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Bellassai  sintesi della storia della nazione italiana dalla fine dell'800 fino al

Berlusconismo. Una panoramica di come gli uomini sono stati uomini nell'Italia
contemporanea, nel Novecento la società italiana è stata una società patriarcale, il potere
nelle mani degli uomini è qualcosa di non casuale e merita di essere studiato. Ambito di
ricerca dell’autore: storia della maschilità. Primo panorama della storia nazionale italiana
dalla fine dell’800 fino ad oggi  Filo rosso della storia è la virilità. Come definire la virilità?
Dal latino vir, uomo. L'idea di "virile" è spesso anche associata all'idea di fertilità, ma
anche convenzione, opposto a qualcosa di immobile, contrapposto a naturale. La virilità è
una declinazione del maschile, invenzione sociale e culturale, modello maschile che si
richiama alla forza, alla potenza sessuale. Virilità è quindi un modo di essere,
un’invenzione sociale e culturale, perché questo modello che si richiama alla forza, alla
fertilità, alla dominazione; è qualcosa che non è naturale, strettamente legato ai corpi, ma
che viene creato come modello dominante in un determinato contesto sociale e culturale.
Bellassai offre una storia degli uomini che, nella loro dimensione pubblica, sono stati
uomini nell’Italia contemporanea. In qualche modo, è anche una storia sessuata del potere
in Italia: almeno nel 900, la società Italiana sia stata una società patriarcale, e che quindi il
fatto che il potere sia nelle mani degli uomini sia non casuale e, essendo qualcosa che ha
degli effetti, merita di essere studiato. lo sforzo è quello di mettere l’uomo allo specchio e
studiarlo nella sua identità di genere. Anche se la categoria di genere viene introdotta nelle
scienze umane nel corso degli anni '80 ragionamento su cosa vuol dire essere uomini o
donne inizia nell'antichità.
Invenzione è fondamentale – mutua questo termine dal saggio di Hobbsbawn
“L’invenzione della tradizione”, per ragionare sul fatto che molti di quei modelli culturali
vengono presentati come di lunghissimo periodo sono spesso recente inventati di sana
pianta. Per raccontare la storia della virilità, Bellassai si inserisce in un contesto storico
recente. Siamo nel filone dei gender studies. Ci dice che ci sono vari modi di studiare la
maschilità:
- approccio culturalista – presupposto che i modi di essere siano condizionati dalla
cultura esterna;
- approccio essenzialista – presupposto che esista una piattaforma di qualità e modi di
essere del maschile che sono più frequenti e prevalgono ai condizionamenti della società.
Bellassai parla di mascolinità in tutto il libro, anche se oggi si usa meno e si utilizza più
maschilità, poiché mascolinità sembra già connotare un determinato modello, che è
appunto sinonimo di virile. In questo libro troveremo moltissimo anche le donne, perché gli
studi di genere ci hanno aiutato a ragionare sulle relazioni, gli scambi, sulla non staticità
dei rapporti di potere, sulla non superficialità della dicotomia dominatori-dominati (è
comunque un rapporto di interdipendenza).
L’attenzione sui mutamenti porta ad evitare l’essenzializzazione della violenza degli
uomini, non viene dalla natura il fatto di essere violenti verso le donne, sono le concezioni
sulla violenza che cambiano; quindi, ciò che ora viene considerato violenza e viene
condannato. Ricordiamo che la violenza degli uomini contro le donne ha una storia così
lunga tanto da sembrare strutturale, tuttavia, non sempre la violenza è stata concepita in
maniera uguale. Non bisogna dare per assodato che l'uomo sia biologicamente tendente
all'aggressività ma il ruolo delle culture è molto importante. Ecco, quindi, che la virilità è
una costruzione sociale poi utilizzata a fini politici. Le istituzioni, infatti, sono state pensate
in una società dove il potere era/è in mano agli uomini. È una società maschile in cui le
donne cercano con il tempo di aver un maggior peso e ruolo attivo. L'altro studio citato da
Bellassai è R.W. Connell, una sociologa australiana tra le prime a proporre una distinzione
tra le diverse tipologia di masculinities. È stata la prima a parlare di maschilità egemone,
una gerarchia di possibilità per gli uomini. Esiste, secondo lei, in ogni società un modello
maschile egemone a cui non solo devono tendere gli uomini con mascolinità dissonanti
(omosessuali) schiacciando le altre maschilità, ma a cui anche le donne devono tendere.
Sottolinea come l'insieme di comportamenti che noi consideriamo "Maschile" ha una sua
pluralità e cambia in base ai contesti. Mascolinità si inizia ad evitare perché inizia a
connotare già un sinonimo di modello, quale virile. Quindi si preferisce maschilità. Il vero
uomo è quello che corrisponde al modello virile, gli altri sono e-femminati. È anche un
ideale politico: determinando un concetto di uomo ideale virile, tutti gli uomini di una
società devono rifarsi a tale modello e chi ha queste caratteristiche può e deve
comandare. Ma perché proprio alla fine dell'800 questo modello diventa dominante? Non
solo in nazionalismo e l'imperialismo, ma c'è anche una presenza femminile che, man
mano, inizia la sua affermazione, quindi, destabilizza la società fino ad allora strutturata.
Abbiamo dei fenomeni di trasformazione economica, cambiano le città, c'è
l'urbanizzazione... una modernizzazione che attraversa tutti gli aspetti della società che
appare come destabilizzante rispetto ad un assetto del passato letto come più
rassicurante. In questa fase di mutamento, in questa fase di paura dei cambiamenti la
tradizione viene vista come uno scoglio a cui aggrapparsi perché si ha paura che questi
comportamenti possano detronizzare le élite politiche. La virilità diventa un modello
egemone nel momento in cui la tradizione viene messa in crisi, delineando lo spettro di un
futuro in cui la società sarebbe stata svirilizzata. Davanti alla paura la risposta è il
rafforzamento di un modello tradizionalista. Tentativo di frenare e arginare il cambiamento
sociale che non solo guarda al passato ma si declina al presente dove l'idea di nazione e
impero sono il cuore dell'ideologia politica. Grazie ai movimenti femministi degli anni 70 è
cambiato il modo di leggere il passato e le donne “sono state riscoperte”, vale a dire che
sono state affiancate ad altri soggetti. Si mette dunque in luce la dimensione di potere, di
tipo asimmetrico, tra uomo e donna  La riflessione su che cosa vuol dire essere uomini e
donne ha origini antichissime, ovviamente è mutata nel tempo. Si parla di invenzione
perché la virilità è una delle opzioni dell’essere uomini, è una costruzione culturale, ma
che inoltre ha avuto una connotazione politica importante.
Ipotesi di periodizzazione:
• dalla fine dell’800 alla IGM: sviluppo della maschilità in chiave sempre più virilista;
• ventennio fascista: apice del virilismo come ideologia politica (“il vero uomo è colui che
corrisponde a questo modello maschile, sono quindi effemminati, degenerati”), si
determina il modello di mascolinità dominante e ciò vuol dire che ci ha queste
caratteristiche può detenere il potere, deve comandare, perché in questo modo può fare il
bene per la società;
• anni 60-70: ipotesi di una fase di declino, ma comunque l’autore pone più domande che
risposte. Si intravede una parabola, ma comunque l’epoca vicina a noi è ovviamente più
difficile da analizzare.
Perché proprio alla fine dell’800 questo modello diventa dominante? Affermazione del
nazionalismo e di conseguenza la bellicità degli stati; l’affermazione della figura femminile
nel mondo del lavoro, nelle università, iniziano a fare politica  questo ha affermato che
c’è sì una coscienza di classe, ma anche una coscienza di genere. Non c’è soltanto il
nazionalismo e l’imperialismo, ma c’è anche una presenza femminile percepita come una
minaccia, che destabilizza la società così come si è strutturata fino a quel momento.
Modernizzazione  Mutamenti sociali molto forti che riguardano tutti gli aspetti della
società, dai ruoli di genere alle classi sociali alla dimensione politica  fase di mutamenti
corrisponde a destabilizzazione  serve uno scoglio a cui aggrapparsi per fa sì che i
mutamenti non sconvolgano e detronizzino le élites politiche. Davanti alla paura di un
futuro incerto è la restaurazione, è il rafforzare un modello virile che viene portato alle
estreme conseguenze, delineando un modello di uomo vero caratterizzato da attributi
maschili portati al loro estremo. La virilità non è soltanto una reazione alla detronizzazione
che si rifà al passato, ma li applica e declina in una chiave nuova, applicandoli e
inserendoli nel presente, delineando un nuovo modello di riferimento: affermazione della
società di massa, di una politica fatta in chiave nazionalista e imperialista permeata di
questo modello di virilità. Non è solo una questione di società e di cambiamento di rapporti
di genere, ma è proprio una confusione, che si lega appunto al cambiamento, esteriore
che vuol dire comunque sociale e politico, della donna (introduzione dei pantaloni, taglio
corto dei capelli, gonna più corta, ecc.)  non è solo un cambiamento di immagine, ma la
generazione di una confusione che richiede la ricerca di un nuovo equilibrio; da qui il voler
arginare la donna con la virilità. Bellassai si rifà agli studi dello storico tedesco George
Mosse, uno dei primi studiosi a vedere il nesso tra nazionalismo e sessualità, ancora
non si parlava di genere.

1. Virilità e storia politica


Libro composto da una premessa. Il primo capitolo è più una panoramica: virilismo e storia
politica - spiega perché il nesso tra virilità e politica sia così stretto, politica e immaginario
maschile. Cerca di spiegare come e perché si possa fare storia politica attraverso gli ideali
di maschilità che vengono di volta in volta presentati e considerati come egemoni. L’età
contemporanea: si può parlare di società patriarcale, poter in mani maschili - piano
giuridico, diritto, asimmetrie molto forti a livello di sistema giuridico e politico. Diverso
protagonismo maschile e femminile in ruoli politici. Il modello maschile è predominante:
caratteristiche che si affermano bene alla fine del 800. Belle époque - epoca gloriosa del
virilismo: virilità come reazione, risposta data a mutamenti sociali molto veloci, risposta ai
timori e alle fobie scaturite dal nuovo protagonismo femminile, trasformazioni sociali e
industrializzazione. Secondo Bellassai, il colonialismo italiano si è nutrito dell’ideale di
virilità e supremazia maschile, basato su discriminazione e sfruttamento delle donne -
popolazione africana, donne viste come prede sessuali. Classificazione di Connel
Il virilismo è etimologicamente l’esasperazione di qualità, comportamenti virili o tradizionalmente
ritenuti tali. Virile è ciò che è proprio, che si addice all’uomo, alla forza, alla fermezza e
all’autorità che gli sono tradizionalmente attribuite. Il virilismo è stato un’invenzione che coincide
con la seconda metà del XIX secolo. Il concetto di virilità non era nuovo ma diventò un
ingrediente simbolico delle retoriche pubbliche e patriottiche per poi diventare un concetto
ricorrente nei discorsi intorno a passato, presente e futuro. In un’epoca in cui le élite e l’opinione
pubblica avevano un carattere maschile, il crescente protagonismo delle donne venne percepito
come una minaccia pericolosissima. Accanto all’avanzata delle donne, anche le radicali
trasformazioni che si verificarono nella società di fine secolo sembrarono prefigurare una
decadenza della sicurezza maschile nel pubblico e nel privato. Questi processi di
modernizzazione economica, sociale, politica e culturale attaccarono la stabilità e la sicurezza
del dominio maschile, mettendo in discussione la tradizione a cui quel dominio era legato: la
posizione gerarchicamente privilegiata del genere maschile discendeva da una legge divina o
naturale, eredità dei padri che sarebbe stato un sacrilegio mettere in discussione. Se la modernità
significava indebolimento del dominio maschile e della virilità, la reazione maschile fu rilanciare la
virilità stessa, conferendole un'enorme valenza ideologica e mitologica, e impregnando di
virilismo ogni ambito sociale, morale e politico. Dato che il genere maschile si presumeva di
rappresentare l’umanità stessa questa battaglia per virilizzare la società fu presentata come una
prospettiva necessaria alla salvezza dell'umanità nella sua interezza.
Virilismo e società di massa
Il virilismo non si contrappose con nettezza alla modernità, anzi può definirsi tipicamente
contemporaneo: fornì un contributo rilevante permettendo l’integrazione di vasti strati sociali
nella contemporaneità. Il virilismo operò come un importante strumento della modernizzazione
della società contemporanea, tra le funzioni più rilevanti ci fu difendere gli interessi della parte
tradizionalista del genere maschile. L’allarme sociale intorno ai pericoli corsi dalla mascolinità
tradizionale, diffuso dalla fine dell’800, si presentava anche come formidabile strumento di
consenso a vantaggio di una politica nazionale i cui principi illiberali, autoritari e violenti
ricevevano ulteriore legittimazione. I valori della gerarchia e della forza corrispondevano alla
mascolinità e alla tradizione, costituivano la quintessenza dell’autentica virilità. Si può così
comprendere la persistenza, nella storia politica contemporanea italiana, delle culture viriliste e
autoritarie. Altro tratto rilevante nella storia politica italiana è il virilismo misogino, definita come
una delle zone franche ideologiche grazie alle quali la politica della modernità poté convivere
con la politica della tradizione, fondata sulla gerarchia. Segnali importanti dell’influenza del
virilismo si ritrovavano negli atteggiamenti diffusi che le élite culturali, politiche e scientifiche
assunsero nel trattare il tema del protagonismo delle masse. Il modo in cui le masse venivano
tratteggiate in queste rappresentazioni denunciava ampi riferimenti di natura chiaramente
sessuata. L'attenzione scientifica per i comportamenti delle masse faceva trapelare un certo
sentimento antidemocratico: Gustave Le Bon dichiarava che il suffragio delle folle è spesso
pericoloso. La folla, una volta trovato il suo maschio domatore, avrebbe avuto un'importanza
cruciale  liturgia politica fascista, tipicità del regime: passione per la folla, volontà di potenza
protesa ad agire sul corpo sociale per plasmarlo, trasformarlo e creare da esso, come opera
d'arte un armonico collettivo, secondo la formula mussoliniana. In queste dinamiche politiche
non possiamo trascurare le rilevanze di genere, come sottolineato da Clara Gallini la quale
tracciava quadri angosciosi della folla delinquente ricorrendo spesso anche al tema della
femminilità di quest'ultima  richiedeva per natura un condottiero la cui tempra virile sarebbe
stata un elemento politico significativo. In questo uomo forte, la folla avrebbe risvegliato istinti di
forza e dominio, Scipio Sighele afferma: il desiderio del possesso e della conquista. L'amore e
l'ambizione non hanno altro scopo: possedere una donna, conquistare una moltitudine. La
prospettiva del possesso fisico della massa presentava un carattere fortemente sessuato e le
amplissime garanzie di persistenza del privilegio maschile sarebbero risultate essenziali ai fini della
seduzione che sulle masse poteva esercitare un orizzonte di appartenenza nazionale saturo di
energie maschie, aggressive, autoritarie. Il piano discorsivo del genere costituì quindi un territorio
simbolico di mediazione sul quale costruire la disciplinata integrazione nella nuova realtà moderna
di crescenti fasce di popolazione maschile. In una società in cui le masse erano sempre più
protagoniste della scena politica, la loro adesione a una determinata prospettiva ideologica
diventava un passaggio obbligato per la gestione del comando. Il virilismo rappresentò una
garanzia di continuità del tradizionale ordine politico
 uno strumento di adesione, che facendo leva sull’insicurezza maschile restituiva agli uomini la
sicurezza del dominio, ma di fatto garantiva la continuità del tradizionale e gerarchico ordine
politico proprio nell’epoca in cui parti consistenti del genere maschile erano chiamate dai
processi di modernizzazione a ridimensionare il ruolo sacrale della tradizione. Si preferì
modernizzare il patriarcato piuttosto che spatriarcalizzare la modernità.
