Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
www.arcanaedizioni.com
ISBN: 9788862316576
Ezio Guaitamacchi
DELITTI ROCK
Da Robert Johnson a Whitney Houston
200 indagini sulla scena del crimine
INTRODUZIONE
Questa non è un’enciclopedia delle morti rock, anche se ci si
avvicina molto. Non lo è perché non ho (volutamente) messo tutti i
musicisti scomparsi, ma solo i casi più scottanti, le vicende più
misteriose, le storie più suggestive ed emozionanti: in totale, circa
duecento racconti di artisti internazionali (dei casi italiani ho voluto
inserire solo quello più famoso e significativo, la neverending story di
Luigi Tenco) che prendono quasi sempre il via dalla scena del
crimine.
Non si tratta solo di “delitti” in senso tecnico.
Spesso, questi casi ci hanno fatto rimpiangere la scomparsa
prematura di piccoli e grandi geni della musica del Novecento, ci
hanno fatto soffrire per la stupidità di certe morti, ci hanno fatto
riflettere sullo scellerato stile di vita rock’n’roll e sulle tante (troppe)
vittime che ha seminato su un percorso lungo quasi sessant’anni.
Non è infatti un “delitto” che Jimi Hendrix o Janis Joplin siano morti
a ventisette anni, che Ian Curtis o Kurt Cobain si siano suicidati più o
meno alla stessa età, che Jeff Buckley sia affogato dopo aver inciso
un solo disco, che Nick Drake, Keith Moon, Sid Vicious e tanti altri
siano stati vittime di overdose?
“Siamo stati una generazione di esploratori”, mi spiegava qualche
anno fa Paul Kantner dei Jefferson Airplane, riferendosi alle rockstar
scomparse prematuramente: “Tutte le esplorazioni sono pericolose.
Si rischia la vita: molti di noi l’hanno rischiata, alcuni ce l’hanno fatta,
altri no”.
La sua lucida – ma pure cinica – considerazione è controbilanciata
dal-l’affermazione emotiva di Pete Townshend, mente e braccio degli
Who.
“Moon, Jones, Hendrix, Joplin, Morrison? Sono le vostre cazzo di
icone rock, ma erano miei amici, miei amici… e non ci sono più”.
Già, non ci sono più.
Ma, per fortuna, a noi appassionati resta la loro musica.
E, aggiungo io, le loro storie di arte e di vita.
Perché, come disse Sam Andrew di Janis Joplin, anche chi li ha
sentiti solo una volta non se li potrà mai più dimenticare.
ezio.guaitamacchi@jamonline.it
PREFAZIONE
LANA CLARKSON: L’ULTIMO CIAK
Si chiamava Lana Clarkson. Era una mia amica.
L’avevo conosciuta nella primavera del 1992, quando era venuta
in Europa a cercare fortuna. Bella, alta, bionda, atletica, questa
ragazzona californiana era stata nel 1985 la protagonista di
Barbarian Queen (per la regia di Roger Corman), aveva avuto un
piccolo ruolo in Scarface e avrebbe fatto diverse apparizioni in molti
altri film e serie televisive di successo.
La dura legge di Hollywood, però, non l’aveva risparmiata.
“Ci sarà sempre qualcuna più giovane, più sexy e più ambiziosa di
te”, è il monito che, ancora oggi, echeggia nelle orecchie di star e
starlette da quelle parti. Lei, che sognava di essere la nuova Lana
Turner, per un momento pensò che il Vecchio Continente l’avrebbe
apprezzata maggiormente.
L’Italia era stata la sua prima scelta.
“Mi piace tutto del vostro Paese”, mi diceva. E non era difficile
crederle: corteggiata da dozzine di pretendenti, miss Clarkson si
godeva le sue dolci “vacanze romane” a Milano.
Per una decina di giorni, Lana si era trasferita nel mio
appartamento: doveva fare un paio di provini per la Rai e girare
un’intervista per Nonsolomoda. Fantasticava di un suo futuro
professionale da noi, anche se io non perdevo occasione di
ricordarle le differenze culturali tra Italia e Stati Uniti.
“Qui non siamo a Hollywood”, le ripetevo.
Ma lei non sembrava darmi retta. Nemmeno quando la
(lungamente attesa) audizione in Rai non aveva ottenuto gli esiti
sperati.
Quella sera, Lana era scoppiata a piangere.
“Com’è possibile?”, singhiozzava. “Io, che ho recitato con le più
grandi star hollywoodiane, vengo trattata come l’ultima delle
comparse”.
L’avevo portata al concerto di Crosby, Stills & Nash per tirarle su il
morale e per farle provare un po’ di nostalgia per la natia California.
Per qualche ora aveva funzionato.
Poi l’avevo persa di vista.
Una sera, un paio d’anni dopo, il mio telefono squilla. È Lana, mi
chiama da Los Angeles, è tornata a casa. Sta girando alcuni spot
pubblicitari (Mercedes, K-Mart ecc.), le hanno offerto qualche
particina in film di una certa importanza, si vocifera che possa avere
il ruolo di protagonista in un action movie. Insomma, è rientrata nel
giro e mi sembra contenta.
Da allora, non ho avuto più notizie di lei.
Sino all’inverno del 2003.
Alle due del mattino del 3 febbraio, Lana Clarkson è di fronte alla
porta d’ingresso della House Of Blues sul Sunset Strip: lavora lì da
qualche tempo, come hostess della vip room. Oltre che per un
dignitoso stipendio, Lana ha accettato quel lavoro nella speranza
(credo mai sopita) di fare l’incontro giusto. Che, quella sera, sembra
prendere le sembianze di Phil Spector, il più leggendario producer
della storia del rock, ma anche uno dei soggetti più stravaganti e
violenti che popolano la Città degli Angeli.
Spector, che negli ultimi tempi ha ripreso a bere, offre a Lana un
passaggio a casa. Le vuole far provare la sua nuova limousine e,
qualora le andasse, anche mostrarle la sua chiacchieratissima villa,
un castello ad Alhambra che ricorda una fantasia disneyana.
Lana è eccitata: Phil Spector, l’inventore del wall of sound, lo
scopritore dei girl groups, il talentuoso producer di Ike & Tina Turner,
l’uomo dietro la consolle di Let It Be, All Things Must Pass, Imagine
e del Concert For Bangladesh, stasera è lì che scherza con lei. E chi
se ne frega se la sua ultima produzione importante è stata quella
con i Ramones, quasi trent’anni fa (degli Starsailor nemmeno lui ne
vuole parlare): stanotte Lana, che ha appena partecipato alla serata
dei Grammy, non intende perdersi la grande occasione.
Adriano De Souza, lo chauffeur di Spector, accompagna i due sino
all’ingresso del castello e, con fare molto professionale, resta lì in
attesa, sino a nuove istruzioni.
Passano due ore.
Spector esce di casa in stato confusionale. Si avvicina al suo
autista e gli dice: “Chiama la polizia, credo di aver ucciso qualcuno”.
Quando i detective del LAPD giun gono ad Alhambra, trovano su
una sedia il corpo riverso di Lana Clarkson. Le hanno sparato in
bocca, è morta all’istante.
Spector viene arrestato, ma il giorno dopo il suo avvocato Robert
Shapiro (l’uomo che è riuscito a far scagionare O.J. Simpson), a
fronte di un assegno da un milione di dollari, ottiene la libertà su
cauzione. Da allora, puntualmente, ogni tre-quattro mesi Shapiro
riesce a rinviare l’udienza in tribunale. Pare che lui e il collegio di
difesa siano pure riusciti ad architettare le prove di un “presunto
suicidio”. E persino a sostenere che Lana (che beveva solo latte e
menta, credetemi… ) quella notte fosse piena di sostanze
stupefacenti e che “volesse baciare la pistola”.
Ancora a quattro anni dalla morte di Lana Clarkson, il suo, come
dicono lì, è un open case.
Anzi, forse il più famoso “caso” d’America.
I suoi famigliari, i suoi amici e tutti coloro che le hanno voluto bene
non sono in cerca di vendetta. Vogliono soltanto giustizia.
Quando, il 13 aprile 2009, dopo diciannove giorni di consultazioni,
la giuria del processo ha finalmente emesso il verdetto di
colpevolezza, Phil Spector è stato condannato a diciannove anni.
Immediatamente rinchiuso nel carcere di Corcoran, California,
Spector avrà ottantotto anni quando gli sarà data la facoltà di
richiedere la libertà sulla parola.
Giustizia è fatta.
ANNI TRENTA
E QUARANTA
È da poco passata la mezzanotte.
L’Imperatrice del blues Bessie Smith è appena scesa dal palco.
Si è concluso con successo il suo ennesimo concerto, questa
volta a Memphis, una delle tappe del tour dello spettacolo Broadway
Rastus, con cui è impegnata dall’inizio dell’anno.
Bessie non è un’artista qualunque: non viaggia con il resto del
cast. Così, ha chiesto al suo fidanzato, Richard Morgan, di
accompagnarla con la sua vecchia, fascinosissima Packard. Anche
perché, stasera, Miss Smith non ha né voglia né tempo di fermarsi a
Memphis. Domani deve esibirsi in uno spettacolo in tarda mattinata
a Clarksdale, Mississippi, e vuole arrivarci il prima possibile.
Quando sono sulla US 61, Morgan prende male una curva, tenta
di evitare il grosso camion che si trova davanti al lui ma ci finisce
contro, dal lato del passeggero, proprio dov’è seduta Bessie.
Lo scontro, fortissimo, risulta letale per la sua lussuosa fuoriserie.
Morgan è sotto shock ma, a prima vista, sta bene. Bessie Smith,
invece, è ferita gravemente.
Viene coricata in mezzo alla carreggiata.
Il camion e il suo autista non si sono fermati a prestare assistenza.
Cosa che, invece, fanno il dottor Hugh Smith (della Campbell Clinic
di Memphis) e il suo amico Henry Broughton, che per caso si
trovano nei pressi dell’incidente.
Il dottor Smith presta i primi soccorsi ma capisce subito che la
situazione è grave: la donna ha perso mezzo litro di sangue, ha un
braccio spappolato e tutta la parte destra del corpo ferita. Dopo
averla spostata con cura sul bordo della strada, chiede all’amico di
andare in una casa vicina a chiamare un’ambulanza. In preda a un
forte senso di colpa, anche l’autista del camion fa la stessa cosa, a
qualche chilometro di distanza.
Un’ora dopo, sul posto non è ancora giunta alcuna ambulanza.
Così il dottor Smith decide di portare Bessie a Clarksdale. Non
passa un minuto: un’auto piomba ad alta velocità nella zona
dell’incidente e (nonostante Hugh Smith cerchi di segnalare gli
ostacoli), centra in pieno la sua macchina, che finisce contro la
Packard.
Miracolosamente, nessuno rimane coinvolto. Anche la giovane
coppia di bianchi nella macchina investitrice risulta illesa.
Di lì a poco, arrivano due ambulanze: una dall’ospedale per neri
sollecitata da Broughton, l’altra, quella chiamata dall’autista del
camion che non aveva idea di chi fossero le vittime, giunge
dall’ospedale per bianchi. Trasportata all’ospedale per afroamericani
di Clarksdale, a Bessie Smith viene amputato il braccio destro. Ma le
sue condizioni sono troppo gravi: poche ore dopo, l’Imperatrice del
blues muore a quarantatré anni.
Le speculazioni, messe in giro dal suo produttore John Hammond,
secondo le quali Bessie sarebbe deceduta perché gli ospedali del
sud (per bianchi) le avevano rifiutato l’assistenza, sono
definitivamente confutate dalla testimonianza del dottor Hugh Smith.
Il 4 ottobre del 1937, a Philadelphia, si svolgono i funerali di
Bessie Smith. Il giorno prima, il suo feretro viene visitato da diecimila
persone che si sono radunate presso l’O.V. Catto Elks Lodge.
La salma viene sepolta nel Mount Lawn Cemetery di Sharon Hill,
Pennsylvania. La lapide rimane anonima sino al 7 agosto 1970,
quando ne viene posta una nuova a spese di Juanita Green (che da
ragazzina aveva fatto la cameriera a casa di Bessie Smith) e di Janis
Joplin, una delle più grandi ammiratrici dell’Imperatrice del blues.
Ieri sera, pochi minuti prima della mezzanotte, sulla A4, la Great
West Road, un taxi Ford Consul sbanda paurosamente prima di
schiantarsi contro un palo della luce.
L’autista, il diciannovenne George Martin, resta illeso perché ha la
cintura di sicurezza allacciata. Va meno bene ai suoi giovani clienti,
due ragazzi e una ragazza.
Tutti e tre americani, due di loro (Gene Vincent ed Eddie Cochran)
sono star del rock’n’roll che qualche ora prima hanno terminato, con
uno show trionfale a Londra, un tour di dieci settimane in Gran
Bretagna.
È il tramonto.
Il leader del Rock and Roll Trio, il chitarrista e cantante Johnny
Burnette, sta facendo un giro sulla sua piccola barca. Sta diventando
buio e Johnny non ha luci a bordo. Forse, anche per questo, il
grosso motoscafo cabinato che sta giungendo ad alta velocità
proprio sulla sua rotta non si accorge del minuscolo natante.
Lo schianto è inevitabile.
Johnny Burnette viene sbalzato fuori bordo e annega nelle scure
acque del lago.
Appena appresa la tragica notizia, il fratello maggiore Dorsey
(contrabbassista della band) chiama immediatamente il terzo
membro del gruppo, il chitarrista solista Paul Burlison. Insieme,
organizzano il funerale.
Nato a Memphis, Tennessee, il 25 marzo, Johnny Burnette aveva
compiuto trent’anni. Pioniere del rockabilly, ha trasmesso la
passione per la musica al figlio Rocky Burnette, che negli anni
Ottanta cerca, senza lo stesso successo, di ripercorrere le orme
paterne, immortalate da Ringo Starr nel 1973 con la cover di You’re
Sixteen.
Albert James Freed, quarantatré anni, meglio noto come Alan Freed
o “Moondog”, il dj più famoso d’America, muore di cirrosi epatica in
una stanza d’ospedale.
Questo, almeno, è ciò che sentenzia il referto medico.
Ma qualcuno sostiene che Alan sia morto di crepacuore.
Anzi, sono molti quelli convinti che Freed sia stato “ucciso”
dall’industria discografica, la stessa che lui ha contribuito ad
arricchire quando, nel luglio del 1951, dai microfoni della stazione
radiofonica WJW di Cleveland, Ohio, ha iniziato a promuovere i primi
dischi di rhythm’n’blues. Una musica vibrante, piena di
spumeggiante energia, suonata e interpretata da grandi artisti neri,
ma che stava iniziando a piacere ai giovani bianchi.
Nel South Side, il quartiere nero della windy city, anche stasera si
suona il blues. Al Gerri’s Palm Tavern va in scena l’armonica
infuocata di Little Walter, la migliore blues harp d’America diventata
leggendaria alla corte di Muddy Waters.
Nel 1956, Geraldine “Mama Gerri” Oliver è subentrata al fondatore
“Genial Jim” Knight (primo sindaco di Bronzeville) alla guida del
Palm Tavern. Aperto nel 1933, il Palm è stato per anni uno dei templi
del jazz in città: sul suo palco è transitato il meglio della black music,
da Duke Ellington a Dizzy Gillespie, da Count Basie a Billie Holiday,
dal blues elettrico di Muddy Waters al soul travolgente di James
Brown.
Marion Walter Jacobs, detto Little Walter, è stato un enfant
prodige: già a quindici anni stupiva i bluesman di Maxwell Street che
facevano a gara per duettare con lui.
Ma è sempre stato un violento, e l’alcol, suo migliore e
inseparabile amico, non lo ha certo aiutato a calmare i bollenti spiriti.
Eppure, anche se sono anni che non suona con Muddy Waters,
Little Walter è sempre in auge. È tornato da qualche mese da un
tour in Europa e il suo nome a Chicago è sempre uno dei più
richiesti.
A metà del set di stasera, però, Walter si trova faccia a faccia con
un certo Odell, il fratello di una sua ex fidanzata.
Odell accusa Walter di essersi venduto un orologio d’oro che
apparteneva a sua sorella.
I due vengono alle mani.
Odell colpisce Walter alla testa (c’è chi dice con un pugno, chi con
un tubo d’acciaio). Di sicuro, lo lascia dolorante a terra. E se ne va.
Quando qualche minuto più tardi Little Walter si riprende, è
infuriato. Chiama il suo amico Sam Lay e si fa promettere che il
giorno dopo metteranno insieme un gruppo di amici e a quel
bastardo di Odell gliela faranno pagare…
È tardi.
Finito il concerto, Little Walter torna al numero 209 della 54esima
Strada, nell’appartamento della sua amica Kathrine (la ex di Robert
Junior Lockwood), una che ha cura di lui, che gli lava la biancheria,
gli prepara da mangiare e… non gli rompe mai le scatole.
Il mattino di mercoledì 15 febbraio 1968, Kathrine sente dei rumori
nella camera da letto di Little Walter.
Entra, ma lo trova riverso sul letto.
Chiama subito un’ambulanza.
Quando i paramedici arrivano non c’è più nulla da fare.
Marion Walter Jacobs muore a trentasette anni di trombosi
coronarica, come stabilisce, senza bisogno di fare l’autopsia, il
coroner William Monabola.
Non vengono rinvenute ferite esterne, tanto che la polizia di
Chicago, nel suo rapporto, chiude il caso con la classica formula
“morte per cause naturali o sconosciute”.
Ma sono molti quelli che ricordano le tante risse in cui Walter è
rimasto coinvolto e le violente botte prese e date in quelle
circostanze. C’è chi ipotizza che il colpo alla testa rimediato dal
vecchio Odell sia stato il colpo di grazia.
Il 22 febbraio, il corpo di Little Walter viene seppellito nel cimitero
di St Mary a Evergreen Park, Illinois.
Sono circa le tre e mezzo del mattino, e al Mothers è terminato da
qualche ora il concerto di una delle giovani e più promettenti band
della Terra d’Albione. Si chiamano Fairport Convention e sono i primi
a mescolare strumenti e ritmiche rock con suoni e melodie della
tradizione angloscoto-irlandese.
Quartiere di Chelsea.
Sono le dieci e quaranta del mattino.
Nell’elegante appartamento preso in affitto da Mickey Deans, noto
gestore di night club, e da sua moglie, la stella di Hollywood Judy
Garland, squilla il telefono.
Mickey è a letto, ancora in pieno sonno.
Quando si sveglia e risponde, si rende conto che Judy non è al
suo fianco.
Si alza e la va a cercare.
La sera prima, dopo aver visto in televisione un documentario
sulla famiglia reale inglese, i due hanno avuto un forte litigio. La
Garland era uscita per strada e aveva iniziato a urlare, svegliando i
vicini. Nessuno sa cosa sia veramente accaduto dopo.
Adesso, però, Mickey è terrorizzato. Si dirige verso il bagno e
vede che la porta è chiusa a chiave.
Bussa più volte.
Nessuna risposta.
Così, decide di uscire e forzare la finestra per entrare nella stanza.
Vede Judy seduta sulla tazza, immobile.
