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ISBN 88-8033-038-1
LO SGUARDO OSTINATO
Riflessioni di un cinefilo
raccolte da Serge Toubiana
di Goffredo Fofì
Per molti anni, figlio di emigrati nella banlieu, poi con una
compagna che lavorava a Parigi, ho frequentato assidua
mente la capitale francese e vi ho per qualche tempo vissuto.
Ho seguito le vicende e i contrasti interni alla critica cine
matografica che lì si produce dapprima con passione, poi con
progressiva stanchezza, fino a lasciar perdere, ormai diven
tato indifferente, tanto anche quel piccolo mondo cambiava,
conseguenza del cambiamento del mondo dello spettacolo, e
perdeva con la sua ragion d’essere la vivacità e lo smalto del
le differenze, l’acume e l’ardore delle battaglie. Imbolsite e
superflue nell’evoluzione di un dibattito non più all’altezza
dei bisogni dell’epoca, ma solo della sua economia, le équi-
pes dei «Cahiers» e di «Positif» si scoloravano nel magma
della società dello spettacolo e del sistema corporativo del
cinema, e talora nell’albagia e nei bizantinismi delle carriere
universitarie (e comunque meno che in Italia). Con più pre
tese, ma con la stessa sbrigativa superficialità morale.
Solo un appuntamento mantenni, più tardi, — in quei tre-
quattro giorni o poco più dei miei soggiorni francesi ogni
mese — ed era la lettura delle recensioni (di film e trasmis
sioni TV), dei diari di viaggio, delle cronache e delle pole
miche di un critico che davvero non mi sembrava uguale
agli altri , Serge Daney. Anche quando ero in disaccordo col
suo giudizio, una dialettica stringente e mai gratuita, una
provocazione costante dell’intelligenza, un’apertura di di
scorso ad altro che il cinema, un richiamo a un sentimento
del cinema legato a un sistema di valori forti — non dichia
rati, ma espliciti, evidenti — caratterizzavano per me
quell’appuntamento, di cui ho ritrovato il sapore a ritroso,
quando Daney è morto prematuramente, nelle raccolte dei
suoi scritti, e di cui credo di aver scoperto il segreto in que
sto Perseverance, {Lo sguardo ostinato nella edizione italiana)
qui tradotto con grande tempestività.
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Questo (questa) Pergiurarne, c quale osa eli più di un libro di
cinema, così come Danry era qualcosa di pili, anzi molto di
più, di un crii ito cinematografico.
Daney si racconta in quest intervista colise io dell’occasio
ne estrema che gli e offerta di spiegare a se stesso e agli altri
il proprie) percorso, umano e intellettuale. Sapeva di avere i
giorni contati. Malato incurabile, la i conti con la propria
vita, non solo con le proprie idee, e non ha nessuna inten
zione di barare, ora meno che mai.
Nella letteratura prodotta dall’AIDS, molte sono le misti
ficazioni possibili, sempre comprensibili e quasi sempre
accettabili: esiste, ed è tra i pochi giustificabili fino in
fondo, un narcisismo di chi sente sfuggire la vita, che però
produce - come è stato spesso dimostrato - cattiva lettera
tura. Non tutti i testamenti dicono la verità, ma quello di
Daney — con la serena coscienza da parte dell’autore dei
propri limiti e dei propri meriti — riesce a farlo in modo
ammirevole. Non bara, Daney, e non si ammira allo spec
chio; non rivendica e non si lamenta. Ricorda, afferma. Lega
la sua biografìa al modo di fare critica, di capire e di amare
il cinema. Quanti critici hanno una biografia? Quel che
innanzitutto colpisce e rende esemplare il suo percorso è
un’origine, è la storia di un approccio. Il cinema è stato per
il piccolo Serge, orfano di padre, cresciuto con una madre e
una nonna proletarie e incolte, una scoperta del mondo, ha
accompagnato e allargato la conoscenza del mondo, ha
introdotto all’universo della cultura e della conoscenza.
Anche di sé, se è vero — come nel più bel racconto che io
conosca sul cinema, non a caso su un bambino di fronte alla
magia dello schermo e nel buio di una sala - che «nei
sogni» (nelle proiezioni che il film stimola e propone)
«nascono le responsabilità».
Il racconto, che sarebbe probabilmente molto piaciuto a
Daney, è di Deimore Schwartz — altra biografia di bambi
no povero, altra storia di un accesso alla cultura e alla
conoscenza, in altri anni, per il tramite del cinema. Non
voglio dire, come non avrebbe mai detto Daney, che solo
questo tipo di accesso, questo tipo di biografia rende
l’esercizio della critica più profondo, il lavoro intellettuale
io
più necessario. Dico che gli dà sale e gusto, che lo arricchi
sce, e che lo strappa alla routine di una passione fredda, o ai
ritardi — nei cinéphiles — di uno sguardo senza più la grazia
dell’infanzia e invece con la goffaggine di un’adolescenza da
cui non ci si vuole staccare e che i privilegi delle società
occidentali permettono, un’adolescenza che ama perdersi
nel film, che dispone di chiavi d’accesso al film infatuate e
umorali, insufficienti quanto quelle tutta testa e teoria e
preoccupate perlopiù di non sentirsi al passo con le evolu
zioni dei media. Cioè, che lo sappiamo o no, di un sistema
di comunicazione (del potere della comunicazione) consu
stanziale al potere.
Daney scopre il cinema «adulto» molto presto, con una
proiezione di Notte e nebbia di Alain Resnais, e scopre con
essa il rapporto tra cinema e realtà, e tra cinema e storia. E
poi Daney è colpito da un articolo sul film Kapò di
Pontecorvo, scritto da Rivette per i «Cahiers» nel 1961, in
cui si sostiene che una certa carrellata è moralmente abietta.
Daney impara a guardare, si prepara anzi a una carriera di
«guardatore» di professione. Ma questa «carriera», questo
itinerario, questo viaggio, implica una costante riflessione
sul contesto del film, e su altri viaggi, nella vita e nell’arte.
Non ci sono grandi tappe in questa «carriera». C’è il ’68
con le sue ubriacature ideologiche di cui sanamente egli dif
fida, ma con le quali tuttavia deve fare i conti (si chiamano
anche Godard, anche «Cahiers» quelle ubriacature); c’è una
cultura che diviene sempre più borghese; c’è la crisi di un
certo sistema di amicizie e la nascita di un altro sistema di
amicizie; c’è il passaggio dai «Cahiers» a «Liberation»; c’è
la televisione che ha messo in crisi il cinema, e con la quale
occorre fare i conti - mangiatrice di film, prosastica narra
trice del quotidiano anche il più degradato —; e ci sono le
avventure del privato, le scoperte e le acquisizioni nonché le
solitudini del privato, la ricerca di una comunicazione che
non può certo avere come unico punto di riferimento il
cinema, o tantomeno l’ambiente del cinema; c’è l’eros (i
ragazzi, in giro per il mondo), ci sono le visioni, c’è l’eserci
zio del pensiero. Che con tanto maggiore precisione si eser
cita sul cinema in quanto lo confronta con altro, e in quanto
lo rapporta alla sua medesima storia, la storia di un’arte che
è l’arte del nostro setolo e t i ha segnato tutti. È uno spirito
libero, Daney, che si dà una disciplina, t hè si pone dei limi
ti e dei fini. Bisogna saper vedere, bisogna saper leggere, e
bisogna anche saper interpretare, nel duplice senso di una
necessità di comprendere e di un dovere di esserci, di pren
dere parte coscientemente alla storia della cultura del pro
prio tempo - e direttamente o indirettamente, dunque, alla
storia stessa del cinema. Che riguarda anche chi ne è logi
sticamente fuori, in platea, solo spettatore, e riguarda a
maggior ragione chi di questo sistema di produzione o
registrazione di immagini e di visioni è «guardature» per
scelta e per mestiere.
Quelle che Daney difende non sono le astratte ragioni
dell’arte, care alla critica bigotta e, di fatto, ipocrita e cala-
brache; sono le ragioni dell’autore — della «messa in scena»,
nel caso del cinema, ma dentro un sistema che cambia, e
che può anche uccidere, con la prosa della televisione e con
le «grandi cerimonie audiovisive di massa», la poesia del
cinema, il bisogno che ne abbiamo noi che di questa poesia
abbiamo dovuto e poi saputo nutrirci, e il bisogno che rite
niamo ne abbia — cosciente o no - un pubblico, o una parte
di un pubblico possibile. Per esempio, un pubblico di gio
vani di oggi e di domani cui la società dello spettacolo va
scippando un passato eredità di poesia e di storia e di
conoscenza, ma soprattutto di poesia che gli tocca, cui ha
diritto, che deve essere sua) e grazie a questo l’accesso a un
futuro non alienato, non «fascista»...
Guardando indietro, al tragitto di un trentennio intensa
mente vissuto, e di enormi trasformazioni che probabil
mente senza il cinema la parte migliore di due o tre genera
zioni non avrebbe avuto modo di capire o di intuire, Daney
opera un rendiconto che vale per tutti, e vale non solo per il
cinema.
Pochi come lui, e solo lui con tanta lucidità e attenzione,
hanno saputo capire per esempio il passaggio dal film
all’emissione TV, l’uso del cinema in TV, il modificarsi
della ricezione del film, e l’influenza di tutto questo nel
linguaggio del film. Pochi come lui, dopo Bazin (suo-
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nostro maestro, esploratore di sentieri inediti per entrare
con la poesia nella modernità e affrontare Poltre), hanno
saputo parlare dei film e dei loro autori con altrettanta tra
scinante capacità di penetrazione riuscendo a mantenere
una purezza di sguardo, che sembra essere miracolosamente
rimasta quella del ragazzino di un tempo. Un modo di
affrontare la storia e il racconto della storia, la storia del
nostro tempo (da Notte e nebbia a Kapò), e un modo di entra
re nella dimensione più alta della cultura, della trasmissio
ne della cultura, rimanendo nella dimensione dell’infanzia e
dei suoi bisogni. Due film hanno segnato in Daney questa
«visione», pieni di crudeltà e pieni di poesia come, avrebbe
detto Bazin, dovrebbe essere dei veri capolavori: La morte
corre sul fiume di Charles Laughton e II covo dei contrabbandie
ri di Fritz Lang, due capolavori che hanno al centro lo
sguardo di un bambino, di un «guardatore» bambino. «Il
covo dei contrabbandieri è la versione positiva di ciò di cui La
morte corre sul fiume è la versione malvagia: il ragazzino vuole
a tutti i costi un padre, lo sceglie e lo obbliga a comportarsi
come suo padre, contro la sua volontà, e si aspetta da lui
delle lezioni di messa in scena, cioè delle lezioni di topolo
gia, di riconoscimento del territorio.»
La figura dell’autore, dice Daney, è un’immagine paterna,
ma il padre non c’è; c’è nel film di Laughton un padre abu
sivo che vuol derubare il bambino dell’eredità che gli spet
ta, che vuole soffocarlo, e c’è un padre che ci si inventa e
che si sceglie, da cui si esige (si ha il diritto di esigere) la
poesia e l’indicazione di un futuro possibile e dei modi per
affrontarlo. Ma è proprio alla fine della sua vita, e del suo
libro, del suo testamento, che Daney parla della decisione
di assumersi le responsabilità del padre — rifiutando o supe
rando la cinefilia dell’adolescente, o l’adolescenza della
cinefilia. E di parlare così ad altri bambini, ad altri adole
scenti, a quelli che nasceranno dopo di noi. «Allora ho fini
to per accettare l’idea che il cinema era o è stato un fatto
talmente straordinario che potevo, per esempio, fare una
rivista trimestrale, (...) che questa trasmetta così le espe
rienze di qualcuno. Perché mi sono stancato di non vedere
arrivare nulla.» E se «non ci aspettiamo uno stupore indi
li
menticabile come quello che abbiamo conosciuto» nel
nostro felice passato di spettatori d’altri tempi, siamo però
«piuttosto inquieti all’idea di un eventuale futuro orwellia-
no con grandi cerimonie audiovisive di massa e telethon
giganti trasmessi sù grande schermo.» Il futuro, tocca a noi
inventarlo.
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INTRODUZIONE
di Serge Toubiana
a Huguette Daney
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do» Hiroshima, la rottura rappresentata dal cinema moder
no, Rossellini e (ìodard... Questo itinerario teorico mi
restava in parte osi uro, ne avevo ancora una coscienza assai
vaga, astratta: mi accontentavo di seguire Daney nei suoi
pensieri, lasciandolo fare piti che manifestando reale com
prensione o adesione. Mi mancava un anello della catena,
quello che Serge mi avrebbe fornito in seguito.
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Un anno prima, Serge se l’era presa con me per non esse
re stato al suo fianco nell’ «affare Berti». Per chi non lo
sapesse o l’avesse dimenticato, Claude Berri aveva citato in
giudizio «Liberation» in seguito ad un articolo particolar
mente ispirato di Serge contro Uranus. Berri aveva ottenuto
un diritto di replica, debole di contenuto e mediocre nella
forma, che finiva con un volgare «ciao pollo». Era una
novità che un cineasta ottenesse per vie legali il diritto di
replica a un articolo che non era diffamatorio. Serge era
rimasto profondamente ferito dal fatto che questa risposta
fosse stata pubblicata senza che nessuno, all’interno di
«Liberation», il suo giornale, avesse preso le sue difese.
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no, con semplicità e intelligenza, senza alcuna parola, alcu
na espressione che Incesse trasparire il minimo senso di
lamento o di ingiustizia.
lo che pure, lo ( onoscevo bene, ho scoperto a Eguilles
cose di lui che ignoravo, di cui non aveva mai parlato. A
nessuno. Non fu tanto una confessione, né, più banalmente,
una forma di auto-analisi. Ciò che disse sembrava piuttosto
iscriversi, in modo logico e controllalo, nella trama di una
personale sceneggiatura. Con serenità Serge stava sisteman
do gli ultimi pezzi di un puzzle, quello della sua vita.
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Voleva che si procedesse rapidamente. Feci sbobinare al
più presto i nastri magnetici, affidandoli ad Anne-Marie
Faux, che lavorò con estrema intelligenza. Poi riconsegnai
tutto a Serge. Si riprometteva di tornare su questo primo
abbozzo. Ma non aveva più forze per occuparsi contempora
neamente di «Trafìc» e di questo lavoro di riscrittura. Ogni
volta che lo vedevo, gli domandavo discretamente a che
punto era. «Proseguo, proseguo...». Ne dubitavo.
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PRIMA PARTE
Il carrello di Kapò
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senza dubbio meno puro: la confortante consapevolezza di
aver acquisito la mia prima certezza di futuro critico. Nel
corso degli anni, infatti, il «carrello di Kapò» costituì per me
il dogma universale, l'assioma su cui non si discute, il punto
limite di ogni dibattito. Con chiunque non avesse colto
immediatamente l'abiezione del «carrello di Kapò» non avrei
mai avuto nulla a che vedere, nulla da condividere.
D’altra parte questo genere di rifiuti apparteneva ai
tempi. Di fronte allo stile rabbioso ed esasperato dell'artico
lo di Ri vette, capivo che si erano già svolti furiosi dibattiti
e mi sembrava logico che il cinema fosse la cassa di risonan
za privilegiata di ogni polemica. Stava finendo la guerra
d’Algeria che, per il fatto di non essere stata filmata, aveva
già fatto nascere dei sospetti su ogni rappresentazione della
Storia. Tutti sembravano consapevoli che ci potessero essere
— proprio e soprattutto nel cinema - delle immagini tabù,
dei montaggi vietati e delle leggerezze criminali. La celebre
formula di Godard che individuava nell’nso del carrello
«una questione di morale» era, almeno per me, una di quel
le verità su cui non si discute.
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Quanto all’idea di abbonarmi, non mi ha mai sfiorato:
amavo quell’attesa esasperata. Che fosse per comperarli, poi
per scrivervi e finalmente per farli, in ogni caso io sarei
rimasto vicino ai «Cahiers», perché erano «casa mia».
Al liceo Voltaire eravamo un manipolo ad essere entrati
furtivamente nel mondo della cinefilia. L’evento si può
anche datare: 1959. La parola «cinefilo» era ancora vitale
ma già aveva quella connotazione morbosa e quell’aura ran
cida che in seguito l’avrebbero gradualmente screditata.
Quanto a me, dovetti disprezzare subito coloro che, troppo
normalmente educati, deridevano già i «topi di cineteca»
che noi, colpevoli di vivere il cinema come passione e la
vita per procura, saremmo divenuti per qualche anno.
All’inizio degli anni Sessanta, il mondo del cinema era
ancora un mondo incantato. Da un lato possedeva tutto il
fascino di una contro-cultura parallela. Dall’altro aveva il
vantaggio di essere già compiuto, con una storia densa, dei
valori riconosciuti, le cantonate del Sadoul — questa Bibbia
insufficiente - , una lingua consolidata e miti resistenti,
battaglie di idee e riviste militanti. Certo, le guerre erano
quasi finite e noi arrivavamo un po’ tardi, ma non così
tanto da non alimentare il tacito progetto di riappropriarci
di tutta questa storia che non aveva ancora un secolo di vita.
Essere cinefilo consisteva semplicemente nell’ingurgita-
re, parallelamente al programma del liceo e su di esso rical
cato, un altro programma scolastico, avendo i «Cahiers»
come fìl rouge e potendo contare su qualche «traghettato-
re» adulto che, con la discrezione dei cospiratori, ci faceva
capire che c’era un altro mondo da scoprire, e forse che era
proprio quello il mondo in cui vivere. Henry Agel - profes
sore di lettere al liceo Voltaire — fu uno di questi strani tra
ghettatori. Per evitare a se stesso e a noi il tedio delle lezio
ni di latino, metteva ai voti le seguenti possibilità: passare
un’ora sui testi di Tito Livio o vedere dei film. La classe,
che votava per il cinema, usciva dal vecchio cineclub inva
riabilmente pensierosa e con la sensazione di essere stata
presa in trappola. Un po’ per sadismo e sicuramente per il
semplice motivo che ne possedeva le copie, Agel proiettava
oscuri film capaci di turbare seriamente degli adolescenti
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come noi. tirano /z \ang des bètes (t.l. Il sangue degli anima
li) di Hranjii r soprai tutto Notte e nebbia di Resnais. Così
attraverso il cinema appresi che la condizione umana e il
massacro industriale non erano incompatibili e che il peg
gio era appena accaduto.
Penso oggi c he Agel, per il quale la parola Male si scri
veva con la maiuscola, amasse spiare sul viso degli adole
scenti della seconda B gli effetti di questa singolare rivela
zione, perché proprio di una rivelazione si trattava. Doveva
esserci una componenente voyeuristica nel suo modo bruta
le di trasmettere, attraverso il cinema, questo sapere maca
bro e inafferrabile, che noi eravamo la prima generazione ad
ereditare per intero. Cristiano poco proselita, militante
piuttosto elitario, Agel mostrava. Aveva questo talento.
Mostrava perché era necessario farlo. E perché la cultura
cinematografica al liceo, per la quale si batteva, passava
anche attraverso questa tacita distinzione tra coloro che non
avrebbero più dimenticato Notte e nebbia e gli altri. Io non
facevo parte degli «altri».
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solo film di Walt Disney. Mandato direttamente alla scuola
comunale, ero fiero di essermi risparmiato l’asilo e la
baraonda delle scene dei bambini. Di più: il disegno anima
to avrebbe sempre rappresentato per me una cosa diversa
dal cinema. In un certo senso un nemico. Nessuna bella
immagine, soprattutto se disegnata, poteva distogliermi
dall’emozione, dal timore, dal fremito che provavo davanti
alle cose semplicemente «catturate» da una ripresa. E tutto
questo, che, nella sua semplicità, mi ha richiesto anni per
poter essere chiaramente formulato, doveva iniziare ad usci
re dal limbo solo davanti alle immagini di Resnais e al testo
di Rivette. Nato nel 1944, due giorni prima dello sbarco
alleato, avevo l’età giusta per scoprire contemporaneamente
il mio cinema e la mia storia. Una storia strana, che ho cre
duto per tanto tempo di poter condividere con gli altri
prima di capire — molto tardi — che era invece solo mia.
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ma è Hitchcock ad esserci riuscito. Come si può dimentica
re, per fare solo un esempio, il primo incontro con Psycho?
Eravamo entrati, di nascosto, ai Paramount Opera e il film
ci spaventava né piò né meno di tanti altri. Ed ecco, verso
la fine, una scena con un montaggio fatto alla bell’e meglio,
da cui non emergono che oggetti grotteschi: una vestaglia
cubista, una parrucca che cade, un coltello impugnato.
Allora la mia percezione slitta e allo spavento, condiviso
fino a quel momento con gli altri, subentra la calma di una
solitudine rassegnata: il cervello funziona come un secondo
proiettore che lasci scorrere l’immagine, permettendo al
film e al mondo di continuare senza di lui. Non riesco ad
immaginare alcun amore del cinema che non si fondi sul
presente rubato di questo «continuate senza di me».
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non so più ormai che cosa rispondere — «che cosa farai nella
vita?» — ho da qualche minuto una risposta. «Più tardi», in
un modo o nell’altro, sarebbe stato il cinema. Perciò non ho
mai risparmiato dettagli su questa mia cine-nascita.
Hiroshima, il marciapiede della metropolitana, mia madre,
l’ex cinema d’essai degli Agricoltori e le sue comode poltro
ne di cuoio saranno rievocati più di una volta come scenario
mitico della buona origine, quella che ognuno si sceglie.
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zia o, piuttosto, die aveva fatto di me, per tre decenni, un
bambino serto. E giustamente era la persona con cui, da
adulto, non avrei mai condiviso nulla. Mi ricordo che alla
fine di un’intervista — per l’uscita di La vita è un romanzo —
pensai fosse giusto parlargli dello choc che Hiroshima mon
amour aveva provocato nella mia vita: mi ringraziò con
un’aria sostenuta e fredda, come se gli avessi fatto i compli
menti per il suo impermeabile nuovo. Ci rimasi male, ma
avevo torto: i film che «hanno ri/guardato la nostra infan
zia», non sono condivisibili con nessuno, neppure con il
loro autore.
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mente i gesti propri del cinema. Bisognerà aspettare fino
alla metà degli anni Settanta per riconoscere nel Salò di
Pasolini o anche neìV Hitler di Syberberg l’altro significato
della parola «innocente». Non tanto il non colpevole, quan
to colui che, filmando il Male, non «pensa male». Nel
1959, io, giovane appena turbato dalla scoperta di sé, già
condividevo la colpevolezza di tutti. Ma nel 1945, forse, era
sufficiente essere americano e assistere, come fece George
Stevens o il caporale Samuel Fuller a Falkenau, all’apertura
delle vere porte della notte, cinepresa alla mano. Bisognava
essere americano - cioè credere all’innocenza innata dello
spettacolo — per far sfilare la popolazione tedesca davanti
alle fosse aperte al fine di mostrarle quello vicino a cui era
vissuta, nel bene e nel male. Ed era necessario che ciò acca
desse dieci anni prima che Resnais si mettesse al tavolo di
montaggio e quindici anni prima che Pontecorvo aggiunges
se quel piccolo movimento della macchina da presa che
disgustò me e Rivette. La necrofilia era dunque il prezzo di
questo ritardo come anche la doppiezza erotica dello sguar
do «giusto», quello dell’Europa colpevole, quello di
Resnais e, di conseguenza, il mio.
Questa fu la prima parte della mia storia. Lo spazio aper
to dalla frase di Rivette era il mio, così come già mia era la
famiglia intellettuale dei «Cahiers du cinéma». Ma questo
spazio, me ne sarei reso conto in seguito, più che un vasto
campo, era una porta stretta. Con da un lato, quello nobile,
il piacere della distanza giusta, e dall’altro il suo rovescio di
necrofilia sublime o sublimata; e, nel lato non nobile, la
possibilità di un piacere completamente diverso e in-subli-
mabile. Fu Godard che un giorno, mostrandomi alcune cas
sette di film pornografici ambientati nei campi di stermi
nio e riposti in un angolo della sua videoteca di Rolle, si
stupì che di fronte a quei film non fosse stato fatto alcun
discorso, né lanciata alcuna condanna. Come se la bassezza
delle intenzioni dei loro produttori e la trivialità degli
appetiti dei loro consumatori li proteggessero in qualche
modo dalla censura e dall’indignazione. Dimostrazione che
nella sottocultura perdurava la sorda rivendicazione di un
legame obbligatorio tra i 'carnefici e le vittime. L’esistenza
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di questi film in effetti non mi aveva mai preoccupato.
Avevo nei loro confronti — come nei confronti di tutto il
cinema esplicitamente pornografico — la tolleranza quasi
educata che si ha verso l’espressione di un fantasia così
cruda da non poter vantare cfìe la triste monotonia della sua
necessaria ripetizione.
