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lezione 11

Ci siamo lasciati con una panoramica sulla MI del ‘900 non del tutto conclusa.
Ricapitolando: presentata una MI che nel ‘900 diventa definitivamente ricca e moderna così come la conosciamo oggi.
Ha però conosciuto non poche difficoltà a governare la sua foga di innovazione – oggi si potrebbe dire che nel ‘900 MI
è stata “sempre sul pezzo”, Pasolini direbbe “nel punto in cui il mondo si rinnova” -. Questa tendenza ha dunque
portato difficoltà a generare poi un luogo in cui la vita sia per tutti e non solo per chi gode di un grosso privilegio
economico, uno spazio accogliente per tutti e in cui tutti possono vivere dignitosamente. Quindi il rischio che ha corso
MI è quello di essere la città del lavoro, del guadagno, dello svago ma dove è particolarmente costoso e faticoso vivere
la propria quotidianità con dignità. Infatti c’è una forte tendenza immigratoria sì ma c’è anche la tendenza emigratoria
che dal 1971 costantemente si va aumentando. Visto che MI perde il numero di abitanti potremo dire che si va
svuotando perché la tendenza di chi va via è più forte della forza numerica di chi invece entra.

Riprendiamo dalla fine dell’ultima lezione con una piccola precisazione.

Ha ancora senso oggi parlare di città? Teniamo conto che oggi i discorsi attorno alle metropoli, fatti dagli specialisti di
questo ambito – non parlano più di città, le grandi città hanno superato la dimensione e quindi anche il concetto e la
possibilità di parlare di città come fatto fino ad ora. Urbanisti, geografi, architetti da un paio di decenni parlano di
regioni urbane, megalopoli, aree metropolitane, città diffuse = espressioni che descrivono bene il segno dominante dei
processi di urbanizzazione che hanno contraddistinto tutto l’Occidente, in cui a partire dagli anni ’70 o ’80 si è assistito
ad una dilatazione orizzontale dei tessuti urbani che tendono a non conoscere più soluzioni di continuità per decine o
addirittura centinaia di kilometri, ben al di là dei limiti posti dai confini comunali.
Noi siamo sicuri di dove finisce il Comune di MI, ma siamo sicuri di dire dove finisce la regione urbana milanese? Di
questo non siamo più sicuri, ed è inevitabile dentro questi fenomeni di dilatazione orizzontale delle grandi città al di
fuori dei propri confini comunali – non dev’essere un caso che una sede della Statale si trovi a Sesto – al di fuori del
Comune di MI.
Da MI a Sesto è tutta una conurbazione che non conosce soluzioni di continiutà, non ci si accorge che si è passati da un
panorama all’altro, da una città all’altra. Quindi noi si abbiamo un confine comunale ma sembra quasi non esserci.

Ad un primo livello MI è una metropoli diffusa che a nord arriva fino a Sesto o addirittura fino a Monza.
A sud si arriva fino a più di Emanuele, ad ovest si arriva fino a Magente ma forse anche oltre = non c’è una potente
separazione. Come questa foto:
dove le luci sono state proprio
enfatizzate – imbroglia un po’.
Ci sono dei geografi che oramai
per il Nord italia parlano di
un’unica area metropolitana che
parte da Torino e arriva a Venezia,
coprendo tutta la fascia ben
illuminata (autostrada A4 Torino-
Venezia, treni ad alta velocità etc).

