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Massimo Cotto
conversazioni con
Massimo Bubola
Fabrizio De André
Aliberti editore
I tre racconti / pesci, Le api, La chiave sono stati scritti il 12 gennaio 1999 e
pubblicati sul quotidiano «la Repubblica» il 13 gennaio 1999.
Sede legale e operativa:
Vicolo del Clemente, 1 42100 Reggio Emilia Tel/Fax 0522 434523 Ufficio
Stampa 329 4293200
www. alibertieditore. it
info@alibertieditore.it
Prefazione
Senti, dì ai tuoi amici scemi di non chiamare alle 4 di notte spacciandosi per
Fabrizio De André. Quando Fabrizio rubava i carri armati. «Andrea» che
prima era Lucia.
Quella volta che facemmo nascere un vitello. Rimini, Kurt Weill, Todo
Modo e Buñuel. «Volta la carta» e Vittorio De Sica. «Coda di lupo» e
Marco Ferreri. Alla prima della Scala dalla parte di chi tirava le uova.
Anarchia e religione.
Steinbeck, il paralitico che ride quando l’acrobata sbaglia il salto, i poeti
metodisti, il macellaio con la frusta e il «naufragio della London Valor». La
festa per il battesimo di Luvi. Pasolini e Maratta. Il rapimento. Hotel
Miralago, Hotel Miramonti e «Hotel Supramonte». Il non finito nelle
canzoni e la Pietà Rondanini.
Massimo Cotto
Passando sul Piave, notammo un cartello che diceva: «Fiume sacro alla
patria». Fabrizio disse: «Come può esse
Un’altra volta la sentii al Prater di Vienna, io ero sulla grande Ruota, mentre
l’orchestrina da un bar la eseguiva là di sotto. Un’altra volta ancora la
risentii all’Oktoberfest, a Monaco in Germania, riletta da musicanti bavaresi
piuttosto gravidi di birra.
Vi siete mai accorti che il riff della canzone è molto simile al tema
dominante di Histoire d’O?
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Francamente no.
Discutevate spesso?
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A volte sì. E nessuno cambiava facilmente la sua opinione, però lo scontro
era utile a entrambi, perché un po’ ci si spostava comunque. A volte
andavamo avanti giorni a discutere. A sostegno delle nostre teorie
portavamo libri, giornali, poesie. Eravamo come due avvocati che
sostenevano arringhe contrarie. A Fabrizio piaceva lo scontro dialettico.
Provava un piacere quasi fisico. Era il nostro gioco favorito.
Una volta hai detto: «All’epoca del nostro primo disco insieme, Fabrizio
capiva più lui di me come scrittore di canzoni di quanto capissi io. Mi ha
dato la sicurezza di poter fare questo lavoro perché mi sono detto: “Se uno
grande come lui mi stima al punto da voler lavorare con me a suo rischio e
pericolo, allora vuol dire che forse posso farcela” ».
Sapeva mettere tutti a proprio agio. Quando arrivarono i resoconti Siae, mio
padre a momenti svenne. In un semestre di diritti d’autore, avevo
guadagnato quanto lui in tre anni.
Una mattina arrivò mio padre a svegliarmi: «Senti, dì ai tuoi amici scemi di
non chiamare alle quattro di notte spacciandosi per Fabrizio De André». Gli
dissi: «Ma sei sicuro che non fosse davvero lui?» «Ma sei matto? A
quell’ora chiamano solo i carabinieri e le persone serie dormono.
Calcio, molto calcio. Lui tifoso del Genoa, io dell’Hellas Verona, due
squadre da molto lontane dai vertici e dai giochi di potere. Parlavamo
quindi di tutto, ma non di canzoni: di Repubbliche marinare e di storia
medievale, per esempio. Fabrizio era molto guardingo, diffidente come lo
sono spesso i liguri. Non dava molta confidenza, stentava ad aprirsi sulla
musica. Per lui l’importante era annusarsi.
Come con me, del resto. Fabrizio non mi disse mai: «Vieni a scrivere un
disco con me». Disse semplicemente: «Vieni e vediamo cosa succede».
All’epoca, era ospite a casa di una vedova, che affittava stanze a Tempio
Pausania. Una situazione surreale, c’erano enormi agavi come nel giardino
dei conti Cefalù nel film Divorzio all’ italiana di Pietro Germi. I tempi
erano incredibilmente dilatati. Lui dormiva fino a tardissimo, ogni tanto
andavamo al mare. Fabrizio non aveva la patente e ogni trasferimento era
un po’ macchinoso.
Dove lavoravate?
Io vivevo ancora dai miei, lui non aveva una casa solo sua a Milano, quindi
andavo a incontrarlo nell’appartamento di Dori. Lei allora viveva con la sua
bellissima famiglia. Nella casa abitavano i suoi genitori, la sorella Fiore,
suo cognato e i loro tre bambini.
Tu eri reduce da Nastro giallo, opera prima che conteneva «I miei perché»,
«Spalle dolci», «Canzoni di maggio», «Canzone del guerrigliero cieco».
Io non avevo mai pensato di scrivere canzoni. Io suonavo la chitarra
elettrica e scrivevo poesie separatamente. Fu la mamma giornalista di una
mia compagna di liceo a suggerirmi di mettere insieme le due cose e fare
dei provini.
Così trovai un elenco del telefono di Milano e cominciai a tirare giù dei
numeri di case discografiche a caso. I primi a rispondere furono i
discografici dell’Aristón. Mi recai in un postaccio sperso alle porte di
Milano, vicino a un cimitero, lugubre e immerso nella nebbia. Giunsi
cambiando un tram e due autobus e poi feci un lungo tratto a piedi, perché
non avevo i soldi per un taxi. Erano tempi in cui, quando arrivavi con la tua
chitarra a tracolla, dentro la custodia di plastica, si scomodavano i direttori
artistici. Il primo a credere in me fu Roberto Danè, che mi mise sotto
contratto alla Produttori Associati. Io avevo pronte solo tre o quattro
canzoni. Feci il provino con un tecnico del suono che mi sommerse la voce
di echi. Non si capiva niente di quello che dicevo. Mi mandarono
comunque, dopo qualche mese, in studio a registrare un lp. Andava di moda
il neo-ermetismo da canzone. Credo mi fecero il contratto non perché erano
sicuri delle mie qualità, ma perché avevano paura di sbagliare. Si capiva
poco, per cui avrei potuto essere anche un enorme talento.
avevano deciso per me, il maestro Gianpiero Reverberi con il suo dolcevita
e la sua serissima barba. Mentre gli suonavo i brani, lui prendeva appunti,
tirava giù le parti, mi dava consigli. Io ascoltavo e ubbidivo. Dovevo essere
molto diligente, anche perché non erano tempi in cui potevi alzare troppo la
voce. Non se lo potevano permettere neanche i grandi. Parlavo solo se
interrogato. Era così per tutti. Tu portavi le canzoni e cercavi di interpretare
quasi in presa diretta, chiuso in piccoli gabbioni; il resto era compito
dell’arrangiatore e del produttore. A volte ti chiedevano un consiglio e
allora potevi dire la tua, ma non è detto che poi ti ascoltassero. Io cantavo e
fantasticavo, perché nell’altra stanza c’era Lucio Battisti. Vivevo con un
piccolo stipendio che mi dava Casetta, il patron della Produttori Associati,
perché, oltre a incidere per loro, scrivevo testi - come per Pino Donaggio - e
correggevo altri testi di loro artisti.
Cosa vide Fabrizio in Nastro giallo non so, però lui amava ripetere che si
sentiva come un mercante di stoffe capace di riconoscere la buona seta al
tatto. La sua fiducia mi aiutò anche con la casa discografica. Purtroppo, per
una serie di investimenti sbagliati, la Produttori Associati s’indebitò
pesantemente. Il proprietario, Antonio Casetta aveva messo in piedi a
Carimate un megastudio, lo Stone Castle, ma qualcosa evidentemente era
andato storto, così l’etichetta fallì e vendette tutto alla Ricordi. Casetta, da
signore qual era, assistette tutti gli artisti - dalla Rettore agli Alunni del
Sole, da me a Santo & Johnny - nella fase di passaggio e 25
cedette il mio contratto alla Polygram. Fabrizio andò alla Ricordi. E con la
Ricordi pubblicammo Rimini.
Volume vili era un laboratorio straordinario per un ragazzo come me, che si
era appena avvicinato alla scrittura da canzone in lingua italiana.
Discutevamo spesso di quel disco, anche se a Fabrizio non piaceva troppo
parlarne. Era alla ricerca di nuovi contesti e nuove avventure, non solo
musicali. Diceva che, a volte, era come se gli mancasse l’aria. Credo fu in
quei mesi che nacque la decisione di aprire la fattoria in Sardegna. Mi dava
l’idea che, se avesse potuto, avrebbe piantato degli alberi anche nella sua
anima.
no dissi a lui e a Fabrizio che la cosa non era secondo me fattibile. Intanto
perché il testo era un veloce uragano di parole in inglese, che rendeva quasi
impossibile una traduzione decente in italiano. Poi perché la lirica
descriveva un panorama metropolitano, di grandi periferie, mentre sia io
che Fabrizio avevamo un retaggio culturale e un’appartenenza geografica
molto distanti da quel mondo. Era, insomma, un pianeta poco plausibile per
l’universo italiano. Stava sì prendendo piede, ma lentamente. Fabrizio
insisteva, così feci ancora qualche tentativo, ma ci accorgemmo presto che
non era davvero possibile. Ponemmo fine all’insano proposito con una mia
battuta: «Fabrizio, sei troppo addominale per fare Springsteen e poi ti
immagini tu che non hai forse mai corso in vita tua che canti: bambina,
siamo nati per correre!»
Scegliemmo una canzone di Bob Dylan. Fabrizio aveva già affrontato con
De Gregori «Desolation Row», traducendola in «Via della Povertà»,
sull’album rosa.
Dylan era per noi la prova vivente che si poteva prendere la musica delle
radici, metabolizzarla e trasformarla in qualcos’altro ancora.
Cantavamo spesso, tra noi, vecchie canzoni degli alpini come «Bombardano
Cortina», o ballate partenopee come «Marinariello» o «Scalinatiella».
Fabrizio amava Roberto Murólo, soprattutto perché era stato il primo dei
grandi cantanti napoletani a non cantare a voce spiegata, a non urlare, a non
teatralizzare. Per me, Murólo ha avuto una grande capacità di raccontare.
Ma forse il più grande innovatore fu Salvatore Di Giacomo.
