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Riassunto COMPLETO "What

is Gender History?" di Sonya


Rose
Storia Contemporanea
Università degli Studi di Napoli L'Orientale
37 pag.

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What is Gender History?

Prefazione
Il libro tratta di cosa fanno gli storici del genere. Studia i diversi approcci al
campo, i loro sviluppi e sottolinea le tematiche storiche che hanno interessato
gli storici del genere. Tratta anche delle controversie che si sono sviluppate
tra studiosi/e della storia delle donne e studiosi/e della storia del genere.
Il Capitolo 1 fornisce le definizioni per concetti quali “Genere”, “Storia”, “Storia
femminista”. Traccia gli sviluppi di Gender History a partire dalla Storia delle
donne e discute la sua influenza disomogenea sugli studi.
Il Capitolo 2 si focalizza sulla distinzione tra Sesso e Genere. Analizza storie
del corpo e storie della sessualità.
Il Capitolo 3 si concentra nel mettere in luce ed analizzare le intersezioni tra
Genere e razza e tra Genere e classe, usando come esempi la schiavitù e il
colonialismo.
Il Capitolo 4 tratta del tema della mascolinità, dei differenti approcci ad esso
ed enfatizza le mutevoli interpretazioni della mascolinità nel corso del tempo,
quindi come la sua interpretazione sia cambiata nelle varie epoche e di come
la virilità (manhood) è concepita e praticata in precisi periodi storici.
Il Capitolo 5 mostra il contributo degli/delle storici/storiche del genere a
questioni che sono centrali per gli storici in generale: conquista coloniale,
rivoluzione, nazionalismo, guerra e contiene esempi che vanno dal 17esimo
secolo al 20esimo secolo.
Il Capitolo 6 si concentra su alcune delle controversie sugli approcci allo
studio di Gender History e mette il lettore davanti alle nuove direzioni prese
negli studi, come gli approcci incentrati sulla soggettività, psicoanalitici, e altri
come global history.
Il libro si impegna nel fornire al lettore conoscenza riguardo le domande che
gli storici del genere si sono posti e si pongono e in che modo hanno
elaborato delle risposte. Rose non si è limitata a fornire esempi che
riguardassero solo il contesto Nord Americano e Britannico (anche se la
maggior parte degli esempi riguarda queste realtà) ma ha fornito anche
esempi relativi ad altri contesti. Il libro si focalizza molto sul periodo storico
moderno che va dal 19esimo al 20esimo secolo perché Rose è specializzata
in storia moderna e in particolare su questo periodo. Tuttavia nel libro sono
discussi anche lavori di studiosi che si sono focalizzati su periodi che vanno
dal 13esimo al 18esimo secolo.

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Capitolo 1
Why Gender History?
Il genere ha una storia ed è storicamente significativo. La storia è il prodotto
degli studi concernenti il passato. Quindi essa è ricostruita attraverso questi
studi condotti dagli storici. La conoscenza che noi abbiamo del passato è
ricostruita, prodotta dagli storici. Ciò che noi conosciamo del passato è
determinato dalle domande che gli storici si pongono e dalle risposte che
forniscono in base alle loro interpretazioni. Gli storici, sottolinea Rose, non
vanno considerati come dei soggetti esterni alla storia. Essi sono nella storia,
sono influenzati da essa e dalle condizioni politiche, culturali, economiche,
sociali nelle quali vivono e lavorano. Gli approcci allo studio del passato sono
cambiati nel corso del tempo, quindi Rose dice che si potrebbe affermare che
anche la storia ha una storia. E’ importante avere in mente questo
background per iniziare a trattare le tematiche relative al genere e alla storia
di genere. Nonostante differiscano negli approcci, tutti gli storici condividono
l’assunto secondo il quale le condizioni nelle quali gli individui vivono le loro
vite e le società che danno forma a quella condizioni cambiano nel tempo. I
cambiamenti sono tanti, vari, e anche la velocità alla quale avvengono varia.
Non tutti gli storici sono interessati a tracciare e tenere conto dei
cambiamenti. Mentre alcuni si focalizzano sul mostrare come certi eventi o
processi sono stati fondamentali nella trasformazione di una società o di un
suo aspetto, altri sono interessati a studiare i processi che producono
continuità nel tempo, altri ancora sono focalizzati nello studiare gli aspetti
della vita di uno specifico periodo storico. Tuttavia anche se non tutti gli storici
si focalizzano sul cambiamento in se, tutti sono consapevoli del fatto che gli
aspetti delle vite che studiano e di cui scrivono sono il risultato di processi
culturali e sociali avvenuti nel corso del tempo.
Rose sottolinea che la storia di genere si basa sull’idea fondamentale
secondo cui ciò che significa essere uomo o donna ha una storia, storia che
appunto definiamo di genere. I significati associati all’essere uomo e
all’essere donna sono mutati nel tempo. Dunque gli storici del genere sono
interessati ai cambiamenti nel tempo e alle variazioni (nelle singole società in
specifici periodi nel passato) che riguardano le differenze percepite tra uomini
e donne, le relazioni tra uomini e donne e la natura delle relazioni tra donne e
le relazioni tra uomini considerati/e come esseri di genere (che hanno un
genere). Gli storici di genere sono interessati a tali differenze e relazioni e a
come queste sono PRODOTTE STORICAMENTE (frutto di processi) e a
come si trasformano. Inoltre si interessano a come il genere impatti su eventi
e processi storicamente significativi. Per comprendere meglio il lavoro degli
storici di genere è fondamentale chiarire il significato del termine “gender”.
Gli studiosi utilizzano il termine per denotare le differenze percepite tra uomo

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e donna e le idee, significati che vengono attribuiti all’essere uomo e
all’essere donna. Fondamentale nella definizione di genere è l’idea secondo
cui queste differenze sono socialmente costruite e non innate, di natura. Di
conseguenza questa prospettiva sostiene che ciò che significa essere uomo
o donna, le interpretazioni e le definizioni della mascolinità e femminilità, le
caratteristiche attribuite al maschile e al femminile, sono tutti prodotti della
cultura. E’ importante comprendere la differenza tra i termini “gender” e “sex”
perché spesso vengono usati erroneamente come sinonimi nel discorso
popolare. Il termine gender venne inizialmente usato dalle studiose
femministe per denotare la costruzione culturale della differenza sessuale tra
uomini e donne, in contrasto con il termine “sex” che denota la differenza
biologica. Prima degli ultimi decenni del XX secolo in cui si è avuta una forte
crescita e un forte impatto degli studi delle donne e di genere in varie
discipline era condivisa l’idea che le differenze tra uomini e donne fossero
determinate dalla natura e non fossero il prodotto della cultura. Dunque per
spiegare le differenze tra uomo e donna riguardo le posizioni sociali ricoperte,
i diversi modi di vivere, il carattere gerarchico della relazione tra uomo e
donna che vedeva la donna subordinata, si faceva riferimento al presunto
carattere naturale di queste differenze, le quali, di conseguenza, venivano
considerate normali e non messe in discussione.
La storia di genere si è sviluppata in risposta agli studi e ai dibattiti riguardo la
storia delle donne. Quest’ultima ha avuto il suo periodo di fioritura tra gli anni
60 e 70 e ancora oggi costituisce una componente fondamentale della storia
di genere. Storie di donne erano state scritte anche prima degli anni ‘60,
quindi si potrebbe considerare questo periodo come un revival. Tuttavia gli
studi si svilupparono in un contesto nuovo che permise al campo di diventare
una disciplina accademica. Le storie di donne precedenti agli anni ‘60 secolo
riguardano perlopiù figure di sante e regine. Dunque le vite delle donne
comuni non venivano registrate, non c’era interesse a riguardo, a eccezione
del lavoro di alcune autrici che sono considerate predecessore della storia
delle donne contemporanea e che scrissero appunto nella prima metà del XX
secolo. Alcuni di questi nomi: Eileen Power, Alice Clark, Ivy Pinchbeck in
Gran Bretagna; Julia Spruill e Mary Beard negli Stati Uniti. Rose evidenzia
come il lavoro di queste autrici sia stato trascurato dalla storia tradizionale
nella prima metà del XX secolo e quindi non integrato all’interno degli studi di
storia del tempo. Questo perché gli storici del tempo consideravano le attività
delle donne come madri, serve, lavoratrici e consumatrici come irrilevanti per
la storia. Perché? Innanzitutto, dice Rose, le donne erano state negate come
soggetti storici, perché gli storici del tempo ritenevano che la storia si
occupasse esclusivamente dell’esercizio e della trasmissione del potere nei
campi della politica e dell’economia, contesti in cui gli attori erano uomini.

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La nascita e affermazione della Storia delle donne ha influito anche sui
metodi di studio utilizzati nel campo di Storia sociale. Gli storici sociali
tuttavia, se da un lato cominciarono a considerare come storicamente
rilevante anche la conoscenza delle vite quotidiane di persone ordinarie,
dall’altra continuavano a ignorare le donne in quanto soggetti storici e a
considerare come agenti universali della storia unicamente individui che
erano uomini, bianchi, europei o nord americani. Anche gli studiosi di Storia
del lavoro perseveravano in questo approccio: il termine “workers” denotava
esclusivamente lavoratori uomini e non le lavoratrici donne. Studiosi di storia
delle donne hanno scoperto che anche le donne sono state attiviste politiche,
rivoluzionarie, riformatrici sociali, e hanno dimostrato come il lavoro femminile
contribuiva all’economia domestica. Hanno inoltre cercato di allargare la
definizione della storia e della politica, allargando la portata ad includere la
vita privata delle persone. Si sono addentrati/e in argomenti prima considerati
irrilevanti poiché ritenuti naturali e non prodotti culturali, come ad esempio
violenza domestica, prostituzione e parto. Queste sfide alla pratica storica
tradizionale sono sorte da sviluppi storici come l’affermazione del movimento
delle donne, conosciuto come “seconda ondata femminista”, per distinguerlo
dal primo movimento femminista di fine XIX e inizio XX secolo che era
impegnato nell’ottenere il diritto di voto per le donne e a far venire alla luce
altre problematiche relative alla disuguaglianza femminile. Il movimento
femminista ha dunque alimentati l’interesse e generato approcci alla storia
delle donne. Sebbene ci siano discordanze riguardo quali debbano essere i
fini ultimi del femminismo anche e soprattutto tra coloro che si definiscono
tali, Rose sostiene che la maggior parte condivide l’idea che ciò che è
centrale per il femminismo è la credenza che le donne debbano avere gli
stessi diritti umani degli uomini. Le femministe sostengono che la donna si
svantaggiata rispetto all’uomo. Che la donna soffra questi svantaggi a causa
di come il genere ha modellato il suo mondo sociale. Dunque queste
convinzioni hanno spinto le femministe a recuperare storie di donne che non
sono state raccontate, in modo da rivelare le ragioni sottostanti lo status
subordinato delle donne e interrogarsi sul motivo dell’esclusione delle donne
dai registri storici. Come hanno scritto Renate Bridenthal e Claudia Koonz
(storiche europee) nell’introduzione al loro lavoro Becoming Visible: Women
in European History, pubblicato nel 1977, “The essays written for volume
seek both to restore women to history and to explore the meaning of women’s
unique historical experience (restaurare la storia delle donne ed esplorare
quanto sia stata significativa l’esperienza femminile nella storia).”
L’affermazione delle donne come storiche è stata diversa a seconda delle
culture, alcune più aperte alle studiose delle donne di altre. Negli Stati Uniti la
storia delle donne si è affermata più velocemente che in Gran Bretagna

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perché negli USA le studiose delle donne hanno ottenuto supporto
istituzionale nelle università negli anni 70’, mentre in Gran Bretagna le
storiche cominciarono a fare storia delle donne al di fuori delle accademie. In
Francia e Germania il processo di accettazione della storia delle donne da
parte di storici maschi è stato ancora più lento. Ancora oggi, dice Rose, la
storia delle donne manca di una solida rispettabilità accademica. La storia
delle donne, sebbene le storiche delle donne fossero tutte ispirate dal
femminismo, si è sviluppata diversamente a seconda del contesto nazionale.
Interessante come in negli USA si affermò l’ideologia delle sfere separate che
concepiva 2 ambienti nella società, quello pubblico e quello
privato/domestico. La donna era considerata come naturalmente
appartenente alla sfera domestica. Rose cita il lavoro di Barbara Welter
realizzato nel 1966 che trattava del cosiddetto “The cult of Womanhood”
un'ideologia molto radicata negli anni 1820-1860 negli USA secondo la quale
le donne dovrebbero vivere secondo e per le virtù di "Pietà, purezza,
sottomissione e domesticità". Welter concentrò la sua indagine sulle donne
bianche del nord e della classe media, e utilizzò come fonte materiale scritto:
libri di consigli, sermoni, riviste femminili. Questo tipo di approccio fu criticato
perché teneva conto solo di un singolo gruppo di donne. Tuttavia questo
lavoro fu molto importante per lo sviluppo del campo di studi negli Stati Uniti.
Il saggio di Welter si concentrava anche nel mettere in luce le relazioni
patriarcali che confinavano la vita delle donne e le opprimevano. La sfera
delle donne nel XIX secolo negli USA è stata analizzata da alcuni studiosi/e
femministi/e negli anni ‘70 e ‘80 come la fonte della cosiddetta cultura
femminile. Gli studiosi che hanno sviluppato l’idea di una “cultura delle
donne” erano inizialmente interessati a esplorare la centralità delle relazioni
tra donne nella storia. Una di queste studiose, Carroll Smith-Rosenberg, sulla
base dell’analisi di lettere e diari di donne risalenti al XIX secolo in America,
sostiene che per capire la vita delle donne in questo periodo è stato cruciale
per lei esaminare le relazioni che intrattenevano l’una con l’altra. La studiosa
ha sottolineato che le donne, sia come amiche, parenti, vicine, trascorrevano
la loro vita assieme e che nel loro rapporto erano centrali la solidarietà e la
devozione. Talvolta queste relazioni coinvolgevano anche la sensualità e
sessualità fisica. Un’altra studiosa, Nancy Cott si è impegnata nell’andare
ancora più a fondo nell’analisi dello sviluppo dell’ideologia della domesticità e
della sfera femminile durante il periodo che va dal 1780 al 1835 nel suo libro
“The Bonds of Womanhood”.
Il titolo mette in evidenza la doppia valenza del termine “bonds” che come
afferma l’autrice può indicare sia costrizioni sia legami. Usando diari e anche
letteratura prescrittiva ha messo in luce le conseguenze oppressive
dell’ideologia della domesticità e ha anche evidenziato che all’interno della

