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VIA DI
LA
DANTE
Dall’inferno alla luna
passando p er i l
NEM
M US
S
All’amico.
Al suggeritore
unico,
insostituibile
di preziose
verità
a me
sconosciute.
All’ascoltatore
sempre attento,
convinto
e divertito
delle mie più
ardite rivisitazioni
delle nostre storie.
La magia della
Pentima del Piccione
si ripete ancora:
solo dall’alto di un luogo fantastico
e, insieme, reale,
come in una visione onirica,
si vedono davvero cose
che a tutti gli altri sfuggono.
Ecco perché nessuno
si è mai accorto, finora,
che il viaggio di
DANTE
per l’Inferno
inizia nella valle
del lago di Nemi.
Karl J. Bell
Leone XIII
L’Autore ringrazia
in maniera particolare
Giovanni Ventucci,
della libreria The book
di Genzano di Roma,
libraio dinamico ed
editore lungimirante
sempre attento
alla realtà locale,
per la sua assistenza
e per le segnalazioni
di testi impensabili
ed altrimenti introvabili,
sempre decisivi
nella ricerca
di elementi
di sostegno
per le sue
ricostruzioni
storiche.
LA VIA DI DANTE: il perché di un titolo
Condensare in due o tre parole il significato più autentico di un
lungo discorso richiede capacità di sintesi non comuni. Quelle
poche parole debbono essere anche di presa immediata sul pubbli-
co che sceglie cosa leggere tra un’infinità di copertine messe in
bella mostra in libreria. Farsi notare è sempre più difficile.
Convincere un lettore ad acquistare il tuo libro ha del miracoloso
quando non hai un nome altisonante e non sei una stella di prima
grandezza dell’editoria nazionale o internazionale.
Come esprimere, con così poche parole, una vera rivoluzione
nell’interpretazione dell’opera massima della letteratura italiana, la
Divina Commedia?
Il riferimento al nemus, il bosco sacro, nel mio caso era d’obbli-
go, ma la parola non è proprio comunissima. Poteva non essere
compresa se non tradotta -correttamente- dal Latino.
Il riferimento alla diritta via che si smarriva mi sembrava obbli-
gatorio. Sì, perché avevo raggiunto la certezza che Dante avesse
voluto dare a quel la diritta via era smarrita anche un significato
diverso da quello che tutti i commentatori gli hanno finora attribuito.
Era la via diritta che si smarriva, non il poeta!
Ecco il trucco di Dante: dire una cosa ovvia che tutti possono
comprendere per nascondervi il vero significato -che pochi doveva-
no poter intendere- che cela il messaggio che, pur reso pubblico,
rimane segreto.
Ma come esprimere sinteticamente questi concetti?
Cos’era, in realtà il Poema dantesco? Chi era Dante nella sua
Commedia? Quale aspetto volevo metterne in risalto?
Così a fianco al nome di Dante, che doveva campeggiare asso-
lutamente nel titolo, cominciai a provare dei vocaboli che potesse-
ro esprimere l’essenza di tutta la mia ricerca.
Iniziai con Ri-lectura Dantis, un titolo che esprimeva quello che
avevo fatto: una rivisitazione dell’opera, ma solo per comprendere
e dimostrare a quali luoghi si era ispirato per l’ambientazione delle
prime due cantiche, cosa che, però, non si percepiva affatto con quel
titolo. Chissà quante ri-letture esistono nell’infinita bibliografia
La Via di Dante 9
dantesca.
L’abbandonai subito.
Fu la volta di ...e Dante si smarrì nel nemus.
Il titolo funzionava, ma quel nemus era sempre parola poco com-
prensibile per un vasto pubblico. Esprimeva, però, alla perfezione la
scoperta iniziale, lo spunto da cui ero partito. Poteva andare.
Per provare ancora, tornai alla lingua latina con Dantes viator,
Dante il viaggiatore o anche il viandante. Anzi, più viandante che pas-
seggero di un mezzo di locomozione. Non riportava, però, alle mie
scoperte. Era vago ed indefinito, poco comprensibile.
Infine arrivò l’ultima parola che poteva suggerire la vera essenza
di quest’opera che, in realtà, più che un viaggio era una peregrinazio-
ne dell’autore nel mondo dei morti, ma anche nel regno dei cieli:
peregrinatio, ecco la parola.
Sì, esprimeva il concetto di viaggio più che del viaggiatore il cui
nome, comunque, figurava nella sintesi: Peregrinatio Dantis.
La parola latina riassumeva bene tutto: non un semplice viaggio,
ma una vera peregrinazione.... tappa dopo tappa alla scoperta non
solo del mondo dei morti, ma delle cose della vita, delle miserie
umane, quelle degli uomini qualunque e quelle dei dominatori, dei
potenti e prepotenti, dei grandi della Terra.
Una peregrinatio alla ricerca del bene più grande per l’Uomo: la
conoscenza, per raggiungere la quale l’uomo-Dante non si spaven-
ta davanti ai pericoli che ad ogni passo gli si parano davanti.
Una peregrinatio che egli può raccontarre agli altri perché gira
l’Italia proprio per vedere, comprendere, riferire, trarre ammaestra-
menti.
Dante è ora a conoscenza di cose nascoste, proibite che però rin-
traccia, vede, studia e ne riferisce, ma nascondendone il vero signi-
ficato per salvare la vita, per non finire sul rogo, per non essere tor-
turato come i Templari, come i Catari.
E come fa a nascondere quel che sa e nello stesso tempo ammo-
nire, insegnare?
Non fa capire il significato di alcuni versi iniziali, fa una profe-
zia impossibile da decifrare, ma, allo stesso tempo facilissima da
comprendere per chi conosce le segrete cose.
10 La Via di Dante
Sì, un buon titolo, ma non rivelava i suoi rapporti con il nemus.
È nel suo peregrinare ai Colli Albani che Dante trova le confer-
me che cerca e le trasforma in versi. Per incomprensibili che possa-
no sembrare, le sue rivelazioni sono autentiche, toccate con mano,
testimoniate. Per esser certo di lasciare la prova scrive a Can
Grande della Scala avvertendolo: “Tutto quello che ho tradotto in
versi l’ho visto con i miei occhi”.
Anche cose assurde per i suoi tempi?
Sì, anche quelle e, vedremo, non sono cose di poco conto.
Le conoscenze segrete tramandate da cinquemila anni gli fanno
comprendere e scrivere quello che nessuno allora era in grado di sape-
re, gli fanno ritrovare la via giusta che diventa la sua via, la Via di
Dante, quella che conduce alla vera conoscenza: il vero dio.
Tutto parte da quella diritta via che si smarrisce proprio mentre
attraversa il nemus...
La Via di Dante 11
DANTE, questo sconosciuto
La Divina Commedia è una delle opere di Poesia più alte ed
importanti che mente umana abbia mai concepito e Dante Alighieri
è ritenuto uno dei massimi geni poetici dell’umanità.
Sia dell’Opera che del suo Autore crediamo di conoscere tutto:
ogni momento della vita, ogni pensiero, ogni sua concezione filo-
sofico-politico-religiosa. Tali e tanti sono stati i biografi, gli studio-
si ed i commentatori che si sono cimentati nella ricostruzione della
vita del Poeta e nell’illustrazione della sua opera omnia, che sem-
bra assurdo possa esserci un episodio della sua vita ancora inesplo-
rato o un verso, una parola, un concetto, un elemento qualunque che
nasconda ancora qualche significato recondito. Questo si crede
anche se tutti sanno che la vita di Dante è stata travagliata e che i
significati dei versi danteschi non sempre sono stati correttamente
decifrati.
René Guénon, grande esperto di esoterismo, in un suo studio su
Dante su cui mi soffermerò più avanti, a questo proposito sostiene
che i gradi di lettura della Divina Commedia -come di molte opere
antiche- sono quattro e che il quarto significato dei versi più oscuri
non è mai stato individuato. È necessario, perciò, lavorare ancora
per arrivare -sempre che sia possibile- alla comprensione completa
almeno di alcuni passi dell’opera e, forse, anche del suo autentico
significato complessivo, quello che Dante nascose nei passi più
oscuri del poema perché solo pochi potessero individuarlo.
Ma perché un Autore dovrebbe rendere incomprensibile il suo
pensiero?
Oggi la cosa ci appare illogica. Se, però, pensiamo a quanto
accadeva ai suoi tempi a chi non seguiva l’ortodossia della Chiesa
di Roma, allora possiamo comprendere perché non sempre -ancora
oggi- è possibile decifrare i versi di Dante. Per evitare condanne ter-
ribili, egli ha dovuto nascondere il suo vero pensiero riguardo ad
argomenti allora molto scabrosi come quelli che sostenevano i
Catari o Albigesi, la popolazione che risiedeva nel sud della
Francia, nella regione della linguadoca, considerati eretici dalla
Chiesa di Roma, per i quali Dante parteggiava apertamente.
La Via di Dante 13
Erano tempi in cui l’eresia, vera o presunta, portava direttamen-
te sul rogo. Fu proprio sull’immane rogo di Montségur che, il 16
marzo del 1244, finirono le ultime resistenze dei Catari. Era neces-
sario, perciò, essere molto cauti e le cose pericolose dovevano esse-
re velate, nascoste, rese di difficile comprensione per i non adepti
ad Ordini come quelli dei Templari, dei Rosacroce, dei Maestri
Muratori...
Per comprendere, ancora oggi, quei veri e propri messaggi cifra-
ti contenuti nella Commedia, come la profezia del veltro, è necessa-
rio individuare una qualche sconosciuta chiave di lettura finora
sfuggita all’attenzione degli studiosi. Oppure, bisogna scoprire epi-
sodi ancora misteriosi della vita di Dante che possano condurre alla
giusta interpretazione dei suoi versi.
Come spesso avviene, sono le circostanze fortuite che fornisco-
no gli elementi necessari a decifrare un mistero.
Per la Divina Commedia forse è avvenuto proprio questo: una
circostanza fortuita che si è, però, aggiunta ad una serie di indizi che
avevano contribuito a creare i presupposti perché quella circostan-
za fortuita si verificasse. Avendo avuto, insomma, la giusta chiave
di lettura, come per incanto tutto è diventato chiaro: il significato di
pochi versi ancora oscuri e quello dell’opera intera.
In casi come questi, però, le circostanze sono solo apparente-
mente casuali. Non è scontato che la soluzione si mostri a chi non
abbia la giusta preparazione per riconoscerla. Per interpretare il cor-
retto significato di parole oscure per tutti, è necessario essersi prima
posti interrogativi che all’inizio sembrano assurdi e che in realtà
assurdi non sono, e che anzi, alla fine, si rivelano ovvii.
Io non sono un esperto della Divina Commedia, né ho fatto ricerche
particolari sulla vita di Dante. Quando ho cominciato ad interessarmi a lui,
l’ho fatto perché inseguivo Enea nel suo viaggio nel mondo dei morti alla
ricerca del padre Anchise. Mi sembrava che in quella vicenda Cuma e
l’Averno come lago, non c’entrassero per niente con l’averno, inteso come
mondo dei morti. Il motivo del mio scetticismo era quel ramo d’oro richie-
sto dalla Sibilla come condicio sine qua non per accedere al mondo dei
trapassati. Era il ramo d’oro che bisognava portare in dono a Proserpina.
Era il ramo d’oro che consentiva l’accesso al mondo dei morti.
14 La Via di Dante
Eppure, nessun commentatore, in duemila anni, aveva mai
messo in dubbio il testo poetico di Virgilio o la tradizione che vole-
va che l’ingresso al mondo dei morti fosse ubicato nei pressi del
lago Averno.
Mettere questo in discussione poteva sembrare, ora, solo una
mia idea bislacca e pretestuosa, oltre che folle, come solo un ine-
sperto dichiarato e conclamato come me poteva ardire di sostenere.
Ma non era così. Vedremo poi perché.
L’albero del ramo d’oro, però, non era sufficiente, da solo, a
spiegare l’arcano dantesco. Occorreva qualche altro elemento.
Ecco allora il caso e la fortuna intervenire decisivi.
Mio figlio Alessandro aveva acquistato l’edizione tascabile di un
libro d’autore sconosciuto, Adriano Petta. Il libro era intitolato
“Eresia pura”. Mio figlio non l’aveva ancora letto quando io lo tro-
vai nella sua stanza e lo lessi d’un fiato.
Contemporaneamente, Gianni, il libraio di Genzano, aveva rice-
vuto dall’editore un notevole numero di copie di quel libro e mi
aveva fatto conoscere l’Autore. Il motivo di tutto quel mio interes-
se era ovvio: la storia raccontata in quel libro iniziava dal lago di
Nemi, o meglio, dalla torre del piccolo borgo originario e l’azione
era ambientata nel 1207. La storia riguardava un personaggio tanto
importante quanto misconosciuto: il matematico Giordano de
Nemore che, a quel tempo, era solo un converso del monastero dei
Cistercensi presenti a Nemi.
Le vicende di Giordano che racconterò sinteticamente in segui-
to, mi fornirono gli elementi di prova che mancavano per la conva-
lida delle mie ipotesi sul vero significato dell’opera di Dante.
Quella storia, infatti, era autentica e documentata anche se rac-
contata in forma di romanzo.
Le mie ipotesi cominciavano a prendere forma e trovavano le
conferme mancanti.
Dante mi si rivelava personaggio ancora sconosciuto di cui pote-
vo comprendere le vere motivazioni che lo avevano indotto a scri-
vere la Commedia e i suoi versi oscuri, attraverso Petta, si illumi-
navano ora del significato autentico, quello più nascosto, quello che
non avrebbe potuto rivelare se non a rischio della propria vita e che
La Via di Dante 15
aveva celato nel quarto livello di lettura riservato ai pochi che pote-
vano comprenderne il significato esoterico, quello vero.
In effetti alcuni suoi versi sono stati così oscuri che, fino ad oggi,
nessuno è mai riuscito a decifrarli.
Grazie a strane combinazioni, a fortunate coincidenze, alla sto-
ria di Giordano de Nemore e dei Catari raccontata da Adriano Petta,
grazie ancora a James Frazer e al suo Il Ramo d’Oro, agli studi sulla
valle del lago di Nemi, sul rex nemorensis, ad un’intuizione “folle”
oggi quei versi sono diventati così chiari e semplici che stento a cre-
dere che, in oltre sei secoli, nessuno sia riuscito a scoprirne il signi-
ficato più autentico e profondo, che consente di comprendere anche
quello più generale della Divina Commedia.
Per arrivare a questo risultato, però, è stato indispensabile chia-
rire alcuni aspetti del tutto sconosciuti della vita del Grande
Fiorentino.
Da: Mario Geymonat, Pagine di Epica classica, pag. 281, fig. 38,
Zanichelli editore S.p.A., Bologna
La raffigurazione dell’ingresso al mondo dei morti come descritto
da Virgilio e interpretato dallo studioso Mario Geimonat.
L’ambiente somiglia straordinariamente alla valle del lago di Nemi.
Unica diversità: qui l’albero sacro, l’olmo oscuro è posto sottoterra,
dopo l’antro d’ingresso al mondo dei morti mentre nel nemus era
l’albero posto al centro della radura sacra.
16 La Via di Dante
“O voi che avete gli intelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto il velame delli versi strani”
Il numero degli studi e dei saggi su Dante e sulla Divina
Commedia è sterminato, “indefinito” direbbe Niccolò da Cusa per
evitare di usare il vocabolo “infinito”, allora proibito dalla Chiesa
Cattolica se non riferito alla grandezza dell’Onnipotente.
Pur tuttavia, ripeto, molti aspetti della vita del Poeta e della sua
Opera sono rimasti finora completamente oscuri e di molti suoi
versi si ignora il significato vero, quello autentico e profondo, del
quarto livello, il più nascosto.
E non perché gli studiosi non abbiano provato a dare risposte
credibili, ma proprio perché non hanno potuto comprendere il signi-
ficato che il Poeta ha volutamente nascosto -e così bene- che finora
non è stato possibile decifrarlo.
C’è anche da dire che probabilmente il poema dantesco non è
stato mai studiato partendo dall’origine, dai luoghi o dalle opere che
possono aver influenzato l’ispirazione di Dante e che possono aver
contenuto quegli elementi chiave che consentivano, alla fine, di
individuare anche -e fino in fondo- il vero pensiero dantesco.
Ma quali sono questi elementi finora rimasti sconosciuti?
Di questi quattro, ve n’è uno occulto che può essere inteso solo
conoscendo i segreti noti agli appartenenti a sette esoteriche o ad
La Via di Dante 17
Ordini come quello dei Cavalieri del Tempio -i celeberrimi
Templari- un tempo potentissimo, i cui adepti avevano conoscenze
ignote a tutti i comuni mortali.
Questo quarto significato, dice ancora Guénon, una volta sco-
perto, aiuta a comprendere anche gli altri tre.
Intorno a questi principi si sono mossi molti studiosi cercando di
individuare i significati nascosti ed esoterici contenuti nei versi dan-
teschi. Finora, però, tutto si è fatto prescindendo dall’esaminare il
luogo reale che poteva aver effettivamente ispirato il Poeta. Forse,
scoprendo qual era il panorama reale che poteva aver ispirato
Dante, si sarebbe potuto indagare su storia, miti culti e simboli lega-
ti a quello stesso posto e tentare di comprendere anche i significati
nascosti nella scena poeticamente rielaborata in cui si svolge l’a-
zione. Questo, almeno per le prime due Cantiche, l’Inferno e il
Purgatorio. La comprensione dei versi di significato ancora oscuro,
poteva poi forse rivelarci anche il vero motivo che spinge il Poeta a
scrivere un’opera che porta nel mondo dei morti e, infine, a farci
finalmente comprendere qual è il suo più recondito ed autentico
significato, quello del quarto livello segreto.
Certo, un’impresa così non poteva che essere considerata vellei-
taria, da me soprattutto, che sapevo perfettamente quali erano i miei
limiti di conoscenza dell’opera dantesca. Le indagini da me com-
piute -per tutt’altro motivo- sul Vulcano Laziale, sul nemus e sul
cratere nemorense avevano conseguito, però, in questi ultimi anni,
risultati incredibili che cominciavano a riguardare anche Dante e i
suoi rapporti -ancora totalmente sconosciuti- proprio con i Colli
Albani ed il cratere nemorense.
La prima parte di questa indagine, dalle origini fino a Costantino
il Grande, sono ora esposti diffusamente in un mio libro intitolato
“Dalla Pentima del Piccione” (l’alta roccia a picco sul cratere dove
sorge Nemi), Ventucci Editore, 2008.
Miti e culti universali mai ritenuti legati al nemus, hanno invece
qui ritrovato la loro sede naturale prima sconosciuta, e il loro signi-
ficato oscuro è diventato chiaro, credibile e giustificato.