Il rigor mortis ha ormai reso il suo corpo di marmo.
Berry Oakley non ha assistito alla scena: quella svolta mancata l’ha
tenuto lontano dal luogo della tragedia. Ma il fato – qualcuno dice
una maledizione che pende sui musicisti dell’Allman Brothers Band –
lo insegue. E se lo prende un anno e pochi giorni dopo.
L’11 novembre 1972, sulle strade di Macon avviene un altro
incidente mortale. La vittima è proprio lui, Berry, il bassista che dopo
la morte di Duane è diventato il leader del gruppo per la capacità di
tenere insieme le differenti anime della formazione. Oakley e un
membro dell’entourage di nome Kim Payne si stanno dirigendo sulle
loro motociclette verso la cosiddetta Big House, la comune dove
abitano i membri del gruppo e i loro famigliari. Berry guida una
Triumph blu del ’67. Durante il tragitto i due scherzano, si divertono a
tagliarsi vicendevolmente la strada, a rincorrersi. Giocano, ma è un
gioco pericoloso. Si incontrano con Tuffy Phillips, l’autista del camion
che porta in tour l’equipaggiamento del gruppo. Alle due del
pomeriggio ripartono per tornare a casa del bassista. Imboccano
Napier Avenue. All’incrocio con Bartlett Avenue, Kim supera
un’automobile sulla destra e Berry sulla sinistra. Poi rallentano,
mentre si avvicinano a un incrocio pericoloso su Inverness Avenue,
dove la strada svolta in modo brusco sulla destra. Rallentano, ma
non a sufficienza.
Un autobus si avvicina in direzione opposta.
L’autista vede le due motociclette venire verso di lui e capisce
d’istinto che una di esse sta procedendo troppo velocemente per
prendere in modo adeguato la curva. Capisce che la farà larga,
quella curva. Perciò schiaccia il pedale del freno e cerca di tenere il
mezzo quanto più a destra, ma è inutile: non può evitare che la
Triumph di Oakley vada a impattarsi sulla fiancata del veicolo,
finendo una ventina di metri più in là.
Kim, che intanto è passato, si volta: “Sapevo che Berry avrebbe
probabilmente accelerato per cercare di raggiungermi, mi voltai per
vedere come se la stesse cavando, sapendo che non era un
guidatore esperto”. Payne vede la moto rimbalzare sulla fiancata del
bus. Altre tracce funeree sull’asfalto. Ma la scena questa volta è
rassicurante.
Berry è cosciente, è in grado di muoversi e camminare. Il casco ha
una crepa e gli sanguina il naso, ma rifiuta l’intervento medico: non è
il caso, dice, va tutto bene.
No, non va tutto bene.
Qualcuno gli dà un passaggio fino a casa. Giunto lì, diventa pallido
e comincia a sentirsi male. Parla a vanvera. È in uno stato
confusionale. Viene finalmente portato in ospedale: si scopre che ha
il cranio fratturato, si scopre che l’impatto è stato terribile. Oakley
muore nel tardo pomeriggio. A ventiquattro anni, ventiquattro come
Duane Allman.
Ventisette anni dopo gli verrà dedicato dalla città di Macon un
ponte sulla Highway 19.
Il luogo dell’incidente che è costato la vita a Berry Oakley è a soli
tre isolati di distanza dal punto dove Duane Allman ha fatto il suo
volo fatale. È una maledizione, dicono. I due sono morti in
circostante simili, alla stessa età, a tre isolati l’uno dall’altro, a dodici
mesi di distanza.
Ma sono coincidenze. Leggende.
Come quella secondo cui Allman si sarebbe scontrato con un
camion che trasportava angurie o pesche, una storia nata per via del
titolo e del disegno nel retrocopertina del celebre album della band
EAT A PEACH: uscito sei mesi prima della morte di Oakley,
rappresentava un camion con un’enorme anguria sul rimorchio.
L’uomo che guidava il camion coinvolto nell’incidente di Allman,
quello vero, si chiamava Chuck. Quella sera d’ottobre aveva
ventiquattro anni, pure lui. Tornò a casa che era bianco come un
cencio. “Un capellone è finito sotto il camion”, disse alla moglie
incinta di sette mesi, “ed è morto”. Il figlio di Chuck nacque il giorno
di Natale. Il camionista è a sua volta morto in un incidente stradale
l’11 novembre 1976, esattamente quattro anni dopo Berry Oakley. Le
uniche pesche che ha mai trasportato erano quelle che la moglie gli
metteva in cabina, chiuse in un sacchetto.
7 settembre 1978.
Sono passati quattro anni dalla morte di Mama Cass, e nel
tristemente noto appartamento nel quartiere di Mayfair da qualche
mese vivono nuovi inquilini: sono Keith Moon, incendiario batterista
degli Who, e la sua fidanzata svedese, Annette Walter-Lax.
La sera del 6 settembre, Keith e Annette partecipano alla festa
che Paul McCartney tiene in onore di Buddy Holly, per
commemorare il suo quarantaduesimo compleanno. Per l’occasione
viene presentato il film biografico The Buddy Holly Story.
Dopo aver passato la serata al tavolo di Paul e Linda McCartney,
la coppia rientra a casa verso mezzanotte, senza aspettare la fine
del film. Annette cucina delle costolette di agnello, dopodiché i due
vanno a dormire. Prima di prendere sonno, però, Moon vuole vedere
un film, L’abominevole dottor Phibes di Robert Fuest: sono circa le
quattro del mattino.
Verso le sette e mezzo, Keith si sveglia affamato e nervoso, e
ordina alla fidanzata di preparargli qualcosa da mangiare: lei gli
cucina una bistecca, che lui mangia a letto, guardando un altro
pezzo del film.
Quando Moon inizia a russare, però, Annette decide di andare a
dormire sul divano, ma intorno alle tre e quaranta si risveglia e inizia
ad agitarsi al pensiero che Keith si alzi nuovamente affamato.
“Stavo seduta vicino al telefono con il menu di un ristorante cinese
in mano, pensando ‘dovrei ordinare qualcosa adesso perché avrà
fame quando si sveglierà’. Poi ho guardato il gatto, Dinsdale.
Sembrava stranamente guardingo, quasi non fosse in sé”.
In quel momento la donna si accorge che la camera da letto è
troppo silenziosa.
“Quando ho acceso la luce e l’ho girato verso di me ho visto che
era morto”.
Annette, in preda a una crisi isterica, prova invano a rianimarlo, e
anche i tentativi dei paramedici si rivelano inutili. L’ambulanza porta il
corpo al Middlesex Hospital, dove ne viene dichiarato il decesso.
L’autopsia rivela l’assunzione da parte della vittima di trentadue
pillole di Heminevrin, un medicinale usato per combattere
l’alcolismo.
Alcune di esse sono ancora integre.
Il medico che gli ha prescritto la cura, quasi un mese prima, gli
aveva lasciato una confezione da cento pillole da autogestirsi: un
errore rivelatosi fatale, perché la sostanza può essere letale se
accostata all’alcol e crea una forte dipendenza, in particolare nei
pazienti che si stanno disintossicando. Annette ricorda di aver visto
Keith prenderne diverse, quella sera, senza tuttavia poterle
esattamente quantificare.
La causa della morte viene certificata come overdose accidentale.
Ma cosa è successo nella vita del batterista? Cosa lo ha spinto a
ridursi in questo stato?
Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro.
Dopo il tour del 1976 gli Who si sono presi un periodo di pausa di
otto mesi: Moon vive sulla West Coast americana, a Trancas,
Malibu, Los Angeles, dove trascorre le giornate dissipando il suo
patrimonio in stravaganze di lusso, droga e alcol. È sempre stato un
personaggio eccentrico, dal carattere iperattivo e imprevedibile, ma
da qualche anno i suoi problemi con l’alcol stanno diventano
ingestibili (tanto da portare sua moglie a chiedere il divorzio nel
1975, dopo ripetuti maltrattamenti).
Il periodo di inattività con la band, poi, favorisce ulteriormente il
precipitare della situazione.
Secondo il biografo Tony Fletcher, “probabilmente è stato il
silenzio degli Who, la raison d’être di Keith, che l’ha spinto oltre il
limite in una caduta libera; il fatto di non avere un motivo per
svegliarsi al mattino (o al pomeriggio) lo ha trasformato in un clown
triste”. Spesso si ritrova a bighellonare con gli amici Ringo Starr e
Harry Nilsson, con i quali condivide gli stessi insalubri interessi.
L’assolata costa pacifica per Moon si rivela il posto peggiore in cui
vivere.
Il suo assistente personale Dougal Butler ricorda: “Keith un giorno
si è seduto e si è messo a piangere di fronte a me. Vivevamo nel
luogo che avevamo sempre sognato. Avevamo Steve McQueen
come vicino di casa, il posto era un paradiso, ma nella casa dove
abitavamo, ci sentivamo le persone più sole al mondo. Ricordo che
telefonava in lacrime a Pete [Townshend] dicendo: ‘Mi annoio, non
so cosa fare…’”.
Il tentativo di frequentare un circolo di Alcolisti Anonimi si rivela un
fiasco. Ogni sera, Annette controlla le mosse del fidanzato, nel
terrore di una possibile overdose.
Nel giugno del 1977, infatti, durante una festa, assume una
quantità eccessiva di Valium: viene ricoverato immediatamente
all’Ospedale Cedars-Sinai e sottoposto a una disintossicazione sotto
controllo psichiatrico, durante la quale un giorno viene persino
sorpreso a bere del dopobarba.
Il 10 luglio, non appena dimesso, parte per l’Inghilterra: un giovane
regista, Jeff Stein, sta girando un documentario sugli Who dal titolo
The Kids Are Alright ed è richiesta la sua presenza.
Il 16 agosto muore Elvis Presley: la notizia è uno shock per Keith.
“Risvegliò i suoi pensieri perversi sulla morte”, ricorda Annette.
“Sentiva che sarebbe morto giovane. Sapeva che non poteva
continuare a comportarsi in quel modo e sopravvivere. Ma nelle
settimane successive ha bevuto un sacco e ha preso moltissime
pillole”.
Il trasferimento definitivo da Los Angeles a Londra avviene il 12
settembre 1977. Inizialmente la coppia risiede al Kensington Palace
Hotel e in un secondo momento si trasferisce nel quartiere di
Mayfair. Non potendo però permettersi l’acquisto di un’abitazione,
accettano l’ospitalità dell’amico Nilsson, che mette a disposizione
l’appartamento di Curzon Place.
Nel frattempo, Keith tenta più volte la disintossicazione,
assumendo il Valium per calmare gli attacchi che lo colpiscono
quando va in crisi d’astinenza.
In ottobre, gli Who iniziano le registrazioni per un nuovo album,
WHO ARE YOU. Tuttavia Moon senza il suo brandy non riesce a
dare il meglio di sé alla batteria e non ci mette molto a riprendere le
vecchie abitudini. Secondo Tony Fletcher, gli altri componenti del
gruppo sono talmente felici di riavere il vecchio compagno di
avventure da scusare i suoi eccessi, o addirittura incoraggiarli.
Durante le riprese di alcune performance dal vivo da includere nel
documentario, Moon deve assumere cocaina in continuazione per
poter reggere fisicamente. Non l’aveva mai fatto davanti agli altri del
gruppo. Nonostante esprima più volte ai compagni l’intenzione di
ripulirsi e rimettersi in forma, le sue condizioni sembrano peggiorare
a vista d’occhio.
Pete Townshend, chitarrista e autore dei brani, ricorda: “Guardavo
Keith e pensavo: questo tizio finirà per morire. Avevo paura per lui. E
sono ancora alle prese, come credo Roger [Daltrey], con il rimorso
per la nostra complicità in ciò che è successo. Ci era utile avere quel
pazzo nel gruppo. Ci faceva pubblicità”.
Tra innumerevoli sforzi, ricadute e ricoveri in ospedale, Keith
riesce finalmente a portare a termine le registrazioni del disco per
l’aprile del 1978. Alle session fotografiche per la copertina, Moon si
presenta in uno dei suoi costumi preferiti, la divisa da cavallerizzo,
che tuttavia enfatizza quanto sia aumentato di peso negli ultimi anni.
Il fotografo Terry O’Neil allora gli chiede di posare seduto, a
cavalcioni di una sedia, in modo che lo schienale possa nascondere
il più possibile il suo fisico appesantito. Quell’immagine diventa la
copertina dell’album, che viene pubblicato in agosto, qualche
settimana prima della morte del batterista: per una coincidenza
tristemente ironica, il retro della sua sedia riporta la scritta “Not to be
taken away”: non portare via.
Alquanto sconcertante è anche il macabro sogno premonitore fatto
dalla sua ex moglie Kim Moon, che dopo il divorzio era andata a
vivere con la figlia insieme al nuovo partner Ian McLagan, ex
membro dei Faces.
Pare infatti che una notte Kim si fosse svegliata di soprassalto, in
lacrime, dopo aver sognato di ricevere una telefonata dal roadie Ray
Cole, che la informava della morte di Keith. La telefonata che riceve
la sera del 7 settembre dallo stesso Cole, però, è tragicamente reale
e, questa volta, lo shock è talmente forte da causarle la caduta dei
capelli.
Ellen Naomi Cohen e Keith John Moon sono morti nella stessa
stanza dello stesso appartamento. Entrambi avevano trentadue anni
quando la fine li ha colti di sorpresa, ed entrambi, in modi diversi,
erano in lotta per sopravvivere al personaggio che loro stessi
avevano creato.
Dopo l’accaduto, Harry Nilsson metterà in vendita il suo
appartamento, che pare sia stato acquistato da Pete Townshend…
Nell’autunno ’74, la villa della famiglia Drake, una residenza nella
contea di Warwickshire chiamata Far Leys, è abitata da tre persone.
Nick Drake è un folksinger stimato, ma di poco successo. Ha
pubblicato tre dischi, ma ha deciso di smettere con la musica,
almeno per un po’. È stanco e disilluso. Da alcuni anni si è
sostanzialmente ritirato dalle scene. In realtà, s’è ritirato dal mondo:
ha ventisei anni e vive a Far Leys coi genitori. Tira avanti con le 20
sterline che la casa discografica gli fa avere ogni settimana. Gli amici
dicono che non può nemmeno permettersi un paio di scarpe nuove.
Parla poco, pochissimo. A volte sparisce dalla circolazione per
giorni interi. Magari prende l’automobile e girovaga finché non finisce
la benzina: a quel punto chiama casa e si va venire a pendere dai
genitori. Vive in questo mondo, ma è come se fosse in un altro.
Un’altra abitante della casa è la madre Molly. È lei l’ultima persona
a vedere in vita il figlio la sera del 24 novembre 1974. È preoccupata
per lui: sa della depressione e dei problemi caratteriali, sa che
prende delle medicine. Sa tutto.
Non sa che dopo quella sera non lo rivedrà più vivo. “Nick”, ricorda
la donna, “andò a letto presto. Ricordo di averlo visto in piedi davanti
alla porta della sua camera. Gli chiesi: ‘Stai andando a dormire?’”.
È una fredda e nuvolosa giornata autunnale, il sole è tramontato
alle quattro del pomeriggio. Nick dorme al piano superiore della
villetta.
La madre ricorda che generalmente il ragazzo era abituato a
svegliarsi piuttosto tardi il mattino, perché durante la notte aveva
difficoltà a riposare. Colpa degli incubi: ne aveva dall’età di cinque
anni.
E colpa di quel carattere inquieto: di notte usciva in macchina,
magari arrivava sino a Londra, a tre ore di distanza. Arrivava dagli
amici senza annunciarsi, si metteva in un angolo, se ne andava
altrettanto silenziosamente.
Oltre ai problemi caratteriali e di insonnia, da alcuni anni il
musicista soffre di depressione. È in cura presso alcuni dottori e gli
sono stati prescritti diversi medicinali tra cui il Tryptizol. Ecco perché
la mattina del 25 i genitori non si preoccupano se il figlio non scende
a far colazione: routine.
Anche perché, ricorda il padre Rodney, “quella notte si era alzato
ed era sceso in cucina a mangiare un po’ di cornflakes. Lo faceva
spesso quando non riusciva a dormire. Molly lo sentiva passare
accanto alla nostra camera, si alzava e lo raggiungeva in cucina per
parlare con lui. Quella notte non lo sentì”.
Dopo aver sofferto i pesanti sintomi del morbo di Lou Gehrig (la
sclerosi laterale amiotrofica), muore Charles Mingus, uno dei grandi
maestri del jazz del Novecento.
Contrabbassista, compositore e band leader, Mingus aveva
affiancato alla sua arte folgorante un importante impegno sociale per
la tutela dei diritti del popolo afroamericano.
Aveva cinquantasei anni.
Qualche ora dopo la sua morte, cinquantasei balene si spiaggiano
sulle coste messicane.
La vedova Sue Graham Min gus, su specifica richiesta del marito,
qualche settimana dopo porta le sue ceneri in India, alla foce del
Gange, per spargerle nelle acque del sacro fiume. Al tramonto, sotto
una pioggia color turchese, i resti del geniale e mistico jazzista
vengono trasportati dalla corrente insieme a una manciata di fiori
bianchi.
Sei mesi prima della morte, Charlie Mingus aveva individuato in
Joni Mitchell una partner artistica ideale. Da sempre affascinato dalle
qualità poetiche della magnifica cantautrice canadese, Mingus vuole
che Joni scriva i testi per alcune sue musiche, che le arrangi e le
interpreti.
La Mitchell accetta l’invito, ma quando si reca in Messico a casa di
Mingus, il contrabbassista è già molto malato. Gli resta poco da
vivere e quando Joni torna per la seconda volta a fargli visita con
l’obiettivo di suonargli una parte del lavoro, lui la riconosce a stento.
Dopo la sua morte, Joni pubblica un tributo alla musica di Charlie
Mingus: inizialmente bocciato dalla critica, MINGUS diventa nel
tempo uno degli album più apprezzati e prestigiosi della lunga
discografia di Joni Mitchell.
Dei dieci brani presenti, sei sono interamente opera di Joni e
quattro hanno i suoi testi sulla musica del grande maestro.
Tra questi, una strepitosa versione di Good Bye Pork Pie Hat.
Il corpo senza vita di John Simon Ritchie, alias Sid Vicious, viene
trovato nell’abitazione della sua nuova fidanzata, Michelle Robinson.
Causa della morte: overdose.
La sera prima, Vicious e sua madre Anne McDonald erano stati
invitati insieme ad alcuni amici nell’appartamento del Greenwich
Village per festeggiare la sua scarcerazione dalla prigione di Rikers
Island, New York.
Non è un periodo felice per l’ex bassista dei Sex Pistols: il gruppo
punk che gli ha fatto conoscere il successo si è sciolto l’anno prima e
la sua amata fidanzata Nancy Spungen è stata trovata morta
qualche mese prima, il 12 ottobre 1978. Il principale sospettato è
proprio Sid che, in attesa del processo, continua a cacciarsi nei guai.
Una cosa è certa: la notte tra l’1 e il 2 febbraio 1979, Sid e Nancy
si sono finalmente riuniti nel loro piccolo mondo privato, spazzando
via per sempre la realtà con una dose letale di mistero.