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sfera femminile era coltivato un senso di sorellanza in virtù del quale diverse
donne sono diventate politicamente coscienti come donne e si sono attivate
politicamente per promuovere i loro diritti.
In Gran Bretagna la ricerca nel campo di studi di storia delle donne è stata
stimolata sia dal movimento femminista sia dalla storia sociale e del lavoro di
stampo Marxista. Negli anni 70-80 gli/le storici/che femministi/e erano
interessati/e ad esplorare l’influenza delle divisioni razziali e di classe sulla
vita e attività delle donne. In questo filone di ricerca rilevante è il lavoro di
Sheila Rowbotham che nel suo saggio del 1973 Hidden from History, ha
analizzato l’impatto del capitalismo sulle vite delle donne dalla fine del XVII
secolo agli inizi del XVIII e ha esplorato la partecipazione femminile al
progetto femminista e socialista. Un’altra studiosa, Sally Alexander, muove
delle critiche alle idee del pensiero Marxista riguardo il modo di produzione
capitalista e ritiene che la divisione sessuale del lavoro che viene articolata e
riprodotta all’interno della famiglia ha modellato il capitalismo industriale e
che l’impatto che questa divisione del lavoro propria del contesto familiare ha
sulle trasformazioni industriali dovrebbe essere centrale nella ricerca storica
femminista. Uno studio di Jill Liddington e Jill Norris si concentra invece
nell’analizzare le vite delle donne della classe operaia della Gran Bretagna
del nord. Nel loro saggio del 1978 viene evidenziato il loro attivismo politico
nel promuovere il voto delle donne e l’autrice si impegna nel mettere in
evidenza i legami tra l’attività di suffragette, la vita familiare e la vita
lavorativa, trattando anche di come queste donne venissero mal viste da
uomini che facevano parte delle loro vite e di come cooperassero per poter
compiere i loro lavoro domestici da una parte e continuare il loro attivismo
politico dall’altra. Laura Oren, riprendendo il concetto di “economia familiare”
mette in luce come le divisioni sessuali all’interno dell’ambito domestico
penalizzassero l’alimentazione delle donne e dei figli rispetto a quella degli
uomini. Le donne spesso cercavano di stringere la cinghia nelle spese
domestiche, mentre i mariti usavano il loro salario per le loro necessità e
piaceri. Il budget controllato dalla donna era sia una riserva per il marito in
tempi di crisi, sia una riserva economica in generale per le spese domestiche.
Anche in Gran Bretagna le studiose di storia delle donne si sono interessate
all’ideologia delle sfere separate. Centrale è l’immagine di “beau idyll” negli
studi di Leonore Davidoff che richiama il carattere pacifico, idilliaco,
borghese, della vita nelle città suburbane che si sviluppavano per imitare la
vita nei villaggi rurali. L’idea centrale di questo stile di vita vedeva la sfera
familiare come la sfera di influenza della donna, separata dalla sfera
pubblica, che riguardava gli uomini. Davidoff considera questa divisione tra
pubblico e domestico non come una caratteristica senza tempo ma come
legata allo sviluppo del competitivo mondo economico degli affari, quindi

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come il risultato di un processo e non un fatto di natura.
Mentre alcune storiche britanniche erano interessate alle conseguenze di tale
ideologia sulle donne della middle class, altre storiche degli USA erano
interessate al lavoro femminile e alla storia della classe operaia. La studiosa
Alice Kessler-Harris studia l’ambivalenza dei sindacati maschili nei confronti
delle organizzatrici femminili e il loro scarso supporto a queste ultime. Il
lavoro di Thomas Dublin riguardano le lavoratrici operaie nell’industria tessile
di Lowell, nel Massachusetts e si basa su lettere, memorie, archivi. Tratta
delle assunzioni delle donne del New England rurale per i lavori in miniera e
mette in luce l’attività di protesta che la comunità di Lowell aveva intrapreso
per richiedere migliori salari e migliori condizioni lavorative.
Un’altra strada percorsa dagli studi di storia delle donne è costituita dal
femminismo radicale, seguito sia negli USA che in Gran Bretagna. Le
femministe radicali consideravano il sistema patriarcale la fonte
dell’oppressione femminile e dunque ritenevano che il problema del potere
dell’uomo sulla donna (patriarcato) doveva essere centrale nelle analisi delle
storiche delle donne. Secondo il London Feminist History Group (gruppo di
storia femminista di Londra) le donne non sono solo state nascoste dalla
storia, ma sono state deliberatamente oppresse. E dunque uno dei principi
del femminismo è riconoscere questa oppressione. Il che non significa
considerare le donne solo come vittime, ma più che altro impegnarsi
nell’indagare i modi in cui le donne hanno resistito a questa oppressione. Il
gruppo di Londra ritiene fondamentali le storie che trattano delle attività delle
donne che esulavano dalla sfera domestica poiché sono testimonianza di
come esse cercassero di contestare il dominio maschile di quelle aree non
domestiche, anche se andavano incontro all’opposizione maschile. Lavori
che si concentravano sulle donne nel passato continuarono ad essere
prodotti anche negli anni ‘80. Contemporaneamente aumentavano le critiche.
Molte ritenevano che ci fosse una tendenza negli studi di storia delle donne
nel presupporre un’esperienza femminile universale che non teneva però
conto delle differenze tra le donne riguardo razza, classe, religione, nazione,
etnia, preferenza sessuale. Inoltre, le studiose femministe iniziarono a
preoccuparsi del fatto che la ricerca produceva una storia delle donne isolata
da quelle degli uomini, rinforzando la “ghettizzazione” o marginalizzazione
della storia femminile.
2 storiche delle donne europee stabilite negli USA a metà degli anni 70’
proposero un nuovo approccio alla storia femminista che è passato poi ad
essere conosciuto 10 anni dopo col nome di Gender History. Joan Kelly-
Gadol ritenendo che una storia compensatrice femminista non avrebbe
cambiato il modo in cui la storia è scritta, promosse lo studio delle relazioni
sociali tra i sessi come elemento che avrebbe dovuto essere centrale nella

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storia femminista. Allo stesso tempo, Natalie Zemon Davis disse che per
correggere il preconcetto nella documentazione storica, era necessario
guardare sia a uomini che a donne. Utilizzare il genere come categoria di
analisi storica avrebbe aiutato a riconsiderare alcuni dei problemi principali
affrontati dagli storici quali: potere, strutture sociali, proprietà, simboli e
periodizzazione. Questa funzionalità del genere negli studi di storia delle
donne viene supportata anche dalle storiche Judith Newton, Mary Ryan, and
Judith Walkowitz che nell’incipit del libro “Sex and Class in Women’s History”,
dichiarano esplicitamente di aver utilizzato il genere come categoria di analisi
storica, con lo scopo di comprendere i modi sistematici in cui le differenze
sessuali si sono aperte un varco nella società e nella cultura generando
disuguaglianza a scapito delle donne. L’importanza della categoria del
genere si afferma tra gli anni 70 e 80 e ciò è evidente se si considera
l’introduzione della seconda edizione di Becoming Visible: Women in
European History. Gli editori non solo volevano rendere le donne visibili, ma
anche esaminare i sistemi di genere costruiti socialmente e storicamente in
evoluzione che dividono i ruoli maschili da quelli femminili. Ma, fu l’intervento
di Joan Scott pubblicato nel dicembre 1985 che ebbe l’impatto maggiore sullo
sviluppo della storia di genere come campo di ricerca. Scott intendeva
esaminare come il genere funzionava nelle relazioni sociali e come
influenzava la conoscenza storica. Scott ha offerto un nuovo approccio che
non si è concentrato sul recuperare l’attività delle donne in passato, ma che
invece si interrogava su come funzionasse il genere per distinguere il
maschile dal femminile. Ha definito il genere come i significati attribuiti alle
differenze percepite tra i sessi. La domanda principale per Scott riguardava
come i significati soggettivi e collettivi attribuiti alla categorie identitarie di
uomo e donna sono stati costruiti. Influenzata dal post-strutturalismo, Scott
ritiene che il significato è creato e comunicato attraverso il linguaggio che
comprende contrasti e differenziazioni come ad esempio la dicotomia
maschio/femmina le quali sono interdipendenti, poiché in questo caso
maschio ha significato solo in contrapposizione a femmina, e per natura
instabili, poiché tutte le categorie sono intrinsecamente eterogenee. Tutte le
dicotomie variano nel tempo, ma appaiono come senza tempo poiché la
politica impegnata nel renderle stabili è stata oscurata (il loro carattere di
risultato di processi viene oscurato). E’ compito dello storico rintracciare la
natura di queste categorie in opposizione e documentarla storicamente. Uno
degli aspetti principali della teoria di Scott è la sua visione del genere come
modo primario di dare significato ai rapporti di potere: “il genere è un mezzo
critico attraverso il quale il potere è espresso o legittimato”. Mrinalini Sinha ha
mostrato come lo stereotipo dell’uomo virile inglese e dell’uomo effeminato
bengalese siano serviti per legittimare la dominazione coloniale e la gerarchia

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razziale nel tardo XIX secolo in India. Le idee di Scott hanno fortemente
influenzato le storiche femministe e hanno contribuito e preso parte alla
cosiddetta svolta linguistica e culturale. Tuttavia l’utilizzo della categoria di
genere nello studio della storia delle donne continua ad essere controverso.
Scott venne criticata da diverse studiose che ritenevano che le sue analisi
non si rifacevano a realtà storiche consultabili e che quindi nel suo approccio
le esperienze materiali diventavano rappresentazioni astratte attinte
esclusivamente dall’analisi testuale, costruendo soggetti incorporei attraverso
il discorso. Scott si difende ribadendo la centralità del linguaggio e mettendo
in discussione il concetto di esperienza, suggerendo che l’esperienza è
ignota al di fuori del linguaggio e che quindi essa stessa è prodotta attraverso
il discorso. La mancanza di esperienza al di fuori della produzione testuale
veniva considerata da diverse studiose come una condizione che comportava
l’assenza di un terreno comune su cui basare una politica femminista. L’idea
che “donna” era solo una costruzione sociale, sembrò ad alcune studiose
negare l’esistenza delle donne e negare loro la posizione dalla quale
potevano parlare in base alla loro esperienza corporea della condizione
femminile.
Altri critici temevano che allargare gender history allo studio degli uomini
avrebbe oscurato nuovamente la storia delle donne. Secondo altri studiosi
che invece lodano le idee di Scott, è solo riconoscendo la diversità e i diversi
e molteplici modi in cui le identità si formano che è possibile creare legami
politici tra le donne. L’attenzione della storia di genere all’uomo e alla
maschilità sottolinea l’idea che la maschilità e la femminilità esistono in
relazione l’una all’altra. Focalizzarsi sull’uomo come un essere di genere
corregge l’assunzione che la maschilità è una sorta di invariato stato naturale
e che l’azione storica dell’uomo può essere compresa senza prendere in
considerazione il genere e il sesso.
Riconoscendo la diversità tra gli uomini e lavorando con l’idea che esistono
molteplici mascolinità che si sviluppano in relazione l’una all’altra e in
relazione alle donne non significa negare che gli uomini in generale hanno
più potere delle donne. Non ci sono dubbi che l’intervento di Joan Scott
stimolò lo sviluppo della storia di genere specialmente nel Nord America e in
Inghilterra. Nel 1989 la rivista “Gender and History” venne fondata in
Inghilterra da Leonore Davidoff. Gli editori spiegarono la sua intenzione di
adottare una prospettiva che avrebbe tenuto conto degli uomini e della
mascolinità così come delle donne e della femminilità.
La storia di genere si è diffusa prevalentemente in Gran Bretagna e USA ma
ciò non vuol dire che non sia presente anche nel resto del mondo. Solo che
gli studi prodotti dal resto del mondo sono stati prodotti prevalentemente da

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studiosi che hanno lavorato in paesi di lingua inglese. Questo principalmente
perché gli studi femministi hanno avuto un impatto minore in quelle culture
meno aperte a tali studi sulle donne. In secondo luogo il termine gender non
ha necessariamente equivalenti nelle altre lingue. Per di più in alcune culture
sono riluttanti nell’adottare certi punti di vista sul genere.