Nell’ambito di questo studio, sempre più si rivelavano indizi che
confermavano anche quelle più che ardite ipotesi su Dante, che
18 La Via di Dante
diventavano, così, piano piano, la base per la scoperta più impreve-
dibile e sorprendente: il rapporto tra Dante e i Colli Albani non solo
c’era stato, ma aveva lasciato anche una straordinaria traccia nella
Divina Commedia di cui nessuno, finora, si è mai accorto!
Quella convinzione di uno stretto legame tra Colli Albani e
Dante si basava sia sulle affermazioni dello stesso poeta contenute
nella sua epistola a Can Grande della Scala, in cui rivela di aver
visto direttamente e personalmente tutto quello che nella Commedia
aveva descritto, sia sulla perfetta conoscenza, da parte mia, e non
solo fisica, ma anche storico-simbolica, dei luoghi in cui era nata la
civiltà romana: i Colli Albani in generale e il cratere nemorense in
particolare.
Questi luoghi sempre più somigliavano alle descrizioni dante-
sche del mondo ultraterreno, tanto da poter cominciare a pensare a
formulare una seria ipotesi riguardante il luogo-ispirazione per
l’ambientazione della Divina Commedia.
L’idea assurda cominciava a diventare una via praticabile.
Mentre la ricerca era ancora incompleta, il caso ha voluto che mi
imbattessi in un’opera il cui contenuto mi ha poi condotto forse ad
una scoperta ancor più sensazionale: il motivo vero per cui Dante
potrebbe essere venuto qui! Non doveva esser venuto solo a visita-
re uno dei luoghi più magici e sacri della storia dell’Umanità per
utilizzarlo come ispirazione per l’ambientazione della sua opera,
come avevo fino a quel momento ritenuto, ma anche a controllare
dove e come potevano essere state qui conservate per alcuni secoli
conoscenze che ancora la Chiesa voleva tenere nascoste.
Ma andiamo con ordine.
Il mio studio partiva da molto lontano. Lo scopo per cui era ini-
ziato era la necessità di documentarmi sulla storia, i miti, i culti, la
mitologia legati al bosco sacro a Diana, il nemus, per giungere alla
più corretta ideazione, progettazione e realizzazione di un’ambizio-
sa opera di rivalutazione del territorio proprio dell’antico nemus: il
Parco del Ramo d’Oro, un grande parco naturalistico-storico-
archeologico che dovrebbe comprendere tutta la valle del lago di
Nemi, un tempo ricoperta proprio dal piccolo bosco rado.
La Via di Dante 19
Dante e la sua Commedia non potevano essere più lontani dalle
mie indagini, mai più immaginando un qualsiasi collegamento tra il
piccolo, ceruleo lago del borgo di Nemi, la sua valletta craterica ed
il mondo dei trapassati.
Avevo trovato il primo indizio, che mi aveva in qualche modo
insospettito, molti anni fa, leggendo Il Ramo d’Oro, opera di antro-
pologia universalmente nota, di James Frazer.
L’antropologo scozzese aveva indicato proprio nel ramo d’oro
dell’albero sacro del nemus quello che Enea strappa per portarlo in
dono a Proserpina nella sua discesa nel mondo dell’oltretomba. La
questione era, però, complicata da Virgilio che indicava un altro
luogo per l’ingresso al mondo dei trapassati dell’eroe troiano: un
antro nei pressi del lago Averno vicino a Cuma, la prima colonia
greca sul suolo italico, dove operava una famosissima Sibilla i cui
responsi erano molto ricercati e tenuti in grande considerazione.
Con il tempo, con il proseguire delle ricerche sul nemus, ho
potuto acquisire elementi nuovi e significativi e tali da far identifi-
care con il nemus aricinum -il bosco con radure sacro a Diana ari-
cina-nemorense- quello dove Enea avrebbe dovuto trovare l’antro
per raggiungere l’oltretomba.
Il passo necessario per collegare il nemus anche alla selva oscu-
ra dantesca, dove il Vate si smarrisce, è stata, infine, per me, una
semplice, logica deduzione.
Contrariamente a quanto mi ricordassero i miei superficiali studi
danteschi, risalenti ai tempi del liceo, ad una nuova ed attenta lettu-
ra del primo canto dell’Inferno, ho potuto rilevare che i riferimenti
all’ambiente Laziale sono molto numerosi e niente affatto casuali.
Non essendo uno studioso di letteretura né un esperto dantista, non
sapevo niente nemmeno del meccanismo della sua ispirazione.
Tuttavia, avevo azzardato su Omnia,la voce del nemus, la rivista che
per alcuni anni ho curato insieme al prof. Pino Bevilacqua, una
nuova e del tutto originale ipotesi riguardante Dante e il suo rap-
porto -mai rilevato prima- con i Colli Albani. Dante, ripeto, poteva
essere arrivato sui Colli Albani per vedere i luoghi delle origini di
Roma, la terra del popolo Latino cantata da Virgilio, e qui poteva
aver tratto molti spunti di ispirazione per la sua opera. Soprattutto il
20 La Via di Dante
primo canto dell’Inferno sembrava essere impregnato dell’atmosfe-
ra magica che ancora oggi si respira nel cratere nemorense dove un
tempo c’era il nemus.
Era solo una sensazione, ma valeva la pena di lavorarci su.
Nonostante l’ipotesi fosse del tutto nuova e sembrasse per lo
meno ardita anche e soprattutto a me che la formulavo, inaspettata-
mente ebbe molti consensi proprio nel mondo della scuola locale.
Insistetti nella ricerca che rivelava sempre nuovi, sorprendenti
indizi finché, ancor più inaspettata ed indiretta, ma precisa e
netta, giunse la prima, autorevole conferma alla mia teoria che
voleva Dante aver tratto, per i suoi versi, ispirazione anche dal-
l’ambiente naturale dei Colli Albani.
Erano proprio i suggestivi scorci dei grandi boschi che ricopri-
vano le colline su cui si era formata la civiltà latina che, secondo
me, avevano fornito a Dante l’idea per la concezione della sceno-
grafia dove si svolge l’azione delle prime due cantiche della Divina
Commedia. La conferma a queste mie ipotesi mi era data da un arti-
colo dedicato a Dante apparso sulla pagina culturale del prestigioso
quotidiano “Il sole 24 ore”.
L’articolista sosteneva che ogni cosa cantata da Dante, egli l’a-
veva prima vista con i propri occhi; faceva parte, insomma, di sue
particolari e specifiche esperienze personali.
Per affermare la sua ipotesi l’Autore, CarloOssola, scriveva:
“Ma Dante è poeta-teologo, e filosofo, che non si contenta
dell’”allegoria dei poeti” e nella sua Epistola a Cangrande della
Scala (nella quale spiega come accedere alla lettura della sua
Commedia), richiamando l’autorità di Aristotele (“sicut res se habet
ad veritatem”), afferma che il suo testo è sempre vero (e tanto
più nel Paradiso, dedicato all’eterno vero di beatitudine), intera-
mente vero nella lettera prima ancor che nell’allegoria, poiché
“veritas de re, quia in veritate consistit tanquam in subiecto, est
similitudo perfecta rei sicut est” (la verità consiste come nel suo
proprio soggetto, è la perfetta similitudine della cosa stessa al suo
essere nell’è”).
Carlo Ossola Il Sole 24 ore, domenica 15 febbraio 2004.
22 La Via di Dante
aveva apprezzato le mie ipotesi su Dante e i Colli Albani e mi invitava
a proseguire.
Lo studio successivo dell’opera dantesca ha messo in evidenza
una serie notevole di riferimenti che potevano ricondursi al nemus
e all’ambiente del Vulcano Laziale. Non un caso episodico e fortui-
to, perciò, ma una serie di particolari importanti che prima lasciano
perplessi, ma che poi -superata la sorpresa iniziale- diventano asso-
lutamente convicenti.
L’aver tratto da questi luoghi l’ispirazione per l’ambientazione
della Divina Commedia, se poteva essere un ulteriore, prestigioso
elemento per quella valorizzazione del territorio che da anni cerco
di perseguire per i luoghi dove sono nato e vissuto, non era, però, di
molto aiuto per la comprensione del significato nascosto dei versi
fondamentali del poema dantesco.
Tutto questo, però, doveva fare prima i conti con la possibilità
materiale che Dante conoscesse i luoghi un tempo dedicati a Diana.
Poteva Dante aver visitato i Colli Albani?
Era questa l’obiezione più importante che mi veniva rivolta dagli
esperti dantisti locali.
Con sicurezza mi si diceva:”Dante non può essersi ispirato ai
Colli Albani per un motivo molto semplice: non è mai venuto da
queste parti”.
Era vero. Nessuna biografia di Dante ha riferito mai di un suo
viaggio sui Colli Albani, ma, allo stesso modo, nessun documento
attesta con certezza la sua venuta a Roma. Come mai tutti i biogra-
fi danno la presenza a Roma di Dante come sicura?
Non essendoci notizie certe, la cosa si presume avvenuta perché,
nel XVIII canto dell’Inferno il poeta dà la prova della sua presenza
romana per la descrizione che fa dei luoghi dove passavano i pelle-
grini a Roma per il Giubileo del 1300. Vediamo:
Nel fondo erano ignudi i peccatori:
dal mezzo in qua ci venìen verso ‘l volto,
27. di là con noi, ma con passi maggiori,
come i Roman per l’esercito molto,
l’anno del giubileo, su per lo ponte
30. hanno a passar la gente modo colto,
La Via di Dante 23
che da un lato tutti hanno la fronte
verso ‘l castello e vanno a Santo Pietro;
33. da l’altra sponda vanno verso ‘l monte.
I commentatori, da questo passo rilevano che Dante racconta,
per averlo visto, quello che accadeva a Roma durante il giubileo del
1300, quando folle di pellegrini si accalcavano su ponte
Sant’Angelo. Per evitare confusione i pellegrini furono fatti proce-
dere in modo colto, cioè in maniera ordinata: da un lato coloro che
andavano verso la basilica di San Pietro, dall’altro lato quelli che
tornando dalla basilica procedevano verso Monte Giordano, la pic-
cola collina prospiciente la Mole Adriana, nota allora per esservi
sorte le case degli Orsini.
Come abbiamo visto anche Ossola sostiene che Dante, a Roma
per il giubileo, non poteva non aver visitato Santa Maria Maggiore
dove non poteva non aver visto i recentissimi mosaici, uno dei quali
raffigurava la morte della Madonna mentre la sua anima bambina è
in braccio a Gesù, raffigurato dietro la madre morente.
Ma se quanto riporta Dante su Roma -che poteva benissimo
essergli stato riferito anche nei minimi particolari- diventa la
prova della sua presenza nell’Urbe, perché non riconoscere nei
versi del primo canto dell’Inferno e in quelli del canto finale e dei
primi e degli ultimi canti del Purgatorio le descrizioni di luoghi
facilmente visibili e caratteristici dei Colli Albani? Solo perché il
poeta non cita i luoghi? E come poteva farlo se quei luoghi erano,
nel poema, simbolici, a differenza della citazione delle vie di Roma
che erano il luogo dove si svolgeva l’azione? Per i Colli Albani
dobbiamo saper interpretare la verità che si cela dietro i simboli.
Sapere, comunque, che Dante poteva essersi ispirato alla scena del
cratere nemorense non aggiungeva molto alla comprensione dei
significati nascosti dell’opera, ma fare quella connessione tra Divina
Commedia e nemus è stato fondamentale per cogliere l’altra occasio-
ne determinante: quella della possibile scoperta del quarto senso del-
l’opera, o, almeno, quello di quei versi sempre rimasti misteriosi non
ostante le innumerevoli ipotesi avanzate da tutti i critici. Il loro senso
nascosto non poteva essere compreso se prima non si fosse scoperto
quello che solo Dante e pochi altri, allora, conoscevano.
24 La Via di Dante
Il nemus sembrava fornire, insomma, la chiave di lettura per
interpretare nel senso giusto non solo alcuni versi della Commedia,
ma anche, con quelli, il suo tema generale, quello più oscuro,
cogliendone il significato più recondito.
Diventava possibile capire lo scopo primo del Poema e com-
prendere appieno il suo significato più autentico e profondo: quel
misterioso quarto senso cui accenna Guénon.
In realtà mi sembrava un po’ troppo.
Nessun esperto conoscitore della vita e delle opere di Dante era
mai arrivato a tanto. Possibile che un simile risultato potevo otte-
nerlo io che la Divina Commedia l’avevo letta soltanto ai tempi del
liceo, ormai lontani oltre un quarantennio?
La risposta, però, poteva anche essere positiva perché determi-
nante per questa scoperta non era tanto la mia conoscenza appro-
fondita dell’opera dantesca, cosa che certamente non avevo, quanto
quella dell’antichissima storia del cratere nemorense che mi aveva
portato a fare continui collegamenti tra eventi storici o mitici di
carattere universale e il cratere nemorense.
In questo tipo di ricerche, invece, stavo diventando un autentico
esperto, l’unico forse. Mi stavo rendendo conto che studiare Dante
senza la conoscenza dell’essenza profonda del nemus aricinum
-cosa che i commemtatori danteschi non si sono mai preoccupati di
avere- non poteva portare alla scoperta della chiave di lettura giusta
per comprendere il significato che Dante ha nascosto nei suoi versi.
Questo era ormai il mio convincimento.
Per questo non dovevo considerarmi un illuso o un esaltato, ma
un privilegiato cui era capitata un’imprevedibile quanto eccezional-
mente fortunata opportunità: avere in mano la giusta chiave di let-
tura per comprendere finalmente il significato che Dante aveva
nascosto in alcuni versi della sua opera maggiore. Ero riuscito a fare
proprio io quei collegamenti per aver letto -per caso, ma non trop-
po- due opere che mi avevano dato quasi le prove che Dante si era
veramente ispirato sia all’ambiente fisico dei Colli Albani, sia alla
loro antica storia e tradizione per ambientare le due prime cantiche
e che la conoscenza di altri segreti -che con le sue opere ora Adriano
Petta rivelava- gli aveva consentito di immaginare e tradurre in sublime
La Via di Dante 25
poesia la sua più famosa ed oscura profezia, quella del veltro.
Ancora una volta, un’idea che definire, all’inizio, “ardita” pote-
va apparire un benevolo eufemismo, si rivelava, con l’acquisizione
delle informazioni giuste, un’intuizione vincente.
Come è stato possibile? Qual è, infine, quella storia illuminante?
Prima di dare una risposta accettabile a questi interrogativi biso-
gna compiere un ulteriore sforzo: rivedere i fatti della storia esami-
nandoli con meno pregiudizi e con maggiore obiettività.
La conoscenza del significato nascosto -il vero motivo per cui
Dante scrive-, potevo ora comprenderlo bene, era motivo sufficien-
te per far fare una fine violenta e prematura anche al Vate, come era
toccato a molti altri personaggi in quei periodi oscuri e tormentati,
quando il rogo o il veleno non si lesinavano ai nemici -veri o pre-
sunti- della Chiesa di Roma.
Dante era riuscito a sfuggire a questo destino? Vedremo.
Quella nuova storia illuminante riguardava Giordano de Nemore
o Nemorario o Giovanni de Sacrobosco, un importante personag-
gio, matematico ed astronomo vissuto nel 1200, autenticamente sto-
rico -anche se non riportato dai comuni libri di testo scolastici- a me
completamente ignoto. La sua conoscenza fatta attraverso Eresia
pura e Roghi Fatui, opere di Adriano Petta, un appassionato di sto-
ria e, come me, non un cattedratico, ora ritengo sia diventata fonda-
mentale per comprendere appieno anche alcuni degli eventi cultu-
rali e politici importanti accaduti dal XIII al XVII secolo. Una sto-
ria che inizia ancora una volta sulle rive del lago di Nemi -o meglio,
sulla Pèntima del Piccione, l’alta rupe su cui sorge la maestosa
torre di Nemi- per interessare tutta l’umanità, un evento ricorrente
per l’antico nemus.
Quella storia mi confermava ancor più che non solo il luogo che
io ipotizzavo essere stato il modello che aveva ispirato la scena
della Divina Commedia era proprio il nemus, ma che questo posto,
regno di Diana, la dea misteriosa del sapere occulto oltre che della
“caccia”, aveva tramandato -non a caso- segretamente proprio la
“fonte del sapere antico”. E quel sapere antico e sconosciuto a tutti
mostrava invece di avere Dante.
Quel sapere aveva scoperto Giordano de Nemore che, sorpreso
26 La Via di Dante
NEMI, LA TORRE ANTICA.
È la torre più antica dei Castelli Romani, raffigurata com’era nel XV secolo in un affre-
sco dipinto all’interno della grotta del romitorio di Sant’Arcangelo e in uno schizzo di
G. Tommasetti, ripreso dallo stesso dipinto.
La torre è già parte dell’oppidum, citato in documenti ufficiali d’archivio nel 1145, dive-
nuto, poi, castrum nel 1183.
Dante ha visto, perciò, nel 1300, la parte più antica di Nemi con la sua alta torre, un vero
e proprio fortilizio in cui si potevano ben custodire i documenti segreti di cui parla
Adriano Petta nel suo libro, Eresia Pura.
La Via di Dante 27
a consultarlo, cosa assolutamente vietata, per salvarsi era fuggito
dalla torre di Nemi. Proprio lì, sull’alta rupe e nella torre, infatti,
secondo Petta, le opere che tramandavano le antiche conoscenze
erano rimaste segretamente occultate per sei secoli.
Quelle opere erano giunte dall’oriente nel 663 d.C. portate da
Aser, un giovane a cui l’aveva affidate Anania di Shirak, un grande
erudito armeno, allo scopo di tramandarle ed utilizzarle.
L’Autore immaginava che Giordano, dopo essere stato scoperto
dal papa Innocenzo III e da Arnauld-Amaury, abate di Cîteax, capo
dei Cistercensi, che nella torre di Nemi avevano deciso la strage dei
Catari per la loro perdurante eresia (i Catari erano accusati di gno-
sticismo), avesse raggiunto la salvezza percorrendo l’antichissimo
cunicolo dell’emissario del lago di Nemi, per finire a Vallericcia e
da qui giungere prima ad Ostia e poi nella regione francese dei
Catari, la stessa dove era nato l’Ordine dei Cavalieri del Tempio. I
volumi contenenti quelle conoscenze Giordano de Nemore li aveva
poi ritrovati -alla fine della sua vita- nell’abbazia benedettina di
Santa Colomba a Sens in Francia, e da qui li aveva trafugati e messi
segretamente in salvo.
Tra queste conoscenze ce n’era una in particolare -che Adriano
Petta svela nella seconda parte della storia, Roghi Fatui- che diven-
ta determinante per decifrare la profezia più misteriosa della
Commedia, quella del veltro.
