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Lezione 14

Ci eravamo fermati sulla topografia milanese del libro, quindi quale immagine in maniera immediata ricaviamo leggendo.
Vige nella MI di M secondo lo stereotipo di MI-città operosa, la religione del lavoro (ad es. il morto invita chi sta facendo l’estrema
unzione a muoversi perché deve tornare a lavorare).
Va anche detto di non trasformare la MI industriosa non in una MI industriale – ancora non conosce la disumanizzazione industriale
vista in Benjamin, non presente nemmeno sul piano dei rapporti interpersonali.
La MI di M è la città che per eccellenza permette di ampliare il raggio delle proprie possibilità di realizzazione professionale, e quindi
anche potenzialmente il raggio delle proprie possibilità di emancipazione sociale, quindi siamo dentro il mito della MI capitale
economica, ma è ancora cittadina, non metropoli.
Ciò che insegue M non è una restituzione storica della MI, sembra sempre seguire le fondamenta immutabili della vita.

Capitale economica MI d’ITA che mescola il tema della MI città non ancora industriale ma ancora artigianale. Abbiamo tante prove
della MI artigianale nei lavori che svolge il narratore interno. Costui immigra a MI perché c’’era già un professionismo giornalismo e
letterario (p.30). Questo IO narrante ci restituisce del settore editoriale un’immagine positiva, un ambiente ancora caratterizzato da
rapporti di solidarietà di stampo ancora artigianale, non compromessi dall’anonimato degli uffici che prenderanno piede quando il
settore editoriale diventerà una provincia dell’industria editoriale. E quindi anche il lavoro diventerà più spersonalizzato/anonimo.
Questo ancora è un contesto piccolo, umano.

Da “1927” si vede che la figura autoriale è estremamente grato ai suoi colleghi e superiori per come lo trattano. P. 84 – una dinamica
in cui il subordinato si confessa con il suo superiore al punto da piangere e ne ricava un anticipo sul racconto che avrebbe dovuto
scrivere, che forse non avrebbe mai scritto. Il capo è mosso a compassione. I rapporti ancora non sono spersonalizzati.
In modo simile, ne “Il correttore” (p. 173).

Il lavoro è presentato in modo simile anche quando non si tratta di editoria ma delle prime industrie (arrivate a fine ‘800 a MI).
Queste ancora non dominano il panorama della città come negli anni ’50-’60, però Carlo (Di Carlo e Teresa) è figlio di operai ed è
stato lui stesso operaio (prima di essere fattorino), l’immagine che ci restituisce della fabbrica non è quella di anonimità e
disumanizzazione, bensì nostalgia per l’officina. Lui era operaio metalmeccanico. Infatti a p. 63 – tanto è intensa la nostalgia della
fabbrica, che a p. 65 si legge che una domenica, nel momento libero, passa affianco alla fabbrica e gli viene voglia di accarezzare la
fabbrica.
Siamo dunque in un contesto di idealizzazione del lavoro. Già negli anni ’30, quando Carlo lavorava in fabbrica non è che ci fosse un
ambiente troppo accondiscendente nei confronti degli operai, allo stesso modo l’editoria che M incontra di certo non era nella sua
dimensione industriale come nel boom economico, ma dobbiamo tararci sul fatto che M restituisce tutto sommato un’immagine
idealizzata del lavoro a MI.

