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Prima edizione digitale 2017

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ISBN: 9788862316576
Ezio Guaitamacchi

DELITTI ROCK
Da Robert Johnson a Whitney Houston
200 indagini sulla scena del crimine
INTRODUZIONE
Questa non è un’enciclopedia delle morti rock, anche se ci si
avvicina molto. Non lo è perché non ho (volutamente) messo tutti i
musicisti scomparsi, ma solo i casi più scottanti, le vicende più
misteriose, le storie più suggestive ed emozionanti: in totale, circa
duecento racconti di artisti internazionali (dei casi italiani ho voluto
inserire solo quello più famoso e significativo, la neverending story di
Luigi Tenco) che prendono quasi sempre il via dalla scena del
crimine.
Non si tratta solo di “delitti” in senso tecnico.
Spesso, questi casi ci hanno fatto rimpiangere la scomparsa
prematura di piccoli e grandi geni della musica del Novecento, ci
hanno fatto soffrire per la stupidità di certe morti, ci hanno fatto
riflettere sullo scellerato stile di vita rock’n’roll e sulle tante (troppe)
vittime che ha seminato su un percorso lungo quasi sessant’anni.
Non è infatti un “delitto” che Jimi Hendrix o Janis Joplin siano morti
a ventisette anni, che Ian Curtis o Kurt Cobain si siano suicidati più o
meno alla stessa età, che Jeff Buckley sia affogato dopo aver inciso
un solo disco, che Nick Drake, Keith Moon, Sid Vicious e tanti altri
siano stati vittime di overdose?
“Siamo stati una generazione di esploratori”, mi spiegava qualche
anno fa Paul Kantner dei Jefferson Airplane, riferendosi alle rockstar
scomparse prematuramente: “Tutte le esplorazioni sono pericolose.
Si rischia la vita: molti di noi l’hanno rischiata, alcuni ce l’hanno fatta,
altri no”.
La sua lucida – ma pure cinica – considerazione è controbilanciata
dal-l’affermazione emotiva di Pete Townshend, mente e braccio degli
Who.
“Moon, Jones, Hendrix, Joplin, Morrison? Sono le vostre cazzo di
icone rock, ma erano miei amici, miei amici… e non ci sono più”.
Già, non ci sono più.
Ma, per fortuna, a noi appassionati resta la loro musica.
E, aggiungo io, le loro storie di arte e di vita.
Perché, come disse Sam Andrew di Janis Joplin, anche chi li ha
sentiti solo una volta non se li potrà mai più dimenticare.

Love and happiness,


Ezio

ezio.guaitamacchi@jamonline.it
PREFAZIONE
LANA CLARKSON: L’ULTIMO CIAK
Si chiamava Lana Clarkson. Era una mia amica.
L’avevo conosciuta nella primavera del 1992, quando era venuta
in Europa a cercare fortuna. Bella, alta, bionda, atletica, questa
ragazzona californiana era stata nel 1985 la protagonista di
Barbarian Queen (per la regia di Roger Corman), aveva avuto un
piccolo ruolo in Scarface e avrebbe fatto diverse apparizioni in molti
altri film e serie televisive di successo.
La dura legge di Hollywood, però, non l’aveva risparmiata.
“Ci sarà sempre qualcuna più giovane, più sexy e più ambiziosa di
te”, è il monito che, ancora oggi, echeggia nelle orecchie di star e
starlette da quelle parti. Lei, che sognava di essere la nuova Lana
Turner, per un momento pensò che il Vecchio Continente l’avrebbe
apprezzata maggiormente.
L’Italia era stata la sua prima scelta.
“Mi piace tutto del vostro Paese”, mi diceva. E non era difficile
crederle: corteggiata da dozzine di pretendenti, miss Clarkson si
godeva le sue dolci “vacanze romane” a Milano.
Per una decina di giorni, Lana si era trasferita nel mio
appartamento: doveva fare un paio di provini per la Rai e girare
un’intervista per Nonsolomoda. Fantasticava di un suo futuro
professionale da noi, anche se io non perdevo occasione di
ricordarle le differenze culturali tra Italia e Stati Uniti.
“Qui non siamo a Hollywood”, le ripetevo.
Ma lei non sembrava darmi retta. Nemmeno quando la
(lungamente attesa) audizione in Rai non aveva ottenuto gli esiti
sperati.
Quella sera, Lana era scoppiata a piangere.
“Com’è possibile?”, singhiozzava. “Io, che ho recitato con le più
grandi star hollywoodiane, vengo trattata come l’ultima delle
comparse”.
L’avevo portata al concerto di Crosby, Stills & Nash per tirarle su il
morale e per farle provare un po’ di nostalgia per la natia California.
Per qualche ora aveva funzionato.
Poi l’avevo persa di vista.
Una sera, un paio d’anni dopo, il mio telefono squilla. È Lana, mi
chiama da Los Angeles, è tornata a casa. Sta girando alcuni spot
pubblicitari (Mercedes, K-Mart ecc.), le hanno offerto qualche
particina in film di una certa importanza, si vocifera che possa avere
il ruolo di protagonista in un action movie. Insomma, è rientrata nel
giro e mi sembra contenta.
Da allora, non ho avuto più notizie di lei.
Sino all’inverno del 2003.
Alle due del mattino del 3 febbraio, Lana Clarkson è di fronte alla
porta d’ingresso della House Of Blues sul Sunset Strip: lavora lì da
qualche tempo, come hostess della vip room. Oltre che per un
dignitoso stipendio, Lana ha accettato quel lavoro nella speranza
(credo mai sopita) di fare l’incontro giusto. Che, quella sera, sembra
prendere le sembianze di Phil Spector, il più leggendario producer
della storia del rock, ma anche uno dei soggetti più stravaganti e
violenti che popolano la Città degli Angeli.
Spector, che negli ultimi tempi ha ripreso a bere, offre a Lana un
passaggio a casa. Le vuole far provare la sua nuova limousine e,
qualora le andasse, anche mostrarle la sua chiacchieratissima villa,
un castello ad Alhambra che ricorda una fantasia disneyana.
Lana è eccitata: Phil Spector, l’inventore del wall of sound, lo
scopritore dei girl groups, il talentuoso producer di Ike & Tina Turner,
l’uomo dietro la consolle di Let It Be, All Things Must Pass, Imagine
e del Concert For Bangladesh, stasera è lì che scherza con lei. E chi
se ne frega se la sua ultima produzione importante è stata quella
con i Ramones, quasi trent’anni fa (degli Starsailor nemmeno lui ne
vuole parlare): stanotte Lana, che ha appena partecipato alla serata
dei Grammy, non intende perdersi la grande occasione.
Adriano De Souza, lo chauffeur di Spector, accompagna i due sino
all’ingresso del castello e, con fare molto professionale, resta lì in
attesa, sino a nuove istruzioni.
Passano due ore.
Spector esce di casa in stato confusionale. Si avvicina al suo
autista e gli dice: “Chiama la polizia, credo di aver ucciso qualcuno”.
Quando i detective del LAPD giun gono ad Alhambra, trovano su
una sedia il corpo riverso di Lana Clarkson. Le hanno sparato in
bocca, è morta all’istante.
Spector viene arrestato, ma il giorno dopo il suo avvocato Robert
Shapiro (l’uomo che è riuscito a far scagionare O.J. Simpson), a
fronte di un assegno da un milione di dollari, ottiene la libertà su
cauzione. Da allora, puntualmente, ogni tre-quattro mesi Shapiro
riesce a rinviare l’udienza in tribunale. Pare che lui e il collegio di
difesa siano pure riusciti ad architettare le prove di un “presunto
suicidio”. E persino a sostenere che Lana (che beveva solo latte e
menta, credetemi… ) quella notte fosse piena di sostanze
stupefacenti e che “volesse baciare la pistola”.
Ancora a quattro anni dalla morte di Lana Clarkson, il suo, come
dicono lì, è un open case.
Anzi, forse il più famoso “caso” d’America.
I suoi famigliari, i suoi amici e tutti coloro che le hanno voluto bene
non sono in cerca di vendetta. Vogliono soltanto giustizia.
Quando, il 13 aprile 2009, dopo diciannove giorni di consultazioni,
la giuria del processo ha finalmente emesso il verdetto di
colpevolezza, Phil Spector è stato condannato a diciannove anni.
Immediatamente rinchiuso nel carcere di Corcoran, California,
Spector avrà ottantotto anni quando gli sarà data la facoltà di
richiedere la libertà sulla parola.
Giustizia è fatta.
ANNI TRENTA
E QUARANTA
È da poco passata la mezzanotte.
L’Imperatrice del blues Bessie Smith è appena scesa dal palco.
Si è concluso con successo il suo ennesimo concerto, questa
volta a Memphis, una delle tappe del tour dello spettacolo Broadway
Rastus, con cui è impegnata dall’inizio dell’anno.
Bessie non è un’artista qualunque: non viaggia con il resto del
cast. Così, ha chiesto al suo fidanzato, Richard Morgan, di
accompagnarla con la sua vecchia, fascinosissima Packard. Anche
perché, stasera, Miss Smith non ha né voglia né tempo di fermarsi a
Memphis. Domani deve esibirsi in uno spettacolo in tarda mattinata
a Clarksdale, Mississippi, e vuole arrivarci il prima possibile.
Quando sono sulla US 61, Morgan prende male una curva, tenta
di evitare il grosso camion che si trova davanti al lui ma ci finisce
contro, dal lato del passeggero, proprio dov’è seduta Bessie.
Lo scontro, fortissimo, risulta letale per la sua lussuosa fuoriserie.
Morgan è sotto shock ma, a prima vista, sta bene. Bessie Smith,
invece, è ferita gravemente.
Viene coricata in mezzo alla carreggiata.
Il camion e il suo autista non si sono fermati a prestare assistenza.
Cosa che, invece, fanno il dottor Hugh Smith (della Campbell Clinic
di Memphis) e il suo amico Henry Broughton, che per caso si
trovano nei pressi dell’incidente.
Il dottor Smith presta i primi soccorsi ma capisce subito che la
situazione è grave: la donna ha perso mezzo litro di sangue, ha un
braccio spappolato e tutta la parte destra del corpo ferita. Dopo
averla spostata con cura sul bordo della strada, chiede all’amico di
andare in una casa vicina a chiamare un’ambulanza. In preda a un
forte senso di colpa, anche l’autista del camion fa la stessa cosa, a
qualche chilometro di distanza.
Un’ora dopo, sul posto non è ancora giunta alcuna ambulanza.
Così il dottor Smith decide di portare Bessie a Clarksdale. Non
passa un minuto: un’auto piomba ad alta velocità nella zona
dell’incidente e (nonostante Hugh Smith cerchi di segnalare gli
ostacoli), centra in pieno la sua macchina, che finisce contro la
Packard.
Miracolosamente, nessuno rimane coinvolto. Anche la giovane
coppia di bianchi nella macchina investitrice risulta illesa.
Di lì a poco, arrivano due ambulanze: una dall’ospedale per neri
sollecitata da Broughton, l’altra, quella chiamata dall’autista del
camion che non aveva idea di chi fossero le vittime, giunge
dall’ospedale per bianchi. Trasportata all’ospedale per afroamericani
di Clarksdale, a Bessie Smith viene amputato il braccio destro. Ma le
sue condizioni sono troppo gravi: poche ore dopo, l’Imperatrice del
blues muore a quarantatré anni.
Le speculazioni, messe in giro dal suo produttore John Hammond,
secondo le quali Bessie sarebbe deceduta perché gli ospedali del
sud (per bianchi) le avevano rifiutato l’assistenza, sono
definitivamente confutate dalla testimonianza del dottor Hugh Smith.
Il 4 ottobre del 1937, a Philadelphia, si svolgono i funerali di
Bessie Smith. Il giorno prima, il suo feretro viene visitato da diecimila
persone che si sono radunate presso l’O.V. Catto Elks Lodge.
La salma viene sepolta nel Mount Lawn Cemetery di Sharon Hill,
Pennsylvania. La lapide rimane anonima sino al 7 agosto 1970,
quando ne viene posta una nuova a spese di Juanita Green (che da
ragazzina aveva fatto la cameriera a casa di Bessie Smith) e di Janis
Joplin, una delle più grandi ammiratrici dell’Imperatrice del blues.

La chiamano “the State Street Stroll”.


Già, perché la 31esima Strada del South Side, il quartiere nero
della windy city, è il posto in cui gli afroamericani vanno per farsi
vedere. Si vestono bene e camminano avanti e indietro per la strada,
non disdegnando qualche capatina nei locali della zona come il
Peking Theater, l’Apex Club o il Plantation Club.
In quest’ultimo, stasera, si sta esibendo Sonny Boy Williamson I,
bluesman di Jackson, Tennessee, un fenomeno dell’armonica.
Anzi, per molti, “il padre dell’armonica blues”.
Il primo pezzo che ha registrato nel 1937, Good Morning, School
Girl, è stato un successo tra i cosiddetti “race records” e la sua
armonica ha accompagnato tanti bluesman leggendari, primo fra tutti
Muddy Waters.
La sua ultima registrazione, nel dicembre del 1947, è stata in un
disco di Big Joe Williams.
Finito il concerto di stasera, si dirige a piedi verso casa. Il
Plantation sta sulla 31esima, all’angolo con Giles Street, e Sonny
Boy abita a un isolato e mezzo dal locale, al 3226 di Giles.
A un certo punto, mentre sta camminando, si sente afferrare alla
gola. Poi, una fitta nella schiena… “Lord have mercy”, Signore abbi
pietà, riesce soltanto a bisbigliare. La lama di un coltello s’infila nella
carne di John Lee Curtis Williamson, detto Sonny Boy, trentaquattro
anni, che muore di lì a poco.
Williamson viene sepolto nella Blairs Chapel Church a sud-ovest
della sua città natale, Jackson, Tennessee.
Nella stessa cittadina, proprio nei pressi della sua abitazione, nel
1991 viene posto un cartello in cui si ricorda la figura di Sonny Boy
Williamson e la sua influenza nella storia del blues.

Al Bellevue Hospital si spegne Huddie William Ledbetter, più


conosciuto con lo pseudonimo di Leadbelly, “pancia di piombo”.
Qualcuno diceva che lo chiamavano così in virtù del suo fisico
possente, altri perché beveva moonshine (whiskey distillato in casa)
come se niente fosse, altri ancora perché, si mormorava, fosse stato
colpito da un proiettile in pieno ventre.
Qualche mese prima, a Parigi, durante il suo primo e unico tour
europeo, aveva cominciato a manifestare i sintomi della SLA
(sclerosi laterale amiotrofica), meglio nota come morbo di Lou
Gehrig, il leggendario campione di baseball dei New York Yankees
scomparso a soli trentasette anni il 2 giugno 1941: lo chiamavano
“cavallo d’acciaio” per la sua tempra, ma la SLA lo aveva distrutto in
pochi mesi.
Anche Leadbelly era un uomo forte.
Forte e violento.
Era stato scoperto artisticamente dai musicologi John e Alan
Lomax, nel 1930, quando stava scontando una pena per tentato
omicidio nel carcere di Angola, Louisiana. Non era la prima volta.

Sorta di personalità doppia, alla Dr Jekyll e Mr Hyde, Leadbelly


era finito in galera già nel 1915 per possesso illegale di arma da
fuoco: era sopravvissuto alla durissima detenzione incatenato con
altri galeotti, ma nel 1918 era stato riportato di nuovo dietro le
sbarre, questa volta per aver ammazzato, nel corso di una rissa, un
parente (Will Stafford) con il quale si disputava la stessa donna.
Incarcerato a Sugar Land, Texas, se la cavò con il minimo della
pena: sette anni.
Leadbelly, in quel periodo – così come aveva sempre fatto, dentro
e fuori le sue prigioni – era in grado di allietare tutti con la sua
musica: una fantastica miscela di blues, folk e gospel. Una musica
che, grazie alle registrazioni dei Lomax, avrebbe trasformato lui e la
sua dodici corde Stella in autentiche icone della musica e della
cultura afroamericana.
Ma neanche il successo poteva quietare i suoi bollenti spiriti.
Nel 1939, accoltella un uomo durante una rissa, finisce in prigione,
ma grazie ai buoni uffici di Alan Lomax torna ancora in libertà.
La sua ultima apparizione pubblica, insieme alla moglie Martha
all’Università del Texas, avviene in occasione di un concerto-tributo
al suo mentore John Lomax, morto un anno prima.
Il corpo di Leadbelly viene seppellito nel cimitero della chiesa
battista di Shiloh, a Mooringsport, una quindicina di chilometri a
ovest di Blanchard, Louisiana.
ANNI CINQUANTA
Poco prima dell’alba, una Cadillac blu si avvicina all’ospedale, nella
fredda aria invernale dei monti Appalachi. L’autista è un ragazzo di
diciassette anni, esausto per le molte ore di guida in mezzo alla
neve. Il passeggero ha ventinove anni. Non ne compirà trenta. Da
qualche tempo la sua popolarità è in discesa, ma quello che giace
sul sedile posteriore della vettura, coperto da un cappotto blu, è
comunque il più famoso cantante country della sua epoca. I posteri
lo riveriranno come il padre della moderna country music.
Charles Carr, l’autista, chiede soccorso ad alcuni infermieri: “È
morto”, dicono. Chiede se è possibile fare qualcosa per rianimarlo.
“No”, gli rispondono laconicamente. “È morto purtroppo”.
È la fine di un viaggio tormentato durato due giorni. È la nascita
della leggenda di Hank Williams.
Quel giorno Williams avrebbe dovuto esibirsi in un locale di
Canton, Ohio. La sera del 31 aveva in programma uno show anche
a Charleston. Da qualche tempo, per via dei problemi di alcolismo
accentuati dal recente divorzio, era costretto a esibirsi in piccoli locali
di provincia: lui che era stato un’autentica star della musica
americana, era stato licenziato dal prestigioso Grand Ole Opry, lo
spettacolo country numero 1 d’America trasmesso in diretta
radiofonica in tutto il paese.
L’ultimo viaggio di Williams era iniziato il 30 dicembre 1952 a
Montgomery, Alabama, dove risiedeva. Con lui un ragazzo appena
diplomato, Charles Carr, figlio del proprietario della locale compagnia
di taxi a cui Hank si era rivolto per trovare un autista.
I racconti sul viaggio e sulla morte del musicista sono sempre stati
coperti dal mistero. Solo cinquant’anni dopo quegli avvenimenti Carr
si è deciso a raccontare la sua versione dei fatti. Ha omesso di
ricordare che, quando ancora sono a Montgomery, i due vanno a
trovare un amico deejay e assieme si recano a una festa in un
albergo dove, secondo alcuni testimoni, Hank beve parecchio.
Riesce anche a procurarsi della morfina: da tempo il cantante, oltre
ad essere un forte bevitore, ne prende alcune dosi, ufficialmente per
alleviare il dolore alla schiena di cui soffre dall’operazione subita un
anno prima.
Il viaggio comincia subito male: non appena il ragazzo finisce di
caricare chitarre e bagagli sulla macchina, la pioggia che colpisce la
regione da qualche giorno si trasforma in neve. “Williams era molto,
molto magro”, ricorda Carr. “Ma nonostante le tante chiacchiere sul
bere, non ha toccato molto alcol durante il viaggio. Oramai faceva
fatica a reggerlo. Gli avevo comprato una confezione di sei birre
Falstaff prima di partire, ma quando è morto gran parte di esse
erano ancora lì, chiuse. Idem per il whisky che gli avevo procurato”.
Carr ricorda che Williams per tutto il viaggio era di ottimo umore,
scherzava e cantava: “A un certo punto, il suo brano Jambalaya
viene trasmesso in radio e lui mi ha chiesto cosa ne pensassi. Io non
conoscevo nulla della sua musica e gli ho detto che non mi faceva
né caldo né freddo. Eravamo solo due ragazzi in viaggio che
pensavano di divertirsi”.
I due passano la notte del 30 dicembre in un motel nella vicina
Birmingham, per via della tempesta di neve sempre più incalzante.
Alcune ragazze, saputo della presenza del leggendario cantante, si
recano nella loro stanza.
A una di esse Williams chiede di dove sia, e lei risponde “Vengo
dal Paradiso…”.
Hank allora le dice: “Tu sei il motivo per cui andrò all’Inferno”.
Il mattino presto del 31, i due riprendono il viaggio, ma per via
delle avverse condizioni meteorologiche appare chiaro che non
riusciranno ad arrivare a Charleston in tempo per lo spettacolo.
Decidono allora di prendere un volo e ne trovano uno che parte
dall’aeroporto di Knoxville alle quindici e trenta. Salgono a bordo, ma
alle diciotto l’aereo è costretto a tornare indietro per la tempesta di
neve.
Decidono allora di prendere una stanza all’Andrew Johnson Hotel.
Sono le diciannove.
Ubriaco, Williams deve essere sostenuto per raggiungere la
camera. Vedendolo colpito da un forte attacco di singhiozzo, Carr
chiama un dottore (P.H. Cardwell) che gli fa due iniezioni: solo più
tardi si viene a sapere che sono di morfina mischiata a vitamina B12,
un antidepressivo naturale.
“Lo hanno calmato”, ricorda Carr, “ma pensandoci adesso,
probabilmente sono state quelle iniezioni e il problema digestivo che
aveva causato il forte singhiozzo a scatenare il successivo attacco
cardiaco”.
Alle dieci e mezzo di sera, Carr chiama l’organizzatore degli
spettacoli di Williams: lo avverte che non riusciranno ad arrivare a
Charleston in tempo. Il promoter lo prega di rimettersi subito in
viaggio per arrivare almeno a Canton, dove si sarebbe tenuto il
concerto successivo: se anche questo dovesse essere annullato,
Williams dovrà pagare una penale salata. Ma il cantante non si
regge in piedi: per portarlo in macchina Carr è costretto a farsi dare
una sedia a rotelle dall’albergatore. Williams si sdraia sul sedile
posteriore della Cadillac e lì si addormenta, coperto con il suo
cappotto blu.
L’auto procede nella notte.
È mezzanotte passata quando Carr si ferma a una stazione di
servizio, forse presso la città di Bristol nel Tennessee, forse a
Bluefield, West Virginia. Nei ricordi del ragazzo, Hank si alza per
sgranchirsi le gambe. Lui gli chiede se vuole mangiare, il cantante
risponde che preferisce dormire e si sdraia nuovamente sul sedile
posteriore della vettura. È una ricostruzione che alcuni ritengono
inesatta. In base ai successivi esami medici sul cadavere, è
possibile che il cantante fosse già deceduto poco prima di lasciare
l’Andrew Johnson Hotel: quello che era stato caricato in macchina
era quindi già un cadavere?
Forse Carr ha mentito per non ammettere di non essersi reso
conto delle condizioni del passeggero?
Poco prima di arrivare alla stazione di servizio, Carr viene fermato
da una vettura della polizia per via di un sorpasso azzardato. Siamo
nei pressi di Blaine, Tennessee. Carr spiega al poliziotto di essere di
fretta perché deve portare Hank Williams, il celebre Hank Williams, a
un concerto. Il poliziotto dà un’occhiata al passeggero e chiede
all’autista se è sicuro che il cantante stia bene. È già morto? È
ancora vivo? Carr spiega che gli è stato somministrato un sedativo.
Forse intimorito dal fatto di trovarsi al cospetto dell’artista, l’agente
scorta l’auto fino a Rutledge, Tennessee, dove viene pagata una
multa di 25 dollari.
È ormai l’una di notte e il viaggio prosegue.
Esausto dopo troppe ore di guida, Carr decide di trovare un driver
che lo sostituisca, almeno per un tratto di strada: si ferma a una
stazione di taxi e assolda un altro autista, Don Surface. Quindi, dopo
qualche ora, lo scarica in un’area di sosta. È mattina, quando, allo
Skyline Drive-In di Hilltop, West Virginia, il ragazzo decide di dare
un’occhiata al passeggero. Vede che il cappotto che copre il
cantante è caduto: fa per sistemarlo e si accorge che le mani di
Williams sono gelate. Si dirige verso Oak Hill, a poche miglia di
distanza, e chiede aiuto presso una stazione di servizio, ormai
consapevole delle gravi condizioni del suo famoso cliente.
I presenti chiamano il vicesceriffo Howard Janney, il primo a capire
che Williams è morto e che decide di scortare l’auto al vicino
ospedale. Sono le sette del mattino passate.
Portato in corsia d’emergenza, Hank Williams viene dichiarato
morto dal dottor Diego Nunnari.
Secondo il medico, Williams potrebbe essere deceduto circa sei
ore prima, ma non è in grado di determinare con certezza l’ora del
trapasso. Il corpo viene trasportato alla Tyree Funeral Home,
dall’altra parte della strada, dove viene compiuta l’autopsia. La
persona che la esegue, il dottor Ivan Malinin, è un russo e parla a
malapena inglese. Il referto dichiara segni di punture sulle braccia,
bruciature su varie parti del corpo, una piaga sulla fronte e diverse
emorragie. Causa ufficiale della morte: dilatazione acuta del
ventricolo destro. Nel sangue vengono trovate tracce di alcol, ma
non di droga, forse perché il dottor Malinin non si è curato di
cercarle.
L’ultimo singolo pubblicato in vita da Williams s’intitola I’ll Never
Get Out Of This World Alive, ovvero “non uscirò mai vivo da questo
mondo”, facile e ironica profezia che assume tutt’altro significato
dopo la morte del cantante.
Sull’onda dell’emozione, quel brano giunge ben presto in vetta alla
classifica country americana.
A Oak Hill una statua di bronzo ricorda il fantasma arrivato in città
sul sedile posteriore.
Samois-sur-Seine è un piccolo comune di un migliaio di abitanti nella
regione dell’Île-de-France. Da qualche anno, proprio qui, nella
campagna francese sulle rive della Senna, ama trascorrere il proprio
tempo libero Jean Baptiste Reinhardt, detto Django, il più
funambolico chitarrista jazz del mondo. Ha una bella casa dove si
rilassa giocando a biliardo o pescando.

Il chitarrista gitano di origine belga (è nato a Liberchies, nei pressi


di Charleroi, il 23 gennaio 1910) è reduce da un tour americano con
il suo partner artistico, il formidabile violinista Stéphane Grappelli,
ma anche da un concerto speciale con Dizzy Gillespie.
È all’apice della carriera.
Qualche altra data in Svizzera e poi il meritato riposo, qui a
Samois. Django, negli ultimi tempi, soffre di fortissimi mal di testa.
Ma non ci fa caso: quando sarà a Samois, pensa, gli passerà tutto.
Come sempre.
Sabato 15 maggio, Django è seduto sulla panchina di fronte alla
casetta di Samois. È appena arrivato a piedi dalla stazione di Avon
dopo l’ultimo concerto a Parigi. Sta pensando che quest’anno la
stagione della pesca se la vuole proprio godere.
Di colpo, il buio.
Il mago del jazz manouche crolla a terra: un ictus lo ha steso.
Ci vogliono ore prima che un dottore giunga sul posto e decida di
ricoverarlo all’ospedale di Fontainebleau. Quando giunge alla clinica,
Django Reinhardt, quarantatré anni, è un uomo morto.

La sua vita era cambiata il 2 novembre 1928.


Con la sua prima moglie, la giovanissima Florine Bella Mayer,
Django si sta riposando all’interno della sua roulotte.
Poi un rumore sospetto.
Il ragazzo prende una candela per ispezionare la sua casetta
mobile, piena zeppa di fiori di plastica, la specialità di sua moglie
Bella. Non si accorge che un pezzettino di cera infuocata cade su un
fiore finto che prende immediatamente fuoco. In meno di due minuti,
la roulotte si trasforma in un inferno.
Il giovane Reinhardt se la cava per un pelo, ma metà del suo
corpo ha ustioni di primo e secondo grado, una gamba è paralizzata
e due dita della mano sinistra sono ridotte malissimo. I medici
vogliono amputargli la gamba ma Django si oppone: nel giro di un
anno, riprenderà a camminare, seppure con l’aiuto di un bastone.
La mano sinistra però è quasi fuori uso: può utilizzare in modo
indipendente solo due dita, l’indice e il medio.
Suo fratello Joseph gli regala una nuova chitarra e lo incoraggia a
modificare il suo stile: Django impara a fare gli accordi usando anche
le due dita paralizzate ma, soprattutto, sviluppa un’abilità sbalorditiva
nel fare gli assolo usando solo due dita. Gli basteranno per diventare
uno dei più leggendari chitarristi della storia.
Nella lingua degli zingari romeni, django significa “sveglio”. Ma,
quel sabato di maggio del 1953, sulla panchina di casa sua, Jean
Baptiste Reinhardt non si sveglierà mai più.
La notte di Natale, sul palco del Civic Auditorium, va in scena il
rhythm’n’blues. C’è anche Big Mama Thornton con la sua Hound
Dog, canzone che però non è ancora diventata così popolare.
Neanche sei mesi prima, infatti, il ragazzone di Tupelo, Mississippi,
che trasformerà quel brano in una grande hit, è ancora troppo
impegnato a inventare il rock’n’roll negli studi della Sun Records a
Memphis, dove ha inciso una canzone dedicata alla sua mamma.
Anche John Marshall Alexander è nato a Memphis.

Suo padre era un predicatore, ma lui alla chiesa ha preferito il


blues.
Terminato il servizio militare, durante la guerra in Corea, Johnny
suona il piano con Adolph Duncan prima e con B.B. King poi.
Approfittando della partenza di B.B. per Los Angeles e della
chiamata alle armi di Bobby Bland, Johnny diventa leader di quella
stessa band, che ribattezza The Beale Streeters. Nel 1952, ottiene il
suo primo contratto discografico con la Duke Records: da quel
momento, per tutti, lui sarà Johnny Ace. In soli tre anni, venderà
quasi due milioni di dischi e riempirà le platee dei teatri d’America.
Anche stasera, per lui e per la Thornton, il Civic Auditorium è sold
out.
Tra un set e l’altro, Johnny si rilassa in camerino, insieme ai suoi
musicisti.
Ha un modo curioso di scaricare la tensione: giocherella con la
sua pistola, un revolver calibro 22. Lo fa spesso, dicono i suoi amici,
anche quando è on the road: si diverte (sembra) a sparare ai cartelli
stradali durante i tragitti tra un concerto e l’altro. Solo che, quando lo
fa, in genere è sobrio.
Stasera, invece, Johnny ha bevuto.
“Stai attento con quel giocattolino”, gli dice qualcuno, con tono
preoccupato.
“Tranquillo”, risponde Johnny, “mica è carica…”.
E, per dimostrarlo, punta la pistola prima contro la fidanzata e
quindi verso un’altra amica seduta lì vicino. Quindi, sorridendo in
modo beffardo, appoggia la canna del revolver alla propria tempia
destra.
“Sono rimasto di sasso”, racconta Curtis Tillman, il bassista di Big
Mama Thornton, “un istante dopo Johnny ha premuto il grilletto e…
bam!”.
Inavvertitamente, un proiettile era rimasto in canna.
Big Mama esce dal camerino urlando come un’ossessa… “Johnny
Ace si è sparato!”.
La leggenda della morte di Johnny Ace (che qualcuno per anni ha
voluto attribuire al macabro gioco della roulette russa) diventa così la
cronaca di uno sfortunato, per quanto stupidissimo, errore.
“Non sono mai stato un vero fan di Johnny Ace/ Ma la sua morte
mi ha colpito lo stesso/ E allora ho provato a cercare una sua foto/ E
quando mi è giunta direttamente dal Texas/ Ho visto quella sua
faccia triste e così normale/ La foto era firmata, dall’ultimo grande
Johnny Ace”. Con questi versi, Paul Simon rende tributo alla figura di
Alexander nel brano The Late Great Johnny Ace, pubblicato
nell’album HEARTS AND BONES del 1983.
Il 2 gennaio del 1955, nella chiesa del Clayborn Temple AME di
Memphis, si celebrano i funerali di Johnny Ace.
Vi partecipano oltre cinquemila persone.
Nell’elegantissima suite dello Stanhope Hotel, al 995 della Quinta
Avenue, la televisione è accesa. Va in onda lo show di Tommy e Jim
my Dorsey, uno degli spettacoli musicali più popolari d’America. Il
Dorsey Brothers Stage Show, per la verità, non è ancora entrato
nella leggenda: lo farà il 28 gennaio del 1956, quando un
giovanissimo Elvis Presley (accompagnato da Scotty Moore, Bill
Black e DJ Fontana) farà lì la sua prima apparizione televisiva.
Stasera, davanti allo schermo, seduto in poltrona nella camera
della ricchissima amica/sponsor Pannonica de Koenigswarter – Nica
per gli amici, o “la baronessa del be-bop” per gli appassionati di jazz
– c’è uno spettatore d’eccezione: Charlie Parker.
Proprio qui, nella suite dello Stanhope, la baronessa ha dato vita a
leggendarie jam session.
Ma stasera l’atmosfera è diversa. Charlie Parker sta male.
Sta male da quando è arrivato da lei, tre giorni fa. Doveva
prendere un treno per Boston, ma non ce l’ha fatta. Quando l’ha
visto così conciato, Nica ha chiamato un dottore che ha suggerito il
ricovero in ospedale.
Ma Bird non è voluto andarci. Non ha più voglia di lottare.
Parker ha trentaquattro anni, è tossicodipendente da più di
quindici e ormai mescola con nonchalance alcol ed eroina. Il suo
vizio è pesante e incontenibile, tanto da precludergli spesso tante
chance professionali. Nel 1946 lo hanno pure arrestato (stava
mettendo a ferro e fuoco una stanza d’hotel) e tenuto per sei mesi
sotto cura al Camarillo State Mental Hospital.
Bird, questo è il suo soprannome sin da ragazzino, possiede un
talento prodigioso ma ingestibile. Il 5 marzo ha fatto la sua ultima
apparizione pubblica sul palco del Birdland, il locale newyorkese
chiamato così in suo onore.
“Perché non mi salvi? Perché non mi salvi?”, ha ripetuto al suo
amico Dizzy Gillespie.
Charlie ha sempre adorato il suono del sax di Jimmy Dorsey.
Pur di ascoltarlo, stasera si sorbisce il primo ospite dello show, un
juggler virtuoso che fa numeri incredibili con una palla.
Charlie ride, si diverte, poi di colpo sviene.
Quando il dottore giunge in camera non può che verificare la
morte di Charles Parker jr, trentaquattro anni, da Kansas City, nel
Missouri.
“Il medico mi ha chiesto se il mio amico avesse cinquantacinque o
sessant’anni”, ricorda la baronessa De Koenigswarter, evidenziando
lo stato pietoso delle condizioni fisiche di Bird.
La causa ufficiale del decesso: polmonite lobare e ulcera
perforante.
Parker non sarebbe mai voluto tornare nella sua città natale,
Kansas City. Nemmeno dentro una cassa di legno.
“New York è casa mia”, ha sempre ripetuto.
Ma la sua ex moglie Doris (da cui non aveva mai divorziato) e la
sua compagna Chan non hanno potuto opporsi al desiderio della
madre di Bird, che lo ha voluto seppellire al Lincoln Cemetery di
Kansas City, Missouri.
Poco prima, però, il suo a mico Dizzy Gillespie, aveva organizzato
una sorta di cerimonia privata ad Harlem (officiata da Adam Clayton
Po well jr) con annesso concerto.
Dal giorno dopo, sui muri del Greenwich Village sarebbero
cominciate ad apparire le scritte “BIRD LIVES”, Par ker è vivo.

Menlove Avenue, ore undici del mattino.


Julia Lennon ha appena lasciato la casa di sua sorella Mimi, dove,
dal 1946, vive e cresce suo figlio John.
Julia passa a trovare il piccolo John tutti i giorni. E nonostante il
parere contrario della zia Mimi, ne incoraggia la passione musicale.
Gli ha regalato la sua prima chitarra, una Gallotone Champion, uno
strumento molto economico ma con una garanzia: non si spaccherà
mai in due…
Julia è anche andata a vederlo suonare con il suo gruppo, i
Quarrymen.
Adesso deve uscire di corsa, prendere l’autobus e andare al
lavoro.
Quando attraversa la strada, non si accorge che un’auto sta
sopraggiungendo ad alta velocità.
Alla guida c’è un poliziotto fuori servizio, un certo Eric Clague.
“La signora Lennon è improvvisamente comparsa di fronte a me”,
racconta in lacrime, “giuro che non stavo andando forte e che ero
sobrio”.
Non è vero.
Eric Clague è ubriaco e ha colpito in pieno Julia Lennon che,
investita, vola per aria, cade in strada e muore sul colpo.
Nigel Whalley, un amico di John, è presente alla scena.
“Stavo andando da John”, racconta, “ma lui non era in casa. Ho
visto sua mamma e la zia Mimi che stavano salutandosi di fronte alla
porta di casa. ‘Oggi avrai l’onore di accompagnarmi’, mi ha detto
Julia Lennon. E così ho fatto. Ho preso Menlove Avenue, girato in
Vale Road poi… di colpo, lo schianto. Poco dopo, è arrivata Mimi
(che aveva udito il botto) e ha cominciato a urlare e a piangere… ho
fatto fatica a frequentare John dopo l’incidente… ho pensato che, in
qualche modo, me ne attribuisse la colpa… fossi stato un minuto in
più a parlare con Julia e Mimi tutto questo non sarebbe successo”.

Quando muore, Julia Lennon ha quarantaquattro anni.


Seppellita nel cimitero di Allerton a Liverpool, lascia una traccia
profonda nella vita e nell’arte di John Lennon, che chiamerà il suo
primogenito Julian in ricordo della madre, e a lei dedicherà diverse,
bellissime canzoni.

È da poco passata l’una di notte, quando, a poche miglia


dall’aeroporto di Mason City, Iowa, dal quale era decollato qualche
minuto prima, un piccolo aeroplano Beechcraft Bonanza si schianta
al suolo.
Nessun superstite.
A bordo del velivolo, oltre al pilota, viaggiano tre musicisti che il
giorno dopo si sarebbero dovuti esibire a Fargo, nel Nord Dakota,
per la data successiva di un festival rock itinerante chiamato Winter
Dance Party Tour.
I tre artisti sono un ex deejay texano, Jiles Perry Richardson detto
“The Big Bopper”, un giovane californiano di origine messicana,
Ricardo Valenzuela, noto con il nome d’arte di Ritchie Valens, e
Charles Hardin Halley meglio conosciuto come Buddy Holly, stella di
prima grandezza nel panorama musicale di quegli anni.
La tragedia, la prima nella storia del rock’n’roll, colpisce così tanto
l’immaginario degli appassionati che il 3 febbraio del 1959 diventa
per tutti “The day the music died”, il giorno in cui è morta la musica.
Nei cartelloni che promuovono il tour, il nome di Buddy Holly è
quello più in vista: lui e i suoi Crickets sono gli unici ad avere
all’attivo qualche anno di carriera e soprattutto un considerevole
numero di dischi venduti. Da qualche tempo poi, l’esperienza del
giovane texano s’è arricchita: le apparizioni nel leggendario show
radiofonico di Alan Freed, quelle nel popolarissimo programma
televisivo di Ed Sullivan e un paio di tour importanti, in Australia e
Inghilterra, hanno fatto di lui una superstar internazionale, un vero e
proprio punto di riferimento per i giovani di tutto il mondo.

Il Winter Dance Party Tour inizia subito in modo iellato: maltempo


e gelo lo accompagnano costantemente, i pullman che l’agenzia ha
preso a noleggio sono vecchi, mal riscaldati, facilmente soggetti a
guasti e i componenti del cast devono resistere ai disagi causati dal
freddo e dalla stanchezza.
Dal 23 gennaio in poi, il tutto si trasforma in una vera e propria
odissea.
Buddy Holly e i suoi amici non vedranno mai la conclusione di quel
tour: neanche dieci giorni dopo il debutto, la tragedia aerea nei cieli
dell’Iowa pone fine alle loro giovani vite e dà inizio alla loro
leggenda.
Ma chi sono veramente i due compagni di sventura di Buddy
Holly?
The Big Bopper è più conosciuto per il suo lavoro in radio e per un
curioso record di quasi sei giorni consecutivi di trasmissioni che per i
dischi prodotti, il più famoso dei quali, CHANTILLY LACE, riesce
comunque a salire sino al terzo posto nella classifica delle canzoni
più suonate del 1958.
Valenzuela inizia a suonare la chitarra a soli nove anni.
È l’idolo della scuola. Appena diciassettenne firma come Ritchie
Valens il suo primo contratto discografico e pubblica Come On Let’s
Go, un successo da 750mila copie.
Poco dopo, scrive una canzone dedicata alla fidanzata Donna
Ludwig.
Il brano, intitolato Donna, vende oltre un milione di copie, eppure
Valens passa alla storia per il lato B dello stesso 45 giri: La Bamba
diventa un classico, mostrando in modo inequivocabile l’originale
formula sonora del ragazzo di East L.A., basata su un rock’n’roll
grintoso e vivacissimo con intensi profumi ispanici, a testimonianza
delle sue origini chicane. Questo gli vale (in soli due anni) i favori dei
latinos californiani per i quali Richie diventa un eroe popolare.
Si sente spesso dire che il destino sa essere beffardo. E alcuni
fatti che avvengono quella sera d’inizio febbraio del 1959 sembrano
proprio confermarlo.
Buddy Holly e due membri della sua band (Tommy Allsup e
Waylon Jennings, futuro eroe della country music), stanchi per il
concerto appena tenuto a Clear Lake, non hanno alcuna voglia di
intraprendere quel lungo e faticoso viaggio notturno in pullman. Loro,
il Nord Dakota – tappa successiva del tour – lo avrebbero raggiunto
su un piccolo velivolo a noleggio.
Poco prima della partenza, però, Allsup e Jennings sono costretti
a cedere i loro posti sull’aereo alle altre due attrazioni del Winter
Dance Party Tour. Big Bopper, raffreddato e febbricitante, non è
obbiettivamente in grado di sobbarcarsi uno spostamento così lungo
sullo sgangherato bus messo a disposizione dagli organizzatori, che
ha anche l’impianto di riscaldamento guasto.
Ne andrebbe della sua salute.
L’appena diciassettenne Ritchie Valens, invece, vince il suo posto
giocandoselo a “testa e croce” con Tommy Allsup.
Le tempeste del Midwest, già di per loro terrificanti, possono
diventare un ostacolo insormontabile per un pilota d’aereo poco
avvezzo a lottare al buio, contro neve e vento. Così, l’ultimo volo
dell’inesperto aviatore Roger Peterson dura poco più di cinque
minuti: l’aereo si schianta in un campo poco lontano dalla pista di
decollo.
Per ulteriore ironia della sorte, quello stesso giorno nei cieli
d’America ha luogo un’altra e ben più grave tragedia: il volo
American Airlines 320, nel suo avvicinamento all’aeroporto La
Guardia, dove avrebbe dovuto atterrare guidato da strumentazione
manuale, precipita al suolo. Nel drammatico incidente muoiono
sessantacinque persone.
Se durante la bufera, a bordo del Beechcraft Bonanza, Buddy
Holly, Ritchie Valens e Big Bopper maledicono un destino crudele,
anche Waylon Jennings non smetterà mai di maledire quel giorno e
quella frase detta al suo amico Buddy Holly.
“Ricordo l’ultima volta che ho visto Buddy”, racconta Waylon, “mi
ha chiesto di andargli a comprare degli hot dog. Si dondolava su una
sedia appoggiandosi al muro e mi prendeva in giro. Mi ha detto,
scherzando: ‘Allora, è vero che non vieni con noi sull’aereo? Sai
cosa ti dico? Ho la sensazione che il tuo autobus si trasformerà in un
ghiacciolo: ci sono 40 gradi sottozero, e tu, come minimo, ti
beccherai una polmonite’. Allora, quasi per sfidarlo, gli ho risposto:
‘Beh, amico… spero che il tuo aereo si schianti’. Per anni ho dovuto
convivere con un senso di colpa incredibile: ho sempre temuto che
qualcuno potesse scoprire quella maledizione che, pur in modo
scherzoso, gli avevo rivolto. Perché lui e non io? Questo pensiero ha
tormentato la mia vita. Buddy è stato il primo a credere nelle mie
qualità, e rispetto a lui, musicalmente, io ero e sono una nullità”.
La tragedia nei cieli di Mason City viene archiviata dalla polizia e
dalle autorità aeroportuali come “incidente determinato dalle cattive
condizioni atmosferiche e da un errore di valutazione del pilota”.
Sono molti, però, quelli che dubitano subito proprio delle effettive
abilità del giovane pilota Roger Peterson, che ha solo ventun anni e
poche centinaia di ore di volo.
Qualcuno, addirittura, non esclude l’ipotesi di un complotto.
Si pensa che lo stesso Peterson abbia addirittura tentato di
uccidere Buddy Holly. La lotta tra i due avrebbe poi portato alla
perdita del controllo del piccolo Beechcraft e alla conseguente
picchiata a terra. La testimonianza di chi ha visto le strane traiettorie
del velivolo prima di precipitare sembra suffragare queste teorie
complottiste.
C’è persino chi lega questo incidente a un omicidio avvenuto pochi
giorni prima nella cittadina di Clear Lake, luogo dell’ultimo concerto
di Buddy Holly, Big Bopper e Ritchie Valens. Ma, dopo indagini
accurate, anche questa strada viene completamente abbandonata.
Eppure, ancora oggi (a tanti anni di distanza) vi sono autori e storici
che non sono convinti che le cose siano andate in quel modo così
drammaticamente semplice.
Per fortuna, il 3 febbraio del 1959, la musica e tanto meno il rock
non sono affatto morti.
L’influenza di Buddy Holly sulle successive generazioni di musicisti
sarà enorme. Basti pensare a Paul McCartney e alle ripetute,
esplicite manifestazioni di stima musicale e umana per Buddy Holly,
per comprendere che l’epoca che moriva stava già lasciando i suoi
semi, pronti a rifiorire in una nuova, rigogliosa stagione del rock.
Nel 1971, un cantautore poco conosciuto (un certo Don McLean)
porta al successo un brano destinato diventare epocale. Il titolo della
canzone, ripresa successivamente dalle più grandi star americane,
da Garth Brooks a Tori Amos, dai Pearl Jam a Madonna, è (a detta
di qualcuno) il nomignolo dell’aereo sul quale hanno perso la vita
Buddy Holly, Ritchie Valens e The Big Bopper: American Pie.
Strutturata come una classica ballad, American Pie è il racconto
allegorico della vita dell’autore, dalle illusioni giovanili all’amaro
disincanto dell’età adulta. Sullo fondo, l’America e la sua storia:
dall’incosciente ubriacatura rock’n’roll di metà anni Cinquanta,
all’utopia kennedyana, fino al naufragio dei sogni libertari alla fine
degli anni Sessanta.
Alcuni hanno creduto che la frase attorno a cui ruota ogni strofa
(“the day the music died”) si riferisca al giorno dell’omicidio Kennedy.
Lo stesso Don McLean ha invece chiarito che quello era un
riferimento esplicito al 3 febbraio 1959, inteso come fine della prima
grande era del rock’n’roll.
Ancora oggi, a quasi cinquant’anni dalla morte, il mito di Holly è
più vivo che mai.
A Lubbock, Texas (sua città natale nonché luogo di sepoltura) tutti
gli appassionati (soprattutto chitarristi) che vanno in pellegrinaggio
nel cimitero dove c’è la tomba di Buddy hanno un’usanza particolare:
vicino al monumento funebre, gettano l’ultimo plettro che hanno
utilizzato.
Sognando, per un giorno, di diventare anche loro una rockstar.

Sono da poco passate le tre del mattino.


Nella camera 6A12 del Metropolitan Hospital, la paziente
ricoverata ha una crisi fatale: congestione polmonare e arresto
cardiaco. Almeno, così è scritto sul referto post mortem. Ma la verità
è un’altra: la donna è affetta da cirrosi epatica, la malattia degli
alcolizzati cronici.
È solo l’atto finale di una vicenda tragicamente complessa.
Nata a Philadelphia quarantaquattro anni prima con il nome di
Eleanora Fagan Gough, la signora della stanza 6A12 è conosciuta
da tutti come Billie Holiday, la grande regina del jazz.
Neppure tre settimane prima, il 31 maggio, Billie era giunta in stato
semicomatoso al Metropolitan Hospital con una forte colica renale e
una crisi cardiaca.
La sua stanza è piantonata dalla polizia: la Holiday è in arresto per
detenzione di droga. Non ci sarà bisogno di tenerla sotto controllo:
non uscirà mai più dalla sua stanza.
“Vengo da una famiglia nera di Filadelfia”, raccontava ai suoi
amici, “quello che, dicono, fosse mio padre, Clarence Holiday,
suonava il banjo con Fletcher Henderson a New Orleans. Quando
sono nata, lui aveva quindici anni e mia madre tredici. A undici anni
sono stata violentata. A tredici facevo la puttana. A quindici mi sono
trasferita a New York. E ho iniziato a cantare. Ho firmato un contratto
con la Columbia di John Hammond e sono diventata una star del
jazz e del blues: Billie Dove era la mia attrice preferita e le ho voluto
rubare il nome. Oggi, tutti mi chiamano Billie Holiday o, più
semplicemente, come ha detto una volta il mio amico Lester Young,
Lady Day. Qualche sera fa, al Cafè Society di New York (il locale per
soli neri dove mi esibisco sempre) ho conosciuto Abel Meeropol, un
insegnante ebreo del Bronx. Mi ha confessato di essere rimasto
scioccato da una fotografia che ha visto pubblicata su un giornale
nel sud degli States: a un albero, appesi a testa in giù, due
afroamericani colpevoli di aver rubato un cavallo. I loro corpi erano
stati massacrati dal linciaggio. Sul tronco dell’albero, un cartello
agghiacciante: ‘Negri, questo è il minimo che vi può capitare se non
rigate dritti’. Impressionato e colpito, Meeropol ha buttato giù il testo
di un poemetto che parla di ‘strani frutti che penzolano dai rami di un
albero’. Ha anche deciso di metterlo in musica perché lui vuole che
sia io a cantarlo. Ieri ho sentito la canzone: è bellissima. La voglio
registrare subito anche se John Hammond mi ha sconsigliato di
farlo. ‘Non credo sia una buona idea’, mi ha detto, ‘cantare in modo
così esplicito del razzismo potrebbe essere dannoso per la tua
carriera. La Columbia sta investendo su di te. E presto, avrai un
pubblico di bianchi pronto ad applaudirti’. Mi sono impuntata. La
Columbia si oppone? Hammond è contrario? Vaffanculo, io la incido
lo stesso”.
“Gli alberi del sud fanno strani frutti/ Hanno sangue sulle foglie e
sangue nelle radici/ Corpi di neri penzolano dondolando alla brezza
del meridione/ Strani frutti sono appesi ai pioppi del Sud”. Strange
Fruit, la prima canzone contro il razzismo, viene pubblicata nel 1939
dalla Commodore Records di Milt Gabler e, per vent’anni, diventa un
cavallo di battaglia di Billie Holiday.

Già arrestata nel 1947, sempre per detenzione e uso di


stupefacenti, Billie si brucia tutti i suoi soldi in alcol, droga e vizi di
ogni genere: al momento della morte ha 750 dollari nella tasca del
cappotto e solo 70 centesimi sul suo conto corrente…
ANNI SESSANTA
Una Cadillac nera sta sfrecciando sulla Highway 30.
Il guidatore, improvvisamente, perde il controllo e l’automobile
prima si ribalta e poi si schianta sul terrapieno. L’autista muore sul
colpo.
La donna, seduta nel sedile posteriore, è conciata malissimo.
Al suo fianco, morente, giace il marito.
Lui è Jesse Belvin, il “nuovo Nat King Cole” o (per altri) “l’Elvis
Presley nero”. Non a caso, lo hanno soprannominato “Mr Easy”.
Poco più di due mesi prima, il 15 dicembre, Belvin ha compiuto
ventisette anni.
Lei è Jo Ann Belvin, manager di Jesse, e madre dei suoi due figli.
Qualche ora prima, Jesse Belvin si è esibito in un concerto a Little
Rock, Arkansas, di fronte a un pubblico misto (bianchi e neri), evento
senza precedenti.
Ad aprire lo show, Sam Cooke, Jackie Wilson e Marv Johnson.
Ma a Jesse viene riservato un trattamento particolare.
Nei giorni precedenti, il soulman texano ha ricevuto sei minacce di
morte. E ha chiamato, con toni preoccupati, sua madre in Texas.
Durante il concerto, alcuni facinorosi interrompono lo spettacolo
per ben due volte. Insulti razzisti, minacce di linciaggio e incitamento
ai bianchi di lasciare la sala creano un clima angosciante. Appena
possono, i coniugi Belvin escono dal teatro, salgono in auto e
fuggono il più lontano possibile.
Tre anni prima, proprio l’idolo di Belvin (il grande Nat King Cole) a
ve va subìto un trattamento simile quando era tornato nel suo stato
natale, l’A la bama, sperando di essere accolto come il “figliol
prodigo”. Al contrario, un gruppo di militanti del gruppo estremista
White Citizens Council di Birmingham, lo aveva assalito con l’intento
di rapirlo. Cole era rimasto fe rito e da quel momento aveva deciso di
non esibirsi più nel sud degli States.

Jesse Belvin esala l’ultimo respiro prima che i soccorsi giungano


sul posto.
Jo Ann lo raggiunge qualche ora più tardi: muore all’ospedale di
Hope, la cittadina dell’Arkansas destinata a entrare nella storia come
hometown del 42esimo Presidente degli Stati Uniti d’America, Bill
Clinton.
La pattuglia della polizia che ispeziona la sua Cadillac rileva
“indiscutibili tracce di manomissione sulle gomme posteriori della
vettura”.
Ma non aggiunge ulteriori dettagli, né decide di aprire un’inchiesta.
L’ipotesi di omicidio viene sepolta insieme ai corpi dei coniugi Belvin.

Ieri sera, pochi minuti prima della mezzanotte, sulla A4, la Great
West Road, un taxi Ford Consul sbanda paurosamente prima di
schiantarsi contro un palo della luce.
L’autista, il diciannovenne George Martin, resta illeso perché ha la
cintura di sicurezza allacciata. Va meno bene ai suoi giovani clienti,
due ragazzi e una ragazza.
Tutti e tre americani, due di loro (Gene Vincent ed Eddie Cochran)
sono star del rock’n’roll che qualche ora prima hanno terminato, con
uno show trionfale a Londra, un tour di dieci settimane in Gran
Bretagna.

Gene Vincent, interprete di Be Bop A Lula, ha il collo insaccato e


qualche vertebra fratturata, Sharon Sheeley (cantautrice) ha il
bacino rotto. L’amore della sua vita, Eddie Cochran, è stato
catapultato dal sedile posteriore, ha spaccato il parabrezza con la
testa e versa in gravissime condizioni.
Sul luogo giunge subito un’auto della polizia: l’agente David
Harmen, chitarrista per hobby, recupera la Gretsch semiacustica di
Cochran e la porta alla stazione di polizia, dove per due settimane
(prima di restituirla ai famigliari) si divertirà a pizzicarla.
Cochran, intanto, viene trasportato d’urgenza al vicino ospedale di
Bath, dove sedici ore dopo morirà senza aver ripreso conoscenza.
Nato nel Minnesota, il 3 ottobre del 1938, Raymond Edward
“Eddy” Cochran non ha ancora ventidue anni. Il suo chitarrismo
virtuoso, il suo look da macho buono, la sua musica influenzata dal
sound della vecchia country music lo fanno diventare un’icona del
rockabilly.
Summertime Blues è la canzone con cui tutti amano ricordarlo.

Eimsbütteler Strasse, quartiere benestante di Altona. Astrid


Kirchherr, giovane fotografa, sale nell’attico dove vive il suo
fidanzato, lo scozzese Stuart Ferguson Victor Sutcliffe: per gli amici
semplicemente Stu.
Lo trova a letto. Immobile.
Lo scuote una, due, dieci volte.
Stu non rinviene.
Terrorizzata, Astrid urla e chiede aiuto a sua madre Nielsa.
Arriva un’ambulanza. Ma è troppo tardi.
Stu Sutcliffe muore di emorragia cerebrale mentre sta per essere
trasportato all’ospedale di Amburgo: il 23 giugno avrebbe compiuto
ventidue anni.
Il ragazzo è un artista: si trova ad Amburgo perché c’è andato con
il gruppo di amici con cui suona: i Beatles. Compagno di John
Lennon al College of Art di Liverpool, Stu era stato convinto da John
e Paul a comprarsi un basso Höfner e a unirsi alla band.
Quando arriva ad Amburgo, nell’autunno del 1960, conosce Astrid
al Kaiserkeller Club, dove si esibiscono regolarmente i Beatles.
Tra i due giovani scocca la scintilla dell’amore.
Si fidanzano ufficialmente e vanno a vivere insieme nella casa di
Nielsa Kirchherr ad Altona.
Qualche mese dopo, Stu comincia a soffrire di fortissimi mal di
testa che, negli ultimi mesi, diventano insopportabili. A volte, non
riesce nemmeno a tenere gli occhi aperti.
Spesso, soffre di cecità temporanea dopo le crisi più acute.
Qualcuno dice non si tratti di una malformazione.
C’è chi ricorda, infatti, che durante una rissa scoppiata dopo un
concerto dei Beatles alla Lathom Hall, nel Lancashire (gennaio
1961), Stu era stato colpito alla testa. Si era parlato di frattura del
cranio, ma era una pura congettura: il ragazzo non era voluto andare
in ospedale, né si era sottoposto ad alcun tipo di lastra.

Secondo alcuni testimoni, John Lennon e Pete Best (il primo


batterista del gruppo) si erano gettati nella rissa ed erano riusciti a
salvare Stu dal linciaggio.
Nel giugno del 1961, Sutcliffe decide di lasciare i Beatles e di
iscriversi al College of Art di Amburgo, dove diventa allievo
dell’artista pop Eduardo Paolozzi. In eredità lascia il basso Höfner e
il taglio di capelli “a caschetto”, che gli altri quattro copieranno e che
tanta fortuna porterà al gruppo.
Tre giorni dopo la morte di Stu, i Beatles atterrano ad Amburgo e
vengono accolti da Astrid, che li informa della morte del loro amico.
Millie Sutcliffe vola da Amburgo a Liverpool con la bara del figlio.
Suo marito Charles, che sta navigando a vela verso il Sud
America, viene informato della tragedia solo tre settimane dopo, da
un sacerdote, al porto di Buenos Aires.
Al funerale, a Liverpool, non sono presenti né Astrid (malata) né
John Lennon, che con Stu aveva un rapporto d’amicizia e di stima
artistica speciale.
“Madre cara”, scrive Astrid alla mamma di Stu, “la malattia mi ha
impedito di essere presente ai funerali ma volevo farti sapere quanto
io e John siamo distrutti dall’idea di non poter più vedere Stu… non
riusciamo a smettere di piangere…”.

Ore sei e venti di sera.


Un piccolo Piper Comanche, dopo il decollo dall’aeroporto di
Kansas City – un primo atterraggio a Dyersburg, nel Tennessee, per
fare rifornimento e quindi un nuovo decollo con destinazione
Nashville – si sfracella al suolo dopo aver cercato di fronteggiare,
senza successo, una tempesta di pioggia e vento.
A bordo ci sono tre star della musica country: Hawkshaw Haw
kins, Cowboy Copas e la regina di Nashville, la grande Patsy Cline.
Alla cloche del Piper c’è Randy Hughes, manager della Cline.
Il tempo infame e la fitta vegetazione della foresta nella quale si è
infilato l’aeroplano rendono difficili i soccorsi. Ci prova, in modo quasi
disperato, Roger Miller (songwriter country di una discreta
popolarità), che urla al vento i nomi dei suoi amici sperando che lo
possano sentire.
È lui che, con coraggio e cocciutaggine, riesce a trovare il velivolo.
“Correvo a perdifiato”, ricorda Miller, “non volevo arrendermi: ho
saltato rami e arbusti sino a che sono giunto sulla cima di una
collinetta… Lì, ho visto tutto. Il Piper era sfracellato, come fosse
atterrato di muso”.
Purtroppo, nessuno è sopravvissuto.
Patsy Cline ha trent’anni.
Poco più di due anni prima, quella ragazza capace di superare
tutti i record di vendita degli artisti maschi di country music,
diventando (anche per questo) un’eroina delle donne americane,
aveva sfiorato la morte dopo un pauroso incidente automobilistico.
Due sere prima del tragico volo per Nashville, Patsy si era esibita
per l’ultima volta a Kansas City: la sua performance scintillante
aveva reso memorabile quella serata di beneficenza alla quale
avevano partecipato (oltre ai suoi tre compagni di sventura) anche
altre superstar, da George Jones a Dottie West.
Vestita con una gonna di chiffon bianca, Patsy Cline aveva
mostrato a tutti quanto affascinante fosse il suo stile honky tonk
ammorbidito da una voce celestiale. Le sue grandi canzoni, da
Crazy a Walking After Midnight, anche a più di quarantacinque anni
dalla sua morte, restano impresse in modo indelebile nella memoria
di tutti gli appassionati.

È il tramonto.
Il leader del Rock and Roll Trio, il chitarrista e cantante Johnny
Burnette, sta facendo un giro sulla sua piccola barca. Sta diventando
buio e Johnny non ha luci a bordo. Forse, anche per questo, il
grosso motoscafo cabinato che sta giungendo ad alta velocità
proprio sulla sua rotta non si accorge del minuscolo natante.
Lo schianto è inevitabile.
Johnny Burnette viene sbalzato fuori bordo e annega nelle scure
acque del lago.
Appena appresa la tragica notizia, il fratello maggiore Dorsey
(contrabbassista della band) chiama immediatamente il terzo
membro del gruppo, il chitarrista solista Paul Burlison. Insieme,
organizzano il funerale.
Nato a Memphis, Tennessee, il 25 marzo, Johnny Burnette aveva
compiuto trent’anni. Pioniere del rockabilly, ha trasmesso la
passione per la musica al figlio Rocky Burnette, che negli anni
Ottanta cerca, senza lo stesso successo, di ripercorrere le orme
paterne, immortalate da Ringo Starr nel 1973 con la cover di You’re
Sixteen.

Il Martoni’s è un bar-ristorante italiano su Cahuenga Boulevard, poco


distante dai fasti del Sunset Strip. Frequentato da discografici,
produttori e musicisti, il locale sta ospitando un piccolo party in onore
del “Re del Soul” Sam Cooke.
In questi giorni, un suo live album è in vetta alle classifiche, e
Cooke ha già inciso un nuovo pezzo (A Change Is Gonna Come)
che pare piaccia moltissimo a Martin Luther King. Si dice che quel
brano potrebbe diventare un inno del movimento per i diritti civili
degli afroamericani.
Sam è al settimo cielo.
Solo quattro anni prima, questo giovanotto di Clarksdale,
Mississippi, che si era fatto le ossa cantando gospel con i Soul
Stirrers, faceva fatica a farsi riconoscere quando varcava le porte del
Martoni’s.
Stanotte sono tutti lì per lui.
Cooke stringe mille mani, bacia e abbraccia amici e conoscenti. E
beve numerosi bicchieri di Martini. Racconta di come saranno i suoi
prossimi concerti, di quanto adori i musicisti blues (“purché siano
raffinati, però”), svela il suo desiderio di trascorrere in pace le
prossime festività natalizie, anche se la relazione con la moglie
Barbara è ormai agli sgoccioli.
Regala ai suoi collaboratori una mancia consistente perché, dice
loro, “possiate anche voi passare un Natale felice”.
Facendosi largo tra i tavoli del locale per raggiungere un paio di
amici, Sam nota una ragazza nera dai tratti asiatici. È in compagnia
di un gruppo di musicisti.
Rimane colpito dal suo sex appeal. Lei coglie immediatamente lo
sguardo ammiccante di Sam e risponde in modo altrettanto lascivo.
La giovane donna viene presentata a Sam Cooke dai musicisti
che sono con lei.
Si chiama Elisa Boyer, ha ventidue anni e dice di lavorare alla
reception di un motel all’angolo tra Hollywood e La Brea Boulevard.
Ma a Sam appare subito chiaro che il vero lavoro di Elisa è un
altro…
Eccitato dalla nuova prospettiva di finire la serata con la bella
Elisa, Cooke dice agli amici che deve uscire a prendere una boccata
d’aria fresca.
“Ho bevuto troppo”, ammette, “ne ho bisogno”.
“Ci vediamo al PJ’s Club di Santa Monica, verso l’una e mezzo”,
dice a tutti.
Non ci andrà mai.
Sam Cooke sale a bordo della sua fiammante Ferrari spider rossa
insieme a Elisa Boyer. Sul sedile posteriore della fuoriserie, una
bottiglia di scotch e una copia del giornale dei musulmani neri
«Muhammad Speaks».
Prima di imboccare la Harbour Highway, direzione Santa Monica,
Sam si scioglie il nodo della cravatta e accarezza i lunghi capelli
della ragazza.
Poi, spinge a fondo sull’acceleratore.
L’alta velocità, le condizioni alterate del conducente, una meta
ignota: Elisa Boyer, visibilmente preoccupata, comincia a fare
domande.
“Dove stiamo andando? Ti senti bene? Non puoi rallentare?”,
chiede con tono di voce sempre più preoccupato.
“Non avere paura, baby”, le dice Sam, “sei in buone mani”.
Cooke sa benissimo dove andare.
Quel quartiere buio e solitario nei pressi dell’aeroporto lui lo
conosce bene.
Ha suonato un sacco di volte in un club lì vicino. Ai suoi musicisti
piaceva dormire in quel piccolo motel, economico e un po’ bruttino di
fianco al locale, in Figueroa Street, che però aveva un grande
pregio: ci potevi fare tutto il casino del mondo e nessuno si sarebbe
lamentato o avrebbe dato fastidio. In più, è un luogo riservato: non
chiedono i documenti, nessuno fa domande inopportune. Il posto
ideale, insomma, per passare una notte con una ragazza facile.
La Ferrari, dopo aver preso l’uscita dell’aeroporto, svolta a destra
in Figueroa Street e quindi parcheggia all’interno dell’Hacienda
Motel, la cui insegna luminosa recita: “Tutti benvenuti, radio e tv
gratis, aria condizionata in allestimento, aperto 24 ore su 24, stanze
da 3 dollari in su”.
Sono le due e mezzo quando Sam Cooke (che lascia Elisa Boyer
in macchina) entra nell’ufficio del Motel per il check in.
Di fronte a lui, la manager del posto: Bertha Lee Franklin, una
signora cinquantenne afroamericana, magra e con uno sguardo
poco interessato a capire chi sia il suo interlocutore.
Miss Franklin scorge la ragazza in macchina e chiede se può
registrare i due come Mr e Mrs Smith. Quindi, consegna a Sam le
chiavi della camera e gli augura la buonanotte.
Nessuno sa se in quel momento la signora Franklin ha
riconosciuto il suo nuovo cliente.
Sam prende le chiavi della camera, risale in macchina e
parcheggia la Ferrari di fronte alla porta di ingresso. L’alcol ormai gli
sta dando alla testa e lui non ha voglia di perdere altro tempo.
Appena entrato nella stanza, si butta addosso a Elisa.
La ragazza, sorpresa e spaventata, non oppone una grande
resistenza. Cooke le strappa i vestiti: Elisa rimasta in mutandine e
reggiseno, cerca di prendere tempo. Chiede di andare in bagno. Una
volta lì, però, capisce che non ha via di scampo.
Quando esce, Sam è nudo di fronte a lei.
Per sua fortuna, anche lui ha bisogno di andare in bagno.
Elisa ne approfitta, raccatta un po’ di roba e fugge dalla camera.
È questione di un minuto.
Quando Sam esce dal bagno, e non vede più la ragazza, diventa
una furia.
La porta della stanza è aperta e i suoi vestiti sono spariti. Così
come il portafogli.
Gli sono rimasti soltanto una giacca sportiva e le scarpe.
Cooke li indossa, sale in macchina, parte sgommando e si ferma
di fronte alla porta dell’ufficio del motel. Scende trafelato senza
spegnere il motore della Ferrari e inizia a suonare il campanello e a
bussare alla porta.
La luce è accesa e Sam sente anche la televisione. Ci deve
essere qualcuno sveglio… quanto meno la signora che lo ha
registrato neanche un quarto d’ora prima.
Cooke è sicuro che Elisa si sia nascosta lì dentro.
Continua a suonare il campanello, a chiamare e a bussare.
Ma non risponde nessuno.
Dopo un paio di minuti, finalmente, Bertha Franklin si affaccia alla
finestra.
Vede l’uomo alterato e seminudo, ma non capisce cosa vuole.
“Dov’è la ragazza?”, urla Sam, “dove l’hai nascosta? Quella
puttana mi ha rubato i vestiti. E anche i soldi. Dimmi dov’è!”.
“Cosa stai dicendo?”, chiede Miss Franklin, “io non ho visto
nessuna ragazza… chiama la polizia, se non mi credi…”.
E mentre Cooke si getta all’interno del minuscolo appartamento in
cerca di Elisa, la signora Franklin apre un cassetto e ne estrae una
pistola calibro 22.
Sam sembra completamente impazzito.
“Dimmi dove l’hai nascosta…”, continua a urlare.
Si getta sulla Franklin e la scuote, quasi volesse strapparle
fisicamente la risposta desiderata.
I due lottano disperatamente.
Bertha impugna la pistola: spara un primo colpo che si infrange sul
soffitto, poi un secondo che manca ancora l’uomo. Infine, un terzo
proiettile penetra nel corpo di Sam, gli fora un polmone e il cuore
prima di conficcarsi definitivamente nell’osso della spalla.
“Signora…” , bisbiglia Sam Cooke, “lei mi ha sparato…”.
Secondo la testimonianza di Bertha Franklin, Cooke non crolla
subito. Si getta con le ultime, residue energie verso di lei, prima di
venire colpito da una bastonata sulla testa.
Poco dopo le due e mezzo, la polizia riceve due chiamate, quasi
simultanee.
La prima proviene da una cabina telefonica poco distante
dall’Hacienda Motel.
Elisa Boyer, in stato di agitazione, dice di essere stata rapita, ma
di non sapere esattamente il luogo in cui si trova.
“C’è buio…”, piagnucola, “non riesco a vedere nulla…”.
“Stia lì dov’è”, dice il poliziotto, “le mando subito una pattuglia”.
Qualche minuto dopo, una seconda telefonata viene fatta al
Distretto
77: all’altro capo della linea c’è una certa Evelyn Carr che sostiene
di essere la proprietaria dell’Hacienda Motel di Figueroa Street.
“Ero al telefono con la mia manager”, spiega, “quando ho udito un
uomo che entrava nell’ufficio. È seguito un litigio e una
colluttazione… ho sentito uno sparo: credo che quell’uomo sia stato
ucciso”.
Barbara Cooke è tornata a casa più tardi del previsto. Doveva
chiarire delle cosette con il suo amante e, poi, era certa che Sam
non sarebbe tornato presto. Si assicura che i bambini dormano, si
prepara un drink e uno spinello e si accomoda nella stanza di lettura.
Non ha voglia di andare a letto da sola: si stende sul divano in attesa
di Sam.
Si addormenta.
Circa tre ore dopo, squilla il telefono. Barbara si sveglia di
soprassalto: è sua sorella Beverly, agitatissima.
“Hai sentito le notizie della radio?”, le dice con la voce straziata.
Barbara è senza parole.
“Tuo marito è a casa?”, la incalza Beverly.
Barbara non risponde.
“Cara, purtroppo temo che Sam sia morto”.
Barbara ha appena il tempo di riattaccare il telefono quando suona
il campanello.
Alla porta c’è la polizia.
I detective le spiegano cosa è successo.
Non era la prima volta che Sam la tradiva. Neanche lui, però,
sapeva che quella sarebbe stata l’ultima.
Per tre giorni, il corpo di Sam Cooke viene lasciato al Peoples
Funeral Home di Los Angeles per l’omaggio di amici e fan.
Sistemato in una bara di bronzo con una cupola di vetro, viene
visitato da decine di migliaia di persone.
Il 17 dicembre 1964 si celebrano i funerali a Chicago, città in cui
Sam Cooke è cresciuto e dove ancora abita sua madre.
La cerimonia è prevista per le otto di sera, ma già nel primo
pomeriggio c’è una lunghissima coda di persone di fronte alla Chiesa
Battista del Tabernacolo, tra la 41esima e Indiana, nonostante il
termometro sia abbondantemente al di sotto dello zero.
Moltissime le celebrità presenti. Tra queste, il campione del mondo
dei pesi massimi Muhammad Alì, che dichiara: “Fosse stato un
cantante bianco… se invece di Sam Cooke si fosse trattato di Elvis o
dei Beatles, a quest’ora la polizia avrebbe già messo in galera il suo
assassino…”.
“Noi tutti viviamo in un mondo migliore perché c’è stato Sam
Cooke”, dice Lou Rawls, che celebra la funzione funebre. In chiesa,
la cerimonia è arricchita dalla musica live degli Staple Singers e dei
Soul Stirrers, il gruppo gospel con cui Sam ha iniziato la sua carriera
negli anni Cinquanta.
Nonostante il caso venga chiuso e archiviato come omicidio
preterintenzionale, con Bertha Franklin assolta per “legittima difesa”,
la famiglia e gli amici di Sam Cooke non credono alla versione
ufficiale della polizia. E ancora oggi, più di quarant’anni dopo, sono
convinti si sia trattato di un complotto. Non solo perché Elisa Boyer
viene arrestata poche settimane dopo la morte di Sam con l’accusa
di prostituzione. O perché alcuni particolari delle testimonianze di
Bertha Franklin e di Evelyn Carr non collimano. Nessuno vuole
capacitarsi che il “Re del Soul” sia potuto morire in un modo così
stupido e squallido.
“Mio fratello”, sostiene da sempre la sorella Agnes, “era troppo
signore. Non sarebbe mai andato in un motel da tre dollari a notte”.
Disgrazia o complotto, omicidio o fatalità, la vita dell’usignolo di
Clarksdale si spegne in modo tragico nelle prime ore del mattino del
11 dicembre 1964. Sam Cooke aveva trentatré anni.

Albert James Freed, quarantatré anni, meglio noto come Alan Freed
o “Moondog”, il dj più famoso d’America, muore di cirrosi epatica in
una stanza d’ospedale.
Questo, almeno, è ciò che sentenzia il referto medico.
Ma qualcuno sostiene che Alan sia morto di crepacuore.
Anzi, sono molti quelli convinti che Freed sia stato “ucciso”
dall’industria discografica, la stessa che lui ha contribuito ad
arricchire quando, nel luglio del 1951, dai microfoni della stazione
radiofonica WJW di Cleveland, Ohio, ha iniziato a promuovere i primi
dischi di rhythm’n’blues. Una musica vibrante, piena di
spumeggiante energia, suonata e interpretata da grandi artisti neri,
ma che stava iniziando a piacere ai giovani bianchi.

The House Of Moondog diventa il nome del suo programma e


Freed considera i suoi ascoltatori membri di una comunità speciale.
E decide che è tempo di contarsi: il 21 marzo del 1952 alla
Cleveland Arena organizza un grande spettacolo, The Moondog
Coronation Ball, che passa alla storia come il primo concerto di
rock’n’roll.
Già, perché è proprio Freed a inventarsi quella sigla formidabile: è
lui a coniare durante un suo radio-show il termine rock’n’roll, per
definire la carica fisica che quella musica trasmette a chi la ascolta.
Il successo dei suoi programmi e del rock’n’roll porta Freed a New
York.
La sua fama cresce in modo proporzionale con l’avvento sulla
scena dei grandi rocker
degli anni Cinquanta: Little Richard, Jerry Lee Lewis, Chuck Berry,
Elvis Presley. Ma sul finire del 1958, Freed, che aveva sempre
difeso il suo pubblico anche quando l’establishment cominciava a
intervenire in modo pesante (“la polizia non vuole che vi divertiate”,
urlava dai microfoni del suo programma quando sapeva che alcuni
concerti venivano regolamentati in modo sin troppo rigoroso…),
subisce un colpo basso. L’inchiesta denominata “payola” (in cui si
accusano alcuni dj di venire corrotti dalle case discografiche in
cambio di passaggi radiofonici) lo travolge. E seppure Alan Freed
sostenga che i soldi percepiti siano per consulenze artistiche, la sua
carriera precipita. I suoi show vengono cancellati e la sua fama si
oscura velocemente.
Persona sensibile e fragile, Freed affoga i suoi dispiaceri nell’alcol.
Non ne emergerà mai più.

Gli studi della KFFA, stazione radiofonica locale, sono pieni di


appassionati di blues. Si è sparsa la voce che oggi, ospite del King
Biscuit Time, ci sia Sonny Boy Williamson II, il più grande
armonicista vivente.
Houston Stackhouse, il suo chitarrista, e Peck Curtis, il suo
batterista, sono già lì, in attesa del loro boss, ritornato da poco negli
USA dopo una tournée di successo in Inghilterra, dove Sonny Boy è
una leggenda: di lui si sono invaghiti prima i Rolling Stones, poi gli
Animals di Eric Burdon e quindi, a poco a poco, tutta la scena rock
blues di Londra.
Intanto, negli studi della KFFA, l’attesa si fa più lunga e più
deludente del solito. Sono le dodici e un quarto e lo show deve
cominciare, ma di Sonny Boy non ci sono notizie. Verso l’una, Peck
Curtis decide di andarlo a cercare.
Si reca subito nella pensioncina dove Williamson soggiorna.
E lì, nella disadorna camera da letto, lo trova disteso e immobile.
È morto. Il suo cuore ha cessato di battere nella notte a causa di
un infarto.
Aleck “Rice” Miller, famoso con diversi nomi d’arte quali Little Boy
Blue o The Goat, è diventato un mito come Sonny Boy Wil liam son
II, perché così avevano deciso di chiamarlo proprio i produttori del
King Biscuit Time, lo stesso show radiofonico in cui avrebbe dovuto
fare l’ospitata oggi, quando lo avevano ingaggiato nel 1941.

Nato a Glendora, Mississippi, presumibilmente nel 1908, Sonny


Boy non ha ancora compiuto cinquantasette anni. Viene seppellito
nel cimitero della Whitman Chapel a New Africa Road, poco fuori
Tutwiler, Mississippi. Lilian McMurray, proprietaria della Trumpet
Records, la casa discografica per la quale Sonny Boy ha registrato i
suoi primi successi, si accolla i costi della sepoltura e della tomba.
Il suo talento incredibile ha stregato tutti i grandi del rock: The
Band voleva essere il suo gruppo di accompagnamento, ma poi Bob
Dylan ha scombinato i piani. Dagli Aerosmith agli Allman Brothers,
sono in molti ad avere rifatto i suoi pezzi.
Addirittura, gli Who hanno inserito la sua Eyesight To The Blind
nell’ambito dell’opera rock Tommy: unico frammento del progetto a
non essere firmato da Pete Townshend.
Musicista prodigioso, Rice Miller è stato però personaggio contro
verso e discreto millantatore. Per anni, ha sostenuto di essere lui
“l’unico, vero Sonny Boy Williamson”, giurando di aver
accompagnato Robert Johnson nonostante la mancanza di prove in
proposito. Forse, anche per questo, la sua vita (e la sua morte)
rimangono piene di quesiti irrisolti. Come la data di nascita: c’è chi
dice sia nato il 5 dicembre 1897, 1899 o 1909, oppure l’11 marzo
1908 (data questa più plausibile).
Ma una stranezza riguarda pure la data di morte: se tutti sono
concordi nel ricordare il 25 maggio 1965 perché sulla sua lapide è
inciso “23 giugno 1965”?

Al Thunderbird, una libreria del Carmel Village, si sta presentando


uno dei libri destinati a diventare una pietra miliare della
controcultura americana.
Si intitola Been Down So Long It Looks Like Up To Me ed è un
romanzo picaresco ambientato tra la Cuba della rivoluzione castrista
e un’università dello Stato di New York.

Il suo autore, Richard Fariña, è un giovane ma già affermato


songwriter.
Due anni prima, Fariña ha sposato la diciassettenne Margarita
“Mimi” Baez, sorella di Joan, la regina del folk. E, in questi giorni, si
sta proprio occupando della produzione del nuovo album di Joan
Baez.
Dopo aver firmato un centinaio di copie del libro per i suoi
affezionati ammiratori, Richard si reca a una festa organizzata in suo
onore da alcuni amici. Il giorno seguente deve essere a San
Francisco, al Discovery Bookshop, per un’altra presentazione.
Richard, però, ha voglia di svagarsi e cosa c’è di più rigenerante di
una corsa in moto? Così, non appena vede un tizio alla festa con un
casco da biker, gli chiede se possono andare a fare un giro insieme.
Richard monta in sella, sul sedile posteriore, e i due imboccano la
Carmel Valley Road verso est, direzione Cachagua. Nel percorrere
una curva stretta a S (proprio in prossimità del punto sul Carmel
River in cui John Steinbeck ha ambientato la “caccia alla rana” del
suo Cannery Row), il conducente perde il controllo del mezzo. La
motocicletta scivola sul lato destro della strada e viene sbalzata
dall’altra parte della carreggiata, prima di precipitare sul filo spinato
che circonda una piccola vigna.
Il motociclista se la cava con graffi e ammaccature, ma per
Richard Fariña (che l’8 marzo aveva compiuto ventinove anni) non
c’è niente da fare.
Muore sul colpo.
Mimi è disperata: quel giorno (proprio alla libreria) aveva litigato
con Richard. Era il suo compleanno e lui non le aveva fatto il regalo.
Scoprirà giorni dopo, tornando a casa, che il marito le aveva fatto
recapitare un bellissimo mazzo di fiori…
Sul palco di Woodstock, Joan Baez canta Sweet Sir Galahad, una
commovente ballata dedicata alla sorella Mimi, al lutto per la morte
di Richard e al suo nuovo matrimonio con Milan Melvin.

Proprio di fronte al suo appartamento californiano, Robert Gaston


“Bobby” Fuller, giovane rocker di Baytown, Texas, giace immobile
nella sua fuoriserie.
Una pattuglia della polizia, giunta sul posto parecchie ore dopo,
decide da subito che Bobby Fuller si è suicidato.
Al massimo, dicono i detective, è stato un incidente.
L’indagine viene condotta in modo raffazzonato. La scena del
crimine non è recintata e nessuno si preoccupa di raccogliere prove
né di analizzare eventuali impronte digitali.
Addirittura, un testimone è sicuro di aver visto uno dei poliziotti
raccogliere una tanica di benzina dall’auto di Fuller e gettarla nella
spazzatura.
La benzina non è un dettaglio da poco.
Il corpo di Fuller, oltre ad essere pieno di lividi e ferite, è infatti
completamente cosparso di benzina, il che rende verosimile l’ipotesi
che gli assassini se ne siano fuggiti in modo precipitoso prima di
aver potuto appiccare il fuoco.
Successivamente, la polizia dichiara che Bobby Fuller è morto per
“asfissia accidentale”, scartando l’ipotesi dell’omicidio.
Anzi, dicono che probabilmente “ha bevuto benzina”,
dimenticando che non è possibile tenere nello stomaco la benzina e
che non esiste nessun caso al mondo di morte per ingestione di
benzina.
Ci sono altri particolari che non vengono resi noti al momento, ma
che un’inchiesta un po’ più accurata metterebbe in evidenza in modo
assai semplice.
L’automobile non è sempre stata lì.
Come ha potuto spostarsi se l’uomo è morto da diverse ore?
E dove sono finite le chiavi?
Non molti sapevano che Bobby Fuller aveva deciso di sciogliere la
sua band (The Bobby Fuller Four) e di indirizzare il suo classico
rock’n’roll nella vena di Buddy Holly verso territori più blues.
L’incredibile successo di I Fought The Law, pubblicata pochi mesi
prima della morte ed entrata nei Top Ten solo alcuni giorni prima
della scomparsa di Fuller, getta ulteriori ombre sulla sua morte.
Chi avrebbe avuto interesse a farlo fuori?
La famiglia di Sam Cooke trova parecchie, strane similarità tra la
morte del soulman di A Change Is Gonna Come e quella di Fuller.
Ma sembra che a nessuno convenga approfondire le indagini.
Il corpo di Bobby Fuller, ventitré anni, viene sepolto al Forest Lawn
Memorial Park di Los Angeles, ma la sua musica rimane viva. I
Fought The Law diventa un classico di protesta per più generazioni
di punk-rocker: Clash, Dead Kennedys e Green Day sono solo i più
famosi ad aver reso ancor più amato e popolare l’inno di Bobby.

È l’ottavo anniversario della morte di Buddy Holly e per Joe Meek


non è una bella giornata. Non solo perché Holly era il suo eroe e
forse anche qualcosa in più (Joe, che è un fanatico dell’occulto,
sostiene che Buddy gli appaia spesso in sogno dandogli preziosi
consigli). Oggi ha un sacco di lavoro arretrato, molta corrispondenza
da evadere ed è di umore pessimo.
Eppure, lui è stato uno dei producer più brillanti della Swingin’
London: proprio in questo appartamento-studio (al 304 di Holloway
Road, Islington, nel nord di Londra) ha registrato i suoi successi e
visto transitare la crème del pop-rock inglese. Qui ci sono stati Bowie
e i Beatles quando non erano ancora famosi, ma anche Lonnie
Donegan, Tom Jones, Shirley Bassey, Rod Stewart, Jimmy Page e
Jeff Beck. Qui, nel 1962, The Tornados hanno inciso il grande hit
Telstar (da lui composto), primo singolo di un gruppo inglese ad
andare al numero 1 negli USA.
Ma quelli erano altri tempi.
Oggi, la stella di Meek non brilla più come una volta.
E, a proposito di Telstar, c’è in ballo u na grana grossa come una
casa.
Jean Ledrut, un compositore francese, gli ha fatto causa: sostiene
che il pezzo sia un plagio del brano La Marche d’Austerlitz, che lui
ha scritto come tema del film Austerlitz. E poco importa se Meek è
stato in grado di dimostrare di non aver mai sentito quel pezzo prima
di scrivere Telstar.
Il giudice, al momento, gli ha bloccato tutte le royalty.

Non solo. Joe Meek, dal 1963, ha pubblicamente ammesso la


propria omosessualità in un periodo in cui ciò, in Gran Bretagna, è
ancora considerato reato. Qualcuno, per questo, lo ha ricattato: è
gente che ha lavorato con lui e che vuole lucrare sulla sua vita
privata.
La depressione di Joe si trasforma in rabbia.
Perché lui è un tipo dal carattere bellicoso.
Ne sa qualcosa Phil Spector, che una volta, nel corso di una
telefonata, si è sentito aggredire da Joe che lo accusava di fregargli
intuizioni artistiche e riff musicali.
Meek sta sfiorando la paranoia: è convinto che i manager della
Decca Records abbiano riempito il suo appartamento di microfoni
per rubargli le idee.
Lui, per altro, i suoi microfoni li piazza nei cimiteri, sperando di
registrare le conversazioni tra gli spiriti dei defunti, o li punta al cielo
con l’idea di fermare su nastro i suoni delle stelle.
Insomma, quest’ultimo periodo non è proprio dei migliori. Anche
dal punto di vista finanziario.
Così, quando Patrick Pink, il suo assistente di studio, entra in casa
e intravede Joe che sta andando a fare colazione al piano superiore,
non ci fa caso più di tanto: sa che il suo boss è un tipo poco
socievole. E poi l’ha sentito al telefono un’ora prima e ha capito che
oggi non è giornata.
Poco dopo, entra Violet Shenton, la proprietaria
dell’appartamento.
Vedendo il disordine e la sporcizia, decide di parlarne con Joe.
I due hanno da sempre un rapporto burrascoso. E poi Joe è uno
che paga sempre in ritardo.
Patrick Pink capisce che la discussione tra i due si accende.
Fa per salire per calmare le acque, quando sente un colpo d’arma
da fuoco.
Violet Shenton cade dalle scale e finisce proprio di fronte a lui.
Pink ha solo il tempo di dire “è morta” quando un altro sparo
echeggia nell’appartamento. Sale precipitosamente le scale, entra
nello studio e scorge Joe Meek a terra con un fucile in grembo: è
morto. Così come, qualche ora più tardi, muore all’ospedale la
cinquantaduenne Violet Shenton.
La polizia, giunta sulla scena del crimine, arresta Patrick Pink e
quindi Heinz Burt, proprietario del fucile. Heinz era il bassista dei
Tornados e un “protetto” di Meek: quando Joe aveva scoperto che
Heinz usava quel fucile mentre la band era in tour per sparare agli
uccelli glielo aveva confiscato.
Anche se emergono altri particolari sconcertanti legati alle
frequentazioni sessuali di Meek (come la morte di un ragazzino gay,
un certo Bernard Oliver, che pare Joe frequentasse e che era stato
trovato orrendamente mutilato qualche settimana prima), la polizia
non può che chiudere l’inchiesta secondo la testimonianza di Patrick
Pink.
Durante il funerale, cui partecipano duecento persone, viene
suonata una delle produzioni più importanti di Joe, Nobody Waved
Goodbye dei Cryin’ Shames. Sepolto nel lotto 99 del cimitero di
Newent (nel Gloucestershire), Robert George Meek il 5 aprile del
1967 avrebbe compiuto trentotto anni.

Il quartiere esclusivo di Belgravia, a poche centinaia di metri da


Buckingham Palace, è da sempre residenza di “rich and famous”.

Da Mozart a Chopin, da Sean Connery a Roger Moore, da


Churchill alla signora Thatcher, da Mary Shelley a Lord Tennyson,
sono centinaia le stelle di cinema, musica, letteratura e politica che
si sono stabilite in questo sciccoso distretto nel centro di Londra. In
un lussuoso appartamento di Chapel Street, da due anni e mezzo, ci
abita anche Brian Samuel Epstein, trentadue anni, ex negoziante di
dischi e manager del gruppo rock più famoso del mondo, i Beatles.
Stamattina, Epstein non risponde alle chiamate del maggiordomo
e della donna di servizio. È chiuso a chiave nella sua stanza da letto
e non c’è verso di avere da lui un cenno di vita. I due, spaventati,
chiamano un medico e, tutti insieme, decidono di sfondare la porta.
Purtroppo, il loro presentimento si rivela esatto: Brian Epstein è
riverso sul letto, circondato da flaconi di barbiturici.
È morto.
Non ci sono lettere o biglietti d’addio che possano far pensare a
un suicidio, nonostante la sua assistente personale, Joanna
Newfield, racconti alla polizia di aver trovato, negli ultimi mesi,
parecchi scritti di Epstein indirizzati in tal senso. La scomparsa
dell’amato padre, l’emarginazione sociale creata dalla sua
omosessualità (per altro, mai resa pubblica), il ritiro dalle scene dei
Beatles e l’incontenibile uso di droghe di ogni tipo lo hanno portato in
uno stato depressivo irreversibile.
Epstein ha raccontato tutto il suo malessere a un cronista del
«Melody Maker» neanche tre settimane prima.
Il 23 agosto si trova ad Abbey Road, nello studio di registrazione
con i Beatles: per l’ultima volta. Il 27 agosto, Paul, John, George e
Ringo lo aspettano a Bangor, nel nord del Galles, dove stanno
partecipando a un meeting della International Meditation Society del
loro guru, il Maharishi Mahesh Yogi.
Ma Brian non arriverà mai.
“Se c’era qualcuno che poteva meritare il titolo di Quinto Beat les,
quello era Brian”, dichiara Paul McCartney alla stampa dopo aver
avuto la notizia della morte di Epstein.
La stessa sera, Jimi Hendrix, in segno di lutto, cancella
l’attesissimo concerto al Saville Theatre di Londra, uno dei locali con
cui Epstein era solito lavorare.
Per non creare ressa e dare alla famiglia il riserbo della privacy, i
quattro Beatles non vanno ai funerali di Brian.
Un paio di mesi dopo, il 17 ottobre, i Fab Four partecipano a una
cerimonia funebre che si tiene nella sinagoga di St John’s Wood, nei
pressi di Abbey Road. Il rabbino Louis Jacobs, nel suo sermone,
dice che Epstein è stato “un simbolo del malessere della nostra
generazione”.
Brian Epstein viene sepolto nella tomba H12 della sezione A del
cimitero ebraico di Long Lane ad Aintree (Liverpool).
Discordanti i referti post mortem: il coroner Gavin Thurston
sostiene che la morte sia stata causata da una overdose di Carbitral,
un sedativo fortissimo.
Al contrario, l’anatomopatologo Donald Teare afferma che
(considerando anche l’abuso che Epstein faceva abitualmente di
Carbitral) la dose trovata nel sangue non poteva considerarsi fatale.

Ore tre e ventotto del pomeriggio.


Un piccolo Beechcraft sta tentando un atterraggio d’emergenza
presso il Madison Municipal Airport. Mentre effettua la discesa, il
motore perde potenza e l’aereo finisce in un vuoto d’aria. In pochi
secondi precipita nelle acque ghiacciate del lago Monona, a meno di
un chilometro dalla riva.
Il pilota Richard Fraser (ventisei anni) perde la vita.
Con lui muoiono affogati anche quattro musicisti del quintetto
musicale dei Bar-Kays (il diciannovenne Ron Caldwell e i diciottenni
Carl Cunningham, Phalin Jones e Jimmy King), il segretario della
band, Matthew Kelley (diciassette anni) e, soprattutto, il proprietario
del velivolo, la superstar della soul music Otis Redding (ventisei
anni).
L’unico superstite, Ben Cauley, quinto musicista dei Bar-Kays,
sente le urla dei suoi amici che lottano per la sopravvivenza.
Purtroppo non può fare nulla.
Redding era seduto nel sedile di fianco a quello del pilota.
Il giorno prima si trovava a Cleveland per partecipare al
programma televisivo Upbeat e per esibirsi (la sera) al Leo’s Casino,
un famoso night club della metropoli dell’Ohio.
Al Leo’s aveva tenuto tre set (alle otto, alle dieci e mezzo e
all’una).
In tour per una serie di concerti, Redding quel giorno avrebbe
dovuto suonare all’Università del Wisconsin.
Ironia della sorte, la band che avrebbe aperto il suo concerto si
chiamava The Grim Reaper (la mietitrice macabra).
Nonostante le pessime condizioni meteorologiche, Otis decide lo
stesso di volare. Serio e scrupoloso, non vuole disattendere un
impegno preso (e un contratto firmato). Purtroppo lo spiccato senso
del dovere gli costa caro: in quel laghetto ghiacciato nel nord degli
USA si chiude tragicamente la folgorante carriera di una delle voci
più intense ed espressive della black music.
Zelma Atwood Redding ricorda con commozione l’ultimo colloquio
con il marito.
“La mattina in cui è morto, Otis mi ha chiamato verso le otto del
mattino. Sembrava depresso. Gli ho chiesto se c’era qualcosa che
non andava, ma lui mi ha risposto: ‘Niente, sono solo stanco’.
Voleva parlare con i bambini, ma dormivano tutti.
Solo Otis III, che allora aveva tre anni, era sveglio.
Così gliel’ho passato e hanno parlato un po’. È stata una
conversazione breve. Poi il pilota dell’aereo è entrato nella sua
camera.
Stavo per riattaccare quando ho sentito che Otis stava parlando.
Allora ho ripreso in mano la cornetta e ho sentito che mi diceva: ‘Sai
cosa voglio che tu faccia?’.
‘Cosa?’, gli ho chiesto.
‘Voglio che tu faccia la brava’, mi ha detto lui.
‘Di cosa stai parlando? Sai bene che sono bravissima: sono la
cosa migliore che tu conosca’, ho replicato io.
Ma lui non mollava: ‘Zelma, sto parlando seriamente. Voglio che tu
faccia la brava’.
Quella è stata l’ultima volta che ho parlato con lui”.
Alcune delle cose più belle su Otis le ha pronunciate Jerry Wexler
il giorno del funerale a Macon, Georgia.
“Otis aveva una specie di naturale regalità.
Trasmetteva amore, e un’enorme fiducia nelle potenzialità degli
esseri umani. E spendeva sempre parole di ottimismo e speranza.
Gli volevano bene tutti.
Mi piace ricordare che ha voluto comprare un ranch qui a Macon,
per farlo diventare la sua vera casa e la base operativa della sua
attività. Avrebbe potuto permettersi una casa ovunque.
Ma sentiva che questo era un dovere verso la comunità in cui era
cresciuto. E alla quale si sentiva molto legato.
Pensava che gli afroamericani di talento e di successo come lui
dovessero dare un esempio a tutti gli altri, restando nel natio Sud per
aiutare i meno fortunati.

Il rispetto nei confronti delle radici etniche e culturali è stata una


prerogativa speciale dell’uomo la cui composizione Respect è
diventata un inno di speranza per la gente di ogni razza e religione.
Il rispetto è un traguardo che Otis è riuscito a raggiungere.
Lui cantava: ‘Rispetto quando torno a casa’.
Oggi Otis è tornato a casa”.

Nel South Side, il quartiere nero della windy city, anche stasera si
suona il blues. Al Gerri’s Palm Tavern va in scena l’armonica
infuocata di Little Walter, la migliore blues harp d’America diventata
leggendaria alla corte di Muddy Waters.
Nel 1956, Geraldine “Mama Gerri” Oliver è subentrata al fondatore
“Genial Jim” Knight (primo sindaco di Bronzeville) alla guida del
Palm Tavern. Aperto nel 1933, il Palm è stato per anni uno dei templi
del jazz in città: sul suo palco è transitato il meglio della black music,
da Duke Ellington a Dizzy Gillespie, da Count Basie a Billie Holiday,
dal blues elettrico di Muddy Waters al soul travolgente di James
Brown.
Marion Walter Jacobs, detto Little Walter, è stato un enfant
prodige: già a quindici anni stupiva i bluesman di Maxwell Street che
facevano a gara per duettare con lui.
Ma è sempre stato un violento, e l’alcol, suo migliore e
inseparabile amico, non lo ha certo aiutato a calmare i bollenti spiriti.
Eppure, anche se sono anni che non suona con Muddy Waters,
Little Walter è sempre in auge. È tornato da qualche mese da un
tour in Europa e il suo nome a Chicago è sempre uno dei più
richiesti.
A metà del set di stasera, però, Walter si trova faccia a faccia con
un certo Odell, il fratello di una sua ex fidanzata.
Odell accusa Walter di essersi venduto un orologio d’oro che
apparteneva a sua sorella.
I due vengono alle mani.
Odell colpisce Walter alla testa (c’è chi dice con un pugno, chi con
un tubo d’acciaio). Di sicuro, lo lascia dolorante a terra. E se ne va.
Quando qualche minuto più tardi Little Walter si riprende, è
infuriato. Chiama il suo amico Sam Lay e si fa promettere che il
giorno dopo metteranno insieme un gruppo di amici e a quel
bastardo di Odell gliela faranno pagare…
È tardi.
Finito il concerto, Little Walter torna al numero 209 della 54esima
Strada, nell’appartamento della sua amica Kathrine (la ex di Robert
Junior Lockwood), una che ha cura di lui, che gli lava la biancheria,
gli prepara da mangiare e… non gli rompe mai le scatole.
Il mattino di mercoledì 15 febbraio 1968, Kathrine sente dei rumori
nella camera da letto di Little Walter.
Entra, ma lo trova riverso sul letto.
Chiama subito un’ambulanza.
Quando i paramedici arrivano non c’è più nulla da fare.
Marion Walter Jacobs muore a trentasette anni di trombosi
coronarica, come stabilisce, senza bisogno di fare l’autopsia, il
coroner William Monabola.
Non vengono rinvenute ferite esterne, tanto che la polizia di
Chicago, nel suo rapporto, chiude il caso con la classica formula
“morte per cause naturali o sconosciute”.
Ma sono molti quelli che ricordano le tante risse in cui Walter è
rimasto coinvolto e le violente botte prese e date in quelle
circostanze. C’è chi ipotizza che il colpo alla testa rimediato dal
vecchio Odell sia stato il colpo di grazia.
Il 22 febbraio, il corpo di Little Walter viene seppellito nel cimitero
di St Mary a Evergreen Park, Illinois.
Sono circa le tre e mezzo del mattino, e al Mothers è terminato da
qualche ora il concerto di una delle giovani e più promettenti band
della Terra d’Albione. Si chiamano Fairport Convention e sono i primi
a mescolare strumenti e ritmiche rock con suoni e melodie della
tradizione angloscoto-irlandese.

Il gruppo (a parte la cantante Sandy Denny) sta viaggiando su un


pulmino Volkswagen, loro principale e amatissimo mezzo di
trasporto. Al volante c’è Harvey Bramham, road manager e fonico
del gruppo. Harvey è stato male tutto il giorno e ancora non si sente
bene. Quando si trova nei pressi di Mill Hill, periferia nord di Londra,
sulla principale arteria autostradale d’Inghilterra, la M1, Bramham
perde il controllo del mezzo: il van fa una sbandata e,
improvvisamente, si cappotta finendo su un terrapieno.
Simon Nicol, uno dei membri fondatori dei Fairport Convention,
ricorda così il terribile incidente: “Avevo un’emicrania fortissima, mi
ero messo una coperta in testa e, dopo essermi sdraiato sul sedile
posteriore, stavo provando a dormire. D’un tratto, ho avuto la
sensazione che ci stessimo ribaltando. Ricordo solo che quando ho
aperto gli occhi, ero l’unico ancora sul pulmino. Gli altri, tutti, erano
stati scaraventati all’esterno”.
Il pulmino si ribalta nei pressi della stazione di servizio di
Scratchwood.
Nell’incidente, rimangono feriti tutti i componenti dei Fairport e il
driver.
Ma Martin Lamble, diciannove anni, nuovo batterista della band, e
Jeannie Franklyn, la fidanzata del chitarrista-compositore Richard
Thompson, non ce la fanno. Entrambi perdono la vita di lì a poco: la
Franklyn addirittura prima che arrivi l’ambulanza.
Jeannie Franklyn, famosa anche con il nome di “Jeannie the
Tailor”, era una giovane ma già affermata stilista, Martin Lamble, un
batterista dalle enormi prospettive. Pochi giorni prima, con i Fairport,
aveva terminato la registrazione di UNHALFBRICKING, disco che
precede l’album capolavoro LIEGE AND LIEF.
In quel lavoro, la sensazionale vocalist Sandy Denny (dei Fairport
Convention quella che, pur non essendo presente, rimane
maggiormente sconvolta dall’incidente sulla M1) dà vita a una
fantastica versione di Who Knows Where The Time Goes? che lei
stessa aveva scritto e registrato un anno prima con gli Strawbs.

Quartiere di Chelsea.
Sono le dieci e quaranta del mattino.
Nell’elegante appartamento preso in affitto da Mickey Deans, noto
gestore di night club, e da sua moglie, la stella di Hollywood Judy
Garland, squilla il telefono.
Mickey è a letto, ancora in pieno sonno.
Quando si sveglia e risponde, si rende conto che Judy non è al
suo fianco.
Si alza e la va a cercare.
La sera prima, dopo aver visto in televisione un documentario
sulla famiglia reale inglese, i due hanno avuto un forte litigio. La
Garland era uscita per strada e aveva iniziato a urlare, svegliando i
vicini. Nessuno sa cosa sia veramente accaduto dopo.
Adesso, però, Mickey è terrorizzato. Si dirige verso il bagno e
vede che la porta è chiusa a chiave.
Bussa più volte.
Nessuna risposta.
Così, decide di uscire e forzare la finestra per entrare nella stanza.
Vede Judy seduta sulla tazza, immobile.
Il rigor mortis ha ormai reso il suo corpo di marmo.

Il referto del coroner, il dottor Gavin Thursdon, stabilisce che la


causa della morte è “incauto dosaggio di barbiturici”, che ha
mandato in tilt il fragile fisico della Garland: il suo sangue contiene
l’equivalente di dieci pastiglie da 97 milligrammi l’una di Seconal. Il
medico legale sostiene che l’overdose non è stata intenzionale e
che, quindi, non ci sono gli estremi del suicidio.
Il giorno prima dei funerali, tenutisi alla famosa Frank Campbell
Funeral Chapel nel cuore di Manhattan, più di ventimila persone
porgono l’ultimo saluto a Judy, il cui corpo viene sepolto nel cimitero
di Ferncliff ad Hartsdale, New York.
Solo dodici giorni prima, Frances Ethel Gumm (che cambia il suo
nome in quello di Judy Garland per una canzone di Hoagy
Carmichael, Judy, e per il personaggio di Lily Garland nel film
Twentieth Century) aveva compiuto quarantasette anni.
Sono le prime ore di un pomeriggio assolato.
Christine Hinton sta guidando il pulmino Volkswagen verde del suo
fidanzato, la rockstar David Crosby. Al suo fianco c’è Barbara
Langer, moglie di Barry Melton, chitarrista della band californiana
Country Joe & The Fish. Le due donne stanno andando a poche
miglia dalla casa di campagna di Crosby e della Hinton, immersa nel
verde della Marin County, a Novato.
Sono attese da un veterinario che deve curare i gatti di Christine.
Durante il tragitto, gli animali sembrano molto agitati.
Uno di loro, improvvisamente, fa un balzo dal sedile posteriore e si
ritrova in braccio a Christine che, distratta dalla mossa del felino,
perde il controllo del veicolo.
Sulla corsia opposta della strada sta giungendo un’altra vettura.
Lo scontro è inevitabile: Barbara Langer se la cava con ferite non
gravi, ma per Christine non c’è nulla da fare. Muore sul colpo.
Avvertito da una telefonata, David Crosby si precipita all’ospedale
di Novato.
Giunge appena in tempo per vedere l’ambulanza che trasporta la
barella della sua donna, avvolta da un lenzuolo insanguinato.
Lo shock è terrificante.
Crosby impiegherà anni a metabolizzare il lutto: dopo una
lunghissima navigazione sul suo veliero d’epoca, il Mayan, Crosby
un anno dopo sparge le ceneri dell’amata Christine nelle acque
dell’Oceano Pacifico, sotto le arcate del Golden Gate. A lei, nel
frattempo, ha dedicato una delle sue canzoni più belle e ispirate di
sempre: si intitola Guinnevere, e racconta di una donna dolce e
bellissima, con grandi occhi verdi.
ANNI SETTANTA
Al 701 di Topanga Canyon Road, nella casa del suo partner artistico
Bob “The Bear” Hite, viene trovato morto Alan Wilson, chitarrista e
cantante della band di rock blues losangelina Canned Heat.
Seppure il coroner di Topanga, nel referto ufficiale, sostenga che il
musicista sia stato stroncato da un’overdose di barbiturici, la
maggior parte dei suoi amici è convinta che il talentuoso chitarrista si
sia suicidato. In realtà, non si trovano né biglietti di addio né altre
prove concrete che possano confermare la teoria.
Presente sui palchi dei due più leggendari festival della storia del
rock, Monterey e Woodstock, Al Wilson è anche un cantante
straordinario: quando la band si misura con brani blues, il solista è
Bob Hite, l’Orso. Ma sui brani più melodici, il falsetto suggestivo di Al
Wilson, non a caso soprannominato “il gufetto cieco” (anche per via
del suo vizio di indossare occhialini da sole tondi) diventa un
marchio di fabbrica dei Canned Heat.
Going Up The Country, che il regista Michael Wadleigh usa come
musica introduttiva del documentario Woodstock, è uno dei grandi
classici della band di Hite e Wilson ed è caratterizzata proprio dalla
straordinaria vocalità di quest’ultimo.
Purtroppo il Canned Heat, il “caldo in scatola”, non fa bene alla
salute: il 5 aprile 1981 a Palomino, Bob Hite, l’Orso, muore d’infarto;
il 20 ottobre 1997, in un hotel di Parigi, una crisi cardiaca stronca
anche Henry Vestine, detto Sunflower (girasole), il secondo
chitarrista del gruppo.

Sono da poco passate le cinque e mezzo del pomeriggio.


Duane Allman sale sulla sua Harley Davidson modello Sportster
per tornare a casa. Lo seguono, in macchina, la fidanzata Dixie e
Candace Oakley, sorella del bassista della Allman Brothers Band,
Berry Oakley. Quest’ultimo chiude il corteo a bordo della sua auto.
Anche lui sta andando a casa di Duane: deve caricare la torta e i
regali per poi dirigersi col resto della compagnia alla festa di
compleanno di Candace.
Duane imbocca Pio Nono Avenue, poi svolta a destra su Hillcrest
Avenue. Dietro c’è Berry: ha la fama di essere un pessimo guidatore,
e infatti manca completamente la svolta ed è costretto a fare un giro
più lungo per giungere a casa del chitarrista. Allman prosegue per
Hillcrest ignorando il limite di velocità di 55 chilometri all’ora. Quando
si trova davanti un’auto che procede lentamente, la sorpassa di
slancio. Deve però rallentare quando la strada comincia a
discendere dalla collinetta. Giunge a un semaforo giallo: accelera e
passa. Un dosso sulla strada fa sobbalzare la moto: è possibile che
a questo punto Duane stia andando a 70 all’ora, forse persino a 80.
Candace cerca di stargli dietro, ma è stata oramai distanziata. Sta
ancora scendendo la collina quando vede la motocicletta del
chitarrista avvicinarsi all’incrocio con Bartlett Avenue. Vede pure che
in direzione opposta s’avvicina un camion con sopra una gru.
Portandosi appresso la sua mole, il camion dà inizio a una svolta a
sinistra, proprio mentre s’avvicina il mezzo di Duane. Se rispettasse
il limite di velocità avrebbe tutto il tempo di frenare. Ma non lo sta
rispettando e il camion rallenta finendo per occupare una parte della
carreggiata.

È un istante. Uno di quegli istanti in cui si è chiamati a prendere


una decisione fulminea e definitiva. Non c’è il tempo per pensare.
C’è il tempo per frenare e lasciar scivolare la moto per terra,
sperando che l’impatto non sia troppo violento. E c’è il tempo per
tentare una manovra repentina e cercare di imboccare lo spazio di
strada a sinistra che il camion ha lasciato libero, infilarsi nello spazio
tra il mezzo e il marciapiede. Infilarsi e sperare che oltre non ci sia
un’auto che sopraggiunge dal senso opposto. Una frazione di
secondo per prendere una decisione che può costare la vita.
O forse no, forse Allman non ha nemmeno preso in
considerazione la possibilità di lasciarsi scivolare a terra. Non lo
sapremo mai. Non lo sapremo perché Duane cerca di aggirare il
veicolo, e lì incontra il suo destino. Per un momento pare farcela:
magari una manovra così l’ha già provata in passato, magari gli è
sempre andata bene, magari non gli sembra nemmeno una mossa
azzardata. E invece lo è, perché perde il controllo della moto, forse
per un’irregolarità del terreno, forse perché cozza contro un idrante
sull’angolo dell’incrocio.
L’Harley schizza come impazzita, il casco di Duane vola via. Lui
resta in sella, ma l’impatto è violento: finisce contro un marciapiede,
il peso della moto sopra di lui. La fidanzata e l’amica accorrono
scioccate, tre tracce nero pece marcano sull’asfalto, come scie di
morte.
È stato un volo di trenta metri, suppergiù.
L’autista del camion scende dalla cabina per controllare lo stato
del ragazzo che giace in strada. S’avvicina alla moto e la spegne:
era rimasta accesa, con la manopola del gas incastrata a produrre in
rombo assordante e sinistro. Gira la chiave: sono le sei meno un
quarto. Duane è vivo e non mostri ferite evidenti, a parte qualche
graffio sulla fronte e sullo stomaco. Ma sta male, molto male: ha
subito gravi danni agli organi interni. Si corre in ospedale, ma non
c’è intervento che lo possa salvare: ha tre lesioni gravi, una fatale.
Muore tre ore dopo. Neanche un mese dopo avrebbe compiuto
venticinque anni.

Berry Oakley non ha assistito alla scena: quella svolta mancata l’ha
tenuto lontano dal luogo della tragedia. Ma il fato – qualcuno dice
una maledizione che pende sui musicisti dell’Allman Brothers Band –
lo insegue. E se lo prende un anno e pochi giorni dopo.
L’11 novembre 1972, sulle strade di Macon avviene un altro
incidente mortale. La vittima è proprio lui, Berry, il bassista che dopo
la morte di Duane è diventato il leader del gruppo per la capacità di
tenere insieme le differenti anime della formazione. Oakley e un
membro dell’entourage di nome Kim Payne si stanno dirigendo sulle
loro motociclette verso la cosiddetta Big House, la comune dove
abitano i membri del gruppo e i loro famigliari. Berry guida una
Triumph blu del ’67. Durante il tragitto i due scherzano, si divertono a
tagliarsi vicendevolmente la strada, a rincorrersi. Giocano, ma è un
gioco pericoloso. Si incontrano con Tuffy Phillips, l’autista del camion
che porta in tour l’equipaggiamento del gruppo. Alle due del
pomeriggio ripartono per tornare a casa del bassista. Imboccano
Napier Avenue. All’incrocio con Bartlett Avenue, Kim supera
un’automobile sulla destra e Berry sulla sinistra. Poi rallentano,
mentre si avvicinano a un incrocio pericoloso su Inverness Avenue,
dove la strada svolta in modo brusco sulla destra. Rallentano, ma
non a sufficienza.
Un autobus si avvicina in direzione opposta.
L’autista vede le due motociclette venire verso di lui e capisce
d’istinto che una di esse sta procedendo troppo velocemente per
prendere in modo adeguato la curva. Capisce che la farà larga,
quella curva. Perciò schiaccia il pedale del freno e cerca di tenere il
mezzo quanto più a destra, ma è inutile: non può evitare che la
Triumph di Oakley vada a impattarsi sulla fiancata del veicolo,
finendo una ventina di metri più in là.
Kim, che intanto è passato, si volta: “Sapevo che Berry avrebbe
probabilmente accelerato per cercare di raggiungermi, mi voltai per
vedere come se la stesse cavando, sapendo che non era un
guidatore esperto”. Payne vede la moto rimbalzare sulla fiancata del
bus. Altre tracce funeree sull’asfalto. Ma la scena questa volta è
rassicurante.
Berry è cosciente, è in grado di muoversi e camminare. Il casco ha
una crepa e gli sanguina il naso, ma rifiuta l’intervento medico: non è
il caso, dice, va tutto bene.
No, non va tutto bene.
Qualcuno gli dà un passaggio fino a casa. Giunto lì, diventa pallido
e comincia a sentirsi male. Parla a vanvera. È in uno stato
confusionale. Viene finalmente portato in ospedale: si scopre che ha
il cranio fratturato, si scopre che l’impatto è stato terribile. Oakley
muore nel tardo pomeriggio. A ventiquattro anni, ventiquattro come
Duane Allman.
Ventisette anni dopo gli verrà dedicato dalla città di Macon un
ponte sulla Highway 19.
Il luogo dell’incidente che è costato la vita a Berry Oakley è a soli
tre isolati di distanza dal punto dove Duane Allman ha fatto il suo
volo fatale. È una maledizione, dicono. I due sono morti in
circostante simili, alla stessa età, a tre isolati l’uno dall’altro, a dodici
mesi di distanza.
Ma sono coincidenze. Leggende.
Come quella secondo cui Allman si sarebbe scontrato con un
camion che trasportava angurie o pesche, una storia nata per via del
titolo e del disegno nel retrocopertina del celebre album della band
EAT A PEACH: uscito sei mesi prima della morte di Oakley,
rappresentava un camion con un’enorme anguria sul rimorchio.
L’uomo che guidava il camion coinvolto nell’incidente di Allman,
quello vero, si chiamava Chuck. Quella sera d’ottobre aveva
ventiquattro anni, pure lui. Tornò a casa che era bianco come un
cencio. “Un capellone è finito sotto il camion”, disse alla moglie
incinta di sette mesi, “ed è morto”. Il figlio di Chuck nacque il giorno
di Natale. Il camionista è a sua volta morto in un incidente stradale
l’11 novembre 1976, esattamente quattro anni dopo Berry Oakley. Le
uniche pesche che ha mai trasportato erano quelle che la moglie gli
metteva in cabina, chiuse in un sacchetto.