Nella storia dell’Italia unita, questa configurazione ideologica, basata sul virilismo, concezioni
gerarchiche (razzismo, misoginia, omofobia) e autoritarismo si perpetrò fino alla seconda metà
del ‘900, quando la grande trasformazione degli anni 50-60 portò a una vera delegittimazione
storica del virilismo. Negli anni del boom, le trasformazioni sociali e politiche in senso più liberale
ed egualitario (riconoscimento dei diritti delle donne, liberalizzazione dell’etica, emersione di un
pluralismo identitario all’interno del genere maschile) segnarono il declino del virilismo classico,
anche perché la vecchia morale patriarcale avrebbe ostacolato l’espansione dei beni di consumo
di massa. Dagli anni ‘70 agli anni 2000 si verifica un’agonia terminale del virilismo: i movimenti
femministi degli anni ‘70 hanno contribuito al discredito del senso comune, ma elementi retorici
misogini riconducibili al linguaggio virilista continuano ad affiorare negli anni successivi nella
comunicazione mediatica.
La violenza imperialista
Il nazionalismo presenta uno stretto legame col virilismo. La nazione o l'impero diventa
l'incarnazione politica della virilità collettiva per cui gli uomini esprimevano la propria virilità
come devoti figli della nazione. Virile divenne sinonimo di uomo disponibile a esercitare la forza
e la violenza brutale contro il nemico. La natura interclassista ed esclusiva è rintracciata sia nel
virilismo sia nei fondamenti razzisti dell’imperialismo e ciò accomunò le gerarchie autoritarie
dell'Italia e della Germania e le democratiche nazioni colonialiste della Gran Bretagna, Francia e
Stati Uniti. Anche la misoginia ha avuto una funzione all’interno dei confini della nazione, il
nazionalismo aggressivo ha esercitato tale natura esclusiva all’esterno della società nazionale
(per razza anziché per genere) per cui le donne colonizzate erano considerate doppiamente
inferiori ed escluse, su una duplice base di genere e razza. In Germania, in Francia e in Italia la
violenza nazionalista, imperialista, esclusiva e gerarchica guadagnò terreno alla svolta del ‘900.
L'opinione pubblica fu assuefatta alla violenza verbale nei confronti delle diverse razze dato che
la politica nazionale dei paesi occidentali conobbe una netta brutalizzazione del linguaggio
corrente. Secondo Banti, il bagno di sangue come lavacro rigeneratore non apparteneva
esclusivamente al nazionalismo aggressivo della belle epoque, ma a una costante del pensiero
nazional-patrottico europeo fin dalle sue origini. Tuttavia, negli ultimi decenni del 800, gli eroi si
trasformarono da combattenti di una guerra partigiana soldati agli ordini dello Stato senza che si
registrassero mutamenti nel loro fervente desiderio di sacrificio e di sete di sangue. Non si può
dire che la violenza è l'esito della mascolinità, ma il nesso tra uomo e violenza è esistito ed è
storicamente determinato e sessuato e pervade l’orizzonte delle relazioni sociali. Bisognerebbe
capire il genere di violenza da un lato e il suo orientamento dall'altro perché il disastroso
connubio fra virilità e violenza non si è celebrato solo nei paesi totalitari ma in tutto l'Occidente
ed è parte integrante della sua storia. Gli stessi rispettabili europei (che si ritenevano incapaci di
compiere violenze atroci) sostenevano il concetto di onore virile nazionale nel nome del quale
simili violenze furono praticate. È possibile sostenere che la virilità abbia contribuito non solo a
generare violenze di massa ma anche stabilire un'alleanza fra uomini normali atterriti della crisi
di virilità e perpetratori di violenze di massa nel segno dell'onore militare e della ragione di
Stato (es. Baden Powell fondatore dello scoutismo è all'origine dei campi di concentramento). Già
20-30 anni prima della grande guerra, l'affermazione della soluzione virilista contribuì a creare un
circuito perverso fra aggressività, virilità, esaltazione della potenza nazionale e disciplinamento
gerarchico  questo clima di aggressività impedì che violenze e genocidi venissero giudicati
inaccettabili e fece apparire la prospettiva della guerra totale inevitabile e salutare per la virilità
infiacchita del vecchio continente.

Colonialismo e razzismo italiano


Il nazionalismo ha avuto grande importanza nella storia italiana e a partire della seconda metà
del 800 la cultura politica divenne chiaramente aggressiva ben prima del periodo fascista. Fase
giolittiana brutalizzazione gerarchica e razzista del clima politico. Giolitti ebbe un ruolo rilevante
nelle vicende imperialiste: condusse il paese alla sanguinosa conquista della Tripolitania e della
Cirenaica. Il razzismo che Mosse definisce una forma più intensa di nazionalismo non riguardò
nella guerra del 1911-12 solo i nazionalisti più accesi, ma come sottolinea è indispensabile
distinguere Labanca nella storia del razzismo coloniale italiano:
- un razzismo istituzionale tradotto in leggi e norme,
- una politica razziale in cui va annoverata la violenza contro i dominati
- un razzismo diffuso in una dimensione culturale di massa quotidiana.
Nell’Italia liberale troviamo casi significativi di una politica delle razze accompagnata da razzismo
quotidiano generalizzato: in questo periodo, ad esempio, alcuni governatori dell’Eritrea
ritenevano dannoso all’autorità dei colonizzatori che i nativi ricevessero l’istruzione, gli eritrei
non potevano testimoniare contro gli europei e se arruolati in corpi di polizia non era consentito
loro arrestare membri di razze superiori. Carletti, pioniere della storiografia coloniale italiana,
scrisse nel 1907 che “ci sono razze che per innata inferiorità intellettuale o sviluppo storico, sono
destinate ad essere schiave”. La condizione degli indigeni nelle colonie italiane non migliorò con
l’avvento del fascismo: violenze, brutalità, punizioni corporali erano il metodo normale per
ottenere maggiore rendimento dal loro lavoro. Negli ultimi decenni dell’800 la scienza positiva
teorizzava l’inferiorità evolutiva dei selvaggi
- sia tramite gli zoo umani, esposizioni al pubblico di membri viventi di popolazioni selvagge, come
quella che si tenne a Torino nel 1880 con lo scopo di suscitare simpatie nei confronti della
nascente politica coloniale
- sia attraverso la stampa che fissò stereotipi e gerarchie sociali basate sulla razza un certo
razzismo iniziò a manifestarsi in coincidenza con l'avvio della politica imperialista dei governi
liberali.
La politica coloniale prima di Giolitti e poi di Mussolini ricevette l’appoggio delle gerarchie
cattoliche che vedevano l’aggressione dell’Etiopia come un’opportunità data a quel popolo di
civiltà e fede cattolica. Negli anni dell'Impero il razzismo si nutrì di un'amplissima serie di
immagini, resoconti, libri, canzoni che confermavano il diritto al dominio della razza superiore
italiana. Già prima del fascismo, gli intellettuali nazionalisti, tra cui Rocco, futuro padre del Codice
civile, contribuivano a tratteggiare uno scenario darwiniano di lotta per la vita delle varie razze in
cui la conservazione della specie o massa biologica poteva implicare il sacrificio degli individui.
Secondo il fondatore dell’Istat Corrado Gini la guerra coloniale era legittimata per il bene
dell'umanità, per il suo progresso; quindi, affermava la necessità del saccheggio armato della
nazione superiore nell’interesse dell’umanità. Tali teorie concretamente si tradussero in inaudite
violenze condotte sulla popolazione locale ad opera dei colonizzatori italiani: nell'estate 1930,
durante la repressione della resistenza antiitaliana condotta da Graziani e Badoglio furono usati
gas asfissianti vietati dalle convenzioni internazionali e metà della popolazione cirenaica fu
deportata in campi di concentramento, le misure genocidarie intraprese dalle autorità italiane
portarono alla morte di circa un quinto degli abitanti dell'intero territorio. Il trionfo della razza
superiore esaltato con il linguaggio virilista più estremo tornava a maggior gloria virile dall'uomo
nuovo fascista.
2. La soluzione virile
Misoginia di fine secolo - periodo tra 800 e 900 misoginia sentimento diffuso nella società
Italiana, immagine della donna pericolosa, fonte di peccato sessuale, femme fatale: donna
da controllare e confinare, se assume potere è pericolosa. Questa parte del libro racconta
gli effetti immediati dello sviluppo di movimenti femministi per rivendicare diritti di voto,
all'istruzione, formazione professionale. Movimento: espressione di un periodo storico in
cui si mette in discussione la teoria delle sfere separate - società equilibrata in cui ci sono
sfere pubbliche / private. Mettere in discussione questa teoria  che società può essere
senza queste sfere? In mano alle donne, presenza maggiore nei luoghi decisionali,
visibilità maggiore potrebbe creare una società femminilizzata dove le donne diventano
simili agli uomini mentre gli uomini perdono i loro caratteri e diventano effeminati. Si andrà
in contro a una degenerazione - disordinata, fuori controllo. La misoginia è il tentativo di
riportare un determinato ordine. Omofobia - ciò che si teme non sono i comportamenti
considerati devianti ma quello che la novità cioè l’identità omosessuale inizia ad essere
temuta. Lo sviluppo che si ha è che l’omosessualità viene considerata come un'identità
correlata a una rappresentazione illecita sulla base della quale si stabilisce quale sia
l'identità maschile giusta. Si sviluppano le prime leggi che iniziano a punire dei
comportamenti considerati pericolosi, ciò che si teme di più sono donne mascolinizzate e
uomini effemminati. Chiude il capitolo parlando del futurismo, esaltazione della guerra, del
soldato, di una figura di uomo non debole ma forte, prestante, marziale, che crede nella
guerra e che quindi spera e crede che la Prima guerra mondiale possa essere un trionfo di
un immaginario di genere mascolinizzato. La guerra diventa un'occasione per introdurre la
propria virilità il proprio eroismo. La virilità viene estremizzata da Mussolini durante il
ventennio fascista, non è una parentesi di storia ma che va contestualizzata in un lungo
periodo. Quello che fa emergere Bellassai è questa necessità di onore, codice d'onore.
Nelle società occidentali di fine ‘800 prese piede la questione femminile. Già negli anni 60
dell'Ottocento erano nati movimenti femministi formalmente organizzati, di ispirazione
borghese e liberale. Obiettivi: istruzione delle donne, accesso al lavoro retribuito, una riforma del
diritto civile che elevasse le donne allo status di persone giuridicamente capaci e non più
subordinate ai familiari maschi. Alla fine del secolo si iniziarono a formare anche le prime
associazioni femminili nazionali per il suffragio. Le rivendicazioni civili e politiche delle donne
avrebbero segnato agli occhi di molti uomini un punto di non ritorno: la percezione maschile di
questo protagonismo femminile  senso di minaccia. La visibilità delle donne nella sfera
pubblica aumentò costantemente nel diciannovesimo secolo e la cosiddetta emancipazione
femminile divenne un argomento di discussione molto diffuso. Apparente avanzata delle donne
veniva riassunta nell'espressione femminilizzazione della società, secondo alcune analisi
dell'epoca era una tendenza moderna, il frutto avvelenato del progresso. Per questo il
protagonismo femminile veniva spesso associato alla modernità e venivano entrambi collegati ad
un senso di minaccia  prova tangibile del potenziale degenerativo della modernità. Il
pessimismo, lo scetticismo o l'ostilità verso i processi di modernizzazione in campo sociale, civile
e culturale sembravano tradursi in un disperato appello contro la rovina degli uomini in quanto
specie e non degli uomini in quanto genere. I sintomi della sindrome moderna erano riconoscibili
come un complesso di fenomeni che indebolivano il corpo e il carattere maschile, la civiltà delle
macchine, del livellamento sociale, degli anonimi e spaesati spazi urbani erodeva le doti preziose
dell'uomo come la volontà, il vigore, il decoro, la rispettabilità del nome, la capacità di governare
sensi, nervi e passioni.
Misogine di fine secolo
Il linguaggio pubblico della virilità per l'identità di genere si fondava sulla stigmatizzazione della
diversità come fattore di integrazione sociale. L'esclusione di un soggetto rappresentato come
pericolosamente diverso aveva come effetto il rafforzamento dell'appartenenza. La donna che a
fine ‘800 stava mutando in donna nuova spargeva il panico tra gli uomini occidentali sempre più
insicuri della propria identità virile. Secondo la caricatura maschile e ricorrente la donna nuova
era una figura mostruosa, un'aberrazione della natura di cui la più minacciosa incarnazione era
la femminista. Nonostante facessero parte di movimenti femministi solo minoranze di donne,
queste suscitavano apprensioni smisurate  la nascita di questi movimenti era un evento dalla
forte portata simbolica poiché per la prima volta, si metteva in discussione l'egemonia del
maschio sulla vita politica e sulle scelte che governavano la società. L'esclusiva maschile nella
sfera pubblica appariva sempre più minacciata con l'istruzione universitaria aperta anche alle
donne, la vittoria del Nobel da parte di diverse donne e nelle arti, nella letteratura e negli spazi
della cultura si moltiplicavano le celebrità femminili oltre a lavoratrici spesso dotate di una certa
indipendenza economica e familiare. Di fronte a questa situazione di minaccia gli accusatori della
donna nuova proponevano dei caratteri caricaturali riconducibili a una lunga storia misogina.
