Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
13
L'unico film che abbiamo fatto in co-produzione con la
televisione era, prima di Mose e Aronne, V Introduzione. Non
abbiamo detto quale sarebbe stato il film, abbiamo detto vi
facciamo un film che parlerà di questo pezzo di musica di
Schonberg e basta, senza far vedere una sceneggiatura: niente,
e tenendo per noi tutti i diritti fuori della televisione; cioè
abbiamo fatto un film che loro potevano rifiutare dopo, però
che rimaneva di nostra proprietà come prodotto dei nostro
lavoro. Se lo rifiutavano, non andava in onda e noi avevamo
fatto un film... Era per i terzi canali tedeschi, in un quadro
molto limitato, un quadro musicale di una certa trasmissione
mensile e con la più piccola di tutte le stazioni tedesche, quella
di Baden Baden.
E’ andato finalmente in onda su tutti i terzi canali perché
quello di Baden Baden, dopo la resistenza dell’intendente ecc.,
lo ha digerito e Io ha difeso.
D - Tu hai parlato di una televisione di una società diver
sa, come dovrebbero essere certi prodotti televisivi...
R - Una televisione che manda in onda un film come Le
zioni di storia non il lunedì sera alle dieci e mezza...
D - Ecco... ma è solo una questione di orario o c’è anche
un aspetto che riguarda il linguaggio usato? Il film per la tv
è diverso?
R - In questo senso posso dire che ho cercato di andare
controcorrente, aumentando la concentrazione, aumentando la
possibilità di libertà dello spettatore, facendo anche una ridu
zione di quello che si potrebbe chiamare il messaggio, anche
se il messaggio non c'è; cioè andando più avanti di quello
che facevamo in altri film, praticamente andando controcor
rente; a livello della costruzione, facendo una cosa meno «dram
matica» dei film precedenti, e a livello ideologico, facendo una
cosa più semplice e ancora più chiara... andando non nel
senso di unire ma di dividere il telespettatore... non è a caso
che il film più aggressivo che abbiamo fatto, ideologicamente, è
proprio l’Introduzione. Avendo per la prima volta l’occasione
che la tv mi veniva a cercare dicendo se volevo fare un film
per loro (le altre volte eravamo sempre noi che andavamo a
cercare di convincerli, magari per uno o due anni di seguito,
14
di accettare un progetto nostro), abbiamo cercato di andare
più avanti possibile, a livello stilistico — è proprio un film
terroristico, è l’unico del quale si può dire quel che pretendeva
Moravia di altri film — e anche a livello ideologico è molto
chiaro; cioè prendendo il rischio massimo invece di prendere
il denominatore più basso o il più comune.
D - Mi pare che questa risposta sia proprio pertinente alla
domanda, che era una domanda di tipo semiologico... Un altro
avrebbe forse parlato di linguaggio televisivo in termini di
primi piani...
Adesso vorrei chiedere un’altra cosa. Che cosa pensate
della popolarità, questo concetto in nome del quale si fanno
i film di genere più diverso? Considerando che oggi molto
cinema «impegnato» punta alla popolarità nel senso del «rea
lismo» del messaggio, un realismo che va dalla storia di im
pegno civile fino alla commedia italiana di derivazione neorea
listica, si potrebbe pensare che «popolarità» debba significare
«farsi capire »dal pubblico delle comunicazioni di massa...
R - Credo che ci sia una confusione da parte di questa
gente tra popolarità e compiacimento per la borghesia, è l’unica
cosa che si può dire; son loro che ingannano se stessi e ingan
nano l'opinione pubblica parlando di popolarità quando in
realtà lavorano per la borghesia e basta. Queste commedie
italiane sono evidentemente, anche se vanno oltre e incassano
i loro soldi con un pubblico diverso, prodotti della borghesia
per la borghesia; il resto è proprio tartufismo.
D - Infatti, il vostro film più «impopolare» è YOthon...
R - Hai ragione di legare Othon alla domanda. Othon
non poteva incontrare che ostilità da parte di questa gente,
perché è proprio fondato, costruito su una espropriazione; l’o
perazione consiste nell'espropriare loro di Corneille, almeno
ad un primo livello...
D - In fondo, lo stupore è che qualcuno abbia preteso di
fare un film su Corneille per la gente che Coi-neille non lo
conosce... Vorrei farvi anche una domanda per la stampa,
come si dice; certi registi, che sono ancora convinti di fare
l’Arte, si infastidiscono molto quando gli si chiede che cosa
hanno voluto dire, che cosa significa il loro film...
15
R - Othon significa: finalmente, dopo tutti questi giochi,
dopo tutte queste contraddizioni di questi personaggi che si
distruggono l’un l’altro e che dicono una verità e poi tre fal
sità ecc., tutti questi giochi intrighi, neanche di una classe ma
di una cricca politica, il film significa finalmente spazzatemi
via tutto questo e inventate voi un potere che viene da voi
stessi, dal basso e non un potere che sia lì sul terrazzo del
Palatino in aria; cioè non rimettete i vostri destinti ad altri
ma prendeteli in mano. Questo significava Othon e loro che han
no reagito così si sentono espropriati di un bene culturale e si
sentono proprio aggrediti nella loro esistenza di classe, perché
anche se non fanno parte della cricca politica borghese, appar
tengono alla classe per la quale questa cricca fa la politica che
fa, e basta.
D - Molto spesso la critica si limita a raccontare i film, a
riassumere la trama e mentre lo fa riformula però a suo modo
il senso del film...
R - E non sanno nemmeno raccontarlo. Per quanto ri
guarda Othon, rimaniamo su Othon perché è proprio l’oggetto
della discordia, non si può raccontare la storia, praticamente
è inenarrabile, si vede o non si vede e poi fa appello ad espe
rienze che lo spettatore ha avuto o non ha avuto, esperienze
nella sua vita quotidiana politica, nella società nella quale vive,
ricatti ecc.; oppure lo spettatore non sa che cosa sono questi
rapporti e allora questa storia non significa niente per lui.
Invece, quel che si può dire è proprio quel che ho detto prima.
Othon significa chiaramente questo: vedete il film e fate questo
cammino per arrivare a questa scoperta che dovete fare un
giorno o l’altro, che sapete già ma che qui potete rifare in
maniera sensoriale e concettuale insieme.
Per il Bach ho parlato di contadini tedeschi. E sostengo
ancora che se il Bach fosse uscito in un canale diciamo com
merciale — ha dovuto aspettare un anno per uscire nei piccoli
ghetti d'arte, è andato in onda in televisione con un anno e
mezzo di ritardo, molto tardi, e soltanto dopo tre anni sul pri
mo canale a un'ora normale — avrebbe potuto funzionare mol
to bene nelle piccole città con popolazione contadina intorno,
perché era per loro ima specie di viaggio in un passato che
16
potevano scoprire, attraverso le parrucche e i costumi per an
dare oltre; un passato del quale loro sanno qualcosa ma non
la mentalità. Invece, per Othon ho parlato di operai francesi.
E’ stata un'idea che non ho avuto in modo astratto, era una
cosa intuitiva, ma era proprio questa, perché appena Rivette
ha visto il film in una proiezione privata — io non c'ero per
ché non ero amnistiato e non potevo ancora andare a Parigi
(n.d.r.: Straub non aveva voluto, al tempo dell’Algeria, pre
stare servizio militare nell’esercito francese ) — ha detto a
uno, che me l’ha raccontato, che vedeva Othon proprio come
ima lettera aperta di un francese, da fuori, al potere, cioè a
Pompidou.
Se vuoi, Othon fa vedere ai francesi una galleria di Pom
pidou a tutti i livelli: Pompidou capo di stato, Pompidou pre
tore, Pompidou senatore, ecc. Lo stesso Rivette, che proprio
non è ossessionato dalla politica (si potrebbe dire piuttosto il
contrario), ha visto subito Othon, alla prima visione, come un
film leninista, per l’operazione culturale di prendere Corneille
e proporlo a gente che non lo conosceva, che non aveva fatto
lo studio classico francese. Non a caso abbiamo dedicato il
film, oltre che a Moravia e alla Betti, senza i quali non avrem
mo mai avuto il permesso di girare sul Palatino (ci era stato
rifiutato già tre volte), «al gran numero di quelli che non hanno
mai avuto il privilegio di fare conoscenza con l’opera di Cor
neille».
D - Ciascun film per il suo pubblico, dunque...
R - Non avrei mai fatto un film come V Introduzione per
un pubblico come si dice, anzi come si poteva dire ancora dieci
anni fà (adesso non esiste più, perché l’industria ha distrutto
anche questo), per un pubblico che va al cinema. Introduzione
è un film fatto proprio per colpire in un mezzo di comunica
zione di massa come la televisione, che per me è una mostruo
sità — non come tale, ma per come è usata, e forse anche come
tale, però c’è e non possiamo cancellarla —. Proprio avendo per
la prima volta l’occasione di un ordinativo, diciamo, abbiamo
cercato di andare più avanti possibile, sia a livello del terro
rismo estetico sia del messaggio politico; e abbiamo detto
anche a loro: il film lo giriamo fuori, in Italia, e sarà il nostro
17
stabilimento, perché ci hanno anche proposto di sviluppare
loro il negativo: abbiamo detto no, il negativo lo teniamo noi,
andiamo allo stabilimento Luciano Vittori dove abbiamo i no
stri negativi dei film girati in Italia, cioè Othon e Lezioni di
Storia; e questo negativo è proprietà nostra, rimane in Italia
e basta; a voi consegnamo, secondo il contratto, due copie
col nastro magnetico perforato. Questo significava, natural
mente, che noi pagavamo lo stabilimento. Ma volevo anche
un’altra cosa, e cioè mettere dentro al film il loro apparecchio
tecnico. Volevo assolutamente, senza dire a loro cosa si regi
strava lì, registrare sia gli estratti delle due lettere di Schon
berg sia l’estratto del testo di Brecht dentro uno studio della
televisione di Baden Baden, che era il canale che aveva ordi
nato il film. Pensavo che, alla fine, se loro rifiutavano il film,
il film comunque era un film prodotto davanti a uno schermo
di uno studio televisivo, con una parete di vetro di uno studio di
sonorizzazione della televisione, con un fonico della televisione
e con un operatore della televisione, una macchina da presa
della televisione. Invece, il resto, le parti a colori, l’introdu
zione mia, la fontana all’inizio e i documenti, sono stati girati
con lo stesso operatore e lo stesso fonico di Lezioni di Storia;
ma volevo avere tutti questi pezzi in bianco c nero girati
proprio con i loro mezzi tecnici, per comprometterli. E alla
fine, se loro rifiutavano il film io dicevo: avete rifiutato un
film girato nei vostri muri, con la vostra tecnica almeno per
più della metà; e potevo andare in giro col film.
D - C'è poi quest’ultima inquadratura, con quell’aereo...
R - Non è l’ultima, perché dopo c’è il giornale, dove dicono
che hanno riconosciuto non colpevoli i due architetti che ave
vano disegnato i crematori; è la penultima...
D - Sì, quella con l’aereo...
R - Son due aerei. C’è l’ultimo pezzo, che finisce con una
carrellata dall'alto sulla campagna vietnamita, dove si vede
l’ombra di un aereo che passa, poi si va indietro e si arriva
in un fumo che è un fumo di napalm. L’ombra è l'ombra di un
aereo da caccia; prima c'è un altro aereo che è un B-52, un bom
bardiere. Tra i due c’è un pezzettino di nero: abbiamo fatto ve
dere le bombe, poi il pezzettino di nero e subito arriva l’aereo
18
da caccia e la terra (con l’ombra di un altro aereo da caccia)
e il napalm che brucia.
D • Volevo sapere da dove venivano queste immagini.
R - Da un materiale televisivo di Colonia, però americano.
Abbiamo scelto quei pezzetti tra migliaia di metri, in cui tutto
era annegato. Questa sequenza è stato un cattivo sogno, l'ab
biamo montata indipendentemente dal film un anno prima.
19
AUTOBIOGRAFIA
21
Can Can e Eléna et les hommes di Renoir, Le coup du berger
di Rivette, Un condamné à mort s’est échappé di Bresson, Une
vie di Astruc. Dal 1958 sono passato in Germania. All’inizio
due anni di viaggi sulle tracce di Giovanni Sebastiano Bach.
(«Filmcritica», n. 204-205. 1970).
22
DICHIARAZIONI DI POETICA
Non riconciliati
23
Noja riconciliati è il film (...) in cui la Storia, tutto quello
che è successo dal 1900 al 1945 in Germania, e poi dopo, è
il contrario di una fatalità. Non riconciliati è un film a livello
delle piccole responsabilità di una famiglia borghese; sul fatto
che la fatalità non esiste perché siamo tutti responsabili.
24
Lettera aperta al direttore del Festival di Berlino
28 giugno 1968
25
L’amore per Bach
27
quale punto ho bisogno di una superficie piana — e quindi non
ho scelto una musica che avrebbe potuto mettere tale super
ficie piana, necessaria in quel momento, in pericolo. L’adegua
mento tra il brano di musica scelto e il ritmo del film dev'es
sere in ogni istante totale nella costruzione. Al di fuori di ciò,
so, certo, di poter collegare direttamente un certo brano di
musica con un altro e che in qualche altro punto c’è bisogno
di una lacuna, di una sequenza senza musica, di un «punto di
vita» diciamo, che soltanto allora siamo andati a cercare nella
vita di Bach.
29
degli ultimi personaggi della storia della cultura tedesca nel
quale non c'è ancora separazione tra artista e intellettuale, per
così dire; non c'è traccia in lui di romanticismo — si sa ciò che
in parte è venuto fuori dal romanticismo tedesco; non c'è in lui
la minima separazione tra l'intelligenza, l'arte e la vita, e nep
pure alcun conflitto tra la musica «profana» e quella «sacra»,
in lui tutto era sullo stesso piano. Per me Bach è il contrario
di Goethe.
30
La scoperta di Brecht
31
dratura, ma si avverte anche nei suoi rapporti con i produt
tori: è il solo che riuscì a fare una super-produzione che non
fosse anche un super-prodotto. Der Tiger von Eschnapur e Das
indisce Grabùal sono i soli film che siano delle superproduzioni
senza essere dei superprodotti. (...) Lang in quel momento lì
fece un atto di destrezza che è, diciamo, un regalo in oro per
la gente, senza che sia un vitello d'oro. E' questo che è forte.
Tutti gli altri avrebbero fatto un vitello d’oro. Il produttore
aveva ben l'intenzione di fare un vitello d'oro. Lang ha fatto
un film.
32
Contro la pornografia
33
non sono mai un regalo per lo spettatore, ma un regalo per
chi li fa e li produce: un profitto. Sono film disonesti che im
pongono, con la violenza, dei sentimenti che non hanno più
nulla a che fare con la reatlà e la vita quotidiana. (...) Gli
spazi che tentiamo di usare (non voglio dire sfruttare, non
credo che si abbia il diritto di dire: vogliamo sfruttare uno
spazio) sono soprattutto i pochi spazi che lasciano le televi
sioni. Non abbiamo invece la minima possibilità, né la minima
voglia, di inserirci nell'industria della distribuzone. (...) Non
ha senso, se hai in mente di fare un film sulla cultura contadina,
farlo accettando un Mastroianni per la parte di un contadino
italiano. (...) Noi lavoriamo fuori da quel mondo perché è
un mondo marcio. Trovo anormale, immorale, mostruoso e
assurdo fare un film dove non sei libero di avere il tempo ne
cessario per lavorare con scrupolo: dove non hai la possibilità
di scegliere le cose giuste; dove non puoi pagare te stesso e
gli altri normalmente, con cifre che già di per sé sono molto
superiori a quelle che si pagano a normali operai; dove sei
costretto a pagare Marion Brando o Tonino Delti Colli con
cifre che vanno alle stelle.
HUILLET — Mosè e Aronne è un film costoso che nessun
produttore di cinema avrebbe accettato di realizzare. Il finan
ziamento del film lo abbiamo costruito con pazienza e fatica,
in questo modo: una piccola parte dalla televisione francese,
una dal settore sperimentale della televisione italiana, circa
metà dai terzi canali della televisione tedesca e un apporto,
non in denaro della televisione austriaca che corrisponde a una
cifra enorme perché copre le spese di registrazione a Vienna
(sei settimane), il coro (66 persone) e l'orchestra (100 musi
cisti). Il film è costato 180 milioni liquidi. Se si aggiunge l'ap
porto degli austriaci, si arriva a 350 milioni.
STRAUB — La cifra è contenuta perché non ci sono gli
stipendi che si pagano ai divi. Tutto il denaro è servito al film.
34
Il direttore d'orchestra, per sei settimane a Vienna, quattro
settimane in Abruzzo e una settimana per il missaggio, ha
avuto sette milioni e mezzo. Tutti i tecnici erano pagati a tarif
fa sindacale. (...) Prodotto secondo i metodi del cinema indu
striale, Mosè e Aronne sarebbe costato più di mezzo miliardo,
se si conta lo stipendio del montatore (il film lo montiamo noi)
e quello del regista, sia pure di un regista-lavoratore e non di
un regista-diva.
35
Perché la «presa diretta»
36
blocchi che hanno una certa lunghezza e che non puoi sfor
biciare a piacimento, alla ricerca di effetti.
HUILLET — E’ proprio l'impossibilità di ingannare al
montaggio che scoraggia l’uso della presa diretta. Non puoi
montare come con i film doppiati: ogni immagine ha un suono,
e sei obbligato a rispettarlo. Anche quando l’inquadratura si
svuota, quando il personaggio esce fuori campo, non puoi ta
gliare, perché continui a sentire il suono dei suoi passi che
si allontanano. In un film doppiato si aspetta solo che l'ultima
parte del piede sia uscita dall'inquadratura per poter tagliare.
STRAUB — Girando col suono diretto non puoi ingannare
sullo spazio: devi rispettarlo e rispettandolo offri allo spetta
tore la possibilità di ricostruirlo perché un film è fatto di
estratti di tempi e di spazio. Puoi anche non rispettare lo spazio
che filmi ma allora devi offrire allo spettatore la possibi
lità di capire perché non lo hai rispettato e non. come si fa
con i film doppiati, trasformare uno spazio reale in un labi
rinto confuso e dare allo spettatore questa confusione in cui
non può più ritrovarsi.
HUILLET — (...) Se rifiuti di girare doppiato (...), se
rifiuti di prendere questo o quell'attore perché pensi che fra
la gente c’è tanta ricchezza e che è assurdo usare sempre le
stesse maschere, è finita. Sei tagliato fuori. Infatti la ragione
principale per cui si doppiano i film è una ragione industriale:
solo accettando la dittatura del doppiaggio puoi infilare in un
film due o tre divi di paesi diversi.
STRAUB — E il risultato è un prodotto internazionale,
qualcosa di privo della parola a cui, nei vari paesi, si prestano
le rispettive lingue: lingue che non sono di quelle labbra, pa
role che non appartengono a quei visi. Ma è una merce che
vende bene. Tutto diventa illusione. Non c’è più nessuna verità.
37
sue proprie parole. (...) Ricostruì ogni frase col suo proprio
vocabolario. E lentamente lo si è aiutato a sostituire ciascuna
delle sue parole con quelle di Brecht. (...) E’ il processo
inverso a quello del banchiere, che ha inizialmente appreso
il testo in modo scolastico — ma non solo, egli sapeva bene
ciò che c’era nel testo. Ma è solo al termine di nove mesi di
lavoro, negli ùltimi tre, che incominciò ad arricchire il testo
con le sue esperienze, tramite il suo modo di recitarlo. L’altro
era l’inverso; ve le ha subito scaraventate dentro, al punto
che ha fatto esplodere il testo (...).
38
Contro i ruffiani
39
questo nuovo film, lungo 23 minuti, è di fatto 24 minuti troppo
lungo... dev’essere il giudizio finale che Straub si è fatto di
se stesso».
Straub quindi lascerà finalmente la Germania per Roma
dove spera di poter girare Othon quest’estate sul monte Pala
tino.
40
Contro il doppiaggio
41
di traduzione. Questo argomento disconosce, o elude, il difetto
centrale: l'arbitrario inserto di un'altra voce e di un altro lin
guaggio. La voce di Hepburn o di Garbo non è contingente; è,
per il mondo, uno degli attributi che le definiscono. Conviene
anche ricordare che la mimica dell'inglese non è quella dello
Spagnolo.
Più. di uno spettatore si domanda: giacché c'è usurpazione
di voci, perché non anche di figure? Quando sarà perfetto il
sistema? Quando vedremo direttamente Juana Gonzalez nella
parte di Greta Garbo, nella parte della regina Cristina di Svezia?
Sento dire che nelle provincie il doppiaggio è piaciuto. Si
tratta di un semplice argomento di autorità; mentre non si
pubblicano i sillogismi dei «connaisseurs» di Chilecito o di
Chivilcoy, io, per lo meno, non mi lascerò intimidire. Sento an
che dire che il doppiaggio è dilettevole, o tollerabile, per quelli
che non sanno l’inglese. La mia conoscenza dell’inglese è
meno perfetta della conoscenza del Russo; con tutto ciò, io non
mi rassegnerei a rivedere Alexander Nevsky in un attro idioma
che il primitivo e lo vedrei con fervore, per la nona o decima
volta, se dessero la versione originale... Peggio del doppiaggio,
peggio della sostituzione che comporta il doppiaggio, è la co
scienza generale di una sostituzione, di un inganno».
Una legge fascista (sulla difesa della lingua italiana!) ha
fatto de/Z'Italia la camera a gas dei film stranieri. Perché, come
dice Jean Renoir (che è l’uomo che ha meglio compreso il ci
nema), il doppiaggio è un assassinio». «Si tratta sempre di
(sor) prendere la vita. (Sor) prendere la vita è anche (sor)
prendere nell’istante la voce, il rumore... Io appartengo an
cora alla vecchia scuola della gente che crede alla sorpresa
della vita, al documentario, che crede che si avrebbe torto di
negligere il sospiro che una ragazza emette suo malgrado in
tale circostanza, e che non è riproducibile».