La polizia rinviene il corpo senza vita di Danny Whitten sul


pavimento del bagno in un appartamento di Hollywood. Causa della
morte: overdose.
Il chitarrista e leader dei Crazy Horse, ventinove anni, è
genuflesso, con la testa appoggiata alla porta, stroncato da un mix
letale di eroina pura, alcol e Valium.

Lo sapevano tutti, Danny da tempo faceva un uso sempre più


smodato di droga e aveva perso totalmente il controllo. Quando la
notizia raggiunge Neil Young, il loner canadese sente un brivido
freddo corrergli lungo la schiena: il senso di colpa lo travolge,
all’improvviso, e lo stesso accade al bassista Billy Talbot e al
batterista Ralph Molina, che si trovano a Detroit per uno show dei
Crazy Horse… senza Danny.
Già, Whitten è arrivato da solo alla fine di quel buio tunnel che lui
stesso aveva imboccato: non ce l’ha fatta, non era abbastanza forte
per sostenere il peso del suo talento, del successo, della sua stessa
vita.
Poco tempo prima, infatti, era stato espulso dai Crazy Horse, la
band che aveva contribuito a fondare, perché non era più in grado di
suonare: una decisione sofferta e a lungo rimandata ma, alla fine, ai
suoi compagni non era rimasta altra scelta.
“Danny, sei fuori dalla band”: quelle parole gli erano cadute
addosso come macigni.
Più volte avrebbe chiesto ai ragazzi di riprenderlo nel gruppo:
diceva di essere pulito, ma erano solo bugie che raccontava agli altri
e, soprattutto, a se stesso.
Quella telefonata del suo vecchio amico Neil, quindi, arrivava
proprio al momento giusto: Young era in procinto di partire per un
grosso tour e, avendo bisogno di un chitarrista, aveva pensato subito
a Danny.
Sapeva che l’esclusione dalle session di AFTER THE GOLD
RUSH (1970) lo aveva scosso profondamente e questa opportunità
avrebbe potuto dargli la spinta necessaria a riprendere il controllo
della propria vita. Neil aveva posto un’unica condizione – niente
droghe – e Danny gli aveva dato la sua parola.
Dire addio all’eroina, però, non era per niente facile e così l’aveva
sostituita con il metadone e l’alcol, ma queste nuove “medicine” lo
intontivano a tal punto che, durante le prove, si ritrovava ad essere
un corpo estraneo alla band: “Nel bel mezzo di una canzone,
cominciava a suonarne un’altra”, ricorderà Young. “Si era spinto
troppo oltre. Ho dovuto dirgli di tornarsene a casa”.
Pare che Danny abbia risposto: “Non ho un posto dove andare.
Come faccio a dirlo ai miei amici?”.
Quel chitarrista che, insieme a Talbot e Molina, aveva contribuito
in modo così determinante a forgiare il nuovo sound di Neil Young ai
tempi del suo secondo album solista (EVERYBODY KNOWS THIS
IS NOWHERE, 1969) non esisteva più.
Il cantautore considerava i Crazy Horse “i suoi Rolling Stones” e
Danny, in particolare, si era rivelato il partner musicale perfetto,
l’unico in grado di dargli la libertà espressiva che da tempo andava
nervosamente cercando. Adesso anche Young lo aveva liquidato,
con un biglietto aereo per L.A. e 50 dollari: quella sarebbe stata
l’ultima volta che vedeva Whitten.
Appena sceso dall’aereo, Danny aveva cercato conforto nell’unica
amica in grado di capirlo e farlo sentire meglio: anche il caldo
abbraccio dell’eroina, però, quella notte lo avrebbe tradito,
lasciandolo in ginocchio sul pavimento di un bagno, come se stesse
implorando per avere un’ultima possibilità.
La mattina del 18 novembre 1972, i versi scritti da Young in The
Needle And The Damage Done sembravano essersi avverati come
una triste profezia: “Ho visto l’ago e il danno compiuto / E ce n’è un
poco in ciascuno di noi / Ma ogni tossico è come un sole al
crepuscolo”. Era stato proprio Danny a ispirargli quel brano e ora,
insieme al corpo di quel giovane dai lunghi capelli biondi, il coroner
si stava portando via un musicista e un cantautore di talento.
Purtroppo, quella stessa energia che per Young fungeva da linfa
vitale, aveva letteralmente consumato Whitten.
Di certo, Danny non avrebbe mai immaginato che anche la sua
morte avrebbe influenzato così a lungo e in maniera così pesante il
percorso musicale del suo amico Neil.

La sua scomparsa, insieme a quella tristemente analoga del


roadie Bruce Berry, avrebbe dato inizio a un periodo di oscura
creatività, dal quale sarebbero venuti alla luce tre album
emblematici, conosciuti anche come The Ditch Trilogy. Ma questa è
un’altra storia.
Nella sua casa della Marin County, viene rinvenuto il corpo esanime
di Ronald McKernan detto “Pigpen”, tastierista della rock band
psichedelica The Grateful Dead.
Causa della morte: emorragia gastrointestinale.
Come Brian Jones, Janis Joplin, Jimi Hendrix e Jim Morrison,
anche lui ha ventisette anni.
Sofferente da sempre di una congenita disfunzione epatica, Pig
pen accentua i suoi problemi conducendo una vita turbolenta e
dissennata, spesso alimentata da dosi massicce di whisky e
superalcolici vari.
Soprannominato Pigpen perché, proprio come l’amico di Char lie
Brown sempre avvolto nella polvere e nello sporco, non ha un
aspetto lindo e raccomandabile, Ronald McKernan rappresenta
l’anima black e soul del gruppo californiano. Il suo approccio
incostante e il vizio del bere lo rendono però inaffidabile: nell’ottobre
1968, insieme a Bob Weir, viene licenziato dal gruppo (entrambi
verranno poi reintegrati) perché non si presenta mai alle prove.
Le pessime condizioni del suo fegato lo costringono ad
abbandonare definitivamente la vita on the road dopo il tour europeo
del 1972: la sua ultima apparizione sul palco con i Grateful Dead è
del 17 giugno 1972, all’Hollywood Bowl di Los Angeles.
Dopo di lui, altri tre tastieristi della band termineranno la loro corsa
in circostanze tragiche, alimentando così la leggenda della
maledizione del tastierista dei Dead: Keith Godchaux morirà il 23
luglio 1980 in un incidente stradale; il suo sostituto Brent Mydland
morirà di overdose il 26 luglio 1990. Infine Vince Welnick, l’ultimo
tastierista, si suiciderà il 2 giugno 2006: già sei mesi dopo la morte di
Jerry Garcia, nel 1995, aveva tentato di farla finita.

C’è un uomo ubriaco, nel deserto. Un uomo che ha preso una


decisione in nome dell’amicizia e per uno strano senso di giustizia.
Quell’uomo ha fatto il pieno di vodka,
birra e whiskey. Quell’uomo ha sottratto un cadavere all’aeroporto
di Los Angeles fingendosi un emissario dei famigliari del defunto. S’è
fatto aiutare da un amico, si sono finti dipendenti di un’azienda di
onoranze funebri, e se lo sono preso, quel cadavere.
Pensavano di non essere credibili, coi loro cappelli da cowboy, i
jeans, gli stivaloni. Eppure ha funzionato.

Hanno caricato il corpo su un carro funebre rimediato alla bell’e


meglio, senza targa, e carico d’alcol. Si sono diretti a Joshua Tree
Monument, uno dei grandi parchi desertici della California. Lì
vogliono seppellire la salma.
L’uomo ha arrestato l’auto nel bel mezzo del nulla e ha scaricato il
corpo. Ora se ne sta lì, nel bel mezzo del deserto, a osservare delle
luci all’orizzonte. Forse sono i fari di un’automobile della polizia.
Quell’uomo pensa che sia giunto il momento di portare a termine la
sua rocambolesca missione, prima che arrivino ad arrestarlo:
cosparge la bara di benzina e le dà fuoco.
Ma chi è quell’uomo? Chi è il suo complice? E perché lo stanno
facendo? E soprattutto, di chi è il cadavere che stanno bruciando?
Per rispondere bisogna tornare al 17 settembre 1973.
Da quando è arrivato al Joshua Tree Inn, un motel nel cuore del
parco nazionale di Joshua Tree, il fascinoso deserto a 200 chilometri
da Los Angeles, al confine con l’Arizona, Gram Parsons non si è
fatto mancare nulla. È qui per qualche giorno di vacanza, dopo aver
completato le registrazioni del suo secondo disco da solista. È una
vacanza in pieno stile rock’n’roll, naturalmente: da quando è
diventato buon amico di Keith Richards dei Rolling Stones fa un uso
spregiudicato di eroina e di alcol. I soldi non gli mancano: non è un
musicista di successo, ma è uno dei più ricchi ereditieri della
Louisiana e gode di un fondo fisso piuttosto elevato.
Quando è in studio o in tour née è capace di smettere per
concentrarsi sulla cosa che ama di più: la musica. Ma adesso ha
finito di lavorare e con un gruppo di amici è arrivato qui per passare
qualche giorno di festa. Con lui ci sono il suo assistente personale e
devotissimo fan Michael Martin, la fidanzata di questi, Dale McElroy,
che viceversa non si interessa di musica né tanto meno di quella di
Parsons, e una vecchia amica dei tempi del liceo, Margaret Fisher.
Appena arrivati al motel, gli amici fumano tanta di quella marijuana
che Martin deve tornare in fretta e furia a Los Angeles il mattino del
18 per procurarsene dell’altra. E pensare che ha preso parte al
viaggio per prendersi cura di Gram…
Per pranzo, il cantante ha portato le due donne al vicino
aeroporto, dove, piuttosto che mangiare, ha bevuto Jack Daniel’s
senza sosta. Tornati in albergo, la McElroy si ritira in camera perché,
essendo in convalescenza per un’epatite, non può bere alcolici: non
trova divertente stare a guardare Parsons ubriacarsi.
L’ex membro di Byrds e Flying Burrito Brothers non resta con le
mani in mano: sembra che in città si procuri dell’eroina e in albergo
compri della morfina, non si sa da chi. Alcune ore dopo, la Fisher, in
stato di shock, bus sa alla camera di McElroy: Gram è in overdose,
la pelle ha un colore blua stro. Si procurano del ghiaccio e si recano
nella sua camera, la numero 1.
La Fisher usa un vecchio sistema “da strada” per rianimare i
tossici: cubetti di ghiaccio a mo’ di supposte. Funziona. Gram si
rialza, cammina, sembra rimettersi in sesto.
Poco dopo, la Fisher lascia Dale sola con Parsons per andare a
cercare qualcosa da mangiare. Non lo rivedrà più in vita.
La notte, Parsons è nella camera 8 con McElroy: Margaret le ha
chiesto di stare accanto al musicista, ma la ragazza non ha alcuna
esperienza di problemi connessi all’uso di droga. Si accorge che
Parsons fatica a respirare e pensa di doversela cavare da sola,
perché crede erroneamente che in albergo a quell’ora non ci sia
nessuno. Gli massaggia la schiena e tenta una respirazione bocca a
bocca: “Non sapevo se rimanere con lui e cercare di rianimarlo
oppure andare in cerca di aiuto”, dirà. “Pensavo che se lo avessi
lasciato solo sarebbe morto”.
Dopo mezz’ora di tentativi, realizza che probabilmente non c’è più
niente da fare. Intanto è tornata Margaret e finalmente viene
chiamata un’ambulanza. Gli infermieri decidono che l’unica
soluzione è portarlo al più presto al vicino Hi-Desert Memorial
Hospital di Yucca Valley.
Vi giungono a mezzanotte e un quarto del 19 settembre: i medici
tentano di rianimare l’uomo, ma il cuore non batte.
A mezzanotte e mezzo Gram Parsons viene dichiarato morto.
La stampa apprende che il cantante è morto per cause naturali. È
una bugia.
L’autopsia denuncia il vero motivo della morte: l’uso di droga.
L’esame del sangue rivela un livello alcolico dello 0,21 per cento,
piuttosto alto, ma non tale da causare la morte. Nel sangue non
vengono trovate tracce di morfina, che però viene rintracciata in parti
piuttosto elevate nelle urine e nel fegato. L’esame delle urine rivela
anche tracce di cocaina e barbiturici. Tali sostanze possono essersi
accumulate anche da alcuni giorni: non è perciò chiaro se Parsons
abbia fatto uso di cocaina, morfina e barbiturici il giorno della morte.
Intanto la polizia locale si accinge a interrogare le due donne, ma
compie un errore: le lascia soggiornare al motel.
Il manager del musicista, il famigerato Phil Kaufman che anni
prima era stato compagno di cella di un certo Charles Manson,
accorre a Joshua Tree e prende in mano la situazione. Riceve dalle
ragazze le droghe che erano in possesso di Parsons e le fa sparire
nel deserto. Poi assicura la polizia che farà interrogare le due donne
nei giorni successivi. Infine, ottiene il permesso di portarle a Los
Angeles.
La polizia di Joshua Tree non si curerà più di interrogarle
nonostante le dichiarazioni di Alan Barbary, il figlio del proprietario
del motel, discordino con quelle della Fisher. Cosa ancora più grave,
non esiste dunque alcun rapporto ufficiale su quanto accaduto quella
notte.
Il peggio accade pochi giorni dopo.
Al funerale del chitarrista dei Byrds, Clarence White, Parsons e
Kaufman s’erano scambiati una promessa: “Il primo di noi che
morirà, porterà il corpo dell’altro nel deserto di Joshua Tree, si berrà
alcuni drink e poi lo brucerà”. Il patrigno di Gram la pensa
diversamente. Si chiama Bob Parsons, ha sposato la madre del
musicista dopo il suicidio del marito e ha imposto ai figli il suo
cognome (quello originario di Gram è infatti Condor). Nel tentativo di
impossessarsi dell’eredità del defunto, cerca di portare
immediatamente la salma a New Orleans. Appellandosi infatti
all’antico Codice Napoleonico e dimostrando in modo arbitrario che
al momento della morte Gram era residente nello Stato della
Louisiana, spera di entrare in possesso della fortuna del figliastro.
Quando viene a sapere del piano, Kaufman si ricorda di quella
promessa. Parsons amava Joshua Tree e non provava alcun affetto
per New Orleans: seppellirlo in Louisiana sarebbe un’ingiustizia. Ci
beve su e decide: intercetterà la salma all’aeroporto di Los Angeles
e la porterà nel deserto. E così fa, con la complicità dell’amico
Michael Martin.
Saputo che sono ricercati, il 5 novembre 1973, giorno del
ventisettesimo compleanno di Gram, si recano spontaneamente
dalla polizia: se la cavano con una multa di 300 dollari per
sottrazione di salma e una di 708 dollari per danni al feretro. Per
raccogliere i fondi, Kaufman organizza una festa che si trasforma in
una veglia funebre alcolica per l’amico.
Kaufman racconterà la vicenda nella biografia Road Mangler
Deluxe.
I resti di Gram Parsons vengono spediti al cimitero Garden Of
Memories di New Orleans. Il cantante riposa sotto una placca che
porta l’iscrizione GOD’S OWN SINGER, dal titolo di una sua
composizione. Qualunque fossero state le sue intenzioni riguardo
all’eredità, la Corte della Florida (Stato in cui si trovano i
possedimenti agrari della famiglia) non assegna nemmeno un
centesimo a Bob Parsons, che morirà un anno dopo per problemi
connessi all’alcolismo.
L’eredità va alla moglie Gretchen (e alla figlia Polly, alla sorella
Avis e alla sorellastra Diane). Poche settimane prima della morte il
musicista aveva chiesto il divorzio. Kaufman non aveva inoltrato la
richiesta al tribunale.

Per Jim Croce, vivere significava suonare, viaggiando da un music


club a un piccolo teatro universitario, sera dopo sera,
duecentocinquanta giorni all’anno. Quando, a soli trent’anni, il
destino se lo porta via, Croce sta facendo quello che aveva già fatto
centinaia di volte, e cioè prendere un aereo per raggiungere il luogo
dove si sarebbe dovuto esibire in concerto il giorno successivo.
Ma questa notte, il 20 settembre 1973, pochi minuti dopo il
decollo, il velivolo privato che ha noleggiato precipita, schiantandosi
contro un albero, nei dintorni di Natchitoches, Louisiana.
In poche settimane, sull’onda dell’emozione, i suoi dischi balzano
ai primi posti delle classifiche e i suoi brani più celebri assurgono allo
status di classici della american music.
La tragica e prematura scomparsa di Jim Croce lascia la moglie
Ingrid in straziante solitudine. Dopo aver perso entrambi i genitori,
l’allora ventiseienne ex compagna universitaria ed ex partner
artistica di Jim (e mamma del piccolo A drian James) si ritrova a San
Diego, California, nella peggiore situazione possibile.
Non solo. Un paio d’anni dopo, il piccolo A.J. viene colpito da una
malattia rara che gli riduce la vista e Ingrid, a seguito di
un’operazione, si ritrova con le corde vocali danneggiate e
nell’impossibilità di tornare a cantare. Infine, le ci vogliono quasi
dodici anni per incassare le royalty e i diritti d’autore sulla musica del
marito.
Eppure, nonostante queste avversità, non demorde.
Oggi, a sessant’anni suonati, Ingrid Croce è uno straordinario
caso di successo: proprietaria di due ristoranti e tre bar nel Gaslamp,
quartiere centrale di San Diego e cuore della vita notturna della città
della southern California, è sulle copertine di news magazine di
grido, ospite di ambitissimi programmi radiofonici e televisivi, autrice
di libri che, in campo culinario, sono veri e propri bestseller.
“Servire il miglior cibo possibile”, dice, “e proporre tutte le sere
musica dal vivo ad amici, clienti e ospiti che vengono da tutto il
mondo, è la nostra maniera di ricordare a tutti il calore e il senso
dell’ospitalità che hanno sempre animato Jim Croce. E per tenerne
in vita il ricordo”.

Non è rimasto molto di quella band di R’n’B e gospel formata dai


cinque fratelli Womack di Cleveland, Ohio: Cecil, Friendly, Curtis,
Harry, e il più bravo di tutti, Bobby.
Già, perché tra la fine degli anni Cinquanta e la seconda metà dei
Sessanta, dopo aver percorso una carriera parallela a quella dei
Soul Stirrers, come Sam Cooke aveva lasciato la band e intrapreso
un’attività solista lo stesso aveva fatto Bobby Womack. E così, The
Valentinos (o The Womack Brothers, come qualcuno continuava a
chiamarli) si erano in qualche modo dissolti, nonostante la tenacia di
Cecil Womack.
La carriera di Bobby, infatti, era in ascesa vertiginosa. Per questo,
aveva voluto aiutare il fratello più debole – ma anche più puro e
maggiormente disinteressato ai problemi materiali: Harry Womack.
Harry era la voce tenore dei Valentinos, ma sapeva suonare
anche il basso, tanto che Bobby lo aveva voluto nella sua nuova
band.
Aveva un solo problema: una fidanzata gelosissima che, dopo
cinque anni di convivenza, ancora non gli dava tregua.
Bobby aveva trovato una doppia scappatoia: aveva detto ad Harry
di stare nel suo appartamento quando voleva e gli aveva anche
trovato un sostituto come bassista. Così, avrebbe potuto passare più
tempo a casa con la sua fidanzata.
Bobby voleva bene ad Harry, gli aveva dedicato un brano (Harry
Hippie) che era andato in cima alle classifiche. Lo aveva scritto Jim
Ford, basandosi su quello che Bobby gli aveva raccontato.
“Harry era uno spirito libero”, spiega Bobby, “da piccolo il suo
sogno era quello di vivere in una riserva indiana. Crescendo non è
cambiato di molto…”. Così come non era cambiata l’attitudine
violenta della sua fidanzata che, per un nulla, gli faceva delle
scenate di gelosia. E spesso lo picchiava.
Anche oggi, 9 marzo 1974, si accende perché trova nell’armadio
di Harry degli indumenti femminili. Non ci vede più. Va in cucina,
prende la prima cosa che le capita e si getta contro il Womack
quieto. Harry non ha mai reagito alle violenze di lei: non è nel suo
carattere e nemmeno nel suo stile di vita.
Ma questa volta dovrebbe farlo: lei impugna un coltello da cucina
e glielo conficca in pieno petto.

“Mio fratello aveva solo ventotto anni”, ricorda Bobby, “a quel


punto anche quella canzoncina che gli avevo dedicato, Harry Hippie,
non era più soltanto un gioco: avevo perso mio fratello e, da quel
momento in poi, l’avrei cantata in suo onore”.

Stazione della metropolitana di Finsbury Park sulla Piccadilly Line.


Un uomo, dal comportamento apparentemente tranquillo, ha uno
scatto improvviso. Si getta dalla banchina e, investito dal treno in
arrivo, muore sul colpo.
Quando la polizia giunge sul luogo dell’incidente, scopre che
quell’uomo è il musicista Graham Bond, uno dei padri del rock blues
inglese.
Nato a Romford, nell’Essex, il 28 ottobre del 1937, Bond ha
trentasei anni e una brillante carriera dietro le spalle. Con Alexis
Korner e John Mayall, a metà degli anni Sessanta, ha saputo
traghettare jazz e blues in ambito rock.
Non solo. La sua band, The Graham Bond Organisation, è stata
un’importante nave-scuola per alcune future star come il chitarrista
John McLaughlin (che si unirà a Miles Davis), il bassista Jack Bruce
e il batterista Ginger Baker (che insieme a Eric Clapton formeranno i
Cream) e il sassofonista Dick Heck stall-Smith, fondatore dei
Colosseum.
Da sempre soggetto dal carattere instabile e dal comportamento
bizzarro, Bond negli ultimi due o tre anni è sempre più dipendente
dall’eroina e da droghe varie. Ha pure sviluppato una sorta di
ossessione per l’occulto (è convinto di essere il figlio del celebre
satanista Aleister Crowley).
Un giorno, dopo aver litigato con alcuni spacciatori, è costretto a
rifugiarsi in una stazione di polizia dove viene arrestato per possesso
di marijuana. Sottoposto a una visita psichiatrica, voleva convincere
il medico di essere un tassista per sfuggire all’arresto che, per altro,
viene effettuato.
Successivamente, viene ricoverato in un ospedale psichiatrico.
Uscito dall’istituto, si cura con antidepressivi ma,
paradossalmente, la sua depressione aumenta.
Prima di recarsi alla stazione di Finsbury Park per farla finita,
Graham Bond è ospite dell’appartamento di John Hunt, un suo
amico giornalista.
Solo il giorno prima, Bond ha chiamato la redazione del «New
Musical Express», una delle testate musicali inglesi più influenti del
momento, per prendere accordi per un’intervista.

Al numero 12 di Curzon Place, nel ricco quartiere londinese di


Mayfair, vive il cantautore americano Harry Nilsson, uno degli artisti
prodotti dalla Apple, l’etichetta fondata dai Beatles.
A causa dei numerosi impegni, però, Nilsson trascorre lunghi
periodi negli Stati Uniti e, durante la sua assenza, presta volentieri la
sua abitazione (appartamento numero 9) ad alcuni amici musicisti.
Una di questi è Ellen Naomi Cohen, che nel 1974 arriva in Inghilterra
per tenere due show al London Palladium. La cantante è meglio
conosciuta come “Mama” Cass Elliot, e le grandi platee l’hanno
acclamata durante il periodo d’oro della summer of love californiana,
come membro del quartetto vocale The Mamas & the Papas.
Dopo il primo scioglimento del gruppo, nel 1968, Cass intraprende
la carriera solista, ma nonostante il successo iniziale del brano
Dream A Little Dream Of Me, i risultati non sono quelli sperati.
I primi anni Settanta la vedono protagonista di molte trasmissioni
televisive e ottiene anche un paio di parti come attrice, ma non
abbandona mai il desiderio di riscattarsi e rivalutare il suo ruolo di
grande vocalist. Una delle canzoni che ama di più in questo periodo
è Don’t Call Me Mama Anymore, come recita il titolo del suo ultimo
album: non chiamatemi più Mama.
Le serate previste al Palladium registrano diversi sold out e si
concludono con trionfali standing ovation da parte del pubblico
entusiasta.
Dopo l’ultimo concerto, il 28 luglio, Cass rientra all’appartamento
di Curzon Place, gentilmente messole a disposizione da Nilsson, e
per prima cosa chiama Michelle Phillips, sua “collega” in The Mamas
& the Papas: “Aveva bevuto un po’ di champagne, e stava
piangendo”, ricorda la Phillips. “Sentiva di aver finalmente compiuto
la transizione… non era più Mama Cass”.
Il 29 luglio, il corpo di Ellen Naomi Cohen viene trovato senza vita
sul letto. Il primo medico che esamina il corpo, il dottor Anthony
Greenburgh, offre al «Daily Express» la sua prima impressione sulla
causa della morte, apparentemente un semplice caso di asfissia.
“Sembra che stesse mangiando un panino al prosciutto e bevendo
una Coca-Cola mentre era distesa”, dichiara alla stampa, “una cosa
molto pericolosa, soprattutto per una persona sovrappeso come
Cass, propensa a un attacco di cuore”.
Quello che Greenburgh non sembra aver notato, però, è che il
sandwich rinvenuto accanto al letto della vittima è intatto.
Il referto del medico legale, il dottor Keith Simpson, riferisce infatti
che la causa del decesso è una “degenerazione miocardica dovuta
all’obesità”, ovvero un infarto causato dalla degenerazione del
muscolo cardiaco. L’autopsia rivela un problema al cuore, mentre gli
esami non rilevano tracce di sostanze stupefacenti né ostruzioni del
cavo orale o della trachea: anzi, pare che la cantante abbia
mangiato molto poco la sera prima di morire.
L’artista aveva intrapreso diverse diete per perdere peso in periodi
di tempo relativamente brevi: gli effetti dell’obesità e il severo regime
alimentare, probabilmente, avevano indebolito in modo grave il suo
cuore fino a causarne l’arresto. Alcuni teorizzano che soffrisse di
disturbi cardiaci da tempo: ciò spiegherebbe anche gli innumerevoli
svenimenti di cui era spesso vittima negli ultimi anni.
Purtroppo, nonostante un articolo pubblicato il 6 agosto sul «New
York Times» riporti l’esclusione ufficiale della “teoria del panino al
prosciutto”, la leggenda urbana ha ormai preso piede e tutti i tabloid
inglesi diffondono falsi e malevoli pettegolezzi, che si riveleranno
difficili da sfatare anche diversi decenni dopo.
I funerali si tengono il 2 agosto 1974 all’Holly wood Memorial Park.
Cass Elliott viene cremata e le sue ceneri deposte al Mount Sinai Ce
metery di Los Angeles.

7 settembre 1978.
Sono passati quattro anni dalla morte di Mama Cass, e nel
tristemente noto appartamento nel quartiere di Mayfair da qualche
mese vivono nuovi inquilini: sono Keith Moon, incendiario batterista
degli Who, e la sua fidanzata svedese, Annette Walter-Lax.
La sera del 6 settembre, Keith e Annette partecipano alla festa
che Paul McCartney tiene in onore di Buddy Holly, per
commemorare il suo quarantaduesimo compleanno. Per l’occasione
viene presentato il film biografico The Buddy Holly Story.
Dopo aver passato la serata al tavolo di Paul e Linda McCartney,
la coppia rientra a casa verso mezzanotte, senza aspettare la fine
del film. Annette cucina delle costolette di agnello, dopodiché i due
vanno a dormire. Prima di prendere sonno, però, Moon vuole vedere
un film, L’abominevole dottor Phibes di Robert Fuest: sono circa le
quattro del mattino.
Verso le sette e mezzo, Keith si sveglia affamato e nervoso, e
ordina alla fidanzata di preparargli qualcosa da mangiare: lei gli
cucina una bistecca, che lui mangia a letto, guardando un altro
pezzo del film.
Quando Moon inizia a russare, però, Annette decide di andare a
dormire sul divano, ma intorno alle tre e quaranta si risveglia e inizia
ad agitarsi al pensiero che Keith si alzi nuovamente affamato.
“Stavo seduta vicino al telefono con il menu di un ristorante cinese
in mano, pensando ‘dovrei ordinare qualcosa adesso perché avrà
fame quando si sveglierà’. Poi ho guardato il gatto, Dinsdale.
Sembrava stranamente guardingo, quasi non fosse in sé”.
In quel momento la donna si accorge che la camera da letto è
troppo silenziosa.
“Quando ho acceso la luce e l’ho girato verso di me ho visto che
era morto”.
Annette, in preda a una crisi isterica, prova invano a rianimarlo, e
anche i tentativi dei paramedici si rivelano inutili. L’ambulanza porta il
corpo al Middlesex Hospital, dove ne viene dichiarato il decesso.
L’autopsia rivela l’assunzione da parte della vittima di trentadue
pillole di Heminevrin, un medicinale usato per combattere
l’alcolismo.
Alcune di esse sono ancora integre.
Il medico che gli ha prescritto la cura, quasi un mese prima, gli
aveva lasciato una confezione da cento pillole da autogestirsi: un
errore rivelatosi fatale, perché la sostanza può essere letale se
accostata all’alcol e crea una forte dipendenza, in particolare nei
pazienti che si stanno disintossicando. Annette ricorda di aver visto
Keith prenderne diverse, quella sera, senza tuttavia poterle
esattamente quantificare.
La causa della morte viene certificata come overdose accidentale.
Ma cosa è successo nella vita del batterista? Cosa lo ha spinto a
ridursi in questo stato?
Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro.
Dopo il tour del 1976 gli Who si sono presi un periodo di pausa di
otto mesi: Moon vive sulla West Coast americana, a Trancas,
Malibu, Los Angeles, dove trascorre le giornate dissipando il suo
patrimonio in stravaganze di lusso, droga e alcol. È sempre stato un
personaggio eccentrico, dal carattere iperattivo e imprevedibile, ma
da qualche anno i suoi problemi con l’alcol stanno diventano
ingestibili (tanto da portare sua moglie a chiedere il divorzio nel
1975, dopo ripetuti maltrattamenti).
Il periodo di inattività con la band, poi, favorisce ulteriormente il
precipitare della situazione.
Secondo il biografo Tony Fletcher, “probabilmente è stato il
silenzio degli Who, la raison d’être di Keith, che l’ha spinto oltre il
limite in una caduta libera; il fatto di non avere un motivo per
svegliarsi al mattino (o al pomeriggio) lo ha trasformato in un clown
triste”. Spesso si ritrova a bighellonare con gli amici Ringo Starr e
Harry Nilsson, con i quali condivide gli stessi insalubri interessi.
L’assolata costa pacifica per Moon si rivela il posto peggiore in cui
vivere.
Il suo assistente personale Dougal Butler ricorda: “Keith un giorno
si è seduto e si è messo a piangere di fronte a me. Vivevamo nel
luogo che avevamo sempre sognato. Avevamo Steve McQueen
come vicino di casa, il posto era un paradiso, ma nella casa dove
abitavamo, ci sentivamo le persone più sole al mondo. Ricordo che
telefonava in lacrime a Pete [Townshend] dicendo: ‘Mi annoio, non
so cosa fare…’”.
Il tentativo di frequentare un circolo di Alcolisti Anonimi si rivela un
fiasco. Ogni sera, Annette controlla le mosse del fidanzato, nel
terrore di una possibile overdose.
Nel giugno del 1977, infatti, durante una festa, assume una
quantità eccessiva di Valium: viene ricoverato immediatamente
all’Ospedale Cedars-Sinai e sottoposto a una disintossicazione sotto
controllo psichiatrico, durante la quale un giorno viene persino
sorpreso a bere del dopobarba.
Il 10 luglio, non appena dimesso, parte per l’Inghilterra: un giovane
regista, Jeff Stein, sta girando un documentario sugli Who dal titolo
The Kids Are Alright ed è richiesta la sua presenza.
Il 16 agosto muore Elvis Presley: la notizia è uno shock per Keith.
“Risvegliò i suoi pensieri perversi sulla morte”, ricorda Annette.
“Sentiva che sarebbe morto giovane. Sapeva che non poteva
continuare a comportarsi in quel modo e sopravvivere. Ma nelle
settimane successive ha bevuto un sacco e ha preso moltissime
pillole”.
Il trasferimento definitivo da Los Angeles a Londra avviene il 12
settembre 1977. Inizialmente la coppia risiede al Kensington Palace
Hotel e in un secondo momento si trasferisce nel quartiere di
Mayfair. Non potendo però permettersi l’acquisto di un’abitazione,
accettano l’ospitalità dell’amico Nilsson, che mette a disposizione
l’appartamento di Curzon Place.
Nel frattempo, Keith tenta più volte la disintossicazione,
assumendo il Valium per calmare gli attacchi che lo colpiscono
quando va in crisi d’astinenza.
In ottobre, gli Who iniziano le registrazioni per un nuovo album,
WHO ARE YOU. Tuttavia Moon senza il suo brandy non riesce a
dare il meglio di sé alla batteria e non ci mette molto a riprendere le
vecchie abitudini. Secondo Tony Fletcher, gli altri componenti del
gruppo sono talmente felici di riavere il vecchio compagno di
avventure da scusare i suoi eccessi, o addirittura incoraggiarli.
Durante le riprese di alcune performance dal vivo da includere nel
documentario, Moon deve assumere cocaina in continuazione per
poter reggere fisicamente. Non l’aveva mai fatto davanti agli altri del
gruppo. Nonostante esprima più volte ai compagni l’intenzione di
ripulirsi e rimettersi in forma, le sue condizioni sembrano peggiorare
a vista d’occhio.
Pete Townshend, chitarrista e autore dei brani, ricorda: “Guardavo
Keith e pensavo: questo tizio finirà per morire. Avevo paura per lui. E
sono ancora alle prese, come credo Roger [Daltrey], con il rimorso
per la nostra complicità in ciò che è successo. Ci era utile avere quel
pazzo nel gruppo. Ci faceva pubblicità”.
Tra innumerevoli sforzi, ricadute e ricoveri in ospedale, Keith
riesce finalmente a portare a termine le registrazioni del disco per
l’aprile del 1978. Alle session fotografiche per la copertina, Moon si
presenta in uno dei suoi costumi preferiti, la divisa da cavallerizzo,
che tuttavia enfatizza quanto sia aumentato di peso negli ultimi anni.
Il fotografo Terry O’Neil allora gli chiede di posare seduto, a
cavalcioni di una sedia, in modo che lo schienale possa nascondere
il più possibile il suo fisico appesantito. Quell’immagine diventa la
copertina dell’album, che viene pubblicato in agosto, qualche
settimana prima della morte del batterista: per una coincidenza
tristemente ironica, il retro della sua sedia riporta la scritta “Not to be
taken away”: non portare via.
Alquanto sconcertante è anche il macabro sogno premonitore fatto
dalla sua ex moglie Kim Moon, che dopo il divorzio era andata a
vivere con la figlia insieme al nuovo partner Ian McLagan, ex
membro dei Faces.
Pare infatti che una notte Kim si fosse svegliata di soprassalto, in
lacrime, dopo aver sognato di ricevere una telefonata dal roadie Ray
Cole, che la informava della morte di Keith. La telefonata che riceve
la sera del 7 settembre dallo stesso Cole, però, è tragicamente reale
e, questa volta, lo shock è talmente forte da causarle la caduta dei
capelli.
Ellen Naomi Cohen e Keith John Moon sono morti nella stessa
stanza dello stesso appartamento. Entrambi avevano trentadue anni
quando la fine li ha colti di sorpresa, ed entrambi, in modi diversi,
erano in lotta per sopravvivere al personaggio che loro stessi
avevano creato.
Dopo l’accaduto, Harry Nilsson metterà in vendita il suo
appartamento, che pare sia stato acquistato da Pete Townshend…
Nell’autunno ’74, la villa della famiglia Drake, una residenza nella
contea di Warwickshire chiamata Far Leys, è abitata da tre persone.
Nick Drake è un folksinger stimato, ma di poco successo. Ha
pubblicato tre dischi, ma ha deciso di smettere con la musica,
almeno per un po’. È stanco e disilluso. Da alcuni anni si è
sostanzialmente ritirato dalle scene. In realtà, s’è ritirato dal mondo:
ha ventisei anni e vive a Far Leys coi genitori. Tira avanti con le 20
sterline che la casa discografica gli fa avere ogni settimana. Gli amici
dicono che non può nemmeno permettersi un paio di scarpe nuove.
Parla poco, pochissimo. A volte sparisce dalla circolazione per
giorni interi. Magari prende l’automobile e girovaga finché non finisce
la benzina: a quel punto chiama casa e si va venire a pendere dai
genitori. Vive in questo mondo, ma è come se fosse in un altro.
Un’altra abitante della casa è la madre Molly. È lei l’ultima persona
a vedere in vita il figlio la sera del 24 novembre 1974. È preoccupata
per lui: sa della depressione e dei problemi caratteriali, sa che
prende delle medicine. Sa tutto.
Non sa che dopo quella sera non lo rivedrà più vivo. “Nick”, ricorda
la donna, “andò a letto presto. Ricordo di averlo visto in piedi davanti
alla porta della sua camera. Gli chiesi: ‘Stai andando a dormire?’”.
È una fredda e nuvolosa giornata autunnale, il sole è tramontato
alle quattro del pomeriggio. Nick dorme al piano superiore della
villetta.
La madre ricorda che generalmente il ragazzo era abituato a
svegliarsi piuttosto tardi il mattino, perché durante la notte aveva
difficoltà a riposare. Colpa degli incubi: ne aveva dall’età di cinque
anni.
E colpa di quel carattere inquieto: di notte usciva in macchina,
magari arrivava sino a Londra, a tre ore di distanza. Arrivava dagli
amici senza annunciarsi, si metteva in un angolo, se ne andava
altrettanto silenziosamente.
Oltre ai problemi caratteriali e di insonnia, da alcuni anni il
musicista soffre di depressione. È in cura presso alcuni dottori e gli
sono stati prescritti diversi medicinali tra cui il Tryptizol. Ecco perché
la mattina del 25 i genitori non si preoccupano se il figlio non scende
a far colazione: routine.
Anche perché, ricorda il padre Rodney, “quella notte si era alzato
ed era sceso in cucina a mangiare un po’ di cornflakes. Lo faceva
spesso quando non riusciva a dormire. Molly lo sentiva passare
accanto alla nostra camera, si alzava e lo raggiungeva in cucina per
parlare con lui. Quella notte non lo sentì”.

Se la madre l’avesse sentito, magari l’avrebbe raggiunto in cucina.


Magari le cose sarebbero andate in un altro modo. Non si sa che
cosa sarebbe accaduto. Si sa invece che la mattina la madre non lo
sveglia per non disturbarlo. Aspetta fino a mezzogiorno per entrare
in camera. “Giaceva riverso sul letto. La prima cosa che notai furono
le sue gambe, le sue lunghe gambe”.
Che cos’ha ucciso il ragazzo?
Dopo essere sceso in cucina, Drake è tornato in camera. Lì ha
preso una dose massiccia di pastiglie di Tryptizol, l’antidepressivo
che gli è stato prescritto dal medico. “Ci aveva detto che doveva
prenderne tre al giorno o qualcosa del genere”, ha spiegato il padre.
“Eravamo molto preoccupati per la sua depressione”. I genitori
nascondevano ogni tipo di medicinale, persino l’aspirina: ovviamente
non il Tryptizol prescritto da medico. “Non pensavamo che quelle
pillole fossero pericolose”.
La posizione del corpo sul letto, con le gambe a penzoloni,
incompatibile col sonno, suggerisce l’ipotesi del collasso improvviso,
forse dello svenimento. Caduto sul letto, è forse entrato in coma e ha
subìto l’arresto cardiaco fatale.
Il medico che ne esamina il corpo nel pomeriggio del 25 ipotizza
che la morte sia avvenuta all’incirca alle sei di mattina. La causa
della morte è attribuibile a un’overdose di Tryptizol.
Non è chiaro quante pastiglie abbia effettivamente preso quella
notte. Secondo la sorella Gabrielle potrebbero essere addirittura
trenta, ma non ne esiste una prova certa. È un particolare
importante, che segna il confine tra la morte accidentale e il suicidio.
“Preferisco pensare che si sia tolto la vita”, ha detto la sorella.
“Preferisco pensare che sia morto per sua scelta e non per un
tragico errore. È un’ipotesi, questa, che non posso accettare”.
La questione è controversa. Ed è strettamente connessa alle
conoscenze disponibili all’epoca sugli effetti tossici del Tryptizol: un
lieve sovraddosaggio rende il medicinale estremamente pericoloso
per il cuore. Le informazioni sulla sua assunzione sono centellinate
dai famigliari.
Un particolare emerge da una lettera che Rodney Drake scrive il
1° gennaio 1975 all’amico James Lusk: “La causa della morte è stata
un’overdose di Tryptizol, uno dei tre medicinali che gli erano stati
prescritti. Gli altri due erano lo Stelazine e il Disipal”. Il primo è usato
per placare stati d’ansia o addirittura psicotici, il secondo è un
rilassante muscolare.
Il dottor Stephen Tibbits scrive il 18 dicembre 1974 che la causa
della morte è “avvelenamento con Amitriptyline [il nome generico del
Tryptizol] autosomministrato in presenza di una forma di
depressione”.
E se fosse stato suicidio, come sostiene la sorella?
Secondo il padre, Nick Drake stata attraversando un buon periodo
e in quel novembre destava meno preoccupazioni rispetto al
passato, quando aveva dimostrato di avere intenti suicidi. Un
tentativo di impiccarsi dell’anno precedente non è mai stato
confermato.
Ma la tesi del suicidio si scontra con le parole di alcuni amici, tra
cui il produttore Joe Boyd. Pur essendosi trasferito a Los Angeles, è
rimasto in contatto telefonico col cantautore e parla di un Nick Drake
nuovamente in forma, desideroso di tornare a incidere.
In effetti, nel 1974, il folksinger ha scritto nuovo materiale ed
effettua alcune sedute di registrazione, ma si rivelano infruttuose e
rese particolarmente faticose dalle cattive condizioni mentali del
musicista.
Nick si era recato in Francia, in vista ad alcuni amici, tornandone
molto contento: un altro segno del buonumore di quel periodo. Per
Boyd, la morte di Nick è un errore provocato dall’ignoranza
dell’effetto dei medicinali che gli sono stati prescritti: “Come tutte le
persone affette da depressione, trovandosi in un periodo positivo,
probabilmente Nick pensò di aumentare la dose dei medicinali per
far sì che quel momento di buon umore non terminasse
nuovamente”.
L’amico di lunga data e collaboratore musicale Robert Kirby
conferma in un’intervista del dicembre ’74 che Nick sembrava più
felice del solito: “Prima della morte era di buon umore come non lo
vedevo da tempo. Ma era comunque depresso, perché non capiva
che cosa fare della sua vita. Londra lo aveva stufato, tutto l’ambiente
musicale non lo interessava più. Era arrabbiato per cose che aveva
sentito dire di lui: era molto sensibile. Era pronto per morire. Credo
ne avesse abbastanza di tutto, non aveva più voglia di battersi. Tutte
le sue canzoni sono epigrammi, piccoli estratti filosofici e li puoi
prendere sia in senso ottimistico sia pessimistico. Eppure sono certo
che se avesse voluto suicidarsi, lo avrebbe fatto molto tempo prima”.
Si ricorda uno scambio di battute con Sheila Wood, la moglie del
fonico John Wood: “Se sei così triste, Nick, perché non l’hai fatta
finita?”, chiede lei. Lui risponde: “Il suicidio è roba da codardi, e in
più non ho il coraggio di farlo”.
Il giornalista Nick Kent offre il ritratto di una persona tormentata,
ma conscia della propria situazione. Dopo i fatti, ha modo di parlare
con alcuni amici del musicista.
Una donna gli dice che “tre giorni prima della morte, Nick era
andato nel suo appartamento e aveva detto ai presenti: ‘Vi ricordate
di me? Vi ricordate di come ero? Ditemi come ero. Avevo un
cervello, ero qualcuno. Che cosa mi è successo?’”.
Nick era evidentemente consapevole della sua situazione ed era
preoccupato per la sua salute e per il suo futuro.
Un punto a sfavore della testi del suicidio è, infine, rappresentato
dalla mancanza di un lettera d’addio.
Nick se n’è andato silenziosamente.
Nick Drake aveva un carattere timido e riservato, eppure è sempre
stato estremamente socievole, soprattutto nel periodo in cui
frequentava l’università. Tra il 1967 e il 1970 aveva sviluppato uno
stile musicale ricercato a lungo con studi e carattere.
Era un musicista lucido, profondamente partecipe delle scelte
musicali, non aveva problemi a discutere con i discografici per
riuscire a fare la musica che voleva. Boyd lo ricorda come un
musicista che in sala d’incisione mostrava una personalità forte, tesa
a perseguire precisi scopi artistici.
Le cose erano cominciate a cambiare dopo l’incisione del secondo
disco e soprattutto a partire dal 1970, complice anche lo scarso
successo commerciale dei suoi album. Il rifiuto di continuare a
esibirsi dal vivo era stato visto come prova della sua incapacità di
relazionarsi con gli altri e di un primo passo verso la depressione.
Drake era anche un consumatore di sostanze stupefacenti,
marijuana e Lsd soprattutto. Si parla della sua frequentazione di
circoli di consumatori di eroina specie nel suo ultimo periodo di vita,
ma non è mai stato provato che ne avesse fatto veramente uso.
È la terza ipotesi, dopo la morte per avvelenamento accidentale e
il suicidio: l’overdose di eroina.
Si dice che la sera prima della morte fosse andato a trovare un
amico che gli aveva procurato dell’eroina da sniffare, una sostanza
in più nel cocktail mortale che l’avrebbero portato al collasso.
Si dice anche che sia stata fatta espressa richiesta al coroner di
non citare la presenza di eroina per non rovinare il ricordo del
musicista scomparso.
Di Nick Drake resta un canzoniere dalla vita imprevedibilmente
lunga. Da vivo, aveva ricevuto scarsi riscontri commerciali. Da
morto, complice la suggestione per la dolorosa vicenda personale, la
sua figura di folksinger ispirato e sensibile è stata enormemente
rivalutata, assumendo prima lo status di culto, quindi di leggenda.
A partire dagli anni Ottanta, nuove generazioni di musicisti l’hanno
preso a modello e il suo catalogo è stato ristampato. Gli è stato
dedicato il documentario Lost Boy: In Search Of Nick Drake, con la
storia narrata da Brad Pitt.
“I suoi fan”, ha detto la sorella Gabrielle, “si presentano a Tan
worth-in-Arden. Mia madre li invita a prendere un tè. Alcuni hanno
confessato che l’avrebbero fatta finita se non fosse stato per la
musica di mio fratello”.
Nick Drake se n’è andato silenziosamente, ma l’eco della sua
opera si fa ancora sentire.

Sono le cinque e un quarto, l’ora di punta nelle highway losangeline.


Anche se sulla Hollywood Freeway o sul Santa Monica Boulevard è
sempre l’ora di punta.
Il traffico qui è frenetico, caotico, convulso, ingestibile.
Quando sei al volante, ti ritrovi concentrato sulle vetture che hai
davanti e su quelle che hai di fianco. Qui, si è in lotta (anzi, si è in
guerra) anche per un solo metro di strada.
Eppure, anche l’automobilista più ansioso e grintoso non può fare
a meno di notare che, dal cavalcavia di ingresso che porta dal Santa
Monica Boulevard alla Hollywood Freeway, sta precipitando un
uomo. Il suo corpo, cadendo sulla carreggiata, viene travolto e
rimbalzato tra le varie automobili come fosse la pallina di un flipper.
Chi ha potuto suicidarsi in questo modo così atrocemente
spettacolare?
La polizia di Los Angeles non ha dubbi: il morto è Rodney Keith
Eskelin, trentasei anni, più noto come Rodd Keith, polistrumentista e
cantautore.

Lo chiamano “il Mozart dei song poem”, una pratica a lungo


disprezzata dall’industria discografica. Si trattava di recuperare
gratuitamente dal pubblico poemetti che poi, adattati, diventavano
veri e propri testi di canzoni.
Rodd Keith, in questo senso, era un vero e proprio mago.
Durante la fine degli anni Sessanta aveva supervisionato centinaia
di 45 giri di successo.
La sua predilezione per le droghe psichedeliche era nota a molti.
Anche per questo, chi lo conosceva bene, non crede all’ipotesi del
suicidio. Molto probabilmente Keith era sotto l’influsso di qualche trip
allucinogeno…

All’ospedale locale muore per tumore Chester Arthur Burnett,


sessantacinque anni, conosciuto come Howlin’ Wolf, uno dei più
grandi interpreti di blues di tutti i tempi.
Con i suoi due metri di altezza e un fisico imponente (pesava 136
chili), Wolf è personaggio che incute timore anche senza cantare.
Ma quando lo fa, la sua voce – definita da qualcuno “il suono di un
asfaltatore della strada” – riesce a terrorizzare.
Il soprannome Howlin’ Wolf, lupo ululante, gli è stato dato dal
nonno, che da bambino gli raccontava paurose storie di lupi che
sarebbero venuti a prenderselo se non si fosse comportato bene.
Aveva cominciato la carriera musicale alla fine della seconda
guerra mondiale, alternando la professione di dj a quella di
musicista. Rifiutato dalla Sun Records di Sam Phillips – l’uomo che
avrebbe lanciato Elvis Presley – Howlin’ Wolf debutta nel 1951 per la
Chess Records, trasferendosi definitivamente a Chicago, la terra
promessa di quei bluesmen che amavano sperimentare le nuove
sonorità elettriche. Insieme a Muddy Waters, Wolf diventa il simbolo
di questo nuovo modo di intendere il blues.
Grandissimo cantante e provetto armonicista, per lui, a differenza
di tanti suoi colleghi, è subito successo, e lo sarà per tutta la
carriera: brani come Little Red Rooster, Smoke Stack Lightning,
Spoonful, Back Door Man e I Ain’t Superstitious non solo vanno in
vetta alle classifiche R’n’B, ma vengono reincisi da molti dei gruppi
rock che vanno per la maggiore tra i ragazzi bianchi degli anni
Sessanta, quali Cream, Rolling Stones e Doors.
Nonostante i proventi dei suoi dischi gli permettessero di
godersela, Howlin’ Wolf ha condotto una vita senza eccessi: era
famoso per guidare una banale station wagon invece di qualche
lussuosa fuoriserie.
Secondo quanto si racconta, la sua tomba, nel cimitero di Hillside,
sarebbe stata costruita con i soldi di uno dei suoi più grandi fan, Eric
Clapton: la grande pietra tombale raffigura una chitarra e
un’armonica.
Il cuore rock’n’roll dell’America cessa di battere la mattina del 16
agosto 1977.
Il corpo senza vita di Elvis Presley viene trovato dalla fidanzata
Ginger Alden nel bagno di una delle camere da letto di Graceland, la
lussuosa residenza della star a Memphis, Tennessee.
Sono le quattordici e trenta.
I membri della sicurezza Joe Esposito e Al Strada cercano
inutilmente di rianimarlo. Quando arriva l’ambulanza, i medici
trovano il corpo della star già circondato da una decina di persone,
tra cui il padre Vernon Presley. Accorre anche il medico personale
della star, George Nichopoulos. La corsa fino al Baptist Memorial
Hospital si rivela inutile: Elvis Presley, quarantadue anni, viene
dichiarato morto alle quindici e trenta, dopo mezz’ora di tentativi di
rianimazione.
Alle sedici la notizia è resa pubblica: una folla d’ammiratori
s’accalca ai cancelli di Graceland, qualche centinaio staziona
davanti all’ospedale. L’America è sotto shock e si scambia
freneticamente la notizia: la South Central Bell di Memphis chiede
agli utenti di limitare le chiamate, per non sovraccaricare le linee.
È solo l’antipasto di quel che accadrà il giorno dopo, quando la
residenza sarà aperta al pubblico affinché renda l’estremo omaggio
alla salma, un’idea fortemente voluta dal padre. La mattina sono già
ventimila le persone davanti a Graceland. La bara arriva su un carro
funebre bianco scortato dalla polizia ed è sistemata nell’ingresso,
piantonata da alcune guardie. La sera, quando alle diciotto e trenta i
cancelli vengono chiusi, sono ottantamila i fan transitati davanti alla
bara del “Re del rock’n’roll”. Molti non riescono nemmeno a entrare;
non si contano gli svenimenti dovuti alla calca e al caldo d’agosto; i
malori sono letteralmente centinaia; due ragazze muo iono investite
dall’auto guidata da un ubriaco.
La stampa è tenuta fuori dall’abitazione, ma il «National Enquirer»
riesce a corrompere un cugino del cantante affinché scatti una foto
al cadavere. L’immagine sarà pubblicata il 6 settembre corredata dal
titolo Elvis: The Untold Story.
I funerali si tengono il giorno dopo: una fila di diciassette Cadillac
bianche, il colore preferito dalla star, accompagna Presley al Forest
Hills Cemetery di Memphis. La distesa di fiori è impressionante:
sono stati recapitati da cento furgoni. Dopo undici giorni si registra
un tentativo di trafugare la salma, che viene nuovamente interrata in
ottobre, questa volta all’interno di Graceland, vicino al corpo della
madre.
“Finalmente”, dice il padre, “possono riposare in pace”.
Ma che cos’è successo quel 16 agosto? Com’è possibile che un
uomo di soli quarantadue anni, ricco e dotato di medico personale
possa morire così repentinamente?
Che cosa ha ucciso il Re del rock’n’roll?
Elvis ama vivere di notte.
La sera del 15 agosto ha fissato una visita dentistica alle ore
ventidue e trenta. Il dottor Hofman gli fa una pulizia dei denti e si
occupa di un paio di carie. Gli dà delle compresse di codeina, nel
caso provi dolore.
Il cantante torna a Graceland e si corica verso mezzanotte. A
notte fonda chiama un membro della sua cricca, la cosiddetta
Memphis Mafia, chiedendogli alcuni libri: ha voglia di leggere.
Il giorno dopo si trasferirà a Portland, nel Maine, dove il 17 è
previsto un concerto. Ci andrà a bordo del jet personale chiamato
Lisa Marie, come la figlia di nove anni che in quel momento si trova
in un’altra stanza della villa. In verità le sue ultime esibizioni sono
state deludenti, a causa delle condizioni fisiche non ottimali e dello
stato mentale confuso. Negli ultimi due anni il cantante è ingrassato
in modo vistoso ed è lui stesso il primo ad essere annoiato dai suoi
concerti. Spesso si dimentica le parole, anche quelle dei cavalli di
battaglia, e ha cancellato alcuni show per non essersi riuscito ad
alzare dal letto.
Quel giorno, poi, è particolarmente nervoso, perché la fidanzata
Ginger Alden non vuole andare in tour con lui. Litigano, ma secondo
la ragazza si riappacificano subito, tant’è che parlano di matrimonio.
Alle due e quindici, il cantante chiama Nichopoulos chiedendogli di
prescrivergli del Dilaudid: uno di denti otturati gli dà fastidio. Il
medicinale viene acquistato da un aiutante alla farmacia notturna del
Baptist Memorial.
Un’ora dopo, Elvis chiama Esposito e il cugino Billy Smith,
chiedendo loro di giocare a squash con lui e Ginger. I due si alzano
e lo raggiungono a Graceland. Dopo la partitella, Elvis riceve la
prima delle tre dosi quotidiane di medicinali e tranquillanti che gli
permettono di dormire. Infine dice alla fidanzata che andrà in bagno
a leggere. È mattina oramai, ma non è un problema: la sveglia per
andare a Portland è fissata per le ore diciannove.
Quando nel primo pomeriggio Ginger Alden si sveglia, non vede
Elvis e lo cerca nel suo bagno: lo trova riverso a terra, nel suo stesso
vomito, il viso violaceo.
Dopo il ricovero e il decesso, la polizia e un coroner ispezionano la
casa: qualcuno si è premurato di fare sparire tutti i medicinali usati
dal cantante, così come il libro che stava leggendo in bagno al
momento della morte, Sex And Psychic Energy di Betty Bethards.
Intanto, in ospedale, il dottor Jerry Francisco, coroner della contea di
Shelby, si appresta a condurre un’autopsia di tre ore assistito da altri
otto patologi. È presente anche Nichopoulos: non è un’autopsia
come tutte le altre e la presenza del medico personale del cantante,
sebbene in veste di semplice osservatore, è un segno della
disponibilità a venire incontro alle richieste della famiglia.
Ma fino a quale punto tali richieste vengono accolte?
La verità viene accertata?
Fuori è il caos.
Gli organi di stampa premono per avere notizie, un verdetto, una
ragione del decesso. L’autopsia è appena iniziata, quando viene
convocata una conferenza stampa dai responsabili dell’ospedale. È
Francisco ad affermare che la morte è causata da “aritmia cardiaca
provocata da battito irregolare”, una formula sufficientemente
generica che attribuisce il decesso a cause naturali, buona per
soddisfare la curiosità della stampa senza spiegare che cos’è
davvero accaduto.
Secondo alcuni testimoni, le parole di Francisco sono
accompagnate da una smorfia di imbarazzo di un altro patologo
incaricato dell’autopsia, il dottor Eric Muirhead. Il team di dottori
ammetterà in seguito la verità, e cioè di avere trovato nel corpo della
rockstar quattordici sostanze chimiche diverse, di cui dieci sopra i
limiti tollerabili da un fisico. È una verità che in quella prematura
conferenza stampa non si può dire.
In realtà il “segreto” del Re era stato già svelato. Alcune ex
guardie del corpo avevano appena rivelato in Elvis: What Really
Happened sordidi particolari sulle sue abitudini alimentari e la sua
dipendenza dagli psicofarmaci. Il libro aveva fatto letteralmente
impazzire Presley: non c’era giorno che non ne parlasse.
Fantasticava un’imboscata agli autori: intendeva attirarli a
Graceland, per poi ucciderli. E invece era stata quella roba a
uccidere lui.
Esposito ammetterà in seguito che il musicista faceva uso di
amfetamine e di farmaci per curare gli sbalzi d’umore. Elvis aveva
cominciato ad assumerle sin dalla fine degli anni Cinquanta, per
sostenere il ritmo di vita che il successo gli aveva imposto. La moglie
Priscilla rivelerà che il marito prendeva forti dosi di sonniferi sin dal
1962. A quanto pare, Elvis spendeva un milione di dollari all’anno in
sostanze farmaceutiche. Solo nel corso del 1977, il medico gli aveva
prescritto circa diecimila dosi di medicinali.

Ma è stata l’assunzione di farmaci l’unica causa della morte? Se n’è


dibattuto per anni. E per un ventennio è infuriata la polemica su quel
primo, prematuro verdetto dell’autopsia, con uno strascico di accuse
e azioni legali. Una battaglia in cui è stato coinvolto il “Dr Feelgood”
di Presley, Nichopoulos: nel 1980 gli fu sospesa la licenza medica,
definitivamente revocata una quindicina d’anni dopo.
Una cosa è certa: Elvis aveva un accesso pressoché illimitato e
assolutamente insensato ai medicinali, un privilegio connesso al suo
status e al suo patrimonio, un privilegio che gli è costato molto caro.
Per dirla con uno dei membri della Memphis Mafia: “Chi ha il
coraggio di dire di no al Re?”.
Per riposare, Presley assumeva sonniferi, per tenersi su prendeva
vari eccitanti: tutti medicinali di cui era diventato dipendente,
concessigli senza limiti dal suo dottore. È altrettanto vero che la
dieta alimentare sconsiderata gli procurava grossi problemi di
detenzione idrica e non poche difficoltà intestinali. Aveva problemi di
ipertensione, un’arteriosclerosi coronarica, danni al fegato. E si dice
che negli ultimi mesi fosse arrivato ad assumere circa centomila
calorie al giorno, tante quante ne necessita un elefante: il suo cibo
preferito era un sandwich lungo 30 centimetri con bacon, burro di
arachidi e marmellata di fragole. Ne mangiava due al giorno, più lo
spuntino di mezzanotte che non si faceva mai mancare, fatto di
hamburger e patatine fritte.
Già nel 1975 era stato ricoverato in ospedale per un blocco del
colon. E quel 16 agosto i patologi avevano trovato un’importante
costipazione dell’intestino. Forse Presley ha avuto un infarto dovuto
agli sforzi compiuti nel tentativo di evacuare. Quando fu trovato, era
disteso davanti al water coi pantaloni abbassati.
Non proprio la morte degna di un Re.

Il 17 agosto 1977, mentre i fan s’accalcano davanti ai cancelli di


Graceland, un uomo che somiglia a Presley appare all’aeroporto di
Memphis. Compra un biglietto per Buenos Aires usando il nome
John Borrows, l’identità usata in vita dal cantante quando voleva
prenotare una stanza d’albergo in incognito.
È solo il primo di una lunga serie di avvistamenti che creano il mito
della scomparsa di Elvis, l’uomo da 500 milioni di dischi che vivrebbe
in incognito da qualche parte in America. Una tesi che il dottor
Francisco trova risibile. L’autopsia fu eseguita prelevando gli organi
interni e i fluidi corporali, mandati a un laboratorio scientifico affinché
conducessero gli esami opportuni. “Se Elvis non è morto”, ha detto
Francisco, “se ne va in giro privo di gran parte dei suoi organi
interni”.
Il cuore e il cervello del Re sono custoditi al Memphis Memorial
Hospital. La sua anima vaga per l’America.
Sono le quattro del mattino.
La superstar del glam rock Marc Bolan, leader dei T. Rex, ha
terminato da poco una lunga ma bellissima serata, culminata a cena
con la sua compagna, l’amata Gloria Jones, mamma del piccolo
Rolan (due anni), unico figlio della coppia.
Sono stati in uno dei loro locali preferiti, il Mortons, a Berkeley
Square.
Gloria è al volante della sua Mini 1275GT color viola targata FOX
661L.
Marc ama le auto, ma odia guidare: ha paura. Paura di morire in
un incidente. Forse anche per questo ne parla in tante sue canzoni.
Forse anche per questo possiede numerose vetture, tra cui una
splendida Rolls Royce che, proprio stasera, è stata prestata dal suo
management ai colleghi Hawkwind, space rock band londinese in
pista dal 1969.
La Mini viola sta percorrendo Queens Ride, nell’estremità
meridionale di Barnes Common, sud di Londra. La casa di Marc e
Gloria, che è al 142 Upper Richmond Riad West a East Sheen, si
trova a poco meno di due chilometri.
Improvvisamente, Gloria Jones perde il controllo della vettura.
La Mini sbanda e, mentre sta attraversando un piccolo ponte, esce
di strada, abbatte una staccionata e si schianta contro il tronco di un
sicomoro.
L’impatto avviene sul lato del passeggero.
Bolan, che non ha allacciato la cintura di sicurezza, viene sbalzato
sul sedile posteriore e muore sul colpo.
Due settimane dopo, il 30 settembre, avrebbe compiuto tren t’anni.
Alla Jones va meglio: un braccio rotto e una mascella fratturata la
costringono al ricovero in ospedale dove, solo nel giorno del
funerale, viene informata della morte dell’adorato compagno.
Il servizio funebre si svolge al Golders Green Crematorium, a nord
di Londra, dove pure le sue ceneri vengono sparse, sotto un
cespuglio di rose al Keats Rose Bed.
Tra gli altri, assistono alla cerimonia David Bowie, Rod Stewart ed
Elton John, mentre Keith Moon, Gary Glitter e Cliff Richard mandano
mazzi di fiori.
Se nei giorni successivi la morte la casa di Bolan viene
saccheggiata, i suoi fan decidono che il luogo dell’incidente diventi
una sorta di piccolo santuario alla sua memoria. Nel 2007, nel
trentesimo anniversario della scomparsa, Rolan Bolan ha inaugurato
un piccolo monumento funebre proprio lì, sulla Queens Ride.
Lo stesso giorno della morte di Marc Bolan, qualche ora dopo, a
Parigi, muore Maria Callas. Ma le coincidenze sfortunate, legate in
un modo o nell’altro a quella che qualcuno comincia a chiamare “la
maledizione di Bolan” non finiscono qui.
Il 27 ottobre 1980, Steve Took (trentatré anni, fondatore insieme a
Marc Bolan dei T. Rex) muore a casa sua dopo aver ingerito un mix
di morfina e funghi allucinogeni, anche se il referto medico indica
come causa di morte “asfissia dopo aver ingerito un cocktail cherry”.
Il 28 aprile 1981, il bassista dei T. Rex Steve Currie (trentun anni)
muore in un incidente automobilistico nei pressi di casa sua, ad
Algarve, in Portogallo.
La vedova di Marc (la prima moglie June Bolan) muore nel 1994, il
suo manager Tony Secunda nel 1995 e la sua ex moglie Chelita
(quella che metteva il glitter sulla faccia di Marc, inventando così il
glam rock) nel 2000. Altri due membri dei T. Rex (Mickey Finn e
Peter “Dino” Dines) muoiono nel 2003 e 2004.
Oggi, il sicomoro di Queens Ride è conosciuto come “l’albero di
Bolan”.

In copertina ci sono i sette componenti del gruppo avvolti dalle


fiamme. Il chitarrista Steve Gaines, al centro, ha gli occhi chiusi e il
viso avvolto dal fuoco. Dentro, un modulo da compilare per ricevere
un fantomatico “kit di sopravvivenza dei Lynyrd Skynyrd”. Il disco
s’intitola STREET SURVIVORS, è il quinto del gruppo simbolo del
rock sudista americano. Esce il 17 ottobre 1977 e nessuno pensa
che quella copertina sia un tragico presagio.
Tre giorni dopo, i componenti della formazione si imbarcano su un
Convair 240 che deve portarli da Greenville, Carolina del Sud, a
Baton Rouge, Louisiana. Si tratta della quarta data del tour di
supporto al nuovo disco. Non ci arriveranno mai.
“A Baton Rouge ci saremmo disfati dell’aereo”, ha detto il
tastierista Bill Powell.
Un membro dell’entourage chiamato Kenneth Peden avrebbe
raccontato in seguito di avere visto delle fiamme uscire da uno dei
motori. Era strisciante la sensazione che l’aereo non fosse sicuro.
“Ci accingevamo a festeggiare a bordo quell’ultimo volo”, ha detto
Powell, “quando il motore destro inizia a crepitare. Vado in cabina di
pilotaggio e il pilota mi dice che stanno solo trasferendo del
carburante da un motore all’altro, che va tutto bene”.
Non va tutto bene.
Poco dopo il motore cessa di funzionare. Il pilota capisce la gravità
della situazione: “Oh mio Dio, allacciate le cinture”, esclama. Alle sei
e quarantadue del pomeriggio ha segnalato via radio all’aeroporto di
McComb che il velivolo è a corto di carburante.
Un minuto dopo, l’annuncio: “Carburante finito”. Deve portare a
terra ventiquattro passeggeri. Tenta un atterraggio di fortuna su un
appezzamento di terra in mezzo alle paludi.
Sono circa le sette di sera e la visibilità è limitata.
L’impatto è violento.
Nello schianto muoiono il cantante e leader del gruppo Ronnie
Van Zandt, il chitarrista appena ingaggiato Steve Gaines, la sorella e
vocalist della band Cassie Gaines, il road manager Dean Kilpatrick e
i due piloti, Walter McCreary e William Gray. Sull’aereo non era salita
un’altra corista, JoJo Billingsley, che è rimasta a casa per prendersi
cura di un famigliare ammalato. Avrebbe dovuto raggiungere i
Lynyrd il 23 ottobre a Little Rock. La sera prima, la donna aveva
sognato l’incidente aereo e supplicato il chitarrista Allen Collins di
non usare quell’aeroplano.
Gli altri membri della band sono feriti, alcuni in modo grave. Il
batterista Artimus Pyle, nonostante le costole rotte, striscia fuori
dell’aereo e si allontana insieme a Peden e a un altro assistente,
Mark Frank. A qualche centinaio di metri incontrano un contadino,
Johnny Mote, che si sta avvicinando al luogo del disastro dopo aver
assistito all’incidente.
“Dobbiamo tirare fuori quelle persone”, gli dicono.
Una delle leggende che circondano l’incidente afferma che il
giovane contadino, spaventato dall’apparizione delle tre persone
insanguinate, abbia sparato un colpo di fucile in aria come
avvertimento. Nel 2007, nel corso di una trasmissione televisiva,
Pyle ha affermato di essere stato colpito alla spalla. Mote ha sempre
smentito.
La scena che si trovano di fronte i primi soccorritori è drammatica.
Il terreno paludoso rende le operazioni più difficoltose: per arrivare
all’aereo bisogna superare un guado fangoso che arriva al petto.
Servono tre elicotteri per portare il personale medico sul luogo del
disastro, mentre un bulldozer ricava un passaggio tra il campo e
l’autostrada 568.
I soccorritori trovano Collins con due vertebre del collo spezzate;
sia lui sia il bassista Leon Wilkeson, in seguito all’impatto, hanno
rischiato di avere le braccia amputate. Wilkeson ha subìto diverse
emorragie interne, ha un polmone perforato e ha perso quasi tutti i
denti. L’altro chitarrista, Gary Rossington, ha subìto la rottura di
entrambe le braccia ed entrambe le gambe. La corista Leslie
Hawkins ha il collo rotto in tre punti e diverse lacerazioni facciali. Il
capo della security del gruppo, Gene Odom, ha vistose bruciature a
un braccio e sul viso e ha perso la vista da un occhio. Il pianista Billy
Powell rischia di subire l’amputazione del naso.
Durante uno speciale del canale televisivo Behind The Music,
quest’ultimo dirà che Cassie Gaines è morta dissanguata tra le sue
braccia con la gola tagliata da un orecchio all’altro e che la testa di
Ronnie Van Zant era completamente spappolata. Artimus Pyle e la
vedova Judy Van Zant Jenness hanno smentito e nel 1998 hanno
pubblicato sul sito ufficiale del gruppo i risultati delle autopsie per
chiarire i fatti. Pyle ha confermato che la morte di Van Zant è dovuta
all’impatto di alcuni televisori che nello schianto sono finiti contro la
sua testa.
Questo il racconto di Powell alla rivista «Rolling Stone»: “Ci fu un
rumore come se un centinaio di mazze da baseball avessero colpito
l’esterno del velivolo. Fui sbattuto su un tavolo, gli altri venivano
colpiti da oggetti di tutti i tipi che volavano qua e là. Ronnie fu ucciso
da un solo colpo alla testa. La parte superiore dell’aereo si aprì in
due; Artimus riuscì a strisciare all’esterno e urlò che eravamo in una
palude e che forse c’erano dei coccodrilli. Strisciai fuori e cercai di
capire se avevo ancora le mani. Cercai il mio naso e non lo trovai:
era piegato su di un lato del viso. C’era un gran silenzio”.
Erano finiti nei pressi di Gillsburg, Mississippi.
Il Convair 240 numero N55VM che porta i Lynyrd Skynyrd volava da
una trentina d’anni oramai: è stato costruito e venduto alla Western
Airlines nel 1948. Nell’estate del ’77 era stato ispezionato dal
management degli Aerosmith, ma era stato scartato perché né il
mezzo né l’equipaggio sembravano offrire adeguate garanzie di
sicurezza.
In un’intervista, il capo del management della band, Zunk Buker,
disse di aver visto due piloti scambiarsi una bottiglia di Jack Daniel’s
mentre ispezionava il velivolo. La stessa Cassie Gaines quel giorno
non voleva prendere l’aereo: “Vado col camion della
strumentazione”, aveva detto. Era stato Van Zant a farle cambiare
fatalmente idea.
L’indagine del National Transportation Safety Board punta il dito
contro i piloti, colpevoli di non aver controllato il livello di carburante
con la conseguente perdita di funzionalità dei due motori. A
contribuire a questa madornale disattenzione è stato il
malfunzionamento dei dispositivi di controllo del carburante nel
motore destro, che avrebbe causato un consumo anomalo. I piloti
avevano intenzione di far riparare il guasto una volta giunti a Baton
Rouge. È stato anche ipotizzato che i due, presi dal panico quando il
primo motore si è fermato, abbiano per errore svuotato il carburante
del secondo.
STREET SURVIVORS conquista rapidamente il disco di platino.
Le copie con la copertina originale, col suo fosco presagio di morte e
quell’immagine di Gaines avvolto dalle fiamme, vengono ritirate. La
nuova copertina ritrae la formazione su uno sfondo nero: quella
vecchia sarà ripristinata con la ristampa dell’album in occasione del
trentesimo anniversario. I Lynyrd si sarebbero sciolti poco dopo, pur
tornando in attività coi membri superstiti e con il fratello di Ronnie
come vocalist negli anni Novanta.
Saranno colpiti da nuovi lutti: Allen Collins, paralizzato dalla vita in
giù a seguito di un incidente stradale, muore di polmonite nel 1990;
Leon Wilkeson ha problemi a fegato e polmoni, e viene trovato morto
in una camera d’albergo nel 2001; il suo sostituto Ean Evans è
ucciso da un cancro nel 2009; Hughie Thomasson viene stroncato
da un infarto nel 2007, dopo avere lasciato il gruppo; Billy Powell se
ne va nel 2009. L’unico membro originale che fa ancora parte della
formazione è Gary Rossington.
Una maledizione aleggia sui Lynyrd Skynyrd? Si racconta che
prima di salire sull’aereo Ronnie Van Zandt abbia risposto
involontariamente, spiegando che “se è il tuo momento, è il tuo
momento”.
Nel distretto di Woodland Hills, a sud della San Fernando Valley,
sorge la villetta di Don Johnson, uno dei roadie più fidati della rock
band Chicago.
Questo pomeriggio, Don ha convocato a casa sua un po’ di amici,
perché vuole festeggiare i successi professionali suoi e del gruppo.
Tra gli invitati c’è anche Terry Kath, fenomenale chitarrista della
band, ma anche personaggio inquieto e problematico.
Terry ha da tempo problemi di dipendenza da alcol e droghe,
sembra sempre infelice e teso all’improbabile ricerca di un qualcosa
che neanche lui sa.
Peter Cetera, bassista del gruppo nonché uno dei membri
fondatori della band che ha preso il nome dall’azienda di trasporti
della città dell’Illinois (la Chigago Transit Authority), ne aveva
profetizzato la dipartita: “Sarà il primo a lasciare il gruppo”, aveva
detto qualche tempo addietro.
La stessa cosa la pensa Jeff Guercio, leggendario producer dei
Chicago, che ha appena registrato il primo disco da solista di Terry
Kath.
Quel giorno, Terry sembra però di buon umore.
Sono circa le cinque di pomeriggio quando Terry, un amante delle
armi, per darsi un po’ di arie prende una P38, se la punta alla tempia
e preme il grilletto diverse volte.
Il tamburo è vuoto e quindi non c’è nulla da temere.
Non soddisfatto della sbruffonata, impugna una 9 mm
semiautomatica e ripete lo stesso gesto, non prima di aver
pronunciato una frase che si rivela, purtroppo per lui, fatidica: “Non
preoccupatevi, anche questa è scarica”.
Effettivamente, il tamburo è vuoto.
Malauguratamente però, una pallottola è rimasta in canna.
Così, appena preme il grilletto… bum. Terry Kath muore sul colpo
una settimana prima del suo trentaduesimo compleanno.
Il suo atto insensato gli varrà il Darwin Award, premio dato a tutti
gli esseri umani che decidono di non riprodursi o si autoeliminano
nei modi più stupidi possibili.
La vedova di Terry Kath, Camelia Emily Ortiz, si sposa una decina
di anni dopo con l’attore Kiefer Sutherland.
All’Atkinson Morley Hospital di Londra muore per emorragia
cerebrale da trauma, Alexandra Elene Maclean Denny, cantante folk
inglese, meglio nota come Sandy Denny.

Neppure quattro mesi prima aveva compiuto trentun anni.


Sandy, qualche giorno addietro, è improvvisamente crollata a terra
a casa di amici. Circa un mese prima, era caduta dalle scale del
cottage dei suoi genitori, in Cornovaglia: la botta in testa rimediata in
quell’occasione si è rivelata, probabilmente, fatale.
Sposata al cantautore angloaustraliano Trevor Lucas, con cui ha
formato la band dei Fotheringay, Sandy è da poco diventata mamma
della piccola Georgia. Famosa come voce solista dell’ensemble folk
rock dei Fairport Convention (con cui incide l’album migliore del
gruppo, LIEGE AND LIEF, nel 1969), Sandy è stata una delle più
fascinose ugole della Terra d’Albione.
Se ne sono accorti persino i Led Zeppelin che, nel 1971, la
chiamano per il loro quarto disco: cercano una voce da affiancare a
Robert Plant nella suggestiva The Battle Of Evermore. Nel pezzo,
Plant svolge il ruolo del narratore, mentre alla Denny viene affidato
quello del banditore. Come ringraziamento, sulla copertina
dell’album che mostra al posto dei nomi dei quattro Zeppelin alcuni
simboli grafici, anche a Sandy ne viene attribuito uno: tre triangoli
uniti al vertice.
Nell’intera storia dei Led Zeppelin, Sandy Denny rimane l’unica
vocalist ospite ad aver mai duettato con Robert Plant.

Dopo aver sofferto i pesanti sintomi del morbo di Lou Gehrig (la
sclerosi laterale amiotrofica), muore Charles Mingus, uno dei grandi
maestri del jazz del Novecento.
Contrabbassista, compositore e band leader, Mingus aveva
affiancato alla sua arte folgorante un importante impegno sociale per
la tutela dei diritti del popolo afroamericano.
Aveva cinquantasei anni.
Qualche ora dopo la sua morte, cinquantasei balene si spiaggiano
sulle coste messicane.
La vedova Sue Graham Min gus, su specifica richiesta del marito,
qualche settimana dopo porta le sue ceneri in India, alla foce del
Gange, per spargerle nelle acque del sacro fiume. Al tramonto, sotto
una pioggia color turchese, i resti del geniale e mistico jazzista
vengono trasportati dalla corrente insieme a una manciata di fiori
bianchi.
Sei mesi prima della morte, Charlie Mingus aveva individuato in
Joni Mitchell una partner artistica ideale. Da sempre affascinato dalle
qualità poetiche della magnifica cantautrice canadese, Mingus vuole
che Joni scriva i testi per alcune sue musiche, che le arrangi e le
interpreti.
La Mitchell accetta l’invito, ma quando si reca in Messico a casa di
Mingus, il contrabbassista è già molto malato. Gli resta poco da
vivere e quando Joni torna per la seconda volta a fargli visita con
l’obiettivo di suonargli una parte del lavoro, lui la riconosce a stento.
Dopo la sua morte, Joni pubblica un tributo alla musica di Charlie
Mingus: inizialmente bocciato dalla critica, MINGUS diventa nel
tempo uno degli album più apprezzati e prestigiosi della lunga
discografia di Joni Mitchell.
Dei dieci brani presenti, sei sono interamente opera di Joni e
quattro hanno i suoi testi sulla musica del grande maestro.
Tra questi, una strepitosa versione di Good Bye Pork Pie Hat.

La Essex House è uno degli hotel più sciccosi ed esclusivi di


Manhattan. Ne sanno qualcosa gli spettatori del Saturday Night Live,
il popolare show televisivo, che più volte hanno sentito Don Pardo
annunciare che “tutte le star di questo spettacolo dormono alla
Essex House”. Qui, dall’autunno del 1969 sino al 1971, è vissuto e
morto il famoso compositore russo Igor’ Stravinsky.
Stasera, tra gli altri, ospita il fenomenale soulman Donny Ha tha
way, artista della Atlantic Records che nel 1973 ha sbancato le
classifiche di vendita e fatto razzia di Grammy grazie a un duetto con
Roberta Flack. Un successo ripetuto nel 1978 con The Closer I Get
To You: numero due in classifica e nuova nomination ai Grammy.
Donny è uscito a cena con il suo manager, David Franklin, ospiti
proprio di Roberta Flack, che ha cucinato per loro nel suo
appartamento.
I tre sono stati bene: hanno parlato della serata dei Grammy e di
possibili nuove collaborazioni tra Hathaway e Flack. Poi, il ritorno
alla Essex House.
Qualche ora dopo, il portiere dell’hotel sente un forte rumore
sordo. Esce in strada, e sul marciapiede trova il corpo senza vita di
Donny Edward Hathaway, nato a Chicago, trentatré anni fa.
Apparentemente, Donny si è gettato dalla finestra della sua
camera al quindicesimo piano dell’albergo. Il vetro di sicurezza è
stato rimosso con accuratezza e posato sul letto: non ci sono segni
di effrazione né di violenza. La camera è chiusa a chiave dall’interno.

Il coroner stabilisce che si tratta di suicidio. Ma questo non


convince gli amici di Donny.
“Stava vivendo un periodo felice”, affermano in coro, “perché
avrebbe dovuto togliersi la vita?”.
Già, perché?
Perché Donny adorava la vista dai piani alti. Diceva che gli dava
adrenalina, che gli alzava il tasso d’ossigeno nel sangue. Lo faceva
spesso, nel suo appartamento al diciassettesimo piano delle LaSalle
Towers di Chicago: apriva la finestra e si sporgeva per cantare a
squarciagola o semplicemente “per respirare”, come diceva lui.
Non solo.
Donny era attratto dal concetto di suicidio: lo menzionava spesso
e una volta si era fatto fotografare con un libro sul suicidio
appoggiato al suo pianoforte.
Eppure, Roberta Flack e David Franklin hanno giurato che quella
sera Donny era normalissimo: aveva mangiato, scherzato e parlato
di progetti futuri.
Il reverendo Jesse Jackson, che a Saint Louis celebra il funerale –
cui partecipano tra gli altri Roberta Flack (distrutta dal dolore) e
Stevie Wonder – dichiara qualche tempo dopo al mensile «Ebony»
che “quello di Donny Hathaway non è né suicidio né omicidio: si
tratta soltanto di uno sfortunato incidente”.
Può darsi.
Sta di fatto che la maledizione della Essex House continua: il 19
settembre 2009, la businesswoman di Dubai Andree Bejjani viene
trovata morta nella sua camera.
Un coltello le ha reciso la giugulare. Derrick Praileu, manager della
Essex House, viene arrestato con l’accusa di omicidio.
Il corpo di Donny Hathaway riposa nel cimitero di Lake Charles a
Saint Louis.
La sua eredità artistica è stata raccolta dalla figlia Lalah, che nel
2000 ha pubblicato il suo album di debutto.

Il corpo senza vita di John Simon Ritchie, alias Sid Vicious, viene
trovato nell’abitazione della sua nuova fidanzata, Michelle Robinson.
Causa della morte: overdose.
La sera prima, Vicious e sua madre Anne McDonald erano stati
invitati insieme ad alcuni amici nell’appartamento del Greenwich
Village per festeggiare la sua scarcerazione dalla prigione di Rikers
Island, New York.
Non è un periodo felice per l’ex bassista dei Sex Pistols: il gruppo
punk che gli ha fatto conoscere il successo si è sciolto l’anno prima e
la sua amata fidanzata Nancy Spungen è stata trovata morta
qualche mese prima, il 12 ottobre 1978. Il principale sospettato è
proprio Sid che, in attesa del processo, continua a cacciarsi nei guai.

La tormentata storia d’amore con Nancy era nata durante


l’Anarchy Tour, nel novembre del 1976.
Lei arriva in Inghilterra al seguito di Jerry Nolan, il batterista degli
Heartbreakers, che ricorda: “In America mi seguiva ovunque. Io
praticamente la usavo, perché aveva i soldi per la droga. Aveva
scritto una fantastica recensione sugli Heartbreakers per il «New
York Rocker». Quella ragazza era in gamba, aveva un quoziente
d’intelligenza più alto della media. Quando iniziò a uscire con i
Pistols, Sid si innamorò perdutamente di lei”.
Fin dal loro primo incontro, infatti, l’uno si riconosce nell’animo
tormentato dell’altra: lui è cresciuto nei sobborghi inglesi con la
madre eroinomane; lei, dopo un’infanzia trascorsa tra sedativi e
cliniche psichiatriche, diventa tossicodipendente a soli quindici anni.
A diciassette viene allontanata da casa e, per procurasi l’eroina, si
prostituisce e inizia a frequentare la scena punk newyorkese,
guadagnandosi il soprannome di “Nauseating Nancy”.
Pamela Rooke, un’amica di Vicious, dice di lei: “Era una delle
persone più sgradevoli che abbia incontrato. Se ne accorgevano
tutti, tranne Sid”. Stan do ai racconti di Rooke, Nancy sarebbe
arrivata in Inghilterra “con l’e spres so desiderio di portarsi a letto
uno dei Pistols e Sid era una facile preda”.
In molti sono preoccupati per il rapporto simbiotico che si instaura
tra i due giovani e che li vede sprofondare in un mondo tutto loro,
completamente alienato dalla realtà.
Secondo il tour manager dei Sex Pistols, Nils Stevenson, Vicious
inizia “a disprezzare tutto, tranne l’eroina e Nancy”.
Non ci vuole molto tempo perché la “Nauseante Nancy” attiri su di
sé l’antipatia di tutti i membri della band. Il cantante Johnny Rotten
prova più volte ad allontanarla e a convincere l’amico a lasciarla, ma
senza successo. Dopo la sua morte dichiarerà alla stampa: “Nancy
aveva una cattiva influenza su Sid. Lui faceva già uso di speed
prima di incontrarla, ma sicuramente non era eroinomane”.
Quando i Pistols si sciolgono durante il tour americano, nel
gennaio del 1978, Sid torna immediatamente a Londra dalla sua
Nancy. La coppia successivamente si trasferisce al Chelsea Hotel di
New York, sulla Ventitreesima, nota residenza di musicisti e
personaggi eccentrici. Lo scrittore Anthony Bruno sostiene che
scelsero proprio quell’hotel “per accrescere il loro status di icone
punk”.
A New York, Vicious cerca di intraprendere una carriera solista,
con gli Idols come band di supporto, Nancy come manager e
Malcolm McLaren, produttore dei Pistols, a finanziare i lavori. Presto,
però, il progetto si rivela un fiasco: Sid sul palco è talmente fatto da
non reggersi in piedi.
I due amanti si stanno chiudendo in una spirale autodistruttiva
nella loro camera d’albergo, tra droghe di vario tipo e liti violente: le
uniche persone che incontrano sono gli spacciatori che passano di lì
per le consegne e pochi amici.
Un giorno, sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, incendiano
accidentalmente il materasso e vengono spostati nella stanza
numero 100.
A questo punto, l’amico Jerry Nolan interviene e li convince a
ripulirsi: riesce a farli inserire in un programma presso la Spring
Street Methadone Clinic, ma ogni volta che mettono piede lì dentro,
Sid viene picchiato dagli altri tossici. Pare che, in compenso, Sid si
sfoghi su Nancy: una volta la colpisce al volto con la chitarra,
lasciandole una profonda cicatrice. Tuttavia queste particolari
dimostrazioni d’affetto sono ben note già dai tempi di Londra.
Per la sicurezza del suo fidanzato, mercoledì 11 ottobre Nancy si
reca in un negozio di coltelli in Times Square e compra a Sid un
coltello pieghevole con una lama lunga 13 centimetri e un giaguaro
inciso sull’impugnatura.
Neon Leon Webster è un amico della coppia e vive anch’egli al
Chelsea con la fidanzata Cathi O’Rourke, nella stanza 119. Quella
sera Sid va a mostrargli la sua nuova arma da difesa, ma appare
depresso e scoraggiato: “Non ho più alcuna sicurezza”, dice
all’amico. “Ho perso la mia immagine. Non so suonare il basso”.
Mentre sono nella stanza di Neon Leon, Sid e Nancy si
comportano in modo strano, come se fossero in pericolo.
Verso le due e mezzo del mattino del 12 ottobre, Nancy chiama il
loro spacciatore di fiducia, Rockets Redglare, chiedendogli di
portarle del Dilaudid, morfina sintetica.
Attorno alle tre, la donna che vive nella stanza 103 sente una
persona bussare ripetutamente alla porta accanto, urlando: “Fatemi
entrare. Non sto scherzando!”. Temendo per la propria incolumità,
resta chiusa nella propria camera e torna a dormire.
Redglare arriva al Chelsea poco dopo le tre, senza droga: “Sid e
Nancy avevano già preso del Tuinal [un potente sedativo], ma
volevano assolutamente farsi di Dilaudid. Lei mi disse che se fossi
riuscito a portarle quaranta dosi, me le avrebbe pagate il doppio. La
sua borsa traboccava di banconote da 50 e 100 dollari. Mi disse che
aveva 1.400 dollari da spendere per le droghe quella notte”.
Verso le quattro, Leon Neon riceve una telefonata da Nancy che
gli chiede della marijuana. Poco dopo, qualcuno bussa alla sua
porta, ma lui non va ad aprire.
Mezz’ora più tardi, Leon afferma di sentire il rumore di un oggetto
che cade sul pavimento, “qualcosa che fa un suono metallico. Forse
un coltello”.
Sono circa le cinque. Redglare esce dalla stanza 100, e
all’ingresso dell’hotel incrocia Steve Cincotti, la persona che
solitamente consegna il Quaalude (uno psicofarmaco) e il Tuinal alla
coppia. Secondo lo scrittore Malcolm Butt, quest’ultimo è uno
spacciatore locale con “una storia di disturbi mentali”.
L’inquilino della stanza 228 chiama la reception lamentandosi del
rumore proveniente dal piano di sotto. Kenny, il fattorino mandato a
controllare, trova Vicious in corridoio. I due hanno una lite.
Vera Mendelssohn, stanza 102, viene svegliata verso le sette e
mezzo del mattino dai lamenti di una donna: “Sembrava non ci fosse
nessuno con lei, perché non chiamava il nome di qualcuno. Era il
lamento di una persona sola”.
Alle nove e mezzo la reception riceve una telefonata anonima che
avvisa: “Ci sono problemi nella stanza 100”. Poco dopo, anche Sid
Vicious chiama il frontdesk dalla sua camera, dicendo: “Qualcuno
sta male. Serve aiuto”.
Il facchino dell’albergo, al suo arrivo nella stanza, trova il corpo
della Spungen senza vita nel bagno, sotto il lavabo, con una sola
ferita all’addome: c’è sangue ovunque.
La polizia trova il coltello che proprio lei ha acquistato nemmeno
ventiquattr’ore prima, sporco di sangue.
Vicious sta vagando in stato confusionale lungo i corridoi. La
Mendelssohn lo incontra in lacrime, continua a ripetere: “Baby,
baby”. Quando riconosce la vicina di stanza, le dice: “L’ho uccisa.
Non posso vivere senza di lei”, e poi biascica qualcosa a proposito
del fatto che si è trattato di un incidente.
Vicious viene arrestato e accusato di omicidio di secondo grado.
Ai poliziotti rilascia dichiarazioni contrastanti: dice che al suo
risveglio, il letto era impregnato di sangue e Nancy era seduta sotto
al lavabo, ancora viva. Lui allora si è recato alla Clinica di Lafayette
Street a prenderle del metadone. Quando gli chiedono come mai si
sia allontanato, lui risponde: “Sono un bastardo”. Non ricorda altro di
quella notte, ma nega più volte di averla accoltellata.
La notizia ha l’effetto di una bomba. Per tutti i giornali, il giorno
dopo, Sid è senza ombra di dubbio il colpevole e qualcuno prevede
già che la morte di Nancy favorirà un boom delle vendite.
Chi conosce Sid non crede tuttavia che possa essere lui
l’assassino. Leon Neon dice: “Nancy era l’unica persona che lo
faceva andare avanti. Diceva che era l’unica vera donna di tutto il
pianeta”. Della stessa opinione è Johnny Rotten: “Sid non sarebbe
capace di ucciderla”, dichiara alla rivista «Melody Maker», “non è
possibile”. Poi aggiunge: “Malcom McLaren sta traendo un sacco di
soldi dalla tragedia di Sid”.

Il 14 ottobre, Vicious viene portato nell’ospedale della prigione di


Rikers Island per iniziare la disintossicazione. Sua madre arriva a
New York da Londra per stargli vicino e prende una stanza all’Hotel
Seville, su Madison Avenue: per pagarsi il volo ha venduto la sua
storia al «New York Post».
Il 16 ottobre, McLaren paga una cauzione di 50mila dollari per far
uscire Vicious dal carcere. Pochi giorni dopo, il 22, Sid decide di
assumere tutte le scorte di metadone del weekend e con un coltello
si taglia le vene di un braccio nel senso della lunghezza.
Fallito il primo tentativo di suicidio, nemmeno una settimana dopo
ci riprova: si taglia di nuovo le vene, urlando: “Voglio la mia Nancy,
non ho rispettato la mia parte dell’accordo!”.
Questa volta, però, viene ricoverato per due settimane nel reparto
psichiatrico del Bellevue Hospital Center, dove pare provi a gettarsi
dalla finestra prima dell’arrivo dei paramedici.
Il 9 dicembre si mette di nuovo nei guai: recatosi con Michelle
Robinson in un locale notturno newyorkese, l’Hurrah, ha un diverbio
con Todd Smith, fratello della più famosa Patti, e alla fine lo colpisce
al volto con una bottiglia di vetro. Risultato: colleziona un’altra
denuncia e viene rispedito in galera.
Dopo alcune settimane di detenzione Sid è quasi completamente
ripulito e disintossicato, ma non appena torna in libertà e ritrova i
suoi “amici” ricade immediatamente nel baratro: quella stessa sera, il
1° febbraio, sua madre gli offre dell’eroina che ha acquistato apposta
per lui. Quella dose, però, non gli basta: ne vuole ancora e la madre
lo accontenta. Venti minti dopo Vicious collassa sul letto: gli amici si
offrono di portarlo in ospedale, ma lui rifiuta e torna a dormire. Nel
corso della notte si sveglia e prende dell’altra droga dalla borsa di
sua madre.
La mattina dopo la donna gli porta una tazza di tè: “Stava
dormendo così pacificamente”, ricorda. “Ho iniziato a scuoterlo,
finché mi sono accorta che era molto freddo e molto morto”.
Jerry Nolan ricorda: “Quella sera ci disse che sarebbe andato con
sua madre da Michelle e che sarebbero tornati dopo cena. Era un
vero peccato che avesse ricominciato con la droga, perché stava
andando bene la disintossicazione. Quando ti ripulisci ti dimentichi di
quanta ne puoi prendere, e la roba che aveva preso quella sera lo
ha distrutto”.
I medici legali scopriranno che quell’eroina era pura all’80 per
cento, mentre la percentuale normale è del 5 per cento.

Il corpo di Vicious viene cremato. La sua ultima volontà è di essere


seppellito accanto alla sua amata, ma i genitori di lei rifiutano: pare
che la madre di Sid, a loro insaputa, una notte si sia intrufolata nel
cimitero di King David Memorial Park di Bensalem, in Pennsylvania,
e abbia sparso le ceneri del figlio sopra la tomba di Nancy.
Secondo la rivista «Guardian», l’urna sarebbe stata rispedita a
Londra e accidentalmente rovesciata al reparto arrivi dell’aeroporto
di Heathrow. Altri sostengono invece che la madre stessa abbia
gettato le ceneri nel sistema di aerazione.
Dopo la morte di Sid Vicious, la polizia di New York chiude la
pratica e le indagini sull’omicidio di Nancy Spungen: il processo non
avrà mai luogo, e nessun altra pista verrà mai presa in
considerazione.
Che cosa è successo davvero quella notte nella stanza numero
100 del Chelsea Hotel di New York?
Le teorie in merito, ovviamente, si sono sprecate.
La versione ufficiale vuole che Sid, sotto l’effetto della droga,
abbia ucciso Nancy inconsapevolmente e non ne abbia memoria. I
conoscenti della coppia sono invece convinti che sia stato un ladro o
uno spacciatore: la polizia, infatti, non ha trovato alcuna traccia dei
soldi che Redglare dice di aver visto.
Alcuni pensano che sia stato un regolamento di conti: Malcolm
Butt afferma che, il giorno prima di morire, Nancy abbia avuto una
lite con una gang di spacciatori portoricani.
Per Steve Dior, chitarrista degli Idols, non ci sono dubbi: “Sid non
ha ucciso Nancy, lo so per certo. Io so chi è stato. Era uno
spacciatore del New Jersey che ha rubato nel loro appartamento al
Chelsea. Perché Sid avrebbe dovuto derubare se stesso? Le
impronte digitali di quel tizio sono state trovate sul coltello, ma la
polizia di New York non ha voluto indagare. Incolpare Sid significava
chiudere il caso, non gli importava che andasse in prigione. Voglio
che la gente lo sappia”.
C’è poi un’altra teoria, basata soprattutto sulle dichiarazioni di
Vicious, secondo cui, nella fatidica notte del 12 ottobre 1978, i due
amanti avrebbero stretto un patto suicida che però Sid non sarebbe
riuscito a rispettare.
Qualche settimana prima di morire, durante una visita ai suoi
genitori, Nancy aveva espresso la volontà di non vivere a lungo:
“Non arriverò mai a ventun anni. Me ne andrò in un lampo di gloria”.
Per la madre di Sid l’overdose del figlio sarebbe stata intenzionale.
Lo proverebbe il ritrovamento di una lettera scritta da Sid, intitolata
Nancy:

You were my little baby girl


And I knew all your fears
Such joy to hold you in my arms
And kiss away your tears
But now you’re gone
There’s only pain
And nothing I can do
And I don’t want to live this life
If I can’t live for you

Una cosa è certa: la notte tra l’1 e il 2 febbraio 1979, Sid e Nancy
si sono finalmente riuniti nel loro piccolo mondo privato, spazzando
via per sempre la realtà con una dose letale di mistero.
La rockstar californiana Lowell George viene trovata morta in una
stanza d’albergo. Il suo cuore non ha retto gli abusi di alcol e droga e
allo stile dissennato di una vita vissuta sempre sulla corsia di
sorpasso.
Trentaquattro anni prima, il 13 aprile 1945, nella sua casa di
Hollywood, il “pellicciaio delle star” Willard H. George, famoso per il
suo allevamento di cincillà, apprende la lieta novella: è diventato
padre per la seconda volta. Chiama il figlio Lowell Thomas e ha una
premonizione: è sicuro che diventerà una stella.
Lowell George dimostra subito di avere talento. Ma non come
attore. La musica è la sua strada: sin da piccolo, infatti, suona
benissimo l’armonica, e addirittura, quando non ha ancora sei anni,
si esibisce insieme al fratello Hampton in un duetto televisivo per le
telecamere di Ted Mack.
Quando poi imbraccia la chitarra stupisce tutti. Insieme a Ry
Cooder, Lowell è uno dei primi bianchi a suonare la slide nella
California degli anni Sessanta.
Notato da Frank Zappa, George milita per qualche tempo nelle
Mothers Of Invention (la band di Zappa) prima di formare il suo
primo, vero gruppo: The Little Feat. Per tutti gli anni Settanta, i Little
Feat e Lowell George diventano una delle migliori espressioni del
sound West Coast. Il loro cocktail sonoro è affascinante e riesce a
mixare in modo magistrale le atmosfere dolci e sognanti della
California del Sud con il calore del blues e il ritmo sincopato della
musica di New Orleans, come dimostrato nel loro album migliore,
DIXIE CHICKEN, pubblicato nel 1973.
Il 2 agosto 1979, il corpo di Lowell George viene cremato a
Washington, ma le sue ceneri tornano nella natia California, dove
vengono sparse nell’Oceano Pacifico dal suo amato battello da
pesca.
Solo due giorni dopo, al Forum di Los Angeles, si tiene un
concerto tributo per Lowell George. Sul palco, tutti i suoi amici
famosi, la crème della West Coast: Little Feat, Jackson Browne,
Linda
ANNI OTTANTA
È notte fonda.
Un uomo siede in una Renault 5 parcheggiata davanti al civico 67
di Overhill Road.
È solo, nessuno lo disturba.
Non c’è un gran viavai nel quartiere residenziale di East Dul wich,
a una ventina di minuti dal centro città, certamente non a quell’ora.
Perciò l’uomo se ne sta lì come alla deriva, in stato d’incoscienza.
Sembra semplicemente addormentato, adagiato com’è sul sedile del
passeggero.
Puzza d’alcol, tanto alcol. In corpo ha una quantità di whisky
sufficiente a corrompere una squadra di rugby.
Resta lì per ore. Si fa giorno ed è ancora lì. Nessuno lo nota.
Passa il pomeriggio e lui è ancora lì, dentro la Renault 5, immobile.
Si fa sera e nessuno reclama la sua presenza.
Qualcuno, però, s’è preso cura di quell’uomo prima di
abbandonarlo. Qualcuno ha reclinato il sedile per farlo stare più
comodo. Qualcuno ha cercato di difenderlo dal freddo con una
coperta. Qualcuno ha lasciato in auto un biglietto con un indirizzo e
un numero di telefono da chiamare in caso di emergenza.
Ma chi è quell’uomo? E com’è finito in quell’auto?
Nel febbraio del 1980 gli AC/DC sono uno dei gruppi rock di
maggiore successo al mondo. Partiti dall’Australia, vale a dire dalla
periferia dell’impero, hanno conquistato il Regno Unito con il loro
hard rock sanguigno e grezzo, brutale e proletario, che piace persino
ai punk infatuati dei Sex Pistols. Solo l’anno prima, grazie a un
album esplosivo titolato HIGHWAY TO HELL, hanno sfondato anche
negli Stati Uniti. La forza del gruppo sta nei riff tagliati con l’accetta
del chitarrista Angus Young, nei concerti divertenti e spettacolari, ma
anche nelle doti del cantante Bon Scott, uno scozzese trapiantato in
Australia dotato di una gran voce e di una gran sete, uno dalla
gioventù tanto scapestrata da essere rifiutato dall’esercito in quanto
“soggetto socialmente disadattato”. Uno che ha soggiornato anche
nella prigione di Freemantle, in Australia, dopo un arresto per
aggressione. Lo descrivono come una specie di hooligan sempre
pronto a mettersi nei guai. Può salire sul palco ubriaco fradicio,
prendere Young sulle spalle e continuare a cantare come se niente
fosse. Va in giro dicendo che “alcol, donnacce, sudore in scena e
pessimo cibo nel backstage non indeboliscono: è tutta salute”.
Non è tutta salute, perché l’uomo abbandonato sul sedile di
quell’auto, a East Dulwich, è proprio lui: Bon Scott.
Ha trentatré anni e pochissime ore da vivere.
Con la notizia della sua morte si diffondono le prime voci.
Si dice che sia rimasto soffocato dal suo stesso vomito, come Jimi
Hendrix dieci anni prima. Si dice che sia vittima di una maledizione,
divorato dall’“autostrada verso l’inferno” di cui egli stesso cantava. Si
dice che le circostanze che ne hanno causato la morte non siano
chiare, che dev’esserci sotto qualcosa, che non si può morire così, a
trentatré anni, in un’auto parcheggiata in un bel vialetto residenziale
di Londra. C’è chi afferma di avere saputo della morte del cantante
prima ancora che un medico ne dichiarasse il decesso: sicuramente,
ragionano, dev’esserci sotto qualcosa.
Si dice sia stato vittima di un’overdose di eroina, oppure che gli
sono stati fatali i fumi dello scappamento indirizzati con un tubo
dentro l’abitacolo.
Si diffonde persino la leggenda metropolitana secondo cui non
sarebbe morto in quella Renault 5, ma sul palco, folgorato da una
scarica elettrica proveniente dal microfono.
Una cosa la si sa: l’uomo che l’ha abbandonato al suo destino,
reclinando il sedile e proteggendo l’amico con una coperta, si
chiama Alistair Kinnear. Sono suoi l’indirizzo e il numero di telefono
scritti su quel bigliettino. È stato lui a portarlo all’ospedale, in un
ultimo vano tentativo di salvarlo. Ha parlato coi medici e con la
polizia, non è un fantasma, eppure per anni si è speculato sulla sua
vera identità. Persino il biografo degli AC/DC, Clinton Walker, s’è
detto dubbioso circa la sua esistenza: sembra sparito nel nulla,
pensa il giornalista, forse Alistair Kinnear non esiste, forse è un
nome di comodo per coprire un amico di Scott o un membro
dell’entourage della band che non vuole rogne.
Nel febbraio del 2005, a venticinque anni esatti dalla morte del
rocker, l’inglese «Guardian» torna sulla storia sposando la tesi di
Walker. Pochi giorni dopo, il giornale deve pubblicare una rettifica:
Kinnear esiste, eccome, era un amico del cantante da un paio
d’anni, da quando cioè aveva diviso un appartamento con un’ex
fidanzata di Scott. Il mensile «Metal Hammer» lo rintraccia sulla
Costa del Sol spagnola. Gli chiede di raccontare di quella sera.
Quella che segue è la sua ricostruzione dei fatti.

La sera del 18 febbraio 1980, Alistair Kinnear si prepara per andare


al Music Machine, locale di Camden Town in cui è stato invitato: ci
suona il gruppo della sorella di un’amica. Alistair telefona a un’altra
cara amica, Silver Smith, e le chiede se vuole accompagnarlo. Lei
declina l’invito, poi si ricorda che il suo ex, Bon Scott, l’ha chiamata
dicendo che ha voglia di uscire: perché non chiederlo a lui? Alistair
chiama il cantante degli AC/DC e i due si accordano per passare
assieme la serata.
Il primo passa a prendere Scott con la sua Renault 5 presso
l’appartamento di Ashley Court, dove il rocker vive da alcune
settimane con la fidanzata. Una volta giunti al Music Machine – un
locale piuttosto noto che in seguito cambierà nome in Camden
Palace e quindi in Koko – i due cominciano a bere. Bevono al bar al
piano di sopra. E bevono nel backstage, dove l’alcol scorre
liberamente e gratuitamente.
Il cantante degli AC/DC è decisamente sbronzo, e anche Alistair è
in uno stato alterato. Se la sente però di guidare e una volta finita la
festa si offre di riaccompagnare Bon a casa. I due salgono in auto.
Durante il tragitto, Kinnear si accorge che Scott si è addormentato.
Cose che succedono, pensa. Arrivato ad Ashley Court, cerca
inutilmente di svegliarlo. Scende dalla Renault e suona al
campanello dell’appartamento che Scott divide con la fidanzata Ana
Baba.
Non risponde nessuno. Riprova. Di nuovo silenzio. Forse la
ragazza sta dormendo?
Kinnear torna in auto, prende le chiavi dalla tasca di Bon e ritorna
all’appartamento. Entra in casa e controlla: non c’è nessuno. Decide
allora di chiedere consiglio alla Smith. Le telefona. La ragazza lo
rassicura: Scott ha già perso coscienza in passato quando ha
esagerato con l’alcol, non è niente di grave, è bene lasciarlo dormire,
l’indomani gli sarà passata. Kinnear si sente sollevato e decide di far
dormire l’amico a casa sua, giù a East Dulwich. Torna all’auto, mette
in moto e si dirige verso Overhill Road.
Arrivato a destinazione, tenta nuovamente di svegliare Scott per
portarlo a casa. Niente.
Tenta allora di trasportarlo di peso, ma non ce la fa. Pensa quindi
che la cosa migliore, e forse l’unica da fare, sia lasciarlo lì in auto a
dormire e a smaltire la sbornia.
Vuole che sia comodo però: reclina il sedile. Per non fargli
prendere troppo freddo lo copre con una coperta. Per sicurezza,
scrive il proprio indirizzo e il proprio numero di telefono su un
bigliettino che lascia dentro l’auto. Osserva la scena con la mente
alterata dall’alcol: gli sembra d’aver fatto tutto per bene, gli pare
d’avere predisposto ogni cosa affinché l’amico passi la notte in
maniera decente.
Sono le quattro, forse le cinque del mattino quando Alistair
Kinnear sale le scale di casa per andare a dormire. E sono le undici
quando viene svegliato dalla visita di un amico, un tale Leslie Loads.
Kinnear ha la nausea e la testa che gli scoppia: chiede a Loads di
andare giù in strada e controllare se Scott sta bene. Lui scende,
risale e afferma che il cantante non c’è più. Molto bene, pensa
Alistair, Bon evidentemente si è svegliato ed è tornato a casa in taxi.
Di alzarsi, però, Kinnear non ci pensa proprio: si rimette a dormire.
Si risveglia nel tardo pomeriggio. Alle sette e mezzo di sera va a
prendere l’auto per recarsi a far visita a un’amica che si trova in
ospedale. Scopre che Bon Scott è ancora lì, dentro la Renault. Con
orrore, vede che non sta respirando. Si dirige verso il King’s College
Hospital. Lì i medici non possono fare altro che constatare il decesso
di Ronald Belford Scott, maschio, trentatré anni.
Il medico legale stabilirà che Bon Scott è morto per
avvelenamento d’alcol. In altre parole, ha bevuto troppo. Si è trattato
quindi di morte accidentale.
Kinnear non ricorda d’avere visto del vomito in auto, né l’autopsia
ne fa cenno. Quel che Kinnear non sa, e che Silver Smith avrebbe
potuto dirgli, è che Scott soffriva d’asma: a quanto pare il freddo di
febbraio e la posizione assunta nel sonno potrebbero avere
contribuito al decesso.
Il corpo del cantante viene cremato e le sue ceneri portate a
Freemantle, in Australia, dov’era cresciuto e dove i suoi genitori si
erano trasferiti dalla Scozia. La sua tomba verrà inclusa nei siti di
interesse nazionale dal National Trust of Australia.
OZZY Osbourne dei Black Sabbath gli dedica Suicide Solution: “Il
vino va bene”, recita il testo, “ma il whisky è più veloce. Il suicidio coi
liquori è lento. Pendi una bottiglia, affondaci i dispiaceri, sommergi il
domani”.
Il numero 67 di Overhill Road diventa meta sporadica dei fan, che
ogni tanto lasciano un segno del loro passaggio. Gli AC/DC vanno
avanti e sostituiscono Scott con Brian Johnson. La prima mossa è
l’incisione di una sorta di album tributo all’amico Bon, intitolato BACK
IN BLACK: sarà il best seller degli australiani, 49 milioni di copie
vendute.
Oggi gli AC/DC sono ancora attivi, non hanno cambiato
minimamente stile e sono considerati uno dei pilastri dell’hard rock.
In quanto a Kinnear, non si è mai perdonato la leggerezza
commessa quella notte: “Avrei dovuto portarlo immediatamente
all’ospedale”, ha detto, “ma in quei giorni di eccessi, perdere i sensi
era una cosa piuttosto comune e non destava alcun allarme. Che
almeno la morte di Scott sia di lezione: dobbiamo prenderci cura dei
nostri amici ed essere molto cauti quando non conosciamo
esattamente le loro condizioni”.
Pochi mesi prima di morire, Bon Scott era entrato definitivamente
nella storia del rock cantando con gli AC/DC la formidabile Highway
To Hell, il racconto vivido di un’esistenza sregolata e piena di
eccessi, senza limiti, né leggi: “Ehi Satana, pago i miei debiti
suonando in un gruppo rock”, cantava, “sono sull’autostrada per
l’inferno”.
Chi lo conosce non si stupisce che sia morto giovane.
Si stupisce che sia vissuto tanto a lungo.

Nathaniel “Buster” Wilson, voce basso dei Fabulous Coasters,


riedizione di uno dei più leggendari gruppi di doo wop della storia, ha
scoperto i loschi affari del nuovo manager della band, il potente
impresario Patrick Cavanaugh. Dietro alla sua attività artistica ci
sono giri di droga e prostituzione più un modus operandi di stampo
mafioso.

Cavanaugh intuisce che Buster sa troppo.


E decide di agire.
Qualche settimana dopo, in una discarica nella zona della Hoover
Dam (48 chilometri a sud-est di Las Vegas) vengono rinvenuti i resti
del corpo di Nathaniel Wilson: dopo avergli sparato, gli hanno
tagliato mani e piedi. Altri “pezzi” del povero Buster si trovano in un
dirupo nei pressi di Modesto, California.
Di lì a qualche giorno, su testimonianza della moglie (una ex
spogliarellista di Las Vegas), Patrick Cavanaugh viene arrestato e
quindi condannato per omicidio di primo grado.
Divertenti e spumeggianti (qualcuno li ha definiti i “clown del
R’n’B”), i Coasters sono stati perseguitati dalla sfortuna.
Specie nello Stato del Nevada.
Cornell Gunter, frontman del gruppo, il 26 febbraio del 1990 viene
ammazzato a Las Vegas con un colpo di pistola, mentre sta salendo
in macchina all’incrocio tra Berg Street e Bourbon Way. Bill Guy
(voce baritono) muore il 5 novembre del 2002 per infarto.
Anche Patrick Cavanaugh, che non ha mai ottenuto la libertà sulla
parola, muore nell’aprile del 2006 nella sua cella all’interno dell’Ely
State Prison.

Non è passato neppure un mese dalla tragica morte in macchina del


più giovane dei Caldwell, Tim.
Mentre sta facendo ritorno a casa, Tommy Caldwell (il secondo dei
tre fratelli, bassista e fondatore della band di southern rock The
Marshall Tucker Band) piomba con la sua nuovissima Toyota
Landcruiser su una jeep posteggiata regolarmente ai bordi della
strada. La Toyota travolge l’auto parcheggiata e si impenna prima di
precipitare a terra sul tetto.
Tommy ha numerose e gravi ferite alla testa.
Dopo cinque giorni in sala di rianimazione, non ce la fa.
A soli trent’anni, Tommy Caldwell vola nel paradiso del rock. Lo
raggiungerà, tredici anni più tardi, anche Toy, il primogenito della
famiglia Caldwell, soffocato per cause ignote il 25 febbraio del 1993.
Entrambi i genitori sopravvivono alla morte di tutti e tre i loro figli.

È notte fonda e al 77 di Barton Street, Ian Curtis, frontman dei Joy


Division, è ancora sveglio.
Ha trascorso la notte fumando nervosamente una sigaretta dopo
l’altra e ha consumato un intero barattolo di caffè.
In quella casa, fino a non molto tempo fa, ci viveva anche lui. Oggi
ci sta la moglie Deborah Woodruff, dalla quale ha avuto una figlia,
Natalie, che adesso ha un anno.
Il loro matrimonio è ormai agli sgoccioli e, quando non è a Londra
per le incisioni del disco, Curtis sta dai suoi genitori. Deborah non
c’è: lavora di notte come barista e lascia la piccola Natalie dalla
madre.
Ian l’ha chiamata qualche giorno fa per dirle che sarebbe passato
a salutarla, prima di partire per il tour americano dei Joy Division:
sabato sera, prima che lei uscisse per andare al lavoro, hanno
parlato a lungo e Debbie ha promesso di tornare non appena finito.
Per ingannare l’attesa, Curtis guarda La ballata di Stroszek, un
film di Werner Herzog che narra la parabola di un musicista di strada
che, appena uscito di prigione, scappa dalla Germania con l’amante
(un’ex prostituta) e il vecchio vicino di casa, con l’intento di recarsi in
America. La situazione però precipita: perde gli amici, il lavoro e la
casa e, alla fine del film, al protagonista non resta altro da fare che
suicidarsi.