Capitolo 2
Bodies and Sexuality in Gender History
La distinzione tra genere e sesso è stata utile alle storiche in quanto queste si
sono impegnate nell’esaminare le storie delle differenze percepite tra i sessi e
le influenze che queste storie hanno avuto nella storia. Tuttavia diversi
esponenti degli studi storici femministi, filosofi, ecc, rimasero riluttanti nei
confronti della distinzione sesso/genere. Scott, il cui lavoro a metà degli ani
80 costituì uno stimolo fondamentale per gli studi di genere, si interrogò sul
senso della distinzione tra sesso e genere, sostenendo che la domanda
fondamentale alla quale cercare di dare una risposta fosse “Come si
articolano le differenze sessuali in quanto principi di organizzazione sociale”.
Le storiche hanno inoltre notato che i termini genere e sesso sono
frequentemente usati come sinonimi nel discorso popolare, con il termine
genere che viene usato come sinonimo più formale del termine sesso. Inoltre
spesso il termine genere viene associato alle donne, come se gli uomini non
avessero un genere. Inoltre, se il genere è una interpretazione culturale del
sesso inteso come biologico e naturale o come riferito a corpi materiali, allora
il genere è basato sulla differenza corporea, che è considerata esterna o
intoccabile dalla storia o dalla cultura. Infatti, sembra che la differenza di
sesso riguardi la natura più che la cultura. E questo è precisamente il
problema. Il concetto di differenza sessuale, implica che ci sono alcune
caratteristiche universali di tutte le donne o tutti gli uomini posizionate nei loro
rispettivi corpi: quindi il corpo biologico è la base definitiva del genere e
dunque il genere può modellare il modo di concepire le differenze sessuali
entro certi limiti. Gli storici delle scienze tuttavia hanno dimostrato che la
scienza biologica stessa è influenzata dalle idee sulle differenze di genere.
Londa Schiebinger ha mostrato come le idee relative al genere abbiano
influenzato il lavoro e le classificazioni degli scienziati nel XVIII secolo in
Europa nello studio delle piante e animali. Le piante sono state
“sessualizzate” e “il seno” è stato usato come mezzo per distinguere i
mammiferi da altre specie animali. Man mano che la conoscenza empirica
attraverso i sensi si affermava come unica fonte di verità, gli scienziati si
impegnarono nel delineare la “reale” differenza tra maschi e femmine e così
divenne senso comune che questa era riscontrabile nel ruolo che i loro corpi

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giocavano nella riproduzione. Dunque i genitali, cromosomi e ormoni furono
concepiti come gli elementi su cui si basava questa differenza sessuale,
nonostante le tante variazioni nella categoria “donna” e nella categoria
“uomo” e senza tener conto dell’esistenza di individui la cui fisiologia e
anatomia non rientrava in nessuna di queste due categorie. La scienza,
quindi, sotto l’influenza delle idee politiche e culturali circa il genere,
interpreta la natura e poi questa conoscenza scientifica che è influenzata
dalla cultura viene usata per giustificare la credenza in differenze naturali.
Thomas Laqueur, esaminando numerose fonti, scoprì che prima
dell’Illuminismo, i corpi di uomini e donne erano considerati simili, e quello
che era definito come il modello monosessuale del corpo divenne dominante
nelle ricerche scientifiche e filosofiche. In quest’ottica esisteva solo un corpo,
quello maschile. Quello femminile era dotato degli stessi organi di quello
maschile, solamente questi organi si trovavano all’interno e non all’esterno
del corpo. Gli scienziati del periodo rinascimentale, ha osservato Laquer,
assimilarono le loro osservazioni empiriche alla credenza politica e culturale
della somiglianza dei corpi (la loro interpretazione dei corpi era influenzata
dalle idee politiche e culturali che credevano nella somiglianza dei corpi).
Questa concezione dei corpi si sposava con l’idea che le donne non erano
altro che versioni inferiori degli uomini. Questo modello monosessuale
dominò il sapere scientifico e filosofico fino al XVIII secolo quando si affermò
la visione moderna secondo la quale uomini e donne sono sessi diversi
piuttosto che simili. Sempre di più dunque gli scienziati si impegnarono a
trovare e dare un nome a elementi corporali che potessero costituire degli
indicatori di una differenza essenziale tra uomo e donna. Il perché si sia
avuto questo cambio di prospettiva nel XVIII secolo rimane ancora una
questione aperta. Secondo Laquer il motivo non è costituito dai progressi
nella scienza empirica. Piuttosto, il corpo biologico iniziò ad essere pensato
come la fonte definitiva delle differenze nelle capacità sociali e politiche di
uomini e donne.
L’idea che la cultura, in questo caso le idee riguardo il genere, abbia
modellato il sapere del sesso e del corpo è stata ampiamente accettata. La
filosofa Judith Butler ha elaborato un modo di concepire il sesso e il corpo
che smantella la classica opposizione tra natura e cultura. Judith sostiene
che il sesso è una conquista culturale con conseguenze corporee. Se il
genere è una costruzione culturale del sesso, quest’ultimo e il corpo sono
prodotti del discorso. Non che questo significhi che sono inventati dal
linguaggio. Essa ritiene che il corpo assume una connotazione di genere
(becomes gendered) attraverso ripetuti atti corporei, un processo che
definisce “performatività”. Il genere diventa incorporato attraverso la pratica,

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attraverso le interazioni sociali nel mondo. Filosofe, così come biologhe
femministe, hanno sviluppato un modo di pensare che considera i corpi come
qualcosa in perenne stato di trasformazione. Questo modo di pensare rompe
con la dicotomia materiale/culturale e rende possibile non solo la storia di
genere, ma le storie dei corpi usando il genere come uno strumento di analisi
storica. Carolyn Walker Bynum’s Holy Feast and Holy Fast: The Relegious
Significance of Food to Medieval Women fu uno dei primi e più importanti
studi che rese il genere e il corpo storicamente centrali. Il libro riguarda le
donne europee cristiane tra il 1200 e il 1500 e l’associazione tra la loro
devozione religiosa e il cibo. Le donne medievali solevano rinunciare al cibo e
sopportare il dolore per avvicinarsi di più al dolore provato da Cristo sulla
croce. I corpi diventano significanti di alleanze e posizioni politiche in tempi di
trasformazioni politiche e sociali, spiega Dourinda Outram. Inoltre, analisi
storiche del periodo della Rivoluzione Francese, sono stati importanti per il
significato simbolico dei corpi come siti di significati politici. Un’attenzione
particolare era riservata a come i corpi venivano abbigliati e su cosa
l’abbigliamento diceva circa la lealtà del soggetto alle idee rivoluzionarie.
Nell’ancién régime, abbigliamenti maschili ornati significavano privilegio e
potere aristocratico ed erano simili per raffinatezza agli abiti femminili. Dopo
la rivoluzione, gli uomini sostituirono le parrucche, i tacchi alti e le lunghe
calze con una uniforme più uniforme. Ciò che importava ora era somigliarsi
l’un l’altro e distinguersi dalle donne. Analisi delle pratiche di indossare il velo
da parte delle donne e le reazioni al velo suggeriscono il significato della
rappresentazione corporea per l’identità nazionale ed etnica. Nel suo studio
sull’Asia Centrale, Douglas Northrop ha rivelato che prima della rivoluzione
bolscevica del 1917, c’era una fluidità e una variabilità nelle pratiche e in
come le differenze di genere venissero rappresentate. Soltanto dopo
l’avvento della colonizzazione russa, che il modo di vestire delle donne e la
l’isolamento femminile divennero tradizionali per poi divenire vietate e
considerato come strumenti di oppressione. La vicenda dimostra come i corpi
velati delle donne siano stati usati come pedine nel conflitto tra nazionalisti
dell’Uzbekistan e Sovietici (pag.33).
Nella sua analisi della contemporanea controversia francese circa il velo,
Joan Scott pensa che uno dei motivi principali per cui il velo è così contestato
è che è una conseguenza di una incompatibilità tra due diversi modi di
affrontare il problema della differenza di sesso. Per l’Islam, il velo indica un
limite alle interazioni uomo-donna, dichiarando che gli scambi sessuali in
pubblico sono limitati. In contrasto, i francesi negano che la differenza di
sesso è ed è stata politicamente significativa e lo fanno mostrando

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apertamente i corpi delle donne, in modo da rappresentare il sistema di
genere francese come superiore, libero e naturale.
Tutte queste analisi riguardano le pratiche corporali e le credenze riguardo la
sessualità. Afsaneh Najmabadi ha sostenuto che tra XVIII e XIX secolo la
bellezza maschile e femminile erano descritte nei testi in maniera simile. Non
c’era una netta differenziazione tra bellezza maschile e bellezza femminile,
ossia gli ideali di bellezza non si distinguevano in base al genere. Questa
differenziazione è sorta in seguito all’affermazione dello stato-nazione. La
storia dei corpi si interessa a comprendere come i corpi sono rappresentati e
fungono da simboli, come sono modellati dalla pratica sociale, come
diventano centrali nella mobilitazione politica. Queste storie dei corpi sono
spesso inestricabilmente intersecate con le storie della sessualità. Queste
ultime, come campo di studi, si preoccupano delle varie storie della
regolazione e controllo delle pratiche erotiche, la preoccupazione della
società per il desiderio e l’attività sessuale, includendo la creazione delle
identità sessuali. Come afferma Raewyn Connell, le categorie, norme e
pratiche sessuali cambiano a seconda della cultura e sono tutte soggette a
trasformazioni nel tempo. La prostituzione, le relazioni tra lo stesso sesso, il
controllo delle nascite, le attitudini verso l’intimità matrimoniale e non, sono
inclusi nelle storie della sessualità, e molte incorporano il genere come una
categoria dell’analisi storica. Lo studio contemporaneo della storia della
sessualità fu influenzato dagli sviluppi nella storia delle donne e nella storia
femminista ma anche dal sorgere dei diritti di gay e lesbiche. Questo portò
alla pubblicazione del libro di Foucault History of Sexuality alla fine del 1970.
Focault riteneva che gli sforzi riguardo il controllo della sessualità nella
società occidentale nel XIX secolo non vanno considerati come repressivi,
bensì hanno alimentato i discorsi riguardo la sessualità, discorsi che hanno
creato desideri e identità. Nell’idea di Focault è centrale la connessione tra
pratiche sessuali e identità, dunque ciò che siamo è definito dalle nostre
pratiche sessuali. Egli riteneva inoltre che le conoscenze moderne riguardo la
sessualità differivano dalle conoscenze riguardo il sesso possedute
dall’Europa antica e pre -moderna o dall’Asia. Gli storici adesso
comprendono che l’omosessuale è una categoria moderna che non esisteva
prima del XIX secolo. Mentre prima le società europee erano preoccupate di
regolare le pratiche sessuali nell’interesse della riproduzione e dell’eredità,
l’omosessualità così come è intesa oggi, ossia un presunto modo di essere
che definisce le identità delle persone che intraprendono relazioni intime con
lo stesso sesso, non avrebbe avuto senso in passato. Persone che in epoca
pre-moderna intrattenevano relazioni omosessuali esistevano certamente,
ma non erano considerate come “omosessuali”. Lo storico David Halperin ha

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dimostrato come nell’antica Atene i partner sessuali non erano classificati
come uomini o donne ma come dominanti e sottomessi, attivi e passivi.
Quindi le pratiche sessuali erano considerate espressioni di uno stato
personale e di un’identità sociale e non di un’identità sessuale. La relazione
tra i partner sessuali nell’antica Atene può essere paragonata
metaforicamente alla relazione tra rapinatore e rapinato. La pratica sessuale
non era concepita un atto corrisposto, biunivoco, bensì come unilaterale. I
cittadini maschi ateniesi potevano penetrare chiunque fosse di status minore,
a prescindere dal sesso e condizione sociale. Nell’Europa medievale, la
pratica sessuale tra due persone dello stesso sesso era definita sodomia.
Helmut Puff ha esplorato i discorsi mutevoli e le pratiche di controllo della
sodomia relativi ad alcuni territori d’Europa di lingua tedesca risalenti al
periodo che va dal XV al XVII secolo. Egli ha notato, basandosi su fonti scritte
di carattere giuridico, religioso e letterario, come sia uomini che donne
potevano essere accusati di sodomia. Anticamente, nel Medioevo, la
sodomia era stata associata con l’eresia religiosa, e quelli che venivano
accusati di sodomia venivano giustiziati. Durante il periodo delle riforme
protestanti, infatti, si tentò di liberare le città da coloro i quali offendevano la
sessualità. Durante la Riforma Protestante, i ferventi religiosi invitavano le
persone a vivere una vita libera dal peccato rifiutando la sodomia. I
Protestanti spesso accusavano i Cattolici di sodomia e descrivevano la
pratica come l’antitesi brutale del matrimonio, anche se c’erano culture, ad
esempio a Zurigo, nelle quali le pratiche omosessuali erano comuni. La
chiesa cattolica in Spagna e Italia durante l’Inquisizione, puniva duramente
coloro i quali erano accusati di essere sessualmente immorali e considerava
il sesso procreativo come l’unica forma di sessualità permessa. Allo stesso
modo i Protestanti, sia in America che Europa perseguivano prostitute e chi
commetteva sodomia, bruciando al rogo i condannati. Randolph Trumbach
ha fatto notare che nel XVII secolo sono mutate le identità sessuali degli
uomini. Mentre nell’epoca precedente le pratiche omosessuali erano
considerate come comuni, dal XVIII secolo le pratiche sessuali maschili
iniziarono ad essere classificate o come eterosessuali o come sodomia (si
affermò un binarismo per le pratiche sessuali). Londra era vista popolata di
uomini, donne e sodomiti. I sodomiti costituivano quindi un “terzo genere”. A
Londra un uomo che desiderasse avere un rapporto intimo con un altro uomo
si recava nelle cosiddette “molly houses”. Per provare la loro mascolinità,
uomini di tutte le classi sociali iniziarono ad avere relazioni extraconiugali
(sanzionate per le donne ma non per gli uomini) e anche relazioni con
prostitute. Le prostitute servivano agli uomini non solo come oggetti sessuali,
ma anche come risorse per assicurare la loro reputazione eterosessuale.
Prostitute e maschi sodomiti erano denigrati allo stesso modo. Non si deve