Il mio film Les yeux ne veulent pas... (Gli occhi) riposa
precisamente su quelle cose che non sono «riproducibili» —
sull’incarnazione del verbo di Corneille in ogni personaggio
nell’istante, il rumore, Varia e il vento, e sullo sforzo che fanno
gli attori e il rischio che essi corrono, come funamboli, da
un capo all’altro di lunghi testi difficili registrati in presa
42
diretta — cioè nel medesimo tempo dell'immagine: in perfetto
sincronismo.
Tentare di «ricostruire» questo sincronismo in studio e
in italiano sarebbe non soltanto assurdo e menzognero, ma
anche costerebbe settimane, forse mesi di lavoro — e si di
mostrerebbe senza dubbio in molti casi impossibile.
E chi mi garantisce che questo lavoro andrebbe in onda?
Sono quasi due anni che noi abbiamo lavorato per alcune
settimane in quattro al doppiaggio in italiano del commento
del mio film Chronik der Anna Magdalena Bach (ho accettato
di fare questo doppiaggio per la televisione e il pubblico ita
liano, perché era possibile, trattandosi d’un commento parlato
parallelamente all'immagine), e questo film non è ancora an
dato in onda!
Propongo dunque di sottoporre alla televisione in agosto
una versione di Les yeux ne veulent pas... (Gli occhi...) sot
to-titolata in italiano (che vorrei nello stesso tempo mostrare
al festival di Venezia); se la televisione rifiuta questa versione
sotto-titolata, io preferisco rinunciare ai quindici milioni di
partecipazione della RAI al film.
Come Giuseppe Bertolucci, «aspetto il tempo delle abitu
dini nuove»; credete ai miei migliori sentimenti. (Jean-Marie
Straub).
P.S. «L'attività artistica meno di tutte si presta
al meccanico uguagliamento, al livellamento,
al dominio della maggioranza sulla minoranza». Lenin
P.S. «I nostri compagni non devono credere, che qualcosa
che essi stessi non capiscono,
sia assolutamente incomprensibile anche alle masse». Mao
Tse-Tung
43
HUILLET — La cosa è tanto più triste se si pensa che
proprio in Italia è nata, in un certo senso, la musica occiden
tale; diciamo, la polifonia.
STRAUB — Il mondo sonoro è molto più vasto del mondo
visivo. Il doppiaggio, così come viene praticato in Italia, non
lavora sul suono per arricchirlo, per dare di più allo spetta
tore. La maggior parte delle onde che un film contiene pro
vengono dal sonoro e se questo sonoro, in rapporto alle im
magini, è pigro, avaro e puritano, che senso ha? Allora bisogne
rebbe avere il coraggio di fare del cinema muto.
HUILLET — I grandi film muti davano agli spettatori la
libertà di immaginare il suono. Invece un film doppiato non
dà neppure questo.
STRAUB — Le onde che il suono trasmette non sono sol
tanto onde materialmente sonore. Le onde di idee, di movi
menti, di sentimenti, anch’esse passano attraverso il sonoro.
(...) Si può fare un film doppiato ma bisonga essere pronti
a spendere cento volte più immaginazione e lavoro che per un
film col sonoro in presa diretta. Infatti la realtà sonora che
si registra è talmente ricca che abolirla e sostituirla con un'al
tra realtà sonora (doppiare un film) prenderebbe un tempo
tre o quattro volte superiore a quello impiegato per girarlo.
Invece, normalmente, i film si doppiano in tre giorni, qualche
volta in un giorno e mezzo: non c’è alcun lavoro.
Può avere un senso girare muto e poi fare un lavoro sul
suono di contrappunto all’immagine. Ma quello che i registi
fanno di solito è attaccare a delle immagini mute dei rumori
naturalistici che diano un’impressione di realtà, delle voci che
non appartengono ai volti che vediamo. E’ di una noia, di una
vanità e di un parassitismo terribili.
HUILLET — I registi preferiscono doppiare anche per una
ragione di pigrizia. Infatti, se sei deciso a fare un film con il
suono in presa diretta, i luoghi che scegli devono essere giusti
non soltanto in funzione dell’immagine, ma anche in funzione
del suono.
STRAUB — E questo si traduce in un lavoro di approfon
dimento dell’intero film. Per esempio, il nostro ultimo film,
44
Mosè e Aronne, l'opera lirica di Schoenberg, lo abbiamo girato
nell'anfiteatro romano di Alba Fucens, vicino ad Avezzano, in
Abruzzo. Ma noi non cercavamo un anfiteatro antico. Quello
che volevamo era, semplicemente, un «plateau», un'alta pia
nura che fosse dominata, se possibile, da una montagna. Ab
biamo incominciato a cercare questa alta pianura quattro anni
fa, con un’automobile che non era nostra, e abbiamo girato
per 11 mila chilometri percorrendo più strade e viottoli di cam
pagna che strade asfaltate, lungo tutto il Sud d'Italia, fino al
centro della Sicilia. Nel corso di queste ricerche ci siamo
accorti che nessuna alta pianura, per quanto bella, poteva an
dare bene per il suono, perché quando sei su un'alta pianura
tutto si perde nell'aria e nel vento. E poi, se c'è una valle, ci so
no i rumori che salgono e ti assaltano. Così siamo stati costretti
a rivedere le nostre intenzioni e abbiamo scoperto che quello
che ci serviva era una buca. E alla fine ci siamo accorti che gira
re dentro una grande buca, nel nostro caso l'anfiteatro, era più
giusto, anche per l'immagine, perché avevamo uno spazio tea-
trale-naturale nel quale il soggetto, anziché dissolversi, si con
centrava. (...) La necessità di girare in presa diretta, di regi
strare tutti i cantanti che si vedevano nelle inguadrature, di
prendere insieme il loro canto e il loro corpo che canta, ci ha
portato a fare delle scoperte e ci ha fatto arrivare a un'idea
a cui non saremmo arrivati altrimenti.
45
Il montaggio
46
HUILLET — Quando ci sono delle tentazioni, per esempio
nella banda sonora, o nell’immagine, una nuvola che passa,
che è imprevista, o un cane che si vede, che era imprevisto: è
sempre sugli attori che lui sceglie. Anche se bisogna sacrificare
un imprevisto sublime, una luce sublime, un suono sublime.
Per esempio non l’ho mai visto prendere perché vi erano delle
campane una scena che era meno buona in rapporto agli
attori.
STRAUB — (...) Rivedo la ripresa magari sette volte o
forse trenta, ed ogni volta finisco per eliminare le campane, se
ho un’altra ripresa in cui gli attori recitano più profonda
mente, sono più corretti; in quel caso sacrifico tutto, anche la
fotografia, la luce, tutto.
HUILLET — Un’altra cosa è che lui non ha mai accettato,
anche quando era possibile, di prendere il suono da una ripresa
per unirlo all’immagine di un’altra.
STRAUB — Il cinema consiste nel sorprendere (è ciò che
gli olandesi chiamano il «Bioskoop», è la stessa cosa della
«mort au travail»): qualcosa che non si ripeterà mai più.
Dunque, se voi mettete il suono, anche se è un’inguadratura
di tre secondi, da un'immagine ad un’altra, questo è falso. E’
meglio non farlo. Alcuni lo fanno ma non mi sembra onesto.
47
Lezioni di storia
49
La politica
ti
fattuale dovrebbe proprio essere quello di offrire alla gente
la possibilità di vedere e di rifiutare anche.
51
STRAUB/HUILLET/SCHONBERG:
INTRODUZIONE ALLA «MUSICA D’ACCOMPAGNAMENTO
PER UNA SCENA DI FILM» DI ARNOLDO SCHONBERG e
MOSÉ E ARONNE
53
di entrate nel gioco delle idee, fornendogli un'occasione di giu
dizio, di ripensamento, di progetto: beninteso non sul nulla,
non partendo da un impossibile (populistico, demagogico, pa
dronale) zero.
Una certa lucidità possiamo riscontrarla proprio in quanto
non ci fermiamo alla «realtà» — oggetto prefilmico, e la rap
portiamo, invece, ad una posizione dialettica, definita non dalla
scelta in sé (da un concetto astratto di scelta) del regista, bensì
dal modo specifico di rendere operante tale scelta: nel film e
prima del film. In tal senso, tutti i lavori di Straub/Huillet
hanno il merito di mostrare i limiti di un certo strutturalismo
rigido, che vorrebbe esaurire nel testo ogni possibilità anali
tica; e sottolineano, nello stesso tempo, la legittimità di una
istanza analitica di base per un approccio critico al testo, cioè
al contesto, alla storia, all’economia.
Ridurre il senso del Moses und Aron alla banalità di una
riformulazione del piano mitologico: l’antagonismo pensiero/
parola, idea/immagine, metafisica/storia, legge divina/compor-
tamento umano (dalla Scrittura alla Filosofìa, fino all'opera di
un artista «moderno» come Schonberg), significa ridurre a
parola d’ordine («messaggio») quello che invece vuol essere
discorso politico aperto alla non-soluzione; significa opaciz
zare e chiudere quella che, nel film, è una struttura di luce e
un'apertura di rigore matematico.
Certo, bisognerà sapere chi è «Mosè» e chi è «Aronne»;
senza però istituzionalizzare un’ignoranza per non volerne ve
dere le contraddizioni. Di solito si rimprovera a Straub di dare
per scontato un certo alfabetismo degli spettatori: come se per
vedere il più normale dei film americanai non fosse necessario
accedere al piano di una scrittura, di una tradizione.
E’ qui che, da un punto di vista critico, ci sembra neces
sario agganciare il discorso su Moses und Aron ad un altro
grado di consapevolezza, passando prima per le vie di un rap
porto tra due autori e due modi di concepire il proprio lavoro;
e giungendo poi a cogliere la struttura del film come prova
di un’interpretazione democratica del mito inscenato da Schon
berg.
54
La biografìa di Straub, ridotta ad alcuni fatti salienti,
come testimoniano le poche righe con le quali il regista li ha,
per suo conto, raccontati, è la storia di una resistenza ostinata
alle «proposte» di un sistema che il nostro non accetta. Da
parte sua, una serie di rifiuti (le dimostrazioni, a Metz, contro
un certo signore, padrone delle sale cinematografiche della cit
tadina e censore provinciale delie programmazioni parigine
degli anni '50; il «viaggio» in Germania per evitare di prestare
la mano all’operazione Algeria; e poi la pretesa dell’editore
Witsch di distruggere Nicht Versòhnt); e per contro, una serie
di scomuniche da parte della critica, che, dopo aver provato
ad ostentare disprezzo, supplisce ora all’incomprensione con
una specie di lasciapassare tattico, per cui Straub/Huillet,
autori «difficili», «rigorosi», «impegnati», sarebbero l’eccezione
che conferma la regola.
Ma Straub non vuole prendere questo lasciapassare: vuole
invece dare; e piuttosto che accettare il paradiso dcll’Avan-
guardia, preferisce far luce, ancora, sulle ragioni del proprio
lavoro. E’ così che nascono i suoi film, come riflessione — pri
ma di tutto — sui rapporti tra l’industria cinematografica e il
lavoro di un intellettuale di estrazione borghese, che tenta di
fare qualcosa per aprire un varco nel sistema. E’ un lavoro
di analisi, in cui il film non si esaurisce in un fatto «estetico»,
ma è l’aspetto concreto di una prassi politica: non l’opera come
eccezione, ma il discorso come lavoro.
Così nasce il Moses and Aron, l’ultimo film terminato di
girare nel settembre scorso; e così nasce anche Einleitung zu
Arnold Schonbergs «Begleitmusik zu einer Lichtspielscene»
(Introduzione alla «Musica d’accompagnamento per una scena
di film» di Arnold Schonberg), che ci piace considerare una vera
e propria introduzione al film successivo, non solo perché viene
immediatamente prima (terminato nel settembre '72), e non
certo per limitarne la portata, ma perché può effettivamente
chiarire certe ragioni interne dell’interesse di un regista come
Straub per l’opera di un musicista come Schonberg.
Ciò che unisce Straub a Schonberg è quella certa tensione
critica, quella capacità di agire secondo un orientamento, di
55
rifiutare determinate offerte per continuare invece a dare se
stessi, secondo un altissimo senso morale. Non è un caso che
Straub abbia pensato a Schonberg e non è un caso che Schon
berg, dopo aver riflettuto a fondo sull'importanza del cinema,
abbia scritto una musica per un film da fare.
Senza voler ridurre l’attività di Straub ad una specie di
tentativo di «adattamento» cinematografico dell’opera altrui
(si tratta piuttosto di un vero e proprio lavoro parallelo), al
cune considerazioni di Schonberg ci possono aiutare ad evi
denziare la pertinenza delle scelte operate da Straub per co
struire la sceneggiatura àeWEinleitung. Come non mettere
a confronto le parole di Schonberg al suo amico Kandinsky,
con le quali il musicista rifiuta, nel film, l'invito a fondare al
Bauhaus di Weimar (siamo nel '23) un centro artistico/intel-
lettuale: «Questa gente, a cui la mia musica e i miei pensieri
erano scomodi, questa non poteva che rallegrarsi, che adesso
una possibilità in più fosse mostrata di sbarazzarsi provviso
riamente di me»; come non confrontare queste parole con l’i
ronia feroce di quel breve discorsetto, apparentemente di cir
costanza, con cui Schonberg nel '34 ringraziava di essere stato
«cacciato» nel paradiso americano: «Quando il serpente fu
espatriato, quando fu condannato a strisciare sul ventre e a
cibarsi di polvere per tutti i giorni della sua vita, quello fu
un espatrio ben diverso. (...) Io invece sono venuto da un
paese in un altro dove non è razionata né la polvere né nessun
altro cibo migliore, e dove posso camminare sui miei piedi, do
ve la mia testa può essere eretta, dove la gentilezza e la letizia
dominano e dove vivere è una gioia, dove essere espatriato da
un'altra terra è una grazia di Dio. Io sono stato cacciato nel
paradiso!» (cfr. la raccolta di scritti di A.S., pubblicata da
Einaudi con il titolo «Analisi e pratica musicale», Torino, 1974.
Dallo stesso libro le altre citazioni, che seguono).
Nel cortometraggio di Straub, il brano di lettera citato
continua così: «Il mio successo artistico mi è indifferente, Lei
lo sa. Ma non mi lascio offendere!». Questa saldezza morale,
unita alla grande capacità di analisi, porta Schonberg a cen
trare il problema della mancanza di una musica americana.
56
L'analisi, anche per come è condotta, richiama la posizione di
Straub nei confronti del cinema tedesco, francese, italiano...
Dice Schonberg in un saggio del '34: «Henderson si me
raviglia (...) che la mia 'venuta a Boston come insegnate’ ab
bia fatto più scalpore dell’esecuzione d una nuova composi
zione di un compositore di Boston. E ha ragione di meravi
gliarsi. (...) Questo scalpore infatti rovina di certo molti artisti
europei che erano venuti per dare e sono invece stati costretti
a 'fare scalpore’ e infime non hanno trovato altra via d'uscita
che prendere quello che ha da dare l’America».
Questa legge del prendere — più che del dare —, questa
legge del prendere o lasciare si traduce, in musica, nell’ottene
bramento di quello che Schonberg chiama il «pensiero speci
fico» del singolo compositore, a vantaggio della mimesi sin
tomatica dello «stile»: «... ammetto che si tenti, analizzando
le opere compiute, di ricavarne le peculiarità dalle note (...).
Ma non vedere che queste peculiarità sono gli effetti, sono
solo i sintomi del pensiero specifico, e credere di ottenere risul
tati artistici con l’imitazione dei sintomi, dello stile, questo è
un errore fatale».
Si tratta dello stesso errore che un regista come Straub
si ostina ad evitare, facendo continua opera di distruzione dello
«stile», del «linguaggio» cinematografico, così come Io aspetta
il cosiddetto pubblico «internazionale», voluto e difeso dall’in
dustria del film, in termini di vendita. Nello scarto tra com
prensione profonda della musica e «imitazione dei sintomi»
sta il problema, non solo della nascita di una musica «ameri
cana», ma, secondo Schonberg, dell’affermazione di una società
in cui il pubblico sia parte attiva e non semplice consumatore.
L’esecutore, infatti, deve essere un uomo preparato a com
prendere i fatti nuovi e a comunicare in maniera autentica con
la società: «Un uomo simile — dice Schonberg — non solo
saprà fare gli interessi della musica, ma sarà anche in grado
di convincere il pubblico della necessità di darsi da fare» (sot
tolineatura nostra).
Un tale discorso, così anticonformista e antintegrativo,
è trasferibile, ovviamente, al cinema. E’ particolarmente inte
ressante il tentativo di Schonberg di individuare in un certo
57
modo il pubblico cinematografico. Proprio perché sa che cose
un discorso specifico e tecnico, egli non può ignorare, dal
punto del musicista, il cinema come cultura/industria, la re
sponsabilità dell'artista nei confronti di un mezzo così salda
mente legato agli interessi dei grandi produttori.
Sono anni in cui il cinema americano, passato attraverso
una crisi di crescenza dovuta all’avvento del sonoro, consolida
i suoi miti: Lubilsch, Hawks, Capra. La «Settima Arte» ha tro
vato il suo grande alibi sociologico: la cultura di massa. La
produzione si orienta non solo verso l'« imitazione dei sintomi»,
ma seleziona rigorosamente i «sintomi» in funzione del grosso
consenso. Dentro a questo genere di prodotti (prodotti di
genere) non c’è posto per illusione vere, ma solo per sogni
coscienziosamente prefabbricati. E' una realtà che è giunta fino
a noi e di cui registi come Straub tengono ben conto quando
conducono la loro battaglia contro la «pornografia» di un certo
cinema sempre «ben fatto», sempre rispondente alle attese
del «pubblico», sempre in linea con il «messaggio» politico
più attuale.
Di fronte a questa realtà, Schonberg constatava amara
mente come nel cinema non ci fosse posto «per l’espressione
di idee religiose», per un Liszl (egli pensava al «Christus», o
alla «Heilige Elisabeth»), per un Wagner (pensava al «Parsi
fal»), né per il suo «Moses und Aron». Da questa consapevolezza
traeva forza per articolare la questione del valore estetico in
un realistico confronto tra la tendenza industriale a portare il
cinema «verso il livello più basso di passatempo» e una certa
«riluttanza» dello «strato più istruito della popolazione» ad
accettare passivamente il prodotto cinematografico. «Si può
e si deve trovare — dice Schonberg — una produzione di
commedie e di opere liriche che soddisfi la domanda del
pubblico di istruzione più elevata ed anche le esigenze dell'ar
te». La posizione è d'avanguardia, ma non è un arroccamento
aristocratico. Continuiamo a pensare, parallelamente, a Straub,
al senso progressivo e dinamico (di rottura, dicono molti) che
il suo cinema assume nei confronti anche di un certo «speri
mentalismo»; etichetta che pure, generalizzando con legge
rezza, alcuni tendono ad appioppare allo stesso Straub.
58
Si noterà, comunque, come Schonberg evitasse di parlare
in termini di valore assoluto, ma si riferisse a strati del pub
blico ben individuabili sociologicamente. Quanto all’«arte», egli
era cosciente del suo valore eversivo rispetto ad una società
che, appunto, tende a sopprimere «spietatamente ogni perico
loso elemento artistico» dai propri progetti industriali. Il rap
porto tra film e cinema (società) è visto con estrema concre
tezza: «Non penso che l'industria che attualmente produce
film possa dare inizio ad una simile svolta verso l'arte pura,
o se ne preoccupi. Ciò potrebbe essere fatto (...) solo da uomini
nuovi». Il problema della relazione tra arte («pura» nel senso
che sappia vedere al di là del semplice «divertimento» del con
sumatore) e «pubblico» è affrontato da Schonberg tenen
do ben conto delle complesse rispondenze che, all'interno
del fatto culturale, legano la qualità della «lettura» con la
situazione produttiva. Circa la questione del profitto, arma
principale del produttore contro ogni tentativo di cinema non
convenzionale, molto indicative sono le osservazioni di Schon
berg per appoggiare con argomenti «statistici» un diverso pro
gramma culturale. In sostanza, sosteneva Schonberg, per ot
tenere il cento per cento delle presenze voluto dai produttori,
occorre al cinema un'enorme affluenza di pubblico, perché lo
spettatore cinematografico vede il film generalmente una sola
volta. A tale quantità il musicofilo a cui si proponessero film
su opere musicali supplirebbe con una diversa qualità della
fruizione, giacché l’appassionato di musica vuole ascoltare più
volte il lavoro che gli interessa.
Non si può certo pensare che Schonberg avesse in mente
un futuro in cui Mickey Mouse e Parsifal sarebbero stati la
stessa cosa; ma sotto l’apparente obbiettività della statistica
c’è una malcelata ironia e un diverso concetto della funzione
artistica, che presuppone un contesto sociale diverso; un con
testo in cui non troverebbe posto, ad esempio, il terrorismo
di un circuito (la tv) usato per bruciare in un solo passaggio
molte possibilità di riflessione critica.
