Sei sulla pagina 1di 184

Nella stessa collana:

Roberto De Ponti, Alessandro Pasini, Le pillole del Dottore, conversazioni


con Valentino Rossi

Marta Chiavari, Ti aspetto in piedi, conversazioni con Francesca Fogar

Roberto De Ponti, Campioni del mondo, conversazioni con Dino Zoff

Marco Spagnoli, Match Points,

conversazioni con Woody Allen

Simona Orlando, Anche se voi vi credete assolti, conversazioni con Haidi


Giuliani e altri Marco Spagnoli, O Lucky Malcolm!,

conversazioni con Malcolm McDowell

Massimo Cotto

conversazioni con

Massimo Bubola

Fabrizio De André

Doppio lungo addio

Aliberti editore

Tutti i diritti riservati

© 2006 Aliberti editore

I tre racconti / pesci, Le api, La chiave sono stati scritti il 12 gennaio 1999 e
pubblicati sul quotidiano «la Repubblica» il 13 gennaio 1999.
Sede legale e operativa:

Vicolo del Clemente, 1 42100 Reggio Emilia Tel/Fax 0522 434523 Ufficio
Stampa 329 4293200

www. alibertieditore. it

info@alibertieditore.it

Prefazione

Senti, dì ai tuoi amici scemi di non chiamare alle 4 di notte spacciandosi per
Fabrizio De André. Quando Fabrizio rubava i carri armati. «Andrea» che
prima era Lucia.

«Sally» che nasce in inglese, e poi Marquez e Jodorowsky.

Il libro di oggettistica Navajo mai restituito di Ornella Vanoni che serviva


per L’indiano. «Fiume Sand Creek», le cornamuse e il colore della coperta.
Il nonno che salvò Giuseppe Garibaldi perché a volte i pesci cantano.
Platone e i figli della luna. Fabrizio che arrivò alla 3 del pomeriggio
dicendo: «Per te mi sono svegliato presto». Cantavamo tra noi le vecchie
canzoni degli alpini, come «Bombardano Cortina» o ballate napoletane
come «Marinariello» o «Scalinatiella». Quando traducemmo «Romance in
Durango» di Dylan anziché «Born To Run» di Springsteen.

Dylan che citava a memoria Poliziano e lo Zibaldone.

Quella volta che facemmo nascere un vitello. Rimini, Kurt Weill, Todo
Modo e Buñuel. «Volta la carta» e Vittorio De Sica. «Coda di lupo» e
Marco Ferreri. Alla prima della Scala dalla parte di chi tirava le uova.
Anarchia e religione.
Steinbeck, il paralitico che ride quando l’acrobata sbaglia il salto, i poeti
metodisti, il macellaio con la frusta e il «naufragio della London Valor». La
festa per il battesimo di Luvi. Pasolini e Maratta. Il rapimento. Hotel
Miralago, Hotel Miramonti e «Hotel Supramonte». Il non finito nelle
canzoni e la Pietà Rondanini.

La caccia al cinghiale, le martore. Ungaretti, Cat Stevens e il «Canto del


servo pastore». I ragni galleggianti, l’Arcadia e «Se ti tagliassero a
pezzetti». Prendevamo dei grandi fogli bianchi e delle matite colorate, poi
davamo a ogni canzone un colore e tracciavamo delle grandi sbarre per
capire quali colori mancavano al disco. Il priore dell’eremo in Umbria e il
sociologo tedesco. Sei bravo ma lascia stare quella chitarra elettrica.
Inventavamo le vite dei santi parlando un dialetto napoletano improbabile.
Ma secondo te, «Don Raffaè» fa ridere?. La malattia, la morte, il mito.
Gigliola Cinquetti, il De Civitate Dei e Tommaso Campanella. I tarocchi
per capire se una canzone avrebbe funzionato. I pesci, le api, la chiave.
Fabrizio De André.

Come Tristan Tzara invitava a ritagliare parole, infilarle in un cassetto e poi


estrarle a caso per ottenere una poesia dadaista, così ho prima ritagliato e
poi estratto a caso alcune frasi e argomenti di questo libro per averne il
succo.

Nelle pagine a venire troverete il De André sconosciuto o poco noto, gli


aneddoti e i ricordi, la genesi delle canzoni e la loro analisi logica, lo
struggimento e la commozione, le risate e le follie, l’edito e l’inedito
raccontato da Massimo Bubola, che è stato il più stretto collaboratore di
Fabrizio De André - con lui ha scritto testi e musica di due album storici
{Rimini e L’indiano) e la saga di «Don Raffaè». Con Faber ha consegnato
alla storia canzoni che sono entrate 10

stabilmente a far parte del suo repertorio live, catturando l’immaginario


collettivo - «Andrea», «Fiume Sand Creek», «Hotel Supramonte»,
«Franziska», «Volta la carta», «Coda di lupo», «Sally», «Rimini», «Se ti
tagliassero a pezzetti», oltre alla già citata «Don Raffaè». E, naturalmente,
troverete lui, Massimo Bubola, artista a tutto tondo ma con molti spigoli
dov’è bello sbattere. Perché l’arte è un colpo nell’anca, un pugno in faccia,
una gomitata nello stomaco. Le superfici troppo lisce non fanno per noi,
perché si rischia di scivolare e cadere nel banale, perché in calma piatta non
si naviga, perché sono sempre le asperità a fare grande l’uomo e mai i
pattini a rotelle.

Massimo Cotto

Doppio lungo addio

Massimo Cotto: Quale fu la prima canzone scritta a quattro mani dalla


coppia Fabrizio De André - Massimo Bubola?

Massimo Bubola: «Andrea». Ambientata durante la prima guerra mondiale.


Quando si trattò di cominciare a scrivere canzoni, io mi affidai ai ricordi più
vivi che avevo: i racconti di guerra. In origine s’intitolava «Lucia», una
ragazza che, come la Dosolina, si buttava in un pozzo perché le dicevano
che il suo ragazzo era morto in guerra. L’inizio, «Lucia si è persa, si è persa
e non sa tornare» fotografava la sua impossibilità di tornare in vita perché si
era persa nel fondo di un pozzo. Poi ci venne, improvvisa, l’idea di
classicizzarla e riprendere la struttura dei due soldati amanti.

Funzionò, perché le diede un contenuto più eretico e originale. L’idea venne


mentre eravamo in macchina. Stavamo andando a Cortina a trovare certi
amici di Fabrizio.

Passando sul Piave, notammo un cartello che diceva: «Fiume sacro alla
patria». Fabrizio disse: «Come può esse

re sacro un luogo di massacro?» Pensammo a due soldati amanti, uno morto


sulla bandiera, ucciso sui monti di Trento dalla mitraglia e l’altro che si
lascia cadere nel pozzo, disperato. Una vera tragedia popolare.
Il passo successivo, dopo aver avuto l’idea, era scrivere la trama e
raccontarla con un linguaggio adatto. Ci domandammo: «Se questa canzone
fosse una casa, che casa sarebbe?» La risposta fu: «Liberty». Di
conseguenza, adottammo un linguaggio liberty. Pensa ad alcuni versi:
«Andrea raccoglieva violette ai bordi del pozzo», «la firma era d’oro era
firma di re», «gettava riccioli neri nel cerchio del pozzo», «il pozzo è
profondo, più fondo del fondo degli occhi, della notte del pianto». Frasi
portate al limite del dolciastro e dell’iconografico. Ma era un ultradolce
ricercato, un sapore che andava creato per rendere più credibile il tutto.

L’ultima strofa è un capolavoro.

Abbiamo preso spunto dalla ballata popolare alla Henry Lee, un


tradizionale poi riletto anche da Nick Cave: «Seppellirò il tuo corpo finché
le ossa si staccheranno dalla tua carne», dice lei buttandolo in un pozzo. La
morte tragica e amorosa in un pozzo c’è in tante folk songs in tutta Europa.

Vi siete resi conto subito di avere per le mani un grande brano?

Il merito è di Dori. Fu lei la prima a crederci. Disse: «Secondo me è una


grande canzone e diverrà molto popolare». Se non ricordo male, aveva la
possibilità di essere 16

coeditrice di due brani dell’album e scelse subito «Andrea» e poi «Volta la


carta». Aveva visto giusto, perché ebbe molta risonanza nei paesi di lingua
tedesca e scandinava e fu tradotta in diverse lingue. Una sera, la sentii
suonare in un ristorante a Spalato. Ci misi un po’ a riconoscerla perché era
in lingua croata ed era molto diversa dall’originale: la cantavano alla
stregua di «Rosamunda», come fosse una canzone popolare dall’argomento
allegro.

Mi fermai a parlare con i musicisti, stupitissimi che Andrea fosse un nome


maschile. Da loro e in tutto il mondo nord-europeo, Andrea è un nome
femminile, il maschile è Andreas. Pensavano fosse un nome di donna.

Un’altra volta la sentii al Prater di Vienna, io ero sulla grande Ruota, mentre
l’orchestrina da un bar la eseguiva là di sotto. Un’altra volta ancora la
risentii all’Oktoberfest, a Monaco in Germania, riletta da musicanti bavaresi
piuttosto gravidi di birra.

Come nella tradizione latinoamericana, mi piacevano molto le canzoni che


avevano un ritmo esuberante e allegro da legare a un testo triste e
struggente. In questo ero poco “italiano”. Da noi c’è più coerenza tra testo e
musica. Così le storie tristi sono in minore. Nel folk inglese, ma anche in
molte canzoni di Brassens sono in minore. È

il retaggio della classica, che sceglieva le tonalità e i tempi, che hanno


ancora la nomenclatura italiana, in base all’argomento. Ogni tonalità aveva
il suo retaggio sentimentale. In «Andrea» andammo, in questo senso,
controcorrente.

Vi siete mai accorti che il riff della canzone è molto simile al tema
dominante di Histoire d’O?
17
Francamente no.

Fabrizio, quando commentava la canzone, parlava di Platone e dei figli


della luna: le anime diverse.

Fabrizio era un grande anche in questo. Era un animale notturno. Mangiava,


beveva, fumava, scriveva, leggeva, viveva di notte. E di notte rielaborava
ideologicamente quello che avevamo scritto di giorno. Quando lessi
qualche sua intervista sull’album Rimini, rimasi stupito da certe
interpretazioni che dava su canzoni scritte insieme. Lo faceva in perfetta
buona fede. Erano le sue rimasticazioni notturne dei nostri versi. Fabrizio
era come un uccello notturno che volava sulle cose e le vedeva con occhi
diversi, reinterpretandole. Arrivavamo alla fine della canzone, come se
arrivassimo in cima a una montagna da due versanti opposti: lui
attraversava un bosco, io una cascata di roccia. Così, se dicevo: «Hai visto
quanti camosci su quella cengia?», lui ribatteva: «Quali camosci? Ho visto
solo scoiattoli e marmotte». E io concludevo: «Marmotte? Ma cosa stai
dicendo?» Eravamo semplicemente due persone che lavoravano allo stesso
obiettivo insieme, ma che avevano retaggi e radici molto diverse. Io venivo
da un mondo contadino veneto, semplice e conservatore, tradizionalista e
legato alla terra, all’epica e alla mitologia dei campi e della fatica; Fabrizio
era figlio della buona borghesia piemontese, i suoi genitori si trasferirono a
Genova nel dopoguerra. Amavamo entrambi gli umili e la terra, le favole e
le ballate, ma le affrontavamo, vedevamo e interpretavamo in modo
differente.

Discutevate spesso?
18
A volte sì. E nessuno cambiava facilmente la sua opinione, però lo scontro
era utile a entrambi, perché un po’ ci si spostava comunque. A volte
andavamo avanti giorni a discutere. A sostegno delle nostre teorie
portavamo libri, giornali, poesie. Eravamo come due avvocati che
sostenevano arringhe contrarie. A Fabrizio piaceva lo scontro dialettico.
Provava un piacere quasi fisico. Era il nostro gioco favorito.

Una volta hai detto: «All’epoca del nostro primo disco insieme, Fabrizio
capiva più lui di me come scrittore di canzoni di quanto capissi io. Mi ha
dato la sicurezza di poter fare questo lavoro perché mi sono detto: “Se uno
grande come lui mi stima al punto da voler lavorare con me a suo rischio e
pericolo, allora vuol dire che forse posso farcela” ».

Avevamo un rapporto tra fratello minore e maggiore a un certo punto, poi


tra padre e figlio, poi tra principe e scudiero. A parte gli scherzi, credo che i
nostri quindici anni di differenza e la lunga frequentazione per periodi
prolungati, crei una variegazione di rapporti, una specie di cangianza
naturale che segue l’evolversi o l’involversi del rapporto. Quando mio
padre, quello vero, seppe che Fabrizio mi cercava, non voleva crederci. Era
molto preoccupato per me, perché non riusciva a capire come ammorbidire
la mia passione per la musica. All’inizio non ci aveva fatto molto caso.
Facevo rock, ma questo accadeva come la stragrande maggioranza dei
ragazzi del mio quartiere, dove tutti giocavano a pallone o suonavano in una
rock band.
19
Come nelle metropoli americane, con haseball o basket, più raramente la
boxe, al posto del calcio.

A pallone me la cavavo, ma non ho mai pensato di diventare un


professionista. Mio padre mi vedeva notaio nel prestigioso studio di uno zio
che viveva e lavorava a Padova. Nemmeno immaginava che la musica
potesse diventare una professione seria. Cominciò a ricredersi dopo l’uscita
di Nastro giallo, il mio primo disco, pubblicato nel 1976, poco prima
dell’arrivo di Fabrizio. Per mio padre, che il disco fosse o meno nei negozi
cambiava poco, ma quando mi ascoltò la prima volta per radio, quasi gli
prese un colpo. Mio padre era un grande appassionato di Tutto il calcio
minuto per minuto. Una domenica, nell’intervallo tra i primi e i secondi
tempi, mandarono in onda una mia canzone. Lì capì che la chitarra stava
portando via spazio alle scartoffie dello studio notarile.

Quando arrivò la chiamata di Fabrizio, fu contento, anche se non lo


conosceva benissimo, ma vide la reazione scomposta della mia sorella
maggiore. Era lei la più felice di questo piccolo miracolo.

Più felice di te?

Ma sai, io, a essere onesti, Fabrizio De André non lo ascoltavo. Conoscevo


alcune sue canzoni, ma non tante.

Sarei andato a documentarmi, ovviamente. La mia felicità nasceva dalla


consapevolezza di essere stato chiamato da un grande artista che credeva in
me. Poco importava se io lo conoscevo. Avevo anche un pizzico di paura,
perché il nostro è un mestiere artigianale: lo impari solo facendolo.

Io speravo che Fabrizio mi lasciasse il tempo di imparare.


20
D’altronde, se mi aveva cercato, voleva dire che era convinto che avessi un
certo talento. Fabrizio, da questo punto di vista, è sempre stato
straordinario, perché non mi ha mai fatto mancare il suo incoraggiamento.
Diceva di non aver mai incontrato nessuno con un talento come il mio a
vent’anni. Magari non era vero, però mi serviva crederlo. Alla fine penso di
aver ripagato la sua fiducia scrivendo con lui molte canzoni rimaste
stabilmente nel suo repertorio live fino alla fine.

Comunque, quando mio padre conobbe Fabrizio di persona, abbandonò del


tutto il futuro che si era immaginato per me e si tranquillizzò. Fabrizio era
una persona estremamente a modo, educata, gentile, di ottime maniere.

Sapeva mettere tutti a proprio agio. Quando arrivarono i resoconti Siae, mio
padre a momenti svenne. In un semestre di diritti d’autore, avevo
guadagnato quanto lui in tre anni.

Come fu il primo contatto?

Una mattina arrivò mio padre a svegliarmi: «Senti, dì ai tuoi amici scemi di
non chiamare alle quattro di notte spacciandosi per Fabrizio De André». Gli
dissi: «Ma sei sicuro che non fosse davvero lui?» «Ma sei matto? A
quell’ora chiamano solo i carabinieri e le persone serie dormono.

Poi, sai com’è la mamma: non è più riuscita ad addormentarsi». Erano


giorni un po’ strani, avevano appena rubato la macchina di mia sorella. Io,
illudendomi che fosse lui, andai a controllare e capii che a chiamare era
stato davvero Fabrizio. Era un animale notturno e pensava che vivessi da
solo. Mi chiese se mi andasse di incontrarlo. Ci incontrammo dopo un paio
di giorni.
21
Dove?

Ci conoscemmo negli studi della Produttori Associati, introdotti da Roberto


Danè. Era stato lui il grande fautore del nostro incontro. Era convinto
fossimo fatti per lavorare insieme. Fu necessario molto tempo prima di
cominciare a scrivere. Credo che Fabrizio volesse prima sapere se si poteva
fidare di me. Conoscermi. Solo che per lui conoscere qualcuno significava
parlare specialmente di cose che non avevano a che fare con il lavoro che
avremmo realizzato insieme. Parlavamo raramente di musica, insomma.

Calcio, molto calcio. Lui tifoso del Genoa, io dell’Hellas Verona, due
squadre da molto lontane dai vertici e dai giochi di potere. Parlavamo
quindi di tutto, ma non di canzoni: di Repubbliche marinare e di storia
medievale, per esempio. Fabrizio era molto guardingo, diffidente come lo
sono spesso i liguri. Non dava molta confidenza, stentava ad aprirsi sulla
musica. Per lui l’importante era annusarsi.

Fabrizio sosteneva che uomo e donna si innamorano fondamentalmente


attraverso l’odore, come per gli animali. Il resto, il corteggiamento, il
fidanzamento fa tutto parte delle convenzioni.

Quando le cose cominciarono a evolversi?

Quando mi invitò in Sardegna. Ci arrivai con un viaggio complicatissimo e


allucinante da Gabicce Mare sulla costa adriatica, dove ero in vacanza con i
miei. Sbarcai alle sette di mattina al porto di Olbia, convinto che Fabrizio
fosse lì ad attendermi. Arrivò alle tre del pomeriggio, dicendo: «Per te mi
sono svegliato presto». Con lui c’era Giuseppe Bentivoglio, che aveva
collaborato a Non 22

al denaro non all’amore né al cielo e a Storia di un impiegato, co-firmando


tra l’altro il testo di quel piccolo capolavoro che è «Verranno a chiederti del
nostro amore».
Dopo la parentesi di Volume vili e la collaborazione con De Gregori,
Fabrizio e Giuseppe stavano valutando se tornare a lavorare insieme. Era
una fase di studio, insomma.

Come con me, del resto. Fabrizio non mi disse mai: «Vieni a scrivere un
disco con me». Disse semplicemente: «Vieni e vediamo cosa succede».
All’epoca, era ospite a casa di una vedova, che affittava stanze a Tempio
Pausania. Una situazione surreale, c’erano enormi agavi come nel giardino
dei conti Cefalù nel film Divorzio all’ italiana di Pietro Germi. I tempi
erano incredibilmente dilatati. Lui dormiva fino a tardissimo, ogni tanto
andavamo al mare. Fabrizio non aveva la patente e ogni trasferimento era
un po’ macchinoso.

Tornammo a Milano in ottobre e lì le cose cominciarono a prendere


concretezza.

E anche abbastanza velocemente.

Dove lavoravate?

Io vivevo ancora dai miei, lui non aveva una casa solo sua a Milano, quindi
andavo a incontrarlo nell’appartamento di Dori. Lei allora viveva con la sua
bellissima famiglia. Nella casa abitavano i suoi genitori, la sorella Fiore,
suo cognato e i loro tre bambini.

C’era molta confusione, ma trovavamo comunque la concentrazione in una


stanza in fondo. Dopo un po’ portai il mio registratore Revox, per
cominciare a fissare le cose su nastro. Fabrizio continuava a rimanere
perplesso, dubbioso su tutto, scettico. Pensava che non saremmo arrivati 23

da nessuna parte. «Per me dovremmo smettere», ripeteva: «Stiamo solo


perdendo tempo!»

Tu eri reduce da Nastro giallo, opera prima che conteneva «I miei perché»,
«Spalle dolci», «Canzoni di maggio», «Canzone del guerrigliero cieco».
Io non avevo mai pensato di scrivere canzoni. Io suonavo la chitarra
elettrica e scrivevo poesie separatamente. Fu la mamma giornalista di una
mia compagna di liceo a suggerirmi di mettere insieme le due cose e fare
dei provini.

Così trovai un elenco del telefono di Milano e cominciai a tirare giù dei
numeri di case discografiche a caso. I primi a rispondere furono i
discografici dell’Aristón. Mi recai in un postaccio sperso alle porte di
Milano, vicino a un cimitero, lugubre e immerso nella nebbia. Giunsi
cambiando un tram e due autobus e poi feci un lungo tratto a piedi, perché
non avevo i soldi per un taxi. Erano tempi in cui, quando arrivavi con la tua
chitarra a tracolla, dentro la custodia di plastica, si scomodavano i direttori
artistici. Il primo a credere in me fu Roberto Danè, che mi mise sotto
contratto alla Produttori Associati. Io avevo pronte solo tre o quattro
canzoni. Feci il provino con un tecnico del suono che mi sommerse la voce
di echi. Non si capiva niente di quello che dicevo. Mi mandarono
comunque, dopo qualche mese, in studio a registrare un lp. Andava di moda
il neo-ermetismo da canzone. Credo mi fecero il contratto non perché erano
sicuri delle mie qualità, ma perché avevano paura di sbagliare. Si capiva
poco, per cui avrei potuto essere anche un enorme talento.

Tornai a casa e scrissi le canzoni che mi mancavano in pochi giorni. A


Milano mi aspettava l’arrangiatore che 24

avevano deciso per me, il maestro Gianpiero Reverberi con il suo dolcevita
e la sua serissima barba. Mentre gli suonavo i brani, lui prendeva appunti,
tirava giù le parti, mi dava consigli. Io ascoltavo e ubbidivo. Dovevo essere
molto diligente, anche perché non erano tempi in cui potevi alzare troppo la
voce. Non se lo potevano permettere neanche i grandi. Parlavo solo se
interrogato. Era così per tutti. Tu portavi le canzoni e cercavi di interpretare
quasi in presa diretta, chiuso in piccoli gabbioni; il resto era compito
dell’arrangiatore e del produttore. A volte ti chiedevano un consiglio e
allora potevi dire la tua, ma non è detto che poi ti ascoltassero. Io cantavo e
fantasticavo, perché nell’altra stanza c’era Lucio Battisti. Vivevo con un
piccolo stipendio che mi dava Casetta, il patron della Produttori Associati,
perché, oltre a incidere per loro, scrivevo testi - come per Pino Donaggio - e
correggevo altri testi di loro artisti.

A riascoltare la mia opera prima oggi, la trovo acerba ed eccessivamente


letteraria.

Era intrisa di rock e di surrealismo, oltre che di ingenuità: citavo


tranquillamente Isadora Duncan ed Enrico vm.

Cosa vide Fabrizio in Nastro giallo non so, però lui amava ripetere che si
sentiva come un mercante di stoffe capace di riconoscere la buona seta al
tatto. La sua fiducia mi aiutò anche con la casa discografica. Purtroppo, per
una serie di investimenti sbagliati, la Produttori Associati s’indebitò
pesantemente. Il proprietario, Antonio Casetta aveva messo in piedi a
Carimate un megastudio, lo Stone Castle, ma qualcosa evidentemente era
andato storto, così l’etichetta fallì e vendette tutto alla Ricordi. Casetta, da
signore qual era, assistette tutti gli artisti - dalla Rettore agli Alunni del
Sole, da me a Santo & Johnny - nella fase di passaggio e 25

cedette il mio contratto alla Polygram. Fabrizio andò alla Ricordi. E con la
Ricordi pubblicammo Rimini.

Fabrizio veniva invece da una collaborazione con Francesco De Gregori in


Volume vili.

Un disco che a me era piaciuto molto, perché ci trovavo una coraggiosa


sperimentazione di un linguaggio da canzone che non conoscevamo in Italia
e poi c’era dentro molta poetica di Dylan Thomas. Gli arrangiamenti di
Tony Mimms erano rarefatti ed evocativi, le metafore suggestive e
affascinanti, l’atmosfera limpida anche quando non vedevi il fondo. Ci sono
quadri che sono importanti anche per altri pittori.

Volume vili era un laboratorio straordinario per un ragazzo come me, che si
era appena avvicinato alla scrittura da canzone in lingua italiana.
Discutevamo spesso di quel disco, anche se a Fabrizio non piaceva troppo
parlarne. Era alla ricerca di nuovi contesti e nuove avventure, non solo
musicali. Diceva che, a volte, era come se gli mancasse l’aria. Credo fu in
quei mesi che nacque la decisione di aprire la fattoria in Sardegna. Mi dava
l’idea che, se avesse potuto, avrebbe piantato degli alberi anche nella sua
anima.

Era in una fase decisiva.

Come nacque la decisione di tradurre «Romance in Durango» di Dylan?

Prima ancora di scrivere insieme, nell’autunno del 1976, Roberto Danè mi


chiese di tradurre in italiano «una canzone di questo Bruce Springsteen, di
cui si parla un gran bene». La canzone era «Born To Run». Dopo qualche
gior26

no dissi a lui e a Fabrizio che la cosa non era secondo me fattibile. Intanto
perché il testo era un veloce uragano di parole in inglese, che rendeva quasi
impossibile una traduzione decente in italiano. Poi perché la lirica
descriveva un panorama metropolitano, di grandi periferie, mentre sia io
che Fabrizio avevamo un retaggio culturale e un’appartenenza geografica
molto distanti da quel mondo. Era, insomma, un pianeta poco plausibile per
l’universo italiano. Stava sì prendendo piede, ma lentamente. Fabrizio
insisteva, così feci ancora qualche tentativo, ma ci accorgemmo presto che
non era davvero possibile. Ponemmo fine all’insano proposito con una mia
battuta: «Fabrizio, sei troppo addominale per fare Springsteen e poi ti
immagini tu che non hai forse mai corso in vita tua che canti: bambina,
siamo nati per correre!»

Scegliemmo una canzone di Bob Dylan. Fabrizio aveva già affrontato con
De Gregori «Desolation Row», traducendola in «Via della Povertà»,
sull’album rosa.

«Romance in Durango», dal recente e popolare album «Desire», era perfetta


come impianto narrativo. L’abbiamo rallentata rispetto all’originale, perché
si potessero meglio pronunciare le parole e abbiamo avuto l’idea, giudicata
molto strana all’epoca, di tradurre il ritornello dallo spagnolo al napoletano.
Gli americani hanno familiarità con lo spagnolo, non foss’altro che per
ragioni di immigrazione è la seconda lingua in Usa, ma da noi un ritornello
in spagnolo non avrebbe avuto senso. Avrebbe avuto senso in napoletano,
perché saremmo stati speculari al testo originale.

Insieme a Leonard Cohen, Dylan era la stella polare.


27
Dylan era il nostro punto di riferimento anche perché aveva operato una
bella transizione, dalla figura del cantautore o del folksinger a quella di
artista a tutto tondo che dipingeva, faceva l’attore, scriveva film, libri di
poesia e soprattutto testi da canzone straordinari, densi di riferimenti biblici
e visionari, su sonorità elettriche figlie di un’evoluzione di quello che oggi i
critici definiscono rock-folk.

Dylan era per noi la prova vivente che si poteva prendere la musica delle
radici, metabolizzarla e trasformarla in qualcos’altro ancora.

Io e Fabrizio eravamo innamorati della canzone popolare: io di quella


veneta, lui di quella genovese, entrambi della canzone napoletana. Ecco
perché venne spontaneo canticchiare il ritornello di «Romance in Dwango»
in napoletano: «Nun chiagne Maddalena…»

Cantavamo spesso, tra noi, vecchie canzoni degli alpini come «Bombardano
Cortina», o ballate partenopee come «Marinariello» o «Scalinatiella».
Fabrizio amava Roberto Murólo, soprattutto perché era stato il primo dei
grandi cantanti napoletani a non cantare a voce spiegata, a non urlare, a non
teatralizzare. Per me, Murólo ha avuto una grande capacità di raccontare.
Ma forse il più grande innovatore fu Salvatore Di Giacomo.