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pensare che la ricerca di Trumbach miri a costruire e idealizzare una sorta di
età dell’oro per la libertà sessuale. Più che altro, lo studioso ha cercato di
mettere in luce il processo di affermazione dell’eterosessualità come
componente cruciale della maschilità, definita in contrasto agli altri visti come
“sodomiti”. Uno studio di George Chauncey intitolato Gay New York si
concentra su 4 aree della città di New York dove, intorno all’inizio del XX
secolo, nacquero delle sotto-culture sessuali e si affermarono i termini
“eterosessuale” e “omosessuale”. Dalla ricerca è venuto fuori che una
sottocultura gay si è sviluppata inizialmente attorno al 1890 nella città di
Bowery, dove vivevano gli immigrati della classe lavoratrice. Qui nacque un
quartiere a luci rosse. Gli uomini che volevano avere delle relazioni
omosessuali erano chiamati dai medici “invertiti” ma conosciuti localmente
con il termine “fairy”. Gli uomini della middle-class che desideravano
intrattenere rapporti omosessuali si recavano in queste zone segretamente e
si autodefinivano “queer”. Cercavano di mantenere segrete le loro pratiche
perché, se scoperti, la loro reputazione nelle aree da dove provenivano
sarebbe stata distrutta. La cultura gay e lesbica crebbe molto durante gli anni
del Proibizionismo ma, in seguito alla revoca di quest’ultimo, gay e lesbiche
vennero considerati “degenerati” e contrastati con un modo di vivere
eterosessuale. Chauncey ci informa anche che il termine “gay” fu usato
inizialmente per riferirsi alle prostitute, le quali, così come gli uomini gay
erano considerate pervertite. Gli storici studiarono anche le ansie che si
creavano attorno al tema della masturbazione. Dagli studi sulla sessualità in
Germania nel XVIII secolo di Isabel Hull è emerso che in Germania c’era una
letteratura anti-masturbazione nel 1780. Questa letteratura era centrata
prevalentemente sulla figura maschile e l’assunto di base era che il seme,
considerato fonte della forza maschile, sarebbe andato perduto nella pratica
della masturbazione e quindi ciò avrebbe causato debolezza mentale e fisica.
Questa pratica veniva associata prevalentemente alla vita di città. Hull ritiene
che queste preoccupazioni derivavano dalle paure circa i cambiamenti
culturali, sociali e materiali del tempo e da come questi influenzavano i
giovani e i bambini.
Così come le pratiche omosessuali e la masturbazione, anche la
prostituzione ha le sue storie. Gli studi riguardo la prostituzione si sono
concentrati nell’esaminare come questa era vista, come era organizzata e il
ruolo che ha avuto, a seconda del contesto e del periodo storico culturale,
nell’educare e confermare la maschilità. Ruth Mazo Karras, basandosi su
fonti come sermoni, documenti della chiesa, regolamenti dei bordelli, si è
concentrata nello studiare la prostituzione nell’Inghilterra Medievale e ha
esplorato come erano viste le prostitute e in che condizioni sociali, politiche,
economiche e culturali vivevano. Karras dice che mentre le prostitute erano

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considerate “maligne”, la pratica della prostituzione era considerata un “male
necessario”. La studiosa sottolinea inoltre che la condotta sessuale delle
donne era spesso oggetto di gossip e dell’attenzione pubblica e che era
determinante nel definire la loro reputazione nelle comunità in cui vivevano.
L’opinione del tempo riteneva che anche rispettabili donne sposate potevano
diventare “donne comuni” e quindi era necessario che anche loro fossero
controllate. Questa visione riteneva che il peccato della lussuria
caratterizzasse tutte le donne, ma era solo la prostituta che peccava
indiscriminatamente. Lyndal Roper fa notare che i bordelli spesso
costituivano una sorta di luogo dove i giovani potevano formarsi in vista
dell’età adulta e il matrimonio (diventare adeguati per l’età adulta e il
matrimonio). Inoltre, della prostituzione beneficiavano anche le donne
rispettabili poiché garantiva loro sicurezza (la verginità era valutata come
preziosa). Solo nel 1532, i preti luterani dichiararono i bordelli illegali: essi
ritenevano che il desiderio sessuale degli uomini era controllabile e che i loro
desideri sessuali dovessero essere riservati al matrimonio. Judith Walkowitz
si concentra nello studiare la campagna per la revoca degli “Atti delle malattie
contagiose”, approvati dal Parlamento inglese nel 1864. Questi atti erano stati
pensati per i soldati e i marinai che avevano relazioni con le prostitute. Le
prostitute che avevano qualche malattia venerea, erano sottoposte a lunghi
processi in prigione. La Ladies National Association (LNA) si battè duramente
per ottenere la revoca di questi atti, criticando il fatto che le prostitute erano
arrestate e coloro che ci andavano no, oltre che sottolineare l’inefficienza dei
provvedimenti. I membri della LNA si consideravano sia sorelle delle
prostitute che madri, riconoscendo le difficoltà che le avevano spinte a
intraprendere quell’attività e allo stesso tempo rimproverando la perdita di
innocenza delle prostitute che però poteva essere restaurata. Gli atti furono
revocati definitivamente nel 1886. Philippa Levine sottolinea come nei territori
coloniali la prostituzione era considerata come evidenza della necessità del
controllo coloniale anche se era considerata come un male necessario
quando i clienti erano europei o più nello specifico soldati in quanto si
pensava che questi ultimi necessitassero di sfogare la loro aggressività
maschile. Gli uomini potevano essere uomini virili e soldati efficaci solo se
fossero stati sessualmente soddisfatti (ciò accadeva anche nella Germania
Nazista come ci dimostra lo studio di Annette Timm). I bordelli nei territori
coloniali erano classificati in base alla “razza” dei clienti che li frequentavano.
Quelli di prima classe servivano solo i bianchi, mentre quelli di terza classe
erano frequentati dai locali. Differentemente dalla metropoli, nei territori
coloniali i bordelli erano legali.

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Capitolo 3
Gender and Other Relations of Difference
Una delle critiche maggiori agli approcci di studio della storia delle donne
negli anni ‘70 e ‘80 riguardava il fatto che le ricerche non tenevano conto
delle differenze tra le stesse donne e che c’era la tendenza di focalizzare
l’attenzione esclusivamente sulle donne statunitensi bianche della middle-
class. Dunque il campo di studi divenne più inclusivo e le studiose
cominciarono a riflettere su come la razza e differenze etniche avessero un
effetto sui modi in cui il genere influenzava la vita delle donne e perciò solo
un punto di vista più inclusivo poteva illuminare le interconnessioni tra i vari
sistemi di potere che influivano sulla vita delle donne. Divenne chiaro che il
modo in cui il genere influisce sulla vita degli individui dipendeva anche da
altre differenze. Il genere per questo non ha un’unica storia, ma ha più storie.
Pensando al genere come elemento costitutivo delle relazioni sociali, spiega
Gisela Bock, possiamo mettere in luce i collegamenti tra il genere e altre
elementi costitutivi delle relazioni sociali. Per studiare come il genere e la
razza/etnicità/ e classe si sono costituiti mutualmente a hanno lavorato
insieme storicamente, gli studiosi devono focalizzarsi sul contatto tra i gruppi,
sia se il contatto è esistito nella forma di relazioni interpersonali sia se è
esistito attraverso rappresentazioni di altri. Lo studio di Linda Gordon, la
quale ha paragonato il modo in cui le donne bianche e le donne nere
riformatrici all’inizio del XX secolo concepivano l’assistenza sociale, ha
rivelato alcune differenze fondamentali nell’orientamento dei due gruppi. Le
donne bianche intendevano il loro lavoro sociale nell’aiutare quelli che erano
non solo socialmente, ma anche etnicamente “altri”. Le donne nere in
contrasto, concepivano il loro lavoro sociale nell’aiutare i loro simili. La
comparazione di Gordon suggerisce che le lavoratrici sociali bianche si
concepivano come dispensatrici di carità mentre le donne nere si
concentravano più sull’educazione e la salute. Le riformatrici nere miravano a
ottenere benefici universali, mentre le riformatrici bianche supportavano
programmi di assistenza sociale proporzionati ai mezzi e che quindi facevano
distinzioni morali tra chi meritava gli aiuti e chi invece no. Gordon quindi
dimostra come la razza influenzava le loro diverse visioni di assistenza
sociale. Lo studio di Ellen Ross riporta che alla fine del XIX secolo, le donne
londinesi della classe media e alta andavano nei quartieri poveri in qualità di
visitatrici di case: esse fornivano istruzione e spidocchiavano i bambini,

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chiedendo ai loro clienti la natura del lavoro che i loro figli di 12/14 anni
stavano intraprendendo. Queste signore tentavano di “modernizzare” i metodi
di nutrimento e cura dei bambini, considerati fuori moda e deleteri. Ross
afferma che queste “ladies” non erano solo benefattrici che si sentivano
superiori alle donne che aiutavano, ma spesso sviluppavano una forte
empatia con le loro clienti. Nyan Shah nel suo studio si concentra sullo
spiegare come i progetti di riforma domestica perseguiti dalle donne della
middle-class di San Francisco nel periodo di fine XIX secolo fossero
influenzati da particolari atteggiamenti nei confronti delle donne Cinesi. Shah
evidenzia come queste donne cinesi fossero considerato prostitute e quindi
come un pericolo per la società americana. Questi pregiudizi provenivano
dalle osservazioni di vari fisici dell’epoca che contribuivano a diffondere una
certa immagine delle donne cinesi. Shah inoltre si concentra nel trattare
l’opera delle missionarie presbiteriane le quali promuovevano visite
casalinghe analoghe a quelle delle “Ladies” londinesi per esportare all’estero
la loro visione della domesticità della middle-class e “modernizzare” le
pratiche culturali delle donne cinesi. Quindi i vari fisici e le missionarie
concepirono le norme che regolavano la sfera domestica delle donne bianche
americane di middle-class in opposizione alle pratiche culturali delle donne
cinesi. Sfera domestica di cui le donne erano considerate guardiane in virtù
dell’idea delle sfere separate. Per di più concepirono la “purezza morale”
come un dovere del genere femminile associato prettamente alle donne
americane bianche. Lo studio di Catherine Hall si concentra sull’attività dei
missionari della chiesa Battista che operarono nella colonia della Giamaica
nel 1820. I missionari si opponevano con forza alla schiavitù in quanto il
sistema trasformava i bianchi proprietari di piantagioni in degenerati sessuali;
inoltre negavano i benefici familiari alle schiave e agli schiavi. Il matrimonio
era fondamentale per i missionari in quanto assicurava la loro integrità. Essi
dovevano fronteggiare l’ostilità dei proprietari di piantagioni a causa del loro
coinvolgimento con i neri. I missionari volevano portare “le povere creature”
alla salvezza, libertà e mascolinità. Consideravano gli schiavi vittime senza
aiuto di un sistema spregevole. Inoltre, consideravano i neri come bambini
che avevano bisogno della loro guida paterna. I missionari pensavano che
l’emancipazione avrebbe reso gli schiavi indipendenti. Poi essi avrebbero
prosperato, diventando come i bianchi inglesi della classe media, con i valori
cristiani di mascolinità e sostenendo la loro famiglia. Ma, ben presto, i
missionari in Giamaica e in Inghilterra divennero disillusi, e alcuni di loro
iniziarono a pensare che c’era qualcosa di innato nelle persone nere che
impediva loro di diventare cristiani civilizzati nel modo in cui avevano
immaginato. Ciò che è importante per i nostri scopi qui è vedere i molti modi
in cui la razza, combinata con il genere, era centrale nell'impresa missionaria