Tutte quelle antichissime conoscenze, comunque, la Chiesa
osteggiava sopra ogni altra cosa e non esitava ad annientare chi
osava propagarle.
Non a caso, allora, Dante, che quel sapere occulto in qualche
modo doveva conoscere, veniva considerato molto vicino agli
Albigesi o Catari, e comunque vicino alle posizioni di quegli ereti-
ci, perseguitati dalla Chiesa romana perché ricercavano la cono-
scenza come bene supremo, identificandola con Dio. Lo gnostici-
smo, fin dalle origini del cristianesimo considerato eretico, era
sopravvissuto proprio nella regione dei Catari che forse non a caso
aveva visto nascere anche l’Ordine dei Templari.
Giova ricordare che la Chiesa condusse una vera e propria cro-
ciata contro i Catari e non si fermò se non quando ebbe sterminato
28 La Via di Dante
i detentori di quella conoscenza che era considerata una pericolo-
sissima eresia. Chi non ricorda, per esempio, che lo stesso Galileo
Galilei, ai primi del XVII secolo, rischiò di finire sul rogo per le sue
teorie sulla forma ed il funzionamento del sistema solare?
Nel 1300 anche la sfericità della Terra era ignorata e nulla si
sapeva di molte altre conoscenze antiche orientali tra cui anche
quella dei numeri indiani oggi noti come numeri arabi: quelli che
ormai tutto il mondo utilizza in matematica e nella vita. Quei nume-
ri, ci racconta Petta, per la Chiesa del XIII secolo, potevano essere
usati esclusivamente per il commercio ed erano assolutamente proi-
biti per lo studio dell’astronomia, cosa che poteva comportare il
rischio di finire sul rogo.
Con i Catari, sul rogo immane di Montségur, era finito nel 1244
anche Giordano de Nemore che quei numeri aveva scoperto nella
torre di Nemi e aveva trasmesso al matematico Fibonacci. Proprio
in extremis era riuscito a mettere in salvo molte delle conoscenze un
tempo conservate in quella torre alta sul lago nemorense.
Quella storia fu per me una lettura folgorante!
Le notizie sbalorditive del romanzo storico completo di Petta
-comprendente anche la seconda parte, Roghi Fatui- chiudevano
definitivamente il cerchio.
Era l’ultimo elemento, l’anello a me mancante per individuare i
segreti nascosti nel quarto, segretissimo significato celato
dall’Autore nell’opera sua divina.
E la conoscenza del quarto senso finalmente
squarcia il velame che nasconde la dottrina
La Via di Dante 29
I COLLI ALBANI: Il modello della scena
Torniamo ai luoghi ispiratori della scena del viaggio dantesco.
Non intendo riferirmi ai luoghi simbolici che Dante sceglie per
organizzare il suo viaggio nel mondo dei morti e delle anime cele-
sti. Questo è quello che tutti i critici e gli studiosi di Dante sanno ed
indicano: l’inferno è posto sotto la città di Gerusalemme e il monte
del Purgatorio è ai suoi antipodi. Da notare soltanto che già solo da
questa affermazione si deduce che Dante conosce perfettamente la
forma sferica della Terra, conoscenza, come abbiamo appena visto,
non proprio diffusa ai suoi tempi!
Proprio il ragionamento contenuto nella lettera di Dante a
Cangrande della Scala, secondo la quale ogni cosa cantata da Dante
nella Commedia è frutto di una sua reale osservazione e di espe-
rienze vissute, fa ritenere che proprio l’ambiente in cui il poeta fa
svolgere le vicende principali dev’essergli stato ispirato da uno o
più luoghi reali da lui visitati e ritenuti particolarmente affascinanti
e ricchi di significati simbolici, comunque tali da poterli trasforma-
re in quelli dove si svolge il suo fantastico viaggio.
Ma quali possono essere questi luoghi?.
Insomma, dov’è che Dante ha “visto” veramente e fisicamente
l’ingresso all’Inferno e quale monte gli ha ispirato quello dove
ubica il Purgatorio? Dov’è la “selva oscura” reale e qual è la mate-
riale “diritta via” smarrita? Potevano essere, questi luoghi, ubicati
sui Colli Albani e qui osservati dal Poeta?
Vediamolo, ma andiamo con ordine.
La Via di Dante 31
FRAZER, VIRGILIO ed il VI canto dell’Eneide
Lo spunto per la mia indagine era stato offerto dall’attenta lettu-
ra di un brano di James G. Frazer, autore del celeberrimo e già ricor-
dato Il Ramo d’Oro.
“Nel recinto del santuario di Nemi cresceva un albero da cui non
era lecito spezzare alcun ramo. Soltanto uno schiavo fuggitivo, se
ci fosse riuscito, poteva spezzarne uno. In questo caso egli aveva il
diritto di battersi col sacerdote, e, se l’uccideva, regnava in sua
vece col titolo di re del bosco, rex nemorensis. Secondo l’opinione
degli antichi, questo ramo fatale si identificava con quel ramo
d’oro che Enea colse per invito della Sibilla prima di accingersi
al suo periglioso viaggio nel regno dei morti”.
James G. Frazer Il Ramo d’Oro.edizione Boringhieri, pag. 10.
32 La Via di Dante
con lento corso livido fluendo.
195 Ma se hai tanto amore e tanta brama
di varcar due volte il lago stigio
e di veder due volte il negro Tàrtaro;
se vuoi tentare questa folle impresa,
or odi quello che compir tu devi.
200 Cèlasi in un’opaca arbore un ramo
che d’oro ha il fusto flèssile e le foglie
e alla Giunone infera è consacrato;
tutta la selva lo ricopre, tutta
lo chiude l’ombra delle valli oscure.
205 Ma scendere non può nelle segrete
vie della Terra chi non abbia còlto
dall’albero l’aurìcomo virgulto,
ché la bella Proserpina prescrisse
che recato le sia per suo tributo;
210 se svelli il primo ne rispunta un altro
pur d’oro, e d’oro il fusto gli s’infronda.
Tu dentro dunque invèstiga con gli occhi
per cercarlo, e come tu lo scorga
spìccalo con la man come è prescritto;
215 esso la seguirà facile e pronto
se te chiamano i Fati; in caso avverso
vincerlo non potrai per forza alcuna,
stroncarlo non potrai con duro ferro...”
Virgilio, Eneide, canto VI, versione e commento di Guido Vitali
Edizioni A.P.E. Mursia
34 La Via di Dante
Albalonga hanno tramandato per quasi cinquecento anni. La profezia
era stata fatta, al figlio Enea, da Anchise. Proprio per raccontare le
modalità di questa profezia e dare ad essa un significato magico e sacro,
il poeta latino fa incontrare l’eroe e suo padre nel mondo dei morti.
Ma può una profezia indicare un evento che già si è verificato?
Sarebbe una contraddizione in termini!
Nella sua storia poetica, Virgilio non può far scendere Enea nel
regno di Proserpina dal vero antro che sa essere vicino all’albero del
Ramo d’Oro e che gli “esperti sacerdotali” del suo tempo indicano
come la vera entrata nell’oltretomba. Questo luogo, il nemus, è già
all’interno del territorio che gli è stato profetizzato come destina-
zione finale e che Enea raggiungerà soltanto dopo l’incontro con il
padre. Dunque Virgilio non fa altro che descrivere il vero ambiente
-la valle craterica del nemus- dove si trova l’antro di ingresso al
regno di Proserpina, che egli ben conosce -e vedremo perché-, ma
poi lo colloca nella zona di Cuma. Insomma, il luogo reale è spo-
stato nello spazio e ubicato altrove solo per esigenze narrative.
Esattamente quello che farà Dante con la selva oscura!
“Ecco la soluzione!” mi ero detto.
Virgilio deve aver spostato il luogo dell’incontro tra Enea ed
Anchise per rendere credibile la profezia.
Nel suo incontro all’Ade, Anchise mostra al figlio tutta la sua
progenie che nascerà dall’unione con Lavinia la figlia del re Latino,
il re del Latium, quando i due popoli avranno raggiunto la pace e
decideranno di unirsi in una sola gente.
Ma per essere certo che egli è giunto nella terra “promessa”
dovrà osservare uno strano avvenimento: i Troiani, stanchi ed affa-
mati per il viaggio si siederanno a tavola e oltre agli scarsi viveri,
mangeranno anche le “mense”. Le mense erano delle dure e roton-
de focacce di grano che venivano poste sulla tavola a mo’ di piatto
non certo per essere mangiate. Ma la fame le fa mangiare agli uomi-
ni di Enea giunti sulle coste del Latium dove oggi sorge
Torvaianica. Da questo particolare Enea, ricordando la profezia
come fattagli dal padre, comprende di essere arrivato nella sua
nuova patria che in realtà era la terra da dove erano partiti i suoi avi.
La Via di Dante 35
LA SCROFA BIANCA e i trenta porcellini
Ai fini del racconto poetico virgiliano, come avrebbe potuto Enea
riconoscere il posto dove fermarsi se i Troiani avessero mangiato le
mense prima del suo incontro con Anchise nel mondo dei morti?
In realtà questa profezia non era venuta nemmeno da Anchise. Non
è riportata durante la visita che Enea fa al padre nell’oltretomba.
L’Eroe dice di ricordare la profezia del padre, ma in realtà, nel
testo virgiliano, la profezia è fatta ad Enea dalle Arpie.
Quando Virgilio racconta l’episodio, invece, lo fa ricordare dal
protagonista come se fosse stato il padre a predirlo.
A questo proposito ed anche per altri passi del Poema virgiliano,
i critici attribuiscono inesattezze o contraddizioni alla mancata revi-
sione finale dell’opera dovuta alla morte prematura dell’Autore.
Virgilio sentiva di non aver potuto completare come voleva il
suo grande poema tanto che lo riteneva non degno di pubblicazio-
ne. Per questo, in punto di morte non esita a pregare il suo grande
amico e protettore Augusto perché distrugga il manoscritto. È una
sua precisa disposizione testamentaria, ma Augusto, riconoscendo
comunque grandissima l’opera del suo amico, anche se incompleta
e difettosa, non ne esegue la volontà e la rende pubblica.
Dobbiamo quindi guardare più alla sostanza che alla forma.
Certo è che la profezia delle mense doveva provenire da Anchise
ed altrettanto certo è che l’evento non si verifica prima dell’arrivo
dei Troiani nel Lazio. Quindi non mi sembra azzardato concludere
che per l’Autore è necessario far incontrare il defunto Anchise ed
Enea quando questi è ancora fuori dei confini del Latium.
Virgilio non avrebbe potuto giustificare la profezia che proprio
la Sibilla cumana fa ad Enea:
120 “... giungeranno
i Dardanidi al regno di Lavinio
(questo timor dall’animo disgombra),
ma non esservi giunti essi vorranno.
Ché guerre io vedo, spaventose guerre
125 e di gran sangue il Tevere schiumante.
Un altro Xanto, un altro Simoènta
36 La Via di Dante
e un altro campo dòrico tu avrai,
e già nel Lazio un altro Achille è sorto
figlio ei pure di Dea...”
La Via di Dante 37
Già, l’antica città di Cuma!
Ma è proprio così? O meglio, poteva essere proprio così?
Vediamo cosa ci dicono gli storici a proposito di Cuma città.
“Cuma: la prima colonia greca in Italia fondata dai greci nel-
l’ottavo secolo a.C.”.
“Euboiche rive” sono definite le spiagge sulle quali sbarca Enea
che cerca la Sibilla Cumana e vuole raggiungere il tempio di Apollo
posto su un’altura. La nota dell’edizione Murzia dell’Eneide spiega:
“Euboiche: dal nome dell’isola Eubea, dalla cui città di
Calcide erano venuti i coloni greci che avevano fondato
Cuma”.
Virgilio, insomma, conosce la grande fama della Sibilla di Cuma e vi
manda Enea perché possa entrare nel regno dei morti con la sua guida.
Virgilio ribadisce il concetto dell’appartenenza di quella terra ai
coloni venuti dall’Eubea:
“Il vasto fianco dell’eubòlica rupe
s’apre in forma d’un antro”...
Per la “Sibilla Cumana” le fonti sostengono che i suoi vaticini
erano dati in una lunga spelonca.
Se oggi ci si reca nella zona dell’antica Cuma si può visitare la
“spelonca” della Sibilla. Ma quello che si vede non è altro che un
lungo cunicolo scavato dai Romani di Agrippa, il generale genero di
Augusto, nel primo secolo d. C..
E’ il destino di molti luoghi antichi di cui si sono perse le tracce
e di cui ci sono rimaste le indicazioni in opere antiche che non sem-
pre corrispondono alla realtà. Troia, per esempio, prima che
Schliemann ne trovasse i resti, era addirittura ritenuta da tutti gli
esperti come mai esistita, un’invenzione totale di Omero ed invece
è stata una ricca città almeno fino al quarto secolo dopo Cristo
quando è scomparsa definitivamente dalla storia.
Proprio nella florida città di Troia Costantino il Grande voleva spo-
stare la capitale dell’immenso Impero Romano e non era per caso!
Eppure, nonostante questo, gli “storici” del dopo Medio Evo la
consideravano una città nata dalla fantasia di Omero.
Ma di siffatte convinzioni, la mente di storici e critici è a volte
38 La Via di Dante
così piena che non ci si preoccupa nemmeno di fare i più elementa-
ri controlli. Come per la parola “Averno”.
Solo da Virgilio in poi i poeti hanno ritenuto quel luogo -il
lago d’Averno- la sede del mondo dei morti inducendo in tutti
noi moderni un errato convincimento.
Alle mie prime verifiche, il trucco architettato dal grande Virgilio si
stava sgretolando come un castello di sabbia sotto i piedi di un bimbo.
Cominciavo a trovare il bandolo della matassa.
Il racconto di Virgilio era davvero un artificio credibile per i roma-
ni del suo tempo. Essi avevano perduto il senso del tempo delle ori-
gini e potevano credere che la Sibilla Cumana fosse stata l’interlocu-
trice di Enea perché la tenevano in grande considerazione e sembra-
va fosse stata in quella città da sempre. La Sibilla e i suoi oracoli, rac-
colti nei famosissimi Libri Sibillini, conservati nel Tempio di Giove
Capitolino e consultati ancora da Massensio prima dello scontro deci-
sivo con Costantino, erano sempre stati sacri per tutti i romani.
Come tutti i popoli antichi, anche i Romani credevano forte-
mente negli oracoli, nella possibilità di interventi divini nelle cose
umane, e in quella di discendere realmente da un dio o da una dea.
Per loro, luoghi come l’antro della Sibilla di Cuma erano assoluta-
mente tabù e venerati come autenticamente sacri, ma di questi luo-
ghi noi a volte, come nel caso dell’antro della Sibilla cumana,
abbiamo perso ogni traccia e non ne conosciamo più il vero signifi-
cato che gli antichi davano loro.
Chi poteva sapere e ricordare che la città di Cuma era stata fon-
data dai Greci a metà dell’ottavo secolo a.C.? Forse nessuno.
Dunque il trucco reggeva bene.
Perché “trucco”?
Semplice. Finché i greci non fondano Cuma, quella zona è una landa
desolata e disabitata. I miasmi che si sprigionano dal terreno ne fanno un
luogo impraticabile da cui è opportuno tenersi lontani, dunque sono certa-
mente inabitati. Ma c’è di più. Enea giunge in Italia pochi anni dopo la
caduta della sua città, Troia, cosa che avviene intorno all’anno 1180 a.C.,
cioè oltre quattro secoli prima della fondazione di Cuma: è perciò molto
improbabile che si sia fermato proprio lì perché non essendoci ancora la
città di Cuma, è difficile ci potessero essere già il tempio di Apollo e quel-
La Via di Dante 39
lo di Diana muniti anche di Sibilla. Almeno della Sibilla come siamo abi-
tuati a considerarla noi: una donna con particolari doti divinatorie. A meno
che non accettiamo l’idea che lì possa esserci stato un luogo particola-
re dove a mezzo di strane “pietre” qualcuno era veramente in diretto
“contatto” con la divinità. Non la divinità come oggi noi la intendiamo,
ma la divinità come allora era intesa: un essere del tutto simile all’uo-
mo solo con conoscenze molto diverse da quelle degli uomini comuni.
Comunque, Cuma, come città, non esisteva ancora.
Ma questo particolare ai critici è sempre sfuggito, tanto che un
grande studioso come Geymonat pubblica la planimetria della zona
con tanto di tempio di Apollo, indicato come tempio della città di
Cuma che ancora non esiste perché i Greci arriveranno lì, per stabi-
lirvisi, quattro secoli dopo! Ma anche ammesso che già lì eserciti le
sue funzioni una Sibilla, il luogo è talmente bruciato dallo zolfo che
nelle sue vicinanze -e tanto vicina da essere un tutt’uno con il lago
come sembra indicare Geymonat- non vi può esistere una selva fitta
e oscura. E non una selva qualsiasi, ma quella al cui interno c’è una
radura con al centro l’albero sacro con il ramo d’oro!
La tradizione dell’albero del ramo d’oro, invece, è parte inte-
grante del rituale primordiale del nemus anche al di fuori dell’ope-
ra di Virgilio. Mai accenno alcuno se ne fa da altri autori, al di fuori
di Virgilio, nel bosco del lago Averno. Anzi, dell’Averno come
regno dei morti, come abbiamo appena visto, se ne comincia a par-
lare solo dopo l’Eneide, dando per scontato ed esatto quello che
afferma il Poeta. Ma non era così.
A Virgilio, insomma, serve che l’eroe troiano incontri il padre in
un luogo che sia ancora lontano dal Lazio, perciò gli fa strappare in
un imprecisato bosco vicino al lago Averno il ramo d’oro dell’albe-
ro sacro che in realtà è nel nemus aricinum, come egli sa benissimo.
La scena si sposta così in Campania per consentire alla Sibilla e ad
Anchise di fare le loro profezie. Virgilio sarà preso sul serio da tutti
i poeti che verranno dopo di lui e la fama di Cuma sarà assicurata
per tutti come la città nei pressi della quale si apriva l’antro che con-
duceva nel regno dei morti!
Ecco, questa era un’argomentazione che cominciava ad essere,
per me, convincente.
40 La Via di Dante
C’era, però, da verificare quali potevano essere le conoscenze di
Virgilio sul ramo d’oro, sul nemus, sul rex nemorensis e sulla sua
funzione di custode dell’albero e sacerdote della dea Diana che,
come è noto, nella sua accezione infera si identifica con Proserpina.
Senza questa prova la mia teoria rimaneva pura fantasia, buona
solo per le mie storie fantastiche sul lago di Nemi.
Ho dovuto aspettare l’anno 2000 per trovare la prova della bontà
di quella ipotesi che, con la nuova testimonianza, diventava certez-
za assoluta.
