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Prima edizione giugno 1995

Seconda edizione gennaio 1998

© Editrice II Castoro S.r.l., Milano, viale Abruzzi 72


Tutti i diritti riservati
E-mail: ecastoro@tin.it

ISBN 88-8033-038-1

Titolo originale: Persévérance


© 1994 P.O.L. Éditeur, Paris.

Traduzione di Silvia Pareti


Progetto grafico di Giorgio Bulzi e Antonina Taccori
Serge Daney

LO SGUARDO OSTINATO
Riflessioni di un cinefilo
raccolte da Serge Toubiana

Prefazione di Goffredo Fofì

Traduzione di Silvia Pareti


PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA

di Goffredo Fofì

Per molti anni, figlio di emigrati nella banlieu, poi con una
compagna che lavorava a Parigi, ho frequentato assidua­
mente la capitale francese e vi ho per qualche tempo vissuto.
Ho seguito le vicende e i contrasti interni alla critica cine­
matografica che lì si produce dapprima con passione, poi con
progressiva stanchezza, fino a lasciar perdere, ormai diven­
tato indifferente, tanto anche quel piccolo mondo cambiava,
conseguenza del cambiamento del mondo dello spettacolo, e
perdeva con la sua ragion d’essere la vivacità e lo smalto del­
le differenze, l’acume e l’ardore delle battaglie. Imbolsite e
superflue nell’evoluzione di un dibattito non più all’altezza
dei bisogni dell’epoca, ma solo della sua economia, le équi-
pes dei «Cahiers» e di «Positif» si scoloravano nel magma
della società dello spettacolo e del sistema corporativo del
cinema, e talora nell’albagia e nei bizantinismi delle carriere
universitarie (e comunque meno che in Italia). Con più pre­
tese, ma con la stessa sbrigativa superficialità morale.
Solo un appuntamento mantenni, più tardi, — in quei tre-
quattro giorni o poco più dei miei soggiorni francesi ogni
mese — ed era la lettura delle recensioni (di film e trasmis­
sioni TV), dei diari di viaggio, delle cronache e delle pole­
miche di un critico che davvero non mi sembrava uguale
agli altri , Serge Daney. Anche quando ero in disaccordo col
suo giudizio, una dialettica stringente e mai gratuita, una
provocazione costante dell’intelligenza, un’apertura di di­
scorso ad altro che il cinema, un richiamo a un sentimento
del cinema legato a un sistema di valori forti — non dichia­
rati, ma espliciti, evidenti — caratterizzavano per me
quell’appuntamento, di cui ho ritrovato il sapore a ritroso,
quando Daney è morto prematuramente, nelle raccolte dei
suoi scritti, e di cui credo di aver scoperto il segreto in que­
sto Perseverance, {Lo sguardo ostinato nella edizione italiana)
qui tradotto con grande tempestività.

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Questo (questa) Pergiurarne, c quale osa eli più di un libro di
cinema, così come Danry era qualcosa di pili, anzi molto di
più, di un crii ito cinematografico.
Daney si racconta in quest intervista colise io dell’occasio­
ne estrema che gli e offerta di spiegare a se stesso e agli altri
il proprie) percorso, umano e intellettuale. Sapeva di avere i
giorni contati. Malato incurabile, la i conti con la propria
vita, non solo con le proprie idee, e non ha nessuna inten­
zione di barare, ora meno che mai.
Nella letteratura prodotta dall’AIDS, molte sono le misti­
ficazioni possibili, sempre comprensibili e quasi sempre
accettabili: esiste, ed è tra i pochi giustificabili fino in
fondo, un narcisismo di chi sente sfuggire la vita, che però
produce - come è stato spesso dimostrato - cattiva lettera­
tura. Non tutti i testamenti dicono la verità, ma quello di
Daney — con la serena coscienza da parte dell’autore dei
propri limiti e dei propri meriti — riesce a farlo in modo
ammirevole. Non bara, Daney, e non si ammira allo spec­
chio; non rivendica e non si lamenta. Ricorda, afferma. Lega
la sua biografìa al modo di fare critica, di capire e di amare
il cinema. Quanti critici hanno una biografia? Quel che
innanzitutto colpisce e rende esemplare il suo percorso è
un’origine, è la storia di un approccio. Il cinema è stato per
il piccolo Serge, orfano di padre, cresciuto con una madre e
una nonna proletarie e incolte, una scoperta del mondo, ha
accompagnato e allargato la conoscenza del mondo, ha
introdotto all’universo della cultura e della conoscenza.
Anche di sé, se è vero — come nel più bel racconto che io
conosca sul cinema, non a caso su un bambino di fronte alla
magia dello schermo e nel buio di una sala - che «nei
sogni» (nelle proiezioni che il film stimola e propone)
«nascono le responsabilità».
Il racconto, che sarebbe probabilmente molto piaciuto a
Daney, è di Deimore Schwartz — altra biografia di bambi­
no povero, altra storia di un accesso alla cultura e alla
conoscenza, in altri anni, per il tramite del cinema. Non
voglio dire, come non avrebbe mai detto Daney, che solo
questo tipo di accesso, questo tipo di biografia rende
l’esercizio della critica più profondo, il lavoro intellettuale

io
più necessario. Dico che gli dà sale e gusto, che lo arricchi­
sce, e che lo strappa alla routine di una passione fredda, o ai
ritardi — nei cinéphiles — di uno sguardo senza più la grazia
dell’infanzia e invece con la goffaggine di un’adolescenza da
cui non ci si vuole staccare e che i privilegi delle società
occidentali permettono, un’adolescenza che ama perdersi
nel film, che dispone di chiavi d’accesso al film infatuate e
umorali, insufficienti quanto quelle tutta testa e teoria e
preoccupate perlopiù di non sentirsi al passo con le evolu­
zioni dei media. Cioè, che lo sappiamo o no, di un sistema
di comunicazione (del potere della comunicazione) consu­
stanziale al potere.
Daney scopre il cinema «adulto» molto presto, con una
proiezione di Notte e nebbia di Alain Resnais, e scopre con
essa il rapporto tra cinema e realtà, e tra cinema e storia. E
poi Daney è colpito da un articolo sul film Kapò di
Pontecorvo, scritto da Rivette per i «Cahiers» nel 1961, in
cui si sostiene che una certa carrellata è moralmente abietta.
Daney impara a guardare, si prepara anzi a una carriera di
«guardatore» di professione. Ma questa «carriera», questo
itinerario, questo viaggio, implica una costante riflessione
sul contesto del film, e su altri viaggi, nella vita e nell’arte.
Non ci sono grandi tappe in questa «carriera». C’è il ’68
con le sue ubriacature ideologiche di cui sanamente egli dif­
fida, ma con le quali tuttavia deve fare i conti (si chiamano
anche Godard, anche «Cahiers» quelle ubriacature); c’è una
cultura che diviene sempre più borghese; c’è la crisi di un
certo sistema di amicizie e la nascita di un altro sistema di
amicizie; c’è il passaggio dai «Cahiers» a «Liberation»; c’è
la televisione che ha messo in crisi il cinema, e con la quale
occorre fare i conti - mangiatrice di film, prosastica narra­
trice del quotidiano anche il più degradato —; e ci sono le
avventure del privato, le scoperte e le acquisizioni nonché le
solitudini del privato, la ricerca di una comunicazione che
non può certo avere come unico punto di riferimento il
cinema, o tantomeno l’ambiente del cinema; c’è l’eros (i
ragazzi, in giro per il mondo), ci sono le visioni, c’è l’eserci­
zio del pensiero. Che con tanto maggiore precisione si eser­
cita sul cinema in quanto lo confronta con altro, e in quanto
lo rapporta alla sua medesima storia, la storia di un’arte che
è l’arte del nostro setolo e t i ha segnato tutti. È uno spirito
libero, Daney, che si dà una disciplina, t hè si pone dei limi­
ti e dei fini. Bisogna saper vedere, bisogna saper leggere, e
bisogna anche saper interpretare, nel duplice senso di una
necessità di comprendere e di un dovere di esserci, di pren­
dere parte coscientemente alla storia della cultura del pro­
prio tempo - e direttamente o indirettamente, dunque, alla
storia stessa del cinema. Che riguarda anche chi ne è logi­
sticamente fuori, in platea, solo spettatore, e riguarda a
maggior ragione chi di questo sistema di produzione o
registrazione di immagini e di visioni è «guardature» per
scelta e per mestiere.
Quelle che Daney difende non sono le astratte ragioni
dell’arte, care alla critica bigotta e, di fatto, ipocrita e cala-
brache; sono le ragioni dell’autore — della «messa in scena»,
nel caso del cinema, ma dentro un sistema che cambia, e
che può anche uccidere, con la prosa della televisione e con
le «grandi cerimonie audiovisive di massa», la poesia del
cinema, il bisogno che ne abbiamo noi che di questa poesia
abbiamo dovuto e poi saputo nutrirci, e il bisogno che rite­
niamo ne abbia — cosciente o no - un pubblico, o una parte
di un pubblico possibile. Per esempio, un pubblico di gio­
vani di oggi e di domani cui la società dello spettacolo va
scippando un passato eredità di poesia e di storia e di
conoscenza, ma soprattutto di poesia che gli tocca, cui ha
diritto, che deve essere sua) e grazie a questo l’accesso a un
futuro non alienato, non «fascista»...
Guardando indietro, al tragitto di un trentennio intensa­
mente vissuto, e di enormi trasformazioni che probabil­
mente senza il cinema la parte migliore di due o tre genera­
zioni non avrebbe avuto modo di capire o di intuire, Daney
opera un rendiconto che vale per tutti, e vale non solo per il
cinema.
Pochi come lui, e solo lui con tanta lucidità e attenzione,
hanno saputo capire per esempio il passaggio dal film
all’emissione TV, l’uso del cinema in TV, il modificarsi
della ricezione del film, e l’influenza di tutto questo nel
linguaggio del film. Pochi come lui, dopo Bazin (suo-

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nostro maestro, esploratore di sentieri inediti per entrare
con la poesia nella modernità e affrontare Poltre), hanno
saputo parlare dei film e dei loro autori con altrettanta tra­
scinante capacità di penetrazione riuscendo a mantenere
una purezza di sguardo, che sembra essere miracolosamente
rimasta quella del ragazzino di un tempo. Un modo di
affrontare la storia e il racconto della storia, la storia del
nostro tempo (da Notte e nebbia a Kapò), e un modo di entra­
re nella dimensione più alta della cultura, della trasmissio­
ne della cultura, rimanendo nella dimensione dell’infanzia e
dei suoi bisogni. Due film hanno segnato in Daney questa
«visione», pieni di crudeltà e pieni di poesia come, avrebbe
detto Bazin, dovrebbe essere dei veri capolavori: La morte
corre sul fiume di Charles Laughton e II covo dei contrabbandie­
ri di Fritz Lang, due capolavori che hanno al centro lo
sguardo di un bambino, di un «guardatore» bambino. «Il
covo dei contrabbandieri è la versione positiva di ciò di cui La
morte corre sul fiume è la versione malvagia: il ragazzino vuole
a tutti i costi un padre, lo sceglie e lo obbliga a comportarsi
come suo padre, contro la sua volontà, e si aspetta da lui
delle lezioni di messa in scena, cioè delle lezioni di topolo­
gia, di riconoscimento del territorio.»
La figura dell’autore, dice Daney, è un’immagine paterna,
ma il padre non c’è; c’è nel film di Laughton un padre abu­
sivo che vuol derubare il bambino dell’eredità che gli spet­
ta, che vuole soffocarlo, e c’è un padre che ci si inventa e
che si sceglie, da cui si esige (si ha il diritto di esigere) la
poesia e l’indicazione di un futuro possibile e dei modi per
affrontarlo. Ma è proprio alla fine della sua vita, e del suo
libro, del suo testamento, che Daney parla della decisione
di assumersi le responsabilità del padre — rifiutando o supe­
rando la cinefilia dell’adolescente, o l’adolescenza della
cinefilia. E di parlare così ad altri bambini, ad altri adole­
scenti, a quelli che nasceranno dopo di noi. «Allora ho fini­
to per accettare l’idea che il cinema era o è stato un fatto
talmente straordinario che potevo, per esempio, fare una
rivista trimestrale, (...) che questa trasmetta così le espe­
rienze di qualcuno. Perché mi sono stancato di non vedere
arrivare nulla.» E se «non ci aspettiamo uno stupore indi­

li
menticabile come quello che abbiamo conosciuto» nel
nostro felice passato di spettatori d’altri tempi, siamo però
«piuttosto inquieti all’idea di un eventuale futuro orwellia-
no con grandi cerimonie audiovisive di massa e telethon
giganti trasmessi sù grande schermo.» Il futuro, tocca a noi
inventarlo.

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INTRODUZIONE

di Serge Toubiana

a Huguette Daney

Erano gli ultimi giorni di dicembre del 1991, tra


Natale e Capodanno. Poco prima di partire per Israele in
occasione di una Settimana dei «Cahiers du cinéma», face­
vo visita a Serge Daney, già malato.

Come sempre, i nostri discorsi toccavano diversi argo­


menti: i film del momento, la situazione dei «Cahiers», il
lancio della sua rivista «Trafic». E lo stato di salute di
Serge... Tra le altre cose, ricordava anche il suo desiderio di
scrivere un libro, l’ultimo secondo i suoi progetti, per il
quale aveva già scelto il titolo: Perseverance. Doveva essere
un «vero» libro, a differenza delle raccolte di articoli che
aveva pubblicato fino a quel momento.
Mi diceva di voler raccogliere tutto il materiale della
sua vita di cinefilo, per farne il soggetto. Aveva già stabili­
to che il libro sarebbe iniziato con 1’evocazione del carrello
di Kapò, in riferimento ad un articolo che Jacques Rivette
aveva scritto nel giugno del 1961 sui «Cahiers du cinéma»,
denunciando il film di Gillo Pontecorvo.

Questo articolo aveva avuto un forte impatto su Serge,


che all’epoca aveva solo diciassette anni, provocando in lui
uno choc estetico e morale, decisivo per il suo destino di
futuro critico dei «Cahiers du cinéma». Nel corso di tutti
gli anni Settanta e Ottanta lo avevamo spesso rievocato,
insieme alla famosa Lettera su Rossellini, sempre di Rivette,
due scritti che contribuirono a porre le fondamenta stesse
dell’edifìcio critico dei «Cahiers».

Serge vi ritornava continuamente, iscrivendo il suo per­


corso intellettuale nella filiazione teorica prodotta da questi
due testi: i campi di concentramento, l’impossibilità del
cinema di continuare a raccontare delle storie «dimentican­

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do» Hiroshima, la rottura rappresentata dal cinema moder­
no, Rossellini e (ìodard... Questo itinerario teorico mi
restava in parte osi uro, ne avevo ancora una coscienza assai
vaga, astratta: mi accontentavo di seguire Daney nei suoi
pensieri, lasciandolo fare piti che manifestando reale com­
prensione o adesione. Mi mancava un anello della catena,
quello che Serge mi avrebbe fornito in seguito.

Anche in questa occasione, quindi, come tutte le volte


che passavo a trovarlo in me Traversiere, domandai a Serge
a che punto era Perseverance. «ì rafie» occupava quasi tutto il
suo tempo, sottraendogli le poche energie che gli restavano.
Era ciò a cui teneva di più. Per il resto si dedicava a ricevere
gli amici e a parlare con loro. Ma vedevo in lui la tristezza e
l’amarezza per non avere forze sufficienti ad affrontare il
libro.

Il 1991 finiva in modo strano. Da qualche mese un certo


malessere si era insinuato tra noi. Mi serbava rancore a
causa di un episodio di cui fra poco dirò. Avevo un bel fare
onorevole ammenda, questo non-detto incombeva pesante­
mente. Mi sentivo colpevole, dovevo dargli una prova della
mia amicizia.
Lasciandolo, quel giorno di fine dicembre, decisi di scri­
vergli subito per proporgli di registrare al magnetofono,
non appena fossi tornato, una lunga intervista con lui, che
gli sarebbe potuta servire come punto di partenza per scri­
vere il suo libro. Gli suggerivo anche di andarcene da
Parigi, qualche giorno, così da poter stare più tranquilli.

Al mio ritorno, un biglietto firmato S.D. in data 4 gen­


naio 1992: «La tua lettera mi commuove davvero. Questo
libro di interviste era quello che avremmo dovuto fare un
anno fa. Ma, allora, il sospetto (egoista) che tu non fossi
dalla mia parte si era aggiunto alla mia tristezza. Stavolta
invece la colpa è mia. Come sempre, sono stato dispersivo e
ora mi trovo proprio nei pasticci. Possiamo provare a realiz­
zarlo insieme questo strano progetto (una cine-biografia).
Al più presto.»

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Un anno prima, Serge se l’era presa con me per non esse­
re stato al suo fianco nell’ «affare Berti». Per chi non lo
sapesse o l’avesse dimenticato, Claude Berri aveva citato in
giudizio «Liberation» in seguito ad un articolo particolar­
mente ispirato di Serge contro Uranus. Berri aveva ottenuto
un diritto di replica, debole di contenuto e mediocre nella
forma, che finiva con un volgare «ciao pollo». Era una
novità che un cineasta ottenesse per vie legali il diritto di
replica a un articolo che non era diffamatorio. Serge era
rimasto profondamente ferito dal fatto che questa risposta
fosse stata pubblicata senza che nessuno, all’interno di
«Liberation», il suo giornale, avesse preso le sue difese.

Serbava rancore anche verso i suoi amici, fra i quali io.


Aveva ragione, non mi ero mostrato solidale, non l’avevo
sostenuto. L’atmosfera era strana, eravamo in piena guerra
del Golfo.
In seguito ci spiegammo, ma questo episodio lasciò
qualche traccia. Serge non perdeva occasione per tornarci
sopra. Era ad un punto della vita in cui tirava le somme,
con estrema lucidità, senza indulgenza verso se stesso né
verso gli altri. Era così, e l’unica prova di amicizia sarebbe
stata essere al suo fianco.

Mi aveva scritto: «Al più presto». Aveva fretta davvero.

All’inizio di febbraio, Serge andò a Marsiglia con


Raymond Bellour, in occasione di un seminano sul cinema
e di una presentazione in pubblico della rivista «Trafìc».
Eravamo d’accordo di incontrarci dalle parti di Aix-en-
Provence, a Eguilles, dove avevo prenotato due camere
all’hotel del Belvedere, da venerdì 7 a domenica 9 febbraio.
Là si svolsero le nostre conversazioni. Raggiungevo Serge
in camera sua e lo intervistavo il più a lungo possibile...
Nonostante la fatica parlò per molte ore, aveva idee chiare.
Faceva il racconto della sua vita, vita di un «cine-figlio» la
cui cine-biografìa volgeva ormai al termine. Per me la cosa
più commovente era vedere un amico che, sapendosi vicino
alla morte, parlava di sé, della sua infanzia e del suo cammi­

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no, con semplicità e intelligenza, senza alcuna parola, alcu­
na espressione che Incesse trasparire il minimo senso di
lamento o di ingiustizia.
lo che pure, lo ( onoscevo bene, ho scoperto a Eguilles
cose di lui che ignoravo, di cui non aveva mai parlato. A
nessuno. Non fu tanto una confessione, né, più banalmente,
una forma di auto-analisi. Ciò che disse sembrava piuttosto
iscriversi, in modo logico e controllalo, nella trama di una
personale sceneggiatura. Con serenità Serge stava sisteman­
do gli ultimi pezzi di un puzzle, quello della sua vita.

Compresi fino in fondo l'importanza che aveva avuto per


Serge l’articolo di Rivette su Kapò, film che del resto giura­
va di non aver mai visto, solamente quel giorno di febbraio
del 1992 quando, durante la nostra lunga conversazione che
doveva portare a questo libro, mi parlò per la prima volta di
suo padre, una figura per lui sconosciuta e segreta. Quel
giorno Serge ripercorse davanti a me la sua storia, il suo iti­
nerario di bambino nato nel 1944 - l’anno di Roma città
aperta e della scoperta dei campi di concentramento — poi di
adolescente e di giovane che, attraverso l’amore per il cine­
ma, si accingeva a scrivere la sua vita. Cioè a confonderla
con una certa storia del cinema. 11 «carrello di Kapò», la
Lettera su Rossellini, il suo rapporto con i «Cahiers du ciné­
ma», la difesa di Straub e Godard articolata in un’estetica
della resistenza, l’amore per le lingue straniere, il gusto dei
viaggi, il culto dell’amicizia, il passaggio a «Liberation», la
malattia, la nascita di «Trafic»... Così, ad un tratto la com­
ponente biografica rientrava nel discorso teorico, mettendo­
ne in luce la vera portata.
Questo anello mancante mi svelava finalmente la via che
Serge aveva percorso. Nonostante fossimo amici da
vent’anni, e che avessimo condiviso, uno di fronte all’altro,
lo stesso ufficio dei «Cahiers du cinéma», è stato solamente
in quel giorno che l’ho capito, che l’ho davvero conosciuto.

Il ritorno Marsiglia-Parigi in aereo fu diffìcile. All’aero­


porto, lui che amava tanto viaggiare mi disse che quello
sarebbe stato senza dubbio il suo ultimo viaggio.

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Voleva che si procedesse rapidamente. Feci sbobinare al
più presto i nastri magnetici, affidandoli ad Anne-Marie
Faux, che lavorò con estrema intelligenza. Poi riconsegnai
tutto a Serge. Si riprometteva di tornare su questo primo
abbozzo. Ma non aveva più forze per occuparsi contempora­
neamente di «Trafìc» e di questo lavoro di riscrittura. Ogni
volta che lo vedevo, gli domandavo discretamente a che
punto era. «Proseguo, proseguo...». Ne dubitavo.

Un giorno mi disse che aveva iniziato una prima riscrit­


tura al computer. Non ebbe il tempo di finirla. È morto di
AIDS il 12 giugno 1992, cinque mesi dopo le nostre con­
versazioni a Eguilles.

Ho esitato a lungo prima di pubblicare questo mano­


scritto, poiché solo la prima parte dell’intervista è stata
completamente rivista da Serge. E per chi conosce la sua
scrittura, ciò è evidente: concisione, senso del racconto,
chiarezza di stile.
Quanto alla seconda parte, l’ho rivista io stesso cercando
di essere il più fedele possibile ai suoi intendimenti.
Ho pensato che fosse necessario porre il suo articolo sul
«carrello di Kapò» in apertura, poiché era intenzione di
Serge Daney farne il primo capitolo del suo libro. È il suo
ultimo pezzo pubblicato su «Trafìc».

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PRIMA PARTE
Il carrello di Kapò

Nell’elenco dei film che non ho mai visto, non ci sono


soltanto Ottobre, Alba tragica o Bambi, c’è anche l’oscuro
Kapò. Film sui campi di sterminio, girato nel I960 da Gillo
Pontecorvo, Kapò non è diventato una pietra miliare nella
storia del cinema. Sono forse il solo che non l’ha mai
dimenticato pur non avendolo mai visto? In effetti io non
ho mai visto Kapò, ma posso ugualmente dire di averlo
visto. L’ho visto perché qualcuno — a parole — me l’ha
mostrato. Conosco questo film, il cui titolo, come una parola
d’ordine, ha accompagnato tutta la mia vita, solo attraverso
un breve testo: la critica di Jacques Rivette nel giugno del
1961 sui «Cahiers du cinema». Era il numero 120, l’artico­
lo si intitolava «Dell’abiezione», Ri vette aveva trentatré
anni e io diciassette. Probabilmente non avevo mai pronun­
ciato la parola «abiezione» in vita mia.
Nel suo articolo, Rivette non raccontava il film, si limi­
tava a descriverne un’inquadratura, con una frase. La frase,
che si scolpì nella mia memoria, diceva: «Guardate, in
Kapò, l’inquadratura in cui Emmanuelle Riva si suicida,
gettandosi sul filo spinato ad alta tensione: l’uomo che
decide, a questo punto, di fare un carrello in avanti per
inquadrare il cadavere dal basso verso l’alto, avendo cura di
porre la mano alzata esattamente in un angolo dell’inqua­
dratura, ebbene quest’uomo merita solo il più profondo
disprezzo». Così, un semplice movimento della macchina
da presa poteva essere proprio il movimento da evitare.
Quello che — in modo quanto mai evidente — bisognava essere
abietti per compiere. Appena terminai di leggere queste
righe seppi che il loro autore aveva assolutamente ragione.
Scabro e luminoso, il testo di Rivette mi permetteva di
associare un significato alla parola abiezione. La mia rivolta
aveva trovato parole per esprimersi. Ma c’era di più. La
rivolta era accompagnata da un sentimento meno chiaro e

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senza dubbio meno puro: la confortante consapevolezza di
aver acquisito la mia prima certezza di futuro critico. Nel
corso degli anni, infatti, il «carrello di Kapò» costituì per me
il dogma universale, l'assioma su cui non si discute, il punto
limite di ogni dibattito. Con chiunque non avesse colto
immediatamente l'abiezione del «carrello di Kapò» non avrei
mai avuto nulla a che vedere, nulla da condividere.
D’altra parte questo genere di rifiuti apparteneva ai
tempi. Di fronte allo stile rabbioso ed esasperato dell'artico­
lo di Ri vette, capivo che si erano già svolti furiosi dibattiti
e mi sembrava logico che il cinema fosse la cassa di risonan­
za privilegiata di ogni polemica. Stava finendo la guerra
d’Algeria che, per il fatto di non essere stata filmata, aveva
già fatto nascere dei sospetti su ogni rappresentazione della
Storia. Tutti sembravano consapevoli che ci potessero essere
— proprio e soprattutto nel cinema - delle immagini tabù,
dei montaggi vietati e delle leggerezze criminali. La celebre
formula di Godard che individuava nell’nso del carrello
«una questione di morale» era, almeno per me, una di quel­
le verità su cui non si discute.

L’articolo in questione era stato pubblicato sui «Cahiers


du cinéma» tre anni prima che si concludesse il «periodo
giallo». Capii forse già da allora che non avrebbe potuto
essere pubblicato su nessun’altra rivista di cinema e che
apparteneva fino in fondo ai «Cahiers» come io stesso più
tardi, sarei loro appartenuto? Comunque sia, avevo trovato
la mia famiglia, io che quasi non l’avevo. Dunque, non era
solo per mimetismo snob che comperavo da due anni i
«Cahiers», condividendo con un compagno del liceo
Voltaire - Claude D - i commenti sbalorditi su di essi. E
non era per puro capriccio se, all’inizio di ogni mese, incol­
lavo il mio naso contro la vetrina di una modesta libreria di
avenue de la République. Bastava che sotto la striscia gialla
della copertina, fosse cambiata la fotografìa in bianco e nero
per farmi battere il cuore. Ma non volevo che fosse il libraio
a dirmi se il nuovo numero era già uscito o no. Volevo sco­
prirlo da solo e comperarlo con indifferenza, e voce neutra,
come se si fosse trattato di un quaderno per la brutta copia.

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Quanto all’idea di abbonarmi, non mi ha mai sfiorato:
amavo quell’attesa esasperata. Che fosse per comperarli, poi
per scrivervi e finalmente per farli, in ogni caso io sarei
rimasto vicino ai «Cahiers», perché erano «casa mia».
Al liceo Voltaire eravamo un manipolo ad essere entrati
furtivamente nel mondo della cinefilia. L’evento si può
anche datare: 1959. La parola «cinefilo» era ancora vitale
ma già aveva quella connotazione morbosa e quell’aura ran­
cida che in seguito l’avrebbero gradualmente screditata.
Quanto a me, dovetti disprezzare subito coloro che, troppo
normalmente educati, deridevano già i «topi di cineteca»
che noi, colpevoli di vivere il cinema come passione e la
vita per procura, saremmo divenuti per qualche anno.
All’inizio degli anni Sessanta, il mondo del cinema era
ancora un mondo incantato. Da un lato possedeva tutto il
fascino di una contro-cultura parallela. Dall’altro aveva il
vantaggio di essere già compiuto, con una storia densa, dei
valori riconosciuti, le cantonate del Sadoul — questa Bibbia
insufficiente - , una lingua consolidata e miti resistenti,
battaglie di idee e riviste militanti. Certo, le guerre erano
quasi finite e noi arrivavamo un po’ tardi, ma non così
tanto da non alimentare il tacito progetto di riappropriarci
di tutta questa storia che non aveva ancora un secolo di vita.
Essere cinefilo consisteva semplicemente nell’ingurgita-
re, parallelamente al programma del liceo e su di esso rical­
cato, un altro programma scolastico, avendo i «Cahiers»
come fìl rouge e potendo contare su qualche «traghettato-
re» adulto che, con la discrezione dei cospiratori, ci faceva
capire che c’era un altro mondo da scoprire, e forse che era
proprio quello il mondo in cui vivere. Henry Agel - profes­
sore di lettere al liceo Voltaire — fu uno di questi strani tra­
ghettatori. Per evitare a se stesso e a noi il tedio delle lezio­
ni di latino, metteva ai voti le seguenti possibilità: passare
un’ora sui testi di Tito Livio o vedere dei film. La classe,
che votava per il cinema, usciva dal vecchio cineclub inva­
riabilmente pensierosa e con la sensazione di essere stata
presa in trappola. Un po’ per sadismo e sicuramente per il
semplice motivo che ne possedeva le copie, Agel proiettava
oscuri film capaci di turbare seriamente degli adolescenti

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come noi. tirano /z \ang des bètes (t.l. Il sangue degli anima­
li) di Hranjii r soprai tutto Notte e nebbia di Resnais. Così
attraverso il cinema appresi che la condizione umana e il
massacro industriale non erano incompatibili e che il peg­
gio era appena accaduto.
Penso oggi c he Agel, per il quale la parola Male si scri­
veva con la maiuscola, amasse spiare sul viso degli adole­
scenti della seconda B gli effetti di questa singolare rivela­
zione, perché proprio di una rivelazione si trattava. Doveva
esserci una componenente voyeuristica nel suo modo bruta­
le di trasmettere, attraverso il cinema, questo sapere maca­
bro e inafferrabile, che noi eravamo la prima generazione ad
ereditare per intero. Cristiano poco proselita, militante
piuttosto elitario, Agel mostrava. Aveva questo talento.
Mostrava perché era necessario farlo. E perché la cultura
cinematografica al liceo, per la quale si batteva, passava
anche attraverso questa tacita distinzione tra coloro che non
avrebbero più dimenticato Notte e nebbia e gli altri. Io non
facevo parte degli «altri».

Una volta, due volte, tre volte, secondo il capriccio di


Agel e delle lezioni di latino sacrificate, guardai i celebri
mucchi di cadaveri, i capelli, gli occhiali e i denti. Ascoltai
dalla voce di Michel Bouquet il commento desolato scritto
da Jean Cayrol e la musica di Hans Eisler che sembrava
dolersi di esistere. Strano battesimo delle immagini: capire
contemporaneamente che i campi di concentramento erano veri e che
il film era giusto. E che il cinema — lui solo? — era capace di
ergersi sul limite di un’umanità snaturata. Sentivo che le
distanze poste da Resnais tra il soggetto filmato, il soggetto
che filma e il soggetto spettatore erano, nel 1959 come nel
1955, le sole possibili. Notte e nebbia era dunque un «bel»
film? No, era un film giusto. Kapò voleva essere un bel film
e non lo era. E per me sarebbe sempre stato bello ciò che era
giusto. Da qui la noia totale, che ho invariabilmente prova­
to davanti alle immagini solo belle.
Catturato dal cinema, non avevo neanche avuto bisogno
di esserne sedotto. Né avevo avuto bisogno che il cinema
mi parlasse in modo infantile. Da piccolo non ho visto un

26
solo film di Walt Disney. Mandato direttamente alla scuola
comunale, ero fiero di essermi risparmiato l’asilo e la
baraonda delle scene dei bambini. Di più: il disegno anima­
to avrebbe sempre rappresentato per me una cosa diversa
dal cinema. In un certo senso un nemico. Nessuna bella
immagine, soprattutto se disegnata, poteva distogliermi
dall’emozione, dal timore, dal fremito che provavo davanti
alle cose semplicemente «catturate» da una ripresa. E tutto
questo, che, nella sua semplicità, mi ha richiesto anni per
poter essere chiaramente formulato, doveva iniziare ad usci­
re dal limbo solo davanti alle immagini di Resnais e al testo
di Rivette. Nato nel 1944, due giorni prima dello sbarco
alleato, avevo l’età giusta per scoprire contemporaneamente
il mio cinema e la mia storia. Una storia strana, che ho cre­
duto per tanto tempo di poter condividere con gli altri
prima di capire — molto tardi — che era invece solo mia.

Che cosa sa un bambino? E che cosa sapeva il bambino


Serge D., curioso di tutto tranne che di ciò che lo riguarda­
va direttamente? A partire da quale sensazione di estraneità
al mondo sentirà più tardi come necessaria la presenza alle
immagini del mondo? Conosco poche espressioni così belle
come quella che usa Jean Louis Schefer quando in L’homme
ordinaire du cinéma parla dei «film che hanno riiguardato la
nostra infanzia». Perché una cosa è imparare a guardare i
film in modo professionale — per verificare poi che così sono
loro che ci ri/guardano sempre meno — e un’altra cosa è
vivere con quei film che ci hanno guardato crescere e che ci
hanno visto, ostaggi precoci della nostra futura biografia,
già impigliati nella rete della nostra storia. Psyco, La dolce
vita, Il sepolcro indiano, Rio Bravo, Pickpocket, Anatomia di un
omicidio, Shin Heike Monogatari (t.l. Nuovi racconti del Clan
Taira} o appunto Notte e nebbia non sono per me film come
altri. Alla domanda brutale: «sono qualcosa che ti riguar­
da?» mi rispondono tutti sì.
I corpi di Notte e nebbia e, due anni più tardi, quelli delle
prime inquadrature di Hiroshima mon amour sono tra le
«cose» che mi hanno ri/guardato più di quanto io le abbia
viste. EjzenStein ha tentato di produrre immagini simili,

27
ma è Hitchcock ad esserci riuscito. Come si può dimentica­
re, per fare solo un esempio, il primo incontro con Psycho?
Eravamo entrati, di nascosto, ai Paramount Opera e il film
ci spaventava né piò né meno di tanti altri. Ed ecco, verso
la fine, una scena con un montaggio fatto alla bell’e meglio,
da cui non emergono che oggetti grotteschi: una vestaglia
cubista, una parrucca che cade, un coltello impugnato.
Allora la mia percezione slitta e allo spavento, condiviso
fino a quel momento con gli altri, subentra la calma di una
solitudine rassegnata: il cervello funziona come un secondo
proiettore che lasci scorrere l’immagine, permettendo al
film e al mondo di continuare senza di lui. Non riesco ad
immaginare alcun amore del cinema che non si fondi sul
presente rubato di questo «continuate senza di me».

Chi non ha vissuto questa esperienza? Chi non ha cono­


sciuto questi ricordi-schermo? Immagini non identificate
impressionano la retina, eventi sconosciuti accadono come
per fatalità, parole pronunciate diventano la chiave segreta
per schiudere un impossibile sapere su se stessi. Questi
momenti di «non visto e perduto» costituiscono la scena
primaria dell’appassionato di cinema, quella in cui lui non
c'era quando invece non si trattava che di lui. Nel senso in cui
Paulhan parla della letteratura come di un’esperienza del
mondo «quando noi non ci siamo» e Lacan di «ciò che è
assente dal proprio posto». Il cinefilo? È colui che spalanca
invano gli occhi ma che non dirà mai a nessuno di non aver
potuto vedere nulla. Colui che si prepara una vita di «guar-
datore» di professione. La storia di prendersi il proprio
tempo, di «rifarsi» e di farsi. Il più lentamente possibile.
Così la mia vita conobbe il suo punto zero: seconda
nascita, come tale vissuta e subito commemorata. La data è
nota, sempre il 1959- E — una coincidenza? - l’anno del
celebre «Tu non hai visto niente a Hiroshima» di
Marguerite Duras. Io e mia madre usciamo da Hiroshima
mon amour tutti e due sbalorditi — non eravamo i soli ad
esserlo - perché non avevamo mai pensato che il cinema
fosse capace di «questo». E sul marciapiede della metropo­
litana, realizzo finalmente che alla domanda fastidiosa cui

28
non so più ormai che cosa rispondere — «che cosa farai nella
vita?» — ho da qualche minuto una risposta. «Più tardi», in
un modo o nell’altro, sarebbe stato il cinema. Perciò non ho
mai risparmiato dettagli su questa mia cine-nascita.
Hiroshima, il marciapiede della metropolitana, mia madre,
l’ex cinema d’essai degli Agricoltori e le sue comode poltro­
ne di cuoio saranno rievocati più di una volta come scenario
mitico della buona origine, quella che ognuno si sceglie.

Resnais, ne sono certo, è il nome a cui è legata questa


scena primaria in due anni e tre atti. Proprio perché era
stato possibile Notte e nebbia, Kapò nasceva già superato e
Rivette poteva scrivere il suo articolo. Dunque, prima anco­
ra di essere il prototipo del regista moderno, Resnais fu per
me un altro traghettatore. Se, come si diceva allora, rivolu­
zionò, il linguaggio cinematografico, è perché si accontentò
di prendere il suo soggetto sul serio, avendo avuto l’intuizio­
ne, quasi la fortuna, di riconoscere in mezzo a tutti gli altri
questo soggetto: niente meno che la specie umana così
come era uscita dai campi di sterminio e dal trauma atomi­
co: rovinata e sfigurata. Perciò ci fu sempre qualcosa di
strano nel mio modo, un po’ annoiato, di guardare gli
«altri» film di Resnais. Mi sembrava che i suoi tentativi di
rivitalizzare un mondo, di cui lui solo aveva saputo
all’epoca registrare la malattia, fossero destinati a produrre
solo fastidio.
Non con Resnais dunque avrei fatto il mio viaggio nel
cinema moderno e nel suo futuro, ma piuttosto con
Rossellini. Non con Resnais avrei imparato a memoria e
fatto mia la lezione delle cose e della morale, ma sempre
con Godard. Perché? Innanzitutto perché Godard e
Rossellini hanno parlato, scritto, riflettuto a voce alta, men­
tre l’immagine di Resnais, rigido come una statua di com­
mendatore, intirizzito nelle sue giacche a vento, implorante
— giustamente ma invano — che gli si credesse quando
dichiarava di non essere un intellettuale, finì per infastidir­
mi. Era forse un modo per vendicarmi del ruolo che due dei
suoi film avevano avuto nel «sollevare il velo» della mia
vita? Resnais era il regista che mi aveva strappato all’infan­

29
zia o, piuttosto, die aveva fatto di me, per tre decenni, un
bambino serto. E giustamente era la persona con cui, da
adulto, non avrei mai condiviso nulla. Mi ricordo che alla
fine di un’intervista — per l’uscita di La vita è un romanzo —
pensai fosse giusto parlargli dello choc che Hiroshima mon
amour aveva provocato nella mia vita: mi ringraziò con
un’aria sostenuta e fredda, come se gli avessi fatto i compli­
menti per il suo impermeabile nuovo. Ci rimasi male, ma
avevo torto: i film che «hanno ri/guardato la nostra infan­
zia», non sono condivisibili con nessuno, neppure con il
loro autore.

