Un mucchio’ e ‘Sulla linea tra eggiata con il sangue’.»
«Allora ci sto, Brian. Una statue a degli Oscar starebbe proprio
bene sul pianoforte di mia nonna.»
«Perfe o. Ne parlo con… la mia gente. Ora vado in bagno ad
aprire il regalo di Dempsey. Ci si vede.»
Lo guardano andare via. «Non riuscirebbe a farsi neanche un
panino al formaggio», commenta Dean. «Figuriamoci fare un film. E
tu dove ti sei nascosto nelle ultime tre ore, amico? Credevo te la fossi
squagliata già da un po’.»
q g g p
«Mi sono addormentato nel cinema.»
Dean lo guarda strano. «Sei andato al cinema?»
«Ce n’è uno qui in cantina. C’era lì anche Syd Barre . Credo.»
«Syd è qui? È davvero piena di gente famosa questa festa. È
assurdo, cazzo. Sono appena andato a sba ere contro Hendrix che
usciva dal cesso.»
«John Lennon è ancora in giro?»
«Lo trovi da quella parte.» Dean indica un affollato corridoio
pieno di scaffali. «È con la sua signora orientale, stanno parlando con
una che somiglia davvero molto a Judy Garland. È un po’ che non
vedo Elf, però, neanche l’ombra. Levon sta cercando di socializzare.
Colm è qui da qualche parte. Se non ci vediamo più, ci si rivede poi a
casa, e se non ci si rivede a casa, ci vediamo domani ai Fungus
Hut…»
«Sì, certo.» Jasper non va troppo lontano. Quasi subito trova la
strada bloccata da Amy Boxer, ex ragazza di Dean e nuova
giornalista di punta del Daily Mail.
«Potrei dire: Che sorpresa incontrarti qui! Però, seriamente, chi è
che non è qui?» Amy Boxer scuote la cenere della sigare a in una
ciotola di cristallo piena di pot-pourri. «Tony e Tiffany se la sono
giocata bene. Immagino che abbiano de o anche a te: ‘Stiamo
facendo un road movie, ma dobbiamo trovare gli a ori, i cantanti o
tu i e due’. Sì, insomma, è stato questo il loro schtick.»
«Schtick?» Jasper non conosce la parola.
«Jasper, tesoro, gli Hershey hanno a irato le stelle più luminose
di Londra al loro Ballo di Mezza Estate, garantendo che sarebbe stato
sia l’evento della stagione sia una gigantesca preaudizione per un
film che forse si farà», gli si avvicina per far passare la principessa
Margaret e Lord Snowdon, «o forse no.»
«Non ne avevo idea», replica Jasper.
«È questo che ti rende», Amy gli tira la crava a come la corda di
una campana, «din don din don, così adorabile. Sai, siete ancora in
debito con me per avervi tirato fuori di prigione in Italia. Cosa
intendi fare per restituirmi il favore? Din don, din don.»
Al crepuscolo, il cielo è una lastra d’ardesia e madreperla. La
piscina illuminata è di un azzurro pomeriggio. Il tendone nel
giardino posteriore pulsa di luce dall’interno, e un trombe ista
accompagnato da un trio jazz con pianoforte sta suonando
«Summertime». Jasper si dirige verso Griff, circondato da un nugolo
di modelle, a rici, esponenti dell’intellighenzia e chissà chi altro.
«Non riuscivo a dormire. Per tu a la no e dalla cella accanto alla
mia arrivavano urla. Erano in italiano, cosa stava succedendo quindi
l’ho capito solo il ma ino dopo, quando sul mio vassoio in mezzo ai
fagioli stufati ho trovato…» il tono di Griff diventa un sussurro, «un
pollice umano.»
Strilli di disgusto. Una voce all’orecchio di Jasper: «Ehi, è andata
così sul serio o il tipo si è fa o prendere dall’entusiasmo?»
Jasper si volta e si ritrova davanti due occhi curiosi, incorniciati da
una capigliatura afro con una specie di cilindro di pelle di serpente e
una sgargiante penna blu. Lo conosco…
«Porca zozza!» Griff alza lo sguardo su di lui. «C’è Jimi Hendrix!»
«Ecco il titolo per il tuo disco da solista, Jimi», interviene Keith
Moon. «‘Porca zozza, c’è Jimi Hendrix!’ Io il mio disco lo voglio
chiamare ‘Man on the Moon’. Forse però suona troppo come una
rivista porno gay.»
«Utopia Avenue, vi apprezzo, belli.» Jimi Hendrix stringe la mano
a Griff e a Jasper. «Il vostro album è roba dell’altro mondo.»
Ricambia il complimento, pensa Jasper. «Axis è fondamentale.»
«Non riesco neanche ad ascoltarlo, amico», replica Jimi Hendrix.
«Il suono è una merda. Ho dimenticato il master originale su un
taxi…»
«E se lo intitolassi ‘Man in the Moon’?» si domanda il ba erista
degli Who. «O così sembrerebbe ancora più sconcio? Quando uno
parte, poi non riesce più a sme ere…»
«Quindi abbiamo dovuto usare una copia strapazzata di Noel»,
prosegue Hendrix. «Chas ha dovuto stirare il nastro. Le eralmente,
con un ferro da stiro. Voi, belli, in che studio registrate?»
«Ai Fungus Hut di Denmark Street», risponde Jasper.
«Lo conosco. Con gli Experience ho tirato fuori da lì il primo
demo in assoluto.»
«Oppure sarebbe meglio il titolo che avevo in mente all’inizio»,
continua Keith Moon. «‘Howling at the Moon’, che ve ne pare? In
copertina ci sarei io travestito da lupo mannaro ululante…»
«Che cos’hai usato per ‘Smithereens’?» chiede Jimi a Jasper. «Non
riesco a capire se c’è di mezzo un fuzz.»
«Ho collegato la chitarra a un vecchio Silverstone di Digger. Il
cono nell’amplificatore era ro o. Per questo il suono è lacerante.»
«Senti senti. E la chitarra era una Strato o una Gibson?»
«Ho solo una Stratocaster. Me l’ha venduta un marinaio a
Ro erdam, così, un fulmine a ciel sereno. Una Fiesta Red del 1959. Il
timbro non è sismico come con le tue, niente pedale per l’effe o fuzz
o spirali, però è versatile. Fa il suo dovere e ringhia abbastanza per il
nuovo pezzo che Dean ha scri o in prigione.»
«Già, ho le o delle vostre vacanze romane. La prigione è roba
pesante.»
«Siete fortunati che Fleet Street si sia mobilitata per la vostra
causa», interviene Brian Jones. «Vogliono la mia testa. E tu o per
una busta d’erba che mi ha messo addosso il sergente Pilcher. Quel
bastardo mi ha perfino fa o scegliere: ‘Vuoi essere incastrato per
erba o per coca?’»
«Quelli al potere se la stanno facendo so o, temono che il vostro
sprezzo delle regole sia contagioso», fa notare un uomo ben piazzato
dagli occhiali severi. Jasper sa che è un famoso drammaturgo, il
nome però gli sfugge. «Se per voi che li avete mandati affanculo c’è
un lieto fine, perché mai un comune plebeo dovrebbe farsi andar
bene il lavoro in fabbrica? È così che scoppia una rivoluzione.»
«Pum pum, sei morto.» Un bambino con un cappello da cowboy,
vestaglia e pantofole spara al drammaturgo con una pistola
gioca olo.
«Chi non lo è prima o poi?» gli chiede il drammaturgo.
«‘Partoriscono a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante,
ed è subito no e.’»
Il bambino studia il circolo di giganti per individuare la sua
prossima vi ima. Sceglie Jimi Hendrix. «Pum pum, sei morto anche
tu.»
«Be’, piccole o, ci sono giorni in cui non mi dispiacerebbe.»
p g p
Il bambino fa roteare la pistola e la infila in una fondina non
appena arriva Tiffany Hershey. «Crispin! Chi ti ha dato il permesso
di scendere?»
«Bad Boy Frank», riba e Crispin, come se con quello la questione
fosse chiusa.
«Mio figlio ha tu a una cricca di amici immaginari», spiega
Tiffany. «Frank si prende la colpa per le marachelle di Crispin.»
Il drammaturgo sostituisce il bicchiere vuoto con uno pieno da un
vassoio di passaggio. «Nella vita, una fantasia vivace è un dono.»
«La fantasia di mio figlio va oltre la semplice vivacità», commenta
Tiffany.
«Tu sei una mamma?» si stupisce Dean. Jasper non aveva notato
che ci fosse anche lui. «No, davvero, non l’avrei…»
Crispin gli punta la pistola contro: «Pum pum, sei morto».
«Sono diventata mamma due volte. È per questo che mi sono
presa una pausa dal cinema. Bene, Crispin, torna su da Aggy prima
che questa festa diventi il Massacro di Mezza Estate.»
Ma il bambino non ha finito. Punta la pistola contro Jasper e sta
per premere il grille o, lentamente. Jasper guarda in giù oltre la
canna, i suoi occhi incontrano quelli dell’uomo che Crispin
diventerà. «Quando sei pronto…»
Il bambino sospira come un adulto annoiato dal mondo. «Tu no.»
Sposta la pistola su Brian Jones: «Pum pum, tu invece sei morto». E
poi su Keith Moon: «Pum pum, anche tu».
Keith Moon la bu a sul ridere. «Sta diventando tu o nero,
ragazzo.»
«Vai verso la luce, Keith», gli dà spago Brian Jones con voce
spe rale. «Vai verso la luce…»
«Non incoraggiatelo», dice Tiffany, ma Keith Moon insiste nella
sceneggiata, si me e a gemere, afferra Brian per un gomito e insieme
barcollano oltre il bordo della piscina. Finiscono in acqua con un
gran chiasso inzuppando gli invitati. Strilli e risate riecheggiano per
tu o il giardino.

Un sassofonista si esibisce in una vigorosa versione di «How


Deep Is the Ocean?». Jasper è carponi in una pallida stru ura larga
p p p p g
poco più di un metro e alta poco meno. Il suolo è morbido. Erba. Si
trascina sulle mani e sulle ginocchia. Le pareti della stru ura sono di
lino. Tocca il te o. Legno. Con le nocche, ba e un toc-toc. Un
equivoco. Toc-toc. È innegabile. Presto, presto, presto. Tu o quello che
può fare Jasper è tenere pronto il Queludrin e continuare a
trascinarsi. Guarda… scarpe. Fianco a fianco. Scarpe da uomo. Scarpe
da donna. Scarpe sfilate. Sandali da cui spuntano unghie dipinte.
Sono so o il tavolo nel tendone. Si ricorda di essersene già reso conto
prima. Si ricorda di essersi ricordato di essersene già reso conto
prima. Jasper si domanda quanto possa essere lunga una catena
simile. La sua mano s’imba e in qualcosa di morbido. Un panino. Lo
schiaccia sino a farne un globo pastoso. Si spiaccica. Toc-toc. Jasper
raggiunge l’angolo opposto di quello spazio. Gira a destra. Non ho
scelta. Non è la prima volta che circumnaviga il So otavolo. Ho perso
l’orologio. Al tempo non importa. Mentre lui percorre la stru ura,
all’angolo successivo compare una testa. Un altro che si trascina so o
il tavolo. A dividerli ci sono sei metri, qua ro e mezzo, tre, uno e
mezzo… I due si studiano a vicenda.
«Tu sei tu, giusto?» chiede Jasper.
«Immagino di sì», risponde John Lennon.
«Ti sto cercando da quando sono arrivato.»
«Congratulazioni, allora. Io stavo cercando…» Ha bisogno di
un’imbeccata.
«Cosa, John?»
«Qualcosa che ho perso», dice il cantante dei Beatles.
«E che cos’è che hai perso, John?»
«La mia cazzo di testa, amico.»

a. Mente sana.
Look Who It Isn’t a

La Triumph Spitfire Mark III rosso ciliegia nuova di zecca teneva


bene le curve intorno a Marble Arch, come se il volante e la mente di
Dean fossero dire amente collegati. Un motore che faceva le fusa,
1296 di cilindrata, crusco o in radica, sedili in pelle color sangue di
bue, velocità massima centocinquanta chilometri orari. «Ma può
raggiungere i centosessanta», gli avevano de o dal concessionario,
«se è in discesa ed è in vena di birbonate.» Sfrecciando lungo
Bayswater Road con il te uccio abbassato, so o il sole e con i rami
degli alberi a fargli ombra, Dean aveva superato una Mini, una
betoniera, un autobus pieno zeppo, un taxi con a bordo un tizio in
bombe a, e si era fermato in un angolino libero davanti al semaforo
accanto all’Hyde Park Embassy Hotel. Gli altri uomini fingevano di
non guardarlo, invidiando lui, la macchina e la misteriosa donna al
suo fianco, nascosta dietro un paio di occhiali da sole Philippe
Chevallier e con una fascia bianca come la neve a cingerle la fronte.
Dean, poco ma sicuro, sarebbe stato geloso marcio, se non fosse stato
lui Dean. Un album al diciasse esimo posto nelle classifiche. Il
numero di Brian Jones e di Jimi Hendrix nella sua agenda nera e,
come se non bastasse, ancora 4451 sterline in banca dopo aver pagato
l’auto nuova. Un’auto che valeva tre o qua ro anni di stipendio, se
avesse lavorato in fabbrica come Ray. A suo tempo, del resto, era
proprio quello che Harry Moffat voleva che facesse. Dean aveva
lasciato riposare la mano sulla leva del cambio a pochi centimetri
dalla coscia color caramello di Tiffany Hershey. La leva vibrava.
«Quindi? Ti sei per caso pentito dell’acquisto?» gli aveva chiesto
l’a rice.
«Pentito di questa? Starai scherzando.»
Con noncuranza, lei gli aveva dato qualche colpe o sulla mano.
«È un’opera d’arte.»
Erano solo colpe i o le va di toccarmi? «Grazie per avermi
accompagnato, Tiff. L’hai vista la faccia di quel cretino di venditore
quando si è reso conto di chi eri?» Dean fa la sua voce impostata:
«Oh, dunque lei è un amico degli Hershey? Vado subito a chiamare
il signor Gascoigne».
«Tony si scusa per non essere potuto venire. Quando gli
americani sono in ci à, tu o il resto non esiste più.»
A Dean che Tony non ci fosse non dispiaceva per niente. Il
semaforo era diventato verde, aveva premuto sull’acceleratore e la
Spitfire era partita. La brezza giocava con i capelli sciolti di Tiffany.
All’altezza dei Kensington Palace Gardens si era fermato di nuovo
davanti a un semaforo rosso. Lei gli aveva posato il guanto
scamosciato sulla mano. «Sarebbe tanto terribile da parte mia
chiederti di fare una scappata a Knightsbridge, Buckingham Palace e
Pall Mall? Non mi sentivo così libera da… anni.»
«Mi aspe ano ai Fungus Hut a mezzogiorno, ma fino a quel
momento sono tu o tuo.»
«Che caro. Prendi la prossima a sinistra.»
«Lì ci sono una cancellata e un polizio o. Credi si possa andare in
macchina da quella parte?»
«Con Tiffany Seabrook su una Triumph con la capote abbassata,
sì.»
Dean aveva svoltato a sinistra e aveva rallentato fino a fermarsi
davanti al cancello.
«Che ma inata stupenda!» Tiffany si era tolta gli occhiali e aveva
sfoderato un sorriso raggiante. «Abbiamo una colazione con gli
Yukawa all’ambasciata giapponese. Possiamo passare?»
Il polizio o aveva guardato Tiffany, la macchina e Dean,
esa amente in quest’ordine. «Ma certo, signorina. E buon pranzo,
signore.»
«È un talento utile, la recitazione», aveva commentato Dean non
appena si erano allontanati.
«Tu i recitano. La cosa difficile è farlo bene e raccoglierne i fru i.»
La Spitfire aveva imboccato rombando un viale alberato pieno di
ambasciate. Dean non conosceva la maggior parte delle bandiere. I
vecchi imperi si sfaldavano, ogni anno spuntavano nuove nazioni.
Non molto tempo prima rischiava tre anni di carcere a Roma, adesso
invece superava a tu o gas una fila di ambasciate su una Triumph
Spitfire, e gli sbirri lo chiamavano «signore». Aveva girato a sinistra
in Kensington Road, e fino alla Royal Albert Hall aveva trovato solo
semafori verdi. A quel punto aveva de o a Tiffany: «Gli Utopia
Avenue un giorno riempiranno quel posto».
«Riservami il palco reale. Sarò lì a guardarti adorante.»
Aveva de o «guardarti», non «guardarvi» e neppure «il gruppo».
La voglia di Dean si era alzata di una tacca. Lei aveva fa o apparire
dal nulla uno specchie o e si era ritoccata il rosse o. Dean si era
messo in guardia, aveva considerato i motivi per cui una relazione
con lei non sarebbe stata una mossa furba. Era madre di due figli. Il
marito avrebbe cancellato la partecipazione ormai confermata della
band nella colonna sonora di Lo stre o sentiero verso il profondo Nord.
Levon, Elf e Griff sarebbero andati su tu e le furie. Nel caso lo
avessero scoperto.
Dean si era immaginato di spogliarla.
Il suo ba ito era aumentato di un’altra tacca.
«Un penny per i tuoi pensieri», aveva de o Tiffany.
Lui si era domandato se tu e le donne sapessero leggere nella
mente, o solo alcune, oppure solo quelle con cui lui finiva a le o. «I
miei pensieri li tengo stre amente so o chiave, Tiffany Seabrook.»
Tiffany aveva replicato con una voce da nazista ca ivo. «Come
fuole, Herr Moss, per fare parlare abbiamo modi a cui non saprà
resistere.»

La puntina si alza con uno sca o alla fine del lato A di Blonde on
Blonde. Tiffany toglie a Dean la benda dagli occhi e gli scioglie le
corde intorno ai polsi. Un venticello smuove lievemente le tende
della stanza. Londra ronza, tambureggia, accelera, frena e respira.
L’effe o della cocaina se n’è andato. Accanto allo specchio ci sono il
coltellino svizzero e una cannuccia tagliata. Quel coltello Tiffany
avrebbe potuto piantarglielo ovunque. Almeno non ha più paura di
p p g q p p
beccarsi lo scolo. Dal giorno della Triumph è la terza volta che si
vedono. Se lei avesse qualcosa, a quest’ora lui starebbe pisciando
acido delle ba erie. Tiffany si sdraia. «Scusa se ho esagerato con i
morsi. Quando ho conosciuto Tony, fino all’ultimo ero fra le tre
candidate per quel film di vampiri, Kiss of the Vampire. Ma hanno
dato la parte a una bambolona americana…»
Dean si sfiora il succhio o che gli ha lasciato sulla clavicola.
«…poi sono rimasta incinta del mio primo figlio, Martin, e fine
della storia. Parlando di cose positive, invece, tu la tua audizione
l’hai superata a pieni voti.»
«Dici?» Dean addenta una mela mezza mangiata. «E la parte qual
è?»
«Spiritoso.» Gli prende la mela e con un grosso morso la finisce.
«Tiffany Moss suona meglio di Tiffany Hershey.»
Sta solo facendo la spiritosa, pensa Dean.
«Quando la nostra relazione sarà di pubblico dominio, l’anello di
fidanzamento dovrà essere più grande di quello che mi ha regalato
Tony. La gente a certe cose ci fa caso.»
Dean mastica più lentamente. Tra un a imo questo scherzo le verrà a
noia.
«Il mio avvocato dice che se riesco a provare l’adulterio di Tony,
avrò più probabilità di tenermi la casa di Bayswater. Mi sono
segnata tu o, meglio però se nel fra empo compri un posto in cui
possiamo vivere insieme. Un te o sopra la testa ci vuole.»
Dean la guarda per assicurarsi che stia scherzando.
«Chelsea è una zona carina. Ci vuole uno spazio grande a
sufficienza per le feste. Una stanza per una domestica e una ragazza
alla pari. I bambini poi hanno bisogno di una stanza ciascuno. A
Crispin già piaci. E Martin prima o poi sme erà di odiarti…»
La mela gli si blocca in gola.
«Magari presto, se gli regaleremo un fratellino.»
Il pensiero decisamente sgradevole di una certa Mandy Craddock
e del suo pargolo è il primo a saltargli in mente. Un a imo dopo,
però, viene rimpiazzato dal pensiero altre anto sgradevole che
Tiffany non stia scherzando e che sia serissima. Dean si drizza a
sedere e si ritrae. «Ascolta, Tiff… Io… non credo che…»
«Ma no, certo, hai ragione. Chelsea in fondo è così banale. Vada
per Knightsbridge. Avremo Harrods a due passi.»
«Sì, però… voglio dire, noi ci siamo appena… insomma…»
Anche Tiffany si me e a sedere, coprendosi il seno con il lenzuolo
sudato. Lo guarda e aggro a la fronte, evidentemente spiazzata.
«Insomma cosa, tesorino?»
Dean fissa la sua amante adultera. E adesso come me la cavo,
maledizione? Tiffany cambia espressione, sfoderando un grande
sorriso impertinente. Il sollievo si scioglie come zucchero nel sangue
di Dean. «Sei una strega, una strega diabolica, ecco cosa.»
«Alla scuola d’arte drammatica è uno dei primi esercizi.»
«Ci sono cascato in pieno, dannazione.»
«Be’, ti ringrazio. Io…» L’espressione cambia, si fa un po’ schifata.
«Solo un a imo.» Strappa un fazzole o dalla scatola di Kleenex, si
volta e si ripulisce. Quando si gira di nuovo si accorge di avere uno
sbaffo cremoso dietro il pollice. «Guarda qui.» Lo osserva con
a enzione. «L’essenza della vita.»

Dieci giorni prima, nel loro appartamento, Jasper stava facendo


sentire a Dean una versione ancora grezza della sua nuova canzone,
quando era squillato il telefono. Era Levon, voleva parlare con Dean
e il tono era serio. «Bene, ti dico cos’è successo. Una ragazza di nome
Amanda Craddock è appena venuta alla Moonwhale insieme alla
madre, a un avvocato e a un bambino di tre mesi. Sostengono che il
padre del piccolo sia tu.»
Come prima reazione, Dean si era sentito svenire. Poi aveva
provato a dare un volto a quel nome. «Amanda Craddock» non gli
era familiare… però non gli era neanche del tu o estraneo.
«Dean? Mi hai sentito?»
Bocca secca, gola serrata. «Sì.»
«Allora, questa ragazza mente oppure no?»
«Non lo so…» aveva gracchiato lui a mezza voce. «Proprio… non
lo so.»
«‘Non lo so’ non è un’opzione. Abbiamo bisogno di un ‘sì’ o di un
‘no’. Entrambe le risposte creano problemi, ma i problemi in un caso
possono essere più costosi che in un altro. Puoi venire in ufficio?»
p p
«Subito? Lei è ancora lì?»
«No, lei se n’è andata, e sì, subito. Ted Silver partirà dopo pranzo,
nel fine se imana giocherà a golf. Per parlarne dobbiamo esserci
tu i.»
Dean aveva riagganciato. Jasper stava continuando a strimpellare
in soggiorno, sul divano incassato nel pavimento. Amanda Craddock?
Tre mesi più nove volevano dire giugno o luglio dell’anno prima, più
o meno quando si era sposata Imogen, o quando avevano suonato a
Gravesend. Lui ai tempi stava con Jude. C’erano stati alcuni incontri
extracurricolari, ma Dean aveva de o chiaramente, o quasi, alle
donne coinvolte che non voleva una ragazza fissa. Il sesso
occasionale con una celebrità sarebbe rimasto per loro molto, molto
casuale. Non c’era niente di scri o, però era comunque un accordo.
Sfortunatamente, si rendeva conto in quel momento, sugli accordi
verbali c’erano clausole in piccolo quanto in quelli scri i.

***

Dopo aver de o a Jasper, poco affidabile come bugiardo, che usciva


per una commissione, Dean si era dire o a piedi in Denmark Street.
Mentre a raversava Mayfair, calda e afosa, aveva provato a fare un
elenco delle ragazze dell’estate precedente. C’erano state due
groupie che aveva conosciuto a un party di Roger Daltrey a No ing
Hill. Era maggio? C’era stata la ragazza nella Land Rover a
Loughborough, dopo il concerto per l’associazione Giovani
Agricoltori. Che di nome facesse Craddock? Poi Izzy Penhaligon, in
giugno. O luglio. Non aveva proprio idea di chi fosse quell’Amanda,
doveva amme erlo. Sperava di risolvere la questione prima che la
notizia giungesse alle orecchie di nonna Moss e di Bill. Nel loro
mondo, quando un ragazzo me eva una ragazza «nei guai» la
doveva sposare, punto e basta. Come era successo a Ray con Shirl.
Ma quel mondo, tu avia, non era più il suo. Le avrebbe pagato un
aborto, a saperlo prima. Erano legali ormai. Le ragazze non
rischiavano più di morire chissà dove, dissanguandosi su un secchio
nel salo ino di una vecchia domestica. Dean aveva arrancato in
Greek Street, si era infilato nella breve galleria accanto al Pillars of
Hercules ed era sbucato in Mane e Street.
«Mi sa dire l’ora?» gli aveva chiesto una ragazza. Per gli standard
dei vicoli di Soho era carina. Dean si era fermato un a imo. Male
interpretando l’esitazione di Dean, dall’ombra incrostata di fuliggine
era spuntato un pappa. «Lo a arriva fresca dalla campagna. Bella e
pulita. Formosa e appetitosa.»
Nauseato, Dean si era spostato rapidamente in una zona più
illuminata, dopo la libreria Foyles. Avrebbe voluto che quella storia
fosse solo un film. Una volta alla Moonwhale gli sarebbe piaciuto
non trovarsi di fronte Bethany, che avrebbe alzato gli occhi dalla
macchina da scrivere per guardarlo e avrebbe de o: Buongiorno
Dean, più o meno come se fosse tu o normale.

Il lato B di Blonde on Blonde termina con uno sca o. La coscia di


Tiffany è incollata alla sua. Se proprio dovevo me ere incinta qualcuno,
non potevi essere tu? Tu cinque anni fa, senza marito e senza figli,
ovviamente.
«Un penny per i tuoi pensieri», dice lei.
Quella frase cominciava a dargli sui nervi. «Pensavo… a Bob
Dylan.»
«È un vostro caro amico, giusto?»
«Macché. L’ho visto un paio d’anni fa alla Royal Albert Hall.»
«Tony aveva i biglie i per quel concerto, c’era Martin con la
varicella però, così ha portato Barbara Windsor al posto mio. Mi
aveva de o che durante l’esibizione c’era stato un po’ di trambusto.»
«Metà del pubblico si aspe ava ‘Blowin’ in the Wind’, invece si
sono ritrovati davanti a un pandemonio sonoro. La cosa non li ha
entusiasmati.»
«Dylan non l’ho mai capito bene. Quando nella canzone dice ‘you
fake just like a woman’ e poi… Com’è che fa? Amare come una donna,
soffrire come una donna e poi cadere a pezzi come una ragazzina,
credi che stia criticando la fragilità della sua ragazza in particolare?
Oppure sta dicendo che le donne in generale sono fragili? O se no
cosa? Perché non è più chiaro?»
«Lascia spazio all’interpretazione, immagino. A me questo piace.»
p p g q p
Tiffany gli disegna un cerchio intorno al capezzolo. «Preferisco le
tue canzoni.»
«Scomme o che lo dici a tu i.»
«I tuoi testi sono storie. O un viaggio. E anche quelli di Elf.»
«E quelli di Jasper?»
«Le canzoni di Jasper ricordano un po’ Dylan, in un certo
senso…»
«Adesso lo ucciderò in un a acco di gelosia.»
«No, non farlo. Questo appartamento è perfe o per i nostri
incontri.»
«A me l’Hyde Park Embassy Hotel piaceva.»
«A ogni appuntamento bisognerebbe cambiare ambientazione…»
Sembra che per lei non sia una novità, pensa Dean.
«Il personale dell’hotel sa essere riservato in cambio di una
mancia, ma questa ci à ama i pe egolezzi, e Tony non è un signor
nessuno.»
«Quando torna da Los Angeles?»
«A fine mese. La data continua a cambiare.»
Il telefono in corridoio fa drin-drin.
Dev’essere Ted Silver, pensa Dean, con le novità su Mandy
Craddock.
Il telefono in corridoio fa drin-drin.
«Non vai a rispondere?» gli chiede Tiffany.
Il telefono in corridoio fa drin-drin.
«Vada al diavolo. Sto troppo bene qui con te.»
Il telefono in corridoio fa drin-drin.
«Tony sarebbe schizzato di là», dice Tiffany. «Quando squilla il
telefono è come il cane di Pavlov.»
Il telefono in corridoio fa drin-drin.
Dean si dice che quel Pavlov dev’essere un regista russo
sperimentale. Il telefono sme e di squillare e Tiffany si abbandona a
uno strano sospiro. «Era tanto che qualcuno non mi preferiva a una
telefonata.»
Si sente una chiave girare nella porta d’ingresso. Tiffany si
irrigidisce.
«È soltanto Jasper», la tranquillizza Dean. «Ho messo il cartello
NON DISTURBARE sulla porta.»
Lei è comunque nervosa. «Avevi de o che sarebbe stato fuori
tu o il giorno.»
«A quanto pare ha cambiato programma. Comunque, qui dentro
non entra.»
«Nessuno deve sapere di noi. Non scherzo.»
«Vale anche per me. Non voglio farlo sapere a nessuno neanch’io.
Vado a dire a Jasper che mi è venuta a trovare una persona molto
riservata. Quando poi uscirai si rintanerà da qualche parte. Non è
per niente un ficcanaso. È uno a posto.»
Dean infila mutande e vestaglia.

Jasper è in cucina che beve un bicchiere di la e.


«Com’era la mostra?» gli chiede Dean.
«Notevole, Luisa però aveva un’intervista con Mary Quant, così
lei ed Elf se ne sono andate e io sono tornato presto.»
«Elf la sta vedendo parecchio questa Luisa.»
Jasper lo fissa con a enzione. «Hai appena fa o sesso.»
«Cosa te lo fa pensare?»
«Succhio i, mutande, vestaglia e…» Jasper fiuta intensamente
l’aria «…un odore di brie troppo stagionato.»
Puah. «Ascolta, Jasper, la fanciulla in questione è timida, perciò se
te ne vai nella tua stanza quando lei esce te ne sarei grato.»
«Ma certo. Elf arriverà alle sei, meglio quindi se la tua amica se ne
va prima. Non è da me curiosare, ma Elf lo farebbe senz’altro.»

Bethany aveva sollevato gli occhi dalla macchina da scrivere per


guardare Dean e aveva de o: «Buongiorno Dean», come se fosse
tu o normale.
«’Giorno, Bethany. Dunque, ehm…»
«Ted è entrato ora nell’ufficio di Levon.» Tippete-tap-tap-tap.
Dopo aver bussato, Dean aveva aperto le porte scorrevoli di
Levon. Lui e l’avvocato erano seduti davanti al tavolino e stavano
fumando.
«Parli del diavolo…» Ted sembrava divertito.
«Accomodati.» Levon lo sembrava molto meno.
Dean aveva sistemato la Fender contro lo schedario e si era
seduto. Si era acceso la quinta Marlboro della ma ina.
«Dunque», aveva iniziato Ted, «giusto per farti una delle
domande più vecchie della storia: sei tu il paparino?»
«Boh. Non ricordo nessuna Amanda. Frequento un mucchio di
ragazze, ma non mi appunto i loro nomi, niente del genere.»
Levon aveva preso la sua agenda e aveva sfilato la foto di una
ragazza con in braccio un bambino. Lei aveva i capelli neri, gli occhi
scuri e un sorriso ambiguo. Il bambino era uguale a qualsiasi altro
bambino. Dean avrebbe classificato la madre alla voce «Non le direi
di no».
«Be’?» aveva domandato Levon. «Ti è sca ato qualche ricordo?»
«Niente di preciso.»
«La signorina Craddock invece è precisa», aveva riba uto Levon.
«Ventinove luglio. Il Love-In Festival all’Alexandra. Avevate suonato
fra i Blossom Toes e i Tomorrow. Dice che voi due vi siete conosciuti
dietro le quinte durante l’esibizione dei Crazy World of Arthur
Brown, che siete andati a casa sua, sopra una lavanderia, e che nove
mesi dopo», Levon aveva sollevato la fotografia, «è nato Arthur
Dean Craddock.»
Di colpo, come una tivù quando si spegne, la nube indistinta del
dubbio si era rido a a un puntolino bianco ed era scomparsa. Merda
merda merda. La lavanderia. Mandy, non Amanda, gli aveva chiesto:
«Ti vedrò ancora?» E lui le aveva propinato la sua classica ba uta:
«Non roviniamo una serata meravigliosa». La madre piegava vestiti
nella lavanderia so ostante. Lo aveva guardato senza dire nulla e lui
aveva raggiunto come un fuggiasco la strada silenziosa, era
domenica. «Okay, è successo», aveva de o a Levon.
«Il che non è un reato di fronte alla legge né costituisce una prova
che il piccolo Arthur sia il fru o dei tuoi lombi», aveva fa o notare
Ted Silver. «Le ragazze madri mentono spesso, si sa.»
Dean guardava il bambino con una nuova speranza e un nuovo
senso di colpa. Aveva in sé qualcosa dei Moss, o dei Moffat? Avrebbe
voluto mostrare la foto a nonna Moss, ma al tempo stesso temeva di
p
farlo. Si sarebbe infuriata. «So che si può fare un esame del sangue
per…»
L’avvocato, sventolando una mano, gli aveva fa o segno di lasciar
perdere. «I test sul gruppo sanguigno rivelano la paternità nel trenta
per cento dei casi. Non sono una prova inconfutabile.»
«Quindi cosa posso fare?»
Ted Silver aveva recuperato un bisco o allo zenzero. «Potresti
dichiarare di non aver mai conosciuto la signorina Craddock. Te lo
sconsiglio. Se la faccenda finisse in tribunale, saresti costre o a
giurare il falso.» Addenta il bisco o. «Oppure potresti amme ere
che tu e la signorina Craddock quella sera eravate in concubitus,
diciamo, negando però la paternità del bambino.» Mastica il bisco o.
«Altrimenti puoi dire le cose come stanno.»
«E se lo faccio, qual è il prezzo?»
«Le cifre esa e dipendono dalle tra ative, naturalmente.»
«Naturalmente. Ma?»
«Ma se fossi io a rappresentare i Craddock, chiederei un gruzzolo
che corrisponda a quello che sarebbero disposti a pagare i giornali,
più una quota mensile indicizzata a sostegno del bambino fino al
compimento dei dicio o anni.»
«Maledizione. E in che anno sme erei di pagare?»
«1986.»
La data apparteneva a un futuro incredibilmente lontano. «E con
annessi e connessi, la cifra di cui stiamo parlando sarebbe…»
«Più di cinquantamila sterline. Tenendo conto dell’inflazione.»
L’ufficio si era inclinato e si era messo a vorticare come una tazza
rotante del luna park. Dean aveva chiuso gli occhi perché si
fermasse. «Cinquantamila sterline per una scopata? Per un bambino
che potrebbe anche non essere mio? Non esiste. Può andare
affanculo.»
«Temporaneamente, allora, stavamo valutando la seconda
alternativa. Amme ere che tu e la signorina Craddock avete
condiviso un momento d’intimità, ma non riconoscere la paternità
del bambino.»
Dean aveva riaperto gli occhi. La stanza era di nuovo normale.
«Sì. Facciamo così. Chissà come mai lei non mi ha mai cercato
finché non ha visto che ho messo da parte qualche soldo. Tu a
questa storia puzza di corsa all’oro.»
Ted si era rivolto a Levon. «Perplessità? Preoccupazioni?
Implicazioni?»
Il manager si era acceso una sigare a. «Se l’immagine della band
che abbiamo proposto richiamasse quella degli Stones, la gente
direbbe: ‘Tu o in regola’. Se al contrario vi avessimo proposto come
una versione inglese di Peter, Paul and Mary, vi farebbe a pezzi. Ma
come si regolerà la gente con gli Utopia Avenue? Sui giornali
qualcuno potrebbe scrivere: Forse avremmo dovuto lasciarlo marcire in
prigione in Italia. Le fan di Elf potrebbero domandarsi perché stia in
una band insieme a un inseminatore fedifrago. D’altra parte, i
seguaci più sanguigni di Dean penserebbero: Bel colpo, vecchio mio.
È vero anche che queste reazioni non si escludono a vicenda. Il tu o
aumenterà la visibilità del gruppo sui giornali, questo è certo.»
«Sono d’accordo», aveva commentato Ted Silver. «Intanto
cerchiamo di guadagnare tempo. All’avvocato dei Craddock dirò che
sei so o shock. Chiederò che ci concedano due se imane per
organizzare una proposta relativa al prossimo passo. Farò ben
presente che se i Craddock dovessero parlarne con i giornalisti, ogni
accordo sarà fuori discussione. Dirò anche che procederemo
immediatamente con l’esame del sangue. Se la signorina Craddock è
una cacciatrice di dote, potrebbe spaventarsi e fare marcia indietro.
A ogni modo, l’esame del sangue ti farà apparire responsabile, se
mai dovessimo ritrovarci di fronte a un giudice.»
Giudice. Giornali. Scandalo. No.
«I Craddock sono dei poveracci, giusto? Dove li trovano i soldi
per un’azione legale e roba del genere?»
«Di certo non navigano nell’oro.»
«Quindi, a quanto pare, se denunciarmi costerebbe un occhio
della testa…»
«Potrebbero, e dico potrebbero, lasciar perdere.» Ted Silver aveva
dato qualche colpe o alla pipa. «Ricordatelo, Dean, se trent’anni di
pratica legale mi hanno insegnato qualcosa, è che il querelante è una
bestia mutevole.»
Il lato C di Blonde on Blonde termina, la puntina sca a all’insù.
«Quando è arrivato Martin, io e Tony abbiamo fa o un pa o.»
Tiffany scrolla la sigare a nel posacenere. «Io mi sarei presa una
pausa dalla carriera e avrei fa o la madre a tempo pieno, a casa,
assecondando i desideri di Tony. In cambio, dopo cinque anni, lui
avrebbe fa o un film di cui sarei stata la protagonista. Do ut des. Io
sono un’a rice. Thistledown è stato uno dei film inglesi più
importanti del 1961. La gente mi conosce per i film della serie Carry
On, per La Tempesta al National, per Ba leship Hill. Ho perso per un
pelo la parte di Honey Ryder in Licenza di uccidere. Comunque
avevamo deciso. Io cambiavo i pannolini, riempivo i biberon, davo
istruzioni alla tata, passavo le no i in bianco, e nel fra empo Tony
dirigeva Wigan Pier e Getsemani. Il mio agente riceveva offerte, ma
Tony mi diceva che non dovevo sprecarmi, che dovevo pensare al
grande ritorno di Tiffany Seabrook. L’anno scorso lui ha finalmente
iniziato a scrivere la sceneggiatura di Lo stre o sentiero verso il
profondo Nord, e quando dico ‘lui’ intendo ‘noi’. Ho scri o più io di
Max, il co-sceneggiatore di Tony. Piper, la sorella morta della
rockstar, è un ruolo da favola ed era mio. Fino a due se imane fa.
Fino al giorno in cui hai comprato la macchina.»
«Cosa c’entra la mia Spitfire?»
«Niente. Solo che quando sono rientrata a casa, Tony era lì che mi
aspe ava con la novità», Tiffany serra la mandibola, «cioè che la
Warner Bros. era impazzita per la sceneggiatura. Investiranno mezzo
milione di dollari, a condizione che a recitare la parte di Piper sia
Jane Fonda.»
«Jane Fonda? In un’odissea spirituale verso l’isola di Skye?»
«Vogliono girare il film a Los Angeles e intitolarlo Lo stre o
sentiero verso il Far West. Diventerà tu o te e, mojito e bambolone
svampite.»
Dean sente Jasper aprire l’acqua della vasca. «Ma è una follia,
cazzo.»
«È un tradimento! Quindi ho de o a Tony di riferire agli yankee
dove possono ficcarsi il loro mezzo milione. E indovina cosa mi ha
risposto?»
Qualunque sia stata la risposta, dubito che ti sia piaciuta. «Cosa?»
q p p
«Che non ha pagato la sua casa, i miei gioielli, il ‘mio’ Ballo di
Mezza Estate e le tate per poi rifiutare mezzo milione di dollari. Fine
del discorso. Fait accompli.»
Chi? Cosa? «È una pugnalata alla schiena.»
«Tony ha provato a condirmi via con un nuovo ruolo che vuole
aggiungere la Warner Bros., una lesbica demente e psicopatica. Gli
ho de o di andare affanculo, ed è quello che ha fa o. Se n’è andato a
Los Angeles. A testare le a rice e.»
Quindi, pensa Dean, mi sta scopando per vendicarsi. Ma me ne
frega qualcosa in fondo?
«Non avevo intenzione di dirtelo», continua Tiffany. «Un’amante
segreta che si lamenta del marito non credo sia molto…»
Non posso negarlo. Dean la bacia, però sente girare una chiave nella
porta d’ingresso e si ritrae di sca o tendendo le orecchie.
«Cosa succede?» chiede Tiffany.
«Jasper sta facendo il bagno. Chi potrà mai essere?»
Sente delle voci. Con grande sangue freddo, Dean infila pantaloni
e maglie a e agguanta una bo iglia che fa da portacandela e che,
volendo, potrebbe fungere da randello. Sga aiola nel corridoio.
Jasper, nel bagno, sta ascoltando la radio a tu o volume e potrebbe
non aver sentito nulla. Di fronte a sé, dietro la tenda di perline, Dean
vede due intrusi…

Con un urlo si fionda a raverso le perline. Uno dei due ladri


lancia uno strillo e, terrorizzato, fa un balzo all’indietro. Urta
l’appendiabiti, che casca a terra, e arretra di qualche passo. Il più
vecchio dei due rimane calmo. Ha circa cinquant’anni, indossa un
completo austero e fissa Dean come se quel posto fosse suo. Dean
brandisce la bo iglia. «Chi cazzo siete? Che cazzo ci fate in casa
mia?»
«Sono il proprietario della casa», dichiara il più vecchio con un
accento straniero. «Sono Guus de Zoet. Il padre di Jasper.»
«Che cosa?»
«Credeva fosse nato in un laboratorio? Questo è mio figlio
Maarten.» Maarten, che deve avere una trentina d’anni, si ricompone
scocciato. «Quindi adesso le facciamo noi la stessa domanda. Lei chi
è? Cosa ci fa in casa mia? E me a giù quella bo iglia. Si sta rendendo
ridicolo.»
Dean nota una certa somiglianza con Jasper. «Mi chiamo Dean.
Vivo con Jasper. Dovete scusarmi, credevo foste due ladri.»
Jasper arriva gocciolante con un asciugamano legato intorno ai
fianchi. Scambia con il padre e il fratellastro qualche frase in
olandese. Ha tu a l’aria di non essere un’allegra rimpatriata. Dean
viene chiamato in causa. «Datemi un minuto», dice loro Jasper,
«arrivo subito», poi torna in bagno.
Maarten de Zoet raccoglie l’appendiabiti. «Suoni il basso nel
gruppo di Jasper, se non sbaglio.»
«Non definirei esa amente gli Utopia Avenue il gruppo di Jasper.
Se voi aveste suonato il campanello, non sarei… saltato a conclusioni
affre ate.»
«Ho telefonato un’ora fa», replica Guus de Zoet. «Non ha risposto
nessuno e ho dato per scontato che la casa fosse vuota.»
Ah, pensa Dean, eri tu.
«Da quando lei è un mio inquilino, Dean?» chiede Guus de Zoet.
Inquilino? Affi o? Imbarazzante. «Facciamo che su questo le
risponde Jasper.»
«Ma quando si è trasferito qui se lo ricorderà, no?»
«Accomodatevi. Preparo un tè.»
«Davvero molto inglese», osserva Maarten.

***

Tiffany stava origliando, cercando di capire se dovesse me ersi a


gridare dalla finestra in cerca di aiuto. Non vuole certo rimanere
intrappolata in quell’appartamento. La tata l’aspe a a casa per le
se e e sono già le cinque passate. Dean va in cucina. Trova i due
visitatori a fumare Chesterfield e Jasper una Marlboro: stanno
discutendo in olandese. Si gira per andarsene, ma il bollitore
comincia a fischiare e nessuno dei De Zoet si sposta di un millimetro.
Dean allora prepara il tè e quando gli pare d’intuire una pausa nella
conversazione in olandese chiede: «Che cosa la porta a Londra,
signor De Zoet?»
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«Veniamo a Londra tre o qua ro volte all’anno.»
«Ed è la prima volta che capita qui?»
«Vengo a Londra per affari, non in vacanza.»
E della famiglia non le importa? sta per domandargli Dean, ma
poi ricorda di non essere mai andato a trovare Harry Moffat,
allontana il pensiero del figlio di Mandy Craddock e porta la teiera
in tavola.
«Ci stiamo espandendo», prosegue il signor De Zoet, «potrei
iniziare a venire più spesso.»
«O imo», commenta Dean versandogli il tè. «La e?»
«Un po’ di la e andrà bene», risponde il padre di Jasper.
«E tu? Ops, posso chiamarti Maarten o preferisci signor De Zoet?»
«Abbiamo più o meno la stessa età, puoi chiamarmi per nome. Un
po’ di la e anche per me.»
«E la e sia», dice Dean. «Fagioli su una fe a di pane tostato? Una
tazza di cereali?»
Senza cogliere l’ironia, Guus controlla sull’orologio ultrapia o.
«Dobbiamo cenare fra poco con l’ambasciatore olandese, quindi
resisteremo alla tentazione. Meglio venire al dunque, poi ce ne
andremo.»
«Fra poco» e «ce ne andremo» suonano bene. «D’accordo, allora,
veniamo al dunque.»
«Entro fine luglio dovete lasciare questo appartamento.»
Cosa? «Ma io e Jasper viviamo qui.» Dean guarda Jasper, che non
sembra sorpreso. Devono averglielo già comunicato prima in
olandese.
«Per il momento è così», replica Guus de Zoet, «però dal primo
agosto ci vivranno Maarten e sua moglie.»
Jasper chiede qualcosa in olandese al fratellastro. Maarten gli
risponde in inglese: «In aprile, a Gand. Zoë appartiene a una
famiglia di banchieri. È la figlia di un’amica di mamma. Intendo mia
madre, ovviamente».
Questa famiglia è un casino, considera Dean, anche per gli
standard Moffat-Moss.
«Congratulazioni», dice Jasper.
Maarten replica tranquillo in olandese.
p q
«Ehi, un momento.» Dean non è affa o tranquillo. «Lei ha de o
che Jasper è suo figlio e non un inquilino qualsiasi, no? Oppure me
lo sono sognato?»
Guus de Zoet beve un sorso di tè. «Jasper le ha già parlato… delle
sue origini?»
«Quando uno suona in un gruppo, ha un sacco di tempo libero da
ammazzare. Si chiacchiera. Quindi sì, so che lei ha messo incinta sua
madre in India. E so che ha fa o finta che lui non esistesse finché suo
nonno non gliel’ha fa o entrare in zucca.»
Guus de Zoet fa un tiro di Chesterfield. «Lei mi dipinge come il
ca ivo della situazione.»
«Lei come si dipingerebbe, signor De Zoet? Come la vi ima?»
«Non sono stato poi così scorre o. Ho riconosciuto Jasper davanti
alla legge, e noi, i De Zoet, gli perme iamo di usare il nostro nome.»
«Crede che la faranno santo per questo?»
Guus de Zoet assume l’espressione di una persona ragionevole
alle prese con un problema noioso. «Capita che i giovani
comme ano errori. Lei non ne fa mai?»
Ne faccio a migliaia, maledizione, ma mi venga un colpo se te lo dico.
L’olandese soffia fuori il fumo. «A Jasper ho pagato gli studi. Le
estati a Domburg. Una clinica. Immagino che lei lo sappia, no?»
Guarda Jasper, che glielo conferma con un cenno. «Gli ho pagato il
conservatorio ad Amsterdam. E questo appartamento.»
«Da cui ora lo sta cacciando.»
«Il fa o è», interviene Maarten, «che Jasper è un figlio bastardo.
Non è colpa sua, però, anche se si chiama De Zoet, non può avere i
miei stessi diri i. Sono desolato, ma è così che va il mondo. E lui lo
acce a.»
«Qui i veri bastardi sono solo due.» Dean incrocia le braccia e fissa
Maarten e Guus de Zoet.
«Mi fa piacere che Jasper abbia un…» il padre scuote la sigare a
nel posacenere, «avvocato difensore. Tu avia, Jasper, sul fa o che la
tua permanenza qui sarebbe stata temporanea ero stato chiaro. Dico
bene?»
Jasper si guarda i calli sulle dita. «Dici bene.»
Ma che cazzo, considera Dean, perché mi sto scomodando tanto?
p
«E non avevi il diri o di subaffi are la casa», aggiunge Maarten.
«Non l’ho fa o», replica Jasper. «Dean non paga nessun affi o.»
«Ah», sogghigna Maarten, «non c’è da stupirsi allora che si scaldi
tanto.»
«Con il successo che avete», prosegue Guus de Zoet, «non credo
vi toccherà dormire su una panchina a Kensington Gardens.»
Maarten si alza. «Vado a controllare le due camere da le o.»
Si alza anche Dean. «No che non lo farai.»
«Stai dimenticando a chi appartiene questa casa.»
Dean soppesa Maarten con lo sguardo. È un paio di centimetri più
alto di lui, più in carne, denti migliori dei suoi, pelle liscia. E ha
anche più paura di farsi male. «Il primo agosto saremo fuori di qui.
Ma fino ad allora, amico, le nostre stanze rimangono private. Quindi
puoi anche andartene affanculo.»
De Zoet senior spegne la Chesterfield. «Può darsi che Dean
nasconda un imbarazzante segreto, Maarten. La tua perlustrazione
può aspe are.» Si me e a parlare in olandese con Jasper e cala il
sipario della lingua. Dean si ritira nella sua camera, dove Tiffany si
sta preparando per andarsene…

Gli sgraditi De Zoet non ci sono più, Jasper è nella vasca, sul
giradischi c’è Janis Joplin. Dean sta lavando tazze e teiera,
ripetendosi che le affinità fra la sua recente condo a e quella del
giovane Guus de Zoet sono solo superficiali. Lui non ha mai mentito
a Mandy Craddock. Non l’ha messa incinta avendo già una famiglia.
E poi non ci sono prove che il bambino sia suo. Stappa una birra e
sprofonda nel divano. Dunque ad agosto avremo bisogno di un nuovo
appartamento. Ora come ora potrebbe perme ersene uno da solo.
Jasper mi mancherà, realizza. Quando ha conosciuto quello strano
personaggio così serioso, di buona famiglia e mezzo olandese, per
lui rappresentava un posto dove stare gratis, lo considerava un
grande chitarrista e nient’altro. Dicio o mesi dopo era diventato un
amico. C’è davvero tanto in questa parola. Dean regola la nuova chitarra
acustica, una Martin, e cerca gli accordi di «Sad Eyed Lady of the
Lowlands». Re… La… Sol… La? Va a recuperare in camera il doppio
album di Dylan, nell’aria aleggia ancora il profumo di Tiffany, poi
y gg p y p
sul giradischi in soggiorno me e il lato D. «With your mercury mouth
in the missionary times» è Re, La, Sol, La7. Per «And your eyes like smoke
and your prayers like rhymes» la stru ura è la stessa, ma il terzo verso
è differente, come capita spesso con i terzi versi. Sol… Re… Mi
minore? Dean tenta con il ple ro invece che con le dita. Meglio. Sì,
meglio. Prova un Fa minore invece del Sol. No, è un Fa. Un cucchiaino
di Dylan contiene un litro di significati. Perché non provo anch’io a
scrivere parole come queste? Una canzone su come a volte basta una
breve telefonata a cambiare ciò che si è. Su come una telefonata di
Tiffany Hershey – «Raggiungimi all’Hilton per un cocktail» – li abbia
trasformati in adulteri. Quanto è illusoria la stabilità. Quante
certezze ci sono nell’ignoranza. Dean prende una biro e inizia a
scrivere. Il tempo scivola via. Jasper è uscito dalla vasca. Altro tempo
scivola via. Suona il campanello. Ad aprire va Jasper. Probabile che sia
Elf. «È per te», gli comunica l’amico.

Gli ci vogliono alcuni momenti per riconoscere la coppia


scheletrica che lo guarda dalla porta con occhi da zombi. Kenny
Yearwood e la sua ragazza, Floss. «Ehi, Kenny. Ciao, Floss. Sono
secoli.» La mente gli va al giorno dei disordini in Grosvenor Square,
poi come un boomerang torna al presente. Evita di chiedere: Come
va? La risposta è ovvia: Va che sono tossici. Kenny è nervoso. «Ti ha
chiamato Rod Dempsey?»
«No, non di recente. Perché?»
«Possiamo entrare?»
Vogliono soldi. «Certo, io e Jasper però stavamo per uscire.»
«Non ci fermeremo a lungo.» Floss dà un’occhiata alle case
intorno. Hanno tu i e due un sacco a pelo. Dean li fa entrare.
«Vogliamo le nostre trenta sterline», dice subito Floss.
Trenta sterline? «Ma di che parli?»
«Kenny te le ha prestate al 2i’s», risponde lei. «L’anno scorso.»
«Eh? Le sterline erano cinque. E te le ho restituite al Bag o’ Nails,
Kenny. La sera in cui suonava Geno Washington, ricordi?»
Kenny distoglie lo sguardo, ha gli occhi inie ati di sangue.
«Erano trenta.» Tirandosi indietro i capelli, Floss rivela la parte
interna del gomito, rovinata e segnata dagli aghi. «Non puoi più
g g g g p p
piangere miseria ora che sei una pop star.»
«Che succede, amico?» domanda Dean a Kenny.
Kenny sembra mezzo morto. «Dacci un minuto, Floss.»
La ragazza non è più la hippie con la testa fra le nuvole di una
volta. È spezzata e tagliente. «Non lasciarti infinocchiare. Dammi le
sigare e.»
«Hai fumato l’ultima in metropolitana, Floss.»
Dean, che ha un pacche o nel taschino della camicia, gliene offre
una. Lei ne prende cinque e se ne va fuori.
«Floss è meglio di così. Non c’è niente che ti incasina di più della
vergogna. Lo sto imparando sulla mia pelle.»
«Mi vuoi dire che succede?»
Jasper sta improvvisando qualcosa in camera sua con la
Stratocaster.
«Fumiamoci una sigare a anche noi, eh?» suggerisce Kenny.
«Prendile tu e. Quelle che Floss ha lasciato nel pacche o, se non
altro.»
A Kenny trema la mano. Dean lo aiuta ad accendere e l’amico,
riconoscente, si fa un bel tiro. «Quando ci siamo visti l’ultima volta?»
«Marzo. Grosvenor Square. Il giorno della grande
manifestazione.»
«Giusto. Dopo io e Floss ci siamo fa i un po’ di ero. Tu l’hai mai
provata?»
«Ho il terrore degli aghi», amme e Dean.
«Be’, puoi anche scaldarla in un cucchiaio e tirare il fumo con una
cannuccia, ma comunque sia… stanne alla larga. Hai presente
quando tu i ti dicono: ‘Lascia perdere le droghe’ e poi uno prova e si
chiede se fossero solo stronzate? Be’, per quanto riguarda la roba
non lo sono. La prima volta… è stato incredibile, cazzo. Come
venire. Con gli angeli. Non riesco nemmeno a descriverlo.» Si sfrega
una narice infiammata. «Ma poi quella sensazione devi riprovarla.
Non è che lo vuoi e basta, devi. Solo che la seconda volta è meno
bello. E la terza lo è meno della seconda. E così via. A un certo
punto… ti sanguinano le gengive, ti senti una merda, la odi,
eppure… ne hai bisogno per sentirti normale. Ho perso il lavoro. Mi
sono venduto la chitarra. Rod ci ha dato un po’ di erba da vendere.
p
Per pagare la roba, insomma. Come favore. La tenevamo nella nostra
stanza, so o le assi del pavimento.»
«Nella comune di Hammersmith? Rivendell?»
«No, con loro abbiamo avuto una discussione.» Kenny ha un
sussulto. «Rod ci ha portato in un posto di sua proprietà in zona
Ladbroke Grove. Una specie di monolocale che ci ha dato così, senza
chiedere niente. Un suo amico stava di guardia giorno e no e, Floss
si sentiva al sicuro. Tu o quello che abbiamo guadagnato con l’erba,
comunque, è finito in roba. Ma della roba ne hai bisogno sempre di
più. Così, la se imana scorsa Rod ha de o che ogni se imana ci
avrebbe dato cinque sterline e trenta grammi di eroina afghana
purissima, se custodivamo una cosa per lui. Vale a dire che ha
nascosto un bel po’ di coca so o le assi del pavimento del nostro
monolocale. Noi avevamo il compito di tenerla d’occhio.»
Perché mai Rod Dempsey si fiderebbe di due tossici per sorvegliare un
mucchio di droga? Dean teme di saperlo.
«Quell’afghana era la roba migliore che avessimo rimediato da
secoli. Non è stato come la prima volta, ma come la quinta o la sesta
sì. Era parecchio che non ci sentivamo così bene. Due giorni dopo,
però», Kenny finisce quasi tu a la sigare a con un tiro, «la coca era
sparita. Qualcuno aveva sollevato le assi del pavimento. L’ho de o a
Rod, subito, e di colpo salta fuori il suo lato da psicopatico. Si è
messo a urlarmi contro, Dean. Mi ha chiesto se l’avevo preso per un
idiota. Noi quella coca non l’abbiamo mai nemmeno sfiorata, te lo
giuro sulla mia vita. Sulla vita di Floss. Sulla vita di tu i quanti,
maledizione. Non l’abbiamo mai fa o.»
A prenderla è stato Rod Dempsey, rifle e Dean. «Ti credo.»
«Quando Rod si è calmato un po’, ha de o che io e Floss gli
dovevamo seicento sterline. Gli ho risposto che non ne avevamo
neanche sei. La verità è che non avevamo nemmeno sei centesimi. A
quel punto lui mi ha de o che io e Floss lo avremmo ripagato…»
Kenny non riesce quasi a proseguire «…andando alle feste.»
«Feste di che tipo?»
Il respiro dell’amico accelera. «Ieri sera ci hanno portato in un
posto a Soho… dietro il tribunale. Era abbastanza di classe. Io e Floss
siamo stati separati. Mi avevano dato una bella ripulita, avevo fa o
p p
un bagno e mi ero sbarbato di fresco… Mi hanno dato anche un
pizzichino di roba, poi lì… c’erano tre uomini…»
«E?»
«Non farmelo dire, Dean. Usa un po’ d’immaginazione, cazzo. Ci
sei? Bene, quello che pensi l’hanno fa o. A turno. Hai capito
adesso?»
Le parole che non ha voluto pronunciare sono «drogato» e
«stuprato», realizza Dean.
Kenny si asciuga le lacrime con una manica. Con un tiro secco
finisce la sigare a. «Floss era già in macchina. Dopo. Non parlava.
Non ho parlato neanch’io, ma l’ha fa o l’autista. Ci ha de o che il
nostro debito si era alleggerito di dieci sterline. Per essere liberi ne
restavano cinquecentonovanta. Ci ha de o anche che potevamo
scordarci la polizia. Se la sono comprata. E se scappiamo a farne le
spese saranno le nostre famiglie. Ha fa o vedere a Floss una foto di
sua sorella e ha commentato: ‘Non è caruccia?’ Tornati a Ladbroke
Grove, per noi c’erano un gelato e una pillola di sonnifero, poi
stama ina abbiamo avuto un po’ di metadone. Floss mi ha de o che
se non la tiro fuori da questa storia… si ammazzerà. E lo so che non
sta bluffando, perché mi sento anch’io così.»
«Vorreste nascondervi qui?»
«È uno dei primi posti in cui Rod verrebbe a cercarci.»
«Perché non mi hai chiesto aiuto fin da subito?»
«Floss pensava che non mi avresti creduto. Mi credi?»
«Non sapevo che Rod potesse arrivare a questo, ma… ho visto
come prende la gente all’amo. E poi, come potresti inventarti una
cosa simile? Perché dovresti farlo?»
Nella mezza oscurità, Kenny gli stringe un polso. Dean prende
tu o quello che ha nel portafoglio, più di undici sterline, e lo me e
in mano all’amico. «Di eroina non me ne intendo, ma per via di
Harry Moffat so che non basta dire: ‘Falla finita con quello che ti sta
uccidendo’. Però se non ti ripulisci…»
Nella sua stanza, Jasper sta improvvisando delle variazioni
sull’assolo di «Nightwatchman». Kenny infila in tasca i soldi. «Ce ne
andremo in un posto isolato. Da qualche parte in cui non ci siano
spacciatori. Sull’isola di Sheppey, magari. Troveremo un rifugio e…
p pp y g g
proveremo di nuovo a disintossicarci. Ma quella casa a Soho è
peggio della morte.»
Squilla il telefono e Kenny si alza di sca o, pallido e tremante.
«Va tu o bene», gli dice Dean. «Sarà Elf per avvisarci che è in
ritardo.»
Kenny si accovaccia come un animale terrorizzato. «È lui.»
«A parte a una festa il mese scorso non l’ho più visto. Davvero.»
Alza la corne a. «Pronto?»
«Ehi, Dean, come diavolo va? Sono Rod, Rod Dempsey.»
Dean si sente mancare il fiato. «Rod?»
Kenny arretra verso la porta scuotendo la testa.
Dempsey ridacchia amichevole. «Sembri… strano. È che magari
stavi parlando proprio di me, eh?»
Se avevo bisogno di una prova, eccola qui.
Kenny se n’è andato. La porta dell’appartamento è mezza aperta
su un tramonto pallido. Ho solo un modo per aiutarlo, ed è mentire
abbastanza bene da ingannare un fuoriclasse della menzogna. «Non è che
sai leggere nel pensiero, Rod? Giuro su Dio che solo dieci minuti fa,
anzi cinque, io e Jasper stavamo parlando del fumo migliore che
avessimo mai fumato, e tu i e due abbiamo pensato al nero di
Helmand. L’avevi portato qui l’autunno scorso, eri con Kenny e
Stew, ricordi?»
«Una serata indimenticabile. Posso procurartene ancora un po’, se
ne vuoi. Una partita diversa, ma è altre anto buono.»
«Sì, perfe o. Però adesso stiamo finendo il nuovo disco, non
appena ce l’abbiamo fa a ti chiamo io, che ne dici?»
«Nessun problema. A proposito di Kenny, non è che per caso l’hai
visto? Sto cercando di rintracciarlo.»
«Ci sto provando anch’io, in realtà.» Nascondi la bugia in mezzo a
una caterva di fa i e mezze verità. «L’ultima volta che l’ho incontrato è
stata in Grosvenor Square. Viveva in una comune fuori mano, dalle
parti di Shepherd’s Bush. Tu l’hai più visto? Come se la cava?»
Rod Dempsey rifle e. «Ho incrociato lui e la sua signora il mese
scorso. La comune gli stava dando qualche problema, così mi ha
chiesto di fargli sapere se sentivo di un posto in cui poteva stare. Ho
un amico che affi a un appartamento a Camden, ci sono tu i i
pp
comfort e il prezzo è buono. Per lui e Floss sarebbe perfe o. Il
problema è che non ho più il suo numero. Non è che puoi
rintracciarlo tu in qualche modo? In fre a, intendo.»
Anche Rod nasconde le bugie fra una mezza verità e l’altra. «Mi
piacerebbe poterti aiutare. Sto pensando chi potrebbe sapere dov’è,
ma non mi viene in mente nessuno.»
«È questo il problema di Londra», commenta lo spacciatore,
magnaccia e dio sa cos’altro. «Non si sa mai chi trovi dietro l’angolo,
vero?»