La rockstar californiana Lowell George viene trovata morta in una
stanza d’albergo. Il suo cuore non ha retto gli abusi di alcol e droga e
allo stile dissennato di una vita vissuta sempre sulla corsia di
sorpasso.
Trentaquattro anni prima, il 13 aprile 1945, nella sua casa di
Hollywood, il “pellicciaio delle star” Willard H. George, famoso per il
suo allevamento di cincillà, apprende la lieta novella: è diventato
padre per la seconda volta. Chiama il figlio Lowell Thomas e ha una
premonizione: è sicuro che diventerà una stella.
Lowell George dimostra subito di avere talento. Ma non come
attore. La musica è la sua strada: sin da piccolo, infatti, suona
benissimo l’armonica, e addirittura, quando non ha ancora sei anni,
si esibisce insieme al fratello Hampton in un duetto televisivo per le
telecamere di Ted Mack.
Quando poi imbraccia la chitarra stupisce tutti. Insieme a Ry
Cooder, Lowell è uno dei primi bianchi a suonare la slide nella
California degli anni Sessanta.
Notato da Frank Zappa, George milita per qualche tempo nelle
Mothers Of Invention (la band di Zappa) prima di formare il suo
primo, vero gruppo: The Little Feat. Per tutti gli anni Settanta, i Little
Feat e Lowell George diventano una delle migliori espressioni del
sound West Coast. Il loro cocktail sonoro è affascinante e riesce a
mixare in modo magistrale le atmosfere dolci e sognanti della
California del Sud con il calore del blues e il ritmo sincopato della
musica di New Orleans, come dimostrato nel loro album migliore,
DIXIE CHICKEN, pubblicato nel 1973.
Il 2 agosto 1979, il corpo di Lowell George viene cremato a
Washington, ma le sue ceneri tornano nella natia California, dove
vengono sparse nell’Oceano Pacifico dal suo amato battello da
pesca.
Solo due giorni dopo, al Forum di Los Angeles, si tiene un
concerto tributo per Lowell George. Sul palco, tutti i suoi amici
famosi, la crème della West Coast: Little Feat, Jackson Browne,
Linda
ANNI OTTANTA
È notte fonda.
Un uomo siede in una Renault 5 parcheggiata davanti al civico 67
di Overhill Road.
È solo, nessuno lo disturba.
Non c’è un gran viavai nel quartiere residenziale di East Dul wich,
a una ventina di minuti dal centro città, certamente non a quell’ora.
Perciò l’uomo se ne sta lì come alla deriva, in stato d’incoscienza.
Sembra semplicemente addormentato, adagiato com’è sul sedile del
passeggero.
Puzza d’alcol, tanto alcol. In corpo ha una quantità di whisky
sufficiente a corrompere una squadra di rugby.
Resta lì per ore. Si fa giorno ed è ancora lì. Nessuno lo nota.
Passa il pomeriggio e lui è ancora lì, dentro la Renault 5, immobile.
Si fa sera e nessuno reclama la sua presenza.
Qualcuno, però, s’è preso cura di quell’uomo prima di
abbandonarlo. Qualcuno ha reclinato il sedile per farlo stare più
comodo. Qualcuno ha cercato di difenderlo dal freddo con una
coperta. Qualcuno ha lasciato in auto un biglietto con un indirizzo e
un numero di telefono da chiamare in caso di emergenza.
Ma chi è quell’uomo? E com’è finito in quell’auto?
Nel febbraio del 1980 gli AC/DC sono uno dei gruppi rock di
maggiore successo al mondo. Partiti dall’Australia, vale a dire dalla
periferia dell’impero, hanno conquistato il Regno Unito con il loro
hard rock sanguigno e grezzo, brutale e proletario, che piace persino
ai punk infatuati dei Sex Pistols. Solo l’anno prima, grazie a un
album esplosivo titolato HIGHWAY TO HELL, hanno sfondato anche
negli Stati Uniti. La forza del gruppo sta nei riff tagliati con l’accetta
del chitarrista Angus Young, nei concerti divertenti e spettacolari, ma
anche nelle doti del cantante Bon Scott, uno scozzese trapiantato in
Australia dotato di una gran voce e di una gran sete, uno dalla
gioventù tanto scapestrata da essere rifiutato dall’esercito in quanto
“soggetto socialmente disadattato”. Uno che ha soggiornato anche
nella prigione di Freemantle, in Australia, dopo un arresto per
aggressione. Lo descrivono come una specie di hooligan sempre
pronto a mettersi nei guai. Può salire sul palco ubriaco fradicio,
prendere Young sulle spalle e continuare a cantare come se niente
fosse. Va in giro dicendo che “alcol, donnacce, sudore in scena e
pessimo cibo nel backstage non indeboliscono: è tutta salute”.
Non è tutta salute, perché l’uomo abbandonato sul sedile di
quell’auto, a East Dulwich, è proprio lui: Bon Scott.
Ha trentatré anni e pochissime ore da vivere.
Con la notizia della sua morte si diffondono le prime voci.
Si dice che sia rimasto soffocato dal suo stesso vomito, come Jimi
Hendrix dieci anni prima. Si dice che sia vittima di una maledizione,
divorato dall’“autostrada verso l’inferno” di cui egli stesso cantava. Si
dice che le circostanze che ne hanno causato la morte non siano
chiare, che dev’esserci sotto qualcosa, che non si può morire così, a
trentatré anni, in un’auto parcheggiata in un bel vialetto residenziale
di Londra. C’è chi afferma di avere saputo della morte del cantante
prima ancora che un medico ne dichiarasse il decesso: sicuramente,
ragionano, dev’esserci sotto qualcosa.
Si dice sia stato vittima di un’overdose di eroina, oppure che gli
sono stati fatali i fumi dello scappamento indirizzati con un tubo
dentro l’abitacolo.
Si diffonde persino la leggenda metropolitana secondo cui non
sarebbe morto in quella Renault 5, ma sul palco, folgorato da una
scarica elettrica proveniente dal microfono.
Una cosa la si sa: l’uomo che l’ha abbandonato al suo destino,
reclinando il sedile e proteggendo l’amico con una coperta, si
chiama Alistair Kinnear. Sono suoi l’indirizzo e il numero di telefono
scritti su quel bigliettino. È stato lui a portarlo all’ospedale, in un
ultimo vano tentativo di salvarlo. Ha parlato coi medici e con la
polizia, non è un fantasma, eppure per anni si è speculato sulla sua
vera identità. Persino il biografo degli AC/DC, Clinton Walker, s’è
detto dubbioso circa la sua esistenza: sembra sparito nel nulla,
pensa il giornalista, forse Alistair Kinnear non esiste, forse è un
nome di comodo per coprire un amico di Scott o un membro
dell’entourage della band che non vuole rogne.
Nel febbraio del 2005, a venticinque anni esatti dalla morte del
rocker, l’inglese «Guardian» torna sulla storia sposando la tesi di
Walker. Pochi giorni dopo, il giornale deve pubblicare una rettifica:
Kinnear esiste, eccome, era un amico del cantante da un paio
d’anni, da quando cioè aveva diviso un appartamento con un’ex
fidanzata di Scott. Il mensile «Metal Hammer» lo rintraccia sulla
Costa del Sol spagnola. Gli chiede di raccontare di quella sera.
Quella che segue è la sua ricostruzione dei fatti.
North Fuller Street è una delle porte d’accesso del Runyon Canyon
Park, polmone verde tra le colline di Hollywood. Qui si va a correre
al mattino, a fare un po’ di arrampicate o, semplicemente, qualche
sgambata in bicicletta.
L’unico sport che piace a Jan Paul Beahm, ventidue anni, è lo
skateboard.
Ma neppure così tanto.
Lui, l’energia fisica, la libera quando canta con la sua punk rock
band, i Germs.
Il suo idolo è Iggy Pop e un po’ lo imita quando è on stage: si
esibisce a dorso nudo, si infligge ferite, si dimena come un ossesso.
Suona da quando frequenta il liceo.
Lo fa spesso con il suo amico Pat Smear, chitarrista più che
discreto, anche perché, per lui, la musica è terapeutica:
l’adolescenza di Jan Paul è stata un disastro. Cresciuto a Culver
City, non distante dagli studi della MGM, Beahm si ritrova un padre
latitante, una madre alcolizzata e un fratello morto di overdose. Così,
si nasconde dietro pseudonimi (Bobby Pin, quando fonda i
Sophistifuck and the Revlon Spam Queens, e Darby Crash poi) e
trova rifugio nel punk rock, in un mix di letture “pericolose” (da Hitler
a Scientology, da Charles Manson a Herman Hesse), ma soprattutto
nella droga.
L’eroina è la sua preferita.
Oggi s’è comprato una bella quantità di china white, costata ben
400 dollari, e se la vuole sparare tutta in vena.
Ha convinto anche la sua amica più cara, Casey Hopkins (o
Casey Cola, come la chiamano tutti), a fare la stessa cosa: adora
l’idea di diventare una versione americana di Sid & Nancy. Peccato
che Darby sia gay e che Casey Cola non abbia le ambizioni “malate”
della Spungen.
Eppure, Darby ha deciso che oggi è il giorno. E ha chiesto a
Casey di aiutarlo: per questo, i due si sono recati nella casa della
mamma di lei, proprio a North Fuller Street.
“Nessuno di noi pensava che sarebbe vissuto a lungo”, dicevano
gli altri Germs e la loro produttrice-manager, Michelle Ghaffari.
“Non ho futuro”, era solito affermare Darby.
Lo ripete pochi giorni prima, il 3 dicembre, quando si esibisce per
l’ultima volta allo Starwood Club, uno dei templi del punk
losangelino, a West Hollywood.
Ha voluto fare una reunion dei Germs perché, ha dichiarato al
pubblico, “così vi rendete conto di che cosa eravamo quando
stavamo in giro…”.
“Ma non pensiate che ritorni su un palco”, aveva concluso.
Darby ha deciso di farla finita.
Lo ha detto più volte (“Un giorno pregherete per me”) e più volte si
è sparsa la voce che lui sia morto.
Ma oggi, i rumors diventano realtà.
Darby fa un patto di sangue con Casey: tutti e due, oggi, si
uccideranno.
Dopo essersi iniettato la droga, Darby appiccica un biglietto sul
muro con una freccia: sopra ci scrive “Here lies Darby C…” (qui
giace Darby C).
Non finisce la frase perché crolla a terra, proprio dove, in modo
macabro, indica la freccia.
Casey si è appena svegliata quando trova il suo amico senza vita.
Mantiene la promessa: si inietta la droga e va presto in overdose.
Quando sul luogo giungono i soccorsi, Casey Cola è priva di
conoscenza, ma non è morta. Forse è più forte di Darby, forse è solo
più fortunata.
Anche Michelle Ghaffari arriva a North Fuller Street.
“Non è vero che Darby Crash giacesse sotto il biglietto nella
posizione del Cristo in croce. Semplicemente, era morto”.
La sorella maggiore di Darby, Christine, è la prima della famiglia
ad essere avvertita. Ma la notizia della morte di Darby Crash si è
ormai diffusa in città. E, per alcuni, offusca persino la morte di John
Lennon che accade solo qualche ora più tardi.
“Imagine there’s no Darby…”, canta tristemente qualcuno.
Christine e la madre organizzano la funzione funebre per venerdì
12, alla Wayside Chapel, alle undici del mattino.
La comunità punk losangelina è presente al gran completo.
Un amico, parafrasando Patti Smith, mostra un cartello con la
scritta: “Darby Crash died for somebody’s sins. And they were his
own” (Darby Crash è morto per i peccati di qualcuno. Per i suoi).
Gli altri si dirigono verso il feretro e sputano sul cadavere.
Jan Paul Beahm aveva ventidue anni.
Viene seppellito all’Holy Cross Cemetery di Culver City.
22 giugno 1981.
È il primo giorno del processo all’assassino di John Lennon.
La stampa e i curiosi vengono tenuti fuori dalla sala dove si tiene
l’udienza. Fino a un paio di settimane prima, la difesa ha sostenuto
la tesi dell’infermità mentale. Adesso invece Chapman ammette la
colpevolezza.
24 agosto 1981.
Viene pronunciata la sentenza del caso “Stati Uniti contro Mark
David Chapman”: condanna tra i vent’anni e l’ergastolo e nessuna
possibilità di chiedere la libertà vigilata prima del nuovo millennio.
Chapman viene portato nel carcere di Attica, nei pressi di Buffalo,
New York, lo stesso cantato da Lennon nella canzone Attica State.
14 dicembre 1980.
Milioni di persone nel mondo osservano un minuto di silenzio in
onore di John Lennon, come chiesto da Yoko Ono. A Central Park si
radunano cinquanta, forse centomila persone.
Il singolo (Just Like) Starting Over diventa uno dei più comprati
nelle festività natalizie e il giorno della Vigilia vende la sua
milionesima copia. Ironicamente, la canzone esprime la rinnovata
fiducia di John nel futuro e nella sua relazione con Yoko.
Alla fine del 1980, un ragazzo di nome John Hinckley immortala i
suoi sentimenti sul nastro di un registratore portatile: “Voglio dire
addio al vecchio anno, che ha portato solo miseria e morte. John
Lennon è morto, il mondo è finito. Tutto ciò che farò nel 1981 sarà
solamente in nome di Jodie Foster: voglio dire al mondo intero che
l’adoro”. Troverà un modo brutale per farlo: sparare al Presidente
degli Stati Uniti, Ronald Reagan.
Nonostante Mark David Chapman sia considerato un prigioniero
modello, il 5 ottobre 2004 gli viene nuovamente negata la libertà
sulla parola.
Vive in una cella da solo: si teme ancora che qualcuno possa
ucciderlo.
Dicono lo aspetti il medesimo, tragico destino di Lennon, se mai
un giorno dovesse lasciare quella cella.
In un modo o nell’altro, Mark David Chapman è colpevole per
l’eternità.
Il corpo senza vita del cantautore Tim Hardin, trentanove anni, viene
rinvenuto dalla polizia nel suo appartamento. Il verdetto del coroner
è lapidario: “Decesso dovuto a intossicazione acuta di eroina e
morfina”.
Da pochi mesi, Hardin è tornato a vivere negli Stati Uniti, a
Seattle, dopo un lungo soggiorno in Inghilterra per poter stare vicino
al figlio Damion, avuto dal matrimonio con Susan Morss, suo più
grande amore nonché musa ispiratrice, che Tim ha sposato nel
1966.
Alla donna e al figlio, Tim aveva dedicato l’intero album SUITE
FOR SUSAN MOORE AND DAMION: WE ARE ONE, ONE, ALL IN
ONE.
Nella città americana, Hardin era riuscito a vincere l’ennesima
battaglia contro una tossicodipendenza che durava da oltre dieci
anni, ma la droga aveva ormai minato in modo irreparabile il suo
fragile sistema psicologico: era impossibile stargli vicino, si
comportava in modo violento e insostenibile. Fisicamente, poi, era
irriconoscibile persino per i suoi amici di vecchia data: del magro e
fragile ragazzo di un tempo non c’era più traccia.
Adesso Tim Hardin era sciupatissimo, calvo e sovrappeso. Era
però riuscito a tornare in studio di registrazione con il suo vecchio
produttore Don Rubin e aveva inciso due brani per un possibile
nuovo disco.
Per questo si era trasferito a Los Angeles.
In Inghilterra c’era andato perché il servizio sanitario locale
permetteva ai tossicodipendenti una dose di eroina gratuita. Qui si
era anche riconciliato brevemente con la moglie Susan, ma poi era
giunto al punto di vendere tutti i diritti sulle sue canzoni per poter
acquistare sempre più droga.
Il suo songbook comprendeva brani epocali come If I Were A
Carpenter e Reason To Believe, portate al successo da Johnny
Cash, Bobby Darin o dagli Small Faces.
Successi straordinari, ma soprattutto canzoni bellissime, senza
tempo.
C’è chi dice che soffra di manie depressive, chi di schizofrenia, c’è
chi vorrebbe sottoporlo a cure con droghe allucinogene.
Nella casa della baronessa, Monk sta tranquillo.
C’è anche un piano for te, ma lo tocca raramente. Ancora più
raramente incontra persone.
Il 17 febbraio 1982, un ictus pone fine all’enigma del “Monaco
pazzo”, che muore a sessantaquattro anni. Thelonious Monk viene
seppellito nel cimitero di Ferncliff, ad Hartsdale, New York.
Nel 1993, gli verrà consegnato il Grammy Award alla carriera.
Nel bungalow numero 3 del Chateau Marmont, lussuoso hotel sul
Sunset Boulevard di Los Angeles, viene trovato il corpo senza vita
dell’attore John Belushi.
Causa della morte: overdose.
La sera prima, Belushi sarebbe dovuto passare dal Guitar Centre
a ritirare una preziosa sei corde costruita apposta per il chitarrista
Les Paul.
In realtà, con i 1.500 dollari che gli ha dato il suo manager Bernie
Brill stein, John si compra un pedale per la cassa della sua batteria
e, soprattutto, fa rifornimento di eroina e coca. Con lui, c’è Catherine
Smith, una ex groupie piuttosto nota nell’ambiente dello show
business californiano.
I due bevono qualche drink in un locale sopra il Roxy, uno dei
music club più famosi della Città degli Angeli, e quindi si recano al
Rainbow Bar & Grill per una rapida cenetta. Quando tornano al
Chateau Marmont, vengono raggiunti da Robin Williams, Robert De
Niro e da alcune starlette per un party improvvisato.
Sono le otto e un quarto di sera. Lester Bangs sta rientrando nel suo
appartamento al numero 542 della Sesta Strada, a nord della
Quattordicesima.
Non si sente bene.
Dev’essere quella brutta influenza che c’è in giro che lo sta
abbattendo da un paio di giorni. Il suo vicino di casa (Abel Shaker) lo
vede, lo saluta e capisce che qualcosa non va.
“Tutto bene Les?”.
“Sì, sto una meraviglia…”.
Lester diceva sempre a tutti così: sto una meraviglia… E mai,
come negli ultimi sei mesi, aveva detto la verità: aveva smesso con
le droghe e persino il suo loft (celebre per il degrado e lo squallore)
sembrava rimesso a lucido. Lester entra in casa, non chiude
nemmeno la porta, mette sul piatto del giradischi il suo album
preferito di quei giorni e crolla sul divano: nel giro di mezz’ora la sua
amica Nancy Stillman arriverà per una serata di musica.
Vuole riposarsi un pochino.
Quando Nancy arriva, vede Lester sul divano, a faccia in giù, con
un braccio che penzola. È una posa abituale per lui, quando sta
dormendo.
Solo che stavolta Lester non dorme…
Sul piatto sta girando il miglior album degli Human League
(DARE), ma Lester Bangs, il più famoso giornalista rock della storia,
non lo sta più ascoltando. È morto da qualche minuto, forse per una
dose d’eroina tagliata male, forse per un mix letale di droga e
farmaci ingeriti per curare l’influenza.
