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APPUNTI DI ANTROPOLOGIA

CULTURA: processo intersoggettivo di produzione di significati


SISTEMI DI PARENTELA
L’antropologia si istituzionalizza verso la fine dell’800. L’antropologia di fine ottocento era definita
come lo studio delle culture “primitive”. L’evoluzionismo culturale riteneva che tutte le società
passassero attraverso una serie di stadi evolutivi: per questo motivo alcune erano considerate più
progredite, evolute di altre, “ferme” a stadi evolutivi inferiori. Tutti gli studiosi si concentravano su
temi classici, quali la parentela e la religione. Gli albori dell’antropologia sono stati caratterizzati
da un grosso interesse per tali dimensioni. Nella prospettiva degli evoluzionisti esse
rappresentavano tratti che avevano marcato l’inizio, la nascita dell’umanità. La famiglia era
considerata la prima regolamentazione stipulata per quanto riguarda i rapporti umani.
E’ dall’esame dei sistemi di parentela che partono molte ricerche antropologiche. Tali sistemi
regolano la sessualità e la progenie e danno vita a veri e propri assetti sociali. La parentela è un
insieme di regole attraverso cui l’individuo viene collocato all’interno di un gruppo piuttosto che
all’interno di un altro. Si da così forma alla riproduzione biologica, che diventa anche riproduzione
sociale. Il nostro sistema di parentele è caratterizzato dal SISTEMA BILATERALE: la progenie è
legata sia alla famiglia materna che a quella paterna. Invece, la discendenza UNILINEARE è distinta
in “patrilineare” e “matrilineare”. Nella prima i figli appartengono al solo gruppo di parentela del
padre, della madre nella seconda. “Ego” è il termine da cui, in un diagramma di parentela, si inizia
a tracciare le relazioni (il capostipite). Matriarcale e matrilineare hanno due significati diversi. In
un sistema di discendenza matrilineare l’autorità è spesso comunque esercitata dagli uomini.
L’autorità sui figli è esercitata non dalla madre, ma dagli uomini della famiglia materna. I sistemi di
discendenza unilaterali generano gruppi corporati. Gruppi in cui i membri si sentono definiti
dall’appartenenza al proprio gruppo di parentela. Il “lignaggio” è un gruppo in cui i membri sono
accomunati da uno stesso antenato “storico”. Il “clan” invece è un insieme di diversi lignaggi che
vantano la discendenza da uno stesso antenato “mitico”.
I gruppi corporati sono generalmente gruppi esogamici, gruppi in cui i membri devono scegliere un
partner matrimoniale all’esterno del gruppo di parentela.
Malinowsky si trovò a fare ricerca nelle isole Trobriand durante la prima Guerra Mondiale.
Constatò che i figli avevano rapporti conflittuali con lo zio materno, non col padre.
Negli anni ’40 Levi-Strauss pubblicò “Le strutture elementari della parentela”: in esso tra le varie
cose si concentrò sull’aspetto mai toccato del matrimonio. Prese tutti gli schemi di parentela
disponibili e li ridusse attraverso procedimenti logico-matematici, fino a generare il cosiddetto
atomo di parentela*: per esso (che trovi nel quaderno) ci dev’essere necessariamente un rapporto
di discendenza e di alleanza. CI piaccia o no, c’è sempre un altro gruppo da cui viene il partner
coniugale. IL principio dell’esogamia è presente matematicamente in tutti gli schemi di parentela.
L’esogamia è la produzione positiva della proibizione dell’incesto. Se non ci fosse questo aspetto
non ci sarebbero la crescita e l’integrazione sociale, l’incrocio tra gruppi. Nel momento in cui
scegliamo un partner di un altro gruppo dobbiamo mettere la nostra discendenza a disposizione di
altri gruppi. Il rapporto di alleanza è fondato sull’esogamia e sulla reciprocità. Per Levi-Strauss la
proibizione dell’incesto è una regola umana, universalmente presente, quindi peculiarità della
nostra natura. Alcuni studiosi hanno constatato che in diverse società occidentali stiamo
lentamente avanzando verso schemi di parentela inediti, nei quali vengono a mancare le figure dei
cugini e la progenie si riduce drasticamente a ogni generazione.