L’oro di NA.
Carlo e Teresa e l’IO narrante insieme fanno la parte portante del libro anche sul piano quantitativo. Carlo e Teresa e l’IO sono
fratellati non solo per la loro dedizione al mondo del lavoro, ma anche dell’atteggiamento con cui affrontano la loro lotta quotidiana
contro le loro forti ristrettezze economiche e tutte le difficoltà nella loro vita lavorativa (in realtà lavorano tanto). L’IO narrante
protagonista si scontra contro le ristrettezze che incontra un immigrato del sud, mentre Carlo e Teresa sono una giovane coppia
nell’immediato dopoguerra che hanno grossi problemi, non hanno quasi da mangiare. Anche questo accomuna quei tre: necessità
spesso di digiunare perché spesso non hanno i soldi per comprarsi qualcosa da mangiare.
Ecco, l’oro di Napoli. Ad accumularli (ma un po’ tutti i personaggi di M) di fronte alle difficoltà anche grandi non si scoraggiano mai.
La difficoltà non diventa mai nevrosi, alienazione, problematicità psico-fisica. Le difficoltà non sono mai un vicolo cieco esistenziale
di angoscia dal quale non riescono ad uscire – li affrontano invece con eccezionale umiltà, intendendole come delle fatalità che
potrebbero capitare a chiunque, ma senza scivolare nel vittimismo. La affrontano con quella parola che è resilienza = capacità di
restituire una reazione positiva ad un urto subito (parola che viene dall’ingegneria). Potremmo dire che i suoi personaggi si piegano
umilmente ma non si spezzano, resistono; e nemmeno scendono in una condizione angosciosa. Provano tanto dolore ma non
cadono nel rovello della depressione, si pensi come Carlo continui a godere (forte mente) con animo leggero delle piccole e buone
cose che gli capitano quotidianamente della vita (lui che si rade e si gode l’alba in solitudine).
Si pensi anche all’ironia: “1927” autoironia con la quale sono presentate le difficoltà del protagonista e di Michele.
Sempre Carlo e Teresa, anche quando si scontrano con delle difficoltà verso le quali non possono fare niente (vedi paragrafo
“fioretto”), Carlo si ammala di polmonite, un medico lo visita, comprano il minimo di medicine e lui è in pericolo di vita. Con grande
resilienza Teresa si affida ai santi, va in Chiesa e fa due fioretti (quali?) e piangendo ma senza mai perdendo la speranza si affida alla
benevolenza del santo.
O ancora in “Piazza Duomo” il narratore racconta di come lui, approdando a MI, si era affidato ad una guglia del Duomo. Guglia =
santo.
Lascia in eredità idealmente questa guglia ad un altro immigrato, che invita ad affidarsi a questo Santo così che il Cielo possa aiutarlo
nel suo trovare un posto nella MI in questo caso degli anni ’20-’30.
Quindi tutto quanto, nei momenti di peggiore disperazione, affidandosi ad una religiosità popolana ingenua, quasi credulona.
Questo è uno dei segreti e fili rossi che lega questi personaggi = la capacità di trovare una soluzione anche quando una soluzione
sembra non esserci. Ma di più, è la capacità di non perdersi mai in ogni caso d’animo.
Questi personaggi hanno una specie di ancestrale modestia, che non conosce le inquietudini e le ossessioni della modernità
metropolitana arrivata dopo poco. Sono personaggi che non conoscono gli antidepressivi, non vanno dall’analista; dentro di sé, in
questa sanità popolare che li abita inevitabilmente sembrano avere tutte le risorse per risolvere/affrontare/sopportare le difficoltà.
E’ un dono molto prezioso che M nel suo primo libro di successo del 1947 aveva definito l’oro di Napoli, talmente importante da
essere il titolo del libro. Lui definisce l’oro odi NA, che appartiene al popolo, una remota, ereditaria, intelligente, superiore pazienza.
Questa pazienza non appartiene solo ai napoletani ma anche ai milanesi, perché trasloca dal libro del ’47 a quello del ’49 senza
grandi difficoltà.