Questa forma di misoginia aveva lo scopo di identificare e allo stesso tempo condannare senza
appello il mutamento dell'identità femminile come fenomeno sociale diffuso. La misoginia in età
contemporanea fu la reazione maschile alle conseguenze di genere date dalla modernizzazione
 è stata lo strumento fondamentale attraverso il quale si è perseguita per decenni una
restaurazione delle identità e dei ruoli di genere. Alla radice di questo atteggiamento misogino va
rintracciata la volontà degli uomini di ristabilire un ordine gerarchico fra maschile e femminile,
ma anche quella di difendere il loro stesso equilibrio identitario pericolante. L'uguaglianza
femminile si presentava come una minaccia perché gli uomini avevano contato sulle donne non
solo per badare alla casa, ma anche per mascherare le ambivalenze interne alla virilità. Nei più
svariati ambiti di cultura scienza e opinione pubblica si diffuse negli ultimi decenni dell'Ottocento
un sentimento maschile drammaticamente misogino. Mentre le donne invadevano la sfera
pubblica femminilizzata perdevano la loro femminilità, fuoriuscendo dalle buie stanze causavano
una catastrofe storica  la catastrofe è doppia: spalancavano le porte alla confusione e quindi
alla degenerazione, si allontanavano dalla propria silenziosa missione materna mettendo in
grave pericolo la stessa riproduzione dell'umanità come specie. Moralisti e sociologi
denunciavano la prossima morte della famiglia a causa del crescente egoismo delle giovani,
riluttanti a considerare la maternità come unica occupazione della propria vita. Il tema della
degenerazione iniziò a presentare in molti casi dirette connessioni con il mutamento
dell'identità di genere  un indizio di questa degenerazione sta nella perdita dei caratteri
sessuali: si hanno uomini femminilizzati e donne mascolinizzate, la mascolinizzazione delle
donne sarà sempre una disgrazia. La donna nuova era descritta come un essere sensualmente
anfibio e antropologicamente e regressivo.
Virilità e modernizzazione
Tra 800 e 900 le società occidentali si trasformarono grazie all'industrializzazione e alle
innumerevoli innovazioni tecniche che portarono a una sorta di accelerazione storica e a un
distanziamento da tutta la precedente storia dell'umanità. La rottura con il passato era
percepibile anche sul piano estetico, su quello della comunicazione mediatica e nel rapporto fra
Stato e popolo. È del 1892 il famosissimo Degenerazione dell'ungherese Max Nordau il quale
sosteneva che il concetto su cui si basa la fin du siecle è questo: distaccarsi in pratica dal costume
tradizionale facendo uno strappo alle tradizioni. Questo può essere visto come una sorta di
tradimento: generava entusiasmi e ottimismo ma anche timore smarrimento e angosciosi
interrogativi. Accanto ai più speranzosi per il futuro si poneva il coro dei perplessi e dei
pessimisti, i quali sostenevano il tema di una modernità matrigna, distruttrice e disumanizzante.
Un medico statunitense pubblicò nel 1901 un trattato su una nuova patologia, la Newyorkite,
l'effetto diretto della vita moderna. In questa sua sintesi Kern delinea la Newyorkite come una
particolare infiammazione causata dalla vita nella grande città e tra i suoi numerosi sintomi
annovera la rapidità, il nervosismo e la mancanza di riflessioni in tutti i movimenti. Allo stesso
modo un autore tedesco menzionava l'accelerazione dei trasporti e della comunicazione come
causa del moderno nervosismo, mentre un medico inglese nel 1892 aveva già preannunciato un
aumento vertiginoso delle malattie mortali fra gli anni 60 e 80 dell'Ottocento come conseguenza
della tensione e dell'eccitazione costante data dalla modernità. La proletarizzazione di artigiani e
contadini produceva effetti di alienazione che si manifestavano in sintomi comportamentali
praticamente maschili come l'alcolismo e la violenza, segnando anche il tramonto della possibilità
di trasmettere il mestiere ai propri figli maschi, fonte di orgoglio virile, riproducendo una fierezza
della paternità che non era certo un tratto identitario indifferente rispetto al genere. In questo
periodo risulta scottante la questione della perdita della potenza virile  Mantegazza aveva già
negli anni 70 dell'Ottocento messo in guardia sui pericoli della civiltà moderna per le più preziose
capacità maschili. Il tema dell'impotenza maschile sia in senso letterale, sia in quanto metafora
di un regresso del potere degli uomini come conseguenza della società moderna, ricorreva in
una straordinaria quantità di studi scientifici. Proprio in questo periodo si diffuse in tutta Europa
un vero e proprio allarme sociale e scientifico sulla degenerazione omosessuale, considerata fra
le più nefaste della femminilizzazione e quindi un'ulteriore frutto avvelenato della modernità 
lo stesso termine omosessuale fu coniato per la prima volta nel 1869 in Germania. Invertito o
pederasta, i due termini più diffusi fino a metà del 900 per indicare l'omosessualità maschile 
invenzione di fine ‘800 questi erano infatti gli anni in cui la repressione delle devianze di genere
raggiungeva in tutta Europa un'urgenza inedita: orientandosi contro una identità omosessuale
piuttosto che contro dei comportamenti omosessuali si venne così a creare la figura negativa
dell'omosessuale e un generale atteggiamento omofobico.
La nazione italiana e la prospettiva virilista
Minacciati dagli attacchi dell’avanzata femminile e dai processi di modernizzazione con effetti
debilitanti, molti uomini occidentali sentirono avvicinarsi la fine di una sana mascolinità. La
cultura razzista e imperialista, nutrita soprattutto dal nazionalismo, si accosta a questa
esaltazione sessuata della forza, della gerarchia, della fierezza indirizzata all'esterno della
nazione  la potenza del genere maschile e quella della nazione stessa apparivano legate
simbolicamente attraverso nessi logici e retorici. Il sesso veniva sempre percepito come
minaccioso o pericoloso, qualcosa che avrebbe inevitabilmente condotto gli uomini a una morte
ignobile, la violenza avrebbe neutralizzato la minaccia di svirilizzazione che l'intimità sessuale
conteneva, rappresentava un elemento necessario dell'equipaggiamento dell'uomo che non
volesse essere divorato nella sua virilità dalla donna. La violenza in ambito sessuale era il
rovescio della paura maschile nei confronti di un femminile di cosmica potenza. Armi, violenza,
guerre e sessualità si fondevano per giungere ad un'integrità virile. Mario Carli, futurista e
fascista, sostenne che la razza italiana era virile, fatta di domatori e amatori sempre armati,
uomini fatti per il comando e maschi fatti per il predominio sessuale. Nell’Italia dei decenni a
cavallo tra 800 e 900 la costruzione della virilità simbolica, l’uso della violenza e la sottomissione
dell'avversario possono essere illustrati anche dall'istituto del duello, molto diffuso fra le élite. Era
una forma di combattimento cruento per una causa d'onore: l'onore ovviamente aveva
un'affinità profonda con l'identità virile. Come in guerra, la vita umana aveva un peso inferiore a
quello del supremo bene dell'onore, il duello era tutto un teatro della virilità. Vincolato a rigidi
codici cavallereschi e chi lo combatteva esibiva pubblicamente vigore fisico, abilità tecnica,
coraggio e sprezzo del pericolo. Il duello costituiva un prodotto e un'occasione di manifestazione
del proprio senso di virilità. In questo rituale entrava in scena anche l'abilità nazionale visto che i
protagonisti di queste vicende si candidavano o erano già impegnati a guidare le sorti della
nazione. Corpo maschile, onorabilità individuale e nazionale, disciplina e arti militari si legavano
anche nel campo della nascente educazione fisica moderna. Nel 1881, il cattedratico Baccelli
prefigurava per la gioventù italiana un'educazione post-scolastica obbligatoria per inculcare
disciplina, sentimento dell'ordine, rispetto delle istituzioni. Sviluppare con esercizi le forze
fisiche e diffondendo lo spirito militare che è la prima delle condizioni per la facile e rapida
formazione di un buon esercito. Ovviamente, questa pedagogia vigorosa e disciplinante aveva una
propria impronta sessuata, infatti, sul piano dell'educazione fisica degli ultimi anni del secolo si
affermò definitivamente una concezione etico-militaristica. Nel 1909 i futuristi scrissero nel loro
primo manifesto di voler glorificare la guerra, unica igiene del mondo  il militarismo, il
patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della
donna. Proprio il futurismo è un buon esempio di cultura politica nata esplicitamente per
conciliare virilismo e modernità. Pur presentandosi come un movimento di rottura, di fatto è
promessa di continuità perché conservava dello scenario politico tradizionale elementi
tradizionali quali l‘esaltazione della virilità, col suo corollario misogino, bellicismo, spirito
elitario. Quindi trasferisce nel paesaggio culturale-politico moderno elementi tradizionali. La
valenza positiva della modernità era legata a tali aspetti sessuati del linguaggio politico in cui era
possibile rintracciare garanzia di persistenza della tradizione. Infatti, la Grande Guerra fu vissuta
come occasione di rigenerazione non solo nazionale ma proprio maschile a dimostrazione della
virilizzazione della scena politica e culturale. Le culture moderate, conservatrici, reazionarie del
primo decennio del 900 seguirono la prospettiva dell'affermazione del nazionalismo militante
cercando al contempo di convertire la massificazione della politica da minaccia a risorsa per
l'ordine gerarchico della società con intensificazione di questa strategia nel secondo decennio del
900. Il codice virilista, in cui i riferimenti sessuati e misogini abbondavano, venne percepito come
una delle risorse più efficaci per operare una sintesi fra autoritarismo e politica di massa, e
dunque per realizzare un’integrazione organica delle nazioni salvaguardando le tradizionali
gerarchie di classe, genere e razza. L’efficacia politica del codice virilista fu tale che non rimase
circoscritta a pochi fanatici nazionalisti, ma coinvolse i giovani repubblicani del 1914 che
invocavano uno spirito combattente che sposava poi il nazionalismo imperialista ed esaltavano la
catarsi redentrice della guerra anche i cattolici. Nei primi del 900 molte associazioni di studenti da
un lato manifestarono atteggiamenti, divise e linguaggio aggressivo; dall'altro aspiravano ad
esperienze di fuga escursionistica da una modernità urbana artificiosa e sempre più promiscua col
genere femminile verso spazi aperti in cui dare prova di coraggio.
3. Il virile ventennio
Il fascismo italiano fu il primo tentativo del potere statale di imporre una via autoritaria alla
modernità. Culturalmente, la politica fascista si ispirò alla ricerca di una mediazione tra
modernità e tradizione. Dittatura moderna  mussoliniana, ricorre ampiamente a
rappresentazioni di sapore antimodernista nel comporre il quadro della nuova Italia dell’era
fascista. Il regime cercò di differenziare la “buona” e “cattiva” modernità e di accogliere alcune
tendenze culturali “moderne” svuotandole delle loro potenzialità sovversive. L’antimodernismo
fascista fu il setaccio attraverso cui purificare il futuro della nazione dagli elementi inconciliabili
con l’affermazione di un ordine sociale rigidamente gerarchico  nel nuovo mondo moderno
una mascolinità potente e dominante avrebbe avuto un ruolo centrale. Il riferimento a una
necessaria restaurazione virilista era constante in infiniti discorsi: retorica, pronatalista,
nazionalista e antiborghese da cui emergevano appelli contro la decadenza della virilità come
effetto della civiltà moderna. Il virilismo donò una certa serenità agli uomini italiani, che
iniziarono a guardare al futuro in modo differente. Il linguaggio misogino e virilista giocò un
ruolo politico mai avuto in precedenza nella storia italiana, durante il Ventennio il virilismo
divenne un vero e proprio programma politico di eccezionale rilevanza. Il termine virilità era
concepito dai fascisti come la cifra stessa della loro visione del mondo.
La mistica della virilità
Il fascismo e il virilismo si tramutarono quindi in una rassicurazione per il genere maschile a
fronte dei processi di modernizzazione. Sul piano delle identità di genere il discorso fascista non
avrebbe mai potuto accantonare l’orizzonte tradizionale anche perché la rilegittimazione
patriarcale fu una delle ragioni storiche del fascismo stesso. Il fascismo offrì “un modello di
esistenza moderna che prefigurava per le élite una confortante continuità nei filoni tradizionali del
privilegio e della dominazione” (Ruth Ben-Ghiat). Durante i due decenni di dittatura, il rapporto
tra modernità e tradizione all’interno della cultura fascista mutò più volte adattandosi
all’evoluzione del quadro nazionale e internazionale. Secondo Maurizio Serra, si possono
distinguere i classici fenomeni antimodernisti di carattere tradizionalistico e altri di stampo
ribellistico o barbarico, questi ultimi hanno cercato di imporre una propria concezione purgata
della modernità. Nonostante gli sforzi modernisti, spesso rimaneva ben salda la centralità della
tradizione come principio irrinunciabile, sono numerosi gli esempi di valorizzazione della
tradizione nel fascismo. Nel 1922, Mussolini aveva dichiarato “La tradizione è certamente una
delle grandi forze spirituali dei popoli”, in questo contesto tradizionalista gioca un ruolo centrale il
concetto di razza, che diventa una sorta di metafora moderna di tradizione. Non si trattava di
rifiutare o ignorare la tradizione ma di modernizzarla. Razza, spirito e tradizione sembravano
termini destinati a sovrapporsi nel contesto politico moderno del Ventennio.