Ora che questa storia è chiusa ed io ho avuto più di ciò


che mi spettava del nulla che c era da vedere a Hiroshima,
inevitabilmente mi pongo la domanda: poteva essere diver­
so? Davanti ai campi di concentramento era possibile
un’altra «giustezza» diversa da quella dell’anti-spettacolo
di Notte e nebbia? Un’amica ricordava recentemente il docu­
mentario di George Stevens, realizzato alla fine della guer­
ra, seppellito, riesumato e recentemente trasmesso dalla
televisione francese. È il primo film che abbia registrato a
colori l’apertura dei campi di sterminio; e sono proprio i
colori che — senza alcuna abiezione — lo fanno precipitare
nell’arte. Perché? Per la differenza tra i colori e il bianco e
nero? Tra l’America e l’Europa? Tra Stevens e Resnais? Ciò
che è grandioso nel film di Stevens è che si tratta ancora
una volta del racconto di un viaggio: l’avanzata quotidiana
di un piccolo gruppo di soldati che filmano e di registi
vagabondi attraverso l’Europa distrutta, da Saint-Ló rasa al
suolo ad Auschwitz, tappa che nessuno ha previsto e che
sconvolge la compagnia. E poi, aggiunge la mia amica, i
cumuli di cadaveri vi assumono una bellezza strana che
ricorda la grande pittura di questo secolo. Come sempre,
Sylvie P. aveva ragione.
Oggi capisco che la bellezza del film di Stevens sta non
tanto nella giustezza della distanza adottata quanto piutto­
sto neW'innocenza dello sguardo posato. La giustezza è il far­
dello di chi viene dopo; l’innocenza, la grazia terribile
accordata al primo venuto. Al primo che esegue semplice­

30
mente i gesti propri del cinema. Bisognerà aspettare fino
alla metà degli anni Settanta per riconoscere nel Salò di
Pasolini o anche neìV Hitler di Syberberg l’altro significato
della parola «innocente». Non tanto il non colpevole, quan­
to colui che, filmando il Male, non «pensa male». Nel
1959, io, giovane appena turbato dalla scoperta di sé, già
condividevo la colpevolezza di tutti. Ma nel 1945, forse, era
sufficiente essere americano e assistere, come fece George
Stevens o il caporale Samuel Fuller a Falkenau, all’apertura
delle vere porte della notte, cinepresa alla mano. Bisognava
essere americano - cioè credere all’innocenza innata dello
spettacolo — per far sfilare la popolazione tedesca davanti
alle fosse aperte al fine di mostrarle quello vicino a cui era
vissuta, nel bene e nel male. Ed era necessario che ciò acca­
desse dieci anni prima che Resnais si mettesse al tavolo di
montaggio e quindici anni prima che Pontecorvo aggiunges­
se quel piccolo movimento della macchina da presa che
disgustò me e Rivette. La necrofilia era dunque il prezzo di
questo ritardo come anche la doppiezza erotica dello sguar­
do «giusto», quello dell’Europa colpevole, quello di
Resnais e, di conseguenza, il mio.
Questa fu la prima parte della mia storia. Lo spazio aper­
to dalla frase di Rivette era il mio, così come già mia era la
famiglia intellettuale dei «Cahiers du cinéma». Ma questo
spazio, me ne sarei reso conto in seguito, più che un vasto
campo, era una porta stretta. Con da un lato, quello nobile,
il piacere della distanza giusta, e dall’altro il suo rovescio di
necrofilia sublime o sublimata; e, nel lato non nobile, la
possibilità di un piacere completamente diverso e in-subli-
mabile. Fu Godard che un giorno, mostrandomi alcune cas­
sette di film pornografici ambientati nei campi di stermi­
nio e riposti in un angolo della sua videoteca di Rolle, si
stupì che di fronte a quei film non fosse stato fatto alcun
discorso, né lanciata alcuna condanna. Come se la bassezza
delle intenzioni dei loro produttori e la trivialità degli
appetiti dei loro consumatori li proteggessero in qualche
modo dalla censura e dall’indignazione. Dimostrazione che
nella sottocultura perdurava la sorda rivendicazione di un
legame obbligatorio tra i 'carnefici e le vittime. L’esistenza

31
di questi film in effetti non mi aveva mai preoccupato.
Avevo nei loro confronti — come nei confronti di tutto il
cinema esplicitamente pornografico — la tolleranza quasi
educata che si ha verso l’espressione di un fantasia così
cruda da non poter vantare cfìe la triste monotonia della sua
necessaria ripetizione.
Sarà sempre l’altra pornografìa — quella «artistica», di
Kapò, come più tardi quella di Portiere di notte e di altri pro­
dotti «rétro» degli anni Settanta — a disgustarmi. All’este-
tizzazione consensuale del dopo, preferirò sempre il ritorno
ostinato delle non-immagini di Notte e nebbia, se non addi­
rittura l’ondata puls^onale di un qualsiasi Louve chez les S.S.
che non vedrò mai. Quei film avevano almeno l’onestà di
prendere atto dell’iTnpossibilità di raccontare, l’onestà di
riconoscere un punto d’arresto nello svolgimento della
Storia, dove il racconto si paralizza o gira a vuoto. Non si
dovrebbe parlare tanto di amnesia o di rimozione quanto
piuttosto di forclusione, una parola di cui solo più tardi
apprenderò la definizione lacaniana: ritorno allucinarono di
ciò su cui non è stato possibile operare un giudizio di
realtà; In altri termini: poiché i registi non hanno filmato a
suo tempo la politica di Vichy, il loro compito,
cinquant’anni più tardi, non è quello di ottenere un riscatto
immaginario a colpi di Arrivederci, ragazzi ma quello di
tracciare il ritratto attuale di questo buon popolo francese
che, dal 1940 al 1942, retata del Vel’ d’Hiv compresa, non
ha battuto ciglio. Essendo il cinema un’arte del presente, i
suoi rimorsi non hanno alcun valore.
Per questo motivo lo spettatore che fui davanti a Notte e
nebbia e il regista che con questo film tentò di mostrare
l’irrappresentabile, erano legati da una simmetria complice.
Da un lato lo spettatore che improvvisamente «è assente dal
suo posto» e si blocca mentre il film va avanti. Dall’altro il
film che invece di continuare ripiega su se stesso, si blocca
su un’immagine provvisoriamente definitiva che permette
al soggetto-spettatore di continuare a credere al cinema e al
soggetto-cittadino di continuare a vivere la sua vita. Fermo
sullo spettatore, fermo sull’immagine: il cinema è entrato
nell’età adulta. La sfera del visibile ha cessato di essere

32
disponibile nella sua interezza: ci sono ora assenze e buchi,
vuoti necessari e pieni superflui, immagini per sempre
assenti e sguardi venuti meno per sempre. Spettacolo e
spettatore cessano di rinviarsi tutte le palle. Fu così che
avendo scelto il cinema, considerato «arte dell’immagine in
movimento», iniziai la mia vita di «cinefago» sotto l’egida
paradossale di un primo fermo immagine.
Questo fermo immagine mi protesse dalla necrofilia
pura e non vidi nessuno dei rari film o documentari «sui
campi» che seguirono Kapò. La questione per me era risolta
con Notte e nebbia e con l’articolo di Rivette. Mi comportai
per molto tempo come le autorità francesi che, ancora oggi,
davanti a qualsiasi fatto di cronaca antisemita, trasmettono
d’urgenza il film di Resnais come se esso facesse parte di un
arsenale segreto che, al ripresentarsi del Male, potesse
opporre all’infinito le sue virtù esoreistiche. E se non appli­
cai il teorema del carrello di Kapò ai soli film esposti dal
loro stesso soggetto al pericolo dell’abiezione, accadde per­
ché ero tentato in realtà di applicarlo a tutti i film. «Ci sono
delle cose» aveva scritto Ri vette «che devono essere avvicinate con
timore e tremore: la morte è certamente una di queste. Come si può,
al momento di filmare una cosa tanto misteriosa, non sentirsi un
impostore ?» Condividevo.
E poiché i fdm in cui la morte non sia in qualche modo
presente sono rari, altrettanto numerose erano le occasioni
di temere e tremare. Alcuni registi, in effetti, non erano
degli impostori. Così, sempre nel 1959, la morte di Miyagi
in I racconti della luna pallida d’agosto mi inchiodò, straziato,
ad una poltrona del cinema Bertrand. Perché Mizoguchi
aveva filmato la morte come una indefinibile fatalità che, lo
si vedeva chiaramente, non poteva altro che accadere. Mi
ricordo ancora la scena: nella campagna giapponese alcuni
viaggiatori sono attaccati da un gruppo di banditi affamati
e uno di questi trafigge Miyagi con un colpo di lancia. Ma
lo fa quasi inavvertitamente, esitando, còme spinto da un
residuo di violenza o da un riflesso condizionato. Questo
gesto resta così poco in posa che la cinepresa sembra sul
punto di «passargli accanto», e io sono convinto che in quel
momento ogni spettatore di I racconti della luna pallida

33
d'agosto è sfiorato dalla stessa folle idea, quasi superstiziosa:
se il movimento della macchina da presa non fosse stato
così lento, l’avvenimento sarebbe rimasto fuori campo o —
chissà? — forse non sarebbe proprio accaduto.
La colpa è della macchina da presa? Svincolandola dai
gesti degli attori, Mizoguchi ha fatto esattamente il contra­
rio di Pontecorvo in Kapò. Al posto di un colpo d’occhio,
per di più aggraziato, ha scelto uno sguardo che «fa fìnta di
non vedere nulla», che preferirebbe non aver visto nulla e
che, per questo, mostra il fatto nel suo prodursi come fatto,
cioè ineluttabilmente e di traverso. Un fatto assurdo e senza
valore, assurdo come ogni cosa che volge al male e senza
valore come la guerra, catastrofe che Mizoguchi non accettò
mai. Un fatto che non ci riguarda mai abbastanza da poter­
ne attraversare il cammino, un fatto vergognoso. Perché
scommetto che in quel preciso istante ogni spettatore dei
Racconti sa nel modo più assoluto in che cosa consiste l'assur­
dità della guerra. Non importa che lo spettatore sia occi­
dentale, il film giapponese e la guerra medioevale: è suffi­
ciente passare dall’atto di mostrare con il dito all’arte di fis­
sare con lo sguardo perché questo sapere, sfuggente e uni­
versale allo stesso tempo, l’unico di cui il cinema sia capace,
ci sia elargito.
Schierandomi così in fretta per la panoramica dei Racconti
contro il carrello di Kapò, compio una scelta di cui misurerò
la portata solo dieci anni più tardi, nel fervore tanto radicale
quanto tardivo della politicizzazione post-sessan fotti na dei
«Cahiers». Perché se Pontecorvo, futuro autore della
Battaglia di Algeri, è un regista coraggioso del quale condi­
vido grossomodo le convinzioni politiche, Mizoguchi sem­
bra aver vissuto solo per la sua arte ed essere stato politica-
mente un opportunista. Dov’è allora la differenza? Nel
«timore e tremore» appunto. Mizoguchi ha paura della
guerra perché, a differenza del suo allievo Kurosawa, gli
ometti che si tranciano la carotide in nome della virilità feu­
dale lo prostrano. Da questa paura, nausea e desiderio di
fuggire deriva la panoramica inebetita. Una paura che fa di
questo momento un momento giusto, cioè condivisibile.
Pontecorvo, invece, non conosce né timore né tremore: i

54
campi lo sconvolgono solo ideologicamente. E così si inseri­
sce come un di più nella scena sotto le vesti sconce di un
carrello aggraziato.
Il cinema - me ne rendevo conto — oscillava spesso tra
questi due poli. E in seguito, pur avendo a che fare con
registi diversi da Pontecorvo, mi sono imbattuto più di una
volta in questa usanza da contrabbandieri — una sorta di
pratica ipocrita e generalizzata &e\\' ammiccamento — di
aggiungere una bellezza parassita lo un’informazione com­
plice a scene che non tollerano simili modalità di rappre­
sentazione. Per questo, il colpo di vento che fa calare, quasi
fosse un sudario, il biancore di un paracadute su un soldato
morto in L’urlo della battaglia di Fuller, mi ha infastidito
per anni. Sempre meno comunque della sottana sollevata
sul cadavere di Anna Magnani, falciata da una raffica di
mitra in Roma città aperta. Anche Rossellini tirava colpi
bassi ma in un modo così nuovo che sarebbero occorsi degli
anni per capire verso quale abisso ci stava conducendo.
Dov’è la crudeltà? Dove inizia l’oscenità e dove finisce la
pornografìa? Sentivo con chiarezza che erano queste le assil­
lanti domande legate al cinema del «dopo olocausto».
Cinema che iniziai, da solo e perché ne ero coetaneo, a chia­
mare «moderno».
Questo cinema moderno aveva una caratteristica: era
crudele; e noi ne avevamo un’altra: accettavamo questa cru­
deltà. La crudeltà era «dalla parte giusta». In suo nome
dicevamo no all’illustrazione accademica e ponevamo per
sempre fine al sentimentalismo ipocrita di un umanesimo
allora troppo loquace. La crudeltà di Mizoguchi, per esem­
pio, consisteva nel montare insieme due movimenti incon­
ciliabili e nel produrre il sentimento straziante di «mancata
assistenza a chi è in pericolo». Sentimento moderno per
eccellenza, che precede di quindici anni i grandi e coraggio­
si carrelli di Week-end. Sentimento arcaico, anche, perché
questa crudeltà era vecchia quanto il cinema stesso, da sem­
pre spia di ciò che in esso era fondamentalmente moderno,
dall’ultima inquadratura di Luci della città a Lo sconosciuto di
Browning passando per la scena finale di Nana. Come si
può dimenticare il lento, trepidante carrello che il giovane

35
Renoir fa partire su Nana, distesa a letto, sifilitica e agoniz­
zante? Come si è potuto - insorgevano allora i topi da cine­
teca die eravamo diventati — vedere in Renoir un cantore
della vita beata quando invece è stato uno dei rari registi
capaci, fin dagli inizi, di finire un personaggio a colpi di
carrello?
Effettivamente la crudeltà era nella logica del mio per­
corso di combattente dei «Cahiers». André Bazin, che ne
aveva già fatto la teoria, la trovava così strettamente legata
all’essenza del cinema da farne quasi «il quid». A Bazin,
questo santo laico, piaceva Louisiana Story perché mostrava
un uccello mangiato da un coccodrillo in tempo reale e in
un’unica inquàdratura: montaggio proibito e capacità di
testimonianza del cinema. Scegliere i «Cahiers» significava
scegliere il realismo e, come avrei infine scoperto, un certo
disprezzo per l’immaginazione. Il «Vuoi guardare? Allora
guarda questo» di Lacan, era anticipato dal «Questo è stato
ripreso? Allora devo vederlo». Sempre e soprattutto quando
quel «ripreso» era doloroso, insopportabile o decisamente
invedibile.
Questo realismo era infatti bifronte. Se attraverso il rea­
lismo i moderni mostravano un mondo superstite, attraver­
so un altro realismo - o piuttosto un «realistico» - le pro­
pagande filmate degli anni Quaranta avevano alimentato la
menzogna e prefigurato la morte. Per questo era giusto,
malgrado tutto, chiamare il primo, nato in Italia, «neo».
Non era possibile amare l’«arte del secolo» senza vederla
partecipare alla follia del secolo e nello stesso tempo esserne
partecipata. Diversamente dal teatro — crisi e cura collettive
— il cinema — informazione e lutto individuali — aveva inti­
mamente a che fare in quegli anni con l’orrore da cui si era
appena ripreso. Ereditavo un convalescente colpevole, un
bambino invecchiato, una fragile ipotesi. Saremmo invec­
chiati insieme, ma non in eterno.
Erede consapevole, cine-figlio modello, con il «carrello
di Kapò» come amuleto, passavo gli anni in una continua
apprensione: e se l’amuleto perdeva la sua efficacia? Mi
rivedo ancora, professore incaricato, sfruttato, di Censier-
Paris III, fotocopiare il testo di Ri vette, distribuirlo ai miei

36
studenti e domandare la loro impressione. Era un’epoca
ancora «rossa» in cui qualche studente cercava di racimola­
re dai suoi insegnanti un po’ del radicalismo politico del
'68. Mi sembrò che i più motivati fra loro consentissero,
per rispetto verso me, a vedere in Dell’abiezione un docu­
mento storico interessante, ma che lo considerassero già
datato. Li capii e se per caso ripetessi l’esperimento con stu­
denti di oggi, non mi inquieterei di vedere che inciampano
proprio sul carrello, ma mi preoccuperei di sapere se alme­
no esiste per loro un qualsiasi indice di abiezione. Per dirla
tutta, avrei paura di scoprirne la totale mancanza. Segno
non solo che i carrelli non hanno più nulla a che vedere con
la morale ma che il cinema si è ormai troppo indebolito per
ospitare una simile questione.
Il fatto è che trentanni dòpo le continue proiezioni di
Notte e nebbia al liceo Voltaire, i campi di sterminio — che
mi erano serviti come scena primaria — non godono più del
sacro rispetto in cui li tenevano Resnais, Cayrol e molti
altri. Abbandonata agli storici e ai curiosi, la questione dei
campi riguarda ormai solo i loro studi, le loro divergenze e
le loro manie. Il desiderio bloccato dalla rimozione che
ritorna in modo allucinarono nel reale è evidente che non
sarebbe mai dovuto ritornare. Desiderio che non siano mai
esistiti né camere a gas, né soluzione finale, né, al limite,
campi di sterminio: revisionismo, faurrissonnismo2, nega-
zionismo, sinistrismo e ulteriori ismi. Uno studente di
cinema oggi non erediterebbe soltanto il «carrello di
Kapò», ma anche una trasmissione incerta, un tabù mal
estirpato, insomma un nuovo giro di pista nella storia senza
valore della tribalizzazione dello stesso e della fobia
dell’altro. Il fermo immagine ha smesso di compiersi, la
banalità del male può produrre immagini sempre nuove,
elettroniche.
Nella Francia attuale si intravedono ormai segnali abba­
stanza numerosi che qualcuno della mia generazione, riflet­
tendo su ciò che gli è stato dato da vivere come Storia, inizi
a prendere coscienza del paesaggio in cui è cresciuto.
Paesaggio tragico e, nello stesso tempo, confortevole. Due
sogni politici — l’americano e il comunista — predisposti a

37
Yalta. Dietro di noi: un punto di non-ritorno morale sim­
boleggiato da Auschwitz e il concetto nuovo di «crimine
contro l’umanità». Davanti a noi: l’impensabile, quasi rassi­
curante apocalisse nucleare. E questo, che è appena finito, è
durato più di quarant’anni. In realtà io appartengo alla
prima generazione per la quale il razzismo e l’antisemiti­
smo erano definitivamente finiti nella pattumiera della sto­
ria: La prima — e l’unica? L’unica, in ogni caso, che non
gridò facilmente al lupo del fascismo «il fascismo non
passe-rà» — per il semplice fatto che sembrava una cosa del
passato, successa una volta per tutte e terminata. Un errore,
naturalmente. Un errore che non impedì di vivere bene i
propri «gloriosi trentanni», ma sempre come tra virgolet­
te. Un’ingenuità naturalmente, come fu un’ingenuità fìnge­
re che, nel campo cosiddetto estetico, la necrofilia elegante
di Resnais potesse per sempre tenere a distanza qualsiasi
sconveniente intrusione.
«Nessuna poesia dopo Auschwitz», dichiarò Adorno per
poi rivedere questa formula rimasta famosa. «Nessuna fin­
zione dopo Resnais», avrei potuto fargli eco, prima di
abbandonare, anch’io, questa idea un po’ eccessiva. Protetti
dall’onda dello choc prodotta dalla scoperta dei campi di
sterminio, abbiamo dunque creduto che l’umanità fosse
precipitata — una sola volta, ma non sarebbe più successo -
nel non-umano? Abbiamo davvero scommesso che per una
volta il peggio era passato? Abbiamo a quel punto sperato
che ciò che ancora non si si chiamava Shoah fosse stato
l’avvenimento unico «grazie» al quale l’intera umanità
sovrastava un istante la storia riconoscendovi l’aspetto peg­
giore (ed evitabile) del suo possibile destino? Sembra di sì.
Ma se «unico» e «intero» fossero ancora considerate
parole eccessive e se l’umanità non prendesse la Shoah come
metafora di ciò di cui fu ed è tuttora capace, lo sterminio
degli ebrei resterebbe una storia ebraica, poi — per ordine
decrescente di responsabilità, per metonimia — una storia
molto tedesca, abbastanza francese, araba solo di riflesso,
molto poco danese, e quasi per niente bulgara. E proprio
alle esigenze della metafora rispondeva, nel cinema, l’impe­
rativo moderno di decretare il fermo immagine e l’inibizio-

SH
ne della fiction. Si trattava di imparare a raccontare diversa-
mente un’altra storia in cui la specie umana fosse il solo
personaggio e la prima anti-diva. Di dar vita ad un altro
cinema, un cinema consapevole del fatto che il consegnare
troppo presto l’avvenimento alla fiction significa privarlo
della sua unicità, perché la fiction è questa libertà che si
disperde e che si apre troppo presto all’infinità della varia­
zione e alla seduzione del mentire vero.
Nel 1989, in visita a Phnom Penh per «Liberation»,
camminando nella campagna cambogiana, intuii a che cosa
assomigliava un genocidio — ed anche un auto-genocidio —
rimasto senza immagini e quasi senza tracce. La prova che il
cinema non era più legato intimamente alla storia degli
uomini, neppure quando questa presentava il suo volto inu­
mano, la desumevo ironicamente dal fatto che, a differenza
dei boia nazisti che avevano filmato le loro vittime, i
Khmers rossi avevano lasciato alle loro spalle solo foto e
carneficine. Ed era proprio nella misura in cui un altro
genocidio, quello cambogiano, restava allo stesso tempo
senza immagini e impunito, che per un effetto di contagio
retroattivo la Shoah stessa veniva relegata nel regno del
relativo. Passaggio dalla metafora bloccata alla metonimia
attiva, dal fermo immagine alla vitalità analogica. E questo
è accaduto molto velocemente: già nel 1990, la «rivoluzio­
ne rumena» incolpava degli indiscutibili assassini con capi
d’accusa assolutamente frivoli come «detenzione illegale di
armi da fuoco e genocidio». Era dunque tutto da rifare? Sì,
ma questa volta senza il cinema. Da qui il lutto.
Infatti, è indubbio, noi abbiamo creduto al cinema. Cioè
abbiamo fatto di tutto per non crederci. E la storia dei
«Cahiers» post-68 e del loro impossibile rifiuto del bazini-
smo. Di certo non era il caso di dormire fra due guanciali o
di affliggere Barthes confondendo il reale e il rappresentato.
Evidentemente eravamo troppo competenti per non inscri­
vere il posto dello spettatore nella catena significante o per
non vedere la ferrea ideologia nascosta dietro la falsa neutra­
lità della tecnica. Eravamo anche coraggiosi, Pascal B. ed
io, quando, davanti ad un anfiteatro stracolmo di gauchisti
buontemponi, urlavamo con voce spezzata che un film non

39
«si vede» ma «si legge». Encomiabile sforzo per essere dalla
parte di coloro che non si fanno ingannare. Encomiabile e,
per quel che mi riguarda, vano. Arriva sempre il momento
in cui malgrado tutto bisogna pagare il conto alla cassa
della credenza ingenua e osare credere a ciò che si vede.
Certo, non si è obbligati a credere a ciò che si vede,
- oltretutto è pericoloso - ma ugualmente non è nemmeno
detto che si debba tenere fede al cinema. Ci deve pur essere
del rischio e della virtù - insomma del valore — nel fatto di
mostrare qualche cosa a qualcuno capace di guardarla. A
che cosa servirebbe imparare a «leggere» il visivo e a «deco­
dificare» i messaggi se noti sussistesse, minima, la più radi­
cata delle convinzioni: che vedere è comunque sempre supe­
riore al non vedere. E che ciò che non è visto al momento giu­
sto, non potrà mai più esserlo veramente. Il cinema è l’arte
del presente. E se la nostalgia quasi non lo sfiora, è la
malinconia la sua immediata controfigura.
Mi ricordo ancora la veemenza con la quale tenni questo
discorso per la prima e ultima volta. Ero a Teheran, in una
scuola di cinema. Davanti ai giornalisti invitati, io e
Khemaìs K., c’erano file di ragazzi con la barba incipiente e
file di fagotti neri — le ragazze senza dubbio. I ragazzi a
sinistra e le ragazze a destra, secondo le leggi dell’apartheid
in vigore da quelle parti. Le domande più interessanti —
quelle delle ragazze — ci giungevano sotto forma di biglietti
furtivi. E fu proprio vedendole così attente e così stupida­
mente velate che mi lasciai andare a una collera vana che
riguardava non tanto loro quanto tutte le persone di potere
per cui il visibile era la prima cosa che doveva essere con­
trollata, cioè sospettata di tradimento e sottomessa, con
l’aiuto di un chador o di un controllo poliziesco dei segni.
Imbaldanzito dalla stranezza del momento e del luogo, mi
lanciai in una predica in favore del visibile per un pubblico
velato che annuiva solo con il capo.
Collera tardiva. Collera terminale. Perché l’era del sospet­
to è proprio finita. Si sospetta solo quando una certa idea di
verità è in gioco. Niente di simile oggi, se non tra gli inte­
gralisti e i bigotti, che se la prendono col Cristo di Scorsese
e con la Maria di Godard. Le immagini non sono più sul

40
versante della verità dialettica del «vedere» e del «mostra­
re», sono passate completamente sul versante della promo­
zione, della pubblicità, in poche parole del potere. Siamo
dunque arrivati al punto che si deve iniziare a lavorare su
ciò che resta, cioè la leggenda postuma e dorata di ciò che
fu il cinema. Di ciò che fu e di ciò che sarebbe potuto esse­
re. «Il nostro compito sarà quello di mostrare come gli
individui, affollati nel buio, facevano ardere il loro immagi­
nario per riscaldare il loro reale — era l’epoca del cinema
muto. E come hanno finito per lasciar morire quella fiam­
ma al ritmo delle conquiste sociali, accontentandosi di una
piccola fiammella — ed è l’epoca del sonoro, della televisio­
ne in un angolo della stanza». Quando, era solo il 1989,
Godard stabilì questo programma, avrebbe potuto aggiun­
gere: «Finalmente solo!»
Quanto a me, ricordo il momento esatto in cui seppi che
l’assioma del «carrello di Kapò» doveva essere rivisitato, e
che doveva essere rivisto il concetto cardine di «cinema
moderno». Nel 1979 la televisione francese trasmise lo sce­
neggiato americano Holocaust di Marvin Chomsky. Un ciclo
si chiudeva, rimandandomi al punto di partenza. Infatti, gli
Americani avevano sì permesso a George Stevens di realiz­
zare nel 1945 lo sconvolgente documentario di cui ho par­
lato in precedenza, ma non l’avevano mai diffuso per ragio­
ni di guerra fredda. Incapaci di «trattare» una storia che
dopotutto non era loro, i produttori americani l’avevano
provvisoriamente abbandonata agli artisti europei. Ma ave­
vano su di essa, come su tutta la storia, diritto di prelazione e
prima o poi la macchina tele-hollywoodiana avrebbe osato
raccontare la «nostra» storia. L’avrebbe fatto con il maggior
riguardo possibile ma non senza vendercela come una storia
americana tra le tante. Holocaust avrebbe dunque raccontato
la sciagura che si abbatte su una famiglia ebrea, fino a sepa­
rarla e distruggerla: con comparse troppo grasse, perfor­
mances d’attore, umanitarismo a iosa, scene d’azione e
melodramma. E compatimento.
Dunque solo attraverso la forma del docu-drama all’ame­
ricana questa storia sarebbe potuta uscire dai cineclub e, via
etere, raggiungere quella versione asservita dell’«umanità

41
intera» che è il pubblico della mondovisione. Certamente la
sifnulazione-Htf/wwr/ non si soffermava più sull’alienazione
di un’umanità capace di compiere crimini contro se stessa,
rimanendo ostinatamente incapace di far emergere da que­
sta vicenda i singoli individui che furono, ciascuno con una
propria storia, un viso, un nome, gli Ebrei sterminati. Fu
d’altronde il disegno - quello di Spiegelman autore di Maus
— ad osare, più tardi, questo salutare atto di re-indiyidualiz-
zazione. Il disegno, non il cinema, a dimostrazione di quan­
to sia vero che il cinema americano detesti l’individualità.
Con Holocaust^ Marvin Chomsky realizzava il ritorno, mode­
sto e trionfale, del nostro nemico estetico di sempre: il
buon vecchio quadro sociologico, con il suo cast ben studia­
to di tipi sofferenti e il suo teatrino di ri tratti-robot anima­
ti. Il ciclo si era chiuso è noi avevamo perso. La dimostra­
zione? Fu proprio in questo periodo che iniziarono a circo­
lare — e a indignare — gli scritti di Faurrissonne.
$

Mi ci erano voluti dunque vent’anni per passare dal car­


rello di Kapò a questo ineccepibile Holocaust. Non avevo
avuto fretta. La questione dei campi di sterminio, quella
stessa della mia preistoria, mi sarebbe stata ancora e sempre
posta, ma ora non più attraverso il cinema. Era proprio attra­
verso il cinema che avevo capito in che senso mi riguardava,
da quale lato mi prendeva e sotto quale forma — un leggero
carrello di troppo — mi era apparsa. Bisogna essere leali di
fronte al viso di chi, un giorno, ci ha folgorati. E ogni
«forma» è un volto che ci guarda. Per questo non ho mai
creduto — anche se li temevo — a quelli che, nel cineclub del
liceo, combattevano con voce piena di condiscendenza quei
povéri pazzi — e folli — formalisti, colpevoli di preferire al
contenuto dei film il godimento personale della loro forma.
Solo chi ha incontrato abbastanza presto la violenza formale
finirà per sapere — ma è necessaria una vita intera, la propria
— in che senso anche questa violenza ha uno sfondo. E que­
sto momento giungerà appena in tempo per permettergli di
morire guarito, avendo scelto l’enigma delle figure indivi­
duali della propria storia contro le banalità del cinema-
specchio-della-società e altre gravi questioni necessari amen­
te senza risposta. La forma è desiderio, lo sfondo non è che
lo schermo quando noi non ci siamo più.
Pensavo queste cose guardando, qualche giorno fa, un
videoclip alla televisione che, con dissolvenze sdolcinate,
intercalava immagini di cantanti senza dubbio molto cele­
bri e di bambini africani senza dubbio molto affamati. I
cantanti ricchi — «We are the children, we are the world» —
mescolavano la loro immagine a quella degli affamati. In
realtà prendevano il loro posto, li rimpiazzavano, li cancel­
lavano. Fondendo e dissolvendo star e scheletri in un colpo
d’occhio figurativo in cui due immagini cercavano di
diventare una sola, il clip eseguiva con eleganza questa
comunione elettronica tra Nord e Sud. Ecco, mi sono detto,
l’aspetto attuale dell’abiezione e la forma perfezionata del
carrello di Kapò. Mi basterebbe che questo video disgustasse
almeno uno degli adolescenti di oggi o che almeno gli
facesse provare vergogna. Vergogna non solo di essere nutri­
to e accudito, ma vergogna di essere considerato bisognoso
di questa seduzione estetica, in una situazione in cui invece
è necessaria soltanto la coscienza — anche cattiva — di essere
un uomo e niente di più.
E tuttavia, ho pensato alla fine, la mia storia è tutta qui.
Nel 1961 un movimento di camera estetizzava un cadavere
e trentanni più tardi, una dissolvenza incrociata fa ballare
insieme i moribondi e i ben .pasciuti. Niente è cambiato.
Né io, ancora eroicamente incapace di scorgervi l’aspetto
carnevalesco di una danza macabra contemporaneamente
medievale e ultra moderna. Né le concezioni dominanti
dell’oleografismo conformista della bellezza omologata. La
forma, lei sì, è un po’ cambiata. In Kapò era ancora possibile
rimproverare Pontecorvo di aver abolito con superficialità
una distanza che avrebbe dovuto mantenere. Il carrello era
immorale per la semplice ragione che ci poneva, lui cineasta
e me spettatore, là dove non eravamo. Là dove io, almeno,
non potevo e non volevo essere. Perché mi «deportava»
dalla mia reale situazione di spettatore libero testimone, per
rinchiudermi a forza nel quadro. E invece che senso poteva
avere la frase di Godard se non quello che non ci si deve mai
mettere là dove non si è, né parlare al posto di altri?

4S
Immaginando i gesti di Pontecorvo nell’atto di decidere
il carrello, mimandolo con le proprie mani, me la prendo
con lui anche di più, perché nel 1961 un carrello significa­
va ancora avere a che fare con rotaie e macchine, cioè con
uno sforzo fìsico. Ma faccio ancora più fatica a immaginare i
gesti del responsabile della dissolvenza incrociata di We are
the children. Me lo figuro mentre schiaccia pulsanti su una
consolle, con l’immagine a portata di mano, definitivamen­
te staccato dalle cose e dalle persone che rappresenta, inca­
pace di supporre che sia possibile volergliene per il suo
essere uno schiavo dai gesti automatici. Il fatto è che appar­
tiene a un mondo, quello della televisione, in cui, essendo
l’alteri tà praticamente scomparsa, non si distinguono più
buone o cattive procedure di manipolazione deH’immagine.
Non è più l’immagine «dell’altro» ma un’immagine tra le
altre nel mercato delle immagini di marca. E questo mondo
che non riesce più a farmi indignare, che mi provoca soltan­
to stanchezza e inquietudine, è esattamente il mondo
«senza il cinema». Cioè senza quel sentimento di apparte­
nenza all’umanità dovuto alla presenza di un paese supplemen­
tare, chiamato cinema. E capisco bene perché l’ho adottato, il
cinema: perché di rimando lui adotta me. Perché mi inse­
gna a toccare instancabilmente con lo sguardo a che distan­
za da me comincia l’altro.
Questa storia, naturalmente, comincia e finisce con i
campi di concentramento perché essi sono il caso limite che
mi attendeva all’inizio della vita e all’uscita dall’infanzia.
L’infanzia mi ci sarebbe voluta una vita intera per riconqui­
starla. Per questo — messaggio a Jean Louis S. - finirò sicu­
ramente per vedere Bambi.

Questo testo è apparso nel n. 4 di «Trafìc», autunno


1992, P.O.L.

44
SECONDA PARTE
Prima di tentare di dare all’intervista un andamento cronologico
voglio dire che quello che mi colpisce, nell’ascoltarti e nel leggerti, è,
per così dire, questa lucidità, che fa sì che la tua esperienza con il
cinema sia oggi a tal punto concisa, concentrata, da permetterti di
fare una sintesi puntuale tra il cosiddetto campo biografico e le espe­
rienze teoriche, critiche, giornalistiche. Una sorta di condensato di
storia del cinema dal dopoguerra in poi, che rende visibile il percor­
so del cinema stesso e della cinefilia a partire dalla tua infanzia...
*

C’è un’immagine che mi piace molto, quella dello spec­


chietto retrovisore. Arriva un momento — chiamiamolo vec­
chiaia, morte — in cui bisogna guardare nel retrovisore.
Perché finalmente possiamo scorgervi tanto l’immagine del
nostro passato quanto il modo con cui questa immagine è
stata modificata da tutti quei presenti che ormai non ci
assillano più, che si sono sottratti alla vista come un palin­
sesto effìmero, «dromoscopico». Ci accontentiamo così di
guardare all’indietro, nel retrovisore, per vedere a che cosa
assomigliava quel presente.
Forse siamo stati trascinati per molto tempo, dieci,
vent’anni, su una strada che non cessava mai di svoltare, per
cui, invece di scoprire davanti a noi il paesaggio che ci
attende, abbiamo la sensazione di percorrere una spirale per­
fetta, troppo perfetta. Come quando temiamo che una bre­
tella autostradale non sia altro che un cerchio, non una spi­
rale, e che ci riporti così al punto di partenza. Risultato: nes­
suna immagine davanti a noi, una sola dietro di noi, l’onni­
voro quadretto del retrovisore che si ricompone incessante­
mente. Risultato: il celebrato culto della breve frase che
avevo messo ad esergo del mio primo libro: «E non appena
ebbe attraversato il ponte, i fantasmi gli vennero incontro».
E c’è da credere che i fantasmi vengano davvero in que­
sta Francia di oggi, che scopro, incredulo e ferito, intenta a

47
diffondere lo stesso ritornello della mia infanzia. Ma forse è
solo un’illusione, una vertigine dovuta a questa spirale che
non ha mai fine, che ci sottrae ogni paesaggio diverso da
quello da cui veniamo e che è diventato il quadretto della
nostra vita e la sua leggenda. In questo stesso momento,
però, ci sono dei bambini che non guardano nel retrovisore,
ma attraverso il parabrezza, sicuri di avanzare diritti nel
paesaggio che sta loro di fronte. Eterno ritorno della presa
di coscienza deH’eterno ritorno.
Quando è stato chiaro per me, l’effetto spirale e retrovi­
sore? Sicuramente quando sono entrato a «Liberation», cioè
tardi. Probabilmente esistono punti della spirale che passa­
no molto vicini al luogo di partenza, al luogo di nascita,
riconoscibile, un po’ a strapiombo, ma così vicino che vien
voglia di toccarlo. A un certo momento ho avuto la sfronta­
tezza di dire che ero coetaneo di quello che chiamo il cine­
ma moderno, il cinema adulto, il cinema disilluso, quello
del Rossellini di Roma città aperta. È quasi un espediente
mnemotecnico: mi ripeto che ho la stessa età del cinema
moderno, un po’ meno di cinquant’anni, di già. E che non
invecchieremo insieme. Rimane il fatto che ho preferito
venire alla luce in un altro paese, l’Italia, e in un frangente
fondamentale, quando già qualcosa dell’innocenza del cine­
ma era stata intaccata e non sarebbe più ritornata. L’Italia,
non la Francia. Non ho voluto saperne della disillusione
francese, quella di II Corvo, per esempio, che ho visto una
volta sola.

Il corvo ha segnato la vita di persone come Truffaut, Rohmer, o


come il nostro amico Jean Douchet, tutta una generazione che dove­
va avere dieci, quindici anni durante la guerra e per la quale il
film legittimava un certo disgusto per il mondo degli adulti: lettere
anonime, delazioni, tradimento morale. Che cosa può voler dire far
tutt'uno con il cinema dopo aver visto II corvo a dodici anni?

Per me il discorso era chiuso e il Clouzot degli anni


Cinquanta apparteneva alla schiera degli adulti che fìngono
un allettato disgusto per la bassezza del mondo adulto, pur
essendone - almeno agli occhi dei bambini - i tipici rap­

ìh
presentanti. Henri-Georges Clouzot, come del resto Julien
Duvivier, Claude Autant-Lara o altri, non potrebbe riven­
dicare per sé questa magnifica frase di Bernanos posta
all’inizio dei Grandi cimiteri sotto la luna'. «Che importanza
ha la mia vita! Voglio solo rimanere sino alla fine fedele al
ragazzo che fui (...), dal fanciullo che fui e che è ora per me
come un nonno.» Chi, come me, è figlio delle proprie
opere, chi deve fare a se stesso il racconto dell’origine che si
è data, chi non può permettersi di perdere il filo, anche se
immaginario, o rimaneggiato, della propria vita, è punto
nel vivo dalla menzogna dei disillusi per professione. E
questa menzogna è una specialità francese, molto comoda,
molto borghese.
Per questo — per rispondere alla domanda — è piuttosto
su di me che passa questo effetto di spirale, questa impres­
sione che «tutto è là», disponibile, pensabile, a portata di
mano. Ho infatti lo strano privilegio di non avere mai
avuto occasione di odiare la mia infanzia, di giocarmela per
qualcosa d’altro, di mercanteggiarla o di perderla. Ho avuto
il piacere, nél corso della mia esistenza, di ri-raccontarmi
continuamente la mia vita, secondo gli interessi dei miei
presenti successivi e secondo la logica del retrovisore che
obbliga a sdegnare ciò che fino a ieri si pensava del passato
di fronte un elemento nuovo e imprevisto che costringe a
reinterpretare tutto. A forza di esercitare questo senno del
poi, ho finito per avvertire la strana impressione che una
storia passava attraverso di me, la storia della passività col­
lettiva di noi bambini cinefili. Bambini viziati o bambini
perduti? Esito sempre tra l una e l’altra possibilità. Primi
beneficiari della pace - quella di Yalta — o ultime vittime
della guerra — quella vissuta nel ventre della propria madre?
Recentemente ho rimproverato Bertrand Blier di avere
l’atteggiamento che hanno i genitori degli alunni. Odio i
genitori degli alunni. Mi schiero sempre dalla parte del
bambino solo che anch’io sono stato, mai dalla parte dei
genitori. Alla scuola comunale lavoravo bene, ottenevo
sempre il premio per gli allievi più meritevoli e mia madre
non era obbligata a sorvegliare i miei studi. All’uscita della
scuola di via Keller, vedevo le madri inquiete, revansciste,

49
fondare le proprie speranze sui professori in grembiule gri­
gio e mercanteggiare con loro la carne della propria carne.
Ero orgoglioso che mia madre non dovesse fare questa
parte; mi sembrava naturale che, lavorando bene, la dispen­
sassi da questo. Ero sicuro che non le sarebbe piaciuto par­
lare alle mie spalle con un professore. Sarebbe stato un tra­
dimento. Così come non ho mai sopportato che si sparli di
un terzo in terza persona, quando lui è lì, in carne ed ossa,
capace di rispondere.
Credo di essere rimasto fedele a tutto questo nel mio
rapporto con il cinema. Prima la voglia di diventare grande
il più presto possibile. Poi una specie di riconoscenza verso
mia madre che neanche per un secondo pensò che io dovessi
vedere dei film per bambini, e con la quale ben presto
strinsi un patto: lei accettava di vedere con me dei film di
cappa e spada ed io di vedere con tei dei melodrammi. Mi
domando se il rapporto con il cinema non sia stato, per
entrambi, fortemente tinto d’Italia.