Di Giacomo fu indubbiamente un maestro. Persino Benedetto Croce arrivò


a definirlo uno dei massimi poeti contemporanei.

Di Giacomo era meraviglioso e pieno di un raro talento.

Non ho mai capito come per un grande scrittore di canzoni ci sia sempre
questa sorta di remora nel definirlo poeta, come se fosse una patente troppo
impegnativa ed 28

elevata, quando invece si danno patenti facili a un sacco di letteratucoli di


rara mediocrità e di nessun talento, solo perché scrivono poesia e
tronfiamente si avallano e si riveriscono l’un l’altro nel firmamento infinito
dei premi di poesia che non si negano a nessuno.

Tornando a «Romance in Dwango».

«Romance in Durango» fu scelta quasi naturalmente, perché il sottofondo


alle nostre giornate era Desire. Lo ascoltavamo spesso, sia a casa di Dori,
sia nella casa al mare, in Sardegna. Certo, avremmo potuto scegliere
qualsiasi altro brano, perché ogni canzone di quel disco è buona. A parte
«Hurricane», troppo contestualizzata, ogni altra canzone si prestava a essere
tradotta.

A Dylan la versione piacque molto.

Ho tradotto e adattato in italiano canzoni di Willie Nile, Tom Petty, Willy


De Ville, Mike Scott dei Waterboys - e l’iter è sempre lo stesso. Gli autori
stranieri vogliono prima ascoltare la tua versione e poi vogliono la
traduzione della tua versione. In pratica, tu devi tradurre dall’inglese
all’italiano adattandolo alla metrica della canzone originale e poi devi far
tradurre in inglese il tuo adattamento. Questo per controllare che tu abbia
rispettato il senso della composizione. Solo alla fine, dopo tutti questi
passaggi, ti concedono l’autorizzazione. E non è affatto automatica. Una
decina di anni fa Randy Newman non mi diede il permesso di tradurre la
sua «Fallin’ In Love».

Nel caso di «Romance in Durango», mi riferirono che arrivò una lettera di


Bob Dylan che non solo autorizzava la 29

traduzione, ma si complimentava con noi. Nel 1998 ho avuto la ventura di


aprire un suo concerto al castello di Villafranca di Verona e alla fine mi fece
chiamare per un breve colloquio. Il suo giovane manager europeo mi riferì
che Bobby aveva apprezzato la traduzione di «Avventura a Durango» e che
quello, non conoscendo la mia produzione, era stato uno dei motivi che lo
aveva spinto ad accettarmi per aprire il concerto.
Quella sera parlammo di letteratura, degli scrittori e dei poeti italiani che
conosceva e amava. Mi stupii molto che Dylan conoscesse non solo Dante,
Boccaccio e Leopardi, di cui citava lo Zibaldone, ma anche Poliziano e
Metastasio.

Tu hai tradotto molto. Qual è la difficoltà maggiore, al di là dell’ adattare


una musica come il rock che abbisogna di tronche a una lingua come la
nostra ricca di molte piane, sdrucciole e bisdrucciole?

Se traduci da una lingua neolatina come il francese o lo spagnolo hai meno


difficoltà, perché la loro natura è simile. Dall’inglese è effettivamente una
scommessa, perché ogni traduzione è un’incognita. Quando vai in un museo
e leggi su un cartello le informazioni su un’opera, vedi che il testo in
inglese è sempre lungo la metà rispetto a quello in italiano. Questo significa
che devi necessariamente eliminare alcune parole in italiano rispetto
all’originale, altrimenti non riesci a rispettare la metrica.

Il tutto mantenendo il significato e riproducendo la rima.

In «Avventura a Durango» abbiamo cambiato qualcosa, rispetto al testo di


Dylan-Levy. Gli occhi smeraldini di ramarro, il collo di Ramon pieno di
sangue, il velo per la comunione, li abbiamo inventati noi. E i versi «ho
dato la 30

chitarra al figlio del fornaio / per una pizza e un fucile» parlavano in origine
di baratto tra una chitarra e un fucile e un posto per nascondersi. Piccole
variazioni, non sostanziali.

Il Messico della canzone è idealizzato, più vicino al fumetto che alla realtà.
C’è un’incongruenza geografica che nessuno ha notato: dalle rovine dei
templi aztechi a Durango ci sono più di duemila chilometri: sarebbe stato
impossibile farli a cavallo. È un Messico improbabile, ma credibile.

C’era dentro molto Tex Willer. Ogni verso è come una vignetta. C’è uno
story-board chiaro e consequenziale.

È una canzone sceneggiata, sembra un film.


Un po’ alla Peckinpah, un po’ alla Sergio Leone. Far West e Messico. Pat
Garrett e Clint Eastwood. Lui spara a Ramon e poi fugge. Quando pensa di
avercela fatta, sente uno sparo e un dolore caldo. È una ballata tragica,
come molti songwriters o cantori usavano scrivere fin dall’antichità,
tradizione che è andata molto affievolendosi soprattutto dalle nostre parti…

Dopo «Andrea», la seconda a nascere fu «Sally».

«Sally» ha due corollari. Il primo è che la canzone nasce in inglese: «My


mother said I never should / play with the gypsies in the wood». Era una
filastrocca il cui suono mi piaceva molto e che praticamente terminava con
la seconda strofa. Su questo corpo si sono aggiunte le ultime due, quelle
dove compaiono Pilar del Mare e il Re dei Topi.

Pilar del Mare era figlia di quella letteratura latina di cui ci cibavamo io e
Fabrizio, soprattutto di Gabriel Garcia Marquez. Pilar non è un nome scelto
a caso, ma si riferì 31

see a un personaggio di Cent’anni di solitudine. Il Re dei Topi, invece, è un


omaggio a El Topo di Jodorowsky e al suo surrealismo.

«Sally» è dunque una canzone strana, dove la prime due strofe hanno come
riferimento il folk inglese, poi c’è una strofa latinoamericana e un finale tra
Jodorowsky e Buñuel.

Fu dopo «Sally» che anche Fabrizio il Dubbioso si convinse: avevamo


davanti «Andrea» e «Sally» ed eravamo certi che fossero buone abbastanza
da finire su un disco.

Hai mai provato a vincere questa sua insicurezza?

Credo ci fosse, alla base, una ragione di antropologia culturale. Fabrizio, da


buon genovese, era un po’ accidioso, indolente, assediato dal tedio del
perfezionismo. Era sempre un po’ scettico e niente di quello che faceva gli
sembrava mai bello abbastanza. Piuttosto che rischiare di fare qualcosa che
non lo convincesse fino in fondo, preferiva fermarsi e attendere. Ecco
perché ha inciso tanti bei dischi.

I liguri amano dileggiare e Fabrizio aveva paura di essere dileggiato, anche


solo in senso metaforico, pubblicando qualcosa non all’altezza delle
aspettative.

I genovesi sono così: hanno una sintassi comportamentale e geometrie di


rapporti che non puoi penetrare fino in fondo. Ci metti un po’ a capire i loro
meccanismi. Un altro genovese con cui ho lavorato è Beppe Grillo e anche
lui è un po’ così.

Abbiamo scritto insieme cinque blues che lui cantava in uno dei suoi
spettacoli, solo che non ha mai voluto farne un disco, perché si è lasciato
assediare dai dubbi di non essere abbastanza bravo a cantare. Nessuna
rassicurazione è stata sufficiente. Aveva paura di non essere all’altezza.
32
Fabrizio suonava ancora con gli stessi musicisti che aveva arruolato
trent’anni prima. Ma aveva sempre paura dell’esame concerto. Forse
crescere con un padre così importante e severo, lo ha sempre fatto sentire
inadeguato.

Nonostante i risultati eccellenti che aveva raggiunto nella musica.

Pensi che anche Cristiano abbia sofferto il confronto con un padre così
grande?

Inevitabilmente.

L’album Rimini esce nel 1978. E un album sulla fine dei sogni, sul loro
disintegrarsi. Il sogno di Teresa che «parla poco, ha labbra screpolate e mi
indica un amore perso a Rimini d’estate», della Sinistra in contrapposizione
alla De prima del compromesso storico, dei ragazzi che fuggono a Durango,
degli Indiani d’America intrappolati nel loro passato, del Sessantotto,
dell’amore omosessuale di Andrea. È un disco dove, come in Darkness On
The Edge Of Town di Bruce Springsteen, tutto si perde e niente si ritrova.

Tutto Rimini è da considerare come un’unica murder ballad, come una


gigantesca ballata tragica. Ci sono omicidi, suicidi, caduti in battaglia,
aborti, naufragi. Ci sono le gocce d’eroina, che in quegli anni stava
espandendosi, con cui Pilar del Mare si addormentava il cuore. C’è una sola
canzone a lieto fine ed è «Volta la carta».

Hai un’autentica passione per le murder ballads e per il noir. Forse perché
sono il punto d’incontro tra le varie 33

espressioni artistiche che ami: la musica, il cinema, la letteratura, il fumetto,


la poesia?
Sono il cuore della narratologia. Per creare attenzione in un pubblico di
strada che non aveva motivazioni forti, i cantastorie, un tempo, erano
costretti a raccontare storie di sangue, di bellezza e di morte. Chi invocava
le muse, chi enunciava i suoi intenti come l’Ariosto: «Le donne, i cavalier,
l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto» per un pubblico
magari più aristocratico, ma non meno distratto e difficile.

Le ballate di morte sono molto amate anche dai bambini. Perché?

I bambini sono sempre stati affascinati dalla crudeltà, dall’antropofagia,


dalle metamorfosi. C’è un libro bellissimo del medievalista francese
Jacques Le Goff sull’argomento. Le favole che venivano raccontate nel
mondo contadino non erano di fate e di principi azzurri, ma di orchi e di
esseri mostruosi. Il mondo dei bambini era come l’oceano dei marinai di
Colombo, convinti che fosse popolato da piovre gigantesche e da altri
mostri. Pensa a una favola apparentemente innocua come Pollicino. L’Orco,
per errore, mangia le sue figlie. Non sa che sono le sue, è un tragico errore,
però le divora. Pensa anche a Cappuccetto Rosso. La crudeltà è il sale delle
storie per bambini.

Per esempio mia figlia Emma e i suoi amici amano una antica e famosa
folk-song inglese: «Geordie», cantata nella traduzione italiana da Fabrizio,
perché contiene una breve e rocambolesca storia, in cui il giovane e
bell’eroe viene condannato a morte ingiustamente, ma avrà sul patibolo una
34

corda d’oro. Emma a tre anni cantava «Il blues di re Teodorico» con le sue
compagne dell’asilo, apprezzando la leggenda del re portato all’inferno dal
cavallo-diavolo nella bocca del vulcano nell’isola omonima.

Rimini è anche la prima parte del tema sull’ epopea degli Indiani d’America
e sulla quotidianità della gente sarda.

L’incontro tra due culture. Quanto diverse?

Fabrizio aveva sposato la Sardegna come sua patria elettiva, come io avrei
poi sposato l’Irlanda. Gli piaceva perché era un mondo arcaico, dove
esistevano ancora i poeti della tradizione orale, dove c’era un rapporto forte
con il sangue, la carne, la terra, la morte. Dove i sentimenti veri
emergevano nella ritualità collettiva come la caccia al cinghiale, che poi
sarebbe comparsa su L’indiano. Dove le geometrie sociali erano rigide e
antiche e bisognava fare attenzione a come rapportarsi.

Esisteva chiaro il senso dell’onore e del rispetto.

Bisognava muoversi in punta di piedi, ma stare a contatto con quel mondo


antico era affascinante e molto educativo.

Fabrizio voleva far qualcosa per loro, per porre l’attenzione su una terra e
un popolo molto emarginato, non solo geograficamente.

Per me era un grande stimolo, perché mi piace scoprire le radici di un


popolo, i suoi comportamenti, le geometrie dei rapporti. Ecco dunque
l’accostamento tra la nazione pellerossa e la gente di Sardegna, uniti dal
rispetto e dall’amore per il loro habitat, le tradizioni, gli uomini di visione e
di poesia che, come nella Bibbia, sono anche profeti. La trave portante di
queste culture è la memoria e la trasmissione orale.
35
Tutto era memorizzato nella testa delle persone: le leggi, le regole
comportamentali, le gerarchie sociali, i miti, le stagioni, la religiosità, le
canzoni, la letteratura, l’allevamento.

L’indiano unisce, senza intenti antropologici o scientifici, una cultura che


abbiamo amato da adolescenti - quella degli indiani d’America - e una
cultura apprezzata da adulti - quella sarda. Molto più vicine di quanto
potessero sembrare all’epoca.

Rimini è un disco-melange che miscela cinema, letteratura popolare,


canzone, poesia, sacro, profano, storia, invenzione. Non solo: ogni canzone
è strutturata come un film a doppio montaggio, che veicola diverse chiavi di
lettura. A parte, forse, «Andrea», non ci sono canzoni monolitiche su
Rimini. Ha trame come certi film di Robert Altman, con infinite storie
parallele che, alla fine, convergono in una sola. Avevamo in mente una
canzone di Dylan, «Lily, Rosemary and the Jack of Hearts», dall’album
Blood On The Tracks. Racconta le vite di più personaggi che si muovono
sullo sfondo di un saloon, ognuno con la sua storia che finisce con
l’incrociarsi tragicamente. Come una torta a più strati. Rimini è la torta di
un matrimonio tragico.

Parlavate tra voi dei possibili significati o pensavate che l’arte non si possa
spiegare mai completamente?

Eravamo come due pittori che lavoravano allo stesso affresco. Dipingevamo
a quattro mani, io di giorno lui di notte. Il problema nasceva quando uno
riprendeva in mano la canzone dopo che era stata lavorata dall’altro, perché
ognuno aveva la libertà di portare avanti le cose a modo suo. Il patto era di
garantire al compagno la possibilità di 36

sterzare di lato, non c’era obbligo di direzione. Scegliere cosa tenere e cosa
buttare era, tutto sommato, abbastanza facile. E come nella storielle buffe:
se uno racconta una storia che fa più ridere di un’altra, è ovvio che si tenga
quella.

Mantenevamo le parole che suonavano meglio. Si lucidavano le parole.


Non c’erano restrizioni, se non l’obbligo di sviscerare e spiegare la strada
che avevamo compiuto nel frattempo da soli.

Fabrizio considerava le canzoni una conseguenza. Per lui era fondamentale


che ci fosse un impianto ideologico alla base dell’intero disco, prima ancora
di pensare alla singola canzone. Con Fabrizio il pressapochismo aveva poco
spazio. Tutto doveva rientrare in un percorso. E solo dopo aver finito una
canzone, riuscivamo a gustarla e forse a capirla fino in fondo. E lo scopo
del nostro lavoro insieme era la parte magica che non poteva essere gestita,
ma solo inseguita e catturata.

La cosa straordinaria del nostro rapporto era insomma che la canzone, per
Fabrizio, era il logico fine e coronamento di attività che non avevano a che
fare strettamente con la musica. Era un po’ il momento della festa, il
confronto con se stessi, con la realtà, con la bellezza, con la nostra
circolazione sanguigna. Ma lo studio, la preparazione, la fortificazione del
pensiero avveniva, come ho già detto, lontano dalla musica. Ci mettevamo a
scrivere a volte dopo aver parlato di agricoltura, di Storia medievale, di
motociclette o della politica del governo, dopo aver cucinato, bevuto e
fumato, dopo aver palleggiato col pallone, dopo aver camminato nei boschi,
dopo essere andati a zonzo per il paese, dopo essere andati a pescare sul
mare, dopo aver fatto un breve sogno.

A volte, scrivevamo molto e nasceva poco. Ricordo una 37

volta che tornammo a Genova, nella casa del padre di Fabrizio, e questi
chiese: «Quante canzoni avete scritto?» E

noi eravamo imbarazzati nel rispondere, perché avevamo fatto poco o nulla.
Ma avevamo incamerato molto. E ci sarebbe servito più in là nel tempo.
La situazione sarebbe peggiorata o migliorata con il secondo disco insieme,
L’indiano?

Dipende. Migliorata perché avevamo smesso di annusarci e ci conoscevamo


bene. Ognuno intuiva l’umore e i colori dell’altro. Peggiorata perché
avevamo molte più cose da fare: in Sardegna, dopo aver messo su la
fattoria, c’erano le stalle, c’era il bestiame, c’era la gardenia che non stava
bene, il frassino che non attecchiva, la fontana che perdeva, c’erano le
mucche che dovevano partorire. Una volta facemmo nascere un vitello da
soli, io e lui, perché era il 25

aprile e non si trovavano veterinari in tutta la zona. Ci riuscimmo con molta


volontà e altrettanta fortuna, perché avevamo una vaga idea di come si
facesse.

Fabrizio salì in camera nella sua libreria e prese un manuale. Ma non fu


facile. Mi diceva: guarda la figura 3, dobbiamo fare così. Alla fine
miracolosamente andò tutto bene.

Fabrizio aveva una ottima abilità manuale: sapeva cucinare molto bene,
impastare, fare i sughi, conosceva la cucina francese, faceva una torta
Pasqualina deliziosa. Quando cucinava il brasato, che steccava con pazienza
certosina, dopo averlo tenuto a bagno nelle verdure col vino e averlo girato
per un giorno, al momento fatidico della messa in pentola, non doveva
volare una mosca: la cottura del brasato era per lui un’esperienza quasi
mistica.
38
Certi giorni andavamo in giro per le montagne della Gallura a comprare
vacche dagli allevatori. Una volta fummo inseguiti da un toro e riuscimmo
per un pelo a salvarci buttandoci dietro a un muretto, dove c’era però un
roveto.

Il problema, con Fabrizio, era partire. L’incipit. Una volta abbozzata la


canzone, non ci fermavamo più e procedevamo quasi in apnea. Era come a
un’interrogazione.

All’inizio sei preoccupato e vorresti che il professore non ti chiamasse mai.


Poi, quando parti bene con la prima domanda, diventi sicuro di te, fecondo
e magari anche logorroico, perché vuoi stravincere. Quando vedevamo la
canzone prendere forma, non ci fermavamo più e pensavamo solo a
scrivere. Scrivere era come buttarsi in mare, dopo un lungo viaggio in nave,
in vista della riva.

Sul lavoro di sistemazione dei versi seguivamo la lezione dei maestri


mosaicisti: decise le figure, decisi i colori, era fondamentale che il mosaico
riflettesse la luce. I lapislazzuli per il cielo, diciamo riflettevano otto in una
scala da zero a dieci; l’oro delle aureole era il massimo: rifletteva dieci;
certi marmi policromi solo quattro o cinque.

Scrivere canzoni è come dover sempre capire da che parte gira la luce,
sfruttando le ombre, rincorrendo i contorni. E

vedere in che punto della chiesa si trova l’abside e le fonti di luce naturale:
le bifore, trifore e, quel che è più importante, dove devono guardare i fedeli.

Insomma, scrivere canzoni significa inventare, dare il giusto spazio all’


inconscio e lavorare di lima, ma anche sapere le regole del colore e del
suono?
Gli studi di fonica sui neonati hanno indicato che il primo suono che un
bambino percepisce e riconosce è il 39

timbro della voce della madre, quindi molto prima ancora di comprendere il
significato. Il bambino si gira verso la madre e capisce che gli sta parlando
anche se non comprende cosa stia dicendo. La madre potrebbe parlare
qualsiasi lingua, capirebbe lo stesso. L’approccio alla musica è molto
simile.

Tutto quello che ho amato profondamente, l’ho amato capendolo, ma non


sempre decifrandolo.

Le consonanti gutturali, labiali e dentali, g, e, 1, d, r riflettono suono. È


invece opportuno non abbondare di consonanti fonoassorbenti, perché sono
come il sughero che assorbe luce e suono. Quindi poche p, f, v: Un altro
problema dell’italiano è che la nostra lingua è adatta alle metriche lunghe e
ha poche tronche, cioè parole accentate sull’ultima sillaba; è dura e preziosa
come l’avorio ma come l’avorio è anche fragile, mentre l’inglese è morbido
e plastico come il legno di abete, formato di tantissime parole
monosillabiche e con la possibilità di rimare tra parole che si scrivono in
modo diverso, ma si pronunciano con lo stesso suono…

Veniamo a «Rimini» canzone. Ambientata in una Rimini noir, al confine tra


maledizione e dannazione, rimpianti e rimorsi, certo molto diversa dalla
Rimini felliniana de I Vitelloni.

L’idea del ritornello di «Rimini» - che è formato da una sola parola,


pronunciata come un inno o una parola d’ordine - l’avevamo in testa prima
ancora di scrivere la canzone. Una sera, andammo a Vercelli a vedere un
concerto di Eugenio Finardi. Alla fine io, Fabrizio, Dori, lui e Alberto
Camerini, uscimmo a passeggiare per le strade deserte. E
40
tutti canticchiavamo quelle tre sillabe Ri-mi-ni, Ri-mi-ni, Ri-mi-ni.

Alla canzone volevamo dare l’atmosfera controriformistica di certe chiese


del Gesù. Con quei quei teschi d’oro e quelle ossa bianche sugli altari di
marmo nero.

«Rimini» ha una struttura strana.

La canzone ha una struttura a tre. La prima e la terza hanno come


protagonista Teresa, nella seconda al centro della scena c’è Cristoforo
Colombo.

Tutta la canzone assomiglia a una lenta discesa agli inferi, dalla prima parte
che è mitologica, alla seconda parte che è storica, alla terza che è
cronachistica.

La prima strofa ha un afflato epico, sembra quasi una canzone di porto, un


brano alla Kurt Weill: «Teresa ha gli occhi secchi guarda verso il mare per
le figlia di pirati /

penso che sia normale».

La seconda è uno stacco netto perché parla di Santa Inquisizione, di caccia


alle streghe, degli autodafé. La piccola dea, figlia di pirati, sorella della
Carità che assiste e consola come una madre protettiva un altro grande
deluso come Cristoforo Colombo, ammalato e in catene che abiura la sua
scoperta. Qui la canzone si complica, è come se il senso dovesse sfuggire di
lato.

Nella terza strofa la dea entra nel fiume del quotidiano dove le accade la
cosa più bieca, ovvia, scontata e volgare: abortire il figlio di un bagnino.

In tutta la canzone c’è un po’ della lezione del Bunuel de La via Lattea con
quella miscela di sacro e profano. Avevo appena fatto un corso monografico
all’università sul cinema surrealista e avevo studiato le tecniche di
straniamento 41

spazio-temporale, che portavano a collocare le persone in contesti non


usuali e inattesi.

«Volta la carta».

Una canzone che è stata assai utile al disco, perché, al pari di «Avventura a
Durango» ha conferito colori meno oscuri. E una filastrocca alla quale
ognuno potrebbe aggiungere una strofa, come da tradizione, perché
l’importante è creare rime. I primi versi appartengono a una filastrocca
preesistente che conoscevo - «c’è una donna che semina il grano volta la
carta e viene il villano il villano che zappa la terra / volta la carta e viene la
guerra» e così via. Da lì in poi abbiamo proseguito noi.

«Volta la carta» è per me un perfetto esempio di “dadaismo” contadino e


popolare. La metrica è in endecassilabi su cui puoi inventare accoppiando
delle rime baciate.

Ricordo mia nonna che la cambiava ogni volta che la cantava. Non contenti
di inserire nuove strofe, abbiamo anche operato nel ritornello l’innesto di
altre canzoni popolari.

La prima è quella che parla di Angiolina e che mia madre cantava spesso:
«Ohi Angiolina bell’Angiolina innamorato io son di te E la gaveva la veste
rosa e le scarpette di raso blu»; la seconda è Madamadorè che «ha perso sei
figlie / tra i bar del porto e le sue meraviglie».

Poi c’è un omaggio a quella commedia all’italiana ancora legata al


neorealismo che è Pane, amore e fantasia: il carabiniere del paese che ha
fatto innamorare AngiolinaLollobrigida («carabiniere l’ha innamorata /
volta la carta e lui non c’è più») era il giovane carabiniere veneto
comandato dal maresciallo Vittorio De Sica. Poi c’è un riferimento ad altri
film di quel periodo con l’arrivo del soldato ame42
ricano che portava i primi dischi delle grandi orchestre jazz, «ragazzo
straniero ha un disco d’orchestra che gira veloce che parla d’amore».

L’intento era di creare una filastrocca d’impianto folk sulla quale aprire
finestre di cinema popolare e richiami alla tradizione della canzone
contadina del passato.

Alla fine, su tutti, emergono due figure gioiose e pure: quella del bambino
che sale il cancello, ruba ciliegie e piume d’uccello e Angiolina.

Poi, come in tante di quelle commedie, c’è il lieto fine: «Angiolina ritaglia i
giornali si veste da sposa canta vittoria / chiama i ricordi col loro nome
volta la carta e finisce in gloria».

«Coda di lupo» e gli indiani metropolitani degli anni Settanta.

Inconsciamente la colloco ne L’Indiano, perché è la canzone che agisce da


ponte immaginario tra i due album. E

la storia di un ragazzo che corre con suo nonno dietro a una mandria di
buoi. Qui inizia la prima contaminazione tra l’America e il nostro mondo
contadino. Ruba un cavallo per diventare adulto («rubai il primo cavallo e
mi fecero uomo / cambiai il mio nome in Coda di Lupo»), perché l’abigeato
era uno dei passaggi obbligati nella società pellerossa e non solo per essere
accettati come adulti.

Fabrizio, dopo il sequestro, avrebbe paragonato il suo rapimento al furto di


cavalli: come nelle tribù pellerossa si rubano cavalli per diventare uomini,
in certe tribù della Sardegna si rubano pecore o si rapiscono uomini.

Questo processo lo si può riscontrare ancora nei clan malavitosi o in certe


gang metropolitane, dove devi rapina43

re o ammazzare qualcuno o beffare un poliziotto: è la prova del coraggio. È


l’iniziazione.
Anche nella mia campagna veneta, quand’ero ragazzo, per entrare in un
gruppo bisognava superare una prova di coraggio. Ricordo una volta che
dovetti lanciarmi da una corda appesa a un pioppo che sorvolava l’Adige,
appeso a un piccolo paletto in un punto piuttosto pericoloso e ricco di
mulinelli e gorghi.

Dopo il mito, entra in scena l’attualità nera: il nonno del ragazzo viene
trovato «crocifisso con forchette che si usano a cena / era sporco e pulito di
sangue e di crema».

Poi il ragazzo continua a contaminarsi con la nuova realtà, perché finisce tra
i manifestanti davanti alla Scala («e una notte di gala con un sasso a punta
uccisi uno smoking e glielo rubai e al dio della Scala non credere mai») e
poi attacca Luciano Lama, allora a capo dei sindacati, che si presentò a un
confronto con gli studenti che fece scalpore perché fu molto contestato
(«capelli corti generale ci parlò all’università dei fratelli tute blu che
seppellirono le asce ma non fumammo con lui non era venuto in pace / e a
un dio fatto il culo non credere mai»).

L’ultima strofa è pasoliniana («e adesso che ho bruciato venti figli sul mio
letto di sposo / che ho scaricato la mia rabbia in un teatro di posa») e segna
il ritorno al mito, per quanto scalcinato, perché il ragazzo ormai vecchio
viene «scolpito in lacrime sull’arco di Traiano», come un barbaro sconfitto
trascinato nel trionfo dell’imperatore.

Come vedi, la struttura è la stessa di «Rimini», nell’altalena tra grandezza


del mito e squallore dei tempi moderni, ed è simile a «Volta la carta» nella
contaminazione tra elementi della nostra cultura popolare antica e recente.

Il rischio, in canzoni di questo tipo, è che le strofe lega44

te all’attualità di certi anni invecchino precocemente.