Il ragazzo che aveva mandato la sua prima recensione a «Rolling
Stone» con una nota a pie’ di pagina (“Se non la pubblicate, mi
dovete spiegare il perché”) ora giace senza vita, senza ancora aver
compiuto trentaquattro anni, come molti dei suoi eroi musicali.
Eccentrico, irriverente, trasgressivo e geniale, Lester Bangs è
stato il “Jimi Hendrix della critica rock”: talmente originale che tentare
di copiarlo diventa un’operazione ai confini del ridicolo.
Bangs non ha mai avuto timore di stroncare i grandi, specie
quando i grandi sbagliavano.
Solo per un artista ha avuto una predilezione speciale: Lou Reed.
Nel 1967, alla Elbow Room, incontra Steve Winwood e con lui
inventa i Traffic.
Suona in tutti i dieci album ufficiali del gruppo, partecipa con
Winwood alle session del leggendario ELECTRIC LADYLAND di
Jimi Hendrix, si unisce alla band di Ginger Baker, suona con John
Martyn, parte per l’America per un tour insieme a Dr John. Lì si
innamora e sposa una delle coriste del dottore di New Orleans (la
bella Jeanette Jacobs). Poi, ritorna in Inghilterra.
Mette in piedi un suo studio di registrazione a Birmingham e inizia
a lavorare a VULCAN, e cioè a quello che sarebbe dovuto essere il
suo primo album da solista.
Ma la salute comincia a rendergli la vita difficile.
Il 1° gennaio 1982, l’ex moglie Jeanette muore improvvisamente.
Chris, che le era molto attaccato, prende malissimo la notizia.
Da quel momento inizia la sua inarrestabile discesa verso il fondo.
Di lui, si ricordano le delicate melodie suonate al flauto e i
folgoranti assolo di sax. Insieme ai Traffic assolutamente
indimenticabile è la versione neofolk della ballad tradizionale John
Barleycorn, presente nella cultura anglo-scoto-irlandese e incentrata
su un personaggio popolare, che è poi lo spirito e l’incarnazione
della birra e del whisky, proprio come la metafora usata
nell’omonimo romanzo di Jack London contro l’alcolismo.
Il corpo senza vita del chitarrista dei Red Hot Chili Peppers viene
rinvenuto nel suo appartamento. È tornato da poco dal tour europeo
ed è morto da due, forse da tre giorni.
Causa del decesso: overdose di eroina.
Le cattive abitudini di Hillel Slovak non sono un segreto: l’uso di
droga l’ha reso inaffidabile.
“Aveva problemi di droga da tempo e cercavamo di farlo
smettere”, ha detto la manager del gruppo Lindy Goetz. “Negli ultimi
tempi sembrava relativamente pulito: credo che tornare a casa dal
tour non gli abbia giovato”.
Domenica 3 giugno: Stiv Bators, ex leader della band punk rock The
Dead Boys e dei Lords of the New Church, ha appena attraversato
la strada: sta aspettando che la fidanzata Caroline Warren esca da
un centro commerciale, quando, improvvisamente, viene urtato da
un taxi in prossimità del marciapiede.
L’impatto è violento, ma il cantante sembra non riportare ferite
evidenti. All’arrivo di Caroline, Stiv racconta l’accaduto e lei lo
convince a recarsi in ospedale per accertamenti.
Dopo alcune ore trascorse in attesa di essere visitato, però, Bators
perde la pazienza: si sente bene e non ha alcuna intenzione di
sprecare altro tempo aspettando un medico che sembra non arrivare
mai.
Dopotutto, pensa, ci vuol ben altro per mettere al tappeto uno che
la morte l’ha già guardata negli occhi, e l’ha sconfitta.
Alcuni anni addietro, infatti, nel corso di un concerto dei Lords of
the New Church, Bators era morto.
Proprio così: i medici lo avevano dichiarato morto per circa due
minuti, dopo che una delle sue performance estreme era andata a
finire male. Il frontman si stava cimentando in un
autostrangolamento con il filo del microfono e alcuni fan un po’
troppo zelanti avevano deciso di prendere parte a questa specie di
macabro rito, senza rendersi conto, però, che il troppo entusiasmo li
aveva portati a stringere in modo eccessivo il cavo.
Bators era diventato cianotico, non respirava più e, trasportato
d’urgenza in ospedale, era stato dichiarato morto.
Gli ingredienti per una tragedia punk rock c’erano tutti, eppure la
Signora con la falce aveva deciso di rispedirlo al mittente. Da quel
momento, questo sarebbe diventato uno dei motti preferiti di Stiv:
“Una volta sono morto sul palcoscenico. Cristo santo, non è
possibile fare di meglio!”.
Già, meglio di così non si poteva proprio fare: Stiv, però, non
avrebbe mai immaginato che la Morte sarebbe tornata a riscuotere il
suo debito così presto, né tantomeno che sarebbe arrivata in taxi.
Durante la notte, Caroline si accorge che Stiv respira a fatica e
decide di chiamare un’ambulanza: Steven John Bator, quarant’anni,
muore durante il trasporto in ospedale per una commozione
cerebrale causata dal banale incidente stradale in cui era stato
coinvolto solo poche ore prima.
Si dice che le sue ceneri siano state sparse da Caroline sulla
tomba dell’idolo di Stiv, anch’egli deceduto a Parigi: Jim Morrison.
Poco meno di un anno dopo, morirà in circostanze misteriose
anche l’amico Johnny Thunders (New York Dolls, The
Heartbreakers), fondatore insieme a Bators e Dee Dee Ramone dei
Whores of Babylon.
È notte. Per Yngve Ohlin, in arte Dead, vocalist dei MayheM, band di
riferimento della scena black metal norvegese, viene trovato morto
nel covo del gruppo, una fatiscente abitazione situata a Oslo.
Il cantante, un ventiduenne noto per il suo carattere asociale e
instabile, si è sparato un colpo di fucile alla testa dopo essersi
tagliato le vene.
Vicino al corpo c’è un biglietto che recita: “Scusate per tutto
questo sangue”.
A rinvenire il corpo è il chitarrista e fondatore del gruppo, Øystein
Aarseth, in arte Euronymous, che alla vista dell’amico morto, in una
pozza di sangue e con il cranio letteralmente esploso, si eccita.
Così, invece di chiamare immediatamente la polizia, si reca in
fretta e furia al più vicino negozio per comprare un rullino e
realizzare un macabro servizio fotografico, dal quale in seguito trarrà
la copertina di un bootleg dal titolo DAWN OF THE BLACK
HEARTS.
Nessuno sa con esattezza cosa sia successo quella notte prima
dell’arrivo della polizia, ma la leggenda vuole che, per celebrare
degnamente la morte dell’amico, Euronymous abbia radunato i
membri del gruppo e insieme abbiano raccolto alcuni pezzi del
cervello di Dead e svariati frammenti del suo cranio: i primi, una volta
mangiati, avrebbero infuso loro la saggezza del cantante, mentre i
frammenti di osso sarebbero diventati delle specie di monili utili per
“ricordare”.
Dopotutto, deve aver pensato Euronymous, l’amico sarebbe stato
soddisfatto da un tale rito funebre. Dead era convinto di non
appartenere a questo mondo. Prima dei concerti, si diceva facesse
“inalazioni particolari”, aspirando da una busta di plastica contenente
un corvo in avanzato stato di decomposizione: pare che questa
pratica lo aiutasse ad assimilare l’essenza della morte.
Non è dato sapere se quel singolare rito funebre abbia funzionato,
però possiamo affermare con certezza che la nuova saggezza
acquisita non ha certo allungato la vita di Euronymous.
Poco più di due anni dopo, il 10 agosto del 1993, il chitarrista
riceve una visita nel suo appartamento di Oslo: sono circa le cinque
del mattino quando Varg Vikernes, conosciuto anche col
soprannome di Count Grishnackh, bussa alla porta.
Grishnackh, oltre a suonare il basso con i MayheM, è anche il
fondatore di Burzum, uno dei progetti musicali prodotti dalla
Deathlike Silence Productions, l’etichetta di Euronymous: sostiene
che questi gli sia debitore di una bella somma di denaro e, oltretutto,
non è affatto contento della gestione del progetto Burzum.
Tra i due nasce un diverbio; a un certo punto, Grishnackh estrae
un coltello, colpisce svariate volte Euronymous ferendolo a morte e
si dà alla fuga.
Catturato dalla polizia, Grishnackh viene condannato a ventun
anni di prigione, ma da quel momento in poi sosterrà sempre di aver
agito per legittima difesa e di essersi recato a casa della vittima
armato perché gli era giunta voce che questi, attirandolo a sé con la
scusa di un contratto, in realtà avesse intenzione di torturarlo a
morte e di riprendere il tutto con una telecamera.
Non sappiamo quali fossero le vere intenzioni di Euronymous,
venticinque anni, ma pare proprio che nessuno si sia cibato del suo
corpo per acquisirne la saggezza…
Sono circa le sei e mezzo del mattino, quando un automobilista che
sta transitando su una strada provinciale della contea di Essex, nella
campagna londinese, vede un cottage che sta andando a fuoco.
Chiama immediatamente i pompieri, che giungono sul luogo in pochi
minuti. “L’incendio non è facile da domare”, dice Keith Dunatis, capo
dei vigili del fuoco, “ha invaso il piano superiore della villetta”.
Proprio nella camera da letto, Dunatis e la sua squadra di
soccorso trovano il corpo esanime di Steve Marriott, ex leader delle
rock band inglesi Small Faces e Humble Pie.
La sera prima, Marriott è tornato da New York dove ha preso
accordi per registrare un nuovo disco con Peter Frampton, suo
vecchio amico e compagno d’avventura con gli Humble Pie.
Per le autorità non sembra esserci alcun dubbio: non c’è ragione
di aprire un’inchiesta ufficiale, si tratta semplicemente di un altro
caso di morte per overdose.
Eppure, alcune persone vicine a Thunders affermano che il
musicista da qualche tempo non faceva più uso di eroina e si stava
sottoponendo a una terapia di disintossicazione a base di metadone.
Stando alle dichiarazioni della sua biografa Nina Antonia, inoltre,
la quantità di droga rilevata nel suo organismo non sarebbe stata
letale. Dalla camera di Thunders mancano diversi effetti personali,
ma questo non è l’unico aspetto poco chiaro della vicenda: il suo
manager Mick Webster sosterrà in più occasioni che la polizia di
New Orleans non si è dimostrata affatto interessata a far chiarezza
sulla morte del musicista. Le ripetute richieste della famiglia di
riaprire le indagini, però, vengono ignorate: “Erano convinti che si
trattasse di uno dei tanti tossici di passaggio. La verità non li
interessava”.
La sorella di Thunders solleverà dei dubbi anche sull’attendibilità
del coroner e rivelerà che il fratello era gravemente malto di
leucemia, un terribile segreto che il musicista aveva deciso di tenere
per sé: “Sono convinta si sia trattato di omicidio”, dirà. “I suoi vestiti, i
soldi, il passaporto, perfino i suoi trucchi di scena erano spariti dalla
stanza, e la polizia non si è nemmeno presa la briga di isolare il
luogo del crimine”.
Anche il chitarrista di Johnny, Stevie Klasson, è della stessa
opinione: subito dopo la sua morte, racconta all’amico Dee Dee
Ramone che Thunders era stato preso di mira da alcuni “bastardi
intenzionati a sottrargli la sua scorta di metadone”.
Questi individui lo avrebbero drogato per poi ucciderlo e derubarlo.
Tuttavia, la polizia archivierà il caso e non si saprà mai se
Thunders sia morto accidentalmente o per mano di qualche balordo:
ciò che sappiamo è che aveva trentotto anni, la sua leucemia era in
uno stadio avanzato e, stando alle dichiarazioni di Klasson, “aveva
intenzione di lasciarsi alle spalle l’eroina”.
Purtroppo non c’è riuscito, e il 23 aprile 1991 se n’è andato
lasciandosi alle spalle una vita troppo breve, un’ex moglie e quattro
figli che non vedeva da circa dieci anni.
È da poco passata l’una del pomeriggio, quando nella sua bella casa
di Sherman Oaks, nella San Fernando Valley, una delle zone di Los
Angeles più abitate da latinoamericani, viene ritrovato il corpo senza
vita di Gene Clark, quarantasei anni, membro fondatore e voce
solista della rock band californiana The Byrds.
Il coroner, sul referto, scrive che la “morte è dovuta a cause
naturali: probabilmente un’ulcera”.
Il giorno prima, Clark era stato dal dentista per un intervento
piuttosto complicato e si trovava sotto sedativi. In realtà, chi lo
conosce bene, sa che quella di Gene è una lunga storia di droga e
alcol.
Sempre nascosta, mai risolta.
In aprile, le sue ultime apparizioni pubbliche: dopo aver inciso con
Carla Olson un nuovo disco e aver fatto qualche data con lei in
Inghilterra, Clark si esibisce per quattro serate al Cinegrill di
Hollywood.
Canta male e ha un aspetto orribile.
Qualche mese prima, il 16 gennaio 1991 – dopo anni di scontri,
litigi e battaglie legali con gli altri membri del gruppo – Gene Clark si
riappacifica con David Crosby, Roger McGuinn e Chris Hillman in
occasione della grande reunion dei Byrds voluta dalla Rock and Roll
Hall of Fame al Wal dorf Astoria di New York, nella stessa sera in cui
il pre sidente americano George Bush dichiara guerra all’Iraq.
Dopo la morte, il corpo di Gene viene sepolto nella città natale di
Tipton, Missouri.
Sulla piccola lapide della tomba una scritta: “Harold Eugene Clark
– No Other” (nessun altro), proprio come il titolo del suo album
solista più bello e suggestivo.
È una calda mattina d’estate. Una delle tante che si susseguono per
mesi, qui, nella Southern California, nella grande contea della Città
degli Angeli.
Jeff Porcaro, trentotto anni – fondatore e batterista della
popolarissima rock band Toto – oltre alla musica coltiva un’altra
grande passione: la famiglia. Da quando, quasi dieci anni prima, ha
sposato Susan Norris – una giornalista televisiva che aveva
conosciuto dopo che lei lo aveva intervistato – il suo passatempo
preferito è stare con lei e i tre figli: Christopher, Miles e l’ultimo
arrivato, il piccolissimo Nico Hendrix.
Stamattina, ha deciso di fare giardinaggio.
Spruzza un po’ di pesticida ma, inavvertitamente, finisce per
inalarne una certa quantità. Quasi subito si sente male.
Chiama la moglie, si sdraia sul divano.
“Sento che il cuore che mi sta scoppiando”, le dice.
Susan Porcaro telefona immediatamente al 911.
Un’ambulanza giunge nel giro di pochissimi minuti. Ma non in
tempo per salvare la vita del grande batterista: un infarto lo stronca
in modo spietato. L’autopsia rivela che le condizioni del cuore di
Porcaro erano già seriamente compromesse.
Vengono rinvenute anche tracce di cocaina.
“Posso giurare sulla testa dei miei figli che Jeff non era un
tossicodipendente”, dichiara Susan alla CNN qualche mese dopo la
morte del marito.
Nonostante la sua strenua difesa e il referto medico che fa risalire
le cause dell’attacco cardiaco a un’allergia ai pesticidi – ma anche
alle compromesse condizioni cardiache di Porcaro – qualche dubbio
e molte speculazioni continuano a creare una sottile nebbia intorno
alla fine del fondatore dei Toto. Il cui funerale – con 1.500 presenti –
si svolge il 10 agosto nella Hall of Liberty, al Forest Lawn Memorial
Park. Nello stesso cimitero di Hollywood Hills, viene sepolto il corpo
del musicista.
Nell’università in cui Jeff ha studiato da ragazzo – la Grant High
School di Los Angeles – si crea un fondo apposito, il Jeff Porcaro
Memorial Fund, per finanziare progetti musicali.
Il 14 dicembre, all’Universal Ampitheater, si svolge un concerto
benefico per attivare un fondo a favore dei figli di Jeff. Partecipano i
Toto al completo, più Boz Scaggs, Donald Fagen, Michael McDonald
ed Eddie Van Halen.
GG Allin, il punk rocker più estremo che l’America abbia mai cono
sciuto, muore nel sonno a soli trentasei anni nell’appartamento
dell’amico John Handley Hurt. Causa della morte: overdose di
eroina.
La notte del 27, GG aveva tenuto quello che sarebbe stato il suo
ultimo show al Gas Station, un club nell’East Village, ma dopo solo
un paio di brani aveva trasformato il locale in un vero e proprio
campo di battaglia ed era intervenuta la polizia.
Durante le sue infuocate performance, Allin era solito procurarsi
delle ferite con un coltello, auto-mutilarsi, colpire gli spettatori delle
prime file con l’asta del microfono, incoraggiarli a fare sesso orale
insieme a lui, oppure masturbarsi e cospargersi di feci sul palco per
poi abbracciare qualche malcapitato di turno.
Anche quella sera, ovviamente, GG aveva fatto del suo peggio, e
quando il concerto era stato interrotto era andato su tutte le furie:
aveva iniziato a colpire chiunque gli capitasse a tiro e aveva
sfondato una porta a vetri con la testa, trasformando il proprio volto
in una maschera di sangue.
Quindi, era riuscito a sgattaiolare fuori dal locale nella confusione
generale, mettendosi a scorrazzare completamente nudo e cosparso
di escrementi per le strade di Manhattan, seguito da un nutrito
gruppo di sostenitori che, come lui, non avevano alcuna intenzione
di terminare la serata prima del previsto.
È circa l’una del mattino. Mia Zapata, cantante e leader del gruppo
punk rock The Gits, esce dal Comet Tavern, il suo bar preferito nella
zona residenziale di Capitol Hill, dove ha trascorso la serata
bevendo in compagnia di alcuni amici.
Vuole raggiungere il suo ex fidanzato Robert Jenkins nelle
immediate vicinanze, al Pancreas Production Studio, dove ha
provato col suo gruppo per tutto il pomeriggio.
La loro relazione è diventata insostenibile: Mia è arrabbiata,
amareggiata e ha assolutamente bisogno di parlargli per chiarire le
cose, una volta per tutte. Non trovandolo, decide di salire
nell’appartamento situato sopra lo studio di registrazione per far
visita a T.V., un amico che tempo addietro faceva il corista con lei in
un’altra formazione.
Sono circa le due del mattino quando si congeda dall’amico con
l’intenzio ne di tornare a casa in taxi: il suo appartamento, che
condivide con un’altra persona, si trova solamente a pochi chilometri
di distanza. Mia indossa degli short di jeans, stivali neri e una felpa
nera con la scritta “The Gits”.
A casa non ci arriverà mai. Il suo corpo viene rinvenuto da una
prostituta, nota nell’ambiente con il nome di Charity, verso le tre e
mezzo sulla Ventiquattresima Avenue South, a metà strada tra
l’appartamento dell’amico e la sua abitazione, in un vicolo cieco.
Gli infermieri arrivano sul posto in seguito a una segnalazione
telefonica ricevuta dai vigili del fuoco di Seattle, ma ormai è troppo
tardi: ogni tentativo di rianimazione si rivela vano.
