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Giulianodibenedetti

VIA DI
LA
DANTE
Dall’inferno alla luna
passando p er i l
NEM
M US
S

Smarritasi la diritta via,


Dante si ritrovònel nemus.

Il bosco sacro a Diana


sulle rive del lago di Nemi
e il panorama dei Colli Albani
ispirarono l’ambientazione della
DIVINA COMMEDIA
ed il percorso per salire nell’alto dei cieli
La via di Dante
dall’inferno alla luna
passando per il nemus
Prima edizione, Agosto 2010
Seconda edizione, Aprile 2016

© Copyright by Giuliano Di Benedetti 2016


Genzano di Roma - Italy
E-mail: gdibenedetti@yahoo.it

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to dell’Autore, è assolutamente vietata.
In ricordo di
Mario De Angelis.

All’amico.

Al suggeritore
unico,
insostituibile
di preziose
verità
a me
sconosciute.

All’ascoltatore
sempre attento,
convinto
e divertito
delle mie più
ardite rivisitazioni
delle nostre storie.
La magia della
Pentima del Piccione
si ripete ancora:
solo dall’alto di un luogo fantastico
e, insieme, reale,
come in una visione onirica,
si vedono davvero cose
che a tutti gli altri sfuggono.
Ecco perché nessuno
si è mai accorto, finora,
che il viaggio di
DANTE
per l’Inferno
inizia nella valle
del lago di Nemi.

Karl J. Bell

Una cosa nuova


all’inizio viene negata.
Poi sminuita.
Infine si decide
che la si conosceva da sempre.

Alexander von Humboldt

“Non possiamo negare che


il male operato dalla stampa è immenso;
né s’ingannerebbe chi volesse
attribuirle tutti i mali
della società contemporanea”

Leone XIII
L’Autore ringrazia
in maniera particolare
Giovanni Ventucci,
della libreria The book
di Genzano di Roma,
libraio dinamico ed
editore lungimirante
sempre attento
alla realtà locale,
per la sua assistenza
e per le segnalazioni
di testi impensabili
ed altrimenti introvabili,
sempre decisivi
nella ricerca
di elementi
di sostegno
per le sue
ricostruzioni
storiche.
LA VIA DI DANTE: il perché di un titolo
Condensare in due o tre parole il significato più autentico di un
lungo discorso richiede capacità di sintesi non comuni. Quelle
poche parole debbono essere anche di presa immediata sul pubbli-
co che sceglie cosa leggere tra un’infinità di copertine messe in
bella mostra in libreria. Farsi notare è sempre più difficile.
Convincere un lettore ad acquistare il tuo libro ha del miracoloso
quando non hai un nome altisonante e non sei una stella di prima
grandezza dell’editoria nazionale o internazionale.
Come esprimere, con così poche parole, una vera rivoluzione
nell’interpretazione dell’opera massima della letteratura italiana, la
Divina Commedia?
Il riferimento al nemus, il bosco sacro, nel mio caso era d’obbli-
go, ma la parola non è proprio comunissima. Poteva non essere
compresa se non tradotta -correttamente- dal Latino.
Il riferimento alla diritta via che si smarriva mi sembrava obbli-
gatorio. Sì, perché avevo raggiunto la certezza che Dante avesse
voluto dare a quel la diritta via era smarrita anche un significato
diverso da quello che tutti i commentatori gli hanno finora attribuito.
Era la via diritta che si smarriva, non il poeta!
Ecco il trucco di Dante: dire una cosa ovvia che tutti possono
comprendere per nascondervi il vero significato -che pochi doveva-
no poter intendere- che cela il messaggio che, pur reso pubblico,
rimane segreto.
Ma come esprimere sinteticamente questi concetti?
Cos’era, in realtà il Poema dantesco? Chi era Dante nella sua
Commedia? Quale aspetto volevo metterne in risalto?
Così a fianco al nome di Dante, che doveva campeggiare asso-
lutamente nel titolo, cominciai a provare dei vocaboli che potesse-
ro esprimere l’essenza di tutta la mia ricerca.
Iniziai con Ri-lectura Dantis, un titolo che esprimeva quello che
avevo fatto: una rivisitazione dell’opera, ma solo per comprendere
e dimostrare a quali luoghi si era ispirato per l’ambientazione delle
prime due cantiche, cosa che, però, non si percepiva affatto con quel
titolo. Chissà quante ri-letture esistono nell’infinita bibliografia
La Via di Dante 9
dantesca.
L’abbandonai subito.
Fu la volta di ...e Dante si smarrì nel nemus.
Il titolo funzionava, ma quel nemus era sempre parola poco com-
prensibile per un vasto pubblico. Esprimeva, però, alla perfezione la
scoperta iniziale, lo spunto da cui ero partito. Poteva andare.
Per provare ancora, tornai alla lingua latina con Dantes viator,
Dante il viaggiatore o anche il viandante. Anzi, più viandante che pas-
seggero di un mezzo di locomozione. Non riportava, però, alle mie
scoperte. Era vago ed indefinito, poco comprensibile.
Infine arrivò l’ultima parola che poteva suggerire la vera essenza
di quest’opera che, in realtà, più che un viaggio era una peregrinazio-
ne dell’autore nel mondo dei morti, ma anche nel regno dei cieli:
peregrinatio, ecco la parola.
Sì, esprimeva il concetto di viaggio più che del viaggiatore il cui
nome, comunque, figurava nella sintesi: Peregrinatio Dantis.
La parola latina riassumeva bene tutto: non un semplice viaggio,
ma una vera peregrinazione.... tappa dopo tappa alla scoperta non
solo del mondo dei morti, ma delle cose della vita, delle miserie
umane, quelle degli uomini qualunque e quelle dei dominatori, dei
potenti e prepotenti, dei grandi della Terra.
Una peregrinatio alla ricerca del bene più grande per l’Uomo: la
conoscenza, per raggiungere la quale l’uomo-Dante non si spaven-
ta davanti ai pericoli che ad ogni passo gli si parano davanti.
Una peregrinatio che egli può raccontarre agli altri perché gira
l’Italia proprio per vedere, comprendere, riferire, trarre ammaestra-
menti.
Dante è ora a conoscenza di cose nascoste, proibite che però rin-
traccia, vede, studia e ne riferisce, ma nascondendone il vero signi-
ficato per salvare la vita, per non finire sul rogo, per non essere tor-
turato come i Templari, come i Catari.
E come fa a nascondere quel che sa e nello stesso tempo ammo-
nire, insegnare?
Non fa capire il significato di alcuni versi iniziali, fa una profe-
zia impossibile da decifrare, ma, allo stesso tempo facilissima da
comprendere per chi conosce le segrete cose.

10 La Via di Dante
Sì, un buon titolo, ma non rivelava i suoi rapporti con il nemus.
È nel suo peregrinare ai Colli Albani che Dante trova le confer-
me che cerca e le trasforma in versi. Per incomprensibili che possa-
no sembrare, le sue rivelazioni sono autentiche, toccate con mano,
testimoniate. Per esser certo di lasciare la prova scrive a Can
Grande della Scala avvertendolo: “Tutto quello che ho tradotto in
versi l’ho visto con i miei occhi”.
Anche cose assurde per i suoi tempi?
Sì, anche quelle e, vedremo, non sono cose di poco conto.
Le conoscenze segrete tramandate da cinquemila anni gli fanno
comprendere e scrivere quello che nessuno allora era in grado di sape-
re, gli fanno ritrovare la via giusta che diventa la sua via, la Via di
Dante, quella che conduce alla vera conoscenza: il vero dio.
Tutto parte da quella diritta via che si smarrisce proprio mentre
attraversa il nemus...

La Via di Dante 11
DANTE, questo sconosciuto
La Divina Commedia è una delle opere di Poesia più alte ed
importanti che mente umana abbia mai concepito e Dante Alighieri
è ritenuto uno dei massimi geni poetici dell’umanità.
Sia dell’Opera che del suo Autore crediamo di conoscere tutto:
ogni momento della vita, ogni pensiero, ogni sua concezione filo-
sofico-politico-religiosa. Tali e tanti sono stati i biografi, gli studio-
si ed i commentatori che si sono cimentati nella ricostruzione della
vita del Poeta e nell’illustrazione della sua opera omnia, che sem-
bra assurdo possa esserci un episodio della sua vita ancora inesplo-
rato o un verso, una parola, un concetto, un elemento qualunque che
nasconda ancora qualche significato recondito. Questo si crede
anche se tutti sanno che la vita di Dante è stata travagliata e che i
significati dei versi danteschi non sempre sono stati correttamente
decifrati.
René Guénon, grande esperto di esoterismo, in un suo studio su
Dante su cui mi soffermerò più avanti, a questo proposito sostiene
che i gradi di lettura della Divina Commedia -come di molte opere
antiche- sono quattro e che il quarto significato dei versi più oscuri
non è mai stato individuato. È necessario, perciò, lavorare ancora
per arrivare -sempre che sia possibile- alla comprensione completa
almeno di alcuni passi dell’opera e, forse, anche del suo autentico
significato complessivo, quello che Dante nascose nei passi più
oscuri del poema perché solo pochi potessero individuarlo.
Ma perché un Autore dovrebbe rendere incomprensibile il suo
pensiero?
Oggi la cosa ci appare illogica. Se, però, pensiamo a quanto
accadeva ai suoi tempi a chi non seguiva l’ortodossia della Chiesa
di Roma, allora possiamo comprendere perché non sempre -ancora
oggi- è possibile decifrare i versi di Dante. Per evitare condanne ter-
ribili, egli ha dovuto nascondere il suo vero pensiero riguardo ad
argomenti allora molto scabrosi come quelli che sostenevano i
Catari o Albigesi, la popolazione che risiedeva nel sud della
Francia, nella regione della linguadoca, considerati eretici dalla
Chiesa di Roma, per i quali Dante parteggiava apertamente.
La Via di Dante 13
Erano tempi in cui l’eresia, vera o presunta, portava direttamen-
te sul rogo. Fu proprio sull’immane rogo di Montségur che, il 16
marzo del 1244, finirono le ultime resistenze dei Catari. Era neces-
sario, perciò, essere molto cauti e le cose pericolose dovevano esse-
re velate, nascoste, rese di difficile comprensione per i non adepti
ad Ordini come quelli dei Templari, dei Rosacroce, dei Maestri
Muratori...
Per comprendere, ancora oggi, quei veri e propri messaggi cifra-
ti contenuti nella Commedia, come la profezia del veltro, è necessa-
rio individuare una qualche sconosciuta chiave di lettura finora
sfuggita all’attenzione degli studiosi. Oppure, bisogna scoprire epi-
sodi ancora misteriosi della vita di Dante che possano condurre alla
giusta interpretazione dei suoi versi.
Come spesso avviene, sono le circostanze fortuite che fornisco-
no gli elementi necessari a decifrare un mistero.
Per la Divina Commedia forse è avvenuto proprio questo: una
circostanza fortuita che si è, però, aggiunta ad una serie di indizi che
avevano contribuito a creare i presupposti perché quella circostan-
za fortuita si verificasse. Avendo avuto, insomma, la giusta chiave
di lettura, come per incanto tutto è diventato chiaro: il significato di
pochi versi ancora oscuri e quello dell’opera intera.
In casi come questi, però, le circostanze sono solo apparente-
mente casuali. Non è scontato che la soluzione si mostri a chi non
abbia la giusta preparazione per riconoscerla. Per interpretare il cor-
retto significato di parole oscure per tutti, è necessario essersi prima
posti interrogativi che all’inizio sembrano assurdi e che in realtà
assurdi non sono, e che anzi, alla fine, si rivelano ovvii.
Io non sono un esperto della Divina Commedia, né ho fatto ricerche
particolari sulla vita di Dante. Quando ho cominciato ad interessarmi a lui,
l’ho fatto perché inseguivo Enea nel suo viaggio nel mondo dei morti alla
ricerca del padre Anchise. Mi sembrava che in quella vicenda Cuma e
l’Averno come lago, non c’entrassero per niente con l’averno, inteso come
mondo dei morti. Il motivo del mio scetticismo era quel ramo d’oro richie-
sto dalla Sibilla come condicio sine qua non per accedere al mondo dei
trapassati. Era il ramo d’oro che bisognava portare in dono a Proserpina.
Era il ramo d’oro che consentiva l’accesso al mondo dei morti.