Come se un tavolo che ha un piano policromo avesse alcune parti che


rimangono stabili nel tempo e altre che si curvano. La parte dell’apologo è
sempre quella più stabile e resistente.
Mentre scrivevamo «Coda di lupo» avevamo in mente «A Hard Rain’s-a-
Gonna Fall» di Dylan. Eravamo affascinati dalla grandezza visionaria
dell’affresco del poeta americano e dall’uso delle potenti metafore bibliche,
ma eravamo anche consapevoli che una frase come «e una dura pioggia
cadrà» in italiano sarebbe risultata improbabile perché troppo forzata e
retorica per il nostro background linguistico.

Facemmo una lunga analisi per scoprire le ragioni e alla fine arrivammo
alla conclusione che la chiave potesse essere questa: negli Stati Uniti
l’Antico Testamento è molto più letto, vuoi per la cultura protestante che ha
dato l’imprinting alla nazione, vuoi per quella ebraica che ha molto
influenzato il paese. Quindi nelle orecchie di un ragazzo americano certe
espressioni sono assolutamente plausibili. Johnny Cash ha cominciato a
cantare col libro degli inni di sua madre.

La Bibbia è un pozzo senza fondo di poesia cui hanno attinto tanti grandi
poeti americani di ieri e di oggi: da Walt Whitman a Longfellow fino a
Dylan e Cohen e Lou Reed.

Perché è citato il Dio della Scala?

Perché per molti anni l’appuntamento mondano più prestigioso era quello
scaligero. L’alta borghesia italiana e milanese in particolare, si censiva e si
specchiava con le 45

alte cariche dello Stato. Era la consacrazione del successo sociale, come
entrare a Versailles invitati da Luigi xiv.

Come vivevate quel periodo storico, quegli anni Settanta per certi versi
terribili? Il disco uscì nello stesso anno del rapimento Moro.

Fabrizio era anarchico. Io cattolico. Fabrizio mi prendeva in giro, perché mi


accusava bonariamente di essere tante persone: a volte eretico, altre
conservatore o rivoluzionario.
In molte cose sono tradizionalista: nella cucina, nel calcio, nell’amicizia. In
altre non sono identificabile con una tipologia da marketing.

Credere a un partito politico è come acquistare un kit da toillette: magari ti


piace il sapone e lo shampoo, ma non il bagnoschiuma e il dentifricio. Non
voglio trovarmi a difendere qualcosa in cui non credo solo perché ho scelto
di stare da una parte.

E Fabrizio?

In genere anche lui non era così prevedibile. Ma come anarchico si sentiva
estraneo ai partiti organizzati. Gli altri facevano sempre parte del sistema.
Come per i sardi, ai quali interessa poco che tu sia spagnolo, russo o ligure,
sei sempre e comunque un continentale.

In questo e solo su questo argomento non ero un buon partner per il ping
pong ideologico e di opinioni con Fabrizio. Le nostre partite finivano
sempre presto. Lui batteva e io buttavo la palla nello stagno del vicino. Alla
quinta o sesta pallina che spariva, si stancava di cercarla.

Allora, esasperato, mi dava del papista. Quando era in dif46

ficoltà nelle discussioni di politica faceva venire i sensi di colpa agli


avversari, soprattutto se comunisti, perché ricordava le persecuzioni agli
anarchici subite dai compagni durante la guerra di Spagna e nella Russia
sovietica.

Come diceva Ezra Pound, non è importante quello che pensi, ma a che
profondità lo pensi. Fabrizio applicava questa teoria. Provocava per vedere
fino a che punto un commensale sostenesse quello che diceva. Poteva
essere un regista, un intellettuale, un pastore o un farmacista. Per lui non
faceva molta differenza. La discussione non doveva cadere così. Avevo il
terrore di giocare a Tresette con lui, perché se eri suo compagno non dovevi
sbagliare, se eri suo avversario non dovevi vincere.

Be’, il Tresette è un gioco complesso.


Il problema è che Fabrizio voleva vincere sempre. Era molto competitivo.
Era anche spassoso in certi frangenti.

Mi ha insegnato molto vivere e lavorare con una persona così competitiva,


perfezionista e rigorosa. È stata una scuola eccellente. Ho imparato a
difendermi e ad attaccare.

Fabrizio aveva trentasei anni, ma aveva l’esperienza e il vissuto di un uomo


molto più anziano. A volte mi diceva di avere novant’anni, ma aveva un
sorriso da teppista quando lo diceva.

Forse, se non ci fossi stato tu, le canzoni dei due album che avete scritto
insieme sarebbero state più orientate sul presente.

Forse. Fabrizio era molto partecipe di quel che accadeva in quegli anni e
comunque l’attualità era una fonte di 47

ispirazione e di spunti. In parte anche per me, ma trovavo il presente a volte


poco leggibile e aleatorio, mutevole nel giudizio. Pensavo che per
raccontare qualcosa è meglio guardarlo da lontano, spostarsi un po’, andare
indietro nel tempo. Shakespeare, per descrivere il presente, per
stigmatizzarlo o a scopo didascalico, parlava di situazioni e luoghi lontani
nel tempo e nello spazio o almeno, se riguardavano l’Inghilterra, lontani
nella storia. Era un modo per non urtare la suscettibilità di alcuno, ma di
parlare chiaramente lo stesso e infliggere dure lezioni. Le canzoni politiche
o sull’attualità invecchiano male, perché esauriscono il loro compito in
fretta e il loro percorso dura solo per quel determinato arco di tempo. A
volte ti fa piacere riascoltarle, perché ti fumi un po’ di nostalgia, ma finisce
lì.

Se invece scegli l’apologo o la favola e affronti temi epici, tocchi corde che
riguardano l’umanità nei suoi sentimenti profondi e immutabili, a
prescindere dall’ideologia specifica e contingente dell’ascoltatore.
La canzone «Fiume Sand Creek» è stata contestualizzata in tante situazioni
anche assai diverse da quelle che l’hanno ispirata.

E queste tonalità così alte rispetto al solito per Fabrizio.

Prima di Rimini aveva tonalità più basse, nei due album insieme ha alzato
la voce almeno di due tonalità, che erano quelle che più o meno usavo io,
cantando più vicino a uno stile folk-rock, che meglio si addiceva a certi
arrangiamenti.

Anche in questo suo adattarsi è stato coraggioso.


48
«Zirichiltaggia» mette in musica il litigio tra due pastori per questioni di
eredità: «Di quello che babbo ci ha lasciato I la parte migliore ti sei preso I
la collina rossa con il sughero I le vacche sorcine e il toro grande I e m’hai
lasciato pietre, cisto e lucertole».

Nella nostra intenzione di omaggiare la Sardegna non poteva mancare un


brano così.

Ci ispirammo a un fatto realmente accaduto a un vicino di casa. L’abbiamo


raccontato usando una forma di poesia cantabile tipica della cultura sarda:
l’alterco. Sai come funziona: due poeti si fronteggiano a colpi di versi e
vinca il migliore. I poeti popolari, lo ripeto ancora, sopravvivono nella
cultura arcaica sarda non solo per verseggiare, ma anche per svolgere una
funzione sociale specifica: prestare parole a chi non ne ha o non le sa usare.
Una frase da incidere su una lapide, una lettera da scrivere all’avvocato,
delle belle frasi d’amore da dire all’amata in una lettera o in una serenata.
Ricordo Jorge Amado, il grande scrittore brasiliano, che ha svolto per anni
il ruolo di avvocato dei poveri, che è una figura che da noi non c’è più, se
non nella cultura napoletana.

«Zirichiltaggia» è un brano divertente e costruito su quei paradossi che poi


torneranno in «Don Raffaè». «I soldi di papà spesi tutti in dolciumi,
medicine e giornali che tuo figlio a quattro anni aveva già gli occhiali».

Per scriverla abbiamo raccolti molti modi di dire, frasi divertenti, insulti
originali e maledizioni ricorrenti, di cui prendevamo nota. Un signore,
Paolo Pagellu, ci ha aiutati a scrivere il testo in gallurese corretto, perché
Fabrizio lo parlava, ma non abbastanza da scriverlo senza errori.
49
In «Zirichiltaggia» si parla di eredità. Ti ritieni l’erede di Fabrizio?

Non credo, perché è un’eredità così difficile da raccogliere per chiunque.


Forse per la parte delle canzoni scritte insieme e per quell’intento di
scrivere canzoni che scavano e durano nel tempo.

Lui era mosso dalla curiosità e dalla voglia di cambiare procedendo passo
dopo passo, infatti i suoi primi riferimenti furono la canzone d’autore
francese, in particolare Brassens, ma è sempre andato avanti costruendo stili
e modelli diversi.

Io invece avevo una visione geografica del percorso che volevo fare e
sapevo che sarebbe stato un cammino lungo e difficile. Fabrizio era uno che
aveva bisogno di una illuminazione per ogni disco che andava a costruire.

S’innamorava di un’idea, di un progetto e questo creava diversità profonde


tra un album e l’altro anche a seconda dell’artista con cui collaborava.
Pensa a quanto sono diversi L’indiano e Creuza de Ma, eppure vengono uno
dopo l’altro, anche se a distanza di qualche anno. Lui sposava mondi diversi
arricchendoli di sé. Io seguivo invece un’unica strada.

Che era quella di unire rock, canzone d’autore e poesia.

Quando ho iniziato, la mia idea era tentare di creare anche in Italia una
letteratura del rock.

Ho considerato fin dall’inizio il rock alla stregua di altri movimenti culturali


e letterari: da noi questa poetica era di difficile sviluppo e ne venivano colti,
più che altro, gli aspetti più marginali e formali legati alle mode e
all’estetica.
50
D’altronde, i movimenti letterari hanno sempre faticato ad attecchire da noi,
perché l’Italia è un paese da sempre malato di classicismo, che fatica a
rinnovarsi e ad abbandonare le coordinate conosciute. Basti pensare al
Romanticismo che in Italia ha avuto vita difficile. O al simbolismo francese
poco recepito. Il primo a capire il “crepuscolare” Mallarmé fu Dino
Campana, e sappiamo quanto fu umiliato e poco considerato dai colleghi
poeti della scena fiorentina di allora: Papini, Cardarelli e Soffici, che
addirittura perse il manoscritto dei Canti Orfici che Dino Campana gli
consegnò, unica copia manoscritta, perché la leggesse.

Quando ho affrontato il primo disco, l’idea era legare il rock - che è musica
del corpo, attitudine, ritmo e sensualità - con una poetica che coniugasse la
poesia popolare alla poesia contemporanea.

Osservando le band che amavo, mi ero reso conto che ogni gruppo aveva al
suo interno un poeta, segno inequivocabile che il rock è sì musica che fa
muovere il corpo, ma anche la mente, e per farlo ha bisogno di poesia, di
versi che abbiano soprattutto dignità. Se poi la dignità è anche letteraria
meglio ancora. Ha bisogno di parole che si muovano lungo un discesa
luminosa o una buia strada di periferia, ma non deve essere mai scontato,
mai parole pigre.

Tutto il grande rock che ancora oggi esiste e sopravvive nella realtà o nella
memoria, poggia su un poeta: Mick Jagger con gli Stones, Robert Smith
con i Cure, Morrissey con gli Smith, Bono con gli U2, Ian Curtis con i Joy
Division, Shane Me Gowan coi Pogues o Mike Scott coi Waterboys.

In Italia chi aveva qualità letterarie tendeva a scegliere la via solista del
cantautore; chi aveva soprattutto interessi e 51
tecnica musicale, formava una band e metteva in secondo piano l’aspetto
lirico e in genere i testi li scriveva il cantante.

«Parlando del naufragio della London Valor» ha bisogno quasi di un


capitolo a parte, perché è difficilissima da capire.

La chiave è nell’ultimo verso della seconda strofa: «Il paralitico ride con gli
occhi al circo Togni quando l’acrobata sbaglia il salto». Assistevamo
soprattutto in politica al trionfo della mediocrità, dell’opportunismo,
dell’arroganza, della superficialità, della maldicenza. Oggi purtroppo, molti
di questi, non vengono quasi più considerati sentimenti negativi, merito
della tv in generale e dei reality show in particolare. La mediocrità portata a
paradigma purifica e conforta.

Mi torna in mente uno dei personaggi di Sudore di Jorge Amado, una


sordomuta che emette grida terribili ed è felice ogni volta che vede una
disgrazia colpire gli inquilini del suo palazzo.

C’è una città intera, con la sua incredibile e angosciante commedia umana
di personaggi conformisti e benpensanti, che accorre nel salotto buono di
Genova, sulla passeggiata di corso Italia, per assistere al grande naufragio
della nave London Valor. Come in un grandioso spettacolo circense, con la
nave ormai riversa su se stessa, i marinai si gettano in mare (questo è il
significato dei versi «e le ancore hanno perduto la scommessa e gli artigli / i
marinai uova di gabbiano piovono sugli scogli»).
52
Mancano solo gli applausi, ma gli sguardi di finta misericordia si sprecano.

// paralitico ha in tasca un uccellino blu cobalto.

L’immagine è un riferimento a Uomini e topi di Steinbeck. Anche le


persone apparentemente più innocue, fragili e sfortunate, possono
commettere atrocità indicibili.

Il paralitico tiene in tasca un uccellino blu cobalto e lo tormenta in


continuazione come fosse un portachiavi.

10 e Fabrizio volevamo sfatare certi luoghi comuni. Il paralitico era uno dei
tanti spettatori gaudenti che guardavano i marinai morire tra i flutti. Non ci
sono solo giurie frontali e assassini con il marchio doc.

Dostoevskij ci ha insegnato che bisogna guardare oltre le apparenze e che il


bene e il male non sono così identificabili come in certi brutti film dove si
intuiscono trama e personaggi fin dalla prima scena.

/ personaggi fanno riferimento a persone dell’ epoca, sono simboli o pure


invenzioni, immagini surreali? Per esempio: chi è «il poeta metodista che
ha spine di rosa nelle zampe per fare pace con gli applausi, per sentirsi più
distante»?

Dipende dai casi. In alcune circostanze, ci riferivamo a persone precise,


gente che conoscevamo direttamente o no.

11 poeta metodista è, in realtà, una figura dietro cui volevamo nascondere


l’autore di noiose canzoni spesso politiche: tronfio, retorico, ottuso, sicuro
di mirare al bersaglio grosso e di trovare consenso, capace di fare canzoni
su schemi collaudati e con un linguaggio di grana gros53
sa. Il tipico personaggio amato a sinistra e coccolato dai vari club e
confraternite cantautorali.

Le spine di rosa sono le sue ambizioni mancate: avrebbe voluto fare


qualcosa di più, ma nella sua vita gli è toccato poco talento: solo una
manciata di canzoni da sventolare come bandiere ormai vetuste e lise.

Perché «la sua stella si è oscurata da quando ha vinto la gara di


sollevamento pesi»?

Perché la poesia non è una gara dove più contenuti alzi e più sei bravo. C’è
grandissima poesia che parla di poveri morti come La ballata degli
impiccati di François Villon e c’è poi brutta poesia che parla del mondo
agreste e di pii bovi come nella poesia del Carducci.

C’è chi confonde arte e sport?

Sì, la poesia non è una gara di sollevamento pesi. Così come la miglior
cantante non è quella che fa più ghirigori, becca le note più alte e urla di
più.

Sei brava se comunichi.

Oggi molte ragazze in Italia che vogliono cantare si preoccupano più che
altro di andare su con la voce, ma rimangono giù con la comunicazione. E
hanno pochi modelli e spesso privi di qualsiasi spessore.

Le cose più importanti si dicono sottovoce. Fabrizio spesso sussurrava. Non


mostrava mai i bicipiti. La poesia non è gonfiare i muscoli, ma semmai
sgonfiare la retorica e la stupidità.
54
«Il macellaio mani di seta che tiene fasciate dentro il frigo nove mascelle
antiguerriglia e ha un grembiule antiproiettile tra il giornale e il gilet»?

Ci riferivamo a certi politici in voga in quegli anni che creavano tensione


sociale. Che si comportavano da macellai e volevano avere come i macellai
sempre le mani pulite, lisce come la seta. Erano in assetto antiguerriglia, ma
spesso la guerriglia faceva loro comodo. E indossavano giubbotti
antiproiettile, perché tra il loro cuore e l’esterno avevano una corazza che li
metteva al riparo da ogni sentimento.

Mandavano avanti gli altri e loro restavano dietro le quinte.

«Il pasticcere di via Roma che ha una frusta giocattolo sotto l’abito da tè».

Un’immagine che è nata dalla mia passione per Buñuel e da quella di


Fabrizio per Brassens: i cosiddetti virtuosi che sono, in realtà, i più viziosi.
Uomini di facciata, quelli che Fabrizio odiava tanto, che confezionavano
pasticcini per bambini, ma poi cercavano mani da pestare mentre
scendevano le scale e nascondevano oggetti da pratiche sadomaso sotto le
vesti eleganti. In più c’è quel gioco sull’ambiguità del termine «frusta», che
richiama anche la frusta per sbattere le uova che è strumento di lavoro dei
pasticceri.

In «Andrea» e «Volta la carta» c’è Dori Ghezzi ai cori.

Come vi eravate conosciuti?


55
Dori era da tempo una cantante professionista prima di conoscere Fabrizio,
la cosa fu naturale.

Ma Dori spesso ci accudiva ed era un’ottima cuoca.

Mi ricordo la grande festa fatta dopo il battesimo di Luvi, la figlia di Dori e


Fabrizio. Una straordinaria festa sarda con tanto di porceddu. Non ho mai
più ritrovato atmosfere leggere, luminose e allegre.

Lavorare con Fabrizio era come vivere in una comune. Si condivideva tutto.
Nel mio disco Tre rose, ai cori c’erano Dori, Fabrizio e Cristiano. Luvi non
ancora, ma solo perché era troppo piccola. I figli degli acrobati fanno gli
acrobati o i cavallerizzi.

Come nacque la copertina di Rimini?

Venne a Roma Cesare Monti, un grande fotografo milanese, al Residence


Aldobrandi, dietro la Gabbia delle Aquile di Villa Borghese. Volevamo dare
un’immagine in bianco e nero, anni Cinquanta, ma con un tocco surreale.

Spiegammo a Monti che le canzoni dell’album nascevano larghe e poi si


restringevano a imbuto fino a diventare sempre più piccole nella
quotidianità. Monti ascoltò per bene e poi andò a Rimini a fare un po’ di
scatti. Alcune foto erano quasi toccanti, come quelli dei vecchi che
giocavano a bocce, il tutto trattato con un viraggio e una luce che rendeva
quelle scene abbastanza comuni, invece alquanto surreali. Non c’erano
ancora i cd, solo il vinile. Quindi le foto erano grandi e più efficaci.

Rimini fu accolto molto bene. Ci furono ottime vendite e grandi


accoglienze alle canzoni.
56
Ricordo che anche Fabrizio fu alquanto stupito della risposta, anche se i
tarocchi di Dori promettevano bene. La gran parte dei brani fu poi inserita
nei primi due dischi live di Fabrizio con la Pfm.

Franz Di Cioccio, batterista della formazione, un anno fa, a una cena mi


disse che Rimini era stato l’album che li aveva convinti a proporre a
Fabrizio di andare in tour insieme, perché alcune ballate rock che ne
facevano parte si prestavano a una rilettura di gruppo. Sono felice di aver
fatto da tramite a una collaborazione così bella come la loro.

Anche in Italia, finalmente, c’era una band rock con un poeta: la Pfm con
De André.

Sono molto riconoscente alla Pfm, perché ha trasformato «Volta la carta» in


una specie di manifesto del folk-rock italiano. Fecero, si parva licet, quello
che i Byrds avevano fatto con «Mr. Tambourine Man» di Dylan. Da lì
sarebbe potuta nascere una reinassance del folk rock, come stava accadendo
in Inghilterra, in Scozia e in Iirlanda. In concerto, tutti cantavano e
ballavano, e prima d’allora credo non fosse mai successo a Fabrizio De
André in tournée.

L’anno dopo Rimini uscì Marabel.

Marabel ebbe una storia strana. Una prima parte venne registrata con gli
arrangiamenti di Tony Mimms, nel maggio del 1978, al castello di
Carimate. Poi, per vicissitudini varie, tutte legate alla salute di Mimms, le
registrazioni furono interrotte. A togliermi da quella situazione fu Antonello
Venditti, che aveva appena pubblicato il disco Sotto il segno dei pesci, per
la mia stessa casa discografica, la PolygramPhilips. Mi chiese se volevo
seguirlo in tour. Accettai la sua proposta. Partecipai a più di cento date, in
un tripudio di 57
folla. Diecimila persone quasi tutte le sere… Si respirava un’atmosfera
allegra e molto rilassata. Feci amicizia con la band Stradaperta e col
violinista Carlo Siliotto che veniva dal Canzoniere del Lazio.

Finita la tournée, Antonello si fece garante con la casa discografica per la


produzione delle mie canzoni, e le registrammo completamente ex novo a
Roma, negli studi della Rea, sulla via Nomentana. Trovai un’ottima rock
band con un chitarrista e un bassista inglesi con un suono molto country, e
registrammo quasi tutto in diretta con poche correzioni. Sarò sempre grato
ad Antonello, che nel frattempo scriveva Buona domenica dall’altra parte
della sala, perché mi ha permesso di lavorare in libertà.

Durante il tour viaggiavo in macchina con lui, che guidava velocissimo.


Antonello è una persona molto allegra e generosa. Nel suo concerto uscivo
sul palco da solo, con la mia chitarra ed ero un po’ in apprensione. Lui era
contento di come me la cavavo e della reazione del pubblico. Dopo qualche
data mi disse: «Sono contento per te, l’anno scorso a chi apriva i miei
concerti tiravano di tutto».

Quanto era diverso quel tour di Venditti da quello di Fabrizio de L’indiano?

Come atmosfera molto. Venditti era come me, molto on the road, chitarra e
pianoforte e via. Ogni sera c’era spazio per le improvvisazioni e ai
cambiamenti dell’ordine di esecuzione.

Fabrizio, invece, era convinto che il concerto dovesse essere molto simile al
disco in studio. Io non ero d’accordo, perché sorto due facce della stessa
medaglia, ma dal volto diverso. Il disco è come un film, il concerto è come
la 58

riduzione teatrale del film, non la sua duplicazione. La differenza è che sul
set puoi avere cinquanta attori, sul palco al massimo cinque o sei, ma
Fabrizio nell’ultimo concerto arrivò credo a undici musicisti.

Tu precedevi Fabrizio o arrivavi a un certo punto del concerto?


Arrivavo a metà. Fabrizio mi chiamava per cantare insieme «Una storia
sbagliata» e poi facevo altri quattro o cinque brani con la band. Con me
c’erano anche Cristiano e Carlo Facchini dei Tempi Duri. Era una specie di
Rolling Thunder Revue, una carovana di persone che si muoveva insieme di
giorno e poi la sera saliva sul palco.

Ricordo due concerti, in particolare, davanti a oltre ventimila persone: al


parco della Pellerina di Torino e a Bologna, alla festa dell’Unità.

Tra i musicisti chi hai conosciuto meglio?

Ho conosciuto Mauro Pagani. Con lui avrei scritto il testo di «Uno»,


«Soldato» e «Davvero davvero» nel suo album che sarà pubblicato agli inizi
degli anni Novanta, Passa la bellezza. Anche con lui era bello confrontarsi.

Aveva una villetta su due piani con un giardino bellissimo, vicino a via
Coni Zugna a Milano. Quell’estate, quando andavo a trovarlo per scrivere,
non c’era mai. Era sempre in giro in moto. Lo aspettavo a casa. Mi sedevo
sul divano, leggevo, guardavo la sua grassa donna di servizio aggirarsi per
la casa e la moglie di Mauro leggere sotto un tiglio. A volte mi raggiungeva
Andrea De Carlo, che in quel periodo frequentavo a Milano. Ricordo che
con Mauro passavamo 59

ore a filosofeggiare su tutto, compresa, qualche volta, la musica.

«Una storia sbagliata», commissionatavi per il programma televisivo Dietro


il processo, sulla morte di Pasolini, segnò il ritorno alla collaborazione fra
te e Fabrizio.

Quella del 1979 era stata un’estate molto strana. Io uscivo da un anno di
servizio militare in una dura caserma del Friuli… Era una caserma dove si
ritrovavano molti ragazzi con precedenti penali o che avevano comunque
avuto qualche problema con la giustizia. Ne ero uscito molto provato.
Il Car lo avevo fatto a Casale Monferrato, in un posto dove le zanzare
nascevano dal pavimento dei treni e oscuravano il cielo.

Un pomeriggio, mentre giocavo a pallone, un ragazzo gridando mi disse:


«Guarda che hanno rapito il tuo amico De André». Subito non ci volli
credere. Pensavo a uno scherzo da caserma. Chiamai subito la famiglia e
Cristiano, per farmi dire qualcosa oltre a quello che leggevo sui giornali.
Purtroppo nemmeno loro sapevano molto. Lo liberarono che era quasi
Natale. Ci rivedemmo durante una licenza, nel gennaio del 1980. Ricordo
che gli feci ascoltare la canzone «Tre rose». Gli piacque molto. Ci
ritrovammo a militare finito, a giugno.

Come l’hai trovato?

Rinato. Mai visto così allegro come in quel periodo. Di una gioia
contagiosa. Entusiasta e voglioso di scrivere.

Aveva voglia di fare. Diceva che vedeva e apprezzava cose che prima gli
sfuggivano. Il primo lavoro insieme fu per 60

questo programma giornalistico che si occupava della fine tragica di Pier


Paolo Pasolini.

Era un film-inchiesta, mi pare in tre puntate. Il responsabile della


trasmissione chiese a Fabrizio una sigla e lui mi coinvolse. Nessuno dei due
aveva mai scritto una canzone con un tema commissionato. Un po’ come i
pittori del rinascimento a cui la tal corporazione o il tal principe
commissionava una tela con un San Francesco, Sant’Agnese o sant’Antonio
Abate. Avevo in mente una frase della canzone di Leonard Cohen «The
Ballad of the Absent Mare» che era «The night is all wrong». Sì, ci
sembrava una notte e una storia sbagliata. Registrammo il video in un
paesino del Viterbese, a Calcata. Come retro del 45 giri scegliemmo «Titti»,
una canzone d’amore folk con un arrangiamento reggae, su una ragazza che
non sa scegliere tra due amanti dai caratteri opposti.

Un mio collega una volta ti chiese perché non avete fatto come Dylan, che
descrisse in «Hurricane» la vera storia di Rubin Carter, accusato
ingiustamente di omicidio, o che in «The Lonesome Death Of Hattie
Carroll» faceva nomi e cognomi di vittime e assassini di un fatto di cronaca
nera («William Zanzinger killed poor Hattie Carroll…»). Tu rispondesti che
all’epoca non si conoscevano ancora bene i mandanti. Ma è solo questo?

Io penso che il compito del poeta sia prendere spunto dalla cronaca, senza
limitarsi a riprodurla. La canzone ha molti riferimenti alla realtà sulla fine
di Pasolini, ma non è un documentario su di lui. A me e Fabrizio
interessava realizzare qualcosa che si staccasse dai fatti e li osservasse,
illuminando anche le reazioni della gente, la voglia di 61

insabbiamento, le chiacchiere da parrucchiere sulla vita privata del poeta.


Pasolini era una delle più lucide coscienze critiche del nostro paese. Quanto
ci mancano oggi i suoi scritti indignati, gli articoli anche ingenui e lunari, le
sue proposte provocatorie. Ricordo ancora i titoli di qualcuno dei suoi
articoli: «Paghiamo i maestri come i ministri» o «Aboliamo le tv»; le
polemiche con l’amica Dacia Maraini o Moravia. La sua parte corsara, i
suoi scritti civili, quello ci mancava e ci manca. Molte cose di Pasolini non
mi piacevano: alcuni film, certe poesie… Ero d’accordo con Maretta che lo
accusava di trattare il sottoproletariato eccedendo in una visione epica al
negativo tendente a vedere sempre personaggi malavitosi e che vivevano di
espedienti.

Maratta, che era nato nei quartieri spagnoli di Napoli, diceva che, se
Pasolini fosse cresciuto con lui, avrebbe detto cose diverse e in modo
diverso.

Si può dissentire su alcune opere di Pasolini, ma a essere fuori discussione è


il suo coraggio, la sua caparbietà.