Quindi noi abbiamo parlato di città


come se MI fosse astratta dal suo
contesto però oggi questo discorso
sarebbe difficile da fare.
Altro fenomeno che ha a che fare
con le migrazioni quotidiane = MI
ha 1 milione e 300 mila abitanti,
oggi MI che è un enorme incrocio di persone, esperienze e merci, ogni giorno (nell’era pre-covid) accoglieva altrettanti
abitanti che ogni giorno vengono a MI per lavorare, acquistare, vedere concerti, si parla anche di un milione di
abitanti. Tutti che vengono a MI per fruirne/usarne una parte, più persone di quante effettivamente siano abitanti
viventi nella città.
E quindi MI si è trasformata da città ad incrocio rumoroso, trafficato, inquinato e pericoloso da attraversare – per molti
aspetti disagevole. Un luogo nel quale bisogna essere, passare e spt dal quale si attingono esperienze e poi alcuni
tendono poi a fuggire. Si dice che ci sono i city users – vengono quotidianamente la città per esigenze e poi scappano
via, non la vivono. Se ci pensiamo chi è milanese sa che lo sport preferito è quello di fuggire da MI ogni volta che si può
(weekend, ponti, festività), la città si svuota.
Quindi si offre lavoro, svago, possibilità di successo però poi c’è una coazione e tendenza ad andar via non appena
possibile.

Tutto ciò ha messo in crisi la possibilità di scrivere della città in quanto tale.
I nostri autori, che pubblicano tra il ’49 e il 63 vivevano in una situa nella quale aveva senso parlare di città e di MI
come zona con delle peculiarità che la rendevano diversa dalle zone attorno. Però oggi per uno scrittore è difficile
decidere di ambientare un testo poetico/narrativo a MI esclusivamente qui dentro i suoi confini comunali. Ma anche
scrivere su MI.
E di nuovo non è un caso che uno scrittore famoso:
Aldo Nove ci ha provato – il testo non è del
tutto narrativo o saggistico, è una sorta di
guida di Milano scritta però da un’autore che è
scrittore, quindi una guida speciale. Non è un
caso dunque che Nove si sia scontrato con
questa difficoltà di non riuscire a parlare di MI
come qualche cosa di ancora esistenti, il titolo
dunque è molto significativo per noi.
In effetti MI non è più MI, si è diluita e dilatata,
i suoi abitanti sono in un senso diminuiti e
nell’altro aumentati.

Fine discorso su MI.


GIUSEPPE MAROTTA (Napoli, 1902-1963)
“A Milano non fa freddo” è il testo più facile, più accogliente, di livello letterario più basso.
Spinazzola avrebbe messo questo libro nella letteratura di intrattenimento – non c’è nulla di avanguardistico o
sperimentale o istituzionale, siamo un pochino sotto-.

Marotta

Fisicamente molto imponente. La sua vita ci interessa


relativamente, spesso alla critica letteraria interessano i testi, e
consideriamo che il testo in sé è più che sufficiente per saziare
varie curiosità e indagini intorno all’autore.
Il nostro approccio è un po’ più sociologico, abbiamo parlato di
Marx, visto quanto il contesto influenzi la nascita dell’opera
letteraria e come l’ideologia dell’autore entra inevitabilmente
dentro la nascita del testo (come la nostra personalità/visione
del mondo/ideologia/hanitus (Bourdieu quest’ultimo) influenzi i
nostri gesti.

Nel libro poi ci sono tanti pezzi in cui il narratore dice “io”. E il
narratore per chi conosce Marotta, assomiglia molto all’autore.
Quindi ci sono questi tanti pezzi sottilmente e implicitamente
autobiografici – quindi è bene avere in mente qualcosa della vita
dell’autore.
Vedremo molte citazioni = ha senso che sia lui a parlare di sé.

Però nel frattempo entriamo nell’ottica di imparare qual è il


sound del suo pensiero e della sua sintassi, perché fra quando
parla di sé e scrive i suoi pezzi di narrativa più o meno autobiografica non c’è grande differenza.
Già possiamo fare degli zoom di analisi stiistica e vedremo che quei tic stilistici sono sempre gli stessi (sia nella fiction
che quando nelle interviste parla di sé). Sono dunque tic stilistici, giri di pensiero/ di sintassi che contraddistinguevano
Marotta come autore e persona. E forse non li dominava fino in fondo, gli escono continuamente indipendentemente
dal genere di scrittura che sta affrontando (narrativa, intervista, confessione autobiografica).