Però questo atteggiamento non sta solo nella bocca e negli atteggiamenti dei personaggi ma è talmente importante nel bilancio
complessivo, che è un atteggiamento che il narratore stesso tende ad enfatizzare. Quindi non lo vediamo solo nei comportamenti e
parole, come esemplificato fino ad ora, ma è il narratore stesso che con i suoi interventi getta una luce non troppo scura su quello
che sta avvenendo. Anche se quello che sta avvenendo per lo più è al limite della tragedia e umiliazione. Umiliante e difficoltoso è il
lavoro che trova Carlo quando, perso il lavoro in fabbrica, non ha ancora trovato una nuova stabilità come fattorino in Piazza
Duomo. A pag. 43 – descritto il momento nel quale trova lavoro come uomo-sandwich. Quindi fa avanti e indietro lungo Corso
Vittorio Emanuele con addosso un doppio manifesto (uno avanti e uno dietro) in cui si manifesta questo dentifricio Papp. Qui il
narratore è esterno, intrusivo ed onnisciente e commenta, aumentato la tragicità (p.43) – il tono parla della guerra) tende al tragico
però si passa dal tragico al sarcasmo che subito si trasforma in ironia che fa inevitabilmente sorridere il lettore. Però poi si scende
verso il comico vero e proprio – p.44 – scena degli adulteri- anche qui si muove da una situazione un po’ tragica ma il narratore
restituisce la vicenda con un tono ironico che fa passare il lettore da una condizione di tristezza ad una di piena ilarità: quindi non
solo i personaggi sono in grado con la resilienza di affrontare tutte le situazioni senza perdersi d’animo, ma lo stesso narratore
enfatizza questa dinamica di fatto facendola propria e guardando le loro vicende con uno sguardo che sorride e fa sorridere.
M tende dunque ad isolare ed amplificare quel che c’è di ironico, o di tenero, compassionevole nella quotidianità e predilige la
scoperta di minime gioie nella quotidianità che lui, a p. 122, chiama “le mille futilissime ragioni di contentezza” -. L’oro di NA (nei
personaggi e nel narratore) sembra avere come bussola le mille futilissime ragioni di contentezza che stanno lì a bilanciare la
quotidianità tragica di questi personaggi popolari (condizione non di benessere diffuso a MI), non spariscono mai dall’orizzonte
mentale e psicologico dei personaggi. “Maggio da noi” è proprio un racconto con cui si guarda la città e la vita con uno sguardo
irrimediabilmente soddisfatto e sorridente.

I personaggi vogliono bene alla vita, anche se il contrario forse non è sempre così.

Così questo libro esibisce questo nucleo minimale che è un’istintiva e genuina gaiezza che sta un po’ ovunque nel libro.
Da qui noi possiamo ricavare un’indicazione per stare dentro la realtà di oggi/nevrosi metropolitane, facendo proprio l’oro di NA =
orizzonte non solo buio, sì pieno di difficoltà e cupo quindi ma sempre punteggiato di qualche luce colorata (gaiezza).

L’eccezione di Gianna.
In un’interpretazione di ambito critico-letterario ci sono delle eccezioni.
Gianna è un momento nel quale nel libro vince lo sconforto. E’ un racconto amarissimo nel quale emerge una diffidenza (narratore
esterno molto intrusivo). Emerge una potente diffidenza nei confronti della modernità consumista che l’industria editoriale nascente
stava proponendo. Ed è un unicuum nel libro.
Qui umiltà, speranza ed ironia non sembrano valere come antidoti contro la fatica di vivere.
Gianna, contro la difficoltà getta la spugna, non mette in campo la resilienza e si butta.
Perché? Gianna viene denunciata perché ha rubato un giornale in cui c’erano molti racconti che a lei piaceva leggere (dove le
protagoniste erano giovani donne, con le quali lei si identificava, arrivavano a raggiungere lusso e ricchezza grazie al matrimonio con
un bel e ricco uomo che le portava dentro il mondo di privilegio). Ironia della sorte vuole che lei sia una delle operaie che lavora
proprio a questi giornali, si limita ad impacchettare i gruppi delle riviste che poi sarebbero stati portati nelle edicole. Ma lei, che non
può permetterseli ma le vuole leggere perché le fanno tanto bene – funzione compensativa, leggendo le vicende meravigliose di
amore e ricchezza riesce a sopportare la propria condizione-. Viene scoperta a rubarne uno, chiamata a colloquio con il capo della
fabbrica e viene licenziata. P. 182 – non è male il modo in cui viene restituita l’immagine del suo lancio dalla fabbrica, dal pov suo
infatti lei non va giù, ma sono gli oggetti che sono sotto che le vanno incontro.
Fin qui tutto cupo.
In verità nemmeno questa volta M rinuncia al soffio vitalistico che percorre il libro, perché il suicidio di Gianna, al quale pure si arriva
dalla tragedia (un po’ come fa sempre M – Carlo o il suo alter-ego che non hanno da mangiare, C che fa l’uomo sandwich), quindi il
licenziamento e il suicidio, però questo suicidio viene spogliato di ogni crudezza – questa volta però non interviene l’ironia, non
sarebbe stato possibile – che in ogni caso viene meno perché il suicidio si sublima nel miracolo di un volo, di un suicidio incompiuto.
Questo volo contro il suicidio che di fatto sembra non compiersi offre a Gianna un potere sterminato su quell’impietoso padrone che
l’aveva condannata al licenziamento. La vera vittoria è la sua, perché il padrone è condannato ad una lunghissima morte e al
riacquisto solo dopo la propria di morte, di un poco di serenità. P. 183 – resta chiaro che la vicenda è cupa e tremenda, ma siamo
sempre nel miracolo ed esito positivo di una storia tragica. Per M il lieto fine è imprescindibile, anche qui si arriva sul punto della
tragedia (come sempre) e poi si trovano soldi, cibo etc ed in questo caso, nel caso del suicidio che non conosce altra soluzione, un
miracolo fa sì che il suicidio non si compia e che ci sia invece una vendetta retroattiva su chi in fondo quel suicidio ha causato
licenziando la ragazza per nulla.