All’interno del virilismo fascista, il rapporto tra modernità e tradizione si configurò in modo
confuso e mutevole ma la tradizione ebbe un ruolo essenziale, poiché era un elemento di
rassicurazione per il genere maschile fortemente turbato dai processi di modernizzazione ed
emancipazione femminile. Gli immutabili valori tradizionali erano l’antidoto alla duplice minaccia
della secolarizzazione moderna, della mascolinità e dell’uguaglianza di genere. L’antimodernismo
sessuato fascista si presentava come una sorta di filtro tra stabilità virile e modernità e presentava
un insieme di temi specifici: ruralismo, antiurbanesimo, antintellettualismo, atteggiamento
antiborghese, antifemminismo, misoginia e pronatalismo. La mascolinità fascista fu una novità
ma anche l’evoluzione di un’identità già definita in precedenza, il regime si assunse la missione
storica di estirpare quelle degenerazioni moderne che avevano portato l’uomo occidentale e
italiano ad un passo da una catastrofe irreversibile. La guerra rappresenta, in questa prospettiva
identitaria, un’esperienza terapeutica per risanare la virilità in decadimento, l’unica via d’uscita
dalla confusione e dall’insicurezza poteva essere l’affermazione di valori marziali, vita militare e
azione violenta. L’orientamento crescente alla violenza e la tolleranza verso chi non era
predisposto a praticarla, furono gli elementi fondativi della politica maschile del dopoguerra. Gli
atti violenti e autoritari dei fascisti non erano ignoti ma il momento storico li risaltò come salvifici
e attrattivi, proprio per questo il fascismo ricevette l’appoggio di vari apparati statali e partiti. Con
lo squadrismo fascista il compito di ricostruire un’identità virile fu travasato in annientamento
fisico o neutralizzazione attraverso la forza fisica dell’avversario politico e di classe  la
virilizzazione come esasperata violenza, favorì una penetrazione fra le masse del mito
nazionalista della “rigenerazione violenta” del popolo italiano. Gli ex squadristi rappresentarono
la parte intransigente del fascismo e della sua componente mascolina, furono protagonisti di un
breve periodo di gloria durante il quale nacque “Il Selvaggio”, una rivista che fece dell’esaltazione
della violenza e del tradizionalismo la propria missione principale. La restaurazione violenta
dell’ordine sociale e morale della nazione aveva come scopo primario rimettere al posto giusto i
valori e le gerarchie tradizionali ma voleva avere anche il significato di un processo di
rigenerazione per restituire all’uomo la virilità perduta. Per legittimare la violenza si tirava in
ballo la sua trascendentalità che la poneva al di sopra della storia e dunque antimoderna, di
origine divina o naturale  “La violenza è la voce di Dio” dalla rivista “Il Selvaggio”.
Un antimodernismo di genere
Le minacce della città
Il ruralismo è il fenomeno culturale che ha avuto più successo da parte della storiografia,
l’esaltazione della popolazione rurale come nucleo della comunità nazionale era necessario
affinché le famiglie contadine si sentissero pienamente coinvolte nei destini del paese oltre ad
attenuare gli strati sociali sui quali si scaricavano i costi più pesanti delle politiche economiche di
regime  il contadino viene spesso celebrato come quintessenza di mascolinità naturale o
selvatica. Il ruralismo si poneva accanto all’antimodernismo, il modello ideale era costituito
dalla famiglia patriarcale o dai piccoli proprietari terrieri  efficace programma difensivo nei
confronti delle degenerazioni della civiltà contemporanea tra le quali si può annoverare il
desiderio delle giovani donne verso una vita migliore e una maggiore cura di sé, il declino di regole
patriarcali, nuove forme di svago e socializzazione che favorivano la promiscuità dei sessi e
indebolivano il sentimento religioso  a tutto questo si va ad unire il virus della denatalità. Una
minaccia ancora peggiore si riscontrava nei centri urbani: diventati cittadini, i rurali mettevano al
mondo meno figli  la città come luogo di corruzione della stirpe, la metropoli cresce e si
sviluppa attirando verso di sé la popolazione della campagna, la quale però diventa infeconda.
Nei decenni passati si era già diffusa la convinzione che la città, la tecnologia, il comfort, i ritmi
della vita moderna mettessero a repentaglio la virilità ma nell'ottica del ventennio una simile
concezione si drammatizza ulteriormente perché l'uomo nuovo del fascismo si vedeva negata
dalla modernità la soddisfazione di un suo fondamentale bisogno  temprare la propria
mascolinità attraverso un'esistenza avventurosa, piena di sfide, costanti pericoli e avversità. Alla
luce di questo stato d'animo riaffiorava la nostalgia di quando si combatteva al fronte ma
l'esaltazione di questa vita piena di avventure non doveva condurre per forza a rischiare la vita
nella trincea, entra in gioco a questo punto la letteratura. La letteratura popolare ispirata alle
avventure in mondi selvaggi e misteriosi era da interpretare come un mito di evasione che era
offerto a un pubblico maschile affascinato da situazioni straordinarie, perché immerso
quotidianamente in un'esistenza moderna che gli appariva fin troppo ordinaria. Il mito
dell'avventura serviva quindi da compensazione fantastica di una condizione esistenziale che
l'uomo percepiva come deleteria per la propria identità di maschio. L'italiano del fascismo era
inquadrato nella disciplina paramilitare sin dall'infanzia, doveva irrobustire i muscoli attraverso
l'esercizio ginnico ed avere un linguaggio verbale corporeo di tipo marziale, rude e virile. Questo
corrispondeva apparentemente a una naturale vocazione del genere maschile: proprio nel ‘34 lo
stesso Duce affermò che la guerra sta all'uomo come la maternità sta alla donna. Nel suo
progetto totalitario il regime fascista perseguì una pedagogia della virilità indirizzata ad ogni
maschio di qualsiasi età, la quale proponeva la figura del combattente votato all'azione come
modello di genere ideale. Era necessario subordinare il pensiero all'azione attraverso una sorta
di pensiero antintellettuale per distinguersi ideologicamente il più possibile dal borghese. La
figura dell'intellettuale veniva denigrata perché minava alle radici della famiglia tradizionale con
la sua poca o nulla dignità virile e patriarcale, l'intellettuale impersonava una sorta di
degenerazione dell'intelletto. L'intellettualismo veniva definito come un'intelligenza infeconda,
senza virilità era la malattia dell'intelligenza  patologia con caratteristiche di una sindrome
degenerativa o di una malattia senile  genuinità maschile originaria che la modernità corrompe
e conduce alla decadenza. Il fascismo si poneva proprio contro questo intellettualismo e contro
questa degenerazione con azione, impulsività e giovinezza. Proprio la giovinezza è cruciale nel
vocabolario fascista poiché riassume virilità, virtù, salute fisica e morale in opposizione
all'intellettualismo  si presentava come la sintesi delle virtù virili dell'uomo fascista. Veniva
esaltata la mascolinità dei RAS: un uomo giovane, nuovo e intendiamo per giovinezza l'audacia, la
franchezza e la spregiudicatezza del pensare, del parlare e dell'agire; l'amore del pericolo, l'impeto
volitivo, l'inclinazione alla violenza, il disinteresse, l'esaltazione dello spirito e della fede 
Mussolini veniva spesso rappresentato come principe della gioventù. In altre occasioni, il termine
veniva usato in un'accezione più classicamente generazionale, in cui si fondevano l'entusiasmo e la
maturità, la storia millenaria e il futuro, la tradizione e la rivoluzione.
Il meschino borghese
Durante il periodo fascista il termine borghese si intendeva il riferimento all'alta borghesia,
descritta come una classe per eccellenza parassitaria e immorale. Il fascismo si impegnava nel
cercare le cause della crisi della civiltà  lo sviluppo e la modernità erano variabili negative, a
differenza della povertà, condizione assolutamente positiva sul piano dell’incremento demografico
 il benessere era ritenuto una condizione che favoriva la diffusione dei disturbi nervosi e che
rischiava di compromettere la razza frenandone la crescita. Nel suo discorso del 1938, il Duce
fece una distinzione nettissima fra capitalismo e borghesia “perché la borghesia può essere una
categoria economica ma è soprattutto una categoria morale, uno stato d’animo, un
temperamento”.
Il sentimento antiborghese fascista può essere distinto in due diversi atteggiamenti:
 da una parte esaltazione dei valori del mondo contadino che si traduceva in retorica
ruralista e si collegava all’antiurbanesimo; quindi, questo atteggiamento glorificava la
stabilità e la tradizione;
 dall’altra disprezzo delle convenzioni e comodità borghesi, quindi atteggiamento che
glorificava il dinamismo, l’avventura, l’azione.
Sia l’uomo rurale-tradizionale, sia l’uomo spavaldo-dinamico si sentivano immersi nel loro
ambiente ideale solo quando si trovavano nella natura; mentre chiusi tra quattro mura
accusavano i sintomi della decadenza maschile: si esaltava un corpo maschile vigoroso in
opposizione a quello borghese inetto e sedentario. La borghesia e l'ebreo cittadino
rappresentavano la mascolinità degenerata e il contatto con il mondo femminile era visto come
un pericolo di perdita della virilità. Il fascista si distingueva dal borghese per i valori come
l'amore per la nazione, l'eroismo e il disgusto per l'egoismo e l'individualismo borghese.
La donna moderna e la crisi della fecondità
Quando la rappresentazione della mascolinità assumeva tratti estremi come accadde nel
fascismo, per dare verosimiglianza a questa immagine virile occorreva una spalla: non una donna
ugualmente pomposa e rude, ma la moglie sottomessa che almeno nel suo comportamento
pubblico confermasse la pantomima della superiorità sessuale del marito. La donna doveva
confermare l'idea di essere sempre stata, di essere oggi e sempre la compagna minore dell'uomo.
La rappresentazione della femminilità si riaffermava come un fondamento sicuro su cui costruire
il discorso antimodernista  l'associazione donna-natura-tradizione era di cruciale importanza
poiché grazie a questa la donna moderna finiva per apparire una contraddizione: essendo la donna
la parte per eccellenza naturale dell'umanità ed essendo natura e modernità due termini opposti
inconciliabili, se la donna era moderna non era più donna, nel Ventennio gli uomini sapevano
bene che, in realtà, le donne dietro la spinta della modernità non stavano mutando soltanto la
veste  le trasformazioni della femminilità si facevano risalire alla cultura di massa americana e
questo non accadeva di certo solo in Italia. Fin da quando negli anni ‘20 la cultura statunitense
varcò le frontiere europee si scatenò il panico per le eventuali trasformazioni nei ruoli sessuali
che avrebbero potuto produrre. Nell'Italia fascista si lanciavano disperati appelli contro
l'invasione della moda indecorosa di origine straniera, contro i balli moderni, i nuovi modelli di
donne magre e disinvolte decise a conquistare un accesso più ampio al lavoro extradomestico e
al tempo libero. Si varava un complesso sistema di organismi statali, provvidenze pubbliche,
festività e iniziative per sostenere l'esclusiva missione di madre di ogni donna, a questo si
accompagnava un ferreo controllo sulla stampa. Nel 1929 Paolo Ardal sosteneva che tutto il
disagio morale finanziario economico di una civiltà dipende dalla costruzione femminile. Nello
stesso anno Carlo Scorza (futuro capo dei Fasci giovanili) collegava esplicitamente mutamento
moderno della femminilità e svirilizzazione del maschio: la donna ha invaso il campo degli affari,
delle professioni e degli impieghi: verissimo ma è del pari verissimo che l'uomo ha invaso il campo
della moda, dei profumi, delle mille futilità dell'ozio e delle mollezze. Sempre nel 1929, Umberto
Notari dava alle stampe un libretto intitolato La Donna “Tipo Tre” dedicato al fenomeno visibile
della decadenza maschile e dell'ascesa della donna come effetto della civiltà meccanica
industriale. Questo nuovo tipo di donna sfidava apertamente l'uomo, lavorava tutto il giorno in
ufficio, non rispettava il marito e per la quantità dei suoi impegni non partoriva più di un paio di
figli. La donna “Tipo Tre” era riluttante nei confronti della maternità ma la responsabilità ultima
ricadeva sull'uomo poiché, veniva accusato di aver creato questa situazione abdicando al
proprio ruolo di comando e cedendo negli ultimi cinquant'anni sempre più terreno alle donne.
La retorica del regime può essere considerata un terreno discorsivo al confine fra misoginia,
virilismo e antimodernismo. Il sentimento antiborghese aveva un ruolo primario, mentre la
borghesia allevava non figli ma barboncini da salotto dimostrando una sciagurata indifferenza per
il destino della nazione, il regime riponeva le proprie speranze in uomini e donne non ancora
corrotti dalla modernità  una modernità che assumeva sembianze straniere sotto le spoglie di
una cultura materialistica livellatrice e disumana ma le influenze più reali provenivano dall'oltre
Atlantico e parevano minacciare direttamente il proprio destino demografico della nazione. La
retorica fascista esasperò le concezioni misogine che da decenni coniugavano trasgressioni
dell'identità di genere naturali e infecondità: per il demografo Corrado Gini la decadenza
biologica della razza si rilevava anche da fenomeni come l'attenuazione della riservatezza e del
pudore nella donna, dell'iniziativa e dell'aggressività dell'uomo. Fu Gini a fornire nel 1927 a
Mussolini i dati per il celebre discorso dell'Ascensione a partire dal quale, la questione
demografica divenne un tema di assoluta rilevanza nazionale. Il legame fra riproduzione sessuale
e grandezza della nazione fu così uno dei canali principali attraverso cui la questione della virilità e
delle tradizionali identità di genere, acquisì nel discorso fascista un rilievo politico istituzionale che
non aveva mai avuto. Il calo delle nascite era causato in primo luogo dagli effetti negativi della
modernità: combatterli diventò un compito di importanza ancora maggiore per il regime. Il
deviante era il borghese, egoista e antipatriottico oltre che scarsamente virile; la deviante era la
donna troppo moderna, americaneggiante, indipendente e mascolinizzata. I danni sociali
provocati da queste devianze erano gravissimi: eccessivo allentamento dei rapporti gerarchici
familiari, scadimento nell'uomo di quella robusta virilità che il fascismo con tanto amore e tanta
costanza persegue. Secondo Saraceno l'obiettivo della campagna era quello del riequilibrio del
potere all'interno della famiglia, nemico di questo riequilibrio è il lavoro femminile, considerato un
fenomeno contro natura perché contrario alla fisiologia della donna. Il lavoro femminile era
ritenuto nocivo a vari livelli: sul piano biologico perché danneggiava gli organi riproduttivi; su
quello morale perché instillava nella mente femminile i germi della superbia e dell'autonomia;
su quello sociale perché raffreddava nelle donne l'entusiasmo per la propria missione sacrificale
di moglie e madre prolifica indebolendo la famiglia tradizionale. La retorica fascista denunciava
infine le terribili conseguenze sull'identità maschile della degenerata aspirazione femminile al
lavoro retribuito, questo avrebbe portato gli uomini a deprimersi sentendosi umiliati nella propria
mascolinità e quindi nella propria potenza riproduttiva.