Quando lei torna a casa, poco prima dell’alba, il film è appena


finito: i due continuano la conversazione lasciata in sospeso e Ian la
supplica di rinunciare al divorzio.
Deborah capisce che è esausto, scosso e si offre di restare a fargli
compagnia. Inizialmente Ian accetta, ma poi cambia idea e le chiede
di lasciarlo solo, facendole promettere di non tornare fin dopo le
dieci, quando lui sarà sul treno diretto a Manchester.
Nuovamente solo, Curtis mette sul piatto del giradischi THE IDIOT
di Iggy Pop, e prende una bottiglia di whisky deciso a finirla.
Inizia a staccare le fotografie di Natalie dalle pareti e cerca nei
cassetti alcune immagini scattate il giorno del matrimonio; dopodiché
inizia a scrivere una lunga lettera alla moglie.
Quando Deborah torna, il sole è già alto nel cielo. Dalle finestre
dell’abitazione vede le luci ancora accese. Pensando di trovare il
marito in casa, lascia la figlioletta in macchina. Dentro, l’atmosfera è
stranamente calma e silenziosa. Nell’aria non si sente alcuna traccia
delle Marlboro che Ian fuma in continuazione.
“Forse è partito veramente”, pensa la donna.
La prima cosa che vede è un biglietto sulla mensola del caminetto.
Emozionata, si precipita a leggerlo, ma subito qualcos’altro attira la
sua attenzione: con la coda dell’occhio vede Ian, semi-inginocchiato
in cucina. Sollevata, si avvicina per parlargli, ma lui è stranamente
immobile: la testa china, le mani sulla lavatrice.
Poi rimane impietrita alla vista della corda, quella che usa per
stendere la biancheria, attorno al suo collo. Sul giradischi c’è ancora
il disco di Iggy Pop, che gira a vuoto.
Nella lettera, Curtis parla del loro matrimonio, degli anni passati
insieme, del suo amore per la moglie e la figlia. Le scrive “I wish I
was dead”, ma non menziona mai l’intenzione di suicidarsi.
È una lunga lettera, scritta tutta in maiuscolo, la stessa calligrafia
irregolare con la quale componeva i testi delle sue canzoni. Alla fine,
scrive che sta sorgendo il sole e può sentire il canto mattutino degli
uccelli.
Lunedì 19 maggio, il deejay John Peel annuncia dai microfoni
della BBC Radio 1: “Brutte notizie ragazzi. Ian Curtis, dei Joy
Division, è morto”.
Il 23 maggio 1980, il suo corpo viene cremato al Macclesfield
Crematorium e sulla lapide viene incisa un’iscrizione voluta dalla
moglie Deborah: “Love Will Tear Us Apart”. Circa due mesi dopo, il
15 luglio, Ian avrebbe compiuto ventiquattro anni.
La breve, tragica esistenza di Ian Curtis si interrompe lasciando
senza parole tutte le persone a lui vicine.
Sembra impossibile che abbia compiuto un simile gesto, che sia
arrivato a un punto tale di disperazione. Eppure questa non è la
prima volta che Ian prova a farla finita.
Il 7 aprile 1980 ha preso una dose eccessiva di fenobarbitone,
medicinale che sta assumendo per curare l’epilessia, ma che
sembra non sortire alcun effetto benefico. Tuttavia, avvisa subito la
moglie e si fa portare in ospedale per una lavanda gastrica.
Qualche giorno dopo, confessa al bassista Peter Hook di aver
chiesto aiuto per non rischiare danni cerebrali, che gli avrebbero
reso la vita ancora più insopportabile: “Sapevo esattamente cosa
stavo facendo quando ho preso le pillole”, dice all’amico, “ma mi
sono accorto di non averne prese abbastanza”. Lo psichiatra che lo
visita in ospedale lo definisce una personalità non suicida. Nessuno
saprà il vero motivo del suo gesto.
La band di Ian Curtis, i Joy Division, sta avendo sempre più
successo. L’album UNKNOWN PLEASURES, pubblicato l’anno
precedente, attira l’attenzione dei media verso il gruppo
mancuniano, grazie alle cupe sonorità post-punk delle canzoni,
all’immaginario oscuro dei testi e alla profondità della voce del
cantante, non sempre intonata ma di grande effetto.
L’elemento che distingue i Joy Division dagli altri gruppi è la
performance live, durante la quale emerge tutto il carisma del leader,
con la sua magnetica presenza scenica e la sua danza ossessiva,
quasi spastica.
Da un paio d’anni, infatti, a Curtis è stata diagnosticata l’epilessia,
un disturbo nervoso che causa improvvisi attacchi, caratterizzati da
spasmi violenti e convulsioni. La malattia può essere tenuta sotto
controllo, a patto di condurre una vita regolare, riposare un adeguato
numero di ore ed evitare le situazioni stressanti: condizioni
praticamente impossibili per una rockstar.
Il cantante, però, continua a esibirsi col gruppo, peggiorando tra
l’altro i sintomi che invano cerca di domare: sul palco sembra
evocare con le sue movenze le crisi che lo colpiscono sempre più di
frequente. Talvolta la sua danza diventa talmente realistica che
spesso non si capisce se stia fingendo
o meno.
Inoltre, tanto per complicare le cose, dopo un concerto a Bruxelles
nell’ottobre 1979, Curtis incontra Annik Honoré, un’attraente
giornalista musicale che lavora per l’ambasciata belga, e i due
iniziano una relazione.
Il 1980 inizia quindi positivamente per il gruppo, tra le incisioni per
il nuovo album, CLOSER, e la programmazione di un’intensa
tournée europea come supporter ai Buzzcocks.
Ian Curtis vive tutto con grande coinvolgimento, ma a discapito
della sua salute e della sua famiglia: Deborah viene lentamente e
inesorabilmente estromessa dalle attività della band, tanto che il
marito sceglie di portare con sé in Europa l’amante, Annik.
Debbie si preoccupa per gli atteggiamenti sempre più misteriosi
del compagno, ma non sospetta certo un tradimento. Quando si
sono sposati erano poco più che adolescenti, e lui è sempre stato
estremamente geloso e possessivo. L’acuirsi della depressione,
però, porta Curtis a chiudersi sempre più in se stesso: alla moglie
non rimane che affrontare la situazione spingendolo a confessare di
avere una relazione.
Sulla scia del crescente interesse che circonda la band, i musicisti
e il loro manager Tony Wilson progettano una tournée americana,
nonostante il peggioramento delle condizioni di salute del cantante.
Ultimamente il calendario dei concerti è sempre più fitto, tanto che
una sera al Rainbow Theatre di Londra, mentre suonano in apertura
agli Stranglers, Curtis viene colto da uno dei suoi attacchi più
violenti, finendo per collassare sulla batteria. Il pubblico applaude
ancora più calorosamente.
Senza dare troppa importanza all’episodio, i quattro si spostano al
Moonlight Club per il secondo set della serata, ma Curtis non riesce
ad andare oltre il quinto brano.
Il 2 maggio, i Joy Division si esibiscono all’Università di
Birmingham, per salutare i fan inglesi prima della partenza per gli
Stati Uniti, prevista per il 19 dello stesso mese. Sarà l’ultimo
concerto della band con Ian Curtis.
L’amico Peter Hook ricorda: “Ad essere onesto, non riuscivo a
vedere la malattia. Eravamo così giovani, così presi da quello che
stavamo facendo. Ma non eravamo gli unici a non capire. Ian era in
cura da dottori e psichiatri che non si accorsero di nulla”.
Lo psichiatra che ha in cura Curtis, infatti, si era suicidato nel
1979.
“Ian era disperatamente attratto da tutto ciò che non poteva fare”,
continua Hook. “Voleva suonare in un gruppo, voleva spingersi oltre,
e questo sforzo lo faceva star male. Gli piaceva andare in tournée
con la band, ma gli faceva male, perché era sempre stanco. Non
poteva bere, né rimanere alzato fino a tardi. Lui desiderava una vita
che la sua malattia non gli avrebbe mai permesso di vivere. Era
ovvio che qualcosa sarebbe successo”.
Già dai tempi della scuola, il primo amore di Curtis è la musica. In
particolare, i suoi idoli sono artisti morti giovani (Jim Morrison, James
Dean, Janis Joplin), o in qualche modo ossessionati dal tema della
morte, come David Bowie (soprattutto nella canzone Rock’n’Roll
Suicide e nella la sua versione di My Death di Jacques Brel).
Sembra affascinato dall’idea di vivere intensamente pochi anni e
morire di una morte prematura; spesso esprime la volontà di non
arrivare a compiere ventiquattro anni. A completare il quadro del
personaggio, non può mancare l’uso di droghe. Col suo gruppetto di
amici prendono qualsiasi cosa trovino nella cassetta dei medicinali
ogni volta che ne hanno l’occasione, oltre a fumare e sniffare
solventi.
Spesso la loro incoscienza e leggerezza causano anche incidenti
gravi: una volta Curtis e un amico d’infanzia, dopo aver assunto per
divertimento delle pillole di un forte psicofarmaco, finiscono entrambi
all’ospedale.
La maggior parte delle volte, poi, i ragazzi si divertono a osservare
Ian mentre si infligge ferite di vario tipo, reso insensibile al dolore
dalle droghe.
Tony Nuttal, vicino di casa di Curtis e amico di lunga data, ricorda:
“Prendere il Valium doveva essere una cosa divertente. Non c’era
nulla di sinistro, ma ci sfuggì di mano. Aveva tutto a che fare con
questa immagine romantica… Prendere droghe sembrava crearci
una bella immagine”.
A quei tempi, Curtis non immaginava certo che, di lì a poco, la sua
vita sarebbe dipesa, nel bene e nel male, da pillole e pastiglie.
Deborah, a proposito del suicidio, è convinta che avesse
pianificato tutto da tempo: “Avrebbe potuto fare l’attore. Ci ha fatto
credere che i conflitti che minavano la sua vita fossero causati da
influenze esterne. In realtà aveva architettato il suo inferno e
programmato la sua caduta. Le persone intorno a lui erano solo
personaggi secondari di questa messa in scena. Credo che avesse
stabilito quando morire. Era importante che gli altri componenti del
gruppo ci credessero, in modo tale da non provare a dissuaderlo.
Non si preoccupava più della trasferta americana, perché sapeva
che non sarebbe partito”.
Peter Hook ha incontrato Curtis la sera di venerdì 16 maggio, circa
un giorno prima che si togliesse la vita: “Non potevo crederci.
Sarebbe davvero stato un ottimo attore. Non avevamo alcun indizio
per capire quello che stava succedendo”.
Bernard Sumner, il chitarrista della band, dirà: “Sono convinto che
siano state le medicine a ucciderlo. Davvero… Lo so”.
A posteriori, gli indizi sono lampanti. Aveva sempre avuto
l’intenzione di farlo: basta riascoltare i testi di CLOSER.
In realtà, appena concluse le registrazioni, c’era stato un piccolo
campanello d’allarme, che però era passato del tutto inosservato.
Tony Wilson, il manager della band, ricorda: “Ero sul treno per
Londra un paio di settimane prima. Annik Honoré mi disse che era
terrorizzata dal nuovo album e da quello che Ian stava cercando di
comunicare attraverso i testi. Ma io non le diedi retta”.
Le immagini oscure create dalle canzoni dei Joy Division sono
ormai divenute la cifra stilistica della band: UNKNOWN PLEASURE
è stato definito dalla rivista «Sounds» “death disco” e descritto come
“l’ultimo album che suoneresti prima di suicidarti”.
In CLOSER quest’immagine è ancora più forte, tanto che il
giornalista rock Mick Middles, esperto della scena di Manchester,
afferma: “CLOSER è il suono di una persona disperata”.
Sulla copertina dell’album, pubblicato a poca distanza dalla morte
di Curtis, c’è un’immagine della tomba della famiglia Appiani dello
scultore Demetrio Paernio, scattata dal fotografo Bernard Pierre
Wolff nel 1978 al cimitero genovese di Staglieno.
Ma l’elegia definitiva sembra essere l’ultimo singolo, che uscirà
postumo: Love Will Tear Us Apart, un titolo disperatamente profetico,
tanto da essere inciso sulla lapide di Ian Curtis.

You cry out in your sleep


All my failings exposed
And there’s a taste in my mouth
As desperation takes hold
Just that something so good
Just can’t function no more
But love, love will tear us apart again.

È il 25 settembre 1980, un giovedì. I quattro musicisti dei Led


Zeppelin sono riuniti nella residenza del chitarrista Jimmy Page a
Clewer, un piccolo villaggio non lontano dal castello di Windsor. Sul
muro di pietra che delimita il terreno c’è una targa: OLD MILLS
HOUSE, dice. La residenza, il cui terreno costeggia il Tamigi, è un
vecchio mulino ristrutturato che Page ha acquistato dall’attore
Michael Caine per, all’incirca, un milione di sterline. La casa è vicina
al fiume, un fatto che il chitarrista apprezza molto, ed è
sufficientemente grande per ospitare una sala prove, l’ideale per la
rockstar.
Dentro la Old Mills House, i Led Zeppelin e il loro entourage si
preparano a una nuova giornata di lavoro: il gruppo sta provando il
repertorio in vista di una tournée negli Stati Uniti, la prima dopo tre
anni di assenza.
Essere nuovamente assieme in quella casa rappresenta una
scommessa per gli Zep: devono dimostrare ancora una volta di
essere all’altezza della loro fama.
Quel 25 settembre, alle tredici e quarantacinque, l’assistente Benji
Le-Fevre va a svegliare il batterista John Bonham. L’ha
soprannominato “The Beast”, la bestia, per i comportamenti
animaleschi e perennemente sopra le righe. Lo trova ancora a letto.
Ha un colorito bluastro, non risponde, non ha polso.
È morto, a soli trentadue anni.
Nessuno, per ora, sa cosa sia successo di preciso.
È evidente però che la morte ha a che fare coi bagordi del giorno
precedente. Bonham non si fa più di eroina, ma beve in modo
spropositato. Si dice sia particolarmente preoccupato per il tour
imminente: il precedente è stato tutt’altro che brillante e per di più il
batterista ha alcune pendenze giudiziarie negli Stati Uniti. Assume
perciò un farmaco chiamato Motival: è un antidepressivo che gli
serve a ridurre l’ansia.
Il giorno prima, 24 settembre, si è recato presso gli studi Bray per
le prove degli Zeppelin accompagnato da un altro assistente, Rex
King. Lungo la strada, il batterista ha chiesto di fare colazione. L’ha
fatta a modo suo, innaffiando un paio di panini con quattro quadrupli
bicchieri di vodka e succo d’arancia.
Una volta arrivato allo studio ha continuato a bere, ingurgitando
un’impressionante quantità d’alcol. È talmente sbronzo da non
riuscire più a suonare.
È un fatto strano persino per uno come lui, che si è sempre
vantato di riuscire a far fronte agli impegni indipendentemente dalla
quantità di alcol in corpo. Questa volta ha veramente esagerato. Le
prove sono sospese e la combriccola ripara nella Old Mills House,
dove Bonham si unisce alla festa per la reunion del gruppo
ingurgitando altra vodka.
Verso le ventitré si addormenta su un divano. Dopo mezzanotte,
viene trascinato di peso sul suo letto da Rick Hobbs, un aiutante di
Page. Hobbs, avrebbe detto in seguito, lo corica su un fianco. Non è
un particolare irrilevante: così facendo, nel caso di una crisi di vomito
in quello stato di semicoscienza, il batterista non rischierebbe di
soffocare.
Eppure è esattamente quello che accade a una certa ora del
mattino. Lo stabilirà il coroner dell’East Berkshire, cui viene affidato il
compito di scoprire la causa del decesso: il musicista è morto
d’asfissia, soffocato dal suo stesso vomito, dopo aver subìto una
overdose di alcol. Si calcola che nelle dodici ore precedenti il
decesso abbia bevuto quaranta bicchieri di vodka. La polizia
perquisisce la casa di Page senza trovare nulla di sospetto. È perciò
ufficiale: il batterista degli Zeppelin è stato vittima di una morte
accidentale, causata dalla propria incoscienza.
Non tutti, però, credono a questa versione.
Due giorni dopo i fatti, l’«Evening News» dedica un articolo al
Mistero della magia nera dei Led Zeppelin. Basandosi sulle
dichiarazioni di un membro dell’entourage che resta anonimo,
l’articolo afferma che “Robert Plant e tutti coloro che sono vicini al
complesso sono convinti che le pratiche di magia nera di Page siano
in qualche modo responsabili della morte di Bonham”, e che
“probabilmente, i tre membri rimanenti dei Led Zeppelin sono un po’
spaventati, adesso, al pensiero di quel che potrebbe accadere la
prossima volta”.
L’articolo del giornale londinese non fa che amplificare i miti che
hanno sempre circondato il quartetto. Tutto nasce dall’interesse di
Page per l’occultismo e in particolare per Aleister Crow ley, il
satanista vissuto tra la fine del diciannovesimo e la prima metà del
ventesimo secolo. Il musicista colleziona oggetti a lui appartenuti.
Arriva persino a comprarne la villa sulle rive del Loch Ness, in
Scozia. Apre inoltre una libreria specializzata in esoterismo,
occultismo e magia, che chiama Equinox. Le voci sui riti satanici e le
leggende sulla malvagità dei musicisti, autori di atti efferati e di
violenze sulle groupie, finiscono per coagularsi attorno a un’unica
tesi presa a prestito dalla mitologia del blues: il gruppo ha venduto
l’anima al diavolo. Avrebbe ottenuto perciò soldi e successo, ma ne
avrebbe pagato le conseguenze.
In fondo è esattamente quel che accade.
L’ascesa della formazione è irresistibile, ma accompagnata da
alcune disgrazie, tra cui un brutto incidente automobilistico occorso a
Plant e alla famiglia durante una vacanza a Rodi.
Pare che in quel periodo il cantante sia così terrorizzato da
pensare che le disgrazie che gli accadono siano frutto del cattivo
karma scatenato dalle sue canzoni. Peggio ancora, sono morti
improvvisamente il socio della band Keith Harwood e la moglie del
tour manager Richard Cole.
Nel 1977, un’infezione virale uccide il figlio di Plant, Karac, a soli
cinque anni d’età, e nel 1979 il fotografo e amico del chitarrista Philip
Hale spira in un’altra villa di proprietà di Page.
Il chitarrista coltiva con discrezione l’aura di mistero che circonda
la band, considerandola un motivo di fascino, e dissemina i dischi
degli Zeppelin di segni e riferimenti misteriosi, per non parlare del
suo coinvolgimento nella scrittura della colonna sonora del film di
Kenneth Anger Lucifer Rising. La tragedia di Bonham non sarebbe,
perciò, che l’ulteriore pegno pagato dal gruppo per il satanismo di
Jimmy Page. Non stupisce che da quel 25 settembre si diffondano
alcune leggende metropolitane. Qualcuno afferma che, subito dopo
la tragedia, dalla Old Mills House si sia innalzato un denso fumo
nero, frutto di chissà quale rito.
Altri dicono che in quel 25 settembre Page abbia distrutto tutto ciò
che gli è capitato per le mani, lanciando addirittura maledizioni in
qualche linguaggio incomprensibile e sconosciuto. Uno scrittore
tedesco afferma di avere tradotto dallo svevo antico un canto
funebre, che Page avrebbe inciso in onore del compagno.
Forse, comincia a ragionare qualcuno, è vero che la composizione
più celebre dei Led Zeppelin, Stairway To Heaven, contenga
messaggi subliminali.
Un anno e mezzo dopo i fatti, una commissione parlamentare
californiana si riunisce per ascoltare un nastro di quella canzone. Si
deve verificare se, ascoltata al contrario o a velocità ridotta, presenti
davvero messaggi satanici. Lo ha affermato un importante
esponente della chiesta battista americana. Alcuni membri della
commissione si convincono di avere ascoltato la frase “Vivo per
Satana”.
Il mistero continua.
La notizia della morte di John Bonham raggiunge il tour manager
Richard Cole in una cella di Regina Coeli, a Roma. È detenuto dopo
essere stato arrestato all’Hotel Excelsior della capitale. I nuclei
antiterrorismo della polizia italiana hanno fatto irruzione nella sua
camera, dove hanno trovato due coltelli a serramanico, l’occorrente
per iniettarsi eroina e cinque grammi di droga. “Uno del tuo gruppo è
morto”, gli dice un compagno di cella. Cole pensa si tratti del
“maledetto” Page.
In Inghilterra, intanto, Robert Plant, da sempre il membro degli
Zep più legato al batterista, va a confortare la moglie di Bonham e i
figli Zoe e Jason. Jones torna a casa, mentre Page resta nella casa
di Windsor. Alla ricerca di un posto dove piangere il loro idolo, molti
fan dei Led Zeppelin si accampano fuori dalla Old Mills House
Il corpo di John Bonham viene cremato poco dopo la morte.
I funerali si tengono il 10 ottobre 1980 alla Rushock Parish
Church, nel Worcestershire, non lontano dalla fattoria di proprietà di
Bonham. Il servizio d’ordine approntato si rivela inutile: sono meno di
una decina i fan che sfidano il viaggio in campagna e la pioggia per
assistere alle esequie. Sono presenti invece i Led Zeppelin e i
membri di altre band come l’Electric Light Orchestra e i Wings. In
novembre, i tre membri superstiti dei Led Zeppelin si incontrano per
decidere del futuro della band: decidono che senza l’amico non ha
senso continuare.
Il 4 dicembre viene diffuso il comunicato stampa che mette fine a
uno dei più grandi gruppi rock di tutti i tempi: “La perdita del nostro
caro amico e il profondo senso di armonia sentito da noi e dal nostro
manager ci hanno portati a decidere che non possiamo continuare
così come eravamo”.
Terranno fede a quel vecchio comunicato per oltre un quarto di
secolo, riunendosi solo occasionalmente e per eventi unici,
lasciando il posto che era stato di John Bonham a vari batteristi tra
cui il figlio Jason. Faranno un serio tentativo di riunirsi solo nel
gennaio 1986. Page, Plant e Jones proveranno in gran segreto in
uno studio nella campagna di Bath. Il secondo giorno, il batterista
Tony Thompson, ha un incidente d’auto. Jimmy Page lo interpreta
come un segno del destino. “E io”, ha detto, “non voglio combattere il
destino: mi lascio trasportare dal suo flusso”.

North Fuller Street è una delle porte d’accesso del Runyon Canyon
Park, polmone verde tra le colline di Hollywood. Qui si va a correre
al mattino, a fare un po’ di arrampicate o, semplicemente, qualche
sgambata in bicicletta.
L’unico sport che piace a Jan Paul Beahm, ventidue anni, è lo
skateboard.
Ma neppure così tanto.
Lui, l’energia fisica, la libera quando canta con la sua punk rock
band, i Germs.
Il suo idolo è Iggy Pop e un po’ lo imita quando è on stage: si
esibisce a dorso nudo, si infligge ferite, si dimena come un ossesso.
Suona da quando frequenta il liceo.
Lo fa spesso con il suo amico Pat Smear, chitarrista più che
discreto, anche perché, per lui, la musica è terapeutica:
l’adolescenza di Jan Paul è stata un disastro. Cresciuto a Culver
City, non distante dagli studi della MGM, Beahm si ritrova un padre
latitante, una madre alcolizzata e un fratello morto di overdose. Così,
si nasconde dietro pseudonimi (Bobby Pin, quando fonda i
Sophistifuck and the Revlon Spam Queens, e Darby Crash poi) e
trova rifugio nel punk rock, in un mix di letture “pericolose” (da Hitler
a Scientology, da Charles Manson a Herman Hesse), ma soprattutto
nella droga.
L’eroina è la sua preferita.
Oggi s’è comprato una bella quantità di china white, costata ben
400 dollari, e se la vuole sparare tutta in vena.
Ha convinto anche la sua amica più cara, Casey Hopkins (o
Casey Cola, come la chiamano tutti), a fare la stessa cosa: adora
l’idea di diventare una versione americana di Sid & Nancy. Peccato
che Darby sia gay e che Casey Cola non abbia le ambizioni “malate”
della Spungen.
Eppure, Darby ha deciso che oggi è il giorno. E ha chiesto a
Casey di aiutarlo: per questo, i due si sono recati nella casa della
mamma di lei, proprio a North Fuller Street.
“Nessuno di noi pensava che sarebbe vissuto a lungo”, dicevano
gli altri Germs e la loro produttrice-manager, Michelle Ghaffari.
“Non ho futuro”, era solito affermare Darby.
Lo ripete pochi giorni prima, il 3 dicembre, quando si esibisce per
l’ultima volta allo Starwood Club, uno dei templi del punk
losangelino, a West Hollywood.
Ha voluto fare una reunion dei Germs perché, ha dichiarato al
pubblico, “così vi rendete conto di che cosa eravamo quando
stavamo in giro…”.
“Ma non pensiate che ritorni su un palco”, aveva concluso.
Darby ha deciso di farla finita.
Lo ha detto più volte (“Un giorno pregherete per me”) e più volte si
è sparsa la voce che lui sia morto.
Ma oggi, i rumors diventano realtà.
Darby fa un patto di sangue con Casey: tutti e due, oggi, si
uccideranno.
Dopo essersi iniettato la droga, Darby appiccica un biglietto sul
muro con una freccia: sopra ci scrive “Here lies Darby C…” (qui
giace Darby C).
Non finisce la frase perché crolla a terra, proprio dove, in modo
macabro, indica la freccia.
Casey si è appena svegliata quando trova il suo amico senza vita.
Mantiene la promessa: si inietta la droga e va presto in overdose.
Quando sul luogo giungono i soccorsi, Casey Cola è priva di
conoscenza, ma non è morta. Forse è più forte di Darby, forse è solo
più fortunata.
Anche Michelle Ghaffari arriva a North Fuller Street.
“Non è vero che Darby Crash giacesse sotto il biglietto nella
posizione del Cristo in croce. Semplicemente, era morto”.
La sorella maggiore di Darby, Christine, è la prima della famiglia
ad essere avvertita. Ma la notizia della morte di Darby Crash si è
ormai diffusa in città. E, per alcuni, offusca persino la morte di John
Lennon che accade solo qualche ora più tardi.
“Imagine there’s no Darby…”, canta tristemente qualcuno.
Christine e la madre organizzano la funzione funebre per venerdì
12, alla Wayside Chapel, alle undici del mattino.
La comunità punk losangelina è presente al gran completo.
Un amico, parafrasando Patti Smith, mostra un cartello con la
scritta: “Darby Crash died for somebody’s sins. And they were his
own” (Darby Crash è morto per i peccati di qualcuno. Per i suoi).
Gli altri si dirigono verso il feretro e sputano sul cadavere.
Jan Paul Beahm aveva ventidue anni.
Viene seppellito all’Holy Cross Cemetery di Culver City.

Sono le ventidue e quarantanove quando John Lennon e Yoko Ono


scendono dalla limousine per far rientro nel loro lussuoso
appartamento di Central Park West.
Ad attenderli di fronte all’ingresso del Dakota Building, un
gruppetto di fan, tra cui uno squilibrato di nome Mark David
Chapman.
“Signor Lennon…?”.
Così, quel ragazzo attira l’attenzione del suo idolo.
In mano stringe una calibro 38, in tasca ha duemila dollari in
contanti e una copia del romanzo di J.D. Salinger Il giovane Holden.
Lennon fa appena in tempo a girare la testa.
Un istante dopo, Chapman esplode cinque colpi di pistola che
colpiscono a bruciapelo il Beatle ribelle e sognatore.
Ferito alla schiena e al braccio, Lennon riesce a stento a dirigersi
verso l’entrata del Dakota dove stramazza a terra, riverso sul fianco
sinistro.
“Mi hanno sparato”, sussurra.
Gli occhiali e una cassetta contenente il demo di Walking On Thin
Ice cadono a terra.
Chapman viene disarmato da un custode del Dakota Building.
Il portiere dà l’allarme.
Portato d’urgenza al St Luke’s Roosvelt Hospital da una macchina
della polizia, giunta sulla scena del crimine dopo soli due minuti,
John Lennon muore alle ventitré e zero sette.
Sono le ventitré e un quarto.
Yoko Ono viene informata della morte del marito.
“Volete dirmi che sta dormendo, vero?”, balbetta, sconvolta.
Tornata a casa, Yoko, in lacrime, mette insieme poche parole per
comunicare al mondo la triste notizia.
“John ha amato e ha pregato per la razza umana. Fate la stessa
cosa per lui”.
Quella notte si ritrovano in migliaia davanti al Dakota Building a
suonare e cantare le canzoni di John Lennon, rendendo ancor più
strazianti le prime ore da vedova di Yoko Ono. La notizia della morte
dell’ex Beatle getta nello sconforto milioni di persone e ha la
medesima risonanza di quella di un attentato a un presidente.
Il corpo del cantante viene cremato il 10 dicembre all’Hartsdale
Crematorium di New York. Nessuno sa dove sua moglie custodisca
le ceneri.
Si registreranno almeno due suicidi di persone sconvolte dalla
morte di Lennon.

Ha avuto una gran pazienza, il giovane Chapman, ha aspettato il


suo idolo tutto il giorno davanti al Dakota Building, l’esclusivo
condominio per milionari affacciato su Central Park, dove John e
Yoko vivono stabilmente da cinque anni. In quello stesso edificio,
tredici anni prima, il regista Roman Polanski ha girato il celebre film
satanista Rosemary’s Baby.
Mark David Chapman ha venticinque anni e una gran confusione
in testa.
Originario di Fort Worth, in Texas, vive con la moglie (giapponese,
proprio come Yoko Ono) a Honolulu.
È affetto fin dall’infanzia da turbe psichiche. È convinto che
Lennon abbia tradito gli ideali di purezza dei Beatles.
Si identifica in Holden Caulfield, protagonista del romanzo Il
giovane Holden, un ragazzo arrabbiato che odia il denaro e
l’esistenza borghese.
Agli occhi di Chapman, Lennon è colpevole di essersi
imborghesito. Lo considera una persona “fasulla” da quando gli è
capitato sotto mano un libro intitolato One Day At The Time. Le foto
del volume mostrano il cantante in posa davanti al Dakota.
“Quelle immagini mi hanno riempito di rabbia e risentimento, mi
hanno fatto capire che ero stato uno stupido”, dice Chapman dopo
l’arresto.
L’eroe della classe operaia, come si era definito l’ex Beatle in una
celebre canzone, è (secondo Chapman) soltanto un riccastro che
vive in uno degli edifici più in di Manhattan. È un nemico.
Di sicuro, nel 1980, Lennon è un uomo diverso da quello che ha
inciso le canzoni politicizzate di Some Time In New York City.
Usando un’espressione che lui stesso ha coniato, John ama definirsi
un house husband, un casalingo che il 9 ottobre ha compiuto
quarant’anni.
In quei giorni, Lennon non si sente affatto vecchio. Lo ha scritto in
una canzone, Life Begins At 40, la vita comincia a quarant’anni. Si
sente rinato. Non sa ancora che un ragazzo di Honolulu ha deciso di
ucciderlo e che la vita può anche finire a quell’età.
“Signor Lennon…?”.
Il ragazzo che lo dice ha preparato il suo agguato
meticolosamente, ma è combattuto e ha cercato più volte di
reprimere l’istinto omicida. Il 27 ottobre 1980 compra a Honolulu una
calibro 38. Gli costa 169 dollari, sostiene che gli serva per difesa
personale, perché in agosto il suo appartamento è stato svaligiato.
Ha lavorato come guardia armata e sa come maneggiarla.
Dal 29 ottobre al 4 novembre è a New York.
Obiettivo: ammazzare John Lennon.
Riesce a resistere alla tentazione di farlo e torna a casa. Ma
ormai, l’idea di uccidere l’ex Beatle è diventata un’ossessione che
Chapman non riesce più a controllare.
Il 9 novembre, l’insopprimibile mania omicida riporta Chapman a
New York City. Dorme all’ostello YMCA e si reca al Dakota, dove il
portiere lo informa che i coniugi Lennon sono via per il resto della
settimana. Spiega alla moglie che è andato a New York per
ammazzare John, ma che ha cambiato idea e ha buttato la pistola
nell’oceano. Non è vero: l’arma ce l’ha ancora e purtroppo la userà.
Torna a New York il 5 dicembre. Ha in tasca un biglietto di ritorno
per il 18. Il 6 prende una stanza all’hotel Sheraton, a pochi isolati di
distanza dal Dakota. Per pagarsela, vende una stampa rara di
Norman Rockwell appartenuta alla madre.
Il 7 aspetta Lennon sotto casa, ma non lo vede.
Rimanda il suo piano.
La mattina dell’8 dicembre, Chapman si presenta di buonora
davanti al Dakota. Dentro, la fotografa Annie Leibovitz sta scattando
alcune istantanee a John e Yoko che diventeranno famosissime:
stesi su un letto, lui è completamente nudo e abbraccia lei in posa
quasi fetale.
Verso mezzogiorno, la coppia esce per dirigersi agli studi Hit
Factory per lavorare ad alcune nuove canzoni. Chapman si avvicina,
porge a Lennon una copia del suo ultimo album DOUBLE FANTASY
e gli chiede un autografo.
Mentre il musicista scrive il suo nome, un certo Paul Goresh scatta
una foto che lo ritrae col suo assassino. Il cantante firma, poi guarda
il suo futuro attentatore e gli chiede: “Tutto qui? Hai bisogno
d’altro?”.
Chapman commenterà: “Era come se nel subconscio sapesse”.
I coniugi Lennon intanto vanno in studio dove stanno lavorando al
sequel di DOUBLE FANTASY, un altro album nel quale si alternano
brani di John e di Yoko e che sarà pubblicato postumo col titolo
MILK & HONEY. In uno di questi brani, Nobody Told Me, Lennon
canta lo smarrimento dell’uomo contemporaneo sulla soglia degli
anni Ottanta, un periodo, come recitano le parole della canzone, in
cui “tutti volano senza mai toccare il cielo”.
“Signor Lennon…?”.
Il ragazzo che lo dice sa aspettare.
Ha atteso tutta la vita il suo momento. E adesso sta per arrivare.
Per tutta la giornata ha collezionato piccoli segni che lo convincono
che oggi, lunedì 8 dicembre 1980, è il giorno dei giorni.
Si fa sera. Tutti i fan, e con loro Paul Goresh, lasciano l’entrata del
Dakota. Chapman chiede vanamente al fotografo di restare. Gli dice
che vuole un’altra immagine coi Lennon: probabilmente vuole che
qualcuno immortali il momento preciso in cui lui (nullità insignificante,
condannata a una vita meschina) entrerà nella storia.
Resta solo e nell’attesa legge Il giovane Holden.
“Pregavo Dio che mi fermasse, e Satana che me lo facesse fare”.
Sono passate le ventitré. Il piano di Mark David Chapman ha
funzionato. Lennon è morto e lui è diventato una celebrità. Ha
riscattato una vita piccola e mediocre.
Adesso si sente come il giovane Holden Caulfield o come Lee
Harvey Oswald, l’uomo che ha sparato a John Fitzgerald Kennedy.
Catturato, si scusa coi poliziotti: “Mi spiace causarvi tutto questo
disturbo”.
Verrà portato al Bellevue Hospital prima e alla prigione di Rikers
Island poi, dove sarà sottoposto a perizia psichiatrica.

22 giugno 1981.
È il primo giorno del processo all’assassino di John Lennon.
La stampa e i curiosi vengono tenuti fuori dalla sala dove si tiene
l’udienza. Fino a un paio di settimane prima, la difesa ha sostenuto
la tesi dell’infermità mentale. Adesso invece Chapman ammette la
colpevolezza.
24 agosto 1981.
Viene pronunciata la sentenza del caso “Stati Uniti contro Mark
David Chapman”: condanna tra i vent’anni e l’ergastolo e nessuna
possibilità di chiedere la libertà vigilata prima del nuovo millennio.
Chapman viene portato nel carcere di Attica, nei pressi di Buffalo,
New York, lo stesso cantato da Lennon nella canzone Attica State.
14 dicembre 1980.
Milioni di persone nel mondo osservano un minuto di silenzio in
onore di John Lennon, come chiesto da Yoko Ono. A Central Park si
radunano cinquanta, forse centomila persone.
Il singolo (Just Like) Starting Over diventa uno dei più comprati
nelle festività natalizie e il giorno della Vigilia vende la sua
milionesima copia. Ironicamente, la canzone esprime la rinnovata
fiducia di John nel futuro e nella sua relazione con Yoko.
Alla fine del 1980, un ragazzo di nome John Hinckley immortala i
suoi sentimenti sul nastro di un registratore portatile: “Voglio dire
addio al vecchio anno, che ha portato solo miseria e morte. John
Lennon è morto, il mondo è finito. Tutto ciò che farò nel 1981 sarà
solamente in nome di Jodie Foster: voglio dire al mondo intero che
l’adoro”. Troverà un modo brutale per farlo: sparare al Presidente
degli Stati Uniti, Ronald Reagan.
Nonostante Mark David Chapman sia considerato un prigioniero
modello, il 5 ottobre 2004 gli viene nuovamente negata la libertà
sulla parola.
Vive in una cella da solo: si teme ancora che qualcuno possa
ucciderlo.
Dicono lo aspetti il medesimo, tragico destino di Lennon, se mai
un giorno dovesse lasciare quella cella.
In un modo o nell’altro, Mark David Chapman è colpevole per
l’eternità.

Il corpo senza vita del cantautore Tim Hardin, trentanove anni, viene
rinvenuto dalla polizia nel suo appartamento. Il verdetto del coroner
è lapidario: “Decesso dovuto a intossicazione acuta di eroina e
morfina”.
Da pochi mesi, Hardin è tornato a vivere negli Stati Uniti, a
Seattle, dopo un lungo soggiorno in Inghilterra per poter stare vicino
al figlio Damion, avuto dal matrimonio con Susan Morss, suo più
grande amore nonché musa ispiratrice, che Tim ha sposato nel
1966.
Alla donna e al figlio, Tim aveva dedicato l’intero album SUITE
FOR SUSAN MOORE AND DAMION: WE ARE ONE, ONE, ALL IN
ONE.
Nella città americana, Hardin era riuscito a vincere l’ennesima
battaglia contro una tossicodipendenza che durava da oltre dieci
anni, ma la droga aveva ormai minato in modo irreparabile il suo
fragile sistema psicologico: era impossibile stargli vicino, si
comportava in modo violento e insostenibile. Fisicamente, poi, era
irriconoscibile persino per i suoi amici di vecchia data: del magro e
fragile ragazzo di un tempo non c’era più traccia.
Adesso Tim Hardin era sciupatissimo, calvo e sovrappeso. Era
però riuscito a tornare in studio di registrazione con il suo vecchio
produttore Don Rubin e aveva inciso due brani per un possibile
nuovo disco.
Per questo si era trasferito a Los Angeles.
In Inghilterra c’era andato perché il servizio sanitario locale
permetteva ai tossicodipendenti una dose di eroina gratuita. Qui si
era anche riconciliato brevemente con la moglie Susan, ma poi era
giunto al punto di vendere tutti i diritti sulle sue canzoni per poter
acquistare sempre più droga.
Il suo songbook comprendeva brani epocali come If I Were A
Carpenter e Reason To Believe, portate al successo da Johnny
Cash, Bobby Darin o dagli Small Faces.
Successi straordinari, ma soprattutto canzoni bellissime, senza
tempo.

Nella tranquilla cittadina di provincia di Harlingen, nel cuore della


vallata del Rio Grande, a neanche cinquanta chilometri dal Golfo del
Messico, si è ritirato da sei anni uno dei padri del rock’n’roll, Bill Ha
ley.
Anzi, secondo alcuni, è proprio lui l’inventore del genere. Tanto
che il 19 marzo 1955 (quando nei cinema d’America si proietta Il
seme della violenza con Rock Around The Clock come colonna
sonora) viene spesso considerato la data di nascita della “musica
che ha cambiato il mondo”.
Nonostante il successo planetario del pezzo (ma anche di See
You Later, Alligator, o di una nuova, trascinante versione del classico
di Big Joe Turner, Shake, Rattle And Roll), e nonostante il revival di
fine anni Sessanta, da qualche tempo la stella di Haley ha smesso di
splendere.

Lui e le sue “comete” (dopo u na prima versione come


Saddlemen, Bill Haley & His Comets diventa il nome della band)
fanno sempre meno concerti e anche il pubblico sembra essersi
dimenticato di lui. Haley trova rifugio nell’alcol e non ne fa mistero:
nel 1974, ai microfoni della BBC, ammette pubblicamente il
problema.
La situazione peggiora. Haley è irriconoscibile. Nelle strade di
Harlingen, quando qualcuno lo incontra e lo vuole salutare, lui fa
finta di niente.
A volte, nega persino la sua identità. E negli ultimi tempi,
addirittura, straparla.
Qualcuno sostiene soffra di Alzheimer, ma francamente sembra
poco probabile che un uomo di neppure sessant’anni abbia quella
malattia.
Il 25 ottobre del 1980, la testata tedesca «Bild» pubblica una
dichiarazione del suo manager inglese, Patrick Maylan, che sostiene
che Haley abbia un tumore al cervello (inoperabile) e che ormai non
riconosca più nessuno.
Dopo un nuovo attacco, viene portato nella sua casa losangelina
di Beverly Hills e poi ad Harlingen.
Da tempo, Haley era solito chiamare amici e parenti nel cuore
della not te: parlava in modo incomprensibile e non si capiva se
fosse ubriaco o cosa.
Oggi, 9 febbraio 1981, ha telefonato ai suoi due figli.
Poi, il nulla.
Qualcuno dice che due ore dopo sia stato trovato morto in casa
sua con in mano una bottiglia di whiskey.
Altri dicono fosse in ospedale, nel reparto dei malati terminali.
Poco importa: William John Clifton Haley è morto.
Aveva cinquantacinque anni.
E se le sue “comete” continuano a girare il mondo, nel 2006 (nel
venticinquesimo anniversario della morte) l’International
Astronomical Union decide di chiamare l’asteroide 79896 con il
nome di Billhaley.

All’interno della sua automobile, parcheggiata poco distante da casa,


viene rinvenuto il corpo senza vita di Michael Bernard Bloomfield,
trentasette anni, chitarrista rock blues, uno dei musicisti più bravi e
stimati degli anni Sessanta.
Causa della morte: overdose di eroina.
Quello della droga è un problema che ha afflitto Bloomfield da
sempre: addirittura, nei primi anni Settanta, lo aveva costretto a
smettere di suonare.
“Quando hai a che fare con l’eroina”, diceva, “tutto il resto passa in
secondo piano, anche la chitarra”.
E così, di colpo, sembrano lontani i tempi gloriosi in cui la sua sei
corde impreziosiva la fantastica blues band di Paul Butterfield (primo
gruppo elettrico ad accompagnare Bob Dylan nella clamorosa svolta
rock del 1965), faceva volare i favolosi Electric Flag o duettava
magnificamente nelle Super Sessions con Al Kooper e Stephen
Stills.

Chi lo ha ascoltato nel 1978 al Greek Theatre di Berkeley, nel


celebre Tribal Stomp organizzato da Chet Helms, non ci vuole
credere: ma quello è davvero Mike Bloomfield, l’unico americano a
combattere alla pari con Eric Clapton e Jimmy Page nel chitarrismo
rock blues? Non è possibile…
Eppure, nonostante questi problemi e un principio di artrite alle
mani, Bloomfield vuole ritrovare lo smalto perduto.
Anche per questo, la sua morte è ancora oggi circondata da
mistero.
Non solo: la dose di eroina che aveva in corpo non avrebbe potuto
permettergli di guidare la sua auto, parcheggiare e poi spirare.
Qualcun altro l’ha trasportato qui già cadavere.
Ma chi?
Nessuno, finora, ha mai saputo dare risposta…
Sei anni dopo, il 4 maggio 1987, nella sua casa di North
Hollywood in California, muore Paul Butterfield, grande armonicista e
compagno artistico di Bloomfield, il cui pur possente fisico finisce
disintegrato da decenni di abusi di alcol e droghe.

All’ospedale Cedars Of Lebanon, dopo una lunga malattia resa


pubblica solo nei giorni precedenti, muore Robert “Bob” Nesta
Marley, simbolo del suo paese, la Giamaica, e della musica reggae.
Ha trentasei anni.
Le sue ultime parole, rivolte al figlio Ziggy, sono: “I soldi non
possono comprare la vita”.
La malattia ha cominciato a manifestarsi quattro anni prima,
quando, nel luglio 1977, durante le cure per una ferita all’alluce del
piede destro (causata da uno scontro avvenuto nel corso di una
partita di calcio), gli viene diagnosticato un melanoma maligno.
Marley, seguendo fedelmente i princìpi della religione Rastafari che
impongono che il corpo umano sia conservato sempre integro, rifiuta
l’amputazione del dito. Il tumore fa perciò il suo corso, arrivando
lentamente a colpire cervello, polmoni, fegato e stomaco.
Nel settembre del 1980, mentre sta facendo jogging a Central
Park (dopo due concerti tenuti al Madison Square Garden di New
York), il musicista ha un collasso.
Tiene il suo ultimo concerto a Pittsburgh, allo Stanley Theater, il 23
settembre di quell’anno. Poco dopo, viene finalmente portato al
Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York. Lì i medici
diagnosticano un tumore al cervello, ai polmoni e allo stomaco. Da
New York, Marley è quindi trasportato a Miami, dove viene
battezzato Berhane Selassie dalla Chiesa Ortodossa Etiopica il 4
novembre 1980. Cinque giorni dopo, nell’ultimo disperato tentativo di
salvargli la vita, viene trasferito in un centro di trattamento in
Germania, diretto dal famoso oncologo Josef Issels, dove, il 6
febbraio, Bob trascorre serenamente il giorno del suo trentaseiesimo
compleanno.
Purtroppo, però, la malattia è in fase troppo avanzata.
Mentre sta volando verso la Giamaica, per passare gli ultimi giorni
di vita, è costretto ad atterrare a Miami per immediate cure mediche.
Pochi giorni dopo, la fine.
Bob Marley viene onorato con un funerale di Stato il 21 maggio e
sepolto con la sua chitarra preferita (una Gibson Les Paul), una
bibbia, una pianta di marijuana, un pallone da calcio e l’anello che
aveva sempre tenuto al dito da quando glielo aveva regalato il
principe Asfa Wossen d’Etiopia, figlio del re Haile Selassie I,
considerato l’incarnazione di Dio nella religione Rastafari.

La baronessa Nica De Koenigswarter è amica dei grandi jazzisti.


Ha ospitato Charlie Parker a New York sino al giorno della morte e
da sei mesi sta facendo la stessa cosa con un altro genio del jazz,
Thelonious Sphere Monk, il fondatore del bebop (come molti lo
considerano).
Lei e Monk sono davvero amici. Anche, o soprattutto, da quando a
metà degli anni Settanta, Monk è di fatto sparito dalle scene. Il suo
ultimo lavoro in studio come leader risale al 1971, proprio alla fine
del tour The Giants Of Jazz, che lo vede sul palco insieme ad Art
Blakey, Dizzy Gillespie, Kai Winding, Sonny Stitt, Al McKibbon.
Proprio quest’ultimo ricorda che “durante tutto il periodo, Monk
avrà pronunciato sì e no due parole. Giuro… Non l’ho mai sentito
dire ‘buongiorno, buona notte, come va?’ o altre cose banali. Alla
fine ci ha spiegato che era stata colpa mia e di Art Blakey: secondo
lui, eravamo troppo brutti…”. Per altri, invece, (come per la
baronessa) Monk era una persona piacevolissima: “Mica come
Miles”, sosteneva, “con Monk si parlava di musica, sempre”.
Le stranezze di Thelonious Monk avevano però una radice
patologica: lo sostiene il figlio T.S. Monk, che spiega che “a causa
della sua malattia mentale, papà a volte non mi riconosceva…
c’erano giorni in cui era sovraeccitato altri in cui sembrava sull’orlo
della depressione”.
Monk frequenta ospedali psichiatrici dalla fine degli anni Sessanta,
ma nessuna diagnosi viene mai resa pubblica. Qualche medico gli
prescrive l’elettroshock, ma la famiglia non vuole: piuttosto si ricorre
al litio e agli psicofarmaci.

C’è chi dice che soffra di manie depressive, chi di schizofrenia, c’è
chi vorrebbe sottoporlo a cure con droghe allucinogene.
Nella casa della baronessa, Monk sta tranquillo.
C’è anche un piano for te, ma lo tocca raramente. Ancora più
raramente incontra persone.
Il 17 febbraio 1982, un ictus pone fine all’enigma del “Monaco
pazzo”, che muore a sessantaquattro anni. Thelonious Monk viene
seppellito nel cimitero di Ferncliff, ad Hartsdale, New York.
Nel 1993, gli verrà consegnato il Grammy Award alla carriera.
Nel bungalow numero 3 del Chateau Marmont, lussuoso hotel sul
Sunset Boulevard di Los Angeles, viene trovato il corpo senza vita
dell’attore John Belushi.
Causa della morte: overdose.
La sera prima, Belushi sarebbe dovuto passare dal Guitar Centre
a ritirare una preziosa sei corde costruita apposta per il chitarrista
Les Paul.
In realtà, con i 1.500 dollari che gli ha dato il suo manager Bernie
Brill stein, John si compra un pedale per la cassa della sua batteria
e, soprattutto, fa rifornimento di eroina e coca. Con lui, c’è Catherine
Smith, una ex groupie piuttosto nota nell’ambiente dello show
business californiano.
I due bevono qualche drink in un locale sopra il Roxy, uno dei
music club più famosi della Città degli Angeli, e quindi si recano al
Rainbow Bar & Grill per una rapida cenetta. Quando tornano al
Chateau Marmont, vengono raggiunti da Robin Williams, Robert De
Niro e da alcune starlette per un party improvvisato.

Finita la festa, Belushi si fa una dose di speedball, potentissimo


mix di cocaina ed eroina.
Nudo, sul letto, il corpo di John Belushi appare senza vita quando
il suo amico Bill Wallace e la stessa Catherine Smith (che, nel
frattempo, si era allontanata) rientrano nel bungalow numero 3.
Disperati, i due chiamano un medico (il dottor Thomas Noguchi)
che non può far altro che riscontrare la morte dell’attore.
John Belushi ha trentatré anni.
Il 10 marzo la salma di Belushi viene tumulata nel cimitero di
Abel’s Hill sull’isola di Martha’s Vineyard, di fronte a Boston. L’amico
e Blues Brother Dan Aykroyd guida la processione a bordo della sua
Harley Davidson.
Qualche mese dopo, Catherine Smith ammette di aver
colpevolmente somministrato a Belushi la dose fatale di speedball.
“Ho ucciso John Belushi”, dichiara al «National Enquirer».
Viene condannata per omicidio preterintenzionale, ma uscirà di
prigione dopo soli diciotto mesi.

Un minuscolo Beechcraft Bonanza F35 del 1955 sta sorvolando due


ville nei dintorni di Leesburg, cittadina della Lake County, nella
Florida centrale. Una appartiene a Jerry Calhoun (proprietario della
compagnia di autobus Florida Coach), l’altra ad Andrew Aycock,
autista del tour bus di Ozzy Osbourne. Aycock ha portato qui la band
di Osbourne dopo il concerto del 17 marzo al Civic Coliseum di
Knoxville, Tennessee. La prossima tappa del tour Diary Of A
Madman è a Orlando, Florida, e dunque Leesburg (che è sulla
strada) sembra il luogo ideale per rilassarsi.
Tra le due abitazioni c’è una pista per i piccoli velivoli di Calhoun e
Aycock. Quest’ultimo ha già fatto provare il brivido del volo al
tastierista della band Don Airey e al manager Jake Duncan: ora è il
turno del chitarrista, Randy Rhoads.
Randy ha paura di volare, ma si fida di Aycock, anche perché, a
bordo con loro, sale Rachel Youngblood, truccatrice e parrucchiera
personale di Ozzy.
Rachel è una signora matura con qualche disturbo cardiaco e
quindi “sarà meglio che tu non le faccia prendere uno spavento”,
suggerisce Rhoads ad Aycock. Randy Rhoads ha l’hobby della
fotografia: l’idea di fare qualche scatto dall’alto lo intriga.
L’aeroplano decolla.
Dopo un paio di morbide virate, Aycock decide di fare uno scherzo
al resto della band che sta riposando nel tour bus. Sfiora due volte
l’automezzo, perché passandogli così vicino provoca un rumore
infernale.
La terza incursione risulta però fatale: l’ala sinistra del Beechcraft
Bonanza tocca la coda del bus, distrugge il tetto in fibra di vetro del
mezzo, si spacca a metà e fa perdere il controllo del velivolo, che
riesce miracolosamente a superare un paio di alberi, ma poi finisce
per schiantarsi contro un’abitazione lì vicina prendendo
immediatamente fuoco.
Il pilota Andrew Aycock (trentasei anni) e i due passeggeri, Rachel
Youngblood (cinquantotto anni) e Randy Rhoads (venticinque anni)
muoiono all’istante. I loro corpi, carbonizzati, vengono riconosciuti
solo attraverso le lastre dei denti.
L’esame autoptico mostra tracce di cocaina nel sangue di Aycock.
Non solo: la polizia scopre che il suo brevetto di pilota è scaduto.
“Noi tutti dormivamo”, ricorda Ozzy Osbourne, “all’inizio, quando
abbiamo sentito il rumore dell’aereo, non abbiamo capito. Poi c’è
stato lo schianto: credevamo che l’autobus fosse finito fuori strada…
c’erano pezzi ovunque. È stato un incidente terribile, non certo uno
dei miei ‘trucchi’, come qualche stronzo ha insinuato”.
“Randy era un chitarrista fantastico, un eroe della sei corde,
un’autentica leggenda”, continua Ozzy, “ma anche un amico leale,
una persona buona. Sono rimasto scioccato. Ogni anno, nel giorno
dell’anniversario della sua scomparsa, i suoi fan vanno a rendere
omaggio alla sua tomba. Non lo dimenticherò mai”.
I funerali di Randall William Rhoads si svolgono nella First
Lutheran Church di Burbank, California. Randy è sepolto nella tomba
di famiglia presso il Mountain View Cemetery di San Bernardino,
California.

Sono le otto e un quarto di sera. Lester Bangs sta rientrando nel suo
appartamento al numero 542 della Sesta Strada, a nord della
Quattordicesima.
Non si sente bene.
Dev’essere quella brutta influenza che c’è in giro che lo sta
abbattendo da un paio di giorni. Il suo vicino di casa (Abel Shaker) lo
vede, lo saluta e capisce che qualcosa non va.
“Tutto bene Les?”.
“Sì, sto una meraviglia…”.
Lester diceva sempre a tutti così: sto una meraviglia… E mai,
come negli ultimi sei mesi, aveva detto la verità: aveva smesso con
le droghe e persino il suo loft (celebre per il degrado e lo squallore)
sembrava rimesso a lucido. Lester entra in casa, non chiude
nemmeno la porta, mette sul piatto del giradischi il suo album
preferito di quei giorni e crolla sul divano: nel giro di mezz’ora la sua
amica Nancy Stillman arriverà per una serata di musica.
Vuole riposarsi un pochino.
Quando Nancy arriva, vede Lester sul divano, a faccia in giù, con
un braccio che penzola. È una posa abituale per lui, quando sta
dormendo.
Solo che stavolta Lester non dorme…
Sul piatto sta girando il miglior album degli Human League
(DARE), ma Lester Bangs, il più famoso giornalista rock della storia,
non lo sta più ascoltando. È morto da qualche minuto, forse per una
dose d’eroina tagliata male, forse per un mix letale di droga e
farmaci ingeriti per curare l’influenza.
Il ragazzo che aveva mandato la sua prima recensione a «Rolling
Stone» con una nota a pie’ di pagina (“Se non la pubblicate, mi
dovete spiegare il perché”) ora giace senza vita, senza ancora aver
compiuto trentaquattro anni, come molti dei suoi eroi musicali.
Eccentrico, irriverente, trasgressivo e geniale, Lester Bangs è
stato il “Jimi Hendrix della critica rock”: talmente originale che tentare
di copiarlo diventa un’operazione ai confini del ridicolo.
Bangs non ha mai avuto timore di stroncare i grandi, specie
quando i grandi sbagliavano.
Solo per un artista ha avuto una predilezione speciale: Lou Reed.

Martin Chambers e Chrissie Hynde non ce la fanno più.


Una volta finito il tour mondiale dei Pretenders (ultima data a
Bangkok, in aprile) decidono di indire una riunione della band: c’è da
decidere che fare con Pete Farndon, bassista e membro fondatore
del gruppo insieme al chitarrista James Honeyman-Scott e al
batterista Martin Chambers.
Farndon ha un problema grave: la sua tossicodipendenza
dall’eroina è ormai ingestibile e ne pregiudica l’efficienza fisica,
artistica e professionale.
James Honeyman-Scott, o Jimmy, come viene chiamato, è volato
a Londra direttamente dal Texas.
Da quando ha conosciuto e sposato Peggy Sue Fender (una
ragazza texana) vive ad Austin e sta cercando casa lì. Mentre si
trova nello Stato della stella solitaria, Jim non disdegna nuove
avventure artistiche: coproduce un album di Stephen Doster (che
non sarà mai pubblicato), ma soprattutto sta provando a mettere in
piedi un progetto chiamato The Boss Weird, insieme a Jol Dantzig
ed Elliot Easton.
Ma quando i Pretenders chiamano, Jimmy non si tira indietro.
Prende un aereo e va a Londra.
Honeyman-Scott e Farndon sono amici dal 1978: era stato proprio
Farndon a proporre a Jimmy di entrare nella band che stava
formando.
Oggi, 14 giugno 1982, è Jimmy a dover decidere se (su pressione
di Chrissie e Martin) licenziare il suo amico.
“Pete era davvero in pessime condizioni”, ricorda Martin
Chambers, “non a veva senso che continuasse a lavorare con noi:
avrebbe fatto male alle sorti dei Pretenders e alle sue”.

Passano due giorni.


Chrissie Hynde riceve u na telefonata. A casa di un comune a
mico, un musicista dei Pretenders è stato trovato morto. No, non si
tratta di Pete Farndon. È James Honeyman-Scott: ha avuto un
infarto, causato pare da intolleranza alla cocaina.
Jimmy, chitarrista originale e bravissimo, aveva venticinque anni.
Neanche un anno dopo, il 14 aprile 1983, Conover Farndon (la
modella americana che ha sposato Pete) entra trafelata in bagno
appena in tempo per vedere il marito che sta morendo annegato
nella vasca da bagno.
Un’overdose di eroina gli è stata fatale.
La leggenda dei veri Pretenders (gli “imbroglioni”) finisce di fatto
qui.

Sono quasi le nove del mattino. La cantante Karen Carpenter, che


insieme al fratello Richard ha dato vita a una delle più celebri coppie
artistiche d’America, i Carpenters, è stesa priva di conoscenza sul
pavimento di una camera da letto nella casa dei genitori.
Sua madre se ne accorge e chiama subito un’ambulanza: la
cantante viene trasportata d’urgenza al Downey Community Hospital
ma, nemmeno un’ora dopo, i medici ne dichiarano la morte.
Causa del decesso: “Irregolarità cardiache causate da
complicazioni legate a una grave forma di anoressia nervosa”.
La ragazza sorridente che quando saliva sul palco incantava tutti
con la sua splendida voce, l’artista che insieme al fratello nel 1972
era stata invitata dal presidente Nixon alla Casa Bianca come
simbolo della “gioventù americana al suo meglio”, non esisteva più
da tempo.
A metà degli anni Settanta, i Carpenters avevano piazzato diversi
singoli ai vertici delle classifiche, ma il successo aveva portato con
sé anche grandi pressioni, che non avevano giovato affatto al già
fragile equilibrio psicofisico di Karen.
Aveva circa diciassette anni quando il dottore le aveva prescritto la
prima dieta dimagrante: l’immagine riflessa dallo specchio non
combaciava affatto con quella che Karen aveva di sé e non faceva
altro che ripetere in modo ossessivo a se stessa e agli altri che
quello era solo l’inizio. Sembrava fermamente decisa a rimodellare il
proprio corpo… ad o gni costo.
A metà degli anni Settanta, la quantità di pillole assunte per
velocizzare il metabolismo era aumentata in maniera inversamente
proporzionale al cibo consumato ad o gni pasto.
Stesso discorso per i lassativi, ai quali Karen ricorreva per evitare
di vomitare, pratica che a vrebbe potuto danneggiarle le corde
vocali.
Il suo fisico era così debilitato che nel 1975 era collassata sul
palco durante un concerto a Las Vegas.
A quel punto i suoi famigliari avevano cominciato a rendersi conto
dell’effettiva gravità del problema, e anche Karen era spaventata da
ciò che le stava accadendo.
La sua vita era un vero disastro, perfino il suo matrimonio con
l’agente immobiliare Thomas James Burris, celebrato nell’agosto del
1981, era naufragato nel giro di poco più di un anno. Così si era
rivolta a uno psicoterapeuta di New York affinché la aiutasse a
sconfiggere l’anoressia: la nuova terapia, però, non convinceva
affatto la sua famiglia, perché la cantante era dimagrita
ulteriormente, fino al punto di essere ricoverata per problemi
cardiaci.
Quando il fratello Richard l’aveva raggiunta al Lennox Hospital era
rimasto inorridito: “Non capisci che questa terapia non funziona?”, le
aveva detto, “ti ha fatto finire in ospedale!”.
Così Karen si era convinta a tornare a casa, in California, per
rimettersi in sesto e dare una svolta alla propria carriera, registrando
un nuovo disco col fratello.
Una volta dimessa, però, aveva ricominciato a prendere pillole per
perdere i chili presi in ospedale, dove era stata nutrita attraverso la
somministrazione di cibo via flebo.
Il suo cuore, ormai troppo debole, non aveva retto, e nel giro di
pochi mesi tutte quelle medicine le avevano fatto perdere non solo i
“chili di troppo”, ma la vita stessa.
Karen Anne Carpenter se n’è andata circa un mese prima di
compiere trentatré anni, lo stesso giorno in cui avrebbe dovuto
firmare i documenti per rendere effettivo il divorzio da Burris.
Dopo la sua morte, in America si comincerà a parlare seriamente
e in modo approfondito di anoressia, una malattia già diffusa ma la
cui reale gravità a quei tempi non era ancora stata compresa, e la
sua famiglia darà vita alla Karen A. Carpenter Memorial Foundation,
per raccogliere fondi destinati alla ricerca sull’anoressia e i disordini
alimentari.
Sono le sei del mattino. Dopo un sabato notte di bagordi, Felix
Pappalardi (leggendario produttore dei Cream e bassista del power
trio Mountain) sta facendo ritorno nel suo lussuoso appartamento
dell’Upper East Side di Manhattan.
Quando entra nella sua camera da letto, scorge un’ombra: è
quella di Gail Collins, sua collaboratrice artistica, grafico delle
copertine degli album dei Mountain e sua moglie da diversi anni.
Gail impugna una pistola Derringer calibro 38.
È sufficiente un colpo, ben mirato, in pieno collo. Il musicista crolla
a terra, nella sua camera da letto e muore dopo pochi istanti.
Gail chiama il suo avvocato, ma non il pronto soccorso.
Quando sul posto giunge la polizia, Gail Collins viene
immediatamente arrestata e portata in prigione con l’accusa di
omicidio.
Da sempre professionalmente gelosa del marito (la Collins ha
scritto i testi della maggior parte delle canzoni dei Mountain e,
qualcuno dice, anche di alcuni grandi successi dei Cream, come
Strange Brew), Gail in quei giorni è però ossessionata da un altro
tipo di gelosia. Valerie Merians, bionda mozzafiato di ventisette anni
e aspirante cantante, sta ronzando intorno a Felix con troppa
frequenza. Le malelingue sostengono che tra i due ci sia del tenero.
“Vuoi sapere la verità?”, dice la Collins. “Quello stronzo ci stava
insieme da almeno dieci mesi… qualche suo amico mi ha detto che i
due si volevano sposare”. La Merians, dal canto suo, non fa niente
per calmare le acque: mostra a tutti i regali che Felix le ha fatto.
Gail Collins resta in carcere sino alla fine del processo.
La sua linea difensiva appare paradossale: Felix Pappalardi, dice,
è morto per un tragico incidente. “Mi stava mostrando come funziona
un’arma da fuoco quando, accidentalmente, è partito un colpo”.
Per quanto assurda, la tesi viene accolta dalla giuria, tanto che, il
22 settembre del 1983, Gail Collins viene accusata di negligenza nei
soccorsi e condannata a soli quattro anni di galera.
Infuriato, il giudice della Corte Suprema di Manhattan (James Leff)
rilascia una dichiarazione piccata attraverso cui si dissocia dalla
decisione della giuria.
Liberata sulla parola nel 1985, Gail Collins fa perdere le sue
tracce: c’è chi dice che viva in Louisiana, chi (addirittura) sostiene
che sia morta.
Felix Pappalardi giace in una tomba a fianco di quella di sua
madre nel cimitero di Woodlawn, nel Bronx.

Al Queen Elisabeth Hospital muore Chris Wood, polistrumentista


noto per essere stato con Steve Winwood, Dave Mason e Jim
Capaldi membro fondatore della rock band Traffic.
Alcolista, tossicodipendente, da anni alle prese con gravi problemi
di salute, Chris si deve arrendere a una polmonite che lo stronca, in
pochi giorni, all’età di trentanove anni.
Proprio nella natia Birmingham, Chris Wood inizia la sua carriera
musicale.

Nel 1967, alla Elbow Room, incontra Steve Winwood e con lui
inventa i Traffic.
Suona in tutti i dieci album ufficiali del gruppo, partecipa con
Winwood alle session del leggendario ELECTRIC LADYLAND di
Jimi Hendrix, si unisce alla band di Ginger Baker, suona con John
Martyn, parte per l’America per un tour insieme a Dr John. Lì si
innamora e sposa una delle coriste del dottore di New Orleans (la
bella Jeanette Jacobs). Poi, ritorna in Inghilterra.
Mette in piedi un suo studio di registrazione a Birmingham e inizia
a lavorare a VULCAN, e cioè a quello che sarebbe dovuto essere il
suo primo album da solista.
Ma la salute comincia a rendergli la vita difficile.
Il 1° gennaio 1982, l’ex moglie Jeanette muore improvvisamente.
Chris, che le era molto attaccato, prende malissimo la notizia.
Da quel momento inizia la sua inarrestabile discesa verso il fondo.
Di lui, si ricordano le delicate melodie suonate al flauto e i
folgoranti assolo di sax. Insieme ai Traffic assolutamente
indimenticabile è la versione neofolk della ballad tradizionale John
Barleycorn, presente nella cultura anglo-scoto-irlandese e incentrata
su un personaggio popolare, che è poi lo spirito e l’incarnazione
della birra e del whisky, proprio come la metafora usata
nell’omonimo romanzo di Jack London contro l’alcolismo.

Dennis Wilson, il trentanovenne batterista dei Beach Boys, è ospite


sull’imbarcazione dell’amico Bill Oster, ormeggiata al molo di Marina
del Rey, proprio accanto all’attracco della sua amata barca
Harmony, che solo un paio di mesi fa si è trovato costretto a
vendere. Da qualche tempo, infatti, Dennis è in bancarotta e vive alla
giornata, chiedendo costantemente ospitalità ad amici e conoscenti.
Il musicista è di buonumore, ma inizia a bere vodka fin dalle prime
ore del mattino, nonostante i ripetuti e inutili tentativi degli amici di
distrarre la sua attenzione dalla bottiglia. Oster ricorda: “Era felice.
Stavamo architettando un piano per riacquistare la sua barca”.
Il manager di Wilson, Robert Levine, gli aveva addirittura
promesso che avrebbe riacquistato l’Harmony, a patto che lui stesse
alla larga dall’alcol per un mese intero.
Così, qualche giorno prima di Natale, Dennis si era recato al St
John Hospital and Health Center di Santa Monica, dove il dottor Joe
Takamine gli aveva prescritto una cura a base di Librium, “in modo
da poter iniziare il programma di disintossicazione entro cinque
giorni”.
Il giorno di Natale, però, Wilson aveva già lasciato l’ospedale.
Il 28 dicembre, dopo un pranzo a base di sandwich al tacchino,
Dennis passa a salutare Lathiel Morris, un vecchio amico che vive
su una barca lì vicino, il quale ricorda: “Sembrava eccitato più che
ubriaco. Era contento al pensiero che avrebbe riavuto la sua
Harmony”.
Poi i due parlano dell’imminente divorzio di Wilson dalla sua ultima
moglie, la diciannovenne Shawn Love, figlia di Mike Love, cantante
dei Beach Boys e cugino di Dennis, dalla quale l’anno prima ha
avuto il suo quarto figlio, Gage. Il musicista si è sposato con quattro
donne per un totale di cinque matrimoni (di cui due con la
modella/attrice Karen Lamm). Da un paio di settimane Wilson sta
uscendo con un’avvenente brunetta, Colleen McGovern, eppure
confida all’amico: “Sono solo. Sono sempre solo”.
Verso le tre del pomeriggio decide di farsi una nuotata. Gli amici
conoscono bene il suo carattere imprevedibile e testardo: tentano in
tutti i modi di dissuaderlo, ma senza risultati.
Dennis, indossando solo un paio di pantaloncini jeans e una
maschera da sub, si tuffa nelle gelide acque dell’oceano: la
temperatura dell’acqua è di 14 gradi. Nonostante l’alcol in corpo, si
immerge agilmente più volte fino a quattro metri di profondità,
risalendo in superficie con diversi oggetti trovati sul fondale marino,
tra i quali una cornice d’argento contenente una foto che lo ritrae
insieme all’ex moglie Karen Lamm. Era stato lui stesso a lanciarla
dall’Harmony durante l’ennesima lite, sei anni prima.
Tornato a bordo, inizia a tremare per il freddo, ma il suo unico
pensiero è di tuffarsi nuovamente in cerca di altri tesori sommersi. Là
sotto ci sono i pezzi di una vita felice andata in frantumi e Dennis
sente di doverli recuperare, in un ultimo, strenuo tentativo di
rimettere le cose a posto.
“Pensava di aver trovato una scatola. La chiamava ‘lo scrigno
pieno d’oro’. Probabilmente si trattava di una cassetta per gli
attrezzi”, afferma Oster. “Era semplicemente il solito Dennis,
divertente, adorabile, che si divertiva a fare il buffone e intratteneva i
suoi amici”.
Ancora una volta Wilson non ascolta le suppliche dei compagni,
che lo implorano di non tornare in acqua, e si immerge di nuovo.
Alle quattro e un quarto riappare per l’ultima volta: “Non sembrava
avere alcun problema”, ricorda Oster. “Ha soffiato un po’ di bolle e
poi ha nuotato lentamente verso la lancia. Sembrava volesse
nascondersi. Pensavo stesse facendo il pagliaccio, così mi sono
appostato sul molo per sorprenderlo”.
Dennis, però, non riemerge più: alle quattro e quaranta Oster
chiama una pattuglia del porto, denunciandone la scomparsa. Nel
frattempo, gli amici perlustrano disperatamente i moli vicini e i bar
del porto, nella speranza che si tratti di “una tipica pazzia alla
Dennis”.
Purtroppo non è così: il corpo senza vita di Dennis Carl Wilson
viene ripescato alle cinque e mezzo.
Il certificato di morte parla di annegamento accidentale, anche se
l’autopsia rivela, oltre al Librium, una significativa presenza di alcol e
cocaina. Tra le controindicazioni del farmaco vi sono reazioni
psicotiche, stati comatosi, grave insufficienza respiratoria. Se
affiancato all’alcol, può risultare letale.
Questo tragico incidente mette fine simbolicamente alla carriera
dei Beach Boys, anche se il famoso gruppo californiano che negli
anni Sessanta ha lanciato la moda della surf music, con hit quali
Surfin’ Safari, Surfin’ Usa o I Get Around, da tempo è ormai agli
sgoccioli.
I continui attriti tra i vari membri stanno logorando sempre di più la
band. Il bassista e compositore del gruppo, Brian Wilson, sembra
aver esaurito la carica creativa, soprattutto a causa di disturbi della
personalità e problemi di tossicodipendenza. E anche Dennis, suo
fratello minore, dopo aver pubblicato un album solista nel 1977,
PACIFIC OCEAN BLUE, da tempo non compone più e sta appunto
affrontando ingenti problemi finanziari, oltre a quelli con l’alcol. Da
sempre considerato la pecora nera del gruppo, a causa del suo
comportamento dissennato negli ultimi tempi, è stato addirittura
escluso dai guadagni della band.
“È difficile immaginare che una sola persona riesca a spendere
così tanti soldi”, dirà Steve Love, manager dei Beach Boys negli anni
Settanta. “Era fuori controllo e generoso fino all’autodistruzione”.
Fred Vail, un amico di Dennis, afferma che la sua morte prematura
era quasi inevitabile: “Sapevo che Denny non era il tipo di persona
che vive fino a tarda età. Non era proprio quello il suo destino.
Sfidava continuamente i propri limiti”.
Quindici anni dopo la morte, anche la seconda moglie Barbara
Charren dichiarerà che Wilson era già un uomo morto, ben prima
della sua morte fisica.
D’altronde, il suo deterioramento negli ultimi anni di vita è sotto gli
occhi di tutti, e segue il triste copione della storia della maggior parte
degli alcolisti, tra inutili tentativi di cure, in una strenua e impari lotta
col vizio.
L’autore Adam Webb, nel suo libro Dumb Angel, scrive: “L’oceano
che gli aveva dato la vita alla fine l’aveva richiamato a sé”.
Queste parole suonano ancor più bizzarre e tristi se si considera
che il “figlio dell’oceano” non avrebbe nemmeno dovuto far parte dei
Beach Boys…
Fin dalla nascita, Dennis sviluppa una grande passione per il
mare. In una celebre dichiarazione del 1976 afferma: “Non capisco
come mai nessuno viva sulla spiaggia, sull’oceano. Non ha senso,
secondo me, stare nella sporca, orrenda città. È per questo che ho
sempre amato e sono sempre stato orgoglioso di essere un Beach
Boy; ho sempre amato quest’immagine. Sulla spiaggia puoi vivere in
beatitudine”.
In realtà, quando in famiglia si inizia a parlare di formare un
gruppo, i fratelli Brian e Carl Wilson, il cugino Mark Love e l’amico Al
Jardine non vogliono includere anche Dennis, la cui voce non
possiede né l’estensione né il timbro cristallino degli altri.
Alla fine però Brian cede, in seguito alle insistenze della madre.
Nonostante venga sempre escluso dalle fasi di composizione e
spesso anche dalla sala di registrazione, tra i cinque è però Dennis
l’unico vero surfer, colui che in ultima analisi consegna alla band la
chiave del successo, quando suggerisce agli altri Beach Boys l’idea
di scrivere canzoni in tema con il suo sport preferito. Inoltre il suo
aspetto attira le attenzioni delle ragazze: è lui “il bello” del gruppo.
Il suo carattere solare, generoso e ingenuo, però, lo porta spesso
ad essere vittima degli eventi. Dal 1968 in poi il suo nome è
accostato a quello del più terribile criminale americano del decennio:
Charles Manson.
Nel 1968, Dennis dà un passaggio a due autostoppiste, Ella Jo
Bailey e Patricia (Katie) Krenwinkel: le porta a casa, passa la serata
con loro e poi si reca in studio di registrazione.
Al suo ritorno, però, verso le tre di notte, trova in casa una dozzina
di membri della “Famiglia” Manson, che si stabiliscono nella sua
tenuta al 14400 di Sunset Boulevard per diversi mesi e in numero
sempre crescente.
Charles Manson vuole procurarsi i contatti giusti per poter incidere
un disco e diventare finalmente una rockstar, e sa perfettamente su
che tasti battere per assicurarsi l’amicizia e il sostegno di Dennis: la
droga e le donne.
In cambio di ciò, Wilson lascia la sua casa e le sue finanze a dispo
sizione del Wizard, come lo chiama lui, il “mago”.
Nessuno conosce la vera natura del loro rapporto. Certo è, però, il
fascino perverso che questo strano personaggio esercita sul
musicista.
In seguito alle ripetute pressioni di Manson, Wilson riesce a far
incidere ai Beach Boys la canzone Cease To Exist, di cui però il
gruppo modifica il testo, intitolandola Never Learn Not To Love,
includendola nell’album del 1969, 20/20. Inutile dire che le modifiche
al brano scatenano l’ira di Manson. Dennis, però, non è più disposto
a farsi sfruttare, e taglia ogni rapporto con l’oscuro personaggio.
D’altra parte, ospitare la “Famiglia” gli è costato ben centomila
dollari, escludendo la distruzione di una Mercedes Benz da 21mila
dollari e “il conto per la cura della gonorrea più caro della storia”.
Dopo gli efferati omicidi compiuti dai seguaci di Manson il 9 e 10
agosto 1969, Wilson non rilascia più alcuna dichiarazione sul loro
rapporto, o comunque ne parla malvolentieri.
In un’intervista di qualche anno dopo, riguardo all’accaduto
dichiarerà: “Io so perché Manson ha fatto quello che ha fatto. Un
giorno, lo dirò al mondo. Scriverò un libro e spiegherò il perché.
Negli anni, le persone hanno sempre voluto sapere cosa è
successo, com’era il mio rapporto con Charlie. Eravamo amici. Non
ho testimoniato al processo. Non potevo. Ero troppo spaventato”.
Quando apprende la notizia dell’annegamento di Wilson, Charles
Manson afferma: “Dennis Wilson è stato ucciso dalla mia ombra,
perché lui ha preso la mia musica e ha cambiato le parole della mia
anima”.
Un giorno, mentre si trovava a bordo della sua amata Harmony,
Dennis aveva detto di appartenere all’oceano, ed era lì che avrebbe
voluto essere seppellito.
Nonostante questa pratica non sia consentita per la popolazione
civile, il presidente Reagan in persona concede il permesso per la
sepoltura in mare e il 9 gennaio 1984 il corpo di Dennis Wilson viene
restituito alle profondità dell’Oceano Pacifico.

È la sera del 25 settembre 1975 e al Latin Casino di Cherry Hill, New


Jersey, il cantante rhythm’n’blues Jackie Wilson, conosciuto anche
con il soprannome di “Mr Excitement”, per via delle movenze sexy
capaci di mandare in visibilio il suo folto pubblico femminile, è ospite
dello show di Dick Clark Good Ol’ Rock’n’Roll.

Il suo ultimo successo risale al 1972 e Mr Excitement, da qualche


tempo, ha dovuto ripiegare su un pubblico più maturo, come quello
che stasera si è radunato al Latin Casino. Wilson si sta cimentando
in uno dei suoi classici, Lonely Tear drops, ma a un tratto, mentre sta
cantando il verso “My heart is cry ing”, viene colto da un infarto. Il
cantante perde i sensi e cadendo a terra batte violentemente la
testa: trasportato d’urgenza in ospedale, entra in coma.
Dopo circa quattro mesi i medici riescono a fargli riprendere
conoscenza, ma il trauma subìto dal cervello a causa della
prolungata assenza di ossigeno è molto grave e Wilson rimane in
uno stato vegetativo.
La parte del suo cervello atta a comandare la vista, l’udito o la
capacità di parlare è morta: Mr Excitement, l’ex pugile divenuto
celebre con il gruppo R’n’B dei Dominoes, l’uomo che un tempo
sprizzava energia e carica sessuale da tutti i pori e le cui movenze si
dice abbiano influenzato e ispirato quelle di un giovane Michael
Jackson, rimarrà immobilizzato in un letto fino alla fine dei suoi
giorni.
Jack Leroy “Jackie” Wilson jr se ne andrà il 21 gennaio 1984, a
quarantanove anni, dopo essere stato ricoverato al Memorial
Hospital di Mount Holly, New Jersey, in seguito a un attacco di
polmonite.

Quando i paramedici raggiungono la tenuta di Gramercy Place,


distretto di Crenshaw, Los Angeles, trovano il reverendo Marvin
Pentz Gay sr seduto in veranda. A terra nel cortile c’è una pistola, e
suo figlio Marvin jr giace gravemente ferito sul pavimento della sua
camera: respira ancora mentre viene trasportato d’urgenza al
California Hospital Medical Center, 1414 Hope Street.
Ma questa corsa contro il tempo si rivela vana.
Alle tredici e uno, Marvin Pentz Gay jr viene dichiarato morto.
Il giorno dopo avrebbe compiuto quarantacinque anni.
Cosa è successo quella mattina del 1° aprile?
Si è trattato di un tragico incidente, oppure dell’inevitabile epilogo
di una travagliata e complessa vicenda famigliare?
Per rispondere a questi interrogativi è necessario fare un viaggio a
ritroso nel tempo e ricostruire i fatti addentrandosi in un intricato
labirinto umano, tra le luci accecanti e gli eccessi del music business
e le ombre scure che hanno infestato la vita privata dell’artista.
Da quasi un anno, Marvin era tornato a vivere con i genitori nella
tenuta che lui stesso aveva regalato loro, grazie ai guadagni di una
carriera di successo. Eppure, dietro a questo quadretto famigliare,
dietro alle sue canzoni d’amore e alle profonde idee spirituali, si
nascondeva un uomo insicuro, fragile e tormentato.
Le tracce di questa controversa personalità sono da ricercare
nell’infanzia: cresciuto da un predicatore fondamentalista della
House Of God, il giovane Marvin fin da piccolo conosce la violenza e
le assurde proibizioni di un padre severo, che vuole trasferire in casa
le leggi del Vecchio Testamento, interpretando i salmi a suo
vantaggio e imponendo sulla famiglia il suo dominio assoluto.
“Eravamo una famiglia fuori dal comune”, afferma Frankie, il
fratello minore di Marvin.
Il fatto che il capofamiglia picchi violentemente i figli con una
cintura, che allo stesso tempo ecceda con l’alcol e ami vestirsi con
abiti femminili, non fa che comprovare quest’idea. La sua rabbia in
particolar modo si sfoga contro Marvin, quello dei fratelli che più gli
tiene testa e ama sfidarlo.
Eppure, se questi da un lato cerca di distanziarsi il più possibile
dalla figura paterna – arrivando perfino ad aggiungere la “e” finale al
proprio cognome, anche per timore di possibili fraintendimenti –
dall’altro cerca sempre, invano, la sua approvazione e il suo
supporto.
Alberta Gay, madre di Marvin jr, ricorda: “Mio marito non ha mai
voluto Marvin, non gli è mai piaciuto. Per un qualche motivo non lo
amava e voleva che nemmeno io lo amassi. Marvin era solo un
bambino quando ha capito come stavano le cose”.
“Vivere con mio padre era come vivere con un re crudele e
onnipotente”, dice il cantante al biografo David Ritz. “Dovevi fare
qualsiasi cosa per ottenere il suo consenso. Io non lo facevo mai.
Anche se conquistare il suo amore era lo scopo ultimo della mia
infanzia, io lo sfidavo. Odiavo il suo comportamento. Se non fosse
stato per mia madre, che mi consolava sempre e mi incoraggiava a
cantare, penso che sarei stato uno di quei casi di suicidio infantile di
cui si legge sui giornali”.
Così, non appena Marvin conosce il successo e ottiene i primi
guadagni, si sfoga con tutto ciò che gli è sempre stato proibito: la
droga e gli eccessi. La fase centrale della carriera lo vede
consumare quotidianamente grandi quantità della cocaina più cara,
costringere le sue partner a perversi giochi sessuali e accumulare
debiti su debiti per permettersi ogni tipo di lusso. Le droghe, però,
oltre a dilaniargli il fisico, minano seriamente la sua salute mentale: i
suoi comportamenti diventano sempre più assurdi.
Assieme a paranoia e omofobia, le sue insicurezze crescono a
dismisura, così come il suo ego. Non si presenta a session di
registrazione e importanti appuntamenti, arriva in ritardo ai concerti,
alla stampa dichiara di voler essere ricordato come “il più grande
artista di tutti i tempi” e per un periodo pensa persino di imporsi
come guida religiosa.
I debitori, nel frattempo, gli stanno alle costole: discografici,
promoter e la ex moglie Anna Gordy – sorella del boss della Motown
Berry Gordy – di diciassette anni più grande, che lui ha tradito con la
diciassettenne Janice Hunter.
Le uniche soluzioni per risolvere i problemi finanziari sono la
pubblicazione di nuovo materiale e una tournée promozionale.
Peccato che Marvin odi andare in tour: spesso, infatti, per superare
la paura del palcoscenico si porta dietro la madre, oltre ovviamente a
triplicare il consumo di droghe.
Il circolo vizioso sembra non avere mai fine.
Nel 1979 interrompe ogni attività e si rifugia alle Hawaii.
“I problemi erano diventati troppo grandi per me”, dichiara riguardo
a quel periodo. “Volevo stare da solo per potermi spazzare il cervello
con potenti sniffate. Sarebbe stata una morte lenta ma relativamente
piacevole, sicuramente più pulita di una pistola”.
Lo scrittore David Krajicek riporta che a una volta aveva assunto
circa 30 grammi di coca in un’ora per poi dire addio alla madre per
telefono, convinto (erroneamente) di morire per overdose.
Il 1983 lo vede risalire leggermente la china grazie al successo del
brano Sexual Healing, contenuto nell’album MIDNIGHT LOVE, che
gli fa vincere due Grammy e gli permette di imbarcarsi in un tour
americano. La sua salute però, al contrario del suo conto in banca,
non migliora affatto.
Alcuni membri della troupe che segue Marvin in concerto
affermano che “c’era più cocaina in quel tour che in tutta la storia
dell’entertainment” e che le abitudini sessuali del cantante stessero
diventando sempre più bizzarre, sconfinando in una vera e propria
ossessione per sesso di gruppo e voyeurismo, per non parlare dei
suoi spogliarelli sul palco.
L’aumento esponenziale delle sue paranoie e fobie lo spinge a
rifugiarsi a casa dei genitori non appena si conclude il tour, ma è
forse la scelta peggiore che possa fare. La madre ricorda: “Non
l’avevo mai visto così male. Era esausto. Le persone che gli stavano
intorno avrebbero dovuto costringerlo ad andare in ospedale, ma
erano tutti al suo servizio”.

Inoltre la situazione in casa è resa ancor più critica dalla difficile


convivenza tra padre e figlio, che non si sono mai riappacificati.
L’astio di Mr Gay verso il figlio è palpabile, ed è oltretutto aggravato
dall’invidia per il successo da lui ottenuto. D’altra parte, è grazie alla
sua “deprecata” carriera che il cantante riesce a mantenere la
famiglia da anni, spodestando in un certo senso il ruolo dominante
del padre e segnando un altro scacco al suo orgoglio ferito.
I due uomini possono a malapena vedersi, anche perché uno dei
passatempi prediletti di Marvin è stuzzicare e provocare il padre, che
più di una volta minaccia: “Se mi tocca, lo uccido”.
Secondo la ricostruzione di Krajicek, i due passano la maggior
parte del tempo chiusi ognuno nella propria stanza, uno a riempirsi
di vodka, l’altro tra pornografia e cocaina. Nonostante la rivalità
atavica che consuma le loro vite, le loro personalità sono ormai
incredibilmente simili: tutto ciò che Marvin ha sempre odiato del
padre pare si sia insinuato lentamente e inconsciamente anche nella
sua psiche.
Se ne accorgono i famigliari e gli amici più intimi, che riconoscono
l’eredità paterna negli atteggiamenti misogini del cantante, negli
attacchi d’ira e nelle sue perversioni. Non ultima la mai sconfitta
depressione, che lo spinge più volte a minacciare il suicidio.
E il pericolo è reale: le sue manie di persecuzione lo portano a
circondarsi di guardie del corpo, a indossare un giubbotto
antiproiettili e a collezionare una serie di pistole che tiene nascoste
sotto il letto. Ormai è convinto che qualcuno stia progettando un
piano per ucciderlo o fare del male alla sua famiglia, e arriva
addirittura a regalare al padre una Smith & Wesson calibro 38 per
Natale.
La sera del 31 marzo 1984, Mr Gay litiga con la moglie per via di
una polizza assicurativa: la incolpa di aver perso documenti
importanti.
Quando si sveglia, il mattino successivo, è ancora arrabbiato.
Sono le undici quando ricomincia a urlare contro la moglie, che si
trova al piano superiore, nella stanza del figlio. Marvin non sopporta
il comportamento del padre, e lo invita a recarsi nella propria stanza
per discutere della questione senza dover urlare dal corridoio, ma
questi si rifiuta.
Alberta ricorda quella lite, e Marvin che sgrida il padre: “Se non
vieni adesso, non entrare mai più nella mia camera”.
Al che, quando si trova il genitore alla porta, si alza infuriato, inizia
a urlare, a spingerlo fuori dalla stanza e picchiarlo violentemente,
facendolo cadere a terra. La madre cerca invano separarli: “Ho
preso Marvin per un braccio, l’ho riportato nella sua stanza e l’ho
fatto sedere sul letto. In quel momento mi ha confidato che doveva
andarsene da quella casa”. Marvin infatti le dice: “Mio padre mi odia
e non tornerò mai più”.
Queste saranno le sue ultime parole.
Qualche attimo dopo, Marvin sr torna nella camera del figlio. In
mano tiene la calibro 38 che lui stesso gli ha regalato. Senza dire
una parola, si dirige verso il letto, la punta verso il cantante e preme
il grilletto colpendolo dritto al cuore. La pallottola gli perfora polmone
destro, cuore, diaframma, fegato, stomaco e rene sinistro. Quando
Marvin si accascia sul pavimento, il padre spara un secondo colpo,
anche se il primo è quello fatale.
Il fratello Frankie si precipita non appena sente gli spari e le urla
della madre, mentre sua moglie Irene, dopo aver chiamato il 911,
scova la pistola sotto il cuscino del suocero e la lancia in cortile.
La cosa che colpisce maggiormente gli investigatori, al momento
dell’arresto di Marvin sr, è che “sembrava più preoccupato riguardo a
quello che gli sarebbe successo, piuttosto che della possibile morte
del figlio”, come dichiara il detective Jim McCahn.
Il dottor Ronald Markman, lo psichiatra che lo esamina in carcere,
afferma che il settantenne non ha agito per autodifesa. Il suo gesto è
stato causato dall’umiliazione subita.
Krajicek riporta che l’autopsia rivela tracce di cocaina e polvere
d’angelo nel corpo della vittima. Il padre, invece, viene trovato con
numerose cicatrici ed ematomi, apparentemente provocati dalla
violenza del figlio.
In seguito a un ulteriore esame gli viene scoperto un tumore al
cervello, cosa che può avere influito sul suo comportamento.
Il 20 settembre 1984, Marvin Gay sr si dichiara colpevole di
omicidio volontario: il patteggiamento viene concesso sulla base
della sua età (settant’anni), l’aggressione fisica e le droghe trovate
nel corpo del figlio.
La sentenza pronunciata il 2 novembre dal giudice Gordon Ringer
stabilisce quanto segue: “In base alle circostanze e in seguito alle
indagini condotte da investigatori abili ed esperti, si può concordare
che la giovane vittima abbia provocato la sua stessa morte”.
Marvin Pentz Gay sr viene condannato a cinque anni di libertà
vigilata, da scontare nella casa di riposo di Inglewood sotto continua
consulenza psichiatrica.
La morte di Marvin è una grave e dolorosa perdita, ma non
sorprende famigliari e amici. Janice, la seconda moglie, afferma:
“Era quasi inevitabile che morisse giovane, considerando il suo stato
mentale ed emotivo. Non avrei mai potuto immaginarmelo vivere fino
a tarda età. Era attratto dal pericolo e dal lato oscuro della vita”.
Andre White, la guardia del corpo del cantante, dichiara al
biografo Steve Turner: “Voleva morire, ma non riusciva a farlo da
solo. Credo che abbia chiesto a suo padre di ucciderlo. Altrimenti
perché gli avrebbe regalato una pistola?”.
Successivamente, anche la madre Alberta condividerà
quest’ipotesi: “Per me suo padre non l’ha ucciso. Marvin si è
suicidato”.
Il padre, invece, una settimana dopo l’omicidio, dichiara alla rivista
«Herald Examiner»: “Ho premuto il grilletto. Stavo solo cercando di
tenerlo lontano da me. Voglio che la gente sappia che non l’avevo
premeditato”. Quando gli chiedono se amasse il figlio, risponde:
“Diciamo che non mi dispiaceva”.

La prima tournée americana degli Hanoi Rocks viene


inaspettatamente interrotta a causa di un piccolo incidente: il
frontman Michael Monroe si frattura una caviglia e la band glam rock
finlandese è costretta a prendersi una pausa.
La California, però, non è certo un posto noioso per prendersi una
breve vacanza, soprattutto se si hanno degli amici come Vince Neil,
cantante dei Mötley Crüe. Neil, infatti, invita i ragazzi a fargli visita
nella sua casa di Redondo Beach: darà un grande party, ci sarà un
sacco di gente e ogni tipo di “divertimento”.
Il batterista Razzle Dingley non si fa certo pregare: l’idea di
passare una giornata a Redondo Beach e far festa a casa dell’amico
è davvero un ottimo programma. E come lui sono in molti a pensarlo,
tanto che, a un certo punto, la riserva di alcolici comincia a languire.
Neil decide così di fare una spedizione al più vicino negozio di
liquori per far rifornimento e Razzle si offre di accompagnarlo.
Nonostante entrambi abbiano bevuto ben oltre il limite consentito
dalla legge, salgono in auto e partono a tutta velocità: si è mai visto
un cantante rock ubriaco guidare una De Tomaso Pantera
preoccupandosi di rispettare il codice stradale?
A un tratto, però, all’incrocio tra la Avenue A ed Esplanade, Neil
perde il controllo dell’autovettura e va a schiantarsi frontalmente
contro un veicolo proveniente nell’opposta direzione di marcia.
L’impatto è violentissimo: i due passeggeri a bordo dell’altra
vettura si feriscono gravemente, mentre il cantante dei Mötley Crüe
se la cava con qualche escoriazione. È Razzle ad avere la peggio:
trasportato con la massima urgenza al South Bay ER, il batterista
viene dichiarato morto al suo arrivo, alle diciannove e dodici.
Vince Neil viene accusato di omicidio colposo e guida in stato
d’ebbrezza e condannato a un mese di carcere più cinque anni di
libertà condizionata, oltre a duecento ore di servizi sociali e un
risarcimento di 2,6 milioni di dollari da versare alla famiglia della
vittima.
Nicholas “Razzle” Dingley, ventiquattro anni, viene sepolto a
Binstead, Isola di Wight, dove era stato cresciuto dai genitori adottivi.
Vince Neil, rilasciato dopo soli quindici giorni per buona condotta,
dedica a Razzle THEATRE OF PAIN, l’album dei Mötley Crüe
pubblicato circa sei mesi dopo l’incidente.

Il primo a rispondere all’annuncio pubblicato da Brian Jones su


«Jazz News» nel maggio del 1962, per cercare dei musicisti coi quali
formare un gruppo rhythm’n’blues, era stato Ian Stewart, un giovane
e talentuoso musicista originario di Pittenweem, East Neuk of Fife, in
Scozia.

I futuri “glimmer twins”, Mick Jagger e Keith Richards, si sarebbero


uniti a loro circa un mese dopo. Stu, come lo chiamavano gli amici,
era un eccellente pianista blues, boogie e rhythm’n’blues, ma il suo
aspetto fisico, purtroppo, non era elegante quanto il suo tocco
magico sulla tastiera: Stu, come diceva malignamente qualcuno,
sembrava più un minatore che una rockstar.
Per questo, circa un anno dopo, nel maggio del ’63, il manager
degli Stones Andrew Loog Oldham aveva deciso di tagliarlo fuori:
avrebbe potuto danneggiare l’immagine del gruppo destinato a dare
del filo da torcere ai Fab Four. In cambio, Oldham gli aveva offerto
un posto come road manager.
Non solo, Stu avrebbe potuto continuare a prender parte alle
session di registrazione degli album.
Ricorda Keith Richards: “Io lo avrei mandato a farsi fottere, ma lui,
invece, ha accettato. Stu aveva un cuore enorme”.
Così Ian Stewart aveva continuato a dare il suo contributo umano
e artistico alla band, accontentandosi di rimanere nell’ombra e di
svolgere anche mansioni umili: era diventato in qualche modo lo
spirito critico del gruppo, colui al quale gli Stones si rivolgevano per
ottenere preziosi consigli sul nuovo materiale e sugli arrangiamenti
dei brani. E non erano i soli, perché Stewart era stimato da molti
grandi musicisti, come per esempio i Led Zeppelin: c’era proprio lui
dietro il pianoforte durante le registrazioni di Boogie With Stu (nata
da una jam durante le session di PHYSICAL GRAFFITI) e di un
brano epocale come Rock And Roll.
Stu non aveva il look per essere una rockstar e non era nemmeno
tagliato per gli eccessi e i vizi ai quali invece erano dediti i suoi amici:
lo interessavano di più il rhythm’n’blues e il golf. Inoltre, la morte di
Brian lo aveva scosso profondamente.
Eppure il destino aveva in serbo per lui un altro colpo basso: nel
1985, dopo le session di registrazione dell’album DIRTY WORK,
inizia ad accusare disturbi respiratori, e il 12 dicembre si reca dal
suo dottore per un controllo.
Ian Andrew Robert Stewart, quarantasette anni, muore ancor
prima di essere visitato, nella sala d’aspetto, a causa di un attacco
cardiaco.
Lo scrittore scozzese Ian Rankin, circa dieci anni più tardi, rivelerà
di essersi ispirato proprio a Stewart per creare il suo più celebre
personaggio: l’ispettore John Rebus, protagonista di tanti suoi
romanzi.
Rankin scriverà anche il testo di una canzone dedicata a Stewart,
The Sixth Stone, realizzata in collaborazione con il musicista
scozzese Aidan Moffat: “All the way from Pittenweem/ To the
rock’n’roll dream/ All the way from East Neuk, Fife/ Until the end of
your life…”.

Sono le diciassette e zero otto. Il pilota del DC-3 numero N711Y in


volo a 1.800 metri d’altezza chiama la torre di controllo: “Inverto la
rotta e mi dirigo verso Texarcana, ho un piccolo problema”. Passano
pochi istanti e si corregge: “Non credo di riuscire a raggiungere un
aeroporto”.
L’unica è tentare un atterraggio di fortuna. Tre minuti dopo, un
nuovo messaggio: “Fumo nella cabina”.
Alle diciassette e quattordici si tenta l’atterraggio in un campo.
Nella manovra il velivolo urta alcuni fili dell’alta tensione e un palo
che li sorregge: finisce per schiantarsi contro degli alberi nel territorio
di DeKalb, Texas, a pochi metri da una piccola abitazione. L’aereo
prende fuoco. Gli unici a uscire vivi sono i due piloti. Le altre sette
persone a bordo muoiono.
Tra di esse c’è il cantante e attore Ricky Nelson, uno dei teen i dol
di maggiore successo degli anni Cinquanta. Nello schianto periscono
anche la fidanzata Helen Blair, il bassista Patrick Woodward e il
batterista Rick Intveld. Stavano viaggiando da Guntersville,
Alabama, dove avevano tenuto un concerto, con destinazione
Dallas, Texas, dove avrebbero dovuto esibirsi al concerto di
Capodanno organizzato dalla radio KLUV-FM. La carriera di Nelson
era stagnante, ma un tour in Europa gli aveva ridato fiducia e lo
aveva convinto che anche negli Stati Uniti c’era un pubblico pronto
per il revival della musica anni Cinquanta.
Qualcuno diffonde la voce che l’incendio si sia sviluppato dopo
che Nelson e il suo gruppo avevano acceso un fuoco per inalare
freebase, ovvero la forma base della cocaina cloridrato. Ma le cause
sono altre. Il National Transportation and Safety Board ha stabilito
che durante il volo si è registrato un malfunzionamento dell’impianto
di riscaldamento e che da lì si sono sviluppate le fiamme. Il fumo ha
poi invaso la cabina: nonostante l’aria fatta entrare dai finestrini, la
visibilità si era ridotta, rendendo problematico l’atterraggio.
Nelson è sepolto al cimitero Forest Lawn di Hollywood. Due anni
dopo l’incidente è entrato nella Rock and Roll Hall of Fame.
All’inizio degli anni Settanta aveva scritto una canzone intitolata
Gypsy Pilot. Finiva con queste parole: “Quando reclameranno il mio
corpo, non troveranno granché da dire. Diranno: ha avuto una bella
esistenza, ha vissuto ogni singolo giorno. Ha visto l’alba e ha sentito
la pioggia sulla sua pelle. Ha amato ogni singola persona, e spera
che anche tu faccia lo stesso”.

Il paziente che giace in un letto del reparto di cure intensive


dell’ospedale di Salisbury si chiama Phil Lynott, professione rocker.
Non un rocker qualunque: negli anni Settanta, prima dell’avvento
degli U2, il cantante e bassista poteva affermare orgogliosamente
d’essere uno dei rocker più celebri d’Irlanda.
In realtà era nato in Inghilterra da madre irlandese e padre
afroamericano. Ma dopo aver fondato a Dublino gli hard rocker Thin
Lizzy era diventato prima una celebrità locale, poi una star
internazionale sull’onda di brani come Whiskey In The Jar e The
Boys Are Back In Town.

La sua disavventura era i niziata il giorno di Natale del l’85. Era


nella sua casa di Kew, in Inghilterra, con le figlie Sara (sette anni) e
Cathleen (cinque) quando, d’improvviso, era collassato. L’uso di
droga e l’abuso di alcol avevano lasciato il segno.
La moglie Caroline Crow ther era accorsa da Bath, a circa 150
chilometri di distanza. L’aveva portato in u na clinica del Wiltshire
dove avrebbe dovuto disintossicarsi, ma s’era capito quasi subito
che l’emergenza era un’altra. Ricoverato a Salisbury, gli era stata
diagnosticata un’infezione a fegato e reni.
Era troppo tardi per intervenire: portato in terapia intensiva, il 4
gennaio Phil viene tradito dal cuore.
Tre settimane prima gli aveva fatto visita il chitarrista della band
Scott Gorham, che ricorda: “Io mi ero ripulito, lui era messo persino
peggio dell’ultima volta che l’avevo visto. Parlottava del fatto di
tornare a fare concerti, ma per farlo avrebbe dovuto essere
fisicamente e mentalmente a posto, e in quel momento non lo era di
certo”.
Le esequie hanno luogo alla Chiesa dell’Assunzione di Howth
nella baia di Dublino. La tomba si trova nel cimitero di St Fintan a
Sutton.
Dal 2005 una statua di Lynott, in posa fiera con una mano
appoggiata a una basso Telecaster, adorna Harry Street, nel centro
della capitale irlandese: the boy is back in town.

I musicisti della Band alloggiano al Quality Inn. Non è una


sistemazione lussuosa, ma è quel che si possono permettere. Non
sono più il gruppo che accompagnava Bob Dylan e dopo il loro
“Ultimo Valzer”, il concerto d’addio del 1976, la loro storia si è come
sfaldata. Anche se il vecchio leader Robbie Robertson ha intrapreso
la carriera solista, il gruppo canadese si è rimesso assieme e gira
l’America come una qualsiasi bar band: è deprimente per chi ha fatto
la storia del rock.
La sera del 3 marzo, The Band si è esibita alla Cheek To Cheek
Lounge di Winter Park, non lontano da Orlando, una delle capitali
americane dei parchi di divertimento. E ha preso alloggio in quel
motel a pochi isolati di distanza. La sera, dopo il concerto, il cantante
e tastierista Richard Manuel si è fermato a chiacchierare col
batterista Levon Helm e si è ritirato nella sua stanza verso le due e
mezzo del mattino.
È oramai mezzogiorno quando Arlie, la moglie di Manuel, sveglia
mezzo hotel con le sue urla. Helm si precipita nella camera di
Manuel e lì trova il bassista Rick Danko in lacrime. Gli fanno cenno
di andare in bagno dove vede il corpo del tastierista: s’è impiccato al
tubo della doccia, probabilmente tra le due e mezzo e le tre e mezzo
di notte. Non lontano, una bottiglia vuota di Grand Marnier e della
cocaina.
Richard Manuel non era un uomo felice. Era stato alcolizzato e
aveva grande familiarità con le droghe, ma nei primi anni Ottanta
s’era impegnato per rimettersi in forma in vista della reunion della
Band: era entrato in una clinica per disintossicarsi e si era risposato.
Rinunciare agli stravizi gli aveva permesso di riacquistare quelle
celebrate doti vocali che gli avevano fruttato il soprannome di “Ray
Charles bianco”. Poteva essere l’inizio di una nuova vita. Ma la
morte nel gennaio del 1986 dell’amico e manager Albert Grossman
lo aveva fatto cadere in depressione e nuovamente nelle braccia di
alcol e cocaina.

La scomparsa di un personaggio combattivo e potente come


Grossman ha un altro effetto negativo: The Band sparisce
virtualmente dalla scena. Manuel è quello più insoddisfatto, se non
frustrato per la popolarità talmente calata da portare la formazione a
esibirsi non in un Madison Square Garden, ma in una Cheek To
Cheek Lounge qualunque.
Si narra che un giorno, alla presenza di Manuel, Bob Dylan abbia
detto a Keith Richards che il gruppo migliore del mondo non erano i
Rolling Stones: era The Band. Nessuno lo pensava più nel 1986.
Durante il funerale, Helm svela di aver “sentito distintamente la
voce di Richard dirmi che si era tolto la vita perché era l’unica cosa
che poteva fare per dare una scossa al gruppo”. Di certo Manuel, ha
riferito il batterista, “era convinto che non fossimo circondati dal
rispetto che meritavamo”.
La sua morte effettivamente rianima la memoria del gruppo: The
Band è oggi venerata come una delle massime istituzioni del rock
nordamericano e Manuel è stato omaggiato da molti gruppi tra cui i
Counting Crows, che hanno composto All My Love Or Richard
Manuel Is Dead ricordando l’impressione provata nel leggere sul
giornale della morte del musicista. “Mi manca”, ha detto di lui Eric
Clapton. “Avrei voluto essere capace di esprimere come faceva lui
quella forza e quella fragilità”.
Il tastierista muore un mese prima di compiere quarantatré anni.
Riposa all’Avon Cemetary di Stratford, nell’Ontario canadese, sotto
una pietra raffigurante la tastiera di un pianoforte.

Un pullman corre lungo la E4. A bordo ci sono i Metallica. Il grande


pubblico non li conosce ancora, ma per gli appassionati di metal
sono semidei. In marzo hanno pubblicato un disco di formidabile
potenza chiamato MASTER OF PUPPETS e possono vantarsi di
avere contribuito a coniare un nuovo sottogenere del metal, il thrash.
La sera del 26 settembre hanno suonato con gli Anthrax alla
Solnahallen di Stoccolma e si sono rimessi in moto: la data
successiva è a Copenhagen, in Danimarca, e c’è tanta strada da
fare.
Musicisti, tecnici e attrezzature viaggiano in due tir e due pullman.
Quello in cui dormono i Metallica è troppo piccolo per ospitare tutti
confortevolmente. Perciò quella sera i musicisti lasciano alla sorte la
scelta del posto migliore: vince chi estrae la carta più alta. Il bassista
Cliff Burton pesca un asso di picche, tocca a lui scegliere. “Voglio la
tua cuccetta”, dice al chitarrista Kirk Hammett. E così è: può dormire
comodo.
E infatti è addormentato quando, poco prima delle sette di mattina,
il bus sbanda vistosamente nei pressi di Dörarp, vicino a Ljungby. Il
mezzo si sposta sulla destra rischiando di finire in un fossato. Il
guidatore riesce miracolosamente a tenere il mezzo in strada, ma la
manovra è brusca: quando riguadagna la carreggiata, il pullman
ruota violentemente e finisce nell’altro fossato, sulla parte sinistra
della strada.
L’impatto è violento, i finestrini si infrangono. “La botta”, ha
ricordato Hammett, “mi ha fatto perdere i sensi per qualche secondo.
Quando sono rinvenuto sentivo tutti urlare. Tutti tranne Cliff: ho
capito immediatamente che era successo qualcosa”.
Il corpo del bassista è stato scaraventato per metà fuori dal
mezzo, che ribaltandosi l’ha schiacciato. Clifford Lee Burton è morto
sul colpo. “Ho visto le sue gambe uscire di sotto”, ha detto con orrore
il cantante James Hetfield. “Ho perso la testa. L’autista stava
tentando di tirare via il lenzuolo da sotto per darlo a qualcun altro. Gli
sono andato sotto urlando: ma che cazzo fai?!”.
Grazie a un medico che transita di lì arrivano i soccorsi. Una gru
solleva l’autobus per recuperare il corpo. Ci vogliono tre ore per
liberare chi è rimasto intrappolato nel pullman: l’impatto ha fatto
crollare le cuccette e i pompieri non hanno la vita facile nel
raggiungere le persone bloccate all’interno del mezzo.
Il tecnico delle chitarre (e futuro membro dei Metal Church) John
Marshall ricorda un rumore d’acqua quando il bus si è fermato:
“Credevo fossimo finiti in un torrente, ma non era acqua, era il
rumore del motore rimasto acceso”. L’autista viene arrestato, e
rilasciato dopo pochi giorni, per guida pericolosa e omicidio colposo.
Chi si è ferito viene portato da sette ambulanze nell’ospedale di
Ljungby: il batterista Lars Ulrich, che se l’è cavata con la frattura di
un dito del piede, ricorda che “il dottore è entrato nella stanza e mi
ha detto che Cliff era morto: a me è sembrata una cosa surreale”.

Dopo i controlli, il gruppo viene portato in un albergo della


cittadina, l’Hotel Teraza: Hetfield si ubriaca e infrange per la rabbia
due finestre. Quella notte Hammett è così spaventato da dormire
con la luce accesa. Due giorni dopo è organizzato il rientro negli
Stati Uniti.
Perché il pullman è finito fuori strada? È una tragica fatalità,
afferma l’autista: una lastra di ghiaccio ha reso inguidabile il mezzo.
Secondo Hetfield l’alito dell’autista puzzava di alcol e non c’erano
lastre di ghiaccio sulla strada. Marshall ricorda effettivamente che
subito dopo l’incidente il cantante era andato sulla strada a
controllare: era andato su e giù per la strada scuotendo la testa.
Un fotografo locale è andato sul luogo della sciagura il giorno
dopo, alla stessa ora, quando le condizioni del terreno potevano
essere simili: non ha trovato ghiaccio. Il detective Arne Pettersson
cui è affidato il caso e che si reca sul luogo dell’incidente la mattina
del 27 afferma invece che è normale che in quel punto, al
presentarsi dei primi freddi, si formi del ghiaccio la mattina e la sera.
L’ipotesi di un colpo di sonno è indebolita dalle testimonianze di
chi ha visto l’autista riposare durante il giorno 26. Dopo il rilascio,
non viene avanzata alcuna accusa nei suoi confronti e persino la sua
identità resta riservata. “Ma io l’avrei voluto ammazzare”, ha detto
Hetfield. “Non so se sia stato il ghiaccio o se fosse ubriaco: so che
guidava lui e che Cliff non c’è più”.
Nei pressi del luogo dello schianto è stato eretto un piccolo
memoriale, una lapide col verso del poeta Paul Gerhardt “Cannot the
Kingdom of salvation take me home” reso popolare dal film
Excalibur. Le parole verranno incluse dai Metallica in una canzone
pubblicata del 1988, To Live Is To Die: prima di morire, il bassista
aveva contribuito a scriverne la musica.
Hammett, che ha ceduto a Burton la sua cuccetta, si sente ancora
responsabile. Era stato il caso a volere quello scambio: il bassista
aveva estratto l’asso di picche, la “carta della morte” secondo la
credenza popolare.
Il funerale si tiene il 7 ottobre alla Chapel of the Valley di Castro
Valley, la città della California dove il musicista era nato ventiquattro
anni prima.
Il suo corpo viene cremato, le ceneri disperse al Maxwell Ranch, il
quartier generale del gruppo vicino a San Francisco.
“Ci siamo messi in cerchio”, ha ricordato un amico, “con le ceneri
di Cliff al centro. Ognuno di noi ne ha preso una manciata e ha detto
quel che aveva da dire, poi le abbiamo sparse in un posto che
amava molto”.
In sottofondo, uno stereo suona Orion dei Metallica.

Sono le sei e trentadue del mattino.