M dunque non ce la fa a narrare la tragedia fino in fondo, anche nel racconto più cupo ci porta sull’abisso della tragedia e poi basta,
il suicidio si trasforma in un volo, e questo nella possibilità che Gianna abbia un potere molto più grande di quello che il
commendatore ha avuto su di lei.
Quindi anche qua non è gaiezza come negli altri pezzi, ma è il miracolo – quando non ci sono altre soluzioni (come quando Teresa si
rifà ai Santi), la tragedia viene spogliata di tragicità. Il suicidio finisce più in tristezza che in suicidio, e M si preoccupa di mettere una
sorta di lieto fine perfino qua. Mentre la letteratura del ‘900 quasi non lo vede affatto un lieto fine, sembra quasi vietato. La stessa
realtà della vita – non sempre c’è la giustizia, anzi spesso la vita è un contesto in cui semplicemente la giustizia non si da. M sembra
voler programmaticamente ignorare questa verità e sembra sempre condire di dolcezza l’intenerimento dello sguardo narrativo i
racconti.

slide successiva.
Lasciamo l’ambito dei significati espliciti e passiamo ad un’analisi più fine che guarda il livello più profondo.

Indipendentemente dalla tipologia narrativa (n. interno od esterno) questi racconti in fin dei conti sono tutti narrati da una stessa
voce: pacata, capace di ironia e dotata di una sensibilità di leggere tra le pieghe dei gesti e pensieri dei personaggi. Se pensiamo a
Gianna c’è una capacità di entrare dentro i suoi pensieri ed emozioni. Quindi un narratore onnisciente che sa restituire con
precisione le pieghe dei pensieri e delle emozioni dei personaggi.