Affrontava argomenti scomodi e tabù, soprattutto per quegli anni. Lui stesso
era scomodo, anche per chi la pensava come lui, perché non era
inquadrabile, né prevedibile. Era un comunista atipico, un cattolico atipico,
un ribelle atipico, un uomo atipico.
Pensa ai fatti di Valle Giulia che lo resero inviso alla stessa Sinistra cui
apparteneva.

Scrisse: chi sono i nemici del popolo? I poveri sottoproletari calabresi


vestiti da poliziotti che a Valle Giulia si beccano i sampietrini in testa dalla
giovane borghesia romana? Sono davvero loro? Questi poveracci che
rischiano la morte ogni giorno, vivono con un milione al mese e 62

dormono in caserma perché non hanno i soldi per pagare un affitto?

Ogni presa di posizione di Pasolini era terribilmente fastidiosa, perché ti


metteva nelle orecchie pulci che non andavano via. Qualche mese fa sono
andato a cena al ristorante Il Pommidoro, in piazza dei Sanniti, vicino a via
dei Volsci, il luogo dove Pasolini aveva cenato per l’ultima volta con
Ninetto Davoli. Il proprietario mi mostrò l’assegno che gli aveva dato
quella sera e poi mi disse che una volta era stato costretto a salvare Pasolini
fisicamente, perché un gruppo di ragazzi lo voleva picchiare.

Prima ti ho fatto la domanda su poesia e cronaca perché nelle tue canzoni,


in genere, parti da un personaggio ma ti allarghi subito per descrivere un
mondo: in «Camicie rosse», per esempio, non parli tanto di Garibaldi, ma di
immigranti, studenti e sognatori; «Cocis» parla di uno spacciatore, ma va al
di là della cronaca stretta; il tuo Teodorico non ha niente del re, semmai
dell’uomo che darebbe ogni cosa, anche se stesso, pur di ottenere i suoi
scopi.

È un Faust ante litteram, un uomo che vende l’anima al diavolo. Attraverso


di lui ho fotografato una situazione attuale. Non sono intenzionato a
scrivere trattati di storia o articoli di cronaca. A me interessano i film,
semmai.

«Cocis» ha un taglio alla Scorsese. Ho sempre avvertito il bisogno di vedere


le canzoni che scrivevo e anche Fabrizio era così, almeno nel periodo in cui
abbiamo lavorato insieme. Il buon cinema si stacca dalla vita per
fotografarla meglio.
63
Lui aveva scritto la «Canzone del maggio», tu le «Canzoni di maggio». Per
questo avete funzionato bene.

Meglio gli opposti che si attraggono a due fotocopie sovrapposte. I versi più
citati di «Una storia sbagliata»

sono: «Cos’altro vi serve da queste vite I ora che il cielo al centro le ha


colpite I ora che il cielo ai bordi le ha scolpite». Fabrizio diceva che il verbo
«scolpire» andava inteso in senso neoplatonico, come cavare dalla pietra
una forma che vi era già contenuta. La vita che rivela te stesso.

Platone tornava spesso nelle parole di Fabrizio. Secondo noi la canzone era
la vita che rivela te stesso, la canzone era la forma che era contenuta nella
pietra e farla uscire era opera del poeta. C’era anche il concetto del “non
finito”

come nella Pietà Rondanini di Michelangelo nelle cappelle medicee di


Firenze. A me piaceva l’idea che le ballate non raccontassero tutto, ma
lasciassero uno spazio al non detto, una finestra aperta dov’era possibile
affacciarsi, dove l’ascoltatore poteva aggiungere del suo per riempirle di sé.

La canzone ha questo dono: permette al suo fruitore di non essere


condannato alla passività, ma di interpretare al meglio e diventare, in un
certo senso, coautore.

Come Calvino nelle Lezioni americane, anch’io sono convinto che la forma
più bella e alta di scrittura sia la favolistica popolare, la folktale, come
l’apologo, che è sferico, cioè forma perfetta, che puoi vedere da oriente e da
occidente. Da sopra e da sotto allo stesso modo. La seconda lezione di
Calvino è sulla rapidità: la sua ambizione somma era scrivere una favola in
poche righe. L’economia espressiva, come la definisce.
64
La canzone è dunque un racconto breve, una poesia asciugata, un film
compresso, una miniatura senza cornice?

Questo e molto altro.

Una battuta in più sull’atavica e francamente fastidiosa querelle tra poesia e


musica?

Chiunque neghi che le buone canzoni abbiano pari dignità e valore


letterario di una buona poesia è, scusami, un ignorante o una persona in
malafede. La prima forma di poesia nasce in metrica e in rima, per essere
memorizzata, e si accompagnava con la musica, quindi era simile a una
canzone. Questo è accaduto da Omero fino al Settecento.

Ogni composizione poetica aveva strutture formali, quali metrica e rima.


Tutta la poesia era musicabile, ogni musica era poetabile, ma spesso
nascevano assieme. Pensiamo al primo melodramma e poi all’opera vera e
propria. Che gli autori dei libretti non fossero sempre dei grandi poeti è
indubbio, ma quanti poeti laureati hanno scritto brutte poesie e versi inutili?
Garcia Lorca distingueva nel suo comporre poemas y canciones, a seconda
della struttura della composizione.

Allora secondo certi poeti nostrani, quando scriveva poesie era un gran
poeta, quando invece scriveva canzoni improvvisamente diventava
mediocre. Allen Ginsberg aveva un alta considerazione di Bob Dylan e
invidiava il fatto che avesse messo la poesia nei juke-box. In America il
mondo accademico non ha dubbi sulla portata letteraria e poetica di Dylan.
Ma da noi, purtroppo, molti ancora lo sottovalutano.
65
// tuo secondo disco con Fabrizio s’intitolava semplicemente Fabrizio De
André, ma sarebbe passato alla storia come L’indiano per via della
copertina. Come nacque?

Guardavamo alcuni quadri americani dell’Ottocento su un catalogo.


Quando arrivò l’indiano capimmo subito che era la copertina.

Nel disco riprendete e completate il discorso sull’America dalla parte degli


indiani, dei nativi. Dove avete trovato gli spunti per le canzoni? Libri di
storia? Romanzi? Film come Soldato blu? Poesia?

Da molte fonti. Sicuramente Soldato Blu, ma anche libri come Seppellite il


mio cuore a Wounded Knee, Alce Nero parla. Poi trattati di antropologia, la
biografia di Naso Aquilino. Ricordo che Ornella Vanoni ci prestò un libro di
oggettistica Navajo. In uno dei tanti volumi letti, trovammo la storia del
massacro compiuto in un villaggio presso il Fiume Sand Creek all’indomani
della firma di un trattato di pace a Washintown.

// generale di quel massacro fu Chiwington, ma voi gli avete dato gli occhi
di Custer.

«Occhi turchini e giacca uguale». Il generale era giovane e biondo perché


doveva racchiudere in sé l’iconografia dell’eroe americano bianco e di
origine anglosassone, che difendeva il suo popolo cristiano e portatore di
civiltà dagli indiani malvagi, selvaggi e senza Dio.

Penso che «Fiume Sand Creek» sia il prodotto di uno stato di grazia, la
canzone è stata composta in pochi giorni.
66
Cominciamo dalla prima strofa. L’attacco ti porta subito dentro la storia.

C’è una storiella che fece capire a me e a Fabrizio quanto sia grande il
potere di una canzone e la sua forza evocativa anche quando certe rime
sono frutto di una apparente casualità. Il primo verso che avevamo scritto
era: «Si son presi il nostro cuore sotto una coperta». Mancava il colore della
coperta. Per noi non aveva grande importanza. Poteva essere gialla, rossa,
blu, bianca. Aspettammo di trovare il verso successivo per avere la rima.
Quando ci venne «sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura»
capimmo che la coperta dovesse certamente essere scura. Per noi, ripeto,
non avrebbe fatto alcuna differenza mettere un altro colore. Se avessimo
scelto il verso «dormivamo senza paura sotto una luna nata grossa» la
coperta sarebbe stata rossa.

Come capita spesso alle canzoni di grande successo, alcuni versi vengono
poi ciclicamente ripresi in diverse occasioni, nel corso del tempo.

È così accaduto che quella coperta scura sia diventata metafora del cielo
coperto da aerei, della coltre di fumo dei bombardamenti e sia stata usata
per commentare guerre, attacchi terroristici, esplosioni, omicidi, persino
l’attentato alle Due Torri.

Anni dopo aver scritto la canzone, mi capitava di cantare in concerto quella


frase e qualcuno la adattava a qualcosa di grave che era accaduto. E ogni
volta mi ritrovavo a pensare che se la coperta fosse stata rossa o gialla, quel
verso non sarebbe stato così ripreso. Eppure era stato semplicemente
chiamato da una rima.

Sono un grande sostenitore delle canzoni in rima, anche 67


se la rima oggi è vista da alcuni poeti come un orpello desueto e fuori
moda; io credo invece sia uno stagno in cui pescare, ricco di sorprese e di
regali.

«La luna morta piccola» sotto cui i bambini, le donne e gli anziani
dormivano, mentre i guerrieri erano «troppo lontani sulla pista del bisonte»
dà l’immagine della tragedia prima ancora di enunciarla.

E una luna nera, non solo metaforicamente. Sto rileggendomi, in questi


giorni, Y Eneide di Virgilio. Prima di ogni tragedia o evento drammatico,
c’è sempre una premonizione atmosferica. Noi volevamo dare un segnale
del dramma.

La luna morta piccola ci pareva una grande inquadratura, un campo lungo


per creare il clima che precede l’evento, con l’emotività di una musica da
film.

Perché il generale è «figlio di un temporale»?

È una frase molto comune dalle mie parti. In campagna, quando bisogna
descrivere un uomo particolarmente violento e rissoso, si usano dei
soprannomi: Bufera, Tramontana o Temporale. «Figlio di un Temporale»
significa proprio questo: un uomo violento e rissoso da cui ti devi guardare.

Nella seconda strofa c’è «quella musica distante che diventò sempre più
forte». È il rumore del galoppo dei soldati americani?

No, è il suono delle cornamuse che accompagnava gli attacchi e annunciava


l’assalto. Era un segnale di guerra. La 68

cornamusa è sempre stato uno strumento di guerra usato per intimidire gli
avversari, ha un suono potente e che si avverte da molto lontano e che mette
paura; gli scozzesi lo usavano per spaventare i nemici. L’esercito americano
fece proprie molte delle usanze che appartenevano alle etnie d’origine dei
suoi soldati, molti erano scozzesi e irlandesi.
«Chiesi a mio nonno: è solo un sogno? I mio nonno disse: sì» è un’altra
immagine di grande efficacia.

Avevamo in mente il viso del nonno indiano in Un piccolo grande uomo. Il


nonno che tranquillizza il bambino, che lo porta in una dimensione
favolistica per evitare la realtà e la morte che viene a bussare. Anche mio
nonno, con cui ho dormito spesso da bambino, mi tranquillizzava, quando
mi svegliavo agitato: «Tranquillo, è solo un sogno in più».

Mio nonno paterno, Silvio, raccontava storie meravigliose e buone per la


fantasia, pur basandosi su favole tradizionali. Nel mondo di oggi sarebbe
stato considerato un grande bugiardo, un tipo poco attendibile. Nel mondo
contadino e di paese, invece, era una persona molto apprezzata. La gente lo
cercava perché era un uomo saggio e un buon intrattenitore. Una volta fece
credere a noi bambini che i meli, una stagione, erano fioriti in blu invece
che in bianco.

Un’altra volta sostenne di aver salvato la vita a Giuseppe Garibaldi. Gli


credevo sempre. E gli credetti, fino a quando scoprii, un giorno, che l’anno
di nascita di mio nonno e quello della morte di Garibaldi coincidevano:
1882. Tutti noi nipoti pensavamo a mio nonno come a un mago, ma quei
miracoli non riusciva a farli ancora.
69
«A volte i pesci cantano sul fondo del Sand Creek».

Con il passare del tempo, ho capito che mio nonno non mi raccontava fatti
straordinari solo per il gusto di farlo, almeno non sempre. A volte mi
metteva alla prova per vedere se riusciva a rompere i miei perimetri
mentali, come facevano gli antichi precettori greci e gli educatori ebraici
con i bambini. Dimostrano una cosa e subito dopo il suo contrario, per
vedere come reagiscono e argomentano.

Regalano loro più ipotesi per stimolare le loro facoltà logiche, speculative e
analitiche. Così mio nonno ripeteva spesso: «A volte anche i pesci cantano,
sai?»

«Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso».

Per molto tempo, fino ai quattordici anni, ho sofferto di epistassi notturne.


Mi svegliavo con il cuscino intriso di sangue. Mio padre, per
sdrammatizzare e per non farmi pesare il cotone emostatico giallo che
dovevo tenere anche a scuola, mi prendeva in giro e diceva: «Si vede che
hai sognato troppo forte».

«L’albero della neve che fiorì di stelle rosse».

È il sangue che scorre a rivoli sulla neve e forma il disegno di un albero.

Dicevi che la quarta strofa è tra le tue preferite.

È visiva e cinematografica. C’è il sole che alza la testa fra le spalle della
notte. C’è la desolazione del day after: «Solo cani, fumo e tende capovolte».
E il bimbo, unico sopravvis70

suto, che non sa come comportarsi, forse è ancora lì a chiedersi se quello


che sta vedendo fa parte del sogno o della realtà. E allora fa una prova.
Tira una freccia in cielo per farlo respirare.

E una al vento per farlo sanguinare. Come per rompere la campana di vetro
del cielo che racchiudeva questa tragedia e al tempo stesso ferirla, punirla
per aver consentito quello scempio. Nel mondo dei nativi americani, non
solo nella tribù Cheyenne di cui si parla nella canzone, non esisteva la
concezione individuale dell’esistenza che permea le culture cristiano-
occidentali; esisteva solo il senso di comunità. La vera ricchezza della tribù
erano i figli, perché garantivano la continuità e la sopravvivenza della tribù
stessa, quindi la tragedia non era la morte di qualche membro della
comunità: era la morte dei bambini. Senza di loro era la fine di tutto. Se un
albero perde le foglie, queste prima o poi ricrescono sull’albero, ma se tagli
le radici è la morte.

Mio nonno mi raccontava che da noi, nei paesi guidati dalle famiglie
patriarcali, i pazzi erano tenuti in considerazione. Il giovedì venivano a
sfamarsi in una famiglia, il venerdì in un’altra. Veniva fatta la carità di un
vestito smesso o di un paio di scarpe o di stivali. Ma nessuno poteva fare
del male ai bambini. Per nessuna ragione. Nei rari casi di aggressioni
pedofile, i colpevoli non venivano denunciati alla polizia. Li trovavano
annegati, qualche giorno dopo in qualche fosso.

La quinta strofa ripete la prima. Anche altrove, per esempio in «Eurialo e


Niso», hai utilizzato il sistema della simili

tura di memoria in multiplo di quattro; in quel caso le strofe erano sedici,


più la diciassettesima uguale alla prima. È

lo stesso principio della cultura popolare che, abbiamo già detto, è la prima
forma di poesia, storie con un tappeto comune che rispondeva a esigenze di
metrica e di rima per consentire che si tramandassero e che ognuno, se
credeva, potesse aggiungere qualcosa. Però, mi pare che in «Fiume Sand
Creek» accada qualcosa di diverso. L’ultima strofa è uguale alla prima, ma
il significato sembra diverso.
È esattamente quello che io e Fabrizio avevamo in mente.

La prima strofa è un’enunciazione, dove si annuncia la tragedia, ma ancora


non si conoscono né le coordinate né le modalità; la quinta è un riassunto
duro e crudele della storia. Pensa a un verso come «si sono presi il nostro
cuore sotto una coperta scura». Nella prima strofa il cuore può essere
strappato in senso metaforico; nell’ultima è proprio stato strappato dal
corpo. È come se la premonizione si fosse realizzata. Le strofe sono uguali,
ma hanno un altro colore e significato. Come nel teatro dipendono dal
contesto, dal tono e dalla collocazione.

Nelle note de L’indiano, c’è scritto: «La caccia al cinghiale è stata registrata
in Gallura nel mese di gennaio 1981.

Grazie a Sandro Colombini che, a rischio di fucilate e fratture multiple,


sprezzando il pericolo di un’indigestione, ci ha aiutati nella registrazione
della caccia». Fabrizio sosteneva che la caccia al cinghiale fosse uno dei
pochi momenti in cui i sardi godevano nell’avere rapporti sociali.

Era il rito antico, la rappresentazione arcaica, sacra e religiosa. Nel nostro


continuo parallelo tra mondo sardo e 72

indiani d’America, la caccia era il collante più forte ed evidente. Da una


parte c’era la caccia al bisonte, che abbiamo evocato in «Fiume Sand
Creek», dall’altra la caccia al cinghiale. In più, Fabrizio, che amava
particolarmente i Pink Floyd, aveva in mente di creare un raccordo sonoro
che legasse i brani l’uno all’altro, momenti di suoni d’ambiente e legature
sinfoniche.

E quelle note di copertina su Colombini?

Le note di copertina riguardanti Colombini sono, com’è facile intuire, tra


l’ironico e il sarcastico.

Sandro Colombini era uno dei produttori più bravi di quegli anni, aveva
lavorato con Edoardo Bennato e Antonello Venditti. Come Danè, era un
produttore di formazione intellettuale, di quelli magari non tecnici nel
regolare i suoni, le equalizzazioni o gli ambienti, ma bravissimi
nell’inquadrare ideologicamente un prodotto. Ti aiutava a trovare un tipo di
direzione musicale e di sonorità, ma ti dava consigli anche sui testi.

Non entrava nel merito delle micro-scelte musicali, ma ti aiutava a non


sbagliare direzione. Era quello che ci serviva.

Come fu organizzata la caccia?

Intanto fu organizzata in maniera molto seria, perché i sardi sono gente


severa e rispettosa delle tradizioni. Non avrebbero mai organizzato una finta
solo per farci piacere.

Io, essendo il più giovane, ebbi il compito più ingrato: tenere e azionare il
Nagram, terrificante registratore svizzero che pesava venti chili. Per fortuna
che io e Sandro finimmo 73

fra i battitori, dunque nella zona meno a rischio. Salimmo lentamente la


valle verso San Bacchisio. I battitori dovevano disporsi a ventaglio e poi
avanzare chiudendosi progressivamente, producendo più rumore possibile
con bidoni, battendo con legni, urlando per spaventare la preda. Il cinghiale
avrebbe dovuto procedere verso il punto dove la valle si chiudeva, dove
erano in attesa i cacciatori.

Colombini era un uomo mingherlino e poco abituato a muoversi per i


boschi. Lo sbirciavo accanto a me camminare in maniera un po’ goffa e
titubante e battere i legni, ma con poca convinzione.

A un certo punto sentimmo un rumore tra le frasche farsi sempre più forte.
Colombini urlò: «È il cinghiale!». Io mi arrampicai su una sughera, lui
cadde in un cespuglio. In realtà non era il cinghiale, ma una martora che,
spaventata, stava scappando in quella macchia mediterranea molto folta.

Ecco spiegato il rischio di fucilate e le fratture multiple.


E il pericolo di indigestione?

Be’, dopo poco venne organizzata una cena a base di cinghiale. Una volta
pulito e preparato, il cinghiale veniva tagliato in tanti pezzi e i pezzi
numerati. Poi si estraeva a sorte tra tutti i partecipanti alla caccia, quindi il
pezzo più importante poteva anche toccare a un ragazzino che aveva fatto il
battitore e si era limitato a picchiare una latta. Tutti allo stesso livello nel
momento della divisione.

Veniamo a «Canto del servo pastore». Ci sono abbagli di Dylan Thomas e


anche di François Villon, mi sembra.
74
Direi Villon, di cui c’è una specie di citazione: «Sopra ogni cisto da qui al
mare c’è un po’ dei miei capelli». L’idea era questa: se dal punto di vista
geografico, più sali in alto e meglio riesci a vedere il paesaggio intorno, dal
punto di vista umano tutto si ribalta, ed è dal fondo che riesci a vedere
meglio l’umanità. È dal basso che hai la visione migliore, se scendi
all’ultimo gradino della scala sociale. Feci leggere a Fabrizio un libretto di
Giuseppe Ungaretti che mi aveva regalato mio padre. S’intitolava // povero
nella città, dove si parlava della figura del faqìr nel mondo egiziano.

Ungaretti era nato e cresciuto ad Alessandria d’Egitto, così come il poeta


greco Kavafis.

Il faqir, il fachiro, era sì il diseredato, il reietto, ma era anche l’unico che


poteva urlare il suo malcontento e il suo dissenso al passaggio del sultano.

A Fabrizio piacque molto questo racconto, così scegliemmo in parallelo la


figura del servo pastore, che sta all’ultimo posto della scala sociale: è un
ragazzo che pascola pecore non sue. Sta via giorni e giorni con il suo
ombrello a tracolla, senza nessun essere umano con cui parlare o
condividere un solo momento della giornata.

Erano persone che non avevano prospettive e, se avevano sogni, sapevano


che sarebbero rimasti tali. Difficile maritarsi e mettere su casa e famiglia
nelle loro condizioni.

«L’amore delle case l’amore bianco vestito / io non l’ho mai saputo e non
l’ho mai tradito». L’amore bianco vestito di un abito da sposa che non
toccherà forse mai. Lui stesso è una figura invisibile al mondo: «Mio padre
un falco, mia madre un pagliaio». Guarda la vita e la sua bellezza sapendo
di esserne escluso. Cosa gli resta? Quello che ha dato al vento («sopra ogni
cisto da qui al mare c’è un po’ dei miei capelli») e le incisioni del suo
coltello a 75
ogni suo passaggio: «Sopra ogni sughera il disegno di tutti i miei coltelli».

Sono molto legato a questa canzone. È struggente è lascia una piccola


aureola di commozione sul pubblico ogni volta che la suono. Mi piace
suonarla perché ci sono frasi che ancora adesso, dopo tanti anni, mi
sorprendono e che non voglio capire fino in fondo, ma che toccano corde
segrete dentro me. Musicalmente c’è dentro il mio grande amore per Cat
Stevens. Nessuno se n’è ha mai accorto, però se ascolti bene l’incedere
della canzone puoi trovare il profumo di «Morning Has Broken» .

Questo è il dono dell’arte: indossare panni di persone così diverse da chi


scrive. Cosa diciamo di «Se ti tagliassero a pezzetti»?

Che ha la medesima struttura di «Rimini». La discesa della bellezza agli


inferi. Da un mondo agreste e pacificato avvolto nella sua polvere luminosa
di suoni e di insetti nell’aria come in una sinfonia di Vivaldi o nel Sogno di
una notte di mezz’estate di Shakespeare.

La prima strofa è la traduzione quasi letterale di una preghiera pellerossa:


«Se ti tagliassero a pezzetti il vento li raccoglierebbe il regno dei ragni
cucirebbe la pelle e la luna tesserebbe i capelli e il viso e il polline di Dio /
di Dio il sorriso». Una preghiera d’amore, ma anche colma di spiritualità,
perché, come diceva il cardinale Martini, la buona poesia è un linguaggio
teologico, anche quando, come in questo caso, ha riferimenti panteistici di
un mondo incorrotto e pagano.

Ci sono passaggi che abbiamo volutamente forzato in una direzione pre-


rinascimentale e botticelliana: «La fortu76

na sorrideva come uno stagno a primavera / spettinata da tutti i venti della


sera».

Lo stagno per noi ragazzi era un posto magico dove andavamo volentieri.
Ci entravamo dentro a piedi nudi, pescavamo i pesci, catturavamo le rane,
osservavamo per ore i ragni galleggianti e le libellule, vedevamo quando le
acque s’increspavano e cambiavano umore e colore prima di un temporale.

Ricordo di aver sofferto molto il passaggio dalla campagna alla città,


quando la mia famiglia si trasferì a Verona.

Per molto tempo ho portato quasi rancore verso mio padre, perché non
potevo più camminare scalzo, andare a zonzo con i miei cugini sulle
biciclette scassate, ascoltare la sera le favole di mio nonno, eseguire i
compiti che mi dava mia nonna tra cui andare ogni sera a portare il latte da
una vedova. Quel gran vivere in tanti e tutti assieme. Mi sentivo come
derubato.

Venni via che avevo sette anni. Questa malinconia che mi porto dentro e
che si avverte in tanti miei componimenti, è figlia di questo strappo.

Fabrizio era molto colpito da questa mia vicenda e mi diceva,


canzonandomi, che era simile alla storia di Virgilio, a cui avevano
confiscato la campagna nel mantovano per darla a un veterano dell’esercito
romano. «Quel distacco te lo porterai sempre con te, come un compagno di
viaggio da cui non ti puoi separare». Anche Fabrizio aveva conosciuto quel
mondo contadino da sfollato durante la guerra e poi tornandovi spesso
d’estate nell’adolescenza. Credo che anche lui avesse avuto nostalgia di
quei giorni felici e questa nostalgia lo abbia influenzato nella volontà di
costruire la fattoria dell’Agnata vicino a Tempio in Sardegna.
77
Nella seconda metà della canzone arriva, puntuale, la corruzione della
quotidianità: il tailleur grigio fumo, la stazione. Compare un assassino che
ognuno ha letto giustamente come ha voluto. Un killer, il terrorista della
strage di Bologna, o metaforicamente il messaggero di qualcosa che deve
morire: la Bellezza, la signora Libertà, la signorina Fantasia. «Ali beauty
must die», dirà Nick Cave qualche anno dopo.

A proposito: il famoso verso sulla «signora libertà signorina fantasia» poi


sarebbe diventato «signorina Anarchia».

Fabrizio aveva, talvolta, l’abitudine di cambiare qualche parola. Capita. È


chi canta che deve adattare il testo all’intuizione del momento. Anche in
«Sally» ogni tanto diceva: «Mia madre mi disse - non devi giocare / con gli
svizzeri nel bosco» e non ho mai capito come si potessero sostituire gli
svizzeri agli zingari. Mi sembrava, anzi, che, almeno nell’immaginario
collettivo, fossero due culture antitetiche. Evidentemente la sentiva così,
almeno certe sere.

Per quanto riguarda la canzone, ho sempre pensato che la libertà devi


conquistarla e poi tenerla, per questo va sposata. La fantasia è un dono che
però non sarà mai completamente tuo. Devi corteggiarla sempre, come
probabilmente la signorina Anarchia.

// primo film a 35mm di Wim Wenders, Alabama, fu descritto così dal


regista, tra lo sconcerto dei critici: «Un film su “All Along The
Watchtower” e sulla differenza tra la versione di Dylan e quella di
Hendrix». Forse fu una 78

provocazione, però è indubbio che una canzone cambi molto a seconda del
suo vestire. Sono nuovi abiti per antiche cerimonie, come diceva Leonard
Cohen?
Nuovo vento per vecchie vele. Un paio d’anni fa, nell’antico Caffè
Letterario Pedrocchi di Padova, tenni, con altri, in un ciclo di cinque
interventi ispirati dai cinque sensi, una piccola chiacchierata sull’udito. Feci
ascoltare alla fine «Il cielo d’Irlanda» in tre diversi ritmi e tonalità, facendo
notare come cambiava di molto lo spirito e il significato della canzone. Io
preferisco scegliere l’abito, cioè la musica a seconda di cosa voglio narrare.
Se ho un argomento scuro, che si muove sul confine tra legalità e illegalità,
tra magia bianca e magia nera, uso il blues. Se ho una storia d’amore
struggente e intensa scelgo una melodia romantica o il texmex o una musica
latina. Se ho una ballata popolare mi oriento verso il folk. Se ho un
argomento religioso cerco tra soul e gospel. Se quello che voglio raccontare
è tragico compongo una ballate in minore. «Se ti tagliassero a pezzetti» io
la faccio ora in versione soul in 6/8, completamente diversa dall’originale,
perché la canto come se fosse una preghiera.

«Verdi Pascoli».