Per venire a Straub, sarà il caso di notare che il suo film
più spinto e inequivocabile dal punto di vista ideologico è
appunto VEinleitung, il cortometraggio commissionato dal ter
59
zo programma televisivo di Baden-Baden. Straub non ha co
munque mai escluso la possibilità di arrivare al pubblico attra
verso la televisione; non per omogeneizzare prodotto e frui
tore, ma per approfondire al massimo il lavoro di individua
zione del destinatario e aprire dunque il campo di libertà del
suo giudizio. Certo, la diversità di un pubblico che richiede
diversi contenuti sta nel fatto che esso è disposto ad apprez
zare tali contenuti su un piano formale diverso, almeno non
riducibile a quella che Schonberg chiamava l’« abbondanza ma
terialistica» delle grosse produzioni hollywoodiane, o a quella
che oggi Straub chiama la «pornografia» del cinema «intema
zionale». «Forse — s’augurava Schonberg — la gente arriverà
a rendersi conto che l’arte è meno costosa del divertimento
e più utile»; e partendo da questa speranza componeva la
sua «Musica di accompagnamento per una scena di film». La
stessa consapevolezza e la stessa speranza sono nel lavoro di
Straub/Huillet. Se per il Bach-film (Chronik der Anna Magda
lena Bach) il regista era arrivato a concepire come destinatario
ideale il contadino tedesco, per VOthon (Les yeux ne veulent
pas en tout temps se fermer ou Peut-ètre qu’un jour Rome se
permei tra de Choisir à son tour) ha precisato: «perché possa
raggiungere la gente per la quale l’ho fatto, bisognerà cambiare
tutto da cima a fondo, fai saltare e cambiare tutto. Così, per
tutto il tempo che non si farà ciò, bisogna provare a far pas
sare i film di contrabbando».
Ecco perché siamo partiti daiVEinleitung: Straub si ac
costa alla musica con la stessa piena e lucida partecipazione
con cui opera nel cinema; così come Schonberg pensò al
cinema con la stessa volontà del musicista: volontà di dare
all’America ciò che l’America non «offriva» a lui e agli altri.
ir * *
Alla sua «Musica di accompagnamento» Schonberg diede
un titolo: «Pericolo minacciante, paura, catastrofe»; solo que
sto titolo e nessuna indicazione di scena; mentre invece, come
autore di opere musicali, aveva precisato — contro i «nuovi
dominatori dell’arte teatrale» (registi, il cui «dispotismo» e
la cui «mancanza di coscienza» egli giudicava inferiori sol
60
tanto alla loro «mancanza dì cultura» e «impotenza») — ogni
dettaglio, persino i rumori.
Questa non-rappresentazione è rispettata da Straub fino in
fondo. La musica resta priva di esplicite e dirette referenze fi
gurative per tutta la sua durata e il film acquista una cadenza
spiccatamente ideologica, tratteggiata da undici momenti di
«nero» (pochi fotogrammi ogni volta), che mantengono Io spet
tatore a stretto contatto con la sostanza della composizione di
Schonberg. L'ideologia costruita da Straub svela per la settima
volta (è il settimo film del regista) e più chiaramente, se possi
bile, il tema della violenza nei suoi caratteri salienti (la con
tinuità tematica è anche sottolineata con una sorta di auto
citazione all'inizio del film, quando appare il mascherone di
via Giulia, quello che sputa acqua: lo stesso che, in chiusura
del film precedente, aveva dato un volto alla cantata di Bach:
«Apri l'abisso infiammato o inferno; / Rovina, corrompi, in
ghiottisci, spezza / con furore improvviso / Il falso traditore,
il sangue assassino!»).
Le ragioni della violenza nazista, che costrinse Schonberg
a trasferirsi in America, traspaiono dalla risposta del musicista
a Kandinsky e sono chiarite dalla precisazione di Brecht a pro
posito di «quelli che sono contro il fascismo senza essere contro
il capitalismo»; il confronto dei due brani, così pieni di inter
rogativi e di certezze, così densi di sferzanti ironie, sventra dal
l'interno il cliché televisivo dcll’«inchiesta». Oltre il significato
delle parole, lette da due «attori» negli studi televisivi come si
dovrebbe leggere il telegiornale, la portata semantica della
musica è colta non nelle note in sé, ma nella loro costituzionale
repulsione a servire da «commento». Il fatto che la musica
di Schonberg — quello che aveva ammonito: «neanche la geo
metria, Kandinsky può averla in comune con loro!» (i nazisti)
— si oda mentre Peter Nestler legge Brecht: «a loro la demo
crazia rende ancora i servizi, per i quali altri devono tirar fuori
fuori la violenza, cioè la garanzia della proprietà dei mezzi
di produzione»; e si oda mentre Guenter Peter Straschek legge
la lettera di Schonberg che dice no alla proposta di andare
a Weimar; questo è il senso dialettico di una musica che non
vuole copiare la «barbarie», né lamentarsene, ma vuole invitare
61
qualcuno a trovare il perché di tanta «paura», di tanta «cata
strofe». Il discorso brechtiano sulla «proprietà dei mezzi di
produzione» non è certo fatto sul «naso ricurvo» di Schonberg,
ma sulla reale condizione produttiva dello stesso film, all’in-
terno del quale Straub usa tutti i mezzi, linguistici/economici,
per evidenziare le contraddizioni del sistema. Nella seconda
inquadratura, dopo quella iniziale del mascherone, appare lo
stesso Straub a dire la premessa metodologica del lavoro di
Schonberg; ma già dal terzo stacco la presenza del regista
diventa semplice voce ed emergono, con i dati biografici, il
volto del musicista e poi la sua immagine. A questo punto, 20
fotogrammi di nero preannunciano la contraddizione. L’iden
tificazione dell’«inchiesta» con la figura del personaggio si
tramuta e dilacera nel rapporto antitetico tra mezzo di comu
nicazione e contenuto della comunicazione: Straschek, in una
sala di sincronizzazione della televisione tedesca, legge su un
foglio di carta le parole di Schonberg: «... non sono né un
tedesco, né un Europeo, sì forse appena un uomo ..». L’ana
lisi si precisa più avanti, quando, dopo un altro stacco nero,
Danièle Huillet, in casa con la gatta, cita Brecht: «come vuole
qualcuno adesso dire la verità sul fascismo, contro cui egli è,
se non vuole dire niente contro il capitalismo, che lo produ
ce?»; niente di così fulminante è mai stato detto con tanta
dolcezza, e tuttavia subito s’interrompe l’«inch:esta» ed ecco
la precisazione del procedimento; ecco di nuovo la sala di
sincronizzazione tv, ma questa volta, del lettore, che è Nestler,
viene dichiarata esplicitamente la distanza tecnica: una pano
ramica dal tavolo di missaggio attraverso il vetro fino al per
sonaggio che legge — seguitando Brecht (sulla proprietà dei
mezzi di produzione) — rivela il luogo e ne indica i limiti al
pubblico. A questo punto, la violenza può assumere il suo
aspetto «eccezionale»: la verità del napalm (14 brevissime in
quadrature costituiscono il film più esauriente che si sia visto
in tv sulla guerra nel Vietnam) si confronta con la menzogna
del processo di Auschwitz contro i costruttori dei forni cre
matori (assolti). Mai musica fu così televisiva come questo
film di Jean-Marie Straub, tanto poco «televisivo» da non essere
riconoscibile altro che per alcuni particolari (il tavolo di mis
62
saggio, il vetro, il microfono). C’è da chiedersi, paradossal
mente, se sia stato girato davvero negli studi della tv tedesca..
Una cosa è certa: il negativo è a Roma, proprietà di Straub.
Il significato della messa in scena si traduce nel senso di
un lavoro e cioè nei rapporti concreti del regista con i mecca
nismi produttivi con cui egli ha a che fare. L’accostamento alla
musica di Schonberg, in questo modo, non può essere sempli
cemente una scelta di gusto, una preferenza estetica; si fonda,
invece, su un confronto di metodo, che è un’esauriente doman
da alle risposte precostituite che vengono da una certa tradi
zione estetica e da una cultura sclerotizzata intorno agli inte
ressi della classe dominante.
* * *
La realizzazione del cortometraggio sulla «Musica d’ac
compagnamento. ..» funziona, per come è condotta, da inda
gine conoscitiva e da introduzione alla musica di Schonberg,
cioè ad una pratica significante che, storicamente individuata,
non accetta obbiettivazioni e neutralismi, ma richiede giudizi
critici e scelte ideologiche. Da questo punto di vista, la corre
lazione a una determinata sostanza comporta per la forma
fìlmica un precisarsi progressivo, fino ad una trasparenza di
dattica del procedimento.
L’identificazione con l’oggetto culturale, se è dialettica-
mente negata dall’esibizione delle contradizioni che abbiamo
visto neWEinleitung, è ancor più chiaramente rifiutata nel
Moses und Aron, che, sotto l’aspetto musicale, costituisce una
specie di controprova del cortometraggio. Il fatto che al mo
mento di girare VEinieitung Straub stesse già pensando all’o
pera di Schonberg indica come il riferimento al piano pre
filmico non sia qualcosa di statico, legato ad un significato
dell’oggetto preso nella sua dimensione «documentaria» o,
peggio, «universale»; bensì vada concretizzandosi secondo un
rapporto funzionale-dinamico, in cui tutto ciò che è fuori del
film resta presenza attiva in ogni momento della messa in
scena, in ogni fase dell'operazione. Che è un’operazione di veri
fica: non di una «verità», ma di una progressività dell’idea,
di una pertinenza astrattiva rispetto ad un oggetto dato, ad
un discorso già fatto.
63
Mancando la «rappresentazione», la musica dell’Einleitung
era servita da traccia per una verifica del metodo altrui; col
Moses und Aron la situazione è ribaltata: la musica è già rap
presentata, non resta quindi che mettere a prova, rispetto ad
essa, il proprio metodo. Mettere cioè in un circuito dialettico
l’oggetto( l’opera di Schonberg, presa appunto nella sua og-
gettualità) e la nuova prassi (il film), che ad esso si correla in
forma di un'analisi critica talmente sostanziosa da poter fun
zionare essa stessa da contenuto (il cortometraggio, appunto).
Il soggetto del film è dunque solo apparentemente costitui
to dai «significati» del Moses und Aron di Schonberg; o meglio,
questi significati hanno un valore originario, rappresentano
un punto di partenza per un nuovo orientamento della materia.
Il Moses und Aron è un film che ci fornisce i dati per tra
sformare la violenza della Legge divina nel progetto di un fun
zionamento dialettico, in cui i rapporti democratici tra gli
uomini siano rappresentabili senza vergogna.
Dalla mistificante verticalità del mito (la tua voce passerà
per la bocca di Aronne, come la mia passa attraverso di te,
dice Dio a Mosè che si dichiara incapace di parlare), su cui
si fonda l'« elezione» di un popolo a popolo di Dio, si passa,
nel film di Straub/Huillet, ad una orizzontabilità ellittica, e
al suo interno viene costruita una serie di rapporti geometrici
(neanche la geometria può avere qualcosa in comune con il
fascismo) per sfidarne i limiti e per provocarne, col rispetto
di una legge, la ricerca delle ragioni: dalla nuca di Mosè, pano
ramica sul giro d’orizzonte dell'anfiteatro entro cui è conte
nuta la scena. Ma in alto, oltre il ciglio dell'imbuto rovesciato,
il cielo produce vuoto: la politica si fa sul terreno e la m.d.p.
è pronta a raccogliere la luce del terreno e ogni altra luce che
definisca oggetti, rapporti, trasparenze, ritmi.
La verifica del proprio metodo consiste nella messa a prova
di una severa organizzazione scenica contro il rischio continuo
dell'evanescenza, che proviene dall'alto. — Straub stesso ci ha
fornito le misure dell'anfiteatro romano di Alba Fucens, presso
Avezzano, dove è stato girato quasi tutto il film: 64 metri per
37 al suolo, 101 per 79 nella parte alta. Uno spazio «vuoto»,
senza «sfondi» —. Per un verso, cioè, siamo scesi dal Palatino
64
{Othon e le trame sentimentali-politiche della classe al potere)
al suolo, sul cui livello comune s’incontrano e si scontrano
gli interessi di Mosè e Aronne e del Coro (il popolo); questo
suolo non è però generico e metaforico in sé, in quanto
suolo, base del dramma. Il dramma e le sue metafore vengono
definite da una stretta coerenza della costruzione scenica, per
cui la metafora del film consiste nella sua matematica; è la
«matematica» del film che ha una dimensione metaforica: nel
senso che non è soltanto lo strumento per costruire il film, ben
sì è anche il discorso stesso del film. Dato lo stretto rapporto
con la musica e con la luce, la matematica si dichiara essa
stessa come programma di lavoro.
Giustamente, Louis Seguin ha notato, seguendo Starobin-
ski, che l’idea deH’emiciclo si addice alla vita parlamentare,
con l’opposizione destra-sinistra. Mentre invece, l’arena designa
il campo del conflitto con una dialettica brechtiana. Sicché,
con Straub/Huillet, il «teatro» da politico diventa democratico,
restituito al popolo (coro), che ne occupa uno dei centri (l’el
lisse ha due fuochi).
Il rapporto tra i personaggi è un rapporto democratico
in quanto dettato da una dichiarata necessità operativa, la
quale coincide con una finalità analitica applicata alla sostanza
stessa dell’opera schònberghiana. Basti pensare, intanto, che
il sonoro del film è registrato in tre momenti diversi: in una
prima fase, fuori dalle riprese, si è fatta la registrazione com
pleta, come per un primo contatto con la materia. Poi, l’or
chestra è stata chiamata a suonare la partitura senza le voci;
dopo di che, questo materiale pre-organizzato è stato utilizzato
come base per le voci sul set, in diretta (due registratori in
sincrono con la m.d.p.: dal primo partiva la musica, che i can
tanti potevano ascoltare tramite un auricolare nascosto sotto
i costumi; il secondo registrava le voci, da missare poi con
ulteriore elaborazione). E si pensi anche alla suddivisione rigo
rosa dello spazio secondo relazioni tali che, una volta decisa
la prima inquadratura, tutto il resto si inserisce in un sistema
geometrico che rende dimostrativo e antinaturalistico il rap
porto tra i personaggi. Sia i percorsi della m.d.p., in panora
mica e in carrello, sia gli stacchi, sono concepiti in modo
65
da coprire ogni volta una certa porzione della base ellittica
senza mai sovrapporre alcun settore, neppure parzialmente.
Un personaggio (o un gruppo) non appaiono prima che il
precedente non sia scomparso. L’ottica usata per le riprese è,
dunque, scelta in funzione dello spazio assegnato a ciascuno.
Suono e spazio sono relazionati secondo un principio antina
turalistico, per cui sempre, tra il cantante (o il coro) e il perso
naggio (o il gruppo) che ascolta, c’è il direttore d’orchestra
(che dirige, fuori-campo, leggermente spostato rispetto all’asse
di riferimento naturalistico), il quale funziona da terzo polo,
asimmetrico.
Moses und Aron è un film completamente indifeso: mostra
tutta la sua luce, tutta la sua geometria, tutta la sua quantità
(tempo, spazio, musica). L’obbiettivo sembra ridarci non l'im
magine di un materiale plastico, significativo in quanto illu
minato in un certo modo, bensì lo stesso processo chimico
della luce sulla pellicola. Quando vediamo, all’inizio, Mosè di
spalle e un po’ di terreno, non è il terreno, ma la luce del ter
reno; e così non le nubi né la montagna, ma la luce delle nubi,
la luce della montagna, ecc. Quel tanto di disvelamento dell’im
magine per escludere ogni rischio di stile luministico. Tale
«evacuazione» della materialità deH’immagine a vantaggio della
consistenza del procedimento sembra dare già ragione ad uno
dei personaggi-poli del dramma (Mosè). Senonché, mentre
vediamo il film, abbiamo la sensazione precisa della pellicola
che scorre nel proiettore: si sente proprio il tempo di scorri
mento, che è in relazione col tempo della musica (le inqua
drature sono costruite sulle misure musicali c gli stacchi non
si ritagliano mai su un certo codice — pornografico, direbbe
Straub — della narrazione cinematografica) e con la geometria
scenica. Da tutto questo deriva la sensazione continua che il
film può finire nel buio da un momento all'altro. E' la nega
zione interna, dialettica, operata sulla sostanza e correlata
ovviamente alla forma, di possibili simmetrie, che nella scan
sione in atti e scene, come nella ripartizione in piani e tempi,
troverebbero il modo, altrimenti, di cristallizzarsi in «messag
gio» ed assumere l’autorità di un esclusivismo o la neutralità
di un'equidistanza.
66
La voce di Dio, intanto, entra nell’ellisse dell’anfiteatro
come una delle voci del dramma: per essa non c'è uno spazio
privilegiato. Dio è reso terreno con l’inserimento nella scan
sione geometrica della scena. Mosè e Aronne, le due facce
di Dio, costruiscono inizialmente una simmetria, che, nello
stesso modo in cui nasce, viene negata.
Prendiamo l'inquadratura in cui i due «fratelli» annun
ciano al popolo che «Dio vuole dare ad esso tutta la sua gra
zia»: Mosè ha ricevuto il «messaggio» direttamente da Dio;
Arone lo comunica alla gente; l’idea e la parola si sdoppiano
per assumere una dimensione umana. Mosè c Aronne hanno
facce complementari: li vediamo prima di 3/4 profilo destro,
poi, in seguito a carrello combinato con panoramica, nella po
sizione opposta (3/4 profilo sinistro); quindi, mentre il coro-
popolo esprime (fuori-campo) i suoi dubbi sul Dio che non
si può vedere né sentire, la m.d.p. ritorna sulla posizione ini
ziale: il «viaggio» è stato un fallimento, la simmetria non ha
funzionato. C’è l’altro polo che attrae l'asse della panoramica
irresistibilmente. Infatti, l'obbiettivo lascia Mosè e Aronne per
arrivare, con movimento verso destra (rapido, perentorio), al
coro: «Vai lontano col tuo Dio, che non si può vedere. Non
vogliamo essere liberati da lui!».
La crisi di questa simmetria è la forma del dubbio che si
impone nella mente di Mosè: «Mio Dio, la mia idea è impo
tente nella parola di Aronne!». Il dramma è ora in pieno svol
gimento, ma il rigore delle divisioni all'interno dell’ellisse bloc
ca ogni tentazione di «esplosione» naturalistica dei sentimenti
e libera, invece, le possibilità dialettiche dei personaggi (coro
compreso), proprio perché la loro voce, il loro comportamento,
la loro posizione sono tutt’uno con il senso complessivo brech
tianamente distaccato, tipico del modo di «girare» di Straub/
Huillet. Ciò aiuta, in modo determinante, l'opposizione musica-
parola a risolversi in una dimensione discorsiva, e a far emer
gere tutta la tensione interna del lavoro di Schonberg; esso
viene dunque rispettato nel suo profondo e proprio per questo
può venir ribaltato nelle sue simmetrie. La dialettica dei con
tenuti è possibile giacché è il cinema ad esporsi, a rischiare
tutto se stesso. Per il cinema di Straub/Huillet niente è nor
67
male, pacifico, scontato; siamo perfino colpiti dai miracoli di
Aronne (il bastone di Mosè che diventa serpente, la sua mano
che si copre di piaghe), perché essi non ci sono mostrati come
se fosse normale per il cinema mostrarli; i piani, gli stacchi,
le durate non cercano mai la via della mistificazione: la geo
grafia ideale — concetto classico del cinema — non diventa
geografia naturale, ma resta ciò che fotograficamente è — ot
tica, geometria, convenzione, giudizio.
Il secondo atto è, da questo punto di vista, molto signifi
cativo. Nell'iniziale scontro con il Coro, Aronne tenta di impo
stare un discorso teorico: «Non aspettate la forma innanzi al
l'idea, essa sarà lì nello stesso tempo»; ma la «teoria» di Aron
ne non tiene, di fronte all’aggressività del popolo che aspetta
da quaranta giorni il ritorno di Mosè dalla Montagna della
Rivelazione. Chi prevarrà? Un certo cinema ci ha insegnato ad
attendere la vittoria di un personaggio sull’altro saltando di
rettamente a cavallo della scopa (m.d.p.), alienandoci nei pro
cedimenti della ripresa e del montaggio che vogliono darci ad
intendere che le cose sono andate veramente così.
Nel Moses und Aron di Straub/Huillet lo svolgimento del
dramma è affidato al giudizio dell’ottica, della geometria e del
tempo cinematografici. Il vitello d’oro, dunque, non è una so
luzione: né come metafora, né come presenza concreta, giac
ché esso scaturisce sì, nel film, dal prevalere del Coro, ma tale
vantaggio è povero di sostanza: il suono, gradualmente più
forte fino a fortissimo, si è dissolto in luce e lo schermo, al
momento della «scelta» («Fatti povero, fai ricchi i tuoi dèi;
gioisci, Israele!»), s'è fatto bianco.
Un popolo di povera gente lascia i suoi doni, tutto se
stesso, i suoi stracci, ai piedi del vitello: l’immagine che ha
di se stesso è falsa e questa falsità si misura ancora nell’astra
zione dell'inquadratura. Impassibilmente la m.d.p. registra
il prezzo dell’oro (le uccisioni, la danza dei macellai) propo
nendo il tempo della pellicola come alternativa ad ogni surrea
lismo, espressionismo, simbolismo. La malata in barella arriva
sotto al Vitello — prega — esce di campo, ma lo stacco si fa
attendere: resta per qualche attimo lo scalino di pietra, il tem
po per misurare la nudità del film e per proiettare il giudizio
68
sulla falsa libertà del Potere, concessa al popolo in nome dei
falsi dèi e col benestare dell’Efremita (i dodici capi-tribù da
vanti al Vitello, inginocchiati, e fuori-campo lo slogan del
Coro: «Liberi sotto i nostri signori»).
Per la via dell'inganno, il mito dcH'oro conduce, attraverso
il rito dei sensi, a frantumare altre simmetrie. Le scene not
turne del piacere e dei beni materiali, dei riti della ricchezza
e della potenza, del sangue sacrificato all'oro conducono al
cieco suicidio dei corpi, delle anime, degli oggetti, delle imma
gini: il fuori-campo è in agguato e risucchia verso di sé ogni
possibilità di bilanciamento, ogni contraltare della materialità.
