LE PAGINE DELL'ODIO
(Quoth The Crow, 1998)
A Dean Koontz.
Maestro in passato, nel presente e nel futuro.
Prologo
Ero stremato, stremato a morte dalla lunga agonia; e quando alla fine
mi liberarono e mi consentirono di mettermi a sedere, mi accorsi che stavo
per perdere ì sensi. La sentenza, la terribile sentenza di morte, fu l'ultimo
suono che mi giunse distintamente alle orecchie... Il pensiero giunse lento
e furtivo, e sembrò passare molto tempo prima che venisse compreso
appieno; ma quando alla fine il mio spirito lo avvertì e lo accolse, le
figure dei giudici scomparirono, come per magia, dal mio cospetto; gli alti
ceri svanirono nel nulla; le loro fiammelle si spensero completamente; la
nera oscurità prese il sopravvento; ogni sensazione sembrò inghiottita in
una folle e precipitosa caduta come dell'anima nell'Ade. Poi l'universo fu
silenzio, immobilità e notte.
La casa urlò.
L'urlo era di quelli cinematografici, da raggelare il sangue, per i quali
erano famose le reginette dell'urlo protagoniste di molti film dell'orrore.
Sembrò far tremare i vetri alle finestre del piccolo edificio, scuotendone le
pareti. Le frequenze più basse fecero pulsare le fondamenta, l'acuto ululato
si librò verso il tetto piatto agitando il pietrisco e la carta catramata che lo
ricopriva.
La voce era piuttosto simile a quella di Jamie Lee Curtis, pensò il Conte
Mishka.
E in effetti si trattava proprio di Jamie Lee Curtis, la sua voce doppiata e
manipolata come un grido di Tarzan. Un taglia e incolla digitale operato su
classiche espressioni di angoscia e disperazione tratte sia da Terror Train,
sia da Non entrate in quella casa.
Il ragazzo, tutto vestito di nero (camicia nera, stivali neri, jeans neri,
maglietta nera, orecchino nero, piercing al naso nero, matita nera agli
occhi, corti capelli neri, sciarpa nera, giacca nera; abbigliamento e
accessori non banalmente neri, ma di un nero gotico, elegante) rise.
Premette ancora il tasto del nuovo campanello.
Un altro urlo di donna, questa volta un po' più breve e improvvisamente
smorzato, come se un killer avesse a un tratto mozzato la testa a chi lo
stava emettendo.
Che bellezza.
Le tenebre, fredde e autunnali, calarono sull'accogliente quartiere di
Baltimora. Un cane abbaiò in un vicolo. Una donna avvolta in un cappotto
con cappuccio si dirigeva verso la sua destinazione. L'odore di catrame
steso da poco si propagava nell'aria da un cantiere a qualche edificio di
distanza.
Un gabbiano, allontanatosi dal suo ambiente naturale nei dintorni del
porto, scendeva ripetutamente in picchiata sopra la fila di minuscole
casette a schiera di Fells Point.
Stringendo il bottino sotto un braccio, il Conte Mishka, noto ai genitori e
all'anagrafe con il nome di Richard Mark Henneman, infilò la chiave nella
serratura della porta di casa con la mano destra.
La porta si aprì, accompagnata dal tintinnio delle chiavi. La coda
dell'ultimo urlo registrato ed elaborato dal Conte si dissolse tra le ombre
come una nuvoletta di fumo scuro.
La casa sembrò percorsa da un gelido soffio di vento.
Richard rabbrividì, non solo a causa del freddo.
Che storia è questa? si domandò. Non sarà forse stregata, questa casa?
Stai calmo, si disse.
La gang avrebbe approvato.
Da ormai un anno Richard Henneman si era alleato a un sedicente
gruppo «d'élite», i Goths, rappresentanti locali e funebremente addobbati
di quella sottocultura post-punk il cui feroce rifiuto della società
consumistica veniva spesso oscurato da altrettanto rigide e narcisistiche
ossessioni, da un settarismo assolutista e una malsana passione per lo
smalto da unghie nero. Ultimamente, tuttavia, i Goths si erano trasformati
in un gruppo molto più unito. Un gruppo unito non solo da un patto di
sangue... ma anche dal denaro. Molto denaro. Che sarebbe diventato
ancora di più in futuro. Sì, i Goths stavano rapidamente prendendo le sem-
bianze di un'impresa: la Goths Inc.
E tutto questo per via di un piccolo, insignificante omicidio.
Che delizia!
Il corridoio del Conte era punteggiato da schizzi di sangue.
Resti umani in forma di locandine di film.
Dracula dai canini insanguinati appartenenti a generazioni diverse, da
Bela a Gary, si affacciavano minacciosi. Donne sventurate con ampie
scollature alzavano le braccia al cielo, urlando. Le locandine erano
affiancate da una serie di collage incorniciati, creati da Richard con
immagini fotocopiate tratte dalle sue riviste di cinema preferite, Fangoria,
Shivers, Midnight Marquee, European Trash Cinema, e da altre testate
meno note dedicate al genere. Opere esotiche dei truccatori
cinematografici e rappresentazioni di violenza. Teste mozzate. Corpi
squartati. Mostri bavosi che si lasciavano alle spalle una scia di interiora
fumanti, raramente le proprie.
Arte, pura e semplice.
Attimi immortalati di puro cinema pop al suo apice.
Sorridendo soddisfatto, il Conte accese la luce del soggiorno, si chiuse la
porta alle spalle con un calcio e puntò direttamente verso il suo santuario,
l'angolo dell'intrattenimento. Rivolse un lieve inchino al Buddha
posizionato sopra il televisore. «Abbiamo molto incenso da ardere questa
sera, o Illuminato!»
Lasciò cadere i suoi tesori sul divano e frugò tra i CD fino a trovare
quello nuovo di Iggy Pop; be', non propriamente nuovo, dato che si
trattava di Raw Power in versione rimixata, una rivisitazione vent'anni
dopo il classico album che era stato «rovinato» (secondo i fan più accaniti)
dal tentativo di David Bowie di renderlo più commerciale, in passato,
quando il signor Pop era ancora conosciuto come Iggy Stooge. Il Conte
inserì il dischetto nel lettore e premette il tasto «random play» (la più
importante innovazione nel campo delle moderne comodità domestiche
dopo il telecomando). Immediatamente Iggy e gli Stooges cominciarono a
riversare un fiume di autentico proto-punk attraverso il nuovo sistema
satellitare di casse acustiche Bose.
«Rock my world, Iggy!» incitò il Conte. Attraversò pogando la stretta
sala da pranzo fino ad arrivare nella stretta cucina, dove aprì il frigorifero
da cui estrasse una grossa lattina di Fosters. Tirò la linguetta, lasciando che
la schiuma fuoriuscisse nella migliore tradizione australiana. Ai tempi che
furono era stato costretto a bere anonime marche americane. Ora il Conte
poteva permettersi di bere roba buona. «Vai, Iggy, vai!» Rise, lasciandosi
scorrere la birra sul mento e sulla camicia.
Gli Stooges risposero elettronicamente all'appello.
Il basso pulsava e le chitarre suonavano stridenti. La batteria rullava e
martellava. «I am the world's forgotten boy!» gridava Iggy.
Iggy faceva tremare le pareti, adornate da immagini Gothic rock, icone
della darkwave. Sisters of Mercy, The Cure, The Mission, The Damned e i
Bauhaus; gruppi più recenti come Switchblade Symphony, Laibach, Chem
Lab, Attrition, Lycia, Dorian Gray, Die Laughing, London After Midnight;
ma anche rappresentazioni leggermente ammuffite di esponenti della
vecchia guardia come David Bowie (ehi, a Trent piace), i Kiss e Alice
Cooper (Marilyn Manson dovrebbe pagare i diritti a tutti questi per avergli
rubato immagine e spettacolo) per affermare la cattolicità dei suoi gusti.
Iggy faceva tremare la libreria, che ospitava volumi sul cinema e sulla
televisione e qualche romanzo dell'orrore. Iggy faceva tremare gli scaffali
carichi di fumetti protetti da buste di plastica. Iggy faceva tremare i porta
CD e le pile di dischi. Iggy faceva tremare l'angolo multimediale, affollato
da centinaia di video disposti accanto al televisore Sony da trentuno pollici
e una serie di lettori video, assediati da altre videocassette, laserdisc e
DVD.
Iggy faceva tremare tutto.
La collezione di cultura ed esalazioni pop del Conte irrompevano fuori
dal soggiorno, invadendo la sala da pranzo. Altre pile di video e CD
risalivano le scale, fino a giungere in cima, alle stanze del piano superiore,
anch'esse piene di librerie, fumetti, poster, statuette e robot giapponesi.
Molti degli oggetti erano rubati.
Richard era un eccellente taccheggiatore. Ancor prima della pubertà
aveva scoperto che la sua fame di fumetti e merci correlate eccedeva di
gran lunga le possibilità della sua paglietta. Di mano agile, di piede veloce
e con cappotto capiente, trovò la sua specializzazione nel furto. Prese a
vendere o a barattare gli articoli che non aveva interesse a conservare,
ponendo così le basi di una meravigliosa collezione. A quattordici anni si
era introdotto con scasso in un negozio di fumetti durante la notte, aveva
forzato il lucchetto della cassetta contenente i pezzi da collezione e aveva
rubato un autentico tesoro di fumetti Marvel e DC, e addirittura alcune
pubblicazioni della EC risalenti agli anni Cinquanta. All'età di diciotto anni
possedeva un tale numero di fumetti, libri, cassette, CD e dischi da
consentirgli di condurre una vera e propria attività commerciale nel suo
appartamento nel campus universitario, traendo insospettati benefici dalla
vendita di fumetti Image Comics (che splendide copertine!) durante il
boom del mercato.
Ahimè, era stato cacciato dal college al secondo anno, accusato di
numerose infrazioni alla disciplina. Per nulla scoraggiato, aveva proseguito
la sua attività truffaldina raffinando le proprie tecniche e ampliando
inventario e volume d'affari; ma la sua insaziabile fame di nuova refurtiva
aveva l'effetto di limitare la sua visione, rendendolo vittima dei propri
appetiti compulsivi.
Poi aveva conosciuto i Goths, o meglio aveva cominciato a frequentare
il Salon des Gothiques, un maleodorante scantinato che fungeva da luogo
di ritrovo, presieduto da un certo Baxter Brittle.
I suoi talenti arrivarono ben presto all'attenzione di Brittle, un artista
dedito all'alcol, già editor della Tome Press e recentemente beneficiario di
una inattesa eredità (il bar Cork'd Sailor, sotto il quale si trovava lo
scantinato). Anche le sue collezioni venivano spesso incrementate dalle
attività del Conte. Considerato in un primo momento solo uno sfigato
brufoloso dotato di una mano vellutata, la vita sociale di Richard
Henneman cominciò a intensificarsi. Divenne il «Conte Mishka». Riusciva
addirittura a ottenere, seppure non con assoluta regolarità, qualche
servizietto da alcune dalle Goths di sesso femminile attratte dal ruvido
carattere di Brittle (e dalle bevute gratis).
Tuttavia, era stato solo nel corso dell'ultimo anno, con l'ingresso nella
cerchia ristretta degli uomini di fiducia di Brittle, che la sua situazione
economica era sensibilmente migliorata. Aveva acquistato una piccola casa
a schiera a Fells Point, dove aveva trasferito tutto il contenuto del pre-
cedente appartamento e del magazzino. Certo, ben presto sarebbe stato
costretto ad affittare un altro spazio presso il deposito, ma il volume del
flusso di materiale che passava per le sue mani (in alcuni casi addirittura
comprato, come il bottino di quella sera) era tale da consentirgli di
continuare a vendere e trarre profitti da sommare al denaro guadagnato
lavorando alla Tome Press.
Iggy faceva tremare la cassapanca dei libri.
La cassapanca intarsiata, un autentico pezzo di antiquariato in legno di
quercia massiccio, era stato un regalo da parte della Tome Press («per gli
straordinari servizi resi», aveva detto Brittle). Tutte le chiusure erano state
sostituite con serrature moderne e l'interno era stato reso a tenuta d'aria e di
umidità, ideale per conservare i libri rari, proprio come i bauli utilizzati da
William Blessing per custodire la sua famosa collezione di opere di Poe.
Iggy Pop continuava a cantare di penetrazione e di «shake appeal», e il
Conte rise di nuovo. Scuotendo la testa, introdusse sorridendo la tessera
magnetica nell'antica piastra che celava la nuova serratura della
cassapanca. L'aprì e passò in rassegna il più prezioso dei suoi tesori,
composto da articoli che meritavano una doppia busta di plastica
protettiva.
Ecco! Prime edizioni. Prime edizioni autografate, sempre il miglior
investimento per qualsiasi collezionista, la cui lievitazione di valore era
garantita. C'erano tutti, da Stephen King ad Anne Rice, a Clive Barker, a
Dean Koontz, a Ramsey Campbell, a Robert Bloch, e ancora Shirley
Jackson e Richard Matheson. E le copie in ottime condizioni, o meglio
ancora firmate ma mai sfogliate, possedevano un valore intrinseco
superiore a qualsiasi piano di risparmio o fondo pensione. C'era una prima
edizione del Dracula di Bram Stoker, firmata. Un Ambrose Bierce. Alcuni
Lovecraft di pregio. Decine di splendidi oggetti da collezione.
Davvero roba magnifica.
Ma il materiale di primissimo ordine che aveva da poco ottenuto... il più
prezioso, il più antico... il più magico...
E per giunta gratis!
Era lì, davanti ai suoi occhi: una serie completa di prime edizioni di
Edgar Allan Poe. Risalivano a un'epoca in cui le prime edizioni avevano
una tiratura di poche centinaia di copie, e spesso venivano pubblicate solo
in forma privata. Frutto di quella terribile notte quattro mesi prima che poi
si era trasformata, chissà come, in un colpo di estrema buona fortuna.
Come era solito fare ogni sera, lasciò scorrere le dita sulle coste in pelle
delle vecchie sopraccoperte realizzate artigianalmente (in sé preziose
reliquie), che proteggevano i fragili volumi dall'azione corrosiva della
luce, dell'aria e dell'inutile maneggiamento. Provò un'emozione palpabile,
avvertendo un fremito di squisita energia all'interno di quei ricettacoli di
magia.
Già, chi avrebbe potuto prevedere che per mezzo di una morte e di un
furto una tale fortuna sarebbe piombata sulla sua testa di collezionista!
La Tome Press prosperava come non mai, espandendosi a grandi balzi.
In quanto membro della cerchia interna, Richard Mark Henneman era ora
il vicepresidente responsabile per i Progetti Speciali. Il che implicava, oltre
al consueto e agevole compito di supervisionare la trasformazione di una
piccola tipografia in una grande tipografia, la ricerca di altre vie di
espansione. Essendo un appassionato di musica e un cultore di cinema, era
naturale che gli interessi del Conte venissero agitati dal desiderio di
«produrre». E a giudicare dagli idioti già impegnati nel campo, aveva
concluso il Conte, non doveva trattarsi di un'attività tanto difficile. Quello
stesso giorno aveva parlato ad alcuni studenti di cinema dell'intenzione
della Tome Press di produrre il suo primo film dell'orrore. Ed era sicuro di
riuscire a convincere uno dei maghi degli studi di registrazione come Trust
Obey a occuparsi della musica, stringendo poi accordi per la colonna
sonora con qualche gruppo tipo Projekt, Tess o Cleopatra. Le possibilità
erano infinite.
Dio, che sballo!
Toccare quei volumi di Poe era come ricevere scosse di energia pura.
Energia grezza!
La Goth Inc. era in viaggio verso le stelle!
«E noi saremo in viaggio con lei, no, Iggy?» disse il Conte richiudendo
la preziosa edizione.
Per tutta risposta Iggy continuò a gridare, a lamentarsi e a ruttare.
«Give me danger, little stranger», cantarono insieme.
Prese un altro sorso di Fosters, poi si spostò ancheggiando nel
soggiorno. Balzò spensieratamente all'indietro (dopo aver appoggiato la
lattina sul tavolino, già affollato di figate) ricadendo sul divano.
Afferrò uno dei telecomandi.
Prese la mira. Premette un tasto. Via la testa di Iggy!
Premette un altro tasto e Intervista con il Vampiro prese a scorrere sullo
schermo da trentuno pollici. Il Conte mimò qualche battuta di Brad Pitt,
recitandole a memoria, poi bevette un altro sorso di birra australiana.
Eh, sì, dopo una lunga giornata nelle miniere di sale era ora di
concedersi un po' di meritato riposo. A patto di riprendersi in tempo per
andare al Fletcher's, dove suonavano i Death On Two Legs, una nuova
band che lo interessava parecchio. Avrebbe dato un'occhiata alle ragazze,
calato un po' di Ecstasy... scambiato qualche chiacchiera in compagnia...
E forse avrebbe trovato una femmina ben disposta (il suo obiettivo
personale: un autentico splendore di ragazza ritratta nel sito web Ragazza
Goth della settimana) da portarsi nella tana, con cui guardare i trailer di
sessanta film dell'orrore e abbandonarsi a un po' di sesso sfrenato.
Ragazzi, che prospettiva perfetta per una serata!
Cullato dall'inquietante colonna sonora del video vampiresco, il Conte si
sentì pervadere dalla spossatezza, che aveva trovato nella birra un'alleata.
Non era niente male dormire, ma tutto sommato avrebbe preferito farlo di
giorno. La notte, a suo modo di vedere, era sempre stata gravida di molte
altre possibilità.
Prendendo sonno sognò di volare sul dorso di un gigantesco uccello
nero. La creatura scendeva in picchiata e volteggiava sopra tenitori avvolti
nella nebbia e punteggiati da misteriosi castelli, sovrastati da arcobaleni.
Lampi e fulmini si scatenavano accompagnati da musica heavy metal in
oscure caverne.
Che storia, pensò. Incredibile.
I sogni erano una figata. Anche quelli brutti.
Forse soprattutto quelli brutti.
«Dopotutto», mormorò nel dormiveglia, cominciando a destarsi, «senza
i sogni sarei disoccupato.»
Allungò stancamente un braccio verso la lattina di Fosters per aiutarsi a
rimettere in moto i neuroni. La mano si richiuse sul vuoto, dove avrebbe
dovuto esserci la lattina.
«Ma che diavolo...» esclamò, poggiando i piedi a terra con i sensi ancora
annebbiati.
«Cercavi questa?» domandò una voce.
Una figura scura fece un passo in avanti e gli premette la lattina nella
mano.
«Te ne ho presa una fresca, Conte. La birra calda non va bene quando ci
si sta riprendendo da una pennichella.»
C'è qualcuno in casa...
Ma chi?
Il Conte alzò gli occhi dal suo giaciglio sul divano.
La figura sembrò danzare evanescente davanti a lui.
La luce proveniente dalla sala da pranzo scontornava la figura, ma la
testa sembrava circondata da un'aureola di totale oscurità.
Da qualche parte (forse dal piano di sopra?) giunse il rumore di un
battito di ali.
Lo scatto metallico di un cane.
Tutti gli ingranaggi si rimisero in moto e si scosse dal torpore.
«Ehi, amico. Non c'è molto da rubare qui. Ho un po' di soldi in tasca... il
mio televisore, e...»
Si voltò verso l'angolo dell'intrattenimento e lo indicò.
Dove prima aveva troneggiato un Sony XBR da trentuno pollici nuovo
di zecca, ora c'era solo un vuoto.
«Cristo! L'hai già preso!»
Fece per alzarsi.
La figura si chinò in avanti.
Gli infilò la canna di una Heckler e Koch HK-4 in una narice.
Il Conte si lasciò ricadere sul divano.
Riconobbe la pistola.
Era la sua.
«Merda. A quanto pare hai in mano tutta la situazione. Immagino che ora
ti prenderai tutto quello che vuoi, no?»
«So esattamente quello che voglio, signor Henneman. Ti chiami così,
non è vero, Conte? Richard Mark Henneman.»
La voce dell'uomo era rauca e aspra, stranamente sbagliata... come una
voce prodotta con effetti speciali, alterata di registro, a comunicare rabbia
attraverso i denti stretti.
«Sì. Sì, sono io.» La canna della pistola era fredda e pesante all'interno
del suo naso. E faceva un male d'inferno.
«Ascolta, mi dispiace essere d'impiccio. Prendi quello che vuoi, okay?
Non mi interessa. Ma non mi sparare.»
«No?»
«No! Sarebbe... davvero una sciocchezza.»
«Dici?»
«Che stai cercando di fare? Qualche giochetto psicologico? Ti ho detto
di prendere quello che ti interessa. Se vuoi ti faccio vedere dov'è tutta la
roba, okay? Ma toglimi la pistola dal naso!»
La pistola si ritrasse.
La figura fece un passo indietro.
Apparentemente si trattava di un uomo con indosso un cappotto nero,
ma nell'indietreggiare una parte dell'oscurità che gli avvolgeva il volto
sembrò dissiparsi. Era un uomo di una certa età, con la pelle stanca e tirata.
Portava un paio di occhiali scuri. Stava forse venendo rapinato da un
pensionato?
Magnifico!
«Stammi a sentire, nonno. Ti prometto di collaborare. Puoi anche
prenderti la pistola. Mi è costata un occhio della testa, credimi...»
E vorrei tanto averla tenuta sempre addosso... A quest'ora pezzi della
tua testa sarebbero sparsi per tutto il soggiorno...
Non era realmente capace di sparare, ma quel pensiero lo rallegrò e
contribuì a tenere sotto controllo la sua paura. Mick Prince lo aveva
accompagnato a comprare la pistola e gli avrebbe mostrato come usarla.
Mick stava mostrando al Conte un sacco di cose nuove e interessanti.
Quanto desiderava che Mick fosse lì con lui in quel momento.
Lui avrebbe saputo come comportarsi.
«Tu non hai idea di chi sono io!» gridò l'uomo. «Non hai idea!»
Senza alcun preavviso l'uomo spazzò il tavolino con la mano in cui
impugnava la pistola, gettando a terra i libri, le videocassette e la scatola
contenente il necessario per la droga.
Gli oggetti attraversarono in volo la stanza.
Due bicchieri si infransero contro la parete di fronte.
Per essere un vegliardo ne aveva di forza, quel tipo!
Istintivamente, il Conte si raggomitolò. Prese a scalciare sul divano nel
tentativo di allontanarsi dall'uomo e mettersi al sicuro.
Con sorprendente velocità l'Uomo delle tenebre protese un braccio e lo
afferrò per la maglietta con la mano libera. Trascinò poi il Conte sul
tavolino da caffè e ve lo sbatté violentemente sopra.
