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COME SI DEFINISCE IL GENERE


Le teorie classiche
Il concetto di genere è stato definito dalle scienze sociali in modo puntuale solo nel corso del XX secolo, ma un9analisi
di tipo scientifico rispetto alle differenze fra uomini e donne si è affermata a partire dalla seconda metà del XIX
secolo. Il termine inglese gender, però, descrive due categorie di un9entità sessuale e non come il suo equivalente
termine italiano genere che, polisemicamente, si riferisce a diversi ambiti disciplinari (genere letterario, genere nelle
scienze fisiche ecc.). Per questo motivo diverse discipline suggeriscono di utilizzare il termine in lingua originale,
avendo un unico significato relativo alla costruzione sociale dell9identità sessuale. Nel corso del XX secolo questa
accezione sarebbe stata ripresa in modo specifico dalla corrente della sociobiologia, che intese contrapporsi a quelle
che erano divenute le tre prevalenti prospettive di analisi della trasformazione delle differenze sessuali in
differenziazioni di ruolo, di identità e di aspettativa sociale.
La prima può essere definita una prospettiva conflittualista e la si può considerare alle origini di un pensiero
scientifico sul processo di costruzione sociale dell9identità di genere (gender*). Infatti, già nel Seicento si deve
all9osservazione di pensatori quali Poullain de la Barre e un secolo dopo al marchese de Condorcet la rivoluzionaria
affermazione secondo la quale l9opinione dell9inferiorità della donna era basata su un9effettiva inconsistenza
scientifica e, quindi, sul pregiudizio alimentato da una cultura prevalente maschile.

Questo pregiudizio era stato la causa, ma anche la conseguenza di una produzione di leggi e norme che nella prima
metà del XIX secolo il filosofo Claude de Saint-Simon aveva definito tipicamente maschile, al punto da precludere alle
donne gran parte dei diritti spettanti, anche quelli più fondamentali, inalienabili per una persona umana, come la
Rivoluzione francese aveva sancito. Si affermava, così, una visione della società moderna secondo la quale ruoli e
funzioni erano determinati da una cultura orientata da squilibri nell9accesso alle risorse economiche, politiche, sociali
a favore degli uomini, che perpetuavano questo sistema per preservare la propria posizione dominante.
Questa prospettiva, sulla quale nel corso del XX secolo si sarebbe innestata la lettura femminista dei fenomeni sociali,
fu al centro delle riflessioni di molti studiosi sociali e, fra questi, anche di donne pioniere come Mary Wollstonecraft e
Harriet Martineau. Se la prima già nel corso del XVIII secolo sottolineava che le donne non erano inferiori per natura
agli uomini, alla pensatrice americana Martineau si deve un9attenta riflessione in Society in America
sull9inadeguatezza del sistema democratico, perché non garantiva l9uguaglianza fra i membri di una società, se
differenti per sesso, e un pari accesso ai diritti di formazione, lavoro, rappresentanza politica, famiglia e salute.
Si vedrà come anche questi principi, al pari di quelli emergenti dalla Rivoluzione francese, si sarebbero tradotti nelle
idee a fondamento di movimenti di pensiero e azione quali quelli per l9emancipazione femminile, votati a definire e
stabilire l9uguaglianza economica, politica e sociale dei sessi. Fra questi uno dei più noti fu quello delle suffragette.
La seconda prospettiva è quella riconducibile alla corrente funzionalista, che guarda alle differenze biologiche e
culturali fra uomini e donne come a loro attributi costitutivi e identitari. In particolare, ogni individuo, attraverso il
percorso di socializzazione, apprende e interiorizza dal proprio contesto di riferimento quelle regole, valori e
aspettative di ruolo che ne costruiranno l9identità di genere. Per i teorici del funzionalismo il margine di cambiamento
sociale è limitato a quanto necessario per assicurare il perfetto funzionamento del sistema sociale, ossia il suo ordine,
riproduzione e adattamento assicurati dalla divisione sociale dei ruoli, anche essa fondata sulle caratteristiche
biologiche, anatomiche, fisiologiche maschili e femminili e sul loro valore sociale.

La terza prospettiva di analisi è quella proposta dalla fenomenologia e dall9etnometodologia, secondo la quale a
determinare le differenze di genere sono le pratiche e i comportamenti che uomini e donne mettono in atto
interagendo e utilizzando le risorse a disposizione. Rispetto alla visione conflittualista e funzionalista della
costruzione del genere da parte della società, quella feno-etnometodologica punta sull9azione di ogni individuo che
pone in essere servendosi del corpo, del linguaggio, della posizione sociale per produrre e riprodurre la propria
identità di genere. Il livello di conformità o, al contrario, di rifiuto individuale dei modelli forniti dalle agenzie di
socializzazione rende proprio gli individui i promotori delle identità entro un ordine di genere che definisce ciò che è
maschile e ciò che è femminile con il fluire delle relazioni sociali.

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Le letture femministe
Considerando quella femminile come la condizione tradizionalmente più svantaggiata rispetto al genere maschile,
questa posizione critica verso la società è stata riconosciuta con il nome di femminismo. In esso confluiscono le
proposte di studio, ideologiche e politiche di un complesso e articolato movimento sviluppatosi a partire dalle
richieste per il riconoscimento del diritto di voto alle donne nella Francia della Rivoluzione francese. Si deve alla
pensatrice e attivista Hubertine Auclert il primo riferimento al termine femminismo in un suo articolo per la sua
rivista «La Citoyenne» nel 1881. In questo articolo Auclert, denunciate le asimmetrie fra la condizione di vita di
uomini e di donne e le dinamiche di oppressione di genere, propose un modello sociale le cui leggi, norme e pratiche
non assumessero il sesso biologico come fattore per modellare l9identità sociale e l9accesso ai diritti della persona.
Gli women’s studies
Il femminismo ha portato un modo nuovo di vivere, pensare e vedere il mondo, prima di tutto da parte delle donne
stesse. Inoltre, ha affermato la necessità di trovare una propria tradizione di conoscenze, pratiche politiche e saperi.
Alla fine degli anni Sessanta, con lo sviluppo del femminismo negli Stati Uniti e in alcuni Paesi europei, sono nati e si
sono sviluppati i corsi di women9s studies, basati sulle teorie, sulle metodologie e sulle pratiche femministe. Un
approccio multidisciplinare, in ambito accademico, che voleva rispondere a quel vuoto di conoscenze che una cultura
maschile e patriarcale aveva prodotto. Negli anni Novanta lo storico Georges Duby e la storica Michelle Perrot
curavano la pubblicazione di un9importantissima opera storica che si può definire corale e considerare una pietra
miliare in Italia e nel resto del mondo: Storia delle donne in Occidente.
L9indagine e la conoscenza in questo campo hanno avuto come obiettivo principale l9individuazione e l9analisi delle
false rappresentazioni delle donne su cui si basava la cultura dominante. I programmi dei corsi e dei seminari di
women9s studies sono, quindi, il risultato del lavoro portato avanti nell9ambito di associazioni, collettivi e
organizzazioni femministe che, grazie alle stesse accademiche, in varie aree del sapere, hanno trovato spazio per dare
valore all9esperienza diretta delle donne, anche a livello scientifico, facendo emergere il pregiudizio maschilista. Con
lo studio e la ricerca hanno combattuto una discriminazione sistemica rispondendo con impegno nella società e
nell9ambito della cultura e della scienza.

Nell9ambito degli studi culturali, gli women9s studies si interfacciano con altre aree della conoscenza che trovano
nell9impegno delle femministe la stessa radice: tra questi gli studi di genere, gli studi femministi e gli studi sulla
sessualità. Quando ci si riferisce agli women9s studies lo si fa considerando la nascita di un canone condiviso di
pubblicazioni, studi, opere e di realtà e di luoghi di donne dove ci si incontra, si studia e ci si impegna anche
politicamente. Una di queste realtà è la National Association of women9s studies, nata nel 1977 negli Stati Uniti, che
diventa subito spazio di incontri, convegni, produzione di saperi. Si scoprono storie e opere che non facevano parte
dei canoni tradizionali, vengono esaminate tutte le tematiche che riguardano le donne come le questioni di potere, la
divisione dei ruoli, la creazione e la cristallizzazione delle strutture sociali.

Tra le prime storiche che si sono particolarmente impegnate in quest9opera di ricerca della verità e di
smascheramento di una realtà diversa da quella fino ad allora rappresentata, con la conseguente ridefinizione degli
ambiti e delle modalità di ricerca, ricordiamo Joan Kelly e Carroll Smith, le quali opposero un secco rifiuto all9uso degli
stessi strumenti e approcci di chi aveva agito l9esclusione dal punto di vista scientifico.
Il nodo di indagine che soprattutto all9inizio destò maggiore interesse fu il rapporto donna-storia-politica. A questo
proposito uno dei primi studi di particolare valore fu la seconda edizione del libro di Eleonor Flexner <Century of
Struggle: The Women9s Rights Movement in the United States=. Al centro dell9opera c9è lo studio del movimento
emancipazionista ottocentesco americano. Si tratta del primo studio documentato sulla lotta per il diritto di voto alle
donne. Negli stessi anni anche l9antropologa nordamericana Gayle Rubin contribuì in modo significativo con il suo
volume a esplorare le origini dei meccanismi di oppressione delle donne.
In particolare, la studiosa evidenzia la funzione centrale del genere, che trasforma la differenza sessuale biologica in
un risultato dell9attività umana e attribuisce determinati ruoli in base al sesso di appartenenza, perpetuati dagli
individui nel corso della loro vita secondo le aspettative sociali.

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Rubin evidenzia come questa istituzione fosse stata utilizzata per opprimere sessualmente le donne, il cui scambio
avveniva fra gli uomini della famiglia privandole di un analogo diritto a scegliere liberamente per la propria sessualità
verso gli uomini e per sé stesse. Se lo studio della condizione sessuale delle donne portò Rubin ad ampliare l9oggetto
dei suoi studi verso le identità omosessuali, questo rimase focalizzato sui modelli di comportamento femminili per la
psicoanalista Nancy Chodorow, che approfondisce il tema del complesso di Edipo, incontrato anche da Rubin.
Le prime fasi della vita in famiglia per un bambino e per una bambina sono decisive per lo sviluppo della propria
identità di genere: per i bambini la madre diventa il primo oggetto sessuale che vivono, emulando il comportamento
possessivo del padre; per le bambine, invece, l9amore per la figura maschile paterna, contrastata dal rapporto con la
madre, si trasforma in una predisposizione femminile alla maternità, emulando la madre, e di oggetto dell9amore del
maschio dominante. La compartecipazione di madre e padre a queste funzioni interromperebbe le dinamiche di
in/dipendenza dai genitori dei bambini, e delle bambine che crescerebbero secondo modelli in cui la mascolinità e la
femminilità non sarebbero posti in rapporto gerarchico.

Ne è convinta anche la filosofa italiana Luisa Muraro che, nella sua opera <L9ordine simbolico della madre=, affida alla
fase primaria della cura infantile una funzione strategica per iniziare la costruzione di un ordine simbolico materno.
Se nella società prevale un ordine simbolico maschile è perché si sottovaluta, fino ad annullarlo, il valore dello
scambio di segni, gesti, significati che avviene fra la mamma e il bambino e che genera valori, regole e simboli. Inseriti
nelle regole sociali patriarcali prevalenti questi si sviliscono, al punto che la filosofa italiana e la comunità scientifica di
Diotima, di cui fa parte, arrivano a proporre di rifiutare l9opposizione sesso/genere, equivalente a quella
natura/cultura. Il valore dell9ordine simbolico femminile, infatti, non è solo naturale e questa distinzione con la
cultura giocherebbe a favore dei significati impiegati nella costruzione sociale delle identità di genere secondo
significati che sono patriarcali.
I men’s studies
I men9s studies si occupano degli uomini e del loro agire sociale. Nascono negli Stati Uniti e hanno alle spalle una
lunga stagione di mobilitazione politica giovanile: quella che va dalle prime occupazioni dei campus universitari degli
anni Sessanta ai movimenti femministi. In questo stesso tempo storico si iniziò a parlare di liberazione maschile del
tardo capitalismo anche per l9influenza di autori come Herbert Marcuse. Nel corso della modernità il bisogno di
trasformazione maschile si è variamente affermato nelle relazioni sociali tra i generi, scontando anche i limiti politici
dei movimenti di protesta degli anni Settanta.
Proprio sulla scia di questi movimenti e degli studi femministi che molti uomini cominciarono a interrogarsi e a
riflettere sulla loro esperienza sessuata, sul significato del loro essere uomini, avviando un9operazione di
decostruzione dei modelli dominanti di virilità e di etero-patriarcato, costruendo al loro posto una domanda di libertà
e di ridefinizione simbolica del maschile. La contestazione dei ruoli sessuali e sociali costruiti dagli uomini e sugli
uomini condusse studiose/i a far propria l9idea che il genere fosse una costruzione sociale e non un destino biologico.
Fin dalla loro nascita, l9obiettivo di una parte dei men9s studies è stato quello di decostruire i modelli dominanti della
mascolinità, di smontarne la naturalità, di storicizzare la differenza di genere e ricollocare il maschile nella propria
parzialità.
Beasley osserva che, mentre gli studi di genere e delle sessualità cercano di turbare e sconvolgere categorie, le
riflessioni dei teorici dei men9s studies si basano proprio su queste categorie essenzialiste di uomo e di mascolinità. In
ogni caso gli studi sugli uomini stanno gradualmente diventando più visibili nella comunità accademica e anche nel
dibattito pubblico. Gli ultimi decenni hanno infatti visto un ampliamento degli studi critici sulle mascolinità.
Grazie ai men9s studies emergono nuove identità e forme di mascolinità. Anche in Italia emergono una serie di studi e
di ricerche empiriche. Gli studiosi del tema si sono concentrati in modo particolare sulla relazione tra i men9s studies
e il campo più ampio degli studi di genere. A tal proposito si possono distinguere due approcci contemporanei di
questi studi. Un primo approccio emerge come reazione agli studi di genere e al femminismo. Nonostante chi
appartiene a questo filone riconosca l9oppressione storica delle donne enfatizza in ogni caso l9idea che i sistemi
patriarcali siano in grado di opprimere anche gli uomini. Inoltre, questo filone scientifico esprime la preoccupazione
che gli uomini siano esclusi dalla discussione più generale degli studi di genere o siano addirittura svalutati.

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Il secondo approccio prevede una convivenza più pacifica con il femminismo e gli studi sulle donne. Secondo chi lo
sostiene, la missione degli studi sugli uomini è continuare il progetto rivoluzionario degli studi di genere. In sintesi, i
men9s studies hanno portato alla ribalta argomenti rimasti per molto tempo ai margini delle riflessioni sociologiche
più tradizionali. Questi studi riconoscono la parzialità del genere uomo e rendono più attuale la prospettiva intorno al
genere maschile.
Nonostante il discorso teorico classifichi questo filone di studi in continuità e interconnesso a quello del femminismo,
è stata sollevata la preoccupazione che i men9s studies siano una forma di appropriazione maschile della produzione
scientifica. Secondo questa idea, attraverso le loro riflessioni gli studiosi uomini avrebbero uno strumento
potenzialmente utilizzabile per mettere a tacere il punto di vista femminile negli studi di genere, riverberando
l9oppressione patriarcale anche sul piano culturale e scientifico.
I men9s studies solleva anche la questione del perché sia necessaria una modalità di indagine specializzata e basata
sull9agire maschile, quando in sostanza già tutta la storia dell9umanità è stata dedicata agli studi sugli uomini.
Chiaramente chi sostiene i men9s studies ha cercato di difendersi da tale accusa controbattendo che questa
resistenza femminista equivale a un9appropriazione forzata degli studi di genere e alla ripetizione delle pratiche di
esclusione di cui sono stati accusati gli uomini. Oltre agli sforzi per capovolgere queste accuse, si è cercato di
dimostrare che nonostante la storia dell9umanità sia stata tradizionalmente equiparata al maschile ciò non esclude
che l9analisi sociale debba occuparsi della dimensione del maschile come genere.
Le concezioni moderniste e le pratiche politiche dell9identità sono state indagate e criticate dalle scienze sociali e
questo ha generato dibattiti circa i modi alternativi di costruire e costituire il genere e la società e la loro relazione.
Tra le conseguenze di queste riflessioni, sono aumentate le spinte alla de-costruzione sociale del maschile. In
particolare, sono stati inseriti elementi di critica alla sua crisi con l9introduzione di elementi sia strutturali sia bio-
politici nel sostenere l9importanza dei men9s studies. Sul versante strutturale si afferma, ad esempio, che la crisi degli
uomini si manifesti innanzitutto in termini di salute. A causa del numero significativamente più alto, rispetto alle
donne, di uomini afflitti da patologie.
Gli storici hanno ipotizzato che questa visione di una crisi del maschio contemporaneo sia conseguenza dei processi
di industrializzazione. In diverse analisi storico-sociali gli uomini sono tradizionalmente descritti come capo-famiglia e
sostenitori del nucleo familiare. Dunque, l9idea di crisi della mascolinità si sposa pienamente con l9analisi del danno
che il patriarcato ha perpetrato. Vista da questa angolazione critica, la mascolinità sistemica non solo causa conflitti e
situazioni di crisi con il genere femminile, ma anche tra gli uomini stessi, con il rischio che vengano trasmesse alle
nuove generazioni di uomini caratteristiche patogene quali la paura del femminile, la capacità emotiva ridotta,
l9omofobia e l9eterosessismo, oltre a comportamenti di violenza contro le donne o le minoranze sessuali.
Negli ultimi decenni gli studiosi e le studiose attivi nei campi del femminismo, degli studi LGBT+ confermano l9idea
che la maschilità sia in trasformazione. Sebbene non vi sia unanimità nello stabilire la natura di questo mutamento, vi
è un senso diffuso d9inadeguatezza rispetto ai modelli culturali stabiliti del maschile. Ad esempio, sul versante della
cura, è innegabile il crescente coinvolgimento di mariti, partner e padri nella vita familiare.
Ancora, il numero crescente di famiglie con un solo genitore stanno convogliando l9interesse delle riflessioni
scientifiche verso una figura di padre-marito. Il movimento per i diritti paterni che si colloca all9interno della più
generale mobilitazione per diritti degli uomini, è uno dei fenomeni più noti di questa dimensione di cambiamento.
Tuttavia, l9omofobia continua a costituire uno dei principi organizzatori della mascolinità. Il timore che qualcuno
possa considerare una mascolinità omosessuale spinge gli uomini a mettere in atto comportamenti e atteggiamenti
esageratamente virili, per assicurarsi che nessuno si faccia idee sbagliate su di loro.
In questo quadro di trasformazione dell9essere maschio emerge prepotente anche la necessità di curare la propria
salute bio-psico-fisica: le mutate condizioni degli stili di vita richiedono un diverso atteggiamento nei confronti del
proprio corpo, che necessita di una sempre maggiore quantità di cure: dalla nutrizione all9estetica. Gli uomini
mutuano oggi alcuni atteggiamenti e comportamenti prima considerati esclusivamente femminili: è in forte aumento
l9utilizzo maschile di prodotti per il viso e il corpo.