Non ho mai capito come per un grande scrittore di canzoni ci sia sempre
questa sorta di remora nel definirlo poeta, come se fosse una patente troppo
impegnativa ed 28
chitarra al figlio del fornaio / per una pizza e un fucile» parlavano in origine
di baratto tra una chitarra e un fucile e un posto per nascondersi. Piccole
variazioni, non sostanziali.
Il Messico della canzone è idealizzato, più vicino al fumetto che alla realtà.
C’è un’incongruenza geografica che nessuno ha notato: dalle rovine dei
templi aztechi a Durango ci sono più di duemila chilometri: sarebbe stato
impossibile farli a cavallo. È un Messico improbabile, ma credibile.
C’era dentro molto Tex Willer. Ogni verso è come una vignetta. C’è uno
story-board chiaro e consequenziale.
Pilar del Mare era figlia di quella letteratura latina di cui ci cibavamo io e
Fabrizio, soprattutto di Gabriel Garcia Marquez. Pilar non è un nome scelto
a caso, ma si riferì 31
«Sally» è dunque una canzone strana, dove la prime due strofe hanno come
riferimento il folk inglese, poi c’è una strofa latinoamericana e un finale tra
Jodorowsky e Buñuel.
Abbiamo scritto insieme cinque blues che lui cantava in uno dei suoi
spettacoli, solo che non ha mai voluto farne un disco, perché si è lasciato
assediare dai dubbi di non essere abbastanza bravo a cantare. Nessuna
rassicurazione è stata sufficiente. Aveva paura di non essere all’altezza.
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Fabrizio suonava ancora con gli stessi musicisti che aveva arruolato
trent’anni prima. Ma aveva sempre paura dell’esame concerto. Forse
crescere con un padre così importante e severo, lo ha sempre fatto sentire
inadeguato.
Pensi che anche Cristiano abbia sofferto il confronto con un padre così
grande?
Inevitabilmente.
L’album Rimini esce nel 1978. E un album sulla fine dei sogni, sul loro
disintegrarsi. Il sogno di Teresa che «parla poco, ha labbra screpolate e mi
indica un amore perso a Rimini d’estate», della Sinistra in contrapposizione
alla De prima del compromesso storico, dei ragazzi che fuggono a Durango,
degli Indiani d’America intrappolati nel loro passato, del Sessantotto,
dell’amore omosessuale di Andrea. È un disco dove, come in Darkness On
The Edge Of Town di Bruce Springsteen, tutto si perde e niente si ritrova.
Hai un’autentica passione per le murder ballads e per il noir. Forse perché
sono il punto d’incontro tra le varie 33
Per esempio mia figlia Emma e i suoi amici amano una antica e famosa
folk-song inglese: «Geordie», cantata nella traduzione italiana da Fabrizio,
perché contiene una breve e rocambolesca storia, in cui il giovane e
bell’eroe viene condannato a morte ingiustamente, ma avrà sul patibolo una
34
corda d’oro. Emma a tre anni cantava «Il blues di re Teodorico» con le sue
compagne dell’asilo, apprezzando la leggenda del re portato all’inferno dal
cavallo-diavolo nella bocca del vulcano nell’isola omonima.
Rimini è anche la prima parte del tema sull’ epopea degli Indiani d’America
e sulla quotidianità della gente sarda.
Fabrizio aveva sposato la Sardegna come sua patria elettiva, come io avrei
poi sposato l’Irlanda. Gli piaceva perché era un mondo arcaico, dove
esistevano ancora i poeti della tradizione orale, dove c’era un rapporto forte
con il sangue, la carne, la terra, la morte. Dove i sentimenti veri
emergevano nella ritualità collettiva come la caccia al cinghiale, che poi
sarebbe comparsa su L’indiano. Dove le geometrie sociali erano rigide e
antiche e bisognava fare attenzione a come rapportarsi.
Fabrizio voleva far qualcosa per loro, per porre l’attenzione su una terra e
un popolo molto emarginato, non solo geograficamente.
Parlavate tra voi dei possibili significati o pensavate che l’arte non si possa
spiegare mai completamente?
Eravamo come due pittori che lavoravano allo stesso affresco. Dipingevamo
a quattro mani, io di giorno lui di notte. Il problema nasceva quando uno
riprendeva in mano la canzone dopo che era stata lavorata dall’altro, perché
ognuno aveva la libertà di portare avanti le cose a modo suo. Il patto era di
garantire al compagno la possibilità di 36
sterzare di lato, non c’era obbligo di direzione. Scegliere cosa tenere e cosa
buttare era, tutto sommato, abbastanza facile. E come nella storielle buffe:
se uno racconta una storia che fa più ridere di un’altra, è ovvio che si tenga
quella.
La cosa straordinaria del nostro rapporto era insomma che la canzone, per
Fabrizio, era il logico fine e coronamento di attività che non avevano a che
fare strettamente con la musica. Era un po’ il momento della festa, il
confronto con se stessi, con la realtà, con la bellezza, con la nostra
circolazione sanguigna. Ma lo studio, la preparazione, la fortificazione del
pensiero avveniva, come ho già detto, lontano dalla musica. Ci mettevamo a
scrivere a volte dopo aver parlato di agricoltura, di Storia medievale, di
motociclette o della politica del governo, dopo aver cucinato, bevuto e
fumato, dopo aver palleggiato col pallone, dopo aver camminato nei boschi,
dopo essere andati a zonzo per il paese, dopo essere andati a pescare sul
mare, dopo aver fatto un breve sogno.
volta che tornammo a Genova, nella casa del padre di Fabrizio, e questi
chiese: «Quante canzoni avete scritto?» E
noi eravamo imbarazzati nel rispondere, perché avevamo fatto poco o nulla.
Ma avevamo incamerato molto. E ci sarebbe servito più in là nel tempo.
La situazione sarebbe peggiorata o migliorata con il secondo disco insieme,
L’indiano?
Fabrizio aveva una ottima abilità manuale: sapeva cucinare molto bene,
impastare, fare i sughi, conosceva la cucina francese, faceva una torta
Pasqualina deliziosa. Quando cucinava il brasato, che steccava con pazienza
certosina, dopo averlo tenuto a bagno nelle verdure col vino e averlo girato
per un giorno, al momento fatidico della messa in pentola, non doveva
volare una mosca: la cottura del brasato era per lui un’esperienza quasi
mistica.
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Certi giorni andavamo in giro per le montagne della Gallura a comprare
vacche dagli allevatori. Una volta fummo inseguiti da un toro e riuscimmo
per un pelo a salvarci buttandoci dietro a un muretto, dove c’era però un
roveto.
Scrivere canzoni è come dover sempre capire da che parte gira la luce,
sfruttando le ombre, rincorrendo i contorni. E
vedere in che punto della chiesa si trova l’abside e le fonti di luce naturale:
le bifore, trifore e, quel che è più importante, dove devono guardare i fedeli.
timbro della voce della madre, quindi molto prima ancora di comprendere il
significato. Il bambino si gira verso la madre e capisce che gli sta parlando
anche se non comprende cosa stia dicendo. La madre potrebbe parlare
qualsiasi lingua, capirebbe lo stesso. L’approccio alla musica è molto
simile.
Tutta la canzone assomiglia a una lenta discesa agli inferi, dalla prima parte
che è mitologica, alla seconda parte che è storica, alla terza che è
cronachistica.
Nella terza strofa la dea entra nel fiume del quotidiano dove le accade la
cosa più bieca, ovvia, scontata e volgare: abortire il figlio di un bagnino.
In tutta la canzone c’è un po’ della lezione del Bunuel de La via Lattea con
quella miscela di sacro e profano. Avevo appena fatto un corso monografico
all’università sul cinema surrealista e avevo studiato le tecniche di
straniamento 41
«Volta la carta».
Una canzone che è stata assai utile al disco, perché, al pari di «Avventura a
Durango» ha conferito colori meno oscuri. E una filastrocca alla quale
ognuno potrebbe aggiungere una strofa, come da tradizione, perché
l’importante è creare rime. I primi versi appartengono a una filastrocca
preesistente che conoscevo - «c’è una donna che semina il grano volta la
carta e viene il villano il villano che zappa la terra / volta la carta e viene la
guerra» e così via. Da lì in poi abbiamo proseguito noi.
Ricordo mia nonna che la cambiava ogni volta che la cantava. Non contenti
di inserire nuove strofe, abbiamo anche operato nel ritornello l’innesto di
altre canzoni popolari.
La prima è quella che parla di Angiolina e che mia madre cantava spesso:
«Ohi Angiolina bell’Angiolina innamorato io son di te E la gaveva la veste
rosa e le scarpette di raso blu»; la seconda è Madamadorè che «ha perso sei
figlie / tra i bar del porto e le sue meraviglie».
L’intento era di creare una filastrocca d’impianto folk sulla quale aprire
finestre di cinema popolare e richiami alla tradizione della canzone
contadina del passato.
Alla fine, su tutti, emergono due figure gioiose e pure: quella del bambino
che sale il cancello, ruba ciliegie e piume d’uccello e Angiolina.
Poi, come in tante di quelle commedie, c’è il lieto fine: «Angiolina ritaglia i
giornali si veste da sposa canta vittoria / chiama i ricordi col loro nome
volta la carta e finisce in gloria».
la storia di un ragazzo che corre con suo nonno dietro a una mandria di
buoi. Qui inizia la prima contaminazione tra l’America e il nostro mondo
contadino. Ruba un cavallo per diventare adulto («rubai il primo cavallo e
mi fecero uomo / cambiai il mio nome in Coda di Lupo»), perché l’abigeato
era uno dei passaggi obbligati nella società pellerossa e non solo per essere
accettati come adulti.
Dopo il mito, entra in scena l’attualità nera: il nonno del ragazzo viene
trovato «crocifisso con forchette che si usano a cena / era sporco e pulito di
sangue e di crema».
Poi il ragazzo continua a contaminarsi con la nuova realtà, perché finisce tra
i manifestanti davanti alla Scala («e una notte di gala con un sasso a punta
uccisi uno smoking e glielo rubai e al dio della Scala non credere mai») e
poi attacca Luciano Lama, allora a capo dei sindacati, che si presentò a un
confronto con gli studenti che fece scalpore perché fu molto contestato
(«capelli corti generale ci parlò all’università dei fratelli tute blu che
seppellirono le asce ma non fumammo con lui non era venuto in pace / e a
un dio fatto il culo non credere mai»).
L’ultima strofa è pasoliniana («e adesso che ho bruciato venti figli sul mio
letto di sposo / che ho scaricato la mia rabbia in un teatro di posa») e segna
il ritorno al mito, per quanto scalcinato, perché il ragazzo ormai vecchio
viene «scolpito in lacrime sull’arco di Traiano», come un barbaro sconfitto
trascinato nel trionfo dell’imperatore.