I medici del Presbyterian Hospital comunicano ufficialmente la
morte del loro paziente più famoso, Mr Andrew Warhola, noto a tutti
come Andy Warhol, cinquantotto anni. Il genio della pop art non è
riuscito a superare la crisi cardiaca giunta a seguito di un’operazione
alla cistifellea. Warhol (che da tempo non stava bene) aveva
ritardato il suo ricovero per paura di dottori e ospedali.
La salma viene trasportata nella natia Pittsburgh dai suoi fratelli e
lì esposta per la veglia alla Thomas P. Kunsak Funeral Home.
Il sarcofago in bronzo è aperto e il pubblico può dare l’ultimo
saluto a colui che aveva evocato per tutti “quindici minuti di
celebrità”.
Warhol indossa un abito di cachemire nero, una cravatta fantasia,
la sua celebre parrucca bianca e un paio di occhiali da sole.
Tra le mani, un libro di preghiere e una rosa rossa.
La cerimonia funebre, alla quale partecipa anche una commossa
Yoko Ono, si svolge nella Holy Ghost Byzantine Ca tholic Church,
nella parte nord della città.
Quindi, il feretro viene trasferito nel cimitero di Bethel Park. Qui,
prima della sepoltura, un sacerdote recita una breve preghiera e
asperge la bara con l’acqua santa. Infine, Paige Powell, l’amica più
cara nonché socia in affari di Warhol, lascia cadere a fianco della
cassa una copia di «Interview», la rivista sulle celebrità che Andy ha
fondato nel 1969, e una boccettina di profumo Beautiful.
Un paio d’anni dopo, a fine novembre 1989, i due musicisti che
Warhol ha lanciato a inizio carriera come band della sua Factory – e
cioè Lou Reed e John Cale – gli dedicano una rock opera intensa,
bellissima e commovente, che viene eseguita per la prima volta alla
Brooklyn Academy Of Music.
Si chiama Songs For Drella.
“Drella”, infatti, era il nomignolo con cui gli amici chiamavano
Andy: una via di mezzo fra Dracula e Cinderella, tra il principe delle
tenebre e Cenerentola.
Il cantante reggae giamaicano Peter Tosh si sta rilassando nella sua
dimora sulle colline di Kingston. Con lui ci sono la moglie e manager
Marlene Brown e alcuni amici: il batterista Carlton “Santa” Davis, la
moglie Yvonne, il musicista Michael Robinson e l’erborista Wilton
“Doc” Brown. Altri ospiti sono attesi, il disc jockey Jeff “Free I” Dixon
con la moglie Joy.
Sono circa le venti e trenta quando qualcuno bussa alla porta e
Robinson va ad aprire. Inaspettatamente irrompono in casa tre
uomini armati, capeggiati da un amico di Tosh, Dennis Lobban, detto
Leppo. Si tratta di un pregiudicato di trentadue anni, una vecchia
conoscenza del cantante, che di tanto in tanto gli dà ospitalità e lo
aiuta: si era già fatto vedere qualche giorno prima, però aveva
lasciato la casa di Tosh dopo una lite con sua moglie Marlene.
Questa volta il suo atteggiamento è tutt’altro che pacifico:
puntando la pistola su Robinson, lo costringe a salire al piano di
sopra, in salotto, e ordina a tutti i presenti di stendersi a terra,
domandando del denaro.
Tosh dice di non avere contanti in casa. La tensione aumenta
quando si sente bussare alla porta: i Dixon vengono ricevuti da un
uomo armato che li scorta nella stanza di sopra insieme agli altri,
stesi e terrorizzati dalle minacce di Leppo.
Tosh tenta di calmare l’amico, ma questi non sente ragioni e
diventa sempre più irascibile. Sembra essere in preda all’isteria, e
continua a urlare: “Dove sono i soldi?”.
All’improvviso esplode il fuoco. Diversi colpi vengono sparati
all’impazzata all’interno della stanza. Una pallottola sfiora il capo di
Marlene, colpendo Joy Dixon.
La vista del sangue sembra far esplodere Leppo che,
all’improvviso, fredda Tosh con due colpi dritti in fronte.
A questo punto anche gli altri due uomini cominciano a sparare
all’impazzata: Brown muore all’istante e Dixon viene ferito
mortalmente. Gli altri sopravvivono miracolosamente.
Peter Tosh, al secolo Winston Hubert McIntosh, trasportato
all’University Hospital, viene dichiarato morto.
In ottobre avrebbe compito quarantatré anni.
Questa specie di esecuzione si è svolta in un momento, senza
quasi che le vittime abbiano avuto la possibilità di capire cosa stesse
succedendo: una vicenda drammatica, la cui dinamica è tanto chiara
quanto oscura e piena di interrogativi risulta essere la sua origine.
Perché Leppo avrebbe dovuto uccidere a sangue freddo il suo
vecchio amico Peter, che lo aveva sempre ospitato e aiutato nel
momento del bisogno?
Forse Tosh si era stancato di dargli soldi e risolvere i suoi
problemi? Oppure c’era un altro motivo, qualcosa di cui nemmeno
Tosh era a conoscenza? Che cosa, o chi ha spinto Leppo e i suoi
complici a commettere quell’orrendo crimine?
Peter Tosh era un artista scomodo e la sua vita era piena di
ombre: a molti avrebbe fatto comodo una sua repentina “uscita di
scena”. Dopo una pausa di qualche anno, il 1987 sembrava aver
portato una nuova ondata di successo nella carriera del cantautore,
anche grazie al Grammy per la miglior performance reggae vinto con
l’album NO NUCLEAR WAR.
Agli inizi della sua carriera, qualche anno addietro, era stato
proprio lui a insegnare a Bob Marley a suonare la chitarra, scrivendo
con l’amico alcuni hit reggae – tra i quali Get Up, Stand Up –
destinati a lasciare un segno indelebile nella storia della musica. I
due si erano conosciuti a Trenchtown, e insieme ad alcuni compagni
d’avventura avevano fondato i Wailers.
Con l’andare del tempo, però, Tosh si era visto relegare in un ruolo
di secondo piano rispetto al prolifico e carismatico Marley e così, nel
1973, aveva lasciato la band per intraprendere la carriera solistica.
Il suo nome di battaglia era Steppin’ Razor, dal titolo di una sua
canzone: si scagliava contro il sistema, lo “shitstem”, come usava
chiamarlo unendo le parole shit (merda) e system (sistema).
Il suo carattere militante e combattivo lo spingeva a usare la
musica a sostegno dei diritti umani, come strumento di denuncia
delle ingiustizie subite dal suo popolo.
Amato dal pubblico, Tosh era malvisto dalle autorità, che lo
consideravano un personaggio scomodo e arrogante, distante dal
pacifismo di Bob Marley. La sua vita, costellata di episodi di violenza
e repressione, era vista da molti come la dimostrazione della volontà
del potere costituito di “farlo fuori”.
Una sera del 1973, mentre tornava a casa in auto con l’allora
fidanzata Evonne, dopo essere stato a trovare l’amico Marley, Tosh
all’improvviso si era scontrato con una vettura che procedeva nella
direzione opposta, cavandosela fortunatamente con delle fratture
multiple al cranio. La ragazza, al contrario, sarebbe morta dopo tre
mesi di coma.
Nel 1976 usciva Legalize It, brano antiproibizionista che
inneggiava alla legalizzazione della marijuana nel suo paese,
descrivendone i poteri curativi. Il testo era così esplicito da far
bandire la canzone in Giamaica, trasformando definitivamente Tosh
in una specie di nemico pubblico, una seria minaccia per le autorità.
In ripetute occasioni, la polizia non aveva esitato a maltrattarlo e
picchiarlo violentemente, senza però scalfire la ferrea volontà del
musicista, che anzi sembrava uscire da ogni pestaggio sempre più
rafforzato psicologicamente e motivato a continuare.
All’epoca, in Giamaica, era in corso una guerra civile e politica, e
Kingston era il centro della battaglia: il primo ministro, Michael
Manley del People National Party, si scontrava con Edward Saga del
Jamaican Labour Party. Liti violente tra le gang appartenenti agli
schieramenti opposti erano all’ordine del giorno.
La situazione era ormai fuori controllo, c’erano stati diversi morti e
la popolazione dell’isola era sconvolta.
Il 22 aprile 1978, Tosh e Marley, insieme ai musicisti locali più
importanti, avevano partecipato al One Love Peace Concert, un
grande concerto organizzato proprio per promuovere la pace e
spingere le gang a gettare le armi e cessare la violenza.
Davanti a trentamila persone, Peter aveva acceso uno spinello sul
palco e, tra un brano e l’altro, aveva attaccato apertamente gli
esponenti del governo e dell’opposizione presenti tra il pubblico. In
platea, quella sera, c’era però un personaggio che si sarebbe
rivelato fondamentale nel portare la musica del combattivo
cantautore alle orecchie del grande pubblico a mericano: Mick
Jagger.
Colpito dal carisma e dalla verve del giamaicano, Jagger aveva
messo sotto contratto Tosh per l’etichetta dei Rolling Stones,
lanciando così la sua carriera oltre i confini nazionali.
Dopo solo quattro mesi, tornato in Giamaica, Peter era stato
arrestato per possesso di sostanze stupefacenti e picchiato
violentemente da una decina di poliziotti, che lo avevano ridotto in fin
di vita. Ci sarebbero voluti ben trenta punti di sutura per richiudere le
ferite riportate alla testa.
Nonostante tutto, il cantante aveva continuato la sua lotta
personale per i diritti umani, esibendosi e mostrando con orgoglio le
ferite e i segni dei maltrattamenti subiti.
Durante il tour europeo del 1983, Tosh aveva sfoggiato il suo
nuovo strumento: una chitarra con la forma di un fucile M16: “La
musica”, diceva, “è la mia arma contro l’apartheid, la guerra nucleare
e tutti i criminali”.
Sebbene il suo omicidio sia stato archiviato come un tentativo di
furto finito male, sono in molti a credere che ci sia un altro motivo
dietro la sua morte, affermando che nulla è stato prelevato dalla sua
abitazione.
Alcuni fanno notare le tragiche coincidenze verificatesi nello
stesso periodo: nel giro di pochi anni, infatti, hanno perso la vita i più
importanti musicisti giamaicani, tra cui Carlton Barrett, batterista dei
Wailers, i dj Prince Far I, Rankin Toyan e Major Worries, Louie Lepki,
Alton Irie, tutti uccisi.
Tra le varie teorie elaborate sull’argomento, ce n’è anche una che
lega le morti dei due membri dei Wailers, Barrett e Tosh, a quella di
Bob Marley e al patrimonio lasciato in eredità da quest’ultimo.
La più accreditata, però, è quella secondo cui Lobban si sarebbe
vendicato perché, dopo tutto quello che aveva fatto per Tosh, questi
non si era preso cura di lui e della sua famiglia.
Il 17 giugno 1988, dopo un processo lampo, Dennis Lobban viene
condannato a morte. Nel corso degli anni, però, l’uomo si è sempre
dichiarato innocente e totalmente estraneo ai fatti: è più volte ricorso
in appello, rivolgendosi persino al Comitato per la Difesa dei Diritti
Umani (Human Rights Committee) e, il 21 luglio 1995, la sua pena è
stata commutata in carcere a vita.
Nel 2003, in una delle rarissime interviste da lui rilasciate, Lobban
ha dichiarato: “Quella notte mi trovavo a Jones Town, in una
drogheria al numero 3 di Crooks Street. Stavo bevendo in
compagnia di alcuni amici e del proprietario del negozio. Mi sono
trattenuto fin circa alle ventidue e, mentre ero lì, ho appreso la
notizia della morte di Tosh. Mi ha colto di sorpresa, ero sconvolto
all’idea che fosse accaduta una cosa del genere”.
Lobban ha detto di essere stato incastrato a causa di una lite
occorsa tra lui e qualcuno vicino a Tosh, che si sarebbe vendicato
accusandolo: “Ci sono due testimoni che hanno dichiarato di avermi
visto, ma hanno mentito… Non sanno chi è entrato davvero in casa
quella notte, chi ha sparato e ha ucciso Peter Tosh e gli altri”.
La verità su questa terribile vicenda sembra destinata a rimanere
nell’ombra: ad oggi sono diversi i dubbi su cui non si è ancora fatto
chiarezza e gli interrogativi rimasti senza una risposta.
Lo stesso discorso vale anche per i due presunti complici di
Lobban, che non sono mai stati arrestati, ma che pare siano stati
uccisi per strada. Solo lui sa dove si trovava veramente quella notte
e se ha ucciso l’amico. Ma se non è stato lui, allora chi ha ordinato la
morte di Peter Tosh?
“Non ho niente contro la società”, ha dichiarato Lobban, “perché
mi hanno insegnato a perdonare, e così l’ho fatto. Non ho alcuna
intenzione di evadere, voglio uscire di qui passando attraverso la
porta principale. Ho bisogno di andarmene da qui e ricominciare a
vivere con la mia famiglia”.

“I’ve learned some lessons in my life/ Lessons in my life/ Always


be careful of my friends/ Be careful of my friends/ Money can
make friendship end/ It makes friendship end”.
[da No Nuclear War di Peter Tosh].

Jaco Pastorius aveva in mente un piano.


Un piano quasi perfetto.
Si trattava di un programma ambizioso: lasciarsi alle spalle la
depressione, smettere di bere, riconquistare la sua ex, e fare il
clamoroso ritorno sulle scene. Tutto nell’arco di ventiquattr’ore.
Sì, quell’11 settembre 1987 sarebbe stato l’ultimo giorno di un
periodo nero e il primo di una nuova era. Sarebbe stata la rinascita,
personale e artistica.
Più a fondo non poteva andare: aveva vissuto per strada, lui, il più
grande bassista al mondo. Era stato in galera. In ospedale a dar di
matto. Ma era arrivato il suo momento. Sì, ce la poteva fare. Aveva
bisogno solo di un pizzico di complicità, di fortuna e… di duecento
dollari.
Era iniziata bene. I soldi se li era fatti spedire dall’ex road manager
dei Weather Report, l’amico Michael Knuckles. Il bassista aveva
chiamato il fratello Gregory e gli aveva chiesto di andarli a ritirare
agli uffici della Western Union, lì, a Fort Lauderdale, Florida. Gregory
aveva acconsentito. A un patto: che Jaco accettasse una volta per
tutte di discutere il modo migliore per risolvere i suoi ormai
inderogabili problemi. A Jaco andava bene: aveva un piano e ora di
sera, con un po’ di fortuna e con quei duecento dollari, sarebbe
tornato ad essere quello di una volta.
E invece, tempo ventiquattr’ore, si sarebbe trovato su un letto di
ospedale. In coma.
Dieci giorni da vivere.
Poi il nulla.
È la mattina dell’11 settembre 1987, dunque. Pastorius ha
sistemato la faccenda dei soldi: ora vuole riprendersi Teresa, la sua
donna. Si sono messi assieme e lasciati, si sono amati e hanno
litigato. Non si vedono da mesi, lei ha un nuovo uomo, un certo Joe:
ma chi l’ha detto che è finita per sempre? Perciò la chiama e la
convince a incontrarlo presso un ristorante thailandese nei pressi di
Oakland Park. Lei adora il cibo thai e lui sa quali carte giocarsi.
È un piano perfetto, pensa.
È un puzzle i cui pezzi si stanno incastrando alla perfezione.
S’incontra con Gregory e da lui si fa accompagnare in auto al
ristorante. Durante il tragitto, il fratello lo implora di chiudere col suo
stile di vita autodistruttivo. Giunti al ristorante, Jaco chiede
bruscamente i soldi e scende dall’auto. Esasperato, Gregory gli urla:
“Non chiamarmi mai più, per me tu sei morto”. Jaco si affaccia al
finestrino. Prima di allontanarsi dice: “Ehi, sto facendo del mio
meglio”.
Non si vedranno più.
Jaco pranza con Teresa. In qualche modo riesce a fare di nuovo
breccia nel cuore della donna. “Se non fosse morto”, dirà lei, “sarei
tornata con lui. E anche Joe lo sapeva”. Il ristorante non è l’unica
carta che Jaco può giocarsi. Dopo pranzo, il bassista telefona al
vecchio amico Carlos Santana, che quella sera suona in città.
Perché non gli lascia qualche biglietto omaggio?
Bene, ottimo, il piano procede. Ce la può fare.
Telefona a Teresa e le chiede se lei e Joe vogliono venire al
concerto, ha dei biglietti anche per loro. Glieli fa lasciare alla
biglietteria del Sunrise Music Theater. A uno dei due tagliandi è
abbinato un pass per accedere al backstage, alla corte di sua
maestà Carlos Santana. Un altro modo per impressionare Teresa. E
conquistarla, lasciando fuori Joe.
È un buon piano. Ce la può fare.
E invece no. Il demone dell’alcol si mette di mezzo. Jaco beve e
beve e beve. E fa una stupidaggine, la prima della serata, quella che
fa andare le cose storte, quella che rovina il piano. Durante un
assolo del bassista Alphonzo Johnson sale sul palco e resta lì, con
le braccia conserte, come un giudice che s’appresta a dare il suo
verdetto. Nemmeno s’accorge di fare la figura del matto. Prende il
braccio di Johnson e lo alza come si fa con un boxeur che ha messo
ko un avversario. È un attimo.
Un membro della sicurezza lo trascina via: dopo un breve
tafferuglio, Jaco e il suo piano quasi perfetto sono sbattuti fuori dal
locale. Lui ubriaco fradicio, il progetto di gloria in frantumi.
Quando Teresa gli si avvicina, lui la insulta: “Spero tu sia felice col
tuo nuovo fidanzato, puttana!”.
Ok, non ha Teresa, ma ha ancora la musica. Rimane fuori del
teatro ad aspettare Santana. Quando esce, gli va incontro e lo saluta
con un caloroso abbraccio. I due si fermano a parlare per alcuni
minuti.
Il chitarrista non lo ricorda alterato o turbato: “Mi ha fatto i
complimenti per lo show e abbiamo parlato un po’ di Gesù”.
Avrebbero dovuto parlare di alcol e di comportamento erratico. Di
errori che si pagano. E di piani che vanno in frantumi.
Fatto sta che la serata di Pastorius non è finita.
Il peggio deve arrivare.
Jaco va al Dirty Nelly, un locale vicino alla spiaggia dove quella
sera suona un gruppo di amici, i Click. Durante il loro set si comporta
fastidiosamente al punto che durante l’intervallo il proprietario del
club chiede ai musicisti di cacciarlo. Pastorius è uno che porta guai,
a Fort Lauderdale lo sanno tutti.
Un membro della band, Ricky Hurt, convince a Jaco a spostarsi in
un altro locale. “Ti ci porto io”, dice.
Lo accompagna al Mid night Bottle Club, dove a notte fonda suona
il gruppo di un altro amico musicista, il chitarrista Gary Carter.
Hurt ricorda Jaco apparentemente tranquillo mentre gli parla del
suo prossimo disco: “Non sono un musicista finito”, andava dicendo,
“lo vedranno che non sono finito”.
Magari ha perso Teresa, ma ha ancora la musica.
I due arrivano al club, situato in un piccolo centro commerciale di
Wilton Manors. Pastorius ha una crisi di nervi quando Carter,
credendo di fargli un favore, tocca la sua borsa. Infuriato, tira un
pugno a una vetrina che quasi va in frantumi. Poi si accascia in
lacrime: “Nessuno mi capisce, nessuno!”, dice singhiozzando, in
ginocchio. La scena è interrotta da un fan: il bassista cambia
immediatamente umore e firma un autografo. L’uomo disperato di
pochi secondi prima è ridiventato una star sicura di sé. Hurt se ne
va, meravigliato da tanta volubilità.
Poco prima delle tre di notte, Gary Carter e un altro musicista del
gruppo chiamato Johnny D arrivano al club. Nel parcheggio vedono
un uomo steso sul marciapiedi faccia in giù.
È Jaco.
Sarà fuori. Avrà bevuto. Magari è svenuto. Cercano di rianimarlo
inutilmente. Non insistono. Pastorius, lo sanno tutti, è uno che porta
guai. Meglio lasciarlo lì e venire a controllare che stia bene dopo il
primo set.
Che cosa succede, poi? Difficile dirlo.
Si sa che alle quattro e ventidue arrivano due poliziotti e trovano il
musicista in una pozza di sangue, a una ventina di metri da dove lo
hanno lasciato Gary Carter e Johnny D. Come sia arrivato lì, è un
mistero.
Le testimonianze degli astanti e i rapporto di polizia non tolgono
ogni dubbio sulla dinamica dei fatti.
Intanto c’è un secondo rapporto di polizia secondo il quale, alle tre
e ventotto, due agenti avrebbero fatto sloggiare un uomo che
dormiva in un corridoio del centro commerciale. L’uomo era
remissivo. Era Pastorius? Secondo gli amici, il bassista non era tipo
da comportarsi in quel mondo quand’era su di giri come quella sera.
Remissivo? Mai. Avrebbe dato del filo da torcere agli agenti.
Alcuni testimoni e un altro documento ufficiale del dipartimento di
polizia di Wilton Manors affermano che il bassista è effettivamente
entrato al Midnight Bottle Club, o almeno avrebbe cercato di farlo. Lì
si sarebbe comportato in modo talmente molesto da farsi cacciare
dal figlio della proprietaria del club, tale Luc Havan, venticinque anni.
Pastorius dà di matto e cerca di prendere a calci la porta di vetro
del locale. A quel punto Havan, cintura nera di karate, trascina
l’uomo fuori dal locale e sotto gli occhi di due testimoni lo ammazza
di botte. Letteralmente. Il ragazzo afferma di averlo spinto: Jaco
avrebbe perso l’equilibrio, battendo la testa contro il marciapiede.
È evidente che Pastorius è stato vittima di un pestaggio selvaggio.
Quando viene trovato morto ha il cranio e alcune ossa facciali
fratturati, varie emorragie interne, l’occhio destro fuori dall’orbita. Il
calco di un anello di Havan è rimasto impresso sulla guancia, segno
di un pugno scagliato con violenza. Il sangue è uscito copioso da
orecchie, naso, bocca. Se ha battuto la testa contro il marciapiede,
l’ha fatto più e più volte, con violenza. E non per via di una caduta
accidentale.
Il rapporto del giorno dopo stilato dal detective David Jones
racconta la versione di Havan: il musicista cerca di entrare, viene
respinto perché noto per le intemperanze e per il comportamento
molesto, viene spinto, cade, batte la testa.
Viene riportato anche il parere dei medici Wright e Dominguez: le
ferite sono compatibili con un pestaggio più che con una caduta.
Pastorius non è morto. Non ancora.
L’ambulanza arriva alle quattro e trentaquattro e lo porta al Bro
ward County General Medical Center. I dottori sperano di salvarlo.
Dicono alla famiglia che potrà perdere l’uso dell’occhio destro e
probabilmente anche del braccio sinistro, ma chissà, si può sempre
risvegliare.
L’agonia dura dieci giorni.
Il 17 settembre l’uomo smette di rispondere agli stimoli esterni.
Il 18, Havan viene arrestato e subito liberato, dopo aver versato
una cauzione di cinquemila dollari: sarà condannato a ventuno mesi
di reclusione, ma ne sconterà solo quattro.
Il 19 settembre, Pastorius è vittima di un’emorragia cerebrale.
Il 20 ha una crisi respiratoria e viene aiutato a respirare
artificialmente. La famiglia decide di sospendere gli aiuti artificiali.
Alle sei del pomeriggio del 21 settembre le macchine vengono
staccate. Jaco Pastorius smette di respirare ma il suo cuore continua
a battere ancora per tre ore.
“Sapevo che Jaco sapeva tenere il ritmo”, dice scherzosamente il
padre Jack per rompere la tensione, “ma questo, amici miei, ha
dell’incredibile”.
Teresa viene tenuta lontana dall’ospedale. “Se solo avessi avuto la
possibilità di vegliarlo e di tenergli la mano”, ha detto, “forse si
sarebbe risvegliato dal coma”.
Un altro piano quasi perfetto.

Sono tre giorni che Andy Gibb è ricoverato al John Radcliffe


Hospital. Soffre di dolori allo stomaco ed è entrato in clinica per fare
alcuni esami.
Alle otto e mezzo del mattino, il dottore che l’ha in cura entra nella
sua stanza annunciandogli che dovrà fare altri accertamenti.
“D’accordo”, dice il cantante. Sono le sue ultime parole: subito dopo
Gibb perde coscienza e muore di lì a poco.
L’autopsia riscontra come causa della morte un’infiammazione del
cuore provocata da un virus. Lo staff medico si sente in obbligo di
aggiungere, nel comunicato ufficiale che viene diramato, che “non ci
sono prove circa la connessione della morte con l’uso di alcol o di
droga”. È una frase significativa: sono anni che il cantante fa uso di
cocaina.
Andy è il più piccolo dei fratelli Gibb. Nel 1977, Barry, Maurice e
Robin sono già celebri come Bee Gees quando lui, appena
diciannovenne, raggiunge il successo col singolo I Just Want To Be
Your Everything. Ed è solo l’inizio: nel giro di due anni vende quindici
milioni di dischi, rivaleggiando in popolarità coi fratelli.
Il declino commerciale, l’abuso di cocaina e una gestione
economica sciagurata lo portano a dilapidare il patrimonio nel giro di
una decina d’anni. Depresso, privo di autostima e paranoico, ha una
relazione tormentata con l’attrice del serial Dallas Victoria Principal e
si rifugia nell’alcol e nella droga, arrivando a sniffare l’equivalente di
mille dollari al giorno.

Devono intervenire i fratelli per rimetterlo in carreggiata,


prestandogli del denaro e intercedendo con una casa discografica
per pianificare un ritorno sulle scene in grande stile. Nel marzo
dell’88 è un uomo diverso: si è rifugiato nell’Oxfordshire, vive quasi
da recluso, ha festeggiato i trent’anni solo con la madre. Era il 5
marzo.
Due giorni dopo era in entrato in ospedale: non era la prima volta
che accusava forti dolori allo stomaco e al petto. Aveva cambiato
vita, sì, ma l’aveva fatto troppo tardi.
“An everlasting love”, recita uno dei suoi grandi successi di fine
anni Settanta. E così sta scritto sulla sua lapide al Forest Lawn
Cemetery di Los Angeles. Al funerale, il fratello Barry aveva letto una
poesia scritta da Andy pochi anni prima: “Quando lo spettacolo
finisce, che ne resti un ricordo luminoso”.
La Zeedijk è la strada del centro di Amsterdam che costeggia il
piccolo Prins Hendrik Hotel, un alberghetto nel cuore della città
vecchia.
Sono le tre del pomeriggio quando, in prossimità dell’hotel, si ode
il rumore sordo di un tonfo. Sul marciapiede, il cadavere di un uomo
presumibilmente precipitato da una finestra al secondo piano
dell’edificio.

Il cranio è sfracellato, ma sul resto del corpo non ci sono segni di


lotta.
Identificato dal portiere del Prins Hendrik, il morto è Chesney
Henry Baker jr, più famoso con il nome di Chet, una leggenda del
cool jazz degli anni Cinquanta.
Nato a Yale, Oklahoma, nel dicembre del 1929, Chet Baker non
ha nep pure sessant’anni, ma il suo fisico, minato da secoli di
dipendenza dall’alcol e dall’eroina, è visibilmente provato. Ancora
più, la sua fragile psicologia.
La droga è stata la sua condanna: oltre ad averlo portato in
prigione (in Italia, Germania e Inghilterra), avergli fatto spendere tutti
i guadagni (è stato persino costretto a vendere la sua tromba al
banco dei pegni), causato il suo declino artistico e personale, è stata
anche la potenziale causa della morte.
Nella camera dell’hotel vengono rinvenute dagli inquirenti dosi
industriali di eroina e cocaina e l’esame autoptico rivela pure
presenza di entrambe le droghe nel suo corpo.
Al momento del tragico volo dalla finestra, non ci sono testimoni. Il
che lascia campo libero ad alcune speculazioni. Sebbene la polizia
olandese archivi il caso come incidente, c’è chi ha apertamente
parlato di suicidio (non era la prima volta che Chet manifestasse
intenzioni simili).
Qualcuno, addirittura, di omicidio.
Il corpo di Chet Baker è stato sepolto nel cimitero di Inglewood
Park in California, dove ancora oggi riposa. Sul muro del Prins
Hendrik Hotel di Amsterdam una placca ne ricorda la tragica
scomparsa.

Il corpo senza vita del chitarrista dei Red Hot Chili Peppers viene
rinvenuto nel suo appartamento. È tornato da poco dal tour europeo
ed è morto da due, forse da tre giorni.
Causa del decesso: overdose di eroina.
Le cattive abitudini di Hillel Slovak non sono un segreto: l’uso di
droga l’ha reso inaffidabile.
“Aveva problemi di droga da tempo e cercavamo di farlo
smettere”, ha detto la manager del gruppo Lindy Goetz. “Negli ultimi
tempi sembrava relativamente pulito: credo che tornare a casa dal
tour non gli abbia giovato”.

La cosa triste, ha detto il bassista del gruppo Flea all’indomani


della tragedia, “è che lo spacciatore che gli ha dato la dose fatale
sarebbe felice di vendertene ancora. È facile trovare quella roba,
specie nell’ambiente musicale. Io e Hillel eravamo amici da quando
avevo dodici anni. È stato lui a farmi conoscere la musica rock: se
non fosse stato per lui, oggi non sarei qua”.
La morte di Slovak cambia la vita e la musica dei Red Hot Chili
Peppers, raggiunti dalla notizia mentre stanno incidendo il quarto
album.
Colpito e spaventato, il cantante Anthony Kiedis decide di
smettere con l’eroina e si rifugia in Messico. Il batterista Jack Irons,
amico di lunga data del chitarrista, è vittima di un esaurimento
nervoso e abbandona il quartetto. Il gruppo rinasce con una nuova
formazione, con Chad Smith al posto di Irons e il giovane John
Frusciante al posto di Hillel Slovak.
Slovak è sepolto al Mount Sinai Memorial Park Cemetery sulle
Hollywood Hills. La sua ultima incisione è una versione di Fire di Jimi
Hendrix che i Peppers pubblicano nell’album MOTHER’S MILK.
A lui il quartetto dedicherà Knock Me Down e My Lovely Man.
Fa caldo, quel 18 luglio 1988. È una giornata particolarmente
infuocata a Ibiza.
L’isola spagnola non è ancora la meta del popolo dei rave e delle
discoteche, ma è comunque frequentata da un turismo di vip e
bohémien di varia natura. E i tossicomani ci vengono perché è
considerata una sorta di “paradiso della droga”.

Da alcuni anni, Ibiza è una delle mete preferite dell’ex musa di


Andy
Warhol, l’attrice e cantante Nico. Christa Päffgen, questo il vero
nome, è stata vent’anni prima la voce dei Velvet Underground.
Sacerdotessa dell’oscurità, dotata un tempo d’una bellezza severa e
misteriosa, ha ormai quasi cinquant’anni. L’abuso di sostanze
stupefacenti e l’esistenza vissuta ai margini le hanno fatto perdere
gran parte di quella bellezza: è piuttosto ingrassata e ha il viso
gonfio.
Le rimangono quegli occhi che, da giovane, avevano fatto
capitolare una fila lunga così di rockstar: Bob Dylan, Jim Morrison,
Lou Reed, John Cale, Iggy Pop, Jackson Browne.
Ex fotomodella richiestissima nei primi anni Sessanta, ha fatto una
comparsata nel film La dolce vita di Federico Fellini. Poi l’incontro
con il mondo misterioso e decadente della Factory di Andy Warhol,
ma soprattutto con quello del rock.
Il suo demone non è la bellezza. È la droga. E infatti molti la
danno già per morta.
E invece è viva. Anzi, dopo quasi un ventennio di uso piuttosto
assiduo, da un po’ di tempo è riuscita a smettere. C’è chi sostiene
che la dipendenza dalla droga sia dovuta a traumatiche esperienze
infantili: figlia di padre sconosciuto, cresciuta nella devastazione di
una Berlino rasa al suolo dalla guerra, deportata con la madre in un
campo di prigionia russo da cui sono liberate nel 1946, si dice che
avesse subìto violenza sessuale a dodici anni. Poi la tragica storia
d’amore con un giovane Alain Delon: lei rimane incinta, lui si rifiuta di
riconoscere la paternità di Ari, il figlio nato dalla relazione.
Tutte queste esperienze contribuiscono a formare un carattere
depresso e solitario che solo nella droga e nella musica trova
sollievo. “Sono nichilista”, andava dicendo, “e amo la distruzione. Da
quando ho acquisito la ragione, il nichilismo è l’unica religione in cui
credo”.
Nell’estate dell’88 Nico si è ripulita. Cerca persino di condurre uno
stile di vita salutista. Ecco perché il pomeriggio del 18 luglio prende
la bicicletta.
Nessuno sa veramente che cosa sia accaduto. La morte della
cantante e modella è drammaticamente semplice, eppure avvolta nel
mistero. Bisogna accontentarsi delle ipotesi, delle congetture, dei si
dice.
Si dice, ad esempio, che il gran caldo di quel pomeriggio abbia
influito sulla caduta, unitamente alle non perfette condizioni fisiche
della donna dopo tanti anni di abusi: un attacco al cuore l’avrebbe
fatta stramazzare al terreno e battere la testa in modo violento. Si
dice sia stata investita da un motociclista che è poi fuggito. E
naturalmente si dice avesse conti in sospeso con uno spacciatore di
droga.
Comunque sia andata, Nico cade e batte violentemente la testa.
Giace a terra per ore. Alla fine un tassista la vede e la porta in
ospedale. Farla ricoverare non è facile: viene scambiata per “una di
quei tossici che vengono a farsi al solleone”. Alla fine trova posto al
Cannes Nisto Hospital e lì la donna muore alle otto di sera. Causa:
emorragia cerebrale.
Nessuno ha pensato a un trauma cranico, che sarà svelato dalle
lastre effettuate dopo la morte: era stata curata come un caso di
insolazione. Non aveva i documenti con sé: lei, un tempo regina di
mondanità, muore senza nome. Ed è ironico che una donna che ha
sempre vissuto nell’oscurità lasci questo mondo in una calda
giornata estiva sotto un sole bruciante.
Le esequie si tengono il 16 agosto a Berlino.
Le ceneri vengono sistemate in un piccolo cimitero nella foresta di
Grunewald, assieme a quelle della madre Margarete. Una lapide le
unisce e ricorda entrambe.
Durante la cerimonia, gli amici le rendono omaggio ascoltando con
un mangianastri il suo album DESERTSHORE. L’aveva pubblicato
nel 1970, l’anno in cui era morta la madre. Finiva con una sorta di
requiem intitolato All That Is My Own: “Incontriamoci sulla spiaggia
deserta”, recita il testo.
Dopo la morte della madre, crediti e debiti vengono ereditati dal
figlio. Quando la casa discografica gli spedisce la prima somma
accumulata in diritti d’autore, Ari la spende immediatamente per
comprare della droga. In fondo era stata la madre a fargli conoscere
l’eroina.

È un periodo intenso per Roy Buchanan. Il musicista un tempo noto


come “il miglior chitarrista sconosciuto al mondo”, dal titolo di un
documentario che la PBS gli ha dedicato nei primi anni Settanta, è
reduce da una tournée con The Band e ha in cantiere un nuovo
album. Ha avuto problemi con l’alcol, ma gli amici dicono che se ne
sta liberando. Ma ci ricade, fatalmente.

Siamo nell’agosto dell’88 e Buchanan, quarantotto anni, si è preso


una pausa ed è tornato dalla moglie Judy Owens a Reston, Virginia.
Il pomeriggio del 14 registra alcuni bozzetti strumentali, quindi si fa
accompagnare dalla moglie in un centro commerciale. Si ferma a
bere e quando torna a casa è mezzo ubriaco: la moglie è furiosa, il
litigio violento.
Lei chiama la polizia, lui strappa il telefono dal muro ed esce di
casa. Alcuni agenti di polizia lo fermano in Glade Street e lo portano
al Fairfax County Adult Detention Center, dove viene accusato di
ubriachezza molesta e rinchiuso nella cella R-45.
Quando viene lasciato solo per una ventina di minuti, si toglie la T-
shirt, la lega alla grata della finestra e la usa come corda per
impiccarsi.
Il suo corpo viene scoperto alle ventitré e un quarto.
Non tutti credono alla tesi del suicidio. Un amico del chitarrista
afferma di avere visto il cadavere il giorno del funerale e di avere
notato ferite alla testa, che però non vengono notificate nel referto
del medico legale.
Alle ventitré e cinquantaquattro Roy Orbison muore in un letto
dell’ospedale locale.
L’uomo che due giorni prima si era esibito al Front Row Theater di
Highland Heights era ottimista e pieno d’entusiasmo. Aveva deciso
di passare due giorni dalla madre Nadine nel Tennessee. Lì si era
sentito male: si era scusato ed era andato in bagno, accasciandosi
colpito da un infarto.

È un’amara ironia che la vita di Orbison finisca proprio nel


momento in cui la sua carriera è rinata. Dopo un lungo periodo di
anonimato, viene riscoperto e rivalutato anche grazie alle lodi di
pezzi da novanta come Bruce Springsteen e Bono degli U2. È
oggetto e protagonista di uno speciale televisivo all stars, è entrato
nella Rock and Roll Hall of Fame, ha preso parte al supergruppo dei
Traveling Wilburys con Bob Dylan, George Harrison, Tom Petty e
Jeff Lynne, le sue canzoni sono state inserite in film di successo.
La morte lo coglie alla vigilia della pubblicazione di MYSTERY
GIRL, il suo album di maggiore successo dai tempi d’oro in cui
spopolava con Pretty Woman e Only The Lonely. Sfortuna?
Qualcuno sussurra che una maledizione aleggi su di lui. L’aspetto
dimesso, i vestiti neri e gli occhiali scuri che indossa abitualmente
non l’aiutano ad attirare simpatie.
La verità è che Orbison è un uomo che ha molto sofferto. Nel
1966, all’apice del successo, l’amata moglie Claudette Frady è morta
in un incidente motociclistico a Gallatin, Tennessee. Due anni dopo,
un incendio nella sua abitazione di Hendersonville provoca la morte
di due dei suoi tre figli, Roy di dieci anni e Anthony di appena sei
anni. Sono i nonni a salvare il piccolo Wesley, tre anni.
Orbison si era rifatto una vita, e nel maggio del ’69 s’era risposato
con Barbara. Aveva persino costruito una nuova casa vicino a quella
andata a fuoco.
Sarà proprio Barbara a decidere di far seppellire il marito al West
wood Village Memorial Park Cemetery di Los Angeles sotto una
lapide anonima. Nello stesso cimitero dove riposano Marilyn Monroe
e altre star di Hollywood.

Assistito dall’amica Jeanie Tracy, Sylvester James si spegne nella


“sua” San Francisco, la città che gli ha permesso di diventare l’icona
gay della disco music. Il cantante era da tempo malato di Aids: a
ucciderlo sono le complicazioni legate alla sindrome da
immunodeficienza acquisita.
Muore nel suo appartamento di Collingwood Street. Le
interpretazioni esuberanti, la voce in falsetto e i travestimenti da drag
queen, hanno fatto di Sylvester la personificazione del lato edonista
della disco e hanno ricordato che la musica da ballo degli anni
Settanta è fiorita nei club gay.
Nato a Los Angeles, aveva trovato a San Francisco la sua casa
spirituale: lì aveva iniziato a esibirsi con una troupe di travestiti,
prima di essere notato da un talent scout della Fantasy Records.
Aveva sempre rifiutato di rendere la propria immagine meno
ambigua e sessualmente meno aggressiva, come richiesto dalla sua
casa discografica.
Il suo pezzo più celebre è probabilmente You Make Me Feel
(Mighty Real), premiato con un disco d’oro e rifatto negli anni Ottanta
da Jimmy Somerville dei Bronski Beat. Dopo aver scoperto di essere
malato, aveva smesso di esibirsi e si era dedicato alla
sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul tema dell’Aids. In
settembre aveva insistito per partecipare alla parata del Gay
Freedom Day lungo Market Street: aveva sfilato su una sedia a
rotelle spinta dal suo manager Tim McKenna, sotto lo striscione
“Gente che vive con l’Aids”. Tempo poche settimane e non si
sarebbe più potuto alzare dal letto.
Era la regina di Castro, il quartiere gay di San Francisco reso
celebre dall’attivista Harvey Milk. Con grande rammarico, in ottobre
non era riuscito a partecipare alla colorita Castro Street Parade. Si
teneva a un paio di isolati di distanza dalla sua abitazione: dal letto
poté sentire la folla cantare in coro il suo nome.

A quarantacinque anni, a causa di un enfisema cronico, muore uno


dei gran di protagonisti della stagione psichedelica californiana, John
Cipollina.
Un mese dopo, gli viene tributato un sentito ricordo con un
concerto presso lo storico Fillmore Auditorium di San Francisco,
dove si era esibito tante volte con la sua band, i Quicksilver
Messenger Service. Sul palco, vec chi amici come il pianista Nicky
Hopkins ed ex compagni d’avventura, co me il cantante David
Freiberg e il fratello Mario, bassista di uno dei gruppi americani più
popolari di fine anni Ottanta, Huey Lewis and the News.
Poco prima di morire, in un’intervista, Cipollina aveva dichiarato:
“Mi sento come se avessi ancora diciassette anni… capisco che non
è giusto, per uno della mia età, e capisco anche che questo mio stile
di vita scellerato mi porterà presto nella tomba… Ma io sono felice
così”.
Nonostante il suo impegno musicale non si sia mai affievolito, già
l’anno prima il chitarrista ha dovuto farsi ricoverare tre mesi per
problemi respiratori. Il suo stato di salute è pessimo: non di rado,
quando transita per gli aeroporti tra un concerto e l’altro, deve farsi
trasportare su una sedia a rotelle, perché non riesce a stare in piedi
a lungo. Gli steroidi che i dottori gli hanno prescritto hanno infatti
indebolito le sue ossa, costringendolo spesso a suonare seduto.
Non per questo ha voluto smettere di esibirsi e, purtroppo,
nemmeno di fumare. Nella primavera del 1989 ha portato a termine,
con fatica, un tour in Grecia. Lunedì 29 maggio, aggravatosi, è stato
portato d’urgenza all’ospedale per un attacco di asma. Morirà la
notte stessa.
Nato a Berkeley, da ragazzo John aveva mostrato grande
predisposizione per il pianoforte e la musica classica, ma era
passato ben presto alla chitarra elettrica. Eppure il suo background
classico avrebbe influenzato il suo modo di suonare, differente e
molto più ricercato di quello di tanti epigoni del periodo psichedelico.
Di fatto, Cipollina è considerato uno dei padri fondatori del rock
psichedelico di San Francisco.
Nel 2003, secondo un sondaggio della rivista «Rolling Stone»,
John Cipollina figura al numero 32 della classifica dei cento migliori
chitarristi di tutti i tempi.
ANNI NOVANTA
Una stanza d’ospedale dell’Harborview Medical Center.
Un ragazzo di ventiquattro anni giace sul letto. Attorno a lui, amici
e famigliari. Sono tre giorni che il ragazzo è in coma irreversibile.
Non c’è più niente da fare, il suo è un sonno senza ritorno.
Dopo avere parlato coi medici, i genitori hanno deciso di staccare
le macchine che lo tengono in vita. Quel ragazzo si chiama Andrew
Wood e in città tutti dicevano che sarebbe stata lui la prima star del
nuovo rock di Seattle. Il suo sogno era diventare famoso come il suo
idolo Freddie Mercury. Ecco perché, mentre l’ultimo soffio di vita
lascia il suo corpo, uno stereo portatile suona A NIGHT AT THE
OPERA dei Queen.
È stata la droga a portare Wood in quel letto d’ospedale. Tanto
appariscente quanto fragile, Andy s’era gettato nella vita rock senza
riuscire a distinguerne i lati migliori da quelli peggiori. Intrattenitore
nato, aveva inventato un alter ego chiamato Landrew e saliva sul
palco col viso truccato, riferimento a un’altra band del cuore, i Kiss.
Adorava hard rock ed heavy metal, ma non sopportava tutte le
stupidaggini sul satanismo: aveva scelto come simbolo il 333, la
metà di 666, il numero del demonio. Gli altri facevano rock satanico,
lui si sentiva un messaggero dell’amore.
Quando saliva sul palco si comportava come la rockstar che non
era, ma che sognava di diventare. Ce la stava facendo. Aveva
incontrato due dei futuri musicisti dei Pearl Jam, Stone Gossard e
Jeff Ament, e con loro aveva fondato i Mother Love Bone.
La personalità di Wood e un sound che ricordava i Guns N’ Roses
avevano attirato a Seattle i discografici di tutta l’America. Era un
evento: era dai tempi delle Heart che la città del nord-ovest non
finiva al centro delle attenzioni dell’industria musicale.

Ma non poteva durare. La fragilità di Andy trovava sfogo nella


droga, specialmente nella cocaina. Si era disintossicato più volte. Ma
non tutti gli amici, nemmeno quelli più cari, sapevano che Andy
aveva una “amica” peggiore della cocaina: l’eroina. Chi l’ha
conosciuto, dice che nel marzo del ’90 Wood era pulito. Ecco perché
quell’ultimo buco si sarebbe rivelato fatale.
È il 16 marzo quando la fidanzata Xana LaFuente lo rinviene
senza conoscenza nel suo appartamento di Seattle: “L’ho scosso.
Non si muoveva. Ho chiamato il 911. I dottori mi hanno detto che era
morto. Mi hanno fatto firmare una carta e lo hanno portato in
ospedale”.
Lì si scopre che Wood non è morto, è in coma. “Il cuore ha ripreso
a battere, ma il suo cervello era danneggiato. E i medici hanno detto
che le sue condizioni sarebbero solo peggiorate”.
Il 19 marzo, i dottori convocano famigliari e fidanzata. “Ci hanno
comunicato che Andy stava morendo. Avevamo tre ore per dirgli
addio. Saremmo stati in venti. Gli ho tagliato un ciuffo di capelli per
conservarli. I dottori hanno spento tutte le macchine, dopo di che l’ho
stretto talmente forte che gli sentivo il cuore: ha cessato di battere
dopo una quindicina di minuti”.
La tragedia segna profondamente la scena locale. Che, ironia
della sorte, raggiungerà il successo agognato da Andy nel giro di
pochi mesi: Wood aveva aperto la strada a Soundgarden e Pearl
Jam. I membri delle due formazioni si uniranno per registrare un
album tributo all’amico: TEMPLE OF THE DOG è considerato uno
dei capolavori del Seattle Sound.

Domenica 3 giugno: Stiv Bators, ex leader della band punk rock The
Dead Boys e dei Lords of the New Church, ha appena attraversato
la strada: sta aspettando che la fidanzata Caroline Warren esca da
un centro commerciale, quando, improvvisamente, viene urtato da
un taxi in prossimità del marciapiede.
L’impatto è violento, ma il cantante sembra non riportare ferite
evidenti. All’arrivo di Caroline, Stiv racconta l’accaduto e lei lo
convince a recarsi in ospedale per accertamenti.
Dopo alcune ore trascorse in attesa di essere visitato, però, Bators
perde la pazienza: si sente bene e non ha alcuna intenzione di
sprecare altro tempo aspettando un medico che sembra non arrivare
mai.
Dopotutto, pensa, ci vuol ben altro per mettere al tappeto uno che
la morte l’ha già guardata negli occhi, e l’ha sconfitta.
Alcuni anni addietro, infatti, nel corso di un concerto dei Lords of
the New Church, Bators era morto.
Proprio così: i medici lo avevano dichiarato morto per circa due
minuti, dopo che una delle sue performance estreme era andata a
finire male. Il frontman si stava cimentando in un
autostrangolamento con il filo del microfono e alcuni fan un po’
troppo zelanti avevano deciso di prendere parte a questa specie di
macabro rito, senza rendersi conto, però, che il troppo entusiasmo li
aveva portati a stringere in modo eccessivo il cavo.
Bators era diventato cianotico, non respirava più e, trasportato
d’urgenza in ospedale, era stato dichiarato morto.

Gli ingredienti per una tragedia punk rock c’erano tutti, eppure la
Signora con la falce aveva deciso di rispedirlo al mittente. Da quel
momento, questo sarebbe diventato uno dei motti preferiti di Stiv:
“Una volta sono morto sul palcoscenico. Cristo santo, non è
possibile fare di meglio!”.
Già, meglio di così non si poteva proprio fare: Stiv, però, non
avrebbe mai immaginato che la Morte sarebbe tornata a riscuotere il
suo debito così presto, né tantomeno che sarebbe arrivata in taxi.
Durante la notte, Caroline si accorge che Stiv respira a fatica e
decide di chiamare un’ambulanza: Steven John Bator, quarant’anni,
muore durante il trasporto in ospedale per una commozione
cerebrale causata dal banale incidente stradale in cui era stato
coinvolto solo poche ore prima.
Si dice che le sue ceneri siano state sparse da Caroline sulla
tomba dell’idolo di Stiv, anch’egli deceduto a Parigi: Jim Morrison.
Poco meno di un anno dopo, morirà in circostanze misteriose
anche l’amico Johnny Thunders (New York Dolls, The
Heartbreakers), fondatore insieme a Bators e Dee Dee Ramone dei
Whores of Babylon.

Sono passati pochi minuti dalla mezzanotte. Sul palco dell’Alpine


Valley Music Theatre si sta concludendo uno strepitoso concerto
blues. Eric Clapton ha appena chiamato accanto a sé gli altri
musicisti che hanno condiviso la serata con lui. E così, Buddy Guy,
Robert Cray, Jimmy Vaughan e suo fratello Stevie Ray, formidabile
chitarrista texano da molti considerato “il nuovo Jimi Hendrix”, si
lanciano insieme in una fantastica Sweet Home Chicago, oltre venti
minuti di infuocata jam session.
Finito il tutto, nel tripudio generale, Eric Clapton e Stevie Ray
Vaughan, visibilmente soddisfatti, fantasticano nel backstage sul
tributo a Jimi Hendrix cui – di lì a un paio di settimane – daranno vita
a Londra in occasione del 20ennale della morte del grande mancino
di Seattle.
Stevie Ray, però, non si sente bene.
Vuole tornare in albergo, a Chicago, il prima possibile.
Così, Clapton decide di offrirgli un posto sull’elicottero che utilizza
per i suoi spostamenti: sicuramente impiegherà assai meno tempo
rispetto al lungo ed estenuante viaggio in pullman.
È mezzanotte e quarantuno: Chris Layton, batterista dei Double
Trouble (la band che accompagna Stevie Ray Vaughan) parla con il
suo boss. Gli chiede di chiamare la sua fidanzata Janna Lapidus a
Chicago per comunicarle il cambio di orario di arrivo.
Poi, Stevie Ray sale sull’elicottero nel posto lasciato libero da
Clapton.
Non passano neppure cinque minuti: il velivolo guidato dal pilota
Jeffrey Browne si schianta sul versante orientale delle colline che
circondano East Troy.
Tutti gli occupanti dell’elicottero muoiono nell’incidente: oltre a
Stevie Ray e Jeffrey Browne, il tour manager di Eric Clapton (Colin
Smy the), la sua guardia del corpo Nigel Brown, il suo agente Bobby
Brooks.
La fitta nebbia, il vento e l’inesperienza del pilota sono le cause
della tragedia.
Il 31 agosto, al cimitero di Laurel Land, a Oak Cliff (nei dintorni di
Dallas, Texas), il corpo di Stevie Ray Vaughan viene sepolto nel
corso di una cerimonia privata, cui partecipano famigliari e amici, tra
cui Jeff Healey, ZZ Top, Ringo Starr, Stevie Wonder, Jackson
Browne, Dr John, Bonnie Raitt e Buddy Guy.
Stevie Ray Vaughan aveva trentacinque anni.
Dopo una lunga lotta contro un tumore ai polmoni, muore all’età di
sessan tacinque anni Jerome Solon Felder. Con il nome d’arte di
Doc Pomus ha scritto alcuni tra i pezzi più celebri del songbook
americano del Novecento: Save The Last Dance For Me, Viva Las
Vegas, Little Sister, Turn Me Loose.
Malato di poliomielite, sin da piccolo Doc Pomus è costretto a
camminare con le stampelle o, addirittura, a stare su una sedia a
rotelle. Ma lo svantaggio fisico non gli impedisce di sviluppare il suo
eccezionale talento creativo.
Dopo esser stato un discreto cantante di blues, alla fine degli anni
Cinquanta, si butta anima e corpo nella composizione di brani. Entra
nella scuderia del Brill Building, la “fabbrica di hit” che a New York,
nei primi anni Sessanta, sforna successi come fossero michette di
pane, e ne diventa subito uno dei personaggi di maggior spicco.
Negli anni Settanta e Ottanta, Doc Pomus è ormai una leggenda,
un punto di riferimento assoluto, tanto che, nel suo appartamento
all’undicesimo piano del Westover Hotel sulla Settantaduesima,
transitano ad ogni ora del giorno e della notte artisti di fama
mondiale: da Dr John a Willy De Ville, da B.B. King a Marianne Faith
full, tutti lì a chiedere suggerimenti, consigli e idee al grande
Maestro.
Poche settimane prima della morte, alla Lone Star Roadhouse, nel
cuore di Manhattan, i suoi amici organizzano un concerto speciale
dedicato a lui: gli mandano anche il video della serata.
Il vecchio Doc può andarsene felice.

È una splendida mattina di sole nella Grande Mela.


Nell’appartamento al 53esimo piano del grattacielo sulla
Cinquantasettesima, due donne stanno appresso a Conor, un bimbo
di quattro anni e mezzo.
Una è la sua baby-sitter, l’altra è sua madre. Si chiama Lori Del
Santo, è una soubrette italiana, e Conor è il frutto della sua love
story con la rockstar inglese Eric Clapton. Proprio per passare la
Pasqua con lui, Lori e Conor sono a New York. Ieri sono stati al circo
con il papà e si sono divertiti moltissimo.
Stamane, Lori – dopo aver fatto la doccia – sta leggendo alcuni
fax che ha ricevuto dall’Italia. Conor sta giocando a nascondino con
la baby-sitter. Si stanno rincorrendo. Quando entrano nella sala,
illuminata dalle grandi vetrate che danno su Central Park, il portiere
che è lì per fare le pulizie ferma la ragazza.
“Stia attenta”, le dice, “ho appena aperto una delle finestre per far
entrare un po’ d’aria fresca”.
È un attimo.
Quando la baby-sitter guarda verso la finestra, Conor non c’è più.
Dalla sua bocca, esce un urlo straziante.
Lori arriva di corsa.
“Dov’è Conor? Dov’è Conor?”, chiede in modo disperato.
Poi, vede la finestra aperta, capisce e sviene.
Un quarto d’ora dopo, Eric Clapton, ignaro dell’accaduto, fa rientro
nell’appartamento.
Lori, in lacrime, riesce solo a farfugliare: “È morto… è morto…”.
“Come? Morto? Impossibile”, dice Clapton.
Poi, anche lui è costretto ad affrontare la
tragica realtà: il suo bambino è precipitato dal 53esimo piano e si
è schiantato al suolo.
“Ricorderai il mio nome, se ci vediamo in Paradiso?”, canta Eric
Clapton in una delle sue canzoni più intense dedicate al figlioletto
scomparso. “Devo essere forte, andare avanti e tenere le mie
lacrime per il Paradiso”.

È notte. Per Yngve Ohlin, in arte Dead, vocalist dei MayheM, band di
riferimento della scena black metal norvegese, viene trovato morto
nel covo del gruppo, una fatiscente abitazione situata a Oslo.
Il cantante, un ventiduenne noto per il suo carattere asociale e
instabile, si è sparato un colpo di fucile alla testa dopo essersi
tagliato le vene.
Vicino al corpo c’è un biglietto che recita: “Scusate per tutto
questo sangue”.
A rinvenire il corpo è il chitarrista e fondatore del gruppo, Øystein
Aarseth, in arte Euronymous, che alla vista dell’amico morto, in una
pozza di sangue e con il cranio letteralmente esploso, si eccita.
Così, invece di chiamare immediatamente la polizia, si reca in
fretta e furia al più vicino negozio per comprare un rullino e
realizzare un macabro servizio fotografico, dal quale in seguito trarrà
la copertina di un bootleg dal titolo DAWN OF THE BLACK
HEARTS.
Nessuno sa con esattezza cosa sia successo quella notte prima
dell’arrivo della polizia, ma la leggenda vuole che, per celebrare
degnamente la morte dell’amico, Euronymous abbia radunato i
membri del gruppo e insieme abbiano raccolto alcuni pezzi del
cervello di Dead e svariati frammenti del suo cranio: i primi, una volta
mangiati, avrebbero infuso loro la saggezza del cantante, mentre i
frammenti di osso sarebbero diventati delle specie di monili utili per
“ricordare”.
Dopotutto, deve aver pensato Euronymous, l’amico sarebbe stato
soddisfatto da un tale rito funebre. Dead era convinto di non
appartenere a questo mondo. Prima dei concerti, si diceva facesse
“inalazioni particolari”, aspirando da una busta di plastica contenente
un corvo in avanzato stato di decomposizione: pare che questa
pratica lo aiutasse ad assimilare l’essenza della morte.
Non è dato sapere se quel singolare rito funebre abbia funzionato,
però possiamo affermare con certezza che la nuova saggezza
acquisita non ha certo allungato la vita di Euronymous.
Poco più di due anni dopo, il 10 agosto del 1993, il chitarrista
riceve una visita nel suo appartamento di Oslo: sono circa le cinque
del mattino quando Varg Vikernes, conosciuto anche col
soprannome di Count Grishnackh, bussa alla porta.
Grishnackh, oltre a suonare il basso con i MayheM, è anche il
fondatore di Burzum, uno dei progetti musicali prodotti dalla
Deathlike Silence Productions, l’etichetta di Euronymous: sostiene
che questi gli sia debitore di una bella somma di denaro e, oltretutto,
non è affatto contento della gestione del progetto Burzum.
Tra i due nasce un diverbio; a un certo punto, Grishnackh estrae
un coltello, colpisce svariate volte Euronymous ferendolo a morte e
si dà alla fuga.
Catturato dalla polizia, Grishnackh viene condannato a ventun
anni di prigione, ma da quel momento in poi sosterrà sempre di aver
agito per legittima difesa e di essersi recato a casa della vittima
armato perché gli era giunta voce che questi, attirandolo a sé con la
scusa di un contratto, in realtà avesse intenzione di torturarlo a
morte e di riprendere il tutto con una telecamera.
Non sappiamo quali fossero le vere intenzioni di Euronymous,
venticinque anni, ma pare proprio che nessuno si sia cibato del suo
corpo per acquisirne la saggezza…
Sono circa le sei e mezzo del mattino, quando un automobilista che
sta transitando su una strada provinciale della contea di Essex, nella
campagna londinese, vede un cottage che sta andando a fuoco.
Chiama immediatamente i pompieri, che giungono sul luogo in pochi
minuti. “L’incendio non è facile da domare”, dice Keith Dunatis, capo
dei vigili del fuoco, “ha invaso il piano superiore della villetta”.
Proprio nella camera da letto, Dunatis e la sua squadra di
soccorso trovano il corpo esanime di Steve Marriott, ex leader delle
rock band inglesi Small Faces e Humble Pie.
La sera prima, Marriott è tornato da New York dove ha preso
accordi per registrare un nuovo disco con Peter Frampton, suo
vecchio amico e compagno d’avventura con gli Humble Pie.

Steve è in compagnia della moglie, Toni Poultney. I due hanno


litigato per ore a bordo del-l’aereo. Marriott ha bevuto moltissimo.
Quando arrivano a Londra, li accoglie un amico che li porta al
ristorante (dove i due proseguono a bere e a questionare) e poi li
invita a stare da lui per la notte. Al termine di un ennesimo, violento
litigio, Steve Marriott lascia la casa dell’amico per fare ritorno al suo
cottage.
Una volta giunto a destinazione, sale nella camera da letto. Si
accende una sigaretta e – stremato dalle ore di viaggio e dallo stress
emotivo – cade addormentato. La sigaretta accesa è fatale: le
lenzuola prendono fuoco e, a seguire, i mobili della stanza prima e
tutto il cottage poi.
Per Steve Marriott non c’è scampo: muore a quarantaquattro anni.

Il corpo senza vita di Johnny Thunders, membro di New York Dolls


ed Heartbreakers, viene trovato nella stanza numero 37 della St
Peter House.
Il musicista giace a terra, vicino a un tavolino, e quando la polizia
arriva sul posto il rigor mortis è già sopraggiunto da tempo, lasciando
il cadavere ripiegato su se stesso in posizione fetale.

Per le autorità non sembra esserci alcun dubbio: non c’è ragione
di aprire un’inchiesta ufficiale, si tratta semplicemente di un altro
caso di morte per overdose.
Eppure, alcune persone vicine a Thunders affermano che il
musicista da qualche tempo non faceva più uso di eroina e si stava
sottoponendo a una terapia di disintossicazione a base di metadone.
Stando alle dichiarazioni della sua biografa Nina Antonia, inoltre,
la quantità di droga rilevata nel suo organismo non sarebbe stata
letale. Dalla camera di Thunders mancano diversi effetti personali,
ma questo non è l’unico aspetto poco chiaro della vicenda: il suo
manager Mick Webster sosterrà in più occasioni che la polizia di
New Orleans non si è dimostrata affatto interessata a far chiarezza
sulla morte del musicista. Le ripetute richieste della famiglia di
riaprire le indagini, però, vengono ignorate: “Erano convinti che si
trattasse di uno dei tanti tossici di passaggio. La verità non li
interessava”.
La sorella di Thunders solleverà dei dubbi anche sull’attendibilità
del coroner e rivelerà che il fratello era gravemente malto di
leucemia, un terribile segreto che il musicista aveva deciso di tenere
per sé: “Sono convinta si sia trattato di omicidio”, dirà. “I suoi vestiti, i
soldi, il passaporto, perfino i suoi trucchi di scena erano spariti dalla
stanza, e la polizia non si è nemmeno presa la briga di isolare il
luogo del crimine”.
Anche il chitarrista di Johnny, Stevie Klasson, è della stessa
opinione: subito dopo la sua morte, racconta all’amico Dee Dee
Ramone che Thunders era stato preso di mira da alcuni “bastardi
intenzionati a sottrargli la sua scorta di metadone”.
Questi individui lo avrebbero drogato per poi ucciderlo e derubarlo.
Tuttavia, la polizia archivierà il caso e non si saprà mai se
Thunders sia morto accidentalmente o per mano di qualche balordo:
ciò che sappiamo è che aveva trentotto anni, la sua leucemia era in
uno stadio avanzato e, stando alle dichiarazioni di Klasson, “aveva
intenzione di lasciarsi alle spalle l’eroina”.
Purtroppo non c’è riuscito, e il 23 aprile 1991 se n’è andato
lasciandosi alle spalle una vita troppo breve, un’ex moglie e quattro
figli che non vedeva da circa dieci anni.
È da poco passata l’una del pomeriggio, quando nella sua bella casa
di Sherman Oaks, nella San Fernando Valley, una delle zone di Los
Angeles più abitate da latinoamericani, viene ritrovato il corpo senza
vita di Gene Clark, quarantasei anni, membro fondatore e voce
solista della rock band californiana The Byrds.
Il coroner, sul referto, scrive che la “morte è dovuta a cause
naturali: probabilmente un’ulcera”.
Il giorno prima, Clark era stato dal dentista per un intervento
piuttosto complicato e si trovava sotto sedativi. In realtà, chi lo
conosce bene, sa che quella di Gene è una lunga storia di droga e
alcol.
Sempre nascosta, mai risolta.
In aprile, le sue ultime apparizioni pubbliche: dopo aver inciso con
Carla Olson un nuovo disco e aver fatto qualche data con lei in
Inghilterra, Clark si esibisce per quattro serate al Cinegrill di
Hollywood.
Canta male e ha un aspetto orribile.
Qualche mese prima, il 16 gennaio 1991 – dopo anni di scontri,
litigi e battaglie legali con gli altri membri del gruppo – Gene Clark si
riappacifica con David Crosby, Roger McGuinn e Chris Hillman in
occasione della grande reunion dei Byrds voluta dalla Rock and Roll
Hall of Fame al Wal dorf Astoria di New York, nella stessa sera in cui
il pre sidente americano George Bush dichiara guerra all’Iraq.
Dopo la morte, il corpo di Gene viene sepolto nella città natale di
Tipton, Missouri.
Sulla piccola lapide della tomba una scritta: “Harold Eugene Clark
– No Other” (nessun altro), proprio come il titolo del suo album
solista più bello e suggestivo.

Sono le tre di mattina. Una limousine grigia inchioda davanti


all’ingresso dell’University of Pennsylvania Hospital. Gli infermieri
accorrono. Sul sedile posteriore trovano un afroamericano di una
cinquan tina d’anni privo di sensi. Lo ricoverano, ma non c’è nulla da
fare.
Un esame delle impronte digitali condotto dall’FBI stabilirà che
l’uomo è nientemeno che David Ruffin, l’ex cantante dei
Temptations, la voce vellutata di My Girl.
Chi l’ha portato in ospedale? E che cosa gli è successo? Chi o che
cosa l’ha ucciso?
La polizia cerca di mettere assieme le tessere del puzzle. Era
stato un amico di Ruffin, tale Linster Murrell, a dargli in prestito il 31
maggio la limousine. Il cantante se n’era andato con un autista di
nome Donald Brown. Ruffin aveva comprato della cocaina, che
aveva fumato in una delle infami crack house di West Philadelphia.
Era una vecchia abitudine: la prima volta che si era disintossicato
dalla cocaina era stato nel 1967.
Ma quella notte, per qualche motivo, aveva esagerato: lui e i suoi
amici avevano inalato ben dieci fiale di crack in mezz’ora. Ruffin era
collassato e Brown l’aveva portato al pronto soccorso.
Quindi, come se ne niente fosse, era uscito dall’ospedale senza
lasciare il proprio nome e aveva riportato la limousine a Murrell. La
polizia crede alla sua versione e classifica la morte del cantante
come accidentale.
Non è però la fine del caso.
Quella notte, infatti, Ruffin indossa una cintura imbottita
contenente 40mila dollari, che non vengono trovati al momento della
morte.
Chi li ha presi? E il furto è collegato alla morte del soulman? Non
c’è risposta, ma è probabile che siano stati sottratti da un
“compagno” di fumate dopo il collasso.
Ruffin viveva con Diane Showers, che aveva conosciuto quando
lei era una fan di appena quattordici anni: “Gli avevo detto di lasciare
Philadelphia, di tornare nel Mississippi dove avrebbe trovato la
pace”.
I funerali si tengono alla New Bethel Baptist Church di Detroit.
Quando si diffonde la notizia di una raccolta di fondi per pagare le
esequie, Michael Jackson si offre di coprire tutte le spese.
Al St John Hospital muore per infarto cardiaco Miles Dewey Davis III,
per tutti semplicemente Miles Davis, uno dei più grandi geni della
musica del Novecento.
Ricoverato qualche giorno prima per un semplice controllo, a
Davis vengono diagnosticate una forte bronchite e gravi difficoltà
respiratorie. I medici decidono che è necessario intubarlo: ma
l’artista si ribella in modo talmente violento da causare quell’infarto
che gli risulta poi fatale.
Circondato dai parenti più stretti, Miles scompare all’età di
sessantacinque anni.
Un paio di mesi prima, Davis – già provato dalla malattia e
visibilmente indebolito – si era esibito in un concerto memorabile a
Montreux, in Svizzera.
Lì, nel corso della 25esima edizione del prestigioso Jazz Festival,
l’8 luglio sale per la prima volta sul palco insieme a Quin cy Jones.
I due, accompagnati dalle gran di orchestre di Gil Evans e George
Gruntz, danno vita a un evento epocale: in un’ora e mezzo
ripercorrono la formidabile carriera di Davis, da BIRTH OF THE
COOL A SKETCHES OF SPAIN.
“Ero riuscito a convincere Miles a tornare alle sue radici di
imbattibile bopper”, dichiara un commosso Quincy Jones nelle note
di copertina del disco. E anche se il respiro diventa affannoso e il
suono leggermente più debole, la sua inimitabile tromba acida,
ficcante, splendente e affilata come la lama di un rasoio continua a
stagliarsi in modo superlativo sulle note delle sue composizioni,
rivitalizzando, con apparente facilità, classici senza tempo.
Sepolte nel Woodland Cemetery di New York, le spoglie di Miles
Davis riposano nella tomba a fianco di quella di Duke Ellington.

È una notte di tempesta.


Bill Graham e la sua fidanzata Melissa Gold stanno tornando a
casa dopo un concerto di Huey Lewis & the News al Concord
Pavillion, nel nord della Baia di San Francisco.
In realtà, il più famoso impresario della storia del rock ha passato
la serata in riunione: sta organizzando uno show benefico a favore
delle vittime del gigantesco incendio che, qualche giorno prima, ha
distrutto la zona di Oakland, uccidendo venticinque persone e
ferendone oltre centocinquanta.
Si è recato al Concord Pavillion per convincere Huey ad essere
della partita, anche se sa benissimo che nessuno può dire di no a
Bill Gra ham. Così, una volta che Huey Lewis & the News
assicurano la loro partecipazione all’evento, Bill e Melissa prendono
posto sull’elicottero privato.
Pochi minuti dopo il decollo, il pilota Steve Kahn avverte le autorità
aeroportuali di San Francisco: “Le torri dell’energia elettrica della
parte nord-est della Baia hanno le luci di segnalazione spente”,
comunica con fermezza, “è una situazione molto pericolosa.
Possibile che dobbiate sempre aspettare che qualcuno si schianti
prima di riparare i guasti?”.
Passano altri minuti. Sopra la Highway 37, tra Sears Point e
Vallejo, l’elicottero di Bill Graham urta una torre dell’energia elettrica
ed esplode. Nessun superstite.
In onore di Graham, il San Francisco Civic Auditorium viene
ribattezzato Bill Graham Civic Auditorium e un grande concerto
gratuito (chiamato “Laughter, Love and Music”) viene organizzato al
Golden Gate Park il 3 novembre.
Tutti gli artisti con cui Graham aveva lavorato (Grateful Dead,
Santana, Journey, Crosby, Stills & Nash, John Fogerty) salgono sul
palco di fronte a 300mila persone, con un presentatore d’eccezione:
Robin Williams.
La Bill Graham Presents – la società di promozione dei concerti e
di management artistico creata da Graham – verrà assorbita dal
colosso Clear Channel. E così pure i locali storici che gestiva: tra i
quali il leggendario Fillmore che, da metà anni Novanta, tornerà nella
location originale sull’angolo di Fillmore Street e Geary Boulevard.

È domenica sera e sono circa le sette meno un quarto quando i


numerosi giornalisti appostati fuori da Garden Lodge, la lussuosa
residenza di Freddie Mercury situata nel centro di Londra, notano del
movimento all’interno della proprietà, nella zona delle scuderie.
Joe Fanelli – chef, amante, amico e infermiere di Mercury – si
precipita all’esterno della casa per fermare il dottor Gordon Atkinson,
che sta per lasciare la tenuta a bordo della sua auto.
I segugi della stampa, dopo due settimane trascorse lì fuori a
fiutare l’aria in cerca della più macabra delle notizie, capiscono
subito che è arrivato il momento.
Il giorno prima, infatti, dopo lunghe sofferenze, Freddie Mercury,
quarantacinque anni, ha rilasciato un comunicato stampa ufficiale,
dicendo al mondo di essere sieropositivo: a quel punto sembra
chiaro a tutti che la fine sia imminente.
La giornata del 24 non era iniziata sotto buoni auspici: “Alle cinque
e mezzo della domenica mattina è squillato il mio telefono”, ricorda
l’assistente personale/tuttofare di Mercury, Peter Freestone.
“Angosciatissimo, Joe mi ha chiesto di precipitarmi nella stanza di
Freddie. Non ho avuto il coraggio di domandargli se fosse morto. Ho
messo giù la cornetta e mi sono infilato qualcosa al volo. Freddie era
entrato in coma, dopo un attacco di brividi. Giaceva irrigidito, con la
testa in posizione innaturale, gli occhi puntati verso l’angolo alle sue
spalle. Abbiamo provato a scuoterlo delicatamente, a parlargli, ma
era come se non si accorgesse della nostra presenza”.
L’entourage di Mercury si affretta a contattare il dottor Atkinson,
Mary Austin (amica intima e assistente) e alcuni amici fidati.
Dopo aver visitato il cantante, il dottore comunica ad amici e
collaboratori che, arrivati a questo punto, l’unico modo per aiutarlo è
restargli vicino.
“Abbiamo chiamato i membri della sua famiglia”, racconta
Freestone. “Ma vivo nel rimorso di non aver permesso ai suoi cari di
venirlo a vedere nel pomeriggio. Ho detto loro che non si sentiva
bene, e che magari nei giorni successivi le cose sarebbero
migliorate. Non potevo immaginare che, solo quattro ore dopo, avrei
comunicato loro la sua dipartita”.
Negli ultimi mesi per Mer cury era diventato fondamentale
riprendere il controllo della propria vita: ascoltava i consigli dei
medici, ma l’ultima parola spettava sempre a lui. Ormai era
perfettamente consapevole di ciò che gli stava succedendo, anche
se questo non gli avrebbe impedito di andarsene a modo suo: al
timone di comando.
“Ha riconosciuto che stava morendo solo una volta interrotta la
terapia”, dice Freestone, “da quel momento, non siamo mai più
tornati sull’argomento”.
Il dottor Atkinson sta rientrando a casa per cena quando viene
bloccato da Fanelli: non può far altro che recarsi nuovamente nella
stanza di Mercury, e questa volta per constatarne il decesso, alle
diciotto e quarantotto.
Mercoledì 27 novembre, alle otto e mezzo del mattino, Freddie
Mercury, al secolo Farrokh Bulsara, riceve l’estremo saluto da
famigliari e parenti secondo il rito zoroastriano nella cappella
dell’impianto crematorio John Nodes & Sons, in Ladbroke Grove.
Mercury, da vera star, fa il suo ingresso in un secondo momento,
scortato da un lungo corteo di limousine e carri ricolmi di fiori: “La
bara era decorata da un fiore di carta”, ricorda un commosso Peter
Freestone, “l’ultimo regalo per lo zio Freddie da parte della nipotina
Natalie”.
La cerimonia, assediata da giornalisti e curiosi, si apre con la
commovente melodia di You’ve Got A Friend nella versione di Aretha
Franklin, e si conclude sulle note dell’aria D’amor sull’ali rosee, dal
Trovatore di Giuseppe Verdi, interpretata da Montserrat Caballé.
“A Freddie piacevano le scelte insolite”, commenta Freestone.
“Noi tutti abbiamo pensato che avrebbe apprezzato un simile addio”.

È una calda mattina d’estate. Una delle tante che si susseguono per
mesi, qui, nella Southern California, nella grande contea della Città
degli Angeli.
Jeff Porcaro, trentotto anni – fondatore e batterista della
popolarissima rock band Toto – oltre alla musica coltiva un’altra
grande passione: la famiglia. Da quando, quasi dieci anni prima, ha
sposato Susan Norris – una giornalista televisiva che aveva
conosciuto dopo che lei lo aveva intervistato – il suo passatempo
preferito è stare con lei e i tre figli: Christopher, Miles e l’ultimo
arrivato, il piccolissimo Nico Hendrix.
Stamattina, ha deciso di fare giardinaggio.
Spruzza un po’ di pesticida ma, inavvertitamente, finisce per
inalarne una certa quantità. Quasi subito si sente male.
Chiama la moglie, si sdraia sul divano.
“Sento che il cuore che mi sta scoppiando”, le dice.
Susan Porcaro telefona immediatamente al 911.
Un’ambulanza giunge nel giro di pochissimi minuti. Ma non in
tempo per salvare la vita del grande batterista: un infarto lo stronca
in modo spietato. L’autopsia rivela che le condizioni del cuore di
Porcaro erano già seriamente compromesse.
Vengono rinvenute anche tracce di cocaina.
“Posso giurare sulla testa dei miei figli che Jeff non era un
tossicodipendente”, dichiara Susan alla CNN qualche mese dopo la
morte del marito.
Nonostante la sua strenua difesa e il referto medico che fa risalire
le cause dell’attacco cardiaco a un’allergia ai pesticidi – ma anche
alle compromesse condizioni cardiache di Porcaro – qualche dubbio
e molte speculazioni continuano a creare una sottile nebbia intorno
alla fine del fondatore dei Toto. Il cui funerale – con 1.500 presenti –
si svolge il 10 agosto nella Hall of Liberty, al Forest Lawn Memorial
Park. Nello stesso cimitero di Hollywood Hills, viene sepolto il corpo
del musicista.
Nell’università in cui Jeff ha studiato da ragazzo – la Grant High
School di Los Angeles – si crea un fondo apposito, il Jeff Porcaro
Memorial Fund, per finanziare progetti musicali.
Il 14 dicembre, all’Universal Ampitheater, si svolge un concerto
benefico per attivare un fondo a favore dei figli di Jeff. Partecipano i
Toto al completo, più Boz Scaggs, Donald Fagen, Michael McDonald
ed Eddie Van Halen.

GG Allin, il punk rocker più estremo che l’America abbia mai cono
sciuto, muore nel sonno a soli trentasei anni nell’appartamento
dell’amico John Handley Hurt. Causa della morte: overdose di
eroina.
La notte del 27, GG aveva tenuto quello che sarebbe stato il suo
ultimo show al Gas Station, un club nell’East Village, ma dopo solo
un paio di brani aveva trasformato il locale in un vero e proprio
campo di battaglia ed era intervenuta la polizia.
Durante le sue infuocate performance, Allin era solito procurarsi
delle ferite con un coltello, auto-mutilarsi, colpire gli spettatori delle
prime file con l’asta del microfono, incoraggiarli a fare sesso orale
insieme a lui, oppure masturbarsi e cospargersi di feci sul palco per
poi abbracciare qualche malcapitato di turno.
Anche quella sera, ovviamente, GG aveva fatto del suo peggio, e
quando il concerto era stato interrotto era andato su tutte le furie:
aveva iniziato a colpire chiunque gli capitasse a tiro e aveva
sfondato una porta a vetri con la testa, trasformando il proprio volto
in una maschera di sangue.
Quindi, era riuscito a sgattaiolare fuori dal locale nella confusione
generale, mettendosi a scorrazzare completamente nudo e cosparso
di escrementi per le strade di Manhattan, seguito da un nutrito
gruppo di sostenitori che, come lui, non avevano alcuna intenzione
di terminare la serata prima del previsto.

Così GG aveva pensato bene di dirigersi verso l’appartamento del


suo amico John e di proseguire lì la festa insieme al suo piccolo
esercito: aveva assunto una quantità spropositata di alcol e cocaina
ed era talmente su di giri che, per riuscire a calmarsi, a un certo
punto aveva assunto una grossa dose di eroina e si era
addormentato mentre la gente intorno a lui continuava a divertirsi.
La festa era proseguita senza sosta, senza limiti di tempo, e in
molti si erano seduti accanto a lui per scattare una foto ricordo:
nessu no, però, si era accorto che Allin era morto, almeno fino al
giorno seguente. Tuttavia, nemmeno la morte era riuscita a guastare
questo party selvaggio, che aveva finito per inglobare anche il
funerale di GG.
Jesus Christ Allin, questo il nome datogli dal padre, in seguito
ribattezzato Kevin Michael Allin dalla madre, per volere del fratello
Merle non viene né lavato né truccato per il suo “party funebre”:
vestito solamente del suo inseparabile giubbotto di pelle, di un
sospensorio e un paio di calzini, il suo corpo malridotto e
maleodorante viene messo in una bara aperta insieme a una
bottiglia di whisky e un microfono.
Intorno a lui, ovviamente, ha inizio un party selvaggio a base di
alcol e droghe, molte delle quali vengono condivise con GG dagli
amici, che nella speranza di trasformare il suo trapasso in un
incredibile trip, gli infilano in bocca ogni genere di sostanza.
Il 3 luglio, Allin viene sepolto nel St Rose Cemetery di Littleton,
New Hampshire, e da quel momento la sua tomba diverrà meta di
numerosi fan e curiosi che, per rendere degno omaggio al proprio
idolo, orineranno, defecheranno e cospargeranno la sua lapide di
whisky.
Quale miglior sepoltura per colui che era solito dire: “La mia mente
è un’arma da fuoco, il mio corpo i proiettili, e il pubblico il mio
obiettivo”.

È circa l’una del mattino. Mia Zapata, cantante e leader del gruppo
punk rock The Gits, esce dal Comet Tavern, il suo bar preferito nella
zona residenziale di Capitol Hill, dove ha trascorso la serata
bevendo in compagnia di alcuni amici.
Vuole raggiungere il suo ex fidanzato Robert Jenkins nelle
immediate vicinanze, al Pancreas Production Studio, dove ha
provato col suo gruppo per tutto il pomeriggio.
La loro relazione è diventata insostenibile: Mia è arrabbiata,
amareggiata e ha assolutamente bisogno di parlargli per chiarire le
cose, una volta per tutte. Non trovandolo, decide di salire
nell’appartamento situato sopra lo studio di registrazione per far
visita a T.V., un amico che tempo addietro faceva il corista con lei in
un’altra formazione.
Sono circa le due del mattino quando si congeda dall’amico con
l’intenzio ne di tornare a casa in taxi: il suo appartamento, che
condivide con un’altra persona, si trova solamente a pochi chilometri
di distanza. Mia indossa degli short di jeans, stivali neri e una felpa
nera con la scritta “The Gits”.
A casa non ci arriverà mai. Il suo corpo viene rinvenuto da una
prostituta, nota nell’ambiente con il nome di Charity, verso le tre e
mezzo sulla Ventiquattresima Avenue South, a metà strada tra
l’appartamento dell’amico e la sua abitazione, in un vicolo cieco.
Gli infermieri arrivano sul posto in seguito a una segnalazione
telefonica ricevuta dai vigili del fuoco di Seattle, ma ormai è troppo
tardi: ogni tentativo di rianimazione si rivela vano.
Qualcuno l’ha assalita, picchiata violentemente, barbaramente
stuprata e infine strangolata con il cordoncino del cappuccio della
sua stessa felpa. Stando ai rapporti, “l’indumento è sollevato fin sotto
le braccia, mentre gli slip, il portafogli e il reggiseno strappato della
vittima sono stati infilati in una tasca degli short”.
Il cadavere giace a terra con le braccia aperte e le caviglie
accavallate, quasi a voler simboleggiare una crocifissione: per la
polizia questo potrebbe ricondurre a un crimine a sfondo religioso, o
comunque a un omicidio consumato in una casa o in una macchina,
con successivo abbandono del corpo.
Il medico legale riferisce che, se non fosse stata strangolata,
probabilmente sarebbe morta per le ferite interne provocate dai
maltrattamenti subiti: la violenza con cui è stata assalita è
estremamente brutale.
Presto le indagini giungono a un punto morto, e il delitto rimane
irrisolto per ben undici anni.

All’inizio di quello stesso anno, il 1993, The Gits erano tornati in


studio per lavorare al loro secondo album, ENTER: THE
CONQUERING CHICKEN, che verrà pubblicato postumo. Avevano
appena terminato una tournée di successo lungo la West Coast e
diverse case discografiche si erano fatte avanti con offerte
vantaggiose.
Nella Seattle del grunge, in realtà, The Gits si dicevano poco
interessati a cavalcare l’onda della fama che stava travolgendo la
città. La giovane cantante diceva agli amici che tutto ciò che
desiderava era una piccola baita in cui vivere, una vecchia Jeep e un
cane da pastore.
Le premesse per un grande futuro c’erano tutte, eppure Mia non
sembrava molto felice. Steve Moriarty, il batterista della band,
ricorderà per sempre queste sue parole: “Non voglio tornare a
Seattle. Ho una brutta sensazione”.
Con la morte di Mia, i suoi amici formano un’associazione
benefica, Home Alive, e organizzano concerti cui partecipano i
gruppi più importanti della scena di Seattle (Nirvana, Pearl Jam,
Soundgarden, Heart), con l’intento di finanziare corsi di autodifesa e
campagne di sensibilizzazione a sostegno delle donne. Grazie alle
donazioni, vengono raccolti 70mila dollari, che vengono usati per
assumere un’investigatrice privata, Leigh Hearon, incaricata di
continuare le indagini.
Hearon indaga a fondo per quattro anni: arriva a incontrare tutti i
musicisti della zona e tutti i possibili conoscenti della ragazza, senza
tuttavia giungere ad alcuna conclusione utile, tanto più che l’unico
possibile sospettato, Robert Jenkins, quella sera era in compagnia di
un’altra donna, che conferma il suo alibi.
L’unico barlume di speranza giunge da un indizio raccolto sulla
scena del crimine.
Si tratta di una piccola traccia di saliva rinvenuta dal medico legale
sul petto della vittima: un elemento inutile per la tecnologia
dell’epoca.
Una delle teorie elaborate dalla polizia è che la ragazza possa
aver incontrato il suo assalitore per puro caso, o che abbia
incautamente accettato un passaggio da uno sconosciuto.
Nel 1998, Bob Gebo, detective di Seattle esperto in criminologia,
traccia un possibile profilo dell’assassino: “Questa persona ha una
predisposizione alla violenza”, afferma. “Sicuramente ha già assalito
altre donne in passato”.
La comunità locale non sembra dimenticarsi di Mia, nonostante il
passare del tempo: a lei vengono dedicati concerti, album, tributi.
La scienza, intanto, compie passi da gigante nel campo dell’analisi
del DNA. I detective Richard Gagnon e Gregg Mixsell lavorano ai
casi irrisolti di Seattle, rimasti in archivio anche per decenni: sono i
cosiddetti cold cases, letteralmente “casi freddi”.
Grazie alle nuove tecnologie e alle recenti scoperte scientifiche,
bastano quantità di DNA sempre più piccole per poter ricavare prove
consistenti: a partire dal 2001, l’unità dei cold cases risolve infatti
ben venti omicidi in tre anni.
Le prime indagini ad essere riaperte sono quelle legate ai crimini a
sfondo sessuale, per via della maggiore possibilità di trovare fluidi
corporei utili per rintracciare campioni di DNA.
Nel caso di Mia Zapata è rimasto solo quel piccolo campione di
saliva. “Nei casi più vecchi, di solito, le prime tracce che si cercano
sono sangue o liquido seminale, non certo saliva”, afferma il
detective Mixsell. “Il medico esaminatore è stato molto lungimirante
nel controllare così minuziosamente il petto della vittima”.
Jodi Sass, il medico legale che analizza il campione nel
laboratorio criminale dello Stato di Washington, rileva la presenza di
due diversi codici genetici: uno appartenente a Mia, l’altro a un
individuo maschile non identificato. Nel giugno 2002, questo
secondo campione viene inserito nel database dell’FBI ma, a un
primo confronto, non viene riscontrata alcuna corrispondenza.
Bisogna aspettare circa sei mesi per ottenere un primo risultato
positivo. Nel dicembre 2002, infatti, viene trovato un campione che
combacia perfettamente: appartiene a Jesus C. Mezquia, un
pescatore cubano trasferitosi in America nel 1980, quando Fidel
Castro aveva mandato in esilio centinaia di persone, molte delle
quali detenute.
L’uomo è stato arrestato per furto a Miami, Florida, e secondo la
nuova legge anche per questo reato bisogna prelevare un campione
di DNA destinato all’archivio di Stato.
Dalle indagini emerge che l’uomo risiedeva a Seattle tra il 1992 e il
1994. Viveva con una donna non molto lontano dal luogo dove era
stato rinvenuto il cadavere di Mia Zapata: pare che la notte
dell’omicidio la sua convivente si trovasse fuori città.
Per giunta, la fedina penale di Mezquia è tutt’altro che pulita: vi
sono ripetute condanne per furto, denunce da parte di ex fidanzate e
persino dalla moglie, per violenze, percosse e abusi. Nel 1997 è
stato condannato per violenza aggravata ai danni di una donna
incinta di sette mesi e nel 1990 per tentata violenza carnale.
Viene trovato un verbale per atti osceni a Seattle, risalente a
qualche settimana dopo la morte di Zapata: una donna, mentre
camminava lungo la Decima Avenue (a un isolato di distanza dal
Comet Tavern), era stata affiancata da una macchina che le aveva
offerto un passaggio. Quando si era resa conto che l’uomo al volante
si sta masturbando, aveva preso nota della targa e fatto la denuncia
alla polizia. La macchina apparteneva a Jesus Mezquia.
La polizia interroga anche tre donne che dicono di aver vissuto
con Mezquia durante l’anno e mezzo trascorso a Seattle. Nessuna è
al corrente del motivo per cui l’uomo sia giunto in città. Gli
investigatori si convincono che non conoscesse Zapata prima
dell’omicidio, e che fosse un “predatore” sempre in ricerca di nuove
vittime.
Il 10 gennaio 2003, Mezquia viene arrestato a Miami con l’accusa
di omicidio di primo grado e prelevato dalla polizia di Seattle. I
famigliari della ragazza sono increduli: il padre e il fratello si erano
rassegnati a non vedere mai il caso risolto.
Nel marzo 2004 ha inizio il processo: l’imputato lo segue tutto
grazie a un interprete, ma non parla mai a sua difesa.
I suoi avvocati sostengono che la saliva potrebbe essere rimasta
sul corpo della donna anche ore o giorni prima dell’omicidio, oppure
che la scena del crimine possa essere stata corrotta dai medici
durante l’autopsia.
La difesa tenta di scagionare Mezquia puntando il dito prima
sull’ex fidanzato Robert Jenkins e, in un secondo momento, su Scott
McFarlane, un tassista che avrebbe millantato una relazione con la
cantante e che, per giunta, quella fatidica notte era di turno proprio
nell’area di Capitol Hill. L’accusa, tuttavia, afferma che quella piccola
traccia è una prova scientifica valida a tutti gli effetti. Nel corso del
processo, inoltre, viene inaspettatamente raccolta un’altra
testimonianza che andrebbe ad aggravare ulteriormente la posizione
dell’uomo cubano: una donna, Valentina Dececco, afferma di essere
stata aggredita da Mezquia nel gennaio del 1994, circa sei mesi
dopo l’omicidio di Mia Zapata.
La testimone racconta che l’uomo si sarebbe avvicinato a lei verso
le quattro e mezzo del mattino, nelle vicinanze del suo appartamento
situato a Downtown Seattle, mentre si accingeva a fare jogging
come sua abitudine. Mezquia l’avrebbe colpita con forza, facendola
cadere a terra, ma lei sarebbe riuscita a rialzarsi e scappare. Poco
dopo, facendo ritorno nella propria abitazione, la donna avrebbe
visto Mezquia appostato all’angolo del palazzo: la fissava,
masturbandosi.
Valentina Dececco, che all’epoca non aveva sporto denuncia,
dopo aver riconosciuto l’uomo in una fotografia apparsa su un
quotidiano avrebbe infine deciso di farsi avanti e contattare la polizia
di Seattle.
L’accusa raccoglie questa testimonianza, archiviandola come una
sorta di arma segreta, da sfoderare nel caso in cui gli avvocati di
Mezquia decidessero di basare la propria linea di difesa sulla teoria
che vede il tassista Scott McFarlane come possibile indiziato.
Non ce ne sarà bisogno. I difensori dell’uomo tentano però di far
invalidare la prova del DNA raccolta in occasione dell’arresto di
Miami, ma anche questa volta senza successo.
La giuria delibera per ben tre giorni. La tensione è altissima.
Il quarto giorno, il 25 marzo 2004, Jesus C. Mezquia viene
condannato a trentasette anni di prigione, una pena ben più alta
rispetto alla media delle sentenze per omicidio di primo grado.
Secondo i giornali locali, l’estate del 1993 aveva registrato un
significativo aumento degli omicidi. Mia Zapata fu la vittima numero
trentatré. Aveva solo ventisette anni.

The Viper Room è il locale più in del Sunset Strip. Appartiene a


Johnny Depp, che qualche mese fa, per la serata inaugurale, ha
convinto Tom Petty a esibirsi sul minuscolo palco del club con i suoi
Heartbreakers.
Qui non ci sono solo rock di qualità e artisti emergenti: molte star
hollywoodiane (come Jennifer Aniston e Sean Penn) amano
trascorrere al Viper le loro serate allietate da musica energica.
Johnny Depp e River Phoenix hanno anche un’altra ragione: per
loro, il rock è qualcosa di più di una semplice passione. E suonare
sul palco del Viper Room significa realizzare un piccolo sogno. I due
attori/rocker, infatti, non hanno mai abbandonato l’idea di fare
musica seriamente. E ora che il successo cinematografico li ha
baciati entrambi, cercano di togliersi un po’ di sfizi.
Phoenix ha appena finito di girare – dopo tre settimane – gli interni
di Dark Blood. È tornato a Los Angeles e ha dato appuntamento in
albergo al fratello Joaquin e alla sorellina Rain. Insieme alla
fidanzata di River, Samantha Mathis, tutti insieme raggiungono il
Viper Room perché stasera Phoenix si esibisce sul palco del locale
insieme al suo amico Flea, il leggendario bassista dei Red Hot Chili
Peppers.
Finito il suo set, River va in bagno: ha appena comprato da un
pusher una dose di Persian Brown (potentissima metamfetamina
mescolata con oppiacei) ed è pronto a sniffarsela.
La droga non impiega molto a entrare in circolo.
Di lì a poco, Phoenix comincia a sentirsi poco bene. Decide di
uscire in strada a prendersi una boccata d’aria. Di colpo, sviene sul
marciapiede davanti all’entrata del club.
Ha convulsioni fortissime.
Suo fratello Joaquin chiama immediatamente il 911, ma non riesce
a spiegare se River stia respirando o meno. Rain, nel frattempo,
cerca di praticargli la respirazione bocca a bocca.
Sul palco del Viper Room stanno suonando Johnny Depp, Flea e
Gibby Haynes dei Butthole Surfers. Qualcuno sostiene che, mentre
Phoenix giace in fin di vita di fronte all’ingresso del club, i suoi amici
stiano cantando il brano Michael Stipe (che ha una strofa che recita
“but we didn’t have a part, not a piece of our heart, not Michael,
River Phoenix or Flea or me”).
Non appena i musicisti vengono a sapere delle condizioni di
Phoenix, smettono immediatamente di suonare e si precipitano
all’ingresso.
Quando giunge l’ambulanza, River Phoenix è in arresto cardiaco.
Tentano di rianimarlo e poi, di corsa, lo trasportano al Cedars-Sinai
Medical Center.
Sull’ambulanza sale anche Flea.
Dopo numerosi tentativi di rianimazione, incluso il disperato
inserimento di un pacemaker, all’una e cinquantuno i medici
dichiarano morto il paziente River Jude Phoenix, attore e musicista,
ventitré anni.
Il mattino dopo, numerosi fan e semplici ammiratori si recano fino
al Viper Room per lasciare fiori, biglietti, candele, messaggi di ogni
tipo.
Tutti pregano per l’anima di River Phoenix.
Sulla vetrina del locale viene sistemato un cartello: “Per il rispetto
e l’amore che nutriamo nei confronti di River e della sua famiglia,
abbiamo deciso di tenere chiuso il locale sino a prossima
comunicazione. Porgiamo le nostre condoglianze alla famiglia
Phoenix, ai suoi amici e ai suoi cari. Ci mancherà”.
Il Viper Room rimane fermo per una settimana e tutti gli anni, in
segno di lutto, il 31 ottobre viene chiuso, finché Johnny Depp, nel
2004, non decide di vendere le quote del club.
Se un fotografo californiano si rifiuta di fotografare River Phoenix
morente sul marciapiede del Sunset Boulevard, un altro paparazzo
ben più spavaldo scatta una foto del cadavere di River nella bara,
proprio il giorno prima della cremazione del suo corpo in Florida.
Venduta per un milione di dollari al «National Enquirer», la foto
viene pubblicata tre volte.
“Non voglio morire in un incidente d’auto”, aveva detto River
Phoenix, “il giorno in cui morirò sarà un giorno glorioso”.
L’annuncio arriva dalla famiglia: “Il compositore Frank Zappa è
partito per la sua ultima tournée prima delle sei di sera di sabato”.
Era stata la figlia Moon a dare notizia della malattia che l’avrebbe
ucciso: nel 1990 gli era stato diagnosticato un tumore alla prostata.
Era maligno e non operabile.
“Quando mi hanno ricoverato”, avrebbe detto a «Playboy», “la
massa tumorale era diventata così grande che non riuscivo
nemmeno a fare pipì. Per farmi sopravvivere, mi avevano bucato la
vescica. Ho passato più di un anno con un tubicino che usciva dalla
vescica e una sacca legata alla gamba”.
Un ciclo di potente radioterapia gli aveva permesso di disfarsi
della sacca, ma doveva “confrontarsi con la morte ogni giorno”.

Nonostante fosse terribilmente indebolito, aveva compiuto un


ultimo sforzo: la composizione e l’arrangiamento di un pezzo
orchestrale commissionato dal Festival di Francoforte ed eseguito
dall’Ensemble Modern.
La prima del concerto “The Yellow Shark” si tiene all’Alte Oper di
Francoforte nel settembre del 1992. Zappa ne dirige una parte la
serata d’apertura, il 17, ma riesce a presenziare a un solo altro
concerto della serie: “Stavo così male che riuscivo a malapena a
camminare”. È l’apoteosi della sua vita di compositore colto.
Quando il cancro va in metastasi, per Zappa non c’è più alcuna
speranza. Alcuni giorni resta annichilito dal dolore, altri stordito dalle
medicine, altri ancora riesce a stento a lavorare a un album finale
chiamato CIVILISATION: PHASE III, che secondo la moglie Gail
“aveva a che fare con la fine della sua vita”.
È lei a invitare, ogni venerdì sera, amici e musicisti per serate di
chiacchiere e musica. Una nuova amicizia in particolare sembra
consolarlo: quella con Paddy Moloney e i Chieftains.
La morte lo coglie cosciente, circondato dalla moglie e dai figli.
“Quando è morto”, ha detto Moon Zappa, “lo abbiamo deposto noi
nella bara. Di solito lo fa qualcun altro, ma abbiamo voluto farlo noi,
da soli. Lo abbiamo trattato come se stesse partendo per un tour:
nella bara ci abbiamo messo la sua macchinetta per il caffè, un po’
di peperoncino di cayenna e altri oggetti che potevano servirgli.
Pensavamo che sarebbe stato spaventoso vederlo morire, ma non è
stato così. Considero una fortuna essere stata presente quando è
successo”.
Frank Zappa viene sepolto il giorno dopo al Pierce Bros
Westwood Village Memorial Park. Riposa in una tomba senza lapide.
Per sua richiesta, al funerale viene suonata Green Fields Of America
dei Chieftains.

Venerdì 8 aprile, otto e quaranta del mattino.


È una bella giornata di sole e Gary Smith, elettricista, entra nella
villa al numero 171 di Lake Washington Boulevard East. È stato
chiamato per controllare il sofisticato sistema d’allarme della casa.
Da una finestra della dependance, Smith intravede il corpo inerme
di un uomo che giace con il volto sfigurato in una pozza di sangue.
Al suo fianco, un fucile Remington M-11 calibro 20 e un biglietto
d’addio, scritto a mano.
Il giovane elettricista capisce immediatamente il dramma.
Il cadavere che ha visto nella dependance – per la precisione,
nella serra al piano superiore del garage – è quello di Kurt Cobain,
padrone di casa e leader della rock band Nirvana.
Da un paio d’anni, in quella lussuosa residenza che sorge a fianco
delle ville degli executive manager di Starbucks e Microsoft, Cobain
vive insieme alla moglie, la cantante Courtney Love, e alla piccola
Frances Bean, che non ha ancora compiuto due anni. Proprio alla
figlia è dedicato il pensiero finale dello struggente, ultimo scritto:
“L’ho fatto per Frances, per la sua vita che sarà assai più felice
senza di me”.
Sono le nove e quaranta.
Gary Smith chiama il suo capo e gli spiega cosa è accaduto.
Poco dopo, Marty Reimer, un dj della KXRX, stazione radiofonica
rock di Seattle, riceve una telefonata da un impiegato della Vega
Electric & Communications.
L’uomo dice: “Ho una notizia da un milione di dollari”. Passano
pochi minuti e in città si diffonde la terribile verità.
Kim Cobain, sorella di Kurt, ascolta pietrificata le news
radiofoniche. Chia ma immediatamente la madre, Wendy Elizabeth
Fradenberg, che in lacrime mormora: “Lo sapevo… lo avevo pregato
di non farlo… ma purtroppo anche lui si è voluto iscrivere al club
degli stupidi”.
Il club cui si riferisce è quello formato da Brian Jones, Jimi
Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison. Tutte rockstar, tutte morte in
modo misterioso, tutte a ventisette anni di età.
Proprio come Kurt Cobain.
Rosemary Carroll è la legale di casa Cobain. Tocca a lei informare
Courtney Love, che in quel momento si trova a Los Angeles in una
clinica di disintossicazione. L’espressione di Courtney non ammette
dubbi: si è avverata la peggiore delle ipotesi formulate dopo che,
alcuni giorni prima, il marito era sparito, senza dare notizie di sé.
Al suo avvocato, la Love chiede soltanto: “Come?”.

Ore dieci: la morte di Kurt Cobain è ormai di dominio pubblico.


Davanti alla villa sul Lago Washington comincia a formarsi una
folla di giornalisti, fan e curiosi. Prima che la polizia, con un telone,
copra la finestra dalla quale Gary Smith ha intravisto il cadavere, un
fotografo del «Seattle Times» – Tom Reese – sale sulla collinetta di
fianco alla casa. Da lì, riesce a scattare un’istantanea che ritrae una
parte del corpo senza vita di Cobain, la gamba destra distesa, u na
scarpa Converse, la mano chiusa.
Poco distante, due a sciugamani, una scatola di sigari, un
portafoglio, 120 dollari in contanti, sigarette e accendino, un
cappello, un paio di occhiali da sole.
Vicino, un uomo accovacciato – presumibilmente un poliziotto –
che prende appunti.
La foto di Reese fa il giro del mondo. Molti giornali parlano di “fine
di un’epoca”.
Courtney, il mattino del 9 aprile, dà l’estremo saluto al marito nella
camera ardente. Al Seattle Center, settemila persone prendono
parte alla veglia in memoriam.
Alla Unity Church Of Truth, settanta persone partecipano al
funerale privato, seguito da due veglie. Alla fine, Courtney si reca al
Seattle Center a parlare con i fan. Legge alcuni stralci del biglietto
d’addio di Kurt commentandoli in modo amaro. Tra le frasi più
memorabili, la citazione del verso di una canzone di Neil Young che
Cobain ha fatto sua: “Meglio bruciare velocemente”, scrive, “che
spegnersi lentamente”.
L’autopsia ha chiarito che il corpo di Cobain giaceva nella serra da
tre giorni. Sul certificato di morte, a fianco della professione della
vittima – poeta e musicista punk rock – c’è una data: 5 aprile.
Il mondo del rock è sotto shock.
Pochi intimi sanno che la catena di eventi che ha portato a quella
triste mattina è in realtà iniziata il 25 marzo in quella stessa villa sul
Lago Washington.
Dopo il tentativo di suicidio consumatosi all’inizio di marzo all’Hotel
Excelsior di Roma, Kurt Cobain è apparso drammaticamente
cambiato.
L’episodio di Roma non ha arrestato le sue tendenze nichiliste.
Anzi, Kurt sembra perso in una spirale di dolore e isolamento. La
dipendenza dall’eroina è cronica. E il rapporto con Courtney è ormai
fatto di litigi violenti e di minacce di abbandono.
“Non morirò di overdose”, confida in quei giorni a un’amica, “mi
sparerò in testa”.
Il 25 marzo, Courtney Love e il manager dei Nirvana Danny
Goldberg fanno una riunione a casa Cobain: obbligano Kurt a
entrare in clinica per disintossicarsi. Anche Courtney decide di
sottoporsi al medesimo trattamento.
Mercoledì 30 marzo, Cobain entra nel centro di recupero Exodus
di Marina del Rey. Ci rimane solo due giorni. Il 1° aprile fugge,
prende un volo della Delta Airlines per Seattle e non dà più notizie di
sé.
Courtney si fa prendere dal panico: ingaggia un investigatore
privato – Tom Grant – per cercare di scovare il marito.
Mattina del 2 aprile. Nella sua villa di Seattle, Kurt telefona a
un’amica, Jessica Hopper. Jessica prega Kurt di avvisare Courtney.
Cobain chiama, ma il centralinista non gli passa la moglie credendo
di avere a che fare con un mitomane.
Lasciata la villa, Kurt prende un taxi, compra delle munizioni e si
apparta nella camera di un motel. Intanto, Courtney blocca tutte le
carte di credito del marito.
Dopo aver parlato con Dylan Carlson (amico intimo di Cobain e
come lui eroinomane), Courtney viene a sapere che i due, qualche
giorno prima, hanno comprato un fucile. Chiama la polizia e,
fingendosi la madre di Kurt, ne denuncia la scomparsa avvisando
che il “figlio potrebbe avere intenzioni suicide”.
Tra lunedì 4 e martedì 5 aprile, alcuni amici di Kurt e Courtney
setacciano la villa senza trovare né Cobain né il fucile.
Nella notte tra il 6 e il 7, è addirittura Tom Grant, l’investigatore
privato ingaggiato dalla Love, a ispezionare casa Cobain insieme a
Dylan Carlson. Nessuno però pensa di guardare nella dependance,
dove ci sono il garage e una serra al piano superiore.
Il 7 mattina, due altre amiche fanno un sopralluogo: nemmeno loro
trovano nulla, seppure una delle due, tale Bonnie Dillard, sostenga di
aver visto un’ombra sopra il garage. Cobain era ormai morto da un
giorno e mezzo.
“Kurt non si è suicidato. È stato assassinato, ne sono certo”.
Sono parole di Leland Cobain, nonno paterno del leader dei
Nirvana, ma potrebbero appartenere a decine di altre persone,
amiche di Cobain, conoscenti o semplici fan che non hanno mai
creduto che il ragazzo si sia sparato.
I sostenitori più seri della tesi del complotto si chiamano Max
Wallace e Ian Halperin (autori di ben due libri sull’argomento e
consulenti del controverso film-documentario di Nick Broomfield Kurt
& Courtney). Il loro asso nella manica è Tom Grant, l’investigatore
privato che – una volta finito il mandato di Courtney – ha continuato
a indagare per conto proprio, spendendo tutto il suo patrimonio per
finanziare le complesse indagini.
Ci sono almeno quattro punti oscuri nella morte di Kurt Cobain,
che la polizia di Seattle – senza neppure darsi la briga di sviluppare
le fotografie della scena del crimine – archivia subito come “suicidio”.
Primo: il sangue di Cobain contiene una quantità di eroina tre volte
superiore alla dose considerata letale. Secondo i più, con così tanta
droga in corpo, Kurt sarebbe entrato immediatamente in coma. E
non avrebbe avuto il tempo di imbracciare il fucile.
Secondo: non ci sono impronte digitali né sul fucile con cui Kurt si
è sparato né sulla penna con cui ha scritto la lettera d’addio.
Terzo: nella lettera non ci sono riferimenti al suicidio né espliciti né
inequivocabili e, secondo un esperto di grafologia, il messaggio
sembra scritto da due mani diverse.
Quarto: qualcuno ha cercato di usare le carte di credito di Kurt
dopo la morte.
Inoltre ci sono altre incongruenze, altri “perché” senza
spiegazione.
Perché Courtney ha ripetutamente chiesto agli amici di cercare
Kurt nella villa sul Lago Washington?
Perché Kurt ha messo tre cartucce nel fucile? Una non sarebbe
stata più che sufficiente?
Perché la postura del cadavere non è quella di un suicida?
Perché Courtney ha cremato il corpo del marito senza che questi
ne avesse fatto richiesta?
“Un giorno sposerò una rockstar e la ucciderò”, aveva detto una
giovanissima Courtney Love al padre.
È lei la principale indiziata. Ne avrebbe avuto certamente il
movente: specie se (come sembrava) Cobain le avesse
ripetutamente chiesto il divorzio. Molti dei personaggi sospetti di cui
Courtney si circonda in quei giorni, muoiono in circostanze
misteriose. Tra questi, Eldon Doke, detto El Duce, rocker di Los
Angeles che dichiara di aver ricevuto 50mila dollari e una
prestazione sessuale da Courtney in cambio di un piccolo favore: la
morte di Kurt Cobain.
Una cosa è certa. Oltre alle dozzine di suicidi imitativi che ha
lasciato dietro di sé, la morte prematura e violenta di Kurt Cobain ha
trasformato il musicista di Aberdeen in un mito, una sorta di Cristo
punk rock morto per riscattare i peccati dell’industria
dell’entertainment.
Quando Courtney, quell’8 aprile del 1994, giunge nella villa sul
Lago Washington, convince i poliziotti a farsi dare la giacca di velluto
del marito, zuppa di sangue. La indossa.
Dopo che il cadavere è stato rimosso dalla serra, si inginocchia
laddove giaceva Kurt. Immerge le mani nel sangue e lancia un grido
disperato: “Perché?”.
Certe domande, purtroppo, non hanno risposta.

Quartiere universitario di Capitol Hill.


Sul marciapiede di fronte al condominio Swansonia, al 1017 di
East Harrison Street, c’è parcheggiato un furgone carico. Paul
Erickson (per paura dei ladri) ha passato la notte a bordo, anche se
lui abita proprio allo Swansonia insieme alla sua fidanzata Kristen
Pfaff, bassista della band grunge Hole.
I due hanno programmato di partire per Minneapolis: basta Seattle
e basta Hole.
Kristen è felice, vuol dare una svolta alla propria vita.
Sono le nove e mezzo del mattino. Paul entra in casa e chiama
Kristen: è ora di andare.
Nessuna risposta.
Quando apre la porta del bagno, vede il corpo senza vita della sua
amica nella vasca. Chiama subito la polizia, che giunge lì nel giro di
pochi minuti.
Per terra, vicino alla vasca, viene rinvenuta una borsetta
contenente siringhe e altri strumenti sospetti. Sembra proprio che
quello della Pfaff sia l’ennesimo caso di overdose.
Dieci settimane prima, a poche miglia di distanza dallo Swansonia,
è stato trovato il cadavere di Kurt Cobain, la cui moglie, Courtney
Love, è leader delle Hole, il gruppo di Kristen.
La morte di Cobain (suicidio?) è ancora circondata dal mistero. Ma
anche quella di Kristen – di cui Kurt era molto, molto amico – non
appare così chiara come le circostanze vorrebbero fare sembrare.
La sera prima, il suo ex fidanzato Eric Erlandson – chitarrista delle
Hole – è venuto a fare visita a Kristen: Paul lo ha visto entrare ed
uscire dalla casa. Che c’è venuto a fare?
E Courtney?
Lei sapeva che Kristen e Kurt Cobain erano stati assai vicini negli
ultimi mesi. Forse Kurt aveva confidato a Kristen qualcosa di strano?
Contrariamente a quel che si dice, la Love quel giorno non è a
Seattle.
Attraverso il suo ufficio stampa, rilascia una dichiarazione: “Io e gli
altri membri del gruppo siamo profondamente angosciati per la
perdita di una musicista di così grande talento, un’anima bellissima e
una grande amica. Ma abbiamo deciso di proseguire anche senza di
lei…”.
Fred “Sonic” Smith si spegne al St John’s Hospital.
Il suo cuore non ha retto ad anni di abusi.
Già chitarrista degli MC5, si era ritirato dalle scene nel 1980 per
dedicarsi alla vita famigliare con la moglie Patti Smith. Per anni, i
due erano rimasti nell’ombra. Poi erano tornati con l’album della
cantante DREAM OF LIFE, nel 1988, prodotto e scritto proprio col
marito.

Smith, quarantacinque anni, era stato ricoverato pochi giorni


prima, dopo essere stato vittima di un malore nella casa della
coppia, a St Clair Shores, periferia di Detroit.
Smith lascia due figli, Jackson e Jesse.
Ora riposa all’Elmwood Cemetery di Detroit: lo ricorda una lapide
grezza, un blocco di pietra con una sola scritta: “Sonic”.
Secondo l’amico ed ex MC5 Wayne Kramer, “Fred ha bevuto fino
a uccidersi. Non si è mai ripreso dalla fine degli MC5: la rabbia e
l’amarezza che sentiva sono state la sua rovina”.
È solo l’ultimo di una serie di lutti che colpiscono la sacerdotessa
del rock. Nel 1989 se n’è andato il fotografo e amico intimo Robert
Mapplethorpe, nel 1990 il tastierista del suo vecchio gruppo Richard
Stohl (“Mi si spezzò il cuore”), nel 1991 Rob Tyner degli MC5, nel
1994 Kurt Cobain (“Io e Fred piangemmo, non come due fan, ma
come due genitori”).
Infine, poco prima del Natale del ’94, Patti Smith perde il fratello
Todd. Era stato lui a convincere la sorella a non mollare e continuare
a fare musica anche senza Fred.
Patti canterà di morte e di sopravvivenza, dando inizio a una
seconda giovinezza artistica.

Sono le sette del mattino. Il chitarrista dei Manic Street Preachers,


Richey Edwards, lascia l’Embassy Hotel, in Bayswater Road.
Ha lasciato nella camera 516 un pacchetto contenente alcuni libri
destinati a una ragazza, Jo, accompagnato da un bigliettino: “Ti
amo”.
Quello stesso giorno deve volare negli Stati Uniti con un altro
membro del gruppo, James Bradfield. È il momento di massima
popolarità per il brit-pop e la trasferta promozionale americana
potrebbe segnare una tappa importante per la formazione gallese.
Ma Edwards ha altri piani per la testa.
Prende l’auto e percorre i duecento e passa chilometri che lo
separano dalla sua casa a Cardiff, in Galles, dove verranno trovati il
passaporto e le carte di credito, oltre a una confezione di
antidepressivo Prozac. Risale in macchina e…
Quel che è successo in seguito è un mistero. Semplicemente,
Richey scompare nel nulla.
Il 2 febbraio, il manager del gruppo Martin Hall denuncia la
scomparsa al posto di polizia di Harrow Road, Londra: “Non ha
lasciato dietro di sé segnali di una volontà suicida”, dicono gli
investigatori, “ogni possibilità è aperta”.
Il 3 febbraio, la famiglia pubblica su un giornale locale
un’inserzione: “Richard, per favore, fatti vivo”. Hall assolda un
investigatore privato, ma le ricerche sono infruttuose. Anche il conto
in banca è fermo dopo un certo numero di movimenti: nella terza e
quarta settimana di gennaio il chitarrista ha prelevato 200 sterline al
giorno.
Il 15 febbraio, il padre del musicista, Graham Edwards, lancia un
appello in radio affinché il figlio si metta in contatto con la famiglia: fa
parte di una sorta di manovra mediatica che comprende comunicati
stampa della polizia e del management. Nella speranza di
rintracciarlo sono resi pubblici modello e targa dell’auto del
chitarrista: è una Vauxhall Cavalier targata L519HKX.
Il 17 febbraio, l’auto viene trovata parcheggiata in una stazione di
servizio nei pressi del Severn Bridge, l’enorme ponte che collega il
lato inglese e quello gallese del Canale di Bristol. È lì da tre giorni.
Ed è un pessimo segno: almeno un paio di persone l’anno la fanno
finita gettandosi nel canale dal Severn.

Quale altro motivo, del resto, potrebbe avere Edwards per lasciare
l’autovettura da quelle parti? O ha lasciato l’auto per prendere un
passaggio da uno sconosciuto?
Comunque sia, da quel momento non ci sono più tracce del
musicista. Solo segnalazioni.
La più credibile è quella di un fan del gruppo, che il 5 febbraio
avrebbe parlato a Newport col rocker. E un’altra fan tedesca avrebbe
ricevuto una cartolina dal cantante datata 13 febbraio. Le teorie si
sprecano: un’universitaria è convinta che Edwards sia andato in
Germania per onorare il cinquantesimo anniversario dell’Olocausto.
Ma il caso resta irrisolto.
Quando, nel 2002, alcuni pescatori trovano i resti di due piedi nel
fiume, la memoria corre a Edwards. Ma il test del DNA prova che
appartengono a un tale Damien Allen, ventiquattro anni, suicida.

Edwards non era un musicista dotato, ma sapeva come trasformare


in musica e in gesti eclatanti la sua rabbia. Come la volta in cui
estrasse un coltello e, davanti all’obiettivo del fotografo del «New
Musical Express», incise la scritta “4 real” sul braccio: una
dichiarazione estrema di sincerità.
Il primo singolo prodotto dai Manic Street Preachers, nel 1989, si
intitola Suicide Alley, e uno dei testi più controversi del loro
repertorio, Motown Junk, dell’anno seguente, recita: “Mi sono messo
a ridere quando hanno sparato a John Lennon”.
Mentre il successo aumenta, cresce l’instabilità psicologica,
accompagnata da alcolismo e anoressia, episodi di automutilazione
e periodi di depressione. Edwards tenta anche il suicidio, tant’è che
nell’estate del ’94 viene ricoverato in un ospedale psichiatrico di
Cardiff e successivamente in una clinica di Londra.
L’ultima intervista la concede a un giornale giapponese. È il 23
gennaio: si è rasato i capelli, afferma, dopo la morte del suo cane
Snoopy.
Il gruppo andrà avanti senza di lui, ottenendo un successo persino
maggiore. Il debutto come trio è del dicembre 1995, come supporter
degli Stone Roses; il primo album senza il chitarrista è
EVERYTHING MUST GO della primavera del 1996.
Due anni dopo, l’ennesimo avvistamento, nell’isola di
Fuerteventura, nelle Canarie: ma le ricerche in loco da parte del
padre e della madre del musicista sono vane. Resta però un filo di
speranza, tant’è che nel febbraio 2000 la sorella Rachel lancia un
appello in tv: “Nel caso sia in grado di sentirmi, vorrei dirgli che lo
amiamo e vorremmo che tornasse”.
Dopo altri due anni, la polizia invita i genitori a firmare un
documento che attesti che il figlio è legalmente morto: si rifiutano di
farlo. Cederanno solo nel 2008, tredici anni dopo la scomparsa.
In tutti questi anni, i musicisti dei Manic Street Preachers
continuano a versare le royalty su un conto corrente intestato a
Edwards.
“Abbiamo ormai superato la fase in cui ti aggrappi a qualsiasi
ipotesi su dove Richey possa essere o come possa stare”, ha detto il
cantante James Bradfield. “Non vogliamo infilarci in quella sorta di B-
movie in cui la gente ama inventarsi teorie o, peggio, offrirti delle
risposte. È un gioco senza senso”. Il bassista Nicky Wire ha
aggiunto: “A un certo punto capisci che non sei costretto a prendere
una decisione: non devi sperare, ma nemmeno perdere ogni
speranza. Quando non hai risposte, trovi un terreno di mezzo dove
muoverti. È difficile da spiegare, ma ti adegui e vai avanti”.
Pronti a fare i conti col passato, nel 2009 i Manic Street Preachers
mettono mano ad alcuni testi inediti lasciati dal compagno e li
musicano. Il risultato è JOURNAL FOR PLAGUE LOVERS: “È stato
come lavorare con lui. Lasciarci quelle composizioni è stata l’ultima
cosa che Richey ha fatto prima di sparire: come se ci avesse chiesto
di farne qualcosa”.
Richey Edwards potrebbe essere il Kurt Cobain inglese, com’è
stato chiamato subito dopo la scomparsa. I più ottimisti, pensando
alla vita di uno scrittore tanto amato dal chitarrista, sperano sia il J.D.
Salinger del rock.

Il centralino del 911 riceve una strana telefonata da una


monovolume che sta percorrendo la Ventura Freeway, in zona San
Fernando Valley.
“Salve, sono Philip Taylor Kramer e sto per suicidarmi. Volevo dirvi
un’altra cosa: O.J. Simpson è innocente. Sono loro i veri colpevoli”.
Chi è Philip Taylor Kramer? E perché quel giorno ha deciso di farla
finita? E che c’entra poi O.J. Simpson?
Philip Taylor Kramer (Taylor, per gli amici) è ingegnere
aerospaziale e ricercatore informatico. Da qualche anno è in società
con Ran dy Jackson (uno dei fratelli di Michael) nella Total
Multimedia, una società di produzioni video ad alta tecnologia. La
liaison con qualcuno che ha legami con il mondo del music biz non è
casuale: negli anni Settanta, Kramer si era unito agli Iron Butterfly
per volere del suo amico Ron Bushy, il batterista della band di In-
AGadda-Da-Vida.