Nasce nel 1902 a Napoli, nel quartiere sanità. E’ un quartiere malfamato. Figlio di un avvocato anziano e di una
giovanissima sarta.
Marotta ha la sfortuna di rimanere orfano di padre nel 1911, a soli 9 anni; così che lui, madre e due sorelle maggiori si
trovano a vivere in miseria.
Le due sorelle, Marotta e la madre vanno a vivere al piano terra del Campanile della chiesa di Sant’Agostino degli
Scalzi, nel quartiere Materdei.
Ecco Marotta che parla di sé, della casa nel campanile:

Qui ci sono alcuni accenni di linguistica prima citati: si vede subito come Marotta tende a mescolare il tono amaro e
quello leggero, racconta di una condizione di miseria/tragedia individuale con una sottile ironia. “non solo eravamo
miseri ma avevamo persino il controcanto delle campane che suonavono sempre in distonia rispetto alla nostra
condizione emotiva”.
E’ un gioco, in fondo, il lettore se ne rende conto; ma M allo stesso tempo tratteggia una situazione tutt’altro che
allegra.
La madre di M, alla quale lui era molto affezionato, muore nel 1937 – lui aveva 35 anni e da tempo si era trasferito a
MI portandola con sé.

Essendo in questa situazione economica, M ha dovuto interrompere le superiori – ha fatto le medie (precedenti la
riforma del ’62), si iscrive ad un’istituto tecnico ma deve lasciare per trovare un impiego.
Ecco cosa dice di questa situazione:

Con officina in realtà non intende fabbrica, lui non fece l’operaio. Si mise a fare il letturista del gas.

Ci tiene a spiegare che da una parte ha vissuto in una condizione di disagio ma comunque vuole far notare che la sua
passione per il lavoro letterario è iniziata molto presto. M restituisce un’immagine di sé sin dall’adolescenza come di
uno che ha sempre dovuto lavorare molto e fare grandi sforzi per rendere concreta la sua passione letteraria.

Siamo già dentro la 1WW (’14-’18), quando lui ha 14 anni fino a quando ne ha 16. Non ne esce turbato quasi mai dagli
eventi della collettività (come la guerra).
E poi:

agitazioni sociali = biennio rosso ’19-’20 – manifestazioni di piazza dei lavoratori


fascismo = ’22-’43
M tiene questo atteggiamento con i fatti della storia nei quali è inciampato (2WW etc). Emerge che lui non è attratto
come scrittore/intellettuale dall’impegno politico. Dalla 2WW si diffonde l’idea (che coinvolge molti nostri scrittori)
dello scrittore impegnato (politicamente o socialmente) = intellettuale che doveva prendere parola nella società, alla
Pasolini.
Non è questa l’idea che M ha dello scrittore.
Non ha dunque la parabola tipica dello scrittore nato all’inizio del ‘900 – figlio di solito della grande o media borghesia,
divenuto tale (come direbbe Bourdieu) dopo che in casa aveva raggiunto un grosso capitale ereditario/incorporato. E
cioè una famiglia di grande privilegio culturale = privilegio economico. Questo non è il caso di M – doveva da solo
studiare la notte se voleva imparare qualche cosa.
Quindi per riprendere ancora Bourdieu – M lo possiamo definire un autodidatta, lo stesso M si descrive così. Quindi
colui che non ha un grosso capitale scolastico ma che spt non ha un grosso capitale culturale ereditario. Quindi deve
orientarsi da sé sulla base di punti di riferimento orientati, giunti in larga parte in maniera autonoma, nel mondo delle
arti e della cultura. E diciamo:

Questo è un punto importante per capire qualcosa in più: si è sempre sentito un irregolare dentro il campo letterario
italiano che ancora nella metà del ‘900 era particolarmente rigido e tradizionalista. Benjamin parlava di Boudleire
(capostipite della lirica moderna – enorme prestigio e autorevolezza), in FR girava con i capelli tinti di verde, portando
al guinzaglio una tartaruga, questo perché si poneva come scrittore antiborghese, antitradizionalista, che rompeva gli
schemi della società (e quindi del campo letterario anche).
In ITA avevamo una situazione ben diversa: un corrispondente di B in ITA è Carducci – che mai avrebbe girato con una
tartaruga, era un rigidissimo docente universitario che scriveva anche poesie in latino e aveva anche una concezione
tradizionale della letteratura, tempo dopo. O ancora D’Annunzio e ancor più tradizionale Giovanni Pascoli (anche lui
scriveva in latino, quindi guardare molto alla tradizione e al passato).