Il testimone era niente meno che Gaio Ottaviano Turino divenu-
to prima Cesare e poi Augusto, l’uomo più potente del mondo anti-
co, e la sua testimonianza preziosa era contenuta nell’opera appena
giunta in libreria (siamo nell’estate del 2000), intitolata “Augusto,
il grande imperatore”. Era la versione rielaborata dallo scrittore
inglese Allan Massie dell’autobiografia del primo imperatore roma-
no, appena edita in Italia per i tipi della Newton Compton.
Anche se il linguaggio era reso più moderno dall’abilità dello
scrittore, il contenuto era l’autentico racconto che della propria vita
faceva Augusto. L’opera, che ormai tutti ritenevano perduta per
sempre, era stata rinvenuta in un convento in Macedonia durante
lavori di restauro che avevano portato alla scoperta di una cella
dalla porta murata. All’interno della cella si era scoperto il mano-
scritto in latino risalente almeno al 1300. Il testo, esaminato dai più
grandi esperti latinisti d’Europa, era risultato autentico e certamen-
te dovuto alla penna dell’imperatore.
Per me fu una rivelazione sorprendente e la prova definitiva che
l’ipotesi che avevo avanzato era corretta.
Il testimone era proprio Augusto che riferiva da una parte il pensie-
ro di Virgilio sul rex nemorensis e dall’altra riportava le convinzioni
degli “esperti sacerdotali” -che Virgilio, consulente ed amico intimo di
Augusto, non poteva ignorare- secondo i quali l’ingresso all’Averno -o
meglio, al mondo dei morti- era ubicato nella valle del lago nemorense.
In più, Augusto riferiva il suo incontro con il rex nemorensis in
carica in occasione di una visita al bosco sacro a Diana.
Vediamo, però, nel dettaglio i due eventi.
La Via di Dante 41
VIRGILIO E AUGUSTO
Siamo alla resa dei conti tra Augusto e Marcantonio.
Virgilio è stato convocato da Augusto nella sua villa sul lago che
oggi prende il nome dalla città di Castel Gandolfo. Il problema da
affrontare non è di poco conto: è il più importante della vita di
Ottaviano Cesare (non ancora Augusto). Si tratta di decidere se e
come violare il tempio delle Vestali per recuperare e rendere pub-
blico il testamento che vi ha depositato Marcantonio.
Una decisione terribile per chiunque.
Violare la sacralità del tempio di Vesta significava porsi fuori da
ogni regola e rischiare la reazione negativa di tutto il popolo di
Roma e una possibile condanna a morte. Virgilio si deve esprimere
su questo. Ma in gioco c’è il futuro dell’Impero di Roma perché con
il suo testamento Marcantonio ha deciso il futuro delle provincie
orientali, Egitto compreso, che sono sotto il suo diretto controllo e
che ha affidato, nel testamento, a Cesarione, il figlio di Cesare e
Cleopatra. Si rischia così la frattura dell’Impero e la ripresa di lun-
ghe e sanguinose guerre civili.
Virgilio affronta l’argomento ricordando all’amico sia l’esempio
di Coriolano che si ritirò nei suoi campi non appena concluso il suo
mandato, sia quello del custode dell’albero sacro e del tempio di
Diana, il rex nemorensis.
“Cesare”, continuò, “so poco di storia e meno ancora di
politica. Ma ascolta. Cincinnato è la leggenda; egli appar-
tiene ad un mondo giovane dove tutto era semplice e chiaro,
e agire bene trovava la sua ricompensa nella serenità d’a-
nimo. In quanto leggenda, è per i bambini, è un ideale che
serve loro da esempio per capire ed ammirare ciò che è
buono, onesto e vero. Ma il sacerdote di Diana che sta a guar-
dia del Ramo d’Oro e del Tempio di Nemi non è leggenda, ma
mito che rivela la verità agli uomini celandola nell’oscurità. Il
mondo è andato oltre Cincinnato, e tu non puoi mettere da parte
la toga e tornare all’aratro. Tu sei destinato ad aggirarti guardin-
go con la spada sguainata intorno al Tempio che è Roma.
Perdonami”. Sorrise tristemente e posò la sua mano sulla mia in
segno di comprensione e compassione.
A. Massie, Augusto il grande imperatore, pag. 131 Newton Compton Editori
42 La Via di Dante
Il messaggio è chiaro e forte: per il bene di Roma, Ottaviano non
può fare come Cincinnato, ritirarsi, ma deve vigilare come fa il rex
nemorensis, giorno e notte, per difendere il nuovo Tempio: Roma.
Dopo molti anni, forse diciannove, Ottaviano, ormai Augusto,
ricorda con nostalgia l’incontro con Virgilio e pensa di andare ad
incontrare il rex nemorensis e a vedere il Tempio di Diana.
Da Ariccia, la città natale di sua madre dove la famiglia Giulia
ha grandi possedimenti, si fa condurre in portantina fino al lago di
Diana. Ecco come racconta l’evento.
“L’altro giorno ho avuto uno strano capriccio. Stavo pensando,
come faccio spesso, a Virgilio, e ripensai alla nostra conversa-
zione su Cincinnato e il sacerdote di Diana nemorense. Mi
venne in mente che, benché ci fossi nato vicino, non avevo mai
visto il tempio di Diana, né il sacerdote che sta a guardia del
santuario e che è conosciuto come Re del Bosco; e poi lessi di
nuovo il Libro sesto dell’Eneide quel nobile brano in cui la
Sibilla dice ad Enea:
O nato da sangue divino, Troiano figlio di Anchise, scen-
dere all’Ade è facile: la nera porta di Dite è spalancata di
notte e di giorno...
e continua raccontandogli che per accedere agli Inferi egli deve
prima sradicare il Ramo d’Oro dall’albero consacrato alla
Giunone degli inferi, dato che Proserpina ha decretato che glie-
lo si debba presentare come offerta votiva. Ora l’Averno è
localizzato dagli esperti di cose sacerdotali sulle sponde
del lago di Ariccia, e l’albero sacro all’interno del santua-
rio di Diana.”
A. Massie, Augusto il grande imperatore, pag. 289.Newton Compton Editori
44 La Via di Dante
stato il primo e vero luogo simbolo di vita e di morte: il nemus.
Dunque, il bosco che Virgilio fa attraversare ad Enea è in realtà
il nemus e non può essere altro che il nemus, anche se nell’Eneide
sposta la scena vicino al lago Averno.
Questo sa bene Virgilio, ma Dante come fa a saperlo?
Dante lo sa perché ha letto il libro di Augusto!
Quest’ipotesi può ancora una volta sembrare forzata, se non pro-
prio cervellottica, ma, a ben guardare, non è così.
Vediamo perché.
Intanto, oggi sappiamo che qualche copia di quell’autobiografia
del Grande Imperatore circolava ancora ai tempi di Dante. La prova
è proprio quella ritrovata nel monastero macedone. Sappiamo anche
che dopo l’epoca di Dante, molti libri furono bruciati in seguito a
“purghe” dettate anche dal desiderio di tutelare la salute pubblica.
Pochi sanno, per esempio, che gli archivi della Diocesi di Albano
non conservano più documenti che risalgono a prima del ‘600. Il
motivo è di tipo igienico. Allo scoppio di una terribile pestilenza, la
responsabilità del morbo fu data alla polvere accumulata dai libri
conservati negli archivi e nelle biblioteche. Ad Albano fu bruciato
l’intero archivio diocesano! Siccome i libri erano conservati o in
luoghi legati al culto o in biblioteche di case di nobili, in caso di
pestilenze tutti i documenti sia degli archivi privati che pubblici
rischiavano di fare la stessa fine: arsi in un rogo in mezzo ad una
piazza.
Ma questo non basta. Potevano essere anche molte le copie in
circolazione e Dante avrebbe potuto lo stesso ignorarle.
Perché, allora, questa mia certezza contraria?
Perché alcuni passi del racconto di Augusto si ritrovano -quasi
con le stesse parole- nella Divina Commedia e i riferimenti sono
così precisi da non lasciare alcun dubbio.
Vediamoli insieme.
Quando Augusto, procedendo in portantina, inizia la discesa
verso il lago ed entra nel bosco così si esprime:
“Scendemmo dalla collina per un sentiero tortuoso in un intenso
silenzio. Non c’erano né cinguettii d’uccelli né refoli di vento tra
il fogliame. Perfino l’ansare e lo sforzo dei miei portatori sem-
brava un’offesa”.
La Via di Dante 45
E Dante entrando nella selva del Paradiso Terrestre, Canto
XXVIII del Purgatorio, scrive:
7. Un’aura dolce, sanza mutamento
avere in sé, mi ferìa per la fronte
non di più colpo che soave vento;
10. per cui le fronde, tremolando, pronte
tutte quante piegavano a la parte
u’ la prim’ombra gitta il santo monte;
13. non però dal loro esser dritto sparte
tanto, che li augelletti per le cime
lasciasser d’operare ogne lor arte;”
48 La Via di Dante
E’, perciò, il punto di contatto tra il cielo e la terra.
La forma è quasi perfetta a tronco di cono e la sua sommità era
di forma arrotondata e ricoperta di alberi. Quale migliore ubicazio-
ne e quale più appropriata forma poteva trovarsi per l’ambientazio-
ne del Paradiso Terrestre?
Già, proprio il Paradiso terrestre!
E’ quello che Dante pone sul suo Purgatorio.
C’è addirittura anche una sella alle pendici del monte, che si
chiama Prato Fabio, che sembra il modello del luogo dove vengono
scaricate le anime dirette al Purgatorio.
Ecco, in questo ambiente naturale, ricco di valli, di laghi, di
monti, di boschi, di cunicoli come l’emissario del lago di Nemi con
i suoi pozzi di ventilazione verticali, Dante può aver concepito la
scena completa dell’opera, indipendentemente poi dall’ubicazione
che ne darà simbolicamente e dai significati reconditi che acquiste-
ranno le sue descrizioni poetiche.
Ora, alla luce di quanto osservato, possiamo comprendere appie-
no il significato dei suoi versi:
O Muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.
La Via di Dante 49
Dante e Virgilio seguiti dalla lupa che tanto li avrebbe dovuti
spaventare, in un’illustrazione del Doré.
Non avendo compreso il vero significato simbolico dei versi
danteschi, anche il Doré dà un’immagine distorta del significato
dell’opera di Dante.
Lungi dall’essere una belva che terrorizza, la lupa
-in questa scena- sembra più un docile cagnone che segue i
padroni in una passeggiata nel bosco.
Anche gli illustratori hanno contribuito molto alla cattiva
interpretazione dei significati profondi della Divina Commedia.
50 La Via di Dante
LA DIRITTA VIA e le tre belve
1. Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
che la diritta via era smarrita.
54 La Via di Dante
L’Appia Antica era la strada diritta per antonomasia:
un rettifilo di 90 chilometri da Roma a Terracina.
Solo scendendo verso Vallericcia, dall’altezza della Tomba
degli Orazi e Curiazi ad Albano Laziale, fino al culmine
della salita, nel territorio oggi di Genzano di Roma,
smarrisce la sua caratteristica diventando sinuosa,
come si vede dalle planimetrie pubblicate nel volume
Via Appia, da porta Capena ai Colli Albani
di Lorenzo Quilici, Fratelli Palombi Editori, ristampa 1997.
“Smarritasi” la diritta via, insomma, il Poeta si ritrovò
nel nemus, il bosco sacro a Diana nemorense!
La Via di Dante 57
Dopo essersi perduto, il Poeta si ritrova in un luogo basso, che
può bene essere una valle. Immaginiamo veramente di essere nella
valle del lago di Nemi e vediamo se si può riconoscere l’ambiente
dai versi del primo canto.
13. Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,
16. guardai in alto, e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena diritto altrui per ogne calle.
19. Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
Anche qui, chi conosce i luoghi non tarda a sentirli nelle atmo-
sfere create dal poeta. In ogni caso è chiarissimo il riferimento ad
una valle che sta ai piedi di un colle le cui spalle sono illuminate dai
raggi del sole che sorge. E’ esattamente il panorama che si può
ammirare dal bordo del cratere nemorense, dove il Poeta è giunto
venendo dall’Appia Antica e dove si ritrova in un bosco in prossi-
mità del luogo che Virgilio ed Augusto consideravano come l’in-
gresso nel mondo dei morti. Ed anche quel “lago del cor” , anche
se qui ha tutt’altro significato, sembra proprio ispirato al lago di
Nemi e alla sua valle che ritroviamo poi, per intero, nei versi
seguenti.
22. E come quei che con lena affannata
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,
25. così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
58 La Via di Dante
Inizia allora la salita ed ecco un’altra grandissima sorpresa: l’in-
contro con tre belve.
Prima una lonza, o meglio un leopardo o pantera:
31. Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggera e presta molto...
60 La Via di Dante
vero significato che egli dà ai suoi misteriosi enigmi, bisogna esse-
re incappati in un libro strano e straordinario, un’opera che è più di
un “romanzo” che racconta la storia intrecciata delle terribili per-
secuzioni dei Catari e di una misteriosa fonte del sapere che per sei
secoli resta nascosta a Nemi e poi vaga per l’Europa finché non è
rintracciata dal protagonista di quella storia a noi ormai noto:
Giordano de Nemore o Giovanni de Sacrobosco, matematico, astro-
nomo, filosofo finito sul rogo immane che bruciò definitivamente la
resistenza dei Catari nel marzo del 1244 a Montségur.
Quella storia e quella fonte di sapere, a noi moderni del tutto
sconosciuta, Dante mostra, invece, di conoscere molto bene.
Alla luce di questa conoscenza, collegata ai significati simbolici
delle tre fiere, l’opera di Dante acquista un senso preciso, semplice
e chiaro, straordinariamente importante e potente.
L’opera dantesca diventa, allora, un monito terribile lanciato alle
alte sfere ecclesiastiche ed è un atto di grande coraggio e di strenua
resistenza contro lo strapotere papale, retrivo, prepotente, inetto e
corrotto.
Alla luce di queste nuove conoscenze si leggono nel loro auten-
tico significato i versi immortali della Commedia che diventano
opera eccezionale, non favoletta per bambini.
Tutto questo appare straordinariamente evidente alla luce di
quanto era rimasto celato per secoli nell’antica torre del borgo di
Nemi.
Cos’erano mai queste pericolose conoscenze?
Come vi era finito e da dove proveniva quel materiale misterio-
so che nessuno avrebbe dovuto conoscere?
Infine, cosa rappresentano di così terribile quelle tre belve?
Per rispondere alle prime due domande dovrò approfittare della
cortesia di Adriano Petta che mi ha consentito di riprodurre qui
alcuni brani della sua opera straordinaria.
All’ultima domanda potremo rispondere con un ragionamento
più logico di quanto comunemente fanno i commentatori di Dante e
lo possiamo fare solo perché a conoscenza di quanto rivelato da
Petta.
La Via di Dante 61
LA FONTE DEL SAPERE,
Giordano de Nemore e i Catari
Con la fine dell’Impero Romano, il crollo demografico e l’affer-
marsi del Cristianesimo, gran parte dell’immenso patrimonio di
conoscenze degli antichi è perduta.
Le distruzioni del patrimonio culturale dovute ad incendi prodi-
toriamente appiccati alla biblioteca di Alessandria, il centro di cul-
tura più importante di tutta l’antichità, fa regredire l’intera umanità
di molti secoli.
Il Cristianesimo, da parte sua, bandisce, contemporaneamente,
ogni forma di conoscenza che non sia strettamente necessaria o che
non ritiene conforme ai suoi insegnamenti ed occulta nei monasteri
e negli archivi tutto il resto. Per la deperibilità dei materiali usati,
solo la continua trascrizione dei testi può consentire il sopravvivere
degli antichi volumi. E la trascrizione, con l’avvento del monache-
simo cristiano e con la profonda crisi medioevale, avviene ormai
esclusivamente nei conventi sotto il controllo rigido del papato.
La cultura è considerata pericolosa ai fini del controllo e del
governo delle masse per il mantenimento del potere religioso-poli-
tico e per la sopravvivenza della religione che aveva abolito tutte le
altre. Insomma, il dominio culturale e politico ed il mantenimento
del potere da parte dei seguaci di Cristo è legato anche all’ignoran-
za di tutti.
Del resto, la Chiesa non fa che confermare una tradizione che
risale ai primordi dell’umanità: la conoscenza è peculiarità -esclusi-
va- della classe sacerdotale; il gran sacerdote è colui che ha il com-
pito di mantenere il contatto diretto con la divinità.
Anche gli Arabi non scherzano: per loro la conoscenza è il solo
Corano.
Queste non sono interpretazioni storiche nuove. Sono considera-
zioni preliminari che servono solo ad introdurre l’argomento per
comprenderlo appieno.
Nel VII secolo, ma qui entriamo già nel merito delle scoperte di
Adriano Petta, Anania di Shirak, un grande studioso armeno, si
62 La Via di Dante
rende conto che molte delle conoscenze antiche sono destinate a
scomparire. In oriente non c’è alcun interesse ad applicarle ed
Anania si convince che solo l’Europa potrebbe avere la forza e la
volontà di proseguire sulla via della conoscenza e di mettere in pra-
tica le fantastiche scoperte fatte in estremo oriente in campo scien-
tifico e in campo tecnico e tecnologico. Temendo fortemente per
quelle conoscenze di cui è ormai forse l’ultimo custode, incarica tre
suoi allievi di condurle in Europa. Per sicurezza i tre ragazzi pren-
deranno vie diverse sperando che almeno uno potrà depositare in
mani sicure i segreti che porta con sé.
Petta ricostruisce le vicende di uno dei tre, Aser, che va al segui-
to dell’imperatore Costanzo II, diretto in Italia.
Una volta in Italia, lasciato l’imperatore, Aser giunge a Roma.
Dopo aver pregato nel convento delle Acque Salvie, nel luogo,
le Tre Fontane, che la tradizione vuole essere quello del martirio di
San Paolo, si reca nella chiesa di San Pietro in Vincoli dove incon-
tra un dotto prelato romano che lo conduce al tempio di Diana nella
valle del lago di Nemi. Qui, con l’inganno, lo convince a scendere
in una delle grotte del tempio. Prima però, l’ha convinto ad affidar-
gli la borsa contenente i libri del sapere.
Nella grotta c’è materiale infiammabile e Aser finisce bruciato,
come in una specie di rogo ante-litteram.
E’ la fine del mese di luglio dell’anno 663 d.C.
Il contenuto della sua borsa finirà in quella che sarà poi la torre
saracena del Castello di Nemi che ancora oggi svetta superba sul
profondo cratere dominando il nucleo più antico del piccolo villaggio
che intorno ad essa nascerà.