Sarà sempre l’altra pornografìa — quella «artistica», di
Kapò, come più tardi quella di Portiere di notte e di altri pro
dotti «rétro» degli anni Settanta — a disgustarmi. All’este-
tizzazione consensuale del dopo, preferirò sempre il ritorno
ostinato delle non-immagini di Notte e nebbia, se non addi
rittura l’ondata puls^onale di un qualsiasi Louve chez les S.S.
che non vedrò mai. Quei film avevano almeno l’onestà di
prendere atto dell’iTnpossibilità di raccontare, l’onestà di
riconoscere un punto d’arresto nello svolgimento della
Storia, dove il racconto si paralizza o gira a vuoto. Non si
dovrebbe parlare tanto di amnesia o di rimozione quanto
piuttosto di forclusione, una parola di cui solo più tardi
apprenderò la definizione lacaniana: ritorno allucinarono di
ciò su cui non è stato possibile operare un giudizio di
realtà; In altri termini: poiché i registi non hanno filmato a
suo tempo la politica di Vichy, il loro compito,
cinquant’anni più tardi, non è quello di ottenere un riscatto
immaginario a colpi di Arrivederci, ragazzi ma quello di
tracciare il ritratto attuale di questo buon popolo francese
che, dal 1940 al 1942, retata del Vel’ d’Hiv compresa, non
ha battuto ciglio. Essendo il cinema un’arte del presente, i
suoi rimorsi non hanno alcun valore.
Per questo motivo lo spettatore che fui davanti a Notte e
nebbia e il regista che con questo film tentò di mostrare
l’irrappresentabile, erano legati da una simmetria complice.
Da un lato lo spettatore che improvvisamente «è assente dal
suo posto» e si blocca mentre il film va avanti. Dall’altro il
film che invece di continuare ripiega su se stesso, si blocca
su un’immagine provvisoriamente definitiva che permette
al soggetto-spettatore di continuare a credere al cinema e al
soggetto-cittadino di continuare a vivere la sua vita. Fermo
sullo spettatore, fermo sull’immagine: il cinema è entrato
nell’età adulta. La sfera del visibile ha cessato di essere
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disponibile nella sua interezza: ci sono ora assenze e buchi,
vuoti necessari e pieni superflui, immagini per sempre
assenti e sguardi venuti meno per sempre. Spettacolo e
spettatore cessano di rinviarsi tutte le palle. Fu così che
avendo scelto il cinema, considerato «arte dell’immagine in
movimento», iniziai la mia vita di «cinefago» sotto l’egida
paradossale di un primo fermo immagine.
Questo fermo immagine mi protesse dalla necrofilia
pura e non vidi nessuno dei rari film o documentari «sui
campi» che seguirono Kapò. La questione per me era risolta
con Notte e nebbia e con l’articolo di Rivette. Mi comportai
per molto tempo come le autorità francesi che, ancora oggi,
davanti a qualsiasi fatto di cronaca antisemita, trasmettono
d’urgenza il film di Resnais come se esso facesse parte di un
arsenale segreto che, al ripresentarsi del Male, potesse
opporre all’infinito le sue virtù esoreistiche. E se non appli
cai il teorema del carrello di Kapò ai soli film esposti dal
loro stesso soggetto al pericolo dell’abiezione, accadde per
ché ero tentato in realtà di applicarlo a tutti i film. «Ci sono
delle cose» aveva scritto Ri vette «che devono essere avvicinate con
timore e tremore: la morte è certamente una di queste. Come si può,
al momento di filmare una cosa tanto misteriosa, non sentirsi un
impostore ?» Condividevo.
E poiché i fdm in cui la morte non sia in qualche modo
presente sono rari, altrettanto numerose erano le occasioni
di temere e tremare. Alcuni registi, in effetti, non erano
degli impostori. Così, sempre nel 1959, la morte di Miyagi
in I racconti della luna pallida d’agosto mi inchiodò, straziato,
ad una poltrona del cinema Bertrand. Perché Mizoguchi
aveva filmato la morte come una indefinibile fatalità che, lo
si vedeva chiaramente, non poteva altro che accadere. Mi
ricordo ancora la scena: nella campagna giapponese alcuni
viaggiatori sono attaccati da un gruppo di banditi affamati
e uno di questi trafigge Miyagi con un colpo di lancia. Ma
lo fa quasi inavvertitamente, esitando, còme spinto da un
residuo di violenza o da un riflesso condizionato. Questo
gesto resta così poco in posa che la cinepresa sembra sul
punto di «passargli accanto», e io sono convinto che in quel
momento ogni spettatore di I racconti della luna pallida
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d'agosto è sfiorato dalla stessa folle idea, quasi superstiziosa:
se il movimento della macchina da presa non fosse stato
così lento, l’avvenimento sarebbe rimasto fuori campo o —
chissà? — forse non sarebbe proprio accaduto.
La colpa è della macchina da presa? Svincolandola dai
gesti degli attori, Mizoguchi ha fatto esattamente il contra
rio di Pontecorvo in Kapò. Al posto di un colpo d’occhio,
per di più aggraziato, ha scelto uno sguardo che «fa fìnta di
non vedere nulla», che preferirebbe non aver visto nulla e
che, per questo, mostra il fatto nel suo prodursi come fatto,
cioè ineluttabilmente e di traverso. Un fatto assurdo e senza
valore, assurdo come ogni cosa che volge al male e senza
valore come la guerra, catastrofe che Mizoguchi non accettò
mai. Un fatto che non ci riguarda mai abbastanza da poter
ne attraversare il cammino, un fatto vergognoso. Perché
scommetto che in quel preciso istante ogni spettatore dei
Racconti sa nel modo più assoluto in che cosa consiste l'assur
dità della guerra. Non importa che lo spettatore sia occi
dentale, il film giapponese e la guerra medioevale: è suffi
ciente passare dall’atto di mostrare con il dito all’arte di fis
sare con lo sguardo perché questo sapere, sfuggente e uni
versale allo stesso tempo, l’unico di cui il cinema sia capace,
ci sia elargito.
Schierandomi così in fretta per la panoramica dei Racconti
contro il carrello di Kapò, compio una scelta di cui misurerò
la portata solo dieci anni più tardi, nel fervore tanto radicale
quanto tardivo della politicizzazione post-sessan fotti na dei
«Cahiers». Perché se Pontecorvo, futuro autore della
Battaglia di Algeri, è un regista coraggioso del quale condi
vido grossomodo le convinzioni politiche, Mizoguchi sem
bra aver vissuto solo per la sua arte ed essere stato politica-
mente un opportunista. Dov’è allora la differenza? Nel
«timore e tremore» appunto. Mizoguchi ha paura della
guerra perché, a differenza del suo allievo Kurosawa, gli
ometti che si tranciano la carotide in nome della virilità feu
dale lo prostrano. Da questa paura, nausea e desiderio di
fuggire deriva la panoramica inebetita. Una paura che fa di
questo momento un momento giusto, cioè condivisibile.
Pontecorvo, invece, non conosce né timore né tremore: i
54
campi lo sconvolgono solo ideologicamente. E così si inseri
sce come un di più nella scena sotto le vesti sconce di un
carrello aggraziato.
Il cinema - me ne rendevo conto — oscillava spesso tra
questi due poli. E in seguito, pur avendo a che fare con
registi diversi da Pontecorvo, mi sono imbattuto più di una
volta in questa usanza da contrabbandieri — una sorta di
pratica ipocrita e generalizzata &e\\' ammiccamento — di
aggiungere una bellezza parassita lo un’informazione com
plice a scene che non tollerano simili modalità di rappre
sentazione. Per questo, il colpo di vento che fa calare, quasi
fosse un sudario, il biancore di un paracadute su un soldato
morto in L’urlo della battaglia di Fuller, mi ha infastidito
per anni. Sempre meno comunque della sottana sollevata
sul cadavere di Anna Magnani, falciata da una raffica di
mitra in Roma città aperta. Anche Rossellini tirava colpi
bassi ma in un modo così nuovo che sarebbero occorsi degli
anni per capire verso quale abisso ci stava conducendo.
Dov’è la crudeltà? Dove inizia l’oscenità e dove finisce la
pornografìa? Sentivo con chiarezza che erano queste le assil
lanti domande legate al cinema del «dopo olocausto».
Cinema che iniziai, da solo e perché ne ero coetaneo, a chia
mare «moderno».
Questo cinema moderno aveva una caratteristica: era
crudele; e noi ne avevamo un’altra: accettavamo questa cru
deltà. La crudeltà era «dalla parte giusta». In suo nome
dicevamo no all’illustrazione accademica e ponevamo per
sempre fine al sentimentalismo ipocrita di un umanesimo
allora troppo loquace. La crudeltà di Mizoguchi, per esem
pio, consisteva nel montare insieme due movimenti incon
ciliabili e nel produrre il sentimento straziante di «mancata
assistenza a chi è in pericolo». Sentimento moderno per
eccellenza, che precede di quindici anni i grandi e coraggio
si carrelli di Week-end. Sentimento arcaico, anche, perché
questa crudeltà era vecchia quanto il cinema stesso, da sem
pre spia di ciò che in esso era fondamentalmente moderno,
dall’ultima inquadratura di Luci della città a Lo sconosciuto di
Browning passando per la scena finale di Nana. Come si
può dimenticare il lento, trepidante carrello che il giovane
35
Renoir fa partire su Nana, distesa a letto, sifilitica e agoniz
zante? Come si è potuto - insorgevano allora i topi da cine
teca die eravamo diventati — vedere in Renoir un cantore
della vita beata quando invece è stato uno dei rari registi
capaci, fin dagli inizi, di finire un personaggio a colpi di
carrello?
Effettivamente la crudeltà era nella logica del mio per
corso di combattente dei «Cahiers». André Bazin, che ne
aveva già fatto la teoria, la trovava così strettamente legata
all’essenza del cinema da farne quasi «il quid». A Bazin,
questo santo laico, piaceva Louisiana Story perché mostrava
un uccello mangiato da un coccodrillo in tempo reale e in
un’unica inquàdratura: montaggio proibito e capacità di
testimonianza del cinema. Scegliere i «Cahiers» significava
scegliere il realismo e, come avrei infine scoperto, un certo
disprezzo per l’immaginazione. Il «Vuoi guardare? Allora
guarda questo» di Lacan, era anticipato dal «Questo è stato
ripreso? Allora devo vederlo». Sempre e soprattutto quando
quel «ripreso» era doloroso, insopportabile o decisamente
invedibile.
Questo realismo era infatti bifronte. Se attraverso il rea
lismo i moderni mostravano un mondo superstite, attraver
so un altro realismo - o piuttosto un «realistico» - le pro
pagande filmate degli anni Quaranta avevano alimentato la
menzogna e prefigurato la morte. Per questo era giusto,
malgrado tutto, chiamare il primo, nato in Italia, «neo».
Non era possibile amare l’«arte del secolo» senza vederla
partecipare alla follia del secolo e nello stesso tempo esserne
partecipata. Diversamente dal teatro — crisi e cura collettive
— il cinema — informazione e lutto individuali — aveva inti
mamente a che fare in quegli anni con l’orrore da cui si era
appena ripreso. Ereditavo un convalescente colpevole, un
bambino invecchiato, una fragile ipotesi. Saremmo invec
chiati insieme, ma non in eterno.
Erede consapevole, cine-figlio modello, con il «carrello
di Kapò» come amuleto, passavo gli anni in una continua
apprensione: e se l’amuleto perdeva la sua efficacia? Mi
rivedo ancora, professore incaricato, sfruttato, di Censier-
Paris III, fotocopiare il testo di Ri vette, distribuirlo ai miei
36
studenti e domandare la loro impressione. Era un’epoca
ancora «rossa» in cui qualche studente cercava di racimola
re dai suoi insegnanti un po’ del radicalismo politico del
'68. Mi sembrò che i più motivati fra loro consentissero,
per rispetto verso me, a vedere in Dell’abiezione un docu
mento storico interessante, ma che lo considerassero già
datato. Li capii e se per caso ripetessi l’esperimento con stu
denti di oggi, non mi inquieterei di vedere che inciampano
proprio sul carrello, ma mi preoccuperei di sapere se alme
no esiste per loro un qualsiasi indice di abiezione. Per dirla
tutta, avrei paura di scoprirne la totale mancanza. Segno
non solo che i carrelli non hanno più nulla a che vedere con
la morale ma che il cinema si è ormai troppo indebolito per
ospitare una simile questione.
Il fatto è che trentanni dòpo le continue proiezioni di
Notte e nebbia al liceo Voltaire, i campi di sterminio — che
mi erano serviti come scena primaria — non godono più del
sacro rispetto in cui li tenevano Resnais, Cayrol e molti
altri. Abbandonata agli storici e ai curiosi, la questione dei
campi riguarda ormai solo i loro studi, le loro divergenze e
le loro manie. Il desiderio bloccato dalla rimozione che
ritorna in modo allucinarono nel reale è evidente che non
sarebbe mai dovuto ritornare. Desiderio che non siano mai
esistiti né camere a gas, né soluzione finale, né, al limite,
campi di sterminio: revisionismo, faurrissonnismo2, nega-
zionismo, sinistrismo e ulteriori ismi. Uno studente di
cinema oggi non erediterebbe soltanto il «carrello di
Kapò», ma anche una trasmissione incerta, un tabù mal
estirpato, insomma un nuovo giro di pista nella storia senza
valore della tribalizzazione dello stesso e della fobia
dell’altro. Il fermo immagine ha smesso di compiersi, la
banalità del male può produrre immagini sempre nuove,
elettroniche.
Nella Francia attuale si intravedono ormai segnali abba
stanza numerosi che qualcuno della mia generazione, riflet
tendo su ciò che gli è stato dato da vivere come Storia, inizi
a prendere coscienza del paesaggio in cui è cresciuto.
Paesaggio tragico e, nello stesso tempo, confortevole. Due
sogni politici — l’americano e il comunista — predisposti a
37
Yalta. Dietro di noi: un punto di non-ritorno morale sim
boleggiato da Auschwitz e il concetto nuovo di «crimine
contro l’umanità». Davanti a noi: l’impensabile, quasi rassi
curante apocalisse nucleare. E questo, che è appena finito, è
durato più di quarant’anni. In realtà io appartengo alla
prima generazione per la quale il razzismo e l’antisemiti
smo erano definitivamente finiti nella pattumiera della sto
ria: La prima — e l’unica? L’unica, in ogni caso, che non
gridò facilmente al lupo del fascismo «il fascismo non
passe-rà» — per il semplice fatto che sembrava una cosa del
passato, successa una volta per tutte e terminata. Un errore,
naturalmente. Un errore che non impedì di vivere bene i
propri «gloriosi trentanni», ma sempre come tra virgolet
te. Un’ingenuità naturalmente, come fu un’ingenuità fìnge
re che, nel campo cosiddetto estetico, la necrofilia elegante
di Resnais potesse per sempre tenere a distanza qualsiasi
sconveniente intrusione.
«Nessuna poesia dopo Auschwitz», dichiarò Adorno per
poi rivedere questa formula rimasta famosa. «Nessuna fin
zione dopo Resnais», avrei potuto fargli eco, prima di
abbandonare, anch’io, questa idea un po’ eccessiva. Protetti
dall’onda dello choc prodotta dalla scoperta dei campi di
sterminio, abbiamo dunque creduto che l’umanità fosse
precipitata — una sola volta, ma non sarebbe più successo -
nel non-umano? Abbiamo davvero scommesso che per una
volta il peggio era passato? Abbiamo a quel punto sperato
che ciò che ancora non si si chiamava Shoah fosse stato
l’avvenimento unico «grazie» al quale l’intera umanità
sovrastava un istante la storia riconoscendovi l’aspetto peg
giore (ed evitabile) del suo possibile destino? Sembra di sì.
Ma se «unico» e «intero» fossero ancora considerate
parole eccessive e se l’umanità non prendesse la Shoah come
metafora di ciò di cui fu ed è tuttora capace, lo sterminio
degli ebrei resterebbe una storia ebraica, poi — per ordine
decrescente di responsabilità, per metonimia — una storia
molto tedesca, abbastanza francese, araba solo di riflesso,
molto poco danese, e quasi per niente bulgara. E proprio
alle esigenze della metafora rispondeva, nel cinema, l’impe
rativo moderno di decretare il fermo immagine e l’inibizio-
SH
ne della fiction. Si trattava di imparare a raccontare diversa-
mente un’altra storia in cui la specie umana fosse il solo
personaggio e la prima anti-diva. Di dar vita ad un altro
cinema, un cinema consapevole del fatto che il consegnare
troppo presto l’avvenimento alla fiction significa privarlo
della sua unicità, perché la fiction è questa libertà che si
disperde e che si apre troppo presto all’infinità della varia
zione e alla seduzione del mentire vero.
Nel 1989, in visita a Phnom Penh per «Liberation»,
camminando nella campagna cambogiana, intuii a che cosa
assomigliava un genocidio — ed anche un auto-genocidio —
rimasto senza immagini e quasi senza tracce. La prova che il
cinema non era più legato intimamente alla storia degli
uomini, neppure quando questa presentava il suo volto inu
mano, la desumevo ironicamente dal fatto che, a differenza
dei boia nazisti che avevano filmato le loro vittime, i
Khmers rossi avevano lasciato alle loro spalle solo foto e
carneficine. Ed era proprio nella misura in cui un altro
genocidio, quello cambogiano, restava allo stesso tempo
senza immagini e impunito, che per un effetto di contagio
retroattivo la Shoah stessa veniva relegata nel regno del
relativo. Passaggio dalla metafora bloccata alla metonimia
attiva, dal fermo immagine alla vitalità analogica. E questo
è accaduto molto velocemente: già nel 1990, la «rivoluzio
ne rumena» incolpava degli indiscutibili assassini con capi
d’accusa assolutamente frivoli come «detenzione illegale di
armi da fuoco e genocidio». Era dunque tutto da rifare? Sì,
ma questa volta senza il cinema. Da qui il lutto.
Infatti, è indubbio, noi abbiamo creduto al cinema. Cioè
abbiamo fatto di tutto per non crederci. E la storia dei
«Cahiers» post-68 e del loro impossibile rifiuto del bazini-
smo. Di certo non era il caso di dormire fra due guanciali o
di affliggere Barthes confondendo il reale e il rappresentato.
Evidentemente eravamo troppo competenti per non inscri
vere il posto dello spettatore nella catena significante o per
non vedere la ferrea ideologia nascosta dietro la falsa neutra
lità della tecnica. Eravamo anche coraggiosi, Pascal B. ed
io, quando, davanti ad un anfiteatro stracolmo di gauchisti
buontemponi, urlavamo con voce spezzata che un film non
39
«si vede» ma «si legge». Encomiabile sforzo per essere dalla
parte di coloro che non si fanno ingannare. Encomiabile e,
per quel che mi riguarda, vano. Arriva sempre il momento
in cui malgrado tutto bisogna pagare il conto alla cassa
della credenza ingenua e osare credere a ciò che si vede.
Certo, non si è obbligati a credere a ciò che si vede,
- oltretutto è pericoloso - ma ugualmente non è nemmeno
detto che si debba tenere fede al cinema. Ci deve pur essere
del rischio e della virtù - insomma del valore — nel fatto di
mostrare qualche cosa a qualcuno capace di guardarla. A
che cosa servirebbe imparare a «leggere» il visivo e a «deco
dificare» i messaggi se noti sussistesse, minima, la più radi
cata delle convinzioni: che vedere è comunque sempre supe
riore al non vedere. E che ciò che non è visto al momento giu
sto, non potrà mai più esserlo veramente. Il cinema è l’arte
del presente. E se la nostalgia quasi non lo sfiora, è la
malinconia la sua immediata controfigura.
Mi ricordo ancora la veemenza con la quale tenni questo
discorso per la prima e ultima volta. Ero a Teheran, in una
scuola di cinema. Davanti ai giornalisti invitati, io e
Khemaìs K., c’erano file di ragazzi con la barba incipiente e
file di fagotti neri — le ragazze senza dubbio. I ragazzi a
sinistra e le ragazze a destra, secondo le leggi dell’apartheid
in vigore da quelle parti. Le domande più interessanti —
quelle delle ragazze — ci giungevano sotto forma di biglietti
furtivi. E fu proprio vedendole così attente e così stupida
mente velate che mi lasciai andare a una collera vana che
riguardava non tanto loro quanto tutte le persone di potere
per cui il visibile era la prima cosa che doveva essere con
trollata, cioè sospettata di tradimento e sottomessa, con
l’aiuto di un chador o di un controllo poliziesco dei segni.
Imbaldanzito dalla stranezza del momento e del luogo, mi
lanciai in una predica in favore del visibile per un pubblico
velato che annuiva solo con il capo.
Collera tardiva. Collera terminale. Perché l’era del sospet
to è proprio finita. Si sospetta solo quando una certa idea di
verità è in gioco. Niente di simile oggi, se non tra gli inte
gralisti e i bigotti, che se la prendono col Cristo di Scorsese
e con la Maria di Godard. Le immagini non sono più sul
40
versante della verità dialettica del «vedere» e del «mostra
re», sono passate completamente sul versante della promo
zione, della pubblicità, in poche parole del potere. Siamo
dunque arrivati al punto che si deve iniziare a lavorare su
ciò che resta, cioè la leggenda postuma e dorata di ciò che
fu il cinema. Di ciò che fu e di ciò che sarebbe potuto esse
re. «Il nostro compito sarà quello di mostrare come gli
individui, affollati nel buio, facevano ardere il loro immagi
nario per riscaldare il loro reale — era l’epoca del cinema
muto. E come hanno finito per lasciar morire quella fiam
ma al ritmo delle conquiste sociali, accontentandosi di una
piccola fiammella — ed è l’epoca del sonoro, della televisio
ne in un angolo della stanza». Quando, era solo il 1989,
Godard stabilì questo programma, avrebbe potuto aggiun
gere: «Finalmente solo!»
Quanto a me, ricordo il momento esatto in cui seppi che
l’assioma del «carrello di Kapò» doveva essere rivisitato, e
che doveva essere rivisto il concetto cardine di «cinema
moderno». Nel 1979 la televisione francese trasmise lo sce
neggiato americano Holocaust di Marvin Chomsky. Un ciclo
si chiudeva, rimandandomi al punto di partenza. Infatti, gli
Americani avevano sì permesso a George Stevens di realiz
zare nel 1945 lo sconvolgente documentario di cui ho par
lato in precedenza, ma non l’avevano mai diffuso per ragio
ni di guerra fredda. Incapaci di «trattare» una storia che
dopotutto non era loro, i produttori americani l’avevano
provvisoriamente abbandonata agli artisti europei. Ma ave
vano su di essa, come su tutta la storia, diritto di prelazione e
prima o poi la macchina tele-hollywoodiana avrebbe osato
raccontare la «nostra» storia. L’avrebbe fatto con il maggior
riguardo possibile ma non senza vendercela come una storia
americana tra le tante. Holocaust avrebbe dunque raccontato
la sciagura che si abbatte su una famiglia ebrea, fino a sepa
rarla e distruggerla: con comparse troppo grasse, perfor
mances d’attore, umanitarismo a iosa, scene d’azione e
melodramma. E compatimento.
Dunque solo attraverso la forma del docu-drama all’ame
ricana questa storia sarebbe potuta uscire dai cineclub e, via
etere, raggiungere quella versione asservita dell’«umanità
41
intera» che è il pubblico della mondovisione. Certamente la
sifnulazione-Htf/wwr/ non si soffermava più sull’alienazione
di un’umanità capace di compiere crimini contro se stessa,
rimanendo ostinatamente incapace di far emergere da que
sta vicenda i singoli individui che furono, ciascuno con una
propria storia, un viso, un nome, gli Ebrei sterminati. Fu
d’altronde il disegno - quello di Spiegelman autore di Maus
— ad osare, più tardi, questo salutare atto di re-indiyidualiz-
zazione. Il disegno, non il cinema, a dimostrazione di quan
to sia vero che il cinema americano detesti l’individualità.
Con Holocaust^ Marvin Chomsky realizzava il ritorno, mode
sto e trionfale, del nostro nemico estetico di sempre: il
buon vecchio quadro sociologico, con il suo cast ben studia
to di tipi sofferenti e il suo teatrino di ri tratti-robot anima
ti. Il ciclo si era chiuso è noi avevamo perso. La dimostra
zione? Fu proprio in questo periodo che iniziarono a circo
lare — e a indignare — gli scritti di Faurrissonne.
$
4S
Immaginando i gesti di Pontecorvo nell’atto di decidere
il carrello, mimandolo con le proprie mani, me la prendo
con lui anche di più, perché nel 1961 un carrello significa
va ancora avere a che fare con rotaie e macchine, cioè con
uno sforzo fìsico. Ma faccio ancora più fatica a immaginare i
gesti del responsabile della dissolvenza incrociata di We are
the children. Me lo figuro mentre schiaccia pulsanti su una
consolle, con l’immagine a portata di mano, definitivamen
te staccato dalle cose e dalle persone che rappresenta, inca
pace di supporre che sia possibile volergliene per il suo
essere uno schiavo dai gesti automatici. Il fatto è che appar
tiene a un mondo, quello della televisione, in cui, essendo
l’alteri tà praticamente scomparsa, non si distinguono più
buone o cattive procedure di manipolazione deH’immagine.