Torna, con Mosè, ad affacciarsi la simmetria (Vitello - imma-
gine/Legge - ineffabilità), ridiventa attuale lo scontro. Questa
volta il fuori-campo assume funzione attiva e, tenendo per sé
Mosè, riduce Aronne a simulacro di una falsa tesi: «Ho dovuto
dare al popolo un'immagine da contemplare»; mentre, inver
tendo le posizioni e venendo in campo Mosè, ecco affermarsi
l'inadeguatezza del Concetto, l’efficacia del segno. Il concetto,
rispetto al segno, può esistere solo in assenza (fuori-campo)
e viceversa.
Mosè è un’immagine, è la «terra promessa», ma che cos’è
la «terra promessa?» E chi ha il diritto di accettare sotto questo
segno l’adesione del popolo? Il popolo (fuori-campo) crede
alle promesse dei padri ed è pronto a seguire Aronne: a Mosè
mancano le parole.
Col terzo atto, l’opposizione Mosè/Aronne si scioglie. Ve
nuta a mancare la musica (l’opera di Schonberg è notoriamente
incompiuta), ecco in primo piano, con tutto il loro potere astrat
tivo, la parola parlata e i rumori d’ambiente. Ora non è più
possibile alcuna simmetria, ma solo una finale apertura del
senso. «Tu lo dici peggio di come lo capisci»: è un teorema che
apre un abisso, è il deserto sconfinato a confronto delle «basse
gioie» e dell’«abuso». Dunque, «se egli può, che viva». La pano
ramica su Mosè, fuori dell’ellisse, non traccia alcuna geometria,
ma solo una prospettiva per il Coro. Il lago è aperto.
FRANCO PECORI
69
IL LABORATORIO DI STRAUB/HUILLET
La non-riconciliazione permanente
71
rich, è rimasto passivo. Eppure, un figlio piccolo gli morì deli
rando mentre recitava i versi imparati a scuola: «Dio eterno sarà
con noi...); e un altro figlio, Otto, fu attratto dalla carriera di
Vacano e Nettlinger: «egli avrebbe consegnato sua madre al
boia». Johanna, più umana del marito, che chiama «il mio
piccolo David», parla con tono impersonale di una società
fatta di onore, fedeltà, persone per bene, portatori di berretti
bevitori di birra, guardiani della legge. E’ stata lei ad ottenere
l'amnistia per Robert. Ora Robert, con sua figlia Ruth e col
vecchio Heinrich sono alla stazione: vanno a trovare l’altro
figlio di Robert, Joseph. Mentre Heinrich parla al figlio: «Io
ridevo delle vostre congiure fanciullesche ... più tardi seppi
che quello era stato ancora un fatto quasi umano»; il nipote,
alla stazione d’arrivo, parla di suo padre alla fidanzata, con
la mentalità di un ventenne che non ha fatto la guerra. Tutti
insieme vanno poi a trovare l’abate della ricostruita abbazia
di S. Antonio. Anche Schrella torna sui luoghi di quando era
ragazzo, ma si rifiuta di riconoscere la Germania così come
è oggi; incontra la sorella di Ferdi, ma non la saluta. Somiglia
in questo un po’ a Robert, il quale, nonostante abbia usato la
dinamite contro la vecchia Germania, è pur sempre diventato
un fascista. Torniamo all’albergo « Prinz Heinrich». Alcuni uo
mini politici organizzano la sfilata dei combattenti. Johanna
s’è prenotata una stanza per assistere meglio. Nella sala da
biliardo, Robert e Schrella. A quest’ultimo la Germania non
sembra migliore di prima: e anche più facile oggi essere so
spettati di comuniSmo. Intano, dal balcone, Johanna vuole spa
rare a Vacano, responsabile della morte di Ferdi e della «car
riera» di Otto, ma suo marito le indica una minaccia più perico
losa perché riguarda il futuro: l’assassino di suo nipote (può
essere uno degli uomini politici di cui parlavano poco prima
Robert e Schrella: «se quello è una speranza, vorrei sapere
che cosa potrebbe essere una disperazione»). Il film si chiude
con una frase di Heinrich: «Non posso farci niente figlioli, non
posso essere triste. Lei ritornerà e resterà con noi; Lui non
è stato ferito mortalmente e spero che dal suo viso non si dile
gui mai il grande stupore».
72
Questa è la traccia di Nicht Versohnt oder Es hilft nur
Gewalt, wo Gewalt herrscht («Non riconciliati o solo violenza
aiuta dove violenza regna»), il film che Jean-Marie Straub e
Danièle Huillet hanno tratto dal romanzo di Heinrich Boll
Billard um Halbzehn (tradotto da Mondadori col titolo «Biliar
do alle nove e mezzo»), dopo averlo spogliato di ogni espediente
letterario e di ogni carattere psicologico, di ogni stile narrativo.
Un film realizzato con i soldi propri (117000 marchi, pari a
18 milioni di lire) e affrontando l’accanita ostilità della Cultura
tedesca: l’autore del libro, l’editore, buona parte della critica
cinematografica.
Nel 1965, la presentazione di Nicht Versohnt al festival di
Berlino suscitò aspre polemiche. Boll si lamentò pei' come era
stato trattato il suo romanzo e l’editore Witsch avrebbe preteso
addirittura la distruzione del film. Un gruppo di critici tedeschi
e stranieri manifestò con un telegramma l’avversione per la
«barbarie», ma ciò non significa che il film fosse bene accolto.
La critica, specialmente tedesca, si schierò contro Nicht Ver-
sdhnt, giudicandolo tutt’al più come uno stimolante «esperi
mento», adatto a far riflettere le nuove generazioni di registi:
uno di quegli errori ai quali un’arte come il cinema, che si batte
per rinnovarsi, non può rinunciare; un lavoro «radicale» di un
outsider come ce ne erano stati in Germania negli ultimi anni,
destinati a non aver seguito. D’altra parte, soprattutto presso
i francesi, Nicht Versohnt fu molto apprezzato; Michel Dela-
haye, critico dei «Cahiers du cinéma», arrivò a dire che si
trattava del più grande film tedesco dai tempi di Murnau e
Lang.
Le ragioni deH’atteggiamento ostile della critica tedesca
erano profonde, tanto da lasciar affiorare giudizi pienamente
sintomatici, come quello secondo cui Nicht Versohnt sarebbe
stato un film «naif», una cosa da dilettanti e dunque non degno
di affrontare una tematica così impegnativa, che toccava il
triste passato della Germania nei suoi risvolti anche attuali.
Tale giudizio contiene, in forma schematica e rozza, il nodo
delle incomprensioni a cui andrà poi inconrto il cinema di
Straub/Huillet. Si tratta di una certa difficoltà di fondo ad
accettare metodi di lavoro che sono fuori dalle norme indu
73
striali del cinema commerciale. Per Nicht Versòhnt ci si scagliò
contro il dilettantismo degli attori, contro quel loro modo di
non-recitare che, anche se presentato come ispirato a Brecht,
non offriva, secondo certi critici, sufficienti garanzie di «arti
sticità». Nei film successivi, specialmente in Les yeux ne veu-
lent pas en tout temps se fermer ou Peut-ètre quun jour Rome
se permettra de choisir a son tour («Gli occhi non vogliono in
ogni tempo chiudersi o Forse un giorno Roma si permetterà
di scegliere a sua volta»), l'avversione divenne più esplicita
mente un rifiuto della «presa diretta»: un metodo che intro
duceva nel film elementi estranei alla normale prassi del dop
piaggio industriale e lo rendeva inutilizzabile, sempre secondo
la mentalità da «esercente» di certi critici, per il grosso pub
blico (e per il pubblico intemazionale). Restava, poi, lo sdegno
per il maltrattamento della materia, troppo nobile (Corneille!)
— come importante era quella di Nicht Versòhnt — per essere
ridotta all’esibizione di un incomprensibile imparaticcio lin
guistico e di un irritante sottofondo ambientale (le automobili,
i rumori della città moderna, ma anche lo scorrere dell’acqua
della fontana di villa Pamphilij). Ed ecco la non-riconciliazione
di Straub/Huillet divenire perniante. La forma dei loro lavori
non discende, infatti, dalla necessità e universalità di un’ispi
razione, ma si misura costantemente con il contesto socio
politico e culturale ed è dovuta alla necessità obbiettiva, av
vertita da soggetti pensanti e discorrenti, di concretizzare l’a
nalisi storica in una prassi che, per quanto possibile, assuma
appunto la forma di una non-riconciliazione. Non-riconcilia
zione con un sistema produttivo (il cinema dell’industria e
della distribuzione), che impone con la violenza dei capitali una
visione stravolta e irreale della vita quotidiana, oltre che della
storia.
Fin dall'inizio, Straub ha avvertito la necessità di rigene
rare nello spettatore l'interesse per la realtà. Per questo ha cer
cato di non immergere l’obbiettivo direttamente nell’«obbietti-
vità», ma di trovare il modo per evidenziare la gestione padro
nale di una convenzionalità («storia», «cultura»), che invece
deve appartenere a tutti. Specialmente oggi, in piena civiltà
di massa, con il cinema, con la televisione, noi conosciamo il
74
mondo in quanto ce lo raccontano. La mediazione tra la realtà
dei fatti e il giudizio sui fatti (come sono e come dovrebbero
essere) è nelle mani della «cultura». La realtà a cui Straub e
Huillet si sentono, dunque, di rivolgersi con più pertinenza è
questa: per smascherare una certa cultura e per cercare non
di dire direttamente, con una frase fatta, come dovrebbero
andare le cose, ma di proporre un discorso politico sul modo di
giudicare i fatti, di partecipare a tale giudizio. E’ questo anche
il senso di una ricerca che si rivolge, per ogni film, ad opere
già realizzate da altri in altri campi (per Machorka-Muff, una
novella di Heinrich Boll, «Hanptstàdtisches»; per Nicht Ver-
sòhnt, il romanzo «Billard um Halbzehn»; per il Bach-film, la
musica di Bach; per il Bràutigam, la pièce teatrale di Ferdi
nand Bruckner, «Krankheit der Jugend»; per VOthon, la tra
gedia di Corneille; per Geschichtsunterricht, il romanzo di
Brecht, «Die Geschàfte des Herrn Julius Caesar»; per VEinlei-
tung, la breve composizione di Schonberg; per il Moses und
Aron, l'omonima opera musicale): non per trovare l'«ispira
zione» o per tradurre in cinema un racconto, un romanzo, una
musica, ma per misurare il proprio lavoro con una «realtà»
già elaborata, già codificata e quindi ideologicamente e politi
camente più significativa.
Per muoversi in tale dimensione, la prima necessità è di
non fare discorsi indifferenziati, buoni — programmaticamen
te — per tutti; ma rivolgersi ogni volta ad un pubblico deter
minato. A cominciare da Machorka-Muff (1963), un cortome
traggio di circa 17 minuti contro il riarmo tedesco, in cui il
generale Eric von Machorka-Muff (militare, non militarista),
ammiratore di se stesso sul proprio piedistallo, è ridicolizzato
dal piccolo brano di Bach (dall’«Offerta musicale» a Federico
di Prussia...) — un brano di cui Straub sceglie un’interpreta
zione pomposa, proprio per accentuarne il significato origi
nario. che era invece ironico, giacché tutto quel gioco di pedali
era riferito al grande Federico —; e la sua figura è gettata in
pasto allo spettatore, come provocazione, nel finale, con quella
frase detta da Inn (Inniga von Zaster-Pehnunz), l’amante «di
giovane nobiltà ma di vecchia razza»: «alla nostra famiglia
nessuno ha ancora resistito»; sin dall’inizio, dicevamo, Straub
75
si era impegnato in un lavoro spiccatamente politico ed aveva
voluto fare dei film non generici. E dunque, dei film che, per
forza di cose, dovevano contrastare un certo «linguaggio» buo
no per tutte le occasioni (occasioni di vendita).
La lezione di Brecht è utilizzata con pertinenza. Se per
fare un film antimilitarista Straub avesse preso un attore pro
fessionista, legato a certi clichés di recitazione, avremmo avuto
appunto V interpretazione del militarismo e non la verità del
militare-uomo così come risulta dal «dilettantismo» del signor
Erch Kuby, giornalista tedesco.
L’orecchio necessario per apprezzare fino in fondo il senso
di una scena come quella citata di Machorka-Muff è lo stesso
di cui abbiamo bisogno per cogliere il senso che deriva a tutti
i film di Straub/Huillet dal ritmo impresso alle riprese e al
montaggio. E’ attraverso questo carattere formale che passa,
principalmente, la prospettiva ideologica di un lavoro che,
avendo eliminato le ragioni psicologiche, la rappresentazione
naturalistica dell'azione, la progressione drammatica del rac
conto e la costruzione pornografica dell’inquadratura (per cui
di un film il pubblico di tutte le capitali dice solitamente che è
«ben fatto»), non può che mostrare il ritmo di una coscienza
morale, la traccia di un rapporto chiaro e approfondito con
la materia.
Tale ritmo cinematografico deriva essenzialmente dalla
confluenza di due elementi: la «presa diretta» del suono e la
non-recitazione degli «attori», di cui il film tende a non nascon
dere le difficoltà, anche quelle incontrate davanti alla m.d.p..
Un’inquadratura girata con suono in «diretta» deve essere trat
tata, in sede di montaggio, in maniera che una certa logica dei
suoni, dei rumori (anche di quelli fuori-campo) venga rispetta
ta; possono venirsi a creare degli intervalli nell’azione, i quali
necessariamente acquistano un senso forte e finiscono per dare
alla scena una dimensione più ampia, più riflessiva. Si pensi
all'inquadratura di Nicht Versohnt, verso la fine, quando si
vede Johanna sul balcone tirare fuori la pistola e sparare. Il
gesto della donna, nell’abbassare lentamente il braccio e re
stare per un po’ come attonita dopo lo sparo, non è dettato
dal regista in funzione narrativa-psicologica, ma è spontaneo,
76
venuto all'attrice in aggiunta alle indicazioni del copione; ed
è misurato dal montatore (gli stessi Straub e Huillet) sul ritmo
di una riflessione, appunto. Una riflessione che ci porta a
rivedere complessivamente il film e a coglierne il pensiero che
si realizza in linguaggio, che si organizza, adeguandosi ai rela
tivi limiti, in segno. Dalla visione sincronica possiamo così
desumere il racconto-discorso e dall’ultima inquadratura tor
nare alla prima per una verifica del contenuto, in-discreta,
funzionale, esauriente. Una verifica la cui traccia, non diciamo
letteraria, ma «scritta» (o «detta») sarà in ogni caso ben lon
tana dal restituirci un «messaggio» compiuto; intanto, perché
il «racconto» di Nicht Versòhnt è come messo tra parentesi,
e perché proprio in tale «assenza» si fonda l’organicità della
costruzione, l’anti-retorica del procedimento, la non-riconci
liazione anche «stilistica» con il genere.
77
Il Bach-Film
78
di voler strappare il manto di sacralità di una certa musica
e farla uscire allo scoperto, metterla a contatto con una realtà
diversa da quella della sala da concerto.
Quando diciamo «documentario» non intendiamo affatto
qualcosa di simile ad un genere cinematografico, secondo cui
sarebbe bastato raccogliere con la m.d.p. un insieme di docu
menti della vita di Bach e della sua attività musicale: fotogra
fare cioè una realtà già esauriente fuori dal film. Il cinema
di Straub/Huillet è, prima di tutto, un rifiuto esplicito dell’e
quivoco che il cinema si porta dietro dalla nascita. L’immagine
sullo schermo non è un dato semplice, ma il risultato di ope
razioni complesse ed eterogenee, unite da un’intenzione cul
turale e non da una «significante» (naturale e perciò irrever
sibile) materialità. Dunque, la ricerca del realismo è condotta
a livello di discorso e non privilegiando una sintomatologia
dello stile, che porterebbe al formalismo. Lo «stile», in tutti
i lavori di Straub e Huillet, è assente, poiché il film è qualcosa
di completamente funzionale rispetto ad un intento comuni
cativo antiuniversalistico e obbiettivante. La precisione con
cui questo qualcosa si propone all’attenzione dello spettatore
distruggere dall’interno proprio quell'insieme di funzionalità
sclerotizzate per cui si parla in genere di spettatore, ponendo
in crisi la passività di un rapporto con lo «spettacolo» e co
stringendo l'anonimo ad identificarsi: a cercare tutte le ragioni
di quel discorso particolare, di queU’insieme minuto e artico
lato, scavato e costruito, interrogante perché interrogato, non
epidermico, non casuale, ma sensibile e ragionato; quell’insie
me di tagli e giunture, di tempi sfrontatamente purificati, che
non lasciano spazi se non alla risposta, alla coscienza, alla
chiarezza di un’ulteriore domanda. Oppure andarsene.
Lo stile c’è, ma come confronto di discorsi, di fatti (la
costruzione del film), come contestazione di mitologie (i «fat
ti») e recupero delle occasioni culturali. Il realismo c’è, ma
come disconoscimento della «realtà»: quella proprietà (appro
priazione) che fa comodo ad alcuni chiamare realtà. Perciò,
risulta sempre poco significativa la lettura dei film di Straub/
Huillet come ricostruzione in termini di «messaggio» (a livello
di «fabula» o anche a livello di «estetica»). Ciò che conta, in
79
vece, è l'arte di controllare il senso del proprio lavoro: è que
st’arte che va individuata, all’interno del sistema produttivo
in cui opera il regista, con intenti suoi propri; e nell'organiz
zazione di quel lavoro particolare — il film —, così come si
manifesta e si dichiara allo spettatore. L'analogia va applicata,
se mai, nei confronti del metodo di lavoro inteso globalmente
e in rapporto al contesto socio-economico. Un film di Straub/
Huillet è sempre il risultato di un'analisi della «realtà» (pro
prietà, capitale, industria, cultura) e l'esibizione del concre
tizzarsi di questo lavoro in strutture significative, in tratti sin
tattici, in «proposizioni», in discorsi fìlmici, in forme cono
scitive.
Cercare il «significato» di quel certo momento della vita
di Bach è dare un senso alla precisa selezione di dati, fuori
e dentro al film, che porta alla composizione e alla durata di
quella determinata inquadratura. La «vita» di una persona è
sempre una mitologia, il problema è di restituire a questa mito
logia la forma del discorso. Il Bach-film, prima di raccontarci
la vita di Bach, ci dice tutto sul lavoro del regista nei confronti
di un materiale che egli aveva a disposizione bello e confezio
nato dalle stratificazioni di una tradizione che considera la
cultura un patrimonio da offrire in maniera esclusiva: pren
dere o lasciare. Il senso del messaggio è appunto il lavoro del
regista; anzi: il rapporto tra un lavoro e una mitologia. Il
film è il risultato di una ricerca approfondita, condotta con
metodo marxista su documenti (musica, testi originali, let
tere), sui quali non sempre è stato facile mettere le mani, e
durata alcuni anni (almeno dal novembre '54 fino al '67). Straub
e Huillet si sono essenzialmente preoccupati di sfondare il
muro di protezione costruito intorno all'opera di Bach dall'uf
ficialità culturale e di dare al materiale una dimensione umana,
che andasse oltre il «documentario»; di offrire un'identità vera
all'immagine astratta di Bach, filtrata fino a noi da mille me
diazioni e opportunismi (si pensi alla faccenda della «reli
giosità» di una musica destinata alla chiesa e ritrasmessa, per
esempio dalla radio, immancabilmente ad ogni ritorno pa
squale)
80
Ne è venuto fuori un documentario non sulla musica o
sulla vita di Bach (il termine «cronaca», usato nel titolo, che
potrebbe far pensare ad un vero e proprio «diario» di Anna
Magdalena, non è che una Unzione antinaturalistica), ma sulla
fatica di alcuni musicisti (e attori), tra cui l'olandese Gustav
Leonhardt, il quale, alle prese con l’esecuzione dei brani di
Bach, rappresenta se stesso: non il «personaggio» Bach, ma
se stesso che, con una parrucca sulla testa, cerca di suonare
il meglio possibile su uno strumento vero una musica vera,
con una durata reale.
Anche in questo caso, la «presa diretta» ha risolto in modo
unitario il pericolo che la musica di Bach diventasse una volta
di più la «bella» musica di Bach: è invece la musica vera di
Bach. Rispetto al tempo del concerto, ascoltato in una sala
«da concerto», il cinema ha il potere, in questo caso, di attri
buire alle misure musicali la durata della pellicola e di avver
tire gli ascoltatori che quelle note non scaturiscono diretta-
mente dal sentimento dell’esecutore. E’ in questa prospettiva
che acquistano senso i rapporti tra Bach, i suoi «datori di la
voro» e tutta la società contemporanea, «narrati» con distacco
brechtiano da Anna Magdalena; ed anche l'estrema dolcezza
e umanità di cui si sostanzia la vita del musicista come vita
quotidiana e familiare del Cantore di San Tommaso di Lipsia.
L’ultima inquadratura definisce l’universo del film con un’im
magine che si chiude in se stessa: malato agli occhi, prossimo
a morire, Bach guarda fuori della finestra. Una finestra chiusa
e tagliata quasi via dalla m.d.p., che sceglie panoramicando il
volto del musicista. «Fuori, il vento agita i rami degli alberi»,
dice la sceneggiatura.
81
Il fidanzato, l’attrice e il ruffiano
82
mene andare via presto» (è la scritta che appare in dettagli
all'inizio del film). Il carrello, nel suo tempo reale, allude ad
un confronto possibile fuori di sé, ad un giudizio e ad un pro
getto; ed ecco mostrarsi la sintesi precostituita (tre atti di
Ferdinand Bruckner — «Krankheit der Jugend»: «Malattia
della gioventù» — in 10’35”) e denunciare la necessità dì un
progresso, di un’articolazione del discorso in una realtà di
versa: il «teatro» chiama la «vita». In entrambi i casi è il
tempo del film a far concreta la presenza dell’uno e dell’altra
e a rendere possibile l’apertura verso un ritmo e un montaggio
alternativi. La terza parte (il film dell’amore, della fuga, della
giustizia e della poesia) indica esplicitamente fuori di sé il
luogo di un’aspirazione pura e di una rivoluzione possibile.