E’ qui che Petta ci fa trovare Giordano de Nemore, converso
cistercense addetto al convento che a Nemi (e a Cynthiano
-Genzano-) i monaci hanno fondato sulle antiche rovine di templi
precedenti.
Girolamo, un confratello più anziano, rivela a Giordano che
nella torre sono gelosamente custoditi dei volumi che contengono
l’antico sapere: proprio quelli sottratti ad Aser quasi sei secoli
prima. Nessuno può vederli, ma qualcosa egli ne ha tratto: sono
numeri strani, i numeri indiani che indicano le quantità da 1 a 9.
La Via di Dante 63
Essi hanno anche un numero nuovo, strano, lo Zefiro, lo zero, un’in-
venzione straordinaria che rivoluzionerà tutta la scienza. In quei
volumi Girolamo racconta di aver intravisto anche disegni di mac-
chine geniali, in grado di rivoluzionare la vita degli uomini.
Giordano non riuscirà a prendere i volumi, ma verrà a cono-
scenza dei piani di papa Innocenzo III e di Arnauld-Amaury,
Ministro Generale dell’Ordine Cistercense, per annientare l’eresia
dei Catari.
Scoperto, Giordano riuscirà a fuggire utilizzando l’antico emis-
sario del lago e, fuggendo verso il mare, raggiungerà Ostia. Prima
di imbarcarsi riuscirà a comunicare la scoperta dei numeri a Ugo
Fibonacci che diverrà uno dei maggiori matematici del suo tempo.
Raggiunta la regione dei Catari, popolo considerato eretico dal
papa romano perché persegue la conoscenza, Giordano comincerà
un’azione per la diffusione del sapere. Dopo la prima grande perse-
cuzione scamperà al massacro dei cittadini di Béziers e scomparirà
per riapparire a Parigi con il nome di Giovanni de Sacrobosco. Sarà
monaco, andrà alla caccia di un testo di Plauto a Citeaux, conosce-
rà e sarà maestro di Ruggero Bacone con il quale tenterà di fabbri-
care la polvere pirica in un estremo, fallito tentativo di salvare la
roccaforte catara di Montségur cinta d’assedio dai crociati del papa.
Riuscirà, però, a recuperare i libri del sapere un tempo conservati a
Nemi e finiti nel monastero di Santa Colomba a Sens e a portarli
con sé a Montségur.
Qui, una delle copie di alcuni volumi è affidata ad una fanciulla
che, dopo essere rimasta nascosta alcuni giorni in una buia grotta,
riuscirà ad arrivare a Magonza dove i volumi saranno conservati dai
suoi discendenti, antenati di Niccolò da Cusa. A Niccolò li affiderà
la madre raccomandandogli estrema riservatezza. Niccolò farà buon
uso dei consigli della madre e arriverà ad essere stimato cardinale,
ma cadrà lo stesso vittima di chi è sempre sulle tracce dell’antico
sapere per occultarlo ancora, finché si potrà.
Saranno coinvolti nell’avventura iniziata da Giordano via via:
- Gutemberg, che utilizzerà non solo gli antichi disegni per
costruire la macchina per stampare, ma anche le istruzioni per
fabbricare i caratteri mobili e la carta;
64 La Via di Dante
- Copernico, che in base alle conoscenze degli astronomi greci
contenute in quei volumi, elaborerà la sua teoria sul movimen-
to degli astri;
- Galileo Galilei, che apprenderà la forma dell’universo e i movi-
menti del sole e dei pianeti per la qual cosa rischierà di finire sul
rogo;
- Giordano Bruno, che, intransigente, manterrà le sue idee e finirà
sul rogo come Giordano de Nemore e, comunque, arso vivo come
Aser.
Questo in estrema sintesi la storia di Giordano e dei segreti
nascosti a Nemi, portati in Italia dal giovane Aser nel 663.
Questa storia illuminò all’istante la mia mente!
La ricostruzione storica di Petta era rivoluzionaria e, come mi
confermò lo stesso Autore, del tutto attendibile. Egli l’aveva verifi-
cata consultando documenti originali sparsi negli archivi di mona-
steri e chiese di mezza Europa. Per quanto mi riguardava, il lavoro
di Petta era decisivo per la comprensione degli eventi e del pensie-
ro dantesco perché si poteva fare, ormai, un collegamento tra quel-
le conoscenze segrete e i versi di Dante.
Ora non potevo più ignorare il fatto che il Vate potesse conosce-
re quei segreti. Dovevo provare a verificare, però, se c’erano tracce
nei versi della Divina Commedia che potessero nascondere quelle
conoscenze.
Non solo il paesaggio doveva aver colpito Dante venuto ai Colli
Albani sulle tracce di Virgilio, ma, forse, l’aveva attirato qui anche
la conoscenza della straordinaria storia di Giordano -personaggio di
grande spessore morto solo pochi anni prima della nascita di Dante-
e delle antiche conoscenze nascoste a Nemi. Tutti questi motivi
potevano averlo spinto a visitare un luogo che doveva veramente
essere unico. La contemporanea presenza in questi luoghi di tanti
misteriosi elementi ricchi di significati simbolici -una volta visto
anche l’ambiente naturale- poteva effettivamente avergli suggerito
l’idea di fondo della scena in cui ambientare la sua grande opera e
chissà cos’altro.
Era un’ipotesi davvero molto suggestiva, ma priva ancora di seri
riscontri, soprattutto per me che ero del tutto digiuno di studi danteschi.
La Via di Dante 65
Ma, ancora una volta, in aiuto arrivò il poco casuale suggeri-
mento del libraio Gianni Ventucci che, a conoscenza delle mie
“ricerche”, mi pose in mano -letteralmente- un libro: L’esoterismo
di Dante, una nuova ristampa a cura dell’Editrice Atanòr di un’ope-
ra di René Guénon.
Nel suo breve trattato, Guénon riportava il pensiero di Aroux che
si domandava se Dante fosse stato Albigese o cristiano.
Gli Albigesi altri non erano che i Catari.
Il primo passo per la dimostrazione del legame di Dante con le
conoscenze di Giordano de Nemore era, dunque, fatto.
Sulla base di questa nuova realtà fu ovvio insistere nella lettura
della Divina Commedia per trovare altri possibili riscontri.
E molti altri indizi Dante li ha davvero lasciati nella sua opera ed
io, ormai, ero in grado di riconoscerli: la conoscenza della Croce del
Sud, della forma sferica della terra, di quel che si trova nell’altro
emisfero e al di là delle colonne d’Ercole. Illuminante è per questo
il canto che narra l’ultimo viaggio di Ulisse di cui dà la rotta che poi
seguirà, in pratica, Magellano e che Dante indica con grande preci-
sione.
Dunque, non era più così ardito pensare a contatti reali tra il
Poeta, i Catari, i Templari e le loro occulte conoscenze.
Questo spiegava ancor più il desiderio di Dante di visitare i Colli
Albani e il lago di Nemi. Non solo la curiosità di vedere i luoghi
cantati da Virgilio, dunque, poteva averlo spinto qui, ma anche il
desiderio di vedere la torre dove il sapere era stato così a lungo
occultato e da dove era partito il grande Giordano de Nemore.
Anche simbolicamente la cosa -l’occultamento del sapere- era
stata in linea con il carattere del luogo.
Il tempio di Diana -dove era finito bruciato vivo Aser- e i suoi
dintorni con il nemus erano i luoghi sacri alla dea che solo la super-
ficialità della prima lettura faceva ritenere la dea della caccia. Per
l’esoterico Dante, Diana-Artemide era molto di più: era la dea della
conoscenza misterica, occulta. Ecco perché il sapere doveva rima-
nere celato proprio qui, nel luogo che, in occidente, più di ogni altro
era deputato a conservare verità nascoste.
E’ proprio la conoscenza del sapere antico che può dare a
66 La Via di Dante
Dante la possibilità di concepire l’idea di fondo della sua opera
immortale. L’aspirazione alla conoscenza e alla larga divulga-
zione del Sapere, occultato con l’inganno e la sopraffazione,
impedita dalla prepotenza terrificante della Chiesa di allora,
diventa lo scopo primo della sua opera.
Il simbolo del sapere è la luce e la luce suprema è Dio.
Tendere alla conoscenza significa tendere al bene supremo, a
Dio.
È l’aspirazione dei Catari-Albigesi, la loro eresia che li condan-
na al rogo perché è esattamente il contrario di quello che vuole la
potenza prima nel mondo medievale: la Chiesa di Roma.
Dire palesemente una cosa simile, ai tempi di Dante, significava
prenotare, dopo una condanna ufficiale, una morte certa e violenta:
il rogo.
Il veleno, invece, in mancanza di una condanna pubblica, era il
mezzo più riservato per una morte silenziosa, clandestina, estiva,
contrabbandabile per morte naturale data -in genere- da febbri
malariche.
Luglio ed agosto erano, allora, i mesi in cui i personaggi scomo-
di per gli interessi della Chiesa Romana si ammalavano.
Generalmente morivano in pochissimi giorni rosi dalle febbri mala-
riche provocate, più che dalle terribili zanzare delle paludi, da stra-
ne sostanze loro propinate con i cibi.
Dante conosce bene le intenzioni del papato e scrive un’allegoria
a più livelli di lettura, con quattro significati possibili noti certamen-
te agli esperti della Chiesa, ma tollerati proprio perché non esplicita-
mente espressi e rimasti, così, non comprensibili alle masse.
Quasi a sfidare i suoi antagonisti, proprio nel primo canto Dante
fa la più celebre e meno decifrabile delle sue profezie. È la più
importante, il cui significato, finora oscuro, è diventato immediata-
mente chiaro oltre che semplice ed inequivocabile, dopo la lettura
dell’opera di Adriano Petta.
Ma per procedere oltre e per ben comprendere, dobbiamo prima
scoprire l’arcano delle tre belve.
La Via di Dante 67
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita...
...
Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì ch’el piè fermo sempre era ‘l più basso.
Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una LONZA leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partìa dinanzi al volto,
anzi ‘mpediva tanto il mio cammino,
ch’io fui per ritornar più volte vòlto.
Temp’era dal principio del mattino,
e ‘l sol montava ‘n sù con quelle stelle
ch’eran con lui, quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse LE TRE BELVE
Le tre belve che Dante
la vista che m’apparve d’un LEONE. incontra nella selva oscura
sono proprio le stesse
Questi parea che contra me venisse -Lonza, Leone, Lupa-
con la testa alta e con rabbiosa fame, che decoravano
sì che parea che l’aere ne temesse. le navi di Caligola.
E’ solo un caso?
Ed una LUPA, che di tutte brame
sembrava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei speranza de l’altezza.
Dante Alighieri, La Divina Commedia,
Inferno, Canto I
68 La Via di Dante
LE TRE BELVE e la profezia del veltro
Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
32. una lonza leggera e presta molto...
...
...ma non sì che paura non mi desse
45. la vista che m’apparve d’un leone...
...
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
51. e molte genti fé già viver grame...
70 La Via di Dante
quello che era stato l’Impero di Roma, costringevano il papa a man-
tenere stretti i vincoli su tutto quello -la cultura in primo luogo- che
poteva costituire un sia pur lontano pericolo per l’ortodossia romana.
Nella torre di Nemi, considerata sotto questo aspetto, era nasco-
sta una vera e propria bomba atomica.
Per un uomo di cultura, insofferente a limiti e divieti come
Dante, chi si opponeva con la forza e con la minaccia di morte al
diffondersi della cultura, come faceva la Chiesa in quei tempi, non
poteva non costituire un nemico mortale da combattere con ogni
mezzo e con tutte le forze.
Per Dante la Chiesa, quella Chiesa, che voleva mantenere integro un
potere illimitato ed intransigente -atteggiamento non nuovo, ma antichis-
simo della casta sacerdotale- che continuamente esercitava anche con la
feroce repressione del dissenso, con l’imposizione dell’abuso sfrontato di
pratiche sessuali innaturali, con un’arroganza del potere senza limiti e con
un’avidità di ricchezza sconfinata, andava combattuta con ogni mezzo.
Ma siccome la stessa Chiesa era anche la depositaria -direttamente o indi-
rettamente- del potere supremo che usava senza alcuno scrupolo, doveva
essere affrontata senza farsi sopprimere. Da qui la necessità per il Poeta
di rivelare le sue conoscenze senza farlo capire, nascondendole sotto
significati occulti, con profezie apparenti, possibili solo perché chi le for-
mula conosce già l’esistenza della cosa o dell’evento profetizzato.
Ecco la chiave di lettura rivoluzionaria: Dante conosce cose
segrete e le profetizza in maniera oscura perché solo chi già sa -i
membri degli Ordini segreti- possa intendere!
Ed ecco perché si sbilancia in una profezia!
Ha la certezza che qualcuno o qualcosa verrà per uccidere la
lupa? Chi o cosa ha in mente?
La lupa è, delle tre belve che ostacolano il suo cammino, l’ani-
male apparentemente meno pericoloso. Dante, però, lo trasforma in
quello più difficile da combattere, quello che sarà vinto solo da un
misterioso, formidabile personaggio:
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
99. e dopo ‘l pasto ha più fame che pria.
Molti son gli animali a cui si ammoglia,
La Via di Dante 71
e più saranno ancora, infin che ‘l veltro
102. verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapienza, amore e virtute,
105. e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
La Via di Dante 73
Come è noto, non solo la Chiesa ha dovuto pagare ingenti danni
materiali per gli abusi commessi, ma Benedetto XVI, nella sua
visita apostolica negli Usa, svoltasi nella seconda metà di aprile
del 2008, ha anche dichiarato la sua profonda vergogna per gli
abusi commessi sui bambini da sacerdoti e vescovi americani! E
non basta. Alla fine di ottobre del 2008 il Papa ha ribadito che non
può diventare sacerdote chi non è in regola dal punto di vista ses-
suale: un gay non sarà ammesso a svolgere le funzioni sacerdotali.
Il Papa ha dovuto chiedere ancora perdono per episodi di pedofi-
lia di sacerdoti e vescovi accaduti anche in Europa ancora fino al
2010, quando, durante il suo pellegrinaggio a Fatima ha ricordato che
tra le rivelazioni della Madonna c’erano anche i terribili fatti di pedo-
filia lamentati.
Ancora.
L’avidità di conquista e di ricchezze a costo di stragi tremende
commesse -da chi esercita l’arroganza del potere e si dedica alla lus-
suria più sfrenata- in nome di un dio che invece predicava rinuncia
completa ai beni terreni e povertà.
La lupa riunisce in sé anche i caratteri delle altre due belve che,
simbolicamente, non rappresentano qui i vizi degli uomini, ma
quelli del più dissoluto e feroce potere che allora era esercitato in
nome di Dio: la Chiesa di Roma. E non la Chiesa Crisitana come
istituzione, ma la sua deviazione incarnata dalle più alte sfere del
clero, dall’élite di uomini arroganti, insaziabili e corrotti che nulla
avevano a che vedere con la parola e l’insegnamento di Cristo .
I difetti simbolicamente rappresentati da Dante, insomma, erano
quelli dei Capi della Chiesa di Roma che decidevano le sorti del-
l’umanità e contro il cui immenso potere era vano porsi senza
esserne schiacciati e sterminati.
Questa Chiesa, con questi Capi, Dante rappresenta simbolica-
mente con la triplice belva che mette paura a Dante.
Mettere fine alla sua prepotenza e restituire agli uomini la
libertà di apprendere è il compito titanico che egli si assume
scrivendo il suo capolavoro.
Il Poeta conosce ciò che Giordano de Nemore ha salvato e sa che
quanto è indicato nel sapere occulto diventerà noto -ed è certo che
74 La Via di Dante
prima o poi la cosa avverrà-, perciò quella belva feroce avrà poco
da vivere ancora. Essa sarà costretta a cedere e, alla fine, sarà scon-
fitta e la sua disfatta sarà per lei molto dolorosa.
Ma cosa sa veramente Dante per esser certo che prima o poi
la sua predizione si avvererà? Chi crede che sia il veltro che
azzannerà la lupa e la farà morir con doglie?
Come fa a conoscerlo così bene, tanto da profetizzarne l’avvento?
Ecco, l’indecifrabile profezia del veltro rappresenta quanto di
più oscuro ci sia nella Divina Commedia.
Non è, però, una profezia teorica, una fantasia del Poeta che pre-
figura un’improbabile sconfitta del Male attraverso un nuovo
Salvatore. Non è, insomma, una profezia campata per aria, pura-
mente simbolica, ma una deduzione logica.
Per questo, non si riferisce ad un personaggio futuro che Dante
non potrebbe conoscere, né prevedere; e non è nemmeno un perso-
naggio del suo tempo per il semplice motivo che il Veltro non è una
persona, ma una cosa -una macchina- che, pur essendo nota ai
Catari, ancora non è stata costruita. Dante la conosce, o meglio, ne
conosce i principi ispiratori e sa a cosa serve, ma non può dirlo per
non comprometterne la realizzazione e rischiare di finire sul rogo
inutilmente. Perciò la predice parlando per simbolismi ermetici il
cui significato non può essere compreso se non dai pochi iniziati
che ne hanno cognizione.
Dante parla per simbolismi dietro i quali nasconde la verità. E la
nasconde così bene che quel segreto è arrivato fino a noi.
Analizziamo, allora, il suo ragionamento simbolico, senza per-
derci, come hanno fatto tutti i critici dell’opera dantesca finora, die-
tro ad improponibili ipotesi di personaggi storici che nelle intenzio-
ni di Dante avrebbero dovuto impersonare il veltro.
Tra le infinite interpretazioni, riporto qui di seguito quella data
da Natalino Sapegno, uno dei più illustri e profondi conoscitori e
commentatori dell’opera di Dante in generale e della Divina
Commedia in particolare. Traggo il testo dal suo commento ai versi
101-105 del primo canto dell’Inferno dell’edizione del 1986 della
“Divina Commedia - Inferno” dell’editrice La nuova Italia, pag. 13.
101. ‘l veltro: per combattere e vincere la lupa occorre un veltro, e
La Via di Dante 75
cioè un cane da caccia ben addestrato e veloce. E poiché nella lupa
è rappresentata l’avarizia o la cupidigia, come causa fondamentale
del disordine civile e morale dell’umanità, il veltro dovrà rappre-
sentare, nella mente di Dante, un’azione di riforma promossa da
dio, che perseguita la cupidigia per ogni villa, cacciandola ovunque
essa si annidi, e ristabilendo nel mondo tutto, e particolarmente
nell’Italia (vv. 106-108), l’ordine e la giustizia.
La Via di Dante 77
ipotesi, mi allunga una fotocopia di una pubblicazione in cui si sve-
lano alcuni “misteri” della Divina Commedia ancora incompresi.
In particolare il primo ed il più famoso di tutti: quello della pro-
fezia del veltro.