Il Conte era stordito al punto da percepire appena i movimenti successivi
dell'Uomo delle tenebre. Tentò di alzarsi, ma ben presto si rese conto di
essere stato legato. Era trattenuto da una serie di cinghie di cuoio. Era in
grado di muovere solo la testa, le mani e i piedi, ma non di molto.
«Merda! E ora come faccio a indicarti dov'è la roba?» si lamentò, per
nulla felice di come si mettevano le cose, prendendo coscienza lentamente
della realtà.
«So esattamente quello che voglio e so dov'è», ribatté l'Uomo delle
tenebre. «Ma ora ho bisogno di alcune cose che posso ottenere solo dal tuo
cervello.»
«Eh? Che vuoi dire? Informazioni? Cristo...»
Lo sconosciuto appariva oscuro ed evanescente in ogni sua parte. Ceri
rituali erano stati accesi e disposti in tutta la stanza, ma in alto, all'altezza
del soffitto, regnava il buio. Il Conte avvertì una forma, una presenza lassù
in alto, per certi versi sgraziata, ma enorme e minacciosa.
Per un attimo l'Uomo delle tenebre rimase in silenzio, forse per
consentire alla miccia del terrore di accendersi nel cuore del prigioniero.
Poi si inginocchiò accanto a lui.
«Ora ho dei poteri... poteri strani... percepisco cose come non ero mai
stato in grado di fare prima... cose a proposito della vita», affermò in un
solenne sussurro. «Cose a proposito della vita, signor Henneman. Io
percepisco, signor Henneman... Conte Mishka... che oltre i peccati e le
piccole atrocità che hai già tessuto nel cosmo, nel tuo destino ci sono mali
più grandi. Immagina, Conte... Immagina, per esempio, se in Joseph
Goebbels del Terzo Reich fosse stato riconosciuto per tempo il criminale
che sarebbe divenuto. Il mondo sarebbe stato migliore se la sua esistenza
fosse stata recisa. Le forbici del fato sono sempre in funzione, Conte. Ma
troppo spesso agiscono con eccessivo ritardo per il mondo. Sto prendendo
seriamente in considerazione di aiutare quelle forbici ad agire, stasera.»
L'Uomo delle tenebre tirò fuori delle cesoie di grandi dimensioni e le lame
fresche di affilatura brillarono alla luce danzante delle candele.
«Gesù! Che cosa vuoi fare con quelle?» ansimò il Conte. «Guarda, ti ho
detto che...»
«Tu non hai idea di chi sono io, vero?» domandò l'Uomo delle tenebre.
«Lascia che ti informi.» Si avvicinò. «Io sono il dottor Phibes, signore
Henneman. Sono l'attore shakespeariano calunniato dell'Oscar
insanguinato di Vincent Price. Sono Peter Cushing in Racconti dalla
tomba. Sono Claude Rains nel Fantasma dell'Opera. Potrei continuare,
Conte. Mi capisci ora che parlo il tuo gergo cinematografico?»
«Che cosa stai... Io non... non... Stai vaneggiando!» squittì il Conte.
Le cesoie si misero in azione.
L'Uomo delle tenebre si mise in ginocchio al suo fianco e si tolse gli
occhiali scuri. Il bagliore delle candele veniva riflesso dalla sua pelle
grigia e squamosa. Il Conte avvertì un lieve puzzo di putrefazione. Guardò
in quegli occhi e vide qualcosa che gli sembrò di ricordare. Qualcosa che
era accaduto pochi mesi prima.
Poi li riconobbe, quegli occhi.
Aprì la bocca per parlare, o almeno urlare, ma non riuscì a emettere
alcun suono.
Oh, Dio, oh, Dio, oh, Dio...
«Vedo la scintilla del riconoscimento nei tuoi occhi, Richard», osservò
l'Uomo delle tenebre. Tornò lentamente a inforcare gli occhiali scuri, poi si
alzò in piedi. «Questo mi fa bene all'anima. Penso che forse potrà scaturire
qualcosa di buono dalla mia morte. Ed è per questo che mi trovo qui. Vedi,
non si tratta solo di vendetta. Né solo di redenzione. Sono qui per il bene
delle generazioni future!»
Ancora paralizzato per l'orrore e incredulo, il Conte guardò l'Uomo delle
tenebre togliersi qualcosa di tasca. Era il telecomando del suo televisore...
Ma che diavolo voleva fare con?...
Clic, clic.
La forma sgraziata la cui presenza era stata avvertita dal Conte nel buio
nei pressi del soffitto improvvisamente si accese.
Era il suo enorme televisore Sony XBR, chissà come agganciato per i
cavi dell'antenna e dell'alimentazione all'attacco del lampadario sul
soffitto. In splendido technicolor, il Van Helsing interpretato da Peter
Cushing impugnava un picchetto di legno, scuotendo furiosamente i
capelli mentre lottava con il Dracula Christopher Lee.
Il gigantesco televisore era sospeso due metri sopra la testa di Richard
Henneman.
L'Uomo delle tenebre cominciò a recitare.
«'Ora osservai, inutile dire con quale orrore, che la sua estremità
inferiore consisteva in una mezzaluna di acciaio splendente, lunga circa un
piede da corno a corno; questi erano rivolti verso l'alto e la lama inferiore
appariva affilata come quella di un rasoio. E come un rasoio sembrava
massiccia e pesante, assottigliandosi dalla lama e saldandosi in una solida
e ampia struttura in alto. Era sospesa a una pesante barra di ottone, e tutto
l'insieme sibilava mentre oscillava nell'aria.'
«È l'ora del quiz, signor Henneman. Da dove è tratta questa citazione?»
«Io... non... lo so...» riuscì a bofonchiare il Conte, terrorizzato.
«Forse dovrei affrontare la materia attraverso il mezzo di comunicazione
a te più familiare.»
Improvvisamente balenarono sullo schermo scene tratte da un film che il
Conte conosceva. Vincent Price con indosso una cappa. Scalini di pietra,
una segreta... Una donna dal seno prosperoso...
Poi il protagonista di Millennium (grande serie!), anche lui avvolto in
una cappa. Una segreta. Una donna dal seno prosperoso, nuda...
«Il pozzo...» disse. «Il pozzo e il pendolo.»
«Risposta esatta, Conte», si complimentò l'Uomo delle tenebre. Sollevò
verso l'alto le cesoie e impresse una forte spinta al televisore. Cominciò a
oscillare avanti e indietro, avanti e indietro.
La luce produceva un effetto stroboscopico.
«Ci fu la memorabile interpretazione di Roger Corman... seguita dalla
versione più recente di Stuart Gordon», informò l'Uomo delle tenebre. «E
certamente ricorderai la vivida citazione del racconto da parte di Dario
Argento qualche anno fa.»
Avanti e indietro.
Avanti e indietro.
Luce stroboscopica sulla pelle secca e incartapecorita dell'Uomo delle
tenebre, riflessa dalle lenti dei suoi occhiali.
«Che cos'è questa storia?» domandò gridando il Conte. «Baxter! Che
scherzi sono? Baxter? Tutto questo è frutto del tuo senso dell'umorismo
malato e distorto?»
Il televisore oscillava avanti e indietro, sospinto dalle cesoie dell'Uomo
delle tenebre.
Avanti e indietro.
Luce stroboscopica.
Il poderoso tubo catodico sparava sullo schermo scene di film, sgargianti
sequenze da La notte dei morti viventi, vecchi film dell'orrore della
Universal, film degli anni Cinquanta con mostri per protagonisti, film
splatter degli anni Ottanta, film di Stephen King, film dimenticati che il
Conte aveva acquistato da Sinister Cinema e da Video Search a Miami, do-
po aver letto le recensioni in Video Watchdog...
Avanti e indietro, oscillavano le immagini.
Luce stroboscopica.
«Che arcobaleno di delizia, Conte! Dolore e sangue e orrore in
confezioni da novanta minuti! Una forma di divertimento piuttosto
decadente, non trovi? Ma certo non divertente quanto partecipare alla
melodrammatica scena di morte che ho preparato. Non divertente quanto
saltare sul carro del mio patrimonio, diretto a gran carriera verso l'inferno
commerciale.»
«Basta!» implorò il Conte. «Finiscila adesso!»
«Forse. Forse ti lascerò andare, se mi riveli dovo sono gli altri tuoi nobili
amici. Il... Marchese, credo si chiami, no?»
«Al Cross Club», non si fece pregare il Conte. «Sì. In questi giorni della
settimana solitamente bazzica da quelle parti.»
«Grazie.»
Tuttavia, l'Uomo delle tenebre che sosteneva di essere William Blessing,
risorto dalla tomba, non liberò il Conte dai legacci che lo
immobilizzavano.
«Mmm. Vedo che collezioni anche questi autentici modelli di cultura... i
fumetti.» L'Uomo delle tenebre zoppicò in direzione di una libreria e ne
afferrò un po'.
Avanti e indietro...
Il Sony oscillava sibilando sopra la sua testa.
«Guarda, guarda. The Sandman di Neil Gaiman.» Tornò zoppicante sui
suoi passi e gettò la pila di fumetti sul petto del Conte. «Tutte queste
edizioni sono incentrate su quell'inafferrabile invito al carcere che si
chiama Morte. Voglio stringere un patto con te, Conte. Tu mi spieghi
esattamente che cosa vorrebbero significare questi fumetti e io ti lascio
libero.»
«Che vuoi dire?»
«Ai miei occhi è evidente, ma del resto io sono un professore di lingua e
letteratura. Ascoltando il giudizio di un vero appassionato del genere potrò
forse cogliere qualche sfumatura che mi era sfuggita, non credi?»
Sul volto del Conte era apparsa un'espressione inorridita. Come poteva
rispondere a domande da quiz con un televisore di quarantacinque chili
che gli ballava sopra la testa come la palla d'acciaio per la demolizione?
«Sandman è... ehm, una specie di principe dei sogni... e va e viene
attraverso scene mitologiche... ed è un tipo... come dire... in gamba,
profondo... e...»
«No. Sapevo che non saresti stato in grado di spiegarmelo», sentenziò
l'Uomo delle tenebre con una lieve nota di tristezza nella voce. «Che senso
ha collezionare qualcosa se non ti prendi neppure la briga di comprendere
di che si tratta? È una 'figata' semplicemente perché piace agli altri o
perché piace a te? Capisci quello che intendo, no? Be', comunque sia, ben
presto lo capirai perfettamente.»
L'Uomo delle tenebre si allungò verso l'alto e tagliò i cavi del televisore
con un solo movimento delle pesanti cesoie. Ciac.
8 dicembre, 1811
Gaiamente abbigliato,
Un galante cavaliere,
Con la luce e con le ombre
Da lungo tempo ormai viaggiava,
Cantando una canzone
In cerca dell'Eldorado.
Nello scantinato c'era una ragazza con un pugnale conficcato nel petto.
Baxter Brittle riuscì in qualche modo a controllare il tremore delle mani
mentre si versava una generosa correzione al cognac francese in un
bicchiere di Coca.
Una ragazza molto, molto morta.
Brittle bevve con gratitudine, permettendo all'alcol di distaccarlo una
frazione di più dal problema con cui era alle prese.
Anche la familiare atmosfera del locale in cui si trovava gli dava una
mano: la sensazione tattile delle bottiglie, l'odore delle birre e delle
sigarette consumate la sera precedente. Per fortuna Ed, l'uomo delle
pulizie, era arrivato di buon'ora come al solito e aveva dato una ripulita al
bar dopo i baccanali della notte. Baxter e gli altri baristi ce la facevano da
soli durante la settimana, ma al sabato e alla domenica mattina avevano
assoluto bisogno dell'aiuto di un professionista.
Ore tutte le lattine di birra vuote si trovavano in un sacco nero sul
marciapiedi davanti al locale, insieme agli altri relitti del venerdì notte.
Peccato che gli spazzini non passino a ritirare anche i cadaveri, pensò
Baxter.
Fuori era una bellissima giornata di primavera, purtroppo. Una delle
qualità migliori del suo bar erano le persiane alle finestre, che gli
permettevano di controllare l'illuminazione interna. La maggior parte del
tempo le teneva ben chiuse. Baxter era orgoglioso del fatto che nel suo
locale era in grado di creare una notte perpetua. In quel momento, infatti,
le persiane erano chiuse. L'interno era illuminato solo dalla fioca luce di un
neon al soffitto, da qualche lampada dietro il bancone e dal segnale
luminoso posto sopra l'uscita d'emergenza che dava sul retro.
Ciononostante, c'era fin troppa luce per i gusti di Baxter Brittle, date le
delicate condizioni in cui si trovava. Fu contento di aver preso l'abitudine
di portare saltuariamente occhiali scuri, all'interno del locale e all'esterno:
nessuno avrebbe notato alcunché di strano nel vederglieli inforcare quel
sabato pomeriggio (non solo per proteggersi dalla luce, ma anche per
nascondere gli occhi iniettati di sangue e le profonde occhiaie).
Buttò giù il resto della Coca, concedendo al cognac l'accesso al suo
organismo. Poi se ne versò dell'altro, liscio, e appoggiò il bicchiere sul
bancone. Dopodiché passò in rassegna il suo dominio.
Grazie a Dio non c'è nessuno, disse tra sé.
Sapeva che prima o poi qualche cliente barcollante si sarebbe fatto vivo,
ma voleva approfittare di ogni minuto di pace a sua disposizione per
rimettere in funzione a pieno regime il suo cervello.
Dopo l'intimo incontro con il sangue e la morte era riuscito a trascinarsi
nel suo appartamento al piano di sopra. Aveva fatto una lunga e rigenerante
doccia calda, che aveva contribuito notevolmente a rimetterlo sulla giusta
carreggiata per riacquistare uno stato se non altro prossimo alla sanità
mentale. Mentre si frizionava lo shampoo nei capelli e si lasciava
carezzare dal vapore aveva raggiunto una conclusione.
Qualsiasi cosa fosse accaduta la notte precedente, c'era tempo per
affrontarla.
Era trascorso il tempo sufficiente per permettere ad alcuni ricordi chiave
di tornare a prendere forma nella sua mente, il più importante dei quali era
il fatto che la ragazza veniva da lontano, da molto lontano; era scappata di
casa, se non ricordava male, ed era appena giunta in città, dove non co-
nosceva nessuno. Probabilmente gli altri Goths stavano smaltendo una
sbornia simile alla sua, rifletté Baxter. Anche nel caso in cui qualcuno di
loro ricordasse quello che era successo la notte prima, era ragionevolmente
sicuro che non si sarebbe rivolto alla polizia. No, sapeva troppe cose sul
loro conto ed esercitava un potere sufficiente da poter contare sul fatto che
si sarebbero recati al bar, per controllare la situazione e discutere con lui il
da farsi. Nessuno ancora si era fatto vedere, ma non c'era da stupirsene.
Molti componenti della gang non si alzavano mai dal letto prima del tra-
monto. Vampiri di Baltimora! Meglio così.
Dopo la doccia aveva indossato indumenti puliti, chiuso con un
lucchetto l'accesso allo scantinato e aperto la porta d'ingresso del locale.
Aveva concluso che la scelta di non aprire il locale avrebbe potuto destare
qualche sospetto. No, meglio tenere duro ancora un giorno, affrontare un
altro tipico sabato di lavoro, per poi dedicarsi all'orrore nello scantinato di
notte dopo la chiusura o il giorno successivo. Per questo aveva chiuso la
porta dello scantinato con un lucchetto. Certo, i poliziotti avrebbero potuto
sfondarla, ma era un'eventualità a cui avrebbe fatto fronte nel momento in
cui fosse accaduta. Per il momento la cosa giusta era far buon viso a
cattivo gioco, immettere nell'organismo una quantità sufficiente di droga e
alcol per apparire normale e continuare a servire da bere ai clienti come al
solito.
Aveva appena cominciato a pensare lucidamente, finalmente libero dal
cuneo di terrore e di ansia che sembrava gli penetrasse nel culo, quando la
porta si aprì ed entrò l'uomo tutto vestito di nero.
Era un uomo alto e muscoloso. Aveva il torace a forma di V e indossava
un paio di stretti blue jeans. Dalle spalle immense un cappotto di ottima
fattura pendeva giù fino all'altezza dei tacchi degli stivali di cuoio nero. I
capelli lunghi e mossi mettevano in risalto un volto che pareva scolpito
nella pietra. Gli occhi erano incastonati in profondità tra le arcate
sopraccigliari e gli zigomi, e guardavano Baxter con stupefacente intensità.
«Ehi, Brittle», salutò l'uomo, rivelando denti bianchi e lupeschi in un
sorriso da predatore. «Che ne dici di farmi un bel vodka martini?
Shakerato, non agitato. Proprio come te.»
Il sorriso si trasformò in un ghigno.
Baxter lo fissò.
Conosceva quell'uomo.
Già, lo conosceva... e le tessere del mosaico cominciarono a combaciare.
Ieri sera.
Quest'uomo era qui nel bar ieri sera!
Ma era tra quelli che erano scesi nello scantinato?
La mente di Baxter Brittle si era messa in moto a pieno regime, ma non
riuscì a ricordare altro. Tuttavia, per il momento era sufficiente. C'era
qualcosa di importante nella presenza di quell'uomo. Di vitale.
Difficile dire esattamente cosa fosse, ma poteva guadagnare tempo
preparando il cocktail che aveva ordinato.
Baxter sorrise. «Ehi, amico. Sei il primo cliente della giornata. Cocktail
doppio a prezzo di favore.»
«I cocktail si pagano sempre con qualcosa di più che semplice denaro»,
osservò l'uomo. Aveva un voce precisa e risonante, ricca di ironia.
Baxter si sforzò di ridere. «Già. Ma vanno giù bene.»
Tirò fuori lo shaker d'acciaio inossidabile e lo usò come una paletta per
raccogliere la giusta quantità di ghiaccio tritato. Una generosa dose di
vodka, una lacrima di vermouth. Coperchio. Movimento da manuale per
shakerare. Rapidamente, senza permettere al ghiaccio di sciogliersi,
posizionò uno dei suoi classici bicchieri da martini su una tovaglietta
davanti al cliente. La retina in cima allo shaker trattenne il ghiaccio mentre
versava il miscuglio trasparente. Era un rito con regole precise, e
l'esecuzione delle varie fasi gli procurò uno strano ma familiare conforto.
«Oliva o twist?»
«Cos'è, un romanzo di Charles Dickens?»
«Come? Ah, ho capito.» Guardò l'uomo e gli strizzò l'occhio come per
complimentarsi, puntandogli contro l'indice. «Buona. È un po' presto per
capire certe battute al volo.»
«Ci credo... dopo quello che è successo ieri notte.» L'uomo si sporse sul
bancone, mostrando i denti in un ghigno alla Jack Nicholson. «Prenderò
sia l'oliva, sia la buccia di limone. Grazie.»
Baxter aprì il cassetto che conteneva il vassoio dei condimenti, scelse
una grossa oliva spagnola farcita e la infilzò con uno stuzzicadenti. Poi
tolse un ricciolo di buccia da un limone e lo lasciò cadere delicatamente
nel drink. Con grande cautela, azzardò: «Non credo di capire a cosa ti
riferisci».
Studiò il volto dell'uomo, tentando di ricordare qualcosa di più, ma non
ottenne altro che la vaga certezza che l'uomo era stato in qualche modo
coinvolto negli eventi della notte.
L'uomo prese tra le dita l'estremità dello stuzzicadenti, lo agitò per
qualche istante nel cocktail, poi mangiò l'oliva. La masticò con metodo,
poi bevette un dito del drink, gli occhi penetranti sempre fissi in quelli di
Baxter.
«Spero che tu non voglia considerarmi nient'altro che un alleato, Baxter.
Ti dirò di più. Ci tengo a rassicurarti che mi trovo in pieno accordo e
armonia con tutto quello che fai nella vita. Ma io posso guidarti nella
direzione in cui desideri andare.»
«Scusami, ma non ti seguo.» Baxter aveva paura, ma era anche irritato.
«Senti, ammetto di aver bevuto troppo ieri sera. Non ricordo nulla di
quello che è successo dopo le dieci.»
«Ma mi riconosci.»
«Vagamente.»
«Bene. Conta solo questo. A proposito, fattene uno anche tu. Offro io.»
«Ti ringrazio.»
Baxter prese una bottiglia di vodka, se ne versò un bicchierino e bevve
un sorso. Il bruciore dell'alcol nella gola gli concesse un attimo di tregua
dall'angoscia che andava montando in lui. «Che stai cercando di fare, di
ricattarmi?» Sospirò. «Se sei a caccia di soldi, temo che tu abbia sbagliato
persona.»
L'uomo sorseggiò il suo cocktail, continuando a fissare intensamente
Baxter. Sembrava un gigantesco serpente che avesse intrappolato la preda
in un angolo, impegnato a squadrarla e a prepararsi per l'affondo mortale.
«Siamo entrambi a caccia di soldi, me ne rendo conto. Ma se riusciremo
a sviluppare una certa sincronia, più avanti verranno anche quelli.» L'uomo
raddrizzò la schiena, con fare rilassato. «Il tuo risveglio dev'essere stato
piuttosto scioccante, non è così Baxter Brittle? E io voglio aiutarti a venire
fuori dalla situazione in cui ti trovi.»
Baxter finì il contenuto del bicchiere. «Basta con i mezzi termini. Che
cosa mi stai proponendo?»
«L'hai visto quel film, Pulp Fiction?»
«Certo.»
«John Travolta e Samuel L. Jackson fanno saltare per sbaglio le cervella
al tipo sul sedile posteriore della loro macchina. Il risultato? Un gran
casino nel retro dell'auto. La portano nel garage di Quentin Tarantino. Il
boss dei due sicari chiama Harvey Keitel, che sa tutto quanto occorre fare
prima che arrivi la moglie di Tarantino. Lui è l''uomo che risolve i
problemi'.»
«Che vuoi dire?»
«Chiamami pure Harvey.» L'uomo sorrise. «Tu hai un problema. Io te lo
posso risolvere. Chiaro e semplice.»
Baxter scosse la testa. «Se tu sai che ho un problema, allora forse saresti
così gentile da dirmi che cos'è successo!»
«Forse è meglio che tu non lo sappia, Baxter. Dormirai molto meglio in
futuro se cerchi solo di metterti dietro le spalle questa brutta faccenda. E io
mi occuperò... di sollevarti dei pesi morti nella tua vita. Nessun altro lo sa,
Baxter. E a nessuno importa nulla della vittima. In ogni caso, io possiedo il
talento e il potere di cancellare ogni traccia che rischia di condurre qui
chiunque la stia cercando.»