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Studi LGBT+
A partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso la sociologia ha progressivamente ampliato il proprio focus,
concentrandosi sulle diverse componenti dell9identità sessuale, considerata come un complesso intreccio di sesso,
genere e orientamento sessuale. Ciò ha portato alla nascita di quelli che sono stati definiti gay and lesbian studies.
La pubblicazione dei primi studi sociologici che hanno focalizzato la propria attenzione sull9orientamento
omosessuale è costituita da indagini che si sono concentrate principalmente sulla composizione e sull9organizzazione
della popolazione omosessuale residente nei grandi centri urbani del Nord America. L9idea alla base di tale filone di
ricerca, di natura positivista, era che l9omosessualità fosse una pratica diffusa, capace di incentivare e produrre, a
seconda dei contesti culturali e territoriali entro cui si inserisse, cambiamento sociale. Queste prime indagini
americane di matrice funzionalista sono state volte a soddisfare due esigenze conoscitive: da un lato, queste erano
interessate a studiare la funzione della comunità omosessuale in società, investigando dinamiche, relazioni ed
esperienze interne alla comunità gay, insieme alla natura e alle caratteristiche delle relazioni intrattenute con gli altri
membri della città; dall9altro, l9approccio positivista intendeva rilevare le condizioni di vita della comunità gay degli
anni Cinquanta, con un focus particolare sullo stigma vissuto o percepito dalle persone omosessuali per il fatto di
appartenere a una minoranza.
In America prima, e in molti altri contesti territoriali del mondo occidentale poi, uomini e donne omosessuali e
bisessuali, insieme alle persone transgender, hanno iniziato così a riconoscersi come comunità al di fuori degli schemi
dell9eterosessismo. Entro questa cornice, l9acronimo «LGBT++» ha iniziato ad assumere un significato simbolico e
politico.
L9emblema della mobilitazione LGBT+ è rappresentato dai cosiddetti moti di Stonewall Inn, che hanno avuto luogo
all9alba del 28 giugno 1969, quando la polizia effettuava una violenta irruzione nell9omonimo locale del Village a
Manhattan. Il raid si è trasformato in una rivolta contro i poliziotti durata diversi giorni, avviata da Sylvia Rivera,
donna transessuale che per prima si è ribellata alle forze dell9ordine. Questa data è diventata a livello globale un
simbolo per la comunità omosessuale, che ogni anno ancora la celebra attraverso i Gay Pride.
Entro la cornice costruttivista, l9attenzione della ricerca sociale sulle identità sessuali si è spostata poi sulla
costruzione sociale dell9identità omosessuale e sulle forme attraverso le quali uomini e donne si riconoscono come
gay e lesbiche. Più specificamente, attribuendo grande importanza ai fattori sociali e culturali, le identità omosessuali
sono state studiate e analizzate dalle scienze sociali entro i principali ambiti in cui si realizza l9interazione sociale: dalla
famiglia di origine al gruppo dei pari, passando per le organizzazioni di appartenenza e gli ambienti di lavoro. La
riflessione sociologica costruttivista sulle identità sessuali si è inserita entro la cornice di analisi più ampie, volte a
cogliere i principali effetti sociali di alcuni processi allora in corso, quali industrializzazione, razionalismo e
individualismo.
A partire da questo periodo storico gli studi LGBT+ hanno posto in risalto anche le principali differenze che
intercorrono nella costruzione dell9identità omosessuale tra uomini e donne. Il cosiddetto processo di
omosessualizzazione viene descritto come un percorso in cui entrano in gioco il proprio sentire, ma anche la forte
pressione esercitata da alcuni fattori esterni, che propongono l9eterosessualità come condizione identitaria
obbligatoria.
Gli anni Ottanta sono stati segnati dalla drammatica diffusione dell9AIDS, ribattezzata in maniera stigmatizzante come
«peste gay» e «GRID». Infatti, nonostante l9elevato numero di contagi anche tra persone eterosessuali, in questo
periodo si è assistito a una vera e propria criminalizzazione della comunità omosessuale, condotta principalmente da
medici ed esperti, supportati dal sistema mediale, secondo i quali gli uomini gay sarebbero stati i principali untori a
causa dei loro comportamenti sessuali considerati promiscui. Tale contesto non solo ha stimolato la nascita e la
diffusione di importanti campagne di educazione e di prevenzione del rischio sociosanitario condotte negli ambienti
omosessuali di tutto il mondo, ma ha anche favorito il proliferare di un filone di ricerca sull9AIDS trasversale a diverse
discipline, tra cui la sociologia, la psicologia, l9epidemiologia e la medicina.
Contestualmente, in ambito accademico, ha iniziato a farsi sempre più spazio il già noto approccio poststrutturalista,
che si inserisce all9interno della riflessione sulle conseguenze della società postmoderna.
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Le principali caratteristiche della postmodernità possono essere riassunte in: perdita di fiducia nelle grandi narrazioni
della modernità (come la religione, la politica, la famiglia); maggiore personalizzazione dei percorsi biografici (resa
possibile da un processo di detradizionalizzazione che ha liberato gli attori sociali dagli schemi di aspettative
tradizionali); indebolimento degli schemi di orientamento dettati dalla tradizione. All9interno di questo scenario
sociale gli attori sociali sono considerati più liberi di gire e di costruire la propria identità, anche sessuale, in quanto le
biografie individuali appaiono ormai slegate dai principi universali e unitari tipici della modernità. Dunque, con la
postmodernità la sessualità si scopre duttile, dal momento che gli attori sociali la vivono in maniera sempre più
soggettiva, indipendentemente da vincoli prescrittivi, come ad esempio quelli riproduttivi.

Come esito di queste profonde trasformazioni, nell9ambito della ricerca sulle identità sessuali, a partire dagli anni
Novanta si sono fatti spazio sulla scena i cosiddetti queer studies. Il termine, di derivazione tedesca (quer significa
obliquo, trasversale), è stato utilizzato per la prima volta nel 1990 da Teresa de Lauretis durante una conferenza
presso l9Università di Santa Cruz per designare l9insieme delle teorie decostruzioniste dell9identità sessuale. La scelta
di utilizzare il termine queer per indicare la direzione di questo approccio rappresenta una svolta linguistica da un
forte significato simbolico. Infatti, nel linguaggio comune l9espressione queer era diventata nella lingua inglese del
Novecento una sorta di sinonimo di stravagante, bizzarro, ma con un9accezione quasi negativa in riferimento alle
identità sessuali non mainstream per insinuare il loro carattere deviante, perverso o anormale.

La prospettiva dei queer studies ha fatto proprio il concetto di performatività di genere introdotto da Butler. La
studiosa, infatti, ha posto in risalto che la ripetizione ritualizzata di alcune forme di comportamento riconducibili al
femminile e al maschile ha prodotto come effetto una visione socialmente condivisa dei generi fondata su un fittizio
paradigma eterosessuale. Pertanto, trattandosi di una messa in scena, la rappresentazione del genere non solo è da
considerarsi come un qualcosa di artefatto, ma, nel contesto postmoderno, non poteva che cedere il passo a una
concettualizzazione dell9identità sessuale più composita, non riconducibile a un9unica dimensione.
L9assunzione di una prospettiva queer si è posta come possibile strumento utile a compiere un9operazione di
decostruzione delle tradizionali categorie sociologiche di sesso, genere e identità sessuale, senza mai pervenire a una
sintesi. Dunque, la proposta di introdurre all9interno del panorama scientifico la nozione di comunità queer ha
rappresentato una possibile strategia da adottare per studiare e analizzare tutte le soggettività sessuali che, slegate
da specifici fattori da cui partire per imbastire l9analisi, sono accomunate dal proprio essere lontane dalle categorie
identitarie considerate omologanti. Le teorie queer hanno dato vita a una serie di studi e di riflessioni volte a mettere
in discussione il carattere stabile e definito delle identità sessuali, rifiutando la nozione tradizionale di genere.

Di fatto, alla base di tale prospettiva analitica vi è l9idea che occorra abbandonare una visione stereotipata e
dicotomica dei sessi, dei generi, delle identità e degli orientamenti sessuali, in favore di forme meno cristallizzate e
più fluide e instabili, perché esposte a riorganizzazioni che possono avere luogo durante tutta la vita delle persone,
risultato di fattori sociali, psicologici, culturali e biologici. Utilizzando tale chiave interpretativa, è possibile sostene re
che i queer studies hanno promosso una decostruzione del gender-polarized world, ossia una concezione nettamente
dicotomica della società sessuata, proponendo, invece, una visione inedita di considerare i modi di vivere il corpo, il
desiderio erotico, la femminilità e la mascolinità.
Più specificamente, gli studi queer hanno iniziato a incoraggiare riflessioni e analisi sulle questioni che riguardavano le
marginalità sessuali con il duplice obiettivo di promuovere la visibilità dei soggetti che si collocano oltre i tradizionali
binari, da un lato, e, dall9altro, di riconoscere piena legittimità alle configurazioni identitarie trasversali e ai processi
complessi e pluralizzati sottesi. Di conseguenza, la sessualità viene presentata così un terreno di sperimentazione, per
cui l9omosessualità non può essere considerata più come un orientamento oppositivo all9eterosessualità, ma, al
contrario, diventa complementare a essa.
SESSUALITÀ
La sessualità costituisce un tema d9interesse per la teoria e la ricerca sociologica da qualche decennio. La sessualità
può mettere in gioco uno o più elementi che richiamano l9appartenenza del soggetto alla società al suo legame più
profondo con elementi della cultura di riferimento, quali norme e valori (dimensione sociale e culturale). La
dimensione sessuale permette di rispondere a un bisogno fondamentale per l9esistenza di una società, ovvero la
condizione necessitante di entrare in relazione con l9altro.
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Tra le scienze sociali che si occupano della sessualità in termini non necessariamente connessi alla funzione
riproduttiva, troviamo l9antropologia, per la quale il controllo della sessualità assume un ruolo centrale nella
spiegazione delle genealogie e delle politiche della parentela.
L9antropologia ha inoltre consentito di evidenziare come il controllo delle pulsioni sessuali da parte dell9essere umano
sia collegato al processo di istituzionalizzazione della società, nella misura in cui la sessualità, anche quando
considerata come puro istinto, si distinguerebbe da quello animale, che è invece orientato al mero fine riproduttivo.
La sessualità va canalizzata, direzionata in azioni legittimate socialmente, nella misura in cui, in assenza di queste, c9è
il pericolo che l9eccesso pulsionale conduca a un9aggressività reciproca.

Anche la psicologia ha trattato a lungo di sessualità. Freud ha messo in rilievo la centralità assunta del controllo delle
pulsioni sessuali come elemento che contribuisce al processo di civilizzazione. La sua distinzione fra Eros (piacere
sessuale) e Thanathos (pulsione distruttiva) costituisce il processo attraverso il quale la psicologia perviene a spiegare
l9istituzionalizzazione della vita e i meccanismi che portano alla creazione di una morale condivisa quale processo
centrale per la formazione di una civiltà. Questi spiegano come lo studio della sessualità non può ridursi alle sole
manifestazioni fisiologiche e biologiche, ma debba comprendere anche quei meccanismi di regolazione sociale e
culturale che da sempre hanno circoscritto i modi di esprimersi di questa funzione così centrale per la sopravvivenza
e la continuazione della specie.

Dal punto di vista della sociologia, invece, studiare la sessualità significa considerarla al pari di qualsiasi altro fatto
sociale. La sociologia compie un ulteriore passo avanti: analizza l9affrancamento della sessualità dalla riproduzione e
secolarizzazione dei valori, la progressiva tolleranza rispetto alle scelte nell9orientamento sessuale, la differenziazione
fra sessualità e affettività, la pluralizzazione delle forme in cui gli individui autodefiniscono la propria identità
sessuale. Per il Durkheim la sessualità doveva essere circoscritta all9interno di istituzioni specifiche che avevano il
compito di predeterminare i comportamenti sessuali attesi di uomini e donne; tra queste istituzioni egli vedeva nel
matrimonio quella più importante. La centralità assunta dall9ordine e la stabilità sociale nella sua teoria metteva ai
margini le persone la cui sessualità non è finalizzata alla riproduzione e quei legami non convenzionali.
Influenzato dalla morale del tempo, anche Parsons vedeva nella famiglia un9istituzione fondamentale per la
riproduzione sociale e culturale della società. L9attenzione ai processi di socializzazione, in particolare a quelli legati al
genere, era centrata, nel porre in evidenza ruoli e compiti differenziati fra i membri della famiglia, lungo le linee rigide
delle dicotomie e del dimorfismo sessuale. Nella sociologia di Parsons le donne sono naturalmente predestinate al
compito della cura dei figli e del focolaio domestico, che si specializza dunque nelle funzioni affettive a differenza
degli uomini che si specializzano nella funzione intellettuale.
Alla base di questa specializzazione dei ruoli sessuali c9è un sistema patriarcale e sessista che assegna alla donna una
posizione sostanzialmente subalterna all9interno di un ordine di genere e sessuale al cui apice troviamo l9uomo. In
questa prima fase del ragionamento sociologico sulla sessualità poca attenzione è posta alla condizione della donna,
la cui sessualità è stata costantemente repressa, associata solo a un fatto procreativo, negandole ogni ambizione al
piacere sessuale. L9approccio sociologico funzionalista tenderà a non problematizzare la sessualità, dando per
scontato che uomini e donne debbano corrispondere a quei ruoli sociali che naturalmente essi sono chiamati a
interpretare, proprio sulla base della loro differenza sessuale.
La Scuola di Chicago, che tra gli anni Venti e Trenta del Novecento inaugurò la prospettiva ecologica e interazionista
intorno alla figura di Robert Park, la corrente drammaturgica, il cui principale esponente fu Erving Goffman, e in
particolare l9approccio etnometodologico di Harold Garfinkel, getteranno le basi per una nuova ontologia della
sessualità e una sua visione che porrà particolare enfasi sulle influenze poste dal contesto culturale, ovvero
sull9immaginario che si crea, ricrea e si negozia intorno alla sessualità per tramite delle interazioni socio-sessuali, e in
particolare attraverso il linguaggio.
Nonostante possano riconoscersi molteplici differenze fra questi approcci, tutti hanno in comune una maggiore
attenzione a individuare gli ambiti di senso all9interno dei quali l9esperienza sessuale è concretamente vissuta e a
collegare aspetti di natura intrapsichica a quegli aspetti di natura culturale che forniscono orientamenti normativi e
valoriali utili per l9esplicitazione delle pratiche sessuali.

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Esprimendo la necessità di denaturalizzare la sessualità, questi autori si pongono come obiettivo scientifico (e per
certi versi politico) di mettere in evidenza quei fattori che conducono a trasformare una persona da essere sessuato
(in quanto nato con una determinata conformazione fisico-anatomica) in un essere sessualizzato all9interno di una
specifica cultura. Goffman&
La costruzione sociale dell’identità sessuale
Le più recenti teorie interpretative hanno ormai superato l9idea che l9identità in generale siano qualcosa di dato e
immutabile, stabilizzato nel tempo e nello spazio al di là delle esperienze e dei contesti di appartenenza. Durante la
propria vita, infatti, gli attori sociali sono protagonisti di un processo volto alla scoperta e alla consapevolezza di sé.
Questo percorso si nutre delle sollecitazioni provenienti dai contesti sociali e culturali, dalle esperienze vissute e dalle
interazioni sociali. In altri termini, l9identità sessuale non può essere considerata solo un dato anagrafico, determinato
esclusivamente dall9anatomia, ma anzi è un concetto multidimensionale che integra fattori biologici, psicologici,
sociologici e culturali.

Tuttavia, occorre specificare che nel contesto sociale e culturale vige ancora una divisione in soli due gruppi, separati
sulla base della differenza sessuale. Si tratta di una classificazione che non è immutabile o naturale, ma che al
contrario deriva da esigenze di ordine sociale. Diversi studi hanno evidenziato infatti che non esistono caratteristiche
fisiche o tratti comportamentali che possono essere associati in maniera esclusiva a un solo sesso. Tuttavia, sin
dall9infanzia bambini e bambine sono avviati a un processo di stabilizzazione della percezione di sé come maschi o
femmine.
Infatti, sin dalla più tenera età, bimbi e bimbe sono spesso spinti da genitori, parenti e da altri agenti di
socializzazione ad assumere comportamenti specifici in base al loro sesso biologico. Si tratta di sollecitazioni fornite
talvolta in maniera implicita o inconsapevole: uno tra gli esempi più evidenti è rappresentato dal regalare giocattoli
diversi a bambini e bambine, sulla supposta ipotesi che esistano balocchi per soli maschi e per sole femmine.
Secondo Priulla, le aspettative sociali associate ai ruoli hanno retaggi antropologici legati alla biologia umana, alla
struttura fisica e alla funzione generatrice femminile.
Il ruolo degli adulti che incoraggiano bambini e bambine ad assumere comportamenti diversi sulla base del loro sesso
biologico si configura come un importante fattore nella costruzione di quello che viene definito ruolo di genere, che
si riferisce a modi, comportamenti e tratti di personalità che ciascuna società, cultura e periodo storico prescrivono
come maschili o femminili. Di conseguenza, molti modi di agire, comportarsi e relazionarsi con gli altri possono essere
condizionati nel percorso di crescita da questo tipo di attese sociali. Lo psicoanalista e psichiatra statunitense
Lichtenberg ha individuato diverse fasi che si susseguono sin dall9infanzia nel processo di costruzione dell9identità
sessuale.
Già tra il primo e il secondo anno, bambini e bambine sono incoraggiati da chi li accudisce ad assumere i
comportamenti considerati maggiormente in linea con il ruolo sessuale. Entro i 3 anni bambini e bambine
generalmente si riconoscono come maschi o femmine. Il processo di apprendimento del ruolo di genere si consolida
tra i 3 e 7 anni, periodo durante il quale bambini e bambine hanno la facoltà di comprendere compiutamente ciò che
viene considerato tipicamente maschile e femminile.
Tuttavia, alcune persone possono avvertire un senso di disagio derivante proprio dall9incongruenza tra la propria
identità sessuale e il sesso assegnato alla nascita. I soggetti che si discostano del tutto o in parte dalla cultura
mainstream sono a rischio stigmatizzazione, dal momento che non aderiscono ai cosiddetti stereotipi di genere, ossia
i processi di astrazione e di definizione della realtà che collegano un gruppo di caratteristiche a una categoria.
Dunque, la filosofia dello stereotipo di genere presupporrebbe il rispetto di specifiche regole di condotta che
pongono chi non vi si adegua in una condizione quasi di difetto.
La socializzazione alla sessualità in famiglia
I processi di socializzazione alla sessualità sono definibili come un insieme di pratiche, significati, modelli di
comportamenti trasferiti attraverso le principali istituzioni di riferimento della persona, secondo una direzione inter e
intra-generazionale, sia di tipo verticale (gli adulti verso i giovani) sia orizzontale (fra pari).

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In merito ai processi di socializzazione e in particolare alla capacità delle agenzie di socializzazione di regolare i
comportamenti, questi vanno inquadrati mettendo in evidenza: sia il mutato clima culturale e sociale, rispetto al
passato, entro il quale tali agenzie oggi si trovano a operare, sia le specificità che ognuna di esse reca con sé e che
necessitano dunque di riflessioni non sovrapponibili.