Non è più l’immagine «dell’altro» ma un’immagine tra le
altre nel mercato delle immagini di marca. E questo mondo
che non riesce più a farmi indignare, che mi provoca soltan
to stanchezza e inquietudine, è esattamente il mondo
«senza il cinema». Cioè senza quel sentimento di apparte
nenza all’umanità dovuto alla presenza di un paese supplemen
tare, chiamato cinema. E capisco bene perché l’ho adottato, il
cinema: perché di rimando lui adotta me. Perché mi inse
gna a toccare instancabilmente con lo sguardo a che distan
za da me comincia l’altro.
Questa storia, naturalmente, comincia e finisce con i
campi di concentramento perché essi sono il caso limite che
mi attendeva all’inizio della vita e all’uscita dall’infanzia.
L’infanzia mi ci sarebbe voluta una vita intera per riconqui
starla. Per questo — messaggio a Jean Louis S. - finirò sicu
ramente per vedere Bambi.
44
SECONDA PARTE
Prima di tentare di dare all’intervista un andamento cronologico
voglio dire che quello che mi colpisce, nell’ascoltarti e nel leggerti, è,
per così dire, questa lucidità, che fa sì che la tua esperienza con il
cinema sia oggi a tal punto concisa, concentrata, da permetterti di
fare una sintesi puntuale tra il cosiddetto campo biografico e le espe
rienze teoriche, critiche, giornalistiche. Una sorta di condensato di
storia del cinema dal dopoguerra in poi, che rende visibile il percor
so del cinema stesso e della cinefilia a partire dalla tua infanzia...
*
47
diffondere lo stesso ritornello della mia infanzia. Ma forse è
solo un’illusione, una vertigine dovuta a questa spirale che
non ha mai fine, che ci sottrae ogni paesaggio diverso da
quello da cui veniamo e che è diventato il quadretto della
nostra vita e la sua leggenda. In questo stesso momento,
però, ci sono dei bambini che non guardano nel retrovisore,
ma attraverso il parabrezza, sicuri di avanzare diritti nel
paesaggio che sta loro di fronte. Eterno ritorno della presa
di coscienza deH’eterno ritorno.
Quando è stato chiaro per me, l’effetto spirale e retrovi
sore? Sicuramente quando sono entrato a «Liberation», cioè
tardi. Probabilmente esistono punti della spirale che passa
no molto vicini al luogo di partenza, al luogo di nascita,
riconoscibile, un po’ a strapiombo, ma così vicino che vien
voglia di toccarlo. A un certo momento ho avuto la sfronta
tezza di dire che ero coetaneo di quello che chiamo il cine
ma moderno, il cinema adulto, il cinema disilluso, quello
del Rossellini di Roma città aperta. È quasi un espediente
mnemotecnico: mi ripeto che ho la stessa età del cinema
moderno, un po’ meno di cinquant’anni, di già. E che non
invecchieremo insieme. Rimane il fatto che ho preferito
venire alla luce in un altro paese, l’Italia, e in un frangente
fondamentale, quando già qualcosa dell’innocenza del cine
ma era stata intaccata e non sarebbe più ritornata. L’Italia,
non la Francia. Non ho voluto saperne della disillusione
francese, quella di II Corvo, per esempio, che ho visto una
volta sola.
ìh
presentanti. Henri-Georges Clouzot, come del resto Julien
Duvivier, Claude Autant-Lara o altri, non potrebbe riven
dicare per sé questa magnifica frase di Bernanos posta
all’inizio dei Grandi cimiteri sotto la luna'. «Che importanza
ha la mia vita! Voglio solo rimanere sino alla fine fedele al
ragazzo che fui (...), dal fanciullo che fui e che è ora per me
come un nonno.» Chi, come me, è figlio delle proprie
opere, chi deve fare a se stesso il racconto dell’origine che si
è data, chi non può permettersi di perdere il filo, anche se
immaginario, o rimaneggiato, della propria vita, è punto
nel vivo dalla menzogna dei disillusi per professione. E
questa menzogna è una specialità francese, molto comoda,
molto borghese.
Per questo — per rispondere alla domanda — è piuttosto
su di me che passa questo effetto di spirale, questa impres
sione che «tutto è là», disponibile, pensabile, a portata di
mano. Ho infatti lo strano privilegio di non avere mai
avuto occasione di odiare la mia infanzia, di giocarmela per
qualcosa d’altro, di mercanteggiarla o di perderla. Ho avuto
il piacere, nél corso della mia esistenza, di ri-raccontarmi
continuamente la mia vita, secondo gli interessi dei miei
presenti successivi e secondo la logica del retrovisore che
obbliga a sdegnare ciò che fino a ieri si pensava del passato
di fronte un elemento nuovo e imprevisto che costringe a
reinterpretare tutto. A forza di esercitare questo senno del
poi, ho finito per avvertire la strana impressione che una
storia passava attraverso di me, la storia della passività col
lettiva di noi bambini cinefili. Bambini viziati o bambini
perduti? Esito sempre tra l una e l’altra possibilità. Primi
beneficiari della pace - quella di Yalta — o ultime vittime
della guerra — quella vissuta nel ventre della propria madre?
Recentemente ho rimproverato Bertrand Blier di avere
l’atteggiamento che hanno i genitori degli alunni. Odio i
genitori degli alunni. Mi schiero sempre dalla parte del
bambino solo che anch’io sono stato, mai dalla parte dei
genitori. Alla scuola comunale lavoravo bene, ottenevo
sempre il premio per gli allievi più meritevoli e mia madre
non era obbligata a sorvegliare i miei studi. All’uscita della
scuola di via Keller, vedevo le madri inquiete, revansciste,
49
fondare le proprie speranze sui professori in grembiule gri
gio e mercanteggiare con loro la carne della propria carne.
Ero orgoglioso che mia madre non dovesse fare questa
parte; mi sembrava naturale che, lavorando bene, la dispen
sassi da questo. Ero sicuro che non le sarebbe piaciuto par
lare alle mie spalle con un professore. Sarebbe stato un tra
dimento. Così come non ho mai sopportato che si sparli di
un terzo in terza persona, quando lui è lì, in carne ed ossa,
capace di rispondere.
Credo di essere rimasto fedele a tutto questo nel mio
rapporto con il cinema. Prima la voglia di diventare grande
il più presto possibile. Poi una specie di riconoscenza verso
mia madre che neanche per un secondo pensò che io dovessi
vedere dei film per bambini, e con la quale ben presto
strinsi un patto: lei accettava di vedere con me dei film di
cappa e spada ed io di vedere con tei dei melodrammi. Mi
domando se il rapporto con il cinema non sia stato, per
entrambi, fortemente tinto d’Italia.
50
conformismo sociale, l’ordine morale, tutte* quelle cose che
ho finalmente conosciuto solo attraverso i libri e la lettera
tura del XIX secolo, ma che — pur avendole sempre un po’
temute — non mi hanno mai fatto soffrire. Ce una compo
nente da <<deserto dei Tartari» in questa mia vigilanza
inquieta.
51
che a nessuno — non certamente a sua madre, che la cresce
va con molto rigore — questo avrebbe fatto piacere. Oggi,
sono in qualche modo ammirato, benché naturalmente
perplesso, per la bella determinazione che ebbe nel non
voler imparare niente. E tanto più bella in quanto si fa
forte di un discorso in cui la cultura e il sapere erano
comunque valorizzati.
Mia nonna riviveva la sua vita attraverso la cultura.
Voleva sempre sapere a che età erano morti gli artisti
(«come è morto giovane!») e soprattutto se in vita avevano
avuto successo. Il senso di inferiorità era molto sentito ma
affermato gioiosamente come ciò che ci poneva comunque
al livello di quei grandi uomini del passato, molti dei quali
erano stati poveri quanto noi. Non c’era poi dunque molto
risentimento nella nostra bulimia di sapere. Avevamo una
massa di piccoli classici, Larousse, Vaubourdolle, Hatier,
che ci faceva sfilare davanti la storia della letteratura france
se, con le facce dei grandi scrittori e gli aneddoti su
Malherbe o Fontenelle che entravano a far parte del nostro
folclore. Dal venditore ambulante compravamo dei grossi
volumi scritti a caratteri piccolissimi (alcune pagine erano
bianche, non stampate) come I misteri di Parigi che leggeva
mo ad alta voce, con Rodolphe, la Civetta e soprattutto
l’Accoltellatore. Tentavamo di fondere la cultura popolare
di mia nonna: Zola, la lirica, Faust, le operette, Massenet,
«Sur la mer calmé-e» con quella che stava diventando la
mia cultura, a cominciare dal cinema. La cosa più sorpren
dente è che l’operazione è riuscita e oggi mia nonna è così
brava che non confonderebbe mai Mizoguchi e Ozu.
Siamo stati in quegli anni dei poveri felici; mi ricordo
ancora certi fine mese che in casa non c’era più una lira,
avevamo svuotato il cassetto della credenza bianca anche
delle ultime monetine e andavo con la nonna ad aspettare
mia madre alla fermata del metrò Voltaire. La vedevamo
uscire dall’imbocco del metrò a volte facendo un gesto
negativo che significava che non era stata pagata, altre volte
salutandoci con un gesto gioioso da cui capivamo che aveva
i soldi e potevamo festeggiare. Ma il senso di unione tra noi
tre, la nec essità di dovercela sbrogliare, il rifìuttx di render
52
conto a chicchessia, li percepivo fortemente come un nostro
potere sovrano. Eravamo in basso, certo, ma per i fatti
nostri. Per questo non ho mai patito, la povertà. Mi ha
accompagnato, ma non ne ho mai sofferto. Far parte di una
piccola tribù capace di ridere della propria sorte e di arran
giarsi alla bell’e meglio mi sembrava umanamente più
importante. E non sono mai veramente cambiato. Anche
dopo ho sempre dato la precedenza ai compagni di strada
più che alla questione se la strada fosse quella del successo o
no e questo mi ha permesso di simpatizzare sempre per la
causa degli altri. Per me, che non avevo ereditato alcuna
cultura politica, essere di sinistra è sempre consistito in
questo paternalismo in fin dei conti abbastanza comico.
Vivevo il mio destino di orfano di padre come una condi
zione vagamente eroica che mi collocava «altrove». In nes
sun caso avrei sopportato di essere compatito o che qualcu
no si impossessasse della mia causa. Al contrario, i miei
compagni normali e borghesi, con padri tiranni e madri
asfissianti, trovavano in me un confidente e un alleato di
ferro, pronto a prendere sempre le loro parti contro l’abietto
pater familias. Ma mai disposto a farsi difensore della pro
pria causa. La cosa era stabilita. Cioè vietata.
53
stro. Dal racconto leggendario che ne fa mia madre, sempre
impietosamente uguale e con le stesse parole, quest’uomo
emerge come qualcuno in grado di illuminare per qualche
tempo la vita e le sue tre donne, ed anche, se ho ben capito,
come un avventuriero del quale si sa poco o niente. Era vis
suto in America, dove aveva messo su famiglia — dovrei
avere dei fratellastri laggiù —, dove voleva tornare con mia
madre e, quando fossi nato, con me, sicuro com’era che la
guerra sarebbe stata alla fine vinta dai tedeschi. In una delle
sue due foto rimaste, appare come un uomo all’antica, bep
vestito, col cappello, un personaggio del primo dopoguerra,
un uomo fatto. Aveva finito per prendere sotto la sua prote
zione questa ragazzina diciassettenne — mia madre - che
faceva la sartina per alcuni ateliers in cui lui doveva avere
degli interessi. Per mia madre la guerra fu il momento più
bello della vita: era uscita dall’orbita di sua madre, le erano
concessi tutti i capricci, le veniva insegnato un po’ di ingle
se e la stenografìa, andava al ristorante, a teatro, sulle rive
della Marne, a Ris-Orangis. Non ha visto né capito niente
della guerra, dell’occupazione: è evidente che non ha mai
fatto domande. Mio padre doveva essere ebreo, perché alla
fine della guerra è stato arrestato dalla polizia francese. Ma
aveva degli amici tedeschi, forse degli appoggi, non portava
la stella gialla ed è stato lì lì per farcela.
Mi sono gradualmente reso conto che questa leggenda è
diventata per me come le tavole della Legge. Ho creduto
una per una a tutte le parole, anche le più piccole. Mia
madre mi diceva: «Tuo padre — Pierrot - è stato in tutti i
paesi del mondo». Mi diceva anche: «Conosceva tutte le
lingue». Il risultato è stato che ho sviluppato molto presto
una grande passione per i viaggi e non appena ho potuto ho
iniziato a collezionare timbri sul mio passaporto, trascinato
dall’idea infantile, stupida, che un giorno anch’io avrei
messo piede «in tutti i paesi del mondo». Probabilmente
ero portato per le lingue, le scimmiottavo abbastanza bene
iniziando a impararle tutte, per puro piacere, anche a
rischio di dovervi poi rinunciare. Ho studiato il cinese da
solo, per qualche anno: stare su pagine e pagine di calligra
fìa mi calmava i nervi.
54
Ma soprattutto mio padre era nel cinema, aveva anche
un nome d’arte, Pierre Sky. Mia madre mi spiegava che
lavorava alla post-sincronizzazione e che aveva spesso dop
piato Albert Préjean nelle coproduzioni franco-tedesche del
primo dopoguerra. Forse ebbe anche piccole parti in film
come Due donne innamorate di Christian-Jaque o
Santarellina. Ad ogni modo, anche in questo, la mia scelta
per il cinema era già inscritti nella leggenda del padre fil
trata attraverso il desiderio della madre.
Lei non ha mai smesso di ripetere, all’infinito, sempre
esattamente con le stesse identiche parole, il racconto uffi
ciale della sua felicità e della mia fortuna. E lo ha fatto così
bene che mai nessuno avrebbe preso il posto di mio padre.
Lei stessa ha dovuto rinunciarvi; quanto a me sono rimasto
il fedele rampollo di questa Legge che raggelava tutti e due,
due figli naturali che condividevano uno stesso fantasma,
d’accordo pér averlo in comune. Di tanto in tanto, mia
madre sembra riscoprirò un nuovo capitolo della saga, come
se non l’avesse mai raccontato prima, mentre si tratta sem
pre, tranne qualche parola, della versione canonica. L’unica
cosa che si era «dimenticata» di dirmi era che mio padre era
ebreo. Me lo ha rivelato in seguito, nel momento in cui
pensava fossi in grado di capirlo, anche se, in un certo
senso, l’ho sempre saputo. Ma era comunque troppo tardi
per poter far rientrare la storia della mia origine in quella
del secolo e degli altri.
55
Per tutta la vita, ho vissuto con i cadaveri che il cinema mi
ha offerto, di cui mi ha confidato l’esistenza e proprio grazie
ai quali si è nobilitato ai miei occhi, è diventato l’istanza
che sa, che mostra e che sa che è irrefutabile.
Il cinema, luogo del padre morto, era anche il contro
canto alle parole della madre viva. E a poco a poco ho capito
che il cinema era a tal punto il luogo del padre morto da
sfiorare il ridicolo. Ho sempre considerato Una stagione
all’inferno un testo di riferimento personale; ora, in esso c’è
una breve frase che mi ha sempre accompagnato: «e non
sono nata, per diventare uno scheletro». Ebbene, no! Avevo
torto.
Nel cinema della mia adolescenza, in questo cinema sco
perto praticamente da solo, al cineclub del liceo, un po’
come capita con i libri vietati o i testi di medicina stuzzi
canti che aiutano a farsi una religione sul sesso, io ho visto.
Ho visto e da questa visione, in un certo senso, non mi sono
più riavuto. Ho visto mio padre morto nei campi di con
centramento e me, suo mimo postumo, destinato a diventa
re a mia volta orribilmente magro a causa dell’AIDS. Ero
dunque nato per diventare quell’immagine, per diventare,
anch’io, uno scheletro. Da un lato, dunque, non mi sono
lasciato dire chi ero. Dall’altro, l’ho visto nel cinema, come
si scruta nei fondi di caffè, lì ho scorto il volto del mio
destino. L’immagine è senza dubbio questo: ciò che è inuti
le dire.
Mio padre avrei potuto incontrarlo dietro Albert
Préjean, o in Due donne innamorate o in Santarellina o sotto
uno pseudonimo - Pierre Sky - in una filmografìa comple
ta. Egli apparteneva due volte al mondo del cinema. Sia
come particina, come voce, sia come cadavere. Mi ci è volu
to del tempo per sviluppare l’idea che il cinema moderno,
nato con me, era il cinema di un certo sapere sui campi di
concentramento, sapere che cambiava i modi stessi di fare
cinema. Non credo di essere stato il solo a dover affrontare
tutto ciò al momento della nascita. Né il solo ad aver assi
stito alle avventure, ai rischi di questo sapere. Oggi le cose
si chiudono quasi impeccabilmente, si volta pagina, senza
di me.
56
Ma il rapporto con tua madre, sempre nel periodo dell’infanzia, si
fondava sul silenzio o sulla parola?
57
«Mia madre mi aspetta». I miei viaggi, da questo punto di
vista, sono la storia del mio eterno ritorno in rue
Taillandiers, «niente in mano niente in tasca», con mia
madre che, abituata ormai a vedermi andar via e tornare,
prepara una bella ratatouille e si occupa dei panni sporchi. E
ancora mi sento pronunciare, come se l’avessi detta davvero,
la piccola frase che è alla base di tutto questo rituale: «No,
non l’ho visto».
5H
della leggenda. Hai invece preferito seguire una linea di fuga per
spostare il più lontano possibile questo incontro con tuo padre.
59
mia vita, il mio timing, e quello del cinema si sono incastra
ti proprio bene l’uno nell’altro: trent’anni, tanto serviva per
voltare una certa pagina, da Rossellini alla morte di
Pasolini. Trent’anni è anche, più o meno, quanto mi è stato
concesso di vita attiva. Il cinema non mi ha mai abbando
nato, al contrario del jazz per esempio. Penso che il jazz sia
la musica più bella del secolo è ne ho ascoltato tanto. Ma il
giorno della morte di Albert Ayler ho saputo — in ogni caso
ho deciso — che l’avventura era finita, che non avevo inten
zione di diventare un vecchietto con i miei tesori da discofi
lo, l’assolo di Wardell Gray in Scrapple from the Apple al fian
co di Bird o quello di Sonny Rollins in Blue Seven. E poi
poco tempo fa vedo Bird di Eastwood alla televisione e mi
basta sentire la musica di Parker per scoppiare a piangere
là, da solo. Capita, perché in fondo il jazz, come il cinema è
un po’ qualcuno. Non un’espressione culturale tra mille
altre, ma un destino quasi paragonabile a quello di un
uomo, grande e triviale allo stesso tempo. Il giorno in cui il
cinema avrà più di un secolo finirà questo strano paralleli
smo, che è anche una confusione nostra, mia, tra il tempo
della vita di un uomo e l’età del cinema. Mia nonna mi par
lava sempre dei film di Feuillade che aveva visto da bambi
na, di lai main qui étreint, che per me era l’ancora più terrifi
cante «la mainquétrain»4.
Che tipo di legami o di amicizie hai avuto negli anni del liceo ?
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un sentimento di uguaglianza, di empatia che si fa strada.
Sono capace di indifferenza criminale, non di cinismo
becero.
Mi viene in mente il primo giorno di scuola — alle ele
mentari perché non èro andato all’asilo — e di come sono
diventato amico di un altro bambino della mia età, Michel.
Il problema del giorno era: chi diventerà mio amico? chi mi
sarà nemico? È straordinario il sapere di un bambino. Il
modo in cui sa già di non far parte del gruppo di brutti
ceffi che spadroneggiano nel cortile durante la ricreazione,
che da quelli bisogna girare alla larga, ignorarli e vivere
delle amicizie sublimi. Un atteggiamento definitivamente
difensivo.
Io e Michel andavamo tutti gli anni alla Fiera del Tróne.
Era un evento. Ci piacevano gli autoscontri e il nostro mas
simo divertimento consisteva nel non farci venire addosso.
Ho ripensato spesso a quel periodo, arrivando alla conclu
sione di essere stato veramente innamorato una volta sola
nella vita, di Michel, e avevamo sette o otto anni. Andavo a
casa sua, in rue Keller, e inventavamo giochi poverissimi,
senza giocattoli, con regole nostre. Non ho mai più avuto
quella sensazione di tempo che non scorre, di pienezza
immobile: in quel momento c’è un unico essere e da solo
riempie ogni orizzonte possibile. Come dice la cantata: «Ich
habe genug» cioè «ho quanto mi basta».
Ecco, l’alleanza totale, la sicurezza assoluta, dovuta al
fatto che eravamo in due, ma uniti come le due parti di una
clessidra. Probabilmente alla base delle mie amicizie suc
cessive, soprattutto ai «Cahiers» c’è sempre stato quel
genug, anche se con risultati molto attenuati. Ciò che resta
sempre è questo sguardo del bambino verso i suoi simili nel
cortile della ricreazione: «Di chi sarò amico quest’anno?»
Che cosa ha fatto sì che tu non sia mai stato un alunno modello?
La volontà di non volerti conformare all’immagine del perfetto stu
dente?
61
dare che l’ambiente del licèo Voltaire non fosse da primi
della classe e che l’ideologia dominante fosse assolutamen
te laica, ugualitaria e in fin dei conti meritocratica. Dopo
tutto sono abbastanza riconoscente a quel tipo di educa
zione, al suo lato severo-ma-giusto. Ero costretto a questa
meritocrazia che non mi ha mai più mollato. Ero orfano
di guerra, borsista, un bambino' del popolo scampato e
adottato dalla borghesia e quindi obbligato a non voler
deludere.
È terribile, lo so, ma non ho mai smesso di credere al
merito, anche davanti a tutti i «capisco, però...» del dinie
go. Il merito non riconosciuto mi disgusta sempre. C’è
sempre una scena dietro, quella della distribuzione dei
premi e delle ricompense, quella di Gli amanti di domani e
ho sempre immaginato di figurare in questa scena. Ci deve
pur essere una persona, un’istanza, dalla quale si possa esse
re riconosciuti. Oggi, a causa della malattia, ho così poco
tempo da non pormi troppi problemi a chiedere ai miei
amici di aiutarmi a raccogliere ciò che mi è dovuto. Ma per
tutta la vita, sono sempre stato abbastanza capace di com
patire le disgrazie dei miei compagni ricchi, quelli stessi
che avrei ucciso se solo avessero manifestato nei miei con
fronti un briciolo di commiserazione o di paternalismo.
In altre parole mi improvvisavo «protettore» dei più
handicappati, dei più laidi e disgustosi fra i miei compagni
di liceo. E dato che, troppo debole, non avevo i mezzi per
proteggerli, recitavo la parte simpatica di chi non li emar
ginava. Avevo poi una concezione abbastanza bizzarra dei
rapporti tra fìsico e mentale: ero amico di quei mostri per
ché ero convinto che non ci fosse alcuna relazione tra la per
sonalità e i corpi, sbagliati. Un’altra versione dell’arbitra
rietà del segno, come nel caso della cartina e del territorio
reale! Era un modo molto, troppo radicale di essere sempre
già oltre i problemi dell’emarginazione, del razzismo -
compresi quelli dei quali poi anch’io avrei potuto soffrire —
screditando a tal punto l’apparenza fìsica che non restava
più nessuno da escludere e anzi apparivano una infinità di
«io» diversi nei confronti dei quali esercitare una curiosità
assolutamente sconfinata e disinteressata.
62
Più tardi, mi sarebbe interessato penetrare la «visione
del mondo» dei grandi autori, prima ancora di preoccupar
mi di accettare il corpo degli attori. Infatti, se avessi svilup
pato un amore per gli attori francesi, ad esempio Albert
Préjean, quale sarebbe stato il rischio? Di incappare troppo
presto nell’immagine capace di distruggere l’incantesimo.
Sono convinto, anche in tal caso, che la scelta del cinema, la
«soluzione cinema» se si vuole, sia intervenuta proprio a
rafforzare questa visione meritocratica, ugualitaria delle
cose. Il cinema, quando io ero molto giovane, mi appariva
come il sociale per eccellenza: fare un film consisteva nel
manipolare selvaggiamente il mondo, gli altri, il denaro, il
linguaggio. Oggi, sono convinto che nonostante i suoi pes
simi tratti commerciali, il cinema è stato e resta un mondo
più democratico delle altre arti. Suppongo che i rapporti di
forza, le gelosie, i colpi bassi, le ingiustizie siano diventati
più terribili nelle arti che, moderne ormai da lungo tempo,
non sono più sottomesse alla bassezza del giudizio del pub
blico, ma neppure alla sua grande capacità di indifferenza e
di oblio e al maledetto risentimento egoistico degli artisti
stessi. Ho farneticato molto sulla crudeltà del cinema, senza
accorgermi che questa crudeltà aveva un risvolto — mizogu-
chiano — di compassione. Oggi vedo piuttosto nel fascio di
luce del cinema uno spazio di riconciliazione, se non di
riscatto.