Ed è una voce che combina descrizioni severamente realistiche a spunti bizzarri e fantasiosi (questo nuovo – ci astriamo dal singolo
pezzo per un discorso non sulla singola trama sul come lavora M per produrre la trama – passiamo dalla superficie del testo
all’officina del testo).
Primo elemento = serietà e realismo si mescolano a fantasia e bizzarria, veniamo alla questione fra neorealismo e realismo magico.
Neorealismo = corrente cinematografica del ’43 (film di Visconti “senso”, chiamato in causa come il 1° prodotto del neorealismo). Si
diffonde nella narrativa italiana dal ’45 al ’55.
Realismo = estero. Gabriel Garcìa Marquèz come emblema, suo massimo rappresentante. Qui è Massimo Bontempelli (autore della
“vita operosa”). Primo Novecento.
Cosa succede?
Da una parte e ci riferiamo al versante neorealistico che quindi deve interessare i testi che sono stati scritti dopo la guerra, i pochi
testi successivi al ’45 (Carlo e Teresa, Gianna).
Siamo fronte una scrittura che possiede fieri intenti realistici ma sulla quale agisce un potente filtro fantastico. Cosa succede?
Oscillazione fra neorealismo e realismo magico.
Cosa c’è di neorealista nei testi del libro? Nei testi in cui vediamo dei rappresentanti del popolo agire (quindi quasi tutti i testi) – il
neorealismo tende ad avere come protagonista della narrativa il popolo in difficoltà -. Un popolo che possiede però l’oro di NA. A
altra caratteristica propria del popolo è la sua correttezza morale – popolo moralmente corretto-. Cioè? Ad esempio Carlo dice
spesso “anche oggi sono riuscito a non rubare” e Teresa pensa spesso “anche oggi sono riuscita a non ricavare denaro vendendo il
mio corpo a qualche uomo”.
Ma sempre Carlo si presenta come molto corretto: quando prende botte per difendere il ladro della sua propria bici.
Sempre in Carlo e Teresa abbiamo una rappresentazione della borghesia milanese, quando Carlo svolge il suo lavoro in piazza
Duomo, la classe alta è rappresentata come corrotta, il lavoro che gli da 500lire sull’unghia è quello dell’amante donna che ricatta il
suo uomo. Sulla scrivania di quest’uomo ricattato c’è una figura che rappresenta una donna nuda – il particolare gratuito molto
interessante per il lettore che crea un clima di corruzione morale. Quest’uomo tradisce la moglie, si fa corrompere e per di più ha
questa statuetta.
Altra caratteristica del popolo così rappresentato è l’ingenua religiosità. Ci si affida molto volentieri ai santi, un popolo non colto e
scolarizzato che assorbe questa tradizione religiosa e la esercita in relazione a quell’oro di NA (amuleto contro il dolore) che si
declina anche in una capacità di affidarsi all’aldilà con speranza.
Ovvio è che molto neorealistico (e questo è il furto della cosa) è la precisione rappresentativa che M ci presenta nei suoi testi. E’
molto preciso, le vie sono precisamente nominate – topografia esatta-. Quindi grande precisione che ci fa dire che appartiene in
alcuni suoi testi al neorealismo.
L’autore/narratore ha una forte capacità empatica – è affianco a loro a guidarli e consolarli – anche questo è neorealistico. Popolo
empaticamente raffigurato.

E’ più interessante l’altro versante. Il neorealismo resta su un piano piuttosto superficiale.


Come si declina il realismo magico in M e che cos’è? Buzzati, Bontempelli sono tutti autori di testi che da una parte hanno
caratteristiche realiste in cui questa realità è spesso attraversata da momenti potentemente irrealistici perché è una realtà abitata
da eventi che si rifanno alla magia, al miracolo, all’evento evidentemente appartenente ad una dimensione diversa. Da una parte il
realismo magico dunque propone una rappresentazione realistica del reale e dall’altra parte lo immaginiamo come una
rappresentazione in cui ogni elemento del reale sembra contenere qualcosa che va oltre proprio nei termini della fantasia che
supera la realtà. Quindi in questa realtà succedono cose che possono accadere solo in un mondo fantastico, non più a dominante
realistica ma fantastica.

Quindi da una parte un neorealismo in cui c’è solo una realtà declinata in termini populistici in cui il popolo è protagonista, è umile,
paziente, moralmente corretto ed empaticamente rappresentato; dall’altra parte abbiamo una realtà (i testi più numerosi) nel quale
dietro la realtà succede qualcosa che non appartiene alla realtà oggettiva.

Come si declina questa magia nei testi di M?


Il primo elemento è quello delle personificazioni – figura retorica per la quale un oggetto inanimato viene trattato come se fosse
animato. Nel libro qui tutto viene trattato come se fosse umanizzato (eventi naturali, elementi del paesaggio, MI). P. 104 – “il vento
ammoniva le pianticelle di basilico”, il vento non ammonisce, muove. p. 78 – persino un concetto astratto come la fame è un
personaggio animato.
Tutto, in questo bizzarro animismo di M vive, soffre, gioisce e agisce come fosse essere umano.
Anche così la scrittura di M porta un’aurea di magia dentro il reale.

I miracoli.
Quest’aurea magica di personificazione tende qui ad assumere una funzione consolatoria. Perché?
La negatività del reale è sempre rappresentata, sono tutti personaggi che stanno cercando di ritagliarsi un posto nel mondo e fanno
una potente fatica.
Però interviene sempre l’elemento non realistico per eccellenza che è appunto il miracolo. Le campane di San fedele stanno all’inizio
del libro (prefazione) e il fatto del suono in grado di scaldare quasi realmente il corpo del protagonista e le emozioni di tutti, questo
è un miracolo.
O a come la difficoltà di Michele e alter-ego di M viene superata con il ritrovamento delle lire per terra.
O la polmonite di Carlo – Sant’Antonio fa il miracolo e anche senza medicine lo guarisce.