Negli ultimi decenni, va inoltre affermandosi nella famiglia contemporanea una visione puerocentrica: se in passato i
figli sacrificavano sé stessi per gli obiettivi più ampi della famiglia, al contrario oggi è la famiglia a conformarsi alle
esigenze dei più giovani, aspetto che ha trasformato il sistema famiglia da istituzione che svolgeva compiti
fondamentali di riproduzione sociale e culturale, a sistema privato di relazioni regolate dalla norma e dal codice
dell9affettività.
In merito alla seconda questione, ovvero alla pluralità di istituzioni chiamate in gioco nel processo di socializzazione al
genere e alla sessualità, come si diceva più in alto, un ruolo determinante è da sempre quello svolto dalla famiglia.
Molteplici sono gli studi che hanno messo in evidenza il ruolo di questa istituzione nei processi di socializzazione al
genere e alla sessualità, concependo la seconda questione come un aspetto derivato e conseguente dai principali
modelli di genere impartiti tra le mura domestiche secondo linee che prevedono comportamenti differenziati fra figli
maschi e figlie femmine. La sessualità alla nascita costituisce l9aspetto a partire dal quale i bambini vengono indirizzati
verso una visione del genere e sessuale di tipo binario, che si incorpora in modi contraddistinti di esprimersi,
comportarsi, relazionarsi all9altro, fino anche di pensare e immaginare. Più nello specifico la questione della sessualità
in famiglia costituisce una problematica che si affronta in epoca adolescenziale.
Rispetto ai modelli tradizionali, i nuovi quadri familiari emersi a partire dal secolo XX sono caratterizzati da una
maggiore vicinanza emotiva e comunicazionale tra genitori e figli. L9apertura in materia di comunicazione sulla
sessualità si inserisce all9interno di un9evoluzione relazionale del modello familiare tradizionale. In questo contesto si
esercitava un modello educativo autoritario, basato sul distacco emotivo, funzionale alla conservazione dell9autorità
paterna.
Il passaggio da una società antica a una moderna è stato la conquista della libertà da parte dell9individuo, il quale
poteva progettare autonomamente il proprio futuro. Di conseguenza, si è iniziato a percepire anche il matrimonio
come un affare privato e individuale. La sessualità diventa così un affare intimo connesso all9identità personale più
che a determinanti di carattere sociale, che continuano pur sempre a esercitare la loro influenza. Tali aspetti sono
stati per esempio messi in evidenza da quei sociologi che hanno preso in esame il vissuto sessuale degli adolescenti.
La sessualità costituisce un aspetto centrale della vita degli adolescenti non solo dal punto di vista corporeo, ma
anche per fattori educativi, psicologici, sociali e culturali chiamati in gioco.
Da almeno due decenni i giovani, infatti, hanno iniziato ad avere un più facile accesso al sesso. Il comportamento
sessuale degli adolescenti in ogni caso è regolato anche dalla cultura e dai valori familiari. La disapprovazione
genitoriale su determinati comportamenti e le norme trasmesse ai figli sono state messe in relazione all9età, più
grande, in cui gli adolescenti debuttano sessualmente. Questo è particolarmente vero per le ragazze. Capita che in
alcuni contesti, le ragazze avvertono di essere sottoposte a maggiori restrizioni e a un controllo più vigile da parte
della famiglia sulla loro condotta, in confronto ai loro coetanei di sesso maschile. Gli immaginari sulla sessualità dei
ragazzi sono strettamente legati agli standard morali dei genitori, che tramandano ai figli attraverso la comunicazione
e le relazioni familiari.

In definitiva la presenza, il controllo e il dialogo genitori-figli influenza le pratiche sessuali degli adolescenti e impatta
sulla (minore) frequenza dei rapporti sessuali, sul numero di partner avuti, sul maggior uso dei metodi contraccettivi
e di conseguenza sul minor rischio di incorrere in gravidanze indesiderate e di contrarre malattie sessualmente
trasmissibili. Se alla famiglia, dunque, è affidata principalmente la delicata funzione di controllo della vita sessuale dei
figli, le modifiche recenti che hanno riguardato tale istituzione, sia dal punto di vista strutturale, sia da quello
relazionale, rappresentano un ambito ancora poco esplorato dalla ricerca sociologica rispetto al tema della sessualità.
Tuttavia, questi studi suggerirono che non è tanto la struttura familiare in quanto tale a esercitare una relazione
diretta sulla più precoce e maggiore attività sessuale dei figli, ma che a giocare un ruolo fondamentale in questo
senso sono variabili processuali quali: il contesto, il rapporto e le interazioni madre-figli, il controllo genitoriale e

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l9atteggiamento e le discussioni della madre sul sesso. Per alcune/i di queste/i studiosi/e il precoce debutto sessuale
delle figlie di famiglie disgregate, monoparentali e non coniugate era legato alla funzione di regolamentazione dei
comportamenti e dunque alla capacità di controllo genitoriale, che si stimò fosse maggiore nelle famiglie tradizionali.
Altre ricerche hanno evidenziato che gli adolescenti di genitori divorziati possono iniziare prima il processo di
individuazione rispetto ai coetanei. Le madri divorziate risultano delegare maggiore responsabilità sia ai figli maschi
sia alle figlie femmine. Simon e Furman hanno riscontrato un effetto diretto della separazione dei genitori su una
maggiore propensione ad affrontare temi relativi ai sentimenti e alla sessualità in famiglia. Le separazioni si
riverberano negativamente nel rapporto genitori-figli, soprattutto laddove si verifica una perdita di autorevolezza da
parte dei genitori, con un conseguente aumento dell9influenza del gruppo dei pari.
Infine, in accordo con la teoria della maggiore apertura in materia sessuale da parte delle madri, Thorton rilevò che le
madri in seguito a un divorzio sono più permissive in campo sessuale. In merito alle possibili spiegazioni del
fenomeno, lo studioso ipotizzò che le madri di famiglie ricostituite, nella fase post-separazione sono più attive
sessualmente, in quanto intenzionate a intraprendere una nuova relazione trasmettendo ai loro figli un
atteggiamento più aperto e permissivo in materia di relazioni sentimentali.
Socializzazione alla sessualità tra pari
Il tema della sessualità è affrontato dai ragazzi nell9ambito del gruppo dei pari, ovvero quell9insieme di persone
accomunate da caratteristiche similari che costituiscono un frame di riferimento importante per i processi di
identificazione, oltre che ambito all9interno del quale i giovani acquisiscono norme, valori e riferimenti per l9agire.
All9interno di questa ottica, le amicizie sono pertanto il contesto entro il quale i ragazzi raccolgono informazioni, si
scambiano esperienze, sciolgono dubbi, costruiscono le basi rudimentali per la costruzione dei copioni sessuali.
La famiglia e la scuola sono identificate dai ragazzi come istituzioni della tradizione, i rapporti amicali invece, anche
per il fatto di essere caratterizzati da relazioni orizzontali, diventano ambito elettivo per l9espressione creativa, della
libertà, della sperimentazione. Le ricerche sulla socializzazione alla sessualità sottolineano anche come le amicizie
divergano per caratteristiche associate al genere, al ceto sociale di appartenenza, al livello di istruzione. Rispetto al
genere, la socializzazione alla sessualità fra pari risente della differenziazione fra maschi e femmine. Questa
differenza si evidenzia rispetto ai modi in cui i giovani e le giovani si confrontano sulle prime esperienze sessuali e
affettive.
La socializzazione alla sessualità tra i maschi costituisce un momento al quale i ragazzi attribuiscono un significato
importante per il passaggio all9età adulta, vissuto all9interno delle cerchie amicali con il quale il giovane si confronta.
Le amicizie assumono qui la doppia funzione: da un lato costituiscono i riferimenti, dai quali ottenere informazioni
utili ad affrontare le prime pratiche ed esperienze sessuali, dall9altro costituiscono una sorta di palcoscenico ideale sul
quale i ragazzi inscenano ed esibiscono la capacità d9interpretare i copioni sessuali condivisi.
Parlare di sesso è tipico degli adolescenti in gruppo e questa attività si collega direttamente al bisogno di confermare
la propria eterosessualità. Rinaldi, per esempio, collega questa particolare fase al possibile sviluppo di condotte
omotransfobiche: prendere di mira con insulti e atteggiamenti aggressivi quei compagni di scuola o conoscenti con
caratteristiche di genere e sessuali non conformi, diventa spesso l9espediente attraverso il quale i maschi confermano
agli altri la propria maschilità eterosessuale.
Per quanto concerne la socializzazione alla sessualità delle ragazze, sembra ancora prevalere il peso di una morale
che limita la sessualità delle donne. Le amicizie dello stesso sesso in epoca adolescenziale costituiscono il principale
riferimento entro il quale le giovani ragazze si confrontano, sciolgono dubbi relativamente alle esperienze sessuali
quali: il primo bacio, il primo rapporto, mentre maggiormente tabuizzato risulta il tema della masturbazione. Difatti,
le confidenze scambiate sembrano focalizzarsi più sugli aspetti emotivo-sentimentali, che quelli ludico-sessuali.

Un ultimo aspetto deve essere dedicato al tema della socializzazione alla sessualità delle persone non eterosessuali, e
dunque alle difficoltà che incontrano le persone omosessuali, bisessuali nell9ambito di istituzioni prevalentemente
etero normative. Da questo punto di vista le reti amicali costituiscono un fattore fondamentale, spesso suppletivo
alle assenze o all9atteggiamento ostativo evidenziato da altre agenzie di socializzazione.

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Un9opera recente ha messo in evidenza il ruolo primario che occupano le reti amicali delle persone gay e lesbiche
relativamente al processo di costruzione dell9identità omosessuale. Le amicizie fra persone LGBT+ si rivelano un
capitale sociale essenziale, giacché all9interno di queste si apprendono quelle che sono le regole e i processi
relazionali che caratterizzano i mercati omoerotici.
L’invenzione dei corpi
La dimensione culturale interviene attribuendo un valore ai corpi e a parti di esso, organizzandone le differenze in
una scala gerarchica, dettando funzioni e aspettative su cosa e come dovrebbe apparire, su quando considerarlo sano
e quando no, su come dovrebbe muoversi, persino vestirsi o desiderare.

Una delle grandi questioni che ruotano attorno alla nostra interpretazione dei corpi (il plurale è d9obbligo) è quella
legata alle dimensioni del sesso e del genere: a determinate caratteristiche anatomiche la nostra società ha attribuito
altrettanto determinanti funzioni, aspettative, vincoli e possibilità. Eppure, a ben vedere, la categorizzazione di
genere che operiamo sui soggetti si basa su considerazioni tutt9altro che basate su caratteristiche fisiologiche: in linea
di massima, quando incontriamo una persona non abbiamo accesso alle informazioni relative alla tipizzazione
cromosomica o ai suoi genitali.
A guidare questo processo sono invece elementi quali gli abiti, il tono della voce, il modo di muoversi, in altre parole i
marcatori sociali che, per definizione, variano sensibilmente nel tempo e nello spazio. Nostro malgrado, il corpo parla
di noi a prescindere dalle nostre intenzioni, ma il lavoro che operiamo costantemente su di esso può in qualche modo
confermare o, al contrario, tentare di decostruire tutta una serie di presunzioni che ci investono. Da un lato,
sembrerebbe che non ci si possa esimere dal fare il genere, dall9essere soggetti disabilitati, razzializzati e via
discorrendo.
Fino alla fine del Settecento il modello attraverso il quale si pensava e rappresentava il corpo era quello
monosessuale: il corpo era quello maschile e quello femminile altro non era che una sua versione meno sviluppata.
La differenza tra maschile e femminile si basava, invece, su differenze legate a ruoli, condotte e posizioni sociali e
agire in modo non conforme rispetto al proprio gruppo di appartenenza poteva incidere sulla materialità del proprio
corpo, che si sarebbe modificato di conseguenza; il sesso era dunque una categoria sociologica e non ontologica.

A partire dal XVIII secolo, i saperi promossi dalla scienza medica producono un cambio di paradigma: corpi, pratiche e
condotte divengono terreno di misurazione, medicalizzazione e classificazione, promuovendo una lettura
essenzializzante della sessualità che va dunque a enfatizzare la dimensione biologica. Questo corpus di saperi
prenderà il nome di sessuologia. Tale disciplina vedrebbe l9essere umano nascere con una natura sessuale
biologicamente data che comprenderebbe, al pari di altri bisogni primari, l9impulso sessuale, inteso come
naturalmente eterosessuale
Il sesso diviene, secondo Garfinkel, un9attitudine naturale socialmente costruita che definisce i contorni di
accettabilità sociale di maschilità e femminilità. Potere e carattere normativo si articolano anche all9interno delle
femminilità e all9interno delle maschilità o, ancora, richiedendo correzioni o aggiustamenti per tutti quei corpi che, in
qualche modo, vengono percepiti come eccedenti o imprevisti. È questo il caso delle persone intersex, che
presentano delle caratteristiche che non permettono la classificazione sessuale in un sistema binario maschile
femminile.
La loro stessa esistenza metterebbe in qualche modo in discussione la griglia di lettura che applichiamo ai corpi,
facendo emergere la presenza di una varietà anatomica, ma tale è la pervasività del paradigma binario che la
richiesta, è quella di agire tempestivamente nei confronti di questa ambiguità, attraverso interventi di chirurgia
estetica genitale. Si tratta di interventi irreversibili e invasivi che vengono operati su soggetti in età precoce e che nel
2016 sono valsi all9Italia un9ammonizione da parte del Comitato delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con
disabilità perché considerate forme di mutilazione genitale.
Così, l9unica modalità di pensarsi sessuali diviene quella eterosessuale, perfettamente integrata nel modello binario
che intreccia corpo, genere e sessualità. Imparare a essere sessuali significa, dunque, imparare a interpretare parti
del corpo, azioni e interazioni come sessuali, a distinguerle da ciò che sessuale non è.

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Simon e Gagnon parlano di copioni sessuali; questi agirebbero su tre livelli: quello degli scenari culturali, quello
interpersonale e quello intrapsichico.
Ciascun livello non agirebbe in modo isolato né, tantomeno, indicherebbe una serie fissa di istruzioni da seguire senza
alcuna possibilità di adattamento, malleabilità e modifica; al contrario, richiederebbero un processo continuo di
improvvisazione, interpretazione e negoziazione, agite attraverso e sul corpo. Il livello degli scenari culturali fornisce
una serie di significati disponibili, di requisiti da soddisfare, di punti di orientamento per stabilire il chi, dove, qua ndo
e come della sessualità. Quello interpersonale, invece, riguarda l9applicazione di tali scenari in una data situazione.
L9ultimo livello, quello intrapsichico, si riferisce allo spazio del sé, al luogo di produzione delle fantasie e dei desideri.

Smarcare la sessualità da una mera lettura biologica, far emergere il sociale nel sessuale, implica dunque riconoscere
che anche il corpo è immerso in una «sofisticata costruzione sociale». Costruzione sociale che, come abbiamo avuto
modo di sottolineare a più riprese, ordina gerarchicamente tali corpi anche nel loro essere sessuati e nel loro divenire
sessuali. All9invenzione dei corpi e delle sessualità partecipano i saperi e le pratiche mediche e scientifiche, le
istituzioni, le diverse agenzie di socializzazione e, naturalmente, i mass media e le produzioni culturali.
Le pornografie plurali
Con il termine pornografia audiovisiva ci riferiamo a delle interazioni sessuali programmate, performate e riprese
affinché vengano fruite da terze persone non necessariamente coinvolte e presenti nell9interazione suddetta. La
pornografia uno degli scenari culturali più popolari e diffusi a cui attingere nei processi di costruzione sociale dei
generi e delle sessualità. Per molto tempo la pornografia è stata considerata come un genere prodotto e pensato per
un pubblico esclusivamente maschile che riservava alle donne il solo ruolo di performer. Le donne si pensava,
semplicemente non potevano essere interessate a quel tipo di prodotto.
Prima dell9avvento del videoregistratore, la visione di film porno avveniva principalmente in luoghi percepiti come
inaccessibili per le donne. Il dibattito attorno al tema della pornografia è stato nel corso del tempo particolarmente
vivace e prolifico. Talmente tanto da essere riconosciuto con il termine di sex wars e a scontrarsi due diverse correnti,
che vedevano nella pornografia una forma di violenza e uno strumento di oppressione sessuale o, al contrario, un
mezzo dal potenziale rivoluzionario per l9emancipazione femminile e la liberazione dei suoi desideri.

Tale conflitto ha vissuto una fase particolarmente vigorosa soprattutto durante la cosiddetta golden age dell9industria
pornografica, ma, in realtà, non si è mai esaurito. Eppure, proprio a partire dalla prima metà degli anni Ottanta,
hanno iniziato a farsi strada prodotti che vedevano le donne protagoniste. Da queste prime esperienze il panorama
delle pornografie audiovisive ha subito numerosi cambiamenti, tanto dal punto di vista dei processi produttivi che da
quello degli immaginari proposti.
SOCIALIZZAZIONE, EDUCAZIONE E LINGUAGGIO
La socializzazione e il genere sono due aspetti che hanno forti legami con la costruzione dell9identità, che è esito
stesso del processo di formazione dell9individuo. Il modo in cui siamo, ci comportiamo e pensiamo è il prodotto finale
della socializzazione. Attraverso la socializzazione impariamo anche ciò che è appropriato e improprio per i generi in
base alla dimensione di appartenenza sessuale. La socializzazione è un processo relazionale tra generazioni differenti
e ha come obiettivo la costruzione dell9identità (in questo caso sessuale/di genere).
Aspetti della relazione socioeducativa
La socializzazione al genere è una dimensione importante nel processo di costruzione dell9identità, in quanto la
distinzione fra maschile e femminile è la prima in cui l9essere sociale si trova immerso. Questo tipo di socializzazione è
un processo attraverso cui un individuo apprende e rielabora una propria identità di genere, confrontandosi con una
cultura comune, con ruoli e attese relative al maschile e al femminile, all9interno di un determinato contesto
socioculturale. In questo percorso si acquisiscono le credenze, i valori e le norme riguardo ai ruoli e le aspettative che
sono associati a ciascun sesso e ai ruoli di genere.
Il processo di socializzazione è alla base della vita della società, in quanto è il modo attraverso il quale ogni individuo
diventa un essere sociale a tutti gli effetti. La socializzazione diversificata in base al sesso è una forma più mirata di
socializzazione; è il modo in cui le nuove generazioni sono socializzate nei loro ruoli di genere in ogni società.
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Tutto ciò si origina nelle esperienze socializzate che ciascun soggetto vive e sperimenta, ossia dal fatto che la
trasmissione dei modelli di genere avviene comunque attraverso l9asse generazionale, in famiglia, a scuola e nel
rapporto con gli adulti e, oggi, anche nelle relazioni coi pari e nell9esperienza socioculturale del contesto di nascita e
crescita. La formazione dell9identità avviene secondo il duplice processo socializzativo/educativo che coinvolge la
società, il gruppo e l9individuo e si apre alle dimensioni del rischio, della scelta e della responsabilità.
Il processo di socializzazione implica dunque un ruolo fondamentale di soggetti socializzatori, che mediano tra
l9individuo e il sistema sociale. I mutamenti presenti nella società hanno portato a dei cambiamenti. In primo luogo, il
processo di socializzazione può essere visto nei termini di un riferimento verso l9alto (socializzazione verticale), verso
agenti preposti in maniera istituzionale e riconosciuta a una funzione socializzante: la famiglia e la scuola. In secondo
luogo, esso può essere considerato nel senso di un riferimento orizzontale (socializzazione orizzontale), ovvero verso i
gruppi di pari, la classe sociale e l9appartenenza di genere e i media. Infine, poiche la socializzazione è un processo
che dura nel tempo, si può pensare anche a un riferimento di tipo cronologico e longitudinale (socializzazione
longitudinale, che sposta l9attenzione sui momenti della socializzazione adulta o risocializzazione. Il cambiamento
principale a cui si assiste nella società contemporanea è quello di una crescente importanza del gruppo dei pari e dei
media nella socializzazione delle nuove generazioni.
Le relazioni familiari
La famiglia viene considerato come un piccolo gruppo, ma la sua specificità è quella di essere un gruppo con storia, in
cui sono fondanti i rapporti tra le generazioni. La socializzazione al genere all9interno delle relazioni familiari evidenzia
anche la dimensione temporale della trasmissione di stili e aspettative tra genitori e figli. Il confronto tra queste due
generazioni può mettere in luce differenze anche marcate. I genitori di oggi hanno probabilmente attese diverse da
quelle che avevano i loro genitori, così i figli hanno attese ancora diverse.