POLITICA
Ogni società dispone di un qualche sistema di regole, di un qualche organismo che garantisca la
sua integrità. Tali organismi sovraintendono all’azione del singolo individuo. Le forme di
legittimazione dell’autorità politica variano da contesto a contesto. Nella società ‘Ndso il potere è
detto “shiv”, che significa “medicina”: il potere per loro è l’esercizio della cura del popolo. Spesso
gli assetti istituzionali politici “legittimano” diseguaglianze, oppressioni, ecc… Ogni società arriva
ad occultare o legittimare le violenze che sono inflitte ai membri per il semplice fatto di
appartenere a tale società.
L’antropologia politica nasce nel 1940 con la pubblicazione di “African political systems”, raccolta
di saggi curata da E. E. Evans-Pritchard e M. Fortes. IL primo modello politico analizzato è quello
delle società acefale, non organizzate e sprovviste di una “testa”, un punto di riferimento
istituzionale. In società simili se c’è da prendere una decisione ci si appella al consenso di tutto il
gruppo; in mancanza di esso avviene una scissione in due “bande” diverse.
La seconda categoria è quella delle società segmentarie: società di villaggio organizzate in gruppi
corporati (lignaggi e clan). Erano le più diffuse nel continente africano. In queste società mancava
comunque una qualche istituzione riconosciuta come “politica”: non c’era un capo, un sovrano,
eppure la società funzionava come un complesso organizzato. L’elemento politico era dunque
identificabile nei rapporti di parentela. Segmentarie perché organizzate in segmenti di lignaggio.
Pritchard spiega: nel momento in cui un membro di un sottolignaggio z2 ruba del bestiame a un
membro di un sottolignaggio z1 il conflitto non riguarda solo i due individui, ma entrambi i
sottolignaggi tirati in ballo. Se poi un membro di z2 ruba a un membro di un altro clan, TUTTO il
clan di z2 (Y) entra in conflitto con l’altro clan. A questo punto le due parti si appellano al “capo
della pelle di leopardo”, una figura religiosa di riferimento a cui ci si rivolge ritualmente; dopodiché
iniziano le negoziazioni tra le due parti.
La maggior parte degli antropologi di quegli anni cominciarono a concentrarsi su questi assetti
politici. Evans-Pritchard lavorò tra i Nouer (popolazione del Nord Sudan), la cui società definì
“un’anarchia ordinata”.
La terza categoria individuata è quella dei regni o domini. Sono forme intermedie tra società e
Stato, molto più complesse dalle realtà dei villaggi. Il re di tali regni distribuisce le risorse e trova
nella distribuzione la sua legittimazione più grande. In caso non distribuisse sarebbe additato come
stregone, come malvagio accumulatore di ricchezze (CAPITALISTA!!)
Negli anni ‘50/’60 molti mettono in luce come le ricerche di Pritchard non tenessero conto delle
dinamiche e conflittualità interne alle società analizzate. Pritchard scriveva “i Nouer pensano
che”… ma i Nouer pensavano molte altre cose oltre a quelle dette dall’antropologo. Le analisi non
tenevano conto dell’influenza che l’amministrazione coloniale aveva avuto sulle istituzioni locali.
G. Balendier inizia a parlare di “Antropologia dinamista”: accusa i precedenti studi di aver descritto
le società africane come società senza storia, immutabili. In quelle realtà la storia non è arrivata
solo col colonialismo. La cultura dei Nouer, per esempio, è il risultato di infiniti contatti nel corso
dei millenni con altre culture, a livello regionale o anche extra-regionale. Se vuoi comprendere la
specificità locale essa va inserita all’interno di dinamiche molto più ampie.
Wallerstein produsse la “teoria del sistema mondiale”: non c’è angolo di mondo che non sia stato
esposto a influenze dalle altre realtà. Alcuni contesti emergono come “centri” in questo sistema
mondiale, mentre altri solo come “periferie”. Ciò è dovuto al ruolo che un contesto occupa
nell’insieme delle dinamiche economico-politiche. Nasce un’antropologia capace di tracciare le
interconnessioni, che anticipa il concetto di globalizzazione.