Baxter era infinitamente grato per il fatto che non c'erano altri avventori
nel bar. L'essenza stessa della sua persona sembrava aver chiuso i battenti
dal momento in cui aveva visto quel pugnale conficcato nel corpo della
ragazza. Ora qualcosa di molto simile alla speranza andava prendendo
forma nei recessi della sua mente. Sapeva perfettamente che quell'uomo
poteva essere una strana specie di informatore. Forse era un investigatore
che si occupava di sette sataniche, impegnato a indagare nel mondo dei
Goths e che si era imbattuto in qualcosa di molto più grosso di quanto
avesse previsto: l'opportunità di inchiodare l'autore di un odioso omicidio a
danno di una povera vittima innocente.
No. Scrutando il volto roccioso dell'uomo, Baxter vi lesse ambizioni di
altro genere. Ambizioni dalle quali si sentiva già contagiato.
Baxter prese un pacchetto di sigarette francesi. Ne prese una e se la
infilò tra le labbra. Quel semplice gesto bastò a farlo sentire più forte.
«Dimmi come ti chiami. Prima devo sapere qual è il tuo nome», spiegò
offrendo una sigaretta allo sconosciuto.
L'uomo prese una Gauloise e se la portò alla bocca. Da una delle grandi
tasche del cappotto prese un accendino. Accese la sigaretta. Mentre
avvicinava poi la fiamma al tubicino di tabacco tra le labbra, Baxter Brittle
notò che l'accendino era fatto di legno e metallo, con le sembianze
intarsiate di uno dei famosi gargouille di Notre Dame.
«Prince. Mi chiamo Mick Prince.»
Mick Prince. Sì, aveva già sentito quel nome. La sera prima, certo... Ma
anche in un altro contesto.
«Sei un abbonato! Un abbonato a The Tome. E...»
E ci hai proposto racconti e poesie... La prosa e i versi più rivoltanti e
maligni che abbia mai letto in vita mia.
E io ho rifiutato di pubblicarne anche solo una virgola.
«... ci hai mandato del materiale, se non sbaglio.»
L'uomo sembrò illuminarsi in una sorta di infernale piacere. «Esatto.
Nulla che corrispondesse alle vostre esigenze, credo. Ma questa è una delle
cose di cui potremo discutere. Vedi, una dimensione tutta nuova sta per
aprirsi a te e alla Tome Press.» Una nuvoletta di fumo oscurò momentanea-
mente il suo volto. «E io voglio mostrarti come raggiungerla.»
Baxter comprese tutto in un lampo. Guadagnò tempo inspirando una
densa e aromatica boccata di fumo ed espirando lentamente, attraverso le
narici, esaminando nel frattempo la punta del cancerogeno bastoncino
gallico.
Quell'uomo era uno psicopatico. Uno degli spiacevoli effetti collaterali
che emergevano tra i gruppi estremisti di lettori della sua rivista, di cui era
editore e redattore, e dei vari libri della Tome Press. Apparteneva a quella
categoria di tristi personaggi che Baxter sapeva esistere ma che aveva sem-
pre cercato di evitare. Ma ora, a quanto pareva, uno di loro era riuscito a
insinuarsi sulla scena.
Che cos'era successo la notte precedente?
Se solo fosse riuscito a ricordare! Solo ricordando avrebbe potuto
giudicare fino a che punto fidarsi di quella tenebrosa creatura.
Brittle tentò di ricostruire mentalmente la scena. Immaginava di vedere i
sibaritici edonisti del Salon, fatti e ubriachi, mentre danzavano con la
Morte... Il pugnale cerimoniale, un mortale giocattolo, che affondava
inspiegabilmente nel corpo di una delle partecipanti, un tragico incidente
che poteva segnare la fine non solo del Salon des Gothiques ma anche
della libertà personale e della gioia di vivere di Baxter Brittle.
Era stato lui a impugnare il coltello?
Era stato lui a urlare di gioia mentre penetrava con la lama il torace
della ragazza?
No. Il rischio sarebbe stato troppo grande. Ma lo sconosciuto sapeva del
cadavere nello scantinato, e oltre a non sembrare affatto intenzionato a
denunciare il fatto alle autorità, gli stava offrendo un aiuto. Voleva
occuparsi del problema, risolverlo, facendolo sparire in una gettata di
cemento di un viadotto in costruzione, o nelle profonde acque della baia di
Chesapeake, zavorrato da un'ancora e destinato a diventare cibo per i
granchi.
Perché no? Perché non accettare il suo aiuto?
Un patto con il diavolo?
No. Certo che no. Il diavolo non esisteva, come del resto non esisteva
Dio.
Come disse il fratello Crowley, il caro vecchio Aleister: Fai quello che
vuoi, è questa l'unica legge.
Be', quello che voleva fare lui era evitare di finire rinchiuso in una
prigione o in una casa di reclusione statale, a offrire carne fresca di prima
qualità ai predatori sodomiti!
«E perché mai dovresti farlo?» domandò. «Perché vuoi aiutarmi?»
«Voglio trasferirmi a Baltimora. Voglio entrare a far parte dei Goths.»
«E perché? Chiunque sia dotato di un minimo di ambizione scappa via
da Baltimora appena può. Se non avessi questo bar, io stesso me ne sarei
andato da un pezzo.»
Gli occhi d'agata dell'uomo brillarono e si socchiusero. «Perché credo
che tu abbia... delle potenzialità. E sono convinto nel profondo dell'anima
di essere io la chiave di queste potenzialità.»
Di nuovo, le sue labbra si separarono e formarono quel sorriso forte,
duro.
Baxter Brittle rabbrividì. L'uomo aveva un lato oscuro impressionante.
Cercò di tornare con la memoria alle poesie e ai racconti che l'uomo aveva
inviato a The Tome. Ricordò vagamente scene di sventramenti, corpi in
decomposizione che gocciolavano di fetidi umori, bambini scuoiati, implo-
ranti salmodie rivolte a dèi dimenticati... la solita litania di adolescenziale
adorazione della morte. Ma il materiale scritto da quell'uomo aveva
qualcosa di diverso; conteneva una malsana intensità, una ferocia sfrenata
che risultava allarmante. Spaventosa. E se avesse contenuto solo un
accenno, un'ombra di valore letterario, Brittle ne avrebbe certamente
pubblicato una parte. Tuttavia, gli scritti erano piuttosto puerili, privi di
senso della struttura, di ritmo, di personalità o di altre qualità che potessero
renderle degne di nota... a parte la loro brutale, aggressiva, stranamente
confessionale intensità, naturalmente.
Eh, sì. La ferocia di quell'uomo faceva rabbrividire Baxter Brittle.
Ma ne era altresì intrigato.
E se proprio desiderava salvare il culo a Baxter Brittle...
Perché impedirglielo?
Non si fece illusioni. Era chiaro che avrebbe dovuto pagare un prezzo.
L'uomo scriveva come un demonio ed era orgoglioso del suo lavoro;
desiderava pubblicarlo. Chiaro e semplice. Ah, l'ambizione letteraria! Che
affascinante condizione umana! Certo, amico... Tutto sommato queste
poesie non sono affatto male. E i racconti... be', potrebbero avvantaggiarsi
di una revisione, di qualche miglioramento nel tono e scorrevolezza. Ma a
questo prowederemo noi. Certo! E seppure non riusciremo a pubblicarne
più di un certo numero in The Tome... potrebbe esserci un'alternativa. Ma
naturalmente! Un'edizione per collezionisti, firmata e numerata. Illustrata
da... da chi? Ma certo, Alan Clark oppure Harry O. Morris sarebbero
perfetti per la sopraccoperta, e poi uno di quei giovani artisti emergenti
della Chaos! Comics o della Verotik per le illustrazioni interne. Credo
proprio che potremo trovare un accordo, signore. E a proposito, grazie di
nuovo per aver fatto sparire dal mio armadio quella ragazza nuda allo
spiedo. Ho chiuso con le sedute chirurgiche alimentate dall'alcol, glielo
garantisco!
«Mmm. Sì... la gang è sempre in cerca di nuove forze!»
L'uomo gli tese la mano. Indossava guanti di pelle senza dita. Il
movimento della mano venne accompagnato da un tintinnio di catenelle e
braccialetti.
Baxter strinse il guanto nella mano. «Benvenuto nel club.»
«Niente bisboccia, stasera. Cerca di rimanere sobrio», consigliò l'uomo.
«Sei uno stronzo fortunato. Nessun altro ricorda quello che è successo ieri
notte.»
«E tu come lo sai?» indagò Baxter. Non che la cosa lo preoccupasse più
di tanto. I membri della gang erano legati da un patto di sangue e anche se
alcuni di loro erano stati presenti allo sciagurato, accidentale «sacrificio
umano», certamente ora soffrivano tutti della stessa, confusa amnesia di
Baxter. Nessuno sarebbe stato tanto stupido da rivolgersi alla polizia.
«Fidati, fratello.» Si guardò attorno. «Non hai mai clienti a quest'ora?»
«Sì. È che oggi non si sono ancora visti.»
«Proprio come pensavo. Ti raccomando solo una cosa: tieni ben chiuso
lo scantinato. Metterò tutto a posto io stanotte, dopo la chiusura.» Il lungo
cappotto dell'uomo si animò e ondeggiò come un sipario che si chiudeva a
celare un mistero. «Tornerò qui a mezzanotte. Fatti trovare.» Si avviò a
lunghe falcate verso la porta. Sulla soglia, si voltò e rivolse ancora una
volta il suo sorriso maniacale a Baxter Brittle. «È bello far parte della
tradizione gotica, vero, Baxter?»
E con questo sparì, una chiazza nera sullo sfondo luminoso di un sabato
mattina di sole.
Gli prese delicatamente la mano nella propria e gli regalò la più soave
stretta di mano che avesse mai ricevuto in tutta la sua vita. La mano era
soffice, con dita lunghe ed eleganti, e lui avrebbe desiderato sentire in
eterno il loro tocco sul proprio corpo.
«Ehm... Ah. Sì. Piacere di conoscerla, signora...»
Ma che cosa dici, cretino? Preso in contropiede, Donald Marquette
cercava le parole giuste. «Amy. Sì, piacere, Amy.»
«Stavo per mostrare la casa a Donald», intervenne il professor Blessing.
Gli occhi di Amy Blessing brillarono e il suo sorriso si fece malizioso.
«Dovresti farti pagare almeno dieci dollari, Donald. Tutte quelle sue
vecchie cianfrusaglie possono diventare piuttosto noiose, a lungo andare.»
Donald rise e con riluttanza le lasciò la mano. «Non puoi immaginare da
quanto tempo sogno di vedere quelle cianfrusaglie.» Non era sicuro di
essere riuscito a recuperare la sua capacità di parlare in modo coerente. Nel
suo intimo si sentiva ancora come un adolescente imbarazzato a cui era
stato mozzato il fiato. «E di trovarmi qui, di conoscere voi... di venire a
Baltimora per studiare all'università. Mi sembra davvero tutto un sogno
che si avvera.»
Lei rise, esprimendo una gioia quasi infantile. «Bene. È bello far parte
del sogno meraviglioso di qualcuno.»
Donald Marquette non aveva mai conosciuto prima una donna come
Amy Blessing. La prima volta che le posò gli occhi addosso fu per lui
come ricevere fisicamente un colpo, un colpo vellutato che lo scosse in
ogni sua fibra. Non era alta, un metro e sessantacinque al massimo, ma la
sua vitalità era tale da rendere la sua presenza fisica travolgente. Aveva
lunghi capelli biondi perfettamente acconciati, che ricadevano su una
semplice camicetta nera e andavano ad accarezzare seni né piccoli, né
grossi. Indossava un paio di blue jeans della Guess, che le fasciavano il
vitino ma permettevano al suo posteriore di esprimersi in tutta la sua
splendida forma di albicocca. Ai suoi piedi le semplici scarpe da ginnastica
nere della Reebok acquistavano grande femminilità. Un filo di trucco
accentuava il nasino all'insù, aveva un mento affilato ma non spigoloso e
zigomi alti. Tuttavia, forse la caratteristica più incredibile erano gli occhi.
Aveva grandi occhi nocciola, vivaci e scintillanti; gli occhi dell'innocenza
affamata di esperienza. Ogni gesto e movimento di quella donna tradivano
un temperamento brillante e vitale. Detto semplicemente, era tanto bella
che guardarla era doloroso.
E i suoi occhi lo scrutavano con schietto interesse, come a chiedergli:
Chi sei tu? Mi interessa molto. Voglio davvero saperlo. Ci tengo.
Nella sua vita Donald Marquette non aveva conosciuto molte persone
che tenessero davvero a lui.
«Be', qui i sogni sono vietati», ammonì il professor Blessing. «Sono
ammessi solo gli incubi. Sono loro la via alla ricchezza, alla fama e al
benessere!» Rise, sottolineando la propria ironia.
«Come ti trovi in pensione?» volle sapere Amy. «Ti sei sistemato? Se
dovessero esserci problemi abbiamo una camera degli ospiti a tua
disposizione.»
«No, no. Sono arrivato ieri e sta andando tutto a meraviglia. La signora
che gestisce la pensione mi sta già viziando», rispose Donald. «Non mi
sono ancora abituato al fatto che c'è qualcuno che mi prepara la colazione
al mattino.»
«Che guaio», commentò Amy. «Be' dovrai abituarti anche a mangiare da
noi, perché verrai certamente invitato spesso. Trovo che il progetto al
quale stai lavorando con il nostro caro dottore sia davvero eccitante.» I
suoi occhi sprizzavano contentezza «Sai, vi darò una mano anch'io. Certo,
nel limite delle mie possibilità... Sono piuttosto presa.»
«Anche Amy ha cominciato a scrivere, nei ritagli di tempo che i suoi
studi per conseguire un master in musica le consentono. Se lei non fosse
così impegnata probabilmente non avresti avuto questo impiego, Donald»,
gli fece notare Blessing.
«Temo che dovrai sopportare i miei studi musicali mentre lavori», lo
avvertì giocosamente Amy. «Ti assicuro che cerco di tenere ben accordato
il mio strumento. Per quanto riguarda invece le mie esecuzioni... e
composizioni... Be', non ti prometto nulla.»
Donald non si lasciò sfuggire l'occasione. «Ah! E che strumento suoni?»
«Il pianoforte», rispose lei.
«Pianoforte da concerto», precisò Blessing. «E a volte penso che mi
abbia sposato solo per il mio Steinway a coda.» La cinse con le braccia.
Lei si abbandonò al suo abbraccio con languore felino, sollevando la testa
a guardarlo con amore, ammirazione e qualcos'altro di ancora più intimo.
«A dire la verità, amore, preferisco il tuo organo.»
All'improvviso arrossì e si portò una mano alla bocca, ridendo mentre
guardava Donald.
«Oh, che gaffe. Ma il fatto è che ha davvero un organo molto bello, sai,
un organo a canne, come quelli delle chiese...»
Blessing arrossì leggermente a sua volta. «Ora non devi fare altro che
fornire misure e proporzioni, cara, e a quel punto il mio ego maschile
risulterà definitivamente confermato a beneficio del nostro ospite.» Sorrise
mestamente.
Donald sbatté le palpebre, fingendosi confuso. «Dovete scusarmi, ma io
non ci ho capito nulla!»
Entrambi i Blessing risero. Insieme con l'imbarazzo, scomparve anche
ogni frammento residuo di ghiaccio, di formalità.
William Blessing allungò un braccio e lo posò paternamente sulle spalle
di Donald. Ma Donald non fece caso a quel contatto fisico quanto
all'impatto del profumo dei capelli di Amy, floreale e muschioso al tempo
stesso. «Non ti preoccupare, ragazzo. Stammi accanto e vedrai che ben
presto riuscirai anche tu a dire sciocchezze a ripetizione. Ora, che ne dici
di andare a fare quel giro per la casa che ti ho promesso?»
«In altre parole, mi si sta chiedendo di andare a preparare da mangiare»,
fece notare Amy. «Ti fermi da noi, vero Donald?»
Il professor Blessing finse di venire meno e si portò il dorso di una mano
alla fronte, assumendo una posa melodrammatica. «Che onta! Il mio
segreto è stato svelato! Il mio status di scrittore politically correct è
perduto! Costringo mia moglie a preparare pranzetti.»
Lei inarcò un sopracciglio e si piazzò le mani sui fianchi. «A condizione
che non mi mandi in giro scalza e perennemente incinta, immagino di
poter sopportare la situazione. Ma ti prego di rimanere, Donald. A pranzo
il professore sa essere così noioso...»
«D'accordo, grazie», accettò Donald.
«Magnifico!» Amy rivolse a entrambi un saluto con la mano e si
allontanò per darsi da fare. Donald dovette costringersi a toglierle gli occhi
di dosso. Gli costò un notevole sforzo di concentrazione riportare la sua
attenzione su quanto diceva il professore mentre gli faceva strada salendo
la scalinata con corrimano d'epoca. Il profumo di lei, le tracce del suo
passaggio nell'aria sembrarono persistere come per una splendida
stregoneria.
«Siete davvero una coppia unica. Se mai dovessi raccontare tutto questo
in pubblico, verrebbero in massa a fare richiesta di un dottorato alla Johns
Hopkins University.»
«Credo che i nostri contatti precedenti abbiano contribuito molto a farci
sentire a nostro agio con te, Donald», spiegò amabilmente Blessing. «Sei
un giovane intelligente, dotato di talento, che lavora duro, e molto
promettente nel tuo campo. È un mio vanto quello di riuscire a individuare
simili qualità. Inoltre, hai qualcosa che riveste forse un'importanza pari a
tutte queste altre qualità. Hai iniziativa.»
Senza volerlo, Donaid annuì. «Direi più precisamente ambizione
sfrenata.»
Blessing si fermò in cima alle scale e si voltò, evidentemente colpito
dall'intensità, dalla sincerità e dalla convinzione con cui il nuovo assistente
aveva parlato.
«Bene, allora. Lungi da me fare altro che agevolare l'ascesa della nostra
nuova stella letteraria!»
Donaid sorrise alla venatura di ironia nella battuta. Ma provò anche una
bruciante punta di rabbia.
Aspetta e vedrai, bastardo compiaciuto che non sei altro.
Ti farò vedere io.
Gliela farò vedere a tutti.
«Se non sbaglio», disse Donaid con voce pacata, «già da ragazzo Edgar
Allan Poe era convinto che sarebbe diventato un grande poeta. E credo di
ricordare qualche frase tratta dai tuoi primi lavori in cui descrivevi la
missione della tua vita. È per questo che sono qui, professor Blessing. Bill.
Per stare a contatto con un personaggio di grande ambizione e
ispirazione.»
«Devo ripetere che i complimenti sono sempre ben accetti quando
vengono dal cuore.» Serrò le labbra, fingendosi mortificato. «Mmm. Credo
tu ti riferisca a quel breve saggio che scrissi all'epoca del mio dottorato,
'Sulle ali di Poe'.»
«Esatto.»
«Ero piuttosto giovane e sciocco, allora. Convinto delle mie idee come
solo i giovani sanno essere. Ora sono solo sciocco.»
«Capisco, ma allora invocasti Poe come tuo ispiratore, affermando di
sentirti a volte addirittura come se fossi la sua reincarnazione. E comunque
era come se invocassi il suo spirito. Ne rivendicavi quasi il possesso.
Un'autentica ostentazione di audacia. Un pezzo davvero stupefacente.
Potere e passione, una miscela esplosiva, eppure gestita con magistrale
controllo. Dio, mi fece venire la pelle d'oca quando lo lessi.» Donald
scosse la testa in segno di genuina e totale ammirazione. «La letteratura
possiede un tale potere.»
«Sì. In questo hai ragione. Trascende lo spirito. Trascende l'arte.
Trascende lo spazio e il tempo e le cose meschine dalle quali la nostra vita
è gravata», disse Blessing.
Seguì una pausa di condivisa serietà.
Donald Marquette notò il suo nuovo mentore che lo fissava in modo
strano e preoccupato. Lo stava soppesando, giudicando, ma al tempo
stesso si andava formando una unione... E un brivido di oscura luminosità
gli accarezzò il cuore. Avvertì una comunione di spiriti, ma anche
un'inspiegabile sensazione di pericolo. E le due cose assieme risultarono
eccitanti come il pensiero delle labbra di Amy Blessing che gli sfioravano
delicatamente il lobo dell'orecchio.
Blessing rise di nuovo, rompendo l'incantesimo. «Eh, sì, Poe! Poe!
Andiamo a fare qualcosa di più che invocare il suo spirito. Invochiamo la
gloriosa strada maestra che ci ha indicato!» Fece cenno all'ospite di
seguirlo. Tirò fuori un mazzo di chiavi. La robusta porta alla quale
giunsero era dotata di una serratura a combinazione e protetta da un si-
stema d'allarme. Blessing digitò una sequenza di numeri. La luce sul
congegno elettronico da rossa si fece verde e qualcosa nella porta scattò.
Blessing inserì una delle chiavi del nutrito e tintinnante mazzo che
teneva in mano. Mentre apriva la porta, Donald avvertì una corrente d'aria
fresca.
«Mmm... Sei sicuro che questa non sia la stanza H.P. Lovecraft?»
domandò Donald.
«Dio, che sagacia! Una battuta dopo l'altra. No, è solo consigliabile
tenere bassa la temperatura all'interno della stanza; per conservare meglio
la collezione, capisci.» Blessing fece un gesto plateale improvvisando
un'imitazione di Vincent Price. «Venga avanti, mio onorato ospite. Mi
perdoni se non ho con me il candelabro, ma lo sto facendo lucidare.»
Blessing allungò una mano all'interno e premette un interruttore. La
stanza venne inondata di luce soffusa. Si voltò a guardare il suo ospite con
un luccichio maniacale negli occhi, poi lo precedette oltre la soglia.
Incredibile, pensò Donald entrando nella stanza.
La prima cosa che lo colpì non fu tanto il contenuto della stanza, bensì
l'ordine che vi regnava. Era un locale ampio, con finiture in stile vittoriano,
ma arredato con tavoli, librerie e vetrinette moderne, tutte
impeccabilmente illuminate da faretti nascosti, oppure con fonti luminose
incastonate nella parte inferiore per conferire agli oggetti un senso di
profondità maggiore di quella data da tre dimensioni solo. C'erano
indumenti, occhiali, penne, pettini, bicchieri, bottiglie, scarpe, mobili,
schizzi, dipinti, fotografie e dagherrotipi, tutti meravigliosamente messi in
mostra ed etichettati.