Le uniche tracce di Kenny e Floss sono due sigare e sull’ultimo


gradino davanti alla porta. Il buio sta calando su Chetwynd Mews.
Fra problemi e crisi, la mente di Dean è come una chiassosa Top 5.
Apre il garage per dare un’occhiata alla sua Spitfire. Accende la luce
e rimane a fissarla. La nuova casa dovrà avere un garage, pensa,
altrimenti una bellezza come te non durerà un quarto d’ora. È tardi
per fare un giro, ma ci sale comunque per trovare un momento di
pace. Non ce la fa. Potrebbe essere padre. È l’ultima cosa che voglio.
Una relazione con Tiffany Hershey è ele rizzante, però… Come andrà
a finire? Essere messo alla porta dal padre di Jasper è una ro ura,
però un te o lo troverà. Kenny e Floss sono tu a un’altra storia.
Nessuno riuscirà a disfare quello che gli è stato fa o. Anche se – e
dico se – la facessero finita con l’eroina, Dean sa bene che non
troveranno più una vera pace, che ci sarà sempre qualche ombra che
incombe. Floss fa bene a odiarmi. Una parte di colpa ce l’ho anch’io.
Kenny si è trasferito a Londra a causa sua, e lui non ha fa o niente
per aiutarlo. Niente. Una sagoma indistinta spunta di fronte al garage
aperto e guarda dentro. «Ciao, Dean.»
Le parole gli escono di bocca da sole: «È uno scherzo… Ditemi che
è uno scherzo!»
Harry Moffat fa un debole sospiro. «Ne è passato di tempo.»
Entra, a illuminarlo c’è la luce gialla. Dean adesso lo vede bene.
Harry Moffat è uguale e diverso a un tempo.
Le macchie della vecchiaia sono più vistose. Gli occhi sono
incavati.
Si è fa o la barba. I capelli sono in ordine. Sembra essersi
impegnato.
Dean resta seduto nella Triumph. «È stato Ray a dirti dove abito,
vero?»
Harry Moffat scuote la testa. «Sull’elenco telefonico ci sono solo
due De Zoet, e la zona di Mayfair mi sembrava più probabile di
Pinner. Forse avresti fa o meglio a richiedere un numero riservato,
di quelli che non compaiono sull’elenco.»
Erano anni che Dean aveva smesso d’immaginarsi un eventuale
incontro, adesso quindi non ha un copione a cui rifarsi. «Cosa vuoi?»
Harry Moffat abbozza un mezzo sorriso, inedito, triste, insicuro.
«Non lo so bene neanch’io, Dean. Io… be’, prima di tu o il tuo disco
è bellissimo.»
Hai preso a cinghiate mamma, Ray e me.
«Specialmente ‘Purple Flames’. Non potevi trovare parole
migliori.»
Dean si domanda dove siano finiti rabbia e disprezzo.
Il tempo estingue ogni incendio, considera.
Intorno alla lampadina del garage svolazzano alcune falene.
«Bella macchina», osserva Harry Moffat.
Dean non fa commenti.
«Eravamo preoccupati per te, quando in Italia ti hanno messo
dentro.»
In che senso «eravamo»? «Eravamo» chi? I Moffat? Gli abitanti di
Gravesend?
«Immagino che fra concerti, dischi e cose simili, tu abbia avuto
parecchio da fare, eh?»
Ho seguito la strada su cui tu hai sputato merda, quel sogno che hai
cosparso di paraffina e a cui hai dato fuoco. «Già, proprio così.»
«Te la sei cavata davvero bene.»
Dean non riesce a tra enersi: «Sarà per tu e le volte che mi hai
incoraggiato». Harry Moffat ha un sussulto. No, non mi sentirò in
colpa.
«Ci sono molte cose che mi piacerebbe aver fa o», dice l’uomo. «E
molte altre che mi piacerebbe non aver fa o.» Indica uno sgabello
vicino all’entrata del garage. «Posso? Non voglio tra enermi troppo,
ma le mie gambe non sono più quelle di un tempo.»
Dean fa un gesto che significa: Come vuoi, per me fa lo stesso.
L’uomo si siede e si toglie il cappello. Non cerca più di
nascondere la pelata, nota Dean. «Sono in un gruppo. Un gruppo per
alcolisti. Grazie a loro non bevo da… da quell’incidente. Te l’hanno
de o?»
«Parli dell’incidente in seguito al quale un tizio non può più
camminare e una ragazza si è ritrovata con un occhio solo?»
Harry Moffat si guarda le mani. «Sì, quello. Be’, nel nostro gruppo
c’è una donna che mi fa da sponsor. Lei, Christine, dice che
nemmeno Dio può cambiare il passato. È vero. Non sempre puoi
sistemare le cose o rimediare. Quello che puoi fare però è scusarti.
Magari ti manderanno al diavolo, o ti prenderanno a schiaffi… però
quello puoi farlo. Quindi…» Harry Moffat fa un respiro profondo e
chiude gli occhi, forte. Dean era certo che la giornata non potesse
riservare altre sorprese, ma vedere le lacrime sul volto di Harry
Moffat gli dimostra che si sbagliava. «Quindi ti chiedo scusa per
averti picchiato, e per aver picchiato tua madre, e Ray. Ti chiedo
scusa per averti deluso. Scusa se… non mi sono accorto che tua
madre era ammalata di cancro. Scusa se tu o quello che avevi ero io.
Scusa se quando è morta tua madre, ho perso la testa. Come se ce
l’avessi mai avuta, poi, una stramalede a testa! E ti chiedo scusa per
aver bruciato la tua roba. La tua chitarra. A novembre, la no e dei
falò. E scusa per quella volta in cui tu, Kenny e Stew stavate
suonando per strada. Ho fa o tu o io.» Riapre gli occhi e si asciuga
il volto con il palmo delle mani. «Non do neanche la colpa al bere.
C’era anche quello, lo sa Dio, ma…» Scuote la testa. «Un sacco di
gente agli Alcolisti Anonimi non ha mai fa o male a una mosca. Io
ho picchiato la mia famiglia. È solo colpa mia.» Harry Moffat si alza
e si rime e il cappello. Sta per dire ancora qualcosa, però in quel
momento entra Elf.
«Buonasera.»
«Tu sei Elf. Suoni nel gruppo.»
«S-sì. Ho visto che il garage era aperto e…»
«Piacere, Harry Moffat.»
y
Elf aggro a la fronte, poi la fronte si distende. «Oh, mio Dio, lei
è…» Lancia un’occhiata a Dean e si blocca prima di dire «suo
padre».
«Già. Sono proprio quell’Harry Moffat. E tu, cara, hai una voce
incantevole.»
«Grazie.» Elf è confusa. «Aspe i di sentire la voce di Dean
nell’ultimo disco, però. Sta prendendo lezioni e ha scri o questa
canzone, ‘The Hook’, che è assolutamente perfe a, giuro.»
«Davvero? Non vedo l’ora di ascoltarla. Non sto nella pelle.»
Il vicino di casa, un agente di borsa, passa sul marciapiede con il
cane e ge a un’occhiata. «Magnifica serata», dice. Dean lo saluta
alzando una mano.
«Lo è eccome», commenta Elf, ma il vicino è già andato. «Quindi
saliamo in casa», dice a Harry Moffat, «o è una festicciola in garage?»
Tu e le parole che ha appena de o erano vere, rifle e Dean. Le
cose però non possono andare a posto così, tu o d’un colpo. Ormai è
passato troppo tempo. «Lui se ne stava andando.»
«Ti ringrazio, Elf, ma adesso devo proprio tornare a Gravesend. I
treni inglesi non aspe ano nessuno.» Fa un cenno di saluto a Dean.
«E noi teniamoci d’occhio, eh?»
Dopo queste parole fila via, come il protagonista di un racconto.
Elf si gira verso Dean. «Tu o bene?»
Lui sta tamburellando un ritmo sul volante. «Non lo so, Elf. Non
ne ho idea. Ascolta, io… be’… vi raggiungo su fra qualche minuto.

a. Guarda chi non è.


The Third Planet a Lato A

1. Chelsea Hotel #939 (Holloway)


2. Who Shall I Say Is Calling (De Zoet)
3. What’s Inside What’s Inside (Holloway)
4. Timepiece (De Zoet)

a. Il terzo pianeta.
Chelsea Hotel #939 a

«Svegliati, Elf.» Chi è? Dean.


Elf si strappa alle sabbie mobili del sonno.
«Guarda un po’ lì», le sta dicendo Dean pochi centimetri alla sua
sinistra.
Apre gli occhi e scopre di essersi addormentata sulla spalla
dell’amico. Dall’altra parte del finestrino, lontano e molto più in
basso, c’è una metropoli grigia e marrone ricamata di luci, un
tappeto che si srotola mentre l’aereo s’inclina. Il cervello di Elf suona
le ba ute iniziali di Rhapsody in Blue di Gershwin. «Be’, è una delle
cose più belle che abbia mai visto», mormora con la bocca impastata
dal sonno. È Lilliput, Brobdingnag e Laputa tu e in una. Manha an
galleggia su un’oscurità vitrea. È una za era carica di gra acieli.
Gra acieli smussati, gra acieli così appuntiti che ci potresti
prelevare il sangue, pieni di finestre, davanzali e increspature che
sembrano scri e in braille. Gra acieli bruniti, lucidati con cura.
«Quella è la Statua della Libertà», dice Dean. «La vedete?»
«Nelle foto sembra più grande», replica Elf.
«Da quassù sembra un nano da giardino», commenta Griff.
Elf dà un’occhiata a Jasper, seduto alla sua destra. Ha il berre o di
lana calato fino alle narici. «Sei vivo Jasper? Siamo quasi arrivati.»
Lui solleva la cuffia, ha gli occhi inie ati di sangue, rovista nella
borsa e tira fuori una bocce a di pillole, che però gli casca dalle
mani. Si lascia scappare una bestemmia in olandese.
Elf recupera la bocce a. «Eccola, tranquillo.»
«Ne è uscita qualcuna? Trovale. Trova tu e le pillole.»
«No, è tappata, guarda. Te la apro io. Quante?»
Jasper boccheggia in cerca di aria. «Due.»
Elf legge l’etiche a, Queludrin, e rovescia un paio di pillole nel
palmo sudato di Jasper. Sono grandi, azzurro pallido. Lui le
inghio e e riavvita il tappo.
«A cosa ti servono?» gli chiede. «Per i nervi?»
«Sì», risponde, ed è un sì che sta per: Lasciami in pace.
«A erreremo fra poco.»
Jasper si copre gli occhi con il berre o e lei torna a guardare il
panorama. New York… un toponimo, un simbolo, un palcoscenico,
una parola d’ordine per Paradiso e Inferno… ma è solo in quel
momento che s’impone nella sua mente come un luogo reale.
Fotogramma dopo fotogramma, la sua New York immaginaria,
assemblata a partire da West Side Story, i fume i dell’Uomo Ragno,
Fronte del porto, Colazione da Tiffany, La valle delle bambole e i film di
gangster, si dissolve per lasciare spazio a qualcosa di solido: travi,
ma oni, edifici, facciate, cavi ele rici, tubature, selciati, carreggiate,
cime di palazzi, negozi, appartamenti e o o milioni di persone… fra
cui Luisa Rey. Elf sente un tuffo al cuore. Le fa male. Perché non ha
più risposto alle mie telefonate? Ai miei telegrammi? Ai miei ordini
telepatici? Per tu o agosto lei e Luisa si sono spedite le ere per posta
aerea, e ogni se imana hanno parlato al telefono per cinque
costosissimi minuti.
Le ere e cartoline sono finite di colpo undici giorni prima. Fino al
quinto giorno Elf si era raccontata che doveva esserci una
spiegazione logica: uno sciopero delle poste da qualche parte, o
un’emergenza nella famiglia di Luisa. Al sesto giorno, l’aveva
chiamata a casa e aveva trovato il telefono staccato. Al se imo, aveva
telefonato agli uffici di Spyglass a New York, ma le avevano de o
soltanto che Luisa non ci sarebbe stata fino a nuova comunicazione.
Nessun de aglio supplementare, benché Elf le avesse tentate tu e
per averne. All’o avo giorno, la spiegazione logica aveva cominciato
a sembrarle tristemente ovvia: Luisa non provava per Elf quello che
Elf provava per Luisa, e l’amore più stupefacente di tu a la sua vita
era finito così, all’improvviso come era iniziato.
Eppure, una parte di lei continuava a sperare che la spiegazione
logica non fosse quella giusta. Ma no, no, Lu me l’avrebbe de o. Non mi
avrebbe mai abbandonata in un limbo crudele dove non so se qualcuno mi
ha spezzato il cuore e non ho modo di scoprirlo.
Potrebbe averlo fa o? E se non la conoscessi bene come credo? Non
sarebbe la prima volta. Vero, piccola Koala?
Sta contando i giorni. Come li contavo con Bruce. La beffa più
crudele è che debba soffrire da sola. Nessuno al mondo sa di lei e Lu.
Non c’è anima viva che possa saperlo…

Al Ballo di Mezza Estate degli Hershey, Elf e Luisa si erano


trovate una scala tranquilla e defilata con un bovindo grande
abbastanza da nasconderle. Tirata la tenda, a ripararle dagli sguardi
del giardino so ostante era un albero, un gingko che in estate
traboccava di foglie. Il bovindo sembrava concepito apposta per
ospitare incontri segreti. Avevano parlato di musica, di politica, di
famiglia e della loro infanzia, di Londra, della California, di New
York, di sogni e di tempo. Si erano spartite una sigare a, piazzando
in mezzo un posacenere di vetro. Avevano parlato di chi amavano e
perché. Elf le aveva de o di Mark, e di tu e le torte di compleanno
che non avrebbe più preparato per lui. «Preparale lo stesso», le aveva
suggerito Luisa. «Con le candele. In Messico fanno così.» Qualcuno,
scendendo le scale, era sfilato davanti al loro nascondiglio e Luisa
aveva fa o una buffa espressione complice, ma i passi si erano
allontanati. A Elf era venuta voglia di baciare la sua nuova amica più
intensamente di quanto avesse desiderato baciare chiunque altro.
Una voce nella sua testa la me eva in guardia: È una ragazza. Fermati.
Non va bene. Ma una voce ancora più forte replicava: Lo so che è una
ragazza, ed è la persona più splendida che abbia mai incontrato, quindi
perché dovrei fermarmi?
Elf e Luisa si erano guardate negli occhi.
«Così… sta succedendo, vero?» aveva de o Luisa.
A Elf il cuore ba eva veloce. «Sì. E tu sei così tranquilla.»
«Immagino che per te io sia la prima», aveva commentato Luisa.
«Se…»
Elf era un po’ in imbarazzo. «Si vede, eh?»
«Riesco a vedere il tuo ba ito cardiaco. Guarda.» Le aveva toccato
una vena sul polso sinistro ed Elf si era sentita sciogliere il lato
p g
sinistro del corpo. Poi le aveva parlato dolcemente. «Lo so come ti
senti. Il condizionamento sociale è come una radio ad alto volume, e
in questo momento sta strillando: ‘È sbagliato! È una ragazza!’»
Confusa, Elf aveva annuito, annaspato e sospirato tu o in una
volta.
«Spegni la radio. Clic. Così. Non analizzare troppo. Non
analizzare affa o, in realtà. Ci sono già passata, non ce n’è bisogno.
Non hai niente da temere. Non stai per a raversare un falso specchio
e non ci sono insidie dall’altra parte. Non ti cresceranno le corna.
Non stai abbandonando la tribù dei Rispe abili per la tribù dei
Pervertiti. Non c’è bisogno che lo sappia nessuno. Conta su di me.
Qui ci sono solo due persone. Solo noi. C’è soltanto…» di nuovo quel
sorriso, «amore.»
Un rapido fruscio, uno sca o impetuoso, e si stavano baciando.
Alla fine Elf era paonazza e sbalordita. Miele, tabacco e bordeaux.
«Amore», aveva ribadito Luisa, «con un pizzico di lussuria.»
Elf le aveva accarezzato il viso come avrebbe fa o con quello di
un uomo. Luisa aveva accarezzato il suo. Il cuore di Elf vibrava come
un contrabbasso. Desiderio, desiderio, desiderio e ancora desiderio.
«Non dimenticarti di respirare», aveva sussurrato Luisa.
Elf si era quasi messa a ridacchiare. Aveva fa o un respiro
profondo, profondissimo.
In cima alle scale si era aperta una porta. Lei e Luisa si erano
ricomposte. Erano di nuovo due amiche che si gustavano due
chiacchiere in santa pace lontano dalla festa. Alcuni passi leggeri
avevano sceso le scale fino al bovindo, poi una manina aveva
scostato la tenda. Aveva fa o capolino un bimbe o biondo con gli
occhi celesti. In testa aveva un cappello da cowboy con una stella da
sceriffo. «Siete nel mio territorio.»
«È vero», gli aveva risposto Luisa. «Come ti chiami, sceriffo?»
«Crispin Hershey. Voi cosa ci fate qui?»
«In realtà non siamo veramente qui», gli aveva de o Elf.
Crispin aveva aggro ato la fronte perplesso. «Sì che siete qui.»
«No, ci stai solo sognando. In questo momento stai dormendo nel
tuo le o. Non siamo vere.»
Crispin ci aveva pensato un a imo. «Sembrate vere.»
p p
«I sogni sono così», aveva de o Luisa. «Quando uno è in un
sogno come lo sei tu adesso tu o sembra verissimo, no?»
Crispin aveva annuito.
«Ti dimostreremo che stai sognando», aveva aggiunto Elf. «Torna
a le o, sdraiati, chiudi gli occhi, svegliati e poi torna qui. Noi non ci
saremo, e perché? Perché non ci siamo mai state. Allora, siamo
d’accordo?»
«Okay.»
«Vai», gli aveva de o Luisa. «Torna in camera tua. Su su, non c’è
tempo da perdere.»
Il bambino si era voltato e aveva salito le scale di corsa. Elf e Luisa
si erano alzate, erano uscite dal bovindo ed erano scese in fre a.
Prima di reimmergersi nella festa, Luisa le aveva de o: «E adesso
che facciamo?» Elf non ci era stata troppo a pensare. «Un taxi.»

All’aeroporto LaGuardia il gruppo resta in coda un’ora e venti


minuti per il controllo passaporti. Jasper recupera un po’ di
compostezza, addiri ura un po’ di colorito. Griff, Dean e Levon
ripercorrono e incrementano il repertorio di giochi di parole
inventati per ammazzare il tempo nei sedici mesi in cui hanno girato
la Gran Bretagna a bordo della Belva. Un adde o all’immigrazione
invita Elf davanti al suo sportello. Dietro gli occhiali dalla montatura
metallica, l’ufficiale aguzza lo sguardo prima sulla foto nel
passaporto e poi su di lei. Ha dello zucchero sui baffi. «Elizabeth…
Frances… Holloway.» La sua voce si trascina stancamente fino a
completare la frase. «Musicista, c’è scri o qui.»
«Corre o.»
«E che tipo di musica suona?»
Nessun cenno al rock’n’roll, alla psichedelia o alla politica, li
aveva avvertiti Levon. «Folk, più che altro.»
«Musica folk. Come Joan Baez, giusto?»
«Più o meno, sì.»
«Più o meno come Joan Baez. E le sue canzoni sono contro la
guerra?»
L’istinto la me e in guardia. «No, non esa amente.»
«Mio figlio, il maggiore, si è arruolato per andare a comba ere in
Vietnam.»
La situazione si fa delicata. «Sarà senz’altro preoccupato.»
«Vuole sapere qual è la cosa peggiore?» L’ufficiale si toglie gli
occhiali. «È un massacro laggiù. Qui, invece, questi dannati
fricche oni sono liberi di bruciare le cartoline con cui la patria li
chiama alle armi, di accoppiarsi come conigli, creare disordini e
cantare per la pace. Grazie a chi ce l’hanno tu a questa libertà, però?
Grazie a ragazzi come mio figlio.»
Dei dodici adde i all’immigrazione, pensa Elf, perché a me
doveva toccare proprio questo? «Il mio repertorio in realtà rientra
più nell’area della tradizione che in quella della canzone di
protesta.»
«Ah, sì? E di quale tradizione stiamo parlando?»
«Folk inglese, scozzese, irlandese.»
«Io sono irlandese. Sentiamo qualcosa d’irlandese.»
Elf crede di aver capito male. «Come ha de o, scusi?»
«Mi canti qualcosa d’irlandese. Una canzone tradizionale. O
quello che c’è scri o qui», agita il passaporto, «è solo una stronzata?»
«Intende… Vuole che canti qui? Adesso?»
«Già. È esa amente quello che intendo.»
Non ci sono autorità superiori a cui appellarsi. E va bene allora, un
concerto improvvisato. Elf si china un po’ in avanti, ba e un ritmo in
4/4 sul bancone dell’adde o, lo guarda dri o nelle pupille, prende
fiato e:

On Raglan Road on an Autumn Day,


I saw her first and knew
That her dark hair would weave a snare
That I may one day rue.

I saw the danger, yet I walked


Along the enchanted way
And I said: «Let grief be a falling leaf
At the dawning of the day». b
Il pomo d’Adamo dell’adde o fa su e giù. Si porta la sigare a alla
bocca e fa un lungo tiro. «Niente male.» Timbra il passaporto di Elf e
glielo restituisce. «Già.»
«Spero che suo figlio torni presto a casa.»
«Lavorava in un deposito di carburante. Vicino al fronte. Una
granata spuntata dal nulla ed è saltato tu o in aria, esploso come i
fuochi d’artificio il 4 luglio. Del mio ragazzo è rimasta solo la
piastrina con il suo nome. Aveva diciannove anni. Un pezze o di
metallo. Ecco tu o quello che ci è rimasto di lui.»
«Mi dispiace moltissimo», riesce a dire Elf.
Il padre in lu o spegne la sigare a, osserva la coda e fa un cenno
al prossimo turista implorante.
«Il prossimo!»

***

«Eccovi qui, per Giove.» Il responsabile A&R della Gargoyle


Records, Max Mulholland, li sta aspe ando agli Arrivi con le guance
rosee e i capelli cotonati e imbrillantinati. In mano ha un cartello
enorme: UN BENVENUTO AL PURO GENIO DEGLI UTOPIA AVENUE . Luisa
Rey, l’unica persona che Elf avrebbe voglia di vedere agli Arrivi, non
si vede da nessuna parte. Max Mulholland abbraccia Levon e
mugola come un amante. «Lev, Lev, Lev, Lev, Lev. Sei pelle e ossa.
Cos’è, razionano ancora il cibo in Inghilterra? Di cosa campi? Radici?
Bacche? Aria solida?»
«Preghiere e speranza, Max. Grazie per essere venuto.»
«Vorrai scherzare! Non mi capita tu i i giorni di dare il benvenuto
a un vecchio amico e a una nuova acquisizione. Griff, Jasper, Dean,
Elf. Gli Avenue.» Li saluta calorosamente stringendo una mano dopo
l’altra. «Voi, signori e signorina, siete ma-gni-fi-ci. Mio Dio, ho
sentito in anticipo un acetato di Stuff of Life ed è… un…» articola
bene la parola, «capolavoro.»
«Ci fa piacere che lo pensi», dice Dean.
«Lo penso, eccome se lo penso. E Jerry Nussbaum su Village Voice
è d’accordo con me.» Sfodera platealmente una rivista già aperta alla
pagina giusta. «Domanda: Se a un goccio di R&B mescolate un’ombra di
psichedelia, aggiungete uno spruzzo di folk e agitate bene, cosa o errete?
Risposta: gli Utopia Avenue, che con il loro LP di debu o, Paradise Is the
Road to Paradise, hanno fa o il bo o nella natia Inghilterra. Con il loro
secondo lavoro, Stuff of Life, questo quarte o che sfugge a ogni definizione
sembra pronto a fare faville anche sulle nostre sponde. Ma chi diavolo sono
quindi gli Utopia Avenue? Elf Holloway, autrice a sedici anni della hit ‘Any
Way the Wind Blows’ di Wanda Virtue, il chitarrista Jasper de Zoet e il
bassista Dean Moss sono artefici di due o tre canzoni a testa, abilmente
condo e dal ba erista multiforme Griff Griffin.»
«De o così sembra che mi potete svitare braccia e gambe e
sostituirle», dice Griff.
«La cara eristica comune a tu e le nove tracce è una grande inventiva»,
continua a leggere Max, «dall’apertura incredibilmente acca ivante di
‘The Hook’ a ‘Look Who It Isn’t’, che chiude l’album e nella quale risuonano
echi contagiosi di Dylan. Con ben tre membri che cantano e compongono,
gli Utopia Avenue vantano una musicalità con cui poche altre band possono
rivaleggiare. ‘Roll Away the Stone’, un’ode alla libertà firmata Moss, cresce
progressivamente fino a un vorticante climax all’Hammond con i segugi
dell’inferno alle costole. ‘Prove It’ di Holloway è una ballata energica e
tragicomica su amore e furto, mentre il suo pezzo strumentale, ‘Even the
Bluebells’, ca ura un genio in una lampada di intenso jazz-blues. Il
virtuoso della chitarra De Zoet dà il suo notevole contributo con la
preghiera serale ‘Nightwatchman’ e il capolavoro ‘Sound Mind’. Se gli
Utopia Avenue saranno in grado di ricreare anche dal vivo l’ecle ica magia
dimostrata in studio lo scopriremo questa se imana al Ghepardo di New
York, ma per il resto non ci sono dubbi: Stuff of Life è roba forte.» Max
alza gli occhi dalla rivista. «Benvenuti in America.»
«Chi è Jerry Nussbaum?» chiede Levon.
«Uno di quei critici che, guardando una scultura di Michelangelo,
si lamenterebbe che il marmo è troppo pallido e il cazzo troppo
piccolo. Jasper, hai la faccia di uno che sta per vomitare.»
«Non posso dire che mi piaccia volare.»
«Nelle macchine ci sono dei sacche i per il vomito.» Max fa un
cenno ai due autisti e i due autisti fanno un cenno ai facchini. «Forza,
andiamo.»
Le due limousine lasciano il futuristico aeroporto e imboccano
una rampa che porta a un’autostrada sostenuta da piloni. Sulla
prima auto ci sono Levon, Jasper e Griff, mentre dietro, nella
seconda, ci sono Elf, Dean e Max Mulholland. Dean tocca gli interni
in radica. «Una Lincoln Continental.» Le luci autostradali si
avvicendano lungo il percorso che, a raverso il crepuscolo urbano,
conduce nella ci à sfavillante. Nella testa di Elf parte la nuova
canzone di Paul Simon, «America». Credevo di fare questo viaggio
insieme a Lu. Dean si volta verso di lei, sembra stanco ma anche
ele rizzato. «Ne abbiamo fa a di strada dal politecnico di Brighton,
eh?»
«Tanta, tantissima; è così lontano.»
I lampioni sfilano sopra le loro teste. I piloni dell’autostrada
solcano gli spiazzi desolati come invasori marziani. Rispe o ai
camion americani, quelli inglesi sembrano miniature.
«Quando guardo questo spe acolo, mi viene sempre la pelle
d’oca», dice Max.
«Max, tu sei nato a New York?» gli chiede Dean.
«No. Da bambino purtroppo vivevo a Cedar Rapids, nell’Iowa.»
«Dal nome sembra un luogo idilliaco», osserva Elf. «Cedar
Rapids.»
«Diffidate dei nomi idilliaci qui nel Nuovo Mondo.»
«Levon, dove l’hai conosciuto?» domanda Dean.
«Il primo lunedì di lavoro nell’ormai defunta Flake-Stern Agency.
Al nostro arrivo ci avevano avvisato che c’era solo un posto
disponibile, quindi il venerdì avremmo avuto cinque minuti a testa
per convincere il signor Flake e il signor Stern a dare il lavoro a uno
e il benservito all’altro.»
«Roba da gladiatori», commenta Elf.
«Una merda, l’avevo definita io ai tempi», dice Max. «Avevamo
entrambi rinunciato ad altre proposte per il posto alla Flake-Stern, e
se il mio rivale non fosse stato Levon Frankland, per salvare la pelle
avrei trascorso quella se imana a tramare per pugnalarlo alle spalle.
Ma Lev aveva visto in me quello che io avevo visto in lui. Abbiamo
fa o un pa o ed escogitato un piano. Abbiamo ‘preso in prestito’
diversi documenti contabili e la no e li abbiamo passati al setaccio a
p
casa mia. Giunta l’ora del giudizio finale il venerdì, con una
dichiarazione congiunta abbiamo preteso che l’agenzia offrisse a tu i
e due un impiego fisso. In caso contrario, il lunedì i clienti
dell’agenzia sarebbero venuti a conoscenza della discrepanza tra
l’utile ricevuto e quello totale. Il martedì i loro avvocati avrebbero
iniziato a chiamare, ed entro il mercoledì sera la Flake-Stern avrebbe
cessato di esistere.»
«Avete rica ato i vostri futuri capi?» approfondisce Dean.
«Abbiamo fa o loro una proposta congiunta.»
«Ha funzionato solo perché tu e Levon non vi siete pugnalati alle
spalle», fa notare Elf.
«È proprio questo il punto», dice Max. «Se non fregherete Levon,
Levon non fregherà voi. E nello show business un manager onesto è
raro quanto veder cagare un cavallo a dondolo.»

Elf scende dalla limousine. Si trova in centro a New York su un


marciapiede e sta guardando in alto. Un edificio gotico vi oriano
sve a con le sue finestre e i suoi balconi fin quasi alla luna. HOTEL c’è
scri o su un’insegna verticale, e più in basso, su un cartello
orizzontale più piccolo: CHELSEA . «È un’istituzione», li informa Max.
«Affi i a lungo termine, per lo più. Una ci adina dentro la ci à. C’è
gente che si fa una famiglia, invecchia e muore lì dentro.
Ovviamente Stanley, il dire ore, non lo amme erà mai. Questo
posto è un simbolo, tanto che in molti credono che il quartiere abbia
preso il nome dall’hotel.»
«Gli Stones hanno un a ico lì dentro», spiega Dean.
«È uno dei pochi alberghi a New York che acce a musicisti», dice
Max. «Nessuno bada al tuo aspe o e le pareti sono spesse.»
«Quanta gente ospita?» chiede Elf.
«Dubito che dal 1880 ci sia mai stato un censimento.»
Un uomo con del sangue rappreso so o il naso sbuca dall’ombra.
«Ehi, dico a voi, avete bisogno di qualcosa per tirarvi su, giù,
spararvi fuori?»
I due autisti bloccano il pusher mentre Max accompagna la band
oltre le porte del Chelsea. Un gigantesco facchino lo saluta come fosse
un vecchio amico, lui gli me e in mano una banconota. «Se puoi
darci una mano con le valigie e il resto dell’a rezzatura…»
«Sarà fa o, signor Mulholland.»
Nell’atrio, una quarantina di persone se ne stanno sedute sui
divani bassi, con un bicchiere in mano davanti al camino scolpito a
discutere, fumare, vedere ed essere viste. Elf immagina che fra loro
debbano esserci professori, a ori, imbroglioni, prostitute, papponi e
il genere di a ivisti contro cui inveiva l’adde o all’immigrazione.
Nessuno di loro è Luisa Rey. Meglio se con questa storia la fai finita.
Sono in molti, lì dentro, ad avere i capelli lunghi quanto Jasper e un
abbigliamento audace almeno quanto Dean. I muri sono tappezzati
di quadri non sempre degni di nota. «Stanley acce a ogge i d’arte al
posto dei soldi dell’affi o», spiega Max a Elf, mentre si avvicinano
alla reception.
«Stanley non imparerà mai.» Un uomo con la faccia lunga e
ciondolanti capelli castani si alza dopo aver recuperato una matita.
«Ogni se imana arrivano qui decine di ragazzi con una cartelle a in
mano che mi dicono: ‘Sono il nuovo Jasper Johns, questo lavoro vale
tre mesi di affi o, mi serve una stanza matrimoniale con la tivù’. Ma
tu come te la passi, Max Mulholland?»
«Stanley, ti trovo in forma smagliante, bello come un milione di
dollari.»
«Invece mi sento come una tasca piena di lanugine e qualche
monetina. Gli Utopia Avenue, presumo. Benvenuti al Chelsea. Sono
Stanely Bard. Ho cercato di darvi delle camere vicine, ma ho trovato
solo piani vicini. Dean, Griff, voi sarete insieme nella 822.»
«Mi serve una stanza tu a per me», dichiara Dean.
«Be’, lo stesso vale per me», aggiunge Griff.
«La 822 è una suite con due camere da le o», spiega Stanley, «e
ho scoperto su Village Voice che a te, Dean, piace molto Dylan.»
Dean non si sbilancia. «E a chi non piace Dylan?»
«Be’, sappi che Bobby ha composto ‘Sad Eyed Lady of the
Lowlands’ nella 822.»
Dean cambia faccia. «Mi prendi per il culo?»
«Secondo lui aveva un’atmosfera speciale.» Stanley Bard preleva
una chiave dal suo mazzo. «Al terzo piano dovrebbero esserci delle
p
camere indipendenti, se…»
«Andrà bene la 822, grazie.» Dean soppesa la chiave che ha in
mano come farebbe un credente con un chiodo della croce di Gesù
Cristo.
«Tu, Elf, sei nella 939. Levon nella 912. A te Jasper do la 777. Un
cinese mi ha garantito che nessun hotel ha una stanza fortunata
come questa.»
Jasper prende la chiave e mormora un «Grazie», poi, con un tono
perfe amente naturale, Elf chiede a Stanley: «Qualcuno ha lasciato
un messaggio per me?»
«Vado a controllare.» Stanley sparisce nell’ufficio sul retro. Gli
altri si dirigono agli ascensori a eccezione di Dean. «Speri che ci
siano notizie di Luisa?»
Elf risponde tu a allegra: «È molto improbabile. In questo
momento è oberata di lavoro. È una lunga storia».
Rispunta Stanley. «Niente, Elf. Desolato.»
«Non aspe avo nulla.»

La stanza 939 è soffocante e odora di pollo arrosto. È arredata solo


con cose che non vale la pena rubare: un coprile o di ciniglia, una
lampada di ceramica sbeccata, un barometro con l’ago che dichiara
erroneamente TEMPESTA e il dipinto di un dirigibile. Mentre disfa i
bagagli, Elf immagina Mark Twain, Oscar Wilde e un sopravvissuto
del Titanic disfare i bagagli in quella stessa scatola sospesa per aria.
Tira fuori la foto incorniciata delle tre sorelle Holloway insieme alla
madre, sca ata da un cameriere l’anno prima, il giorno in cui Imogen
aveva annunciato di aspe are un bambino. Nella foto c’è anche Mark,
in un certo senso. Si lava la faccia, beve un bicchiere d’acqua
newyorkese del rubine o, si sistema i capelli e si rifà il trucco
davanti allo specchio crepato della toele a. Scomme o che Jasper
coprirà il suo specchio con un lenzuolo. Se Stuff of Life andrà bene e gli
Utopia Avenue dovranno fare altri tour internazionali, Jasper avrà bisogno
di farmaci più efficaci del Queludrin. Apre la finestra che dà sul balcone.
La serata è fresca. Nove piani più in basso sfrecciano macchine,
persone, ombre. Londra vive in orizzontale, per lo più, New York
invece è un luogo verticale, e a renderlo possibile sono gli ascensori.
America. Dopotu o è un luogo reale, quindi.
È previsto che la band si riunisca giù per la cena. Elf si me e il top
lungo di chiffon nero e i pantaloni sfilacciati a zampa color crema
che, cinque fusi orari e due giorni prima, ha comprato a Chelsea con
Bea. Come regolarsi con il ciondolo di serafinite di Luisa? Se lo me o
sono una lesbica disperata che non sa guardare in faccia la realtà. Se non lo
faccio, però, è come tagliare fuori Luisa e la tenue speranza che tu a questa
situazione sia soltanto un equivoco. Elf indossa il ciondolo.

Quando l’ascensore si ferma al nono piano, il garzone che


manovrava all’andata l’arcaico gabbio o non c’è più. L’unico
occupante è un uomo distinto sulla trentina. Elf cerca di aprire la
porta esterna dell’ascensore, ma la maniglia è dura e scomoda.
«Perme i?» dice l’uomo. «È un’operazione piu osto complessa.» Fa
scorrere la porta interna, poi ruota all’insù la maniglia dell’altra
porta e la spalanca. «Monta a bordo.»
Elf entra. «Grazie.»
«Non c’è di che.» L’uomo è consapevole di essere alto, tenebroso e
a raente. Ha una fede al dito e il suo dopobarba profuma di tè e di
arancia. «Qual è la tua meta finale stasera, se posso chiedere?»
«Il pianoterra.»
«Tieni il pollice premuto sul tasto T.»
È un’indicazione bizzarra, ma ubbidisce.
L’ascensore non si muove.
«Oh. Strano. Fammi chiedere a Eligio.»
Lì con loro non c’è nessun altro. «Chi?»
«Il santo patrono degli ascensori.» L’uomo chiude gli occhi e
annuisce. «D’accordo, ricevuto. Eligio dice che devi togliere il
pollice…» Elf si rende conto che sta di nuovo parlando con lei.
«Ora.»
Fa come le è stato de o, e l’ascensore riprende la sua lenta discesa.
«Caro vecchio Eligio», commenta l’uomo.
In quel momento, Elf capisce che è uno scherzo: l’ascensore si
muove se si toglie il dito dal tasto. «Divertente. Solo un po’ però.
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Non tanto.»
Gli occhi sorridenti dell’uomo hanno occhiaie profonde. «Allora,
sei una nuova paziente di questo manicomio o sei venuta a trovare
qualcuno?»
L’ascensore, scendendo, oltrepassa l’o avo piano.
«Sono venuta a trovare qualcuno.»
«E chi è il fortunato?»
Per deviare l’offensiva di quel tizio affascinante, Elf sceglie un
uomo irraggiungibile. «Jim Morrison.»
«Bene, sei fortunata. Jim Morrison sono io.»
Cerca di non trovarlo divertente. «A Blackpool ci sono ausiliarie
del traffico che somigliano a Jim Morrison più di te.»
Lui fa un gesto di resa. «A questo punto sono costre o a
confessarti la verità. Gli amici mi chiamano Lenny. Mi auguro che lo
faccia anche tu.»
Elf replica con un’espressione che sta a significare: Ma davvero?
L’ascensore oltrepassa il se imo piano.
Lenny non sembra troppo interessato a sapere il suo nome. Le sue
scarpe sono così lustre da brillare. «A enzione, questo è l’ascensore
d’hotel più lento d’America. Se hai fre a, ti conviene scendere a
piedi. È più veloce.»
«No, non sono poi così di corsa.»
«Buon per te. L’espressione ‘più veloce’ sta diventando sinonimo
di ‘meglio’. Come se lo scopo dell’evoluzione umana fosse essere un
proie ile senziente.»
Parla come uno scri ore, rifle e Elf. Prova a farsi venire in mente
un Lenny o un Len della le eratura. «Tu vivi qui?»
«Saltuariamente, ma sono un inguaribile girovago. Toronto, qui,
la Grecia. Il tuo è quello che si definisce un accento dei dintorni di
Londra, giusto?»
«Sì. Niente male, complimenti. Sono di Richmond, West London.»
«Ci sono stato o o anni fa grazie a una specie di borsa di studio.»
L’ascensore oltrepassa il quinto piano.
«Che tipo di borsa di studio?»
«Il tipo le erario, di giorno scrivevo un romanzo e di sera
scrivevo poesia.»
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«È davvero molto bohémien. E hai dei bei ricordi?»
L’ascensore oltrepassa il quarto piano.
«Quello che ricordo della mia Boemia-sul-Tamigi», risponde
Lenny, «sono padrone di casa che truccano i contatori del gas,
lamentele per il chiasso della mia macchina da scrivere, non vedere il
sole per mesi e l’estrazione di un dente del giudizio andata storta.
Non sarei sopravvissuto senza Soho. Un luccichio impertinente
nell’occhio di Madre Londra.»
«Quel luccichio è rimasto impertinente. Io vivo lì. In Livonia
Street.»
«Allora ti invidio. In parte.»
L’ascensore oltrepassa il terzo piano.
Elf si ricorda di quell’amico di Bruce, Wotsit. «Ho sentito dire che
la Grecia è un incanto.»
«La Grecia è molte cose. Paradossale. Governata da una giunta di
estrema destra, per quanto sulle isole l’unica regola sia vivi e lascia
vivere.»
«Come ci sei finito?»
«Un giorno, in Inghilterra, l’inverno era agli sgoccioli ed ero
andato in banca in Charing Cross. Allo sportello c’era un tale con
un’abbronzatura perfe a. Gli ho chiesto dove fosse stato e mi ha
raccontato di un’isola, Idra. Vado, ho subito pensato. Un paio di
se imane dopo, il traghe o che partiva dal Pireo mi ha scaricato sul
molo dell’isola. Cielo azzurro, mare blu, cipressi, case imbiancate a
calce. Bar in cui per cinquanta centesimi avevi pesce alla griglia,
retsina ghiacciato, olive e pomodori. Non c’era una macchina.
L’ele ricità andava e veniva. Ho affi ato un posto per qua ordici
dollari al mese. Adesso ne possiedo uno.»
«Sembrerebbe il paradiso, per molti versi.»
«Il problema del paradiso è che in paradiso è dura guadagnarsi da
vivere.»
L’ascensore raggiunge il pianoterra. Elf apre la porta.
«Sono a cena con alcuni amici in Union Square», le dice Lenny.
«Se sei dire a da quelle parti, puoi approfi are del mio taxi.»
«Ti ringrazio, però no. Sono dire a lì.» Indica il ristorante El
Quijote oltre la porta dell’hotel.
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«Allora sono felice di aver condiviso con te questo epico viaggio,
misteriosa forestiera.»
«Elf Holloway.»
Lenny ripete il nome con aria di approvazione, solleva il cappello
come un gentiluomo d’altri tempi e a raversa l’atrio; un a imo dopo,
però, ricompare accanto al suo gomito. «Elf, scusa se sono insistente,
ma ci sono persone verso cui uno sente qualcosa di particolare. La
mia amica Janet ha invitato un po’ di gente da lei in terrazza più
tardi. Una cosa molto informale, saremo solo pochi amici balordi.
Tempo ed energie perme endo, quindi, passa. O sali, per meglio
dire. È invitato chiunque faccia parte della tua cricca.»
«Grazie, Lenny. Lo terrò presente.»

***

Le casse sgangherate del ristorante El Quijote gracchiano una


pomposa musica spagnola piena di orpelli. Le parti cantate le fanno
venire in mente per l’ennesima volta Luisa. Un ampio specchio
raddoppia le dimensioni effe ive del locale. Jasper è seduto con le
spalle rivolte alla sala. I camerieri scivolano sul pavimento a
scacchiera trasportando vassoi carichi di ve ovaglie. Niente di
quello che vede sui vassoi o sui tavoli degli altri clienti le risulta
familiare. Tu i e sei stanno bevendo un cocktail che, al pari del cibo,
le è nuovo e che si chiama Old Fashioned. «Non ero lì in cerca di
guai», sta dicendo Max Mulholland, «ero in cerca di talento. Il mio
ragionamento era, se mezzo milione di ragazzi approdano a Chicago
per una se imana di musica e manifestazioni di protesta, di riflesso
ci saranno un centinaio di musicisti di strada, e di quel centinaio
cinque potrebbero essere roba forte. Un amico con una stanza al
Conrad Hilton per il convegno dei democratici mi aveva offerto di
dormire sul divano. Be’, mi aspe avo una cosa tipo San Francisco,
ragazzi che me evano fiori nelle canne dei fucili. Come mi
sbagliavo. Non ho visto un solo fiore. Dall’anno scorso sembrano
passati dieci anni. Nel fra empo ci sono stati l’omicidio di Martin
Luter King e disordini per tu a l’estate. Gli Yippie minacciano di
introdurre l’LSD nella rete idrica. Baggianate, ovvio, però la stampa
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con certa merda ci va a nozze, la merda si diffonde e la gente ci
crede.»
«Ma che significa Yippie, in parole povere?» chiede Griff.
«Viene da Yip, Youth International Party, Partito Internazionale
della Gioventù», risponde Levon. «Un vasto contenitore che
raggruppa anarchici, idealisti, gruppi antimilitaristi o favorevoli alla
droga. È un fenomeno che riguarda sopra u o la West Coast,
goliardico nello spirito… giusto, Max?»
«Giusto, Chicago però nello spirito è più simile al suo sindaco
Richard J. Daley», replica Max. «Ricco come Creso e corro o come
Nerone. In estate, durante i disordini, ha invitato ufficialmente a
sparare a vista su chi appiccava incendi. La polizia ha sparato. La
polizia ha ucciso.» Max me e da parte il tono frivolo. «Per farla
breve, la frangia moderata degli Yippie aveva deciso di non
partecipare. Al concerto in Lincoln Park si sono presentati solo gli
MC5 e Phil Ochs. Anziché un oceano di mezzo milione di persone,
ce n’erano poche migliaia, una pozzanghera, e un sesto di loro erano
federali con la camicia a fiori. Le mie speranze di trovare il prossimo
Bob Dylan erano sfumate, dunque mi sono incamminato per tornare
all’Hilton. In Michigan Avenue ho superato una grossa
manifestazione contro la guerra. Stava facendo buio. Davanti
all’hotel, i rifle ori di una troupe televisiva illuminavano da una
parte una falange della Guardia Nazionale, e dall’altra ragazzi con i
capelli lunghi che sventolavano bandiere vietcong. A Chicago!
Adesso che sono passate due se imane e sono qui a raccontarvelo, il
pericolo era lampante: da una parte c’era un fiammifero e dall’altra la
benzina. In quel momento, però, ho pensato solo: Ehi, sono un ospite
dell’hotel, andrà tu o bene, mi basta oltrepassare i polizio i e sarò
di nuovo in albergo.» Max beve un sorso di Old Fashioned. «È come
se fosse crollata una diga. Un boato sempre più forte e poi, di
colpo… guerriglia urbana. Mischie. Ma oni. Grida. La folla si è fa a
avanti e si sono fa i avanti anche i polizio i, armati di sfollagente.
Quegli sfollagente sono in grado di spaccare le ossa come fossero
uova, a saperli usare. E li sapevano usare. Il Tribune l’ha definita
‘sommossa della polizia’. Ma la maggior parte delle sommosse non
si spinge fin dove si è spinta quella di Chicago. Chiunque era un
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potenziale bersaglio. Tizi regolari in giacca e crava a. Donne.
Cameramen. Ragazzi. Discografici come me. Chiunque, insomma,
non indossasse l’uniforme. La polizia mirava al volto, all’inguine,
alle rotule. Hanno lanciato in mezzo alla gente veicoli zeppi di
‘picchiatori’. Si erano strappati i numeri identificativi in modo che
non fosse possibile risalire a loro. Poi un certo polizio o ha
incrociato il mio sguardo. Lui era il predatore e io la preda. Non so
perché si fosse fissato proprio con me, ma mi è venuto dri o contro.
Il suo scopo era sfasciarmi il cranio. Mi rendevo conto che sarei
dovuto scappare di corsa, ma era come… uno di quei sogni in cui
non puoi decidere nulla. Me ne sono rimasto lì impalato a pensare: È
così che muoio, adesso, oggi, in Michigan Avenue con il cervello
rido o in poltiglia…» Max si accende una sigare a e si guarda il
dorso della mano. «A salvarmi è stata una pedata dietro il ginocchio.
Sono andato giù, avevo la faccia appiccicata alla strada. Qualcuno mi
è caduto addosso. A pochi centimetri di distanza è rimbalzato un
lacrimogeno, una grossa la ina rossa con un ugello metallico in
cima. Mi sono allontanato carponi, in una centrifuga di corpi urlanti
che si calpestavano fra le grida. Ho incrociato un ragazzo, a
illuminarlo c’erano le telecamere della televisione. Naso ro o, mezzo
labbro spaccato, denti andati, uno squarcio insanguinato dove
avrebbe dovuto esserci l’occhio. Ho ancora davanti quella faccia.
Come una foto.» Max disegna una targa funebre nell’aria:
DIMOSTRANTE PACIFISTA, 1968 .
«E a me che sembrava terribile la giornata in Grosvenor Square»,
commenta Dean.
«Sei riuscito a portarlo via da lì?» chiede Elf.
«Il fumo di un lacrimogeno mi è finito in faccia. È come se le tue
pupille si fondessero. Mi sono allontanato barcollando, dunque…
no, Elf, me ne vergogno, ma non ho più saputo che fine abbia fa o.
Ho trovato il retro dell’hotel, l’entrata della cucina presidiata da un
facchino. Era alto quasi due metri e armato di un ma arello, aveva
un’aria più ca iva di una maledizione. ‘Fammi entrare’, gli ho de o.
‘Un dollaro’, ha risposto. ‘Qui fuori è un massacro’, ho precisato.
‘Due dollari.’ Glieli ho dati e mi sono salvato la pelle.»
«Questo è il vostro libero mercato», commenta Griff.
«Non ho mai collegato l’America alla violenza», dice Elf.
«La violenza è presente in ogni pagina della nostra storia.» Max
ripulisce il suo gazpacho con un crostino. «Il massacro degli indiani
a opera degli impavidi coloni. Più tardi li avremmo ingannati con
tra ati privi di valore, ma per lo più sono stati massacrati. La
schiavitù. Lavora gratis per me fino al giorno della tua morte, altrimenti ti
faccio fuori subito. La Guerra Civile. Abbiamo industrializzato la
violenza. Una produzione in serie, anni prima di Ford. Anni prima
della guerra di trincea nelle Fiandre. Ge ysburg! Cinquantamila
morti in un giorno. Il Ku Klux Klan. I linciaggi. La Frontiera.
Hiroshima. Il sindacato dei camionisti. Guerra! Noi americani
abbiamo bisogno della guerra come i francesi hanno bisogno del
formaggio. E se non c’è una guerra a portata di mano, allora ce ne
inventiamo una. Corea. Vietnam. L’America è uguale a quel tossico
fuori dall’hotel, ma non è l’eroina la droga da cui siamo dipendenti.
Nossignori.»
«Tu i gli imperi si reggono sulla violenza», interviene Jasper. «Il
colonizzato resiste a ruberie e saccheggi, quindi il colonizzatore deve
me ere a tacere i nativi. O li rimpiazza, o li ammazza. L’Unione
Sovietica lo sta facendo adesso. I francesi l’hanno fa o in Nord
Africa. Gli olandesi nelle Indie Orientali Olandesi. I giapponesi nella
Seconda guerra mondiale. I cinesi in Tibet. Il Terzo Reich in Europa.
Gli inglesi dappertu o. Non si può proprio dire che gli americani
abbiano l’esclusiva.»
Da quando hanno lasciato Londra, Jasper non ha mai parlato così
tanto. Elf è preoccupata per lui. C’è qualcosa che non va…
Max si ripulisce la bocca con un tovagliolo di lino. «Qui, nella
terra della libertà, troverete alcune fra le persone più gentili,
intelligenti e sagge che siano mai vissute. Ma quando entra in gioco
la violenza, allora è spietata. Parte senza alcun preavviso, come un
fulmine a ciel sereno. Così.» Max finge di estrarre una pistola.
«Godetevela la terra della libertà. Però a enzione.»

Dean e Griff decidono di seguire Elf al raduno sulla terrazza sul


te o dell’amica di Lenny. Jasper ha dato forfait. Gli Utopia Avenue
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suoneranno per il concerto d’esordio la sera dopo, e la giornata la
dedicheranno ai media. Mentre aspe ano l’ascensore, un uomo
barbuto travestito da angelo con tunica e alucce a acca bo one con
Griff: «Se non ti chiedo subito dove hai preso quegli zigomi, più
tardi sarò costre o a flagellarmi».
Griff arrossisce. «I miei zigomi?»
«Hai degli zigomi di-viiini.»
«Be’, grazie. Mi sono arrivati con il resto del corpo.»
«Dio del cielo, il tuo accento! A-do-rabile. Io sono l’arcangelo
Gabriele e tu?»
Elf gli viene in soccorso. «Gli amici lo chiamano Griff.»
«Pregherò perché diventiamo amici, Griff. To’, il tuo ascensore è
arrivato.»
«Sali con noi, Gabriele?» domanda Dean. «Griff sarà lieto di farti
un po’ di spazio dietro.»
«Volerò con quello dopo, grazie.»
Una volta in ascensore, Dean preme il pulsante per la terrazza,
Jasper quello del se imo piano. L’angelo saluta agitando le dita.
«Non perdiamoci di vista.»
L’ascensore inizia la sua sferragliante ascesa. Dean fissa gli zigomi
del ba erista. «Di-viiini.»
«Vaffanculo», replica cortesemente Griff.
«Stai ancora male?» domanda Elf a Jasper.
Jasper non si rende nemmeno conto che qualcuno gli stia
parlando.
Dean gli schiocca le dita davanti alla faccia.
«Cosa c’è?»
«Elf ti ha chiesto se stai un po’ meglio.»
Jasper si acciglia. «Ho i miei dubbi.»
«Dubbi?» ripete Elf. «Su cosa?»
«Su cosa succederà poi», risponde Jasper.
Dean perde la pazienza: «Sei il solito guastafeste, cazzo.
Suoniamo a New York. È quello che abbiamo sempre sognato».
Jasper preme il tasto con il numero 4. L’ascensore si blocca, lui
esce e prende le scale. Dean richiude vigorosamente la porta e preme
di nuovo il tasto per la terrazza. «Quando fa il genio tormentato
diventa insopportabile, maledizione.»
Jasper non fa mai il genio tormentato, considera Elf.
Dopo la festa andrà a bussare alla sua porta, decide.

Camelie, cosmee e siepi scolpite in piena fioritura nei vasi. Le


candele sprigionano bagliori verde-oro nei bara oli di vetro, blu-oro
nelle lanterne. Un a ico a forma di piramide e un imponente
comignolo delimitano su due lati il giardino sulla terrazza, a
completare il re angolo sono due pareti mobili. Sedute qua e là, una
trentina di persone parlano, fumano e bevono. L’aria odora di erba.
Un chitarrista spavaldo pizzica il suo strumento su una panca in
maniera superba, con tre donne ai suoi piedi. Mamma lo definirebbe un
casanova. Poi Elf pensa a Luisa. Le fa male. «Elf», spunta Lenny con
un Martini in mano, «mi fa davvero piacere che tu sia qui, ma sono
mortificato per non averti riconosciuto prima…»
Dean invece riconosce lui ed esplode: «Leonard Cohen!»
Il cantautore scuote le spalle. «Ho rinunciato a fingere di essere un
altro.»
Dean si gira verso Elf. «Perché non ci hai avvisato?»
«Io…» Elf è in imbarazzo. «Scusa, Lenny, sono un disastro.»
Torna a guardare Dean. «È che è diverso dalla foto sul disco.»
«Ho lo stesso alibi per non aver riconosciuto te», replica Lenny.
«Griff, Dean, il vostro Paradise lo conosco bene. Un mio amico a Idra
lo ascoltava di continuo.»
«Non sai quante volte ho cantato ‘Suzanne’ nei locali», dice Elf.
«Dio, ti dovrei pagare tante di quelle royalties…»
«Per un bourbon con ghiaccio e gli accordi di ‘Mona Lisa’ sono
disposto a non sguinzagliare gli avvocati. Chi ci ospita, Janis, la
conoscete già?»
Si volta una donna. Intrecciato fra i capelli ha un boa rosa, indossa
un abito da damigella in pericolo, bracciale i e collane basterebbero
ad aprire una bancarella, ed è una delle più celebri cantanti
americane.
Stavolta è Griff a esplodere: «Cazzo, Janis Joplin?»
«Utopia Avenue!» Lei scarica un sorriso da diecimila volt.
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«La tua sì che è classe, Janis», dice Griff. «Classe vera.» Guarda
Elf. «Quindi non sapevi che la festa era sua?»
«Ho sentito male… Lenny aveva de o ‘Janis’ e io ho capito
‘Janet’.»
Janis Joplin fa un tiro di sigare a. «Quando Lenny mi ha de o che
aveva conosciuto una Elf di Londra, ho pensato: Andiamo, quante
Elf vuoi che ci siano? Allora ho telefonato a Stanley e la verità è
venuta a galla.»
Elf strabuzza gli occhi. Janis Joplin mi conosce. «Il nostro aeroplano
è per caso precipitato dalle parti di Terranova? Siamo in paradiso?»
«Le feste di Janis sono molto più divertenti del paradiso»,
commenta Lenny.
«Se il fuoco sapesse cantare», dice Elf a Janis, «canterebbe come
te.»
Janis sospira. «Complimenti simili, sai, non si possono non
ricambiare.» Elf ama il modo in cui il suo accento trasforma certe
parole. «Mi sono procurata una copia di Stuff of Life.» Janis si rigira
un filo di perline d’ambra intorno a un mignolo. «Be’… mi sono
sciolta in merda.»
Elf guarda Dean che guarda Griff. «L’americano lo stiamo ancora
imparando. Sciogliersi in merda è un bene o un male?»
«È grandioso», dichiara Lenny. «Ci è piaciuto molto anche Road to
Paradise. Ha aiutato me e Janis a superare l’inverno.»
Elf interce a una sua occhiata a Janis Joplin. Sono insieme o lo sono
stati. Indica la piramide. «Tu vivi lì, Janis?»
«Sembra uscita da una favola, no? Non è l’appartamento più a
buon mercato del Chelsea, ma che senso avrebbe lavorare tanto se poi
non te la spassi un po’?»
«La piramide in passato ha ospitato parecchia gente illustre», dice
Lenny. «È stata affi ata da Arthur Miller e Marilyn Monroe. Da Jean-
Paul Sartre. Sarah Bernhardt. Dall’unica e sola Janis Joplin…»
Janis si guarda in giro. «E Jasper dov’è?» Fa un mezzo sospiro.
«Come si pronuncia il cognome?»
«Zut», risponde Elf. «È andato a dormire. Lui e gli aerei non
vanno d’accordo, e domani abbiamo la prima delle nostre tre serate
al Ghepardo.»
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«Ad alcuni qui farebbe piacere conoscerlo. A Jackson in primo
luogo.» Con un cenno del mento le indica il casanova dai capelli
lucidi che pizzica la chitarra. «Entriamo ad assaggiare il punch che
ho fa o con le pesche. È una rice a del mio paparino. E che io sia
dannata…» punta gli occhi sull’orologio,«è ora di uno spinello.»