Tu dunque eri bravo a scuola proprio per evitare questo maternali-


smo abusivo dei genitori degli alunni che invocano un trattamento
di riguardo per i loro rampolli ? Come a voler evitare di essere tra­
dito proprio su questo terreno?

Senza dubbio. Dovévo fare la mia parte per mantenere


quel sentimento di alleanza molto particolare che avevo con
mia madre, alleanza ideologica ante-litteram, di un ragaz­
zino senza padre che faceva causa comune con sua madre
nubile contro tutte le ferite e i colpi di cui la società era
capace. Certo, ero molto vicino a mia madre, voglio dire
fisicamente, incestuosamente, e tutto il resto. E nello stesso
tempo questa prossimità aveva un senso, il senso di un’
eventuale battaglia da sostenere contro l’ordine morale,
contro le persone normali, contro tutta questa Francia
indegna e collaborazionista che un bambino come me sen­
tiva chiaramente non sarebbe mai potuta diventare il suo
paese. Ero l’alleato di mia madre in un possibile scontro
che, ( ambiando i costumi, non è mai davvero avvenuto. Ma
sono sempre stato all’erta, pronto a battermi contro il

50
conformismo sociale, l’ordine morale, tutte* quelle cose che
ho finalmente conosciuto solo attraverso i libri e la lettera­
tura del XIX secolo, ma che — pur avendole sempre un po’
temute — non mi hanno mai fatto soffrire. Ce una compo­
nente da <<deserto dei Tartari» in questa mia vigilanza
inquieta.

Da quando questo tuo comportamento ha cominciato a delinearsi?


. t
Tardi naturalmente. Ma sempre e solo tardi si trovano le
parole per dirlo. Attorno a me, fin dal momento della mia
nascita, cerano solo donne: mia madre, mia nonna, mia zia.
Mia nonna mi ha in parte allevato e ho stretto con lei un
altro tipo di alleanza, molto diversa, ludica e culturale allo
stesso tempo. Ben presto, in quella casa dove c’erano al
massimo dieci libri, ho dato forma — con la mia semplice
esistenza di maschietto educato che,'lui sì, andava al liceo —
ad un vecchio desiderio di ascesa sociale che aveva mia
nonna. Questo desiderio era stato calpestato, tenuto nasco­
sto nel corso di una vita melodrammatica e miserabile, ma
non era mai scomparso del tutto. Io e mia nonna ci siamo
acculturati insieme. Io a dodici anni e lei a cinquanta.
Aveva comprato una casupola a Villepinte, all’epoca ancora
piuttosto selvaggia, ed io inforcavo la mia bicicletta rossa
verso le librerie all’angolo dove il Livre de poche aveva
appena iniziato a pubblicare le proprie collane e dove si
potevano trovare dei fascicoletti sui grandi pittori, non
troppo cari, che collezionavo.
Mia madre, pur gettando grida di estasiata connivenza,
è sempre rimasta profondamente estranea a tutto ciò. Ci ho
messo un po’ di tempo per capire che era una vera somara,
del genere il «bambino Ernesto»3 di Marguerite Duras e
Jean-Marie Straub: segretamente contraria all’idea che
volessimo insegnarle ciò che non sapeva. Questo non le ha
impedito di leggere per tutta la vita in metrò, di addor­
mentarsi sul libro e di dimenticare in un attimo quello che
aveva appena letto. Da bambina, messa a balia nella
Sarthe, mia madre aveva sicuramente capito che non c’era
alcuna ragione per cui lei dovesse studiare, dal momento

51
che a nessuno — non certamente a sua madre, che la cresce­
va con molto rigore — questo avrebbe fatto piacere. Oggi,
sono in qualche modo ammirato, benché naturalmente
perplesso, per la bella determinazione che ebbe nel non
voler imparare niente. E tanto più bella in quanto si fa
forte di un discorso in cui la cultura e il sapere erano
comunque valorizzati.
Mia nonna riviveva la sua vita attraverso la cultura.
Voleva sempre sapere a che età erano morti gli artisti
(«come è morto giovane!») e soprattutto se in vita avevano
avuto successo. Il senso di inferiorità era molto sentito ma
affermato gioiosamente come ciò che ci poneva comunque
al livello di quei grandi uomini del passato, molti dei quali
erano stati poveri quanto noi. Non c’era poi dunque molto
risentimento nella nostra bulimia di sapere. Avevamo una
massa di piccoli classici, Larousse, Vaubourdolle, Hatier,
che ci faceva sfilare davanti la storia della letteratura france­
se, con le facce dei grandi scrittori e gli aneddoti su
Malherbe o Fontenelle che entravano a far parte del nostro
folclore. Dal venditore ambulante compravamo dei grossi
volumi scritti a caratteri piccolissimi (alcune pagine erano
bianche, non stampate) come I misteri di Parigi che leggeva­
mo ad alta voce, con Rodolphe, la Civetta e soprattutto
l’Accoltellatore. Tentavamo di fondere la cultura popolare
di mia nonna: Zola, la lirica, Faust, le operette, Massenet,
«Sur la mer calmé-e» con quella che stava diventando la
mia cultura, a cominciare dal cinema. La cosa più sorpren­
dente è che l’operazione è riuscita e oggi mia nonna è così
brava che non confonderebbe mai Mizoguchi e Ozu.
Siamo stati in quegli anni dei poveri felici; mi ricordo
ancora certi fine mese che in casa non c’era più una lira,
avevamo svuotato il cassetto della credenza bianca anche
delle ultime monetine e andavo con la nonna ad aspettare
mia madre alla fermata del metrò Voltaire. La vedevamo
uscire dall’imbocco del metrò a volte facendo un gesto
negativo che significava che non era stata pagata, altre volte
salutandoci con un gesto gioioso da cui capivamo che aveva
i soldi e potevamo festeggiare. Ma il senso di unione tra noi
tre, la nec essità di dovercela sbrogliare, il rifìuttx di render

52
conto a chicchessia, li percepivo fortemente come un nostro
potere sovrano. Eravamo in basso, certo, ma per i fatti
nostri. Per questo non ho mai patito, la povertà. Mi ha
accompagnato, ma non ne ho mai sofferto. Far parte di una
piccola tribù capace di ridere della propria sorte e di arran­
giarsi alla bell’e meglio mi sembrava umanamente più
importante. E non sono mai veramente cambiato. Anche
dopo ho sempre dato la precedenza ai compagni di strada
più che alla questione se la strada fosse quella del successo o
no e questo mi ha permesso di simpatizzare sempre per la
causa degli altri. Per me, che non avevo ereditato alcuna
cultura politica, essere di sinistra è sempre consistito in
questo paternalismo in fin dei conti abbastanza comico.
Vivevo il mio destino di orfano di padre come una condi­
zione vagamente eroica che mi collocava «altrove». In nes­
sun caso avrei sopportato di essere compatito o che qualcu­
no si impossessasse della mia causa. Al contrario, i miei
compagni normali e borghesi, con padri tiranni e madri
asfissianti, trovavano in me un confidente e un alleato di
ferro, pronto a prendere sempre le loro parti contro l’abietto
pater familias. Ma mai disposto a farsi difensore della pro­
pria causa. La cosa era stabilita. Cioè vietata.

Durante t infanzia, che cosa ti dicevano tua madre e tua nonna a


proposito della tua nascita, della tua origine?

Bene, è giunto il momento di parlare del padre, di mio


padre, della sua leggenda. In effetti è proprio una leggenda
quella a cui mia madre — e tutto il resto della famiglia — mi
ha fatto credere fin dall’inizio e sulla quale non ho mai tro­
vato nulla da ridire per tutta la vita. Con un fondo di verità
però: qualcuno che è esisitito, è vissuto, che poteva essere,
per età, il padre di mia madre e che veniva da un altro
mondo, da un altrove così remoto che io ho passato tutta la
vita chino su una carta per verificare se da qualche parte
davvero esisteva! Come sempre i fatti erano molto più bana­
li. Mio padre si chiamava Pierre Smolensky, era un ebreo
dell’Europa centrale, nato o cresciuto a Vienna in una fami­
glia credo importante, visto che ha avuto un fratello mini­

53
stro. Dal racconto leggendario che ne fa mia madre, sempre
impietosamente uguale e con le stesse parole, quest’uomo
emerge come qualcuno in grado di illuminare per qualche
tempo la vita e le sue tre donne, ed anche, se ho ben capito,
come un avventuriero del quale si sa poco o niente. Era vis­
suto in America, dove aveva messo su famiglia — dovrei
avere dei fratellastri laggiù —, dove voleva tornare con mia
madre e, quando fossi nato, con me, sicuro com’era che la
guerra sarebbe stata alla fine vinta dai tedeschi. In una delle
sue due foto rimaste, appare come un uomo all’antica, bep
vestito, col cappello, un personaggio del primo dopoguerra,
un uomo fatto. Aveva finito per prendere sotto la sua prote­
zione questa ragazzina diciassettenne — mia madre - che
faceva la sartina per alcuni ateliers in cui lui doveva avere
degli interessi. Per mia madre la guerra fu il momento più
bello della vita: era uscita dall’orbita di sua madre, le erano
concessi tutti i capricci, le veniva insegnato un po’ di ingle­
se e la stenografìa, andava al ristorante, a teatro, sulle rive
della Marne, a Ris-Orangis. Non ha visto né capito niente
della guerra, dell’occupazione: è evidente che non ha mai
fatto domande. Mio padre doveva essere ebreo, perché alla
fine della guerra è stato arrestato dalla polizia francese. Ma
aveva degli amici tedeschi, forse degli appoggi, non portava
la stella gialla ed è stato lì lì per farcela.
Mi sono gradualmente reso conto che questa leggenda è
diventata per me come le tavole della Legge. Ho creduto
una per una a tutte le parole, anche le più piccole. Mia
madre mi diceva: «Tuo padre — Pierrot - è stato in tutti i
paesi del mondo». Mi diceva anche: «Conosceva tutte le
lingue». Il risultato è stato che ho sviluppato molto presto
una grande passione per i viaggi e non appena ho potuto ho
iniziato a collezionare timbri sul mio passaporto, trascinato
dall’idea infantile, stupida, che un giorno anch’io avrei
messo piede «in tutti i paesi del mondo». Probabilmente
ero portato per le lingue, le scimmiottavo abbastanza bene
iniziando a impararle tutte, per puro piacere, anche a
rischio di dovervi poi rinunciare. Ho studiato il cinese da
solo, per qualche anno: stare su pagine e pagine di calligra­
fìa mi calmava i nervi.

54
Ma soprattutto mio padre era nel cinema, aveva anche
un nome d’arte, Pierre Sky. Mia madre mi spiegava che
lavorava alla post-sincronizzazione e che aveva spesso dop­
piato Albert Préjean nelle coproduzioni franco-tedesche del
primo dopoguerra. Forse ebbe anche piccole parti in film
come Due donne innamorate di Christian-Jaque o
Santarellina. Ad ogni modo, anche in questo, la mia scelta
per il cinema era già inscritti nella leggenda del padre fil­
trata attraverso il desiderio della madre.
Lei non ha mai smesso di ripetere, all’infinito, sempre
esattamente con le stesse identiche parole, il racconto uffi­
ciale della sua felicità e della mia fortuna. E lo ha fatto così
bene che mai nessuno avrebbe preso il posto di mio padre.
Lei stessa ha dovuto rinunciarvi; quanto a me sono rimasto
il fedele rampollo di questa Legge che raggelava tutti e due,
due figli naturali che condividevano uno stesso fantasma,
d’accordo pér averlo in comune. Di tanto in tanto, mia
madre sembra riscoprirò un nuovo capitolo della saga, come
se non l’avesse mai raccontato prima, mentre si tratta sem­
pre, tranne qualche parola, della versione canonica. L’unica
cosa che si era «dimenticata» di dirmi era che mio padre era
ebreo. Me lo ha rivelato in seguito, nel momento in cui
pensava fossi in grado di capirlo, anche se, in un certo
senso, l’ho sempre saputo. Ma era comunque troppo tardi
per poter far rientrare la storia della mia origine in quella
del secolo e degli altri.

Cosa che avrebbe semplificato tutto.

Sì. E a questo punto posso riallacciarmi al prologo del


«carrello di Kapò». E straordinario come si sa sempre —
magari in modo più o meno inconscio - tutto quello che c’è
da sapere. Da un lato, al di là del muro di parole, delle cin­
quanta frasi della saga ufficiale, non ho mai fatto ricerche
più approfondite e personali per sapere ciò che mia madre
non mi aveva mai detto. Dall’altro, fin da quando ero pic­
colo, prima ancora di sapere che esisteva una questione
ebraica, avevo la netta sensazione che quelle immagini,
quelle di Notte e nebbia mi concernevano, mi riguardavano.

55
Per tutta la vita, ho vissuto con i cadaveri che il cinema mi
ha offerto, di cui mi ha confidato l’esistenza e proprio grazie
ai quali si è nobilitato ai miei occhi, è diventato l’istanza
che sa, che mostra e che sa che è irrefutabile.
Il cinema, luogo del padre morto, era anche il contro­
canto alle parole della madre viva. E a poco a poco ho capito
che il cinema era a tal punto il luogo del padre morto da
sfiorare il ridicolo. Ho sempre considerato Una stagione
all’inferno un testo di riferimento personale; ora, in esso c’è
una breve frase che mi ha sempre accompagnato: «e non
sono nata, per diventare uno scheletro». Ebbene, no! Avevo
torto.
Nel cinema della mia adolescenza, in questo cinema sco­
perto praticamente da solo, al cineclub del liceo, un po’
come capita con i libri vietati o i testi di medicina stuzzi­
canti che aiutano a farsi una religione sul sesso, io ho visto.
Ho visto e da questa visione, in un certo senso, non mi sono
più riavuto. Ho visto mio padre morto nei campi di con­
centramento e me, suo mimo postumo, destinato a diventa­
re a mia volta orribilmente magro a causa dell’AIDS. Ero
dunque nato per diventare quell’immagine, per diventare,
anch’io, uno scheletro. Da un lato, dunque, non mi sono
lasciato dire chi ero. Dall’altro, l’ho visto nel cinema, come
si scruta nei fondi di caffè, lì ho scorto il volto del mio
destino. L’immagine è senza dubbio questo: ciò che è inuti­
le dire.
Mio padre avrei potuto incontrarlo dietro Albert
Préjean, o in Due donne innamorate o in Santarellina o sotto
uno pseudonimo - Pierre Sky - in una filmografìa comple­
ta. Egli apparteneva due volte al mondo del cinema. Sia
come particina, come voce, sia come cadavere. Mi ci è volu­
to del tempo per sviluppare l’idea che il cinema moderno,
nato con me, era il cinema di un certo sapere sui campi di
concentramento, sapere che cambiava i modi stessi di fare
cinema. Non credo di essere stato il solo a dover affrontare
tutto ciò al momento della nascita. Né il solo ad aver assi­
stito alle avventure, ai rischi di questo sapere. Oggi le cose
si chiudono quasi impeccabilmente, si volta pagina, senza
di me.

56
Ma il rapporto con tua madre, sempre nel periodo dell’infanzia, si
fondava sul silenzio o sulla parola?

Su quel racconto. Quel racconto che si è fatto legge.


Quel racconto nel quale io e mia madre ci trovavamo a con­
dividere un solo padre, quello che lei non ha mai conosciu­
to. Lei come l’ultima donna, ancora quasi bambina, che lui
ha reso felice, ed io come il virgulto, fiero di discendere da
quella storia, da quell’uomo, da quegli altrove, uno dei
quali si chiamava cinema. Certo, questo racconto, a persone
che una tale evocazione della cinefilia infastidisce o lascia
indifferenti, può risultare piuttosto pesante. Può sembrare
cioè eccessivo il fatto che io, intestardito sui miei «vecchi
giorni», faccia parlare i film come se fossero esseri con i
quali si possono avere rapporti di filiazione. Ma per poter
restare nel desiderio della madre ho dovuto operare un
montaggio delirante: diventare un cinefilo, un cine-figlio,
un figlio del cinema, nato mitologicamente in questo o
quel film, più volte, perché è in quel mondo, in quel limbo
di cinema che, né morto, né vivo, il corpo di mio padre erra
come un fantasma cui non è stata data sepoltura, come nella
tragedia greca.
Un giorno mia madre mi ha parlato di un film con
Préjean che trasmettevano alla tv, domandandosi se per caso
non ci fosse mio padre come comparsa. Non ho guardato il
film. Lei sì, ma non lo ha visto. Ho dovuto passare tutta la
vita a sapere che da qualche parte lui era impresso, incrosta­
to, imbalsamato - come avrei potuto non essere baziniano?
- nei film in bianco e nero del primo dopoguerra e temendo
di incappare un giorno sul suo viso di celluloide, sui suoi
occhi morti che mi avrebbero guardato. E nello stesso
tempo, per tener vivo il patto perverso che avevo stretto con
mia madre, non smettevo un attimo di partire, attraverso i
film o nella vita, sulla cartina o sul territorio, come se inse­
guissi una missione senza fine: partire, partire per andare
vicino, partire per andare lontano, andare a Melun, andare a
Shangai, e tornare, come se nulla fosse. Tornare a Parigi
come nella canzone di Trenet — «Rivedere Parigi, rivedere
le rive della Senna...», che d’altronde dice chiaramente:

57
«Mia madre mi aspetta». I miei viaggi, da questo punto di
vista, sono la storia del mio eterno ritorno in rue
Taillandiers, «niente in mano niente in tasca», con mia
madre che, abituata ormai a vedermi andar via e tornare,
prepara una bella ratatouille e si occupa dei panni sporchi. E
ancora mi sento pronunciare, come se l’avessi detta davvero,
la piccola frase che è alla base di tutto questo rituale: «No,
non l’ho visto».

Ma tuo padre si è occupato di cinema in modo diverso da te: lui. in


modo attivo, un po' da dilettante, da avventuriero, tu invece a
corpo morto, come passione letteraria che non si è mai confusa con il
fare.

Per me il cinema era come un luogo dove semplicemen­


te si doveva essere. Non per farci qualcosa, per esserci,
esserci sentendosi più sicuri che a casa propria. La gente si
stupisce quando dico che non ho mai avuto il desiderio — o
almeno il desiderio cosciente - di fare dei film. Nel 1967,
mi sembra, ho girato un piccolo cortometraggio molto
masochista che si intitolava Une (très) mauvaise journée (t.l.
Una giornata — molto — brutta) e che non ho neppure ter­
minato. Era un periodo in cui tutti quelli che mi circonda­
vano si stavano preparando, come si dice, a passare dall’altra
parte della cinepresa. E anch’io che appartenevo così tanto a
questa parte, poiché il cinema era — ed è rimasto - per me
«il luogo dell’altro», di un altro molto particolare che vi era
forse rimasto imprigionato come in una galleria degli spec­
chi, ho impegnato le mie due lire e ho fatto fìnta di fare
cinema! Questa piccola esperienza è un brutto ricordo, una
specie di incubo senza alcuna grandezza, la certezza di aver
imboccato una strada sbagliata, in ogni caso non la mia. In
seguito, il 1968 mi ha mostrato quanto tutto questo era
ridicolo.

Per quanto ti conosca, non avrei mai potuto immaginare questa


storia. Ciò che mi colpisce è che tu hai sempre voluto evitare il tema
del «ritrovamento» attraverso un romanzo, un film, una scrittura,
una testimonianza. qualcosa che ti avrebbe consentito i benefici

5H
della leggenda. Hai invece preferito seguire una linea di fuga per
spostare il più lontano possibile questo incontro con tuo padre.

Ho fatto durare il piacere — e l’angoscia - molto a lungo.


Non smettere mai di partire, non smettere mai di tornare,
rimandando sempre a domani il momento di affrontare
qualcosa, qualcuno. Da qui l’idea di mettermi in analisi. E
così via.

Ma tu la tua psicoanalisi l'hai fatta con il cinema.

Ah beh, quella psicoanalisi è durata trentanni. Nel mio


caso è stata così lenta, così rimuginata, che oggi posso dire
«muoio guarito», cioè rientro nelle immagini che, come
dice Jean Louis Schefer, «hanno ri-guardato la mia infan­
zia», immagini di un disastro, che era però anche segno di
elezione, di leggerezza. La nostra elezione, mia e del cinema.
Il cinema, arte paradossale, privilegiata, diversa da tutte le
altre. Il cinema, luogo dei padri morti, scomparsi, assenti
per una o due generazioni successive di cinefili. Io devo
essere stato il più ostinato fra loro, abbarbicato alla propria
storia come un mollusco allo scoglio.
È a questo punto che mi chiedo se per caso il tema della
morte del cinema, che ebbe il suo momento di gloria una
decina di anni fa — con i film di Wenders — non fosse per
me la sola condizione per riuscire finalmente a vivere in
modo autonomo, forse a scrivere. Come se il cinema dovesse
scompari re ^perché potessi passare dal limbo alla scena, dalla
notte al giorno, dalla nebbia alla luce, in breve dal «noi»
all’«io». In realtà e più ironicamente, la mia morte potreb­
be ora essere in sincrono con quella del cinema! Se sono
nato nell’anno di Roma città aperta bisognerà pure che con
me sparisca almeno quella parte di cinema cui sono stato
contemporaneo, i «gloriosi trentanni» del cinema moder­
no. Questo atteggiamento da «dopo di me il diluvio» deve
esasperare parecchie persone, come se noi, i quasi cinquan­
tenni di oggi, incarnassimo un egoismo insensato, una spe­
cie di incesto riuscito, nel quale mancherebbe il desiderio
di trasmettere qualcosa. A volte penso che il tempo della

59
mia vita, il mio timing, e quello del cinema si sono incastra­
ti proprio bene l’uno nell’altro: trent’anni, tanto serviva per
voltare una certa pagina, da Rossellini alla morte di
Pasolini. Trent’anni è anche, più o meno, quanto mi è stato
concesso di vita attiva. Il cinema non mi ha mai abbando­
nato, al contrario del jazz per esempio. Penso che il jazz sia
la musica più bella del secolo è ne ho ascoltato tanto. Ma il
giorno della morte di Albert Ayler ho saputo — in ogni caso
ho deciso — che l’avventura era finita, che non avevo inten­
zione di diventare un vecchietto con i miei tesori da discofi­
lo, l’assolo di Wardell Gray in Scrapple from the Apple al fian­
co di Bird o quello di Sonny Rollins in Blue Seven. E poi
poco tempo fa vedo Bird di Eastwood alla televisione e mi
basta sentire la musica di Parker per scoppiare a piangere
là, da solo. Capita, perché in fondo il jazz, come il cinema è
un po’ qualcuno. Non un’espressione culturale tra mille
altre, ma un destino quasi paragonabile a quello di un
uomo, grande e triviale allo stesso tempo. Il giorno in cui il
cinema avrà più di un secolo finirà questo strano paralleli­
smo, che è anche una confusione nostra, mia, tra il tempo
della vita di un uomo e l’età del cinema. Mia nonna mi par­
lava sempre dei film di Feuillade che aveva visto da bambi­
na, di lai main qui étreint, che per me era l’ancora più terrifi­
cante «la mainquétrain»4.

Che tipo di legami o di amicizie hai avuto negli anni del liceo ?

Sono le parole giuste: «legami», «amicizia». Non ho


mai pensato di poter avere con le persone rapporti che non
si fondassero sull’amicizia. L’amicizia — l’idea di amicizia,
l’imperativo categorico dell’amicizia — ha sempre prevalso
su tutto, perfino sul sesso. Quando a Harrar, la città di
Rimbaud, incontro il piccolo Abdullahi, un ragazzino di
quindici anni furbo come una volpe, non posso fare a meno
di considerarlo anche mio amico, cioè mio eguale.
Altrimenti è semplicemente prostituzione. Ed ancora, a
Manila, quando vedo un altro ragazzino, un piccolo fem-
miniello di nome Dany, tatuato sulla natica sinistra, che si
riveste con cura e mette il mio denaro negli slip, è sempre

60
un sentimento di uguaglianza, di empatia che si fa strada.
Sono capace di indifferenza criminale, non di cinismo
becero.
Mi viene in mente il primo giorno di scuola — alle ele­
mentari perché non èro andato all’asilo — e di come sono
diventato amico di un altro bambino della mia età, Michel.
Il problema del giorno era: chi diventerà mio amico? chi mi
sarà nemico? È straordinario il sapere di un bambino. Il
modo in cui sa già di non far parte del gruppo di brutti
ceffi che spadroneggiano nel cortile durante la ricreazione,
che da quelli bisogna girare alla larga, ignorarli e vivere
delle amicizie sublimi. Un atteggiamento definitivamente
difensivo.
Io e Michel andavamo tutti gli anni alla Fiera del Tróne.
Era un evento. Ci piacevano gli autoscontri e il nostro mas­
simo divertimento consisteva nel non farci venire addosso.
Ho ripensato spesso a quel periodo, arrivando alla conclu­
sione di essere stato veramente innamorato una volta sola
nella vita, di Michel, e avevamo sette o otto anni. Andavo a
casa sua, in rue Keller, e inventavamo giochi poverissimi,
senza giocattoli, con regole nostre. Non ho mai più avuto
quella sensazione di tempo che non scorre, di pienezza
immobile: in quel momento c’è un unico essere e da solo
riempie ogni orizzonte possibile. Come dice la cantata: «Ich
habe genug» cioè «ho quanto mi basta».
Ecco, l’alleanza totale, la sicurezza assoluta, dovuta al
fatto che eravamo in due, ma uniti come le due parti di una
clessidra. Probabilmente alla base delle mie amicizie suc­
cessive, soprattutto ai «Cahiers» c’è sempre stato quel
genug, anche se con risultati molto attenuati. Ciò che resta
sempre è questo sguardo del bambino verso i suoi simili nel
cortile della ricreazione: «Di chi sarò amico quest’anno?»

Che cosa ha fatto sì che tu non sia mai stato un alunno modello?
La volontà di non volerti conformare all’immagine del perfetto stu­
dente?

A scuola ero molto bravo, anche al liceo, ma terribil­


mente pigro e indisciplinato. Mi sembra peraltro di ricor­

61
dare che l’ambiente del licèo Voltaire non fosse da primi
della classe e che l’ideologia dominante fosse assolutamen­
te laica, ugualitaria e in fin dei conti meritocratica. Dopo
tutto sono abbastanza riconoscente a quel tipo di educa­
zione, al suo lato severo-ma-giusto. Ero costretto a questa
meritocrazia che non mi ha mai più mollato. Ero orfano
di guerra, borsista, un bambino' del popolo scampato e
adottato dalla borghesia e quindi obbligato a non voler
deludere.
È terribile, lo so, ma non ho mai smesso di credere al
merito, anche davanti a tutti i «capisco, però...» del dinie­
go. Il merito non riconosciuto mi disgusta sempre. C’è
sempre una scena dietro, quella della distribuzione dei
premi e delle ricompense, quella di Gli amanti di domani e
ho sempre immaginato di figurare in questa scena. Ci deve
pur essere una persona, un’istanza, dalla quale si possa esse­
re riconosciuti. Oggi, a causa della malattia, ho così poco
tempo da non pormi troppi problemi a chiedere ai miei
amici di aiutarmi a raccogliere ciò che mi è dovuto. Ma per
tutta la vita, sono sempre stato abbastanza capace di com­
patire le disgrazie dei miei compagni ricchi, quelli stessi
che avrei ucciso se solo avessero manifestato nei miei con­
fronti un briciolo di commiserazione o di paternalismo.
In altre parole mi improvvisavo «protettore» dei più
handicappati, dei più laidi e disgustosi fra i miei compagni
di liceo. E dato che, troppo debole, non avevo i mezzi per
proteggerli, recitavo la parte simpatica di chi non li emar­
ginava. Avevo poi una concezione abbastanza bizzarra dei
rapporti tra fìsico e mentale: ero amico di quei mostri per­
ché ero convinto che non ci fosse alcuna relazione tra la per­
sonalità e i corpi, sbagliati. Un’altra versione dell’arbitra­
rietà del segno, come nel caso della cartina e del territorio
reale! Era un modo molto, troppo radicale di essere sempre
già oltre i problemi dell’emarginazione, del razzismo -
compresi quelli dei quali poi anch’io avrei potuto soffrire —
screditando a tal punto l’apparenza fìsica che non restava
più nessuno da escludere e anzi apparivano una infinità di
«io» diversi nei confronti dei quali esercitare una curiosità
assolutamente sconfinata e disinteressata.

62
Più tardi, mi sarebbe interessato penetrare la «visione
del mondo» dei grandi autori, prima ancora di preoccupar­
mi di accettare il corpo degli attori. Infatti, se avessi svilup­
pato un amore per gli attori francesi, ad esempio Albert
Préjean, quale sarebbe stato il rischio? Di incappare troppo
presto nell’immagine capace di distruggere l’incantesimo.
Sono convinto, anche in tal caso, che la scelta del cinema, la
«soluzione cinema» se si vuole, sia intervenuta proprio a
rafforzare questa visione meritocratica, ugualitaria delle
cose. Il cinema, quando io ero molto giovane, mi appariva
come il sociale per eccellenza: fare un film consisteva nel
manipolare selvaggiamente il mondo, gli altri, il denaro, il
linguaggio. Oggi, sono convinto che nonostante i suoi pes­
simi tratti commerciali, il cinema è stato e resta un mondo
più democratico delle altre arti. Suppongo che i rapporti di
forza, le gelosie, i colpi bassi, le ingiustizie siano diventati
più terribili nelle arti che, moderne ormai da lungo tempo,
non sono più sottomesse alla bassezza del giudizio del pub­
blico, ma neppure alla sua grande capacità di indifferenza e
di oblio e al maledetto risentimento egoistico degli artisti
stessi. Ho farneticato molto sulla crudeltà del cinema, senza
accorgermi che questa crudeltà aveva un risvolto — mizogu-
chiano — di compassione. Oggi vedo piuttosto nel fascio di
luce del cinema uno spazio di riconciliazione, se non di
riscatto.
Tutto dipende, naturalmente, dalla porta attraverso cui
si entra in casa. Io sono entrato al cinema, la casa paterna,
da una porta tutta mia che ho scelto subito dopo averla
conosciuta, la porta dei «Cahiers du cinema». Si può dire
tutto quello che si vuole sui «Cahiers», tutto il male possi­
bile, ma è indubbio che se ce un elemento cdrtiune a coloro
che ne hanno segnato la storia e che li hanno fatti è la man­
canza totale o parziale di savoir/aire sociale, di arrivismo. O
meglio, quando c’è stato non ha mai voluto dire molto,
finendo sempre per scomparire strada facendo. I «Cahiers»
non sono serviti a nessuno per «arrivare», o in certi casi
sono serviti per arrivare molto velocemente al punto al di là
del quale iniziano le acque ancora più angoscianti della
gestione, del mantenimento; come per Truffaut, credo, che

63
rispettava il successo, di cui, però, ben presto, non gli è
rimasto altro che il peso, il fardello, la triste responsabilità.
Scegliere i «Cahiers» voleva dire scegliere in anticipo tutti
gli orrori, gli affronti, le paure da adolescenti di un’istitu­
zione che aveva già una sua storia, una storia alla quale
bisognava aderire e aggiungere nuovi capitoli. Ma significa­
va anche, è indubbio, conservare un certo candore quanto a
trappole sociali, usanze da professionisti delle professioni,
moine ipocrite, cene di fine anno, ascensori e colpi bassi.
Questo candore oggi mi sembra quasi eccessivo, eppure è
chiaro che ha rappresentato la condizione per cui questa
rivista è durata fino ad oggi e ancora continua.
Allo stesso modo quando ho cominciato a lavorare a
«Liberation», nel 1981, quello era ancora un giornale fatto
da persone che credevano in ciò che facevano. Niente pub­
blicità, salario unico di 5000 franchi. Io, a trentasette anni,
sono stato tre mesi in prova, ho fatto la gavetta’e ho dovuto
sostenere degli esami. Un’impostazione che combaciava
perfettamente con le mie idee meritocratiche. Oggi mi dico
che questo doveva autorizzare molte persone a nutrire nei
miei confronti quel cortese disprezzo che la gente normale
riserva a coloro che «sono superiori a tutto ciò» o dei quali
affermano che «è bene che esistano delle persone così», frase
dietro cui ho sempre percepito un sincero desiderio di
morte. Ma di questo mi accorgevo appena e non ne ho mai
sofferto. È piuttosto oggi che di riflesso il mio orgoglio ha
qualche contraccolpo di ribellione. Ma non avrei potuto fare
altrimenti. Nel cinema, lo ripeto, bisognava esserci, ma
solo con quella sorta di disinteresse, quella serietà infantile
che permette di guardare senza paura il risultato, il precipi­
tato di immagini del mondo così com’è, tale che non si ha
voglia di incamminarcisi, in cui non ci sono chierichetti ma
solo le dure leggi del sociale, il denaro, il tradimento, il
tempo, il potere, la ragion di Stato dello studio o dell’arti­
sta, e così via. Ho fatto parte di questo pubblico di chieri­
chetti troppo presto messo a confronto con una certa gravità
tragica dello spettacolo offerto dal cinema. Questa innocen­
za subito intaccata è forse il soggetto del racconto ideale e
perverso che mi faccio. Ora i termini si sono ribaltati: un

64
pubblico che ha perso del tutto la sua innocenza strizza
l’occhio allo spettacolo pubblicitario di un cinema infantile
e corrotto.
Io ho fatto del ragazzino di La morte corre sul fiume uno
dei miei alter ego preferiti, (l’altro era John Mohune in 11
covo dei contrabbandieri), perché egli aveva una decina d’anni
quando il film venne girato, nel 1955, ed era quindi mio
perfetto coetaneo, il mio fratello americano. Il modo con
cui questo ragazzo, diretto da Laughton, sostiene lo sguardo
su ciò di cui ancora non conosce la gravità, sapendo soltanto
che dev,e vegliare sulla sorella che, a sua volta, sa solo di
essere una donna, questo sguardo spalancato di quelli che
non sanno recitare, dei bambini appassionati che sono tutto
tranne che piccole attrazioni per adulti, è la leggenda in cui
voglio comparire, è il mio volto così come amo credere che
il cinema me l’abbia consegnato, come una pellicola che
abbia impiegato vent’anni per svilupparsi.

Alcuni sono diventati registi proprio per le stesse ragioni: evitare di


subire violenze di vario genere. È ciò che scrive Truffaut a proposito
di Hitchcock, che si è rifugiato nel cinema per il fantasma del
dolore fisico e delle pene corporali subite da bambino - con la scena
primitiva del commissariato dove suo padre 1’accompagna per spa­
ventarlo5 — Tu hai trovato rifugio nel parlare di cinema.

Per «fare» cinema, mi è mancato qualcosa: il desiderio


di impormi. Non per virtù, ma per l’incapacità di contare
su me stesso, di credere in me stesso. Ho creduto al mio
destino, a una specie di pallida stella, non a me stesso.
Come un traghettatore, sono rimasto in mezzo al guado
aspettando che qualcuno dalle due rive mi chiamasse o mi
tendesse la mano, e dato che questo non avveniva mai, ho
iniziato ad alzare la voce e a passare piccoli messaggi, scritti
e orali, per trasmettere notizie da una riva all’altra, senza
appartenere a nessuna delle due. Né a quella delle persone
normali che guardano i film per puro divertimento, né a
quella degli eccezionali, quelli che creano, gli artisti, che
l’esperienza poi dimostrerà essere anche loro molto normali,
in altre parole non degni di essere idealizzati.

65
Ecco, sono stato tanto a lungo nel guado che ho finito
per intrigarmi, per diventare parte del paesaggio, come un
dignitoso spaventapasseri o una statua d’arte moderna.
Dato che non riuscivo a mostrarmi, ho aspettato paziente-
mente che qualcuno mi vedesse, che si avventurasse dalle
mie parti, dalle parti del cinema, la sola cosa grazie alla
quale io posso vivere con qualche soddisfazione, e non appe­
na si faceva avanti, lo subissavo di tutto quello che non ero
riuscito a dire a nessun altro. In breve, non ho mai dovuto
fornire prove della mia esistenza o del mio valore perché la
chiave della mia esistenza era sotto l’attenta sorveglianza
della galleria degli specchi del cinema, con un padre prigio­
niero, e il mio valore era quello che mi aveva riconosciuto
mia madre al momento della nascita. Lo zero. Il fatto di esi­
stere, semplicemente.
Il cerchio si è chiuso: il bambino, nato quasi morto, sfac­
cendato, venuto al mondo per diventare scheletro e per rap­
presentare, in extremis, la figura collettiva di una strana
passione, un santo alla Bazin, una passione che, ahimè, si
può definire solo con il nome di una malattia: la «cinefi­
lia», di cui tento qui di spiegare i retroscena, un po’ come il
retroscena del limbo, tutto questo avanza lentamente
sull’orlo del baratro.
Del resto, penso che si debba accogliere, se non altro con
humour, ciò che di se stessi si è creato a partire dal luogo
dell'altro — al suo posto se io ne sono il rovescio. Ciò che
nella vita ho fatto per puro volontarismo non mi ha dato
nulla e mi ha provocato solo una indefinita e lancinante
angoscia. Al contrario, in due o tre casi, ho fatto con natu­
ralezza cose di qualche importanza che hanno procurato, a
me e agli altri, un po’ di felicità. Diciamo che mi sono dato
abbastanza da fare - senza ordine, cura, né disciplina -
affinchè il modo in cui la vita mi segnava, non mi mandas­
se, nello stesso tempo, dritto dritto al manicomio. Se in fin
dei conti nell’arte c’è del merito, esso è impuro: un ibrido
tra il coraggio consapevole - lavorare — e la sottomissione
inconsapevole - essere trascinati. Basta che una delle due
cose venga meno per vacillare: il coraggio da solo diventa
folle potenza di lavoro, ma lavoro da schiavi, la sottomissio­

66
ne pura e semplice diventa rischio di implodere nella pro­
pria follia.
Io ho sempre valorizzato ciò che non facevo: nel lavoro
individuale ho sempre dato troppa importanza ai tormenti
della creazione solitaria, come se tutti conoscessero o avesse­
ro conosciuto l’angoscia della pagina bianca, la rabbia
dell’espressione o l’esperienza dei limiti. Poco tempo fa mi
sono detto che Cocteau aveva sicuramente ragione quando
consigliava di fare sempre ciò che gli altri ci rimproverano,
perché in questo sta il nostro essere, anche se i moralisti
duri e puri, i cristiani, i chierici — dei quali faccio parte —
non vogliono sentir dire queste cose e la tranquilla arrogan­
za del genio, la sua leggerezza, li fa star male, e non aspetta­
no altro che il tempo in cui questa condizione si deteriori,
volga al male e, di colpo, diventi più umana.
«
La tua storia è coerente anche perché ne fai oggi una sintesi pun­
tuale. Ma mi domando che cosa renda ad un certo punto possibile
scrivere la propria storia dicendosi: ecco che cosa non sono stato, per
esempio un gaudente, un edonista o un seguace della felicità. Penso
per esempio al nostro amico Jean Douchet, che ha avuto una parte
molto importante nella tua entrata ai «Cahiers» e che ha avuto
una storia molto diversa dalla tua...