Ma più che altro c'erano libri.
Libri, riviste, manoscritti. Lettere, quaderni, blocchi.
La stanza ne era stipata, e il loro argomento principale indicato dalla
posizione centrale riservata a un busto di Pallade sovrastato da un corvo
imperiale imbalsamato; alla parete, sopra la scultura, un grande ritratto
splendidamente incorniciato, il cui soggetto ostentava la familiare fronte
arcuata, le sottili labbra, i baffi, gli abiti da dandy e lo sguardo tenebroso,
con gli occhi che sembravano sopravvivere a fatica alla propria oscurità.
EDGAR A. POE erano le parole incise sulla targhetta sotto il pregevole
ritratto.
«Avrai tempo in abbondanza per ispezionare tutto da vicino, a tuo
piacimento», assicurò Blessing. «Alcuni indumenti e reperti appartenuti
all'uomo e risalenti alla sua epoca...» Avanzò nella stanza, accarezzando
delicatamente con un dito le superfici vitree dei mobili. «Lettere. Pezzi
autografi. Tutto quanto. Testimonianze e documenti del tempo trascorso
sulla terra da un grande personaggio. E, naturalmente, tutte le edizioni
ancora esistenti delle sue opere, incluse le edizioni estere degne di nota, le
edizioni pirata e le traduzioni non autorizzate. Tamerlano. Al Aaraaf.
Racconti del grottesco e dell'arabesco. Collected Tales. Eureka. Tutte
prime edizioni.»
Parlava con tono enfatico, ma Donald udiva appena la sua voce. Si
avvicinò alla vetrinetta indicata da Blessing e la fissò. I libri al suo interno
avevano un aspetto piuttosto modesto, ed erano innegabilmente vecchi.
Tuttavia, sembravano rifulgere di una luce ulteriore agli occhi del giovane
scrittore e studioso.
Le prime edizioni delle opere di Edgar Allan Poe.
Aveva forse tenuto lui stesso quei volumi tra le mani tremanti?
Li aveva autografati per i suoi ammiratori? Aveva accidentalmente
versato del vino sulle loro pagine? Erano i bambini di cui aveva potuto
seguire l'infanzia. Anche nei suoi più folli deliri, il loro creatore aveva mai
potuto immaginare quanto grandi sarebbero diventati, quanta ammirazione
avrebbero destato?
«Naturalmente le copie più rare sono protette da custodie fatte su
ordinazione, provenienti per la maggior parte dalle grandi biblioteche
private di Baltimora dell'epoca. Le rilegature personalizzate erano di gran
moda a quei tempi. Gli editori mettevano spesso a disposizione dei loro
clienti più appassionati e facoltosi copie non tagliate perché potessero
portarle dai loro rilegatori preferiti. Era uno status symbol. Si avvalevano
di artigiani di squisita bravura.
«Inoltre, sono riuscito a rintracciare tutte le riviste dell'epoca di Poe in
cui è apparso il suo lavoro. Non solo il Southern Literary Messenger,
Burton's, The Mirror, The Broadway Journal, ma anche tutte le altre
pubblicazioni in cui apparve o alle quali collaborò come redattore.
Possiedo anche alcune serie di riviste alle quali potrebbe aver collaborato
celandosi sotto pseudonimi, una pratica nella quale sappiamo che in-
dulgeva spesso. Credo anche di aver scoperto qualche racconto e alcune
poesie precedentemente non attribuite a Poe.» Gli occhi di Blessing
ardevano di entusiasmo. «Sto scrivendo proprio in questi giorni un articolo
in merito, in preparazione dell'uscita di un volumetto. Prova a immaginare!
Nuovi racconti e nuove poesie di Edgar Allan Poe.»
Donald Marquette era senza parole. Era inaudito. Centinaia di studiosi
dovevano aver indagato a fondo la vita di Poe, le sue opere e le riviste del
suo tempo; com'era possibile che nessuno si fosse accorto dell'origine di
simile materiale? La sua metà più razionale si rifiutava di credere a una
tale possibilità. Tuttavia, il cultore di Poe che c'era in lui trovò oltremodo
eccitante l'idea di una prospettiva del genere.
«Quella che vedi qui, Donald», continuò Blessing, «è la più grande
collezione privata del suo genere. È il motivo per cui non possiedo una
seconda casa negli Hamptons!» Sorrise. «Ho investito troppo tempo e
denaro in tutto questo, ma del resto tali sono i privilegi offerti dall'essere il
discendente di un'agiata famiglia di accademici. La mia famiglia com-
prendeva letterati e studiosi già prima della guerra civile americana. Molti
pezzi della mia collezione, e naturalmente questa stessa casa, sono il
risultato della lungimiranza dei miei antenati. Pur considerando le risorse
oggi a mia disposizione, dubito fortemente che sarei riuscito da solo a
mettere insieme una simile collezione.»
Il suo sguardo si fece distante, assente, come se stesse avendo una
visione. Dopo una breve pausa Blessing tornò a voltarsi verso Donald e
sorrise. «È per me fonte di costante ispirazione custodire qui tanta parte
della vita di Poe. E trovo altrettanto rinvigorente la consapevolezza di
dover affrontare solo un breve viaggio in automobile per potermi recare in
visita alla sua tomba, ai suoi resti terreni. È come se tutto questo
costituisse un arcano microfono attraverso il quale il suo spirito mi parla,
si identifica con me, si mette al mio servizio come io sono al servizio della
voce che trovò mesta e dolorosa espressione dalla sue labbra.»
Blessing produsse un sorriso furbo.
«Naturalmente tutto questo ha anche un notevole valore materiale.»
«Certo», commentò Donald. «Ma non è per questo che hai fatto della
collezione la tua ragione di vita. Lo hai fatto perché la passione ce l'hai nel
sangue.»
«E perché avevo i mezzi per farlo. The Blessing blessing, la benedizione
dei Blessing, potremmo definirla con un gioco di parole. Ho altri
manoscritti e libri sparsi per la casa. E altrove, al sicuro; neppure questa
grande casa sarebbe in grado di contenere tutto il materiale.» Si avvicinò al
busto e toccò lo splendido esempio di tassidermia appollaiato sopra di
esso. «La collezione è il mio hobby. Un tempo ne ero totalmente assorto, a
livelli forse eccessivi... poi conobbi Amy.»
«Eccessivi? A me sembra una passione ammirevole», assicurò Donald.
«Voglio dire, tu stesso hai ammesso di avere il tempo e il denaro
necessario...»
«Il denaro, certamente. Non mi fraintendere, Amy apprezza la mia
collezione. È solo che ha riportato una buona dose di equilibrio mentale
nella mia vita.» Blessing scosse la testa e sorrise. «Non sto dicendo che
fossi uno squilibrato, in precedenza. Forse a tratti solo un po'
monomaniacale.» Alzò le mani a indicare il ritratto di Poe. «Dio, quanto
sono felice! Felice! Non so immaginare che cosa abbia fatto per meritare
una tale contentezza. No, contentezza non è la parola giusta, Donald.
Felicità, Donald. È questa la parola adatta. Felicità. Grazie al cielo Zeus e
compagnia bella non bazzicano davvero nell'Olimpo. Altrimenti sarebbero
invidiosi!» Colse lo sguardo sul volto di Donald, si girò a guardarlo e gli
puntò contro l'indice. «Naturalmente. So che cosa stai pensando. Com'è
possibile che un professore matto e celibe abbia potuto conoscere una
creatura meravigliosa come Amy?» I suoi occhi si illuminarono. «Una
giovane e meravigliosa creatura come Amy. Ha venticinque anni, sai?
Venticinque!»
Ci avevo azzeccato, si disse Donald.
«La conobbi quando aveva ventidue anni, a un congresso mondiale di
autori fantasy a Providence, Rhode Island. Era in città per fare visita ad
alcuni parenti e aveva saputo che avrei partecipato a un incontro con i
lettori, per autografare le copie del mio nuovo romanzo. Non era
particolarmente appassionata di narrativa fantasy, e all'epoca io ero meglio
conosciuto come critico e autore di racconti. Anima nera in agguato era
appena stato pubblicato, e piuttosto in sordina, devo ammettere; dietro
richiesta del mio editore mi trovavo lì per promuoverlo, pur sapendo che il
congresso era riservato a soli settecentocinquanta partecipanti. Ma chissà
come lei conosceva il mio lavoro, e ne era stata sufficientemente intrigata
da venire a vedere che aspetto avevo.» Sorrise, meditabondo.
«Naturalmente me ne innamorai l'istante in cui la vidi. Chi avrebbe mai
detto che anche lei si sarebbe innamorata di me?»
Mentre Blessing, lo sguardo rapito, si abbandonava ai suoi piacevoli
ricordi, tra i due uomini calò un imbarazzante silenzio. Donald si ritrovò a
cercare disperatamente qualcosa di neutro da dire. L'impressione
lasciatagli da Amy Blessing aleggiava ancora attorno a lui, delicatamente
ma con insistenza. «Suonava già il pianoforte?» azzardò finalmente.
«Come? Ah, certo. Sì. Ed era molto brava, ma la cosa che più mi colpì
fu che componeva. Creatività! È questo il dono più grande che Dio ha dato
a noi esseri umani. La creatività e la capacità di amare.»
«E di collezionare!» aggiunse Donald.
«Be', sì. Comunque Amy rimase piuttosto affascinata da tutto questo, te
lo posso garantire. Ma fu lei a suggerire che avrei forse dovuto dedicare
più tempo all'aspetto creativo della mia carriera. Di fare un tentativo serio,
insomma.» Ghignò. «E infatti alla fine dell'anno accademico, durante il
quale spero di sistemarti e di completare con te una delle antologie che sto
preparando, prenderò un anno sabbatico. Che potrebbe trasformarsi in un
congedo permanente. Affitteremo una villa in Italia, affacciata sul
Mediterraneo, dove Amy si dedicherà alle composizione, e io a scrivere
due romanzi.» Blessing gli mostrò due dita. «Contale. Due romanzi. Vedi,
ho firmato un nuovo contratto che mi impegna a scrivere tre romanzi, e ho
quasi portato a termine il primo. Avrei dovuto finirlo questa estate, in
realtà. Mi aspettano tre trimestri di impegni accademici... e poi la
beatitudine.»
«Questo si prospetta come un anno fortunato per tutti», commentò
Donald. «Posso dire in tutta franchezza di non essere mai stato più eccitato
dalla direzione in cui sembra volgere la mia vita.»
«Allora siamo una bella coppia, Donald. Una bella coppia.» Si guardò
attorno felice, passando in rassegna i suoi tesori, poi si strofinò le mani.
«Ma prima di scendere da basso per il pranzo, lascia che ti mostri dove
lavoreremo insieme. Che ne dici?»
«Non vedo l'ora.»
Sul lato opposto del corridoio si apriva un soggiorno. Donald sbirciò
verso l'interno al suo passaggio davanti alla porta socchiusa. Tende di
chiffon, carta da parati di gusto, sedie di antiquariato e un divano. Da un
lato troneggiava un pianoforte Steinway a coda: nero, lucido, elegante. La
stanza profumava di fiori freschi.
«È la stanza della musica?»
«Sì. Pensavo di lasciare che fosse Amy a mostrartela. La sentirai suonare
spesso, ne sono certo. Ma ora vieni. Ho fatto preparare questo spazio
appositamente per te dalla nostra segretaria, e sono ansioso di fartelo
vedere.»
Donald lo seguì in cima a un'altra rampa di scale. «Quanti piani ha
questa casa?»
«Quattro, senza contare lo scantinato. Le camere e la zona giorno sono
al terzo. Il mio studio è al quarto. Salire e scendere le scale mi tiene in
forma. E vado all'università a piedi.»
Raggiunsero il pianerottolo al terzo piano. «Ecco, qui c'è il nostro
ufficio, e le due camere per gli ospiti.» Ne indicò una. «Questa potrai
usarla tu quando dovrai lavorare fino a tardi. Oppure quando avremo
bevuto troppo e non sarai in condizione di tornare barcollando fino alla
pensione.»
Donald sorrise. «Molto bene.»
Blessing lo condusse in una grande stanza piena di scrivanie, armadietti,
scaffali, schedari e computer. Di nuovo il profumo di fiori (violette?),
stavolta misto all'odore della carta e del toner per stampanti laser. A
Donald parve quasi di sentire nell'aria il sapore del lavoro e del successo,
venato di un vago sentore di colla per francobolli.
L'indice di Blessing diresse la sua attenzione verso un angolo della
stanza. Donald non poté fare a meno di notare su una scrivania una pila di
copie tascabili del secondo romanzo dell'orrore di Blessing, La sala
d'attesa nera.
Dopo anni di duro lavoro nell'anonimo ambito della fiction «seria», che
avevano prodotto una serie di lavori ben scritti, intellettualmente impegnati
ma emotivamente aridi, Blessing aveva cominciato a scrivere racconti
ispirati ai fondamentali principi creativi di Poe. Dapprima era stata una
sfida personale, per verificare le proprie capcità (chi non è in grado di
creare si volge all'insegnamento, recitava la massima); ma poi aveva
acquistato sufficiente sicurezza per tentare il salto di qualità. Anima nera
in agguato avrebbe riassunto in sé tutte le convinzioni e le interpretazioni
dell'autore relative alla tradizione della letteratura gotica. Era il libro con
cui aveva sfondato, il suo Rosemary's Baby, il suo Esorcista, il suo
Shining, il suo Storie di fantasmi.
E così era accaduto che, con sua grande sorpresa e, a tratti,
costernazione, Blessing aveva conosciuto il grande successo commerciale.
Il lavoro di Blessing conteneva qualcosa che aveva risvegliato una
nuova ondata di interesse per la tradizione gotica basata sul gusto per la
suspense e per l'orrore. Il mercato editoriale non reagiva con simile
entusiasmo alla comparsa sulla scena di un nuovo autore dai tempi del
debutto di Stephen King. E, a differenza di quanto accaduto per King, cri-
tici in tutto il mondo si erano fatti in quattro per elogiare i romanzi e le
raccolte di racconti di Blessing.
Quando gli avevano chiesto a che cosa attribuisse il successo dei suoi
libri, Blessing aveva risposto semplicemente: «Valori letterari accessibili».
Sette milioni di copie vendute solo negli Stati Uniti! ricordò ammirato
Donald Marquette.
«Ecco.» La voce di Blessing ruppe l'incantesimo. «Che ne pensi?»
La domanda scosse immediatamente Donald dal suo fantasticare. Si
voltò e guardò ciò che Blessing stava indicando.
In un angolo della stanza era stata sistemata una scrivania nuova di
zecca sulla quale faceva bella mostra di sé un Computer Compaq,
anch'esso nuovo, accanto a essa uno schedario, una libreria, una stampante
e una sedia da ufficio dal design ergonomico per garantire la massima
comodità.
Alla parete c'era un ritratto incorniciato di Edgar Allan Poe. Accanto, un
poster di Picasso. Sulla scrivania era stato appoggiato un mazzo di fiori
tenuto assieme da un nastro, e il biglietto che lo accompagnava recitava:
«Benvenuto Donald, nella stanza delle nobili imprese letterarie... e di
stupidi videogiochi a volontà, se ti aggradano. William e Amy Blessing».
«Sono senza parole», disse Donald avvicinandosi. «Videogiochi. Uau!»
«Già. Abbiamo organizzato tutto per te. Se non ricordo male, ti eri
definito uno spirito disorganizzato. Ma già prima di incontrare Amy, io
avevo compreso che poter disporre di un ufficio ben organizzato è
assolutamente fondamentale per liberare lo spirito creativo. Allora ci siamo
presi la libertà di fornirti tutto quanto ti sarà necessario. Se lo desideri,
potrai usare questo ufficio anche per scrivere le tue cose. Naturalmente
non vorremmo che interferisse con il lavoro che svolgerai per noi, ma se
dovessi essere colto da ispirazione...» Blessing scosse la testa, come se
fosse stato improvvisamente rapito da una musa. «La creatività.
L'ispirazione. Noi qui le adoriamo, Donald. Sono le nostre guide, e dob-
biamo riverirle. Capisci? Riverirle. Troppa gente pensa che gli scrittori non
facciano altro che sedersi, cominciare a inanellare parole e pum! ecco
fatto. Ma non è così!»
«Non potrei essere più d'accordo con te», assicurò Donald. «E inoltre...»
Stava per completare l'espressione del suo pensiero quando all'improvviso
vide qualcosa che lo fece rimanere di stucco. Ordinatamente raccolte tra
due fermalibri di legno a forma di leone, notò una serie di riviste e un
unico romanzo tascabile che gli erano familiari. Riconobbe le pubbli-
cazioni solo dopo un iniziale momento di choc, dopodiché si commosse al
punto da non riuscire più a proferire parola.
«Scrivere è diffìcile», spiegò Blessing. «Occorre tenere sempre
sott'occhio le prove che si è capaci di farlo, non credi?»
«I miei racconti pubblicati!» rise Donald. «Il mio stupido romanzetto
Tramonto oscuro. Li hai tutti!»
«Ti ho detto che sono un collezionista. Ho i miei contatti. Ma devi capire
che sono lì solo per essere consultati. Rimangono miei.» Blessing sorrise
calorosamente. «E spero che durante la tua permanenza qui tu possa
trovare il tempo per autografarli, per Amy e per me. Tutti tranne il
racconto pubblicato da Rage. Mia moglie potrebbe fraintendere», rise.
«Sei così gentile. Grazie! Certo che ve li firmerò», rispose Donald.
Blessing si chinò in avanti e fece scorrere il pollice sulla collezione di
pubblicazioni. Estrasse una rivista ordinatamente stampata, con una
copertina piuttosto rigida, che dava l'impressione di essere una sorta
d'incrocio tra una rivista letteraria e un tascabile di qualità.
«The Tome», mormorò. «Ti hanno pubblicato alcuni racconti e un paio di
poesie», disse come tra sé.
«Sì. E credo siano interessati anche a pubblicare una raccolta di miei
lavori», aggiunse Donald.
«E la loro sede è proprio qui a Baltimora.»
«Sì. Pensavo di farci un salto, uno di questi giorni. Sai, per salutarli, fare
un po' di pubbliche relazioni con gli editor.»
Blessing abbassò gli occhi sulla copertina della rivista.
Sulla copertina spiccava una bella riproduzione di un'incisione in stile
medievale rappresentante Satana in forma di caprone, acquattato al centro
di un pentacolo ornato di Barbie e Ken che copulavano in svariate
posizioni. Il caprone mostrava denti da vampiro finti, indossava occhiali
scuri e un mantello da Dracula in velluto. In una zampa impugnava una
chitarra elettrica. Nell'altra un'enorme canna ganja, la madre di tutti gli
spinelli.
Donald si sentì leggermente a disagio, avvertendo la disapprovazione di
Blessing.
«Questa è la gente che vedo travestita da mostri e vampiri ad alcune
delle convention fantasy a cui partecipo, non è vero?» domandò con tono
mesto.
«Be', per così dire», rispose Donald. «Non sono sicuro che partecipino
alle convention. Ma credo che si possano definire una diramazione dei
Goths.»
«I Goths. Li ho sempre reputati piuttosto inoffensivi. Una sottocultura
per certi versi affascinante, oserei dire.» Blessing prese a sfogliare la
rivista. «Inquietante rock'n'roll inglese. Leziosaggini europee. Strati di
trucco. Arroganza. Pelle. No, non trascuriamo la pelle. E... decadenza. E
questo il termine che cercavo. Decadenza byroniana.»
«È solo un gioco di ruolo.»
«Oh, certo. Ma credo che il problema con la sottocultura americana sia
che non offre sufficiente varietà. Allora i giovani inventano la propria,
affermando la propria individualità attraverso rituali e comportamenti di
gruppo», concluse Blessing, rendendosi conto troppo tardi di essere
passato ad adottare il tono professorale e accademico consueto. «Spero che
paghino; per il materiale pubblicato, intendo.»
«Qualche centesimo a parola.»
«Mmm. Meglio della maggioranza delle riviste letterarie.» Blessing
sembrava intrigato. «Interessante. Potrei farne lo spunto per un articolo,
e...» Stava leggendo il risvolto interno della copertina. «Editore e direttore,
Baxter Brittle.» L'espressione sul volto di Blessing si fece concentrata.
Aggrottò la fronte. «Questo nome non mi è nuovo... Ah, certo. Ho ricevuto
alcune lettere e telefonate da questo individuo. Voleva che gli scrivessi
dell'influenza di Edgar Poe su Aleister Crowley e il paganesimo
contemporaneo. Naturalmente tutto questo è assurdo! Ho cercato di
spiegarglielo in modo garbato. Per tutta risposta mi ha mandato un'ultima,
ingiuriosa lettera, dopodiché non si è più fatto vivo. Grazie a Dio.»
Blessing fu percorso da un brivido. «Questo gruppo di Goths in particolare
ha qualcosa che non mi piace.»
«Che cosa intendi?»
«Mi fanno un po' paura. Certo, so che non ho motivo di temerli. Ma se
vai a incontrarli ti consiglio di fare attenzione. Non c'è nulla di male nello
stringere contatti nel mondo dell'editoria, ma occorre prudenza. Ci sono
dei personaggi molto strani là fuori. Fortunatamente è la mia segretaria a
sbrigare la posta che ricevo dai pazzi sui quali evidentemente esercito una
certa attrattiva, e di conseguenza il mio livello di paranoia è ancora molto
basso. Tuttavia, me ne starei alla larga da questo Baxter Brittle se fossi in
te, Donald.»
Donald alzò le spalle. «Certo non è il motivo per cui sono venuto a
Baltimora.»
«No, infatti», disse Blessing. «Ma ora seguimi e ti mostrerò il mio
sancta sanctorum. Abbiamo ancora qualche minuto prima che sia pronto il
pranzo.»
«Il tuo studio!»
«Sì! Se non sbaglio in una delle tue lettere scrivevi che ti sarebbe
piaciuto vederlo.»
«Sì. È che ho la sensazione... la sensazione che ne rimarrei ispirato.»
«Be', ti ringrazio... a volte vorrei che ispirasse me più di frequente.»
Blessing rise e si avviò in direzione dello studio. Aveva lasciato la copia
del Tome sulla scrivania. Donald la raccolse, grato di aver incontrato
quell'uomo generoso e dal talento sconfinato... ma al tempo stesso
avvertiva una strana rabbia nei suoi confronti.