***

Tre ragazzi ci hanno già provato con Elf. E ogni volta Luisa le è
mancata ancora di più. Janis Joplin la trova in un angolo della
piramide e le piazza in mano un cocktail opaco. «Prova questo.
Brutal Truth, così si chiama. Lo ha creato apposta per me il tipo che
si occupa dei miei cocktail. Gin e noce moscata con uno schizzo di
pericolo.» Brindano facendo tintinnare i bicchieri e bevono.
«Santissimo Dio che sei nei cieli», esclama Elf.
«Questo nome era il secondo in lizza.»
«Potrebbe funzionare come carburante per missili.»
«Me lo auguro, Lady Inghilterra. Ma dimmi una cosa. Tu lo hai
escogitato un tuo metodo?»
Il Brutal Truth anestetizza l’esofago di Elf. «Un metodo per cosa?»
«Un metodo per fare da donna quello che facciamo.»
Da più vicino, Elf nota le vene impazzite nel bianco degli occhi di
Janis, le cicatrici che ha in faccia. «Non ho nessuna risposta. Eccola la
brutale verità.»
«Già, non lo pensi anche tu? Se sei un uomo è facile. Canti le tue
canzoni, scuoti le piume della tua coda da pavone. Dopo lo show
scendi al bar e combini con le pollastre. Ma quando canti e la
pollastra sei tu, cosa dovresti fare? Siamo noi quelle con cui
combinare. E più siamo famose più questo è vero. Siamo come…
come…»
«Principesse in un’epoca di matrimoni dinastici.»
Janis si morde il labbro inferiore e annuisce. «E la nostra fama
aumenta il valore delle spacconate da spogliatoio. Da cui gli uomini
traggono vantaggio. ‘Janis Joplin, ma certo, la conosco. Me l’ha
succhiato sul le o sfa o.’ Questa cosa la odio. Però, come opporsi? O
cambiarla? O sopravviverle?»
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Da un eccellente impianto stereo escono le note di «Wasn’t Born
to Follow» dei Byrds.
«Io non sono ancora al tuo livello», dice Elf. «Avresti qualche
consiglio da darmi?»
«Nessun consiglio. Solo una paura e un nome: Billie Holiday.»
Elf beve un terzo sorso di Brutal Truth. «Billie Holiday non è
morta eroinomane, con il fegato andato, piantonata dalla polizia sul
le o di morte e con soli se anta centesimi in banca?»
Janis si accende una sigare a. «Ecco la paura di cui ti parlavo.»

***

Una luna americana è incastrata fra due gra acieli come una
monetina caduta in una crepa. Elf guarda la ci à al di là della
ringhiera. Bastioni merlati alla vigilia di una guerra. Il suo cuore sta
vibrando per via del Brutal Truth. Le sue estremità stanno vibrando
per l’erba di Janis. Immagina Luisa apparire come la Madonna su
quella terrazza verdeggiante, l’addolora che non possa succedere. Elf
ricorda di aver sofferto quando Bruce l’aveva mollata per quella
modella, Vanessa. Ma perdere Luisa è più come perdere una parte
del proprio corpo. Dove ho sbagliato? Dev’essere colpa mia. Per forza.
«È lui quello famoso?» Dean sta indicando davanti a sé.
Elf non ha idea di che cosa intenda, a rispondere è Leonard
Cohen: «L’Empire State Building, certo. L’edificio più alto del
pianeta».
«E dov’è King Kong che strapazza i biplani?» s’informa Dean.
«Al giorno d’oggi per lui c’è meno lavoro», replica Lenny. «Sono
tempi duri.»
Nelle finestre degli edifici più vicini e più bassi ci sono ancora
accese alcune luci. Ogni riquadro luminoso è una vita grande quanto
la mia, pensa Elf.
«Lo sentite?» chiede Dean con una mano a coppa intorno
all’orecchio.
«Cosa?» replica lei.
«Questo disco, la colonna sonora di New York. Ssssh…»
Oltre il chiacchiericcio e Sam Cooke che canta «Lost and Lookin’»
sul giradischi, si sente un brusio eterogeneo di camion, macchine,
treni, ascensori, clacson, sirene, cani… Qualsiasi cosa. Porte,
serrature, fogne, cucine, rapine, amanti. «È come un’orchestra che
accorda gli strumenti», dice Elf, «se non fosse che il concerto è
proprio l’accordatura. Una cacofonia sinfonica.»
«Cose del genere le dice anche quando non ha fumato», spiega
Dean a Lenny.
«Elf è una poetessa nata.» Lenny posa i suoi occhi castani del
genere leggo-nella-tua-anima su Elf al chiaro di luna.
«Tu, caro signore, sei nato cascamorto, invece.» L’erba di Janis.
Mannaggia.
«Mi dichiaro colpevole», concede Lenny.
Elf s’immagina Lenny che chiede a Dean se lei ha un ragazzo e
Dean che gliene parla, poi immagina Dean che chiede a Lenny di
Janis e Lenny che gliene parla. Nella ba aglia dei sessi le donne
condividono informazioni riservate. Gli uomini fanno di sicuro lo
stesso. Luisa le manca più che mai. È lei il suo rifugio da tu o quello.
Lo era. Lo è. Lo era. Lo è.
«Perché te ne sei andato da New York», chiede Dean a Lenny
guardando la ci à dei loro sogni, «dopo che ti sei sistemato?»
«Non sono di quelli che si sistemano, io. Ero venuto qui a scrivere
il, o anche solo un, Grande Romanzo Americano. Davanti a un simile
cliché rabbrividisco. Mi ero immaginato come un pesce grosso in
una pozzanghera, il fa o è che non ero per niente un pesce. Ero
sensibile alle distrazioni. Il Greenwich Village. Le le ure dei poeti
beat. I concerti folk. Facevo lunghe passeggiate dandomi arie da
flâneur, ma solo i francesi riescono a vivere così. Guardavo le navi
sull’East River. Una volta ho preso quell’ascensore.» Con un cenno
indica l’Empire State Building. «Ho guardato Manha an dall’alto e
sono stato colto da un assurdo desiderio di prenderla. Dal desiderio
di possederla. Le canzoni che scriviamo sono un surrogato del
possesso secondo voi?»
«Io scrivo canzoni per scoprire cosa voglio dire», replica Elf.
«Io le scrivo solo perché mi piace farlo, maledizione», dichiara
Dean.
«Forse, allora, qui l’artista più puro sei tu», osserva Lenny.
Una voce fumata si fa sentire dalla piramide. «Ehi, Lenny!
Abbiamo bisogno di una tua opinione.»
«Su cosa?» chiede Lenny ad alta voce.
«La differenza fra malinconia e depressione.»
Leonard Cohen sembra dispiaciuto. «Il dovere mi chiama…»

«Lui sarebbe disponibile se lo sei anche tu», dice Dean a Elf.


«Sembri un magnaccia. O un intermediario.»
«Mi preoccupa solo che un membro del gruppo si perda certe
occasioni.»
È una cosa carina? Non lo so. «Janis mi ha raccontato che lui in
Grecia ha una specie di moglie e un figliastro. Dammi pure della
difficile, ma per stavolta passo.»
Dean le allunga una canna. «Nove mesi senza azione… a
quest’ora sarei completamente impazzito.»
Azione? Sembra un esercizio militare. Elf fa un tiro, lascia uscire il
fumo e si me e in guardia: qualsiasi cosa le venga da dire su Luisa
non potrà rimangiarsela. Sam Cooke adesso sta cantando «Mean Old
World». «Gli uomini hanno bisogno di scopare. Per le donne non si
tra a tanto di un ‘devo’, quanto più di un ‘potrebbe essere bello’ o di
un ‘magari’. È un gioco a cui non possiamo vincere. Se non ci stiamo,
siamo frigide o non sappiamo conquistare un uomo. Se ci stiamo
troppo, però, siamo troie, quelle con cui tu i possono farsi un giro,
merce avariata. Per non parlare della gioia di una gravidanza fuori
programma, relegate in un angolo a guardare voi che ci date
dentro.» Gli ripassa la canna. «Non ti sto accusando di nulla. Però
sappilo: il patriarcato è una fregatura.»
«Da te c’è sempre da imparare.» Dean lancia nel vuoto la canna
ormai finita. «I guai della mia paternità mi fanno vedere i rapporti
occasionali so o una nuova luce.»
Ne vuole parlare quindi. «Hai deciso qualcosa?»
«I risultati del test saranno lì ad a endermi quando torniamo, ma
l’esito non sarà né un sì né un no preciso. Se non sono io il padre del
bambino, c’è solo il dieci per cento di possibilità che il gruppo
sanguigno lo stabilisca con certezza.»
g g
«Non si può dire che sia una prova schiacciante.»
Dean non parla per un po’. «Immagino che dovremo aspe are che
il bambino cresca e vedere se mi somiglia. Fino a quel momento,
però, sono tenuto a pagare qualcosa alla ‘signorina Craddock’? È
questo il problema. Se non sono io il padre sarei un fesso a farlo, ma
se lo sono e non le do un soldo, che differenza ci sarebbe tra me e
Guus de Zoet?»
Dalla strada, tredici piani più in basso, si levano alcune urla.
«Se avessi la possibilità di esprimere tre desideri», dice Elf. «Te ne
lascerei uno.»
«All’inizio, quando Levon mi ha chiamato per darmi la notizia,
avrei fa o di tu o per ge armi la cosa alle spalle. Qualsiasi cosa. Ora
però penso che anche se il figlio non fosse mio sarebbe comunque di
qualcuno. Non si può cancellare una vita. Dico bene?»
A Elf vengono in mente Mark e la sua piccola bara.
«Merda, Elf, scusa. La mia boccaccia, maledizione. Sono un
idiota.»
Elf gli stringe una mano. «No. La vita è preziosa. Ce ne
dimentichiamo di continuo. Non dovremmo aspe are che sia un
funerale a ricordarcelo.»
Dean gra a via l’etiche a da una bo iglia di birra. «Già.»

«Vi amo tu i», Janis Joplin è salita su una specie di piedistallo fra
le piante, «ma domani ho le prove, così ho proposto a Jackson di
suonare un ultimo pezzo prima di lasciarci, e lui mi ha proposto di
cantarlo.»
Jackson conta il tempo, poi a acca una cascata decrescente di note
che termina con una se ima maggiore. Elf riconosce l’inizio di
«These Days», dall’album Chelsea Girl, ma se Nico la canta con algida
sobrietà nordica, Janis la infiamma, dando una diversa sfumatura a
ogni strofa. È un trucco per mantenere viva la tua a enzione, rifle e
Elf, e a lei riesce benissimo.
Jackson improvvisa un bridge prima del finale e Dean sussurra a
Elf in un orecchio: «Il marpione sa suonare davvero, ed è anche
belloccio».
Elf replica sussurrando a sua volta: «Hai paura di aver trovato un
rivale?»
Janis canta gli ultimi qua ro versi a cappella.
Jackson imita con la chitarra il suono di una campana, facendola
rintoccare dieci volte.

Please don’t confront me with my failures,


I had not forgo en them. c

Su un te o newyorchese una ventina di persone applaudono.


Janis si prodiga in un inchino traballante. Anche Jackson s’inchina.
«Un’altra, Janis?» chiede qualcuno. Lei risponde con una delle sue
risate da cavallo imbizzarrito. «Gratis? Fuori di qui! Non è de o però
che Lenny non abbia qualche asso nella manica.»
Il canadese si lascia convincere, si sposta davanti e riceve la
Gibson da Jackson con un sorriso. «Se proprio insistete, amici, ecco a
voi una canzone che ho imparato a Camp Sunshine quando avevo
quindici anni. È da lì che viene l’approccio solare che mi
contraddistingue, il resto è storia della musica.» Accorda la chitarra
a orecchio. «A scriverla sono stati due comba enti francesi in esilio a
Londra, s’intitola ‘The Partisan’. One, two, three, four…»
A confronto di Jackson, il talento di Lenny come chitarrista è
modesto e la sua voce è nasale, roca, ma a Elf la canzone va venire la
pelle d’oca. È la storia di un soldato che, quando il nemico varca il
confine, decide di non arrendersi come gli è stato ordinato. Prende
invece il fucile e sparisce lungo il confine, dove ha tu e le intenzioni
di sopravvivere in un modo o nell’altro finché tornerà la libertà. Le
parole sono scarne ma vivide, simili a istruzioni con cui spe a
all’ascoltatore inscenare un piccolo dramma nella propria fantasia.
There were three of us this morning, I’m the only one this evening… d Non
ci sono giochi di parole. Nessun trucche o. La canzone ha a
malapena qualche rima. Elf rifle e su quanto «Prove it» si sforzi di
strabiliare a ogni costo, la cosa la imbarazza. «The Partisan» è
semplicemente ciò che è. Leonard canta tre versi in francese,
dopodiché la canzone si conclude in inglese, in un cimitero, con una
sorta di resurrezione.
Elf è conquistata, colpita. L’angelo barbuto che hanno conosciuto
prima nell’atrio, e del cui arrivo Elf non si era ancora accorta, le
mormora all’orecchio: «È più una seduta spiritica che una canzone».
L’applauso è caloroso. «Un altro pezzo vincente di Lenny ‘Fabbrica
di Successi’ Cohen!» grida qualcuno.
Il canadese sorride e fa cenno a chi applaude di farla finita. «Mi
piacerebbe chiamare una nuova amica per l’ultima canzone, ma è
arrivata solo oggi, quindi non voglio insistere. De o questo, la
signorina Elf Holloway è disposta a onorarci della sua grazia
musicale?»
Tu i la guardano. Dean ci spera.
E più facile farlo che non farlo. «E va bene, però…» Urla
d’incoraggiamento coprono le sue parole mentre occupa lo sgabello
e Lenny le affida la chitarra di Jackson. «Se dovesse venire da schifo,
è tu a colpa dell’erba di Janis. Vediamo…» Cosa canto? «Proverò una
cosa che ho scri o in aereo.» Quando ancora speravo che avrei trovato
Lu ad aspe armi agli Arrivi. Prende il taccuino dalla borsa e su un
angolo della pagina appoggia un bara olo di vetro con una candela.
«La melodia è quella di una vecchia canzone folk inglese, ‘The Devil
and the Pigman’. Qualcuno può prestarmi un ple ro?» Jackson le
passa il suo. «Grazie.»
Conta il tempo e parte.

As far off as an icy glare


Is from summer laughter –
As «Once upon a time» is from
«Happy ever after» –

As far off as the brutal truth


Is from prose gone purple,
As far away as death from birth
Unless life is a circle –

Pluto and the far-off Sun –


How far you are from me.
As far as «now» from «never» is,
Philosophically… e

Elf strimpella e accenna un bridge, non si lancia in un assolo però,


i virtuosismi di Jackson sono ancora troppo freschi nelle sue
orecchie, inoltre è da quando è entrata negli Utopia Avenue che non
scrive una canzone alla chitarra. «Qui ci starebbe bene un assolo di
Jasper, una chitarra spagnola, qualcosa di vivace…» dice al pubblico
della terrazza «…con Dean all’armonica qui, forse, così…» Con un
flebile ululato ipotizza l’assolo «…un po’ come un lupo mannaro che
sente nostalgia di casa…» Lancia un’occhiata a Dean, lui replica con
un cenno d’assenso: Ci hai preso. Parte seconda…

Yet love collapses distances –


Love, and curiosity.
Love is a kind of telescope –
Love is pure velocity.

Love ignores the rules of love –


Those rules stamped on the heart.
Perhaps those rules had reasons, once.
Perhaps those reasons weren’t so smart.

Love comes and goes, a feral cat –


Unbound by human vow.
Humbly, then, I beg of love –
Be here now. f

Elf strimpella un’altra strofa senza voce e inverte la melodia,


chiudendo con un accordo che le viene per caso e non saprebbe dire
che cosa sia, uno strambo Fa, e lascia una domanda sospesa a
mezz’aria. La gente applaude. Funziona. Guarda quelle persone che
conosce da così poco, quegli estranei: Janis, Lenny, poi Griff, ubriaco,
e Dean che con una mano sul cuore sembra volerle dire che la
canzone è bellissima. E guarda Luisa Rey, con i suoi occhi da falco e
il sorriso distante.
No, no, questo è troppo, sembra il copione di un film. Elf non sorride,
non ancora, non ci riesce. È troppo sbigo ita. Lo trova addiri ura
stucchevole. Non puoi spuntare proprio mentre canto dei versi scri i
apposta per evocarti. Poi pensa: Questa è New York, c’è la luna piena,
sicura che ci sia qualcosa di cui stupirsi?

«Mi hanno de o che se non lasciavo la ci à mi avrebbero uccisa»,


le dice Luisa. «Un tipo della polizia di New York ha avvisato il mio
editore che la minaccia era seria.»
«Mio Dio, Lu.» Elf vorrebbe abbracciarla e se fosse il suo ragazzo
potrebbe farlo, ma sulla terrazza di Janis non c’è privacy.
«La polizia ha de o alla redazione di Spyglass di riagganciare se
qualcuno avesse chiamato per scoprire dove fossi. Per questo ti
hanno liquidato così. Mi spiace solo che non ti sia arrivato il mio
biglie o. Pensavo lo avessi ricevuto.»
«Chissenefrega. Tu, piu osto, poverina. Quello che è successo è…
terribile.»
«Non era previsto che un articolo sul racket delle protezioni
diventasse popolare. Non abbiamo minimamente pensato che
sarebbe esploso così in fre a.»
«Dove sei andata?» le chiede Elf. «Dai tuoi?»
«Non ho voluto rischiare. Papà è in Vietnam e mamma è sola. Un
mio amico ha uno chalet in montagna vicino a Red Hook, nel Nord.»
«Ma sei sicura di essere fuori pericolo?» le chiede Dean.
«Ho avuto fortuna. Una faida interna alla mafia è arrivata alla resa
dei conti. Ieri in New Jersey hanno ammazzato sei persone. Due di
loro erano i… signori che hanno minacciato me e Spyglass. Il conta o
nella polizia del mio editore sostiene che dovremmo stare tranquilli.
Vivo per scrivere un giorno ancora.»
«Sembra un film di gangster, cazzo», commenta Griff.
«Meno divertente, più squallido e molto più reale.»

***

Nel cucinino della stanza 939 Elf prepara una cioccolata calda a
Luisa che è appena uscita dalla doccia. «Non faccio che ripercorrere
pp p
con la mente gli ultimi dieci giorni», dice Elf. «Mentre io ero tu a un
‘povera me, povera me’, tu eri a tanto così da una pallo ola.»
«Non lo sapevi.» Luisa si avvolge i capelli in un asciugamano. «E
io non sapevo che tu non lo sapessi. Non potevo dirtelo. Ma siamo
sopravvissute entrambe.»
«E se ti chiedessi di limitarti a scrivere recensioni di ristoranti?»
«E se ti chiedessi di scrivere canzone e?»
«Non essere troppo sprezzante del pericolo, rischi di diventare
insensibile. Prome imelo.»
«È esa amente quello da cui mi me e in guardia mio padre.»
Luisa la bacia. «D’accordo, promesso.» Raggiungono il balcone e,
come due vecchie e in villeggiatura, si siedono sulle sdraio con le
loro cioccolate. Luisa accende una Camel per sé e un’altra per Elf. Si
guardano e aspirano le sigare e simultaneamente. Le punte si
illuminano insieme e loro si me ono a ridere.
«Indovina cosa sto facendo adesso», dice Elf.
«Cosa stai facendo?» chiede Luisa.
«Mi sto spedendo un telegramma mentale indietro nel tempo. Mi
arriverà durante la serata al Les Cousins, quando Levon e i ragazzi mi
hanno invitata a provare con loro. In questo telegramma mentale mi
sto scrivendo: Di’ sì.»
«E poi?»
«Poi mi scrivo questo: Perché se dici sì, nei prossimi venti mesi
registrerai due LP, andrai a Top of the Pops, farai decine e decine di
concerti, guadagnerai un po’ di soldi, la tua vita sentimentale avrà i suoi
alti e bassi, andrai a New York, Leonard Cohen ti corteggerà, tu e Janis
Joplin vi confiderete a cuore aperto da brave sorelle nella musica, ma
sopra u o conoscerai un’intelligente, simpatica, coraggiosa e amorevole
futura vincitrice del Puli er…» zi isce le obiezioni di Luisa, «oltre che
una donna messicana-irlandese-americana molto sexy. Sì, una donna. Con
cui farai l’amore in modo folle e appassionato…»
«Dio, sei così… inglese.»
«Zi a, dicevamo… Farai l’amore in modo folle e appassionato al
Chelsea Hotel, berrai una cioccolata calda e non ti verrà da chiederti: Sono
una lesbica adesso? o Sono bisessuale? o Prima ero repressa? o Lo sono ora?
No, niente del genere. Ti sentirai a posto e… starai così bene che ti
g p
mancheranno le parole. Quindi per il tuo bene… Di’ sì. Qui finisce il mio
telegramma mentale. STOP . Spedito.»
«Mi piace molto il tuo telegramma», dice Luisa. «Penso però che
si sia trasformato in una le era vera e propria, non ti pare?»
Elf annuisce, fuma, sorseggia la cioccolata calda, prende la mano
della persona che ama. Nove piani più in basso, un taxi giallo si
aggira per la Ventitreesima Strada Ovest davanti al Chelsea Hotel in
cerca di clienti…

a. Chelsea Hotel camera 939.


b. Sulla strada per Raglan in un giorno d’autunno, / La vidi per la prima volta e capii / Che i
suoi capelli scuri avrebbero tessuto una trappola / Di cui un giorno avrei potuto
pentirmi. / Riconobbi il pericolo, eppure m’incamminai / Lungo la via incantata / E dissi:
«Che il dolore sia una foglia che cade / Al sorgere del giorno».
c. Non costringetemi a confrontarmi con i miei fallimenti, / Non li ho dimenticati.
d. Stama ina eravamo in tre, stasera sono rimasto solo io…
e. Lontano quanto lo è uno sguardo di ghiaccio / Da una risata estiva – / Quanto «C’era una
volta» lo è da /«Vissero per sempre felici e contenti» – / Lontano quanto lo è una brutale
verità / Da una prosa fiorita, / Quanto lo è la morte dalla nascita / A meno che la vita non
sia un cerchio – / Plutone e il remoto Sole – / Così tu sei lontano da me. / Lontano quanto
«adesso» lo è da «mai», / Filosoficamente…
f. Eppure l’amore fa crollare le distanze – / L’amore e la curiosità. / L’amore è una specie di
telescopio – / L’amore è velocità pura. / L’amore ignora le regole dell’amore – / Quelle
regole stampate sul cuore. / Magari quelle regole avevano motivo di essere, una volta. /
Magari quelle regole non erano così furbe. / L’amore viene e va, è un ga o selvatico – /
Non vincolato a giuramenti umani. / Umilmente, allora, imploro che l’amore… / Sia qui
ora.
Who Shall I Say Is Calling? a

Jasper aveva dicio o anni. Il Queludrin non stava facendo effe o.


Toc-Toc era tornato alla carica e gli erodeva la mente. Sarebbe
riuscito a resistere ancora qualche se imana. Non avrebbe resistito
mesi. Heinz Formaggio si era imbarcato verso il suo futuro
americano tre ma ine prima, e Jasper aveva ormai deciso che una
rapida liberazione sarebbe stata meglio di una mente in rovina. Si
era vestito, si era lavato la faccia, i denti ed era sceso per la colazione.
Il banditore di Delft, borbo ando frenetico, stava raccontando un
suo sogno. Dopo colazione, Jasper si era dire o come sempre al
dispensario. L’inchiostro di J. de Zoet stava sbiadendo sull’etiche a
incollata al vassoio delle pillole. Aveva preso i suoi due Queludrin
azzurri. Il do or Galavazi non c’era, era via per un convegno. Di
nuovo in stanza, Jasper aveva infilato un biglie o nella custodia
della chitarra: Per Formaggio, se la vuole. Si era messo il cappo o,
aveva recuperato dal ripiano più alto dell’armadio uno zaino
polveroso, aveva raggiunto l’entrata principale e lì aveva chiesto un
pass per poter uscire quella ma ina. La richiesta del timido
agorafobico aveva stupito il giovane psichiatra presente al momento.
Jasper aveva mentito in maniera credibile, alludendo alla lieve
indisposizione dell’amico Formaggio. Il medico gli aveva chiesto se
voleva essere accompagnato. «No, voglio sconfiggere il mio demone
da solo», aveva risposto lui. «Non mi allontanerò troppo.»
Soddisfa o, il medico aveva firmato il pass, aveva annotato l’orario
sul registro e aveva fa o segno al custode al cancello che il ragazzo
poteva uscire.

***
Fuori dalle mura di Rijksdorp, Jasper aveva trovato tu o diverso e
identico a un tempo. La ma ina era silenziosa. Il cielo velato. Il
bosco odorava d’autunno. Le foglie morte trasportate dal vento
liquido andavano alla deriva. I pini frusciavano, sibilavano come a
chiedere di far silenzio. I corvi tramavano complo i. Dai tronchi
degli alberi avevano fa o capolino alcune facce. Jasper non aveva
incrociato i loro sguardi. Il sentiero saliva tortuoso, la boscaglia
finiva ed ecco le dune con il loro saliscendi. Non troppo lontano, le
onde s’infrangevano sulla ba igia e le alghe rinculavano come per
un colpo di frusta. I gabbiani strillavano. Il mare sembrava sporco.
Un cartello me eva in guardia i potenziali nuotatori: GEVAARLIJKE
ONDERSTROOM. VERBODEN TE ZWEMMEN . C’era alta marea. Le onde
sparpagliavano i cio oli sulla sabbia, la risacca li risucchiava
indietro. In lontananza, a sud, si stagliava compa a Scheveningen.
Dalla parte opposta, a meno di dieci chilometri c’era Katwijk. Grigio
fango, grigio sabbia, grigio pallido. Viscidi frangiflu i si
protendevano nelle acque agitate. Jasper si era messo a riempire lo
zaino con i sassi più grossi. Così avrebbe fa o meno casino che con
un rasoio, si diceva; era un sistema più affidabile delle pillole, meno
gotico di una corda e nessun testimone sarebbe rimasto scioccato o
segnato per sempre. Riempito lo zaino, l’aveva legato stre o a sé.
Sembrava pesante quanto lui. Aveva ripassato le istruzioni un’ultima
volta: entra in mare, cammina, quando l’acqua ti arriva al mento
ge ati in avanti e il peso ti schiaccerà verso il basso. A quel punto
apri la bocca. Un eterno Queludrin. Milly Wallace è sepolta in mare.
L’unico mare. Il mare perpetuo. L’ultimo.
«Ne sei sicuro?» si era chiesto Jasper.
E si era risposto: «Una persona è qualcosa che se ne va».
Era entrato in mare. Gli riempiva le scarpe. Gli avvolgeva le
ginocchia, le cosce, i fianchi…

Non farlo, aveva de o una voce. Tu i gli altri rumori erano


scomparsi. Niente mare, niente vento, niente gabbiani. Da una fine
simile non si torna indietro. A parlare nella testa di Jasper, come se
avesse le cuffie, era una voce olandese con un accento straniero. Esci
dall’acqua, ordinava. Non era Toc-Toc. Il mare si agitava intorno al
ragazzo. «Chi sei?»
Prima di tu o esci dall’acqua. Jasper aveva fa o ricorso alla strategia
di Formaggio e aveva isolato i fa i assodati. Primo: quella voce
comunicava con lui in modo dire o. Secondo: non voleva che lui
morisse. Terzo…
Terzo, aveva de o la voce, potresti per favore uscire dall’acqua?
Jasper era tornato indietro. Si era seduto su un ceppo che il mare
aveva trasportato a riva.
Togli le pietre dalla sacca, aveva ordinato la voce.
Jasper aveva ubbidito. «Allora, chi sei?»
Un a imo di esitazione. Non lo so.
«Com’è possibile che tu non lo sappia?»
Non so nemmeno questo.
«E quindi… cosa sai?»
Su di me?
«Su di te, sì.»
Sono una mente senza un corpo proprio. Esisto in questa forma da
cinquant’anni. Forse vengo dalla Mongolia. Cambio il corpo che mi ospita
tramite conta o. Quando Formaggio ti ha stre o la mano, mi sono
trasferito dentro di te. Il mio olandese non è granché, come puoi constatare,
dunque… La voce era passata all’inglese. Come ti dicevo non so molto.
«Ma se non sai chi sei, che cosa sei?»
Uno spirito, un fantasma, un antenato, un angelo custode, un
noncorpus, un’entità priva di forma. Non sono così rigido nel definirmi.
«E che ci fai nella mia testa?»
Ti ho trovato nei ricordi di Formaggio, speravo che Toc-Toc potesse
darmi qualche spiegazione sulle mie origini. Sto facendo un giro di
perlustrazione.
«Vuoi dire che se sei qui ora è solo un caso?»
Se credi nel caso, sì.
Una medusa intrappolata nella sabbia brillava nella pallida luce
ma utina. «Dunque hai trascorso gli ultimi giorni a rovistare nella
mia memoria senza che ti avessi invitato?»
Tu chiedi il permesso a un libro prima di leggerlo?
«Lo chiedo al proprietario del libro.»
p p
Da «Addio mondo crudele» a «Che ne è della mia privacy?» in soli due
minuti.
A più di un chilometro di distanza un peschereccio scivolava in
un ritaglio di luce argentea.
«Come devo chiamarti?»
Se m’inventassi un nome dal nulla temo che porterebbe iella, le mie
speranze di scoprire chi davvero sono ne patirebbero. La mia lingua madre a
quanto pare è il mongolo, puoi quindi chiamarmi il Mongolo. Gabbiani
lontani, minuscoli come lo sono da vicino i moscerini, volteggiavano
alle spalle del peschereccio. «Hai trovato le spiegazioni che stavi
cercando?»
No. Toc-Toc è un’altra entità priva di forma, ma, a parte questo, abbiamo
poco in comune. Ti vuole morto. Il perché non lo so.
«Hai parlato con lui?»
Certo che no. Strapparlo dal torpore indo o dal Queludrin non sarebbe
saggio. Se… Dal nulla un enorme cane nero era balzato sulla duna,
Jasper era cascato dal ceppo. Il cane non faceva che abbaiare, non
c’era rumore però, come in un film muto. Jasper aveva sentito
entrare in azione labbra, lingua e corde vocali: «Zail! Zail!» Il cane
aveva abbassato la coda e si era accucciato a testa bassa. Con una
mano, Jasper aveva schiaffeggiato l’aria, il cane si era tolto di torno.
Il cuore gli martellava nel pe o. «Puoi controllare i corpi che ti
ospitano?»
Se proprio non ho scelta.
«Con i cani ci sai fare.»
Gli ho de o di andarsene. In mongolo.
«Perché un cane olandese dovrebbe capire il mongolo?»
Non so ovalutare i cani.
In lontananza, uno yacht procedeva balzelloni nel mare venato
come marmo.
«Se sei in grado di controllarmi come hai appena fa o per
mandare via il cane, perché non mi hai costre o a uscire dal mare? O
perché non mi hai fermato prima che ci entrassi?»
Speravo ti fermassi da solo.
Jasper si sdraia sulla ghiaia. «È che… sono stanco.»
Ti avrei ripescato, se non mi avessi dato re a. Non ho nessuna fre a di
scoprire cosa mi succederebbe se il corpo che mi ospita dovesse morire.
Questa conversazione comunque mi rallegra. Di solito sono un’anima
solitaria.
«Solitaria? Ci saranno altri ospiti con cui parlare, no?»
È rischioso. Molti mi scambierebbero per pazzia.
«Credo di essere vaccinato. Oppure sono già pazzo.»
Non sei pazzo, Jasper, ma ospiti da lungo tempo un inquilino che non ti
vuole bene. Toc-Toc ti ha già danneggiato. E se continuassimo a parlare
camminando? Il giovane psichiatra che ti ha fa o uscire si starà
preoccupando, e hai bisogno di vestiti asciu i…

Nelle ore successive, il confidente incorporeo di Jasper lo aveva


aiutato ad analizzare la propria situazione come il do or Galavazi
non avrebbe saputo fare, convintissimo che Toc-Toc fosse una
psicosi. Il punto di vista del Mongolo gli aveva rivelato una serie di
nuove intuizioni che aveva poi messo in ordine alla maniera di
Formaggio. Primo: Toc-Toc probabilmente non era in grado di
trasferirsi da un corpo all’altro, in caso contrario sarebbe rimasto a
Ely abbandonando Jasper. Secondo: l’obie ivo di Toc-Toc sembrava
essere la morte di Jasper. Terzo: i poteri di coercizione di Toc-Toc
dovevano essere più deboli di quelli del Mongolo, altrimenti durante
la traversata da Harwich avrebbe costre o Jasper a ge arsi dalla SS
Arnhem. Quarto: il Queludrin stava soffocando la sua ghiandola
tiroidea e consumando i nervi cervicali nella spina dorsale. «Quindi
se non sarà Toc-Toc a farmi fuori, sarà il Queludrin», aveva de o
Jasper.
Il Mongolo aveva aspe ato un a imo prima di replicare. Se
continuerai su questa strada, sì.
«Quali altre strade ci sarebbero?»
Potrei, per così dire, operare.
«Riusciresti a eliminare Toc-Toc?»
No. È troppo integrato. Ma se cauterizzassi le sinapsi che circondano
Toc-Toc nel tuo cervello, potrebbe essere murato vivo, in effe i. Non avrai
più bisogno del Queludrin. Non è una cura. Quando sme erai di prenderlo,
Toc-Toc si risveglierà, si accorgerà di essere intrappolato e inizierà a
g g pp
corrompere nuove sinapsi. Gli serviranno anni però. Magari troverai un
farmaco più sicuro o un alleato più forte. Nel fra empo, potresti vedere un
po’ il mondo. Godertela un po’.
Jasper aveva trovato un dado in tasca. Puntini bianchi su un cubo
rosso di plastica. Non ricordava di averlo mai avuto. «Che rischi ci
sono?»
Devo provocare un ictus in una zona circoscri a del cervello. La cosa
presenta dei rischi, ma rapportati a un’erosione spinale, a una tiroide morta,
a un visitatore ostile nella mente o allo sguazzare nel Mare del Nord con
uno zaino pieno di sassi, sono gestibili.
La pioggia olandese ba eva contro la finestra buia di Jasper.
«Quando puoi occuparti di questa operazione?»

***

Si era svegliato per la luce del sole che aveva invaso il soffi o. Come
ti senti, sognatore? gli aveva domandato uno spirito mongolo.
«È come se avessi un ogge o delle dimensioni di una ghianda, o
di una pallo ola, incastonato nel cervello. Non che faccia male. Però
è lì. Come un tumore benigno.»
Benigno all’esterno, maligno all’interno. È la barriera cauterizzante che
ho ritagliato intorno al tuo inquilino. La sua cella, se ti suona meglio.
«Quindi da oggi… posso sme ere di prendere il Queludrin?»
Proprio così. Toc-Toc non può più raggiungerti.
«Convincere il do or Galavazi che sono guarito non sarà facile.»
Non sono d’accordo. La tua guarigione è un trionfo della medicina. Vai a
stringergli la mano dopo colazione. Mi trasferirò dentro di lui e gli
impianterò un paio di idee. È una brava persona.
«Perché non presentarti apertamente a lui come hai fa o con me?»
Non voglio che perda la fede nella psichiatria. Il mondo ha fin troppi
mistici e così pochi scienziati.
«E io cosa devo dirgli?»
Il Mongolo aveva rifle uto. Tu o quanto, a eccezione del tentato
suicidio. Digli semplicemente che sono arrivato da te mentre passeggiavi.
«Se gli dico così, arriverà una volta per tu e alla conclusione che
sono ma o.»
Eppure eccoti qui, più forte e più felice. Immagino che il do or Galavazi
interpreterà la tua guarigione e «il Mongolo» in termini psichiatrici. Chi lo
sa? Potrebbe venirne fuori qualcosa di buono…

Un toc-toc alla porta della camera 777 del Chelsea Hotel. Jasper si
sveglia. La fossa scavata dal sonnifero non era abbastanza profonda.
Toc-toc. Potrebbe essere Elf, o Griff o Dean. Ne dubita. Toc-toc. Si
alza, va alla porta e a raverso lo spioncino guarda fuori. Nessuno.
È tornato. È ufficiale. La mia guarigione è finita.
Toc-toc. Jasper apre la porta. Il corridoio giallo disseminato di
porte marroni si allunga in entrambe le direzioni. Nessuno.
Richiude, fissa la catenella e…
Toc-toc. Riesce a percepirlo. La preda avverte la presenza del
predatore. Va in bagno e prende un altro Queludrin.
Gliene restano dodici. Bastano appena per sei giorni. Devo
procurarmene dell’altro, e subito.
Toc-toc. È dalla festa per Stuff of Life alla Roundhouse che sente
nelle vicinanze delle bussate incerte. Toc-toc. Sull’aereo le bussate si
erano fa e forti e chiare. Che la sua paura di volare abbia in qualche
modo rafforzato…
Toc-toc. È no e, il suo orologio fa le 12 e 19. Ha preso il Queludrin
solo sei ore prima, quando l’aeroplano stava a errando a New York.
Ai tempi di Rijksdorp l’effe o durava almeno dodici ore.
Toc-toc. Jasper si fa cadere una pillola azzurra nel palmo e la bu a
giù con mezzo bicchiere d’acqua. Sul grande specchio ha appiccicato
alcune pagine del Times. IL VOLO 1611 DELL’AIR FRANCE È PRECIPITATO
IN MARE NEI PRESSI DI NIZZA, 95 LE VITTIME . Si lava i denti, dando
tempo al Queludrin di fare breccia nel suo cervello. Dopo tre o
qua ro minuti infila lo spazzolino nel bicchiere e…
Un lento, beffardo toc… toc.
E se non funzionasse più per niente?

Jasper bussa con convinzione alla porta della camera 912, finché
dietro la catenella non appare il volto assonnato di Levon.
«Devo telefonare in Olanda», dice Jasper.
«Cosa?» L’agente sba e le palpebre.
«Devo telefonare in Olanda.»
«Ma in Olanda saranno le sei del ma ino.»
«Ho bisogno di parlare con il mio medico.»
«I medici ci sono anche a New York. Chiederò a Max, in…»
«Vuoi che suoni domani, vero?»
Questo funziona. Levon apre la porta e gli fa segno di
accomodarsi. Indossa un pigiama giallo canarino. Jasper gli dà un
pezzo di carta con il numero del do or Galavazi. Levon chiama il
centralino dell’albergo, legge il numero, conferma la chiamata e con
il centralinista amme e: «Sì, lo so, mi costerà una fortuna», poi passa
la corne a a Jasper. «Fai in fre a per favore. Di stadi non ne abbiamo
ancora riempiti.»
«Ho bisogno di privacy», dichiara Jasper.
L’espressione di Levon diventa doppiamente indecifrabile. Infila
una vestaglia sopra il pigiama ed esce dalla stanza.
Nella corne a, Jasper sente il segnale olandese di libero. Toc-Toc
s’impone con i suoi toc-toc sopra i tuu-tuu… Il medico risponde:
«Chiunque tu sia, è malede amente presto».
Jasper parla in olandese: «Do or Galavazi, ho bisogno del suo
aiuto».
Una pausa. «Buongiorno, Jasper. Dove sei?»
«In camera di Levon al Chelsea Hotel di New York.»
«New York è un’arancia succhiata, stando a Emerson.»
Jasper rifle e su quest’ultima frase. «Toc-Toc è tornato. Tornato
davvero, intendo. Voglio dire che non è sulla via del ritorno, ma è
già qui.»
Una lunga pausa. «Sintomi?»
«Bussate. Molte. Non sono ancora ininterro e, ma riesco a
percepirlo. Sta sogghignando. Come un ga o che gioca con un
uccellino. E il Queludrin fa sempre meno effe o. Due pillole durano
sei o se e ore. Ne ho presa un’altra appena siamo a errati, ma Toc-
Toc adesso si è rimesso a bussare.»
Toc-toc.
«Jasper? Ci sei ancora?»
«Ecco. Ha bussato proprio adesso. Stavolta non c’è nessun
Mongolo che mi possa salvare. Se il Queludrin non funziona, non ho
niente con cui difendermi.»
«Allora dobbiamo trovare un altro farmaco che funzioni.»
«Già, ma se chiedo a un medico di darmi una medicina per
fermare il rumore che sento nella testa e quello mi fa rinchiudere in
una cella imbo ita? Questa è l’America. L’America è leader
mondiale nel rinchiudere la gente.»
Una pausa. «Agitarti non ti sarà d’aiuto.»
«E quindi, do or Galavazi, cosa mi sarà d’aiuto?»
«Dormire, ora come ora. Hai con te dei sonniferi?»
«Ne avevo preso uno, ma Toc-Toc è riuscito a svegliarmi.»
«Prendine due. Conta erò il do or Yu Leon Marinus. Il collega di
cui ti ho parlato quando sei venuto a trovarmi. Insegna alla
Columbia University, quindi non dovrebbe essere troppo lontano
dal… Chelsea Hotel, hai de o?»
«Sì. È famoso.»
«Gli chiederò di raggiungerti. Con urgenza.»
Jasper sente toc-toc, toc-toc, toc-toc… Somiglia a un applauso
sarcastico. «Grazie.» Riaggancia e abbandona la stanza di Levon. Il
manager tenta inutilmente di sbarrargli la strada. «Ma che succede?»
Jasper torna nella stanza 777 insieme ai toc, toc, toc che,
canzonandolo, lo accompagnano come una marcia funebre. Prende
due benzodiazepine, spegne la luce e si lascia inghio ire dal limbo
dove…

***

Una ninfa di cicala, gonfia e cieca, sta succhiando linfa dalle radici di
un albero. Emerge dal terreno in una foresta inestricabile. Poco per
volta si arrampica su un piccolo fusto che cresce all’ombra di un
gigantesco cedro. La ninfa resta a accata a un rame o finché, dal
carapace diafano, non spunta una cicala nera. L’inse o schiude le ali
collose per asciugarle al sole. Poi… sale in alto, sempre più in alto, e,
a raverso un’aria trafficata, screziata dal sole e piena di macchie
scure, sorvola un chiostro con delle donne incinta che spazzano a
p
terra, i te i spioventi di Zelanda, Chetwynd Mews, il ponte di
Brooklyn… e poi scende, scende fino a infilarsi in uno spiraglio della
finestra della camera 777 del Chelsea Hotel, in cui Jasper sta
dormendo. Fra le sopracciglia di Jasper si apre un varco scuro. La
cicala gli si posa sulla fronte, chiude le ali ed entra nel buco.
Toc-toc. Jasper si ridesta. Toc-Toc è sveglio e presente, tanto che
potrebbe essere seduto in carne e ossa sulla sedia nell’angolo. Forse è
così. L’orologio fa le 7 e 12. Va in bagno e prende tre Queludrin. Ne
restano solo nove. Il do or Galavazi ha sempre de o che parlare a
Toc-Toc nutre e fortifica la sua psicosi, quindi è importante che non
lo faccia. Jasper decide che quel divieto non ha più senso. Di nuovo
in camera da le o, disegna una griglia alfabetica stile Formaggio.
«Sai già come funziona. Mi parlerai?» Se e piani più in basso il
rumore del traffico ma utino è in aumento.
Nessuna bussata stavolta, ma una voce: Lo farò se ne avrò voglia, De
Zoet.
Jasper resta senza fiato. La voce è chiara come quella del
Mongolo. Sento le tue parole, dice Toc-Toc. Sento i tuoi pensieri.
La mente di Jasper è un vortice. «È Toc-Toc che sta parlando?»
Sono colui che chiami con quel nome.
All’orecchio interno di Jasper quella voce suona nobile, profonda
e risoluta. «Preferisci che ti chiami con un altro nome?»
A te interesserebbe come ti chiama un cane?
Jasper si rende conto che in quella metafora lui è il cane e Toc-Toc
il padrone. Dà un’occhiata all’orologio: 7 e 14. Il Queludrin non sta
facendo effe o. «Perché vuoi distruggermi?»
Questo corpo è di mia proprietà. Ed è tempo che tu te ne vada.
«Questo corpo? Questa mente? Ma sono miei. Sono me.»
La mia rivendicazione è più vecchia della tua.
«Rivendicazione? Non capisco.»
Una pausa. Il sogno della cicala.
Altre metafore? «La cicala sono io? Sei tu? Cos’hai intenzione di
fare con me? Dimmelo e basta. Dire amente.»
E dire amente sia: nel mio Paese è usanza concedere qualche ora anche
al ladro più infimo perché prepari lo spirito alla morte. Il tuo periodo di
grazia inizia in questo momento e termina stasera.
g q
«Non voglio morire.»
È irrilevante. Morirai stasera.
«Ma non c’è un altro modo?»
No, nessuno.
Jasper si fissa le mani. L’orologio ticche a.
È il tuo fato, De Zoet. Non esiste spada, pallo ola, esorcista, droga,
forestiero o stratagemma che possa cambiarlo. Acce alo.
«Cosa succede se mi uccido prima?»
Occuperò un’altra persona. In questa ci à non mancano i corpi ada i. Se
vuoi che qualcosa di te sopravviva, tu avia, prima di cederlo fai in modo che
questo corpo si conservi in buone condizioni di efficienza.
Toc-Toc si ritira…

Se e piani so o il balcone di Jasper il traffico ribolle. L’aria è


fresca e metallica. È arrivato l’autunno. Vicino e lontano, la ci à
rumoreggia. I primi raggi di sole si rifle ono sulle finestre orientate a
est. Jasper stila un elenco di ciò che può fare. Uno. Saltare dal
balcone. Negare a Toc-Toc il mio corpo. Jasper aspe a che qualcuno
intervenga. Nessuno si fa avanti. Ma se è il mio ultimo giorno, perché
concluderlo adesso? Due. Comportarsi come se Toc-Toc non avesse
appena emesso una condanna a morte e trascorrere la giornata con
Elf, Dean e Griff, rilasciare interviste alla stampa rispondendo
quando chiedono quali sono le tue prime impressioni sull’America e
perché Elf, una donna, è negli Utopia Avenue. Tre. Scendere per la
colazione e comunicare a Levon e al gruppo che Toc-Toc, un demone
nella sua testa, più tardi lo ucciderà. Qua ro. Ubbidire a Toc-Toc.
Prepararsi a morire. Come fare? Jasper non lo sa bene, ma nel
fra empo è già lì che si lava i denti, si veste con l’abito di scena,
controlla il portafoglio, si me e le scarpe, scende quelle scale che
fanno rimbombare i passi, a raversa l’atrio dell’hotel e si ritrova
sulla Ventitreesima Strada, supera abitazioni per nulla appariscenti,
officine, garage, un deposito di autobus, alcuni parcheggi e
magazzini dove uomini con la tuta da lavoro macchiata d’olio lo
guardano tu ’occhi come se fosse un intruso capitato lì senza
motivo. Alcuni ra i stanno frugando nella spazzatura traboccata da
un bidone capovolto. Jasper passa so o un cavalcavia pieno di
p p p p
macchine rabbiose. All’estremità opposta c’è una striscia di parco
affacciata sull’acqua. Guarda l’ampio le o del fiume Hudson
riversarsi nell’Oceano Atlantico. Sto per abbandonare il mondo. Non tra
cinquant’anni. Stasera. A prescindere da quali siano i piani di Toc-
Toc per il suo futuro, Jasper dubita fortemente che includano gli
Utopia Avenue. Anche alla band quindi restano solo poche ore, a
meno che Elf e Dean non vadano avanti senza di lui. Sono già un
mezzo fantasma. Dentro un capanno, un ragazzo della sua età si
inie a droga in un avambraccio. Alza lo sguardo su Jasper, non dice
nulla e si accascia all’indietro con l’ago ancora infilato. Jasper si
riallaccia una scarpa, meravigliandosi di quanto sia complessa
un’operazione quotidiana come quella. Le erbacce spuntano
avvitandosi dalle crepe nell’asfalto. I loro fiori sono scintille…

Viene inghio ito da un fiume umano arginato da un semaforo con


la scri a: NON ATTRAVERSARE . Quando la scri a diventa
ATTRAVERSARE , il fiume si riversa in avanti. Edifici tappezzati di vetro
proie ano il sole e i suoi riflessi, tu o insieme. In uno sfavillante
negozio di profumi alcune donne fissano Jasper come bambole
sinistre. Prova una serie di campioni spruzzandoseli dal polso al
gomito. Lavanda, rosa, geranio, salvia. Giardini in bo iglia.
«Signore», gli dice seria una guardia, «qui abbiamo delle regole sui
capelli.»
«Cos’è una regola sui capelli?»
Gli occhi della guardia si asso igliano fino a diventare fessure.
«Sei furbo, eh?»
«Solo per caso.»
«Smamma, bello. Via!»
È un’aggressione, realizza Jasper. Esce dal negozio, oltrepassa uno
scuolabus grande e giallo simile a un gioca olo mentre escono gli
scolari. «Sme ila di frignare, lumaca!» sbo a una bambina più
grande. Per la prima volta dopo tanto tempo, Jasper ripensa ai suoi
cugini a Lyme Regis. Eileen, Lesley, Norma, John, Robert, le facce
non le ricorda più. Un colpo di bacche a magica alla De Zoet e sono
svaniti. Saranno già tu i sposati, avranno dei bambini. E magari
avranno visto gli Utopia Avenue a Top of the Pops senza riconoscere
quel cugino dei tempi andati. «Tappo» erano soliti chiamarlo.
«Sgorbio.» Si chiede se avessero sentito la sua mancanza, dopo che
l’autista dei De Zoet lo aveva portato al collegio.
Centinaia, migliaia di uomini in giacca e crava a, scorrono
impetuosamente con le loro ventiqua rore in quella strada senza
sole. Pochi parlano. Nessuno cede il passo e incrocia lo sguardo degli
altri. Servono il dio che li ha creati. Per non essere urtato, è obbligato a
schivarli. Un artista di strada sta suonando «Keys to the Highway»
di Big Bill Broonzy. George Washington vigila dal suo piedistallo
a orniato da colonne doriche. I volti delle statue sono più facili da
decifrare di quelli della gente. A George Washington non fa piacere
essere lì. Jasper nota un’insegna: BOWLING GREEN PHARMACY . Un
pensiero ribelle lo spinge a entrare, vorrebbe chiedere al farmacista
un antipsicotico so obanco, ma subito sente picchiare forte nel
cranio: TOC-TOC TOC-TOC TOC-TOC TOC-TOC TOC-TOC TOC-
TOC TOC-TOC TOC-TOC TOC-TOC TOC-TOC TOC-TOC TOC-
TOC TOC-TOC TOC-TOC TOC-TOC TOC-TOC TOC-TOC TOC-
TOC TOC-TOC TOC-TOC TOC-TOC TOC-TOC TOC-TOC TOC-
TOC TOC-TOC TOC-TOC TOC-TOC. Gli si appanna la vista.
«Niente medicine», dice Jasper a Toc-Toc, «ho capito.» Toc-Toc non
replica niente, sme e però di picchiare. Il farmacista lo sta
guardando. «Posso aiutarti, figliolo?»
«È tu o a posto. Parlavo con una voce nella mia testa.»

Più so o, in una stazione della metropolitana, da tu o il


so osuolo riecheggiano nei timpani di Jasper boati e stridii. I
borborigmi di un orco. Un convoglio in avvicinamento sbuca
ululando dal tunnel, poi si ferma per scaricare e caricare diverse
carcasse in a esa. Nel vagone ci sono tu e le razze di cui lui sia a
conoscenza, compresi alcuni ibridi che riesce solo a ipotizzare. Non
scorrono per strada i fiumi di sangue, rifle e, a raversano l’Homo
sapiens. I passeggeri ondeggiano, sonnecchiano, leggono. A ogni
fermata, il bagaglio genetico si rimescola. Mi piacerebbe poter vivere
qui. Jasper si domanda se, dopo essersi trasferito dentro di lui, Toc-
Toc intenda cancellare i suoi ricordi o ne conserverà piu osto
qualcuno, come l’album di fotografie di un uomo assassinato. Magari
Toc-Toc lo sta sentendo, non commenta però in alcun modo. Jasper
scende alla fermata dell’O antaseiesima Strada. Dalla mappa della
stazione dovrebbe essere vicino a Central Park. Le nuvole sono un
lenzuolo so ile teso sul cielo, e il sole vi splende dietro come una
torcia. Quel quartiere è sede di antichi patrimoni e privilegi, come lo
sono Mayfair a Londra o Prinsengracht ad Amsterdam. Il parco
trascina Jasper per qualche isolato lungo la O antaseiesima, dentro
le sue pagine le e e rile e. Gli aceri sono fuochi d’artificio. So o la
chioma folta di un ippocastano le castagne ma e sbucano dai ricci
come cervelli. Gli scoia oli si mostrano e subito scompaiono. Un
sentiero a spirale lo porta in un ombelico muschioso del parco. Si
siede su una panchina e fa riposare i piedi doloranti. Siamo
permeabili. «I vecchi angolini mi riempiono di malinconia.» A parlare
è un uomo a empato con una barba da patriarca, cappello e pipa da
gentiluomo di campagna. «I vecchi angolini mi scaldano il cuore.»
«Per me questo angolino è nuovo», replica Jasper.
«La sola differenza è il tempo.»
«Non me ne rimane molto.»
«Morire è diverso da quello che tu i credono.» Il vecchio gli tocca
un polso. «Non avere paura.»
«È facile per lei. Ha avuto un’intera vita da vivere.»
«Come tu i. Non un minuto di più, non uno di meno.»
Jasper si sveglia. Non c’è nessuno. Procede fuori dalla spirale e
finisce in un prato dove una banda dell’esercito sta suonando «The
Ballad of the Green Berets». Bandiere a stelle e strisce sventolano su
un pennone accanto a una tenda militare. Uno striscione annuncia:
CERCHIAMO EROI AMERICANI. ARRUOLATI OGGI! Intorno a una coppia
di ufficiali preposti al reclutamento ci sono una decina di giovani
capelloni. «Eroi? Laggiù state bruciando i bambini! I bambini, cazzo,
sveglia! Questo è un genocidio!»
Un ufficiale gli urla di rimando: «Siete una vergogna! Vi
nascondete dietro quel segno della pace mentre i veri uomini
comba ono per voi! La pace non arriva da sola! Per la pace bisogna
comba ere!»
Si sta radunando una folla, ma Jasper non si ferma a guardare. La
sentenza di morte ha reso irrilevanti molte cose che prima per lui
avevano un certo peso. Lascia Central Park e al centro di un’isola
pedonale scopre una statua in cima a una colonna. Cristoforo
Colombo ha perso la strada ed è più tardi di quanto pensasse. In un
chiosco, Jasper compra una bo iglia di qualcosa che si chiama do or
Pepper, non sa di pepe, tu avia. Non ha l’orologio con sé. «Quanto
tempo mi resta?» chiede a Toc-Toc.
Se Toc-Toc l’ha sentito, comunque non risponde.
Entra in un negozio di dischi. Dentro si sente «Born Under a Bad
Sign» dei Cream. Spulcia fra gli LP sui ripiani, godendosi l’alito
d’aria che si solleva a ogni disco che sposta. Supera Pet Sounds, Sgt.
Pepper’s, A Love Supreme, At Last! di E a James, I Never Loved a Man
the Way I Love You di Aretha Franklin e Forever Changes dei Love, Otis
Blue, The Psychedelic Sound of 13th Floor Elevators e The Who Sell Out.
Raggiunge Paradise Is the Road to Paradise e Stuff of Life. La copertina
con la carta dei tarocchi è venuta bene. Vorrebbe vivere abbastanza
da ascoltare le canzoni americane di Elf e Dean. La vita gli mancherà.
Del resto, è ovvio che non sarà così. Solo i vivi sentono la mancanza
di qualcosa.
«Questa se imana suonano qui in ci à.» Il proprietario del
negozio ha una pancia enorme, occhi la iginosi e una camicia di
poliestere macchiata. «Al Ghepardo. Cinquantatreesima, Broadway.
Quello è il secondo album, Stuff of Life. Il primo disco era buono, ma
Stuff of Life è un gradino più su.»
«Sta vendendo bene?»
«Oggi ne ho venduti cinque. Dal tuo accento sembri inglese.»
«Lo era mia madre. Io sono andato a scuola in Inghilterra.»
«Ah, sì? E li hai mai visti i Beatles?»
«Solo John. A una festa.»
«Wow. Li hai conosciuti? Mi stai coglionando.»
Coglionando vorrà dire mentendo? «Non è che abbiamo proprio
parlato. Ci siamo incontrati so o un tavolo. Lui aveva perso la testa e
la rivoleva indietro.»
Il negoziante aggro a la fronte. «Questo è… umorismo
britannico?»
«Non che io sappia.»
Finisce «Born Under a Bad Sign». «Senti questa», dice il
negoziante me endo «Look Who It Isn’t». «È una cosa allucinante,
pazzesca.»
Jasper ricorda quando Dean gli aveva insegnato il riff ai Fungus
Hut. Elf suonava all’organo le discese cromatiche della Toccata di
Bach e Griff aveva commentato deciso: «Per questa ci vuole la luna
piena. Fatevi da parte…» Non vedrà più il gruppo, la cosa lo
addolora. Penseranno che mi sono saltati i nervi e che sono sparito. Esce
dal negozio. La sera sommerge strade e viali. Il traffico si infi isce,
diventa più rabbioso. Jasper sorpassa a piedi una Ferrari. Risuonano
clacson. Starnazzano e starnazzano, saturando le geometrie di
Manha an. Come si può dire il più delle volte della rabbia: è
completamente inutile. WASHINGTON SQUARE PARK , recita un cartello.
Gli alberi stanno cambiando colore. Un artista di strada suona da
qualche parte «Keys to the Highway» di Big Bill Broonzy. Grave
schizofrenia uditiva. Alcuni uomini giocano a scacchi sui tavoli,
accomodati su panchine e seggiole. Il più vecchio di loro è secco
come il collo di un tacchino, ha le lenti degli occhiali crepate, una
sudicia coppola di tweed e una borsa di juta. Il suo rivale si dichiara
sconfi o, bu a giù il re e gli paga una sigare a. «Ti tengo d’occhio la
cuccia, Diz.» Dopo aver de o questo si allontana. Diz guarda Jasper.
«Ti va di giocare, fulmine?»
«‘Diz’ è il tuo vero nome?»
«Così mi chiamano. Allora, ci stai o no?»
«Come funziona?»
«Facile.» La voce di Diz è un raschio. «Io me o un dollaro. Tu ne
me i uno se vuoi giocare con le nere, o uno e mezzo se invece
preferisci le bianche. Chi vince prende il pia o.»
«Giocherò con le nere.»
Diz infila due monete da cinquanta centesimi in una tazza
sbeccata. Jasper infila una banconota da un dollaro. Il suo rivale apre
con una variante della Moderna Benoni. Jasper opta per una Difesa
Indiana. Si radunano alcuni spe atori, Jasper si accorge che stanno
scomme endo sulla partita. Alla decima mossa, Diz imposta una
manovra a tenaglia con l’alfiere. Evitandolo, Jasper incappa in una
forche a. Si fa mangiare un cavallo, poi prende il via una lenta
guerra di logoramento. A Jasper riesce un arrocco, ma non può fare a
meno di sacrificare la regina. Pezzo mangiato dopo pezzo mangiato,
le possibilità di Jasper di recuperare un cavallo o un alfiere
diminuiscono. Alla fine gli basterebbe una mossa per trasformare un
pedone nella regina, ma è troppo tardi. «Scacco», dice Diz.
«Era inevitabile.» Jasper bu a giù il suo re. Nota che la luna è alta
nel cielo. «Cos’era quell’apertura?»
«All’accademia mi hanno insegnato bene.»
«Hai frequentato un’accademia scacchistica?»
«A ica Prison Academy. Fuori mezzo dollaro e t’insegno la
Benoni.»
«L’hai già fa o.» So o il tavolo, Jasper fa scivolare cinque dollari
nel pacche o di Dunhill e lo passa al vecchio.
«Re a scolastica.»
Il vecchio lo me e in tasca. «Grazie mille, fulmine.»
Dalle insegne che ha intorno, Jasper capisce che si trova nel
Greenwich Village. Sente odore di cibo, ma non ha fame. Ordina tè
ghiacciato in un bar. Alla radio c’è una partita di baseball. Nella sua
mente un muro vacilla so o un potente affondo. È un messaggio.
Manca poco…

Per morire Jasper vorrebbe oscurità, privacy, calore, non vuole


però che gli altri lo trovino morto nella sua stanza. Una vista simile
turberebbe Elf. Una chiesa vuota o… Entra in un ospedale dalle
dimensioni incerte. Il pronto soccorso è una caotica esposizione di
sofferenza umana in cui si mischiano fra ure, una ferita da arma
bianca, una ferita da arma da fuoco e ustioni. Alcuni pazienti sono
seduti stoicamente, altri no. Chi può misurare il dolore di un altro?
Jasper oltrepassa una guardia senza intoppi e sale le scale, gira
angoli, a raversa corridoi. L’aria sa di candeggina e pareti vecchie,
ha anche qualcosa di terroso. «Fate largo! Largo!» Una squadra
medica gli passa di corsa accanto con una barella. Qualcuno sta
g p
piangendo sulle scale, sopra o so o, difficile stabilirlo con certezza.
Jasper raggiunge una porta con una scri a: REPARTO PRIVATO N9D .
Inserita nella porta all’altezza della testa c’è una finestrella. Per
ragioni di riservatezza, dall’altra parte è schermata e rifle e le
immagini come uno specchio nero. Toc-Toc esamina Jasper con gli
occhi del tempo. Entra, gli dice. Jasper apre uno spiraglio di porta. In
una penombra che ha il colore della melassa, vede un piccolissimo
reparto con due soli le i. Uno dei due è occupato da un uomo. Di lui
non restano che rughe e incavature avvolte in un camice ospedaliero.
L’uomo vuoto. L’altro le o è vacante. Jasper chiude silenziosamente la
porta, si toglie le scarpe e ci si sdraia. Se l’Uomo Vuoto si è accorto di
avere un ospite non ne dà segno. Dopo un’intera giornata a spasso,
Jasper si sente i piedi indolenziti. Gli arrivano alcuni suoni, come da
una nave che affonda. Una band sta suonando. Un telefono sta
squillando. Risponde una donna: «Pronto?» Pausa. «Chi devo dire
che ha chiamato?» A meno di due metri di distanza, nella gola
dell’Uomo Vuoto c’è una specie di crepitio rantolante. Piselli secchi
tritati, agitati in un tubo di cartone. La bava si raccoglie nella bocca
sdentata e precipita so o forma di filamenti dalle labbra avvizzite.
Gli impregna il cuscino. L’Uomo Vuoto apre gli occhi. Non ha
nessuno. Jasper si chiede chi fosse un tempo e lo saluta
solennemente: «Addio». Dopodiché: «Sono pronto», dice a Toc-Toc.
Il muro nella sua mente va in pezzi e crolla.
Toc-Toc erompe, inondandogli il cervello.
La coscienza di Jasper si riduce, è prossima allo zero.
La presenza regredisce all’assenza.

a. Chi devo dire che sta chiamando?