Jean è un borghese convinto, fedele ai suoi codici, a una


certa morale del piacere, alla Sacha Guitry. Sono queste le
persone che di solito chiamiamo edoniste. Io ho avuto a che
fare con altre cose, con un altro tipo di esistenza. Sono stato
di quelli che non possiederanno mai niente, che detestano
l’idea del possesso, che al mondo non possiedono altro che
libri e dischi, e ai quali non rimane altro che possedere se
stessi, che vivere dei piaceri semplici o, il raggiungimento
dei piaceri comportando esso stesso un lavoro, dei semplici
stati di felicità. Una semplicità così assoluta, radicale che,
condividendola, si ha come la certezza di appartenere natu­
ralmente alla specie umana, quella che, come diceva mia
madre, è «felice di vivere e di vederci chiaro» (bel programma
per un cinefilo). È una cosa a cui penso molto in questo
momento, con una sorta di ostinata gratitudine, come nei

67
Fioretti di Rossellini. È senza dubbio un sentimento france­
scano, una contentezza da camminatore, incomprensibile
per chi non lo è. «Lebbroso, sto seduto sui cocci e sulle orti­
che, ai piedi d’un muro rosicato dal sole», sempre
Rimbaud, Rimbaud il camminatore.
Sempre, nel terzo mondo, ho avuto molta cura di seder­
mi con le spalle appoggiate al muro, in pieno sole, attento a
non disturbare, e ovunque sono stato assolutamente felice.
11 sole sui muri di Parigi, «tomorrow is another day», la pigri-,
zia della lucertola che rimanda sempre tutto al giorno dopo,
il piacere di ricordare le prime venti inquadrature dell’ini­
zio di un film per sapere se mi ci sentivo come «a casa
mia». È una felicità troppo modesta per non essere assoluta,
sono piaceri non cumulabili, il lusso dei poveri, lo stupore
di chi sopravvive per professione, di colui che è contento di
essere al mondo, che lo lascino vivere, che facciano almeno
fìnta di accettarlo.
I viaggi servono soltanto a questo, a creare sempre più
occasioni per provare questa felicità che non si può raccon­
tare. Salire a caso su un treno e constatare che parte puntua­
le. Riuscire a fare mentalmente una, due, tre concatenazioni
come nella ginnastica o nella danza. Rimanere se stessi in
un paesaggio che cambia, accompagnare briciole di avveni­
menti, di durate, di seguiti, di corpi felicemente ridotti al
loro sesso. Ecco. Certo, lo scotto può essere pesante: fiaschi
paurosi, concatenazioni non riuscite, perdite senza profitto,
miserabili insuccessi, tanto più tormentosi poiché la posta
in gioco è la derisione.
E una felicità clandestina. Come semi clandestina fu per
me la passione per il cinema. Naturalmente è anche il mio
destino di omosessuale, l’uomo delle folle, l’ebreo errante
sempre a caccia di incontri, che ha solo il proprio corpo,
solo il suo corpo per obbedirgli, un corpo per cui non ha
riguardo, non ha cura, come una macchina che ci è familia­
re, destinata a funzionare e a stancarsi, riempirsi e svuotarsi,
fottere e che per prima si arrenderà. In questo senso è vero,
non sono un edonista, anche perché non mi fido delle perso­
ne che raccontano i loro piaceri, che li raccontano nei mini­
mi particolari, peggio, che fanno del loro culto del piacere

68
una macchina da guerra o uno sfoggio ideologico. Non ci
credo, o meglio ci vedo una sorta di volgarità di una classe
che non mi appartiene. ATcontrario, niente mi commuove
più dell’ostinazione sempre sconfìtta, scoraggiata, calpesta­
ta con la quale, nonostante tutto, ognuno cerca di conqui­
stare per sé un po’ di felicità su questa terra.
Per ciò che mi riguarda la noncuranza con cui ho vissuto
è veramente incredibile. Non ho mai pianificato, mai pro­
grammato, mai desiderato niente che andasse più in là di
uno o due mesi. Mai. I problemi che di solito affliggono
ogni vita normale non sono mai esistiti per me: guadagnar­
si da vivere, elevarsi socialmente, sposarsi, avere dei figli,
possedere cose, vivere con qualcuno, guidare una macchina,
tutto questo era già negato prima ancora di essere posto -
oltre al fatto che, dal momento che mia madre non interfe­
riva nella mia vita, non c’era nessuno con cui farlo. L’unica
decisione che ho preso nella mia vita è stata quella di lascia^
re i «Cahiers». Mi sono detto: non ne posso più, basta,
tanto peggio per le conseguenze. Le uniche decisioni che ho
preso in vita mia sono state in negativo, come smettere di
occuparmi del settore cinema a «Liberation» qualche anno
più tardi. C’è una sola decisione positiva, del tipo siamo
arrivati al capolinea: è «Trafìc». E sono molto orgoglioso,
alla fine, di aver scoperto di essere capace anch’io di
un’azione positiva.

Conosco da sempre la tua passione per le cartoline, ma ancor prima


delle cartoline, ancor prima della scrittura, ci sono le immagini e i
colori dei paesi. Questo si riallaccia all'idea che oggi tutto il cine­
ma del mondo è facilmente localizzabile, con i paesi in cui il cine­
ma continua a esistere, quelli in cui è scomparso... E abbiamo i
mezzi tecnici per raccogliere tutta questa memoria di film...

La carta, cartolina o cartina geografica che sia, viene


prima del territorio. La carta precede l’immagine del cine­
ma. La carta viene per prima. Bisognerebbe usare una paro­
la della mia infanzia: atlante, atlante piccolo, perché non
avevamo i mezzi per comperarne uno grande. Allo stesso
modo il dizionario viene per primo, ha diritto di prelazione

69
su tutti gli altri libri, la sola e vera sacra scrittura che dice
ciò che è stato e che mostra quelli che sono già stati. Il for­
mato egualitario delle vignette dei Petit Larousse mi ripor­
tava all’egualitarismo del liceo. Molti vocaboli contemplati,
pochi gli eletti, ma un solo formato per tutte le schede.
Come se ci fosse, parallelo al culto dei grandi personaggi,
un regno — l’iconografia — in cui Napoleone non avesse
diritto di essere più importante dei suoi ufficiali. Lo stesso
vale per le cartoline.
Non ricordo un solo momento della mia vita in cui non
abbia saputo che Tegucigalpa è la capitale del Honduras o
Windhoek quella del vecchio sud-ovest africano. La mia
buona memoria per i nomi propri, per le lingue straniere,
per la topografìa, deriva da un’immagine, una sola: quella
del mondo appiattito. E da un instacabile godimento: quel­
lo dell’arbitrarietà del segno che fa sì che tra la forma della
Svezia e la parola Svezia ci sia sempre uno iato e che neppu­
re un viaggio in Svezia cambierebbe tutto questo. Ero entu­
siasta quando un pezzo della cartina aveva uno statuto
ambiguo: il Saar era indipendente? Mi sarebbe piaciuto che
lo fosse, perché dopotutto un paese in più era un di più. E
il Dobrogea, che storia è? Allora mi assumevo la responsa­
bilità di separare il Dobrogea dalla Romania, dal colore
della Romania, e di mantenere solo per me la finzione di
un paese in più con Constanta per capitale.
A questo tipo di ragionamenti attribuisco oggi — ma
forse esagero - il fatto che, privo di qualsiasi idea politica,
fin da bambino sono stato a favore dell’indipendenza algeri­
na. Trovavo formidabile che l’Algeria smettesse di essere
questa grande macchia rosa dell’impero coloniale francese,
AOF, AEF (Afrique Occidentale Fran^aise, Afrique
Equatoriale Fran^aise). Mi sembrava normale che i popoli
fossero sovrani nei loro paesi, ma mi piaceva anche molto
l’idea di un nuovo stato indipendente. Forse è questa picco­
la parola che conta: indipendente. Indipendenti come noi
tutti eravamo in famiglia, attenti a non farci mettere i
piedi in testa da nessuno.
Ecco, le carte geografiche mi hanno sempré accompa­
gnato. L’unita immagine appesa al muro della mia casa è

70
proprio una cartina, quella del IGN (Institut Géographique
Frangais). Non sono assolutamente uno scopritore, un
esploratore: non sarei mai andato in un paese, se fosse stato
assente dalle cartine. Deleuze una volta mi disse: «Lei va in
capo al mondo per vedere se il capo del mondo esiste». Si va
a verificare l’immaterialità della frontiera e l’arbitrarietà del
segno e si gusta infinitamente il momento di fusione che si
raggiunge in aereo quando la cartina è il territorio e in più i
due, come me, hanno anche un nome!

L'atlante sta al territorio come il dizionario sta alla lingua, e tu


ne fai lo stesso uso domestico: un mezzo di riferimento.

Il dizionario è come un cielo costellato di tante stelle


quanti sono i nomi, una buona memoria di nomi, soprat­
tutto stranieri e di volti che hanno diritto di apparire.
Finire nel dizionario è un mio sogno inconfessato. E nel
frattempo, è una promessa infinita di sapere, di complicità
con opere, emozioni. Ho passato una vita intera a sapere che
Alargon aveva scritto La verità sospetta senza mai averla
letta, o che Thorvaldsen e Canova sono importanti scultori
senza mai aver visto una delle loro opere. Amore platonico
del cielo stellato.

Il vedere precede sempre il nominare.

Sempre. Ma il nome viene prima. La cosa che vediamo è


il nome. Dobbiamo verificare che qualche cosa corrisponda
a questo nome, risponda presente all’appello. I cinefili
hanno tutti lo stesso vizio: quello di fare delle liste. Se fac­
cio una lista, mi esonero dal fatto che che non vi compaio o
anche dal fatto che abbia passato la mia infanzia a temere di
non esservi incluso. Era necessario che ogni cosa corrispon­
desse al suo nome — i paesi, le città, i popoli, le opere - e
che si potesse andare a verificare. Ed è così che la vita passa
e ci si ritrova alla fine molto ignoranti, quasi al punto che,
passata una certa soglia, non ci si interroga più sul proprio
sapere, sulla realtà concreta di questo sapere, sulla scena e
sull’apparenza, sulla follia che significa, in ogni caso, il

71
voler stabilire un rapporto personale, intimo con tutti i
pezzi del museo immaginario. Come un guardiano che
vivesse con ciò che cura e allo stesso "tempo lo cura.

L’idea della lista è tipica di chi è ossessivo, sempre con la paura che
un nome o un film manchi all’appello.

Per questo ho iniziato il libro con la frase «nell’elenco


dei film che non ho visto», come se fosse un modo brusco
di vuotare il sacco. Che sacco? Non è molto importante,
quando c’è un titolo ed al titolo corrisponde un film - sono
le piccole ironie della vita — finiremo sicuramente per
vederlo. Dopotutto il film cui oggi faccio più riferimento,
La morte corre sul fiume, l’ho visto abbastanza tardi.

Per tornare alle cartoline, c’è sempre questa idea di coglierne il


valore d’uso, di servirsene come mezzo per inviare ai propri amici
piccoli messaggi cifrati, segnali che potrebbero voler dire: «Sono
qui, ho pensato a te, ecco cosa devo dirti qui e ora». C’è in questo
una forma di dandismo, nascosto dietro il desiderio di far partecipi
gli amici di una nostra esperienza.

La cartolina per me è stata l’immagine, la sola immagi­


ne possibile dopo la carta geografica. Ne ho sempre spedite
a tutti, secondo i miei amori, le mie amicizie, e le mie
fedeltà. Alla fine ho capito che non facevo altro che spedir­
ne a me stesso, attraverso mia madre, che abituata fin dai
miei primi viaggi ad essere rassicurata da una cartolina, ha
finito per diventare il fermo posta di quel cinema autistico
che mi facevo con quei pezzi di cartone, i francobolli vario­
pinti, e l’indirizzo materno che è rimasto sempre lo stesso
in trentanni. Un giorno, rendendomi conto di avere una
percezione molto confusa delio svolgimento cronologico
della mia vita, ho capito che il solo filo che possedevo per
risalire, anno dopo anno, alla mia cronologia, erano le circa
millecinquecento cartoline che avevo spedito a mia madre e
che lei lasciava in evidenza su un mobile, così che al mio
ritorno le trovassi e immediatamente le sistemassi con le
altre. È tutto dire. Oggi mi rattrista che la cartolina, come

72
il cinema, vada scomparendo. Poco tempo fa vado a Lione e
appena giunto alla stazione di Perrache cerco una cartolina
da spedire. Ma su tutte ci sono delle enormi scritte
LIONE, delle cornicette orrende, dei tocchi di creatività
che rappresentano l’odierno chic and cheap e capisco che la
mia cartolina, quella che piace a me, con la veduta aerea, la
cattedrale o la piazza del mercato senza nessuna scritta
sopra, non esiste più. Ciò che non esiste più è il prelievo
immaginario di un pezzo di paesaggio che diventa
un’immagine, immagine che si squama, che viene verso me
e cade ai miei piedi, sugli espositori delle cartolerie e dei
tabaccai. Non bisogna scriverci sopra, segnarla, siglarla,
timbrarla, deve essere semplicemente una foglia morta
degli alberi di un paesaggio anonimo. E invece così come
c’è un cinema filmato, ultra firmato, ultra significato, così
ce una cartolina cartolinizzata, che mi priva del fantasma
che mi ha fatto correre in tutte le direzioni, per tutta la
mia vita, all’inseguimento della collezione istantanea delle
prove della mia esistenza.
Nella cartolina c’è una parte di spavalderia, del tipo «Io
sono qui, tu no, ma restiamo lo stesso amici», o del tipo
«In capo al mondo io esisto», «A Shangai mi sento come se
ci avessi sempre vissuto». E nella cartolina c’è anche
dell’altro, che appartiene alla fin fine alla politica, il fatto
cioè che si tratti di una produzione commerciale, modesta,
anonima, che non punta all’arte, l’immagine del mondo
nata nel seno dei popoli, dalla loro capacità, fossero pure i
più poveri, i più distrutti, di confezionare in laboratorio
delle immagini ingenue e ufficiali delle loro città e dei loro
paesaggi. A dire il vero la fotografia è stata per me per
lungo tempo il cattivo oggetto ideale. Ho anche tentato di
farne qualcuna da solo, ma mi procurava una tale angoscia
da non riuscire a fare neppure le più semplici. Solo dopo
essere entrato a «Libération» e dopo aver visto all’opera dei
veri fotografi come Frangoise Huguier, poi Depardon,
Peress, Lambours o Vink, ho iniziato a rispettare questo
oggetto abbastanza fobico per me: la fotografìa. Dopotutto
è sempre la stessa storia, quella di Kapòy l’impressione che
fare una fotografìa è prima di tutto prendere, rubare, estor­

73
cere qualcosa, e d’altronde — basta guardare i fotoreporter —
è proprio così. Inizialmente ero molto iconoclasta in questo
senso e devo dire che quando mi sono occupato dei
«Cahiers» non ho mai trattato le foto dei film alla leggera.
Negli anni della sinistra, questo disgusto per la caccia
fotografica era quasi di per sé una ragione d’odio. In India,
sul finire del 1968, mi trovavo sul marciapiede di una sta­
zione pidocchiosa in attesa di un treno, pronto ad uccidere
le persone che fotografavano i mendicanti. Ero già magro,
con una carnagione giallognola, i capelli lunghi e una kurta
locale di un bel colore pan bruciato: molto credibile quindi
come indiano e come mendicante. C erano due turiste fran­
cesi, grassottelle, che parlavano ad alta voce e che odiai
immediatamente. C’era un piccolo lustrascarpe che voleva­
no fotografare e io mi mettevo davanti, apposta, con l’aria
esaltata perché non ci riuscissero. Mi ricordo l’aria esaspera­
ta con la quale rinunciarono, dicendo: «Non riesco a inqua­
drarlo, ce sempre il grande davanti». Il grande, il grande
indiano ero io ed ero felice. Non volevo che quel ragazzino
finisse su un album di foto, lo volevo tutto per me.
Non si fanno foto ai poveri, abbellendole con il proprio
sguardo e con espedienti estetici, si comincia con l’andare
dove i poveri vivono e a comperare le loro foto, le loro car­
toline e — per poco che sia — si fa funzionare l’artigianato
locale, e le si spedisce ai propri amici come segni di vita,
come messaggi in bottiglia. A volte è difficile perché non
ce una vera cultura della cartolina. In India, per esempio.
Mi sono molto commosso nel ritrovare, a dieci anni anni di
distanza, la stessa cartolina della vecchia Delhi, un po’ sbi­
lenca e sbiadita, e rispedirla una seconda volta. Pensavo
all’ostinazione modesta, indifferente di quello studio foto­
grafico che continua a stampare lo stesso negativo. La carto­
lina è poi l’ideale per trasmettere messaggi in codice ad
un'altra persona che vorremmo entrasse in questa o quella
complicità. Questo è l’aspetto perverso della cartolina: è
necessario che possa essere letta dal postino e dal destinata-
rio e che i due vi capiscano cose diverse. Queste immagini
misteriosamente giunte dal reale, normali, senza fronzoli,
diventano il luogo di una comunicazione privata.

74
Rappresentano il rispetto del reale attraverso le sue imma­
gini più visibili e, allo stesso tempo, l’opacizzazione valida
per me — per «noi» — di questa falsa visibilità a disposizione
di tutti. Questo numero di prestigio mi ha sempre incanta­
to e ho continuato a praticarlo fino alla fine, con perfetta
cognizione di causa. È lui che mi ha spinto verso il cinema
— il cinema popolare.

È la metafora stessa del cinema: tutto è visibile da tutti, ma alcu­


ni. che lo desiderano, possono vedervi più cose. Ma allora, come si
crea una matrice, non politica, ma affettiva, ideologica e morale,
in virtù della quale le immagini provenienti dal basso resistano a
questo linguaggio codificato, a questa visuale imposta o prelevata
dall’occidente?

Le cartoline più belle sono naturalmente quelle la cui


bellezza sembra non essere stata pianificata o voluta da nes­
suno. Dico «sembra» perché volendo (l’idea mi ha sfiorato
qualche volta ma è veramente perversa) a partire dai diversi
tipi di cliches, stili di inquadratura dei principali produtto­
ri di cartoline, si potrebbe costituire una vera politica degli
autori. Non è forse questo che abbiamo accettato di fare con
il cinema americano?
Quando questo strano cordone ombelicale clandestino
che era la cartolina rischiava di non esserci, sfioravo vera­
mente la tragedia. Che senso ha viaggiare se non si incon­
trano immagini sul proprio cammino? Un anno ho trascor­
so una settimana a Trinidad, perché il posto mi affascinava.
Una settimana veramente sinistra, in cui ho odiato l’hotel,
non ho rivolto la parola a nessuno e mi aggiravo con aria
cattiva. Insomma, uno di quei viaggi che solo io so fare.
Primo pensiero, appena arrivato: «Dove sono le cartoline?»
Non ne trovo. Quasi quasi torno, la mia collezione è fottu­
ta, mancherà la parola Port of Spain, l’anello Trinidad e
Tobago. Finché in un grande negozio tenuto da indiani
dall’aria sciupata, trovo un mucchietto di cartoline messe lì,
alla rinfusa, e mi ci avvento sopra, alquanto sollevato. Solo
da quel momento ho iniziato a guardare Port of Spain.' A
volte ho addirittura iniziato a guardare la cartolina del

75
luogo in cui ero, prima di confrontarla con l’originale. Le
persone come me fanno tutto al contrario: prima guardano
il linguaggio e dopo, piano piano, iniziano a parlare le
immagini. C’è un certo modo di essere tutt’uno con il cine­
ma che funziona così, fin dall’inizio.

La cartolina non è un prelievo naturale, offre una messa in scena


anonima, un punto di vista standard. A te piace giocare con que­
sta pre-messa in scena, scherzare, o essere nell'inquadratura.

Preferisco sempre la veduta generale della città. Ci sono


delle vedute di Tokyo, prese dai grandi hotel di Shinjuku,
che mi procurano esattamente lo stesso piacere della veduta
reale.

Oggi. invece siamo passati dalla cartolina-immagine alla fabbrica


di immagini.

Che detesto. Ero circondato da poche immagini nella


mia infanzia. Quelle dei due dizionari di famiglia — quello
medico, blu, e quello di cucina color granata - terrificanti,
con quel terribile odore di inchiostro; quelle, così detestate,
del catechismo; quelle dei giornali sportivi, color seppia,
verde, blu, nel periodo del Tour de France; quelle di Tintin
che divoravo in un battibaleno, già innamorato senza saper­
lo del cinema - l’arte dei raccordi — vero punto di forza di
Hergé e soprattutto di Jacobs. Non ho mai avuto la passio­
ne per le belle immagini, mai^J

Bisogna parlare degli inizi: quando è nato il tuo amore per il


cinema?

Inizio molto presto ad andare al cinema. È là, all’angolo


della strada. Ci sono tante sale rionali, tutte scomparse ora:
il Cinéphone Saint Antoine, il Cyrano-Roquette, il
Gaumont Voltaire, il Lux-Bastille, il Royal Variétés, il
Magic, 1'Artistic Voltaire. A mia madre e a mia zia il cine­
ma piace, ricordo la gioia di deciderci all’ultimo momento,
rimandare i piatti da lavare e le altre faccende a più tardi, e

76
trovarsi sul marciapiede, indecisi sul film, rischiando di
perdere l'unico spettacolo serale, delle 21 con il suo seguito
di orrori dal vivo — le attrazioni — di cui ho parlato in La
Ramped
Il cinema era prima di tutto una cosa naturale. Vedevo
dei film, mi piaceva e non credo che questo mi abbia segna­
to più di qualsiasi altro bambino di quel periodo. A causa
mia, mia madre è stata obbligata a vedere molti film di
cappa e spada, italiani naturalmente. Io sono stato obbliga­
to a vedere qualche melodramma, italiano naturalmente.
L’opinione comune in casa mia era questa: i film italiani
sono molto belli, ma tristi. Nonostante tutto ci piaceva
questa tristezza così elaborata.
La vera nascita al cinema - e non è banale - è stata quasi
consapevole. Penso si sia trattato della saldatura tra la leg­
genda del padre e il primo confronto, negli anni Cinquanta,
con la realtà immaginata dei campi di concentramento.
L’immagine che ha diritto di prelazione su tutte le altre. La
mia cinefilia era stata programmata e la mia consapevolezza
di tutto ciò, attraverso i «Cahiers» gialli e Henri Agel era
abbastanza netta. Non del tipo «Quando si ama la vita, si
va al cinema», frase che suona ancora oggi falsa e balorda.
Una droga più forte, almeno.
Non devo poi dimenticare che questa programmazione è
stata attivata dal versante della voce, del suono. Mi dicevano
che mio padre lavorava in post-sincronizzazione - parola che
quindi conosco da sempre. Il suo corpo era una cosa, la sua
voce un’altra: che strano. Poi, molto prima della televisione
c’era la radio e credo che la mia cultura di base sia stata la
radio degli anni Cinquanta, con Le Grenier de Montmartre, Le
Passe-Temps des dames et des demoiselles, il Tour, Monsieur
Champagne, Zappy Max, Signé Furaux e il teatro Omo.
È la voce che conta. Chi racconta, chi dice che un fatto è
successo, che abbiamo visto un film e che questo mostrava
quest’altro. La domenica a pranzo mia madre raccontava a
mia nonna il film che avevamo visto, lei ed io, durante la
settimana. Trovavo che raccontasse le cose in modo molto
sottile, tanto che ascoltarla mi piaceva quanto rivedere il
film.

77
^immagine si doppia già in commento, in un'eco. Quasi in senso
critico.

Il cinema non è una tecnica di esposizione delle immagi­


ni, è Parte di mostrare. E- mostrare,è un gesto, un gestoxhg,
obbliga a vedetela guardare. Senza questo gesto, c’è solo la
fabbrica di immàgini. Ora, se qualcosa è stato mostrato,
bisogna che qualcuno accusi ricevuta. BehTci possono essere
statrtahti altri modi di passare la propria vita con il cine­
ma, questo è stato il mio. È molto tennistica questa idea
che sarebbe veramente scandaloso che a un servizio non
seguisse una risposta. Io non sono mai stato un gran batti­
tore, ma penso di essere stato un buon ribattitore, come
Jimmy Connors.

Come è possibile conciliare due affermazioni così contraddittorie,


almeno all'apparenza: il cinema promette un mondo (migliore, per­
ché no?) e le prime immagini, le immagini dell'origine sono state
quelle dei campi di concentramento. Questo non traccia anche un
percorso morale? Per altri il rapporto con il cinema potrebbe avere
una diversa configurazione?

La promessa di un mondo che ha inizio da una catastro­


fe: non ci trovo nulla di contraddittorio. A volte mi dico
che la mia generazione è stata forse la sola ad aver ereditato
l’idea inammissibile, abietta, per sempre squalificata, del
razzismo. In modo così assoluto da creare, per contraccolpo,
una specie di euforia del dolore, nel dolore, e anche una
certa ingenua propensione alla tabula rasa, del tipo: va
bene, il peggio è successo, sarà sufficiente non dimenticar­
sene mai e non tornerà.

La maggior parte dei registi che hai difeso non hanno mai smesso
di ricordarlo, soprattutto gli Straub.

Certamente. Quelli della Nouvelle Vague d’altronde


hanno solo quindici anni più di me. Da bambini sono stati
esposti più o meno a qualcosa del genere. Quanto agli
Straub, poi, la loro vita, la loro funzione è questa: ricordare

78
che, da un lato, non bisogna dimenticare e che, dall’altro,
non bisogna ricostituire. Perché tutto si scrive al presente
su una specie di palinsesto che conserva le tracce, le testi­
monianze, le cicatrici, gli accenti: ciò che «fa fede». Ogni
volta che il tema della resistenza ha incrociato la mia vita ho
trovato gli Straub. Come il rimbalzo sulla terra sott’acqua,
prima di tornare a galla, dove si può respirare. È strana, non
trovi, questa assimilazione del cinema all’idea di resistenza.

C'è tutta una parte del cinema francese, quello precedente la


Nouvelle Vague da cui prendi volentieri le distanze: da che cosa
deriva una tale fobia ?

Ho cercato di agire con astuzia, ma mi sono dovuto iden­


tificare anch’io, prima di diventare cinefilo professionista,
con corpi e voci di attori, di attori francesi. Mia nonna — che
ha sempre avuto un gusto particolare nel valorizzare uomini
orrendi — era solita far notare, parlando di Michel Simon
che era ancora vivo o di Harry Baur che era scomparso e che
ho scoperto molto più tardi nei film di Maurice Tourneur,
essendo stato prima per me semplicemente «aribor»7, come
questi grandi attori, un po’ mostruosi e neppure tanto affa­
scinanti, fossero nel contempo attori eccezionali. Tutte cose
vere, non discuto, ma mi chiedo se forse non ho collegato la
loro bruttezza al loro talento, come se la prima accompa­
gnasse il secondo. La bruttezza era il tema impudico di
molti film di Fernandel, per esempio. Oggi potrei provare a
dirlo così: gli attori francesi sono dei commedianti geniali
ma sessualmente improbabili. Poco tempo fa guardavo Rue
de l’Estrapade di Becker alla tv via cavo. Conosco poco
Becker e questo mi imbarazza un po’ perché è stato l’unico
regista che, all’epoca in cui uscivo dall’infanzia, ha amato la
gioventù degli attori francesi dell’epoca, di quei ragazzi
(Daniel Gélin, Louis Jourdan) e di quelle fanciulle (Anne
Vernon) che avevano l’età per essere i primi attori giovani
del dopoguerra. Ebbene, poi non è andata così. Non so
come mai, ma dieci anni più tardi, prima della Nouvelle
Vague, le teste di serie del cinema francese erano ancora i
mostri sacri del primo dopoguerra: Fernandel, Jean Gabin,

79
Pierre Fresnay, Pierre Brasseur, Noel Noel. Quel che il cine­
ma francese offriva a un bambino come me erano i suoi
nonni, i suoi nonnini e le sue nonnine, certamente geniali
ma inaciditi, molto anti-giovanili. Ci doveva piacere il
modo in cui noi non piacevamo a loro! Rivedendo di recente
un film famoso dell’epoca, Luomo dalle chiavi d'oro, ero scon­
volto dall’odio che trasudava da questo film tutto in gloria
di Fresnay vecchio e in cui tutti i giovani sono presentati
come figli abietti di papà mollaccioni. Che cosa sono diven­
tati infatti i vari Daniel Gèl in, Michel Auclair, Raymond
Pellegrin, Francois Périer? Non sono riusciti a conquistarsi
un posto, hanno fatto la spalla a teatro, un’altra cosa. Sono
stati sostituiti dai loro genitori. Intrawedo in tutto questo
un insidioso prolungamento di Vichy, la sconfìtta di una
generazione, la persistenza di una Francia vecchia, sorda­
mente screditata. Al punto che quelli della Nouvelle Vague
non avranno neppure bisogno, all’inizio, di sconvolgere il
linguaggio del cinema: il solo fatto di utilizzare degli attori
della loro età, da Brigitte Bardot a Jean Paul Beimondo, è
stato sufficiente per far saltare tutto quanto.
Come fa un bambino di dieci anni — a meno che non sia
un bambino «cattivo» — a identificarsi con Michel Simon
che è brutto ma geniale? Va bene c’era Gabin, brizzolato e
ex sex symbol, ma per me è la figura anti-erotica per eccel­
lenza e mi è piaciuto solo in due o tre parti: Gueule damour
(t.l. Gola d’amore), Il piacere.
Devo ammetterlo: non c’era niente per me in quel bran­
co di francesi. Niente che suscitasse desiderio. Ai nomi
posti in alto sulle locandine preferivo sempre qualche ruolo
secondario, sempre dalla parte dei perdenti. Quanto a
Gerard Philipe, sentivo il rumore delle tavole, la voce da
cicisbeo ed ero certo che, nella sfida franco-americana, non
aveva speranze e che c’era quasi da vergognarsi di apparte­
nere al paese di Fanfan la Tulipe dopo aver visto
Scaramouche. Ancora oggi mi ritorna con molta intensità un
vago senso d’indegnità del mio paese. Al momento del
decreto che dichiara innocente Paul Touvier8, penso di non
essere esagerato. Ci sarà sempre in me, fino alla fine, una
parte non riconciliata.

HO
Ecco perché diventare, nel modo più consapevole possi­
bile, cinefilo significava identificarsi con qualcos’altro, col
fatto che dietro la macchina da presa c’era qualcuno, che
questo qualcuno era un uomo, un autore, e in ultima analisi
un padre. Per questo non mi sono occupato molto della
questione dell’attore, come se fosse stata risolta una volta
per tutte. E risolta lo era sul serio. Bastava vedere i Cary
Grant e i James Stewart, i Robert Ryan e gli Henry Fonda
degli anni Cinquanta con le loro tempie brizzolate per sape­
re che lì era il fascino, la seduzione, la voglia di farsi portar
via. Ancora oggi si può sperimentare tra i cinefili: si inizia a
parlare degli attori preferiti, di quelli odiati, si parla dei
francesi, e poi non appena si incomincia a parlare degli
americani non si smette più. Posso dirlo tranquillamente: i
miei genitori nel cinema non sono — mitologicamente —
francesi. Il padre è americano e io mi comporto con lui
come il piccolo John Mohune in quel mito cinematografico
incarnato che è II covo dei contrabbandieri-. «L’exercice a été
profitable, monsieur». Per le donne è il contrario: la donna
dei desideri, quella che è rimasta naturale, che non è né pla­
tinata né liftata, né sorridente a tutta mascella come le pre­
sentatrici della CNN oggi, è la sorella italiana, Silvana
Mangano, Lucia Bosé, Rossana Podestà, Claudia Cardinale.
Detto questo, devo ammettere che ebbi fin dall’inizio un
gusto veramente terribile in materia di bellezza femminile,
poiché ho creduto che Gianna Maria Canale, che è veramen­
te orrenda, fosse la bellezza fatale in persona.

Questa impasse francese sui corpi degli attori, spiega anche in un


certo modo come la specificità del cinema francese sia riposta più su
una morale che su una presenza fisica.
X
E proprio così. Fare una lezione, fare la morale. Un
modo per punire la Francia. Non mi sono mai aspettato un
grande spettacolo dal mio paese, e anche quelli della mia
infanzia, i Guitry per esempio, mi sembravano già cadenti.

Tu ritorni spesso su quell'articolo di Rivette su Kapò, il film di


Gillo Pontecorvo, che giuri tra l'altro di non aver mai visto. Che

81
cosa ti è così tanto piaciuto in quell'articolo? La retorica, il fatto
che qualcuno si senta autorizzato a scrivere su una rivista che è
vietato fare un carrello in avanti su un filo spinato?

I «Cahiers» erano la rivista che consacrava tre righe fri­


vole nell’ultima pagina del numero a un film la cui colonna
sonora era canticchiata da tutti, // ponte sul fiume Kwai di
David Lean! O si trattava di snob e impostori o avevano
un’idea, delle ragioni, altri valori. E poi non tenevano in
minima considerazione il gusto del grande pubblico. E
nemmeno tenevano conto dell’opinione di Fritz Lang che
non amava il suo dittico indiano9 e l’aveva pure dichiarato.
In altre parole, il film doveva appagarli, doveva esserci una
verità del film che non era quella della produzione, della
sala e del successo, ma una verità che autorizzava a prendere
la parola e che ispirava a quelle persone quell’oggetto
straordinario che erano i «Cahiers» gialli. Credo che questo
mi abbia confermato che i «Cahiers» erano la (mia famiglia?.
Soprattutto il giorno in cui uno di essi, con ik(ia veemenza
alla Péguy, aveva osato pronunciare quel verdetto che con­
dividevo ad occhi chiusi. Il verdetto di Ri vette poggiava
solo su una questione di carrello e di inquadratura. E io vi
aderii tranquillamente solo perché l’inquadratura era già la
mia lingua naturale, la sola con la quale mi sentivo a mio
agio. Potevo seguire senza alcun problema le evoluzioni
dell’inquadratura in Hitchcock, Lang, Mizoguchi o
Preminger. Avevo già la coscienza esacerbata, erotica, di ciò
che è dentro e ciò che fuori, di ciò che entra e di ciò che
esce, dello statuto particolare di quel «fuori», il fuori
campo del cinema sul quale quelli dei/<<Càhiers», dieci anni
più tardi, fecero delle vere e proprie brgiejteoriche. Ma con
i registi che non sembravano sortire Noto effetti da questa
erotizzazione dell’inquadratura avevo qualche problema.
Per esempio mi procuravano disagio Rossellini, Walsh e di
questo un po’ mi vergognavo perché erano autori
«Cahiers». Non vi trovavo le mie coordinate. Per me,
magro Sansone, le colonne del tempio erano rappresentate
dall’inquadratura come taglio vivente, come occhio-scalpel­
lo, come rettangolo chirurgico, ecc. Mi piaceva questa cru-

82
deità, anche se non ne conoscevo ancora l’aspetto di com­
passione. Mizoeuchi. soprannomi nato da noi Mizo, divenne
il mio règtèta'prèlferito.
A un certo punto ho smesso di essere schiavo dell’inqua­
dratura, del montaggio. Ho iniziato a trovare belli film che
avevano la loro forza nel centro dell’immagine, che mettono
le cose importanti al centro, per farle vedere meglio. Walsh
naturalmente, e soprattutto Ford. In seguito, la questione si
è chiusa perché i registi dell’inquadratura erano meno bravi
e perché da Rossellini in poi il meglio del cinema moderno
è stato espresso in una precipitazione-della ripresa, in un
corto circuito ottico degli spazi da percorrere che non aveva
più nulla a che fare con la morale dell’inquadratura e del
carrello. Per questo l’assunto di Rivette, vero in assoluto,
dovrebbe essere riformulato oggi, alla luce dei nuovi modi
di rappresentazione del cinema.
Il fondo di questa storia è, se oso dirlo, la mia riconcilia­
zione con il cinema. L’inquadratura è la crudeltà, l’impossi­
bilità di fuggire, di sottrarsi a ciò che esiste e che il cinema,
solo, ha potuto addomesticare. Ma questa crudeltà oggi non
mi sembra più così terribile. Le riconosco anzi una dimen­
sione umana, addirittura umanista, che rischia di scompari­
re in futuro. Il cinema ha sì questa capacità — il fantasma di
Bazin - di ritagliare una quantità di immagini nel reale - e
questo fa male — ma sa anche ricomporre ciò che ha inqua­
drato, prelevato e messo in luce. Mi sembra di essere passa­
to da un estremo all’altro di un’unica questione, quella
della luce. La luce che accusa e la luce che salva. Per questo,
recentemente, ho concluso che le forme d’arte più antiche
— letteratura, pittura — avevano conservato una violenza che
manca essenzialmente al cinema.

Forse è anche perché abbiamo chiuso con il cinema cklVintimida­


zione e del terrore e abbiamo voglia di passare a qualcos'altro.

Il cinema del terrore, così come l’abbiamo conosciuto e


sostenuto ha prodotto ciò che doveva. Penso sia finito verso
il 1975, con la morte di Pasolini. Bisognerà stare a vedere
se l’intimidazione degli anni Settanta sarà riscoperta negli

83
anni Novanta. Ora è troppo presto. Personalmente mi sento
più calmo, più aperto, ma quest’epoca non sa più immagi­
nare nemmeno le passioni violente e sincere che abbiamo
vissuto.
Non mi resta che trasformarmi, sulle tracce di Godard,
in un avvocato di una causa vinta, quella del cinema. Dico
soltanto che il cinema è stato una grande cosa, più grande
di quanto credessi, anche se oggi è diventato più piccolo di
quanto si creda. E parlo del cinema come di un amico, un
essere con cui ho trascorso la vita. Oggi, nel tentativo di
pensarlo, invecchiamo insieme, quasi moriamo insieme. Il
cinema del terrore è alle nostre spalle, il cinema attuale
— con tanti buoni film — consiste piuttosto nell’esplorazione
meticolosa di altrettanti casi (nel senso del film di Oliveira),
di casi mentali. Non vedo neppure in tutto questo un ritor­
no di un valore ludico - quei piccoli film che nonostante
tutto amavo vedere al cinema del sabato sera. Le immagini
oggi passano attraverso la violenza dei mass-media o della
pubblicità, mentre il cinema ne sembra ormai esente. Le
cose .gravi di oggi, su cui riflettere seriamente, sono le cam­
pagne pubblicitarie di Benetton, i reality shows, la guerra
del Golfo senza immagini. Ma le guardo da osservatore
appartato, da cittadino, anima bella. Ecco, da più di
vent anni avevo in testa questa idea che la pubblicità era il
cavallo di Troia di qualcosa che avrebbe presto rivelato il
suo volto. Questa cosa si chiamava «Sur Salador»l0.|

Ritorniamo un istante all’ordine cronologico, più precisamente agli


anni Sessanta. Vorrei che tu parlassi di quel famoso viaggio a
Hollywood nel 1964 con Louis Skorecki, quando decideste di
andare a trovare qualche illustre regista ormai invecchiato: era un
modo per ripagare la tua entrata ai «Cahiers». portando a casa
qualche intervista su ciò che restava dei pionieri di Hollywood?