Bastardo condiscendente! sembrava accusare una voce nel suo
profondo. Io farò quello che voglio qui dentro, e incontrerò chiunque
abbia voglia di incontrare!
Ripose con cura la rivista al suo posto e seguì il suo mentore.
Solo vivevo
In un mondo d'affanni.
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Presumo che tutti voi abbiate sentito parlare di me. Sono la Signora
Psyche Zenobia. Questo lo so per certo. Solo i miei nemici mi chiamano
Suky Snobbs.
«Questa è la cosa più ridicola che abbia mai letto in vita mia!»
Il professor William Blessing fissò la lettera e le diede un colpo con il
dorso della mano, come a tentare di renderla sensata con la forza.
«A dire il vero, caro, Donald me ne ha parlato», disse Amy, sorridendo
amabilmente. «E io penso che... Be', che sia invece un'idea piuttosto
interessante.» Rise, con birichina gaiezza. «Certo, ammetto di non essere
imparziale, essendo stata chiamata in causa personalmente...»
Blessing alzò gli occhi a guardare Marquette. Anche il suo assistente e
pupillo sorrideva, ma sembrava a disagio. «Vuoi farmi il favore di dirmi
esattamente che ruolo hai avuto in questa storia, Donald? So che sei in
contatto con questa gente. E loro evidentemente sanno che tu sei in
contatto con me... ma sono comunque confuso.»
«Ehm... Bill... forse non l'hai letta con attenzione», azzardò Donald. «Io
ho solo dato una scorsa alla copia di Amy. Forse se la leggi di nuovo...»
«D'accordo», concesse Blessing. Aveva degli strani presentimenti sul
conto di Donald, e quella lettera non faceva che rafforzarli. Tuttavia, lui
stesso, come spesso gli rimproverava Amy, aveva la tendenza a perdere le
staffe.
Un respiro profondo.
Due.
«Molto bene», disse, gonfiando tutto il suo piumaggio professorale per
non dare segni di debolezza o irritazione. «Allora credo che la cosa
migliore sia leggerla ad alta voce, non trovate?»
«Ottima idea, Bill», concordò Amy. Si avvicinò a lui con un saltello e lo
cinse allegramente con un braccio. «E ricordati che hai sempre promesso
che mi avresti aiutata a diventare famosa.»
«Famosa!» Ebbe l'impulso di esclamare «Stupidaggini», ma si trattenne.
Invece di commentare oltre, allungò un braccio sulla superficie della sua
scrivania e ne raccolse una delle numerose paia di occhiali da lettura che
aveva disseminato per la casa, li inforcò, rassettò la lettera e cominciò a
leggere:
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Per quanto attiene, dunque, alla Bellezza come mio ambito, la mia
domanda successiva era riferita al tono delle sue più alte espressioni - e
ogni esperienza insegna che questo tono è quello della tristezza. La
bellezza di qualsiasi genere, nel suo supremo sviluppo, induce invaria-
bilmente l'animo sensbile alle lacrime. La Maliconia è dunque il più
legittimo di tutti i toni poetici.
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I confini che separano la Vita dalla Morte sono tutt'al più sfuggenti e
vaghi. Chi può dire dove termina l'una e comincia l'altra?
Quando si destò e fece per alzarsi, William Blessing urtò il capo contro
il coperchio della bara.
La bara era foderata di velluto imbottito, per cui non si fece male. In
realtà, ciò che provò non sembrava correlarsi in alcun modo con il ricordo
che aveva del dolore. Tuttavia, fu comunque una sensazione inquietante e
sconcertante.
La bara sigillata era più che buia, e per quanto si trattasse di una bara
spaziosa, bastarono pochi movimenti delle mani e dei piedi per accertarsi
che di una bara si trattava. Odorava di terra umida, muffa e
decomposizione.
Concluse immediatamente di essere stato sepolto vivo. La constatazione
non indusse in lui alcuna riflessione o meditazione su La sepoltura
prematura di Edgar Allan Poe.
Scatenò invece un attacco acuto di claustrofobia, che lo colmò di un
terrore totale e devastante.
L'urlo montò in lui in maniera istintiva e sgorgò forte e travolgente dalla
sua gola.
La violenza stessa dell'urlo, tuttavia, lo scosse a sufficienza da
permettergli di riprendere a ragionare, cosa che tentò di fare.
La pistola, gli spari...
Donald Marquette con il busto di Pallade tra le mani, mentre lo
abbatteva su di lui, con violenza...
La ragione, sotto forma di una piccola, piatta voce nell'oscurità, gli
disse: «Sei morto».
Poi ricordò la biblioteca. E il bibliotecario, la colomba insanguinata e...
«Hai intenzione di rimanere a oziare laggiù tutta la notte?» domandò una
voce chiara e definita. Non sembrava giungergli attraverso l'udito, ma
piuttosto direttamente nella sua mente. Eppure possedeva un timbro e un
tono particolare... con un vago accento newyorchese, più precisamente di
Brooklyn.
Ricordò il corvo.
«Dove... dove mi trovo?» domandò.
«In un posto bello e privato, Dottore», rispose la voce. «Ma credo che
nessuno qui si abbracci.»
«Sono impazzito», concluse.
«Certo che sei impazzito. È per quello che sei qui.»
«Dove?»
«Due metri sotto terra!» rispose la voce, esasperata. «In un sepolcro! In
una tomba! Dottore, ti trovi in una bara nella tua tomba! Divertente, eh?»
Stranamente, nonostante avvertisse un crescente panico nel profondo
dell'animo, qualcosa impediva che avesse il sopravvento. Le sue potenti
capacità cognitive, certo, ma anche qualcos'altro. Un altro sentimento.
La rabbia.
Rabbia infocata, rabbia fredda, tutte le possibili varianti di rabbia. La
rabbia si estendeva dalla sua mente e cuciva assieme le cartilagini, le ossa
e la carne del suo corpo resuscitato. Appiccava il fuoco del suo essere e
pompava attraverso le sue vene, che un tempo avevano contenuto sangue,
la sostanza di cui era fatta la vendetta.
Comprese di essere resuscitato. La verità lo colse con una certezza tanto
travolgente quanto calmante.
«Sono tornato dalla morte», dichiarò con tono neutro.
«Ci hai azzeccato, amico! Bentornato!»
Comunque fosse, si trovava pur sempre in una bara sotto terra, a una
buona distanza dalla superficie. E gli sembrava un pessimo luogo da cui
ricominciare. Non aveva l'impressione di soffocare, né era particolarmente
affamato. Ma non era un posto dove sarebbe potuto rimanere a lungo.
«Chi sei?» indagò.
«Suvvia, non fare domande stupide. Alza il culo e vieni fuori da lì. Hai
del lavoro da portare a termine», esortò la voce.
«E come?»
«Coraggio! Sei tu lo scrittore horror. In che modo i corpi che tornano in
vita riescono a uscire dalle tombe? Eh? Trasporto molecolare? No, ritenta.
Che ne dici di provare a scavare? Tombola!»
«Sono tornato dalla morte per intercessione di un'entità soprannaturale»,
fece notare.
«Certo non per intercessione del ministero dei Trasporti.»
«Allora perché non posso uscire di qui secondo canoni soprannaturali?»
obiettò Blessing.
«Ascolta, amico. Sei già soprannaturale, okay? Pensi che un essere
umano normale sarebbe in grado di uscire da una bara scavando? Fidati,
fai un tentativo.»
Effettivamente, mentre contemplava le parole pronunciate dalla voce, si
rese conto di sentirsi cambiato. Si sentiva come sull'orlo di sensi alieni, di
poteri occulti. I tessuti e le molecole che costituivano ora la sua forma
corporea sembravano cariche di una sorta di insondabile energia.
Blessing alzò le mani. Si portò le mani davanti al viso e agitò le dita
nell'oscurità, immaginandole...
Le vide.
Nonostante la totale oscurità, vedeva le sue dita. Sembravano ardere di
una luce soprannaturale. Era acutamente cosciente di ogni ruga all'altezza
delle nocche, di ogni follicolo, di ogni unghia. Notò che erano cresciute
parecchio; più che unghie ora somigliavano ad artigli.
Le alzò, appoggiandole contro l'umido e setoso velluto che rivestiva
l'interno del coperchio della bara.
Spinse.
Il coperchio sembrò cedere di qualche millimetro. Una manciata di terra
ricadde all'interno della bara, che evidentemente si era aperta. Avvertiva la
pressione della terra sopra di lui, ma stranamente non gli parve
opprimente. La percepiva come... alterata.
«Così!» incoraggiò la voce. «Vedo che hai capito. Insisti! Insisti!»
Con uno sforzo per nulla eccessivo spinse verso l'alto il coperchio, che
piano piano si aprì. La terra prese a ricadergli sul volto e sul corpo. Sapeva
di humus e sassi e di vermi. Puzzava di ricordi, disperazione, rammarico.
La terra ricadde addosso a William Blessing, ma era terra che non aveva
mai conosciuto prima. Non densa, ma opalescente, fluida, come acqua
torbida. Spingeva verso l'alto e la terra cedeva lentamente, come se
riconoscesse il suo dominio sulla propria tomba, il suo trionfo sul luogo di
sepolutra. Cominciò a sollevare il suo corpo e a farsi largo nella strana
sostanza, risalendo lentamente ma in modo costante una scalinata di
pietrisco verso la superficie.
«Bravo, così!» rise la voce. «Hai già imparato. Viene naturale, no?»
Scavò tirandosi su, sempre più su, poi, allungando di nuovo il braccio
verso l'alto, sentì la mano sbucare attraverso la terra umida e l'erba bagnata
nell'aria fredda della notte. La sensazione lo caricò di energia allo stato
puro, che rese agevole la parte finale della sua sortita. Emerse nella cor-
roborante aria della mezzanotte, respirò la foschia umida e si liberò dalla
fossa in cui lo avevano imprigionato i suoi cari.
Crollò a terra, ansimante e annaspante, scuotendosi la terra dai capelli e
dal volto, sentendo la notte gonfiarsi attorno a lui come una sinfonia di
silenzio.
«Te l'avevo detto che ce l'avresti fatta!» risonò la voce, ora non più solo
nella sua mente, ma da un punto nell'oscurità vicino a lui. «Complimenti!»
Sputò terra e tossì. «Proprio come un fumetto dell'orrore della E.C.»,
disse amareggiato, avvertendo il sapore della bile non solo nella bocca ma
in tutto il corpo. Orientò la testa in direzione della voce. «E tu saresti il
guardiano della cripta?»
«No. Non ho origini tanto scontate. Anzi, se non fossi così
assolutamente vero forse mi accaserei in qualche romanzo molto
descrittivo. Preferibilmente francese. Oui! Bon soir, monsieur. Bentornato
su questo magnifico pianeta. Pronto a fare scorribande?»
Blessing si tirò su, riguadagnò barcollando le gambe. Attorno a lui vide
lapidi innalzarsi dal terreno, bianche al chiaro di una luna a falce nel cielo
notturno punteggiato di nuvole. Le sue articolazioni scricchiolavano come
catene strette attorno a un'anima in agonia. Quel luogo puzzava di storia e
trasudava noia.
«Dove sei?»
«Prova a guardare la tua lapide, signore!»
Si sforzò di mettere a fuoco gli occhi e il bagliore soprannaturale tornò
ad accendersi, come se indossasse occhiali agli infrarossi. Il cimitero che
illuminò era diverso da qualsiasi altro camposanto che avesse mai visto, o
anche solo immaginato.
Eppure, lo riconosceva.
Scosso, inciampò e cadde sul terriccio, picchiando la testa contro un
sasso. Alzò lo sguardo. Scolpite nel marmo lesse due date... e il suo nome.
«Amatissimo... Riposa in pace, amatissimo... Mai, mai dimenticato.»
Alzò una mano e fece scorrere le unghie sulle parole incise.
«Amy», sussurrò. «Amy.»
«Avrebbe anche potuto scrivere qualcosa in latino, non credi?» provocò
la voce. «Oppure in greco. In una delle lingue classiche, insomma. Roba di
classe, appunto. Tu le conosci entrambe, no?»
«Sì», rispose distrattamente Blessing.
«Kyrie eleison, amico. E al quarto mese risorse dalla tomba e, udite,
spaccò il culo!»
Blessing, irritato, guardò più su.
La lapide era in realtà una grossa croce celtica. Doveva essere stata
un'idea di Amy, dato che a lui non erano mai particolarmente piaciute le
croci, indipendentemente dalla loro foggia. Aveva sempre scherzato di
voler essere sepolto solamente con un computer portatile e una linea
telefonica per il modem.
In cima alla croce, a fissarlo con occhi scuri e intensi, vide un grande
corvo, di un nero radioso.
«Un corvo», disse pensosamente. «Un corvo... uno dei simboli più
antichi dell'umanità.»
«So che cosa stai pensando.» Il corvo inclinò la testa. «Ma questo non è
un fumetto, Blessing. Questa è realtà noir. Sei qui per un motivo. E io sono
qui per aiutarti. Fine del discorso.»
Blessing si voltò e si guardò attorno. Riconobbe il cimitero. Era il
famoso camposanto nel quale era stato sepolto il grande Edgar Allan Poe!
Naturalmente! Dal momento che vi aveva acquistato un lotto (più come
aggiunta alla sua collezione di cimeli di Edgar Allan Poe che non
realmente intenzionato a occuparlo) era logico che fosse stato sepolto lì.
«Per aiutarmi», ripeté lentamente. «Per aiutarmi.»
«Sì. Per aiutarti... a fare giustizia», spiegò il corvo, a un tratto serio e
pragmatico. «C'è solo caos nell'universo. Ma il caos crea anche ordine,
seppure in modo casuale. E l'ordine può essere strappato all'entropia, alla
strada che riconduce al caos... dalla più grande creazione dell'ordine
stesso: la volontà. La coscienza. L'autoconsapevolezza.» La voce del corvo
si mutò in un sussurro duro e sprezzante. «E benché alla fine il caos
inghiottirà tutto... noi possiamo controllare ciò che inghiotte. Poiché la
volontà, quando è davvero forte, sa distaccarsi dal caos... dalla morte e dal
nulla...» Il becco fece uno scatto. «Per qualche tempo. Solo per un breve
periodo.»
Tempo.
Breve periodo.
Blessing passò in rassegna il luogo della sua tumulazione.
Sembrava un paesaggio cimiteriale monocromo reso da Vincent Van
Gogh, con folate di azzurro e un'aura surreale. Una terra spettrale, di
allusioni sovrapposte a illusioni. Tre dimensioni che scivolavano nella
quarta... che si decomponevano e si essiccandosi, perdendo la loro ossuta
presa sulla vita, sul simbolismo e sull'architettura.
Ruggine alla polvere.
Sudari alla cenere.
L'uomo vive solo per un breve periodo...
... un periodo sgradevole, brutale e breve...
... privato anche solo di un sogno.
«Se non posso aspirare al sogno», dichiarò Blessing, «mi accontenterò
dell'incubo.»
Si avviò lentamente attraverso la foschia, un cadavere tornato alla vita
per portare a termine una missione...
E ben presto udì le ali del suo familiare volatile battere alle sue spalle.
18
19
Questa notte, la signora Poe, nel suo capezzale prostrata dalla malattia
e attorniata dai suoi bambini, chiede la tua assistenza; e la chiede forse
per l'ultima volta..
«Bene. Allora siete tutti qui», disse Eliza Poe. «Tutti i miei bambini.
Tutti i miei cari. Ora devo parlarvi.» La voce della donna dal pallore
cadaverico era fioca ed estremamente triste.
Riuscì a distogliere i pensieri del piccolo Edgar Poe dal grande corvo
nero che aveva visto tra gli alberi del giardino.
Edgar era confuso, ma rimase in silenzio ad ascoltare. Ascoltava
sempre quando parlava la mamma. Aveva sempre cose buone e
interessanti da dire.
La stanza sembrò farsi più buia, nonostante le lanterne e le candele. E
più fredda, a dispetto del fuoco ben alimentato che ardeva nel camino.
Nell'aria c'era odore di canfora e di sego, e il profumo del tè nero con
panna che i grandi sembravano bere incessantemente. Accanto alla teiera
era stato sistemato un vassoio con pasticcini e marmellata, ma Edgar non
ne aveva voglia, nonostante la marmellata di more fosse la sua preferita e
nonostante non avesse mangiato molto a colazione. Stranamente, non
aveva per nulla fame.
Sopra il mare lanoso delle coperte, la testa di Eliza Poe sembrava
affondare nel cotone bianco del guanciale. I suoi capelli neri erano stati
pettinati verso l'esterno in modo da formare una specie di sinistra aureola
nera a circondare la testa. Era pallida, di un pallore bianco e profondo,
del pallore dei vermi che Edgar trovava sotto i sassi; solo le guance e le
labbra erano rosse come ciliege. Aveva sopracciglie folte e nere e gli
occhi più grandi che Edgar avesse mai visto: grandi occhi scuri che erano
stati sempre pieni di vita e di curiosità... ma ora erano colmi solo di
tristezza.
Tuttavia, quando si posarono su Edgar, sembrò scoccare in loro una
piccola scintilla. Edgar provò un istante di felicità, perché lesse nello
sguardo della mamma l'amore e la dedizione che provava per lui. C'erano
momenti in cui aveva la sensazione che il mondo fosse un luogo freddo e
cattivo, abitato da gente fredda e cattiva, e in cui c'era ben poco spazio
per il divertimento e la gioia. Ma lui aveva sempre saputo, anche in
momenti tristi come quello, di essere un bambino fortunato, perché nel
mondo c'era pur sempre, e tutto per lui, il profondo calore, il confortante
amore della mamma.
«Oh, Edgar», disse lei con la sua vocina. «La tua cravatta della
domenica ha il nodo storto.»
«Sì, mamma», rispose lui, tentando di raddrizzarlo. Peggiorò la
situazione e una delle vecchiette presenti dovette intervenire in suo aiuto.
«Ecco fatto. Così va meglio», approvò Eliza Poe. «Avvicinati, Edgar.»
Edgar si portò accanto a William, che cedette in silenzio il suo posto e
la presa sulla mano della madre. Eliza Poe accarezzò i capelli scuri del
figlio, poi fece scorrere amorevolmente le dita sul suo volto, toccandogli
gli zigomi alti, le labbra sensibili, il nobile naso e il mento ben disegnato.
La sua mano era fredda e sudaticcia ed Edgar avvertì un brivido
corrergli lungo la schiena. Era allarmato, e avvertì l'impulso di piangere,
ma sapeva di doversi mostrare coraggioso per il bene della mamma e
trattenne le lacrime.
«Caro Edgar, nessuno potrà mai dubitare che tu sei mio figlio»,
dichiarò Eliza. «Hai i miei occhi.»
«Sì, mamma.»
«Hai fatto il bravo con i nostri cari amici?»
«Sì, mamma.»
«Non è vero», lo contraddisse a un tratto William. «Continua a cercare
un corvo tra i rami. Non fa altro che parlare di quel corvo, sempre il
corvo, il corvo...»
La madre tornò a posare lo sguardo su di lui. «Edgar, non devi
soffermarti su cose oscure. Tu vuoi bene a Gesù, Edgar?»
«Sì, mamma.»
«Gesù è il Figlio della luce, e in Lui non c'è oscurità. Rivolgiti a Gesù,
Edgar. E prega sempre il Signore.»
«Sì, mamma.»
Eliza Poe trasse una serie di lunghi e faticosi respiri, poi chiuse gli
occhi come per raccogliere le forze. Riaprì gli occhi e cominciò a parlare:
«Bambini. Temo che si preparino tempi difficili davanti a voi», sussurrò
con voce debole.
Amy Blessing era in cucina curva su una tazza di caffè caldo quando
suonarono alla porta.
Amy non aveva mai amato granché il caffè prima dell'uccisione di
William. Aveva preferito di gran lunga il tè. L'anno prima lei e Bill erano
tornati da un viaggio in Inghilterra carichi di tè di ogni tipo e qualità,
acquistato da Fortnum e Mason's a Londra. Darjeeling, Earl Grey, Lapsang
Suchong, English Breakfast e molti altri, conservati in splendidi barattoli
di latta. Aveva in casa anche tè proveniente da diverse province indiane e
cinesi, tè meraviglioso, di prima qualità, estremamente caro.
Ma ora beveva soprattutto caffè.
Quando ne beveva una tazza fatta con chicchi di caffè appena macinati
si sentiva scaldare e rinvigorire... e si sentiva vicina a Bill. Sorseggiava
l'aromatica bevanda addolcita con un'ombra di zucchero e un goccio di
latte, chiudeva gli occhi ed era di nuovo con lui. Il ricordo del suo
dopobarba muschiato le sembrava più vivo, come il suono della sua voce,
il sapore della sua pelle tra le lenzuola spiegazzate, la sua presenza che
tanta sicurezza le aveva dato.
Sapeva di essersi chiusa a riccio in se stessa, ma non conosceva altri
metodi per affrontare la tremenda perdita che aveva subito. Alla
conclusione di una brillante e divertente carriera di studentessa
universitaria aveva nutrito progetti ben definiti per la sua vita. Il professor
William Blessing era stata una sorpresa sconvolgente. La giovane
discepola sarebbe inorridita al pensiero di sposare un uomo più vecchio di
oltre vent'anni. Forse la parte di lui che era scrittore poteva esercitare un
certo fascino sulla ragazza, ma la parte accademica? Per carità! Così
borioso, teoretico, dolorosamente noioso... non era certo quello che aveva
sognato. Affatto. Una vita passata ad attraversare gli oceani e a balzare di
continente in continente, percuotendo appassionatamente i tasti del
pianoforte e inseguita da eccitanti uomini stranieri con occhi di fuoco e un
irrefrenabile bisogno di affondare le sensuali labbra nei suoi lunghi,
morbidi capelli. Sì, era questo che aveva sognato. Poi, in seguito, si
sarebbe sistemata, trovandosi un compagno con cui dividere il resto della
vita e formare una famiglia; probabilmente un musicista. Qualcuno con cui
duettare costantemente.
William Blessing aveva naturalmente rappresentato un notevole
scostamento dalla rotta stabilita, ma l'incontro con lui era apparso in tutto e
per tutto giusto, per non dire addirittura predestinato.
Ma il destino aveva evidentemente in serbo anche cose terribili.
Se solo Bill avesse rinunciato a tenere la sua collezione di libri e cimeli
di Poe in casa e avesse evitato di renderla di dominio pubblico. Se solo
non avesse insistito per continuare a insegnare all'università e a vivere nel
centro della città, indifeso e vulnerabile. Con tutto il denaro che aveva
guadagnato avrebbero potuto vivere in una bella e grande casa in un
quartiere protetto, lontani dalle minacce che assillavano chi non si
allontanava dai virus umani di cui era ormai appestata la società...
