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SISTEMI RELIGIOSI
I sistemi religiosi sono un insieme di saperi e pratiche che collocano l’essere umano in un piano
cosmologico, in una dimensione di forze e dinamiche enormemente più ampia di quella politico-
sociale. Si cerca di capire in che modo gli esseri umani si sono immaginati parte di un ordine
superiore, extra-umano. Gli antropologi hanno individuato una serie di regolarità, tratti comuni:
uno di questi è l’idea che certe “risposte” alle domande esistenziali risiedano su un piano ulteriore,
indirettamente accessibile; per poter accedere a quel piano abbiamo bisogno di figure di
mediazione, investite della capacità di interagire con quella dimensione superiore. Grazie agli studi
su questi aspetti possiamo identificare le domande che ogni gruppo sociale ritiene “fondamentali”
e di conseguenza cosa vuol dire “essere umani” per quel dato gruppo. E’ vero che possiamo
ritenere l’esperienza religiosa come un qualcosa di intimo e personale, ma la religione non può
essere ridotta a questo, è tratto sociale per eccellenza.
Emile Durkheim nel 1912 pubblicò “Le forme elementari della vita religiosa”: affermò che il sacro e
la religione sono fatti sociali. In quel volume parte dall’analisi del totemismo australiano (sistema
attraverso cui i gruppi sono organizzati come gruppi corporati di tipo esogamico, ognuno dei quali
è simbolicamente rappresentato da una specie animale o vegetale, il TOTEM, simbolo
dell’antenato mitico dal quale discendono tutti i membri del clan) e constata che il totem è oggetto
di culto; nel momento in cui esso viene venerato si venera il simbolo del gruppo, viene ad essere
sacralizzato il vincolo che lega i membri del gruppo; viene venerata la società nel suo complesso.
Le persone pensano sé stesse attraverso le stesse logiche secondo le quali è organizzata la realtà
sociale. Le pratiche di venerazione consacrano i principi fondativi del nostro ordine.
Evans-Pritchard, dopo i Nouer, si sposta a studiare una popolazione del Sudan del Sud, gli Azande,
e lavora sulle concezioni stregoniche. Mette in luce quanto la stregoneria garantisse l’ordine
sociale. Essa interpreta la “sventura”. E’ un vero e proprio sistema di pensiero, dotato di una
ferrea logica interna ed estremamente coerente. Per i casi di stregoneria gli abitanti si appellano a
un oracolo, che interroga la dimensione superiore e designa un responsabile. Quest’ultimo spesso
si scusa e sostiene “non sapevo di essere uno stregone”. La stregoneria è intesa come una potenza
ereditaria, che si concentra nell’addome. Tra gli Azande c’è l’idea che quasi nessuno è consapevole
di possedere la stregoneria
Due classici dell’analisi antropologica sulle religioni sono il mito e il rito.
MITO= forma di racconto che ha una valenza fondativa, risponde a esigenze intellettuali e dà
risposte su un particolare stato di cose.
Per esempio, nei miti dei nativi americani si cercano risposte alla presenza della morte e della
malattia. Levi-Strauss mostra come il mito è un sistema di pensiero che arriva a produrre
conoscenza; pone il “pensiero selvaggio” in opposizione al “pensiero scientifico”. Il pensiero
scientifico e quello mitico si muovono nello stesso modo. Nell’analisi del pensiero mitico troviamo
i temi fondamentali dell’esistenza umana, in quanto sono presenti diverse analogie tra patrimoni
mitologici completamente svincolati tra loro. “Non sono gli uomini che pensano i miti, sono i miti
che pensano l’uomo” (cit. Levi-Strauss)
RITO= sequenza codificata carica di significati condivisi dagli individui di una specifica società.
I riti hanno una valenza formativa per i partecipanti. E’ un’azione pubblica: anche se gestita in un
ambiente privato è sancita da un riconoscimento pubblico. Nel rito si ha esperienza diretta del che
cosa significhi essere membri di una data società. IN tale dimensione si riesce a ricondurre le varie
tensioni intergenerazionali nell’ordine sociale; in quel caso si sancisce una trasformazione, la
nascita di un nuovo ordine basato sui valori sostenuti dalla nuova generazione.
Carlo Severi lavora su una popolazione di Panama, i Cuna. Studia le pratiche sciamaniche e mostra
come le trasformazioni storiche siano state sentite nell’evoluzione culturale dello sciamanesimo.
LAVORO DELL’ANTROPOLOGO
Intendiamo il lavoro di ricerca e il prodotto della ricerca quando parliamo dell’attività di un
antropologo. La pratica etnografica consiste nel comprendere e rappresentare una realtà “altra”.