Kramer suonava il basso, ma dopo un paio d’anni lascia gli Iron


Butterfly per dedicarsi agli studi sui missili LGM-118 (i cosiddetti
Peacekeeper o MX). Sviluppa nuove teorie sulla velocità delle
comunicazioni e sostiene di aver frequenti contatti con gli alieni.
Sono loro, a sentire lui, che gli svelano i misteri del caso di O.J.
Simpson…
La musica resta un hobby, anche se l’amicizia con Bushy rimane
molto solida. Tanto che Kramer, quel 12 febbraio 1995, dopo aver
chiamato la moglie, fa una telefonata proprio all’amico batterista
prima di avvertire il 911.
“Non ho mai creduto alle sue volontà suicide”, ha dichiarato Ron
Bushy, “non quagliano con il carattere, le idee e l’attitudine di Taylor”.
Sta di fatto che, dopo quelle telefonate, Kramer scompare.
Il suo minivan verde viene avvistato per l’ultima volta nei pressi del
Los Angeles International Airport: Kramer è lì perché aspetta un
nuovo socio d’affari. La Total Multimedia, infatti, è già stata sull’orlo
della bancarotta e ancora non ha risolto i suoi problemi finanziari.
Questa persona può rappresentare una soluzione. Ma tarda ad
arrivare. Kramer, forse spazientito o forse in preda alla disperazione,
lascia la zona dell’aeroporto. Se ne va.
Salvo quelle tre telefonate, nessuno ha più sue notizie: Philip
Taylor Kramer, quarantadue anni, svanisce nel nulla. Come nel nulla
svaniscono i tentativi di ritrovarlo: da quelli ufficiali, della polizia di
Los Angeles, a quelli mediatici.
Tutte le più importanti trasmissioni televisive americane, infatti, si
occupano del caso: dallo show di Oprah Winfrey ad America’s Most
Wanted, da The Unexplained a Unsolved Mysteries.
Fino al 29 maggio del 1999.
Walter Lockwood è un coach di fitness, ma ha l’hobby della
fotografia. Sta cercando una location per scattare un servizio che
abbia come soggetto vecchie carcasse di automobili. Qualcuno gli
ha detto che nel Decker Canyon – nei pressi di Malibu – può trovare
quello che cerca. Quel giorno decide di andarci insieme al suo amico
Bryce Taten.
Una volta giunti lì, i due iniziano la loro discesa: il terreno è
impervio, e più che fotografi è necessario essere abili hiker. Dopo
aver ispezionato un furgone della Nissan schiantato contro un
albero, la loro attenzione si rivolge a un minivan Ford Aerostar
verde. Il veicolo è semidistrutto: come se fosse precipitato di muso
lungo i quaranta metri di scarpata.
All’interno c’è qualcosa di strano.
“Vieni a vedere”, dice Taten a Lockwood, “credo sia l’osso di una
gamba…”.
Non c’è solo quello.
All’interno della monovolume, i due ritrovano lo scheletro di un
uomo.
Le successive indagini scientifiche non lasciano dubbi: quelli sono
i resti di Philip Taylor Kramer, la cui morte pare proprio risalire a quel
12 febbraio di quattro anni prima.
Il caso è chiuso.
Anche se nessuno ha mai saputo quanto veramente centrassero
gli alieni con la vicenda di O.J. Simpson…

Sono circa le sei e mezzo di sera quando Eazy-E, fondatore degli


N.W.A. e leader della scena musicale conosciuta come “gangsta
rap”, viene dichiarato morto dallo staff medico del Cedars-Sinai
Medical Center.
Solo pochi giorni prima, il 16 marzo, il suo avvocato Ron Sweeney
aveva rilasciato un comunicato ufficiale che aveva scosso il mondo
dell’hip hop.
Eazy-E aveva contratto il virus dell’Aids e voleva condividere
questa dura verità con i suoi fan e con tutti i giovani: “Vorrei
trasformare questo mio problema in qualcosa di buono per tutti i miei
compagni. Voglio salvargli il culo prima che sia troppo tardi. Non
biasimo nessuno per ciò che mi è accaduto, tranne me stesso”.
Il rapper aveva raggiunto la popolarità insie me a compagni
d’avventura come Dr. Dre e Ice Cube, e aveva condotto una vita
sfrenata: “Ho avuto sette figli da sei differenti mogli. Forse il
successo è stato troppo buono con me”, aveva detto Eazy-E quando
si era accorto di essere ormai giunto alla fine della sua folle corsa.
Eric Wright, questo il suo vero nome, era nato e cresciuto a
Compton, un quartiere di Los Angeles, e aveva fondato la sua prima
etichetta, la Ruthless, con i soldi guadagnati spacciando droga.
Nel 1988, insieme ad Ice Cube ed MC Ren, aveva firmato Fuck
Tha Police, uno dei brani più controversi dell’hip hop, che lo aveva
fatto entrare di diritto nella lista nera dell’FBI.
Prima di morire, però, aveva voluto lasciare un messaggio
positivo: “Adesso sto combattendo la più grande battaglia della mia
vita, e non è affatto facile. Ma voglio dire a tutti coloro che mi sono
stati vicini che li amo e li ringrazio per il loro aiuto. Ricordatevi: si
tratta del VOSTRO tempo e della VOSTRA vita”.
Eazy-E aveva trentun anni.

Non la si vede tutti i giorni una popstar al Days Inn. Eppure questa
mattina ce n’è una. È Selena, la “regina della musica tejano”, un
idolo dei messicani immigrati negli Stati Uniti.
La considerano una di loro: Selena Quintanilla-Pérez è figlia di
padre messicano e di madre americano-messicana. Non è gente
ricca: è stata lei, col suo talento, a dare il benessere alla famiglia,
che l’ha supportata fino a quando ha inciso il suo primo disco,
nemmeno tredicenne.
I suoi dischi vendono milioni di copie e scalzano dalla vetta della
classifica quelli di Gloria Estefan; ha la casa piena di Grammy; la
Coca-Cola l’ha voluta come testimonial; è apparsa in un film con
Marlon Brando e Johnny Depp.
Non ha nemmeno ventiquattro anni ed è già un simbolo per
un’intera comunità, che ne apprezza la miscela tra la presenza
scenica brillante e il legame coi valori famigliari tradizionali.
Che ci fa una come lei al Days Inn?
Selena è venuta a par lare con Yolanda Sal dívar. La donna,
trentacinque anni, gestisce gli affari del fan club ufficiale della
cantante e della sua boutique. E ci specula.
Quintanilla ha scoperto che Saldívar distrae soldi dall’impresa.
L’ha quindi licenziata e le ha dato appuntamento al Days Inn, per
rientrare in possesso di alcuni documenti fiscali.
Si incontrano, ma Saldívar pone la popstar davanti a un fatto
imprevisto: è stata violentata in Messico. È una tattica per rimandare
la consegna del materiale?
Selena porta immediatamente la donna in ospedale: sono
all’incirca le dieci del mattino. I medici affermano che non vi è alcun
segno di stupro.
Si torna al Days Inn, ma la richiesta dei documenti è nuovamente
inevasa.
Sono le undici e quarantanove, quando in una camera del motel
Saldívar estrae dalla borsetta una pistola calibro 38. Selena si gira
per raggiungere la porta e la donna le spara alla schiena.
Accompagnata dagli insulti della Saldívar (“Bitch!”), la cantante
riesce a raggiungere la lobby. “Aiutatemi, vi prego. Mi hanno
sparato”, dice a una receptionist di nome Shawna Vela, che prima di
chiamare il 911 raccoglie le ultime parole della cantante: “È stata
Yolanda Saldívar”, dice, “nella stanza numero 158, chiudetela dentro
prima che mi spari di nuovo”.

Arriva l’ambulanza. I primi soccorsi sono prestati da un giovane


paramedico di nome Richard Fredrickson. La donna viene messa a
pancia in su, la blusa della tuta verde da jogging che indossa viene
tagliata con una forbice: il foro della pallottola viene sigillato con
della vaselina, in modo che non esca del sangue durante il trasporto
in ospedale.
Tempo cinque minuti e Selena è trasportata al Memorial Medical
Center. Durante il tragitto, il cuore, le cui pulsazioni sono flebili,
cessa di battere. La vena giugulare collassa. La donna muore in
ospedale all’una e cinque del pomeriggio.
Intanto la polizia assedia il pick-up dove s’è asserragliata Saldívar.
Non vuole uscire, minaccia di uccidersi. Ci vogliono dieci ore per
convincerla a consegnarsi alla polizia.
Arrestata, firma una piena confessione: ha sparato durante un
litigio. In seguito cambierà versione: ha esploso un colpo
accidentalmente, è il padre della cantante che vuole screditarla e
che l’ha molestata.
La giuria non le crede: in ottobre è condannata all’ergastolo, con la
possibilità di revisione della sentenza solo nel 2030. Alla fine del
processo l’arma del delitto sparisce: verrà ritrovata a casa di un
cronista giudiziario.
In Europa, la morte della “Madonna messicana” fa appena notizia,
ma negli Stati Uniti è un trauma collettivo. L’allora governatore del
Texas, il futuro presidente George W. Bush, dichiara il 16 aprile, il
compleanno della cantante, “Selena Day”.
In estate esce l’album postumo DREAMING OF YOU, in lingua
inglese, contenente le ultime incisioni: arriverà al primo posto in
classifica.
Nel 1997, Hollywood trasforma la sua storia nel film Selena,
lanciando un’altra star di origini latine, Jennifer Lopez.
Nel 2002, un tribunale sentenzia che la pistola usata
dall’assassina è stata distrutta e i resti gettati nella Baia di Corpus
Christi, nonostante le proteste di chi considera l’arma un pezzo di
storia da conservare. “È ora di chiudere per sempre questa tragica
vicenda”, dice il giudice Jose Longoria.

Al Kings College Hospital, Donald Gallagher viene informato dai


medici che suo fratello Rory, leggendario chitarrista rock-blues
irlandese, è morto.
Alcolista e tossicodipendente, Rory Gallagher ha una salute
cagionevole da parecchi anni. Negli ultimi mesi, però, le sue
condizioni sono visibilmente peggiorate. Non suona in pubblico dal
10 gennaio, da quando è salito su un palco in Olanda al limite delle
sue capacità fisiche.
Ha urgentemente bisogno di un fegato nuovo.
“Quando ho saputo che c’era un donatore”, racconta il fratello
Donald, “mi è sembrato di toccare il cielo con un dito. Poi, il
trapianto. Inizialmente sembrava che tutto andasse per il meglio,
tanto che, a un certo punto, i medici mi hanno detto che lo avrebbero
dimesso nel giro di un paio di giorni. Quando vado a prendere Rory
per portarlo a casa mi si dice che ha un po’ di febbre e che magari
sarebbe meglio rimanesse ancora in ospedale. Poi si scopre che ha
contratto un virus. Di colpo, le sue condizioni peggiorano, quindi va
in coma e infine muore”.
Nato a Ballyshannon, nella contea di Donegal, il 2 marzo 1948,
Rory Gallagher ha da poco compiuto quarantasette anni.

Non è mai stato sposato e non ha figli.


Appena si diffonde la notizia della sua morte, tutte le televisioni
irlandesi interrompono i programmi.
Dopo i funerali, ripresi in diretta televisiva, il feretro viene sepolto
nel cimitero di St Oliver, sulla Model Farm Road, nei pressi di Cork
City, in Irlanda.
La lapide della sua tomba è la perfetta replica di una targa che
Rory Gallagher aveva ricevuto nel 1972, quando era stato nominato
“chitarrista dell’anno”.

Da alcuni giorni, alla Serenity Knolls – lussuoso complesso


riabilitativo – è ricoverato Jerry Garcia, icona della hippie generation,
fondatore e chitarrista della più significativa band del rock
psichedelico californiano, i Grateful Dead.
Entrare in un rehab center per Garcia non è una novità: solo pochi
anni prima, il musicista era uscito da un coma diabetico indotto
dall’uso di eroina, ma negli anni successivi non era mai riuscito a
modificare il suo pessimo stile di vita fatto di cheeseburger (l’obesità
l’aveva già mandato in coma una volta), fumo (sessanta sigarette al
giorno) e droghe varie.
Ma alle quattro e ventitré di questa mattina, il suo cuore forte e
generoso ha deciso di alzare bandiera bianca: Jerry Garcia muore
all’età di cinquantatré anni.
I principali quotidiani d’America titolano sulle prime pagine: “Jerry
is dead, end of an era” (Jerry è morto, fine di un’epoca).

Il sindaco di San Francisco fa calare la bandiera a mezz’asta e


anche il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton ne ricorda
ufficialmente la morte. È il segnale di quanto quello che trent’anni
prima era solo un musicista “hippie” abbia segnato la cultura e la vita
americana.
Le sue spoglie vengono esposte presso la funeral home di San
Rafael il giorno dopo, e il 12 agosto, nella chiesa episcopale di St
Stephen a Belvedere (penisola di Tiburon), si tiene il funerale, cui
partecipano in forma privata tutti i membri dei Dead, l’ex giocatore di
basket Bill Walton e Bob Dylan, con cui Garcia ha suonato spesso in
passato.
La vedova di Jerry, Deborah Koons, non permette alle due
precedenti ex mogli di partecipare al funerale.
Il 13 agosto, presso il Polo Fields del Golden Gate Park di San
Francisco, dove tante volte i Grateful Dead si erano esibiti negli anni
Sessanta al culmine della summer of love, si tiene una veglia cui
presenziano oltre 25mila persone.
Poco meno di un anno dopo, il 4 aprile 1996, Deborah Koons e
Bob Weir, compagno di tante avventure nei Dead, si recano in India,
sul Gange, dove per esaudire gli ultimi desideri di Captain Trip, come
una volta veniva chiamato Garcia, spargono nel fiume metà delle
sue ceneri.
L’altra metà verrà dispersa nella Baia di San Francisco.
Anche in queste occasioni, con poco rispetto verso lo spirito di
“pace & amore” incarnato dalla musica del defunto marito, la vedova
vieterà la partecipazione della prima moglie, Carolyn “Mountain Girl”
Garcia, madre di una delle sue figlie.

Il tour bus dei Blind Melon staziona dalle sette di mattina davanti al
Tipitina’s. In serata il gruppo si dovrà esibire proprio lì, in uno dei
localisimbolo della Big Easy.
Verso mezzogiorno, il fonico Lyle Eaves entra per svegliare il
cantante Shannon Hoon: lo trova privo di coscienza. Viene chiamata
un’ambulanza, ma i medici accorsi sul posto non possono che
constatare la morte del rocker: Hoon, ventotto anni, è spirato alcune
ore prima.
Sono le tredici e venti. Causa del decesso: overdose accidentale
di droga. Il cantante ne ha assunta una gran quantità durante nella
notte.
È da tempo che Hoon flirta con la droga: leggere e pesanti,
allucinogeni e cocaina, erba ed eroina.
Nell’ultimo anno, dicono gli amici, non è più lui. Quando è fatto o
beve troppo, si comporta in modo detestabile.
Arrestato per possesso di marijuana, ha preso a calci il finestrino
della macchina della polizia. Nel 1993 è stato nuovamente arrestato
dopo avere urinato su un fan, durante un concerto a Vancouver. E in
quello stesso anno non si è fatto alcun problema a fumare marijuana
sul palco.
Nel 1994, sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, si è scazzottato
con un addetto alla sicurezza durante i Billboard Music Awards.
La nascita nel luglio 1995 della figlia Nico Blue lo ha convinto a
disintossicarsi. “Sono un uomo diverso”, va dicendo. Ma è uscito
dalla clinica anzitempo per imbarcarsi nel tour di supporto del
secondo album della formazione, SOUP, uscito ai primi di ottobre, e
nel giro di pochissime settimane Hoon ha ceduto nuovamente ai vizi.
“È stata una perdita devastante”, ha commentato a caldo il
manager Chris Jones. “Lottava con la droga da tempo. L’ho spedito
a ripulirsi due volte, ma è difficile capire quanto una persona è
dentro quella roba”.
Secondo il chitarrista Rogers Stevens, “la morte di Shannon è
stata una sorpresa: in passato era messo molto peggio, allora sì che
mi aspettavo da un momento all’altro una chiamata. Passava giorni
interi senza nemmeno mangiare, né dormire. Invece, quando è
morto, era appena uscito dalla disintossicazione, sembrava in
salute”.
Il giorno stesso della tragedia, i Blind Melon si riuniscono per
decidere il da farsi: continueranno a suonare. Arriveranno anche a
riesumare il nome, prima per un tour, poi per un album pubblicato nel
2008 e cantato da Travis Warren.
Shannon Hoon è sepolto a Dayton, Indiana. La sua tomba porta
iscritte le parole di una sua canzone intitolata Change: “So che non
possiamo restare tutti qui per sempre”.
Un anno dopo i fatti, verrà pubblicato un disco “postumo” dei Blind
Melon dedicato alla figlia di Hoon e chiamato come lei, NICO.

Dal piccolo garage di un cottage della campagna inglese esce del


fumo.
All’interno, una vecchia Mercedes-Benz ha il motore acceso: un
tubo di gomma, collegato allo scappamento dell’auto, butta ossido di
carbonio nell’abitacolo della vettura, all’interno della quale giace il
corpo senza vita di una signora cinquantenne, Monika Dannemann.
Proprietaria di quel cottage, la Dannemann (ex campionessa di
pattinaggio della Germania dell’Est) era la fidanzata di Jimi Hendrix.
Ma non una delle tante. Monika è colei che – nel suo
appartamento di Kensington – ospita Jimi la notte del 18 settembre
1970. Quella in cui Hendrix muore.
Accusata da molti amici di Jimi di essere responsabile della sua
morte, Monika è stata perseguitata dalle infamie di Kathy
Etchingham (un’altra delle girlfriend di Hendrix), che da sempre ha
puntato il dito su di lei. Tanto che Monika, stufa delle incessanti
accuse, l’ha denunciata quale “incorreggibile bugiarda”.
Dopo anni di pratiche legali, proprio un paio di settimane prima
della sua morte, la Dannemann si è vista respingere definitivamente
dalla Corte inglese la sua causa.
Da sempre in preda a turbe psichiche, Monika Dannemann ha
convissuto con un profondo senso di colpa. Nonostante la sua storia
d’amore con un altro chitarrista rock, il tedesco Uli Jon Roth degli
Scorpions, si ritira nella campagna inglese e dipinge
ininterrottamente quadri con soggetto Hendrix.
Si dice che lì da qualche parte Monika conservi segretamente la
Fender Stratocaster nera (quella che Jimi aveva ribattezzato Black
Beauty, la bellezza nera) con cui lei stessa lo aveva immortalato nel
giardino di casa sua, poche ore prima che morisse.
Archiviata come suicidio, la morte di Monika Dannemann non
convince Uli Jon Roth, che dichiara alla polizia che Monika era stata
fatta oggetto di minacce da parte di squilibrati fan hendrixiani.
Una cosa è certa: nella sua tomba finiscono anche gli ultimi misteri
sulla morte di Jimi Hendrix.

In una stanza del Regency, un lussuoso hotel a pochi isolati da


Central Park, ci sono due musicisti. Uno è il batterista degli
Smashing Pumpkins, Jimmy Chamberlin. L’altro è il tastierista
Jonathan Melvoin: non fa stabilmente parte della formazione, ma la
accompagna in tour. Si preparano a due concerti al Madison Square
Garden che si prospettano trionfali.
I due si fanno di Red Rum, una miscela micidiale a base di eroina.
Melvoin va in overdose, Chamberlin chiama il 911. Gli dicono di
mettere la testa dell’uomo sotto la doccia, per cercare di risvegliarlo.
Ma non c’è niente da fare. Quando medici e poliziotti arrivano,
Jonathan Melvoin, trentaquattro anni, è morto.
Il manager dei Pumpkins, Tim Lougee, chiama il leader del gruppo
Billy Corgan, che alloggia col resto della band al Four Season. È
lapidario: “Jimmy è andato in overdose. È morto. I poliziotti sono
qui”.
L’intera formazione è portata per accertamenti al 19esimo distretto
di polizia, sulla Sessantasettesima Strada. Corgan ricorda che
“volevano sapere se eravamo coinvolti”. Verranno rilasciati tutti in
giornata, tranne Chamberlin, accusato di possesso di sostanze
stupefacenti.
“Il primo pensiero è stato: ok, Jimmy si disintossicherà e in un
mese saremo di nuovo in tour”, ha ricordato il cantante. “Solamente
quarantott’ore dopo abbiamo realizzato quel che era davvero
accaduto: la morte, la tragedia”.
Il 17 luglio, mentre si sta disintossicando, il batterista viene
licenziato. “Lo abbiamo fatto per salvagli la vita”, dirà Corgan, che
svelerà che Chamberlin e Melvoin avevano già avuto due overdose
prima del 12 luglio.
La prima volta era accaduto in febbraio a Bangkok, in Thailandia.
La seconda volta, un episodio molto più grave, in maggio a Lisbona,
in Portogallo. Portati entrambi in ospedale, erano stati rianimati con
una puntura di adrenalina nel cuore.
Corgan: “Dopo la Thailandia ho detto a Jonathan che se fosse
accaduto di nuovo l’avrei licenziato. Dopo Lisbona gli ho comunicato
che era fuori, ma che prima avrebbe dovuto completare il tour
europeo”.
I funerali si tengono il 15 luglio: ma i membri degli Smashing
Pumpkins non sono invitati.
Jonathan era il fratello di Wendy Melvoin del duo Wendy & Lisa e
membro della band di Prince.
La musicista si lamenterà pubblicamente perché la famiglia non
era stata informata dell’episodio di Lisbona: “Non diamo la colpa a
nessuno, Jonathan e Jimmy hanno fatto tutto da soli. Ma se
l’avessimo saputo, forse avremmo potuto intervenire”.
Chamberlin completerà il programma di disintossicazione, che gli
permetterà di saldare definitivamente i conti con la giustizia: sarà
reintegrato nel gruppo con la reunion del 2007.

Una lunga fila di macchine di lusso sta percorrendo le strade


trafficate di Las Vegas. Sono le vetture della Death Row Records,
l’etichetta discografica californiana di Dr. Dre che ha sotto contratto
diverse star dell’hip hop come Snoop Dogg e Tupac Shakur.
Una di queste auto, una BMW nera 750, è guidata dal capo
fondatore della Death Row, Marion “Suge” Knight; al suo fianco
siede Tupac, il rapper più famoso del momento.
Il gruppo ha appena assistito all’incontro di pugilato tra Mike Tyson
e Bruce Seldon, tenutosi all’MGM Grand Hotel & Casino, e si sta
recando al Club 662, per proseguire la serata.
Sono circa le undici e venti, quando la BMW si ferma a un
semaforo su Koval Lane. Shakur inizia a scherzare con alcune
ragazze sedute in una Chrysler Sedan affiancatasi alla loro sinistra,
e non nota la Cadillac bianca che si avvicina sulla destra, al cui
interno vi sono quattro afroamericani.
Immediatamente, dal finestrino posteriore sinistro spunta una
pistola.
Sono circa tredici i colpi che vengono esplosi contro la BMW,
dopodiché la Cadillac svolta a destra e si dilegua.
Quattro pallottole colpiscono il rapper mentre cerca di mettersi al
riparo sul sedile posteriore; un solo colpo sfiora il cranio di Knight,
che riesce a effettuare un’inversione a U, seguito dalle altre vetture
della Death Row.
Shakur viene immediatamente ricoverato all’University Medical
Center di Las Vegas: ha perso molto sangue e subisce diversi
interventi, compresa l’asportazione del polmone destro.
Sei giorni dopo la sparatoria, alle quattro e zero quattro del
pomeriggio di venerdì 13 settembre, a soli venticinque anni, Tupac
Amaru Shakur smette di respirare in seguito a un arresto
cardiopolmonare.
Chi c’era in quella Cadillac?
E soprattutto, chi ha ordinato la morte di Tupac Shakur?
Sono numerose le teorie elaborate riguardo all’omicidio che, però,
tutt’ora resta un caso irrisolto.
L’ipotesi principale vede nell’occhio del ciclone la rivalità tra i
rapper della East Coast e quelli della West Coast, ovvero la Bad Boy
Entertainment contro la Death Row Records. La prima è l’etichetta
newyorkese fondata da Sean “Puffy” Combs, meglio conosciuto
come Puff Daddy, che nel suo roster artistico vanta una grande voce
dell’hip hop degli anni Novanta, Biggie Smalls, alias Notorious B.I.G.

Entrambe le fazioni sono legate alle violente lotte fra gang: i


quartieri di Los Angeles sono divisi tra i Bloods, rappresentati dal
colore rosso e affiliati alla Death Row, e i Crips, di colore blu, che
dominano la zona a sud e si dice simpatizzino per la Bad Boy. I
membri delle rispettive gang lavorano spesso come guardie del
corpo degli artisti, che si muovono sempre in gruppo. Scontri e
sparatorie sono all’ordine del giorno, e spesso ci scappa il morto.
È un circolo vizioso, fatto di provocazioni e vendette.
Agli occhi dei media, la rivalità fra i rapper viene ingigantita al di là
della sua effettiva portata, col risultato di creare un’immensa
macchina pubblicitaria che porta vantaggi economici alle case
discografiche: i dischi che appartengono a questo nuovo genere,
chiamato “gangsta rap”, sono sempre in cima alle classifiche di
vendita.
Pare che Tupac, inizialmente, non avesse problemi con la Bad
Boy o con il suo amico Notorious. Ciononostante, il corso degli
eventi inizia a precipitare, scatenando faide interne e reazioni a
catena non più controllabili.
Nel novembre del 1994, Shakur si trova a New York: è sotto
processo, accusato di stupro e sodomia ai danni di una fan
ventunenne.
Mentre attende la sentenza, viene invitato da un amico dell’East
Coast, Little Shawn, a una registrazione presso i Quad Studios a
Times Square, dove sono presenti anche Biggie Smalls e Puffy
Combs. Tupac arriva all’edificio poco dopo la mezzanotte del 30
novembre.
Mentre si dirige verso l’ascensore, il rapper viene assalito e
derubato da tre uomini armati: la situazione degenera, i suoi
aggressori sparano cinque colpi a bruciapelo, ma Tupac riesce a
scappare e mettersi in salvo, nonostante le ferite. Il giorno dopo
lascia l’ospedale, contro l’opinione dei medici, per continuare la
convalescenza a casa di un’amica: nelle corsie del Bellevue Hospital
sente che la sua vita sia in qualche modo in pericolo.
Nel frattempo, la sentenza del tribunale lo condanna a quattro anni
e mezzo di detenzione.
Mentre sconta la sua pena nella Rikers Island Prison di New York,
il rapper elabora una sua teoria sull’aggressione subita: è convinto
che Smalls e Combs l’abbiano attirato nell’edificio dove è stato
aggredito, con l’intenzione di farlo fuori.
Di contro, i due rapper newyorkesi negano le accuse che Tupac
rivolge loro pubblicamente, affermando che non c’è mai stato alcun
astio tra le due fazioni, soprattutto da parte loro.
Chi invece sostiene Shakur fomentando l’odio è Suge Knight, che
ottiene il rilascio anticipato del suo pupillo dietro il pagamento di una
cauzione di 1,4 milioni dollari: in cambio, quest’ultimo firma un
contratto di tre anni con la Death Row.
Il clima di tensione si inasprisce ancora di più in seguito a un altro
incidente: una violenta lite scoppia il 24 settembre del 1995, durante
una festa al Platinum House Club di Atlanta, in Georgia, alla quale
partecipano i rappresentanti delle due etichette rivali.
Improvvisamente vengono esplosi dei colpi d’arma da fuoco, che
feriscono mortalmente un collaboratore e amico di Knight, Jake
Robles. Il leader della Death Row non si risparmia in quanto ad
accuse personali nei confronti di Combs e soci.
Pare che un collaboratore della Bad Boy, Mark Anthony Bell,
venga contattato una notte anonimamente e gli venga offerto un
ricco contratto discografico in cambio del nome e dell’indirizzo di
Combs. Bell rifiuta e riaggancia.
Tre mesi dopo, nel corso di un party natalizio della Death Row in
un club di Hollywood, Knight lo invita nel reparto vip e lo fa picchiare
a sangue dal suo entourage. Alla scena sono presenti Tupac e Dr.
Dre.
Questi gravi episodi sono ormai all’ordine del giorno.
Nel giugno del 1996, Tupac realizza con la Death Row il singolo
Hit’ Em Up, uno dei brani più violenti e diffamatori nella storia del
gangsta rap, pieno di insulti e volgarità rivolti ai rivali della Bad Boy,
Notorious B.I.G. per primo, dichiarando addirittura di essersi portato
a letto la moglie di quest’ultimo, Faith Evans, e usando frasi del tipo
“Puffy, meriti di morire”.
Un regalo che Suge Knight ama fare ai suoi amici più stretti è un
costoso medaglione d’oro con il logo della Death Row, che raffigura
un uomo incappucciato seduto su una sedia elettrica. Durante una
rissa con la gang dei Crips, nel luglio del 1996, Tray Lane, un
membro dei Bloods, viene derubato della sua preziosa collana.
Secondo lo scrittore Anthony Bruno, questo fatto all’apparenza
insignificante scatenerà una serie di eventi che porteranno alla morte
di Tupac Shakur.
Alle nove meno un quarto del 7 settembre, qualche ora prima
dell’omicidio, Lane si trova con Tupac, Knight e una schiera di
guardie del corpo della gang dei Bloods all’ingresso dell’MGM
Grand, dove riconosce uno dei Crips che l’hanno aggredito e
derubato qualche mese prima.
Subito gli uomini assalgono il presunto ladro, di nome Orlando
Anderson, e lo riempiono di pugni e calci. Una videocamera
dell’hotel cattura la scena su nastro, dove si vedono chiaramente
Knight e Tupac partecipare al pestaggio, ma nonostante ciò
Anderson si rifiuta di presentare denuncia.
Chuck Philips, un giornalista del «Los Angeles Times», nel suo
lungo articolo intitolato Who Killed Tupac Shakur? afferma che
l’omicidio del rapper è stato commissionato da Notorious B.I.G., in
seguito all’aggressione di Anderson, vendicato da una squadra di
Crips.
«Vibe Magazine», invece, presenta diversi dubbi su questa teoria
e, analizzando nel dettaglio la cronologia dei fatti, sostiene che nelle
serate in cui si svolgono gli incontri di pugilato le strade di Las Vegas
siano incredibilmente trafficate, e i Crips non sarebbero mai riusciti a
organizzare l’agguato nel breve lasso di tempo trascorso tra l’assalto
al loro compagno e la sparatoria, ossia due ore e mezzo.
Anche LAbyrinth, il libro di Randall Sullivan, ricostruisce
minuziosamente la dinamica dei fatti e le indagini sull’omicidio: il
fatto che le macchine abbiano lasciato immediatamente la scena del
crimine, che il posto sia pieno di turisti e curiosi a caccia di un
qualche memorabilia della serata e che nessun testimone abbia
rilasciato dichiarazioni utili sicuramente non ha agevolato il lavoro
della polizia.
Suge Knight, dopo aver rimandato più volte, finalmente si presenta
negli uffici della polizia di Los Angeles, ma gli investigatori dichiarano
che “la sua testimonianza si rivela di nessun aiuto per la risoluzione
del caso”.
Inoltre, dopo aver verificato la sua partecipazione nel pestaggio di
Orlando Anderson, il procuratore distrettuale lo accusa di aver
violato la libertà vigilata concessagli per aver trasportato al di là del
confine una pistola acquistata illegalmente.
Da quel momento anche le origini della Death Row Records sono
sotto osservazione: pare infatti che dietro la fondazione dell’etichetta
ci sia del denaro sporco proveniente da traffici illeciti di armi e
stupefacenti. Knight ha già un passato fatto di violenze, ricatti e
pestaggi, ma finora se l’è sempre cavata grazie alla sua schiera di
avvocati, che in tribunale sfoderano impudentemente la carta della
discriminazione razziale (“Mi accusate solo perché sono nero”
sembra essere il suo mantra preferito), e grazie alla sua rete di
conoscenze e appoggi politici importanti tra i giudici e la polizia di
Los Angeles, che spesso chiude un occhio.
Durante il processo per l’aggressione ad Anderson, tuttavia, il
giudice è irremovibile: gli revoca la libertà vigilata e la possibilità di
cauzione, condannando il manager a una pena di nove anni da
scontare nella prigione di Stato. Due anni dopo, Anderson verrà
ucciso a colpi di pistola durante una lite in un autolavaggio.
La Death Row è ancora un’etichetta importante nel music
business, ma inizia ad avere diversi problemi economici. La madre di
Tupac, Afeni Shakur, intenta una causa affermando che Knight e
soci si sarebbero approfittati del figlio senza mai riconoscergli una
giusta percentuale: i suoi dischi sono in cima alle classifiche e
fruttano ai discografici più di 60 milioni di dollari, a fronte di un
pagamento al giovane rapper di un milione scarso.
Ormai l’ultimo rapper rimasto con la Death Row è Snoop Dogg
(Dr. Dre se n’è già andato tempo prima, non senza alterchi), il quale
tuttavia sta pensando a sua volta di lasciare l’etichetta “per salvarsi
la vita”. Pare che lo stesso Tupac, prima di morire, avesse espresso
questa volontà.
Un altro elemento che lascia perplessi è il fatto che il giorno della
sua morte Shakur non avrebbe dovuto trovarsi a Las Vegas, ma ad
Atlanta da alcuni parenti. È Knight che lo convince ad assistere
all’incontro di boxe, e successivamente a salire in macchina con lui,
invece che con la guardia del corpo.
I fan trovano inoltre una prova del fatto che Suge in qualche modo
c’entri con l’omicidio nell’album realizzato postumo, THE DON
KILLUMINATI: THE 7 DAY THEORY, dove all’inizio pare si senta una
voce che sussurra: “Suge shot me”, Suge mi ha sparato.
Yafeu “Yaki Kadafi” Fula, un rapper amico d’infanzia di Shakur
presente nella vettura dietro quella di Tupac la sera della sparatoria,
dichiara alla polizia di essere in grado di riconoscere gli assassini e
dà la sua disponibilità a collaborare. Incomprensibilmente, nessuno
si preoccupa di raccogliere la sua testimonianza e, nel novembre del
’96, viene trovato morto a Irvington, nel New Jersey.
Secondo la polizia del luogo, l’omicidio ha tutte le caratteristiche di
un’esecuzione: Execution style sono le parole usate per descrivere il
caso, destinato anch’esso a restare irrisolto.
Due settimane dopo la condanna di Knight per il caso Anderson,
Biggie Smalls rimarrà coinvolto in una sparatoria a Los Angeles: per
gli investigatori Suge Knight resta il sospettato numero uno.

Il 24 marzo 2001 esce in Gran Bretagna SONGBIRD, album-


compilation della cantautrice americana Eva Cassidy.
Qualche mese prima, il nastro originale è finito nelle mani di Terry
Wogan, conduttore della BBC a cui piace in modo particolare una
deliziosa versione di Over The Rainbow, il celeberrimo tema del
musical Il mago di Oz, reso immortale alla fine degli anni Trenta da
Judy Garland. Il brano colpisce soprattutto i suoi ascoltatori, che
tempestano di telefonate la radio. E così si decide di stampare una
raccolta antologica (SONGBIRD, appunto) dei pezzi della Cassidy.
Addirittura il suo primo produttore, Chris Biondo, recupera un
filmato amatoriale in cui Eva canta il celebre pezzo: il video viene
trasmesso nello show televisivo Top of the Pops. È un successo
clamoroso: in poche settimane SONGBIRD vende un milione di
copie e raggiunge il primo posto delle classifiche inglesi.
Da artista conosciuta a malapena nella zona di Washington DC,
Eva Cassidy diventa una stella internazionale. Per lei si sprecano
paragoni persino imbarazzanti: qualcuno la paragona a un mix tra
Ella, Aretha e Odetta, altri – come Sting – stravedono per la versione
di Eva di un proprio brano (Fields Of Gold), altri ancora – come Pete
Townshend degli Who – la definiscono una delle migliori voci della
sua generazione.

Ascoltato così, quello di Eva Cassidy sembra un curioso episodio


di successo imprevisto e imprevedibile. Invece, il suo è un caso
straordinario: cinque anni prima, il 2 novembre del 1996, Eva è
morta dopo aver lottato strenuamente contro un tumore maligno. Chi
la conosceva bene diceva fosse una ragazza timida, introversa e
piuttosto fragile; una che soffriva le critiche. E che avesse gusti
semplici, che amasse la natura e nutrisse come principale ambizione
di vita quella di potersi un giorno stabilire in un cottage sulla
spiaggia.
Insieme alla pittura, la musica era la sua grande passione e la sua
principale forma d’espressione, anche se non vedeva né l’una né
l’altra come attività professionali: temeva che un successo in termini
materiali avrebbe potuto compromettere la sua integrità morale.
La chiamano “l’isola amichevole”. Quinta, per dimensione, tra le
Hawaii, Molokai è la decima miglior meta di turismo sostenibile nel
mondo.
Randy la adora e adora la casa di sua madre, Berenice Pearl,
sorella del leggendario Ed Pearl, fondatore dell’Ash Grove (uno dei
folk club più popolari d’America).
Quella di Mrs Pearl è una graziosa villetta proprio in riva al mare.
Randy è voluto venire qui a riposarsi, durante le vacanze di
Natale, prima di avventurarsi nel tour europeo dei rinati Spirit, la rock
band che ha fondato nel 1967 insieme a Ed Cassidy, il compagno di
sua madre Berenice, e che è entrata nella storia con I Got A Line On
You (1968).
Stamattina, Randy ha deciso di farsi una bella nuotata con il
figlioletto Quinn, dodici anni. I due, però, si avventurano un po’
troppo al largo e, poco dopo, iniziano a lottare con le fortissime
correnti che movimentano le acque delle “isole del Paradiso”. Il
ragazzino è in difficoltà, comincia a bere e a sparire tra le onde.
Randy capisce il pericolo, lo raggiunge rapidamente, riesce a
riportarlo a galla e poi, con uno sforzo sovrumano, a trainarlo verso
la riva.
Quinn è in salvo, ma Ran dy, stremato, viene nuovamente
sorpreso da una corrente malefica che lo trascina sott’acqua.

Randy Craig Wolfe muore annegato.


Il 20 febbraio avrebbe compiuto quarantasei anni.
Quando ne aveva soltanto quindici aveva conosciuto, al Manny’s
Guitars di New York, un chitarrista sbalorditivo: si chiamava Jimmy
Hendrix e ne era diventato subito amico.
Hendrix, che allora aveva una band chiamata Jimmy James & The
Blue Flames, aveva proposto a Randy di entrare a far parte del
gruppo. È lui a ribattezzarlo California, perché, nei Blue Flames, c’è
un altro Randy (chiamato Texas, per differenziarlo).
Hendrix, quando Chas Chandler gli offre la possibilità di una
carriera a Londra, vorrebbe che Randy California lo seguisse in
Inghilterra, ma i genitori del giovane sono irremovibili: “Prima devi
finire la scuola”.
Per amicizia e rispetto nei confronti di Hendrix, Randy si tiene però
stretto il nomignolo “California”, certo che la sua strada artistica e
quella di Jimi ben presto si incroceranno nuovamente.
Cosa che sembra avvenire a Woodstock. Gli organizzatori del
festival hanno infatti chiesto agli Spirit di suonare prima della Jimi
Hendrix Experience, ma il loro manager – Lou Adler – respinge
l’offerta.
Poco importa.
Dal 2 gennaio 1997, Randy e Jimi si ritroveranno nel Paradiso del
rock.

Sono passati sei mesi dalla morte di Tupac Shakur e la costa


californiana è convinta che Christopher Wallace, alias Biggie Smalls,
alias The Notorious
B.I.G. sia uno dei responsabili di quell’orrendo omicidio.
La sera del 9 marzo, Smalls è invitato a un party organizzato da
«Vibe Magazine» e dalla Qwest Records al Petersen Automotive
Museum, su Wilshire Boulevard, ma dopo i fischi ricevuti ai Soul
Train Music Awards tenutisi la sera prima, presso lo Shrine
Auditorium, non si sente dell’umore adatto a far festa.
Tuttavia viene convinto a partecipare da Puffy Combs (Puff
Daddy), suo manager e capo dell’etichetta Bad Boy Entertainment:
farsi vedere, in fondo, può essere una buona promozione per l’album
di prossima uscita, LIFE AFTER DEATH.
Presto il museo si riempie di gente: pare che ci siano circa
duemila persone al ricevimento, mentre altre duecento sono in fila
all’ingresso chiedendo di entrare. Smalls trascorre una piacevole
serata, ma verso mezzanotte e mezzo i vigili del fuoco decidono di
chiudere il locale e mandare via la gente per motivi di sicurezza.
Il rapper non può certo immaginare che, in quel preciso istante,
quell’edificio affollato sia il posto più sicuro in cui possa trovarsi: là
fuori, nascosta nel traffico notturno della Città degli Angeli, lo attende
una trappola mortale.
Poiché Notorious cammina aiutandosi con una stampella a causa
di un infortunio alla gamba, lui e Combs lasciano passare tutti prima
di dirigersi verso l’uscita del Petersen Automotive Museum e
prendere posto nelle rispettive vetture. Il rapper sale a bordo di una
Suburban verde scuro, lato passeggero: davanti a lui, in un’altra
macchina dello stesso modello ma di colore nero, c’è Combs,
mentre le loro guardie del corpo li seguono in una Chevrolet Blazer
nera.
È circa mezzanotte e tre quarti quando, all’incrocio tra Fairfax
Avenue e Wilshire Boulevard, una Toyota Landcruiser bianca prova
a inserirsi tra la Suburban verde e la Blazer nera, mentre una
Chevrolet Impala scura affianca la vettura di Smalls a destra.
Una voce chiama Notorious, che abbassa il finestrino convinto di
rispondere a un fan: l’autista della Chevrolet, un afroamericano con
un vestito da sera e un papillon, fa fuoco con una 9 millimetri e il
rapper viene investito da una scarica di proiettili. Non appena sente il
rumore degli spari, Combs scende dall’auto e corre verso l’amico,
mentre le vetture degli assalitori spariscono nella notte. Dopo una
corsa contro il tempo verso il Cedars-Sinai Medical Center,
Notorious B.I.G. viene dichiarato morto all’una e un quarto del
mattino.
Il caso viene affidato al detective Russell Poole, che ben presto si
rende conto di avere a che fare con una vicenda incredibilmente
intricata, molto più complessa e grave di quanto possa sembrare.
Nonostante ciò, prosegue imperterrito e in maniera minuziosa le
sue indagini, anche se, ogni volta che si trova a un punto di svolta
nel caso, i suoi responsabili del Los Angeles Police Department
sembrano fare di tutto per scoraggiarlo, trattandolo con sufficienza,
negandogli permessi o ignorando testimonianze importanti.
Poole si convince sempre più che deve esserci un qualche legame
tra la polizia di Los Angeles e la Death Row Records, etichetta rivale
della Bad Boy Entertainment, tanto è vero che molti poliziotti in
borghese lavorano come guardie del corpo per il boss, Suge Knight,
e i suoi artisti: alcuni di questi poliziotti erano presenti anche la sera
dell’omicidio di Tupac, ma non vogliono comparire come testimoni
poiché si trovavano lì senza un permesso ufficiale.
Più il detective Poole cerca di fare chiarezza sul legame tra polizia
e gang, più gli viene ordinato di lasciar stare.
Riguardo all’omicidio di Notorious, poi, Poole trova quantomeno
sconcertante il fatto che la Major Crimes Unit, specializzata in questo
tipo di casi, entri in azione ben tre settimane dopo il fatto.
I detective di Wilshire, che si occupano del caso in quei primi venti
giorni, perdono un sacco di tempo seguendo la teoria che i Crips
abbiano ucciso Smalls perché si era rifiutato di pagare un servizio di
sicurezza fornitogli dalla gang.
Nonostante i legami della Bad Boy Entertainment con i Crips siano
evidenti (più di una volta i membri della gang hanno fatto da guardie
del corpo a Smalls), questa teoria non sta in piedi.
L’identikit fornito dai due amici di Biggie Smalls, seduti sui sedili
posteriori della Suburban verde, permette alla polizia di avere uno
schizzo abbastanza dettagliato del volto dell’assassino, che non
corrisponde a nessun membro dei Crips presente quella sera alla
festa. Inoltre, secondo Russell Poole, “l’assassinio di Biggie è stato
molto più sofisticato di una semplice sparatoria tra gang. È stato
eseguito in modo professionale”.
Quando viene rintracciato l’autista della terza vettura presente
quella sera – un ufficiale della polizia di New York fuori servizio – la
sua testimonianza si rivela alquanto contraddittoria: afferma di aver
tentato l’inseguimento della Chevrolet Impala, ma di averla persa di
vista quasi immediatamente.
“È impossibile che un poliziotto esperto perda le tracce di una
vettura così velocemente”, sostiene Poole. “Credo si sia fermato
perché sapeva di essere nei guai per aver lavorato senza permesso.
È per questo che non ha rilasciato alcuna dichiarazione quella
notte”.
Tra i musicisti hip hop e i membri delle gang afroamericane girano
insistentemente la voce e la convinzione che il responsabile della
morte del rapper sia Suge Knight, il quale, pur essendo rinchiuso
nella prigione di Stato, avrebbe trovato il modo di vendicarsi
dell’assassinio di Tupac.
Prontamente, i portavoce della Death Row Records smentiscono,
ma il sospetto di un collegamento tra le morti dei due rapper rimane.
Poole è convinto che alla guida della Chevrolet Impala ci fosse un
certo Amir Muhammad, alias Harry Billups: si tratterebbe di un
mediatore di ipoteche della California meridionale, nonché amico
dell’ex ufficiale di polizia David Mack, che alcuni testimoni affermano
di aver visto la sera dell’omicidio.
Poole scopre che Mack, oltre ad essere stato un poliziotto, è
legato alla gang dei Bloods e a Suge Knight. Nel suo appartamento
viene addirittura trovato una specie di “altarino” dedicato a Tupac
Shakur.
Scovarlo, però, non sarà di alcun aiuto a Poole: Mack sta già
scontando una condanna a quattordici anni di prigione per aver
rapinato una banca e, ovviamente, si rifiuta di collaborare. Le
possibilità di trovare Amir Muhammad svaniscono nel nulla.
La stampa, ovviamente, scatena tutta una serie di illazioni
riguardanti la faida in corso tra East Coast e West Coast, affermando
che, se la morte di Shakur è stata commissionata da Notorious,
quest’ultimo è stato ucciso per vendetta da parte dei membri della
Death Row. Alcuni affermano invece che i due musicisti siano stati
solamente vittime casuali delle sparatorie, i cui veri obiettivi erano i
“pezzi grossi”, Combs e Knight.
Altri ipotizzano che gli omicidi siano stati commissionati proprio dai
rispettivi manager, in quanto una star morta fa guadagnare molto di
più e non crea problemi.
Ma c’è anche il sospetto che Suge Knight sia il mandante di
entrambi gli omicidi: secondo questa teoria, il leader della Death
Row avrebbe voluto eliminare Tupac in quanto questi aveva già
espresso l’intenzione di lasciare l’etichetta, insoddisfatto di un
contratto che gli garantiva guadagni molto inferiori rispetto alle
vendite dei suoi dischi. In quest’ottica, l’omicidio di Notorious
sarebbe servito a Knight come alibi, in modo da depistare
l’attenzione degli inquirenti verso la rivalità fra gang. Anche il
pestaggio del membro dei Crips Orlando Anderson – avvenuto
poche ore prima della morte di Tupac all’MGM Grand Hotel & Casino
di Las Vegas, e che aveva visto protagonisti lo stesso Shakur, Knight
e alcuni membri dei Bloods – potrebbe quindi essere stato nient’altro
che una messa in scena, a beneficio delle telecamere, per far sì che
l’omicidio di Tupac sembrasse una vendetta dei Crips.
L’album pubblicato postumo di Notorious B.I.G, LIFE AFTER
DEATH, si rivela amaramente profetico. Il rapper affronta di petto le
proprie paure: in apertura, lo si sente parlare a Combs di suicidio,
mentre nella traccia che chiude il disco, You’re Nobody (Til
Somebody Kills You), la sua preferita, sembra voler dire: “Vi
mancherò quando non ci sarò più”.
Smalls aveva già espresso pubblicamente i suoi timori durante
un’intervista su MTV: “Ci penso tutti i giorni. Penso che qualcuno stia
cercando di uccidermi. Mi sveglio in preda alla paranoia. Sono
veramente spaventato”.
Il 7 marzo, la sera prima della festa al Petersen Automotive
Museum, Biggie rivela a un reporter di «Vibe» di non riconoscersi più
nelle parole Ready To Die, pronto a morire, titolo del suo precedente
album: “Ci sono ancora tante lezioni che devo imparare. Ci sono
moltissime esperienze che devo fare, un sacco di posti da vedere
prima di poter dire, okay, ho vissuto la mia vita”.
In LAbyrinth, Sullivan riporta che, prima di recarsi alla festa, Biggie
non indossava il medaglione con il logo della Bad Boy, regalo di
Puffy Combs, ma un Gesù dorato sulla croce.
Nel 1999, Poole si ritrova solo e con le mani legate: non gli resta
altra scelta che presentare le proprie dimissioni dal dipartimento di
polizia di Los Angeles. L’ostruzionismo messo in atto nei suoi
confronti, per impedirgli di far luce una volta per tutte sull’omicidio di
Notorious B.I.G., ha creato una serie di barriere invalicabili, anche
per un detective con la sua esperienza: l’assassino è legato
all’ufficiale David Mack, il quale è legato a Suge Knight, che a sua
volta gode di appoggi altolocati.
In altre parole, il caso non potrà mai essere risolto.
Anche lo scrittore Anthony Bruno ha messo in evidenza le tante,
forse troppe, similitudini tra i casi di Tupac Shakur e Notorius B.I.G.,
segnalando come i due omicidi siano avvenuti nelle medesime
circostanze e con le stesse modalità.
Entrambi i rapper sono stati uccisi da colpi multipli di arma da
fuoco, durante un agguato in macchina, su strade molto trafficate.
Entrambi erano seduti davanti, sul lato del passeggero, ed entrambi
avevano appena partecipato a grandi eventi mediatici.
In tutti e due i casi erano presenti i manager delle rispettive case
discografiche, e i testimoni non hanno collaborato o sono stati di
scarso aiuto.
Last but not least, gli album delle vittime, pubblicati postumi,
hanno venduto milioni di copie.

Cinquant’anni prima, nel Bronx, il popolare quartiere di New York,


nasce Laura Nigro, primogenita di Gilda Mirsky (una libraia della
zona) e di Louis Nigro, trombettista che, per sbarcare il lunario, fa
l’accordatore di pianoforti.
Influenzata dai geni paterni e dalla passione musicale della
mamma – la cui spettacolare collezione di dischi spazia dal jazz di
Billie Holiday alle composizioni raffinate di Ravel e Debussy – Laura
inizia presto a suonare il pianoforte: impara da sola, a orecchio,
ascoltando proprio i vinili materni.
A otto anni è già in grado di scrivere e suonare le sue prime
canzoni.
Le scuole che frequenta (la New York Society for Ethical Culture o
la Manhattan High School of Music and Arts) le ampliano formazione
e orizzonti culturali: Laura divora libri di poesia e si accosta a nuovi
universi musicali.
Da adolescente trascorre le vacanze estive con la famiglia nella
zona di Woodstock, mentre, quando è a New York, suona con un
gruppo di amici sotto la metropolitana o agli angoli delle strade del
Greenwich Village.
Non le piace il cognome paterno (Nigro, in inglese, significa
“negro”) così lo modifica leggermente: toglie la “g”, mette una “y” al
posto della “i”, e per tutti diventa Laura Nyro.
Nel 1966, suo padre le presenta Artie Mogull, produttore e
discografico esperto che ha già lanciato con successo le carriere di
personaggi come Bill Cosby, Bob Dylan, Gordon Lightfoot, Peter,
Paul & Mary, e molti altri ancora.
Grazie a Mogull – che diventa il suo manager – Laura vende per
cinquemila dollari la sua prima canzone (And When I Die) proprio a
Peter, Paul & Mary, incide l’album di debutto per la Verve e partecipa
al Festival di Monterey in piena summer of love. Le sue canzoni
raffinate, con influenze jazz, sono una novità assoluta per il mondo
rock di fine anni Sessanta.
David Geffen e Clive Davis, vedendola a Monterey, la mettono
sotto contratto portandola via a Mogull per la cifra allora stratosferica
di quasi 500mila dollari. Ma ne guadagnano assai più del doppio
quando negoziano un nuovo accordo con la Columbia: proprio da
quel fantastico affare partirà la loro carriera di discografici
leggendari.
Laura Nyro, invece, nonostante i successi, rimane sempre un po’
nell’ombra in virtù di un carattere scontroso e di un’attitudine artistica
assai poco propensa al compromesso.
A cinquant’anni, l’8 aprile del 1997, muore di cancro alle ovaie, lo
stesso male che le ha portato via la mamma. La sua musica e sua
poesia, però, restano da allora e per sempre nel cuore degli
appassionati.

Nel tardo pomeriggio, mentre sta atterrando l’aereo che porta i suoi
musicisti nella città che negli anni Cinquanta era stata l’indiscussa
capitale del rock’n’roll, Jeff Buckley esce con un amico di nome Keith
Foti.
Indossa stivaletti neri e una T-shirt con la scritta ALTAMONT,
macabro souvenir del celebre festival rock svoltosi in un autodromo
del Nord California nel dicembre 1969. Lo stesso in cui i malfamati
Hell’s Angels, ingaggiati dai Rolling Stones come security,
pugnalarono Meredith Hunter, giovane fan afroamericano che, nei
pressi del palco, pareva mostrare eccessivo entusiasmo per i suoi
eroi Jagger & Richards. Gli Angels sostennero che Hunter
impugnasse una pistola. Di fatto, Altamont chiuse nel sangue il
decennio più rivoluzionario del Novecento e mise la parola fine alla
favola pacifista dei figli dei fiori.
All’inizio del 1997, Jeff Buckley ha molte canzoni pronte e un titolo
per il suo nuovo album, MY SWEETHEART THE DRUNK.
L’anno precedente, mentre si trova in studio con Patti Smith, ha
conosciuto Tom Verlaine, chitarrista dei Television e icona punk-rock.
A lui decide di affidare la produzione delle prime tracce del nuovo
disco.
Tra i brani incisi, uno s’intitola The Sky Is A Landfill ed è ispirato a
un saggio del giornalista Al Giordano sul potere nefasto dei mezzi di
comunicazione.
Buckley non è completamente soddisfatto del materiale che ha
inciso con Verlaine tra l’estate del ’96 e i primi mesi del ’97. Ma
incolpa solo se stesso. Secondo il batterista Parker Kindred, “Jeff
voleva organizzare una festa durante la quale avrebbe fatto un falò
dei nastri di Verlaine”.
Per l’artista, è un periodo di grande stress e di tensioni con la
band.
Sul suo diario si descrive “impreparato a fronteggiare il futuro”.
Sono passati tre anni da GRACE e non ha ancora messo assieme
un nuovo disco. È depresso.
A Memphis, Tennessee, dove si trasferisce per incidere il secondo
album, Buckley trova conforto nell’anonimato che a New York non
può più avere. Nella capitale del rock’n’roll si esibisce regolarmente
in un locale chiamato Barrister’s. L’ultima volta, lo fa il 26 maggio.
Resta poi a Memphis e aspetta che il suo gruppo lo raggiunga per le
registrazioni definitive di MY SWEETHEART THE DRUNK.
La sera del 29 maggio, Jeff Buckley e Keith Foti sono diretti verso
lo studio di registrazione, ma si perdono.
Jeff, allora, ha l’idea di “andare giù al fiume”.
Poco dopo le nove di sera, si immerge nel Wolf River, un affluente
del Mississippi, nei pressi del porto fluviale. C’è dello sporco sulla
riva e perciò decide di non togliersi gli scarponcini. Entra in acqua
cantando Whole Lotta Love, l’epocale inno rock firmato Led
Zeppelin. Il passaggio di un rimorchiatore crea pericolosi movimenti
ondosi.
Foti, che è rimasto sulla riva, sposta la radio portatile perché non
venga bagnata. Quando guarda nuovamente verso il largo, non vede
più il suo amico. Lo chiama ripetutamente. Nessuna risposta. Decide
di rivolgersi alla polizia.

Il vortice creato dal rimorchiatore ha trascinato Buckley sul fondo.


Il suo corpo è appesantito dalle chiavi che colleziona – ne porta
quarantatré nella tasca dei pantaloni – e dagli scarponcini che,
riempitisi d’acqua, si pensa gli abbiano impedito di riemergere. La
memoria corre a un verso di una canzone di GRACE intitolata Lover,
You Should’ve Come Over, dove Jeff immagina un corteo funebre
“che sfila in una veglia di tristi parenti, mentre le loro scarpe si
riempiono d’acqua”. Fatalmente, l’acqua e la morte sono due
elementi ricorrenti nei testi di Jeff Buckley.
In Grace canta: “Ecco che viene la mia ora, non ho paura di
morire, la mia voce in dissolvenza canta dell’amore”.
Di amore Jeff sta cantando immergendosi nelle acque del
Mississippi, mentre la sua voce suona sempre più lontana alle
orecchie dell’amico Foti.
Ma il testo più impressionante è quello di So Real, dal medesimo
album: “Non sono riuscito a svegliarmi dall’incubo che mi ha
risucchiato e trascinato giù… Oh, era così reale”.
Il 30 maggio 1997, il giorno dopo la scomparsa di Jeff, mamma
Mary ammette che non ci sono più speranze di recuperare in vita il
figlio.
Il cadavere verrà ritrovato solo il 4 giugno, avvistato da una barca
di passaggio. Secondo l’autopsia, Jeff è morto per “annegamento
senza tracce di ferite”. Nel suo sangue non vengono trovate tracce di
droga, né una quantità significativa di alcol. È stata una disgrazia.
In quei giorni drammatici, il grande rocker inglese Elvis Costello
commenta: “Spero che la gente che ha amato Jeff Buckley resista
alla tentazione di trasformarne la vita e la morte in una sciocca
fantasticheria romantica. Jeff era molto meglio di tutto ciò”.
Una settimana dopo, l’11 giugno 1997, a New York si tiene una
cerimonia in suo onore in quella St Ann’s Church dove Lou Reed e
John Cale avevano omaggiato Andy Warhol e dove lo stesso
Buckley, sei anni prima, aveva iniziato la carriera ricordando il padre.
Dopo la morte, la madre Mary Guibert diventa amministratrice del
patrimonio e dell’opera del figlio. E dichiara subito quali sono le sue
intenzioni.
“La scomparsa di Jeff è una tragica perdita per tutti. Grazie a Dio
abbiamo le sue incisioni a consolarci: ascoltare la sua voce sarà
straziante, ma anche altrettanto appagante”.

17 novembre 1966, ore ventidue e quarantanove: al Martin Luther


Hospital di Anaheim, California, Mary Guibert dà alla luce Jeffrey
Scott Buckley. Il padre è il celebre folksinger Tim Buckley, che però
non assiste al parto. Pochi mesi prima, infatti, ha abbandonato la
moglie incinta per dedicarsi completamente alla carriera musicale.
Tim e Jeff Buckley avevano gli stessi occhi, la stessa bocca, la
stessa voce. Purtroppo, hanno condiviso anche lo stesso tragico
destino.
Buckley padre e figlio si sono incontrati soltanto tre volte, sempre
nella primavera del 1975, quando Jeff aveva otto anni.
Tim, di lì a poco – il 29 giugno di quello stesso anno – morirà per
overdose di eroina.
Per la cronaca, il piccolo Jeff e l’ex moglie Mary non vengono
nemmeno invitati al funerale. Qualcuno dice si sia trattato soltanto di
un autentico – seppur grave – equivoco, che però
comprensibilmente colpisce il giovane Buckley.
Anni dopo commenterà: “Mi è dispiaciuto non potergli dire addio”.
L’eredità artistica di Tim viene ben presto raccolta dal giovane Jeff.
Anche perché, in casa Buckley, la musica è davvero un affare di
famiglia. Cantano tutti.
Si dice persino che il nonno di Jeff abbia conquistato la nonna
cantando per lei per la strada.
È lo stesso Jeff a raccontarlo: “La musica è stata mia amica, mia
alleata, mio tormento. Non c’è stato un momento nel quale non sia
stata presente nella mia vita. Cantare mi ha sempre trasportato in
un’altra dimensione. Ma da piccolo non avevo nessuno con cui
condividere questa passione. La musica era il mio segreto. Ho
passato giorni interi a imparare a memoria determinati album, brano
dopo brano. Mia zia veniva a trovarci con le amiche e mi faceva
cantare i suoi dischi preferiti. Mamma guardava i programmi di
musica classica alla tv”.

26 aprile 1991: Jeff Buckley si presenta ufficialmente al mondo della


mu sica. Partecipa a un tributo al padre Tim – organizzato dal
produttore Hal Willner – che si svolge a New York, alla St Ann’s
Church nel quartiere di Brooklyn.
Per regolare i conti col passato, canta I Never Asked To Be Your
Mountain. Ma anche Once I Was, il brano che sua madre gli faceva
sentire non appena il suo nuovo compagno, nonché patrigno di Jeff,
se ne usciva da casa.
Molti spettatori di quella serata tributo non sanno nemmeno
dell’esistenza di un figlio di Tim Buckley. Lo stesso Jeff non parla
volentieri del padre, nemmeno con gli amici. Ma quando i riflettori gli
illuminano il viso, il pubblico finalmente capisce.
Di quel momento magico, Hal Willner ricorda: “È stato come se
fosse arrivato il Cristo”.
Il rapporto di Jeff con la memoria del padre è tormentato. Nei suoi
confronti, nutre il rancore del figlio abbandonato. “Il fatto che Tim
Buck ley sia mio padre”, va dicendo, “non è affar mio. Sono sicuro
che la cosa mi abbia aperto delle porte, ma io non le ho
attraversate”.
Secondo la madre, Jeff aveva grande stima per Tim come
musicista, ma non poteva rispettarlo per come si era comportato in
quanto padre.
Erano due persone molto diverse, accomunate dal coraggio,
dall’amore per la sfida e dal senso di libertà.
“Quella sera alla St Ann’s Church ho sacrificato il mio anonimato
per mio padre. Mentre lui, pur di raggiungere la notorietà, aveva
sacrificato me… Una volta, durante un concerto, mi sono trovato di
fronte un paio di vecchi hippie che continuavano a chiedermi canzoni
di Tim. Allora ho fatto un’imitazione di mio padre che moriva
d’overdose. Si sono zittiti di colpo”.
Eppure, quella stessa sera, secondo la madre, Jeff diventa
conscio delle proprie potenzialità musicali. E incontra il suo grande
amore, Rebecca Moore, un’artista figli di artisti che lo presenta ad
Allen Ginsberg, Lou Reed, Laurie Anderson, Philip Glass.
Sempre quella sera, Jeff suona con un chitarrista di quindici anni
più vecchio di lui, un certo Gary Lucas, che in passato ha militato
nella band di Captain Beefheart e che gli è stato presentato proprio
da Hal Willner. Con Lucas, Buckley scrive e incide tra il 1991 e il
1992 i suoi primi pezzi. Tra questi, Mojo Pin e Grace finiscono nel
suo album di debutto, GRACE.
Dopo la morte del figlio, Mary Guibert pubblica due album live di
Buckley: MYSTERY WHITE BOY del 2000 raccoglie registrazioni dal
vivo del biennio ’95-96 mentre LIVE À L’OLYMPIA del 2001 fotografa
un concerto del luglio ’95.
Nonostante tutto, resta aperto l’interrogativo su quale tipo di
musica avrebbe fatto Buckley se non fosse morto. Amava
sperimentare e cambiare aspetto alle proprie canzoni all’ultimo
momento, il che lo rendeva imprevedibile.
Secondo Chris Cornell, “avrebbe potuto fare di tutto, un po’ come
Jimi Hendrix”.
La morte prematura ha consegnato la figura di Jeff Buckley alla
leggenda.
Un solo, vero album è bastato per entrare nella storia del rock.
Artisti come lo stesso Chris Cornell, PJ Harvey, Courtney Love, o
Aimee Mann gli hanno dedicato una canzone.
Secondo Bono degli U2, “Jeff Buckley è stato una goccia pura in
un oceano di rumore”.
Per Marianne Faithfull, “la sua voce era estasi”.
Jeff adorava il cantante pakistano di musica religiosa Nusrat Fateh
Ali Khan e, come lui, riusciva con le sue canzoni a toccare la gente
nel profondo. Con Nusrat, Jeff condivideva anche il concetto sufi
secondo il quale Dio ha creato le anime in modo che il divino e
l’umano siano la stessa cosa.
Esibirsi, per lui, era un’esperienza spirituale.
Jeff amava pensare che il cantante dovesse innalzare la sua voce
al cielo.
Oggi, dall’alto dei cieli, la sua voce continua a emozionare tutti gli
appassionati.
Goodbye Jeff.

È una domenica di quiete nella baia di Monterey, come sempre


affollata di velisti appassionati, surfer prestanti, ma anche semplici
vacanzieri speranzosi di portarsi a casa una bella abbronzatura.
All’improvviso – sono le diciassette e ventotto – un botto scuote la
pacifica atmosfera di quel giorno di festa. Mentre sta sorvolando a
bassa quota le fredde acque dell’Oceano Pacifico, a una cinquantina
di metri dalla costa, un piccolo aeroplano in fibra di vetro, di colpo,
precipita in mare.
Nel giro di pochi secondi, la parte principale del velivolo,
semidistrutta dall’impatto, scompare sotto le onde. Passano alcuni
minuti e stormi di gabbiani affamati cominciano a planare in modo
circolare sull’area dell’incidente, pronti a una cena anticipata con i
resti del pilota.

Quando, intorno alle diciotto, giungono i primi soccorsi, c’è ormai


poco da soccorrere: ciò che rimane del corpo (senza il braccio
sinistro, con un polmone in meno, un quarto di torace mangiucchiato
e con solo il 25 percento del cranio integro) serve solo a stabilire che
si tratta di un maschio di razza bianca. Purtroppo, il cappellino da
baseball con la scritta YUMA ROD AND GUN CLUB, i pantaloni
Haggar verdi, la felpa colorata e gli stivali da cowboy lasciano pochi
dubbi sull’identità dello sfortunato soggetto. In serata, l’ufficio del
coroner della contea di Monterey, dopo un’accurata analisi delle
impronte digitali, dà la conferma definitiva: si tratta di Henry John
Deutschendorf, conosciuto dai più con il nome d’arte di John Denver.
Professione: musicista e cantante.
Così, dopo un volo di pochi minuti su un aeroplanino comprato
soltanto il giorno prima, termina l’epopea dell’autore di Country
Roads, Rocky Mountain High, Thanks God I’m A Country Boy e di
decine di altri hit che hanno invaso le radio d’America e del mondo
con quel country-pop – mescolato alla canzone d’autore e pieno di
buoni sentimenti – che è stato il trademark del songwriter nato nella
notte di capodanno del 1943 a Roswell, New Mexico.
Seguendo gli spostamenti del padre, un ufficiale dell’aviazione
americana, John cresce in varie zone del Southwest, ma s’innamora
talmente tanto delle Montagne Rocciose del Colorado da cambiarsi il
cognome (prendendo in prestito quello della capitale dello Stato,
Denver, la Mile High City) e scegliere come residenza la
sciccosissima Aspen.
La vita del giovane John ha una svolta quando a dodici anni, come
regalo di compleanno, riceve dalla nonna una magnifica Gibson
semiacustica del 1910. Impara quasi subito a suonarla e, durante gli
anni del college, comincia a esibirsi nei music club di Texas, New
Mexico e Arizona.
Trasferitosi in California nei primi anni Sessanta, si unisce al
Mitchell Trio e fa della musica una professione.
Alla fine del decennio, inizia una carriera solistica che diventa ben
presto un caso di successo. Grazie all’album POEMS, PRAYERS &
PROMISES del 1971, raggiunge il primo posto delle classifiche, e
Country Roads entra nel songbook americano di tutti i tempi.
Il suo look da bravo ragazzo, le sue maniere gentili, i suoi testi
poetici ed ecologisti, la sua musica delicata e rassicurante centrano
il bersaglio.
John Denver diventa un fenomeno pop anomalo, ma
assolutamente travolgente. Il suo attivismo in campo umanitario va
di pari passo con il successo commerciale: John è testimonial
UNICEF e gira il mondo per sostenere progetti a favore dei bambini
poveri e malati dei paesi in via di sviluppo. Supporta esplicitamente il
Partito Democratico e critica severamente l’amministrazione
Reagan.
Ma è il suo impegno ambientalista a dargli maggiore lustro. In
particolare, i suoi sforzi si concentrano sul fronte del risparmio
energetico. Qualcuno sostiene che John abbia sotterrato in giardino
due barili di benzina, per ogni evenienza. La notizia diventa quasi
beffarda nel momento in cui, il giorno dopo la tragedia aerea, si
scopre che il piccolo aereo Long EZ aveva esaurito il carburante:
John si era dimenticato di controllare il livello del serbatoio…
Personaggio impeccabile sul versante pubblico, John Denver ha
avuto una vita privata con parecchie ombre. Il suo alcolismo (solo in
parte recuperato), le sue vicissitudini famigliari (due matrimoni falliti
alle spalle, due figli adottati e uno naturale) e le numerose
conversioni religiose non sono mai sembrati quagliare con la sua
immagine immacolata da “all american boy”.
Anne Kate, la prima moglie alla quale aveva dedicato la romantica
Annie’s Song e con cui si era riappacificato dopo il divorzio
dall’attricecantante australiana Cassandra Delaney, qualche anno fa
ha contribuito alla realizzazione del John Denver Sanctuary ad
Aspen, Colorado: una suggestiva serie di dolmen – eretti nel parco
cittadino – sui quali sono scolpiti i testi delle sue più belle canzoni.
Un bel modo per ricordare il marito e preservare la memoria di un
artista che ha saputo cantare l’America in modo originale e diverso.

È mezzogiorno meno cinque al Ritz Carlton Hotel di Double Bay.


Il corpo senza vita di Michael Kelland Frank Hutchence, frontman
della rock band australiana INXS, viene scoperto da una cameriera
entrata per fare le pulizie nella stanza 524 del più raffinato hotel di
Sydney, il Ritz-Carlton.
Il cadavere è in ginocchio, nudo, nascosto dietro la porta.
Lì accanto, una cintura di cuoio.
Secondo il coroner del Nuovo Galles del Sud, proprio quella
cintura sarebbe stata usata da Hutchence per impiccarsi alla leva di
chiusura automatica della porta. Nel sangue della vittima vi sono
tracce di alcol, cocaina, Prozac e altri medicinali. Il caso viene
archiviato come suicidio, dovuto a un evidente stato di depressione
peggiorato dal micidiale cocktail di sostanze assunte dalla vittima.
Tuttavia, sono molti gli interrogativi irrisolti che riguardano la morte
del leader trentasettenne degli INXS: i conoscenti e i parenti lo
descrivono come una persona felice, altruista e amante della vita. Il
fatto poi che non sia stata ritrovata alcuna lettera d’addio e che il
corpo fosse nudo hanno portato al proliferare di diverse
supposizioni, la più insistente delle quali sostiene che Hutchence sia
morto per asfissia durante una pratica estrema di autoerotismo.

Cosa è successo davvero in quella camera d’albergo?


Michael aveva dei problemi così gravi da spingerlo a togliersi la
vita? Oppure si è trattato di un tragico incidente?
Il cantante è tornato in Australia, suo paese d’origine, per
festeggiare con un tour di reunion il ventennale della band e per
lanciare l’uscita del decimo album del gruppo, ELEGANTLY
WASTED.
Da tre anni, l’affascinante artista ha una relazione con una famosa
presentatrice della televisione britannica, la bionda Paula Yates. I
due hanno una figlia di quindici mesi, Heavenly Hiraani Tiger Lily. La
Yates ha altre tre figlie dal suo precedente matrimonio con sir Bob
Geldof, e sta affrontando una lunga causa legale per ottenere la loro
custodia. L’intera vicenda, ovviamente, attira subito l’interesse dei
tabloid inglesi, che braccano la coppia all’insaziabile ricerca di
qualche gossip.
L’interminabile disputa e la pressione da parte dei media hanno
una pesante ricaduta sui nervi di Hutchence, che non può portare la
famiglia con sé in Australia, dove, nonostante possa rivedere
famigliari e amici di vecchia data, senza la sua compagna e le bimbe
si sente terribilmente solo.
Già nel giugno del 1997, nel corso di un’intervista alla radio
svizzera, dichiara: “Non vedo mia figlia da quattro mesi. Non so
nemmeno se sappia ancora chi sono”.
La depressione non è estranea al carismatico frontman: è il
dicembre 1995 quando il dottor J. Borham gli prescrive per la prima
volta del Prozac. Il 17 ottobre 1997, Hutchence si consulta con un
altro psichiatra inglese, Mark Collins, il quale però non vede segni
preoccupanti o tendenze al suicidio. Il successivo 1° novembre, gli
viene nuovamente prescritto il farmaco antidepressivo; pare che
l’ultima ricetta gli venga fatta proprio al suo arrivo a Sydney.
La sera del 21 novembre, Hutchence cena col padre Kelland al
Flavour of India, un ristorante indiano a qualche chilometro da
Double Bay.
Il genitore ricorda: “Era in gran forma, sorridente e divertente”.
Tuttavia l’argomento cade sulla depressione del figlio: “Mi disse di
essere molto agitato per la battaglia legale con Bob Geldof”. Il
cantante e la fidanzata, infatti, avevano in programma un soggiorno
di tre mesi in Australia, e tempo addietro avevano chiesto ai giudici il
permesso di portare con sé due delle tre figlie di Geldof, il quale però
si era subito detto contrario. Proprio mentre padre e figlio sono a
cena, gli avvocati della coppia stanno discutendo il caso alla Corte
Suprema di Londra.
Due settimane dopo, il padre di Michael dirà alla stampa: “Sir Bob
ha reso le loro vite infelici. Credo che ciò abbia molto contribuito a
quanto è successo”.
Verso le ventidue e trenta, i due si salutano e il giovane Hutchence
torna nella sua camera d’albergo. Secondo il «Daily Telegraph»,
un’amica di vecchia data, Karen, gli fa visita verso quest’ora. Dopo
essere stata interrogata dagli investigatori, la donna dichiarerà al
magazine che l’amico le avrebbe confessato che da circa un mese
stava prendendo una serie di medicinali: uno di questi è il Reflex, un
antibiotico molto potente.
“Sembrava un vulcano sul punto di esplodere con tutti quei
medicinali in corpo”, dirà la donna.
Il motivo della sua visita non è mai stato chiarito.
Verso le ventitré, Michael scende al bar per un drink. Le ultime
persone a vederlo vivo sono la sua ex fiamma Kym Wilson con il suo
attuale fidanzato, Andrew Reyment, giunti all’hotel per salutare
l’amico e stare un po’ con lui.
Secondo l’autore Mike Gee, “felice sembra essere la parola chiave
del-l’intera serata”.
Stando ai racconti della Wilson, i tre si spostano nella camera del
musicista, che preferisce essere vicino al telefono in caso giungano
da Londra notizie sull’esito del processo. E nella malaugurata ipotesi
che le notizie siano sfavorevoli, desidera avere qualcuno al suo
fianco.
“Era molto preoccupato riguardo alla custodia, ma non sembrava
depresso”, dichiarerà la donna. “Parlava del suo futuro con un tale
entusiasmo… Non l’avevo mai visto con così tante aspettative. Era
molto eccitato per la sua carriera solista, e per la parte che aveva
appena ottenuto in un film di Quentin Tarantino”.
Durante la serata, il trio consuma vari tipi di alcolici: vodka, birra,
champagne e qualche cocktail. È circa l’una quando Martha Troup,
la sua manager, lo chiama da New York. “Quando ci ho parlato l’ho
trovato brillante”, ricorderà più tardi, “era eccitato e felice. Adorava
l’Australia”.
Verso le quattro e mezzo, Hutchence riceve un’altra telefonata,
con la quale viene informato che non è ancora stato trovato un
giudice per il suo caso.
Poco dopo, la Wilson e Reyment si congedano dall’amico, non
prima però di aver scritto il loro numero di telefono su una pagina del
diario di Michael, nel caso avesse bisogno di qualcosa. Al
ritrovamento del diario, gli investigatori scopriranno la parola grazie
tra i loro due nomi.
Le ore successive vedono Hutchence quasi costantemente al
telefono. Paula Yates lo chiama verso le cinque e mezzo. Gli
comunica che il processo è stato posticipato al 17 dicembre e che
quindi non può lasciare l’Inghilterra con le figlie. Lui cerca di
rassicurarla, le dice che chiamerà Bob Geldof e lo supplicherà di
lasciare che le bambine vengano con lei in Australia.
La sera prima, Michael aveva provato a parlare con Geldof, che
però aveva chiesto di essere richiamato. Sono da poco passate le
cinque e mezzo del mattino quando Hutchence lo richiama: è molto
arrabbiato e alza la voce, tanto da farsi sentire da Gail Coward, la
donna che sta nella stanza accanto.
Non sembra depresso durante la conversazione, nel corso della
quale volano minacce e insulti.
Passano tre ore, e Michael prova a mettersi in contatto con
un’altra ex fidanzata, Michelle Bennett, che abita non lontano
dall’albergo. Non trovandola, le lascia un messaggio nella segreteria
telefonica: “Penso siano le sette. Ho bisogno di parlarti”. In realtà
sono già le nove del mattino.
Alle nove e trentotto tenta di chiamare Troup, sia in ufficio sia a
casa, ma gli risponde un’altra segreteria.
“Martha, sono Michael. Ne ho avuto abbastanza”.
Quando lei prova a richiamarlo, nessuno risponde.
Alle nove e cinquanta lui chiama nuovamente, ma, ancora una
volta, Troup non risponde in tempo. Questo secondo messaggio la
preoccupa seriamente: il musicista sembra alterato, la sua voce è
lenta e profonda. Così Troup contatta immediatamente John Martin,
il tour manager degli INXS, che le riferisce di aver ricevuto un
messaggio da Michael nel quale gli comunica che, quel giorno, non
andrà alle prove: è l’ultima sessione prima dell’inizio del tour, non
può essere saltata.
Sono le nove e cinquantaquattro. La Bennett risponde al telefono:
all’altro capo del filo, Hutchence sembra alquanto sconvolto e inizia
a piangere. Preoccupata, la donna si precipita in albergo, ma al suo
arrivo, intorno alle dieci e mezzo, nessuno le apre la porta. Non le
rimane altro da fare che lasciargli un messaggio alla reception.
Purtroppo Michael non lo riceverà mai: secondo il referto autoptico
il decesso sarebbe avvenuto tra le dieci e le undici di quel sabato
mattina, ed è quindi molto probabile che dietro la porta alla quale
Michelle ha bussato senza ricevere risposta giacesse il corpo
esanime di Hutchence.
Il funerale viene celebrato il 27 novembre. Durante il rito, vengono
suonate due delle più toccanti canzoni degli INXS: By My Side e
Never Tear Us Apart, da molti considerata l’inno del cantante.
Dopo la cremazione, le ceneri vengono divise in tre parti,
rispettivamente per il padre, la madre, e Paula Yates.
Kelland Hutchence sparge la sua parte nella darsena di Sydney.
Tim Farris, il chitarrista degli INXS, dichiara ai media: “Non posso
avercela con Michael. Penso che le persone dovrebbero fare
veramente attenzione prima di assumere farmaci antidepressivi”.
Sono però in molti a rigettare l’ipotesi del suicidio.
A dieci anni dalla morte, nel novembre del 2007, anche Simon Le
Bon, cantante dei Duran Duran e amico di Hutchence, contesta
nuovamente quest’ipotesi: “Amava la vita, le donne e le droghe”, dirà
al «Daily Telegraph», “non può aver lasciato tutto questo”.
Bono degli U2 afferma più volte: “Non era una figura tragica.
Pensava che il suicidio fosse una cosa stupida. Trovo difficile
immaginare che Michael si sia tolto la vita. Non corrisponde affatto al
ricordo che ho di lui”.
I giornali britannici riportano che ventiquattr’ore prima di morire,
Hutchence abbia inviato una dozzina di rose rosse alla fidanzata.
Il biglietto diceva semplicemente: “Alle mie splendide ragazze, con
tutto il mio amore, Michael”. Quando i fiori arrivano a Londra, però,
Paula Yates è già in aereo, diretta al funerale dell’amato con la
piccola Tiger Lily.
Pare che durante il volo la donna abbia dato la colpa all’ex marito
Bob Geldof: “Ovviamente Michael è uscito di matto. Era distrutto da
tre anni di tortura”.
È della stessa opinione anche la manager, Martha Troup: “Ritengo
siano state le pressioni per la figlia e il comportamento di Geldof,
nonché tutte le cose che sono successe quest’anno. È stato soltanto
l’atto finale, la conseguenza del modo in cui Bob ha trattato Paula,
rendendo la vita di Michael un inferno”.
Lo scrittore Gary Herman, nel suo Rock Babilonia, riporta: “Che
Hutchence fosse depresso, per quanto si mostrasse allegro con
Paula, è fuor di dubbio. L’assenza di oppio o eroina [nel suo
sangue], i ‘grandi consolatori’, indica che non c’era più niente che
potesse risollevare l’orgoglio ferito di una grande rockstar abituata
ad averla sempre vinta. Il suicidio potrebbe anche essere stato lo
scatto d’ira di un bambino capriccioso”.
Tuttavia, nel 1998, la Yates dichiara alla stampa: “Non credo
potesse lasciare deliberatamente Tiger Lily”.
Riguardo alla teoria della sperimentazione sessuale, invece, dirà:
“Penso che non ci sia nulla al mondo che Michael non avrebbe fatto.
Stranamente, lo trovo più facile da sopportare, piuttosto che credere
che qualcuno che amavi così tanto fosse talmente disperato. Credo
che quella sera fosse fuori di sé dalla rabbia e dal dolore, e che
sentisse la mancanza delle bimbe. E penso che fosse ubriaco. Ma
non credo che avesse intenzione di morire. Un grido d’aiuto, ma non
un addio a sua figlia. Mai”.
L’anno dopo, in un’intervista televisiva, esprime nuovamente lo
stesso concetto: “Michael era un ragazzo pericoloso, amante della
sperimentazione sessuale. Avrebbe potuto fare di tutto in qualsiasi
momento, ma l’unica cosa che non avrebbe fatto era lasciarci”.
Dopo un tentativo di suicidio nel 1998, la mattina del 17 settembre
2000 il corpo senza vita di Paula Yates viene trovato dalla figlia. La
donna è stata soffocata dal suo stesso vomito. La stanza è cosparsa
di bottiglie di vodka, barbiturici, cannabis ed eroina: il referto legale
parla di overdose. Come per il caso del partner, nessuno saprà se la
morte della bionda Paula sia stata intenzionale o meno. Quel che è
certo, è che da allora in poi si parlerà di lei citando il titolo di una
famosa canzone degli INXS: Suicide Blonde.

Il 31 dicembre avrebbe compiuto quarantaquattro anni. E, in attesa


del Capodanno, li avrebbe probabilmente festeggiati nella sua casa
di Mendocino, sulla costa nord della California, insieme ai figli
Mischa di tredici anni e Jasper di undici. Ma la sua vecchia BMW
amaranto targata TAPROOT è sbandata – presumibilmente la sera
del 30 novembre – sulla statale 128, all’altezza di Boonville, circa
150 chilometri a nord di San Francisco, precipitando in una scarpata.

Michael sta tornando a casa dall’aeroporto di San Francisco, dopo


aver passato la festa del Ringraziamento dalla sua nuova fiamma a
Long Island, New York.
In quei giorni piove spesso e gli pneumatici della vecchia BMW
amaranto sono quasi lisci. “Devi cambiarli il prima possibile”, gli ha
consigliato l’amico dell’autofficina di Mendocino, “se ti ferma la
polizia sono guai…”.
Oltre alle gomme senza battistrada, Michael è stanco. Ha
viaggiato per ore, tra auto e volo aereo. Forse un colpo di sonno o
forse le insidie di un’improvvisa curva a S tradiscono il pilota, che
perde il controllo della vettura. L’auto precipita per quasi quaranta
metri, sbalzando fuori dall’abitacolo il conducente che –
presumibilmente – muore sul colpo.
Il 2 dicembre, la polizia locale ritrova l’automobile distrutta e, pochi
metri più in là, il cadavere di Michael Hedges, il più grande chitarrista
acustico della storia.
Hedges sta all’acustica come Hendrix all’elettrica: un innovatore
assoluto che ha stabilito nuovi standard per uno strumento talmente
comune da passare inosservato. Ma proprio attraverso di esso,
Michael ha saputo esprimere le sue doti compositive, il suo talento
artistico, le sue invenzioni tecnico-creative. Con lui la chitarra
acustica è andata oltre i confini dell’immaginabile, diventando a volte
una vera e propria orchestra, raggiungendo i toni di un contrabbasso
e quelli di un’arpa nello stesso istante, trasformandosi per un
momento in strumento percussivo e l’attimo dopo tornando ad
essere il più melodioso degli arnesi sonori.
Il suo modo di suonare ha fatto proseliti ovunque e creato legioni
di imitatori.
La sua musica ha saputo conquistare il cuore e la mente di milioni
di appassionati, incantando le orecchie più fini del panorama
internazionale.
David Crosby ha detto di lui: “Insieme a Jackson Browne, è il
songwriter più poetico che abbia mai ascoltato”.
Il suo amico Steve Vai ha più volte dichiarato che “Michael Hedges
è il chitarrista più incredibile del pianeta terra”.
Persino Frank Zappa ne è rimasto folgorato dopo aver sentito
l’originalissima versione per chitarra acustica di Sofa No. 1.
Due mesi dopo la morte di Michael, il suo ORACLE vince il
Grammy come “Miglior album new age”. Nel sito ufficiale
(www.nomadland.com), gestito dal suo manager Hilleary Burgess,
c’è un fondo per aiutare i figli di Michael. La pagina del website si
apre con una dichiarazione programmatica di Hedges: “Heaven is all
around, translated to sound…”.
Nicolette Larson, lotta love

All’UCLA Medical Center muore Nicolette Larson. Diventata famosa


grazie a una canzone di Neil Young (Lotta Love), che nel 1979 ha
ottenuto notevole successo, Nicolette è stata una delle coriste più
apprezzate degli anni Settanta. Il suo nome è stato spesso associato
a quello delle più luminose stelle della musica della West Coast,
dagli Eagles ai Little Feat, da Crosby, Stills, Nash & Young ai Doobie
Brothers, anche se, in realtà, la Larson ha inciso un po’ con tutti:
Willie Nelson, Emmylou Harris, Christopher Cross, Beach Boys e
persino con i Van Halen.
Nel 1990, Nicolette aveva fatto una fugace apparizione al Festival
di Sanremo cantando Me And My Father (in coppia con Grazia Di
Michele).
Nello stesso anno si era sposata con Russ Kunkel, batterista
leggendario e miglior amico di James Taylor, prima che l’ex moglie di
James, Carly Simon – all’insaputa del marito – rendesse pubblica la
notizia del loro fidanzamento.
Dal matrimonio tra Kunkel e Larson è nata Elsie May, che ha solo
sette anni quando la sua mamma muore.
Colpita da un edema cerebrale – causato, pare, da gravi problemi
al fegato – Nicolette Larson non riesce a superare la crisi e
scompare all’età di quarantacinque anni.
Quasi dieci anni dopo, il 14 febbraio 2006, viene pubblicato
l’album che documenta la serie di concerti tributo – chiamati It’s
Gonna Take A Lotta Love – che molti degli amici di Nicolette hanno
contribuito a creare: nel disco dal titolo A TRIBUTE TO NICOLETTE
LARSON – LOTTA LOVE CONCERT, così come dal vivo, Linda
Ronstadt, Bonnie Raitt, Jackson Browne, Carole King, Jimmy Buffet
e Crosby, Stills & Nash offrono versioni emozionanti dei pezzi più
amati da Nicolette Larson.

“Oggi Nicolette canta tra gli angeli”, ha scritto il marito Russ


Kunkel, “e io mi ritengo fortunato ad essere circondato da angeli”.

A Sonny Bono piace sciare.


Lo fa non appena i suoi impegni di membro del Congresso
americano glielo permettono. Sonny adora la zona di Lake Tahoe e,
in particolare, ama frequentare le piste dell’Heavenly Ski Resort,
quelle che già fanno parte dello Stato del Nevada.
Le conosce come le sue tasche.
Proprio come conosceva il suo mestiere di cantante ed entertainer
quando, negli anni Sessanta, insieme all’ex moglie – la bellissima
Cherilyn Sarkisian – aveva formato un duo di straordinario successo,
Sonny & Cher.
Sonny scia in modo fluido. Ma, secondo quanto dichiara sua
moglie Mary (la quarta della sua vita), “negli ultimi tempi ha
sviluppato una pericolosa dipendenza dai suoi tranquillanti, Vicodin e
Valium”.
La sua discesa non si conclude: improvvisamente, Sonny perde il
controllo degli sci, esce dal tracciato e si schianta contro un albero.
Muore dopo poche ore, in seguito alle gravissime ferite riportate: il
16 febbraio, Salvatore Phillip Bono avrebbe compiuto sessantatré
anni.
Nonostante quello che aveva dichiarato Mary Bono, l’autopsia non
rivela tracce di narcotici. “O perlomeno, non in quantità sufficiente a
causare l’incidente”, come scrive nel referto post mortem il coroner
della contea di Douglas.
Ma c’è qualcosa che non quadra.
Com’è possibile che uno sciatore provetto ed esperto come Sonny
Bono, che conosceva benissimo quelle piste, abbia potuto distrarsi
in modo così banale? C’è stato qualcuno che lo ha costretto? È vero
che alcuni “padroni della dro ga”, che Bono combatteva dal suo
seggio nel Congresso da diversi anni, lo avevano minacciato di
morte?

Qualcuno sostiene di aver visto, quel giorno, una gang di tre killer
sugli sci cacciare Sonny Bono fino a farlo sbattere contro l’albero.
Qualcun altro dice che una donna abbia finto di aver avuto un
incidente, chiedendo aiuto e ingannando Sonny.
Sono molti quelli che affermano che la DEA (l’ente governativo
americano che sovrintende la lotta alla droga) ha un file lunghissimo
su Sonny Bono e sulle minacce di morte che ha ricevuto.
Pare che lo stesso Sonny lo avesse rivelato ai suoi amici (“Mi
sento sotto tiro”) e che, per difesa personale, tenesse armi
automatiche nel comodino.
Le indagini non portano ad alcun risultato.
Mary Bono, di fatto, prende il posto del marito nel Congresso
americano e continua in suo nome la lotta alla droga.
Una settimana prima, ad Aspen, in Colorado, in un incidente
tragicamente simile era morto Michael Kennedy, trentanove anni,
figlio di Bobby Kennedy.
Il giorno delle esequie, l’elogio funebre viene tenuto da una Cher
molto commossa: “Sonny è stato il personaggio più incredibile che
abbia incontrato”.
Sulla tomba di Sonny Bono (nel Desert Memorial Park a Cathedral
City, California) campeggia il titolo del suo brano più famoso: And
The Beat Goes On.

La Saab 9000 di Cozy Powell sta percorrendo l’autostrada M4 a oltre


150 chilometri l’ora.
Le condizioni meteo non sono delle migliori, il musicista non ha
allacciato la cintura di sicurezza e prima di mettersi in viaggio ha
bevuto.
Mentre guida è al cellulare con la fidanzata Sharon Reeve. Si sta
lamentando perché ha problemi con la quinta marcia. A quel punto
perde il controllo dell’auto: la fidanzata sente lo schianto al telefono.
Cerca di ricontattare il batterista, ma non risponde.
È lei a chiamare i soccorritori che, giunti sul posto, trasportano
Powell al Frenchay Hospital di Bristol, dove viene dichiarato morto.
Verrà appurato che è stata una foratura a mandare fuori strada la
Saab. L’auto è rimbalzata sullo spartitraffico, per poi finire dopo varie
carambole su un prato, rovesciata.
Powell, cinquant’anni, è stato uno dei più rispettati batteristi hard
rock britannici.
Oltre ad aver suonato con Black Sabbath, Whitesnake e Rain bow,
aveva costituito con Keith Emerson e Greg Lake il trio Emerson Lake
& Powell, versione moderna di Emerson Lake & Palmer.
Prima di morire, stava collaborando con Peter Green, ex Fleet
wood Mac.
Col senno di poi, suona sinistra una sua vecchia dichiarazione:
“Guido proprio come suono la batteria: come un matto”.
I funerali, che si svolgono il 18 aprile nel Wiltshire alla presenza
degli amici Brian May, Jeff Beck, Peter Green e Don Airey, si
chiudono sulle note di Let It Be dei Beatles.
Wendy O. Williams, ex leader del gruppo punk Plasmatics,
conosciuta anche con il soprannome di “Queen of Shock Rock” per
le esibizioni ad alto contenuto erotico, viene trovata morta dal
compagno ed ex manager Rod Swenson in un bosco nei pressi della
sua abitazione, dove si era trasferita nel 1991.
Regina della sregolatezza – nel corso della carriera era stata
arrestata più volte per atti osceni in luogo pubblico – uno dei suoi più
grandi successi era stato la cover di Stand By Your Man, realizzata
nel 1982 insieme all’amico Lem my Kilmister dei Mo tör head.

Eppure Wendy non era soltanto questo: per tutta la vita aveva
lottato per la difesa degli animali selvatici e aveva cercato di
sensibilizzare l’opinione pubblica affinché la gente adottasse un
regime alimentare più sano e naturale.
Ora, però, il suo corpo giace senza vita in mezzo ai boschi che
tanto ha amato, e il suo volto è straziato da un colpo di pistola.
Stando alle dichiarazioni di Swenson, sono ormai quattro anni che
Wendy accarezza l’idea del suicidio: negli ultimi tempi sembra aver
perso ogni speranza nel futuro, non trova nulla per cui valga la pena
vivere.
Il 6 aprile, Swenson esce per fare delle compere e al suo ritorno
trova una lettera di Wendy e alcuni doni per lui: piccole cose, come i
suoi spaghetti preferiti, alcuni semi per il giardino, del balsamo
orientale per massaggi.
In un passo della sua lettera d’addio, Wendy scrive: “Non ho
deciso di togliermi la vita con leggerezza. Credo che la gente non
dovrebbe mai prendere simili decisioni senza prima rifletterci
attentamente per un significativo periodo di tempo. Credo anche,
però, che la possibilità di farlo sia uno dei diritti fondamentali di
chiunque faccia parte di una società libera. Per me gran parte del
mondo non ha più senso, ma i miei sentimenti riguardo a ciò che sto
per fare sono assolutamente chiari e risuonano dentro di me, in un
posto dove non c’è più identità, ma solo quiete”.
La quiete che cercava, Wendy Orlean Williams, quarantotto anni,
l’ha trovata nei suoi boschi, circondata dai suoi amati animali
selvatici a cui prima di morire aveva dato da mangiare un’ultima
volta. Nel suo ultimo messaggio, chiederà agli amici di non mandare
fiori, ma di ricordarla con delle donazioni al Quiet Corner Wildlife
Center di Ashford, Connecticut.

Nella chiesa di St Mary a Henley, sul Tamigi, sono più di trecento le


persone riunite per dare l’addio a Dusty Springfield, la bianca
signora del soul inglese.
Elvis Costello, Lulu e Neil Tennant (dei Pet Shop Boys) rendono
omaggio alla diva londinese con accorati discorsi dal pulpito.
Solo cinque anni prima, alla Springfield è stato diagnosticato un
tumore al seno che, nonostante le cure e la strenua resistenza, non
è riuscita a sconfiggere.
“Non l’ho mai sentita dire una volta: perché proprio a me?”, rivela
un amico della cantante.
Il suo vero nome era Mary Isobel Catherine Bernadette O’Brien.
Nata nel 1939, arriva al successo in America nel 1962 con The
Springfields, un trio formato con il fratello Dion e il folksinger Tim
Field.
Nel 1963, inizia una brillante carriera solistica ed entra nelle grazie
di Burt Bacharach.
Tre anni dopo, transita brevemente sul palco di Sanremo: canta Io
che non vivo senza te di Pino Donaggio che, nella versione inglese
intitolata You Don’t Have To Say You Love Me, lei stessa trasforma
in un successo internazionale.

La leggenda di Dusty Springfield si materializza nel 1968, quando


la cantante inglese firma un contratto con l’Atlantic Records e va a
Memphis a registrare un album storico. Sotto l’egida di Jerry Wexler
e Arif Mardin, produttori del suo idolo Aretha Franklin, la Springfield
incide DUSTY IN MEMPHIS, contenente il megahit Son Of A
Preacher Man.
La canzone, originariamente scritta per Aretha – che era davvero
figlia di un predicatore e che per questo rifiuta il brano ritenendolo
offensivo – racconta la storia di una ragazzina che si apparta con il
figlio di un reverendo ogni volta che costui si reca a casa della sua
famiglia.

La quiete di una normalissima domenica mattina è rotta da una


telefonata. Shirley Murdock chiama Lester Troutman. Lei è la corista
degli Zapp, lui è il fratello dei due membri del gruppo, Larry e Roger
Troutman.
“Hai sentito?”, chiede lei.
“No, che cosa?”.
“Larry… è morto”.
“E Roger?”.
“Ucciso. Da Larry”.
Roger Troutman viene trovato alle sette del mattino fuori dai suoi
studi di registrazione nella zona occidentale di Dayton. Qualcuno gli
ha sparato in pieno petto. Larry giace senza vita all’interno di
un’automobile parcheggiata a pochi isolati di distanza: è stato ucciso
da un singolo colpo d’arma da fuoco alla testa. Un testimone ha visto
quella stessa auto allontanarsi dal luogo in cui è stato ritrovato
Roger. Una pistola Magnum 357 è rinvenuta dentro il veicolo. Roger
viene portato d’urgenza al Good Samaritan Hospital and Health
Center, ma muore sotto i ferri.
Secondo le ricostruzioni, si tratta di un caso di omicidio-suicidio.
Era tempo che Larry e Roger erano ai ferri corti: litigavano per
questioni di soldi e per la gestione delle rispettive carriere.
Fino al regolamento di conti quella mattina di aprile: Larry spara
quattro volte a Roger, due colpi al petto e due alla schiena; quindi
volge l’arma verso se stesso. Alcuni famigliari contestano la tesi e
affermano che non ci fosse alcuno serio screzio tra i due fratelli. Ma
non essendoci testimoni è impossibile stabilire la precisa dinamica
dei fatti e i sentimenti che li hanno provocati.
Del resto, non è mai stata avanzata nessuna ipotesti alternativa
credibile.
L’eco dei fatti scuote la comunità musicale afroamericana.
Negli anni Settanta, Roger Troutman aveva coniato una variante
personale di funk usando il talk box: cantava in un tubo di plastica
collegato a un dispositivo che in base ai movimenti della bocca
distorceva il suono rendendolo robotico. Il sound così creato sarebbe
diventato uno dei più campionati dal rapper d’America. Tant’è che
Troutman viene chiamato a collaborare con Tupac nel singolo
California Love.
Ai funerali dei fratelli alla Solid Rock Church partecipano
quattromila persone. Il nipote Rufus intonerà Amazing Grace usando
il talk box.

“Grazie Palestrina. È una serata favolosa, è bello stare qui e voglio


dedicarvi una canzone supersexy”. Sono le ultime parole di Mark
Sandman, bassista e leader della rock band Morphine; le pronuncia
sul palco della rassegna Nel nome del rock che si tiene ai Giardini
del Principe di Palestrina, provincia di Roma, zona dei Castelli.
Poi crolla a terra: è stato colpito da un infarto.
A nulla valgono i tentativi di rianimarlo: Mark Sandman di Newton,
Massachusetts, muore a quarantasei anni sotto gli occhi atterriti di
migliaia di appassionati giunti per ammirare una delle band più
interessanti e originali del rock anni Novanta.
Sandman, prima di diventare un’icona dell’indie rock, ha fatto di
tutto: dopo la laurea alla University of Massachusetts è stato
muratore, pescatore e tassista. Una sera, proprio mentre guida il suo
taxi, subisce un’aggressione: dopo esser stato rapinato, viene
accoltellato in pieno petto.
In quell’occasione, la morte lo sfiora soltanto. Ma, poco dopo,
Mark la deve purtroppo fronteggiare: entrambi i fratelli scompaiono
prematuramente, lasciando in lui un vuoto profondo e un’attitudine
malinconica che si riverbera nella sua musica.
“Un’esperienza baritonale”, così Sandman aveva definito il sound
dei Morphine, che amava anche classificare come “low rock”.
Il suo strumento – un basso a due corde, intonato per quinte,
costruito appositamente per lui – unito al sax baritono di Dana
Colley, produce infatti quel “beat noir” che ha reso il gruppo del New
England una realtà unica e inimitabile del panorama rock
internazionale.
Amato da altri musicisti come Les Claypool, ma anche da attori e
registi – tra cui Carlo Verdone – Mark Sandman aveva battezzato la
band Morphine perché “deriva da Morfeo, il dio dei sogni. Ci è
piaciuto subito come concetto, anche se la parola morfina è
associata alla droga… niente a che vedere con il gruppo: noi siamo
sognatori”.
A Cambridge, Massachusetts, all’incrocio tra Massachusetts
Avenue e Brookline Street, la piazza centrale è stata ribattezzata
Sandman Square; lì di fronte, c’è il Middle East, un music
club/ristorante che Mark era solito frequentare. Sempre nell’area di
Cambridge e Boston è stato istituito un fondo Mark Sandman per
finanziare progetti educativi in campo musicale.
Dopo la morte di Sandman, i Morphine si sciolgono, non prima di
registrare Gone Again Gone, una canzone tributo all’amico
scomparso.
A Palestrina, infine, una scalinata è stata ribattezzata “La Escala
de Sand man”.
ANNI DUEMILA
Da giorni la cantante israeliana Ofra Haza è ricoverata in un
ospedale di Tel Aviv. Ma sulla malattia che l’affligge viene mantenuto
il più stretto riserbo.
Persone vicine alla diva d’origine yemenita raccontano di un brutto
raffreddore da cui non riesce a guarire da mesi: l’attività artistica si è
infatti fermata prima di un viaggio all’estero, proprio perché i sintomi
della malattia si sono fatti più acuti. Intanto i medici parlano di una
grave forma di raffreddore trasformatosi in polmonite. Ma si parla
con insistenza di un misterioso crollo delle difese immunitarie.
Sabato 10 febbraio, il quadro clinico si presenta drammatico per
un peggioramento della forma influenzale: la cantante entra in coma.
I medici ordinano un ricovero nel centro Shiba di Tel Hashomer.
Sembra essere l’ennesimo caso di quella violenta forma virale che
ha colpito altri cinquecento israeliani quest’anno: un virus che si è
rivelato letale.
In poche ore la notizia fa il giro del mondo, destando dolore e
sconcerto.
Ofra Haza non è soltanto orgoglio d’Israele: dal Medio Oriente,
attraverso la sua voce intensa e la sua musica innovativa, è riuscita
a superare le barriere dell’integralismo e raggiungere l’Occidente
senza diffidenze.
Con lo spettacolo aveva cominciato da ragazzina ed era entrata a
far parte del coro delle Forze armate. Dal primo singolo, pubblicato
al termine del servizio militare, Ofra Haza ha saputo conquistare un
pubblico sempre più vasto, lasciando un segno profondo anche
grazie a un look inconfondibile: i lunghi capelli neri, gli abiti colorati e
splendidi gioielli di foggia mediorientale. Vivendo in una regione
dove la guerra è una realtà quotidiana, lei ha cercato l’impegno
sociale e politico (“La musica è un linguaggio universale che può
fare molto per la pace”) attraverso canzoni in difesa delle donne e
dei popoli perseguitati.
Ora la “voce d’Israele” tace, e nel reparto di rianimazione lotta
contro la morte, mentre il mistero che avvolge la situazione
s’infittisce. Nessuno può farle visita, nemmeno l’amico ed ex
manager Bezalel Aloni. Ma la situazione ora dopo ora sembra
peggiorare: la popstar viene messa sotto la tenda a ossigeno, ma
ormai appare chiaro che le strade della medicina tradizionale si sono
esaurite. L’unico cui viene concesso di vedere la Haza è il rabbino
cabalista Ifargan, un uomo “santo” capace di curare con il solo uso
delle mani.
I famigliari si affidano a lui, sperando in un nuovo miracolo, come
era già accaduto nel 1984, quando Ofra era precipitata a bordo del
suo aereo, salvandosi (a soccorrerla furono i soldati allora comandati
dall’ufficiale Barak, futuro premier).
Accettano persino che cambi il nome di Ofra in Haya, che significa
“vita”. Ma anche l’ultimo tentativo fallisce e il 23 febbraio, dopo dodici
giorni di coma, la più amata d’Israele muore a soli quarantun anni.
Non appena viene diffusa la notizia, le tv interrompono la
programmazione per dare l’annuncio e in poco tempo i fan si
ritrovano in centinaia fuori dall’ospedale dove la loro eroina ha
smesso di vivere.
Viene proclamato il lutto nazionale.
Al suo funerale c’è una folla impressionante: nelle prime file,
commossi, il premier Ehud Barak e il ministro Shimon Peres.
Sulla natura della malattia che ha colpito Ofra Haza si continuano
a fare illazioni. Ufficialmente i medici insistono nel dire che la morte è
stata causata da “una disfunzione organica generale, in particolare
del fegato e dei vasi sanguigni”. La verità affiora presto, perché
come da tempo i media sospettavano a uccidere la “Madonna
d’Israele” è stato l’Aids.
Si tratta di un’amarissima verità: il virus, infatti, le è stato
trasmesso dal marito Doron Ashkenasi. Questi le ha tenuto a lungo
nascosto d’essere tossicodipendente. In seguito, si è venuto a
sapere che la cantante era ridotta a letto da molte settimane e che il
marito non permetteva a nessun famigliare di avvicinarla, dicendo a
tutti che era affetta da una brutta influenza, ma che presto si sarebbe
rimessa. Quando una delle sue sorelle era finalmente riuscita a farle
visita e a portarla di corsa in ospedale, Ofra pesava poco più di
trenta chili.
La famiglia, che non ha mai smesso di indagare sulla vicenda, ha
raccontato poi di come Ofra si sia lasciata morire piuttosto che
curarsi e affrontare quella malattia che lei riteneva un’onta; anche
perché a vrebbe dovuto urlare al mondo la sofferenza che le era
stata inflitta dall’unico uomo della sua vita (era giunta vergine al
matrimonio).
A distanza di un anno, Ashkenasi verrà ritrovato morto per
overdose, accanto a una donna non identificata.
A cinquantasette anni d’età, muore di cancro al fegato Ian Dury,
leggenda del punk rock inglese degli anni Settanta e Ottanta. Al suo
funerale partecipano diverse star commosse. Tra queste, l’amico
Robbie Williams, come lui, ambasciatore dell’UNICEF.
Colpito a sette anni dalla poliomielite, Ian Dury ne porta i segni nel
fisico. Quasi sempre – a volte persino durante i concerti – il cantante
è costretto a usare un bastone per sorreggersi. Piccolo di statura,
bruttino e sgraziato, Dury sembra così accentuare ulteriormente il
suo aspetto inquietante, trasformandosi, anche per questo, in
un’icona punk.
Purtroppo per lui, già nel 1996 gli viene per la prima volta
diagnosticato un tumore. Sembra guarire, anche se, un paio d’anni
dopo, durante una trasmissione radiofonica, Bob Geldof annuncia la
sua prematura scomparsa, dando credito a voci fasulle che da
tempo circolano nell’ambiente.
Alla notizia della sua dipartita, Ian Dury reagisce con ironia. Quindi
sposa, in seconde nozze, la scultrice Sophy Tilson.
Poco dopo, però, una nuova e ben più grave forma di tumore lo
attacca: l’ultima esibizione dal vivo con i suoi Blockheads ha luogo il
6 febbraio 2000 al London Palladium. Quando sale sul palco –
sostenuto a braccia da alcune persone – Dury rende visibili a tutti gli
effetti della malattia.
Quarantacinque giorni dopo, la fine.
In pista già all’inizio degli anni Settanta, Ian Dury deve attendere il
1977: quello è l’anno dell’esplosione del punk rock, ma soprattutto
della pubblicazione del singolo Sex & Drugs & Rock & Roll. Il brano
in questione, peraltro, non ha un gran successo commerciale, ma
diventa il caso del giorno: bandito dalla BBC – nonostante il testo sia
una critica allo stile di vita “esagerato” di certe rockstar – diventa lo
spunto per centinaia di articoli e discussioni.
Si ritiene che il titolo – oggi trasformatosi in efficacissimo slogan
entrato nel linguaggio comune – sia stato inventato dallo stesso Ian
Dury.

È quasi Natale.
Per Kirsty MacColl, folksinger inglese dai lunghi capelli rossi, è
tempo di vacanze esotiche sotto il caldo sole del Messico. Con i suoi
due figli è volata nello Yucatan a godersi un po’ di relax, dopo avere
registrato per la BBC otto puntate di Kirsty MacColl’s Cuba, un
viaggio-documentario a ritmo di rumba, che testimonia la sua grande
passione per il Sud America.
In quegli stessi giorni di dicembre, il nome della MacColl è di
nuovo sulla bocca di tutti: uno dei suoi brani di maggior successo è
tornato in classifica dopo anni, grazie all’interpretazione di Ronan
Keating. Si tratta della natalizia Fairytale Of New York, che nell’87
Kirsty aveva cantato assieme ai Pogues, esibendosi in duetto con il
frontman Shane MacGowan. Si prospetta dunque un Natale assai
piacevole per la cantante e, nello splendido mare messicano, anche
un’ottima occasione per dedicarsi a un altro dei suoi hobby: le
immersioni subacquee.
È il 18 dicembre e Kirsty (con il compagno musicista James Knight
e i suoi due figli adolescenti Jamie e Louis) raggiunge la spiaggia di
Cozumel: tutto è pronto per affrontare un’intensa giornata di
escursioni sott’acqua. Salutato James, la cantante con i due ragazzi
e l’esperto dive master Ivan Diaz, si dirigono verso il tratto di mare
riservato esclusivamente a chi pratica il sub; una zona, dunque,
dov’è assolutamente vietato il transito a barche, motoscafi e affini.

Tutto sembra filare liscio nelle acque di Cozumel, le immersioni


procedono secondo le normali indicazioni dell’istruttore. Ma qualcosa
improvvisamente rompe l’equilibro del gruppo: non appena la
cantante e i figli riemergono dall’acqua, intravedono una barca
provenire a gran velocità nella loro direzione. Sono attimi tremendi:
la MacColl si rende conto subito che la barca sta piombando proprio
nel punto in cui ci sono i due ragazzini. Louis viene sfiorato dal
mezzo e si tiene a galla con la testa e le costole rotte, sostenuto
dalla madre che, nel frattempo, si rende conto che anche Jamie sta
per essere colpito in pieno.
L’amore di una madre è davvero più forte di qualsiasi cosa: la
donna si butta sul figlio un attimo prima che la prua della piccola
imbarcazione possa travolgerlo, riuscendo a scaraventarlo lontano,
ma viene a sua volta travolta.
Kirsty la rossa muore sul colpo, nell’estremo tentativo di salvare la
vita del suo ragazzo diciassettenne.
Subito dopo la tragedia, in Messico si reca precipitosamente
anche l’ex marito Steve Lillywhite (già produttore di Peter Gabriel e
U2). La salma della folksinger viene rimpatriata in Inghilterra e il suo
funerale, a Londra, nella chiesa di St Martin’s in the Fields, è un
bagno di folla (circa novecento persone): tanti gli amici musicisti
sconvolti, tra cui Bono, The Edge e Johnny Marr degli Smiths, suo
grande amico.
La cerimonia viene aperta da Billy Bragg che interpreta A New
England, un brano celebre della MacColl. A chiuderlo è invece Holly
Johnson.
Dopo la tragedia di Cozumel, la famiglia della star del pop-folk
britannico fa di tutto per cercare giustizia: si viene a sapere che
l’imbarcazione che ha causato l’incidente apparteneva al miliardario
Guillermo Gon zalez Nova – proprietario della megacatena di
supermercati La Comercial Mexicana – e guidata da un certo José
Cen Yam. Questi si fa due anni e dieci mesi di carcere, ma viene
successivamente liberato su una cauzione di circa 1.034 pesos. Un
grande beffa e una sofferenza ancora più forte per la famiglia
MacColl.
E pensare che, quello del 2000, avrebbe dovuto essere un Natale
spensierato per la “rosa rossa d’Inghilterra”…
I media nordeuropei diffondono la notizia del ritrovamento del
cadavere di Herman Brood sul marciapiede sottostante l’Hotel Hilton
della città dei tulipani.
Artista tra i più eclettici e controversi dello show biz olandese e
forse il tossico più famoso dei Paesi Bassi, Brood aveva cavalcato
l’onda anomala del punk alla fine degli anni Settanta, dando vita ai
Wild Romance. Attraverso testi crudi e fortemente allusivi, aveva
scandalizzato l’opinione pubblica con aperte dichiarazioni sulla sua
tossicodipendenza. C’era chi lo accusava in parte di incitare i giovani
al consumo di droghe e a strafare con alcol e sesso.
Con la sua stessa condotta di vita, sempre un passo oltre il limite,
aveva destato scalpore, ma anche dimostrato di sapersi reinventare
attore, e soprattutto pittore (vicino alla pop art) e vero mago delle arti
visive. Spesso però erano stati gli eccessi a frenare in più occasioni
la sua carriera.
Non solo. I problemi di salute dovuti alla sua condotta di vita
sregolata s’erano aggravati anno dopo anno. Ma raggiunto il
traguardo dei cinquant’anni, Herman s’era ripromesso di uscire dalla
schiavitù dell’alcolismo e della tossicodipendenza, tentando un
programma di riabilitazione piuttosto duro.
In realtà, i ricoveri nelle cliniche specializzate non erano valsi a
molto, visto che l’ex leader dei Wild Romance ed ex compagno della
cantante punk tedesca Nina Hagen era riuscito solo a ridurre l’uso di
cocaina a due grammi al giorno (come lui stesso aveva dichiarato in
un’intervista). Questo gli aveva procurato una violenta forma di
depressione, fino a quel giorno di luglio del 2001, quando, all’interno
di una camera prenotata all’Hilton di Amsterdam, nella sua testa
confusa qualcosa si rompe definitivamente.
L’ex rockstar si dirige all’ultimo piano dell’albergo, raggiungendo
poi furtivamente il tetto: per Brood sembra giunto il momento di farla
finita con una vita troppo compromessa dai vizi per essere portata
avanti. Buttarsi da quell’altezza è un attimo.
L’artista muore sul colpo.
Il corpo viene ritrovato poco dopo e consegnato ai patologi per
l’autopsia. I media danno un notevole rilievo alla tragedia (il più noto
magazine musicale olandese, «Muziekkrant OOR», dedica un intero
numero a Brood) e vengono successivamente mostrate le immagini
del funerale: la bara di Herman Brood viene trainata per le strade di
Amsterdam, ai cui lati s’accalca una folla enorme.
La salma successivamente viene cremata e un concerto viene
organizzato in suo onore. A poche settimane dalla tragedia, una
versione di Brood della My Way di Frank Sinatra, rientra nella
classifica dei Paesi Bassi e resta al primo posto per tre settimane.
L’ex bambina prodigio dell’R’n’B americano Aaliyah, a soli ventidue
anni, è ormai una diva. Tra scandali (a inizio carriera, quando aveva
solo quindici anni, le era stata attribuita una relazione con il suo
produttore R. Kelly, di dieci anni più grande, e un successivo
matrimonio segreto), tre album pubblicati e stravenduti, nomination
per Grammy e concerti sold out, per la ragazzina di Brooklyn si sono
aperte anche le porte del cinema: ha appena finito di girare il film La
regina dei dannati, di cui è protagonista.
Lei è bella, talentuosa e sa quello che vuole: i produttori hanno
capito da tempo che su Aaliyah si può investire. L’ultimo album in
studio – AALIYAH – pubblicato a luglio, è già balzato in seconda
posizione nella classifica Hot R’n’B di «Billboard», trainato dal
singolo More Than A Woman. Le copie vendute sono 200mila e con
il secondo singolo estratto, Rock The Boat, Aaliyah mette a segno
un altro colpaccio: è il pezzo più trasmesso dalle radio.