Se solo...
Suonarono di nuovo alla porta.
Si avvicinò alla postazione di controllo.
Dopo quella terribile sera, non essendo riuscito a convincerla ad
abbandonare la sua casa, Donald aveva insistito perché Amy facesse
potenziare il sistema di sicurezza. Era un'operazione costosa, ma l'aveva
convinta affermando che c'era ancora molto denaro nel conto in banca,
mentre la vita all'interno di quella casa era già stata dimezzata.
Il centro nevralgico del nuovo sistema d'allarme (che comprendeva
sbarre alle finestre e la garanzia di impenetrabilità del piano terreno e del
seminterrato) era costituito da un sistema video per il monitoraggio di tutti
gli ingressi e le finestre della casa, oltre che di buona parte dell'interno.
Una delle postazioni di controllo era stata allestita in un angolo della
cucina. Amy ci si avvicinò, stringendo la tazza di caffè in una mano come
un talismano.
Accese il monitor.
Sullo schermo comparve un uomo con un cappello in testa, occhiali
scuri e un lungo cappotto, il cui bavero era alzato e gli copriva il collo e
parte del mento. La primavera a Baltimora era stata ventosa e fresca, ma
certo non fredda al punto da richiedere un simile abbigliamento.
Tuttavia, era mattino, gli indumenti e il cappello dell'uomo sembravano
di ottima qualità e lui stesso appariva tutt'altro che minaccioso. Non c'era
motivo di chiamare la polizia.
Premette il tasto del citofono. «Sì?» domandò, con tono piatto. Era
ancora in grado di suonare il pianoforte, ma non riusciva a raccogliere
energie sufficienti per restituire alla sua voce la musicalità perduta.
«Signora Amy Blessing?» indagò l'uomo. La voce era roca e smorzata,
ma al tempo stesso stranamente familiare.
«Sì.»
«Mi chiedo se sarebbe così gentile da... avrei bisogno di parlarle.»
«Mi dica.»
«Di persona.»
Un brivido di paura le corse lungo la schiena.
Quella notte, quando Bill aveva aperto la porta...
Erano le undici meno un quarto del mattino. Donald era arrivato di
buon'ora e si era messo al lavoro nel suo ufficio, ma poi aveva ricevuto una
telefonata ed era dovuto uscire per un incontro d'affari, o così aveva detto.
Ora era sola in casa e non aveva alcuna intenzione di andare alla porta
d'ingresso a parlare di persona con nessuno. Non avrebbe rinunciato alla
sicurezza offertale dalle due spesse porte e dalle molte serrature che la
proteggevano dal mondo esterno.
«Temo che...»
«Capisco la condizione in cui si trova», la interruppe l'uomo. «Dopo la...
tragedia da cui è stata recentemente colpita, è giusto che lei sia molto
prudente. Tuttavia, le posso assicurare che non intendo affatto farle del
male. Sono venuto da... molto lontano... per parlare con lei.»
La voce dell'uomo, in precedenza piuttosto distaccata e fredda, sembrò
colmarsi di emozione.
«Chi è lei?»
«Sono... sono Delmore Blessing.»
«È un parente di Bill? Non ho mai sentito nominare alcun Delmore...
Bill non mi ha mai detto di avere un parente che...»
«Sono... un cugino di secondo grado, qualche anno più anziano di lui. I
nostri contatti erano piuttosto... sporadici, purtroppo. Ma eravamo in
contatto per corrispondenza e condividevamo l'uno con l'altro i nostri
sentimenti e i nostri segreti. Io e suo marito avevamo un rapporto di
immensa fiducia reciproca.» Fece una pausa. «Devo parlare con lei... a
proposito di alcune cose.»
Era indecisa. Esitò. «Come posso avere la certezza che lei è davvero il
cugino di mio marito? Chi me lo garantisce? Non ho mai trovato lettere
firmate da lei e non ricordo che ci abbia mai chiamato al telefono.»
«Lei può chiedermi ciò che vuole sul conto di William Blessing e io farò
del mio meglio per risponderle. Ma per prima cosa devo avvertirla che
dispongo di pochissimo tempo. Potrei cominciare dicendole che... suo
marito... l'amava moltissimo. Mi ha raccontato che in occasione del vostro
ultimo anniversario di matrimonio le ha regalato una poesia che aveva
scritto per lei, e che alla fine di ogni mese le forniva un indizio per la
risoluzione dell'indovinello posto dalla poesia. La poesia l'avrebbe
condotta in un posto segreto, dove avrebbe trovato un tesoro. Un tesoro
d'amore.»
Il cuore di Amy cominciò a battere più forte.
Il ricordo di quella poesia provocò la rottura di qualcosa nel suo animo.
Da quella falla il dolore sgorgò copioso, inondandola.
Ma insieme con esso sgorgò anche una gioia infinita...
Si rese conto di avere la vista appannata dalle lacrime.
Non piangeva dal giorno del funerale di William Blessing. E sebbene le
lacrime sembrassero bruciarle le guance, le accolse con gratitudine, perché
costituivano la prova che era di nuovo in grado di provare emozioni.
«Lei... lei sa di quella poesia. Nessuno ne sapeva nulla. Com'è
possibile?»
«Fui io a iniziarlo a scrivere poesie», spiegò l'uomo che aveva detto di
chiamarsi Delmore Blessing. «E gli diedi anche qualche lezione di prosa,
quando cominciò a scrivere. Fui io a regalargli il primo libro di racconti e
poesie di Edgar Allan Poe. Come vede... eravamo molto... molto intimi
anni fa.»
Nessun altro al mondo poteva essere a conoscenza dell'esistenza di
quella poesia.
Ora, a rigor di logica, avrebbe dovuto domandare al misterioso parente
di William come mai non aveva chiamato prima per annunciare il suo
arrivo. Non aveva mai neppure sentito parlare di lui.
Ma il pover'uomo sembrava a disagio là fuori. Ed era stato in rapporti
molto stretti con William. Doveva per forza essere così.
E stare in compagnia di quell'uomo non sarebbe forse stato come
avvicinarsi di nuovo al suo adorato marito morto?
«D'accordo», disse. «Le credo. Arrivo.»
Spense il monitor e andò alla porta d'ingresso per consentire a quello
strano ma meraviglioso uomo di entrare.
21
22
Il dottor William Blessing, risorto dalla tomba, stava in piedi davanti alla
porta della casa dove un tempo era vissuto, in attesa che i viventi
rispondessero al citofono.
Il corvo era scomparso e non si era più fatto vedere. Tanto meglio. Dopo
una miserevole notte trascorsa sulla panchina di un parco, era tornato da
lui stringendo nel becco altre banconote da cento dollari. Le aveva usate
per comprare vestiti nuovi e del trucco in uno dei grandi magazzini del
centro.
Guardando nello specchio del bagno degli uomini, gli occhi fissi sulla
pelle squamata e spaccata del suo volto di cadavere, si era applicato uno
strato di fondo tinta. Poi, seguendo uno strano istinto, si era disegnato sul
volto con la matita nera un sorriso clownesco e stelle da pagliaccio attorno
agli occhi.
Dopo una pausa di riflessione aveva deciso che quello non era un
travestimento ideale.
Si era rassegnato a usare altro fondo tinta per coprire le cicatrici e le
lacerazioni più profonde. Il lavoretto con la carne fresca eseguito la sera
precedente aveva contribuito a riempire le spaccature attorno al naso
martoriato. Tuttavia, nonostante il fondo tinta, dimostrava più anni di
quelli che aveva avuto al momento della morte.
Di conseguenza, dall'estinto William Blessing era stato portato alla vita
(apparentemente) Delmore Blessing, cugino lontano ma intimo (per
corrispondenza).
Ora, sui gradini là fuori, in attesa che si aprisse la porta, quel che
rimaneva o che ora stava al posto del suo cuore sembrò battere più forte.
L'emozione di rivedere Amy era intensa.
Il suono della sua voce al citofono lo aveva quasi paralizzato. Era grato
di essere riuscito a parlare e a raccontare la sua storia, oltretutto in modo
sincero. Fortunatamente il suo aspetto e la sua voce erano cambiati a
sufficienza da permettergli di nascondere la vera identità.
Stai calmo, si esortò.
Questo incontro deve avvenire esclusivamente allo scopo di ottenere
informazioni.
Ma che strazio!
La sua voce era stata così dolce e triste. Aveva provato il folle impulso di
dirle la verità.
Amy! Sono tornato! Sono risorto dalla morte per fare giustizia!
Ma sapeva che non era possibile. Aveva già dovuto lasciarla una volta,
contro la sua volontà. Come poteva dirle chi era sapendo che poi avrebbe
dovuto separarsi nuovamente da lei... Quando?
Presto.
Molto presto.
La porta si aprì.
La vide affacciarsi cautamente all'ingresso, la catenella di sicurezza
ancora agganciata.
Oh, quanto era bella! Venne travolto da una tale ondata di emozioni che
temette di sentirsi spezzare il cuore.
Rimase il più distante possibile dalla porta, la mani, vuote, in vista lungo
i fianchi. Le rivolse un cenno con il capo.
«Buongiorno.»
«Buongiorno», rispose lei, esitante.
«La ringrazio infinitamente per essersi fidata di me», disse. «E devo
scusarmi di non averla avvertita del mio arrivo a Baltimora. La verità è che
fino a ieri sera non sapevo neppure io che oggi sarei stato in città. Ho
pensato che poteva essere il momento opportuno per presentarmi a lei,
spiegarle chi sono e in che modo potrebbe essermi di aiuto... e in che modo
potrei essere io di aiuto a lei.»
«Vorrei solo che William... Bill... mi avesse detto di avere un cugino...
con il quale si scriveva... e al quale confidava segreti tanto personali.»
«Sono in imbarazzo. Ma vede, è necessario che le dica queste cose... per
convincerla che non le voglio fare del male.»
Sorrise, e sentì il trucco che gli copriva il volto e la pelle secca e tirata
screpolarsi al movimento dei muscoli facciali.
«Farmi del male? No, certo che no. È solo che...»
«Mi creda, la capisco perfettamente.»
«Entri, la prego.»
«Grazie.»
Sganciò la catenella di sicurezza alla porta e si scostò di lato.
Mentre varcava la soglia dovette appellarsi a tutta la forza di volontà in
ogni fibra del suo essere per resistere all'impulso di abbracciarla. Voleva
stringerla a sé, sentire di nuovo la vita tra le braccia. Sentire di nuovo
vicino ciò che aveva perso.
Entrò e si fermò nell'ingresso. Era stato sul punto di procedere
automaticamente verso la cucina per prepararsi una tazza di caffè, ma si
fermò, rimanendo obbedientemente in attesa di istruzioni.
«Vuole una tazza di tè o di caffè?» offrì Amy.
«Sì, grazie.»
«Da questa parte.»
Mentre superava lo choc di trovarsi di nuovo in presenza della donna
che amava, Blessing dovette fare una constatazione.
Non era più la stessa.
Mancava una scintilla nel suo essere. Sembrava meno radiosa. Quella
scintilla era stata spenta.
E non c'era da sorprendersi.
Sentì crescere di nuovo la rabbia. Non avrebbe rischiato di perdere pezzi
lì, davanti a lei. La presenza di Amy e la rabbia che gli ardeva in corpo
avrebbero fortificato la fermezza della sua volontà.
Amy gli fece strada verso il tavolo della sala da pranzo.
«Sto preparando del caffè. Una miscela keniota che mi piace molto. La
vuole assaggiare?»
«Caffè e non tè?» domandò lui.
Lo guardò, incuriosita. «Sì, perché?»
«Oh, mi perdoni. È che William mi ha raccontato della sua passione per
i tè esotici. È strano trovarla che beve quello che era stato il suo caffè
preferito.»
«Quando bevo caffè... mi sento più vicina a lui», spiegò. «E poi aiuta a
tenermi sveglia. Ultimamente sto dormendo davvero troppo.»
«Pare che dormire molto aiuti a superare i momenti difficili e a
rimarginare le ferite», disse. «In ogni caso, una bella tazza di caffè va
benissimo. Grazie.»
Amy andò in cucina. Mentre aspettava che tornasse, seduto nella sua
sala da pranzo, gli vennero le lacrime agli occhi. Non aveva mai veramente
amato quella stanza. Aveva sempre pensato che avesse un aspetto troppo...
troppo... americano. Preferiva di gran lunga le sale da pranzo in stile
europeo. Eppure ora non c'era altro luogo al mondo dove avrebbe
desiderato trovarsi.
Blessing trattenne le lacrime.
Amy tornò reggendo un vassoio, lo posò sul tavolo e si voltò a
guardarlo.
«Perché non si toglie gli occhiali?»
«Ah... questi?» disse toccandosi gli occhiali da sole. «Sa, ho gli occhi...
molto sensibili alla luce.»
«Come Vincent Price nella Tomba di Ligeia», rispose lei quasi senza
pensare.
«Ah, ehm, sì. Certo, uno dei classici film di Roger Corman tratti da
Poe», puntualizzò Blessing.
Amy prese a versare il caffè. «Secondo Bill, uno dei migliori.»
«Già. Sceneggiatura scritta da Robert Towne e non da Richard
Matheson, l'autore più comunemente associato al ciclo di film di Corman
ispirati a Poe. Devo confessare che la versione resa da Charles Beaumont
del Palazzo stregato è da sempre una delle mie preferite.» Blessing, senza
accorgersene, rise. «Ma molto probabilmente questo è dovuto al fatto che
il film, in realtà, era tratto da un vecchio racconto di H.P. Lovecraft.»
«Ma a lei piace Poe, non è vero?»
«Come le ho detto prima, fui io a introdurre William a...»
«Il film che ci divertiva di più guardare assieme era forse Il corvo nella
versione di Corman... benché anche in questo caso il riferimento a Poe è
piuttosto limitato», disse Amy. «Ma credo che Peter Lorre sia stato
fantastico nel ruolo del corvo.»
«Sì, è vero. Devo ammettere, però, che gli uccelli parlanti mi hanno un
po' stufato ultimamente», confessò Blessing.
Versò un goccio di latte nella sua tazza.
«Prende il caffè con il latte. Proprio come Bill.»
«A quanto pare è un vizio di famiglia.»
«In effetti c'è una forte somiglianza.»
«Sì. Ce l'hanno fatto notare più volte quando uscivamo insieme.»
Blessing beve un sorso. Sentiva il calore del liquido, ma non poteva
gustarne il sapore. La sua rabbia crebbe.
«Lei ha detto che vuole parlarmi.»
«Sì. Io vivo a Vancouver, nella Columbia Britannica. Quando ho saputo
della morte di William i funerali si erano già svolti... mi dispiace
terribilmente di non esserci stato.»
«In realtà anch'io era piuttosto assente durante la cerimonia», disse lei.
«Forse avrei potuto darle un po' di conforto. La morte violenta e
improvvisa di William ha lasciato molte cose non dette. Non so come
andassero le cose tra voi in quel periodo... ma so solo che ogni volta che
mi ha scritto nel corso degli ultimi anni William non sembrava in grado di
parlare di altro che di lei... e dei suoi sentimenti per lei. L'amava mol-
tissimo.»
«Non c'è bisogno che lei me lo rammenti. Lo so. Non ho mai dubitato
del suo amore...» Sospirò. «Anch'io lo amavo. E lo amo ancora.»
«L'amore trascende la morte.»
«Sì. Ora lo so.»
Ci fu una pausa di silenzio.
«William aveva sempre sperato di poter condividere tutto con lei»,
riprese alla fine Blessing. «Ma mi confidò che c'erano molte cose nella sua
vita di cui non aveva mai parlato con lei. Nulla di terribilmente eccitante...
Solo dettagli, mi capisce? Io credo di essere qui per colmare le piccole
lacune. Sono qui per raccontarle di alcune cose, cose piccole, certo, ma
forse importanti, a proposito di suo marito.» Sospirò. «Mi rendo conto che
se tutto questo è troppo doloroso...»
Si sforzò di alzare lo sguardo.
Amy Blessing lo stava fissando.
C'era una luce nei suoi occhi. Una luce che prima non c'era stata.
«Sì. Sì... mi piacerebbe», disse. «Continui, la prego.»
Blessing bevve un sorso di caffè. Raccontò alla moglie cose di sé che
non le aveva mai confidato, che era stato troppo impegnato per dirle. La
loro vita insieme in qualche modo era stata lasciata incompleta,
assolutamente senza alcuna reale necessità. Lui l'aveva amata molto, ma
non era mai stato bravo a confidarsi; ora era deciso a lasciarle una parte
più grande di sé.
Le raccontò di alcuni fallimenti, di come i suoi primi racconti erano stati
rifiutati da vari editori. Di un brutto anno all'università, prima di avere la
certezza di voler dedicare la propria vita alla missione letteraria che sentiva
di dover portare a termine. Le raccontò delle difficoltà di rapporti che
aveva avuto con alcune persone, delle cose sciocche e stupide che aveva
fatto. Le aveva raccontato tutte le cose belle nel corso del loro breve,
troppo breve, matrimonio. Ma da vivo non aveva rivelato tutti i suoi difetti
e le sue debolezze; ora riteneva di non essere stato giusto nei suoi
confronti. Amy doveva ricordarlo per quello che era realmente stato.
Finalmente, un'ora più tardi, rendendosi conto che aveva ancora molto
da dire, ma che questo gli era impedito da una grande stanchezza d'animo,
si interruppe.
«Mi dispiace. È tutto quello che riesco a ricordare in questo momento»,
disse. «Ci sono certamente altre cose che William mi ha raccontato... ma
forse potrò parlargliene in un'altra occasione.»
La guardò di nuovo, temendo di vedere sul suo volto un'espressione di
disappunto. Disappunto per l'uomo pieno di difetti che aveva sposato.
Forse anche un po' sollevata di essere stata liberata dal peso di dover
trascorrere con lui un'intera vita.
Invece, sembrava felice, nonostante il velo di lacrime negli occhi.
«Grazie. Questo è davvero... molto importante per me», disse. «Ora, in
qualche modo, sento... di conoscere Bill ancora meglio.»
Lui annuì. «Bene.»
«Ma lei deve rimanere! Può riposare, se desidera... ci sono diverse
camere degli ospiti al piano di sopra.»
«No. Ho preso una stanza in un albergo qui a Baltimora.»
«La prego! Lasci la camera e venga a stare qui con me!»
«Temo di non poterlo fare. E la prego di non chiedermi per quale
motivo.»
«D'accordo. Come preferisce.»
«Ora devo andare. La chiamerò. Così le dirò quando potrò tornare.»
«Non vedo l'ora.»
«Un'ultima cosa. Durante la mia permanenza in città vorrei contattare
alcune persone. Per questioni personali. Legate alla letteratura. Mi riferisco
a persone coinvolte in un'operazione commerciale che se non sbaglio si
chiama Tome Press.»
«Ah, certo! La Tome Press. Naturalmente. Il mio amico e socio Donald
Marquette lavora a stretto contatto con loro. Lui potrà certamente
aiutarla.»
«Il problema è che devo muovermi con molta cautela. Non posso
spiegarle perché in questo momento. Ma lei deve fidarsi di me. È per
questo che sono stato così felice di poter parlare con lei come abbiamo
fatto oggi, Amy. La prego di portare pazienza. Preferirei ottenere alcune
informazioni direttamente da lei e non coinvolgere altre persone.»
Apparve confusa, ma annuì. «Va bene. Se è questo il prezzo che devo
pagare per ascoltare altri meravigliosi racconti a proposito di William, che
sia.»
«È in grado di dirmi come posso contattare queste persone?»
«Sì. Ho dei biglietti da visita che mi hanno lasciato. È stato proprio di
recente, durante una cena.»
«Se potesse prestarmeli...»
«Ma certo. Io non saprei che farne. Le occorrono ora?»
«Sì. Purtroppo devo andare.»
«Molto bene.»
Andò nel suo ufficio e ne tornò con una serie di biglietti da visita, tutti
decorati con simboli dell'occulto in rilievo.
Lui li prese e si alzò per andarsene. Era faticoso e doloroso, ma si
sentiva andare in pezzi. Doveva allontanarsi prima che le lacerazioni della
decomposizione si facessero troppo profonde.
«La ringrazio infinitamente...»
«Sono io che ringrazio lei», rispose Amy, e prima che avesse il tempo di
dire o fare altro lo abbracciò. La carne calda e morbida della moglie contro
la sua ebbe l'effetto di una scarica elettrica. Il suo profumo, il profumo di
talco misto all'odore di femmina, lo scosse come nessuna esperienza
spirituale o fisica avesse mai fatto prima. Era soffice e tenera, sentiva i
riccioli dei capelli sfiorargli la guancia e la vita che era in lei pulsava come
una febbrile dinamo di possibilità, di meraviglie, di luce sconfinata in un
universo oscuro e nichilista.
Per un attimo temette che si sarebbe letteralmente dissolto in una pozza
di lacrime.
Riuscì a farsi forza e a rimanere imperturbabile.
«Sono così contenta che sia venuto», gli disse. «Mi prometta che
tornerà.»
«Glielo prometto.»
Si staccò delicatamente da Amy e si congedò, sentendo il commiato di
Amy riecheggiare nella sua mente come le ultime note di una splendida
sinfonia.
Si ritrovò a camminare senza meta precisa lungo la strada, stringendo tra
le dita i biglietti da visita che lei gli aveva dato. Provava un senso di
vertigine. Era forse la luce del sole? Non lo sapeva. Si sentiva come un
cittadino della notte, dissotterrato e restituito alla luce... eppure la luce non
bruciava e non lo corrodeva, come invece accadeva a Christopher Lee nei
classici film della Hammer su Dracula. Stranamente, aveva la sensazione
contraria, come se la luce del sole accrescesse il suo potere e la sua
comprensione delle cose. Innegabilmente, ora era una creatura della notte.
Ma questo non implicava l'odio per il giorno.
Alla fine si ritrovò nel campus della Johns Hopkins University.
Si sedette su una panchina all'ombra di un albero.
Guardò distrattamente gli studenti che passavano. Riconobbe alcuni
ragazzi e ragazze. Suoi studenti. Dio, quant'erano giovani e freschi e pieni
di energia. Ora si pentiva di quanto era stato duro con alcuni di loro, e
quanto poco si era sforzato di conoscerli. Forse, se avesse cercato di com-
prenderli, loro avrebbero capito meglio lui. Avrebbe potuto trincerarsi nella
vita dell'ateneo, quella sacra e prestigiosa istituzione. E scrivere celandosi
dietro uno pseudonimo. Avrebbe potuto evitare l'assurdità della morte e
della resurrezione.