«Nel giardino, un albero agitato dal vento. Pioggia», dice la
sceneggiatura; ma di queste «parole» non una traccia: la m.d.p.
punta diritta all’esterno. L’esterno non è ancora la libertà: la
libertà è nella storia e la storia non è mai allo scoperto. Qui sta
il grande valore dialettico del Brautigam come di tutto il ci
nema di Straub: in questo rimando ad una prova ulteriore,
alla scoperta continua di altre verità.
83
Gli occhi non vogliono in ogni tempo chiudersi
84
Straub ha definito Othon e lo ha dedicato «al grandissimo nu
mero di coloro nati nella lingua francese che non hanno mai
avuto il privilegio di fare conoscenza con l'opera di Corneille»):
a cominciare dalla terrazza di Settimio Severo sul Palatino e
dalla villa Doria Pamphilij, luoghi «sacri» aperti al cinema solo
per intercessione della Cultura (Moravia).
Gli intrighi di gabinetto, i raggiri matrimoniali, le beghe
per la successione all’impero non sono che il referente di una
incomprensione liceale di fronte alla delucidazione di una vio
lenza, di un amore che urla, inventato (Corneille) e reinven
tato (Straub/Huillet), la speranza di una giustizia: «Forse un
giorno Roma si permetterà di scegliere a sua volta».
Siamo nel 69, dinanzi allo sfacelo dell’impero romano. In
un anno si susseguono una quindicina di consoli e dal 9 giugno
'69 al 1 gennaio '70, si va dal suicidio di Nerone agli onori a
Vespasiano, passando per i brevi regni di Galba, di Ottone (3
mesi, dal 14 marzo al 15 aprile), di Vitellio. A Roma la situa
zione, molto confusa, è in mano ai pretoriani che spadroneg
giano e scelgono gli imperatori, mentre il Senato si limita a
mettersi a disposizione di ogni nuovo arrivato. Sperperi e ru
berie, conflitti di sangue e adulazioni di massa; il popolo vive
immerso nell’orgiastico susseguirsi di morti e di trionfi, in cui
circo, teatro e vita quotidiana si confondono. Ottone è figura
particolarmente ambigua (Tacito: «... Othonem, cui compo-
sitis rebus nulla spes, omne in turbido consilium, multa simul
extimulabant. luxuria etiam principi onerosa, inopia vix pri
vato toleranda, in Galbam ira, in Pisonem invidia...» — «...
Ottone, nessuna speranza da una situazione tranquilla, tutti
nel disordine i suoi progetti, molte cose lo stimolavano, lus
suria anche per un principe onerosa, povertà tollerabile ap
pena da un privato, contro Galba l'ira, contro Pisone l’invi
dia. . .»).
Aspirante alla successione, entra in piena crisi quando
Galba, imperatore in carica, adotta Pisone; Per arrivare al
l'impero, fa uccidere entrambi dai pretoriani. Innalzato dalla
congiura, mostra a corte molte qualità e molti vizi. Intorno a
lui prospera la corruzione di stato. Si può capire come, secoli
più avanti, la tradizione abbia potuto vestire questo brano di
85
storia dei panni della poesia e riproporlo, mutato in tragedia
di alto tono, alle corti di altri imperi. Il 3 agosto 1664 a Fontain-
bleau, Pierre Corneille presentava il suo «Othon»; nei versi
curatissimi una significativa trasformazione «culturale»: la
corruzione di stato mostra il suo lato più comprensibile alle
nuove classi dominanti: Othon si dimena in intrighi d’amore,
tra Plautina, figlia del console Vinio, e Camilla, nipote di Galba
inventata dal poeta. Plautina è la prospettiva di Ottone all’Im-
pero: il padre può indirizzare Galba nella scelta del successore.
Dunque: «Quelli che si vede meravigliarsi di questo nuovo
amore / Non hanno mai ben concepito ciò che è la corte. /
Un uomo quale me mal se ne distacca; / Non c’è ritiro od om
bra che lo nasconda; / E se del sovrano il favore non è per
lui, / Bisogna, o che perisca, o che prenda un appoggio». Ca
milla non ha speranza. I suoi sentimenti sono sconfitti dalla
sete di potere di chi le è intorno. E’ in questo gioco di perso
naggi che trova spazio, per un solo attimo, la speranza di una
forza nuova, assente dalla scena ma presente obbiettivamente
nella tragedia: «Forse un giorno...».
In questo spiraglio epico s’impianta l’operazione di Straub/
Huillet: per arrivare alla storia e spezzare quella catena che
unisce il ruffiano del Bràutigam al Lacone dell’Ot/ion alla Inn
di Machorka-Muff. Occorre appropriarsi del mito, destituirlo
della sua intangibilità, rivelarne la parzialità. Il popolo era
lontano dalla congiura di Ottone ed è lontano dagli amori di
Othon; dunque, converrà far parlare la storia in prima persona.
Nel film, la Camilla del terzo atto è un personaggio che dice la
storia; in lei non c’è più traccia di psicologia (eppure si
trattava di una storia d'amore!). La m.d.p. filma piani fissi,
corretti al massimo con leggeri spostamenti indietro, ma sem
pre sull’asse. Il cinema scopre, esibisce il teatro per contrad
dire il realismo dei personaggi, delle loro figure fìsiche, dei
loro movimenti; e da questo rapporto tra finzione e vita emerge
la storia. In questo senso Straub ha definito VOthon un film
politico («perché è proprio il contrario di un film d’agitazio
ne»). Tolto il simbolo, tolta la psicologia, rimane la politica;
fuori-campo, giacché il campo è riservato ai «fatti». Ma «il
fuori-campo esiste», dice Straub, basta saperlo.
86
Brecht lo sa, per questo Straub e Huillet si rivolgono a
lui. E mentre pensano al futuro, affondano la loro ricerca
nel passato, fino a trovare l’origine deH’imperialismo, l’inqui
namento capitalistico della democrazia. Incontriamo Giulio
Cesare, lucido nella sua corruzione, esemplare, didattico; e
lo mettiamo a confronto, per stacco con un popolo di ex-arti
giani, sommersi dalle automobili in una città-cimitero in cui
non c’è più respiro per un ritmo antico di traffici.
87
Straub/Huillet/Brecht: Lezioni di storia
88
fondo delle circostanze di un dato avvenimento — e intanto
sono pieno di scetticismo e per così dire non faccio che toglier
mi di continuo la sabbia dagli occhi —, nella parte posteriore
della mia testa sorgono indistinte immagini di colori, impres
sioni di determinate stagioni, sento delle cadenze senza pa
role, vedo dei gesti senza significato, penso ad auspicabili rag
gruppamenti di figure prive di nome e così via. Le immagini
sono molto indistinte, per nulla eccitanti, piuttosto superficiali,
a quel che mi sembra. Ma esistono, il formalista, che è in me,
è al lavoro. Mentre vado lentamente scoprendo il significato
delle corporazioni delle mutue mortuarie di Clodio e già mi
invade una certa gioia della scoperta, penso: se una buona
volta si riuscisse a scrivere un capitolo lunghissimo, limpido,
autunnale, cristallino, con una curva irregolare, una sorta di
rossa linea ondulata che l'attraversasse tutto!». (Cfr. B. B.,
«Scritti sulla letteratura e sull'arte», Torino, 1973).
Brecht si schiera contro un certo tipo di riconoscibilità
dell’immagine artistica, che postula autoritariamente una sorta
di omogeneità della forma — a livello di contenuto — non ne
cessariamente rispondente alla effettiva situazione produttiva
dell'artista, ma solo rispondente all’espressione di una prefe
renza in direzione della norma. Ciò che a Brecht preme di sal
vare è la possibilità del discorso, proprio nel senso di un con
fronto dialettico, riscontrabile, esso sì, nella polarità degli
elementi in gioco, interni al contesto o chiamati da questo a
confermare il grado di apertura del confronto stesso.
A tutto questo devono aver anche pensato Straub e Huillet
quando hanno definito la struttura di Geschichtsunterricht
(«Lezioni di storia»): non una «lezione», ma un modo di ri
flettere sui rapporti tra chi indaga e la materia indagata, una
riflessione sul modo di fare un film, di essere nella storia. Se
per Brecht si trattava di «togliersi la sabbia dagli occhi», per
Straub e Huillet il problema era di non restituire tali e quali
(naturalisticamente) le argomentazioni brechtiane. Bisognava
fare attenzione che i «personaggi» storici non venissero im
mediatamente investiti dal procedimento cinematografico, ma
fossero come tenuti fuori, e acquistassero così una consistenza,
una rappresentatività contestabile. Al limite, risulterà legittimo
89
ridurre (illegittimamente) Lezioni di storia a mera dialettiz-
zazione di una tesi ideologico-politica e, chiudendo per così
dire gli occhi, assumere i «significati» del film solo attraverso
le parole degli attori. L’operazione sembrerebbe suggerita, in
termini strutturali, dal film stesso, quando al pieno delle lunghe
inquadratura fisse, col dialogo del Banchiere e del Giovane,
oppone il vuoto dei fotogrammi neri. Ma questo pieno-vuoto
non è altro, al limite, che il susseguirsi dei pezzi di pellicola
giuntati per fare il film. In Lezioni di storia lo «stacco assume
un valore formale molto forte, ben oltre la scansione lineare
dei blocchi «narrativi». Lo «stacco» in questo film non è mai
in funzione di un montaggio «narrativo», non ha intenti uni
versalistici, né attinge le sue ragioni in metaforizzazioni extra-
filmiche; più che assumere valori sintetici, segna quella che
Tynjanov (un altro formalista!) chiamerebbe la «successione
differenziale» delle inquadrature, ponendo allo scoperto una
materialità del cinema, che non esclude ma anzi sottende la
dialettica del procedimento. Lezioni di storia è così svuotato
di ogni illusione di continuità e restituito allo spettatore in
tutta la sua carica contestativa. Registrazione (in «presa di
reta») di una realtà «inverosimile» (il giovane a noi contempo
raneo che, in automobile, va ad incontrare, nella Roma e in
altri luoghi d’oggi, personaggi di tanti secoli fà: un banchiere,
un contadino, un avvocato, uno scrittore, uomini anch’essi del
nostro tempo ma vestiti di panni antichi...) e sua organizza
zione dialettica (pieno-vuoto/fissa-stacco); documentario di
una realtà autentica (tutto il materiale profilmico, che davanti
alla m.d.p. non può non mostrare la sua piena attualità), rea
lizzato con strumenti analiticamente esibiti per tali: il tempo
dei «pieni» e dei «vuoti», la lunghezza delle battute, i silenzi.
E comunque, non un film sul cinema, bensì un laboratorio
che usa il cinema.
II testo di Brecht è sempre in primo piano. Straub/Huillet
lo rivelano nella sua autenticità utilizzandolo come polo della
ricerca. In questo senso, possiamo parlare di uso specifico del
cinema, poiché qui la parola acquista una correlatività, una
apertura verso un «fuori», che è precisamente il suo attestato
di appartenenza ad una sfera formale. E’ la «pienezza» del mez
90
zo a legittimarne la «lettura» e dunque a svincolarlo dalla
pura e insignificante materialità. La pienezza del filmato risulta,
non come in moltissimi casi di cinema pseudo-impegnato, da
una sorta di compattezza del referente, misurata a volte sulla
presenza stessa del personaggio — che anzi, ciò che risalta di
più in Lezioni di storia è l'assenza del personaggio e il crudo
affermarsi del lavoro delle persone davanti alla m.d.p. —,
bensì dalla inequivocabile funzionalizzazione del procedimento.
Ciò, ovviamente, non vuol dire univocità del significato. La pro
duzione del senso coincide con il flusso proiettivo del film pro
prio in quanto i fotogrammi, sfruttando al massimo una loro
materiale capacità di registrazione (si pensi alla fissità del-
l’obbiettivo, al tipo di focale usato: non vengono mai oltrepas
sate le soglie del 9 e del 25; e alla presa diretta del sonoro),
correlano questa loro disponibilità alla sua stessa negazione:
la serie «vuota» del film. Esempio, l’inquadratura della ter
razza della villa Aldobrandini a Frascati, con la voce del Ban-
chiedere fuori-campo. Qui il «pieno» del procedimento si iden
tifica, in un certo senso, con il «vuoto» referenziale. II «fuori
campo», rispetto al centenuto, produce uno spazio d’intervento
per lo spettatore, che c dilatato al massimo. L’immagine, ta
gliata trasversalmente da una fila di vasi fioriti, resiste per
1’20” al «bombardamento» semantico del testo brechtiano e, al
tempo stesso, lo esalta nei suoi valori di contenuto: è una vera
c propria denuncia contro tanti film che troppe volte negano
allo spettatore il diritto all’interpretazione; c contro l’inade
guatezza anche di un cinema di intervento diretto. «I nostri
appaltatori doganali organizzavano sotto la protezione delle
aquile romane in piena pace regolari cacce agli schiavi nelle
Province dell'Asia Minore»: «Il fogliame è giallo in autunno»,
direbbe Brecht.
Un altro esempio della struttura dialettica del film è dato
dall'inquadratura che chiude il discorso del Banchiere. In
questa immagine confluiscono, quasi sommandosi, quattro
precedenti serie di fotogrammi neri, finché il volto del Ban
chiere si blocca in un’attesa significativa, che si romperà solo
col successivo fragore del torrente dell'inquadratura succes
siva. «Cicerone fece del resto allora il suo discorso di debutto.
91
Parlò per l’attribuzione del comando supremo a Pompeo. Da
dove ottenesse l’onorario, Lei lo può calcolare». Su questa
battuta, il Banchiere rimane immobile fissando Io sguardo
e consegnando la problematica alla nostra interpretazione. La
stessa cosa era accaduta al termine della passeggiata sul sen
tiero dietro alla villa, quando il Giovane, accompagnato dalla
«macchina a mano» con passi dell’operatore all’indietro, aveva
dato la versione libresca della storia, offrendola alla contesta
zione del Banchiere, ma anche, col suo attimo di silenzio,
alla nostra verifica. E la stessa cosa accadrà nell'ultima inqua
dratura, che è tutto meno che un’inquadratura «finale».
L’apertura strutturale di Lezioni di storia non è, del resto,
carattere esclusivo di una certa linearità sintagmatica. Tale
linearità è anzi esplicitamente interrotta dalle tre sequenze-
travelling del trasferimento del Giovane in automobile per le
vie di Roma, e non certo per isolare il film in tanti blocchi
«belli e fatti». Anche il suono, col suo parlato antinaturalistico
opposto alla registrazione dell'ambiente, non ammette alcuna
passività contemplativa; esso richiede un ascolto attento e
un continuo lavoro sull’asse della selezione, rispetto a se
stesso e rispetto al visivo. Anche il sonoro, cioè, non sopporta
riduzioni in termini di «contenuto» né di concretezza fìsica,
giacché la sostanza auditiva discorre già di per sé, e a suo
modo, col proprio riferimento iconico. Ce lo dimostrano ap
punto le tre sequenze dell’automobile, dove in funzione sin
cronica interagiscono tutti gli elementi strutturali del film. L’af-
fabulazione tocca il suo livello minimo e il senso del film è
affidato quasi esclusivamente all’autenticità del procedimento.
L'automobile è mezzo di trasporto c insieme veicolo cinemato
grafico, non semplicemente perché la macchina da presa che vi
è installata, oltre che inquadrare il Giovane alla guida, ripren
dere i luoghi del percorso; ma soprattutto perché non riprende
tutto ciò che, sincronicamente e diacronicamente, ad essi si
oppone: compreso il sonoro, il cui campo di registrazione non
può coincidere con il limite dell’inquadratura. L’esibizione ca
parbia dei contorni materiali del filmato, suggerisce il loro
sconfinamento nel momento stesso in cui ne esalta le difficoltà
o quasi-impossibilità. E’ come un progetto di un altro film. La
92
pienezza prospettica dello sguardo (obbiettivo 9) e la sua insi
stenza (durata delle tre sequenze: 8'45”, 10'20”, 10’39”) svuo
tano l'inquadratura della propria referenzialità, progressiva
mente, fino a ridurla completamente disponibile ad altri per
corsi e ricerche, in altri tempi e spazi. Quali? Quelli di Roma
antica, degli artigiani e degli schiavi tenuti fuori dalla mappa
marmorea dell’impero, ma vivi e sempre risorgenti come l’ac
qua che sgorga da una duratura fontana? Da un discorso ne
nasce un altro, basta sapere che un film non è un'automobile
— e non fregarsi le mani preannunciando l’incomprensione del
le masse.
FRANCO PECORI
93
ANTOLOGIA CRITICA
95
un piatto reportage, ma giustamente per questo affinamento,
questa condotta stranamente folgorante della macchina da
presa nelle strade, l'hotel (benissimo, i muri della camera d’al
bergo che restano lungamente vuoti, dalla cui nudità non ci
si può staccare), alla finestra... E ancora la condensazione
«irreale» del tempo, senza che si abbia fretta, in questa linea
tagliente fra la verità, la concentrazione e l'affinamento (che
penetra bruciando nella percezione del reale), il progresso sarà
possibile. Da nessuna parte altrove. Oggi sappiamo bene che
anche l'illusione fatta a pezzi è un'illusione. Voi non volete
«cambiare» il mondo, ma incidere in esso la traccia della
vostra presenza e da lì dire che avete visto, che avete aperto
una parte di questo mondo, come essa vi si dà. Questo mi è
piaciuto. Aspetto con impazienza il vostro lavoro a venire...
Karlheinz Stockhausen,
Colonia, 2 Maggio 1963.
96
Polemica per un film su Boell
97
rispetto a questo esperimento audace, a questa ribellione al
l'ondata sdolcinata di film senza impegno. Ma Straub purtrop
po fa parlare i suoi attori dilettanti. E' la storia di tre gene
razioni di una famiglia di architetti di Colonia, nonno, padre
e figlio. Costruiscono un'abbazia, la fanno saltare durante la
guerra per liberare il campo di tiro, la ricostruiscono dopo la
guerra; la storia di una famiglia borghese, cattolica, antina
zista, che non accetta la morale corrente: la storia di Schrella,
amico della generazione di mezzo che si considera dalla parte
degli «agnelli» ed è perseguitato dai nazisti prima e dopo il
'45; la storia della vecchia nonna un po' matta, che torna agli
onori dela cronaca quando uccide un nazista ridiventato po
tente e rispettabile. Questa storia non può fare a meno delle
parole, del dialogo. E i dialoghi sono di Boell.
E Straub rimane fedele al suo concetto estetico e conduce
il dialogo e la rappresentazione come fa con la macchina da
presa ed il taglio delle scene. Gli attori non agiscono. Anche
qui è lo spettatore che deve completare il film. Straub si ri
chiama a Brecht e dichiara che i suoi attori non devono rap
presentare il dialogo ma «citarlo». Alla fine questo sembra un
pretesto, anche se il citato di Brecht è già contenuto nel titolo
del film. Per «citare» nel senso di Brecht, senza rappresentare,
bisognerebbe però prima essere in grado di rappresentare. Gli
attori di Straub non lo sanno fare, si limitano a leggere il
testo. Ed è qui che Straub ha rovinato il suo film, se dobbia
mo credergli quando dice che questa ingenuità è voluta. Se
qualcuno avesse avuto intenzione di fare apparire vuoto, in
sensato e patetico il linguaggio di Boell, non avrebbe potuto
farlo meglio di Straub (...). Nonostante tutto, «Nicht Ver
sohnt» fa parte di quelle opere non riuscite alle quali un’arte
che si batte per rinnovarsi, non può rinunciare.
98
Attacco filmistico a Heinrich Boell
99
non è cristallino, ma in questo modo si possono distruggere
anche Goethe e Proust. Enunciato alla maniera della scola
retta che recita una poesia, qualsiasi testo perde la sua fun
zione. Può essere che il signor Straub non abbia orecchio per
la cadenza del tedesco e non si accorga assolutametne della
tortura alla quale sottopone l’ascoltatore. Egli ha comunque
portato una novità nel cinema: il sadismo acustico.
100
Autentico cine-saggio su Bach
101
fetti, il rapporto. La musica assimila il significato della fe
deltà cinematografica che ne dà una riproduzione esatta,
e acquista il carattere di un oggetto fotografato visivamente e
sonoramente, che diviene parte del principale contesto bio
grafico, storico, ambientale.
In realtà si ha uno scambio, una integrazione fra cinema
e musica, che provoca un'operazione di reciproco straniamento.
La musica strania il cinema vincolandolo al proprio rigore,
mentre il cinema strania la musica e la sua dimensione di
ascolto, soprattutto. Sembra un concerto, e non Io è in asso
luto; sembra un film, e anche qui, in assoluto, non lo è. Agisce
infatti una continua negazione, portata peraltro su un piano
(ancora brechtianamente) di epicità espositiva, da cui discende
il contenuto voluto. Per così dire, sullo schermo, l’operazione
di straniamento fa sì che in sé, questo sorprendente fatto di
musica-cinema, e viceversa, mimi ciò che poi viene ricondotto
a Bach, alla sua vita.
Si mette così in moto un meccanismo appunto epicizzante,
ovvero un processo che gradualmente e impietosamente, dis
socia e contrappone l'evidenza della grandezza musicale, sem
pre maggiore, del lavoro bachiano, dalla sua progressiva e
sempre più chiara prigionia in un ordine di rapporti produt
tivi, che tendono a ridurlo a routine, a mero esercizio. La scis
sione è dunque, però, fra prassi e teoria della libertà del lavoro
artistico, e insomma fra teoria e prassi della libertà tout
court. Emerge cioè il conflitto di fondo, insanabile, della so
cietà capitalistica, evidenziato dalla vita e dall’opera di Bach
nella fase in cui viene emergendo attraverso la meccanica mer
cantile dello scambio, ormai dominatrice delle relazioni so
ciali stesse.