Ciò richiede un approfondimento sul come oggi avviene la trasmissione delle differenze basate sul sesso e si
costruisce l9appartenenza di genere. Per quanto riguarda tale trasmissione, la famiglia è caratterizzata da un modo
specifico di vivere e di costruire le differenze di genere. In particolare, nella famiglia la caratterizzazione di genere è
presente nelle individualità dei genitori che hanno dato origine al nuovo essere umano. Nella famiglia. La relazione
con il padre e la madre assume quindi un9importanza fondamentale nella definizione dell9appartenenza di genere, in
quanto essi costituiscono per il figlio e la figlia le prime esperienze di relazione con il maschile e il femminile.
Da queste premesse, s9intuisce come la famiglia rappresenti un luogo e un tempo in cui si sperimenta la relazione tra
generi e generazioni e sia di conseguenza un ambito di studio privilegiato per analizzare il rapporto tra i generi,
perché assume un9importanza fondamentale all9interno del processo di costruzione dell9identità di genere, in quanto
è la prima realtà con il quale il bambino e la bambina entrano in contatto.
La socializzazione a scuola
Un ulteriore contesto educativo e socializzativo è la scuola o in generale l9insieme delle istituzioni formative. I
percorsi formativi costituiscono un ambito relazionale importante che interviene nello sviluppo del soggetto anche
dal punto di vista delle differenze di genere. Per quanto riguarda in particolare le differenze di genere, un primo
aspetto fondamentale è quello del rapporto tra uguaglianza e differenza che si è creato all9interno dell9ambiente
scolastico in Italia negli ultimi decenni. La realtà scolastica è un contesto di attribuzione, costruzione o ricostruzione
di significati e di strutturazione di motivazioni, atteggiamenti e comportamenti legati direttamente all9appartenenza
di genere.
L9aspetto negativo di questo tipo di opzione è stato però la crescente tendenza a considerare l9ambiente scolastico
come neutro e indifferenziato. In sostanza la scuola deve capire come affrontare la costruzione dell9identità
all9interno di una serie di spinte contrastanti di affermazione e negazione delle differenze. Se neglI ultimi anni si è
assistito a un vuoto problematico, creato attraverso il sistema neutro della coeducazione indifferenziata, oggi questo
deve essere probabilmente colmato attraverso un apprezzamento della diversità di genere e una sua
problematizzazione.

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Un secondo aspetto è costituito dal fatto che nell9assolvere la funzione socializzante, la scuola tramette i valori propri
della cultura in cui si trova immersa. Ancora oggi, per quel che riguarda i ruoli sessuali, il modello proposto a bambin*
e a giovani per molte generazioni è quello di una netta dicotomia tra l9uomo proiettato all9esterno e la donna
ripiegata solo sulla famiglia, come figlia, moglie e madre. Questi stereotipi si apprendono in modi e contesti
differenti: guardando la tv, leggendo o discutendo con gli amici. Essi però possono essere trasmetti anche dalle
istituzioni, come la famiglia o la scuola. Genitori e insegnati possono modificare questi modelli oggi anacronistici,
ponendo l9accento sì sulle differenze, ma non necessariamente sulle stereotipie.
Generi e generazioni in dialogo

Nella società contemporanea la rappresentazione del maschile e femminile è profondamente mutata rispetto alle
generazioni precedenti. Due tendenze sono compresenti nei processi di socializzazione delle nuove generazioni: la
prima sostiene la necessità di una maggiore omogeneizzazione dei comportamenti, la seconda pone l9accento
sull9importanza della differenziazione e del mantenimento delle diversità tra i generi.

Nella società attuale assistiamo all9omogeneizzazione dei percorsi di crescita secondo il genere, perdendo o
eliminando l9importanza della dimensione biologica di appartenenza. Dall9altra parte le istanze che stressano la
distinzione in modi e tempi diversi si legano all9idea che vi siano dei percorsi differenziati anche all9interno
dell9ambito maschile/femminile. Infine, tutto ciò si origina nelle esperienze socializzative che ciascun soggetto vive e
sperimenta.

La realizzazione dell9identità di genere/sessuata è conseguentemente un percorso relazionale, in cui la relazione si


stabilisce sul coinvolgimento responsabile di diversi attori appartenenti a generazioni diverse con diversi background
culturali. È un processo che può idealmente essere suddiviso in fasi che accompagnano lo sviluppo fisico, psicologico
e sociale del soggetto. La prima fase è caratterizzata dall9iniziale riconoscimento della propria appartenenza biologica
a uno dei due sessi. In un secondo momento, si presenta la fase della ricerca, in cui il soggetto cerca di definire la
propria identità di genere anche in base agli stimoli culturali ricevuti dal contesto.
Oltre a diversificarsi nel tempo, l9identità di genere si differenzia anche in base ai contesti in cui si realizza, poiché il
processo è sia individuale sia sociale. Nel rapporto tra generazioni un tema importante è quello della
differenza/indifferenza oppure disuguaglianza/uguaglianza di genere. Tale aspetto risulta fondamentale in una
società sempre più multiculturale in cui i contesti socializzativi sono caratterizzati da prospettive culturali differenti e
a volte concorrenti. Il rapporto tra le generazioni è oggi più complesso e apre spazi di rinegoziazione sul che cosa
significa essere donna e uomo rispetto al modo in cui lo intendono le generazioni precedenti.
Spazi di socialità
Secondo la sociologia dell9infanzia i bambini non hanno un ruolo passivo nei processi di socializzazione; al contrario
quest9approccio all9educazione al genere sottolinea l9impotenza dell9attività di riproduzione interpretativa.
Nella sociologia classica, di contro, il bambino e la bambina sono considerati oggetti di socializzazione adulta.
Utilizzando un9espressione di tipo foucaultiana, tra i bambini e gli adulti vige una relazione di possesso, ma anche di
cura e di potere; la società forma e educa i bambini conferendogli uno status sociale inferiore rispetto agli adulti.
Questa prospettiva adultocentrica ha oscurato l9interesse nei confronti dell9infanzia, che diventa un oggetto di studio
relativamente recente.
Tale cambio di rotta riconosce l9importanza dei bambini nelle scienze sociali, facendo crescere l9esigenza di studiare i
bambini come agenti sociali. La nuova sociologia dell9infanzia offre, inoltre, al bambino un nuovo teatro in cui
diventano soggetti attivi, socialmente competenti e in grado di partecipare all9interazione sociale. In questo senso, la
nuova sociologia dell9infanzia assegna un nuovo significato a questa e considera i bambini soggetti capaci di
assegnare significato a ciò che li circonda. A contribuire allo sviluppo di questo paradigma è principalmente la
convenzione sui diritti del fanciullo approvata dall9Onu nel 1989: un documento epoca che ha dato la spinta a
produrre una serie di studi sull9infanzia.
La sociologia dell9infanzia, ancora, ridefinisce i modelli teorici sulla socializzazione: quello deterministico, in cui i
bambini hanno un ruolo passivo e quello costruttivista, in cui sono visto come agenti attivi.
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I bambini si appropriano della cultura dell9adulto, reinterpretano e ne riproduco i significati traducendola nello spazio,
con l9obbietto di riorganizzare i mondi sociali che gli adulti creano. Durante le attività ludiche, a scuola o al nido, i più
piccoli si confrontano con gli stereotipi e le aspettative sociali, in un contesto in cui gli spazi sono ben organizzati e
differenziati, non neutri rispetto al genere.
Importanza dello spazio
Lo spazio rappresenta un elemento fondamentale nella vita quotidiana del bambino. Gli spazi per bambini vengono
separati da quelli degli adulti e vengono pensati e progettati con una finalità ben precisa: proteggere e prendersi cura
dei più piccoli. Questi spazi che riguardano gli asili nido, le scuole materne, le aeree di gioco, delineano dei confini
bene precisi e sottomettono i più piccoli a un controllo vigile e attento dell9adulto. La limitazione nello spazio del
bambino rappresenta una sorta di campo sociale obbligatorio attraverso cui confrontarsi con tutta una serie di ruoli
imposti dagli adulti.
L9organizzazione degli spazi scolastici riproduce e promuove lo svolgimento della mascolinità e della femminilità.
Nelle aule scolastiche la decisione degli spazi maschili e di quelli femminili è uno dei primi elementi che emerge
conferendo allo spazio-gioco il ruolo di riproduttore degli stereotipi di genere attraverso spazzi sessuati. Ciò che si
sviluppa è una genderizzazione dello spazio del gioco infantile che, di conseguenza ha ripercussioni sulla formazione
dell9identità di genere. In termini di analisi critica, la sociologia dell9infanzia suggerisce che gli ambienti scolastici
dovrebbero essere quanto più neutri possibile rispetto alle dimensioni di genere ed essere sensibili e attenti a
messaggi di giustizia sociale e di equità. Ma, soprattutto, la scuola dovrebbe migliorare i propri percorsi di educazione
sul genere.
La correlazione tra differenze di genere e gioco infantile è oggetto di molte indagini che fanno riferimento non
soltanto allo strumento ludico, ma anche agli stili o agli atteggiamenti che questi ultimi adottano. È noto che parlare
del gioco nello sviluppo del bambino è particolarmente importante in quanto, attraverso questo, i bambini esplorano
e provano i ruoli di genere. Nel mondo del gioco il bambino costruisce la propria identità, conosce il mondo e fa
emergere il proprio sé. Il gioco, dunque, è uno strumento indispensabile per l9identità di genere. Attraverso il gioco e
il sistema di giocattoli l9adulto propone degli schemi di comportamento e trasmette, di conseguenza, dei
condizionamenti culturali.
Nelle prime indagini in cui si discuteva della correlazione che potesse esistere tra il gioco e il genere emergeva come
la differenziazione avveniva soprattutto nel mercato dei giocattoli. Lo stile differenziato, durante le attività ludiche,
resta sempre un tema discusso, poiché già dai primissimi anni, è visibile come bambini e bambine giochini in maniere
diversa. L9interesse a cose che sono particolarmente associate al loro sesso, permettono al bambino di percepire il
genere maschio e femmina, di riprodurlo e di perpetuarlo addirittura. Si ritiene, infine, che le bambine e i bambini
scelgano proprio di giocare a cose diverse e in modi diversi e di farlo con compagni del loro stesso sesso.
Kilvington e Wood ritengono come nei giochi all9aperto o per strada la segregazione di generi sia molto meno netta
rispetto a cui contesti scolastici. E proprio in questi contesti che i bambini giocano con qualsiasi cosa
indipendentemente dal colore che viene associato al loro genere. I bambini, infatti, amano anche e soprattutto con
elementi della natura che non sono associabili a nessun genere. Favorire un9educazione outdoor non solo consentirà
di creare ambienti fisici e sociali più inclusi in cui possono assimilare insegnamenti d giustizia ed equità sociale ma
permetterà ai più piccoli di giocare con la fantasia in un gioco meno condizionato e segregato.

Solo di recente si è diffuso un ulteriore filone di studi che celebra, sin dall9infanzia, il diritto all9autodeterminazione e
la libertà di genere. Sono molti i genitori che riconoscono e considerano la propria bambina o il proprio bambino
gender creative. Tale concetto è stato introdotto dalla psicologa Ehrensaft per sostenere un modello che consideri
una gamma più vasta di genere. In questo modo, i bambini hanno diritto di definire la loro identità di genere
individuale e gli adulti hanno responsabilità di ascoltare quest9ultimi, nonché il dovere morale di sostenere tale
libertà. Le questioni legate alla fluidità di genere dei bambini investono non soltanto il bambino in quanto tale ma,
anche, tutta la famiglia, gli educatori e le altre agenzie educative che sono a contatto con l9intero nucleo famigliare.

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La costruzione educativa del genere: il ruolo delle istituzioni


Introdurre il tema della costruzione del femminile e del maschile nei contesti educativi significa confrontarsi con la
complessità dei processi di socializzazione, con uno sguardo di consapevolezza rispetto alle differenze di genere. È nei
diversi livelli della socializzazione che avviene il trasferimento a livello educativo, culturale, psicologico e sociale di
differenti modelli ai quali bambini e bambine, uomini e donne si uniformano nel tempo. Nel processo di
interiorizzazione dei ruoli di genere, vengono costruite le categorie socioculturali del femminile del maschile, insieme
ai cosiddetti stereotipi di genere.
L9idea di una società indifferente neutra rispetto al femminile e al maschile socialmente intesi può essere letto come
un camuffamento del maschile. Significa pensare che solo il maschile rappresenti il riferimento neutrale e come tale
le azioni educative e sociali possano essere indirizzate all9assimilazione del femminile al modello di riferimento
maschile. Dalla lingua, ai comportamenti, l9uniformità di genere esiste nei riferimenti ai modelli e ai ruoli proposti
dagli uomini: diventare uguali agli uomini.

Il divario tra ciò che accade nei luoghi di formazione (nidi, scuole e università) e fuori (famiglia, social media&) rende
ancora più difficile ridurre la complessità dei contesti educativi odierni. Possiamo affermare che fuori dai luoghi della
formazione il lavoro per la parità di genere si svolge primariamente sul piano legislativo. Nei contesti educativi e
formativi della scolarizzazione, il lavoro da compiere per superare il binarismo maschile/femminile e i conseguenti
stereotipi di genere è piuttosto problematico, ma anche in questo ambito la legislazione gioca un ruolo preminente,
insieme a un impegno delle istituzioni nell9investimento sulla cultura della parità.
La femminilizzazione dei luoghi dell’educazione
In generale è possibile affermare che i luoghi di lavoro dedicati alla cura e alla formazione vedono la prevalenza di
figure professionali femminili rispetto a quelle maschili. Una differenziazione marcata dallo stereotipo prevalente per
il quale le donne sono più portate a svolgere lavori di cura rispetto agli uomini. Le donne, inoltre, non riescano ancora
a essere presenti nelle posizioni lavorative apicali.
Il dibattito sulla prevalenza delle donne nel mondo educativo/formativo non è nuovo, sia rispetto alla prevalenza del
numero di ragazze che frequentano i diversi gradi d9istruzione, sia per la capacità delle stesse di ottenere risultati e
voti migliori in quasi tutte le materie rispetto ai ragazzi. Per trovare una minore presenza del femminile, basta
occuparci dei livelli più elevati: all9università le docenti universitarie e le ricercatrici sono il 35% del totale.
Questo radicato stereotipo produce un effetto culturale in quanto, a man mano che cresce e si accede ai livelli
scolastici superiore, lo studente viene messo di fronte al fatto che più il contenuto culturale della scuola si eleva e si
specializza, più esso è affidato a maschi. Gli uomini vengono dunque percepiti come portatori di una sapienza più
alta, col risultato di svalorizzare ulteriormente il ruolo femminile nell9istruzione. In Italia la vera emancipazione
femminile si è realizzata dall9ingresso nell9istruzione media e superiore delle ragazze nel 1963, con la riforma della
scuola media, ed esplode negli anni Settanta, quando un numero crescente di donne s9iscrive alle facoltà
umanistiche, mentre i maschi si orientano verso indirizzi più tecnico-scientifici.
La costruzione dell9identità femminile e maschile non può quindi prescindere dallo scambio di due mondi in senso
simbolico e sociale, nel superamento di stereotipi consolidati e che ancora oggi non si riesce a superare.
Le ragioni della segregazione lavorativa delle donne sono diverse, economica e socioculturali in primis, un processo
che si scontra con la presenza di evidenti squilibri di genere nel mondo del lavoro e delle professioni, ma le cui origini
sono da ricercare nei processi educativi e formativi.
Nei due rapporti citati si evidenzia la scarsa attenzione che il nostro Paese pone a tutte le questioni di genere, le quali
hanno poi una ricaduta diretta ed evidente nelle disparità di genere sul lavoro (gender gap). Un divario che riguarda
non solo l9accesso alle posizioni apicali, ma anche i modi e tempi di ingresso al lavoro, le retribuzioni e la carriera. Il
gap di genere si manifesta sin dalla nascita, in quanto le probabilità di realizzazione dei desideri di bambini e bambine
si scontrano con la disuguaglianza di genere, rendendo il percorso non lineare per entrambi. È importante porre la
nostra attenzione al tema della costruzione sociale e culturale della socializzazione per agevolare il superamento
della disparità in termini di opportunità.
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La gabbia di genere
In questa visione di mondo con forti disuguaglianze di genere come è possibile superare le gabbie di genere? Una
risposta risiede nella costruzione di una società più equa e paritaria, riconoscendo l9importanza del superamento
degli stereotipi di genere. Inoltre, è importante creare una società più equa tra donne e uomini, in grado di
permettere a ciascuno di sviluppare le proprie capacità umane e professionali.
Il discorso sull9educazione di genere e volta introdurre sin dai primi anni della scolarizzazione dei bambini e delle
bambine progetti didattico-formativi volti alla conoscenza delle differenze di genere e dell9educazione sessuale. Per
riuscire a diffondere una cultura del rispetto dell9altro/a è sempre più necessario divulgare gli studi volti
all9approfondimento delle metodologie didattico-educative capaci di incidere positivamente sulla crescita personale e
culturale dei bambini e delle bambine, dei ragazzi delle ragazze, ma anche di tutto il personale che lavoro nel mondo
dell9educazione. La pedagogista montessoriana Elena Gianini Belotti dimostrò che è nei processi educativi e formativi
che i bambini e le bambine assorbono nel corso del loro sviluppo i modelli che creano la discriminazione fra sessi. I
punti più critici di questo processo sono:

• Percorso formativo del futuro insegnante;


• Segregazione occupazionale;
• Retorica dell9amore materno su cui si fonda la vocazione professionale delle educatrici, maestre e insegnanti.

Trattare nei luoghi della formazione scolastica i temi del rispetto e di come superare gli stereotipi di genere è un
processo ancora difficile. Dentro le istituzioni primarie (famiglia e scuola) il processo è ancora più complesso, in
quanto questi sono i luoghi depositari di una cultura ancora più radicata in modelli tradizionalisti in cui le
discriminazioni sono più resistenti. È necessario continuare a lavorare sul concetto di cittadinanza di genere, nel
rispetto di tutte le differenze e disuguaglianze, per la costruzione di un clima educativo e formativo paritario
inclusivo.
L’espressione linguistica del genere
Le profonde trasformazioni in corso nei rapporti tra i generi in campo sociale, culturale ed educativo iniziano a
sentirsi in modo significativo anche per quanto riguarda gli usi linguistici. Le altre lingue sono infatti, dei sistemi
dinamici che cambiano nel tempo. L9italiano presenta un sistema a due genere, maschile e femminile. Quando ci
riferiamo a una inanimata che non ha un suo genere come gli esseri umani o gli animali, pure siamo costretti ad
assegnarle un genere. Nel riferirci, invece, a esseri viventi e soprattutto a esseri umani il genere grammaticale riflette
il genere che viene attribuito alla persona a cui ci si riferisce.
Nonostante la semplicità e la regolarità di questo di assegnazione del genere grammaticale in funzione del genere
della persona si sono diffusi in italiano nel corso del XX secolo degli usi non coerenti col modello, che hanno portato
in alcuni casi alla soluzione di usare il maschile anche quando si parla di una donna. La linguista Alma Sabatini ha
evidenziato tre principali categorie di uso del genere grammaticali che sfuggono all9accordo di genere e ha mostrato
come in questi usi non coerenti con la norma si rifletta chiaramente un privilegio sessista e maschilista.

• L9uso del maschile come titolo professionale per le donne;


• L9uso del maschile per indicare l9insieme dei membri di un gruppo formato da donne e uomini;
• L9uso del maschile per designare una funzione astratta che potrà di volta in volta essere ricoperta da una
donna o da un uomo.
Per quanto riguarda i titoli professionali, si osserva speso ancora oggi una significativa diffusione della forma maschile
del sostantivo per tutte le funzioni di maggior prestigio a prescindere dal genere di chi le svolge, mentre nelle
funzioni meno alte si usa regolarmente il femminile. Questo la dice lunga sul fatto che la presenza femminile è
storicamente consolidata e data per acquisita in alcuni ambiti professionali tradizionali non dirigenziali, mentre in
quelli di livello culturale superiore la presenza della donna è un fatto relativamente recente. Da qualche tempo però
le cose stanno lentamente cambiando: questo singolare uso del maschile per le donne non è più un dato indiscusso,
anzi la pubblica opinione e i media si interrogano continuamente su questo tema, riflettendo una varietà di posizioni.

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La questione del genere, infatti, oggi produce frequenti dubbi. In ogni caso, col passare del tempo, la scelta di usare
un genere grammaticale coerente col genere della persona a cui ci si riferisce è sempre più frequente. Ciò ha portato
alla diffusione di molti sostantivi che fino acquisto momento non erano ancora stati utilizzati nella loro forma
regolare femminile.