What’s Inside What’s Inside a

Nove piani più in basso, un taxi giallo in cerca di clienti si aggira per
la Ventitreesima Ovest davanti al Chelsea Hotel. Elf rifle e su quanto
la metafora della vita come viaggio so ovaluti il fa o che la
viaggiatrice viene cambiata dalla strada, dalle disavventure, da che
cosa c’è dentro. Da che cosa c’è dentro quello che c’è dentro. Le braccia di
Luisa la cingono per la vita e salgono fino al ciondolo di serafinite.
Odora di sapone. Bacia Elf sul collo. Niente barba che devo fingere di
ignorare mentre mi scortica. Bruce era un porcospino. Un porcospino
plagiatore. Non importa. Se con lui non fosse finita, adesso non avrei lei.
Non avrei questo. Vista dal davanti, la catastrofe è una rinascita. E la
rinascita è una catastrofe vista da dietro.
«Tu sei quella principessa», le dice Luisa. «Quella nella torre.
Raperonzolo.»
«A New York i capelli di Raperonzolo non raggiungerebbero mai
il marciapiede.»
«A New York Raperonzolo si sarebbe fa a un’acconciatura
speciale.»
Luisa si arriccia i capelli di Elf intorno al pollice e le bisbiglia
all’orecchio: «Rapunzel, Rapunzel, deja caer tu cabello».
«Quando parli spagnolo sono completamente vulnerabile.»
«Ah, sì? In questo caso…» Luisa le bisbiglia ancora nell’orecchio:
«Voy a bofar y soplar y volar su casa hacia abajo».
Elf tra iene una risatina. «Che significa?»
«Sbufferò e soffierò e raderò al suolo la tua casa.»
«L’hai già fa o a Londra.» Elf piazza un bacio sul pollice di Luisa.
«O meraviglia! Quante magnifiche creature ci sono qui, e com’è bella la
donna. O splendido mondo nuovo, che ha gente simile dentro di sé.»
«E questo cos’è?»
q
«La tempesta di Shakespeare. Ritoccata. Mia sorella sta
interpretando Miranda e qualche giorno fa abbiamo ripassato la sua
parte.»
La voce dello spacciatore all’ingresso del Chelsea Hotel raggiunge
molto flebilmente il nono piano. «Ehi! Vuoi qualcosa per tirarti su?
Te la trovo…»
«Hai presente», dice Elf, «quando vai all’estero e impari di più sul
luogo da cui vieni che sul luogo che stai visitando?»
«Ce l’ho presente eccome.»
«Tu, noi, questa…»
«Relazione folle e passionale.»
«Grazie. Be’, questa relazione folle e passionale è ‘all’estero’. Se mi
volto a guardare com’ero prima di conoscerti, capisco meglio quella
me rispe o a quando ero lei.»
«E cos’hai dedo o qui, nella Terra delle Lesbiche Selvagge?»
«Mi sono accorta delle etiche e.»
«Etiche e?»
«Proprio così. A accavo etiche e dappertu o. ‘Buono.’ ‘Ca ivo.’
‘Giusto.’ ‘Sbagliato.’ ‘All’antica.’ ‘Moderno.’ ‘Bizzarro.’ ‘Normale.’
‘Amico.’ ‘Nemico.’ ‘Successo.’ ‘Fallimento.’ Sono facili da usare. Ti
risparmiano lo sforzo di rifle ere. Certe etiche e sono appiccicose.
Proliferano. Diventano un vizio. Presto ricoprono tu o e tu i. Uno
inizia a credere che la realtà sia fa a solo di etiche e. Semplici
etiche e scri e con un pennarello indelebile. Il guaio è che la realtà è
il contrario. La realtà è sfumata, paradossale, cangiante. È complessa.
È tante cose tu e insieme. È per questo che non andiamo bene. La
gente non fa che parlare di libertà. Sempre. Lo vedi ovunque. Ci
sono disordini e guerre per stabilire che cosa sia la libertà e a chi
spe i. Ma la regina delle libertà è questa: essere liberi dalle etiche e.
E qui finisce la lezione di oggi. Mi stai guardando in modo strano.»
Luisa accarezza il ciondolo che una volta apparteneva a lei e ora è
di Elf. «Ti stavo solo appiccicando un’etiche a fra me e me.»
«E cosa c’è scri o sull’etiche a?»
«Elf Presidente.»
Sentono bussare alla porta della camera. Luisa guarda Elf.
«Aspe avi qualcuno?»
p q
«A quest’ora? Gesù, no.»
Toc-toc. Toc-toc.
«Qualche corteggiatore della festa ancora a spasso?» ipotizza
Luisa. «Magari con il nome LEONARD ricamato sui guanti.»
Toc-toc. Toc-toc. Toc-toc.
«È qualcuno che sa di trovarmi qui», replica Elf. «Che sia Levon?»
«Vai ad aprire, allora, ma controlla prima dallo spioncino…»

La lente convessa mostra Levon in pigiama e vestaglia. La fronte


aggro ata risulta ingrandita a dismisura.
«È Levon», sussurra Elf alla sua amante.
«Devo nascondermi?» replica Luisa, sussurrando a sua volta.
Elf è incerta. Griff e Dean sapevano che Luisa avrebbe dormito
nella stanza di Elf, non nel suo le o però. «Me i un lenzuolo e un
cuscino sul divano.»
Luisa annuisce e torna in camera da le o. Elf apre la porta. Il
corridoio è giallo margarina.
«Scusa l’ora.»
«Non saresti venuto se non fosse urgente.»
Levon si guarda intorno circospe o. «Si tra a di Jasper. Si
comporta in modo molto strano.»
«Perché dici così?»
«È appena venuto da me, ha insistito perché domandassi al
centralino di chiamare un numero olandese. Gli ho chiesto
spiegazioni e lui mi ha risposto che erano questioni mediche. Gli ho
fa o notare quanto fosse presto in Europa. Ha minacciato di non
suonare al Ghepardo se non avessi fa o come diceva.»
Elf è sconvolta. «Jasper?»
«Proprio lui. Volevo quindi chiederti se poi aveva deciso di venire
con te alla festa sulla terrazza e si è fa o di qualcosa.»
Elf scuote la testa. «Se n’è andato in camera sua e non si è più fa o
vivo. Volevo andare a dare un’occhiata, ma ormai era tardi e ho
pensato: Meglio che dorma e smaltisca il jet-lag. La telefonata in
Olanda tu l’hai fa a?»
«Non ho avuto scelta. Jasper mi ha de o di aspe are fuori. Io mi
sono comportato come avrebbe fa o qualsiasi manager coscienzioso,
ma parlava in olandese. È saltato fuori alcune volte il nome Galavazi.
Ti dice niente?»
Gli fa cenno di no. «Sembra più italiano che olandese.»
«E la parola ‘Quallidin’ o ‘Quellidron’?»
«Queludrin?»
«Sì, potrebbe essere.»
«È un farmaco. Jasper l’ha preso in aereo. Per i nervi. È una specie
di sedativo, credo. Quanto è durata la telefonata?»
«Due o tre minuti. Dopo che ha riagganciato, gli ho chiesto cosa
stesse succedendo, ma non mi ha dato re a. Sono rimasto seduto al
buio qualche minuto, poi ho deciso di venire qui a vedere se potevi
illuminarmi un po’.»
«Mi piacerebbe poterlo fare. Potremmo andare a bussare da lui,
anche se quando Jasper non ha voglia di parlare, non parla, punto.
L’unico mio suggerimento è di confidare in un buon sonno
ristoratore.»
Levon si sfrega il volto stanco. «Immagino che tu abbia ragione.
Scusa se sono piombato da te a quest’ora. La colazione è alle nove.
Domani sarà una giornata piena.»

Una ma ina al Chelsea, con il sole che penetra a raverso le tende


gialle e un arcobaleno sulla parete. L’orologio fa le 6 e 59. Ci aspe a
una gran giornata. L’ago del barometro è puntato su VARIABILE . Elf è
sdraiata nel le o e ascolta il ronzio del traffico sulla Ventitreesima
Strada. È una specie di linguaggio. Luisa, addormentata, respira a un
ritmo lento, profondo. Una mano giace abbandonata poco sopra il
bacino nudo di Elf. Il contrasto di colore fra le loro pelli le piace. È
erotico. Luisa odora di timo e pane tostato. Bruce odorava di birra e
formaggio. Angus di patatine, aceto e sale. Luisa si rigira,
stiracchiandosi come un giovane ga o splendidamente tonico,
sbadiglia, e cede di nuovo al sonno. Pensare che qualcuno la voleva
morta e lei ha semplicemente fa o spallucce, come potrei fare io per una
recensione schifosa. A Elf torna in mente la faccenda di Jasper. È
ancora presto per andare a svegliarlo. Starà dormendo. Sarà tu o a
posto. È stato il volo. E il successo. È arrivato così all’improvviso. Ha
bisogno di un po’ di tempo per abituarsi. Voler parlare con un medico in
Olanda non è poi così strano. La sua clinica era là. Forse Levon l’ha messo
con le spalle al muro, costringendolo a minacciarlo di non suonare… Elf
pensa ad altre spiegazioni per l’ultimatum di Jasper finché il sonno
non la tira per le caviglie…

***

…e di colpo si è fa o tardi. Luisa indossa i jeans, una T-shirt e una


giacca. Dà un bacio a Elf che si sta truccando, le prome e di andare
al Ghepardo più tardi e fa ro a verso gli uffici di Spyglass dopo dieci
giorni d’assenza. Dieci minuti dopo, Elf trova Levon giù, nel
ristorante spagnolo; sta leggendo il New Yorker e mangiando una
ciambella glassata. Prima che Elf abbia il tempo di sedersi le chiede:
«Non sarebbe meglio andare a vedere se Jasper si è già alzato?»
«Lasciamolo dormire ancora un po’. Il sonno è rigenerante…»
«Ci andremo dopo colazione, allora. L’hai mai provato questo?»
Solleva la ciambella. «È un bagel. Serviti…»
Elf acce a, poi ordina un caffè e un pompelmo. I pompelmi
americani sono rosa, non gialli. Quando arrivano, Dean e Griff
ordinano cose che lei non ha mai sentito nominare: pane di mais,
fri elle di patate, avocado e uova in camicia. Alle 9 e 40 Levon ed Elf
vanno alla reception e chiedono a Stanley di chiamare la stanza di
Jasper. Stanley raggiunge il centralino nel retro. Un minuto più tardi
torna scuotendo la testa. «Non risponde.»
Elf e Levon si guardano. «Un taxi passerà a prenderci alle dieci e
un quarto», spiega Levon a Stanley. «Posso avere una chiave per
aprire la sua camera? Devo tirarlo giù dal le o.»
«Vengo anch’io», replica Stanley. «È una regola dell’hotel.» Si
dirigono all’ascensore. «Sarà qui in un secondo.»
Un minuto dopo lo stanno ancora aspe ando. «A questo punto è
questione di a imi», insiste Stanley.
Due minuti dopo Levon prende le scale. Elf lo segue. Stanley
segue lei. «La gente non muore al Chelsea Hotel», osserva il
g g
proprietario. «E anche se magari è successo, la stanza di Jasper è la
più fortunata dell’hotel…»
Placcati d’oro e macchiati, i numeri spiccano immobili
sull’impiallacciatura di noce: 777. Elf bussa e ordina telepaticamente
a Jasper di presentarsi alla porta con gli occhi appannati, i capelli
rossi arruffati, cercando di emergere dalla nebbia del jet-lag e dei
sonniferi. Non risponde nessuno.
Levon bussa più forte. «Jasper?»
A mo’ di replica c’è solo una flebile eco: Jasper?
Elf scaccia le immagini del loro chitarrista nella vasca da bagno
con le vene tagliate. Picchia contro la porta. «Jasper!»
Si avvicina un tipo basso con una giacca da camera e il fard sulle
guance. La donna che lo accompagna sve a su di lui in abito da sera.
«Buongiorno, Stanley», dicono entrambi, lei con voce di basso, lui di
contralto.
«Signore e signora Blancheflower», li saluta Stanley. «Tu o bene,
mi auguro.»
«Piu osto bene, sì, grazie», risponde la signora Blancheflower.
«C’è qualche problema?» chiede il signor Blancheflower
indicando la porta con un cenno. «Un cliente se n’è andato senza
pagare?»
Stanley sorride come se la domanda fosse assurda. «Ma che dice,
signor Blancheflower! Questo è il Chelsea.»
La coppia si scambia un sorriso rassegnato alle follie del mondo,
poi prosegue il suo giro e scende le scale. Quando i Blancheflower
sono ormai scomparsi, Stanley infila una chiave nella toppa. «Entro
prima io», dice Levon. Qualcosa spinge Elf a toccargli un braccio e a
dire: «No». È spaventata. Entra prima lei. «Jasper?» Niente. Il bagno
sulla destra è vuoto, così come la vasca. Grazie a Dio. Lo specchio è
coperto da pagine di giornale. Bru o segno. «E questo che significa?»
chiede Stanley.
«Odia le immagini riflesse, tu o qui.» Elf si fa forza ed entra in
camera da le o. La salma di Jasper non è stesa sul le o né lì accanto,
né da nessun’altra parte. «Queste sono le federe migliori che abbia
mai acquistato», dice Stanley. «Arrivano da un mercato greco che c’è
a Brooklyn.»
y
Elf scosta le tende e spalanca la finestra. Sul balcone non c’è
nessuno. Tu o regolare anche nella strada so ostante.
«Cosa vi avevo de o?» interviene Stanley. «È solo andato a fare
due passi. È una ma inata splendida a New York. Tornerà da un
momento all’altro.»

«Tu i a bordo, tu i a bordo», dice il DJ. «Questa è Locomotive


97.8 FM e io, Bat Segundo, sono qui per farvi ascoltare il meglio, dai
grandi classici alle ultime uscite. Sono quasi le tre e cinque e quella
che avete appena sentito era ‘Roll Away the Stone’, il nuovo singolo
dei miei vecchi amici d’oltreoceano, gli Utopia Avenue. La band è
salita per tre quarti sul treno del vostro Bat per parlare dell’uscita del
nuovo album, Stuff of Life, ma prima di tu o le presentazioni sono
d’obbligo.» Bat fa cenno a Elf di cominciare a parlare.
«Ciao, New York», dice lei al microfono. «Sono Elf Holloway,
suono le tastiere e canto negli Utopia Avenue e…» Sono così
preoccupata per il nostro chitarrista scomparso che mi viene da vomitare.
«Conosciamo Bat da quando lavorava come DJ in Inghilterra, è stato
il primo al mondo a far sentire la nostra musica. Ma basta parlare di
me, passo la parola a Dean.» Dentro di sé, Elf fa una smorfia.
Sembravo un’idiota.
«Buon pomeriggio a tu i. Sono Dean Moss, suono il basso, canto e
scrivo canzoni. L’ultima era mia, spero quindi che vi sia piaciuta.
Grazie, Bat, per avere creduto in noi. Griff.»
«Io sono Griff, l’umile ba erista. Per quelli che stanno cercando
d’immaginarmi, pensate a un figlio illegi imo di Paul Newman e
Rock Hudson.»
«Disperso», continua Bat, «è invece il quarto Utopista, Jacob de…
ops… volevo dire Jasper de Zoet, ho confuso il nome… Jasper, che
suona la chitarra e sarà senz’altro di nuovo con noi per il concerto di
stasera al Ghepardo sulla Cinquantatreesima Strada, a partire dalle
nove. C’è ancora qualche biglie o disponibile, fatevi so o quindi.»
Che sarà di nuovo con noi lo spero, pensa Elf.
«Quindi diteci, Elf, Dean e Griff, in quanto abitanti di una grande
ci à, quali sono le vostre prime impressioni della nostra grande
ci à? In una parola.»
p
«Panini», risponde Griff. «Da noi li trovi al prosciu o, al
formaggio o con le uova. Qui ci sono centinaia di tipi di pane, carni,
formaggi, so aceti, salse. Al bar non sapevo neanche da dove
cominciare. Per ordinare ho dovuto indicare il panino di un cliente e
ho de o: ‘Uno come quello’.»
«La mia parola per New York è ‘più’», dice Dean. «Più palazzi,
più alti, più rumore, più mendicanti, più musica, più luci al neon,
più razze. Più fre a, trambusto, vincitori, sconfi i. Più più.»
«Più strizzacervelli», suggerisce Bat. «Più ra i.»
«Non so riassumere questa ci à in una singola parola», dice Elf,
«ma se New York fosse una frase, sarebbe: ‘Non darmi fastidio e io
non ne darò a te’. Londra invece potrebbe essere: ‘E tu chi ti credi di
essere’?»
«Potrei stare qui tu o il giorno a personificare ci à», dice il DJ.
«Ma parliamo un po’ di musica. Congratulazioni per essere entrati
prepotentemente nella Top 30 con ‘Roll Away the Stone’. Una
canzone che hai scri o tu, Dean, in circostanze difficili, giusto?»
«È così, Bat. In sintesi, la polizia italiana mi aveva piazzato
addosso un po’ di droga e mi ha sba uto in prigione per una
se imana. ‘Roll Away the Stone’ è venuta fuori così. Sono stato
completamente scagionato dalle accuse, ci tengo a precisare.»
«Polizio i corro i?» Bat finge di essere sconcertato. «Per fortuna a
New York di gente simile non ne abbiamo. E grazie a Dio la giustizia
ha trionfato perché Stuff of Life, l’album che avete registrato dopo il
tuo rilascio, è una supernova. Ora, a me era piaciuto molto anche il
vostro debu o, Paradise Is the Road to Paradise, ma Stuff of Life ha una
marcia in più. La scri ura è così rodata! La tavolozza sonora è più
ampia. In ‘Sound Mind’ c’è un clavicembalo. In ‘The Hook’ una
sezione d’archi. In ‘Look Who It Isn’t’ il sitar. Anche a livello di testi
osa di più. Quindi quello che mi viene da chiedervi è: che cosa avete
aggiunto ai vostri corn flakes?»
«Big Brother and the Holding Company», dice Griff.
«Odessey and Oracle degli Zombies», dice Elf.
«Music from Big Pink dei The Band», dice Dean. «Uno sente un
disco così e dice: ‘Merd… Accidenti, dobbiamo fare di più’.»
«Il nostro amico Eno parla di ‘scenio’», dice Elf. «Il genio della
scena. L’arte è fa a da artisti, ma ciò che perme e agli artisti di
essere tali è una scena, fa ori non artistici. Compratori, venditori,
materiali, mecenati, tecnologia, luoghi in cui mescolare e scambiare
idee. Il fru o dello scenio lo si può vedere nella Firenze dei Medici.
Nell’Età dell’Oro olandese. O nella New York degli anni Venti.
Hollywood. Oggi lo scenio di Londra, e di Soho, è praticamente
perfe o. Abbiamo luoghi per esibirci, sale d’incisione con
registratori multitraccia, stazioni radio, riviste musicali… perfino bar
in cui si ritrovano i turnisti. C’è addiri ura qualche manager che non
vuole fregarti.» Da dietro il vetro dello studio radiofonico Levon le
manda un bacio. «Il disco è fa o da noi, ma è fa o anche dallo
scenio.»
«Questa è forse la risposta più erudita mai ascoltata a Locomotive
97.8», commenta Bat. «Eppure sarete d’accordo che le canzoni di
Stuff of Life non vengono da questo scenio, ma da certe esperienze
che avete vissuto. Alcune così personali da fare male. In senso
positivo.»
Dean ed Elf si scambiano un’occhiata. «Vero», risponde Dean,
«Quest’anno è stato un po’ come andare sulle montagne russe. Nella
nostra vita privata, insomma. E questo non poteva non finire nelle
canzoni.»
«Me ere in mostra il tuo cuore e le tue paure non è sempre
piacevole o facile», aggiunge Elf. «Ma se una canzone non è vissuta,
se non ci crede nemmeno chi l’ha scri a, alla fine suonerà fasulla. È
come un panino con una bistecca fa o di cartapesta. Potrà anche
sembrare buono all’apparenza, ma il sapore è orribile. Io di roba
fasulla non ne voglio scrivere. E so che per Dean e Jasper è lo stesso.»
«Secondo alcuni, tu stessa avresti confessato che ‘Even the
Bluebells’ è un’elegia dedicata a un giovane parente che se n’è
andato. È così, Elf?»
«Mio nipote è morto in aprile. La canzone è per lui. Per Mark…
Però… non voglio rovinare l’atmosfera scoppiando a piangere in
dire a, Bat, quindi…»
«Ma certo. Comunque, Stuff of Life è la dimostrazione di quello
che alcuni di noi stanno dicendo da quando sono usciti Rubber Soul e
q
Bringing It All Back Home: il pop migliore è arte. Ed è l’artista a
decidere di che cosa parla l’arte, di qualsiasi argomento si tra i.
Innamorarsi per la prima volta? Sì. Ma anche il lu o. La celebrità. La
pazzia. Il tradimento. Il furto. Tu o il pacche o.»
«Anche… Si può dire ‘sesso’ alla radio?» chiede Dean.
A raverso il vetro il produ ore della trasmissione fa segno di no.
«Ma certo», dice il DJ, «purché tu non faccia intendere in nessun
modo che può essere piacevole, perché altrimenti sarebbe pura
lussuria. Elf, che ne dici se facciamo fare un giro a ‘Bluebells’ prima
di cedere la parola ai nostri sponsor?»
«Sparala. In esclusiva per il Nord America.»
«Allora, a tu i i passeggeri a bordo di Locomotive FM», Bat
posiziona la puntina sul solco silenzioso dell’LP e toglie la cuffia da
un orecchio, «dai grandi classici alle ultime uscite su 97.8 FM, questa
è ‘Even the Bluebells’ dei nostri eccezionali ospiti in studio, gli
Utopia Avenue.»

Negli uffici della Gargoyle Records in Bleecker Street, nel


pomeriggio Elf, Dean e Griff passano da un’intervista all’altra. Dopo
ogni tornata di domande, Elf spera si facciano vivi Levon o Max con
la notizia della ricomparsa di Jasper lì o al Chelsea. Non succede. Per
sostituire Jasper e salvare il concerto al Ghepardo, Max sta dando la
caccia a un turnista che sia in grado di suonare Paradise e Stuff of Life.
Al momento l’impresa sembra tu ’altro che facile. Howie Stoker ha
chiesto al dipartimento di polizia di New York il favore di diramare
ai qua ro angoli della ci à un appello per rintracciare un «bianco
caucasico, alto, con lunghi capelli rossi e una giacca viola». Come
cercare un ago in una fabbrica di aghi, pensa Elf. Alle sei di sera
tornano al Chelsea per prepararsi a un concerto che potrebbe non
esserci. Dean è furibondo per l’assenza del chitarrista. Griff non
parla. Elf è più preoccupata che arrabbiata, e si sente pure in colpa.
Vorrebbe riavvolgere il nastro fino alla no e prima, quando Levon le
aveva riferito del comportamento di Jasper. Avrei fa o meglio a dare
un’occhiata subito. O stama ina presto…
Alle se e partono per il Ghepardo. Levon ha con sé la Stratocaster,
nel caso in cui Jasper si presenti nel locale. Manha an s’illumina, ma
p p
Elf non se ne accorge o quasi. È sicura che se Jasper potesse, sarebbe
lì. Al momento le spiegazioni più rosee che si sta dando prevedono
che abbia avuto un collasso nervoso o che sia stato derubato. Le più
cupe lo collocano invece in un obitorio. Max non ha ancora trovato
un turnista che sappia suonare le sue parti di Stuff of Life, ne ha però
rintracciato uno che se la cava decentemente con le canzoni di
Paradise. Il piano è aspe are fino all’ultimissimo minuto, poi
imputare l’assenza a un’appendicite e suonare di Paradise solo i pezzi
scri i da Dean e lei, oltre a qualche cover. «Quello che ne verrà fuori
sarà buono solo la metà di quanto dovrebbe», dice Dean. «E nella
migliore delle ipotesi, maledizione.»
La macchina svolta nella O ava Avenue e la percorre su un lato,
fra macchine che si fermano e ripartono a singhiozzo. Elf passa al
setaccio la folla spropositata di persone sperando di individuare una
sagoma alta e un po’ curva. Un uomo picchia sul finestrino dell’auto
urlando: «Ho fame! Fame! Fame! Ho fame!» L’autista si sposta con la
Lincoln nella corsia centrale. «Dopo questa, meglio per Jasper se è in
ospedale», dichiara Dean.
«Non devi neanche pensarla una cosa simile», riba e Elf.
«Indipendentemente da quanto sei arrabbiato.»
«E perché non dovrei? Quel coglione egoista…»
«Gli ospedali io li ho frequentati, Deano», interviene Griff. «Ha
ragione lei.»

So o un anonimo ufficio dalle luci spente, in cima a un’entrata che


dà sulla strada, un’insegna rosa al neon incide nel crepuscolo la
scri a: THE GHEPARDO . Max apre da fuori la portiera della macchina.
«Nessuna novità». Una locandina che sfru a i cara eri tipografici
della copertina di Stuff of Life dice: Fa i un giro per UTOPIA
AVENUE. Luisa la sta aspe ando all’ingresso e il suo sorriso sparisce
quando vede le facce della band.
«Cos’è successo?»
«Jasper non si vede da tu o il giorno, è sparito», le spiega Elf.
«Non devi dare per scontato che sia successa una tragedia.»
Brigit, la matriarca del Ghepardo, non è così preoccupata. «Che
siano poveri ro inculo o ambasciatori divini sulla Terra, i musicisti
non sono mai puntuali.»
Elf guarda Levon. Jasper lo è sempre.
Brigit accompagna il gruppo sul palco per il sound-check. Il
Ghepardo è una vecchia, grande sala da ballo un tempo sontuosa.
Nove palle stroboscopiche pendono dai pannelli di un soffi o che
avrebbe bisogno di una sistemata. Il palco è ad altezza spalla,
completo di amplificatori, luci e sipario. Un efficiente tecnico del
suono aiuta Elf, Dean e Griff a trovare i volumi e lo spazio ada i a
loro. Con la Stratocaster, Dean imposta i volumi che avrebbe voluto
Jasper. Il sound-check di solito è divertente. Quelle sembrano le
prove per un funerale.

20 e 15. Il chitarrista di rimpiazzo è bloccato nel traffico del centro,


non arriverà prima di mezz’ora. Adesso anche Brigit è preoccupata.
Max è avvilito. Levon mantiene una calma di facciata, ma Elf
immagina che dentro stia urlando. Recita una preghiera, e non è: ‘Fai
che entri qui ora’, ma: ‘Fai che sia vivo e stia bene’. Nel caso non
funzioni, la prossima sarà semplicemente: ‘Fai che sia vivo’. Si
accorge di non ricordare più bene le parole di «Prove It». Quante
volte le ho cantate quelle strofe? Centinaia? Con l’aiuto di Luisa, rilegge i
fogli che si è scri a come promemoria. Howie Stoker arriva con una
ragazza dalla pelle color miele che ha un terzo dei suoi anni,
ombre o verde sugli occhi, ciglia lunghe come zampe di ragno e
capelli di un bianco satinato. La presenta come Ivanka.
Naturalmente è seccato che il grande chitarrista, lo stesso che ha
firmato il contra o con lui, non si trovi da nessuna parte trenta
minuti prima del debu o americano. «Si può sapere dov’è?»
«Ce l’ho io nel culo», ringhia Dean. «L’ho nascosto lì per scherzo.»
«I membri di una band non dovrebbero tenersi d’occhio l’un
altro?» domanda Howie.
Per tu a risposta, Griff soffia fuori con indifferenza un anello di
fumo.
Howie un po’ di ragione ce l’ha, pensa Elf. Siamo talmente
abituati alle stravaganze di Jasper che abbiamo smesso di tenerlo
g p
d’occhio.
Levon ricompare dal salone. «Si sta riempiendo.»

***

Sono le 20 e 45. Né Jasper né il suo rimpiazzo sono ancora arrivati.


Elf ha una sensazione di déjà-vu, la collega a certi sogni ansiogeni in
cui deve suonare a un concerto condannato in partenza. Da questo
sogno non c’è risveglio. «Perché non suonate voi tre da soli qualcuno
dei nuovi pezzi?»
«Come mai i levrieri non hanno tre cazzo di zampe?» commenta
Griff.
«C’è qualcuno in particolare che credi di impressionare con questo
linguaggio volgare?» chiede Howie.
«Non ne ho minimamente una cazzo d’idea, Howie.»
Il disco Lady Soul di Aretha Franklin risuona dalle casse del
Ghepardo. Elf vorrebbe che avessero scelto qualcosa di meno bello.
Howie si fa largo agilmente per presentarsi a Luisa. «Non credo che
noi due ci conosciamo.»
«Non ci conosciamo, in effe i.»
«Howie Stoker, promotore e agitatore. Tu invece sei?»
«Un’amica di Elf.»
Howie annuisce contraendo le labbra. «Io sono in sintonia con le
señoritas. Una mia ex moglie era una terapeuta esperta nella
rievocazione delle vite precedenti. Ai tempi dei Vichinghi ero un
torero a Cadice. Potremmo essere cugini. Sufficientemente alla
lontana.»
Luisa guarda Elf, poi tu e e due guardano Ivanka, che è a una
decina di passi di distanza. Da lì può sentire. Tu avia, non sembra
importarle. Che sia pagata a ore? «Noi non saremo mai in sintonia,
signor Stoker. In nessuna vita.»
«Una tragedia!» Ivanka si bu a in ginocchio. «Ho perso le ciglia!
Aiutatemi a trovarle!» Sta osservando a entamente il tappeto scuro.
«Sono nere!»
Levon si rifà vivo di colpo. «Guardate un po’ chi è arrivato.»
È Jasper. Fa il suo ingresso come se fossero le nove del ma ino,
non come se mancassero dieci minuti al concerto. «Ho bisogno di un
bicchiere d’acqua.» Durante la pausa di silenzio, lunga e intensa, Elf
è tentata di raggiungerlo e abbracciarlo, ma qualcosa la tra iene.
Il primo a parlare è Dean: «Dove cazzo eri finito?»
«Ero in giro a piedi. Ho bisogno di un bicchiere d’acqua.»
Dean afferra una brocca d’acqua ghiacciata e gliela vuota in faccia.
«Così sì che ci sei d’aiuto, Dean.» Elf riempie un bicchiere per
Jasper.
«In giro a piedi?» riprende il bassista. «Ci hai fa o cagare addosso
tu o il giorno e non ci hai fa o sapere nulla, neanche se eri vivo, solo
per una lurida passeggiata? Sei soltanto un coglione egoista,
maledizione!»
Jasper prende il bicchiere di Elf e lo beve d’un fiato.
«Un altro.» Levon ha tirato fuori uno straccio e gli sta asciugando
la faccia. Elf gli dà il secondo bicchiere. «Stai bene?»
«Sono qui per suonare. Voglio la loro energia.»
«Sei fa o?» gli chiede Dean. «Sei fa o, vero?»
«Pare di no», riferisce Levon. «Le pupille sono a posto.»
«Lo… strumento. La…» balbe a Jasper.
«Ah, e così non sarebbe fa o», sogghigna Dean.
«Adesso concentriamoci sul concerto e su quello che può aiutare
Jasper», dice Levon. «Hai già espresso efficacemente il tuo
disappunto.»
«No che non l’ho fa o. Siamo stati alla radio a promuovere il
disco, De Zoet. Interviste. Lavoro. Sound-check. Scale a delle
canzoni. Siamo professionisti. Entriamo in scena fra dieci minuti. No,
ormai sono cinque. ‘Ero in giro a piedi’ non basta come scusa.»
Jasper resta impassibile. «Gli avevo concesso un giorno di grazia.
Per trovare la pace.»
«Gli?» Elf guarda Luisa. «Di chi parli, Jasper? Chi intendi con
‘gli’?»
Jasper fissa lo specchio sul tavolo del camerino. Si fa avanti e
avvicina la faccia. Un sorriso estatico si spalanca sul suo volto.
«Jasper?» lo chiama Elf. «Ma che stai facendo? Jasper, ci sei?»
Max e Brigit arrivano di corsa non appena ricevuta la notizia.
«Sono lieto che tu ce l’abbia fa a a raggiungerci», dice Max. «Ce la
fai a suonare?»
«Cazzo, la questione non si pone neanche», commenta Dean.
«Concordo pienamente con Dean», interviene Howie Stoker.
«De Zoet suonerà», assicura Jasper guardando il proprio riflesso
voltarsi e inclinarsi.
Chiunque penserebbe che non si sia mai guardato in uno specchio.
«Cosa ti è successo mentre eri in giro?» chiede Elf.
«Dopo», le sussurra Levon. «Dopo.»
«Ben de o», fa notare Brigit. «Non c’è un gruppo che apre il
concerto per scaldare l’ambiente, andate subito in scena. Mi chiamo
Brigit. Questo locale è mio. Domani porta qui il tuo culo prima o ti
dimezzo la paga.»
Jasper oltrepassa Brigit, recupera la chitarra dalla custodia, a acca
lo spino o a un piccolo amplificatore in un angolo e si me e ad
accordarla.
Indignata, Brigit scuote la testa e se ne va.
«Tu o bene quello che finisce bene, a quanto pare», commenta
Howie Stoker.
Non va bene per niente, pensa Elf. «Jasper, se hai una specie di…
crisi mentale, puoi…»
«La crisi mentale farà meglio ad averla in Inghilterra fra una
se imana», dice Dean. «Venerdì prossimo, cazzo.»
Jasper suona un Sol. «Sono qui per suonare. Voglio la loro
energia.»

Dean parla al microfono. «È tu a la vita che aspe iamo di dire…»


c’è il fischio penetrante del feedback «…di dire: ‘Buonasera, New
York, siamo gli Utopia Avenue!’» Il pubblico applaude tiepidamente.
Griff fa partire una rullata, Elf suona la canzone che fa «Bronx is up
and the Ba ery’s down», Jasper invece ha l’aria di uno che aspe a
l’autobus. Dean ed Elf si scambiano un’occhiata preoccupata. «Ma
basta con i preamboli», dice Dean, «ecco il nostro singolo, ‘Roll
Away the Stone’. E one, e two, e one-two-three…» Jasper entra al
qua ro e suona la sua parte di chitarra esa amente come sul disco.
q p
Fra Griff e Dean c’è la complicità di sempre, Elf suona con tu a
l’energia che riesce a trovare, ma quel Jasper è un’imitazione senza
mordente di Jasper de Zoet. Anche se riescono ad arrivare in fondo
alla canzone, Elf è sicura che il pubblico abbia qualche dubbio su
questo presunto pari di Clapton e Hendrix. Lo stesso succede con
«Mona Lisa Sings the Blues». Griff e Dean sostengono la
performance di Elf al loro meglio, ma Jasper suona in modo fiacco e
sclerotico. Non si sta rapportando con il pubblico in nessun modo.
Diversi spe atori sono a braccia conserte. D’altra parte, Jasper non
bada neanche al resto del gruppo; Elf, Griff e Dean sono quindi
costre i ad ada arsi a quelle sue parti stentoree di chitarra. La
canzone successiva è «Darkroom». Jasper avanza fino al microfono.
«Di’ qualcosa, Jasper», grida qualcuno. Lui non dice nulla, si limita a
dare il tempo alla band prima di a accare. Se non era deliberatamente
un vaffanculo, è quello che è sembrato. Certo, non si perde le note qua e
là, e non si dimentica le parole, ma suona senza l’entusiasmo e i
funambolismi che rendono i concerti degli Utopia Avenue un evento
imperdibile. «Darkroom» riceve solo un applauso fre oloso. Si
comporta come se il Ghepardo non fosse degno di lui. Seguono «The
Hook» e «Prove It». Parafrasando Griff, sono entrambe levrieri a tre
zampe. Il tono delle recensioni spazierà da concerto «fiacco» a concerto «di
merda». Elf percepisce la confusione che serpeggia tra la folla: perché
tre quarti degli Utopia Avenue stanno dando l’anima e invece il
chitarrista è così scazzato? Dean è furioso. Griff ha un’aria cupa. Elf è
fradicia di sudore. Dopo una «Prove It» so otono, dà un’occhiata a
lato del palco e vede Luisa. Sembra preoccupata. Jasper annuncia la
successiva canzone in scale a, «Sound Mind», il viso stravolto dal
dolore. S’incurva e rabbrividisce per un paio di secondi. Quando si
raddrizza, appare sorpreso. Elf osa sperare che il vero Jasper sia
tornato e che il pallido impostore non ci sia più. Il chitarrista guarda
il Ghepardo davanti sé. I riflessi luminosi delle palle stroboscopiche
gli danzano sul volto come fatine. «Grazie a tu i per essere qui
stasera.» Dal pubblico qualcuno urla: «’Fanculo, amico, avresti
dovuto esserci anche tu qui!» Jasper si gira verso Dean: «Grazie». Poi
si rivolge a Griff: «Bel lavoro», e a Elf: «Addio». Lei non capisce
perché lo abbia de o. Non siamo nemmeno a metà concerto. Dean la
p
guarda con un’espressione del tipo: Che sta succedendo? A cui Elf
replica con un’espressione del tipo: Non chiederlo a me.
Quantomeno Jasper sembra di nuovo presente. Tira una schitarrata,
chiede al tecnico di alzargli il volume, chiude gli occhi e… tendendo
le corde al massimo fa esplodere un ululato dalle casse, poi spara
una raffica di triadi, dal Mi alto andando a scalare. Che stesse facendo
uno strano gioche o mentale con tu i noi? Jasper si guadagna il primo
applauso genuino della serata con un nuovo riff che non fa parte di
«Sound Mind», ma per cui il pubblico inizia a ba ere sonoramente le
mani a tempo. Griff fa da contrappunto alla melodia, Dean si ge a
nella mischia con tre note di so ofondo a fare da accompagnamento.
Elf dà il via a degli accordi compa i all’Hammond. Questi potremmo
essere noi che ci divertiamo a improvvisare al Pavel Z la ma ina. Jasper
conduce l’improvvisazione per tre giri di blues rockeggiante prima
di farlo esplodere in mille pezzi con un frastagliato, martellante e
prolungato Si bemolle, l’apertura di «Sound Mind». Dean recepisce il
messaggio e inizia a suonare il giro di basso della canzone, Elf entra
alla ba uta successiva e Griff con un colpo secco a quella dopo.
Jasper si accosta al microfono per a accare la prima strofa con il
sussurro allucinato che gli è proprio…

…Jasper inanella un fuoco d’artificio dopo l’altro per tu e e nove


le strofe di «Sound Mind». Il Ghepardo è una bestia che ha subito una
metamorfosi. Al terzo ritornello la band s’interrompe e lascia che a
intonare a squarciagola la strofa finale siano cinquecento
newyorchesi. Gli occhi di Jasper sono chiusi per metà. A raversa al
galoppo una chiusura da cardiopalma. Elf evoca un crescendo di
fughe abissali imbastite da molteplici dita, e Dean cerca di stare al
passo facendo rimbalzare le sue su e giù per il basso, più veloci di
quanto l’occhio sia in grado di cogliere. Jasper si avvicina con
movimenti ben calibrati alla pila dei Marshall, flirtando con le
frequenze finché un latrato di feedback non travolge tu o e squarcia
l’aria. Uno sguardo a Griff le rivela una divinità orientale a o o
braccia, ed Elf ride, ubriaca di sollievo perché Jasper è tornato ed è
strafa o di arte. Le guance del chitarrista sono bagnate. Non sapevo
che avesse le ghiandole lacrimali. L’esecuzione di «Sound Mind» com’è
g
su disco è storia vecchia. Elf percuote la tastiera al ritmo dei riff di
Dean, a mani giunte, incrociandole, aprendole come a
schiaffeggiarla. Jasper raggiunge il centro del palco e guarda oltre
lei. È come se i suoi occhi seguissero qualcuno che si sta
avvicinando, Elf però non vede nessuno. Lui fa un cenno di assenso
a quella presenza, gli occhi gli si ribaltano nelle orbite…

…e si accascia come un pupazzo ge ato via. Elf sme e all’istante


di suonare e Dean anche. Griff si blocca e si alza in piedi. Fra il
pubblico cala il silenzio. «Che succede?» urla qualcuno. La bocca di
Jasper si muove, compone una parola che Elf non riesce a leggere e si
richiude. Un pesce che annega nell’aria. Le viene in mente il racconto di
Dean sul falso infarto di Li le Richard, ma non è la stessa cosa. Il
naso di Jasper sta sanguinando. Magari se l’è ro o cadendo. O
magari la spiegazione è più tetra. Levon e Brigit accorrono subito.
Levon urla: «Giù il sipario!» Pochi secondi e il sipario cala. Jasper è
scosso dagli spasmi, ringhia come un cane dolorante. Nel collo gli si
muovono dei muscoli. Brigit urla: «Fate venire il do or Grayling!» A
Elf torna in mente il politecnico di Brighton.
Alcuni membri dello staff arrivano con un telone. Lo fanno
scivolare so o il corpo di Jasper e con l’aiuto di Griff e Dean lo
portano in camerino. Lo stendono su un divano rosso di similpelle.
Nella migliore delle ipotesi, Jasper è semicosciente. Luisa gli
controlla il polso. Ovvio che abbia qualche nozione di pronto soccorso, suo
padre è un reporter di guerra. Dean, nel fra empo, tampona il sangue
so o il naso del chitarrista con un fazzole o. «È tu o a posto, amico,
non ti preoccupare, starai bene.» Luisa dice che ha il ba ito alle
stelle. Un tipo massiccio con il grugno da bisonte si precipita dentro
con Brigit. «Questo è il do or Grayling, è in gamba.» Il medico
s’inginocchia accanto al divano e si avvicina al volto di Jasper: «Mi
senti, Jasper?»
Lui non risponde. Gli tremano gli occhi.
Dalla gola gli esce un raschio.
«Soffre di epilessia?» chiede il do or Grayling.
Elf si sforza di rispondere in qualche modo. «No, per quanto ne
sappiamo.»
pp
«Diabete?»
«No», dice Dean.
«Sicuro?»
«Viviamo insieme.»
«Che cos’ha preso? Voglio la verità.»
«Solo il Queludrin», risponde Elf. «Per quanto ne sappiamo.»
Il do ore sembra perplesso. «L’antipsicotico? Sei sicura?»
«Sì. Ne ha preso qualcuno ieri.»
«Nessun episodio di schizofrenia negli ultimi tempi?»
«No, non penso», risponde Elf.
«È sparito tu o il giorno», fa notare Dean. «Non possiamo essere
sicuri di cosa gli sia successo da stama ina, o di cosa abbia preso.»
«Gli darò un sedativo per ridurre il ba ito.» Il medico prepara un
ago ipodermico. «Brigit, meglio se chiami un’ambu…»
La bocca del medico all’improvviso sme e di muoversi, e così le
braccia, le mani, le dita, le palpebre. È una foto tridimensionale di se
stesso… ecce o che per una vena. Elf la vede pulsare. Anche Dean è
immobile, a parte il pe o che gli va su e giù. Elf si volta verso Luisa
che, immobile, si sta mordicchiando un’unghia. «Lu? Puoi…»

a. Che cosa c’è dentro quello che c’è dentro.


Timepiece a

Il muro nella mente di Jasper va in pezzi e crolla.


Toc-Toc erompe, inondandogli il cervello.
La coscienza di Jasper si riduce, è prossima allo zero.
La presenza regredisce all’assenza.
Il suo corpo è ora di Toc-Toc. Jasper non può controllarlo più di
quanto uno spe atore di Lawrence d’Arabia possa controllare Peter
O’Toole sullo schermo. Non esiste vocabolo per definire questa non-
morte. Jasper deve ricorrere alle metafore. Prima guidavo questa
macchina dove, quando e come volevo, ora invece sono un passeggero sul
sedile posteriore, legato e imbavagliato. Oppure: Prima ero un faro, adesso
sono la memoria di un faro in una mente in disfacimento. A raverso occhi
che erano suoi vede l’interno del Reparto Privato N9D. A raverso
orecchie che erano sue sente la consistenza del silenzio. L’Uomo
Vuoto ha smesso di respirare.
Eppure, considera, se sto pensando questo, un pezzo di me esiste
ancora per forza. Percepisce le emozioni di Toc-Toc: la gioia della
liberazione, la curiosità per il giovane corpo forte e slanciato che
ormai può considerare il proprio. Toc-Toc fle e le dita, si alza,
respira profondamente. Infila le scarpe di Jasper, abbandona il
reparto e ripercorre i passi del ragazzo nell’ospedale fino al pronto
soccorso da cui era partito.
Puoi sentirmi? chiede Jasper.
Se lo desidero, replica Toc-Toc.
Sono morto?
Sei come un tizzone.
È così che vivrò? chiede Jasper.
Vivono a lungo i tizzoni?
Dove stiamo andando?
Non c’è nessuno «stiamo».
Dove stai andando?
Nel luogo delle cerimonie, dei canti, della venerazione.
Una chiesa? domanda Jasper.
Il locale, risponde Toc-Toc.
Il Ghepardo? E perché mai tu…
Il collegamento s’interrompe. A Jasper arrivano immagini e suoni
confusi, evanescenti, di Toc-Toc che esce dall’ospedale e ferma un
taxi. «Il Ghepardo, a Broadway sulla Cinquantatreesima», dice Toc-
Toc con l’ex voce di Jasper. New York scorre loro accanto a
singhiozzo. Automobili, luci, negozi, autobus, vetrine, altri
passeggeri in altri taxi. Jasper guarda tu o questo dall’interno di
Toc-Toc. È un passeggero dentro un passeggero. Toc-Toc sa cosa so io,
ma io non so cosa sa Toc-Toc. Non gli riesce di pensare in modo fluido
come prima. Le deduzioni richiedono uno sforzo. Questa asimmetria
conoscitiva significa che il do or Galavazi aveva ragione o che si sbagliava?
Sono pazzo o è tu o vero? Jasper non lo sa. Jasper non sa come saperlo.

Fuori dal Ghepardo c’è Levon. Un poster dice: Fa i un giro per


UTOPIA AVENUE. Il taxi si ferma e Toc-Toc scende, portando con sé
ciò che resta di Jasper. «Ehi!» grida il tassista. «Ehi, amico! Sono due
dollari e sessanta!» Levon è già lì ad allungargliene tre. «Prenda,
tenga il resto. Arrivederci e grazie.» Il taxi riparte. Levon afferra Toc-
Toc per le spalle credendole quelle di Jasper. Jasper vorrebbe
spiegarsi, scusarsi, implorare aiuto, ma lingua, labbra e corde vocali
si rifiutano di lavorare per lui. Levon ha la fronte aggro ata.
Preoccupazione, suppone Jasper, sollievo e rabbia. «Ce la fai a
suonare?» chiede il manager. «Hai preso qualcosa?»
A parlare è Toc-Toc: «Sono qui per suonare». Jasper sente la
propria voce riferire le parole di un altro.
«Bene!» esclama Levon. «Sei arrivato per un pelo, ma è una
notizia eccezionale.»
Sente qualcuno che dice: «Guarda, è lui, Jasper de Zoet».
Non è così! Non sono io! È il mio corpo in ostaggio!
Levon accompagna Toc-Toc in fondo a un vicolo, varcano la porta
riservata agli artisti e a raversano un corridoio, dove Levon
g
comunica a un tecnico di scena: «Avvisa Max e Brigit che il figliol
prodigo è tornato». Entrano in un camerino: ci sono i tavoli per
prepararsi e al centro due grandi divani rossi. Su uno è seduta Elf
insieme alla sua amica Luisa. Bene, pensa Jasper, mi fa piacere che tu
l’abbia trovata o che lei abbia trovato te. C’è anche Howie Stoker,
vestito come Dracula e con una fidanzata, o con sua figlia, forse, dalle
ciglia che si arricciano e si incastrano ricordando una venere
acchiappamosche. Elf si alza, indossa la giacca scamosciata
portafortuna di Top of the Pops e pronuncia il suo nome. Griff ha la
camicia sbo onata e i peli del pe o in mostra. Dean gli sta urlando
contro. Toc-Toc chiede dell’acqua. Dean prende una brocca e gliela
vuota in faccia. Toc-Toc si gode la sensazione. Dean continua a
urlare. Un puntolino di saliva finisce sulla guancia di Toc-Toc. Non
stai urlando a chi pensi di urlare, vorrebbe fare presente Jasper a
Dean, ma non sarà più in grado di dire niente a nessuno. Elf
sembrerebbe più calma. Ci sono degli specchi. Le cose si complicano.
Grazie alle sue ex pupille, Jasper vede il suo ex corpo guidato da
Toc-Toc avvicinarsi a uno specchio. Toc-Toc sorride con la faccia di
Jasper. Il mio sorriso è fa o così, quindi. Una stranezza via l’altra. Toc-
Toc abbandona lo specchio e si me e ad accordare la Stratocaster
sfru ando l’esperienza di Jasper. Luisa tocca la sua ex fronte.
«Niente febbre», dice. Arriva Max Mulholland, rosso e sudato,
seguito da una donna agitata che, immagina Jasper, sia la
proprietaria del locale. I discorsi si moltiplicano. Rispe o alla
vecchia versione di se stesso, ciò che resta di Jasper fa più fatica ad
assorbire le parole nell’ordine giusto. È come trovarsi in una stanza
piena di radio. Le sue ex dita pizzicano un Sol. «Sono qui per
suonare», dice Toc-Toc. «Voglio la loro energia.»

«Roll Away the Stone», «Mona Lisa», «Darkroom». Il concerto al


Ghepardo è strano e doloroso. Strano perché il suo ex corpo sta
suonando canzoni che Jasper conosce a menadito con Jasper che
osserva passivamente. Doloroso perché un’interpretazione non è
solo questione di tecnica, ci vuole anche l’anima, e Toc-Toc senza
Jasper non è che un mero esecutore. Gli Utopia Avenue dovrebbero
fare molto meglio per il loro debu o americano. Elf, Dean e Griff
g p
probabilmente pensano che Jasper li stia tradendo. Cinque o seicento
newyorchesi staranno pensando lo stesso, cioè che Jasper de Zoet
non si stia impegnando. Lo addolora che gli Utopia Avenue
muoiano fra i lamenti di chi è rimasto deluso. È buffo, proprio mentre
sto per andarmene avverto le emozioni con chiarezza maggiore di quando
avevo un corpo. Il gruppo suona «The Hook». È l’ennesima versione
scialba, come per le canzoni precedenti. Si domanda per quale
motivo Toc-Toc abbia portato lì il suo nuovo corpo a suonare su quel
palco. Non per senso del dovere. Sente Toc-Toc ele rizzarsi di fronte al
rumore e all’a enzione che gli viene data. Prima che Jasper lo
conoscesse, Toc-Toc era qualcuno: magari qualcuno che si esibiva
come lui, o qualcuno che comandava, o che veniva adorato. Be’?
chiede al suo carceriere. Hai intenzione di dirmi chi eri? Nessuna
replica. Il gruppo suona «Prove It». Fra artisti e pubblico non sca a
l’intesa, l’incantesimo del bo a e risposta, e la colpa è di Jasper.
Anche se in realtà è colpa tua, Toc-Toc… Ascolta, il tizzone è quasi
spento… Se mi concedi un ultimo desiderio, fammi usare le mie ultime
forze per «Sound Mind». Sarai adorato. Toc-Toc l’ha sentito e ci sta
pensando, Jasper lo percepisce. La sua risposta arriva come una
scarica ele rica. Lo shock per essere di nuovo parte di un sistema
nervoso è spiazzante. Saranno pure passati solo o anta o novanta
minuti da quando si trovava nel reparto privato N9D, ma la
sensazione è vertiginosa e brutale. I riflessi delle palle stroboscopiche
gli a raversano la vista danzando come fatine. «Grazie a tu i per
essere qui, stasera.» Dal pubblico qualcuno urla: «’Fanculo, amico,
avresti dovuto esserci anche tu qui!» Nessuno si aspe a che queste
ultime parole saranno le ultime che pronuncerà. Jasper si gira verso
Dean: «Grazie». Poi si rivolge a Griff: «Bel lavoro», e a Elf: «Addio».
Tira una schitarrata, chiede al tecnico di alzargli il volume, chiude
gli occhi e… tendendo le corde al massimo fa esplodere un ululato
dalle casse, poi spara una raffica di triadi, dal Mi alto andando a
scalare. Si guadagna il primo applauso genuino della serata con un
nuovo riff che non fa parte di «Sound Mind»; nessuno si accorgerà
mai che l’ha rubato a «Born Under a Bad Sign» dei Cream. Il
pubblico inizia a ba ere sonoramente le mani a tempo. Griff, Dean
ed Elf si inseriscono con ba eria, basso e Hammond. Jasper conduce
p
l’improvvisazione per tre giri prima di avvolgere il tu o in un Si
bemolle passato al wah-wah, l’apertura di «Sound Mind». Dean
entra con il giro di basso, Elf entra alla ba uta successiva e Griff con
un colpo secco a quella dopo. Jasper si accosta al microfono per
a accare con il sussurro allucinato che gli è proprio…

Tomorrow I heard a knock at a door –


A door that won’t be there before –
Couldn’t tell if it was criminal,
Didn’t know it was subliminal, so… b

Griff fa vibrare il gong. Gli avventori del Ghepardo sorridono.


Dean si avvicina al microfono per la sua parte vocale nel ruolo di
Nessuno:

I opened up and Nobody spoke,


«Son, you’ve become a serious joke;
Old Father Sanity left you behind –
Sad truth is, you’re not of sound mind.» c

Il gruppo non ha mai suonato così bene «Sound Mind». La folla


canta a squarciagola il terzo ritornello, le guance: di Jasper sono
misteriosamente bagnate. Sono felice che prima di andarmene sia
successo almeno un’altra volta. Sta per terminare il carburante, sta
finendo fuori strada e anche fuori di sé. A raversa al galoppo una
chiusura da cardiopalma. Elf scatena un uragano con l’Hammond.
Griff evoca un terremoto dal so osuolo. Le dita di Dean zigzagano
più veloci di quanto l’occhio sia in grado di cogliere. Jasper avanza
verso gli altoparlanti, un centimetro alla volta, finché non trova il
punto favorito di Hendrix e… auuuuuuuuuu! L’orgasmo di una
banshee. Alle spalle di Elf, Jasper vede Toc-Toc passare accanto a
Luisa Rey e avvicinarsi a lui. Dev’essere un ultimo miraggio. È nella
mia testa. Lo spe ro si volta verso il pubblico per crogiolarsi con quel
calore ruggente, poi guarda Jasper come farebbe uno strozzino con
un debitore.
Tocca Jasper in un punto fra le sopracciglia.
p p p g
Il dolore finisce prima ancora di sentirlo arrivare.
Il corpo del ragazzo si accascia come un pupazzo ge ato via.
Jasper si vede steso sul palco da qualche metro d’altezza.
Quindi è vero, uno flu ua sul serio verso l’alto.
«Sound Mind» si è interro a fra le dissonanze.
Il Ghepardo si dissolve poco a poco come sabbia.
Levon è una voce distante: «Giù il sipario!»
Un’irrefrenabile velocità lo porta via, via…

Fino a una duna di sabbia alta e ripida che termina più su in un


crinale. Gli unici suoni sono il vento e la sabbia. Dietro di lui, più a
fondo si guarda più il bianco appare bianco. Dire e al crinale, alcune
luci pallide scorrono all’altezza delle ginocchia o dei fianchi
superandolo. Una moltitudine. Il vento spinge Jasper su per il pendio
allo stesso modo in cui trasporta le luci, come se fossero cespugli
rotolanti in un deserto. Prova ad afferrarne una, ma gli a raversa il
palmo. Anime? Jasper si studia la mano. È solo il mio ricordo della
mano. È possibile che ciascuna luce pallida si veda come una
persona. L’alto crinale non è più così lontano e si avvicina a ogni
passo. Il cielo, sempre che sia un cielo, si sta oscurando. Poco dopo,
sempre che si tra i di poco dopo, Jasper è in piedi sulla cresta e guarda
il crepuscolo. Il Crepuscolo. Le dune digradano fino a un mare di
vuoto. Sembrerebbe lontano cinque o sei chilometri, ma dubita che
da quelle parti le distanze funzionino allo stesso modo. Le luci
pallide seguono il profilo delle dune a varie velocità e varie altezze
giù fino al mare. L’anima di Jasper de Zoet muove un passo al di là
dell’alto crinale…
«Torna indietro», ordina qualcuno.
L’anima di Jasper de Zoet si blocca sul bordo.
Il vento che soffia verso il mare la spinge, più forte di prima.
L’anima resiste. Di colpo il braccio di ferro s’interrompe…

Jasper viene riproie ato nel suo corpo, al Ghepardo, sul divano del
camerino. Prova a muoversi. Non può. Non riesce a muovere un solo
arto, un solo dito. Con pupille e palpebre però ce la fa. In caso
contrario, sarei paralizzato. Le o o persone che riesce a vedere sono
p p
immobilizzate. Non semplicemente immobili, immobilizzate. Dean
sembra un modellino a grandezza naturale di Dean, ha in mano un
fazzole o macchiato di sangue vicino al volto di Jasper. Mi sanguina
il naso. Griff è in piedi alle spalle di Dean. Luisa, che stringe il polso a
Jasper, è rigida come una foto. La ragazza di Howie è bloccata in uno
starnuto. Howie Stoker ha un dito nel naso. Levon e Max sembrano
discutere con uno sconosciuto dai capelli arruffati che regge una
siringa. Un medico? A Jasper viene in mente L’esperimento su un
uccello nella pompa pneumatica di Joseph Wright. Posso ancora ricordare
e ho ancora accesso ai fa i. I rumori della sala filtrano nel camerino. Il
tempo si è fermato qui dentro, non di là, però. Jasper ricorda di essere
crollato sul palco alla fine di «Sound Mind». Ricorda le dune. Il
Crepuscolo. Sono morto. Come mai sono di nuovo qui? Qualcosa mi ha
riportato indietro. Dov’è Toc-Toc? È ancora nella mia mente. Cosa può aver
paralizzato o o persone?