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abolizionista. Uno studio delle attività filantropiche nella colonia delle Indie
occidentali delle isole Barbados durante il periodo della schiavitù e i decenni
che seguirono l’emancipazione, illustra alcuni dettagli circa la razza, la classe
e il genere. Melanie Newton si focalizzò sullo sforzo dell’élite bianca per
estendere l’autorità su donne e uomini liberi di colore, rafforzando una
gerarchia razziale bianco/nero sull’isola. Le organizzazioni filantropiche si
diffusero dagli anni 20 del 1800 in poi ed erano di solito formate o da donne
bianche benestanti o da donne e uomini non bianchi. Newton nota che
mentre le organizzazioni formate da uomini e donne non bianchi erano
effettivamente impegnate nel combattere i vincoli della schiavitù ed erano
utilizzate dagli uomini di élite neri liberi per rivendicare i diritti politici, le
organizzazioni formate dalle donne di élite bianche sostenevano gli sforzi
della élite bianca maschile per il rafforzamento della gerarchia razziale.
Molto importanti si sono rivelati gli studi sul ruolo dell’interconnessione tra
genere e razza nella schiavitù Americana e dei Caraibi e in generale nei
progetti coloniali. Catherine Hall ha sottolineato, “il tempo dell’impero fu il
tempo in cui le differenze anatomiche furono elaborate intorno agli assi di
classe, razza e genere”. Gli studi storici realizzati da studiose come Deborah
White e Jacqueline Jones sono importanti per dimostrare le differenze tra le
donne e dimostrare le conseguenze a lungo termine della schiavitù sulla
divisione del lavoro in base al sesso e sulle relazioni familiari delle donne.
Altri studi si sono concentrati nel trattare gli usi del genere nella costruzione
di categorie razziali e la centralità del genere così come della razza nel
sistema della schiavitù. Il lavoro di Kathleen Brown del 1996 “Good Wives,
Nasty Wenches and Anxious Patriarchs: Gender, Race and Power in Colonial
Virginia” riguarda il periodo che va dall’inizio del XVII secolo alla metà del
XVIII secolo e mette il genere al centro della storia della Virginia coloniale.
Brown considera il genere, la schiavitù e il dominio delle élite come relazioni
di potere correlate le cui storie si intersecano e si condizionano a vicenda.
Razza, genere e classe sono considerate da Brown come categorie sociali
interrelate le cui storie si intersecano. La distinzione tra “buone mogli” e
“cattive ragazze” significava distinguere tra le donne inglesi “rispettabili”,
sposate e di classe media, e le donne povere inglesi, sospettate di essere
sessualmente licenziose. Il matrimonio era fondamentale per operare questa
distinzione perché era attraverso il matrimonio che le donne potevano
diventare “buone mogli” e la loro sessualità era posta sotto il controllo dei loro
mariti. Nel corso del ‘600 questa distinzione in Virginia assunse nuovi
significati e divenne di tipo razziale: le donne di discendenza inglese erano
considerate virtuose e morali, quelle di origine africana sessualmente
licenziose e potenzialmente maligne. Le donne schiave africane divennero

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tassabili e distinte dalle donne inglesi. Essere donna, la femminilità, divenne
così più una questione di razza che di classe. Diverse leggi nel corso del ‘600
accentuarono il carattere razziale della schiavitù. Venne stabilito che i figli
nati dalle donne schiave africane erano proprietà dei loro padroni e dunque la
schiavitù divenne ereditaria attraverso le donne africane. Si diffuse l’idea che
gli africani erano proprietà e non persone. Con la schiavitù non solo si
rafforzarono le distinzioni razziali, ma anche le gerarchie di genere nelle elites
divennero più pronunciate (l’uomo bianco vide aumentare il suo potere). Lo
studio di Hilary McD. Beckles si concentra sul contesto dei Caraibi nel
periodo di fine XVII secolo. Essa ha sottolineato che c’era prevalenza di
schiavi maschi nelle piantagioni perché in Africa Occidentale questi erano
considerati non indispensabili rispetto alle donne che lì lavoravano nei campi.
Quindi una volta venduti come schiavi e portati nei campi questi uomini
africani si ritrovavano a svolgere lavori che per loro erano da donna. Inoltre
Beckles ha scoperto che i proprietari di piantagioni stabilirono che le donne
bianche non potevano lavorare nei gruppi di lavoro delle piantagioni. Questo
per minimizzare il rischio di relazioni sessuali interraziali. Inoltre, i proprietari
di piantagioni divennero interessati alle schiave africane incinte. Se queste
avevano un tasso di natalità basso allora venivano definite “Amazons”. Le
donne nere dovevano quindi sia dare alle luci bambini sia fare lavori pesanti.
Per questo motivo, venivano dati degli incentivi finanziari alle donne per
indurle a fare figli, così da far crescere la popolazione di schiavi. Inoltre, le
donne africane erano rappresentate come forti fisicamente, abituate a dare
alla luce figli in luoghi pubblici e subito dopo aver lavorato. Le donne africane
erano descritte come donne che partorivano senza provare dolore: questo le
distingueva dalle donne europee. Questi stereotipi razziali secondo Jennifer
Morgan hanno contribuito a legittimare la schiavitù. La studiosa Pamela
Scully ha investigato sui casi di stupro nella colonia britannica del Sud Africa
dopo che la schiavitù terminò. La sua analisi si focalizza sulle dinamiche di
razza, sesso e genere alla metà del XIX secolo sul caso di un giovane
lavoratore nero accusato dello stupro della moglie di un fattore. L’uomo
ammise di essere colpevole e fu condannato a morte per il suo crimine.
Grazie all’intervento di uomini bianchi, alla fine la sentenza di morte dell’uomo
fu commutata perché la donna, in quanto nera, venne considerata una
libertina. Scully ipotizza che gli uomini bianchi che difesero il giovane ragazzo
nero lo fecero perché per loro lo stupro di una donna nera non era
considerato un crimine punibile con la morte anche perché le donne nere
erano per natura licenziose e senza onore. Quindi in questo modo gli uomini
bianchi mantenevano la possibilità di sfruttare sessualmente le donne nere
senza avere problemi legali. Negli avamposti dell’impero britannico del
Canada occidentale, dalla fine del XVII secolo fino agli ultimi decenni del

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XVIII secolo, i commercianti di pellicce a le donne native si sposavano, come
Sylvia Van Kirk ha dimostrato nel suo studio. La forma di matrimonio che fu
redatta tra costumi indiani ed europei divenne conosciuta come matrimonio
“la facon du pays”. Con questo matrimonio, le donne perdevano il loro status
legale di indiane. Tuttavia, durante il XIX secolo il matrimonio interraziale
divenne denigratorio e di retorica razzista, condannato anche legalmente e
definito in maniera dispregiativa come “miscegenation” ovvero “miscuglio
razziale”. I bambini nati da tali matrimoni giunsero ad essere considerati
come degenerati. I giudizi riguardo le persone nate da queste unioni sono
cambiati nel tempo e a seconda del contesto. Alcune volte erano valorizzate
altre invece denigrate.
Si può concludere dicendo che la razza/etnia e la classe, combinate con il
genere, abbiano modellato idee e pratiche nel corso della storia, e le storie
descritte precedentemente ne sono una prova.

Capitolo 4
Men and Masculinity
Un filone della storia di genere si è focalizzato sul cambiamento dei significati
attribuiti alla maschilità, all’essere maschio. La storia tradizionale non ha
considerato gli uomini come esseri di genere. L’idea che il genere
influenzasse le azioni degli attori sociali (gli uomini) era trascurata. Rose
utilizza i termini “manliness, manhood, masculinity” per riferirsi alle norme di
genere, aspettative, ideali e tratti associati all’essere maschio. Non sempre il
termine mascolinità è stato usato in passato. Gli usi del termine hanno una
storia diversa a seconda della lingua presa in considerazione. Durante il XIX
secolo in anglo-americano, il termine “maschile” era usato per “fare la
differenza tra cose che appartenevano agli uomini e le cose che
appartenevano alle donne”. Ma, fu durante il XX secolo che il termine
“maschilità” iniziò ad essere usato con significati svariati. Il termine inglese
“masculinity” deriva dalla termine francese “masculinité”, che però era riferito
prevalentemente al linguaggio. I francesi, infatti, erano più abituati a parlare di
virilità, termine usato in opposizione all’effeminatezza. Gli studiosi hanno
cercato di concentrarsi su come i significati relativi all’essere uomo siano
cambiati nel tempo e come questi abbiano influenzato le identità e attività
degli uomini in maniera diversa a seconda della cultura di appartenenza e del
periodo storico. Gli studiosi preferiscono parlare di mascolinità al plurale, in
quanto non è mai esistito un unico modo di essere uomo. A seconda del
periodo storico, alcuni modelli di mascolinità possono essere dominanti su
altri, ossia egemonici. I modelli di maschilità che sono egemonici tendono ad
essere percepiti come “naturali” e permanenti, quando in realtà sono fluidi e
frutto di processi storici e sociali. La mascolinità è dunque una formazione di

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genere instabile. Secondo gli storici di genere la maschilità e la femminilità si
definiscono in relazione l’una all’altra, eppure sottolineano che nella storia
non è sempre stato così (essere maschio non è sempre stato visto in
opposizione all’essere femmina). John Tosh ha affermato che la mascolinità
nel XIX secolo riguardava la “personalità intrinseca dell’uomo e i
comportamenti attraverso i quali veniva manifestata nel mondo circostante”.
L’antropologo David Gilmore ha affermato che in molte società la mascolinità
deve essere dimostrata, come una storta di status che deve essere provato.
Essa è sempre sotto scrutinio e dunque in una condizione in cui è
costantemente contestata. Karras si è concentrata nello studiare i significati
che erano attribuiti alla mascolinità in epoca medievale in Europa e perciò ha
focalizzato la sua analisi su 3 gruppi diversi di uomini: cavalieri, studenti
universitari e artigiani urbani nel periodo tra il 1300 e il 1500. In questa epoca,
i giovani diventavano uomini competendo con e dominando altri uomini. Il
combattimento dei cavalieri era destinato a impressionare gli altri uomini
piuttosto che a conquistare l’amore di una donna, perché erano altri uomini
che li valutavano e che confermavano la loro mascolinità. Per i cavalieri, la
mascolinità era strettamente associata allo sfoggio di violenza sul campo di
battaglia. Gli studenti universitari, intraprendevano battaglie intellettuali
usando il loro intelletto per dominare gli altri uomini. Per gli studenti
universitari, la mascolinità era associata alla moderazione e alla razionalità,
caratteristiche le li distinguevano non solo dalle donne ma anche dalle bestie.
Per gli artigiani diventare un uomo significava dare prova di non essere un
ragazzo, ossia essere in grado di svolgere il proprio lavoro in maniera
indipendente. Alexandra Shepard ha realizzato un’analisi di come il sistema
patriarcale maschile normativo, nel periodo compreso tra la metà del XVI e
metà del XVII secolo, era definito in letteratura e nei testi medici e ha inoltre
studiato i modi attraverso cui gli uomini praticavano socialmente la maschilità.
La maschilità era definita uno status con relativi privilegi. Prima di tutto era
necessario essere di età adulta e sposati. Chi conseguiva questo status era
ritenuto capace di governare le proprie passioni e anche il comportamento di
coloro a lui inferiori. Associate alla mascolinità c’erano anche qualità come
l’onestà, la razionalità, autorità, moderazione. Non tutti però potevano
conseguire questo status in quanto non tutti avevano piena indipendenza
economica: per questo, chi era giovane o povero, trovava metodi alternativi
per conquistare la mascolinità. Dunque questi giovani affermarono un loro
modello ideale di mascolinità, prima tra i loro coetanei e poi in contrasto con
gli adulti. Celebravano valori contrari alla mascolinità egemonica per
affermare il proprio modello di mascolinità. Inoltre Shepard evidenzia anche
l’importanza della violenza, dimostrando come veniva usata dagli uomini per
disciplinare i sottomessi, sfidare l’autorità e difendere la loro reputazione.

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Dunque essa aveva un ruolo fondamentale nella costruzione della
mascolinità. Il lavoro di Shepard mostra non solo che la virilità era costruita
attraverso le relazioni che gli uomini intrattenevano tra di loro, ma fornisce
anche un esempio di come forme alternative di virilità sfidassero la
mascolinità egemonica, rendendola una formazione instabile.
La ricerca di Ann Lombard si focalizza su che cosa significa “diventare uomo”
nel periodo tra la fine del XVII secolo e nel XVIII secolo nel New England
coloniale. I puritani della classe media emigrarono in Massachusetts nella
colonia di Bay alla metà del XVI secolo. Per loro, mascolinità significava
indipendenza economica. Un uomo doveva dimostrare di avere alcune
caratteristiche: razionalità, autocontrollo, controllo degli istinti. La mascolinità
era definita in contrasto con la femminilità ma soprattutto con la fanciullezza,
periodo in cui si era dipendenti. Il Puritanesimo era centrale nella colonia, in
quanto promulgava una società gerarchica in cui i padri comandavano poiché
si credeva che fossero in grado di governare razionalmente sia le loro
famiglie che la comunità politica, controllando “una maggioranza
appassionata, incontrollata e sensuale di donne dipendenti, giovani, bambini,
servi e africani ridotti in schiavitù”. I puritani pensavano dunque che si doveva
impedire ai ragazzi di dipendere dalle loro madri e che i padri dovevano
preparare i figli a diventare uomini indipendenti. Anche Lombard afferma che
la violenza era associata alla maschilità. I padri potevano usare la forza per
disciplinare i figli, le mogli e contro altri uomini che minacciavano la loro
proprietà. Verso la metà del XVIII secolo iniziarono ad essere frequenti
conflitti tra gentiluomini e lavoratori, ma soprattutto tra uomini dello stesso
strato sociale. Divennero diffusi e accettati i duelli d’onore, che servivano a
risolvere le dispute e difendere pubblicamente il proprio onore. Secondo
quanto sostiene Robert Nye, il codice d’onore al quale ci si rifaceva era di
origine medievale ed è persistito fino al XIX secolo, regolando le relazioni
nella vita pubblica e privata e anche fungendo da elemento tramite il quale si
poteva dare conferma della propria eterosessualità (secondo la classe media
maschile del tempo, il macchiarsi di disonore era correlato all’avere disordini
sessuali). Nye nota inoltre che ci fu un’ansia crescente circa l’energia
sessuale maschile negli ultimi decenni del XIX secolo e gli anni che portano
alla Prima Guerra Mondiale. La povertà sessuale del corpo maschile era
considerata responsabile della vitalità decadente della nazione francese. Alla
fine del XIX secolo, infatti, la Francia dovette fronteggiare quella che gli storici
chiamano “crisi della maschilità”. Questo tema viene esplorato da Forth che si
focalizza sull’Affair Dreyfus, uno scandalo politico che preoccupò la Francia
tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Alfred Dreyfus, un capitano militare
ebreo, fu accusato falsamente e condannato per tradimento per aver rivelato
segreti militari alla Germania. Elemento centrale è l’anti-semitismo: si credeva