Tutto dipende, naturalmente, dalla porta attraverso cui
si entra in casa. Io sono entrato al cinema, la casa paterna,
da una porta tutta mia che ho scelto subito dopo averla
conosciuta, la porta dei «Cahiers du cinema». Si può dire
tutto quello che si vuole sui «Cahiers», tutto il male possi
bile, ma è indubbio che se ce un elemento cdrtiune a coloro
che ne hanno segnato la storia e che li hanno fatti è la man
canza totale o parziale di savoir/aire sociale, di arrivismo. O
meglio, quando c’è stato non ha mai voluto dire molto,
finendo sempre per scomparire strada facendo. I «Cahiers»
non sono serviti a nessuno per «arrivare», o in certi casi
sono serviti per arrivare molto velocemente al punto al di là
del quale iniziano le acque ancora più angoscianti della
gestione, del mantenimento; come per Truffaut, credo, che
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rispettava il successo, di cui, però, ben presto, non gli è
rimasto altro che il peso, il fardello, la triste responsabilità.
Scegliere i «Cahiers» voleva dire scegliere in anticipo tutti
gli orrori, gli affronti, le paure da adolescenti di un’istitu
zione che aveva già una sua storia, una storia alla quale
bisognava aderire e aggiungere nuovi capitoli. Ma significa
va anche, è indubbio, conservare un certo candore quanto a
trappole sociali, usanze da professionisti delle professioni,
moine ipocrite, cene di fine anno, ascensori e colpi bassi.
Questo candore oggi mi sembra quasi eccessivo, eppure è
chiaro che ha rappresentato la condizione per cui questa
rivista è durata fino ad oggi e ancora continua.
Allo stesso modo quando ho cominciato a lavorare a
«Liberation», nel 1981, quello era ancora un giornale fatto
da persone che credevano in ciò che facevano. Niente pub
blicità, salario unico di 5000 franchi. Io, a trentasette anni,
sono stato tre mesi in prova, ho fatto la gavetta’e ho dovuto
sostenere degli esami. Un’impostazione che combaciava
perfettamente con le mie idee meritocratiche. Oggi mi dico
che questo doveva autorizzare molte persone a nutrire nei
miei confronti quel cortese disprezzo che la gente normale
riserva a coloro che «sono superiori a tutto ciò» o dei quali
affermano che «è bene che esistano delle persone così», frase
dietro cui ho sempre percepito un sincero desiderio di
morte. Ma di questo mi accorgevo appena e non ne ho mai
sofferto. È piuttosto oggi che di riflesso il mio orgoglio ha
qualche contraccolpo di ribellione. Ma non avrei potuto fare
altrimenti. Nel cinema, lo ripeto, bisognava esserci, ma
solo con quella sorta di disinteresse, quella serietà infantile
che permette di guardare senza paura il risultato, il precipi
tato di immagini del mondo così com’è, tale che non si ha
voglia di incamminarcisi, in cui non ci sono chierichetti ma
solo le dure leggi del sociale, il denaro, il tradimento, il
tempo, il potere, la ragion di Stato dello studio o dell’arti
sta, e così via. Ho fatto parte di questo pubblico di chieri
chetti troppo presto messo a confronto con una certa gravità
tragica dello spettacolo offerto dal cinema. Questa innocen
za subito intaccata è forse il soggetto del racconto ideale e
perverso che mi faccio. Ora i termini si sono ribaltati: un
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pubblico che ha perso del tutto la sua innocenza strizza
l’occhio allo spettacolo pubblicitario di un cinema infantile
e corrotto.
Io ho fatto del ragazzino di La morte corre sul fiume uno
dei miei alter ego preferiti, (l’altro era John Mohune in 11
covo dei contrabbandieri), perché egli aveva una decina d’anni
quando il film venne girato, nel 1955, ed era quindi mio
perfetto coetaneo, il mio fratello americano. Il modo con
cui questo ragazzo, diretto da Laughton, sostiene lo sguardo
su ciò di cui ancora non conosce la gravità, sapendo soltanto
che dev,e vegliare sulla sorella che, a sua volta, sa solo di
essere una donna, questo sguardo spalancato di quelli che
non sanno recitare, dei bambini appassionati che sono tutto
tranne che piccole attrazioni per adulti, è la leggenda in cui
voglio comparire, è il mio volto così come amo credere che
il cinema me l’abbia consegnato, come una pellicola che
abbia impiegato vent’anni per svilupparsi.
65
Ecco, sono stato tanto a lungo nel guado che ho finito
per intrigarmi, per diventare parte del paesaggio, come un
dignitoso spaventapasseri o una statua d’arte moderna.
Dato che non riuscivo a mostrarmi, ho aspettato paziente-
mente che qualcuno mi vedesse, che si avventurasse dalle
mie parti, dalle parti del cinema, la sola cosa grazie alla
quale io posso vivere con qualche soddisfazione, e non appe
na si faceva avanti, lo subissavo di tutto quello che non ero
riuscito a dire a nessun altro. In breve, non ho mai dovuto
fornire prove della mia esistenza o del mio valore perché la
chiave della mia esistenza era sotto l’attenta sorveglianza
della galleria degli specchi del cinema, con un padre prigio
niero, e il mio valore era quello che mi aveva riconosciuto
mia madre al momento della nascita. Lo zero. Il fatto di esi
stere, semplicemente.
Il cerchio si è chiuso: il bambino, nato quasi morto, sfac
cendato, venuto al mondo per diventare scheletro e per rap
presentare, in extremis, la figura collettiva di una strana
passione, un santo alla Bazin, una passione che, ahimè, si
può definire solo con il nome di una malattia: la «cinefi
lia», di cui tento qui di spiegare i retroscena, un po’ come il
retroscena del limbo, tutto questo avanza lentamente
sull’orlo del baratro.
Del resto, penso che si debba accogliere, se non altro con
humour, ciò che di se stessi si è creato a partire dal luogo
dell'altro — al suo posto se io ne sono il rovescio. Ciò che
nella vita ho fatto per puro volontarismo non mi ha dato
nulla e mi ha provocato solo una indefinita e lancinante
angoscia. Al contrario, in due o tre casi, ho fatto con natu
ralezza cose di qualche importanza che hanno procurato, a
me e agli altri, un po’ di felicità. Diciamo che mi sono dato
abbastanza da fare - senza ordine, cura, né disciplina -
affinchè il modo in cui la vita mi segnava, non mi mandas
se, nello stesso tempo, dritto dritto al manicomio. Se in fin
dei conti nell’arte c’è del merito, esso è impuro: un ibrido
tra il coraggio consapevole - lavorare — e la sottomissione
inconsapevole - essere trascinati. Basta che una delle due
cose venga meno per vacillare: il coraggio da solo diventa
folle potenza di lavoro, ma lavoro da schiavi, la sottomissio
66
ne pura e semplice diventa rischio di implodere nella pro
pria follia.
Io ho sempre valorizzato ciò che non facevo: nel lavoro
individuale ho sempre dato troppa importanza ai tormenti
della creazione solitaria, come se tutti conoscessero o avesse
ro conosciuto l’angoscia della pagina bianca, la rabbia
dell’espressione o l’esperienza dei limiti. Poco tempo fa mi
sono detto che Cocteau aveva sicuramente ragione quando
consigliava di fare sempre ciò che gli altri ci rimproverano,
perché in questo sta il nostro essere, anche se i moralisti
duri e puri, i cristiani, i chierici — dei quali faccio parte —
non vogliono sentir dire queste cose e la tranquilla arrogan
za del genio, la sua leggerezza, li fa star male, e non aspetta
no altro che il tempo in cui questa condizione si deteriori,
volga al male e, di colpo, diventi più umana.
«
La tua storia è coerente anche perché ne fai oggi una sintesi pun
tuale. Ma mi domando che cosa renda ad un certo punto possibile
scrivere la propria storia dicendosi: ecco che cosa non sono stato, per
esempio un gaudente, un edonista o un seguace della felicità. Penso
per esempio al nostro amico Jean Douchet, che ha avuto una parte
molto importante nella tua entrata ai «Cahiers» e che ha avuto
una storia molto diversa dalla tua...
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Fioretti di Rossellini. È senza dubbio un sentimento france
scano, una contentezza da camminatore, incomprensibile
per chi non lo è. «Lebbroso, sto seduto sui cocci e sulle orti
che, ai piedi d’un muro rosicato dal sole», sempre
Rimbaud, Rimbaud il camminatore.
Sempre, nel terzo mondo, ho avuto molta cura di seder
mi con le spalle appoggiate al muro, in pieno sole, attento a
non disturbare, e ovunque sono stato assolutamente felice.
11 sole sui muri di Parigi, «tomorrow is another day», la pigri-,
zia della lucertola che rimanda sempre tutto al giorno dopo,
il piacere di ricordare le prime venti inquadrature dell’ini
zio di un film per sapere se mi ci sentivo come «a casa
mia». È una felicità troppo modesta per non essere assoluta,
sono piaceri non cumulabili, il lusso dei poveri, lo stupore
di chi sopravvive per professione, di colui che è contento di
essere al mondo, che lo lascino vivere, che facciano almeno
fìnta di accettarlo.
I viaggi servono soltanto a questo, a creare sempre più
occasioni per provare questa felicità che non si può raccon
tare. Salire a caso su un treno e constatare che parte puntua
le. Riuscire a fare mentalmente una, due, tre concatenazioni
come nella ginnastica o nella danza. Rimanere se stessi in
un paesaggio che cambia, accompagnare briciole di avveni
menti, di durate, di seguiti, di corpi felicemente ridotti al
loro sesso. Ecco. Certo, lo scotto può essere pesante: fiaschi
paurosi, concatenazioni non riuscite, perdite senza profitto,
miserabili insuccessi, tanto più tormentosi poiché la posta
in gioco è la derisione.
E una felicità clandestina. Come semi clandestina fu per
me la passione per il cinema. Naturalmente è anche il mio
destino di omosessuale, l’uomo delle folle, l’ebreo errante
sempre a caccia di incontri, che ha solo il proprio corpo,
solo il suo corpo per obbedirgli, un corpo per cui non ha
riguardo, non ha cura, come una macchina che ci è familia
re, destinata a funzionare e a stancarsi, riempirsi e svuotarsi,
fottere e che per prima si arrenderà. In questo senso è vero,
non sono un edonista, anche perché non mi fido delle perso
ne che raccontano i loro piaceri, che li raccontano nei mini
mi particolari, peggio, che fanno del loro culto del piacere
68
una macchina da guerra o uno sfoggio ideologico. Non ci
credo, o meglio ci vedo una sorta di volgarità di una classe
che non mi appartiene. ATcontrario, niente mi commuove
più dell’ostinazione sempre sconfìtta, scoraggiata, calpesta
ta con la quale, nonostante tutto, ognuno cerca di conqui
stare per sé un po’ di felicità su questa terra.
Per ciò che mi riguarda la noncuranza con cui ho vissuto
è veramente incredibile. Non ho mai pianificato, mai pro
grammato, mai desiderato niente che andasse più in là di
uno o due mesi. Mai. I problemi che di solito affliggono
ogni vita normale non sono mai esistiti per me: guadagnar
si da vivere, elevarsi socialmente, sposarsi, avere dei figli,
possedere cose, vivere con qualcuno, guidare una macchina,
tutto questo era già negato prima ancora di essere posto -
oltre al fatto che, dal momento che mia madre non interfe
riva nella mia vita, non c’era nessuno con cui farlo. L’unica
decisione che ho preso nella mia vita è stata quella di lascia^
re i «Cahiers». Mi sono detto: non ne posso più, basta,
tanto peggio per le conseguenze. Le uniche decisioni che ho
preso in vita mia sono state in negativo, come smettere di
occuparmi del settore cinema a «Liberation» qualche anno
più tardi. C’è una sola decisione positiva, del tipo siamo
arrivati al capolinea: è «Trafìc». E sono molto orgoglioso,
alla fine, di aver scoperto di essere capace anch’io di
un’azione positiva.
69
su tutti gli altri libri, la sola e vera sacra scrittura che dice
ciò che è stato e che mostra quelli che sono già stati. Il for
mato egualitario delle vignette dei Petit Larousse mi ripor
tava all’egualitarismo del liceo. Molti vocaboli contemplati,
pochi gli eletti, ma un solo formato per tutte le schede.
Come se ci fosse, parallelo al culto dei grandi personaggi,
un regno — l’iconografia — in cui Napoleone non avesse
diritto di essere più importante dei suoi ufficiali. Lo stesso
vale per le cartoline.
Non ricordo un solo momento della mia vita in cui non
abbia saputo che Tegucigalpa è la capitale del Honduras o
Windhoek quella del vecchio sud-ovest africano. La mia
buona memoria per i nomi propri, per le lingue straniere,
per la topografìa, deriva da un’immagine, una sola: quella
del mondo appiattito. E da un instacabile godimento: quel
lo dell’arbitrarietà del segno che fa sì che tra la forma della
Svezia e la parola Svezia ci sia sempre uno iato e che neppu
re un viaggio in Svezia cambierebbe tutto questo. Ero entu
siasta quando un pezzo della cartina aveva uno statuto
ambiguo: il Saar era indipendente? Mi sarebbe piaciuto che
lo fosse, perché dopotutto un paese in più era un di più. E
il Dobrogea, che storia è? Allora mi assumevo la responsa
bilità di separare il Dobrogea dalla Romania, dal colore
della Romania, e di mantenere solo per me la finzione di
un paese in più con Constanta per capitale.
A questo tipo di ragionamenti attribuisco oggi — ma
forse esagero - il fatto che, privo di qualsiasi idea politica,
fin da bambino sono stato a favore dell’indipendenza algeri
na. Trovavo formidabile che l’Algeria smettesse di essere
questa grande macchia rosa dell’impero coloniale francese,
AOF, AEF (Afrique Occidentale Fran^aise, Afrique
Equatoriale Fran^aise). Mi sembrava normale che i popoli
fossero sovrani nei loro paesi, ma mi piaceva anche molto
l’idea di un nuovo stato indipendente. Forse è questa picco
la parola che conta: indipendente. Indipendenti come noi
tutti eravamo in famiglia, attenti a non farci mettere i
piedi in testa da nessuno.
Ecco, le carte geografiche mi hanno sempré accompa
gnato. L’unita immagine appesa al muro della mia casa è
70
proprio una cartina, quella del IGN (Institut Géographique
Frangais). Non sono assolutamente uno scopritore, un
esploratore: non sarei mai andato in un paese, se fosse stato
assente dalle cartine. Deleuze una volta mi disse: «Lei va in
capo al mondo per vedere se il capo del mondo esiste». Si va
a verificare l’immaterialità della frontiera e l’arbitrarietà del
segno e si gusta infinitamente il momento di fusione che si
raggiunge in aereo quando la cartina è il territorio e in più i
due, come me, hanno anche un nome!
71
voler stabilire un rapporto personale, intimo con tutti i
pezzi del museo immaginario. Come un guardiano che
vivesse con ciò che cura e allo stesso "tempo lo cura.
L’idea della lista è tipica di chi è ossessivo, sempre con la paura che
un nome o un film manchi all’appello.
72
il cinema, vada scomparendo. Poco tempo fa vado a Lione e
appena giunto alla stazione di Perrache cerco una cartolina
da spedire. Ma su tutte ci sono delle enormi scritte
LIONE, delle cornicette orrende, dei tocchi di creatività
che rappresentano l’odierno chic and cheap e capisco che la
mia cartolina, quella che piace a me, con la veduta aerea, la
cattedrale o la piazza del mercato senza nessuna scritta
sopra, non esiste più. Ciò che non esiste più è il prelievo
immaginario di un pezzo di paesaggio che diventa
un’immagine, immagine che si squama, che viene verso me
e cade ai miei piedi, sugli espositori delle cartolerie e dei
tabaccai. Non bisogna scriverci sopra, segnarla, siglarla,
timbrarla, deve essere semplicemente una foglia morta
degli alberi di un paesaggio anonimo. E invece così come
c’è un cinema filmato, ultra firmato, ultra significato, così
ce una cartolina cartolinizzata, che mi priva del fantasma
che mi ha fatto correre in tutte le direzioni, per tutta la
mia vita, all’inseguimento della collezione istantanea delle
prove della mia esistenza.
Nella cartolina c’è una parte di spavalderia, del tipo «Io
sono qui, tu no, ma restiamo lo stesso amici», o del tipo
«In capo al mondo io esisto», «A Shangai mi sento come se
ci avessi sempre vissuto». E nella cartolina c’è anche
dell’altro, che appartiene alla fin fine alla politica, il fatto
cioè che si tratti di una produzione commerciale, modesta,
anonima, che non punta all’arte, l’immagine del mondo
nata nel seno dei popoli, dalla loro capacità, fossero pure i
più poveri, i più distrutti, di confezionare in laboratorio
delle immagini ingenue e ufficiali delle loro città e dei loro
paesaggi. A dire il vero la fotografia è stata per me per
lungo tempo il cattivo oggetto ideale. Ho anche tentato di
farne qualcuna da solo, ma mi procurava una tale angoscia
da non riuscire a fare neppure le più semplici. Solo dopo
essere entrato a «Libération» e dopo aver visto all’opera dei
veri fotografi come Frangoise Huguier, poi Depardon,
Peress, Lambours o Vink, ho iniziato a rispettare questo
oggetto abbastanza fobico per me: la fotografìa. Dopotutto
è sempre la stessa storia, quella di Kapòy l’impressione che
fare una fotografìa è prima di tutto prendere, rubare, estor
73
cere qualcosa, e d’altronde — basta guardare i fotoreporter —
è proprio così. Inizialmente ero molto iconoclasta in questo
senso e devo dire che quando mi sono occupato dei
«Cahiers» non ho mai trattato le foto dei film alla leggera.
Negli anni della sinistra, questo disgusto per la caccia
fotografica era quasi di per sé una ragione d’odio. In India,
sul finire del 1968, mi trovavo sul marciapiede di una sta
zione pidocchiosa in attesa di un treno, pronto ad uccidere
le persone che fotografavano i mendicanti. Ero già magro,
con una carnagione giallognola, i capelli lunghi e una kurta
locale di un bel colore pan bruciato: molto credibile quindi
come indiano e come mendicante. C erano due turiste fran
cesi, grassottelle, che parlavano ad alta voce e che odiai
immediatamente. C’era un piccolo lustrascarpe che voleva
no fotografare e io mi mettevo davanti, apposta, con l’aria
esaltata perché non ci riuscissero. Mi ricordo l’aria esaspera
ta con la quale rinunciarono, dicendo: «Non riesco a inqua
drarlo, ce sempre il grande davanti». Il grande, il grande
indiano ero io ed ero felice. Non volevo che quel ragazzino
finisse su un album di foto, lo volevo tutto per me.
Non si fanno foto ai poveri, abbellendole con il proprio
sguardo e con espedienti estetici, si comincia con l’andare
dove i poveri vivono e a comperare le loro foto, le loro car
toline e — per poco che sia — si fa funzionare l’artigianato
locale, e le si spedisce ai propri amici come segni di vita,
come messaggi in bottiglia. A volte è difficile perché non
ce una vera cultura della cartolina. In India, per esempio.
Mi sono molto commosso nel ritrovare, a dieci anni anni di
distanza, la stessa cartolina della vecchia Delhi, un po’ sbi
lenca e sbiadita, e rispedirla una seconda volta. Pensavo
all’ostinazione modesta, indifferente di quello studio foto
grafico che continua a stampare lo stesso negativo. La carto
lina è poi l’ideale per trasmettere messaggi in codice ad
un'altra persona che vorremmo entrasse in questa o quella
complicità. Questo è l’aspetto perverso della cartolina: è
necessario che possa essere letta dal postino e dal destinata-
rio e che i due vi capiscano cose diverse. Queste immagini
misteriosamente giunte dal reale, normali, senza fronzoli,
diventano il luogo di una comunicazione privata.
74
Rappresentano il rispetto del reale attraverso le sue imma
gini più visibili e, allo stesso tempo, l’opacizzazione valida
per me — per «noi» — di questa falsa visibilità a disposizione
di tutti. Questo numero di prestigio mi ha sempre incanta
to e ho continuato a praticarlo fino alla fine, con perfetta
cognizione di causa. È lui che mi ha spinto verso il cinema
— il cinema popolare.
75
luogo in cui ero, prima di confrontarla con l’originale. Le
persone come me fanno tutto al contrario: prima guardano
il linguaggio e dopo, piano piano, iniziano a parlare le
immagini. C’è un certo modo di essere tutt’uno con il cine
ma che funziona così, fin dall’inizio.
76
trovarsi sul marciapiede, indecisi sul film, rischiando di
perdere l'unico spettacolo serale, delle 21 con il suo seguito
di orrori dal vivo — le attrazioni — di cui ho parlato in La
Ramped
Il cinema era prima di tutto una cosa naturale. Vedevo
dei film, mi piaceva e non credo che questo mi abbia segna
to più di qualsiasi altro bambino di quel periodo. A causa
mia, mia madre è stata obbligata a vedere molti film di
cappa e spada, italiani naturalmente. Io sono stato obbliga
to a vedere qualche melodramma, italiano naturalmente.
L’opinione comune in casa mia era questa: i film italiani
sono molto belli, ma tristi. Nonostante tutto ci piaceva
questa tristezza così elaborata.
La vera nascita al cinema - e non è banale - è stata quasi
consapevole. Penso si sia trattato della saldatura tra la leg
genda del padre e il primo confronto, negli anni Cinquanta,
con la realtà immaginata dei campi di concentramento.
L’immagine che ha diritto di prelazione su tutte le altre. La
mia cinefilia era stata programmata e la mia consapevolezza
di tutto ciò, attraverso i «Cahiers» gialli e Henri Agel era
abbastanza netta. Non del tipo «Quando si ama la vita, si
va al cinema», frase che suona ancora oggi falsa e balorda.
Una droga più forte, almeno.
Non devo poi dimenticare che questa programmazione è
stata attivata dal versante della voce, del suono. Mi dicevano
che mio padre lavorava in post-sincronizzazione - parola che
quindi conosco da sempre. Il suo corpo era una cosa, la sua
voce un’altra: che strano. Poi, molto prima della televisione
c’era la radio e credo che la mia cultura di base sia stata la
radio degli anni Cinquanta, con Le Grenier de Montmartre, Le
Passe-Temps des dames et des demoiselles, il Tour, Monsieur
Champagne, Zappy Max, Signé Furaux e il teatro Omo.
È la voce che conta. Chi racconta, chi dice che un fatto è
successo, che abbiamo visto un film e che questo mostrava
quest’altro. La domenica a pranzo mia madre raccontava a
mia nonna il film che avevamo visto, lei ed io, durante la
settimana. Trovavo che raccontasse le cose in modo molto
sottile, tanto che ascoltarla mi piaceva quanto rivedere il
film.
77
^immagine si doppia già in commento, in un'eco. Quasi in senso
critico.
La maggior parte dei registi che hai difeso non hanno mai smesso
di ricordarlo, soprattutto gli Straub.
78
che, da un lato, non bisogna dimenticare e che, dall’altro,
non bisogna ricostituire. Perché tutto si scrive al presente
su una specie di palinsesto che conserva le tracce, le testi
monianze, le cicatrici, gli accenti: ciò che «fa fede». Ogni
volta che il tema della resistenza ha incrociato la mia vita ho
trovato gli Straub. Come il rimbalzo sulla terra sott’acqua,
prima di tornare a galla, dove si può respirare. È strana, non
trovi, questa assimilazione del cinema all’idea di resistenza.
79
Pierre Fresnay, Pierre Brasseur, Noel Noel. Quel che il cine
ma francese offriva a un bambino come me erano i suoi
nonni, i suoi nonnini e le sue nonnine, certamente geniali
ma inaciditi, molto anti-giovanili. Ci doveva piacere il
modo in cui noi non piacevamo a loro! Rivedendo di recente
un film famoso dell’epoca, Luomo dalle chiavi d'oro, ero scon
volto dall’odio che trasudava da questo film tutto in gloria
di Fresnay vecchio e in cui tutti i giovani sono presentati
come figli abietti di papà mollaccioni. Che cosa sono diven
tati infatti i vari Daniel Gèl in, Michel Auclair, Raymond
Pellegrin, Francois Périer? Non sono riusciti a conquistarsi
un posto, hanno fatto la spalla a teatro, un’altra cosa. Sono
stati sostituiti dai loro genitori. Intrawedo in tutto questo
un insidioso prolungamento di Vichy, la sconfìtta di una
generazione, la persistenza di una Francia vecchia, sorda
mente screditata. Al punto che quelli della Nouvelle Vague
non avranno neppure bisogno, all’inizio, di sconvolgere il
linguaggio del cinema: il solo fatto di utilizzare degli attori
della loro età, da Brigitte Bardot a Jean Paul Beimondo, è
stato sufficiente per far saltare tutto quanto.
Come fa un bambino di dieci anni — a meno che non sia
un bambino «cattivo» — a identificarsi con Michel Simon
che è brutto ma geniale? Va bene c’era Gabin, brizzolato e
ex sex symbol, ma per me è la figura anti-erotica per eccel
lenza e mi è piaciuto solo in due o tre parti: Gueule damour
(t.l. Gola d’amore), Il piacere.