La spiegazione che io dò di questo mistero è semplice, ma com-
porta la conoscenza di cose che finora sono rimaste sconosciute.
La prima era capire chi fosse il veltro.
A quale personaggio alludeva Dante?
La seconda era comprendere il vero significato di quel “tra fel-
tro e feltro”.
Non rivelerò qui il significato intero di questa profezia riman-
dando i lettori al mio libro di prossima pubblicazione, “La via di
Dante, dall’inferno alla Luna” la cui prima parte si intitola “...e
Dante si smarrì nel nemus”. Parlerò solo della parte che riguarda
queso ultimo contributo arrivatomi inaspettatamente la sera del 27
ottobre 2009. L’autore del pezzo “I chiari vaticinii della Divina
Commedia” è Gilberto Mazzoleni che sostiene che il feltro è quel-
lo che si usa per la fabbricazione della carta. La pasta umida che
diverrà foglio di carta veniva messo tra due feltri, “tra feltro e fel-
tro”, insomma. Ecco, la cosa cui allude Dante è la carta che per
essere fabbricata viene posta tra feltro e feltro. La carta serve per
registrare ciò che “amore” detta al Poeta. La voce di Dante, dun-
que, conclude l’Autore, perseguiterà la smodata bramosia dei beni
terreni (radice di tanta corruzione), simboleggiata dalla lupa.
Mazzoleni ha quasi intuito la verità, ma non ha conoscenza di
tutto l’arcano. Perciò sbaglia la conclusione che è debole, se riferi-
ta alla “Divina Commedia” e ad un titano come Dante.
Il veltro non è il Poeta, né alcun altro essere umano.
Il veltro è una macchina.
I suoi disegni vengono dall’oriente e sono rimasti celati nella torre di
Nemi per oltre sei secoli. Dante ne aveva conoscenza. Non è difficile argui-
re che fosse cosciente che quella macchina, prima o poi, sarebbe stata costrui-
ta... Non posso ancora rivelare di quale macchina si tratta. Dico solo che,
come il veltro, è una cosa veloce e che ha a che fare con la carta e il suo uso
costituirà la morte per la lupa simbolica cui egli allude nella Commedia.
Per la rivelazione completa chiedo pazienza, fino alla prossima
uscita del libro”.
Ad onor del vero, però, la spiegazione di questo arcano non
poteva, obiettivamente, essere mai data senza la conoscenza delle
78 La Via di Dante
vicende di Giordano Nemorario e dei segreti rimasti per secoli
nascosti nella torre di Nemi e svelati da Adriano Petta.
Questo giustifica perché mai nessuno, prima d’ora, abbia potuto
avanzare una simile soluzione del mistero dei misteri della
Commedia.
Quei segreti erano patrimonio delle conoscenze di una ristrettis-
sima cerchia dei Catari. Dante li avrebbe potuti apprendere per la
sua appartenenza all’Ordine dei Rosacroce, direttamente collegato
ai Templari del Priorato di Sion a loro volta collegati con i Catari?
Vedremo anche altri importanti rapporti con tutto questo mondo
che rafforzeranno questa interpretazione.
Vediamo ora il possibile collegamento tra Nemi, Giordano e Dante.
Ricordiamo ancora che è Giordano Nemorario a mettere in salvo
il sapere segreto celato a Nemi, prima, e trasferito nel monastero di
Santa Colomba di Sens in Francia, dopo l’incontro avvenuto nella
torre di Nemi -a cui aveva assistito di nascosto Giordano de
Nemore- tra papa Innocenzo III e l’abate Arnauld-Amaury, il gene-
rale dell’Ordine Cistercense.
Ed è Giordano Nemorario a rintracciare e a mettere in salvo quei
segreti prima del gran rogo di Montségur.
Ma cosa c’era tra quelle pergamente di tanto prezioso?
C’era, tra l’altro, anche il progetto per la costruzione di una mac-
china straordinaria, uno strumento che sarebbe stato in grado di
imprimere le parole su un materiale la cui fabbricazione faceva
parte del segreto. Questo materiale era fabbricato con fibre di legno
lavorate con uno speciale procedimento e poi compresse.
Somigliava a quel panno che usavano i poveri e che si chiamava fel-
tro, ma era molto più sottile e tratteneva l’inchiostro senza farlo
spandere. Passando sotto al torchio della macchina molti di questi
speciali feltri, si ottenevano facilmente tante copie uguali della stes-
se parole che la macchina poteva imprimere.
La macchina, insomma, può operare velocemente riproducendo
infinite volte le stesse cose.
Poiché per imprimere le parole utilizza particolari caratteri
componibili e riutilizzabili, -i caratteri mobili- si possono comporre
con gli stessi caratteri, infinite pagine diverse che possono formare
La Via di Dante 79
un intero libro di cui si possono ottenere facilmente e velocemente
tante copie quante si vuole a basso costo.
La macchina, insomma, utilizzando i caratteri mobili di
metallo fuso, precisi e riutilizzabili infinite volte, e la carta, che
altro non è che un sottile feltro, consente di ottenere libri in
copie numerose velocemente, in tempi e costi modestissimi
rispetto alle copie eseguite dagli amanuensi con la pergamena.
Ma riprodurre velocemente i libri, la fonte del sapere, della
conoscenza, significa mettere il sapere a disposizione di tutti.
Quando il sapere sarà diffuso, la macchina avrà assolto il suo
compito. Allora la Chiesa-lupa-leone-lonza non potrà più esercitare
il suo potere assoluto basato sull’ignoranza.
Il veltro-stampa-conoscenza sarà, allora, in grado di provo-
care la fine dei soprusi dei capi della Chiesa-Lupa. Per la Lupa,
quella Lupa romana, insomma, sarà la morte!
Eccolo, finalmente il vero Veltro, il cane che cattura la preda con
la sua velocità, che non è avido di ricchezza o di terre, ma ricerca la
conoscenza, che risiede tra feltro e feltro: tra le pagine dei libri!
Altro che personaggio umano presente o futuro!
Il veltro è la formidabile, ancora sconosciuta a tutti -meno
che agli iniziati- macchina da stampa a caratteri mobili, veloce
come un “veltro”, mentre la carta è il “feltro” su cui potrà rima-
nere “impresso” -meccanicamente ed innumerevoli volte- il con-
tenuto di un libro: la conoscenza.
Per convincerci meglio della giustezza di questa interpretazione,
ricordo ai lettori che l’avessero vista, la puntata della trasmissione tele-
visiva di Super Quark del 28 febbraio del 2009, nella quale il condut-
tore, il notissimo giornalista televisivo Piero Angela, rivelò al pubbli-
co una sua personale scoperta: un disegno di Leonardo da Vinci cela-
to sotto un manoscritto. Il grande genio, per risparmiare carta, il mate-
riale ancora costoso, anche se molto più economico della pergamena,
aveva cancellato parzialmente un suo autoritratto e aveva scritto sopra
i resti di quel disegno. Nel corso della trasmissione, Angela presentò
un servizio di una esperta in carta antica la quale illustrò anche l’ori-
ginario procedimento di fabbricazione della carta. Nel mostrare le
fibre che si raccoglievano con un setaccio, lasciandole poi essiccare,
80 La Via di Dante
l’esperta disse testualmente:”Ora le fibre cominciano a feltrire...”
Ecco, proprio così: a feltrire. Cioè, la poltiglia, essiccandosi, diven-
ta un feltro! Ecco, dunque, l’autorevole conferma: la carta è un feltro.
Gli stessi caratteri potranno essere scomposti e ricomposti all’in-
finito consentendo la facile realizzazione di molte opere e diffonde-
re facilmente la conoscenza che, così, non si potrà più occultare!
Proprio la conoscenza, diventata il nemico numero uno per quel-
la Chiesa-lupa famelica, sarà identificata da Dante con Dio stesso,
la grande luce del sapere che gli apparirà alla fine del viaggio gra-
zie a Beatrice e a San Bernardo da Chiaravalle.
Il veltro-stampa, insomma,
103. ...non ciberà terra né peltro
ma sapienza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro,
82 La Via di Dante
degno del genio dantesco. L’ipotesi diventa sempre più realistica.
Tutto giustifica ora anche un viaggio ai Colli Albani per vedere i luo-
ghi che Virgilio e Augusto consideravano sacri e quel bosco, dedicato alla
dea Diana, nel quale, per espresso parere fornito dagli esperti sacerdotali
ad Augusto, era da ritenersi ubicato l’antro che costituiva l’ingresso al
mondo dei morti. Un ambiente da vedere e studiare per farne il modello
per l’ambientazione delle prime due cantiche della Commedia.
Se poi consideriamo quanto sostiene René Guénon sui Catari e
sull’Ordine dei Rosacroce, allora ci può sembrare meno fantastico
anche il fatto che Dante conosca i segreti legati alla figura di
Giordano Nemorario e quindi possa essere qui venuto anche per visi-
tare i luoghi da questi descritti -e, visto che c’era, per entrare, per
esempio, anche nell’emissario del lago attraverso il quale Giordano si
era messo in salvo e percorrerlo per intero- e per rendere omaggio alle
figure gigantesche di Giordano e di Aser, il ragazzo cui Anania di
Shirak aveva assegnato il compito e la responsabilità di far giungere
il sapere antico nella culla della civiltà latina e della cristianità.
La conoscenza che abbatterà la famelica lupa restituirà salute a
106. ...quella umile Italia...
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.
109. Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l’avrà rimessa ne lo ‘nferno,
là onde ‘nvidia prima dipartilla.
La Via di Dante 83
Adriano Petta
Eresia pura
Eravamo sul finire del luglio 1207. La luna illuminava lo specchio di
Diana, il lago di Nemi. Ero stanco: quel giorno avevamo propriamen-
te piegato il gobbone mettendo a lustro il castello da cima a fondo... ma
era una splendida notte d’estate, e ogni tanto una misericordiosa bava
di vento alitava dai pioppi e dai castagni del bosco sacro: me ne stavo
perciò appoggiato alla finestrella. La nostra capanna era l’ultima della
pullarella, proprio in cima alla roccia di lava, a strapiombo sul lago...
...ripensai a quel giorno di sei anni prima. Era l’inizio dell’estate ed ero
andato... dai monaci cistercensi della chiesa di Santa Maria di Furlano,
ad Ostia. Dentro il sacco, il mio primo libro... Il mio piccolo abaco, di
Jordanus de Nemore. La mia gioia quando, nella taverna, intervenni nel-
l’accesa discussione fra il giovane pisano e il vecchio presuntuoso che si
atteggiava a sapientone, entrambi accalorati dai tanti boccali di cervogia.
Il pisano aveva offerto anche a me un boccale di giulebbe alla rosa.
Raccontavano i loro viaggi. Sentivo parlare di Oriente, ne rimanevo affa-
scinato. Poi il vecchio cominciò a darsi delle arie di grande uomo di cal-
colo... e il giovane... non trovava nulla da controbattere... argomentan-
do... sulla possibilità di applicare la matematica a tutte le scienze.
Allora posi io al sapientone un quesito: provasse a calcolare quan-
te coppie di conigli nasceranno in un anno a partire da un’unica
coppia, se ogni mese ciascuna coppia partorisce una nuova coppia
che, a sua volta, partorisce dal secondo mese.
Il vecchio restò letteralmente a bocca aperta. Poi mi diede dello
screanzato... mentre al pisano brillavano gli occhi e mi domanda-
va se veramente io fossi capace di risolvere il problema. E quan-
do l’oste mi dette un carbone e sul pavimento scrissi -con i nuovi
numeri- la serie 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, spiegando che ciascun
numero -dopo i primi due- era la somma dei due termini prece-
denti, il giovane pisano cominciò a dire che non era possibile:
come facevo io a conoscere quelle cifre arabe? Volle che andassi
sulla sua nave, mi raccontò tante storie...
Gli vendetti però il mio libro, perché intuivo che ne avrebbe fatto
buon uso..
Edizione Stampa alternativa, pagg. 7-13
84 La Via di Dante
Adriano Petta
Eresia pura
Anania di Shirak parla con Aser
L’aria era purissima: sull’azzurro terso del cielo si stagliavano, nitidi,
i monti lontani.
Anania volse lo sguardo dall’altra parte, verso le montagne dalle
cime accese di rosso, dietro le quali il sole andava nascondendosi.
Ma era proprio l’astro incandescente ad occultarsi dietro quelle
alture?...
... “Una vita dedicata allo studio della matematica, dell’astrono-
mia, della storia, della geografia: eppure vengo malvisto. Esprimo
idee nuove... e mi guardano come un sovversivo. Sono persegui-
tato dal clero e dalla legge. Al mio accenno che potrebbe esserci la
possibilità che la Terra si muova, ho rischiato di essere imprigio-
nato. Basta, Aser. È vero che il mondo e la civiltà sono nati in
Oriente, nelle penisole delle Indie, dell’Asia Minore della
Grecia... ma ora è veramente finita. È giunta l’ora che anche
l’Europa cominci il suo cammino verso la scienza, abbandonando
il suo stato di barbarie”.
... “Aser, non si può prevedere quale ruolo giocheranno gli Arabi
nella storia dell’uomo: adesso stanno solamente conquistando. Ma
le parole di Omar che ha sacrificato al rogo decine di migliaia di
manoscritti, lasciano sperare ben poco:’O i libri contengono quel-
lo che è già scritto nel Corano, nel qual caso non abbiamo bisogno
di leggerli, oppure contengono l’opposto di ciò che è nel Corano,
nel qual caso non dobbiamo leggerli’. Qui, in Oriente è veramen-
te finita. Ciò che possiamo e dobbiamo fare noi, è trasferire le
chiavi del sapere all’Europa”.
“Che intendete dire?” Il giovane aveva parlato col tono di chi ha
già abbracciato la nuova fede.
“Immagina, Aser: supponi che le genti di tutto il mondo siano
colte, che ogni uomo sappia almeno leggere e scrivere... e che
in ogni casa ci sia qualche libro!”
“Anania... perché sognare?” ...
“Aser... è possibile, ti dico! Qual è stato finora il principale freno
La Via di Dante 85
alla divulgazione e al cammino del sapere? La tecnica per com-
porre un manoscritto, la pergamena costosa e difficile da reperire.
Aser, noi scriviamo ancora con le mani, dopo secoli e secoli di
scienza! Per scrivere un solo testo occorre almeno una persona... e
moltissimo tempo. Immagina di poter scrivere non su costose
pergamene, ma su una sostanza facile a prodursi... e supponi
di non doverlo fare tu, bensì una macchina capace di scrivere
-in un solo colpo!- un foglio intero. E che in una giornata sia in
grado di produrre non un solo testo... ma tanti e tanti libri!”.
“Sarebbe uno sconvolgimento, maestro: la più grande rivolu-
zione di tutti i tempi! Ma sacerdoti, re e imperatori gettereb-
bero sopra un rogo sia la macchina che l’uomo che la usasse”.
“È per questo che dobbiamo agire con grande cautela.”
Aser rimase a bocca aperta:”Maestro... ma voi parlate come se
questa macchina esistesse realmente... Vi state prendendo gioco di
me, vero?”.
“No! No! La macchina non è stata ancora costruita... ma il siste-
ma è ottimo! È l’Armenia che non è il luogo più adatto! Ancora
meno di questi tempi...”
Anania... staccò dalla parete una borsa di pelle scura e la depose
nelle mani del giovane... L’aprì, ne tolse il contenuto: due mano-
scritti rilegati. sfogliò il primo, ne lesse qualche brano...
“Non ti stupire, Aser... non è un gioco. È una raccolta di epistole...
Ecco, questo è l’artifizio: chi sfoglierà questo manoscritto, diffi-
cilmente si accorgerà che lì... sì, verso la fine, sono stati inseriti
alcuni fogli il cui contenuto non dovrebbe essere del tutto nuovo
per te: ricordi Aristarco?”
Aser sfogliò una ad una le ultime pagine del testo e infine alzò gli
occhi stupito:”Aristarco di Samo... quasi mille anni fa: la
nuova teoria dei moti planetari!”.
“Sì, figliolo, lì c’è tutta la sua teoria; corredata però da una
serie di calcoli e completata da un commento di un seguace di
Aryabhata: sono idee che potrebbero smuovere il mondo e che
un uomo osò proporre quasi un millennio fa, ma che dovette
ritirare e nascondere perché erano troppo ardite e il potere e i
sacerdoti le soffocarono”.
86 La Via di Dante
Anania invitò quindi il giovane a prendere l’altro manoscritto e
aprirlo.
“Ma è un palinsesto... è l’Antico Testamento.”
“Sì, Aser: dal primo libro dei Re al secondo dei Paralipomeni...
uno dei tantissimi esempi di vandalismo cristiano, anche se in que-
sto caso non hanno cancellato una grande opera, ma solamente
alcune commedie di Tito Maccio Plauto. Bene, anche in questo
caso ho aggiunto alcuni fogli in mezzo e alla fine: guarda... Prese
il libro dalle mani del giovane:”Ecco, qui c’è il sunto di come -cin-
que secoli fa- in Cina, Ts’ai Lun utilizzando reti da pesca, fibre di
canapa e scorze d’albero, produsse la nuova materia per scrivere:
la carta! Attualmente questo materiale è usatissimo in tutta la
Cina. Guarda: c’è un’ampia descrizione delle varie fasi della pre-
parazione, dell’impasto, della raffinazione, della formazione del
foglio. Io stesso ne ho prodotto un’esigua quantità.
Poi... poi il piccolo segreto che farà esplodere la matematica e,
con essa, tutte le scienze: il nuovo sistema di numerazione, il
sistema indiano! Osserva: dieci... dieci cifre! 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7,
8, 9,... e infine lui! il piccolo grande zefiro! lo zero! Quindi, un
diverso simbolo per ogni cifra, poi una notazione posizionale e
infine una base decimale. Per la prima volta, tre principî uniti
assieme. Che te ne pare...?”
Aser esaminò con attenzione il manoscritto: sollevò uno sguardo
che brillava: ”Quale ingegno... quale acuto semplice talento!
Come abbiamo fatto a non pensarci fino ad oggi?”.
“Lo hai detto, figliolo: geniale nella sua semplicità! E solo gli
indiani potevano riuscirci... da un allievo dell’indiano
Brahmagupta, ho appreso tutto ciò che è scritto in queste pagine:
i numeri negativi, lo zero, le equazioni di secondo grado... e que-
sta tavola dei seni e delle tangenti che sarà utilissima all’astrono-
mia.
È dallo stesso allievo di Brahmagupta -che aveva appena visitato
la Cina- che ho appreso questo...” E sfogliò il manoscritto in cui -
poco dopo la metà- c’erano alcuni fogli con delle scritte e delle
figure: ”Ho preferito scrivere io stesso queste note utilizzando il
greco. Ecco, vedi? questo è il compositoio... e questi alcuni esem-
La Via di Dante 87
pi di caratteri mobili. Capisci, Aser?”.