Nella stanza entrano un uomo e una donna. Una donna di mezza


età con la pelle color rame, una tunica cachi, scarponcini e perline
variopinte, e uno smilzo orientale con un completo su misura, capelli
d’argento e occhiali dorati. Nessuno dei due sembra turbato da
quelle persone rido e a statue di cera.
«Per un pelo, direi», commenta la donna. Toglie la siringa dalla
mano del medico. «Dio solo sa cosa c’è dentro.»
L’orientale si avvicina al divano e si accovaccia sui talloni. «Hai
visto il crinale? Il Crepuscolo, le anime…»
Jasper è ancora senza voce come prima.
L’uomo gli tocca la gola.
«Chi sei?»
«Do or Yu Leon Marinus, ma puoi chiamarmi ‘Marinus’. È stato
Ignaz Galavazi a dirmi di venire. Ero fuori ci à, ma lei, Esther»,
lancia un’occhiata alla compagna, «ti ha rintracciato dopo che il
nostro amico Walt ha riferito di averti visto in un parco.»
Parla in modo impeccabile. Difficile stabilire di dove sia il suo
accento. La mente di Jasper cerca faticosamente di rime ersi in moto.
«Siete stati voi a paralizzare così i miei amici?» domanda. «Si
riprenderanno?»
p
«Si chiama ‘psicosedazione’.» Esther Li le parla con la cadenza
vibrante e metallica tipica dell’Australia. «Loro si riprenderanno
senz’altro. A differenza di te», aguzza lo sguardo su un punto della
fronte di Jasper, «a meno che non ti fai operare. Alla svelta.» Entra
una ragazza con una sedia a rotelle. «Xi Lo sa essere convincente
come un lanciafiamme. Se non vuoi che sul New York Times di
domani venga diffusa la notizia di un’allucinazione di massa,
dobbiamo muoverci subito.»
«Perdona la franchezza, Jasper», dice Marinus, «ma le tue
possibilità sono limpide e chiare. O resti qui e muori quando Toc-
Toc si sarà liberato dalla sua camicia di forza temporanea, oppure
vieni con noi e vivrai, se la fortuna ti assiste.»

***

Gli scorre accanto una serie ininterro a di visioni del suo recente
passato. È come se le stesse guardando da un treno immaginario,
sfrecciando fra immagini ne e e gallerie nebulose. Ecco la band che
sale sull’aereo a Heathrow per volare a New York. Ecco Dean che si
confronta con Guus de Zoet e Maarten. Ecco la band ai Fungus Hut
che discute della parte vocale di «Absent Friend». Della maggior
parte di quelle scene si è scordato perfino di essersene scordato. Ecco
il trambusto e gli odori del mercato di Berwick Street, a poca
distanza dalla casa di Elf. Ecco quell’auto sportiva, una Triumph
rosso ciliegia, che supera la Belva su una collina costeggiata da
fru eti. Ecco la sua audizione per suonare negli Archie Kinnock’s
Blues Cadillac due Natali prima.
I ricordi che si intravedono da questo treno che sfreccia a ritroso
nella memoria sono intrisi di odore, sapore, consistenza e atmosfere.
Ecco la sala da pranzo al sanatorio di Rijksdorp, con il suo aroma di
minestra e di aringa. Jasper non appare mai. Una macchina fotografica
non può fotografare se stessa… ecce o che negli specchi, e io li evito. Dopo
aver raggiunto Rijksdorp i ricordi rallentano. Giorni e no i si
avvicendano, luce e buio pulsano come una lampada stroboscopica
al rallentatore. Ecco la stanza di Jasper in cima alla clinica. Un gufo
bubola. I raggi solari divampano lungo il soffi o come un brivido.
gg p g
Benigno all’esterno, maligno all’interno. Il Mongolo gli sta descrivendo
come ha fermato Toc-Toc. È la barriera cauterizzante che ho ritagliato
intorno al tuo inquilino. La sua cella, se ti suona meglio. Poi c’è una lenta
macchia indistinta. La ma inata regredisce all’oscurità e al nulla…
finché s’illumina la sera precedente, quando il Mongolo gli aveva
spiegato come sarebbe riuscito a isolare Toc-Toc e a garantirgli
qualche anno di pace. Adesso è il turno del giorno che precede
quella sera. Il giorno dell’episodio sulla costa, quando il Mongolo gli
si è presentato mentre si trovava immerso sino ai fianchi con uno
zaino pieno di sassi nel Mare del Nord… Dopodiché il treno della
memoria riacquista velocità e viaggia all’indietro a raverso i mesi in
cui Jasper era un paziente psichiatrico, ci sono le lezioni di chitarra,
compare spesso il do or Galavazi…

…e Jasper capisce tu ’a un tra o che se a controllare quel treno


non è lui, qualcuno deve pur essere, e capisce anche che quel
qualcuno deve essere lì. Chi sei? chiede mentalmente.
Tranquillo, sono solo Marinus, risponde una voce familiare nella sua
mente. Non volevo inquietarti.
Non ricordo di aver lasciato il Ghepardo.
Esther ti ha psicosedato, risponde il medico. Non c’era tempo da
perdere e continua a non esserci.
Dove siamo? Perché sto vedendo questi ricordi?
La pausa di silenzio di Marinus potrebbe contenere un sospiro. È
un po’ come cercare di spiegare la tecnologia satellitare a un mula iere
italiano del Qua rocento. Tu e il tuo corpo vi trovate sulla 119A nella
nostra succursale di Manha an. Sei in una stanza blindata, su un futon, in
coma indo o. Sei al sicuro. Per il momento.
La notizia me e in allarme Jasper. Mi riprenderò?
Dipende da cosa troviamo. A ualmente siamo dentro il tuo cervello, nel
tuo mnemo-parallasse. Collega il cervelle o all’ippocampo e funge da
archivio dei ricordi per tu a la vita.
Hai appena de o, verifica Jasper, che sei dentro il mio cervello?
A livello incorporeo sì. Il mio corpo è su un futon a un metro dal tuo.
Esther è in grado di interfacciarsi restando in piedi. Io invece ho bisogno di
sdraiarmi.
Ci sono parecchie cose da capire, commenta mentalmente Jasper.
Provaci, mula iere. Provaci. E, nel fra empo, continua a guardare le
immagini.
Il mnemo-parallasse mostra l’autunno di Rijksdorp cedere il passo
all’estate. Le foglie morte risalgono da terra, si ria accano ai rami e
cambiano colore, dal marrone al rosso e poi dall’arancione al verde.
Succede tu o all’indietro.
Stai rivivendo i tuoi ricordi in ordine inverso. Li stiamo riavvolgendo.
Rispe o ai miei soliti ricordi è tu o più definito, perché?
Marinus approfondisce il paragone. Il mnemo-parallasse è come un
nastro inciso. Pieno, in qua ro dimensioni, multisensoriale, stereo,
surround, Technicolor. I ricordi normali sono bozze i di piccoli spazi,
elaborati e consumati a ogni sguardo.
L’estate a Rijksdorp si trasforma in una primavera. Una volpe
sfreccia all’indietro in mezzo alle chiazze d’ombra.
Ci si potrebbe perdere qui per sempre e non uscirne più, pensa Jasper.
Parlare e pensare all’apparenza si equivalgono. Dov’è Toc-Toc?
In una cella improvvisata che non resisterà a lungo. È furibondo e
pericoloso.
Non potete fargli una cella più robusta? chiede mentalmente Jasper.
La procedura del Mongolo funziona una volta sola, ahinoi. Nel cervello
non c’è abbastanza massa disponibile perché si possa replicare.
Quanto tempo ho ancora prima che Toc-Toc sia di nuovo libero?
Poche ore, risponde Marinus. Ecco perché parlavo di urgenza.
Nel mnemo-parallasse, le pozzanghere scagliano gocce di pioggia
verso i ramoscelli e le nuvole. I tulipani si stringono nei loro bulbi.
Cosa stiamo cercando? chiede Jasper.
Stiamo setacciando i cicli circadiani contigui per trovare informazioni su
Toc-Toc. Ho le o i resoconti del do or Galavazi sul «Paziente JZ», ma si
tra a di informazioni filtrate. La fonte primaria è il mnemo-parallasse.
Quando l’hai visto per la prima volta in faccia?
Il mio ultimo giorno a Ely. Se e anni fa. Toc-Toc era in camera mia,
nello specchio dell’armadio.
Bene, diamo un’occhiata, allora. Il treno della memoria prende
velocità. Jasper coglie a sprazzi alcuni pazienti di Rijksdorp intenti a
srotolare una grossa palla bianca e a cancellare dal mondo un
pupazzo di neve.
Come avete fa o al Ghepardo a psicosedare tu i? Come riuscite a fare
cose simili? chiede Jasper.
È una branca della metafisica applicata, si chiama ‘psicosoterica’.
Jasper rifle e sulla parola. Sembrerebbe una pseudoscienza.
Il nostro mula iere del Qua rocento non conosceva parole come
«velocità orbitale». La sua ignoranza fa dell’aeronautica una
pseudoscienza?
No, amme e Jasper. Psicosoterica, dunque. Che cos’è?
La scatola magica del diavolo, per alcuni. Per altri è un arsenale. Per noi
è una disciplina in divenire.
Continui a dire «noi». Jasper vede il suo primo anno a Rijksdorp
galoppargli accanto a ritroso. Chi sono questi «noi»?
Siamo l’orologia, risponde Marinus.
A Jasper la parola non è nuova. Fate orologi?
Negli ultimi decenni sì. Il mondo evolve. Nel passato un orologista
studiava il tempo. Guarda, ecco il tuo arrivo a Rijksdorp…
Jasper vede il do or Galavazi ringiovanito di sei anni. Rijksdorp
retrocede al di là del suo cancello, è uno scorcio no urno dalla
Jaguar di grootvader Wim. In macchina c’è anche Formaggio. La
Jaguar sembra procedere al contrario fino al porto di Hook of
Holland in trenta secondi, mentre alla no e si sostituisce la sera. Mi
sento come Scrooge in Racconto di Natale, osserva Jasper.
Ma io sono meno allegro dello Spirito del Natale Passato, credimi.
La SS Arnhem solca il Mare del Nord dire a verso il ma ino. Una
corposa quantità di vomito risale dalle onde fino a rientrare in bocca
a Formaggio, che, correndo all’indietro, torna nella sala passeggeri.
Il giorno prima, dice Jasper. La ma ina prima.
Con la rapidità di un aeroplano, il ba ello arriva a Harwich e una
macchina a raversa il Norfolk dire a a Ely. La no e inghio e il
giorno e il sedicenne Jasper è di nuovo nella stanza che condivide
con Formaggio. Il bussare, il toc-toc-toc-toc, accelera in una raffica
ronzante. Qui vai piano, dice Jasper a Marinus. È successo da un
momento all’altro…
Ora. Il tempo rallenta fino a raggiungere una velocità normale, per
quanto in retromarcia. Ecco l’a imo in cui il sedicenne Jasper apre
l’armadio nella stanza sua e di Formaggio a Swa am House. Un
sacerdote orientale con la testa rasata lo fissa dallo specchio. Il Treno
della Memoria si ferma. Jasper preferirebbe guardare altrove, ma il
suo sé incorporeo non ha né muscoli del collo con cui voltarsi né
palpebre da chiudere. È quindi costre o a scrutare a entamente Toc-
Toc che lo scruta. Odio? Gelosia? Vende a?
Marinus pronuncia una lunga frase in una lingua straniera.
Questa lingua non la capisco, fa presente Jasper.
Ha imprecato, lo informa laconica una borbo ante voce
australiana, in hindi.
Se potesse, Jasper si guarderebbe intorno in cerca del proprietario
della voce, ma non può.
Buondì, piccolo, dice la voce. Sono Esther Li le. L’altro spe ro.
Jasper ricorda la donna dalle sembianze aborigene nel camerino
del Ghepardo. C’è qualcun altro qui dentro?
Solo noi due topolini, dice Esther. Parla, Marinus.
Ho dimenticato migliaia di facce nella mia meta-vita, dice Marinus.
Questa però no. Non posso e non voglio dimenticarla. Mai.
Jasper è confuso. Conosci Toc-Toc?
Le nostre strade si sono incrociate anni fa. Tragicamente.
Quando? chiede Jasper. Dove? Come?
Intorno al 1790, risponde Marinus.
Jasper pensa di aver sentito male. Intorno a quando?
Buona la prima, dice Esther. Nel 1790.
Uno scherzo? Una metafora? Lì non ci sono volti che Jasper possa
cercare di decifrare, chiede quindi dire amente: Do or Marinus,
quanti anni hai?
Dopo. Per ora voglio ancora un po’ della tua storia.

Il viaggio nella vita di Jasper accelera e punta verso l’inizio. Le


no i si chiudono di colpo, i giorni si aprono, le nuvole striano il
cielo. Le stagioni si susseguono in senso antiorario. Ultimi trimestri
scolastici alla Bishop di Ely. Pasque. Quaresime. Natali trascorsi a
Swa am House insieme a collegiali con le famiglie che vivono
g g
oltreoceano. Primi trimestri. I mesi d’agosto e di luglio in Zelanda.
Un altro ultimo trimestre. Poiché la crescita di Jasper è invertita, la
visuale si abbassa via via. Un aeroplanino di balsa vicino alle dune
in estate a Domburg. Una vi oria a cricket. Cantare «To Be a
Pilgrim» nel coro della scuola. Nuotare nel Great Ouse. Castagne
ma e, biglie, aliossi, un due tre stella. In poco tempo Jasper ha sei
anni, e la macchina nera inviata dai De Zoet per trasportarlo verso
una vita da gentiluomo retrocede fino alla pensione della zia nella
ci adina mari ima di Lyme Regis. Jasper si restringe nei suoi
cinque, qua ro, tre anni, circondato da giganti dagli umori
imprevedibili quanto il tempo. Ecco lo zio invalido di Jasper,
ramanzine, nascondino, un’automobilina a pedali, uno scintillino che
traccia una scri a nel buio, un giorno di sole, un cane spaventoso
grande come una mucca, una carrozzina con vista su un argine di
granito che s’incurva verso un opaco mare di giada. I gabbiani si
avventano su un sacche o di patatine abbandonato. Alcuni bambini,
i cugini di Jasper, strillano. La processione di immagini si ferma sul
volto di una donna segnata dalle preoccupazioni. È mia zia Nelly,
dice Jasper. La sorella di mia madre.
Lì hai dodici mesi, dice Marinus. Adesso le cose si faranno indistinte…
Le immagini si fondono l’una nell’altra. Un bambolo o nero, un
golliwog, mangiato da un cane. Fagioli stufati a impiastricciare le
dita. Pioggia alla finestra. Un biberon pieno di la e in polvere. La
faccia insonne di zia Nelly che piange sommessamente: «Milly,
perché ci hai fa o questo?» Un lungo lamento. Incontinenza.
Appagamento. Ogni linea è sfocata, la prospe iva ha smesso di
funzionare. Ai bambini appena nati sono necessarie o o se imane per
riuscire a me ere a fuoco, spiega Marinus. Per i Temporali questa è la fine
della corsa. Di solito. Tu avia, se la mia ipotesi regge…
Il moto continua, turgido e trascinante… finché c’è uno scossone,
uno scivolamento, uno scambio ferroviario imperfe o lungo i binari.
Se Jasper avesse un corpo a quel punto si raddrizzerebbe. La
sensazione di movimento prosegue, ma ora si inarca e da orizzontale
che era diventa verticale. È come se precipitassi in un pozzo, pensa.
A raverso le aperture nelle pareti del pozzo coglie di sfuggita dei
fuochi d’artificio e Milly Wallace. Una rapida occhiata alla cabina di
y p
un capitano. Le immagini sono più definite di quelle della sua
infanzia, ma non nitide come quelle della sua adolescenza.
Somigliano a foto di foto, o a registrazioni di registrazioni. Questi
ricordi non sono miei, osserva Jasper.
Sono frammenti della vita di tuo padre, dice Marinus.
Ecco la moglie di Guus con il velo da sposa. L’università di Leda,
Jasper immagina che siano gli anni Trenta. Far volare un aquilone.
Imparare a far saltare i sassi a pelo d’acqua.
Un altro scossone. Questo cos’è? chiede Jasper.
Un collegamento generazionale, dice Marinus. Abbiamo raggiunto tuo
nonno prima che divenisse padre di tuo padre. Corpi europei stesi so o
un cielo africano. Questa dovrebbe essere la Seconda guerra boera, me la
ricordo bene… un malede o, stupido pasticcio.
Ecco una chiesa piena di gente in abiti d’altri tempi. Quella chiesa
la conosco, dice Jasper. È a Domburg, in Zelanda.
L’hai conosciuta sessant’anni dopo, gli fa notare Marinus.
A quanto vedo, migra solo nei maschi, commenta Esther.
Chi non è un prodo o dei propri tempi? dice Marinus.
I visionari, replica lei, tanto per cominciare.
Jasper per un a imo vede so o un cielo tropicale delle tipiche
case olandesi. Carri trainati da cavalli. Una piantagione. Giava. Un
naufragio. Un coccodrillo che a acca un bufalo d’acqua. Una donna
malese illuminata da una lampada so o una zanzariera. Del sesso
sfocato illuminato dalla lampada. Un vulcano. Un duello… uno
shock a livello incorporeo per una ferita da proie ile. Sembra così
vero, Marinus.
Molti dei primi film ai primi spe atori sembravano veri.
I ricordi scorrono lungo tu a una stirpe? domanda Jasper.
Normalmente no, interviene Esther. Un mnemo-parallasse muore con
il cervello a cui appartiene. Ma l’orologia non si occupa della normalità.
E come mai allora, chiede Jasper, stiamo guardando ricordi che
precedono la mia nascita?
Perché non siamo più nel tuo mnemo-parallasse, spiega Marinus.
Questi sono ricordi delle esperienze dei tuoi antenati, ma sono stati
archiviati da un «ospite della famiglia De Zoet» che è passato di padre in
figlio fino a te. Questo è il mnemo-parallasse dell’ospite, ed è fa o dei ricordi
cuciti insieme di chi l’ha ospitato.
Come una gigantesca meta-sciarpa, dice Esther, composta da singole
sciarpe.
Qualcuno come il Mongolo? chiede Jasper.
Ci sono delle differenze, risponde Marinus. L’ospite dei De Zoet non
abbandona o non può abbandonare chi lo ospita. Non è neanche mai stato
del tu o cosciente, fino al tuo ciclo vitale.
Odore di naftalina. Casse aperte piene di cristalli bianchi. Canfora,
dice Marinus. Un carico prezioso dal Giappone nel Diciannovesimo secolo.
Ci stiamo avvicinando. I te i marroncini di una ci à in pendenza, con
terrazze verdi a ridosso coltivate a riso. Giunche da pesca
ormeggiate lungo un pontile. Un veliero di epoca napoleonica entra
nella baia e affianca, a ritroso, una piccola isola a forma di ventaglio
collegata alla terraferma da un pontile. Una bandiera olandese
sventola su un alto pennone. Pechino? Siam? Hong Kong?
Nagasaki, dice Marinus. Un avamposto commerciale della Compagnia
Olandese delle Indie Orientali di nome Dejima. Un rumore di campane a
lu o. Incenso. Una lapide con un nome inciso: LUCAS MARINUS .
È il tuo nome, dice Jasper.
Già, replica Marinus con uno strano tono. Il suono di un
clavicembalo. Un uomo grosso come un orso in una sala operatoria
dei tempi andati. Avevi un debole per le torte, osserva Esther Li le.
Guarda che pancia.
Sono rimasto bloccato a Dejima per dieci anni. Marinus sembra sulla
difensiva. Gli inglesi saccheggiavano le navi olandesi. Le torte erano uno
dei miei pochi piaceri. Sono morto là. Tante grazie, Britannia. Guarda bene,
Jasper, stai per conoscere qualcuno…
Il mnemo-parallasse rivela una faccia occidentale, un tipo
lentigginoso prossimo ai trenta con i capelli rossi. Si asciuga la fronte
imperlata di sudore. Quello è Jacob de Zoet, dice Marinus. Il tuo bis-bis-
bisnonno. La scena non avrebbe nulla di strano, se non fosse per un
piccolo foro nero fra le sopracciglia di Jacob. Jacob sta scrivendo su
un libro mastro con una penna d’oca. Via via che la penna graffia la
carta, i numeri svaniscono. Il foro nella testa di Jacob si riduce in
niente. Si sentono urla indistinte all’esterno.
Era quello, dice Esther. Il momento era quello.
Non capisco, riba e Jasper. Quale momento?
Il momento in cui Toc-Toc è entrato nel tuo antenato, spiega Marinus,
e ha iniziato il suo viaggio fino a te…

La visuale si muove in senso inverso sopra Nagasaki. Il fumo


rientra flu uando in un fuoco acceso per cucinare. I gabbiani girano
in volo al contrario intorno all’«occhio». La traie oria della vista
a raversa un pannello di carta su un balcone e si blocca
repentinamente in una stanza. L’immagine è come congelata. Questo
ricordo non è vago, ma affilato come un rasoio. Le stuoie di giunco
intrecciato odorano di fresco. I pannelli scorrevoli sono ornati di
crisantemi. C’è un tavolo da go gambe all’aria, con una ciotola di
pedine bianche e nere sparse sul pavimento. Qua ro corpi giacciono
esanimi. Il più giovane è un monaco. Un altro è un anziano ufficiale
dalle folte sopracciglia. Il terzo sembra un samurai di alto rango.
L’ultimo corpo è Toc-Toc morto. Accanto a sé ha una zucca rossa
rovesciata, vicino ci sono qua ro tazze nere come il carbone.
Che cos’è questo posto? chiede Jasper.
La Sala dell’Ultimo Crisantemo, dice Marinus. Una stanza che non mi
aspe avo di vedere ancora.
Veleno, suppongo, dice Esther. Qualcosa di rapido e letale.
Così correva voce, conferma Marinus. Ma partiamo dal nostro
avversario. Toc-Toc era l’abate di un ordine esoterico shintoista. Il suo vero
nome era, ed è, Enomoto. L’anno è il 1800, se la memoria non m’inganna. Il
suo ordine gestiva una sorta di harem in un monastero femminile sul monte
Shiranui. Per raggiungerlo erano necessari due giorni di cammino nella
remota aerea montuosa di Kirishima. Lo scopo dell’harem non era quello
abituale, tu avia. Era una sorta di allevamento: serviva a fornire bambini.
Perché mai un ordine religioso dovrebbe volere dei bambini? chiede
Jasper.
Per distillare dalle loro anime un liquido che chiamavano tamashi-
abura, olio delle anime. Assimilandolo, i monaci posticipavano la morte.
Indefinitamente.

Jasper guarda le spoglie dell’abate Enomoto. Le labbra sono nere.
Enomoto si considerava un negromante?
Marino esita. L’olio delle anime, per usare un anacronismo, faceva
quello che annunciava l’etiche a: chi lo beveva non invecchiava.
Se raccontassi questa storia al do or Galavazi… rifle e Jasper.
Diagnosticherebbe una schizofrenia in un ba er d’occhio, concorda
Marinus. È un valido psichiatra, però i suoi parametri di riferimento sono
limitati.
Ma gli elisir di lunga vita non esistono, dice Jasper.
Due o tre su un migliaio funzionano, replica Esther. L’orologia esiste
per quei due o tre.
La psicosedazione al Ghepardo, dice Marinus. Il mnemo-parallasse.
Questo. Esther e io. Te lo stai solo immaginando?
Non credo, dice Jasper. Ma come faccio a esserne certo?
Dio, dammi la forza, sbo a Esther.
Segui il consiglio di Formaggio, dice Marinus. Includici nella Teoria X.
Non realtà, non delirio, bensì un fenomeno in a esa di prove.
Jasper non sa che cosa rispondere. La Teoria X è l’unico modo per
proseguire. Torna ai qua ro uomini morti. Chi è stato a ucciderli?
La catena di eventi potrebbe riempire le pagine di un corposo romanzo,
risponde Marinus. Il governatore Shiroyama, il samurai in questo fregio,
era venuto a conoscenza del regime infanticida di Enomoto. Aveva elaborato
un piano per decapitare l’ordine, avvelenando il potente abate. Saggiamente,
Enomoto era paranoico in merito ai veleni, quindi il complo o prevedeva
che anche il governatore e il suo segretario assumessero la tossina. Come
vedi, il complo o ha funzionato. Il giovane novizio di Enomoto ha
accompagnato il suo signore alla cerimonia del tè sbagliata.
Jasper guarda la scena del crimine. È triste e reale. Se il piano ha
funzionato, come avrebbe fa o Toc-Toc, Enomoto, a sopravvivere?
I saperi occulti del Cammino Ombroso, replica Esther Li le. La sua
anima ha resistito al Vento del Mare abbastanza a lungo da trovare un
individuo che la ospitasse, ovvero il tuo antenato Jacob de Zoet in quel
deposito.
Perché proprio lui però, Marinus? Fra tu i quelli che a Nagasaki
avrebbero potuto ospitarlo, che cosa collega l’abate di un oscuro ordine a un
funzionario straniero a mezzo chilometro di distanza?
f
C’entrava una donna, risponde Marinus.
Ah-ah, riba e Esther.
Una certa Orito Aibagawa. La prima in Giappone ad aver studiato la
lingua e la cultura olandesi. Le insegnavo l’ostetricia e la medicina nel mio
ambulatorio a Dejima. Jacob si era innamorato della signorina Aibagawa,
come fanno i cavalieri senza macchia in certe storie, ma Enomoto l’aveva
imprigionata sul monte Shiranui, a due giorni di cammino. L’abate voleva
che a occuparsi delle donne del monastero fosse la migliore ostetrica del
Giappone.
E perché, chiede Esther, questo legame era così forte da far a raversare
all’anima di Enomoto metà ci à al momento della morte?
Marinus sceglie le parole con cura. Jacob de Zoet, un interprete di
nome Ogawa e io abbiamo contribuito a richiamare l’a enzione del
governatore Shiroyama sui crimini di Enomoto. Dal punto di vista
dell’abate, guardano il religioso morto, siamo complici del suo omicidio.
Esther ci rifle e. Un filo karmico, dunque. L’anima di Enomoto l’ha
seguito come una linea tesa tra due punti. O come una via dei canti, direbbe
la mia gente.
Jasper non si raccapezza. Quindi il mio antenato nel deposito fa un
torto a questo «autentico» negromante nel 1800. Appena Enomoto muore,
la sua anima «vola» nella testa di Jacob de Zoet, si rintana là dentro e là
rimane, dormiente, come una larva. Questa larva viene trasmessa di padre
in figlio fino a grootvader Wim, e poi a mio padre e a me. Tu o questo
periodo l’ha passato ad «acquisire» i ricordi di chi lo ospita e a cucire una
gigantesca sciarpa della memoria. Poi, negli anni Sessanta, sedici decenni
più tardi, Enomoto si è ricostituito a sufficienza per «svegliarsi», fare a
pezzi la mia mente e impadronirsi del mio corpo.
Le cose stanno più o meno così, ragazzo mio, gli dice Esther.
E c’è… una cura? chiede Jasper.
Non possiamo semplicemente sfra are Enomoto come se fossimo due
ufficiali giudiziari, dice Esther, se è quello che speravi.
È esa amente quello che speravo, amme e Jasper.
Se usiamo la forza ed Enomoto resiste, spiega Marinus, il danno
cerebrale ti ucciderebbe. Neurologicamente e psicosotericamente è ancorato
troppo in profondità.
Cosa possiamo fare, allora? domanda Jasper.
p f p
Un pa o, dice Esther. Ma anche se dovesse acce are, la procedura,
l’intervento psicochirurgico sarà molto, molto delicato.
Dobbiamo parlargli, dichiara Marinus.
Un momento, interviene Jasper allarmato. Come saprò che
l’intervento… psicochirurgico è andato a buon fine?
Se funziona, dice Marinus, ti sveglierai qui nella 119A.
E se non funziona?
La prossima cosa che vedrai saranno l’Alto Crinale e il Crepuscolo, dice
Esther, stavolta però non saremo in grado di riportarti indietro.
Non ho molta scelta, giusto? chiede Jasper.
La Sala dell’Ultimo Crisantemo scompare.

Il soffi o è liscio. La stanza è spaziosa. Si trova su un futon. Non


sul declivio dell’Alto Crinale. Il pavimento è di legno. Jasper esplora
l’interno del suo cranio e scopre che Toc-Toc, o Enomoto, lì non c’è
più. Non è stato semplicemente isolato, come dopo l’operazione del
Mongolo, se n’è andato davvero, come un dente del giudizio o un
debito estinto. Andato. Dalle tende chiare filtra la luce del giorno.
Jasper si me e a sedere. Indossa le mutande del giorno prima. I suoi
vestiti sono piegati e appesi a una poltroncina in stile Regina Anna.
La stanza è spartana e arredata in modo curioso: appesa a una
parete, una pergamena raffigura una scimmia che cerca di toccare il
proprio riflesso rischiarato dalla luna, poi ci sono una libreria Art
Nouveau, un tappeto pieno di simboli, un clavicembalo antico, una
scrivania con una stilografica, una bocce a d’inchiostro e nient’altro.
Silenzio.
Jasper si alza e va ad aprire le tende. Si direbbe che la finestra sia
al quinto piano. I te i di Manha an salgono, ricadono e s’inclinano.
Non lontano, i bordi smussati del Chrysler Building sve ano fra
nuvole basse. Sta piovendo, lievemente. Gli scaffali della libreria
ospitano volumi scri i in molteplici lingue a lui sconosciute: The
Perpetuum a cura di Jamini Marinus Choudary, Een beknopte
geschiedenis van de Onderstroom in de Lage Landen di H. Damsma e N.
Miedema, The Great Unveiling di L. Cantillon, On Lacunae di Xi Lo e,
appoggiato con la copertina rivolta verso l’esterno, Récit d’un témoin
de visu de la Bataille de Paris, de la Commune et du bain de sang
g
subséquent, par le citoyen Franҫois Arkady, fier Communard converti à
l’Horlogerie di M. Berri. Sul clavicembalo c’è uno spartito con una
sonata di Scarla i. Jasper solleva il coperchio dai tasti. È antico. Lui
non è bravo quanto Elf nella le ura a prima vista, suona quindi le
ba ute iniziali di «A Raft and a River». Il timbro delle note è so ile e
vetroso. La stanza è dotata di un piccolo bagno, di cui Jasper
approfi a. Si veste, ma non trova le scarpe, avanza quindi fino alla
porta con le calze. La porta si apre su un ascensore rivestito di
pannelli. Ci entra. La porta si richiude. In fila, l’uno dopo l’altro, ci
sono cinque tasti non numerati. Un sesto è contrassegnato da un ‘*’.
Jasper preme l’asterisco. Aspe a che l’ascensore si muova, non sente
però lo sferragliare degli ingranaggi, nessun lento cigolio come
nell’ascensore del Chelsea Hotel. Non succede nulla.

Apre la porta dell’ascensore e scopre un elegante salone con il


soffi o alto e lampadari di cristallo. In fondo a un lungo tavolo è
seduto Yu Leon Marinus. «Puoi anche uscire», dice il medico.
«L’ascensore sa quel che deve fare.»
Jasper entra nel salone. Tre grandi finestre sono semioscurate. Un
ampio specchio raddoppia lo spazio e la luce. Jasper evita di
guardarlo, poi ci ripensa e lo guarda. Una fobia in meno. A decorare le
pareti ci sono dipinti di epoche diverse, compresa l’Allegoria del
trionfo di Venere di Agnolo Bronzino. Jasper pensava che quel dipinto
fosse esposto alla National Gallery di Londra. «Toc-Toc non c’è più»,
dice a Marinus. «Immagino dunque che ieri sera fosse tu o vero.»
«Lui non c’è più. Sì, era tu o vero.» Marinus gli indica una sedia
vicino alla sua e solleva una cupola d’argento di quelle che si usano
per tenere il cibo in caldo. Ci sono uova in camicia, pane integrale
tostato, succo di pompelmo e una teiera piena.
«È quello che mi piace mangiare quando sono a casa.»
«Ma pensa. Serviti se hai fame.»
Jasper si accorge di essere affamato, si siede e… si rende conto che
stavano parlando in olandese. «Psichiatra, orologista e anche
linguista.»
«Il mio olandese è arrugginito», Marinus torna all’inglese,
«dunque ti risparmio ulteriori mal d’orecchie. Sono rinato a Haarlem
q p
sei cicli vitali fa, ma l’olandese evolve così in fre a. Davvero, per
dargli una rinfrescata dovrei tornare in Olanda e viverci per qualche
mese. Magari Galavazi potrebbe organizzarmi un soggiorno.»
Jasper macina il pepe sul suo uovo. «Sul serio riesci a tornare?
Vita dopo vita dopo vita?»
«Stessa anima, vecchia mente, nuovo corpo. Ma adesso non
offendiamo lo chef facendo raffreddare la colazione. Bon appétit.»
So o la cupola d’argento di Marinus ci sono una ciotola di riso e
una zuppa di miso. Mangiano in silenzio per un minuto. I Normali si
sentono a disagio quando la conversazione langue, ma Marinus non
è un Normale. Jasper nota che accanto a lui c’è un quotidiano scri o
in russo, la Pravda.
«Eri russo in una vita precedente?»
«Due volte.» Marinus si ripulisce la bocca con il tovagliolo.
«Qualsiasi giornale che si chiami ‘Verità’ non può che essere infarcito
di menzogne. Ma le menzogne possono essere illuminanti.»
Dal tuorlo di Jasper stilla un liquido giallo-arancione. «Così Toc-
Toc ha acce ato di andarsene senza comba ere, e la psicochirurgia
ha avuto successo.»
Marinus aggiunge al suo riso un pia ino di so aceti. «Gli
abbiamo fa o una proposta. Esther sa essere convincente.»
Jasper si versa un po’ di tè in una tazza Wedgwood. «Una
proposta?»
«Se ti concedeva il tuo ciclo vitale», Marinus solleva ciotola e
bacche e, «in cambio noi ne avremmo concesso uno a lui.»
«E come? Lui non ha un corpo.»
«Gliene ho trovato uno di ricambio.»
Jasper è sbigo ito.
«Lo scorso giugno in una ci à sulla costa orientale un adolescente
è andato in overdose. La sua anima ha abbandonato il corpo quella
sera stessa, ma il corpo si è preservato entrando in coma. La polizia
non è riuscita a identificarlo e non si è presentato nessuno a cercarlo.
Il coma di questo sconosciuto è stato declassato in agosto a stato
vegetativo persistente. Gli ospedali qui sono un grosso affare, le cure
costano parecchio. Era previsto che gli staccassero il respiratore
venerdì. All’incirca…» Marinus sfodera una cipolla a accata a una
p
catenella «…novanta minuti fa lo sconosciuto ha ripreso conoscenza.
Il personale medico che se ne occupava ha gridato al miracolo. La
parola ‘miracolo’ non rende merito alla psicochirurgia di Esther, ma
poco importa. Il corpo dello sconosciuto appartiene adesso a
Enomoto, è il suo nuovo e ultimo corpo ospitante. Salvo imprevisti,
dovrebbe vivere fino a o ant’anni.»
«Un trapianto di anima.»
Marinus sorseggia la zuppa di miso. «Possiamo definirlo così.»
In un vaso, ci sono dei tulipani color vinaccia screziati di neve.
«E se Enomoto ricominciasse a distillare l’olio delle anime?»
«Diventerebbe un nemico dell’orologia.» Marinus sgranocchia un
cetriolino. «È un rischio. L’etica del nostro operato ha qualche
ombra, lo amme o, ma se un’etica non avesse ombre non sarebbe
una vera etica.»
Jasper mangia un fungo. «Dunque l’orologia è una specie di… FBI
psicosoterica. Che razza di lavoro.»
So o la fronte aggro ata di Marinus potrebbe celarsi un sorriso.
Jasper ha pulito il pia o. Fa scorrere il pollice sui suoi calli da
chitarrista. «E adesso cosa faccio?»
«Tu cosa vorresti fare?»
Jasper ci pensa. «Scrivere una canzone. Prima che questo
svanisca.»
«Allora torna al Chelsea Hotel e scrivi una canzone. Sono tu i lì, mi
è stato riferito. Vai e moltiplicati. Il tuo corpo dovrebbe farcela per
altri cinque o sei decenni.»
Levon e il gruppo… «Gli altri! Penseranno… che mi abbiano rapito.
O che… Cos’è successo ieri sera al Ghepardo?»
Marinus si tampona la bocca. «Xi Lo ha sovrascri o qualche
minuto nel mnemo-parallasse di tu i i testimoni.»
«Il significato di questa frase mi sfugge completamente.»
«I ricordi di ciò che è successo dietro le quinte sono stati rimossi e
rimpiazzati da una storia posticcia. Hai avuto un collasso sul palco.
Un’ambulanza ti ha portato nella clinica privata di un collega del tuo
medico olandese, così da farti alcuni esami e tenerti in osservazione.
Il che non è così lontano dalla verità. Prima ho telefonato a
Frankland per dargli la buona notizia, e gli ho riferito di aver
p g g
identificato la causa del tuo collasso: uno squilibrio endocrino,
curabile con un ciclo di anticoagulanti.» Estrae un portapillole dalla
giacca e lo porge a Jasper. «Un trucco di scena. Sono fa e solo di
zucchero, ma sono grosse e fanno la loro figura.»
Jasper prende la scatole a. Non avrò più bisogno del Queludrin.
«Stasera potrò suonare al Ghepardo?»
«Credo sia proprio il caso, dopo tu e queste scocciature.» È
arrivata una giovane donna. Ha capelli neri come il petrolio, un
vestito color erica e un modo silenzioso di muoversi. «Hai ripreso
colore, De Zoet.» Gli sembra di conoscerla.
«Ieri sera mi hai portato una sedia a rotelle.»
«Mi chiamo Unalaq. Ti condurrò in macchina al tuo hotel.»
È tempo di andare. Marinus lo accompagna all’ascensore.
«Speravo di poterti fare altre domande.»
«Non mi sorprende», dichiara il reincarnato seriale, «ma ogni
ulteriore risposta sarebbe superflua.»
Jasper entra nell’ascensore rivestito di pannelli. «Grazie.»
Marinus lo osserva da dietro gli occhiali. «In te rivedo il tuo
antenato Jacob. Un mediocre giocatore di biliardo, ma un
brav’uomo.»

***

Mentre conduce Jasper a raverso una Manha an piovigginosa,


Unalaq parla pochissimo. Gli orologisti non sono di molte parole. A
riempire il silenzio sono i madrigali stregati di Gesualdo da Venosa.
L’anonima macchina nera incrocia Central Park, dove Jasper aveva
girovagato solo mezza giornata prima. Passato il parco, le strade si
fanno più sgangherate, e presto raggiungono il Chelsea Hotel. Unalaq
guarda in alto, verso lo strapiombo in ma oni di finestre, balconi e
davanzali. «La festa per l’inaugurazione è durata un’intera
se imana.»
«Di tu o quello che è successo non ricorderò nulla, giusto?»
Unalaq non gli dice né sì né no.
«Lo capisco. Se quelli del Pentagono lo venissero a sapere, vi
chiuderebbero in un laboratorio, non rivedreste più la luce del sole.»
p
«Mi piacerebbe che ci provassero», dice Unalaq.
«O se la gente venisse a sapere di predatori come Enomoto… O
che si può posticipare la morte… Cosa succederebbe? Cosa non
farebbe il potere per procurarsi l’olio delle anime?»
Un camion dell’immondizia ruggisce a poca distanza. Nelle sue
viscere si rimescolano cocci di vetro.
«La vita ti sta aspe ando, Jasper.»
«Posso chiederti solo se l’orologia…»
È sul marciapiede che guarda Unalaq negli occhi artici.
«L’orologia, dici? Non ha a che fare con il riparare vecchi orologi?
Non ne so molto, temo. Allora, ciao.»
Jasper guarda la macchina sparire dietro l’angolo.
«Amico», dice uno spacciatore alle sue spalle. «Che cosa ti serve?
Se non ce l’ho qui, te lo trovo. Dimmelo. Di cos’è che hai bisogno, ma
bisogno sul serio?»

Elf, Dean, Griff e Levon sono seduti al ristorante alle prese con
una colazione spagnola.
«Chi si vede», dice Griff. «È arrivato Porta Guai.»
«C’erano un sacco di altri modi per non concedere un bis…» dice
Elf.
«Ti sei guadagnato una critica discreta, tu o sommato.» Dean
solleva una copia del New York Star. «A quanto pare, sei collassato
per via di…» cerca la riga giusta «…incandescente genio creativo.
Chi l’avrebbe de o?»
Levon si alza da tavola e gli stringe le spalle. «Mi sono svegliato e
ho pensato: Merda, non ho neanche il nome della clinica! Poi è
squillato il telefono ed era il do or… Marino che mi ha de o che era
tu o a posto. Sono davvero felice che non sia niente di grave.»
«È indistru ibile, il nostro Jasper», dice Dean. «Probabilmente è
immortale, ma non lo dice a nessuno.»
«Cos’è esa amente uno ‘squilibrio endocrino’?» chiede Elf.
«Elf», interviene Dean, «lascialo respirare un po’ questo povero
ragazzo. Jasper, amico, siediti. Prendi un po’ di caffè. Allora, come ti
senti?»
Da adesso in poi, decide Jasper, sarò uno studioso di sensazioni.
«Mi sento…» Guarda gli amici. «Come se la mia vita stesse
iniziando.

a. Segnatempo.
b. Domani ho sentito bussare alla porta – / Una porta che prima di allora non sarà lì – / Non
potevo dire se fosse criminale, / Non sapevo se fosse subliminale, così…
c. Ho aperto e Nessuno ha parlato, / «Sei diventato uno scherzo serio, figliolo; / La cara
vecchia salute ti ha abbandonato – / La triste verità è questa, non sei sano di mente.»
The Third Planet Lato B

1. I’m a Stranger Here Myself (Moss)


2. Eight of Cups (Moss)
3. The Narrow Road to the Far West (Moss)
4.
I’m a Stranger Here Myself a

Perché no, dannazione? Dean si fa scivolare intorno al collo la cinghia


della macchina fotografica, una Brownie, scavalca la ringhiera del
balcone, afferra il tronco curvo dell’albero e inizia ad arrampicarsi
come un koala. La corteccia a scaglie è calda contro la sua pelle. So o
si estende Laurel Canyon. Te i appena inclinati, te i pia i, piante
degne di un film di Tarzan e piscine nei giardini sul retro. In America
non esistono i semplici «cortili» posteriori. Raggiunge un punto in cui il
tronco forma una Y e lì si appollaia. Il suolo è parecchio distante.
Potrei rompermi un braccio o una gamba, se non l’osso del collo. Guarda
nel mirino della Brownie, ma dubita che possa ca urare un decimo
della grandezza del panorama. A poco più di un chilometro c’è Los
Angeles, una griglia di strade pia a quanto una pozzanghera.
L’oceano Pacifico è una striscia blu scuro piena di fronzoli. Sono il
primo Moss, o Moffat, a vederlo. Il cielo della California sì che è un cielo
azzurro. I cieli azzurri inglesi sono roba da due soldi. Lo stesso vale
per i fiori. I fiori in California sbocciano, esplodono, divampano.
Trombe e scarla e, lillà spumosi, stelle paonazze, pinnacoli contorti.
Che posto, che giornata, che periodo. Le macchine rombano. Gli inse i
serpeggiano e si riposano. Gli uccelli cingue ano strane note. Dean
sca a una foto, giusto per mostrarla a Ray e a Shanks una volta a
casa. Se guarda in direzione dell’entroterra, vede la veranda di Joni
Mitchell, è quasi al livello della Y dove lui se ne sta appollaiato.
Sente che sta provando il primo verso di una canzone: «I slept last
night in a fine hotel…» Joni Mitchell si corregge: «I spent last night in a
good hotel». Poi: «I love to stay in a fab hotel…» È una splendida
melodia. Dovrò chiedere a Elf di darmi lezioni di piano.
Più Dean sta lontano da Londra, e meno voglia ha di tornarci. È il
contrario della nostalgia di casa. Un punto a favore dell’Inghilterra è
che Roll Away the Stone si trova al dodicesimo posto delle classifiche
britanniche. Se si tra asse di calcio, gli Utopia Avenue sarebbero una
di quelle squadre che per una vita hanno occupato le zone basse
della terza divisione, ma poi, praticamente da un giorno all’altro,
sono state promosse in prima. La gente inizia a riconoscerlo e a
chiedergli l’autografo. Compresi i bu afuori dei locali. Ha una
Triumph Spitfire rosso ciliegia in un magazzino dietro
l’appartamento di Levon a Bayswater. Per non parlare delle abituali
sveltine con Tiffany Seabrook, più sexy di tu e le mie ex messe insieme.
Però, Inghilterra significa anche i Craddock, un bambino che
potrebbe essere suo figlio e quel succhiasangue del loro avvocato che
sta dando prova di essere un osso duro. Inghilterra significa Rod
Dempsey, che somiglia sempre di più a uno dei gemelli Kray.
Inghilterra significa o anta per cento di tasse sul reddito, un tempo
orribile, scioperi e solo un gusto di gelato, bianco. E poi, se è vero che
in Inghilterra piacciamo, qui in America ci adorano, maledizione. Dopo il
movimentato debu o al Ghepardo, il gruppo si è esibito in tre intensi
concerti davanti a un pubblico sempre più folto. Venerdì Jimi
Hendrix è passato in camerino. Ginger Baker vorrebbe Dean nel suo
prossimo LP. Una modella di colore si è presentata due sere prima al
Chelsea. E un gentiluomo come poteva rifiutare?
«Dean?» Elf è sul balcone con il suo vestitino giallo da gallinella
hippie che si guarda in giro. Ha i capelli avvolti in un asciugamano.
Non può vederlo. Lui è tentato di restarsene nascosto, invece: «Io
Tarzan, tu Jane», le grida dall’alto.
«Gesù! Ma non è pericoloso?»
«Tranquilla, ho le o un milione di fume i dell’Uomo Ragno.»
«C’è una telefonata per te.»
Qui? «Be’, chiunque sia digli pure che sono in cima a una palma a
Laurel Canyon e che non scenderò più. A meno che al telefono non
siano Jimi, Ginger o Janis. Scenderò solo per loro.»
«E per Rod?»
«Rod Stewart? Davvero?»
«Ma no, sciocco. Rod Dempsey. Il tuo vecchio amico.»
p y
I dieci metri che lo separano da terra diventano cento. Dean si
stringe più forte al tronco. «Be’…» Se lo evito capirà che ho aiutato
Kenny e Floss a scappare da Londra. «Digli che sto arrivando…»

«Lunga vita al Re d’America!»


«La tua voce arriva chiarissima.» Dean cerca di sembrare
disinvolto. «Chi lo avrebbe de o che le linee telefoniche fossero così
lunghe.»
«È l’epoca dei satelliti, amico mio. Il tour sta andando bene? Sul
New Musical Express c’è scri o che a New York ve la siete vista
bru a.»
Dean si sente come un imputato che abbassa la guardia dopo un
paio di commenti inoffensivi iniziali. «La prima sera Jasper ha avuto
un collasso sul palco, ora però sta bene. Questa telefonata ti starà
costando un occhio della testa. Cosa posso fare per te?»
«Prima di tu o, quell’agente immobiliare che conosco dice che tu
e Jasper potete trasferirvi nell’appartamento di Covent Garden. Per
amici fidati come voi non c’è bisogno di deposito.»
«Stupendo, Rod. Grazie davvero.»
«Mi fa piacere dare una mano. La seconda cosa che devo dirti è un
po’ meno stupenda, temo.»
Sa di Kenny e Floss. «Cioè?»
«È una questione delicata, quindi vengo subito al dunque. Due
giorni fa mi è arrivata una voce malevola su una serie di foto
‘artistiche’, diciamo così, in cui la moglie di un famoso regista fa la
sporcacciona con un giovane bassista inglese al piano più alto
dell’Embassy di Hyde Park.»
Come come? In fondo al corridoio di legno Elf e Jasper stanno
armonizzando un verso della nuova canzone di Jasper che fa: Who
was that in Central Park? Who was laughing in the dark? b
«Ci sei ancora?» chiede Rod.
«Tu le foto le hai viste?»
«Mi sono preso questa libertà, sì. Solo perché siamo amici. Volevo
capire se quella voce era una cazzata o se invece era affidabile. Ho
paura che sia affidabile.»
«E cosa si vede?» chiede Dean a malincuore.
«Mane e. Coca. Facce. E non solo le facce, ci siete voi per intero.»
Le perline appese all’entrata sba ono per via della brezza. «Chi è
stato a sca arle?»
«Probabilmente uno che lavora all’Embassy vi ha riconosciuto e
l’ha spifferato a uno del mestiere. Devono aver fa o un buco nella
parete della stanza vicina. Un lavoro da veri professionisti. Roba da
James Bond.»
«E a chi dovrebbe importare? Io non sono John Profumo,
maledizione, e Tiffany non è una spia.»
«Tu i e due avete una reputazione da difendere, e i soldi per
farlo.»
«Non sono ricco a confronto di…» spacciatori e papponi «…un
agente di borsa o un immobiliarista.»
«Quelli di News of the World, vale a dire la gazze a delle scopate,
sarebbero disposti a scucire più di tremila sterline per le foto con te e
la signora Hershey. Fregature di questo tipo sono più comuni di
quanto non si pensi.»
Dean immagina lo scandalo e la reazione di Anthony Hershey.
L’accordo per il film salterebbe. La carriera di Tiffany sarebbe finita.
Resterebbe un’adultera madre di due figli per il resto dei suoi giorni.
«Sei ammutolito.»
«È un malede o incubo, cosa vuoi che dica?»
«Su con la vita, un paio di possibilità ce le hai. Tre anzi.»
«Pistola, cappio o sonniferi?»
«Bastone, carota o ‘bastota’. Bastone significherebbe andare a dire
al genio che ha fa o le foto che se saltano fuori lo farai finire su una
sedia a rotelle. La gente quando rischia di essere gambizzata diventa
più malleabile.»
«Immagino. Varrebbe lo stesso per me.»
«Il problema è: come ti regoli se capiscono che stai bluffando? A
quel punto, o ti tiri indietro o dalle minacce passi all’azione. Con
un’accusa per lesioni aggravate premeditate rischi dai due ai qua ro
anni.»
«Questo è il bastone, d’accordo, la carota che sarebbe?»
«Sganci i soldi per avere i negativi.»
«E cosa impedirà ai bastardi di chiedermene altri dopo?»
p p
«Esa o. È questo il problema con le carote. Il mio consiglio da
amico è di usare la ‘bastota’. Bastone e carota. Gli dici:
‘Congratulazioni, mi hai beccato in pieno. A me piace vivere
tranquillo, quindi qui c’è un contra o. Firmalo e fra tre giorni sul tuo
conto appariranno mille sterline. Mandami i negativi e dopo tre
giorni ne appariranno altre mille. Se busserai di nuovo alla mia
porta, però, sarà guerra. E se una di queste foto salta fuori, non
importa dove, te ne pentirai amaramente, cazzo. Affare fa o? Bene.
Firma sulla linea tra eggiata e niente scherzi’. Insomma, un discorso
di questo tipo. A quel punto, se ti tradiscono potrai anche
denunciarli per averti rica ato.»
Le perline appese all’ingresso ticche ano come se qualcuno le
avesse appena a raversate. «Non credo che saprei dire una cosa
simile. Non in maniera convincente.»
«Be’, non è il tuo campo. Ma basta che mi dai il permesso e della
bastota mi occupo io. In fondo, mi è già capitato.»
Dean pensa ai soldi. «Duemila sterline, maledizione.»
«Quando ti fai un’a rice sposata, conviene che scegli un albergo
diverso. I soldi puoi perme erteli. Quello che non ti puoi perme ere
è che la storia venga fuori. La tua amica ne uscirebbe conciata per le
feste. Il divorzio. La vergogna.»
Ha ragione. «Va bene, Rod. Fallo, per favore. Usa la bastota.»
Una macchina si ferma nel viale o. Levon e Griff.
«Ci penso io», dice Rod. «Ma prima, Dean, devi darmi la tua
parola che non ti farai scappare nulla con il tuo agente o con la tua
amica. Se va tu o a monte, meno sono quelli con cui ne hai parlato e
meglio è. Siamo d’accordo?»
«Siamo d’accordo. Giuro che non lo farò. E grazie.»
«Siamo ‘i ragazzi di Gravesend contro il resto del mondo’. Questa
cosa la risolviamo. Ti richiamerò per farti sapere com’è andata.» Clic.
Tuuuuuuuu… Dean ria acca.
«Il Los Angeles Times vi ama», esclama Levon entrando in casa con
una scatola zeppa di cibarie. «Il vostro è il concerto di punta in ci à.»
«Guardate questo», Griff solleva un ananas. «È come quello sulle
etiche e dei bara oli. E costa anche meno di un bara olo. Che cazzo
di Paese!»
«Buone notizie», dice Dean. «Rod Dempsey mi ha appena
chiamato da Londra. Io e Jasper possiamo trasferirci in
quell’appartamento a Covent Garden.»
Levon non riesce a nascondere quanto ne sia felice. «Mi ha fa o
piacere ospitare te e Jasper a casa mia per una se imana, ma…»
«Il troppo storpia, eh?»

***

Insieme a una scarica di sole californiano, Anthony Hershey entra


nella cabina di regia tappezzata di legno degli studi di registrazione
Gold Star. A Dean fa piacere che ci sia poca luce, è come se avesse la
scri a COLPEVOLE stampata in faccia. Pigia sul tasto per parlare con
la sala. «Ragazzi, è arrivato Tony», dice a Elf, Jasper e Griff. La
versione californiana di Anthony Hershey è più chiassosa di quella
inglese, sfoggia un nuovo pizze o e una camicia hawaiana. Dean
cerca qualche traccia del rancore di un cornuto, ma non ne trova
nessuna.
«Ti saluta Tiffany», gli comunica Hershey. «Ci ho parlato ieri
sera.»
«Ringraziala e ricambia i saluti. Come sta?»
«Oh, la conosci. Sempre piena di impegni. Si occupa dei bambini,
della casa, delle scartoffie…»
Non lo sa. «È una donna brillante la tua signora. Quel venditore
della Triumph pende dalle sue labbra.»
«Sono un uomo fortunato. Me ne rendo conto.»
Elf, Griff e Jasper s’infilano in cabina dalla sala. «Ehilà, gente»,
dice Hershey. «Congratulazioni per l’articolo di stama ina sul Los
Angeles Times. Sembrerebbe un signor concerto. Stasera ci sarò, se ce
la faccio.»
«Ti me o in lista per un ingresso omaggio», dice Levon. «Doug
Weston dice che dopo ieri sera i biglie i sono talmente caldi da
procurare ustioni di terzo grado. Al Ghepardo si stava stre i, ma la
gente parlerà del passaggio degli Utopia Avenue al Troubadour nel
1968 per il resto del secolo. Segnati le mie parole.»
«È vero», dice Jasper con aria innocente. «Stiamo suonando bene.»
Anthony Hershey divaga senza toccare la questione più delicata.
«State lavorando come muli, non c’è dubbio. Ho dato un’occhiata ai
vostri programmi. Domani siete a San Francisco. Oggi, più tardi,
avete una conferenza stampa. E come si chiama quella trasmissione?
Smothers Brothers?»
«Randy Thorn Goes Pop!» Levon controlla l’orologio. «Scusa se mi
trasformo in un agente in tu o e per tu o, Tony, ma il tempo
stringe.»
«Parliamo d’affari, allora. Mi rivolgo alla band. Levon mi ha
raccontato che mentre conquistavate gli Stati Uniti avete avuto il
tempo di rifle ere sul nostro proge o: Lo stre o sentiero.»
«È Dean che se ne sta occupando», dice Elf.
«D’accordo, Dean, allora parla tu.»
«Be’, non sono un grandissimo le ore, ma la sceneggiatura che ci
hai mandato, le ho dato un’occhiata e insomma… sì. Mi è entrata
nella pelle.»
«Bene», dice Hershey. «Ne sono fiero.»
Lo era anche Tiffany, pensa Dean. «Quello che mi ha colpito è che
l’intero film sia sulla libertà. Pilgrim è una star, ma è comunque uno
schiavo. È tu o un ‘continua a fare dischi’, ‘continua ad alimentare
la macchina’, ‘continua a fare concerti’. C’è un pezzo in cui il suo
agente dice: ‘Vuoi sapere cos’è la libertà? È quella!’ E gli indica un
vagabondo so o un ponte. Pilgrim riesce a so rarsi alla Grande
Macchina dello show business quando gli viene de o che gli restano
solo tre mesi di vita. Così se ne va e trova la Comune dei Liberi, ma
una volta dentro è come essere in un campo di concentramento
psichedelico. Essere regolari lì dentro è un reato che si paga con
l’impiccagione. Il loro guru è solo un altro re, o dio o presidente
Mao. E quando Pilgrim viene obbligato a cantare i suoi vecchi
successi è più schiavo di quanto non lo sia mai stato, giusto?»
«Per la parte del guru siamo in conta o con Rock Hudson», lo
informa il regista. «Ma vai avanti. Libertà, dicevi.»
«La libertà a raversa questa storia come una scri a incisa nella
pietra», dice Dean. «Cosa non è la libertà: non una canzoncina, non
uno slogan, non un inno, non uno stile di vita, non una droga, non
g g
uno status symbol. Non è neanche un potere. Ma quando Pilgrim e
Piper sono sulla strada, allora la storia somiglia alla vera libertà.
Interiore. Limitata. Fragile. È un viaggio. Facile da farsi rubare. Non
è egoista. Non si lascia imbrigliare. Solo chi non è libero riesce a
vederla. La libertà è una lo a. È nella lo a. Se il paradiso è la strada per
il paradiso, magari la strada per la libertà è la libertà.» Sentendosi un
po’ in imbarazzo, Dean si accende una sigare a. Elf e Levon lo
stanno guardando in maniera diversa. Griff a quel punto dovrebbe
fare una ba uta, invece no. Anthony Hershey sembra serio. «Quindi,
sì, a modo mio, in qua ro quarti, sto tirando fuori una canzone che
ca uri tu o questo, o che almeno ci provi. Elf ha creato una
fantastica melodia al piano, la stiamo inserendo, e Mister
Stratocaster qui ci sta me endo la sua solita magia. Ecco a che punto
siamo. Ti chiedo scusa se ho male interpretato la tua sceneggiatura,
Tony.»
«No, niente affa o.» Hershey si accende una Chesterfield. Stessa
marca di Guus de Zoet. «Tu o quello che hai de o coglie nel segno. Mi
fa davvero piacere che tu sia entrato in sintonia con la sceneggiatura
in modo così profondo.»
Scusa se mi sto spupazzando Tiff in segreto, pensa Dean, ma se tu
non ti scopassi le a rice e, lei non sarebbe venuta da me…
«Griff ha appena aggiunto le percussioni», dice Levon, «e stiamo
per comprimere il pezzo per una versione radiofonica da tre minuti
e mezzo.»
«Posso sentire come sta venendo?» chiede Hershey.
«Dean», dice Levon, «credo che l’onore tocchi a te.»
«La mia voce è ruvida come vecchie budella», Dean riavvolge il
nastro, «e i vari scooby-dooby-dooby sono solo tappabuchi, ma…» Il
nastro si trasferisce da bobina a bobina. «Benvenuto a ‘The Narrow
Road to the Far West’, undicesima registrazione.»
Stop.
Play.