L’antropologo deve entrare in relazione “dialogica” con il nativo, non è portatore di una
prospettiva sintetica, ma di una prospettiva parziale. Perciò deve porsi sullo stesso piano del suo
interlocutore. Deve lavorare sulle interpretazioni che i nativi elaborano sulla propria realtà. Geertz
dice di partire dal punto di vista del nativo e comprendere i significati che ha costruito riguardo al
contesto in cui è inserito.
Una volta terminata la ricerca sul campo si passa alla rappresentazione scritta. Geertz rifiuta la
“descrizione”: ogni descrizione è di base un’interpretazione e tradisce diverse prese di posizione.
Un tempo, i primi antropologi basavano le loro ricerche su esperienze indirette e sul racconto di
viaggiatori. Malinowsky diede una fine a questo metodo: non ci si poteva basare su dati raccolti da
“profani” della ricerca antropologica. La ricerca sul campo dev’essere di lunga andata, deve
consentire all’antropologo un accesso alla vita comunitaria analizzata e deve consentire di andare
oltre ai primi rudimenti della lingua. Si fa attraverso l’osservazione partecipante. Si deve cercare di
vedere il mondo con gli occhi del nativo.
Col tempo c’è stato un passaggio dall’osservazione partecipante alla partecipazione
dell’esperienza.
L’etnografia è una relazione intersoggettiva di co-costruzione di uno scenario di mutua
soggettività. Gli antropologi sono “incompetenti professionisti”.
Con Clifford Geertz abbiamo la seconda grande rivoluzione antropologica. Egli ci lascia come
messaggio non solo che non raccogliamo dati ma li co-produciamo sul campo, ma anche che la
realtà che abbiamo letto sarà sempre la costruzione di una rappresentazione. E chi è che ha
l’autorità di rappresentare una realtà?
T. Asad, J. Fabian, E. Said e altri negli anni 60 iniziano a mettere in discussione la figura
dell’antropologo come “osservatore neutro”. Il rapporto tra etnografo e campo di ricerca non è
neutro, è collocato all’interno di ampie dinamiche da tenere in considerazione. Per esempio nelle
società “vittime” del dominio coloniale gli antropologi non avevano tenuto conto del peso che tale
dominio aveva comportato. Fabian parla di allocronismo: collocare in un’altra epoca (passata), in
un tempo senza storia le popolazioni studiate. Così facendo si produce l’idea di società senza
evoluzione e si compromette irrimediabilmente la veridicità dei fatti riportati e la validità
dell’analisi compiuta. Said afferma che dagli scritti dei passati antropologi si capisce più sulla
cultura dei suddetti che sulla cultura dei soggetti delle loro ricerche.
Quando Geertz irrompe all’inizio degli anni 70, sostiene il bisogno che l’antropologo giustifichi la
sua interpretazione, spieghi cosa l’ha portato a compiere quella specifica interpretazione. Invece
che “gli ‘Ndso credono che”, il ricercatore deve parlare prima di sé stesso, deve presentarsi,
“contestualizzarsi”, per poi raccontare come ha costruito le sue conclusioni e le sue
interpretazioni; deve inoltre posizionare gli attori sociali (CHI crede quella data cosa ecc…). Ne
risulta una pluralità di punti di vista all’interno di uno stesso contesto culturale. Geertz invita
quindi a fare un’ indagine basata su tre livelli:
1- Il punto di vista del nativo, che è punto d’accesso all’analisi interpretativa di una certa
realtà
2- Il rapporto etnografo-informatore; l’etnografo partecipa alla co-produzione di cultura nel
contesto di ricerca; deve essere consapevole in modo autoriflessivo di non potersi esimere
dal dare una sua interpretazione a ciò che vede e a ciò a cui partecipa, per non rimanere
vittima di striscianti presupposti culturali
3- La rappresentazione etnografica, ovvero il momento in cui ti troverai a dover scrivere
quanto appreso. Anche questo è un momento autoriflessivo. Bisogna stare attenti alle
figure retoriche, alla persona usata, anche al tempo verbale (il frequente presente negli
scritti antropologici del novecento privava le realtà studiate di qualsiasi trascorso storico).
L’etnografo andrà a scrivere un resoconto dell’esperienza vissuta nella relazione coi nativi,
non un resoconto della cultura di quei nativi.
Tradizionalmente gli antropologi dividevano l’analisi in raccolta di dati, comparazione e finale
teorizzazione di carattere generale. Geertz dice invece che il momento teorico è già presente nel
momento etnografico; fare etnografia è fare antropologia. La dimensione della teorizzazione è
presente in qualsiasi passaggio della ricerca. Dalla nostra analisi possiamo generare una serie di
riflessioni piuttosto pertinenti e di portata molto grande.
*leggi Body Ritual among the Nacirema*