Inoltre, quando ci si riferisce a un gruppo formato da donne e da uomini, anche nei casi in cui la componente
femminile è maggioritaria, tradizionalmente si ricorre al maschile. Questa asimmetria nella grande maggioranza delle
situazioni mette in evidenza la presenza degli uomini nei gruppi e opacizza la presenza delle donne. A questa
asimmetria di genere, che svantaggia la componente femminile si sta cercando di porre rimedio con delle soluzioni:

• La ripetizione del termine nei due generi, questa soluzione è elegante e corretta, ma ha lo svantaggio
dell'allungamento del testo;
• Il ricorso alla barra obliqua per separare le desinenze;
• La scelta di termini che evitino di indicare il genere;
• Il ricorso a elementi grafici come l'asterisco o la chiocciola per rappresentare simultaneamente i due generi
con un solo carattere;
• L9uso del simbolo fonetico detto schwa, rappresentato da una e capovolta, che ha il vantaggio rispetto
all9asterico e alla chiocciola di essere pronunciabile;
• L'uso di u come desinenza ambigenere;
• La scelta del solo femminile motivata o dalla forte prevalenza delle donne in un gruppo con una minoranza di
uomini o dalla rivendicazione in alcuni contesti politici del capovolgimento dei rapporti di potere a favore
delle donne.
Per quanto riguarda le funzioni astratte, questo è l'aspetto tra quelli indicati dalle linee guida di Alma Sabatini, in cui
ci sono stati i minori cambiamenti nell'uso.
Il secondo grande ambito nel quale gli usi linguistici sono estremamente significativi per accompagnare e sostenere i
profondi cambiamenti sociali e culturali è quello che riguarda la scelta del genere grammaticale in relazione alle
diverse categorie di persone incluse nell'acronimo LGBT+. Nel caso delle donne e degli uomini transgender, il sesso
biologico definito alla nascita non coincide con l'identità di genere assunta successivamente dalle persone. La donna
transgender era infatti stata registrata anagraficamente alla nascita come persona di sesso maschile, ma ha adottato
poi una identità di genere femminile, viceversa vale per l'uomo transgender. La conseguenza logica di ciò è l'utilizzo
del genere grammaticale corrispondente alla scelta biografica della persona, ovvero alla sua identità di genere
acquisita. L'accordo grammaticale col sesso biologico e non con il genere acquisito rivela immediatamente un
atteggiamento transfobico da parte di chi lo adotta.
Nel caso invece di donne lesbiche e uomini gay, si tratta al contrario di persone che non hanno effettuato alcun
cambiamento di genere, definite per questa ragione cisgender, termine che disegna chiunque non abbia transitato
nel genere opposto. Le persone cis gender conservano infatti il genere attribuito alla nascita e vi si riconoscono sul
piano anagrafico, identitario e socioculturale. Sul piano linguistico la logica conseguenza di ciò è l'uso del genere
grammaticale femminile per le donne lesbiche e di quello maschile per gli uomini gay.
Quando, invece, una persona eterosessuale usa ostentatamente il maschile parlando di una donna lesbica o il
femminile parlando di un uomo gay, sta adottando un atteggiamento omofobico.

Un ulteriore grado di complessità si è andato, infine, imponendo soprattutto negli ultimi anni con la progressiva
evoluzione di nuovi modelli di comportamento e di nuovi tipi di identità. Infatti, appare necessario citare il genere
non binario, cioè tutte quelle persone che rifiutano di assumere un'identità orientata decisamente verso il maschile o
verso il femminile. Dalla crescente diffusione di queste identità non binarie deriva, anche la sempre più diffusa scelta,
nei modelli anagrafici di alcuni paesi di fornire a chi risponde, oltre le classiche risposte F e M, anche una terza
opzione, definita con <altro=.
Anche questa categoria di persone pone nuove interessanti questioni legate agli usi linguistici e al genere
grammaticale, a cominciare dai nomi propri di persona e dai pronomi con cui è corretto riferirsi loro. Alcune delle
soluzioni sono l'asterisco, la chiocciola, la u e soprattutto lo schwa.
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Anche per quanto riguarda i pronomi è in corso l'elaborazione di forme di gender neutral. La breve rassegna dei
cambiamenti linguistici in corso in relazione alle questioni di genere conferma che le lingue sono strumenti adattivi
che nel tempo acquisiscono dimensioni di uso e di forma corrispondenti alle innovazioni sociali e culturali. Inoltre,
come già da tempo è stato osservato dalla letteratura del tema, esistono due spinte al cambiamento che producono
effetti a volte contrapposti:

• Quella della categorizzazione del genere, che va nella direzione dell'espressione della dualità maschile vs
femminile;
• Quella della decategorizzazione del genere, che spinge invece nella direzione opposta, cioè verso la
cancellazione delle differenze anche grammaticali.
LA VIOLENZA
Il tema della violenza interpersonale è oggi fra i più rilevanti della ricerca sociale. Si tratta di un fenomeno
storicamente ricorrente, di cui si registrano manifestazioni in differenti momenti storici e in diverse culture. Il
dibattito che ha accompagnato l9analisi di questo fenomeno negli ultimi cinquant9anni ha focalizzato l9attenzione su
alcuni nodi critici che è possibile riassumere nel passaggio dalla normalità all9anormalità.
Fino agli anni 60, la violenza interpersonale, in determinate circostanze e per precise motivazioni, era considerata
come un9azione non ascrivibile alla casistica dei reati contro la persona. Le giustificazioni rispetto all9uso della violenza
adottare in virtù della necessità di mantenere l9istituzione matrimoniale, o a fini apertamente correttivi nei confronti
di soggetti reputati devianti, escludevano gran parte di questo tipo di azioni dall9elenco dei reati annoverati nei codici
penali. In Italia, ad esempio, fino al 1981 il matrimonio estingueva il reato di stupro, mentre erano previsti sconti di
pena per chi uccideva, a causa di uno scatto d9ira successivo alla scoperta di un tradimento. Dall9altro canto, le
condotte violente rilevate in contesti marginali quando non poteva essere giustificate, venivano ricomprese
all9interno del perimetro dei comportamenti propri delle subculture: erano considerati un effetto di stili di vita
devianti.
Gli studi che portano all9attenzione generale il tema della violenza contro le donne agita prevalentemente dagli
uomini sono quindi abbastanza recenti e le prime riflessioni che ne pongono in rilievo una differente valutazione che
estrapola la violenza contro le donne dai comportamenti tolleranti risalgono agli anni Settanta. La violenza contro le
donne cominciava, quindi, a non essere reputata normale, a perdere la propria giustificabilità anche a fronte di
motivazioni suffragate dai codici, e che convergevano nella necessità di mantenere o preservare l9istituzione
matrimoniale. Le ricerche successive sottolineano gli aspetti sistemi e strutturali della violenza contro le donne,
considerate membri subalterni della società. Gli studi di questa prima fase, inoltre, convergono nell9evidenziare la
fallacia gnoseologica con cui la violenza contro le donne è stata a lungo considerata la manifestazione di una
specificità del comportamento maschile.
Da qui deriva la successiva critica al patriarcato. Il secondo snodo teorico identifica l9ampliamento concettuale che
allarga l9agency delle donne ad altri costrutti gerarchici di differenza e alla gender based violence. L9uso del termine
violenza di genere è recente e risale al 1995, quando durante i lavori della 4° conferenza delle Nazioni Unite, fu
evidenziata la necessità di sottolineare l9esistenza di soggettività fino ad allora destinate alla subordinazione.
I primi studi mettono in relazione identità maschile e violenza giustificata dalla superiorità dei posizionamenti
maschile. La violenza di genere è una violazione diffusa e sistematica dei diritti umani fondamentali e una forma di
discriminazione basata sul genere. Secondo questo approccio, non si tratta di affermare che gli uomini siano
naturalmente più violenti delle donne, ma di considerare come la violenza di genere si riproduca attraverso un
dispositivo che Bourdieu chiama violenza simbolica, che rende invisibili le diseguaglianze e le asimmetrie in cui si
situano le violenze.

Gli studi di questi anni interpretano i rapporti di genere alla luce delle gerarchie di potere del patriarcato, inteso
come sistema di strutture e pratiche sociali in cui gli uomini dominano, opprimano e sfruttano le donne. Altre
ricerche sono volte a evidenziare la dimensione intersezionale della violenza. Si tratta di analisi che per un verso
sottolineano gli effetti devastanti delle pratiche patriarcali oppressive, per un altro si oppongono alla teoria della
naturalità dell9eterosessualità normativa e alla binarietà uomo-donna.
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A partire dalla metà degli anni Novanta sono state messe in luce alcune lacune nella comprensione della violenza
sulle donne, in particolare per quanto riguarda le esperienze di donne appartenenti a gruppi marginalizzati. La
letteratura sul tema dimostra, che il velo è stato introdotto per distinguere tra donne sposate e prostituite, tra il
mercato del patrimonio e il mercato delle relazioni di breve durata, con il fine ultimo del controllo del potere
procreativo femminile. Il caso del controllo del corpo di una donna, che si traduce nella scelta autonoma di velarsi il
volto e i capelli, nasconde di fatto la violenza maschile all9interno di scelte religiose.
La violenza nelle relazioni d9intimità e la violenza domestica sono sicuramente le forme di violenza più diffuse subite
dalle donne: la metà delle donne uccise a seguito di violenze fisiche o sessuali sono morte per mano del partner o di
un familiare. Si tratta di tenere in considerazione il sesso dell9aggressore oltre che quello della vittima.
Proprio questa larga divisione di genere nei casi di violenza permette di evidenziare come sia spesso illusorio
l9equilibrio tra rappresentazioni della parità e consenso sulla suddivisione di compiti e ruoli. In secondo luogo,
sottolinea la dimensione di vicinanza nella relazione tra i soggetti. Le relazioni di prossimità, infatti, non sempre
riguardano la vita intima e in esse non prevale sempre la violenza contro le donne agita da uomini. Evidenzia
piuttosto come essa sia nella stragrande maggioranza dei casi il prodotto di una co-indipendenza, determinata da una
prossimità emotiva oltre che fisica tra i soggetti.
La violenza di prossimità è perpetrata in situazioni in cui l9amore molesto simula l9amore, fa sì che i perpetratori
acquisiscono immunità e diritti sulla vittima con il consenso della vittima stessa. È una violenza autosufficiente,
autoimmune e che esclude il conflitto. Essa è situata all9interno del contesto oppressivo e definisce le identità
reciproche e i ruoli dei soggetti coinvolti, sottolineando l9importanza dell9adesione soggettiva e la condivisibilità di
pratiche di sottomissione e normalizzazione della violenza.
Alcune criticità sono oggi, inoltre, prettamente connesse alla condizione dell9essere stranieri e soggetti a violenza
prossimale, ad esempio, per la mancanza del permesso di soggiorno o la presenza di stereotipi discriminatori. Altre si
riferiscono a esperienze di vulnerabilità causate da uno scarso inserimento nelle reti sociali. In casi meno frequenti, la
categoria della violenza di prossimità può collimare con un approccio gender simmetry, secondo cui un numero
comparabile di donne e uomini sarebbero vittimizzati all9interno della relazione di coppia. Gli uomini userebbero
prevalentemente la forza fisica, mentre le donne agirebbero soprattutto violenze di tipo psicologico ed emotivo.
Metodologie e tecniche per lo studio della violenza
Il dibattito scientifico sul fenomeno della violenza è molto articolato ed eterogeneo, ricco di differenti approcci
teorici. Da una parte viene presa in considerazione lo studio della violenza contro le donne, dall9altra parte lo studio
della violenza agita dalle donne in contesti di criminalità organizzata. La prima prospettiva osserva una condizione di
violenza subita dalle donne e agita dall9uomo maltrattante; la seconda prospettiva osserva l9azione violenta esercitata
dalla donna nelle organizzazioni criminali. Esistono diverse forme di violenza contro le donne che possono essere
esercitate in differenti contesti relazionali e in differenti contesti d9azione, sia pubblici si privati.
Con la Convenzione di Instabul del 2011, queste forme di violenza sono state riconosciute come violazione di diritti
umani fondamentali ed espressione di discriminazione. A livello europeo, l9indagine della European Union Agency for
fundamental Rights sulla violenza contro le donne rappresenta in assoluto il primo tentativo di armonizzazione del
processo di rivelazione di questo fenomeno. Condotta nel 2012 ha portato alla stima di alcuni dati di prevalenza
comparabili tra i paesi dell9unione. In Italia, l9indagine campionaria ISTAT sicurezza delle donne, lanciata per la prima
volta nel 2006, ripetuta nel 2014 e riproposta nel 2022, è considerata una buona prassi dal punto di vista
metodologico. Si tratta di una rilevazione che coniuga le tecniche d9intervista telefonica e quelle face to face,
riuscendo a cogliere gran parte delle diverse forme di violenza. Nella nuova indagine in corso di definizione si sta
cercando di rilevare anche le mutilazioni genitali femminili.

È stato avviato uno studio per la realizzazione di un sistema informativo statistico integrato sulla violenza di genere,
basato su un sistema di fonti, consistenti in: indagini campionarie; archivi amministrativi e dataset dei centri
antiviolenza e dei numeri di pubblica utilità. Per quanto concerne le indagini campionarie, in Italia all9indagine sulla
sicurezza delle donne sono state affiancate altre due rilevazioni campionarie sugli stereotipi di genere.

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Anche sugli archivi amministrativi è stato effettuato un intenso lavoro di analisi, per individuare vantaggi e svantaggi
del loro utilizzo allo studio di aspetti legati alla violenza. Infine, rivestono particolare rilievo i dati raccolti dalle
operatrici dei numeri di pubblica utilità, relativi alle donne che cercano un primo contatto nella richiesta di aiuto.
Il limite di questi archivi è che non riescono a restituire un dato affidabile sul numero di donne accolte e
accompagnate nel loro percorso, perché, per motivi di privacy, non sono rilevati elementi in grado di riconoscere la
persona assistita. Diversamente è possibile indagare la violenza contro le donne attraverso la raccolta di dati primari.
In questo ambito vanno sempre più affermando studi di tipo mixed-methods, nei quali si intrecciano e combinano
approcci quantitativi e qualitativi volti a integrare l9informazione strettamente statistica con la comprensione
profonda dei processi generativi della violenza, attraverso la ricostruzione del vissuto esperienziale delle vittime. Si fa,
quindi, strada il ricorso all9approccio biografico, alla raccolta di storie di vita così come all9utilizzo sempre più
frequente d9interviste a testimoni privilegiati.
Si pensi all9utilizzo del free listing, adatto a favorire l9emersione di aspetti del fenomeno della violenza. Col free listing
si chiede alle partecipanti di indicare su un foglio bianco le risposte alle domande poste. Quando poi ci si avvicina a
minori o a persone appartenenti a culture in cui la dimensione visiva gioca un ruolo preponderante, è possibile
ricorrere ai community mapping, dei disegni realizzati dalle rispondenti per rappresentare situazioni contestuali in cui
possono realizzarsi fatti o comportamenti violenti. Infine, il body mapping e la photovoicer sono due tecniche che
consentono sempre attraverso le immagini, veicolate dal disegno nel primo caso, e dalla fotografia nel secondo, di
comprendere in che modo i minori vedono il proprio corpo e le sue funzioni, ovvero di rappresentare la loro vita
quotidiana per mettere in luce maltrattamenti esercitate da figure adulte.
Per quanto riguarda la violenza agita dalle donne, è necessario porsi innanzitutto il problema della definizione
concettuale di violenza. In generale, è possibile distinguere due diversi aspetti dell9azione femminile che definiscono
altrettante differenti immagini della donna:

• L9una vicina ai classici stereotipi di genere che la vedono moglie, madre, figlia dedita alle attività educative e di
cura;
• L9altra, dai contorni più vividi, trova spazio in un mondo prevalentemente maschile.

Il ruolo più tradizionale la colloca in una dimensione meno palese dell9azione violenta e la vede impegnata in attività
di assistenza dei membri dell9organizzazione e di comunicazione. Più di recente è emerso un rinnovato ruolo della
donna che la vede partecipe attivamente al comportamento criminale. Non di rado la donna svolge mansioni
tipicamente maschili in caso di detenzione o latitanza del padre o marito, come ad esempio la riscossione dei
proventi estorsivi presso i commercianti locali o il coordinamento e l9organizzazione delle attività illecite. Inoltre,
come l9esperienza, investigativa ha più volte confermato, non mancarono casi di personalità femminile che assumono
veri e propri ruoli direttivi all9interno della cosca.
Un aspetto da considerare riguarda le fonti e gli strumenti fi raccolta d9informazioni che è possibile utilizzare,
tenendo conto che la criminalità organizzata è un fenomeno per sua natura caratterizzato da un certo grado di
segretezza. Per quanto riguarda le fonti di raccolta del dato, è possibile tratte informazione da documenti personali,
da documenti istituzionali o da fonti dirette. Le tecniche di text mining sono strumenti utili per l9analisi delle tracce
delle interviste e del testo tratto da fonti documentali.

Un percorso di ricerca alternativo prevede l9adozione dell9approccio di rete per indagare i fenomeni criminali di
natura associativa, utilizzando le informazioni contenute negli atti giudiziari per costruire le reti di relazioni che si
definiscono nelle organizzazioni criminali. A tal proposito, informazioni particolarmente interessanti possono derivare
dallo studio della posizione dei soggetti all9interno di una rete. Per individuare ruoli e posizioni strategiche all9interno
di una rete si analizza la centralità dei singoli nodi, distinguendo i soggetti importanti dai soggetti marginali. In una
recente ricerca sulle cosche è emerso sia la presenza di alcune donne popolari o strategicamente posizionate
all9interno della rete, sia la presenza di diverse donne che godono di un potere relazionale indiretto, acquisito grazie
alla vicinanza a mariti e figli importanti dal punto di vista gerarchico. Indagare la posizione delle donne nelle reti
criminali, dunque, permette di far emergere sia l9esercizi di un ruolo attivo sia di un ruolo silente nel contesto
criminale.
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Modelli di riconoscimento della violenza


La violenza di genere non rientra e non trova una spiegazione univoca utilizzando i modelli biologici e ambientali delle
teorie criminologiche e della devianza. Anche per queste ragioni il processo di vittimizzazione secondaria è molto
importante sia in riferimento della coesione sociale, sia nei modi in cui avviene la rappresentazione individuale e
collettiva della vittima e del carnefice.
La vittimologia è considerata da molti una branca della criminologia, la ricerca sulla vittimologia indirizza la propria
attenzione verso la vittima del reato. Gli studi hanno così spostato lo sguardo dall9esecutore del reato alla vittima del
reato. Allo stesso tempo, emergono interpretazioni teoriche fondate sull9idea che un atto criminale non possa essere
disgiunto dal suo autore. La preoccupazione è quella di mantenere in rilievo il rapporto fra vittima e autore di reato.
Nel riconoscimento del ruolo attivo nella relazione, la vittima recupera la propria dignità rispetto allo studio della
dinamica che sottende la relazione vittima-carnefice. In quest9ottica si procede al riconoscimento dei diritti anche
della vittima, accompagnandola nel percorso d9uscita dallo stesso ruolo in cui può trovarsi imprigionata. L9attenzione
alla vittima e alla sua individuazione come attore all9interno della dinamica vittimologica s9incentra nella necessità di
attuare un percorso di sostegno per l9uscita dal ruolo di vittima. Dunque, è possibile affermare che la vittima di reato
può avere un carattere ambivalente: da una parte c9è una persona che soffre a livello fisico, emotivo, le conseguenze
d un9azione criminosa, dall9altra una persona che escogita il modo per ottenere benefici e privilegi di varia natura.