Sono anni questi (’60) in cui si inizia a vivere la decolonizzazione. Alcuni la definiscono una nuova
epoca storica, l’epoca “post-coloniale”. Si inizia a concentrarsi su aspetti quali l’ordine e il
disordine: quanto un ordine istituzionale produca un effettivo disordine in una data società.
M. Foucault e P. Farmer (filosofo e antropologo di Harvard) furono due figure decisive per
l’antropologia. Foucault ha messo in luce quanto improprio sia il nostro modo di concepire il
potere. Nelle società moderne i cittadini sono divenuti artefici del proprio stesso assoggettamento.
Creiamo dei “regimi di verità”. Distingue in “anatomopolitica” e “biopolitica” (CERCA I SIGNIFICATI)
Il fatto di essere consapevole di essere potenzialmente controllabile fa’ si che tu ti
autoregolamenti. La biopolitica è il potere che agisce attraverso la definizione del concetto di vita.
A partire dal ‘600 il concetto di “Popolo” cede il passo a quello di “popolazione”, amministrata e
gestita. Sulla base dell’amministrazione della popolazione si costruisce l’assetto statale. Quando gli
Stati Uniti lanciarono la campagna della “guerra al terrore” assistemmo a una fase interessante:
l’intervento militare in Iraq fu definito un intervento “a salvaguardia della vita”.
Molti stati tutelano I CITTADINI, non gli “esterni”. Il potere agisce in modo incredibilmente
produttivo, ponendo in essere un certo modo di definire le cose, come la vita. “Fare la guerra per
tutelare la vita” è divenuto il meccanismo di risoluzione dei disordini mondiali. Nel nostro ethos di
compassione ci prendiamo cura delle vittime, non dei meccanismi che hanno portato tali individui
ad essere “vittime”.
Farmer si ritrovò da medico a lavorare ad Haiti (primo paese ad ottenere l’indipendenza dal
colonialismo). Studiando l’AIDS, si concentrò sulle rappresentazioni culturali in base alle quali gli
haitiani interpretavano la malattia. Si rese conto che essa colpiva sempre la stessa tipologia di
persone. Dal racconto di un’indigena che era andata a letto con un soldato, arrivò alla conclusione
che il vero problema non era la malattia, ma la limitata capacità degli abitanti di scegliere, la loro
minima “Agency”. Tale limite era il frutto di una violenza imposta dalla forma di organizzazione
sociale di Haiti, che favoriva profonde diseguaglianze. E questa violenza è rintracciabile in gran
parte delle società nel piano mondiale.
Riguardo alla violenza strutturale delle istituzioni sociali, Basaglia parlava di “crimini di pace”,
forme di violenza eseguite ritenendo che non siano tali. La terapia per Basaglia consisteva in un
tentativo sociale di ricondurre l’individuo all’interno di una norma. E’ una violenza che si annida
nelle migliori intenzioni. La violenza simbolica è la violenza esercitata dalle rappresentazioni
sociali. La violenza strutturale si focalizza nelle forme di organizzazione sociale.

SISTEMI RELIGIOSI
I sistemi religiosi sono un insieme di saperi e pratiche che collocano l’essere umano in un piano
cosmologico, in una dimensione di forze e dinamiche enormemente più ampia di quella politico-
sociale. Si cerca di capire in che modo gli esseri umani si sono immaginati parte di un ordine
superiore, extra-umano. Gli antropologi hanno individuato una serie di regolarità, tratti comuni:
uno di questi è l’idea che certe “risposte” alle domande esistenziali risiedano su un piano ulteriore,
indirettamente accessibile; per poter accedere a quel piano abbiamo bisogno di figure di
mediazione, investite della capacità di interagire con quella dimensione superiore. Grazie agli studi
su questi aspetti possiamo identificare le domande che ogni gruppo sociale ritiene “fondamentali”
e di conseguenza cosa vuol dire “essere umani” per quel dato gruppo. E’ vero che possiamo
ritenere l’esperienza religiosa come un qualcosa di intimo e personale, ma la religione non può
essere ridotta a questo, è tratto sociale per eccellenza.