Aghi di sudore trapassano i pori della pelle di Dean ricoperta dal


trucco. È come una pelle in più di plastica, ma come fanno le donne? Una
brune a gli manda un bacio con le labbra a cuore dalla prima fila,
g p
mentre Dean finge di cantare le ultime note di «Roll Away the
Stone». Rispe o a Top of the Pops, la produzione del Randy Thorn Goes
Pop! è molto più smaliziata, e il pubblico ben più vivace della sua
controparte inglese. Esultano per Randy Thorn, un cantante
imbrillantinato e pieno di lustrini con al suo a ivo una manciata di
singoli poi spazzati via dalla British invasion sulla scia dei Beatles.
«Una canzone seeensazionale da una band seeensazionale: ‘Roll
Away the Stone’ degli Utopia Avenue. Ma ora andiamo a conoscere
il leader della banda.» Solleva il microfono davanti a Dean. «Ti
chiami?»
Gli arriva una zaffata dell’alito di Randy Thorn, sa di uova e
whisky.
«Dean Moss. Ma non sono il leader.»
Il sorriso di Randy resta inalterato. «Sei il cantante, no?»
«In ‘Roll Away the Stone’ sì, ma fra noi tre», indica Jasper ed Elf,
«funziona che la canzone la canta chi la scrive, quindi cantanti lo
siamo tu i.»
«La democrazia in azione, gente. Ora, qualcosa mi dice…» Randy
inizia a strascicare le parole alla texana, «che non sei di queste parti,
figliolo.»
Viene sollevato un cartello con la scri a: RISATE . Il pubblico ride.
«Giusto. Veniamo dalla Gran Bretagna.»
«E che te ne pare della Grande America per il momento?»
«Niente male. Quando ero un ragazzino, per me l’America era la
patria di Elvis, Li le Richard e Roy Orbison. Suonare qui era un
sogno. E adesso…»
«Seeensazionale. Randy Thorn ha realizzato un altro sogno.»
Strizza l’occhio alla telecamera e si avvicina a Griff. «Adesso
facciamo conoscenza con… Tu sei?»
«Griff.»
«Come hai de o?»
«Griff.»
«Come i tre capre i Gruff della favola?»
Si alza il cartello RISATE , e le risate arrivano.
«Griff», dice Griff. «Con la I.»
«E da dove viene questo adorabile accento, Gruff?»
«Yorkshire.»
«Yorkshire? Che Paese è?»
«È a nord, sul confine inglese con la Norvegia. Vieni a trovarci
quando passi da quelle parti, nello Yorkshire andiamo pazzi per i
fessacchio i.»
Randy si volta verso la telecamera. «E chi l’avrebbe de o, ma’ e
pa’? Le cose che non s’imparano al Randy Thorn Goes Pop! Ma
lasciamo Gruff prima che sia troppo tardi e andiamo a trovare…»
Scende dalla pedana, «la bella dama di Utopia.» Si dirige verso Elf,
poi vira bruscamente verso Jasper, finge di essere confuso, rivolge
una smorfia gro esca alla telecamera, guarda di nuovo Jasper e si
copre la bocca come se fosse mortificato.
Si alza il cartello RISATE , e le risate arrivano.
«Era solo una piccola gag, spero di non averti offeso.»
«Non sono bravo a offendermi.»
«Questo, amico mio, significa agitare un panno rosso davanti a un
toro. Come ti chiami?»
«Vuole sapere il mio nome o anche il mio cognome?»
Randy rivolge un’altra smorfia alla telecamera. «È sufficiente il
nome.»
«Jasper.»
«Credevo che Jasper fosse un nome maschile, sai?»
Si alza il cartello RISATE , e le risate arrivano.
Non è divertente, maledizione, pensa Dean.
«Non ho resistito, gente», dice Randy Thorn. «Impossibile.»
«Mi sorprende che lei trovi che i miei capelli siano da femmina,
signor Thorn», riba e Jasper. «In America molti uomini hanno i
capelli lunghi. Ha mai pensato che la vostra cultura si stia muovendo
e lei no?»
La smorfia ghignante di Randy Thorn si irrigidisce. «Abbiamo fra
noi Jasper il Burlone, gente! Ultima ma non meno importante è la
rosa fra le spine, oppure si tra a…» il presentatore a raversa il palco
fino a Elf «…di una lupa fra le pecore? Scopriamolo! Come ti chiami,
bel faccino?»
«Elf Holloway.»
«Elf? Proprio Elf? Come una specie di folle o?»
«È un nomignolo, me l’hanno dato da piccola.»
«E so o quei riccioli d’oro nascondi due orecchie a punta?»
«È un nomignolo, me l’hanno dato da piccola.»
«Lavori per Babbo Natale? Ti occupi delle liste dei buoni e dei
ca ivi? Io sono tu e e due le cose, peraltro. Molto ca ivo e molto
buono.»
Si alza la scri a RISATE . Le risate in studio se non altro
diminuiscono.
«Che effe o fa essere la piccola orfanella Annie in mezzo a un
gruppo di ragazzacci come Jasper, Gruff e Derek? I ragazzi in fondo
sono ragazzi, no?»
Elf cerca con lo sguardo il produ ore fuoriscena, che ha la
decenza di sembrare in imbarazzo. «Sono gentiluomini.»
«Opssss! Mi sa che abbiamo toccato un nervo scoperto, gente!»
«Ehi, Randy!» dice Dean. «Abbiamo scri o una canzone speciale
apposta per te.»
Randy Thorn si fa avanti, pronto a cadere nella trappola. «Una
canzone speciale?»
«Già.» Dean prende il microfono e guarda nella telecamera
pronunciando ogni parola come un annunciatore televisivo:
«S’intitola ‘La carriera di Randy Thorn giace imputridita nella
tomba’. La vuoi sentire?»
Il silenzio in studio è davvero silenzioso.
Dean fa cadere il microfono ai piedi di Randy, gli dà un buffe o,
abbandona il basso fasullo e fa segno agli altri che è ora di andare.
Come un sol corpo gli Utopia Avenue lasciano lo studio. Il caos che
stava ribollendo finisce per traboccare. Una mano agguanta da dietro
il colle o di Dean e lo stringe, bloccandogli la trachea. «Inglesuccio
di merda succhiacazzi!» Randy Thorn lo trascina indietro di qualche
passo. «Questo è il mio show! Nessuno se ne va dal mio show!» Con
gli occhi di fuori scaraventa Dean a terra e gli molla un calcio nelle
costole. Il bassista rotola su se stesso cercando di rialzarsi, ma un
nuovo calcio gli centra la mandibola. Sente il sapore del sangue. Poi
di sfuggita vede Elf che, brandendo il basso fasullo, lo sba e in faccia
a Randy Thorn. Deve averlo impugnato bene, a giudicare da come si
spacca. Alcuni pezzi dello strumento volano in giro, un paio
piovono su Dean.
Il volto di Randy Thorne da assetato di sangue si è fa o a onito.
Griff e Levon aiutano Dean a rialzarsi, nel mentre si sente un urlo:
«Spegni le telecamere! Subito! Alex, spegni le telecamere!»
Spegni le telecamere? Stavano ancora filmando? Lo show è in dire a…
quindi la gente a casa ha visto tu o? Anche se annebbiato dal dolore, le
conseguenze brulicano nel cervello di Dean.

Il gruppo avanza compa o su un palche o e si siede a un tavolo


nella sala conferenze del Wilshire Hotel. Gli sca i delle macchine
fotografiche somigliano a un’invasione di locuste. Un grosso
orologio segna le se e e se e di sera. La faccia di Dean è ancora
indolenzita. Elf gli versa un bicchiere d’acqua ghiacciata e mormora:
«Premi un cube o dove ti fa male». Lui annuisce. A documentare la
situazione in corso c’è una telecamera. Una quarantina fra giornalisti
e fotografi se ne stanno seduti in file ordinate. Accanto a Max ci sono
Griff e Jasper da una parte ed Elf e Dean dall’altra. Max dà un
colpe o sul microfono. «Mi sentite tu i?»
Alcuni annuiscono e rispondono: «Sì» o «Forte e chiaro».
«Sono Max Mulholland, dirigo la Gargoyle Records. Mi scuso per
avervi fa o saltare l’aperitivo. Indirizzate le vostre lamentele a
Randy Thorn, che questo pomeriggio ha fa o pop per davvero.» Il
manipolo di giornalisti ride di gusto. «È un piacere che siate venuti
così in tanti. A quanto pare, il vecchio de o: ‘Niente viaggia più
veloce della luce a parte i pe egolezzi a Hollywood’ è valido oggi
come un tempo…»
Dean guarda oltre le pareti di vetro della sala: c’è un giardino
lussureggiante con una serie di palme. Gli fa male la mandibola.
«Griff, Jasper, Elf e Dean sono qui per rispondere alle vostre
domande», sta dicendo Max. «Il tempo è poco, quindi forza,
sparate.»
«Los Angeles Times», si presenta un uomo che ha l’aspe o e
l’ombra di barba di un detective di Raymond Chandler. «Una
y
domanda per Moss sul suo futuro testimone di nozze Randy…»
«Le chiedo di non farmi ridere, per favore.» Dean si tocca la
mascella. «È delicata.»
«Mi scuso. Randy Thorn un’ora fa ha rilasciato una dichiarazione:
‘Quel froce o inglese figlio di pu ana aveva già deciso di
provocarmi solo per a irare l’a enzione sulla sua musica merdosa.
Quel pazzo drogato è da espellere immediatamente’. Vuole replicare
in qualche modo?»
Dean beve un po’ d’acqua. «Una delle migliori recensioni che
abbia mai ricevuto.» Risate. «Stando a Randy, quindi, sapevo in
anticipo che mi avrebbe preso per il collo, a errato e preso a calci in
faccia? E come? Come potevo saperlo?» Fa spallucce. «Lascio che
siate voi a trarre le vostre conclusioni.»
«Lo denuncerà per averla aggredita?» chiede il giornalista.
Interviene Max: «Ci consulteremo con i nostri avvocati».
«Ma no», dice Dean. «Non voglio denunciare nessuno. Randy era
ubriaco già prima dello spe acolo. La sua carriera è finita. Ne valeva
la pena, comunque, anche solo per vedere Elf fare quella mossa alla
Pete Townshend sulla sua testa.»
C’è un applauso. Elf nasconde con le mani una risatina
imbarazzata e scuote la testa.
«Sarebbe questo il ‘pace e amore’ di cui la controcultura parla
tanto?» chiede una giornalista con una giacca giallo banana.
Elf toglie le mani dalla faccia. «Pace e amore non sono una
passeggiata.»
«Billboard», si presenta un altro che a Dean fa venire in mente un
fante di picche. «Salve a tu i. Vorrei chiedere a ognuno di voi di
nominare un artista americano che vi ha ispirato e perché.»
«Cass Elliot», risponde Elf. «Perché dimostra che una cantante
non deve somigliare per forza a una coniglie a di Playboy.»
«Elvis», dice Dean, «per ‘Jailhouse Rock’. Mi ha fa o capire cosa
volevo fare della mia vita.»
«Un ba erista muore», interviene Griff, «e quando arriva alle
porte del paradiso sente suonare la ba eria in maniera così
incredibile che dev’essere per forza Buddy Rich. Quindi dice a san
Pietro: ‘Non sapevo che Buddy Rich fosse morto’. E san Pietro
p y
risponde: ‘Ma no, quello è Dio. Crede di essere Buddy Rich’. Questa
è la mia risposta.»
«Emily Dickinson», fa Jasper. Il giornalista sembra stupito. Si
diffonde un mormorio d’approvazione. Chi? si domanda Dean.
Un giornalista si alza in piedi. «Sono di Ramparts.» È l’unico di
colore presente. «Qual è il vostro punto di vista sulla carneficina in
corso in Vietnam?»
Sbuffate, schiocchi di lingua e sospiri si diffondono nella sala.
Max interviene: «Ascolti, non lo trovo pertinente, dunque…»
«‘Roll Away the Stone’ fa riferimento a una manifestazione a
Londra contro la guerra, oppure tu in realtà non c’eri in Grosvenor
Square, Dean?»
«Dean», Max si sporge dietro Elf, «non sei obbligato a…»
«No, risponderò. Ci vogliono le palle per fare una domanda
simile. Sì, ero là», dice all’inviato di Ramparts. «Amico, io sono
inglese. Il Vietnam non è la mia guerra. Ma se in Vietnam si potesse
vincere, io dico che dopo tu o questo tempo, dopo tu i i soldi spesi,
dopo tu e quelle bombe cadute e dopo tu e quelle vite perse,
l’America avrebbe già vinto, no?»
«Herald Examiner», si presenta un uomo sollevando una penna.
«Cosa dite a quelli che sostengono che difendendo il Vietnam, gli
Stati Uniti stiano difendendo tu e le democrazie liberali dall’effe o
domino di un’egemonia comunista?»
«‘Difendendo il Vietnam’ ha de o?» chiede Elf. «Ma le ha viste le
foto? A lei sembra che il Vietnam sia ‘difeso’?»
«In guerra bisogna fare anche sacrifici, signorina Holloway», dice
Herald Examiner. «È un lavoro più ingrato del cantare di za ere e
fiumi.»
«L’uomo che mi ha timbrato il passaporto a New York aveva un
figlio in Vietnam», riba e Elf. «Quel figlio è saltato in aria. Lei ha
figli, signore? Sono stati arruolati?»
Herald Examiner sembra a disagio. «Questa è la sua conferenza
stampa, signorina Holloway. Non sono sicuro che…»
«Traduco io», interviene il giornalista di Ramparts. «Lui sta
dicendo: ‘Sì, ho dei figli e no, non andranno in Vietnam’.»
«Sono stati esonerati per motivi di salute!»
p
«Già, e quanto ti è costato fargli diagnosticare degli speroni ossei,
Gary?» chiede Ramparts. «Cinquecento dollari? Mille?»
«Qui dentro si fanno solo domande sugli Utopia Avenue», dice
Max. «Le risse sulla politica fuori, signori, per favore.»
«San Diego Evening Tribune.» A parlare è una donna. «Una
domanda più facile di quella di Gary: le canzoni possono cambiare il
mondo?»
Per me questa è troppo complicata, pensa Dean guardando Elf,
che a sua volta guarda Griff che dice: «Ehi, io suono solo la ba eria».
«Non sono le canzoni a cambiare il mondo», osserva Jasper. «A
cambiarlo è la gente. La gente approva le leggi, si ribella, sente la
voce di Dio e agisce di conseguenza. La gente crea, uccide, fa
bambini, fa le guerre.» Si accende una Marlboro. «Il che solleva un
interrogativo: ‘Chi o cosa influenza le menti di chi cambia il mondo?’
La mia risposta è: ‘Idee e sensazioni’. Il che solleva un interrogativo:
‘Dove hanno origine idee e sensazioni?’ La mia risposta è: ‘Negli
altri. Nel cuore e nella mente di ognuno. Nella stampa. Nelle arti.
Nelle storie. E, ultime ma non meno importanti, nelle canzoni’.
Canzoni. Canzoni che flu uano nello spazio e nel tempo come
soffioni. Chi lo sa dove si poseranno? O cosa porteranno?» Si
avvicina al microfono e senza un briciolo di timidezza canta una
miscellanea di versi estrapolati da nove o dieci pezzi. Dean riconosce
«It’s Alright Ma (I’m Only Bleeding)», «Strange Fruit» e «The Trail of
the Lonesome Pine». Le altre non riesce a identificarle, ma quelli
della stampa stanno fissando Jasper. Nessuno ride, nessuno lo
sbeffeggia. Le macchine fotografiche cominciano a sca are. «Dove si
poseranno queste canzoni-seme? Va come nella parabola del
seminatore. Spesso si posano su un terreno sterile e non me ono
radici. A volte, però, si posano in una mente che è pronta. Che è
fertile. Cosa succede a quel punto? Nascono idee e sensazioni. Gioia,
sollievo, empatia. Fiducia. Dolore catartico. L’intuizione che la vita
possa, anzi debba, essere migliore di questa. È un invito a me ersi
per un po’ nei panni di qualcun altro. E se una canzone riesce a
seminare un’idea o una sensazione in una mente, allora ha già
cambiato il mondo.»
Dio santissimo, considera Dean. Io vivo con questo tipo.
q p
«Perché nessuno parla più?» Lievemente allarmato, Jasper si
rivolge alla band: «Suonava strambo? Ho superato il limite?»

Max accompagna il gruppo fuori dalla sala, poi lungo un


corridoio ricoperto di moque e piena di zigzag color sangue e caffè.
«Il fotografo vi sta aspe ando nella stanza grande in fondo. Do un
colpo di telefono a Doug Weston, lo avviso che arriveremo un po’ in
ritardo.» Dean cammina davanti agli altri, seguendo curve e
deviazioni del corridoio, finché si accorge di essere solo. Saranno qui
fra un minuto. Varca due porte scorrevoli e si ritrova in uno studio
fotografico improvvisato. Una donna snella voltata di spalle sta
dando un’occhiata a un esposimetro, da un rifle ore parte un flash.
Si gira e guarda Dean. Magra, bionda, labbra carnose… Siamo stati a
le o insieme? Lei gli sca a una foto con la macchina appesa al collo.
«Mecca? Che mi venga un colpo!»
Clic. Scrit-scrit. «Come va, Dean?»
«Ma…»
«Sono la vostra fotografa.»
«Ma…» Da i una calmata. «Così vivi a Los Angeles?»
«Ora sì. Dopo Londra non ho fa o altro che viaggiare, ed
esa amente due se imane fa ho iniziato a lavorare qui per
un’agenzia.»
«Il tuo accento adesso è… tedesco-americano.»
«Il linguaggio è un virus, come dice Burroughs.»
Burroughs? Sarà il suo nuovo ragazzo? «Lo sa Jasper?»
Le porte si aprono. Elf spalanca la bocca come in un cartone
animato: «Mecca!» Sca a in avanti e l’abbraccia a lungo. Mecca
guarda alle spalle di Elf, scorge Jasper e lo saluta con un’occhiata.
Dean prova un po’ di gelosia, gli torna in mente la sgradevole
telefonata di quella ma ina in cui ha discusso di foto e rica i.
L’abbraccio finisce. «Ciao, Griff. Ciao, Levon.»
Levon non sembra sorpreso. Arti occulte, pensa Dean. Griff ha
l’aria di essere molto felice: «Com’è piccolo il mondo, eh?»
«Vero», replica Mecca. «Ciao, Mister de Zoet.»
Gli ex innamorati rimangono a fissarsi alcuni secondi.
«Sembri un po’ invecchiata», dice Jasper. «Intorno agli occhi.»
p p g
«Mio Dio, Jasper», borbo a Elf. «Sei un disastro…»
Mecca sta ridendo. «Il vostro concerto di ieri sera al Troubadour è
stato veramente grandioso. Pensavo che il primo album fosse roba
dell’altro mondo, ma Stuff of Life mi ha aperto la mente.»
«Un a imo», dice Elf. «Eri al Troubadour?»
«Ho comprato il biglie o appena ho sentito che suonavate lì.»
«Maledizione, perché non ci hai avvisato?» le chiede Dean.
«Non volevo essere quella che dice: ‘Ehi, una volta stavo con il dio
della chitarra, voglio un tra amento speciale’. E poi…»
«Ah, Jasper è single», interviene Dean. «Da quando te ne sei
andata, nessuna delle baby-si er è durata più di un paio di
se imane.»
«Sei libera stasera?» le chiede Jasper. «Devi venire al concerto.»
«Dopo c’è una festa da Cass Elliot», spiega Levon.
Mecca sospira, sembra indecisa.
«Sfortunatamente il venerdì sera è il giorno in cui mangio la torta
della Foresta Nera e poi ho il Club Lederhosen. Un vero peccato…»
Jasper ci me e qualche secondo. «Stai facendo dell’ironia.» Poi
però non ne è sicuro. «O è una bugia? No. Uno scherzo. Dean, era
uno scherzo?»
Max Mulholland si precipita dentro. «Stando a Doug Weston,
dopo che Elf ha tirato la mazzata in testa a Randy Thorn, hanno
venduto fino all’ultimo biglie o nel giro di un quarto d’ora. C’è già
la fila fuori. Meglio se ci sbrighiamo…»

***

Un’ora più tardi, la fila è ancora lì. Il gruppo, Levon e Mecca


guardano il locale dall’altro lato di Santa Monica Boulevard. So o
una te oia dai riflessi scuri, illuminati da luci calde, ci sono
l’ingresso e un’insegna in cara eri gotici: Doug Weston’s
Troubadour. Più in basso, in maiuscolo: UTOPIA AVENUE . Mecca tiene
per mano Jasper, si accorge Dean. A quanto pare, hanno ricominciato da
dove si erano persi… Nessuno ha chiesto: «Con chi sei andato a le o…»
Nessuna lagna. Nessun figlio illegi imo. Nessuna causa legale per stabilire
la paternità. Una Ford Zodiac canna di fucile passa lentamente
accanto a loro. Dopo tocca a una Corve e Stingray azzurra. Quindi a
una Pontiac GTO rosso rubino.
«Quarta serata», dice Griff. «Qualcuno di voi ci ha per caso fa o il
callo?»
«Io no», replica Elf. «Non ancora.»
«La prima sera me la facevo so o», commenta Dean. «Adesso
però penso: Be’, ce l’abbiamo già fa a sei volte, ce la faremo ancora.»
«Da martedì a giovedì», dice Levon, «avete fa o parlare di voi
sempre di più. Stasera è il momento di raccogliere i fru i. Un buon
concerto al Troubadour ci spalanca le porte di Los Angeles. Los
Angeles ci spalanca la California. E la chiave per l’America è la
California, non New York. Qui. Sta andando tu o per il meglio.»
Dean ha nel naso i fumi delle macchine e l’odore del suo
dopobarba. «Scomme o che a quest’ora in Inghilterra piove. Qui
siamo in maniche corte. Non lo sapranno mai. Le nostre famiglie,
dico. Potremo raccontarglielo, ma bisogna essere stati qui, averlo
vissuto…»
«Ci ho pensato anch’io», dice Elf. «Me e malinconia.»
«Giratevi, tu i quanti», ordina Mecca.
Ubbidiscono. Clic, flash, scrit-scrit…
«Non è tua abitudine chiedere il permesso prima, eh?» le fa notare
Dean.
«No, non lo chiede», dice Jasper.
«O chiedi educatamente il permesso», replica Mecca, «o fai delle
belle foto.» Clic, flash, scrit-scrit…
«Forza», dice Levon, «andiamo a informare Doug che siamo
arrivati.»

L’ufficio al primo piano di Doug Weston vibra a tempo con il


basso del gruppo d’apertura: i 101 Damn Nations, un gruppo del
posto. Sono abbastanza in gamba da riscaldare il pubblico, ma non
da costituire una minaccia per gli Utopia Avenue. Doug Weston, un
gigante con un completo di velluto verde e capelli biondi ribelli, è il
proprietario di locale più affabile che Dean abbia mai incontrato.
Quando il resto del gruppo scende le scale, si ferma a chiacchierare
g pp
con lui ancora un po’. Doug parla dell’episodio con Randy Thorn e
tira fuori una scatole a di pasticche per la gola Sucrets. «È stato
l’evento televisivo più coinvolgente da… be’, potrei dire
dall’omicidio di Lee Harvey Oswald, ma sarebbe di ca ivo gusto. La
gente telefonava alle radio, KDAY e KCRW. Hanno fa o sentire ‘Roll
Away the Stone’. A Los Angeles siete l’argomento del giorno. Se
Levon non fosse così canadese, penserei: Merda, sarà tu a una sua
montatura?»
«A quanto ne so, Randy Thorn la vede così», dice Dean. «Ecce o
che nella sua versione sarei stato io a organizzare tu o.»
«I giorni in cui Thorn poteva essere preso sul serio da qualcuno
che non fosse sua madre o il suo cane sono finiti.» Doug fa spazio
sulla scrivania spostando a lato fa ure, documenti, le ere,
cartelle e, posacenere, bicchierini, un calendario Pirelli e una foto
incorniciata di lui con Jimi Hendrix. Apre la scatole a di la a e fa
spuntare un cucchiaino colmo di cocaina. La versa sulla copertina di
Newsweek e stende una striscia bianca fra Hubert Humphrey e
Richard Nixon. Passa a Dean una banconota arrotolata. «Carburante
per razzi», dice.
Dean tira la coca e bu a la testa all’indietro. Brucia, congela, è
ele rizzante. Dieci caffè in un colpo solo. «Decollato.»
«È o non è la più pura che ci sia?»
«Quella che c’è in Inghilterra mi massacra il naso e basta.»
«Keith Richards mi ha dato due regole fondamentali: conosci il
tuo spacciatore e compra il massimo. Se non lo fai, la merda che
rimedi sarà tagliata con amido di mais, la e in polvere o peggio.»
Dean si accende. «Cosa c’è di peggio dell’amido di mais?»
«Il veleno per topi è peggio.»
«Ma perché uno spacciatore dovrebbe avvelenare i suoi clienti?»
«Profi o. Indifferenza. Pulsioni omicide.» Doug rovescia un altro
cucchiaino colmo su Newsweek. «Sono due volte te», spiega. Tira e
«Ahhh…» Poi sorride come un ronzino che raggiunge il nirvana.
Ho scri o qualche canzone, pensa Dean, sono finite su un disco
ed eccomi qui. Ho vinto, Gravesend, lo vedi? Ho vinto,
maledizione…
Doug Weston me e via la sua riserva. «Meglio se torni dai tuoi
amici adesso. Levon potrebbe pensare che ti trascino sulla via
stellare della perdizione rock’n’roll. Non sia mai…»

***

Il gruppo, Levon e Mecca aspe ano sulle scale che conducono giù
sul palco. Il Troubadour è strapieno, ci sono il doppio delle persone
che può contenere. Il fumo è denso. A Dean il colpo di coca sta
scendendo, ma si sente ancora praticamente indistru ibile. «Al
Troubadour», dice sul palco Doug Weston, «siamo sempre stati
orgogliosi di presentare alla nostra Ci à degli Angeli Caduti i talenti
inglesi più interessanti. Gli Utopia Avenue suoneranno qui per
l’ultima volta dopo un tour in-di-men-ti-ca-bi-le. Quel che è certo,
dannazione, è che Randy Thorn non se ne dimenticherà tanto
presto.» Risate ed evviva arrivano fino in cima alle scale. Dean
stringe la mano a Elf ed Elf stringe la sua. «Ma so che suoneranno
ancora al Troubadour molto presto perché…»
«Gli hai fa o firmare con il sangue un pa o per tornare qui e fare
vent’anni di concerti?» grida uno scocciatore.
Doug si preme una mano sul cuore ferito. «Perché hanno un
futuro strabiliante. Quindi, senza perdere altro tempo…» Si volta a
guardare la band sulle scale. «…Gli Utopia Avenue!»
Da martedì, gli applausi sono aumentati, dal gorgoglio basso che
erano sono diventati un ruggito mescolato a grida. Dean e Doug,
incrociandosi, si scambiano una pacca sulla spalla. «Stendili», gli
sussurra Doug in un orecchio. La band si dispone sul palco. Dean
guarda la sala scura con le pareti di ma oni a vista. È piena di occhi
scintillanti e pensa: Sono tu i qui a vederti perché stasera a Los
Angeles niente è meglio di te. Riceve un cenno d’assenso da Elf, Griff
e Jasper, si avvicina al microfono e si riempie i polmoni:

I-i-i-if life has shot yer full of holes

La sua voce esplode, scorticata e torturata come quella di Eric


Burdon in «House of the Rising Sun»…
g
A-a-a-and hung yer out to dry –

Una figura a margine ca ura la sua a enzione. Quel cappello,


quella cappa, è quasi certo che si tra i di David Crosby, prima era
nei Byrds… Respira… Tocca al verso successivo della canzone che
è… che era… Sparito.
Qual è il prossimo verso, maledizione?
Come faccio a essermelo dimenticato?
L’avrò cantata cinquecento volte!
E allora come fa?
Nel suo cervello, al posto delle parole, c’è solo un rumoroso
bagliore tossico. Ma perché perché perché mi sono fa o quella cazzo di
coca? Dean sta andando nel panico, ogni speranza di ricordare le
parole è svanita, e la gente capirà che sono un dile ante, un impostore,
che non dovrei essere qui nel modo più assoluto. Sente gli occhi su di sé.
Tiratemene fuori, tiratemene fuori, tiratemene…

And slung yer in a pauper’s grave

È arrivata la voce di Elf, simile a un angelo sonoro, ed è come se la


lunga pausa fosse voluta. Dean la guarda. Ti amo, pensa. Non come
un fidanzato, il mio è un amore più profondo. Lei gli fa un cenno
come a dire: Non c’è di che, poi canta il verso successivo:

Down where the dead men lie –

Sul «lie» entrano Dean e Griff. Qua ro ba ute dopo si aggiunge


Elf, e Jasper tira una schitarrata distorta come se fosse una questione
di vita o di morte.

If life has shot yer full of holes


And hung yer out to dry –
And slung yer in a pauper’s grave
Down where the dead men lie – c
Dean svirgola di poco il riff. Se le sue dita fossero una macchina
sportiva, i freni avrebbero bisogno di una controllata, ma se non
altro ricorda le parole. Lo giuro su Dio, non toccherò più la coca prima di
un concerto, mai, mai. Adesso è il turno di Jasper ed Elf, che devono
aggiungersi come seconde voci:

I’ll roll away the stone, my friend,


I’ll roll away the stone –
Put my shoulder to the rock
And roll away that stone. d

Seconda strofa: la strofa di Ferlinghe i. Dean suona la Fender in


modo saldo e spigliato una lieve frazione di beat in ritardo su Griff,
come un ubriaco sobrio a sufficienza da sapere di esserlo e lasciare
quindi che a dirigere sia un altro:

If Ferlinghe i frames yer


And throws away the key –
If you were there in Grosvenor Square
Where Anarchy killed Tyranny – e

Si rende subito conto dell’errore: era la Tirannia che uccideva


l’Anarchia, non viceversa. «Anarchy killed Tyranny» significa che hanno
vinto i buoni. Magari nessuno ci ha fa o caso, si dice, o magari se ne
sono accorti tu i. Jasper arricchisce il secondo e il quarto verso
entrando come seconda voce:

We’ll roll away the stone, my friend,


We’ll roll away the stone –
We’ll get yer on yer feet again
And roll away that stone. f

Il primo assolo di Jasper non si distacca molto da quello su disco.


Hanno novanta minuti da riempire e, come gli ha de o Eric Clapton,
meglio risparmiare i fuochi d’artificio migliori per la seconda parte.
The eunuchs in the harem
Will twist the words yer meant,
But they can’t make yer hate yerself
Without yer give consent. g

Elf suona la parte all’Hammond con la mano sinistra e aggiunge


una parte di piano con la destra:

So ro-oooll away that stone, my friend,


Ro-oooll away that stone –
Grip it, heave it, kick its arse and
Roll that goddamn stone. h

L’ultima strofa è quella che gli ha ispirato Elf. Secondo Dean è la


migliore, ma scopre che la cocaina ha potenziato la sua insicurezza
più che l’autostima, e teme che le parole risulteranno raffazzonate.
Lascia la Fender penzoloni e afferra il microfono, come si strozza un
pollo che non vuole saperne di morire:

If death touches one yer love,


If grief grips yer in its fist,
Honour those who left too soon – i

Dean solleva lo sguardo su Elf, a chi sta pensando lo sa. Da un


lato a suo nipote, un bambino a cui tu i volevano bene, ma che è
vissuto meno delle campanule in boccio. Dall’altro al figlio di
Amanda Craddock. Dean preferirebbe che quel bambino non
esistesse, però esiste, si trova in un angusto appartamento nella parte
più a nord di Londra e sta crescendo sano e forte. La vita ha un senso
dell’umorismo perverso. La band aspe a per qua ro ba ute…

Exist, exist, exist. j

Fino a non molto tempo prima, in quel punto Griff ba eva qua ro
volte sul bordo della ba eria, ma nell’ultimo mese si sono talmente
affiatati musicalmente che non lo fa più. Dean è così preoccupato di
p p p
non entrare al momento giusto ed è così scombussolato per la
cocaina che parte mezza ba uta prima del previsto. Continuo a fare
cilecca, a girare a vuoto. Gli altri si sforzano di recuperare:

Let’s roll away the stone, my friends,


Let’s roll away the stone –
Persistence is resistance, so
Roll away that stone. k

L’applauso è convinto, ma non estatico. Dean è furioso con se


stesso. Gli viene da correre via dal palco. Voglio nascondermi fino alla
fine del secolo. «Resta», gli dice Jasper in un orecchio. «Andrà bene.»
Sei un vero mistero, De Zoet, pensa Dean. «Scusate.» Jasper gli
stringe le spalle. Non mi aveva mai, mai toccato prima…
Elf prende in mano la situazione: «È davvero bello essere qui e
non nella cella di una prigione, accusata di lesioni aggravate con una
chitarra gioca olo». Risate. «La prossima canzone è una maledizione
vudù che parla d’amore, arte e furto. S’intitola ‘Prove It’.» Controlla
che gli altri siano pronti e, ancora sbalordito per l’empatia
dimostrata da Jasper, Dean le fa cenno di sì.
«E one, e two, e one-two-three…»

Dean si fa strada nel giardino illuminato di Cass Elliot. La piscina


è grande il doppio di quella di Anthony Hershey. Appese agli alberi,
brillano le lanterne. I festaioli ridono. Gli amanti entrano nei
wigwam e si sdraiano sulle amache a fumare erba. È la festa che ho
cercato per tu a la vita, pensa Dean. Da una finestra fuoriesce la
voce vodka e ghiaccio di Joni Mitchell, temporanea vicina di casa del
gruppo. La canzone è «Cactus Tree». La sua voce vibra, si tuffa, fa
male, ruota, si pente, consola, confessa. Dean sbircia all’interno dalla
zanzariera. So o una lampada, i capelli e la pelle di Joni sembrano
d’oro. Canta con gli occhi semichiusi guardandosi le dita.
ReLaReFa#LaRe con il barré sul quarto tasto. Dovrei dedicare un po’
più di tempo all’accordatura… Cambia la voce della chitarra. Mama Cass
guarda Joni con l’espressione di una donna in preghiera. Graham
Nash è seduto a gambe incrociate a fissare la sua ragazza illuminata
g g
da quella luce calda. Il tocco di Mida della California ha giovato
anche a lui. L’aspe o dei presenti è decisamente meglio lì che da
qualsiasi altra parte. Una falena bianca si posa sull’orologio di Dean.
Joni chiude l’ultima strofa con una schitarrata dissonante, dennngggg.
Dean prosegue verso la terrazza panoramica in fondo al giardino.
Alcuni pavoni vagano senza meta ai piedi di un arancio. Sulla
montagna boscosa incombe una mezza luna bu erata. La luce lunare
è luce solare di riflesso. La luna viene oscurata da un cappello nero da
cowboy. «Complimenti, Dean.» Il cowboy ha un tono pacato e
penetrante. «Stasera sei stato notevole.»
«Mi fa piacere che tu lo dica. Ci sono stati alti e bassi.»
«I tuoi bassi sono più alti degli alti di molti artisti. Per quanto può
valere il mio giudizio in materia, sei destinato a un enorme
successo.»
«Nessuno sa cosa lo a ende dietro la prossima curva.»
«Profezia è un modo carino per definire un’intuizione intelligente.
Ti va di fumare?»
Dal nulla compare una scatola d’argento con qualche canna.
«Perché no?»
Il cowboy gliene accende una, e gliene infila un’altra nella tasca
della giacca. «Lo sai cos’hanno in comune tu i i gruppi?»
«Cosa?»
«Che un bel giorno sme ono di esistere.»
«Già, ma questo si può dire un po’ per tu o.»
«Jasper ed Elf hanno talento, certo. Però le canzoni migliori sono
le tue. E tu hai anche l’aspe o e il carisma per diventare una star
solista. Non mi occupo di adulazione, Dean, mi occupo di fa i. ‘Roll
Away the Stone’ potrebbe essere fra le prime cinque hit in classifica
in tu o il mondo. E con il marketing giusto lo sarebbe.»
«Come hai de o che ti chiami?»
«Il mio nome è Jeb Malone. Lavoro per Allen Klein.»
Quel nome Dean lo conosce. «Il nuovo agente degli Stones?»
«Proprio lui. A Klein piacciono le tue canzoni, la tua voce, il tuo
piglio e il tuo potenziale. Tieni, questo è il suo numero.» Jeb Malone
gli infila un biglie o da visita nel taschino della camicia. «Se la tua
posizione rispe o al gruppo dovesse cambiare, Klein sarà lieto di
discutere con te le alternative.»
Prendi il biglie o e strappalo, pensa Dean. Si guarda intorno,
controlla che nessuno abbia sentito. «Un gruppo ce l’ho già. Ho già
un contra o. Ho già un agente.»
«Sì, e Levon è un gran bravo ragazzo. Molto canadese. Ma il
business è una giungla e tu hai bisogno di predatori, non di bravi
ragazzi. Klein può farti firmare un contra o per due dischi da
solista, guadagneresti duecentocinquantamila dollari. E non lo dico
‘in teoria’. Niente se, niente ma. Può fartelo firmare ora.»
Il rumore della festa svanisce, lasciando solo quel numero a cui
Dean non riesce a credere. «Hai de o…»
«Duecentocinquantamila dollari. Una cifra che cambia la vita.
Pensaci. Klein aspe a una tua telefonata. Goditi la festa.» Jeb Malone
svanisce in uno sbuffo di fumo della canna.
Dean si dirige verso la terrazza panoramica in fondo al giardino.
Duecentocinquantamila dollari. Su un te o nelle vicinanze i ga i
miagolano stridule canzoni di lussuria felina. «Dean Moss», gli dice
una donna che sembra sbucata da un vaso egizio: kajal sugli occhi,
vestito di lino, capelli nerissimi. «Mi chiamo Callista, e ho una
passione particolare. Magari mi hai già sentito nominare.»
«O magari no.» Dean beve un sorso di birra da una bo iglie a.
«Realizzo calchi in gesso dei peni delle rockstar.»
Quasi tu a la birra gli schizza fuori dalle narici.
«Ho fa o quello di Jimi Hendrix», lo informa Callista, «di Noel
Redding, di Eric Burdon. Il suo però si è spaccato in due. Il gesso,
dico, non il pene.»
Parla sul serio. «Come mai?»
«Se il pene a metà sessione si ammoscia, può saltare fuori una
crepa.»
«No, intendo come mai fai calchi in gesso di uccelli?»
«Be’, una ragazza deve pur avere un hobby. Ti prenderà solo
un’ora e un’amica si occuperà di preparare a dovere la matrice,
quindi non devi preoccuparti dell’ansia da prestazione.»
«Prova con Griff. Un ba erista darebbe chissà cosa per farsi
preparare gratis la matrice.»
p p g
«Negli Utopia Avenue c’è solo un uomo che voglio davvero…»
«Buona fortuna con la tua collezione, Callista.»
«Noioso.» Callista la gessista si fa da parte.
Dean prosegue nel suo viaggio verso la terrazza.
«Bello spe acolo avete messo in piedi», gli dice un volto con i
baffi a ferro di cavallo. Sembra uno di quei banditi messicani che
negli spaghe i western vengono fa i fuori per primi. «In un certo
senso, ‘Look Who It Isn’t’ ha innescato la miccia.»
«Gesù Cristo. Ma tu sei Frank Zappa, cazzo.»
«Nei miei giorni migliori, sì», conferma Zappa.
Dean gli stringe la mano. «Janis Joplin mi ha fa o ascoltare We’re
Only in It for the Money. È indescrivibile. È…»
«Vada per indescrivibile. Come dice Charles Mingus, scrivere di
musica è come ballare di archite ura.»
Una donna si accoccola accanto a Frank Zappa. In mano ha un
bicchiere di la e. «Ciao, sono Gail. La tanto temuta moglie. Il tuo
gruppo ci piace, ci piace eccome.»
Il signor Zappa sorride affe uoso alla signora Zappa.
«Lieto di conoscervi.» Dean fa un tiro di spino. «Gradite?»
«No, preferiamo evitare», dice Frank. «Il mondo è già
straordinario abbastanza.»
Sarebbe a dire che Zappa non fa uso di droghe? «Figo. Allora, Frank,
come hai convinto la MGM a pubblicare il disco meno commerciale
di tu i i tempi?»
«Merito della mia astuzia e dell’ignoranza della MGM. Se pensi
che la mia roba sia anticommerciale dovresti ascoltare Stravinskij. O
Halim El-Dabh. Oppure potresti spaccare la testa a Randy Thorn con
una chitarra in una dire a televisiva. Pura performance artistica.»
«Quello non era programmato… è stato un incidente», commenta
Dean.
«Gli incidenti spesso sono la parte migliore dell’arte», riba e
Frank.
«E garantiscono un’autenticità che i soldi non possono comprare»,
aggiunge Gail.
«Gli Utopia Avenue ora sono gli anti-Monkees.»
Un tipo si tuffa in piscina con una spanciata, i presenti fanno:
«Uuuu!».
«Allora, che ne pensi di questo posto?» chiede Frank.
«Laurel Canyon? È come il Giardino dell’Eden.»
«Il Giardino dell’Eden non è il paradiso.»
«Pensavo che l’Eden fosse il primo paradiso», dice Dean.
«È stato piu osto il primo horror show. Dio crea l’Eden e lo affida
a un uomo e a una donna nudi. ‘Tu o questo è vostro’, dice Sua
Onniscienza, ‘ma qualunque cosa facciate, non mangiate
assolutamente la mela dell’albero della conoscenza o finirete nella
merda.’ A quel punto, dico io, perché non a accarci un cartello con
su scri o: MANGIAMI ? Adamo ed Eva meriterebbero una medaglia
per aver resistito così a lungo. Dio ha dovuto fregarli con il vecchio
trucco del serpente fallico parlante. Quindi hanno mangiato la
conoscenza, come Dio voleva fin dal principio, e sono stati puniti con
mestruazioni, lavoro e pantaloni di velluto. I carnivori se la sono
presa con gli erbivori e il suolo dell’Eden si è intriso di sangue.
Capisci? Il primo horror show.»
Dean lo guarda perplesso. «Cosa intendi, Frank? Che presto a
Laurel Canyon ci sarà un bagno di sangue?»
«Intendo dire», replica Frank, «che ogni volta che uno pensa di
aver trovato il paradiso, non è a conoscenza di tu i i fa i. E non
lasciarti incantare dai pavoni. Sono solo dei figli di pu ana vanitosi e
irascibili che cagano a più non posso.»

Dean è sulla terrazza panoramica in fondo al giardino, si sta


facendo la seconda canna di Jeb Malone e immagina se stesso sulla
prua di una nave. Gli inse i trillano a milioni. Le stelle si contano a
miliardi. Se, e dico se, in futuro o in un universo parallelo gli Utopia
Avenue non esistessero più e io fossi senza agente, se a quel punto chiamassi
Allen Klein e se, dico se, me essi le mani su quei duecentocinquantamila…
quale di queste case sceglierei? Si decide per una grande casa a tre
proprietà di distanza. È tu a archi, vasi di terraco a e felci
gigantesche. Una coppia si sta godendo un bagno caldo a tarda sera
so o la mezzaluna e le stelle. Dean immagina di guardare se stesso
con Tiffany. I figli di lei in quell’universo non esistono. C’è un garage
per la sua Triumph Spitfire, che lui dovrebbe spedire lì, ovviamente,
e ci sarebbe spazio a sufficienza per ospitare nonna Moss e Bill, Ray
e la sua famiglia per sempre… E Harry Moffat? Non saprei. Non ho
ancora capito. Ad alcune cose è molto più facile non pensare, e quanto a
questo, l’America è un’infinita distrazione di prim’ordine. Elf lo
raggiunge alla ringhiera. «Allora, qual è la casa in cui intendi
scialacquare i soldi che hai guadagnato illegalmente?»
«Quella.» La indica. «Quella con la vasca.»
«Tu i i comfort. Vista eccezionale. Una buona scelta.»
«Che festa. Hai conosciuto qualche buon partito fra gli scapoli?»
«Niente di che. E tu hai conosciuto qualche buon partito fra le
signore del canyon?»
«Poco fa una mi ha proposto di farmi un calco in gesso
dell’uccello.»
Elf capisce che non sta scherzando e scoppia a ridere. Dean è
felice che lei sia felice. ‘E tu che le hai de o?’ gli domanda quando è
di nuovo in grado di parlare.
«Grazie mille, ma passo.»
«Perché? Magari li avrebbe prodo i in serie. Magazzini interi
zeppi di ‘Dean Machine’. Ba erie non incluse.»
Anche a Dean scappa da ridere. «Ehi, ho appena conosciuto Frank
Zappa. Mi ha fa o una specie di sermone sul motivo per cui Laurel
Canyon non è il paradiso.»
«È in gamba il vecchio Frank», dice Elf. «Stavo pensando a come
potrebbe essere la terra dei mangiatori di loto.»
Non sta senz’altro parlando della Lotus. «Avanti, spiega,
professoressa Holloway. Chi sono questi mangiatori di loto?»
«Li trovi nell’Odissea. Ulisse scruta il territorio dal mare e
raggiunge a remi la riva con alcuni dei suoi uomini. Ne manda tre in
cerca di cibo. I tre incontrano una tribù di hippie, i Lotofagi, che li
accolgono nell’amore e nella pace e dicono loro: ‘Ehi, amici, provate
un po’ di questa roba, è loto, vi piacerà un sacco’. Ed è così, in effe i
gli piace un sacco. Si dimenticano che devono tornare a casa. Si
dimenticano chi sono. Vogliono solo altro loto. Ulisse li riporta sulle
navi e ordina agli altri di me ersi a remare il più velocemente
possibile. ‘Costoro io con la forza alle navi li riportai, piangenti.’»
«Chi non avrebbe pianto? Dire addio a tu o quello sballo
gratuito.»
«Ulisse restituisce ai compagni la vita. I Lotofagi non creano nulla.
Non amano. Non vivono. Sono delle specie di morti viventi.»
«Ma qui chi è che è morto? Cass no di certo. E neanche Joni e
Graham. Zappa nemmeno. Scrivono musica, incidono dischi, fanno
concerti. Hanno una carriera.»
«Certo, ma la realtà s’insinua ovunque tu viva,
indipendentemente da quanto siano belli i fiori, azzurro il cielo o
grandiose le feste. Le uniche persone che davvero vivono nei sogni
sono quelle in coma.»
Un tintinnio di campanelle mosse dal vento risale la collina.
«Sei stata abbastanza convincente, comunque io non ho voglia di
tornare a casa», dice Dean.
«Lo dicevi anche ad Amsterdam, ricordo.»
«Sì, ma ad Amsterdam ero fa o.»
«Invece quella che stai fumando adesso è una Dunhill, no?»
I fiori che sbocciano di no e profumano la brezza.
«Grazie per prima», dice Elf. «Nello studio televisivo.»
«Mi ringrazi per averci fa o bandire da qualsiasi trasmissione?»
«Thorn era un viscido. Mi hai difeso. Alle donne di solito
consigliano di bu arla sul ridere o di prendere certe a enzioni come
complimenti.»
«Grazie a te per avergli spaccato la testa con una chitarra», dice
Dean. «E grazie per avermi salvato il culo in ‘Roll Away the Stone’.»
«Figurati. Però non farti mai più di coca prima di un concerto.»
Dean fa una smorfia. «Che idiota. Non c’era neanche un vero
motivo. Doug almeno è un vero cocainomane. Io ho semplicemente
pensato: Ma certo, perché no?»
«Non essere troppo duro con te stesso. Noi qua ro dobbiamo
gestire parecchie novità. È successo tu o così in fre a.»
Sentono dei gufi.
«Hai visto Jasper o Mecca?» chiede Dean.
«Se la sono svignata. Li ritroveremo a casa. O magari li sentiremo
e basta.»
«Questa è una calunnia. Posso assicurarti che Jasper non è uno
che urla.»
Elf fa una faccia imbarazzata. «E Griff?»
«Griff invece è uno che urla. Al Chelsea dovevo me ere le cuffie.»
L’imbarazzo di Elf diventa orrore. «Ti stavo solo chiedendo se
Griff ha rimorchiato una…»
«Sì, l’avevo capito. L’ho visto entrare in una di quelle capanne, un
wigwam dell’amore, e non era solo, ma aggiungere altro sarebbe
indiscreto.» Dean fa un tiro di canna. «Spaccami pure una chitarra in
testa se sono troppo fuori e sto oltrepassando il limite ma… tu e
Luisa?»
Elf non dice nulla per un po’. «Sì?»
Non posso più tornare indietro. «Ha un cuore d’oro, è acuta come
un’aquila e se ho capito bene da certi indizi… va bene per te.»
Elf gli prende la canna dalle dita. «A quali indizi ti riferisci?»
«Be’… un po’ per il modo in cui Levon era prote ivo nei vostri
confronti a New York. Ma più che altro è per come ti illumini
quando lei arriva. E poi… non lo hai ancora negato.»
Elf fa un lungo tiro di canna. «Non voglio negarlo. Lo dichiaro.»
Rivolge a Dean un sorriso di sfida. «Ma questa è una faccenda
privata, Dean. Non solo per me, ma anche per Luisa. Quindi… mi
fido di te.»
«Mi piace quando ti fidi. Tiri fuori il meglio di me.»
«Jasper e Griff hanno de o niente?»
«No. Chi lo sa cosa sa Jasper? Dubito che ba erebbe ciglio,
comunque, dopo essere stato dieci anni in un collegio maschile. Lo
stesso vale per Griff. Con Levon non ha problemi. I jazzisti sempre in
tour sono una tribù di larghe vedute, ho scoperto. Secondo me, Griff
direbbe solo questo: ‘Bene, quindi Elf stava con Bruce e ora sta con
Luisa, d’accordo, afferrato… Dove hai de o che devo entrare con la
ba eria?’ Be’, quindi Luisa è la tua prima…» Dean si fa ancora
qualche problema a dirlo chiaramente.
«La parola che stai cercando potrebbe essere ‘ragazza’.»
Dean fa un sorrise o. «Credo di sì.»
Anche Elf fa un sorrise o. «Sì, è così. È una cosa… meravigliosa.
Amore, però? Chi lo sa? Per quello non ti danno nessunissima
mappa.»
Il vento rimescola i trilioni di foglie e aghi di Laurel Canyon. La
no e è tu a blu, indaco e nero, a eccezione del giallo pallido intorno
alle lampade dei lampioni. Dean pensa a una pia aforma oceanica
che si inabissa. «Mi piacerebbe darti qualche indicazione», dice dopo
un po’, «ma anch’io sono un forestiero qui.»

a. Anch’io sono un forestiero qui.


b. Chi era quello in Central Park? Chi è che rideva nel buio?
c. Se la vita ti ha crivellato di colpi / E ti ha steso fuori ad asciugare – / E ti ha scaraventato in
una fossa comune / Giù dove giacciono gli uomini morti –
d. Io farò rotolare via la pietra, amico, / Farò rotolare via la pietra – / Appoggerò la spalla
alla roccia / E farò rotolare via quella pietra.
e. Se Ferlinghe i t’incastra / E bu a via la chiave – / Se eri là in Grosvenor Square / Dove
l’Anarchia ha ucciso la Tirannide –
f. Faremo rotolare via la pietra, amico, / Faremo rotolare via la pietra – / Ti rime eremo di
nuovo in piedi / E faremo rotolare via quella pietra.
g. Gli eunuchi nell’harem / Distorceranno il senso delle tue parole, / Ma non riusciranno a
farti odiare te stesso / Se tu non glielo perme erai.
h. Dunque fai rotolare via quella pietra, amico mio, / Fa’ rotolare via quella pietra – /
Afferrala, sollevala, tirale un calcio nel culo e / Fa’ rotolare quella malede a pietra.
i. Se la morte tocca qualcuno che ami, / Se il dolore ti tiene stre o in pugno, / Onora quelli
che se ne sono andati troppo presto –
j. Esisti, esisti, esisti.
k. Facciamo rotolare via la pietra, amici miei, / Facciamo rotolare via la pietra – / Perseverare
è resistere, dunque / Facciamo rotolare via la pietra.
Eight of Cups a

Dean si bilancia in cima alla pediera del le o matrimoniale, stende le


braccia e si lascia cadere in avanti affondando nel piumone soffice
come la neve. Respira il profumo di detersivo in polvere… e gli torna
in mente una lavanderia di North London. Si gira sulla schiena. Un
lampadario futuristico, un televisore enorme incastonato in un
armadie o con le ante, una stampa astra a con una cornice di
alluminio. È tu o quello che non era il vecchio monolocale della
signora Nevi . In Inghilterra, ai ceti più elevati piacciono i mobili
orrendi dei vecchi tempi, le Rolls-Royce, sparare ai galli cedroni,
accoppiarsi fra consanguinei e ostentare un accento degno della
regina. Gli americani benestanti sembrano accontentarsi di essere
ricchi, sentono meno il bisogno di sventolare i loro soldi davanti al
naso dei poveri. Dean controlla che il biglie o da visita di Allen
Klein sia al sicuro nel portafoglio. Un visto, un biglie o aereo, una
polizza assicurativa. Dell’incontro con Jeb Malone alla festa di Cass la
sera prima non ne ha parlato con nessuno. È un argomento difficile
da affrontare. Scusate tanto, ma un magnate della musica pensa che io sia
una vera star e mi sta offrendo duecentocinquantamila dollari. Il pensiero
di quei soldi continua a fargli palpitare il cuore. A quel punto pagare
chi mi rica a a Londra sarebbe facile come comprare un pacche o di
sigare e. Non ha ancora sentito Rod Dempsey. Potrebbero esserci buone
notizie, o ca ive, o nessuna… Dean va alla finestra. New York era
verticale, Los Angeles straripava, San Francisco invece s’immerge,
risale, si fa piana, s’immerge e risale di nuovo per poi scendere a
picco sulla baia. Quelle pendenze estreme sono il prezzo che la ci à
deve pagare per avere una pianta a scacchiera. Il grosso telefono
eme e un trillo prolungato e deciso, non un nevrotico drin-drin come
in Inghilterra. Con il cuore a mille Dean solleva la corne a.
«Pronto?»
Risponde una voce di donna. «Buongiorno, è il centralino
dell’hotel. C’è una chiamata da Londra per lei. Il signor Ted Silver…»
«Mmm, sì. Me lo passi pure.»
«Resti in linea, per favore.»
Rumorini vari, clic, scric, clunc. «Dean, figliolo, mi senti?»
«Forte e chiaro, signor Silver.»
«Fantastico. Come vi stanno tra ando in America?»
Chi se ne fo e. «Sono pronti i risultati del test di paternità?»
«Sì, in effe i sono pronti. Il verde o è ‘inconcludente’. Il tuo
gruppo sanguigno è 0. Lo stesso della signorina Craddock e di suo
figlio. Stando alle leggi che regolano questo genere di cose, il padre
potresti essere tu, così come potrebbe esserlo qualsiasi altro uomo
con il gruppo 0 positivo. Il che, mi hanno de o, comprende circa il
cinquanta per cento della popolazione inglese, più o meno. Questo è
quanto.»
Mi sei stato di grande aiuto, cazzo. «E adesso?»
«Per ora, figliolo, goditi gli Stati Uniti. Finché il sole splende,
approfi ane. Discuteremo la tua prossima mossa quando sarai di
nuovo in patria…»
Ma certo, a quindici sterline l’ora. «D’accordo, signor Silver.»
«Su con il morale. Passerà anche questa.»
«No, se sono il padre di quel bambino.»
«Il fa o in se stesso non passerà, ma l’angoscia che ti opprime sì.
Te lo garantisco. È oggi il giorno del grande festival?»
«Sì. Siamo appena arrivati in aereo da Los Angeles, fra poco
passerà una macchina a prenderci. Poi domani dovremo registrare,
idem martedì e ancora mercoledì.»
«Quindi ne avrete fino a giovedì o venerdì. Buona fortuna, allora,
e bon voyage.» Ted Silver ria acca.
Dean aggancia. Quindi sono padre, non lo sono e lo sono
potenzialmente, tu o insieme. Gli piacerebbe comunicare a Elf la non-
notizia, lei però in quel momento starà sistemando i bagagli,
tra andosi di una ragazza potrebbe me erci un po’. Dean disfa i
propri, prende la Martin dalla custodia e con il barré sul quarto tasto
p p p q
imposta un ReLaReFa#LaRe, poi inizia a strimpellare il pezzo a cui
sta lavorando. La musica è arrivata prima delle parole stavolta. Il
punto è che Elf qualche giorno fa gli ha fa o un discorso
sull’esistenza di acque inesplorate proprio nel posto in cui uno è
cresciuto, e gli si è piantato in testa. Cos’è che fa rima con waters?
Daughters… forse… Mortars… no, decisamente no. Sente bussare alla
porta.
È Levon. «Non abbiamo molto tempo, meglio quindi se per
pranzo ordini qualcosa al servizio in camera.»
«Servizio in camera? Davvero?»
«Benvenuto ai massimi livelli. I soldi li me e la Gargoyle.»
«Giusto.» Dean chiude la porta e prende il telefono. Servizio in
camera. Lo ha visto nei film. Funziona che uno dice al telefono che
cosa vuole e il cibo arriva so o una campana d’argento su un
carrello. Sul telefono c’è un tasto con la scri a: SERVIZIO IN CAMERA .
Lo preme. Risponde una voce maschile: «Servizio in camera».
«Ehm, ciao, vorrei un boccone per pranzo se non è un problema.»
«Cos’ha de o, signore? Cosa vuole per pranzo?»
«Un boccone. Qualcosa. Grazie.»
«Ah, un boccone, capisco. E cos’aveva in mente?»
«Mmm… cosa c’è?»
«Il menu è a destra del telefono.»
«Sì, giusto, eccolo.» Dean apre il menu, ma è scri o in una lingua
sconosciuta, almeno per la maggior parte. Croque monsieur, San
Pietro, avocado, boeuf bourguignon, lasagna, tiramisù, crème brûlée…
Dean molti nomi non riesce neanche a pronunciarli, figuriamoci
capire in che cosa consistano. «Un panino?»
«Abbiamo il club sandwich, signore.»
«Dio ti ringrazio. Uno di quelli, grazie.»
«E il pane lo vuole con i semi di papavero, di lievito madre, alle
noci?»
«Voglio del pane. Normalissimo pane bianco.»
«Sarà fa o, signore. E come condimento gradisce una vinaigre e
o una salsa Thousand Island?»
Condimento? «Amico, mi prendi per il culo?»
Una pausa. «Magari preferisce solo del ketchup a parte?»
«Ora sì che ragioniamo. Bravo.»
«Sarò da lei in trenta minuti.»
Dean ria acca il telefono. L’ansia si placa.
Il telefono eme e un lungo e sonoro trillo.
Oddio, qualcos’altro che riguarda il panino. «Pronto?»
«Signor Moss, è di nuovo il centralino. C’è un’altra telefonata da
Londra per lei: Rod Dempsey.»
Dean si irrigidisce dalla testa ai piedi. «Me lo passi.»
«Resti in linea, per favore.»
Rumorini vari, clic, scric, clunc. «Ehi, dio del rock, come stai?»
«Ciao, Rod. Come sto dipende dalle notizie che mi dai.»
«Le notizie sono che il missile di scandalo e merda assortita che
stava per distruggerti l’esistenza è stato spazzato via dal cielo.»
Per fortuna, cazzo. «Quindi sono a posto?»
«Già. La controparte si è impuntata per avere tremilacinquecento
sterline, ma non credo tu sia a corto di soldi ora che hai un singolo in
cima alle classifiche, da quel che so. Gli ho firmato un assegno per le
prime duemila, me le restituirai quando torni.»
Basterebbero a comprare una casa in Peacock Road. «Bene. Grazie. E
una volta che avranno incassato l’assegno spediranno i negativi?»
«Spediranno cosa?»
«I negativi. I negativi delle foto. In modo che non possano più
usarli.»
«Ah, be’, abbiamo stabilito che ci incontreremo in un posto
isolato, mi faranno vedere i negativi e li bruceranno davanti a me.»
C’è qualcosa che puzza. «Ah. È così…»
«La diplomazia è un’arte so ile, Dean. Entrambe le parti devono
essere soddisfa e dell’accordo, altrimenti non c’è nessun accordo.»
«Allora… verrò con te nel posto isolato e glieli vedrò bruciare con
i miei occhi.»
«Temo che non sarà possibile. La controparte non vuole
incontrarti. Sono stati chiarissimi. Nessun faccia a faccia.»
Decisamente qualcosa puzza. «Scusa, Rod, ma come faccio a sapere
che i negativi sono stati distru i? O…» Dean ha come la sensazione
di precipitare nel vuoto, e dopo qualche secondo ha la verità davanti
p p p q
agli occhi. È tu a una montatura di Rod Dempsey. Non esiste
nessuna foto. Stesso discorso per la «controparte». È possibile che lui
e Tiffany siano stati visti insieme all’Embassy di Hyde Park, ma non
c’è altro. Ho abboccato come un pesce. Un a imo dopo capisce che non
può essere così. Come faceva però a sapere della benda e delle mane e?
Ero su di giri e avrò parlato troppo, raccontando di me e Tiffany.
Proprio il genere di bocconcino che un rica atore me e da parte per
il futuro.
Ma perché tirarlo fuori proprio adesso?
Tu che ne dici? Rod sa che ha aiutato Kenny e Floss a sfuggire alle
sue grinfie e a lasciare Londra. La voce di Rod si fa gentile: «O cosa,
Dean?»
«Se tu fossi nei miei panni, non vorresti vedere quelle foto con i
tuoi occhi prima di sborsare tremilacinquecento sterline?»
Una pausa. Un sospiro. «Solo se pensassi che mi vuoi fo ere,
Deano. Dimmi, quindi. È questo che pensi? Oppure ho capito male?»
Rod suona minaccioso…
Il che dimostra che ho ragione. Perché mai un rica atore navigato
vorrebbe tra are solo con un ex detenuto tosto come Rod Dempsey e
non con lo sprovveduto Dean Moss, ogge o del rica o? Dev’essersi
fa o delle belle risate. «Ti sarai fa o delle belle risate.»
La voce di Rod Dempsey si fa glaciale. «Ti ho salvato il culo, dio
del rock. E non solo a te, l’ho salvato anche alla tua a rice sposata. È
così che mi ringrazi?»
E se mi sbagliassi? «I conti non tornano.»
«Duemila sterline: eccoli i conti che non tornano. Me-le-de-vi.»
«Annulla l’assegno.»
«Ho pagato in contanti, genio. Gli assegni lasciano tracce.»
«Prima mi hai de o di aver pagato con un assegno.»
«Chi se ne fo e di come ho pagato? Mi devi duemila sterline!»
Sta bluffando. «Che fine hanno fa o ‘i ragazzi di Gravesend contro
il resto del mondo’? Si può sapere che cosa ti ho fa o?»
A o o fusi orari e più di o omila chilometri di distanza, Rod
Dempsey si accende una sigare a. «Lo sai cos’hai fa o. Pensi di
essere intoccabile solo perché sei famoso? Pensi che la pu anella sia
al sicuro solo perché vive a Bayswater? Ti sbagli. Ti sbagli eccome.
p y g g
Hai ficcato il tuo grosso becco nei miei affari. E per questo la
pagherai, Moss. La pagherai.»
La linea fa trrrrrrrr…

L’autista inviato dal festival è una montagna d’uomo che risponde


al nome di Bugbear. Potrebbe avere l’età di Dean ma si muove in
modo goffo, con un’andatura zoppicante. Fa accomodare il gruppo
sul furgone Volkswagen e si piega sul volante come un bambino
troppo grande per la sua automobilina a pedali. «Tu i a bordo,
forza. Si sta stre i. Non posso regolare questo malede o sedile.»
Dean si siede davanti, Elf, Levon e Griff dietro, Jasper, Mecca e la sua
macchina fotografica in fondo. Il furgoncino scende per una strada
molto in pendenza, arranca lungo una ripida salita e si ferma a un
incrocio. Bivi. Gli altri si godono le strade, su Dean gravano invece la
minaccia di Rod Dempsey e il club sandwich che non ha ancora
digerito. Sa che farebbe meglio a chiamare Tiffany e me erla in
guardia, teme però che andrebbe nel panico… E in fondo quando
Dempsey ha de o che se la sarebbe presa con lei stava bluffando,
vero? Si tra a di Tiffany Hershey nata Seabrook, non di un nessuno
da spremere come Kenny e Floss.
Elf chiede a Bugbear se è di San Francisco.
«No, no. Sono nato nel Nebraska.»
«E cosa ti ha portato in California?» domanda Dean.
«Dodici ore di viaggio dalle Hawaii in un convoglio dell’esercito.»
«Vietnam?»
Bugbear guarda fisso davanti a sé. «Già.»
«Ho sentito che là la situazione è bru a.»
«Già.» Bugbear inizia a masticare una gomma. «La ma ina, nel
mio plotone c’erano quarantadue uomini. La sera, ne erano rimasti
sei. Di quei sei sono riusciti a tornare soltanto in tre. Quindi sì. La
situazione è bru a.»
Griff, Elf, Dean e Levon si scambiano un’occhiata, incerti su che
cosa dire. Cristo, pensa Dean. E io che credo di avere dei problemi.
Un tram pieno di turisti passa sferragliando accanto a loro. Mecca si
sporge dal finestrino e sca a alcune foto. Il semaforo diventa verde e
il furgone devia, imboccando una strada più veloce e poi il Bay
g p p y
Bridge. Il primo tra o che conduce a est è tappezzato di travi
lampeggianti e sormontato dalla strada che punta verso ovest. Più
so o, Dean vede navi e barche sull’acqua azzurro-verde-grigia. La
costa in lontananza è orlata di ci adine. Le montagne alle loro spalle
sembrano sgualcite. Posti in cui non andrò mai. La campata su due
livelli del ponte termina in una galleria a o o corsie che a raversa
Yerba Buena Island e sbuca dalla parte opposta.
Rod Dempsey non può sapere che ho aiutato Kenny e Floss ad
andarsene da Londra, pensa Dean, a meno che non li abbia acciuffati
di nuovo e li abbia costre i a dirglielo… e in questo caso che Dio li
aiuti. Potrei chiedere a Ted Silver di informare la polizia, ma le cose
si farebbero molto incasinate molto in fre a… e Dempsey
vuoterebbe il sacco su me e Tiffany. «Che gran casino.»
«Hai de o qualcosa, Deano?» chiede Griff.
«No, niente. Stavo solo… lavorando sulle parole di una canzone.»
Griff si accende una sigare a. «Come non de o.»
Dean come minimo dovrà comunicare a Levon e a Jasper che
l’appartamento di Covent Garden è saltato, e fornire un buon
motivo. Dovrò chiamare Tiffany. Anche se Dempsey stava bluffando,
meglio comunque che lei stia all’erta. Non è il genere di conversazione
che muore dalla voglia di avere. Chiede un tiro di sigare a a Griff.
Preferirebbe una canna, ma dopo il Troubadour si è ripromesso di
tenersi alla larga dalle droghe prima dei concerti. Il furgone emerge
dalla galleria nella sezione est del ponte, dove le o o corsie dire e a
ovest e a est sono tu e a cielo aperto. I cavi sono spessi come alberi.
Le torri di sostegno potrebbero appartenere a un incrociatore
gala ico. È tu o acciaio, possente, definitivo, reale…
…e una volta era solo un sogno nella testa di qualcuno.