Nel comporre dischi, ho sempre usato la formula dei Rolling Stones, che è
la formula classica in voga dal tempo degli lp - due canzoni veloci, quattro
mid-tempo e due lente - aggiungevano un brano atipico, che fosse country,
come amava Richards, o reggae o un madrigale col clavicembalo, come
preferiva Jagger.

«Verdi pascoli» è il brano atipico del disco, con una 79

musica reggae che da leggerezza al brano e completa i colori dell’album.

/ colori dell’album?

Noi facevamo così: a ogni canzone davamo un colore e poi vedevamo


l’effetto cromatico complessivo. Lo facevamo davvero, non solo
metaforicamente. Prendevamo dei fogli bianchi e delle matite colorate. Poi
tracciavamo delle grandi sbarre una vicina all’altra. Immagina un maglione
di Missoni. Ci interessava capire se i fili di stoffa stavano bene insieme o se
mancava, invece, qualche tonalità, qualche sfumatura. Sceglievamo il
tessuto del disco.

Ti ricordi qualche colore abbinato alle canzoni?

«Fiume Sand Creek», per dire, era rosso sangue; «Hotel Supramonte»
bianco neve e verde scuro; «Se ti tagliassero a pezzetti» era giallo oro
all’inizio e viola alla fine.

All’album L’Indiano mancava un verde chiaro. Così scrivemmo «Verdi


pascoli», che fu appunto l’ultima canzone a essere scritta. Come
l’architrave sopra una porta. Non abbiamo fatto altro che applicare le linee
del cromatismo poetico su cui avevano teorizzato molti, compreso
Rimbaud.

Dentro «Verdipascoli» non c’è solo il cromatismo sonoro, ma anche


l’America. Come vedevate l’America allora e come la vedi oggi?

L’America era il centro dell’impero con il quale dovevamo comunque


rapportarci. Marziale era nato vicino a 80

Segovia e Seneca a Siviglia ma entrambi si sono rapportati con la letteratura


latina e sono andati a Roma.

Noi siamo andati, almeno metaforicamente, in America, perché si era creato


un tale sincretismo culturale che non potevamo prescinderne.

In America nei primi anni del Novecento si era sviluppato il nuovo


linguaggio del cinema, in America negli anni Cinquanta nasceva il rock ‘n
roll, che miscelava ritmi neri e il folk bianco. L’America aveva creato ibridi
di ogni genere. L’importante, per noi, era guardare al modello americano
ma poi metabolizzarlo, farlo nostro senza riprodurlo pedissequamente.
Metterci dentro del nostro, come avevano fatto gli Stones, i Pink Floyd e i
Jethro Tuli, come avrebbero fatto gli U2, i Pogues di Shane MacGowan, i
Waterboys di Mike Scott. Per noi, insomma, l’America era il Grande
Laboratorio. Guardavamo all’America mantenendo un gusto europeo, come
aveva fatto Sergio Leone. O
come avrebbe fatto poi Wim Wenders.

Noi invidiamo a loro l’invenzione di tanta cultura contemporanea, loro


invidiano a noi la Storia e l’Arte, il nostro essere figli del Medioevo e del
Rinascimento. Quando parlai con Lou Reed, che si trattene qualche giorno a
Conegliano, vicino a Treviso, per un reading, lui mi diceva che non capiva
come mai noi italiani che siamo i figli del Rinascimento, fossimo così bravi
e riconosciuti nel design e nella moda e in tanta pura creatività e invece
nella musica non riuscissimo a essere così importanti e decisivi.

Per quasi quattrocento anni, tra il Trecento e il Settecento, Venezia è stata


una specie di New York europea, la città dove tutti andavano
principalmente per affari, ma anche per capire le novità sull’ottica o nella
moda, nell’arte vetraria e nelle nuove tecnologie, nella musica, nel tea81

tro. L’Arsenale, nei primi anni del Cinquecento, fu la prima fabbrica al


mondo che inaugurò una specie di enorme catena di montaggio e riusciva a
produrre, a quei tempi, una galera al giorno.

Oggi l’America rimane un luogo dove guardare, ma con meno stupore e


meraviglia di prima.

«E ora non piangere perché I presto la notte finirà I con le sue perle stelle e
strisce I infondo al cielo».

Ci riferivamo agli indiani, ma anche ai sardi. In Sardegna si respirava


un’aria di polemica verso lo Stato italiano. Sui muri si leggevano spesso
scritte come «Sardinia colonia» e «A foras sos stranieros». C’era un forte
movimento indipendentista e cresceva la paura che la Sardegna potesse
diventare per l’Italia quello che la Corsica era per la Francia. I sardi si
sentivano colonizzati e traditi, trattati come fossero la Cayenna d’Italia. Per
questo dicevamo nella canzone che la notte sarebbe presto finita e che
bisognava smettere di piangere.
L’America era sempre lì, sullo sfondo. Avevamo davanti le cronache, le
inchieste e i filmati che mostravano i discendenti delle tribù indiane nelle
riserve fare una vita fuori dalle loro regole e abitudini, con un tasso
d’alcolismo tra i più alti tra le comunità americane. E c’era un sentimento di
tristezza per quel popolo che un tempo viveva in armonia perfetta con il
creato e che aveva un sacro rispetto per la Terra Madre. Non conoscevano la
cultura di produrre di più di quanto consumavano, di avere di più di ciò che
gli serviva alla stretta sopravvivenza. Il numero delle mogli di un uomo
dipendeva solo dalla sua abilità nel cacciare. L’etica e l’etologia
viaggiavano insieme. Fu con l’arrivo dei bian82

chi che, in pochissimo tempo, si squilibrò tutto. In primis si diradarono le


mandrie di bisonti che erano una delle più importanti fonti di
sostentamento. Penso a un’immagine del film Balla coi lupi, alle immagini
delle centinaia di carcasse di bestiame a marcire, perché i bianchi
prendevano solo la pelliccia. Una desolazione assoluta. Il loro era uno
sviluppo armonico, non come il nostro.

E se costruiremo parcheggi sotterranei ovunque, prima o poi le città


sprofonderanno.

Di questo e d’altro parlavo con Fabrizio per notti intere.

Avevamo il tempo e la necessità di capire queste ferite.

«Hotel Supramonte» è una delle canzoni più belle degli ultimi cinquant’
anni. Scritta in due momenti diversi e fondata su una tua composizione
intitolata in origine «Hotel Miramonti», scritta poco prima del servizio
militare.

La storia è molto particolare. Tutto partì mentre ero in tour con Venditti,
dopo un concerto ad Agordo nel Bellunese. Venne a trovarci Claudio
Baglioni, che aveva affittato una villa sul lago di Alleghe e che stava
lavorando a un nuovo album con alcuni collaboratori. Ci invitò da lui
durante un nostro day off. Alla sera andammo in un albergo chiamato
Miralago, dove feci amicizia con il proprietario, che aveva, proprio sotto
l’hotel, un piccolo night. Mi disse: «Perché non torni da queste parti in
inverno? Suoni qualche canzone con la chitarra la sera, per un’oretta. In
cambio ti posso dare vitto e alloggio per due persone, lo ski-pass e qualcosa
per le piccole spese». Mi sembrava una buona proposta e accettai.
83
Con me venne la mia fidanzata di allora. Era un rapporto un po’ turbinoso e
si litigava per poco. Qualche tempo prima di partire per il militare, abbozzai
la canzone.

«Hotel Miralago» non mi piaceva come titolo, lo cambiai in Miramonti


perché suonava meglio. Era l’inverno del 1978.

La feci ascoltare a Fabrizio nel giugno del 1980, quando ci incontrammo a


militare concluso. Mi disse: «La canzone è affascinante, perché non ci
lavoriamo un po’?» «In che modo?» domandai io. «Incrociamo i nostri
ricordi, come due pittori che lavorano alla stessa parete». E così fu.

All’inizio i ricordi venivano fuori a frammenti. Fabrizio aveva preso


qualche appunto, ma faticava a parlarne. Poi, poco alla volta, i frammenti
dell’affresco bombardato cominciarono a ricomporsi. Erano racconti
commossi di prigionia. Cose piccole che diventavano grandi e cose grandi
che diventavano piccole. La paura di Dori di far vedere lo smalto rosso
sulle unghie dei piedi ai carcerieri. Il loro diventare sempre di più una cosa
sola, «una sola preghiera», come scrissi poi nella canzone per Dori
«Stringimi piano, stringimi forte».

Ogni tanto c’era anche una breccia di ironia in quella grotta. Come quando
Fabrizio raccontava che uno dei suoi carcerieri parlava con la «erre» moscia
come Guccini.

Quindi, sull’intelaiatura della tua canzone «Hotel Miramonti», è stata


inserita la storia d’amore di Fabrizio e Dori durante il sequestro.

Sì. Alcune immagini si sovrapposero. A volte bastava spostare una parola.


Il mio testo diceva, all’inizio della terza strofa: «Ë ora siedi ai bordi del
letto che aveva il tuo 84
nome»; alla luce del sequestro è diventato «e ora siedo sul letto del bosco
che ormai ha il tuo nome». È inevitabile che, essendo Fabrizio il cantante ed
essendo molto forte e conosciuta la storia del suo sequestro, tutti l’abbiano
vista e interpretata in quella direzione. Non solo: inserita nel contesto di un
rapimento, assume una drammaticità e uno struggimento particolari, ma nel
tempo, credo, tornerà a essere, per chi non ha conosciuto le vicende, una
pura canzone d’un amore vissuto.

Vediamo alcune di queste immagini. Perché «una donna in fiamme e un


uomo solo»?

È come nella canzone «Niente passa invano» che scriverò anni dopo,
quando dico: «Sono cessati spari e grida /

questo è il silenzio che volevamo?» Eravamo due caratteri molto ostinati e


misericordiosi, ma con tempi diversi di ravvedimento. In quel verso ho
messo la donna in fiamme che sa un po’ di strega-martire e l’uomo solo che
ero io, l’inquisitore, proiettato sul muro. Ho unito i tre tempi della storia: il
passato, il presente e il futuro, facendoli scivolare continuamente avanti e
indietro, per creare una sorta di monologo o diario interiore.

Amo i flashback e il racconto inizia così.

Perché lei ha un ordine discreto dentro il cuore?

È un ordine sentimentale che è per alcuni è un punto d’arrivo.

Perché la lettera è «vera di notte falsa di giorno»?


85
Perché di notte ogni cosa ti appare sotto una luce diversa, che cambia al
mattino. E quello che credi bianco o possibile, diventa poi grigio e
aleatorio. C’è anche un altro aspetto: per molti la notte è la passione e il
sogno, l’illusione che tutto può risorgere e il cerchio chiudersi, ma di giorno
le piccole cose lisce e rotonde della notte diventano minute come sabbia e
bloccano le ruote e gli ingranaggi del vivere: dimenticanze, ripicche,
inciampi di parole, fastidi. E allora sei costretto a non sognare più su quelle
pagine. E alla fine ti ritrovi sempre più solo e lontano.

E un’immagine che ricorre anche in «Dostoevskij», dove lo scrittore non e’


entra nulla, perchè in realtà parli d’amore. «Dostoevskij» può essere
considerata una «Hotel Supramonte» parte seconda, almeno per quanto
riguarda la tua parte di storia?

È un’altra canzone d’amore perduto. «Avrei voluto cancellare dai tuoi occhi
quella noia e quella solitudine / ma allora davo troppe cose per scontate e
non ti seguivo più».

Metà della letteratura del Novecento tratta questo argomento: l’amore fuoco
che non si riesce a realizzare compiutamente e a farlo diventare vivibile.
Rimane potenzialmente imbattibile, ma incapace di esistere. D’altronde,
come sai meglio di me, amore e morte è un topos inesauribile.

Roland Barthes, in Frammenti di un discorso amoroso, sosteneva che nella


fase adolescenziale noi amiamo nell’amore la morte e ciò che ci nega. È un
classico da liceo innamorarsi dell’unica ragazza che non ti considera. È

come se tu decidessi di vivere in funzione di qualcosa che per un’altra


persona è già morta o non è mai nata.
86
Da giovane, tendi a innamorati di persone che ti negano e si negano.
Nell’età adulta ti piacciono le persone a cui piaci tu. Da ragazzo cercavo la
sfida e pensavo di essere più forte di qualsiasi prova, come un cavaliere
antico. Da adulto sto cercando di imparare a fare la pace con i sogni e le
sconfitte e ad accettare che le cose possano finire.

Ti sei sentito come Achab, invincibile. Come hai scritto per Cristiano De
André in «Notti di Genova», «ci sentivamo invincibili I ci sentivamo così».
Perché lui ha «un treno da perdere»?

Nella mia versione era «un treno da piangere». Vivevo a Milano e tornavo a
Verona ogni fine settimana. Ed erano ritorni spesso laceranti, perché
avevamo troppe aspettative e troppe prove da superare senza toccare i fili
invisibili dell’orgoglio.

Poi Fabrizio ha messo «un treno da perdere», che è decisamente un verso


migliore.

Ricordi altri versi cambiati?

Sì. «Cosa importa se sono caduto, se sono lontano» era «cosa importa se mi
hai rinnegato e se sono lontano».

Un’altra versione diceva: «Cosa importa se sono perduto e se sono


lontano». Nell’ottica della storia d’amore funzionava di più «rinnegato», in
quella metaforica a più letture andava meglio «caduto». Una delle nostre
regole era non riscrivere mai l’ultima versione su un altro foglio, ma fare le
correzioni sempre sullo stesso, magari usandone uno grande, perché così
fosse chiara la visione dei percorsi, delle cicatrici sulla carta e il peso della
canzone e potessi87
mo sempre come Pollicino tornare indietro. E quello che magari avevi
alleggerito in un verso lo andavi a riequilibrare in un altro.

La scrittura finale la faceva sempre Fabrizio perché aveva una calligrafia


molto migliore della mia, che è quasi illeggibile e a volte un po’ lo
innervosiva. Fabrizio si sedeva al tavolone della cucina e scriveva
lentamente come un capoclasse sulla lavagna.

C’erano stanze in cui componevate meglio?

C’era una sola stanza dove nascevano le canzoni: la cucina. Non importava
in quale casa o città ci trovassimo, ma tutto succedeva lì. Questa cosa la
faccio ancora. Ho due studi e due scrivanie, più un ufficio attrezzato, ma
finisco sempre per scrivere davanti ai fornelli, forse perché non essendo un
luogo deputato alla scrittura, mi fa sentire meno gravato dal risultato.

Due anni fa sono tornato a Tempio Pausania, che oggi è diventato un


agriturismo. Volevo far vedere a mia figlia Emma i luoghi dove ho vissuto e
lavorato per tanto tempo.

La collina degli Asfodeli o Donna Maria, ma la prima cosa che ho fatto è


stata di farle vedere il tavolone della cucina dove scrivevamo.

Ti è piaciuta la versione che ha dato di «Hotel Supramonte» Roberto


Vecchioni al concerto di Genova in ricordo di Fabrizio?

È una canzone che pur nella sua particolarità ha a che fare col percorso di
molte persone. Roberto ha scritto tante belle canzoni sulle profondità
cangianti dei sentimenti 88

amorosi e quindi era questo un territorio su cui si era spesso addentrato e di


cui conosceva la natura. Ricordo un’altra intensa interpretazione di «Hotel
Supramonte» di Mia Martini.

Quando qualcuno decide di confrontarsi con una tua canzone, non può che
farti piacere. Certo, ci sono interpretazioni che preferisci, ma rimane sempre
tutto confinato a una questione soggettiva. La cosa interessante è vedere
quanto gli altri aggiungano e quanto più ti facciano capire le cose che hai
scritto.

Diceva così anche Cohen, dopo la splendida rilettura di Jeff Buckley della
sua «Hallelujah». Cohen ritorna nei tuoi discorsi al pari di Dylan e di
Shakespeare.

Cohen è un puro poeta. Senza conoscere la sua opera molti di noi non
avrebbero scritto le canzoni che hanno scritto.

Cohen ha soprattutto il coraggio della nudità, ha esplorato poeticamente


territori dove pochi si erano spinti prima di lui. In «Famous Blue Raincoat»
chiede al suo più grande amico, l’uomo dal famoso impermeabile blu, che è
stato anche l’amante della sua compagna, di tornare a trovarlo o a trovarla o
a trovarli. E c’è quel verso nell’ultima strofa: «And what can I tell you, my
brother, my killer, what can I possibly say?», e cosa posso dirti, fratello
mio, mio assassino, che cosa posso mai dirti? Che cosa si può dire di più?

Son d’accordo.

In una strana intervista rilasciata a Thomas Martinelli del «Manifesto» e


pubblicata il 23 agosto 1981, De André avrebbe detto: «Supramonte l’ho
scritta insieme a mio 89

figlio che non è stato sequestrato. Lui stesso mi ha detto che era strano
come ne parlavo, come se fosse successo a un’altra persona».

O il giornalista ha capito male, oppure è stato un lapsus.

Fabrizio mi trattava spesso come un figlio, ma avevo già un altro padre e lui
un altro figlio.

«Quello che non ho».

Anche questa è una canzone bifronte, a doppia chiave di lettura.


Nacque da una riflessione di un sociologo tedesco che aveva letto Fabrizio
e da un mio viaggio in Umbria, all’Eremo delle Carceri di Assisi.

L’antropologo osservava che un bambino occidentale possiede circa mille


oggetti di uso comune comprese le matite colorate e i capi d’abbigliamento.
Un bambino navajo meno di venti. Ci venne in mente di scrivere una
canzone, in forma di blues, sul fatto che si possa vivere meglio con molto
meno di quello che si possiede.

Il viaggio lo feci in Umbria di novembre, durante una licenza. Visitai


l’Eremo delle Carceri di Assisi. Mentre passeggiavo con il priore, passai
vicino all’orto che aveva solo poche verdure invernali raggrinzite.
Vedendomi perplesso, mi disse: «Nella vita bisogna guardare a quello che
hai, non a quello che ti manca. È la prima regola per essere felice».

E aggiunse: «Se vuoi ti posso dire quello che non ho.

Quello che non ho è un figlio, una compagna, una fede più solida, la
solitudine di un ghiacciaio d’inverno, un autunno più rosso ancora e molto
altro ancora». Appuntai questa frase sul mio block-notes appena uscii dal
convento.
90
Perché la scelta di un’Avo. Maria sarda, rielaborata e adattata da Albino
Puddu e cantata da Fabrizio e da Mark Harris?

La melodia è di una bellezza abbacinante ed è un concentrato di musica


popolare sarda, Mark Harris, pianista e arrangiatore, aveva una voce molto
alta e potente e in più, pur essendo americano del Nord-Est, parlava
correntemente il sardo di Oristano, perché sua moglie era di lì e lui s’era
appassionato a quella cultura e alle sonorità di quella lingua così musicale.
Fu come una serenata alla patria elettiva di Fabrizio.

Arriviamo a «Franziska», storia di una ragazza sarda e del suo promesso


sposo, un bandito che vive alla macchia.

Fabrizio disse che quella storia gliel’ avevano raccontata i suoi sequestratori
e che era un fatto vero.

Sì. Questa canzone nacque già con i capelli. Era una delle storie e dei ritratti
che ci appassionavano particolarmente. In più, ogni tanto si vedeva passare,
dalla nostra proprietà, una ragazza a cavallo che sembrava Camilla o Diana
cacciatrice.

Ci sono immagini in quella canzone che trovo efficaci e popolari ancora


oggi: il marinaio di foresta, il rosario stretto intorno al fucile, «quanto taglia
il suo dolore più di un coltello di Spagna».

Ci sono due versi che dicono: «L’altro giorno un altro uomo le ha sorriso
per strada I era certo un forestiero che non sapeva quel che costava».
Alfredo Franchini, in Uomini e donne di Fabrizio De André, fa riferimento
a un 91

fatto di cronaca avvenuto un paio d’anni dopo la canzone.


Un paio di alpini, inviati nel nuorese dal ministro della Difesa per un
esercitazione, finirono all’ ospedale per aver guardato e, si dice, corteggiato
una certa Franziska. Ne sai qualcosa?

No.

Dietro la storia di Franziska c’è un’altra storia, quella di un uomo che


condiziona la vita di una donna non con la sua presenza, ma con la sua
assenza. C’è quel verso bellissimo: «Dietro il palco sull’ orchestra I i tuoi
occhi come due cani». Ti sei mai sentito così con Fabrizio? Condizionato
dalla sua assenza, con i suoi occhi come due cani che ti guardavano da
dietro il palco. Per quanto tu abbia fatto, per molti rimani anche quello che
ha scritto pagine indelebili con De André.

Ho sofferto molto per la morte di Fabrizio.

Ho ricevuto da lui una seconda educazione, mi ha dato una coscienza di


pura poesia, mi ha consegnato molte gioie e mi ha svelato molti dolori.
Abbiamo avuto distanze, ma mai incolmabili. Distanze che abbiamo
cancellato sempre con un semplice sguardo. Ma l’ultima volta purtroppo
non ha più lasciato un indirizzo per ritrovarci a fumare un’altra sigaretta
davanti a una tazza di caffè e a un libro sottolineato.

Il lutto c’è stato e qualcosa ha cambiato luce per sempre.

E ancora oggi, ogni tanto ricordo quella luce di anni fa sui muri della casa
al mare, sento le voci, i profumi e intravedo le ombre sui grandi sassi, la
sera.

La canzone «Dostoevskij» l’ho scritta anche perché con 92

lui una sera si giocava a chi avremmo voluto diventare e Fabrizio disse
appunto Dostoevskij.

Anche «Camicie rosse» sviluppa un discorso che avevamo iniziato insieme,


quando sembrava che ci commissionassero una canzone su Garibaldi da
usare come sigla di un programma televisivo, com’era già accaduto con
«Una storia sbagliata» per il programma su Pasolini. Di regali ce ne siamo
fatti molti altri, anche a distanza e senza mittente.

Diavoli e farfalle può essere considerato V album in cui hai elaborato il


lutto?

Nella scrittura il tuo fardello ti segue sempre. Per quanto riguarda Fabrizio,
nell’album Segreti trasparenti, c’è una canzone, «Specialmente in gennaio»,
in cui incollo alcune fotografie di lui che ho nella memoria. «Specialmente
in gennaio, qualcosa filtra da lassù, specialmente in gennaio, porto il tuo
giaccone blu».

In Segreti trasparenti fai i conti con un’altra scomparsa, quella di tuo


fratello.

Mi sono portato dietro quel dolore per tanti anni e non ci andavo tanto
d’accordo. Questa cosa mi procurava una sofferenza continua. Poi ho
imparato lentamente a convivere con questo mio compagno di viaggio, a
parlargli, a dormirci e a mangiarci assieme come con un amico. E quando si
allontana, aspetto solo che ritorni.

Di recente ho visto un film su Johnny Cash: Walk The Line. Muore suo
fratello, bambino poco più grande di lui e lui si sente in colpa per non
essere morto al suo posto, perchè tutti dicevano, ed egli stesso lo pensava,
che fosse il 93

migliore dei due. Suo padre non riusciva a darsi pace per la scomparsa del
figlio prediletto e colpevolizzava Johnny, facendogli domande dure come:
«Tu dov’eri?». Fino a quando, un giorno Cash, ormai adulto, con un senso
di liberazione, rispose al padre: «Tu, invece, dov’eri?».

Immagino tu sia consapevole che, indipendentemente dalla genesi e dalle


motivazioni di un brano, molte cose che scrivi possano essere lette come
riferite a Fabrizio. Nei tuoi dischi da solo, in quelli con Cristiano, sia prima
che dopo la scomparsa di Fabrizio, ci sono molti versi così. In alcuni casi
forse scritti di proposito, in altri magari ha lavorato di più l’inconscio.

A volte l’ho fatto coscientemente, altre volte me ne sono accorto in ritardo.


La porta dell’inconscio si è aperta di colpo, come spalancata da
un’improvvisa corrente d’aria.

Di altre cose non me ne accorgerò mai.

Prendiamo «Capelli rossi». È una bellissima canzone noir, che nasce da un


fatto vero. È la storia di un giovane a cui prima violentano e poi uccidono la
moglie. Però c’è una strofa che potrebbe essere indirizzata a Fabrizio:
«Porto negli occhi i tuoi occhi I porto nei sogni i tuoi sogni I non dovevi
lasciarmi così I non dovevi lasciarmi così».

Non lo escludo. La bellezza dell’ispirazione poetica è che ti sposta senza


che tu te ne accorga seguendo una sua corrente segreta. Come quando
cammini in una città dopo che una tua dichiarazione d’amore è andata a
buon fine, non ricordi mai il percorso che hai fatto, ma improvvisamente
apri gli occhi e pensi: perché siamo qui?
94
La storia narrata dalla canzone è ricavata da una lettera sconsolata, che mi
consegnò un ragazzo a un concerto, dove narrava quel fatto di sangue
accadutogli. Mi chiedeva di farne qualcosa. Io gli risposi che tutto quello
che potevo fare era pregare. Dopo qualche mese scrissi una ballata.

Le canzoni non cancellano o leniscono i dolori, però li possono rendere


condivisibili. È come mettere la tua tristezza sui capelli di chi vuole
accoglierla. Credo possa servire a guardare più in alto, avanti. Però, certo,
quel ritornello, quando lo ascoltavano, molti pensavano a Fabrizio.

Nel brano ho volutamente inserito elementi che fanno parte della letteratura
del folk: la civetta, lo zoppo, il cacciatore, i vecchi salici piegati sul fiume,
le cornacchie che gracchiano all’aurora, l’altalena sul tiglio.

Un’altra è «Notti di Genova», che ho già citato. Il testo, che hai scritto nel
1992, poi cantato da Cristiano De André, sembra riferirsi a Fabrizio: «Per
quanto tempo ti penserò I in quelle notti a Genova I giù lungo il porto
dentro quei bar I sogni cambiati in spiccioli». E poi, più avanti: «Bevevi
troppo, fumavi un po’ I perso nella tua musica I quale silenzio ci
confonderà I quale invisibile padrone». Sembra anche raccontare di
Fabrizio e di qualche misunderstanding .

Sono i ricordi di certi percorsi genovesi fatti di notte.

Camminate, discorsi e bevute. Il verso originale diceva: «Fumavi troppo,


bevevi scotch».

Poi e’è «Doppio lungo addio», scritta due anni dopo, nel 1994. Dice così:
«Io disegnavo ali, tu volavi I io costruivo 95
chitarre, tu le suonavi I io mischiavo le carte, tu le giocavi I io annegavo
nell’acqua, tu ci camminavi I io ero il braccio, tu la mente I io ero lo stagno,
tu la corrente I tu andavi verso l’Ovest, io rimanevo all’Est I io ero tu, tu eri
me I tu eri il santo, io l’assassino I io ero il mercante, tu l’indovino I io
avevo novant’ anni, tu sempre ventitré I io ero tu, tu eri me».

La canzone era nata per raccontare il doppio, che è da sempre uno dei miei
temi ricorrenti. In questa canzone ci sono figure e contrapposizioni
medievali, piene di significati e simbolismi come il mercante e l’indovino.

Certe canzoni sono come fiumi carsici: non sai mai con esattezza dove
scorrono, perché sono fiumi sotterranei.

Conosci fiumi carsici?

Penso al fiume Timavo vicino a Trieste tanto caro a Rilke e a D’Annunzio,


che esce allo scoperto, solo poco prima di sfociare in mare. Così anche
«Doppio lungo addio» puoi leggerla in modi diversi. Una canzone sul
doppio, un brano sulle profonde distanze e contrapposizioni tra le varie
nostre nature.

Tanto per fare una cosa nuova, torniamo a Cohen e a quei versi di «Famous
Blue Raincoat» che hai citato prima. Hai mai pensato che Fabrizio sia stato
contemporaneamente tuo fratello e tuo assassino? In senso buono,
naturalmente. Talmente forte la sua presenza, il suo carisma da oscurare un
poco il talento e il carisma dei collaboratori.
96
Io non sono un direttore della fotografia che ha sempre lavorato con un
regista: mi considero a mia volta un regista che ha fatto due aiuto-regie con
un maestro.