Per i discografici questo è il momento opportuno per mandare la


ragazza alle Bahamas con tutto il team per girare il videoclip.
È sabato 25 agosto 2001.
Sono quasi le sette di sera quando terminano le riprese del video.
Aaliyah e sette membri dello staff salgono a bordo di un Cessna
402B guidato da Luis Morales e diretto verso l’aeroporto di Miami. A
pochi minuti dal decollo, il velivolo si schianta a terra. L’impatto fa
esplodere immediatamente il Cessna e di tutti i passeggeri a bordo
non resta alcun superstite.
Secondo l’autopsia, sui resti di Aaliyah vengono rinvenute ustioni
gravissime e lo sfondamento del cranio. È il patologo Giovander
Raju a rivelarlo nel corso dell’inchiesta aperta subito dopo la
tragedia, affermando anche che “Aaliyah è entrata in un tale stato di
shock, che anche se fosse sopravvissuta all’impatto del velivolo al
suolo, difficilmente sarebbe riuscita a superare lo spavento”.
Ma è evidente che non si è trattato solo dello shock. Subito dopo,
le salme vengono rimpatriate negli States e il 31 agosto viene
celebrato il funerale della cantante alla Saint Ignatius Loyola Roman
Catholic Church di Manhattan. La bara è trasportata da un carro di
cavalli bianchi fino al Ferncliff Cemetery ad Hartsdale, nella cripta di
famiglia.
Per qualche tempo, lo schianto del piccolo aereo (e ciò che lo ha
provocato) rimane un mistero. I parenti delle vittime però chiedono
giustizia e la verità arriva dopo poco: le cause dell’incidente sono da
attribuirsi all’eccessivo peso del carico e alla scarsa manutenzione
del mezzo.
Il maggior responsabile però è il pilota Morales, che non solo
aveva falsificato i documenti per poter guidare l’aereo, ma era stato
condannato a tre anni per detenzione di cocaina solo una decina di
giorni prima dello schianto. L’autopsia conferma la presenza di
cocaina e alcol nel suo sangue.
Le famiglie delle vittime, compresa quella di Aaliyah, denunciano
la casa discografica per non aver fatto nulla per impedire l’incidente.
Suscitano ancora commozione le immagini del backstage del video
girato a Marsh Harbour, le ultime giornate di vita della giovane
artista.
Il regista Hype Williams – che non era su quel maledetto Cessna –
ha raccontato in un’intervista il lunedì successivo alla tragedia che
“quei pochi giorni sul set con Aaliyah sono stati splendidi per tutti.
Abbiamo lavorato come una famiglia. L’ultimo giorno, sabato, è stato
uno dei migliori che abbia mai passato nella mia carriera. Ognuno si
sentiva parte di qualcosa di speciale, parte della sua canzone”.

“Tutta colpa delle sigarette”.


Una voce dolcissima che non si dimentica, ma che va lentamente
rovinandosi, e l’arrivo minaccioso di un tumore alla gola: è così che
in un’intervista rilasciata nel 1998, George Harrison – il più giovane e
il più timido dei Beatles – annuncia al mondo d’essere malato.
La notizia è di quelle che scuotono chiunque e lasciano con il fiato
sospeso. Ma Harrison, con la consueta delicatezza, riesce a
tranquillizzare tutti, parlando di una totale guarigione.
Sembrano veramente lontani i tempi in cui l’ex Beatle riusciva a
piazzare splendidi successi e, immediatamente dopo, clamorosi flop.
Ma sono pur sempre tempi sereni.
Durante la malattia, Harrison ha partecipato insieme agli amici
Paul McCartney e Ringo Starr al lancio della Beatles Anthology. Con
loro ha suonato Free As A Bird, utilizzando come base due tracce
voce/pianoforte di John Lennon, registrate quasi vent’anni prima.
Al clamore dei palchi e della pubblica esposizione, il meditativo
George preferisce la tranquillità della vita privata accanto alla
seconda moglie, la messicana Olivia Arias, e al figlio Dhani, con cui
si mette al lavoro per un probabile album.
Il periodo della convalescenza prosegue tranquillamente, tra un
soggior no al mare e uno in campagna, lontano dalla – spesso
morbosa – curiosità di tanti.
Di sir George si perdono le tracce fino a quella notte tragica del
dicembre 1999, quando, per uno strano gioco del destino, a
diciannove anni di distanza dall’omicidio di John Lennon, Harrison
viene aggredito nella sua tenuta di Henley Thames nell’Oxfordshire
(a 40 km da Londra) da uno psicopatico.
Una notte tranquilla si trasforma in un incubo: verso le tre, i
coniugi Harrison sono svegliati da qualcuno che s’è introdotto
nell’abitazione. Non si tratta di ladri, ma di un ragazzo poco più che
trentenne di nome Michael Abram, tanto abile da riuscire a
oltrepassare l’enorme parco che circonda la villa e soprattutto a
eludere le potenti misure di sicurezza. Una volta dentro, il ragazzo
raggiunge Harrison, gli punta un coltello al petto e, con rapidità, lo
colpisce all’altezza del torace.
Nella violenta colluttazione viene coinvolta anche Olivia, che con
prontezza riesce a bloccare Abram e perfino a ferirlo alla testa con
una grossa lampada. George è sanguinante ma ancora vivo, e con
la moglie riesce a immobilizzare l’aggressore fino all’arrivo della
polizia.
Alle prime luci dell’alba l’incubo finisce con la corsa al Royal
Berkshire di Reading e, successivamente, con il ricovero
all’ospedale di Harefield, dove vi è un reparto specializzato in
medicina toracica. Le ferite riportate dall’ex Beatle sono profonde,
ma per fortuna la lama non ha leso alcun organo vitale, e non c’è
dunque bisogno di un intervento chirurgico.
Intanto la polizia sta interrogando Michael Abram, ex
tossicodipendente di Liverpool, che rischia un’incriminazione per
tentato omicidio. La madre del giovane racconterà poi
dell’ossessione del figlio per i Beatles, talmente violenta da
convincersi che fossero demoni. Quella lama piantata a un
centimetro dal cuore dell’ex chitarrista dei Beatles non è riuscita a
ucciderlo e non ha così fatto rivivere al mondo il dramma
dell’omicidio Lennon.
Purtroppo, è una ricaduta della malattia che aveva già colpito
Harrison tempo prima a rovinare tutto: una nuova e più aggressiva
forma di tumore, che dai polmoni si è irradiata al cervello, uccide
l’autore di Here Comes The Sun il 29 novembre del 2001.
Una morte serena accanto alla fedele Olivia e a Dhani, avvenuta a
Los Angeles, a casa di Gavin De Becker, vecchio amico del
musicista.
Poco tempo prima, Ringo Starr e Paul McCartney erano andati a
trovarlo nell’ospedale dove era stato ricoverato per un ultimo
tentativo di sconfiggere il male e ne erano usciti sconvolti,
comprendendo che presto la sua “chitarra gentile” avrebbe smesso
di suonare. Commuovono le parole che la moglie Olivia pronuncia
subito dopo: “Se n’è andato consapevole di Dio, senza paura della
morte e in pace, circondato dalla famiglia e dagli amici. Spesso
ripeteva: tutto può attendere, non la ricerca di Dio, e amatevi l’un
l’altro”.

Di Stuart Adamson, leader e fondatore degli scozzesi Big Country, si


sono perse le tracce da settimane.
La band s’è sciolta ormai da un anno e Stuart – che ormai vive a
Nashville, la capitale del country negli Stati Uniti – continua a
suonare, ma anche a combattere l’alcolismo, che da tempo lo tiene
sotto scacco. Prima di sparire in novembre, aveva lasciato un
laconico messaggio al figlio Calum (“Al massimo torno domenica”)
senza però far ritorno a casa.
Sul sito dei Big Country, sempre attivo, compare quindi uno scarno
annuncio: “Da tre settimane Stuart Adamson è scomparso negli
USA”.

Successivamente alcuni amici del chitarrista dichiarano di averlo


ospitato il 15 novembre ad Atlanta per vedere in tv la partita di calcio
Irlanda-Iran. Ma poi più nessuna notizia: i famigliari e il suo manager
Ian Grant provano in tutti i modi a mettersi in contatto con lui, senza
ottenere risposte.
Adamson sembra sparito nel nulla, fino a quel 16 dicembre
quando si viene finalmente a sapere che fine ha fatto.
La risposta però è drammatica e arriva dal centralino del Western
Plaza Hotel di Honolulu, nelle Hawaii: la rockstar è stata ritrovata
morta da un addetto alle pulizie. La notizia però viene diramata
ufficialmente nella notte, ad autopsia avvenuta: in un primo momento
il coroner afferma che la morte del musicista è avvenuta per asfissia.
La verità è un’altra e a confermarla è l’investigatore distrettuale di
Honolulu, Jimmy Annino: Adamson – schiavo di una forma di
depressione dovuta all’abuso di alcolici – si è tolto la vita
impiccandosi.
Subito dopo è il manager a parlare, sconvolto, rivelando che da
sei mesi si temeva il peggio, notando come le condizioni di salute di
Stuart stessero peggiorando, di giorno in giorno. Da tempi
insospettabili il cantante faceva i conti con l’alcolismo: verso la metà
degli anni Ottanta erano in pochi a sapere che Stuart stesse già
molto male, ma il successo dei Big Country a quei tempi era
notevole, tanto da far passare in secondo piano il dramma del
frontman.
Una strofa di In A Big Country, grande hit della band di
Dunfermline (che aveva tradotto in chiave pop rock i suoni della
tradizione celtica) recita così: “In una grande terra i tuoi sogni ti
accompagneranno”.
E in una grande terra il cuore del fondatore dei Big Country ha
smesso di battere.

Layne Staley, a soli vent’anni, ha già toccato il fondo con la mano: la


sua famiglia s’è disgregata sotto i colpi di bugie, tradimenti e droga. I
pezzi di un’adolescenza distrutta stanno cadendo sulla sua testa e
l’unica via di salvezza sembra essere la musica. Forse, anche per
questo, il rock per Layne è diventato una vera ossessione e
l’esperienza con Alice in Chains – band da lui formata a Seattle nel
1987 insieme a Jerry Cantrell, Mike Starr e Sean Kinney – oltre a
lasciare una traccia importante sul terreno grunge degli anni
Novanta, conferma la presenza di un male interiore incurabile.
L’esempio di un padre alcolista ed eroinomane conduce il leader
degli Alice in Chains sulla strada dell’autodistruzione.
Gli anni del successo coincidono con il declino del giovane Layne:
l’abu so di droga lo costringe spesso a disertare tour e appuntamenti
importanti.
In una delle ultime interviste rilasciate da Staley alla scrittrice
argentina Adriana Rubio (autrice della biografia del cantante Angry
Chair) si percepisce quanto le ferite lasciate da un’infanzia tanto
tragica siano profonde e in putrefazione.

“Il mio mondo era diventato un incubo”, ha raccontato Layne,


“c’erano solo ombre attorno a me. Un giorno, ho ricevuto una
telefonata in cui mi comunicavano la notizia della morte di mio
padre. La mia famiglia ha sempre saputo che lui era in giro a farsi di
crack e di eroina, ma non ha fatto nulla. Dopo quella chiamata mi
sono chiesto: dov’è mio padre? Mi sentivo così triste per lui e mi
mancava. È uscito dalla mia vita per quindici anni. È così che la
musica è diventata la mia unica fonte di vita. Ho avuto la fortuna di
incanalare questa rabbia nel rock con l’obiettivo di aiutare gli altri. È
stato terapeutico e, per un po’, ha anche funzionato. Almeno fino a
quando mio padre non ha visto la mia foto su una rivista. Mi ha detto
che si era disintossicato dall’eroina da sei anni. Allora, perché
diavolo non è tornato prima? All’inizio sono stato molto cauto. Poi il
rapporto è cambiato. Mio padre ha iniziato a far uso di droghe
un’altra volta. Abbiamo cominciato a farci insieme e sono precipitato
in uno stato di prostrazione atroce. Lui aveva preso l’abitudine a
farmi visita tutti i giorni per sballarsi con me. Saliva da me solo per
avere un po’ di merda e basta. Stavo cercando di risalire dal baratro
ed ecco arrivare quest’uomo a chiedermi soldi per comprarsi
l’eroina. E adesso so che sono vicino alla morte. Non avrei mai
voluto mettere fine alla mia vita così. So di non avere speranze,
ormai è troppo tardi. Voglio solo dire che non ho mai cercato
l’approvazione per questo fottuto uso di droga”.
Sono parole durissime, pronunciate nel gennaio del 2002, dopo
aver mandato a monte più d’una volta il programma di
disintossicazione.
Il 19 aprile del 2002, il cadavere di Staley viene rinvenuto
nell’appartamento di Seattle, nonostante la morte risalga al 5 dello
stesso mese. Un’ultima dose prima di mettere fine a un’esistenza
troppo compromessa per tentare di risalire dal baratro.

Ore nove del mattino: il coroner della contea di Los Angeles ha


appena finito l’autopsia sul corpo senza vita del cinquantenne
Douglas Glenn Colvin, più famoso ai più come Dee Dee Ramone,
bassista della band di punk rock newyorkese Ramones.
Il referto è semplice e chiaro: overdose di eroina.
La sera prima, sua moglie – la giovane cantante di origine
argentina, Barbara Zampini – ha chiamato il 911, il numero per le
emergenze: Dee Dee giace privo di sensi nella loro casa di
Hollywood. Sul bancone della cucina, una siringa e altri
inequivocabili ammennicoli atti al consumo di eroina, perché quella
di Dee Dee Ramone con la droga è una storia lunga, pesante e mai
risolta.
Solo un paio di mesi prima, il 18 marzo del 2002, al Waldorf
Astoria di New York, il cantante dei Pearl Jam Eddie Vedder invita
sul palco Dee Dee e gli altri Ramones per l’investitura ufficiale nella
Rock and Roll Hall of Fame.
Il discorso pubblico di Dee Dee, in quell’occasione, è
emblematico: “Ringrazio me stesso, voglio congratularmi con me
stesso e, se potessi, mi darei pure una pacca sulla spalla”.

Deborah Harry, leader di Blon die, una che con i Ramones ha


condiviso gli esordi a metà anni Settanta sul minuscolo palco del
tempio del punk newyorkese – il club nella Bowery chiamato CBGB’s
– ha così voluto ricordare Dee Dee: “È stato un bassista bravo e
influente, perché molti, dopo averlo ascoltato, hanno iniziato a
suonare nel suo stile asciutto ed efficace. Per me è stato soprattutto
un grande au-tore di canzoni, ma sciaguratamente anche una
personalità autodistruttiva”.
Too Tough To Die, troppo duro per morire, titolava una sua famosa
canzone. Purtroppo, anche per i duri, l’eroina è spesso un nemico
invincibile.

È circa mezzogiorno quando il road manager degli Who bussa alla


porta della stanza occupata da John Entwistle, bassista della rock
band inglese: l’ultima sessione di prove del tour americano – che
parte domani proprio da Las Vegas – è già cominciata. E poi, nel
pomeriggio, Entwistle è atteso alla Grammy’s Art of Music Gallery
all’interno dell’Aladdin per il vernissage di una collezione di sue
opere pittoriche.
Nonostante l’insistenza, dall’interno della camera non giunge
alcuna risposta.
L’irritazione si trasforma prima in preoccupazione e poi in
autentico sbigottimento quando, dopo aver forzato la serratura, viene
trovato sul letto il corpo esanime di Entwistle: il bassista è morto nel
sonno.
“È stato un attacco cardiaco”, dichiara alla stampa Steve Luongo,
manager del musicista inglese.
In realtà, l’autopsia rivela tracce di cocaina nel sangue: una droga
che da sempre Entwistle assume e che ha finito per schiantare
anche il suo cuore forte.
A cinquantasette anni, lui – soprannominato The Ox, il bue,
proprio in virtù di un fisico insuperabile che gli consentiva di ingerire
di tutto senza avere (apparentemente) conseguenza alcuna – deve
alzare bandiera bianca.
Nato il 9 ottobre del 1944 a Chiswick, un sobborgo di Londra, da
una famiglia di musicisti, John Alec Entwistle è uno portato per la
musica. Conosce Pete Townshend a scuola, e con lui, Roger Daltrey
e Keith Moon forma una band che si chiama The Detours prima, The
High Numbers poi e infine The Who.

Nel 1965, gli Who pubblicano il loro primo grande successo, My


Generation, contraddistinto anche da un fenomenale assolo di basso
di Entwistle.
La sua tecnica scintillante, fatta di tapping, armonici e altri
virtuosismi allora sconosciuti, gli valgono lo status di “Jimi Hendrix
del basso”.
In più, i suoi strumenti stravaganti, i suoi costumi fantasiosi, uniti al
suo statuario modo di stare in scena, lo fanno diventare un’icona del
rock.
I funerali si svolgono il 10 luglio del 2002 nella chiesa di Saint
Edward a Stow-on-the-Wold, nel Gloucestershire.
Il corpo viene cremato e le ceneri conservate dalla famiglia.

È un tardo pomeriggio di fine ottobre. Jason Mizell, da tutti


conosciuto come Jam-Master Jay, uno dei componenti della storica
band hip hop Run-DMC, è nel suo studio di registrazione nel cuore
del Queens di New York: l’atmosfera è tranquilla e Master Jay si
gode qualche ora di pausa con uno dei suoi collaboratori, il giovane
Urieco Rincon.
Mentre i due si stanno allegramente sfidando alla Playstation,
qualcuno suona alla porta: si presentano due uomini in tenuta da
Pony Express e, con il pretesto di consegnare un pacco,
s’introducono nello studio. In un attimo si consuma l’inattesa
tragedia: uno dei due uomini ha in mano una pistola calibro 45 e la
punta alla testa di Mizell, un colpo secco e il deejay cade per terra.
Rincon viene colpito alle gambe, mentre gli altri collaboratori presenti
in studio e accorsi nella hall dove sta avvenendo la sparatoria
vengono risparmiati. I due assassini riescono a fuggire, sparendo nel
nulla. Il rapper afroamericano giace morto per terra davanti agli
attoniti collaboratori: non resta che aspettare l’intervento della polizia
e un chiarimento di tutta la vicenda nel minor tempo possibile.
Vengono avvisati gli altri componenti dei Run-DMC che, proprio in
queste ore, devono esibirsi in uno show a Washington. Il concerto,
ovviamente, viene cancellato e la notizia della morte di Jam-Master
Jay comincia a rimbalzare sui principali media. Sul sito della band
compaiono immediatamente immagini dell’artista accompagnate da
una grande scritta: ”Rest In Peace Jam-Master”.
Nei giorni successivi, l’omicidio non ha ancora un movente e i volti
degli assassini non sono stati ancora identificati.
Passano mesi, ma ancora nessun sospettato viene arrestato e le
indagini sono in fase di stallo. Un portavoce della polizia di New York
conferma a un giornalista del magazine «Rolling Stone» che non ci
sono sviluppi alle indagini, e Darryl “DMC” Daniels, compagno
d’avventura del defunto Mizell, si sfoga così tramite la stampa: “È
una vergogna! Prima Tupac e Biggie [altri due celebri rapper
ammazzati], ora Jam-Master Jay: ogni giorno qualcuno muore nel
ghetto e nessuno scopre chi è stato”.
In realtà le autorità avevano ipotizzato che Jay fosse stato fatto
fuori per debiti non saldati o per uno spaccio di droga non andato a
buon fine. Ma per Daniels sono tutte frottole: la morte di Jay ha fatto
comodo a quella gente che lui stesso stava cercando di allontanare
– spacciatori e malviventi che gravitavano nel ghetto di Hollies, nel
Queens, luogo d’origine, mai abbandonato, dell’artista – e che in più
di un’occasione aveva tentato di ostacolarlo.
In qualità di produttore, Mizell aveva infatti cercato di portare
avanti artisti che, coraggiosamente, componevano testi di denuncia
nei confronti della malavita locale. Da quel tragico pomeriggio del
2002, le indagini e le ipotesi si sono accavallate e non si è mai fatta
chiarezza sull’assassinio della star dell’hip hop newyorkese.
I Run-DMC da quel momento si sono ritirati dalle scene, non prima
di pubblicare l’ultimo greatest hits introdotto da queste parole:
“Alcune rock band possono sostituire il batterista, ma per noi non c’è
maniera di esistere senza uno dei membri originali”.

Si avvicina il Natale e per Joe Strummer, leggendario fondatore dei


Clash, è tempo di tornare a casa.
Una serie di concerti in giro per il mondo con i suoi Mescaleros –
la nuova band con cui, da tempo, ha ricominciato a scrivere pagine
importanti della storia del rock – lo ha tenuto distante a lungo dalla
famiglia. Joe possiede una fattoria sulle colline inglesi del Somerset
ed è qui che ama vivere quando è lontano dai palchi.
È qui che, soprattutto, desidera non perdere le abitudini di sempre.
Il tour con i Mescaleros si è concluso un mese prima delle festività
natalizie e Strummer si sta godendo il meritato riposo con le figlie e
la moglie, ma il 22 dicembre viene colto da un malore. Il giorno della
Vigilia di Natale un malinconico lancio d’agenzia annuncia
l’improvvisa scomparsa dell’eroe del punk rock britannico.
La notizia arriva inattesa, le voci sulle cause del decesso si
rincorrono fino a quando il medico legale non scioglie ogni riserbo:
Joe Strummer è morto per un infarto il 22 dicembre; una morte che
priva il mondo della prima icona del punk rock combattente e di
quella generazione che aveva visto crollare i sogni del rock’n’roll.
Si spegne così anche la speranza di rivedere i Clash di nuovo
insieme dopo vent’anni: il quartetto londinese si sarebbe dovuto
riformare per una notte soltanto, in occasione della cerimonia
d’ingresso nella Rock and Roll Hall of Fame, per cui avevano deciso
di eseguire White Riot, il travolgente inno politico che era stato il loro
primo singolo.
Un grande tributo a Joe Strummer arriva qualche anno dopo la
morte, nel 2009, grazie al regista Julian Temple – il primo a filmare i
Clash nel 1976 e fedele amico di Strummer negli ultimi dieci anni di
vita del rocker di origini turche – attraverso il film-documentario The
Future Is Unwritten.
Il carisma di un uomo come Strummer emerge in tutta la sua
profondità, attraverso un documento prezioso fatto di interviste,
testimonianze, musica e parole. È lo stesso regista a raccontarne i
particolari attraverso il dettaglio più importante, quello del falò
attorno a cui Joe amava riunire gli amici per discutere e far nascere
nuove idee: “Il falò è uno dei temi centrali del film. Negli ultimi dieci
anni della sua vita, quando cioè ho avuto l’opportunità di conoscerlo
meglio, abbiamo spesso discusso intorno a un fuoco acceso.
Quando Joe si è trasferito nel Somerset, nella sua casa, questo
appuntamento è diventato ancora più importante per lui. Lassù sulle
colline di Quantock, un ribelle in un avamposto che nemmeno i
romani sono riusciti a conquistare”.
Le riunioni notturne vengono ribattezzate Strummerville e l’idea
del falò per Joe è diventata quasi una forma d’arte: le fiamma che
arde rappresenta idealmente l’unione delle idee di persone libere
che aspettano che arrivi l’alba.
Sulle colline del natio Somerset, proprio là dove Strummer aveva
iniziato a dar vita ai suoi specialissimi circoli, adesso c’è un cerchio
di sassi che ricordano quei momenti di aggregazione, indimenticabili
per che ha avuto la fortuna di partecipare.

Per vent’anni Howie Epstein è stato l’abile bassista della band di


Tom Petty, The Heartbreakers: un lungo periodo di successi,
intervallato da eccellenti collaborazioni come quelle con Bob Dylan,
Johnny Cash, Stevie Nicks, Roy Orbison e Warren Zevon.
Nonostante il consenso e la celebrità, gli anni della militanza negli
Heartbreakers sono stati difficili per Howie, sempre in lotta contro la
dipendenza dall’eroina, che gli ha pure causato l’allontanamento
dalla band nel 2002.

Ufficialmente, il bassista ha raccontato alla stampa che, a causa di


problemi personali, aveva preso la sofferta decisione di smetterla
con la musica. Ma presto si è venuto a sapere che, seppur a
malincuore, era stato proprio Tom Petty a depennare Epstein dalla
line-up: devastato dagli effetti della droga, incapace ormai di reggere
i ritmi di uno show dal vivo, il musicista aveva assunto
comportamenti imprevedibili, incontrollabili al punto da minare
l’equilibrio del gruppo. Si era rivelato vano ogni tentativo da parte di
Petty e degli altri compagni di aiutare il bassista, ed era ormai chiaro
che continuare a tenerlo nella band stesse diventando deleterio per
tutti.
Dopo il comunicato ufficiale della rottura tra Epstein e gli
Heartbreakers, il silenzio.
Fino al 23 febbraio del 2003: Howie muore in un ospedale di
Santa Fe, nel New Mexico. Nei giorni precedenti aveva riferito alla
sua compagna e ad alcuni amici di aver preso antibiotici per curare
un’influenza e un ascesso a una gamba e di aver avuto problemi allo
stomaco subito dopo.
Poi il ricovero d’urgenza in ospedale e la morte.
I medici della struttura spiegano ai media che l’artista
quarantasettenne è giunto in ospedale in gravi condizioni, dopo
essere stato trovato agonizzante dalla fidanzata nel bagno della sua
abitazione. Se le cause del decesso, almeno inizialmente, vengono
più o meno tenute nascoste, subito dopo ogni dubbio viene sciolto:
overdose da eroina.
Tom Petty – sconvolto per la notizia – dirà del compagno: “Per
anni è stato come avere nel cortile di casa un bellissimo albero
morente. Ma è terribile adesso affacciarsi al balcone e vedere che
quell’albero è stato abbattuto”.

Con un laconico annuncio ai media, il 21 aprile del 2003 il mondo


viene a sapere della morte di Nina Simone. Clifton Henderson,
agente della grande artista americana da anni residente nel sud
della Francia, riferisce ai media che a uccidere Nina sono state le
complicanze di un tumore al seno contro cui da tempo stava
combattendo.
Soltanto due mesi prima, la Simone aveva raggiunto il traguardo
dei settant’anni e in tanti avevano celebrato la sua arte, la sua
destrezza musicale e la sua classe cristallina, ricordando anche il
suo impegno civile contro il razzismo.
Eppure Nina Simone è rimasta, sempre e comunque, un’artista di
culto, ignorata dalla massa e adorata da una cerchia ristretta di
ammiratori.
Bambina prodigio cresciuta nel North Carolina, ha cominciato a
suonare il pianoforte molto presto, dando al tempo stesso prova di
un talento vocale sopraffino, scabrosamente profondo. Tutto ciò,
anziché lanciarla nel panorama musicale internazionale come una
diva, le ha procurato problemi: per i puristi del jazz è troppo eclettica,
per la massa troppo raffinata.

A intralciarne l’ascesa è anche la determinazione con cui inizia a


impegnarsi nelle battaglie per i diritti civili degli afroamericani. Sono
gli anni Sessanta, e Nina si schiera al fianco di Martin Luther King,
sostenendo successivamente la causa delle Black Panthers: un
affronto terribile per l’industria musicale nelle mani dei WASP (i
bianchi anglosassoni protestanti). È da qui che comincia il lungo
esilio dell’artista, un continuo peregrinare attraverso le Barbados, la
Liberia, la Gran Bretagna, il Belgio, l’Olanda e infine la Francia.
Per la musicista nera sono anni travagliati. Il suo percorso artistico
è costellato di successi, ma anche sporcato dal continuo ostracismo
di uno show biz razzista e una vita privata carica di traversie di ogni
tipo: due matrimoni, la perdita di una figlia e rapporti difficili con una
serie di uomini potenti e spesso violenti.
Nella sua autobiografia, I Put a Spell on You, sconvolge opinione
pubblica ed estimatori raccontando le violenze subite da Andrew
Stroud, marito e manager. Celebre la sua relazione travagliata con il
primo ministro delle Barbados, Earl Barrowl, e quella cominciata
negli anni Ottanta con un importante proprietario terriero liberiano,
C.C. Dennis, conclusa con l’assassinio di lui per mano di un
criminale.
Ma Nina, da grande artista qual è sempre e comunque rimasta, ha
saputo regalare performance memorabili, come in quell’ultima
apparizione in Gran Bretagna nel 2001 al Festival di Bishopstock:
nonostante l’ammissione choc di volersi esibire soltanto per soldi, è
stata accolta con enorme entusiasmo da quella parte di pubblico che
non l’ha mai dimenticata.

Un mese e mezzo prima, Omar Rodriguez-Lopez, Cedric Bixler-


Zavala e Jeremy Ward escono finalmente dallo studio con un Ep
pronto per essere pubblicato, intitolato Tremulant e prodotto da Alex
Newport. I tre ragazzi di origini sudamericane, che hanno dato vita al
progetto Mars Volta, sono soddisfatti perché con questo lavoro
hanno potuto dar libero sfogo ad ogni tipo di sperimentazione
sonora, svincolati da qualsiasi costrizione stilistica.
Difficile che passi inosservato tale pirotecnico miscuglio di generi
musicali, concentrato in soli tre brani: poco dopo, infatti, sono i Red
Hot Chili Peppers a farsi vivi per proporre al trio di far da spalla ai
loro concerti.
Omar, Cedric e Jeremy sono al settimo cielo e decidono di
rimettersi al lavoro per un album vero e proprio, da pubblicare e
promuovere prima dell’inizio del tour mondiale dei RHCP. Ma i tre
amici non smettono di fare concerti, fedeli alla necessità di proporre
la loro musica sempre dal vivo, tutto il contrario rispetto alla routine
delle band che seguono un classico percorso creativo-promozionale:
la registrazione di un disco, la pubblicazione, la tournée e poi il
riposo.
Messi sotto contratto da una grande major e prodotti da Rick
Rubin, i Mars Volta non rallentano l’attività live e si mettono al lavoro:
l’album comincia a prendere forma all’interno di un’abitazione
privata, ma la preparazione è avvolta dal mistero: pare che questo
luogo sia infestato, non si sa bene come e da cosa.
Nel maggio del 2003 – mentre la band si sta godendo qualche
giorno di pausa dal tour con i RHCP – il disco è pronto e s’intitola
DE-LOUSED IN THE COMATORIUM. Prende ispirazione dalla storia
di un artista di El Paso, Texas, un certo Julio Venegas (amico di
Bixler-Zavala). L’uomo si inietta una dose massiccia di morfina e
veleno per topi andando in overdose. Rimane in coma per una
settimana e, in quel periodo, ha la possibilità di analizzare la psiche
e il comportamento del genere umano. Risvegliatosi, non accetta
quella realtà e preferisce morire.
A pochi giorni dalla pubblicazione ufficiale, un evento tragico
scuote l’equilibrio del gruppo: Jeremy Ward, manipolatore di suoni e
autore della maggior parte dei testi, viene trovato morto nel suo
appartamento di Los Angeles.
L’autopsia effettuata sul cadavere del musicista chiarisce presto le
cause del decesso: a stroncare il ragazzo appena ventisettenne è
stata un’overdose di eroina.
La perdita della mente più sperimentale della band crea
scompiglio e sconforto: viene interrotta la tournée mondiale e
bloccata l’uscita del disco, che verrà poi pubblicato un mese dopo.
La morte di Ward ha un peso enorme sul futuro dei Mars Volta, ma
soprattutto su quello degli amici Omar e Cedric: daranno infatti un
taglio netto col passato, mettendo la parola fine alla loro dipendenza
dalle droghe pesanti.

Al Cedars-Sinai Medical Center muore Barrence Eugene Carter,


professione cantautore. Noto come Barry White e considerato una
sorta di “macchina dell’amore soul”, ha spopolato negli anni Settanta
con una formula musicale capace di coniugare in modo unico funk,
disco e soul, con una voce da basso potente e suggestiva.0
Sofferente da anni di alta pressione e di problemi circolatori, White
ha avuto una crisi renale nel 2002, un infarto nel 2003 e infine un
collasso di nuovo ai reni, che gli è fatale.
Nato a Galveston, in Texas, e cresciuto nella pericolosissima
South Central di Los Angeles, White è un ragazzino scapestrato. A
diciassette anni finisce in galera per aver rubato pneumatici per un
valore totale di 30mila dollari. Proprio mentre sta scontando la sua
pena in prigione, un episodio gli cambia la vita. Ascolta alla radio It’s
Now Or Never, la versione inglese di O sole mio cantata da Elvis
Presley.
Da quel momento capisce cosa vuol fare da grande e, uscito di
prigione, inizia a cantare, scrivere canzoni e a produrre gruppi tra i
quali le Love Unlimited, sorta di nuove Supremes.
Al fianco di Barry – la cantante del gruppo Glodean James diventa
sua moglie nel 1974 – le Love Unlimited marchiano la maggior parte
dei suoi successi che gli consentono di vendere, in carriera, oltre
cento milioni di copie.
Dopo il funerale, le ceneri di Barry White vengono sparse dai
famigliari nelle acque del Pacifico, lungo le coste del Sud California.

L’estate lituana è cominciata con temperature da record. In una zona


della capitale Vilnius, da giorni è stato allestito il set del nuovo film
diretto dalla regista francese Nadine Marquand Trintignant, la cui
protagonista femminile è la figlia quarantenne Marie, nata dal
matrimonio con l’attore Jean-Louis Trintignant.
La giovane donna è nota al grande pubblico non solo per essere
una figlia d’arte di talento, ma anche per la relazione burrascosa che
da qualche mese vive con Bertrand Cantat, leader della band
parigina Noir Désir, che da anni propone un pop rock impegnato e
cerebrale.
Proprio nei giorni delle riprese, Cantat decide di raggiungere la
sua compagna in Lituania: insieme a lei divide la suite di un lussuoso
albergo di Vilnius e proprio qui i due festeggiano l’ultimo ciak tra
fiumi di champagne.
È una notte di fine luglio, l’alcol è già in circolo e l’afa comincia ad
annebbiare le menti, quando la Trintignant riceve un messaggio sul
suo cellulare: è l’ex marito e padre dei suoi due figli che le annuncia,
in poche righe, l’esito positivo di un progetto che i due stavano
portando avanti.
Conclude il suo sms con una frase affettuosa.
Cantat, che per temperamento non è un uomo pacifico, e che con
Marie vive una relazione tormentata e spesso violenta, chiede alla
donna chi le possa aver scritto un messaggino a quell’ora di notte.
Non ricevendo risposte, le strappa con violenza il telefono dalle
mani. Letto il mittente e dopo aver continuato a fare domande senza
ricevere risposte convincenti, il cantante perde la testa e inizia a
malmenare la compagna.
Tra urla e percosse, Bertrand è in pieno delirio di gelosia e
colpisce la testa di Marie più volte, tanto che la donna perde i sensi e
cade in terra.
Resosi conto a fatica della gravità della situazione, Cantat chiama
al telefono il fratello di lei, che è in un’altra stanza dell’albergo, ma
dopo aver pronunciato frasi sconnesse, chiude la conversazione e
mette a letto la donna col viso tumefatto e ancora priva di sensi.
La chiamata al pronto soccorso viene effettuata solo alle prime luci
del mattino: Marie non risponde più ad alcuno stimolo e viene
immediatamente portata all’ospedale di Vilnius. Il referto medico
parla di coma: si tenta un salvataggio con due operazioni, ma
l’edema cerebrale ha ormai compromesso le funzioni vitali.
Marie Trintignant cade in coma irreversibile.
I famigliari decidono a questo punto di riportare in Francia la figlia
agonizzante, per permetterle di morire accanto ai propri cari.
Marie muore a soli quarantun anni pochi giorni dopo il rimpatrio, il
1° agosto.
Intanto, la posizione di Bertrand Cantat si aggrava: già denunciato
per omissione di soccorso – ha lasciato passare quattro ore prima di
chiamare un’ambulanza – da qualche giorno è rinchiuso nel carcere
di Vilnius, con una forma di detenzione preventiva fino alla metà di
agosto.
La carriera del leader degli intellettuali Noir Désir, band molto
amata in Francia, è definitivamente compromessa. Il rocker parigino
dietro le sbarre tenta di discolparsi, parlando di un tragico incidente e
sostenendo che l’emorragia è stata causata dal fatto che Marie ha
sbattuto la testa per una fatalità, dopo essere stata spintonata nella
foga.
L’autopsia gli dà torto, anche perché il volto di Marie è stato
trovato pieno di ecchimosi. Cantat dovrà così scontare anni di
detenzione in attesa dell’inevitabile processo.
Nonostante abbia chiesto perdono, la madre di Marie ha risposto
di riuscire a provare solo odio per chi ha causato una morte tanto
ingiusta.
Un nuovo dramma coinvolgerà il rocker: nel gennaio 2010, la sua
ex moglie Kristina Rady si impicca nella sua abitazione a Bordeaux.
Uscito di prigione dal 2007, Cantat si trova in casa, ma sta
dormendo.
Muore nella città della quale ha cantato il lato oscuro e trasgressivo,
uno degli autori rock di maggior spicco degli anni Settanta e Ottanta:
Warren Zevon.
“In vita mia, ho commesso un solo errore: per vent’anni, non ho
voluto farmi vedere da un medico”.
È questo il commento sarcastico rilasciato da Zevon –
cinquantasei anni – quando gli viene diagnosticata una forma
rarissima di tumore, ormai giunta a uno stadio incurabile, dello
stesso tipo che ha ucciso l’attore Steve McQueen.
Con macabro senso dell’umorismo, Warren commenta di sperare
di vivere almeno fino all’uscita del prossimo film di James Bond…
È il 30 ottobre del 2002: la CBS manda in onda il Late Show with
David Letterman e nel salotto dell’anchorman americano fa il suo
ingresso proprio Warren Zevon, pronto per affrontare una lunga
puntata dedicata interamente a lui.
Il songwriter, originario di Chicago, si accomoda sorridente,
nascondendo come sempre dietro agli occhiali semiscuri lo sguardo
beffardo. Ma si mostra al pubblico visibilmente dimagrito e le prime
parole pronunciate a Letterman lasciano la platea di stucco: i medici
hanno diagnosticato a Zevon pochi mesi di vita.
Il discorso però non è tragico e nemmeno patetico: Warren
racconta della malattia senza piangersi addosso, con intelligenza e
ironia. Il contegno di colui che era stata definito “Mr Bad Example” è
disarmante, appena può riesce persino a scherzare e i suoi
commenti divertono e inteneriscono il pubblico.
Zevon ricorda di aver preteso tutto dalla vita, dopo aver
attraversato anni difficili schiavo della bottiglia come un randagio del
rock. E adesso che la vita gli sta chiedendo il conto, sorride dicendo
semplicemente di essere pronto: “Da oggi mi godo ogni sandwich,
fino all’ultimo boccone”.
Quando David Letterman gli chiede se ha il timore di non riuscire a
portare a termine il disco che sta registrando, lui risponde con il
solito humour nero: “Mal che vada farò un Ep…”.
Il sogno di Zevon non è solo quello di finire un ultimo album, ma
quello di farlo insieme alle persone più care. E nonostante sia
consapevole di aver già perso la sua battaglia, non rinuncia a
combattere: chiama a raccolta dei vecchi amici con cui aveva
suonato negli anni (Bruce Springsteen, Jackson Browne, Don
Henley, Emmylou Harris e Tom Petty, solo per citarne alcuni) e dice:
“Uno dei motivi per cui siamo qui, e per cui mi trovo nella condizione
di non potermi lamentare della mia situazione, è che mi è sempre
piaciuto scrivere di morte. Sapete, Hemingway diceva che tutte le
buone storie finiscono con la morte”.
Fa in tempo a incidere il suo testamento in musica: le registrazioni
di THE WIND durano tre mesi, ma giunto allo stremo delle forze,
nella sua camera da letto, registra il brano che chiude l’album, Keep
Me In Your Heart.
Prima di morire, fa in tempo a vedere pubblicato quest’ultimo
lavoro e anche ad assistere alla nascita dei suoi due nipotini.
Il 7 settembre del 2003 se ne va cantando così: “Quando starai
facendo qualcosa di semplice in casa, magari penserai a me e
sorriderai, sai che sono legato a te come i bottoni di una blusa.
Tienimi nel tuo cuore per un po’”.
Dopo la sua morte, alcuni artisti amici – tra cui personaggi
leggendari come Bruce Springsteen e Bob Dylan – gli dedicheranno
un album tributo dal titolo ENJOY EVERY SANDWICH.

Gravemente malato di diabete, dopo ulteriori e gravi complicazioni,


muore all’età di settantun anni la leggenda del rock e della musica
country Johnny Ray Cash.
Al suo capezzale, i due figli artisti, Rosanne e John, gli altri tre
eredi, i tanti nipoti e tutti i parenti.
Per desiderio della famiglia, la cerimonia funebre rimane privata.
Così, neanche quattro mesi dopo, Johnny può “riabbracciare”
l’amata moglie e partner artistica June Carter, spentasi il 15 maggio
del 2003.
Pochi giorni prima era riuscito a vincere l’ultima sfida musicale,
durante la notte degli MTV Video Music Awards a New York,
sbaragliando la concorrenza di giovani talenti, grazie al suo ultimo
clip per Hurt, in cui appariva anche June.
Johnny Cash non si era presentato alla manifestazione: era
ricoverato in una stanza del Baptist Hospital di Nashville a causa di
una pancreatite. La sua assenza al Radio City Music Hall aveva fatto
sentire ancora più forte la vicinanza e l’amore di tutto il popolo della
folk music americana. Subito dopo il conferimento del premio, Cash
era rientrato nella classifica americana con AMERICAN IV: THE
MAN COMES AROUND, il suo ultimo album.
Le successive dimissioni dall’ospedale sembravano il presagio di
una guarigione mai avvenuta. Dopo la morte della moglie, cui era
legato dal 1968, Cash era molto provato a causa del diabete che lo
affliggeva da tempo. Nonostante ciò aveva continuato a lavorare al
suo ultimo disco, così come aveva dichiarato ai media il manager
Lou Robin: i brani che stava registrando prima di morire erano stati
scritti dalla moglie June, la donna che lo aveva salvato dal baratro
della tossicodipendenza e da una vita tanto sregolata da portarlo in
carcere e a un passo dalla morte per un collasso cardiaco nel 1967.

Il loro primo incontro era avvenuto sul palcoscenico del Grand Ole
Opry di Nashville. Ben presto era seguita la proposta di matrimonio,
fatta da Cash nel backstage di un concerto in una cittadina
canadese, ricambiata da una memorabile dichiarazione d’amore in
musica: quella Ring Of Fire che June aveva scritto per Johnny e che
era diventata uno dei suoi più grandi successi (“Love is a burning
thing and it makes a fiery ring, bound by wild desire. I fell into a ring
of fire”).
Figlio di un modesto agricoltore dell’Arkansas, Cash ha cominciato
a cantare da piccolissimo, nei campi di cotone. Nel giro di quindici
anni, incide per la Sun Records di Sam Phillips, suona nelle prigioni,
si sposa due volte, conduce uno show televisivo di straordinario
successo, vive costantemente sulla corsia di sorpasso, diventa
un’icona assoluta della musica e della cultura nordamericana.
Strenuo difensore dei più deboli, nonché paladino dei diritti dei
nativi americani, Johnny Cash in segno di lutto e di protesta contro la
povertà, i pregiudizi razziali e tutti mali della società americana
decide di vestirsi di nero finché, dice lui, “le cose non cambieranno”.
Le cose non cambiano e così Johnny diventa “the man in black”,
incide oltre 1.500 canzoni, vende cento milioni di dischi, vince undici
Grammy, va in classifica con quarantotto singoli e uno dei suoi pezzi
più famosi (I Walk The Line) viene registrato da più di cento artisti
diversi.
Alla fine degli anni Novanta, il celebre produttore Rick Rubin lo
riporta in sala d’incisione per una serie di album scarni, interamente
acustici e di grandissimo impatto emotivo. Sotto l’abile guida di
Rubin, Cash ripropone alcuni suoi grandi classici, ma anche originali
versioni di rocksong epocali. Come la citata Hurt, un brano dei Nine
Inch Nails per il quale viene realizzato quel suggestivo videoclip che
gli vale l’ultimo riconoscimento pubblico e che sembra davvero
l’epitaffio artistico dell’“uomo in nero”.

Ore una e trentasei minuti: il primario del Medical Centre della Los
Angeles County University dichiara ufficialmente la morte di Steven
Paul “Elliott” Smith, cantautore di culto, nato trentaquattro anni fa a
Omaha, Nebraska.
Un’ora prima, la sua fidanzata Jennifer Chiba, dopo aver litigato
con lui, si era chiusa a chiave nel bagno del loro appartamento di
Silver Lake.
Nel giro di pochi minuti, sente un urlo lancinante.
Uscita dal bagno, trova Elliott in ginocchio con un grosso coltello
da cucina piantato nel petto. Glielo estrae con forza, ma ormai è
troppo tardi: Elliott Smith crolla a terra.
Dopo aver chiamato il 911, Jennifer trova sul tavolo un post-it con
una piccola nota, che dice: “Che Dio mi perdoni. Mi dispiace. Con
amore, Elliott”. Il ritrovamento del biglietto, unito alla meccanica
dell’accoltellamento e alle dichiarazioni di Jennifer Chiba, portano gli
inquirenti a formalizzare l’ipotesi del suicidio.
L’esame autoptico, effettuato il giorno successivo ma reso
pubblico solo un paio di mesi dopo, conferma che non c’erano tracce
di droga o alcol nel sangue di Smith: soltanto farmaci antidepressivi,
per altro in quantità media. Eppure, il referto medico non esclude la
possibilità che Smith sia stato assassinato. Anche per questo,
qualche giornalista prova a indagare, pensando, più che a un
omicidio premeditato, a un atto di violenza occasionale.
L’inchiesta viene però chiusa in breve tempo, anche se il caso
Elliott Smith non viene ufficialmente archiviato come “suicidio”.
Già poche ore dopo la morte, centinaia di appassionati si ritrovano
fuori dagli studi Solutions Audio, sul Sunset Boulevard – lo stesso
luogo immortalato sulla copertina dell’ultimo album di Smith,
FIGURE 8 – mentre dai Travis a Graham Nash, da Ben Affleck a
Gus Van Sant, sono decine le celebrità del mondo della musica e
dello spettacolo che rilasciano dichiarazioni sgomente sull’accaduto,
mostrando grande affetto ed enorme stima per l’arte di Elliott Smith.

John Whitehead è un distinto signore afroamericano


cinquantacinquenne, fa il produttore discografico e abita a
Philadelphia. In tanti ricordano Mr Whitehead per essere stato una
star dell’R’n’B e del soul americano negli anni Settanta, quando in
coppia con Gene McFadden furoreggiava ovunque con Ain’t No
Stoppin’ Us Now, trascinante hit da classifica.
La mattina dell’11 maggio del 2004, l’ex cantante prende la sua
auto in compagnia del nipote, quando un guasto improvviso blocca i
due appena fuori città. Decidono di fermarsi in una zona di sosta per
provare a capire cos’abbia impedito al mezzo di andare avanti:
Whitehead si appresta a ispezionare gli ingranaggi dell’auto, mentre
il nipote è girato di spalle alla strada.
A un tratto, un’altra macchina sfreccia proprio dove sono fermi i
due e accosta: dentro vi sono due uomini armati, che fanno fuoco
proprio in direzione del musicista e del ragazzo. Il primo viene ferito
al collo e cade in terra, l’altro è colpito alle spalle.
I due malviventi riescono a fuggire immediatamente: non ci sono
testimoni oculari, ma solo alcune persone di passaggio che trovano i
due uomini in terra e avvertono la polizia locale. Per Whitehead non
c’è nulla da fare, mentre il nipote viene portato in ospedale (ma non
è in pericolo di vita).
A distanza di giorni dalla tragedia, gli investigatori non riescono a
identificare né i due assassini, né un movente: si ipotizza un
regolamento di conti per questioni economiche, ma la famiglia del
musicista smentisce seccamente.
Dawn Whitehead, figlio trentenne di John, dichiara: “Avevo parlato
con lui proprio ieri, era sereno. Non riesco a capire chi abbia potuto
volere la morte di mio padre. Era una persona divertente e perbene”.
Gli assassini ancor oggi non hanno un volto, così come senza
motivo appare la morte di John Whitehead.

Nella sua villa muore all’età di settantaquattro anni Ray Charles


Robinson, noto a tutti semplicemente come Ray Charles, o The
Genius, il genio della musica.

Un tumore al fegato priva il mondo dell’arte naturale e del talento


supremo di uno dei più eccezionali musicisti del ventesimo secolo.
Al suo fianco, sul letto di morte, la devotissima e storica fidanzata
Norma Pinella, che ha condiviso con Ray tanti momenti di vita
professionale e privata.
Personaggio dalle doti artistiche incommensurabili, Brother Ray è
stato un essere umano piuttosto difficile. Irascibile e violento, Mr
Charles – cieco dall’età di sette anni – è stato a lungo vittima
dell’eroina e di una sfrenata, inarrestabile passione per il sesso.
Sposato due volte, ha avuto dodici figli da nove donne diverse, oltre
ad essersi divertito con centinaia di amanti sparse per tutto il
pianeta.
Prima di morire, però, ha lasciato a ciascuno dei dodici figli un
milione di dollari (al netto delle tasse) in eredità.
Sino all’ultimo giorno di vita, ha voluto collaborare con Taylor
Hack-ford, regista del film biografico Ray, uscito pochi mesi dopo la
morte. Proprio Hackford ha fatto sì che Ray incontrasse Jamie Foxx,
l’attore che lo impersona nel film. Dopo essere stati per due ore
seduti al pianoforte a cantare e a suonare insieme, Charles si è
alzato, ha abbracciato forte Foxx e ha urlato ad Hackford: “Lui è
quello giusto. Sarà Jamie a impersonarmi nel tuo film”.
Per la performance in Ray, Jamie Foxx nel 2005 ha vinto l’Oscar
come miglior attore. Sempre nel 2005, l’edizione del Grammy è stata
dedicata a Ray Charles, mentre nel 2007, nella sua cittadina natale
di Albany, in Georgia, è stata eretta una statua di bronzo, rotante e
illuminata, con The Genius seduto al pianoforte.

Dopo la violenta burrasca che aveva visto affondare nel 2003 i


Pantera, band fondata vent’anni prima con il fratello Vinnie Paul, per
Dimebag Darrell è tempo di rivincita.
Il 2004 è un anno importante: lasciatosi alle spalle le battaglie
verbali e legali contro gli ex compagni, il chitarrista, fra i più
innovativi e celebri di tutto il circuito heavy metal, fonda i
Damageplan. Con il nuovo gruppo firma un album dalla tinte forti –
NEW FOUND POWER, subito tra le prime posizioni della classifica
americana – e parte per una tournée promozionale. Tutto sembra
girare per il verso giusto, ma proprio durante una serata del tour
all’Alrosa Villa di Columbus, in Ohio, per Dimebag arriva la fine
inaspettata.
Il chitarrista è sul palco con gli altri musicisti, quando dalla platea,
nelle cui prime file è presente il fratello Vinnie, un uomo armato di
pistola raggiunge il retro del palco e riesce a salirvi. Si chiama
Nathan Gale, è un ex militare, schizofrenico, fanatico dei Pantera.
Gale comincia a sparare all’impazzata sulla band. Dimebag viene
raggiunto da cinque colpi, due dei quali sulla testa. Cade in terra.
Due uomini della security si avventano su Gale per tentare di
fermare la sua furia assassina, ma vengono colpiti a morte. Non
pago, l’uomo prende in ostaggio il tecnico del suono John Brooks,
immobilizzandolo dopo una breve colluttazione.

Nel frattempo, un ragazzo del pubblico e un’infermiera, chiamata


immediatamente dal servizio d’ordine, cercano di prestare soccorso
a Dimebag, che giace sanguinante accanto alla sua chitarra: gli
viene praticata la respirazione bocca a bocca proprio mentre dalla
pistola di Gale parte un altro colpo che fredda il giovane soccorritore.
La situazione è fuori controllo, nonostante la presenza delle forze
dell’ordine: quando Brooks, che è ancora con una pistola puntata
contro, riesce a distrarre Gale con una mossa perentoria, un
poliziotto del distretto di Co lum bus ne approfitta per sparare senza
esitazione allo squilibrato, uccidendolo sul colpo. La conclusione
della sparatoria è tragica: il chitarrista e idolo delle folle heavy metal
è morto, e con lui altre quattro persone.
I funerali di Dimebag Darrell si svolgono pochi giorni dopo, in un
clima teso e commosso: tanti gli artisti vicini alla rockstar, come
Eddie Van Halen, che dopo un assolo suonato durante la cerimonia
va a riporre una chitarra griffata “Kiss” nella bara del collega.
Sul movente dell’assassinio le ipotesi sono tante: quella più
accreditata è la schizofrenia di cui Gale soffriva da tempo e a causa
della quale l’uomo s’era immaginato che Darrell avesse plagiato
alcune canzoni scritte da lui, dunque per questo avrebbe meritato di
morire.
Il prezzo da pagare per vivere una vita da rockstar è sempre
troppo altro.

Sono le due e mezzo del pomeriggio.


In una stanza della clinica di Harley Street, assistito dalla moglie
brasiliana Aninha e dalle figlie Tabitha e Tallulah, muore Jim Capaldi,
batterista della rock band Traffic, autore di parecchi successi del
gruppo di Birmingham, nonché amico e stretto collaboratore di Bob
Marley ai tempi di CATCH A FIRE.
Malato da tempo di cancro allo stomaco, Capaldi aveva
sessant’anni.
Poche ore dopo la morte, Stevie Winwood – l’anima dei Traffic –
rilascia questa dichiarazione: “Ho perduto l’amico di una vita, il
mondo è stato privato di un grande poeta, autore e musicista. Sono
orgoglioso di essere stato suo partner artistico e di aver scritto
insieme a Jim tanti pezzi dei Traffic”.
“È stato uno dei compositori più brillanti e prolifici della sua
generazione”, ha commentato il suo vecchio amico e personal
manager John Taylor.
Figlio di immigrati italiani, Jim Capaldi sin da ragazzino coltiva la
passione per la musica: prima il pianoforte, poi la batteria. Ma con in
mente, sempre, l’idea di scrivere canzoni. Prima di incontrare Stevie
Winwood all’Elbow Room di Birmingham e di formare – con lui, Chris
Wood e Dave Mason – i Traffic, Capaldi aveva spesso al suo fianco
un chitarrista d’eccezione: Jimi Hendrix.
Il 21 gennaio del 2007, alla Round house di Camden Town a
Londra, un gruppo di rockstar si riunisce per un tributo a Jim
Capaldi: intitolata Dear Mr Fantasy, come uno dei brani più celebri
dei Traffic, la serata vedrà la partecipazione di Stevie Winwood, Cat
Stevens, Pete Townshend, Paul Weller.

La spiaggia di Elwood è un piccolo paradiso a pochi passi da


Melbourne: sabbia a perdita d’occhio e prati verdi alle spalle, il posto
ideale per trovare un po’ di pace dopo anni spesi a girare il mondo
su e giù da un palco.
È qui che Paul Hester, ex batterista dei Crowded House, ha deciso
di aprire una “casa del tè” e riposarsi, dopo un’onesta carriera con
una delle rock band australiane più apprezzate degli anni Ottanta –
con cui ha firmato pezzi celebri come Don’t Dream It’s Over.
Tra un’ospitata in tv e una collaborazione con musicisti amici,
Hester passa la maggior parte del suo tempo sulla spiaggia a
portare avanti la sua attività: ha quarantasei anni, un matrimonio
fallito alle spalle, due figlie quasi adolescenti e una nuova
compagna.
Sembrano essere anni sereni per il batterista, invece nessuno sa
che Hester è vittima del male oscuro, una forma di depressione che
lo affligge da tempo.
Lui, come tanti personaggi famosi, sa come mascherare al
pubblico le sue fragilità.
Nella notte tra il 25 e il 26 marzo del 2005, Paul non si trova sulla
spiaggia di Elwood, ma nella sua abitazione di Melbourne con la
famiglia. Paul è probabilmente all’apice del suo stato depressivo,
quando decide di prendere i suoi due cani e uscire per una
passeggiata notturna, forse per trovare un po’ di pace nel suo animo
tormentato, nonostante le temperature della primavera australiana
siano particolarmente rigide.
Passano le ore, ma Hester non fa ritorno a casa e di lui si perdono
le tracce. È mattino inoltrato quando il batterista viene ritrovato dalla
polizia e da alcuni soccorritori nel parco di Elsternwick, un sobborgo
di Melbourne.
L’immagine che si ritrovano davanti è agghiacciante: Hester è
appeso a un albero con una corda stretta attorno al collo, privo di
vita.
In un primo momento gli inquirenti non riescono a chiarire con
certezza se si tratti di un suicidio vero e proprio, ma è la compagna
dell’artista Mardi Sommerfield a sciogliere ogni dubbio, rivelando a
tutti la depressione violenta che ha condotto Hester a farla finita.
Il cantante dei Crowded House, Neil Finn, intervistato poche ore
dopo aver ricevuto la notizia della morte dell’amico Paul, commenta:
“Sono sconvolto. Ho perso uno dei miei amici più cari, uno dei
migliori batteristi mai incontrati”.

Stavolta, purtroppo, ha fatto sul serio.


Non come qualche anno fa – nel gennaio del 2000 – quando si
diffonde la voce della sua morte. Con notevole sense of humour,
quella sera stessa Chet decide di inscenare la propria resurrezione.
Noleggia un carro funebre e una bara e ingaggia come becchini
alcuni amici, tra i quali il pittoresco Wavy Gravy.
La “salma” viene trasportata al Gold Coast Restaurant dove è
stato organizzato il party prima del funerale. Chet è sdraiato dentro
la bara, tra pizzi e fiori. Sul suo petto un telefono cellulare. Che si
mette a suonare dopo pochi secondi: Chet lo prende in mano,
risponde e salta fuori dal sarcofago. E, tra la sorpresa di tutti, brinda
con gli amici presenti.
Il 25 giugno 2005, però, il cellulare non ha suonato.
E il cuore generoso di Chet Helms ha smesso di battere.
L’uomo che ha inventato la scena musicale psichedelica, portato
dal Texas in California Janis Joplin e dato vita a quell’incredibile
rivoluzione artistico-culturale nota come summer of love, è spirato al
California Pacific Medical Center di San Francisco circondato da
parenti e amici.
La sua ultima moglie, Judy Davis, presente nel momento
dell’addio, ha così commentato: “Chet è morto come ha vissuto:
circondato dall’amore”.
Nato a Santa Maria, California, nel 1942, Chester Leo Helms ha
passato la sua adolescenza prima nel Missouri e poi in Texas,
facendosi le ossa come organizzatore di eventi.
All’Università di Austin ha conosciuto una ragazzina bianca che
cantava folk e blues in modo prodigioso, Janis Joplin. Nel 1962,
Chet e Janis viaggiano insieme in autostop dal Texas a San
Francisco.
Ma Janis, nei club di North Beach, non raccoglie il successo che
merita e, dopo un po’, ritorna in Texas.
Chet, invece, coglie immediatamente le nuove vibrazioni che
scuotono la Città della Baia. E inizia a organizzare concerti ed eventi
rock. Crea la Avalon Ballroom, il locale più amato dagli hippie e, più
in generale, da tutti i cultori di rock. Inoltre, diventa manager di
numerosi gruppi.
“Non ci fosse stato Chet”, ha dichiarato un commosso Mickey
Hart, batterista dei Grateful Dead, “non sarebbe esistita la scena
musicale di San Francisco”.

“Chet non era esattamente un promoter”, ha detto di lui Jerilyn


Brandelius, sua assistente per trent’anni, “lui sosteneva la musica e
le arti. L’idea di far pagare un biglietto di ingresso ai suoi eventi lo
faceva star male”.
Spazzato via dalla concorrenza di Bill Graham, potente impresario
rock – suo socio prima, ma acerrimo nemico poi – Chet e la sua
Family Dog si ritirano dal business dei concerti nel 1970. Ma tutti, dai
Beatles a James Brown, da CSN&Y a Paul Butterfield, hanno un
debito nei suoi confronti.
Barba bianca e capelli lunghi, negli ultimi anni Chet Helms è
diventato un’i cona assoluta della città di San Francisco e di tutta la
comunità rock internazionale. Amato da musicisti di ogni
generazione, venerato dai giovani neohippie che sembravano i suoi
nipotini, Chet si è fatto benvolere da chiunque abbia avuto contatto
con lui.
“Chet era una persona dolce, disponibile e generosa”, ha scritto
Joel Selvin del «San Francisco Chronicle», “un sognatore capace di
realizzare i sogni di un’intera generazione”.

È la sera di martedì 11 aprile, il CCC Club di Detroit – nei pressi


della 8 Mile Road – è come sempre affollatissimo e, come spesso
accade, lì fa il suo ingresso uno dei personaggi più influenti della
scena hip hop americana.
È il fondatore dei Dirty Dozen, o D12: si chiama Deshaun Holton –
ma da tutti è conosciuto come Proof – ed è il miglior amico di un’altra
star sregolata come Eminem.
L’artista trentenne, che da circa un anno ha pubblicato il primo
album da solista intitolato SEARCHING FOR JERRY GARCIA,
s’addentra nel locale in compagnia di un amico e raggiunge una sala
con le tavole da biliardo per cominciare a giocare.
Con in mano un boccale pieno di birra, Holton prende posizione
insieme agli altri uomini, per dar vita a quella che, sulle prime,
sembra essere una tranquilla partita di biliardo.
Qualcosa però va storto, tanto che tra Proof e uno dei giocatori
scoppia una discussione animata: iniziano a volare parole pesanti e
l’alterco degenera in una vera e propria rissa. Il rapper è inferocito e
si scaglia contro il suo avversario, scaraventandolo in terra; non
pago, estrae da una tasca della sua giacca una pistola e gli spara a
sangue freddo un colpo alla testa.
In pochi istanti si consuma una vera tragedia: sentito lo sparo, il
buttafuori del locale si precipita in difesa dell’uomo ferito gravemente
che, tra l’altro, è suo cugino, e risponde con altrettanta violenza.
Quattro colpi di pistola colpiscono Proof, due al torace e altri due alla
testa.
I clienti del club intanto hanno chiamato i soccorsi, che arrivano e
portano via i due feriti in ambulanza. Ma proprio nel tragitto verso il
St John Hospital, Holton muore, mentre l’altro vi arriva in condizioni
disperate.
La polizia, intanto, giunge sul luogo della tragedia: i responsabili
del delitto se la sono data a gambe. Viene anche ritrovata l’arma
usata dal rapper afroamericano, regolarmente registrata.
Eminem, raggiunto dalla notizia della morte dell’amico, suo
testimone di nozze, si lascia andare a una dichiarazione piena di
dolore e soprattutto di affetto: “Senza Proof, non esisterebbe Slim
Sha dy. Lui mi ha insegnato a credere in me stesso, quando ancora
non avevo gli strumenti per farlo”.
L’omicidio dell’ex leader dei D12 è solo uno dei tanti che hanno
scosso il circuito rap, tristemente avvezzo a fatti del genere.
Per una beffa del destino, nel video di Like Toy Soldiers, brano in
cui Eminem si scaglia contro le faide del mondo hip hop, Proof recita
il ruolo della vittima di un agguato. Nel clip Eminem si mostra
preoccupato in una sala d’attesa di un ospedale e poi disperato al
funerale. Una macabra coincidenza.

È il 6 gennaio del 2006. Roger Keith, da tutti chiamato


semplicemente Syd, compie sessant’anni: una tappa di vita
importante, festeggiata insieme ai fratelli Alan e Rosemary, tra le
mura della casa di Cambridge.
Questo però non è il compleanno di un uomo comune, ma di
qualcuno che trent’anni prima ha dato vita a una delle realtà musicali
più importanti del secolo: i Pink Floyd.
Il ricordo di quel periodo incredibile però è stato risucchiato
dall’oblio in cui è precipitata la sua mente. Syd Barrett era bello e
maledettamente creativo: dentro alle camicie a fiori che indossava e
a quel paio di occhi scuri e profondi, nascondeva un talento
straordinario, che troppo spesso però alterava assumendo ogni tipo
di sostanza allucinogena.
Gli amici lo avevano ribattezzato “Mad cap”. Eppure “testa matta”
era in grado di scrivere brani talmente stralunati da polverizzare
qualsiasi schema compositivo. In un istante, però, era riuscito ad
ascendere al firmamento del rock e a disintegrarsi letteralmente.
I suoi comportamenti sul palco avevano cominciato presto a
imbarazzare i compagni: così capitava spesso che, mentre il resto
della band suonava un pezzo, Syd si andasse a sedere vicino a un
amplificatore, scordasse completamente la chitarra e se ne stesse
per tutta la durata del concerto fermo a raschiare il plettro su una
nota.
Con la visionaria Vegetable Man, composta in uno dei suoi deliri
da Lsd, Syd aveva dato l’inconfutabile prova di essere giunto a un
punto di non ritorno.
Il produttore dei Floyd, Joe Boyd, era stato fra i primi a rendersi
conto che nella testa di Syd qualcosa era stato compromesso per
sempre: “Quando mi guardava, i suoi occhi non mostravano un
singolo battito di ciglia e il suo sguardo non tradiva il benché minimo
accenno di vitalità, come se non ci fosse nessuno a casa”.
I compagni Roger Waters, Rick Wright e Nick Mason, legati a
Barrett da grande affetto, sono costretti ad allontanarlo e pian piano
a rimpiazzarlo con il giovane chitarrista e amico di Syd, David
Gilmour.
Il suo declino umano e artistico si è consumato in modo talmente
violento da lasciare solchi profondi nelle vite dei suoi partner artistici,
soprattutto in quella dell’amico Roger Waters, che per lui, nel 1975,
scrive uno dei capolavori della carriera del gruppo, Shine On You
Crazy Diamond.
Syd Barrett chiude la sua avventura con i Floyd nel 1968 e di lì a
poco anche la sua carriera: una progressiva perdita di equilibrio
psicofisico riduce la stella del rock psichedelico a un uomo gonfio e
smemorato, chiuso in un inquietante mutismo. Lontano dai riflettori,
Madcap è accolto con amore in casa della sorella Rosemary a
Cambridge, dov’è nato.
Durante questi anni, sentir parlare dei Pink Floyd manda Syd in
depressione per intere settimane e per questo Rosemary cerca a
tutti i costi di proteggerlo da qualsiasi contatto con gli ex compagni,
nonostante questi lo cerchino discretamente in più di un’occasione.
L’unico incontro con loro avviene nel 1975, negli studi Abbey
Road: un vero shock ritrovarsi davanti un uomo ingrassato, con lo
sguardo perso e la testa rasata. Meglio vivere in un’apparente
normalità: Syd passa i suoi giorni recluso in casa, seduto dietro a
una finestra murata a fissare la porta posteriore, o impegnato a
curare le sue piante: pochi contatti e uscite, tranne che per
l’incursione quotidiana in tabaccheria.
Fino al suo ultimo compleanno nel 2006: i sessant’anni del
Diamante Pazzo vengono festeggiati nel silenzio, anche perché si
dice che Syd abbia subìto un radicale aggravarsi del suo malessere
psicofisico a causa del diabete e delle ulcere gastriche di cui soffre
da tempo. Le fotografie che i paparazzi inglesi riescono a scattargli
lo mostrano dimagrito in modo impressionante.
Nel luglio dello stesso anno, gli viene diagnosticata una forma di
cancro allo stomaco particolarmente aggressiva e viene ricoverato
all’Addenbrooke Hospital di Cambridge.
Per i medici, non c’è più nulla da fare.
Il fratello Alan, che intrattiene rapporti con i media, riferisce che a
Syd restano poche settimane di vita, ma che sembra abbia accettato
serenamente la fine.
Madcap – imbottito di sedativi – fa intendere di voler tornare
nell’anonima villetta di St Margaret’s Square, e il 4 luglio il suo
desiderio viene esaudito: viene dimesso e torna nella sua casa,
assistito da alcuni infermieri giorno e notte.
Le sue condizioni restano stazionarie fino alla torrida sera del 7
luglio, quando si verifica un peggioramento improvviso: Barrett cade
in un sonno profondo che si prolunga per l’eternità.
Per gli ex compagni dei Pink Floyd è un momento estremamente
doloroso: “Syd è stato il faro che ha illuminato i primi anni del nostro
gruppo. Lascia un’eredità che continua a dare i suoi frutti”.
Nonostante la morte, il Diamante Pazzo continua a splendere.

Il 12 dicembre 2001, dalla Pleasant Valley State Prison, esce uno dei
detenuti più celebri.
È un afroamericano, ha cinquantasei anni. Si chiama Arthur Lee e,
nei favolosi Sixties, era il frontman della rock band psichedelica dei
Love, uno dei gruppi cult della scena hippie di Los Angeles e
dintorni.
Nell’autunno del 1996 è stato condannato a dodici anni per
possesso illegale di armi da fuoco. E non è la prima volta che si
trova nei guai. A fine anni Ottanta era finito dentro un paio di volte:
per atti violenti, ma anche per possesso e spaccio di stupefacenti.
Insomma, per la polizia di Los Angeles, Arthur Lee è una specie di
“osservato speciale”. Così, questa volta, la Corte è particolarmente
severa.
In carcere, non rilascia interviste né dichiarazioni. Evita persino le
visite. La sua “buona condotta”, però, gli vale una cospicua riduzione
della pena. Dei dodici anni previsti, Lee ne sconta poco meno di sei.
E anche se, mentre è in carcere, scompaiono due dei suoi amici
dei Love – il chitarrista e cantante Bryan MacLean e il bassista
Kenny Forssi – quando esce di prigione Arthur Lee ridà vita al
leggendario sodalizio degli anni Sessanta. Addirittura, ripropone in
concerto la track list dell’album più acclamato, quel FOREVER
CHANGES che è considerato dalla critica una pietra miliare del rock
psichedelico.
Nell’aprile del 2006 gli viene diagnosticata una grave forma di
leucemia. Meno di cinque mesi dopo, il 3 agosto del 2006, a
Memphis, Arthur Lee muore.
Al suo fianco, sino all’ultimo respiro, l’amatissima moglie Diane.
Ha fatto del rock la sua vita e proprio il rock gliel’ha tolta.
Per Ahmet Ertegun, produttore discografico di origini turche e
celebre fondatore nel 1947 della Atlantic Records, la morte è arrivata
a due mesi di distanza da quell’accidentale caduta al Beacon
Theatre di New York, il 28 ottobre del 2006.
Nonostante i suoi ottantatré anni, aveva voluto recarsi al concerto
dei Rolling Stones, ma inciampando bruscamente sulle scale aveva
battuto la testa, perdendo conoscenza. Era stato trasportato
d’urgenza in ospedale ma, dopo settimane di coma a causa di un
ematoma cerebrale, il vecchio Ertegun si era spento assistito dai
suoi famigliari.

Il mondo discografico aveva appena perso un’icona: a lui infatti si


deve la scoperta e il lancio di artisti come Crosby, Still e Nash e di
band come AC/DC e Led Zeppelin. Questi ultimi decideranno, per
onorarne la memoria, di rimettersi assieme per una sera, nel
dicembre 2007.
Protagonista fino all’ultimo, James Brown se n’è andato per sempre
il giorno di Natale, pronunciando una frase che solo un uomo del suo
carisma, abituato a stupire il pubblico, poteva proferire in punto di
morte: “Me ne vado”.
Il padrino del soul ha chiuso gli occhi in una stanza dell’Emory
Crawford Hospital di Atlanta, dov’era stato ricoverato la Vigilia di
Natale, a causa del peggioramento di una polmonite acuta. Il suo
vecchio amico Charles Bobbit gli è stato vicino fino all’ultimo ed è a
lui che il celebre James ha rivolto quell’ultima frase.
Bobbit riferisce che Brown è spirato molto dolcemente, si è
allungato sul letto, ha sospirato flebilmente tre volte, poi ha chiuso gli
occhi per sempre.
Il re incontrastato della scena soul e funk, diventato famoso per un
talento vocale travolgente e profondamente nero, ma anche per il
temperamento vulcanico da showman di razza, solo qualche mese
prima della morte si era ripreso da un tumore alla prostata, dopo
essersi sottoposto alle cure con grande forza: “Ho superato molte
cose nella mia vita. Supererò anche questa al meglio”.
James riesce infatti a guarire, e per l’occasione riprende perfino le
scorribande sui palchi americani. Solo qualche mese dopo, però, la
salute del vecchio leone del soul riprende a scricchiolare e – durante
il mese di dicembre del 2006 – è costretto a interrompere il tour per
l’intensificarsi di alcuni dolori diffusi.
Nonostante ciò, la star vuol presenziare ad ogni costo a una
manifestazione di beneficenza il 21 dicembre, senza interrompere le
prove per il grande concerto previsto per capodanno al B.B. King
Blues Club and Grill di New York.
Ma il giorno della Vigilia è una polmonite a fermarlo bruscamente:
la forma della malattia è feroce, tanto che il cantante viene ricoverato
d’urgenza in ospedale ad Atlanta. In poche ore è il cuore a cedere:
un’insufficienza cardiocircolatoria pone fine all’esistenza travagliata
di James Brown.
L’indimenticabile reverendo Cleophus James (ruolo che JB ha
interpretato nel cult movie di John Landis, The Blues Brothers, e che
gli ha dato rinnovata notorietà nel 1980) che aveva abituato tutti a
colpi di scena, spesso fingendo svenimenti e mancamenti per poi
riapparire sul palco con un’energia straordinaria, questa volta ha
fatto sul serio ed è uscito di scena senza effetti speciali.
La salma di Brown viene esposta subito dopo all’Apollo Theatre,
per essere poi inumata ad Augusta, città dove il “Godfather Of Soul”
era nato.

Ike Turner muore a settantasei anni qualche giorno prima di Natale,


nella sua casa di San Marcos, vicino a San Diego. A diffondere la
notizia è il manager del celebre ex marito violento di Tina Turner,
formidabile talent scout nonché pioniere dell’R’n’B americano.
Il medico legale, incaricato di effettuare l’autopsia sul cadavere del
musicista, riferisce che Turner è deceduto in seguito a un enfisema
polmonare con conseguente ipertensione vascolare. Il referto
dell’anatomo-patologo però è chiaro: questi sono due fattori
significativi di un decesso per overdose di cocaina.
Ed è così che su Ike Turner tornano le ombre di un passato
torbido: alla fine degli anni Ottanta, a dieci anni dal drammatico
divorzio da Tina, il suo nome viene sbattuto sulle prime pagine della
cronaca nera, in seguito all’arresto per detenzione e spaccio di
stupefacenti. Condannato nel 1991 a diciassette mesi di reclusione,
Ike non può infatti presenziare alla cerimonia d’ingresso nella Rock
and Roll Hall of Fame accanto all’ex moglie, occasione in cui tutti
avrebbero voluto di rivedere Ike e Tina di nuovo insieme su un palco.

E proprio a Tina si rivolgono immediatamente i pensieri di tanti il


giorno della morte di Turner, il 12 dicembre del 2007, ma non giunge
alcuna reazione da parte della star afroamericana, che si limita solo
a far sapere, tramite un suo portavoce, che con il marito non aveva
contatti dal giorno del divorzio.
Ike Turner non è stato certo un marito fedele e rispettoso,
nonostante abbia permesso a quella donna dal talento esplosivo di
entrare dalla porta principale nel mondo R’n’B già dai primi anni
Sessanta.
Il loro amore è un autentico colpo di fulmine, cui fa seguito il
matrimonio nel 1958. Amore, passione e talento sono alla base del
successo: riescono infatti a piazzare diversi brani in classifica, e con
River Deep, Mountain High la coppia raggiunge la consacrazione
internazionale, grazie anche alla produzione di Phil Spector. Ma Ike,
oltre ad essere musicista di razza, scopritore di talenti e artista dal
fiuto eccezionale, è un uomo debole: l’abuso di alcol, psicofarmaci e
droghe rovina pian piano il rapporto con la moglie, vittima di continue
violenze e tradimenti.
Alla fine Tina lo lascia, e – dopo la separazione – la sua carriera
subisce un’impennata straordinaria, mentre l’immagine di Ike e la
sua ispirazione vengono compromesse: da solo si perde e incide
una serie di album che vengono ignorati. Dopo l’arresto del ’91, la
rinascita artistica: torna al blues, radice primaria della sua musica,
ritrovando stimoli e qualità.
Nel 2001, il suo album HERE & NOW ottiene una nomination ai
Grammy e ne vince un altro alla carriera, con RISIN’ WITH THE
BLUES, manifesto di una carriera trentennale proprio in fin di vita.
Nonostante Ike abbia sempre ammesso le sue colpe, dichiarando
di essere desolato per tutto il dolore procurato, Tina Turner ha
smascherato ferocemente tutti i soprusi dell’ex marito attraverso
un’autobiografia diventata un film (What’s Love Got To Do With It)
che ne ha oscurato definitivamente il ricordo.

L’avevano soprannominato The Phantom, eppure Danny Federici,


più che un fantasma, sapeva trasformarsi in un funambolo di
fisarmonica e tastiere, a dispetto di quell’aria tranquilla e di quel look
assolutamente normale.
Il mistero che ha sempre avvolto il suo soprannome non è mai
stato chiarito del tutto. Forse si deve al fatto che, anni prima, era
riuscito miracolosamente a sfuggire agli sbirri durante una retata.
Aveva incontrato Bruce Springsteen nei corridoi della scuola e con
lui s’era incamminato sulla strada del rock’n’roll, dando vita alla
celebre E Street Band assieme ad altri due amici, il sassofonista
Clarence Clemons e il bassista Garry Tallent.
Danny e Bruce hanno attraversato, uno accanto all’altro, oltre
trentasei anni di vita e, insieme, scritto una delle pagine più
importanti del rock.
Danny s’è fermato prima di compiere i sessant’anni, prima di
festeggiarli su qualche palco insieme agli amici di sempre: è morto
un giovedì sera dell’aprile del 2008 a New York, tra le mura del
Memorial Sloan-Kettering Cancer Center.
Tre anni prima, un melanoma piuttosto aggressivo aveva
cominciato a rubargli forza e vitalità, tanto che quello che sembrava
solo un bisbiglio, era diventata una voce fondata all’indomani di un
concerto di Springsteen e soci a Boston. Federici era apparso
particolarmente affaticato, ma non aveva voluto arrendersi. E, infatti,
aveva preso parte alle date americane del Magic Tour ’07.
La E Street Band, però, aveva dovuto fare a meno di lui a causa di
un ciclo di terapia piuttosto duro, e per il resto del tour in Europa, nel
marzo del 2008, era stato sostituito da Charles Giordano.
The Phantom era consapevole dell’avvicinarsi della fine e così non
aveva voluto mancare a quell’appuntamento finale con il rock:
l’ultima apparizione con la E Street Band era stata il 20 marzo a
Indianapolis, alla Conseco Fieldhouse. Federici era salito sul palco
per una breve e applauditissima apparizione: giusto il tempo di
suonare con il Boss 4th Of July, Asbury Park (Sandy), uno di quei
brani eseguiti raramente nei concerti e caratterizzato proprio dalla
fisarmonica di Danny.
Il giorno della morte di The Phan tom era stato lo stesso
Springsteen a darne notizia sul suo sito ufficiale: “Siamo amici da più
di quarant’anni, siamo cresciuti insieme ed è stato un grande
tastierista, uno dei pilastri del nostro sound. Gli ho voluto molto
bene”.
Subito dopo la morte dell’amico, Bruce decide di annullare le
successive date del tour, in segno di lutto e rispetto. Proprio
all’amico scomparso, nel gennaio del 2009, dedica il nuovo album
WORKING ON A DREAM.

È domenica mattina.
L’estate del Tennessee è particolarmente temperata, nonostante la
calda stagione.
Isaac Hayes, uno degli artisti afroamericani più famosi al mondo,
si sta rilassando nella sua splendida casa, nei pressi di Memphis. Ha
sessantacinque anni. Prima della planetaria consacrazione artistica,
ha avuto un’infanzia durissima nei campi del Tennessee, allevato dai
nonni in una baracca di latta.
Da qualche tempo la sua popolarità ha avuto una nuova e
inaspettata impennata, grazie alla serie televisiva di cartoon South
Park: Hayes presta infatti la voce a uno dei personaggi del
programma, il cuoco Chef.
Isaac si gode dunque il suo momento magico assieme alla moglie;
la loro abitazione di Memphis è un’oasi di tranquillità. In una delle
numerose stanze c’è uno spazio adibito a palestra, ed è qui che il
celebre interprete di Shaft – tema musicale dell’omonimo film che gli
ha fruttato un Oscar e un Grammy nel 1972, primo artista
afroamericano a conquistare tale riconoscimento – si concede un po’
di tempo per curare la sua forma fisica.

Nella silenziosa quiete mattutina, tra l’obbligatorio stretching e un


po’ di riscaldamento muscolare, Hayes è pronto per fare una
corsetta sul tapis roulant. Dopo aver messo in funzione
l’apparecchio, il cantante, solo nella stanza, comincia a sentirsi male
e a respirare a fatica.
Quindi, perde i sensi e s’accascia pesantemente a terra.
Allarmata dal tonfo della caduta, la moglie si precipita nella zona
della palestra e qui trova il marito steso e privo di conoscenza, ma
non riesce a capirne la causa. Chiama immediatamente
un’ambulanza, che porta il cantante di corsa al Baptist East Hospital
di Memphis.
È tutto inutile, Hayes muore un’ora dopo il ricovero.
Viene disposta l’autopsia sul cadavere e dopo qualche ora si viene
a sapere che la morte è stata causata da un infarto, probabile
retaggio di un passato fatto di sregolatezze ed eccessi.
Quella che sembrava essere una rilassante domenica d’agosto
per un eroe dello show biz americano, si è trasformata in
un’inaspettata tragedia.

I Pink Floyd si sciolgono ufficialmente dopo la pubblicazione di THE


FINAL CUT: è il 1983 e l’album in questione appare come una sorta
di delirio d’onnipotenza del solo Roger Waters.
Avvisaglie di rottura, però, si sono già percepite con forza nel ’79,
durante la lavorazione del concept capolavoro THE WALL, quando
le ambizioni e le pretese del bassista hanno cominciato a debordare,
cozzando frontalmente contro quelle più moderate degli altri
compagni.

All’epoca, gli strali di Waters si concentrano su Richard Wright, il


tastierista tanto discreto quanto insostituibile, accusato dal collega di
avere un rendimento incostante e decisamente scarso.
Per Wright il momento non è esaltante: ha appena divorziato ed è
entrato in uno stato di prostrazione psicofisica assai pesante. Gli
attacchi di Waters hanno finito per peggiorare la situazione,
soprattutto quando comincia a rimproverargli di eccedere con la
cocaina – cosa invece costantemente smentita dall’interessato – fino
alla perentoria richiesta di abbandonare il gruppo, poco prima della
partenza del tour di THE WALL.
Il mite Wright – che di Waters è stato fedele compagno sin dagli
esordi e, per un tratto, collega della facoltà di Architettura – si ritrova
fuori dalla band e in preda a una fortissima depressione.
Nel 1983, dunque, le abili mani di Wright non suonano più e i
Floyd si ritrovano orfani di una personalità artistica fondamentale: si
deve infatti a lui la costruzione di quel “muro sonoro” sul quale si
stagliavano gli epici assolo di Gilmour.
Nel frattempo, Waters fa terra bruciata attorno a sé e decide che i
Pink Floyd senza di lui non possono esistere, benché Gilmour e
Mason siano intenzionati comunque ad andare avanti.
Da qui si scatenano infinite azioni legali per il possesso del nome
e s’intensifica l’odio, mentre un riabilitato Wright riprende il suo posto
dietro le tastiere nel 1987, in occasione di A MOMENTARY LAPSE
OF REASON, pubblicato a nome Pink Floyd con Gilmour e Mason.
Il braccio di ferro con Waters continua, fino a una sera di luglio del
2005, quando i Pink Floyd tornano a suonare insieme sul palco di
Hyde Park per il Live8.
Per i fan sembra un nuovo inizio, ma la morte improvvisa di
Richard Wright il 15 settembre del 2008 compromette per sempre
ogni possibile intenzione di rifondare la mitica band.
Nessuno ne aveva parlato prima, ma Rick – che da tempo
accompagnava Gilmour nei suoi live – stava combattendo già da
qualche mese una battaglia contro il cancro.
È la sua famiglia a darne, in modo discreto, l’annuncio, parlando di
una malattia brevissima e di una morte serena. Lo stesso giorno,
colpiscono le parole dell’addolorato David Gilmour: “Nessuno
sostituirà mai Rick. È stato mio partner musicale e amico. Purtroppo
il suo enorme contributo è stato spesso trascurato. Era gentile,
modesto e riservato, ma la sua voce profonda e il suo modo di
suonare erano vitali, magiche componenti del nostro inconfondibile
sound”.
La grande Miriam Makeba, che il mondo ama chiamare Mama
Africa, da qualche tempo si muove su una sedia a rotelle, vittima di
gravi problemi di salute. Lei però è una donna testarda, dotata di
un’energia straordinaria, tanto che non intende soccombere ai guai
fisici e dà il suo assenso per partecipare a un concerto in Italia
organizzato dallo scrittore campano Roberto Saviano, contro
camorra e razzismo, il 9 novembre del 2008.
La Makeba vola in Campania, a Baia Verde per la precisione:
sembra il nome di una cittadina esotica, ma è una frazione di Castel
Volturno, nel casertano.
Qui, due mesi fa, la camorra ha ingiustamente fatto fuori sei
ragazzi del Ghana: per la cantante sudafricana, donna simbolo della
lotta all’apartheid, mettere piede in quel luogo e cantare contro
l’ingiustizia è un dovere.
Appena arrivata si reca per una visita a un centro d’assistenza per
africani, accompagnata da suo nipote e dalla badante.
Mama Africa ha la febbre, ma nonostante tutto vuole essere
presente sul palco. La sua esibizione è prevista per le nove e mezzo
di sera: qualcosa però va storto e il pubblico è formato da poche
decine di persone.
Sebbene debilitata e un po’ infastidita, la Makeba onora
comunque il suo impegno: stringendo il microfono tra le mani giunte,
immobile su una sedia, canta tre pezzi. Rivolgendo poi alla piccola
folla un cenno di saluto, chiede di uscire di scena.
Di colpo, si alza un grido compatto: “Pata Pata!” – il titolo del suo
brano più celebre – viene scandito dai presenti. È una precisa
richiesta di bis. Mentre tutti applaudono lei improvvisamente si
ammutolisce e viene portata nel backstage.
Dopo l’esibizione, la Makeba chiede una sedia, probabilmente
convinta che si tratti di un malore passeggero.
Il nipote Nelson e il suo manager italiano che l’hanno
accompagnata in Campania si rendono conto che le condizioni della
cantante sono preoccupanti. Dopo la pronta telefonata al 118, sul
posto arriva un’ambulanza che trasporta l’artista nella clinica Pineta
Grande di Castel Volturno.
Il bollettino medico stabilisce che il malore è stato causato da una
crisi cardiaca e viene avviata una terapia immediata.
In un primo tempo le cure sembrano avere un buon effetto, ma è
una seconda crisi a sopraggiungere e Miriam Makeba muore
durante la notte.
La notizia fa il giro del mondo in poche ore ed è inevitabile che
torni alla mente ogni passo della sua carriera artistica e soprattutto
della sua fantastica parabola personale: donna coraggiosa oltre che
cantante nota in tutto il mondo, Makeba è diventata celebre per
essersi battuta contro il regime dell’apartheid che aveva dilaniato il
suo Sudafrica, e proprio per questo era diventata delegato delle
Nazioni Unite. Ciò però aveva innescato la reazione del governo
sudafricano, che nel ’63 l’aveva costretta all’esilio mettendo anche al
bando ogni suo disco.
Miriam è riuscita a tornare nel suo paese soltanto nel 1990,
convinta da Nelson Mandela. Ed è proprio Mandela a pronunciare
parole toccanti subito dopo la morte di Mama Africa: “È giusto che i
suoi ultimi momenti siano stati sulla scena. Le sue melodie hanno
dato voce al dolore dell’esilio che ha provato per trentuno lunghi
anni”.
Una fine beffarda per quell’autentica regina della musica che
aveva calcato i più grandi palcoscenici del mondo: morire su un
piccolo palco di uno sconosciuto paesino del Sud Italia, dal nome
esotico.

Per i puristi del rock, Ron Asheton è un nome significativo e influen


te.
Per gli esperti della rivista «Rolling Stone» è fra i cento chitarristi
migliori di tutti i tempi.
Con i suoi riff essenziali e cattivi – indimenticabili le sue
performance in pezzi come I Wanna Be Your Dog e Down On The
Street – è riuscito a creare un suono assolutamente riconoscibile,
ribattezzato Detroit Sound (città d’origine dei suoi Stooges),
contribuendo a far crescere il mito di una delle band più devastanti
della storia del rock e precorritrice del movimento punk.
Eccessi e sregolatezza sono stati alla base del periodo di
militanza negli Stooges accanto a un uomo come Iggy Pop, che di
quel gruppo ne è stato leader e trascinatore.
Dopo lo scioglimento della band nel 1974, Asheton aveva
intrapreso un’onesta carriera solista – sebbene un po’ ai margini
della scena – per ritrovare poi i vecchi compagni qualche anno più
tardi. La reunion con il grande amico Iggy nel 2003, dà vita a un
nuovo corso e a un nuovo album (THE WEIRDNESS) nel 2007.
Ron Asheton, a sessant’anni, sembra vivere una seconda
giovinezza con la ritrovata voglia di lavorare in studio a nuovi
progetti, ma soprattutto con il desiderio di suonare sui palchi di tutto
il mondo come ai vecchi tempi.
Alla fine del 2008, gli impegni degli Stooges sono numerosi e Ron
si concede una giusta pausa nella sua casa nel Michigan, in
occasione del periodo natalizio.
Subito dopo la fine dell’anno, però, il suo manager ricomincia a
cercarlo, ma Asheton non risponde a nessuna telefonata, cosa che
sulle prime fa insospettire l’uomo: forse Ron non vuol essere
disturbato, forse desidera solo prolungare un po’ le sue ferie in vista
di un nuovo anno ricco di impegni.
Il silenzio del chitarrista si prolunga troppo, tanto che il suo
assistente decide di chiamare la polizia per un sopralluogo
nell’abitazione di Ann Arbor.
Gli agenti si recano a casa di Asheton il giorno dell’Epifania e,
dopo aver ripetutamente bussato alla porta, non ricevendo alcuna
risposta, decidono di sfondarla.
Quella che sembrava inizialmente solo una sgradevole
sensazione, diventa una realtà terribile: il chitarrista degli Stooges
viene ritrovato disteso sul suo sofà, senza vita e già in stato di
decomposizione.
Particolare inquietante: una bottiglia di vodka (vuota) viene
rinvenuta proprio accanto al cadavere. Il risultato degli esami
tossicologici e dell’autopsia disposta dal medico legale chiarisce
tutto qualche ora dopo: a uccidere il musicista è stato un infarto.
Inoltre, il referto stabilisce che il decesso è avvenuto almeno un
paio di giorni prima del ritrovamento del corpo da parte dei poliziotti.
La notizia arriva al fratello Scott – anche lui colonna portante degli
Stooges – e all’amico Iggy Pop che, smessi i panni di indemoniato
del rock, si dichiara ai media letteralmente sotto shock: “Ho perso il
mio più caro amico, fratello, musicista e soldato. Insostituibile”.
Insieme a Ron Asheton, finisce così anche la seconda vita degli
Stooges.

“Sono unico. Credo che nessuno abbia mai suonato la chitarra come
la suono io. Per me questo è ciò che conta, ma spero di migliorare e
di dare un contributo ancora maggiore”.
Sembra un discorso fatto da un musicista arrogante e in pieno
delirio di onnipotenza. Invece queste sono le parole pronunciate
lucidamente dall’inglese John Martyn, uno dei talenti chitarristici più
puri della storia del rock.
Il suo percorso artistico comincia nel 1967, a diciannove anni,
quando l’etichetta discografica Island lo mette sotto contratto e gli
permette di pubblicare un primo album, LONDON CONVERSATION:
è una grande sorpresa.
Il suo stile è assolutamente unico, ricco di sfumature blues e folk:
con questo lavoro, il giovane John dimostra subito d’essere un
grande sperimentatore, fra i primi a utilizzare effetti come l’echoplex.
Dalla sua chitarra acustica scaturisce un sound rivoluzionario, tanto
che, in breve tempo, Martyn diventa un punto di riferimento per tanti.
Il successo pieno arriva nel 1973, dopo aver incontrato Beverley
Kutner, la donna che diventa sua moglie e con cui pubblica ben due
dischi. Con SOLID AIR – la cui title track è una dedica all’amico
cantautore Nick Drake, a pochi mesi dalla morte – cominciano anche
ad arrivare soldi veri e notorietà.
John è un uomo passionale e creativo, ma spesso eccessivo e
scontroso. Non è un animale da palcoscenico e nemmeno un artista
impegnato a sfornare hit da classifica, tanto che l’uscita di un suo
disco avviene quasi sempre in sordina. Eppure i suoi brani
conquistano i critici e riescono a lasciare un segno profondo
soprattutto nei colleghi più giovani.
Verso l’inizio degli anni Ottanta, i problemi coniugali con Beverley
s’incancreniscono, tanto che lei lo lascia e chiede il divorzio: è un
momento difficile (descritto alla perfezione in un album cupo come
GRACE AND DANGER) cui Martyn reagisce infilandosi in giri
pericolosi, trovando nella dipendenza da droga e alcol una specie di
anestetico contro il dolore dell’abbandono.
Sono anni in cui John mette da parte la chitarra acustica per far
posto a quella elettrica e alla sperimentazioni di nuovi suoni:
l’incontro con Phil Collins – che produce per il chitarrista l’album
GLORIOUS FOOL – risulta determinante da un punto di vista
artistico e umano. Il batterista dei Genesis diventa suo amico e gli
resta accanto anche quando la sua popolarità subisce un netto calo:
dopo aver tentato un’improbabile scalata al mercato mainstream –
puntualmente fallita – Martyn viene dimenticato.
Torna così a esibirsi nei piccoli club e finisce nuovamente per
buttarsi in modo scriteriato nel vortice della dipendenza da droga e
alcol. John però non vuole arrendersi e riesce a tirarsi fuori dai guai
grazie all’amore per la musica.
Nel 2003 deve affrontare una nuova, durissima prova: una ciste
infetta compromette per sempre l’uso della gamba destra, che gli
viene amputata. Eppure, nonostante il grave handicap, Martyn
continua a esibirsi dal vivo con la sua chitarra, seduto su una sedia a
rotelle.
Nel gennaio del 2009, dopo aver ricevuto dalla regina Elisabetta
d’Inghilterra l’onorificenza di “Officer of the Order of the British
Empire” per il suo impegno nella musica, si gode il meritato
successo lontano dai riflettori, nella sua casa in Irlanda.
Sono però giornate difficili queste: John ha preso una brutta
polmonite da cui non riesce a guarire, la sua salute già tante volte
messa a repentaglio è decisamente fragile.
La mattina del 29 gennaio, un parente che gli era stato accanto
tutta la notte, si accorge che John non respira più: il cuore ha
smesso di battere.
Martyn ha solo sessant’anni e probabilmente dolori ed eccessi
della sua vita hanno inciso profondamente sul suo pur robusto fisico.
La famiglia ha cercato di mantenere un parziale riserbo sulle vere
cause del decesso di quello che era considerato da tutti un piccolo
genio della chitarra.

Dei Wilco era stato chitarrista, abile polistrumentista e tecnico del


suono, ma li aveva mollati nel 2001, andandosene sbattendo la
porta. I dissapori con il leader Jeff Tweedy erano diventati
insostenibili e Jay Bennett aveva preferito tagliare i ponti con tutti.
Con gli “alternativi del country”, il chitarrista dell’Illinois aveva
inciso ben tre album, ma non era riuscito mai a legare del tutto con
Tweedy, raffinata mente della band. L’unica soluzione ragionevole
per Bennett era stata quella di continuare a viaggiare da solo e, di
tanto in tanto, mettersi al servizio di artisti come Sheryl Crow,
piuttosto che passare il tempo a discutere.
Nel maggio del 2009, Jay Bennett torna alla ribalta, ma non per
questioni artistiche: il chitarrista annuncia pubblicamente di essere
malato e di avere bisogno di parecchi soldi in vista di una delicata
operazione all’anca.
Nemmeno due settimane dopo la rivelazione, si viene a sapere
che i contrasti con il vecchio compagno Tweedy non si sono mai
risolti, anzi, nonostante siano passati otto anni dalla rottura con i
Wilco, si sono inaspriti per una questione di royalty non corrisposte:
Bennett cita in giudizio l’ex compagno, colpevole di non avergli
versato 50mila dollari in diritti d’autore. Nel pieno della bagarre fra i
due artisti – che monta proprio durante la promozione del nuovo
album dei Wilco – il 29 maggio i tabloid americani riportano la
notizia, ufficiosa, della morte improvvisa di Jay Bennett.
Le voci si rincorrono per tutto il giorno, fino alla conferma ufficiale
in serata comunicata da Edward Bunch, manager dell’artista:
Bennett è stato trovato morto all’interno della sua abitazione-studio
di Urbana, mentre stava lavorando a un nuovo album di inediti
(intitolato KICKING AT THE PERFUMED AIR).
Il corpo del chitarrista viene rinvenuto da alcuni agenti della
cittadina dell’Illinois, dopo che Bennett per tutto il giorno precedente
aveva fatto perdere le sue tracce. Il medico legale incaricato di
effettuare l’autopsia ritiene che il quarantacinquenne chitarrista sia
morto nel sonno e fa luce sulla vicenda: a ucciderlo è stata
un’overdose di Fentanyl, un potente analgesico prescritto di solito
per curare dolori cronici.
Jeff Tweedy, che soltanto due settimane prima era stato
denunciato da Bennett, è il primo a pronunciarsi, dichiarando ai
media di provare una tristezza e un’amarezza profonda per la
perdita dell’ex compagno e soprattutto per non essere riuscito a
chiarire in tempo i malintesi.

Per mesi erano rimbalzate le voci più disparate. Ma oggi, 6 marzo


2009, quello che sembrava soltanto un bisbiglio diventa notizia
ufficiale: dopo otto anni di silenzio e il proscioglimento dall’accusa di
pedofilia a suo carico, Michael Jackson ha deciso di tornare sulle
scene con uno spettacolo di dimensioni titaniche.
L’annuncio viene dato dal Re del Pop in persona, giunto a Londra
appositamente per parlare ai microfoni della sala stampa della O2
Arena. Ad attenderlo, all’esterno, c’è una folla impressionante di fan
in delirio.
Jacko arriva all’appuntamento con due ore di ritardo. Entra in sala
con andatura instabile, sguardo coperto da un paio di occhiali
scurissimi, chioma corvina, liscia e lucida, camicia scintillante con
intarsi oro e argento e un sorriso che pare soltanto disegnato sulle
sue labbra sottili.
La conferenza stampa dura poco più di quattro minuti.
Michael è sfuggente e teso, il suo atteggiamento pare quasi
messianico e le fattezze sembrano ormai avere davvero poco di
umano.
Le ultime fotografie scattate dai paparazzi lo avevano mostrato
una volta all’interno di un bagno pubblico in abiti femminili e un’altra
in pigiama su una sedia a rotelle, mascherina antismog e guanti a
coprire la pelle bianca e sottile.
Oggi appare in una forma migliore.
Ai giornalisti ripete l’emblematica frase: “This is it”, “questo è
quanto”, il titolo cioè dell’imminente show che si appresta a
sostenere nella capitale del Regno Unito. Dieci concerti a partire
dall’8 luglio e tutti alla O2 Arena.
Sono i concerti dell’addio: per i suoi fan questo è un ultimo regalo
prima di calare il sipario sulla sua vita di artista.
A molti, però, questo sembra l’unico modo per mettere argine alla
bancarotta.
La conferenza stampa finisce e lascia tutti i presenti con l’amaro in
bocca. Le parole della popstar sanno davvero di fine di un’epoca.
Michael Jackson saluta tutti mostrando le dita in segno di vittoria,
dicendo: “Vi voglio bene, dovete saperlo”.
Secondo le prime indiscrezioni, Jackson incasserebbe due milioni
di dollari a serata, una cifra esorbitante per un artista che assomiglia
più che altro a un fantasma, e proprio per questo il gruppo
americano Aeg, proprietario dell’O2 Arena, ha preteso una prova
della sua idoneità fisica (deve dimostrare di poter reggere tre ore sul
palco), ottenendo così una cospicua assicurazione nel caso in cui la
star dovesse ammalarsi e cancellare le date.
Intanto, a partire dal 13 marzo, i biglietti per i concerti vengono
messi in vendita on line attraverso il sito ufficiale del musicista, e nel
giro di poche ore vengono venduti tutti, per cui si decide di estendere
a cinquanta le serate alla O2 Arena. La proposta degli organizzatori
irrita Jacko, che nel frattempo è tornato nella sua casa di Holmby
Hills, sulle colline di Los Angeles, dove ha cominciato il lungo
percorso di recupero fisico con un team di medici e personal trainer.
Nei mesi successivi all’annuncio ufficiale del This Is It Tour l’attesa
diventa spasmodica. Sono in molti a chiedersi se il geniale interprete
di Thriller riuscirà davvero a tornare a volteggiare sul palco come un
tempo e a mostrare i passi del moonwalk, il ballo che lo ha reso
celebre.
Nella tarda mattinata di giovedì 25 giugno, alla vigilia della
colossale tournée, mentre Jacko è alle prese con sessioni di prove
durissime insieme ai suoi ballerini e musicisti, quando tutto sembra
essere pronto, una notizia, improvvisa e violenta, trapela da TMZ,
l’informatissimo sito gossip del gruppo AOL: Michael Jackson è
morto per un arresto cardiaco nella sua abitazione di Los Angeles.
In pochi minuti il terribile annuncio arriva al social network Twitter
che va letteralmente in tilt. Quindi, viene confermato via via da tutti i
mezzi d’informazione ufficiali.
La notizia della morte di Michael Jackson – un’icona sin da
bambino – scuote profondamente gli Stati Uniti e perfino le
televisioni interrompono la programmazione per trasmettere tributi al
Re del Pop realizzati a tempo di record. Ma cos’è accaduto
realmente?
Alle dodici e ventuno (le nove e ventuno in Italia) viene registrata
una chiamata al 911 da un’abitazione nella zona di Beverly Hills
perché un uomo è stato colto da arresto cardiaco.
Quell’uomo è proprio Michael Jackson: i soccorsi giungono sul
posto dove trovano uno dei fratelli dell’artista che riferisce di aver
visto Michael crollare all’improvviso.
All’interno dell’autoambulanza diretta a gran velocità all’UCLA
Medical Center di Los Angeles vengono effettuate le procedure di
rianimazione cardiopolmonari, ma durante il tragitto il cuore di Jacko
si ferma per sempre e i soccorritori avvisano il personale medico con
queste parole: “Il paziente è Michael Jackson, il cantante. Niente
pulsazioni, niente respiro. Non risponde. Tentativo di rianimazione
non riuscito. Abbiamo fatto il possibile”.
Venti minuti dopo il lancio d’agenzia che ha annunciato la morte
dell’artista, l’ingresso della UCLA e contemporaneamente quello
dell’abitazione di Jack son vengono invasi da una folla
impressionante: sono tutti increduli, molti portano mazzi di fiori tra le
braccia e sono in lacrime.
In questo clima di dolore ci si chiede cos’abbia causato il decesso
di un uomo che, stando alle ultime notizie di cronaca, pareva aver
recuperato – almeno parzialmente – la forma fisica.
Quel che è certo è che Michael Jackson non ha mai nascosto
d’essere dipendente da psicofarmaci e antidepressivi, essendo, tra
le altre cose, ipocondriaco e insonne. Sull’abuso di medicinali si
concentra l’attenzione del medico legale incaricato di effettuare
l’autopsia, mentre i famigliari del Re del Pop non credono alla tesi
della morte per cause naturali e puntano il dito contro i medici che lo
hanno avuto in cura nel corso della carriera, colpevoli tra l’altro di
avergli deturpato il viso e di averlo reso totalmente dipendente dai
farmaci.
Qualche ora dopo, l’anatomopatologo, terminato l’esame
autoptico, si limita a parlare di un attacco cardiaco, probabilmente
causato dall’iniezione per via endovenosa di un mix di sedativi.
Tramite il legale Brian Oxman, la famiglia Jackson conferma
l’intenso trattamento farmacologico cui era sottoposto Michael,
criticando però le ultime prescrizioni mediche.
Il medico personale – che la star aveva assunto per ritrovare la
forma fisica in vista della tournée mondiale – diventa così l’obiettivo
principale delle indagini: la polizia di Los Angeles sta tentando di
rintracciare un cardiologo di Houston di nome Conrad Murray.
L’automobile del medico, ritrovata nel parcheggio della villa di
Jacko, viene sequestrata perché potrebbe contenere prove
(medicinali?) utili alle indagini: si cerca di capire se sia stato lui a
prescrivere in modo regolare i farmaci, ma soprattutto bisogna
accertare se sia stato proprio Murray a praticare quell’iniezione
fatale.
Il medico risulta irreperibile, alimentando così i sospetti degli
inquirenti.
Non solo. Alcuni testimoni confermano la presenza del dottore
texano al fianco di Jackson fino all’ultimo, rivelando che è stato
proprio lui a praticare l’iniezione e che al momento del collasso è
stato sempre lui a chiamare il 911.
Tre giorni dopo, Murray riappare. Nel tentativo di difendersi, si
dichiara in un primo momento estraneo ad ogni accusa, ma poi
ammette di aver praticato di suo pugno l’iniezione letale.
Appare chiaro a tutti che il decesso di Michael Jackson non è stato
causato da un semplice infarto, ma piuttosto da un uso spregiudicato
di farmaci. L’indiziato numero due resta il dottor Conrad Murray,
accusato di omicidio colposo: un’incriminazione soltanto formulata e
non ancora formalizzata.
A sei mesi dalla scomparsa di Jacko, dopo un turbinio di voci,
sospetti e indiscrezioni, giunge l’ora della svolta: il 5 febbraio 2010 il
medico legale rende noti i risultati dettagliati dell’autopsia effettuata a
poche ore dalla morte del cantante il 25 giugno 2009.
A fermare improvvisamente il battito cardiaco della star è stata
un’intossicazione acuta di Propofol, un farmaco che di solito si usa
per anestetizzare i pazienti in sala operatoria, riscontrato in dosi
equivalenti a quelle usate in casi di importanti interventi chirurgici.
Il referto conferma che Jackson soffrisse di vitiligine (una malattia
della pelle in questo caso evidenziata da chiazze chiare sul petto e
sulle braccia), rivela l’esistenza di tatuaggi scuri all’altezza delle
sopracciglia, un piccolo tatuaggio rosa vicino alle labbra, una
mancanza di capelli nella parte alta della fronte, oltre a piccole
cicatrici sul naso, su una spalla, sul collo, sui polsi e dietro le
orecchie.
Il rapporto, inoltre, sottolinea che nella stanza da letto del cantante
non erano presenti apparecchiature per il dosaggio dei medicinali o
per interventi di emergenza.
Intanto, Murray ha riferito agli inquirenti di aver somministrato
all’insonne Michael il farmaco per sei settimane prima del 25 giugno
– giorno del decesso – giurando anche di averlo avvisato sul forte
rischio di dipendenza. È per questo che nei due giorni precedenti
alla morte, il medico ha sostituito il Propofol con altri due sedativi, il
Lorazepam e il Midazolam, rifiutandosi di cedere alle insistenti
richieste del cantante.
Secondo i risultati dell’autopsia, Jackson avrebbe assunto anche
del Valium in due momenti della notte, mentre nelle ore successive
gli sarebbero stati somministrati altri farmaci. La dose letale di
Propofol arriva alle dieci e quaranta del mattino, quando il
cardiologo, estenuato dalle continue richieste, decide di
accontentare Michael iniettandogli il medicinale, nonostante sia a
conoscenza del rischio.
È per questo che non si può parlare di incidente. L’aggravante,
inoltre, è la negligenza con cui il cardiologo di Houston ha sottoposto
il suo paziente a trattamenti assolutamente inappropriati: ora rischia
una pena massima di quattro anni di reclusione.
Intanto Joe Jackson, chiacchieratissimo padre-padrone del Re del
Pop, presente in aula al momento delle accuse, dichiara di essere
“deluso dalla leggerezza delle imputazioni nei confronti di Murray.
Ritengo che Michael sia stato vittima di un complotto molto ben
organizzato. Questa è stata la nostra posizione sin dall’inizio.
Speriamo che la verità possa venire a galla e che i colpevoli siano
finalmente puniti”.
La prima seduta del processo è prevista per il 5 aprile del 2010 e
Murray – che nel frattempo ha ripreso la sua attività nel Nevada –
dopo aver pagato una cauzione di 75mila dollari, può attendere la
sentenza a piede libero.
Mentre l’iter giudiziario non si ferma, nelle sale cinematografiche di
tutto il mondo viene proiettato un film intitolato proprio This Is It: un
documento prezioso e commovente che ritrae un Michael felice e
carico durante i mesi di prova di quella che sarebbe stata la sua
ultima tournée.
La sinuosa figura, smagrita ma ancora in grado di volteggiare sul
palco, il rumore delicato delle sue risate, l’atmosfera magica di quei
momenti di intenso lavoro, gli abbracci con ballerini e coreografi sulle
note di quella musica che ha accompagnato una generazione intera,
gettano una luce pulita su una vicenda torbida e dolorosa.
Il film si conclude.
Il Re è morto.
This is it.

Sono passati due anni da quell’attesissima reunion e i Boyzone sono


tornati in studio per lavorare a un album di inediti.
Stephen Gately, fra i più chiacchierati componenti della boy-band
più amata d’Irlanda, ha già inciso due brani per il nuovo disco, di cui
è entusiasta, e per rilassarsi prima del ritorno in studio con i
compagni decide di passare qualche giorno di vacanza a Maiorca,
dove possiede una lussuosissima villa (si dice gli sia costata più di
un milione di sterline).
Nel 2006, Gately aveva fatto scalpore sposando con rito civile il
suo compagno Andy Cowles, conosciuto grazie a Elton John
qualche anno prima, e ora con lui vola alle Baleari.
Nonostante sia già autunno, sull’isola c’è il clima ideale per
trascorrere un breve periodo di tranquillità lontano da tutti. I due,
però, non si fanno mancare attimi di divertimento, sono giovani e
ricchi e a Maiorca le occasioni per fare baldoria non mancano di
certo.

Così, la sera di sabato 9 ottobre, Stephen e Andy decidono di


lasciare la villa di Port d’Andratx e avventurarsi nella movida di
Palma; dopo un giro per i pub della città, si recano al Black Cat, un
noto locale gay. Qui incontrano il loro giovane amico bulgaro Georgi
Dochev, con cui s’intrattengono bevendo qualche drink, finché non
decidono di andare a concludere la nottata nella villa di Gately.
Sono le quattro e mezzo del mattino quando i tre rincasano, e tra
uno spinello e un bicchiere di vino bianco, Andy decide di andare a
dormire, mentre il musicista e l’amico bulgaro continuano nei loro
sollazzi ancora un po’, fino ad addormentarsi sul divano del
soggiorno.
È già spuntato il sole quando Dochev ritrova Gately inginocchiato
sul pavimento, piegato come fosse in posizione di preghiera con la
faccia sopra un cuscino. Va a svegliare immediatamente il marito del
cantante, che non perde tempo: i due tentano disperatamente di
rianimarlo, senza riuscirci.
Vengono chiamati i soccorsi, che non possono però che
constatare la morte dell’artista trentaduenne che giace soffocato nel
proprio vomito. Qualche ora dopo la tragedia, l’ufficiale medico
dell’isola di Maiorca incaricato di effettuare l’esame autoptico sul
cadavere, rende noto il risultato: Gately è morto per un accumulo di
fluido nei polmoni, più semplicemente edema polmonare.
Interviene anche la polizia per far maggiore chiarezza
sull’accaduto: vengono ascoltati sia Andy sia Georgi, i quali
riferiscono di aver trovato Stephen visibilmente sconvolto al ritorno in
villa; confermano di aver ecceduto con alcol e fumo, ma negano
categoricamente di aver dato vita a giochi sessuali estremi tali da
portare alla morte di Gately.
Un secondo esame autoptico sul corpo dello sfortunato
componente dei Boyzone chiarisce definitivamente le cause
dell’edema polmonare: il ragazzo soffriva da tempo di una malattia
delle arterie, che non era stata mai curata adeguatamente.
È la madre dello stesso Gately a confermarlo, aggiungendo anche
che altri membri della famiglia ne sono affetti. Dunque i
comportamenti sregolati assunti nella serata prima non hanno influito
sul decesso.
Nelle ore successive alla morte del cantante, l’amico Ronan
Keating insieme a gli altri componenti della boy-band,
inevitabilmente sconvolti dall’accaduto, si recano sull’isola delle
Baleari per vegliare sulla salma e scortarla fino al rimpatrio in
Irlanda.

Ore quattordici e cinquantanove. Il cantautore americano Vic


Chesnutt si spegne in ospedale, circondato da amici e famigliari. Era
in coma dall’inizio della settimana in seguito di un’overdose di
farmaci rilassanti muscolari.
Michael Stipe, che l’aveva aiutato a emergere negli anni Novanta,
non ha dubbi: “Abbiamo perso uno dei più grandi”.
Chi lo circonda non parla apertamente di suicidio, ma non sarebbe
la prima volta che il cantautore della Georgia, quarantacinque anni,
tenta di togliersi la vita.
“Ci ho provato tre, quattro volte”, ha detto in una delle ultime
interviste. La sua, del resto, è stata un’esistenza segnata dalla
sofferenza. Era costretto su una sedia a rotelle dall’età di diciotto
anni, quando un incidente automobilistico gli era quasi costato la
vita. Guidava ubriaco, era finito in un fossato, la macchina capovolta,
la vita rovinata.
Se non altro aveva trovato la sua identità d’artista: aveva iniziato a
cantare, sentiva di avere qualcosa da dire, esperienze da
condividere. L’incidente l’aveva paralizzato dalla cintola in giù e gli
aveva provocato seri problemi di motilità anche alle mani: riusciva a
suonare solo accordi semplici, che ben si adattavano al carattere
desolatamente scarno della sua musica.
Aveva acquistato un senso dell’umorismo sinistro e gli capitava di
cantare di suicidio. Una delle sue ultime composizioni è Flirted With
You All My Life, un dialogo con la Morte: “Ho flirtato con te per tutta
la vita, ti ho pure baciata una o due volte finora, e giuro che è stato
bello, ma evidentemente non ero pronto”.
Nel Natale del 2009, Chesnutt era nei guai per via di 50mila dollari
in operazioni chirurgiche non coperti dall’assicurazione sanitaria,
che, grazie a un contratto con l’etichetta Capitol, aveva ottenuto per
un certo periodo della sua vita.
Già nel 1996 artisti di primo piano come R.E.M., Smashing
Pumpkins, Madonna, Indigo Girls e Garbage avevano inciso l’album
tributo SWEET RELIEF II per raccogliere fondi per pagare le sue
spese mediche.
Rescisso il contratto discografico, aveva perso la copertura: la sua
quadriplegia parziale lo rendeva sostanzialmente non assicurabile,
un peso e una vittima di un sistema sanitario privatizzato. Perciò in
quei giorni era al verde e rischiava di perdere un rene.
“In nessun altro paese al mondo sarei costretto ad affrontare una
tale situazione”, aveva detto in novembre, “e la cosa mi spinge
sull’orlo del suicidio”.