Facemmo una lunga analisi per scoprire le ragioni e alla fine arrivammo
alla conclusione che la chiave potesse essere questa: negli Stati Uniti
l’Antico Testamento è molto più letto, vuoi per la cultura protestante che ha
dato l’imprinting alla nazione, vuoi per quella ebraica che ha molto
influenzato il paese. Quindi nelle orecchie di un ragazzo americano certe
espressioni sono assolutamente plausibili. Johnny Cash ha cominciato a
cantare col libro degli inni di sua madre.
La Bibbia è un pozzo senza fondo di poesia cui hanno attinto tanti grandi
poeti americani di ieri e di oggi: da Walt Whitman a Longfellow fino a
Dylan e Cohen e Lou Reed.
Perché per molti anni l’appuntamento mondano più prestigioso era quello
scaligero. L’alta borghesia italiana e milanese in particolare, si censiva e si
specchiava con le 45
alte cariche dello Stato. Era la consacrazione del successo sociale, come
entrare a Versailles invitati da Luigi xiv.
Come vivevate quel periodo storico, quegli anni Settanta per certi versi
terribili? Il disco uscì nello stesso anno del rapimento Moro.
E Fabrizio?
In genere anche lui non era così prevedibile. Ma come anarchico si sentiva
estraneo ai partiti organizzati. Gli altri facevano sempre parte del sistema.
Come per i sardi, ai quali interessa poco che tu sia spagnolo, russo o ligure,
sei sempre e comunque un continentale.
In questo e solo su questo argomento non ero un buon partner per il ping
pong ideologico e di opinioni con Fabrizio. Le nostre partite finivano
sempre presto. Lui batteva e io buttavo la palla nello stagno del vicino. Alla
quinta o sesta pallina che spariva, si stancava di cercarla.
Come diceva Ezra Pound, non è importante quello che pensi, ma a che
profondità lo pensi. Fabrizio applicava questa teoria. Provocava per vedere
fino a che punto un commensale sostenesse quello che diceva. Poteva
essere un regista, un intellettuale, un pastore o un farmacista. Per lui non
faceva molta differenza. La discussione non doveva cadere così. Avevo il
terrore di giocare a Tresette con lui, perché se eri suo compagno non dovevi
sbagliare, se eri suo avversario non dovevi vincere.
Forse, se non ci fossi stato tu, le canzoni dei due album che avete scritto
insieme sarebbero state più orientate sul presente.
Forse. Fabrizio era molto partecipe di quel che accadeva in quegli anni e
comunque l’attualità era una fonte di 47
Se invece scegli l’apologo o la favola e affronti temi epici, tocchi corde che
riguardano l’umanità nei suoi sentimenti profondi e immutabili, a
prescindere dall’ideologia specifica e contingente dell’ascoltatore.
La canzone «Fiume Sand Creek» è stata contestualizzata in tante situazioni
anche assai diverse da quelle che l’hanno ispirata.
Prima di Rimini aveva tonalità più basse, nei due album insieme ha alzato
la voce almeno di due tonalità, che erano quelle che più o meno usavo io,
cantando più vicino a uno stile folk-rock, che meglio si addiceva a certi
arrangiamenti.
Per scriverla abbiamo raccolti molti modi di dire, frasi divertenti, insulti
originali e maledizioni ricorrenti, di cui prendevamo nota. Un signore,
Paolo Pagellu, ci ha aiutati a scrivere il testo in gallurese corretto, perché
Fabrizio lo parlava, ma non abbastanza da scriverlo senza errori.
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In «Zirichiltaggia» si parla di eredità. Ti ritieni l’erede di Fabrizio?
Lui era mosso dalla curiosità e dalla voglia di cambiare procedendo passo
dopo passo, infatti i suoi primi riferimenti furono la canzone d’autore
francese, in particolare Brassens, ma è sempre andato avanti costruendo stili
e modelli diversi.
Io invece avevo una visione geografica del percorso che volevo fare e
sapevo che sarebbe stato un cammino lungo e difficile. Fabrizio era uno che
aveva bisogno di una illuminazione per ogni disco che andava a costruire.
Quando ho iniziato, la mia idea era tentare di creare anche in Italia una
letteratura del rock.
Quando ho affrontato il primo disco, l’idea era legare il rock - che è musica
del corpo, attitudine, ritmo e sensualità - con una poetica che coniugasse la
poesia popolare alla poesia contemporanea.
Osservando le band che amavo, mi ero reso conto che ogni gruppo aveva al
suo interno un poeta, segno inequivocabile che il rock è sì musica che fa
muovere il corpo, ma anche la mente, e per farlo ha bisogno di poesia, di
versi che abbiano soprattutto dignità. Se poi la dignità è anche letteraria
meglio ancora. Ha bisogno di parole che si muovano lungo un discesa
luminosa o una buia strada di periferia, ma non deve essere mai scontato,
mai parole pigre.
Tutto il grande rock che ancora oggi esiste e sopravvive nella realtà o nella
memoria, poggia su un poeta: Mick Jagger con gli Stones, Robert Smith
con i Cure, Morrissey con gli Smith, Bono con gli U2, Ian Curtis con i Joy
Division, Shane Me Gowan coi Pogues o Mike Scott coi Waterboys.
In Italia chi aveva qualità letterarie tendeva a scegliere la via solista del
cantautore; chi aveva soprattutto interessi e 51
tecnica musicale, formava una band e metteva in secondo piano l’aspetto
lirico e in genere i testi li scriveva il cantante.
La chiave è nell’ultimo verso della seconda strofa: «Il paralitico ride con gli
occhi al circo Togni quando l’acrobata sbaglia il salto». Assistevamo
soprattutto in politica al trionfo della mediocrità, dell’opportunismo,
dell’arroganza, della superficialità, della maldicenza. Oggi purtroppo, molti
di questi, non vengono quasi più considerati sentimenti negativi, merito
della tv in generale e dei reality show in particolare. La mediocrità portata a
paradigma purifica e conforta.
C’è una città intera, con la sua incredibile e angosciante commedia umana
di personaggi conformisti e benpensanti, che accorre nel salotto buono di
Genova, sulla passeggiata di corso Italia, per assistere al grande naufragio
della nave London Valor. Come in un grandioso spettacolo circense, con la
nave ormai riversa su se stessa, i marinai si gettano in mare (questo è il
significato dei versi «e le ancore hanno perduto la scommessa e gli artigli / i
marinai uova di gabbiano piovono sugli scogli»).
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Mancano solo gli applausi, ma gli sguardi di finta misericordia si sprecano.
10 e Fabrizio volevamo sfatare certi luoghi comuni. Il paralitico era uno dei
tanti spettatori gaudenti che guardavano i marinai morire tra i flutti. Non ci
sono solo giurie frontali e assassini con il marchio doc.
Perché la poesia non è una gara dove più contenuti alzi e più sei bravo. C’è
grandissima poesia che parla di poveri morti come La ballata degli
impiccati di François Villon e c’è poi brutta poesia che parla del mondo
agreste e di pii bovi come nella poesia del Carducci.
Sì, la poesia non è una gara di sollevamento pesi. Così come la miglior
cantante non è quella che fa più ghirigori, becca le note più alte e urla di
più.
Oggi molte ragazze in Italia che vogliono cantare si preoccupano più che
altro di andare su con la voce, ma rimangono giù con la comunicazione. E
hanno pochi modelli e spesso privi di qualsiasi spessore.
«Il pasticcere di via Roma che ha una frusta giocattolo sotto l’abito da tè».
Lavorare con Fabrizio era come vivere in una comune. Si condivideva tutto.
Nel mio disco Tre rose, ai cori c’erano Dori, Fabrizio e Cristiano. Luvi non
ancora, ma solo perché era troppo piccola. I figli degli acrobati fanno gli
acrobati o i cavallerizzi.
Anche in Italia, finalmente, c’era una band rock con un poeta: la Pfm con
De André.
Marabel ebbe una storia strana. Una prima parte venne registrata con gli
arrangiamenti di Tony Mimms, nel maggio del 1978, al castello di
Carimate. Poi, per vicissitudini varie, tutte legate alla salute di Mimms, le
registrazioni furono interrotte. A togliermi da quella situazione fu Antonello
Venditti, che aveva appena pubblicato il disco Sotto il segno dei pesci, per
la mia stessa casa discografica, la PolygramPhilips. Mi chiese se volevo
seguirlo in tour. Accettai la sua proposta. Partecipai a più di cento date, in
un tripudio di 57
folla. Diecimila persone quasi tutte le sere… Si respirava un’atmosfera
allegra e molto rilassata. Feci amicizia con la band Stradaperta e col
violinista Carlo Siliotto che veniva dal Canzoniere del Lazio.
Come atmosfera molto. Venditti era come me, molto on the road, chitarra e
pianoforte e via. Ogni sera c’era spazio per le improvvisazioni e ai
cambiamenti dell’ordine di esecuzione.
Fabrizio, invece, era convinto che il concerto dovesse essere molto simile al
disco in studio. Io non ero d’accordo, perché sorto due facce della stessa
medaglia, ma dal volto diverso. Il disco è come un film, il concerto è come
la 58
riduzione teatrale del film, non la sua duplicazione. La differenza è che sul
set puoi avere cinquanta attori, sul palco al massimo cinque o sei, ma
Fabrizio nell’ultimo concerto arrivò credo a undici musicisti.
Aveva una villetta su due piani con un giardino bellissimo, vicino a via
Coni Zugna a Milano. Quell’estate, quando andavo a trovarlo per scrivere,
non c’era mai. Era sempre in giro in moto. Lo aspettavo a casa. Mi sedevo
sul divano, leggevo, guardavo la sua grassa donna di servizio aggirarsi per
la casa e la moglie di Mauro leggere sotto un tiglio. A volte mi raggiungeva
Andrea De Carlo, che in quel periodo frequentavo a Milano. Ricordo che
con Mauro passavamo 59
Quella del 1979 era stata un’estate molto strana. Io uscivo da un anno di
servizio militare in una dura caserma del Friuli… Era una caserma dove si
ritrovavano molti ragazzi con precedenti penali o che avevano comunque
avuto qualche problema con la giustizia. Ne ero uscito molto provato.
Il Car lo avevo fatto a Casale Monferrato, in un posto dove le zanzare
nascevano dal pavimento dei treni e oscuravano il cielo.
Rinato. Mai visto così allegro come in quel periodo. Di una gioia
contagiosa. Entusiasta e voglioso di scrivere.