Dopo Rimini passai alla Fado, l’etichetta di Dori e Fabrizio, e pubblicai Tre
rose, prodotto da Fabrizio. I problemi nacquero con il disco successivo, che
uscì nel 1982 e che era intitolato semplicemente Massimo Bubola. Fabrizio
non era entusiasta di pubblicarlo.

Come mai?

Semplicemente, come può accadere, non gli piaceva molto, soprattutto nelle
sonorità troppo elettriche. Era un disco in cui riprendevo la strada
dell’album Marabel, ballate e storie di strada. Era il percorso che avevo
sempre voluto. Creare una piccola letteratura del rock. Secondo Fabrizio
sarei dovuto andare in un’altra direzione, privilegiare la vena lirica in
contesti più acustici… Un giorno mi chiese: «Secondo te Springsteen scrive
dei buoni testi?»

Risposi che lo consideravo un ottimo poeta da canzone.

Fabrizio replicò: «E allora perché si agita tanto sul palco?»

La Fado, dopo un po’, chiuse i battenti e per sei lunghissimi anni non riuscii
più a incidere un disco. Porte chiuse, serrature blindate, bocche cucite.
Sembrava ci fosse un arcano potere che faceva slittare i contratti all’ultimo.
Nonostante tre buoni album e le canzoni scritte con Fabrizio, mi sono
ritrovato senza contratto, senza possibilità di lavorare ed ero un fiume in
piena: dal ‘76 all‘83, con in mezzo un anno di militare, avevo composto tre
album miei e due album a metà con Fabrizio De André: Rimini e L’Indiano,
più un 45 giri con «Una storia sbagliata» e «Titti». E la discografia
ufficia97
le non riteneva nemmeno di pubblicarmi. Credo che da lì cominciò a
rompersi qualcosa.

Ti sei mai chiesto perché?

Sì, e mi sono risposto. Mi trovai a fare i conti con un muro di stupidità,


usando un eufemismo, cosa che avevo avuto la fortuna di evitare fino ad
allora. Ho resistito sei anni e ho continuato il mio percorso piuttosto
solitario. Da dire con certezza c’è che non fui molto aiutato.

In quegli anni, “cantautorale” divenne un termine spregiativo, anche se io


non mi identificavo molto nella categoria classica.

A un certo punto pensai di smettere. A ventotto anni mi sentivo finito.


Ricordo che Amilcare Rambaldi, patron del Club Tenco, un giorno mi
disse: «Sei bravo, ma lascia stare quella chitarra elettrica». Nel 1965, Dylan
andava al festival di Newport con una band elettrica e faceva la rivoluzione
francese; noi, dieci anni dopo, in Italia eravamo ancora al Congresso di
Vienna.

Pensi di aver sbagliato qualcosa anche tu?

Certamente. Sono uno scrittore di canzoni, non un diplomatico. E credevo,


e credo ancora, che la mia scrittura mi consentisse di non dover fare troppi
inchini. Poi sono convinto che la dignità per chiunque e soprattutto per un
autore che vuole avere qualche prerogativa morale, non abbia una scadenza
come il latte.

Cosa facevi per sopravvivere?


98
Varie cose. Tra cui l’autore, il copywriter e un po’ di giornalismo.

Tornaste a lavorare insieme per «Don Raffaè».

Dopo otto anni. Fu una canzone molto lenta a nascere.

L’idea fu di Fabrizio. Condividevamo l’amore per Napoli, le sue storie, i


suoi scrittori. Durante le registrazioni de L’indiano ascoltavamo col
walkman, nelle pause e no, le prime commedie di Eduardo in cassetta
audio: ricordo Natale in casa Cupiello, Non ti pago! e De Pretore Vincenzo.
Parlavamo tra noi, per puro divertimento, una specie di slang napoletano.

Fabrizio mi confidò la storia che aveva in mente e cominciammo a


svilupparla. Quell’estate andai alle isole Tremiti.

Scoprii, dopo poco, che le isole erano state un bagno penale per i confinati
politici del regno delle Due Sicilie e i carcerieri, che furono per anni gli
unici abitanti delle isole, erano tutti napoletani, per questo si parlava
napoletano pur essendo geograficamente, le Tremiti, in Puglia e
amministrativamente, mi sembra, oggi, in Molise. Parlavano un napoletano
antico e molto gradevole. Tre erano i principali nomi dei discendenti dei
carcerieri: Scognamiglio, Scotti e Cafiero.

Cafiero si prestava meglio degli altri nomi alla rima: era perfetto con
«brigadiero» per esempio. Il nome, Pasquale, lo scegliemmo per rimare con
Poggioreale. Don Raffaè, invece, era il nome del sindaco del quartiere
Sanità nella omonima commedia di Eduardo. Scrivemmo più strofe di
quante alla fine sopravvissero, ricordo che ce n’era una su Ciro Cirillo:
«Qua non passa nemmeno uno spillo / né un Ciro Cirillo». Poi la
eliminammo perché quell’episodio era ancora gravato di troppe ombre e
trasversalità.
99
Dove l’avete scritta?

Nella fattoria de l’Agnata. Ci andai per un paio d’anni nei mesi di aprile e
maggio. Partivo da Verona con la mia vecchia moto Bmw, prendevo il
traghetto a Livorno e sbarcavo a Olbia. Ho scritto una poesia di viaggio al
riguardo e l’ho recitata nella raccolta di poesie musicate che ho pubblicato
col titolo di Neve sugli aranci.

Conoscendo le abitudini di Fabrizio, rispettavo i suoi tempi, scrivevo


quando era il momento di scrivere e poi andavo in giro per l’isola.

Fino all’ultimo Fabrizio aveva dei dubbi sulla canzone: «Secondo te fa


ridere?» Risposi che non era una barzelletta, ma faceva sorridere e riflettere,
senza retorica. Per fortuna lo convinsi. E il brano divenne, nel tempo, una
specie di inno.

Era leggero, ma in senso calviniano, di una leggerezza pensosa. La versione


originale di Fabrizio, a ritmo di tarantella, sembra uno sberleffo, uno sfottò,
ricorda quasi Totò (mi tornano in mente anche i movimenti di Massimo
Ranieri quando la cantò in uno dei tanti omaggi a De André, che facevano
dichiaratamente il verso al principe De Curtis). Fatta invece a blues, come
nella tua versione nell’album Amore e guerra o nella raccolta live de II
cavaliere elettrico, diventa drammatica, più vicina a un film di Jim
Jarmusch, per fare un esempio cinematografico.

Fabrizio ha giocato di ironia e sarcasmo, avvicinandola a «Bocca di rosa».


Io ho provato a farla in bianco e nero. Si sentono i rumori delle porte che
sbattono, dei cucchiai sulle 100

sbarre, l’atmosfera si fa greve. L’ironia si stempera nel dramma, quando,


nella versione di Fabrizio, è il dramma che si stempera nell’ironia.
Mi ricordo i racconti di un mio amico, finito a San Vittore per problemi di
droga. Lo misero in cella con un capo-mafia. Mi raccontava che questi
girava in vestaglia di damasco e foulard, come fosse al Grand Hotel. Che
aveva servitori e maggiordomi tra i detenuti e in più la deferenza di molte
guardie carcerarie. Ordinava tutti i venerdì una cena di pesce in uno dei
migliori ristoranti di Milano e la offriva alla sua corte. La realtà superava il
cinema: ti ricordi del film Quei bravi ragazzi di Scorsese?

Sapevi della malattia?

Un pomeriggio ero andato a trovare Fiorella Mannoia, prima di un concerto


sul lago di Garda. Il suo impresario di allora, che era lo stesso di Fabrizio,
ricevette una telefonata. Era il tour manager di Fabrizio. Diceva che
Cristiano, nel massaggiare suo padre, che aveva male alla schiena, gli aveva
incrinato un paio di costole. Dopo qualche mese cominciarono a circolare le
voci della sua malattia. Ma erano voci. Si sapeva tutto e non si sapeva
niente. Non gradiva ricevere visite. Solo verso la fine fu chiaro che lo
stavamo perdendo.

Quando hai saputo della sua morte?

Mi chiamarono dalla Rai di Venezia. Mandarono una macchina a


prendermi. Ricordo in quel viaggio di aver riconosciuto l’attimo in cui la
vita cambiava e nulla sarebbe più tornato come prima.
101
Ai funerali di Fabrizio erano in trentamila. Si era mobilitata una città e,
almeno spiritualmente, un intero paese.

Quando una società si alza dal letto per salutare un poeta significa che è una
grande società. Perché, allora, siamo nella merda?

Perché viviamo di poca poesia. Siamo distratti e stupiti.

Quando muore un poeta, ci rendiamo conto che con lui è volato via
qualcosa di prezioso che ci apparteneva, e allora ci sentiamo orfani e
derubati. Così accorriamo al funerale pensando che sia anche un po’ il
nostro, perché con lui è morta anche una parte di noi. Poi torniamo alla
nostra vita quotidiana con le orecchie tappate, come quando si scende da
un’alta montagna.

Fabrizio ha saputo coniugare poesia popolare e poesia letteraria, anche se


non mi piace usare questi termini in contrapposizione. E ha avuto il
coraggio di rischiare, di mettersi sempre in gioco, di cambiare, di gettare
tutte le medaglie per una nuova impresa. Al suo funerale, quello che mi ha
colpito di più era la commozione di persone così diverse tra loro, per età,
cultura, provenienza sociale, uniti tutti dallo stesso sguardo smarrito e
incredulo.

Però poi, una volta a casa, ricomincia il banale. Come cantavano Loy e
Altomare, «la vita scorre liscia e piatta».

Se qualcuno cercasse una prova, basterebbe constatasse l’impoverimento


progressivo del nostro linguaggio. Quando ero ragazzo ginnasiale, sul finire
degli anni Sessanta, ricordo bene la voglia di scoperta che avevamo, la fame
di politica, la tensione dei sogni, la voglia di chitarre e libri.

Esistevano in circolazione pochi libretti di traduzioni di 102


testi, ma ognuno di noi si dannava l’anima per capire cosa dicessero nella
loro lingua i musicisti stranieri, che noi consideravamo dei poeti. E ricordo
che negli anni Settanta anche le persone più umili conoscevano
«L’avvelenata» di Guccini, «Il pescatore» di De André o «Rimmel» di De
Gregori. Oggi, invece, ti può capitare di sentire un professore universitario
cantare il tormentone del momento.

La colpa, come già preannunciava Pasolini trent’anni fa, è principalmente


della televisione, che ha creato un nuovo misero slang, impoverendo,
sciacquando, scaricando, sporcando, rimpicciolendo il linguaggio dei
sentimenti.

Con la varietà di termini che ha la lingua italiana, con la ricchezza lessicale


che ci può offrire, siamo ridotti a usare pochissimi aggettivi e moltissimi
diminutivi. Nell’epoca dell’animino tutto è diventato carino. Possibile che
non esistano altri aggettivi? Possibile che sia tutto carino, dal barboncino
della signora del terzo piano fino alle cattedrali gotiche?

77 ricambio generazionale ha accusato qualche colpo a vuoto. I ragazzi


delle ultime generazioni accorrono ai concerti di De Gregori, Guccini e
degli altri cantautori storici, ma quelli che imbracciano una chitarra si
muovono su altri suoni. Per questo non si vedono all’ orizzonte gli eredi di
De André e degli altri cantautori. Ho tuttavia il sospetto che sia anche colpa
dell’ambiente. Ci sono molti giovani di talento, solo che faticano ad arrivare
per mancanza di spazio.

Gli artisti sono come i batteri: sono sempre nell’aria, solo che attecchiscono
quando trovano un ambiente favorevole.

Una concentrazione di artisti così importanti nel Rinasci103

mento italiano era legata indissolubilmente a un’altrettanto importante


committenza.
Tutti i maggiori esponenti della canzone d’autore hanno conosciuto la
consacrazione dopo qualche disco e qualche errore. Oggi, se sbagli il primo
disco, rischi di non fare il secondo; se inciampi anche sul secondo puoi star
sicuro che devi cambiare mestiere.

Oggi non ci sono più Nanni Ricordi, Roberto Danè, Ennio Melis, Lilly
Greco e Gianni Sassi, che erano la committenza. Persone con cui potevi
parlare di letteratura e di musica, personalità forti con cui ti confrontavi
anche duramente. Ti scontravi, litigavi, ma almeno erano interlocutori veri.

E gli artisti, sapendo che non possono permettersi di sbagliare, accettano i


peggiori compromessi e finiscono per snaturare le loro proposte. Il risultato
è che i dischi che entrano in classifica o che ascolti in radio vengono ad
assomigliarsi molto.

Quando uscì Rimini, tutti lo considerarono un album molto popolare, oggi


tutti i discografici lo giudicherebbero un album difficile. Difficile è un
marchio d’infamia, significa che non ci saranno investimenti e che non ci si
deve aspettare molto. Di recente sono andato a vedere La dodicesima notte
di Shakespeare. Dopo venti minuti di commedia, metà della gente non
capiva più nulla. Dopo quaranta qualcuno cominciava a uscire.

Però quattrocento anni fa, quando Shakespeare metteva in scena questa


commedia davanti a un pubblico ultrapopo104

lare di macellai, maniscalchi e ciabattini, tutti capivano perfettamente la


trama e le battute. E così Le nozze di Figaro di Mozart, l’opera buffa in
quattro atti su libretto di Lorenzo Da Ponte. È una trama che oggi sarebbe
giudicata complicatissima, piena di equivoci e fraintendimenti, con a volte
due gruppi di cantanti sulla scena che cantano a più voci
contemporaneamente testi diversi. Un’opera, per di più, cantata in italiano e
rappresentata la prima volta a Vienna, eppure compresa perfettamente dalla
piccola borghesia austriaca, che capiva bene la nostra lingua anche quando,
come in questo caso, era aulica e piena di riferimenti mitologici.

Cos’è il difficile allora se non un concetto cangiante nel tempo e una parola
terroristica usata da mediocri direttori artistici, chiamiamoli così, per
avallare la loro mediocrità poco aurea, e ottundere ancora di più il gusto e il
cervello della gente?

Perché all’ estero vivono una situazione migliore della nostra?

Secondo me perché si sono costruiti meno alibi e nella discografia c’è gente
che ha più cultura generale e più preparazione in particolare: in molti paesi
europei hanno mantenuto libera una corsia per la canzone d’autore, senza
considerarla merce fuori mercato o difficile. Molti grandi artisti, non solo
nord europei, hanno saputo, sulla conoscenza del folk e della tradizione
musicale popolare, costruire un suono nuovo e plausibile, mentre da noi chi
recupera il patrimonio folclorico finisce per essere considerato artista di
nicchia tra le nicchie.

Le radio alternative, anche negli Stati Uniti, non sono, 105

come da noi, marginali. Quando ero ragazzo, c’erano tre radio di stato che
trasmettevano quattrocento artisti; oggi ci sono quattrocento radio che
programmano sì e no trenta canzoni al mese nelle loro prestigiose playlist.

Non credi che oggi, intorno a De André, ci sia molta agiografia, forse
troppa? Intendiamoci: meglio così. Però credo che Fabrizio sarebbe il primo
a stupirsi e, forse, a seccarsi, di questo processo di beatificazione. Per quel
che ho conosciuto di lui, preferirebbe che la gente si occupasse delle
canzoni più che del suo autore.

C’è una certa bulimia deandreiana, inutile negarlo. E

questo ingenera confusione, e soprattutto disinformazione: tutti parlano di


tutto, ma pochi sanno di che cosa. Poi ci sono super lacchè, che considerano
Fabrizio il più grande poeta italiano dopo Dante e Petrarca.

Gianni Brera diceva che gli italiani, per ragioni etniche e storiche, vanno
sempre in soccorso del vincitore. La morte ha fatto di Fabrizio ancora più
un punto di riferimento e in negativo ha creato un vero carro-mercato di
opportunismo.

A Fabrizio non sarebbero piaciute queste beatificazioni.

Ho visto di recente i film sulla vita di Johnny Cash (Walk The Line) e di
Ray Charles (Ray) - aggiungerei anche il documentario di Martin Scorsese
su Bob Dylan (No Direction Home) - e in nessuna di queste pellicole si
cerca l’agiografia, l’apologesi, o Padre Pio, sono film dove esce anche un
po’ di verità. Fabrizio non aspirava all’onore degli altari, semmai preferiva
le voci e il chiasso delle strade.
106
Bello e curioso che Fabrizio sia risultato un vincente pur essendosi sempre
occupato di perdenti o, come li definiva lui, di anime salve, dimenticate,
emarginate, perdute.

In Italia c’è la cultura dell’apologesiposi mortem e non solo nell’arte. Per


esempio la caratterizzazione bizantina dei santi ritratti nella basilica di
Sant’Apollinare in Classe a Ravenna non evidenzia più i tratti fisici, i
lineamenti del volto, gli occhi, la bocca sottile o carnosa, come accadeva
nel mosaico realistico romano: nel mondo cristiano orientale, acquistando la
santità, i santi divenivano tutti uguali, perdevano le sembianze umane che li
caratterizzavano, li distinguevano soltanto cambiando loro i nomi sopra la
testa.

Nel mondo anglosassone invece nessuno s’indigna se si evidenziano i limiti


di una persona, i difetti, i vizi, perché non vanno a nocumento dell’artista.
Leggevo la postfazione della vedova di Dylan Thomas, a una biografia sul
marito, in cui essa si complimentava con l’autore del libro, ma si lamentava
perché lo stesso aveva posto poco l’accento sull’alcolismo del consorte.

Quando esce qualcosa di utile su Fabrizio sono molto felice, anche se è


inevitabile, vista la mole di libri usciti su di lui, che alcune pubblicazioni
non mi siano piaciute.

Credo che l’inutile sia dannoso, soprattutto quando leggo cose fantasiose e
improbabili ricostruzioni di canzoni che conosco bene per averle scritte.

Salomonicamente firmavamo a metà le canzoni nel testo e nella musica,


però non si può dividere un bambino in due. Alcune cose erano più mie che
sue, altre volte capitava il contrario, ma a noi non interessava capire a chi il
bambino appartenesse di più. Il bilancino del farmacista 107
non trovava posto sul nostro tavolo di lavoro. Però se ho firmato a metà le
canzoni con Fabrizio, credo che ci sia stata una ragione, che dici? Anche se
c’è al riguardo molta disinformazione sui tanti collaboratori di Fabrizio e
qualche tuo collega, particolarmente zelante, sia addirittura negazionista.

Ho visto in questi anni spiegazioni veramente esilaranti, soprattutto su


Internet. Ho letto, per esempio, interpretazioni di «Sally» da far
accapponare la pelle, dove la descrivono come una dea lunare o come una
proiezione femminile di Fabrizio, una sorta di alter ego di sesso diverso.

Così facendo, si tramandano errori e distorsioni, si dà spazio alla creatività


degli imbecilli che è perniciosissima, soprattutto se si credono depositari del
verbo.

Qualche anno fa, per esempio, ero ospite di Gigliola Cinquetti a Raisat. Con
me c’era anche uno dei suoi tanti biografi. La Cinquetti gli domandò se
Fabrizio fosse religioso. La risposta fu secca: no, non era interessato. Io,
cattolico, che avevo passato le notti e a discutere di questioni religiose con
Fabrizio, che si definiva più agnostico che ateo, trovai un po’ riduttiva e
spiccia la risposta. Perché Fabrizio aveva una tensione e una problematica
religiosa vera. Certo, non era un credente in senso stretto, ma era fortemente
attratto dalla figura per esempio di Cristo, come testimoniano La buona
novella e altre sue canzoni sparse dimostrano.

Era possibilista, anche se partiva dal fronte opposto.

Voi, così diversi su questo tema, come conciliavate le divergenze religiose


quando lavoravate insieme?

Io tentavo di trasmettergli le mie convinzioni e le mie speranze. Lui


ascoltava e poi rivedeva, dando altre chiavi di 108

lettura. Arrivavamo infine allo stesso punto, come due soldati che
combattevano la stessa guerra da fronti opposti e scalavamo la montagna
dai lati contrapposti. Però, in cima ci si pacificava. Fabrizio aveva una
mente aperta e curiosa e non rifiutava mai il dialogo e la discussione. Ci fu
un periodo in cui leggevo il De Civitate Dei di Sant’Agostino, lui si
incuriosiva e commentavamo qualche passo assieme.

Fabrizio aveva una grande ammirazione per Sant’Agostino e per Tommaso


Campanella. Eravamo entrambi grandi ammiratori delle Sacre Scritture,
fonte inesauribile di riflessione e di poesia.

Hai qualche rimpianto o rimorso?

Rimorsi direi di no, semmai il rimpianto è di non averlo frequentato di più


in certi periodi in cui lo sapevo malinconico, visto che riuscivamo a ridere
con molta facilità assieme, perché il principio dell’umorismo e della poesia
è lo stesso, cogliere un particolare oppure un paradosso nelle situazioni o
nelle persone che sfugge ai più.

Non hai il rammarico di non essere riuscito a smuovere V apatia dei fan di
Fabrizio, a farli diventare più curiosi di te? Se io leggo che un regista che
amo ha lavorato a lungo con un aiuto regista o uno sceneggiatore, mi viene
V impulso di andare a vedere che cosa ha combinato questo aiuto regista o
questo sceneggiatore nel prosieguo della sua carriera. Senza togliere nulla a
nessuno, ma quantitativamente almeno, sei stato il più importante
collaboratore di Fabrizio, perché hai scritto testi e musiche di due album,
oltre a «Don Raffaè».
109
Mi dispiace che qualcuno non avverta questa curiosità, perché credo sia la
spinta primaria alla conoscenza e quindi a un progredire della vita.

Quanto Veneto c’è nel tuo sangue e nel tuo rock?

È come la tua piemontesidad: aumenta con il passare degli anni e ne scopri


continue influenze giorno dopo giorno. Sono nato a Terrazzo, un paesino di
campagna nella profonda pianura, in provincia di Verona. Provengo da una
famiglia patriarcale guidata da mio nonno e composta da sei famiglie. Mio
padre era l’unico ad aver studiato, insegnava e credeva nel valore della
parola. La domenica si mangiava seduti attorno a un lungo tavolo che
radunava zii, cugini e parenti vari. Se è vero, come dice Sciascia, che noi
siamo il prodotto dei nostri primi otto anni di vita, io posso dire di aver
ricevuto un felice imprinting che ricorre spesso nelle mie canzoni. In «Coda
di lupo», per esempio, dico: «Quand’ero piccolo m’innamoravo di tutto
correvo dietro ai cani e da marzo a febbraio mio nonno vegliava sulla
corrente di cavalli e di buoi». Lo vedo ancora mio nonno, con la sua
nidiata di nipoti - quattro nati nel mio stesso anno e altri sei di uno o due
anni più vecchi - vegliare su di noi e sui suoi animali e raccontarci storie,
mentre io m’innamoravo di tutto, dei cani e delle vigne, delle fioriture e dei
nidi, dei canali e dei fienili. La stessa immagine ricorre anche ne «I venti
del cuore», che ho scritto per Fiorella Mannoia e contenuta nell’album
treni a vapore, dove dico: «Quanti bimbi e cani aveva intorno / e che
chiasso di colori al tramonto». Uomo burbero e dolce, mio nonno. Il premio
per noi bambini era andare a dormire con lui. Mi insegnava 110

molte cose importanti come pescare o individuare i nidi degli uccelli e


riconoscerli dal canto.

Da piccolo ricordo che tutto il paese o cantava o fischiava. Tutte le donne


cantavano mentre facevano i lavori di casa, gli uomini invece fischiavano
mentre lavoravano i campi, e così il fabbro, il mugnaio, il ciabattino. Mia
madre cantava le canzoni moderne di Sanremo. Nilla Pizzi, Jula De Palma,
Wilma de Angelis, Natalino Otto. Io andavo da una cappellaia che teneva i
bambini mentre faceva i cappelli e cantava filastrocche - non esistevano
ancora gli asili nido - e anche lei passava tutto il tempo a cantare,
soprattutto piccole filastrocche come Volta la carta. Ma la grande forza della
musica mi colpì qualche anno dopo.

Ricordo che era la grande festa di fine trebbiatura. Dopo che la gente aveva
mangiato e ballato, mentre le donne rassettavano, i musicanti con chitarra,
violino, mandolino e fisarmonica si riposavano un po’ e bevevano qualche
bicchiere, poi cominciavano a intonare lentamente e con molta
compunzione le canzoni della prima guerra mondiale. Tutti gli uomini
presenti, vecchi e giovani, ormai piuttosto ebbri, cantavano guardando
avanti come se vedessero nella notte oltre l’aia, verso i campi, le immagini
terribili di guerra che non riuscivano più a cancellare dalla loro memoria. E
lì vidi per la prima volta mio nonno piangere. Rimasi molto colpito dalla
forza di commozione che poteva avere una canzone. Avevo sempre creduto
che gli uomini non piangessero, soprattutto i capifamiglia e i patriarchi. E
mio nonno, che era la trave portante di tutte le nostre famiglie, non aveva
pianto nemmeno quando si erano bruciate le stalle.

Nemmeno quando mio zio non era tornato dalla guerra, nemmeno quando
mio padre tornò che sembrava un fanta111

sma di quaranta chili, malato di tifo petecchiale. Persino nei momenti


tragici, mio nonno manteneva il controllo delle emozioni, almeno davanti a
noi e al paese. Forse l’unica era mia nonna che l’aveva visto piangere o
sacramentare.

Mio nonno attaccò a cantare «Monte Canino». A metà canzone le lacrime


gli avevano ormai coperto gli occhi, chinò improvvisamente la testa e si
schiacciò il cappello sulla faccia. Poi si alzò di scatto buttando giù la sedia
di paglia e andò a pisciare nel buio della campagna in fondo, sotto al suo
noce preferito.
In quell’occasione compresi la forza evocativa della canzone: era in fondo
l’unica cosa che riusciva a far piangere mio nonno.

Sono cresciuto così, pensando che la musica era molto più forte del cinema,
perché al cinema piangevano solo le donne, mentre le canzoni facevano
piangere gli uomini. Mi sono nutrito di letteratura orale, di storie e
leggende, di vita vissuta e tante favole. Ho avuto ancora la fortuna di
partecipare ai filò.

Di cosa si trattava?

Ci si riuniva nelle stalle più grandi del paese, nelle serate d’inverno.

Le donne cucivano, i bambini giocavano, gli uomini lavoravano il cuoio per


i finimenti o intagliavano legna per piccoli oggetti. E qualcuno si alternava
a raccontare.

Narrava storie appassionanti, paurose e commoventi davanti a cui rimanere


incantati. E così passava la sera e i nostri genitori ci pojtavano a letto già
addormentati.
112
Parliamo di canzoni di guerra. «Era una notte che pioveva» rientra nella
stessa categoria de «La guerra di Piero»?

Direi di no. L’impianto è simile, ma «Era una notte che pioveva» è stata
sicuramente scritta da un illetterato, probabilmente un contadino che faceva
il soldato. È il frutto di una poeticità non scelta e non necessariamente
voluta. Si limitava a descrivere i fatti e i sentimenti del soldato, non aveva
intenzioni letterarie, semmai di creare solidarietà.

«La guerra di Piero» è stata scritta invece da un giovane autore di canzoni


di talento, e ha dei momenti poetici evidentemente cercati e voluti. C’è
poesia in entrambe, solo che una è inconsapevole, l’altra consapevole.

C’è un altro aspetto. Le vecchie canzoni di guerra non sono mai


dichiaratamente pacifiste. C’è raramente la protesta o la ricerca di un fine
politico. Più che altro manifestano una sorta di rassegnazione per un destino
che era più duro in guerra, ma era difficile anche a casa. Un destino di
miseria, di fatica e di sacrificio. Queste canzoni si limitano a descrivere i
fatti, a raccontare le privazioni, i tormenti, le nostalgie, l’amore per la
morosa, la morte che incombe.

«La guerra di Piero» segue volutamente un percorso.

Fabrizio ne era consapevole e cercava di incidere su di un’emotività


collettiva.