Quindi M, migrante, non aveva sicuramente il profilo sociale intellettuale adatto per imporsi dentro il campo letterario
italiano della prima metà e metà del ‘900.

il 7 febbraio 1925 M, a 23 anni, arriva a MI spinto innanzitutto dalla volontà di guadagnarsi da vivere. Non è un caso
MI = MI è la capitale dell’industria editoriale italiana, c’era già la Mondadori, Rizzoli (che pubblicavano sia libri che
riviste di ampia diffusione).
Quando M arriva a MI ha il sogno di trovare impiego nel mondo editoriale. Arriva con in tasca 300 lire – quindi l’affitto
mensile di una camera.
Così racconta:

Anche qui si vede qualcosa che troveremo sempre nei testi di M – assomiglia al suo modo di fare narrativa. Di nuovo il
tragico e l’ironico con il digiuno – corre sottotraccia un intento di far sorridere il lettore (con la nebbia), getta
un’incrinatura agrodolce.
Poi la personificazione (figura retorica che attribuisce gesti e sentimenti umani a cose non umane). Qui MI e NA sono
personificate.
Iniziamo a cogliere dunque alcune caratteristiche fondanti della sua scrittura – girano attorno al fiabesco con la
tendenza a personificare tutto quanto-.

Riesce a farsi pubblicare qualche racconto su una rivista nel “Corriere dei piccoli”. Da allora grazie all’industria
editoriale milanese M non avrebbe più sofferto la fame, sia grazie ai testi pubblicati su giornali e riviste, sia grazie ad
un lavoro non tanto autoriale quanto editoriale – correttore di bozze e redattore dentro Mondadori e Rizzoli.
L’attività del migrante M con la vocazione letteraria e la necessità di guadagnarsi da vivere è frenetica – il suo lavoro è
frenetico.

Anche qui troviamo quella auto-epica che lui fa di sé. Misero, migrante che arriva nella capitale editoriale ed
economica, deve lavorare moltissimo e la necessità di sbarcare il lunario fa sì che anche la sua vocazione letteraria non
punti tanto sulla grande arte ma usi anche con la sua verve di scrittura narrativa per guadagnarsi da vivere – quindi
scrive pezzi brevi, non grandi romanzi in cantiere anni, vanno invece in stampa in breve e vengono anche pagati in
fretta. Dunque lui scrive la notte in fretta e furia dei raccontini che ottengono un buon successo tra il pubblico dei
giornali.
A volte li riunisce in un libro e li pubblica.

“A MI non fa freddo” è la raccolta di 22 racconti che prima sono usciti sui quotidiani e poi nel ’49 in un libro edito da
Bompiani.
Questa sua attività di narratore ha nociuto alla sua immagine di autore: i raccontini umoristici, d’amore, autobiografici
gli hanno impedito di dedicarsi ad opere che avrebbero potuto avere presso la grande critica un accoglimento
maggiore.
Ma non l’ha fatto anche perché forse non aveva la vocazione per una scrittura più complessa ed impegnativa.
Si tratta di un autore di estrazione popolare, con un certo capitale economico-culturale e quindi una condotta di
scrittura che gli impone di scrivere facendosi pagare in fretta.
Questo appunto pone le sue opere all’interno della letteratura d’intrattenimento, l’unica che permette di ricevere
immediatamente una retribuzione.
I racconti di M che poi vengono raccolti nei volumi sono racconti autobiografici.
Come impiegato dell’editoria lui non ci interessa.
Scrive molti racconti d’amore, umoristici, altri un po’ umoristici, autobiografici e schiettamente narrativi in cui il
protagonista non è lui o non è un io autoriale travestito – c’è un grosso racconto nelcentro dellibro, diviso in
paragrafetti, che evidentementenon ha nessuno come protagonista che sia riconducibile alla figura dell’autore.
Però ciò che caratterizza i libri di M è quello di provenire evidentemente da pubblicazioni brevi che dovevano
necessariamente avere carattere breve perché venivano pubblicate di volta in volta su quotidiani/riviste (utili per
introito economico) – e ciò ha messo a reoentaglio la sua carriera di scrittore perché la critica letteraria, allora come
oggi, non prende sul serio uno scrittore che si dedica a raccontini più o meno leggeri.