Per avviare la specifica lettura delle dinamiche vittimologiche è necessario precisare che si è arrivati ad una
definizione del processo, introducendo una distinzione tra vittimizzazione primaria e vittimizzazione secondaria. In
specifico ci occuperemo della vittimizzazione secondaria, in quanto ci offre lo spunto per puntualizzare le difficoltà
inerenti alla violenza di genere e le sue ripercussioni socioculturali.
Se parliamo di violenza di genere, le vittime sono maggiormente donne, che rischiano di divenire vittime una seconda
volta nel momento in cui, dopo aver denunciato, vengono giudicate secondo il metro socioculturale che ne
caratterizza il contesto di vita. Sappiamo, che le vittime di violenza di genere sono spesso scoraggiate a presentare
denuncia per evitare reazioni ancora più violenti da parte del reo. Per comprendere pienamente il fenomeno e come
si può giungere alla vittimizzazione secondaria introduciamo come esempio l9intervento della Corte Europea dei
diritti dell9uomo di Strasburgo in merito ad un caso di violenza sessuale di gruppo nei confronti di una ragazza. L9Italia
è stata condannata dalla CEDU a risarcire sia perché durante il procedimento le autorità nazionali non hanno protetto
la vittima dalla vittimizzazione secondaria sia per le considerazioni poste in merito a come si sono svolti i fatti e al
luogo in cui è avvenuto il reato.

Negli studi sulla relazione tra vittima e l9esecutore del reato sono state individuate peculiarità e condizioni che
possono rendere un soggetto maggiormente a rischio nell9assumere il ruolo di vittima. Sono stati individuati dei
fattori precipitanti e fattori predisponenti che possono avere una caratteristica generica o specifica. I fattori
predisponenti sono diversi: bio-fisiologici, psicologici, economico sociali. Questi studi hanno portato alla distinzione
più ampia tra vittime attive o passive, rispetto all9avere partecipato al processo di vittimizzazione con comportamenti
di adesione o meno al rapporto con il reo.
La vittima non è sempre attivamente partecipe ai fatti e non è detto che le sue reazioni producono un feedback da
parte dell9autore del reato, tanto da poter essere considerata una vittima passiva. Diversi sono stati gli studi
incentrati sulla ricerca dei soggetti a maggior o minor rischio di vittimizzazione a causa della propria condizione
personologica e in base alla condizione della propria vita quotidiana. Il teorico che maggiormente si è occupato di
questo approccio ha evidenziato quanto non vi sia un9equa distribuzione nella popolazione del rischio di
vittimizzazione proprio a causa dei fattori favorenti. Ci sono vari modelli teorici. Il primo modello di vittimizzazione a
cui fare riferimento è quello sistematico- lineare che si è sviluppato negli anni Ottanta a cura del criminologo Viano.
In questo modello l9attenzione è posta sull9analisi della relazione interpersonale che si instaura tra l9aggressore e la
vittima. Si tratta di una relazione circolare e per questo vengono posti al centro la posizione e il ruolo delle due parti.
L9attenzione viene posta sulla relazione diadica tra i due e non è in questo senso possibile l9analisi delle singole parti
senza tenere al cento il tipo di legame esistente. Questo approccio, ponendo al centro la relazione, da significato allo
stesso ruolo della vittima, che essa svolga un ruolo attivo o passivo rispetto al reato specifico.
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La dimensione relazionale è fondamentale, in quanto i soggetti non sono singoli indipendenti dal contesto e dalla
relazione con il modello circostante e con gli altri soggetti della scena, non solo nelle relazioni positive ma anche in
quelle negative che si strutturano e che possono portare alla definizione di un reato. Questo concetto è ancora più
forte nel momento in cui tra la vittima e il carnefice il rapporto è profondo.

Il secondo modello è quello circolare che nasce dall9esperienza dei Centri Antiviolenza Italiani intorno al 2013. Il
lavoro svolto grazie all9esperienza sul campo dei CAV ha permesso un riconoscimento del processo di vittimizzazione
capace di superare l9idea che la vittima per poter chiedere aiuto avrebbe dovuto prima sviluppare la consapevolezza
dell9essere vittima. Insieme alle operatrici dei CAV è possibile avviare il processo che può portare alla
consapevolizzazione della propria condizione di vittima. Da qui si è arrivati alla definizione del modello circolare di
vittimizzazione.
Il percorso d9uscita dal ruolo di vittima è un percorso complesso che non sempre riesce a restituire serenità e dignità
alla stessa. Questo percorso può essere facilitato soltanto dall9intervento di figure professionali specializzate e capaci
di creare una rete di supporto rispetto alla lettura degli eventi. Dagli studi di Viano il processo di uscita dalla
condizione di vittima viene suddiviso in 4 fasi:

• Riconoscere il danno subito;


• Riconoscersi nella condizione di vittima;
• Decidere come intraprendere il percorso;
• Ricevere l9aiuto per uscire dal processo di vittimizzazione.

Alla luce di questa analisi si ritiene fondamentale il ruolo di tutela inalienabile dei diritti delle vittime, tanto da
riconoscere il ruolo di salvaguardia del CEDAW, come organo di controllo sugli Stati europei, per continuare a
garantire e supportare le vittime. Il documento lavora anche per riflettere sul contesto socioculturale in cui tali diritti
devono essere esercitati.
I due processi sono legati da molti elementi, tra i quali quelli ambientali e sociali, psicologici, culturali ed economici.
Tutti i fattori che possono facilitare l9assunzione del ruolo subalterno. Anche per queste ragioni, la difficoltà di
abbandonare il ruolo di vittima si scontra con modalità e adesione a modelli che nel corso della vita della vittima
possono avere contribuito a facilitarne il percorso. Le storie delle vittime raccontate alle operatrici dei CAV le tante e
diverse forme in cui le vittime hanno subito e accettano i comportamenti violenti.
Criminalità organizzata
Guardando alla letteratura scientifica prodotta negli ultimi vent9anni sulla questione della relazione tra genere e
terrorismo è possibile individuare 4 approcci principali. Il primo approccio consiste nell9utilizzo del genere come
variabile che può consentire di individuare le differenze tra gli uomini e le donne rispetto all9esperienza dell9esercizio
della violenza terroristica.
Il secondo approccio analizza il potere delle norme di genere di condizionare e modellare i ruoli di uomini e donne
all9interno delle organizzazioni terroristiche, mentre il terzo si concentra sulle motivazioni e sui diversi fattori
ideologici, culturali, economici e sociali che possono spiegare come e perché le donne e gli uomini scelgono di
entrare a far parte di un gruppo estremista. Il quarto approccio, infine, cerca di analizzare in che modo la femminilità
e la mascolinità possano innescare delle dinamiche in grado di influenzare i percorsi individuali e collettivi di
radicalizzazione violenta.
Le scienze sociali si sono concentrate soprattutto sulla crescente adesione delle donne a forme estreme e violente di
pensiero e azione. I primi contributi hanno condizionato negativamente l9interpretazione del terrorismo femminile
etichettandolo come irrazionalmente motivato da desideri di appagamento emotivo oppure interpretandolo come
una scelta dettata da una sorta di codice materno-sacrificale.
Le ricerche realizzate nei due decenni successivi sono state influenzate sia dall9intensificarsi del fenomeno sia dalla
sua evoluzione storica. Il primo di questi è stato tracciato dalle ricerche che hanno analizzato il terrorismo perpetrato
dalle donne adottando una prospettiva femminista, dalla quale sono emerse opposte interpretazioni del fenomeno:
risultato della manipolazione e dell9oppressione delle donne da parte di una società patriarcale.
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Rientra a tal proposito lo studio di Berko ed Erez le quali, intervistando un gruppo di ex terroriste sono giunte a
definire la loro come una situazione di non ritorno. Un ulteriore ricerca è rappresentata dallo studio di Miranda Alison
sulle donne combattenti nei conflitti armati. Alison arriva a sostenere che in tutti i conflitti nazionalisti le donne
combattenti sono spesso percepite come una anomalia necessaria ma temporanea in un periodo di crisi e di bisogno
nazionale.
Un secondo itinerario di ricerca è quello volto a esplorare le motivazioni alla base del terrorismo femminile e si
articola in due principali macroaree di ricerca: quella relativa alle motivazioni personali delle donne che scelgono di
esercitare la violenza terroristica e quella relativa alle motivazioni dei gruppi che decidono di coinvolgere le donne
nelle loro azioni politico-militari. La prima macroarea di ricerca si è caratterizzata per una particolare attenzione ad
una tendenza globale del female suicide bombing e ai fattori in grado di motivare una forma di violenza agita così
estrema.
Per quanto riguarda la seconda macroaerea di ricerca tra gli studiosi nel ritenere che la scelta da parte delle
organizzazioni terroristiche di includere le donne debba essere interpretata tenendo presenti i molteplici vantaggi
legati al reclutamento femminile. Il processo decisionale che orienta i leader verso il coinvolgimento delle donne
nelle missioni terroristiche appare dunque una combinazione di pensiero strategico e opportunismo: le donne
vengono scelte dai gruppi terroristici per la loro capacità di attirare l9attenzione dei media, ma anche perché la loro
presenza garantirebbe supporto e conforto fisico, emotivo e psicologico agli uomini.
Diversi studi, inoltre, hanno messo in evidenza che la presenza delle donne è stata particolarmente importante nelle
organizzazioni terroristiche secolari e di estrema sinistra, mentre i gruppi terroristici religiosi o di estrema destra
hanno spesso escluso le donne. L9era dei social media, tuttavia, ha contribuito a mutare le caratteristiche e l9intensità
della presenza femminile non solo nelle organizzazioni terroristiche di matrice religiosa ma anche nei gruppi
neonazisti.
Il fenomeno definito come criminalità organizzata è relativamente recente. In generale, è possibile definire la
criminalità organizzata come un9attività delinquenziale collettivamente esercitata ai fini di lucro e orientata a trarre
reddito dalla produzione di bene e servizi vietati dalla legge. Negli ultimi decenni è stata fatta luce sugli effettivi ruoli
svolti dalle donne nelle diverse organizzazioni criminali. Per un lungo periodo l9opinione pubblica e le testimonianze
degli stessi uomini di mafia che le donne di tali ambienti avessero soltanto un ruolo passivo di madri e mogli
sostanzialmente all9oscuro degli atti criminali perpetrati dai loro uomini. Queste donne apparivano a tutti gli effetti
come delle soggettività passive inserite in contesti di tipo tradizionale e subordinate alle regole di un mondo
sostanzialmente patriarcale. Tuttavia, le rotture dei precedenti equilibri familiari e organizzativi hanno fatto emergere
un9immagine molto diversa e ben più articolate della presenza femminile nell9universo mafioso.
Studiando le donne che hanno legami di sangue con una famiglia mafiosa oppure che sono divenute membri di una
famiglia mafiosa perché ne hanno sposato un membro, Cayili ha identificato qualcuno fattori chiave di modellare il
comportamento e differenziare i principali profili di donne mafiose: commettere un crimine; fornire un supporto
psicologico all9organizzazione criminale; decidere di confessare e decidere di agire contro le mafie.
Secondo lo studioso, gli strumenti del patriarcato sarebbero impiegati per definire il ruolo delle donne all9interno
delle organizzazioni mafiose. Le radicali conservatrici attive hanno maggiori possibilità di essere coinvolte in attività
criminali quando i loro mariti, fratelli o figli vengono arrestati: esse diventano responsabili degli affari illeciti delle l oro
famiglie. Le passive, invece, non sono coinvolte in alcuna attività criminale, ma supportano il sistema mafioso
rispettando il codice del silenzio. Le ribelli rifiutano esplicitamente i valori della cultura mafiosa e non sono mai state
coinvolte direttamente; le disertrici, coinvolte attivamente in attività illecite, scelgono la via della confessione dei loro
crimini e dei segreti dell9organizzazione criminale.

I ruoli delle donne nel mondo della criminalità organizzata si sono evoluti e diversificati nel corso della storia dalla
nascita del primo gruppo mafioso in Sicilia. Le donne avrebbero giocato ruoli di comando all9interno di
un9organizzazione mafiosa, mentre i codici d9onore e le stesse regole di reclutamento avrebbero impedito loro
compiti di leadership. Nei gruppi camorristici contemporanei, invece, non ci sono riti formali di affiliazione e c9è una
maggiore fluidità organizzativa che offre maggiore spazio di potere e di azione alle donne.

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A differenza di mafia e di 8ndragheta, i clan camorristici non prevedono un reclutamento esclusivamente maschile e
quindi nulla impedisce alle donne di occupare posizioni di leadership.
Per concludere, gli studi e le ricerche che si sono occupati dell9analisi e della violenza agita utilizzando il genere hanno
consentito: di far luce sul ruolo delle donne nelle organizzazioni criminali, di riflettere sui rapporti di genere
all9interno delle reti criminali, di analizzare il rapporto tra genere e violenza politica.
COMUNICAZIONE E MEDIA
Per cominciare ad analizzare, occorre partire da due elementi: il genere e i media. Per quanto riguarda il genere,
l9evoluzione degli studi ha evidenziato la progressiva affermazione di un approccio costruttivista in contrapposizione
alla prospettiva del determinismo biologico. In questo senso, mascolinità e femminilità sono concepite come norme e
convenzioni costruite culturalmente e socialmente con riferimento al comportamento e all9aspetto fisico di donne e
di uomini e sono dunque il risultato di processi di negoziazione e interazione che avvengono tra i soggetti presenti in
una determinata società.

Nell9ambito di questi processi di negoziazione e costruzione sociale, un ruolo sempre più rilevante svolto dai mezzi di
comunicazione o media. Questi ultimi possono essere concepiti come apparati che incorporano tecnologie di
comunicazione e come dispositivi che veicolano contenuti simbolici attraverso l9uso di linguaggi e codici specifici. Essi
sono diventati sempre più importanti nella nostra vita quotidiana perché ne sono ormai parte integrante.

I media ci servono per comunicare con gli altri, ma anche per informarci e intrattenerci, ma soprattutto sono stati
riconosciuti come agenzie di socializzazione, costruzione dell9identità e della realtà sociale che affiancano in maniera
sempre più significativa le istituzioni tradizionali, facendo emergere la loro fondamentale funzione di
rappresentazione sociale del genere e di socializzazione ruoli di genere.
Nell9ambito del percorso di sviluppo dei media, si è registrato un passaggio epocale dei media tradizionali e media
digitali sino alle nuove frontiere dei social media, della network society e della cosiddetta platform society. I media
tradizionali sono i cosiddetti media di massa, che si sono diffusi a partire dai primi anni del 8900 e che si
caratterizzano per un modello broadcast. In questo caso ci riferiamo alla radio e alla televisione, senza dimenticare la
stampa di massa e il cinema. A partire dagli anni 70, gli sviluppi nel campo dell9informatica e delle telecomunicazioni
hanno determinato il passaggio ai cosiddetti nuovi media, che hanno inaugurato e accompagnato la transizione al
digitale. Prima la diffusione di pc e poi quella del World wide web hanno favorito cambiamenti sostanziali nei modelli
di consumo.
Gli ultimi anni hanno visto un9ulteriore evoluzione per quanto riguarda le caratteristiche dei media. L9arrivo del web
2.0 e dei social media a partire dalla fine degli anni 90 ha determinato un cambiamento fondamentale perché ha
inaugurato la stagione dei media partecipativi, contraddistinti dalla possibilità di interagire in modo inedito con i
contenuti mediali, modificandoli, remixandoli e producendo nuovi artefatti. Le piattaforme social hanno determinato
uno straordinario cambiamento che offre agli utenti la possibilità di produrre contenuti comunicativi sempre più
ricchi e variegati. Per quanto riguarda il rapporto tra genere e media, le principali aree di interesse di analisi
scientifica sono le seguenti: rappresentazione, produzione e consumo.
Rappresentazione. Il tema della rappresentazione ha a che vedere con le soggettività che ottengono visibilità
all9interno dei media. Le rappresentazioni mediali hanno rilevanza quantitativa, nel senso che hanno a che fare con le
percentuali di presenza di donne e uomini nei media, perché si interfacciano con i ruoli e le posizioni rivestite da
diversi generi nell9ambito dei media.
Produzione. L9area di indagine relativa alla produzione mediale è legata all9industria dei media, che è stata in gran
parte condizionata dal di dall9impatto del digitale. Fino agli anni 90 i diversi mezzi di comunicazione quali la stampa, il
cinema, la televisione erano considerati come comparti separati. Oggi la convergenza dei processi produttivi e dei
contenuti impongono di ripensare in maniera radicale la struttura e funzionamento dell9industria mediale.

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LGBT+
L9acronimo LGBT+, che nel corso del tempo è andato ad arricchirsi di ulteriori lettere e simboli, è un espediente
introdotto a partire dai primi anni del XX secolo per riferirsi contemporaneamente a tutte le minoranze sessuali e di
genere. Si tratta evidentemente di una soluzione semantica che tiene insieme una pluralità di soggettività che, pur
godendo ciascuna di caratteristiche proprie e specifiche, sono accomunate dal fatto di discostarsi dagli stereotipi
associati alla mascolinità e alla femminilità. Ognuna delle lettere dell9acronimo non descrive soltanto l9appartenenza a
una categoria identitaria, ma è metaforicamente rappresentativa anche delle lotte sociali e culturali condotte per
rivendicare il diritto di poter essere sé stessi in ogni ambito della propria esistenza.

È necessario fare il punto sulle componenti dell9identità sessuale, ossia dei fattori che compongono la dimensione
individuale e soggettiva del percepirsi sessuati. In ambito scientifico, studiose e studiosi hanno individuato quattro
elementi che sostanziano l9identità sessuale: sesso biologico, identità di genere, espressione di genere e
orientamento sessuale. Il sesso biologico riguarda i caratteri sessuali con i quali una persona nasce. Questo viene
definito su vari fattori: patrimonio genetico, organi genitali e quadro ormonale. Tali criteri determinano
l9assegnazione delle persone al sesso maschile o a quello femminile. Esistono, infatti, anche delle situazioni
intermedie che non consentono l9assegnazione al sesso maschile o femminile, che hanno luogo quando sul piano
genetico si registrano delle variazioni rispetto agli standard. I soggetti che rientrano in questa categoria sono definiti
intersessuali.
L9identità di genere può essere definita, invece, come la relazione di adeguatezza o inadeguatezza che un individuo
ha con il proprio essere biologico. L9identità di genere intesa quale l9identificarsi come uomini e donne può essere
definita come un processo dinamico e negoziabile, che è condizionato anche dal contesto sociale e culturale di
appartenenza. Le persone che si riconoscono nel sesso assegnato alla nascita sono definite cisgender. Nel caso in cui,
invece, una persona non si riconosca nel sesso assegnato alla nascita, questa viene definita trans.
Il mancato allineamento con il sesso biologico può dare origine a un processo di transizione verso il genere opposto,
che si realizza attraverso una serie di operazioni chirurgiche e di terapie ormonali. Occorre precisare, inoltre, che
esistono anche soggetti che non si riconoscono né nel genere maschile né in quello femminile (non binary), che
sentono di appartenere a entrambi i generi, contemporaneamente (bigender) o in maniera alternata (gender-fluid o
genderqueer).
L9espressione di genere rappresenta il modo in cui i soggetti manifestano il proprio genere nelle relazioni
interpersonali. Identità di genere ed espressione di genere possono essere considerate in effetti due facce della
stessa medaglia, dal momento che la prima può essere ricondotta all9esperienza soggettiva, intima e individuale,
mentre la seconda può essere definita come l9espressione pubblica dell9identità di genere.
Infine, per quanto concerne le prime tre lettere dell9acronimo queste fanno riferimento all9orientamento sessuale,
ossia: all9attrazione affettiva e sessuale da parte di un individuo verso altri individui che possono essere del suo stesso
sesso, del sesso opposto o di entrambi. In relazione al proprio orientamento sessuale le persone vengono etichettate
come eterosessuali, quando si è attratti dall9altro genere rispetto alla propria identità sessuale, omosessuale, quado
si è attratti dallo stesso genere rispetto alla propria identità di genere e infine bisessuale, quando si è attratti da
entrambi i generi. L9acronimo LGBT+ accoglie al proprio interno anche il simbolo matematico-scientifico più, proprio
per indicare che l9elenco delle identità sessuali non mainstream è più ricco ed articolato.