Emile Durkheim nel 1912 pubblicò “Le forme elementari della vita religiosa”: affermò che il sacro e
la religione sono fatti sociali. In quel volume parte dall’analisi del totemismo australiano (sistema
attraverso cui i gruppi sono organizzati come gruppi corporati di tipo esogamico, ognuno dei quali
è simbolicamente rappresentato da una specie animale o vegetale, il TOTEM, simbolo
dell’antenato mitico dal quale discendono tutti i membri del clan) e constata che il totem è oggetto
di culto; nel momento in cui esso viene venerato si venera il simbolo del gruppo, viene ad essere
sacralizzato il vincolo che lega i membri del gruppo; viene venerata la società nel suo complesso.
Le persone pensano sé stesse attraverso le stesse logiche secondo le quali è organizzata la realtà
sociale. Le pratiche di venerazione consacrano i principi fondativi del nostro ordine.
Evans-Pritchard, dopo i Nouer, si sposta a studiare una popolazione del Sudan del Sud, gli Azande,
e lavora sulle concezioni stregoniche. Mette in luce quanto la stregoneria garantisse l’ordine
sociale. Essa interpreta la “sventura”. E’ un vero e proprio sistema di pensiero, dotato di una
ferrea logica interna ed estremamente coerente. Per i casi di stregoneria gli abitanti si appellano a
un oracolo, che interroga la dimensione superiore e designa un responsabile. Quest’ultimo spesso
si scusa e sostiene “non sapevo di essere uno stregone”. La stregoneria è intesa come una potenza
ereditaria, che si concentra nell’addome. Tra gli Azande c’è l’idea che quasi nessuno è consapevole
di possedere la stregoneria
Due classici dell’analisi antropologica sulle religioni sono il mito e il rito.
MITO= forma di racconto che ha una valenza fondativa, risponde a esigenze intellettuali e dà
risposte su un particolare stato di cose.
Per esempio, nei miti dei nativi americani si cercano risposte alla presenza della morte e della
malattia. Levi-Strauss mostra come il mito è un sistema di pensiero che arriva a produrre
conoscenza; pone il “pensiero selvaggio” in opposizione al “pensiero scientifico”. Il pensiero
scientifico e quello mitico si muovono nello stesso modo. Nell’analisi del pensiero mitico troviamo
i temi fondamentali dell’esistenza umana, in quanto sono presenti diverse analogie tra patrimoni
mitologici completamente svincolati tra loro. “Non sono gli uomini che pensano i miti, sono i miti
che pensano l’uomo” (cit. Levi-Strauss)
RITO= sequenza codificata carica di significati condivisi dagli individui di una specifica società.
I riti hanno una valenza formativa per i partecipanti. E’ un’azione pubblica: anche se gestita in un
ambiente privato è sancita da un riconoscimento pubblico. Nel rito si ha esperienza diretta del che
cosa significhi essere membri di una data società. IN tale dimensione si riesce a ricondurre le varie
tensioni intergenerazionali nell’ordine sociale; in quel caso si sancisce una trasformazione, la
nascita di un nuovo ordine basato sui valori sostenuti dalla nuova generazione.
Carlo Severi lavora su una popolazione di Panama, i Cuna. Studia le pratiche sciamaniche e mostra
come le trasformazioni storiche siano state sentite nell’evoluzione culturale dello sciamanesimo.
LAVORO DELL’ANTROPOLOGO
Intendiamo il lavoro di ricerca e il prodotto della ricerca quando parliamo dell’attività di un
antropologo. La pratica etnografica consiste nel comprendere e rappresentare una realtà “altra”.
L’antropologo deve entrare in relazione “dialogica” con il nativo, non è portatore di una
prospettiva sintetica, ma di una prospettiva parziale. Perciò deve porsi sullo stesso piano del suo
interlocutore. Deve lavorare sulle interpretazioni che i nativi elaborano sulla propria realtà. Geertz
dice di partire dal punto di vista del nativo e comprendere i significati che ha costruito riguardo al
contesto in cui è inserito.
Una volta terminata la ricerca sul campo si passa alla rappresentazione scritta. Geertz rifiuta la
“descrizione”: ogni descrizione è di base un’interpretazione e tradisce diverse prese di posizione.