14 La Via di Dante
Eppure, nessun commentatore, in duemila anni, aveva mai
messo in dubbio il testo poetico di Virgilio o la tradizione che vole-
va che l’ingresso al mondo dei morti fosse ubicato nei pressi del
lago Averno.
Mettere questo in discussione poteva sembrare, ora, solo una
mia idea bislacca e pretestuosa, oltre che folle, come solo un ine-
sperto dichiarato e conclamato come me poteva ardire di sostenere.
Ma non era così. Vedremo poi perché.
L’albero del ramo d’oro, però, non era sufficiente, da solo, a
spiegare l’arcano dantesco. Occorreva qualche altro elemento.
Ecco allora il caso e la fortuna intervenire decisivi.
Mio figlio Alessandro aveva acquistato l’edizione tascabile di un
libro d’autore sconosciuto, Adriano Petta. Il libro era intitolato
“Eresia pura”. Mio figlio non l’aveva ancora letto quando io lo tro-
vai nella sua stanza e lo lessi d’un fiato.
Contemporaneamente, Gianni, il libraio di Genzano, aveva rice-
vuto dall’editore un notevole numero di copie di quel libro e mi
aveva fatto conoscere l’Autore. Il motivo di tutto quel mio interes-
se era ovvio: la storia raccontata in quel libro iniziava dal lago di
Nemi, o meglio, dalla torre del piccolo borgo originario e l’azione
era ambientata nel 1207. La storia riguardava un personaggio tanto
importante quanto misconosciuto: il matematico Giordano de
Nemore che, a quel tempo, era solo un converso del monastero dei
Cistercensi presenti a Nemi.
Le vicende di Giordano che racconterò sinteticamente in segui-
to, mi fornirono gli elementi di prova che mancavano per la conva-
lida delle mie ipotesi sul vero significato dell’opera di Dante.
Quella storia, infatti, era autentica e documentata anche se rac-
contata in forma di romanzo.
Le mie ipotesi cominciavano a prendere forma e trovavano le
conferme mancanti.
Dante mi si rivelava personaggio ancora sconosciuto di cui pote-
vo comprendere le vere motivazioni che lo avevano indotto a scri-
vere la Commedia e i suoi versi oscuri, attraverso Petta, si illumi-
navano ora del significato autentico, quello più nascosto, quello che
non avrebbe potuto rivelare se non a rischio della propria vita e che

La Via di Dante 15
aveva celato nel quarto livello di lettura riservato ai pochi che pote-
vano comprenderne il significato esoterico, quello vero.
In effetti alcuni suoi versi sono stati così oscuri che, fino ad oggi,
nessuno è mai riuscito a decifrarli.
Grazie a strane combinazioni, a fortunate coincidenze, alla sto-
ria di Giordano de Nemore e dei Catari raccontata da Adriano Petta,
grazie ancora a James Frazer e al suo Il Ramo d’Oro, agli studi sulla
valle del lago di Nemi, sul rex nemorensis, ad un’intuizione “folle”
oggi quei versi sono diventati così chiari e semplici che stento a cre-
dere che, in oltre sei secoli, nessuno sia riuscito a scoprirne il signi-
ficato più autentico e profondo, che consente di comprendere anche
quello più generale della Divina Commedia.
Per arrivare a questo risultato, però, è stato indispensabile chia-
rire alcuni aspetti del tutto sconosciuti della vita del Grande
Fiorentino.

Da: Mario Geymonat, Pagine di Epica classica, pag. 281, fig. 38,
Zanichelli editore S.p.A., Bologna
La raffigurazione dell’ingresso al mondo dei morti come descritto
da Virgilio e interpretato dallo studioso Mario Geimonat.
L’ambiente somiglia straordinariamente alla valle del lago di Nemi.
Unica diversità: qui l’albero sacro, l’olmo oscuro è posto sottoterra,
dopo l’antro d’ingresso al mondo dei morti mentre nel nemus era
l’albero posto al centro della radura sacra.

16 La Via di Dante
“O voi che avete gli intelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto il velame delli versi strani”
Il numero degli studi e dei saggi su Dante e sulla Divina
Commedia è sterminato, “indefinito” direbbe Niccolò da Cusa per
evitare di usare il vocabolo “infinito”, allora proibito dalla Chiesa
Cattolica se non riferito alla grandezza dell’Onnipotente.
Pur tuttavia, ripeto, molti aspetti della vita del Poeta e della sua
Opera sono rimasti finora completamente oscuri e di molti suoi
versi si ignora il significato vero, quello autentico e profondo, del
quarto livello, il più nascosto.
E non perché gli studiosi non abbiano provato a dare risposte
credibili, ma proprio perché non hanno potuto comprendere il signi-
ficato che il Poeta ha volutamente nascosto -e così bene- che finora
non è stato possibile decifrarlo.
C’è anche da dire che probabilmente il poema dantesco non è
stato mai studiato partendo dall’origine, dai luoghi o dalle opere che
possono aver influenzato l’ispirazione di Dante e che possono aver
contenuto quegli elementi chiave che consentivano, alla fine, di
individuare anche -e fino in fondo- il vero pensiero dantesco.
Ma quali sono questi elementi finora rimasti sconosciuti?

O mente che scrivesti ciò ch’io vidi


C’è stato e, se sì, quale è stato l’ambiente reale visto da Dante,
da cui può aver tratto l’ispirazione per l’ambientazione delle prime
due cantiche e quali significati, nascosti in alcuni versi, rappresen-
tano ancora un mistero per tutti?
Nel suo saggio “L’esoterismo di Dante”, René Guénon mette in
rilievo come il Poeta stesso indichi che le scritture, e non solo quel-
le sacre,
-....compresa la Divina Commedia- si debbono leggere secondo quat-
tro diversi significati.

Di questi quattro, ve n’è uno occulto che può essere inteso solo
conoscendo i segreti noti agli appartenenti a sette esoteriche o ad
La Via di Dante 17
Ordini come quello dei Cavalieri del Tempio -i celeberrimi
Templari- un tempo potentissimo, i cui adepti avevano conoscenze
ignote a tutti i comuni mortali.
Questo quarto significato, dice ancora Guénon, una volta sco-
perto, aiuta a comprendere anche gli altri tre.
Intorno a questi principi si sono mossi molti studiosi cercando di
individuare i significati nascosti ed esoterici contenuti nei versi dan-
teschi. Finora, però, tutto si è fatto prescindendo dall’esaminare il
luogo reale che poteva aver effettivamente ispirato il Poeta. Forse,
scoprendo qual era il panorama reale che poteva aver ispirato
Dante, si sarebbe potuto indagare su storia, miti culti e simboli lega-
ti a quello stesso posto e tentare di comprendere anche i significati
nascosti nella scena poeticamente rielaborata in cui si svolge l’a-
zione. Questo, almeno per le prime due Cantiche, l’Inferno e il
Purgatorio. La comprensione dei versi di significato ancora oscuro,
poteva poi forse rivelarci anche il vero motivo che spinge il Poeta a
scrivere un’opera che porta nel mondo dei morti e, infine, a farci
finalmente comprendere qual è il suo più recondito ed autentico
significato, quello del quarto livello segreto.
Certo, un’impresa così non poteva che essere considerata vellei-
taria, da me soprattutto, che sapevo perfettamente quali erano i miei
limiti di conoscenza dell’opera dantesca. Le indagini da me com-
piute -per tutt’altro motivo- sul Vulcano Laziale, sul nemus e sul
cratere nemorense avevano conseguito, però, in questi ultimi anni,
risultati incredibili che cominciavano a riguardare anche Dante e i
suoi rapporti -ancora totalmente sconosciuti- proprio con i Colli
Albani ed il cratere nemorense.
La prima parte di questa indagine, dalle origini fino a Costantino
il Grande, sono ora esposti diffusamente in un mio libro intitolato
“Dalla Pentima del Piccione” (l’alta roccia a picco sul cratere dove
sorge Nemi), Ventucci Editore, 2008.
Miti e culti universali mai ritenuti legati al nemus, hanno invece
qui ritrovato la loro sede naturale prima sconosciuta, e il loro signi-
ficato oscuro è diventato chiaro, credibile e giustificato.
Nell’ambito di questo studio, sempre più si rivelavano indizi che
confermavano anche quelle più che ardite ipotesi su Dante, che

18 La Via di Dante
diventavano, così, piano piano, la base per la scoperta più impreve-
dibile e sorprendente: il rapporto tra Dante e i Colli Albani non solo
c’era stato, ma aveva lasciato anche una straordinaria traccia nella
Divina Commedia di cui nessuno, finora, si è mai accorto!
Quella convinzione di uno stretto legame tra Colli Albani e
Dante si basava sia sulle affermazioni dello stesso poeta contenute
nella sua epistola a Can Grande della Scala, in cui rivela di aver
visto direttamente e personalmente tutto quello che nella Commedia
aveva descritto, sia sulla perfetta conoscenza, da parte mia, e non
solo fisica, ma anche storico-simbolica, dei luoghi in cui era nata la
civiltà romana: i Colli Albani in generale e il cratere nemorense in
particolare.
Questi luoghi sempre più somigliavano alle descrizioni dante-
sche del mondo ultraterreno, tanto da poter cominciare a pensare a
formulare una seria ipotesi riguardante il luogo-ispirazione per
l’ambientazione della Divina Commedia.
L’idea assurda cominciava a diventare una via praticabile.
Mentre la ricerca era ancora incompleta, il caso ha voluto che mi
imbattessi in un’opera il cui contenuto mi ha poi condotto forse ad
una scoperta ancor più sensazionale: il motivo vero per cui Dante
potrebbe essere venuto qui! Non doveva esser venuto solo a visita-
re uno dei luoghi più magici e sacri della storia dell’Umanità per
utilizzarlo come ispirazione per l’ambientazione della sua opera,
come avevo fino a quel momento ritenuto, ma anche a controllare
dove e come potevano essere state qui conservate per alcuni secoli
conoscenze che ancora la Chiesa voleva tenere nascoste.
Ma andiamo con ordine.

Il mio studio partiva da molto lontano. Lo scopo per cui era ini-
ziato era la necessità di documentarmi sulla storia, i miti, i culti, la
mitologia legati al bosco sacro a Diana, il nemus, per giungere alla
più corretta ideazione, progettazione e realizzazione di un’ambizio-
sa opera di rivalutazione del territorio proprio dell’antico nemus: il
Parco del Ramo d’Oro, un grande parco naturalistico-storico-
archeologico che dovrebbe comprendere tutta la valle del lago di
Nemi, un tempo ricoperta proprio dal piccolo bosco rado.

La Via di Dante 19
Dante e la sua Commedia non potevano essere più lontani dalle
mie indagini, mai più immaginando un qualsiasi collegamento tra il
piccolo, ceruleo lago del borgo di Nemi, la sua valletta craterica ed
il mondo dei trapassati.
Avevo trovato il primo indizio, che mi aveva in qualche modo
insospettito, molti anni fa, leggendo Il Ramo d’Oro, opera di antro-
pologia universalmente nota, di James Frazer.
L’antropologo scozzese aveva indicato proprio nel ramo d’oro
dell’albero sacro del nemus quello che Enea strappa per portarlo in
dono a Proserpina nella sua discesa nel mondo dell’oltretomba. La
questione era, però, complicata da Virgilio che indicava un altro
luogo per l’ingresso al mondo dei trapassati dell’eroe troiano: un
antro nei pressi del lago Averno vicino a Cuma, la prima colonia
greca sul suolo italico, dove operava una famosissima Sibilla i cui
responsi erano molto ricercati e tenuti in grande considerazione.
Con il tempo, con il proseguire delle ricerche sul nemus, ho
potuto acquisire elementi nuovi e significativi e tali da far identifi-
care con il nemus aricinum -il bosco con radure sacro a Diana ari-
cina-nemorense- quello dove Enea avrebbe dovuto trovare l’antro
per raggiungere l’oltretomba.
Il passo necessario per collegare il nemus anche alla selva oscu-
ra dantesca, dove il Vate si smarrisce, è stata, infine, per me, una
semplice, logica deduzione.
Contrariamente a quanto mi ricordassero i miei superficiali studi
danteschi, risalenti ai tempi del liceo, ad una nuova ed attenta lettu-
ra del primo canto dell’Inferno, ho potuto rilevare che i riferimenti
all’ambiente Laziale sono molto numerosi e niente affatto casuali.
Non essendo uno studioso di letteretura né un esperto dantista, non
sapevo niente nemmeno del meccanismo della sua ispirazione.
Tuttavia, avevo azzardato su Omnia,la voce del nemus, la rivista che
per alcuni anni ho curato insieme al prof. Pino Bevilacqua, una
nuova e del tutto originale ipotesi riguardante Dante e il suo rap-
porto -mai rilevato prima- con i Colli Albani. Dante, ripeto, poteva
essere arrivato sui Colli Albani per vedere i luoghi delle origini di
Roma, la terra del popolo Latino cantata da Virgilio, e qui poteva
aver tratto molti spunti di ispirazione per la sua opera. Soprattutto il

20 La Via di Dante
primo canto dell’Inferno sembrava essere impregnato dell’atmosfe-
ra magica che ancora oggi si respira nel cratere nemorense dove un
tempo c’era il nemus.
Era solo una sensazione, ma valeva la pena di lavorarci su.
Nonostante l’ipotesi fosse del tutto nuova e sembrasse per lo
meno ardita anche e soprattutto a me che la formulavo, inaspettata-
mente ebbe molti consensi proprio nel mondo della scuola locale.
Insistetti nella ricerca che rivelava sempre nuovi, sorprendenti
indizi finché, ancor più inaspettata ed indiretta, ma precisa e
netta, giunse la prima, autorevole conferma alla mia teoria che
voleva Dante aver tratto, per i suoi versi, ispirazione anche dal-
l’ambiente naturale dei Colli Albani.
Erano proprio i suggestivi scorci dei grandi boschi che ricopri-
vano le colline su cui si era formata la civiltà latina che, secondo
me, avevano fornito a Dante l’idea per la concezione della sceno-
grafia dove si svolge l’azione delle prime due cantiche della Divina
Commedia. La conferma a queste mie ipotesi mi era data da un arti-
colo dedicato a Dante apparso sulla pagina culturale del prestigioso
quotidiano “Il sole 24 ore”.
L’articolista sosteneva che ogni cosa cantata da Dante, egli l’a-
veva prima vista con i propri occhi; faceva parte, insomma, di sue
particolari e specifiche esperienze personali.
Per affermare la sua ipotesi l’Autore, CarloOssola, scriveva:
“Ma Dante è poeta-teologo, e filosofo, che non si contenta
dell’”allegoria dei poeti” e nella sua Epistola a Cangrande della
Scala (nella quale spiega come accedere alla lettura della sua
Commedia), richiamando l’autorità di Aristotele (“sicut res se habet
ad veritatem”), afferma che il suo testo è sempre vero (e tanto
più nel Paradiso, dedicato all’eterno vero di beatitudine), intera-
mente vero nella lettera prima ancor che nell’allegoria, poiché
“veritas de re, quia in veritate consistit tanquam in subiecto, est
similitudo perfecta rei sicut est” (la verità consiste come nel suo
proprio soggetto, è la perfetta similitudine della cosa stessa al suo
essere nell’è”).
Carlo Ossola Il Sole 24 ore, domenica 15 febbraio 2004.