Aveva voglia di fare. Diceva che vedeva e apprezzava cose che prima gli
sfuggivano. Il primo lavoro insieme fu per 60
Un mio collega una volta ti chiese perché non avete fatto come Dylan, che
descrisse in «Hurricane» la vera storia di Rubin Carter, accusato
ingiustamente di omicidio, o che in «The Lonesome Death Of Hattie
Carroll» faceva nomi e cognomi di vittime e assassini di un fatto di cronaca
nera («William Zanzinger killed poor Hattie Carroll…»). Tu rispondesti che
all’epoca non si conoscevano ancora bene i mandanti. Ma è solo questo?
Io penso che il compito del poeta sia prendere spunto dalla cronaca, senza
limitarsi a riprodurla. La canzone ha molti riferimenti alla realtà sulla fine
di Pasolini, ma non è un documentario su di lui. A me e Fabrizio
interessava realizzare qualcosa che si staccasse dai fatti e li osservasse,
illuminando anche le reazioni della gente, la voglia di 61
Maratta, che era nato nei quartieri spagnoli di Napoli, diceva che, se
Pasolini fosse cresciuto con lui, avrebbe detto cose diverse e in modo
diverso.
Affrontava argomenti scomodi e tabù, soprattutto per quegli anni. Lui stesso
era scomodo, anche per chi la pensava come lui, perché non era
inquadrabile, né prevedibile. Era un comunista atipico, un cattolico atipico,
un ribelle atipico, un uomo atipico.
Pensa ai fatti di Valle Giulia che lo resero inviso alla stessa Sinistra cui
apparteneva.
Meglio gli opposti che si attraggono a due fotocopie sovrapposte. I versi più
citati di «Una storia sbagliata»
Platone tornava spesso nelle parole di Fabrizio. Secondo noi la canzone era
la vita che rivela te stesso, la canzone era la forma che era contenuta nella
pietra e farla uscire era opera del poeta. C’era anche il concetto del “non
finito”
Come Calvino nelle Lezioni americane, anch’io sono convinto che la forma
più bella e alta di scrittura sia la favolistica popolare, la folktale, come
l’apologo, che è sferico, cioè forma perfetta, che puoi vedere da oriente e da
occidente. Da sopra e da sotto allo stesso modo. La seconda lezione di
Calvino è sulla rapidità: la sua ambizione somma era scrivere una favola in
poche righe. L’economia espressiva, come la definisce.
64
La canzone è dunque un racconto breve, una poesia asciugata, un film
compresso, una miniatura senza cornice?
Allora secondo certi poeti nostrani, quando scriveva poesie era un gran
poeta, quando invece scriveva canzoni improvvisamente diventava
mediocre. Allen Ginsberg aveva un alta considerazione di Bob Dylan e
invidiava il fatto che avesse messo la poesia nei juke-box. In America il
mondo accademico non ha dubbi sulla portata letteraria e poetica di Dylan.
Ma da noi, purtroppo, molti ancora lo sottovalutano.
65
// tuo secondo disco con Fabrizio s’intitolava semplicemente Fabrizio De
André, ma sarebbe passato alla storia come L’indiano per via della
copertina. Come nacque?
// generale di quel massacro fu Chiwington, ma voi gli avete dato gli occhi
di Custer.
Penso che «Fiume Sand Creek» sia il prodotto di uno stato di grazia, la
canzone è stata composta in pochi giorni.
66
Cominciamo dalla prima strofa. L’attacco ti porta subito dentro la storia.
C’è una storiella che fece capire a me e a Fabrizio quanto sia grande il
potere di una canzone e la sua forza evocativa anche quando certe rime
sono frutto di una apparente casualità. Il primo verso che avevamo scritto
era: «Si son presi il nostro cuore sotto una coperta». Mancava il colore della
coperta. Per noi non aveva grande importanza. Poteva essere gialla, rossa,
blu, bianca. Aspettammo di trovare il verso successivo per avere la rima.
Quando ci venne «sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura»
capimmo che la coperta dovesse certamente essere scura. Per noi, ripeto,
non avrebbe fatto alcuna differenza mettere un altro colore. Se avessimo
scelto il verso «dormivamo senza paura sotto una luna nata grossa» la
coperta sarebbe stata rossa.
Come capita spesso alle canzoni di grande successo, alcuni versi vengono
poi ciclicamente ripresi in diverse occasioni, nel corso del tempo.
È così accaduto che quella coperta scura sia diventata metafora del cielo
coperto da aerei, della coltre di fumo dei bombardamenti e sia stata usata
per commentare guerre, attacchi terroristici, esplosioni, omicidi, persino
l’attentato alle Due Torri.
«La luna morta piccola» sotto cui i bambini, le donne e gli anziani
dormivano, mentre i guerrieri erano «troppo lontani sulla pista del bisonte»
dà l’immagine della tragedia prima ancora di enunciarla.
È una frase molto comune dalle mie parti. In campagna, quando bisogna
descrivere un uomo particolarmente violento e rissoso, si usano dei
soprannomi: Bufera, Tramontana o Temporale. «Figlio di un Temporale»
significa proprio questo: un uomo violento e rissoso da cui ti devi guardare.
Nella seconda strofa c’è «quella musica distante che diventò sempre più
forte». È il rumore del galoppo dei soldati americani?
cornamusa è sempre stato uno strumento di guerra usato per intimidire gli
avversari, ha un suono potente e che si avverte da molto lontano e che mette
paura; gli scozzesi lo usavano per spaventare i nemici. L’esercito americano
fece proprie molte delle usanze che appartenevano alle etnie d’origine dei
suoi soldati, molti erano scozzesi e irlandesi.
«Chiesi a mio nonno: è solo un sogno? I mio nonno disse: sì» è un’altra
immagine di grande efficacia.
Con il passare del tempo, ho capito che mio nonno non mi raccontava fatti
straordinari solo per il gusto di farlo, almeno non sempre. A volte mi
metteva alla prova per vedere se riusciva a rompere i miei perimetri
mentali, come facevano gli antichi precettori greci e gli educatori ebraici
con i bambini. Dimostrano una cosa e subito dopo il suo contrario, per
vedere come reagiscono e argomentano.
Regalano loro più ipotesi per stimolare le loro facoltà logiche, speculative e
analitiche. Così mio nonno ripeteva spesso: «A volte anche i pesci cantano,
sai?»
È visiva e cinematografica. C’è il sole che alza la testa fra le spalle della
notte. C’è la desolazione del day after: «Solo cani, fumo e tende capovolte».
E il bimbo, unico sopravvis70
E una al vento per farlo sanguinare. Come per rompere la campana di vetro
del cielo che racchiudeva questa tragedia e al tempo stesso ferirla, punirla
per aver consentito quello scempio. Nel mondo dei nativi americani, non
solo nella tribù Cheyenne di cui si parla nella canzone, non esisteva la
concezione individuale dell’esistenza che permea le culture cristiano-
occidentali; esisteva solo il senso di comunità. La vera ricchezza della tribù
erano i figli, perché garantivano la continuità e la sopravvivenza della tribù
stessa, quindi la tragedia non era la morte di qualche membro della
comunità: era la morte dei bambini. Senza di loro era la fine di tutto. Se un
albero perde le foglie, queste prima o poi ricrescono sull’albero, ma se tagli
le radici è la morte.
Mio nonno mi raccontava che da noi, nei paesi guidati dalle famiglie
patriarcali, i pazzi erano tenuti in considerazione. Il giovedì venivano a
sfamarsi in una famiglia, il venerdì in un’altra. Veniva fatta la carità di un
vestito smesso o di un paio di scarpe o di stivali. Ma nessuno poteva fare
del male ai bambini. Per nessuna ragione. Nei rari casi di aggressioni
pedofile, i colpevoli non venivano denunciati alla polizia. Li trovavano
annegati, qualche giorno dopo in qualche fosso.
lo stesso principio della cultura popolare che, abbiamo già detto, è la prima
forma di poesia, storie con un tappeto comune che rispondeva a esigenze di
metrica e di rima per consentire che si tramandassero e che ognuno, se
credeva, potesse aggiungere qualcosa. Però, mi pare che in «Fiume Sand
Creek» accada qualcosa di diverso. L’ultima strofa è uguale alla prima, ma
il significato sembra diverso.
È esattamente quello che io e Fabrizio avevamo in mente.
Nelle note de L’indiano, c’è scritto: «La caccia al cinghiale è stata registrata
in Gallura nel mese di gennaio 1981.
Sandro Colombini era uno dei produttori più bravi di quegli anni, aveva
lavorato con Edoardo Bennato e Antonello Venditti. Come Danè, era un
produttore di formazione intellettuale, di quelli magari non tecnici nel
regolare i suoni, le equalizzazioni o gli ambienti, ma bravissimi
nell’inquadrare ideologicamente un prodotto. Ti aiutava a trovare un tipo di
direzione musicale e di sonorità, ma ti dava consigli anche sui testi.
Io, essendo il più giovane, ebbi il compito più ingrato: tenere e azionare il
Nagram, terrificante registratore svizzero che pesava venti chili. Per fortuna
che io e Sandro finimmo 73
A un certo punto sentimmo un rumore tra le frasche farsi sempre più forte.
Colombini urlò: «È il cinghiale!». Io mi arrampicai su una sughera, lui
cadde in un cespuglio. In realtà non era il cinghiale, ma una martora che,
spaventata, stava scappando in quella macchia mediterranea molto folta.
Be’, dopo poco venne organizzata una cena a base di cinghiale. Una volta
pulito e preparato, il cinghiale veniva tagliato in tanti pezzi e i pezzi
numerati. Poi si estraeva a sorte tra tutti i partecipanti alla caccia, quindi il
pezzo più importante poteva anche toccare a un ragazzino che aveva fatto il
battitore e si era limitato a picchiare una latta. Tutti allo stesso livello nel
momento della divisione.
«L’amore delle case l’amore bianco vestito / io non l’ho mai saputo e non
l’ho mai tradito». L’amore bianco vestito di un abito da sposa che non
toccherà forse mai. Lui stesso è una figura invisibile al mondo: «Mio padre
un falco, mia madre un pagliaio». Guarda la vita e la sua bellezza sapendo
di esserne escluso. Cosa gli resta? Quello che ha dato al vento («sopra ogni
cisto da qui al mare c’è un po’ dei miei capelli») e le incisioni del suo
coltello a 75
ogni suo passaggio: «Sopra ogni sughera il disegno di tutti i miei coltelli».
Lo stagno per noi ragazzi era un posto magico dove andavamo volentieri.