Non sono assolutamente in grado di dire che cosa vivevo


all’epoca. Né che cosa pensavo. Neppure che cosa progetta­
vo! Sicuramente il viaggio si fece per iniziativa di Skorecki,
molto dinamico ai tempi, io mi limitai a seguirlo. È stata
una mossa che aveva a pretesto l’entrata ai «Cahiers». O

84
meglio: il rendersi indispensabili ai «Cahiers», dove già
lavoravamo, per poterci stare al meglio, un po’ più che tol­
lerati. Il libro di Antoine de Baecque11 mi ha fatto capire
meglio l’imbroglio dell’epoca, forse il solo momento di crisi
e di scelta nella storia della rivista. Io e Skorecki eravamo
ancora ben saldi su una posizione alla Douchet, mac-maho-
niani, cinema classico, ecc. Ma Rivette aveva bisogno di un
cambio della guardia per passare ad altro, a un post-
Rohmer. Sono però costretto a ricostruire il tutto dall’ester­
no perché i miei ricordi sono annebbiati, come avvolti da
una nuvola, il che mi impedisce di sapere esattamente come
vivevo — se era piuttosto desiderio di L.S., di C.D. o il mio —
questa entrata ai «Cahiers» che a volte sembrava ineluttabi­
le, vissuta quasi con cattivo umore. Ad ogni modo gli anni
Sessanta che oggi colpiscono per la loro generosa spensiera­
tezza furono per me anni vissuti da sonnambulo, senza
l’impressione di essere realmente esistito. Uso le date per
dare disperatamente qualche scansione: se il 1968 è il
momento del risveglio, il 1964 è quello del viaggio in
America e dei primi pezzi pubblicati sui «Cahiers»: il mio
nome finalmente comparso, in extremis, sui «Cahiers» gial­
li, quattro numeri prima che cambiassero veste grafica.
Anche se bisogna dire che non si poteva scrivere alla legge­
ra. Si presumeva che avessimo visto molti film prima di
sentirci autorizzati a scrivere. Tra lo choc di Hiroshima e il
mio articolo su Dove vai sono guai di Tashlin12 c’è un inter­
vallo di cinque anni. Sembrava naturale fare così perché
c’era ancora l’idea — oggi insostenibile - di poter recuperare
i film del passato e sentirci ancora — in extremis - loro con­
temporanei, solo un po’ sfasati. L’idea di classico, di reper­
torio, ci lasciava del tutto indifferenti: bastava che una voce
autorevole dicesse che Feuillade o Dovzenko erano buoni,
perché quei due fossero ripescati dal passato e immersi nel
nostro presente.
Questo viaggio in America poggiava sulla convinzione
che ciò che ha valore esiste necessariamente al presente.
Non l’ho mai abbandonata: possiamo tranquillamente
lasciare ai sociologi, ai culturologi, agli eruditi, ciò che non
è più attivo. Ma evidentemente non ci accorgevamo, al

85
momento, di collezionare una serie commovente di nevermo­
re. Davanti a Keaton, a Renoir, a McCarey o Stenberg non
mi sono detto: tra poco moriranno e non li vedremo mai
più. Cosa che era sotto gli occhi di tutti, d’altronde. Io, L.S.
e il nostro piccolo gruppo eravamo molto gerontofìli
all’epoca: ci emozionavamo davanti alle ultime opere dei
grandi maestri come di fronte agli ultimi disegni di
Tiziano, alla solitudine epurata dello stile, all’audacia nel
seno di una certa desuetudine, a una certa maniera di avvi­
cinarsi a una pura logica del cinema - e solo del cinema. Il
diabolico dottor Mabuse, Gertrud, Missione in Manciuria, come
già Anathan o Un re a New York, sono film girati da vecchi,
esposti alla condiscendenza della critica ufficiale, cui corria­
mo in soccorso, pronti a batterci per essi. E anche se oggi,
costretto dall’età, devo riconoscere che spesso i primi film
di un regista contengono l’essenza della sua opera, pure
continuo a commuovermi per i film di registi anziani:
Kurosawa, Oliveira, Bunuel. Ai due estremi della catena,
tra la noncuranza di un’energia sprecata e l’economia di un
tempo che non si può più perdere, sta la bellezza del cine­
ma, arte che permette di leggere così bene lo stato fìsico di
chi la fa.
L’essenza di ciò che chiamiamo cinefilia è, senza dubbio,
arrivare all’ultimo momento, quasi troppo tardi, facendo
fìnta che la festa sia ancora in corso. Il cinefilo non è colui
che sente la nostalgia di un’età dell’oro che ha conosciuto o
meno e che pensa non tornerà più. Il cinefilo è colui che
anche di fronte a un film appena uscito, un film del presen­
te, si sente già sfiorato dal pensiero che «questo sarà stato».
Ed è percepibile in modo straziante in persone come Demy,
da Lola, donna di vita in poi. Allora forse è stata questa spe­
cie di malinconia, a forza di essere il comune denominatore
di tutti i film, ad aver sfumato in me la differenza tra quelli
del passato e quelli del mio presente. Al contrario, il nostal­
gico continua a pensare ciò che era meglio nel passato,
pronto a offrirsene lo spettacolo privato o anche la ricostru­
zione museale. Quando mi si parla di nostalgia, io reagisco
male perché come tutti i malinconici godo del presente, del
presente in só, quello del giornalismo, per esempio, che

H6
vive giorno per giorno. Il presente è una sorta di assoluto,
di resistenza, di sfida alla necessità di pianificare, di pro­
grammare, di prevedere e soprattutto di lavorare personal­
mente per ottenere i propri piaceri, cosa che mi esaspera e
mi fa orrore. Il presente è il lusso di chi non ha niente al di
fuori di quei piaceri non cumulabili che sono la coscienza di
un nuovo giorno che inizia, del sole caldo sulla pelle, della
terrazza di un caffè, della sfilata degli altri, i normali. È
l’orgoglio di quelli che non possiedono nulla ed è già il car­
rello di Kapò’. tu non puoi avere nello stesso tempo quella
scena e quel movimento di macchina, devi scegliere.
Nessun accumulo, nessuna gestione, parola che ha avuto
così tanto successo, ma l’obbligo di essere sul cammino
delle cose, così come vengono, ad una ad una, verso di me e
verso il solo corpo che è mio e che dovrà pur restituire loro
- per voce, per scritto o per scrittura orale — qualche cosa.
La perfusione del presente.

Il pensiero stoico è importante per te? Un certo modo di resistere,


affrontando il presente a testa alta?

C’è in me una specie di scambio di favori e senza dubbio


un gioco di prestigio tra due sistemi di valori. Per quanto
riguarda me, la mia sorte, il mio destino — ho sempre cre­
duto che tutti avessero un destino, perché non io, allora? —
ostento un certo disprezzo, non mi aspetto nulla. Non si
combatte contro la sorte comune, la malattia, la morte, si
accettano ma per ripicca non se ne parla. La vicinanza della
morte non provoca, come credevo quando ero un giovane
critico, un aumento di senso, ma soltanto un’esacerbazione
di un desiderio di senso che esisteva in precedenza. Non c’è
possibilità di pronunciare l’ultima battuta, in fin dei conti,
semplicemente, si viene sfumati. Fa una strana impressione
oggettivamente vedere formarsi l’immagine che ci sosti­
tuirà, che nasconderà ogni altra; nel mio caso, quella a cui
lavoro in fretta e furia, con le spalle al muro, una specie di
«stele cinematografica» per un gentile guru della cinefilia.
Al contrario, per quel che riguarda gli altri, le ingiustizie,
la politica, i vincitori e i vinti, varrà sempre, fino alla fine,

87
il mito di Prometeo. L’orgoglio di questo trovatello che
dice che la sola persona di cui non sposerà mai la causa sarà
se stesso. Perché è profondamente inelegante compatirsi.
Perché sarebbe come ammettere che hanno potuto farmi del
male. Ammiro — anche se non li amo - coloro che hanno la
forza di istruire processi contro i loro paesi, come Hans
Jurgen Syberberg e Thomas Bernhard. Si sono trovati dei
nemici a loro misura. Io posso ben considerarmi una vitti­
ma, una vittima di guerra per esempio, ma per quanto cer­
chi, non trovo nessuno cui serbare personalmente rancore.

Non hai ancora risposto alla mia domanda sul viaggio in


America.

Sì, l’America... Nel 1964 avevo vent’anni e a Los


Angeles c’era ancora qualche sublime vecchietto. McCarey,
per esempio, che non aveva mai rilasciato interviste, né ai
«Cahiers» né ad altri, così che la nostra fu l’unica. McCarey
non era un sublime vecchietto, era un uomo malato, un has-
been molto smagrito (rispetto alle foto) e anche molto inaci­
dito. Io e L. S. abbiamo vissuto l’intervista, in una mensa di
non ricordo più quale grande studio, proprio in stile macca-
reiano, come prova della fondatezza della politica degli
autori. Fu assolutamente imbarazzante. McCarey mangiava
uno yoghurt, si sbrodolava dappertutto canticchiando con
voce stridula brani del suo primo film. Abbiamo capito
cos’è la senilità. Naturalmente ci sembrava atroce che il
campione di incassi degli anni Quaranta fosse diventato,
vent’anni più tardi, questo sopravvissuto. La crudeltà di
Hollywood, del sistema, ci sembrava lampante. E noi sape­
vamo da che parte stare.
Non eravamo andati là per incontrare il primo venuto.
Avevamo la lista di quelli che volevamo vedere, molti dei
quali erano sulla via dell’esilio o della scomparsa. I respon­
sabili della stampa estera, sentendoci chiedere di Jacques
Tourneur, ci prendevano per matti ma si davano parecchio
da fare e con grande professionalità convocavano Tourneur
alla sede della Director’s Guild; noi vedevamo arrivare que­
sto omonc un po’ esitante, che iniziava subito a parlare con

HH
l’accento del Sud della Francia. Altre volte avevamo a che
fare con persone più moderne e più consapevoli della loro
condizione. Samuel Fuller, per esempio, contento di poter
fare il suo numero davanti a due ragazzini venuti
dall’Europa, o Jerry Lewis che stava girando un film con
Tashlin e che ha interrotto le riprese per mostrare a tutti il
numero speciale dei «Cahiers» dove era stato classificato tra
i registi1.
Mi ricordo ancora, al contrario, come ci ha trattati
George Cukor, probabilmente giudicandoci, dal nostro
aspetto, due sventati, due dilettanti, il grasso e il magro,
pieni di ammirazione e ben decisi a portare a termine il
nostro obiettivo. In seguito ho spesso ricordato questo epi­
sodio come se non ne avessi al momento colto l’emblemati-
cità. Era un giorno di canicola, eravamo in una bellissima
villa, circondati dalla sua corte di amici intimi e favoriti:
tutti avevano un aspetto raggiante tranne noi, madidi di
sudore, che stavamo lì a dirgli quanto ci fosse piaciuto //
diavolo è femmina che avevamo scoperto da poco a Parigi.
Questo non divertiva affatto Cukor perché quel film era
giudicato universalmente un fiasco dei suoi inizi. Katharine
Hepburn, nella sua autobiografia si scusa addirittura di
averlo fatto, perdendo molta stima ai miei occhi. La legge
dello showbusinness stabilisce che un film che si rivela un
fiasco commerciale non può essere un bel film. E mi sbalor­
disce ancora, ripensando a noi due là, nella reggia di questo
vecchio smaliziato e furbo come una volpe — il cui ultimo
film Ricche e famose prova che non sia mai stato molto rim­
bambito, lui - il modo con cui noi avevamo già pensato di
amare il cinema americano, ma secondo le nostre leggi.
Ad un certo punto, mi sembra che la conversazione si sia
spostata su Nicholas Ray e noi abbiamo detto quanto ci
piacesse // paradiso dei barbari. Allora è scoppiato in una
risata fragorosa, una risata incredibile, da pazzo malvagio,
pestifero, gridando agli altri: «Venite! Venite a sentire!
Sapete che film piace a questi due? Il paradiso dei barbarti il
film che Jack Warner non ha neppure osato far uscire!». Ci
rivedo ancora, feriti ma per niente scossi, sicuri di avere
ragione e avendo, di fatto, ragione. Come sei anni più tardi,

89
quando per i Mostri primi corsi a Censier, io e Pascal
Bonitzer — morti di paura davanti a delle aule «rosse» che
volevano soltanto litigare e che in materia di cinema oscil­
lavano tra Sam Peckinpah e Francesco Rosi — urlavamo a
chiara voce che il cinema materialista era Vento dell'est di
Godard-Gorin e Non riconciliati degli Straub e che questo
era fuori discussione. L’impressione di restare sempre un
bambino sincero e testardo nei suoi capricci, anche di fronte
al buon senso condiscendente degli adulti è una delle cose
di cui sono più fiero.
Il cinefilo non è colui che ama e riproduce nella vita gli
oggetti e i comportamenti che ha visto sullo schermo. È
nello stesso tempo più modesto e infinitamente più orgo­
glioso: ciò che domanda ai film è di perdurare come film. La
politica degli autori è necessaria nel senso in cui è necessa­
rio che un film obbedisca a un punto di vista, a una visione
del mondo, che lo legittimino e gli forniscano una logica.
Ma il film, in ultima analisi, diventa una specie di essere, di
personaggio, di ritratto di Dorian Gray in cui ci guardiamo
invecchiare. Per questo non badavamo poi tanto a Cukor,
che faceva lo schifiltoso davanti a 11 diavolo è femmina. Per
questo mi hanno sempre fatto un po’ pena gli appassionati
di cinema americano — simpatici feticisti - che hanno pas­
sato la vita a travestirsi da piccoli americani degli anni
Cinquanta con i loro stivali, le loro giacche, le loro macchi­
ne. E questo spiega anche come abbia potuto imparare a
respirare — fuori dalla Francia inquinata — nel cinema ame­
ricano e come ugualmente non abbia avuto alcun problema
negli anni Settanta, a scagliarmi contro l’imperialismo
americano.
L’America da un punto di vista intellettuale era di tutto
riposo: era un mondo così potente che esigeva da noi e si
creava al suo interno anticorpi di lucidità, di ironia, di crisi.
La Francia era un nano sovradimensionato, l’America un
gigante che poteva tranquillamente produrre dei dissidenti
al suo interno, che erano poi i nostri eroi: da Welles a Ray,
il martirologio era inesauribile e la cosa più normale del
mondo. Questa strana sfasatura, questa presenza dell’
America nel cuore della mia cultura e la sua totale assenza

90
nei miei sogni oggi è forse difficile da capire. Difficile da
capire come la pregnanza del sogno comunista ad essa
parallelo. Le conseguenze estetiche di Yalta hanno cessato
di sortire qualsiasi effetto.

Che cosa pensi dell’opinione secondo la quale il cinema non ha più


confini nazionali? A parte qualche caso molto raro. Hollywood,
la Francia, l'india, un po’ Hong-Kong e l’Egitto, il cinema oggi
non si identifica più con i territori geografici, sembrerebbe diventa­
to piuttosto un piccolo paese, minoritario nel vasto mondo delle
immagini, ma un paese in cui tutti si conoscono. È il paese del
cinema, dei festival, che permette di affiancare Jim Jarmush a
Emir Kusturica, anche se sono molto lontani culturalmente. Il pro­
blema ora è quello di capire quale diventa la promessa del mondo,
con un cinema dal territorio assai ristretto.

È stato Godard il primo a paragonare il cinema a un


paese in più sulla cartina geografica. Naturalmente l’idea
mi è piaciuta molto. Il Cinema era il paese che mancava
sulla mia cartina. Ora ci si domanda se si tratti di un impe­
ro, di una nazione o di una provincia. Era un impero quan­
do ancora c’erano degli imperi. Nella mia infanzia non
vedevamo mai nessun film russo ma ci piacevano a priori.
Sapevamo infatti che i Sovietici giravano molti film e ci
sembrava una cosa bella. E così anche gli Inglesi.
Quando Godard sviluppava le sue belle facili metafore
su Hollywood-Mosfìlm era già la fine. Non c’è niente di
più comico — e indubbiamente umano - del modo con cui
ci si spaventa per cose che sono state sì spaventose ma che
non lo sono più da un pezzo. Nel credere che ogni genera­
zione sia sempre pronta a risolvere i problemi dei predeces­
sori. È la famosa guerra in ritardo. Quanto alla situazione
attuale del paese Cinema, non è più così vitale da produrre
qualcosa di paragonabile al passato. C era l’impero sì, ma
questo permetteva all’ambasciatore EjzenStein di giocare a
tennis con Chaplin. C’era'la guerra mondiale, è vero, ma
questo faceva sì che Bunuel e Joris Ivens, oziando a
Hollywood, scrivessero ad un certo punto un soggetto per
la Garbo. E in tempi più recenti quando Fassbinder rilancia

91
Douglas Sirk, quando Godard parla con Lang o Glauber
Rocha insulta Pasolini post mortem, c’è un paese perché ci
sono veri abitanti che parlano la stessa lingua. È stata la
bellezza dei «nuovi cinema» degli anni Sessanta, ormai
scomparsa, come evaporata. I migliori registi di oggi non
sono veramente fratelli, devono semplicemente far fronte a
un restringimento del loro margine di manovra che li fa
assomigliare gli uni agli altri, ma non come fratelli e nem­
meno come rivali. Questo poi avviene solo in occasione dei
festival; Cannes, per esempio, fatica parecchio a inventare —
a forza di premiarlo — un cinema indipendente americano
presentabile. Questo crea forse uno stile, lo stile globale dei
film di qualità, lo stile cinefilo, e spiega l’unanimità della
critica attuale, capace soltanto di mimare un disaccordo. E
nello stesso tempo mi aiuta a capire a che punto la promes­
sa del mondo non era per me la certezza di fare un giorno
parte del fior fiore cinefilo — sono stato accuratamente tenu­
to lontano dai posti «ufficiali» — ma un sogno senza patria
né frontiera, lontano dai nazionalismi.

Torniamo un attimo ai «Cahiers» degli anni Sessanta: che ruolo


ha avuto Jean Douchet nella tua decisione di scrivere di cinema ?

Jean è stato senza dubbio il solo che abbia rappresentato


per noi un segnale di via libera, un incoraggiamento a scri­
vere. In questo senso la sua mediazione è stata preziosa.
Scrivere ed essere pubblicati era l’unica prova del nove. Il
resto non contava, non faceva fede. I «Cahiers» hanno sem­
pre mantenuto in vita solo quelli che scrivevano. I furbetti,
i mondani non ci resistono a lungo. Una volta, alla sede dei
Champs Elysées13 ho visto Rohmer, da lontano. Ci sembra­
va di essere nell’ambulatorio di un dentista per persone ric­
che ma non volevamo piacere, volevamo solo far parte dei
«Cahiers».

Come ti collocavi in rapporto alle lotte interne alla rivista, per


esempio di fronte a Douchet e Rivette che avevano orientamenti
diversi?

92
È strano perché trentanni dopo penso di essere una delle
rare persone che si sentono a proprio agio sia con l’uno che
con l’altro. Rappresentano due aspetti della mia personalità
e anche se all’epoca non ho capito nulla delle lotte che si
svolgevano ai «Cahiers», era da molto tempo che con un
amico del liceo architettavo delle teorie su questa coppia
impossibile che ci mostrava la via, seppur in due direzioni
diverse. Da un lato Rivette, i testi brevi, perentori, la
tubercolosi, la Lettera su Rossellini, la morale in persona.
Dall’altro Douchet, i testi scolastici, arzigogolati, il dandi­
smo del gran borghese amante dell’arte, il folle ermeneuta
che ci ha introdotto tuttavia a un’abitudine che ci avrebbe
sempre accompagnato: interpretare è giusto. Rivette mi ha
insegnato a non avere paura di vedere, Douchet a non avere
paura di leggere. Il mio compagno di liceo, molto mistico,
stava più dalla parte di Rivette, io più dalla parte di
Douchet. La cosa strana è che queste due persone sono
l’opposto in tutto. Ri vette ha scoperto tante persone vera­
mente geniali ed è quindi passato alla critica film per film.
Douchet, che per pensare ha bisogno di essere certo di avere
di fronte a lui un’opera, ha dovuto aspettare, dopo il I960,
che questa si costruisse come nel caso di Philippe Garrel.
Uno è all’inizio delle cose, l’altro alla fine. C’è poi la diffe­
renza sessuale: Douchet è stato certamente malvisto come
omosessuale e perdipiù gaudente. Secondo me la Nouvelle
Vague è rimasta omofoba. Io appartengo alla tradizione
dominante dei «Cahiers», quella che ha finito per confon­
dere amore e amicizia, meravigliandosi che quest’ultima
non sia diventata un po’ più sublime.

Parliamo del maggio ’68: che cosa facevi in quel periodo, come per­
cepivi gli sconvolgimenti ideologici? C’è una cosa che mi sembra
importante: come spieghi il fatto che il maggio ’68 sia stato un
evento che il cinema francese non ha filmato? Si ha come l’impres­
sione che non ne sia uscito alcun soggetto, come se l’incontro tra
cinema e realtà si rivelasse impossibile.

Mi sono gettato negli eventi, come -un curioso del quar­


tiere che non ha niente da perdere, nient’altro da fare e da

93
pensare, e che aspetta solo qualcosa — qualcosa d’apocalitti­
co: lacerazione e rivelazione - che lo tolga da questo letar­
go. Ho riflettuto in seguito, scrivendo su N[ourìr à trente ans
per esempio, sul fatto che il cinema non abbia avuto parte
negli avvenimenti del ’68. Per me, al momento, era ancora
peggio: gli avvenimenti per la loro stessa natura ci obbliga­
vano a lasciare il cinema, a voltargli le spalle. Non mi sono
ritrovato a fianco dei «Cahiers», degli Stati Generali del
cinema. Ma piuttosto in un piccolo gruppo di anàrco-dandy
loquaci, il cui programma rivoluzionario, applicato al cine­
ma, era del tipo «La poesia sarà fatta da tutti». Un piccolo
gruppo di persone, un po’ come quelle di La collezionista di
Rohmer, riunite attorno ai soldi di Silvina Boissonas, alcu­
ne delle quali volevano approfittare della situazione per
passare dietro la macchina da presa. Uno solo ci è rimasto e
infatti era il migliore: Philippe Garrel. Mi sembra che aves­
simo formato un collettivo, perché mi rivedo a filmare, a
due passi da casa mia, la coda davanti al Crédit Lyonnais tra
due monticeli! di spazzatura. Ci piaceva l’idea dei borghesi
che ritiravano i loro soldi, tremolanti, in mezzo all’immon­
dizia, ci ricordava Bataille che avevamo letto e riletto -
tenevamo Storia dell'occhio ancora nascosta sotto la fiacca —
durante gli anni passati alla cineteca. Tra i vecchi ritorni di
fiamma dell’anarco-sindacalismo e e gli apprendisti strego­
ni del radical-chic c’erano dei tratti di strada provvisori.
Avevamo stabilito che tutto quello che era girato indivi­
dualmente dovesse essere poi riversato nel pentolone comu­
ne di un grande film di sintesi e rivedo ancora Garrel, gio­
vane e fragile, dire qualcosa del tipo «Sì, la minestra popo­
lare, va bene, non dico di no», con totale disprezzo. È
impressionante la resistenza del ’68 all’ immagine, al cine­
ma. Neppure i documenti televisivi sono più eloquenti: si
vedono dei giovani con capelli corti e vestiti striminziti
lanciare sassi, discutere per ore, ma nella più completa e
oggi agghiacciante ignoranza della loro immagine!
Accanto a questo c’era il teatro. Non ho idea di come mi
sono ritrovato a Censier, mentre, in un’aula gialla, si stava
mettendo a punto la presa dell’Odeon. Anche lì c’era un
gruppetto di persone, ma io mi ricordo solo di Jean-Jacques

94
Lebel che cercava di pensare a un post-Renaud-Barrault o
non so cosa. All’epoca non parlavo in pubblico, perché
prendere la parola in pubblico mi causava grande imbaraz­
zo. Perciò mi vedo appollaiato su un termosifone, contrasta­
re con voce sommessa Lebel, sul tema: no, non reciteremo
neppure Artaud, non ci sarà altra rappresentazione se non
quella che offre il popolo stesso. Fu infatti quello che
avvenne e non senza gloria. Il terrore, sì. Avevamo occupato
il teatro una sera a passo di carica e mi ricordo anche della
panetteria dove avevo comperato dei biscotti LU, nel caso
avessimo dovuto sostenere un assedio. Il luogo era deserto e
per me il doverci restare accampato per qualche tempo fu
una specie di punizione dato che avevo sempre considerato
il teatro come un luogo fonte di disagio. L’unica mia foto
che conservo del ’68 è apparsa su Noir et blanc: sono seduto
in giacca sul palco dell’Odeon mentre Barrault e Renaud
difendono la loro causa. Pantaloni di velluto, con già i baffi
e i capelli corti.
Detto questo, io ero — e sono tuttora — molto sensibile ai
temi dell’epoca, come quello della società dello spettacolo.
Avevo letto il libro di Debord e la pubblicità mi suscitava
già questo miscuglio di ironico disprezzo e timore. Oggi
ritengo che se ai «Cahiers» sono stato l’unico a non perdere
mai questo filo conduttore è perché è proprio il mio e per
caso era anche quello dell’epoca. Provavo rancore verso la
pubblicità perché aveva già iniziato a giocare con troppa
efficacia la commedia dell’ideale. Con un idealismo vero,
naturalmente. E quell’idealismo, nel 1968, rappresentava
per me la tabula rasa, l’addio alla cultura asfissiante, la
svendita dei miei soli tesori (libri e dischi: le opere comple­
te di Stevenson e VOrfeo di Monteverdi). Il teatro era simbo­
licamente il luogo giusto in cui farla finita con questa storia
della rappresentazione. Il cinema sembrava invece il luogo
dell’alienazione. Un giorno, in una saletta del teatro,
cerano delle persone molto decise che ci hanno detto qual­
cosa del tipo: e ora compagni passiamo alle cose serie, cioè
alla lotta armata, quelli che non sono d’accordo sono ancora
in tempo per andarsene. Ero con un amico, ci siamo dati
un’occhiata e ce ne siamo andati. Un ometto si è alzato in

95
piedi e ha detto: rispetto le vostre idee ma le mie convin­
zioni mi impediscono di uccidere. Gli hanno detto che
aveva diritto ad avere le sue convinzioni e se ne è andato.
Trovavo tutto ciò molto coraggioso, come nei libri. L’uomo
era Paul Virilio e vent’anni più tardi abbiamo rievocato
insieme la scena.
Non ero più così tanto vicino ai «Cahiers». Frequentavo
ancora assiduamente Louis Skorecki. I primi giorni di mag­
gio del ’68 rimangono per me un incantesimo, come un
invalido che scopre improvvisamente di poter far natural­
mente parte del quadro, delle strade che si percorrono nel
mezzo, delle discussioni improvvisate, del tennis ludico tra
azione e reazione, di Parigi più bella che mai ed io senza
nulla tra le mani e nelle tasche. E poi la mia ingenuità poli­
tica, la mia immediata arroganza, la facilità con la quale mi
identificavo — rivolta anti autoritaria — con una causa, la
causa studentesca che fino a quel momento mi aveva lascia­
to del tutto indifferente (per me lo studente era un essere
vergognoso, gombrowicziano), la possibilità di riempirmi
la bocca di parole, della parola rivoluzione per esempio.
La mancanza di qualsiasi cultura politica era in me abis­
sale. Per questo ho passato una parte della mia vita a
confondere morale ed estetica e un’altra a confondere mora­
le e politica. Quel che è certo è che mi aspettavo da questa
rivoluzione la nobilitazione del mio gusto per il non posses­
so, della mia totale inattitudine alla pianificazione, ai fini
da raggiungere, al sole dell’avvenire, all’accumulo e al cal­
colo in generale. La rivoluzione era qui ed ora, era più vici­
na alla vita di più persone, improvvisamente disposte a dia­
logare, una cosa del genere. Era il contrario di una previsio­
ne e più assomigliava alle promesse di un paradiso anche in
terra, più risvegliava in me la miscredenza del bambino,
scioccato da una religione costretta a ricorrere a tali espe­
dienti. L’idea di una vita migliore mi è sempre sembrata
indegna e se non mi sono mai interessato alla religione, non
è certamente per indifferenza alla religiosità, ma piuttosto
per il fatto che, vivendo come mi è capitato nel cine-limbo
di questo mondo, considero questo il solo mondo esistente,
tanto più che sono rimasto prigioniero del fatto di non

96
averlo forse mai raggiunto. La cinefilia è questa sana malat­
tia, un sintomo della quale è ritenere che questo mondo sia
già un altro mondo.
Così non riesco mai a spiegarmi i fenomeni di angoscia,
di isteria, di credulità di massa: non smetto di pensare che
siano tutte fandonie. Credo invece che tutti, sempre, mal­
grado le lamentele sulla loro sorte e i gli sguardi rivolti ad
una vita migliore possano toccare con mano qui e ora i
benefìci materiali e spirituali dei sacrifìci che dicono di aver
fatto.

Il presente è più forte di tutto, insomma.

È il presente del cinema, della corrida, del tennis: tre


cose che mi sono sempre piaciute. È un assoluto che passa e
ripassa, che nessuno possiede. È stata una bella follia volere
che una società intera si pagasse «un corno di toro» per più
di un mese, che si ascoltasse risuonare vuota, piena. Il brut­
to del calcio sono i tifosi che urlano per novanta minuti, il
bello della corrida è che bastano quattro passi per ristabilire
la corrente. Il pubblico si annoia, chiacchiera, sembra assen­
te. Un buon passo e subito si diffonde un silenzio sommes­
so. Un secondo e si percepisce la velleità di accompagnare
un pezzo di faena che forse sta nascendo. Un terzo ed ecco il
primo ole, che sta a significare che se ne vuole ancora. Un
quarto e tutto il pubblico entra nello spettacolo, con
quest altro ole, con il quale esprime la propria felicità ( «ich
babe genug»).
Mi domando se negli anni Ottanta, così deboli cinema­
tograficamente, il vero cinema e i suoi eroi non siano stati
Borg, Connors, McEnroe, e Lendl, gli unici che hanno
saputo distillare il tempo e che hanno dato a un’intera
generazione lezioni di sguardo. Mi sono sempre stupito che
gli amici si meravigliassero della mia capacità di scrivere di
tennis, come se li rimproverassi di non capire che si tratta
assolutamente della stessa cosa del cinema, del vecchio cine­
ma, almeno, quello della messa in scena, della topografìa.
Mi sembrerebbe del tutto naturale vedere dei passanti in
Fritz Lang e degli inserti in Miroslav Mecir.

97
Ma torniamo al ’68, così come lo vedo oggi, forse con
troppa chiarezza. Passati i mesi di maggio e giugno, sempre
più solo, ho fatto molte esperienze di rinuncia di qualsiasi
proprietà. Il viaggio innazitutto. Il primo viaggio in India,
cioè nel terzo mondo. Poi la malattia. La prima tubercolosi.
Il cinema era scomparso perché io sperimentavo sul mio
stesso corpo il mio cinema come qualcosa che non si possie­
de. In realtà il cinema non era scomparso, ero io che in
qualche modo ero entrato nel film, recitando per qualche
anno il ruolo di star in incognito su scene in cui non c’era
nessuno per vedermi. Le mie superproduzioni, annunciate
da cartoline, erano modeste: ero il protagonista di «Sono
arrivato nello Yemen», ero perfettamente naturale in
«Rientro al mio hotel di Taroudant».

Questo perìodo di viaggi apre una parentesi nei tuoi rapporti con i
«Cahiers». Solo dopo, all'inizio degli anni Settanta, sembra che
la questione si ponga in modo brutale: tornare alla rivista ma a
condizione di ereditarla.

Sì, e sembra che abbia aspettato l’eredità molto a lungo,


senza prendermela troppo. Penso di aver sconcertato parec­
chio quelli che all’epoca facevano i «Cahiers» che probabil­
mente non capivano nulla di ciò che era oscuro anche a me.
In effetti ero molto solo e avendo avuto come famiglia
imposta una tribù di donne avevo senza dubbio optato per
una banda di uomini come famiglia d elezione. Ho già
detto perché l’ho riconosciuta subito. Dovrei ora spiegare
perché invece lei ha fatto fatica a riconoscere me. È stato
necessario che ne divenissi nel 1973 la donna delle pulizie
per meritare a poco a poco di dire «noi», prima di lasciarla
per poter dire «io», ed oggi — «io, proprio io». Ho preferito
in questo piccolo libro — non è troppo presto —, non
ammantarmi di un introvabile «noi», di non entrare nel
dettaglio - sarebbe necessaria una seduta psicoanalitica —
dei miei rapporti con ciascuno di coloro che lavoravano alla
rivista. Mi interessa qui solo rendere un po’ più chiara
innanzitutto ai miei occhi quella che chiamerei la «soluzio­
ne cinema».

9H
Questa famiglia in fin dei conti è esistita solo nella mia
mente, il che non significa che dopo tutto il mio desiderio
non finirà per farla esistere davvero. È una famiglia senza
padre, come deve essere nella cinefilia, amore figliale verso
un padre assente, morto o troppo debole, alla Bazin. È il
sogno di una famiglia di eguali e di individui, un sogno del
tipo fratelli sublimi, che porta inevitabilmente a grandi
sciocchezze e a ferite non meno profonde.

Ritorniamo per un istante al cinema francese: ho come /'impressione


che perda sempre l’occasione di instaurare un rapporto con la
realtà, che non funzioni mai come sentinella rispetto alla propria
storia, la storia francese. Per esempio, il maggio sessantottino è un
evento che non lo riguarda se nonjn una forma militante, under­
ground, che in definitiva fa sì che Philippe Garrel sia l’unico
regista uscito positivamente dal ’68. Ha un metabolismo strano
questo cinema francese, come se la sua originalità fosse anche il suo
limite.

E una cosa trita e ritrita che ho sempre sentito dire, vera


e pertanto fastidiosa. È vero che Resnais mi è sembrato
quasi in sintonia con la storia. Ma ci comportiamo come se
avessimo a che fare con un caso francese, il caso mostruoso
di un paese che avrebbe sempre mancato la presa sulla sto­
ria. Dicono che la Francia non ha mai filmato la guerra
d’Algeria e io rispondo: avete per caso visto un paese filma­
re le sue guerre coloniali? L’Inghilterra ha forse filmato
Gandhi quando era ancora in vita? Gli Americani hanno
forse girato film sull’occupazione di Haiti o delle Filippine?
No. La maggior parte della storia dell’umanità in questo
ventesimo secolo di guerre non è stata filmata. E quando si
cercano dei buoni esempi, se ne trovano solo due - certa­
mente straordinari — l’americano e l’italiano. Gli Americani
perché il cinema fa parte del loro genoma culturale, gli
Italiani perché hanno avuto la capacità di rifarsi un paese,
una faccia, tra il 1945 e il I960. È poco comunque. E
quando pensiamo all’immensità di ciò che non è stato
mostrato e visto in Russia, per esempio, ci diciamo che in
questo ruolo il cinema ha fatto quello che ha potuto, e che

99
ormai è alle nostre spalle. Le cose possono ritornare ma per­
ché questo avvenga è necessario che siano già venute una
prima volta. Non c’è, in un paese di così antiche tradizioni
come la Francia, una dimensione fondatrice del cinema. C’è,
al contrario, la consapevolezza di aver co-inventato il cine­
ma e di esserne sempre stata la sala di registrazione, il tri­
bunale. Questa è la nostra eredità e non è poco. Ciò che è
disgustoso, nel caso del cinema francese, è il modo con cui
ognuno si ammanta di questa sopravvalutazione in negati­
vo, che gli fa credere che, unica al mondo, la Francia avreb­
be potuto raccontare la sua storia - neanche poi tanto bril­
lante - nel secolo. Non ne abbiamo più gli strumenti da
Abel Gance e dal cinema delle trincee. C’è come un senso
di felicità, di largo respiro, del semplice fatto di essere for­
tunati di vivere e di vederci chiaro, che non ho mai trovato
nel cinema francese — se non come brevi ventate in Godard,
Jacques Becker o Jacques Demy. Non l’ho mai neppure cer­
cato. Penso invece che i figli d’arte del circo America,
Buster Keaton o Fred Astaire, abbiano rappresentato gioio­
samente la possibilità di essere umani sulla terra e questo,
in fin dei conti, mi commuove più di qualsiasi altra cosa al
mondo.

100
TERZA PARTE
Cinema e storia

Proseguiamo con il discorso sulla storia: assistiamo oggi a un


ritorno della storia e il cinema vi è direttamente coinvolto, anche
per la ricorrenza del centenario. Come spieghi che in Francia si
faccia tanta fatica a prendersi carico della propria storia?