Qualcuno l’ha assalita, picchiata violentemente, barbaramente
stuprata e infine strangolata con il cordoncino del cappuccio della
sua stessa felpa. Stando ai rapporti, “l’indumento è sollevato fin sotto
le braccia, mentre gli slip, il portafogli e il reggiseno strappato della
vittima sono stati infilati in una tasca degli short”.
Il cadavere giace a terra con le braccia aperte e le caviglie
accavallate, quasi a voler simboleggiare una crocifissione: per la
polizia questo potrebbe ricondurre a un crimine a sfondo religioso, o
comunque a un omicidio consumato in una casa o in una macchina,
con successivo abbandono del corpo.
Il medico legale riferisce che, se non fosse stata strangolata,
probabilmente sarebbe morta per le ferite interne provocate dai
maltrattamenti subiti: la violenza con cui è stata assalita è
estremamente brutale.
Presto le indagini giungono a un punto morto, e il delitto rimane
irrisolto per ben undici anni.
Quale altro motivo, del resto, potrebbe avere Edwards per lasciare
l’autovettura da quelle parti? O ha lasciato l’auto per prendere un
passaggio da uno sconosciuto?
Comunque sia, da quel momento non ci sono più tracce del
musicista. Solo segnalazioni.
La più credibile è quella di un fan del gruppo, che il 5 febbraio
avrebbe parlato a Newport col rocker. E un’altra fan tedesca avrebbe
ricevuto una cartolina dal cantante datata 13 febbraio. Le teorie si
sprecano: un’universitaria è convinta che Edwards sia andato in
Germania per onorare il cinquantesimo anniversario dell’Olocausto.
Ma il caso resta irrisolto.
Quando, nel 2002, alcuni pescatori trovano i resti di due piedi nel
fiume, la memoria corre a Edwards. Ma il test del DNA prova che
appartengono a un tale Damien Allen, ventiquattro anni, suicida.
Non la si vede tutti i giorni una popstar al Days Inn. Eppure questa
mattina ce n’è una. È Selena, la “regina della musica tejano”, un
idolo dei messicani immigrati negli Stati Uniti.
La considerano una di loro: Selena Quintanilla-Pérez è figlia di
padre messicano e di madre americano-messicana. Non è gente
ricca: è stata lei, col suo talento, a dare il benessere alla famiglia,
che l’ha supportata fino a quando ha inciso il suo primo disco,
nemmeno tredicenne.
I suoi dischi vendono milioni di copie e scalzano dalla vetta della
classifica quelli di Gloria Estefan; ha la casa piena di Grammy; la
Coca-Cola l’ha voluta come testimonial; è apparsa in un film con
Marlon Brando e Johnny Depp.
Non ha nemmeno ventiquattro anni ed è già un simbolo per
un’intera comunità, che ne apprezza la miscela tra la presenza
scenica brillante e il legame coi valori famigliari tradizionali.
Che ci fa una come lei al Days Inn?
Selena è venuta a par lare con Yolanda Sal dívar. La donna,
trentacinque anni, gestisce gli affari del fan club ufficiale della
cantante e della sua boutique. E ci specula.
Quintanilla ha scoperto che Saldívar distrae soldi dall’impresa.
L’ha quindi licenziata e le ha dato appuntamento al Days Inn, per
rientrare in possesso di alcuni documenti fiscali.
Si incontrano, ma Saldívar pone la popstar davanti a un fatto
imprevisto: è stata violentata in Messico. È una tattica per rimandare
la consegna del materiale?
Selena porta immediatamente la donna in ospedale: sono
all’incirca le dieci del mattino. I medici affermano che non vi è alcun
segno di stupro.
Si torna al Days Inn, ma la richiesta dei documenti è nuovamente
inevasa.
Sono le undici e quarantanove, quando in una camera del motel
Saldívar estrae dalla borsetta una pistola calibro 38. Selena si gira
per raggiungere la porta e la donna le spara alla schiena.
Accompagnata dagli insulti della Saldívar (“Bitch!”), la cantante
riesce a raggiungere la lobby. “Aiutatemi, vi prego. Mi hanno
sparato”, dice a una receptionist di nome Shawna Vela, che prima di
chiamare il 911 raccoglie le ultime parole della cantante: “È stata
Yolanda Saldívar”, dice, “nella stanza numero 158, chiudetela dentro
prima che mi spari di nuovo”.
Il tour bus dei Blind Melon staziona dalle sette di mattina davanti al
Tipitina’s. In serata il gruppo si dovrà esibire proprio lì, in uno dei
localisimbolo della Big Easy.
Verso mezzogiorno, il fonico Lyle Eaves entra per svegliare il
cantante Shannon Hoon: lo trova privo di coscienza. Viene chiamata
un’ambulanza, ma i medici accorsi sul posto non possono che
constatare la morte del rocker: Hoon, ventotto anni, è spirato alcune
ore prima.
Sono le tredici e venti. Causa del decesso: overdose accidentale
di droga. Il cantante ne ha assunta una gran quantità durante nella
notte.
È da tempo che Hoon flirta con la droga: leggere e pesanti,
allucinogeni e cocaina, erba ed eroina.
Nell’ultimo anno, dicono gli amici, non è più lui. Quando è fatto o
beve troppo, si comporta in modo detestabile.
Arrestato per possesso di marijuana, ha preso a calci il finestrino
della macchina della polizia. Nel 1993 è stato nuovamente arrestato
dopo avere urinato su un fan, durante un concerto a Vancouver. E in
quello stesso anno non si è fatto alcun problema a fumare marijuana
sul palco.
Nel 1994, sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, si è scazzottato
con un addetto alla sicurezza durante i Billboard Music Awards.
La nascita nel luglio 1995 della figlia Nico Blue lo ha convinto a
disintossicarsi. “Sono un uomo diverso”, va dicendo. Ma è uscito
dalla clinica anzitempo per imbarcarsi nel tour di supporto del
secondo album della formazione, SOUP, uscito ai primi di ottobre, e
nel giro di pochissime settimane Hoon ha ceduto nuovamente ai vizi.
“È stata una perdita devastante”, ha commentato a caldo il
manager Chris Jones. “Lottava con la droga da tempo. L’ho spedito
a ripulirsi due volte, ma è difficile capire quanto una persona è
dentro quella roba”.
Secondo il chitarrista Rogers Stevens, “la morte di Shannon è
stata una sorpresa: in passato era messo molto peggio, allora sì che
mi aspettavo da un momento all’altro una chiamata. Passava giorni
interi senza nemmeno mangiare, né dormire. Invece, quando è
morto, era appena uscito dalla disintossicazione, sembrava in
salute”.
Il giorno stesso della tragedia, i Blind Melon si riuniscono per
decidere il da farsi: continueranno a suonare. Arriveranno anche a
riesumare il nome, prima per un tour, poi per un album pubblicato nel
2008 e cantato da Travis Warren.
Shannon Hoon è sepolto a Dayton, Indiana. La sua tomba porta
iscritte le parole di una sua canzone intitolata Change: “So che non
possiamo restare tutti qui per sempre”.
Un anno dopo i fatti, verrà pubblicato un disco “postumo” dei Blind
Melon dedicato alla figlia di Hoon e chiamato come lei, NICO.
Nel tardo pomeriggio, mentre sta atterrando l’aereo che porta i suoi
musicisti nella città che negli anni Cinquanta era stata l’indiscussa
capitale del rock’n’roll, Jeff Buckley esce con un amico di nome Keith
Foti.
Indossa stivaletti neri e una T-shirt con la scritta ALTAMONT,
macabro souvenir del celebre festival rock svoltosi in un autodromo
del Nord California nel dicembre 1969. Lo stesso in cui i malfamati
Hell’s Angels, ingaggiati dai Rolling Stones come security,
pugnalarono Meredith Hunter, giovane fan afroamericano che, nei
pressi del palco, pareva mostrare eccessivo entusiasmo per i suoi
eroi Jagger & Richards. Gli Angels sostennero che Hunter
impugnasse una pistola. Di fatto, Altamont chiuse nel sangue il
decennio più rivoluzionario del Novecento e mise la parola fine alla
favola pacifista dei figli dei fiori.
All’inizio del 1997, Jeff Buckley ha molte canzoni pronte e un titolo
per il suo nuovo album, MY SWEETHEART THE DRUNK.
L’anno precedente, mentre si trova in studio con Patti Smith, ha
conosciuto Tom Verlaine, chitarrista dei Television e icona punk-rock.
A lui decide di affidare la produzione delle prime tracce del nuovo
disco.
Tra i brani incisi, uno s’intitola The Sky Is A Landfill ed è ispirato a
un saggio del giornalista Al Giordano sul potere nefasto dei mezzi di
comunicazione.
Buckley non è completamente soddisfatto del materiale che ha
inciso con Verlaine tra l’estate del ’96 e i primi mesi del ’97. Ma
incolpa solo se stesso. Secondo il batterista Parker Kindred, “Jeff
voleva organizzare una festa durante la quale avrebbe fatto un falò
dei nastri di Verlaine”.
Per l’artista, è un periodo di grande stress e di tensioni con la
band.
Sul suo diario si descrive “impreparato a fronteggiare il futuro”.
Sono passati tre anni da GRACE e non ha ancora messo assieme
un nuovo disco. È depresso.
A Memphis, Tennessee, dove si trasferisce per incidere il secondo
album, Buckley trova conforto nell’anonimato che a New York non
può più avere. Nella capitale del rock’n’roll si esibisce regolarmente
in un locale chiamato Barrister’s. L’ultima volta, lo fa il 26 maggio.
Resta poi a Memphis e aspetta che il suo gruppo lo raggiunga per le
registrazioni definitive di MY SWEETHEART THE DRUNK.
La sera del 29 maggio, Jeff Buckley e Keith Foti sono diretti verso
lo studio di registrazione, ma si perdono.
Jeff, allora, ha l’idea di “andare giù al fiume”.
Poco dopo le nove di sera, si immerge nel Wolf River, un affluente
del Mississippi, nei pressi del porto fluviale. C’è dello sporco sulla
riva e perciò decide di non togliersi gli scarponcini. Entra in acqua
cantando Whole Lotta Love, l’epocale inno rock firmato Led
Zeppelin. Il passaggio di un rimorchiatore crea pericolosi movimenti
ondosi.
Foti, che è rimasto sulla riva, sposta la radio portatile perché non
venga bagnata. Quando guarda nuovamente verso il largo, non vede
più il suo amico. Lo chiama ripetutamente. Nessuna risposta. Decide
di rivolgersi alla polizia.
Qualcuno sostiene di aver visto, quel giorno, una gang di tre killer
sugli sci cacciare Sonny Bono fino a farlo sbattere contro l’albero.
Qualcun altro dice che una donna abbia finto di aver avuto un
incidente, chiedendo aiuto e ingannando Sonny.
Sono molti quelli che affermano che la DEA (l’ente governativo
americano che sovrintende la lotta alla droga) ha un file lunghissimo
su Sonny Bono e sulle minacce di morte che ha ricevuto.
Pare che lo stesso Sonny lo avesse rivelato ai suoi amici (“Mi
sento sotto tiro”) e che, per difesa personale, tenesse armi
automatiche nel comodino.
Le indagini non portano ad alcun risultato.
Mary Bono, di fatto, prende il posto del marito nel Congresso
americano e continua in suo nome la lotta alla droga.
Una settimana prima, ad Aspen, in Colorado, in un incidente
tragicamente simile era morto Michael Kennedy, trentanove anni,
figlio di Bobby Kennedy.
Il giorno delle esequie, l’elogio funebre viene tenuto da una Cher
molto commossa: “Sonny è stato il personaggio più incredibile che
abbia incontrato”.
Sulla tomba di Sonny Bono (nel Desert Memorial Park a Cathedral
City, California) campeggia il titolo del suo brano più famoso: And
The Beat Goes On.
Eppure Wendy non era soltanto questo: per tutta la vita aveva
lottato per la difesa degli animali selvatici e aveva cercato di
sensibilizzare l’opinione pubblica affinché la gente adottasse un
regime alimentare più sano e naturale.
Ora, però, il suo corpo giace senza vita in mezzo ai boschi che
tanto ha amato, e il suo volto è straziato da un colpo di pistola.
Stando alle dichiarazioni di Swenson, sono ormai quattro anni che
Wendy accarezza l’idea del suicidio: negli ultimi tempi sembra aver
perso ogni speranza nel futuro, non trova nulla per cui valga la pena
vivere.
Il 6 aprile, Swenson esce per fare delle compere e al suo ritorno
trova una lettera di Wendy e alcuni doni per lui: piccole cose, come i
suoi spaghetti preferiti, alcuni semi per il giardino, del balsamo
orientale per massaggi.
In un passo della sua lettera d’addio, Wendy scrive: “Non ho
deciso di togliermi la vita con leggerezza. Credo che la gente non
dovrebbe mai prendere simili decisioni senza prima rifletterci
attentamente per un significativo periodo di tempo. Credo anche,
però, che la possibilità di farlo sia uno dei diritti fondamentali di
chiunque faccia parte di una società libera. Per me gran parte del
mondo non ha più senso, ma i miei sentimenti riguardo a ciò che sto
per fare sono assolutamente chiari e risuonano dentro di me, in un
posto dove non c’è più identità, ma solo quiete”.
La quiete che cercava, Wendy Orlean Williams, quarantotto anni,
l’ha trovata nei suoi boschi, circondata dai suoi amati animali
selvatici a cui prima di morire aveva dato da mangiare un’ultima
volta. Nel suo ultimo messaggio, chiederà agli amici di non mandare
fiori, ma di ricordarla con delle donazioni al Quiet Corner Wildlife
Center di Ashford, Connecticut.
È quasi Natale.
Per Kirsty MacColl, folksinger inglese dai lunghi capelli rossi, è
tempo di vacanze esotiche sotto il caldo sole del Messico. Con i suoi
due figli è volata nello Yucatan a godersi un po’ di relax, dopo avere
registrato per la BBC otto puntate di Kirsty MacColl’s Cuba, un
viaggio-documentario a ritmo di rumba, che testimonia la sua grande
passione per il Sud America.
In quegli stessi giorni di dicembre, il nome della MacColl è di
nuovo sulla bocca di tutti: uno dei suoi brani di maggior successo è
tornato in classifica dopo anni, grazie all’interpretazione di Ronan
Keating. Si tratta della natalizia Fairytale Of New York, che nell’87
Kirsty aveva cantato assieme ai Pogues, esibendosi in duetto con il
frontman Shane MacGowan. Si prospetta dunque un Natale assai
piacevole per la cantante e, nello splendido mare messicano, anche
un’ottima occasione per dedicarsi a un altro dei suoi hobby: le
immersioni subacquee.
È il 18 dicembre e Kirsty (con il compagno musicista James Knight
e i suoi due figli adolescenti Jamie e Louis) raggiunge la spiaggia di
Cozumel: tutto è pronto per affrontare un’intensa giornata di
escursioni sott’acqua. Salutato James, la cantante con i due ragazzi
e l’esperto dive master Ivan Diaz, si dirigono verso il tratto di mare
riservato esclusivamente a chi pratica il sub; una zona, dunque,
dov’è assolutamente vietato il transito a barche, motoscafi e affini.
Il loro primo incontro era avvenuto sul palcoscenico del Grand Ole
Opry di Nashville. Ben presto era seguita la proposta di matrimonio,
fatta da Cash nel backstage di un concerto in una cittadina
canadese, ricambiata da una memorabile dichiarazione d’amore in
musica: quella Ring Of Fire che June aveva scritto per Johnny e che
era diventata uno dei suoi più grandi successi (“Love is a burning
thing and it makes a fiery ring, bound by wild desire. I fell into a ring
of fire”).
Figlio di un modesto agricoltore dell’Arkansas, Cash ha cominciato
a cantare da piccolissimo, nei campi di cotone. Nel giro di quindici
anni, incide per la Sun Records di Sam Phillips, suona nelle prigioni,
si sposa due volte, conduce uno show televisivo di straordinario
successo, vive costantemente sulla corsia di sorpasso, diventa
un’icona assoluta della musica e della cultura nordamericana.
Strenuo difensore dei più deboli, nonché paladino dei diritti dei
nativi americani, Johnny Cash in segno di lutto e di protesta contro la
povertà, i pregiudizi razziali e tutti mali della società americana
decide di vestirsi di nero finché, dice lui, “le cose non cambieranno”.
Le cose non cambiano e così Johnny diventa “the man in black”,
incide oltre 1.500 canzoni, vende cento milioni di dischi, vince undici
Grammy, va in classifica con quarantotto singoli e uno dei suoi pezzi
più famosi (I Walk The Line) viene registrato da più di cento artisti
diversi.
Alla fine degli anni Novanta, il celebre produttore Rick Rubin lo
riporta in sala d’incisione per una serie di album scarni, interamente
acustici e di grandissimo impatto emotivo. Sotto l’abile guida di
Rubin, Cash ripropone alcuni suoi grandi classici, ma anche originali
versioni di rocksong epocali. Come la citata Hurt, un brano dei Nine
Inch Nails per il quale viene realizzato quel suggestivo videoclip che
gli vale l’ultimo riconoscimento pubblico e che sembra davvero
l’epitaffio artistico dell’“uomo in nero”.
Ore una e trentasei minuti: il primario del Medical Centre della Los
Angeles County University dichiara ufficialmente la morte di Steven
Paul “Elliott” Smith, cantautore di culto, nato trentaquattro anni fa a
Omaha, Nebraska.
Un’ora prima, la sua fidanzata Jennifer Chiba, dopo aver litigato
con lui, si era chiusa a chiave nel bagno del loro appartamento di
Silver Lake.
Nel giro di pochi minuti, sente un urlo lancinante.
Uscita dal bagno, trova Elliott in ginocchio con un grosso coltello
da cucina piantato nel petto. Glielo estrae con forza, ma ormai è
troppo tardi: Elliott Smith crolla a terra.
Dopo aver chiamato il 911, Jennifer trova sul tavolo un post-it con
una piccola nota, che dice: “Che Dio mi perdoni. Mi dispiace. Con
amore, Elliott”. Il ritrovamento del biglietto, unito alla meccanica
dell’accoltellamento e alle dichiarazioni di Jennifer Chiba, portano gli
inquirenti a formalizzare l’ipotesi del suicidio.
L’esame autoptico, effettuato il giorno successivo ma reso
pubblico solo un paio di mesi dopo, conferma che non c’erano tracce
di droga o alcol nel sangue di Smith: soltanto farmaci antidepressivi,
per altro in quantità media. Eppure, il referto medico non esclude la
possibilità che Smith sia stato assassinato. Anche per questo,
qualche giornalista prova a indagare, pensando, più che a un
omicidio premeditato, a un atto di violenza occasionale.
L’inchiesta viene però chiusa in breve tempo, anche se il caso
Elliott Smith non viene ufficialmente archiviato come “suicidio”.
Già poche ore dopo la morte, centinaia di appassionati si ritrovano
fuori dagli studi Solutions Audio, sul Sunset Boulevard – lo stesso
luogo immortalato sulla copertina dell’ultimo album di Smith,
FIGURE 8 – mentre dai Travis a Graham Nash, da Ben Affleck a
Gus Van Sant, sono decine le celebrità del mondo della musica e
dello spettacolo che rilasciano dichiarazioni sgomente sull’accaduto,
mostrando grande affetto ed enorme stima per l’arte di Elliott Smith.