Ci entravamo dentro a piedi nudi, pescavamo i pesci, catturavamo le rane,
osservavamo per ore i ragni galleggianti e le libellule, vedevamo quando le
acque s’increspavano e cambiavano umore e colore prima di un temporale.
Per molto tempo ho portato quasi rancore verso mio padre, perché non
potevo più camminare scalzo, andare a zonzo con i miei cugini sulle
biciclette scassate, ascoltare la sera le favole di mio nonno, eseguire i
compiti che mi dava mia nonna tra cui andare ogni sera a portare il latte da
una vedova. Quel gran vivere in tanti e tutti assieme. Mi sentivo come
derubato.
Venni via che avevo sette anni. Questa malinconia che mi porto dentro e
che si avverte in tanti miei componimenti, è figlia di questo strappo.
provocazione, però è indubbio che una canzone cambi molto a seconda del
suo vestire. Sono nuovi abiti per antiche cerimonie, come diceva Leonard
Cohen?
Nuovo vento per vecchie vele. Un paio d’anni fa, nell’antico Caffè
Letterario Pedrocchi di Padova, tenni, con altri, in un ciclo di cinque
interventi ispirati dai cinque sensi, una piccola chiacchierata sull’udito. Feci
ascoltare alla fine «Il cielo d’Irlanda» in tre diversi ritmi e tonalità, facendo
notare come cambiava di molto lo spirito e il significato della canzone. Io
preferisco scegliere l’abito, cioè la musica a seconda di cosa voglio narrare.
Se ho un argomento scuro, che si muove sul confine tra legalità e illegalità,
tra magia bianca e magia nera, uso il blues. Se ho una storia d’amore
struggente e intensa scelgo una melodia romantica o il texmex o una musica
latina. Se ho una ballata popolare mi oriento verso il folk. Se ho un
argomento religioso cerco tra soul e gospel. Se quello che voglio raccontare
è tragico compongo una ballate in minore. «Se ti tagliassero a pezzetti» io
la faccio ora in versione soul in 6/8, completamente diversa dall’originale,
perché la canto come se fosse una preghiera.
«Verdi Pascoli».
Nel comporre dischi, ho sempre usato la formula dei Rolling Stones, che è
la formula classica in voga dal tempo degli lp - due canzoni veloci, quattro
mid-tempo e due lente - aggiungevano un brano atipico, che fosse country,
come amava Richards, o reggae o un madrigale col clavicembalo, come
preferiva Jagger.
/ colori dell’album?
«Fiume Sand Creek», per dire, era rosso sangue; «Hotel Supramonte»
bianco neve e verde scuro; «Se ti tagliassero a pezzetti» era giallo oro
all’inizio e viola alla fine.
«E ora non piangere perché I presto la notte finirà I con le sue perle stelle e
strisce I infondo al cielo».
«Hotel Supramonte» è una delle canzoni più belle degli ultimi cinquant’
anni. Scritta in due momenti diversi e fondata su una tua composizione
intitolata in origine «Hotel Miramonti», scritta poco prima del servizio
militare.
La storia è molto particolare. Tutto partì mentre ero in tour con Venditti,
dopo un concerto ad Agordo nel Bellunese. Venne a trovarci Claudio
Baglioni, che aveva affittato una villa sul lago di Alleghe e che stava
lavorando a un nuovo album con alcuni collaboratori. Ci invitò da lui
durante un nostro day off. Alla sera andammo in un albergo chiamato
Miralago, dove feci amicizia con il proprietario, che aveva, proprio sotto
l’hotel, un piccolo night. Mi disse: «Perché non torni da queste parti in
inverno? Suoni qualche canzone con la chitarra la sera, per un’oretta. In
cambio ti posso dare vitto e alloggio per due persone, lo ski-pass e qualcosa
per le piccole spese». Mi sembrava una buona proposta e accettai.
83
Con me venne la mia fidanzata di allora. Era un rapporto un po’ turbinoso e
si litigava per poco. Qualche tempo prima di partire per il militare, abbozzai
la canzone.
Ogni tanto c’era anche una breccia di ironia in quella grotta. Come quando
Fabrizio raccontava che uno dei suoi carcerieri parlava con la «erre» moscia
come Guccini.
È come nella canzone «Niente passa invano» che scriverò anni dopo,
quando dico: «Sono cessati spari e grida /
È un’altra canzone d’amore perduto. «Avrei voluto cancellare dai tuoi occhi
quella noia e quella solitudine / ma allora davo troppe cose per scontate e
non ti seguivo più».
Metà della letteratura del Novecento tratta questo argomento: l’amore fuoco
che non si riesce a realizzare compiutamente e a farlo diventare vivibile.
Rimane potenzialmente imbattibile, ma incapace di esistere. D’altronde,
come sai meglio di me, amore e morte è un topos inesauribile.
Ti sei sentito come Achab, invincibile. Come hai scritto per Cristiano De
André in «Notti di Genova», «ci sentivamo invincibili I ci sentivamo così».
Perché lui ha «un treno da perdere»?
Nella mia versione era «un treno da piangere». Vivevo a Milano e tornavo a
Verona ogni fine settimana. Ed erano ritorni spesso laceranti, perché
avevamo troppe aspettative e troppe prove da superare senza toccare i fili
invisibili dell’orgoglio.
Sì. «Cosa importa se sono caduto, se sono lontano» era «cosa importa se mi
hai rinnegato e se sono lontano».
C’era una sola stanza dove nascevano le canzoni: la cucina. Non importava
in quale casa o città ci trovassimo, ma tutto succedeva lì. Questa cosa la
faccio ancora. Ho due studi e due scrivanie, più un ufficio attrezzato, ma
finisco sempre per scrivere davanti ai fornelli, forse perché non essendo un
luogo deputato alla scrittura, mi fa sentire meno gravato dal risultato.
È una canzone che pur nella sua particolarità ha a che fare col percorso di
molte persone. Roberto ha scritto tante belle canzoni sulle profondità
cangianti dei sentimenti 88
Quando qualcuno decide di confrontarsi con una tua canzone, non può che
farti piacere. Certo, ci sono interpretazioni che preferisci, ma rimane sempre
tutto confinato a una questione soggettiva. La cosa interessante è vedere
quanto gli altri aggiungano e quanto più ti facciano capire le cose che hai
scritto.
Diceva così anche Cohen, dopo la splendida rilettura di Jeff Buckley della
sua «Hallelujah». Cohen ritorna nei tuoi discorsi al pari di Dylan e di
Shakespeare.
Cohen è un puro poeta. Senza conoscere la sua opera molti di noi non
avrebbero scritto le canzoni che hanno scritto.
Son d’accordo.
figlio che non è stato sequestrato. Lui stesso mi ha detto che era strano
come ne parlavo, come se fosse successo a un’altra persona».
Fabrizio mi trattava spesso come un figlio, ma avevo già un altro padre e lui
un altro figlio.
Quello che non ho è un figlio, una compagna, una fede più solida, la
solitudine di un ghiacciaio d’inverno, un autunno più rosso ancora e molto
altro ancora». Appuntai questa frase sul mio block-notes appena uscii dal
convento.
90
Perché la scelta di un’Avo. Maria sarda, rielaborata e adattata da Albino
Puddu e cantata da Fabrizio e da Mark Harris?
Fabrizio disse che quella storia gliel’ avevano raccontata i suoi sequestratori
e che era un fatto vero.
Sì. Questa canzone nacque già con i capelli. Era una delle storie e dei ritratti
che ci appassionavano particolarmente. In più, ogni tanto si vedeva passare,
dalla nostra proprietà, una ragazza a cavallo che sembrava Camilla o Diana
cacciatrice.
Ci sono due versi che dicono: «L’altro giorno un altro uomo le ha sorriso
per strada I era certo un forestiero che non sapeva quel che costava».
Alfredo Franchini, in Uomini e donne di Fabrizio De André, fa riferimento
a un 91
No.
E ancora oggi, ogni tanto ricordo quella luce di anni fa sui muri della casa
al mare, sento le voci, i profumi e intravedo le ombre sui grandi sassi, la
sera.
lui una sera si giocava a chi avremmo voluto diventare e Fabrizio disse
appunto Dostoevskij.
Nella scrittura il tuo fardello ti segue sempre. Per quanto riguarda Fabrizio,
nell’album Segreti trasparenti, c’è una canzone, «Specialmente in gennaio»,
in cui incollo alcune fotografie di lui che ho nella memoria. «Specialmente
in gennaio, qualcosa filtra da lassù, specialmente in gennaio, porto il tuo
giaccone blu».
Mi sono portato dietro quel dolore per tanti anni e non ci andavo tanto
d’accordo. Questa cosa mi procurava una sofferenza continua. Poi ho
imparato lentamente a convivere con questo mio compagno di viaggio, a
parlargli, a dormirci e a mangiarci assieme come con un amico. E quando si
allontana, aspetto solo che ritorni.
Di recente ho visto un film su Johnny Cash: Walk The Line. Muore suo
fratello, bambino poco più grande di lui e lui si sente in colpa per non
essere morto al suo posto, perchè tutti dicevano, ed egli stesso lo pensava,
che fosse il 93
migliore dei due. Suo padre non riusciva a darsi pace per la scomparsa del
figlio prediletto e colpevolizzava Johnny, facendogli domande dure come:
«Tu dov’eri?». Fino a quando, un giorno Cash, ormai adulto, con un senso
di liberazione, rispose al padre: «Tu, invece, dov’eri?».
Nel brano ho volutamente inserito elementi che fanno parte della letteratura
del folk: la civetta, lo zoppo, il cacciatore, i vecchi salici piegati sul fiume,
le cornacchie che gracchiano all’aurora, l’altalena sul tiglio.
Un’altra è «Notti di Genova», che ho già citato. Il testo, che hai scritto nel
1992, poi cantato da Cristiano De André, sembra riferirsi a Fabrizio: «Per
quanto tempo ti penserò I in quelle notti a Genova I giù lungo il porto
dentro quei bar I sogni cambiati in spiccioli». E poi, più avanti: «Bevevi
troppo, fumavi un po’ I perso nella tua musica I quale silenzio ci
confonderà I quale invisibile padrone». Sembra anche raccontare di
Fabrizio e di qualche misunderstanding .
Poi e’è «Doppio lungo addio», scritta due anni dopo, nel 1994. Dice così:
«Io disegnavo ali, tu volavi I io costruivo 95
chitarre, tu le suonavi I io mischiavo le carte, tu le giocavi I io annegavo
nell’acqua, tu ci camminavi I io ero il braccio, tu la mente I io ero lo stagno,
tu la corrente I tu andavi verso l’Ovest, io rimanevo all’Est I io ero tu, tu eri
me I tu eri il santo, io l’assassino I io ero il mercante, tu l’indovino I io
avevo novant’ anni, tu sempre ventitré I io ero tu, tu eri me».