Poi l’altra differenza sostanziale è che chi ha scritto «Era una notte che
pioveva» ha vissuto e fatto la guerra. Fabrizio invece ne aveva una
percezione e una conoscenza indiretta, per quanto aiutata dalla sua
sensibilità.

Perché parli spesso di guerra?


113
Perché sono le mie radici. Un mio prozio è morto sul Grappa, un altro sul
monte Pasubio. Mio nonno parlava spesso della prima e mio padre della
seconda guerra mondiale. «Era una notte che pioveva» è la prima canzone
che ho imparato da mio padre. Quando si andava in viaggio in macchina, si
cantava dal primo all’ultimo chilometro.

Tutte canzoni così, alcune laceranti come «Il testamento del capitano», che
tutti conoscono con il titolo «Il capitano della compagnia», dove il capitano
che sta per morire divide in cinque pezzi il suo corpo e ordina ai suoi alpini
senza scarpe di consegnarli alla patria, al battaglione, alla madre, alla bella,
l’ultimo alle montagne. «Monte Canino», che ha un testo bellissimo («se
avete fame guardate lontano se avete sete la tazza alla mano che vi disseta
la neve ci sarà»); «Bombardano Cortina» e «Sul ponte di Bassano», oppure
brani più leggeri come «Ohi, Angiolina». Mio padre ci infilava sempre
«Vecchio scarpone» o «Dammi o bella quel fazzolettino» e mia madre «Chi
gettò la luna nel rio».

Si cantava anche sui pullman e mentre si camminava, durante le gite in


montagna. Più le canzoni erano tristi e tragiche, più erano popolari. E c’era
sempre qualcuno che si soffiava il naso dalla commozione…

Mio padre diceva che anche da soldati si cantava sempre mentre si


marciava.

Al tuo prozio morto sul Grappa, hai dedicato «Rosso su verde». È


Ïadattamento di una lettera d’amore che gli ritrovarono addosso, sporca di
sangue.

A quei tempi i rapporti epistolari amorosi non erano ben visti nel mondo
contadino, così questo mio prozio manda114

va le lettere alla cugina, mia nonna, che poi si premurava di recapitarle


all’interessata. Ma quest’ultima lettera gli venne trovata addosso e mia
nonna evidentemente non ebbe cuore di darla all’interessata e se la tenne
con sé, poi, quando morì, la passò a mio padre e mio padre poi a me.

Tuo padre è stato eroe partigiano. A ventidue anni è tornato dalla guerra con
il tifo petecchiale. La sua nave fu bombardata nel tratto fra Durazzo e Bari e
arrivò a casa vivo solo perché un suo amico, un paesano, se lo portò su una
carriola per lunghi tratti, e poi in treno o su un carretto. Tornò a casa che
pesava quaranta chili. Per lui hai riadattato «Eurialo e Niso».

Mio padre amava molto gli autori latini, specialmente Virgilio e Orazio.
Virgilio ha inserito la storia di Eurialo e Niso ne\VEneide. Orazio nella sua
Ars poetica, più di duemila anni fa, afferma che tutte le trame erano già
state scritte, ma si poteva scrivere qualcosa di nuovo trattando i fatti con
altro stile e diversa sensibilità. La storia di Eurialo e Niso gli piaceva molto.
È la storia dell’amicizia tra Eurialo e Niso, giovani soldati troiani,
compagni di Enea, che compiono un’incursione notturna per avvisare il loro
re di un’imboscata. Fanno grande strage di nemici ubriachi e addormentati,
ma il più giovane, Eurialo, è ingordo di saccheggio e lo tradisce la vanità di
indossare un elmo particolarmente splendente catturato a un nemico. La
luna riflettendosi sul cimiero lo tradisce a sua volta, e lo fa scoprire dai
nemici che intanto erano usciti alla ricerca dei due. Niso, vedendo l’amico
circondato e perduto, abbandona il nascondiglio e cerca invano di salvarlo,
immolandosi per l’amico. È una storia così potente 115

e universale sulla fedeltà dell’amicizia che ho voluto riambientarla nella


seconda guerra mondiale e in particolare nella lotta di resistenza.

La storia di Eurialo e Niso è stata poi ripresa da molti e trasformata. Tra i


tanti, anche l’Ariosto nell’Orlando Furioso, dove i due protagonisti
assumono i nomi di Cloridano e Medoro. Il senso dell’arte e della
letteratura è questo: tramandarsi nell’ eternità con abiti diversi?

Quando avevo vent’anni pensavo di poter inventare qualcosa, come se ogni


canzone fosse per me un new morning, un nuovo giorno che si annuncia.
Crescendo e ampliando la conoscenza di tante ballate e canzoni, capisci che
non fai altro che riprendere il percorso lasciato da altri, affrontando
tematiche già affrontate, ma in modo nuovo e con le armi del tuo tempo e
dei tuoi anni.

C’è uno scrittore a cui fai più riferimento che altri?

Lo hai fatto notare tu: Shakespeare, senza ombra di dubbio. Quand’ero


ragazzo, con i compagni di liceo, una volta abbiamo fatto una di quelle
interminabili discussioni estive, quando c’è vino, tempo e voglia, per
decidere chi fosse l’essere umano che più si era avvicinato a Dio. E
abbiamo convenuto alla fine che era William Shakespeare. Lui sì che è un
genio. Tra i tanti pregi, come l’avere inventato un nuovo linguaggio dei
sentimenti, è riuscito in quella che è la caratteristica principale di un
demiurgo, cioè creare personaggi più vivi e veri di tanti realmente vissuti e
che magari li hanno ispirati, personaggi che possiamo interrogare e che ci
possono rispondere ancora. Penso ad Amleto 116

o a Riccardo moa Lady Macbeth, a Prospero o re Lear.

Dobbiamo solo essere abbastanza silenziosi da ascoltare.

Anche Shakespeare, inevitabilmente, ha fatto riferimento ad altri.

Certo. Alla tragedia greca e alla commedia latina innanzitutto, però anche a
tanta letteratura e cronaca contemporanea. Però ha aggiunto molto di suo.
Nella musica questo procedimento di rifarsi alla tradizione e innestarla di sé
è consolidato. Mi viene in mente Eric Burdon, quando ha riinterpretato
«The House Of The Rising Sun», a Dylan, a Neil Young, a Pete Seeger e di
recente Springsteen nel riaffrontare e rivisitare un repertorio folk antico e
popolare.

Per fare un esempio che mi riguarda, nella canzone «La sposa del diavolo»
dal mio recente album Segreti trasparenti, ho riadattato una ballata scozzese
antica, riletta prima di me da molti tra cui Bob Dylan e Natalie Merchant.
Se una canzone resiste nel tempo è semplicemente perché è molto bella. La
musica riprendendo il paragone poesiaumorismo è come le barzellette: solo
le migliori attraversano gli anni e vengono ricordate e riprodotte. Dalla
notte dei tempi fino a una cinquantina d’anni fa, le canzoni venivano
selezionate naturalmente dalle persone e non dal gusto opinabile di qualche
famoso dj.

Fabrizio diceva di amare la lettura contemporanea e dissociata, dove si


univano Oblomov di Goncarov con Asterix. Sei anche tu così?

È come avere una cantina ben fornita. Se hai un bel brasato o un formaggio
impegnativo devi scegliere un vino 117

rosso importante; se hai invece del pesce o dei frutti di mare ci sono ottimi
vini bianchi. Ma ci sono anche vini poco impegnativi che sono perfetti per
uno spuntino magari di salumi freschi. La lettura notturna dipende dal tuo
stomaco e dal tuo spirito. Come letture del quotidiano, alterno la «Gazzetta
dello Sport», detta anche la Bibbia rosa, alla rivista «Medioevo» o alla
pagina letteraria del «Sole24 ore», poi c’è l’inserto «Tuttolibri» e lo
«Specchio» della «Stampa» che tengo su un tavolo da lettura tutta la
settimana. Ho una libreria nella camera da letto che considero come un
mobile bar. Certe sere mi servo un brandy, altre un gin&tonic e altre una
buona grappa, dipende dall’umore.

Quando ero in Sardegna con Fabrizio leggevamo ogni tanto in


contemporanea nella stessa stanza, soprattutto poesia. Per disturbarci a
vicenda, commentando un verso o prendere spunti per qualcosa da scrivere.

Vita, morte e miracoli è il disco con cui torni alla vita. È

il 1989. Sono passati quasi sette anni dal tuo Ip Massimo Bubola e otto da
L’indiano.

A farmi un nuovo contratto, dopo il lungo forzato esilio, fu Mara Maionchi,


direttrice artistica della Ricordi. Mi aveva prima fatto lavorare come autore
e produttore per Milva, per cui avevo scritto la canzone «Rapsodie gitane»,
poi per una cantante di blues italiana, Aida Cooper. L’album Vita morte e
miracoli fu prodotto da Claudio Dentés alla Psycho. Bella atmosfera, bel
gruppo di lavoro. Disco elettrico, con batterie molto potenti. A quei tempi
mi piacevano band come i Big Country e i Proclaimers. Non appena il disco
uscì, Mara Maionchi purtroppo lasciò la Ricordi.
118
Curiosamente, Vita morte e miracoli finì in una collana giapponese
intitolata «Mediterranea» e andò molto bene.

Un mio amico me ne portò una copia da Tokyo, con la mia biografia


tradotta in giapponese. Buffo. A parte questo, non successe quasi nulla.

Prima di arrivare a Doppio lungo addio passano altri cinque anni, che però
hai trascorso lavorando come produttore e come autore.

Lavorai per e con Cristiano De André, Mauro Pagani, Grazia Di Michele,


Gang, Kaballà, Massimo Priviero, Fiorella Mannoia e altri che adesso non
ricordo.

Come nasce «Il cielo d’Irlanda»?

Tutto nacque per caso, dal testo de «I venti del cuore».

Mi chiamò Piero Fabrizi, grande chitarrista e produttore di Fiorella. Aveva


una melodia e voleva che io ci mettessi un testo. È una cosa che avevo fatto
molto raramente. In genere ho sempre scritto testi su musiche mie. Però mi
interessava iniziare una collaborazione con Piero e Fiorella, una delle poche
interpreti italiane che non faceva sfoggio di bel canto, ma era sobria e si
preoccupava di arrivare nella maniera più diretta alla gente, scevra da
barocchismi vocali, che sono spesso figli della sottocultura musicale. La
melodia molto bella di Piero Fabrizi era, però, un sesto grado superiore di
metrica e aveva molto obblighi interni. Ci lavorai sopra parecchio tempo. A
Piero e Fiorella il testo de «I venti del cuore» piacque, così mi chiesero se
avevo altre canzoni da far loro sentire.

Portai una cassetta audio con alcuni brani registrati.


119
Volevo far loro sentire una ballata che mi sembrava adatta, ma infilai la
cassetta dal lato sbagliato. Premetti il tasto play e partì «Il cielo d’Irlanda».
Fermai immediatamente il registratore e dissi: «Non è questa!», ma Piero
Fabrizi, mi chiese : «Fammi sentire invece questa canzone fino in fondo».
Era entusiasta della ballata. C’era, però, un problema. Il disco di Fiorella, /
treni a vapore, era quasi terminato. Aveva avuto una gestazione lunghissima
e il coproduttore di Piero credo non fosse d’accordo a riaprirlo e rimetterci
mano. Piero ci credeva, però, a tal punto che decise di produrre il pezzo da
solo. Affittò un altro studio di registrazione e altri musicisti e registrò ex-
novo il pezzo, quasi tutto in diretta. Io e Piero facemmo i cori, assieme a
Fiorella.

Dopo un paio di tentativi con altre canzoni dell’album, «Il cielo d’Irlanda»
fu trasmesso dalle radio più importanti, che all’inizio erano restie a
trasmettere una canzone con un sound così decisamente folk. La canzone
invece decollò.

L’Irlanda era il tuo grande amore.

Mi ero innamorato dell’Irlanda attraverso film come La figlia di Ryan e


poeti come William Butler Yeats, poi c’erano Joyce con i suoi dublinesi e il
drammaturgo Samuel Beckett e il reverendo Jonathan Swift e poi la musica.

A metà degli anni Settanta ci andai la prima volta e ne rimasi incantato. In


quegli anni il turismo in Irlanda era praticamente inesistente, a parte
qualche inglese e qualche americano d’origine irlandese di ritorno.

Quella volta conobbi una anziana bella signora americana, a cui detti un
passaggio, che mi raccontò la sua storia.

Era tornata nel paese dei suoi genitori per morire nella 120
stessa casa dov’erano nati e che aveva ricomprato. Appena atterrata, aveva
noleggiato una macchina e, non abituata alla guida a sinistra e sotto la
pioggia, si era concessa un bel frontale col sottoscritto, per fortuna senza
conseguenze. Nacque un’amicizia.

L’Irlanda era un paese povero. Ricordo tanti bambini fare l’elemosina a


piedi scalzi ed eravamo sotto Natale.

Gli adulti nei paesini dell’Ovest avevano spesso i pantaloni con le toppe di
un altro colore e le scarpe sfondate dietro, ma era una cosa comune e
nessuno ci badava.

Quello che mi colpì molto, procedendo verso NordOvest e fermandomi in


luoghi affascinanti come Kenmare, Killarney, Letterkenny, era che nei pub
convivevano, l’uno fianco all’altro, vecchi e bambini, uomini e donne di
diverse estrazioni sociali. Erano luoghi pubblici, d’incontro, di svago e di
comunità. E si faceva spesso musica.

La gente era curiosa e mi chiedeva da dove venivo. Gli italiani erano rari e
spesso mi scambiavano per francese.

Le risate erano frequenti e il clima ameno, qualche pinta di Guiness


favoriva conversazioni alquanto improbabili e surreali.

Sopra il banco dei pub ricordo sovente la foto del Papa.

Tornai molte volte. Verso la metà degli anni Ottanta presi per la prima volta
il traghetto da Galway verso le isole Aran. Lì mi venne in mente il primo
verso della canzone: «Il cielo d’Irlanda è un oceano di nuvole e luce».

Il titolo è «Il cielo d’Irlanda», però tutti la chiamano «I cieli d’Irlanda». A


pensarci bene, è il titolo più giusto: un cielo così cangiante non può essere
figlio unico. Da blu cobalto diventa nero, da nero giallo oro, da giallo oro
poi grigio scuro e rosso come fosse una lasta di ferro arrugginita. E il clima
è come in alta montagna d’estate: le nuvole 121
viaggiano velocemente e cambia la luce e la temperatura in maniera
repentina.

Sei meteoropatico?

Credo come la gran parte delle persone, ma amo molto la pioggia sottile,
che mi mette di buon umore, come la neve quando ti sorprende la domenica
fuori di chiesa. O i temporali in mare aperto, ma anche il cielo veneziano di
Canaletto con quel lungo sfilare di nubi su fondo turchese e poi l’azzurro,
ipnotico cielo siciliano.

La canzone finii di scriverla a Urbino, m una casa ricavata da una torretta


dei Montefeltro dove ero ospite dello scrittore Andrea De Carlo.

La canzone successiva che hai scritto per Fiorella è «Camicie rosse».

La canzone ci era stata commissionata per una sigla televisiva.

Quando la cosa non fu confermata la scrissi lo stesso per mio conto, anche
se il lavoro preparatorio e di documentazione era stato fatto con Fabrizio.

Quando sentivo le canzoni su Jessie James o Billy the Kid o su Zapata o


Pancho Villa, invidiavo che esistesse in America una scrittura epica da
canzone che non era mai morta, anzi era viva e spesso rivisitata. Venivano
effettuate nuove versioni e riarrangiamenti di quei pezzi.

Indubbiamente Garibaldi era uno dei pochi eroi popolari conosciuti nel
nostro paese e non solo e avevo voglia di scriverci sopra qualcosa. Il taglio
non è apologetico, anzi parla di lui prima dell’avventura dei Mille, come di
una 122

persona sfortunata che non era riuscita a realizzare i suoi sogni in Sud
America, pur avendo combattuto per l’indipendenza dell’Uruguay e della
repubblica del Rio Grande do Sul in Brasile.

La storia di Garibaldi era anche la storia di un immigrato che era partito per
fare fortuna ed era tornato sconfitto.
«E a volte il coraggio è di ritornare I senza aver fatto fortuna dall’altra parte
del mare I per inseguire una stella I che gira e gira ti riporterà I a menare le
mani per la libertà».

Sono molto legato all’ultima strofa, perché mi sento vicino alla categoria
degli studenti e soprattutto dei sognatori: «Signora fortuna che brilli di notte
che ci prendi per mano e ci mostri le rotte proteggi questa flotta di studenti
e di sognatori / aggiungi al firmamento i nostri mille cuori».

Arriviamo a Doppio lungo addio.

Un disco felice e fortunato. Anche per merito di Piero Fabrizi che lo


produsse. È l’album in cui comincio a raccogliere i frutti di tanto backstage:
le produzioni, il lavoro come autore, le collaborazioni varie. È un disco con
molte canzoni che eseguo spesso dal vivo, come «Dostoevskij», «Ali
Zazà», «Niente passa invano», «Tutti assolti», «Il cielo d’Irlanda», oltre alla
title-track. Il video fu girato per strada a Milano, in tre piazze del centro,
con le macchine che ci giravano intorno.

Doppio lungo addio mi procurò anche molte importanti recensioni. La


rivista «Buscadero» fu entusiasta del disco 123

e questo mi dette molta credibilità. Molti dei fan che mi hanno seguito negli
anni successivi cominciarono a conoscermi, nonostante fossi già al sesto
album, da quella recensione.

Da lì è ripartita la mia carriera e finalmente anche l’attività live. La mia


prima band fu la Wha Wha Band.

Gli unici a non crederci sembravano essere i tuoi discografici.

La maggior parte dei discografici italiani, per mia esperienza, non sono il
massimo della lungimiranza. La Polygram lasciò cadere l’opzione. Il
contratto prevedeva un disco più un’opzione per gli altri due.
Mentre cercavo un’altra etichetta, produssi gli Estra, un interessante rock
band di Treviso. Il risultato, Metamorfosi, fu molto interessante e con
sonorità affascinanti. Ricordo che lavoravo con una decina di amplificatori
contemporaneamente per costruire suoni di chitarra sempre più densi e
inquietanti. Gli Estra, nelle liriche e nella musica, erano vicini alla nuova
onda di gruppi come gli Screaming Trees o i Pearl Jam, ma non successe
quello che si aspettavano, perchè avevamo intorno la solita gente di poca
fede.

Con la Cgd incisi poi Amore e guerra, un disco antologico registrato con la
Wha Wha Band che aveva suonato con me negli ultimi due anni. Fu un
album in cui rivisitai alcune mie canzoni storiche come «Fiume Sand
Creek» e «Quello che non ho», «Don Raffaè» e «Camicie Rosse», «Johnny
lo zingaro» ed «Eurialo e Niso». Ridando loro la veste che avevo sempre
immaginato. Fu un disco elettrico e ricco di profondità. Sentii che avevo
toccato una stazione importante del mio viaggio e che si era avverato un
sogno.
124
Mon trésor fu forse il tuo album più letterario?

In effetti ci sono canzoni come «Dino Campana», «Cuori ribelli», «Mio


capitano», «L’usignolo», «Mon trésor» che hanno ispirazione di tipo
letterario anche se non tutte strettamente. La canzone su Campana mi fu
ispirata da una biografia romanzata di Sebastiano Vassalli, «L’usignolo»
invece da un racconto di Poe, «Mio capitano» dal film La donna del tenente
francese. La canzone «Mon trésor» si rifa a una vicenda accaduta durante
l’occupazione napoleonica di Verona. È un lavoro in cui la storia minima
entra nelle ballate come se fossero state ispirate al momento dei fatti: una
serie di instant-songs. Con in più, in Cuori ribelli, la cronaca quasi in
contemporanea di un curioso episodio di un gruppo di cowboys texani che
si rinchiusero in una stamberga su una collina e proclamarono via Internet
l’indipendenza del Texas.

Poi arrivò Diavoli e Farfalle. // trittico iniziale «Ballata dei luminosi


giorni», «Emmylou» e «Capelli rossi» - dà la dimensione del disco. Per
molti è tra i tuoi album più belli.

La canzone che dà inizio all’album, la «Ballata dei luminosi giorni», è la


visione di un’umanità pacificata: «Oracoli e vampiri, demoni, streghe,
volpi, civette, geni, satiri, maghi, sibille, astronomi, osservano incantati il
cielo, leggendone gli accordi». È una grande affresco mitologico. Ci sono i
miti amorosi medievali: Isotta e Tristano, Eloisa e Abelardo. Ma i versi
finali sono per me come la sintesi estrema della fede: «Si può perdere tutto
senza aver mai rischiato niente / si può morire mille volte per vivere per
sempre».
125
Un’altra canzone alla quale sono molto legato è «Malinconie nascoste»,
dedicata a mio padre. A volte, quando voglio raccogliere canzoni e
conchiglie nuove e far riposare le ossa al sole, torno a «quegli odori di
menta e di fieno a quel pallido rumore che lascia il treno». E allora «lì
rivedo mio padre con i suoi scolari il sorriso che brilla nei suoi occhi
chiari».

Mio padre, quand’ero piccolo, qualche volta prendeva la bici, mi metteva


sul sellino e poi mi portava il pomeriggio a una scuola di un paese vicino,
dove per arrivarci dovevamo attraversare l’Adige su una chiatta. Lì teneva
una specie di doposcuola per contadini analfabeti.

Arrivavamo a scuola e io mi mettevo sotto il tavolone a disegnare e stavo lì


per un tempo interminabile, mentre mio padre parlava, scriveva alla lavagna
e sillabava in coro coi suoi alunni anziani.

Perché lasci la Cgd e crei una tua etichetta, la Eccher?

Era un rapporto faticoso e poco produttivo per entrambi.

Ti faccio un esempio: per l’album Diavoli e farfalle avevo in mente una


copertina in bianco e nero. Loro ne volevano una coloratissima, perché il
tormentone e la parola d’ordine ossessiva per i discografici era l’aggettivo
solare. Tutto doveva essere solarel

La casa discografica comunque non fece mai grandi investimenti su di me.


C’era stima, ma era una stima formale che veniva poco capitalizzata.

Così decisi che preferivo rischiare del mio e magari rimetterci dei soldi
piuttosto che sacrificare qualcosa del mio percorso. So che in questo lavoro
ci sono dei prezzi da pagare, ma preferisco che siano economici e non
artistici.
126
Arriviamo alla quadrilogia live, Il cavaliere elettrico.

Come sai bene, il titolo è opera tua. In un tuo articolo di commento a


Diavoli e farfalle mi definivi così.

L’appellativo lo trovai centrato, rappresentava bene il mio percorso. Decisi


che bisognava mettere ordine nella mia produzione, avendo cambiato
troppe case discografiche.

Inoltre, queste canzoni erano cambiate molto nel corso degli anni, perché
sul palco avevano acquistato nuove luci e soprattutto nuove ombre.

I concerti e i tour sono come lungo trekking che permette ai tuoi brani di
allenarsi e fortificarsi nel corpo e nello spirito; all’arrivo le canzoni avevano
un aspetto molto più sano di quello che avevano quando erano partite.

L’ultima tua scommessa è Neve sugli aranci.

Ho scritto molte poesie, nella vita. Alcune le ho buttate, altre sono rimaste.
Anche qui ha funzionato la selezione del tempo.

Qual è stato il tuo percorso poetico?

Intanto devo ringraziare ancora mio padre. Siccome da bambino leggevo


poco e di malavoglia, mi disse un giorno: «Ascolta, se non ti vanno i libri,
leggi le poesie, che sono più corte».

Geniale.

Sapendo che io ero portato per la corsa e volevo diventare un atleta, mi


diceva: «I poeti sono molto più affascinan127
ti degli altri letterati, perché sono gli scattisti della letteratura, sono i
centometristi; gli scrittori sono fondisti: bravi ma sulla lunga distanza». Io
gli chiesi: «E se non capisco quello che dicono le poesie?» «Vai avanti lo
stesso. E non farti troppe domande. La poesia non va smontata, va amata».
Citava Rilke, convinto che il modo peggiore per avvicinarsi alla poesia
fosse quello di voler decodificare tutto e subito.

Sono andato avanti a blocchi. Mio padre amava i tedeschi: Rainer Maria
Rilke, Friedrich Hölderlin, Georg Trakl.

Subito dopo i simbolisti francesi: Verlaine, Rimbaud, Baudelaire e


soprattutto Mallarmé. In seguito mi sono appassionato ai surrealisti:
Apollinaire, Breton, Paul Eluard. Da ragazzo poi ho scoperto Lorca e
Machado, prima ancora degli americani, incontrati spesso camminando
all’indietro, Robert Creeley, Edward Estlin Cunnings, William Carlos
Williams, Walt Withman. Un bel momento è stato quando ho scoperto che
ci poteva essere poesia anche nella prosa come in Gabriel Garcia Marquez,
Jorge Amado e Manuel Scorsa. Senza dimenticare gli altri americani:
Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, Peter Orlowsky e Alien Ginzberg,
oltre ai grandi poeti gallesi Dylan Thomas e Ted Huges.

Poesia italiana?

Poca.

Ci sono eccezioni, come Ungaretti, Saba, Zanzotto, Caproni e pochi altri.


La poesia in Italia ha vissuto grandi successi ma quasi tutti provenienti
dall’estero. Ricordo i francesi Rimbaud e Prévert, poi dal mondo arabo
arrivarono il libanese Kahlil Gibran e il persiano Omar Khayyam, poi 128

dall’America ci arrivarono i poeti della cosiddetta Beat Generation. La


nostra poesia è spesso stata retaggio di superletterati anemici e spesso
autoreferenziali.

Torniamo all’ultimo lavoro.


Nel caso di Neve sugli aranci, la scommessa era fare poesia utilizzando la
musica come colonna sonora e non come struttura metrica portante, come
accade nella forma canzone. Avevo le poesie poi ho creato dei fondi
musicali, perché il suono, al pari della parola, crea evocazione e immagini.
C’è una poesia dedicata a Virgilio, «Tempi migliori». C’è anche un
racconto irlandese dove ho dilatato «Il cielo d’Irlanda» creando un piccolo
saggio. E poi ci sono due canzoni sulla reverle, la reminiscenza, dove la
memoria ti segue e insegue, s’intreccia col tuo vivere dove ti lasci
accompagnare e anche sopravanzare dal ricordo delle persone che più hai
amato e che ti hanno influenzato.

Quando entro in una trattoria con i vecchi tavoloni di noce o di rovere e con
le tovaglie bianche di lino un po’

consunte, io mi sento a mio agio, poi penso che è perché mio nonno mi
portava in luoghi come quelli, ogni tanto, la domenica… Mio nonno si
levava il cappello, mia nonna cercava di sistemargli i capelli, dalla cucina
arrivavano i profumi del brodo e del ragù di fegatini di pollo.

Queste radici sono state la mia salvezza, quando c’era tempesta e il vento
tirava forte e contrario.

La mia famiglia non ha mai confuso intelligenza e cultura. Sapevano molto


anche quelli che non avevano studiato, ma sapevano cose diverse, che oggi
non sappiamo più. Le semine e i raccolti, i santi del calendario che
cadenzavano le decisioni per le coltivazioni. L’importanza della luna per
129

le semine, addirittura per il taglio dei capelli. Gli scongiuri e le offerte per
ingraziarsi la terra.

Sono orgoglioso di essere cresciuto in comunità e in quella cultura


contadina che ormai si è pressoché estinta.

Grazie a loro non ho perso la strada, anche quando la strada non c’era.
«I venti del cuore» era stata già incisa da Fiorella Mannoia, come abbiamo
detto.

