Sei sulla pagina 1di 3

Uscire sulla strada, ovvero Tre piani di Nanni Moretti

La presentazione d’un film da parte del suo regista certamente aggiunge delle chiavi interpretative
chiarificatrici alla successiva visione e lettura del medesimo. È stato questo, per me, il caso di Tre piani di
Nanni Moretti, che ho avuto modo di vedere qualche sera fa al cinema Trianon di Roma; la visione del
film è stata infatti preceduta da circa un quarto d’ora di simpatica chiacchierata del regista stesso.

Incontrare, oggi, in quel luogo – il cinema Trianon di Roma, dove circa cinquant’anni fa Giorgio Gaber
teneva i suoi spettacoli teatrali romani – uno dei maggiori autori del cinema d'idee della
contemporaneità, non solo italiana, ritengo che ad alcuni spettatori come me possa dare un senso di
continuità storica – intellettuale e culturale – rilevante, non trascurabile e che travalica il tempo stesso.

Nel corso del pur breve incontro, Nanni ha fornito interessanti informazioni ed espresso importanti
concetti – in merito al film, ma non solo – con la propria ironia affascinando, credo, quasi tutti noi della
gremita platea (ciascuno spettatore regolarmente distanziato di un posto dal vicino, per le notorie
misure Covid). Il soggetto del film è stato ripreso dall’omonimo romanzo dello scrittore israeliano Eshkol
Nevo ma la sceneggiatura è stata ampiamente rivisitata dallo stesso Moretti nonché da Federica
Pontremoli e Valia Santella al fine di trasformare tre storie, parzialmente separate e indipendenti, in un
intreccio di vicende di personaggi che s’incontrano e, in qualche modo e misura, interagiscono.
Ascoltando tutto questo, non ho potuto fare a meno di pensare ad alcuni canoni di ciò che, negli ultimi
decenni del secolo scorso, è stato denominato postmodernismo.

Questi due elementi – l’origine del soggetto del film, nonché il mio personale ricordo di Gaber – tuttavia
da soli non basterebbero a giustificare la sensazione di benessere che la visione del film può trasmettere
allo spettatore e, nel caso specifico, ha trasmesso a me.

Ma vediamo con qualche dettaglio una serie di cose e di fatti.

Tre piani è forse uno dei film volutamente maggiormente complessi e corali di Nanni Moretti;
probabilmente anche per questo è stato indicato da alcuni denigratori come opera mal riuscita o in altri
casi, appena più generosi, confusa. A mio avviso il film non è né l'una né l'altra cosa.

Innanzitutto, come accennato in precedenza, Tre piani è un film dove si rintracciano almeno alcuni
criteri canonici del postmodernismo, essendo questi la polifonia e la multi-linearità; ma, certo,
sussistono altri aspetti di rilievo.

Come già in Mia madre, pure in questo film il regista mette quasi totalmente da parte sé stesso, dal
punto di vista attoriale, accontentandosi di un ruolo tutto sommato marginale, per lasciare il posto ad
altri interpreti. Questi sono in primis quelli femminili; ad esempio Margherita Buy conferisce, come
sempre, solida ma pur garbata interpretazione a una delle protagoniste.

Ma i personaggi sono anche altri: ad esempio c’è quello del padre ansioso e sospettoso, magnificamente
reso da Riccardo Scamarcio. E la galleria da illustrare sarebbe lunga, grazie al bravo stuolo di attori di cui
il Moretti regista – interprete viceversa sempre volutamente grottesco, freddo e didascalico – si serve. È
evidente come, ormai, nella cinematografia di Nanni siamo lontani anni luce dalle tematiche intrise di
soggettivismi, personali e generazionali o categoriali, di un personaggio come Michele Apicella, dalle pur
intense lacerazioni di Ecce Bombo o di Bianca o di Palombella rossa. Qualcuno potrà esclamare «E vedi
un po’!» Certo, son passati decenni su decenni e le età, anagrafiche e storiche, sono cambiate. Ma non è
solo questo il punto.