Dino Buzzati, autore “deserto dei tartari”, diceva:

Quindi l’autodidatta un po’ in miseria si porta dietro M.

Elzeviro (un po’ la luce in fondo al tunnel) – si tratta di un articolo giornalistico collocato in 3° pagine, che fino a poco
fa era quella culturale dei giornali. Era un tipo di articolo molto diffuso che solo di recente è caduto in disuso.
L’elzeviro veniva dedicato ad argomenti di carattere letteraio, artistico, generalmente culturale ed erudito.
Se l’autore dell’elzeviro aveva una qualche fama potevano avere anche un carattere memorialistico e autobiografico
che caratterizzano la scrittura di M. E infatti M ne ha pubbicati di questi. Il racconto più lungo del nostro libro è diviso
in paragrafi = suddiviso così in episodi perché è stato pubblicato pezzo per pezzo nelle riviste. “A MI non fa freddo” è
proprio fatto di elzeviri.
Quindi da questi elzeviri M ricavava i suoi libri, quindi ci guadagnavi pubblicandoli individualmente sui giornali e poi
quando raggiungeva una certa consistenza il libro li raccoglieva.
Quelli di “A MI no fa freddo” hanno come filo rosso il fatto che sono tutti ambientati a MI e parlano del corpo a corpo
con MI di un IO che assomiglia all’autore o di personaggi che niente hanno a che fare con M.
In questo senso l’elzeviro l’ha salvato = da una prte lo faceva guadagnare pubblicando cose meno frivolo e leggero,
dall’altro gli permetteva di mettere insieme libri con anche una dignità letteraria.

”questa è una cosa che…” – è sbagliato sopra.


Lo scrittore cioè per vivere è costretto a lavorare per i giornali, chi può stare 2 anni dietro ad un libro? Senza
guadagnare? Oggi lo scrittore, a meno che non sia borghese o vive di rendita, è costretto a fare così.
Però M si sbaglia, non è vero = tantissimi scrittori che non erano della grande borghesia avevano fatto un altro lavoro
(come Montale), senza mescolare il lavoro di scrittore con quello per mantenersi.
Diciamo che M mescola un po’ le carte = avrebbe potuto trovare un lavoro che lo mantenesse vivo nel piano pratico.
E’ un invito a non credere mai passivamente e fino in fondo alle parole di un autore, qui c’è anche il fatto che forse
una scrittura complessa, o comunque una vocazione profonda, in M non c’era: è evidente che M non è Montale,
Kafka, Proust, Joyce, indipendentemente dal fatto che dovesse mantenersi oppure no.

Tornando alla sua biografia:


Dopo 13 anni a MI, nel 1938, M in cerca di lavoro e soldi si trasferisce a Roma. Il suo scopo = era stata fondata
cinecittà, il luogo in cui ci sono tantissimi studi cinematografici. E’ stata fondata nel fascismo e il cinema si è
presentato subito come una possibile fonte di guadagno per scrittori, perché dietro un film c’è sempre un
sceneggiatura che spesso veniva prodotta da scrittori di professioni. Quindi M cerca un altro stipendio, lascia la
capitale editoriale per quella che diventerà la capitale cinematografica d’ITA. Di soldi nel cinema ne girano tanti – negli
anni ’30-’50 tutti andavano al cinema almeno una volta a settimana – M si lancia nell’operazione ma dopo 2 anni la
guerra interrompe il suo sogno. Passa anni difficili a Roma, spedisce alla sua nuova famiglia che stava nella campagna
piemontese (dove non c’era pericolo di bombardamenti) dei soldi. Ma il sogno del benessere non poteva essere
coltivato nel periodo bellico.