Allora, nella misura in cui ciò viene fuori dalla struttura
straniante del film, il commento parlato assume un carattere
di didascalia, a sua volta con funzioni di straniamento. Si con
gela in esso, tramite la proiezione del ricordo che prende le
distanze, l’esemplare testimonianza dell’itinerario bachiano.
Il piano riandare di Anna Mgdalena alla vita di Bach, al suo
operare, alle sue difficoltà, ai rapporti difficili e spesso umilianti
con i signori al cui servizio si pone o con la municipalità di
102
Lipsia da cui dipende, e per altro verso i momenti liberatori
dell’intimità familiare, le inquietudini, le depressioni, le ras
segnazioni, diventano i vari lati di un’autentica cronaca che
restituisce l'idea di un’attività musicale davvero allo stato
puro, ma naturalmente in una prospettiva concreta, di lavoro
determinato dalla condizione sociale e la suprema qualità
musicale di esso, si astrae in una propria dimensione di auto
nomia artistica, che però, di nuovo in concreto, evidenzia la
contraddizione fondamentale con la riduzione mercificante im
posta alla musica bachiana. Se mai si voglia una spiegazione
esemplare della funzione di mero godimento, di contorno al
limite piacevolmente decorativo, o di semplice adempimento
a scopi rituali, religiosi, che la musica ha avuto nel Settecento
(per cui lo stesso Bach non veniva riconosciuto al di là delle
pur eccelse doti di artigiano, che soltanto gli si ammetteva),
ecco, qui, nel film di Straub, la spiegazione è chiara e ine
quivocabile.
Il versamento su cui si conduce questa cronaca è dunque
materialistico, attento ai limiti terreni di un'attività di musi
cista che ne mette in luce l’aspetto profano, di lavoro in ultima
analisi minacciato dalla reificazione. L’opposto di essa, certo,
è la coscienza di Bach, rivissuta tramite la moglie, non già
del proprio valore ma del valore del lavoro musicale, oltre le
barriere del limitato scopo sociale cui veniva destinato. In
altre parole, è proprio la musica bachiana, posta da Straub
in primo piano, come un oggetto avulso dai contesto che la
impoverisce, a cessare di essere un oggetto per diventare il
soggetto di un discorso critico su ciò che mira al suo declassa
mento, la società per cui veniva prodotta e dalla quale era
esclusivamente consumata. Semmai, la concentrazione indivi
dualistica del racconto di Straub, da cui peraltro emerge pie
namente il genio che vive nella musica bachiana, inclina al
l’esperienza esistenziale, all’angoscia ma altresì all’apologià
dell'isolamento, alla scadenza della sconfitta. Anche tramite
ciò, tuttavia, esce il paradosso, o la contraddizione, perfetta
mente attuale del resto, fra autonomia dell’arte e sua riduzione
a cosa, essa sì inevitabile nella società che appunto mercifica
103
il lavoro artistico nel momento in cui gli nega l’autonomia. Il
Settecento rappresentato tramite la cronaca di Anna Magda
lena è insomma l'inverso del secolo in cui per il musicista, nel
nostro caso, fare musica sarebbe stato un lieto svolgere la pro
pria attività, sotto la protezione di magnanimi protettori. Così
ci viene abitualmente presentato. Invece il lavoro musicale vive
perfettamente la negazione che lo contrassegna nell'ambito
storico del capitalismo, da cui pure fu determinato alla ipotesi
di una propria autonomia, ma in quanto investito dalla logica
mercantile. Da essa, lo stesso Bach ha avuto in cambio la dura
prova della propria vita di compositore.
Chi avrà visto Chronik der Anna Magdalena Bach alla tele
visione, l’avrà probabilmente seguito con qualche fatica. L'im
pietosa intransigenza con cui Straub ha trattato il suo tema,
non ha certo badato a tale conseguenza. Appartiene, d’altra
parte, alla lucida dialettica di un film che probabilmente è an
che il primo caso di un autentico saggio su un argomento mu
sicale, scritto attraverso e con il cinema.
104
Tema, variazioni e fuga: opus 4
105
diventa lo sposo) e l'attrice (la si è, prima, vista recitare), due
porte, l’allusione a una minaccia (il ruffiano) e la risposta in
americano (ipotesi — anche qui — del negro americano —
è l’accento che lo dice — integrato: «O.K., Baby»).
Ora il nucleo — così discretamente presentato — genera
una variazione che dura più di un terzo del film. Il piano di
variazione rinvia l’immagine del nostro nucleo d’origine, svi
luppando una situazione simile, anticipando uno scioglimento
inversamente parallelo a quello che avrà, ma essendo i ruoli
spostati, questa immagine sarebbe falsata e dunque inganna
trice, se il teatro che dà qui alla finzione un secondo grado,
rinforzandola perfino di dettagli realistici, non vi si trovasse
confuso con la durata e lo spazio del piano che, registrando
spazio e durata teatrali, si libera esso stesso di ogni simboli
smo. Ora questa immagine si trova ugualmente amplificata
dalla sua insolita durata. Ecco che questa realtà (il piano 4 —
nucleo del film), lungi da proporre una qualsiasi profondità
o ricchezza, alla quale farebbe allusione, confermando lo spet
tatore nella sua ideologia e nel desiderio che egli avrebbe di
ricondurvi tutto, si svuota al contrario di tutto ciò che non
è segno, al fine di permettere la combinazione di spazi inediti
che non si riferiscono a nessun’altra realtà che non essa stessa,
tangibile e relativa del piano 4.
Così la commedia, i poemi di San Juan de la Cruz e le pa
role rituali del matrimonio sono ricondotti al rango di cita
zioni indifferenziate che sviluppano una finzione dove i «per
sonaggi» perdono ogni spessore per essere aspirati ora in uno
spazio, ora in un altro, spazio di una parola — individuale
o collettiva, poco importa — che presta loro, il tempo di un
piano, un certo numero di segni grazie al quale si istituisce
un gioco in cui la coscienza, di essere attinta, diventa intercam
biabile, perde ogni individualità, polverizza i residui psicolo
gici, scopre le carte della società borghese (il ruffiano minaccia:
«alla nostra famiglia non si sfugge» — la polizia fa parte
della famiglia; la sfilata muta, ostinata e incantatrice delle
prostitute, seguita dall’appello alla liberazione del coro di
Bach — strano capovolgimento in Straub del rigorismo ini
ziale in mobile e feconda dialettica delle forme).
106
E’ dunque la finzione che crea la propria dinamica: non
c’è necessità se non cinematografica, aleatoria e poetica (pra
tica) a che il piano 11, in cui l'attrice, tramite i versi di San
Juan de la Cruz, enuncia la reclusione per amore, riprenda
così i temi del piano 9 (il matrimonio e il suo contratto di
ineguaglianza) e annunci il piano 12 (il colpo di pistola, libe
razione relativa): le parole, lungo tutto il film, sono punteg
giate qua e là da aperture e da chiusure di porte, che liberano
e chiudono relativamente. Il solo referente esplicito è la morte,
cantata, punto finale del film, alla luce della liberazione asso
luta. Un rinvio così sistematico dello spettatore alla sola rela
zione di scambio testuale con un film non è forse, come in
Mallarmé o Webern, l'atto più rivoluzionario di cui sia capace
e debitore il cinema?
107
c se di là passassero
tanto che le altre macchine (del mondo) gonfiassero,
e così le accendessero,
che in loro stesse le convertissero,
e tutte queste fiamme d’amore fossero:
non penso che potrei,
secondo la viva sete d'amore che sento,
amare come vorrei;
né le fiamme che racconto,
soddisfare la mia sete per un momento.
Poiché esse, comparate
con quel fuoco eterno senza pari,
non sono più grandi
di un atomo del mondo,
o di una sola goccia nel profondo.
(Lilith esce di campo. Musica: Bach BWV 11 - solo le ultime battute
dell’orchestra).
Lilith: il mio cuore d'argilla,
che non soffre calore né permane
più del fiore del campo,
l'aria lo apassisce e indebolisce;
come mai potrebbe
ardere, tanto che montassero i suoi barlumi
come esso vorrebbe,
fino alle alte cime
di qucll’etemo padre delle luci.
Nel giardino, un albero agitato dal vento. Pioggia.
108
Superamento del realismo e orrore per la realtà
109
(...)
La fuga dell’oggetto
110
sostanziale orrore per un mondo sempre più condizionato
dalle tre grandi catastrofi che si profilano all’orizzonte, quella
atomica, quella ecologica e quella demografica? Se è vero che
l’arte è progetto, è ipotesi sul futuro, è strategia di forme, è
tentativo di risposta totale alle domande informi che la realtà
nel suo movimento ci rovescia addosso, non è vero anche che
l’artista si trova paralizzato, in questa operazione di progetto,
in questo suo tentativo di visione strategica e non unidimen
sionale della realtà, perché come uomo, e non come uomo
astratto, ma perfino come uomo radicato in una classe e in
una classe rivoluzionaria (ma quale? gli operai? i contadini?
e quali operai? quali contadini? quelli del mondo capitalistico?
o delle zone depresse di questo mondo? o quelli dei paesi in
via di sviluppo? o quelli che stanno continuando la lotta
di classe all’interno dei paesi socialisti? o quelli che stanno
facendo la guerriglia? ...) non è perché come uomo di classe,
dicevo, e rivoluzionario, è incerto, frustrato, incapace di pro
gettare una strategia generale della rivoluzione, o di indivi
duare almeno quella fra le tante (rivoluzione culturale? ca
strismo? titoismo? rivoluzione permanente?) che sia la più
giusta da seguire? (E se non crede in tutto ciò, non si tratta
in definitiva di un uomo che sfugge quanto meno ai rischi
di una visione eroicamente fenomenologica del mondo?)
E se è vero che il filo rosso della soggezione alle cose
(le cose sempre più verosimili, come mito naturalistico, o le
cose come prevaricatrici, come orrore, come incubo) sottende
ininterrotto tutta la parabola che dal naturalismo porta all’a
vanguardia, non è vero forse che solo spezzando questo filo —
interrompendo il corto circuito che ha portato l’occhio in
un presunto contatto diretto col reale, accecandolo, in una
ultima parossistica cupidigia di «assoluto» e di metafìsica —,
si potranno prendere le distanze, rifondare le basi di un rap
porto razionale e dialettico tra l’uomo e il mondo, tra l’artista
e la realtà? E intraprendere questa strada, ricominciare a tes
sere la tela di una visione globale progettante, da lanciare come
una sonda nello spazio storico che ci è intorno e verso il
futuro non significa forse per l’artista riprendere la strada
del realismo critico? Certo, nessuno sa dove comincia (o dove
111
ri-comincia) questa strada, ma è certo che per intraprenderla
bisognerà liberarsi oltre che del fardello naturalistico, anche
di quello sempre più ingombrante dell'artificio avanguardi
sta, con tutto il suo corredo barocco di cerimoniali stremanti,
con tutto il suo fondamentale orrore per il mondo. (E perché
tutto questo si verifichi, bisognerà che scatti almeno una opzio
ne: quella fiducia nella sopravvivenza della vita alla catastrofe
ecologica, biologica e atomica).
112
Cinema dell’abbondanza e film della povertà
113
coincidenza con un discorso di acqua da parte del banchiere
(le coorti romane spazzate via dall'alta marea in Spagna), il
il suo sguardo si fa critico, alla fine vomiterà per interposto
mascherone e interposto Bach. Inconsapevolmente, il ban
chiere (la storia in lui) cerca un figlio, ed un padre che il gio
vane infine (nel mascherone e in Bach) decisamente rifiuta.
Rifiuta il padre, e quinda la sua storia.
Se, parlando, si «esprimono concetti», si «assume una
«espressione», comunque muovendo le labbra, pronunciando
parole, si compie un lavoro davanti alla m.d.p., si sfugge in
certo senso aH’implacabilità del suo occhio, al nucleo mortale
deH’immobilità ispezionata; mentre il piano prolungato oltre
il parlato, oltre il «dovuto», mette a nudo il morire, l’imba
razzo di essere, troppo a lungo e indiscretamente, visti morire.
Così, il testo brechtiano sulla Storia, non è ideologia esterna
al film, è semmai l’esterno irriducibile, interno all'alienazione
del film degli attori recitanti, di Straub/Huillet e di tutti noi
spettatori.
Inversamente, questa esternità è storica, non antropolo
gica né metafisica, e in ogni caso strettamente collegata ai
rapporti di classe. Sono i rapporti di classe, sotto la loro spe
cie fisica, a stabilire una corrispondenza sottile e profonda
tra i capitalisti e il giovane, corrispondenza di cui quest’ulti
mo potrà liberarsi solo volontaristicamente, attraverso lo sfor
zo deiettivo che gonfia le gote di marmo del mascherone. Sono
i rapporti di classe a stabilire la distanza, che il film non pre
tende di colmare, tra il giovane Zulauf e il contadino Unter-
pertinger, o meglio, tra le loro rispettive tracce filmiche. Sono
gli stessi rapporti di classe a rendere così problematico il loro
rapporto, a far sì che le risposte del contadino siano scheletri
che, come il suo aspetto, ed eludano costantemente le «richie
ste» implicite nelle «domande» dell’interlocutore.
Sono i rapporti di classe a far sì che il tempo-della-morte
che oscura di quando in quando i discorsi del banchiere, sia
molto diverso da quello che si istalla, fisiognomicamente, nella
magrezza ossuta del contadino: si tratta in ogni caso, di «morti»
ben diverse, che non enunciano tanto un destino esistenziale
quanto diversi «destini» storici. Sono i rapporti di classe, in
114
fine, ad inibire, per ora, ad un'altra coppia di discenti (J. M.
Straub e D. Huillet) la possibilità di «far parlare gli operai» (...).
(...) L'organizzazione del materiale profilmico è minuzio
samente preordinata, ma l'intenzionalità ultima di questo or
dine è proprio quella di lasciare che, attraverso le ripetizioni,
e senza dirigismo, affiori spontaneamente la configurazione più
significativa.
Si situano qui, a nostro parere, le più preziose indicazioni
metologiche che i film di Straub/Hullet offrono alla discus
sione sul rapporto problematico ideologia-cinema: nel pieno
di una prassi generalizzata di manipolazione della realtà, di
pseudo-risposte, anche di sinistra, che saltano a pié pari le
domande stesse in fideistici (acritici) slanci, di accentuazione
del drammatico tramite l’ideologico e dell’ideologico tramite
il drammatico, in un puntellamento reciproco di strutture in
se stesse sbilenche, questo cinema iscrive invece il proprio
lavoro di paziente indagine anti-autoritaria, di interrogazione
incalzante ma discreta del reale; e il reale risponde, alle do
mande ostinate dei film-makers, in un ordine del discorso che
attiene sia alla loro pervicacia tendenziosa che al libero confi
gurarsi d’un suo disegno interno (...).
115
Cesare stacca uno cheque
116
e di sentimento. Ma è anche un film la cui singolare comples
sità vale la pena di esaminare. Dungue si tratta di una lezione
di storia romana impartita ad un certo giovane (forse imo
studente, forse semplicemente «qualcuno che vuol sapere»)
vestito di panni moderni. Così la vicenda non riguarda tanto
Giulio Cesare quanto una lezione su Giulio Cesare nella quale,
però, di fronte allo studente non si trovano i soliti professori
bensì alcuni personaggi, un banchiere, un contadino, un giu
rista, uno scrittore, contemporanei del dittatore romano. In
altri termini, sullo schermo agiscono insieme e nello stesso
tempo cinematografico, personaggi di oggi e personaggi di
duemila anni fa. Perché questo? Perché, in realtà «Lezione
di Storia» non è come si potrebbe pensare, un film didattico
ma una metafora sulla storia e i suoi insegnamenti che con
sente a Straub un approccio poetico alla figura di Giulio Cesare.
E che questo sia vero, lo dimostra la funzione che ha nel
film Roma moderna. Straub, tra un brano e l’altro della lezione
su Giulio Cesare, inserisce alcune sequenze molto lunghe e
insistite nelle quali vediamo il suddetto «giovane» avido di
sapere che guida interminabilmente l’automobile per le strade
affollate, ingombre e rumorose della Roma di oggi. Non suc
cede nulla: l’automobile avanza tra i marciapiedi stretti, tra
le tante macchine parcheggiate, da una strada all’altra, e poi,
alla fine, dopo qualche minuto di questa scorribanda senza
scopo apparente, la lezione di storia romana riprende. Sarebbe
troppo facile dire che Straub ha voluto mostrarci cosa è diven
tata col tempo, a che cosa si è ridotta la capitale del mondo.
Semmai come in «Othon», Straub ha voluto accostare la Roma
di oggi, col suo traffico automobilistico e la sua folla moderna
alla Roma antica. Il motivo, poi, di questo accostamento ap
parirà chiaro allorché lo chiameremo col suo nome: collage.
E’ in questo procedimento tecnico, da «objet retrouvé», che
in fondo consiste tutta la differenza tra Straub e Brecht. Sen
za la corsa della macchina per le strade della Roma moderna,
«Lezione di Storia» sarebbe rimasto nei limiti ideologici e
formali di «Gli affari del signor Giulio Cesare». Grazie all’inse
rimento della gigantesca anche se sordida figura di Giulio
117
Cesare nel quadro della Roma di oggi, la polemica marxista
di Brecht passa in seconda linea e resta solo un ritratto di Cesa
re, l'ultimo.
118
Fur J.-M. und D.
«die Befreiung der Arbeiterklasse
kann nur das Werk der Arbeiterklasse
selbst sein»
V.V.V. 2.4.75
120
Per J.-M. e D.
La liberazione della classe operaia
non può essere che l’opera della classe operaia
stessa.
2 aprile 1975
Andreas Weiland
122
La politica del coro
123
La politica
124
corso della composizione, talvolta solo dopo». Con una con
traddizione necessaria, temeva che l’opera non venisse mai rap
presentata ma ne prevedeva rigorosamente la messa in scena.
Il libretto contiene numerose indicazioni sul dispositivo e i
movimenti. Più ancora, Schoenberg si vantava di moltiplicare
gli ostacoli e le ingiunzioni. A Webem: «Volevo lasciare ai
nuovi signori dell’arte teatrale, cioè ai registi, il meno cose
possibile e volevo anche pensare e prevedere la coreografia il
più lontano possibile..La chiusura del racconto, della sua
metafìsica e della sua politica era raddoppiata dalla chiusura
del testo, dell'accordo e della scenografia. Schoenberg aveva
persino dato la chiave che chiudeva il suo spazio. Confessava
di pensare al neo-baroco di Cecil B. De Mille (la prima versione
dei «Dieci Comandamenti» è del 1923), a un’estetica, dunque,
dell’accumulazione e della fissità: ancora altrettante barriere.
Jean-Marie Straub e Danielle Huillet danno al «Moses und
Aron» un altro teatro. Essi sostituiscono al fasto «orientale»
che si augurava Schoengerg e in cui si può vedere l'ultima meta
morfosi, hollywoodiana, di una moda esotica che coincide,
nell’Europa della fine del XIX secolo, con l'apogeo della po
tenza borghese, un’arena il cui spazio curvo (ellittico) cancella
le rigidità della ribalta, delle quinte e del trompe-l’oeil. Questa
liberazione è una tappa decisiva. La nettezza «romana» degli
esterni (sabbia, montagna, vegetazione arida e pietre rigoro
samente sistemate, senza decorazioni) reinventa, per un «caso»
ben riuscito dove intervengono la semplicità «arcaica» dei
costumi e la gestualità «declamatoria» dell’opera, la tematica
del neo-classicismo (3). Essa si riallaccia allo spettacolo gia
cobino che riuniva, scrive Starobinski, «gli uomini nello spazio
uno e indivisibile dell'ardore civico e della trasparenza dei
cuori». Questo spettacolo è ancora univoco e edificante; non
propone che un «didattismo del pieno» (4) ma ha il merito
principale di denunciare la politica della sua topografia. Staro
binski ricorda anche come l’architettura neo-classica ha adat
tato «per la vita parlamentare gli emicicli dove più tardi
s’inventerà, in virtù del diametro, l’opposizione classica della
destra e della sinistra». L’arena curva disegna, al di là dell’en
tusiasmo, il campo del conflitto e della rottura, della dialettica
brechtiana.
125
La democrazia
126
meccanicistico della sua tesi, strappato le figure di Mosé e
Aronne alla loro interiorità e trasformato il duello dell’inespri-
mibilc e della retorica in un confronto di tipo nuovo. Jean-
Marie Straub e Danielle Huillet fanno di più: riportano gli
eroi a misura della Storia. Essi riprendono, in un modo critico
vicino alla problematica leninista dei «Cahiers» il discorso
hegeliano che perseguita, come abbiamo visto, l’opera di
di Schoenberg. Nella «causalità» alla quale «Hegel sussume
«interamente» la Storia» (Lenin), l’«aneddoto» fa meno la fi
gura di «causa» che di «pretesto». Gli eroi della Storia sono
degli eroi marginali. «Questi arabeschi... che fanno da un
debole stelo uscire una grande figura sono... un processo spi
rituale ma molto superficiale».
Il film riprende questa suggestione «mistica ma molto
profonda» (Lenin) e ne materializza la dialettica. Il popolo
occupa la parte alta della scene e si appropria dell’esaltazione;
i panorami lirici che, alla fine dcll’Atto I, accompagnano il
suo canto di liberazione («Wir werden frei sein, frei! ») gli sono
riservati allo stesso titolo della festa infame ma anche trasgres
siva che segue l’apparizione del Vitello d’Oro. Mosé e Aronne
sono, essi, filmati dall’alto, inchiodati al suolo fin dalla loro
apparizione nelle scene 1 e 2 dell’Atto 1; la loro lotta metafisi
ca per il potere è una contraddizione secondaria che non ha
senso, fosse pure «tragico», che in raporto alla contraddizione
principale che li distingue dal popolo. Jean-Marie Straub e
Daniele Huillet abbandonano le indicazioni di Schoenberg,
che, nella scena 4 dell’Atto 1, scavava tra Mosé e Aronne degli
effetti di profondità per una «direzione» quasi langhiana (alla
quale si può ricollegare anche una «modestia» provocante
dell’inquadratura) dove gli attori si cancellano a beneficio delle
loro relazioni. In «Moses und Aron», le masse «fanno la Sto
ria», e la loro messa in scena è un apprendistato della libertà.