Raggiunta l’indicazione per Knowland Park, il furgone esce


dall’autostrada. Più avanti lungo il raccordo un cartello annuncia il
GOLDEN STATE INTERNATIONAL POP FESTIVAL .
«La parte internazionale siamo noi?» chiede Griff.
«Noi», risponde Levon, «più i Procol Harum, gli Animals e i Deep
Purple, che hanno suonato ieri.»
«Chi sono i Deep Purple?» domanda Elf.
«Un gruppo di Birmingham», spiega Griff. «Hanno fa o da
supporto ai Cream quando erano in tour da queste parti. Negli Stati
Uniti si sono fa i un nome.»
Il furgone entra nell’area destinata al concerto. Da una parte ci
sono file di macchine incolonnate, dall’altra tende e camper. Decine
di bancarelle vendono cibo, bevande e chincaglieria hippie. Dietro
un muro imponente s’intravedono una tribuna e una ruota
panoramica. La gente entra a fro e superando i tornelli.
«È organizzato meglio di quanto mi aspe assi», dice Elf.
«È grande», commenta Griff, «non così grande però.»
«Ventimila persone che pagano tre dollari a testa», dice Levon,
«sono molto, molto più alle anti di mezzo milione che non pagano
niente. Nell’espressione ‘concerto gratuito’ la parola ‘gratuito’
significa ‘bancaro a’. Muri e tornelli. Eccolo il futuro dei festival,
proprio qui davanti a noi.»
Una guardia riconosce Bugbear e fa segno al furgone di procedere
in un’area recintata con delle roulo e parcheggiate in perfe o
ordine. Due uomini stanno scaricando da un camion un enorme
amplificatore Marshall. Nell’aria si sentono il canto appassionato e le
evoluzioni della chitarra latina di José Feliciano. Bugbear li
accompagna fino a una roulo e con un cartello scri o a mano
appiccicato alla porta: UTOPIA AVE . «Passerò più tardi per riportarvi a
casa. In bocca al lupo.» Se ne va senza più voltarsi.
«Un uomo di poche parole», osserva Dean.
«Forse le parole le ha lasciate in Vietnam», replica Jasper.
«Io me la filo, vado a fare qualche foto», dice Mecca. Dà un bacio a
Jasper e fa per uscire dall’area riservata. «Ci vediamo dopo.»
«Potresti sca arne qualcuna al gruppo mentre suonano?» le
chiede Levon. «Se le usiamo, farò saltare fuori qualcosa dal budget.»
«Ma certo.» Poi dice a Jasper in bocca al lupo e se ne va.
«Mi piace come lo dice», commenta Jasper. «A voi no?»

Dentro la roulo e ci sono un cucino o, brocche d’acqua,


posacenere stracolmi, bo iglie di birra, Pepsi e ciotole piene d’uva e
banane. L’odore di marijuana aleggia nell’aria. Quando tu i sono
tranquilli con una birra in mano, Levon sfodera una sorpresa.
«Riunione», annuncia. «Max vi avrebbe procurato qua ro nuove
date interessanti qui in America.»
Grazie al cielo, pensa Dean. Non devo tornare subito a Londra.
«Il calendario è impegnativo. Portland giovedì, Sea le venerdì,
Vancouver sabato. Poi domenica Chicago per un concerto alla
Aragon Ballroom, nota anche come ‘Sala Zuffe’, che sarà trasmesso
nel Midwest e in Canada. Potete dire di no. Ma farebbe guadagnare
a Stuff of Life dieci posizioni in classifica. Farlo arrivare magari nella
Top 10.»
«Io voto sì», dice Elf.
«Io voto sì», dice Jasper.
«Io voto sì, cazzo», dice Griff.
«Avremmo anche qualche giorno in più per registrare», interviene
Dean. «Non puoi dire che acce iamo se la casa discografica ci paga
lo studio?»
«Saresti un o imo agente», dice Levon.
«Essere in bolle a è il mio superpotere», replica Dean.
«Le spese per lo studio fanno parte dell’accordo. Se a voi va bene
dico a Max…»
Si sente bussare alla porta. Si affaccia un uomo bruciato dal sole e
chiazzato di sudore, in mano ha un portablocchi. «Utopia Avenue?
Sono Bill Quarry, l’organizzatore di questa macchina da festival
perfe amente funzionante.»
«Benvenuto sulla tua roulo e, Bill. Io sono Levon Frankland.»
Bill stringe la mano a tu i. «José finirà fra venti minuti, dalle
cinque alle sei tocca a Johnny Winter e poi ci siete voi. Che ne dite di
dare un’occhiata dietro le quinte, giusto per prendere confidenza con
il territorio?»
Dean si abbandona a un gigantesco sbadiglio. «Io farò una siesta.»
«Una ‘siesta’?» chiede Griff come se non avesse capito bene.
«Siete una causa persa voi due», dice Elf.
Dean rassicura Levon: «Non preoccuparti, capo. Non farò niente
che non faresti anche tu. E non prenderò niente».
«Il pensiero», mente Levon, «non mi aveva neanche sfiorato.»
p
Dean sprofonda nel divano le o. Qualcosa di liscio gli si appiccica
a una guancia. Si rime e seduto e se lo stacca dalla faccia: è una carta
dei tarocchi. Una figura umana s’incammina su una montagna al di
là di un corso d’acqua. La figura ha un bastone come un pellegrino e
un mantello rosso. I capelli del pellegrino sono lunghi fino alle
spalle, castani come quelli di Dean, ma ha la faccia girata. Una luna
gialla veglia su di lui da un cielo crepuscolare. In basso, appoggiate
su una base formata da cinque coppe allineate ci sono altre tre
coppe. Sopra c’è scri o: VIII. Un refolo fa frusciare la zanzariera.
Fuori, una donna ride come rideva la madre di Dean. Il pellegrino
non tornerà più per quella strada. Non lontano, da una folla di
migliaia di persone si leva un applauso non appena José Feliciano
conclude la sua trascinante versione di «Light My Fire». Dean infila
la carta dei tarocchi nel portafoglio, accanto al biglie o da visita di
Allen Klein. Si sdraia di nuovo e chiude gli occhi.
Rod Dempsey mi preoccupa, poi ci sono Mandy Craddock e il mio
potenziale figlio, e devo pure capire come regolarmi con Harry Moffat. Ma
di sicuro mi sono dimenticato qualcosa… I problemi si aggrovigliano
come panni in un’asciugatrice.
No. Basta così. Dean lascia perdere la lavanderia e segue un
sentiero su per una montagna, so o una luna gialla che è sia
crescente sia piena, con un bastone in mano. I problemi se li ge a
alle spalle, li lascia sull’altra sponda del fiume. Non tornerà…

…e arriva al pub di Gravesend, il Captain Marlow. «Grazie a Dio


sei qui», gli dice Dave, il proprietario. «Sopra va tu o a fuoco e i
pompieri sono in sciopero.» Tocca a Dean, Harry Moffat e Clive
dello Scotch of St James farsi strada un piano dopo l’altro, contrastare
le fiamme con secchi d’acqua e sabbia portati fin lì da mezzi
sconosciuti. Le fiamme sono violacee, chiassose, avviluppate nel loro
sibilo distorto. Sopra il pub c’è una mansarda. Nella mansarda, un
bambino pelle e ossa con i capelli neri ricci sta mangiucchiando
dell’uva…

Dean è in California dentro una roulo e, e un bambino pelle e


ossa con i capelli neri ricci sta mangiucchiando dell’uva. Indossa
p g
sandali, pantaloncini corti, una maglie a sformata di Capitan
America e dimostra circa dieci anni. A giudicare dalla carnagione,
potrebbe venire da qualunque parte. Dean non è per niente
entusiasta delle misure di sicurezza approntate da Bill Quarry. «E tu
da quale tana di coniglio sei spuntato?»
«Sacramento», dice il bambino.
Dean non ha idea di dove, cosa o chi sia Sacramento. Ritenta. «Che
ci fai nella mia roulo e?»
Con un apribo iglie il bambino stappa una Dr Pepper. «I miei
genitori si sono allontanati di nuovo.»
Dean si siede. «E chi sono i tuoi genitori?»
«Mia mamma si chiama Dee Dee. E il mio papà onorario Ben.»
«Non pensi che faresti meglio a tornare da loro?»
«Li cerco da un po’. Da quando quell’uomo con il mal di gola ha
cantato del ca ivo umore crescente. Per il momento non ho avuto
fortuna.»
«Quindi ti sei… perso?»
Il bambino beve un sorso di Dr Pepper. «Si sono persi i miei
genitori.»
Non chiedevo altro che chiudere gli occhi per un po’. Dean va alla porta
della roulo e. In giro si vedono dei muscolosi tecnici del suono. Non
sembrerebbero in vena di dare una mano a un bambino che si è
perso. «Come ti chiami?» chiede Dean invece di passare subito
all’azione.
«E tu?»
Dean si sorprende a rispondergli. «Dean.»
«Io…» Il bambino dice qualcosa tipo Bolly Var.
«Oliver?»
«Bo-li-var. Bolívar. Come Simón Bolívar, il rivoluzionario degli
inizi dell’O ocento. La Bolivia si chiama così per lui.»
«Bene. Senti, Bolívar, io tra poco devo andare a suonare, perciò
perché non prendi quell’uva e…» Si rende conto che non può dire a
un bambino di dieci anni di rintracciare due persone in mezzo a
migliaia di altre. Vorrebbe che Levon o Elf fossero lì. Accanto al
cancello dell’area VIP vede uno della sicurezza so o un grosso
ombrellone. «Andiamo a chiedere a quella specie di polizio o
laggiù. Lui saprà cosa fare.»
Bolívar sembra divertito. «Come vuoi, Dean.»
Escono dalla roulo e e s’incamminano. L’uomo della sicurezza ha
un cappello da cacciatore, occhiali a specchio e una giacca militare.
«Devi scusarmi», dice Dean, «ma ho trovato questo bambino nella
mia roulo e.»
«Quindi?»
«Quindi non è con i suoi genitori.»
«Quella grossa bandiera blu.» L’uomo della sicurezza indica un
tendone davanti a sé, oltre uno spiazzo pieno di camper. «È lì che c’è
la tenda dei bambini smarriti.»
«Ma io sono Dean Moss. Suono negli Utopia Avenue.»
«Mi stai dicendo che i bambini smarriti sono un problema degli
altri?»
«No, ma io sono un musicista. I bambini smarriti non sono una
mia responsabilità.»
«Neanche mia, amico. Non posso mica abbandonare la
postazione.»
«Allora chi è che è tenuto ad accompagnare questo bambino alla
tenda?»
«È una questione di procedure. Chiedi a Bonnie o a Bunny.»
Dean nota riflessa negli occhiali di quel tizio la propria faccia
incredula. «E dove sono Bonnie o Bunny?»
L’uomo della sicurezza abbraccia con un gesto cielo e terra.
«Potrebbero essere ovunque.»
Che cazzo. Dean si accovaccia. «Ascolta, Bolívar. La vedi quella
bandiera blu?» Gliela indica. «Lì c’è la tenda dei bambini smarriti.»
«Allora andiamoci, no, Dean?»
«O ima idea», dice il tizio della sicurezza.
Bru o idiota, pensa Dean. «Non si dovrebbe perme ere a un
ragazzino di andarsene a zonzo con uno sconosciuto.»
«Ma tu non sei uno sconosciuto», dice l’adde o. «Tu sei Dean
Moss. Suoni negli Utopia Avenue.»
Dean è colto alla sprovvista. Se non perdo dieci minuti per
accompagnarlo là, passerò i prossimi se ant’anni a chiedermi che fine abbia
p g p p fi
fa o. «Okay, Bolívar. Andiamo.»

«Se ti salgo sulle spalle», dice Bolívar dopo qualche passo, «Dee
Dee o Ben potrebbero vedermi.» Dean lo solleva. Bolívar gli preme le
mani sulla testa come un guaritore. Farebbe meglio a fidarsi meno di
chi non conosce, pensa Dean. Adesso che è stato scelto, però, è
determinato a non mollare il bambino. Dall’interno dell’area, gli
accordi di chitarra incrociano i propri echi. Donne che prendono il
sole sulle coperte. Adolescenti seduti a fumare. Coppie che si
sbaciucchiano. Famiglie che mangiano all’ombra delle tende.
Ragazze con la faccia dipinta. Una donna alla a suo figlio al seno
come se niente fosse. A Hyde Park non vedi niente del genere. Clown sui
trampoli che pa ugliano la zona. Ragazzi che strimpellano chitarre.
Ehi, questa musica la conosco… Stanno cercando gli accordi di «Roll
Away the Stone». Litigano su un Re che potrebbe essere un Re
minore. Lasciamoglielo scoprire da soli, pensa Dean. Io ho dovuto
fare così.
«Quanti anni hai?» chiede Bolívar.
«Ventiqua ro. E tu?»
«O ocentoo o.»
«Accidenti. Scomme o che usi una crema per il viso.»
«Sei di Londra, Dean?»
«Sì. Come fai a saperlo?»
«Parli come lo spazzacamino di Mary Poppins.»
«Dalle mie parti anche voi sembrate buffi.»
Una mischia di bambini scalmanati li supera di corsa, strillando.
«Sei un papà?» gli domanda Bolívar.
«Ehi, guarda quel tizio che fa gli animali con i palloncini.»
«Hai qualche figlio?»
Furbo come una volpe. «La giuria deve ancora decidere se ne ho
uno.»
«Come mai non sai se hai figli o no?»
«Motivi da grandi.»
Bolívar si bilancia sulle sue spalle. «Hai fa o sesso con una
signora che ha avuto un bambino, però non sai se il bambino è
cresciuto dal seme che tu le hai messo nell’utero o da quello di un
altro… è così?»
Ma porca pu ana. Dean gira la testa per guardare Bolívar.
Il bambino ha un’espressione trionfante sul volto.
«Come fai a saperlo? Come puoi sapere una cosa simile?»
«È un’ipotesi plausibile.»
«Dio, se crescete alla svelta in America.» Dean procede verso la
bandiera blu. Un biplano trascina nel cielo quasi senza nuvole uno
striscione pubblicitario che recita: HAI SETE? ACCHIAPPA UNA COCA!
«Perché non vuoi essere un papà?» chiede Bolívar.
«Perché tanti perché?»
«Perché tu non chiedi mai perché, invece?»
«Perché sono un adulto. E perché dà proprio fastidio, cazzo.»
«Se tu appartenessi alla mia famiglia, dovresti me ere un quarto
di dollaro nel Bara olo del Turpiloquio», dice il bambino. «Mamma
ha iniziato a tenerlo perché non vuole farmi crescere in una fogna.
Dicevamo, perché non vuoi essere un papà?»
«Cosa ti fa pensare che non lo voglio?»
«Quando tiro fuori l’argomento, cambi discorso.»
Dean si ferma, lascia passare un venditore di cocomeri con il suo
carre o. «Credo… di avere paura di diventare un padre che non
vorrei come padre.»
Bolívar gli dà una pacca sulla testa, come a dire: Là, là.

Un uomo lentigginoso con una maglie a dei San Francisco Giants


e un cappello floscio gironzola davanti alla tenda dei bambini
smarriti, sta fumando nervosamente una sigare a. Quando vede
Bolívar, la sua espressione passa dal panico soffocato al sollievo
beato. Valeva la pena di portare qui il bambino anche solo per vedere
questo, pensa Dean. «Gesù Cristo, Bolly», dice il lentigginoso, «ci hai
fa o venire un colpo.»
«Bara olo del Turpiloquio», dichiara Bolívar. «Due quarti di
dollaro. Uno per ‘Gesù’ e uno per ‘Cristo’. Me ne ricorderò.»
L’uomo fa una faccia tipo: Dio dammi la forza, e dice a Dean:
«Grazie. Io sono Benjamin Olins, ma va bene se mi chiami Ben. Sono
il suo patrigno».
«Papà onorario», ribadisce il bambino.
«Papà onorario», conferma Ben recuperando Bolívar dalle spalle
di Dean. «Mamma sta dando i numeri, dov’eri finito?»
«Vi stavo cercando. Ho trovato lui», il bambino indica Dean, «in
una roulo e. Si chiama Dean, è di Londra e non sa bene se è un papà
o no. Parlagli, Ben. Da vecchio a vecchio.»
Ben lo ascolta, aggro a la fronte, poi guarda Dean con maggiore
a enzione. «Dean Moss? Degli Utopia Avenue? Ma, cazzo, sei
proprio tu!»
«Un’altra monetina», commenta Bolívar. «Adesso sei a tre.»
«Ma è per gli Utopia Avenue che siamo qui oggi e…»
«Non ci sono se e non ci sono ma, fanno tre quarti di dollaro. E
mamma è venuta per Johnny Winter, non per Dean. Scusa, Dean. C’è
lì una signora che regala caramelle ai bambini smarriti. Torno subito.
Non allontanatevi.»
«Mi hai de o che erano tua mamma e Ben a essersi smarriti», gli
fa notare Dean.
«Be’, quella signora non regalerebbe mai caramelle a un adulto,
no? Rifle ici, Dean.» Bolívar s’incammina.
«Non si può certo dire che sia il classico bambino», dice Dean a
Ben.
«Dio santo… non ne hai un’idea, davvero.»
«Mi ha de o di avere o ocentoo o anni.»
«Lo dice da quando ne ha cinque. Meningite acuta. È quasi morto,
poverino, e quando è uscito dal coma era, in un certo senso…
diverso da prima. A volte Dee Dee, la madre di Bolly, pensa che
dovremmo fargli dare un’occhiata, ma… è un bambino abbastanza
felice, perciò non sono sicuro che ci sia qualcosa da aggiustare.
Comunque, Dean, la vostra musica mi fa impazzire. Ho un negozio
di dischi a Sacramento. Quando vendo una copia di Stuff of Life, è
come se ne avessi vendute cinquanta. Vende anche il vostro primo
album, certo, ma Stuff of Life è…» Con una mano mima un aeroplano
che prende quota.
«Grazie mille. Penso di doverti dei soldi per i diri i.»
«Mi basta che incidete un altro album. Te lo chiedo per favore.»
p
«Vedrò cosa si può fare. A quanto pare, tuo figlio ha trovato
l’oro.» La signora dei lecca-lecca sta tendendo il contenitore a
Bolívar.
«Oh, riuscirebbe a incantare anche i pesci e gli uccelli», dice Ben.
«Tu hai bambini o… non ho capito quello che mi stava dicendo
Bolly.» Si sparge un profumo di castagne arrostite. No, non posso
parlare a un completo estraneo delle mie grane legali, non ne ho parlato
neanche alla mia famiglia. «Mi ha chiesto se avessi figli e io gli ho
soltanto risposto che non mi sentivo pronto per essere padre. Tu o
qui.»
«Pronto? Scordatelo. Io improvviso ogni santo giorno.» Ben gli
offre una Marlboro, Dean l’acce a. «Essere padre o non essere padre,
questo è il problema. È roba grossa, quindi se proprio non te la senti
non ti dico certo ‘diventa padre’.» Ben soffia fuori il fumo. «Se invece
sei indeciso e vuoi una spintarella, io te la do. Quello che pensi che ti
mancherà, non ti mancherà. Avrai più mal di testa, ma avrai anche
più gioie. Gioie e mal di testa, già. Il lato positivo e il rovescio della
medaglia.» Bolly torna con le mani piene di caramelle. «Eccolo il
nostro cacciatore-raccoglitore.»
Bolly vede qualcuno dietro Dean e inizia a sbracciarsi. «Mamma,
mamma! È tu o a posto… ho trovato Ben. È qui.»
Dee Dee, una donna in avanzato stato di gravidanza con le
treccine imperlinate, tira un lungo sospiro di sollievo e lo soffoca in
un enorme abbraccio. «Dannazione, Bolly, non puoi andartene a
zonzo così…»
Il bambino si divincola. «Un quarto di dollaro! In totale fa un
dollaro tondo nel Bara olo del Turpiloquio. Ho preso un lecca-lecca
per tu i, più uno per il bambino che deve nascere. Dean, lei è
mamma. È al terzo trimestre di gravidanza. Mamma, Dean mi ha
dato una mano a trovarvi. Hai qualcosa da dirgli?»
«Bolly, sei tu che te ne sei andato…»
Bolly agita un dito ammonitore.
Dee Dee fa un bel respiro. «Grazie.»

Se e o o omila persone: è la folla più numerosa davanti a cui il


gruppo abbia mai suonato. Dean sente ribollire l’ansia da
g pp
palcoscenico. Alle soglie della sera il cielo è quello dell’o o di coppe.
La voce di Bill Quarry riecheggia al microfono: «Salutiamo tu i,
dire amente dall’Inghilterra, gli unici, i soli, Utopia Avenue!» Levon
dà a Dean una pacca sulla schiena, Dee Dee, Ben e Bolívar gliela
danno su una spalla, poi lui segue Elf sul palco. Ormai non posso più
tornare indietro. La folla esplode in un boato che non si aspe ava,
riesce a sentirlo sulla faccia. Elf si volta a guardarlo e ridacchia. Il
gruppo si sistema, Jasper e Dean collegano gli spino i, nel fra empo
Elf parla al microfono: «Grazie, California. Non eravamo sicuri che
qui qualcuno ci conoscesse, invece credo…» Il boato e gli applausi
aumentano. Da un punto che Dean non riesce a identificare si
diffonde un canto, sulle note di «John Brown giace nella tomba», la
folla sta intonando «Randy Thorn giace nella tomba…» Jasper
riprende la melodia alla chitarra, le note hanno riflessi dorati. Per il
ritornello con «Glory glory alleluia», Elf improvvisa un
accompagnamento alla tastiera e Dean li dirige come Herbert von
Karajan. Il nervosismo di poco prima è svanito.
«Vi amiamo anche noi», dice Elf. «Allora, la nostra prima canzone
l’ha scri a Dean in una cella.» Un ruggito di approvazione. Elf fa un
cenno a Dean e lui sfru a un trucche o che gli ha suggerito Mama
Cass per aprire una canzone solo con la voce, senza
accompagnamento: far risuonare mentalmente la prima strofa con la
tonalità giusta, e poi ripeterla ad alta voce:

I-i-i-i-i-f life has shot yer full of ho-o-oooles


A-a-a-a-nd hung yer out to-ooo-oo-o dry –

Mick Jagger ha rivelato a Dean che la parte più dura del suo
lavoro è cantare «Satisfaction» per la cinquemillesima volta come se
l’avesse scri a un’ora prima, ma per quella sera il rischio che «Roll
Away the Stone» risulti fiacca non c’è. La quantità di pubblico
acuisce i sensi di Dean. La sua voce esplode dall’impianto di
amplificazione e si sparge nell’universo come la voce di Dio…

A-a-aaa-and slung you in a pau-au-auper’s grave


Down where the dead men li-i-i-i-iiiii-i-i-i-ie –
Con le bacche e Griff dà l’a acco per il primo ritornello. La
canzone si fa sempre più carica, fino a saturare l’intera area. Dean la
interpreta con enfasi maggiore del solito e la chitarra di Jasper è
particolarmente agguerrita. Durante le acrobazie all’Hammond di
Elf, Dean nota che nella calca le persone muovono la testa a ritmo,
ondeggiano bevendo birra e fumando canne. Nelle zone meno
affollate, quelli più su di giri si esibiscono seminudi in una danza
sciamanica, di quelle che le troupe cinematografiche amano
riprendere negli scatenati festival hippie.
La canzone si conclude fra gli applausi, durano più a lungo di
quanto si sarebbe aspe ato per l’undicesimo a o della seconda
giornata. Anche «Prove It» riceve un’accoglienza simile. Mentre il
sole tramonta, le nuvole risplendono come una cresta incandescente.
Non appena Jasper a acca con il primo accordo di «Darkroom», sul
palco si accendono le luci. Nell’incombente tramonto americano,
l’accento britannico e altolocato di Jasper dà un tocco esotico alla
canzone che in Inghilterra si perderebbe. Il colpo secco di «The
Hook» aggiunge intensità all’esibizione. Allungano il bridge, ampie
porzioni di pubblico ba ono le mani a tempo. Il canto di Dean è
feroce, ma perfe amente controllato. Gli riesce qualsiasi cosa. Dopo
un assolo di ba eria, Griff parte in un bo a e risposta con Elf. In un
certo senso è uno spasso. L’assolo di Jasper brucia lentamente, come
una meteora, e scoppia in mille pezzi alla fine della canzone.
L’applauso è lungo e fragoroso. La cocaina è solo una pallida imitazione
di questo. Dean si asciuga la faccia con un asciugamano umido. Spero
che da qualche parte qualcuno stia registrando un bootleg del concerto,
perché stasera siamo grandi sul serio, maledizione. Dà una rapida
occhiata a Levon ai margini del palco e vede Jerry Garcia dei
Grateful Dead: sta applaudendo facendo ba ere qua ro dita contro
il palmo. Dean gli rivolge un cenno d’intesa. Più in alto, su
un’impalcatura, sono seduti Bolívar e i suoi. Tanto per divertirsi un
po’, Elf suona un paio di ba ute della Sonata al chiaro di luna di
Beethoven prima di passare a «A Raft and a River». Dopo il riff folle
e contagioso di «The Hook», quel pezzo è un bicchiere d’acqua
fresca. La gente la fissa ipnotizzata. Griff produce scalpiccii e fruscii
con pia i e charleston. Dean e Jasper si uniscono a Elf nel suo nuovo
p p
ritornello a tre voci, ispirato dall’ascolto di Graham Nash, Stephen
Stills e David Crosby che cantavano insieme nella cucina di Mama
Cass. È rischioso, nulla può camuffare una bru a armonizzazione,
ma si sono esercitati parecchio e alla fine l’applauso è vigoroso. Bill
Quarry li chiama da un angolo, ba e un dito sull’orologio e con le
mani a megafono grida: «Un ultimo grande pezzo!» È il turno di
Jasper. Dean si aspe a «Sound Mind», ma lui rilancia: «Facciamo
‘Who Shall I Say Is Calling?» Ha scri o tu a la canzone durante il
viaggio in aereo da New York. A quanto pare, il collasso sul palco ha
avuto un effe o collaterale positivo: ha guarito Jasper dal terrore
dell’aereo. Quella di Jasper è una scelta coraggiosa. Hanno suonato il
pezzo solo poche volte, nella sala prove vicino all’hotel. Del resto,
sembrerebbe uno di quei concerti in cui le canzoni si suonano da
sole. Elf fa un cenno d’assenso a Dean, che lo fa a Jasper che si
rivolge al pubblico: «La nostra ultima canzone è anche l’ultima che
abbiamo scri o. Ha solo un giorno di vita e s’intitola ‘Who Shall I
Say Is Calling?’». Guarda Dean, annuisce: «E one e two e three e…»
Dean parte con il giro blues. La, Sol, Fa e di nuovo La. L’Hammond
di Elf s’imbuca alla festa, trova la strada giusta e si me e a danzare
una giga ubriaca. Griff si unisce con un ritmo sincopato, fra rullante
e boato remoto della grancassa. La chitarra di Jasper sceglie una
intro flu uante alla Grateful Dead, poi lui si avvicina al microfono e
canta:

You loved him in the tropics,


They labelled you «Immoral»;
You gave me life and kissed my head,
Then sank among the coral.

You loved her in the tropics,


When Europe was aflame.
I’m your indiscretion,
I have your name. b

Dean si domanda se quella strofa per chi non sa nulla del padre di
Jasper possa avere senso. «Nightwatchman» e «Darkroom» erano già
molto personali, ma non così tanto. Le prime due strofe della nuova
canzone sono nude. Invece che fargli il coro, Elf suona una cascata di
note sospese fra jazz e blues prima della seconda strofa:

A priest from long ago,


Hid in the family tree.
Generations passed until
The priest demanded liberty.

A stranger from Mongolia,


turned me back from suicide.
He walled the priest up in my mind,
And gave me five more years to hide. c

Quando Dean gli aveva chiesto chi fossero il prete e il Mongolo,


Jasper si era limitato a rispondergli: «È una lunga storia. Per dirla in
due parole: erano delle voci nella mia testa». Jasper si dedica ora
all’assolo. Il volume del wah-wah è sbagliato, ronza fino a coprire o
quasi la chitarra. Sembra una nave rompighiaccio che si fa strada
nella banchisa. La verità è che è eccezionale, considera Dean. Jasper
dev’essere della stessa opinione: manda via il tecnico del suono e
prolunga l’assolo. Stasera perfino i contra empi tecnici sono dalla nostra
parte. Jasper avanza verso il microfono:

One dark day, the walled-up priest


Erupted from the past –
I tripped into Hell in the Chelsea Hotel.
I wasn’t the first, I won’t be the last.

A psycho-surgeon for the damned,


A shelter in the gale –
If not for Marinus of Tyre,
I’d not be here to tell the tale. d

Rispe o all’ultima volta che Dean le ha sentite, queste due strofe


sono state modificate. «Marinus di Tiro»? Cos’è Tiro, un luogo? O è
«tiro» come «tirare»? La canzone somiglia un po’ a «Desolation
Row» di Dylan, decide Dean. Non posso dire di capirla, eppure so
perfe amente che cosa significa. Nota Mecca accucciata fra i rifle ori
che sca a dal basso una foto a Jasper. Anche Jasper la vede e le
lancia un’occhiata. Dopo il collasso al Ghepardo, Jasper è sempre stato
presente, calmo, diverso. Se credessi alle maledizioni, direi che una
maledizione è stata spezzata. Come una creatura alata, il terzo assolo
del chitarrista vola avvitandosi sull’intera area. Dean si unisce a lui
al microfono ed Elf si avvicina al proprio per le ultime tre ripetizioni
della… strofa? Ritornello? Bridge? Chi se ne importa.

Who shall I say is calling?


Who shall I say is calling?
A ghost now asks a ghost-to-be,
«Who shall I say is calling?» e

Il finale è un «tenetevi forte» da un minuto di vortici dervisci di


tastiere, cavalcate di basso, ululati feedback e percussioni a pioggia,
prima che la band, di colpo, si fermi perfe amente all’unisono.
La folla non reagisce. Che cosa c’è che non va?
Dean guarda Elf. Abbiamo mandato tu o a pu ane?
L’area esplode con il frastuono di o omila persone che urlano,
fischiano e applaudono il più forte possibile.
Tu o quello che ci è costato per arrivare fin qui, ne è valsa la pena.
Griff, Elf e Jasper si affiancano a lui sul palco.
Venere è un luccichio nell’occhio del cielo.
Gli Utopia Avenue fanno un inchino.

a. O o di coppe.
b. L’hai amato ai tropici, / Ti hanno definita «Immorale»; / Mi hai dato la vita e un bacio in
testa, / Poi sei sprofondata fra i coralli. / L’hai amata ai tropici, / Quando l’Europa era in
fiamme. / Io sono la tua indelicatezza, / Porto il tuo nome.
c. Un prete di tanto tempo fa, / Si nascose nel mio albero genealogico. / Passarono
generazioni finché / Il prete non pretese la libertà. / Uno sconosciuto dalla Mongolia, / Mi
ha convinto a non suicidarmi. / Ha murato il prete nella mia mente, / E mi ha concesso
altri cinque anni per nascondermi.
d. Un bru o giorno, il prete murato / È saltato fuori dal passato – / Al Chelsea Hotel mi sono
fa o un viaggio all’Inferno. / Non ero il primo, non sarò l’ultimo. / Uno psicochirurgo per
i dannati, / Un riparo nella tempesta – / Se non fosse stato per Marinus di Tiro, / Non
sarei qui a raccontare questa storia.
e. Chi devo dire che sta chiamando? / Chi devo dire che sta chiamando? / Chiede ora un
fantasma a un futuro fantasma, / «Chi devo dire che sta chiamando?»
The Narrow Road to the Far West a

Lunedì il gruppo aveva registrato allo Studio C di Turk Street, a due


passi dal loro hotel. Avevano già abbozzato due validi demo di
«Chelsea Hotel #939» di Elf, un valzer blues sul loro alloggio
newyorchese, e di «What’s Inside What’s Inside», una canzone
d’amore con cetre, dulcimer appalachiano e un assolo di flauto
suonato da un amico di Max della San Francisco Symphony
Orchestra. Avevano finito alle dieci di sera, avevano mangiato in un
ristorante cinese e si erano trascinati a le o. Ieri, nel corso della
ma inata, il gruppo ha registrato una sfolgorante versione di «Who
Shall I Say Is Calling?», poi una composizione di o o minuti di
Jasper intitolata «Timepiece», con il ticche io di un orologio
amplificato, campanellini, Elf al clavicembalo, un assolo di chitarra a
dodici corde, voci eteree sovrapposte e le campane a lu o, il mare e
un capolinea ferroviario che Mecca aveva registrato il lunedì. Oggi, il
loro ultimo giorno pieno a San Francisco, si stanno dedicando a due
nuove canzoni di Dean: un pezzo con un riff aggressivo, «I’m a
Stranger Here Myself», e uno mistico e più dilatato, «Eight of Cups».
Dean, Elf e Jasper si scambiano idee a vicenda più di quanto abbiano
mai fa o durante le sessioni ai Fungus Hut. Griff ascolta con
a enzione ogni nuova canzone presentata dal suo autore, e alla terza
o quarta volta che la eseguono lui definisce una traccia ritmica.
Levon arriva dopo un pomeriggio di appuntamenti, e il gruppo si
interrompe per fargli ascoltare l’ultima registrazione di «Eight of
Cups». Lui si me e comodo, si concentra sull’ascolto e alla fine si
pronuncia: «Magnifico. Paradise era in ritardo di qualche mese
rispe o al trend. Stuff of Life con il trend ci sta andando a bracce o.
Questo nuovo materiale sarà invece il nuovo trend. Quando Max lo
sentirà si bagnerà le mutande».
g
«È un bene o un male?» domanda Jasper.
«Un bene», risponde Dean. «E Günther?»
«Günther non è uno che si bagna le mutande, ma durante l’ascolto
ba erà il ritmo con un dito. Addiri ura con due, forse, nei passaggi
più audaci.»
«Porca troia, dici davvero?»
La luce sul telefono lampeggia. Risponde Levon: «Pronto?» Pausa.
«Oh, sì, certo. Passamelo.» Levon allontana la bocca dalla corne a:
«È Anthony Hershey», comunica agli altri.
E chi se no? È venuto a sapere di me e Tiff. Dean è meno scosso di
quanto dovrebbe. Che cosa dovrei temere?
«Tony», lo saluta Levon. «Allora, come bu a? Hai…» Una pausa.
Accigliandosi, guarda Dean. «Ah. Capisco. Posso fare qualcosa per
te?» Un’altra pausa. «Aspe a, guardo se è ancora in giro.»
Levon tappa la corne a e bisbiglia: «Vuole parlare con te, ma
sappi che ha un tono omicida».
Meglio togliersi il pensiero. Dean preme il tasto del vivavoce in
modo che sentano tu i. «Tony, ciao. Che tempo fa a Los Angeles?»
La voce altolocata di Anthony Hershey rimbomba indignata
dall’altoparlante metallico. «Come ti sei permesso? Come hai osato?»
«Osato cosa esa amente, Tony?»
«Lo sai benissimo! Hai violato il mio matrimonio.»
«Però, da che pulpito.» Elf è rimasta a bocca aperta. Griff aggro a
la fronte. Levon sta facendo due conti. Jasper accende una sigare a e
la passa a Dean. «Da Los Angeles sono o o ore di macchina, se vuoi
un duello al tramonto. Oppure possiamo incontrarci a metà strada.»
«Non vali una pallo ola, tu, caprone ignorante, teppa, fuoco di
paglia, pippa-coca, ruba-mogli… buzzurro.»
Griff ha chiuso gli occhi e sta scuotendo la testa.
«Nessuno è perfe o, Tony, ma almeno io non ho rovinato la
carriera di mia moglie per fare un favore a Jane Fonda. Voglio dire,
se tu fossi Tiff avresti pensato: Oh, be’, è così e basta, me ne starò
zi a a lavare le camicie e le mutande di Tony, oppure avresti
pensato: ’Fanculo, mi sono stufata, gli renderò pan per focaccia?»
«Mia moglie è la madre dei miei figli!»
«Vedi, è questo il tuo problema, Tony.» Dean imita l’accento di
Hershey: «‘Mia moglie è la madre dei miei figli.’ Non sei mica un
feudatario, amico. Tiff non è una tua proprietà. È un essere umano.
Se tieni tanto a lei, torna sui tuoi passi e affidale il ruolo di
protagonista in The Narrow Road to the Deep North. È una grande
a rice, chi se ne frega se non è un nome di Hollywood! Faglielo fare
comunque. Realizzerai un film migliore e salverai il tuo
matrimonio».
Antony Hershey eme e indignato qualche schiocco, qualche
sibilo, poi dice: «Non acce o consigli sul matrimonio da te!»
«Ma hai davvero bisogno di qualcuno che te li dia. Per Tiff la
recitazione è arte e tu gliel’hai tolta, maledizione. Restituiscigliela. In
fondo le piaci ancora. Le piaci anche se ogni volta che squilla il
telefono, tu corri a rispondere mollandola lì come un gioca olo
ro o.»
Il tono rabbioso di Hershey da rovente si fa glaciale. «Per lavorare
nel cinema, a Londra o a Los Angeles che sia, dovrai passare sul mio
cadavere.»
«Non tentare così la sorte, Tony. Ascolta, prima che uno di noi
due sba a giù il telefono, toglimi una curiosità: la bella notizia te l’ha
data un certo Rod Dempsey? Un tizio con una voce da gangster
dell’East End?»
Il regista non dice: «Chi?» Esita, poi parla di nuovo: «Se tocchi di
nuovo mia moglie, ti schiaccerò come uno scarafaggio. E se ti rivedrò
ancora, distruggerò la tua schifosissima vita. Sono stato chiaro?»
«Questo significa che gli Utopia Avenue non faranno la colonna
sonora per…»
La linea da Los Angeles cade di colpo.
Se la vende a di Rod Dempsey è questa, rifle e Dean, allora
posso farcela. «Mi spiace. Tanti saluti ai nostri sogni di gloria a
Hollywood.»
«E io che pensavo di essere quella misteriosa», commenta Elf.
«Il lato positivo», osserva Jasper, «è che non dovremo più tagliare
novanta secondi di ‘The Narrow Road’.»
«Onestamente avrei preferito che tu tenessi a freno i bollenti
spiriti», commenta Levon, «ma i legali della Warner erano una spina
p g p
nel fianco.»
«Tiffany Seabrook?» Griff ridacchia ammirato. «Bel colpo,
Deano.» Inizia a brontolargli lo stomaco. «Jerry Garcia ci sta ancora
aspe ando per mangiare un boccone?»

***

Al numero 710 di Ashbury Street, una strada con una discreta


pendenza, c’è un’alta casa neogotica bianca e nera con la facciata di
legno e un frontone appuntito. Dal marciapiede, una ripida scalinata
conduce a un portico ad arco e al primo piano. Nel portico c’è un
uomo su una sedia a dondolo. Una mazza da baseball se ne sta
appoggiata a una colonna. A Dean quel tizio sembra un pellerossa.
«Io e mia sorella avevamo una casa delle bambole identica a questa»,
dice Elf. «Si apriva sul davanti come un libro.»
Jasper guarda il sole pomeridiano. «Sembra tu o un po’ più vero
dopo una ma inata in studio.»
Si ferma un piccolo bus turistico dipinto con ghirigori
psichedelici. «E questa, gente», sta dicendo la guida, «è la casa di
Jerry Garcia, Phil Lesh, Bob Weir e Ron ‘Pigpen’ McKernan, meglio
noti al mondo come il fenomeno rock Grateful Dead.»
«Cazzo, neanche un accenno al ba erista», dice Griff. «Tipico.»
I turisti si spintonano per sca are foto. Il presunto indiano nel
portico benedice il mezzo con un dito.
«Se questa casa potesse parlare», dice la guida, «l’intera Ashbury
Street arrossirebbe. Chi può immaginare quali scene di dissolutezza
rock si stanno consumando proprio ora dietro quelle finestre?»
Il bus riparte. «Incrociamo le dita.» Iniziano a salire le scale
tenendosi al corrimano, se si inciampa si rischia l’osso del collo. Nel
portico, il presunto indiano tiene in grembo un ga o grigio luna.
«Ciao», gli dice Dean. «Siamo gli Utopia Avenue.»
«Siete a esi.» Il presunto indiano si sporge all’indietro per farsi
sentire a raverso la porta mezza aperta. «Jerry, i tuoi ospiti sono
qui.»
Il ga o si struscia contro una gamba di Elf. Lei lo prende in
braccio. «Ma quanto sei bello?» Gli occhi verdi come foglie del felino
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si posano su Dean.
«Utopisti!» Raggiante, barbuto, con una camicia di flanella e a
piedi nudi appare Jerry Garcia. «In effe i, mi era sembrato di sentire
delle voci amiche salire le scale per il paradiso. Ci avete trovato
senza problemi, quindi.»
«Abbiamo de o al taxi di seguire quel bus turistico», dice Griff.
Il sorriso di Jerry Garcia si trasforma in una smorfia. «Prima ci
insultano, poi ci trasformano in un’a razione. Entrate, su. Sono
arrivati anche Marty e Paul dei Jefferson Airplane. Gente a posto.
Ovviamente.»

***

Alle pareti sono appesi mandala tibetani, una bandiera a stelle e


strisce, pergamene. Da qualche parte nella casa risuona il sax di John
Coltrane. Nell’aria si mescolano il fumo dell’erba e l’aroma
dell’incenso e del cibo cinese. Alcune persone entrano ed escono
dalla cucina, compresa una ragazza con indosso soltanto un
lenzuolo. È impossibile stabilire con certezza chi vive lì o invece è
solo di passaggio. Dean intinge un involtino primavera nella salsa
piccante agrodolce. «Dio, quanto mi piacciono questi.»
«Un vero peccato che non vi fermiate di più a San Francisco», dice
Pigpen, un nomignolo che, Dean non può fare a meno di pensarlo,
gli calza a pennello: porcile. «Ti porterei a Chinatown. Un dollaro e
mangi da re.»
Dean pensa ad Allen Klein, che gli ha proposto un appuntamento
per discutere dei duecentocinquantamila dollari. «Sarà per la
prossima volta.»
A un angolo del tavolo, Jerry Garcia e Jasper si scambiano alcune
scale con un paio di chitarre. «Questa si chiama misolidio», spiega il
leader dei Grateful Dead al chitarrista degli Utopia, «sfru a una
se ima diminuita…» La suona. Nel fra empo, Marty Balin, piccolo,
in carne e color fungo, sta flirtando con Elf.
Buona fortuna, pensa Dean mentre Paul Kantner, con i capelli di
un biondo inquietante, chiede: «Avete incrociato Jimi nel periodo in
cui stava a Londra?»
«Solo di sfuggita», dice Dean. «Non ci frequentavamo.»
«Jimi ha suonato al Fillmore una se imana dopo Monterey», dice
Paul. «Sui cartelloni il suo nome era so o il nostro, ma dopo un paio
di giorni era in cima a tu i quanti. Che personaggio.»
Marty mangia rumorosamente i noodles. «Io e te per suonare
usiamo mani e dita, giusto? Abbiamo imparato seduti in una stanza.
Jimi invece è un chitarrista di strada. Suona con tu o il corpo.
Polpacci, vita, fianchi.»
«Palle, culo e cazzo», aggiunge Pigpen. «Voglio dire, è il primo
tipo nero per cui le donne bianche sbavano. Non ho mai visto niente
del genere. È quasi come se… grondassero libidine.»
«Alcune donne bianche», lo corregge Elf.
«Certo, te lo concedo. Però sono parecchie. E fa colpo anche sugli
uomini, questo è il punto. I primi pantaloni di pelle nera che ho mai
visto erano di Jimi.»
«E il foulard sopra il ginocchio e quello intorno alla testa?»
aggiunge Paul. «A San Francisco si sono diffusi più rapidamente
dello scolo durante la Summer of Love.»
«Io la Summer of Love l’ho passata guidando un furgone su e giù
per la A1 con questi tizi», dice Griff indicando il gruppo. «Il
momento giusto nel posto sbagliato.»
«L’anno davvero grande è stato il ’66», dice Marty gustandosi la
zuppa cinese all’uovo. «L’estate prima della Summer of Love. Sei
d’accordo, Jerry?»
«Sì, è così.» Jerry Garcia solleva lo sguardo dalla chitarra.
«L’Estate dei Desideri Esauditi. Bastava avere una band e avevi un
pubblico. Bill Graham ha aperto il Fillmore con qua ro o cinque
gruppi a serata. Non c’era neanche bisogno di essere particolarmente
bravi. È esplosa tu a una nuova scena, non era mai successo niente
di simile in America. O nel mondo. O nella storia.»
«Parli di quel Bill Graham?» domanda Dean. «Il Bill Graham che
fa da agente ai Jefferson Airplane?»
Marty si adombra e guarda Paul che sgranocchia un cracker di
riso. «È lui, sì, anche se in realtà è solo tecnicamente il nostro
manager.»
«Di Bill se ne dicono tante», interviene Jerry. «I suoi detra ori
sostengono che alimenta la vacca psichedelica solo per mungerla.
Però lavora come un pazzo e non ha mai negato di volersi arricchire,
organizza concerti di beneficenza per HALO, un’associazione di
avvocati che aiutano i ragazzi nei guai, e per i Diggers, un colle ivo
radicale che dà da mangiare agli affamati.»
«La cosa più rivoluzionaria», dice Pigpen, «è che paga davvero i
gruppi quello che dice. Nessuna stronzata tipo: ‘Non abbiamo
venduto abbastanza biglie i, quindi eccoti una birra, un pezzo di
fumo e levati dalle palle’. Mai. Con lui non succede.»
«Levon si vedrà a colazione con Bill domani», dice Dean.
«Vi vorrà al Fillmore», dichiara Pigpen. «Si sta spargendo la voce
del vostro concerto a Knowland Park. È stato davvero spe acolare.»
Griff fa roteare la forche a nei suoi chow mein. «Com’era il
Knowland Park Festival paragonato allo Human Be-In?»
«Sono come il giorno e la no e», dice Paul il Biondo. «Gli
organizzatori con il Knowland Park hanno fa o i soldi, anche se
hanno finto che non fosse così. Con il Be-In nessuno ha guadagnato
un cazzo, però resterà nella storia.»
«Era mooolto più grande», dice Marty. «Trentamila persone sul
campo da polo nel Golden Gate Park. Gli hippie di Haight-Ashbury
che predicavano pace e amore. I radicali di Berkeley che predicavano
la rivoluzione. Comici, poeti, guru. I Big Brother con Janis, i Grateful
Dead, i Quicksilver, noi. Cantori tibetani per salutare il sole.»
«E niente violenza», dice Pigpen. «Niente furti. Owsley Stanley
distribuiva LSD come se non ci fosse un domani.»
«LSD? Liberamente?» chiede Dean. «E la polizia?»
«L’acido non era ancora illegale», replica Paul. «Alla giunta
municipale non andava giù, ma come potevano negare un permesso
che nessuno aveva mai chiesto?»
«Il sindaco di Chicago un modo l’ha trovato», fa notare Elf.
«San Francisco non è Chicago», riba e Pigpen.
«E solo per un periodo», prosegue Jerry, «forse pochi mesi, un
buon numero di noi ha creduto possibile vivere una vita diversa. A
partire proprio da qui. I Diggers distribuivano da mangiare gratis. In
Haight Street c’è ancora una clinica gratuita.»
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«Cos’è cambiato?»
«Sovraesposizione», dice Pigpen. «Si è sparsa la voce. I media
hanno pompato la cosa: ‘Provincia americana! Anche i tuoi figli
potrebbero cadere nella trappola satanica dell’amore libero, della
droga libera e della musica libera!’ E proprio per questo, cazzo, quei
figli si sono presentati, tu i con i fiori nei capelli.»
«Centinaia di migliaia», interviene Jerry. «Si sono dire i qui. E
una volta qui hanno scoperto che i Diggers i pasti non li tiravano
fuori dal nulla, non le eralmente. Avevano bisogno di un bel po’ di
soldi da gente tipo Bill Graham. La richiesta era infinita. Gli
approvvigionamenti no.»
«Gli spacciatori hanno trovato terreno fertile», dice Paul. «È
scoppiata una guerra per accaparrarsi il territorio. Un ragazzo è stato
accoltellato a morte a dieci metri da qui. Poi sono spuntate le prime
persone con il cervello bruciato dagli acidi. Owsley dava la stessa
dose a tu i quanti. Energumeni e ragazze filiformi. Ma non tu i
sono fa i allo stesso modo.»
A Dean vengono in mente le strazianti condizioni in cui versa Syd
Barre .
«Quello che era anticommerciale è stato commercializzato»,
continua Jerry.
«Dal taxi abbiamo visto un mucchio di negozie i psichedelici»,
commenta Jasper.
«Esa o», dice Marty. «Maglie e, kit per I Ching, pentacoli.
Scaffali pieni di cazzate. E tu o è sempre meno ‘Accenditi,
sintonizzati, abbandonati’ e sempre più ‘Vieni, incassa, venditi’.»

«Ve lo dico io che differenza c’è fra prima e adesso.» Paul si


ripulisce dalla salsa il mento pronunciato. «L’anno scorso, in giugno,
un mio amico doveva prendere un aereo per tornare in New Mexico.
È il classico hippie che gira senza scarpe. All’aeroporto di San
Francisco l’adde o della compagnia gli ha fa o presente che a piedi
nudi non lo avrebbero fa o salire. Così il mio amico si è dato
un’occhiata intorno e ha visto uno come lui, un freak che arrivava a
San Francisco giusto in quel momento. Al che gli ha de o: ‘Ehi,
amico, me li puoi prestare i tuoi sandali? Se non trovo subito
p p
qualcosa da me ere ai piedi perderò l’aereo’. E quel completo
estraneo gli fa: ‘Come no’, poi gli ha dato i sandali e il mio amico è
tornato a casa senza problemi. Ora, questo scambio avrebbe potuto
avvenire solo in un breve arco di tempo, pochi mesi fra il Sessantasei
e il Sessantase e. Il Sessantacinque sarebbe stato troppo presto.
L’estraneo avrebbe de o: ‘Sei ma o? Va eli a comprare i cazzo di
sandali!’ Oggi, nel 1968, è troppo tardi. L’estraneo direbbe: ‘Ma certo
che posso darteli… fanno cinque dollari più IVA’.»
Jerry Garcia piazza un riff blues di chiusura.
«È rimasto qualcosa di quel periodo?» chiede Elf.
I ragazzi di San Francisco si scambiano un’occhiata.
«Non molto, secondo me», risponde Paul Kantner.
«Solo qualche slogan vuoto», dice Pigpen.
Jerry si me e a strimpellare la chitarra. «Ogni tre o qua ro
generazioni ce n’è una radicale, di rivoluzionari. Noi, amici, abbiamo
fa o saltare il tappo. Abbiamo liberato i geni. Abbiamo scatenato
sommosse, ci siamo fa i sparare, spiare, comprare, siamo morti,
abbiamo fallito, ci siamo venduti al potere. Su questo non ci piove.
Ma i geni che abbiamo liberato sono ancora in giro. E nelle orecchie
delle nuove leve sussurrano ciò che prima era impronunciabile: ‘Ehi,
ragazzi, non c’è niente di male a essere gay’. Oppure: ‘E se la guerra
non fosse una dimostrazione di patrio ismo, ma una cosa davvero
idiota?’ O magari: ‘Perché così poche persone hanno così tanto?’ Nel
breve periodo, non cambierà poi molto. Questi ragazzi sono lontani
dalle leve del potere. Per il momento. Ma nel lungo periodo? Quei
sussurri sono la matrice del futuro.»

***

«Chi ha voglia di farsi un acido?» chiede Jerry.


«Io e Paul domani abbiamo un aereo la ma ina presto per
Denver», risponde Marty Balin. «Con Bill è come lavorare alla catena
di montaggio.»
«Io e l’LSD non andiamo d’accordo», dice Elf. «Devo rifiutare.»
«Vale lo stesso per me, Elf.» Pigpen si versa un bicchiere di
Southern Comfort. «Il mio ultimo trip… che cazzo di incubo.»
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«Mi spiace rinunciare a un trip con Jerry Garcia per un
appuntamento con due lo atrici», interviene Griff, «ma la carne è
debole.»
«Jasper?» chiede Jerry. «Non mi dirai che ‘Sound Mind’ e
‘Darkroom’ ti sono uscite fumando Marlboro.»
«Se la mia mente fosse una delle case dei tre porcellini», replica
Jasper, «non sarebbe quella fa a di ma oni.»
«Ehi», Pigpen si volta verso Elf. «Ma questo tipo non la dà mai
una risposta dire a a una domanda dire a?»
Elf assesta qualche pacca leggera sulla mano dell’amico. «Le sue
risposte sono o spaventosamente dire e o indizi per un cruciverba
cri ografato.»
«La schizofrenia è una mia vecchia conoscenza», riprende Jasper.
«Grazie a lei mi sono fa o trip a sufficienza per una vita. La mia
ragazza si vede con una cricca di fotografi della West Coast, quindi ci
andrò anch’io.»
Jerry guarda Dean. «La mia unica speranza resti tu, signor Moss.»
È la serata giusta. «Ci sono, signor Garcia.»
«L’hai già fa o?»
«No», amme e Dean. «Non esa amente.»
«Visto che sei vergine, allora, avrai una dose leggera.»
Elf, Jasper e Griff si alzano per andarsene. «Ti affidiamo il nostro
Dean», dice Elf a Jerry. «Non è facile trovare un buon bassista.»
«Se ci avventureremo fuori, porterò un angelo custode. Dean poi
potrà dormire sul nostro divano, così non avrà bisogno di tornare in
hotel.»
«Ci vediamo in studio doma ina», dice Dean.
«Iniziamo alle nove in punto», precisa Griff. «Chi c’è c’è, chi non
c’è non c’è.»
«Portaci un souvenir», gli dice Jasper.