Tutto questo l’articolista scriveva per dare forza e credibilità


alla sua ipotesi sull’ispirazione tratta da Dante dalla visione dei
La Via di Dante 21
mosaici di Santa Maria Maggiore a Roma, mosaici che Dante non
poteva non aver visto durante la sua permanenza a Roma, quando,
nel 1300, era venuto nell’Urbe con la delegazione fiorentina che
doveva trattare con il papa Bonifacio VIII.
Il verso che il mosaico romano gli avrebbe ispirato è quello ini-
ziale della preghiera di San Bernardo alla Madonna:
“Vergine Madre figlia del tuo Figlio...”.
Il mosaico cui allude Ossola svolge proprio questo tema poiché
il Figlio è dietro la Madre morente ed ha in braccio l’anima di un’
infante: la Madre è diventata Figlia del Figlio!
L’articolo di Carlo Ossola è stato pubblicato nel febbraio
2004, tredici mesi dopo che su Omnia la voce del nemus (novem-
bre-dicembre 2002), avevo avanzato l’ipotesi che Dante si era ispi-
rato al nemus per la sua selva oscura, citata nell’incipit dell’opera.
Era, quella di Ossola, una conferma importante, il segno che la
chiave di lettura che stavo usando non era del tutto priva di fonda-
mento. Potevo proseguire senza essere ridicolizzato dal primo sac-
cente che avesse letto i miei articoli.
La segnalazione di quell’articolo mi era stata fatta da un amico, già
Preside del Liceo Classico di Albano Laziale, il professor Vitelli, che

L’immagine pubblicata dal Sole 24 ore mostra il mosaico


di S. Maria Maggiore, in Roma, che Dante avrebbe visto
durante il suo soggiorno a Roma, nel 1300.

22 La Via di Dante
aveva apprezzato le mie ipotesi su Dante e i Colli Albani e mi invitava
a proseguire.
Lo studio successivo dell’opera dantesca ha messo in evidenza
una serie notevole di riferimenti che potevano ricondursi al nemus
e all’ambiente del Vulcano Laziale. Non un caso episodico e fortui-
to, perciò, ma una serie di particolari importanti che prima lasciano
perplessi, ma che poi -superata la sorpresa iniziale- diventano asso-
lutamente convicenti.
L’aver tratto da questi luoghi l’ispirazione per l’ambientazione
della Divina Commedia, se poteva essere un ulteriore, prestigioso
elemento per quella valorizzazione del territorio che da anni cerco
di perseguire per i luoghi dove sono nato e vissuto, non era, però, di
molto aiuto per la comprensione del significato nascosto dei versi
fondamentali del poema dantesco.
Tutto questo, però, doveva fare prima i conti con la possibilità
materiale che Dante conoscesse i luoghi un tempo dedicati a Diana.
Poteva Dante aver visitato i Colli Albani?
Era questa l’obiezione più importante che mi veniva rivolta dagli
esperti dantisti locali.
Con sicurezza mi si diceva:”Dante non può essersi ispirato ai
Colli Albani per un motivo molto semplice: non è mai venuto da
queste parti”.
Era vero. Nessuna biografia di Dante ha riferito mai di un suo
viaggio sui Colli Albani, ma, allo stesso modo, nessun documento
attesta con certezza la sua venuta a Roma. Come mai tutti i biogra-
fi danno la presenza a Roma di Dante come sicura?
Non essendoci notizie certe, la cosa si presume avvenuta perché,
nel XVIII canto dell’Inferno il poeta dà la prova della sua presenza
romana per la descrizione che fa dei luoghi dove passavano i pelle-
grini a Roma per il Giubileo del 1300. Vediamo:
Nel fondo erano ignudi i peccatori:
dal mezzo in qua ci venìen verso ‘l volto,
27. di là con noi, ma con passi maggiori,
come i Roman per l’esercito molto,
l’anno del giubileo, su per lo ponte
30. hanno a passar la gente modo colto,

La Via di Dante 23
che da un lato tutti hanno la fronte
verso ‘l castello e vanno a Santo Pietro;
33. da l’altra sponda vanno verso ‘l monte.
I commentatori, da questo passo rilevano che Dante racconta,
per averlo visto, quello che accadeva a Roma durante il giubileo del
1300, quando folle di pellegrini si accalcavano su ponte
Sant’Angelo. Per evitare confusione i pellegrini furono fatti proce-
dere in modo colto, cioè in maniera ordinata: da un lato coloro che
andavano verso la basilica di San Pietro, dall’altro lato quelli che
tornando dalla basilica procedevano verso Monte Giordano, la pic-
cola collina prospiciente la Mole Adriana, nota allora per esservi
sorte le case degli Orsini.
Come abbiamo visto anche Ossola sostiene che Dante, a Roma
per il giubileo, non poteva non aver visitato Santa Maria Maggiore
dove non poteva non aver visto i recentissimi mosaici, uno dei quali
raffigurava la morte della Madonna mentre la sua anima bambina è
in braccio a Gesù, raffigurato dietro la madre morente.
Ma se quanto riporta Dante su Roma -che poteva benissimo
essergli stato riferito anche nei minimi particolari- diventa la
prova della sua presenza nell’Urbe, perché non riconoscere nei
versi del primo canto dell’Inferno e in quelli del canto finale e dei
primi e degli ultimi canti del Purgatorio le descrizioni di luoghi
facilmente visibili e caratteristici dei Colli Albani? Solo perché il
poeta non cita i luoghi? E come poteva farlo se quei luoghi erano,
nel poema, simbolici, a differenza della citazione delle vie di Roma
che erano il luogo dove si svolgeva l’azione? Per i Colli Albani
dobbiamo saper interpretare la verità che si cela dietro i simboli.
Sapere, comunque, che Dante poteva essersi ispirato alla scena del
cratere nemorense non aggiungeva molto alla comprensione dei
significati nascosti dell’opera, ma fare quella connessione tra Divina
Commedia e nemus è stato fondamentale per cogliere l’altra occasio-
ne determinante: quella della possibile scoperta del quarto senso del-
l’opera, o, almeno, quello di quei versi sempre rimasti misteriosi non
ostante le innumerevoli ipotesi avanzate da tutti i critici. Il loro senso
nascosto non poteva essere compreso se prima non si fosse scoperto
quello che solo Dante e pochi altri, allora, conoscevano.
24 La Via di Dante
Il nemus sembrava fornire, insomma, la chiave di lettura per
interpretare nel senso giusto non solo alcuni versi della Commedia,
ma anche, con quelli, il suo tema generale, quello più oscuro,
cogliendone il significato più recondito.
Diventava possibile capire lo scopo primo del Poema e com-
prendere appieno il suo significato più autentico e profondo: quel
misterioso quarto senso cui accenna Guénon.
In realtà mi sembrava un po’ troppo.
Nessun esperto conoscitore della vita e delle opere di Dante era
mai arrivato a tanto. Possibile che un simile risultato potevo otte-
nerlo io che la Divina Commedia l’avevo letta soltanto ai tempi del
liceo, ormai lontani oltre un quarantennio?
La risposta, però, poteva anche essere positiva perché determi-
nante per questa scoperta non era tanto la mia conoscenza appro-
fondita dell’opera dantesca, cosa che certamente non avevo, quanto
quella dell’antichissima storia del cratere nemorense che mi aveva
portato a fare continui collegamenti tra eventi storici o mitici di
carattere universale e il cratere nemorense.
In questo tipo di ricerche, invece, stavo diventando un autentico
esperto, l’unico forse. Mi stavo rendendo conto che studiare Dante
senza la conoscenza dell’essenza profonda del nemus aricinum
-cosa che i commemtatori danteschi non si sono mai preoccupati di
avere- non poteva portare alla scoperta della chiave di lettura giusta
per comprendere il significato che Dante ha nascosto nei suoi versi.
Questo era ormai il mio convincimento.
Per questo non dovevo considerarmi un illuso o un esaltato, ma
un privilegiato cui era capitata un’imprevedibile quanto eccezional-
mente fortunata opportunità: avere in mano la giusta chiave di let-
tura per comprendere finalmente il significato che Dante aveva
nascosto in alcuni versi della sua opera maggiore. Ero riuscito a fare
proprio io quei collegamenti per aver letto -per caso, ma non trop-
po- due opere che mi avevano dato quasi le prove che Dante si era
veramente ispirato sia all’ambiente fisico dei Colli Albani, sia alla
loro antica storia e tradizione per ambientare le due prime cantiche
e che la conoscenza di altri segreti -che con le sue opere ora Adriano
Petta rivelava- gli aveva consentito di immaginare e tradurre in sublime

La Via di Dante 25
poesia la sua più famosa ed oscura profezia, quella del veltro.
Ancora una volta, un’idea che definire, all’inizio, “ardita” pote-
va apparire un benevolo eufemismo, si rivelava, con l’acquisizione
delle informazioni giuste, un’intuizione vincente.
Come è stato possibile? Qual è, infine, quella storia illuminante?
Prima di dare una risposta accettabile a questi interrogativi biso-
gna compiere un ulteriore sforzo: rivedere i fatti della storia esami-
nandoli con meno pregiudizi e con maggiore obiettività.
La conoscenza del significato nascosto -il vero motivo per cui
Dante scrive-, potevo ora comprenderlo bene, era motivo sufficien-
te per far fare una fine violenta e prematura anche al Vate, come era
toccato a molti altri personaggi in quei periodi oscuri e tormentati,
quando il rogo o il veleno non si lesinavano ai nemici -veri o pre-
sunti- della Chiesa di Roma.
Dante era riuscito a sfuggire a questo destino? Vedremo.
Quella nuova storia illuminante riguardava Giordano de Nemore
o Nemorario o Giovanni de Sacrobosco, un importante personag-
gio, matematico ed astronomo vissuto nel 1200, autenticamente sto-
rico -anche se non riportato dai comuni libri di testo scolastici- a me
completamente ignoto. La sua conoscenza fatta attraverso Eresia
pura e Roghi Fatui, opere di Adriano Petta, un appassionato di sto-
ria e, come me, non un cattedratico, ora ritengo sia diventata fonda-
mentale per comprendere appieno anche alcuni degli eventi cultu-
rali e politici importanti accaduti dal XIII al XVII secolo. Una sto-
ria che inizia ancora una volta sulle rive del lago di Nemi -o meglio,
sulla Pèntima del Piccione, l’alta rupe su cui sorge la maestosa
torre di Nemi- per interessare tutta l’umanità, un evento ricorrente
per l’antico nemus.
Quella storia mi confermava ancor più che non solo il luogo che
io ipotizzavo essere stato il modello che aveva ispirato la scena
della Divina Commedia era proprio il nemus, ma che questo posto,
regno di Diana, la dea misteriosa del sapere occulto oltre che della
“caccia”, aveva tramandato -non a caso- segretamente proprio la
“fonte del sapere antico”. E quel sapere antico e sconosciuto a tutti
mostrava invece di avere Dante.
Quel sapere aveva scoperto Giordano de Nemore che, sorpreso

26 La Via di Dante
NEMI, LA TORRE ANTICA.
È la torre più antica dei Castelli Romani, raffigurata com’era nel XV secolo in un affre-
sco dipinto all’interno della grotta del romitorio di Sant’Arcangelo e in uno schizzo di
G. Tommasetti, ripreso dallo stesso dipinto.
La torre è già parte dell’oppidum, citato in documenti ufficiali d’archivio nel 1145, dive-
nuto, poi, castrum nel 1183.
Dante ha visto, perciò, nel 1300, la parte più antica di Nemi con la sua alta torre, un vero
e proprio fortilizio in cui si potevano ben custodire i documenti segreti di cui parla
Adriano Petta nel suo libro, Eresia Pura.