Il 12 dicembre 2001, dalla Pleasant Valley State Prison, esce uno dei
detenuti più celebri.
È un afroamericano, ha cinquantasei anni. Si chiama Arthur Lee e,
nei favolosi Sixties, era il frontman della rock band psichedelica dei
Love, uno dei gruppi cult della scena hippie di Los Angeles e
dintorni.
Nell’autunno del 1996 è stato condannato a dodici anni per
possesso illegale di armi da fuoco. E non è la prima volta che si
trova nei guai. A fine anni Ottanta era finito dentro un paio di volte:
per atti violenti, ma anche per possesso e spaccio di stupefacenti.
Insomma, per la polizia di Los Angeles, Arthur Lee è una specie di
“osservato speciale”. Così, questa volta, la Corte è particolarmente
severa.
In carcere, non rilascia interviste né dichiarazioni. Evita persino le
visite. La sua “buona condotta”, però, gli vale una cospicua riduzione
della pena. Dei dodici anni previsti, Lee ne sconta poco meno di sei.
E anche se, mentre è in carcere, scompaiono due dei suoi amici
dei Love – il chitarrista e cantante Bryan MacLean e il bassista
Kenny Forssi – quando esce di prigione Arthur Lee ridà vita al
leggendario sodalizio degli anni Sessanta. Addirittura, ripropone in
concerto la track list dell’album più acclamato, quel FOREVER
CHANGES che è considerato dalla critica una pietra miliare del rock
psichedelico.
Nell’aprile del 2006 gli viene diagnosticata una grave forma di
leucemia. Meno di cinque mesi dopo, il 3 agosto del 2006, a
Memphis, Arthur Lee muore.
Al suo fianco, sino all’ultimo respiro, l’amatissima moglie Diane.
Ha fatto del rock la sua vita e proprio il rock gliel’ha tolta.
Per Ahmet Ertegun, produttore discografico di origini turche e
celebre fondatore nel 1947 della Atlantic Records, la morte è arrivata
a due mesi di distanza da quell’accidentale caduta al Beacon
Theatre di New York, il 28 ottobre del 2006.
Nonostante i suoi ottantatré anni, aveva voluto recarsi al concerto
dei Rolling Stones, ma inciampando bruscamente sulle scale aveva
battuto la testa, perdendo conoscenza. Era stato trasportato
d’urgenza in ospedale ma, dopo settimane di coma a causa di un
ematoma cerebrale, il vecchio Ertegun si era spento assistito dai
suoi famigliari.
È domenica mattina.
L’estate del Tennessee è particolarmente temperata, nonostante la
calda stagione.
Isaac Hayes, uno degli artisti afroamericani più famosi al mondo,
si sta rilassando nella sua splendida casa, nei pressi di Memphis. Ha
sessantacinque anni. Prima della planetaria consacrazione artistica,
ha avuto un’infanzia durissima nei campi del Tennessee, allevato dai
nonni in una baracca di latta.
Da qualche tempo la sua popolarità ha avuto una nuova e
inaspettata impennata, grazie alla serie televisiva di cartoon South
Park: Hayes presta infatti la voce a uno dei personaggi del
programma, il cuoco Chef.
Isaac si gode dunque il suo momento magico assieme alla moglie;
la loro abitazione di Memphis è un’oasi di tranquillità. In una delle
numerose stanze c’è uno spazio adibito a palestra, ed è qui che il
celebre interprete di Shaft – tema musicale dell’omonimo film che gli
ha fruttato un Oscar e un Grammy nel 1972, primo artista
afroamericano a conquistare tale riconoscimento – si concede un po’
di tempo per curare la sua forma fisica.
“Sono unico. Credo che nessuno abbia mai suonato la chitarra come
la suono io. Per me questo è ciò che conta, ma spero di migliorare e
di dare un contributo ancora maggiore”.
Sembra un discorso fatto da un musicista arrogante e in pieno
delirio di onnipotenza. Invece queste sono le parole pronunciate
lucidamente dall’inglese John Martyn, uno dei talenti chitarristici più
puri della storia del rock.
Il suo percorso artistico comincia nel 1967, a diciannove anni,
quando l’etichetta discografica Island lo mette sotto contratto e gli
permette di pubblicare un primo album, LONDON CONVERSATION:
è una grande sorpresa.
Il suo stile è assolutamente unico, ricco di sfumature blues e folk:
con questo lavoro, il giovane John dimostra subito d’essere un
grande sperimentatore, fra i primi a utilizzare effetti come l’echoplex.
Dalla sua chitarra acustica scaturisce un sound rivoluzionario, tanto
che, in breve tempo, Martyn diventa un punto di riferimento per tanti.
Il successo pieno arriva nel 1973, dopo aver incontrato Beverley
Kutner, la donna che diventa sua moglie e con cui pubblica ben due
dischi. Con SOLID AIR – la cui title track è una dedica all’amico
cantautore Nick Drake, a pochi mesi dalla morte – cominciano anche
ad arrivare soldi veri e notorietà.
John è un uomo passionale e creativo, ma spesso eccessivo e
scontroso. Non è un animale da palcoscenico e nemmeno un artista
impegnato a sfornare hit da classifica, tanto che l’uscita di un suo
disco avviene quasi sempre in sordina. Eppure i suoi brani
conquistano i critici e riescono a lasciare un segno profondo
soprattutto nei colleghi più giovani.
Verso l’inizio degli anni Ottanta, i problemi coniugali con Beverley
s’incancreniscono, tanto che lei lo lascia e chiede il divorzio: è un
momento difficile (descritto alla perfezione in un album cupo come
GRACE AND DANGER) cui Martyn reagisce infilandosi in giri
pericolosi, trovando nella dipendenza da droga e alcol una specie di
anestetico contro il dolore dell’abbandono.
Sono anni in cui John mette da parte la chitarra acustica per far
posto a quella elettrica e alla sperimentazioni di nuovi suoni:
l’incontro con Phil Collins – che produce per il chitarrista l’album
GLORIOUS FOOL – risulta determinante da un punto di vista
artistico e umano. Il batterista dei Genesis diventa suo amico e gli
resta accanto anche quando la sua popolarità subisce un netto calo:
dopo aver tentato un’improbabile scalata al mercato mainstream –
puntualmente fallita – Martyn viene dimenticato.
Torna così a esibirsi nei piccoli club e finisce nuovamente per
buttarsi in modo scriteriato nel vortice della dipendenza da droga e
alcol. John però non vuole arrendersi e riesce a tirarsi fuori dai guai
grazie all’amore per la musica.
Nel 2003 deve affrontare una nuova, durissima prova: una ciste
infetta compromette per sempre l’uso della gamba destra, che gli
viene amputata. Eppure, nonostante il grave handicap, Martyn
continua a esibirsi dal vivo con la sua chitarra, seduto su una sedia a
rotelle.
Nel gennaio del 2009, dopo aver ricevuto dalla regina Elisabetta
d’Inghilterra l’onorificenza di “Officer of the Order of the British
Empire” per il suo impegno nella musica, si gode il meritato
successo lontano dai riflettori, nella sua casa in Irlanda.
Sono però giornate difficili queste: John ha preso una brutta
polmonite da cui non riesce a guarire, la sua salute già tante volte
messa a repentaglio è decisamente fragile.
La mattina del 29 gennaio, un parente che gli era stato accanto
tutta la notte, si accorge che John non respira più: il cuore ha
smesso di battere.
Martyn ha solo sessant’anni e probabilmente dolori ed eccessi
della sua vita hanno inciso profondamente sul suo pur robusto fisico.
La famiglia ha cercato di mantenere un parziale riserbo sulle vere
cause del decesso di quello che era considerato da tutti un piccolo
genio della chitarra.
Quasi tutti concordano sul fatto che lei e Johnson non si siano
conosciuti quella sera. Addirittura, pare che i due abbiano passato il
weekend precedente insieme.
In quei luoghi e in quegli anni, fare il musicista è un mestiere
pericoloso. Gli altri musicisti ti odiano a morte se suoni meglio di
loro. Le donne ti odiano a morte se non le guardi abbastanza. Gli
uomini ti odiano a morte se quella che osservi è la loro fidanzata.
O peggio, la loro moglie.
Sono quasi le ventitré. Dave
“Honeyboy” Edwards, l’altro bluesman che avrebbe dovuto stare lì,
sul palco del Three Forks, insieme a Johnson e Williamson, non si è
ancora presentato. Nell’attesa, qualcuno offre una bottiglia di
whiskey a Robert Johnson.
Sonny Boy la prende e la scaglia sul pavimento, distruggendola.
“Non bere mai da una bottiglia aperta”, lo ammonisce, “può essere
pericoloso”.
“Non osare mai più gettare a terra il mio whiskey”, gli ribatte
l’amico, “questo gesto è sicuramente pericoloso”.
Qualche minuto dopo, a Johnson viene offerta un’altra bottiglia;
anche questa aperta, dalla quale il bluesman beve con
soddisfazione. Sonny Boy lo guarda, scuote la testa e spera che
quello che lui teme non si avveri.
Honeyboy Edwards non arriva.
La musica riprende lo stesso. Ma non dura molto.
Neanche un’ora dopo, infatti, Robert Johnson comincia a sentirsi
debole. Le sue dita flessuose non viaggiano più sulla tastiera della
chitarra in quel modo delicato e fluido che lui è solito mostrare.
Anche la sua voce pare avere qualche piccolo cedimento.
Eppure, il ragazzo non molla: lui suona il blues, non è mica uno
che lascia il palco per un leggero malore.
Non passa nemmeno un quarto d’ora: sono circa le due di notte e
Robert non ce la fa più. Si alza a fatica dal suo sgabello. Sta
malissimo, deve essere portato via.
Quando arriva nella sua stanza, in una casa del quartiere battista
della città, Johnson crolla sul letto. È in fin di vita. Quel whiskey
(fattogli presumibilmente avere dal marito tradito della bella signorina
afroamericana) conteneva una dose massiccia di un potente veleno,
probabilmente stricnina.
Il bluesman viene trasportato in un’altra casa, all’interno della
piantagione Star Of The West dove gli viene fornita assistenza
ventiquattr’ore su ventiquattro. Il ragazzo è giovane e forte, ma
l’avvelenamento e le condizioni di debolezza gli procurano una forte
polmonite, una malattia che in quei giorni non lascia scampo.
Martedì 16 agosto 1938, Robert Leroy Johnson muore. Quattro
mesi prima, l’8 maggio, aveva compiuto ventisette anni.
Le sue spoglie, deposte in una bara di legno donata dalla contea
di Leflore, vengono seppellite nel piccolo cimitero al fianco di una
chiesetta nei pressi di Morgan City, pochi chilometri a nord di Green
wood, città natale del leggendario bluesman Furry Lewis. La tomba
non presenta iscrizione alcuna: non viene inciso neppure il suo
nome.
“Potete seppellire il mio corpo sul ciglio della strada”, cantava
Johnson in uno dei suoi ventinove blues, “così il mio vecchio spirito
maligno potrà salire al volo su un bus della Greyhound per andare a
farsi un giro…”.
Solo sette anni prima, Robert Johnson è un musicista poco più che
discre to. Il suo modesto chitarrismo è appena in grado di emulare
quello dei grandi maestri del Delta come Charlie Patton e Son
House, che Johnson ha visto suonare nei giorni in cui abita a
Robinsville.
Un giorno, però, Robert conosce Ike Zimmerman, un chitarrista
fantastico del quale diventa amico e che gli insegna alcuni trucchi
del mestiere.
In pochissimo tempo, Robert Johnson trasforma completamente il
suo stile.
Chi lo aveva ascoltato prima non lo riconosce più: Johnson è
diventato un fenomeno. O, come comincia a ipotizzare Son House,
“forse ha fatto un patto con il diavolo”.
Nasce così la leggenda dell’incrocio, alimentata anche da uno dei
brani più celebri di Robert Johnson, quel Cross Road Blues che
affascina tutti coloro che lo ascoltano. E che è uno dei ventinove
pezzi che Johnson registra in Texas in due sole sessioni tra il 1936 e
il 1937. L’incrocio di cui parla sembra essere quello tra la Highway
61 e la High way 49. L’altezza coincide con Clarksdale, Mississippi,
cittadina che è un mito assoluto per gli appassionati di blues perché,
tra gli altri, ha dato i natali a superstar come W.C. Handy, Muddy
Waters, Junior Parker e John Lee Hooker.
Secondo la leggenda, proprio nel mezzo di quell’incrocio, una
notte a mezzanotte, Robert Johnson e la sua chitarra si presentano
puntuali all’appuntamento con il diavolo. Il patto, agghiacciante nei
contenuti, è semplice nella forma: il talento musicale in cambio
dell’anima.
Anche se una strofa della canzone (“I went down to the
crossroads just to flag a ride”, “Sono andato all’incrocio solo per
scroccare un passaggio”) sembra dimostrare che le intenzioni del
bluesman fossero completamente diverse, il patto tra Robert
Johnson e il diavolo diventa ben presto di dominio pubblico.
Lui non fa nulla per nasconderlo.
I suoi pezzi più famosi si chiamano Me And The Devil (Io e il
diavolo), Preachin’ Blues (Up Jumped The Devil) (Il blues della
predica, il diavolo è balzato in alto). Addirittura, una delle sue
canzoni più amate (Hellhound On My Trail, il diavolo sulle mie
tracce) diventa la colonna sonora della leggenda stessa.
Nell’autunno del 1938, il musicologo John Hammond (direttore
artistico della Columbia e futuro produttore di Billie Holiday, Count
Basie, Bob Dylan e Bruce Springsteen) chiama l’amico Don Law
perché gli rintracci Robert Johnson, a sua detta “il più grande
interprete vivente di blues del Delta”.
Lo vuole sul palco della Carnegie Hall di New York per lo
spettacolo From Spirituals To Swing.
Law si rivolge a Ernie Oertle, il produttore che, solo l’anno prima,
ha diretto le registrazioni dei dischi del bluesman del Mississippi.
Ignaro dell’accaduto, Oertle scopre della morte di Johnson e la
comunica a Law e Hammond. Big Bill Broonzy prende il posto di
Johnson alla Carnegie Hall, ma John Hammond decide di onorare la
memoria del grande Robert suonando durante lo spettacolo le
registrazioni di due suoi brani: Walking Blues e Preachin’ Blues.
Dal 1966 lo spericolato stile di vita di Brian Jones prende una piega
sempre più brutta. Brian sembra quasi sfidare se stesso, portandosi
spesso ai confini dei propri limiti fisici e psicologici. Ama ritrovarsi in
situazioni felliniane: indossa uniformi naziste di fronte alle macchine
di fotografi e operatori televisivi, si porta a casa più groupie alla volta
spingendo all’estremo della perversione i propri desideri sessuali. Di
fatto, dà la sensazione di buttarsi via, fisicamente, moralmente ed
emotivamente.
Dalla metà del 1967, il crollo fisico e psicologico di Brian Jones è
sotto gli occhi di tutti. Così come il suo uso e abuso di droghe. Anche
in quell’esercizio (alcolismo e tossicodipendenza) Brian è un vero
sperimentatore: tra le rockstar, è stato certamente il primo e più
audace consumatore di droga.
Nel corso del ’67 e del ’68, Brian frequenta assiduamente le aule
del tribunale di Londra. L’accusa è sempre la stessa: detenzione di
sostanze stupefacenti. Nel frattempo, un esercito di psichiatri lo
segue costantemente per certificare l’idoneità delle sue facoltà
mentali, ma anche per tutelarlo nel malaugurato caso in cui dovesse
finire in prigione. Ovviamente, la sua partecipazione alle attività del
gruppo è ridotta al lumicino. Le poche volte che si presenta negli
studi di registrazione ci arriva in condizioni tragiche, non di rado
dopo aver appena smaltito una grossa sbronza. Ogni tanto prova a
prendere in mano qualche strumento, ma sempre più raramente lo
suona. Brian capisce di venire progressivamente emarginato dagli
Stones e la sua frustrazione aumenta in maniera proporzionale alla
consapevolezza di essere stato lui quello che ha iniziato il tutto. La
sua delusione, inoltre, è ulteriormente accentuata dal fatto che, pur
essendo il musicista più bravo e creativo del gruppo, non riesce a
comporre un solo brano in grado di avere le caratteristiche giuste per
diventare un hit degli Stones.
O forse, più semplicemente, non gli viene concesso di farlo: “Non
è vero che Brian non componesse”, sostiene infatti Anna Wohlin, “ho
sentito tanti pezzi suoi… so anche che li faceva ascoltare a Mick e
Keith ma loro li hanno sempre rifiutati… questione di royalty…”.
Il sesso sfrenato è un’altra delle specialità di Brian Jones: ma
seppure si vociferi che abbia in giro un numero non ben identificato
di figli (avuti da rapporti più o meno occasionali), Brian, in realtà, ha
“solo” tre figli: uno adottato di cui si sa poco o nulla; un altro, Julian
Mark Andrews – da Pat Andrews – che gli assomiglia in modo
impressionante e che oggi è un manager affermato di una società
multinazionale; e l’ultimo, Julian Brian Jones, che vive negli Stati
Uniti e si occupa di musica (sua madre Linda Lawrence ha sposato il
folksinger Donovan, che quindi è il padre adottivo di Julian). Tutte
queste sue stravaganti ma anche “pericolose” caratteristiche
diventano la scusa migliore che convince gli altri Stones a dargli il
benservito nel giugno del 1969.
Ormai, dunque, è ufficiale: Brian è fuori dalla band.
In realtà, Jagger e Richards sono da tempo i veri padroni degli
Stones e mal tollerano la presunzione di Jones, il suo essere
perennemente distaccato e di pessimo umore. Ma soprattutto sono
gelosi della sua creatività, del suo look estremamente cool, delle sue
intuizioni geniali. Brian è sempre il primo ad arrivare sulle nuove
tendenze: prima il blues, poi la psichedelia e le droghe allucinogene,
addirittura riesce ad anticipare di anni la moda della world music,
andando a registrare in Marocco con la tribù di Joujouka.
Invidiosi e un po’ irritati da tutto ciò, gli altri Stones meditano
vendetta. Mick diventa il capo della “cospirazione” tesa a
estrometterlo dalla band, mentre Keith, con un colpo davvero gobbo,
gli porta via la fidanzata, l’amata attrice/modella Anita Pallenberg,
con cui Brian, oltre ad aver convissuto le avventure in Marocco,
formava coppia ammiratissima.
Secondo qualcuno, però, le cose vanno in modo diverso. Nel
giugno del 1969, Jagger, Watts e Richards si recano alla Cotchford
Far non per licenziare Jones. Piuttosto, ci vanno per negoziare.
Infatti, Brian ha fatto sapere di essere disposto a lasciare il gruppo,
ma a un patto: non può esserci una band chiamata Rolling Stones
senza che lui ne faccia parte. Non si tratta di smania di potere: è
stato Brian Jones a formare la band nel 1962, ma, soprattutto, è lui
che ha inventato il nome Rolling Stones, diventato per ciò, secondo
le leggi britanniche, un marchio registrato di sua proprietà.