La canzone era nata per raccontare il doppio, che è da sempre uno dei miei
temi ricorrenti. In questa canzone ci sono figure e contrapposizioni
medievali, piene di significati e simbolismi come il mercante e l’indovino.
Certe canzoni sono come fiumi carsici: non sai mai con esattezza dove
scorrono, perché sono fiumi sotterranei.
Tanto per fare una cosa nuova, torniamo a Cohen e a quei versi di «Famous
Blue Raincoat» che hai citato prima. Hai mai pensato che Fabrizio sia stato
contemporaneamente tuo fratello e tuo assassino? In senso buono,
naturalmente. Talmente forte la sua presenza, il suo carisma da oscurare un
poco il talento e il carisma dei collaboratori.
96
Io non sono un direttore della fotografia che ha sempre lavorato con un
regista: mi considero a mia volta un regista che ha fatto due aiuto-regie con
un maestro.
Dopo Rimini passai alla Fado, l’etichetta di Dori e Fabrizio, e pubblicai Tre
rose, prodotto da Fabrizio. I problemi nacquero con il disco successivo, che
uscì nel 1982 e che era intitolato semplicemente Massimo Bubola. Fabrizio
non era entusiasta di pubblicarlo.
Come mai?
Semplicemente, come può accadere, non gli piaceva molto, soprattutto nelle
sonorità troppo elettriche. Era un disco in cui riprendevo la strada
dell’album Marabel, ballate e storie di strada. Era il percorso che avevo
sempre voluto. Creare una piccola letteratura del rock. Secondo Fabrizio
sarei dovuto andare in un’altra direzione, privilegiare la vena lirica in
contesti più acustici… Un giorno mi chiese: «Secondo te Springsteen scrive
dei buoni testi?»
La Fado, dopo un po’, chiuse i battenti e per sei lunghissimi anni non riuscii
più a incidere un disco. Porte chiuse, serrature blindate, bocche cucite.
Sembrava ci fosse un arcano potere che faceva slittare i contratti all’ultimo.
Nonostante tre buoni album e le canzoni scritte con Fabrizio, mi sono
ritrovato senza contratto, senza possibilità di lavorare ed ero un fiume in
piena: dal ‘76 all‘83, con in mezzo un anno di militare, avevo composto tre
album miei e due album a metà con Fabrizio De André: Rimini e L’Indiano,
più un 45 giri con «Una storia sbagliata» e «Titti». E la discografia
ufficia97
le non riteneva nemmeno di pubblicarmi. Credo che da lì cominciò a
rompersi qualcosa.
Scoprii, dopo poco, che le isole erano state un bagno penale per i confinati
politici del regno delle Due Sicilie e i carcerieri, che furono per anni gli
unici abitanti delle isole, erano tutti napoletani, per questo si parlava
napoletano pur essendo geograficamente, le Tremiti, in Puglia e
amministrativamente, mi sembra, oggi, in Molise. Parlavano un napoletano
antico e molto gradevole. Tre erano i principali nomi dei discendenti dei
carcerieri: Scognamiglio, Scotti e Cafiero.
Cafiero si prestava meglio degli altri nomi alla rima: era perfetto con
«brigadiero» per esempio. Il nome, Pasquale, lo scegliemmo per rimare con
Poggioreale. Don Raffaè, invece, era il nome del sindaco del quartiere
Sanità nella omonima commedia di Eduardo. Scrivemmo più strofe di
quante alla fine sopravvissero, ricordo che ce n’era una su Ciro Cirillo:
«Qua non passa nemmeno uno spillo / né un Ciro Cirillo». Poi la
eliminammo perché quell’episodio era ancora gravato di troppe ombre e
trasversalità.
99
Dove l’avete scritta?
Nella fattoria de l’Agnata. Ci andai per un paio d’anni nei mesi di aprile e
maggio. Partivo da Verona con la mia vecchia moto Bmw, prendevo il
traghetto a Livorno e sbarcavo a Olbia. Ho scritto una poesia di viaggio al
riguardo e l’ho recitata nella raccolta di poesie musicate che ho pubblicato
col titolo di Neve sugli aranci.
Quando una società si alza dal letto per salutare un poeta significa che è una
grande società. Perché, allora, siamo nella merda?
Quando muore un poeta, ci rendiamo conto che con lui è volato via
qualcosa di prezioso che ci apparteneva, e allora ci sentiamo orfani e
derubati. Così accorriamo al funerale pensando che sia anche un po’ il
nostro, perché con lui è morta anche una parte di noi. Poi torniamo alla
nostra vita quotidiana con le orecchie tappate, come quando si scende da
un’alta montagna.
Però poi, una volta a casa, ricomincia il banale. Come cantavano Loy e
Altomare, «la vita scorre liscia e piatta».
Gli artisti sono come i batteri: sono sempre nell’aria, solo che attecchiscono
quando trovano un ambiente favorevole.
Oggi non ci sono più Nanni Ricordi, Roberto Danè, Ennio Melis, Lilly
Greco e Gianni Sassi, che erano la committenza. Persone con cui potevi
parlare di letteratura e di musica, personalità forti con cui ti confrontavi
anche duramente. Ti scontravi, litigavi, ma almeno erano interlocutori veri.
Cos’è il difficile allora se non un concetto cangiante nel tempo e una parola
terroristica usata da mediocri direttori artistici, chiamiamoli così, per
avallare la loro mediocrità poco aurea, e ottundere ancora di più il gusto e il
cervello della gente?
Secondo me perché si sono costruiti meno alibi e nella discografia c’è gente
che ha più cultura generale e più preparazione in particolare: in molti paesi
europei hanno mantenuto libera una corsia per la canzone d’autore, senza
considerarla merce fuori mercato o difficile. Molti grandi artisti, non solo
nord europei, hanno saputo, sulla conoscenza del folk e della tradizione
musicale popolare, costruire un suono nuovo e plausibile, mentre da noi chi
recupera il patrimonio folclorico finisce per essere considerato artista di
nicchia tra le nicchie.
come da noi, marginali. Quando ero ragazzo, c’erano tre radio di stato che
trasmettevano quattrocento artisti; oggi ci sono quattrocento radio che
programmano sì e no trenta canzoni al mese nelle loro prestigiose playlist.
Non credi che oggi, intorno a De André, ci sia molta agiografia, forse
troppa? Intendiamoci: meglio così. Però credo che Fabrizio sarebbe il primo
a stupirsi e, forse, a seccarsi, di questo processo di beatificazione. Per quel
che ho conosciuto di lui, preferirebbe che la gente si occupasse delle
canzoni più che del suo autore.
Gianni Brera diceva che gli italiani, per ragioni etniche e storiche, vanno
sempre in soccorso del vincitore. La morte ha fatto di Fabrizio ancora più
un punto di riferimento e in negativo ha creato un vero carro-mercato di
opportunismo.
Ho visto di recente i film sulla vita di Johnny Cash (Walk The Line) e di
Ray Charles (Ray) - aggiungerei anche il documentario di Martin Scorsese
su Bob Dylan (No Direction Home) - e in nessuna di queste pellicole si
cerca l’agiografia, l’apologesi, o Padre Pio, sono film dove esce anche un
po’ di verità. Fabrizio non aspirava all’onore degli altari, semmai preferiva
le voci e il chiasso delle strade.
106
Bello e curioso che Fabrizio sia risultato un vincente pur essendosi sempre
occupato di perdenti o, come li definiva lui, di anime salve, dimenticate,
emarginate, perdute.
Credo che l’inutile sia dannoso, soprattutto quando leggo cose fantasiose e
improbabili ricostruzioni di canzoni che conosco bene per averle scritte.
Qualche anno fa, per esempio, ero ospite di Gigliola Cinquetti a Raisat. Con
me c’era anche uno dei suoi tanti biografi. La Cinquetti gli domandò se
Fabrizio fosse religioso. La risposta fu secca: no, non era interessato. Io,
cattolico, che avevo passato le notti e a discutere di questioni religiose con
Fabrizio, che si definiva più agnostico che ateo, trovai un po’ riduttiva e
spiccia la risposta. Perché Fabrizio aveva una tensione e una problematica
religiosa vera. Certo, non era un credente in senso stretto, ma era fortemente
attratto dalla figura per esempio di Cristo, come testimoniano La buona
novella e altre sue canzoni sparse dimostrano.
lettura. Arrivavamo infine allo stesso punto, come due soldati che
combattevano la stessa guerra da fronti opposti e scalavamo la montagna
dai lati contrapposti. Però, in cima ci si pacificava. Fabrizio aveva una
mente aperta e curiosa e non rifiutava mai il dialogo e la discussione. Ci fu
un periodo in cui leggevo il De Civitate Dei di Sant’Agostino, lui si
incuriosiva e commentavamo qualche passo assieme.
Non hai il rammarico di non essere riuscito a smuovere V apatia dei fan di
Fabrizio, a farli diventare più curiosi di te? Se io leggo che un regista che
amo ha lavorato a lungo con un aiuto regista o uno sceneggiatore, mi viene
V impulso di andare a vedere che cosa ha combinato questo aiuto regista o
questo sceneggiatore nel prosieguo della sua carriera. Senza togliere nulla a
nessuno, ma quantitativamente almeno, sei stato il più importante
collaboratore di Fabrizio, perché hai scritto testi e musiche di due album,
oltre a «Don Raffaè».
109
Mi dispiace che qualcuno non avverta questa curiosità, perché credo sia la
spinta primaria alla conoscenza e quindi a un progredire della vita.
Ricordo che era la grande festa di fine trebbiatura. Dopo che la gente aveva
mangiato e ballato, mentre le donne rassettavano, i musicanti con chitarra,
violino, mandolino e fisarmonica si riposavano un po’ e bevevano qualche
bicchiere, poi cominciavano a intonare lentamente e con molta
compunzione le canzoni della prima guerra mondiale. Tutti gli uomini
presenti, vecchi e giovani, ormai piuttosto ebbri, cantavano guardando
avanti come se vedessero nella notte oltre l’aia, verso i campi, le immagini
terribili di guerra che non riuscivano più a cancellare dalla loro memoria. E
lì vidi per la prima volta mio nonno piangere. Rimasi molto colpito dalla
forza di commozione che poteva avere una canzone. Avevo sempre creduto
che gli uomini non piangessero, soprattutto i capifamiglia e i patriarchi. E
mio nonno, che era la trave portante di tutte le nostre famiglie, non aveva
pianto nemmeno quando si erano bruciate le stalle.