Devo ammetterlo: non c’era niente per me in quel bran
co di francesi. Niente che suscitasse desiderio. Ai nomi
posti in alto sulle locandine preferivo sempre qualche ruolo
secondario, sempre dalla parte dei perdenti. Quanto a
Gerard Philipe, sentivo il rumore delle tavole, la voce da
cicisbeo ed ero certo che, nella sfida franco-americana, non
aveva speranze e che c’era quasi da vergognarsi di apparte
nere al paese di Fanfan la Tulipe dopo aver visto
Scaramouche. Ancora oggi mi ritorna con molta intensità un
vago senso d’indegnità del mio paese. Al momento del
decreto che dichiara innocente Paul Touvier8, penso di non
essere esagerato. Ci sarà sempre in me, fino alla fine, una
parte non riconciliata.
HO
Ecco perché diventare, nel modo più consapevole possi
bile, cinefilo significava identificarsi con qualcos’altro, col
fatto che dietro la macchina da presa c’era qualcuno, che
questo qualcuno era un uomo, un autore, e in ultima analisi
un padre. Per questo non mi sono occupato molto della
questione dell’attore, come se fosse stata risolta una volta
per tutte. E risolta lo era sul serio. Bastava vedere i Cary
Grant e i James Stewart, i Robert Ryan e gli Henry Fonda
degli anni Cinquanta con le loro tempie brizzolate per sape
re che lì era il fascino, la seduzione, la voglia di farsi portar
via. Ancora oggi si può sperimentare tra i cinefili: si inizia a
parlare degli attori preferiti, di quelli odiati, si parla dei
francesi, e poi non appena si incomincia a parlare degli
americani non si smette più. Posso dirlo tranquillamente: i
miei genitori nel cinema non sono — mitologicamente —
francesi. Il padre è americano e io mi comporto con lui
come il piccolo John Mohune in quel mito cinematografico
incarnato che è II covo dei contrabbandieri-. «L’exercice a été
profitable, monsieur». Per le donne è il contrario: la donna
dei desideri, quella che è rimasta naturale, che non è né pla
tinata né liftata, né sorridente a tutta mascella come le pre
sentatrici della CNN oggi, è la sorella italiana, Silvana
Mangano, Lucia Bosé, Rossana Podestà, Claudia Cardinale.
Detto questo, devo ammettere che ebbi fin dall’inizio un
gusto veramente terribile in materia di bellezza femminile,
poiché ho creduto che Gianna Maria Canale, che è veramen
te orrenda, fosse la bellezza fatale in persona.
81
cosa ti è così tanto piaciuto in quell'articolo? La retorica, il fatto
che qualcuno si senta autorizzato a scrivere su una rivista che è
vietato fare un carrello in avanti su un filo spinato?
82
deità, anche se non ne conoscevo ancora l’aspetto di com
passione. Mizoeuchi. soprannomi nato da noi Mizo, divenne
il mio règtèta'prèlferito.
A un certo punto ho smesso di essere schiavo dell’inqua
dratura, del montaggio. Ho iniziato a trovare belli film che
avevano la loro forza nel centro dell’immagine, che mettono
le cose importanti al centro, per farle vedere meglio. Walsh
naturalmente, e soprattutto Ford. In seguito, la questione si
è chiusa perché i registi dell’inquadratura erano meno bravi
e perché da Rossellini in poi il meglio del cinema moderno
è stato espresso in una precipitazione-della ripresa, in un
corto circuito ottico degli spazi da percorrere che non aveva
più nulla a che fare con la morale dell’inquadratura e del
carrello. Per questo l’assunto di Rivette, vero in assoluto,
dovrebbe essere riformulato oggi, alla luce dei nuovi modi
di rappresentazione del cinema.
Il fondo di questa storia è, se oso dirlo, la mia riconcilia
zione con il cinema. L’inquadratura è la crudeltà, l’impossi
bilità di fuggire, di sottrarsi a ciò che esiste e che il cinema,
solo, ha potuto addomesticare. Ma questa crudeltà oggi non
mi sembra più così terribile. Le riconosco anzi una dimen
sione umana, addirittura umanista, che rischia di scompari
re in futuro. Il cinema ha sì questa capacità — il fantasma di
Bazin - di ritagliare una quantità di immagini nel reale - e
questo fa male — ma sa anche ricomporre ciò che ha inqua
drato, prelevato e messo in luce. Mi sembra di essere passa
to da un estremo all’altro di un’unica questione, quella
della luce. La luce che accusa e la luce che salva. Per questo,
recentemente, ho concluso che le forme d’arte più antiche
— letteratura, pittura — avevano conservato una violenza che
manca essenzialmente al cinema.
83
anni Novanta. Ora è troppo presto. Personalmente mi sento
più calmo, più aperto, ma quest’epoca non sa più immagi
nare nemmeno le passioni violente e sincere che abbiamo
vissuto.
Non mi resta che trasformarmi, sulle tracce di Godard,
in un avvocato di una causa vinta, quella del cinema. Dico
soltanto che il cinema è stato una grande cosa, più grande
di quanto credessi, anche se oggi è diventato più piccolo di
quanto si creda. E parlo del cinema come di un amico, un
essere con cui ho trascorso la vita. Oggi, nel tentativo di
pensarlo, invecchiamo insieme, quasi moriamo insieme. Il
cinema del terrore è alle nostre spalle, il cinema attuale
— con tanti buoni film — consiste piuttosto nell’esplorazione
meticolosa di altrettanti casi (nel senso del film di Oliveira),
di casi mentali. Non vedo neppure in tutto questo un ritor
no di un valore ludico - quei piccoli film che nonostante
tutto amavo vedere al cinema del sabato sera. Le immagini
oggi passano attraverso la violenza dei mass-media o della
pubblicità, mentre il cinema ne sembra ormai esente. Le
cose .gravi di oggi, su cui riflettere seriamente, sono le cam
pagne pubblicitarie di Benetton, i reality shows, la guerra
del Golfo senza immagini. Ma le guardo da osservatore
appartato, da cittadino, anima bella. Ecco, da più di
vent anni avevo in testa questa idea che la pubblicità era il
cavallo di Troia di qualcosa che avrebbe presto rivelato il
suo volto. Questa cosa si chiamava «Sur Salador»l0.|
84
meglio: il rendersi indispensabili ai «Cahiers», dove già
lavoravamo, per poterci stare al meglio, un po’ più che tol
lerati. Il libro di Antoine de Baecque11 mi ha fatto capire
meglio l’imbroglio dell’epoca, forse il solo momento di crisi
e di scelta nella storia della rivista. Io e Skorecki eravamo
ancora ben saldi su una posizione alla Douchet, mac-maho-
niani, cinema classico, ecc. Ma Rivette aveva bisogno di un
cambio della guardia per passare ad altro, a un post-
Rohmer. Sono però costretto a ricostruire il tutto dall’ester
no perché i miei ricordi sono annebbiati, come avvolti da
una nuvola, il che mi impedisce di sapere esattamente come
vivevo — se era piuttosto desiderio di L.S., di C.D. o il mio —
questa entrata ai «Cahiers» che a volte sembrava ineluttabi
le, vissuta quasi con cattivo umore. Ad ogni modo gli anni
Sessanta che oggi colpiscono per la loro generosa spensiera
tezza furono per me anni vissuti da sonnambulo, senza
l’impressione di essere realmente esistito. Uso le date per
dare disperatamente qualche scansione: se il 1968 è il
momento del risveglio, il 1964 è quello del viaggio in
America e dei primi pezzi pubblicati sui «Cahiers»: il mio
nome finalmente comparso, in extremis, sui «Cahiers» gial
li, quattro numeri prima che cambiassero veste grafica.
Anche se bisogna dire che non si poteva scrivere alla legge
ra. Si presumeva che avessimo visto molti film prima di
sentirci autorizzati a scrivere. Tra lo choc di Hiroshima e il
mio articolo su Dove vai sono guai di Tashlin12 c’è un inter
vallo di cinque anni. Sembrava naturale fare così perché
c’era ancora l’idea — oggi insostenibile - di poter recuperare
i film del passato e sentirci ancora — in extremis - loro con
temporanei, solo un po’ sfasati. L’idea di classico, di reper
torio, ci lasciava del tutto indifferenti: bastava che una voce
autorevole dicesse che Feuillade o Dovzenko erano buoni,
perché quei due fossero ripescati dal passato e immersi nel
nostro presente.
Questo viaggio in America poggiava sulla convinzione
che ciò che ha valore esiste necessariamente al presente.
Non l’ho mai abbandonata: possiamo tranquillamente
lasciare ai sociologi, ai culturologi, agli eruditi, ciò che non
è più attivo. Ma evidentemente non ci accorgevamo, al
85
momento, di collezionare una serie commovente di nevermo
re. Davanti a Keaton, a Renoir, a McCarey o Stenberg non
mi sono detto: tra poco moriranno e non li vedremo mai
più. Cosa che era sotto gli occhi di tutti, d’altronde. Io, L.S.
e il nostro piccolo gruppo eravamo molto gerontofìli
all’epoca: ci emozionavamo davanti alle ultime opere dei
grandi maestri come di fronte agli ultimi disegni di
Tiziano, alla solitudine epurata dello stile, all’audacia nel
seno di una certa desuetudine, a una certa maniera di avvi
cinarsi a una pura logica del cinema - e solo del cinema. Il
diabolico dottor Mabuse, Gertrud, Missione in Manciuria, come
già Anathan o Un re a New York, sono film girati da vecchi,
esposti alla condiscendenza della critica ufficiale, cui corria
mo in soccorso, pronti a batterci per essi. E anche se oggi,
costretto dall’età, devo riconoscere che spesso i primi film
di un regista contengono l’essenza della sua opera, pure
continuo a commuovermi per i film di registi anziani:
Kurosawa, Oliveira, Bunuel. Ai due estremi della catena,
tra la noncuranza di un’energia sprecata e l’economia di un
tempo che non si può più perdere, sta la bellezza del cine
ma, arte che permette di leggere così bene lo stato fìsico di
chi la fa.
L’essenza di ciò che chiamiamo cinefilia è, senza dubbio,
arrivare all’ultimo momento, quasi troppo tardi, facendo
fìnta che la festa sia ancora in corso. Il cinefilo non è colui
che sente la nostalgia di un’età dell’oro che ha conosciuto o
meno e che pensa non tornerà più. Il cinefilo è colui che
anche di fronte a un film appena uscito, un film del presen
te, si sente già sfiorato dal pensiero che «questo sarà stato».
Ed è percepibile in modo straziante in persone come Demy,
da Lola, donna di vita in poi. Allora forse è stata questa spe
cie di malinconia, a forza di essere il comune denominatore
di tutti i film, ad aver sfumato in me la differenza tra quelli
del passato e quelli del mio presente. Al contrario, il nostal
gico continua a pensare ciò che era meglio nel passato,
pronto a offrirsene lo spettacolo privato o anche la ricostru
zione museale. Quando mi si parla di nostalgia, io reagisco
male perché come tutti i malinconici godo del presente, del
presente in só, quello del giornalismo, per esempio, che
H6
vive giorno per giorno. Il presente è una sorta di assoluto,
di resistenza, di sfida alla necessità di pianificare, di pro
grammare, di prevedere e soprattutto di lavorare personal
mente per ottenere i propri piaceri, cosa che mi esaspera e
mi fa orrore. Il presente è il lusso di chi non ha niente al di
fuori di quei piaceri non cumulabili che sono la coscienza di
un nuovo giorno che inizia, del sole caldo sulla pelle, della
terrazza di un caffè, della sfilata degli altri, i normali. È
l’orgoglio di quelli che non possiedono nulla ed è già il car
rello di Kapò’. tu non puoi avere nello stesso tempo quella
scena e quel movimento di macchina, devi scegliere.
Nessun accumulo, nessuna gestione, parola che ha avuto
così tanto successo, ma l’obbligo di essere sul cammino
delle cose, così come vengono, ad una ad una, verso di me e
verso il solo corpo che è mio e che dovrà pur restituire loro
- per voce, per scritto o per scrittura orale — qualche cosa.
La perfusione del presente.
87
il mito di Prometeo. L’orgoglio di questo trovatello che
dice che la sola persona di cui non sposerà mai la causa sarà
se stesso. Perché è profondamente inelegante compatirsi.
Perché sarebbe come ammettere che hanno potuto farmi del
male. Ammiro — anche se non li amo - coloro che hanno la
forza di istruire processi contro i loro paesi, come Hans
Jurgen Syberberg e Thomas Bernhard. Si sono trovati dei
nemici a loro misura. Io posso ben considerarmi una vitti
ma, una vittima di guerra per esempio, ma per quanto cer
chi, non trovo nessuno cui serbare personalmente rancore.
HH
l’accento del Sud della Francia. Altre volte avevamo a che
fare con persone più moderne e più consapevoli della loro
condizione. Samuel Fuller, per esempio, contento di poter
fare il suo numero davanti a due ragazzini venuti
dall’Europa, o Jerry Lewis che stava girando un film con
Tashlin e che ha interrotto le riprese per mostrare a tutti il
numero speciale dei «Cahiers» dove era stato classificato tra
i registi1.
Mi ricordo ancora, al contrario, come ci ha trattati
George Cukor, probabilmente giudicandoci, dal nostro
aspetto, due sventati, due dilettanti, il grasso e il magro,
pieni di ammirazione e ben decisi a portare a termine il
nostro obiettivo. In seguito ho spesso ricordato questo epi
sodio come se non ne avessi al momento colto l’emblemati-
cità. Era un giorno di canicola, eravamo in una bellissima
villa, circondati dalla sua corte di amici intimi e favoriti:
tutti avevano un aspetto raggiante tranne noi, madidi di
sudore, che stavamo lì a dirgli quanto ci fosse piaciuto //
diavolo è femmina che avevamo scoperto da poco a Parigi.
Questo non divertiva affatto Cukor perché quel film era
giudicato universalmente un fiasco dei suoi inizi. Katharine
Hepburn, nella sua autobiografia si scusa addirittura di
averlo fatto, perdendo molta stima ai miei occhi. La legge
dello showbusinness stabilisce che un film che si rivela un
fiasco commerciale non può essere un bel film. E mi sbalor
disce ancora, ripensando a noi due là, nella reggia di questo
vecchio smaliziato e furbo come una volpe — il cui ultimo
film Ricche e famose prova che non sia mai stato molto rim
bambito, lui - il modo con cui noi avevamo già pensato di
amare il cinema americano, ma secondo le nostre leggi.
Ad un certo punto, mi sembra che la conversazione si sia
spostata su Nicholas Ray e noi abbiamo detto quanto ci
piacesse // paradiso dei barbari. Allora è scoppiato in una
risata fragorosa, una risata incredibile, da pazzo malvagio,
pestifero, gridando agli altri: «Venite! Venite a sentire!
Sapete che film piace a questi due? Il paradiso dei barbarti il
film che Jack Warner non ha neppure osato far uscire!». Ci
rivedo ancora, feriti ma per niente scossi, sicuri di avere
ragione e avendo, di fatto, ragione. Come sei anni più tardi,
89
quando per i Mostri primi corsi a Censier, io e Pascal
Bonitzer — morti di paura davanti a delle aule «rosse» che
volevano soltanto litigare e che in materia di cinema oscil
lavano tra Sam Peckinpah e Francesco Rosi — urlavamo a
chiara voce che il cinema materialista era Vento dell'est di
Godard-Gorin e Non riconciliati degli Straub e che questo
era fuori discussione. L’impressione di restare sempre un
bambino sincero e testardo nei suoi capricci, anche di fronte
al buon senso condiscendente degli adulti è una delle cose
di cui sono più fiero.
Il cinefilo non è colui che ama e riproduce nella vita gli
oggetti e i comportamenti che ha visto sullo schermo. È
nello stesso tempo più modesto e infinitamente più orgo
glioso: ciò che domanda ai film è di perdurare come film. La
politica degli autori è necessaria nel senso in cui è necessa
rio che un film obbedisca a un punto di vista, a una visione
del mondo, che lo legittimino e gli forniscano una logica.
Ma il film, in ultima analisi, diventa una specie di essere, di
personaggio, di ritratto di Dorian Gray in cui ci guardiamo
invecchiare. Per questo non badavamo poi tanto a Cukor,
che faceva lo schifiltoso davanti a 11 diavolo è femmina. Per
questo mi hanno sempre fatto un po’ pena gli appassionati
di cinema americano — simpatici feticisti - che hanno pas
sato la vita a travestirsi da piccoli americani degli anni
Cinquanta con i loro stivali, le loro giacche, le loro macchi
ne. E questo spiega anche come abbia potuto imparare a
respirare — fuori dalla Francia inquinata — nel cinema ame
ricano e come ugualmente non abbia avuto alcun problema
negli anni Settanta, a scagliarmi contro l’imperialismo
americano.
L’America da un punto di vista intellettuale era di tutto
riposo: era un mondo così potente che esigeva da noi e si
creava al suo interno anticorpi di lucidità, di ironia, di crisi.
La Francia era un nano sovradimensionato, l’America un
gigante che poteva tranquillamente produrre dei dissidenti
al suo interno, che erano poi i nostri eroi: da Welles a Ray,
il martirologio era inesauribile e la cosa più normale del
mondo. Questa strana sfasatura, questa presenza dell’
America nel cuore della mia cultura e la sua totale assenza
90
nei miei sogni oggi è forse difficile da capire. Difficile da
capire come la pregnanza del sogno comunista ad essa
parallelo. Le conseguenze estetiche di Yalta hanno cessato
di sortire qualsiasi effetto.
91
Douglas Sirk, quando Godard parla con Lang o Glauber
Rocha insulta Pasolini post mortem, c’è un paese perché ci
sono veri abitanti che parlano la stessa lingua. È stata la
bellezza dei «nuovi cinema» degli anni Sessanta, ormai
scomparsa, come evaporata. I migliori registi di oggi non
sono veramente fratelli, devono semplicemente far fronte a
un restringimento del loro margine di manovra che li fa
assomigliare gli uni agli altri, ma non come fratelli e nem
meno come rivali. Questo poi avviene solo in occasione dei
festival; Cannes, per esempio, fatica parecchio a inventare —
a forza di premiarlo — un cinema indipendente americano
presentabile. Questo crea forse uno stile, lo stile globale dei
film di qualità, lo stile cinefilo, e spiega l’unanimità della
critica attuale, capace soltanto di mimare un disaccordo. E
nello stesso tempo mi aiuta a capire a che punto la promes
sa del mondo non era per me la certezza di fare un giorno
parte del fior fiore cinefilo — sono stato accuratamente tenu
to lontano dai posti «ufficiali» — ma un sogno senza patria
né frontiera, lontano dai nazionalismi.
92
È strano perché trentanni dopo penso di essere una delle
rare persone che si sentono a proprio agio sia con l’uno che
con l’altro. Rappresentano due aspetti della mia personalità
e anche se all’epoca non ho capito nulla delle lotte che si
svolgevano ai «Cahiers», era da molto tempo che con un
amico del liceo architettavo delle teorie su questa coppia
impossibile che ci mostrava la via, seppur in due direzioni
diverse. Da un lato Rivette, i testi brevi, perentori, la
tubercolosi, la Lettera su Rossellini, la morale in persona.
Dall’altro Douchet, i testi scolastici, arzigogolati, il dandi
smo del gran borghese amante dell’arte, il folle ermeneuta
che ci ha introdotto tuttavia a un’abitudine che ci avrebbe
sempre accompagnato: interpretare è giusto. Rivette mi ha
insegnato a non avere paura di vedere, Douchet a non avere
paura di leggere. Il mio compagno di liceo, molto mistico,
stava più dalla parte di Rivette, io più dalla parte di
Douchet. La cosa strana è che queste due persone sono
l’opposto in tutto. Ri vette ha scoperto tante persone vera
mente geniali ed è quindi passato alla critica film per film.
Douchet, che per pensare ha bisogno di essere certo di avere
di fronte a lui un’opera, ha dovuto aspettare, dopo il I960,
che questa si costruisse come nel caso di Philippe Garrel.
Uno è all’inizio delle cose, l’altro alla fine. C’è poi la diffe
renza sessuale: Douchet è stato certamente malvisto come
omosessuale e perdipiù gaudente. Secondo me la Nouvelle
Vague è rimasta omofoba. Io appartengo alla tradizione
dominante dei «Cahiers», quella che ha finito per confon
dere amore e amicizia, meravigliandosi che quest’ultima
non sia diventata un po’ più sublime.
Parliamo del maggio ’68: che cosa facevi in quel periodo, come per
cepivi gli sconvolgimenti ideologici? C’è una cosa che mi sembra
importante: come spieghi il fatto che il maggio ’68 sia stato un
evento che il cinema francese non ha filmato? Si ha come l’impres
sione che non ne sia uscito alcun soggetto, come se l’incontro tra
cinema e realtà si rivelasse impossibile.
93
pensare, e che aspetta solo qualcosa — qualcosa d’apocalitti
co: lacerazione e rivelazione - che lo tolga da questo letar
go. Ho riflettuto in seguito, scrivendo su N[ourìr à trente ans
per esempio, sul fatto che il cinema non abbia avuto parte
negli avvenimenti del ’68. Per me, al momento, era ancora
peggio: gli avvenimenti per la loro stessa natura ci obbliga
vano a lasciare il cinema, a voltargli le spalle. Non mi sono
ritrovato a fianco dei «Cahiers», degli Stati Generali del
cinema. Ma piuttosto in un piccolo gruppo di anàrco-dandy
loquaci, il cui programma rivoluzionario, applicato al cine
ma, era del tipo «La poesia sarà fatta da tutti». Un piccolo
gruppo di persone, un po’ come quelle di La collezionista di
Rohmer, riunite attorno ai soldi di Silvina Boissonas, alcu
ne delle quali volevano approfittare della situazione per
passare dietro la macchina da presa. Uno solo ci è rimasto e
infatti era il migliore: Philippe Garrel. Mi sembra che aves
simo formato un collettivo, perché mi rivedo a filmare, a
due passi da casa mia, la coda davanti al Crédit Lyonnais tra
due monticeli! di spazzatura. Ci piaceva l’idea dei borghesi
che ritiravano i loro soldi, tremolanti, in mezzo all’immon
dizia, ci ricordava Bataille che avevamo letto e riletto -
tenevamo Storia dell'occhio ancora nascosta sotto la fiacca —
durante gli anni passati alla cineteca. Tra i vecchi ritorni di
fiamma dell’anarco-sindacalismo e e gli apprendisti strego
ni del radical-chic c’erano dei tratti di strada provvisori.
Avevamo stabilito che tutto quello che era girato indivi
dualmente dovesse essere poi riversato nel pentolone comu
ne di un grande film di sintesi e rivedo ancora Garrel, gio
vane e fragile, dire qualcosa del tipo «Sì, la minestra popo
lare, va bene, non dico di no», con totale disprezzo. È
impressionante la resistenza del ’68 all’ immagine, al cine
ma. Neppure i documenti televisivi sono più eloquenti: si
vedono dei giovani con capelli corti e vestiti striminziti
lanciare sassi, discutere per ore, ma nella più completa e
oggi agghiacciante ignoranza della loro immagine!
Accanto a questo c’era il teatro. Non ho idea di come mi
sono ritrovato a Censier, mentre, in un’aula gialla, si stava
mettendo a punto la presa dell’Odeon. Anche lì c’era un
gruppetto di persone, ma io mi ricordo solo di Jean-Jacques
94
Lebel che cercava di pensare a un post-Renaud-Barrault o
non so cosa. All’epoca non parlavo in pubblico, perché
prendere la parola in pubblico mi causava grande imbaraz
zo. Perciò mi vedo appollaiato su un termosifone, contrasta
re con voce sommessa Lebel, sul tema: no, non reciteremo
neppure Artaud, non ci sarà altra rappresentazione se non
quella che offre il popolo stesso. Fu infatti quello che
avvenne e non senza gloria. Il terrore, sì. Avevamo occupato
il teatro una sera a passo di carica e mi ricordo anche della
panetteria dove avevo comperato dei biscotti LU, nel caso
avessimo dovuto sostenere un assedio. Il luogo era deserto e
per me il doverci restare accampato per qualche tempo fu
una specie di punizione dato che avevo sempre considerato
il teatro come un luogo fonte di disagio. L’unica mia foto
che conservo del ’68 è apparsa su Noir et blanc: sono seduto
in giacca sul palco dell’Odeon mentre Barrault e Renaud
difendono la loro causa. Pantaloni di velluto, con già i baffi
e i capelli corti.
Detto questo, io ero — e sono tuttora — molto sensibile ai
temi dell’epoca, come quello della società dello spettacolo.
Avevo letto il libro di Debord e la pubblicità mi suscitava
già questo miscuglio di ironico disprezzo e timore. Oggi
ritengo che se ai «Cahiers» sono stato l’unico a non perdere
mai questo filo conduttore è perché è proprio il mio e per
caso era anche quello dell’epoca. Provavo rancore verso la
pubblicità perché aveva già iniziato a giocare con troppa
efficacia la commedia dell’ideale. Con un idealismo vero,
naturalmente. E quell’idealismo, nel 1968, rappresentava
per me la tabula rasa, l’addio alla cultura asfissiante, la
svendita dei miei soli tesori (libri e dischi: le opere comple
te di Stevenson e VOrfeo di Monteverdi). Il teatro era simbo
licamente il luogo giusto in cui farla finita con questa storia
della rappresentazione. Il cinema sembrava invece il luogo
dell’alienazione. Un giorno, in una saletta del teatro,
cerano delle persone molto decise che ci hanno detto qual
cosa del tipo: e ora compagni passiamo alle cose serie, cioè
alla lotta armata, quelli che non sono d’accordo sono ancora
in tempo per andarsene. Ero con un amico, ci siamo dati
un’occhiata e ce ne siamo andati. Un ometto si è alzato in
95
piedi e ha detto: rispetto le vostre idee ma le mie convin
zioni mi impediscono di uccidere. Gli hanno detto che
aveva diritto ad avere le sue convinzioni e se ne è andato.