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che gli ebrei fossero uomini caratterizzati da codardia, debolezza e che
fossero anche effeminati. Gli accusatori e i difensori di Dreyfus misero in
campo nei loro dibattiti immagini relative a particolari modelli di maschilità.
Nello specifico erano 2 i modelli di mascolinità che si contrapponevano: da
una parte un modello di mascolinità muscolare, che dava risalto all’azione e
all’avventura, dall’altro un modello associato alla vita intellettuale. Gli ebrei
che sostenevano l’innocenza di Dreyfus inoltre insistevano sul loro
patriottismo ed abilità militari, minimizzando la loro reputazione di debolezza
fisica. Forth dimostra come la crisi della mascolinità non stava avvenendo
solo in Francia ma anche in altre parti del mondo. L’ansia circa la natura della
mascolinità era molto diffusa sia in Europa che in Nord America. Molti dei
mali della società del tempo erano associati al fallimento della mascolinità: il
declino della nascite, debolezza della forza industriale, criminalità giovanile.
Per di più l’omosessualità veniva definita da molti scienziati e medici come un
segno di devianza, una perversione. Infine, il muscoloso, aggressivo e
vigoroso maschio eterosessuale divenne l’ideale maschile dominante,
egemonico, evidenziato dagli scienziati, dottori, giudici e giornalisti in varie
nazioni. Questa cultura della forza, sottolinea Forth, influenzò la generazione
di uomini che avrebbero combattuto la I Guerra Mondiale. Negli Stati Uniti, gli
uomini della classe media divennero ossessionati con la maschilità durante
questo periodo. La mascolinità nel XIX secolo significava autocontrollo, forza
morale e grande forza di volontà. Centrale nell’idea della mascolinità
americana era la nozione di civilizzazione e la sua relazione con la razza. La
civilizzazione era intesa come una fase dell’evoluzione che legittimava e
spiegava il dominio dell’uomo bianco. Diversi studiosi, tra cui Lynne Segal,
sostengono che la mascolinità è sempre in costante cambiamento e perciò
instabile. Tuttavia sottolineano che solo in particolari momenti storici questa
instabilità affiora per produrre effetti storici significativi. Uno di questi momenti
storici risale alla metà dell’800’, quando le trasformazioni che stavano
avvenendo negli USA resero lo stile di vita e le opportunità occupazionali
degli uomini meno certe. Amy Greenberg nei suoi studi ha evidenziato che
questi cambi portarono alla competizione per l’egemonia tra gli ideali di
maschilità bellicosa e controllata. Entrambi questi modelli di mascolinità
supportavano il “destino manifesto americano”, espressione risalente al 1845
che si riferiva alla conquista americana dell’ovest e in generale all’espansione
a livello mondiale dell’influenza americana. L’ideale di mascolinità bellicosa
tuttavia supportava l’uso della forza per perseguire tale scopo,
differentemente dell’ideale di mascolinità controllata che invece supportava il
commercio e il proselitismo dei valori politici, sociali e culturali americani
(considerati superiori). Alla fine, l’ideale di mascolinità controllata prevalse e
si mantenne anche a seguito della fine della Guerra civile Americana nel

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1865, entrando però anch’esso in una fase di instabilità a fine ‘800. Alcune
delle cause, oltre le già citate, erano costituite dalle paure degli uomini di
middle-class bianchi di perdere sia i privilegi di razza e classe sia lo status
che avevano nei confronti delle donne. Le interconnessioni tra mascolinità e
relazioni di potere sono ancora più chiare se si guarda alle politiche del
colonialismo britannico in India. Qui gli stereotipi del “vero uomo inglese” e
del “effeminato bengalese” si costituirono e divennero le basi retoriche cui i
dominatori coloniali e le élite di nativi si rifacevano durante il XIX secolo. In
seguito a questa distinzione, nel 1857 si verificò la Ribellione Indiana: fu un
attacco da parte degli “non uomini codardi hindu” nei confronti di donne e
uomini inglesi. Ma, ci si chiede: com’era la vita degli uomini a casa, con le
loro famiglie? Leonore Davidoff e Catherine Hall hanno condotto uno studio
per dimostrare la centralità del matrimonio e della paternità nella vita degli
uomini. Sotto l’influenza dell’evangelismo, la domesticità era la base di una
vita morale e religiosa sia per uomini che per donne. La famiglia e la casa
erano le fondamenta per le imprese commerciali, e lo scopo degli affari era la
sopravvivenza e il benessere della famiglia. Gli uomini si ritiravano dagli affari
il più presto possibile per dedicarsi ad una serie di attività civiche e religiose.
Gli uomini erano molto coinvolti nelle loro famiglie e il loro interesse era
rivolto alla vita dei loro figli. “La paternità era una responsabilità e un
appagamento… parte di un destino morale”. La domesticità era minacciata
da contraddizioni: gli uomini dovevano bilanciare la loro vita privata con i loro
impegni e amicizie maschili. Siccome gli uomini inglesi erano chiamati a
colonizzare, iniziarono a sposarsi più tardi: ci fu quello che Tosh chiama “fuga
dalla domesticità”. Martin Francis tuttavia critica questa tesi, perché ritiene
che in realtà gli uomini inglesi abbiano avuto un atteggiamento molto
ambivalente nel tempo: dal prediligere la vita esterna alla famiglia al ritornare
a dare importanza all’ambiente familiare.

Capitolo 5
Gender and Historical Knowledge
Negli ultimi 25 anni gli storici del genere hanno dimostrato come il genere è
stato significativo in processi che costituiscono punti di interesse centrali per
gli storici (ad esempio nella schiavitù in Nord America e Caraibi). Il genere ha
avuto un ruolo anche nelle lotte violente che hanno coinvolto coloni Inglesi,
Nativi Americani e Francesi tra 1600 e 1700 così come nella cosiddetta “età
delle rivoluzioni” nel XVIII secolo. La ricerca di Ann Little si concentra sui
presupposti comuni circa le differenze di genere condivisi dagli inglesi,
francesi e indiani. Sostiene che alcuni presupposti circa il genere, in
particolare i ruoli degli uomini nelle rispettive società, erano molto simili. La
sua ricerca mostra che era un insulto universalmente conosciuto all’epoca

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chiamare un uomo ‘donna’. Mentre c’erano delle differenze culturali tra
indiani, francesi e inglesi, e ogni gruppo riteneva che queste differenze erano
cruciali per i loro conflitti, il fatto che essi stessero combattendo per il
controllo politico e militare sottolineava il simile valore che essi attribuivano
alla maschilità, specialmente la performance degli uomini in guerra e in
politica. Gli indiani e gli inglesi ritenevano entrambi la guerra e la politica
come una occupazione da uomini. Inoltre, tutti e tre i gruppi parlavano lo
stesso linguaggio di genere del potere e sapevano che non erano a rischio
solo il loro dominio o i loro mezzi di sostentamento, ma era a rischio anche la
loro mascolinità. Ad esempio, gli inglesi che venivano catturati dagli indiani,
erano obbligati ad indossare abiti indiani: in questo modo essi venivano
spogliati non solo dei loro abiti ma anche della loro virilità. Le donne inglesi
criticavano le famiglie indiane in termini di genere come costituite da uomini
deboli, donne arroganti e bambini sregolati. Inoltre, gli inglesi usavano il
linguaggio di genere per screditare i loro competitori francesi, associando il
francese e il cattolicesimo alla femminilità e corruzione. Dunque Ann Little
nota che linguaggio e rituali di genere erano usati per giustificare la guerra, le
rivalità imperiali e la sottomissione nel periodo che va da metà 600 a metà
700, dopo la sconfitta dei francesi da parte degli inglesi. Il XVIII secolo vide il
fiorire di movimenti rivoluzionari che diedero sia a uomini che a donne un
linguaggio di libertà e uguaglianza, promettendo loro un futuro luminoso. Le
storiche francesi e inglesi hanno dimostrato i ruoli giocati dalle donne nei
disordini politici nelle loro nazioni. Nella Rivoluzione Americana molte donne,
in qualità di membri della famiglia, seguivano le truppe, offrendo servizi
domestici; tuttavia, il loro contributo militare non è stato riconosciuto. Le
donne firmarono petizioni, parteciparono a proteste e furono centrali per
boicottare le merci inglesi. Ma, queste attività, mentre furono importanti per
l’esito della Rivoluzione, non erano sufficienti per qualificarle come cittadine
politiche nella nuova nazione che risultava formata. Così come il ragazzo per
essere considerato uomo doveva diventare indipendente, allo stesso modo si
pensava che per l’America fosse giunto il momento in cui “il figlio” diventa
indipendente. Le donne continuarono ad essere viste come dipendenti. Ma,
avevano un ruolo speciale nella nazione. In qualità di “figlie della libertà”,
esse dovevano contribuire all’armonia della famiglia e a quella della nazione
come madri virtuose repubblicane, specialmente soddisfacendo il loro dovere
di crescere figli repubblicani. Le donne potevano essere cittadine in senso
molto ristretto: erano escluse dal campo della politica. Le idee circa la
differenza di genere e le caratteristiche della maschilità e femminilità
influenzarono gli aspetti che gli attori politici impiegarono nella loro ribellione
contro la corona inglese. Via via che il conflitto tra coloni e inglesi si faceva
più profondo, “la madre imperiale si trasformò velocemente da tenera a

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crudele” e il re fu rappresentato come un padre senza cuore. L’immagine del
potere tirannico assunse caratteri mascolini. La libertà venne associata
invece all’immagine di donna fragile. La maschilità americana venne
associata con l’eroismo maschile giovanile. Inoltre, il termine “virile” divenne
sinonimo di virtù pubblica nel discorso rivoluzionario, contrastando
l’effeminatezza. La sua controparte era una concezione femminile di libertà
che aveva bisogno di protezione. La corrente liberale del tempo, anche se
credeva nel fatto che gli individui fossero dotati di diritti naturali, in realtà
considerava come agenti storici, sociali e politici esclusivamente gli uomini
bianchi. Era ritenuto scontato che le donne non potessero essere elette per
partecipare alle elezioni o avere delle cariche pubbliche. Come Mary Ryan
suggerisce, “esse erano al di fuori del circolo dei protagonisti politici”. Le
donne potevano rappresentare le più pure e più nobili virtù della nazione: un
esempio può essere offerto dalla dea Columbia, personificazione nazionale
femminile degli Stati Uniti e della libertà stessa, icona dell’unità nazionale.
Inoltre, fa notare Susan Juster, mentre prima della rivoluzione le donne pie
avevano un ruolo attivo nella nascente chiesa battista, durante il XVIII secolo,
la comunità cancellò la propria immagine femminile adottando un aspetto più
maschile. Questi studi ci permettono di comprendere come il genere abbia
influenzato la retorica del tempo e le conseguenze degli stravolgimenti politici
del tempo. Anche le donne parigine hanno avuto un ruolo importante durante
la rivoluzione francese dal 1789 al 1793. Così come le donne americane
parteciparono alla rivoluzione, anche le donne francesi parteciparono
all’assalto della Bastiglia per la presa delle munizioni, e le portarono via loro
stesse, per marciare verso il palazzo reale a Versailles, per insistere sul fatto
che il re e la regina dovessero ritornare a Parigi per presenziare il
peggioramento della situazione economica. Durante gli anni della monarchia
costituzionale, esse parteciparono a parate e proteste, scrivendo anche
petizioni: una delle richieste era il diritto del suffragio femminile e la
partecipazione agli uffici pubblici. Nel 1791 la Costituzione dell’Assemblea
Nazionale estese il suffragio maschile a tutti gli uomini di età superiore ai 25
anni: le donne erano ancora escluse in quanto considerate cittadine passive.
Contro questa decisione e in risposta alla “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e
del cittadino, di LaFayette, sempre nel 1791 Olympe de Gouges scrisse la
“Dichiarazione dei diritti delle donne e delle cittadine” includendo una serie di
richieste. Le donne francesi presero parte sia all’esecuzione del re Luigi XVI
che della regina Maria Antonietta, e nel 1793 fu significativo il loro contributo
al rafforzamento delle leggi del terrore attraverso la denuncia dei
controrivoluzionari. In questo periodo fu fondata la “Società delle donne
rivoluzionare repubblicane” le donne giravano per Parigi mostrando
fieramente i loro abiti rivoluzionari. Tuttavia, 6 mesi dopo la sua nascita, la