È una domanda cui si può rispondere solo con delle


banalità: lo stato francese ha mille anni, lo stato inglese
pure e tutte e due hanno in comune una totale mancanza di
angoscia o di preoccupazione storica. Per quale motivo poi
la Spagna, pur non essendo sempre stata franchista, non ha
dato un contributo significativo alla storia del cinema?
Evidentemente c’è qualcosa legato alla fondazione di questi
paesi che non emerge, un progetto mitologico non reso evi­
dente. E la Francia, che sa accogliere le cose per prima (il
pezzo raro, non il museo, a differenza dell’Italia e dell’America
che hanpo costruito il museo), è etnografa della propria sto­
ria ed è anche la fondatrice del cinema. Dunque ha qualcosa
da dire sulla questione che l’oppone all’America. Gli
Americani credono che l’inventore del cinema sia Edison,
non i fratelli Lumière. Temo che la Francia con il centenario
e la conseguente disputa sulle origini si troverà al centro di
una bagarre in cui dovrà far valere il suo ruolo di culla del
cinema come per la fotografìa. È in gioco il suo diritto di
prelazione nei confronti della storia della fotografìa e del
cinema. Solo che bisogna tenere presente l’ipotesi che la
fine della prima guerra mondiale abbia segnato la fine di
molte cose in Francia. Per esempio, un regista così impor­
tante come Abel Gance è per noi tanto difficoltoso, così
poco conosciuto e così poco guardato perché appartiene a
una Francia ottocentesca del tutto obsoleta. Anche liberato,
il cinema francese si occupa soprattutto degli individui. Per
questo ci irrita e allo stesso tempo l’amiamo, perché ci ha
suggerito la possibilità di un mondo futuro che potrebbe

103
non avere più bisogno del cinema: il mondo degli indivi­
dui. Naturalmente questo non può diventare spettacolo di
massa e dopo un po’ infastidisce. AH’improwiso la Francia
rappresenta un’impasse, ma è un’impasse che gli altri paesi
non aggireranno. Forse dò l’impressione di prendere il pro­
blema alla leggera, ma in realtà mi ha devastato, perché è
proprio l’assenza di Vichy, l’assenza di immagini della col­
laborazione, che si è rivelata per me inammissibile negli
anni. Oggi, da un punto di vista mistico e intransigente,
potrei dire che se il cinema è l’arte del presente — nel senso
più ampio del termine, non tanto quello del reportage, ma
anche il presente del ricordo, dell’evocazione: come nei film
degli Straub -, ebbene quando non si dà, non si dà e basta.
Questo permette di capire una cosa: il cinema esiste soltan­
to per far ritornare ciò che è già stato visto una volta — visto
bene, visto male, non visto. Notte e nebbia faceva tornare
dieci anni dopo, ciò che non era stato visto, dato che le
immagini dei campi di sterminio girate da George Stevens
o quelle montate da Hitchcock, erano state tenute segrete
dalle autorità americane e inglesi. Come arte del presente o
arte della vigilanza, il cinema era già in uno stato di schizo­
frenia totale perché i committenti stessi di quelle immagi­
ni, lo stato americano e quello inglese, le avevano occultate
a causa della guerra fredda. Così che possiamo vedere solo
oggi questi film di archivio, gli unici realizzati al momento
della scoperta, e ci fanno molta impressione. Notte e nebbia è
il film che ha segnato la mia vita ed è stato girato quasi
quindici anni dopo la scoperta dei campi. Ebbene questo
ritardo è inscritto nel film per mezzo di un lavoro artistico
- il soggetto di Jean Cayrol, la musica di Hans Eisler —
straordinariamente appropriato e di grande gusto. Ma que­
sta retorica sarebbe potuta benissimo assomigliare a quella
del carrello di Kapò... In questa logica troppe cose impor­
tanti nel destino dei popoli, delle nazioni, delle masse non
possono tornare perché non sono state rigorosamente viste.
E temo che non sia stata l’ultima volta... Mi ricordo ancora
di aver incontrato a Hong Kong Chris. Marker, eccitato
dalla notizia che le guardie rosse avevano girato dei filmati.
Potevamo certo domandarci che cosa avessero potuto filma­

io'!
re, ma la questione oggi è pura aneddotica: non ha impor­
tanza. C’è stata un’epoca in cui le cose impiegavano del
tempo per cominciare ad esistere, attraverso processi lenti,
faticosi, dolorosi: per costruire era necessario del tempo e
questo tempo aveva un valore. Oggi bisogna toccare subito
con mano i benefìci delle cose. Forse il cinema aveva questa
capacità di dare tagli sincronici o istologici, di cogliere il
lavoro del tempo — non soltanto la morte al lavoro, gli
uomini al lavoro... Ad esempio, per quindici anni, il cine­
ma italiano ci ha mostrato la ricostruzione architettonica
del paese, passando dalle rovine al primo cemento, fino ai
contemporanei orrori post-moderni: lo vedevamo come
attraverso un movimento stroboscopico, a scatti. Da noi,
Tati era l’unico ogni cinque anni a testimoniare i cambia­
menti fìsici del paesaggio in cui viviamo, sempre sorpren­
denti rispetto alla vecchia immagine che ancora ne aveva­
mo. In fondo penso che questo sia il genio del cinema, la
sua dignità.

Allora, torniamo al cinema inteso strettamente come arte della


registrazione.

Si può riprendere solo il presente, un presente che è


sconvolgente nella misura in cui è coinvolto nell’idea, nel
mito, nel sogno di un processo che non possiamo vedere o
verificare quotidianamente. E il disagio dell’informazione
nei media è dovuto al fatto che oggi la simultaneità non è
più data dal cinema propriamente detto, ma da colui che
guarda le immagini e fa dello zapping. Lo ripeto: l’idea del
lavoro del tempo, del lavoro degli uomini oggi è incom­
prensibile. Come se ciò che era stato lasciato in leasing al
cinema, cioè il potere di prolungare o di accelerare le cose,
di fare dei tagli, gli sia stato progressivamente tolto per
farlo confluire nel pentolone comune della società. Il pro­
blema è che la società non sa che farsene delle cose che tor­
nano. Oggi sta agli spettatori fare dello zapping in modo
intelligente sulle immagini della Yugoslavia. E se oggi
Emir Kusturica, un bravissimo regista, girasse coraggiosa­
mente un film di soggetto storico intitolato Vukovar città

105
aperta, passerebbe solo a Cannes. Da Roma città aperta ad
oggi, il cerchio si è chiuso, per tutti, anche se i francesi ne
hanno maggiore consapevolezza, solo la consapevolezza. Il
che spiega perché, nei momenti decisivi, l’identità francese
si identifichi con il teatro: il cinema non ha voce in capito­
lo. C’è una fotografìa di Robert Capa che mi ha sconvolto
da sempre, quella della donna calva a Chartres, nel giorno
della liberazione. Secondo me è una delle.più belle foto mai
fatte. In quel momento Capa più che un fotografo è un
grandissimo regista. Che cosa ci mostra? Una città, il teatro
di una città intera, con un effetto di appiattimento dello
spazio: tutti stanno indicando la donna in primo piano che
la maggior parte delle persone vede di spalle, salvo coloro
che le sono vicini. È come un teatro rovesciato, visto da un
Americano; si ha come l’impressione che tutta la città di
Chartres sia fuori, c’è un grande spazio in cui tutti guarda­
no questa donna che presto sarà off. Per me questo è teatro.
Ti ricordi l’inquadratura di Godard in lei et ailleurs (t.l. Qui
e altrove), con la piccola palestinese sulle macerie mentre
declama un poema di Mahmoud Darwich? E la voce di
Godard che diceva: «Questa bambina continua 1’89».
Questo mi ricorda l’immaginario nel quale sono cresciuto,
che, da bambino, ho amato, tremando di paura, quello della
Rivoluzione, come ci era insegnata dalla scuola laica. E il
modo con cui la Francia recita la sua identità, perché non
ha trovato rituale migliore del teatro, questo ripetere sem­
pre qualcosa che si riferisce a ciò che per noi significa vive­
re, ricordarsi, purificarsi. A differenza del cinema dove non
c’è catarsi, il teatro fa ritornare dei gesti, delle figure, dei
comportamenti, quel genere di frase che ognuno di noi ha
avuto voglia di dire: «Siamo qui per volontà del popolo...».

In fondo neppure la Nouvelle Vague ha creato nuovi personaggi,


nuovi comportamenti, nuovi gesti. Forse si è soltanto accontentata di
rendere più originali i ruoli, di ridistribuirli, integrando una certa
mitologia americana, quella dei film noir di serie B. Oggi, anche
nei migliori film francesi qualcosa non funziona, non può.funziona­
re: non si ha mai l'impressione che si racconti la storia di un cittadi­
no, di un cittadino qualsiasi. Secondo te, è tutto a causa del teatro ?

106
Poniamoci delle domande in base a ciò che oggi ci inte­
ressa: un ritorno della storia, nel senso che Malet e Isaac14
hanno dato al termine. La Nouvelle Vague (in Francia più
che altrove e in modo più puro, ma attraverso le nouvelles
vagues di tutto il mondo) però si è assunta l’onere di
tutt’altra cosa: ha messo in scena un uomo e una donna, la
guerra dei sessi e un’eventuale soluzione di questa guerra. È
lì che ha investito tutta l’energia artistica e creatrice tra il
I960 e il 1980. Bisognava barattare il cinema dell’ideale,
dunque un cinema maschile poiché solo gli uomini hanno
degli ideali, con un cinema che lasciasse apparire le donne.
Antonioni, Bergman e certamente Godard hanno fatto que­
sto, Pialat vi ha investito molte energie, e così Rivette, a
suo modo, e Rohmer, Ferreri, Cassavetes ecc. Il problema è
stato la coppia, prima le coppie eterosessuali, poi, dopo il
’68, le coppie mal assortite, disparate, deleuziane (Mice nelle
città...). L’idea della coppia è centrale: ti ricordi che voleva­
mo fare un numero speciale dei «Cahiers» sulla scenata...
Questa resta l’idea centrale, in termini di contenuto, anche
se si sta perdendo, perché ora ci troviamo in uno strano
post-femminismo in cui le cose si ricompongono diversa-
mente. Ciò che fece vacillare i registi della Nouvelle Vague
furono l’apparizione di Brigitte Bardot, la foto di Harriet
Andersson, o Monica Vitti... — si era lontani da Michèle
Morgan - immagini di donne che imponevano un modo
diverso di filmare. Questo ha occupato il cinema per quin­
dici o vent’anni, era ciò che all’epoca modificava il linguag­
gio, compreso il versante lezioso di Lelouch (Un uomo e una
donna). Tutto questo per dire che il problema della storia di
oggi non era pertinente allora, non era il motore di quel
cinema, e a meno di riscriverne la storia, non dobbiamo
rimproverarglielo.

Vorrei sottolineare una differenza tra il cinema francese e il cinema


americano, 0 anche italiano: il personaggio, in Ford, in Capra,
per esempio, esiste tanto quanto la star 0 perlomeno non si confonde
con la star: Gary Cooper, James Stewart. Spencer Tracy... Nel
cinema francese invece il personaggio è quasi necessariamente un
archetipo, compreso quello di Reimondo in AH’ultimo respiro.

107
Capisco: non può mai essere il detentore della coscienza
civica. Quei personaggi li puoi trovare in America e in
Italia, due paesi che hanno dovuto fondare o rifondare...

Mi sembra che ad un certo punto Jean Gabin abbia incarnato una


specie di figura eroica e popolare, per esempio nei film di Jean
Renoir o di Marcel Carne. Ma resta un’eccezione. Oggi il divismo
di Gerard Depardieu non è di quel tipo: una componente specifica
del nostro cinema è che non si riesce mai a trovare la reale singola­
rità del personaggio o del cittadino. Il pescatore di Stromboli è
veramente un pescatore. In Francia, il documentario o l’elemento
documentaristico è sempre stato snobbato.

Non snobbato, ipostatizzato. C’è del documentario in


Toni come in tutti i più grandi film francesi: in Bresson o
Grémillon, per esempio. Ce del documentario, come si dice
dei minerali, allo stato puro. In Gueule d’amour (t.l. Gola
d’amore), che adoro, le prime venti inquadrature sono molto
strane, si vede fino a che punto Grémillon sia folle, fino a
che punto ciò che lo attraversa sia nell’ordine della follia.
Ebbene, in queste venti inquadrature ce ne sono almeno tre
o quattro che potremmo benissimo trovare in Carnè e altre
due in Rouquier. È una componente specifica del cinema
francese saper proporre solo degli stati rarefatti e puri delle
cose, attraverso il documentario o la fiction, e di non saper
amalgamare, creare quella specie di impasto che solo
l’Italia, un tempo, e l’America più a lungo — perché
l’America è tutta l’Europa — hanno saputo fare.
Sfortunatamente la questione è tutta qui. Perché gli ameri­
cani? Prendiamo due dei film più importanti della mia
vita, che ho visto per la prima volta nel 1959 e che adoro
tutt’oggi: Anatomia di un omicidio di Preminger e Intrigo
internazionale di Hitchcock. Hanno in comune un personag­
gio, una specie di gran babbeo, molto marcato nel caso di
Cary Grant, più sfumato nel caso di Jimmy Stewart. Il per­
sonaggio interpretato da Stewart non combina più niente,
va a pescare e nelle due ore e quaranta del film riscopre il
suo vecchio mestiere di avvocato. Ritorna ad essere scaltro,
salvo perdersi di fronte a Lee Remick, avendo dimenticato

108
che cosa sia una donna... Solo l’America è riuscita a mostra­
re dei volti di innocenti — non si tratta dell’uomo della stra­
da, di qualunquismo ideologico —: si tratta di qualcuno che
è meno astuto del soggetto quando il film comincia, e che
recupera il ritardo davanti a noi, senza vergognarsi di essere
un cittadino come noi. C’è dunque questo tratto proprio
del cittadino: cittadino per statuto, non solo per ruolo, i-n
balia degli eventi. Prima di evolversi, il cinema americano
ha realizzato degli indimenticabili e incomparabili ritratti,
con grandi attori che interpretavano allocchi, rappresentan­
do così i nostri interessi di cittadini. Cittadino in quanto è
qualcuno a cui a un certo punto viene domandato di pren­
dere conoscenza di un certo dossier. E se è un buon cittadi­
no di schierarsi, di impegnarsi. In termini di finzione e di
narrazione è un personaggio che parte in ritardo rispetto
alla storia e il film dura il tempo necessario per farglielo
recuperare. È abbastanza diverso dal cinema francese che è
un cinema di furbetti, in cui è fondamentale che il mostro
sacro sia in anticipo su tutti e lo conservi.

Un cinefilo in viaggio

Ritorniamo agli anni dei viaggi: c’è un momento della tua vita in
cui sembra che il viaggio prenda il posto del cinema. A meno che il
viaggio sia per te un modo per registrare delle immagini.

A condizione di non fare fotografìe, però.

Dicevo immagini nel senso di immagini mentali. Non ti pensavo


munito di macchina fotografica.

La preparazione del bagaglio è essenziale, è la nevrosi del


viaggiatore: partire con meno cose possibili. E l’utopia del
viaggiatore senza bagagli, autosuffìciente nella sua mancan­
za di tutto. Di colui (nel mio caso) che non sa fare nulla di
nulla. Viaggiare significa camminare, guardare una cartina,

109
andare da un caffè alla stazione, cercare un albergo, talvolta
visitare due o tre cose, perdermi in una città, indipendente­
mente dai soldi che ho a disposizione. Alla fine prendevo
dei taxi, all'inizio camminavo. In poche parole, il viaggia­
tore senza bagagli, cittadino del mondo: torniamo alla
parola cittadino. Il cittadino del mondo si sente a casa
ovunque sia dal momento in cui non è più a casa sua. Molte
persone non appena lasciano la loro casa hanno paura, si
sentono inquiete. Per me è il contrario: potevo sentirmi
inquieto, angosciato nel posto cui appartenevo, cioè Parigi,
ma beato, quasi toccato da protezione divina non appena
me ne andavo altrove. Sicuro che, essendo clandestino, non
esistendo e non avendo nulla, non poteva capitarmi niente.
Così mi sono ritrovato in capo al mondo, in luoghi impos­
sibili, anche pericolosi, non per coraggio ma semplicemente
perché c’erano una cartina e una strada che mi autorizzava­
no ad andarci. Non potevo accettare l’idea che ci fossero
paesi vietati. Mi dispiace oggi non poter andare nei nuovi
paesi che si sono appena aperti: visitare Ulan Bator o che
altro... So esattamente cosa farei a Ulan Bator: niente di
particolare, spedirei una cartolina. Ma mi piacerebbe
molto. In viaggio ci si sente ridotti al proprio corpo. Mi è
capitato di inseguire il sogno di partire senza bagagli e
comperarmi tutto all’aeroporto. Non avere con sé la propria
casa e dirsi: il mondo è la mia città e gli aeroporti i suoi
supermercati. Poco tempo fa io e Gérard Dupuy ci chiede­
vamo che cosa faremmo se fossimo ricchi; non abbiamo
saputo trovare altro che il desiderio egoista di possedere
dieci monolocali ben scelti sparsi per il mondo, a Mayfair a
Londra, a Central Park a New York, a Marrakech, Il Cairo,
Tokyo, Barcellona, Berlino, nelle città in cui ci è piaciuto
vivere insomma, e di spostarci da una all’altra in incognito.
L’essenziale è non lasciare tracce o immagini: essere clande­
stino sulla terra...

La parola clandestino ci permette di tornare al cinema: ce indub­


biamente della clandestinità anche nella cinefilia di cui sei tanto
fiero.

no
Il cinema mi permetteva questa specie di clandestinità,
diversamente dal teatro che obbliga ad apparire davanti ai
miei vicini e ai miei simili, che sono anche cittadini. Il tea­
tro di certo non può scomparire — sebbene non abbia l’aria
di essere particolarmente in forma. Sono ingiusto, perché
mi è capitato da piccolo di seguire la programmazione del
Teatro Nazionale Popolare per un anno o due e mi ha
segnato molto. Vilar era indimenticabile ma il vero incubo
per me, a dieci, undici anni, era la Comédie Fran^aise: ne
ero terrorizzato. Stranamente il circo non mi ha mai
impressionato (non ci andavo e mi ha colpito solo più tardi
vedendo / down di Fellini). Ma non dimenticherò mai il ter­
rore di sentire il tremendo rumore delle assi di legno, dei
passi degli attori, bum, bum... E poi un sentimento più
erotico, quasi già misogino, quando le soubrette con le tette
all’aria arrivavano in scena urlando per farsi sentire in pic­
cionaia. Bisogna dire che le introduzioni retoriche e un po’
stupide dell’una o dell’altrà commedia di Molière non mi
facevano per niente ridere - bisognerebbe avere il coraggio
una volta o l’altra di dire che le commedie di Molière non
fanno poi così tanto ridere. Questo terrore, tutto questo rito
sociale, la lingua francese in questa versione sopra le righe,
l’obbligo di stare diritti e composti come il vicino, l’impos­
sibilità di essere clandestino, tutto questo mi inorridiva. Mi
sono gradualmente riconciliato con il teatro solo apprezzan­
do il teatro filmato, che del teatro ha i vantaggi ma non gli
inconvenienti, che sono poi la sua essenza. Guitry non mi
ha mai infastidito e la ripresa fatta da lui di qualche cosa
che rifiuta la ripresa stessa è l’aspetto più bello del suo cine­
ma, molto più sconvolgente che in Pagnol. Ho riacciuffato
il teatro attraverso il cinema, mi sono inventato un velo,
una membrana protettrice che impedisce al teatro di infa­
stidirmi (anzi mi appassiona come in Oliveira) perché è una
riserva di ipotesi estetiche comuni al cinema, senza le quali
il cinema morirebbe. Da una decina d anni ho capito che il
cinema ridotto al suo versante di registrazione-terrore aveva
fatto il suo tempo, che non aveva futuro e perdeva logica­
mente pubblico. Che per tenerlo in vita era necessario
sostenere l’altro suo versante: quello incarnato da registi

ili
come Bergman o Fassbinder. Per questo mi piace il cinema
di Gus Van Sant (Belli e dannati)’, questo giovanotto venuto
dal teatro è riuscito a fare in dieci inquadrature ciò su cui
Zeffirelli si è incaponito di fare per tutta una vita. Oggi,
non sopravvaluterei la mistica della registrazione. Vedo
bene che non riusciremo mai a strappare al teatro i fenome­
ni legati al rituale, all’identità collettiva, alla storia vissuta
e rivissuta; è il suo dominio, lo potrà fare più o meno bene,
ma questo aspetto riguarda sempre meno il cinema. Poiché
il cinema ha quasi del tutto perso la capacità di testimonia­
re, di essere qui ed ora, è obbligato a inventare mondi
immaginari, a esplorare il mentale. Per me Kubrick è il più
grande regista del mentale. Il problema diventa allora il
dover ri considerare la questione del presente...

Torniamo al viaggio: l'esperienza del viaggio o del camminare ti


avvicina a certi registi più che ad altri, per esempio ai registi soli­
tari o a quelli che restano un po' ai margini ?

Mi piace Robert Kramer: vedendo Route One (t.l. Strada


uno), ho riconosciuto il modo con cui si guarda camminan­
do. Tanto più che per me il cammino è molto simile alla
parola. Ho iniziato tardi a camminare in modo sistematico,
prima camminavo male, ero incapace di fermarmi, come
L'uomo della folla di Poe. Poi, ho capito che si potevano
seguire degli itinerari. È diventato per me, troppo tardi
sfortunatamente, il più grande piacere possibile, quello in
cui arrivo a toccare assolutamente la mia realtà, dopo essere
stato una necessità più forte di me. La morte corre sul fiume
illustra bene questa esperienza del camminare: è un’espe­
rienza del tempo, un’esperienza miniaturizzata e quasi
infantile, derisoria, dei grandi scenari di rivelazione. Dal
momento che possiedo un’ottima memoria topografica, più
che un vero senso dell’orientamento, conservo il ricordo dei
luoghi in cui è passato il mio corpo. Il migliore viaggio a
piedi l’ho fatto cinque anni fa in Toscana, uno dei posti più
belli del mondo e anche uno dei più pratici per camminare.
Certe giornate sono andate bene, altre sono andate perse,
ma poi succede che piove, poi improvvisamente esce il sole,

112
tu hai la cartina e poi... Ora ti racconterò un aneddoto cui
volevo riservare un capitolo del libro. In quell’occasione ho
capito, con grande chiarezza, che cosa c era in comune per
me tra il camminare, i viaggi e il cinema. In certi momenti
ho preferito camminare, cioè parlare con le mie gambe,
piuttosto che parlare, cioè camminare con la mia bocca —
ma in fondo è la stessa cosa.

Una sera a Ronda

È successo in Spagna. Una sera sono in viaggio su un


treno che ferma a Ronda. A Malaga ho comperato un paio
di scarpe e a Bodilla, ho disciplinatamente cambiato treno.
Avanzo a passi felpati verso l’Andalusia spenta di febbraio.
«Niente in mano niente in tasca», come recita l’adagio cui
dovremmo aggiungere: niente in testa e tutto nelle gambe.
Le gambe infatti vogliono camminare. Le cinque lettere che
compongono la parola Ronda, capitale dei tori, mi frullano
per la testa come una trottola che, non diversamente dai
dadi, non abolisce il caso. Lì è il mio provvisorio capo del
mondo. Aspetto di vedere il passaggio dalla parola alla cosa,
sapendo — viaggio ormai da molto tempo — che tutto il pia­
cere è racchiuso in questo presente stretto tra un passato e
un futuro egualmente senza peso. Se come spettatore di
cinema «non avevo visto nulla a Hiroshima», come viaggia­
tore sulla terraferma non vedrò certamente «nulla a
Ronda».
Nel mio scompartimento ci sono dei soldati con i capelli
rasati, in silenzio. Davanti a me un ragazzino e la sua picco­
la amica si accorgono così poco di me che posso osservarli
come se al mio posto non ci fosse nessuno. Ogni viaggiatore
conosce i momenti in cui, come la lettera rubata, è sotto gli
occhi di tutti, ma come trasparente e in sovrimpressione,
ostaggio consenziente di una situazione che lo ignora.
Anche il cinefilo li conosce. Vedere un film non vuol dire
viaggiare, vuol dire prendere il primo treno, scendere a una

113
stazione che ha un nome che ci piace, e stabilire tutto a
posteriori: che era proprio quella stazione, quel treno e
quella notte, cupa e spessa, scesa proprio quando si è arriva­
ti a destinazione. Come spiegare il piacere di aver dimenti­
cato il nome di questa città? Ah sì, Ronda.
Quella sera lo sdoppiamento fu tale che riuscii a veder­
mi. Invece di scendere dal treno per ultimo con lo sguardo
smarrito di chi viene da fuori, invece di consultare la carti­
na o di elemosinare informazioni, seguivo i soldati che rien­
travano con passo fermo e deciso. Misi la borsa a tracolla, la
mia povera borsa grigia, per andare più velocemente, come
se anch’io fossi esasperato dal ritardo con cui il treno era
arrivato a Ronda, fermata secondaria, e mi precipitai, senza
guardare niente e nessuno, fuori dalla stazione. A quel
punto avrei dovuto scegliere se andare a destra o a sinistra,
avrei dovuto esitare, perdere tempo, appoggiare la borsa,
evitare accuratamente di allontanarmi dal centro della città.
Ma non feci nulla di tutto questo, e iniziai a seguire questo
scarno flusso di viaggiatori, che vedevo passare e infilarsi
silenzioso in vie deserte e in tratti d’asfalto male illuminati.
Capivo che non ero in «nessun luogo», un nessun luogo che
per caso era Ronda, ma che sarebbe potuto essere anche
Villepinte in Francia o Culemborg in Olanda. Avevo dun­
que percorso duemila chilometri ed avevo la sensazione di
essere tornato a casa, in una specie di periferia universale.
Come nei film di Fellini, camminavo da un po’ di tempo
quando mi sembrò di essere vicino alla meta, quando capii
di essere arrivato. Arrivato nel mondo che va, catapultato
nel centro della città di Ronda e subito disilluso al centro
di una folla mascherata, perché era carnevale. Dopo aver
passato la notte in una cameretta poco riscaldata dell’hotel
Reina Victoria, solo alla mattina scoprii l’austero splendore
di quei remoti luoghi andalusi che non avevo visto la sera
prima. Una volta sentitomi a casa mia, una volta addome­
sticato, con l’aiuto delle cartoline, questo miscuglio di car­
tina e di territorio promesso dalle due sillabe della parola
Ronda, solo allora iniziai a guardarmi attorno come un
ebete turista medio per scoprire, in poco tempo, che a
Ronda, in quella città così carina, non avevo niente da fare.

114
L’altra capitale dei tori, ancora più misteriosa, Sanlucar de
Barrameda, con il suo bar «E1 Bigote» in riva al mare,
divenne allora il mio nuovo «capo del mondo».

77 capita a volte di pensare che la realtà ti faccia un regalo e che


basterebbe accettarlo?

Sì, con l’idea però che ciò che prendo non venga tolto a
nessuno. Sono riconoscente alle persone di esistere e al
mondo di esserci. E allo stesso tempo ho la viva impressione
che è il mondo a esistere e non io, che faccio una grande
fatica per esistere in questo mondo. Ma non ho dubbi
sull’esistenza del mondo, io la vedo bene, la stazione di
Ronda, poco illuminata, mentre al turista non interessa
perché non fa parte della sua esperienza. Il cinema mi ha
insegnato una cosa, cioè che le scene più belle o le inqua­
drature migliori cominciano con una piccola scena da nien­
te come quella, ma importante quanto il pezzo di bravura.
Dato che i pezzi di bravura non mi piacciono tanto, ho
sempre bisogno del passaggio da uno all’altro. E sono con­
tento di esserne, grazie al mio corpo e grazie alla mia espe­
rienza del camminare, il traghettatore: passare da un’inqua­
dratura da niente a un’altra che resterà. Fellini è grande
perché non filma mai un pezzo di bravura senza mostrare
l’inquadratura precedente e quella successiva; ed è ciò che
ho imparato ad apprezzare in lui - pensa i suoi film seguen­
do una logica da camminatore.

Per esempio, quando filma una festa, una scena di carnevale, c’è
sempre l’immagine del prima e del dopo, con questa specie di deso­
lazione che segue l’euforia.

Il camminatore è colui che accetta l’idea che lo spettaco­


lo è sempre già iniziato. E la sua lentezza che lo costringe a
questo, come il fatto che ciò che scopre vive secondo ritmi
propri: la formica intravista nell’erba dove ti sei seduto,
stanco, era lì prima di te, solo che semplicemente non la
vedevi. Ho impiegato tutta la vita per liberarmi da un
senso di colpa, quasi paranoico, che mi diceva che avrei

115
dovuto vederla. Ho certamente più humour oggi, perché so
apprezzare meglio la parte che mi resta. Ma per tanto
tempo l’idea di passare ogni giorno nello stesso posto senza
vedere ciò che comunque stava lì, davanti ai miei occhi,
un’insegna luminosa incredibile, o qualsiasi altro elemento
del paesaggio mi dava un senso di riprovazione. Io ho biso­
gno di qualcuno che mi faccia vedere; per questo il mio
rapporto con l’immagine non può essere semplice. Non
sono un visionario, piuttosto ho bisogno che mi si faccia
vedere. Per vedere, devo inventarmi scenari complessi che
passano attraverso il mio corpo. Per il camminare, ad esem­
pio. Si torna alla questione dell’inquadratura: io faccio
molta fatica a vedere ciò che non è inquadrato. So bene che
l’inquadratura non è neutrale, ma esprime la volontà o il
desiderio di chi vuole farci vedere: «Tu guarderai questo!».
Da qui nascono anche i miei problemi con il teatro che non
si serve dell’inquadratura ed è per me sinonimo di fatica,
visiva e uditiva. È un problema di lentezza della percezione,
mentre se esiste un’inquadratura sono più veloce.

Un’ultima domanda sui viaggi: non hai mai la tentazione di fer­


marti, di diventare tutt’uno con il paesaggio?

No, mai. Ho fantasticato di ritornare e in parecchie città


mi sono detto: è formidabile, tornerò e diventerò intimo di
questa città per conoscerla nei minimi dettagli. Il Marocco
è l’unico paese in cui sono deliberatamente tornato, certo di
una specie di accoglienza fìsica del paese. Ma di solito mi
sembra più bello ciò che non conosco. Le cose che non
conosco sono parole con una loro verità: Djakarta è una
città orrenda e grandissima, costruita in cemento, infre­
quentabile, molto povera, ma conosco la parola Djakarta da
quando avevo sei anni. Il mio problema è scegliere tra la
parola e la cosa. Capita che dopo avere fatto esperienza della
cosa non ne conservi un gran ricordo. Non starò forse alle
regole del gioco ma se ne può discutere. Come se il godi­
mento e l’esperienza delle cose fossero sempre rimandati a
domani. Quel che importa è il primb incontro: ho fatto una
buona entrata a...? Mi ricordo ancora di un arrivo alla

116
Havana alle tre del mattino, l’attraversamento fantomatico
della città, le file di persone che già aspettavano l’autobus,
il mio alloggio in un Grand Hotel, in piena notte... Poiché
non riuscivo a prender sonno, ho aspettato l’alba, per sapere
X.
com’era la città che avevo appena attraversato. E una specie
di fidanzamento, la promessa di un mondo cui sono eterna­
mente fidanzato che si realizza attraverso le parole, le città,
a volte i ragazzi, le cartoline e tutto ciò che ho velocemente
annotato su dei taccuini. È una concezione del viaggio ter­
ribilmente minimalista e perversa, che non corrisponde
affatto all’idea di grande viaggiatore che hanno di me i miei
amici. E poi con il passare del tempo, l’emozione di andare
in capo al mondo diminuisce: non ci sono paesi che mi
hanno fatto sognare da giovane in cui non sia stato. Sarebbe
stata una tragedia non essere andato in Cina, in Giappone o
in Brasile. Ultimamente mi sarebbe piaciuto fare la Francia
a piedi, perché è il paese che conosco meno. Il paesaggio
francese è come il cinema francese: è molto bello, ma biso­
gna trovare il metodo giusto per attraversarlo: né in mac­
china, né in treno, perché il paese è troppo piccolo per il
TGV. Ecco quello che avrei fatto: Italia, Inghilterra,
Francia, Belgio, Germania. Pensavo di girare l’Europa a
piedi, era il mio progetto, per sentirmi piccolo e lento
rispetto a ciò che è più grande di me. Non andrei a Tirana o
a Lubiana, capitale della Slovenia slovena, questo non mi
manca. Voglio tornare a sentirmi piccolo, per una settimana
fare il giro dell’Ardèche: so che è bellissima.

Pensi sia possibile affrontare il tenia del viaggio in rapporto al


rimorchiare qualcuno, sempre che questo rapporto per te esista ?

Certi incontri possono essere buffi e commoventi, perché


a forza di essere furtivi e senza futuro assumono una dimen­
sione di desolato cameratismo. Ne conservo un ricordo
acuto, anche se dal punto di vista sessuale era stato depri­
mente — questo non ha nulla a che vedere con la remunera-
tività del piacere. È la triste consolazione di colui che va a
rimorchiare solo e clandestino, ma può anche essere molto
avvincente. Per un certo periodo ho pensato che il sesso

117
fatto con i ragazzi mi aiutava a inquadrare lo sguardo, era
un punto di partenza per vedere altre cose, mi permetteva
di erotizzare il mondo, di dargli un nord e un sud. Nel
momento esatto" in cui vedi un bel ragazzo in un angolo -
l’occhio è molto veloce in queste situazioni — si creano
immediatamente un centro e una periferia, dunque
un’inquadratura e quindi un’immagine: la presenza di un
ragazzo crea un’immagine. Del resto la stessa cosa si
potrebbe dire di tutto ciò che è oggetto di un investimento
erotico, o di quello che dicevamo a proposito del personag­
gio. Non mi sono mai identificato in Cary Grant, ma i film
in cui mi è piaciuto di più sono quelli in cui la sua presenza
si fa immagine: tutto il resto trova un ordine a partire da
lui. È un principio di orientamento erotico generale, in cui
l’erotismo è un mezzo, non il fine.

I ragazzi ti aiutano anche a vedere più paesi, ti fanno anche un


po’ da guida?

Nel terzo mondo lo fanno di natura. Ci sono state due


fasi nei viaggi della mia vita: tra il 1968 e, diciamo, la mia
entrata a «Liberation», il periodo dei viaggi poveri, e quello
successivo. Prima avevo fatto qualche grande viaggio, quasi
sempre senza una lira in tasca, uno in India, un altro in
Africa che è durato quasi un anno, poi tre o quattro mesi
nell’Africa nera. Ai «Cahiers» avevo la fortuna che nessuno
mi contendeva i biglietti di aereo che ci arrivavano. Una
volta mi sono trovato a Djakarta, poi a Surabaja, invitato da
qualcuno dell’ambasciata che pensava fossi Bazin... Dopo ho
visitato il terzo mondo passando dall’altra porta, quella dei
palazzi. Nel periodo di «Liberation» ho viaggiato molto,
ma ero passato dalla parte dei ricchi. All’epoca dei miei
viaggi poveri era facile incontrare dei ragazzi sulla mia stra­
da, nel mondo arabo, in Africa nera, in Asia. E dato che
dovevano pur vendere la loro semi-prostituzione, facevano
da guida, molto male in genere, ma non importava, perché
non ero un gran consumatore di monumenti. Per esempio, i
ragazzi arabi sono in generale dei fessimi amanti ma sono
molto commoventi perché hanno la nostra stessa cultura

11«
coloniale e un rapporto reale con il sapere. Ho buoni ricordi
di storie con ragazzini della Medina cui davo lezioni di
inglese, con la mia aria un po’ da maestro o da fratello mag­
giore. Leggevamo Coleridge insieme, a letto... Fa molto
Gide, ma sessualmente è un po’ opprimente. Esiste sempre
una regola, comunque: chi si assomiglia si piglia. E mi è
capitato spesso di imbattermi in ragazzi, come ce ne sono
tanti in quei paesi, in bande di ragazzi molto chiassosi, tra i
quali ce nera sempre uno più silenzioso. Era sempre quello
che veniva verso di me, ormai lo sapevo. Ci sono dei tratti
tipici che caratterizzano colui che non farà mai parte della
muta. E molto narcisistico trovarsi travestito da ragazzino
del terzo mondo ma è vero. Non mi sono mai capitate
disavventure (non sono un incosciente ma questo non vuol
dire), forse per la convinzione di essere in sovrimpressione
sul paesaggio, per una specie di dubbio di esistere veramen­
te, tranquillizzato dalla certezza che il mondo, lui sì, esiste.
L’impressione di esistere poco è talmente forte nell’esperien­
za di chi viaggia-rimorchia-cammina, che lo protegge. È
uno stato d’animo quasi impercettibile, di cui hanno parlato
bene soprattutto gli scrittori — per esempio Robert Walser o
Rimbaud. Al cinema, ci sono soltanto persone che agiscono
in base alla necessità della progressione. Il ragazzino che
guarda dal fienile in cui ha dormito, Robert Mitchum che
passa a cavallo e che vuole ucciderlo, resta un’immagine
fondamentale per me. Perché c’è la verità del cammino,
della progressione: i bambini sono arrivati in barca, l’altro a
cavallo, procedono più o meno allo stesso ritmo...

Il cinema come promessa del mondo

Torniamo alla cultura e al tuo modo di pensare il cinema, o la


cinefilia, all interno dell'insieme più vasto della cultura. Se ho ben
capito per te il cinema è diventato la promessa di un mondo, è stato
sinonimo dell apertura al mondo, attraverso i viaggi. che consisto­
no nell andare a verificare altrove che altri vivono per mezzo di

119
altri linguaggi questa stessa esperienza del cinema. Mi raccontere­
sti di questo tragitto culturale?

Per molti della mia generazione, la cultura è stata la


grande idea, la grande opportunità o la grande invenzione,
la grande fede laica. Mi ricordo per esempio di aver sfoglia­
to la Storia dell’arte di Elie Faure e i libri di Malraux alla
biblioteca comunale; erano la promessa di un sapere perché
tracciavano una linea che andava da Lascaux a Goya, pas­
sando dall’arte negra... Questo voleva dire che tutto era
possibile, che eravamo salvi. Come altri, sono cresciuto in
questa atmosfera del dopoguerra, cullato dall’ideologia
dell’Educazione popolare che, me ne rendo conto solo oggi,
era solo una specie di buona novella o di consolazione.
Permetteva di non essere più invischiati nella religione,
mantenendo però un rapporto con il sacro, di acculturarsi,
di imparare e di essere curiosi. Questa visione alla Malraux
e alla Elie Faure, di cui Godard è’ l’erede, permetteva di
uscire dall’occidente, di non limitarsi, di avere una conce­
zione globale e generosa della cultura, di accogliere tutti gli
oggetti che l’umanità aveva prodotto e che si era deciso
essere artistici. Bisognava farli entrare in circolo in qualche
modo e questo lavoro giustificava un’intera vita. Devo
essermi detto questo, inconsciamente. L’altra idea che ho
della cultura è più legata alla mia biografia: a casa mia
quando ero piccolo ci saranno stati venti libri in tutto. Mia
madre leggeva poco, pur avendo grande rispetto per il sape­
re e per la cultura. Questo ambiente famigliare non era
chiuso o anti-culturale ma invertebrato: composto unica­
mente di donne che non sapevano nulla e con vite diffìcili
alle spalle. Non c’era nulla. Mi è stato affidato il ruolo di
anima culturale della famiglia. Mi ricordo ancora il giorno
in cui ho acquistato i «Concerti brandeburghesi», uno dei
tanti choc che si possono avere verso i dodici o i tredici
anni, ebbene a casa nessuno li aveva mai ascoltati: era l’asso­
luto, la meraviglia... Accadde lo stesso con il cinema. Con
mia madre e mia nonna andavarpo a braccetto a vedere i
film di Mizoguchi al cinema Bertrand, ora scomparso. Mi
fidavo completamente dei «Cahiers» che giudicavano

120
geniali questi film e ci rivedo ancora noi tre, una domenica,
giorno di uscita, arrivare in ritardo al cinema perché aveva­
mo sbagliato la corrispondenza del metrò, mentre i titoli di
testa dei Racconti della luna pallida d'agosto scorrevano già
sullo schermo... Fui preso da sacro terrore. Quello che ho
vissuto in quella situazione non è cosa da poco e spiega per­
ché mi sono sempre obbligato ad essere l’educatore di me
stesso: nessuno aveva assunto quel ruolo nella mia vita, e in
seguito non ho più lasciato che qualcuno lo assumesse.

Tua madre e tua nonna non hanno mai pensato a una specie-di
scommessa, a una promozione sociale: che tu avresti fatto strada?

Per quel che ne so, no. Erano fiere di me e sicure che


avrei studiato. Studiare era la linea di demarcazione: in que­
sto modo avrei fatto parte del mondo desiderabile, del
mondo che il popolo desiderava.

Nessuno ha mai pensato a un possibile mestiere per te?