Trovavo tutto ciò molto coraggioso, come nei libri. L’uomo
era Paul Virilio e vent’anni più tardi abbiamo rievocato
insieme la scena.
Non ero più così tanto vicino ai «Cahiers». Frequentavo
ancora assiduamente Louis Skorecki. I primi giorni di mag
gio del ’68 rimangono per me un incantesimo, come un
invalido che scopre improvvisamente di poter far natural
mente parte del quadro, delle strade che si percorrono nel
mezzo, delle discussioni improvvisate, del tennis ludico tra
azione e reazione, di Parigi più bella che mai ed io senza
nulla tra le mani e nelle tasche. E poi la mia ingenuità poli
tica, la mia immediata arroganza, la facilità con la quale mi
identificavo — rivolta anti autoritaria — con una causa, la
causa studentesca che fino a quel momento mi aveva lascia
to del tutto indifferente (per me lo studente era un essere
vergognoso, gombrowicziano), la possibilità di riempirmi
la bocca di parole, della parola rivoluzione per esempio.
La mancanza di qualsiasi cultura politica era in me abis
sale. Per questo ho passato una parte della mia vita a
confondere morale ed estetica e un’altra a confondere mora
le e politica. Quel che è certo è che mi aspettavo da questa
rivoluzione la nobilitazione del mio gusto per il non posses
so, della mia totale inattitudine alla pianificazione, ai fini
da raggiungere, al sole dell’avvenire, all’accumulo e al cal
colo in generale. La rivoluzione era qui ed ora, era più vici
na alla vita di più persone, improvvisamente disposte a dia
logare, una cosa del genere. Era il contrario di una previsio
ne e più assomigliava alle promesse di un paradiso anche in
terra, più risvegliava in me la miscredenza del bambino,
scioccato da una religione costretta a ricorrere a tali espe
dienti. L’idea di una vita migliore mi è sempre sembrata
indegna e se non mi sono mai interessato alla religione, non
è certamente per indifferenza alla religiosità, ma piuttosto
per il fatto che, vivendo come mi è capitato nel cine-limbo
di questo mondo, considero questo il solo mondo esistente,
tanto più che sono rimasto prigioniero del fatto di non
96
averlo forse mai raggiunto. La cinefilia è questa sana malat
tia, un sintomo della quale è ritenere che questo mondo sia
già un altro mondo.
Così non riesco mai a spiegarmi i fenomeni di angoscia,
di isteria, di credulità di massa: non smetto di pensare che
siano tutte fandonie. Credo invece che tutti, sempre, mal
grado le lamentele sulla loro sorte e i gli sguardi rivolti ad
una vita migliore possano toccare con mano qui e ora i
benefìci materiali e spirituali dei sacrifìci che dicono di aver
fatto.
97
Ma torniamo al ’68, così come lo vedo oggi, forse con
troppa chiarezza. Passati i mesi di maggio e giugno, sempre
più solo, ho fatto molte esperienze di rinuncia di qualsiasi
proprietà. Il viaggio innazitutto. Il primo viaggio in India,
cioè nel terzo mondo. Poi la malattia. La prima tubercolosi.
Il cinema era scomparso perché io sperimentavo sul mio
stesso corpo il mio cinema come qualcosa che non si possie
de. In realtà il cinema non era scomparso, ero io che in
qualche modo ero entrato nel film, recitando per qualche
anno il ruolo di star in incognito su scene in cui non c’era
nessuno per vedermi. Le mie superproduzioni, annunciate
da cartoline, erano modeste: ero il protagonista di «Sono
arrivato nello Yemen», ero perfettamente naturale in
«Rientro al mio hotel di Taroudant».
Questo perìodo di viaggi apre una parentesi nei tuoi rapporti con i
«Cahiers». Solo dopo, all'inizio degli anni Settanta, sembra che
la questione si ponga in modo brutale: tornare alla rivista ma a
condizione di ereditarla.
9H
Questa famiglia in fin dei conti è esistita solo nella mia
mente, il che non significa che dopo tutto il mio desiderio
non finirà per farla esistere davvero. È una famiglia senza
padre, come deve essere nella cinefilia, amore figliale verso
un padre assente, morto o troppo debole, alla Bazin. È il
sogno di una famiglia di eguali e di individui, un sogno del
tipo fratelli sublimi, che porta inevitabilmente a grandi
sciocchezze e a ferite non meno profonde.
99
ormai è alle nostre spalle. Le cose possono ritornare ma per
ché questo avvenga è necessario che siano già venute una
prima volta. Non c’è, in un paese di così antiche tradizioni
come la Francia, una dimensione fondatrice del cinema. C’è,
al contrario, la consapevolezza di aver co-inventato il cine
ma e di esserne sempre stata la sala di registrazione, il tri
bunale. Questa è la nostra eredità e non è poco. Ciò che è
disgustoso, nel caso del cinema francese, è il modo con cui
ognuno si ammanta di questa sopravvalutazione in negati
vo, che gli fa credere che, unica al mondo, la Francia avreb
be potuto raccontare la sua storia - neanche poi tanto bril
lante - nel secolo. Non ne abbiamo più gli strumenti da
Abel Gance e dal cinema delle trincee. C’è come un senso
di felicità, di largo respiro, del semplice fatto di essere for
tunati di vivere e di vederci chiaro, che non ho mai trovato
nel cinema francese — se non come brevi ventate in Godard,
Jacques Becker o Jacques Demy. Non l’ho mai neppure cer
cato. Penso invece che i figli d’arte del circo America,
Buster Keaton o Fred Astaire, abbiano rappresentato gioio
samente la possibilità di essere umani sulla terra e questo,
in fin dei conti, mi commuove più di qualsiasi altra cosa al
mondo.
100
TERZA PARTE
Cinema e storia
103
non avere più bisogno del cinema: il mondo degli indivi
dui. Naturalmente questo non può diventare spettacolo di
massa e dopo un po’ infastidisce. AH’improwiso la Francia
rappresenta un’impasse, ma è un’impasse che gli altri paesi
non aggireranno. Forse dò l’impressione di prendere il pro
blema alla leggera, ma in realtà mi ha devastato, perché è
proprio l’assenza di Vichy, l’assenza di immagini della col
laborazione, che si è rivelata per me inammissibile negli
anni. Oggi, da un punto di vista mistico e intransigente,
potrei dire che se il cinema è l’arte del presente — nel senso
più ampio del termine, non tanto quello del reportage, ma
anche il presente del ricordo, dell’evocazione: come nei film
degli Straub -, ebbene quando non si dà, non si dà e basta.
Questo permette di capire una cosa: il cinema esiste soltan
to per far ritornare ciò che è già stato visto una volta — visto
bene, visto male, non visto. Notte e nebbia faceva tornare
dieci anni dopo, ciò che non era stato visto, dato che le
immagini dei campi di sterminio girate da George Stevens
o quelle montate da Hitchcock, erano state tenute segrete
dalle autorità americane e inglesi. Come arte del presente o
arte della vigilanza, il cinema era già in uno stato di schizo
frenia totale perché i committenti stessi di quelle immagi
ni, lo stato americano e quello inglese, le avevano occultate
a causa della guerra fredda. Così che possiamo vedere solo
oggi questi film di archivio, gli unici realizzati al momento
della scoperta, e ci fanno molta impressione. Notte e nebbia è
il film che ha segnato la mia vita ed è stato girato quasi
quindici anni dopo la scoperta dei campi. Ebbene questo
ritardo è inscritto nel film per mezzo di un lavoro artistico
- il soggetto di Jean Cayrol, la musica di Hans Eisler —
straordinariamente appropriato e di grande gusto. Ma que
sta retorica sarebbe potuta benissimo assomigliare a quella
del carrello di Kapò... In questa logica troppe cose impor
tanti nel destino dei popoli, delle nazioni, delle masse non
possono tornare perché non sono state rigorosamente viste.
E temo che non sia stata l’ultima volta... Mi ricordo ancora
di aver incontrato a Hong Kong Chris. Marker, eccitato
dalla notizia che le guardie rosse avevano girato dei filmati.
Potevamo certo domandarci che cosa avessero potuto filma
io'!
re, ma la questione oggi è pura aneddotica: non ha impor
tanza. C’è stata un’epoca in cui le cose impiegavano del
tempo per cominciare ad esistere, attraverso processi lenti,
faticosi, dolorosi: per costruire era necessario del tempo e
questo tempo aveva un valore. Oggi bisogna toccare subito
con mano i benefìci delle cose. Forse il cinema aveva questa
capacità di dare tagli sincronici o istologici, di cogliere il
lavoro del tempo — non soltanto la morte al lavoro, gli
uomini al lavoro... Ad esempio, per quindici anni, il cine
ma italiano ci ha mostrato la ricostruzione architettonica
del paese, passando dalle rovine al primo cemento, fino ai
contemporanei orrori post-moderni: lo vedevamo come
attraverso un movimento stroboscopico, a scatti. Da noi,
Tati era l’unico ogni cinque anni a testimoniare i cambia
menti fìsici del paesaggio in cui viviamo, sempre sorpren
denti rispetto alla vecchia immagine che ancora ne aveva
mo. In fondo penso che questo sia il genio del cinema, la
sua dignità.
105
aperta, passerebbe solo a Cannes. Da Roma città aperta ad
oggi, il cerchio si è chiuso, per tutti, anche se i francesi ne
hanno maggiore consapevolezza, solo la consapevolezza. Il
che spiega perché, nei momenti decisivi, l’identità francese
si identifichi con il teatro: il cinema non ha voce in capito
lo. C’è una fotografìa di Robert Capa che mi ha sconvolto
da sempre, quella della donna calva a Chartres, nel giorno
della liberazione. Secondo me è una delle.più belle foto mai
fatte. In quel momento Capa più che un fotografo è un
grandissimo regista. Che cosa ci mostra? Una città, il teatro
di una città intera, con un effetto di appiattimento dello
spazio: tutti stanno indicando la donna in primo piano che
la maggior parte delle persone vede di spalle, salvo coloro
che le sono vicini. È come un teatro rovesciato, visto da un
Americano; si ha come l’impressione che tutta la città di
Chartres sia fuori, c’è un grande spazio in cui tutti guarda
no questa donna che presto sarà off. Per me questo è teatro.
Ti ricordi l’inquadratura di Godard in lei et ailleurs (t.l. Qui
e altrove), con la piccola palestinese sulle macerie mentre
declama un poema di Mahmoud Darwich? E la voce di
Godard che diceva: «Questa bambina continua 1’89».
Questo mi ricorda l’immaginario nel quale sono cresciuto,
che, da bambino, ho amato, tremando di paura, quello della
Rivoluzione, come ci era insegnata dalla scuola laica. E il
modo con cui la Francia recita la sua identità, perché non
ha trovato rituale migliore del teatro, questo ripetere sem
pre qualcosa che si riferisce a ciò che per noi significa vive
re, ricordarsi, purificarsi. A differenza del cinema dove non
c’è catarsi, il teatro fa ritornare dei gesti, delle figure, dei
comportamenti, quel genere di frase che ognuno di noi ha
avuto voglia di dire: «Siamo qui per volontà del popolo...».
106
Poniamoci delle domande in base a ciò che oggi ci inte
ressa: un ritorno della storia, nel senso che Malet e Isaac14
hanno dato al termine. La Nouvelle Vague (in Francia più
che altrove e in modo più puro, ma attraverso le nouvelles
vagues di tutto il mondo) però si è assunta l’onere di
tutt’altra cosa: ha messo in scena un uomo e una donna, la
guerra dei sessi e un’eventuale soluzione di questa guerra. È
lì che ha investito tutta l’energia artistica e creatrice tra il
I960 e il 1980. Bisognava barattare il cinema dell’ideale,
dunque un cinema maschile poiché solo gli uomini hanno
degli ideali, con un cinema che lasciasse apparire le donne.
Antonioni, Bergman e certamente Godard hanno fatto que
sto, Pialat vi ha investito molte energie, e così Rivette, a
suo modo, e Rohmer, Ferreri, Cassavetes ecc. Il problema è
stato la coppia, prima le coppie eterosessuali, poi, dopo il
’68, le coppie mal assortite, disparate, deleuziane (Mice nelle
città...). L’idea della coppia è centrale: ti ricordi che voleva
mo fare un numero speciale dei «Cahiers» sulla scenata...
Questa resta l’idea centrale, in termini di contenuto, anche
se si sta perdendo, perché ora ci troviamo in uno strano
post-femminismo in cui le cose si ricompongono diversa-
mente. Ciò che fece vacillare i registi della Nouvelle Vague
furono l’apparizione di Brigitte Bardot, la foto di Harriet
Andersson, o Monica Vitti... — si era lontani da Michèle
Morgan - immagini di donne che imponevano un modo
diverso di filmare. Questo ha occupato il cinema per quin
dici o vent’anni, era ciò che all’epoca modificava il linguag
gio, compreso il versante lezioso di Lelouch (Un uomo e una
donna). Tutto questo per dire che il problema della storia di
oggi non era pertinente allora, non era il motore di quel
cinema, e a meno di riscriverne la storia, non dobbiamo
rimproverarglielo.
107
Capisco: non può mai essere il detentore della coscienza
civica. Quei personaggi li puoi trovare in America e in
Italia, due paesi che hanno dovuto fondare o rifondare...
108
che cosa sia una donna... Solo l’America è riuscita a mostra
re dei volti di innocenti — non si tratta dell’uomo della stra
da, di qualunquismo ideologico —: si tratta di qualcuno che
è meno astuto del soggetto quando il film comincia, e che
recupera il ritardo davanti a noi, senza vergognarsi di essere
un cittadino come noi. C’è dunque questo tratto proprio
del cittadino: cittadino per statuto, non solo per ruolo, i-n
balia degli eventi. Prima di evolversi, il cinema americano
ha realizzato degli indimenticabili e incomparabili ritratti,
con grandi attori che interpretavano allocchi, rappresentan
do così i nostri interessi di cittadini. Cittadino in quanto è
qualcuno a cui a un certo punto viene domandato di pren
dere conoscenza di un certo dossier. E se è un buon cittadi
no di schierarsi, di impegnarsi. In termini di finzione e di
narrazione è un personaggio che parte in ritardo rispetto
alla storia e il film dura il tempo necessario per farglielo
recuperare. È abbastanza diverso dal cinema francese che è
un cinema di furbetti, in cui è fondamentale che il mostro
sacro sia in anticipo su tutti e lo conservi.
Un cinefilo in viaggio
Ritorniamo agli anni dei viaggi: c’è un momento della tua vita in
cui sembra che il viaggio prenda il posto del cinema. A meno che il
viaggio sia per te un modo per registrare delle immagini.
109
andare da un caffè alla stazione, cercare un albergo, talvolta
visitare due o tre cose, perdermi in una città, indipendente
mente dai soldi che ho a disposizione. Alla fine prendevo
dei taxi, all'inizio camminavo. In poche parole, il viaggia
tore senza bagagli, cittadino del mondo: torniamo alla
parola cittadino. Il cittadino del mondo si sente a casa
ovunque sia dal momento in cui non è più a casa sua. Molte
persone non appena lasciano la loro casa hanno paura, si
sentono inquiete. Per me è il contrario: potevo sentirmi
inquieto, angosciato nel posto cui appartenevo, cioè Parigi,
ma beato, quasi toccato da protezione divina non appena
me ne andavo altrove. Sicuro che, essendo clandestino, non
esistendo e non avendo nulla, non poteva capitarmi niente.
Così mi sono ritrovato in capo al mondo, in luoghi impos
sibili, anche pericolosi, non per coraggio ma semplicemente
perché c’erano una cartina e una strada che mi autorizzava
no ad andarci. Non potevo accettare l’idea che ci fossero
paesi vietati. Mi dispiace oggi non poter andare nei nuovi
paesi che si sono appena aperti: visitare Ulan Bator o che
altro... So esattamente cosa farei a Ulan Bator: niente di
particolare, spedirei una cartolina. Ma mi piacerebbe
molto. In viaggio ci si sente ridotti al proprio corpo. Mi è
capitato di inseguire il sogno di partire senza bagagli e
comperarmi tutto all’aeroporto. Non avere con sé la propria
casa e dirsi: il mondo è la mia città e gli aeroporti i suoi
supermercati. Poco tempo fa io e Gérard Dupuy ci chiede
vamo che cosa faremmo se fossimo ricchi; non abbiamo
saputo trovare altro che il desiderio egoista di possedere
dieci monolocali ben scelti sparsi per il mondo, a Mayfair a
Londra, a Central Park a New York, a Marrakech, Il Cairo,
Tokyo, Barcellona, Berlino, nelle città in cui ci è piaciuto
vivere insomma, e di spostarci da una all’altra in incognito.
L’essenziale è non lasciare tracce o immagini: essere clande
stino sulla terra...
no
Il cinema mi permetteva questa specie di clandestinità,
diversamente dal teatro che obbliga ad apparire davanti ai
miei vicini e ai miei simili, che sono anche cittadini. Il tea
tro di certo non può scomparire — sebbene non abbia l’aria
di essere particolarmente in forma. Sono ingiusto, perché
mi è capitato da piccolo di seguire la programmazione del
Teatro Nazionale Popolare per un anno o due e mi ha
segnato molto. Vilar era indimenticabile ma il vero incubo
per me, a dieci, undici anni, era la Comédie Fran^aise: ne
ero terrorizzato. Stranamente il circo non mi ha mai
impressionato (non ci andavo e mi ha colpito solo più tardi
vedendo / down di Fellini). Ma non dimenticherò mai il ter
rore di sentire il tremendo rumore delle assi di legno, dei
passi degli attori, bum, bum... E poi un sentimento più
erotico, quasi già misogino, quando le soubrette con le tette
all’aria arrivavano in scena urlando per farsi sentire in pic
cionaia. Bisogna dire che le introduzioni retoriche e un po’
stupide dell’una o dell’altrà commedia di Molière non mi
facevano per niente ridere - bisognerebbe avere il coraggio
una volta o l’altra di dire che le commedie di Molière non
fanno poi così tanto ridere. Questo terrore, tutto questo rito
sociale, la lingua francese in questa versione sopra le righe,
l’obbligo di stare diritti e composti come il vicino, l’impos
sibilità di essere clandestino, tutto questo mi inorridiva. Mi
sono gradualmente riconciliato con il teatro solo apprezzan
do il teatro filmato, che del teatro ha i vantaggi ma non gli
inconvenienti, che sono poi la sua essenza. Guitry non mi
ha mai infastidito e la ripresa fatta da lui di qualche cosa
che rifiuta la ripresa stessa è l’aspetto più bello del suo cine
ma, molto più sconvolgente che in Pagnol. Ho riacciuffato
il teatro attraverso il cinema, mi sono inventato un velo,
una membrana protettrice che impedisce al teatro di infa
stidirmi (anzi mi appassiona come in Oliveira) perché è una
riserva di ipotesi estetiche comuni al cinema, senza le quali
il cinema morirebbe. Da una decina d anni ho capito che il
cinema ridotto al suo versante di registrazione-terrore aveva
fatto il suo tempo, che non aveva futuro e perdeva logica
mente pubblico. Che per tenerlo in vita era necessario
sostenere l’altro suo versante: quello incarnato da registi
ili
come Bergman o Fassbinder. Per questo mi piace il cinema
di Gus Van Sant (Belli e dannati)’, questo giovanotto venuto
dal teatro è riuscito a fare in dieci inquadrature ciò su cui
Zeffirelli si è incaponito di fare per tutta una vita. Oggi,
non sopravvaluterei la mistica della registrazione. Vedo
bene che non riusciremo mai a strappare al teatro i fenome
ni legati al rituale, all’identità collettiva, alla storia vissuta
e rivissuta; è il suo dominio, lo potrà fare più o meno bene,
ma questo aspetto riguarda sempre meno il cinema. Poiché
il cinema ha quasi del tutto perso la capacità di testimonia
re, di essere qui ed ora, è obbligato a inventare mondi
immaginari, a esplorare il mentale. Per me Kubrick è il più
grande regista del mentale. Il problema diventa allora il
dover ri considerare la questione del presente...
112
tu hai la cartina e poi... Ora ti racconterò un aneddoto cui
volevo riservare un capitolo del libro. In quell’occasione ho
capito, con grande chiarezza, che cosa c era in comune per
me tra il camminare, i viaggi e il cinema. In certi momenti
ho preferito camminare, cioè parlare con le mie gambe,
piuttosto che parlare, cioè camminare con la mia bocca —
ma in fondo è la stessa cosa.
113
stazione che ha un nome che ci piace, e stabilire tutto a
posteriori: che era proprio quella stazione, quel treno e
quella notte, cupa e spessa, scesa proprio quando si è arriva
ti a destinazione. Come spiegare il piacere di aver dimenti
cato il nome di questa città? Ah sì, Ronda.
Quella sera lo sdoppiamento fu tale che riuscii a veder
mi. Invece di scendere dal treno per ultimo con lo sguardo
smarrito di chi viene da fuori, invece di consultare la carti
na o di elemosinare informazioni, seguivo i soldati che rien
travano con passo fermo e deciso. Misi la borsa a tracolla, la
mia povera borsa grigia, per andare più velocemente, come
se anch’io fossi esasperato dal ritardo con cui il treno era
arrivato a Ronda, fermata secondaria, e mi precipitai, senza
guardare niente e nessuno, fuori dalla stazione. A quel
punto avrei dovuto scegliere se andare a destra o a sinistra,
avrei dovuto esitare, perdere tempo, appoggiare la borsa,
evitare accuratamente di allontanarmi dal centro della città.
Ma non feci nulla di tutto questo, e iniziai a seguire questo
scarno flusso di viaggiatori, che vedevo passare e infilarsi
silenzioso in vie deserte e in tratti d’asfalto male illuminati.
Capivo che non ero in «nessun luogo», un nessun luogo che
per caso era Ronda, ma che sarebbe potuto essere anche
Villepinte in Francia o Culemborg in Olanda. Avevo dun
que percorso duemila chilometri ed avevo la sensazione di
essere tornato a casa, in una specie di periferia universale.
Come nei film di Fellini, camminavo da un po’ di tempo
quando mi sembrò di essere vicino alla meta, quando capii
di essere arrivato. Arrivato nel mondo che va, catapultato
nel centro della città di Ronda e subito disilluso al centro
di una folla mascherata, perché era carnevale. Dopo aver
passato la notte in una cameretta poco riscaldata dell’hotel
Reina Victoria, solo alla mattina scoprii l’austero splendore
di quei remoti luoghi andalusi che non avevo visto la sera
prima. Una volta sentitomi a casa mia, una volta addome
sticato, con l’aiuto delle cartoline, questo miscuglio di car
tina e di territorio promesso dalle due sillabe della parola
Ronda, solo allora iniziai a guardarmi attorno come un
ebete turista medio per scoprire, in poco tempo, che a
Ronda, in quella città così carina, non avevo niente da fare.
114
L’altra capitale dei tori, ancora più misteriosa, Sanlucar de
Barrameda, con il suo bar «E1 Bigote» in riva al mare,
divenne allora il mio nuovo «capo del mondo».
Sì, con l’idea però che ciò che prendo non venga tolto a
nessuno. Sono riconoscente alle persone di esistere e al
mondo di esserci. E allo stesso tempo ho la viva impressione
che è il mondo a esistere e non io, che faccio una grande
fatica per esistere in questo mondo. Ma non ho dubbi
sull’esistenza del mondo, io la vedo bene, la stazione di
Ronda, poco illuminata, mentre al turista non interessa
perché non fa parte della sua esperienza. Il cinema mi ha
insegnato una cosa, cioè che le scene più belle o le inqua
drature migliori cominciano con una piccola scena da nien
te come quella, ma importante quanto il pezzo di bravura.
Dato che i pezzi di bravura non mi piacciono tanto, ho
sempre bisogno del passaggio da uno all’altro. E sono con
tento di esserne, grazie al mio corpo e grazie alla mia espe
rienza del camminare, il traghettatore: passare da un’inqua
dratura da niente a un’altra che resterà. Fellini è grande
perché non filma mai un pezzo di bravura senza mostrare
l’inquadratura precedente e quella successiva; ed è ciò che
ho imparato ad apprezzare in lui - pensa i suoi film seguen
do una logica da camminatore.
Per esempio, quando filma una festa, una scena di carnevale, c’è
sempre l’immagine del prima e del dopo, con questa specie di deso
lazione che segue l’euforia.