“Sì, Anania, ma temo che la realizzazione pratica sia molto diffi-
cile... Comunque è un’idea geniale! Geniale...” Il giovane era
veramente eccitato: voce accorata, occhi sfolgoranti. “Maestro,
una volta realizzata, questa macchina potrebbe mutare veramente
il mondo...”.
“Questa macchina cambierà il mondo, Aser! A noi il compito
che ciò accada quanto prima.
Adriano Petta, Eresia pura, Cap. II, pag. 30, Editrice Stampa alternativa, I edizione
...
Quando un luminoso spicchio di Luna s’è levato dietro il monte
Tabor, siamo tornati alle nostre capanne: ci attendeva la piccola
Perella che ha pianto fra le braccia dell’amica. Poi l’ho accompa-
gnata all’entrata della stretta fessura nella roccia. Le ho dato due
punte di ferro acuminate, ognuna conficcata in una strettissima
guaina di cuoio provvista di lacci.
“Legale una per gamba, Perella... e non esitare ad usarle, se neces-
sario. E quando sentirai l’angoscia e la disperazione che ti assali-
ranno, quando sarai sul punto di cedere pensa al rogo che avrà
inghiottito Esclarmonde. Addio, piccola grande coraggiosa.”
“Addio, signore... e domani l’altro siate vicino a Esclarmonde.” Mi
ha abbracciato commossa ed è entrata nella stretta crepa, incomin-
ciando a mettere -pietra su pietra- un’inestricabile chiave naturale.
Ho gettato un ultimo sguardo al firmamento; sarebbe stato bello
esplorarlo alla luce della nuova teoria: la Terra non è il centro del
mondo, non lo è mai stato! È lui, il Sole, l’astro di fuoco e di luce...
è lui il centro di tutto! Perella ce la farà: non è solo speranza, è Dio
che mi dice che tanti morti e tanti massacri, non sono stati vani.
Domani l’altro, a Montségur, finirà la storia del catarismo occita-
no, fra un giorno si concluderà la battaglia di un popolo che ha lot-
tato per la sua libertà. Domani l’altro, l’Inquisizione e l’impero del
Male si libereranno degli ultimi ostacoli sul cammino della tiran-
nia. Ma non riusciranno a fermare Perella. Dio l’aiuterà, la
deve aiutare... è una piccola creatura, è come, come Aser...
Adriano Petta, Eresia pura, Cap. XII, pag. 281,
Editrice Stampa alternativa, I edizione
88 La Via di Dante
Rodolfo Lanciani
L’antica Roma Newton Compton Rditori, aprile 2005.
La Via di Dante 89
I COLLI ALBANI E LA DIVINA COMMEDIA
Torniamo ai possibili, diretti, fisici rapporti tra i Colli Albani e la
Divina Commedia.
Abbiamo immaginato che Dante, percorrendo l’Appia -la diritta
via per antonomasia- sia giunto ai Colli Albani ed abbia raggiunto la
valle del lago di Nemi attraversando il sacro bosco di Diana, il nemus.
Ma cosa ha visto venendo da Roma?
Il panorama è dominato dal Mons Albanus degli antichi, quello
che oggi chiamiamo Monte Cavo.
Il Mons Albanus non era un monte qualunque, era il luogo dove
risiedeva Giove, la casa del dio massimo dei Latini e dei Romani,
il luogo più sacro del Latium per tutte le popolazioni antiche, abo-
rigene, per i Latini oltre -e prima- che per i Romani.
Sulla cima del monte -un’ampia spianata derivata dal cratere
90 La Via di Dante
dell’antico vulcano completamente riempito- esisteva una radura
circondata dal bosco sacro: era quello il primitivo tempio del dio
primordiale: Anu-Janus.
La forma del monte, vista da lontano venendo da Roma, richia-
ma molto un solido troncoconico, forma che appare ancor più evi-
dente soprattutto se visto dal luogo dove oggi sorge Castel Gandolfo
o dal bordo meridionale del lago nemorense. Da questi luoghi, anzi,
le visioni sono ancora più complete e le scene che si vedono anco-
ra oggi danno la precisa sensazione che quei panorami possano aver
dato effettivamente lo spunto a Dante per le ambientazioni delle
prime due cantiche della Commedia.
Cosa si vede dal bordo del lago di Nemi e cosa da quello di
Castel Gandolfo?
Chi si reca sul bordo del cratere nemorense, verso sud, sulla stra-
Prato Fabio
La Via di Dante 91
da che conduce al piccolo borgo di Nemi, là dove oggi è il par-
cheggio della parte nuova del cimitero di Genzano, vede il lago in
basso, la vallata di forma circolare un tempo ricoperta dal bosco di
Diana, il nemus, il vallone di Tempesta, una lunga ansa nelle pareti
del cratere vulcanico, una vera, gigantesca incisione nella roccia
che sembra essere l’ingresso di un’enorme caverna dove poter
entrare per andare nelle viscere della Terra. Alla base del vallone
doveva essere collocato l’antro a guardia del quale era il rex nemo-
rensis attraverso il quale si raggiungeva il mondo dei morti, il regno
di Proserpina-Diana. E tutto questo Dante doveva saperlo proprio
perché a conoscenza dell’opera di Augusto, che tutti i commentato-
ri della Commedia di Dante, invece, sicuramente ignoravano e
ancora oggi ignorano.
Davanti al panorama del lago di Nemi con Monte Cavo sullo
sfondo, immaginando di entrare nell’antro ritenuto da Augusto e
Virgilio l’ingresso per il regno dei morti e di proseguire nella dire-
zione di Monte Cavo, il poeta può aver concepito l’idea dell’Inferno
posto sotto Monte Cavo. Non gli sarebbe stato poi difficile imma-
ginare lo stesso monte come quello del Purgatorio e di poterlo rag-
giungere attraverso un condotto verticale.
Il panorama era perfetto per il suo viaggio immaginario.
Alla fine del suo percorso nel mondo dei dannati, attraverso il
condotto verticale, poteva ben vedersi uscire alla base del monte,
nel luogo chiamato Prato Fabio, che si vede benissimo, in primo
piano, dal bordo del cratere di Castel Gandolfo e dal lato sinistro
della strada che da Genzano conduce a Nemi. Da Prato Fabio si può
anche ammirare facilmente Roma e tutto il territorio che la circon-
da fino alla foce del Tevere. Come si vede i riferimenti ai luoghi
descritti nel poema coincidono perfettamente a quelli reali e porta-
no a confermare che quella da me avanzata è un’ipotesi più che fan-
tastica, solo imprevedibile. In realtà, è quella che risponde più di
ogni altra finora avanzata, sia dal punto di vista reale, del paesag-
gio, sia da quello simbolico e storico. Vedremo.
Ancora. Visitando la vallata del lago di Nemi, Dante non può
non aver avuto desiderio di visitare un’opera che aveva avuto gran-
de fama nell’antichità: proprio l’emissario del lago, opera di inge-
92 La Via di Dante
gneria idraulica importantissima e notissima oltre che antichissima,
-forse molto più antica di quanto non possiamo immaginare-, attra-
verso il quale Giordano Nemorario era potuto fuggire, incolume, da
Nemi. Nelle viscere della montagna Dante ha potuto così vedere
non solo la forma del cunicolo dell’emissario, ma anche quella dei
pozzi di ventilazione dello stesso cunicolo.
Perdersi nelle viscere della terra percorrendo antichi cunicoli è
avventura sempre emozionante e -per un artista- stimolante.
Là sotto si ha, netta, la sensazione di vivere in un altro mondo,
il mondo sotterraneo, e chi è dotato di fervida fantasia immagina
tutto quello che vuole, anche di vedere il regno dei morti.
Allora il livello del lago era ancora mantenuto dal lento defluire
delle acque attraverso l’emissario con il piccolo canale scavato sul
fondo del cunicolo che scendeva verso Vallericcia con leggerissima
pendenza. Non c’era bisogno, infatti, di far correre le acque, cosa
sempre dannosa. Esse scorrevano lentamente, senza procurare
danni e, dall’interno del canale sotterraneo, sembrava di vedere un
fiumiciattolo che sgorgava direttamente dalla roccia -proprio come
il ruscelletto dantesco- e se ne andava nel ventre della Madre Terra,
nel regno da sempre considerato abitato dalle anime dei trapassati.
Questo può aver visto realmente Dante nel suo viaggio sui Colli
Albani ed ancora oggi chiunque può ammirare.
Non solo l’Appia Antica, dunque, poteva essere stata l’ispi-
ratrice della dantesca “diritta via” e il bosco sacro a Diana esse-
re stato facilmente trasformato nella selva oscura dove il Vate si
smarrisce, ma anche la conformazione della valle del lago di
Nemi con il bosco ed il vallone di Tempesta possono aver sugge-
rito l’idea dell’ingresso al mondo dei morti e la successiva risa-
lita alla base del monte del Purgatorio. L’emissario del lago di
Nemi può -credibilmente, ora-, essere servito da modello per la
descrizione dell’ambiente sotterraneo dove c’è il regno dei tra-
passati e dove Dante immagina l’inferno e dal quale può risali-
re -arrampicandosi faticosamente per uno degli altissimi pozzi
di ventilazione che può vedere nell’emissario- e trovarsi alla
base del monte del Purgatorio.
Anche questa ipotesi sembrò, all’inizio, estremamente ardita, ma
La Via di Dante 93
la realtà era davanti agli occhi ed era chiarissima ed inequivocabile.
Bisognava trovare solo solidi riscontri per poter azzardare un’i-
potesi comunque coerente e indiscutibile.
Continuò così, la rilettura del Poema alla ricerca delle conferme
che quell’inferno e quel purgatorio reali che avevano ispirato quelli
cantati dal poeta erano proprio lì, davanti ai nostri occhi da sempre.
La prima dimostrazione?
Rivediamo per intero gli ultimi versi dell’inferno.
Luogo è là giù da Belzebù remoto
tanto quanto la tomba si distende,
129 che non per vista, ma per suono è noto
d’un ruscelletto che quivi discende
per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso,
132 col corso ch’elli avvolge, e poco pende.
Lo duca e io per quel cammino ascoso
entrammo a ritornar nel chiaro mondo;
135 e sanza cura aver alcun riposo,
salimmo sù, el primo e io secondo,
tanto ch’io vidi de le cose belle
138 che porta ‘l ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.
La Via di Dante 95
SEZIONE DELL’ANTICO EMISSARIO
Collepardo
pozzi di
ventilazione
Vallericcia
galleria
dell’emissario
2
La pendenza e lievissima in modo
che le acque non corrano.
1
gere così, attraverso questa interpretazione, non solo a ricostruire la
scena, ma anche a scoprire il vero significato -quel quarto livello di
lettura, tuttora sconosciuto- della Divina Commedia, celato da
Dante nel suo Poema.
Alla fine della ri-lettura in chiave nemorense, infatti, si avrà una
visione -completamente diversa da quella tradizionale- proprio del
significato autentico e profondo dell’opera dantesca. Significato
che fa del poema un ancor più superbo capolavoro e dell’Autore un
coraggioso titano. Quel significato credo di aver individuato attra-
verso la chiave di lettura suggerita dall’ambiente del nemus e dall’o-
pera di Petta che già ci ha chiarito il senso della profezia del veltro.
La sorpresa, insomma, continua.
Abbiamo visto che il luogo reale visitato da Dante, quello che gli
dà lo spunto per la descrizione dell’ambiente che percorre prima di
tornare a riveder le stelle può essere stato il tunnel dell’emissario
nemorense. Se si osserva il disegno della sezione riportata a pag. 96
si noteranno facilmente i pozzi di ventilazione necessari non solo
100 La Via di Dante
per areare la galleria, ma anche per definire il suo esatto percorso.
Questi pozzi erano perfettamente verticali e partivano dal cervello
della galleria. Venivano scavati da un uomo che poggiava i piedi su
dei piccoli incassi praticati nella roccia e sufficienti per appoggia-
re la punta del piede. Gli incassi erano realizzati a livelli diversi,
come gradini di una scala che, partendo dalla galleria, giungeva fino
alla superficie esterna. Il pozzo era scavato, insomma, senz’altro
mezzo a disposizione che una piccola piccozza e l’operaio saliva e
scendeva utilizzando soltanto la “scala” scavata nella roccia.
In questi pozzi, data la loro ridotta dimensione (50-60 cm di
diametro), poteva passare un solo uomo per volta. La salita, poi, era
doppiamente faticosa: perché bisognava procedere in verticale e
perché l’appoggio per il piede era limitato. Percorrere un pozzo di
ventilazione è esperienza molto singolare per un uomo normale,
fonte certa di spunti significativi per un poeta come Dante deside-
roso di descrivere il mondo ultraterreno, il regno dei morti posto nel
sottosuolo. Un’impresa da utilizzarsi a meraviglia come ispirazione
per un poema dalla valenza esoterica e simbolica come quella della
Divina Commedia.
Tenendo conto di tutto questo, rileggiamo i versi citati.
Immaginiamo, però, di essere nel pozzo di ventilazione dell’emissa-
rio nemorense. Scopriremo le grandi e singolari affinità tra la scena
reale e quella descritta dal Poeta. Allo stesso modo, immedesiman-
doci nell’azione del salire, potremo renderci meglio conto dello
sforzo che Dante attribuisce a sé stesso e a Virgilio.
Infine, immaginando che Virgilio abbia ancora consistenza cor-
porea, Dante deve aspettare che egli esca dal pozzo per poter gusta-
re lo spettacolo che si apre ai suoi occhi guardando in sù.
Solo allora, ancora nel pozzo, può riuscire a vedere il cielo.
Rivediamo i versi:
Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
135. e sanza cura aver alcun riposo,
salimmo sù, el primo e io secondo,
tanto ch’io vidi de le cose belle
138. che porta ‘l ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.
La Via di Dante 101
Il panorama dal lago di Nemi verso Monte Cavo
in un altro disegno del prof. R. Gismondi
sempre tratto da Passeggiate sui Colli d’Alba, Nemi, di Tito Basili, 1964.
Quella luce si muove così rapidamente sul mare che nessun esse-
re volante la eguaglia. Si sposta, insomma, come se volasse e pro-
viene da ovest.
Significativo è notare quale straordinaria coincidenza lega il
punto di partenza della nave che giunge al monte-purgatorio a quel-
lo in cui noi ipotizziamo si trovi veramente Dante quando concepi-
sce la scena che gli consente di vedere da dove proviene la nave.
Il Poeta, a questo punto, con i suoi accompagnatori, si è trasferi-
to alla base di Monte Cavo-Purgatorio. E’ un luogo elevato, sotto il
quale si allarga il lago Albano (quello su cui si affaccia Castel
Gandolfo). Quel luogo si chiama Prato Fabio, è ideale per ispirare
l’approdo della nave volante e per ambientare l’inizio della salita
delle anime al monte del Purgatorio.
Qui Dante può aver immaginato veramente di vedere la nave che
si avvicina dopo aver raccolto le anime di coloro che sono destina-
ti ad un periodo di punizione prima di arrivare alla mèta finale del
Paradiso.
Quando le anime sbarcano, infatti, la nave si allontana con la
stessa rapidità con la quale è giunta per tornare ad ovest, da dove è
venuta, e nessuna indicazione il nocchiero alato dà ai suoi passeg-
geri circa la loro destinazione. Le anime non sanno dove andare e,
Canto XXVI.
Arnaut Daniel (1150-1200 circa), è considerato da Dante il
miglior poeta trovatore Provenzale.
Che senso ha la sua figura inserita proprio in questo punto?
Qui è in compagnia di altri illustri poeti, è vero. Qui si discute di
Guittone d’Arezzo e di Guido Guinizzelli, di Giraldo di Bornelh e
di Arnaut Daniel proprio per dimostrare che come Guittone non
poteva essere considerato il migliore dei poeti italiani, così Giraldo
-quel di Lemosì- non doveva essere ritenuto superiore ad Arnaut
Daniel-Arnaldo Daniello.
È anche vero che i contatti della poesia provenzale con quella
toscana ed italiana erano stretti e condizionanti, però la sottolinea-
tura ci pare eccessiva se la consideriamo solo ai fini delle vicende
della Commedia. Soprattutto, quello che Arnaut dice a Dante non
c’entra niente con le dispute poetiche di questi personaggi.
Addirittura, Dante scrive le parole che escono dalle labbra di
Arnaut in lingua provenzale.
È solo un atto di cortesia verso quello che ritiene uno dei suoi
maestri o, invece, approfitta di questa copertura per lanciare un
messaggio in codice? E non erano proprio i poeti trovatori ad espri-
mere i loro amori spirituali con un linguaggio criptato? Quale
potrebbe essere, in questo caso, il messaggio nascosto tra le righe
che Dante ci vuole lanciare?
Come al solito siamo nel campo delle ipotesi totalmente nuove
che faranno arricciare il naso ai “puristi” dantisti, ma la tentazione
di esplorare anche questa possibilità è troppo forte. Almeno per for-
mulare un’ipotesi eventualmente da approfondire.
Cosa dice, intanto, Arnaut-Arnaldo alla fine del XXVI canto del
Purgatorio?
139. El cominciò liberamente a dire:
“Tan m’abellis vostre cortes deman,
qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
142. Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
116 La Via di Dante
e vei jausen lo joi qu’esper, denan.
145. Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de l’escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!”.
Cioè:
”Tanto mi piace la vostra cortese domanda , che io non mi posso
né mi voglio nascondere. Io sono Arnaldo, che piango e vado can-
tando; triste (pensoso) vedo la passata follia, e vedo giocondo il
gaudio che spero, dinanzi. Ora vi prego, per quel valore, quella
virtù divina (aquella valor) che vi guida al sommo di questa scala,
ricordatevi -a tempo debito- dei miei dolori”.
Ecco la richiesta del poeta provenzale: per aquella valor que vos
guida al som de l’escalina, sovenha vos a temps de ma dolor!”
Cosa intende Arnaldo con quel aquella valor che guida Dante?
-È il valore, la virtù di Dio-, dicono i commentatori. Con questo
intendono un valore morale, una virtù. Ma che senso hanno le paro-
le del poeta provenzale se diamo questo significato alla sua invoca-
zione? Proviamo a sostituire le parole dei commentatori a quelle dei
versi danteschi.
“Ora vi prego, per la virtù di Dio che vi guida al sommo di que-
sta scala, a tempo debito ricordatevi dei miei dolori”
Non mi sembra che la frase, detta così o così interpretata, sia di un
qualche valore al punto da essere inserita in un poema come la
Commedia, per di più in lingua originale. Anche se Dante per quella
virtù divina che lo guida fino al culmine della scala del Purgatorio si
dovesse ricordare dei dolori patiti in vita da Arnaut Daniel non si
aggiungerebbe alcun significato al viaggio che sarebbe qualcosa di
insignificante ai fini poetici, morali, ideali o simbolici, non appropria-
ta ad un’opera di questa levatura.