A proposito di orientamenti sessuali, negli ultimi anni diversi studi hanno mostrato che i membri delle generazioni più
giovani vivono la propria identità sessuale come più fluida e in continuo divenire. Entro questa cornice si collocano la
demisessualità, definita come un orientamento sessuale grigio, dal momento che l9attrazione si attiva solo nei
confronti di persone con cui si intrattiene un forte legame emotivo, indipendentemente dalla loro identità sessuale;
la pansessualità, orientamento che presuppone un9attrazione emozionale o fisica nei confronti degli individui
indipendentemente dal loro sesso o genere; l9abrosessualità, con cui ci si riferisce a un interesse sessuale fluido e
mutevole. All9interno dell9acronimo più inclusivo è presente anche la lettera Q, che sta sia per Questioning, sia per
Queer. Nel primo gruppo rientrano tutti quei soggetti che si interrogano sul proprio orientamento sessuale, sul
proprio genere o sulla propria identità di genere, sospendendo l9adesione a una o più categorie identitarie in modo
permanente o temporaneo, in attesa di comprendere meglio la propria identità sessuale.
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Per quanto concerne, infine, l9espressione queer, si tratta di un termine utilizzato in prevalenza da coloro che si
oppongono al pensiero binario, promuovendo l9unicità di ogni essere umano al di là degli stereotipi.
Cittadinanza sessuale
L9origine di una riflessione più recente sul concetto di cittadinanza sessuale o intima va rintracciata nei primi anni
Novanta del secolo scorso, quando l9associazionismo e il movimentismo di genere hanno portato alla luce istanze
connesse alle politiche sessuali che chiedevano una maggiore equità e giustizia sociale. Superando la prospettiva più
circoscritta di cittadinanza sessuale così come era stata coniata dal femminismo, la sociologia estende il concetto
oltre la sfera pubblica per includere i più intimi anfratti della sfera privata: «il corpo, quindi, diventa il luogo centrale
di interesse per le storie della cittadinanza intima».
Questa messe di studiose/i e militanti mostra come l9ipotesi marshalliana della saldatura tra diritti di cittadinanza e
diritti umani non valesse per la comunità omosessuale, che ancora oggi oscilla entro un continuum che da un lato
vede la completa esclusione dal pacchetto di diritti e dall9altro una cittadinanza approssimativa che non restituisce
una piena titolarità dei diritti. In tal senso, uno degli obiettivi dei Paesi democratici di tutto il mondo contemporaneo
è quello di fornire alle cittadine e ai cittadini LGBT+ la garanzia di uguaglianza nell9attribuzione delle forme di diritto,
diversificando il contenuto in base alle necessità ed alle appartenenze identitarie, così come le pratiche di
cittadinanza e l9applicazione del diritto si diversificano a seconda dei territori e delle circostanze storiche.

Da questo punto di vista, nell9ultimo decennio l9Unione Europea ha messo in campo politiche, orientamenti e
strategie per fronteggiare la discriminazione fondata sul genere e sull9orientamento sessuale, basando tale attività sul
principio che tutti i cittadini europei, in quanto tali, hanno eguale valore e dignità. Sono diversi i Paesi in Europa che
hanno adottato il matrimonio tra le persone dello stesso sesso o forme di riconoscimento giuridico a ridosso
dell9istituto matrimoniale. Sebbene la normativa dell9UE non obblighi a consentire o a riconoscere le relazioni o i
matrimoni tra persone dello stesso sesso, ponendo il principio del divieto di discriminazione per orientamento
sessuale, essa ha consentito alla giurisprudenza di obbligare i suoi Stati a trattare le coppie dello stesso sesso in
maniera uguale alle coppie di persone di sesso diverso, nelle ipotesi in cui la tipologia di legame giuridico fra di loro
sia la medesima.

Dopo essere stata genderizzato e razzializzato, il tema della cittadinanza sessuale si estende anche alle persone
LGBT+. Nonostante le questioni relative alla cittadinanza sessuale riguardino molte categorie sociali e diverse
questioni quali il consenso alle attività sessuali, i diritti dei minori di essere liberi da abusi sessuali, le violenze sess uali
e contro le donne, i diritti de* sex worker ecc., le discussioni sulla cittadinanza sessuale LGBT+ forniscono una
prospettiva critica per molti temi chiave, a partire dal dibattito universalismo-particolarismo. In questo discorso si
innesta la prospettiva queer, che si traduce in un dispositivo strategico di identificazione e di rinnovamento delle
istanze omosessuali, attraverso obiettivi politici condivisi e azioni militanti comuni, con l9obiettivo principale di
superare i condizionamenti imposti dell9essenzializzazione delle sessualità e dell9eteronormatività.

La mobilitazione omosessuale supera temporaneamente le valenze espressive e ruvide della protesta urbana per
dedicarsi a riscrivere i diritti di cittadinanza su un piano più squisitamente politico e giuridico. Una richiesta di
integrazione e di legittimazione dei propri diritti a cui contribuiscono da una parte i trend internazionali – ad esempio
la politica antidiscriminatoria dell9Unione Europea – e dall9altra anche le forme più contemporanee di mobilitazione
mediatica, come i social network, che non provengono dalla tradizione dei movimenti sociali degli anni Settanta e
Ottanta e che dunque costituiscono una cornice alternativa al movimento e una nuova rivendicazione di cittadinanza
egualitaria.
Da questo punto di vista, l9Europa costruisce gradualmente la propria unione anche sul concetto di cittadinanza delle
minoranze sessuali. I principi del documento di Copenaghen dei primi anni Novanta, che assumono tra i principali
criteri per l9adesione il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze come valori condivisi, non menzionano
esplicitamente la discriminazione delle sessualità o degli orientamenti sessuali come motivo di sanzione. Nonostante
nel marzo del 2021 il Parlamento europeo abbia dichiarato l9Unione Europea una zona di libertà LGBT+, in una
protesta simbolica contro le politiche discriminatorie promosse da Polonia e Ungheria, bisogna ricordare che anche
negli Stati che forniscono il riconoscimento sociale e legale delle relazioni omosessuali esistono ancora disparità
rispetto ai diritti concessi ai cittadini eterosessuali. I diritti alla genitorialità, ai sistemi procreativi medicalmente
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assistiti, al matrimonio, all9adozione sono alcuni dei diritti di cittadinanza di cui le persone omosessuali sono private.
Nella battaglia di rivendicazione identitaria anche in Europa, è di enorme impulso la graduale influenza delle
organizzazioni internazionali per i diritti umani come Human Rights Watch e Amnesty International, che lavorano
insieme alle istituzioni europee per contrastare il fenomeno discriminatorio delle «azioni dei governi nazionali e
regionali che violano i diritti degli esseri umani».
Nonostante la crescente visibilità globale per le persone LGBT+, è da almeno un paio di decenni che le scienze sociali
denunciano la fine del senso di comunità. Le concentrazioni residenziali delle comunità LGBT+ urbane sono ormai
sempre più sfumate e l9abitare delle persone omosessuali va oltre la città. Le grandi città vedono la diminuzione dei
luoghi di socialità arcobaleno come bar, ristoranti, librerie storicamente collocati entro spicchi urbani circoscritti,
mentre si registra un aumento della migrazione residenziale dalle città più grandi a quelle più piccole; così come
l9afflusso degli alleati eterosessuali in quelli che prima erano spazi esclusivamente gay.
Le città arcobaleno
Il passaggio dalla modernità alla contemporaneità ha mutato il diritto alla città. Rispetto a ciò che la teoria sociologica
ci ha raccontato sulla nascita della città gay come punto di non ritorno per l9autodeterminazione e il riconoscimento
sociale di gay e lesbiche, oggi il quadro è mutato. La narrativa standard delle persone omosessuali che fuggono dalla
campagna o dalle aree interne per andare a cercare iconici gayborhood urbani, luoghi in cui possono trovare l9amore,
sentirsi normali ed essere circondati da gruppi omofìli è oggi più complessa perché è cambiata la città. D9altronde,
essendo una minoranza, le persone omosessuali non hanno mai abitato interamente una città, ma ne hanno segnato
alcuni tratti rendendoli prevalenti. L9abitare in certi distretti semiperiferici delle grandi città americane negli anni
Cinquanta, per esempio, ha gettato le basi per la diffusione delle comunità omosessuali nel mondo e ha marcato la
differenza rispetto alla città mainstream, basata sul modello funzionale dell9abitante breadwinner, bianco,
eterosessuale, lontano dalla natura selvaggia di chi è omosessuale.
L9epoca contemporanea registra la presenza di individui e di comunità sempre più interterritoriali e intersezionali.
Anche il mondo del lavoro ha contribuito a cambiare il posizionamento delle persone omosessuali. Dato che molti di
quegli omosessuali che Florida ha incluso nella classe creativa sono spesso professionisti autonomi, questi sono
autosufficienti anche quando si tratta di organizzare la loro mobilità geografica. La questione è come queste nuove
forme di mobilità contemporanee influenzano il processo di incorporazione dei luoghi che tradizionalmente aveva
visto gli stili di vita omosessuali svilupparsi in maniera territorialmente circoscritta.
Questa forma di distretto post-gay è probabilmente più vicino alla configurazione che assume oggi in Italia la
comunità omosessuale. Alla significazione internazionale dei distretti gay, connotati da targhe celebrative, striscioni,
decorazioni e bandiere arcobaleno visibilmente affisse sulle vetrine dei negozi o degli hotel, l9Italia sostituisce
un9urbanità LGBT+ poco pronunciata, costituita da gruppi eterogenei di persone che frequentano i pochi luoghi
ricreativi «strettamente» LGBT+, distribuiti in qualche strada cittadina come nel caso di via Lecco o via San Martini,
intorno a Porta Venezia a Milano&

A questa concentrazione ri-creativa di natura urbana, si affiancano azioni estemporanee che raramente hanno un
radicamento territoriale di lunga durata: progetti, iniziative politiche, culturali o sportive, flash mob, Gay Pride, pagine
social ecc. Manca, in Italia, un progetto politico unitario di riconoscimento dei diritti delle persone omosessuali, così
come è sempre stato assente un dispositivo di pianificazione democratica della città, che ha, di fatto, trascurato le
esigenze specifiche della popolazione LGBT+. Agli omosessuali italiani viene negata la possibilità di posizionamento
nello spazio pubblico urbano. Questo freno alla diffusione di distretti gay ha contribuito all9affievolimento del
processo di omonormalizzazione urbana, con le sue derive neoliberiste e gentrificatorie che hanno invece preso
piede in alcune delle grandi capitali gay-friendly del mondo occidentale.

C9è da aggiungere che l9avvento e la crescente diffusione di Internet e dei social media anche in Italia ha in parte
eroso la necessità delle persone omosessuali di territorializzarsi, aprendo la strada alla disidentificazione e alla
multiplessità delle relazioni omofile. I quartieri gay non sono più aspetti determinanti nell9esplorazione dell9identità
sessuale né tantomeno vengono più associati in maniera così esclusiva, almeno dai nativi digitali, alla vita arcobaleno.
In estrema sintesi il rapporto contemporaneo tra città e mobilità territoriale degli omosessuali è tutt9altro che lineare
e unidirezionale e investe invece specifiche costruzioni soggettive e culturali.
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L9obiettivo di queste città italiane è stato quello di fornire alle cittadine e ai cittadini omosessuali la garanzia di
uguaglianza, mentre il contenuto materiale dei diritti e la loro applicazione si è diversificata in base a necessità,
dispositivi normativi, aree geografiche. La capacità di queste amministrazioni di progettare e realizzare azioni
arcobaleno, efficaci e concertate con le realtà associative dei territori e con gli altri livelli di governance urbana
appare ora cruciale nel rendere effettiva l9uguaglianza sociale così tenacemente rivendicata nella storia dell9Italia
omosessuale. A partire dall9esplosione dei Gay Pride fino ad arrivare alla diffusione dei registri delle unioni civili, le
città arcobaleno di tutta Italia hanno promosso i diritti LGBT+ attraverso una gamma di dispositivi talvolta reali,
talvolta simbolici, comuni a molte aree metropolitane e non del mondo occidentale.
Eteronormatività e omofobia
Il concetto di eteronormatività è stato introdotto nell9ambito delle scienze sociali all9inizio degli anni Novanta del
secolo scorso da Warner in una delle prime opere della teoria queer. Con questo termine si fa riferimento a un
sistema ideologico-culturale che non solo presuppone una subordinazione naturale delle donne agli uomini, ma che
considera anche esclusivamente le relazioni tra persone di sesso diverso come la norma da seguire.
L9eteronormatività si basa sull9idea che in natura esistano soltanto due generi, quello maschile e quello femminile,
che si allineano perfettamente con i due sessi biologici, e che soltanto le relazioni tra uomini e donne siano
socialmente ammissibili. L9egemonia sessista maschile su cui si fonda l9eteronormatività ha prodotto di fatto un
modello sociale che si impone come unico.
L9assunzione di tale principio ha forti conseguenze sul piano empirico: non solo viene dato per scontato che tutte le
persone debbano essere eterosessuali, ma anche le relazioni finiscono per essere ordinate gerarchicamente sulla
base dei principi eterosessisti. Infatti, ancora oggi in molti Paesi del mondo godono di legittimità sociale e giuridica
soltanto le identità e le relazioni sociali che si muovono entro il perimetro dell9eteronormatività.

Tale scenario fa da sfondo a un altro fenomeno, che ne è diretta conseguenza, ossia l9omofobia. Il termine è stato
coniato da George Weinberg per definire l9intolleranza e l9odio nei confronti delle persone omosessuali da parte della
società eterosessista. Il discorso si può estendere anche alle altre minoranze sessuali e di genere. Nel caso delle
persone bisessuali, ad esempio, si parla di bifobia, così come a proposito delle persone transgender si può utilizzare il
termine transfobia. A volte viene utilizzata la locuzione onnicomprensiva omo-bi-transfobia. Da un punto di vista
etimologico, occorre specificare che nonostante il suffisso –fobia richiami il concetto di paura, l9omofobia non si
caratterizza per essere un timore irrazionale. Al contrario, essa si fonda su un pregiudizio consapevole.
Di conseguenza, gli effetti negativi di tale avversione non ricadono sul soggetto omofobico ma, al contrario, si
riversano sulle persone omosessuali. Proprio per questo motivo alcuni ricercatori si sono attivati per proporre dei
termini alternativi a quello di omofobia, capaci di descrivere il pregiudizio e la discriminazione nei confronti delle
persone omosessuali senza richiamare il concetto clinico di fobia. Tra quelli più diffusi, vi è omonegatività. Tuttavia,
nel linguaggio comune, l9etichetta omofobia continua a essere quella maggiormente utilizzata e diffusa.

L9omofobia si traduce in repulsione, disgusto o chiusura nei confronti dell9omosessualità, che può sfociare, nei casi
più gravi, anche in forme più o meno accentuate di violenza fisica o verbale. In un discorso pubblico del 1998,
l9autrice, attivista e leader dei diritti civili Coretta Scott King ha definito l9omofobia come una forma di fanatismo che,
al pari del razzismo e dell9antisemitismo, disumanizza un ampio gruppo di persone, negando la loro dignità e
personalità.

Altre teorie sviluppate nell9ambito della psicoanalisi descrivono inoltre l9omofobia come una risposta agli impulsi
omosessuali che un individuo può provare. Sminuire, stigmatizzare e allontanare l9omosessualità, pertanto, si
configurerebbe anche come un modo attraverso il quale alcune persone tenterebbero di reprimere o negare una
parte di sé che non accettano o che hanno timore di esplorare. Esiste poi una forma di omofobia, detta interiorizzata,
che prende forma all9interno della stessa comunità omosessuale. Con questa locuzione ci si riferisce infatti a
un9avversione agita nei confronti dell9omosessualità proprio da parte di uomini e donne omosessuali. In particolare,
le persone omosessuali che accettano o promuovono pregiudizi, etichette negative e atteggiamenti discriminatori
verso sé e, più in generale, nei confronti dell9omosessualità sono tendenzialmente quelle che vivono con disagio la
propria identità sessuale o che avvertono il bisogno di conformarsi alle aspettative culturali imposte
dall9eteronormatività.
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Alcuni studi hanno posto in risalto che situazioni di stigma interiorizzato sorgono quando il soggetto sente che il
proprio orientamento sessuale è in contrasto con la propria immagine idealizzata di sé. In situazioni estreme, tale
condizione può causare occultamento e repressione della propria identità, fino ad arrivare a forme più o meno acute
di depressione clinica. La paura di essere identificati come omosessuali, inoltre, è stata definita come una forma di
omofobia sociale. Questo spiegherebbe, in parte, come mai l9omofobia sia maggiormente diffusa in alcuni ambienti
stereotipicamente considerati maschili, come ad esempio in quelli sportivi.
Si utilizza l9espressione omofobia istituzionalizzata in riferimento a tutte quelle forme di disparità di trattamento tra
soggetti sulla base dell9orientamento sessuale che sono condotte dalle istituzioni. L9omofobia istituzionale prende
forma anche in tutti quei territori in cui alcuni diritti di cittadinanza sono esclusivo appannaggio delle persone
eterosessuali, come ad esempio l9accesso al matrimonio, all9adozione o alle pratiche di procreazione medicalmente
assistita. Per quanto riguarda l9ambito della religione, molte confessioni contengono insegnamenti antiomosessuali o
considerano soltanto le relazioni procreative tra uomini e donne come legittime.

La maggior parte delle organizzazioni internazionali per i diritti umani lotta da anni per l9abolizione delle leggi che
considerano le relazioni omosessuali tra adulti consenzienti un crimine. Dal 1994, il Comitato per i diritti umani delle
Nazioni Unite ha anche stabilito che questo tipo di leggi viola il diritto alla privacy. Anche la comunità LGBT+ è molto
attiva per combattere l9omo-bi-transfobia ed infondere una cultura maggiormente inclusiva pronta a riconoscere
valore e dignità a tutte le identità.
Omofobia nel mondo
Nel mondo contemporaneo, le pene a cui le persone omosessuali sono sottoposte cambiano da Paese a Paese. In
cinque Stati dell9Africa e dell9Asia l9omosessualità è punita con l9esecuzione capitale. I comportamenti omosessuali
sono puniti in 10 Stati e prevedono una reclusione che può andare da un minimo di 14 anni fino all9ergastolo. In altri
55 Paesi del mondo, le persone omosessuali possono essere condannate fino a 14 anni di carcere. Anche la metà dei
Paesi asiatici ancora criminalizza l9omosessualità e una parte di quelli che non lo fanno compromettono comunque la
libertà di espressione delle minoranze sessuali e di genere.
La retorica promossa da pubblicazioni accademiche, giornalistiche e politiche, nelle quali si è insistito sullo scontro fra
civiltà, ha avuto come controreazione lo sviluppo di una serie di studi che si focalizzano sui motivi che hanno prodotto
nei contesti delle ex colonie il clima di intolleranza che si respira nei confronti degli omosessuali, motivi che, per
questi studiosi, vanno ricercati anche nel retaggio coloniale e nelle più ampie diseguaglianze sociali ed economiche
che si riproducono a livello globale fra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo. Appartengono a questo filone,
ad esempio, lo studio di Khaled El-Rouayheb, che nel rintracciare i motivi della supposta incompatibilità fra
omosessualità e mondo arabo-musulmano, descrive attraverso una rilettura della storia la tolleranza e l9apertura del
mondo arabo-musulmano premoderno verso la diversità di genere e l9orientamento sessuale non eteronormativo,
tolleranza perduta per effetto delle politiche di dominazione coloniale.