Il lavoro femminile interseca anche la questione demografica  distrae dalla generazione,
fomenta un’indipendenza e conseguenti modi fisici e morali contrari al parto. Lo stesso lavoro
che causa nella donna la perdita degli attributi generativi, porta nell'uomo a una fortissima
virilità fisica e morale. Le misure intraprese dal regime fra il ‘27 e il ‘38 per escludere le donne da
alcune occupazioni e soprattutto per ridurre la presenza femminile nel mercato del lavoro, non
avrebbero prodotto gli effetti sperati. L'obiettivo fondamentale di queste misure era il
contenimento del crescente protagonismo femminile nel terziario, nell'insegnamento, nelle
professioni e negli uffici  molto meno minacciosa risultava la presenza nelle campagne: il
regime non sembrava preoccupato che operai e contadine vestissero all'ultima moda,
sfuggissero capigliature alla maschietta, si ispirassero a modelli identitari trasgressivi. Il germe
dell'eresia identitaria di genere non sarebbe venuto certo dalla massaia rurale, che anzi
risplendeva nella retorica fascista come il simbolo stesso della tradizione, della fecondità, della
subordinazione femminile. Accanto a lei coronato da una nidiata di figli il sovrano discusso della
famiglia era l'uomo.
L'ordine sessuato della razza
Il 18 luglio 1938 fu pubblicato il Manifesto della Razza che proclamava una politica razzista. Nel
settembre dello stesso anno, il Ministro dell'Educazione Bottai chiudeva le scuole e le università a
studenti e docenti ebrei. Ma ben prima l’Italia aveva già le sue leggi e norme razziali. Il titolo X del
Codice penale del 1930 descriveva i delitti contro l'integrità e la sanità della stirpe. La legge
organica per Eritrea e Somalia del 1933, considerata la base del nuovo diritto coloniale italiano,
introduceva il concetto giuridico di razza nell’ordinamento italiano: per l’attribuzione della
cittadinanza ai meticci, la normativa prevedeva la prova della razza, cioè l’esame dei caratteri
somatici; quindi, il concetto di razza smetteva di basarsi su criteri sociologici per seguire solo
criteri antropologici che in realtà erano già presenti nelle norme civili eritree del 1909. Fra gli
scopi più importanti della normativa coloniale italiana figurava quello di regolare le relazioni
sessuali interrazziali e le loro conseguenze in termini di distanze gerarchiche fra dominatori e
dominanti. Per gli uomini italiani però la libertà sessuale costituiva da sempre una fra le
principali attrattive dello scenario coloniale. In ogni epoca della dominazione italiana in Africa
agì come un potente motivo di genere il richiamo del paradiso dei sensi a portata di mano dei
maschi italiani. Vari romanzi popolari durante il Ventennio rafforzarono lo stereotipo, di certo
non nuovo, di indigene lussureggianti, animalesche e seduttive, felici di essere possedute da un
padrone razzialmente superiore. L'africana: la donna vera, non modificata dalla civiltà. Anche per
queste vie il colonialismo italiano risultò funzionale a rispondere a precise istanze di ridefinizione
dell'identità maschile nazionale. La conquista dell’Etiopia, certamente, rappresentava secondo
Mussolini una prova della virilità nazionale ma il continente africano era in più anche
propagandato come luogo di vita sana, genuina, autentica e patriarcale  un contesto in cui i
ruoli tradizionali sono intatti e immuni dall'influenza della modernizzazione e del cambiamento
sociale. L'occasione ideale per dare nuovo vigore al carattere maschile del colonizzatore italiano.
Già nel periodo della prima guerra d'Africa i colonizzatori pretendevano, con le buone o con le
cattive, prestazioni sessuali dalle donne conquistate: come sottolineato da Giulia Barrera, per gli
italiani il diritto di accesso alle donne eritree costituiva un complemento della conquista
territoriale, divenne quindi prassi corrente per gli ufficiali avere una concubina indigena, una
Madama  finché nel 1909, il codice civile eritreo ostacolò i matrimoni fra italiani e indigene e
rese vietato anche il madamato cioè la convivenza con un’indigena. La legge organica per Eritrea
e Somalia fu il primo segnale di svolta ma di fatto i matrimoni misti furono fortemente scoraggiati
dalla legge del 1933  il vero salto di qualità razzista fu rappresentato dalle misure prese nel ‘36 e
‘37 che punivano con il carcere tutti gli italiani che avessero avuto relazione di indole coniugale
con una persona suddita dell'Africa orientale italiana. Lo scopo di queste leggi era tutelare lo
stato di superiorità fisica e morale che deve possedere ogni razza conquistatrice e dominatrice e
che può esistere solo conservandosi ed evitando qualsiasi promiscuità familiare con le razze
soggette o inferiori. Questa promiscuità, oltre ad avere come conseguenza la creazione di un
popolo di meticci e quindi di un popolo fisicamente e moralmente inferiore, avrebbe un'altra
conseguenza che accomunerebbe e metterebbe allo stesso livello conquistatore e popolo
conquistato  perdita di ogni autorità e prestigio rinnegherebbe le migliori qualità della stirpe
dominatrice. La legge del 1937 costituì una decisiva svolta della politica razziale italiana e
istituzionalizzò anche un modello ortodosso di comportamento sessuale maschile in colonia.
Questo tipo di relazioni con le donne in cui si osservavano perfettamente i canoni di un virilismo
esasperatamente misogino, cinico e predatorio non entrava in conflitto con le esigenze di
tutelare la superiorità razziale dei conquistatori e dei dominatori. Il principio di una separazione
spaziale fra le razze aveva già ampiamente corso nella normativa coloniale italiana, da almeno tre
decenni era stato particolarmente evidente nella politica urbanistica eseguita dalle autorità
italiane ad Asmara. La capitale Eritrea fu sottoposta a una prima zonizzazione con lo scopo di
separare colonizzatori e nativi, dopo alcuni anni questa segregazione razziale venne inasprita
stabilendo il divieto di risiedere nella zona europea e l'obbligo di vendere ogni loro proprietà nella
stessa area entro un anno. Alla fine della dominazione coloniale italiana in Africa, il regime
fascista aveva ormai prodotto un impianto legislativo razzista, discriminatorio e segregazionista.
In questo scenario complessivo penetrarono strettamente prevaricazione sessuale fino allo
stupro vero e proprio, virilismo e razzismo. La centralità attribuita alla sfera della sessualità
interrazziale evidenziava nel modo più chiaro la grande rilevanza degli interessi di genere sottesi al
razzismo. Quella della razza rappresentava un piano fondamentale sul quale trasporre ancora più
enfaticamente l'istituzione di rigide e naturali gerarchie di genere. Il razzismo stesso si mostrava
un potente strumento di rafforzamento simultaneo delle gerarchie di genere e di razza, sempre a
vantaggio di quell'unico soggetto esaltato dal virilismo, di quest'ultimo riaffermando uno dei
fondamenti: il concetto della gerarchia in sé come architrave del paesaggio sociale e culturale.

Violenza, forza fisica, che fanno già parte della cultura futurista non nasce all’improvviso
ma esaltata prima della Prima guerra mondiale ma che diventano una costante molto forte
della politica di questa fase, tendenze antidemocratiche e probelliche riproposte nel
periodo tra le due guerre mondiali. Uomo insaziabile sessualmente, paura che l'uomo
possa essere omosessuale o addirittura non fertile, se l'uomo deve essere soldato,
lavoratore, padre allora la donna deve essere innanzitutto moglie e madre. Pilastro della
politica fascista, demografica, pro-natalista, non è accessorio ma è costitutivo della
potenza della nazione. Ascensione del ‘27 in cui Mussolini inizia la battaglia demografica
con una scelta di genere. Ordinamento giuridico del Italia fascista, rafforza alcuni aspetti
reati penali: infanticidio, aborto, uso del contraccettivo, nello stesso Codice penale ci sono
reati contro la procreazione ma ci sono anche l’infanticidio o l’aborto compiuti per cercare
di nascondere il frutto di una colpa, al di fuori del matrimonio, rapporto sessuale illecito:
sono meritevole di tutela perché in questo modo ho deciso di difendere l'onore della mia
famiglia. Famiglia e onore, la inserisce all’interno di una comunità più ampia: omicidio
d’onore, meritevole di tutela perché ha cercato di difendere il mio onore, ho agito per
difendere legittimamente un onore ferito. Poi si inizierà a pensare che questi modelli
maschili diventeranno una gabbia anche per gli uomini, in realtà bisogna tenere a mente
come tutto questo sia vincolante anche per loro e qualcuno cercherà di ribellarsi.
Codice civile – l’obiettivo della famiglia è la procreazione e da qui le leggi che incentivano
la procreazione - tassa sul nubilato.
Donna come moglie e madre - ruolo esaltato con l'educazione. Omosessualità come
reato.
Ambizioni imperialiste - ultimo tassello del quadro, il virilismo si accompagna con una
sessualità predatoria e di stampo razzista. Codice penale fascista, intitolato “Reati contro
l'integrità e la sanità della stirpe”. Linguaggio impregnato di razzismo già nel ‘30, perché è
così importante l 'esperienza del colonialismo? In una situazione di paesi colonizzati, le
donne dei paesi colonizzati erano considerate oggetti sessuali, nascono dei figli e
soprattutto per coloro che passavano molto tempo nelle colonie si creavano anche una
sorta di legame matrimoniale, figli meticci, concubine. Creando una politica razzista, questi
rapporti creano problemi. Per mettere al bando le unioni tra razze diverse, "Faccetta nera"
- immaginario non di disprezzo ma di seduzione, di voglia di conquistarla, solo per le
donne nere - maschi neri visti come competitors. Nel ‘38 Manifesto della razza, forte
impianto antisemita. C’era già un percorso antisemita e di discriminazione avviato: con il
ventennio fascista vediamo il virilismo come prevaricazione sessuale, uomo rurale e
donna come madre. Ventennio fascista ma con effetti a lungo termine.

Quello che manca nel libro di Bellassai è tutto quello che succede nella WWII e non c'è
praticamente nessun riferimento alla resistenza, poi il fine guerra. Si torna, per assurdo, a
ruoli di generi più tradizionali. Molte donne prima erano partite per la resistenza.
Miracolo economico (ponte tra cap. 3 & 4). Il virile ventennio in declino.
Ci sono però, nella nuova Italia repubblicana, molti elementi di continuità con il fascismo:
• il Codice civile del 1942
• Codice penale Rocco del 1931
• la prostituzione rimane regolamentata dallo stato come nel fascismo fino alla legge
Merlin del 1958 che pose fine alle "case chiuse"
• il divorzio fino al 1970 non è previsto
• tra i coniugi vive una disparità
• il diritto di famiglia verrà riformato nel 1975
• ONMI, opera nazionale maternità e infanzia permane fino al 1975, anno in cui nascono i
consultori
Al tempo stesso ci sono moltissime novità: le donne parteciparono alla stesura della carta
costituente, 21 donne su oltre 550 costituenti, i principi fondamentali Art. 3 dove tutti i
cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge. Mentre
sull'introduzione di "uguaglianza di fronte alla razza" era unanime, "sesso" sembrò
superfluo, perché si trattava ormai di cittadini con pari diritti e non fosse necessario. Fu
Nina Merlin che insistette moltissimo su questo punto al fine di aggiungere anche la
sessualità. Art. 37 dove la donna ha gli stessi diritti e le stesse retribuzioni e il secondo
comma dice che le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua
essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata
protezione. Questa seconda parte, però, introduce la differenza sessuale. Essenziale è un
aggettivo che ancora esprime l'idea per cui, per natura, le donne siano le responsabili di
quello chiamato poi "Il lavoro di cura". Inoltre, si parla di donna lavoratrice (come
aggettivo) e poi di lavoratore (sostantivo), l'uomo è lavoratore la donna può esserlo ma la
sua principale funzione è quella familiare.
Ricordiamo il "Secondo sesso" di Simone de Beauvoir, interessante per notare come si
inizia ad avere la percezione di come la conquista dei diritti civili non sia la fine delle
disuguaglianze, ma che continuino sotto molti aspetti della società. Con la conquista del
voto non si risolve tutto. Negli anni '50 trionfa l'idea collettiva della casalinga regina della
casa, felice di questo ruolo. Si inizia però anche a pensare come il legame non sia legato
la "happy housewife americana" con l'idea di avere una casa piena di elettrodomestici.
Gli anni '60, il declino della virilità come immaginario politico dilagante. Arriva la televisione
e il primo supermercato. Il Concilio Vaticano II con un ripensamento molto forte della fede
cattolica, automobile, Kennedy... tutto questo ha anche un protagonismo di giovani molto
forte, ricordiamo anche i Baby Boomer, c'è un pacifismo e un suo rinforzarsi... ricordiamo
che c'era un modello maschile molto maschiale. Iniziano ad essere dei valori e degli
immaginari politici che cozzano con quel modello maschile da poco egemonico. La moda
lo incarna benissimo: il corpo femminile sempre più in mostra, si forma un linguaggio che
accomunano personalità diverse formando una sorta di linguaggio comune musicale,
culturali e politica.  minigonna, rivoluzione culturale giovanile, evidente nella moda. Le
origini del movimento studentesco del 1968. La popolazione studentesca inizia a criticare
la troppa formalità delle istituzioni studentesche.
Inoltre, anche il diffondersi del "terzomondismo" di sostegno e appoggio al processo di
decolonizzazione. Bellassai cita moltissimo film e romanzi. Per esempio, Comizi d'amore
1964, film inchiesta di Pier Paolo Pasolini dove fa interviste a intellettuali e persone
comuni e casuali e sono un ritratto di tutta l'ambiguità della compresenza di tradizione e
innovazione. Ad esempio, c'è un sud Italia che emerge per alcune caratteristiche
fermamente tradizionalistiche ma che allo stesso tempo tenta una sua emancipazione. Il
modello virilista non ha più presa: nonostante molte interviste di uomini rivendicano per sé
stessi, prevalgono anche gli elementi di ridicolizzazione di chi estremizza la virilità. Si
comprende come il paese stia cambiando e si tenta, attraverso delle indagini, di capire
come il paese stia cambiando. È nell'aria, si capisce e si coglie che l'Italia è in
cambiamento. L'uomo inizia ad essere visibile, si inizia a ragionare sul maschile, l'uomo
diventa un riflesso di studio e di analisi, uomo che consuma anche perché deve essere
consumista, autonomo economicamente e che porta i soldi a casa. Uomo con compito di
sostenere economicamente la famiglia. Nonostante questa comunque virilità, la virilità
rude di epoca fascista è ormai lontana.