Avrebbe dovuto mettere su famiglia. Una famiglia normale.
Un giovane con un libro di Dean Koontz in edizione tascabile in una
mano e una bibita nell'altra si sistemò contro il tronco di un albero.
Cominciò a sfogliare attentamente il libro, cercando la pagina a cui era
arrivato, poi si immerse nella lettura.
Lentamente, mentre osservava il ragazzo, in Blessing si fece strada una
consapevolezza: somigliava in qualche modo a Amy, con i suoi capelli
ricci, le sopracciglia scure e la forma del mento.
E per altri versi somigliava a William Blessing.
Quello studente avrebbe potuto essere loro figlio.
Stringendo i biglietti da visita nella mano, Blessing dovette alzarsi dalla
panchina e allontanarsi, pronto a battere zone più desolate e malfamate
della città, ricordando quali erano state le intenzioni sue e di Amy quella
sera, prima che su di loro si abbattessero violenza e atrocità.
Pagheranno! si disse.
Il riscatto passerà attraverso la vendetta.
23
Le grida smorzate erano musica per le sue orecchie. Più tenebrosa della
musica dark e più dura della musica hardcore.
Nel vicolo, Blessing si appoggiò al muro di mattoni e ascoltò,
ricomponendosi, riacquistando energie. E facevano due: il Conte e il
Marchese. Ne mancavano quattro.
Una forma nera comparve dal cielo e si posò sulla sua spalla.
«Corvo...» disse all'uccello. «Corvo... ora posso fare cose... ci sono
forze... io mi tendo verso di loro... e posso controllarle...»
Un ultimo, straziante urlo e poi dal fondo del baratro giunse solo
silenzio, accompagnato da un alito di foschia, simile a spiriti in fuga.
«Certo. Come ti avevo detto: tutto sta nella forza di volontà. È quella
che tiene assieme le parti del tuo corpo», spiegò il corvo. «Forza di volontà
allo stato puro. Il tuo amore sopravvive. E la tua rabbia...» Il corvo inclinò
il becco e guardò in direzione dello scavo. «Mmm. Chissà se hanno
lasciato qualcosa. Mi farei volentieri uno spuntino.»
«Ho ancora... forza di volontà sufficiente... per affrontarne un altro
stanotte?» domandò Blessing.
«Come sarebbe? Spero proprio di sì. Sei in pista. Io direi di continuare.»
«Non lo so... Io non...» Blessing si guardò le mani. «Ora sono un
assassino.»
«Direi piuttosto uno speciale messaggero intento a svolgere il lavoro
dell'Universo; tutto qua», replicò il corvo. «Stai solo facendo quello che
devi dare, sfruttando un'opportunità che alla maggior parte delle persone
non si presenta mai. Per cui non farti prendere dal dubbio, amico, o ti si
staccherà di nuovo il naso. E forse anche le orecchie. Vuoi rivedere Amy,
non è così?»
Blessing rimase in silenzio per alcuni, lunghi attimi.
«Io posso fare cose...» affermò finalmente, «che nessun essere umano
dovrebbe avere il potere di fare. Mi sto forse dannando per via della mia
rabbia?»
«Pensa a quello che ti hanno sottratto. Non solo Amy, non solo la tua
vita... ma anche il tuo legittimo posto nella storia. E ora vorrebbero
rovinare il tuo nome associandolo a spazzatura», disse il corvo. «Hai
ancora un grosso conto da saldare, William Blessing. Ma sei anche al
servizio di forze che, senza di te, potrebbero fare giustizia in modi che
troveresti meno soddisfacenti.»
«Io... Io...»
«Ammazzali, quei bastardi», esortò il corvo. «E lascia le loro anime alla
mercé dell'oscurità che venerano.» Il corvo volò via nella notte.
William Blessing annuì e s'incamminò di nuovo nella foschia che
avvolgeva il porto, in cerca di un bar.
24
«I casi sono due!» avvertì Baxter Brittle alzando lo sguardo, dalla sua
consueta postazione dietro il bancone. «O sparisce questa carta da parati, o
me ne vado io.»
Gli avanzi di un cattivo pasto cinese da asporto, a base di gamberetti
kung-pao, moo goo gai pan e untissimi involtini giacevano sul tavolo
davanti a lui. Sollevò una bottiglia di Newcastle Brown Ale e versò le
ultime gocce di birra schiumosa in un boccale di vetro di stile tradizionale.
Ogni cosa puzzava di olio di sesamo, continuava a ruttare rischiando di
rigurgitare luppolo e malto, e cominciava ad avvertire una certa nausea.
Aveva in mano un favoloso romanzo horror di un giovane autore di grande
talento che gli aveva chiesto di pubblicare un'edizione speciale del libro
qualche mese in anticipo rispetto alla distribuzione della versione
commerciale da parte del suo editore ufficiale. Baxter era deciso a crescere
rapidamente come editore in modo da poter pubblicare autonomamente
romanzi originali di autori sconosciuti, senza doversi limitare alle raccolte
di racconti e alle edizioni speciali, le briciole lasciategli dalle grandi case
di New York. Merda, pensò Baxter; non occorreva altro che denaro, una
materia prima la cui disponibilità era recentemente andata crescendo negli
uffici della Tome Press.
Eh, sì, la vita era bella.
Ma quella carta da parati non gli andava proprio giù. Giallognola e
decorata con gigli. Decise di farla rimuovere, e magari riportare alla luce il
legno originale che rivestiva le pareti (adeguatamente trattato,
naturalmente) per far risaltare le carabattole, gli oggetti da collezione e le
fotografie in cornice.
Il bar era tutf altro che affollato. Il barista di turno quella sera,
impegnato ad asciugare alcuni bicchieri, rise. «Conosce tutte le massime di
Oscar Wilde, signor Brittle?»
«Sì, e ne ho in repertorio anche alcune mie. Ma solo gli stupidi contano
esclusivamente su materiale originale. Noi persone intelligenti, invece,
sappiamo quanto torni utile il plagio.»
«Penso che sia il complimento più grande», commentò il giovane, che
sfoggiava un paio di baffi.
«A mio avviso ne fu colpevole anche lo stimatissimo Edgar Allan Poe,
oltretutto sempre pronto ad accusare gli altri», disse Brittle. Abbassò gli
occhi sui nauseanti resti di cibo. Si rese conto all'improvviso di aver
bisogno di qualcosa di più forte della birra scura inglese che stava
bevendo, e che aveva bisogno di consumarlo altrove. «Joe, ragazzo mio»,
disse alzandosi. «Saresti così gentile da togliere di mezzo questa roba? Ce
n'è abbastanza per risolvere il pranzo di domani, se vuoi. E non andare in
giro a dire che il padrone del Cork'd Sailor non è generoso con te.»
Il barista fece un profondo, ironico inchino. «Oh, padrone, grazie per gli
avanzi.»
Baxter Brittle si alzò, si lisciò il lungo cappotto e raccolse il manoscritto
macchiato di salsa di soia.
«Ah, Joe, un'altra cosa. Aspetto visite. Sul tardi potrebbe passare un
uomo con un lungo cappotto nero. Si chiama Mick. Lascialo scendere
nello scantinato. Ti avverto perché temo di potermi lasciare distrarre da
questo accattivante romanzo... e da altre cose, e potrei non sentirlo
bussare.»
«Ci può contare, signor Brittle.» Joe si spostò all'estremità opposta del
bancone, dove un gruppo di studenti sembrava in procinto di ordinare un
altro giro di birre.
Baxter Brittle si avviò verso la porta della sua tana privata. Ah, il
conforto del proprio angolo di paradiso, si compiacque mentre scendeva e
inspirava le familiari essenze di legno di sandalo e olio di hashish, di
candele e acqua di rose. Il suo rifugio somigliava sempre di più a un
dipinto di Maxfield Parrish, concluse Baxter accendendo le luci. Tutto un
fiorire di colonne romane, tendaggi di raso e tendine traforate, variopinti
tappeti persiani e anfore greche con piume di pavone. Dove una volta
c'erano stati orribili ed economici divani arancioni e marroni, ora
troneggiavano divini canapè e divanetti, ornati da un'infinità di cuscini di
seta.
Ahimè, se quello specialissimo scantinato aveva un tempo ospitato
innumerevoli feste riservate ai Goths e ai loro amici in un periodo di più
intensa socialità, ora, dato il gran ritmo al quale procedevano gli affari,
l'attività stessa che aveva reso possibile le migliorie al locale ne
determinava un uso molto meno frequente. Baxter Brittle era
semplicemente troppo impegnato a curare il suo crescente impero Tome
Press. Sempre più spesso doveva rinunciare alla sua postazione dietro il
bancone del bar per rimanere nei nuovi uffici affittati dalla Tome Press
qualche isolato più in là nella stessa via per ospitare i nuovi dipendenti.
Ormai Baxter utilizzava quel luogo meraviglioso soprattutto come un
rifugio, un luogo dove rilassarsi e dedicarsi ai suoi particolari vizi.
Inserì l'ultima compilation dub della Planet Dog nel nuovo stereo con
sistema audio surround. Il locale venne invaso da un ritmo pulsante come
il battito di un cuore.
Baxter muoveva la testa a tempo con il basso. «E ora un bel cocktail.»
Si inumidì le labbra e si avvicinò all'altare.
L'altare aveva prosperato e si era ingrandito di pari passo con il successo
della Tome Press. Non sfoggiava più solo qualche scarno simbolo magico,
un pentacolo qui e la testa di un caprone là. Ora era un autentico pantheon
di divinità, santi e demoni, da Hitler a Shiva, da Lucifero a Jeffrey
Dahmer. Grandi ceri votivi ardevano. Il sapore agrodolce del vino
utilizzato per i riti si levava ancora da una serie di calici caduti. Baxter
accese altre candele, poi inserì un paio di bastoncini di incenso nel grembo
di un buddha grasso e accese anche loro.
«Così ti brucerai le palle, fratello», si rivolse all'imperturbabile buddha.
Scelse da un umidificatore la qualità di incenso che preferiva: un
aromatico sigaro cubano, un El Presedente, nientemeno. Lo accese
avicinando la punta alla fiamma di una candela profumata.
Poi aprì lo stipo sotto l'altare.
Ordinatamente allineate vi trovò una serie di bottiglie di assenzio con
etichette scritte a mano.
Ne scelse una, poi si portò accanto al lavello della nuova cucina-bar.
Versò il liquido in un calice, lo annusò... Ah!... poi lo alzò e brindò
all'altare e, più in generale, a tutto il suo dominio.
«Temo di avere un solo modo per fronteggiare le tentazioni», annunciò.
«Cedere a esse!»
La batteria digitale in uscita dalle casse dello stereo approvò con un
rullo. La bevanda a elevato contenuto alcolico non impiegò molto a
esercitare i suoi effetti sul suo organismo, regalandogli quella incredibile,
illecita sensazione di calore e di radiosità, a un tempo seducente e
psichedelica, che era esclusiva prerogativa dell'assenzio. Certo, a lungo
andare avrebbe dovuto rinunciarci, accontentandosi di buon vino e birra.
L'uso protratto di assenzio, oltre a scaldare il cuore, poteva uccidere. Il
fardello del successo l'avrebbe indubbiamente salvato, rifletté Baxter. Chi
aveva più il tempo di ubriacarsi tutto il santo giorno ora che c'erano attività
ben più redditizie da portare avanti? Ma non era ancora giunto il momento
delle rinunce. Per ora poteva ancora godere dello splendore conferito dal
liquore ai colori della sua vita, e della pace che regalava al residuo di
coscienza nella sua psiche.
Prese il manoscritto e il calice e sprofondò in una comoda poltrona
davanti al suo focolare privato, il delizioso altare illuminato dalle candele.
Si sentiva molto meglio, ora. Perfettamente a suo agio. Guardò gli stoppini
delle candele, impegnati a eseguire la loro eterna danza, e si abbandonò
all'ipnotico conforto dei profumi, dell'assenzio e della calma che traeva
dalla consapevolezza che le ricompense del lavoro e dell'ambizione
stessero riversandosi piovendo a fiotti sopra di lui.
Certo, avere denaro era bello, ma ciò che più apprezzava erano le cose
materiali, le comodità e gli scenari futuri che i soldi potevano acquistare.
E c'erano poi cose che non si potevano comprare con il denaro, cose che
ora Baxter Brittle possedeva.
Accanto a lui un altro recente acquisto: una robusta libreria fatta su
misura, di lucido legno di rovere con antine di vetro. Guardò al suo
interno, ammirando i suoi libri di Gurdjieff, comprese alcune prime
edizioni. I suoi libri di Aleister Crowley, i suoi antichi volumi di
conoscenze arcaiche. Ma i pezzi più pregiati e più importanti erano i libri,
le riviste e i documenti che occupavano lo scaffale superiore, interamente
riservato a loro.
Data la sua discreta competenza nel campo, era stato rapido
nell'impossessarsi della parte migliore del bottino in quella fatidica sera in
casa Blessing. Neppure il caro Donald Marquette aveva fatto meglio di lui,
sebbene fosse entrato in possesso di un numero maggiore di volumi. Anche
in condizioni di coscienza alterata, come innegabilmente era stato quella
sera, Baxter era stato in grado di scegliere e selezionare con grande perizia.
E ora ammirava i suoi preziosi cimeli.
Era stato nel suo interesse aiutare Mick e Theodore, e anche il Marchese,
a vendere la loro parte di bottino. Aveva preteso solo una piccola
commissione per aver agevolato i contatti con un manipolo di trafficanti
della costa occidentale, pirati delle fiere del libro (invariabilmente grassi e
maleodoranti) che pagavano in contanti e non facevano mai domande. Lui
stesso avrebbe potuto realizzare un ottimo incasso vendendo i pezzi che
aveva preso, ma al pari di rare opere d'arte, i tesori più preziosi di Blessing
erano ben noti negli ambienti dei collezionisti, e certamente assicurati per
cifre notevoli. Da quel punto di vista era come se i libri fossero radioattivi,
oltremodo pericolosi per essere messi in circolazione. Ma custoditi nella
sua speciale libreria costituivano per Baxter una costante fonte di... be',
non sapeva esattamente cosa, ritrovandosi per una volta a corto di parole.
Ma era indubbiamente una sensazione piacevole.
Adorava ammirare la nuova collezione alla luce delle candele. Meditare
sul suo significato, sull'eredità letteraria di Poe. Crogiolarsi nel
rassicurante calore della storia e del genio.
Sorbì un altro lungo sorso di assenzio e rifletté, divertito, sull'ironia della
sorte.
Poe! Che uomo povero e misero era stato. Eppure aveva inventato forme
letterarie sulle quali avevano costruito autentiche fortune altri autori, che si
erano limitati ad applicare le formule da lui create e a imitare il suo modo
di usare la parola e il linguaggio.
Che cosa aveva letto una volta a proposito del contributo più importante
di Poe alla letteratura? Ah, certo. Non era un'intuizione su cui Baxter aveva
in un primo momento riflettuto a fondo, ma a ragion veduta corrispondeva
al vero.
Il critico aveva sottolineato il fatto che Edgar Poe era stato il primo
autore di fiction a trasferire nella prosa l'intera tavolozza delle tecniche e
delle licenze proprie della poesia. Ritmo, metrica, assonanza, tropi e così
via. Poe aveva utilizzato nei racconti l'intero repertorio a sua disposizione.
Ed era quello il motivo per cui le sue opere conservavano ancora una certa
modernità di stile, nonostante i fronzoli tipici del diciannovesimo secolo.
Perché, in ultima analisi, Poe aveva creato uno stile ancora assolutamente
attuale.
Mentre fissava i volumi nella vetrinetta, Baxter Brittle si domandò
distrattamente se non dovesse rileggere Poe.
Forse l'avrebbe fatto, una volta raggiunta una posizione che gli avrebbe
permesso di delegare una parte maggiore delle sue crescenti responsabilità
alla Tome Press... E forse avrebbe ripreso a scrivere. Già, gli affari
l'avevano coinvolto in modo eccessivo. Stavano creando una vera
industria, grazie al brillante talento editoriale di Donald Marquette e alle
originali idee di Mick Prince nel campo del marketing.
Perché non rivendicare per sé una fetta della torta letteraria?
Autori indubbiamente meno dotati di lui comparivano regolarmente
nelle classifiche dei bestseller, idolatrati da lettori in tutto il mondo...
Idolatrati...
Baxter Brittle si domandò che sapore avesse quel genere di successo.
Squisito, certo. Assolutamente squisito...
All'improvviso una corrente spazzò le fiammelle delle candele,
estinguendole.
Di colpo il locale si riempì di ombre evanescenti.
Baxter si guardò attorno.
Avvertì la corrente. Era fredda e lo fece rabbrividire.
Una presenza.
«C'è qualcuno?»
Tentò di alzarsi, ma aveva bevuto più assenzio di quanto fosse stato nelle
sue intenzioni e si ritrovò troppo ubriaco per spostarsi dalla poltrona, a
meno di non concentrarsi intensamente sull'impresa.
Ricadde all'indietro, scrutando con occhi annebbiati l'oscurità in cui era
piombato lo scantinato.
Una figura emerse dalle tenebre.
«Ciao, Baxter. Stai ammirando gli ultimi arrivi nella tua collezione,
vedo.»
Baxter socchiuse gli occhi. «Mick? Mick, sei tu?»
L'aveva chiamato quella sera chiedendogli di incontrarlo. Sì, doveva
essere Mick, impegnato in uno dei suoi macabri scherzi.
Che mascalzone.
«Vieni a bere qualcosa, Mick», invitò Baxter. «So che non ti aggrada
particolarmente l'assenzio, ma sono sicuro che troveremo qualcosa di più
affine ai tuoi gusti.»
La figura fece un passo in avanti. Indossava un cappotto scuro, ma per
nulla sfarzoso o particolare come quello di Mick Prince. L'uomo era
preceduto da uno strano odore. Una volta, durante una delle loro
scorribande alcoliche, la gang aveva visitato un macello. Pelli conciate,
carcasse in putrefazione, ossa e colla animale. Avevano ripreso con la
macchina fotografica alcune delle immagini post mortem più interessanti,
bizzarre sovrapposizioni di luce, ombre e distorte posizioni di morte. Ma il
ricordo più vivo che Baxter ancora serbava era il puzzo del luogo, uno
strano, ultraterreno ma immediato messaggio dai morti ai vivi; fatto di
istinto e promessa, come se ammonisse: «Noi ora siamo la carne oltre la
carne. Il riverbero del sangue. La risonanza di ciò che è stato. Prendetevi il
vostro tempo. Ma presto vi unirete a noi».
Ora, stranamente, nonostante l'incenso e il sapore dell'assenzio, Baxter
percepì un alito di quell'odore.
«No, Baxter. Non sono Mick. E non prendo niente da bere, grazie.»
La figura si fermò. Incrociò le braccia sul petto. «Sono una persona che
una volta hai chiesto di incontrare. Forse avrei dovuto prestare maggiore
attenzione all'epoca, prendere carta e penna e risponderti. Forse le cose
sarebbero andate diversamente. O forse no.»
La nebbia nella mente di Baxter gli impedì di elaborare rapidamente i
pensieri. «Come hai fatto a entrare qui?» domandò, rendendosi conto che il
visitatore era uno sconosciuto.
«Adesso ho dei mezzi... abilità... cose che sono in grado di fare...
Adesso. Che parola di natura qualitativa, non trovi? Il mio adesso non
durerà molto. A dire il vero, in termini molto concreti, il mio adesso è una
proiezione del passato, la persistenza di un'ombra.»
Baxter era confuso, ma il lieve puzzo di decomposizione che aveva
sentito nell'aria l'aveva messo in guardia, innescando una paura
automatica. La paura gli schiarì la testa abbastanza da permettergli di
alzarsi in piedi, il calice di assenzio ancora stretto nella mano.
«Chi sei?»
Mentre formulava la domanda posò il calice e fece mezzo passo indietro.
«Qualcuno che non avresti mai immaginato di incontrare di nuovo,
Baxter Brittle. Sono qui per due ragioni.»
Baxter indietreggiò cautamente verso una cassettiera. Aprì uno dei
cassetti, infilandoci lentamente e furtivamente una mano, tenendola
nascosta dietro la schiena. Era sempre stato paranoico a proposito di
eventuali intrusi nel suo sancta sanctorum e aveva preso precauzioni. A
quanto pareva, era stata una mossa saggia. Avvertiva un pericolo immedia-
to e serio. Tuttavia, e per fortuna, era troppo ubriaco per cedere al panico.
Prendila, si esortò, solo lievemente più lucido. Afferrala e tutto andrà
bene. Prendila e tutto si risolverà nel migliore dei modi.
L'uomo parlava. Parlare richiedeva tempo, una buona cosa date le
circostanze. Baxter sapeva che nel caso fosse stato costretto a denunciare
l'episodio, il fatto che ci fosse scappato il morto non avrebbe rappresentato
un particolare problema. Dopotutto, si trattava di un caso di legittima di-
fesa, no?
«Non so di che cosa stai parlando. Ma del resto, non so neppure chi sei,
no?» domandò Baxter.
La figura fece un altro passo avanti.
Il suo volto venne illuminato da una convergenza di luce alogena con
quella gettata dalle candele.
Era pallido e ceruleo. Presentava molte lesioni e appariva leggermente
rattrappito, ma conservava una certa eleganza. Gli occhi erano nascosti da
occhiali scuri, che l'uomo a un certo punto si tolse.
Gli occhi erano tenebrosi ma familiari.
Quando si formò in lui la coscienza dell'identità dell'intruso, Baxter subì
un tale choc che per un attimo la sua mano interruppe la ricerca della
pistola. La sua mente si ribellò all'immagine trasmessa dagli occhi.
«Blessing?»
«Esatto, Baxter.»
Baxter Brittle scoppiò in una risata. «Ma queste sono cose che
succedono solo in racconti dell'orrore particolarmente odiosi e banali!»
esclamò. «Mi rifiuto di crederci.»
«Anch'io la pensavo così, Baxter. Ma, tutto sommato, potrebbe anche
darsi che io e te siamo semplicemente personaggi odiosi e banali, non
credi? Intrappolati in un pessimo romanzo d'appendice da quattro soldi,
costretti a recitare una parte nella tediosa opera di un autore ancora più
disperato di quanto lo siamo noi!»
Baxter non riuscì a trattenere una nuova risata. «No, è solo
un'allucinazione.» Scosse la testa.