Nemmeno quando mio zio non era tornato dalla guerra, nemmeno quando
mio padre tornò che sembrava un fanta111
Sono cresciuto così, pensando che la musica era molto più forte del cinema,
perché al cinema piangevano solo le donne, mentre le canzoni facevano
piangere gli uomini. Mi sono nutrito di letteratura orale, di storie e
leggende, di vita vissuta e tante favole. Ho avuto ancora la fortuna di
partecipare ai filò.
Di cosa si trattava?
Ci si riuniva nelle stalle più grandi del paese, nelle serate d’inverno.
Direi di no. L’impianto è simile, ma «Era una notte che pioveva» è stata
sicuramente scritta da un illetterato, probabilmente un contadino che faceva
il soldato. È il frutto di una poeticità non scelta e non necessariamente
voluta. Si limitava a descrivere i fatti e i sentimenti del soldato, non aveva
intenzioni letterarie, semmai di creare solidarietà.
Poi l’altra differenza sostanziale è che chi ha scritto «Era una notte che
pioveva» ha vissuto e fatto la guerra. Fabrizio invece ne aveva una
percezione e una conoscenza indiretta, per quanto aiutata dalla sua
sensibilità.
Tutte canzoni così, alcune laceranti come «Il testamento del capitano», che
tutti conoscono con il titolo «Il capitano della compagnia», dove il capitano
che sta per morire divide in cinque pezzi il suo corpo e ordina ai suoi alpini
senza scarpe di consegnarli alla patria, al battaglione, alla madre, alla bella,
l’ultimo alle montagne. «Monte Canino», che ha un testo bellissimo («se
avete fame guardate lontano se avete sete la tazza alla mano che vi disseta
la neve ci sarà»); «Bombardano Cortina» e «Sul ponte di Bassano», oppure
brani più leggeri come «Ohi, Angiolina». Mio padre ci infilava sempre
«Vecchio scarpone» o «Dammi o bella quel fazzolettino» e mia madre «Chi
gettò la luna nel rio».
A quei tempi i rapporti epistolari amorosi non erano ben visti nel mondo
contadino, così questo mio prozio manda114
Tuo padre è stato eroe partigiano. A ventidue anni è tornato dalla guerra con
il tifo petecchiale. La sua nave fu bombardata nel tratto fra Durazzo e Bari e
arrivò a casa vivo solo perché un suo amico, un paesano, se lo portò su una
carriola per lunghi tratti, e poi in treno o su un carretto. Tornò a casa che
pesava quaranta chili. Per lui hai riadattato «Eurialo e Niso».
Mio padre amava molto gli autori latini, specialmente Virgilio e Orazio.
Virgilio ha inserito la storia di Eurialo e Niso ne\VEneide. Orazio nella sua
Ars poetica, più di duemila anni fa, afferma che tutte le trame erano già
state scritte, ma si poteva scrivere qualcosa di nuovo trattando i fatti con
altro stile e diversa sensibilità. La storia di Eurialo e Niso gli piaceva molto.
È la storia dell’amicizia tra Eurialo e Niso, giovani soldati troiani,
compagni di Enea, che compiono un’incursione notturna per avvisare il loro
re di un’imboscata. Fanno grande strage di nemici ubriachi e addormentati,
ma il più giovane, Eurialo, è ingordo di saccheggio e lo tradisce la vanità di
indossare un elmo particolarmente splendente catturato a un nemico. La
luna riflettendosi sul cimiero lo tradisce a sua volta, e lo fa scoprire dai
nemici che intanto erano usciti alla ricerca dei due. Niso, vedendo l’amico
circondato e perduto, abbandona il nascondiglio e cerca invano di salvarlo,
immolandosi per l’amico. È una storia così potente 115
Certo. Alla tragedia greca e alla commedia latina innanzitutto, però anche a
tanta letteratura e cronaca contemporanea. Però ha aggiunto molto di suo.
Nella musica questo procedimento di rifarsi alla tradizione e innestarla di sé
è consolidato. Mi viene in mente Eric Burdon, quando ha riinterpretato
«The House Of The Rising Sun», a Dylan, a Neil Young, a Pete Seeger e di
recente Springsteen nel riaffrontare e rivisitare un repertorio folk antico e
popolare.
Per fare un esempio che mi riguarda, nella canzone «La sposa del diavolo»
dal mio recente album Segreti trasparenti, ho riadattato una ballata scozzese
antica, riletta prima di me da molti tra cui Bob Dylan e Natalie Merchant.
Se una canzone resiste nel tempo è semplicemente perché è molto bella. La
musica riprendendo il paragone poesiaumorismo è come le barzellette: solo
le migliori attraversano gli anni e vengono ricordate e riprodotte. Dalla
notte dei tempi fino a una cinquantina d’anni fa, le canzoni venivano
selezionate naturalmente dalle persone e non dal gusto opinabile di qualche
famoso dj.
È come avere una cantina ben fornita. Se hai un bel brasato o un formaggio
impegnativo devi scegliere un vino 117
rosso importante; se hai invece del pesce o dei frutti di mare ci sono ottimi
vini bianchi. Ma ci sono anche vini poco impegnativi che sono perfetti per
uno spuntino magari di salumi freschi. La lettura notturna dipende dal tuo
stomaco e dal tuo spirito. Come letture del quotidiano, alterno la «Gazzetta
dello Sport», detta anche la Bibbia rosa, alla rivista «Medioevo» o alla
pagina letteraria del «Sole24 ore», poi c’è l’inserto «Tuttolibri» e lo
«Specchio» della «Stampa» che tengo su un tavolo da lettura tutta la
settimana. Ho una libreria nella camera da letto che considero come un
mobile bar. Certe sere mi servo un brandy, altre un gin&tonic e altre una
buona grappa, dipende dall’umore.
il 1989. Sono passati quasi sette anni dal tuo Ip Massimo Bubola e otto da
L’indiano.
Prima di arrivare a Doppio lungo addio passano altri cinque anni, che però
hai trascorso lavorando come produttore e come autore.
Dopo un paio di tentativi con altre canzoni dell’album, «Il cielo d’Irlanda»
fu trasmesso dalle radio più importanti, che all’inizio erano restie a
trasmettere una canzone con un sound così decisamente folk. La canzone
invece decollò.
Quella volta conobbi una anziana bella signora americana, a cui detti un
passaggio, che mi raccontò la sua storia.
Era tornata nel paese dei suoi genitori per morire nella 120
stessa casa dov’erano nati e che aveva ricomprato. Appena atterrata, aveva
noleggiato una macchina e, non abituata alla guida a sinistra e sotto la
pioggia, si era concessa un bel frontale col sottoscritto, per fortuna senza
conseguenze. Nacque un’amicizia.
Gli adulti nei paesini dell’Ovest avevano spesso i pantaloni con le toppe di
un altro colore e le scarpe sfondate dietro, ma era una cosa comune e
nessuno ci badava.
La gente era curiosa e mi chiedeva da dove venivo. Gli italiani erano rari e
spesso mi scambiavano per francese.
Tornai molte volte. Verso la metà degli anni Ottanta presi per la prima volta
il traghetto da Galway verso le isole Aran. Lì mi venne in mente il primo
verso della canzone: «Il cielo d’Irlanda è un oceano di nuvole e luce».
Sei meteoropatico?
Credo come la gran parte delle persone, ma amo molto la pioggia sottile,
che mi mette di buon umore, come la neve quando ti sorprende la domenica
fuori di chiesa. O i temporali in mare aperto, ma anche il cielo veneziano di
Canaletto con quel lungo sfilare di nubi su fondo turchese e poi l’azzurro,
ipnotico cielo siciliano.
Quando la cosa non fu confermata la scrissi lo stesso per mio conto, anche
se il lavoro preparatorio e di documentazione era stato fatto con Fabrizio.
Indubbiamente Garibaldi era uno dei pochi eroi popolari conosciuti nel
nostro paese e non solo e avevo voglia di scriverci sopra qualcosa. Il taglio
non è apologetico, anzi parla di lui prima dell’avventura dei Mille, come di
una 122
persona sfortunata che non era riuscita a realizzare i suoi sogni in Sud
America, pur avendo combattuto per l’indipendenza dell’Uruguay e della
repubblica del Rio Grande do Sul in Brasile.
La storia di Garibaldi era anche la storia di un immigrato che era partito per
fare fortuna ed era tornato sconfitto.
«E a volte il coraggio è di ritornare I senza aver fatto fortuna dall’altra parte
del mare I per inseguire una stella I che gira e gira ti riporterà I a menare le
mani per la libertà».
Sono molto legato all’ultima strofa, perché mi sento vicino alla categoria
degli studenti e soprattutto dei sognatori: «Signora fortuna che brilli di notte
che ci prendi per mano e ci mostri le rotte proteggi questa flotta di studenti
e di sognatori / aggiungi al firmamento i nostri mille cuori».
e questo mi dette molta credibilità. Molti dei fan che mi hanno seguito negli
anni successivi cominciarono a conoscermi, nonostante fossi già al sesto
album, da quella recensione.
La maggior parte dei discografici italiani, per mia esperienza, non sono il
massimo della lungimiranza. La Polygram lasciò cadere l’opzione. Il
contratto prevedeva un disco più un’opzione per gli altri due.
Mentre cercavo un’altra etichetta, produssi gli Estra, un interessante rock
band di Treviso. Il risultato, Metamorfosi, fu molto interessante e con
sonorità affascinanti. Ricordo che lavoravo con una decina di amplificatori
contemporaneamente per costruire suoni di chitarra sempre più densi e
inquietanti. Gli Estra, nelle liriche e nella musica, erano vicini alla nuova
onda di gruppi come gli Screaming Trees o i Pearl Jam, ma non successe
quello che si aspettavano, perchè avevamo intorno la solita gente di poca
fede.
Con la Cgd incisi poi Amore e guerra, un disco antologico registrato con la
Wha Wha Band che aveva suonato con me negli ultimi due anni. Fu un
album in cui rivisitai alcune mie canzoni storiche come «Fiume Sand
Creek» e «Quello che non ho», «Don Raffaè» e «Camicie Rosse», «Johnny
lo zingaro» ed «Eurialo e Niso». Ridando loro la veste che avevo sempre
immaginato. Fu un disco elettrico e ricco di profondità. Sentii che avevo
toccato una stazione importante del mio viaggio e che si era avverato un
sogno.
124
Mon trésor fu forse il tuo album più letterario?