115
dovuto vederla. Ho certamente più humour oggi, perché so
apprezzare meglio la parte che mi resta. Ma per tanto
tempo l’idea di passare ogni giorno nello stesso posto senza
vedere ciò che comunque stava lì, davanti ai miei occhi,
un’insegna luminosa incredibile, o qualsiasi altro elemento
del paesaggio mi dava un senso di riprovazione. Io ho biso
gno di qualcuno che mi faccia vedere; per questo il mio
rapporto con l’immagine non può essere semplice. Non
sono un visionario, piuttosto ho bisogno che mi si faccia
vedere. Per vedere, devo inventarmi scenari complessi che
passano attraverso il mio corpo. Per il camminare, ad esem
pio. Si torna alla questione dell’inquadratura: io faccio
molta fatica a vedere ciò che non è inquadrato. So bene che
l’inquadratura non è neutrale, ma esprime la volontà o il
desiderio di chi vuole farci vedere: «Tu guarderai questo!».
Da qui nascono anche i miei problemi con il teatro che non
si serve dell’inquadratura ed è per me sinonimo di fatica,
visiva e uditiva. È un problema di lentezza della percezione,
mentre se esiste un’inquadratura sono più veloce.
116
Havana alle tre del mattino, l’attraversamento fantomatico
della città, le file di persone che già aspettavano l’autobus,
il mio alloggio in un Grand Hotel, in piena notte... Poiché
non riuscivo a prender sonno, ho aspettato l’alba, per sapere
X.
com’era la città che avevo appena attraversato. E una specie
di fidanzamento, la promessa di un mondo cui sono eterna
mente fidanzato che si realizza attraverso le parole, le città,
a volte i ragazzi, le cartoline e tutto ciò che ho velocemente
annotato su dei taccuini. È una concezione del viaggio ter
ribilmente minimalista e perversa, che non corrisponde
affatto all’idea di grande viaggiatore che hanno di me i miei
amici. E poi con il passare del tempo, l’emozione di andare
in capo al mondo diminuisce: non ci sono paesi che mi
hanno fatto sognare da giovane in cui non sia stato. Sarebbe
stata una tragedia non essere andato in Cina, in Giappone o
in Brasile. Ultimamente mi sarebbe piaciuto fare la Francia
a piedi, perché è il paese che conosco meno. Il paesaggio
francese è come il cinema francese: è molto bello, ma biso
gna trovare il metodo giusto per attraversarlo: né in mac
china, né in treno, perché il paese è troppo piccolo per il
TGV. Ecco quello che avrei fatto: Italia, Inghilterra,
Francia, Belgio, Germania. Pensavo di girare l’Europa a
piedi, era il mio progetto, per sentirmi piccolo e lento
rispetto a ciò che è più grande di me. Non andrei a Tirana o
a Lubiana, capitale della Slovenia slovena, questo non mi
manca. Voglio tornare a sentirmi piccolo, per una settimana
fare il giro dell’Ardèche: so che è bellissima.
117
fatto con i ragazzi mi aiutava a inquadrare lo sguardo, era
un punto di partenza per vedere altre cose, mi permetteva
di erotizzare il mondo, di dargli un nord e un sud. Nel
momento esatto" in cui vedi un bel ragazzo in un angolo -
l’occhio è molto veloce in queste situazioni — si creano
immediatamente un centro e una periferia, dunque
un’inquadratura e quindi un’immagine: la presenza di un
ragazzo crea un’immagine. Del resto la stessa cosa si
potrebbe dire di tutto ciò che è oggetto di un investimento
erotico, o di quello che dicevamo a proposito del personag
gio. Non mi sono mai identificato in Cary Grant, ma i film
in cui mi è piaciuto di più sono quelli in cui la sua presenza
si fa immagine: tutto il resto trova un ordine a partire da
lui. È un principio di orientamento erotico generale, in cui
l’erotismo è un mezzo, non il fine.
11«
coloniale e un rapporto reale con il sapere. Ho buoni ricordi
di storie con ragazzini della Medina cui davo lezioni di
inglese, con la mia aria un po’ da maestro o da fratello mag
giore. Leggevamo Coleridge insieme, a letto... Fa molto
Gide, ma sessualmente è un po’ opprimente. Esiste sempre
una regola, comunque: chi si assomiglia si piglia. E mi è
capitato spesso di imbattermi in ragazzi, come ce ne sono
tanti in quei paesi, in bande di ragazzi molto chiassosi, tra i
quali ce nera sempre uno più silenzioso. Era sempre quello
che veniva verso di me, ormai lo sapevo. Ci sono dei tratti
tipici che caratterizzano colui che non farà mai parte della
muta. E molto narcisistico trovarsi travestito da ragazzino
del terzo mondo ma è vero. Non mi sono mai capitate
disavventure (non sono un incosciente ma questo non vuol
dire), forse per la convinzione di essere in sovrimpressione
sul paesaggio, per una specie di dubbio di esistere veramen
te, tranquillizzato dalla certezza che il mondo, lui sì, esiste.
L’impressione di esistere poco è talmente forte nell’esperien
za di chi viaggia-rimorchia-cammina, che lo protegge. È
uno stato d’animo quasi impercettibile, di cui hanno parlato
bene soprattutto gli scrittori — per esempio Robert Walser o
Rimbaud. Al cinema, ci sono soltanto persone che agiscono
in base alla necessità della progressione. Il ragazzino che
guarda dal fienile in cui ha dormito, Robert Mitchum che
passa a cavallo e che vuole ucciderlo, resta un’immagine
fondamentale per me. Perché c’è la verità del cammino,
della progressione: i bambini sono arrivati in barca, l’altro a
cavallo, procedono più o meno allo stesso ritmo...
119
altri linguaggi questa stessa esperienza del cinema. Mi raccontere
sti di questo tragitto culturale?
120
geniali questi film e ci rivedo ancora noi tre, una domenica,
giorno di uscita, arrivare in ritardo al cinema perché aveva
mo sbagliato la corrispondenza del metrò, mentre i titoli di
testa dei Racconti della luna pallida d'agosto scorrevano già
sullo schermo... Fui preso da sacro terrore. Quello che ho
vissuto in quella situazione non è cosa da poco e spiega per
ché mi sono sempre obbligato ad essere l’educatore di me
stesso: nessuno aveva assunto quel ruolo nella mia vita, e in
seguito non ho più lasciato che qualcuno lo assumesse.
Tua madre e tua nonna non hanno mai pensato a una specie-di
scommessa, a una promozione sociale: che tu avresti fatto strada?
ti
tarmi le domande e dare le risposte. Avevo dovuto instaura
re a casa il concetto stesso di cultura. E non poteva essere la
cultura borghese, ma quella del mondo intero, per esempio
quella che passava per la Storia del cinema di George Sadoul,
l’unico libro che mi abbia fatto sognare sul cinema, nono
stante tutte le sciocchezze e le cantonate che contiene. Per
me la cultura non è ciò che mi offre la società — ecco la dif
ferenza fondamentale tra te e me — ma ciò che mi offre il
mondo. Poi c’è stato il cinema. Era escluso che mi dicessi
freddamente che, grazie alla cultura, avrei sconfinato in
quel mondo accanto al quale ero nato. La società borghese è
sempre stata il nemico, e comunque l’ho sempre guardata
con diffidenza — «non sono amici», come dicono i personag
gi di Renoir. Prima ancora dell’amore per il cinema, pensa
vo già che non ci sarebbe stata cultura senza la promessa di
una civilizzazione totale, in tutti i sensi e in ogni tempo, in
cui io sarei potuto essere l’educatore di me stesso, colui che
scopre le domande e nello stesso tempo le risposte. Quando
iniziai a leggere con passione «Arts», la rivista diretta da
André Parinaud, mi capitava di fare delle piccole tavole
sinottiche, come nella Pleiade, con delle colonne: pittura,
letteratura, musica, cinema. Catalogavo le informazioni
contenute in «Arts» in modo bizantino. Essere a tal punto
privato del simbolico nella formazione ha dell’incredibile e
mi stupisco di essere diventato solo un innocuo perverso e
non un grande criminale. Avendo goduto dei benefici
deH’immaginario edipico incestuoso, era logico che cercassi
in seguito ciò che fa legge, ciò che fa fede. Incestuoso due
volte poi, perché mia nonna aveva grande autorità su mia
madre, un’autorità esistenziale. Tutto si arrangiava, si nego
ziava tra donne, era una tribù molto consapevole di essere
diversa dai vicini (i vicini erano l’altrove assoluto).
122
soldi, pochi, poi ha smesso. Mi comperavo i vestiti al mer
cato delle pulci, era il periodo delle giacche di velluto, le
trovavo fantastiche, non c’era niente di meglio. Ho sempre
pensato in modo assoluto e immediato che i problemi
finanziari non avrebbero angustiato la mia vita, ho sempre
avuto i desideri e i piaceri che ero in grado di offrirmi.
Tutto il periodo legato alla Cineteca era al di poco dispen
dioso: metro, biglietti ridotti, caffè. Rientrando alle quattro
del mattino, trovavo sempre qualcosa da mangiare lasciato
mi da mia madre. Sono vissuto senza badare al denaro.
Altrimenti, non avrei potuto accettare il primo ridicolo
salario dei «Cahiers»...
12S
questa promessa fosse fatta di nomi propri, che i nomi pro
pri a loro volta fossero la promessa di un’esperienza che si
poteva fare o non fare, e che tutto ciò circolasse in un
mondo che non chiedeva di vedere. È tutto un problema di
fede: quando le persone erano più religiose, non si poneva
loro la questione della realtà, né quella di fornirne delle
prove. Era possibile l’ipocrisia assoluta. Dopo Flaubert, la
cultura ha permesso qualcosa di simile, le menzogne. È
questo uno dei motivi del mio attaccamento ai film di
Straub, per I’ammirazione e un po’ per il terrore per qualcu
no che dice: procederemo passo a passo, andando a prendere
le persone là dove sono...
124
un’esperienza che bisogna fare passo a passo ed esigendo
molto. Vent’anni fa Straub e Huillet denunciavano i
magnaccia della cultura, la stessa cosa che fai tu oggi par
landomi della televisione e del suo generalizzato ius primae
noctis; la situazione è la stessa e non solo è ancora valida ma
si è anche aggravata. Gli operatori culturali e i circuiti di
diffusione esercitano ormai un ius primae noctis senza nem
meno saperlo.
Per quanto riguarda la mia origine gloriosa nella cultu
ra, alla mia auto elezione avvenuta tra i «Concerti brande
burghesi» e gli impressionisti sono costretto a dire c’è un
momento di svolta. Perché scegliere il cinema, se ero più
portato ad essere professore di lettere? Nel cinema degli
anni Sessanta, non c’era forse ancora la geniale idea di una
cultura clandestina all’interno della grande cultura in cui il
cinema era già entrato? Volevo ancora una volta evitare la
società, o piuttosto, avevo ancora il desiderio di attraversar
la a partire da una delle sue grandi produzioni popolari,
anche se completamente sottovalutata. Era questo: scegliere
i western americani, le comiche, o tutto ciò che è considera
to parte della cultura popolare e metterli al loro vero posto,
e cioè molto in alto. Voleva dire parlare di L'alibi era perfetto
citando Heidegger. Voleva dire Rohmer che parlava di
Hitchcock, considerato all’epoca una mezza calzetta, utiliz
zando Kierkegaard. Mi sono lanciato nella scommessa di
riconoscere nel cinema da un lato il suo essere popolare e
dall’altro una potenzialità illimitata verso i vertici della
cultura. E non avrei potuto fare questa scommessa né con
l’opera né con il teatro.
125
Shakespeare, di vedere 11 trapezio della vita prima di aver
letto Faulkner: farsi una cultura attraverso gli ambiti che il
cinema poteva incrociare, gli adattamenti dei libri, ecc.
126
oggi, mentre siamo qui a discuterne, ha l’aria di una sorta
di patriottismo difensivo: non vogliamo che qualcosa scom
paia. Come se la memoria del XIX e di tutto il XX secolo
fosse racchiusa lì, e non altrove, e ci fosse dato il compito di
non perderne il filo, sapendo che qualcosa sta per infranger
si, che è lì e che non siamo ancora in grado di recuperarla.
127
Forse il grande cinema francese era un po' troppo aristocratico
nella sua essenza: Renoir, Bresson, Ophuls o Tati, sono registi
abbastanza lontani dalla piccola borghesia.
Cinema e comuniSmo:
appello per una contro-società
128
preoccupava, non la incontravamo mai sulla nostra strada.
Detto questo, dal momento in cui iniziò una politicizzazio
ne reale, il modello di pensiero è stato il marxismo, come se
ci avesse impregnato, data l’epoca in cui vivevamo. A mio
parere vi abbiamo aderito, me compreso, in modo più sel
vaggio, più totale di quanto pensassimo. Erano i resti anco
ra vitali di un modo di pensare con una grande qualità,
quella di avere una risposta per tutto. Ciò che ho apprezzato
di più nel marxismo era che poteva sì parlare dell’essenzia
le, dei fini, dell’essenza delle cose, ma nel dettaglio mante
neva una specie di enigmaticità sulla conoscenza dei proces
si. Mi vergogno a dirlo, ma mi è molto piaciuta una certa
letteratura marxista-leninista, estremamente dogmatica,
che abbiamo letto e pubblicato, perché conteneva l’idea di
un sapere sulle mete e sulla nostra identità. Mi affascinava
l’idea che in qualsiasi intervento ci fosse questa esperienza
di lotta contro il nemico, di possibile ritorno critico, di
analisi di un processo. Era un po’ come ciò che dicevo
prima a proposito del camminatore: il non volere che il pae
saggio ci si riveli tutto immediatamente, rimandare questa
esperienza a dopo, preferire piuttosto soffermarsi a pensare
su come si procede verso un’immagine o un paesaggio.
Ahcora e sempre la storia del carrello di Kapò'. come andare
verso un’immagine? Anche sul terreno totalmente inaridito
di una teoria quasi teratologica, una sorta di dialettica
impazzita su se stessa, in cui è possibile includere nel pro
cesso di indottrinamento la non-dottrina, pensavo di ritro
vare tutto questo, il che mi procurava una certa erezione
intellettuale. Ammiravo chi era capace di fare bilanci, criti
che o autocritiche, li trovavo talmente seri, patetici e ridi
coli, da credere che un giorno ne sarebbero state tratte delle
commedie. Quel giorno sfortunatamente non è mai arriva
to, salvo con Nanni Moretti. C’era una specie di sinistra
bizzarria nel modo di pensare la contraddizione di per se
stessa, e nel pensarla in modo così retorico, preciso e sottile
che alla fine 16 parte messa in dubbio diventava più impor
rante della parte ormai acquisita come credenza, dogma o
vulgata. In altre parole: Dio scrive dritto ma seguendo linee
curve. Queste discussioni non chiamavano mai in causa i
129
fini ultimi, ma offrivano il godimento della contraddizione,
diventata quasi un fatto erotico. Ti ricorderai che nel nostro
redazionale di rottura con la linea precedente dei
«Cahiers»16, avevo accennato al Medio Evo, dicendo che
alcuni avevano cavillato su delle disputalo. Solo la nostra
ignoranza della storia ci fece credere di aver inventato qual
cosa. È una tradizione consacrata sulla quale le persone sono
molto informate. Non ho mai creduto invece alla parte
escatologica del marxismo, cioè il sol dell’avvenire, la libe
razione dell’uomo, non per il fatto di aver soppesato i pro e
i contro o di pensare che l’uomo sia malvagio, ma perché è
un ambito che non mi interessa assolutamente. Questo mi è
apparso chiaro nel corso del tempo, una mancanza assoluta
di immaginazione, che spiega questo miscuglio di eccessiva
severità e di totale incuranza, che mi ha condotto a credere
soltanto all’emergere fenomenologico delle cose, che mi
soddisfa pienamente: dopo la pioggia viene il sole, dopo il
sole viene la pioggia... Forse è una forma di stoicismo, ma
fin da piccolo, quando al catechismo sentivo parlare del
paradiso, ero disgustato dall’idea che si facesse ricorso a
favole così infantili, quando era evidente che l’eventuale
dignità dell’uomo consisteva nel fare il bene senza preten
dere ricompense. Era già una specie di antica rivolta contro
l’idea di mercanteggiare la vita concreta, l’hic et nunc, con
una promessa che non mi ha mai interessato. Ciò che mi ha
salvato dalla religione è stata semplicemente l’idea che
l’altro mondo è questo, non quello che gli altri dicono di
sognare o desiderare, Yarrière monde di cui parla_Nietzsche,
cui non credeva neppure lui, i mondi migliori, il sole
dell’avvenire, il paradiso sulla terra... Questi discorsi mi
sono sempre sembrati patetici, qualcosa di vergognoso.
Forse è dovuto al fatto di avere l’impressione di essere stato
ripescato in extremis in questo mondo, quindi che questo
mondo esiste ed è dalla parte della ragione. Bisogna solo
farci una bella figura, senza rimetterci troppo, ma questo è
già l’altro mondo. Se le promesse che dovevano realizzarsi
nell’aldilà o sulla terra non mi hanno mai interessato, vole
vo tuttavia condividere con gli altri il piacere del processo
in corso, quello di trovarmi lì e vedere a come pensare il
130
reale. Questo non ha nulla a che vedere con la filosofia
marxista, anche perché non sono filosofo... C era poi
un’altra cosa del marxismo che mi intrigava, era il senso
della Storia. Il marxismo manteneva, assolutamente tragico
e vitale, un senso della Storia che mi ha sempre appassiona
to: quello della mia storia personale, di ciò che le mancava,
quello della storia della Francia, di questo contenzioso mai
chiarito. Il marxismo portava con sé un romanticismo che
mi piaceva molto.
131
riconosce o combatte, con l’idea che un giorno, più tardi,
sempre più tardi, accadrà quel che deve accadere. Questa
contro-società ha tuttavia il vantaggio di essere sempre una
società; credo ci fosse, nella scelta dei «Cahiers», in quel
modo di condividere quel modo di essere cinefilo, nella
volontà di stare nella Storia (quella gloriosa e recente della
Nouvelle Vague che la rivista rappresentava), la volontà di
far parte di una contro-società che aveva tutti i vantaggi di
una società, con le sue amicizie, le sue passioni, le sue rot
ture. Così ho dovuto fare un innesto, su un tronco comune,
di cinema e comuniSmo. Trascendere i nazionalismi e pro
mettere: il cinema prometteva agli uomini, a tutti gli
uomini, un accesso a un mondo senza differenze, mentre il
comuniSmo prometteva una liberazione graduale dell’uma
nità... In attesa che ciò si avverasse c’era una contro-società,
piuttosto eroica, devota, coraggiosa e disinteressata, pronta
a tutto, anche alla menzogna nel nome stesso della verità a
tutti i costi. Torniamo così al solito discorso su mondo e
società; quando parlo di mondo qualcosa in me si apre (nel
senso di Heidegger o di Merleau-Ponty), quando parlo della
società quella stessa cosa si chiude. Il cinema non faceva
parte della società, il comuniSmo neppure. Era la caratteri
stica di entrambi, che avevano fatto la storia del nostro
secolo, e il marxismo era il braccio disciplinare. Per chi
allora avesse avuto a cuore le idee e fosse dotato di spirito
sistematico era molto eccitante, un esercizio quotidiano di
dialettica, come testimoniava il film di Godard-Gorin Lotte
in Italia. C’era qualcosa di agghiacciante, ma non senza
grandezza, questo giansenismo della contraddizione ridotta
ormai in se stessa. Questo riconduce senza dubbio a Straub
e Godard, ma mi ricordo che avevo chiara l’impressione che
gli Straub facevano appello a un potere politico di cui
sarebbero stati le prime vittime. Sembravano fregarsene,
per una sorta di masochismo che, come sempre, ha una
parte di godimento, derivante dalla possibilità di vedere la
dialettica della natura e quella degli uomini formarsi sotto
ai nostri occhi, questa specie di sogno che nessuno ha mai
voluto seguire più di registi come Straub e Godard. Come
artisti, traggono ispirazione dal materialismo e poi inciam-
132
pano nel miracolo. 1 registi che contavano per noi all’epoca
e che sono ancora importanti (aggiungerei Robert Kramer)
erano travolti da questa follia, a mio parere pericolosa, per
ché è pericoloso concepire i processi unicamente come fini a
se stessi. Questo ci portava molto vicino alla scienza (vedi
Godard) dove non c’è differenza tra un uomo e una donna,
tra una cellula e l’altra. Cera in noi un sentimento maso
chista, neppure tanto brillante, che si nutriva del desiderio
di soffocare l’Arte, avvicinandoci alla Scienza e al mistici
smo. Sì, soffocare ciò che era rimasto in noi di una certa vel
leità artistica. È un bilancio un po’ duro, lo so, ma sono
convinto che nessuno di noi nutriva veri desideri artistici, o
pulsioni sufficientemente forti da approfittarne per uscire
da tutto ciò. Abbiamo preferito vagare nel modo sinistro e
sacrificale, che ci porterà a sparire come gruppo e come
individui, piuttosto che correre il pericolo di rivelarci arti
sti inferiori a coloro che ci avevano preceduto. Bisogna
anche dire che i maestri del passato ci avevano un po’
schiacciati.
Tutta la vicenda assume contorni un po’ vili, come in un
film dei Taviani. Non discuto la scelta della Cina, piuttosto
barocca a mio parere, quello che mi dispiace è che abbiamo
lasciato passare del fascismo puro e semplice: la Grande
Rivoluzione culturale proletaria. È fastidioso perché non ci
permette di fare la morale agli altri. Per onestà verso me
stesso, non dimenticherò mai a che punto i miei interessi
nevrotici e la passeggera debolezza del mio io, abbiano tal
volta preso il sopravvento, come se avessi abusato dello stra
no atteggiamento, di cui ho parlato prima, che avevo nei
confronti del cinema, del mondo, degli altri. Ad un certo
punto il prezzo da pagare è divenuto insostenibile. L’ho
pagato facendo i «Cahiers», in seguito... Non è diffìcile,
allora, capire, su scala molto più grande, come delle persone
intelligenti, degli intellettuali tra i più raffinati, abbiano
anteposto il loro godimento personale alla pratica di un
minimo budn senso. Penso che la mia politicizzazione sia
stata frivola, ma nello stesso tempo inevitabile nella forma
in cui è avvenuta. Ero talmente ai margini, che il far parte
di una banda di sublimi emarginati non mi creava alcun
in
tipo di problema, anzi, mi soddisfava più di una possibile
riconciliazione con il mio tempo. E poi, come viaggiatore,
la Cina mi faceva sognare. L’ho veramente sognata: mi
vedevo su un aereo diretto in Cina e mi veniva il batticuore.
Quando ci sono andato per davvero, nel 1980, ho avuto la
netta sensazione, ridicola, ma reale, di essere l’unico dei
«Cahiers» ad essere andato a portare le mie scuse, come se il
mio arrivo avesse voluto dire: scusatemi.
Negli anni Settanta, nei tuoi discorsi e nei tuoi scritti, il «noi»
prende il sopravvento, un noi vagamente sacrificale. Non era pro
priamente il tuo stile...
134
Dall’esperienza dei «Cahiers» a quella di
«Liberation»
135
gli amici, lasciando per un attimo le loro faccende, dicendo:
«Cos e questa storia, presto, andiamo a spaccare il muso a
chi si è comportato male con il nostro amico». Non era una
cosa grave in sé, ma non ho proprio trovato nessuno. Oggi,
se non fosse per la malattia, ci avrei già messo una pietra
sopra, per ritrovarmi ancora più solo di prima. Forse sono
abbastanza forte per restare da solo... Un giorno, capisci che
ognuno pensa solo a salvare la propria pelle, è la vera essen
za delle persone. Questo ideale, sul modello dei Tre moschet
tieri, è la mia coscienza politica. Politica come sogno di
un’alleanza tra persone diverse. Dopo il 68, i diritti
dell’individuo erano balzati prepotentemente in primo
piano e l’ideale non consisteva più nell’allearsi con persone
che ti assomigliavano in tutto, ma nell’imparare a tessere
alleanze più raffinate, su ideali trasversali. Questa è stata la
grandezza degli anni Settanta, nelle idee e nel costume, una
grandezza un po’ aspra che ha ecceduto i limiti.
136
chezze. Abbiamo rischiato di affondare la nave. Poi l’abbia
mo rimessa in sesto e la rivista è sopravvissuta. Il paradosso
è che tutto ciò che avevo in qualche modo fallito ai
«Cahiers» l’ho realizzato a «Liberation», che è stata quindi
il rovescio positivo di tutto questo pesante lavorio. Ma era
necessario che passassi attraverso l’«auto-iniziazione» dei
«Cahiers» per capire all’improvviso che... È come quando
un incubo, un brutto sogno svanisce e ci si chiede perché il
temporale è passato. Presto, mi sono reso conto che era più
semplice scrivere «io» a «Liberation» e soprattutto che
avevo un enorme arretrato di scrittura. Tutto quello che
avrei dovuto scrivere nei dieci anni precedenti è allora
emerso. Bisogna anche dire che ero riuscito a costituire una
redazione di cinema per 1’80% omosessuale, e questo cam
biava assolutamente le cose.
Pudibondi «Cahiers»...
137
Insomnia hai preso la parola «libération» alla lettera.
138
principio che un paese in cui non è possibile prendere un
caffè con chi si vuole non è un paese libero e non merita di
essere difeso.