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società fu abolita e furono proibite associazioni e club femminili. Per di più, i
loro diritti divennero ancora più circoscritti durante il regno di Napoleone che
prese il potere nel 1799. E’ importante anche esaminare l’immaginario di
genere impiegato durante la rivoluzione che riguardava sia i discorsi che le
immagini per capire meglio l’influenza del genere nella Rivoluzione Francese.
Lynn Hunt ha messo in luce che l’esecuzione della regina Maria Antonietta
era giustificata in quanto essa era accusata di perversione ed eccessi
sessuali: i rivoluzionari, infatti, pensavano che lei rappresentasse la minaccia
della femminilità ed effeminazione per le nozioni di maschilità e virilità
repubblicane. Lei era una cattiva madre, in contrasto a “la nation”,
rappresentata come una “madre mascolina o un padre capace di fare figli”.
Le accuse nei confronti della regina riflettevano le ansie del tempo circa
l’invasione delle donne nella sfera pubblica. Questo timore portò al divieto dei
club femminili, al fine di rendere chiaro che la sfera politica doveva essere
occupata da una confraternita di uomini. L’immaginario di genere era
impiegato anche nelle contese tra giacobini e girondini: i giacobini
schernivano i girondini ritenendoli controllati dalle loro mogli. Inoltre
accusavano le donne girondine di essere licenziose, di comportarsi da
prostitute e di non essere quindi meglio delle donne aristocratiche dell’ancien
régime. Queste stesse immagini negative erano impiegate spesso anche
dalle stesse donne, come Olympe de Gouges, che rivendicavano l’inclusione
femminile nella politica. Mary Wollestonencraft in Inghilterra fece una
riflessione sugli eventi che stavano accadendo in Francia e nel 1792 pubblicò
una lunga analisi delle implicazioni delle donne “Una rivendicazione dei diritti
delle donne”. Come il titolo suggerisce, lei sosteneva che le donne erano in
grado di contribuire al bene pubblico, ma che le restrizioni sulla loro
educazione e le attività politiche avevano impedito loro di dimostrare il loro
potenziale. Affermava che alle donne dovevano essere garantiti i diritti politici
e le condizioni che avrebbe permesso loro di essere madri virtuose. Inoltre,
Mary biasimava le donne aristocratiche e i loro eccessi: a causa di questo era
stata attribuita alle donne una cattiva reputazione. Ma, se gli stereotipi
femminili erano così negativi nella Francia rivoluzionaria, perché ci furono
tante icone femminili nella nuova Francia repubblicana? Così come Columbia
negli USA, la Libertà e altre virtù erano rappresentate come donne perché le
donne non erano considerate attrici politiche. In altre parole, erano scelte per
raffigurare le virtù della nuova repubblica a causa della loro distanza dalla
realtà. Inoltre ci si chiede: le donne furono completamente svantaggiate dalla
Rivoluzione? Gli storici continuano a dibattere questa questione. Suzane
Desan afferma che è certo che la Rivoluzione rigettò l’idea che le donne
potessero partecipare alla vita politica. Tuttavia, sottolinea che la Rivoluzione
sfidò il patriarcato dell’antico regime, istituendo riforme per le leggi della

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famiglia al fine di dare benefici alle donne e ai bambini. Le più importanti
riforme furono quelle che consentivano il divorzio e ordinavano una uguale
eredità tra i figli. Queste misure però ebbero vita breve in quanto furono
abolite dalla Convenzione in poco tempo, aprendo la strada all’affermazione
delle misure restrittive contenute nel Codice Napoleone. Così anche se le
donne non hanno ottenuto l'uguaglianza con gli uomini riguardo la
partecipazione politica durante il periodo rivoluzionario in Francia, i dibattiti
sui diritti hanno offerto alle donne, anche se temporaneamente, un'arena in
cui sfidare la loro posizione nella società. Si può dire dunque che i significati
relativi alla mascolinità e femminilità hanno modellato e sono stati modellati
durante l’età delle rivoluzioni. Ci furono altri durevoli risultati dell’età delle
rivoluzioni. I rivolgimenti politici alla fine del XVIII secolo diedero vita all’idea
moderna di “nazione” e, al nazionalismo. Molti studiosi sono d’accordo che la
“nazione” è una categoria inventata che, dall’età delle rivoluzioni, è passata
ad indicare un popolo unito e sovrano. Le nazioni sono comunità immaginate.
Esse sono immaginate come uniche e legate dalle cose che i membri hanno
in comune, sia esso la lingua, la storia o le presunti radici etniche, tutti
elementi che concorrono a creare un’identità comune. Sia la Rivoluzione
Americana che quella Francese volutamente distrussero l’antico ordine
politico patriarcale, deponendo il sovrano e rimpiazzandolo con una
confraternita: i figli della libertà. Queste rivoluzioni, quindi, sconvolsero
l’ordine sociale e fu allora che vennero fuori le responsabilità dei nuovi
governi per ristabilire società ordinate. Inoltre, il linguaggio di genere familiare
ha giocato un ruolo fondamentale nella costruzione della comunità
immaginata della nazione. Le nazioni vengono chiamate “terra madre”, “terra
padre”. Il linguaggio della parentela descrive i cittadini della nazione come
figlie o figli. Padri, madri e zii appaiono tutti nelle storie e nelle immagini della
nazione. Come in una famiglia, i legami tra i membri si ritengono istintivi-
basati sul sangue o su una storia ancestrale. Le immagini familiari danno alla
nazione un senso di unità, ma è un’unità basata sulle gerarchie di genere,
razza e classe. Legittimano la nazione e le sue divisioni gerarchiche come
"naturali" proprio come la famiglia con la sua gerarchia di genere ed età è
una presunta "forma naturale". Un numero di studiosi ha suggerito che le
metafore familiari e le immagini di donne nel discorso nazionalistico stimolano
un legame emotivo con la nazione. Inoltre, rappresentando la nazione come
una donna, vengono alimentate sentimenti di amore e possesso nei cittadini
di sesso maschile, i quali sentono così il compito di proteggerla. In Iran, alla
fine del diciannovesimo secolo, gli scrittori nazionalisti che usavano immagini
dell'amore trasformarono quelli che erano stati i sentimenti collegati alla fede
islamica e al divino in sentimenti di devozione alla patria nazionale (vatan in
arabo). Attraverso un linguaggio poetico la madrepatria venne associata ad

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un oggetto d’amore, “l’amata”, e allo stesso tempo all’immagine di figura
materna. Queste immagini, e i sentimenti che suscitarono, furono
determinanti nella creazione dell'Iran come nazione moderna. Gli inglesi
giustificarono la loro dominazione dell’Egitto, cominciata nel 1882, facendo
leva sulla presunta arretratezza politica degli egiziani. In realtà in Egitto,
dapprima dell’inizio della dominazione inglese, c’era stata una sorta di
occidentalizzazione della vita, che aveva cambiato anche la famiglia in
quanto si affermò l’ideale di famiglia borghese e, in virtù di questi
cambiamenti, si affermò una concezione che vedeva la madrepatria Egiziana
di genere femminile, che dava rifugio a egiziani di classe e lingua diversi e
forniva loro un’identità comune. In seguito l’Egitto cominciò a ritenersi pronto
per essere indipendente dagli inglesi fino a giungere alla rivoluzione del 1919.
Venne usato il concetto di onore familiare per rafforzare l’orgoglio nazionale e
per mettere in risalto lo stupro ai danni di alcune donne di un villaggio nel
1919 da parte di soldati inglesi, che furono accusati di aver causato disonore
a tutta la nazione. Tuttavia le donne, sebbene attive nella lotta per
l’indipendenza, furono escluse dai processi decisionali e relegate al loro ruolo
simbolico di “madri d’Egitto”. Le riforme familiari e lo status delle donne
furono pietre miliari della modernità e della nazione nascente durante il XX
secolo in Turchia, oltre che per la rivoluzione e la formazione della nazione in
Cina. Nel caso della Turchia, l’Europeizzazione fu cruciale per le politiche di
modernizzazione di Mustafa Kemal. Sia la riforma della famiglia che
l’emancipazione delle donne dall’ortodossia erano centrali per la sua visione
della nuova nazione turca. Egli sosteneva l’educazione laica delle donne,
ritenendo che la loro formazione era fondamentale per i figli della nazione. Il
nuovo governo abolì il divorzio per abbandono e la poligamia, dando alle
donne uguali diritti in materia di divorzio ed eredità. La famiglia,
l’emancipazione delle donne e il nazionalismo furono centrali per le politiche
rivoluzionarie della Cina durante il XX secolo. In Cina si guardava ai modelli
occidentali per l’organizzazione politica e sociale. La famiglia tradizionale
patriarcale e lo status delle donne erano considerati dannosi per gli interessi
della Cina nazionale. I radicali speravano di sostituire la famiglia tradizionale
cinese con un modello familiare occidentale, che includeva libera scelta dei
partner, matrimonio tra eguali e indipendenza dai parenti. La nuova forma di
famiglia avrebbe dovuto potenziare le vite private degli individui nell’interesse
della nazione. Queste erano le proposte del Nuovo Movimento Culturale.
Esso vedeva l’emancipazione femminile come un simbolo della distinzione tra
la Cine feudale e la Cina come nuovo stato/nazione.
Con Napoleone si afferma un’ideale di mascolinità virile, aggressiva ed
eterosessuale, in linea con le ambizioni imperiali del regime. Napoleone
concepiva gli uomini francesi come bellicosi per natura, mentre le donne

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come per natura caratterizzate da una debolezza di cuore. Mentre essere
coinvolti in battaglie era un privilegio maschile durante la maggior parte della
storia occidentale, ci sono esempi storici di donne coinvolte nella battaglie
adottando l’aspetto di un uomo. Nella battaglia della Prussia contro
Napoleone tra il 1806 e il 1815, almeno 22 donne si unirono all’esercito
vestite da uomini. Sia in Francia che in Prussia, molte donne rivendicarono il
diritto di difendere loro stesse e le loro nazioni, ma gli venne rifiutato. La
femminilità e il combattimento apparentemente erano inconciliabili. Ma la
guerra non è stata combattuta solo nei campi di battaglia, specialmente le
due guerre mondiali del XX secolo, conosciute come “guerre totali”. Il termine
“guerra totale” suggerisce l’idea di una guerra che distrugge i confini tra fronte
di battaglia e il fronte di casa. Infatti, sebbene alle donne venne negato un
ruolo nel combattimento, le guerre mondiali aprirono degli spazi per le donne
per contribuire al bene della nazione. Nicoletta Gullace ha dimostrato come le
attività delle donne in Inghilterra durante la Prima Guerra Mondiale permisero
loro di fare delle richieste ed ottenere, per alcune, il diritto di partecipare alle
attività politiche. Prima del 1918 non tutti gli uomini in Gran Bretagna
potevano essere cittadini. La battaglia per il suffragio universale maschile,
sottolinea Matthew McCormack, fu lunga e ardua. L’interrogativo principale
riguardava cos’è che qualificava un uomo come indipendente. I significati
dell’essere indipendente cambiarono nel corso del tempo. L’uomo
indipendente era considerato in opposizione alla donna e agli uomini
dipendenti. Prima del 700 essere indipendenti implicava essere uomini di alto
rango sociale e possedere una proprietà. In seguito l’indipendenza è stata
associata sempre di più con il genere, quindi associata ai tratti maschili,
piuttosto che al rango sociale. Inizialmente solo gli uomini di middle-class che
avevano una proprietà potevano votare, in seguito anche gli operai
cominciarono a sostenere di avere una proprietà, ossia le proprie abilità
lavorative, in virtù delle quali volevano essere considerati indipendenti e
dunque ottenere il voto. In questo modo utilizzavano un linguaggio che
esaltava l’indipendenza come elemento fondamentale per l’inclusione politica
e allo stesso tempo ampliavano il significato di “proprietà”. Coloro che erano
contrari a concedere il voto ai lavoratori li ritenevano cattivi mariti e
indisciplinati, cercando dunque di ridefinire il giusto modello di mascolinità
necessario per l’inclusione politica. Di conseguenza, come afferma Anna
Clark, i lavoratori cominciarono a mettere in risalto il loro ruolo da
“breadwinner” che supportava la famiglia e enfatizzarono la virtù del lavoro. In
questo modo dunque rivendicavano la rispettabilità. Con il Reform Act del
1867 solo alcuni lavoratori ottennero il voto (quelli considerati rispettabili,
pagatori di tasse, regolari lavoratori e sostenitori della famiglia). Solo nel 1918
tutti gli uomini di almeno 21 anni ottennero il diritto voto. Per le donne, solo

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quelle over 30 potevano votare.