I giornali inglesi pubblicano una dichiarazione in cui Jones spiega
di aver deciso di lasciare il gruppo per divergenze artistiche. Ma
nonostante questo, e anche se il comunicato stampa ufficiale non
parli di licenziamento, l’opinione pubblica tende a pensare che
Jagger & Richards lo abbiano messo da parte. Le ragioni per “farlo
fuori” sono molteplici: ad esempio, la condanna per droga che
impedisce a Brian di andare in America, ostacolando i piani live agli
Stones.
Purtroppo, c’è di più. Se Brian (come nei suoi desideri) avesse
formato una band con John Lennon e Jimi Hendrix e l’avesse
chiamata Rolling Stones (perché ne aveva i diritti), questo avrebbe
significato per i “vecchi” Stones un danno economico e di immagine
assolutamente incalcolabile.
“Brian e John Lennon si sentivano spesso”, ricorda Anna Wohlin,
“specie nel giugno del 1969… John lo esortava a seguire una
carriera solista”.
Si dice che Tony Sanchez, che all’epoca è molto vicino agli
Stones, abbia offerto a Brian una buonuscita di 100mila sterline più
un vitalizio da 20mila sterline l’anno. Una somma enorme in cambio
della liberatoria per l’utilizzo del nome Rolling Stones.
Trevor Hobley, fondatore del Brian Jones Fans Club, chiarisce
meglio la situazione, spiegando che “all’inizio Brian – l’unico con l’età
legale per formare una società – ha la lungimiranza di creare la
Rolling Stones Ltd, company con quote paritarie per tutti i membri: il
20 per cento a testa. Morto Brian Jones, la Rolling Stones Ltd
sparisce improvvisamente per far posto alla Rolling Stones B.V., con
sede in Olanda, che da statuto ha quattro consiglieri amministrativi: i
quattro Rolling Stones. Di fatto, dal 1969 al 1971, il nome di Brian
Jones scompare dai documenti societari”.
Hobley ha un’altra certezza: “Sono convinto che i membri dei
Rolling Stones sappiano esattamente cosa è successo la notte del 2
luglio 1969”, afferma, “e il fatto stesso che tacciano riguardo a un
reato grave come l’omicidio è già di per sé un crimine”.
Il corpo viene dunque rinvenuto più o meno alle 19:30. Alle 21:00 la
notizia sta già diffondendosi in tutta la città: Janis Joplin è morta per
overdose di eroina.
Tutti i suoi amici sono affranti, senza parole. Alcuni di loro si
riuniscono da Dave Getz, batterista di Big Brother & The Holding
Co., la prima band di Janis a San Francisco. “Quando ho saputo
della morte di Janis sono rimasto scioccato”, ricorda Getz. “Credo
d’aver pianto in modo isterico per due ore filate. Ci siamo trovati tutti
a casa mia, dove c’era una sala prove e abbiamo cominciato a
suonare…”.
A proposito di case, neanche un anno prima, Janis Joplin ha
comprato la sua prima vera abitazione a Larkspur, nella contea di
Marin a nord di San Francisco. Ne va fiera ma, in quella bella villa, si
sente sola. Chiede alle sue amiche, Peggy Caserta e Linda
Gravenites, di trasferirsi a vivere lì, insieme a lei. Linda accetta
subito, Peggy è riluttante.
Le due ragazze, entrambe stiliste, sono molto diverse tra loro.
Come carattere, ma soprattutto come attitudine nei confronti della
droga. Linda è una sorta di figura materna e protettiva. Peggy è la
compagna di giochi. Anche sessuali.
“Peggy Caserta era la proprietaria di Mnadisika, una boutique alla
moda situata proprio all’angolo tra Haight e Ashbury Street”, ricorda
Sam Andrew, chitarrista di Big Brother & The Holding Co. e grande
amico di Janis. “All’epoca il suo era uno dei primi negozi in cui si
trovavano abiti e accessori hippy, quel genere di cose che Janis
adorava. Lei e la Joplin erano amanti. La Gravenites era l’esatto
opposto della Caserta, fisicamente e caratterialmente. Linda era
positiva e disponibile. Janis poteva far conto su di lei al cento per
cento. Si erano incontrate dopo che Janis aveva visto delle
bellissime camicie che Linda aveva confezionato per me. Linda era
stilista di talento e persona piacevolissima, incline al buonumore e
alla risata. Proprio il contrario di Peggy, che era una che esagerava
in tutto, ostentava più del dovuto e pretendeva di essere più di
quanto fosse in realtà”.
Nel 1970, all’inizio di maggio, Janis parla con Kris Kristofferson, star
nascente della country music ma anche amico e occasionale
boyfriend, e gli confida il suo stato d’animo: “Qui, se le cose non
cambiano, mi sa che riprendo a farmi…”. Janis non sta parlando di
Lsd, alcol o barbiturici. Quel “farmi” ha un riferimento preciso e
significa una sola cosa: eroina.
L’ago è stato suo fedele compagno dalla prima metà del 1968.
Tanto quanto Peggy Caserta, amica, amante e “sorella” di buchi. Più
volte, le due, hanno sfiorato l’overdose e si sono salvate, per un
pelo.
Linda Gravenites detesta alcol e droghe, specie l’eroina, ma
soprattutto, non può vedere l’amica rovinarsi con le sue stesse mani.
E quando si rende conto che Janis non ha intenzione di mollare quel
brutto vizio, decide di abbandonarla al suo destino.
Joplin la prende malissimo: “Allora vuol dire che sei convinta che
sarò una tossica per il resto della mia vita”, le urla in faccia. Linda
annuisce e se ne va lasciando Janis in depressione.
Qualche giorno dopo, la Joplin invita a Larkspur Kris Kristofferson
e Bob Neuwirth (il folksinger amico di Bob Dylan): con i due
organizza una settimana di bevute che ribattezza “The Great Tequila
Boogie”.
Perché Janis è così, volubile e imprevedibile. Persino chi la
conosce bene, come Country Joe McDonald, l’eroe di Woodstock e
suo primo fidanzato, in quei giorni stenta a riconoscerla: “In quel
periodo, l’ho incontrata un paio di volte e mi è parsa sempre priva di
freni inibitori”, racconta. “Avevo sposato da poco Robin, la mia prima
moglie. Quando Janis l’ha saputo mi ha fatto una scenata di gelosia:
era fuori di sé per il fatto che avessi scelto, come diceva lei, ‘quel
tipo di donna’. Era ubriaca, ostile, si comportava come una pazza. In
quel momento ho capito che qualcosa era cambiato: la persona
davanti a me era qualcuno che non riconoscevo più”.
Mai, come in quel periodo, le distanze che dividono Janis (la
ragazzina texana innamorata del blues) da Pearl (il suo alter ego, la
rockstar viziata e scontrosa) paiono incolmabili.
Nella vita di Janis Joplin, dunque, non tutto fila liscio in quegli ultimi
giorni. Anzi. Ci sono avvisaglie importanti. Janis appare vulnerabile.
L’11 agosto 1970, dopo un concerto, la Joplin e i suoi musicisti
stanno tornando a New York. Si fermano a bere un drink al bar El
Quijote. Janis sta male: durante il viaggio in auto ha vomitato. Alla
sua assistente, Myra Friedman, che la osserva preoccupata, rivela
candidamente che non è niente di grave: ogni tanto le succede.
Myra rimane di stucco. Ma, soprattutto, non riesce a togliersi dagli
occhi il volto di Janis: gonfio, pallido e chiazzato. Ha un aspetto
orrendo: sembra davvero malata.
Nessuno, dei musicisti, sembra farci caso. Nessuno, tranne Toby,
uno dei tecnici: “Myra, tu sei l’unica con po’ di sale in zucca che
vuole bene a Janis”, le dice. “Quella ragazza sta morendo. Devi
aiutarla. Se non lo fai tu non ci penserà nessuno. E Janis morirà”.
Myra Frieman non rivedrà mai più Janis viva dopo quella volta al El
Quijote.
Siamo nel cuore di Camden, uno dei quartieri più eccentrici della
capitale inglese. Qualcuno l’ha definito “il paradiso degli spacciatori”:
qui, persino i lecca-lecca profumano di mariujana.
Sono le quattro del pomeriggio e al numero 30 di Camden Square
c’è uno strano silenzio. Eppure, sino a qualche ora prima, i vicini si
sono lamentati: già, perché lì qualcuno, in tarda serata, si è messo a
suonare batteria e percussioni…
Andrew Morris, un ragazzone nero che lavora per la Island
Records, riesce però a tranquillizzare tutti: la calma torna presto in
Camden Square. Morris è la guardia del corpo della cantante che
abita in quella graziosa villetta a tre piani, la stravagante popstar
inglese Amy Winehouse. Si dice che quella casa Amy l’abbia pagata
due milioni di sterline e che abbia impiegato più di un anno a
sistemarla: dopo averci fatto costruire un piccolo studio di
registrazione, si è trasferita lì nell’aprile 2011.
È stato proprio Andrew Morris a convincere Amy, appassionata di
percussioni, a smettere. Basta far casino: la gente, a quell’ora, vuole
dormire. E anche lui, Morris, a quell’ora vorrebbe andare a letto: ma
con Amy non sempre è possibile farlo, anzi. Con lei bisogna stare in
guardia, giorno e notte. Persino quando la ragazza, come ha fatto
nelle ultime due o tre settimane, dà l’impressione di essere
tranquilla.
Il giorno prima, ad esempio, miss Winehouse incontra sua madre
Janis, che è andata a trovarla nella sua nuova casa di Camden
Square. Insieme sfogliano un vecchio album di fotografie.
“Mio fratello Alex è proprio carino… ti voglio bene mamma”, dice
Amy abbracciando Janis Seaton Winehouse, cinquantasei anni,
farmacista. “Sono contenta di esserci andata”, racconta la signora
Winehouse, “quel pomeriggio Amy aveva il tipico ‘sguardo alla Amy’,
quello di una che sembra appena sveglia… lei adorava dormire…
Nonostante tutto, mi è sembrata in forma”.
Alla fine dell’incontro, madre e figlia si baciano.
Lo stesso giorno, Amy Winehouse viene visitata dal suo medico
personale che la trova in buone condizioni.
Stando alle dichiarazioni dei genitori, Amy da qualche settimana è
sobria: per il momento, niente alcol. Anche crack ed eroina
sembrano appartenere al passato e alle spalle è stato buttato pure lo
shock emotivo di quello sciagurato concerto a Belgrado del 18
giugno.
Quella sera nella capitale serba, quando sale sul palco ai piedi
della fortezza Kalemegdan, la Winehouse è completamente ubriaca,
fuori di sé. I primi due brani (Back To Black e You Know I’m No
Good), pur biascicati, riesce per così dire a “portarli a casa”.
Poi, il delirio.
Amy pare non sapere neppure in che città si trovi, non ricorda i
nomi dei musicisti né i testi delle canzoni che, eseguite in modo
grottesco, risultano irriconoscibili. Il pubblico, prima incredulo e poi
inviperito, inizia a fischiarla e a rumoreggiare. Qualcuno si mette a
gettarle cartacce addosso.
Amy, per altro, onora il contratto: rimane on stage settanta minuti,
ma poi (saggiamente) decide di rinunciare al cachet. E al resto delle
date europee: tournée cancellata.
Un musicista, amico di Amy, ricorda le due serate speciali (in
pratica le prove aperte del tour estivo) che, solo qualche giorno
prima, si tengono che al One Hundred Club di Oxford Street: “La
prima notte, quella del 14 giugno, è stata perfetta”, spiega, “la
seconda non c’è stata: Amy ha deciso di punto in bianco di annullare
il concerto. In quel momento, tutti noi del giro della musica londinese
abbiamo pensato: ‘Eccoci di nuovo’, convinti che la ragazza non
fosse ancora pronta per rientrare sulle scene. Il concerto di Belgrado
ci ha dato ragione: mostra la Amy peggiore, quella che barcolla sul
palco con voce inadeguata…”.
Nei giorni successivi, Amy prova a parlare con il suo ex marito,
Blake Fielder-Civil, che molti sostengono essere colui che l’ha
introdotta alle droghe pesanti. Blake, da metà giugno, è nuovamente
in prigione. Rinchiuso nel carcere di Leeds sta scontando due anni e
otto mesi per furto aggravato con scasso.
“Blake è l’unico che mi capisce, l’unico che mi possa salvare”,
confessa Amy ai suoi amici. Secondo loro, invece, Blake –
l’archetipo del bad boy – è un uomo che porta problemi, che
l’avvicina alla droga ma (a dire il vero) anche a certa musica, alla
letteratura d’avanguardia, ai poeti maledetti. Sì, perché Fielder-Civil
ha una profonda convinzione: la vita deve essere vissuta sempre al
massimo, sulla corsia di sorpasso.
Quella tra i due è una relazione tempestosa, violenta: per i genitori
di Amy, Blake è la colpa di tutti i suoi mali.
Anche Alex Foden, ventinove anni, la pensa così. Conosciuto
come il parrucchiere personale di Amy Winehouse, è il creatore della
famosa acconciatura che ricorda quelle dei gruppi femminili degli
anni Sessanta. Alex ha vissuto in casa di Amy (come fossero fratello
e sorella…) un anno e mezzo, tra fiumi di alcol, crack ed eroina. Lui,
Blake Fielder-Civil lo detesta: “Blake ha sempre controllato la vita di
Amy, anche quando si trovava in prigione”, afferma Foden. “Amy era
autolesionista, attratta da lui come capita a chi subisce abusi e
violenze: tra i due c’è stato un rapporto malato, tipo vittima/carnefice.
Amy si faceva di eroina tre o quattro volte al giorno, tutti i giorni. Li
ho visti io: Blake la prendeva per mano, la portava in bagno e le
iniettava altra droga”.
Molti hanno paragonato Amy & Blake a Sid & Nancy, pensando
addirittura che, il giorno in cui Amy fosse morta, Blake si sarebbe
suicidato… Non è stato così. Anzi, al momento Blake sembra
mostrare il peggior lato di sé: capace persino di approfittare della
morte di Amy per far soldi.
La madre di Blake, Georgette Fielder-Civil, ex suocera di Amy,
racconta di aver parlato con la Winehouse il giorno prima che
morisse: “Mi ha confessato di aver telefonato in carcere chiedendo
un permesso per la visita: ‘Georgette, per favore non dire niente: se
lo viene a sapere mio padre mi ammazza!’”.
Il padre della Winehouse, che odia Blake, non lo viene a sapere.
Ma il nuovo fidanzato di Amy, il regista Reg Traviss, sì. E si
arrabbia moltissimo. Anche perché quella non è la prima volta che
Amy tenta di rimettersi in contatto con l’ex marito. Negli ultimi mesi lo
ha fatto ripetutamente e Reg se n’è accorto. Proprio per questo, i
due hanno avuto più di un litigio.
C’è un’altra persona che si arrabbia moltissimo perché Amy non la
smette di cercare il suo ex marito. Si chiama Sarah Aspin e, oltre ad
essere la nuova compagna di Blake, gli ha appena dato un figlio.
Sarah sostiene che Amy stia tempestando Blake di sms firmandosi
come “your wife”, tua moglie. Stufa di questo comportamento, Sarah
decide di chiamare Amy: “Adesso basta, devi smetterla”, le intima.
“Blake non è più tuo: ora noi siamo una famiglia. Esci per sempre
dalle nostre vite”.
Amy sembra disperatamente in cerca di aiuto. Aiuto deve averlo
cercato anche quell’ultima notte, dopo aver smesso di suonare le
percussioni.
Quella notte… già, ma come sono andate veramente le cose il 23
luglio 2011 nella villetta al numero 30 di Camden Square? Di certo
sappiamo che alle 3:10 di notte Amy invia un sms a Kristian Marr, un
suo caro amico e anche qualcosa di più…
Ventisette anni, cantautore e chitarrista, Marr ha conosciuto la
Winehouse nel 2003 in un pub di Camden. I due si sono piaciuti,
subito. Per anni giocano a biliardo (lei vince sempre) e fanno musica
insieme. Ogni tanto fanno anche l’amore, ma preferiscono
considerarsi amici. La Winehouse è sempre pronta ad aiutare,
artisticamente ma soprattutto finanziariamente, Kristian.
Quell’ultima notte gli manda un messaggino affettuoso: “Sarò
sempre qui xx MA TU COME STAI? xxx”. Kristian sta dormendo e
non legge subito l’sms. Il giorno dopo deve vedere Amy: l’ha invitata
nel Kent alla sua festa di compleanno. Ma lei non si presenta.
La Winehouse ha un altro appuntamento importante: domenica 24
luglio deve andare con Reg Traviss al matrimonio di un’amica.
Traviss, trentaquattro anni, è un regista di successo ed è un tipo
tranquillo. Ha conosciuto Amy Winehouse nel 2009, attraverso un
amico comune, e se ne è innamorato presto. I due formano coppia
fissa dal maggio 2010 e si parla anche di un imminente matrimonio.
Venerdì 22 luglio Reg parla con Amy al telefono. Sa che finirà tardi
al lavoro e dice ad Amy che le farà uno squillo appena finito. Quando
prova a cercarla, dopo qualche ora, Amy non risponde. È tardi,
pensa Reg, forse si è appisolata. Così le manda un sms chiedendole
di chiamarlo non appena sveglia. Niente. Nessuna risposta.
Back to black…
Addio Amy Jade.
LA MALEDIZIONE DEL 27
Il più delle volte non hanno alcuna J nel nome, ma con i membri
del “famigerato Club” condividono la medesima sorte: una fine
prematura – e spesso misteriosa – a soli ventisette anni.
John McCollum, diciannove anni, viene trovato senza vita nel suo
letto. La causa della morte è certa: si tratta di suicidio.
Il ragazzo si è sparato in testa con una pistola calibro 22.
Alla ricerca di una ragione in grado di spiegare il gesto, i genitori
incolpano l’ex cantante dei Black Sabbath, Ozzy Osbourne. Prima di
compiere il gesto fatale, infatti, il figlio ha ascoltato ripetutamente la
musica di Ozzy e in particolare una canzone intitolata Suicide
Solution, contenuta nell’album del 1980 BLIZZARD OF OZZ. Il
rocker l’ha scritta col chitarrista Randy Rhodes e col bassista Bob
Daisley in memoria del cantante degli AC/DC
Bon Scott, morto (si presume) per avvelenamento d’alcol, un atto
autodistruttivo assimilabile al suicidio.
I Great White, band hard rock californiana molto amata nel Nuovo
Continente, si sciolgono ufficialmente nel 2001. Ad annunciarne la
fine è il leader Jack Russell, durante un ultimo show tenuto la notte
di Capodanno a Santa Ana in California.
È lo stesso Russell, dopo poco, a tornare sulle scene debuttando
come solista. Prima d’intraprendere la nuova avventura artistica,
decide di contattare uno dei vecchi compagni, il chitarrista Mark
Kendall, per arruolarlo nella band e iniziare una tournée
promozionale.