Non credo che mia madre abbia mai avuto progetti su di


me, anzi mi sembra di ricordare che dicesse sempre che i
mestieri manuali erano formidabili e che sarei potuto benis­
simo diventare carpentiere. Gliel’ho ricordato di recente e si
è offesa: «Ma no, volevo che diventassi avvocato!» Mi ricor­
do che un professore in grembiule grigio, il sublime signor
Doumick, l’aveva convocata a scuola per dirle che suo figlio
doveva assolutamente andare al liceo. Mia madre era così
soddisfatta della mia esistenza, la mia famiglia era così con­
tenta di avere finalmente un ragazzino, educato, simile al
padre, che emblematizzava un non so che di meraviglioso,
da dimenticarsi di fare anche l’ombra di un progetto sul
mio futuro. Questo spiega perché non ho mai avuto proget­
ti o ambizioni. Ero di un’incuranza totale perché avevo
adempiuto la mia funzione essenziale con la mia nascita,
rendendo la mia famiglia incredibilmente felice di vedermi
arrivare sulla terra. Sono stato un bambino molto povero,
ma anche molto viziato. Più tardi ho capito che questo mi
avrebbe reso le cose più diffìcili, perché avrei dovuto inven­

ti
tarmi le domande e dare le risposte. Avevo dovuto instaura­
re a casa il concetto stesso di cultura. E non poteva essere la
cultura borghese, ma quella del mondo intero, per esempio
quella che passava per la Storia del cinema di George Sadoul,
l’unico libro che mi abbia fatto sognare sul cinema, nono­
stante tutte le sciocchezze e le cantonate che contiene. Per
me la cultura non è ciò che mi offre la società — ecco la dif­
ferenza fondamentale tra te e me — ma ciò che mi offre il
mondo. Poi c’è stato il cinema. Era escluso che mi dicessi
freddamente che, grazie alla cultura, avrei sconfinato in
quel mondo accanto al quale ero nato. La società borghese è
sempre stata il nemico, e comunque l’ho sempre guardata
con diffidenza — «non sono amici», come dicono i personag­
gi di Renoir. Prima ancora dell’amore per il cinema, pensa­
vo già che non ci sarebbe stata cultura senza la promessa di
una civilizzazione totale, in tutti i sensi e in ogni tempo, in
cui io sarei potuto essere l’educatore di me stesso, colui che
scopre le domande e nello stesso tempo le risposte. Quando
iniziai a leggere con passione «Arts», la rivista diretta da
André Parinaud, mi capitava di fare delle piccole tavole
sinottiche, come nella Pleiade, con delle colonne: pittura,
letteratura, musica, cinema. Catalogavo le informazioni
contenute in «Arts» in modo bizantino. Essere a tal punto
privato del simbolico nella formazione ha dell’incredibile e
mi stupisco di essere diventato solo un innocuo perverso e
non un grande criminale. Avendo goduto dei benefici
deH’immaginario edipico incestuoso, era logico che cercassi
in seguito ciò che fa legge, ciò che fa fede. Incestuoso due
volte poi, perché mia nonna aveva grande autorità su mia
madre, un’autorità esistenziale. Tutto si arrangiava, si nego­
ziava tra donne, era una tribù molto consapevole di essere
diversa dai vicini (i vicini erano l’altrove assoluto).

Se non sbaglio hai iniziato tardi a guadagnarti da vivere, più o


meno all'epoca in cui lavoravamo insieme ai «Cahiers», agli inizi
degli anni Settanta: come facevi prima ?

Avevo delle borse di studio e vivevo da mia madre, un


po’ come in un albergo. Per molto tempo mi ha passato dei

122
soldi, pochi, poi ha smesso. Mi comperavo i vestiti al mer­
cato delle pulci, era il periodo delle giacche di velluto, le
trovavo fantastiche, non c’era niente di meglio. Ho sempre
pensato in modo assoluto e immediato che i problemi
finanziari non avrebbero angustiato la mia vita, ho sempre
avuto i desideri e i piaceri che ero in grado di offrirmi.
Tutto il periodo legato alla Cineteca era al di poco dispen­
dioso: metro, biglietti ridotti, caffè. Rientrando alle quattro
del mattino, trovavo sempre qualcosa da mangiare lasciato­
mi da mia madre. Sono vissuto senza badare al denaro.
Altrimenti, non avrei potuto accettare il primo ridicolo
salario dei «Cahiers»...

Mi ricordo, roba da non crederci.

(Risate) Già. Prima di entrare a «Libération» non avevo


mai sospettato che esistessero note di spesa. Avevo sempre
viaggiato a mie spese, anche ai tempi dei «Cahiers». L’ho
trovata una cosa così meravigliosa che non ne ho mai abusa­
to, era come un miracolo, una gentilezza che ti veniva
fatta... Ripenso spesso a questo problema della cultura, per­
ché rischia seriamente di riproporsi oggi, questa specie di
ideale culturale che ha perso ormai la sua innocenza.
Un’esperienza che ho condiviso con Jean-Claude Biette, per
esempio, è stata quella di essere stati ripescati, come molti
bambini del popolo, e se non fosse stato così ci saremmo
domandati come fare per cavarcela nella giungla della
società. Questo non mi impedisce di vedere come tutto è
andato degradandosi, ricomponendosi e che il bovarismo di
questa questione rischia di finire male. Se la cultura è una
promessa, deve essere quella di poter fare esperienza delle
opere, non semplicemente di apprendere un sapere. Come
per le cartoline o le cartine geografiche, la promessa eccede
sempre ciò che vivrai davvero. Ho sempre avuto l’impres­
sione di una menzogna, per esempio nel guardare un bel
libro di riproduzioni di quadri per potersene vantare in un
ambiente, che poi ho finito per frequentare, in cui non è
possibile ammettere che semplicemente ci si è dimenticati
di guardare gli originali. In fondo ho sempre pensato che

12S
questa promessa fosse fatta di nomi propri, che i nomi pro­
pri a loro volta fossero la promessa di un’esperienza che si
poteva fare o non fare, e che tutto ciò circolasse in un
mondo che non chiedeva di vedere. È tutto un problema di
fede: quando le persone erano più religiose, non si poneva
loro la questione della realtà, né quella di fornirne delle
prove. Era possibile l’ipocrisia assoluta. Dopo Flaubert, la
cultura ha permesso qualcosa di simile, le menzogne. È
questo uno dei motivi del mio attaccamento ai film di
Straub, per I’ammirazione e un po’ per il terrore per qualcu­
no che dice: procederemo passo a passo, andando a prendere
le persone là dove sono...

... Nella cultura, si cammina a piedi...

Sì, a piedi: con i sandali di Jean-Marie Straub... Ci sareb­


be uno «stato» dell’udito, che si può descrivere, anche se non
particolarmente brillante. Ci sarebbe uno stato dell’udito,
uno stato dell’occhio, uno stato del corpo umano, uno stato
dei testi... Tutto sarebbe descritto senza menzogne e il cine­
ma permetterà di fare un passo in questa direzione. Quando
penso a Straub mi piace ricordare soprattutto questo.

Come se tu privilegiassi una sorta di materialismo antico?

Sì, o di sensismo. In Straub e Huillet bisognerebbe con­


servare il sensismo e lasciar perdere il comuniSmo. Tra tutti
i loro film il mio preferito è il Pavese, Dalla nube alla resi­
stenza, quello che mi convince di più sugli defantichi,
materia nella quale sono molto ignorante. Accanto viene
Mosè e Aronne, i cristiani hanno operato una sintesi tra il
ramo ebreo e quello greco. Hanno perfettamente ragione a
pensare che la cultura abbia a che fare con entrambi e che è
nostro destino farci carico delle oscillazioni nell’una o
nell’altra direzione. Se per noi il cinema degli Straub ha
assunto il ruolo di super io è anche per una ragione pedago­
gica: rappresentano infatti gli ^straordinari professori che
avremmo voluto avere o essere, quelli che rendono possibile
una reale esperienza umana, con materiali audiovisivi,

124
un’esperienza che bisogna fare passo a passo ed esigendo
molto. Vent’anni fa Straub e Huillet denunciavano i
magnaccia della cultura, la stessa cosa che fai tu oggi par­
landomi della televisione e del suo generalizzato ius primae
noctis; la situazione è la stessa e non solo è ancora valida ma
si è anche aggravata. Gli operatori culturali e i circuiti di
diffusione esercitano ormai un ius primae noctis senza nem­
meno saperlo.
Per quanto riguarda la mia origine gloriosa nella cultu­
ra, alla mia auto elezione avvenuta tra i «Concerti brande­
burghesi» e gli impressionisti sono costretto a dire c’è un
momento di svolta. Perché scegliere il cinema, se ero più
portato ad essere professore di lettere? Nel cinema degli
anni Sessanta, non c’era forse ancora la geniale idea di una
cultura clandestina all’interno della grande cultura in cui il
cinema era già entrato? Volevo ancora una volta evitare la
società, o piuttosto, avevo ancora il desiderio di attraversar­
la a partire da una delle sue grandi produzioni popolari,
anche se completamente sottovalutata. Era questo: scegliere
i western americani, le comiche, o tutto ciò che è considera­
to parte della cultura popolare e metterli al loro vero posto,
e cioè molto in alto. Voleva dire parlare di L'alibi era perfetto
citando Heidegger. Voleva dire Rohmer che parlava di
Hitchcock, considerato all’epoca una mezza calzetta, utiliz­
zando Kierkegaard. Mi sono lanciato nella scommessa di
riconoscere nel cinema da un lato il suo essere popolare e
dall’altro una potenzialità illimitata verso i vertici della
cultura. E non avrei potuto fare questa scommessa né con
l’opera né con il teatro.

Che cosa pensi dell’ipotesi, formulata da altri, secondo la quale il


cinema riunirebbe in un’unica tutte le altre arti, proponendo il
miglior punto di vista possibile?

Mi è estranea, non vi ho mai aderito teoricamente. Mi


ricordo di un articolo di Lue Moullet che diceva «il cinema
ci accultura». Potremmo dire la stessa cosa oggi della tele­
visione, anche se ci porta meno lontano. Per me si tratta
piuttosto di vedere i film di Welles prima di leggere

125
Shakespeare, di vedere 11 trapezio della vita prima di aver
letto Faulkner: farsi una cultura attraverso gli ambiti che il
cinema poteva incrociare, gli adattamenti dei libri, ecc.

Dunque il cinema in quanto rendeva possibile e prosaica questa


grande promessa culturale.

Per questo trovo particolarmente bello e strano l’amore


per il cinema nel XX secolo. È un vero paradosso: quando
ho iniziato ad essere cinefilo, ero totalmente schierato per
l’avanguardia, nella forma più antiborghese, in modo siste­
matico, al di là di qualsiasi piacere o interesse personale.
Non ho mai frequentato l’ambito musicale, ma i nomi di
John Cage o di Elliot Carter erano scolpiti in me, senza che
fossi minimamente appassionato di questa musica, che non
ascoltavo neppure (dimenticavo di verificare). Dunque era­
vamo per l’avanguardia in tutto, tranne che per il cinema.
Questo non è cambiato, non mi piace il cinema sperimenta­
le, anche se penso che presenti aspetti interessanti. Ho sem­
pre adorato i marginali, i registi appartati, e in questo non
sono per niente cambiato. L’underground americano, che sta
in disparte, senza legami con Hollywood, per me è come se
non fosse neppure esistito, anche se non sono fiero di que­
sto. Ma il cinema, per me, non era nulla di tutto questo,
non consisteva nel ritrovarsi in quell’isolamento altezzoso,
tagliato fuori da tutto, dove non ci sono più sollecitazioni
per l’immaginario. Questo spiega anche tutti i tentenna-
menti nella storia dei «Cahiers» tra Rohmer-Douchet da un
lato, e Rivette-Labarthe dall’altro. Da un punto di vista sto­
rico, avevano ragione questi ultimi: bisogna aprire all’avan­
guardia. Solo che il cinema prolunga qualcosa del XIX
secolo, a lungo, in modo del tutto insperato. E lo fa perché
generazioni intere hanno favorito questo prolungamento. Ci
è voluto del tempo prima che i codici narrativi del XIX
secolo, il melò, il vaudeville, il circo si esaurissero. Da noi il
cabaret si chiude definitivamente con Playtime, negli Stati
Uniti forse con Woody Alien: in tempi molto recenti
comunque. Ha ragione Schefer a dire che il cinema risveglia
in noi un uomo antico; d’altronde l’amore per il cinema

126
oggi, mentre siamo qui a discuterne, ha l’aria di una sorta
di patriottismo difensivo: non vogliamo che qualcosa scom­
paia. Come se la memoria del XIX e di tutto il XX secolo
fosse racchiusa lì, e non altrove, e ci fosse dato il compito di
non perderne il filo, sapendo che qualcosa sta per infranger­
si, che è lì e che non siamo ancora in grado di recuperarla.

In questa logica, allora, la cinefilia sarebbe forse la forma cultu­


rale con la quale si sarebbe tentato di prolungare il più possibile e
il più a lungo possibile questo stato del cinema come arte popolare,
che non si considera ancora affatto un'arte. La cinefilia sarebbe
dunque per natura difensiva e, diciamolo pure, arcaica?

Il cinema era ciò che mi permetteva di appartenere alla


mia classe, più che una classe uno status: i poveri. Era
molto semplice: c’erano i poveri e cerano i ricchi, noi erava­
mo i poveri, cioè i piccoli. Mia nonna sapeva riderne in
modo formidabile. Non è affatto un modo di compatirsi, è
il sentimento gioioso e fondamentalmente ironico di essere
piccoli e di riuscire a ricavarne alcuni vantaggi d’orgoglio:
arrangiarsi, non dover nulla a nessuno. Il cinema permette­
va di ritrovarsi e di trarre profitto da più parti, di aggirare
la società, sottraendole una delle sue produzioni popolari,
senza dividerla con lei, custodendola solo per noi. Ecco ciò
che prova l’esistenza di un’internazionale cinefila: ci si inne­
sta senza problemi sulla produzione popolare americana,
senza essere americani. Ci appartiene, come ci appartiene il
jazz, anche se è un’affermazione che sembra non stare in
piedi (non siamo neri...), ma poco importa, se mi tolgono
Billie Holiday, mi tolgono anche la base sulla quale tutto il
resto è potuto esistere. E, di fronte a questo desiderio, il
nemico è sempre lo stesso: i «Monsieur Homais»15, quelli
che non credono o che credono di sapere. È semplice, l’uma­
nità produce delle opere, ebbene, noi ne facciamo quello
che dobbiamo farne, cioè ce ne serviamo per noi. Questa
impressione è/stata molto forte rispetto al cinema, in un
momento in cui il cinema francese era sottovalutato, non
avendo prodotto delle forme minori degne — francamente
dubito che si debbano ripescare Noèl-Noèl o Yves Deniaud.

127
Forse il grande cinema francese era un po' troppo aristocratico
nella sua essenza: Renoir, Bresson, Ophuls o Tati, sono registi
abbastanza lontani dalla piccola borghesia.

Mi sono sempre schierato con gli aristocratici del cinema


francese, come se, in termini di classe, gli ideali democrati­
ci fossero stati portati dall’America e dall’Italia. Abbiamo
sempre riconosciuto all’Italia la capacità di emozione popo­
lare, quasi popolaresca, ma sostenuta con un’incredibile
buona volontà. E così per l’America. Questo mi portava a
concludere che non né esistesse una versione francese, per­
ché il cinema incoraggiava in me solo la parte aristocratica,
quella dei registi in grado di rifiutare. L’aristocrazia era un
modo di dire no, con molta forza nel Bresson di Perfidia.,
con molta sofferenza in Grémillon, o con la fuga, come in
Renoir... Tuttavia non mi sono mai riconciliato con il tran-
tran ordinato del cinema francese, mi piace questo paese ma
qualcosa non è scattato. Forse, molto semplicemente, per­
ché mio padre non era francese...

Cinema e comuniSmo:
appello per una contro-società

Quando parli di poveri e ricchi siamo lontani dalle classi sociali


della retorica marxista. Ebbene, il marxismo è stata una presenza
imposta ai «Cahiers» quando tu ne eri parte integrante. Ma, più
proseguiamo, più mi riesce difficile immaginare che tu abbia potuto
aderire a questo movimento politico negli anni successivi il ’68, ad
un linguaggio che non ti appartiene e che si era impadronito della
rivista. Oggi, come ricostruisci questa fase, durata qualche anno?

Non avevo alcun tipo di cultura politica, non ero cre­


sciuto all’interno di alcuna influenza filosofica, intellettuale
o religiosa e tutto ciò che ho detto su quella cultura totaliz­
zante, in qualche modo ha fatto sì che mi sia preservato per
molto tempo da tutto questo. Non ci riguardava, non ci

128
preoccupava, non la incontravamo mai sulla nostra strada.
Detto questo, dal momento in cui iniziò una politicizzazio­
ne reale, il modello di pensiero è stato il marxismo, come se
ci avesse impregnato, data l’epoca in cui vivevamo. A mio
parere vi abbiamo aderito, me compreso, in modo più sel­
vaggio, più totale di quanto pensassimo. Erano i resti anco­
ra vitali di un modo di pensare con una grande qualità,
quella di avere una risposta per tutto. Ciò che ho apprezzato
di più nel marxismo era che poteva sì parlare dell’essenzia­
le, dei fini, dell’essenza delle cose, ma nel dettaglio mante­
neva una specie di enigmaticità sulla conoscenza dei proces­
si. Mi vergogno a dirlo, ma mi è molto piaciuta una certa
letteratura marxista-leninista, estremamente dogmatica,
che abbiamo letto e pubblicato, perché conteneva l’idea di
un sapere sulle mete e sulla nostra identità. Mi affascinava
l’idea che in qualsiasi intervento ci fosse questa esperienza
di lotta contro il nemico, di possibile ritorno critico, di
analisi di un processo. Era un po’ come ciò che dicevo
prima a proposito del camminatore: il non volere che il pae­
saggio ci si riveli tutto immediatamente, rimandare questa
esperienza a dopo, preferire piuttosto soffermarsi a pensare
su come si procede verso un’immagine o un paesaggio.
Ahcora e sempre la storia del carrello di Kapò'. come andare
verso un’immagine? Anche sul terreno totalmente inaridito
di una teoria quasi teratologica, una sorta di dialettica
impazzita su se stessa, in cui è possibile includere nel pro­
cesso di indottrinamento la non-dottrina, pensavo di ritro­
vare tutto questo, il che mi procurava una certa erezione
intellettuale. Ammiravo chi era capace di fare bilanci, criti­
che o autocritiche, li trovavo talmente seri, patetici e ridi­
coli, da credere che un giorno ne sarebbero state tratte delle
commedie. Quel giorno sfortunatamente non è mai arriva­
to, salvo con Nanni Moretti. C’era una specie di sinistra
bizzarria nel modo di pensare la contraddizione di per se
stessa, e nel pensarla in modo così retorico, preciso e sottile
che alla fine 16 parte messa in dubbio diventava più impor­
rante della parte ormai acquisita come credenza, dogma o
vulgata. In altre parole: Dio scrive dritto ma seguendo linee
curve. Queste discussioni non chiamavano mai in causa i

129
fini ultimi, ma offrivano il godimento della contraddizione,
diventata quasi un fatto erotico. Ti ricorderai che nel nostro
redazionale di rottura con la linea precedente dei
«Cahiers»16, avevo accennato al Medio Evo, dicendo che
alcuni avevano cavillato su delle disputalo. Solo la nostra
ignoranza della storia ci fece credere di aver inventato qual­
cosa. È una tradizione consacrata sulla quale le persone sono
molto informate. Non ho mai creduto invece alla parte
escatologica del marxismo, cioè il sol dell’avvenire, la libe­
razione dell’uomo, non per il fatto di aver soppesato i pro e
i contro o di pensare che l’uomo sia malvagio, ma perché è
un ambito che non mi interessa assolutamente. Questo mi è
apparso chiaro nel corso del tempo, una mancanza assoluta
di immaginazione, che spiega questo miscuglio di eccessiva
severità e di totale incuranza, che mi ha condotto a credere
soltanto all’emergere fenomenologico delle cose, che mi
soddisfa pienamente: dopo la pioggia viene il sole, dopo il
sole viene la pioggia... Forse è una forma di stoicismo, ma
fin da piccolo, quando al catechismo sentivo parlare del
paradiso, ero disgustato dall’idea che si facesse ricorso a
favole così infantili, quando era evidente che l’eventuale
dignità dell’uomo consisteva nel fare il bene senza preten­
dere ricompense. Era già una specie di antica rivolta contro
l’idea di mercanteggiare la vita concreta, l’hic et nunc, con
una promessa che non mi ha mai interessato. Ciò che mi ha
salvato dalla religione è stata semplicemente l’idea che
l’altro mondo è questo, non quello che gli altri dicono di
sognare o desiderare, Yarrière monde di cui parla_Nietzsche,
cui non credeva neppure lui, i mondi migliori, il sole
dell’avvenire, il paradiso sulla terra... Questi discorsi mi
sono sempre sembrati patetici, qualcosa di vergognoso.
Forse è dovuto al fatto di avere l’impressione di essere stato
ripescato in extremis in questo mondo, quindi che questo
mondo esiste ed è dalla parte della ragione. Bisogna solo
farci una bella figura, senza rimetterci troppo, ma questo è
già l’altro mondo. Se le promesse che dovevano realizzarsi
nell’aldilà o sulla terra non mi hanno mai interessato, vole­
vo tuttavia condividere con gli altri il piacere del processo
in corso, quello di trovarmi lì e vedere a come pensare il

130
reale. Questo non ha nulla a che vedere con la filosofia
marxista, anche perché non sono filosofo... C era poi
un’altra cosa del marxismo che mi intrigava, era il senso
della Storia. Il marxismo manteneva, assolutamente tragico
e vitale, un senso della Storia che mi ha sempre appassiona­
to: quello della mia storia personale, di ciò che le mancava,
quello della storia della Francia, di questo contenzioso mai
chiarito. Il marxismo portava con sé un romanticismo che
mi piaceva molto.

Ti sei confrontato con il marxismo nello stesso tempo in cui lo face­


vano i «Cahiers».

Quando guardo a mente fredda il mio passato politico,


lo trovo abbastanza coerente con la mia vita successiva. Non
ne sono tanto fiero, perché a un certo punto l’incuranza e la
leggerezza sono diventate eccessive. Ne comprendo le
ragioni soggettive, ma bisogna ammettere che quelli dei
«Cahiers» si sono politicizzati in modo collettivo. È stata
piuttosto la sconfìtta e il disastro di un gruppo, e prima di
riconoscere la mia parte di responsabilità in tutto questo,
vorrei dire che dovevamo essere messi molto male, sia col­
lettivamente che presi uno ad uno, per aver bisogno di con­
tinuare ad attaccarci al gruppo, ad accompagnarlo e ad
accompagnare noi stessi su questo binario morto. Sì, perché
era chiaramente un binario morto: come potevamo creder­
ci? Non ho mai creduto che avrebbe portato a qualcosa, e
non l’ho nemmeno mai sperato — se la nostra linea d’azione
fosse riuscita, sarebbe stato tremendo. Non si trattava, per
quanto mi riguarda, di una forma di lucidità, ma di una
vera e propria doppiezza, -di un’adesione acritica a tutto ciò
che era politico — sì alla Cina, no all’URSS, no al partito
comunista — ma soprattutto: purché non si realizzasse! In
questo vedo il deterioramento di qualcosa che era già pre­
sente nei «Cahiers», nel bene all’inizio, nel meno bene
dopo. Si potrebbe dire che il comuniSmo, come il cinema, è
la promessa di una contro-società, è una contro-società nella
società, che si reputa superiore, che disprezza e nega la
società e si considera portatrice di ciò che la società non

131
riconosce o combatte, con l’idea che un giorno, più tardi,
sempre più tardi, accadrà quel che deve accadere. Questa
contro-società ha tuttavia il vantaggio di essere sempre una
società; credo ci fosse, nella scelta dei «Cahiers», in quel
modo di condividere quel modo di essere cinefilo, nella
volontà di stare nella Storia (quella gloriosa e recente della
Nouvelle Vague che la rivista rappresentava), la volontà di
far parte di una contro-società che aveva tutti i vantaggi di
una società, con le sue amicizie, le sue passioni, le sue rot­
ture. Così ho dovuto fare un innesto, su un tronco comune,
di cinema e comuniSmo. Trascendere i nazionalismi e pro­
mettere: il cinema prometteva agli uomini, a tutti gli
uomini, un accesso a un mondo senza differenze, mentre il
comuniSmo prometteva una liberazione graduale dell’uma­
nità... In attesa che ciò si avverasse c’era una contro-società,
piuttosto eroica, devota, coraggiosa e disinteressata, pronta
a tutto, anche alla menzogna nel nome stesso della verità a
tutti i costi. Torniamo così al solito discorso su mondo e
società; quando parlo di mondo qualcosa in me si apre (nel
senso di Heidegger o di Merleau-Ponty), quando parlo della
società quella stessa cosa si chiude. Il cinema non faceva
parte della società, il comuniSmo neppure. Era la caratteri­
stica di entrambi, che avevano fatto la storia del nostro
secolo, e il marxismo era il braccio disciplinare. Per chi
allora avesse avuto a cuore le idee e fosse dotato di spirito
sistematico era molto eccitante, un esercizio quotidiano di
dialettica, come testimoniava il film di Godard-Gorin Lotte
in Italia. C’era qualcosa di agghiacciante, ma non senza
grandezza, questo giansenismo della contraddizione ridotta
ormai in se stessa. Questo riconduce senza dubbio a Straub
e Godard, ma mi ricordo che avevo chiara l’impressione che
gli Straub facevano appello a un potere politico di cui
sarebbero stati le prime vittime. Sembravano fregarsene,
per una sorta di masochismo che, come sempre, ha una
parte di godimento, derivante dalla possibilità di vedere la
dialettica della natura e quella degli uomini formarsi sotto
ai nostri occhi, questa specie di sogno che nessuno ha mai
voluto seguire più di registi come Straub e Godard. Come
artisti, traggono ispirazione dal materialismo e poi inciam-

132
pano nel miracolo. 1 registi che contavano per noi all’epoca
e che sono ancora importanti (aggiungerei Robert Kramer)
erano travolti da questa follia, a mio parere pericolosa, per­
ché è pericoloso concepire i processi unicamente come fini a
se stessi. Questo ci portava molto vicino alla scienza (vedi
Godard) dove non c’è differenza tra un uomo e una donna,
tra una cellula e l’altra. Cera in noi un sentimento maso­
chista, neppure tanto brillante, che si nutriva del desiderio
di soffocare l’Arte, avvicinandoci alla Scienza e al mistici­
smo. Sì, soffocare ciò che era rimasto in noi di una certa vel­
leità artistica. È un bilancio un po’ duro, lo so, ma sono
convinto che nessuno di noi nutriva veri desideri artistici, o
pulsioni sufficientemente forti da approfittarne per uscire
da tutto ciò. Abbiamo preferito vagare nel modo sinistro e
sacrificale, che ci porterà a sparire come gruppo e come
individui, piuttosto che correre il pericolo di rivelarci arti­
sti inferiori a coloro che ci avevano preceduto. Bisogna
anche dire che i maestri del passato ci avevano un po’
schiacciati.
Tutta la vicenda assume contorni un po’ vili, come in un
film dei Taviani. Non discuto la scelta della Cina, piuttosto
barocca a mio parere, quello che mi dispiace è che abbiamo
lasciato passare del fascismo puro e semplice: la Grande
Rivoluzione culturale proletaria. È fastidioso perché non ci
permette di fare la morale agli altri. Per onestà verso me
stesso, non dimenticherò mai a che punto i miei interessi
nevrotici e la passeggera debolezza del mio io, abbiano tal­
volta preso il sopravvento, come se avessi abusato dello stra­
no atteggiamento, di cui ho parlato prima, che avevo nei
confronti del cinema, del mondo, degli altri. Ad un certo
punto il prezzo da pagare è divenuto insostenibile. L’ho
pagato facendo i «Cahiers», in seguito... Non è diffìcile,
allora, capire, su scala molto più grande, come delle persone
intelligenti, degli intellettuali tra i più raffinati, abbiano
anteposto il loro godimento personale alla pratica di un
minimo budn senso. Penso che la mia politicizzazione sia
stata frivola, ma nello stesso tempo inevitabile nella forma
in cui è avvenuta. Ero talmente ai margini, che il far parte
di una banda di sublimi emarginati non mi creava alcun

in
tipo di problema, anzi, mi soddisfava più di una possibile
riconciliazione con il mio tempo. E poi, come viaggiatore,
la Cina mi faceva sognare. L’ho veramente sognata: mi
vedevo su un aereo diretto in Cina e mi veniva il batticuore.
Quando ci sono andato per davvero, nel 1980, ho avuto la
netta sensazione, ridicola, ma reale, di essere l’unico dei
«Cahiers» ad essere andato a portare le mie scuse, come se il
mio arrivo avesse voluto dire: scusatemi.

Negli anni Settanta, nei tuoi discorsi e nei tuoi scritti, il «noi»
prende il sopravvento, un noi vagamente sacrificale. Non era pro­
priamente il tuo stile...

Era un mostro, un super io, una gratificazione priva di


valore, tutto insieme. Se non avessi avuto al mio fianco
qualcuno con cui parlare tutti i giorni, non avrei retto una
settimana. E questo qualcuno eri tu. All’epoca ero già un
chiacchierone e la solitudine mi avrebbe distrutto. Non so
calcolare e non so manipolare niente e nessuno, quindi il
solo potere che mi resta è quello di parlare, e parlo sempre
troppo. Oggi godo dei vantaggi di questo troppo, ma parlo
sempre troppo, fidandomi sempre di tutti. Ho imparato
prima facendo e solo in seconda battuta riflettendo. A
quell’epoca, facevamo un numero della rivista dietro l’altro,
correggendo il tiro. Per cinque anni ho continuato a correg­
gere il tiro, non troppo bruscamente per non creare un
corto circuito, non troppo lentamente per nonscrollare.
Sempre lo stesso procedimento: a quale velocità si guarisce?
Ne sono uscito un po’ esangue, ma penso che la velocità
fosse quella giusta. Ogni nuovo numero dei «Cahiers» libe­
rava qualcosa, e le parole poco a poco riemergevano:
«Arte», «corpo», «fascinazione»... Poi anche il nostro stes­
so percorso è diventato interessante. Così, comportandomi
come colui che si aspetta dal cammino una certa verità,
senza rendermene conto, sono diventato giornalista. Allora,
ho cercato di liberarmi dalla pura gestione del cinema-cine­
ma, senza rimpianti.

134
Dall’esperienza dei «Cahiers» a quella di
«Liberation»

Hai un ideale di fratellanza? In fondo, hai sempre cercato questo


tipo di relazione con gli altri.

Sì, prima ai «Cahiers» e poi a «Liberation», con un po’


più di successo e con più autorità. Anche se l’ho scoperto
tardi, ho sempre avuto il desiderio o l’ideale di far parte di
un gruppo di individui, di personalità forti e diverse, unite
dagli stessi valori o dagli stessi nemici. In questo ce qual­
cosa del sogno della contro-società comunista: chi s’assomi­
glia si piglia. Ma dato che sono un individualista convinto,
bisognava comunque che ognuno fosse indipendente ed
autonomo nella propria vita, compresa quella privata. Ciò
che ci teneva uniti, ai «Cahiers», era più una fede che
un’amicizia. Ho inseguito quest’utopia, che non ho mai
raggiunto, fino a quando mi sono scoperto più importante
di lei... Per non far affondare la nave, ne sono diventato il
timoniere, con tutti i problemi connessi. Lo facevo per me,
per salvarmi la pelle. Ma salvarmi la pelle significava salva­
re i «Cahiers». Lasciando i «Cahiers», a trentacinque anni,
ho dovuto affrontare la crisi più grave della mia vita, la sen­
sazione fortissima di aver fallito, di non esistere o di aver
completamente dimenticato di esistere a forza di restare in
mezzo al guado. Come ricorderai, ci sono stati due momen­
ti della mia vita in cui mi sono vergognato di essere in balia
di idiozie. La prima volta è stata quando Louis Marcoreiles
(cui mi legava un’antipatia peraltro ricambiata) non si è
neppure degnato di citarci nell’articolo apparso su «Le
Monde», dedicato ai trentanni dei «Cahiers». In
quell’occasione ho pensato che il mio nome non sarebbe
mai apparso su «Le Monde», che rappresenta un po’ lo stato
civile, e questo mi ha riportato alla questione della nascita
illegittima, biella bastardaggine... La seconda volta è stata
<sl’affare Berti», l’anno scorso, a proposito di Uranus. Il
principio «Uno per tutti, tutti per uno» ha subito un duro
colpo. Speravo, come nei film, che si facessero avanti tutti

135
gli amici, lasciando per un attimo le loro faccende, dicendo:
«Cos e questa storia, presto, andiamo a spaccare il muso a
chi si è comportato male con il nostro amico». Non era una
cosa grave in sé, ma non ho proprio trovato nessuno. Oggi,
se non fosse per la malattia, ci avrei già messo una pietra
sopra, per ritrovarmi ancora più solo di prima. Forse sono
abbastanza forte per restare da solo... Un giorno, capisci che
ognuno pensa solo a salvare la propria pelle, è la vera essen­
za delle persone. Questo ideale, sul modello dei Tre moschet­
tieri, è la mia coscienza politica. Politica come sogno di
un’alleanza tra persone diverse. Dopo il 68, i diritti
dell’individuo erano balzati prepotentemente in primo
piano e l’ideale non consisteva più nell’allearsi con persone
che ti assomigliavano in tutto, ma nell’imparare a tessere
alleanze più raffinate, su ideali trasversali. Questa è stata la
grandezza degli anni Settanta, nelle idee e nel costume, una
grandezza un po’ aspra che ha ecceduto i limiti.

Torniamo al momento in cui è stato necessario salvare i «Cahiers


du cinema» ? Come vedi, a distanza, quel periodo ?

Il momento cruciale del decennio si situa proprio nel


periodo in cui ho preso in mano i «Cahiers», nel 1973-
1974: la crisi petrolifera, la fine dei «gloriosi trentanni», il
boom pubblicitario, l’entrata dei Khmer rossi a Phnòm
Penh, la fine della guerra del Vietnam, Solzenicyn, la morte
di Pasolini, Uultima donna di Ferreri, Numero (leux (t.l.
Numero due) di Godard, La marnati et la putain (t.l. La
mamma e la puttana) di Jean Eustache... Capivamo che era
sempre più diffìcile proseguire nella sperimentazione, che
era finita l’era dell’entusiasmo avanguardista... Questo spos-
sessamento non riguardava solo me o i «Cahiers». Ci sono
cose che viste oggi mantengono una certa asprezza e sfaccia­
taggine, è più facile mettere a fuoco quel momento, con un
atteggiamento diverso e con più simpatia. Il bilancio degli
anni passati ai «Cahiers» non è straordinario, pensavo che
lavorando ai «Cahiers» ereditassimo una tradizione presti­
giosa e che noi stessi saremmo diventati prestigiosi. In
realtà, per distinguerci, abbiamo compiuto molte scioc­

136
chezze. Abbiamo rischiato di affondare la nave. Poi l’abbia­
mo rimessa in sesto e la rivista è sopravvissuta. Il paradosso
è che tutto ciò che avevo in qualche modo fallito ai
«Cahiers» l’ho realizzato a «Liberation», che è stata quindi
il rovescio positivo di tutto questo pesante lavorio. Ma era
necessario che passassi attraverso l’«auto-iniziazione» dei
«Cahiers» per capire all’improvviso che... È come quando
un incubo, un brutto sogno svanisce e ci si chiede perché il
temporale è passato. Presto, mi sono reso conto che era più
semplice scrivere «io» a «Liberation» e soprattutto che
avevo un enorme arretrato di scrittura. Tutto quello che
avrei dovuto scrivere nei dieci anni precedenti è allora
emerso. Bisogna anche dire che ero riuscito a costituire una
redazione di cinema per 1’80% omosessuale, e questo cam­
biava assolutamente le cose.

Pudibondi «Cahiers»...

Sì, disincarnati. C’è stata una specie di come out. Ho vis­


suto un periodo fantastico a «Liberation», lavoravamo in un
casino indescrivibile ma potevo far passare le mie idee,
l’jdea che avevo del trattamento cinematografico. È un buon
ricordo per tutti ed è durato qualche anno. Ma non c’era più
l’ideale di fratellanza, era tutto molto più incontrollabile
perché le persone avevano personalità troppo spiccate.

Forse la loro fortuna era di non avere veramente un storia...

Certi, che erano agli inizi, non avevano una storia...

È proprio questo, non cera lutto, diversamente dai «Cahiers».

Sì, non c’era ancora il lutto... Ma una bella vitalità. Era


un luogo estremamente vitale per persone come Michel
Cressole, Hélène Hazera o Guy Hocqenghem, che conti­
nuavano impavide la loro azione di militanza culturale,
feroce e provocatoria. E il giornale era un tutt’uno con loro.
Io ho aggiunto la cinefilia seria, ma scritta in modo poi non
troppo serio.

137
Insomnia hai preso la parola «libération» alla lettera.

Sì, è stata la mia liberazione. Come nelle storie per bam­


bini, tutto è successo molto velocemente. Prima non stavo
per niente bene e quindici giorni dopo tutto era sistemato.
L’essenziale è stato riuscire a riunire i pochi cinefili parigini
rimasti, contenti che qualcuno continuasse a rappresentarli
sul loro giornale. Sono stati cinque o sei anni molto belli, in
cui ho lavorato molto più che ai «Cahiers». Perché ai
«Cahiers» non si combinava gran che, più che altro si era
nel vortice - almeno, io non combinavo gran che. A
«Libération» oltre al timing, ho imparato ad apprezzare i
limiti del presente: un giornale perfetto non ha senso, è
irregolare per definizione, con la promessa di essere miglio­
re il giorno dopo. Ho sempre creduto all’idea dell’irregola­
rità della vita, a una specie di meterologia legata ai proces­
si: il sole e le nuvole, come in Renoir, si aspetta, in quadri
grandi o piccoli ma si aspetta. Per questo rpi sono sorpreso
di sentirmi a mio agio in un giornale, l’ho scoperto con stu­
pore perché non avevo mai pensato che un giorno avrei
avuto a che fare con il giornalismo. Ma oggi penso si trat­
tasse di un’altra sfaccettatura ancora della mia natura di
camminatore: quella di chi conta solo su se stesso, di chi ha
solo il suo corpo, di chi, finché non è toccato o picchiato, va
dove vuole, perché andare dove si vuole è un godimento
assoluto. Mi ricordo ancora di un soggiorno a Cuba dove
impiegavo anche un intero pomeriggio per poter sorseggia­
re un caffè con un ragazzo; bisognava ingegnarsi, seminare i
poliziotti, far fìnta di non conoscersi... Non avevo bisogno
di prove lampanti per sapere che Castro rinchiudeva e tor­
turava delle persone, perché prendere un caffè con un cuba­
no era quasi impossibile. Ora, per me non ce libertà più
essenziale di questa: poter andare dove si desidera, in un bar
di propria scelta, senza lasciarsi imporre nulla. Anche nei
momenti di nevrosi più nera, questa libertà rimane inviola­
bile. Ebbene, se si portasse un po’ più di rispetto verso que­
ste libertà fondamentali, se i comunisti non fossero stati
occupati a cercare il senso della vita più della vita, avrebbe­
ro subito rifiutato questa stronzata, in nome del semplice

138
principio che un paese in cui non è possibile prendere un
caffè con chi si vuole non è un paese libero e non merita di
essere difeso.
C’è una cosa fondamentale, che tengo a dire perché è
universale e mi ha protetto, per tutta la vita, dai veri grandi
sbandamenti o dai veri grandi naufragi, una cosa che mi ha
permesso, come Thomas l’obscur di Blanchot di non nuotare
mai al centro della piscina, ma... È un senso di protezione
che ho avuto fin da piccolo, la certezza che ogni esperienza
appartiene in assoluto solo a chi l’ha vissuta. Nessuno gliela
potrà togliere, per quanto sia inutile o appassionante, costi­
tuisce comunque un bene inalienabile. Anche quando mi
sono ritrovato senza nulla da fare, questa sensazione non mi
ha mai lasciato: non vivevo le stesse esperienze degli altri
nello stesso momento. L’essenziale è conservare la ricchezza
di questa esperienza, non sminuirla, è il nostro unico bene e
se ne siamo profondamente convinti, ci risparmiamo l’invi­
dia, la gelosia, il risentimento, il fascismo, tutte cose che
rendono impossibile la vita. La mia fortuna è stata forse
quella di essere impermeabile all’invidia. L’unica cosa che
mi interessa è capire come gli altri se la cavano, conoscere i
loro parametri di giudizio, i problemi che devono affronta­
re, le mete che si prefìggono, e a che cosa porta tutto que­
sto. È una cosa che io e te abbiamo in comune, che ci avvi­
cina: il domandarsi che cosa faccia da motore in un indivi­
duo, nel soggetto. Questa specie di pettegolezzo teorico mi
appassiona fortemente. Perché la forza del cinema è stata
proprio quella di offrirci magnifici accessi ad altre esperien­
ze, diverse dalle nostre, permettendoci, per qualche secon­
do, di condividere qualcosa di assolutamente nuovo. E ciò
che si vive in comune è appunto questa manciata di secon­
di. Sono riconoscente al cinema perché ha realizzato un
sogno che avevo fin da bambino: ciò che faccio ora, in que­
sto momento, sono io il solo a farlo, a vederlo e ad averne
coscienza. Ed è giusto lottare contro l’ideologia cristiana
proprio perché sottrae all’individuo una protezione minima,
l’idea che ci sono solo le esperienze che viviamo e che siamo
noi a viverle. La storia del nostro secolo, con tutti i suoi
orrori, è anche la storia di coloro che non hanno visto, che

139
non si sono fidati di ciò che vedevano, di ciò che ascoltava­
no, a costo di milioni di vite. Questo non basta, non impe­
disce di essere ingannati o illusi, ma è bene ricordare le
parole di un Godard rattristato quando, nelle sue Storie del
cinema, chiede: non si può guardare un’ultima volta ciò che
le persone non hanno potuto o voluto vedere e ciò che è sca­
turito dal loro rifiuto di vedere? Questo lato positivo
dell’egoismo rimanda al materialismo antico. L’altro lato è
religioso e attingo anche da quello: le persone hanno biso­
gno di intercessori, di traghettatori, di preti, pur sapendo
che anche tra di loro potrebbero esserci dei mascalzoni. Ad
un certo punto abbiamo bisogno di qualcuno, non possiamo
essere arbitri del nostro proprio godimento.