Nel secondo dopoguerra M torna a MI. Si apre così la sua seconda stagione a MI, dove deve ricominciare da capo, o
quasi. Perché gli va meglio? Perché imbrocca il libro giusto. Nel ’37 mette insieme i suoi soliti racconti, il filo rosso è
Napoli. Pubblica così per Bompiani “l’oro di Napoli” – serie di racconti già apparsi negli elzeviri.

Rievoca la sua infanzia, la giovinezza che aveva trascorso nella citàà partenopea.
cos’è l’oro di Napoli? Oggi si può dire che è la resilienza, che in ingegneria è la capacità di un materiale di subire un
urto senza rompersi, in psicologia (quindi questo) è la capacità di resistere alle difficoltà senza cedere a queste –
quindi avere un atteggiamento positivo anche in una situazione di grande difficoltà. Per M è questo l’oro di Napoli.
Quindi racconta degli esempi che riguardano la sua vita o la vita altrui in una Napoli pre-bellica nella quale la resilienza
sembrava caratterizzare il popolo napoletano.
Le cose vanno benissimo: i diritti del libro vengono comprati da un grande produttore cinematografico che decide di
ricavarne un film con Sofia Loren (la star del tempo) e alla regia Vittorio De Sica.
Il libro per una volta ha davvero successo, porta anche un po’ di soldi, perché poi i diritti che lo scrittore prende sono
anche abbastanza importanti. Per una volta anche la critica apprezza il libro, questo è il suo ingresso all’interno delle
patrie lettere.
Proprio a questo punto si colloca il nostro libro, che esce due anni dopo, nel ’49.

Da una parte cerca di sfruttare il filone localistico che gli dava successo. Poi però c’è anche il tentativo di smarcarsi da
quell’identità napoletana, del cantore della napoletanità, che sembrava come autore andare ad incastrarsi. Quindi M
cerca di seguire si quel filone ma dall’altra parte di togliersi dalla posizione di napoletano a tutti i costi.

Esce nel ’49 – sul piano biografico il libro rappresenta anche il suo addio a MI – dopo 2 decenni (’25-’38 e ’46 e ’50) nel
’50 M decide di tornare a Napoli anche se non avrebbe smesso di sentirsi milanese
sono 18 anni, non 25 – come al solito esagera.
Anche qua, quando non è narrativa, cerca sempre l’immagine che colpisce nella quale fissare il concetto.
Tornato a Napoli continua a scrivere e pubblicare a livello moltointenso (1 libro all’anno) sempre raccolte di elzeviri
ma anche commedie e pezzi di critica cinematografica. Ha dunque raggiunto una situazione non proprio benestante
ma che gli permette di scegliere cosa scrivere. Tra queste cose, ne ricordiamo due “Mal di galleria” (’58) – riferimento
alla galleria - e “Le milanesi” – tutti i personaggi sono delle donne” (’62) che insieme al nostro sono una specie di
trilogia.

Autoritratto degli anni della vecchiaia:

Giosafat è la valle in cui per la Bibbia tutti i copri degli esseri umani si raduneranno e verranno definitivamente
giudicati, quindi il giudizio definitivo.
Vediamo dunque la malcelata amarezza per un riconoscimento letterario mai arrivato e per un talento letterario che
lui stesso non era sicuro di possedere ma non ha mai smesso di voler possedere.
Il perciò della seconda riga è del tutto ingiustificato – non c’è un rapporto causa-effetto, è un problema che ha a che
fare proprio con il suo inconscio.

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