La Via di Dante 27
a consultarlo, cosa assolutamente vietata, per salvarsi era fuggito
dalla torre di Nemi. Proprio lì, sull’alta rupe e nella torre, infatti,
secondo Petta, le opere che tramandavano le antiche conoscenze
erano rimaste segretamente occultate per sei secoli.
Quelle opere erano giunte dall’oriente nel 663 d.C. portate da
Aser, un giovane a cui l’aveva affidate Anania di Shirak, un grande
erudito armeno, allo scopo di tramandarle ed utilizzarle.
L’Autore immaginava che Giordano, dopo essere stato scoperto
dal papa Innocenzo III e da Arnauld-Amaury, abate di Cîteax, capo
dei Cistercensi, che nella torre di Nemi avevano deciso la strage dei
Catari per la loro perdurante eresia (i Catari erano accusati di gno-
sticismo), avesse raggiunto la salvezza percorrendo l’antichissimo
cunicolo dell’emissario del lago di Nemi, per finire a Vallericcia e
da qui giungere prima ad Ostia e poi nella regione francese dei
Catari, la stessa dove era nato l’Ordine dei Cavalieri del Tempio. I
volumi contenenti quelle conoscenze Giordano de Nemore li aveva
poi ritrovati -alla fine della sua vita- nell’abbazia benedettina di
Santa Colomba a Sens in Francia, e da qui li aveva trafugati e messi
segretamente in salvo.
Tra queste conoscenze ce n’era una in particolare -che Adriano
Petta svela nella seconda parte della storia, Roghi Fatui- che diven-
ta determinante per decifrare la profezia più misteriosa della
Commedia, quella del veltro.
Tutte quelle antichissime conoscenze, comunque, la Chiesa
osteggiava sopra ogni altra cosa e non esitava ad annientare chi
osava propagarle.
Non a caso, allora, Dante, che quel sapere occulto in qualche
modo doveva conoscere, veniva considerato molto vicino agli
Albigesi o Catari, e comunque vicino alle posizioni di quegli ereti-
ci, perseguitati dalla Chiesa romana perché ricercavano la cono-
scenza come bene supremo, identificandola con Dio. Lo gnostici-
smo, fin dalle origini del cristianesimo considerato eretico, era
sopravvissuto proprio nella regione dei Catari che forse non a caso
aveva visto nascere anche l’Ordine dei Templari.
Giova ricordare che la Chiesa condusse una vera e propria cro-
ciata contro i Catari e non si fermò se non quando ebbe sterminato

28 La Via di Dante
i detentori di quella conoscenza che era considerata una pericolo-
sissima eresia. Chi non ricorda, per esempio, che lo stesso Galileo
Galilei, ai primi del XVII secolo, rischiò di finire sul rogo per le sue
teorie sulla forma ed il funzionamento del sistema solare?
Nel 1300 anche la sfericità della Terra era ignorata e nulla si
sapeva di molte altre conoscenze antiche orientali tra cui anche
quella dei numeri indiani oggi noti come numeri arabi: quelli che
ormai tutto il mondo utilizza in matematica e nella vita. Quei nume-
ri, ci racconta Petta, per la Chiesa del XIII secolo, potevano essere
usati esclusivamente per il commercio ed erano assolutamente proi-
biti per lo studio dell’astronomia, cosa che poteva comportare il
rischio di finire sul rogo.
Con i Catari, sul rogo immane di Montségur, era finito nel 1244
anche Giordano de Nemore che quei numeri aveva scoperto nella
torre di Nemi e aveva trasmesso al matematico Fibonacci. Proprio
in extremis era riuscito a mettere in salvo molte delle conoscenze un
tempo conservate in quella torre alta sul lago nemorense.
Quella storia fu per me una lettura folgorante!
Le notizie sbalorditive del romanzo storico completo di Petta
-comprendente anche la seconda parte, Roghi Fatui- chiudevano
definitivamente il cerchio.
Era l’ultimo elemento, l’anello a me mancante per individuare i
segreti nascosti nel quarto, segretissimo significato celato
dall’Autore nell’opera sua divina.
E la conoscenza del quarto senso finalmente
squarcia il velame che nasconde la dottrina

e dà la misura completa dell’autentica grandezza del Poeta e della


sua Opera.

La Via di Dante 29
I COLLI ALBANI: Il modello della scena
Torniamo ai luoghi ispiratori della scena del viaggio dantesco.
Non intendo riferirmi ai luoghi simbolici che Dante sceglie per
organizzare il suo viaggio nel mondo dei morti e delle anime cele-
sti. Questo è quello che tutti i critici e gli studiosi di Dante sanno ed
indicano: l’inferno è posto sotto la città di Gerusalemme e il monte
del Purgatorio è ai suoi antipodi. Da notare soltanto che già solo da
questa affermazione si deduce che Dante conosce perfettamente la
forma sferica della Terra, conoscenza, come abbiamo appena visto,
non proprio diffusa ai suoi tempi!
Proprio il ragionamento contenuto nella lettera di Dante a
Cangrande della Scala, secondo la quale ogni cosa cantata da Dante
nella Commedia è frutto di una sua reale osservazione e di espe-
rienze vissute, fa ritenere che proprio l’ambiente in cui il poeta fa
svolgere le vicende principali dev’essergli stato ispirato da uno o
più luoghi reali da lui visitati e ritenuti particolarmente affascinanti
e ricchi di significati simbolici, comunque tali da poterli trasforma-
re in quelli dove si svolge il suo fantastico viaggio.
Ma quali possono essere questi luoghi?.
Insomma, dov’è che Dante ha “visto” veramente e fisicamente
l’ingresso all’Inferno e quale monte gli ha ispirato quello dove
ubica il Purgatorio? Dov’è la “selva oscura” reale e qual è la mate-
riale “diritta via” smarrita? Potevano essere, questi luoghi, ubicati
sui Colli Albani e qui osservati dal Poeta?
Vediamolo, ma andiamo con ordine.

Come nasce l’idea di un possibile contatto tra Dante e i Colli


Albani? Perché mai il poeta fiorentino avrebbe dovuto venire pro-
prio a visitare dei piccoli borghi agricoli che stavano rinascendo sui
Colli Albani dopo la catastrofe demografica seguita alla caduta
dell’Impero Romano?
Sulle antiche rovine di immense ville imperiali, di grandiosi
templi una volta famosissimi, utilizzando i materiali antichi i pochi
contadini, seguendo i frati Cistercensi, stavano riaggregandosi in
piccoli borghi che fortificavano con mura e torri per difendersi dalle
30 La Via di Dante
angherie dei signorotti vicini e dalle incursioni dei saraceni.
Nemi già è Castrum, cioè luogo fortificato nel XII secolo. Al
centro del fortilizio una torre già antica, grande ed alta, la più anti-
ca ed importante dei Colli Albani.
Il fundum Cynthianum, proprietà dei Cistercensi, la futura
Genzano, diventa castrum nel 1236, data che è ormai considerata
quella della nascita della moderna città.
Come si vede, come luoghi urbanizzati i borghi posti sul cratere
nemorense non erano, ai tempi di Dante, in grado di attirare la sua
attenzione. Ariccia ed Albano non erano più grandi o importanti.
Erano tutti modestissimi borghi che potevano ospitare duecento-tre-
cento abitanti al massimo.
Perché, allora, venire proprio qua?

Il castello di Nemi nel sec. XV

La Via di Dante 31
FRAZER, VIRGILIO ed il VI canto dell’Eneide
Lo spunto per la mia indagine era stato offerto dall’attenta lettu-
ra di un brano di James G. Frazer, autore del celeberrimo e già ricor-
dato Il Ramo d’Oro.
“Nel recinto del santuario di Nemi cresceva un albero da cui non
era lecito spezzare alcun ramo. Soltanto uno schiavo fuggitivo, se
ci fosse riuscito, poteva spezzarne uno. In questo caso egli aveva il
diritto di battersi col sacerdote, e, se l’uccideva, regnava in sua
vece col titolo di re del bosco, rex nemorensis. Secondo l’opinione
degli antichi, questo ramo fatale si identificava con quel ramo
d’oro che Enea colse per invito della Sibilla prima di accingersi
al suo periglioso viaggio nel regno dei morti”.
James G. Frazer Il Ramo d’Oro.edizione Boringhieri, pag. 10.

Dunque, il ramo d’oro che Enea deve portare in dono a


Proserpina, se interpretavo bene il Frazer, non poteva che essere quel-
lo che una tradizione, che risaliva ai primordi dell’umanità -per i quali
non bisognava risalire oltre i 40-50 mila anni fa-, si identificava con
quello che cresceva sulla magica quercia custodita dal rex nemoren-
sis nella valle del lago di Nemi, da cui Frazer partiva per il suo straor-
dinario viaggio nel mondo della mente umana alla ricerca dei motivi
che hanno condotto allo sviluppo intellettuale dell’Uomo.
Era necessario, però, rivisitare il racconto da cui Frazer era par-
tito per identificare l’accesso all’oltretomba, quello che Virgilio
narra nel VI canto dell’Eneide.
“O progenie dardànide d’Anchise,
o generato da divino sangue,
agevole è discendere all’Averno
185 perché la porta dell’oscuro Dite
è aperta notte e dì; ma far ritorno,
ma uscirne fuori all’aure della Vita,
è questa l’opra, l’ardua impresa è questa!
Pochi han potuto ciò figli di Dei,
190 che benevolo Giove predilesse
e che fiammeo valore assunse ai Cieli.
Tutto, nel mezzo, è folto di foreste,
ed il Cocito intorno le ricinge

32 La Via di Dante
con lento corso livido fluendo.
195 Ma se hai tanto amore e tanta brama
di varcar due volte il lago stigio
e di veder due volte il negro Tàrtaro;
se vuoi tentare questa folle impresa,
or odi quello che compir tu devi.
200 Cèlasi in un’opaca arbore un ramo
che d’oro ha il fusto flèssile e le foglie
e alla Giunone infera è consacrato;
tutta la selva lo ricopre, tutta
lo chiude l’ombra delle valli oscure.
205 Ma scendere non può nelle segrete
vie della Terra chi non abbia còlto
dall’albero l’aurìcomo virgulto,
ché la bella Proserpina prescrisse
che recato le sia per suo tributo;
210 se svelli il primo ne rispunta un altro
pur d’oro, e d’oro il fusto gli s’infronda.
Tu dentro dunque invèstiga con gli occhi
per cercarlo, e come tu lo scorga
spìccalo con la man come è prescritto;
215 esso la seguirà facile e pronto
se te chiamano i Fati; in caso avverso
vincerlo non potrai per forza alcuna,
stroncarlo non potrai con duro ferro...”
Virgilio, Eneide, canto VI, versione e commento di Guido Vitali
Edizioni A.P.E. Mursia

Il racconto del grande poeta latino sembrava non lasciare adito a


dubbi di sorta: Enea, trovato il ramo d’oro con l’aiuto di due bian-
che colombe inviategli dalla madre, la dea Venere, entra nell’antro
che conduce nel regno dei morti, accompagnato dalla Sibilla, per la
sua discesa all’Averno.
Virgilio indica una fitta ed oscura selva come luogo dove Enea
trova il prezioso ramo d’oro. Poi, però, Virgilio fornisce anche l’e-
timologia della parola Averno che è riconducibile al greco A-orno,
con a=alfa privativo e orno=uccello e dunque luogo privo di, senza
uccelli: il lago denominato Averno=senza uccelli era quello, notis-
simo, in prossimità della città di Cuma e vicino alla grotta della
La Via di Dante 33
celeberrima Sibilla Cumana, nella zona dei Campi Flegrei, forte-
mente vulcanica, da cui esalavano vapori di zolfo in grado di ucci-
dere qualsiasi uccello avesse sorvolato il lago e i luoghi limitrofi.
Un luogo veramente infernale, che poteva suggerire a Virgilio solo
desolazione. Era l’opposto, insomma, di un luogo ricco di vita come è
un bosco fitto e rigoglioso. Ma era proprio quello del lago Averno, il
luogo desolato, ricco di velenosi vapori solforosi che poteva ispirare
l’idea del mondo dei morti o, almeno, del suo ingresso?
Questo è quanto abbiamo appreso da secoli di critica letteraria su
Virgilio, mai pensando alcuno di noi di mettere in dubbio la parola
del grande mantovano considerato anche “grande storico” oltre che
poeta ed esperto conoscitore di verità occulte.
Tra i critici, troviamo chi, come Mario Geymonat, descrive bene e
disegna l’ingresso all’aldilà con tutto il percorso che Enea compie, com-
presa una radura con al centro l’albero del Ramo d’Oro-Olmo scuro.
Questo era proprio quello che Virgilio voleva far credere, ma
diceva la verità?
I miei dubbi a questo proposito, dopo la lettura de Il Ramo d’Oro
erano sempre stati fortissimi, ma c’era qualcosa che mi sfuggiva.
Ma come poter mettere in discussione un uomo come Virgilio?
Eppure le considerazioni di Frazer erano logiche e convincenti.
Cosa c’era che non quadrava?
Non riuscivo a dare che una sola spiegazione.
Virgilio è amico intimo di Augusto e per lui scrive l’Eneide.
Vuole esaltare le origini della famiglia Giulia e canta le gesta del
suo capostipite, Enea, l’eroe troiano, il figlio della dea Venere. Così
facendo esalta anche le origini divine della città.
Ovviamente Virgilio non dice niente di nuovo.
I Romani, fin dalla fondazione dell’Urbe, sono convinti di tutto
quello che Virgilio scrive sette secoli dopo. Egli lo fa non da stori-
co, ma da poeta e grande narratore che racconta una storia che deve
avere una logica. Non è uno storico nel senso stretto della parola.
Come poeta può concedersi qualche libera interpretazione degli
eventi storici.
I Romani, per antica tradizione sono convinti che la fondazione
della città sia stata preannunciata da una profezia che i re di

34 La Via di Dante
Albalonga hanno tramandato per quasi cinquecento anni. La profezia
era stata fatta, al figlio Enea, da Anchise. Proprio per raccontare le
modalità di questa profezia e dare ad essa un significato magico e sacro,
il poeta latino fa incontrare l’eroe e suo padre nel mondo dei morti.
Ma può una profezia indicare un evento che già si è verificato?
Sarebbe una contraddizione in termini!
Nella sua storia poetica, Virgilio non può far scendere Enea nel
regno di Proserpina dal vero antro che sa essere vicino all’albero del
Ramo d’Oro e che gli “esperti sacerdotali” del suo tempo indicano
come la vera entrata nell’oltretomba. Questo luogo, il nemus, è già
all’interno del territorio che gli è stato profetizzato come destina-
zione finale e che Enea raggiungerà soltanto dopo l’incontro con il
padre. Dunque Virgilio non fa altro che descrivere il vero ambiente
-la valle craterica del nemus- dove si trova l’antro di ingresso al
regno di Proserpina, che egli ben conosce -e vedremo perché-, ma
poi lo colloca nella zona di Cuma. Insomma, il luogo reale è spo-
stato nello spazio e ubicato altrove solo per esigenze narrative.
Esattamente quello che farà Dante con la selva oscura!
“Ecco la soluzione!” mi ero detto.
Virgilio deve aver spostato il luogo dell’incontro tra Enea ed
Anchise per rendere credibile la profezia.
Nel suo incontro all’Ade, Anchise mostra al figlio tutta la sua
progenie che nascerà dall’unione con Lavinia la figlia del re Latino,
il re del Latium, quando i due popoli avranno raggiunto la pace e
decideranno di unirsi in una sola gente.
Ma per essere certo che egli è giunto nella terra “promessa”
dovrà osservare uno strano avvenimento: i Troiani, stanchi ed affa-
mati per il viaggio si siederanno a tavola e oltre agli scarsi viveri,
mangeranno anche le “mense”. Le mense erano delle dure e roton-
de focacce di grano che venivano poste sulla tavola a mo’ di piatto
non certo per essere mangiate. Ma la fame le fa mangiare agli uomi-
ni di Enea giunti sulle coste del Latium dove oggi sorge
Torvaianica. Da questo particolare Enea, ricordando la profezia
come fattagli dal padre, comprende di essere arrivato nella sua
nuova patria che in realtà era la terra da dove erano partiti i suoi avi.