Così decisi che preferivo rischiare del mio e magari rimetterci dei soldi
piuttosto che sacrificare qualcosa del mio percorso. So che in questo lavoro
ci sono dei prezzi da pagare, ma preferisco che siano economici e non
artistici.
126
Arriviamo alla quadrilogia live, Il cavaliere elettrico.
Inoltre, queste canzoni erano cambiate molto nel corso degli anni, perché
sul palco avevano acquistato nuove luci e soprattutto nuove ombre.
I concerti e i tour sono come lungo trekking che permette ai tuoi brani di
allenarsi e fortificarsi nel corpo e nello spirito; all’arrivo le canzoni avevano
un aspetto molto più sano di quello che avevano quando erano partite.
Ho scritto molte poesie, nella vita. Alcune le ho buttate, altre sono rimaste.
Anche qui ha funzionato la selezione del tempo.
Geniale.
Sono andato avanti a blocchi. Mio padre amava i tedeschi: Rainer Maria
Rilke, Friedrich Hölderlin, Georg Trakl.
Poesia italiana?
Poca.
Quando entro in una trattoria con i vecchi tavoloni di noce o di rovere e con
le tovaglie bianche di lino un po’
consunte, io mi sento a mio agio, poi penso che è perché mio nonno mi
portava in luoghi come quelli, ogni tanto, la domenica… Mio nonno si
levava il cappello, mia nonna cercava di sistemargli i capelli, dalla cucina
arrivavano i profumi del brodo e del ragù di fegatini di pollo.
Queste radici sono state la mia salvezza, quando c’era tempesta e il vento
tirava forte e contrario.
le semine, addirittura per il taglio dei capelli. Gli scongiuri e le offerte per
ingraziarsi la terra.
Grazie a loro non ho perso la strada, anche quando la strada non c’era.
«I venti del cuore» era stata già incisa da Fiorella Mannoia, come abbiamo
detto.
Mai. Come diceva il nostro amico Leonard Cohen, il fascismo vincerà solo
quando riuscirà a comprendere fino in fondo i meccanismi della creatività.
Perché solo allora potranno essere bloccati. E allora sarà davvero la fine.
certe piccole fissazioni. Per convincersi che una canzone, oltre che bella,
sarebbe stata anche fortunata, si faceva fare i tarocchi da Dori. Meno male
che le carte hanno sempre letto bene il futuro.
Racconti
di
Massimo Bubola
/ pesci
Vicino a Porto Pozzo in Costa Smeralda c’era una piccola spiaggia deserta
quasi una laguna. Insieme ad alcuni amici di Fabrizio di Tempio Pausania
eravamo stati invitati a passare una giornata di festa.
In questa specie di grande tiro alla fune potente e lentissimo, Fabrizio, che
era dietro di me, cominciò a parlarmi del senso magico e religioso della
pesca: «Guarda, sembriamo gli apostoli sul lago di Tiberiade!» e che, come
metaforicamente anche nella poesia, c’è sempre l’attesa di una pesca
miracolosa.
«Si gettano le reti il più aperte possibili su un punto profondo del tuo cuore
dove arrivano segrete correnti. Dopo un po’ devi tirare e ritirare con fatica e
dispendio. Non puoi sapere finché il cerchio non s’è chiuso, finché l’acqua
non ribolle stretta di brividi di schiuma, cosa verrà a galla. Se 135
mille piccole nuove parole dai riflessi d’argento o un unico enorme pesce
con in bocca una moneta d’oro. E devi imparare nel mezzo a distiguere
veloce, prima del tatto, i pesci velenosi che pungono, magari dentro una
massa maleodorante e oscura di alghe senza senso».
136
Le api
Salimmo con lui in macchina per andare a visitare alcune zone della
proprietà che si prestavano al pascolo.
Saliti sulla bollente vettura e ormai partiti, mi resi conto che c’erano un
centinaio d’api che volavano liberamente nell’abitacolo. Guardai Fabrizio
con una certa apprensione, lui mi sussurò sottovoce ridacchiando tra sé:
«Lasciati annusaree circondare e stai tranquillo, ma non guardare mai il loro
grasso padrone».
137
4»
• fe
La chiave
Tornammo su alle stalle con una lunga corda piatta di quelle che si usano
per le serrande.
Fabrizio ne passò un capo sopra una sbarra di ferro della stalla e l’altro,
entrando con un braccio nell’utero della vacca, intorno alle zampe del
vitello che erano a malapena in evidenza. Riuscimmo a estrarlo tirando con
calma e con forza verso l’alto. Poi tornammo in fretta a casa a preparare un
«colostro» artificiale, che seppi era il primo latte e serviva per disinfettare
lo stomaco e l’intestino del vitello appena nato e che la madre per
sofferenza non era in grado di fornirgli con la prima poppata . Mischiammo
così, in un bottiglione, tuorli d’uovo, latte e non so cos’ altro. Il vitello e la
madre alla fine si salvarono.
racconto irlandese
C’è una croce di paglia sulla baia atlantica, una croce con un cerchio rosso,
un salvagente celtico.
Arriva una vecchia auto familiare, derapa nella pioggia, ne scende di corsa
una donna con uno scialle sulla testa e raccoglie in fretta il bambino che
comincia a piangere a dirotto.
Sul bancone c’è una scritta: «In The Irish Spirit With The Irish Spirits». C’è
un gruppo di turisti americani che accenna dei passi di danza, un signore
enorme, pieno di tatuaggi sulle braccia nude con un grande orecchino, va
dietro il banco e prende un violino e comincia a battere il tempo col piede.
La donna della spiaggia nell’angolo parla sottovoce al bambino e tiene il
tempo con le dita sulla sua guancia.
Fuori intanto è già tornato il sole e tutto riprende colore: attraverso i vetri
passa la luce diretta del tramonto.
blues, del folk rock, del tex-mex, del country e della ballata tradizionale, ha
scritto short stories noir (dalla dark ballad alla murder song) e riletto i canti
della prima guerra mondiale, si è confrontato con l’acustico e si è vestito
d’elettrico, ha flirtato con il soul, si è fidanzato con il colore e ha sposato il
bianco e nero, fino a rappresentare forse il primo esempio italiano di rock
d’autore, dondolandosi sull’altalena che si muove tra le tradizioni
angloamericane e nostrane, soprattutto del Nord Italia.
Può piacere o non piacere, Massimo Bubola, com’è giusto e bello che sia -
che artista è uno che produce indifferenza? Molto meglio dividere in due
schieramenti pronti a darsi battaglia. Però quel che non si può negare è il
suo ruolo sul ponte della canzone italiana che sventola bandiera rock. È ora
che qualcuno lo dica: Massimo Bubola ha raccolto meno di quanto abbia
seminato. E ora che avete letto questo libro, penso che sarete d’accordo.
Massimo Cotto
149
Discografia
Marabel - Philips
Prodotto da F. De André
153
1982
Prodotto da C. Dentés
1994
Doppio lungo addio - Mercury-Polygram Un sogno di più, Doppio lungo
addio, Un uomo ridicolo, Ali Zazà, Niente passa invano, Il cielo d’Irlanda,
Cento volte, Dostoievskji, Tutti assolti
Prodotto da P. Fabrizi
1996
Amore e guerra - Urlo/Cgd
Marabel, Johnny lo zingaro, Fiume Sand Creek, Quello che non ho, Un
angelo in meno, Sally, Spezzacuori, Andrea, Eurialo e Niso, Camicie Rosse,
Tre rose, Don Raffaè Prodotto da M. Bubola
1997
Mon trésor - Cgd
154
Corvi, Ma non ho te, L’usignolo, Mio capitano, Rosso su verde, Cuori
ribelli, Lunga vita a Johnny, Dino Campana, Addio & Goodbye, Spegni la
luce, Svegliati S.Giovanni, Davanti a te, Mon Tresor
Prodotto da M. Bubola
(live)
(live)
lupo, Volta la carta, Lorelei, Annie Hannah, Eurialo & Niso, Canto del
servo pastore, Fiume Sand Creek, La frontiera Prodotto da M. Bubola e M.
Gazich
2005
Tre rose - Eccher Music / Edel distr. (Ristampa del disco FaDodel 1981)
Prodotto da F. De André
2005
Quel lungo treno - Eccher Music / Edel distr.
Jack O’Leary, Era una notte che pioveva, Se questo amore è un treno,
Nostra Signora Fortuna, Puoi uccidermi, Il Disertore, Noi veniam dalle
pianure, Monte Canino, Ponte de Priula, Bum Bum, Adio Ronco
L’uno l’altro, Neve sugli aranci, Massimo, Di’ le tue preghiere, Elegia per
l’uomo dal lungo cappotto nero, Tiepidi & obliqui, Il letto ruotante sulla
Majella, Ora mi arriva il vento, Tempi migliori, Stai in guardia, Appunti sul
traghetto Olbia-Livorno, Lettera sulle parole, I venti del cuore, Sotto un
cielo così
E autore con Fabrizio De André dei testi e delle musiche di tutto l’album
1987
Cristiano De André - Cristiano De André - Ricordi È autore della musica di
«Se all’improvviso» e della musica e del testo di «Il cielo non cadrà»
1988
Milva - Milva - Ricordi
Coautore dei testi di «In gloria», «Il mirto e la rosa», «Quantu ci voli»,
«Sciogli i capelli», e della musica di «Fin’a domani»
The Gang - Le radici e le ali - Cgd Coautore dei testi di «Ombre rosse» e
«Johnny lo zingaro»
162
1993
Fiorella Mannoia - Le canzoni - Harpo Raccolta comprendente «Il cielo
d’Irlanda» e «I venti del cuore»
1994
Fiorella Mannoia - Gente comune - Harpo È autore del testo e della musica
di «Camicie rosse» e del testo di «Che vita sarai»
Mia Martini - La musica che gira intorno - Rti Reinterpreta i brani «Fiume
Sand Creek» e «Hotel Supramonte»
Cgd
Urlo/Cgd
1997
Estra - Alterazioni
Urlo/Cgd
2002
Luigi Maieron - Si vif
Eccher Music
166
Morblus Band - Mrs Miller
Eccher Music
«Romance in Durango»
(tradotta con Fabrizio De André per il suo album Rimini Dischi Ricordi,
1978
(per l’album Massimo BubolalFado - Cgd, 1982) «Into the great wide
open»
Edizioni Paoline
171
Viaggiando tra zingari o re
Ed. No Reply
172
Indice
p. 7 Prefazione
137 Le api
139 La chiave
145 Postfazione
151 Discografia
¡s
**iz%
Massimo Cotto
è diventata libro
Possa un giorno