Nel corso degli anni '70 abbiamo un nuovo movimento femminista che mette in
discussione tutti quegli elementi di continuità che abbiamo visto. La visibilità dei movimenti
femministi inizia sempre più ad essere evidente, si parla di movimento di "massa",
movimenti che coinvolgono strati sociali diversi, diverse generazioni ecc. Il movimento
femminista si sviluppa in università, Trento ad esempio è una delle università che ha un
movimento studentesco attivo e forte e, proprio al suo interno, si delinea una frattura di
genere perché fa vedere come le stesse studentesse si rendono conto che nonostante
sono in ambienti rivoluzionari; tuttavia, le gerarchie e le asimmetrie di genere vengono
ancora riprodotte in ambienti politici studenteschi. Inizia una prima messa a tema del fatto
che le donne non sono le teste pensanti del movimento. Angelo del ciclo ostile. Pratiche di
autocoscienza: gruppi di giovani donne che si riuniscono e si automotivano, la messa in
discussione e il raccontarsi è stata una scoperta incredibile, per prima cosa è nata una
consapevolezza collettiva per cui il disagio era comune dando grande forza e ha fatto
riconoscere le donne come diverse dalle proprie mamme che ormai avevano interiorizzato
certi modelli.
I giovani rappresentano un continente separato, un universo distaccato con un proprio
linguaggio e area culturale. Il 68 rappresenta un evento duplice: l'occupazione delle
università da parte degli studenti di tutto il mondo (ma con peculiarità nazionali) e
attraverso ciò si ha un processo di politicizzazione della classe studentesca. In questi
cambiamenti repentini degli anni ‘60 anche le università cambiano molto, fino a quel
momento erano frequentate solo da gruppi elitari e l'ascesa sociale era collegata al livello
di istruzione: poter entrare negli spazi universitari era un modo di emancipazione per poi
poter arrivare anche a luoghi di comando, per cui era ovviamente necessaria una certa
istruzione.
4. Il declino
Tra la metà degli anni ‘50 e i primi anni ‘60 la società italiana fu investita da una serie di
mutamenti sociali che trasformarono radicalmente il paesaggio culturale e morale, decretando il
declino della tradizione quale fondamento del sistema di valori condivisi. Lo sviluppo industriale
e del terziario, le grandi migrazioni, l’espansione abnorme delle città, l’estensione della
scolarizzazione, l'enorme diffusione della cultura di massa, la nuova centralità dei beni e consumi
moderni trasformarono la società italiana in senso più laico, liberale e civile. Ne risentì l’assetto
delle relazioni di genere: si riscontrarono cambiamenti nella rappresentazione dei ruoli femminili
anche nell'ambito domestico, nell’affermazione di una morale sessuale e atteggiamenti meno
oppressivi, nel riconoscimento di nuovi diritti civili e sociali delle donne. Negli anni ‘70 ci furono
notevoli differenze rispetto al passato ma ancora resistenza al cambiamento, persistenza di un
asse asimmetrico e gerarchico del potere. Non ci fu la scomparsa in tempi breve della
disuguaglianza fra uomini e donne. Nei momenti in cui tale disuguaglianza sembrava diminuire,
come era stato percepito da molti uomini di fin de siècle, si era tentato di riaffermare a vari
livelli la disuguaglianza che pareva garantire la sicurezza virile. Con le trasformazioni del boom,
tale operazione fu impossibile. La disuguaglianza rimase copiosa negli anni ‘60 sul piano giuridico,
economico e sociale, ma in misura insufficiente a garantire la tranquillità virilista; inoltre, risultò
impraticabile il rilancio di una retorica della superiorità maschile naturale per via della
modernizzazione e dell'affermazione del neofemminismo negli anni ‘70. L’asimmetria fra i generi
si ridusse ancora facendo tramontare definitivamente la plausibilità politica della prospettiva
virilista. Negli anni ‘60 e ‘70 si verificò anche il declino dell'elemento virilista legato alla violenza
e all’aggressività. Il consenso di massa verso questa prospettiva scese drasticamente dopo il crollo
del sistema di potere fascista e le traumatiche disillusioni della guerra mondiale anche se il
linguaggio militarizzante sembrò riprendere con l'inizio della guerra fredda (1962 – 1991). Negli
anni ‘60, i processi di decolonizzazione, di superamento della segregazione razziale, emersione
di cultura giovanile antiautoritaria, la diffusione di una cultura pacifista o antimilitarista contro
l’escalation nucleare, contribuirono ad erodere i valori imperialisti, autoritari. Anche la
diffusione del benessere spinse l'opinione pubblica a confidare in una integrazione sociale per
vie pacifiche e liberali. L’esplosione della conflittualità nel 1968-1969 per rivendicazioni
egualitarie, antimilitariste e antiautoritarie dei movimenti sociali, studenteschi, operai spostò
ancora di più le pulsioni nazionaliste, autoritarie e belliciste ai loro minimi storici. I tentativi di
rilancio del contesto di virilità con mascolinità aggressiva, competitiva e potente furono
destinati al fallimento, aumentando l'insicurezza maschile e tale insicurezza generava a sua volta
una domanda di rilancio virilista, non essendo concepibile per molti uomini una sana mascolinità
avulsa dal virilismo. Tali tentativi contribuirono al mantenimento di un virilismo informale, attivo
nella società, nelle istituzioni, non più trionfalmente legittimato come nei decenni precedenti. Sue
tracce vistose si sarebbero notate nella comunicazione pubblicitaria dei nuovi beni di consumo.
Il nuovo scenario dei consumi svolse quella funzione di integrazione sociale di massa, che era già
stata propria del virilismo nazionalista, rendendo superflui i connotati illiberali e violenti. Infatti,
Pier Paolo Pasolini, all’indomani del referendum sul divorzio, che rivelò la sconfitta epocale del
tradizionalismo di genere, non interpretò questo risultato come una vittoria del progressismo
libertario, ma come un’affermazione del nuovo potere legato alla cultura di massa, al consumo.
Negli anni ‘60, i beni di consumo acquisirono l’importante virtù simbolica di appartenenza al
mondo civile. Nella sfera di consumi privati connessi ai nuovi stili di vita molti uomini e donne
trovarono il senso di un'appartenenza collettiva. Il nuovo scenario culturale intaccava la potestà
normativa e il potere di controllo maschile sui comportamenti delle donne, questo insieme di
mutamenti ebbe l'effetto di aggravare le vecchie insicurezze maschili rispetto al declino storico
della virilità, ampie fasce di popolazione maschile poterono concretamente constatare gli effetti
positivi dello sviluppo. I nuovi scintillanti beni e la vita moderna divennero veramente accessibili
alle masse anche grazie alla diffusione dei pagamenti rateali che rappresentarono una piccola
rivoluzione non solo economica ma anche psicologica. Questo nuovo universo simbolico
disponeva di un apparato propagandistico: i media e la cultura di massa veicolavano una
grandiosa pedagogia modernista che penetrava nel cuore dell’identità collettiva, ma la superiorità
maschile sulle donne non era realmente messa in discussione con rinnovate occasioni di
affermazione del genere maschile che non contraddissero il declino storico del virilismo classico
che con la grande modernizzazione degli anni ‘60 emerse in modo sempre più chiaro. Le
dinamiche d'integrazione consumistica richiedevano abbandono dei valori, atteggiamenti e
linguaggi virilisti, ma riuscirono a rassicurare gli uomini che non sarebbero diventati meno virili
perché più moderni. Pur mantenendo il potere a tutti i livelli, buona parte del genere maschile
accettò di recidere il cordone ombelicale che legava la sicurezza maschile alla tradizione, una
fonte di legittimazione del potere cui le generazioni precedenti si erano aggrappate per
proteggersi da una libertà femminile e da una modernità percepite come svirilizzanti. A partire da
allora il futuro maschile si sarebbe sempre più collocato al di fuori del virilismo classico di cui il
neocapitalismo non sapeva che farsene.
Consumi e scenari di genere
Nella percezione delle masse il primo segno evidente del miracolo economico fu che dalla
miseria si poteva davvero uscire. Nel corso degli anni ‘50 e ’60, milioni di famiglie
abbandonarono la campagna e l’ancestrale vincolo di una frugalità morale e materiale, nelle
nuove capitali del benessere, anche gli immigrati potevano accantonare i costumi tradizionali
ma anche in molte campagne si percepivano chiaramente i segni del mutamento. Fu attraverso i
consumi (dischi, moto, consumi del sabato sera) che l'etica del neocittadino subì una
metamorfosi radicale e l'immigrato si mette a risparmiare per procurarseli. Anche nelle
campagne si sentirono i segni del mutamento con modificazione dei valori culturali degli abitanti,
generato da un diverso grado di istruzione, dall'avvento della tecnica e dell'industria,
dall'infiltrazione della cultura di massa. Questi fattori hanno toccato con maggiore o minore
intensità i diversi strati della popolazione con ansia di evasione, di conoscenza del mondo che
esiste al di là del loro. La cultura di massa ebbe un ruolo di primo piano nel mutamento con
un'evidente femminilizzazione della società portando il Bel Paese a ingentilirsi e svirilirsi, come
scrisse Giorgio Bocca. Tra i modelli di comportamento moderni di cui la donna può godere una
parte importante è relativa ai consumi, l'universo del comfort appare affidato alla donna, essa
decide degli acquisti con conseguenze sulla sua immagine ma anche sull’equilibrio tradizionale del
potere fra i generi: la vecchia condanna sulla natura spendacciona della donna costituiva uno
strumento di controllo sempre meno efficace da parte dell'uomo.
Le gerarchie tradizionali di genere avrebbero costituito un ostacolo alla moltiplicazione dei
consumi perché gli uomini ponendosi come mediatori tra le donne e il mercato concedevano alle
massaie un’autonomia di scelta ristretta ai soli consumi alimentari e quale suppellettile. Dunque, il
mercato mosse verso l’eliminazione dell’ostacolo scavalcando gli uomini e rivolgendosi
direttamente alle donne, attraverso i mezzi di comunicazione che ora esaltavano l’intelligenza e
l’autonomia decisionale femminile. Di conseguenza mettendo in crisi il rapporto triangolare
uomo-donna-mercato il neocapitalismo degli anni ‘60 diede un grande colpo al virilismo. Nel
nuovo contesto del boom i mezzi di comunicazione di massa si spingevano fino a un'abile
esaltazione dell'intelligenza quasi imprenditoriale delle donne di casa diffondendo grazie alla
pubblicità commerciale un'immagine femminile dotata di autonomia decisionale e competenze
specifiche.
Apocalisse e integrazione maschile
Se fino ad allora la svirilizzazione fu vissuta come una catastrofe, negli anni del miracolo
economico molti uomini non valutavano negativamente tale fenomeno. Dal punto di vista della
storia del virilismo, fu una novità davvero epocale che segnò in maniera decisiva le vicende
dell'identità maschile contemporanea. Alcuni, come il pedagogista Volpicelli, pensarono che il
cambiamento della condizione femminile in termini di istruzione rappresentasse un’opportunità di
arricchimento spirituale per la famiglia, di ingentilimento dei ragazzi. Sui media trovava uno spazio
crescente il dissenso identitario, indicatore della crisi del virilismo: in un articolo del 1958 accanto
alla tenace persistenza di pregiudizi e discriminazioni e tabù si evidenziavano importanti elementi
di novità: dai giovanotti siciliani preoccupati di precisare che anche dalle loro parti era arrivato il
progresso lo svecchiamento dei costumi al soldato di leva per il quale il don Giovanni non
rappresentava affatto un modello positivo ma dichiarava è la società che ti spinge ad esserlo
altrimenti sembri un fallito. L'ipotesi di una semplice restaurazione del passato era improbabile:
per quanto riguarda il mutamento femminile, l'emancipazione appariva agli occhi di tutti il
prodotto inevitabile di uno sviluppo al quale nessuno poteva predicare la rinuncia, una parte
vertiginosamente crescente degli uomini stava accettando di abbandonare una mentalità
severamente tradizionale per collocarsi nell'orizzonte della modernità e goderne così appieno gli
evidenti e concreti vantaggi. Per tutti, comunque, lo scenario della grande trasformazione non
lasciava dubbi: l'epoca d'oro della mascolinità tradizionale era giunta al termine.

La rassicurazione modernista
L'uomo del boom avrebbe dovuto abbandonare per forza qualcosa della vecchia mascolinità, ma
la sua esistenza non avrebbe avuto qualcosa di meno di quella dei progenitori, l’uomo moderno
sarebbe ancora stato un uomo virile, degno di questo nome. L’uomo-consumatore ideale degli
anni ‘60 sarebbe stato non tirannicamente patriarcale, liberale e tollerante verso le donne,
incline ai piaceri della vita, competitivo, brillante in società. Se guardiamo ad alcune
rappresentazioni della mascolinità nei media degli anni 60 si ritrovano vari segnali di una
strategia di rassicurazione virile. I linguaggi mediatici apparivano orientati a ricostruire
un’immagine del maschile autorevole: ad esempio nelle pubblicità di cosmetici maschili, settore
delicato proprio per la difficoltà di legittimare un’esigenza di cura estetica che avrebbe potuto
esporre l’uomo al sospetto di effeminatezza, ricorre spesso la parola virile  i linguaggi
tentavano di rispondere a un’esigenza comunicativa di ricostruzione di un valore che si credeva
di aver perduto. Assieme a virile, altro termine ricorrente era successo, che divenne unità di
misura della mascolinità. Il tradimento della tradizione ebbe conseguenze cruciali sulla
mascolinità perché venne a mancare un pilastro essenziale della legittimazione del dominio
maschile sulle donne. Sotto la spinta della grande trasformazione degli anni 50-60, il lento
declino del virilismo, già avviato negli ultimi decenni dell’800, che il fascismo aveva cercato di
contrastare, si trasformò in una frana. L'enfasi dilagante sul successo rilanciava il concetto di
gerarchia talvolta davvero aggressivo e prevaricatore di tanti maschi amareggiati dalla mollezza
dei tempi, dotato di individualismo e competitività ma anche di freddezza morale necessaria per
raggiungere i propri obiettivi. Chi non correva per il successo o non vi arrivava risultava un fesso
o un moralista. Tale qualità non era nemmeno più funzionale a un supposto interesse superiore e
nobile (la patria, la razza, la fede, la nazione), ma è un mero strumento del proprio tornaconto
individuale. Coniugando efficienza, successo e gerarchia, l’azienda moderna suggeriva un profilo
di genere al passo con i tempi e appagava l’esigenza maschile di ordine tradizionale,
rassicurando gli orfani del virilismo sulla continuità di antiche atmosfere sociali e di genere.
La triste fine del gallo
La modernità incontrava una critica impegnata dai toni apocalittici che non esprimeva alcuna
nostalgia per il virilismo, ma metteva a fuoco una crisi dell'uomo moderno in quanto maschio .