Come già fatto in altra epoca da Woody Allen, se Nanni sulla scena si mette quasi totalmente da parte,
non è solo per scopi attoriali ma è per dare voce, forma e spazio all'altro del proprio tempo; perché
desidera parlare di altro; rivolgersi ad altro, al di là dei personalismi e delle categorie. Pertanto sceglie
un testo originale orientato allo scopo. In tal modo viene data voce alla comunità eterogenea e
frammentata in cui si è immersi nella società post-globalizzata. Il risultato è la pretesa multi-linearità
delle storie a molteplici voci. Queste sono obbligatoriamente confuse e approssimative come la realtà o
ancor più come il possibile che si rappresenta e che si vuole raccontare. È tipico dei registi maturi – si
veda il già citato Allen ma si pensi anche all’Ettore Scola de La cena oppure a pressoché tutto il cinema di
Marco Ferreri – spostare il focus della macchina da presa sul caos e sul frammentario che li circondano.

Anche Nanni, pertanto, ispirandosi ai tre monologhi dello scrittore israeliano, compie una tale
operazione. Tuttavia, come da lui stesso spiegato, oltre a intrecciare tre storie apparentemente separate
dei condòmini di una palazzina di tre piani, effettua ciò estendendo le vicende, che nel romanzo si
svolgono hic et nunc, in un arco temporale di dieci anni, precisamente dal 2010 al 2020. In questo spazio
di tempo i protagonisti nascono, crescono, alcuni muoiono, cambiano, rivedono le proprie azioni,
mutano il proprio sentire. Il risultato è una storia davvero corale, globale e globalizzante, come la
contemporaneità pretende; tuttavia questa storia – certo anche cupa, ma non solo – non allarma o
allerta soltanto bensì, in qualche modo e misura, fa bene al cuore e alla mente.

Un agrodolce ottimistico e a lieto fine?

Ma no, perché mai?

Piuttosto, come già il Fellini di Otto e mezzo, pure Moretti oltrepassa l'antica ottica dei film senza
speranza – ad esempio quella della già citata e pur struggente Bianca – in favore del recupero d’un
qualcosa: trattasi fondamentalmente dell’aspirazione a un principio comunitario perduto. Emblematica,
in tale ottica, è una delle sequenze di chiusura: una delle protagoniste, a poca distanza dalla sua
abitazione, assiste a un ballo collettivo dove molte coppie danzano sull'onda delle note e dei ritmi d'un
liscio dal sapore vagamente romagnolo. È una delle scene pacificatrici del film. Pur in altro contesto, Il
riferimento a Fellini e al maestoso carosello della Passerella di Nino Rota, non è peregrino bensì
avvertibile.

Inoltre, analogamente ad altri Maestri, è come se anche Moretti volesse dirci che la vita è, appunto,
complessa e interdipendente. Non è poco. Quanti nessi, pur con valenze esistenziali sicuramente
differenti, ci sono con il Babel di Alejandro González Iñárritu? O con il Vivere di Francesca Archibugi?

Con questo film, come il qui tante volte citato Fellini di Otto e mezzo, anche Nanni Moretti infine ci invita
a pensare e a sentire che, malgrado tutto, la vita è una festa da vivere insieme. A differenza della sua
antica produzione, incentrata su una coscienza certo onesta quanto tuttavia solipsistica, adesso un senso
di necessaria spinta comunitaria, epocale, preme urgente tanto alle porte della propria coscienza che a
quella dello spettatore ideale di Nanni Moretti.

Come avvenuto al termine dell'incontro di presentazione di Tre piani al cinema Trianon, anche nel film il
regista si congeda da noi spettatori con l'implicito augurio di buona fortuna, l’augurio di uscire dal chiuso
di quella comoda ma certo angusta palazzina di tre piani, per recuperare il senso comunitario della
strada; di questi tempi, non appare davvero poco. Del resto, nel segno d’una continuità intellettuale e
culturale, anche il – da me, qui – già citato Giorgio Gaber quasi mezzo secolo fa cantava «C'è solo la
strada su cui puoi contare, la strada è l'unica salvezza.» È la strada su cui Nanni è già uscito e forse quella
su cui dovrebbero uscire, per interrogarsi, coloro che a torto oggi lo denigrano, essendo egli regista
quanto mai attento e attuale.

[Fabio Sommella, 10-14 ottobre 2021]

In https://www.fabiosommella.it/wp/blog/2021/10/14/uscire-sulla-strada-ovvero-tre-piani-di-nanni-
moretti/

Potrebbero piacerti anche