Capitolo 6
Assessing “Turns” and New Directions
Lo sviluppo e la crescita della storia di genere da circa la metà del 1980 fino
al 1990, ha accompagnato e ha contribuito a quella che è stata definita
“svolta linguistica” (Joan Scott), poststrutturalismo e post-modernismo. Sia se
considerati come un tutt’uno sia come correnti di pensiero separate, tutte
spinsero gli storici a porsi delle domande circa la natura della loro disciplina.
Noi conosciamo la storia solo attraverso la costruzione che fanno gli storici di
essa. Gli storici raccolgono prove e poi le interpretano. Poi, sviluppano le loro
interpretazioni in ritratti del passato. Questo è il nostro accesso alla storia, a
ciò che “è realmente accaduto”, che è mediato da strati di interpretazione,
che coinvolgono l’uso del linguaggio e l’attribuzione del significato. Noi
sappiamo che un certo evento è accaduto, ma stabilire come è accaduto, chi
ha partecipato, e valutare le sue conseguenze coinvolge la lettura delle sue
tracce. La svolta post-moderna negli ultimi decenni del XX secolo generò tra
gli storici sensibilità e apprezzamento verso l’importanza di mettere in
discussione la conoscenza storica. Siccome il passato non può essere
recuperato o ricostruito definitivamente, il nostro accesso alla conoscenza
rimarrà provvisorio. La storia è sempre soggetta alla revisione e
contestazione. All’interno del campo di studi di storia di genere si stanno
affermando nuovi filone di analisi storica che promuovono nuovi metodi di
indagine. E’ importante esaminare quale rapporto la storia di genere ha avuto
con il post-moderno, il post-strutturalismo e la svolta linguistica.
Kathleen Canning ha affermato che la storia femminista fu centrale al suo
sviluppo. Le studiose femministe rifiutarono tra il 1970 e il 1980 l’idea che la
biologia spiegasse le disuguaglianze sessuali, e sostenevano che la
differenza sessuale era socialmente costruita. Le storiche femministe che
condivisero la “svolta linguistica” misero il linguaggio e il discorso al centro
del loro esame su come il genere era costituito e come esso influenzava i
processi storici. Esse concepivano il linguaggio e il discorso come costituenti
della realtà storica. Le loro idee disturbarono altre storiche femministe che
obiettavano l’idea che tutto era costruito attraverso il linguaggio. Il dibattito tra
le storiche femministe così come tra le storiche in generale si diffuse nel 1990
e divenne noto come “le guerre delle teorie”. Fu soprattutto l’influenza delle
idee di Michel Foucault e Jaques Derrida che stimolò il dibattito. Per Foucault

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il potere nelle società moderne è disperso piuttosto che localizzato al centro.
Esso è intrinsecamente legato alla conoscenza. In base a questa prospettiva
quindi, il sesso divenne oggetto delle discipline scientifiche, e queste
discipline e la conoscenza che generarono, servirono come strumenti di
controllo. La conoscenza per Focault esercita il suo controllo sull’individuo in
quanto questo la internalizza e agisce sulla base di essa. I critici di Focault
ritenevano che questa visione del potere trascurasse la dominazione così
come i vincoli materiali economici e sociali che influenzavano la vita delle
persone. Jaques Derrida è associato con il decostruzionismo, un modo di
capire e leggere i testi. Il suo lavoro suggerisce che i testi non possono mai
definitivamente stabilire il significato perché essi sono costruiti da un gioco
infinito di significanti. Questi testi contengono contraddizioni interne che
compromettono la loro pretesa di verità o di significati unici. Il lavoro di
Derrida ha suggerito un modo di leggere i testi che costituiscono prove
storiche per scoprire le loro contraddizioni interne e per rivelare ciò che
hanno soppresso: in altre parole, leggere ciò che è stato lasciato fuori o
silenziato. Joan Scott è stata una figura centrale nello sviluppo della storia di
genere, specialmente attraverso la sua promozione di un approccio teoretico
nel campo della storia di genere. Ma, a causa del suo debito nei confronti di
teorici come Foucault e Derrida, e della sua insistenza esclusivamente su un
approccio post-strutturalista alla storia, le sue idee sono state discusse in
maniera accesa tra le storiche di genere e le storiche femministe. Ci furono
anche storiche di genere che tentarono di costruire una via di mezzo. Per
esempio, l’opera di Judith Walkowitz Città di orribili delizie: racconti del
pericolo sessuale nella Londra post-vittoriana, combinava le intuizioni di
Foucault nelle pratiche discorsive con le questioni che provenivano dalla
storia sociale e dalle politiche femministe. L’autrice ha analizzato il panorama
sociale cangiante di Londra negli anni del 1880, che incoraggiò una varietà di
modi di investigare la città. Walkowitz spiegava dettagliatamente le
conseguenze sociali della proliferazione dei racconti sessuali e investigava il
ruolo e l’impatto dei media nella costruzione dell’eterosessualità. Sosteneva
che uno degli obiettivi della frenesia dei media sugli omicidi di Jack lo
Squartatore, era far tornare di moda la visione della violenza maschile e la
passività femminile. Nei suoi saggi pubblicati durante il 1990, Kathleen
Canning sviluppò un approccio alla storia di genere che enfatizzava
l’interazione o l’interdipendenza del discorso e del contesto sociale. Centrale
al suo approccio era la concezione che il corpo doveva essere posizionato
“all’incrocio tra la cultura materiale e la soggettività”. Ad esempio, nel suo
caso di studio delle politiche di lavoro femminile delle donne nella Germania
dopo la Prima Guerra Mondiale, ha svelato le condizioni sociali che le
lavoratrici dovevano affrontare durante la guerra, la loro nuova posizione

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acquisita in un sindacato, i discorsi che cambiavano circa i corpi femminili e il
lavoro delle donne. Canning sostiene che gli anni della guerra e lo
svelamento delle politiche nell’immediato dopoguerra, costituivano un periodo
in cui l’esperienza corporea delle donne di fame, furto, attacchi, parto o
aborto, aprì una strada per le trasformazioni della coscienza e
dell’esperienza. Fu in questo contesto, infatti, che le donne inserirono le loro
richieste politiche nelle loro esperienze quotidiane, che includevano intensi
lavori domestici così come il lavoro nelle fabbriche. Mentre prima della
guerra, le discussioni circa i bisogni primari delle donne si focalizzavano sul
ruolo di madre delle donne lavoratrici, alla metà del 1920, le donne
rappresentavano loro stesse nei loro ruoli multipli per richiedere misure di
benessere sociale che tenessero conto del loro stato di lavoratrici. Bisogna
evidenziare che poca attenzione è stata rivolta alla soggettività. Per Canninng
il corpo- con i suoi stress e desideri fisici- costruisce la soggettività. Essa
vede la soggettività in termini di “posizioni soggettive” nel discorso e nelle
auto-rappresentazioni che rendono possibile. Al contrario, per Michael Roper,
la cui ricerca si è concentrata sulle lettere scritte dagli uomini sui campi di
battaglia alle loro madri, la soggettività è collegata agli stati psicologici. Lui va
contro l’approccio linguistico al genere teorizzato da Scott. Roper sostiene
che escludendo qualsiasi nozione dell’esperienza vissuta da una teoria di
genere, è impossibile fare un’analisi della soggettività. Inoltre egli sostiene
che i discorsi o le rappresentazioni culturali non costituiscono i soggetti.
Roper afferma che la mancanza della storia di genere è l’attenzione verso “le
pratiche della vita quotidiana”; dell’esperienza umana che si forma attraverso
le relazioni emozionali con gli altri. L’analisi delle lettere che i soldati
scrivevano alle madri, gli ha permesso di ricostruire il significato emozionale
delle relazioni familiari. Erano queste relazioni al centro del suo studio sulla
maschilità, che concepisce come “un costrutto sia psichico che socio-
culturale”. Quello di Roper è un approccio biografico che mette al centro
dell’analisi la profondità psichica delle relazioni familiari e la loro rilevanza in
particolari circostanze storiche. Anche Timothy Ashplant ha usato un
approccio biografico per esplorare le complesse soggettività degli uomini nel
periodo della Grande Guerra. Egli non intende focalizzarsi sull’impatto che ha
avuto la guerra sugli uomini da un punto di vista emozionale, bensì si
concentra nell’esplorare la formazione e trasformazione delle identità
politiche e sociali degli uomini in quanto individui . Egli esamina anche che
cosa si intende per “collettività sociali”, come ad esempio la nazione. Lui
esamina la guerra come un momento di distruzione, uno spazio e un tempo
“liminale”, che produce la possibilità di trasformazione individuale. Il lavoro di
Ashplant mette insieme i metodi psicoanalitici, culturali e sociali per esplorare
una storia delle soggettività prende in considerazione la specificità del

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contesto sociale insieme alle psicodinamiche. Esaminando la soggettività
dalla prospettiva della psiche individuale, offre una nuova direzione per la
storia di genere. Nel momento in cui la storia di genere si stava sviluppando,
altri storici si interessarono in quella che venne definita storia mondiale o
globale (in seguito al crescente interesse per la globalizzazione e per le realtà
non occidentali e del loro ruolo nelle trasformazioni politiche, culturali,
economiche). Generalmente, le storie di uomini e donne non sono apparse
nella pratica della storia globale, ma questo è iniziato leggermente a
cambiare dal momento in cui diversi studiosi di gender history e di storia delle
donne hanno adottato un approccio più globale e a loro volta alcuni studiosi
di global history si sono interessati al genere. Una possibile ragione per la
disattenzione al genere da parte degli studiosi di storia mondiale / globale
potrebbe essere dovuta alla scala dei fenomeni di interesse per alcuni
praticanti del settore. Un esempio di studio di Global History è quello di
Kenneth Pomeranz intitolato “The Great Divergence: China, Europe, and the
Making of the Modern World Economy”. Pomeranz dimostra come la Cina e
l’Inghilterra erano molto simili sul piano di crescita economico e sociale
all’inizio del periodo moderno; ma, le cose cambiarono durante il XIX secolo,
con l’Inghilterra che ebbe il sopravvento a causa dei metodi moderni che
possedeva (l’uso del vapore nelle industrie) rispetto alla Cina ma soprattutto
grazie all’appropriazione di terre nel nuovo mondo e al lavoro degli schiavi.
mentre per gli storici di genere il genere è un fattore fondamentale per i
processi storici, questo non significa che esso è sempre cruciale. Poi, il livello
globale e socio-economico, le mode politiche e le relazioni, sono il risultato di
processi molto complessi che interagiscono. Per scoprirli c’è bisogno di
un’analisi locale o di un livello “micro”. Un tipo di analisi differente viene
realizzata dagli storici di genere che adottano un approccio globale come
Kessler-Harris e Laura Frader che studiano come la divisione sessuale del
lavoro sia cambiata nel tempo e nello spazio. Tali storie, attraverso un
approccio comparativo, tentano di mostrare somiglianze e differenze tra
regioni o stati-nazione per mettere in luce i fattori che contribuiscono alla
differenza di genere e il modo in cui le trasformazioni economiche, sociali e
culturali influenzano le donne e il genere. Un tipo di analisi abbastanza
diverso è rappresentato dagli storici di genere che esaminano le connessioni
tra aree geograficamente definite che influenzano le idee relative al genere,
movimenti politici, ideologie e relazioni. Peter Stearns ha unito un approccio
al genere e alla storia delle donne con una storia globale, concepita come
uno studio dei contatti culturali e delle interazioni internazionali. Questi studi
rendono i contatti tra persone che vivono in diverse aree geografiche centrali
nello studio del genere e del potere, riconoscendo che “siti di
interconnessione di contatto e scambio” hanno luogo in contesti che sono

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influenzati dai “sistemi di potere e di dominio”. Ricerche condotte da un
gruppo di femministe storiche specializzate in contesti nazionali e regionali,
sono state orientate nell’approfondire la creazione transnazionale, attraverso i
mass media, di una nuova femminilità tra il 1920 e il 1930, rappresentata da
quella che era definita “la ragazza moderna”. La “ragazza moderna” non era
un’invenzione dell’America o dell’Europa che si è diffuso nel mondo.
Simboleggiando la modernità, le immagini della ragazza moderna furono
presentate in pubblicità di vari prodotti commerciali. Nei vari contesti venivano
rappresentate in modi diversi. In tutti la preoccupazione principale riguardava
l’aspetto fisico e il corpo. In più, le immagini erano legate alle idee di colore di
pelle e razza, implicando come la razza veniva intesa nei vari contesti sociali.
Ma, cosa succede alle percezioni delle differenze di genere quando gli
esploratori iniziarono a scoprire e documentare le vite delle persone che
incontravano in terre straniere, con differenti costruzioni sociali e aspettative
circa la differenza di genere? Prendendo come punto di riferimento il lavori di
antropologi e le riviste del Capitano Cook nei suoi viaggi nel Pacifico tra il
1760 e il 1770, Kathleen Wilson ha documentato ciò che definiva “il
disconoscimento di genere” e la “mutua” confusione. I marinai percepivano le
donne tahitiane come sessualmente promiscue, intenzionate a sfruttare i
carichi delle barche degli uomini stranieri. Inoltre, i marinai pensavano che gli
uomini di queste isole fossero sodomiti o effeminati. Dal punto di vista degli
uomini delle isole, i marinai sembravano delle donne. Le migrazioni nel
continente sono un esempio di transnazionalismo: tutta la storia umana
coinvolge persone che si spostano, sia per volontà propria o
involontariamente. L’esame storico delle esperienze dei migranti che lasciano
le loro case, tentano di stabilirsi in un nuovo ambiente di mantenere delle
relazioni familiari a distanza, rivela la centralità del genere nei vari aspetti
della migrazione, emigrazione, immigrazione. Le abitazioni familiari diventano
così disperse nello spazio, sostenute grazie agli scambi finanziari e affettivi.
Molti studi di genere e migrazione infatti sottolineano le costruzione di una
economia familiare transnazionale. Donna Gabaccia ha studiato
l’immigrazione italiana negli USA nel XIX secolo e ha notato che la grande
disponibilità di lavori maschili comportava il fatto che l’emigrazione maschile
fosse economicamente conveniente alla famiglia rispetto a quella femminile o
di tutti i membri della famiglia. Mentre gli uomini lavoravano negli USA, le loro
mogli nel paese di origine continuavano a lavorare e dunque entrambi
contribuivano al sostegno economico della famiglia (economia familiare
transnazionale). Quando anche le donne cominciarono ad emigrare negli
USA, ci si aspettava da loro che continuassero a lavorare come avevano fatto
nel paese di origine. In seguito la situazione cambiò, e le donne italiane
cominciarono sempre di più a emigrare negli USA come (economicamente)

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dipendenti dai mariti. Per quanto riguarda le donne lavoratrici, queste si
occupavano sia del lavoro salariale sia del lavoro domestico. Le opportunità
delle donne italiane negli Stati Uniti erano limitate ai servizi domestici e nel
lavoro intensivo nel commercio di capi di abbigliamento. Inoltre, restringendo
l’analisi alla migrazione di uomini e donne dei Caraibi in Inghilterra, Mary
Chamberlain ha evidenziato che, mentre gli uomini concepivano il loro
spostamento come temporaneo, le donne sottolineavano la sofferenza
emozionale della separazione dalle persone amate. Dunque, mentre le
circostanze della migrazione potevano essere simili per uomini e donne, esse
differivano nel modo in cui venivano spiegate e raccontate.

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