Durante le serate Russell, Kendall e compagni eseguono brani
inediti, ma anche vecchi successi dei Great White, presentandosi al
pubblico come The Jack Russell’s Great White. Il tour riscuote un
buon successo tanto che viene prolungato fino alla fine del 2003.
Il 20 febbraio dello stesso anno, però, accade qualcosa che rischia
di stroncare sul nascere il nuovo corso del gruppo: Russell e
compagni raggiungono Warwick, cittadina del Rhode Island, dove li
attende un concerto al club The Station. Sono gli attesi headliner
della serata e quando finalmente salgono sul palco, verso le ventitré,
attaccano con il brano Desert Moon e il manager Daniel Biechele fa
partire una serie di suggestivi effetti pirotecnici, che hanno, però, un
imprevisto effetto collaterale: a causa della gommapiuma
infiammabile per l’isolamento acustico del locale, divampa ben
presto un incendio.
Le lingue di fuoco raggiungono in pochi minuti l’intero locale e i
circa trecentocinquanta presenti restano imprigionati nel corridoio
che conduce alla porta d’uscita, commettendo l’errore di non
utilizzare le quattro uscite d’emergenza perfettamente funzionanti.
È una strage: i morti accertati sono novantasei e centosettanta i
feriti, alcuni molto gravi.
Il cronista freelance Brian Butler – che era allo Station per un
servizio sulla sicurezza nei locali notturni – riuscito a sfuggire
all’incendio, filma i dettagli della tragedia e le immagini sono
impressionanti: nel video si vedono chiaramente gli effetti pirotecnici
sul palcoscenico e, pochi istanti dopo, le fiamme che si levano alle
spalle della band. Nel disastro muore anche il chitarrista di Jack
Russell, Ty Longley.
Nell’inchiesta successiva, viene rivelato che la band deve
rispondere alle autorità di quanto accaduto, soprattutto dopo che i
proprietari del locale hanno fatto sapere che non avevano rilasciato
la loro autorizzazione all’utilizzo dei giochi pirotecnici, in quanto
sprovvisti delle attrezzature necessarie.
Inevitabilmente disperato il leader Jack Rus sell, che, intervistato,
si lascia andare a queste parole: “Sono sconvolto, è una tragedia.
Da venticinque anni sono nello show biz e non mi era mai capitato
nulla di così spaventoso. Tutto ha preso fuoco come fosse il 4 di
luglio. Non lo potrò mai dimenticare”.
POSTFAZIONE
LA STRANA MORTE DI LUIGI TENCO
di Alfonso Amodio e Ferdinando Molteni
“Qualcuno sa come sono andate esattamente le cose, quella
maledetta notte all’Hotel Savoy di Sanremo. Ma tace. Da
quarant’anni”.
Sono parole di Graziella Tenco, cognata di Luigi, il cantautore
morto con il cranio trapassato da un colpo di pistola nella notte tra il
26 e il 27 gennaio 1967, nel corso della diciassettesima edizione del
Festival della canzone italiana. È lei, oggi, a portare avanti la
battaglia condotta da suo marito Valentino per quattro decenni. Una
battaglia per ristabilire la verità sulla fine del più promettente autore
di canzoni italiano degli anni Sessanta.
Tenco morì perché lo volle, per un tragico gioco, per un incidente,
oppure fu ucciso?
Una domanda alla quale molti hanno tentato di dare una risposta.
Ma cosa accadde, quella maledetta notte nella stanza 219
dell’Hotel Savoy di Sanremo?
Luigi Tenco, ventotto anni, una buona reputazione d’autore e un
profilo da interprete ancora in via di definizione, partecipa al festival
con Ciao amore, ciao. A presentare la canzone insieme a lui, ma in
una versione più cadenzata e pop, è Dalida, stella di prima
grandezza del firmamento europeo di quegli anni. Tra i due c’è
anche una storia d’amore, data abilmente in pasto alla stampa nei
giorni precedenti la kermesse.
Tenco e Dalida arrivano nella città dei fiori con l’aura dei
predestinati alla vittoria. La potente RCA ha investito molto
nell’operazione.
La canzone è buona, superiore a tutte quelle in gara. Ma non è
esattamente festivaliera. Tenta di coniugare, in modo ancora
maldestro, un ritornello arioso e facile a strofe malinconiche e
d’impianto folk. Si parla del mondo che cambia, della civiltà rurale e
della città. Non è la classica canzone d’amore, ma quel facile
ritornello dovrebbe farla arrivare in fretta alle distratte orecchie del
pubblico.
Tenco, nel pomeriggio di giovedì 26, primo giorno di gara, sente
salire l’ansia. Ha detto a tutti che non gli importa niente del festival,
ma la pressione dei media, le aspettative della casa discografica e
della stessa Dalida si fanno sentire. Alle sette di sera telefona alla
cantante: “M’è presa una strana ansia. A quella roulette andiamoci
insieme. Aspettami nella hall”. Comincia a bere. Whisky, secondo
Dalida.
Mancano tre ore alla sua esibizione. Almeno così crede Tenco. Al
whisky segue la grappa di pere (ne beve una bottiglia) unita al
Pronox, un medicinale che insieme all’alcol provoca uno stato di
euforia. È un espediente usato da molti cantanti dell’epoca. Tra
questi, Jannacci e Paoli.
Il problema connaturato a questo tipo di miscela esplosiva è il
rebound, il contraccolpo. Si rischia di passare dall’euforia alla
depressione in un attimo, quando l’effetto finisce. Bisogna calcolare
bene i tempi.
E Tenco li calcola i tempi. Ma non sa che, sul palco, non salirà
intorno alle ventidue come pensa, ma a mezzanotte, ultimo cantante
chiamato in scena dal presentatore Mike Bongiorno. Quando Mike lo
spinge letteralmente in scena, Tenco è provato. “Cantò malissimo, la
voce impastata, strascicando le parole”, ricorda Gian Piero
Reverberi, direttore d’orchestra in quell’occasione.
In realtà, non cantò poi così male, come si capisce dalla
registrazione di quell’esibizione. E poi non era facile, a mezzanotte,
con la voce fredda e l’ansia addosso, prodursi in un’interpretazione
memorabile. Si è molto favoleggiato di quella prova, ma è sufficiente
ascoltare il documento sonoro per trarne un giudizio meno severo.
Dopo aver cantato Ciao amore, ciao, Tenco è esausto. Si
addormenta. Qualcuno dice su un tavolo, qualcun altro su un
biliardo, altri ancora su alcune sedie messe in fila. Non c’è
particolare, in questa vicenda, che abbia una versione univoca.
Anche sull’ora dell’esibizione, a dire il vero, si discute ancora.
Tenco dorme. Intanto la giuria emette il verdetto. La canzone è
eliminata. Ottiene 38 voti sui 900 disponibili. Ma c’è una prova
d’appello nelle mani della commissione di ripescaggio. Niente da
fare: viene salvata La rivoluzione di Gianni Pettenati, canzone della
Fonit Cetra, casa discografica della Rai.
Due giurati, indignati, di dimettono.
Il verdetto viene comunicato al cantante dal giornalista Piero
Vivarelli, che lo sveglia. Dalida, a questo proposito, in una delle sue
singolari ricostruzioni dei fatti, dice invece: “Aspettiamo il responso
delle giurie. Uno accanto all’altra, ma in realtà distanti”.
La bocciatura della canzone manda su tutte le furie Tenco. E,
pare, anche Dalida. I due, secondo alcuni, litigano. La cantante
francese accusa l’italiano di aver cantato male, di essere il
responsabile del fallimento. C’è una foto che, con ogni probabilità,
ritrae un momento della lite.
In ogni caso, Tenco e Dalida si avviano, a bordo della Giulia GT
del cantante, al ristorante U Nostromu dove la RCA ha prenotato un
tavolo.
Secondo gran parte delle ricostruzioni, è mezzanotte e mezzo
quando arrivano. Dalida entra nel locale, mentre Tenco decide di
tornare in albergo. Giunge al Savoy qualche minuto prima dell’una.
Secondo la prima ricostruzione ufficiale, una volta entrato, scrive il
biglietto d’addio che appoggia al comodino, estrae la sua Walter
PPK 7.65 dalla scatola che la contiene, si siede per terra con la
schiena appoggiata al letto, e si spara un colpo alla tempia destra.
Sul biglietto si legge: “Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho
dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non
perché sono stanco della vita (tutt’altro), ma come atto di protesta
contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e a una
commissione che selleziona La rivoluzione. Spero che serva a
chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi”.
La grafia è incerta, e c’è pure un errore di ortografia: Luigi scrive
“selleziona”, con due elle. Il biglietto è su carta intestata del Savoy e
per qualcuno non è che l’ultima pagina di un testo più lungo. Ma ha
tutto l’aspetto di un biglietto d’addio di un suicida. E tanto basta.
Pochi minuti dopo il colpo di pistola – che peraltro nessuno sente,
come spiegherà il giornalista Sandro Ciotti che si trovava nella
camera a fianco a scrivere – comincia un grottesco circo di urla,
pianti, liti e confusione.
A urlare di più è Dalida, che pare accusi un po’ tutti della morte di
Tenco.
Nella camera entrano numerose persone. Oltre a Dalida, il suo ex
marito Lucien Morisse, Lucio Dalla, Paolo Dossena, manager di
Tenco. E Ugo Zatterin, giornalista Rai e membro della commissione
che aveva escluso il cantante dal festival. Tra gli ultimi a entrare, il
giovane vicedirigente del commissariato di Sanremo, Arrigo Molinari.
Così Molinari, nel marzo 2004 (cioè l’anno prima di venir ucciso a
settantatré anni in una misteriosa rapina nel suo residence di
Andora), parlava di quella notte: “Successe di tutto: la frettolosa
rimozione del cadavere e quindi la mancanza di accurati rilievi, la
successiva ricostruzione della scena con la ricomposizione del corpo
nella stanza, dopo che era già stato portato all’obitorio del cimitero,
le forti pressioni e le richieste di insabbiare tutto. E l’artefice di tutto
ciò fu Ugo Zatterin, noto giornalista, potente uomo della Rai”.
Le pressioni sono dunque notevoli. Zatterin litiga con il collega
Lello Bersani, che chiede l’immediata sospensione del festival. Lo
spettacolo deve continuare e quel morto dà solo fastidio.
Continua Molinari: “C’era una gran confusione. La notizia si era
subito sparsa dopo che Dalida aveva trovato il cadavere al rientro in
albergo. E i giornalisti premevano per avere notizie, per sapere chi
aveva sparato al cantautore. Così, per calmare le acque, li affrontai,
lessi il biglietto che avevo trovato e che faceva pensare a un
suicidio, e promisi loro che non appena ultimato il sopralluogo li avrei
fatti entrare nella stanza e avrei permesso di fare le fotografie. Ma
subito dopo venni chiamato nella hall dell’ultimo piano da Gianni
Ravera, il patron del festival. Anche lì trovai una confusione
incredibile, ma su tutti spiccava la figura di Ugo Zatterin che, al
festival, era nelle vesti di presidente della commissione
selezionatrice, rappresentava la Rai ed era temutissimo per i suoi
agganci con il potere romano. Era letteralmente imbestialito.
Camminava su e giù per il salone e urlava. Quando gli fui
presentato, mi minacciò di farmi trasferire nel più sperduto paesino
d’Italia, perché avevo reso pubblico il biglietto lasciato da Tenco”.
Mentre Molinari è nella hall, i suoi agenti hanno già fatto rimuovere
il cadavere che è in viaggio verso il cimitero di Arma di Taggia.
Ancora: “Bersani scoppiò a piangere. Zatterin aveva vinto. Concordò
con il ‘suo’ gruppo che il festival sarebbe continuato e un po’ alla
volta la sala si svuotò. Rimasero solo alcuni giornalisti e fu allora
che, per far fede alla parola data, diedi ordine di riportare la salma
del cantante nella sua stanza per permettere ai fotografi e alla troupe
di Bersani di fare il loro lavoro. E così avvenne. Cercammo di
rimettere il corpo e la pistola come li avevamo trovati ma non
badammo tanto ai particolari. Per questo apparirono poi delle
incongruenze, come i piedi di Tenco sotto il cassettone con la pistola
fra le gambe, posizioni insolite per un suicida”.
La scena del fatto è dunque irrimediabilmente compromessa.
Nulla, della dinamica dell’avvenimento, sarà più possibile ricostruire
con certezza. E sarà proprio la rimozione frettolosa del cadavere, sul
quale non verrà effettuata né autopsia né guanto di paraffina, a dare
la stura a diverse ipotesi sulla morte del cantante. E, più in generale,
sulla dinamica del presunto suicidio.
Un mese dopo, nell’albergo parigino che aveva frequentato con
Tenco, Dalida tenta di togliersi la vita. La notizia esce su tutti i
quotidiani. In un caffè di Sanremo, il giornalista Pino Angelini ascolta
per caso il commento di una dipendente dell’Hotel Savoy: “Quante
frottole! Tutti dicono che Dalida voleva morire per il rimorso d’essere
arrivata tardi nella camera di Tenco. È tutto il contrario: Dalida si
trovava nella camera di Tenco quando lui s’è ammazzato. L’ha visto
spararsi il colpo di pistola e non ha saputo trattenerlo. Ecco perché è
rimasta fuori senno per un mese e poi ha tentato di uccidersi anche
lei”.
Ne nasce una sorprendente inchiesta, redatta da Roberto
Buttafava e pubblicata nel marzo del 1967 da «Novella 2000», nella
quale si dimostra, se tutte le testimonianze pubblicate sono
autentiche, che Dalida non poteva che essere con Tenco quando lui
morì.
Ma per cosa si sentiva responsabile? Per non essere intervenuta
o, come qualcuno ha detto e scritto, per essere stata involontaria e
accidentale causa di quel colpo di pistola fatale? Forse estrema
conseguenza di una lite furiosa. Un colpo che, non va dimenticato,
nessuno ha sentito.
E se Tenco fosse morto altrove e poi fosse stato
rocambolescamente portato nella stanza 219 dell’Hotel Savoy?
E se Tenco non si fosse ucciso? Se fosse stato ammazzato? E se
Dalida avesse assistito a un omicidio e non a un suicidio?
Un omicidio per rapina, per esempio? Tenco il giorno prima
avrebbe vinto una forte somma al casinò della quale non v’è mai
stata traccia.
O un omicidio passionale? Perché Lucien Morisse, ex marito di
Dalida, potente manager della televisione francese vicino alla
malavita marsigliese, si trovava nella stanza con l’ex moglie e Tenco
morto?
Le ipotesi si sprecano, dunque. E più passa il tempo, più l’idea che
quel giovane e talentuoso cantante possa essersi tolto la vita in un
modo così sciocco appare fragile e poco convincente. Mancano le
prove, tuttavia. Di un presunto omicidio, ma anche del poco
comprensibile suicidio.
Il 3 maggio del 1987, nella sua casa parigina, viene trovata morta
Yolanda Gigliotti, più nota con il nome d’arte di Dalida. Di fianco al
suo corpo, un biglietto d’addio: “La vita è diventata insopportabile…
perdonatemi”.
Aveva cinquantaquattro anni: viene seppellita nel cimitero di
Montmartre.
Il sepolcro è impreziosito da un busto, a grandezza naturale, della
cantante italo-egiziana. Forse, nella tomba finiscono anche i misteri
della morte di Tenco.
Forse…
Nel 2006, per una discutibile decisione del procuratore di Sanremo
Mariano Gagliano, il corpo di Tenco viene riesumato dal cimitero di
Ricaldone per un’autopsia. La salma è intatta e impressiona chi la
vede. Tenco è ancora vestito come quella sera, i lineamenti tesi in
un’espressione beffarda.
L’autopsia giunge a una conclusione che non conclude niente: “Il
grado di certezza della natura suicidaria del decesso rimane lo
stesso di allora, e cioè molto elevato ma non assoluto”.
C’è un foro d’entrata e uno d’uscita. Tenco è morto perché una
pallottola gli ha devastato il cervello. Punto.
Il professor Renzo Celesti, perito nominato dalla famiglia Tenco,
presente all’autopsia e intervistato dal giornalista del «Secolo XIX»
Renzo Parodi spiega: “Dal punto di vista medico-legale, ogni caso di
suicidio teoricamente può nascondere un omicidio, è quasi un
assioma che si insegna agli studenti di medicina”.
Luigi Tenco, nel cimitero di Ricaldone, non riposa ancora in pace.
Come la coscienza di chi, su quella notte, sa cose che altri non
sanno.
Ma tace.
CREDITS
Introduzione
Anni Cinquanta
Anni Sessanta
Anni Settanta
Anni Ottanta
Anni Novanta
Anni Duemila
Ofra Haza, la Madonna di Israele
Ian Dury: sesso, droga & rock’n’roll
Kirsty MacColl, la rosa rossa d’Inghilterra
Herman Brood: salto nel vuoto del tulipano punk
Aaliyah, la regina dei dannati
George Harrison: addio, “chitarra gentile”
Stuart Adamson, morte in una grande terra
Layne Staley, condannato a morte
Dee Dee Ramone, overdose di punk
John Entwistle, la morte del bue
Jam-Master Jay: il gangsta style non perdona
Joe Strummer, l’eroe del combat rock
Howie Epstein, l’albero abbattuto
Simone, nome in codice: Nina
Jeremy Michael Ward, il mago del suono
Barry White. Scompare la soul love machine
Marie Trintignant, la follia omicida di un rocker geloso
L’ultimo sandwich di Warren Zevon
Johnny Cash, il videosaluto dell’uomo in nero
La misteriosa morte di Elliott Smith
John Whitehead, una morte senza colpevoli
So long, brother Ray
Dimebag Darrell, ruggito finale
Addio, Jim Capaldi
Paul Hester, il mal di vivere
Chet Helms, il padre degli hippie
Proof: cronaca di una morte (quasi) annunciata
Syd Barrett, la fine del Diamante Pazzo
I guai di Arthur Lee
Ahmet Ertegun, il padre della discografia
James Brown, il padrino del soul esce di scena
Ike Turner, il marito cattivo
Danny Federici, il fantasma del rock
Isaac Hayes, una tragica domenica d’estate
Richard Wright, mai più Pink Floyd
Miriam Makeba, l’ultima scena di Mama Africa
Ron Asheton: si spegne il suono di Detroit
John Martyn, un genio quasi incompreso
Jay Bennett, quei conti in sospeso
Michael Jackson, il Re è morto
Stephen Gately: la debolezza di un cuore pop
Vic Chesnutt, flirt con la morte
Whitney Houston, we will always love you
Club J27
La maledizione del 27
La maledizione di Altamont
Keith Moon: una svista fatale
Quattro morti in Ohio
Panico a Cincinnati
Ozzy e il giorno maledetto
Puff & Heavy, rapper incoscienti
Vittime dello Slane
Schiacciata come una zucca
Mango Mango, massacro nel tunnel
Tragedia a Roskilde
Great White, una notte d’inferno
Postfazione. La strana morte di Luigi Tenco
di Alfonso Amodio e Ferdinando Molteni
Credits