La Via di Dante 35
LA SCROFA BIANCA e i trenta porcellini
Ai fini del racconto poetico virgiliano, come avrebbe potuto Enea
riconoscere il posto dove fermarsi se i Troiani avessero mangiato le
mense prima del suo incontro con Anchise nel mondo dei morti?
In realtà questa profezia non era venuta nemmeno da Anchise. Non
è riportata durante la visita che Enea fa al padre nell’oltretomba.
L’Eroe dice di ricordare la profezia del padre, ma in realtà, nel
testo virgiliano, la profezia è fatta ad Enea dalle Arpie.
Quando Virgilio racconta l’episodio, invece, lo fa ricordare dal
protagonista come se fosse stato il padre a predirlo.
A questo proposito ed anche per altri passi del Poema virgiliano,
i critici attribuiscono inesattezze o contraddizioni alla mancata revi-
sione finale dell’opera dovuta alla morte prematura dell’Autore.
Virgilio sentiva di non aver potuto completare come voleva il
suo grande poema tanto che lo riteneva non degno di pubblicazio-
ne. Per questo, in punto di morte non esita a pregare il suo grande
amico e protettore Augusto perché distrugga il manoscritto. È una
sua precisa disposizione testamentaria, ma Augusto, riconoscendo
comunque grandissima l’opera del suo amico, anche se incompleta
e difettosa, non ne esegue la volontà e la rende pubblica.
Dobbiamo quindi guardare più alla sostanza che alla forma.
Certo è che la profezia delle mense doveva provenire da Anchise
ed altrettanto certo è che l’evento non si verifica prima dell’arrivo
dei Troiani nel Lazio. Quindi non mi sembra azzardato concludere
che per l’Autore è necessario far incontrare il defunto Anchise ed
Enea quando questi è ancora fuori dei confini del Latium.
Virgilio non avrebbe potuto giustificare la profezia che proprio
la Sibilla cumana fa ad Enea:
120 “... giungeranno
i Dardanidi al regno di Lavinio
(questo timor dall’animo disgombra),
ma non esservi giunti essi vorranno.
Ché guerre io vedo, spaventose guerre
125 e di gran sangue il Tevere schiumante.
Un altro Xanto, un altro Simoènta
36 La Via di Dante
e un altro campo dòrico tu avrai,
e già nel Lazio un altro Achille è sorto
figlio ei pure di Dea...”

Proprio in seguito a queste parole profetiche della Sibilla, Enea


chiede di vedere il padre Anchise che, nelle intenzioni di Virgilio,
dovrà indicare al figlio come riconoscere il luogo della fine del suo
peregrinare, cosa che non avrebbe potuto fare se Enea fosse già arri-
vato nella sua “terra promessa”.
La stessa Sibilla sarà presente all’incontro tra il principe troiano ed
il padre nel regno dei morti. Quello che, però, non quadra nella vicen-
da del viaggio nel mondo dei morti, per entrare nel quale è indispen-
sabile portare il ramo d’oro, è il fatto che Enea trova intorno a Cuma
la magica pianta.
Virgilio ben sapeva, per averlo egli stesso detto ad Augusto, che la
tradizione dell’albero dal ramo d’oro era radicata ed era parte
integrante dei culti del lago di Nemi. E’ lo stesso Virgilio infatti che
indica ad Augusto, che riferisce l’episodio nella sua autobiografia, le
funzioni del rex nemorensis tra le quali quella di non permettere a
nessuno di staccare il ramo d’oro dall’albero sacro situato nell’area
del tempio di Diana -una radura nel nemus- perché “chi porta il ramo
d’oro comanda l’ingresso nel mondo dei morti” come rivela lo stes-
so rex nemorensis ad Augusto.
Perciò, visto che il ramo d’oro si trovava soltanto nel bosco
sacro a Diana, come poteva Enea, che era nei pressi del lago
Averno, trovarlo, spezzarlo e portarlo in dono a Proserpina per acce-
dere al regno dei morti?
Ancora una volta il Poeta cerca di correre ai ripari localizzando vici-
no all’antro della Sibilla sia il bosco di Diana, sia un tempio di Apollo.
Così tutto può tornare plausibile e credibile.
Ecco perché, pur prendendo gli elementi a lui noti e che fanno
parte della cultura del tempo e della tradizione più antica di un altro
luogo, la valle del lago nemorense con il nemus, li trasferisce nei
pressi del lago Averno, vicino all’antro della Sibilla Cumana, nella
terra campana ancora lontana dal Latium, vicina all’antica città di
Cuma dove profetizza l’omonima sibilla.

La Via di Dante 37
Già, l’antica città di Cuma!
Ma è proprio così? O meglio, poteva essere proprio così?
Vediamo cosa ci dicono gli storici a proposito di Cuma città.
“Cuma: la prima colonia greca in Italia fondata dai greci nel-
l’ottavo secolo a.C.”.
“Euboiche rive” sono definite le spiagge sulle quali sbarca Enea
che cerca la Sibilla Cumana e vuole raggiungere il tempio di Apollo
posto su un’altura. La nota dell’edizione Murzia dell’Eneide spiega:
“Euboiche: dal nome dell’isola Eubea, dalla cui città di
Calcide erano venuti i coloni greci che avevano fondato
Cuma”.
Virgilio, insomma, conosce la grande fama della Sibilla di Cuma e vi
manda Enea perché possa entrare nel regno dei morti con la sua guida.
Virgilio ribadisce il concetto dell’appartenenza di quella terra ai
coloni venuti dall’Eubea:
“Il vasto fianco dell’eubòlica rupe
s’apre in forma d’un antro”...
Per la “Sibilla Cumana” le fonti sostengono che i suoi vaticini
erano dati in una lunga spelonca.
Se oggi ci si reca nella zona dell’antica Cuma si può visitare la
“spelonca” della Sibilla. Ma quello che si vede non è altro che un
lungo cunicolo scavato dai Romani di Agrippa, il generale genero di
Augusto, nel primo secolo d. C..
E’ il destino di molti luoghi antichi di cui si sono perse le tracce
e di cui ci sono rimaste le indicazioni in opere antiche che non sem-
pre corrispondono alla realtà. Troia, per esempio, prima che
Schliemann ne trovasse i resti, era addirittura ritenuta da tutti gli
esperti come mai esistita, un’invenzione totale di Omero ed invece
è stata una ricca città almeno fino al quarto secolo dopo Cristo
quando è scomparsa definitivamente dalla storia.
Proprio nella florida città di Troia Costantino il Grande voleva spo-
stare la capitale dell’immenso Impero Romano e non era per caso!
Eppure, nonostante questo, gli “storici” del dopo Medio Evo la
consideravano una città nata dalla fantasia di Omero.
Ma di siffatte convinzioni, la mente di storici e critici è a volte
38 La Via di Dante
così piena che non ci si preoccupa nemmeno di fare i più elementa-
ri controlli. Come per la parola “Averno”.
Solo da Virgilio in poi i poeti hanno ritenuto quel luogo -il
lago d’Averno- la sede del mondo dei morti inducendo in tutti
noi moderni un errato convincimento.
Alle mie prime verifiche, il trucco architettato dal grande Virgilio si
stava sgretolando come un castello di sabbia sotto i piedi di un bimbo.
Cominciavo a trovare il bandolo della matassa.
Il racconto di Virgilio era davvero un artificio credibile per i roma-
ni del suo tempo. Essi avevano perduto il senso del tempo delle ori-
gini e potevano credere che la Sibilla Cumana fosse stata l’interlocu-
trice di Enea perché la tenevano in grande considerazione e sembra-
va fosse stata in quella città da sempre. La Sibilla e i suoi oracoli, rac-
colti nei famosissimi Libri Sibillini, conservati nel Tempio di Giove
Capitolino e consultati ancora da Massensio prima dello scontro deci-
sivo con Costantino, erano sempre stati sacri per tutti i romani.
Come tutti i popoli antichi, anche i Romani credevano forte-
mente negli oracoli, nella possibilità di interventi divini nelle cose
umane, e in quella di discendere realmente da un dio o da una dea.
Per loro, luoghi come l’antro della Sibilla di Cuma erano assoluta-
mente tabù e venerati come autenticamente sacri, ma di questi luo-
ghi noi a volte, come nel caso dell’antro della Sibilla cumana,
abbiamo perso ogni traccia e non ne conosciamo più il vero signifi-
cato che gli antichi davano loro.
Chi poteva sapere e ricordare che la città di Cuma era stata fon-
data dai Greci a metà dell’ottavo secolo a.C.? Forse nessuno.
Dunque il trucco reggeva bene.
Perché “trucco”?
Semplice. Finché i greci non fondano Cuma, quella zona è una landa
desolata e disabitata. I miasmi che si sprigionano dal terreno ne fanno un
luogo impraticabile da cui è opportuno tenersi lontani, dunque sono certa-
mente inabitati. Ma c’è di più. Enea giunge in Italia pochi anni dopo la
caduta della sua città, Troia, cosa che avviene intorno all’anno 1180 a.C.,
cioè oltre quattro secoli prima della fondazione di Cuma: è perciò molto
improbabile che si sia fermato proprio lì perché non essendoci ancora la
città di Cuma, è difficile ci potessero essere già il tempio di Apollo e quel-

La Via di Dante 39
lo di Diana muniti anche di Sibilla. Almeno della Sibilla come siamo abi-
tuati a considerarla noi: una donna con particolari doti divinatorie. A meno
che non accettiamo l’idea che lì possa esserci stato un luogo particola-
re dove a mezzo di strane “pietre” qualcuno era veramente in diretto
“contatto” con la divinità. Non la divinità come oggi noi la intendiamo,
ma la divinità come allora era intesa: un essere del tutto simile all’uo-
mo solo con conoscenze molto diverse da quelle degli uomini comuni.
Comunque, Cuma, come città, non esisteva ancora.
Ma questo particolare ai critici è sempre sfuggito, tanto che un
grande studioso come Geymonat pubblica la planimetria della zona
con tanto di tempio di Apollo, indicato come tempio della città di
Cuma che ancora non esiste perché i Greci arriveranno lì, per stabi-
lirvisi, quattro secoli dopo! Ma anche ammesso che già lì eserciti le
sue funzioni una Sibilla, il luogo è talmente bruciato dallo zolfo che
nelle sue vicinanze -e tanto vicina da essere un tutt’uno con il lago
come sembra indicare Geymonat- non vi può esistere una selva fitta
e oscura. E non una selva qualsiasi, ma quella al cui interno c’è una
radura con al centro l’albero sacro con il ramo d’oro!
La tradizione dell’albero del ramo d’oro, invece, è parte inte-
grante del rituale primordiale del nemus anche al di fuori dell’ope-
ra di Virgilio. Mai accenno alcuno se ne fa da altri autori, al di fuori
di Virgilio, nel bosco del lago Averno. Anzi, dell’Averno come
regno dei morti, come abbiamo appena visto, se ne comincia a par-
lare solo dopo l’Eneide, dando per scontato ed esatto quello che
afferma il Poeta. Ma non era così.
A Virgilio, insomma, serve che l’eroe troiano incontri il padre in
un luogo che sia ancora lontano dal Lazio, perciò gli fa strappare in
un imprecisato bosco vicino al lago Averno il ramo d’oro dell’albe-
ro sacro che in realtà è nel nemus aricinum, come egli sa benissimo.
La scena si sposta così in Campania per consentire alla Sibilla e ad
Anchise di fare le loro profezie. Virgilio sarà preso sul serio da tutti
i poeti che verranno dopo di lui e la fama di Cuma sarà assicurata
per tutti come la città nei pressi della quale si apriva l’antro che con-
duceva nel regno dei morti!
Ecco, questa era un’argomentazione che cominciava ad essere,
per me, convincente.