“Senti, caro Dante, fammi un piacere, se arrivi dove ti sei pre-
fisso di arrivare, se giungi al cospetto di Dio, ricordati dei miei
dolori, delle mie sofferenze d’amore”.
Cosa significa? Niente. Ridicolo!
Cerchiamo, invece, di decifrare il messaggio segreto che queste
parole, pronunciate anche in lingua provenzale, possono nasconde-
Ovvero:
”Per il desiderio di conoscenza che ti guida al sommo di questa
scala e per affermare, infine, la possibilità di raggiungere e dif-
fondere la conoscenza, scopo ultimo del tuo viaggio, a tempo
debito (quando sarà il momento), ricordati delle sofferenza patite
È il popolo Cinese?
Seras è qui tradotto con Cinesi. In realtà sono un popolo dell’Asia
orientale che può bene essere identificato con i Cinesi, il popolo che la
tradizione indica proprio come l’autore di molte scoperte tra le quali
quella che qui ci interessa: la macchina da stampa a caratteri mobi-
li e la carta, il particolare ed economico feltro su cui imprimere le
parole.
È, dunque, proprio lo stesso popolo da cui è arrivata la macchi-
na i cui disegni Anania di Shirak ha messo in salvo facendoli arri-
vare in occidente e che Giordano de Nemore recupererà nella chie-
sa di Santa Colomba, a Sens, in Francia e salverà poi dal rogo su cui
arderanno i Catari di Montségur affidandoli ad un’insospettabile
fanciulla che si salverà rimanendo nascosta, nel buio di una grotta.
Dante immagina che Stazio, al pari di Anania, conosca quello
che i Cinesi hanno prodotto, ma non ne ha saputo valutare l’impor-
tanza e ha ignorato quel portentoso strumento. Ma a Dante non inte-
ressa quel che poteva o no conoscere Stazio. Interessa trasmettere
un messaggio cifrato che indichi con sempre maggior precisione la
via per giungere alla conoscenza della cultura da diffondere a tutti
gli uomini. Si accompagna a Stazio come a voler dire: egli, che
viveva sui Colli d’Alba, testimonia ora che bisogna guardare a quel-
lo che hanno ideato i Cinesi e che ci è già arrivato dalla Cina e che
proprio sui Colli Albani è stato tenuto nascosto. È proprio lì che ora
è stato riscoperto il veltro che cambierà il mondo.
E lì, in quel veltro, per Dante è il segreto del nostro futuro.
Di Stazio, Dante non fa, praticamente, più menzione fino alla
fine della Cantica. È presente, ma non ci si accorge più di lui. Alla
fine non lo saluta né si fa salutare: diventa un po’ come la fanciulla
cui viene affidata, a Montségur, la conoscenza antica. Quella fan-
ciulla si salverà perché, pur essendo a Montségur, da lei è stata dis-
tolta l’attenzione dei carnefici. Ella custodisce, con i libri della
conoscenza che, così, ha potuto sopravvivere, anche i procedimenti
per la produzione della carta -il feltro- su cui si imprime la parola
La Via di Dante 127
scritta con la macchina da stampa. La conoscenza diventerà acces-
sibile a tutti proprio perché essa sarà stampata sulle pagine dei libri.
È diventato chiaro, ormai, il significato del verso oscuro:
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
La macchina e la carta erano il segreto supremo, quello che
Anania aveva fatto pervenire in Europa e che aveva ricevuto dai
Cinesi e che la Chiesa di Roma aveva sequestrato e tenuto nascosto
nella torre di Nemi.
Tra tutti i poeti Romani, Stazio è l’unico che contemporanea-
mente abita sui Colli di Alba, vicinissimo al monte che ispira l’am-
bientazione del Purgatorio e del Paradiso Terrestre e conosce quel-
lo che avevano prodotto i Cinesi, popolo noto anche a Virgilio.
Il riferimento ai Cinesi contenuto nell’opera di Stazio è troppo
singolare perché possa essere sfuggito a Dante che fa del poeta lati-
no il suo significativo compagno di viaggio fino a Beatrice e fino
alle soglie del Paradiso.
Un’obiezione sola potrebbe venire dall’erudito: l’opera in cui
Stazio cita l’ambra dei Cinesi è, come abbiamo visto, Le Selve.
Quest’opera, per la tradizione, era perduta fino al 1417, quando
Poggio Bracciolini la ritrovò e la diffuse.
Ma anche l’autobiografia di Augusto per la nostra tradizione era
perduta e Dante non avrebbe potuto leggerla. Questo tutti credeva-
no finché non se ne scoprì una copia in una cella dalla porta mura-
ta di un convento in Macedonia negli anni Ottanta del Novecento.
Quella copia risaliva alla metà del ‘200 e dimostrava che, qualche
copia di quell’autobiografia ancora poteva circolare ai tempi di
Dante che, così, avrebbe davvero potuto conoscerla, visto che alcu-
ni suoi versi ricalcano perfettamente alcune frasi in essa contenute.
Stazio, insomma, collocato nell’ambiente Albano, conoscitore
del nemus e delle sue storie, è un personaggio fortemente simboli-
co che Dante utilizza per suggerire, o meglio, confermare -a chi sa
comprendere- la soluzione dell’enigma del veltro.
Vediamo cosa scrive Augusto quando sta per entrare nel bosco
che circonda il lago di Nemi per recarsi a vedere il tempio di Diana
ed incontrare il rex nemorensis.
136 La Via di Dante
“... entrammo nell’ombra degli alberi che ancora non avevano
perso le foglie... Scendemmo dalla collina per un sentiero tortuo-
so in un intenso silenzio. Non c’erano né cinguettii d’uccelli, né
refoli di vento tra il fogliame. Persino l’ansare e lo sforzo dei miei
portatori sembrava un’offesa. ...
Straordinario!
Beatrice appare al poeta vestita di bianco (candido vel),
verde (manto), e rosso (veste color di fiamma viva).
Certamente nessuno vorrà credere ad una semplice casualità.
I colori sono sicuramente simbolici.
Ma anche qui le letture del testo sono di diverso grado.
Quella dei commentatori “scolastici” leggono solo il significato
più superficiale, quello riferito alla simbologia cristiana. Allora il
bianco, il rosso ed il verde altro non sono che i colori delle virtù teo-
logali: Fede, Speranza e Carità.
La Via di Dante 141
Ma ai commentatori più attenti non sembri una semplice coinciden-
za il fatto che quei colori siano proprio gli stessi che fanno parte della
simbologia di Diana nella quale il bianco è quello lunare, il verde
appartiene alle selve e il rosso distingue la regina degli inferi.
Ma i livelli di lettura non sono finiti.
Se scendiamo a quello esoterico, troviamo ancora altre sorprese.
Vediamo cosa ne pensa lo scrittore francese René Guénon, il
nostro esperto studioso di Dante e di esoterismo.
Per lui i tre colori sono anche quelli di un’altra immagine sim-
bolica, che può aiutarci in quest’opera di identificazione del luogo
ispiratore del Vate.
A questo proposito vediamo cosa pensa quel grande studioso.
“Ora si trova che alcuni dignitari inferiori della Massoneria
Scozzese, la quale pretende risalire ai Templari, e di cui Zerbino, il
principe scozzese, l’amante di Isabella di Galizia, è la personifica-
zione nell’Orlando Furioso dell’Ariosto, si intitolano ugualmente
principi, Principi di Mercede; che la loro assemblea o capitolo si
a Dalla descrizione di
Bruno Cornacchiola,
b
di fede protestante, che ebbe con i
figli le visioni alle Tre Fontane, a
Roma, a partire dal 12 aprile 1947,
la Madonna indossava:
a- una mantello verde:
b- una tunica bianca;
c- una fascia rosa
(rossa) alla vita.
Il bianco, il rosso ed il verde,
Incredibile!
Dante, per Guénon, si smarrisce “nella foresta oscura dove incon-
tra Virgilio, andando appunto alla ricerca del ramo misterioso”!
E dove avrebbe dovuto cercare e trovare Dante quel ramo miste-
rioso, il ramo d’oro?
Abbiamo visto fin qui quale può essere stata la fonte di infor-
mazione e di ispirazione di Dante per costruire la scena.
Ma entrando nel merito del senso nascosto, oltre alla compren-
sione della profezia del veltro, quale altro significato si è del tutto
chiarito e quali conseguenze ha determinato nella vita del Poeta?
Per rispondere a queste domande dobbiamo salire con Dante e
Beatrice nell’empireo.
Non ci interessa molto, però, per il momento, seguirlo nei vari
cieli. Per raggiungere il nostro scopo passiamo direttamente alla
parte finale, anche se eventi, al momento imprevedibili, mi costrin-
geranno, più in là, a “ripartire” dal Paradiso Terrestre.
Dante è giunto al cospetto della Vergine Maria. Lo accompagna
un personaggio notissimo, allora come oggi: San Bernardo da
Chiaravalle.
Non appena vede la Madre del Cristo, Bernardo si rivolge a Lei
con i versi più belli di tutta la Commedia anche se quelli determi-
nanti verranno subito dopo, fino alla fine del canto e del poema:
Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
3. termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
6. non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l’amore
per lo cui caldo ne l’etterna pace
9. così è germinato questo fiore.
Qui sei a noi meridiana face
di caritate, e giuso, intra’ mortali,
12. se’ di speranza fontana vivace.
Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
15. sua disianza vuol volar senz’ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fiate
18. liberamente al dimandar precorre.
IL COLOSSEO.
Secondo il Basserman la sua forma può aver ispirato a Dante
-durante il suo soggiorno a Roma- la conformazione dell’inferno.
Questo sempre in ossequio alla famosa epistola di Dante
a Cangrande della Scala in cui il poeta asseriva
di aver tratto ispirazione, per quanto tradotto in poesia,
da quello che aveva precedentemente visto realmente.
IL CARRO TRIONFALE
Un’altra delle miniature che illustrano il trionfo di Beatrice.
Non c’è né niente di quanto descrive Dante.
Più che un trionfo, sembra una gtita for de porta, come si dice a Roma.
MACCHINE VOLANTI
Un’antichissima moneta con riprodottle le figure
di macchine volanti simili a quelle del tempio di Abidos.
TURBINI DI VENTO
Sopra: sullo sfondo di una crocefissione appare una navicella
spaziale -il turbine di vento del riquadro a destra in alto- con una
rosa dei venti dipinta sull’esterno e con un uomo a bordo.
A destra, in alto: da una tavoletta sumera
il disegno di un “turbine di vento”.
Invenzioni di artisti fantasiosi o rappresentazioni di realtà che
hanno impressionato l’opinione pubblica in quei tempi?
ANIMALI E MISSILI
Una delle tavolette pubblicate da Sitchin mostra delle
figure a forma di missile (SHEM) tra animali
con sullo sfondo le stelle.
La stella a sei punte simboleggia il pianeta Marte.
IL CARRO DI EZECHIELE
Il carro visto da Dante sul quale è Beatrice
quando scende nel Paradiso Terrestre.
Dante non descrive questo carro rimandando i suoi lettori alla
descrizione che Ezechiele ne fa nel suo libro nella Bibbia.
Questo è quello che il tecnico della NASA Blumrich
disegna seguendo le descrizioni di Ezechiele
e, dunque, è anche quello che vede Dante.
I quattro animali non sono che i quattro appoggi che scendono
dal corpo del velivolo.
Al centro scende il “carro” trainato dal grifone alato.
GIGLIO O RAZZO?
Dante vede gli angeli che sullo sfondo del pianeta Giove, si uni-
scono a formare delle lettere, una di seguito all’altra. Prima una D,
poi una I e una L.
Cosa significano?
Le lettere sono prese dal testo latino del primo versetto del libro
della Sapienza composto da cinque parole e trentacinque lettere.
Vediamo ancora i versi.
Mostrarsi dunque in cinque volte sette
vocali e consonanti; e io notai
90. le parti sì, come mi parver dette.
“DILIGITE IUSTITIAM” primai
fur verbo e nome di tutto il dipinto;
93. “QUI IUDICATIS TERRAM” fur sezzai.
Poscia ne l’emme del vocabol quinto
rimasero ordinate; sì che Giove
96. pareva argento lì d’oro distinto.
E vidi scender altre luci dove
era il colmo de l’emme, e lì quetarsi
99. cantando, credo, il ben ch’a sé le move.
Poi come nel percuoter d’i ciocchi arsi
surgono innumerevoli faville,
102. onde li stolti sogliono augurarsi;
ESH, ZIK,
“dimora divina” “ascendere”
Infatti!
Tutta questa lunga citazione è servita per arrivare a far osserva-
re un’altra incredibile coincidenza: l’aquila che appare in questo
momento è stata riferita dai commentatori -oltre che a Firenze- al
simbolo dell’Impero che in qualche modo doveva intervenire per
ridimensionare lo strapotere e la prepotenza della Chiesa di Roma.
Questo ad un livello superficiale di lettura.
Se andiamo al livello ultimo, invece, ci accorgiamo che il riferi-
mento ci porta verso la conferma dell’ipotesi appena elaborata e con
l’aquila ha la sua conferma. Vediamo perché.
Il disegno rappresenta, secondo Sitchin, una vera e propria rotta astrale che
indica il percorso tra il pianeta Nibiru e la terra. Incredibile coincidenza: la
parola DIL.GAN., che indica la via per il pianeta Nibiru, è scritta, sulla
mappa, in corrispondenza della parola APIN che indica il pianeta Marte.
DIL.MUN. è invece il luogo di delizie, il Paradiso, la casa di Dio,
verso il quale è diretto Dante. L’indicazione per la casa di Anu è data,
sulla mappa, subito dopo il pianeta Marte, proprio là dove Dante vede
materializzarsi la misteriosa scritta D-I-L-M con la M d’oro che si tra-
sforma in aquila.
Questa mappa è rappresentata nel disegno in alto, per intero, così come
è stata ritrovata, mentre nella pagina seguente è riportata la parte che
riguarda la rotta Nibiru-Terra con le parole tradotte in Italiano.
254 La Via di Dante
I segni-simboli indicano i pianeti del sistema solare che debbono
essere attraversati per giungere alla terra e il luogo di atterraggio.
Questo disegno dimostra che in antico, qualcuno poteva sapere
cose inimmaginabili per noi, ma note ai popoli antichi.
Passando i millenni le nozioni relative ai Nefilin si sono via via
dimenticate e tutto si è trasformato in mito da noi mai saputo inter-
pretare, anche perché ritenuto solo racconto fantastico, leggenda
senza riscontro nella realtà storica. Solo pochi individui hanno con-
tinuato a tramandare il segreto e a conoscere la verità. Dante pote-
va essere tra questi, tanto che dice cose che oggi soltanto riusciamo
a comprendere e, forse, ancora solo in parte. Basta, però, per poter
aprire un nuovo filone di studi che unendo le conoscenze sumere al
testo dantesco, può illuminarci definitivamente sui significati veri
dell’opera del grande poeta fiorentino.
LA MAPPA CELESTE
Nella pagina accanto: così come è stata ritrovata.
Sopra: la parte della mappa riguardante il viaggio dal pianeta scono-
sciuto Nubiru alla Terra e ritorno con le scritte tradotte in italiano.
Dante poteva conoscere documenti come questo?
Forse non lo sapremo mai, ma il tragitto che egli descrive nella
Commedia somiglia in maniera singolare a quello di questa mappa.
IL GRIFONE ALATO
A riprova che l’idea di associare la cultura Sumera al viaggio di
Dante è valida, mostro ancora l’illustrazione di pag.216,
ma riproducente diritta la parte rovesciata là omessa.
Si vedono ora, con l’ingrandimento, in un vero e proprio corteo,
molto bene due strani animali alati (due grifoni?) uno dei quali
tira un carro, esattamente come nella descrizione del carro trion-
fale di Beatrice quando discende da un altro “carro”
enormemente più grande se da esso escono insieme
con la donna anche cento angeli.
Emissario del lago di Nemi: ecco la buca d’un sasso che l’acqua ha roso.
A sinistra:
l’imbocco del tunnel
dell’emissario del lago di
Nemi, proprio l’ideale
ingresso nel mondo dei morti
che gli antichi comunque
collocavano nella valle del
lago, come testimonia
Ottaviano Augusto.
Sotto:
il foro di uno dei pozzi di
ventilazione dell’emissario, il
pertugio tondo da cui
Dante immagina di tornare
a riveder le stelle
MASSA NEMUS-SELVA OSCURA
E LA DONAZIONE DI COSTANTINO:
l’origine del potere temporale dei papi
In questo mio studio sui rapporti tra Dante e i Colli Albani, avrei
dovuto iniziare proprio dalla vera donazione di Costantino, come
pretesto della venuta di Dante ai Colli Albani. Quale motivo miglio-
re avrebbe potuto indurre il Poeta a visitare questo territorio -pur
fondamentale per la storia delle origini della civiltà romana- se non
quello di vedere il luogo dove aveva avuto origine il tanto vitupera-
to potere temporale della Chiesa?
Questo motivo straordinario, invece, mi è venuto in mente per
caso e per ultimo: era il più importante, la giustificazione massima
alla venuta di Dante ai Colli Alban e non l’avevo capito!
Ora, però, costituisce la conferma più grande che tutto quanto
ipotizzato aveva un fondamento più che valido!
Dopo la battaglia di Ponte Milvio contro Massenzio, la massa
nemus, cioè tutto il territorio di proprietà del Tempio di Diana
nemorense, fa parte dei terreni donati da Costantino alla Diocesi di
Albano, imposta come la prima, per importanza, dopo Roma.
La stessa città di Albano nasce intorno ai Castra per volontà
dall’Imperatore e va sfatata, una volta per tutte, la favola medioe-
vale di Albano come l’antica Albalonga, che era sui Colli Albani,
ma da tutt’altra parte.
Tutto questo, per una logica che non lascia adito a dubbi di sorta.
Costantino opera in segno di gratitudine verso la legione partica
stanziata nei Castra Albana dai tempi di Settimio Severo. Nello
scontro decisivo, è accorsa in aiuto non di Massenzio, come vuole
la tradizione, ma di colui che ha posto sulle sue insegne la croce. In
hoc signo vinces, insomma, non era una visione miracolosa, ma la
richiesta precisa fattagli dai legionari mitraisti-cristiani dei Colli
Albani che, ormai certi del suo appoggio, si schierano dalla parte di
Costantino e Massenzio finisce nel Tevere.
Perché la legione partica si sarebbe dovuta accordare con
Costantino, quando Massenzio aveva già dimostrato di essere amico