Sembra quindi di poter dire che questi miracoli ci portano ad intuire che i racconti di M hanno una struttura che assomiglia a quella
della fiaba. Perché? Perché noi ci troviamo personaggi sempre chiamati a superare prove molto ardue, proprio come i personaggi
delle fiabe. Vediamo personaggi addirittura che non mangiano, proprio come i personaggi delle fiabe poi arrivano al lieto fine che
sublima le difficoltà che hanno dovuto affrontare.
Cosa agisce? Una certa estremizzazione delle peripezie: il non mangiare, aneddoti iperbolici che stanno ovunque = p. 30 si racconta
del bombardamento di NA della 1WW fatto con palloni aerostatici – la storia del soldato. Vediamo l’estremizzazione, l’aneddoto
iperbolico: il soldato che ha rischiato la vita per mesi è l’unico a morire in un bombardamento in cui cade dai tedeschi una bomba, la
moglie è illesa. Oppure a p. 86 – il nero mosso era una massa di scarafaggi, e lui deve farli sparire per poter dormire. Questa è
proprio un’esagerazione, iperbole, difficilmente si può immaginare questa situazione realisticamente.
Quindi ci troviamo di fronte a prove estreme o estremizzate, vi è molta difficoltà da parte del personaggio e poi c’è la risoluzione
positiva. Questa è una struttura entrata anche nel cinema hollywoodiano – come i film di Rocky (personaggio umile, si allena
veramente tanto, sta per perdere e poi trova miracolosamente la forza interna per vincere l’incontro).
La struttura fiabesca è proprio questa.

Tra personificazione e miracolo non c’è un passaggio diretto – è una realtà per un lato realisticamente rappresentata e per l’altro
dove succedono cose che non ci si aspetterebbe capitino in una realtà oggettivamente rappresentata. Fra le cose che succedono che
non ci si aspetterebbe, è che tutto quanto è umanizzato, M tende ad attribuire parole rivolte di solito agli esseri umani per riferirsi o
descrivere le azioni di cose inanimate.
Quindi primo elemento magico = tutto è umanizzato. In un testo neorealista queste cose non si trovano.
Per questo questi racconti stanno un po’ in mezzo.

Ovvio è che lo strumento perché questa struttura si dia è l’estremizzazione delle difficoltà.
E quindi ora possiamo fare un ulteriore passo e chiederci, che idea della vita emerge da questi racconti? Che visione del mondo ci
propone?
L’immagine della vita data è definibile “enfatica”. E’ l’enfasi l’elemento chiave della rappresentazione della vita secondo M. Perché?
perché tutto è estremizzato – momenti di dolore e di felicità, la tragedia e l’idillio. Vita come ottovolante (montagne russe) = oggetto
che fa su e giù ripetutamente. Attraverso l’enfatizzazione dell’idillio e tragedia (due estremi) viene restituita un’idea semplificatoria
della vita abitata da questi estremi, tutto un su è giù. Mentre spesso la vita sta fra questi due poli, occupa lo spazio tra questi due
estremi. M si muove in continuazione fra questi due ignorando ciò che c’è in mezzo – quello che probabilmente la vita è realmente
(noia, quotidianità etc). M ama il passaggio con un lungo salto.

Quindi lui enfatizza gli estremi dell’esistenza – p. 97 = in 6 righe c’è tanto di quello che abbiamo detto: 3 estremizzazioni (1. i
migranti parlano di questa seconda nascita, 2. le madri soffrono dolori come il parto, 3. cosa offre MI? Lavoro e fortuna, oppure il
contrario). Il punto 3 vede proprio una base: esiste solo la fortuna o il suo contrario. E per sovrammercato c’è anche una
personificazione: le madri stanno nei paesi d’origine che sono sdraiati o in ginocchio.
Questo è tutto l’elemento di realismo magico: attraverso una dinamica di enfatizzazione delle emozioni qui si arriva ad avere come
elemento chiave quello della vita che si muove tra gli estremi della sofferenza o della gioia.

Passiamo, attraverso l’enfasi, ad una descrizione della lingua.