Tiffanie Dixon è una delle hair stylist più apprezzate di Hollywood.


Non solo per il suo inimitabile gusto nell’acconciare i capelli delle
star: di lei dicono sia capace di far esplodere all’esterno la bellezza
interiore di un essere umano. Tiffanie, da tre anni, lavora al fianco di
Whitney Houston per il lungamente annunciato ritorno della
tormentata star del pop. Tre giorni fa, insieme alla Houston e al suo
entourage, miss Dixon è sbarcata al Beverly Hilton Hotel.
Domenica c’è l’appuntamento discografico più importante
dell’anno, quello con i Grammy Awards, ma già stasera bisogna
essere eleganti: proprio nei saloni di questo albergo nel cuore di
Beverly Hills, si tiene un party ambitissimo organizzato da Clive
Davis, il leggendario discografico che tra gli altri ha messo sotto
contratto Janis Joplin, Carlos Santana, Aerosmith, Carly Simon,
Earth Wind & Fire e Patti Smith. E che ha un fiuto particolare per le
artiste di colore: da Aretha Franklin a Alicia Keys, tutte (sotto la sua
egida) sono diventate megastar planetarie.
Nel 1983, su suggerimento del suo talent scout Gerry Griffith,
proprio Davis si reca in un night club di New York per assistere al
concerto di Cissy Houston. Griffith è rimasto impressionato dal
talento della figlia di Cissy, la ventenne Whitney, e ha insistito perché
il suo capo la vedesse. A Clive Davis non ci vuole molto per
decidere: la sera stessa offre alla giovane un contratto discografico
internazionale. Da quel momento inizia la formidabile parabola
artistica di Whitney Houston, un mix di scuola gospel, timbrica
vocale cristallina, tecnica sbalorditiva e bellezza accecante. Il tutto,
tanto per gradire, accompagnato da vendite discografiche
stratosferiche: 190 milioni di copie!

Anche se sono trascorsi quasi trent’anni dagli esordi, Clive e


Whitney hanno conservato un rapporto speciale. E lei, per nulla al
mondo, intende mancare alla festa del suo amico/produttore. Per
questo Tiffanie, sin dal mattino, è un po’ agitata: per il party di
stasera bisogna dare il meglio di sé perché Whitney deve apparire
splendida come ai vecchi tempi.
Quando vede che sono passate le tre del pomeriggio, decide di
andare in camera della Houston, la suite 434 al quarto piano del
Beverly Hilton. Non ha sentito la sua cliente/amica da ieri, anche se,
in fondo, è normale. Whitney è una pigrona, le piace dormire fino a
tardi.
Eppure la Dixon ha una strana sensazione.
Come se fosse successo qualcosa…
Mentre si sta avvicinando alla porta della camera ha quasi un
ripensamento. Poi si fa forza e bussa.
L’ansia sale. Bussa diverse volte senza ottenere risposta.
La serratura, però, è aperta e così Tiffanie prende il coraggio a
due mani: entra nella stanza. Non vede nessuno. Nota solo un po’ di
disordine… Allora, si reca nella stanza da bagno: lì trova Whitney
Houston riversa nella vasca, a faccia in giù, immersa in trenta
centimetri d’acqua e apparentemente priva di vita.
La Dixon ha una reazione isterica. Poi, chiama la security
dell’hotel.
Alle 15:43 il 911 riceve una telefonata: “C’è una donna, di
quarantasei anni, nella vasca da bagno… abbiamo bisogno di un
medico…”.
L’uomo che chiama si qualifica come “addetto alla sicurezza del
Beverly Hilton”. La centralinista chiede maggiori informazioni.
“Non so molto di più…”, dice l’uomo, “sto andando verso la
camera, la numero 464”. Poi si corregge e dice che la camera è la
suite 434 (anche sull’età della donna si sbaglia: lei ha quarantotto
anni, non quarantasei).
“La donna respira?”, chiede la centralinista.
“Non so… sembrerebbe di no”, risponde la persona della security,
che spiega di aver ricevuto una telefonata da un’altra donna che gli è
parsa molto “adirata” e che poi ha riattaccato tutte le volte che lui
provava a ricontattarla.
La centralinista del 911 si rende disponibile a rimanere in linea
sino a che l’uomo raggiunga la camera. Gli chiede se, nel caso, sia
in grado di praticare un massaggio cardiaco. Poi gli comunica: “Ok,
mando subito un’ambulanza”.
Intanto, l’addetto alla sicurezza del Beverly Hilton entra nella suite
434: prima di raggiungere la toilette e scoprire il cadavere, vede per
terra un cucchiaino sporco di coca, qualche lattina di birra, un
bicchiere di champagne e, sul tavolo della camera, tracce di un
pasto consumato fugacemente.
Alle 15:50 il personale medico, giunto nel frattempo, dichiara la
morte della donna nella vasca bagno. Poco dopo, alle 15:55, Mark
Rosen, portavoce della polizia di Los Angeles, diffonde ufficialmente
la notizia: “Whitney Houston è stata trovata morta al Beverly Hilton
Hotel”.

Nei corridoi del quarto piano dell’albergo si scatena il putiferio: si


odono urla strazianti e singhiozzi disperati, ma c’è anche tanta gente
ignara che, allarmata, sta cercando di capire cosa sia successo.
Una tragedia si sta consumando in diretta, sotto le luci dei riflettori,
con giornalisti e fotografi pronti a immortalare tutto; proprio come già
fatto, e ben più di una volta, nel corso della controversa esistenza di
questa donna fragile, tanto forte e spavalda sul palcoscenico quanto
timida e indifesa nel privato.
Mentre al quarto piano giunge la figlia di Whitney, la diciottenne
Bobbi Kristina Brown, le cui grida di dolore rimbombano in tutto
l’edificio e a cui viene impedito di vedere il cadavere della madre,
nella hall dell’Hilton, su uno schermo gigante si trasmette l’annuncio
della morte e le immagini di ciò che sta accadendo proprio in quello
stesso hotel.
Fuori intanto cominciano ad arrivare tanti curiosi, ma soprattutto
moltissimi fan. Una scena già vista: luoghi anonimi che si
trasformano in spazi commemorativi e si riempiono di fiori, candele e
ricordi vari con persone che si stringono nel dolore, affrante quasi
avessero perso un loro caro.
Quella di Whitney Houston è stata una morte annunciata?
I periodi bui (noti a tutti) della popstar viziosa erano davvero alle
spalle? Proprio nulla, in quei giorni, avrebbe fatto presagire un
epilogo del genere?

Whitney si registra al Beverly Hilton giovedì 9 febbraio.


È accompagnata dalla figlia, dai membri del suo entourage, dalle
sue amiche del cuore Brandy e Monica e dal suo ultimo boyfriend,
Ray-J.
Ha organizzato meticolosamente tutti gli appuntamenti,
assicurandosi di avere tempo da dedicare all’adorata Bobbi Kristina,
ma anche alle sue amichette. Proprio a loro, Brandy e Monica,
Whitney chiede consiglio su cosa indossare la sera del party di Clive
Davis: sembra che non parli e che non le interessi altro. Solo la
piscina rappresenta una distrazione: un volta fatto il check-in, corre
subito a fare un tuffo.
Non solo. Tutte le volte che viene avvistata dagli inservienti
dell’albergo (e dai giornalisti, onnipresenti) ha sempre i capelli
bagnati: confessa di dover nuotare almeno un’ora al giorno, tutti i
giorni. Si presenta trasandata anche alla conferenza stampa
organizzata nel pomeriggio di giovedì 9 febbraio. Secondo un
giornalista del settimanale «People», “puzzava di alcool e sigarette,
tirava continuamente su col naso e non faceva altro che parlare di
cosa avrebbe indossato alla festa di sabato”.
Quella stessa sera, però, Whitney partecipa a un altro party:
quello pre-Grammy organizzato dall’amica Kelly Price al night club
Tru Hollywood. Houston giunge, con due ore di ritardo, a bordo di
una Cadillac Escalade: indossa un vestito nero attillato, molto
semplice.
Con lei c’è Bobbi Kristina. Madre e figlia prendono posto nell’area
vip.
Whitney sembra di buon umore: improvvisa persino un balletto sul
brano Poison di Bell Biv DeVoe. Poi sale per duettare con Kelly Price
in Jesus Loves Me.
Nel frattempo, però, è successo qualcosa: sul palco Whitney
appare traballante, a disagio, con la voce che le si spezza in gola. In
quel momento, nessuno può immaginare che quel duetto passerà
alla storia come l’ultima esibizione della sua vita. E quello che
accade dopo è ancor più imbarazzante.
Nel privé, la Houston incontra la collega e amica Stacy Francis,
finalista della prima edizione di X-Factor Usa. All’inizio le due
conversano in modo cordiale, poi, improvvisamente, si accende una
discussione: la regina del pop alza la voce, appare nervosa e irritata.
Qualcuno dice per colpa di vecchie ruggini (le due si erano
conosciute anni prima), altri che la Francis abbia fatto gli occhi dolci
al fidanzato di Whitney, Ray-J. Infatti, proprio quando Ray-J prova a
intervenire, cercando di calmare la Houston e chiedendole di non
essere così “aggressiva”, ottiene l’effetto contrario. Whitney va su
tutte le furie e si scaglia contro Stacy; le due vengono alle mani, poi
la situazione torna sotto controllo. La starlette del talent show non
commenta l’accaduto, limitandosi a dire che – al di là di tutto – prova
profonda stima per Whitney e il suo immenso talento. Kelly Price, dal
canto suo, parla di una festa meravigliosa e di una Houston in forma
e di buon umore.
Le foto che vengono diffuse dai giornali, e che la ritraggono
all’uscita del night, raccontano tutt’altro. Qualcuno nota persino del
sangue sulla sua gamba sinistra.
A party finito, Whitney Houston torna al Beverly Hilton.

A differenza di quanto accaduto il giorno prima, quando Whitney è


“monitorata” di continuo, nessuno sa dire con precisione cosa abbia
fatto il venerdì. Di sicuro non ha mai lasciato l’albergo e solo a tarda
sera viene avvistata al bar dove (secondo quanto riferiscono alcuni
testimoni) trascorre l’intera notte a bere con un gruppo di amici. Va a
letto tardi e, anche per questo, l’indomani si sveglia dopo
mezzogiorno.
Poi, decide di immergersi in vasca per un bagno caldo. Da lì,
probabilmente intorno alle 15:00, telefona a sua madre Cissy
Houston.
Prima aveva parlato con sua cugina, Dionne Warwick: le due
stavano verificando che, alla festa di Clive Davis, fossero sedute allo
stesso tavolo. Anche con la madre, Whitney discute del party di
quella sera: “Voleva il mio parere sull’abito che aveva scelto di
indossare”, racconta Cissy, che aggiunge: “Whitney mi è sembrata
normale… lucida e tranquilla”.
La telefonata dimostra che la terribile tragedia si consuma nel giro
di mezz’ora.
Cissy Houston si chiude nel suo dolore: parlerà solo due mesi
dopo, rilasciando una toccante intervista per la rete locale MY9, nella
quale ammetterà, non riuscendo a trattenere le lacrime, di aver fatto
il possibile per salvare la figlia.

Quel pomeriggio dell’11 febbraio, tra polemiche e critiche, arriva


anche la notizia che il party di Clive Davis si terrà ugualmente; già,
proprio quella festa cui Whitney non avrebbe voluto mancare per
nulla al mondo e per la quale si era agitata così tanto cercando
l’abito giusto.
Mentre il cadavere della popstar è ancora nella suite 434, al
Beverly Hilton cominciano ad arrivare le limousine degli ospiti. A
separare le stanze della festa dalla “scena del crimine” ci sono
soltanto un paio di corridoi in cui cala un gelido silenzio.
Apre la serata il padrone di casa, Clive Davis. Lo fa ricordando la
sua grande amica e sottolineando più volte che Whitney avrebbe
voluto che la musica andasse avanti.
Il leitmotiv di tutte le esibizioni è proprio il ricordo della regina del
pop: sul palco si alternano da Ne-Yo e Pittbull a Diana Ross. Le
rendono omaggio anche Richard Branson, Puff Daddy e Alicia Keys,
che apre il suo brano No One con una dedica: “Questa è per te,
Whitney… che le nostre voci ti accompagnino in Paradiso”.
Intanto, a Memphis, anche Bobby Brown, ex marito di Whitney e
papà di Bobbi Kristina (indicato da molti come la causa del declino
artistico e psicofisico della star), decide che “lo show deve andare
avanti”. Non annulla il suo concerto previsto per quella sera; si limita
a mandare qualche bacio al cielo e a gridare un “Whitney I love you”
tra una canzone a l’altra. Un po’ poco, forse, per una donna che lo
ha amato alla follia, sopportando, in quindici anni di matrimonio,
maltrattamenti e abusi, tradimenti, separazioni e ritorni di fiamma. Il
tutto “innaffiato” da tossicodipendenze varie.
Una volta spenti i riflettori e le luci della festa, il corpo di Whitney
può essere trasportato fuori dal Beverly Hilton. È una richiesta
specifica del coroner di Los Angeles: il cadavere non deve essere
rimosso prima della notte. Motivo? Sarebbe stato “insensibile e
indecoroso un carro funebre tra le limousine”.
La sera successiva, allo Staples Center, la 54° Edizione dei
Grammy A wards è caratterizzata da tristezza e sobrietà. Poche le
star che hanno voglia di fermarsi e rilasciare commenti durante la
classica entrata sul red carpet.
“Non ho parole, solo lacrime”, sintetizza un po’ per tutti Rihanna.
Il maestro di cerimonia L.L. Cool J invita il pubblico a una
preghiera collettiva: “Abbiamo perso una sorella”, dice commosso,
“Whitney, ti ameremo sempre e ti vogliamo ricordare nel modo
migliore che conosciamo: attraverso una canzone”. Sul palco sale
Jennifer Hudson per cantare I Will Always Love You.

L’indagine viene chiusa, anche se qualche dubbio permane: è stata


davvero Tiffanie Dixon la prima a trovare il cadavere della Houston o
piuttosto Mary, la sua assistente? È vero che la sua guardia del
corpo, Ray, ha tentato un disperato massaggio cardiaco? Whitney
ha avuto un malore e poi è affogata o è stata overdose di cocaina?
Una cosa è certa: la “scena del crimine” è stata alterata da Raffles
Van Exel, uno dei suoi manager, che ripulisce la camera da ogni tipo
di droga e poi parte per l’Olanda.
Dall’autopsia emergono altri particolari inquietanti. Il corpo di
Whitney è martoriato da tagli, cicatrici, ustioni e abrasioni, alcune
delle quali risalenti a diversi anni prima. L’anatomo-patologo nota un
buco nel setto nasale e una puntura sul braccio. Inoltre, riscontra la
mancanza di undici denti, segno evidente di una lunga dipendenza
dalle droghe.
Non solo. Sul cadavere vi sono ustioni evidenti sulle gambe e sulla
schiena, determinate quasi certamente dall’annegamento nella
vasca piena di acqua bollente, che dopo un’ora conserva una
temperatura di oltre 30 gradi e che, si presume, potesse essere
addirittura superiore ai 60 quando Whitney si è immersa.
Infine, vi sono segni di operazioni di chirurgia estetica al seno, alle
cosce e agli addominali. Al momento del ritrovamento del corpo, la
popstar porta una dentiera e indossa una parrucca.

18 febbraio 2012, Newark, New Jersey.


Chiesa Battista della Nuova Speranza.
Fin dalle prime ore del mattino si raduna una gran folla: all’esterno
della chiesa sono stati allestiti schermi giganti per consentire alla
gente di seguire la cerimonia prevista per mezzogiorno. Trasmesso
in mondovisione, di fronte a centinaia di fotografi e cineoperatori, si
celebra il funerale di Whitney Elizabeth Houston.
A nulla valgono le richieste della famiglia che aveva sperato in un
rito privato: il funerale si trasforma in un evento/spettacolo che dura
quasi tre ore. Insieme a un grande coro gospel, Alicia Keys, Aretha
Franklin, Stevie Wonder e tanti altri le dedicano accorati tributi
musicali, mentre gli amici la salutano con discorsi commoventi. Tra
questi, colpisce quello di Kevin Costner, suo indimenticabile partner
nel film The bodyguard.
Purtroppo, un fatto vergognoso segna anche quest’ultimo,
malinconico momento: qualcuno – tra i pochissimi che hanno avuto
accesso alla camera ardente – scatta una foto alla Houston nella
bara che, il giorno dopo, finisce sulla prima pagina del tabloid
americano National Enquirer.
Sui social network, intanto, si moltiplicano i messaggi di cordoglio
da parte dei fan e di altre di star internazionali: dall’Europa
all’Oriente, tutti vogliono dedicare un saluto a una delle ultime dive
dei tempi moderni.
Whitney se n’è andata quando aveva già dato tutto e quando
ormai non era più giovane e bella. Ma le sue canzoni, colonna
sonora romantica di una intera generazione, rimangono così che
Whitney possa essere ricordata e amata per sempre.
We will always love you…
CLUB J27
Il famigerato club della J27

La lettera J e il numero 27: la combinazione più temuta dalle


rockstar maledette.
Ha cominciato il bluesman Robert Johnson, quando, alla fine degli
anni Trenta, stringe un patto con Satana: la perizia musicale in
cambio dell’anima. Muore a 27 anni, dopo un concerto, avvelenato
da un marito geloso. Poi, è la volta di Brian Jones, dei Rolling
Stones, altri che provavano una certa “simpatia per il diavolo”.
Quindi, Jimi Hendrix e Janis Joplin. Infine, Jim Morrison…
Che coincidenza inquietante: nel giro di due anni esatti, dal 3
luglio 1969 (Brian Jones) al 3 luglio 1971 (Jim Morrison), quattro
grandi rockstar muoiono in modo misterioso. Tutti hanno una J nel
nome. Tutti hanno 27 anni.
E pensare che, nella cultura popolare, al 27 non sono associate
né sfortuna né tantomeno maledizione. Anzi.
Dal punto di vista matematico, il 27 è il cubo perfetto (ossia 33) ed
è anche un numero di Harshad – cioè un intero positivo divisibile per
la somma delle proprie cifre. Per la cronaca, Harshad deriva dal
termine sanscrito harsa e significa “grande gioia”.
Per chi ha fede, il 27 significa 9 volte 3, e cioè il numero della
perfezione, del divino. E quindi può essere visto come culto a Dio in
spirito e verità, mistero e rivelazione, canto, parola, silenzio, amore,
bontà e bellezza. Il 2 è padre e figlio e il 7 ricorre in ogni
manifestazione di Dio: 7 giorni per creare il mondo, 7 i giorni della
settimana, 7 le stelle dell’Orsa Maggiore. E, come si diceva prima, è
il cubo perfetto: il numero della Santissima Trinità, 3 x 3 x 3 = 27.
Anche la lettera J (in italiano, i lunga o anche jota) non presenta
implicazioni scaramantiche. È stata l’ultima lettera ad essere
aggiunta all’alfabeto latino. Se dunque lettera J e numero 27
(separatamente) non sono di per sé temibili, quando uniti producono
esiti misteriosamente malefici.
Questa strana regola vale, seppur in piccolo, anche nello sport. E
non sto pensando al 5 maggio 2003 (data nefasta per tutti i tifosi
interisti) quando la Juventus (la J italiana per eccellenza) vince il suo
scudetto numero 27 cui, di lì a poco, faranno seguito gli scandali di
“Moggiopoli” e tante stagioni travagliate. Mi viene piuttosto in mente
il grande pilota canadese Joseph Gilles Villeneuve che, oltre ad
avere una J nel nome, aveva scelto il numero 27 per la sua Ferrari
Formula Uno.
Alle 13:52 del 8 maggio 1982, sul circuito di Zolder (nel corso delle
qualifiche per il Gran Premio d’Austria) Villeneuve è in ritardo. Ha il
sesto tempo e sa che avrebbe potuto fare meglio. Ma ormai manca
pochissimo, bisogna rientrare ai box. Dopo aver superato la chicane
dietro al paddock, Gilles piomba a 260 all’ora sulla discesa che
immette nella “Terlamenbocht”, la curva del bosco.
Improvvisamente si ritrova davanti una vettura che procede
lentamente, la March numero 17 guidata dal tostissimo tedesco
Jochen Mass. Il pilota della March vede la Ferrari di Villenueve negli
specchietti e si sposta a destra per lasciarlo passare. Gilles, invece,
è convinto che Mass vada a sinistra per affrontare la curva
all’interno, seguendo la traiettoria migliore.
È una frazione di secondo. La ruota anteriore sinistra della Ferrari
urta la posteriore destra della March: il contatto fa decollare la rossa.
Il volo è impressionante: due loop completi per un totale di
venticinque metri…
La vettura atterra pesantemente su un terrapieno, poi rimbalza,
perde parte dell’avantreno e si affloscia all’interno della curva.
Nel corso dello spettacolare volo, il sedile si stacca dalla scocca e
con lui il pilota, che viene catapultato all’esterno dalla rottura delle
cinture di sicurezza. Dopo cinquanta metri in aria, il corpo del pilota
distrugge una prima rete di recinzione per poi sbattere sul paletto di
sostegno di una seconda rete. Nonostante i soccorsi e il ricovero
immediato, alle ore 21:05 dell’8 maggio Gilles Villeneuve viene
dichiarato morto. Il 18 gennaio aveva compiuto trentadue anni.
Qualcuno lo aveva definito il “Jimi Hendrix della Formula Uno”.
Quando, dagli anni Novanta, si comincia a parlare di Club J27,
pensando ai casi di Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim
Morrison, nessuno immagina che il suddetto club (all’apparenza
chiuso, blindato, impenetrabile un po’ come quei vecchi,
superesclusivi circoli britannici che non accettano nuovi soci) si
sarebbe un giorno potuto allargare. Eppure, pochissimo tempo fa, si
è presentato un nuovo membro con tutte le credenziali richieste.
Una ragazza inglese con una voce unica, un’esistenza disperata,
che sul palco ha espresso tutto il suo disagio e il suo mal di vivere…
è affogata nell’alcol due mesi prima di compiere ventotto anni.
Il suo nome? Amy Winehouse. Secondo nome: Jade.

È un sabato sera caldo, afoso, umidissimo; una tipica nottata estiva


del sud degli States, di quelle in cui ti si appiccicano i vestiti
addosso.
Sono più o meno le dieci e mezzo di sera. Dal minuscolo palco del
Three Forks, locale malfamato all’incrocio tra la Highway 82 e la
statale 49, duecento chilometri circa a sud di Memphis, sono appena
scesi due musicisti di blues conosciuti e apprezzati in tutta l’Unione:
il formidabile armonicista Sonny Boy Williamson e il chitarrista e
cantante Robert Leroy Johnson.
Un paio d’anni prima, Johnson ha inciso un brano, Terraplane
Blues, che è stato un discreto successo.
Quando suona lì, il Three Forks si riempie sempre. Robert
Johnson è uno che piace.
Specialmente alle donne.
Quella sera, tra il pubblico, c’è una giovane e attraente signorina
afroamericana che non perde di vista neanche per un secondo quel
bluesman alto e magrissimo, dalle lunghe dita snelle, spesso
elegante, sempre assai galante.
Lo osserva con più attenzione delle altre donne che affollano il
locale. Gli sorride e ammicca in modo inequivocabile. Qualcuno
sostiene che la ragazza sia la fidanzata del barista, secondo altri,
invece, è la moglie del proprietario del posto.

Quasi tutti concordano sul fatto che lei e Johnson non si siano
conosciuti quella sera. Addirittura, pare che i due abbiano passato il
weekend precedente insieme.
In quei luoghi e in quegli anni, fare il musicista è un mestiere
pericoloso. Gli altri musicisti ti odiano a morte se suoni meglio di
loro. Le donne ti odiano a morte se non le guardi abbastanza. Gli
uomini ti odiano a morte se quella che osservi è la loro fidanzata.
O peggio, la loro moglie.
Sono quasi le ventitré. Dave
“Honeyboy” Edwards, l’altro bluesman che avrebbe dovuto stare lì,
sul palco del Three Forks, insieme a Johnson e Williamson, non si è
ancora presentato. Nell’attesa, qualcuno offre una bottiglia di
whiskey a Robert Johnson.
Sonny Boy la prende e la scaglia sul pavimento, distruggendola.
“Non bere mai da una bottiglia aperta”, lo ammonisce, “può essere
pericoloso”.
“Non osare mai più gettare a terra il mio whiskey”, gli ribatte
l’amico, “questo gesto è sicuramente pericoloso”.
Qualche minuto dopo, a Johnson viene offerta un’altra bottiglia;
anche questa aperta, dalla quale il bluesman beve con
soddisfazione. Sonny Boy lo guarda, scuote la testa e spera che
quello che lui teme non si avveri.
Honeyboy Edwards non arriva.
La musica riprende lo stesso. Ma non dura molto.
Neanche un’ora dopo, infatti, Robert Johnson comincia a sentirsi
debole. Le sue dita flessuose non viaggiano più sulla tastiera della
chitarra in quel modo delicato e fluido che lui è solito mostrare.
Anche la sua voce pare avere qualche piccolo cedimento.
Eppure, il ragazzo non molla: lui suona il blues, non è mica uno
che lascia il palco per un leggero malore.
Non passa nemmeno un quarto d’ora: sono circa le due di notte e
Robert non ce la fa più. Si alza a fatica dal suo sgabello. Sta
malissimo, deve essere portato via.
Quando arriva nella sua stanza, in una casa del quartiere battista
della città, Johnson crolla sul letto. È in fin di vita. Quel whiskey
(fattogli presumibilmente avere dal marito tradito della bella signorina
afroamericana) conteneva una dose massiccia di un potente veleno,
probabilmente stricnina.
Il bluesman viene trasportato in un’altra casa, all’interno della
piantagione Star Of The West dove gli viene fornita assistenza
ventiquattr’ore su ventiquattro. Il ragazzo è giovane e forte, ma
l’avvelenamento e le condizioni di debolezza gli procurano una forte
polmonite, una malattia che in quei giorni non lascia scampo.
Martedì 16 agosto 1938, Robert Leroy Johnson muore. Quattro
mesi prima, l’8 maggio, aveva compiuto ventisette anni.
Le sue spoglie, deposte in una bara di legno donata dalla contea
di Leflore, vengono seppellite nel piccolo cimitero al fianco di una
chiesetta nei pressi di Morgan City, pochi chilometri a nord di Green
wood, città natale del leggendario bluesman Furry Lewis. La tomba
non presenta iscrizione alcuna: non viene inciso neppure il suo
nome.
“Potete seppellire il mio corpo sul ciglio della strada”, cantava
Johnson in uno dei suoi ventinove blues, “così il mio vecchio spirito
maligno potrà salire al volo su un bus della Greyhound per andare a
farsi un giro…”.

Solo sette anni prima, Robert Johnson è un musicista poco più che
discre to. Il suo modesto chitarrismo è appena in grado di emulare
quello dei grandi maestri del Delta come Charlie Patton e Son
House, che Johnson ha visto suonare nei giorni in cui abita a
Robinsville.
Un giorno, però, Robert conosce Ike Zimmerman, un chitarrista
fantastico del quale diventa amico e che gli insegna alcuni trucchi
del mestiere.
In pochissimo tempo, Robert Johnson trasforma completamente il
suo stile.
Chi lo aveva ascoltato prima non lo riconosce più: Johnson è
diventato un fenomeno. O, come comincia a ipotizzare Son House,
“forse ha fatto un patto con il diavolo”.
Nasce così la leggenda dell’incrocio, alimentata anche da uno dei
brani più celebri di Robert Johnson, quel Cross Road Blues che
affascina tutti coloro che lo ascoltano. E che è uno dei ventinove
pezzi che Johnson registra in Texas in due sole sessioni tra il 1936 e
il 1937. L’incrocio di cui parla sembra essere quello tra la Highway
61 e la High way 49. L’altezza coincide con Clarksdale, Mississippi,
cittadina che è un mito assoluto per gli appassionati di blues perché,
tra gli altri, ha dato i natali a superstar come W.C. Handy, Muddy
Waters, Junior Parker e John Lee Hooker.
Secondo la leggenda, proprio nel mezzo di quell’incrocio, una
notte a mezzanotte, Robert Johnson e la sua chitarra si presentano
puntuali all’appuntamento con il diavolo. Il patto, agghiacciante nei
contenuti, è semplice nella forma: il talento musicale in cambio
dell’anima.
Anche se una strofa della canzone (“I went down to the
crossroads just to flag a ride”, “Sono andato all’incrocio solo per
scroccare un passaggio”) sembra dimostrare che le intenzioni del
bluesman fossero completamente diverse, il patto tra Robert
Johnson e il diavolo diventa ben presto di dominio pubblico.
Lui non fa nulla per nasconderlo.
I suoi pezzi più famosi si chiamano Me And The Devil (Io e il
diavolo), Preachin’ Blues (Up Jumped The Devil) (Il blues della
predica, il diavolo è balzato in alto). Addirittura, una delle sue
canzoni più amate (Hellhound On My Trail, il diavolo sulle mie
tracce) diventa la colonna sonora della leggenda stessa.
Nell’autunno del 1938, il musicologo John Hammond (direttore
artistico della Columbia e futuro produttore di Billie Holiday, Count
Basie, Bob Dylan e Bruce Springsteen) chiama l’amico Don Law
perché gli rintracci Robert Johnson, a sua detta “il più grande
interprete vivente di blues del Delta”.
Lo vuole sul palco della Carnegie Hall di New York per lo
spettacolo From Spirituals To Swing.
Law si rivolge a Ernie Oertle, il produttore che, solo l’anno prima,
ha diretto le registrazioni dei dischi del bluesman del Mississippi.
Ignaro dell’accaduto, Oertle scopre della morte di Johnson e la
comunica a Law e Hammond. Big Bill Broonzy prende il posto di
Johnson alla Carnegie Hall, ma John Hammond decide di onorare la
memoria del grande Robert suonando durante lo spettacolo le
registrazioni di due suoi brani: Walking Blues e Preachin’ Blues.

Londra, metà anni Sessanta.


Il mito di Robert Johnson rivive grazie all’infatuazione di alcuni
giovani musicisti inglesi per la musica e la cultura afroamericana. I
Rolling Stones con Love In Vain, i Cream con Crossroads, i
Fleetwood Mac con Dust My Broom e i Led Zeppelin con Travelling
Riverside Blues rendono popolari i pezzi dell’inimitabile bluesman
del Mississippi.
“Robert Johnson è il Mozart del blues”, dichiara Keith Richards in
quei giorni.
“Lui è stato il più grande di tutti”, ammette Eric Clapton.
Nel 1974, un musicologo texano (Mack McCormick) approfondisce
le sue ricerche su Robert Johnson. Scopre che il bluesman (oltre alla
sorellastra Carrie) ha un erede legittimo: un figlio. Non si tratta del
suo, per così dire, “figliolo artistico” (il chitarrista Robert Lockwood jr)
che Johnson, aveva in qualche modo “adottato” in virtù del suo
affetto dichiarato per la madre Estella Coleman.
Si chiama Claud, e Robert lo ha avuto da Virgie Mae Cain, un flirt
di un giorno nella primavera del 1931.
Il ragazzo è cresciuto con i nonni materni e non ha mai conosciuto
il padre naturale.
“Mi dicono che io lo abbia visto solo un paio di volte, quando ero
molto piccolo. Di lui non ho nessun ricordo”, dice Claud Johnson,
che dopo una lunga battaglia legale ha da qualche anno ottenuto il
pieno riconoscimento del copyright sull’opera del padre.
“Appena l’ho saputo”, ha dichiarato Eric Clapton, “ho pagato
volentieri le royalty per i brani di Robert Johnson che ho inciso da
solo e con i Cream”.
Mack McCormick scopre nuovi e interessanti retroscena anche
sulla misteriosa morte. Si rivolge allo sceriffo di Greenwood, che
però non pare interessato a riaprire il caso.
“Ho parlato a lungo con l’assassino di Robert Johnson”, dichiara
McCormick, “posso solo svelarvi il suo nome di battesimo: si chiama
Ralph e mi ha detto che è stato lui a mettere una dose di stricnina
nella bottiglia di whiskey. ‘Quel bastardo se l’è cercata’, ha detto
Ralph, ‘ha molestato mia moglie’”.
Sul certificato di morte, ritrovato e reso pubblico in quegli stessi
anni, alla voce “causa del decesso” appare scritto: “No doctor”.
Nessun dottore, infatti, ha potuto certificarlo.
Steve Laverve, musicologo e produttore di Greenwood, che dopo
un accordo con Carrie per qualche anno ha avuto in mano i diritti
delle musiche di Robert Johnson, sostiene che la vera causa della
morte sia stata la sifilide.
“Johnson, nel suo incessante peregrinare per il sud degli Stati
Uniti”, era solito dire Laverve, “saltava con facilità da un letto all’altro.
In quei giorni, la sifilide era una malattia molto comune. E nessuno
prendeva precauzioni”.
McCormick ha raccolto una mole ragguardevole di informazioni e
di materiale vario, tra cui un paio di foto di Robert Johnson, oltre a
quella straordinaria e celeberrima istantanea che lo ritrae con
cappello e chitarra che campeggia sui suoi dischi e sulle
enciclopedie del blues.
Da oltre vent’anni, si vocifera sulla pubblicazione di un’opera
monumentale da lui curata. Ma, ad oggi, si conosce solo il titolo:
Biography Of A Phantom, biografia di un fantasma.
Le spoglie di Robert Johnson riposano nel cimitero battista di Little
Zion nella contea di Leflore, Stato del Mississippi.
Ma ci sono almeno tre tombe che lo ricordano.
Di fianco ad esse, decine di plettri vengono quotidianamente
deposti da ammiratori/chitarristi che, forse, per un giorno hanno
immaginato, anche loro, di vendere la propria anima al diavolo in
cambio del talento artistico.
Sulle lapidi, la riproduzione del messaggio d’addio, scritto a mano,
del grande bluesman poco prima di morire e conservato per i posteri
dalla sorellastra Carrie: “Gesù di Nazareth, Re di Gerusalemme, mio
redentore. So che esisti e che mi chiamerai dalla tomba”.
Molti hanno detto che, nel momento in cui viene letto, si ha
l’impressione che Satana faccia capolino e sorrida in modo
beffardo…

La Cotchford Farm è un’elegante dimora nella campagna inglese, a


un paio di ore d’auto da Londra. Negli anni Venti è stata la residenza
estiva dello scrittore Alan Alexander Milne. Già, proprio “quel” A.A.
Milne: il creatore dell’orsetto Winnie Pooh. Da qualche mese, invece,
è la nuova proprietà di Brian Jones, chitarrista e fondatore della rock
band The Rolling Stones.
Brian ha deciso di trasferirsi lì per provare a ritrovare un po’ di
pace. Per lui, l’ultimo anno è stato piuttosto turbolento. Lo conferma
Anna Wohlin, la studentessa svedese che Jones ha voluto accanto a
sé alla Cotchford Farm.

“Gli arresti per droga lo avevano profondamente turbato”, racconta


Anna, “temeva che la polizia lo spiasse e per questo aveva
categoricamente vietato il consumo di droga alla Farm. Quella era la
prima, vera casa della sua vita. La adorava, si prendeva cura di
tutto, persino dei dettagli. Secondo lui era meglio che stare a
Hollywood: una volta mi ha confessato che avrebbe voluto vivere lì
fino al giorno della sua morte. Ogni tanto, però, provava una strana
sensazione, una sorta di déjà-vu; gli sembrava di aver già vissuto in
quella villa…”.
Dopo i due arresti del 1968, Jones decide di allontanarsi dal caos
di Londra. Si vocifera che sia stanco degli eccessi della vita da
rockstar. Quando gli capita l’occasione di acquistare quella country
house idilliaca, non gli pare vero. E così la Cotchford Farm diventa
un punto di riferimento, ma anche sinonimo di serenità, uno stato
d’animo che raramente ha provato in vita sua. Eppure, nonostante la
rilassante tranquillità dell’East Sussex, la mattina di mercoledì 2
luglio, in quella bella villa con piscina c’è un clima teso.
Il giorno prima, Brian ha licenziato Frank Thorogood, un tipaccio
che fa il costruttore edile per conto di Tom Keylock, altro mafiosetto
capace di infilarsi nell’entourage degli Stones come autista e guardia
del corpo. Thorogood, che in passato ha sistemato la casa di Keith
Richards, sta dirigendo i lavori di ristrutturazione della Cotchford
Farm. Ma forse non lo sta facendo con la dovuta attenzione. È
accaduto un fatto grave: una trave di legno si è staccata dal soffitto e
per un pelo non è finita in testa ad Anna Wohlin, la nuova fidanzata
di Jones.
“Mentre ero al telefono”, ricorda la Wohlin, “Brian è venuto in
cucina accanto a me. Di colpo, qualche secondo dopo, è crollata la
trave. Se Brian non m’avesse prontamente spinta via, probabilmente
sarei morta: era un’asse grossa e pesantissima. Nonostante fosse
più scosso di me, ha provato a tranquillizzarmi… è sempre stato un
ragazzo premuroso”.
L’incidente della trave è la goccia che fa traboccare il vaso. La
pazienza (poca) di Brian Jones è definitivamente esaurita. “Basta, mi
sono stufato”, sbotta, “do subito ordine di fermare tutti i pagamenti di
Thorogood. Quello stronzo con me ha chiuso”.

I rapporti tra Thorogood, i suoi uomini e la rockstar inglese sono


complicati fin dall’inizio. Frank è un tipo che tende ad allargarsi: si
muove nei locali della Farm come fosse a casa sua. Lo stesso fanno
gli operai alle sue dipendenze. Brian, che non è certo personaggio
facile, non tollera questo tipo di comportamento.
Thorogood e i suoi, d’altro canto, non sopportano i capricci del
chitarrista degli Stones. Gli invidiano il look, le donne, lo stile di vita.
Ma soprattutto non ne sopportano il caratteraccio, irascibile e
arrogante.
Jones è assillato dai dubbi: chiede in continuazione ad Anna se
stia facendo la cosa giusta. Lei lo asseconda, ma deve sempre
convincerlo, motivarlo. “Non sapeva che fare con Thorogood”,
confessa, “a volte, mi diceva: ‘Se lo caccio, Frank resterà senza
soldi…’. In quei giorni, c’era un brutto clima alla Farm. Frank
Thorogood stava facendo un pessimo lavoro e, di fatto, stava
rubando tempo e denaro a Brian”.
Pare che, dopo l’incidente della trave, Jones e Thorogood litighino
furiosamente in cucina. “Che volevi farmi?”, gli urla in faccia Brian,
“avevi forse intenzione di ammazzarmi?”.

Il 1° luglio Janet Lawson, infermiera e “amichetta” di Tom Keylock,


dorme con lui e Thorogood nella dependance della Cotchford Farm.
Jones lo viene a sapere. Seccato dal fatto che “quei due” si fanno gli
affaracci loro, è furioso e si sfoga con Anna: “Questi la devono
smettere di approfittarsi di me”.
La mattina del 2 luglio, Brian e Anna fanno un’abbondante
colazione. Jones sembra di buon umore. Si ascolta tutto d’un fiato
un album della sua band preferita, i leggendari rocker californiani
Creedence Clearwater Revival. La sua mente però è ossessionata
da un nome: quello di Frank Thorogood.
Anna Wohlin e Brian Jones trascorrono insieme tutta la giornata
del 2 luglio alla Cotchford Farm. Prendono il sole in piscina, fanno il
bagno, giocano con i cani. Dopo cena, guardano in televisione un
film con Goldie Hawn.
A un certo punto Jones decide che è il momento di chiarirsi con
Frank Thorogood. “Deve conoscere le mie ragioni”, dice, “non voglio
che ci siano malintesi”.
“La sera del 2 luglio, eravamo in quattro”, ricorda la Wohlin, “io,
Brian, Frank e l’amante di Tom Keylock, Janet Lawson, che nessuno
aveva mai visto prima. Io e Brian stavamo guardando la tv prima di
andare a dormire. Poi, non so perché, Brian è salito da Frank. Non
gli andava che Janet si trovasse lì, e che sia Tom che Frank
(entrambi sposati) si portassero le loro amanti a casa sua”.
“Poi”, prosegue Anna, “Brian è tornato di sotto con Frank e Janet:
a dire la verità, sono rimasta sorpresa nel vederli insieme… Poi
hanno bevuto qualcosa, Frank della vodka e Brian del vino o del
brandy”.
Brian, dunque, non dà retta ai consigli della sua fidanzata e decide
di fermarsi insieme a Frank Thorogood e a Janet Lawson. Dopo
qualche drink, i due uomini iniziano una conversazione dai toni
surreali. “Voglio che tu sappia che non ce l’ho con te”, spiega Jones,
“ma capisci che se quella trave avesse colpito Anna non avrei
saputo darmi pace. Non avevo scelta: ho dovuto licenziarti”.
Thorogood ascolta in silenzio. Beve la sua vodka e non sembra
interessato ai discorsi di Jones. Janet è imbarazzata.
Brian decide allora di andare in piscina. Lui è un nuotatore
provetto e, appena può, va a farsi un tuffo. È una cosa che gli piace,
lo rilassa e spesso lo aiuta a chiarirsi le idee. Brian da piccolo ha
sofferto d’asma e ancora adesso, quando deve affrontare le
ricorrenti crisi respiratorie, ha bisogno di un inalatore. Se lo porta
sempre dietro, per ogni evenienza; e, prima di immergersi in piscina,
lo lascia sul bordo. Non si sa mai…
Chi lo conosce bene, come suo padre o come Pat Andrews (una
delle fidanzatine di Cheltenham, madre del suo primo figlio), giura
che Brian “da ragazzo faceva gare di nuoto. È stato pure bagnino…
insomma, chi può credere che un nuotatore provetto come lui sia
potuto annegare in una piscina?”.
“Quella notte non ha bevuto niente di strano”, giura la Wohlin, “a
meno che qualcuno, a sua insaputa, abbia messo qualcosa nel suo
bicchiere”.
Nuota dunque benissimo Brian, l’acqua è un elemento nel quale si
trova a suo agio. Mentre Frank e Anna scendono in acqua dalla
scaletta, Jones si esibisce in un tuffo perfetto dal trampolino. Quasi
subito, si mette a scherzare. È una cosa che fa spesso quando è in
piscina: si immerge, acchiappa le gambe del malcapitato e lo
trascina sott’acqua. Quel giorno, forse anche per sdrammatizzare la
situazione, ripete il giochino con Frank.
“Brian non aveva per niente voglia di farsi un tuffo”, è pronta
invece a scommettere Anna Wohlin, “credo sia stato Frank a
convincerlo. Lo so per certo perché ricordo che neppure io ero
dell’idea. E poi Janet non sapeva nuotare… Alla fine, in piscina,
c’eravamo io, Frank e Brian. Poi improvvisamente Janet mi ha
chiamato dicendomi che c’era una telefonata per me. Mentre mi
allontanavo, ricordo che Brian mi ha chiesto di tornare prima
possibile: voleva sempre avermi vicino…”.
Secondo la testimonianza di Anna dunque, qualche minuto prima
dell’incidente, Janet Lawson si reca in piscina per avvisarla che c’è
una telefonata per lei. La Wohlin va in cucina a rispondere al
telefono. Quando arriva al ricevitore, la linea sembra caduta.
Non c’è nessuna telefonata in attesa. O così, almeno sembra.
Anna sale allora al primo piano e si reca in camera da letto.
Stavolta sente il telefono squillare, alza la cornetta e riesce
finalmente a parlare: dall’altro capo del filo c’è Terry, una sua amica
svedese che sta chiamando da Londra. Le due ragazze
chiacchierano per qualche minuto sino a che Anna sente Janet che
la cerca nuovamente. È molto agitata: dice che in piscina è successo
un incidente…
Quando attraversa di corsa la cucina, prima di uscire, Wohlin vede
Thorogood con i capelli bagnati e un asciugamano sul collo. Nota
che, mentre si sta accendendo la sigaretta, le sue mani tremano. Ma
non dice nulla.
Anna arriva in piscina. A un primo sguardo, non vede niente di
strano. Poi, avvicinandosi al bordo, scorge sul fondo il corpo inerme
di Brian. Non ci pensa due volte: si tuffa immediatamente e con tutte
le forze che ha in corpo cerca di riportarlo a galla. Ma è troppo
pesante e scivoloso… Anna ha bisogno di aiuto. Chiama Frank e,
insieme, i due riescono a trascinarlo fuori dall’acqua.
Anna è disperata. In lacrime, urla in faccia a Thorogood tutta la
sua rabbia: “Perché non l’hai aiutato? Perché lo hai lasciato da solo?
È tutta colpa tua…”.
Frank sembra di ghiaccio. Non reagisce minimamente alle accuse
della Wohlin, persino il tremore alle mani è scomparso.
Neppure Janet Lawson, dice nulla. Lei non sa nuotare: per questo
quando scorge il corpo di Brian sul fondo della piscina chiama Anna.
Tutto ciò che si limita a fare (lei, un’infermiera professionista…) è un
goffo tentativo di massaggio cardiaco. Che però serve a poco: Brian
Jones ormai è morto.
Alle due di notte, la tragica notizia raggiunge i Rolling Stones che,
solo qualche settimana prima, hanno estromesso Brian dal gruppo.
Sono in studio a registrare I Don’t Know Why, un pezzo di Stevie
Wonder. Charlie Watts e soprattutto Bill Wyman (quello del gruppo
da sempre più vicino a Brian Jones) scoppiano a piangere. Qualcun
altro dell’entourage dei Rolling Stones reagisce però in modo
diverso: “Jones affogato nella piscina di casa sua? Peccato, avrei
voluto esserci anch’io… a tenergli la testa sott’acqua!”.
Neppure tre giorni dopo la morte di Brian, il 5 giugno 1969, i
Rolling Stones decidono di tenere il tanto annunciato concerto
gratuito a Hyde Park. Mick Taylor, il nuovo enfant prodige del rock
blues inglese, ha già sostituito Brian Jones. Gli Stones dedicano lo
show all’amico scomparso: Mick Jagger legge in apertura alcuni
versi dell’Adonais di Shelley, mentre Tom Keylock (già, proprio lui…)
libera migliaia di farfalle bianche.
Molti dicono sia stato uno dei peggiori live show mai fatti dagli
Stones.

Dal 1966 lo spericolato stile di vita di Brian Jones prende una piega
sempre più brutta. Brian sembra quasi sfidare se stesso, portandosi
spesso ai confini dei propri limiti fisici e psicologici. Ama ritrovarsi in
situazioni felliniane: indossa uniformi naziste di fronte alle macchine
di fotografi e operatori televisivi, si porta a casa più groupie alla volta
spingendo all’estremo della perversione i propri desideri sessuali. Di
fatto, dà la sensazione di buttarsi via, fisicamente, moralmente ed
emotivamente.
Dalla metà del 1967, il crollo fisico e psicologico di Brian Jones è
sotto gli occhi di tutti. Così come il suo uso e abuso di droghe. Anche
in quell’esercizio (alcolismo e tossicodipendenza) Brian è un vero
sperimentatore: tra le rockstar, è stato certamente il primo e più
audace consumatore di droga.
Nel corso del ’67 e del ’68, Brian frequenta assiduamente le aule
del tribunale di Londra. L’accusa è sempre la stessa: detenzione di
sostanze stupefacenti. Nel frattempo, un esercito di psichiatri lo
segue costantemente per certificare l’idoneità delle sue facoltà
mentali, ma anche per tutelarlo nel malaugurato caso in cui dovesse
finire in prigione. Ovviamente, la sua partecipazione alle attività del
gruppo è ridotta al lumicino. Le poche volte che si presenta negli
studi di registrazione ci arriva in condizioni tragiche, non di rado
dopo aver appena smaltito una grossa sbronza. Ogni tanto prova a
prendere in mano qualche strumento, ma sempre più raramente lo
suona. Brian capisce di venire progressivamente emarginato dagli
Stones e la sua frustrazione aumenta in maniera proporzionale alla
consapevolezza di essere stato lui quello che ha iniziato il tutto. La
sua delusione, inoltre, è ulteriormente accentuata dal fatto che, pur
essendo il musicista più bravo e creativo del gruppo, non riesce a
comporre un solo brano in grado di avere le caratteristiche giuste per
diventare un hit degli Stones.
O forse, più semplicemente, non gli viene concesso di farlo: “Non
è vero che Brian non componesse”, sostiene infatti Anna Wohlin, “ho
sentito tanti pezzi suoi… so anche che li faceva ascoltare a Mick e
Keith ma loro li hanno sempre rifiutati… questione di royalty…”.
Il sesso sfrenato è un’altra delle specialità di Brian Jones: ma
seppure si vociferi che abbia in giro un numero non ben identificato
di figli (avuti da rapporti più o meno occasionali), Brian, in realtà, ha
“solo” tre figli: uno adottato di cui si sa poco o nulla; un altro, Julian
Mark Andrews – da Pat Andrews – che gli assomiglia in modo
impressionante e che oggi è un manager affermato di una società
multinazionale; e l’ultimo, Julian Brian Jones, che vive negli Stati
Uniti e si occupa di musica (sua madre Linda Lawrence ha sposato il
folksinger Donovan, che quindi è il padre adottivo di Julian). Tutte
queste sue stravaganti ma anche “pericolose” caratteristiche
diventano la scusa migliore che convince gli altri Stones a dargli il
benservito nel giugno del 1969.
Ormai, dunque, è ufficiale: Brian è fuori dalla band.
In realtà, Jagger e Richards sono da tempo i veri padroni degli
Stones e mal tollerano la presunzione di Jones, il suo essere
perennemente distaccato e di pessimo umore. Ma soprattutto sono
gelosi della sua creatività, del suo look estremamente cool, delle sue
intuizioni geniali. Brian è sempre il primo ad arrivare sulle nuove
tendenze: prima il blues, poi la psichedelia e le droghe allucinogene,
addirittura riesce ad anticipare di anni la moda della world music,
andando a registrare in Marocco con la tribù di Joujouka.
Invidiosi e un po’ irritati da tutto ciò, gli altri Stones meditano
vendetta. Mick diventa il capo della “cospirazione” tesa a
estrometterlo dalla band, mentre Keith, con un colpo davvero gobbo,
gli porta via la fidanzata, l’amata attrice/modella Anita Pallenberg,
con cui Brian, oltre ad aver convissuto le avventure in Marocco,
formava coppia ammiratissima.
Secondo qualcuno, però, le cose vanno in modo diverso. Nel
giugno del 1969, Jagger, Watts e Richards si recano alla Cotchford
Far non per licenziare Jones. Piuttosto, ci vanno per negoziare.
Infatti, Brian ha fatto sapere di essere disposto a lasciare il gruppo,
ma a un patto: non può esserci una band chiamata Rolling Stones
senza che lui ne faccia parte. Non si tratta di smania di potere: è
stato Brian Jones a formare la band nel 1962, ma, soprattutto, è lui
che ha inventato il nome Rolling Stones, diventato per ciò, secondo
le leggi britanniche, un marchio registrato di sua proprietà.
I giornali inglesi pubblicano una dichiarazione in cui Jones spiega
di aver deciso di lasciare il gruppo per divergenze artistiche. Ma
nonostante questo, e anche se il comunicato stampa ufficiale non
parli di licenziamento, l’opinione pubblica tende a pensare che
Jagger & Richards lo abbiano messo da parte. Le ragioni per “farlo
fuori” sono molteplici: ad esempio, la condanna per droga che
impedisce a Brian di andare in America, ostacolando i piani live agli
Stones.
Purtroppo, c’è di più. Se Brian (come nei suoi desideri) avesse
formato una band con John Lennon e Jimi Hendrix e l’avesse
chiamata Rolling Stones (perché ne aveva i diritti), questo avrebbe
significato per i “vecchi” Stones un danno economico e di immagine
assolutamente incalcolabile.
“Brian e John Lennon si sentivano spesso”, ricorda Anna Wohlin,
“specie nel giugno del 1969… John lo esortava a seguire una
carriera solista”.
Si dice che Tony Sanchez, che all’epoca è molto vicino agli
Stones, abbia offerto a Brian una buonuscita di 100mila sterline più
un vitalizio da 20mila sterline l’anno. Una somma enorme in cambio
della liberatoria per l’utilizzo del nome Rolling Stones.
Trevor Hobley, fondatore del Brian Jones Fans Club, chiarisce
meglio la situazione, spiegando che “all’inizio Brian – l’unico con l’età
legale per formare una società – ha la lungimiranza di creare la
Rolling Stones Ltd, company con quote paritarie per tutti i membri: il
20 per cento a testa. Morto Brian Jones, la Rolling Stones Ltd
sparisce improvvisamente per far posto alla Rolling Stones B.V., con
sede in Olanda, che da statuto ha quattro consiglieri amministrativi: i
quattro Rolling Stones. Di fatto, dal 1969 al 1971, il nome di Brian
Jones scompare dai documenti societari”.
Hobley ha un’altra certezza: “Sono convinto che i membri dei
Rolling Stones sappiano esattamente cosa è successo la notte del 2
luglio 1969”, afferma, “e il fatto stesso che tacciano riguardo a un
reato grave come l’omicidio è già di per sé un crimine”.

Il 10 giugno 1969, nella città natale di Cheltenham (140 chilometri a


nordovest di Londra), si svolgono i funerali di Brian Lewis Hopkins
Jones. Deposte in una maestosa bara di bronzo, le spoglie vengono
salutate per l’ultima volta da parenti e amici. Degli Stones, solo Bill
Wyman e Charlie Watts sono presenti al funerale. Mick Jagger e
Marianne Faithfull sono in Australia a girare un film, mentre Keith
Richards e Anita Pallenberg (ex fiamma proprio di Brian Jones)
hanno forse buoni motivi per non esser presenti.
Anche Anna Wohlin è assente, ma non per propria volontà:
“Nessuno lo ha saputo, ma in quei giorni Tom Keylock e Allen Klein
(il manager degli Stones) mi hanno allontanato dall’Inghilterra. Mi
hanno detto semplicemente di andarmene. Tom Keylock mi ha
raccontato una montagna di bugie come, ad esempio, che sarei
potuta tornare a Londra per il funerale. Ma in quel momento loro
volevano solo sbarazzarsi di me, perché i giornalisti mi stavano
offrendo denaro per raccontare come erano andate veramente le
cose. Allen Klein ha alzato la posta: mi ha proposto 50mila sterline.
Non le ho accettate e ho fatto bene, perché lui era veramente uno
stronzo. Per loro, ero un problema: i giornalisti mi cercavano e avrei
potuto dichiarare pubblicamente che non credevo alla teoria della
morte per annegamento”.
L’esame autoptico rivela che non ci sono sostanze dopanti nel
sangue di Brian Jones. Anche la percentuale di alcol è nella norma.
Nei giorni successivi, mentre sono in corso le indagini della polizia,
Tom Keylock e soprattutto Frank Thorogood minacciano Anna
dandole un “consiglio”: “Non c’è motivo di inventare chissà quali
storie”, le dicono, “ricordati che eravamo lì perché è stato Brian a
chiamarci”.
Qualche anno dopo, si dice che proprio lo stesso Keylock raccolga
sul letto di morte la confessione di Frank Thorogood.
“Quel giorno in piscina, non avevo voglia di scherzare”, gli
racconta Frank, “quando sono arrivati un paio di miei operai ho detto
loro: ragazzi, sapete che questa rockstar dice di essere un gran
nuotatore?’. Allora gli ho preso le gambe e mentre gli altri lo
tenevano sotto ho cominciato a dirgli: ‘Forza Brian, adesso fammi
vedere quanto sei bravo… forse lo abbiamo tenuto sotto un po’
troppo…”.
Tom Keylock si rivolge a Scotland Yard, ma non insiste più di
tanto. Per la polizia, il caso è chiuso. Ma non lo è per tutti coloro che,
come Anna Wohlin, Pat Andrews o Trevor Hobley, non sono affatto
convinti che Brian Jones sia morto affogato. Per loro, la confessione
di Frank Thorogood sul letto di morte è falsa. Thorogood era in
ospedale, questo è vero, ma non credeva di morire. I suoi famigliari
hanno affermato che, seppur fosse molto malato, era convinto di
guarire.
Anna Wohlin non molla. La sua teoria è questa: “Credo che Frank
abbia dato qualcosa da bere a Brian in casa, prima di andare in
piscina. Penso che abbiano messo qualcosa nel suo drink, un
sonnifero o una droga, qualcosa che avrebbe agito una volta che
Brian si fosse immerso in piscina. Ricordate la telefonata? Strano,
no? Hanno fatto in modo che mi allontanassi dalla piscina e quando
sono andata a rispondere non c’era nessuno dall’altro capo del filo”.
Inoltre, nella mente di Anna si fa strada un’altra ipotesi. Per lei,
potrebbe essere andata così: “Brian nuotava come un pesce. Forse
ha stuzzicato Frank o addirittura l’ha deriso. Thorogood, che era un
omone, magari ha reagito e può aver tenuto la testa di Brian
sott’acqua, sapendo che aveva qualche sostanza in corpo. Il mio
rammarico è che se non avessi lasciato la piscina forse tutto ciò non
sarebbe successo. La vasca è diritta, non presenta curve, e io avrei
potuto vedere Brian da ogni punto della Farm. Ma non ne avrei avuto
bisogno: Brian era un nuotatore abilissimo, capace di percorrere
sott’acqua tutta la lunghezza della piscina”.
Trevor Hobley ha indagato sulla morte di Brian Jones per sette
anni e raccolto tantissime informazioni. Con il suo team ha realizzato
centinaia di ore di interviste filmate. Ha tentato ogni strada possibile
per far riaprire il caso, dando fondo a tutte le sue risorse finanziarie.
È convinto di avere le risposte per far luce sul mistero della morte di
Brian Jones con il supporto di prove documentarie.
Sullo sfondo, uno scenario, ancora più inquietante: Brian Jones
ammazzato deliberatamente e poi buttato in piscina. “La morte di
Brian è stata premeditata. E inevitabile”, dichiara Hobley. “Il 2 luglio
sì è presentata l’occasione, ma prima o poi sarebbe successo
comunque. Ho scritto le ragioni nel dossier che ho presentato alla
polizia del Sussex, che però lo ha rifiutato. Penso che la morte di
Brian Jones rappresenti solo una parte di un piano criminoso più
vasto che si è sviluppato a Londra nel 1969 e che ha visto coinvolti
alcuni membri del governo, deputati parlamentari e la malavita
organizzata. Se si scavasse più a fondo nella morte di Brian Jones,
sicuramente verrebbero a galla verità scomode e uno scenario
marcio”.
A dare corpo a questa tesi, ci sono le testimonianze di Joan
Fitzsimmons, tassista e amichetta di Frank Thorogood, che due
settimane dopo la morte di Brian viene aggredita, sfigurata e resa
cieca. Ma anche di un certo Nicholas Fitzgerald, che la sera del 2
luglio, mentre sta entrando alla Cotchford Farm dalla parte della
piscina, scorge tre uomini che reggono un corpo esanime a testa in
giù. Gli stanno ripulendo la testa dal sangue. Hobley sostiene che
nel documento autoptico si parla di un vasto ematoma cerebrale. Ma
come può esserci un ematoma al cervello in un uomo che muore
affogato?
La polizia prima o poi dovrebbe decidersi a riesumare la salma di
Brian Jones e a riaprire il caso. E solo allora, forse, giustizia sarebbe
fatta.
Ore 11:45. L’ambulanza che trasporta il corpo senza vita di James
Marshall Hendrix giunge al pronto soccorso dell’ospedale St Mary
Abbot’s di Kensington. Dopo essere stato identificato dal road
manager Gerry Stickells, il cadavere viene analizzato da un certo
dottor Bannister.
“Era già morto da qualche ora”, dichiara John Bannister che
sottolinea un particolare importante: “Ricordo che dalla bocca e dal
naso fuoriusciva del vino rosso… anche il foulard che aveva al collo
era inzuppato di vino”.
Poco dopo, a Bannister subentra il medico legale, dottor Martin
Seifert, che ufficializza la causa del decesso: soffocamento.

Ore 12:45. L’autopsia condotta dal coroner di West London, il dottor


Gavin Thurston, conferma il primo referto: il chitarrista americano è
morto per soffocamento dopo aver ingurgitato il proprio vomito. Si
parla anche di intossicazione da barbiturici. Anzi, questa è l’ipotesi
che rimbalza sulle bocche della gente: Jimi Hendrix è morto di
overdose.
Il medico legale, dottor Martin Seifert, rilascia una dichiarazione
ufficiale: “Jimi Hendrix è stato portato nel reparto rianimazione e
immediatamente assistito. Non dava segni di vita. Ho provato a
praticare il massaggio cardiaco, ma l’ho fatto solo per dovere
professionale: Hendrix era già morto. Ricordo solo vagamente che
indossava abiti stravaganti… non sapevo chi fosse. Posso garantire
che nessun altro, a parte medici e infermieri, è stato autorizzato a
entrare in sala di rianimazione”.
Il coroner Thurston aggiunge che “non è possibile stabilire se la
morte sia stata casuale o in qualche modo provocata”.
Eric Burdon, cantante degli Animals e tra i più cari amici di Jimi
Hendrix, è uno dei pochi a non rimanere sorpreso dalla tragedia. E
ricorda che Jimi aveva un carattere fragile: “Più di una volta l’ho
avvisato: il music business è spietato. Non escludo si sia
deliberatamente tolto la vita. Due sere prima di morire l’ho incontrato
al Ronnie Scott’s. Sono rimasto scioccato: non l’avevo mai visto in
quello stato. Aveva un aspetto orribile. Da quel che sapevo, non si
faceva di eroina. Preferiva l’Lsd e la cocaina. Gli ho detto: ‘vai a casa
e torna quando starai meglio’. Non l’ho più visto”.

Nonostante svariate indagini e incessanti ricerche, restano ancora


molti punti da chiarire riguardo le ultime ore di Hendrix e le
circostanze che lo hanno portato alla morte.
Monika Dannemann, ex campionessa di pattinaggio dell’allora
Germania Est, è il personaggio chiave dell’intera vicenda.
Monika, in quei giorni, è la fidanzatina di Jimi Hendrix. O, almeno,
a lei così piace pensare. È stata lei a convincerlo a tenersi una
camera presso l’elegante Cumberland, un alberghetto di Kensington,
ma anche a trasferirsi quando gli pare e piace nel suo appartamento
presso il Samarkand Hotel a Notting Hill.
Proprio nel giardino del Samarkand, nelle prime ore del
pomeriggio del 17 settembre, la Dannemann scatta le ultime foto di
Hendrix che, sorridente, imbraccia quella Fender Stratocaster nera
che lui stesso ha ribattezzato “The Black Beauty”, la bellezza nera.
Monika è sempre stata orgogliosa di quegli scatti, gli ultimi di
Hendrix da vivo. “Anche a Jimi erano piaciuti molto”, ricorda, “li
avrebbe voluti utilizzare per la copertina del suo nuovo album”.
Sono passate da poco le 15:00, quando Jimi e Monica, finito il set
fotografico, lasciano l’appartamento di Notting Hill. Passano in banca
a prelevare dei soldi, poi si dirigono al mercatino di Kensington
prima, e al Chelsea Antique Market poi: Jimi ordina un paio di
scarpe, compra una giacca di pelle, delle camicie e qualche
pantalone. Sembra che, proprio a Kensington, Hendrix s’imbatta in
Kathy Etchingham, sua storica girlfriend. E che la inviti al
Cumberland, per le otto di sera.

La Etchingham, però, declina l’invito. “Gli ho detto che non


potevo”, sostiene, “me ne sto pentendo ancora adesso”.
Sempre nel corso di quel pomeriggio, Jimi telefona al suo
manager, Mike Jeffery, ex malavitoso di Newcastle, uno che gira
sempre con una pistola legata alla caviglia. Quel giorno Mike Jeffery
non è in ufficio. Non si trova.
Hendrix non insiste.
Intanto, mentre va a Chelsea con Monika, su King’s Road incontra
un’altra sua ex fidanzata, Devon Wilson, che lo invita a un party. Poi,
Hendrix e la Dannemann, tornano in auto verso il Cumberland Hotel.
Quando stanno per giungere nella zona del Marble Arch, rimangono
bloccati dal traffico.
Vengono affiancati da una Ford Mustang bianca. Al volante, c’è
Phillip Harvey, figlio di un importante lord del Parlamento inglese.
Harvey, e le due amiche che sono con lui, invitano Jimi e Monika a
prendere un tè da loro.
Sono, più o meno, le 17:30. I cinque ragazzi si accomodano nel
salotto di casa Harvey, fumano hashish, ascoltano musica e bevono
il tè.
Philip Harvey lo ricorda molto bene: “Quel giorno, Jimi era di buon
umore, disponibile e carino”, racconta, “ci ha confidato diversi
progetti che aveva in mente. Ha anche suonicchiato la mia
chitarra…”.
Nel corso del pomeriggio, i giovani bevono un paio di bottiglie di
vino rosso. Verso le 20:00, una delle due ragazze prepara da
mangiare un po’ di riso integrale e un’insalata, che Jimi apprezza.
Intorno alle 22:00, però, Monika comincia a dare segni di nervosismo
e fa una scenata di gelosia: “Una di quelle due puttanelle si
strusciava contro di lui… io mi sono incazzata e sono uscita di
corsa”.
Jimi ama le donne. Chi lo conosce bene sostiene che per lui sia
normale passare una serata in compagnia di più ragazze alla volta…
Ma non ha voglia di litigare. Saluta tutti, raggiunge Monika e con lei,
alle 22:40, lascia la casa di Philip Harvey.
Dal momento in cui escono dall’appartamento esistono parecchie
versioni dei fatti.
Di sicuro – anche se l’ora esatta non è chiara – Jimi si reca da
solo a quel party cui era stato invitato da Devon Wilson. Lì ci trova
anche Angie Burdon, la ex moglie di Eric Burdon ma anche una delle
numerose girlfriend di Jimi. Con le ragazze, Hendrix assume una
certa quantità di Black Bomber, un’amfetamina le cui tracce vengono
poi riscontrate dall’esame tossicologico effettuato sul cadavere.
Quindi torna al Samarkand da Monica, che, nel tempo, rilascia a
proposito testimonianze contraddittorie. Ad esempio, la Dannemann
ha sempre sostenuto che, una volta al Samarkand, Jimi avesse
preso dei tranquillanti per dormire. E che il medicinale tedesco in
questione (il Vesparax) fosse molto forte. In genere, la posologia era
mezza pasticca: ma sembra provato che Jimi se ne sia ingoiate nove
e che la miscela di alcol, anfetamine e barbiturici abbia prodotto uno
stato comatoso dal quale non s’è più risvegliato.
Secondo Monika, prima che Jimi decida di prendere il
potentissimo tranquillante, i due chiacchierano amabilmente sino alle
sette del mattino per poi addormentarsi in letti diversi.
Verso le 10:30 (ma altre volte ha giurato fossero le 11:00 o
addirittura le 11:30) Monika si sveglia. Nonostante abbia chiuso gli
occhi solo per poche ore decide di alzarsi. E si prepara la colazione.
“Ho visto Jimi che dormiva profondamente… non ho voluto
svegliarlo”. Poi, esce a comprare delle sigarette.
Quando torna, trova Jimi svenuto in una pozza di vomito.
Non respira…
Presa dal panico, telefona a Eric Burdon che la supplica di
chiamare un’ambulanza.
“Per qualche minuto, sono andato fuori di testa”, ricorda Burdon,
“ho cercato il fucile che avevo in casa perché in quel momento
volevo uccidere qualcuno. In cuor mio, infatti, sapevo cosa aveva
portato alla morte di Jimi. All’inizio ero molto confuso e ho pensato al
suicidio. Sono giunto al Samarkand, a casa di Monika, prima che
arrivasse la polizia, e mentre l’ambulanza stava andando via, ho
trovato sul pavimento, a fianco del letto, un biglietto: mi dava l’aria di
una lettera d’addio. Leggendo quella nota, in quel momento e in quel
contesto, era difficile avere un’impressione diversa: sembrava
proprio una lettera d’addio…”.
La chiamata di Monika al pronto soccorso viene registrata alle
11:18. Nove minuti dopo, al Samarkand, giungono due paramedici.
Alcuni sostengono che uno dei due (che poi si è scoperto essere un
razzista conclamato) vedendo un nero in stato comatoso non abbia
fatto tutto quello che avrebbe potuto e dovuto. Altri invece si fidano
delle dichiarazioni di entrambi (Reg Jones e John Saua) che, in
primo luogo, non collimano con quanto detto da Eric Burdon. Che ha
parlato di una lettera d’addio che nessuno ha mai visto.
I due, altra circostanza quantomeno curiosa, non hanno mai più
lavorato insieme e nemmeno si sono incontrati altre volte da quel 18
settembre 1970. Reg Jones è un infermiere esperto, con vent’anni di
lavoro alle spalle e una buonissima reputazione tra i suoi colleghi. “È
stato orribile”, racconta, “quando siamo arrivati abbiamo trovato la
porta aperta. La stanza era buia. Non c’era nessuno. Solo un corpo
immobile, disteso supino sul letto, in una vasta pozza di vomito nero
e marrone: ce n’era una tonnellata, sulle coperte, sul cuscino,
ovunque… Le sue vie respiratorie erano completamente occluse,
aveva la lingua riversa. Abbiamo provato a sentirgli il polso dopo
aver verificato che non respirava: niente, nessuna risposta… per noi
era morto. Pochi minuti dopo è arrivata la polizia. Lo abbiamo
trasportato al St Mary Abbot, l’ospedale che – quel giorno –
dovevamo raggiungere in casi di emergenza”.
John Saua, l’altro infermiere, fornisce una descrizione dei fatti
sostanzialmente uguale a quella del collega. “Era impossibile
riconoscerlo, nemmeno sua madre ci sarebbe riuscita… Gli abiti che
aveva addosso erano inzuppati del suo stesso vomito, ce n’era una
quantità spaventosa: ho persino provato a rimuoverlo con un
aspirapolvere. In casa non c’era anima viva: appena è giunta la
pattuglia, lo abbiamo caricato sull’ambulanza. Reg era al volante e io
dietro con il paziente”.
Nessuno in casa? E Burdon? E la Dannemann?
La morte di Jimi Hendrix dunque è avvolta nel mistero. Ma per
qualcuno non si è trattato di un incidente.
Forse Jimi Hendrix è stato assassinato.
James “Tappy” Wright negli anni Sessanta è uno dei roadie di
Michael Jeffery. Ha lavorato per secoli al fianco di Eric Burdon e
degli Animals: giura di aver accompagnato Chas Chandler a New
York la sera in cui i due (al Cafe Wha? di MacDougal Street, nel
cuore del Greenwich Village) hanno visto Jimi Hendrix per la prima
volta.
Tappy a Londra ha seguito i primi passi della Jimi Hendrix
Experience.
Lui sostiene di sapere come siano andate le cose.
Glielo ha rivelato Michael Jeffery, il manager di Hendrix, nel 1971,
una sera di fronte a una bottiglia di whiskey: “Sapevo che, in quei
giorni, Mike Jeffery non aveva denaro. Ne doveva al fisco e si era
pure indebitato per costruire gli Electric Lady Studio a New York. Di
colpo, ha saldato i suoi debiti e ha pagato le tasse. Gli ho chiesto:
‘Dove hai trovato i soldi?’. Lui immaginava che lo sapessi. Si è girato
verso di me e ha detto: ‘Tappy, devi capire… Non ho avuto scelta, ho
dovuto farlo’. ‘Che vuoi dire?’, gli risposto. ‘Dai, non sei stupido’, ha
detto lui. ‘Jimi stava per lasciarmi: voleva lavorare con Alan Douglas.
Me lo ha confermato il mio avvocato. Inoltre, di lì a un mese, il mio
contratto sarebbe scaduto’. Jeffery doveva ancora soldi al fisco e
alla mafia del New Jersey che gli aveva prestato 30mila dollari. La
situazione era grave: avrebbe rischiato la vita non pagando i suoi
debiti”.
Per Tappy Wright, dunque, Michael Jeffery aveva un movente
preciso: il denaro. Dando credito alle sue affermazioni, al manager di
Hendrix l’assicurazione sulla vita del suo assistito avrebbe fruttato
quasi due milioni di sterline, una cifra stratosferica.
Tappy spiega dettagliatamente come sarebbe avvenuto l’omicidio
di Hendrix: “È stato Michael Jeffery. Sì, proprio lui insieme a due dei
suoi scagnozzi. Non so esattamente chi ha fatto cosa, non l’ho
chiesto, ma occorrevano almeno tre persone per tenere fermo Jimi.
È stata una morte orrenda: una specie di waterboarding, la tortura
dell’annegamento controllato. Lo hanno immobilizzato con le gambe
sollevate, e gli hanno versato il vino direttamente nella trachea.
Perché come ha detto anche il dottor John Bannister, che ha
confermato la plausibilità di questa storia, quando è stata fatta
l’autopsia sono state trovate tracce di vino rosso nei polmoni. Non è
tecnicamente possibile che, se uno lo beve, il vino finisca nei
polmoni. Inoltre, non c’erano tracce di vino nel sangue di Jimi.
Hanno quindi versato il vino come ho descritto e lo hanno soffocato.
Jimi è morto così”.
Il manager avrebbe dunque movente e opportunità per uccidere
Hendrix: Jimi è isolato, è una preda facile.
C’è chi invece propende per la colpevolezza di quei roadie che
accusano il manager di omicidio. Dicono che l’appartamento
londinese di Gerry Stickells, road manager di Jimi, si trovi a pochi
isolati di distanza da quello di Monika Dannemann. E che quella sera
siano in pochissimi a sapere dove si trovi Jimi: tra questi, Stickells.
Di fatto, per quattro anni Gerry è stato la sua ombra: lo tiene sotto
controllo perché il suo capo, Mike Jeffery, vuole sempre sapere dove
sia e cosa faccia Hendrix.
Chi crede a questa teoria è convinto che sia stato fatto un accordo
a Seat tle, quando Jimi era là nel luglio del 1970. E che, dietro a
tutto, ci sia la famiglia Hendrix che ha usato i road manager per
giungere al proprio scopo.
Movente ed esecutori del crimine a parte, queste due teorie hanno
in comune la causa di morte: il soffocamento con il vino rosso.
C’è infine chi è convinto dell’innocenza di Michael Jeffery: “Quel
giorno e a quell’ora Jeffery era a Maiorca, in Spagna. La sua
segretaria lo può testimoniare”, dicono.
In questa ridda di ipotesi e congetture, sembra scomparire la
figura di Monika Dannemann, la fidanzatina di Jimi nei suoi ultimi
giorni di vita.
Distrutta dai sensi di colpa e travolta dalla pesante eredità
spirituale, Monika ha vissuto sino al 1996 dipingendo quadri con
soggetto Hendrix nel ritiro della sua casa, nella campagna inglese di
Seaford, East Sussex. Al suo fianco, un nuovo compagno di vita: Uli
Jon Roth, chitarrista degli Scorpions.
Nel suo libro, (The Inner Life of Jimi Hendrix) e nelle innumerevoli
interviste rilasciate, Monika ha sempre accusato Kathy Etchingham
(una delle storiche fidanzate di Jimi) di essere una calunniatrice. La
Etchingham, infatti, porta avanti da sempre una precisa teoria: “Non
sapremo mai la verità”, afferma, “le dichiarazioni di Monika
Dannemann sono troppo confuse. Non escludo che, a un certo
punto, lei sia uscita dal Samarkand e quando è tornata lo abbia
trovato morto. La storia che ci ha raccontato (in varie versioni) non
collima con le dichiarazioni degli altri testimoni. Monika è sempre
stata una sognatrice. Jimi, come ha fatto con decine di altre ragazze,
se la è portata a letto un paio di volte, una in Germania e poi a
Londra, ma lei era convinta di essere la sua ragazza. Anzi, temo che
quella notte i due abbiano litigato e sia stata Monika a dare a Jimi
quei tranquillanti… non voleva che lui la lasciasse”.
Nella primavera del 1996, dopo aver speso un sacco di soldi in
avvocati, Monika Dannemann perde anche l’ultima causa per
calunnia contro Kathy Etchingham. Pochi giorni dopo la sentenza, il
5 aprile, si suicida con il gas di scarico della sua auto, portando nella
tomba anche gli ultimi misteri che circondano la morte di Jimi
Hendrix.
Ma si è trattato davvero di suicidio? Monika, solo poco tempo
prima, comincia a maturare l’intenzione di raccontare tutto ciò che
sa. E muore.
Chi crede alla teoria del complotto trova pane per i suoi denti: è
convinto che gli stessi che hanno ucciso Jimi Hendrix abbiano prima
fatto esplodere l’aereo su cui viaggiava Michael Jeffery (5 marzo
1973) e poi eliminato anche la Dannemann, per impedirle di
raccontare ciò che sapeva.
1° ottobre 1970.
C’è il sole a Seattle quando la bara di Jimi Hendrix viene portata
nella piccola chiesa battista di Rainer Avenue. In mancanza di
volontà testamentarie, la famiglia ha insistito affinché Jimi fosse
sepolto nella città in cui era nato e non in quella (Londra) in cui era sì
diventato famoso, ma nella quale era anche morto.
Hendrix era stato a Seattle l’ultima volta il 26 luglio del 1970. Per
suonare.
Si era esibito in quello stesso stadio in cui tredici anni prima aveva
visto trionfare il suo idolo Elvis Presley. Per lui, poteva essere una
sorta di rivincita nei confronti della città che gli aveva dato i natali,
ma che non lo aveva mai amato. Poteva essere l’occasione buona
per riappacificarsi con i suoi concittadini. Ma al Sicks Stadium, quel
giorno, piove ininterrottamente per ore. Così, quando Jimi sale sul
palco dopo le esibizioni dei gruppi di spalla, vede con i suoi occhi i
fan (stremati dal freddo e dalla pioggia) che lasciano il prato e le
tribune. È suo padre Al che lo accompagna all’aeroporto.
Per tre volte, Jimi sale e scende dalla scaletta dell’aereo, quasi a
voler (inconsciamente) prolungare il suo addio. Al suo amico e
impresario americano Chuck Wein, qualche giorno dopo, Jimi
confessa: “Se tornerò a Seattle, sarà solo in una cassa da morto”.
È stato esattamente così.
I funerali di Jimi Hendrix si svolgono nella chiesetta di Rainer
Avenue in forma privata e la bara viene trasportata da persone del
luogo: è una scelta della famiglia, che non ha gradito l’idea del
batterista Buddy Miles che, per celebrare lo spirito di Jimi, aveva
proposto un concerto rock a New York.
L’unica musica che si ascolta in chiesa sono i gospel intonati dalla
cantante di colore Petronella Wright.
Finita la messa funebre, una lunga processione di automobili si
dirige verso il cimitero di Greenwood, a Renton, quartiere periferico
di Seattle. L’ultima canzone suonata al cospetto del feretro è When
The Saints Go Marchin’ In.
Oltre alla famiglia, prendono parte alla cerimonia i compagni di
Jimi nella Experience, il bassista Noel Redding e il batterista Mitch
Mitchell (giunti appositamente dall’Inghilterra), il manager Michael
Jeffery, il fonico Eddie Kramer, il producer Alan Douglas e i musicisti
Johnny Winter e John Hammond. Presente, anche un commosso
Miles Davis.
“When I’ll die, just play my music”, il giorno in cui morirò, aveva
detto Jimi Hendrix, continuate a suonare la mia musica. E così è
stato.
Per anni, noi appassionati abbiamo pensato che Jimi Hendrix
fosse morto per un tragico incidente: per overdose, oppure soffocato
dal suo stesso vomito dopo una notte di bagordi. Tutti abbiamo
pensato che Monika Danneman avrebbe potuto salvarlo.
Da qualche tempo però si è aperto un altro scenario. Com’è
possibile che nei polmoni di Jimi Hendrix ci fossero tracce di vino
rosso? L’unica risposta plausibile è: qualcuno lo ha forzatamente
obbligato a ingurgitarlo. Quindi, Jimi Hendrix sarebbe stato
assassinato.
Tante sono le cose che il mattino del 18 settembre 1970 ci ha
negato. Cose che non abbiamo avuto il piacere di sentire ma solo il
gusto di immaginare. Come una registrazione ad Austin insieme al
suo più credibile erede Stevie Ray Vaughan. O una session a
Mendocino con il suo equivalente sull’acustica, Michael Hedges.
Oppure, una sperimentazione in Marocco con il suo caro amico
Brian Jones.
Qualcuno dice che il vero motivo per cui Jimi Hendrix sarebbe
morto è che Dio aveva bisogno di lezioni di chitarra. Se così fosse,
oggi una cosa ci potrebbe consolare: magari in questo momento, nel
Paradiso del Rock, Jimi con Brian Jones e John Lennon sta
suonando Little Wing.

È una splendida giornata di sole nella stagione che in California


chiamano the indian summer, l’estate indiana. Sono le sette e mezzo
di sera.
John Byrne Cooke, tour manager e amico della rockstar Janis
Joplin, infila il corridoio di fronte alla concierge e raggiunge la stanza
numero 105 del Landmark Hotel, al 7047 di Franklin Avenue.
Appena entrato in camera, trova la cantante riversa, tra letto e
comodino. Non ha neppure bisogno di toccare il suo corpo, già
freddo e rigido: capisce subito che Janis è morta.
Solo qualche ora prima, John Cooke ha ricevuto una telefonata da
Seth Morgan, il nuovo fidanzato della Joplin, che sembra
preoccupato.
“John? Sono Seth… sto chiamando da San Francisco. Avrei un
appuntamento con Janis questa sera, all’aeroporto di Burbank.
Vorrei una conferma. La sto cercando da stamattina ma non la trovo
da nessuna parte. Hai idea di dove sia finita?”.
Seth ha provato a chiamare lo studio di registrazione dove Janis,
Paul Rothchild (il leggendario produttore dei Doors) e i musicisti
della Full Tilt Boogie Band stanno completando il nuovo album. Gli è
stato riferito che la Joplin non è lì.
Nessuno ne sa nulla: non l’hanno neppure sentita.
Alla fine di quella telefonata un po’ concitata, John Cooke cerca di
rassicurare Seth Morgan. Gli dice che avrebbe lasciato la camera
per recarsi agli studi di registrazione. E gli promette di rintracciare la
sua fidanzata. Quando esce dal Landmark insieme ai suoi assistenti,
Vince Mitchell e Phil Badella, nota però qualcosa di strano: “Ho visto
la Porsche di Janis parcheggiata nel vialetto di fronte all’hotel”,
spiega Cooke. “Che ci fa qui? Vuoi veder che Janis è in camera?
Anche se ero in ritardo (mi aspettavano in studio da un paio d’ore)
ho voluto verificare. Ho bussato ripetutamente alla porta della 105
ma non mi ha risposto nessuno. Così sono andato alla reception e
ho chiesto un passepartout”.
Dopo aver trovato il corpo senza vita di Janis, Cooke richiude a
chiave la camera, scende di corsa in garage e, sconvolto, racconta
tutto a Vince, Phil e a un altro amico che è lì con loro. Quindi,
telefona a Bob Gordon, l’avvocato di Janis, che lo raggiunge nel giro
di qualche minuto. Infine, chiama il potente impresario Albert
Grossman (manager di Janis Joplin) nella sua casa di Woodstock.
Nel frattempo, Gordon rintraccia un cognato medico, che giunge al
Landmark qualche minuto dopo di lui. Cooke e Gordon vanno dal
direttore dell’albergo, Jack Hagy, per avvisarlo dell’accaduto.
Hagy e Gordon chiamano la polizia, Cooke fa la penosa telefonata
ai genitori di Janis. E, prima che i poliziotti e il coroner giungano al
Landmark, si reca allo studio per rendere partecipi del fatto Paul
Rothchild e i musicisti.

Il corpo viene dunque rinvenuto più o meno alle 19:30. Alle 21:00 la
notizia sta già diffondendosi in tutta la città: Janis Joplin è morta per
overdose di eroina.
Tutti i suoi amici sono affranti, senza parole. Alcuni di loro si
riuniscono da Dave Getz, batterista di Big Brother & The Holding
Co., la prima band di Janis a San Francisco. “Quando ho saputo
della morte di Janis sono rimasto scioccato”, ricorda Getz. “Credo
d’aver pianto in modo isterico per due ore filate. Ci siamo trovati tutti
a casa mia, dove c’era una sala prove e abbiamo cominciato a
suonare…”.
A proposito di case, neanche un anno prima, Janis Joplin ha
comprato la sua prima vera abitazione a Larkspur, nella contea di
Marin a nord di San Francisco. Ne va fiera ma, in quella bella villa, si
sente sola. Chiede alle sue amiche, Peggy Caserta e Linda
Gravenites, di trasferirsi a vivere lì, insieme a lei. Linda accetta
subito, Peggy è riluttante.
Le due ragazze, entrambe stiliste, sono molto diverse tra loro.
Come carattere, ma soprattutto come attitudine nei confronti della
droga. Linda è una sorta di figura materna e protettiva. Peggy è la
compagna di giochi. Anche sessuali.
“Peggy Caserta era la proprietaria di Mnadisika, una boutique alla
moda situata proprio all’angolo tra Haight e Ashbury Street”, ricorda
Sam Andrew, chitarrista di Big Brother & The Holding Co. e grande
amico di Janis. “All’epoca il suo era uno dei primi negozi in cui si
trovavano abiti e accessori hippy, quel genere di cose che Janis
adorava. Lei e la Joplin erano amanti. La Gravenites era l’esatto
opposto della Caserta, fisicamente e caratterialmente. Linda era
positiva e disponibile. Janis poteva far conto su di lei al cento per
cento. Si erano incontrate dopo che Janis aveva visto delle
bellissime camicie che Linda aveva confezionato per me. Linda era
stilista di talento e persona piacevolissima, incline al buonumore e
alla risata. Proprio il contrario di Peggy, che era una che esagerava
in tutto, ostentava più del dovuto e pretendeva di essere più di
quanto fosse in realtà”.

Nel 1970, all’inizio di maggio, Janis parla con Kris Kristofferson, star
nascente della country music ma anche amico e occasionale
boyfriend, e gli confida il suo stato d’animo: “Qui, se le cose non
cambiano, mi sa che riprendo a farmi…”. Janis non sta parlando di
Lsd, alcol o barbiturici. Quel “farmi” ha un riferimento preciso e
significa una sola cosa: eroina.
L’ago è stato suo fedele compagno dalla prima metà del 1968.
Tanto quanto Peggy Caserta, amica, amante e “sorella” di buchi. Più
volte, le due, hanno sfiorato l’overdose e si sono salvate, per un
pelo.
Linda Gravenites detesta alcol e droghe, specie l’eroina, ma
soprattutto, non può vedere l’amica rovinarsi con le sue stesse mani.
E quando si rende conto che Janis non ha intenzione di mollare quel
brutto vizio, decide di abbandonarla al suo destino.
Joplin la prende malissimo: “Allora vuol dire che sei convinta che
sarò una tossica per il resto della mia vita”, le urla in faccia. Linda
annuisce e se ne va lasciando Janis in depressione.
Qualche giorno dopo, la Joplin invita a Larkspur Kris Kristofferson
e Bob Neuwirth (il folksinger amico di Bob Dylan): con i due
organizza una settimana di bevute che ribattezza “The Great Tequila
Boogie”.
Perché Janis è così, volubile e imprevedibile. Persino chi la
conosce bene, come Country Joe McDonald, l’eroe di Woodstock e
suo primo fidanzato, in quei giorni stenta a riconoscerla: “In quel
periodo, l’ho incontrata un paio di volte e mi è parsa sempre priva di
freni inibitori”, racconta. “Avevo sposato da poco Robin, la mia prima
moglie. Quando Janis l’ha saputo mi ha fatto una scenata di gelosia:
era fuori di sé per il fatto che avessi scelto, come diceva lei, ‘quel
tipo di donna’. Era ubriaca, ostile, si comportava come una pazza. In
quel momento ho capito che qualcosa era cambiato: la persona
davanti a me era qualcuno che non riconoscevo più”.
Mai, come in quel periodo, le distanze che dividono Janis (la
ragazzina texana innamorata del blues) da Pearl (il suo alter ego, la
rockstar viziata e scontrosa) paiono incolmabili.

Janis Joplin nasce sotto il segno del Capricorno il 19 gennaio 1943 a


Port Arthur, una cittadina petrolifera nel sud del Texas. La sua è una
famiglia piccolo borghese che però trasmette alla primogenita la
passione per la musica. Janis rimane subito affascinata dal folk e dal
blues: appena può, strimpella la chitarra e canta. All’università di
Austin la nota un giovane hippy: un certo Chet Helms. Con Chet,
Janis si reca a San Francisco in cerca di fortuna.
La cosa non funziona ma, neanche due anni dopo, Chet la manda
a chiamare. Ora, lui ha un locale (l’Avalon Ballroom) e fa il manager
di una rock band che cerca una voce solista. Janis si unisce a Big
Brother & The Holding Co. e diventa una delle icone della nascente
comunità hippy di Haight-Ashbury.
Nel giugno del 1967, sul palco del Festival di Monterey, nasce la
leggenda di Janis Joplin, l’unica bianca a cantare il blues come una
nera. La prima, grande rockstar donna della storia.

Janis Joplin ha da sempre un carattere particolare. Cambia umore in


modo repentino: può essere dolce e delicata e un istante dopo
diventare maleducata e arrogante. In quella lunga estate del 1970 i
suoi comportamenti estremi sembrano però ai confini della
schizofrenia: “Non vedi come sono forte? Non ho paura di nulla…”.
Così, sempre più spesso, Janis si rivolge all’amico Sam Andrew
quando i due scorrazzano ad alta velocità, per le strade della Bay
Area di San Francisco su quella spettacolare Porsche Carrera che la
Joplin ha fatto ridipingere a tinte psichedeliche dal pittore Dave
Richards.
“Janis si sentiva invincibile”, spiega Andrew, “Neanche un paio di
settimane prima di morire, mi ha detto: ‘Sam, io non morirò’. Credo
avesse avuto, da poco, la notizia della morte di Jimi Hendrix. ‘Io non
morirò mai’, ha ribadito. ‘I miei antenati erano pionieri, hanno
attraversato gli Stati Uniti. Erano intelligenti e fisicamente fortissimi’,
diceva. Purtroppo è un cliché degli eroinomani: pensano che a loro
non capiterà mai. Nel momento in cui Janis mi ha confessato quelle
cose, ho avuto paura. Sai, le ho detto, magari Dio ci sta ascoltando,
sarebbe meglio essere prudenti…”.
Nonostante le dichiarazioni di onnipotenza, Janis Joplin appare
fragile. A metà settembre, sta per iniziare le registrazioni del nuovo
album PEARL sotto la guida di Paul Rothchild. Sbruffonate con Sam
Andrew a parte, la notizia della morte di Jimi Hendrix la colpisce
moltissimo.
I giornalisti la tormentano per avere un suo commento.
Ai suoi amici, Janis fa una confessione: “Chissà cosa diranno di
me quando io sarò morta…”. “Tranquilla”, le dice Peggy Caserta,
“due rockstar non possono morire lo stesso anno”. “Già, e poi tu non
sei stupida”, le fa eco Seth Morgan. “Morire dopo uno come Hendrix,
più bravo e più famoso di te, sarebbe una stronzata imperdonabile”.
“Mi sa”, conclude una Janis fatalista, “che anche stavolta, Jimi mi ha
fregato l’idea”.
Come suo quartier generale a Los Angeles, la Joplin sceglie il
Landmark Hotel di Hollywood. È un posto abitualmente utilizzato
dall’ambiente rock e lei lo conosce bene. Lo chiamano anche
“Landmine” (‘mina terrestre’) e più che l’atmosfera rilassata o il
design pseudo-polinesiano, decisamente kitsch, quello che attira lì
gli artisti è il fatto di essere, come ricorda David Crosby, “il posto più
vicino ai pusher della zona”.
Tra gli spacciatori di eroina che frequentano il Landmark Hotel di
Hollywood c’è anche George, uno dei preferiti di Janis. Lui è un tipo
scrupoloso: prima di venderle una dose di eroina la sottopone
sempre a un test chimico. Poco dopo il suo arrivo nel sud California,
Janis s’imbatte in George proprio nella hall del Landmark.
“E tu che ci fai qui?”, gli chiede con espressione stupita.
“Come che ci faccio…”, ribatte George, “lo sai benissimo: ti ho
portato il regalo che mi hai chiesto”.
Janis è sbalordita. È quasi due mesi che non si buca: lei non ha
chiesto nessun regalo. Quasi subito però l’equivoco viene chiarito:
Peggy Caserta (all’insaputa di Janis) ha preso una stanza al
Landmark. È stata lei a chiamare George: “Ho telefonato a Janis in
quei giorni, ma lei non ha voluto incontrarmi”, confessa Peggy agli
amici, “Continuava a chiedermi se fossi pulita”. “Perché se non è
così, non ti voglio vedere”, la ammoniva Janis. “Io sono fuori da
quella merda. E non ci voglio più rientrare!”.
Non è vero. La sera stessa, Janis chiama Peggy per avere un po’
dell’eroina che le ha portato George.

Le sedute di registrazione del nuovo album sono intense, ma per


Janis risultano noiose. Non è raro vederla aspettare ore prima di
poter registrare la sua voce in attesa che la base strumentale venga
completata.
Molto spesso, la Joplin s’infuria. Solo poche settimane prima, la
sua ex fiamma Kris Kristofferson l’ha sgridata: “Ma è mai possibile
che ti lamenti sempre?”, le dice. “Hai tutto quello che vuoi: una bella
casa, il produttore dei tuoi sogni, musicisti bravi che ti vogliono bene
e un ragazzo che ha chiesto di sposarti”.
Tutto vero? Effettivamente, da fine maggio, Janis ha la band che
ha sempre desiderato: quattro canadesi e un americano, tutti
musicisti eccezionali. Li ha chiamati Full Tilt Boogie Band e i ragazzi
si sono subito affezionati alla loro cantante. Anche Paul Rothchild è
al suo fianco, pronto a prendersi cura del nuovo album. E a salvarle
la voce: “La sua generosità come performer unita a una certa
inesperienza rischiavano di spaccarle la gola”, ricorda Rothchild,
“Janis, doveva imparare a preservare le corde vocali. Le stavo
insegnando a esercitarsi per mantenere un maggiore controllo”.
Janis non segue i consigli del suo nuovo produttore. Infuriata,
sbraita: “Non preoccupatevi, vorrà dire che se perderò la voce aprirò
un bar a North Beach!”.
In una delle lunghe pause che segnano le session di registrazione
di PEARL, Janis si mette a canticchiare una canzoncina che ha
composto una sera, insieme a Bob Neuwirth. I due si erano ispirati
alla strofa di un poemetto scritto dal poeta beat Michael McClure,
che recita: “Signore, non mi compreresti una Mercedes Benz?”. Il
brano (che qualcuno chiama The Politician) è una presa in giro del
consumismo. Mai, Janis, avrebbe pensato di inserire quella cosa
buffa nel disco.
Preceduto da uno specialissimo “happy birthday” per il 30esimo
compleanno di John Lennon, il pezzo viene registrato al volo con la
Joplin che, divertita, lo canta davanti ai suoi amici che battono le
mani a tempo. È il 1° ottobre, e quel divertissement passa alla storia
come la sua ultima registrazione ufficiale.

È il 1° ottobre 1970 e la Joplin si reca in un salone di bellezza per


farsi delle mèche ai capelli. Negli ultimi tempi sembra prestare
particolare attenzione al suo aspetto fisico: ha fatto una cura
dimagrante ed è anche abbronzata, dopo aver passato molte ore in
piscina. Un comportamento poco normale, per una come lei. Di fatto,
però, tutti rimangono colpiti dal suo look (insolitamente) attraente.
Quello stesso giorno, in modo ancor più insolito, Janis decide di
firmare una revisione del testamento, originariamente redatto nel
1968: metà dei beni vanno ai genitori, un quarto a suo fratello
Michael e un quarto a sua sorella Laura.
Perché lo ha fatto? Sam Andrew ha una precisa teoria al
proposito: “Janis aveva incontrato il suo avvocato, Robert Gordon,
una settimana prima di morire”, spiega. “Aveva voluto aggiungere
una clausola al suo testamento, qualcosa del tipo ‘in caso di morte
improvvisa’ o che comunque avesse a che fare con un’assicurazione
sulla vita. Naturalmente, Gordon non aveva la minima intenzione di
rendere pubblica la cosa. Solo a me ha confidato che, l’ultima volta
che l’ha vista, Janis gli ha parlato proprio di un’assicurazione nel
caso in cui lei fosse morta”.
C’è chi sostiene che il nuovo testamento possa anche essere un
segnale per Seth Morgan, il suo nuovo fidanzato e futuro marito.
Janis è convinta del matrimonio, ma comincia a scorgere in Seth
alcune cose che non gli piacciono. In particolare, nota in lui un
eccessivo attaccamento al denaro.
Seth, che pur millanta di essere l’erede dei banchieri Morgan, è in
realtà figlio di un editore/poeta, uno studentello di Berkeley con il
vizio della cocaina. E forse, neppure così innamorato di Janis…
Tutte le amiche di Janis detestano il giovane Morgan. Laura
Joplin, la sorella minore, racconta che Seth ha tentato di infilarsi nel
suo letto nemmeno un mese dopo la morte di Janis: “Seth era un
grandissimo stronzo”, ricorda. “Ci ha provato con me proprio nel bel
mezzo della festa di commemorazione di Janis”. Già, perché nel
testamento, oltre a quella postilla che ci ha ricordato Sam Andrew, ci
sono 2.500 dollari da destinare al vecchio amico degli Hell’s Angels
Chocolate George per finanziare una celebrazione in suo onore, in
caso di morte.

Nella vita di Janis Joplin, dunque, non tutto fila liscio in quegli ultimi
giorni. Anzi. Ci sono avvisaglie importanti. Janis appare vulnerabile.
L’11 agosto 1970, dopo un concerto, la Joplin e i suoi musicisti
stanno tornando a New York. Si fermano a bere un drink al bar El
Quijote. Janis sta male: durante il viaggio in auto ha vomitato. Alla
sua assistente, Myra Friedman, che la osserva preoccupata, rivela
candidamente che non è niente di grave: ogni tanto le succede.
Myra rimane di stucco. Ma, soprattutto, non riesce a togliersi dagli
occhi il volto di Janis: gonfio, pallido e chiazzato. Ha un aspetto
orrendo: sembra davvero malata.
Nessuno, dei musicisti, sembra farci caso. Nessuno, tranne Toby,
uno dei tecnici: “Myra, tu sei l’unica con po’ di sale in zucca che
vuole bene a Janis”, le dice. “Quella ragazza sta morendo. Devi
aiutarla. Se non lo fai tu non ci penserà nessuno. E Janis morirà”.
Myra Frieman non rivedrà mai più Janis viva dopo quella volta al El
Quijote.

Sabato, 3 ottobre 1970


Ultimo giorno di vita di Janis Joplin.
Al mattino, Janis fa una serie di telefonate dalla sua camera
d’albergo. Chiama il municipio (trovandolo chiuso), forse per
informarsi sulle procedure matrimoniali. Poi, una sarta che le sta
preparando dei vestiti. Quindi, telefona a George, il suo spacciatore
di fiducia.
Deve fare tre o quattro chiamate prima di rintracciarlo:
probabilmente ha finito l’eroina. George fa la sua consegna nel
primo pomeriggio. Janis, prima di andare a registrare, si fa un buco,
usando (presumibilmente) un rimasuglio di roba della fornitura
precedente. Non cerca lo sballo: deve lavorare, una minima quantità
è più che sufficiente.
Nel tardo pomeriggio Janis fa un salto in studio, giusto il tempo di
ascoltare la base strumentale di Buried Alive In The Blues, ‘sepolta
viva nel blues’, canzone dal titolo profetico, scritta appositamente per
lei dal suo amico Nick Gravenites.
Finita la session, si fermano tutti a scherzare per qualche minuto.
Solo Vince Mitchell, uno dei suoi road manager, nota una misteriosa
espressione sul viso di Janis: “Aveva uno sguardo strambo,
emanava uno strano bagliore…”.
Intanto, il gruppo lascia la sala d’incisione per dirigersi al Barney’s
Beanery, il bar di L.A. frequentato da musicisti rock e, spesso, anche
da Janis e dai suoi amici. Al locale, la Joplin rimane appartata con
Ken Pearson, il suo tastierista, con cui discute di musica e dei brani
del nuovo disco. Ma trova il tempo di fare una delle sue battute
fulminanti. Rivolgendosi ai suoi musicisti, esclama: “Mi volete bene,
vero? Sappiate che, se qualcuno di voi si azzarda a mollarmi, lo
ammazzo!”. Dopo aver bevuto un paio di bicchieri di vodka con
succo d’arancia, Janis e Ken tornano al Landmark.
Quando Janis va in camera, sola, è mezzanotte e mezza.

“La solitudine di Janis era diversa rispetto a quella di chi non ha un


partner o dei veri amici: era qualcosa di assai più accentuato e
profondo”, commenta Country Joe. “Lei non aveva nessuno con cui
confidarsi veramente. Nessuno con cui sfogarsi, con cui condividere
i problemi di lavoro, a cui raccontare le proprie inquietudini
sentimentali… Era completamente sola”.
Il suo amico e mentore Chet Helms, che ha scoperto la Joplin in
Texas e l’ha portata a San Francisco, una volta ha detto che era
facile abbordare Janis: lei ha sempre avuto il complesso di essere
brutta e così, appena un uomo le mostrava attenzioni, cedeva
all’istante. Non a caso, si vantava con le amiche di essersene fatti
più di mille… Chi la conosceva però sapeva che Janis (anche
quando urlava al pubblico di far l’amore con 25mila persone), il più
delle volte tornava a casa da sola.
Come il 3 ottobre del 1970. Perché, come ci ha raccontato
Country Joe McDonald, più delle tensioni del music business, più
dell’alcol o dell’eroina, a uccidere Janis Joplin è stata forse una
profonda, disperata solitudine.
La stanza 105 del Lanmark Hotel, che Janis ha personalizzato con
una coperta indiana e una miriade di candele, le appare più vuota
che mai.
Janis, decisa a smettere con la droga, butta nel cestino tutta
l’eroina che ha. E dopo essersi fatta l’ultimo buco, ripone la siringa in
una scatola cinese e la chiude in un cassetto. Poi, si accorge di non
aver più sigarette.
Scende nella hall, parla con Jack Hagy, l’ultima persona che la
vede viva e che chiacchiera con lei. Hagy le cambia 5 dollari in
moneta, così che possa usarle per la macchinetta dell’hotel.
Quindi, Janis ritorna in camera e crolla a terra, tra letto e
comodino.
La droga che George le ha procurato per quella sera era da
quattro a dieci volte più potente della media pura al 40-50 per cento.
Qualcuno sospetta si tratti di un tipo di eroina molto particolare, la
famigerata “chinese”, esclusiva di un giovane aristocratico parigino,
assai noto nel giro rock della Swinging London: Jean De Breteuil. Il
fidato George, che fa sempre testare l’eroina da un chimico, quella
volta non ha avuto il tempo di farlo. E, nella stessa settimana, a Los
Angeles, si segnalano una decina di morti per overdose.
Janis Lyn Joplin aveva ventisette anni.
Per volontà della famiglia, le sue ceneri vengono disperse nelle
acque dell’Oceano Pacifico, sotto il Golden Gate.
Sono le sette e mezza del mattino.
A quest’ora, di sabato, persino il quarto arrondissement è
tranquillo. Rue Beautreillis, viuzza del centro storico che attraversa
Rue Saint-Antoine, a poche centinaia di metri dalla Bastiglia, sembra
addirittura immersa in uno stato di torpore. Eppure, al terzo piano del
numero 17 si sta consumando una tragedia.
Nell’appartamento che la proprietaria, la modella Zozo Larivière,
ha affittato a una coppia di americani c’è grande agitazione. Pamela
Susan Courson (venticinque anni) è fuori di sé. Ha appena trovato,
nella vasca da bagno, il corpo senza vita del suo amato compagno,
James Douglas Morrison, in arte Jim, leader della rock band
californiana The Doors.