127
30 e da cui Straub ha anche tratto un film.
(3) Prima ancora dell’età di questo neo-classicismo Poussin scri
veva a Jacques Stella, a proposito della sua «Manne»: «Ho trovato una
certa disposizione per il quadro di M. de Chantelou, e certi atteggia
menti naturali che fanno vedere nel popolo ebreo la miseria e la fame
in cui era ridotto, e anche la gioia e l'esultanza in cui si trova, l'am
mirazione da cui è toccato, il rispetto e la riverenza che ha per il
suo legislatore, con un miscuglio di donne, di bambini e di uomini
anziani e di temperamenti defferenti; cose, che io credo, non dispia
ceranno a coloro che le sapranno leggere bene».
(4) Judith E. Schlanger. Teatro rivoluzionario e rappresentazione
del Bene. «Poétique», n. 22.
128
BIBLIOGRAFIA
129
17 feb. 1966
-Ingrid Seidenfaden: MONOLOGE IN BILDERN. In "Handelsblatt DUaseldorf",
23.2.66
-Yaak Karsunke: BIN DEUTSCHES JjELBSTPORTRXT?. In "Film",3d66
-Urs Jenny: DER UNKONSUMIERBARE FILM. In "Fila", 3/66
-Enne Patalas: FILMKUNST IN DER KATAKOHBE. In "Die Zeit", Amburgo, 23.3.66
-AUSZUG AUS DEM DREHBUCH NICHT JERSÒHNT. In "Pilakritik" 2/66
.Frieda Crafe: NICHT VERSÒHNT. In "Filmkritik" 3/66
-Frans v.d. Staak: NICHT VERSÒHNT - MACHORKA-MUFF in "Cineecri",Auaterdaa
marco 66
-Pierre Ajame: NON RECONCILIES. In "lee Nouvelles Litteraares , 21 aprile66
-Reinaid Schnell: NICHT VERSÒHNT. In "Deutsche Volksseitung", 22 aprile 66
-Georges Sadoul: UN FESTIVAL DES CINEMAS NOUVEAUX. In "Lee Lettree Pran-
Caises", 28 aprile 66
-Alfred Paffenholz: JEDER 1ST GEMEINT. In "Echo der Zeit", 8 maggio 66
-Heiko R. Blum: STRAUBS FILMISCHE STENOGRAMME. In "Winer Rundechau",
lo maggio 1966
-Adriano Apra: NON RICONCILIATI. In "nuovi Argomenti", aprile-giugno 66
-Michel Delahaye: LES PORTES DU SENS. In "Cahiers du Cinema" n. 17J
aprile 1966
-J.-M.Straub: FRUSTRATION DE LA VIOLENCE. In "Cahiers du Cinema', n 177,
aprile 1966
-Alberto Moravia: LA RIVOLTA NERA DI NARCISSO. In "L'Espresso", 19 giugno
1966
-Luciano Codignola: UK FUORHSCITO CHE TORNA. In "La Fiera Letteraria
23 giugno 1966
-Nichel Delahaye: ENTRETIEN AVEC STRAUB. In "Cahiere du Cinema", n.l8o,
luglio 1966
-Jacques Bontemps: LES FILMS A VENIR. In "Cahiers du Cinema" n.!8o, luglio
-Gideon Bachmann: NICHT VERSÒHNT. In "Film Quarterly", «state 1966
-Jean Delmas: RETOUR DU CINEMA ALLENANO. In "Jeune Cinema" n.16, giugno-
luglio 1966
-Pier Paolo Pasolini: NON RICONCILIATI. In "Cinema 60" pagina 35, n.6o/66
-Stig Bjbrkmann: DEBUT VNDBDEBATT. In "Chaplin 66", Stockholm
-Gianni Volpi: LA FCRMA DI UN DISCORSO POLITICO. In "Giovane Critica”,
Autunno 66
-Georges Sadoul: LA CHRONIQUE DE G.S. In "Lee Lettres Francaises", 13 ott
*
1966
-Uve NettCelbeck: JLXDOYER FUR EIN pROJEKT. In "Die Zeit", 14 ott.66
*
-Urs Jenny: £IN fILM MU GEDREHT WERDEN. In "SUddeutsche Zeitung", 28 ottA
-J.M.Straub: IMMER WEITER SUCHEN UNO VFRSUCHEN. In "Aktion",Vtenna,nov.66
-Jean-Louis Bory: VOUS DEVEZ V01R 2 FILMS. In "Le Nouvel Oh servateur",
19 ottobre 66
-J.-M.Straub: N.V. FUT LE COUP DE FOUDRE ET LE RETCUR DE LA COLERE. Entre-
tien . In "Les Lettres Francoises", 2c ottobre 66
-Jesn-Jacques Naudet: LES NON-RECONCILIES. In "Temeigrage Chretien", Paris.
27.lo.66
-lanick Arbois: NON-RECONCILIES. In "Teleraca", Paris, 3o ottobre 66
-TRIBÒNE DES JUNCEK DEUTSCHEN .FILMS: STRAUB. In "Filmkritik" 11/66
-dean-Pterre Leonardini: LE NAZISME VECU EN FAMILLE In "L'Humanite",Paris,
7 novembre 66
-D.F.: BÒLI IM STENOCRAHM. In "Tagespost", Berlin, 8 dicembre 66
-J.-M.Straub: REPONSE AU QUESTIONNAIRE "FILM ET ROMAN". In "Cahiers du
Cinema" n. 185, dicembre 1966
-J.-M.Straub: PREMESSA A NICHT VERSÒHNT. In "Cinema e Film". Roma, n.l,
1966/1967
-J.-M.Straub, D.Huillet: NICHT VERSÒHNT (DECOUPAGE). In "Cinema e Film",
n.l, 1966'67
-C.d.C.: PLAIDOYER POUR UN PROJET. In "Cahiers du Cinema", n.»«6. sen.67
130
-Jean Narboni: NON RECONCILIES. In "Cahiers du Cinema" 186, gennaio 6?
-Rein Bloem: TWINTIC JAAR LATER?. Ini'skoop", Amsterdam, gennaio 67
-non reconcilies (scheda del fila "Nicht vers6hnt2). In "L ’Avant-Scena/
Cinema", n.68, 1967
-Goffredo Fofi: JEAN MARIE STRAVE: NICHT VERSCHXT... In "Quaderni
Piacentini" n.3o 1967.
-Kirchner: SIND WIR MIT UNSERER ZEIT VERSOHNT7 In "Der Weg". 17 luglio 67
-Michky: HALTING VERBOTEN, DEMUT ERIALBI. In: Jugend 67”, Vienna
-M.-CIW.: NON RBCONCILIES. In: "Esprit", Paris, feb.67
-Haos Goldstein, Markus Be 1lerstal ler: HEINRICH BOLL UND JOH.SE6.BACH. In
"Information 2" (Zeitschrift fùr die Studenten der UniversicNt MOnchen),
15 feb.67
-Jan Blokker: STRAUB, EENSAME PIONIER. In: "Algeween Handel sb lad", 2 giugno
1967
Eller. Waller: FID'S ES FILNERS. In "Haagse Post". L’Aia, 2 giugno 67
J.-H.Straub: PRESENTAZIONE DI "CHRONIK DER ANKA .MAGDALENA BACH". In
"Cinema e Film", n.4, 1967
-J.-N.Straub: SUR CHRONIOUE D'ANNA MAGDALENA BACH. In "Cahiers du Cinema',
n. 193, settembre 67
■Maurizio Ponzi (a cura di): NOK RICONCILIATI (Scheda critica). In "Occhio
critico", Roma n.7, 1967
JEAN-MARIE STRAUB UND GUSTAV LEONHARDT. Ir. "Fi lek ri t ik" , lo/67
Ellen Waller: STRAUB FILMT BACH. In "Haagse Post", 28.lo.67
J.-M. Straub: SUR LUBITSCH. In "Cahiers du cinema", n.198.p.2k
-* -Feb.68
-CHRONIK DER ANKA MAGDALENA BACH. In: "Skoop", Amsterdam, n. 3 / 68
-J.-M.Straub: DIE CAMERA DWINGT MIJ DE WAARHEID TE VERSTELLEN. In: "Haagse
Coutant" ■ L'Aia, 1 febrraio 1968
-JIReichenfeld: STRAUB, BACH EN DE MUZIEK. In: "Handelsblad”, $.2.68
-F.Visbeen: "CHRONIK DER ANNA MAGDALENA BACH", DE WAARHEID VAN JEAN-MARIE
STRAUB. In "Nieuwsblad", 6.2.68
-J.-M.Straub: "CHRONIK DER ANNA MAGDALENA BACH" I "MACHORKA-MUFF" (sceneg
giatura desunta dei due film, con nota aggiuntiva di J.M.S. su "Il
fidanzato, l’attrice e il ruffiano”). In "Uinema e Film", Roma,.n. 5/6,68.
-J.-M.Straub: COME ESSERE BACH? (intervista)! Ibid.
-Mathilde Kbhler: DEN VERLEIHERN FEHLT DER NUT. In: "Hamburger Abendblatt",
16 marzo 1968.
-Wilhelm Roth: STRAUB NIMMT DIE yUSIK ERNST - WIRD CHRONIK DER A.M. BACH
EINEN YERLEIH FINDEN? In "Kolner Stadtanzeiger", 23-24 marzo 1$68
-Klaus Eder: DER WIEDERCEFUNDENE BAROCK. In "Film" 6, aprile 1968
-Yaak Karsunke: DIE VERTREIBUNG DER WECHSLER AUS DEN TEMPEL. In "Film" 6
-J.-M.Straub: JACH WAR KEIN MASOCHIST (CesprRch). In "Film" 4, aprile 68
-Jacques Aumont: BACH £ UTRECHT. In "Cahiers du Cinema" 199, marzo 68
-J.-H.Straub, D.Huillet: CHRONIQUE D'ANNA MAGDALENA BACH (Scenario). In
"Cahiers du cinema" 2oo-2ol, aprile-maggio 68
-J«rg Peter Feurich: BACKS NACHGELASSENE REVOLUTION. In "Kirche und Film”,
Bielefeld, aprile 68
-Wolfram Schutte: GESCHICHTE EINER £HE. In "Frankfurter Rundschau”, 6.4.68
-Uve Nettelbeck: QNVERSCHULDETE BEKRXNKUNG. In "Die Zeit", 19 aprile 68
-Urs Jenny: STRAUB, DER VERFOLCTÉ: KEIN PRXDIKAT Ft'R CHRONIK DER A. Ml BACH
In "Silddeutsche Zeitung", 26 aprile 68
-Friedrich Hommel: ANMERKUNCEN EINES MUSIKKRITIKERS. In "Film", maggio 68
-Werner KlieB: KAMPF MIT DEN INSTANZEN. In "Film", giugno 68
-Klaus Kreimeier: JCBLMHTBB8CHREI BUNG. In "Frankfurter Pundschau", Pfisg-
sten (Pentecoste) 1968
-Manfred Liitgenhorst: CHRONIK EINES AUSSENSITERS. In "Abendzeitung", MUnclm:
8-9 giugno 68
-Wilfried Wiegand: RADIKALER BRUCH MIT DEN KONVENTIONEN. In "Die Kelt", 22.
giugno 68
-J.-M.Straub : BRIEF AN DR. BAUER . In "Film in Berlin", 28 giugno 68
131
-KABTIRADE ZU BACHMUSIK. In "Filaecho", Berlin 68
-Brigitte Jeremine: LELOUCH ODER STRAUB? in "Frankfurter Allgeneine Zeitung
2. luglio 68
-Giovanni Grattini: ORATORIO FILMICO SV BACH. In "Corriere Della Sera",
2 luglio 68
-Michel Delahaye, Jean«Narboni: L'ALLEMACNE OU LE CERCLE VICIEUX. In
"Cahiers du Cinena" 2o2, giugno-luglio 68
-HUPFENDER HANFLING. In "Der Spegel", 8.7.68
-Rein Bloea': JEAN-MARIE STRAUB. In "Raeter”, Amsterdam, luglio 1968
-Richard Roud: CHRONICLE OF ANNA MAGDALENA BACH. In "Sight and Sound",
London, eatate 68
-Win, Schlebaun: STRAUB DE REALITEIT IN FILM. In "Cineacri", Amsterdao.n.7
-Frans van de Staak: CHRONIK DER ANKA MAGDALENA BACH. In "Cineecri" 7
-J.-M.Straub: GESPREK. In "Cineecri" 7
-Franz Everschor: REFLEXION VOR EMOTION. In "Kirche und Filo", n.8, Frank
furt, agosto 68 t
-$TRAUBS CHRONIK IM SPIEGEL DER KRITIK. In "Kirche und Film" n.8, agosto 67
-Penelope Cilliattt THE CURRENT CINEMA. In "The New Yorker", 2i settembre6f
-Freddy Landry: UN OBJET AUDIO-VISUEL. In "L’Inpartia1", svizzera, 1 ott.6k
-Martin Schaub: ZWISCHEN RETHORIK UND SPRACHE DES FILMS. In "Tfcgea-Anteiger'
*
ZUrich, 4 ottobre 1968
-GUSTAV LEONHARDT OVER ZIJN BACHFILH EN-SPEL. In "Algeneene landelsbladS,
7 ottobre 68, Aneterdan
-Hko: BACH FILM: GERAAMTE FORM EEN EIGEN BEELDFORMINC. In "Nieuvablad van
het Noorden”, 12 ottobre 68
-Hans von Liipke: CHRONIK DER ANNA MAGDALENA BACH. In "Filaetudio", n.SS
Frankfurt
-J.-M.Straub, D.Huillet: QER BRXUTl.GAM, DIE KOM&DIANTIN UND DER ZUHXLTER
(Decoupage). In "Filmkritik" lo/68
-J.-M.Straub: GESPRXCH. In "Filmkritik” lo/68
-Helmut FMrber: DIE "CHRONIK DER ANNA MAGDALENA BACH". In "Filnkritik
*
.' loAl
-Harbert Linder: KINDER, AUFGEPABTI. In Filnkritik" Io/68
- J.M.Straub: LE FIANCE, LA COMEDIENNE ET LE MAQUEREAU. Tn "Cahiers du
Cinena” n. 2o5, ottobre 68
-Marcel Martin: VENISE 68: CHRONIQUE D’ANNA MAGDALENA BACH. In "Cinena 68",
Paris, n. 13o. nov.1968
-Jean Narboni: CHRONIQUE D'ANNA MAGDALENA BACH. In "Les lettres fran;aisea?
6 novembre 1968
-G.J.: CHRONIQUE D'ANNA MAGDALENA BACH. In "Les Nouvelles Litteraires”»
Paris, 14 novembre 1968
-Peter W. Jansen: FIN JAHR KINOREBELLION. 4.Berlin: CHRONIK DER ANNA
MAGDALENA BACH. Tn "Merkur” (rvista, R.F.A.), dicembre 68
-CHRONIK DES JEAN-MARIE STRAUBS: WIE MAN AUCH OHNE ZENSUR1NSTANZEN PILM-
ZENSVR MACHEN KANN. In 'Artikel" 5, Amburgo, dicembre 68
-J.-M.Straub: FEROCE (su Dreyer). In "Cahiers du Cinema" 2o7, dicembre 68
-John Russel Taylor: ENTER CHARMI, EXIT TRICKS. In "The Times Saturday
Review", 7 dicembre 68
-Marion Rothtfrmel: STRAUB WEDELTE DEN STAUB WEC. In "Kblnische Rundschau"
10.12.68
-Wilfried Richart: VERSCHLUNGENE VECE EINES KOMPROMIBLOSEN FILMMACHERS -
DIE "NEUE FILMKUNST" HAT JETZT DLN BACHFILH IN DEN YERLEIH GENOMMEN
In "Kolner Stadtanzeiger", 2o dicembre 68
-Marcel Martin: LE CHANT PROFOND. In "Les Lettres Fran$aises", 24 die.68
-Henry Chapter: L'EXTASE. In "Combat", 26 dicembre 1968
-Yvonne Baby: CHRONIQUE D'QNNA MAGDALENA BACH. In "Le Monde", 28 die.68
-Jean-Louis Bory: CHRONIQUE D'ANNA MAGDALENA BACH. In "Le Nouvel Observa-
teur", Paris, 6 gennaio 1969
-Marcelle Peycere: STRAUB ET BACH. In "Jeune Cinema", Paris, n.36, 1969
132
-Patrice Heron: LA LUTTE CONTRE LE SENS. In "Cahiers du Cinema", n. 2o8,
gennaio 69
-Claude-Jean Philippe: "QUE TA VIEILLESSE SOIT COMME TA JEVNESSE". In
"Teleraaia", Paria, 12 gennaio 1969
Hans-JUrgen Weber: DIE CHRONIK GENT WEITER. In "Filmecho", Munchen, 15.1.69
-Andreas Weiland: DIE WELT SEHEN (-MACHEN) HEIBT SIE VERXNDERN. In "Touch
**
Bochum, 15.1.69
-JEAN-MARIE STRAUB: EINE DOCUMENTATION. In "Studiente re i s Filo, Ruhruniver-
eitit", gennaio 1969
-Birgitta Trottig: HUSIKEN I HUVUDROLLEN. In "Aftonblad”, Stockholm, 2o.l.6‘
-Jean-Paul Fargier: DE L'INOUl A L'INOMME. In "CinAhique" , Paris, n.l,
2o gennaio 1969
-Beatrix Ceisel: JeAH-MARIE STRAUB: DIE WAHRHEIT 1ST KONKRET. In "Mannheiv
Morgen”, 25.26 gennaio 69
-Jean-Marie Straub: ICH VERABSCHEUE SACHEN, DIE NACH EINEM SYSTEM GEMACHT
SIND. Interview in "Solothurner Filotagen", Svizzera, 23 gennaio 69
-sb.: JEAN-MARIE STRAUB, EIN TACEBUCHEINTRAC. In "Tage ganzeiger", 31.1.69
-Jean-Andre Fieachi: ECOUTER, VOIR. In "La Quinzaine", Paris, 1-15 feb.69
-Jean Collet: CHRONIQUE D'ANNA MAGDALENA BACH. In "Etudes” (ri vi sta.Pari a),
febbraio 69 '
-Derek Malcolm: DIRECTOR REJECTS AWARD. In "The Guardian”, Londra, 12 feb.
1969
-Tim, Karsten Peters, Hans-JUrgen Weber: HABE NUN BACH... In "Abendzeitung”
Hunchen, 15-16 marzo 69
-Hans Hellmut Kirst: DER NEUE STRAUB-FILM. In "Munchner Merkur", 16 marzo69
-Herbert Linder: ES TUT D1ESER KANTOR NICHT ALLEIN NICHTS... In "Suddeuache
Zeitung", 18 marzo 69
-Joachim ■■■■ von Menge rehausen : IM KUNSTCETTO VERBANNT."Suddeutsche Ze;tun
25 marzo 1969
-Segismundo Molise: CHRONIK DER ANNA MAGDALENA BACH. In "Fi1 mi dea 1".Madrid,
n. 214/2)5, 1969
-Jacques Rivette, Jean Narboni , Sylvie Pierre: LE MONTAGE. In "Cahiers du
cinema'', n. 2lo, marzo 1969
-Nedo Ivaldi (a cura di): JEAN-MARTE STRAUB: INCONTRO CON L'AUTORE. In
"Bianco e Nero ", Roma, n.3/4 1969
-Alf Brustellin: DIE HEBE, DAS GESCHXFT, DIE GEWaLT: In "Sl'ddeutsche
Zeitung", Hunchen, 9 aprile 69
-Jean-Louis Comolli: LE DETOUR PAR LE DIRECT. In "Cahiers du cinema" n.21I
aprile 1969
-Jacques Aumont: LE CONCEPT DE MONTAGE: In "cahiers du cinema” n. 211
-Ulrich Dibelius: CHRONIK DER £NNA MAGDALENA BACH. In "Filmkritik" 5769
-Jean-Claude Biette: LE FIANCE, LA COMEDIENNE'eT LE MAQUEREAU. In'Cahiers
du cinema” n. 212, maggio 1969
- Gianni Mennon: IL CINEMA DEL TEMPO DELLA VITA. In "Cinema e Film" n. 7/8,
1969
- Jean-Claude Biette: TEMA, VARIAZIONI E FUGA: OPUS 4. Ibid.
- J.-M.Straub: IL GIUDIZIO FINALE DI MAO. Ibid.
- J.-M-Straub, D.Huillet: IL FIDANZATO, L'ATTRICE E IL RUFFIANO (sceneggia
tura). Ibid.
- J.-M.Straub: CHRONIK DER £NNA gAGDALENA JACH. Edizione Filmkritik, Franco
forte, 1969 (1 volume).
- Alberto Moravia: BACH CON L'ABITO STIRATO. In "L'Espresso", 1.giugno 69
-Gino Doni: STRAUB: EIN DREHBUCH 1ST NICHTSf ES 1ST DAZU DA» UM WECGEVORFEN
ZU WERDEN. In "FiIcreport”, MUnchen, agosto 69
-Jean-Marie Straub: DECLARATION. In "Cahiers du Cinema" n.215, settembre 69
-Harriet R. Polt: CHRONICLE OF ANNA MAGDALENA BACH. In "Film Quarterly",
inviamo 69
-Angel Fernandez Santos: LAS VENTANAS ABIERTAS DE ANA MAGDALENA BACH. In
"Nuestro Cine", Madrid, n. 93, gennaio 7o
133
-J.-M.Straub: CRONICA DE ANA MAGDALENA BACH. BANDA'SONORA. Ibid.