40 La Via di Dante
C’era, però, da verificare quali potevano essere le conoscenze di
Virgilio sul ramo d’oro, sul nemus, sul rex nemorensis e sulla sua
funzione di custode dell’albero e sacerdote della dea Diana che,
come è noto, nella sua accezione infera si identifica con Proserpina.
Senza questa prova la mia teoria rimaneva pura fantasia, buona
solo per le mie storie fantastiche sul lago di Nemi.
Ho dovuto aspettare l’anno 2000 per trovare la prova della bontà
di quella ipotesi che, con la nuova testimonianza, diventava certez-
za assoluta.
Il testimone era niente meno che Gaio Ottaviano Turino divenu-
to prima Cesare e poi Augusto, l’uomo più potente del mondo anti-
co, e la sua testimonianza preziosa era contenuta nell’opera appena
giunta in libreria (siamo nell’estate del 2000), intitolata “Augusto,
il grande imperatore”. Era la versione rielaborata dallo scrittore
inglese Allan Massie dell’autobiografia del primo imperatore roma-
no, appena edita in Italia per i tipi della Newton Compton.
Anche se il linguaggio era reso più moderno dall’abilità dello
scrittore, il contenuto era l’autentico racconto che della propria vita
faceva Augusto. L’opera, che ormai tutti ritenevano perduta per
sempre, era stata rinvenuta in un convento in Macedonia durante
lavori di restauro che avevano portato alla scoperta di una cella
dalla porta murata. All’interno della cella si era scoperto il mano-
scritto in latino risalente almeno al 1300. Il testo, esaminato dai più
grandi esperti latinisti d’Europa, era risultato autentico e certamen-
te dovuto alla penna dell’imperatore.
Per me fu una rivelazione sorprendente e la prova definitiva che
l’ipotesi che avevo avanzato era corretta.
Il testimone era proprio Augusto che riferiva da una parte il pensie-
ro di Virgilio sul rex nemorensis e dall’altra riportava le convinzioni
degli “esperti sacerdotali” -che Virgilio, consulente ed amico intimo di
Augusto, non poteva ignorare- secondo i quali l’ingresso all’Averno -o
meglio, al mondo dei morti- era ubicato nella valle del lago nemorense.
In più, Augusto riferiva il suo incontro con il rex nemorensis in
carica in occasione di una visita al bosco sacro a Diana.
Vediamo, però, nel dettaglio i due eventi.

La Via di Dante 41
VIRGILIO E AUGUSTO
Siamo alla resa dei conti tra Augusto e Marcantonio.
Virgilio è stato convocato da Augusto nella sua villa sul lago che
oggi prende il nome dalla città di Castel Gandolfo. Il problema da
affrontare non è di poco conto: è il più importante della vita di
Ottaviano Cesare (non ancora Augusto). Si tratta di decidere se e
come violare il tempio delle Vestali per recuperare e rendere pub-
blico il testamento che vi ha depositato Marcantonio.
Una decisione terribile per chiunque.
Violare la sacralità del tempio di Vesta significava porsi fuori da
ogni regola e rischiare la reazione negativa di tutto il popolo di
Roma e una possibile condanna a morte. Virgilio si deve esprimere
su questo. Ma in gioco c’è il futuro dell’Impero di Roma perché con
il suo testamento Marcantonio ha deciso il futuro delle provincie
orientali, Egitto compreso, che sono sotto il suo diretto controllo e
che ha affidato, nel testamento, a Cesarione, il figlio di Cesare e
Cleopatra. Si rischia così la frattura dell’Impero e la ripresa di lun-
ghe e sanguinose guerre civili.
Virgilio affronta l’argomento ricordando all’amico sia l’esempio
di Coriolano che si ritirò nei suoi campi non appena concluso il suo
mandato, sia quello del custode dell’albero sacro e del tempio di
Diana, il rex nemorensis.
“Cesare”, continuò, “so poco di storia e meno ancora di
politica. Ma ascolta. Cincinnato è la leggenda; egli appar-
tiene ad un mondo giovane dove tutto era semplice e chiaro,
e agire bene trovava la sua ricompensa nella serenità d’a-
nimo. In quanto leggenda, è per i bambini, è un ideale che
serve loro da esempio per capire ed ammirare ciò che è
buono, onesto e vero. Ma il sacerdote di Diana che sta a guar-
dia del Ramo d’Oro e del Tempio di Nemi non è leggenda, ma
mito che rivela la verità agli uomini celandola nell’oscurità. Il
mondo è andato oltre Cincinnato, e tu non puoi mettere da parte
la toga e tornare all’aratro. Tu sei destinato ad aggirarti guardin-
go con la spada sguainata intorno al Tempio che è Roma.
Perdonami”. Sorrise tristemente e posò la sua mano sulla mia in
segno di comprensione e compassione.
A. Massie, Augusto il grande imperatore, pag. 131 Newton Compton Editori
42 La Via di Dante
Il messaggio è chiaro e forte: per il bene di Roma, Ottaviano non
può fare come Cincinnato, ritirarsi, ma deve vigilare come fa il rex
nemorensis, giorno e notte, per difendere il nuovo Tempio: Roma.
Dopo molti anni, forse diciannove, Ottaviano, ormai Augusto,
ricorda con nostalgia l’incontro con Virgilio e pensa di andare ad
incontrare il rex nemorensis e a vedere il Tempio di Diana.
Da Ariccia, la città natale di sua madre dove la famiglia Giulia
ha grandi possedimenti, si fa condurre in portantina fino al lago di
Diana. Ecco come racconta l’evento.
“L’altro giorno ho avuto uno strano capriccio. Stavo pensando,
come faccio spesso, a Virgilio, e ripensai alla nostra conversa-
zione su Cincinnato e il sacerdote di Diana nemorense. Mi
venne in mente che, benché ci fossi nato vicino, non avevo mai
visto il tempio di Diana, né il sacerdote che sta a guardia del
santuario e che è conosciuto come Re del Bosco; e poi lessi di
nuovo il Libro sesto dell’Eneide quel nobile brano in cui la
Sibilla dice ad Enea:
O nato da sangue divino, Troiano figlio di Anchise, scen-
dere all’Ade è facile: la nera porta di Dite è spalancata di
notte e di giorno...
e continua raccontandogli che per accedere agli Inferi egli deve
prima sradicare il Ramo d’Oro dall’albero consacrato alla
Giunone degli inferi, dato che Proserpina ha decretato che glie-
lo si debba presentare come offerta votiva. Ora l’Averno è
localizzato dagli esperti di cose sacerdotali sulle sponde
del lago di Ariccia, e l’albero sacro all’interno del santua-
rio di Diana.”
A. Massie, Augusto il grande imperatore, pag. 289.Newton Compton Editori

Augusto poi narra anche l’incontro con il rex nemorensis il quale


gli conferma che egli è il custode dell’antro che conduce nel regno
dei morti.
La prova che cercavo l’aveva fornita il più grande degli uomini
politici di Roma, il fondatore dell’Impero: Augusto.
L’Averno, o meglio, l’averno il regno di Proserpina-Diana, il
luogo dove si ritrovano le anime dei morti, per Virgilio e per
Augusto aveva il suo ingresso dalla valle dell’attuale lago di
Nemi!
Ma Virgilio indica a tutti, con l’Eneide, il lago Averno come
La Via di Dante 43
ingresso all’oltretomba e tutti, dopo, lo seguiranno e diventerà opi-
nione comune per gli studiosi di ogni tempo quanto Virgilio canta
nell’Eneide. L’Averno, il lago campano, diverrà l’averno, il sino-
nimo di mondo dei morti e tutti ubicheranno lì, nei pressi del lago e
di Cuma, il suo fantastico ingresso.
Ma non poteva essere così anche per un motivo simbolico
sostanziale.
Morte e vita sono strettamente collegate al punto che non c’è la
prima senza la seconda. Il regno dei morti nasce dal regno della vita
e viceversa. I culti più antichi della Grande Dea -che era anche la
profetessa- lo dimostrano. La Dea primordiale è colei che dà la vita
e che accoglie dopo la morte. Il nemus, bene lo sa Virgilio, è pro-
prio questo: è il regno della Dea Madre di tutta la natura che esce
dal suo grembo. Diana, è, per gli antichi, la vergine madre di tutta
la natura, è una dea di fecondità, come ricorda lo stesso Augusto in
un altro passo del suo libro:
“...non c’è fertilità senza Diana”.

Diana è, però, anche Proserpina, la regina del regno dei morti,


ma anche la dea della primavera, del risveglio della vita.
Nel nemus il dualismo vita-morte è perfettamente naturale e per
antichissima tradizione: risale ai primordi dell’umanità. Qui tutto
corrisponde alle credenze delle più antiche popolazioni recepite
dagli “aborigeni”, i popoli italici stanziati sui Colli Albani da sem-
pre e dal popolo Latino, nato dalla fusione con i Troiani di Enea;
ereditate dai Romani, infine, e mantenute fino ad Augusto e ancora
lo saranno per i secoli a venire, fino all’avvento del Cristianesimo.
La zona dell’Averno, invece, è per la tradizione antica -e così
viene descritta da Virgilio-, il luogo della desolazione per antono-
masia, una regione dove nemmeno gli uccelli, pur volando alti, non
resistono alle velenose esalazioni solforose e cadono morti sugge-
rendo, per questo, come ormai sappiamo, il nome stesso del lago: a-
orno = averno, senza uccelli. Qui tutto era arido ed inospitale, un
luogo di desolazione e morte. E’ questo aspetto lugubre che coglie-
ranno tutti i poeti che dopo Virgilio parleranno del regno dei morti,
identificandolo con il lago Averno, dimenticando quello che era

44 La Via di Dante
stato il primo e vero luogo simbolo di vita e di morte: il nemus.
Dunque, il bosco che Virgilio fa attraversare ad Enea è in realtà
il nemus e non può essere altro che il nemus, anche se nell’Eneide
sposta la scena vicino al lago Averno.
Questo sa bene Virgilio, ma Dante come fa a saperlo?
Dante lo sa perché ha letto il libro di Augusto!
Quest’ipotesi può ancora una volta sembrare forzata, se non pro-
prio cervellottica, ma, a ben guardare, non è così.
Vediamo perché.
Intanto, oggi sappiamo che qualche copia di quell’autobiografia
del Grande Imperatore circolava ancora ai tempi di Dante. La prova
è proprio quella ritrovata nel monastero macedone. Sappiamo anche
che dopo l’epoca di Dante, molti libri furono bruciati in seguito a
“purghe” dettate anche dal desiderio di tutelare la salute pubblica.
Pochi sanno, per esempio, che gli archivi della Diocesi di Albano
non conservano più documenti che risalgono a prima del ‘600. Il
motivo è di tipo igienico. Allo scoppio di una terribile pestilenza, la
responsabilità del morbo fu data alla polvere accumulata dai libri
conservati negli archivi e nelle biblioteche. Ad Albano fu bruciato
l’intero archivio diocesano! Siccome i libri erano conservati o in
luoghi legati al culto o in biblioteche di case di nobili, in caso di
pestilenze tutti i documenti sia degli archivi privati che pubblici
rischiavano di fare la stessa fine: arsi in un rogo in mezzo ad una
piazza.
Ma questo non basta. Potevano essere anche molte le copie in
circolazione e Dante avrebbe potuto lo stesso ignorarle.
Perché, allora, questa mia certezza contraria?
Perché alcuni passi del racconto di Augusto si ritrovano -quasi
con le stesse parole- nella Divina Commedia e i riferimenti sono
così precisi da non lasciare alcun dubbio.
Vediamoli insieme.
Quando Augusto, procedendo in portantina, inizia la discesa
verso il lago ed entra nel bosco così si esprime:
“Scendemmo dalla collina per un sentiero tortuoso in un intenso
silenzio. Non c’erano né cinguettii d’uccelli né refoli di vento tra
il fogliame. Perfino l’ansare e lo sforzo dei miei portatori sem-
brava un’offesa”.
La Via di Dante 45
E Dante entrando nella selva del Paradiso Terrestre, Canto
XXVIII del Purgatorio, scrive:
7. Un’aura dolce, sanza mutamento
avere in sé, mi ferìa per la fronte
non di più colpo che soave vento;
10. per cui le fronde, tremolando, pronte
tutte quante piegavano a la parte
u’ la prim’ombra gitta il santo monte;
13. non però dal loro esser dritto sparte
tanto, che li augelletti per le cime
lasciasser d’operare ogne lor arte;”

Le descrizioni sono non solo simili, ma assolutamente singolari


con i riferimenti ai refoli di vento e al canto degli uccelli che è dif-
ficile non vedere nell’opera di Augusto la fonte d’ispirazione per
quella di Dante.
L’imperatore è ormai arrivato in prossimità dell’albero del ramo
d’oro custodito dal rex nemorensis il quale gli intima di fermarsi.
“La sua voce era gracchiante, come per mancanza d’uso”
annota l’imperatore.
Dall’altra parte, Dante è atterrito dalla vista della lupa quando
vede arrivare Virgilio e
Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
63 chi per lungo silenzio parea fioco.