Un tempo, i primi antropologi basavano le loro ricerche su esperienze indirette e sul racconto di
viaggiatori. Malinowsky diede una fine a questo metodo: non ci si poteva basare su dati raccolti da
“profani” della ricerca antropologica. La ricerca sul campo dev’essere di lunga andata, deve
consentire all’antropologo un accesso alla vita comunitaria analizzata e deve consentire di andare
oltre ai primi rudimenti della lingua. Si fa attraverso l’osservazione partecipante. Si deve cercare di
vedere il mondo con gli occhi del nativo.
Col tempo c’è stato un passaggio dall’osservazione partecipante alla partecipazione
dell’esperienza.
L’etnografia è una relazione intersoggettiva di co-costruzione di uno scenario di mutua
soggettività. Gli antropologi sono “incompetenti professionisti”.
Con Clifford Geertz abbiamo la seconda grande rivoluzione antropologica. Egli ci lascia come
messaggio non solo che non raccogliamo dati ma li co-produciamo sul campo, ma anche che la
realtà che abbiamo letto sarà sempre la costruzione di una rappresentazione. E chi è che ha
l’autorità di rappresentare una realtà?
T. Asad, J. Fabian, E. Said e altri negli anni 60 iniziano a mettere in discussione la figura
dell’antropologo come “osservatore neutro”. Il rapporto tra etnografo e campo di ricerca non è
neutro, è collocato all’interno di ampie dinamiche da tenere in considerazione. Per esempio nelle
società “vittime” del dominio coloniale gli antropologi non avevano tenuto conto del peso che tale
dominio aveva comportato. Fabian parla di allocronismo: collocare in un’altra epoca (passata), in
un tempo senza storia le popolazioni studiate. Così facendo si produce l’idea di società senza
evoluzione e si compromette irrimediabilmente la veridicità dei fatti riportati e la validità
dell’analisi compiuta. Said afferma che dagli scritti dei passati antropologi si capisce più sulla
cultura dei suddetti che sulla cultura dei soggetti delle loro ricerche.
Quando Geertz irrompe all’inizio degli anni 70, sostiene il bisogno che l’antropologo giustifichi la
sua interpretazione, spieghi cosa l’ha portato a compiere quella specifica interpretazione. Invece
che “gli ‘Ndso credono che”, il ricercatore deve parlare prima di sé stesso, deve presentarsi,
“contestualizzarsi”, per poi raccontare come ha costruito le sue conclusioni e le sue
interpretazioni; deve inoltre posizionare gli attori sociali (CHI crede quella data cosa ecc…). Ne
risulta una pluralità di punti di vista all’interno di uno stesso contesto culturale. Geertz invita
quindi a fare un’ indagine basata su tre livelli:
1- Il punto di vista del nativo, che è punto d’accesso all’analisi interpretativa di una certa
realtà
2- Il rapporto etnografo-informatore; l’etnografo partecipa alla co-produzione di cultura nel
contesto di ricerca; deve essere consapevole in modo autoriflessivo di non potersi esimere
dal dare una sua interpretazione a ciò che vede e a ciò a cui partecipa, per non rimanere
vittima di striscianti presupposti culturali
3- La rappresentazione etnografica, ovvero il momento in cui ti troverai a dover scrivere
quanto appreso. Anche questo è un momento autoriflessivo. Bisogna stare attenti alle
figure retoriche, alla persona usata, anche al tempo verbale (il frequente presente negli
scritti antropologici del novecento privava le realtà studiate di qualsiasi trascorso storico).
L’etnografo andrà a scrivere un resoconto dell’esperienza vissuta nella relazione coi nativi,
non un resoconto della cultura di quei nativi.
Tradizionalmente gli antropologi dividevano l’analisi in raccolta di dati, comparazione e finale
teorizzazione di carattere generale. Geertz dice invece che il momento teorico è già presente nel
momento etnografico; fare etnografia è fare antropologia. La dimensione della teorizzazione è
presente in qualsiasi passaggio della ricerca. Dalla nostra analisi possiamo generare una serie di
riflessioni piuttosto pertinenti e di portata molto grande.
*leggi Body Ritual among the Nacirema*

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