-Andi Engel: INTERVIEW WITH JEAN-MARIE STRAUB. In "Cinemantice", Londra,
n. 1, gennaio 7o
-J.-M.Straub: CONTRO IL DOPPIAGGIO. In "Filmcritica" n.2o3. gennaio 7o
-Alberto Abruzzese: I PARADOSSI DELL'IMMAGINE. In "Paese Sera", 19 gen. 7o
-Pietro Pintus: UN MARZIANO SUL TEVERE. Io "Radio-Corriere", 18 gennaio 7o
-Ciriaco Tiso (a cura di}: JEAN-MARIE STRAUB (conversazione con). In
"Filocritica", n. 2o4/2oS, I97o
-Ciriaco Tiso: LA METASTRUTTURE LINGUISTICHE "CHRONIK DER ANKA MAGDALENA
BACH". Ibid.
-Alessandro Cappabianca: STRAUB 0 LA SINESTESIA ROVESCIATA. Ibid.
-Marco Rossi: MACHORKA-MUFF, UNA RISCRITTURA CLASSICA! Ibid.
-Franco Rossi: LA NON-RICONCILlXZIONE PERMANENTE. Ibid.
-J.-M.Straub: AUTOBIOFILMOGRAFIA. Ibid.
-Richard Roud: VERSES AGAINST VESPAS. In "The Guardian", 11 febbraio 7o
—Alberto Moravia: CORNEILLE E IL SUO CHAUFFEUR. In "L'Espresso", 22 feb.7o
-Italo Moscati: LA SOLITARIA BATTAGLIA DI STRAUB. In "Sette Giorni", 8 mero
197o
-Nedo Ivaldi: DICONO NO ALLA CRISI DEL CINEMA: STRAUB (Intervista). In "Il
Dramma", 3/7o
-Jean-Claude Biette: OTHON ET JEAN-MARIE STRAUB. In "Cahiers du cinema"
n. 218, marzo 197o
-J.-M.Straub: DOPPIARE E* UN ASSASSINIO. In'FXeae Sera", 13 marzo 7o (lette
ra-manifesto di Straub alia TV).
-Giacomo Gambetti: FORSE UN GIORNO IL CINEMA CAMBIERÀ': CON "OTHON" JEAN-
MARIE STRAUB E’ GIA
* SULLA STRADA DEL FUTURO! In "Bianco e Kero
*
,' n.l/4,7o
-J.-M.Straub, D.Huillet: OZHON (sceneggiatura del film). Ibid.
-Ermanno ComuzLo: UN BACH CHE FA MUSICA NEL FILM DI J.M.STRAUB. Ibid.
-Alberto Abruzzese: J.M.STRAUB: IL KON-SENSO DI UN IDEOLOGIA ESTETICA. In
"Cinema 6o", n. 73/74, 197o
-Autori Vari: COLLOQUIO CON JEAN-MARIE STRAUB: CINEMA POLITICO, CINEMA DI
RABBIA. In "Cineforum", Venezia, n.95/96, 197o
-Wolfram SchUtte: ZEIT-TERRASSEN. In "Zursche Zeitung", meta aprile 7o
-John Russell Taylor: MUSICAL OFFERING. In "The Tinea", 17 aprile 7o
-Rosalind Delmar: CHRONICLE OF ANNA MAGDALENA BACH. In "Monthly Film Bulle
tin", Londra, n.436, maggio 7o
J.-M.Straub: PER IL MIO CINEMA E I MIEI FILM. In "Nuovi Argomenti", n.18,
aprile-giugno 197©
-Giovanni Raboni: IL "FUORI" DI JEAN-MARIE STRAUB. In "L’Avvenire", 28
agosto 197©
-STRAUB ET "OTHON" (entretien avec J.-M.Straub et D.Huillet). In "Cahiere
du Cinema", n. 223, agosto 7o
-Manuel Pérez Estremerà: FLEISCHMANN, KLUGE, SCHLONDORFF, STRAUB. In:
"Cuadernos infimos" 17, Barcelona, 1970
- Italo Moscati: STRAUB 0 DELLA CONTRADDIZIONE. In "Sipario", Milano,
n. 291, I97o ■
-flURFEN PILME NACHSYNCHRONISIERT WERDEN? in "Neue Ziircher Zeitung", 12 set.
197o
-Michel Ciment e Louis Seguin: SUR UNE PETITE BATAILLE D'"OTHON". In
"Positif", Paris, n.122, 197o
-J.-M.Straub: QUESTIONS A JEAN-MARIE STRAUB. In "Cahiers du Cinema", n.224,
ottobre 197o
-Jean Narboni: LA VICARIANCE DU POUVOIR. Ibid.
-Roger Creenspun: STRAUB’S "OTHON" PLUMBS LOVE AND DRIVE FOR POWER. In "Nev
York Times”, settembre 7o
-Klaus Eder: ROM UND DER KAPITALISMUS - IN VENEDIOGESEHEN. In "Fernsehen *
Film", Hanno\er, ottobre 7o
-Ulrich Kreiner: DIE ABWESENHEIT DES VOLKES. In "Frankfurter Allgemeine
Zeitung", 14 ottobre 7o
134
-Carlo Marietti: LOGICA DELLA PERCEZIONE. In "cinema e Fila" n.11-12, 197o
-J.-M.Straub: DUE PREMESSE A "LES YEUX..." Ibid.
-J.M.Straub e D.Huillet: LES YEUX NE VEULENT PAS EN TOUT TEMPS SE FERMER
(Sceneggiatura). Ibid.
-Andi Engel: JEAN^MARIE STRAUB. Nel volume "Second wave", "Movie Paperback/
Londra, 197o
-Jean-Marie Straub: EINFUHRUNC ZUR FERNSEHAUFFCHRUNC. In "filmkritik" 1/71
-J.-M. Straub': INTERVIEW . Ibid.
-Marcel Martin: A TITRE EXPERIMENTAL. In "Lea Lettree Franpaises", Paria,
13 gennaio 71
-J.-M.Straub: BALAYEZ-HOI TOUT GAf (Entretien). Ibid;
-Albert Cervoni: OTHON. In "France Nouvelle", 13 gennaio 1971
-Marguerite Durai PARLE DU FILM DE STRAUB. In "Politique Hebdo", Parie,
n. 15, giovedì 14 gennaio 71
-Francois Maurin: LA VOIE DE LA FACILITE7 In "L'Humanite", Parie, 16.1.71
-Enno Patalas, Wolf Donner: STRAUBS JCAMPF UM ROM. In "die Zeit", 22 ge.71
-Herbert Linder: ARBEIT AN CORNEILLE. In "SUddeutsche Zeitung", 23-24 gen.
1971
-Jean-Louie Bory: DU CAVIAR POUR TOUS? In "Le Nouvel Observateur", n.234,
25 gennaio 1971
-Jean Duflos: LES FRÈRES FLINGUEURS DU CINEMA: JEAN-LUC GODARD, JEAN-MARIE
STRAUB. In "Politique Hebdo", Paris, 28 gennaio 1971
-VtM Cote: SCHONHEIT, AGITATION, ODER BEIDES?. In "Die Welt", Hamburg, 28.
1.71
-Gerard Lenne: D’UNE MAUVA1SE QUERELLE. In "La Mort du Cineeia", coll. 7ene
Art, .Paris, febbraio 71
-Carlo Lizzani: SUPERAMENTO DEL NATURALISMO 0 ORRORE PER LA REALTA. In
"Cinema Nuovo", Genova, n, 2o9, 1971
-Franpoise Mayeur: OTHON. In "Esprit", Paris, n. 4oI, sarto 1971
-Giovanni Raboni: CAPOVERSI IN JEAN-MARIE STRAUB. In "Vita e Pensiero",
Milano, n. 6/7, 1971
-£.ACHTKAHPF VOR RUINEN. In "Tagesanzeiger Magazin", ZUrich, n.15, aprile 71
fritz Hirze :
-Michel Deguy: OTHON, CORNEILLE, STRAUB. In "Critique", Parie, maggio 71
-Barbara de Miro: UNA DISSACRAZIONE DI CORNEILLE PER LA CLASSE OPERAIA? -In
"Cinema Nuovo" n.21 1, maggio 1971
-Geoffrey Nowell-Smith: LES YEUX NE VEULENT PAS EN TOUT TEMPS SE FERMER OU
PEUT-tTRE QU'UN JOUR ROME SE PERMETTRA DE CHOISIR A SON TOUR. In "Monthly
File Bulletin”, Londra, giugno 1971
rSebastian Schadhauser: ANCORA SU OTHON - L’ARTE NON E' UNA COSA, NON E' UN
MATERIALE, MA UN RAPPORTO DIBMATERIALI... In "Filmcritica" n.216,giugno 71
-Barbara Bronnen: WAHRKEIT IN BILD UND TON. In "Abendzeitung".MUnchen, 25
agosto 71
-ENno Pacali
*
: DAS VEREWIGTE PROVISORIUM. In "SUddeutsche Zeitung”,25.8.7I
-NON RICONCILIA.I. In "Critica Reprint", Milano, n. 3o-31
-Straub-Huiìlet-Nabil Mahaini: ENTRETIEN. In "Al maoukef al adabl",Damas
(Syrie), octobre 71
-Roger Creenspun: "OTHON" ARRIVES. In "New York Timeo", 19 nov. 1971
-OTBON. In "Inter-View" di Andy Warhol, New York, nov.71
-J.-M.Straub: UNE LETTRE. In "Cahiera du Cinema" n.233,~nov. 71
-JEAN-MARIF. STRAUB. In "Diorama ExceìsiorZ, 28 nov. 1971, Brasile
-Enno Patalas: SPRACHGEWALT. In "SUddeutsche Zeitung", 18-19 dicembre 71
<-STRAUB. In "Filmihullu" n.4 71, Helsinki, Finlandia
-Sergio Arecco: L'OTHON DI STRAUB. In "Filmcritica" n.223, marzo 1972
-Wolfram SchUtte: PRXSENZ, FUTUR, PRETERITUM - ZU EIKER EINSTELLUNC VON
£TRAUB1S CHRONIK. In "Visuelle Kommunikation", (volume), colUDumont,
1971, rfa
-Ivo Cipriani: LA MUSICA DI BACH SECONDO STRAUB. In "Paese Sera", 31 marzo
1972
135
-Luigi Pestalozza: AUTENTICO CINE-SAGGIO SU BACH. In "Rinascita", 7.4.72
-Sebastian Schadhausec L'ULTIMO FILM DI STRAUB- DIARIO DI LAVORAZIONE.
, Lo "Fitaritica", n. 224, aprile-saggio 1972
-Stuart Byron: OTHON. In "Rolling Stone”, 8 giugno 1972
-Lino Micciche: IJ. NUOVO CINEMA DEGLI ANNI ’$0. Edizioni RAI, Rosa, saggio
1972 (voluse)
-Richard Roud: STRAUB. Collezione "Cinema One", n.17, Londra e fb» York,
giugno 72 (volume)
-Hartmut Bitomsky: DIE NXHE UND DIE FERNE - "OTHON - LES YEUX NE VEULENT
FAS EN TOUT TEMPS SE FERMER OU PEUT-ÈTRE fi” UN JOÙR ROME SE PERMETTRA DE
CHOISIR A SON TOUR". In "Die Rbte dea Rota von Technicolor” (voluse),
ed! Luchterhand, giugno 1972, RPA.
-Hartmut Bitomsky: DOCUMENTATION, BIOGRAPHIE, PRODURTION - DER *<LM CHRONIK
DER ANNA MAGDALENA BACH. Ibid.
-Francesco Casotti: OLTRE L'ISCRIZIONE, LA SCRITTURA - CARRÉL’, STRAUB,
GODARD. In "Bianco e Nero" n. 7-8, luglio-agosto 1972
-D.Huillet et J.-M.Straub: LE£ONS D'HISTOIRE (SCENARIO D'APRESXES AFFAIRES
DE MONSIEUR JULES CESAR" DE BRECHT). In "Cahiers du Cinesa" n. 24), set.-
ottobre 1972
-"NON RICONCILIATI" CON IL CENSORE TV. In "Paese Sera", 7. lo.72
-JEAN-MARIE STRAUB: PRESENTAZIONE DI NON RICONCILIATI PER LA RAI. In "L'Orf
di Palermo, lo.lo.72
-Wolfram SchUtte: GEGENWARTSKUNDE ODER CITIZEN C. In "Frankfurter Rundeclsi”
12 ottobre 1972
-Brigitte Jeremias: SELIC DIE MUHSELICEN. In "Frankfurter Allgemeine Zei
tung” , 12 ot t.72
-Wilhelm Roth: STRAUBS GESCHICHTSUNTERRICHT. In "Siiddeut sche Zeitung",
lo.12.72
-Brigitte JerAsias: EÌN EINSAMER PROPHET. In "F.A.Z.", 2) novembfe 72
-STRENCE, FREIE SCHÓNHE1T - STRAUBS JUNGSTER FILM "GESCHICHTSUNTERRICHT".
In "Neue Zurcher Zeitung”, 2$ nov. 72
-Frank Zaagsaa: STRAUB: HKJN POSITIE ALS CINEAST IS PRECAIR. In "Handels-
blad". Olanda, 23 febbraio 1973
-Wilhelm Roth, Hans Giinther Pflaum: CESPRXCH MIT J-HSTRAUB UND D.HUILLET.
In "FILMKRITIK" 2/73
.
*
-Jean-Marie Straub: REGLEITMUSIK ZU EINER LICHTSPIELSCENE (Decoupage). Ibi
-J.-M.Straub: SCENEGGIATURE DI INTRODUZIONE ALLA "MUSICA D'ACCOMPAGNAMENTO
PER UNA SCENA DI FILM" DI ARNOLD SCHOENBERG. In "Filmcritica" n.23l,
genneio-Sebbraio 73
-Barbara Bronnen: DIE FILHEHACHER. (volume). Ed.Bertelsmann, 1973,MUnchen
-Richard Roud: TH1 CEeLULOID CITY. In "Arte Guardian", Londra, 29.1.73
-JBrg Peter Feurich: GESCHICHTSUNTERRICHT. In "Filmkritik" n.195, marzo 73
-Rudolf Thome: STRAUBS "SCHOENBERG". In "SUddeutsche Zeitung", 13 aprile 73
-Louis Meteore,les: LES 'BRECHTISMES" DE JEAN-MARIE STRAUB. In "Le Monde",
Il maggio 1973
-Alberto Moravia: CESARE STACCA UNO CHEQUE. In "L'Eepreeeo”, 17 giugno 1973
-Straub: INTERVIEW. In "Scrien”, Amsterdam, maeeio-giugno 1973
-Ulrich Kurowski: h'ATURRECHT UM) MENSCHEkwtfRDE. In "Medium", Juli 1973
- Straub ja Huillet: Cannes 73 - Historian Oppitunti (entretien). In
"Filmihullu" 5/73, Helsinki, Finlande
- J.-'.. Straub-D. Huillet: Quaderno informativo n. 50/9 mostra del
nuovo cinema, Pesaro, settembre 1973
- 3go Casiraghi: Straub e Brecht danno una mirabile lezione di stppia.
In "L'unità", Io settembre 73
- Callisto Cosulich: Per Roma in auto ad altezza d'uomo. In "Paese Sera",
136
I settembre 1973
- Joao Cesar '.lor.teiro: A pequena croniqueta do senhor L.A. in "Cinefilo",
2 II-7-IO-I973, lisboa
- Leeone d’histoire + Introduction...a Schoenberg. In "Qa", oct. 73,
Paris
- JZ Straub: Lecons d'histoire (entretien). In "La Rouvelle Critique",
novembre 73» Paris
- j. Alcock: Thesis on Othon. Slade film Department, London university,
London 197',
- utru^b-Huillet: Sceneggiatura Jeschichtsunterricht (Lezioni di storia)
In "Filmcritica" 2,2—2 <3, fc dorai o-:narzo 197"
- Franco Pecori: Il laboratorio ^i Str-ub/Huillet. In "Filmcritica"
2i2-3, ftbdraio-marzo 7
- Alessandro Ca.,pa'oiunca: Cine 1a dell‘aboonda.za e film della povertà.
In "Filcritica" 22-2:3, febbraio-marzo 74
- Judita iiribar: .Conversazione con J.- ;. Straub. In "Filmcritica" 2 2-3
- Louis Seguin: Pesaro 73 (Leqons d'histoire). In "Positif" ..° 1,8,
avril ?4
- Gttnter Peter Straschek: Straschek 1963-71 Wcstberlin. ("Uraufftthrun^
liicht versbhnt" etc.). In "Filmkritik " Hr.212, august 74, p.354,360
- Dietmar Schings: Arbeit ist keine Tugend (Bei den Dreharbeiten zu
Uoses und Aron). In: "Frankfurter Rundschau", 21 September 1974
- Frieda Grafe-Bnno Patalas: Im off Pilmartikel (20, 108,110), Hanser
■/erlag (volume), 1971
- Cappabianca-;.'ancini-Silva: La costruzione del labirinto (volume),
Gabriele bazzotta Editore, 19'4 (pàgine 16,17,19,22,49,50,51,60)
- -.artin <<alsh: Political formations in the cinema of JM. Straub.In
"Jump Cut", 4, dece-ubre 74
- Straub-Huillct: Intervista. In "Gong", .alano, febbraio 75
- Richard Roud: Golden Bull. In "The Gurdian", februaiy 2Ó, 1975
- Brigitte Jere das: Sin sakraler tùonolith... In "Frankfurter Allgexeine"
27«Februar 1975
- .Volfraa Schtttte: StaatsgefBhrdedde iVidmuru-;? In "Frankfurter Rundschau"
«. ;arz 1975
137
- J.A.S.: Jean -arie Straub. In "Espresso", 15/2/75» Lisboa
- On cinema para minorias entra o passato e o futuro.I» "0 Secjilo",
-2/>/75, Lisboa
- Joao 7az: Industria cinematografica est morta.In "A Capital", 21/3/75
- Rudolf Hohlweg: Am Sinai in der. Abruz.en.In "Sttddeutsche Zeitung",
22/23.Lttrz 75
- Heinz Josef Herbort: Oberammergau in der ■■'ttste. In "Die Zeit", 29 . .ttrz
- l'olfram Schtttte: Bilder sammeln :‘uaik. la "Frankfurter ùundschau",
29. Arz 75
- Johannes Frankfurter: Provokation im Fernschen?. In "Lene Zeit",
30. ttrz 1975, Graz
- Dietmar Polaczek: Vor. /.oses, Aarbn und Gott verlas; en.
29./3O./3D. arz 1975
- Alves Costa: Straub em Portugal, In "Jornal de ..oticias", ó avril 75
- Edoardo Bruno/; ichele t.aticini/Alessa.idro’Cajpabiar.cu: .oses un.. Aron.
In "Filmcritica" . 252, marzo 7>, Soma
- Francois Albera: Les yeux ne veulent pas en tout te;i.ps se ferver.Ir.
"Voix Ouvrière", 7 avril 75, Genove
- Karsten Witte: -oses und Aron. In "...edium", Aprii 1975
- Florian Hepf: Pernscher. geaktionftr. In "Filmreport" 9/1-7
- Ivano Cipriani: Un altro osé in televisione. I.. "Paese Sera", 2/ /?.;
- .ichael Gielen/jolfram Schtttte: Ein Gcsprttcn. In "Sirene und ?ilm"
rir. 5, ì-'ai 1975 (Frankfurt)
- Pierre Girard: Gardez ouverts les yeux fertiles!. I.. "Le film Fran§uis
.aercredi 21 mai 1975
- Robert Chazal: otse et Aaron ;exe.mplaire. In "Prar.ce-Soir", 2J ai 7>
- Louis Larcorelles: ofse et Aaron aux yeux fertiles. In "Le o.-.ìe",
23 Ai 75
- Gttnter Peter Straschek: Handbuch wider das Kino. svolume), Suhrkamp,
?.;ai 1975 <P. 21,250)
- Richard Dindo: Jean-..arie Straub und Daniele Huillet. In:" .aterialen
1974"» Kellerkino, Bern 1975
138
- Kleiner historischer Exkursw
- Das Drehbuch (Beschreibungen, Texte, Photogra.ixe)
- Gregory <7oods: Ein Arbeitsjournal
- Resolution
- Tabelle zu den Dreharbeitcn •
- ichael Gielen: Bericht ttber die wiener Tonaufnah-uen
- JOrg Peter Feurich: 'Philips hat Jen Sound Track jetzt in lie Flatten
rillen fteritzt*
- tfolfram Schtttte: Gesorach mit -ichael Gielen
Ww
- .Volf-Be kart Btthler: 'gebunuen und gedrosselt *
- *Sieg/Niederlage1 : Gerhard Theuring.
In "Filakritik", 5/6/75(...ai-Juni 75)» Btochen
- Jean-..;arie Straub-Janièle Huillet: Entretien. In "Art Presse", IS,
<ai-juin 75-, Paris
- Louis Seguin: La politique dd. choeur. In, •
-• «"Lfi ia.£ U TTisd/JirtG'’, /<-3«
139
INDICE
FILMOGRAFIA Pag. 3
AUTOBIOGRAFIA » 21
DICHIARAZIONI DI POETICA » 23
STRAUB/HUILLET/SCHONBERG:
Introduzione alla «Musica d'accompagnamento
per una scena di film» di Arnold Schonberg e
«Mosé e Aronne» » 53
IL LABORATORIO DI STRAUB/HUILLET: » 71
. La non-riconciliazione permanente » 71
Il Bach-Film » 78
ANTOLOGIA CRITICA » 95
BIBLIOGRAFIA » 129