Sì. Ci sono davvero tanti ricordi d’infanzia: i campi di lavanda, il glicine


che saliva fino al piano sopra, i capelli arruffati che sembravano nidi
d’aprile. Altrove ho inserito i fili di seta, le eliche di ceramica che erano gli
interruttori di una volta, le voci nei secchi come fossero megafoni, i
cavedani parlanti, i ragni galleggianti, i boschi di meli, gli argini dell’Adige
che curva lentamente dormendo come il Volga, il digerire di buoi e pioppi.
E i Colli Euganei che scomparivano lontano nella calura azzurra o nelle
nebbie fumose, per riapparire con le loro sagome da dinosauri dopo che
erano caduti giorni di pioggia.

L’arte in generale, dunque la poesia, la musica, la letteratura moriranno


mai?

Mai. Come diceva il nostro amico Leonard Cohen, il fascismo vincerà solo
quando riuscirà a comprendere fino in fondo i meccanismi della creatività.
Perché solo allora potranno essere bloccati. E allora sarà davvero la fine.

Che cosa ricordi più spesso di Fabrizio?


130
Quando andavamo a pescare alla traina sulle bocche di Bonifacio, tra
Sardegna e Corsica, in qualche bella giornata d’inverno. Lui si metteva la
giacca blu da portuale genovese e il suo berretto di lana con il pon-pon
rosso. Lo penso così con la barba un po’ lunga, in controluce sulla barca,
mentre coi denti tira la bava per serrare l’amo e poi si gira a guardare la
costa e cercare di scorgere la sua casa di lontano.

La cosa più buffa che ricordi di Fabrizio?

Mi colpivano sempre il suo stupore e la sua ingenuità. E

certe piccole fissazioni. Per convincersi che una canzone, oltre che bella,
sarebbe stata anche fortunata, si faceva fare i tarocchi da Dori. Meno male
che le carte hanno sempre letto bene il futuro.

Racconti

di

Massimo Bubola

/ pesci

Vicino a Porto Pozzo in Costa Smeralda c’era una piccola spiaggia deserta
quasi una laguna. Insieme ad alcuni amici di Fabrizio di Tempio Pausania
eravamo stati invitati a passare una giornata di festa.

Verso sera ci chiesero di tirare una grande rete verso riva.


Ci disponemmo una decina di uomini per parte, aggrappati a due grosse
funi a tirare questo enorme arco sul mare, convergendo una cordata verso
l’altra.

In questa specie di grande tiro alla fune potente e lentissimo, Fabrizio, che
era dietro di me, cominciò a parlarmi del senso magico e religioso della
pesca: «Guarda, sembriamo gli apostoli sul lago di Tiberiade!» e che, come
metaforicamente anche nella poesia, c’è sempre l’attesa di una pesca
miracolosa.

«Si gettano le reti il più aperte possibili su un punto profondo del tuo cuore
dove arrivano segrete correnti. Dopo un po’ devi tirare e ritirare con fatica e
dispendio. Non puoi sapere finché il cerchio non s’è chiuso, finché l’acqua
non ribolle stretta di brividi di schiuma, cosa verrà a galla. Se 135

mille piccole nuove parole dai riflessi d’argento o un unico enorme pesce
con in bocca una moneta d’oro. E devi imparare nel mezzo a distiguere
veloce, prima del tatto, i pesci velenosi che pungono, magari dentro una
massa maleodorante e oscura di alghe senza senso».
136
Le api

Arrivò un mattino di maggio, una vecchia Citroen sgangherata sullo spiazzo


davanti la fattoria. Ne discese un signore obeso e ansimante, strofinando sul
viso un fazzolettone sudato. Fabrizio mi disse all’orecchio che era un
pastore d’api e che portava in giro i suoi alveari seguendo via via le nuove
fioriture.

Salimmo con lui in macchina per andare a visitare alcune zone della
proprietà che si prestavano al pascolo.

Saliti sulla bollente vettura e ormai partiti, mi resi conto che c’erano un
centinaio d’api che volavano liberamente nell’abitacolo. Guardai Fabrizio
con una certa apprensione, lui mi sussurò sottovoce ridacchiando tra sé:
«Lasciati annusaree circondare e stai tranquillo, ma non guardare mai il loro
grasso padrone».
137

• fe

La chiave

Era il 25 di aprile di un anno verso la fine degli Ottanta.

Tornavo in Sardegna da Fabrizio alla fattoria dell’Agnata per la scrittura di


«Don Raffaé». La sera prima avevamo parlato fino al mattino rotolando da
Ermete Trimegisto e la letteratura esoterica alla botanica. Fabrizio s’era
alzato per farmi vedere fuori in giardino l’orgoglio di un piccolo faggio
canadese da poco arrivato e piantato al centro del prato illuminato. Eppoi
parlammo a seguire dei dogi di Genova e di Venezia. Il pollaio e la carenza
di calcio nel terreno. Quanto di Machado c’era in Lorca e di Yeats dentro
Dylan Thomas e di profeti biblici in Cohen e di tutto questo in Bob Dylan.
Avevamo discusso del campionato del Genoa, del Verona e dell’Inter. Dei
nuovo toro limusino che aveva acquistato. Dei Fenici in Sardegna e del
progetto del laghetto da creare bloccando il ruscello più a valle.

Era così venuta mattina e con Fabrizio salimmo in perlustarzione su verso


le stalle. Trovammo una mucca in crisi di parto, probabilmente il vitellino
era messo in posizione 139

contraria e non riusciva a uscire creando sofferenza a sé e alla madre.


Tornammo di corsa giù a telefonare, ma non si trovava un veterinario in
tutta la zona . Così Fabrizio andò sulla sua libreria a prendere uno dei libri
“utili” e cominciò a consultare le pagine in cui si descrivevano e
illustravano schematicamente tutte le possibilità di posizione dei vitelli nei
parti difficili e delle tecniche per estrarli. Con mio grande terrore gli chiesi
che intenzioni avesse e lui molto tranquillamente mi rispose: «Provare a
farlo nascere!» E dopo qualche secondo la sua fatidica e semplice domanda:
«Te la senti di darmi una mano?» Mi spiegò che non avevamo alternative se
non di perdere sicuramente figlio e probabilmente madre.

Tornammo su alle stalle con una lunga corda piatta di quelle che si usano
per le serrande.

Fabrizio ne passò un capo sopra una sbarra di ferro della stalla e l’altro,
entrando con un braccio nell’utero della vacca, intorno alle zampe del
vitello che erano a malapena in evidenza. Riuscimmo a estrarlo tirando con
calma e con forza verso l’alto. Poi tornammo in fretta a casa a preparare un
«colostro» artificiale, che seppi era il primo latte e serviva per disinfettare
lo stomaco e l’intestino del vitello appena nato e che la madre per
sofferenza non era in grado di fornirgli con la prima poppata . Mischiammo
così, in un bottiglione, tuorli d’uovo, latte e non so cos’ altro. Il vitello e la
madre alla fine si salvarono.

Mi rendo conto che può sembrare un episodio da pubblicità di qualche


amaro nazionale, ma quel subitaneo cambiamento da ore e ore di analisi
rilassate e speculazioni leziose a un’ ora di pratica d’emergenza, mi
colpirono profondamente in seguito e mi offrirono un’importante chiave di
lettura per comprendere cose di Fabrizio passate e che segui140

rono e l’idea della poesia popolare come di un’astrazione profondamente


concreta e di una velocità meravigliosamente lenta.
1
ii11
141
Quel cielo d’Irlanda

racconto irlandese

Le nuvole basse e lanose e veloci passano su Brandon Bay, nella penisola di


Dingle, la più a ovest d’Irlanda. Mandano fili di luce grigia e gialla
rivoltandosi su se stesse come rulli di ferro di un nastro trasportatore.

Guardiamo in alto e vediamo delle verticali di pioggia come fossero fontane


capovolte. C’è erba in cielo, nello specchio di piombo liquido, c’è verde e
azzurro. Qualcosa che ci cambia il colore degli occhi e dei ricordi già da
ricordare nel presente che vediamo.

C’è una croce di paglia sulla baia atlantica, una croce con un cerchio rosso,
un salvagente celtico.

Appeso a una croce di paglia un bambino sta dormendo su una coperta


arancione con un cane che gli respira vicino.

E intanto il cielo si ferma e asciuga l’aria, la illimpidisce all’improvviso e il


sole da bianco diventa blu. Il coperchio del cielo si fa più basso e attira
verso di sé mulinelli di sabbia increspando il pelo del cane, i capelli del
bambino, le frange della coperta.
143
All’improvviso spariscono i colori, risucchiati dal cielo, e la baia ha i toni
virati di una vecchia tv in bianco e nero.

Dietro di noi sui pascoli al limite dell’oceano le greggi sbandano risalendo


verso il grande cerchio di pietra sulla collina, inseguite da una cane e
seguite da un ragazzo che suona la fisarmonica incurante del temporale.

Arriva una vecchia auto familiare, derapa nella pioggia, ne scende di corsa
una donna con uno scialle sulla testa e raccoglie in fretta il bambino che
comincia a piangere a dirotto.

Anche il cielo inizia a piangere a dirotto pioggia calda e salata, piena di


sabbia. Entriamo di corsa in un piccolo pub di campagna dove una signora
bellissima e molto anziana con i capelli nero corvino cotonati suona al
pianoforte verticale e canta come se la voce provenisse da un 78 giri.

Sul bancone c’è una scritta: «In The Irish Spirit With The Irish Spirits». C’è
un gruppo di turisti americani che accenna dei passi di danza, un signore
enorme, pieno di tatuaggi sulle braccia nude con un grande orecchino, va
dietro il banco e prende un violino e comincia a battere il tempo col piede.
La donna della spiaggia nell’angolo parla sottovoce al bambino e tiene il
tempo con le dita sulla sua guancia.

Fuori intanto è già tornato il sole e tutto riprende colore: attraverso i vetri
passa la luce diretta del tramonto.

Noi con il primo bicchiere di birra usciamo alle brezze dell’oceano e


brindiamo alle sette nuvole e ai sette uccelli che galleggiano ancora nell’oro
bianco di Brandon Bay.
144
Mi scuserà Massimo Bubola, innamorato della poesia e fine costruttore di
canzoni, se questa postfazione sacrifica il lirismo sull’altare della prosa e
celebra i fatti e non le parole.

I fatti, che riprendono e completano la prefazione: Massimo Bubola è stato


il più stretto collaboratore di Fabrizio De André - con lui ha scritto testi e
musica di due album storici (Rimini e L’indiano) e la saga di «Don Raffaè».
Con Faber ha consegnato alla storia canzoni che sono entrate stabilmente a
far parte del suo repertorio live, catturando l’immaginario collettivo -
«Andrea», «Fiume Sand Creek», «Hotel Supramonte», «Franziska», «Volta
la carta», «Coda di lupo», «Sally», «Rimini», «Se ti tagliassero a pezzetti»,
oltre alla già citata «Don Raffaè». In trent’anni di carriera (il suo disco
d’esordio, Nastro giallo, è del 1976) ha scritto oltre trecento canzoni (tra cui
la splendide «I venti del cuore» e «Il cielo d’Irlanda», portate al successo da
Fiorella Mannoia, e «Niente passa invano», che secondo Danilo Sacco dei
Nomadi è la più bella canzo

ne d’amore italiana degli ultimi trent’anni) disseminate in diciassette album


(compresi live e antologie). Ha alternato all’attività di singer/songwriter una
seconda vita da produttore (Milva, Gang, Cristiano De André, Estra,
Kaballà e Gigi Maieron, con cui ha miracolosamente unito la chanson
francese e la lingua friulana), in album belli e seminali. Ha tradotto Dylan
(«Avventura a Durango», con Fabrizio), Willy De Ville, Tom Petty,
Waterboys e l’opera omnia di Patti Smith in un libro bello e fortunato. Ha
attraversato con la sua chitarra le terre del blues e del talkin’

blues, del folk rock, del tex-mex, del country e della ballata tradizionale, ha
scritto short stories noir (dalla dark ballad alla murder song) e riletto i canti
della prima guerra mondiale, si è confrontato con l’acustico e si è vestito
d’elettrico, ha flirtato con il soul, si è fidanzato con il colore e ha sposato il
bianco e nero, fino a rappresentare forse il primo esempio italiano di rock
d’autore, dondolandosi sull’altalena che si muove tra le tradizioni
angloamericane e nostrane, soprattutto del Nord Italia.
Può piacere o non piacere, Massimo Bubola, com’è giusto e bello che sia -
che artista è uno che produce indifferenza? Molto meglio dividere in due
schieramenti pronti a darsi battaglia. Però quel che non si può negare è il
suo ruolo sul ponte della canzone italiana che sventola bandiera rock. È ora
che qualcuno lo dica: Massimo Bubola ha raccolto meno di quanto abbia
seminato. E ora che avete letto questo libro, penso che sarete d’accordo.

Perché, lo ripeto, avete trovato il De André sconosciuto o poco noto, gli


aneddoti e i ricordi, la genesi delle canzoni e la loro analisi logica, lo
struggimento e la commozione, le risate e le follie, l’edito e l’inedito. Ma,
accanto a Faber, avete trovato e forse scoperto anche Bubola - del resto, se
148

Massimo fosse di poco pregio, Fabrizio non l’avrebbe voluto accanto a sé


così a lungo. Sarà opportuno non dimenticarlo quando uscirà il suo
prossimo disco. Perché niente passi invano.

Massimo Cotto
149
Discografia

Massimo Bubola cantautore:


1976
Nastro giallo - Produttori associati Spalle dolci, Canzoni di Maggio, I miei
perché, il sogno di Isadora, Nastro Giallo, Il caffè in mezzo al sentiero,
Canzone del guerrigliero cieco, Ninna nanna Prodotto da R. Danè.
Arrangiato da G. P. Reberberi 1979

Marabel - Philips

Marabel, La strada, (tre carte), Lorelai, Cocis, Billi, Iris e Re Michele,


Maria che ci consola, Ferida, Buona stella Prodotto da M. Bubola e A.
Venditti 1981

Tre rose - Fado/Ricordi

Hoa io io (pt.l), Carmelina, Senza famiglia, Sulla riva la riva, Tiro


un’arancia in cielo, Tre rose, Encantado signorina, E tu no, Hoa io io (pt.2)

Prodotto da F. De André
153
1982

Massimo Bubola - Fado/Cgd

Viale del tramonto, Treno di mezzanotte, Billi Billi, Spezzacuori, Giorni


dispari, Vieni alla finestra, Tu angelo tu, Oro e Argento, Traduzione di
«Baby love me like you did before» di Willy DeVille, Traduzione di
«Vagabond Moon» di Willie Nile

Prodotto da M. Bubola e W. David


1989
Vita, morte e miracoli - Ricordi

Vita, morte e miracoli, Non sono soddisfatto mai, Sandy, Dovunque tu


sarai, Annie Hanna, Praga, Stanze di diluvio, Scarabocchi nel cuore

Prodotto da C. Dentés
1994
Doppio lungo addio - Mercury-Polygram Un sogno di più, Doppio lungo
addio, Un uomo ridicolo, Ali Zazà, Niente passa invano, Il cielo d’Irlanda,
Cento volte, Dostoievskji, Tutti assolti

Prodotto da P. Fabrizi
1996
Amore e guerra - Urlo/Cgd

Marabel, Johnny lo zingaro, Fiume Sand Creek, Quello che non ho, Un
angelo in meno, Sally, Spezzacuori, Andrea, Eurialo e Niso, Camicie Rosse,
Tre rose, Don Raffaè Prodotto da M. Bubola
1997
Mon trésor - Cgd
154
Corvi, Ma non ho te, L’usignolo, Mio capitano, Rosso su verde, Cuori
ribelli, Lunga vita a Johnny, Dino Campana, Addio & Goodbye, Spegni la
luce, Svegliati S.Giovanni, Davanti a te, Mon Tresor

Prodotto da M. Bubola e M. Vignuzzi 1999

Diavoli e farfalle - Cgd

Ballata dei luminosi giorni, Emmylou, Capelli Rossi, E una tirata


d’orecchio, Innocente, Mister Vertigo, Il patto con il diavolo, Tina, Il Blues
di Re Teodorico, Lettere mai spedite, L’albero di Giuda, Malinconie
nascoste, Se questo è un uomo

Prodotto da M. Bubola e S. Chivilò


2001
Giorni dispari - Eccher Music (ristampa del disco del 1982)

Viale del tramonto, Treno di mezzanotte, Billi Billi, Spezzacuori, Giorni


dispari, Vieni alla finestra, Tu angelo tu, Oro & Argento, Il pendolo, Colline
nere*, Se non ora, quando?*

Prodotto da M. Bubola

Inedite nell’edizione originale


2001
// cavaliere elettrico (voi. i, n) - Eccher Music/Self distr.

(live)

voi. i: Andrea, Il cielo d’Irlanda, Encantado signorina, Innocente,


Franziska, Capelli rossi, Avventura a Durango, Una storia sbagliata, Senza
famiglia, Innolento voi. n: Maria che ci consola, Cocis, Corvi, Fiume Sand
155

Creek, Dove scendono le strade, Sandy, Marabel, Hotel Supramonte,


Doppio lungo addio, Slowsong Prodotto da M. Bubola e S. Chivilò
2002
// cavaliere elettrico (voi. ili) - Eccher Music/Venus distr.

(live)

Emmylou, Rimini, L’usignolo, Ali Zazà, Don Raffaè, Blues di Re


Teodorico, Addio & Goodbye, Niente passa invano, Se ti tagliassero a
pezzetti, Rosso su verde, Piove col sole Prodotto da M. Bubola e K. Oblak
2002
Niente passa invano - Concerti 1997/2002 - Eccher Music, ElleU, CNI/distr.
in edicole e librerie Il cielo d’irlanda, Coda di lupo, Andrea, Maria che ci
consola, Fiume Sand Creek, Niente passa invano, Una storia sbagliata, Don
Raffaè, Corvi, Rimini, Rosso su verde, Dove scendono le strade, Cinque
monete d’oro Prodotto da Massimo Bubola
2004
Segreti trasparenti - Eccher Music/Self distr.

La sposa del diavolo, Specialmente in gennaio, Roger McClure, Stai con


me, La fontana (e la domenica), Entrambi, Quella campana, Tutto è legato,
Per quanto tempo, Jetta ‘a luna, Tornano i santi.

Prodotto da M. Bubola e M. Gazich


2004
// cavaliere elettrico (voi. iv) - Eccher Music/Edel distr.

Dostoevskij, Tina, Camicie rosse, Dino Campana, Coda di 156

lupo, Volta la carta, Lorelei, Annie Hannah, Eurialo & Niso, Canto del
servo pastore, Fiume Sand Creek, La frontiera Prodotto da M. Bubola e M.
Gazich
2005
Tre rose - Eccher Music / Edel distr. (Ristampa del disco FaDodel 1981)

Hoa io io (pt.l), Carmelina, Senza famiglia, Sulla riva la riva, Tiro


un’arancia in cielo, Tre rose, Encantado signorina, E tu no, Hoa io io (pt.2)

Prodotto da F. De André
2005
Quel lungo treno - Eccher Music / Edel distr.

Jack O’Leary, Era una notte che pioveva, Se questo amore è un treno,
Nostra Signora Fortuna, Puoi uccidermi, Il Disertore, Noi veniam dalle
pianure, Monte Canino, Ponte de Priula, Bum Bum, Adio Ronco

Prodotto da M. Bubola, S. Chivilò e M. Gazich 2006

Neve sugli aranci - Eccher Music/Edel distr.

L’uno l’altro, Neve sugli aranci, Massimo, Di’ le tue preghiere, Elegia per
l’uomo dal lungo cappotto nero, Tiepidi & obliqui, Il letto ruotante sulla
Majella, Ora mi arriva il vento, Tempi migliori, Stai in guardia, Appunti sul
traghetto Olbia-Livorno, Lettera sulle parole, I venti del cuore, Sotto un
cielo così

Prodotto da M. Bubola e M. Gazich


157
Massimo Bubola autore:
1978
Fabrizio De André - Rimìni - Ricordi È autore con Fabrizio De André dei
testi e delle musiche di tutto l’album
1979
Carlo Sillotto - Ondina - Phonogram È autore del testo di «Filo di Perle»
1979-1980
Fabrizio De André e Pfm - Fabrizio De André e Pfm in concerto (voi. i, n) -
Ricordi

Reinterpretano i brani: Andrea, Volta la carta, Zirichiltaggia, Rimini,


Avventura a Durango, Sally 159
1980
Fabrizio De André - Una storia sbagliata/Titti - Ricordi È coatuore della
musica e dei testi di tutto questo 45 giri 1981

Fabrizio De André - Fabrizio De André (L’indiano) Ricordi

E autore con Fabrizio De André dei testi e delle musiche di tutto l’album
1987
Cristiano De André - Cristiano De André - Ricordi È autore della musica di
«Se all’improvviso» e della musica e del testo di «Il cielo non cadrà»
1988
Milva - Milva - Ricordi

È autore della musica di «Rapsodie gitane», traduce il pezzo «Vento di


mezzanotte»
1988
Aida Cooper - Vinti e vincitori

È autore di testo e musica di «Il blues del ventilatore» e del testo di «I


diamanti hanno più charme»
160
Adriano Pappalardo - Sandy - Ricordi È autore del testo e della musica di
questo 45 giri 1990

Cristiano De André - L’albero della cuccagna - Ricordi È autore del testo di


«Non mi so fermare», «Eviterò» e dei testi e della musica di «Cattive
compagnie» e «Senza famiglia»

Kaballà - Petra lavica - Cgd

Coautore dei testi di «In gloria», «Il mirto e la rosa», «Quantu ci voli»,
«Sciogli i capelli», e della musica di «Fin’a domani»

The Gang - Le radici e le ali - Cgd Coautore dei testi di «Ombre rosse» e
«Johnny lo zingaro»

Fabrizio De André - Le nuvole

È coautore del testo di «Don Raffaè»


1991
Mauro Pagani - Passa la bellezza - Phonogram E autore dei testi di
«Davvero, davvero», «Uno», «Soldato»

Grazia Di Michele - Grazia Di Michele - Wea È autore di testo e musica di


«Giuramenti» e «Nascondi il tuo amore»

Fabrizio De André - Fabrizio De André Concerti - Fonit Cetra


161
Reinterpreta i brani «Don Raffaè», «Fiume Sand Creek», «Hotel
Supramonte», «Se ti tagliassero a pezzetti»
1992
Cristiano De André - Canzoni con il naso lungo - Ricordi È autore di
musica e testo di «Canzoni con il naso lungo»; è autore del testo di
«Invincibili», «Che gran confusione», «Tutti quanti hanno bisogno», «Verrà
il tempo»; è coautore della musica di «Che gran confusione»; traduce il
pezzo «Into the great wide open» di Tom Petty che diviene «Nel grande
spazio aperto»

The Gang - Storie d’Italia - Cgd

È autore di testi e musica di «Kowalski», «Sesto San Giovanni» e «Il partito


trasversale»; è coautore delle musiche di «Il paradiso non ha confini» e
«Buonanotte ai viaggiatori»; è autore dei testi di «Cambia il vento», «Dove
scendono le strade» e «Eurialo e Niso»

Fiorella Mannoia - / treni a vapore - Sony È autore di musica e testo di «Il


cielo d’Irlanda» e del testo di «I venti del cuore»

Massimo Priviero - Rock in Italia - Dsb È autore della musica di «Rose di


Romania»

Roberto Murólo - Ottanta voglia di cantare - Cgd Reincide il pezzo «Don


Raffaè»

162
1993
Fiorella Mannoia - Le canzoni - Harpo Raccolta comprendente «Il cielo
d’Irlanda» e «I venti del cuore»
1994
Fiorella Mannoia - Gente comune - Harpo È autore del testo e della musica
di «Camicie rosse» e del testo di «Che vita sarai»

Mia Martini - La musica che gira intorno - Rti Reinterpreta i brani «Fiume
Sand Creek» e «Hotel Supramonte»

Fratelli di Soledad - Song for freedom coalition Hokahay!

«Fiume Sand Creek»


1995
The Gang - Materiale resistente - Mercury Raccolta comprendente il brano
«Eurialo e Niso»

AA.vv. - Canti randagi: tributo a Fabrizio De André - Cose di musica

Vengono riproposte da artisti diversi le seguenti canzoni: «Coda di lupo»,


«Rimini», «Canto del servo pastore», «Volta la carta»
163
Cattive compagnie - Cattive compagnie Traduce e adatta il pezzo «Wichita»
dei Jayhawks, che diviene «Padova»
1996
Angelo Baiguera - Pdu

Canta con Baiguera «Giovanetto Remator»


1997
Tosca - Incontri e paesaggi - Rea

È autore del testo e della musica di «Pane, vino e lacrime»


164
Massimo Bubola produttore:
1981
Fabrizio De André - Una storia sbagliata/Titti (con Fabrizio De André) 45
giri / Dischi Ricordi 1982

Dori Ghezzi - Spezzacuori

45 giri / Fado - Dischi Ricordi


1988
Milva - Milva

Album (tre brani) / Metronom - Dischi Ricordi 1990

Cristiano De André - L’albero della cuccagna (con Vince Tempera) Ricordi


1990
Kaballà - Petra lavica

con G.De Bernardini - Cgd


1992
The Gang - Storie d’Italia

Cgd

Cristiano De André - Canzoni con il naso lungo Ricordi


1995
Estra - Metamorfosi

Urlo/Cgd
1997
Estra - Alterazioni

Urlo/Cgd
2002
Luigi Maieron - Si vif

con Michele Gazich - Eccher Music


2003
Arcastella - Elementare

Eccher Music
166
Morblus Band - Mrs Miller

Eccher Music

La sedon salvavie - // eil da l’Irlande Eccher Music


167
Massimo Bubola traduttore:

«Romance in Durango»

(B. Dylan/J. Levy) in «Avventura a Durango»

(tradotta con Fabrizio De André per il suo album Rimini Dischi Ricordi,
1978

«Baby love me like you did before»

(Willy De Ville) in «Billi Billi»

e «Vagabond moon» (Willie Nile) in «Vieni alla finestra»

(per l’album Massimo BubolalFado - Cgd, 1982) «Into the great wide
open»

(Tom Petty) in «Nel grande spazio aperto»

(per l’album Canzoni con il naso lungo di Cristiano De André-Wea, 1992)


169
«And a bang on the ear»

(Mike Scott) in «E una tirata d’orecchio»

(per l’album Diavoli e farfalle di Massimo Bubola - Cgd, 1999)


170
Massimo Bubola sulla carta:
1996
/ sognatori del giorno. Massimo Bubola. Canzoni, lettere e poesie

Guido Giazzi - Paolo Vites, Tarab Edizioni 2000

Patti Smith complete - Canzoni, riflessioni e diari Traduzione di Massimo


Bubola

Sperling & Kupfer


2001
Cammini di liberazione. Dalla colpa alla responsabilità a cura di Guido
Bertagna

Edizioni Paoline
171
Viaggiando tra zingari o re

a cura di Marzio Angiolani

Ed. Zona (Collana AminoaCIDI)


2004
Contagi #1

Ed. No Reply
172
Indice

p. 7 Prefazione

13 Doppio lungo addio


133 Racconti, di Massimo Bubola
135 ¡pesci

137 Le api

139 La chiave

143 Quel cielo d’Irlanda

145 Postfazione

151 Discografia

153 Massimo Bubola cantautore

159 Massimo Bubola autore

165 Massimo Bubola produttore

169 Massimo Bubola traduttore


171 Massimo Bubola sulla carta
173 Ìndice

¡s

**iz%

Chewing gum è una collana di libri da masticare, senza che le parole


perdano sapore.

Confessioni a due, operazioni chirurgiche a cuore aperto, parabole


professionali e private raccolte tra le pieghe della struttura domanda-
risposta.

Protagonisti i personaggi dei mondi dello spettacolo, del cinema, della


musica, della televisione, della politica, dello sport.

Massimo Cotto

Questa parte di albero

è diventata libro

sotto i moderni torchi

di Hs-Grafica Veneta Spa, Trebaseleghe (pd) nel mese di ottobre 2006.

Possa un giorno

dopo aver compiuto il suo ciclo


presso gli uomini desiderosi di conoscenza ritornare alla terra

e diventare nuovo albero.

Potrebbero piacerti anche