***

«L’acido è come una scatola di cioccolatini misteriosi.» Dean è nella


stanza di Jerry, sono seduti per terra su alcuni cuscini davanti a un
tavolo basso ricavato da una porzione di tronco. «Dieci strisce di
p
coca della stessa partita ti danno la stessa bo a. Dieci spini della
stessa erba ti stonano allo stesso modo. Dieci viaggi con la stessa
dose di LSD, invece, sono dieci viaggi diversi. Dipende molto da
come stai di testa, quindi fallo solo se ti senti in pace. In questo tipo
di viaggio non esistono sedili eie abili.»
Mandy Craddock? Suo figlio? Rod Dempsey? Mio padre?
«Mi sento in pace il più possibile qui e adesso.»
«Bene, allora. Lo vedi quel grande libro rosso dietro di te? Jules
Verne?»
Dean si gira. «Viaggio al centro della Terra?»
«Quello. Me ilo sul tavolo.» Dean lo fa. Jerry lo gira sul retro, poi
solleva un lembo nascosto nel cartone della copertina. So o il
cartone c’è una minuscola busta marrone alta tre centimetri e lunga
se e. Aiutandosi con un paio di pinze e, Jerry estrae un quadratino
di carta gialla grande come un francobollo. «Questa è carta di riso
impregnata con una dose di acido liquido. Leccati il pollice.» Jerry
gli appoggia la carta gialla sul polpastrello inumidito e fa lo stesso
sul suo. «Siamo pronti.»
Si me ono il francobollo sulla lingua.
Dean lo sente dissolvere in pochi secondi.
«Il tappeto volante arriverà fra poco. Me i un disco.»
Jerry sistema al suo posto la sua riserva e il libro di Verne, mentre
Dean prende Music from Big Pink dei The Band e fa partire il lato B.
Jerry e Dean accompagnano la musica con i bongos finché «Chest
Fever» non prende fuoco con una dirompente esplosione d’organo.
«Questo pezzo è incredibile», dice Dean.
«L’organo è un Lowrey. Garth è l’arma segreta dei The Band, ed è
anche la persona più a modo che esista al mondo. Come ti senti?»
«Come se dovessi cagare.»
«È il tuo corpo che ti dice: ‘Sta per succedere qualcosa di
celestiale, meglio occuparsi adesso delle cose più terrene’. Da quella
parte trovi il bagno.»
Dean ci va e quando ha finito si lava le mani. L’acqua gli sembra
seta. La gravità si sta riducendo. Torna nella stanza e Jerry gli chiede:
«Comincia a farsi sentire?»
«Mi sembra che gli atomi d’aria mi scoppie ino nei polmoni come
popcorn.»
«Andiamocene al parco a fare una passeggiata.»

Viene fuori che il presunto indiano si chiama Chayton. «Metà


Navajo», spiega lui stesso a Dean mentre scendono in strada, «un
quarto Sioux e un quarto vallo a sapere.» Resta un paio di passi
dietro Dean e Jerry. Jerry parla del quartiere. L’andatura di Chayton
ricorda quella di una pantera, sprigiona un campo di forza che gli
imbroglioni, gli acca oni e i curiosi di Haight Street percepiscono e
preferiscono non sfidare. Jerry porta un cappello con una tesa molto
larga e gli occhiali a specchio, nessuno lo infastidisce. La sua
sigare a odora di salvia. Il cielo è una terra di nessuno sospesa fra il
giorno e la sera. Ci sono poche nuvole, alte e gonfie, come fumo
espulso da un drago. Le scie di tre aerei a reazione formano un
triangolo. Una sala da bowling ha le alte finestre spalancate. Dean
sente rotolare le bocce e il frastuono dei birilli.
Una ragazza passa loro accanto, lasciandosi dietro una scia di
numerose se stesse. Dean è ipnotizzato da quell’incredibile visione.
Anche un vagabondo si lascia dietro una decina di se stessi. Haight
Street pullula di queste scie visibili.
Facendo roteare un braccio, Dean schiude un ventaglio di
avambracci.
«Stai vedendo le immagini fantasma?» Jerry ora fa da testa alla
cometa Jerry.
«Credo di sì», replica Dean. Immagini fantasma. A raversano
Stanyan Street e quando varcano il cancello di ferro ba uto del
Golden Gate Park i colori raddoppiano, triplicano, quadruplicano
d’intensità. I cespugli si illuminano di verde, il cielo diventa ancora
più blu e una striscia di nuvole rosa oscilla fra tu e le sfumature di
rosa esistenti e altre inesistenti. «L’acido fa guarire dal daltonismo?»
«No», risponde Jerry, «però ti chiedi se prima stessi vivendo nel
mondo reale o soltanto in una sua rappresentazione.»
«Posso usarle queste parole? Voglio me erle in una canzone.»
«Se le ricorderai, amico, sono tu e tue.»
Aceri fiammeggianti crepitano, scoppie ano e fanno schizzare
nell’aria scintille scarla e e dorate che, in alto, prendono a turbinare.
«Cazzo cazzo cazzo…»
I tre si siedono su una panchina. L’erba alta si dimena intorno a
loro. Si sta davvero dimenando? Dean la guarda meglio e l’erba si
ferma. No, è solo erba. Quando distoglie lo sguardo riprende però a
dimenarsi, per poi fermarsi nuovamente non appena Dean
riconcentra l’a enzione su di essa. È come uno scolaro che non aspe a
altro che la maestra si volti. «Quindi quando guardiamo qualcosa»,
osserva Dean, «noi lo cambiamo.»
«È esa amente per questo che non vediamo mai le cose come
sono», dice Jerry. «Ci limitiamo a vederle come siamo noi.» Un
grosso cane traina una ragazza sui pa ini.
Chayton segue Dean e Jerry ovunque si spostino. Si fermano a
guardare due tennisti. Il sonoro è fuori sincrono. La racche a che
colpisce la palla fa rumore solo dopo l’impa o. Via via che la partita
prosegue, i giocatori s’ingrandiscono. Dean si gira per dirlo a Jerry,
ma la sua testa si è gonfiata fino a essere il doppio di una normale,
tu avia mentre espira si sgonfia. La pelle dei tennisti prima si fa
la ea, albina, poi trasparente come cellophane. Le vene, le arterie, i
muscoli, il tessuto conne ivo sono lì in bella mostra. Vicino sfreccia
un levriero. Dean riesce a vederne le ossa, il cuore, i polmoni, la
cartilagine. Accanto a un cestino c’è un gabbiano che è il fossile
vivente e carnoso di un gabbiano. Davanti a un furgone che vende
panini la foto di un hamburger non è per niente una foto, in realtà,
ma un autentico cheeseburger. Gocciola globuli di grasso caldo. Il
formaggio fuso si allunga fino a terra. Il ketchup brilla come sangue
sulla scena di un incidente appena avvenuto. Il pane è vero, soffice,
lievitato e respira, dentro e fuori, dentro e fuori. «Ti sbagli di
grosso», dice il panino a Dean, «a dare per scontato che il tuo
cervello generi una bolla di coscienza e a definirla ‘Io’.»
«Perché sarebbe uno sbaglio?» domanda Dean al panino parlante.
«La verità è che non c’è nessun ‘Io’ privato. Rispe o alla coscienza
sei quello che la fiamma di un fiammifero è per la Via La ea. Il tuo
cervello la coscienza l’a inge soltanto. Non sei una emi ente. Sei un
trasme itore.»
«Dannazione», dice Dean. «Quindi quando moriamo…»
«Quando un fiammifero si spegne, la luce cessa di esistere?»
Con la spatola degli hamburger l’uomo nel furgone fa segno a
Dean di allontanarsi: «L’isola che non c’è è da quella parte, ragazzo».
Dean guarda in fondo allo stre o sentiero per il Far West e al
centro del sole che tramonta scopre Bolívar, il ragazzino che al
festival ha accompagnato fino al tendone dei bambini smarriti. «Ehi,
Bolívar, sei vero?»
La voce di Bolívar viaggia a raverso i raggi del sole: «E tu?»
Chayton segue Dean e Jerry ovunque si spostino.
All’ombra di un gazebo, Dean piscia diamanti. Svaniscono nella
terra. Nessuno lo verrà mai a sapere. Sente avvicinarsi una banda di
o oni e quando l’ultimo diamante se n’è andato per sempre,
raggiunge Jerry nel gazebo. «Tu la senti la banda?»
Il sole rosa si rifle e negli occhiali di Jerry. «Sento il motore della
terra. È un rombo corale. Cosa sta suonando la banda?»
«Te lo dirò quando lo capisco. Eccoli, arrivano…»
So o un castagno dalla chioma folta marciano un centinaio di
scheletri, le uniformi a brandelli ciondolano dalle carcasse
dinoccolate e scomposte. I loro strumenti sono fa i di ossa umane e
la melodia che suonano è la colonna sonora dimenticata della
Creazione. Se potessimo inciderla su disco, pensa Dean,
altereremmo la realtà… Sta a te, Moss… Ricordatelo…
Parrocche i e aironi se ne stanno appesi senza fili al crepuscolo.
Dean alza un pollice e l’ala di un airone si muove.
Dean soffia fuori un po’ d’aria, e una nuvola si sposta di pari
passo.
La separazione è un’illusione, realizza. Quello che facciamo a un
altro, lo facciamo a noi stessi. «Che ovvietà.» Un fantasma chiede a
un futuro fantasma: ‘Chi devo dire che sta chiamando?’
In coda alla banda c’è un bambino in vestaglia e pantofole. È il
figlio più piccolo di Tiffany, Crispin, e punta il dito contro Dean. Ti
scopi mia madre.
«Sono cose che capitano», replica Dean. «Un giorno capirai.»
Un secondo dito si unisce al primo di Crispin. Insieme formano
una pistola. Spara a Dean. Pum, pum, sei morto.
p p p
Chayton segue Dean e Jerry ovunque si spostino.
«Questo è il campo da polo», gli dice Jerry Garcia. «Il sacro prato
dove Ginsberg ha guidato il canto per sole, luna e stelle fino alla fine
dei tempi.»
Dean non capisce bene se è diventato sordo lui, se la voce di Jerry
se n’è andata, o se il Padreterno ha abbassato il volume del cosmo
intero. Prima che possa rispondersi, una fi a di dolore tagliente
come un’ascia gli squarcia l’inguine. Gli cedono le ginocchia e crolla
di schiena sul manto erboso. È il dolore più intenso che abbia mai
sentito. Non riesce a urlare, o a chiedersi dove siano finiti i suoi jeans
e le sue mutande, né a chiedersi come abbia potuto sbagliarsi tanto
per tu a la vita sul proprio sesso, o a preoccuparsi dei rischi che
comporta il denudarsi in un parco pubblico di San Francisco.
L’unica cosa che si domanda è: Sto morendo?
«No», gli risponde Chayton. «Al contrario. Guarda.»
Fra le gambe, Dean vede il rigonfiamento appiccicoso di una
fontanella. Sto partorendo. Lì con lui c’è sua madre, sorridente come
nella foto sul piano di nonna Moss: «Spingi, Dean… Spingi, tesoro…
Un’altra spinta!» Con lo strappo con cui si sradica una radice, il
bambino di Dean sguscia fuori in un fio o di fluidi. Dean si stende,
ansimando e piagnucolando.
«È un maschio», gli dice la madre, poi glielo porge. Il bambino di
Dean è un piccolissimo e vulnerabile Dean ricoperto di sangue. Dean
diventa il suo stesso figlio, e sta fissando a entamente Harry Moffat.
Con gli occhi che gli brillano d’amore e meraviglia, Harry Moffat lo
culla nell’incavo del braccio. «Benvenuto in questa gabbia di ma i,
figliolo.»

Dean si risveglia sul divano. Sente odore di cibo cinese, di erba e


di una pa umiera che andrebbe svuotata. Ci sono libri, un banjo in
pelle di serpente dal lungo manico che dev’essere qualcos’altro, una
gigantesca candela degna di una ca edrale, uno stereo, un cumulo
di dischi. Dietro un’arcata vede la cucina dei Grateful Dead al 710 di
Ashbury Street. Un orologio a forma di coniglio di Playboy fa le 7 e
41 del ma ino. Alla radio un pimpante DJ americano sta parlando
del tempo, poi partono le prime ba ute di «Look Who It Isn’t»,
p p p p
dire amente da Stuff of Life. La amo questa ci à, pensa Dean. Un
giorno verrò a vivere qui. Si sente bene. In salute. Equilibrato. Un po’
appiccicaticcio, però… avrei bisogno di un bagno. Si me e a sedere. Tu i
i pezzi del suo corpo sono al loro posto, tali e quali a prima: il canale
del parto del giorno prima era solo provvisorio. Le persiane di una
grande vetrata affe ano la luce chiara del ma ino. Sono Dean Moss,
ho superato la prova dell’acido e ho partorito me stesso. Se da questo non
viene fuori una canzone, mi mangio la Fender. Il suo sguardo si posa su
un libro malconcio intitolato La via dei Tarocchi, di Dwight
Silverwind. Lo apre. A ogni carta è dedicata una pagina. Dean
guarda quella dell’o o di coppe. L’o o di coppe scrive Dwight
Silverwind, è una carta che indica il cambiamento. Il pellegrino volta le
spalle all’osservatore – l’Adesso – e intraprende un viaggio al di là di uno
stre o canale fra le montagne aride. Facendo parte degli Arcani Minori,
l’o o di coppe rappresenta una svolta rispe o ai vecchi schemi e ai vecchi
comportamenti allo scopo di cercare un significato più profondo. Si faccia
caso nell’o o di coppe all’ordine di «ciò che resta alle spalle»: il nostro
pellegrino procede senza strepiti e senza drammi. Alcuni studiosi associano
l’o o di coppe alla diserzione o all’abbandono, ma per quanto mi riguarda la
decisione di chi si me e in viaggio è un a o di autoemancipazione. Dean
chiude il libro.
Nessuno è sveglio. Si me e calze e scarpe, va in bagno e non
piscia diamanti. Beve un bicchiere d’acqua, prende una mela da una
ciotola di cristallo e su un pezzo di carta scrive un messaggio: Jerry,
me ne vado un po’ diverso da come mi hai conosciuto ieri. Grazie, Dean –
PS: ho preso una mela. Poi infila il messaggio so o la porta della sua
stanza. Nel portico sopraelevato l’aria è fresca e frizzante. Gli alberi
su Ashbury Street lo commuovono, non saprebbe dire perché.
Chayton sta leggendo il New Yorker sulla sedia a dondolo. «Un’altra
splendida ma inata», dice quello che, ormai è assodato, è un
indiano. «Forse più tardi pioverà.»
«Grazie per aver badato a me ieri.»
Chayton fa una faccia come a dirgli di lasciar perdere.
«Il tuo ga o dov’è?»
«Quella ga a non appartiene a nessuno. Va e viene.»
Dean scende alcuni gradini e si gira. «Da qui si può andare a piedi
fino a Turk Street e Hyde Street?»
«Prendi Haight Street e falla tu a fino a Market Street. Prosegui
dri o. Hyde è sei isolati a sinistra, Turk qua ro isolati più in là. Ci
vogliono quaranta minuti.»
«Ti ringrazio.»
«Ci vediamo presto.»

Il lato assolato di Haight Street è troppo luminoso, Dean si sposta


quindi su quello in ombra, dove le pupille gli funzionano meglio. La
zona gli fa venire in mente la ma ina dopo un’epica festa casalinga
non autorizzata. Meglio svignarsela prima che arrivi il momento di pagare
il conto. In giro ci sono pochissime persone. Da alcuni cestini
rovesciati, le viscere d’immondizia traboccano in un canale di scolo.
Corvi e cani rognosi se le contendono litigando. Dean addenta la
mela che ha con sé. È dorata e acidula, come la mela di una favola.
Supera quella che sembrerebbe una sala bingo, in realtà invece è una
chiesa. Chissà se è la chiesa di «California Dreamin’» dei Mamas &
The Papas, si domanda, poi si ricorda che ormai può telefonare a
Cass Elliot e chiederlo dire amente a lei.
Tre o qua ro isolati dopo, l’atmosfera hippie cede il passo a
facciate monotone. A un certo punto s’impenna un parco collinoso,
dove uccelli a cui Dean non saprebbe dare un nome cantano su
alberi a cui Dean non saprebbe dare un nome. Preferisce il mondo
nei suoi panni più logori, decide. Il trip è stato una rivelazione,
considera, ma non si può vivere sempre in una rivelazione. Sa che
Griff ed Elf gli chiederanno del trip, e sa che non sarà in grado di
spiegarne a parole neanche un millesimo. È come cercare di suonare
una sinfonia con un gruppo che suona skiffle. Gli viene in mente la
banda di scheletri. Riesce quasi a ricordare alcuni frammenti appena
abbozzati della musica della Creazione, ne è certo… sono così vicini,
invitanti… Ma la musica non suonerebbe allo stesso modo.
Una coppia di adolescenti con una coperta lacera dorme su una
panchina, so o un albero che sembra borbo are fra sé e sé. Gemelli in
un grembo materno. Dean ripensa a Kenny e Floss, e spera che per la
coppia di adolescenti quello sia l’epilogo di una no e magica, e che
pp q p g g
non siano lì solo perché non hanno un altro posto dove andare.
Sopra di sé sente un tram, da quelle parti li chiamano streetcar. Gli
riporta alla mente il furgone del la e che risale Peacock Street a
Gravesend. In quel momento, Ray sarà a casa dopo nove ore di
lavoro all’impianto. Dean arriva a un incrocio. Un cartello dice:
MARKET STREET . Sta aprendo un bar proprio accanto alla fermata del
tram. È fresco, ombreggiato. Perché no? si dice.
Entra, si siede accanto alla finestra aperta e ordina un caffè a una
cameriera sulla quarantina con un cartellino appuntato. Ciao, sono
Gloria! dice il cartellino. In America amano i punti esclamativi. Dean
cerca di ricordare i nomi e i volti delle cameriere con cui ha lavorato
al bar Etna. Li ha dimenticati. Una si era impietosita quella sera di
gennaio in cui lui non sapeva dove dormire. Lei gli avrebbe
permesso di dormire sul pavimento, ma aveva paura della padrona
di casa. La stessa sera in cui sono nati gli Utopia Avenue.

Dean estrae dal portafoglio il biglie o da visita di Allen Klein.


Con l’accendino ne incendia un angolo, poi lo lascia bruciare nel
posacenere. Fa un fuoco purpureo. Non sa bene quale sia stato il
ragionamento, ma sente di aver fa o la cosa giusta. Siamo un gruppo.
Quando il biglie o non c’è più, è come se si fosse tolto un grosso
peso. In Market Street due furgoni si fermano a un semaforo rosso.
THE BEST TV RENTALS IN TOWN , le migliori tivù a noleggio della ci à,
recita lo slogan sulla fiancata di quello davanti. Il secondo prome e
invece: L&H MOVERS - ACROSS THE PLANET! , traslochi L&H – in tu o il
pianeta. Pochi secondi dopo, un terzo furgone si ferma nella corsia
adiacente celando per metà gli altri due. Ha un pannello laterale su
cui si legge: THIRD STREET DRY CLEANERS , tintoria Terza Strada, le
parole se ne stanno impilate l’una sull’altra. I furgoni sono allineati
in posizione tale che dalla prospe iva di Dean si forma una nuova
scri a: THE… THIRD… PLANET . Dean tira fuori dalla giacca il taccuino
e la trascrive. The Third Planet. Quando ha finito, i furgoni sono già
ripartiti. Dietro il bancone del bar, il suo caffè macinato di fresco
sbuffa vapore…
…ed ecco il caffè, servito in una grossa tazza blu, come lo bevono
a Parigi i poeti e i filosofi, immagina Dean. Ne beve un sorso. La
temperatura è giusta. Con un altro sorso vuota un terzo della tazza e
tra iene in bocca il caffè, lasciando che sprigioni la sua magia. Lo
manda giù, e tu i i pensieri aggrovigliati sul suo potenziale figlio si
dipanano. Riconoscerò Arthur. Pagherò a sua madre il mantenimento.
Tu i i mesi, senza inventare cazzate. Avranno abbastanza soldi da non
dover fare sacrifici e risparmiare. Non ci sposeremo, perché sia io sia lei
meritiamo di trovare qualcuno che amiamo davvero, però cercheremo di
rimanere in buoni rapporti. Fra un paio d’anni, quando Arthur non sarà
più soltanto una massa informe, ma un bambino in grado di camminare e
parlare, inviterò lui e Amanda a Gravesend per fargli conoscere nonna
Moss e le zie. Loro capiranno se è mio figlio o no. Lo saprò perfino io a quel
punto, credo. Se lo è, mi organizzerò per stargli vicino, così Arthur saprà di
avere un padre. Gli insegnerò a pescare al molo dietro il vecchio forte. Se
non lo è, mi offrirò di fargli da padrino, e comunque gli insegnerò a pescare.
Dean riapre gli occhi.
Dovrebbe funzionare, mormora fra sé e sé.
«Com’è il caffè?» chiede Gloria la cameriera.
Dean sa che dovrebbe dire semplicemente: Buono, ma decide di
essere Jasper per un a imo. «Vediamo. Temperatura: caldo, non
bollente. Gusto…» Ne beve un sorso. «Buona miscela, ben tostato,
gusto rotondo, per niente amaro. È perfe o, maledizione. Il rischio è
che tu i i caffè del futuro impallidiranno al confronto. Ma chi lo sa?
Magari questo caffè aprirà la strada a una nuova Era del Caffè. Sarà
solo il tempo a stabilirlo. Dunque, Gloria, non so se posso chiamarti
per nome, io sono Dean, ecco com’è il mio caffè. Grazie per avermelo
chiesto.»
«Wow. Santo cielo. Mi fa piacere saperlo. Lo dirò a Pedro. È lui
che l’ha fa o. Quindi, ehm… sarebbero trenta centesimi, quando sei
pronto.»
«Ma certo.» Pensa che tu sia troppo fuori per pagare. Dean me e un
dollaro sul tavolo. «Tieni il resto. Per te e per Pedro.»
La preoccupazione di Gloria svanisce. «Sicuro?»
«È tuo. E di Pedro.»
«Grazie.» Il dollaro scompare nel grembiule.
p g
«È un gran giorno. Io…» Dillo «…diventerò padre.»
«Congratulazioni, Dean! E quando dovrebbe nascere il bambino?»
«Tre mesi fa.»
Gloria è confusa. «Sarebbe a dire che è già nato?»
«Già. È una lunga storia. Si chiama Arthur. Per me è un territorio
nuovo, ma…» Dean ripensa al pellegrino dell’o o di coppe. «La vita
è un viaggio, non credi?»
La cameriera guarda verso Market Street, pensa ad altri tempi, poi
torna a guardare Dean. «Dovrebbe essere così. I miei migliori auguri
con Arthur. Tu hai contribuito a farlo, ma sarà lui a fare di te un
uomo.»

Dean supera negozi ancora chiusi, negozi sprangati, uffici, un


cantiere edile, uno spiazzo desolato, un magazzino. Niente
d’interessante di cui scrivere a casa. Ogni venti o trenta passi c’è un
albero che perde le foglie nel vento caldo. Le macchine si accalcano
agli incroci di Market Street. Le moto schivano le belve più grandi.
Un camion ha parcheggiato davanti a una macelleria. Le carcasse
pendono dai ganci. Dean respira l’odore di ma atoio. Una forza che
non gli appartiene lo a raversa, come la corrente nei cavi sopra i
tram. E se le linee temporanee non fossero una colossale stronzata? Via via
che il centro si avvicina gli edifici si fanno più grandi. Dean trova
Hyde Street e ricorda le indicazioni di Chayton. Ora so dove sono. Nel
punto in cui Hyde incrocia Turk Street c’è lo studio di registrazione.
Dean dà un’occhiata all’orologio. Il gruppo sarà lì più o meno fra
mezz’ora. Io ci me erò quindici minuti. L’albergo di Su er Street è a
due passi. Avrebbe il tempo di farsi una doccia veloce. Sarebbe meglio,
ho caldo, sono sudato e puzzo. Oltrepassa l’Opera House, un grande e
massiccio edificio che a Londra potrebbe trovarsi in Haymarket o a
Kensington Gardens, con colonne e finestre georgiane. Hyde Street
s’inerpica sulla collina. Non è un quartiere alla moda. Dean supera
un banco dei pegni con la rete d’acciaio sulle vetrine. Una lavanderia
a ge oni. TENDERLOIN GIRLIE SHOW . Un parcheggio con una berlina
arrugginita senza ruote. Rovi che sbucano dalle crepe. Una sagoma
infago ata se ne sta riversa davanti a un portone. Su un pezzo di
cartone una scri a a biro dice: FACCIO QUESTA VITA DI MERDA DA
VENT’ANNI . La povertà è orribile in California come da qualsiasi altra
parte. Dean me e cinquanta centesimi in mano all’uomo. Le dita
lerce si richiudono. Ha gli occhi rossi e dice: «Tu o qui?» All’angolo
con Eddy Street c’è un negozio aperto: Eddy Turk’s General & Liquor
Store. Dean nota un frigorifero pieno di bo iglie di la e. È stata una
lunga camminata. Un bel bicchiere di la e freddo…

Il negozio odora di fru a troppo matura e sacche i di carta. Il


titolare è un sikh con occhiali scuri, turbante blu e camicia bianca.
Sta leggendo La valle delle bambole e mangia dell’uva. Dietro la cassa,
le bo iglie di alcolici sono allineate sugli scaffali. Il negoziante
squadra Dean. «Bella giornata», dice.
«Speriamo. Vorrei solo una bo iglia di la e.»
Con un cenno del mento il negoziante gli indica il frigorifero.
«Serviti pure.»
Dean prende una bo iglia piccola e si preme sulla faccia il vetro
freddo. La porta alla cassa. «Anche un pacche o di Marlboro.» In un
espositore ci sono delle cartoline. Dean ne tira fuori una del Golden
Gate Bridge.
«Sessanta centesimi.» L’accento del negoziante è americano
quanto quello di John Wayne. «Per sessantadue centesimi, te la
spedisco io con la posta aerea.»
«Andata.» Dean tira fuori le monete. «Posso affi are la sua biro?»
Il sikh ripone i soldi e gli porge la biro. «Offre la casa. Puoi usare
il tavolo nel retro.»
«Grazie.» Dean trova uno sgabello so o un vecchio banco di
scuola, di quelli con il calamaio apribile. Si siede, guarda dietro la
cartolina lo spazio destinato ai messaggi e si domanda da dove
cominciare. Forse dovrei chiedere a Elf. Beve metà del la e. È
rinfrescante. Ciò che davvero conta è che sto scrivendo. Dean prende la
penna.
Sì, così può andare. Scrive l’indirizzo di Ray e si alza, ma in quel
momento uno, due, tre uomini con il passamontagna fanno irruzione
nel negozio. Come i rapinatori di banche nei film, pensa Dean non
appena tirano fuori le pistole. Pistole vere, le prime che Dean abbia
mai visto. «Mani in alto, Ali Baba!» urla uno di loro.
Guardandoli torvo e con disprezzo, il titolare ubbidisce. I
rapinatori non hanno notato la presenza di Dean, ma lui decide che è
meglio fare la stessa cosa. Tu i e tre i malviventi si voltano e
puntano le pistole contro di lui. Dean rabbrividisce. «Non sparate!
Tranquilli!»
«E questo che ci fa qui?» domanda il rapinatore capo.
«Sono solo un cliente», risponde Dean. «Me ne vado se…»
«Fermo lì!» Il rapinatore capo guarda il più basso dei suoi
complici. «Questo posto avrebbe dovuto essere vuoto.»
A raverso i buchi del passamontagna si vedono le lentiggini del
rapinatore basso.
«Ho tenuto d’occhio il negozio per cinque minuti. Non era entrato
nessuno. Per questo vi ho dato il via libera.» Sembra molto giovane,
quindici o sedici anni.
«Avevi controllato dentro le corsie?»
Un a imo di esitazione. «È la prima volta che faccio il palo. È
un…»
«Deve esserti andato in pappa il cervello! Ora c’è un testimone!»
Il rapinatore più alto me e una borsa in mano al negoziante.
«Riempila.»
«Con cosa?»
«No, non così!» ringhia il rapinatore capo. «Infilerà dentro
qualche banconota di piccolo taglio, qualche monetina e ci dirà che è
tu o quello che ha. Digli di aprire la cassa, la borsa la riempi tu.»
«Fai un passo indietro e apri la cassa», ordina il rapinatore alto al
negoziante.
Il negoziante è perplesso. «Se faccio un passo indietro, come
faccio poi ad aprirla?»
«Non fare il furbo con noi o ti sparo in quel culo da frocio!» urla il
rapinatore basso, e alla parola «culo» gli trema la voce. Dovrebbe
avere qua ordici anni, pensa Dean. «Prima apri la cassa. Poi fai un
passo indietro.»
Il proprietario sospira e fa come gli è stato de o. Il rapinatore alto
trasferisce il contenuto della cassa nella borsa di tela. Non ci me e
molto.
«Ora sfila il casse o dalla cassa», dice il rapinatore capo. «I soldi
veri devono essere so o.»
Il rapinatore alto armeggia con il casse o. «Non si muove.»
Con la pistola, il rapinatore capo fa segno al negoziante di
avvicinarsi. «Pensaci tu.»
«In questa cassa il casse o non si stacca.»
«Tiralo fuori!» Urla o cerca di urlare il rapinatore basso. È nervoso
come uno fa o di coca, nota preoccupato Dean.
Il negoziante lo guarda da dietro gli occhiali. «È una cassa degli
anni Quaranta, ragazzo. Il casse o non è estraibile. Altri soldi non ce
ne sono.»
Il rapinatore capo strappa di mano la borsa al rapinatore alto e dà
un’occhiata dentro. «Solo venticinque dollari? Ci prendi per il culo?»
«Vendo alcolici e alimentari, non diamanti. E poi sono le nove del
ma ino di giovedì. Quanto credevate di trovare?»
Il rapinatore alto gli punta contro la pistola. «Apri la cassaforte
dell’ufficio.»
«Ma quale ufficio? Al massimo di là ci sono un magazzino grande
come un armadio e un cesso scomodo. Perché mai dovrei tenere i
soldi in negozio in un quartiere simile? Troppe rapine. Per questo ho
messo quel cartello all’entrata: NON TENIAMO I SOLDI IN LOCO .»
«Mente», farfuglia il rapinatore capo. «Stai mentendo.»
Il rapinatore basso va alla porta per controllare. «Un momento»,
dice, poi con una certa difficoltà si me e a leggere: «‘Non teniamo i
soldi in… logo’. Ha de o la verità, Dex».
«Niente nomi, cazzo!» urla il rapinatore capo.
Il rapinatore alto si gira verso il rapinatore capo. «Questo colpo
l’hai organizzato tu. Avevi de o che avremmo rimediato duecento
dollari a testa senza problemi.»
«Duecento a testa? Seicento dollari?» Il negoziante è sconcertato.
«Dopo il turno di no e? Ma avete una minima idea di come
funziona la vendita al de aglio?»
«Zi o», ringhia il rapinatore capo. «Dammi il portafoglio.»
«Non lo porto mai al lavoro. Troppe rapine.»
«Stronzate. Come fai se devi comprare qualcosa?»
«Segno gli acquisti sul registro del negozio. Controllami le tasche
se vuoi.»
Che branco di dile anti, pensa Dean.
Il rapinatore capo si volta verso di lui. «Tu cosa stai guardando?»
«Ehm… una rapina a mano armata?»
«Prendigli il portafoglio, piccole o.»
Il rapinatore basso agita la pistola: «Il portafoglio, forza».
Dean ha più o meno dieci dollari, ma idioti fa i di coca e pistole
sono una pessima combinazione, appoggia quindi la bo iglia di la e
bevuta per metà su una pila di scatole di pre el Pinkerton. Per
recuperare il portafoglio, infila una mano all’interno della giacca, e
proprio in quel momento una macchina inchioda fuori dal negozio.
Spaventato, il rapinatore basso urta la pila di scatole, rovesciando la
bo iglia di la e. Dean cerca di afferrarla al volo, ma una forza
terrificante lo scaraventa all’indietro.

Gli arrivano frasi incoerenti, è come se provenissero da radio


appese a lunghi cavi. «Malede o coglione!»
Mi hanno sparato… Mi hanno sparato sul serio, maledizione…
«Stava prendendo la pistola, Dex.»
«Gli avevo de o di darmi il portafoglio!»
«Ma chi è che tiene il portafoglio nella giacca?»
Non posso morire… Non posso… Non ora…
«Lui! Guarda! Ce l’ha in mano!»
«Però si era mosso, Dex, e… e…»
Non così… È davvero troppo, troppo stupido…
«Non fare il mio nome, bru o imbecille!»
NON VOGLIO MORIRE… NO… VOGLIO RESTARE …
«Non si può, Dean, mi dispiace.» È Chayton.
Come fai a essere qui? Tu sei a casa di Jerry…
«Non avere paura. Ti accompagnerò fino al crinale.»
Ma ho ancora delle canzoni da incidere.
«Dovrai lasciarle qui.»
Elf, Jasper, Griff, Ray… non posso almeno avvisarli che…
«Lo sai, Dean, come funziona.»
Le voci nell’Eddy Turk’s General & Liquor Store scemano, mentre la
velocità aumenta. Il negoziante sikh è a malapena udibile: «Sto
chiamando un’ambulanza per il mio cliente. Potete anche spararmi
se volete. Così finirete nel braccio della morte. Altrimenti
approfi atene per scappare».
Non mi serve un’ambulanza, pensa Dean.
«Quelli che devono ancora nascere suoneranno le tue canzoni»,
dice Chayton.
Arthur suonerà le mie canzoni?
«Credo proprio di sì. È ora.»
Dean sta precipitando verso l’alto.
Niente ultime parole…

a. Lo stre o sentiero verso il Far West.


ULTIME • PAROLE
Tu i i gruppi si sciolgono, scrive Levon Frankland nella sua
autobiografia, ma quasi tu i si rime ono insieme. Ci vogliono solo un po’
di tempo e il conto in rosso. Quando Jasper, Griff e io sciogliemmo gli
Utopia Avenue nel 1968, eravamo veramente determinati a farlo.
Dean Moss, nostro amico e membro del gruppo, venne ucciso da un
colpo di pistola nel corso di una rapina in un piccolo supermercato
di San Francisco. Non ce la sentimmo di andare avanti, e il giorno
dopo una nuova catastrofe moltiplicò il nostro dolore: scoppiò un
incendio nei Turk Street Studios e si portò via gli ultimi lavori di
Dean. Un album degli Utopia Avenue senza il suo apporto musicale,
la sua voce e le sue canzoni ci sarebbe sembrato una truffa, avrebbe
violato le leggi a tutela del consumatore. Così, per mezzo secolo, gli
Utopia Avenue hanno continuato a essere una delle eccezioni che
confermano la regola di Frankland. E allora com’è che adesso,
cinquantadue anni dopo il nostro ultimo concerto, mi ritrovo a
scrivere queste note di copertina (come si definivano una volta) per
un nuovo album degli Utopia Avenue che vanta Dean Moss al basso,
alla voce e all’armonica, e una trilogia di canzoni originali – ventitré
minuti – firmate da lui? Una spiegazione è d’obbligo.

Nel se embre del 1968 andammo a New York per la nostra prima
e unica serie di concerti americani. L’inno di Dean, «Roll Away the
Stone», era stato un piccolo successo dell’estate su entrambe le
sponde dell’Atlantico, e Stuff of Life, il nostro secondo LP, bussava già
alla Top 20 di Billboard 100. La nostra casa discografica americana
organizzò un breve tour nella speranza di spalancarci quella porta.
Dopo qua ro serate al Ghepardo di New York e una serie d’interviste,
volammo a Los Angeles per alcune esibizioni al leggendario
g p gg
Troubadour e un’apparizione nel non altre anto leggendario show
televisivo Randy Thorn Goes Pop! Due giorni dopo, suonammo al
Golden State International Pop Festival nel bucolico Knowland Park,
dopodiché vennero rapidamente organizzati altri concerti a
Portland, Sea le, Vancouver e Chicago. Per qua ro ragazzi britannici
nati negli anni Quaranta e cresciuti con i fru i proibiti della musica
americana, quel viaggio più che l’essenza della vita fu l’essenza di un
sogno.
Sogni di trasformazione ai tempi. Il 1968 vibrava di ideali. Il
futuro sembrava plasmabile. Una sensazione simile non si sarebbe
riproposta fino alle rivoluzioni del 1989, alla Primavera araba e
probabilmente a #MeToo e agli a ivisti per il clima dei giorni nostri.
Gli Utopia Avenue non erano propriamente una band politica, ma
l’estate di disordini che fecero seguito all’assassinio di Martin Luther
King, il crescente numero di vi ime in Vietnam e le violenze della
polizia durante il Congresso dei Democratici a Chicago diffuse da
ogni televisione della nazione, riempivano sia i diba iti pubblici sia
quelli privati. Il movimento pacifista iniziava a fare proseliti anche al
di fuori delle enclave più radicali o hippie. In quell’atmosfera politica
tanto surriscaldata pochi restavano indifferenti. Mi ricordo di
quando Jerry Garcia nella sua cucina ci disse: «Nel 1966 qualsiasi
cosa uno desiderasse diventava realtà». Ma nel 1968 anche quello
che uno non desiderava per niente diventava realtà.
In quel contesto effervescente, i qua ro ragazzi che eravamo ai
tempi si aprirono a modi di pensare e di vivere del tu o nuovi. Il
mio lungo percorso per acce are pienamente la mia sessualità fece
un notevole passo avanti durante il nostro soggiorno al Chelsea Hotel.
Jasper stava esorcizzando in solitudine alcuni vecchi demoni, e le
parole che scrisse Dean durante quelle due se imane e mezza
parlano di una ridefinizione sismica di se stesso. Musicalmente, il
periodo rappresentò un salto quantico per tu i noi. L’America ci si
era offerta come un buffet musicale all-you-can-eat. Incontrammo
artisti come noi, potenti, eroi, ca ivi. Ricordo le chiacchierate con
Leonard Cohen sulla poesia, con Janis Joplin e Mama Cass Elliot
sulla tecnica vocale e la coloratura, con Frank Zappa sulla satira e
sulla fama, con Jackson Browne ancora ragazzino sul finger picking,
g g p g
sempre con Janis Joplin sull’affermarsi delle donne in un se ore
gestito da e per gli uomini, con Jerry Garcia sulla poliritmia, e con
Crosby, Stills e Nash non ancora so o contra o sull’armonia. Nessun
giovane cantautore sarebbe potuto uscire immutato da un ambiente
simile. E quale giovane cantautore lo avrebbe voluto, d’altra parte?
Fra un concerto e l’altro, io, Jasper e Dean lavoravamo sul nuovo
materiale in hotel o in aereo, oltre che nei Gold Star Studios di Los
Angeles e nei Turk Street Studios di San Francisco. Ci stimolavamo a
vicenda. Io pensavo: Be’, se Jasper ha inserito le campane tubolari in
«Timepiece», allora io un sitar in «What’s Inside What’s Inside» ce lo
me o eccome. Ricordo che durante la sessione in cui abbiamo
registrato «I’m a Stranger Here Myself», Dean mi disse: «Okay,
Holloway, vedo il tuo dulcimer e rilancio con un clavicembalo. In
5/4. Ba i questo!» I risultati avrebbero potuto essere disastrosi, certo,
ma nel nostro tour americano una sorta di spirito di corpo ci
spronava tu i a lavorare come un sol uomo per realizzare le nostre
folli idee. Non si può so ovalutare il ruolo di Griff. Sapeva seguire la
musica, e quando arrivava dove lei voleva condurlo, con lui il ritmo
faceva le fusa. Un gruppo è tale proprio perché è più grande della
somma delle sue parti. Che senso avrebbe perderci tempo,
altrimenti? La ma ina del 12 o obre 1968, io e Jasper avevamo già
definito l’ossatura di due canzoni nuove ciascuno, mentre una
canzone che inizialmente Dean aveva scri o per una colonna sonora,
si era espansa come un fra ale in un capolavoro incompiuto in tre
parti.

Una volta, negli anni Sessanta, i master venivano conservati su


bobine di nastro magnetico. Se le bobine andavano perdute o
subivano danni, era impossibile recuperare la musica incisa. Meno di
quaranto o ore dopo la morte di Dean, mentre eravamo ancora a
San Francisco in a esa del referto del medico legale, un incendio
spazzò via i Turk Street Studios. Levon ci informò che le nostre
registrazioni si erano sciolte tra le fiamme. Non c’erano dischi rigidi
per il backup, chiave e usb, nessun cloud. Abbiamo avuto la
sensazione che Dean ci fosse stato strappato via per la seconda volta,
era come se sugli Utopia Avenue si fosse abba uta una maledizione.
g p
Tornammo a Londra pochi giorni dopo con l’urna che conteneva le
ceneri di Dean. L’idea era di spargerle da un molo a qualche
chilometro di distanza da Gravesend, quello su cui il padre gli aveva
insegnato a pescare. Una cerimonia sobria, per amici e parenti. Ma
come Dean ripeteva spesso: «Non ci sono segreti a Gravesend». Si
presentarono più di mille persone, tra le quali per fortuna qualche
polizio o fuori servizio che tenne la folla lontana dal vecchio pontile
di legno. Quando il fratello, il padre e la nonna di Dean vuotarono
l’urna nell’acqua, Jasper con una chitarra acustica amplificata iniziò a
suonare «Roll Away the Stone». Mille voci la cantarono in coro e
quando l’ultima nota si spense, Jasper ge ò la chitarra nel fiume. Il
Tamigi la trasportò fino al mare insieme alle ceneri di Dean.

L’anima esiste davvero? Me lo domandavo allora come oggi.


Hanno ragione quelli che non credono alla scienza? Che l’essenza di
Dean in qualche modo esista ancora da qualche parte? Oppure il
conce o di anima è un placebo, una coperta di Linus, una benda che
ci preserva dall’orrore della verità nuda e cruda, ovvero che quando
si muore è finita punto e basta? La realtà è che Dean se n’è andato,
andato per sempre, nei pressi della foce del Tamigi in un ventoso
ma ino d’autunno di cinquantadue anni fa?
L’unica cosa che so è che non lo so, quindi la risposta è: «Forse».
A ogni modo, io prenderò per buono questo «forse». Lo preferisco a
«assolutamente no». C’è qualcosa di confortante nei «forse».

Levon lasciò la Moonwhale e tornò a Toronto per dirigere la


nuova sede canadese della Atlantic. Griff tornò al circuito jazz prima
di trasferirsi a Los Angeles nel 1972, dove si affermò come musicista
in studio e dal vivo. Nel 1970, io pubblicai il mio primo album da
solista, Driftway to Astercote. Jasper, con grande sgomento dei suoi
fan, si ritirò dalla musica e svanì nell’ignoto spazio profondo. Per
alcuni anni, i miei unici conta i con lui si limitarono a enigmatiche
cartoline che mi spediva da luoghi da cui non ci si aspe erebbe una
cartolina. Il nostro primo incontro in carne e ossa avvenne nel 1976,
in un ristorante greco di New York, dove stava completando un
do orato in psicologia. Da allora, il do or De Zoet si sarebbe
p g
presentato alla mia porta una volta all’anno, si sarebbe tra enuto per
un paio di giorni, avrebbe scambiato storie, ascoltato la musica su
cui stavo lavorando e poi sarebbe ripartito. Continuava a suonare la
chitarra per puro piacere, il suo virtuosismo era rimasto inalterato,
ma aveva sempre resistito a qualsiasi tentativo di a irarlo di nuovo
in uno studio. Di solito si stringeva nelle spalle e diceva: «L’ho già
fa o. Perché farlo ancora?»

La musica degli Utopia Avenue è sopravvissuta al gruppo, con


curiosi alti e bassi. Dopo la sua tragica morte, Dean divenne famoso,
ancor più di quando fu ingiustamente incarcerato. Sia Paradise sia
Stuff of Life divennero dischi d’oro e continuarono a vendere bene
per tre o qua ro anni. Ma le pagine del calendario giravano
inarrestabili e, a turno, il glam, il prog, la disco e il punk relegarono
tu o quello che c’era stato prima sullo scaffale dei saldi della storia,
incluso il curioso periodo di folk rock psichedelico che gli Utopia
avevano incarnato per alcuni mesi fra il 1967 e il 1968. La
Moonwhale Record fu acquisita dalla EMI, che rimpinguò un
catalogo rido o ma già perfe amente stru urato, e l’uffice o di
Denmark Street in cima alle scale divenne una fototeca. A metà degli
anni Se anta, era sempre più difficile trovare i dischi degli Utopia
Avenue mescolati a quelli di James Taylor e degli Who. Agli
adolescenti del nuovo decennio cresciuti a New Order, Duran Duran
ed Eurythmics, le canzoni degli Utopia Avenue suonavano come
un’anticaglia musicale proveniente da un’epoca remota.
Se però uno ha pazienza, le anticaglie possono acquisire un valore
che non hanno mai avuto quando erano una novità. Nei primi anni
Novanta si risvegliò un certo interesse verso il gruppo. I Beastie Boys
campionarono «The Hook» nel loro prestigioso LP Paul’s Boutique.
Mark Hollis dei Talk Talk dichiarò che Stuff of Life era stato
determinante nella sua formazione. Le copie originali in vinile dei
nostri singoli e dei nostri LP passarono di mano in mano per
cospicue somme di denaro, un mercato che rimase florido per via dei
problemi di ordine legale che rimandarono la pubblicazione su CD
dei nostri due album. Nel 1994, la versione grunge di «Smithereens»
firmata da Damon MacNish raggiunse le primissime posizioni in
gg p p
classifica. Nel 1996, realizzai la canzone di maggiore successo della
mia carriera solista, «Be My Religion», grazie alla Volkswagen che
l’aveva usata in un suo spot. (Che cosa volete che vi dica? Avevo
bisogno di soldi)
Gli Utopia Avenue riapparvero nei negozi di dischi, impilati nei
megastore degli anni Novanta. I miei nipoti mi raccontavano che nei
dormitori dei college più artistici si sentiva spesso la nostra musica.
Ai miei concerti venivano sempre più giovani e mi chiedevano
canzoni che non suonavo dai tempi della decimalizzazione (cercate
cos’è su Google). Ricordo che quando, al Cambridge Folk Festival,
mi domandarono di cantare «Prove It», declinai l’invito spiegando
che non ero sicura di ricordare le parole. Un ragazzo tatuato con i
capelli tagliati corti sui lati e lunghi dietro replicò urlando:
«Tranquilla, Elf, la canteremo noi per te». Furono fantastici. Inoltre,
agli albori di internet, quando mio nipote digitò Utopia Avenue sul
mio nuovo computer, vidi scorrere pagine e pagine sulla band.
Opinioni, commenti, curiosità, chat, fan club, recensioni, scale e di
nostri concerti, immagini che non avevo mai visto. Alcune di quelle
foto mi fecero piangere, sopra u o quelle di Dean. Nel 2001 Levon,
ormai produ ore cinematografico in odore di Oscar, si fece vivo con
una registrazione pirata di o ima qualità del nostro concerto a
Knowland Park, su cui aveva messo le mani, stando alle sue parole,
«grazie alla serendipità e alle arti occulte». Non per vantarmi, ma
eravamo davvero forti. Nella scale a di o o canzoni c’era anche una
versione non definitiva di «Who Shall I Say Is Calling?» di Jasper,
canzone che avevamo perso nell’incendio di Turk Street. Digger e io
rimasterizzammo in digitale l’intero album ai Fungus Hut, e la Ilex
Records lo pubblicò. Con grande stupore di tu i, quel piccolo e
vanitoso proge o intitolato su due piedi Utopia Avenue Live at
Knowland Park, 1968, si ritrovò dopo una se imana al trentanovesimo
posto in classifica, e per tre mesi rimase nella Top 30. Quando
YouTube cominciò ad affermarsi, iniziarono a fioccare spezzoni di
interviste e show televisivi a cui il gruppo aveva partecipato (nelle
giornate più tristi vado a riguardarmi il nostro scambio con Henk
Teuling alla televisione olandese: un gioiello della comicità). Nel
2006, l’anno in cui ho compiuto sessant’anni, mi invitarono a suonare
p
al Glastonbury Festival. Mia sorella mi prese da parte e mi disse:
«Scusa, sorella cara, ma è tempo che tu te ne faccia una ragione e
acce i la realtà: non sei più un’emerita sconosciuta…»
Non nego che fosse tu o molto gratificante, ma se è vero che la
musica degli Utopia Avenue aveva ricevuto nuovo ossigeno, il
gruppo in sé era ancora moribondo. Ciò che era vero nel 1968 lo era
anche nel Ventunesimo secolo: senza Dean non esisteva nessun
gruppo. I promoter conta avano regolarmente me, Jasper e Griff per
sapere se avessimo cambiato idea. Perfino il figlio di Dean, Arthur
Craddock Moss, autore di colonne sonore per il cinema e la
televisione, riceve e varie offerte per riportare in tour i «nuovi
Utopia Avenue». La nostra risposta era sempre la stessa:
«Acce eremo solo se Dean dice sì».

Ma passiamo rapidamente all’agosto del 2018. Una sera stavo per


andare a le o, quando sentii bussare alla porta: era Jasper. Indossava
un lungo cappo o nero come il personaggio di una canzone di Bob
Dylan, e stringeva in mano la custodia malconcia di una chitarra. Il
dialogo che segue è una ricostruzione, ma piu osto fedele:

Jasper: Ce li ho.
Io: Anch’io sono felice di vederti, Jasper.
Jasper: Sono felice di vederti, d’accordo, ma ce li ho.
Io: Hai che cosa?
Jasper: (Sollevando un MacBook come un esorcista brandirebbe una
Bibbia) I nostri pezzi. Sono qui.
Io: I nostri dischi? Ce li ho anch’io. Quindi?
Jasper: No, Elf, parlo delle canzoni andate perdute. Le sessioni
californiane. Su hard disk. Le ho sentite. Siamo noi. Qui.
Io: (Una specie di rantolo)
Mia Buonasera, Jasper, accomodati. Elf, chiuderesti la porta, per
moglie: favore, prima che tu e le falene del circondario si uniscano
alla festa?
Jasper entrò in casa e mi spiegò che all’inizio dell’anno, in un
mercatino delle pulci di Honolulu, era saltata fuori una valigia con
dodici bobine delle nostre sessioni a Los Angeles e a San Francisco.
Com’erano scampate all’incendio di Turk Street? Questo nessuno lo
sapeva. I nastri si erano conservati per caso, grazie a un furto, per un
errore nell’archiviazione, per intervento divino? Nessuno riusciva a
spiegarselo. Come e quando ci era arrivata quella valigia alle
Hawaii? Un altro mistero. Una cosa però era certa. Un ragazzo di
nome Adam Murphy in luna di miele a Oahu, aveva comprato i
nastri in un mercatino. Adam, che ha un blog che si chiama
«Heritage Audiophile», era in possesso di due elementi cruciali per
questa storia. Il primo era un registratore a bobine Grundig datato
1966 in grado di suonare nastri BASF e TDK del 1965. Il secondo era
il buonsenso, che lo indusse a passare i nastri a raverso un
convertitore digitale la prima volta in cui li ascoltò, così da
ca urarne il suono per i posteri casomai fossero andati in briciole.
Cosa che successe almeno alla metà di loro. Sia messo agli a i che
senza la lungimiranza di Adam Murphy non stareste leggendo
queste righe.
Una volta salvata la musica, Heritage Audiophile si apprestò a
identificare gli artisti. Poco tempo dopo, Jasper riceve e la telefonata
di uno sconosciuto con una notizia decisamente speciale…

Ma, tornando a quella sera nella mia cucina, Jasper collegò via
bluetooth il suo Mac alle mie casse, preme e PLAY ed eccoci lì: Dean,
Jasper, Griff e io, a ventitré-ventiqua ro anni, che suoniamo,
cantiamo, incidiamo. Parlare di «vertigine temporale» sarebbe
ridu ivo. Ecco la mia canzone d’amore newyorchese, «Chelsea Hotel
#939», lo psicodramma blueseggiante di Jasper, «Timepiece», e pezzi
della trilogia musicale di Dean, «The Narrow Road». Non capita tu i
i giorni di sentir suonare la versione più giovane di te stessa insieme
a un amico morto da tempo e che da tempo ti manca. Emotivamente,
ero rido a in gelatina.
Dopodiché Jasper, mia moglie e io ci sedemmo al tavolo. Fuori
bubolavano i gufi e latravano le volpi. Alla fine, riuscii a ritrovare la
voce. «Incredibile, ora però cosa facciamo?»
«Facciamo il nostro terzo disco», mi rispose Jasper.
Quel fine se imana lo passammo nel mio studio in giardino a
esaminare tu e e nove le ore di registrazione. Il materiale poteva
essere suddiviso in «quasi finito», «può migliorare» e «abbozzato».
La qualità del suono era altalenante. Nei nastri di Los Angeles
c’erano più sibili che nelle registrazioni di Turk Street. Per fortuna,
Dean si era messo seriamente al lavoro su «The Narrow Road» solo a
San Francisco, quindi la sua voce insostituibile risultava limpida a
sufficienza. Le tracce erano già nella sequenza giusta. Le mie due
canzoni e le due di Jasper, concepite a New York e/o ispirate da New
York e dal Chelsea Hotel, erano ada e per ciò che gli amanti dei vinili
considerano il lato A di un disco. La trilogia «The Narrow Road» di
Dean, che inizialmente doveva essere una probabile colonna sonora
per un film di Anthony Hershey mai realizzato, era una sequenza
ininterro a di musica. La sua destinazione logica era l’intero lato B.
«I’m Stranger Here Myself» e «Eight of Cups» si collocavano fra il
«quasi finito» e il «può migliorare», mentre il terzo pezzo, «The
Narrow Road to the Far West» era una traccia di basso ipnotica e
scheletrica di o o minuti. Avevamo intenzione di lavorare su quella
la ma ina in cui spararono a Dean. Mentre io e Jasper discutevamo
su che cosa fare con «The Narrow Road», ci sorse un dubbio: era
nostro dovere realizzare il disco come lo avremmo fa o nell’inverno
fra il ’68 e il ’69, come se Dean fosse stato vivo? Oppure avremmo
dovuto usare i nastri come materiale grezzo per il disco che io e
Jasper avremmo voluto fare in quel momento, nel 2019? Che cosa
eravamo? Restauratori puristi o creatori postmoderni?
Dopo tentativi ed errori, alla fine si è imposto un principio guida.
Con quel materiale, io e Jasper ci siamo sentiti liberi di fare qualsiasi
cosa volessimo, a pa o di non sfru are la tecnologia musicale post-
1968. Sì, dunque, al mandolino in «Who Shall I Say Is Calling» e alle
armonizzazioni vocali della vecchia Elf con la giovane Elf in «What’s
Inside What’s Inside». Ma niente campionamenti, Auto-Tune, rap
(come se fosse possibile) e loops. Ho barato solo impostando il mio
Fairlight in modo che riproducesse il suono del vecchio organo
Hammond. Griff si è unito a noi qualche giorno per registrare nuove
q g p g
percussioni da sovrapporre o per sostituire le tracce originali di
ba eria quando il suono non era soddisfacente. Arthur – ormai
abbastanza vecchio da poter essere il padre di suo padre – ha
eseguito le linee di basso con una vecchia Fender di Dean e ha
bu ato giù alcune armonie appassionate per «Eight of Cups». Levon
ci ha raggiunto per tappare un buco a forma di Levon
nell’organizzazione, e Mecca Rohmer, la fotografa che si era
occupata dei nostri primi sca i promozionali nel marzo del 1967, ha
documentato la breve resurrezione degli Utopia Avenue per i
posteri.
Ma perché The Third Planet? Il titolo provvisorio del proge o era
The California Sessions, ma quando Arthur è venuto a trovarci aveva
con sé il taccuino trovato addosso a Dean il giorno della sua morte.
Le ultime parole, tu e sole su una pagina, sono The Third Planet. Che
cosa ci avesse visto Dean possiamo solo immaginarlo, però ci hanno
colpito. Erano il titolo più ada o per il terzo e ultimo LP degli
Utopia Avenue.
Dean, le ultime parole sono tue.
Elf,
Kilcrannóg, 2020
Ringraziamenti

Grazie alla mia famiglia.

Grazie a Sam Amidon, Tom Barbash, Avideh Bashirrad, Nick


Barley, Sally Beamish, Manuel Berri, Ray Blackwell del De Barras
Bar & Folk Club di Clonakilty, Jess Bonet, Chris Brand, Craig
Burgess, Kate Brunt, Evan Camfield, Gina Centrello, Louise Court,
Harm Damsma, Louise Dennys, Walter Donohue, Benjamin Dreyer,
Lorraine Dufficey, Barbara Fillon, Helen Flood, Jonny Geller, Evelyn
Glennie, Ted Goossen, Roy Harper, Paul Harris, Viola Hayden,
Stephen Housden, Kazuo Ishiguro e famiglia, Hellen Jo
(«criminale/subliminale»), John Kelly, Trish Kerr e la squadra del
Kerr’s Bookshop di Clonakilty, Martin Kingston, Hari Kunzru,
Tonya Ley, Dixie Linder, Nick Marston, Katie McGowan, Mrs
McIntosh, Niek Miedema, Callum Mollison, Carrie Neill, Lawrence
Norfolk e famiglia, Alasdair Oliver, Hazel Orme, Marie Pantojan,
Lidewijde Paris, Bridget Piekarz, Stan Rijven, Susan Spra , Simon
Sullivan, The Unthanks, Amanda Waters, Andy Ward, Charles
Williams, John Wilson, Janet Wygal.

Grazie alla Fossa (Pit).

Parecchi de agli sono stati a inti da numerose fonti, ma di


particolare aiuto per l’incontro con Lennon sono stati White Bicycles
di Joe Boyd (Serpent’s Tail, 2007) e You Don’t Have to Say You Love Me
di Simon Napier-Bell (Ebury Press, 2005).

Infine, grazie alla mia editor Carole Welch per la pazienza


sovrumana dimostrata le molteplici volte che non ho rispe ato le
p p
scadenze.


I testi brevemente citati nel romanzo appartengono alle seguenti
canzoni:
«Art for Arts Sake’ scri a da Eric Stewart and Graham Gouldman;
«House of the Rising Sun» di Alan Price; «A Day in the Life» di John
Lennon e Paul McCartney; «Life’s Greatest Fool» di Gene Clark; «It
Ain’t Necessarily So» di Dorothy Heyward, Du Bose Heyward,
George Gershwin e Ira Gershwin; «Just Like a Woman» e «Sad Eyed
Lady of the Lowlands» di Bob Dylan; «Chelsea Hotel #2» e «Who by
Fire» di Leonard Cohen; «I’ve Changed My Plea to Guilty» di Steven
Morrissey e Mark Edward Cascian Nevin; «Chelsea Morning» di
Joni Mitchell; «These Days» di Jackson Browne; «The Partisan» di Hy
Zaret e Anna Marly; «Guinevere» di David Crosby; e «Mercy Street»
di Peter Gabriel.
«For Free» di Joni Mitchell viene sentita di sfuggita quando è
ancora in corso di lavorazione, dunque non corrisponde alla
versione incisa su disco.
«Have You Got It Yet?» è una canzone/scherzo di Syd Barre del
1967, incompiuta e inedita.
Gli appassionati di musica coglieranno gli anacronismi dei testi,
ma immagino che saranno d’accordo nel considerare la musica senza
tempo.
Questo ebook contiene materiale prote o da copyright e non può essere copiato,
riprodo o, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o
utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente
autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da
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fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni
ele roniche sul regime dei diri i costituisce una violazione dei diri i dell’editore e
dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla
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rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scri o
dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da
quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno
essere imposte anche al fruitore successivo.
I versi tra i da Slough di John Betjeman sono riprodo i per gentile concessione di John
Murray Publishers, un marchio di Hodder and Stoughton Limited. © 2006 John
Betjeman.
I personaggi di questo romanzo sono fi izi e qualsiasi somiglianza a persone reali,
esistenti o esistite, è puramente casuale.

www.edizionifrassinelli.it
www.facebook.com/EdizioniFrassinelli

Utopia Avenue
di David Mitchell
© 2021 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Copyright © 2020 by David Mitchell
Pubblicato per Frassinelli da Mondadori Libri S.p.A.
Ebook ISBN 9788892740686

COPERTINA || ILLUSTRAZIONE © SHUTTERSTOCK | ART DIRECTOR / CECILIA FLEGENHEIMER E FRANCESCO


MARANGON | GRAPHIC DESIGNER / LAURA DE MEZZA
Sommario

Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
Paradise Is the Road to Paradise Lato A
1. Abandon Hope (Moss)
2. A Raft and a River (Holloway)
3. Darkroom (De Zoet)
4. Smithereens (Moss)
5. Mona Lisa Sings the Blues (Holloway)
Paradise Is the Road to Paradise Lato B
1. 1. Wedding Presence (De Zoet)
2. 2. Purple Flames (Moss)
3. 3. Unexpectedly (Holloway)
4. 4. The Prize (De Zoet)
Stuff of Life Lato A
1. The Hook (Moss)
2. Last Supper (Griffin-Holloway)
3. Builders (Musica: Utopia Avenue – Parole: Frankland)
4. Prove It (Holloway)45tg
Stuff of Life Lato B
5. 1. Nightwatchman (De Zoet)
6. 2. Roll Away the Stone (Moss)
7. 3. Even the Bluebells (Holloway)
8. 4. Sound Mind (De Zoet)
9. 5. Look Who It Isn’t (Moss)
The Third Planet Lato A
1. Chelsea Hotel #939 (Holloway)
2. Who Shall I Say Is Calling (De Zoet)
3. What’s Inside What’s Inside (Holloway)
4. Timepiece (De Zoet)
The Third Planet Lato B
1. I’m a Stranger Here Myself (Moss)
2. Eight of Cups (Moss)
3. The Narrow Road to the Far West (Moss)
ULTIME PAROLE
Ringraziamenti
Copyright

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