C’è una cosa fondamentale, che tengo a dire perché è
universale e mi ha protetto, per tutta la vita, dai veri grandi
sbandamenti o dai veri grandi naufragi, una cosa che mi ha
permesso, come Thomas l’obscur di Blanchot di non nuotare
mai al centro della piscina, ma... È un senso di protezione
che ho avuto fin da piccolo, la certezza che ogni esperienza
appartiene in assoluto solo a chi l’ha vissuta. Nessuno gliela
potrà togliere, per quanto sia inutile o appassionante, costi
tuisce comunque un bene inalienabile. Anche quando mi
sono ritrovato senza nulla da fare, questa sensazione non mi
ha mai lasciato: non vivevo le stesse esperienze degli altri
nello stesso momento. L’essenziale è conservare la ricchezza
di questa esperienza, non sminuirla, è il nostro unico bene e
se ne siamo profondamente convinti, ci risparmiamo l’invi
dia, la gelosia, il risentimento, il fascismo, tutte cose che
rendono impossibile la vita. La mia fortuna è stata forse
quella di essere impermeabile all’invidia. L’unica cosa che
mi interessa è capire come gli altri se la cavano, conoscere i
loro parametri di giudizio, i problemi che devono affronta
re, le mete che si prefìggono, e a che cosa porta tutto que
sto. È una cosa che io e te abbiamo in comune, che ci avvi
cina: il domandarsi che cosa faccia da motore in un indivi
duo, nel soggetto. Questa specie di pettegolezzo teorico mi
appassiona fortemente. Perché la forza del cinema è stata
proprio quella di offrirci magnifici accessi ad altre esperien
ze, diverse dalle nostre, permettendoci, per qualche secon
do, di condividere qualcosa di assolutamente nuovo. E ciò
che si vive in comune è appunto questa manciata di secon
di. Sono riconoscente al cinema perché ha realizzato un
sogno che avevo fin da bambino: ciò che faccio ora, in que
sto momento, sono io il solo a farlo, a vederlo e ad averne
coscienza. Ed è giusto lottare contro l’ideologia cristiana
proprio perché sottrae all’individuo una protezione minima,
l’idea che ci sono solo le esperienze che viviamo e che siamo
noi a viverle. La storia del nostro secolo, con tutti i suoi
orrori, è anche la storia di coloro che non hanno visto, che
139
non si sono fidati di ciò che vedevano, di ciò che ascoltava
no, a costo di milioni di vite. Questo non basta, non impe
disce di essere ingannati o illusi, ma è bene ricordare le
parole di un Godard rattristato quando, nelle sue Storie del
cinema, chiede: non si può guardare un’ultima volta ciò che
le persone non hanno potuto o voluto vedere e ciò che è sca
turito dal loro rifiuto di vedere? Questo lato positivo
dell’egoismo rimanda al materialismo antico. L’altro lato è
religioso e attingo anche da quello: le persone hanno biso
gno di intercessori, di traghettatori, di preti, pur sapendo
che anche tra di loro potrebbero esserci dei mascalzoni. Ad
un certo punto abbiamo bisogno di qualcuno, non possiamo
essere arbitri del nostro proprio godimento.
Beh, sì. Alla fine della mia vita sto diventando una spe
cie di guru cui le persone fanno visita in segreto per rifarsi
una bellezza... Ho desiderato tanto raggiungere questo
stato, ho fatto in modo che mi capitasse, ma soddisfa solo
una parte di me, quella del camminatore clandestino.
Soffoca invece quella della riconoscenza pubblica.
Generalmente le persone che mi vengono a trovare mi
dimostrano riconoscenza solo in modo segreto. Questo mi
mandava in collera l’anno scorso e di riflesso tu andavi in
collera per il fatto stesso che mandasse in collera me. Le
persone che vengono a dirti segretamente che ti hanno scel
to per maestro, che ti ammirano o che ti considerano essen
ziale, fanno sicuramente giacere ma il giorno che hai biso
gno di loro, scompaiono. È il prezzo da pagare ed io ho quel
che mi merito. Con la mia persona, più che con la mia
parola o i miei scritti, rappresento una certa purezza nel
rapporto con il cinema, un certo rigore, e per molti questo è
estremamente importante, ma non ho alcun diritto di trarre
soddisfazione dal fatto di essere il loro maestro spirituale: è
una forma di scambio da cui non ricavo granché.
140
Con te mi capita spesso di provare la stessa sensazione che avevo
con Godard: quella di trovarmi di fronte ad un amico che ammi
ro, che mi piace ascoltare, ma di cui non so bene come seguire il
percorso intellettuale. Avete un’aura di santità, seducente,
attraente, ma assolutamente incondivisibile.
141
Tutto ciò che si trasmette è così: prima si è impregnati di
una musica, poi di una lingua, poi di una voce, poi trovi gli
argomenti e ti dici: finalmente capisco, ma di fatto hai
sempre capito.
142
Cinema e televisione: andata e ritorno
143
quale ho rinunciato smettendo di occuparmi di cinema per
«Liberation», non credendo più al suo spensierato ecumeni
smo. Oggi bisogna ricollocare il cinema, e il cinema solo, in
una storia non più sincronica ma diacronica: da qui l’idea di
creare «Trafìc». Da quando la Storia è scomparsa, c’è un
ritorno dello scrupolo storico: si ripropongono a noi in
modo più obbiettivo le questioni della genealogia, dell’ori
gine. Anche se la storia del cinema oggi mi sembra appas
sionante, preferirei che la si facesse con la grotta di Lascaux
e Nadar, più che con Bernard Dufour e Jean-Cristophe
Averty17. Sono accostamenti nuovi, perché il cinema, per
funzionare bene, deve essere associato a campi diversi: sem
pre questa idea del cinema come arte impura... Non sono
poi tanto sicuro di sapere che cosa intenda Bazin per arte
impura, ma so che cosa intendo io: la verità del cinema è la
registrazione; allontanarsene significa uscire dall’ambito del
cinema. Solo ciò che è stato registrato può avere una storia
consacrata. Non bisogna aver paura di mettere in rapporto
quest’ arte della registrazione con una storia più antica
deH’immagine nelle società occidentali, passando per la teo
logia... Non mi aspetto nulla da un cinema che si nutre solo
di se stesso, e che nei casi migliori porta ai film di Alain
Corneau. Non basta. A «Liberation» sono stato forse arro
gante e viziato, perché godevo di una totale libertà; in
fondo, avrei potuto avere l’umiltà di continuare, finché i
miei scritti fossero diventati un «caso», ma ho sentito che
per le persone cominciavo a rappresentare una sorta di pre
senza simbolica e vigile ed era fuori questione che diventas
si una specie di Monsieur Cinema o non so che altro.
144
conto a nessuno. Con Jean-Claude Biette, e Louis Skorecki
non abbiamo scelto questa direzione. Abbiamo scelto il
cinema con cognizione di causa, consci del suo inesorabile
destino commerciale, prendendo sempre le parti dell’artista
contro il produttore — l’artista era sempre l’eroe della storia.
E la bellezza nasceva sempre da ciò che il cinema riusciva a
cogliere da materiali eterogenei, impuri, da cui avrebbe
fatto sbocciare una bellezza inattesa. Mi è sempre piaciuta
l’idea che il cinema si facesse con tutte quelle cose che io
controllavo così a fatica: il denaro, le necessità orribili e vol
gari del commercio, i desideri dell’uno o dell’altro su una
ripresa, le star e i loro capricci, l’esigenza di animare una
troupe, di domarla o di sedurla, il legame con il tempo,
l’obbligo di pianificarlo, di fare programmi... Tutto questo
serve per fare un film, nient’altro che un film, di cui è pos
sibile scegliere poi questo o quell’elemento e farne ciò che
si vuole. È un amore per il cinema, quindi, che nasce dal
suo essere una pratica impura, sul fondo di una grande sfi
ducia verso le altri arti, condannate alla purezza a causa
della rarefazione della volgarità che è propria della doman
da e della risposta pubblica. Ho creduto che la televisione
offrisse lo stesso scenario, più grande e amplificato? Ciò che
è certo è che la televisione non ha niente a che vedere con
l’impurità, ma si colloca nel lavorio a cielo aperto
dell’inconscio della società. Non c’è in essa abbastanza
amore da permettere di associarle un desiderio perverso di
lettura, o di analisi dei segni, come invece il cinema ci invi
ta a fare. Oggi ne sono convinto, ma all’epoca eravamo
ancora molto semiologi o almeno influenzati dalla semiolo
gia. L’insegnamento di Barthes è stato seguito in modo
pedante, anche tra di noi: dato che le immagini sono dei
segni, abbiamo tutto il diritto di aggirarle, di rivoltarle,
senza tanti riguardi perché un segno è semplicemente un
incrocio di codici. All’epoca non ci preoccupava il fatto che
la televisione producesse segni e retoriche in quantità.
Molti hanno pensato che potesse diventare l’equivalente del
cinema, con il pretesto che adempiva alle stesse funzioni a
livello di massa, pronti a rimangiarsi i propri gusti estetici
e ad accettare di passare dalla raffinatezza estrema della
145
messa in scena di Hawks all’insulso appiattimento di un
telefilm. Rischiavamo così, in nome di una sorta di maso
chismo, di rinunciare a ciò che era il nostro unico bene. In
questo rapporto con la televisione, l’esercizio consisteva non
tanto nel voler amministrare delle bellezze, ma delle verità,
cioè delle posizioni giuste in rapporto a un materiale poco
elaborato, molto dogmatico e triviale. Quando sono arrivato
a «Libération» mi ricordo l’incredibile atteggiamento di
Michel Cressole e Guy Hocquenghem che consisteva nel
guardare tutto, senza alcun metodo, con un unico criterio:
ci piace, non ci piace, è da prendere, da lasciare, detestiamo
quel presentatore e lo cestiniamo. Non c’entrava alcun rife
rimento a qualche verità, poiché la sola verità è che la tele
visione invita al gioco al massacro. Questo comportamento
aveva il vantaggio di ridimensionare la televisione alla sua
natura di oggetto degno di interesse, evitando così sia il
disprezzo che l’adorazione, due atteggiamenti complici che
non portano a nulla. Dopo di loro Skorecki ha tentato
disperatamente di applicare alle serie televisive quello che
aveva già sperimentato sui film ai «Cahiers». Scrivere para
dossalmente cose giuste su serie televisive, quando quelli
stessi che le seguono e le approvano, senza valorizzarle, sono
lettori totalmente disinteressati, e servirsene rabbiosamente
come macchina da guerra contro la cultura borghese nobile,
posso anche capirlo. Solo che il progetto è arrivato troppo
tardi e ha trasformato il suo sostenitore in un merdoso
misantropo. Ad ogni modo io /avrei smesso di scrivere di
televisione. Quel che è strano è che da un lato io sono più
forte di lei, da un altro è lei la più forte e queste due forze
sono eterogenee. Basta guardare una trasmissione qualsiasi
per ricordare la metafìsica occidentale, con prove alla mano,
constatando che la televisione non è mai elaborata. La sua
forza sta nel fatto che quelli che la fanno vivono nell’impu
nità e possono tranquillamente lasciar ululare una povera
iena dattilografa. Vivono nell’impunità maliosa, tanto che
ad un certo punto abbiamo temuto che sia impossibile vin
cere questa guerra, che ha consegnato Godard a un’epoca,
quando diceva che bisognava prendere la televisione o in
quanto sorte comune o in quanto unico spazio pubblico,
146
anche se pieno di spazzatura, e che si può ormai lavorare
solo a partire da esso. Oggi bisogna lasciare questo approc
cio ai sociologi o agli statistici, a tutti i «signor Homais».
Sono stato costretto a convincermi del fatto che solo al cine
ma potevo continuare a cercare il seguito di questa storia
politica dell’impurità c-he fa di noi dei cittadini. Pensavo
che il cinema si rivolgesse a dei soggetti o che aiutasse a
costituire dei soggetti, attraverso una specie di lenta psica
nalisi collettiva e che, dal canto suo, la televisione, nel
migliore dei casi, potasse contribuire al rafforzamento del
cittadino, che costituisce tutt’altro problema poiché chiama
in causa canoni estetici diversi. Riassumendo, non mi sono
mai aspettato dalla televisione un seguito del cinema nel
cinema, se non dalla periferia: non ho mai prestato molta
attenzione all’underground o al video, consapevole che
potessero accadervi cose fantastiche, ma non in rapporto
dialettico con il cinema, a parte qualche singola esperienza.
Quanto alle nuove immagini, con cui ci rompono i timpani
da una quindicina d’anni, sono tornato marxista: c’è una
cosa chiamata mercato, che deve essere pronta ad accogliere
le vere e grandi innovazioni nel campo delle immagini e dei
suoni, che non si può ridurre allo stato del parco prodotti e
alla concorrenza tra Sony e Philips. Tutto si gioca ad un
livello puramente economico: è in corso una guerra di trust
per poter creare immagini nuove che promettono grandi
potenzialità ludiche, proprio all’interno dello spazio pub
blico, e che potrebbero meravigliare di nuovo le platee
come accadde cento anni fa con l’arrivo del treno a La
Ciotat. Eppure non si percepisce da nessuna parte il deside
rio di un nuovo Treno in arrivo alla stazione di La Ciotat.
Certi, con aria arrogante dicono che il cinema è sì molto
bello, con le sue vecchie lune e i suoi capricci, ma che tra
cinque anni le persone avranno grandi schermi interattivi.
Può darsi, ma bisogna considerare il tempo necessario alla
realizzazione, che mio parere sarà molto lento... Come
Bazin penso che alla base del cinema ci sia stato un deside
rio o un Bisogno assolutamente irrefrenabile, come un
incendio in una foresta, e che questo sia accaduto una volta
sola nella storia dell’arte. Ho combattuto in passato contro
117
questa idea, perché volevo che il cinema si iscrivesse in uno
svolgimento lineare del mondo, dopo la fotografìa e prima
della televisione o del video. Era un pensiero molto rassicu
rante, che prometteva un seguito. Ebbene, ci siamo sbaglia
ti ancora, come tutte le volte in cui abbiamo pensato in ter
mini lineari. In realtà, siamo in un giro di spirale, e il pro
blema non si pone oggi in termini di tecniche ma in termi
ni di un desiderio di massa di essere nuovamente meravi
gliati dal visuale e dal sonoro. L’unica volta in cui ho avuto
questa sensazione stavo guardando su Canal + La quatrième
dimension di Zbigniew Rybczinski, e sono rimasto di stucco
pensando che questo artista del video era in possesso dei
mezzi tecnici necessari per dar corpo ad un desiderio assolu
tamente profondo ed essenziale dell’essere umano. Sono
andato alla Géode per essere meravigliato e ne sono uscito
deluso. Non è escluso che ci troviamo in una specie di svol
ta infinita che impedisce alle tecniche esistenti di appro
priarsi del mercato, che ci sia un blocco dovuto alla guerra
economica. Se la Warner non si fosse comportata male nel
1928, il sonoro avrebbe potuto attendere qualche anno in
più, a causa di questa strana omertà. La bellezza del cinema
consiste nel fatto che è un’arte in cui Garrel compie gli
stessi gesti di Griffith, c’è come una sorta di memoria
antropologica dei gesti, per esempio quello di Ejzenstein
che fa scorrere con le mani un pezzo di pellicola per guarda
re... A fronte di questo desiderio di massa che non finisce
mai di avanzare, assistiamo allo sviluppo di tutte le retori
che dell’individuo e dell’individualismo, che passano dalla
pubblicità e che rivendicano continuamente il loro potere.
Il soggetto estetico è quindi l’individuo, quello che bisogna
riformattare e la pubblicità è lo strumento di questa rifor
mattazione.
148
come matrice estetica, la television? come luogo di applica
zione di massa. Può essere l’orrore o il futuro, ma è un vero
problema...
Vuoi dire quindi che ci sono poche speranze che il cinema ritrovi i
suoi tempi migliori.
0 un testimone...
I due cinema
149
cinéma», riguarderebbe solo i registi che hanno difeso una certa
idea del cinema contro il cinema stesso, sapendo che l’orizzonte era
solo un futuro industriale che lo allontanava dall’arte della ripre
sa inventata dai fratelli Lumière.
ISO
cinema (la più perfetta in questo senso era la Garbo, che
non esisteva fuori dal cinema, e il fatto che si sia fermata
così presto è segno che si è trattato di un periodo limitato),
e quelle che provenivano dal circo, dal cabaret, dal canto o
dall’opera... Una parte di cinema, che non abbiamo né
guardato né studiato, consiste semplicemente nella ripresa
più o meno tecnicamente corretta di uno spettacolo, rappre
senta una cultura popolare che non ha alcuna percezione
della macchina: poco importa che a muoversi sia un dise
gno, un quadro o una fotografìa. Per questo si può dire che
la cultura popolare abbia un fondamento mitologico, per
ché la mitologia è indipendente dai supporti, è una scatola
nera, non un processo. Ogni società ha delle immagini,
delle scene che vuole vedere a qualsiasi prezzo. Bisogna
sapere che in India, il pubblico nelle sale inizia a diminuire
leggermente, e stiamo parlando del più grande parco sale
del mondo, con sale che sembrano templi - ebbene, nei vil
laggi poveri, in ogni bettola guardano le videocassette. E la
stessa cosa sta accadendo anche in Asia: la perdita di defini
zione e di grandezza dell’immagine è abissale. Questo dà
ragione a Bazin: ci sono delle immagini pietose, sociali che
si vedranno a qualsiasi condizione. Questo relativizza le
argomentazioni di coloro che divinizzano la sala cinemato
grafica, il cosiddetto incontro con il popolo... Certamente ci
sarà stata nel passato un’osmosi tra il popolo e ia sala, ma
credo che il bisogno di immagini in una società sia molto
più brutale. Non fa parte della critica, non la chiama in
causa, è una funzione mitologica della società, che bisogna
utilizzare o studiare come tale. Certo, si può sempre dire
che ad un certo momento c’è stato Chaplin, attore e regista
allo stesso tempo. Se si deve essere per forza nostalgici,
bisogna esserlo di quel periodo del cinema: Chaplin,
Keaton, il burlesque americano, con questa duplice simul
tanea creazione, in cui il comico creava il mito sociale e
contemporaneamente la macchina per mostrarlo. Questo
periodo si è fermato con il sonoro. A essere generosi solo il
20% del cinema è stato interessante, quello in cui ciò che si
filmava contava molto meno del dispositivo di ripresa, in
cui l’interesse è spostato sulla macchina, sulla cinepresa
151
stessa e sugli effetti che può produrre, sulle possibilità del
montaggio, sul movimento. È l’unica parte di cinema che
permette di impostare un discorso storico, da Lumière fino
a oggi, passando da Dziga Vertov. Ad un certo punto nel
cinema la procedura di ripresa in sé è diventata affascinante
o intrigante, piacevole o fastidiosa per alcuni. Il resto fa
parte della ripresa di cose già acquisite, già maggioritarie,
già dominanti. Vista la mia storia personale, io non potevo
che avere rapporti con quel cinema in cui sei preso per
mano da qualcuno, l’autore, che ti dice: «Ecco io guardo il
mondo così, così mi ci ritrovo, vieni con me e ne avrai una
visione coerente».
152
della rete, un altro momento la messa in scena ci prende
per mano, ci dà il diritto di scavalcare la rete o di fare un
passante.
Quando si trasforma la messa in scena in un feticcio,
come faccio io, si sa che esiste una zona intermediaria, quel
la del limbo, che fa sì che guardando un film non si passi
semplicemente dalla vita reale a quella immaginaria, come
pensano un po’ ingenuamente i surrealisti, ma che c’è una
zona intermedia tra le due. E tutta la «politica degli auto
ri» non è stata altro che un mettere alla prova questo part
ner che è l’autore, che ci insegnerà a giocare. Per questo II
covo dei contrabbandieri è il più bel film della cinefilia, la ver
sione positiva di ciò di cui La morte corre sul fiume è la versio
ne malvagia: il ragazzino vuole a tutti i costi un padre, lo
sceglie e lo obbliga a comportarsi come suo padre, contro la
sua volontà, e si aspetta da lui delle lezioni di messa in
scena, cioè delle lezioni di topologia, di riconoscimento del
territorio. E una delle frasi più belle di questo film di Lang
è quella pronunciata dal bambino: «L'exercice a étéprofitable,
Monsieur». Il piccolo John Mohune decide di seguire
Jeremy Fox (Stewart Granger) esattamente come io decido
di seguire Fritz Lang. La figura dell’autore è un’immagine
paterna, ma il padre non esiste, ed è preferibile che non
emerga troppo perché non possa essere trasformata in un
feticcio. Non essendomi mai troppo interessato alla biogra
fia dei grandi registi, ho preferito dirmi che quando seguia
mo un autore nel suo modo di collocarsi nel mondo, rag
giungiamo un quantum di verità, diverso a seconda che si
tratti di Hitchcock, Lang o Bresson. Ecco che cosa è per me
la politica degli autori. Si pone in termini di accettazione o
di rifiuto: posso benissimo rifiutarmi di entrare in un film,
per esempio a causa del carrello di Kapò, non sono uno che
si lascia sempre prendere per mano. Ma se me la prendo
tanto con Pontecorvo è proprio perché qualcuno mi deve
tenere per mano< bisogna assolutamente che qualcuno mi
dica: mi dispiace ma questa inquadratura l’ho vista, l’ho
montata prima che lei arrivasse e gliela mostro. A me poi
spetterà di rispondere: il modo in cui la mostra mi fa venir
voglia di vederla, a mio rischio e pericolo, per far sì, in
I5S
seguito, che il film racconti la mia storia. Il cinema nel XX
secolo ha tuttavia inventato due cose dell’ordine dei concet
ti di Deleuze, dei concetti puri: quello di piano - non so
poi esattamente se lo si può chiamare concetto — allora
diciamo il piano e il fuoricampo (il piano può avere come
motore il fuoricampo). Pur avendo ragione ad occuparci di
queste nozioni negli anni Settanta, ne avevamo una visione
molto formalista, perché effettivamente creano degli effetti
di cristallizzazione, di bellezza, di rottura; ne leggevamo gli
effetti in Ejzenstein, che ne era piuttosto il teorico edonista,
che riservava per sé il godimento. Sono sconvolgenti in Tod
Browning, un regista agli antipodi di Ejzenstein, grande
almeno quanto lui. Freaks, in quanto a montaggio e
mostruosità, può essere considerato l’equivalente di Sciopero.
Ci sono quindi modi diversi, in tutti i sensi, di fare delle
inquadrature. Ai «Cahiers» non possiamo dire di non aver
visto sopraggiungere la scomparsa delle inquadrature. Oggi
è in una fase talmente avanzata...
IVI
di cui abbiamo avuto una concezione paradossalmente con
fusa e molto timida, modesta, negli anni Settanta, intorno a
questa idea della specificità del cinema. Il cinema doveva
per forza avere una sua specificità... Penso che sia un po’ la
stessa cosa con le nuove immagini: si finisce per dimentica
re che c’è stata, tanto tempo fa, una grande promessa subli
me, di cui si è dimenticato che debba essere sostenuta da un
desiderio. È stato così necessario popolare questo giusto
mezzo in cui ci troviamo e che rischia di durare a lungo. Ho
cercato di anticipare il seguito delle operazioni e questo ha
finito per stancarmi. Allora ho finito per accettare l’idea che
il cinema era o è stato un fatto talmente straordinario che
potevo, per esempio, fare una rivista trimestrale, che questa
ora faccia scrivere, che questa trasmetta così le esperienze di
qualcuno. Perché mi sono stancato di non vedere arrivare
nulla. Non ci aspettiamo uno stupore indimenticabile come
quello che abbiamo conosciuto. Non ci aspettiamo nulla di
indimenticabile. Siamo invece piuttosto inquieti all’idea di
un eventuale futuro orwelliano con grandi cerimonie audio
visive di massa, e telethon giganti trasmessi su grande
schermo. Sì, è il fascismo. Ci fermiamo?
155
NOTE
157
INDICE
Introduzione 15
PRIMA PARTE 21
Il carrello di Kapò 23
SECONDA PARTE 45
159
Con l’apparente leggerezza di una conversazione tra amici,
Serge Daney ripercorre in questo libro, in modo orgoglioso e
appassionato, la propria storia di cinefilo, anzi di cine-fìglio
come amava definire se stesso. Una storia che intreccia la vita
privata, i viaggi, gli amici dei «Cahiers» e di «Liberation»,
con gli eventi che hanno attraversato gli ultimi decenni e
soprattutto con l’amore per il cinema. .
È un racconto, quello di Daney, che insegna a «guardare», a
cogliere la verità e la morale delle immagini contro ogni facile
seduzione, a scegliere tra la moltitudine delle immagini e dei
film che guardiamo, quella singola inquadratura che c
segnerà per la vita.
Serge Daney, redattore capo dei «Cahiers du cinéma», respon
sabile della pagina di cinema e quindi editorialista per
«Libération», ha fondato nel 1992 la rivista «Trafic». Tra le
sue opere La Rampe (1983) e L'Exercice a été profitable. Monsieur
(1993). È morto a quarantotto anni il 12 giugno 1992.