L’enfasi è il punto di contatto tra la visione del mondo di M e come questa concezione della realtà è veicolata. In letteratura si
veicola attraverso la lingua, lo stile – questo lo strumento espressivo. E la critica letteraria funziona bene quando riesce a stringere in
un’unica definizione/interpretazione sia l’interpretazione della visione del mondo dell’autore, sia la strumentazione linguistica che
l’autore usa per veicolare la visione del mondo.
Quindi, facendo il percorso contrario, se io ho preso l’enfasi come elemento chiave della rappresentazione della realtà di M, (enfasi
con i significati dati: miracolistica, di personificazione, emotiva) allora mi devo chiedere se trova un corrispettivo anche sul piano
espressivo. Cioè, non solo il mondo rappresentato di M è enfatico, ma anche la sua scrittura è enfatica? Sì.
L’enfasi agisce sul piano stilistico e linguistico non tanto sul piano della sintassi (che è piana, costruita su frasi brevi, lineare, quasi
paratattica e non ipotattica. Paratattica = tutti gli elementi sullo stesso livello, quindi coordinate).
La paratassi tende a procedere per accumulo di addendi: tante frasi messe una affianco all’altra. Osserviamo che la sintassi di M se è
enfatica, lo è sul piano di accumulo di elementi.

Su questa base di accumulo di addendi c’è il tratto più enfatico della sua scrittura, quello lessicale.
Cosa troviamo nel lessico di M? Anche questo lessico, proprio come la sintassi, tende ad assumere la forma di addendi che si
mettono l’uno affianco all’altro. Sia la sintassi che il lessico tendono ad affiancarsi l’una all’altra. La figura di riferimento per questo
tipo di scrittura è l’elenco.
Scrittura elencativa. Frasi che si affiancano e parole che si giustappongono.
Ci sono testimonianze ovunque nel libro.
Es. di p. 124 “poesia o cronaca o romanzaccio o matrimonio” – sintassi semplice, elementi che si sommano. E’ un tentativo di
reiterata messa a fuoco delle immagini.
M con queste serie di sostantivi e aggettivi vuole mettere sempre meglio a fuoco le immagini. E0 questa una definizione non
univoca, ma la somma di varie definizioni, come quando mettendo a fuoco si cercano vari momenti in cui si arriva alla definizione a
fuoco di ciò che vogliamo cercare con vari spostamenti dell’obiettivo.
p. 145 – (testo da non leggere) la sintassi c’è (ci sono molte frasi giustapposte e la ripetizione del verbo “c’è”). Ma c’è anche una
proliferazione di sostantivi e il lessico che si espande in serie catalogative.
Vela anche per l’attributo – risorsa essenziale per gli scrittori descrittivi. Sono frequenti le iterazioni aggettivali (somma di aggettivi),
p. 38.
P 174 – su un unico personaggio sono stati dati 7 aggettivi, rarissimo. Ma M prolifera ed ecco l’enfasi anche sul piano della scrittura,
in che termini la visione del mondo enfatica diventa stile? Il mondo di M è enfatico anche sul piano strettamente rappresentativo, la
sua lingua enfatizza la presenza di sostantivi, attributi e strutture frasali perché tende ad accumulare enfaticamente addendi per
enfatizzare la realtà che vuole descrivere.
Un elemento che aumenta l’orizzontalità della scrittura (non troppo difficile), una figura retorica che calza a pennello questo stile di
scrittura è la similitudine: confronta un pezzo di realtà con un altro pezzo di realtà. E’ una figura che potremmo definire orizzontale:
questo come quello. Anche qui di questa ne troviamo esempi ovunque. p. 139, p. 140.
Quando gli aggettivi non bastano tira fuori la similitudine – che alla fine ha sempre uno scopo descrittivo.
E’ tutto un ingrassamento orizzontale.

Quindi da una parte siamo alle prese con una scrittura che ostenta il proprio attaccamento al reale e alle sue minime umili
sfaccettature, che possiede schietti intenti realistici. Dall’altra parte tutto è filtrato dall’intenerimento dello sguardo, tendenza
descrittiva che è una tendenza che tende a ingrossare la scrittura e a proporre dei quadri molto enfatizzati. Quindi la scrittura di M
da un lato è semplice, ma dall’altro si presenta molto ingolfata di elementi.

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