Sei forse passato dallo status di prete mancato ai «Cahiers» a


quello oggi di traghettatore, cioè di qualcuno che permette agli
altri di condividere unesperienza storica, la cinefilia, di ricono­
scersi in essa, di trovarvi il proprio spazio P

Beh, sì. Alla fine della mia vita sto diventando una spe­
cie di guru cui le persone fanno visita in segreto per rifarsi
una bellezza... Ho desiderato tanto raggiungere questo
stato, ho fatto in modo che mi capitasse, ma soddisfa solo
una parte di me, quella del camminatore clandestino.
Soffoca invece quella della riconoscenza pubblica.
Generalmente le persone che mi vengono a trovare mi
dimostrano riconoscenza solo in modo segreto. Questo mi
mandava in collera l’anno scorso e di riflesso tu andavi in
collera per il fatto stesso che mandasse in collera me. Le
persone che vengono a dirti segretamente che ti hanno scel­
to per maestro, che ti ammirano o che ti considerano essen­
ziale, fanno sicuramente giacere ma il giorno che hai biso­
gno di loro, scompaiono. È il prezzo da pagare ed io ho quel
che mi merito. Con la mia persona, più che con la mia
parola o i miei scritti, rappresento una certa purezza nel
rapporto con il cinema, un certo rigore, e per molti questo è
estremamente importante, ma non ho alcun diritto di trarre
soddisfazione dal fatto di essere il loro maestro spirituale: è
una forma di scambio da cui non ricavo granché.

140
Con te mi capita spesso di provare la stessa sensazione che avevo
con Godard: quella di trovarmi di fronte ad un amico che ammi­
ro, che mi piace ascoltare, ma di cui non so bene come seguire il
percorso intellettuale. Avete un’aura di santità, seducente,
attraente, ma assolutamente incondivisibile.

Oggi capisco molto bene ciò che Godard diceva


all’epoca... Per noi, manteneva intatta l’idea che così non
funzionava...

Ed eravamo piuttosto contenti che così non funzionasse.

Ecco, eravamo contenti che così non funzionasse, ma


non in grado di stabilire fino a che punto non funzionasse.
Godard ci ha indicato la via. Oggi riesco a riprodurre dei
processi intellettuali o dei discorsi molto vicini ai suoi —
beh, vicini al Godard dell’epoca, perché adesso non so più
esattamente dove sia andato a finire. Senza dubbio c’è, nel
godimento di qualcuno come lui, una parte non comunica­
bile. Jacques Rancière, a proposito di Godard, aveva usato
la parola «traghettatore». 11 traghettatore è colui che si
riserva il piacere dell’ultima parola. Si crea una specie di
competizione, sempre più accanita, per essere ultimo.
Godard è forse l’ultimo grande regista, io forse l’ultimo cri­
tico che ha fatto il suo mestiere con... L’ orgoglio di voler
descrivere uno stato terminale o una memoria leggendaria è
diffìcile da trasmettere socialmente; ci dev’essere una specie
di contraddizione, di doppio limite, in cui poniamo le per­
sone che spiegherebbe realisticamente che sono assoluta-
mente incapaci di...

Bisognerebbe lasciar loro il tempo di vivere la propria esperienza


personale e di esserne fieri e consapevoli. Dato che questo richiede
un mucchio di tempo, è più facile appoggiarsi a qualcun altro...

Mi chiedo se quest# «mucchio di tempo» non sia in fin


dei conti41 tempo normale... Siamo tutti alienati, conti­
nuiamo a gridare che l’ideologia della comunicazione acce­
lera tutto e che è un orrore, ma poi non ne teniamo conto.

141
Tutto ciò che si trasmette è così: prima si è impregnati di
una musica, poi di una lingua, poi di una voce, poi trovi gli
argomenti e ti dici: finalmente capisco, ma di fatto hai
sempre capito.

E questo può richiedere una vita intera.

Siamo vittime nostro malgrado dell’ideologia della


comunicazione, che pretende che ci si collochi sempre in
una certa forma. Un po’ come la psicanalisi: si capisce sem­
pre ma non si ha accesso a ciò che si è capito, si sa sempre
tutto ciò che c’è da sapere, ma non si ha accesso a questo
sapere. Ciò che affretta l’accesso è banalmente la vita.
Almeno, a me è sempre capitato così: ad un tratto ho
l’impressione di capire cose che non erano poi così tanto
diffìcili, dopo aver fatto così tanta fatica per capirle solo con
la forza di volontà. Quando ho smesso di leggere le opere di
Lacan mi sono apparse più comprensibili. Non ho avuto
l’imprimatur ma quello che ho imparato da Lacan mi serve
e non mi preoccupo se non è propriamente ortodosso. Mi
rivedo ancora in un grande hotel di Belgrado, l’hotel Serbia,
in pieno inverno, intento a leggere gli Scritti, convinto di
dovermi mettere alla pari con quelli dei «Cahiers» che li
avevano letti. Non sapevo niente, avevo appena letto Freud
e mi sono ritrovato lì, a leggere con un mascherino per non
andare troppo alla svelta. Mi ci sono voluti una ventina
d anni per capire che non era pòi così malvagio. Mi dispiace
non aver studiato filosofia perché con Merleau Ponty e
Heidegger avrei percepito il fondamento... Ho voluto inve­
ce essere preso in custodia dal cinema, essere salvato dalla
società e essere immesso nel mondo attraverso procedure
molto complesse, per finire con il rappresentare tutto que­
sto agli occhi degli altri. Ciò che mi capita ha certamente
una sua logica, e il cinema nel frattempo è diventato qual­
cosa di molto ambiguo: sempre più debole nella realtà e
sempre più forte nel patrimonio simbolico di una cultura.
Io eccedo questo patrimonio, non tanto in quanto indivi­
duo, perché la mia vita è molto banale, ma attraverso una
specie di beatificazione del topo di cineteca.

142
Cinema e televisione: andata e ritorno

Al/ sembra che il cinema richiami la metafora della clessidra: il


tempo che scorre, quello già passato, quello che resta da vivere... In
fondo il cinema ha avuto a disposizione un secolo per raccontare
delle storie, per far diventare questo secolo parte della sua storia.
Per cause difficili da spiegare, si ha 1'impressione che sia in atto
un conto alla rovescia senza sapere esattamente quanto tempo ci
resta. Al punto in cui sei oggi, in cui incassi i dividendi del patri­
monio di cui hai parlato prima, le condizioni in cui versa il cine­
ma non ti fanno venir voglia di seguire una nuova direzione?

Le tue parole mi ricollegano alla televisione. Quando ho


ricominciato con i «Cahiers», siamo andati a trovare Daniel
Sibony, Paul Virilio, Pierre Legendre, Jean Louis Schefer,
pensatori più complessi e misteriosi di noi, e ho domandato
a Louis Skorecki di scrivere di televisione e a Jean-Paul
Fargier di video; mi sentivo già abbastanza giornalista, non
più soddisfatto della chiusura cinefila dura e pura. A
«Libération», c’è stato il tormentone di creare un vero e
proprio settore immagini, perché negli anni Ottanta la
parola immagine era ovunque, positiva, gaia, fondamentale.
Si trattava di proseguire ciò che era stato inaugurato dai
«Cahiers», pérché non volevo tornare ad occuparmi dello
stato sonnacchioso di un’industria da cui non sarebbe nato
più niente di importante. Su questo punto non ho più cam­
biato idea, anche se mi ci sono riconciliato. Ho cercato di
capire da dove potevano giungere nuovi stimoli. La televi­
sione, per esempio. L’idea del settore immagini poneva fine
al privilegio culturale del cinema, che ci disgustava - ho
preteso troppo dalla cultura da giovane, per non essere poi
disgustato dal culturaleggiante. Tutto ciò portava a consi­
derare molto seriamente la televisione: bisognava guardarla,
parlarne bene quando era il caso, tenersi informati sull’evo­
luzione del video, interessarsi a tutti i tipi di immagini.
Avevamo a disposizione molte pagine per dire che tale pub­
blicità o tale film costituivano un evento, in base ad una
gerarchia improvvisata di giorno in giorno. È un’idea alla

143
quale ho rinunciato smettendo di occuparmi di cinema per
«Liberation», non credendo più al suo spensierato ecumeni­
smo. Oggi bisogna ricollocare il cinema, e il cinema solo, in
una storia non più sincronica ma diacronica: da qui l’idea di
creare «Trafìc». Da quando la Storia è scomparsa, c’è un
ritorno dello scrupolo storico: si ripropongono a noi in
modo più obbiettivo le questioni della genealogia, dell’ori­
gine. Anche se la storia del cinema oggi mi sembra appas­
sionante, preferirei che la si facesse con la grotta di Lascaux
e Nadar, più che con Bernard Dufour e Jean-Cristophe
Averty17. Sono accostamenti nuovi, perché il cinema, per
funzionare bene, deve essere associato a campi diversi: sem­
pre questa idea del cinema come arte impura... Non sono
poi tanto sicuro di sapere che cosa intenda Bazin per arte
impura, ma so che cosa intendo io: la verità del cinema è la
registrazione; allontanarsene significa uscire dall’ambito del
cinema. Solo ciò che è stato registrato può avere una storia
consacrata. Non bisogna aver paura di mettere in rapporto
quest’ arte della registrazione con una storia più antica
deH’immagine nelle società occidentali, passando per la teo­
logia... Non mi aspetto nulla da un cinema che si nutre solo
di se stesso, e che nei casi migliori porta ai film di Alain
Corneau. Non basta. A «Liberation» sono stato forse arro­
gante e viziato, perché godevo di una totale libertà; in
fondo, avrei potuto avere l’umiltà di continuare, finché i
miei scritti fossero diventati un «caso», ma ho sentito che
per le persone cominciavo a rappresentare una sorta di pre­
senza simbolica e vigile ed era fuori questione che diventas­
si una specie di Monsieur Cinema o non so che altro.

77 è capitato di pensare al rapporto tra cinema e televisione in ter­


mini di equivalenza, cioè che come /’Hollywood degli Studios, la
televisione poteva essere considerata come un industria produttrice
selvaggia di segni — con uno stuolo di persone per analizzarli e
decodificarli — cosa che il cinema, divenuto troppo culturale, non e
più in grado di essere?

Avremmo potuto amare il cinema in nome dell’avan­


guardia, come un luogo in cui non si deve mai rendere

144
conto a nessuno. Con Jean-Claude Biette, e Louis Skorecki
non abbiamo scelto questa direzione. Abbiamo scelto il
cinema con cognizione di causa, consci del suo inesorabile
destino commerciale, prendendo sempre le parti dell’artista
contro il produttore — l’artista era sempre l’eroe della storia.
E la bellezza nasceva sempre da ciò che il cinema riusciva a
cogliere da materiali eterogenei, impuri, da cui avrebbe
fatto sbocciare una bellezza inattesa. Mi è sempre piaciuta
l’idea che il cinema si facesse con tutte quelle cose che io
controllavo così a fatica: il denaro, le necessità orribili e vol­
gari del commercio, i desideri dell’uno o dell’altro su una
ripresa, le star e i loro capricci, l’esigenza di animare una
troupe, di domarla o di sedurla, il legame con il tempo,
l’obbligo di pianificarlo, di fare programmi... Tutto questo
serve per fare un film, nient’altro che un film, di cui è pos­
sibile scegliere poi questo o quell’elemento e farne ciò che
si vuole. È un amore per il cinema, quindi, che nasce dal
suo essere una pratica impura, sul fondo di una grande sfi­
ducia verso le altri arti, condannate alla purezza a causa
della rarefazione della volgarità che è propria della doman­
da e della risposta pubblica. Ho creduto che la televisione
offrisse lo stesso scenario, più grande e amplificato? Ciò che
è certo è che la televisione non ha niente a che vedere con
l’impurità, ma si colloca nel lavorio a cielo aperto
dell’inconscio della società. Non c’è in essa abbastanza
amore da permettere di associarle un desiderio perverso di
lettura, o di analisi dei segni, come invece il cinema ci invi­
ta a fare. Oggi ne sono convinto, ma all’epoca eravamo
ancora molto semiologi o almeno influenzati dalla semiolo­
gia. L’insegnamento di Barthes è stato seguito in modo
pedante, anche tra di noi: dato che le immagini sono dei
segni, abbiamo tutto il diritto di aggirarle, di rivoltarle,
senza tanti riguardi perché un segno è semplicemente un
incrocio di codici. All’epoca non ci preoccupava il fatto che
la televisione producesse segni e retoriche in quantità.
Molti hanno pensato che potesse diventare l’equivalente del
cinema, con il pretesto che adempiva alle stesse funzioni a
livello di massa, pronti a rimangiarsi i propri gusti estetici
e ad accettare di passare dalla raffinatezza estrema della

145
messa in scena di Hawks all’insulso appiattimento di un
telefilm. Rischiavamo così, in nome di una sorta di maso­
chismo, di rinunciare a ciò che era il nostro unico bene. In
questo rapporto con la televisione, l’esercizio consisteva non
tanto nel voler amministrare delle bellezze, ma delle verità,
cioè delle posizioni giuste in rapporto a un materiale poco
elaborato, molto dogmatico e triviale. Quando sono arrivato
a «Libération» mi ricordo l’incredibile atteggiamento di
Michel Cressole e Guy Hocquenghem che consisteva nel
guardare tutto, senza alcun metodo, con un unico criterio:
ci piace, non ci piace, è da prendere, da lasciare, detestiamo
quel presentatore e lo cestiniamo. Non c’entrava alcun rife­
rimento a qualche verità, poiché la sola verità è che la tele­
visione invita al gioco al massacro. Questo comportamento
aveva il vantaggio di ridimensionare la televisione alla sua
natura di oggetto degno di interesse, evitando così sia il
disprezzo che l’adorazione, due atteggiamenti complici che
non portano a nulla. Dopo di loro Skorecki ha tentato
disperatamente di applicare alle serie televisive quello che
aveva già sperimentato sui film ai «Cahiers». Scrivere para­
dossalmente cose giuste su serie televisive, quando quelli
stessi che le seguono e le approvano, senza valorizzarle, sono
lettori totalmente disinteressati, e servirsene rabbiosamente
come macchina da guerra contro la cultura borghese nobile,
posso anche capirlo. Solo che il progetto è arrivato troppo
tardi e ha trasformato il suo sostenitore in un merdoso
misantropo. Ad ogni modo io /avrei smesso di scrivere di
televisione. Quel che è strano è che da un lato io sono più
forte di lei, da un altro è lei la più forte e queste due forze
sono eterogenee. Basta guardare una trasmissione qualsiasi
per ricordare la metafìsica occidentale, con prove alla mano,
constatando che la televisione non è mai elaborata. La sua
forza sta nel fatto che quelli che la fanno vivono nell’impu­
nità e possono tranquillamente lasciar ululare una povera
iena dattilografa. Vivono nell’impunità maliosa, tanto che
ad un certo punto abbiamo temuto che sia impossibile vin­
cere questa guerra, che ha consegnato Godard a un’epoca,
quando diceva che bisognava prendere la televisione o in
quanto sorte comune o in quanto unico spazio pubblico,

146
anche se pieno di spazzatura, e che si può ormai lavorare
solo a partire da esso. Oggi bisogna lasciare questo approc­
cio ai sociologi o agli statistici, a tutti i «signor Homais».
Sono stato costretto a convincermi del fatto che solo al cine­
ma potevo continuare a cercare il seguito di questa storia
politica dell’impurità c-he fa di noi dei cittadini. Pensavo
che il cinema si rivolgesse a dei soggetti o che aiutasse a
costituire dei soggetti, attraverso una specie di lenta psica­
nalisi collettiva e che, dal canto suo, la televisione, nel
migliore dei casi, potasse contribuire al rafforzamento del
cittadino, che costituisce tutt’altro problema poiché chiama
in causa canoni estetici diversi. Riassumendo, non mi sono
mai aspettato dalla televisione un seguito del cinema nel
cinema, se non dalla periferia: non ho mai prestato molta
attenzione all’underground o al video, consapevole che
potessero accadervi cose fantastiche, ma non in rapporto
dialettico con il cinema, a parte qualche singola esperienza.
Quanto alle nuove immagini, con cui ci rompono i timpani
da una quindicina d’anni, sono tornato marxista: c’è una
cosa chiamata mercato, che deve essere pronta ad accogliere
le vere e grandi innovazioni nel campo delle immagini e dei
suoni, che non si può ridurre allo stato del parco prodotti e
alla concorrenza tra Sony e Philips. Tutto si gioca ad un
livello puramente economico: è in corso una guerra di trust
per poter creare immagini nuove che promettono grandi
potenzialità ludiche, proprio all’interno dello spazio pub­
blico, e che potrebbero meravigliare di nuovo le platee
come accadde cento anni fa con l’arrivo del treno a La
Ciotat. Eppure non si percepisce da nessuna parte il deside­
rio di un nuovo Treno in arrivo alla stazione di La Ciotat.
Certi, con aria arrogante dicono che il cinema è sì molto
bello, con le sue vecchie lune e i suoi capricci, ma che tra
cinque anni le persone avranno grandi schermi interattivi.
Può darsi, ma bisogna considerare il tempo necessario alla
realizzazione, che mio parere sarà molto lento... Come
Bazin penso che alla base del cinema ci sia stato un deside­
rio o un Bisogno assolutamente irrefrenabile, come un
incendio in una foresta, e che questo sia accaduto una volta
sola nella storia dell’arte. Ho combattuto in passato contro

117
questa idea, perché volevo che il cinema si iscrivesse in uno
svolgimento lineare del mondo, dopo la fotografìa e prima
della televisione o del video. Era un pensiero molto rassicu­
rante, che prometteva un seguito. Ebbene, ci siamo sbaglia­
ti ancora, come tutte le volte in cui abbiamo pensato in ter­
mini lineari. In realtà, siamo in un giro di spirale, e il pro­
blema non si pone oggi in termini di tecniche ma in termi­
ni di un desiderio di massa di essere nuovamente meravi­
gliati dal visuale e dal sonoro. L’unica volta in cui ho avuto
questa sensazione stavo guardando su Canal + La quatrième
dimension di Zbigniew Rybczinski, e sono rimasto di stucco
pensando che questo artista del video era in possesso dei
mezzi tecnici necessari per dar corpo ad un desiderio assolu­
tamente profondo ed essenziale dell’essere umano. Sono
andato alla Géode per essere meravigliato e ne sono uscito
deluso. Non è escluso che ci troviamo in una specie di svol­
ta infinita che impedisce alle tecniche esistenti di appro­
priarsi del mercato, che ci sia un blocco dovuto alla guerra
economica. Se la Warner non si fosse comportata male nel
1928, il sonoro avrebbe potuto attendere qualche anno in
più, a causa di questa strana omertà. La bellezza del cinema
consiste nel fatto che è un’arte in cui Garrel compie gli
stessi gesti di Griffith, c’è come una sorta di memoria
antropologica dei gesti, per esempio quello di Ejzenstein
che fa scorrere con le mani un pezzo di pellicola per guarda­
re... A fronte di questo desiderio di massa che non finisce
mai di avanzare, assistiamo allo sviluppo di tutte le retori­
che dell’individuo e dell’individualismo, che passano dalla
pubblicità e che rivendicano continuamente il loro potere.
Il soggetto estetico è quindi l’individuo, quello che bisogna
riformattare e la pubblicità è lo strumento di questa rifor­
mattazione.

No» è anche la funzione principale della televisione?

La televisione riformatta la presenza dell’individuo


all’interno dei rituali collettivi, rituali collettivi veri e pro­
pri, delle corse coi sacchi, di villaggi, di nazioni: che orro­
re! Le due procedono contemporaneamente, la pubblicità

148
come matrice estetica, la television? come luogo di applica­
zione di massa. Può essere l’orrore o il futuro, ma è un vero
problema...

Vuoi dire quindi che ci sono poche speranze che il cinema ritrovi i
suoi tempi migliori.

Non vedo come il cinema possa essere altro che un filo


rosso o una contestazione...

0 un testimone...

Un testimone sì: una critica. La cosa straordinaria è che


per noi, anche un secolo dopo, il treno continua ad arrivare
alla Ciotat. È ancora possibile mettersi al posto dello spet­
tatore che ha avuto paura, a dimostrazione che qualcosa nel
cinema appartiene sì al passato, ma non è passato.

Da cui la famosa frase di Lumière: il cinema, un'invenzione senza


futuro.

È un’arte del presente che ha un modo particolare di


passare... Il suo avvenire è il suo passato, che è la fotografìa
e forse in questo c’è un bizzarro intoppo o un’involuzione:
tutto è possibile. Quello a cui non riesco proprio a credere è
che appena una cosa finisce possa essere subito sostituita da
un’altra.

I due cinema

Possiamo riprendere la questione in modo trasversale: sarebbero


allora stati registi, durante tutto questo secolo, solo coloro che
hanno opposto resistenza a questa tendenza naturale del cinema a
diventare un'arte industriale? In fondo, il cinema sarebbe solo
un’eccezione all’interno dell’industria dello spettacolo, e la sua sto­
ria, attraverso il punto di vista di una rivista come i «Cahiers du

149
cinéma», riguarderebbe solo i registi che hanno difeso una certa
idea del cinema contro il cinema stesso, sapendo che l’orizzonte era
solo un futuro industriale che lo allontanava dall’arte della ripre­
sa inventata dai fratelli Lumière.

Da molto tempo penso che esistano due tipi di cinema,


uno rappresenta 1’80%, l’altro il 20% appena. Una parte è
consistita nella ripresa pura e semplice di ciò che il pubbli­
co voleva vedere a tutti i costi, a condizione che l’immagine
fosse netta. Subito dopo la nascita del cinema, il pubblico
voleva vedere la Passione di Cristo subito, con i mezzi del
cinema.

Una specie di baraccone spettacolare, che però non si definiva così.

Sì, dei film pietosi, che traevano origine dalla pittura


minore o da certe pose veicolate dalla cultura religiosa. Una
buona parte del pubblico era allora totalmente indifferente
al fatto che il cinema potesse servire a qualcosa d’altro che
filmare gli zar. Ad un tratto Lumière ha avuto il colpo di
genio di spedire operatori ovunque nel mondo, per filmare
delle scene di strada a Delhi e l’incoronazione dei
Romanoff; così tutto quello che il pubblico voleva vedere,
attraverso un’adesione ed una fascinazione semplice, pura e
sincera — i re, le regine, i paesaggi esotici — è passato attra­
verso il cinema. In Italia, ad esempio, negli anni Dieci-
Venti, è fiorita tutta una produzione di film sugli uomini
forzuti e i fenomeni da fiera; ci si accontentava di filmare
un tipo che faceva giochi di prestigio, dei film senza storia,
erano i mostri che si voleva vedere. Bisognerebbe fare una
lista delle cose che, indipendentemente dalla mediazione,
cioè dal supporto e dalla sua specificità, la gente vuole
vedere.

È tutta quella parte di cinema cui la televisione in qualche modo


ha dato il cambio.
f
Assolutamente. Poi c’è il fenomeno complesso delle star.
Ce ne sono di due tipi: quelle create esclusivamente dal

ISO
cinema (la più perfetta in questo senso era la Garbo, che
non esisteva fuori dal cinema, e il fatto che si sia fermata
così presto è segno che si è trattato di un periodo limitato),
e quelle che provenivano dal circo, dal cabaret, dal canto o
dall’opera... Una parte di cinema, che non abbiamo né
guardato né studiato, consiste semplicemente nella ripresa
più o meno tecnicamente corretta di uno spettacolo, rappre­
senta una cultura popolare che non ha alcuna percezione
della macchina: poco importa che a muoversi sia un dise­
gno, un quadro o una fotografìa. Per questo si può dire che
la cultura popolare abbia un fondamento mitologico, per­
ché la mitologia è indipendente dai supporti, è una scatola
nera, non un processo. Ogni società ha delle immagini,
delle scene che vuole vedere a qualsiasi prezzo. Bisogna
sapere che in India, il pubblico nelle sale inizia a diminuire
leggermente, e stiamo parlando del più grande parco sale
del mondo, con sale che sembrano templi - ebbene, nei vil­
laggi poveri, in ogni bettola guardano le videocassette. E la
stessa cosa sta accadendo anche in Asia: la perdita di defini­
zione e di grandezza dell’immagine è abissale. Questo dà
ragione a Bazin: ci sono delle immagini pietose, sociali che
si vedranno a qualsiasi condizione. Questo relativizza le
argomentazioni di coloro che divinizzano la sala cinemato­
grafica, il cosiddetto incontro con il popolo... Certamente ci
sarà stata nel passato un’osmosi tra il popolo e ia sala, ma
credo che il bisogno di immagini in una società sia molto
più brutale. Non fa parte della critica, non la chiama in
causa, è una funzione mitologica della società, che bisogna
utilizzare o studiare come tale. Certo, si può sempre dire
che ad un certo momento c’è stato Chaplin, attore e regista
allo stesso tempo. Se si deve essere per forza nostalgici,
bisogna esserlo di quel periodo del cinema: Chaplin,
Keaton, il burlesque americano, con questa duplice simul­
tanea creazione, in cui il comico creava il mito sociale e
contemporaneamente la macchina per mostrarlo. Questo
periodo si è fermato con il sonoro. A essere generosi solo il
20% del cinema è stato interessante, quello in cui ciò che si
filmava contava molto meno del dispositivo di ripresa, in
cui l’interesse è spostato sulla macchina, sulla cinepresa

151
stessa e sugli effetti che può produrre, sulle possibilità del
montaggio, sul movimento. È l’unica parte di cinema che
permette di impostare un discorso storico, da Lumière fino
a oggi, passando da Dziga Vertov. Ad un certo punto nel
cinema la procedura di ripresa in sé è diventata affascinante
o intrigante, piacevole o fastidiosa per alcuni. Il resto fa
parte della ripresa di cose già acquisite, già maggioritarie,
già dominanti. Vista la mia storia personale, io non potevo
che avere rapporti con quel cinema in cui sei preso per
mano da qualcuno, l’autore, che ti dice: «Ecco io guardo il
mondo così, così mi ci ritrovo, vieni con me e ne avrai una
visione coerente».

È un modo per definire in modo diverso la cosiddetta «politica


degli Autori».

Ho dimenticato di dire una cosa che è in qualche modo


l’anello di congiunzione tra il carrello di Kapò e ciò che
abbiamo appena detto: il problema, dopo questo sentimen­
to di desiderio misto a terrore nei confronti deH’immagine,
è di andare verso l’immagine ed entrarvi; il desiderio del
cinefilo in ultima analisi è quello di La palla numero 13 o
dei Carabinieri, entrarvi ma non come uno sciocchino su cui
cala lo schermo, e neppure per diventare un eroe (alla
Keaton), ma come se si imparasse a nuotare in un’altra
dimensione. 11 nuoto è la messa in scena. In questo senso
parlavo dell’inquadratura come condizione sine qua non di
tutto, ma che ci siano o meno movimenti di camera, ci
siano o meno montaggio, dettaglio, primo piano, modula­
zione, si tratta solo di mostrare. Il cinefilo è colui che sa
che tra lo spazio reale della sala, che rappresenta la società,
e lo spazio immaginario, è falso pensare che esista una linea
o una frontiera. Solo i più ingenui credono che si precipiti
improvvisamente in un altro spazio, come in La rosa purpu­
rea del Cairo. In realtà tra questi due spazi ne esiste un
terzo, strutturato come un campo da tennis. Guardando
con attenzione questa linea ossessionata, vi si trovano rap­
presentate varie figure: le figure che ammettono o che
rifiutano, quelle della rete. Un momento si resta al di qua

152
della rete, un altro momento la messa in scena ci prende
per mano, ci dà il diritto di scavalcare la rete o di fare un
passante.
Quando si trasforma la messa in scena in un feticcio,
come faccio io, si sa che esiste una zona intermediaria, quel­
la del limbo, che fa sì che guardando un film non si passi
semplicemente dalla vita reale a quella immaginaria, come
pensano un po’ ingenuamente i surrealisti, ma che c’è una
zona intermedia tra le due. E tutta la «politica degli auto­
ri» non è stata altro che un mettere alla prova questo part­
ner che è l’autore, che ci insegnerà a giocare. Per questo II
covo dei contrabbandieri è il più bel film della cinefilia, la ver­
sione positiva di ciò di cui La morte corre sul fiume è la versio­
ne malvagia: il ragazzino vuole a tutti i costi un padre, lo
sceglie e lo obbliga a comportarsi come suo padre, contro la
sua volontà, e si aspetta da lui delle lezioni di messa in
scena, cioè delle lezioni di topologia, di riconoscimento del
territorio. E una delle frasi più belle di questo film di Lang
è quella pronunciata dal bambino: «L'exercice a étéprofitable,
Monsieur». Il piccolo John Mohune decide di seguire
Jeremy Fox (Stewart Granger) esattamente come io decido
di seguire Fritz Lang. La figura dell’autore è un’immagine
paterna, ma il padre non esiste, ed è preferibile che non
emerga troppo perché non possa essere trasformata in un
feticcio. Non essendomi mai troppo interessato alla biogra­
fia dei grandi registi, ho preferito dirmi che quando seguia­
mo un autore nel suo modo di collocarsi nel mondo, rag­
giungiamo un quantum di verità, diverso a seconda che si
tratti di Hitchcock, Lang o Bresson. Ecco che cosa è per me
la politica degli autori. Si pone in termini di accettazione o
di rifiuto: posso benissimo rifiutarmi di entrare in un film,
per esempio a causa del carrello di Kapò, non sono uno che
si lascia sempre prendere per mano. Ma se me la prendo
tanto con Pontecorvo è proprio perché qualcuno mi deve
tenere per mano< bisogna assolutamente che qualcuno mi
dica: mi dispiace ma questa inquadratura l’ho vista, l’ho
montata prima che lei arrivasse e gliela mostro. A me poi
spetterà di rispondere: il modo in cui la mostra mi fa venir
voglia di vederla, a mio rischio e pericolo, per far sì, in

I5S
seguito, che il film racconti la mia storia. Il cinema nel XX
secolo ha tuttavia inventato due cose dell’ordine dei concet­
ti di Deleuze, dei concetti puri: quello di piano - non so
poi esattamente se lo si può chiamare concetto — allora
diciamo il piano e il fuoricampo (il piano può avere come
motore il fuoricampo). Pur avendo ragione ad occuparci di
queste nozioni negli anni Settanta, ne avevamo una visione
molto formalista, perché effettivamente creano degli effetti
di cristallizzazione, di bellezza, di rottura; ne leggevamo gli
effetti in Ejzenstein, che ne era piuttosto il teorico edonista,
che riservava per sé il godimento. Sono sconvolgenti in Tod
Browning, un regista agli antipodi di Ejzenstein, grande
almeno quanto lui. Freaks, in quanto a montaggio e
mostruosità, può essere considerato l’equivalente di Sciopero.
Ci sono quindi modi diversi, in tutti i sensi, di fare delle
inquadrature. Ai «Cahiers» non possiamo dire di non aver
visto sopraggiungere la scomparsa delle inquadrature. Oggi
è in una fase talmente avanzata...

Che nuotiamo nel visuale e nell'ideologia del visuale.

Che per me non è l’immagine. E pavloviano. Talvolta


nel visuale emergono delle figure, per esempio nei video­
clip, ma sradicate da qualsiasi idea di inquadratura.
Secondo me, il cambiamento è stato preparato, la nozione
di inquadratura è stata fatta esplodere dal cinema moderno,
anche con un certo accanimento. Ormai è accaduto e non
abbiamo più la stessa energia nel descrivere in termini di
violenza formale ciò che comunque continua a reggere le
immagini che guardiamo. È ciò che mi colpisce di più. Nel
tocco di Hitchcock, per esempio, c’è solo la forza. L’idea che
il cinema può arrivare a questo: una vera aggressione forma­
le che oggi è completamente scomparsa. L’unica storia del
cinema possibile riguarda questa piccola parte di cinema
che si è raccontata e teorizzata attraverso le riviste di cine­
ma, per il semplice fatto che ad un tratto la procedura di
approccio al reale è diventata più intrigante o interessante
della cosa raffigurata, riprodotta e rappresentata. Ma per
giungere a questa conclusione bisogna uscire da una visione

IVI
di cui abbiamo avuto una concezione paradossalmente con­
fusa e molto timida, modesta, negli anni Settanta, intorno a
questa idea della specificità del cinema. Il cinema doveva
per forza avere una sua specificità... Penso che sia un po’ la
stessa cosa con le nuove immagini: si finisce per dimentica­
re che c’è stata, tanto tempo fa, una grande promessa subli­
me, di cui si è dimenticato che debba essere sostenuta da un
desiderio. È stato così necessario popolare questo giusto
mezzo in cui ci troviamo e che rischia di durare a lungo. Ho
cercato di anticipare il seguito delle operazioni e questo ha
finito per stancarmi. Allora ho finito per accettare l’idea che
il cinema era o è stato un fatto talmente straordinario che
potevo, per esempio, fare una rivista trimestrale, che questa
ora faccia scrivere, che questa trasmetta così le esperienze di
qualcuno. Perché mi sono stancato di non vedere arrivare
nulla. Non ci aspettiamo uno stupore indimenticabile come
quello che abbiamo conosciuto. Non ci aspettiamo nulla di
indimenticabile. Siamo invece piuttosto inquieti all’idea di
un eventuale futuro orwelliano con grandi cerimonie audio­
visive di massa, e telethon giganti trasmessi su grande
schermo. Sì, è il fascismo. Ci fermiamo?

155
NOTE

1) lettre sur Rossellini, «Cahiers du cinema» n. 46, aprile 1955; in La


pelle e l’anima, La Casa Usher, 1984.
2) Robert Faurrissonne, storico francese, è noto per le sue posizioni
revisioniste che negano l’esistenza delle camere a gas in alcuni campi di
sterminio.
3) Il bambino Ernesto è il personaggio del cortometraggio di Danièle
Huillet e Jean-Marie Straub, En rachachant, tratto da un racconto per
bambini di Marguerite Duras.
4) Il titolo del film, La main qui étreint, pronunciato dalla nonna, veniva
così trasformato da S. Daney bambino che, non sapendo scrivere, lo per­
cepiva in termini puramente fonetici.
5) F. Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Pratiche Editrice, 1985, pp.
23-24.
6) La Rampe. Cahier critique 1970-1982, Gallimard/Les Cahiers du
Cinema, 1983.
7) Il nome dell'attore francese Harry Baur veniva percepito da S.
Daney, bambino, foneticamente «aribor».
8) Paul Touvier, capo della Polizia francese a Lione durante l'occupazio­
ne tedesca, fu responsabile dell’arresto e della deportazione di bambini
ebrei.
9) La tigre di Eschnapur e II sepolcro indiano girati da F. Lang nel 1959-
10) Sur Salador, in «Cahiers du cinéma», n. 222, luglio 1970; in La
Rampe, cit., 1983-
11) Antoine de Baecque, Histoire d’une revue, Cahiers du cinéma, 1991;
tr. it., Assalto al cinema, Il Saggiatore, 1993-
12) Frank et Jerry, «Cahiers du cinéma», n. 156, giugno 1964.
13) A quell’epoca i «Cahiers» erano situati al 146 degli Champs-
Elysées ed erano diretti da Jacques Doniol-Valcroze e Eric Rohmer.
14) Malet e Isaac sono gli autori dei manuali di storia adottati in pres­
soché tutte le scuole superiori francesi. Daney intende qui dunque il
termine storia nella sua accezione più semplice, come ritorno critico
sugli eventi che hanno segnato la Francia.
15) In Madame Bovary di G. Flaubert, Monsieur Homais è il personag­
gio del farmacista, pedante e cinico.
16) Les «Cahiers» aujourd'hui, di Serge Daney e Serge Toubiana,
«Cahiers du cinéma», n.25(), marzo 1974.
17) Felix Tournachon, detto Nadar (Parigi, 1820-1910) fu un pioniere
della fotografìa. Lascaux, grotta scoperta nel 1940, uno dei migliori
esemplari di arte figurativa preistorica. Jean-Cristophe Averty, regista e
produttore di trasmissioni radiofoniche, ha rinnovato il linguaggio video.
Bernard Dufour è pittore contemporaneo. Daney propone qui un approc­
cio alla storia del cinema che abbia come diretto referente la lunga genea­
logia delle arti figurative e della rappresentazione piuttosto che forme
espressive più legate alla contemporaneità come il video o la pittura
degli ultimi decenni.

157
INDICE

Prefazione id l’edizione italiana 9

Introduzione 15

PRIMA PARTE 21
Il carrello di Kapò 23

SECONDA PARTE 45

TERZA PARTE 101


Cinema e storia 103
Un cinefilo in viaggio 109
Una sera a Ronda 113
Il cinema come promessa del mondo 119
Cinema e comuniSmo: appelloper una contro-società 128
Dall’esperienza dei «Cahiers» a quella di «Liberation» 135
Cinema e televisione: andata e ritorno 143
I due cinema 149
Note 157

159
Con l’apparente leggerezza di una conversazione tra amici,
Serge Daney ripercorre in questo libro, in modo orgoglioso e
appassionato, la propria storia di cinefilo, anzi di cine-fìglio
come amava definire se stesso. Una storia che intreccia la vita
privata, i viaggi, gli amici dei «Cahiers» e di «Liberation»,
con gli eventi che hanno attraversato gli ultimi decenni e
soprattutto con l’amore per il cinema. .
È un racconto, quello di Daney, che insegna a «guardare», a
cogliere la verità e la morale delle immagini contro ogni facile
seduzione, a scegliere tra la moltitudine delle immagini e dei
film che guardiamo, quella singola inquadratura che c
segnerà per la vita.
Serge Daney, redattore capo dei «Cahiers du cinéma», respon­
sabile della pagina di cinema e quindi editorialista per
«Libération», ha fondato nel 1992 la rivista «Trafic». Tra le
sue opere La Rampe (1983) e L'Exercice a été profitable. Monsieur
(1993). È morto a quarantotto anni il 12 giugno 1992.

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