Non erano rare raffigurazioni ironiche o sarcastiche delle patetiche sopravvivenze di un modello
virilista. Negli anni del miracolo economico, in ambito letterario e cinematografico prese corpo
un’articolata denuncia del progresso che dietro l’invitante facciata nascondeva spaesamento,
disgregazione e alienazione. Molti intellettuali denunciarono questa amara verità: La dolce vita di
Fellini, Rocco e i suoi fratelli di Visconti, La vita agra di Bianciardi. Nell’opera Il pollo ruspante, il
protagonista maschile, interpretato da Tognazzi, firma accumuli di cambiali per poter comprare un
televisore, i suoi figli parlano per slogan e la modernità distruttiva si manifesta nelle sembianze di
un autogrill così simile ad un pollaio. Tognazzi loda il pollo ruspante, considerato migliore perché
insofferente vola via, mangia ciò che vuole e possiede il libero arbitrio. La narrazione è intervallata
dalle immagini di un convegno di sociologia dei consumi in cui il professore dice che il
consumatore può sostenere lo sviluppo dei consumi solo se controllato, spiato e incitato, occorre
provocare uno stato di scontentezza sistemica nei consumatori. Tale scontentezza appare più
maschile che femminile perché l’uomo non regge il passo della frenetica corsa ai consumi e in
quanto capofamiglia si sente responsabile. La virilità veniva così umiliata da una disumana
modernità fin nel proprio nucleo biologico, genetico, riproduttivo: la degradazione della
paternità, attributo classico della virilità (Hegel scrisse non è uomo chi non è padre, frase ripresa
poi da Mussolini). Nei due episodi del film I mostri di Dino Risi del 1963 la pedagogia virilista
veniva ridicolizzata per la sua assurdità e stupidità:
- nel primo episodio l’educazione sentimentale il protagonista interpretato da Tognazzi
insegna al figlio che frequenta appena le elementari ad essere aggressivo, furbo, a
desiderare le donne formose. Il film si conclude con l’inquadratura di un articolo di cronaca
di dieci anni dopo che riporta la notizia di Tognazzi ucciso del figlio.
- il secondo episodio latin lovers punta già dal titolo alla ridicolizzazione del mito virile.
Gassman e Tognazzi si trovano su una spiaggia che pullula di bellissime turiste, sono
sdraiati con in mezzo una ragazza che si alza, allungano entrambi il braccio per afferrarla,
ma le loro mani si stringono.
Al culmine del famoso boom, il mitico gallo italiano era diventato prima un misero pollo di
allevamento, poi un cappone dall'infelice destino riproduttivo e infine ancora più miseramente
quasi una gallina.
5. Agonie terminali
Negli anni ‘70 la crisi della prospettiva virile toccò il suo apice per lasciare spazio al tentativo di
rilanciare un ordine culturale ispirato alla subordinazione delle donne nel pubblico e nel privato,
alla riproposta di una polarizzazione identitaria tra maschile e femminile, al risorgere di pulsioni
antiegualitarie, xenofobe o apertamente razziste e perfino vagamente nazionaliste. Negli anni
‘70 erano mutati, rispetto a prima, alcuni codici, valori, linguaggi; ma alla fine del secolo in più
erano mutate proprio le dinamiche stesse che determinano l'immaginario collettivo politico e di
genere, le forme di legittimazione delle nuove configurazioni gerarchiche, i circuiti di
comunicazione che veicolano norme, valori, rappresentazioni. La ragione storica del virilismo era
stata quella di dare ordine al mondo, esprimere una verità politica, naturale e trascendente sulle
identità e le relazioni di genere, di difendere nella modernità una mascolinità legata alla
tradizione, alla forza e alla gerarchia. In questo senso alla fine del millennio il virilismo classico
appariva in agonia terminale; tuttavia, i suoi fautori rimanevano numerosi e sono sembrati pure
aumentare negli ultimi anni riluttanti a immaginare un diverso ordine politico convinti del loro
diritto naturale a un certo grado di supremazia contribuendo a sviluppare un virilismo informale.
Nessuno però in questo secolo avrebbe potuto affermare che la donna era inferiore e chiunque
lo avesse fatto sarebbe stato considerato un retrogradato. Parte della mascolinità del fine
millennio ha continuato però a orientarsi verso comportamenti, prospettive politiche e linguaggi
ispirati al dominio, alla gerarchia, alla violenza, al disprezzo e alla paura delle donne. Il virilismo
fu mortalmente screditato soprattutto in concomitanza con la diffusione dei movimenti
neofemministi che azzerarono sul nascere ogni illusione di restaurazione di una supremazia
maschile ma hanno anche cambiato profondamente la percezione delle identità di genere. Questo
non ha creato la totale scomparsa delle disuguaglianze fra uomini e donne, né la vocazione
maschile a perpetuarle ma ha spinto un numero sempre più grande di uomini a definirsi in modo
parzialmente differenti rispetto al passato. Negli anni 80 e 90, le inquietudini degli uomini sulla
loro identità riemergevano attraverso i ricorrenti discorsi mediatici sulla crisi del maschio, l'uomo
aveva perso crisi del maschio la sua invisibilità, il suo privilegio di nascondere la propria parzialità
di genere dietro la divisa dell’essere umano per antonomasia. Attraverso la moda, la pubblicità,
gli uomini erano ormai oggetto di una produzione di merci, servizi, rappresentazione a uso
commerciale in cui era esplicito il suo essere un genere: la natura sessuata era sempre più
l'elemento fondante delle dinamiche di consumo. Allo stesso tempo, risorgeva a partire dagli
anni 80 un linguaggio maschile difensivo improntato sulla misoginia in un contesto in cui le
donne avevano ormai conquistato una piena legittimazione sociale nel mercato del lavoro, nelle
professioni, nei primi ruoli dirigenziali rilevanti. Negli anni 80 e 90 sulla scena mediatica emersero
rappresentazioni di donne che:
- da un lato tentavano di conferire un sinistro profilo con stigmatizzazione del loro successo;
- dall’altro riducevano le donne a corpo modellato sulle proiezioni del desiderio maschile più
triviale.
La diserzione dalla virilità
Negli anni ‘70, l'emergere di un femminismo radicale ebbe un effetto dirompente sulla cultura
virilista già gravemente colpita dalle trasformazioni epocali del decennio precedente. Carla
Ravaioli nel 1979 già tracciò un bilancio del mutamento che aveva investito il genere maschile: il
femminismo ha rimesso in discussione il genere maschile modificando il suo comportamento. La
messa in discussione del ruolo egemone maschile da parte del femminismo è andato
indubbiamente modificando anche i comportamenti di un numero notevole di uomini  dai
primi anni ’70, l'emergere in Italia di un nuovo femminismo molto più radicale, diffuso e
variegato ebbe certamente un effetto dirompente. Conseguenze particolarmente profonde
evidenti ebbero il movimento e il pensiero femminista sulle giovani generazioni di compagni
maschi, per molti dei quali, tuttavia l'esperienza della contestazione generalizzata nelle università,
nelle scuole, nelle fabbriche e nei quartieri marcava già un netto distanziamento dalle pratiche
della militanza di precedenti generazioni maschile. L'incontro/scontro con il neofemminismo
riguardò un confronto continuo sul piano delle grandi idee, sui ruoli e sulle relazioni ma anche
sulla condivisione dei compiti quotidiani come ad esempio lavare i piatti o cambiare i pannolini, le
femministe potevano contare sul consenso delle donne ma in questo momento della storia anche
su alcuni uomini: militanti della sinistra extraparlamentare, intellettuali laici e progressisti,
studenti, cattolici dissidenti; ma anche sull’appoggio di uomini autenticamente critici nei confronti
della mascolinità tradizionale. Nel il referendum sul divorzio avrebbe reso evidente a tutti 1974
che la società italiana non si identificava più in una visione del mondo rigidamente patriarcale e
tradizionalista. Nella vita di tutti i giorni i giovani uomini facevano esperienza di un mutamento
importante dei rapporti fra i generi e lo spazio domestico fu luogo di rinegoziazioni con
ridistribuzione paritaria dei compiti. Il fatto che un certo numero di uomini s'impegnassero
collettivamente a decostruire il castello simbolico della virilità rappresentò un evento di una
profonda rottura. L'uomo si rendeva conto che le armature virili da sempre rendevano infelici gli
stessi uomini. Gruppi di auto-coscienza maschile erano nati a partire dal 1969 negli Stati Uniti e
poi in Europa (Gran Bretagna, Germania, in Italia nel 1974). Secondo Stefano Segre da parte del
maschio non c’è nessuna spinta diretta a mettersi in discussione perché c’è identificazione tra lui e
il mondo circostante cioè per l’uomo realizzarsi significa realizzare sé stesso; per la donna
realizzare sé stessa nel mondo significa negarsi come donne.
Non c'è per l'uomo una storia di oppressione o di sfruttamento e sembra ridicolo pensare che
l'uomo debba liberarsi. I gruppi di coscienza maschile erano visti con sospetto dalle femministe
perché ritenevano l’autocoscienza maschile una strumentalizzazione della pratica delle donne. I
femministi, come furono ironicamente appellati, erano intellettuali o genericamente di sinistra,
erano più borghesi che proletari e rifiutavano il ruolo patriarcale di capofamiglia. Non tutti i
compagni rivoluzionari erano disposti a riconoscere piena dignità alle istanze politiche del
movimento delle donne. Secondo Marco Lombardo Radice, curatore di un volume del 1977 sulla
crisi del maschio, l’uomo cercando il suo posto e cedendo sempre più potere alle femmine ha
sviluppato un sano e proficuo antifemminismo. La parabola dei collettivi maschili di autocoscienza
in Italia fu una parentesi fugace. A chi aveva attraversato la stagione della mobilitazione collettiva,
gli anni ‘80 apparvero un ritorno all'ordine, il femminismo non riempiva più le piazze e non
esercitava più la stessa influenza sul senso comune. Erano sempre gli uomini a occupare
indiscutibilmente le stanze del potere a tutti i livelli. Già alla fine del decennio ‘70, secondo le più
attente analisi, era possibile vedere risalire le quotazioni dell'antifemminismo e della misoginia
(perché l'uomo voleva curare le ferite delle sue infelici esperienze personali vedendo come
colpevoli le donne). L'evoluzione individualista e terapeutica dell'autoriflessione maschile degli
anni ‘80 fu favorita dal disorientamento diffuso che portava con sé la stagione del grande freddo.
La prima causa del mutamento della mascolinità è sempre il riequilibrio del potere fra uomini e
donne nel pubblico e nel privato come ha sottolineato lo storico Vaudagna. Quindi l’uomo:
- o riesce a restaurare i ruoli tradizionali continuando meccanicamente a recitare un copione
antico
- o si mette in discussione e avverte un senso di impotenza e frustrazione data dall’impossibilità di
identificarsi entusiasticamente con modelli identitari di ispirazione virilista. Ammette la crisi e
cerca di curarla clinicamente entro una prospettiva tutta individuale.
Turbamenti mediatici
Nei decenni successivi agli anni ‘70 anche le forme di misoginia perdevano gran parte del loro
smalto retorico. Nell'ultima parte del secolo anche le rappresentazioni delle donne
classicamente viriliste risultarono sempre meno efficaci nel difendere la supremazia maschile
come principio indiscutibile  a vari livelli le stanze del potere rimanevano saldamente
presidiate da uomini e continuavano ad apparire come ambienti marcati naturalmente da un
tratto maschile inconfondibile. Gli uomini non hanno certo rinunciato completamente alla
supremazia, questa non è certo scomparsa ciò ma che è accaduto è che la legittimazione della
gerarchia fra i generi ha mutato la dimensione discorsiva, non essendo più affidata a occasioni
argomentative ma a canali pedagogici più discreti. L'impraticabilità delle vecchie retoriche che
denigravano le donne ha spinto a trovare forme di espressioni meno frontali, il linguaggio
mediatico ha spesso offerto ottime occasioni per rappresentare le donne in modo perlomeno
riduttivo ma ricorrendo alla grande potenza evocativa di stereotipi, immagini, tecniche e
linguaggi tipici della comunicazione di massa. Lo stereotipo della donna in carriera diffuso negli
ultimi due decenni del ‘900 suggeriva una pericolosa deriva innaturale del femminile che da un
lato contaminava gli ultimi spazi della sfera pubblica e dall'altro era essa stessa contaminata dalla
mascolinità. Non potendo più far leva su una legittimazione, si ricorreva a una recriminazione
patriarcale. L'icona della donna in carriera suscitò tratti inquietanti che, nell'immaginario
misogino maschile, erano stati per lungo tempo collegati allo scenario di una donna in una
posizione di prestigio e di potere  fu tipico di questa operazione il tentativo esplicito di
incidere direttamente sulla rappresentazione delle donne stesse facendo leva sui pesanti sensi
di colpa che molte donne venivano chiamate a provare nel momento in cui sceglievano
egoisticamente di non rinunciare alle proprie aspirazioni personali nei propri impegni familiari.
Sul Corriere della Sera si affermava nel ‘99 che la tendenza sempre più marcata da parte delle
donne in carriera a fare la scalata ai ruoli tradizionalmente maschili avrebbe trasformato anche il
loro comportamento materno: madre cattiva, madre che lavora: assente ed egocentrica. C'era
sempre il dubbio che a donne moderne e snaturate facesse difetto la coscienza, e che quindi non
fosse per nulla sufficiente far leva sulla loro colpevolizzazione in quanto madri o mogli  si
riteneva più utile convincere le lettrici che le proprie scelte professionali avrebbero sicuramente
distrutto non solo i propri affetti ma loro stesse. Donne in carriera, più infelici degli uomini.
L'emancipazione socioeconomica delle donne nelle società industrializzate ha portato a un
declino del loro benessere psicologico. Su un periodico on-line nel 2009 fu pubblicato un articolo
intitolato Donne in carriera più infelici degli uomini in cui si sosteneva che l'emancipazione
socioeconomica delle donne nelle società industrializzate ha portato a un declino del loro
benessere psicologico. Sempre sul Corriere della Sera si arrivò a una patologizzazione della donna
rampante diagnosticando la FESS (Female Executive Stress Syndrome), sindrome psichiatrica in
cui la donna non ha interesse per i discorsi sui bambini e ricette e rifiuta perfino la sua
personalità femminile. Nel 2006 sullo stesso quotidiano comparve l’articolo intitolato “Uomini,
non sposate le donne in carriera” in cui si sosteneva che la donna virilizzata avrebbe generato
meno figli, vissuto la maternità come sofferenza, non avrebbe pulito casa, avrebbe tradito il
marito, divorziato e persino il marito della donna in carriera si sarebbe ammalato più
facilmente. Nei primi anni ‘90, la nuova complessità dell'immagine mediatica dell'uomo era un
fenomeno già molto evidente: il nudo maschile riceve un importante certificazione sul piano
marketing. Nel 1997 apparse un quadrimestrale italiano dedicato alle derive del maschile, un
articolo in cui si analizzava il crescente ricorso alla corporeizzazione e genitalizzazione maschile. La
mascolinità o meglio la virilità comincia a essere sottolineata fisicamente fino alla provocazione.