«Un pezzo di cartilagine che non sei riuscito a digerire? No, Baxter
Brittle, io non sono un Jacob Marley venuto a invocare una spettrale
redenzione. E conosco Ebenezer Scrooge. E tu, ragazzo, non hai nulla in
comune con Ebenezer Scrooge.» L'Uomo delle tenebre scosse la testa,
colmo di tristezza. «Qui non c'entra la redenzione, Baxter. Io sono qui per
un solo motivo... per vendicarmi!»
La telefonata di Donald Marquette.
... la tomba...
... profanata...
E ora, ecco davanti a lui un uomo in abito scuro che presentava una
preoccupante somiglianzà con William Blessing.
Baxter Brittle era sempre stato ateo. Aveva sempre ritenuto le sue
esplorazioni nel mondo dell'occulto un esercizio di automanipolazione
psicologica. Un divertimento, un metodo per il controllo ipnotico della
propria persona e degli altri. Era sempre stato convinto che tutti i poteri
risiedevano all'interno della persona, e che le cerimonie e i riti non erano
che mezzi per liberarli. Tutto il resto era un gioco, una moda. Un
particolare gusto per l'arredamento degli interni.
Se non altro, l'occulto aveva sempre offerto una buona scusa per il
consumo di alcol e di droga.
Ma ora, pensò, aveva davanti a sé la prova che si era sbagliato.
La sua mente si piegò.
Ma non si spezzò.
«Mamma mia», disse. «E così sei tornato dalla tomba per vendicarti. Ma
perché ce l'hai con me, caro dottore?»
Infilò la mano più in profondità nel cassetto.
«Tu hai contribuito a portarmi via mia moglie; mia moglie... e tutto il
resto della mia vita», spiegò perentoriamente l'uomo. «Ora vuoi
appropriarti del mio nome e della mia reputazione. E inoltre ti sei
impossessato di cose che appartengono a me, e che ora rivoglio.»
«E quali sarebbero queste cose, caro il mio signor Cadavere?»
«Gli oggetti che hai rubato nella mia biblioteca.»
«E che vuoi fare? Portarteli nella tomba?» Baxter rise. «Non c'è luce per
leggere laggiù.»
«Mi faresti un favore, Baxter?»
«Un favore? Ma certamente.»
«Dimmi dove posso trovare l'uomo il cui nome è Mick Prince.»
«Va bene.» Baxter gli diede l'indirizzo della casa di Mick. «Ci troverai
anche Theodore Melvins. Sono loro quelli che cerchi, Blessing. Non io. È
stato Mick a spararti. E Theodore ha violentato tua moglie. Per quanto mi
riguarda... io volevo solo diventare tuo amico! Era solo uno stratagemma
per conoscerti. Solo questo.»
«Ma sei stato tu a ideare il piano.»
«Il piano era mio, certo. Ma è andato tutto storto. Ti assicuro che le mie
intenzioni erano buone. Ero assolutamente in buona fede.»
L'Uomo delle tenebre, che rispondeva al nome di Blessing, rimase
immobile.
Le dita di Baxter trovarono la pistola. La sua mano si strinse attorno al
calcio, e l'indice si posò sul grilletto.
Ma decise di attendere, curioso di vedere che cosa quel... quel...
quell'essere intendeva fare.
«Le intenzioni sono il marciapiede, Baxter Brittle», disse William
Blessing. «Tu sei già in mezzo alla strada. È mio dovere darti una piccola
spinta.»
Merda, imprecò mentalmente Baxter Brittle.
Puntò la pistola e fece fuoco.
I due uomini si trovavano a poco più di cinquanta centimetri l'uno
dall'altro. Non fu difficile prendere la mira. Tre pallottole colpirono in
rapida successione l'Uomo delle tenebre. Baxter vide staccarsi dall'uomo
pezzi di carne e brandelli di vestiti. Ma William Blessing non cadde a
terra.
Si limitò invece a fare un passo avanti, ad afferrare la pistola e a
strapparla dalle mani del suo aggressore.
«Mi dispiace, Baxter. Ti sei appena reso la vita molto più difficile.»
Baxter, ansimante, si girò, tentando di divincolarsi.
L'Uomo sferrò un colpo con la mano libera e fece piombare Baxter
nell'oscurità.
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Quando fu tutto finito, l'orango si ritrasse dai resti di quello che una
volta era stato un uomo, gettò via il suo affilato strumento di lavoro e tornò
a immergersi nelle tenebre.
Le ombre mutarono.
La figura che riemerse dal buio non era più un primate, bensì un rapace.
Un corvo. «C'è parecchia materia prima a cui attingere laggiù, sei hai
bisogno di un ritocco di chinirgia plastica», reclamizzò il volatile.
«Vedo», rispose Blessing.
«Se fossi in te ne approfitterei. Il tuo aspetto non è a posto.»
«Non mi sento a posto neppure dentro.»
«Ancora uno, poi avremo finito e potrai riposare.»
Blessing annuì.
Sì. Il Riposo. Aveva ancora una sola dose di giustizia da somministrare.
E aveva detto a Amy tutto quello che c'era da dire.
Occasionalmente, nel corso della loro vita assieme, aveva scritto poesie
per lei. Alcune gliele aveva regalate. Altre, invece, le aveva tenute per sé,
raccogliendole in un unico volume data la loro coerenza tematica. Al
momento della sua uccisione lei non sospettava nemmeno l'esistenza di
quel volumetto, né aveva letto alcuna delle poesie in esso contenute.
L'aveva nascosto dietro l'opera completa di Shakespeare e alcuni libri di
Keats e Shelley.
Era quella la rivelazione che aveva fatto a Amy nei panni del proprio
cugino.
«Su, coraggio», esortò il corvo. Si posò sui resti del cadavere, sorseggiò
un goccio di sangue e beccò qualche brandello di carne. «Chi può dire che
non incontrerai più Amy? Ti conviene comunque assumere il tuo aspetto
migliore. Avanti, serviti! Ti ridarà un po' di colore alle guance!»
Il corvo riportò la sua attenzione sul pasto sacramentale.
Al margine della pozza di sangue, William Blessing si inginocchiò.
Ma il suo gesto non preludeva ad alcuna forma di preghiera.
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Mentre Blessing passava davanti alla porta del suo vecchio ufficio,
diretto al cimitero e al riposo eterno, il corvo si posò sulla sua spalla
sinistra. Poi squillò il telefono.
Senza essere in grado di spiegare perché, William Blessing si fermò e
ascoltò.
«Risponde la Blessing Enterprises!» annunciò la voce allegra di Donald
Marquette dalla segreteria telefonica. «In questo momento non possiamo
rispondere alla vostra chiamata, ma lasciate un messaggio dopo il segnale
acustico.»
Bip.
«Donald!» chiamò «na voce. «Sono Roscoe Mithers! Sì, so che è tardi,
ma la riunione si è protratta e poi sono andato a cena con l'editore. Questo
è il giorno più eccitante della mia vita. Erano tutti entusiasti delle tue idee!
Le hanno accolte dalla prima all'ultima! E hanno accettato anche alcune
delle mie! C'erano tutti i direttori di divisione, e il caso ha voluto che fosse
presente anche il direttore generale del settore media della sede sulla costa
occidentale, che si trovava a New York per affari. C'è molto, moltissimo,
interesse a sfruttare appieno il nome e l'eredità di William Blessing. E non
stiamo solo parlando di libri, ma anche di film, di televisione, di video, di
merchandising, di concessioni... I diritti per la produzione delle statuette
ammonteranno da soli a una cifra da capogiro! La tua idea di associare il
tuo nome a quello di Blessing per la pubblicazione di libri scritti a quattro
mani ha mandato tutti in visibilio. E vogliono che sia io il responsabile per
l'intera operazione!
«Ma la cosa migliore è stata l'approvazione immediata che ho avuto
dall'editore durante la cena per una mia idea: una serie di libri William
Blessing come parte della collana Tramonto oscuro, ma scritti da te.
Unione delle forze, Donald! Sinergia! Una brillante strategia di marketing,
non credi? Le possibilità sono infinite. Per cui ti prego di richiamarmi. Ho
urgente bisogno di parlarti. Chiamami appena puoi domani mattino, in
ufficio, o anche stasera, a casa. Il numero ce l'hai. Svegliami pure! Non c'è
problema. Gesù, Donald! Non avevo idea di quanto grossa si sarebbe
rivelata tutta questa operazione. Sei un genio. Sono in debito con te! Che il
sole possa sempre splendere...»
Blessing alzò la cornetta.
«Pronto?» disse Mithers. «Sei tu, Donald? Lo sapevo che se avessi
parlato abbastanza a lungo avresti risposto. Hai sentito tutto?»
«Basta così», rispose il morto.
«Ehi, chi parla? Lei non è Donald.»
«Sono l'esecutore dell'eredità letteraria di William Blessing. Donald
Marquette ha dovuto rassegnare le dimissioni.»
«Una decisione improvvisa, non c'è che dire», replicò Mithers, senza
sforzarsi di mascherare i suoi dubbi sulla situazione, il timore che
qualcuno stesse in qualche modo tentando di fargli le scarpe.
«Si è presentata una questione di primaria importanza e Marquette si è
ritrovato nell'impossibilità di svolgere le sue mansioni.»
«Ma avevamo un accordo. Stavamo discutendo dei dettagli», obiettò
Mithers.
«Ha firmato un contratto? Un accordo scritto?»
«Non esattamente, ma un patto è un patto.»
«Già, immagino che lo sia. Anche nel caso di un patto con il diavolo.
Anzi, soprattutto in quel caso.»
All'altro capo del filo ci fu una lunga pausa di silenzio mentre Mithers
cercava di elaborare una risposta. Cominciava ad avere un brutto
presentimento. La strana voce al telefono sembrava impastata di terra
umida. C'era da farsi venire i brividi, pensò l'editor. Riusciva quasi a
immaginare che all'altra estremità del filo potesse esserci davvero uno
zombie, o qualche altra creatura resuscitata dalla morte uscita dal pantheon
di Tramonto oscuro.
«Signor Mithers», continuò l'inquietante voce. «Qualsiasi accordo lei
possa credere di aver stretto con gli esecutori testamentari di Blessing è da
considerarsi nullo. Revocato e rescisso. Mi capisce?»
«Francamente, no, non capisco. Chi è esattamente lei? Dov'è Marquette?
Tutto questo non ha senso.»
«E invece lo ha, signor Mithers. Tutto è perfettamente sensato. E voglio
chiarirglielo.»
Un'onda d'urto di orrore si propagò lungo la linea telefonica,
percorrendo le fibre ottiche e abbattendosi su Mithers tra un respiro e
l'altro. Un fuoco di fila di immagini di morte gli assalì la mente. La sua
mano si strinse con tale forza attorno al telefono che il ricevitore si incrinò.
Non poté fare altro che tremare impotente mentre la Morte, in tutte le sue
forme, ribolliva nel suo cervello, raggelandogli il sangue. Cominciò a
piangere e a perdere bava dagli angoli della bocca, l'anima trafitta da gelidi
e incandescenti fendenti di terrore.
Ora capisci perché è impossibile portare avanti i tuoi progetti?
sembrava domandare la voce da un punto dietro il suo orecchio sinistro.
Sarebbe molto deleterio per la tua salute. Ora dormi.
Come se fosse stato improvvisamente sganciato da una forca, Mithers
cadde a terra privo di sensi ansimando.
A Baltimora il corvo planò sulla scrivania. «Sono impressionato», si
complimentò con Blessing. «Ci stai davvero prendendo la mano nel ruolo
di vendicatore risorto. Peccato che tu non sia stato ucciso per linciaggio da
una folla di malviventi.»
«Credi che abbia recepito il messaggio?» domandò Blessing,
riagganciando il ricevitore.
«Non capirà mai perché», rispose l'uccello, «ma il semplice suono del
tuo nome evocherà nel signor Mithers una personalissima e incontrollabile
forma di terrore. Non passerà molto tempo prima che cominci a prendere
in considerazione la possibilità di cambiare lavoro e campo di attività.»
«Già. Anch'io ho bisogno di cambiare attività, a questo punto», disse
Blessing.
Sostò per un attimo nella sala Poe per attingere sostentamento da ciò che
rimaneva della dimensione terrena di Donald Marquette. La staffa.
Poi William Blessing uscì nella notte, diretto al suo appuntamento con la
tomba.
Epilogo
1849
Avvertì sul suo corpo la pesantezza della nebbia che giungeva dalla baia
mentre giaceva nel vicolo di Fells Point.
Si destò e subito venne scosso da violenti tremori. Il freddo; un freddo
terribile. Lo trapassava senza pietà come la lama di un coltello. L'uomo
tremava in modo spaventoso mentre si alzava e si trascinava sopra i
ciottoli. Batteva i denti.
L'odore del mare e l'odore di marcio erano forti e sembravano ricadere
su di lui come una patina umida. Ondate di caldo e di freddo e di violento
orrore lo lasciavano in preda a un parossismo di brividi e vampate, brividi
e vampate...
Tremante, sbucò dal vicolo e vide la nebbia avviluppare vecchi edifici e
moli, il languido movimento delle acque scure... In alto, sopra una
carrozza trainata da una coppia di cavalli, notò un volatile, enorme e nero,
che si allontanava nella foschia battendo le ali.
Poco distante da lui un uomo che indossava un abito, con gilet e un
cappello a cilindro camminava a braccetto di una donna, in testa una cuffia
e in mano un ombrello guarnito di nappine. Nella strada si mescolavano gli
odori dei cavalli e quello di un mercato.
Mentre zoppicava in direzione della coppia, le ginocchia gli cedettero.
Ansimante e scosso da brividi, cadde in una pozzanghera di fango.
Non riuscì neppure a reggersi in ginocchio, e cadde riverso in avanti.
L'oblio della perdita della conoscenza volteggiò attorno a lui come uno
sciame di irati e alati frammenti di notte.
Come mi chiamo? domandò una voce. Come mi chiamo?
Una seconda voce rispose, ma lui non fu in grado di sentire.
«Signore! Si è fatto male?» domandò l'uomo.
«No, sto bene», rispose, riuscendo in qualche modo a rialzarsi. «Sono
solo... bagnato. E infreddolito per via di queste maledette piogge. Qualcosa
da bere! Ecco di che cosa ho bisogno. Qualcosa da bere per scaldarmi. Mi
potrebbe indicare dove posso prendere un drink, signore?»
«Ma certo. Laggiù c'è il Gunner's Hall. Oggi è giorno di elezioni, e ci
troverà molta gente impegnata a votare», disse l'uomo. «Lì troverà
qualcosa da bere... E anche aiuto, se ne ha bisogno.»
«Sì», borbottò mentre si girava e puntava barcollando in direzione
dell'edificio indicato dall'uomo. «Lontano dai miei nemici.»
Mentre zoppicava lungo la strada la nebbia di Fells Point cominciò a
penetrargli di nuovo nella mente...
«Signor Poe», chiamò una voce. «Beva, signor Poe. Deve bere
quest'acqua.»
Si destò e vide l'immagine offuscata di un uomo vestito di nero, con
folte basette, che gli offriva un bicchiere d'acqua. Venne immediatamente
colto dai dolori, devastato dalla febbre e della sudorazione abbondante.
Vedendo che si era risvegliato, il medico gli premette l'orlo del bicchiere
contro le labbra, lasciandone cadere una goccia sulla sua lingua secca.
Buona parte dell'acqua colò dalla bocca sul pigiama.
Poe, pensò. Io non mi chiamo Poe!
Ma se non si chiamava Poe, pensò, in preda a brividi alternati a fitte di
dolore, qual era il suo nome?
Un altro po' d'acqua nella bocca, poi gli permisero di riadagiarsi sul
guanciale. Sentiva nell'aria odore di liscivia e di malattia: si trovava in
qualche ospedale antiquato.
Mentre si abbandonava al sonno, brandelli di memoria tornarono alla
sua mente... tutti accompagnati da spasmi di dolore e da infinita
malinconia.
Virginia, morta di tubercolosi. Una lunga, tormentosa agonia.
La lunga e terribile battaglia contro l'alcol, quell'angelo di lenimento
contro la tortura di una vita fatta di stenti e di cordoglio...
Alcol, demone della disperazione, che gli procurava emicranie e
bruciori di stomaco, dolori lancinanti e una depressione senza fine...
Le sporadiche isole di liberazione che erano i versi e i racconti, le
recensioni e gli articoli, in un mare di pene e di guai.
Era quella la sua miserabile vita.
Ed era la vita, ora lo sapeva con certezza, di Edgar Allan Poe.
L'uomo si svegliò di soprassalto e scattò a sedere nel letto. «Ma io non
sono Poe!» urlò. «Che cosa ci faccio qui?»
«Io sono il dottor John J. Moran. Lei si trova al Washington Medical
College di Baltimora», lo informò l'uomo. «È stato trovato in stato di
semicoscienza al Gunner's Hall. Lei non sta affatto bene. Ha delirato.»
Tentò di scendere dal letto. Venne immediatamente circondato da
infermieri. Doveva tornare a casa, nell'Iowa... rimettersi al lavoro.
«Devo rimettermi al lavoro!» gridò. «Il lavoro mi aspetta! Devo
diventare uno scrittore di successo! È questo il sogno della mia vita!»
Le figure da cui era attorniato lo trattennero, costringendolo a sdraiarsi
di nuovo nel letto. «Ma lei è uno scrittore, signore. E anche un poeta molto
conosciuto. Ora si calmi! Deve rimanere fermo. Nelle condizioni in cui si
trova non è consigliabile agitarsi in questo modo.»
Le forti mani degli infermieri vennero rapidamente rimpiazzate da
cinghie di cuoio che lo legavano alle colonne del letto e gli impedivano
ogni movimento, a eccezione di quelli più inutili.
Mentre sprofondava di nuovo nell'oblio, sentì il medico sussurrare: «La
mesta e inarrestabile devastazione del demone alcol lo tiene stretto nelle
sue grinfie».
No! pensò lui. La rabbia! Poe è morto di rabbia!
E io non sono Poe!
No, io mi chiamo Donald Marquette!
Ma non riuscì a pronunciare quelle parole. Il torpore dei sensi si allungò
su di lui e lo reclamò. Non riuscì a fare altro che bofonchiare frasi senza
senso.
Gli sembrava di galleggiare in un mare di oscurità e di confusione. Lo
smarrimento e il delirio erano troppo grandi per consentirgli sentimenti di
rammarico, di riflessione o di pentimento per il sangue e il dolore che
sentiva gravare su di sé come un macigno.
Emerse ancora una sola volta dal suo stato confusionale.
«Dio aiuti la mia povera anima!» ansimò, muovendo avanti e indietro la
testa.
Quando udì le parole uscite di bocca, le riconobbe immediatamente.
Erano state le ultime parole di Poe. Spalancò il suo essere e si preparò
all'agognato sollievo del nulla e della morte.
Ma la morte, invece, giunse su nere ali.
Lo portò via, facendolo volteggiare come un marinaio aggrappato a un
relitto dopo un naufragio, in balia del maëlstrom. Giù, sempre più giù,
verso un nucleo profondo e oscuro...
E quel nucleo improvvisamente prese vita.
Sbattendo le palpebre, si trovò a guardare fuori da una finestra. Oltre il
vetro le foreste e gli scarni campi di un gelido autunno inoltrato. Il cielo
era oscurato da pesanti nubi scure. La stanza attorno a lui sapeva di
canfora e di polverosa mestizia. Avvertiva una sensazione di pesantezza
nel petto.
L'uccello nero che aveva richiamato la sua attenzione si librò in aria e si
posò sul tetto di un portico, da dove lo fissò con penetranti occhi marroni
venati di cremisi.
«Un uccello!» si udì esclamare. «Te l'avevo detto! Guarda l'uccello
nero!»
L'immagine riflessa nel vetro era il volto di un bambino.
Vedeva attraverso gli occhi di un bambino!
«Edgar!» chiamò la voce di una donna. «Vieni via da lì. Vieni a sederti
accanto alla tua povera mamma morta!»
«Maledizione», imprecò la voce severa di un uomo. «Ho già capito che
questo ci causerà dei guai.»
Si voltò.
Su un letto, circondata da persone che indossavano abiti del primo
Ottocento, giaceva una donna morta.
Inspiegabilmente, Marquette capì che si trattava della madre di Poe.
Che ora era anche sua madre...
Ricordò il suo sogno... il suo incubo.
Venne colto da un pensiero improvviso: allora doveva essere... il 1811?
O il 1812?
Ma che ci faccio qui?
E mentre la sua mente elaborava la domanda, andava già prendendo
forma la sconvolgente risposta.
Venne avvicinato da una donna. «È un corvo, John. C'è un grande corvo
nero, là fuori!»
«Allora scacciatela, quella maledetta bestiaccia», ordinò l'uomo cattivo e
accigliato. «È un cattivo presagio!»
L'anima di Donald Marquette attraverso gli occhi di Edgar Poe fissò la
creatura che lo aveva trasportato lì.
Intrappolato!
Era intrappolato nel corpo di un bambino condannato a vivere una vita
di inimmaginabili agonie, crisi depressive e indigenza!
Intrappolato in una sorta di infernale e infinito vortice temporale!
Vivere e morire... per rivivere...
In quell'essere maledetto...
L'estrema vendetta...
Per i suoi peccati...
Gli sembrò di sentire il corvo che gli parlava.
«Ora sei uno scrittore famoso in tutto il mondo, Donald», disse con voce
tagliente e inquietante. «Quello che hai sempre desiderato!»
Si appoggiò al vetro gelido e scuro della finestra e riuscì per un attimo a
parlare attraverso quella bocca di bambino, sapendo che non sarebbe mai
più riuscito a farlo, né a influenzare in alcuno modo l'ambiente o il destino
dell'individuo in cui si trovava.
Era condannato solo a soffrire, in eterno.
«Prega per me», implorò Donald Marquette rivolgendosi all'oscuro fato
che l'aveva condannato a sprofondare in quell'inferno, «perché sono
un'anima dannata come mai ne sono esistite.»
«Per quanto tempo?» domandò al corvo, cosciente che quel fugace
momento di piena consapevolezza volgeva al termine. «Quanto a lungo?»
L'uccello lo fissò e per un attimo i suoi occhi divennero occhi umani.
Occhi che avevano conosciuto un cordoglio smisurato.
Per quanto tempo? gridò l'anima tormentata di Donald Marquette.
Quanto a lungo?
E l'uccello aprì il becco per parlare.
Disse il corvo: «Sempre più!»
FINE