Il rex, per l’abitudine alla solitudine, ha la voce gracchiante,


com’è la voce quando per lungo tempo si è rimasti in silenzio;
Virgilio, allo stesso modo, ha la voce fioca proprio come chi è rima-
sto in silenzio per un tempo molto lungo, dunque la voce è grac-
chiante o fioca per mancanza d’uso!
Ancora.
Augusto è tormentato da un dubbio atroce. E’ a conoscenza del
contenuto del testamento di Marcantonio che è custodito dalle
Vestali. Vuole che il popolo romano ne venga a conoscenza per la
salvezza degli interessi dell’Urbe, ma non può profanare il luogo
più sacro ed inviolabile di Roma. Pure ritiene vitale entrare in pos-
46 La Via di Dante
sesso di quel documento. Prima di decidersi ad agire chiede consi-
glio ai suoi più stretti collaboratori. Uno di questi è proprio Virgilio
che -come abbiamo appreso dalla voce di Virgilio stesso riportata da
Augusto- lo induce a non tirarsi indietro e ad affrontare ogni rischio
per la salvezza di Roma.
Virgilio è, ora, anche guida e consigliere di Dante che -come
Augusto- si trova in una posizione di fortissimo dubbio: non sa se
può procedere o se deve tornare indietro e sta per cedere alla paura.
Virgilio, come ha fatto con Augusto, lo consiglia invece a procede-
re aggirando l’ostacolo, anche se, per far questo, dovrà affrontare un
viaggio lungo e difficile:
91 “A te convien tenere altro viaggio”.

Insomma, Dante si mette nella stessa condizione di Augusto e si


fa aiutare e guidare dallo stesso personaggio: Virgilio.
Come si vede le situazioni già così sono molto simili, ma non
basta.
Ecco il commento che Augusto fa subito dopo il colloquio con il
poeta.
“Dunque avevo aperto il mio animo turbato alle quattro persone
che amavo di più; e sebbene mi avessero indicato la stessa strada,
fu il poeta che mi condusse per mano, illeso, attraverso i rovi che
nascondevano l’entrata e oltre le fameliche mandibole delle belve
che minacciavano il mio passaggio”.

Come non vedere in queste parole la stessa situazione simbolica


in cui viene a trovarsi Dante nella selva oscura con Virgilio che
l’aiuta ad evitare le fameliche mandibole delle belve e a fargli tor-
vare il passaggio per il mondo dei morti? Anche Dante si fa con-
durre per mano da Virgilio attraverso i rovi-difficoltà del percorso
sotterraneo oltre le fameliche mandibole delle belve che minaccia-
no il suo passaggio.
E a conferma, ecco il verso conclusivo:
“Allor si mosse, e io li tenni dietro”
che è l’equivalente di
“...fu il poeta che mi condusse per mano...”.

Certo le situazioni sono diverse, ma chi conosce i luoghi dove


La Via di Dante 47
questi episodi si svolgono può comprendere appieno l’assonanza
perfetta tra i brani di Augusto e i versi di Dante, e potrà riconosce-
re facilmente che i due Autori si riferiscono agli stessi ambienti, alle
stesse atmosfere, alle stesse suggestioni propri di questi luoghi.
A chi non conosce i Colli Albani potrà sembrare ardito l’acco-
stamento tra i brani citati dei due Autori, ma gli basterà venire qui e
le magiche atmosfere che questi luoghi sanno ancora evocare con-
vinceranno, alla fine, anche il più scettico dei critici.
Non basta.
Oltre all’opera di Augusto, Dante dimostra di avere ben altre
conoscenze. I luoghi dove si svolgono gli eventi che narrerà nella
Commedia sono proprio quelli che il Poeta può vedere quando
viene in visita qui.
“Ma di queste sue visite ai Colli Albani non ci sono prove” mi
disse un amico esperto di cose dantesche.
Le prove sono nei suoi versi, nelle descrizioni, nelle citazioni,
nelle scelte. Queste prove sono una vera montagna e, una volta
trovata la chiave di lettura, appaiono così evidenti che poi
diventa impossibile pensare a Dante e alla sua opera più alta
senza pensare ai Colli che furono il primo dominio di Albalonga
e che originarono la potenza e la civiltà di Roma.
L’ambiente albano traspare in ogni verso del primo canto e
si ritrova continuamente per il semplice fatto che sono proprio
i Colli Albani la scena in cui Dante ambienta le sue prime due
cantiche, l’Inferno e il Purgatorio.
Il nemus è la prima idea perché è il riferimento alla selva oscu-
ra contenuto nell’incipit del primo canto. Ma il nemus è qualcosa di
più. Il bosco si arrampicava per le pareti scoscese del cratere e con-
quistava le pendici del monte sacro ai Latini, il Monte Albano, che
dal basso si vede dominante la scena e maestoso e terribile è il suo
aspetto se solo il brutto tempo minaccia il temporale. Allora le
nuvole si raccolgono intorno alla sua cima che diventa il punto
magico e sacro dove il cielo tocca la terra ed il dio manifesta tutta
la sua potenza scagliando le sue saette terrificanti. La cima del
monte Albano era, per i Latini, quello che la vetta dell’Olimpo era
per i greci, la casa della divinità suprema: Giove.

48 La Via di Dante
E’, perciò, il punto di contatto tra il cielo e la terra.
La forma è quasi perfetta a tronco di cono e la sua sommità era
di forma arrotondata e ricoperta di alberi. Quale migliore ubicazio-
ne e quale più appropriata forma poteva trovarsi per l’ambientazio-
ne del Paradiso Terrestre?
Già, proprio il Paradiso terrestre!
E’ quello che Dante pone sul suo Purgatorio.
C’è addirittura anche una sella alle pendici del monte, che si
chiama Prato Fabio, che sembra il modello del luogo dove vengono
scaricate le anime dirette al Purgatorio.
Ecco, in questo ambiente naturale, ricco di valli, di laghi, di
monti, di boschi, di cunicoli come l’emissario del lago di Nemi con
i suoi pozzi di ventilazione verticali, Dante può aver concepito la
scena completa dell’opera, indipendentemente poi dall’ubicazione
che ne darà simbolicamente e dai significati reconditi che acquiste-
ranno le sue descrizioni poetiche.
Ora, alla luce di quanto osservato, possiamo comprendere appie-
no il significato dei suoi versi:
O Muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.

La Via di Dante 49
Dante e Virgilio seguiti dalla lupa che tanto li avrebbe dovuti
spaventare, in un’illustrazione del Doré.
Non avendo compreso il vero significato simbolico dei versi
danteschi, anche il Doré dà un’immagine distorta del significato
dell’opera di Dante.
Lungi dall’essere una belva che terrorizza, la lupa
-in questa scena- sembra più un docile cagnone che segue i
padroni in una passeggiata nel bosco.
Anche gli illustratori hanno contribuito molto alla cattiva
interpretazione dei significati profondi della Divina Commedia.

50 La Via di Dante
LA DIRITTA VIA e le tre belve
1. Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
che la diritta via era smarrita.

Quanti fiumi di inchiostro sono stati versati per spiegare la prima


terzina della più alta opera di poesia della letteratura italiana e una
delle più grandi di tutta la letteratura mondiale!
Eppure, finora, nessuno aveva provato ad individuare il luogo
che poteva avere ispirato questi versi.
Quando venne l’idea di associare il nemus alla selva oscura,
dopo aver chiarito il nesso virgiliano nemus-selva oscura fu auto-
matico ricercare la diritta via.
Se Dante si era ispirato al nemus per motivi poetici e storici
seguendo Virgilio, per la tradizione più antica e la storia cosa signi-
ficava quella diritta via che aveva smarrito? Semplicemente una
questione morale, hanno sempre sostenuto i critici danteschi badan-
do solo al significato simbolico dei suoi versi.
Ma se, come scriveva anche Carlo Ossola, Dante di ogni cosa
simbolica che descrive ha anche visto l’equivalente reale e concre-
to, come egli stesso dichiara nella sua epistola a Cangrande della
Scala, allora esisteva veramente anche una “diritta via” reale,
“smarritasi” la quale, si era ritrovato nella “selva oscura”! Così è,
dice Ossola, per i versi sublimi della preghiera alla Vergine: Dante
può essersi ispirato ai mosaici di Santa Maria Maggiore a Roma.
Quei mosaici, da pochissimi anni realizzati, egli può ammirare
quando è a Roma nel 1300.
Seguendo questa interpretazione dell’opera dantesca, tutta la
Divina Commedia è, allora, trasposizione poetica di cose viste cui
il Poeta si ispira.
Qual era, perciò, il modello della diritta via? E chi si smarrisce:
Dante o la via?
Niente di più facile, ormai, indicare il nome della strada: l’Appia
Antica.
L’Appia Antica era considerata la strada diritta per antonomasia.
La Via di Dante 51
Da Roma a Terracina, un tratto di oltre novanta chilometri, era
un perfetto rettilineo. Solo in un tratto la strada era costretta ad esse-
re sinuosa: dall’altezza della cosiddetta tomba degli Orazi e Curiazi,
ad Albano Laziale, fino a Genzano. Per superare il dislivello costi-
tuito dalla Valle di Ariccia, la strada deve scendere e risalire ade-
guandosi al terreno e seguendone l’andamento. Ecco, dunque, che
nel punto in cui la “diritta via si smarrisce” -non è Dante a smar-
rirsi, come tutti i critici hanno finora interpretato il verso, ma il ret-
tilineo che momentaneamente s’interrompe (si smarrisce, appunto)-
proprio lì il poeta si ritrova in una selva oscura: è proprio il nemus,
che effettivamente giungeva fino all’Appia Antica ricoprendo il val-
lone che oggi è occupato dal Parco di Palazzo Chigi. E la selva è
così aspra e forte che anche a distanza di tempo il poeta ancora si
spaventa al solo ricordarla.
È questo il senso vero delle parole
“ che la diritta via era smarrita” .

Significa che la strada non è, in quel punto, quando attraversa la


selva-nemus, diritta (come nei restanti novanta chilometri del tratto
Roma-Terracina), ma curvilinea.
Ma poteva Dante aver percorso proprio l’Appia Antica?
Ecco il pensiero del professor Lorenzo Quilici a proposito
dell’Appia ai tempi di Dante. Traggo il brano da un mio articolo
pubblicato dalla rivista “Omnia” nel febbraio 2004.
Ecco però, quello che Quilici riferisce sulla via Appia Antica.
“La via Appia, tra tutte le strade, è quella più ricca di memorie.
La sua eccezionale stratificazione storica ha compiuto, nell’anno
1988, i 2.300 anni ... ma essa ha anche origini assai più antiche e
sul suo tracciato si sono sovrapposti e scorrono i millenni: vera-
mente straordinaria è la quantità e l’importanza dei monumenti
superstiti ed anzi ancora “viventi” lungo di essa.”
Dopo aver ricordato l’enorme prestigio di cui la strada godeva nei
secoli del Rinascimento, l’Autore sostiene che la strada
“...non aveva mai cessato, anche nei secoli più oscuri del medioe-
vo, di essere meta di pellegrini per le memorie degli apostoli nelle
catacombe, delle quali quelle di S. Sebastiano non furono mai
chiuse. E tali memorie, pur essendo a Roma le più importanti e
spettacolari, non si fermavano ai suoi dintorni, ma si scandivano
52 La Via di Dante
sul percorso in ricordo del transito fatto lungo di essa da Pietro e
Paolo per raggiungere la città eterna...”
Passando ad illustrarne la storia Quilici scrive che il percorso
dell’Appia era antichissimo ed esisteva molti secoli prima di Appio
Claudio.
“Lo stesso primissimo tratto, da Roma ai Colli Albani, esisteva già
da tempi immemorabili ed una via, partendo dal guado offerto dal
Tevere dove sorgerà il Foro Boario, imboccava la vallata che sarà
occupata dal Circo Massimo e la stessa dorsale poi percorsa
dall’Appia fino a Boville, le attuali Frattocchie. Era stata questa,
anche, la via che aveva collegato Roma primitiva con Alba Longa
e sulla quale si erano svolti avvenimenti legati alle memorie più
antiche della città: come l’epico duello tra gli Orazi e i Curiazi, i
cui tumuli sepolcrali venivano ancora indicati al V miliario in età
imperiale”.
Ma cosa dice Quilici rtiguardo al tracciato della strada? Vediamo.
“Appio Claudio, costruendo la via Appia, aggiunse alla via Latina
una potente alternativa costiera... Al suo progetto fu impresso
subito il carattere delle strade di grande comunicazione, parago-
nabile alle moderne autostrade: non si curò cioè, con essa, di
allacciare le pur importanti città poste sul percorso (come Velletri,
Cori, Norbia, Sezze, Priverno, perfino Terracina e Fondi, alle
quali si collegava mediante diramazioni), ma puntava diretta-
mente alla meta finale, Capua, vista come traguardo su di una
lunga distanza.
Basta considerare come la via fu condotta con un tracciato per
segmenti a perfetto rettifilo, così da ridurre al minimo la lun-
ghezza dei percorsi, sulla mira dei passi e dei valichi possibili:
così da Roma ad Ariccia fu creato un unico rettifilo di 24 km, da
Ariccia a Feronia, prima di Terracina ne fu condotto un altro di
59 km e un altro di circa 30 km, l’ultimo prima del valico del
Volturno, tra Sinuessa e Capua. Il primo tratto del percorso, anzi,
da Roma verso Terracina, si può considerare, per la lieve diver-
genza dei due assi coi quli si è formato (di soli 5°), un unico ret-
tifilo: coi suoi quasi 90 km di percorso, è uno dei più spettacolari
documenti dell’ingegneria stradale romana”.
Dopo aver ricordato che nessun’altra strada ha avuto l’importanza
e la celebrità dell’Appia, il Quilici passa a descrivere i monumenti
e le caratteristiche procedendo da Roma verso i Colli Albani.
Giunto ad Ariccia il percorso dell’Appia scende verso la Valle.
La Via di Dante 53
“La via della Stella, che ricalca dopo la chiesa l’Appia antica,
scende nella valle di Ariccia, valle Riccia: un antico, vasto cra-
tere vulcanico dei colli Albani il cui fondo la via attraversa risa-
lendo poi l’opposto versante. In questo attraversamento la strada
lascia il rigoroso rettifilo che la distingue, adattando il percorso su
tratti che meglio assecondano il rilievo e riprendendo il grande