Alla stessa conclusione, giunge lo studio Joseph Massad, che sviluppa un9analisi sistematica e plurisecolare della
letteratura e della poesia nel mondo arabo-musulmano, dei romanzi e dei trattati di medicina. L9analisi di Massad
sull9evoluzione delle identità sessuali e politiche nel mondo arabo-musulmano si rivela critica nei confronti di quella
che egli definisce «lobby internazionale gay». Secondo questo autore, a partire dagli anni Ottanta, «l9international
gay» avrebbe attuato un9incitazione al discorso sulla sessualità per categorizzare e distinguere le identità sessuali che
fino a quel momento erano state abbastanza sfumate nei Paesi arabi.
Per questo studioso l9attuale clima di odio nei confronti degli omosessuali in questi Paesi è visto come l9effetto della
riproduzione su scala globale della causa degli omosessuali occidentali. In realtà, già prima di queste recenti
pubblicazioni si evidenziava che il clima di ostilità di questi Paesi verso l9omosessualità fosse un retaggio coloniale,
risalente a un9eccessiva preoccupazione che si registrò tra i Paesi europei per le questioni eugenetiche, tra le quali
quelle della contaminazione tra le razze e del contagio delle malattie. Ritornando ai tempi recenti, nonostante
l9indipendenza acquisita, alcune delle ex colonie, in Asia come nel continente africano, hanno rinforzato l9ordine
sociale proprio attraverso un discorso che in parte recupera queste preoccupazioni e che fonda il suo discorso sui
valori familiari, sulla promozione del matrimonio monogamico eterosessuale e in particolare sulla criminalizzazione
delle sessualità e dei generi non normativi.
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Attraverso una rilettura dei testi sacri alcuni studiosi dimostrano come l9Islam, al contrario di quello che si pensa,
riconosce e sostiene l9uguaglianza di genere, ribadendo come nel corso dei secoli una ristretta élite maschile ha
imposto interpretazioni distorte delle sacre scritture e sostenuto il patriarcato in nome del Corano. Come precisa
Coppola oggi più che mai riflettere in maniera critica sui temi riguardanti l9Islam è assai faticoso. Si è soliti ridurre,
infatti, la complessità di questa religione a luoghi comuni e categorie di pensiero stereotipate; si giudica l9Islam
seguendo linee guida della cultura occidentale, dimenticando che i percorsi e le evoluzioni storiche dell9Occidente, da
un lato e del Oriente dall9altro sono state diverse.
Sul versante atlantico, Jasbir Puar sviluppa il concetto dell9omonazionalismo al fine di comprendere in che modo il
movimento gay e lesbico mainstream abbia soffocato i movimenti LGBT+ radicalmente anti-neoliberali.
L9omonazionalismo ci parla dei modi in cui i poteri occidentali mettono in circolazione determinati tipi di idee circa le
altre culture, al fine di produrre un9immagine dell9Occidente come culturalmente, moralmente e politicamente
avanzato e superiore. L9omonazionalismo si sofferma in particolare sui modi attraverso cui le retoriche sui diritti di
genere e sessuali acquisiscano un ruolo centrale nelle forme contemporanee di egemonia occidentale. Su tale scia
Hilary King ha evidenziato l9uso strumentale delle retoriche sui diritti sessuali degli Stati Uniti, che hanno costruito
un9immagine di sé come di un Paese progressista e moralmente superiore.
La studiosa prese in esame il discorso tenuto il 22 marzo del 2014 da Joe Biden. Secondo King, ribadendo l9impegno
della politica estera americana sui diritti LGBT+, Biden si dichiarò promotore dei diritti umani, denunciando come
l9odio verso gli individui LGBT+ non potesse più essere giustificato con la scusa delle norme culturali. Per la studiosa,
Biden nel suo discorso fece nessuno accenno alle discriminazioni che ancora subiscono molti gay e lesbiche negli Stati
Uniti.
Gli effetti dell9omonazionalismo diffuso nei Paesi occidentali sono stati evidenziati dalle ricerche condotte sulle
rappresentazioni sociali dei soggetti migranti e queer nel contesto del Québec in Canada. Lo studioso, ricorrendo alla
definizione di soggetto etno-sessuale, descrive come la sessualità dei migranti pone ancora in luce la persistenza di
un modello di dominazione e di alterazione tipico dell9epoca coloniale. Le comunità di origine dei migranti LGBT+
sono considerate come comunità omofobe, in particolare quelle degli individui provenienti dai Paesi musulmani. I
migranti che condividono tale origine etnica, nazionale e religiosa soo considerati come portatori di un9omofobia
interiorizzata. Compito allora delle società di accoglienza è di sensibilizzare questi immigrati imponendo loro un
contratto morale che li conduca ad accettare tali valori comuni, che si basano sul rigetto dell9omofobia e del
sessismo.
Migranti LGBT+
In base ai dati contenuti nel rapporto Fleeing Homophobia, ogni anno in Europa 10.000 LGBT+ stranieri pongono
domanda di protezione internazionale per orientamento sessuale e identità di genere. Sono persone che scappano
da contesti dove l9omosessualità è considerata un reato, dove sono frequenti aggressioni, stupri e uccisioni di
persone sorprese o sospettate di svolgere pratiche omosessuali; spesso sono proprio le famiglie a denunciare alle
autorità i propri membri, considerando l9omosessualità un abominio, un aspetto giudicato come contro natura e in
collisione con quelle che sono le norme morali e religiose condivise.
Laddove non è possibile occultare un9identità non riconducibile al paradigma rappresentato dall9eterosessualità e dal
sistema binario di genere, la scelta di migrare costituisce pertanto un percorso obbligato, che culmina nella richiesta
di protezione internazionale in uno dei Paesi che prevedono forme di tutela specifiche per persone perseguitate per
via dell9orientamento sessuale, dispositivo che in letteratura è definito con l9acronimo SOGIESC (Sexual Orientation,
Gender Identity and Expression, and Sex Characteristics). Nei Paesi europei la possibilità dei migranti di richiedere
una protezione per via di una condizione SOGIESC è assicurata per applicazione di quanto previsto dalla Convenzione
di Ginevra (1951), che stabilisce con l9art. 1 la possibilità di fare richiesta di protezione per motivi di persecuzione
concernenti la razza, la nazionalità, la religione professata, nonché opinioni politiche o perché appartenente a un
determinato gruppo sociale. Le persecuzioni SOGIESC, dunque, rientrano in quest9ultima possibilità, non avendo
previsto la Convenzione all9epoca della sua redazione tale opportunità.

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Per gli operatori delle associazioni e per i funzionari dell9Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati
(UNHCR), diverse sono le difficoltà che gli stranieri incontrano nei Paesi di immigrazione (tra i quali l9Italia) per
ottenere il riconoscimento di questo diritto. Tra le difficoltà evidenziate, centrale è il modo cui gli attori istituzionali
chiamati a concedere questo riconoscimento interpretano quelle che sono le leggi che sottendono il dispositivo di
protezione internazionale per motivi SOGIESC. Un altro aspetto sottolineato dalle associazioni LGBT+ è legato alla
difficoltà da parte delle persone straniere richiedenti asilo di aderire a un orizzonte di senso «intriso di stereotipi di
genere che si strutturano attorno a narrazioni di autenticità, di libertà individuale, di sofferenza e di desiderio proprie
di una cultura individualista quale è quella occidentale».

Le associazioni LGBT+ che in questi anni hanno attivato percorsi di tutela dedicati ai migranti LGBT+ richiedenti asilo
sono spesso chiamate a preparare il soggetto migrante, che deve sostenere un9audizione nel compito di
corrispondere ai bisogni di coerenza e linearità richieste dalle commissioni territoriali che valutano le storie. Si mette
in evidenza l9esercizio di una violenza simbolica che sottende il percorso amministrativo e giuridico del dispositivo
SOGIESC, che si esprime attraverso una progressiva trasformazione di questi in soggetti, in persone vulnerabili. La
violenza simbolica si esercita attraverso un processo che obbliga il soggetto migrante ad aderire a un modello di
vulnerabilità idealtipico e nel quale l9autenticità e la credibilità della storia sono costantemente messe in dubbio.
I componenti delle Commissioni devono quindi valutare la credibilità del richiedente sulla base della sua sola
testimonianza, ma per i motivi già citati le persone LGBT+ migranti trovano difficoltà a spiegare la loro condizione di
persecuzione davanti alle Commissioni. Non mancano situazioni nelle quali i giudici chiedano misure accertative della
presunta omosessualità attraverso pareri di esperti psicologici o psichiatri chiamati a esprimersi, ai quali chiedono di
sottoporsi gli stessi stranieri; aspetto che avvalora in parte l9ipotesi di un9adesione «strumentale» di alcuni migranti a
un concetto di identità sessuale omosessuale così come «concepita» dagli autoctoni solo ai fini dell9ottenimento del
riconoscimento dello status di rifugiato.
Se è vero che la sessualità non è stata un tema centrale nell9osservazione sociologica, almeno quella italiana, meno
ancora lo è stata la sessualità dello straniero. Né la sociologia di genere, né la sociologia delle migrazioni hanno
dedicato una specifica attenzione a tale dimensione. Relativamente alla sessualità, negli studi italiani, sembra essere
prevalsa la dimensione del controllo e dunque dello studio delle problematiche legate alla salute riproduttiva, con un
particolare indirizzo per la condizione delle donne straniere e il ricorso alla pratica dell9IVG (Interruzione volontaria di
gravidanza) alle malattie sessualmente trasmissibili (epatite, HIV/AIDS), senza avviare alcuna indagine sistematica sui
comportamenti sessuali degli stranieri. Le poche ricerche sull9argomento si caratterizzano inoltre nell9inquadrare la
sessualità dei migranti come un ambito attraverso il quale si riproducono processi di vittimizzazione e sfruttamento
sessuale e/o riconducibili alla devianza (come nel caso della prostituzione).
Se è vero che la sociologia non ha ancora maturato ancora una propria tradizione di studi sulla questione delle
sessualità degli stranieri, e in particolare su quelle non eteronormative, il dibattito politico nel corso di questi ultimi
anni ha conosciuto anche nel nostro Paese un relativo incremento di discussioni sull9argomento. La presenza dello
straniero nei Paesi occidentali ha riportato in vita alcuni stereotipi associati alle sessualità delle minoranze etniche:
per esempio, ancora oggi gli uomini di colore sono visti come sessualmente lascivi e incontrollabili, mentre le loro
donne sono intese come sottomesse e dai comportamenti lussuriosi. L9amore, l9eros, il piacere sessuale, aspetti che
chiamano in causa, invece, la capacità di agency e di autodeterminazione restano tutt9ora poco esplorati, meno
ancora le questioni che analizzano la condizione dello straniero nei termini di un9individualità dai bisogni complessi,
che possono comprendere anche desideri relativi all9espressione dell9identità di genere e dell9orientamento sessuale
non eteronormativo.
Un ultimo appunto va sostanziato anche nel rilevare come, rispetto al tema delle sessualità non eteronormative, il
fenomeno migratorio italiano debba essere inquadrato non solo relativamente ai flussi migratori in entrata, ma anche
relativamente al tema delle migrazioni interne al Paese. La riflessione sulla sessualità collegata a tale ambito deve
comprendere tutte quelle condizioni che inducono un soggetto a spostarsi in ragione del suo bisogno di
autodeterminarsi dal punto di vista affettivo e sessuale, comprendendo all9interno anche coloro che si spostano in
altre regioni e città italiane (in particolare nelle grandi metropoli), come accade per le persone LGBT+ che
provengono da luoghi e contesti del Paese caratterizzati ancora da una forte cultura eterosessista e omotransfobica.

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Le ricerche su gay e lesbiche migranti


Proprio per le premesse teoriche fatte sin qui, le analisi della condizione del migrante LGBT+ devono anche
considerare come le diverse soggettività chiamate qui in gioco occupano posizioni differenti lungo l9asse di potere
patriarcale ed eteronormativo, al cui apice troviamo il maschio bianco, eterosessuale e di classe media, e a
discendere via via i soggetti con un9identità sessuale non eteronormativa. Dal punto di vista teorico, focalizzarsi sulla
condizione degli omosessuali migranti maschi in Italia rimanda al significato che assume antropologicamente
l9omosessualità maschile nei Paesi dell9area del Mediterraneo (ivi compresa l9Italia) e al più ampio discorso sul
concetto di maschilità egemonica.

Se nel mondo occidentale ci si confronta con il modello degli omosessuali moderni, «socialmente visibili e orgogliosi,
versatili dal punto di vista del ruolo sessuale assunto, disposti a impegnarsi in relazioni sentimentali di lunga durata,
con abbigliamento e movenze adeguati al genere, con un9identità sessuale stabile, attivamente coinvolti in una
comunità gay e lesbica urbana», altrove possono evidenziarsi, se pur in forma residuale, modelli alternativi, come
quelli riscontrabili per esempio in alcuni contesti dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, tra cui quelli del Nord
Africa. In questi contesti l9omosessualità è vissuta più in termini di pratica sessuale, che concepita in termini
identitari; pertanto termini come omosessualità/eterosessualità non assumono grande significato, mentre al
contrario le pratiche sessuali informano e rimandano a precise identificazioni di genere alle quali sono associati
altrettanti immaginari differenti.

Da una ricerca svolta da Masullo (2015), su maschi in gran parte provenienti dai Paesi del Maghreb, si rivela come il
modello della sessualità mediterranea costituisca una delle modalità utilizzate dai migranti intervistati per valutare il
proprio orientamento sessuale. Gran parte di questi, per lo più migranti economici, pur riconoscendo le etichette
proposte dalla società occidentale per definire l9identità sessuale, non sempre vi aderiscono, evidenziando
un9inclinazione per un9omosessualità occasionale e comunque concomitante a rapporti di tipo eterosessuale. La
distanza da tali etichette è utilizzata non solo per prendere le distanze verso i modelli di espressività e le etichette
identitarie proposti dal gaylifestyle occidentale, ma anche per valutare gli omosessuali autoctoni, sui quali si
applicano spesso visioni dispregiative, che rimandano all9effeminatezza, alla debolezza di carattere, stereotipi che nei
Paesi di origine sono applicati all9omosessualità «ricettiva», maggiormente stigmatizzata rispetto a quella insertiva.
Il ricorso a stereotipi costituisce una modalità che informa non solo rapporti interetnici fra stranieri e autoctoni, ma
costituisce anche una modalità intorno alla quale il migrante straniero, sfruttando le rappresentazioni associate a una
sessualità considerata come « esotica », costruisce un proprio capitale erotico che mette in gioco positivamente nel
mercato sessuale, negli incontri con gli omosessuali italiani, trovando conferma di quanto Manalansan indica
relativamente alla capacità degli stranieri omosessuali e bisessuali di sfruttare alcune rappresentazioni
mainstreaming del desiderio maschile definito da canoni (neo) coloniali, in modo da ottenere benefici sociali e
materiali di ritorno.
Ponendo attenzione alle dimensioni multiple di discriminazione sperimentate dai migranti all9interno del nostro
Paese, Carnassale evidenzia, in una ricerca sui migranti omosessuali provenienti dal Maghreb e dall9Africa sub-
sahariana, una spiccata attenzione dei soggetti nel performare un modello di maschilità eterosessuale egemonico a
seconda dei contesti nei quali migranti interagiscono e nella scelta dell9invisibilità come armi necessarie alla
sopravvivenza nel Paese di immigrazione. Ciò porta ad una maggiore complessità del loro posizionamento sociale e
della loro auto-rappresentazione identitaria, al punto da costruire una nuova immagine della propria maschilità o
inventarsene una totalmente nuova, diversa sia da quella performata nel Paese di provenienza, sia da quella assunta
dai propri connazionali nel contesto di migrazione.
Se la ricerca sull9omosessualità maschile e dei migranti in Italia ha avuto in anni recenti un notevole impulso, lo stesso
non può dirsi per la sessualità delle donne lesbiche migranti. Il lesbismo non conosce forme di legittimazione
culturale, «essendo le regole di genere centrate sul familismo, sull9onore femminile e, soprattutto, sul pene come
centro della sessualità, il sesso lesbico semplicemente non è contemplato, non viene riconosciuto». Una recente
ricerca condotta da Masullo e Ferrara ha preso in esame le identità sessuali non eteronormative di donne migranti
che vivono in Italia, con l9obiettivo di porre in evidenza le strategie identitarie che queste mettono in campo di fronte
a situazioni per le quali possono essere discriminate per la loro identità di genere e il loro orientamento sessuale.
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La ricerca ha sfruttato teoricamente alcune intuizioni della teoria postcoloniale intersezionale e queer, all9interno
della corrente di ricerca qui definita della queer migration studies. Tali studi, nel prendere in esame la condizione
delle persone omosessuali, pongono al centro dei loro interessi la gestione di un9identità doppiamente stigmatizzata
che vivono le migranti LBTQ nei contesti di migrazione, facendo leva su un concetto del Sé posto oltre le logiche
binarie: bianco/nero, maschio/femmina, omosessualità/eterosessualità.
Katie Acosta, per esempio, riprendendo il concetto di mestiza, descrive l9esperienza vissuta dalle emigranti lesbiche di
origine latina negli Stati Uniti e di come sperimentino ogni giorno la condizione dell9essere mestiza, del muoversi sui
confini delle loro diverse appartenenze. I confini sono da queste donne costantemente infranti e rielaborati, in alcuni
casi reinventati, con l9obiettivo di vivere liberamente il proprio orientamento sessuale. Il peso delle discriminazioni
che queste donne sperimentano dentro la società statunitense e dentro le comunità etniche di appartenenza le
conducono a costruire delle comunità immaginarie entro le quali si sentono loro stesse, offrendo supporto e aiuto a
coloro che vivono la loro stessa condizione, di donne migranti e omosessuali.

È quanto succede alle donne migranti le cui storie sono prese in esame dalla ricerca di Masullo e Ferrara. Dalle
interviste emerge l9opera di ricomposizione del sé che le donne migranti lesbiche, bisessuali e queer applicano nel
tentativo di gestire i differenti lati della loro identità, evidenziando come la gestione di questi tratti sia strettamente
collegata ai diversi ambiti nei quali si relazionano e al valore che questi ambiti assumono per la loro persona.
FUTURO
Proposto nel 1989 dalla giurista nordamericana Kimberlè Williams Crenshaw per definire la sovrapposizione fra
diverse identità sociali da cui derivavano subordinazioni, oppressioni e discriminazioni, il termine intersectionality
riprende visivamente l'intersezione che in geometria si ottiene nel punto in cui più rette si intersecano.
L9approccio teorico intersezionale sottolinea l'importanza di ogni elemento caratteristico di una persona e della sua
totale interazione con tutti gli altri tratti per poter definire perfettamente l'identità dell'individuo. Proprio perché le
teorie classiche hanno prevalentemente analizzato processi di esclusione e di discriminazione in modo non integrato
-ad esempio l'omofobia, il razzismo o la xenofobia - l'approccio intersezionale può restituire:

• La più reale relazione fra questi processi e ricondurli a un più generale sistema di oppressione che si manifesta
in forme differenti;
• Le profonde dinamiche alla base delle rappresentazioni sociali di tratti dell'identità individuale su cui si fonda
un processo di discriminazione oppressione, come ad esempio lo sono il genere, la sessualità, la classe.
Parlare di intersezionalità significa riferirsi a:

• Come si determinano le categorie sociali che classificano gli individui;


• Quale sia il processo di interazione di queste categorie sociali

Perché si possono superare le categorie invalse in una società da cui derivano rispettive metodologie d'indagine:

• individuare una categoria prevalente e ricostruire in linea gerarchica quelle associate;


• determinare classi di categorie dominanti, ad esempio perché associate alla gestione del potere;
• analizzare i processi di decostruzione delle categorie

I contributi teorici
Le scienze sociali non sono arrivate del tutto impreparate alla proposta di un approccio intersezionale di analisi della
società. Si devono intendere come orientati all'analisi delle interconnessioni studi come quello di Max Weber sul
concetto di ceto, cui giunse connettendo fra loro le categorie di classe, stato e appartenenza politica; Ma anche
quello di Pierre Bourdieu che proponeva l'approccio metodologico delle multiple correspondence analysis per
scomporre in categorie dominanti identità e fenomeni sociali.
Si deve all'accademica nera e attivista Kimberlè Williams Crenshaw, la prima puntuale definizione dei meccanismi di
oppressione e discriminazione, prendendo in considerazione la posizione sociale delle donne nere e intersecando fra
loro già solo le due categorie del genere e della razza.
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