La ragazza non è sola. Al suo fianco, un personaggio piuttosto


conosciuto nel mondo del rock. Si chiama Jean de Breteuil:
qualcuno sostiene che faccia parte dell’aristocrazia francese, altri
che sia un nobile decaduto. Per tutti, lui è “il conte” e di professione
spaccia droga: si dice che l’eroina più pura in circolazione (la
micidiale “chinese”) ce l’abbia soltanto lui. Pamela gli ha telefonato
mezzora prima. È agitatissima: Morrison si è chiuso in bagno e non
risponde alle sue chiamate: “Verso le sei del mattino mi sono
svegliata: Jim non era al mio fianco. Mi sono precipitata in bagno ma
la porta era chiusa a chiave dall’interno. Ho bussato più volte,
chiamando ripetutamente Jim senza ottenere risposta. In preda al
panico, ho telefonato a Jean de Breteuil che mi ha detto di stare
calma: mi avrebbe raggiunto nel giro di un quarto d’ora…”.
Appena giunto nell’appartamento di Rue Beautreillis, il conte
rompe il pannello di vetro della porta del bagno, riesce a girare la
chiave e a far entrare Pamela… Il corpo di Jim Morrison giace nella
vasca, in un misto di acqua e grumi di sangue. Altro sangue gli
scende dal naso, ultima traccia, forse, di una violenta emorragia.
Due grossi lividi di un viola intenso risaltano sul petto nudo.
“Aveva un’espressione serena… non fosse stato per tutto quel
sangue”, commenta Pamela sconvolta.
Sulla scena del crimine giungono altri due personaggi, due vecchi
amici di Morrison: Alain Ronay, fotografo francese naturalizzato
americano, suo ex compagno di università, e la regista belga Agnés
Varda. I due vivono insieme nella casa della Varda. Li ha fatti venire
Pamela: è disperata, non parla bene il francese e ha pregato Alain di
chiamare un’ambulanza.
Oltre agli infermieri, che sono lì alle 9:30, nel pomeriggio arrivano
prima la polizia e poi un medico legale, il Dottor Max Vassille. Il
certificato di morte viene redatto alle due e mezza: vengono riportati
in modo impreciso sia il nome della vittima (Douglas Morrison,
James), sia la sua professione (scrittore). Per questo, le autorità
francesi non si rendono subito conto che quel “turista americano” è
Jim Morrison, la rockstar.
Alle sei di sera il dottore conferma che si tratta di morte per cause
naturali: arresto cardiaco. Il referto (compilato in modo alquanto
frettoloso) si basa sulla sola testimonianza di Pamela Courson, che
racconta dei dolori al petto di cui Jim soffre da tempo nonché del suo
abuso di alcolici.
Non ci sono traumi evidenti sul corpo. E non essendoci
presupposti di morte violenta, così come prescrive la legge francese,
non c’è obbligo di effettuare alcun tipo di esame post-mortem.
Jean de Breteuil, detto anche Jean de Bretti e Jaime de Bretaille,
ha ventidue anni. Alla morte del padre Charles (un amico personale
di De Gaulle) ha ereditato una fortuna: diverse proprietà in Marocco
e alcune testate francofone pubblicate proprio in Nord Africa dalla
sua famiglia. Soldi, sesso e rock’n’roll sono “la specialità della casa”
e gli valgono l’ingresso in pompa magna nella comunità delle grandi
rockstar anglo-americane: da Eric Clap-ton ai Rolling Stones, sono
tutti amici del conte. E anche se le donne lo considerano un
personaggio orribile (“un depravato”), il giovane Jean è uno che
incontra: pur essendo fidanzato con Marianne Faithfull (la ex di Mick
Jagger, l’icona femminile della Swingin’ London, la musa degli
Stones) tutti sanno che de Breteuil ha una tresca con Pamela
Courson. Lei è una nota eroinomane, lui il suo fornitore di fiducia.
Jim Morrison invece detesta l’eroina: il suo problema è l’alcol.
Ma cos’è successo veramente quella notte a Parigi? Le sole, e
parziali, testimonianze ufficiali sull’accaduto sono quelle rilasciate da
Pamela Courson al medico legale. Gli altri, non parlano.
Il conte Jean de Breteuil, poco dopo aver aiutato Pamela, torna in
fretta e furia al suo albergo, lo sciccosissimo L’Hotel di Rue des
Beaux Arts, lo stesso frequentato da Jim e Pamela.
De Breteuil ordina a Marianne Faithfull di preparare le valigie: si
parte subito per il Marocco… Ma perché tanta fretta di sparire?
Forse perché il suo nome era stato già associato a quello di una
rockstar morta in circostanze misteriose?
Era successo qualche mese prima, il 4 ottobre 1970. Janis Joplin
è stata trovata morta in una camera d’albergo: overdose di eroina. Si
era parlato di un tipo di eroina purissima: proprio come la “chinese”,
la specialità del conte. Ironia della sorte, qualche mese dopo
Morrison e a un anno di distanza dalla scomparsa della Joplin, Jean
de Breteuil morirà di overdose a Tangeri, in Marocco.
Intanto, anche se si cerca di tenere segreta la cosa, la notizia della
morte di Jim Morrison comincia a trapelare. Il primo a saperlo negli
Stati Uniti è Bill Siddons, il giovanissimo manager dei Doors.
Siddons racconta che il suo telefono è squillato nel cuore della notte
di lunedì 5 luglio: “Erano le 4:30 del mattino. Mentre stavo
prendendo la cornetta per rispondere, mia moglie si è
improvvisamente svegliata dicendo ‘Jim è morto’. ‘Che cosa?’, ho
detto io. Intanto ho risposto alla chiamata: dall’altro capo c’era
Jonathan Clyde, il manager dell’etichetta discografica dei Doors in
Gran Bretagna, che mi diceva: ‘Bill, non avrei voluto telefonarti di
notte, ma ci sono tre giornalisti francesi che mi stanno tampinando…
dicono che vogliono parlare della morte di Jim. Ma non può essere.
Jim è vivo, vero?’, e io ho risposto: ‘Non lo so, stavo dormendo, ti
richiamo appena riesco a sapere qualcosa’. Ho composto il numero
di telefono dell’appartamento di Jim a Parigi, e ho continuato a
chiamare ogni mezzora per circa otto ore sino a quando Pamela,
finalmente, ha risposto. All’inizio era molto evasiva. E così, con voce
forte e decisa, le ho detto: ‘Pamela, senti non sto chiamando come
manager dei Doors, ti sto telefonando da amico. Se Jim fosse
davvero morto vorrei essere lì per poterti aiutare’. È stato allora che
Pamela ha iniziato a piangere e mi ha detto: ‘Ok, ho bisogno del tuo
aiuto’. Mi sono precipitato all’aeroporto e sono salito sul primo aereo
per Parigi”.
Siddons avvisa immediatamente gli altri membri dei Doors. Ma
nessuno di loro crede, nemmeno per un secondo, alla possibilità che
Jim possa essere morto. Anzi, sono convinti si tratti di uno scherzo,
dell’ennesima messa in scena del “Re Lucertola”. Perché Morrison
era fatto così: adorava l’idea della sparizione. Lo aveva detto tante
volte, lo aveva persino scritto in una delle sue composizioni
poetiche: “La morte è un buon travestimento per la nottata, porta con
sé tutti i giochi nel suo quieto giardino”.
Ray Manzarek, Robby Krieger e John Densmore, e cioè gli altri
Doors, rimangono dunque a Los Angeles. A Parigi, ci va solo
Siddons: quando arriva, il corpo di Morrison non è ancora stato
rinchiuso nella bara. Ma Bill non ha il coraggio di vedere il suo amico
morto. “Fossi stato obbligato al riconoscimento del corpo… ma non è
andata così. E io semplicemente non me la sono sentita di vedere il
cadavere di Jim, avevo solo ventidue anni”.
È Pamela a raccontare che, la sera prima, Jim sembra
particolarmente inquieto: i dolori al petto e allo stomaco sono più
acuti del solito e il whisky che continua tracannare non produce
l’effetto sperato. Anzi.
Jimi è stato a mangiare qualcosa con il suo amico Alain Ronay. Si
sono incontrati in un locale di Rue St Antoine, nei pressi della
Bastiglia. Morrison se ne è stato muto per tutto il tempo. È
perseguitato da un singulto fastidioso che non riesce a quietare.
Poi, a un certo punto, Ronay rimane sconvolto da una visione
inquietante: “Ho alzato lo sguardo e ho visto in faccia la morte… Il
volto di Jim sembrava la maschera della morte”. Ronay,
impressionato, si scusa con l’amico: si congeda adducendo come
scusa il fatto che deve recarsi a un altro appuntamento. Anche
Morrison ha un appuntamento. Deve raggiungere Pamela: i due
hanno deciso di andare al cinema a vedere un film con Robert
Mitchum. Verso le dieci, tornano a casa.
Quello che accade dopo è qualcosa cui Bill Siddons non ha mai
creduto. Eppure è la stessa Pamela a raccontare come sono andate
le cose. Jim, ha detto Pam, non stava bene, continuava a tossire.
Aveva intenzione di scriver poesie quella notte, ma la scarsa
concentrazione non glielo permette. Decide allora di distrarsi:
proietta su uno schermo i filmini che ha girato quando lui e la
Courson sono stati in Andalusia e in Marocco. Come colonna
sonora, sceglie la musica psichedelica dei Doors.
Poi, scorge la sua fidanzata che, con una carta di credito, sta
tagliando delle striscioline di polvere bianca su uno specchio.
Conoscendo la sua dipendenza dall’eroina, Jim s’infuria e le urla di
buttare via quella roba. Almeno stasera. A quel punto, lei decide di
mentirgli: “Non è quello che credi. Questa è coca… ne vuoi un po’?”.
Jim, ancora una volta, si fida di Pamela.
Sniffa avidamente quella roba che, in realtà, è la famigerata
“chinese” del conte. Non appena entra in circolo con tutto il whisky
che ha in corpo, gli provoca un edema polmonare che lo stronca nel
giro di poche ore.
Nessuna fra le persone ancora in vita può affermare con
precisione assoluta cosa sia accaduto quella notte. C’è chi,
addirittura, racconta una storia diversa. Che, però, ha lo stesso
macabro finale.
Jim non è stato a male a casa sua, ma poco distante da lì: è uscito
per andare al Rock’n’Roll Circus, uno dei locali di musica più in voga
nella Parigi dei primi anni Settanta. Lo gestisce un tipo simpatico,
Sam Bernett, un brillante giornalista e dj franco-americano. Lui è
amico degli Stones e di Johnny Halliday, il grande rocker francese.
Si dice che Jim Morrison ami passare le sue serate al Rock’n’Roll
Circus.
Secondo la testimonianza di Bernett, anche la sera del 3 luglio
Morrison fa un salto lì: “Come ogni sabato sera il locale era
stracolmo. Jim è arrivato verso le due del mattino. Ci siamo salutati,
abbiamo chiacchierato e bevuto qualcosa. Mi è sembrato più agitato
del solito. Guardava spesso la porta d’ingresso, mi dava
l’impressione che stesse aspettando qualcuno. A un certo punto,
entrano due uomini che avevo già visto: erano due spacciatori. Jim li
attendeva: probabilmente Pamela era in astinenza e gli aveva
chiesto di andare a cercare droga per lei. Per un po’ sono stato
impegnato con il mio lavoro; quando ho nuovamente guardato verso
la zona del bar, Morrison non era più là”.
Dicevano che quando Pamela era in crisi di astinenza, dava di
matto. Forse, quella sera è stato così, forse Jim è andato al Circus
per procurare l’eroina alla sua fidanzata. Certo è che quei due tizi
Jim li conosceva bene: lavoravano per il conte Jean de Breteuil.
“Mezz’ora dopo, una delle inservienti del locale viene a cercarmi in
preda al panico”, ricorda Bernett. “La ragazza dice che da venti
minuti la toilette degli uomini è bloccata, chiusa: nessuno riesce a
entrare. Chiamo la sicurezza: saliamo insieme al secondo piano
(dove ci sono i bagni) e do ordine di sfondare la porta. Entro per
primo e vedo il corpo inanimato di Jim Morrison. Gli esce sangue dal
naso, ha la bava alla bocca… inizialmente, ho creduto a un malore.
Poi, ho pensato a qualcos’altro: eroina”.
Secondo il racconto di Sam Bernett, dunque, Jim Morrison muore
nel bagno del Rock’n’Roll Circus. Ma perché allora Jim, che odiava
l’eroina e si era recato lì soltanto per procurarsi una dose per la sua
ragazza, si è messo a sniffare quella roba? Sam Bernett non sa dare
una risposta.
Ricorda solo che quella sera, al Rock’n’Roll Circus, c’è un amico
medico. Lo manda a chiamare: è lui, secondo le parole di Bernett, a
certificare il decesso di Jim Morrison.
Bernett ha però un altro problema: deve avvisare la polizia. Ne
parla al telefono con i suoi capi, i proprietari del locale. Che
giungono lì nel giro di mezz’ora: ma niente polizia. C’è una soluzione
migliore: “Dopo aver parlato con qualcuno”, spiega Bernett, “i due
spacciatori decidono di rimuovere il corpo senza vita di Morrison”. Il
cadavere viene preso in consegna dai due pusher di de Breteuil che,
facendolo uscire dal retro del locale, lo trasportano all’appartamento
di Jim e Pamela, in Rue Beautreillis numero 17. In macchina, a
quell’ora di notte, ci vogliono pochi minuti: si lascia la Rive Gauche
e, passata la Senna, si giunge rapidamente in quella piccola traversa
di Rue Rivoli. I due, secondo Bernett, fanno il lavoro fino in fondo:
mettono in scena la morte nella vasca e fanno sparire qualsiasi
genere di droga dall’appartamento.
Ai suoi amici, una volta, Jim Morrison ha confidato: “Non mi
dispiacerebbe crepare in un incidente aereo: potrebbe essere un
buon modo di lasciare il mondo. Certo, non vorrei morire nel sonno,
né di vecchiaia o di overdose. Vorrei gustare il sapore della morte,
ascoltarne il suono, sentirne l’odore. D’altronde, è un’esperienza che
ci capita una sola volta…”.
7 luglio 1971, cimitero di Père-Lachaise. Sono le otto e mezzo del
mattino.
Nessuna preghiera e nessun cerimoniere per la sepoltura di
James Douglas Morrison. Di fronte al luogo del tumulo, solo poche
persone. Nessun rappresentante della famiglia Morrison interviene
alla funzione: ben prima dei fatti di Parigi erano stati tagliati i ponti
con il figlio degenere.
“Ricordo che, oltre a me e Pamela, c’era una ragazza canadese
che lavorava per Jim e Pamela come assistente”, spiega Bill
Siddons, “poi ovviamente Alain Ronay e Agnes Varda. Ma credo ci
fosse anche Jacques Demy, un regista della Nouvelle Vague. È stata
una cerimonia semplice; appena terminata, ho fatto i bagagli e sono
andato in aeroporto”.
Anche la cerimonia funebre desta dunque qualche perplessità. Lo
strano silenzio e la fretta ingiustificata che circondano la sepoltura
del Re Lucertola sono testimoniati da una certa Madame Colinette,
una signora parigina in visita a una tomba vicina: “Hanno fatto tutto
in fretta e furia. Non c’era neppure un prete… che cosa triste e
deprimente…”.
Anche questo contribuisce a far nascere ulteriori dubbi su come
siano andate veramente le cose. Inoltre, due considerazioni in
particolare destano sospetti: il cimitero di Père-Lachaise ospita
difficilmente personaggi stranieri e il posto dedicato al tumulo è
troppo piccolo. Lo ha fatto notare John Densmore, il batterista dei
Doors, dopo la sua prima visita al cimitero. “E questa sarebbe la
tomba di Jim? Ma non vedete che è troppo corta… Qui dentro non ci
sarebbe mai potuto entrare…”.
Il suo vero sogno era comprarsi una chiesa nel sud della Francia.
Ma, nell’attesa, Jim Morrison aveva optato per Parigi, memore dei
giorni trascorsi nel 1970 insieme all’amica Agnès Varda. Allora, era
stato sul set di Pelle d’asino, aveva chiacchierato con Catherine
Deneuve e conosciuto François Truffaut.
Parigi è la città ideale per cambiar vita e coltivare le sue grandi
passioni artistiche: poesia e cinema. Jim ci arriva l’11 marzo 1971:
Pamela è già lì da quasi un mese, dal giorno di San Valentino. Una
sua nuova amica, la modella Zozo Larivière, le ha lasciato il suo
appartamento in Rue Beautreillis, 17. A Jim quella casa piace molto:
adora camminare nel centro cittadino, e passare del tempo a Place
Des Vosges, dove aveva vissuto Victor Hugo.
Jim va sempre in giro con un taccuino per gli appunti.
In maggio, dopo un viaggio nel sud della Francia, in Spagna e
Marocco,
Jim e Pamela tornano a Parigi. Abitano per qualche giorno a
L’Hotel, nella stessa stanza al secondo piano dove aveva vissuto ed
era morto Oscar Wilde. È in quel periodo che Morrison inizia a
frequentare il Rock’n’Roll Circus. A fine giugno, insieme all’amico
Alan Ronay, Jim visita il cimitero Père-Lachaise e ne rimane
fortemente impressionato.
Jim Morrison e Pamela Courson si erano conosciuti al London
Fog, un localino sul Sunset Strip di Los Angeles a fine 1965. Lei è
una bellissima diciassettenne, studentessa d’arte. Lui studia
cinematografia alla UCLA e, insieme a Ray Manzarek, ha appena
deciso di dare vita alla rock band The Doors.
La loro è una relazione turbolenta, ma i due ragazzi si amano.
Quella tra Jim e Pamela diventa una meravigliosa, tragica storia
d’amore. Una delle più romantiche dell’intera epopea rock.
Distrutta dai sensi di colpa e incapace di vivere senza l’amato Jim,
Pamela Courson muore per una overdose di eroina sul divano del
suo appartamento losangelino il 25 aprile 1974.
Come Morrison, aveva ventisette anni.
“Pamela era la musa di Jim”, spiega Bill Siddons, “non era né una
groupie né una geisha a sua completa disposizione. Cresciuta
nell’Orange County, una zona conservatrice, la Courson è stata
educata con una certa disciplina, cosa che mancava completamente
a Morrison. Pam era attratta dal genio creativo di Jim, però aveva
bisogno di regole. E così, tra loro due c’era una perenne tensione.
Eppure, Pamela è stata l’amore della sua vita e quella relazione
altalenante l’unica costante della sua scombinata esistenza”.
Icona rock, poeta maledetto, performer dissacrante, Jim Morrison
era anche un sex symbol. Adorato da legioni di donne, Jim non è
mai stato “il re dei fedeli”: oltre alla giornalista Patricia Kenneally
(che Morrison sposa con un antico cerimoniale sciamanico Wicca
nel giugno del 1970) e alle seducenti rockstar Nico e Grace Slick, nel
suo carnet finiscono anche cameriere e ballerine.
E naturalmente le groupie…
Nella morte di Jim Morrison ci sono ancora tante ombre, parecchi
misteri da svelare. Qualcuno comincia a chiedersi: e se Jim non
fosse mai morto? Come per Elvis Presley, nel corso dei primi due
anni dalla sua scomparsa si registrano numerosi avvistamenti, più o
meno fantasiosi e attendibili.
Ciò che fa maggiormente scalpore è il fiorire di libri sulla vita di
Morrison e sulle dubbie circostanze della sua morte. Lo scrittore
francese Jacques Rochard nel 1986 pubblica Vivo!, con la tesi che
Jim Morrison sarebbe vivo e vegeto. Lui stesso sostiene di averlo
incontrato più volte. Jim gli avrebbe spiegato che avrebbe inscenato
la sua morte per sfuggire alle pressioni di una vita da divo e per
potersi dedicare alla sua passione più grande: la poesia. Una volta
spianatosi il terreno, eccolo tornare alla ribalta nel 1995 con il nuovo
libro (Poesie apocrife) scritte negli anni successivi la data della
morte fittizia.
Proprio lo stesso Jacques Rochard sostiene di aver ricevuto, il 22
gennaio 1986, un plico spedito alcuni giorni prima da Amsterdam. In
una busta commerciale color arancione, priva di mittente, ci sono tre
quaderni dalla copertina verde, ciascuno con un diverso titolo
manoscritto a caratteri stampatello: Gemiti della coscienza, Rumori
della memoria e Parole di polvere.
Magliette, tazze per la colazione, adesivi, portachiavi e tatuaggi.
Anche oggi, quel viso angelico, dai capelli spettinati e dallo sguardo
penetrante, riprodotto in serie, sa vincere le mode e insinuarsi tra le
pieghe delle consuetudini, sempre diverse, delle giovani generazioni.
Jim Morrison, del resto, è rimasto giovane, bello e trasgressivo,
nonostante molte cose siano cambiate da quei favolosi anni
Sessanta. La sua immagine e la sua vita ci appaiono oggi come i
contorni sfumati di un’opera d’arte pura, dionisiaca ed estrema.
Jim Morrison è stato paragonato ai poeti maledetti. Tuttavia l’alone
di esoterismo che circonda la sua figura è persino superiore a quello
dei suoi idoli Rimbaud o Baudelaire. Jim Morrison, ancora oggi, è un
simbolo, anzi, un mito. E come ogni mito che si rispetti, nasce con il
giusto mix tra verità e misteri. Come abbiamo visto, anche la storia
dei suoi ultimi giorni si perde tra il sogno, lo straniamento, l’afflato
poetico e la spinta autodistruttiva. E, nonostante i nostri sforzi, non
siamo riusciti a chiarire il mistero. Perché è proprio lo stesso fascino
magnetico del mistero che ha finito per inghiottire Jim e la sua
giovinezza, cristallizzati per sempre a ventisette anni.
Sembra paradossale pensare che il suo mito, così prospero e
luminoso, sia nato dal buio del mistero. Non pensiamo solo alle sue
ultime ore. Per capire lo spirito di Jim Morrison dobbiamo forse
ricorrere proprio alla sua amata poesia. Se la sua vita può essere
vista come un’avventura “oltre le porte della percezione” o addirittura
come un viaggio in territori sconosciuti che si risolve con un
naufragio, suonano perfetti i versi che Arthur Rimbaud ha scritto
nella celebre ode intitolata Il Battello Ebbro.

Non ne posso più, bagnato dai vostri languori, o onde,


di filare nella scia dei portatori di cotone,
né di fendere l’orgoglio di bandiere e fuochi,
né di nuotare sotto gli orrendi occhi dei pontoni

Siamo nel cuore di Camden, uno dei quartieri più eccentrici della
capitale inglese. Qualcuno l’ha definito “il paradiso degli spacciatori”:
qui, persino i lecca-lecca profumano di mariujana.
Sono le quattro del pomeriggio e al numero 30 di Camden Square
c’è uno strano silenzio. Eppure, sino a qualche ora prima, i vicini si
sono lamentati: già, perché lì qualcuno, in tarda serata, si è messo a
suonare batteria e percussioni…
Andrew Morris, un ragazzone nero che lavora per la Island
Records, riesce però a tranquillizzare tutti: la calma torna presto in
Camden Square. Morris è la guardia del corpo della cantante che
abita in quella graziosa villetta a tre piani, la stravagante popstar
inglese Amy Winehouse. Si dice che quella casa Amy l’abbia pagata
due milioni di sterline e che abbia impiegato più di un anno a
sistemarla: dopo averci fatto costruire un piccolo studio di
registrazione, si è trasferita lì nell’aprile 2011.
È stato proprio Andrew Morris a convincere Amy, appassionata di
percussioni, a smettere. Basta far casino: la gente, a quell’ora, vuole
dormire. E anche lui, Morris, a quell’ora vorrebbe andare a letto: ma
con Amy non sempre è possibile farlo, anzi. Con lei bisogna stare in
guardia, giorno e notte. Persino quando la ragazza, come ha fatto
nelle ultime due o tre settimane, dà l’impressione di essere
tranquilla.
Il giorno prima, ad esempio, miss Winehouse incontra sua madre
Janis, che è andata a trovarla nella sua nuova casa di Camden
Square. Insieme sfogliano un vecchio album di fotografie.
“Mio fratello Alex è proprio carino… ti voglio bene mamma”, dice
Amy abbracciando Janis Seaton Winehouse, cinquantasei anni,
farmacista. “Sono contenta di esserci andata”, racconta la signora
Winehouse, “quel pomeriggio Amy aveva il tipico ‘sguardo alla Amy’,
quello di una che sembra appena sveglia… lei adorava dormire…
Nonostante tutto, mi è sembrata in forma”.
Alla fine dell’incontro, madre e figlia si baciano.
Lo stesso giorno, Amy Winehouse viene visitata dal suo medico
personale che la trova in buone condizioni.
Stando alle dichiarazioni dei genitori, Amy da qualche settimana è
sobria: per il momento, niente alcol. Anche crack ed eroina
sembrano appartenere al passato e alle spalle è stato buttato pure lo
shock emotivo di quello sciagurato concerto a Belgrado del 18
giugno.
Quella sera nella capitale serba, quando sale sul palco ai piedi
della fortezza Kalemegdan, la Winehouse è completamente ubriaca,
fuori di sé. I primi due brani (Back To Black e You Know I’m No
Good), pur biascicati, riesce per così dire a “portarli a casa”.
Poi, il delirio.
Amy pare non sapere neppure in che città si trovi, non ricorda i
nomi dei musicisti né i testi delle canzoni che, eseguite in modo
grottesco, risultano irriconoscibili. Il pubblico, prima incredulo e poi
inviperito, inizia a fischiarla e a rumoreggiare. Qualcuno si mette a
gettarle cartacce addosso.
Amy, per altro, onora il contratto: rimane on stage settanta minuti,
ma poi (saggiamente) decide di rinunciare al cachet. E al resto delle
date europee: tournée cancellata.
Un musicista, amico di Amy, ricorda le due serate speciali (in
pratica le prove aperte del tour estivo) che, solo qualche giorno
prima, si tengono che al One Hundred Club di Oxford Street: “La
prima notte, quella del 14 giugno, è stata perfetta”, spiega, “la
seconda non c’è stata: Amy ha deciso di punto in bianco di annullare
il concerto. In quel momento, tutti noi del giro della musica londinese
abbiamo pensato: ‘Eccoci di nuovo’, convinti che la ragazza non
fosse ancora pronta per rientrare sulle scene. Il concerto di Belgrado
ci ha dato ragione: mostra la Amy peggiore, quella che barcolla sul
palco con voce inadeguata…”.
Nei giorni successivi, Amy prova a parlare con il suo ex marito,
Blake Fielder-Civil, che molti sostengono essere colui che l’ha
introdotta alle droghe pesanti. Blake, da metà giugno, è nuovamente
in prigione. Rinchiuso nel carcere di Leeds sta scontando due anni e
otto mesi per furto aggravato con scasso.
“Blake è l’unico che mi capisce, l’unico che mi possa salvare”,
confessa Amy ai suoi amici. Secondo loro, invece, Blake –
l’archetipo del bad boy – è un uomo che porta problemi, che
l’avvicina alla droga ma (a dire il vero) anche a certa musica, alla
letteratura d’avanguardia, ai poeti maledetti. Sì, perché Fielder-Civil
ha una profonda convinzione: la vita deve essere vissuta sempre al
massimo, sulla corsia di sorpasso.
Quella tra i due è una relazione tempestosa, violenta: per i genitori
di Amy, Blake è la colpa di tutti i suoi mali.
Anche Alex Foden, ventinove anni, la pensa così. Conosciuto
come il parrucchiere personale di Amy Winehouse, è il creatore della
famosa acconciatura che ricorda quelle dei gruppi femminili degli
anni Sessanta. Alex ha vissuto in casa di Amy (come fossero fratello
e sorella…) un anno e mezzo, tra fiumi di alcol, crack ed eroina. Lui,
Blake Fielder-Civil lo detesta: “Blake ha sempre controllato la vita di
Amy, anche quando si trovava in prigione”, afferma Foden. “Amy era
autolesionista, attratta da lui come capita a chi subisce abusi e
violenze: tra i due c’è stato un rapporto malato, tipo vittima/carnefice.
Amy si faceva di eroina tre o quattro volte al giorno, tutti i giorni. Li
ho visti io: Blake la prendeva per mano, la portava in bagno e le
iniettava altra droga”.
Molti hanno paragonato Amy & Blake a Sid & Nancy, pensando
addirittura che, il giorno in cui Amy fosse morta, Blake si sarebbe
suicidato… Non è stato così. Anzi, al momento Blake sembra
mostrare il peggior lato di sé: capace persino di approfittare della
morte di Amy per far soldi.
La madre di Blake, Georgette Fielder-Civil, ex suocera di Amy,
racconta di aver parlato con la Winehouse il giorno prima che
morisse: “Mi ha confessato di aver telefonato in carcere chiedendo
un permesso per la visita: ‘Georgette, per favore non dire niente: se
lo viene a sapere mio padre mi ammazza!’”.
Il padre della Winehouse, che odia Blake, non lo viene a sapere.
Ma il nuovo fidanzato di Amy, il regista Reg Traviss, sì. E si
arrabbia moltissimo. Anche perché quella non è la prima volta che
Amy tenta di rimettersi in contatto con l’ex marito. Negli ultimi mesi lo
ha fatto ripetutamente e Reg se n’è accorto. Proprio per questo, i
due hanno avuto più di un litigio.
C’è un’altra persona che si arrabbia moltissimo perché Amy non la
smette di cercare il suo ex marito. Si chiama Sarah Aspin e, oltre ad
essere la nuova compagna di Blake, gli ha appena dato un figlio.
Sarah sostiene che Amy stia tempestando Blake di sms firmandosi
come “your wife”, tua moglie. Stufa di questo comportamento, Sarah
decide di chiamare Amy: “Adesso basta, devi smetterla”, le intima.
“Blake non è più tuo: ora noi siamo una famiglia. Esci per sempre
dalle nostre vite”.
Amy sembra disperatamente in cerca di aiuto. Aiuto deve averlo
cercato anche quell’ultima notte, dopo aver smesso di suonare le
percussioni.
Quella notte… già, ma come sono andate veramente le cose il 23
luglio 2011 nella villetta al numero 30 di Camden Square? Di certo
sappiamo che alle 3:10 di notte Amy invia un sms a Kristian Marr, un
suo caro amico e anche qualcosa di più…
Ventisette anni, cantautore e chitarrista, Marr ha conosciuto la
Winehouse nel 2003 in un pub di Camden. I due si sono piaciuti,
subito. Per anni giocano a biliardo (lei vince sempre) e fanno musica
insieme. Ogni tanto fanno anche l’amore, ma preferiscono
considerarsi amici. La Winehouse è sempre pronta ad aiutare,
artisticamente ma soprattutto finanziariamente, Kristian.
Quell’ultima notte gli manda un messaggino affettuoso: “Sarò
sempre qui xx MA TU COME STAI? xxx”. Kristian sta dormendo e
non legge subito l’sms. Il giorno dopo deve vedere Amy: l’ha invitata
nel Kent alla sua festa di compleanno. Ma lei non si presenta.
La Winehouse ha un altro appuntamento importante: domenica 24
luglio deve andare con Reg Traviss al matrimonio di un’amica.
Traviss, trentaquattro anni, è un regista di successo ed è un tipo
tranquillo. Ha conosciuto Amy Winehouse nel 2009, attraverso un
amico comune, e se ne è innamorato presto. I due formano coppia
fissa dal maggio 2010 e si parla anche di un imminente matrimonio.
Venerdì 22 luglio Reg parla con Amy al telefono. Sa che finirà tardi
al lavoro e dice ad Amy che le farà uno squillo appena finito. Quando
prova a cercarla, dopo qualche ora, Amy non risponde. È tardi,
pensa Reg, forse si è appisolata. Così le manda un sms chiedendole
di chiamarlo non appena sveglia. Niente. Nessuna risposta.

Il giorno dopo Reg esce di casa in tarda mattinata: deve andare


prima dal barbiere e poi a ritirare scarpe e vestito nuovi per recarsi
con Amy al matrimonio. Mentre è dal barbiere vede sul suo cellulare
una chiamata. È Andrew Morris, la guardia del corpo di Amy. “Ho
capito subito che era successo qualcosa…”, racconta Travis.
Andrew Morris, alle dieci del mattino di sabato 23 luglio, va in
camera da letto, vede Amy ed è convinto che stia dormendo.
Neppure sei ore dopo, ritorna in camera: questa volta si avvicina al
letto e si rende conto che la ragazza non respira più. In preda al
panico, chiama il pronto soccorso.
Alle 16:05 un’ambulanza si ferma di fronte al numero 30 di
Camden Square. Gli infermieri, dopo una rapida visita, non hanno
dubbi: la cantante che nel suo brano più famoso diceva “no, no, no”
alla rehab è morta.
Amy Jade Winehouse aveva ventisette anni.
La notizia della morte di Amy colpisce l’opinione pubblica
internazionale. Migliaia di fan si radunano di fronte all’abitazione
della popstar. Trascorrono l’intera notte del 23 luglio cantando le sue
canzoni, bevendo birra, vodka e altri superalcolici in un surreale
tributo alla sua arte e alla sua persona.
Mitch Winehouse apprende della morte della figlia mentre si trova
a New York: è lì per promuovere il proprio disco jazz. Quando torna
a Lon dra, decide di distribuire ai fan di Amy T-shirt e altri capi di
abbigliamento a lei appartenuti. “È quello che Amy avrebbe voluto”,
risponde a chi lo critica per quella discutibile decisione. Chi lo
conosce bene, descrive Mitch come lo stereotipo del tassista
londinese: una persona socievole, a cui piace parlare e raccontare
storie. È sempre stato un grande appassionato di jazz e il suo amore
per questa musica ha profondamente influenzato l’arte di Amy.
Il mondo della musica è sconvolto dalla tragica scomparsa della
Wine house. Quel giorno, 23 luglio 2011, sono centinaia gli artisti
che, tramite Twitter, mandano messaggi di cordoglio. Altri le rendono
omaggio durante i loro concerti, come fanno gli U2, Lou Reed o i
Rolling Stones.
In Italia, allo Stadio Olimpico di Roma, Zucchero le dedica il brano
Alla fine definendo Amy “una grande interprete e un’anima fragile”.
Ma chi era Amy Winehouse? E quando la musica è entrata a fare
parte della sua vita?
Amy Jade Winehouse nasce il 14 settembre 1983 a Enfield, a
nord di Londra. A quattro anni conosce Juliette Ashby, che diventerà
la sua migliore amica. Insieme, qualche anno dopo, formeranno un
duo hip-hop.
Il jazz, però, è da sempre una colonna sonora importante della
sua esistenza. Lo zio è un trombettista, la nonna Cynthia (a cui Amy
è particolarmente affezionata) da giovane era la fidanzata di Ronnie
Scott, sassofonista che ha fondato a Soho uno dei jazz club più
famosi d’Inghilterra. Il padre Mitch è un grande appassionato: ha
sempre desiderato fare il cantante.
Quando Amy ha nove anni, i genitori si separano ma restano in
buoni rapporti. Nel 1997, si iscrive alla prestigiosa scuola di teatro di
Sylvia Young. Nonostante le spiccate doti artistiche e la brillante
intelligenza, ne viene espulsa: i suoi atteggiamenti ribelli e il suo look
oltraggioso non sono tollerati. Eppure, pochi anni dopo, Sylvia Young
le procura un’audizione come voce solista nell’orchestra jazz di Bill
Ashton, dove Amy si forma musicalmente.
Nel 2001, tramite Tyler James (un cantautore che è anche il suo
boyfriend), Amy riesce a far avere un demo a Simon Fuller, il potente
impresario londinese che ha lanciato le Spice Girls. Grazie a Fuller,
nel giro di pochi mesi, Amy Winehouse firma un contratto
discografico con la Island e inizia una folgorante carriera che si
concluderà prematuramente neppure otto anni dopo.
La morte di Amy Winehouse colpisce il mondo intero. Ma tutti
quelli che l’hanno conosciuta non rimangono sorpresi dalla ferale
notizia. Persino lei stessa aveva profetizzato una fine prematura:
“Credo proprio che mi unirò al club…”, confessa, quattro anni prima,
al suo amico Alex Foden. “Amy non aveva paura di morire: era certa
che le sarebbe successo a ventisette anni”, spiega Foden, “Lo aveva
sognato e i suoi sogni, diceva, si avveravano sempre. Unirsi a quel
club era uno dei suoi incubi ricorrenti”.
Il club cui si riferisce è ovviamente quello famigerato della J27, la
combinazione preferita delle rockstar maledette.
I genitori (il tassista Mitch e la madre Janis, che lavora in una
farmacia) sono categorici: Amy non beveva più. Anzi, proprio
l’astinenza da alcol (dicono) può averla uccisa. Ma poi Mitch
aggiunge che nel sangue sono state trovate tracce di alcol. E anche
di un ansiolitico, il Librium…
In questa ridda di ipotesi e congetture, una cosa è certa: la polizia
non rileva in casa alcuna traccia di droga o di armamentari da
tossici.
Un certo Tony Azzopardi racconta però un’altra storia. Lui è uno
spacciatore della zona nord di Londra, ha cinquantasei anni e ha
conosciuto la Winehouse attraverso il suo ex marito, Blake Fielder-
Civil: “Amy mi ha telefonato venerdì sera: voleva crack e eroina”,
dichiara al «Daily Mail».
Secondo lui, la notte del 22 luglio, intorno a mezzanotte, è passato
a prenderla in taxi, all’Old Eagle pub. Una mezzoretta prima,
qualcuno ha avvistato Amy in un altro bar di Camden, il Good Mixer,
uno dei più frequentati dalla Winehouse.
I due vanno in taxi verso West Hampstead per incontrare un
pusher locale. Azzopardi sostiene che Amy gli abbia dato 1.200
sterline in contanti per 30 grammi di crack e una dose analoga di
eroina. Poi, dopo essersi fermato a Archway, Azzopardi lascia la
Winehouse al suo destino.
Sarà vero? Proviamo a far mente locale.
Intorno alle 23:30, Andrew Morris (la guardia del corpo) chiede a
Amy di smettere di suonare la batteria. Morris rivede Amy solo alle
10:00 del mattino successivo e non sa se, in quel momento, lei sia
già morta. Alle 3:10 Amy manda l’sms a Kristian Marr. Quindi, stando
a questa tempistica, la storia di Azzopardi potrebbe reggere.
Certo, rimane un quesito: come ha fatto Amy ha uscire di casa
senza che la guardia del corpo se ne accorgesse? Dov’era? Perché
non stava con lei?
La vita e la morte di Amy Winehouse hanno un elemento in
comune: Camden, il frizzante quartiere a nord di Londra, fondato alla
fine del Settecento da immigrati irlandesi e, da sempre, luogo di
divertimento amatissimo dagli artisti. Tra Amy Winehouse e Camden
si è sviluppato un legame forte, una comunanza di intenti e di spirito.
A Camden Town, Amy ha scelto di vivere. E lì, c’era tutto il suo
mondo.
Al Jazz Cafe, uno dei locali più chic della zona, Amy ha fatto il suo
primo, vero concerto. Tra le bancarelle di The Stables o tra quelle
del Market, andava a cercarsi quei vestiti vintage che le piacevano
tanto, mentre all’On The Floor Records, il suo negozio di dischi
preferito, comprava vecchi vinili. Di notte, lungo la stradina che
fiancheggia il Camden Lock, Amy incontrava i pusher che le
fornivano la droga.
Poi c’erano i pub… la quintessenza di Camden e dello stile di vita
dei giovani inglesi: luoghi di divertimento e grandi bevute. The
Hawley Arms, gestito da suoi amici, era il locale in cui Amy
trascorreva la maggior parte del tempo. A volte in mezzo alla gente,
altre volte nascosta sul retro, altre ancora persino dietro al bancone,
a servire birre. Al Good Mixer, adorato dagli artisti inglesi, ha
conosciuto Blake e passato intere notti a giocare a biliardo. Sempre
di fronte a un pub, l’Old Eagle, Tony Azzopardi sostiene di aver
incontrato Amy la notte prima della morte, per poi andare a
comprare con lei crack ed eroina.
Infine, proprio a Camden, nella celebre Roundhouse, mercoledì 20
luglio (e cioè due giorni prima di morire) Winehouse fa la sua ultima
apparizione pubblica. Amy sale sul palco insieme alla sua figlioccia,
la giovanissima cantante Dionne Bromfield. Abbraccia Dionne,
danza al suo fianco e canticchia il ritornello del singolo della
Bromfield, Mama Said, un pezzo che ricorda i brani dei girls group
dei primi anni Sessanta, tanto amati dalla Winehouse. Sembra
contenta.
Ma, come cantava in una delle sue canzoni più celebri, Amy forse
sapeva di “non potersi fidare di se stessa, di rappresentare un
problema, di non essere brava”.
La Winehouse non riesce a stare lontana dai guai. “Quando vivevo
con lei”, ricorda Alex Foden, “ogni giorno sembrava la puntata di una
telenovela. L’umore cambiava a seconda della quantità di droga e
alcol consumata… un momento sembravamo felicissimi e, un minuto
dopo, distruggevamo televisori e finestre. Eravamo sempre
circondati da troppa gente: non ci lasciavano in pace, arrivavamo al
punto che, per isolarci, dovevamo chiuderci a chiave in casa. A volte
stavamo svegli cinque o sei giorni poi dormivamo due giorni di fila:
mandavano la polizia per vedere se eravamo vivi”.
La relazione tra Amy e Blake Fielder-Civil è particolarmente
turbolenta, sin dall’inizio. A seguito della prima separazione tra i due,
Amy scrive i brani del suo secondo disco, BACK TO BLACK. Non è
una novità: sembra proprio che Amy trovi la miglior ispirazione nei
momenti di crisi sentimentale. Anche l’album di debutto (FRANK)
viene scritto dopo che il suo ragazzo dell’epoca l’ha lasciata. “Sto
bene solo quando canto e scrivo musica”, dice spesso Amy.
Prodotto da Mark Ronson, BACK TO BLACK esce nell’ottobre
2006. È un successo planetario: vende milioni di copie, vince cinque
Grammy Awards, trasforma Amy in una popstar mondiale. Cambia
anche il look della Winehouse: magra, capelli verticalizzati, trucco
stile Cleopatra, tatuaggi.
Nasce una nuova Amy.
Nel dicembre 2005, Winehouse è più che mai preda dell’alcol.
Preoccupati per il suo stato di salute, manager e genitori fanno
incessanti pressioni su di lei affinché si faccia curare. Finalmente,
Amy si convince ad andare a un appuntamento con uno psicologo in
un centro di riabilitazione per alcolisti. Alla domanda: “Ma perché
bevi così tanto?” lei risponde: “Be’… sono stata lasciata dal mio
fidanzato e sono molto triste”. Il dottore ribatte: “Allora sei solo
depressa, non sei un’alcolizzata!”.
Il tutto dura non più di cinque minuti.
“Mi sono alzata e gli ho detto: ‘Abbiamo finito? Grazie mille
dottore’. E me ne sono andata”.
Tornata a casa, la Winehouse scrive il singolo che la porterà alla
fama mondiale: Rehab.
L’alcol non è l’unico problema di Amy Winehouse. Anche crack e
eroina fanno ormai parte della sua dieta quotidiana. Lo spiega bene
Alex Foden: “Ci alzavamo la mattina e la prima cosa che facevamo
era preparare la pipetta per il crack; poi Amy arrivava con gli aggeggi
per il buco di eroina: quella era la nostra colazione…”.
Alex Foden conosce Amy sul set del videoclip di Back To Black.
Un video per certi versi profetico e, alla luce di ciò che è successo,
fa impressione ripensare a quelle immagini. Amy non sa neppure di
dover girare le scene in un cimitero: lei non legge mai i copioni né le
proposte che le vengono inviate. “Quando però si è resa conto della
scena, della cerimonia funebre, della tomba con la scritta ‘Qui giace
il cuore di AW’, non ha retto…”, spiega Alex Foden, “per scherzo
abbiamo cancellato la scritta ‘cuore’ e l’abbiamo sostituita con ‘qui
giace il fegato di Amy’ e così lei l’ha presa sul ridere e siamo riusciti
a finire…”.
Amy dunque muore una prima volta nella finzione del clip. Ma, non
molto dopo, tornata insieme a Blake, passa una notte d’inferno. Il 7
agosto 2007, a seguito di tre giorni di bagordi tra alcol, crack ed
eroina, Amy perde improvvisamente conoscenza. È quasi
mezzanotte e, secondo la testimonianza di Blake, i due sono seduti
sul divano quando, di colpo, lei ha forti convulsioni.
I suoi occhi sono riversi. Sembra vittima di una crisi epilettica. Non
respira più.
“La stringevo tra le braccia… era morta”, ricorda Blake. “ Ho
deciso di farle la respirazione bocca a bocca: Amy,
improvvisamente, ha tossito, si è rianimata…”.
Trasportata d’urgenza allo University College Hospital, Amy se la
cava nonostante il suo stato di salute sia pessimo. Deve
assolutamente cambiare stile di vita, altrimenti rischia grosso.
Amy non cambia stile di vita.
Anche se ci prova, andando nell’isola caraibica di Santa Lucia, a
curarsi e a cercare ispirazione per la sua musica. Niente. Neppure il
divorzio da Blake serve. Il suo destino, purtroppo, è segnato.
Martedì mattina, 26 luglio 2011. Al cimitero di Edgwarebury, nella
zona nord di Londra, si svolgono i funerali di Amy Jade Winehouse.
Sono presenti circa trecento persone, tra cui il suo produttore Mark
Ronson e l’amica Kelly Osbourne che, giunta apposta dalla
California, come omaggio a Amy, si presenta con un’acconciatura
simile alla sua. L’elegia funebre del padre Mitch dura quaranta minuti
ed è molto commovente: “Amy è stata la miglior figlia e amica che
uno possa mai sognare di avere”, dice in conclusione. “Dormi bene
angelo mio, mamma e papà non ti hanno mai amato così tanto”.
La cerimonia funebre si chiude in musica con So Far Away, il
successo di Carole King degli anni Settanta, uno dei brani preferiti di
Amy.
Il feretro viene trasportato al crematorio di Golders Green, lo
stesso in cui Cynthia, l’amatissima nonna di Amy, era stata a sua
volta cremata. Pare che, per volontà della famiglia, le ceneri di Amy
siano in parte mescolate proprio con quelle della nonna e in parte
sparse a Santa Lucia, isola che era entrata nel suo cuore.
Mentre le indagini di Scotland Yard continuano, lo spirito di Amy
Winehouse ancora non trova pace. Mercoledì 10 agosto 2011, dalla
casa di Camden Square spariscono una chitarra, un quaderno degli
appunti, delle lettere e i testi di alcune nuove canzoni che Amy stava
scrivendo per il suo nuovo album. Qualcuno dice che ci fossero
anche dei nastri con brani inediti.
Due settimane dopo, Mitch Winehouse comunica il lancio di una
nuova linea di abbigliamento firmata “Amy Winehouse per Fred
Perry”. Mitch annuncia che il ricavato delle vendite sarà devoluto in
beneficenza.
Lunedì 12 settembre, il padre di Amy dichiara che gli esami
tossicologici rivelano tracce di alcol. Poi aggiunge che c’è anche la
presenza di un ansiolitico (il Librium) che ha una forte
controindicazione: non deve essere mescolato con l’alcol.
Due giorni dopo, in occasione del ventottesimo compleanno di
Amy, Mitch comunica la nascita della Amy Winehouse Foundation,
una fondazione senza scopo di lucro ideata per aiutare giovani con
problemi di droga e alcol. Avrà sede nella casa dove Amy è morta, a
Camden Square. La prima operazione per finanziare la fondazione è
il lancio di Body And Soul, il duetto registrato da Amy in marzo, negli
studi di Abbey Road, con il grande Tony Bennett.
Il 25 ottobre, la St Pancras Coronorer’s Court di Londra stabilisce
che la morte di Amy Winehouse è stata causata da “avvelenamento
o abuso da alcol”. Come ha raccontato Alex Foden, negli ultimi giorni
Amy avrebbe ingerito un’enorme quantità di alcolici: si parla di
duetre bottiglie di vodka la sola notte del decesso. Le analisi hanno
rilevato 416 mg di alcol per 100 ml di sangue, dose letale anche per
una persona in buone condizioni di salute. Nonostante ciò, il caso
viene archiviato come “morte per cause accidentali”.
Il 31 ottobre la Island Records annuncia che il 5 dicembre è
prevista l’uscita di AMY WINEHOUSE LIONESS: HIDDEN
TREASURES. Più che un disco di nuovi brani, un assemblaggio di
vecchie registrazioni.
Oggi, dunque, Amy Winehouse sembra valere (da morta) almeno
dieci volte quello che era il suo valore da viva. Qualcuno che non la
conosceva ma che si occupa di recuperare persone alcoliste e
tossicodipendenti fa questa toccante riflessione: “Vedere una
ragazza che muore a ventisette anni non può lasciarci indifferenti:
spero che questo suo sacrificio possa essere nobilitato. Com’è triste
notare che gli uomini non sono capaci di fare quello che i lupi fanno
benissimo: aiutarsi l’un l’altro nel branco. Amy Winehouse aveva
bisogno d’aiuto…”.
Già, ma chi doveva aiutare Amy? Qualcuno avrebbe potuto
salvarla? Probabilmente chi voleva davvero bene ad Amy Jade, e
non a miss Winehouse. E, soprattutto, chi aveva capito che lei era
una persona bisognosa di aiuto e di cure. Forse Reg Traviss, il suo
fidanzato? O Mitch e Janis, i suoi genitori?

Ci siamo detti addio e da allora


sono morta un centinaio di volte
Tu sei tornato da lei
e io sono tornata nel buio

Back to black…
Addio Amy Jade.
LA MALEDIZIONE DEL 27
Il più delle volte non hanno alcuna J nel nome, ma con i membri
del “famigerato Club” condividono la medesima sorte: una fine
prematura – e spesso misteriosa – a soli ventisette anni.

ALEXANDRE LEVY (compositore e pianista)

DATA DI MORTE: 17 gennaio 1892


CAUSE DELLA MORTE: sconosciute
LUOGO: San Paolo, Brasile

IL MISTERO: al rientro da un lungo soggiorno in Europa, dove si


era recato per perfezionare gli studi, Levy viene trovato morto nella
sua casa di San Paolo. Il decesso, oltre che prematuro, è
inaspettato: il pianista non soffriva di alcuna malattia. Nonostante la
giovane età, regala ai posteri una produzione sorprendente. Da
sempre influenzato dalla musica francese e dal suo grande maestro
Robert Schumann, il brasiliano Alexandre Levy lascia una traccia
importante nella storia della musica classica.

LOUIS CHAUVIN (compositore e pianista)

DATA DI MORTE: 26 marzo 1908


CAUSE DELLA MORTE: sclerosi cerebrale sifilitica
LUOGO: Chicago
IL MISTERO: sul certificato di morte vengono elencate cause
diverse: sclerosi multipla, sifilide, coma da inedia. Un’indagine più
moderna e accurata porterebbe probabilmente a un’altra
conclusione: decesso dovuto a sclerosi cerebrale sifilitica. Chauvin
muore lasciando solo tre composizioni pubblicate e senza registrare
nulla. Risulta dunque difficile ricostruirne il percorso artistico.

NAT JAFFE (pianista jazz)

DATA DI MORTE: 5 agosto 1945


CAUSE DELLA MORTE: pressione alta
LUOGO: New York

IL MISTERO: la causa del decesso è legata alle complicazioni


dovute a un livello di pressione sanguigno troppo alto. Pianista jazz
di successo, si affaccia sulla scena musicale americana a soli
quattordici anni dopo essersi trasferito da Berlino negli Stati Uniti con
la sua famiglia. La sua breve carriera è impreziosita da importanti
collaborazioni: da Jan Savitt a Billie Holiday, da Louis Armstrong a
Charlie Barnet. Poco prima di morire, con il suo trio accompagna la
grande Sarah Vaughan.

JESSE BELVIN (cantante e pianista R’n’B)

DATA DI MORTE: 6 febbraio 1960


CAUSE DELLA MORTE: incidente stradale
LUOGO: Hope, Arkansas

IL MISTERO: lo trovi a p. 53 di Delitti Rock.

RUDY LEWIS (cantante dei Drifters)

DATA DI MORTE: 20 maggio 1964


CAUSE DELLA MORTE: overdose/soffocamento/attacco di cuore
LUOGO: New York

IL MISTERO: la notte del 20 maggio 1964 Lewis è nella sua


camera d’albergo. In quei giorni è impegnato con i Drifters nella
registrazione del singolo destinato a entrare nella storia come il più
grande successo del gruppo: Under The Boardwalk. L’indomani lo
attende una lunga session in sala di incisione. Rudy però non si
presenta e Johnny Moore lo sostituisce come voce solita. Poco
dopo, Lewis viene trovato morto nel suo letto. Le cause del decesso
non sono chiare. Alcuni parlano di un’overdose da stupefacenti, altri
(che lo conoscono bene e sanno che è un ingordo) dicono sia
rimasto soffocato nel sonno. La versione ufficiale è: decesso per
arresto cardiaco.

(chitarrista degli Spanky and Our


MALCOLM HALE
Gang)

DATA DI MORTE: 30 ottobre 1968


CAUSE DELLA MORTE: avvelenamento da monossido di carbonio
LUOGO: Chicago

IL MISTERO: Malcolm Hale non si presenta al sound check del


concerto di Spanky and Our Gang a Boise, Idaho. Fiduciosamente, i
tecnici montano sul palco il suo amplificatore certi che il chitarrista,
prima o poi, arriverà. Lo spettacolo comincia senza di lui.
Improvvisamente, l’amplificatore si mette a gracchiare in modo
fastidioso. Per un’inquietante coincidenza, quasi in contemporanea,
giunge la ferale notizia: il corpo senza vita di Malcolm Hale è stato
rinvenuto nella camera da letto della sua fidanzata, a Chicago.
Alcuni sostengono sia deceduto nel sonno perché, durante la notte,
un guasto nell’impianto di riscaldamento avrebbe diffuso un gas
letale nella stanza in cui il musicista dormiva. Malcolm, in quel
periodo, è anche vittima di una bruttissima broncopolmonite che
forse contribuisce al soffocamento. A tale proposito, non sono mai
state rilasciate dichiarazioni ufficiali. I restanti membri di Spanky and
Our Gang, scioccati per la scomparsa dell’amico, una volta concluse
le date in programma decidono di interrompere, per un intero anno,
ogni attività musicale.

DICKIE PRIDE (cantante)

DATA DI MORTE: 26 marzo 1969


CAUSE DELLA MORTE: overdose di sonniferi
LUOGO: Thornton Heath (Croydon), Inghilterra

IL MISTERO: all’inizio degli anni Sessanta, quando la carriera


rock’n’roll di Pride precipita vertiginosamente, la depressione cresce
in maniera proporzionale ai suoi insuccessi. Tra tossicodipendenze,
patologie cerebrali e svariati ricoveri in ospedali psichiatrici (viene
persino lobotomizzato nel 1967), la sua crisi raggiunge l’apice la
notte del 26 marzo 1969, quando, non si sa se in maniera
consapevole o meno, Dickie ingurgita una quantità mortale di
sonniferi.

(chitarrista e cantante dei


ALAN WILSON
Canned Heat)

DATA DI MORTE: 3 settembre 1970


CAUSE DELLA MORTE: overdose di barbiturici
LUOGO: Los Angeles, California

IL MISTERO: lo trovi a p. 83 di Delitti Rock.

(leader dei Dyke and The


ARLESTER CHRISTIAN
Blazers)

DATA DI MORTE: 13 marzo 1971


CAUSE DELLA MORTE: omicidio
LUOGO: Phoenix, Arizona
IL MISTERO: mentre è seduto al volante della sua auto, Arlester
“Dyke” Christian viene centrato da alcuni proiettili. I cecchini riescono
a fuggire senza che nessuno li possa riconoscere: anche i mandanti
dell’omicidio rimangono impuniti. La crudele esecuzione parrebbe
connessa a un traffico di droga, anche se tale ipotesi non viene
provata. Non solo: l’autopsia non rivela tracce di sostanze
stupefacenti. Il cantante sarebbe dovuto partire in quei giorni per un
tour inglese con la band e si apprestava a una collaborazione con
Barry White.

LINDA JONES (cantante soul)

DATA DI MORTE: 14 marzo 1972


CAUSE DELLA MORTE: complicanze del diabete
LUOGO: Harlem, New York

IL MISTERO: l’interprete di Hypnotized è all’apice della carriera.


Ma non riesce a godersi fama e successo. Improvvisamene, mentre
sta riposandosi nel corso dell’intervallo tra lo spettacolo mattutino e
quello serale all’Apollo Theatre, Linda si spegne. Non si capisce se
per un infarto, una crisi respiratoria o un’ischemia. Qualche anno
prima le hanno diagnosticato una grave forma di diabete, che lei
trascura. E così, anche a causa di una vita frenetica e disordinata
vissuta tra un palco e l’altro, la sua malattia degenera rapidamente.

(chitarrista degli Stone the


LESLIE HARVEY
Crows)

DATA DI MORTE: 3 maggio 1972


CAUSE DELLA MORTE: scossa elettrica
LUOGO: Swansea, Galles

IL MISTERO: la band di rock blues Stone The Crows è sul palco


del Top Rank Ballroom. Il gruppo è seguito da Peter Grant, il
manager dei Led Zeppelin, ma non è ancora riuscito a fare il
meritato salto di qualità. Quello del Top Rank sembra un concerto
come tanti altri. Ma sul palco ci sono troppe cose che non
funzionano: amplificatori sgangherati, fili penzolanti, collegamenti di
fortuna. Quando il chitarrista Les Harvey (fratello minore della
leggenda del rock scozzese Alex Harvey) tocca uno dei microfoni
con le mani bagnate si becca una scossa fulminante. Cade a terra
privo di sensi. Viene ricoverato immediatamente in ospedale, ma
ogni tentativo di salvarlo risulta vano: il microfono non aveva la
messa a terra ed era stato impropriamente collegato a un
amplificatore. Scossa dall’accaduto, la band, ultimate le registrazioni
del quarto album, decide di abbandonare le scene.

RON “PIGPEN” MCKERNAN (tastierista dei Grateful Dead)

DATA DI MORTE: 8 marzo 1973


CAUSE DELLA MORTE: emorragia gastrointestinale
LUOGO: Corte Madera, California

IL MISTERO: lo trovi a p. 90 di Delitti Rock.

(cantante e percussionista dei


ROGER LEE DURHAM
Bloodstone)

DATA DI MORTE: 27 luglio 1973


CAUSE DELLA MORTE: caduta da cavallo
LUOGO: Missouri

IL MISTERO: a ucciderlo è una sua grande passione, quella per i


cavalli. Durante una passeggiata al galoppo tra i campi, Roger viene
disarcionato. Le ferite rimediate nella caduta gli sono fatali. Muore
poco dopo in ospedale. Reduce del Vietnam, membro dell’aviazione
americana, Durham viene seppellito nel cimitero nazionale di Fort
Leavenworth, in Kansas.
WALLACE YOHN (organista dei Chase)

DATA DI MORTE: 12 agosto 1974


CAUSE DELLA MORTE: incidente aereo
LUOGO: Jackson, Minnesota

IL MISTERO: Wallace è sull’aereo con altri membri della sua


band, i Chase. Si stanno recando in Minnesota, alla Jackson County
Fair, per un concerto. Il gruppo è in tour per la promozione del terzo
album, PURE MUSIC, pubblicato da poco. Ma in fase d’atterraggio
qualcosa va male; l’apparecchio precipita e nello schianto perdono la
vita tutti quelli che sono a bordo, pilota compreso. Non è mai stata
chiarita la dinamica dell’incidente.

DAVE ALEXANDER (bassista degli Stooges)

DATA DI MORTE: 10 febbraio 1975


CAUSE DELLA MORTE: edema polmonare
LUOGO: Ann Arbor, Michigan

IL MISTERO: nell’agosto del 1970, durante il Goose Lake


International Music Festival, Dave abbandona gli Stooges, piantando
in asso Iggy Pop e compagni nel bel mezzo dell’evento. Qualcuno,
invece, sostiene che Alexander sia stato licenziato in tronco. In ogni
caso, la rottura avviene dopo un litigio furibondo a causa
dell’eccessivo consumo di droghe, non si capisce bene se da parte
di Alexander o degli altri componenti del gruppo. Di lì a poco, il
bassista cade in depressione e si rifugia nell’alcol. Qualche anno
dopo viene ricoverato all’ospedale di Ann Arbor per una pancreatite
(causata dal bere). Il pancreas compromesso rende impossibili le
cure e per lui non c’è nulla da fare. L’amico Iggy Pop lo ricorda
nell’introduzione parlata di Dum Dum Boys quando dice: “Che fine
ha fatto Dave? / Overdose di alcol…”.
PETE HAM (cantante e chitarrista dei
Badfinger)

DATA DI MORTE: 24 aprile 1975


CAUSE DELLA MORTE: suicidio
LUOGO: contea del Surrey, Inghilterra

IL MISTERO: tra il 1973 e il 1975 la rock band inglese dei


Badfinger attraversa un periodo difficile, impegolata in una serie di
brutte vicende finanziarie. A risentirne è la musica, ma anche la vita
artistica e personale di ogni membro del gruppo. La colpa sembra da
attribuire al manager Stan Polley che, tra le altre cose, ha trascinato
il gruppo in un’estenuante guerra legale contro la Warner Bros. Pete
Ham è quello che, più di tutti, patisce l’incresciosa situazione, per lui
talmente insopportabile da spingerlo al gesto estremo: decide di
togliersi la vita impiccandosi nel garage di casa. Alla tragedia si
aggiunge un ulteriore mistero: nessuno parla di suicidio. Viene
persino tenuta nascosta la notizia che riguarda la sua fidanzata,
incinta di otto mesi. L’ipotesi del suicidio sembra, però, confermata
dalla lettera d’addio: “Non potendo amare tutti e fidarmi di tutti,
preferisco morire”, scrive Pete, che nel post-scriptum aggiunge:
“Stan Polley è un bastardo senz’anima e io lo porterò all’inferno con
me…”.

(bassista di Keef Hartley Band e


GARY THAIN
Uriah Heep)

DATA DI MORTE: 8 dicembre 1975


CAUSE DELLA MORTE: overdose di eroina
LUOGO: Norwood Green, Inghilterra

IL MISTERO: a trovarlo morto nella vasca da bagno è la sua


fidanzata Yoko. Non è una sorpresa: vari problemi di salute lo
affliggono da anni ma, soprattutto, l’eroina ne ha pesantemente
minato la carriera. Peccato, perché da sempre (almeno a livello
potenziale) viene considerato uno dei più talentuosi bassisti rock in
attività. Nel 1974 è vittima di un curioso incidente on stage: si becca
una scossa fortissima, sviene e rimane gravemente ustionato. Non si
riprenderà mai più appieno.
L’epilogo giunge dopo l’ennesima overdose cui Thain, stavolta,
non sopravvive. Molte le speculazioni: alcuni dicono che Gary muoia
nel marzo del 1976, altri sostengono che l’overdose sia solo una
copertura e che il bassista, in realtà, sia stato ucciso da qualcuno
mandato dalla famiglia di Yoko (di origine indiana) che non approva
la loro unione. I trascorsi di vita di Thain lasciano però poco spazio
alle illazioni: l’eroina è l’unico colpevole.

HELMUT KOLLEN (bassista dei Triumvirat)

DATA DI MORTE: 3 maggio 1977


CAUSE DELLA MORTE: intossicazione da monossido di carbonio
LUOGO: Colonia, Germania

IL MISTERO: chiuso in macchina, all’interno del suo garage,


Helmut sta ascoltando alcune registrazioni fatte in studio. L’auto è in
moto ed evidentemente il bassista lascia il motore acceso per troppo
tempo. Le esalazioni di monossido di carbonio lo uccidono. Di lui
resta un album solista postumo, YOU WON’T SEE ME, prodotto
senza i Triumvirat, e dedicato ai suoi genitori. Il gruppo tedesco Birth
Control gli dedica il pezzo We All Thought We Knew You.

CHRIS BELL (cantante dei Big Star)

DATA DI MORTE: 27 dicembre 1978


CAUSE DELLA MORTE: incidente stradale
LUOGO: Memphis, Tennessee

IL MISTERO: Bell ha una grande passione: le auto sportive. Da


poco ha comprato una piccola spider inglese, una Triumph TR-7.
Quella sera, il cantante sta tornando verso casa dopo essere stato a
cena al ristorante del padre, ma l’alta velocità gli costa la vita. Perde
il controllo della vettura e si schianta contro un palo della luce.
Muore sul colpo.

JACOB MILLER (musicista reggae)

DATA DI MORTE: 23 marzo 1980


CAUSE DELLA MORTE: incidente stradale
LUOGO: Kingston, Giamaica

IL MISTERO: è domenica e Miller scorrazza con la sua macchina


lungo le strade della capitale giamaicana. All’altezza di Hope Road
l’auto sbanda, esce dalla carreggiata e Miller muore sul colpo. Pochi
giorni prima era stato in Brasile con Bob Marley per celebrare
l’apertura di una nuova sede della Island in Sud America. Inoltre,
proprio con il re del reggae stava lavorando a un nuovo album;
MIXED UP MOODS esce dopo la sua morte.

D. BOON (chitarrista dei Minutemen)

DATA DI MORTE: 22 dicembre 1985


CAUSE DELLA MORTE: incidente stradale
LUOGO: Tucson, Arizona

IL MISTERO: il furgone su cui abitualmente viaggiano i Minutemen


sta attraversando il deserto dell’Arizona lungo la Interstate 10.
Dennes Dale Boon non sta bene, ha la febbre e decide di sdraiarsi
sui sedili posteriori. Non si allaccia la cintura di sicurezza.
Improvvisamente, e senza spiegazioni, l’autista perde il controllo del
mezzo e finisce fuori strada. Nell’impatto con il terreno sconnesso,
gli sportelli sul retro si spalancano, il chitarrista viene sbalzato fuori e
muore decapitato. I Minutemen, distrutti dalla tragica fine del loro
amico e compagno, si sciolgono immediatamente.
ALEXANDER BASHLACHEV (poeta e musicista rock)

DATA DI MORTE: 17 febbraio 1988


CAUSE DELLA MORTE: possibile suicidio
LUOGO: Leningrado

IL MISTERO: Alexander viene trovato morto ai piedi del palazzo in


cui abita. Tutto fa pensare che sia precipitato dal suo appartamento
al nono piano. Non è possibile chiarire se si sia trattato di suicidio, di
caduta accidentale o se qualcuno abbia volutamente spinto il
musicista dalla balconata. Negli ultimi tempi (come chi gli è vicino sa
benissimo) le sue condizioni appaiono disperate. Non riesce più a
scrivere niente di nuovo. Il “blocco dello scrittore”, di cui è
prigioniero, lo fa cadere in una profonda depressione. Affoga i suoi
malumori nell’alcol. Lascia la compagna incinta: il figlio nasce pochi
mesi dopo la sua morte.

(batterista degli Echo & the


PETE DE FREITAS
Bunnymen)

DATA DI MORTE: 14 giugno 1989


CAUSE DELLA MORTE: incidente in moto
LUOGO: autostrada tra Liverpool e Londra

IL MISTERO: Pete sta tornando in moto nella sua casa londinese


quando perde la vita in un tragico incidente sulla strada che collega
Liverpool a Londra. Non si riesce a capire la dinamica: si sa solo che
il musicista sta viaggiando a forte velocità e che, per motivi ignoti,
perde il controllo del veicolo. Il corpo viene cremato e le ceneri
sepolte al cimitero di Goring-on-Thames.

MIA ZAPATA (cantante dei Gits)


DATA DI MORTE: 7 luglio 1993
CAUSE DELLA MORTE: stuprata e strangolata
LUOGO: una viuzza di Seattle, vicino a casa

IL MISTERO: lo trovi a p. 234 di Delitti Rock.

KURT COBAIN (frontman dei Nirvana)

DATA DI MORTE: 5 aprile 1994


CAUSE DELLA MORTE: suicido, un colpo di fucile
LUOGO: Seattle

IL MISTERO: lo trovi a p. 242 di Delitti Rock.

KRISTEN PFAFF (bassista degli Hole)

DATA DI MORTE: 16 giugno 1994


CAUSE DELLA MORTE: overdose d’eroina
LUOGO: Seattle

IL MISTERO: lo trovi a p. 246 di Delitti Rock.

(chitarrista dei Manic Street


RICHEY EDWARDS
Preachers)

DATA DI MORTE: 1 febbraio 1995


CAUSE DELLA MORTE: ignota
LUOGO: Londra

IL MISTERO: lo trovi a p. 248 di Delitti Rock.

FAT PAT (rapper)


DATA DI MORTE: 3 febbraio 1998
CAUSE DELLA MORTE: omicidio
LUOGO: Houston, Texas

IL MISTERO: Peter Lamark Hawkins, membro del gruppo rap


DEA (Dead End Alliance), si reca all’appartamento di un suo
promoter per recuperare i cachet di alcuni concerti che non gli sono
stati mai pagati. Bussa alla porta più e più volte senza ottenere
risposta. Sconsolato, Fat Pat (questo il nome d’arte di Hawkins)
lascia il palazzo. Mentre sta attraversando il corridoio esterno viene
freddato da alcuni colpi di arma da fuoco. Nessun testimone. Non
verrà mai trovato il colpevole.

FREAKY TAH (rapper)

DATA DI MORTE: 28 marzo 1999


CAUSE DELLA MORTE: omicidio
LUOGO: Queens, New York

IL MISTERO: all’Hotel Sheraton si sta festeggiando il compleanno


di Mr. Cheeks, membro del gruppo hip-hop Lost Boyz: tra gli invitati,
anche Raymond Rogers (detto Freaky Tah), amico e compagno di
band del festeggiato. Intorno alle quattro del mattino, mentre Freaky
sta recandosi verso l’uscita, viene colpito alla schiena e alla nuca da
una raffica di proiettili. Nonostante il ricovero d’urgenza al pronto
soccorso del vicino Giamaica Hospital, non c’è nulla da fare. Pochi
minuti dopo, viene dichiarato morto. Il killer, preso durante la fuga, è
un certo Kelvin Jones. Viene arrestato anche Raheem Fletcher, un
complice, alla guida dell’auto in fuga, a cui vengono dati sette anni di
carcere.

RODRIGO BUENO (cantante dei Cuarteto)


DATA DI MORTE: 24 giugno 2000
CAUSE DELLA MORTE: incidente stradale
LUOGO: City Bell, Buenos Aires

IL MISTERO: finito il suo concerto a City Bell, Rodrigo sta


tornando a casa alla guida di un SUV Ford Explorer quando
tampona l’auto che lo precede e va a sbattere contro il guardrail.
Nell’incidente muore anche Fernando Olmedo, l’amico che viaggia
con lui. Famiglia e fan accusano però il conducente dell’altra auto
coinvolta, un certo Alfredo Pasquera, la cui manovra azzardata
avrebbe (secondo loro) mandato fuori strada l’auto di Rodrigo. I
familiari del cantante intentano una causa legale, ma il giudice
dichiara che non ci sono prove a carico del presunto imputato. Non
solo: test chimici rivelano che il tasso alcolico rinvenuto nel sangue
di Rodrigo è superiore al consentito. Altri parlano di un complotto
ordito dal manager dei Cuarteto (la band di Rodrigo). Nessuno però
ha mai dato peso, né approfondito tali accuse.

SEAN PATRICK MCCABE (cantante degli Ink & Dagger)

DATA DI MORTE: 28 agosto 2000


CAUSE DELLA MORTE: asfissia per vomito durante il sonno
LUOGO: Indiana

IL MISTERO: i comportamenti oltraggiosi di McCabe e soci sono


tristemente famosi: passano dalle uova marce tirate addosso a un
gruppo di seguaci Hare Krishna ai vasetti di yogurt scaduto lanciati
in faccia alla rock band Earth Crisis. Il vomito sembra essere la loro
specialità: quando salgono, ubriachi fradici sul palco, quello sembra
essere il loro sport preferito. Una volta, prendono proprio di mira un
albero di Natale… Ironia della sorte, proprio il vomito è fatale al
cantante della punk band di Philadelphia. Sean viene trovato morto
nella camera di un motel. L’esame autoptico spiega che, come Jimi
Hendrix trent’anni prima, il font man degli Ink & Dagger è rimasto
soffocato dal suo stesso vomito. Pochi mesi dopo esce l’album INK
& DAGGER: sulla copertina del Cd, Sean McCabe appare vestito da
vampiro…

MARIA SERRANO-SERRANO (cantante dei Passion Fruit)

DATA DI MORTE: 24 novembre 2001


CAUSE DELLA MORTE: incidente aereo
LUOGO: Bassersdorf, Svizzera

IL MISTERO: Maria (ex infermiera, modella, ballerina e corista) sta


viaggiando con la sua dance band, i Passion Fruit, a bordo del volo
Crossair Flight 3597 partito da Berlino e diretto a Zurigo. Quando
manca poco all’atterraggio, il piccolo velivolo si schianta sulle colline
nei pressi di Bassersdorf, precipitando a picco per quattro chilometri.
Nell’impatto muoiono Maria, Nathaly van het Ende e la ex vocalist
dei La Bouche, Melanie Thornton. Altre otto persone, pur riportando
gravi ferite, riescono miracolosamente a salvarsi.

(fonico e sound designer dei


JEREMY MICHAEL WARD
Mars Volta)

DATA DI MORTE: 25 MAGGIO 2003


CAUSE DELLA MORTE: overdose di eroina
LUOGO: Los Angeles

IL MISTERO: Jeremy viene trovato morto in casa dal suo


coinquilino. Sembra che la causa del decesso sia un’overdose di
eroina. Il tecnico, responsabile dei suoni e dei “soundscape” dei
Mars Volta, è appena tornato da un tour della rock band di El Paso,
Texas, che apriva i concerti dei Red Hot Chili Peppers. Avrebbe
dovuto godersi una settimana di riposo prima dell’uscita del nuovo
disco, DE-LOUSED IN THE COMATORIUM. La sua morte convince
definitivamente gli altri membri dei Mars Volta a smetterla con le
droghe pesanti.
(chitarrista degli American Head
BRYAN OTTOSON
Charge)

DATA DI MORTE: 20 aprile 2005


CAUSE DELLA MORTE: OVERDOSE
LUOGO: North Charleston, Carolina del Sud

IL MISTERO: Bryan viene trovato morto nel bus su cui sta


viaggiando in tour con gli American Head Charge, band di industrial
rock di Minneapolis. La polizia, accanto alla sua cuccetta, trova
diversi flaconcini vuoti di medicinali: anche sul certificato di morte si
parla di overdose. Gli altri membri del gruppo sostengono che, alle
quattro del mattino, il chitarrista è sveglio. Poi, mentre il bus sta
ripartendo per Jessup, Maryland, si addormenta. Nessuno lo
disturba perché Ottoson è solito dormire profondamente e a lungo
dopo ogni concerto. Alle 18:00, la terribile scoperta: la polizia viene
chiamata quando tutti si rendono conto che Bryan non respira e non
dà più segni di vita. Immediatamente la band cancella le tre restanti
date del tour.

VALENTIN ELIZALDE (cantante)

DATA DI MORTE: 25 novembre 2006


CAUSE DELLA MORTE: omicidio
LUOGO: Reynosa, TAMAULIPAS, Messico

IL MISTERO: Valentin Elizalde Valencia, detto El Gallo de Oro,


viene ucciso nella sua auto insieme all’autista e al suo assistente,
nel corso di una sparatoria avvenuta mentre i tre si stanno
allontanando dal luogo in cui si è tenuto il concerto. Pare che a
scatenare l’ira dei sicari sia stata la canzone A mis nemigos, che
Valentin “dedica” ai membri della banda dei Los Zetas, considerati i
maggiori controllori del traffico di droga in Messico. Due anni dopo,
la polizia arresta Raul Barrón Hernández, ritenuto l’assassino del
cantante.
(trombettista e collaboratore dei
RICHARD TURNER
Friendly Fires)

DATA DI MORTE: 19 agosto 2011


CAUSE DELLA MORTE: arresto cardiaco
LUOGO: Herne Hill, Londra

IL MISTERO: mentre sta nuotando nella piscina del Brockwell Lido


di Herne Hill, a sud di Londra, Richard viene stroncato da un attacco
cardiaco. Al Lido, Turner si è recato con Eddy Hackett, il suo migliore
amico, che assiste sconvolto alla scena. E racconta ai giornali che
“Richard era un nuotatore provetto, i bagnini hanno capito che c’era
qualcosa che stava andando storto e si sono tuffati subito per
riportarlo a bordo vasca”. Nonostante il pronto intervento degli
infermieri e il rapido ricovero al pronto soccorso, Richard Turner
viene dichiarato morto al King’s College Hospital di Denmark Hill,
Camberwell.
TROPPO GIOVANI PER MORIRE
(DI ROCK)
L’Altamont Raceway è un circuito automobilistico minore che ospita
gare di speedway. Oggi, però, sembra essere una sorta di
Woodstock californiana. Già, perché quello che a qualche mese di
distanza dai fasti della prima tre giorni di “pace, amore & musica”
doveva soltanto essere un grande concerto dei Rolling Stones è ben
presto diventato un festival vero e proprio. Oltre agli Stones, infatti,
gli organizzatori hanno invitato Santana, Jefferson Airplane, Flying
Burrito Brothers e Crosby, Stills, Nash & Young.
L’evento avrebbe dovuto svolgersi al Golden Gate Park di San
Francisco, ma i responsabili cittadini hanno negato il permesso. E
così, si è dovuti ripiegare su questa strana location, due ore a nord
della città della baia, in un luogo semisconosciuto e poco adatto a
ospitare un raduno di così grandi proporzioni.
Alle difficoltà logistiche, alla mancanza di impianti sanitari adeguati
e ai problemi di cibo e bevande si aggiunge quello della security. Gli
organizzatori hanno ingaggiato gli Hell’s Angels, la gang di biker un
tempo vicina alla comunità hippie, ma che, da un paio d’anni, si è
segnalata per gravi episodi di violenza.
Il palco, troppo basso e senza una seria protezione, già favorisce
le intemperanze di alcuni scalmanati, tanto che, durante la
performance dei Jefferson Airplane, Marty Balin viene alle mani con
uno spettatore.
Ma il clou giunge durante il set dei Rolling Stones.
Sotto gli influssi della droga, Meredith Hunter, diciottenne
afroamericano, è troppo agitato. Continua a battibeccare con alcuni
Hell’s Angels, sino a che, a un certo punto, estrae una pistola.
Immediatamente attaccato, viene accoltellato cinque volte e
scalciato dai biker inferociti.
Meredith Hunter muore prima ancora di essere trasportato in
ospedale.
Alan Passaro verrà identificato come colpevole ma, dopo il
processo nel 1972, verrà scagionato per “legittima difesa”.
Durante l’accoltellamento, documentato nel film Gimme Shelter, gli
Stones stavano suonando Under My Thumb, uno dei brani più
celebri di AFTERMATH. Altamont rimarrà il capitolo più nero della
loro lunga storia.
Il Red Lion Pub è un locale alla moda. Stasera, fuori dalla porta, c’è
una lussuosissima Bentley.
Appartiene a Keith Moon, stravagante batterista della rock band
The Who.
Non appena Keith, sua moglie Kim, il loro amico batterista Legs
Larry Smith e l’autista dei coniugi Moon, Neil Boland, stanno per
entrare in macchina, un gruppo di skinhead li avvicina.
Una ragazza dice loro con tono da presa in giro: “Dai Mooney,
dacci un passaggio a casa sulla tua limousine…”.

La reazione verbale della moglie del batterista è alquanto violenta:


“Taci mignotta”, le dice Kim, “fatti i cavoli tuoi”.
Il gruppo di skinhead non accetta la provocazione: fischia e
comincia a gettare monetine sul tetto della Bentley.
Moon balza in auto e comincia a inseguire i ragazzi.
È infuriato e la situazione comincia a diventare confusa.
Alcuni skinhead scappano, altri salgono su un furgone
Volkswagen per cercare di ostacolare le manovre della Bentley.
Alla fine della gimcana, Neil Boland – l’autista – è steso a terra.
Senza vita.
La Bentley gli è passata sopra.
Ma com’è potuto succedere?
Il coroner, giunto sul posto, giudica accidentale la morte di Boland
e scagiona Keith Moon da ogni possibile accusa.
Ma chi era al volante della Bentley?
C’era davvero Keith Moon e non, piuttosto, sua moglie Kim? E
Neil Boland era in auto ed è stato sbalzato fuori dalle manovre
brusche del conducente o era a piedi in mezzo al gruppo dei giovani
skin head? E quei giovani e rano davvero così minacciosi come Kim
Moon diceva che fossero?
A quarant’anni di distanza, la morte di Neil Boland rimane un
mistero.

È mezzogiorno alla Kent State University.


Nonostante il preside della facoltà abbia deciso di far affiggere
12mila locandine nel campus per comunicare la cancellazione della
manifestazione, oltre duemila studenti sono lì per protestare contro
l’ennesima, discutibile decisione del presidente americano Richard
Nixon in tema di politica militare.
Solo quattro giorni prima, infatti, in piena guerra del Vietnam,
Nixon ha annunciato in televisione che le truppe dell’esercito
americano invaderanno la Cambogia, allora alleata del governo
nordvietnamita.
Gli studenti della Kent University si radunano nei pressi della
Taylor Hall e – come fanno in genere per festeggiare le vittorie della
squadra di football del college – suonano la campana di ferro.
La protesta è iniziata.
Poco dopo, un battaglione della National Guard in assetto
antisommossa giunge sul posto intimando agli studenti di
disperdersi. Dopo di che, inizia a sparare candelotti lacrimogeni,
molti dei quali vengono ributtati dagli studenti verso i poliziotti.
Intanto, un’altra squadra militare giunge sul posto. Sono le dodici e
ventidue minuti: i militari decidono di fare fuoco sui manifestanti.
Scoppia l’inferno.
Sul terreno del campus, i corpi di quattro ragazzi morti: due
stavano protestando, altri due semplicemente transitavano nel posto
sbagliato al momento sbagliato.
Due settimane dopo, il 19 maggio, Neil Young apprende la tragica
notizia leggendo la rivista «Life» e rimane colpito dal reportage
fotografico.
Scrive di getto una canzone. Poi chiama l’amico David Crosby, il
quale – emozionato dagli eventi – telefona subito al discografico di
Crosby, Stills, Nash & Young, il leggendario Ahmet Ertegun,
plenipotenziario della Atlantic Records.
Due giorni dopo, il 21 maggio, CSN&Y si recano ai Record Plant
Studios di Los Angeles e registrano quasi fosse un live Ohio, il brano
che documenta la strage della Kent University. Bastano poche takes
per immortalare l’evento che Ertegun decide di fare uscire pochi
giorni dopo, dando vita al primo instant record della storia.
Ohio viene pubblicata come 45 giri (sul lato B c’è un altro brano
antimilitarista, Find The Cost Of Freedom), entra direttamente al
14esimo posto in classifica e diventa uno dei brani più emblematici
di CSN&Y.
Alla fine del pezzo, Crosby urla: “Four dead, why?”, quattro morti
perché? E poi: “How many more?”, quanti altri ancora?
Chi era presente in studio, giura che lo stesso David Crosby, dopo
la prima registrazione di Ohio, sia scoppiato a piangere…

Riverfront Coliseum: il concerto degli Who è uno degli eventi


dell’anno. Il quartetto inglese è all’apice della popolarità grazie al
successo in terra americana del 33 giri WHO ARE YOU e non suona
in città da quattro anni. Una folla di oltre 18mila persone è diretta
verso lo stadio, che solitamente ospita le partite della squadra di
hockey degli Stingers. Solo una piccola parte ha un posto numerato.
Le altre si accomoderanno in base all’orario di arrivo: chi entra prima
si assicurerà un posto vicino al palco. È una legge che i fan più
agguerriti conoscono perfettamente e sostano numerosi fuori
dall’entrata. Sono una folla impaziente e agguerrita.
Gli Who iniziano il soundcheck in ritardo. Quando i fan sentono le
prime note provenire dall’interno del palazzetto si allarmano: il
concerto è iniziato, bisogna affrettarsi. Non s’accorgono che i
cancelli sono chiusi e iniziano a spingere. Quando tre soli ingressi
vengono aperti, la pressione diviene insostenibile e molti ragazzi
sono travolti dalla folla. Cadono in centinaia, per terra ne restano
undici privi di vita. Le vittime sono tutte giovanissime: Karen
Morrison e Jacqueline Eckerle (quindici anni); Bryan Wagner
(diciassette); Peter Bowes e Connie Burns (diciotto); David Heck e
Steven Preston (diciannove); Phillip Snyder (venti); James Warmoth
(ventuno); Walter Adams jr (ventidue); Teva Ladd (ventisette).
“Un’ondata mi ha trascinato sulla destra”, ha ricordato un ragazzo
presente quella sera. “Quando ho riguadagnato l’equilibrio, ho
scoperto che sotto i miei piedi c’era una persona. L’impotenza e la
frustrazione mi hanno mandato nel panico. Ho urlato con tutte le
forze che sotto di me c’era qualcuno. Non riuscivo a muovermi.
Potevo solo urlare. Poi è giunta un’altra ondata che mi ha spinto
ancora più a sinistra verso la porta”.
I musicisti vengono informati solo a fine concerto: a quanto pare le
autorità temevano che la cancellazione dello show avrebbe
provocato altro caos. Quando Pete Townshend, Roger Daltrey, John
Entwistle e Kenney Jones vengono a saperlo, sono sconvolti:
un’altra tragedia sconquassa la formazione, dopo la morte del
batterista Keith Moon nel settembre del ’78. Townshend condensa i
suoi sentimenti in una canzone intitolata Let’s See Action. “È stata
una lezione terribile”, ha detto il chitarrista, “e per molto tempo non
sono riuscito a conviverci. Mi sono sempre sentito in parte
responsabile”.
Le ragioni dalla tragedia? Il gruppo non avrebbe dovuto iniziare il
soundcheck così tardi, ma una maggiore comunicazione tra
l’organizzazione e il pubblico, l’apertura di più cancelli e la presenza
di un numero sufficiente di addetti alla sicurezza avrebbero
probabilmente evitato il disastro.
I rimanenti concerti rock previsti al Riverfront nel ’79 vengono
cancellati. La città di Cleveland bandirà per venticinque anni i
concerti senza posti numerati. A livello nazionale verrà ripensato il
criterio di assegnazione dei posti nei concerti nei palazzetti dello
sport.

John McCollum, diciannove anni, viene trovato senza vita nel suo
letto. La causa della morte è certa: si tratta di suicidio.
Il ragazzo si è sparato in testa con una pistola calibro 22.
Alla ricerca di una ragione in grado di spiegare il gesto, i genitori
incolpano l’ex cantante dei Black Sabbath, Ozzy Osbourne. Prima di
compiere il gesto fatale, infatti, il figlio ha ascoltato ripetutamente la
musica di Ozzy e in particolare una canzone intitolata Suicide
Solution, contenuta nell’album del 1980 BLIZZARD OF OZZ. Il
rocker l’ha scritta col chitarrista Randy Rhodes e col bassista Bob
Daisley in memoria del cantante degli AC/DC
Bon Scott, morto (si presume) per avvelenamento d’alcol, un atto
autodistruttivo assimilabile al suicidio.

I genitori sono convinti che il brano possa avere avuto effetti


nefasti su una mente particolarmente impressionabile e su un
carattere instabile come quello del figlio. A riprova della loro tesi,
citano i versi di una strofa: “Prendi la pistola e prova: spara, spara,
spara”.
Osbourne, del resto, è accompagnato da una fama sinistra che gli
è valsa il nomignolo di “principe delle tenebre”.
I coniugi McCollum finiscono per far causa al cantante inglese e
alla sua casa discografica, la CBS, presso la corte civile della
California: il rock finisce alla sbarra, accusato di annebbiare le menti
dei ragazzi.
Nel gennaio dell’86, il cantante si presenta davanti a un giudice
per difendersi dalle accuse. Due anni dopo, un tribunale della
California stabilisce definitivamente che la canzone non contiene
alcun invito a tentare il suicidio.
Al City College si svolge un evento di beneficenza: si tratta di una
partita di basket alla quale partecipano diverse star del mondo hip
hop.
L’hanno organizzata due rapper popolarissimi: Puff Daddy ed
Heavy D.
Il National Holman Gymnasium – il luogo che ospita l’evento – ha
una capienza di 2.700 posti, ma sono parecchi quelli che
sospettano che siano stati venduti molti più biglietti del dovuto.
Specie quando il pubblico – possessore di regolari ticket – si accalca
minaccioso cercando di sfondare una delle porte della palestra,
temendo di rimanere fuori.
In realtà la porta è aperta, ma viene tenuta serrata dalla security,
che non si aspettava un tale afflusso di pubblico. Presi dal panico, gli
addetti alla sicurezza hanno deciso di bloccare quella porta: ci hanno
infatti infilato un tavolo che la mantiene incastrata.
“Chiudendo l’unica porta d’accesso alla palestra”, ha scritto quasi
otto anni dopo nel suo verdetto di colpevolezza il giudice Louis C.
Benza della Corte di Albany, “gli organizzatori hanno costretto il
pubblico ad accalcarsi verso le scale, trasformando la folla in un
branco di sardine pressate tra loro”.
Il bilancio è tragico: nove morti e ventinove feriti.
Puff Daddy, Heavy D e il City College of New York City vengono
egualmente ritenuti colpevoli della tragedia.

Lo Slane Castle, nel cuore delle Hill Of Slane, contea di Meath, 45


chilometri a nordovest dal centro di Dublino, è un magnifico maniero
storico del diciottesimo secolo. In questa zona, si dice, San Patrizio
ha acceso il fuoco pasquale che – dopo aver attirato l’attenzione del
re di Tara – ha portato alla conversione cattolica di tutta l’Irlanda.
Oggi, lo Slane Castle è un luogo bellissimo dove si possono fare
convegni, organizzare matrimoni, persino mettere in piedi concerti
rock.
Ne sanno qualcosa gli U2, che proprio qui, nel 1984, hanno
iniziato a registrare il loro quarto album, THE UN FORGETTABLE
FIRE, ma che già nel 1981 hanno dato vita a uno degli show più
leggendari e amati dai fan.
Da allora, una volta l’anno, d’estate, lo Slane ospita un grande
evento rock. Questa sera, a precedere gli headliner americani
R.E.M., ci sono anche gli Oasis.
Proprio durante il loro set, due fan dei R.E.M. stanno tentando di
raggiungere la zona del concerto, una sorta di anfiteatro naturale in
grado di ospitare oltre 80mila persone. Lo fanno però nel modo più
pericoloso possibile: nuotando, cioè, nelle impervie acque del fiume
Boyne che circonda l’area. I due ragazzi, forse ubriachi, forse
semplicemente maldestri, sicuramente un po’ incoscienti, non
riescono a nuotare nella direzione voluta. L’acqua gelida e le
correnti, rapide e imprevedibili, li trascinano improvvisamente sul
fondo.

Sul palco, nessuno viene avvisato della tragedia.


Quattordici anni dopo, il 20 giugno 2009, gli Oasis tornano allo
Slane, stavolta come headliner.
“Per noi è una data emblematica”, dichiarano i fratelli Gallagher,
“non possiamo dimenticare i due ragazzi annegati nelle acque del
Boyne River nell’estate del 1995. Il nostro concerto è dedicato alla
loro memoria”.
Henry Mountcharles, l’aristocratico proprietario dello Slane Castle,
promette che sono state prese tutte le misure necessarie alla
sicurezza del pubblico.
“Ci piacerebbe che anche i R.E.M fossero qui stasera”.
Le note di Everybody Hurts, cantate da Michael Stipe, sarebbero
la colonna sonora più appropriata…
Circa settemila fan riempiono il Point Theatre di Dublino in attesa
che cominci il concerto degli Smashing Pumpkins, uno dei gruppi più
amati della nuova generazione alternative rock, soprattutto adesso
che i Nirvana non ci sono più.
Ci sono centodieci addetti alla security davanti al palco, pronti ad
arginare la ressa che si crea durante i momenti di mosh pit, la nuova
moda di spingersi e urtarsi violentemente durante i brani più
scatenati, ormai diventata la norma dei concerti di gruppi rock come i
Pumpkins.
Già dopo pochi minuti dall’inizio dello show, il frontman del gruppo,
Billy Corgan, capisce che qualcosa non va. Dice alla folla di fare un
passo indietro. Dopo mezz’ora di concerto, il cantante – sempre più
preoccupato – fa un annuncio al microfono: “Se qua sotto non
smettete di spintonarvi”, dice, “noi interrompiamo il concerto”.

Per Bernadette O’Brien, giovane studentessa di diciassette anni, è


già troppo tardi.
La ragazza, che si trova proprio sotto il palco con un’amica e due
cugini, è stata schiacciata dall’urto della folla.
Sta malissimo, non respira più.
Informato dell’incidente, Corgan stacca immediatamente la spina:
“Ci dispiace, dobbiamo lasciare il palco. C’è stato appena detto che
una ragazza là sotto sta per morire. Come essere umani, non ce la
sentiamo più di suonare quando c’è gente in pericolo di vita”.
Il giorno successivo a Bernadette, in coma irreversibile, vengono
sospese le cure.
La ragazza non ce la fa.
Il referto medico afferma che “gravi lesioni interne” sono la causa
della morte.
Il gruppo di Billy Corgan manda fiori al funerale di Bernadette e
rilascia un comunicato ufficiale in cui esprime le condoglianze alla
famiglia della ragazza e ai suoi amici. Il concerto della sera
successiva a Belfast viene annullato per rispetto nei confronti della
studentessa irlandese.
Una volta che la notizia arriva in America, diverse città rifiutano di
ospitare il concerto degli Smashing Pumpkins. Per il resto delle date
dell’Infinite Sadness Tour verranno posti in diverse arene seggiole in
modo da evitare il tragico mosh pit.
Non tutti i gruppi di alternative rock sono d’accordo su questa
scelta. Molti, nonostante la tragedia di Bernadette, continuano a
incoraggiare i propri fan a praticare liberamente il pericoloso “sport”.

Promosso dalla stazione radiofonica MIR in occasione del secondo


anniversario della nascita, si è appena concluso il concerto dei
Mango Mango, dance band russa assai popolare. Fuori dallo Sports
Palace della capitale bielorussa si sta scatenando una tempesta di
grandine.
I diecimila spettatori presenti cercano rifugio dove possono:
almeno in duemila pensano che andare di corsa verso il tunnel della
metropolitana sia una buona idea. Nessuno di loro, però, sa cosa li
stia attendendo.
Le scale di marmo della stazione di Nyamiha, rese viscide dalla
pioggia, si trasformano in uno scivolo infernale.
I giovani fan dei Mango Mango iniziano a ruzzolare finendo per
accalcarsi, l’uno sopra l’altro, trasformandosi in una valanga umana
impressionante.
La maggior parte di loro sono in età compresa tra i quattordici e i
diciotto anni. Quasi tutte sono ragazzine.
Il bilancio è tragico: cinquantadue ragazzi morti (più due poliziotti
che avevano tentato di gestire la calca) e centocinquanta feriti.
Le autorità forniscono i dettagli della tragedia solo il giorno dopo.
Inizialmente, il Ministero della Salute parla di diciassette morti.
Solo il 31, quando il presidente Lukashenko dichiara quel lunedì
“giorno di lutto nazionale”, si riveleranno le cifre ufficiali.
Sull’Orange Stage, il palco principale di uno dei festival più grandi,
belli e longevi del Vecchio Continente, si stanno esibendo i Pearl
Jam.
Sono più di 50mila i giovani presenti. Per colpa di un sistema di
amplificazione carente, si stanno tutti pericolosamente avvicinando
al palco.

Resosi conto della situazione, dopo circa quarantacinque minuti di


concerto, Eddie Vedder – frontman e leader della band di Seattle –
interrompe la sua performance chiedendo ai ragazzi di non spingersi
e di evitare la calca.
Anzi, invita tutti a indietreggiare.
Sfortunatamente, il suo appello giunge in ritardo.
Il fango presente nel luogo del concerto rende il terreno
scivolosissimo. È un attimo: decine di ragazzi cadono a terra e
vengono travolti dal parapiglia generale.
Molti sono letteralmente calpestati.
Otto di loro – svedesi, danesi, tedeschi e olandesi – muoiono
soffocati. Una nona persona, un australiano, si spegne il 5 luglio in
ospedale.
Quando la notizia della tragedia diventa di pubblico dominio, il
concerto viene sospeso e anche i gruppi che avrebbero dovuto salire
dopo i Pearl Jam (Oasis e Pet Shop Boys) decidono di cancellare il
loro show in segno di lutto.
Nei giorni successivi, ci sono roventi polemiche da parte dei
media, che attribuiscono la colpa morale alla polizia danese e
accusano i Pearl Jam di aver eccitato troppo gli animi dei presenti.
La band di Vedder si dissocia totalmente e – dopo aver cancellato
numerosi concerti della tournée – rimane a disposizione degli
inquirenti.
L’incidente di Roskilde segna per lungo tempo l’attività live dei
Pearl Jam.
Eddie Vedder, al proposito, scrive un brano bellissimo (Love Boat
Captain) in cui ci sono una citazione esplicita al pezzo dei Beatles All
You Need Is Love e la malinconica frase “Lost nine friends we’ll
never know” (abbiamo perso 9 amici che non conosceremo mai)
dedicata ai fan scomparsi nell’incidente di Roskilde.

I Great White, band hard rock californiana molto amata nel Nuovo
Continente, si sciolgono ufficialmente nel 2001. Ad annunciarne la
fine è il leader Jack Russell, durante un ultimo show tenuto la notte
di Capodanno a Santa Ana in California.
È lo stesso Russell, dopo poco, a tornare sulle scene debuttando
come solista. Prima d’intraprendere la nuova avventura artistica,
decide di contattare uno dei vecchi compagni, il chitarrista Mark
Kendall, per arruolarlo nella band e iniziare una tournée
promozionale.
Durante le serate Russell, Kendall e compagni eseguono brani
inediti, ma anche vecchi successi dei Great White, presentandosi al
pubblico come The Jack Russell’s Great White. Il tour riscuote un
buon successo tanto che viene prolungato fino alla fine del 2003.
Il 20 febbraio dello stesso anno, però, accade qualcosa che rischia
di stroncare sul nascere il nuovo corso del gruppo: Russell e
compagni raggiungono Warwick, cittadina del Rhode Island, dove li
attende un concerto al club The Station. Sono gli attesi headliner
della serata e quando finalmente salgono sul palco, verso le ventitré,
attaccano con il brano Desert Moon e il manager Daniel Biechele fa
partire una serie di suggestivi effetti pirotecnici, che hanno, però, un
imprevisto effetto collaterale: a causa della gommapiuma
infiammabile per l’isolamento acustico del locale, divampa ben
presto un incendio.
Le lingue di fuoco raggiungono in pochi minuti l’intero locale e i
circa trecentocinquanta presenti restano imprigionati nel corridoio
che conduce alla porta d’uscita, commettendo l’errore di non
utilizzare le quattro uscite d’emergenza perfettamente funzionanti.
È una strage: i morti accertati sono novantasei e centosettanta i
feriti, alcuni molto gravi.
Il cronista freelance Brian Butler – che era allo Station per un
servizio sulla sicurezza nei locali notturni – riuscito a sfuggire
all’incendio, filma i dettagli della tragedia e le immagini sono
impressionanti: nel video si vedono chiaramente gli effetti pirotecnici
sul palcoscenico e, pochi istanti dopo, le fiamme che si levano alle
spalle della band. Nel disastro muore anche il chitarrista di Jack
Russell, Ty Longley.
Nell’inchiesta successiva, viene rivelato che la band deve
rispondere alle autorità di quanto accaduto, soprattutto dopo che i
proprietari del locale hanno fatto sapere che non avevano rilasciato
la loro autorizzazione all’utilizzo dei giochi pirotecnici, in quanto
sprovvisti delle attrezzature necessarie.
Inevitabilmente disperato il leader Jack Rus sell, che, intervistato,
si lascia andare a queste parole: “Sono sconvolto, è una tragedia.
Da venticinque anni sono nello show biz e non mi era mai capitato
nulla di così spaventoso. Tutto ha preso fuoco come fosse il 4 di
luglio. Non lo potrò mai dimenticare”.
POSTFAZIONE
LA STRANA MORTE DI LUIGI TENCO
di Alfonso Amodio e Ferdinando Molteni
“Qualcuno sa come sono andate esattamente le cose, quella
maledetta notte all’Hotel Savoy di Sanremo. Ma tace. Da
quarant’anni”.
Sono parole di Graziella Tenco, cognata di Luigi, il cantautore
morto con il cranio trapassato da un colpo di pistola nella notte tra il
26 e il 27 gennaio 1967, nel corso della diciassettesima edizione del
Festival della canzone italiana. È lei, oggi, a portare avanti la
battaglia condotta da suo marito Valentino per quattro decenni. Una
battaglia per ristabilire la verità sulla fine del più promettente autore
di canzoni italiano degli anni Sessanta.
Tenco morì perché lo volle, per un tragico gioco, per un incidente,
oppure fu ucciso?
Una domanda alla quale molti hanno tentato di dare una risposta.
Ma cosa accadde, quella maledetta notte nella stanza 219
dell’Hotel Savoy di Sanremo?
Luigi Tenco, ventotto anni, una buona reputazione d’autore e un
profilo da interprete ancora in via di definizione, partecipa al festival
con Ciao amore, ciao. A presentare la canzone insieme a lui, ma in
una versione più cadenzata e pop, è Dalida, stella di prima
grandezza del firmamento europeo di quegli anni. Tra i due c’è
anche una storia d’amore, data abilmente in pasto alla stampa nei
giorni precedenti la kermesse.
Tenco e Dalida arrivano nella città dei fiori con l’aura dei
predestinati alla vittoria. La potente RCA ha investito molto
nell’operazione.
La canzone è buona, superiore a tutte quelle in gara. Ma non è
esattamente festivaliera. Tenta di coniugare, in modo ancora
maldestro, un ritornello arioso e facile a strofe malinconiche e
d’impianto folk. Si parla del mondo che cambia, della civiltà rurale e
della città. Non è la classica canzone d’amore, ma quel facile
ritornello dovrebbe farla arrivare in fretta alle distratte orecchie del
pubblico.
Tenco, nel pomeriggio di giovedì 26, primo giorno di gara, sente
salire l’ansia. Ha detto a tutti che non gli importa niente del festival,
ma la pressione dei media, le aspettative della casa discografica e
della stessa Dalida si fanno sentire. Alle sette di sera telefona alla
cantante: “M’è presa una strana ansia. A quella roulette andiamoci
insieme. Aspettami nella hall”. Comincia a bere. Whisky, secondo
Dalida.
Mancano tre ore alla sua esibizione. Almeno così crede Tenco. Al
whisky segue la grappa di pere (ne beve una bottiglia) unita al
Pronox, un medicinale che insieme all’alcol provoca uno stato di
euforia. È un espediente usato da molti cantanti dell’epoca. Tra
questi, Jannacci e Paoli.
Il problema connaturato a questo tipo di miscela esplosiva è il
rebound, il contraccolpo. Si rischia di passare dall’euforia alla
depressione in un attimo, quando l’effetto finisce. Bisogna calcolare
bene i tempi.
E Tenco li calcola i tempi. Ma non sa che, sul palco, non salirà
intorno alle ventidue come pensa, ma a mezzanotte, ultimo cantante
chiamato in scena dal presentatore Mike Bongiorno. Quando Mike lo
spinge letteralmente in scena, Tenco è provato. “Cantò malissimo, la
voce impastata, strascicando le parole”, ricorda Gian Piero
Reverberi, direttore d’orchestra in quell’occasione.
In realtà, non cantò poi così male, come si capisce dalla
registrazione di quell’esibizione. E poi non era facile, a mezzanotte,
con la voce fredda e l’ansia addosso, prodursi in un’interpretazione
memorabile. Si è molto favoleggiato di quella prova, ma è sufficiente
ascoltare il documento sonoro per trarne un giudizio meno severo.
Dopo aver cantato Ciao amore, ciao, Tenco è esausto. Si
addormenta. Qualcuno dice su un tavolo, qualcun altro su un
biliardo, altri ancora su alcune sedie messe in fila. Non c’è
particolare, in questa vicenda, che abbia una versione univoca.
Anche sull’ora dell’esibizione, a dire il vero, si discute ancora.
Tenco dorme. Intanto la giuria emette il verdetto. La canzone è
eliminata. Ottiene 38 voti sui 900 disponibili. Ma c’è una prova
d’appello nelle mani della commissione di ripescaggio. Niente da
fare: viene salvata La rivoluzione di Gianni Pettenati, canzone della
Fonit Cetra, casa discografica della Rai.
Due giurati, indignati, di dimettono.
Il verdetto viene comunicato al cantante dal giornalista Piero
Vivarelli, che lo sveglia. Dalida, a questo proposito, in una delle sue
singolari ricostruzioni dei fatti, dice invece: “Aspettiamo il responso
delle giurie. Uno accanto all’altra, ma in realtà distanti”.
La bocciatura della canzone manda su tutte le furie Tenco. E,
pare, anche Dalida. I due, secondo alcuni, litigano. La cantante
francese accusa l’italiano di aver cantato male, di essere il
responsabile del fallimento. C’è una foto che, con ogni probabilità,
ritrae un momento della lite.
In ogni caso, Tenco e Dalida si avviano, a bordo della Giulia GT
del cantante, al ristorante U Nostromu dove la RCA ha prenotato un
tavolo.
Secondo gran parte delle ricostruzioni, è mezzanotte e mezzo
quando arrivano. Dalida entra nel locale, mentre Tenco decide di
tornare in albergo. Giunge al Savoy qualche minuto prima dell’una.
Secondo la prima ricostruzione ufficiale, una volta entrato, scrive il
biglietto d’addio che appoggia al comodino, estrae la sua Walter
PPK 7.65 dalla scatola che la contiene, si siede per terra con la
schiena appoggiata al letto, e si spara un colpo alla tempia destra.
Sul biglietto si legge: “Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho
dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non
perché sono stanco della vita (tutt’altro), ma come atto di protesta
contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e a una
commissione che selleziona La rivoluzione. Spero che serva a
chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi”.
La grafia è incerta, e c’è pure un errore di ortografia: Luigi scrive
“selleziona”, con due elle. Il biglietto è su carta intestata del Savoy e
per qualcuno non è che l’ultima pagina di un testo più lungo. Ma ha
tutto l’aspetto di un biglietto d’addio di un suicida. E tanto basta.
Pochi minuti dopo il colpo di pistola – che peraltro nessuno sente,
come spiegherà il giornalista Sandro Ciotti che si trovava nella
camera a fianco a scrivere – comincia un grottesco circo di urla,
pianti, liti e confusione.
A urlare di più è Dalida, che pare accusi un po’ tutti della morte di
Tenco.
Nella camera entrano numerose persone. Oltre a Dalida, il suo ex
marito Lucien Morisse, Lucio Dalla, Paolo Dossena, manager di
Tenco. E Ugo Zatterin, giornalista Rai e membro della commissione
che aveva escluso il cantante dal festival. Tra gli ultimi a entrare, il
giovane vicedirigente del commissariato di Sanremo, Arrigo Molinari.
Così Molinari, nel marzo 2004 (cioè l’anno prima di venir ucciso a
settantatré anni in una misteriosa rapina nel suo residence di
Andora), parlava di quella notte: “Successe di tutto: la frettolosa
rimozione del cadavere e quindi la mancanza di accurati rilievi, la
successiva ricostruzione della scena con la ricomposizione del corpo
nella stanza, dopo che era già stato portato all’obitorio del cimitero,
le forti pressioni e le richieste di insabbiare tutto. E l’artefice di tutto
ciò fu Ugo Zatterin, noto giornalista, potente uomo della Rai”.
Le pressioni sono dunque notevoli. Zatterin litiga con il collega
Lello Bersani, che chiede l’immediata sospensione del festival. Lo
spettacolo deve continuare e quel morto dà solo fastidio.
Continua Molinari: “C’era una gran confusione. La notizia si era
subito sparsa dopo che Dalida aveva trovato il cadavere al rientro in
albergo. E i giornalisti premevano per avere notizie, per sapere chi
aveva sparato al cantautore. Così, per calmare le acque, li affrontai,
lessi il biglietto che avevo trovato e che faceva pensare a un
suicidio, e promisi loro che non appena ultimato il sopralluogo li avrei
fatti entrare nella stanza e avrei permesso di fare le fotografie. Ma
subito dopo venni chiamato nella hall dell’ultimo piano da Gianni
Ravera, il patron del festival. Anche lì trovai una confusione
incredibile, ma su tutti spiccava la figura di Ugo Zatterin che, al
festival, era nelle vesti di presidente della commissione
selezionatrice, rappresentava la Rai ed era temutissimo per i suoi
agganci con il potere romano. Era letteralmente imbestialito.
Camminava su e giù per il salone e urlava. Quando gli fui
presentato, mi minacciò di farmi trasferire nel più sperduto paesino
d’Italia, perché avevo reso pubblico il biglietto lasciato da Tenco”.
Mentre Molinari è nella hall, i suoi agenti hanno già fatto rimuovere
il cadavere che è in viaggio verso il cimitero di Arma di Taggia.
Ancora: “Bersani scoppiò a piangere. Zatterin aveva vinto. Concordò
con il ‘suo’ gruppo che il festival sarebbe continuato e un po’ alla
volta la sala si svuotò. Rimasero solo alcuni giornalisti e fu allora
che, per far fede alla parola data, diedi ordine di riportare la salma
del cantante nella sua stanza per permettere ai fotografi e alla troupe
di Bersani di fare il loro lavoro. E così avvenne. Cercammo di
rimettere il corpo e la pistola come li avevamo trovati ma non
badammo tanto ai particolari. Per questo apparirono poi delle
incongruenze, come i piedi di Tenco sotto il cassettone con la pistola
fra le gambe, posizioni insolite per un suicida”.
La scena del fatto è dunque irrimediabilmente compromessa.
Nulla, della dinamica dell’avvenimento, sarà più possibile ricostruire
con certezza. E sarà proprio la rimozione frettolosa del cadavere, sul
quale non verrà effettuata né autopsia né guanto di paraffina, a dare
la stura a diverse ipotesi sulla morte del cantante. E, più in generale,
sulla dinamica del presunto suicidio.
Un mese dopo, nell’albergo parigino che aveva frequentato con
Tenco, Dalida tenta di togliersi la vita. La notizia esce su tutti i
quotidiani. In un caffè di Sanremo, il giornalista Pino Angelini ascolta
per caso il commento di una dipendente dell’Hotel Savoy: “Quante
frottole! Tutti dicono che Dalida voleva morire per il rimorso d’essere
arrivata tardi nella camera di Tenco. È tutto il contrario: Dalida si
trovava nella camera di Tenco quando lui s’è ammazzato. L’ha visto
spararsi il colpo di pistola e non ha saputo trattenerlo. Ecco perché è
rimasta fuori senno per un mese e poi ha tentato di uccidersi anche
lei”.
Ne nasce una sorprendente inchiesta, redatta da Roberto
Buttafava e pubblicata nel marzo del 1967 da «Novella 2000», nella
quale si dimostra, se tutte le testimonianze pubblicate sono
autentiche, che Dalida non poteva che essere con Tenco quando lui
morì.
Ma per cosa si sentiva responsabile? Per non essere intervenuta
o, come qualcuno ha detto e scritto, per essere stata involontaria e
accidentale causa di quel colpo di pistola fatale? Forse estrema
conseguenza di una lite furiosa. Un colpo che, non va dimenticato,
nessuno ha sentito.
E se Tenco fosse morto altrove e poi fosse stato
rocambolescamente portato nella stanza 219 dell’Hotel Savoy?
E se Tenco non si fosse ucciso? Se fosse stato ammazzato? E se
Dalida avesse assistito a un omicidio e non a un suicidio?
Un omicidio per rapina, per esempio? Tenco il giorno prima
avrebbe vinto una forte somma al casinò della quale non v’è mai
stata traccia.
O un omicidio passionale? Perché Lucien Morisse, ex marito di
Dalida, potente manager della televisione francese vicino alla
malavita marsigliese, si trovava nella stanza con l’ex moglie e Tenco
morto?
Le ipotesi si sprecano, dunque. E più passa il tempo, più l’idea che
quel giovane e talentuoso cantante possa essersi tolto la vita in un
modo così sciocco appare fragile e poco convincente. Mancano le
prove, tuttavia. Di un presunto omicidio, ma anche del poco
comprensibile suicidio.
Il 3 maggio del 1987, nella sua casa parigina, viene trovata morta
Yolanda Gigliotti, più nota con il nome d’arte di Dalida. Di fianco al
suo corpo, un biglietto d’addio: “La vita è diventata insopportabile…
perdonatemi”.
Aveva cinquantaquattro anni: viene seppellita nel cimitero di
Montmartre.
Il sepolcro è impreziosito da un busto, a grandezza naturale, della
cantante italo-egiziana. Forse, nella tomba finiscono anche i misteri
della morte di Tenco.
Forse…
Nel 2006, per una discutibile decisione del procuratore di Sanremo
Mariano Gagliano, il corpo di Tenco viene riesumato dal cimitero di
Ricaldone per un’autopsia. La salma è intatta e impressiona chi la
vede. Tenco è ancora vestito come quella sera, i lineamenti tesi in
un’espressione beffarda.
L’autopsia giunge a una conclusione che non conclude niente: “Il
grado di certezza della natura suicidaria del decesso rimane lo
stesso di allora, e cioè molto elevato ma non assoluto”.
C’è un foro d’entrata e uno d’uscita. Tenco è morto perché una
pallottola gli ha devastato il cervello. Punto.
Il professor Renzo Celesti, perito nominato dalla famiglia Tenco,
presente all’autopsia e intervistato dal giornalista del «Secolo XIX»
Renzo Parodi spiega: “Dal punto di vista medico-legale, ogni caso di
suicidio teoricamente può nascondere un omicidio, è quasi un
assioma che si insegna agli studenti di medicina”.
Luigi Tenco, nel cimitero di Ricaldone, non riposa ancora in pace.
Come la coscienza di chi, su quella notte, sa cose che altri non
sanno.
Ma tace.
CREDITS

Questo libro non avrebbe mai potuto esistere senza un qualificato


ed esperto team di “detective rock”.
I due “agenti speciali” che hanno supervisionato le “indagini” sono
lo scrupoloso capo del distretto CLAUDIO TODESCO e il suo giovane,
promettente investigatore MASSIMILIANO SPADA.
Sulla scena del crimine si è mossa, con circospezione e
disinvoltura, l’astuta SILVIA PELLIZZON, mentre per sviscerare i casi più
scottanti del nuovo millennio si è scatenato un inarrestabile segugio,
la caparbia ROBERTA MAIORANO.
Sul finale, sono stato aiutato dalla “Emma Peel del rock”, MELISSA
SIANO, “agente speciale” al Servizio della Buona Musica.
Nella “Riviera dei Fiori” hanno indagato due “P.I.” speciali (ALFONSO
AMODIO E FERDINANDO MOLTENI) per fare nuova luce sul caso Tenco.
Dalla “centrale di polizia” sono infine giunti in soccorso
l’inappuntabile SANDRO CARUSI e il riflessivo “Boss” GIANLUCA TESTANI.

Dietro le quinte, hanno sostenuto il nostro lavoro GIORGIO FALETTI


(che ha dato la sua adesione a un progetto televisivo che non lo ha
poi visto protagonista), MASSIMO LIOFREDI che quel progetto televisivo
lo ha fortemente voluto a RaiDue, PIERO CRISPINO e MARIO RASINI (che
hanno mantenuto la promessa di mandare in onda lo stesso progetto
televisivo), RINALDO GASPARI che ne ha curato con passione e
creatività la regia, MASSIMO GHINI (che ha svolto con entusiasmo il
ruolo di “narratore rock”), CARMEN ACQUATI (la mia producer preferita),
MARIA SORRENTINO e STEFANIA VIALETTO (la mia all female crew con cui
ho girato il mondo alla ricerca di testimonianze e immagini
esclusive), tutto il personale della 3Zero2 Tv e della Rai di Milano /
Studi di Via Mecenate che mi hanno fatto sentire a casa.

Un grazie particolare all’amico ANTONIO RANALLI (il miglior ufficio


stampa che abbia mai avuto), a GIORGIO THOENI (che, nel suo piccolo,
nella “ridente Confederazione rossocrociata” è stato il primo a
credere nei Delitti Rock mandandoli in onda alla Rsi) e a LIFEGATE
RADIO per aver ospitato (inconsapevolmente) alcune delle mie storie
noir.

Il libro è dedicato alla memoria di LANA CLARKSON (dolce e ingenua


all american girl che, prima di incontrare quel bastardo di Phil
Spector, ha trascorso le sue “vacanze italiane” a Milano Due), all’arte
suprema di MICHAEL HEDGES (il più grande chitarrista acustico della
storia), che mi ha trasmesso il suo coraggio e la sua sbalorditiva
sensibilità poetica, e al cuore generoso di CHET HELMS, inventore della
cultura psichedelica e padre di tutti gli hippy, che mi ha fatto amare
ancora di più la mia città preferita: San Francisco, California.
INDICE

Introduzione

Prefazione. Lana Clarkson: l’ultimo ciak

Anni Trenta e Quaranta

Bessie Smith, l’Imperatrice del blues


Sonny Boy, un’armonica acuminata
Leadbelly, le malefatte del galeotto blues

Anni Cinquanta

Hank Williams, un fantasma sul sedile posteriore


Django Reinhardt, chitarrista gitano
Johnny Ace e la leggenda della roulette russa
Charlie Parker, free as a bird
Julia Lennon, la mamma di John
Buddy Holly: il giorno in cui è morto il rock
Billie Holiday e quegli strani frutti…

Anni Sessanta

Jesse Belvin, minacce razziste


Eddie Cochran e la fatale Albione
Stu Sutcliffe, il quinto Beatle
Patsy Cline, usignolo country
Johnny Burnette, schianto rockabilly
Sam Cooke: il tragico finale
Alan Freed, l’inventore del rock’n’roll
Sonny Boy Williamson II, il bluesman amato dalle grandi rockstar
Richard Fariña, le sorelle Baez e quel maledetto giro in moto…
Bobby Fuller: la misteriosa morte dell’uomo che aveva combattuto la
legge
Joe Meek e il culto dell’occulto
Brian Epstein, la mente dei Beatles
Otis Redding e il lago maledetto
Little Walter, blues harp violenta
Fairport Convention: schianto sulla M1
Judy, maga di Oz
Incidente nella Marin County

Anni Settanta

Alan Wilson: il caldo in scatola fa male…


Duane Allman, la morte arriva in Harley
Danny Whitten: il caldo abbraccio dell’eroina
La maledizione dei Grateful Dead
Gram Parsons, seppellite il mio cuore a Joshua Tree
Jim Croce, una squisita eredità
I fratelli Womack: Harry Hippie e la fidanzata gelosa
Graham Bond: si suicida il padre del british blues
Cass, Mooney e l’appartamento maledetto
Nick Drake, un silenzioso addio
Rodd Keith: morte nel traffico
Howlin’ Wolf, muore il lupo del blues
Elvis Presley, come muore un Re
Marc Bolan, paura di guidare
Lynyrd Skynyrd, l’ultimo volo del Convair
Terry Kath, suicidio involontario
Sandy Denny, una scala per il Paradiso
Le balene di Charlie Mingus
Donny Hathaway, salto nel vuoto alla Essex House
Sid Vicious e Nancy Spungen: i Romeo e Giulietta del punk
Lowell George, eroe dimenticato

Anni Ottanta

Bon Scott, autostrada per l’Inferno


Nathaniel “Buster” Wilson: The Coasters e il malocchio del Nevada
Marshall Tucker Band, la tragica saga dei Caldwell
Ian Curtis, l’amore ci separerà
John Bonham, la fine della bestia
Darby Crash, patto di sangue con l’eroina
John Lennon, la fine di un sogno
Tim Hardin, un triste finale
Bill Haley e l’inesorabile declino della cometa più famosa del rock
Mike Bloomfield, overdose di blues
Bob Marley, il lungo addio
Thelonious Monk, la pazzia del monaco bebop
John Belushi. Arrivederci, fratello blues
Randy Rhoads, atterraggio infuocato
Lester Bangs, l’ultima recensione
James Honeyman-Scott e il triste destino degli “imbroglioni” del rock
Karen Carpenter e il fantasma dell’anoressia
Felix Pappalardi: omicidio di una rockstar
Chris Wood, “traffico” al capolinea
Dennis Wilson: un tuffo di troppo nell’Oceano Pacifico
Jackie Wilson: la triste parabola di Mr Excitement
Marvin Gaye, onora il padre
Razzle Dingley: l’ebbrezza della morte
Ian Stewart, la sesta “pietra”
Ricky Nelson, il fumo e lo schianto
Phil Lynott, il cuore nero d’Irlanda
Richard Manuel, l’anima della Band
Cliff Burton e quel maledetto asso di picche
Bye bye, Andy
Peter Tosh: stand up for your rights!
Jaco Pastorius, un piano quasi perfetto
Andy Gibb, cuore ribelle
Chet Baker, salto nel vuoto
L’ultima dose di Hillel Slovak
Nico, la caduta della musa
Roy Buchanan, una sbronza fatale
Roy Orbison, sfortuna o maledizione?
Sylvester, la regina di Castro
John Cipollina, il calvario di un guitar hero

Anni Novanta

Andy Wood, il piccolo Mercury


Stiv Bators, l’uomo che è morto due volte
Stevie Ray Vaughan: tragedia nei cieli del Wisconsin
Doc Pomus, l’addio di un maestro di rock
Conor Clapton, lacrime in Paradiso
Dead, Euronymous e l’inferno metal norvegese
Steve Marriott: finale infuocato
Johnny Thunders, mistero a New Orleans
Gene Clark, l’ultimo battito d’ali
David Ruffin, morte in limo
Miles Davis: l’estremo saluto del principe delle tenebre
Bill Graham: il tonfo improvviso del padrone del rock
Freddie Mercury: lo spettacolo deve continuare… fino alla fine
Jeff Porcaro, la fine sfortunata di un rock daddy
GG Allin, festa col morto
Mia Zapata: un cold case risolto undici anni dopo
River Phoenix: quella notte al Viper Room
Frank Zappa: l’ultima tournée
Kurt Cobain, sacrificio per il Nirvana
Kristen Pfaff, morire a Seattle
Fred “Sonic” Smith, Detroit city rocker
Richey Edwards: missing in action
Philip Taylor Kramer: la misteriosa scomparsa della farfalla d’acciaio
Eazy-E, l’ultima lezione del padre del gangsta rap
Selena: Dio salvi la regina del tejano
Rory Gallagher, l’ultimo assolo
Jerry Garcia, la fine di un’epoca
Shannon Hoon, l’ultima dose
Monika Dannemann, i misteri della morte di Jimi
La terza volta di Jonathan Melvoin
Tupac Shakur, sparatoria a Vegas
Eva Cassidy, lo strano caso dell’usignolo di Washington
Randy California, papà coraggioso
The Notorious B.I.G.: vendetta o intrigo impossibile?
Laura Nyro, poetessa dimenticata
Jeff e Tim: la maledizione dei Buckley
John Denver, il volo finale del cowboy buono
Michael Hutchence: suicidio o macabro rito sessuale?
Michael Hedges: il Jimi Hendrix della chitarra acustica
Nicolette Larson, lotta love
Sonny Bono, lo slalom finale
Cozy Powell, sbandata fatale
Wendy O. Williams: quiete tra i boschi
Dusty Springfield: addio bianca signora del soul
Zapp, il dramma dei fratelli Troutman
Mark Sandman, un colpo al cuore dei Morphine

Anni Duemila
Ofra Haza, la Madonna di Israele
Ian Dury: sesso, droga & rock’n’roll
Kirsty MacColl, la rosa rossa d’Inghilterra
Herman Brood: salto nel vuoto del tulipano punk
Aaliyah, la regina dei dannati
George Harrison: addio, “chitarra gentile”
Stuart Adamson, morte in una grande terra
Layne Staley, condannato a morte
Dee Dee Ramone, overdose di punk
John Entwistle, la morte del bue
Jam-Master Jay: il gangsta style non perdona
Joe Strummer, l’eroe del combat rock
Howie Epstein, l’albero abbattuto
Simone, nome in codice: Nina
Jeremy Michael Ward, il mago del suono
Barry White. Scompare la soul love machine
Marie Trintignant, la follia omicida di un rocker geloso
L’ultimo sandwich di Warren Zevon
Johnny Cash, il videosaluto dell’uomo in nero
La misteriosa morte di Elliott Smith
John Whitehead, una morte senza colpevoli
So long, brother Ray
Dimebag Darrell, ruggito finale
Addio, Jim Capaldi
Paul Hester, il mal di vivere
Chet Helms, il padre degli hippie
Proof: cronaca di una morte (quasi) annunciata
Syd Barrett, la fine del Diamante Pazzo
I guai di Arthur Lee
Ahmet Ertegun, il padre della discografia
James Brown, il padrino del soul esce di scena
Ike Turner, il marito cattivo
Danny Federici, il fantasma del rock
Isaac Hayes, una tragica domenica d’estate
Richard Wright, mai più Pink Floyd
Miriam Makeba, l’ultima scena di Mama Africa
Ron Asheton: si spegne il suono di Detroit
John Martyn, un genio quasi incompreso
Jay Bennett, quei conti in sospeso
Michael Jackson, il Re è morto
Stephen Gately: la debolezza di un cuore pop
Vic Chesnutt, flirt con la morte
Whitney Houston, we will always love you

Club J27

Il famigerato club della J27


Robert Johnson: patto con il diavolo
Brian Jones: il mistero della pietra solitaria
Jimi Hendrix, il figlio del voodoo
Janis Joplin: scacco matto alla regina di cuori
Jim Morrison: la misteriosa scomparsa del Re Lucertola
Amy Winehouse, la ragazza morta tre volte

La maledizione del 27

Troppo giovani per morire (di rock)

La maledizione di Altamont
Keith Moon: una svista fatale
Quattro morti in Ohio
Panico a Cincinnati
Ozzy e il giorno maledetto
Puff & Heavy, rapper incoscienti
Vittime dello Slane
Schiacciata come una zucca
Mango Mango, massacro nel tunnel
Tragedia a Roskilde
Great White, una notte d’inferno
Postfazione. La strana morte di Luigi Tenco
di Alfonso Amodio e Ferdinando Molteni

Credits

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