Ma questi giovanotti muscolosi, questo ritorno di un ideale fisico primitivo e selvaggio
nascondono un'insoddisfazione, un'inquietudine, una tensione di fuga. Il tema della crisi del
maschio si ripropose sempre più spesso nei media, sembrava di assistere a una sorta di
riemersione dalla clandestinità degli uomini in quanto uomini. Era diventato pressoché
impossibile mettere in atto strategie efficaci di riscossa virile che potessero restituire (come era
sembrato possibile per più di un secolo) illusioni di potenza, dominio, maestà indiscussa. Alla
fine del 900 lo sguardo dell'uomo non soltanto tornava su sé stesso, vedendosi egli come uomo,
sotto la spinta di un confuso malessere, di un senso di frustrazione, di un trauma di
detronizzazione ma rimaneva penosamente bloccato sull'evidenza impietosa della propria
finitezza sessuata in un equilibrio ormai impossibile fra nuove domande e risposte superate. Nella
metà degli anni 90, i periodici dedicavano pure le copertine all'impotenza maschile, come
fenomeno in aumento. Nel film Full Monty del 1997, importante tassello della rappresentazione
degli uomini, il protagonista racconta a degli amici di aver visto 3 donne in bagno che urinano
come gli uomini e parlano di loro. In quanto uomini, sentendosi in via d’estinzione come dinosauri,
prenderanno la decisione di diventare spogliarellisti per ridare desiderio alle donne. Trasformati in
oggetto di desiderio, si spogliano della tradizionale neutralità maschile fanno esperienza di cosa
vuol dire trovarsi dall’altra parte del circuito erotico, lasciando emergere la propria parzialità.
La virilità come merce
La perdita dell'occupazione, la precarietà del lavoro, minavano la sicurezza maschile su più piani:
annullamento del ruolo di breadwinner, annullamento dell'esclusività del procacciatore di
reddito, indebolimento dell'identità sociale legata alla posizione professionale. Il mercato aveva
individuato nell’invisibilità maschile un limite importante alle tendenze di sviluppo in atto: perché
l’uomo diventasse un target bisognava secolarizzare e interrogare l’identità maschile. Si assiste
alla moltiplicazione di immagini maschili in cui era proprio l'identità di genere a interrogare e
allo stesso tempo a essere interrogata da chi guardasse. Fra gli anni 90 e 2000 lo sviluppo
impressionante di nuovi consumi (cosmetici, palestre, centri fitness, chirurgia estetica…)
conduceva il corpo maschile a un'ulteriore e continua esposizione mediatica, impensabile in
altre epoche. Questa esperienza corporea legata a un senso di inadeguatezza personale poteva
anche generare sul piano sociale una confusione crescente tra i generi e dunque nuovi timori di
svirilizzazione: un vero e proprio circolo vizioso dell'identità maschile. L'appropriazione
mediatica del maschile per esigenze di mercato di consumo costituiva la sconsacrazione finale
della virilità: il corpo maschile divenne oggetto e non più solo soggetto dello sguardo collettivo e
ciò impediva ogni illusione di rianimazione del virilismo, non poteva sopravvivere
all'abbassamento al rango. Questa sessuazione del mercato e mercificazione dell'identità
maschile agiva in un contesto sociale e culturale in cui il sistema complessivo dei media veniva
acquisendo un peso politico più che notevole. Il corpo maschile era ormai al centro dello
sguardo dei media e di conseguenza di un pubblico di centinaia di milioni di lettori e spettatori
 il corpo poteva diventare oggetto di un'attenzione mediatica dagli esiti potenzialmente
imprevedibili. Le riviste maschili italiane  Se il new man è un uomo ossessionato dalla salute e
dalla forma fisica, allora tali riviste devono essere il luogo in cui questa ossessione viene
incoraggiata e legata ad arene differenti come la malattia, la dieta e il regime alimentare, la
chirurgia estetica, la bellezza eccetera. Si tratta di un vero e proprio allarme sociale alimentato a
scopo commerciale, in cui il corpo maschile è continuamente sotto assedio, minacciato dalle
tipiche malattie maschili: stress, ipertensione, fumo ecc. La conclusione è che i periodici maschili
mostrano una mascolinità precaria, che va definita, è in costante pericolo di ridefinizione in corso
d'opera. Il regime della visibilità pubblica come oggetto aveva ormai investito nell'identità
maschile rendendolo invisibile come soggetto.

Novità del movimento femminista degli anni ‘70, si pratica l'autocoscienza  si tratta di
processi collettivi, dinamiche collettive, hanno valore per questa dimensione di gruppo, di
forza. Una presa di coscienza politica poteva esserci perché ogni donna si rispecchiava
nel percorso biografico, nei disagi e pensieri anche delle altre donne. Vogliamo anche le
rose - film su Rai Play
Movimento femminista: politico ma anche culturale. Componente cattolica molto rilevante
 Movimenti di liberazione omosessuale - la culla sono gli Stati Uniti, atto di nascita è la
data convenzionale (June 28 – July 3, 1969) Stonewall Riots. Bar frequentato dalla
comunità LGBTQ+, nel giugno 1969 c'è una carica della polizia. La cosa che va
sottolineata è che tra gli esponenti di questi scontri ci siano delle attiviste afroamericane.
Questo darà inizio a una serie di eventi che poi verranno emulati in Europa e anche in
Italia dove si parla di un episodio della piccola Stonewall italiana: contestazione del
congresso internazionale di sessuologia di Sanremo, 5 aprile 1971.
Anni 70  colpo di grazia dopo il declino, ovviamente il virilismo non è totalmente finito. Ci
sono ma sono elitarie e soprattutto negli USA dei tentativi da parte egli uomini di ripensare
la mascolinità e mettere in discussione i modelli maschili dominanti. Questo accade dopo
anni di prevalente diffidenza e scetticismo. Le prime comparse pubbliche dei collettivi
femministi vengono spesso osteggiate dai compagni maschi. Man mano che il movimento
cresce, nonostante lo scarso supporto. “Il manifesto” è tra i giornali che dà più spazio alle
idee femministe: si iniziano a raccontare le novità e il movimento cresce basandosi su
tematiche importanti come l'aborto. Casi di gruppi di uomini che pensano di poter fare
autocoscienza per cambiare il loro modo di essere padri, figli, mariti. In USA questo è più
rilevante, nuovi modelli di uomini e relazioni tra uomini. Maschio in crisi, inizia ad avere
difficoltà a causa della perdita di sicurezze, letto come una delle cause del rinvigorirsi e del
rafforzarsi della violenza di genere. Come c’era stata la mostrificazione di modelli di donne
non sposate ecc. questo si tramuta in fobia per la donna in carriera (sguardo volto più
verso gli anni 90 - 00) > Contro mito della donna in carriera, la donna rampante avrebbe
perso i suoi connotati naturali e sarebbe diventata androgina  Virilità come merce.
Anni 2000 - riferimenti non espliciti sulla Lega Nord e Berlusconismo
Il libro di Bellassai è del 2012, quindi durante il pieno dibattito sugli scandali sessuali su
Berlusconi. La Lega partito fin dalle sue origini più lontane - fine anni 80 - mette al centro
una ideologia patriarcale molto forte, donne della famiglia e della comunità che deve
essere sotto il controllo dei maschi e se negli anni ’80, nell’era Bossi queste idee si
muovevano sulla pseudoironia, con Salvini si tratta più di partito nazionale che guarda a
una politica di destra molto chiara e conservatrice con le donne e temi correlati.
Precedentemente il partito era basato più su un’impronta anti-meridione, ma impronta di
genere molto forte.
La consolazione alla crisi di mascolinità è rappresentata dal consumismo, prodotti che
sembrano promettere almeno successo, benessere, risoluzione di alcuni conflitti.
Pubblicità terribile che arriva a colmare insicurezze attraverso messaggi molto sottili: se
prima l’uomo doveva comprare alla moglie tutto ciò di cui avesse bisogno, ora è lui il
consumatore per sé stesso > Consumismo che alla lunga porta alla frustrazione. Bellassai
ci dice che non mancano fenomeni ostili di gruppi contro l'egemonia femminile, che
minacciano gli uomini in generale ma anche la paternità.
EPILOGO. Un virilismo virtuale?
Il virilismo classico non è ancora stato sepolto, il genere maschile è ancora largamente
avvantaggiato, a tutti o quasi i livelli che contano, quanto alle strutture concrete del potere. Sul
piano simbolico, alcune culture politiche come i femminismi sembrano appartenere a un passato
sconfitto. Il virilismo infatti appartiene al passato, a un passato che non passa. In apparenza,
nell’Italia di oggi la messa in scena della virilità sul palcoscenico politico è più fiorente che mai, vari
altri motivi che hanno segnato la storia del virilismo appaiono ancora vivi e vegeti, a cominciare
dall’icona dell’erezione fallica che ha rappresentato un ingrediente fondamentale
dell’autorappresentazione di un partito importantissimo del centro destra, per finire con il festival
quotidiano delle tradizioni “etniche” a ogni scala, dal borgo alla civiltà europea. Per quanto
riguarda la misoginia, le opinioni si divaricano drasticamente fra chi ritiene che la parità sia del
tutto raggiunta e chi invece si indigna per come le donne vengono trattate, rappresentate, umiliate
nella politica, nella società, nei media italiani. È indubitabile che la libertà delle donne sia
enormemente aumentata ma altrettanto certo pare che la paura maschile di questa libertà non si
affatto scomparsa, anzi determini pesantemente le strutture di un certo immaginario collettivo
prevalente, le dinamiche del sistema politico, in definitiva le esistenze di donne e uomini a infiniti
livelli. La paura degli uomini per la perduta legittimazione sembra non morire mai. I suoi frutti nella
politica, nell’economia, nei media, continuano ad inondare il nostro paesaggio quotidiano. Negli
ultimi decenni sembra si sia accentuata una necessità mediatica di rimarcare la polarizzazione di
genere a fronte di una temuta indistinzione. Il corpo è spesso utilizzato nella produzione di
immagini a vari livelli e sembra un modo per marcare una distinzione drastica fra uomini e donne
sul piano sociale. Un certo ammiccamento erotico nella comunicazione pubblicitaria, a partite
dagli anni 70-80, una valanga di corpi femminili, o pezzi di corpi, sembrano volerci convincere che
le donne sono una promessa di piacere, un’icona molto femminile da desiderare, un paradiso di
proprietà del desiderio maschile. La rappresentazione mediatica delle donne ha costituito negli
ultimi anni l’oggetto di una critica politica sempre più diffusa, indirizzata verso una logica misogina.
Non è solo questione di una erotizzazione dell’immagine femminile, ma di uno scenario
complessivo in cui i ruoli affidati alle donne appaiono molto meno autorevoli di quelli riservati agli
uomini. Svalutazione della donna come persona, eternamente relegata in ruoli sciocchi e
superficiali. Una realtà tipicamente italiana per spudoratezza misogina sono i programmi televisivi
odierni che degradano l’identità delle donne italiane. Molta tv non rispetta la dignità delle donne,
ma non viene percepita come offensiva: ad esempio programmi tv come Non è la Rai, Striscia la
notizia, Paperissima, Passaparola. Il fenomeno ha coinvolto anche programmi più tradizionali
trasmessi la domenica pomeriggio. A questo si affiancano i reality show, i quali rappresentano le
donne come trepide aspiranti fidanzate e mogli, e in assoluto come membri di un volgarizzato
harem o come docili esempi di femminilità vecchio stampo. Ad esempio, Uomini e donne, basato
sull’idea della discussione fra gente comune in studio, sempre a sfondo emotivo, con il pubblico
pronto all’insulto, alla gogna, riporta in auge antichi concetti: l’uomo deve puzzare e la sua sposa
deve essere una brava ragazza e ricevere l’approvazione della futura suocera. I beni di consumo
sono rigorosamente concepiti in rosa o azzurro, carichi di stereotipi rafforzativi delle norme
tradizionali di genere fino alla prima infanzia. Attualmente viviamo una dimensione del virilismo
virtuale, come una questione politica, Silvio Berlusconi, uomo intorno a cui ruota il sistema politico
italiano da quasi 20 anni, è il proprietario dell’impero mediatico che rappresenta il principale
motore di questa virtualità virile e colui che domina il governo, il Parlamento, il principale partito
politico italiano. Berlusconi è indagato per giri di prostituzione di ampie dimensioni, i particolari
trapelati dalle carte disegnano uno scenario da harem che rivela un intreccio tra sessualità
maschile, potere, denaro. Non pochi uomini, piuttosto che prendere le distanze da comportamenti
e dinamiche del genere, magari hanno provato invidia per quest’uomo che, grazie al potere,
avrebbe potuto avere a sua disposizione le più belle donne che volesse. Avere le donne a propria
disposizione è il sogno incoraggiato dalla rappresentazione maschile prevalente sui media, non
lontani dai territori dell’immaginario maschile che sostiene la domanda di prostituzione.
Naturalmente si tratta di una fantasia, di un’illusione; quelle donne sembrano a disposizione degli
uomini perché ritengono che questo sia il mondo migliore di ottenere da costoro ciò a cui aspirano
(soldi, raccomandazioni, favori ecc.) e non perché sono subalterne agli uomini stessi. L'icona di un
uomo di settant'anni deliziato da un harem di belle ragazze è fatto apposta per alimentare
l'illusione di una potenza sessuale fine e senza tempo. Assistiamo oggi sul piano politico mediatico
alla messa in scena di una virilità che paradossalmente ha perso del tutto la sua potenza
trascendentale nel momento in cui ha acquisito corporeità e visibilità. Anche nel passato questa
virilità era un'invenzione, ma ora è una pura virtualità che in quanto progetto di legittimazione
gerarchica non riflette più un assetto politico della realtà ritenuto normale, giusto e indiscutibile.
Questo virilismo virtuale trovo ancora un pubblico disposto a crederlo reale.

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