54 La Via di Dante
L’Appia Antica era la strada diritta per antonomasia:
un rettifilo di 90 chilometri da Roma a Terracina.
Solo scendendo verso Vallericcia, dall’altezza della Tomba
degli Orazi e Curiazi ad Albano Laziale, fino al culmine
della salita, nel territorio oggi di Genzano di Roma,
smarrisce la sua caratteristica diventando sinuosa,
come si vede dalle planimetrie pubblicate nel volume
Via Appia, da porta Capena ai Colli Albani
di Lorenzo Quilici, Fratelli Palombi Editori, ristampa 1997.
“Smarritasi” la diritta via, insomma, il Poeta si ritrovò
nel nemus, il bosco sacro a Diana nemorense!

rettilineo sul traguardo di Terracina solo sull’opposto crinale del


cratere... Giunta in sommità, la via riprende ... con il caratteristico
rettifilo che distingue l’Appia antica tra Roma e Terracina”.
Fin qui il Quilici, e mi sembra che non ci sia bisogno di aggiun-
gere ulteriori commenti sul fatto che l’Appia fosse una “diritta
via” e che questa sua caratteristica fosse universalmente nota.
La Via di Dante 55
56
Ancora un’altra, antica planimetria del Lazio.
Evidenziato con linea tratteggiata il percorso rettilineo
dell’Appia Antica, ancora unica strada tra Roma e i Colli Albani.
Negli ingrandimenti della pagina precedente si nota il percorso
non rettilineo che l’Appia assume soltanto da Albano Laziale fino
a Genzano per scavalcare l’avvallamento profondo di Ariccia.

La Via di Dante 57
Dopo essersi perduto, il Poeta si ritrova in un luogo basso, che
può bene essere una valle. Immaginiamo veramente di essere nella
valle del lago di Nemi e vediamo se si può riconoscere l’ambiente
dai versi del primo canto.
13. Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,
16. guardai in alto, e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena diritto altrui per ogne calle.
19. Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.

Anche qui, chi conosce i luoghi non tarda a sentirli nelle atmo-
sfere create dal poeta. In ogni caso è chiarissimo il riferimento ad
una valle che sta ai piedi di un colle le cui spalle sono illuminate dai
raggi del sole che sorge. E’ esattamente il panorama che si può
ammirare dal bordo del cratere nemorense, dove il Poeta è giunto
venendo dall’Appia Antica e dove si ritrova in un bosco in prossi-
mità del luogo che Virgilio ed Augusto consideravano come l’in-
gresso nel mondo dei morti. Ed anche quel “lago del cor” , anche
se qui ha tutt’altro significato, sembra proprio ispirato al lago di
Nemi e alla sua valle che ritroviamo poi, per intero, nei versi
seguenti.
22. E come quei che con lena affannata
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,
25. così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.

Il poeta, poi, si ritrova -e non si rende conto di come vi sia potu-


to arrivare- sul fondo del cratere nemorense che è in leggera pen-
denza, prima, poi la salita si fa dura e da lì
28. Poi chèi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ‘l piè fermo sempre era ‘l più basso.

58 La Via di Dante
Inizia allora la salita ed ecco un’altra grandissima sorpresa: l’in-
contro con tre belve.
Prima una lonza, o meglio un leopardo o pantera:
31. Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggera e presta molto...

Subito dopo un leone:


44. ...ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone...

Infine una famelica, terrificante lupa:


49. Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame...

Le tre belve sono un altro degli enigmi praticamente irrisolti


della Divina Commedia.
Mai hanno convinto fino in fondo, infatti, le infinite spiegazioni
date sul significato simbolico delle tre belve.
Interpretando la selva oscura come il bosco in cui Enea trova il
ramo d’oro e poi l’antro attraverso il quale giunge nel regno dei
morti, non è difficile capire cosa suggerisce a Dante l’incontro con
quelle tre belve: il mito del giardino di delizie dei miti antichi che
si lega indissolubilmente a quello dell’Eden di biblica memoria.
Lonza, leone e lupo sono, infatti, gli stessi animali citati da Isaia
come presenti pacificamente nel Paradiso Terrestre insieme al
capretto, al vitello e all’agnello.
Col tempo il Regno di Dio ristabilirà anche le pacifiche relazioni
che nel giardino di Eden esistevano fra gli animali e gli esseri umani.
“In effetti il lupo risiederà temporaneamente con l’agnello, e il leo-
pardo stesso giacerà col capretto, e il vitello e il giovane leone for-
nito di criniera e l’animale ingrassato tutti insieme; e un semplice
ragazzino li condurrà” Isaia 11:6-9; Osea 2:18.

Le stesse belve, per Dante, invece, in attesa dei tempi migliori


indicati da Isaia, tornano ad essere pericolose, anzi sono un terrifi-
cante pericolo mortale al punto che sta tornando indietro proprio
perché spaventato da loro e soprattutto dall’aspetto ostile della lupa.
La Via di Dante 59
Ma perché Dante può aver collegato le tre belve alla selva oscu-
ra ispiratagli dal bosco sacro a Diana, il nemus?
A me è parso naturale notare che quelle sono proprio le stesse
belve che in maniera apotropaica tenevano lontani gli spiriti del
male dalle sacre navi di Caligola affondate proprio nel piccolo lago
nemorense, la cui memoria è sempre stata forte nel territorio del
nemus.
Forse la risposta più completa è in un particolare studio che ho
condotto proprio sulle possibili origini del mito del Giardino-di-
Delizie-Eden-Paradiso terrestre contenuto nell’altra mia opera dedi-
cata ai miti e ai culti originari del nemus: Dalla Pèntima del
Piccione. Ma questa ipotesi è nuova, Dante non poteva conoscerla.
Secondo quanto è risultato in questo studio, l’originario Giardino di
Delizie-Eden-Paradiso Terrestre sarebbe proprio il cratere nemorense.
Rimando il Lettore desideroso di approfondimenti alla lettura di
quest’opera. Qui noto ancora che Dante -stranamente- incontra
quelle tre belve proprio nella selva oscura e si spaventa a morte -
ancor più stranamente- alla vista soprattutto della lupa, dei tre ani-
mali quello più piccolo e più debole.
E poi, qual è il vero significato simbolico di questi tre animali?
E’ mai possibile che rappresentino soltanto tre semplici vizi
umani?
Come può un’opera grandiosa come la Divina Commedia trasmet-
tere un segnale così misero? L’Uomo -Dante- che è atterrito da tre vizi
nemmeno così spaventosi come la lussuria, la superbia e l’avarizia?
Proviamo a leggere il primo canto dando questa interpretazione
ai versi danteschi. Ci rendiamo subito conto che il messaggio è
quasi ridicolo se si interpretano le belve solo come vizi. Dante che
scappa perché l’avarizia-lupa, ancorché famelica, non lo lascia pas-
sare è francamente ridicolo. Ma sempre ridicola resta la situazione
anche se volessimo dare significati più duri ai tre animali, lascian-
doli come vizi umani separati.
Dunque la giusta lettura deve essere un’altra, che sfugge facil-
mente se non si conoscono i veri motivi che spingono Dante a scri-
vere la Divina Commedia.
Ma per poter comprendere il vero motivo che muove Dante e il

60 La Via di Dante
vero significato che egli dà ai suoi misteriosi enigmi, bisogna esse-
re incappati in un libro strano e straordinario, un’opera che è più di
un “romanzo” che racconta la storia intrecciata delle terribili per-
secuzioni dei Catari e di una misteriosa fonte del sapere che per sei
secoli resta nascosta a Nemi e poi vaga per l’Europa finché non è
rintracciata dal protagonista di quella storia a noi ormai noto:
Giordano de Nemore o Giovanni de Sacrobosco, matematico, astro-
nomo, filosofo finito sul rogo immane che bruciò definitivamente la
resistenza dei Catari nel marzo del 1244 a Montségur.
Quella storia e quella fonte di sapere, a noi moderni del tutto
sconosciuta, Dante mostra, invece, di conoscere molto bene.
Alla luce di questa conoscenza, collegata ai significati simbolici
delle tre fiere, l’opera di Dante acquista un senso preciso, semplice
e chiaro, straordinariamente importante e potente.
L’opera dantesca diventa, allora, un monito terribile lanciato alle
alte sfere ecclesiastiche ed è un atto di grande coraggio e di strenua
resistenza contro lo strapotere papale, retrivo, prepotente, inetto e
corrotto.
Alla luce di queste nuove conoscenze si leggono nel loro auten-
tico significato i versi immortali della Commedia che diventano
opera eccezionale, non favoletta per bambini.
Tutto questo appare straordinariamente evidente alla luce di
quanto era rimasto celato per secoli nell’antica torre del borgo di
Nemi.
Cos’erano mai queste pericolose conoscenze?
Come vi era finito e da dove proveniva quel materiale misterio-
so che nessuno avrebbe dovuto conoscere?
Infine, cosa rappresentano di così terribile quelle tre belve?
Per rispondere alle prime due domande dovrò approfittare della
cortesia di Adriano Petta che mi ha consentito di riprodurre qui
alcuni brani della sua opera straordinaria.
All’ultima domanda potremo rispondere con un ragionamento
più logico di quanto comunemente fanno i commentatori di Dante e
lo possiamo fare solo perché a conoscenza di quanto rivelato da
Petta.

La Via di Dante 61
LA FONTE DEL SAPERE,
Giordano de Nemore e i Catari
Con la fine dell’Impero Romano, il crollo demografico e l’affer-
marsi del Cristianesimo, gran parte dell’immenso patrimonio di
conoscenze degli antichi è perduta.
Le distruzioni del patrimonio culturale dovute ad incendi prodi-
toriamente appiccati alla biblioteca di Alessandria, il centro di cul-
tura più importante di tutta l’antichità, fa regredire l’intera umanità
di molti secoli.
Il Cristianesimo, da parte sua, bandisce, contemporaneamente,
ogni forma di conoscenza che non sia strettamente necessaria o che
non ritiene conforme ai suoi insegnamenti ed occulta nei monasteri
e negli archivi tutto il resto. Per la deperibilità dei materiali usati,
solo la continua trascrizione dei testi può consentire il sopravvivere
degli antichi volumi. E la trascrizione, con l’avvento del monache-
simo cristiano e con la profonda crisi medioevale, avviene ormai
esclusivamente nei conventi sotto il controllo rigido del papato.
La cultura è considerata pericolosa ai fini del controllo e del
governo delle masse per il mantenimento del potere religioso-poli-
tico e per la sopravvivenza della religione che aveva abolito tutte le
altre. Insomma, il dominio culturale e politico ed il mantenimento
del potere da parte dei seguaci di Cristo è legato anche all’ignoran-
za di tutti.
Del resto, la Chiesa non fa che confermare una tradizione che
risale ai primordi dell’umanità: la conoscenza è peculiarità -esclusi-
va- della classe sacerdotale; il gran sacerdote è colui che ha il com-
pito di mantenere il contatto diretto con la divinità.
Anche gli Arabi non scherzano: per loro la conoscenza è il solo
Corano.
Queste non sono interpretazioni storiche nuove. Sono considera-
zioni preliminari che servono solo ad introdurre l’argomento per
comprenderlo appieno.
Nel VII secolo, ma qui entriamo già nel merito delle scoperte di
Adriano Petta, Anania di Shirak, un grande studioso armeno, si

62 La Via di Dante
rende conto che molte delle conoscenze antiche sono destinate a
scomparire. In oriente non c’è alcun interesse ad applicarle ed
Anania si convince che solo l’Europa potrebbe avere la forza e la
volontà di proseguire sulla via della conoscenza e di mettere in pra-
tica le fantastiche scoperte fatte in estremo oriente in campo scien-
tifico e in campo tecnico e tecnologico. Temendo fortemente per
quelle conoscenze di cui è ormai forse l’ultimo custode, incarica tre
suoi allievi di condurle in Europa. Per sicurezza i tre ragazzi pren-
deranno vie diverse sperando che almeno uno potrà depositare in
mani sicure i segreti che porta con sé.
Petta ricostruisce le vicende di uno dei tre, Aser, che va al segui-
to dell’imperatore Costanzo II, diretto in Italia.
Una volta in Italia, lasciato l’imperatore, Aser giunge a Roma.
Dopo aver pregato nel convento delle Acque Salvie, nel luogo,
le Tre Fontane, che la tradizione vuole essere quello del martirio di
San Paolo, si reca nella chiesa di San Pietro in Vincoli dove incon-
tra un dotto prelato romano che lo conduce al tempio di Diana nella
valle del lago di Nemi. Qui, con l’inganno, lo convince a scendere
in una delle grotte del tempio. Prima però, l’ha convinto ad affidar-
gli la borsa contenente i libri del sapere.
Nella grotta c’è materiale infiammabile e Aser finisce bruciato,
come in una specie di rogo ante-litteram.
E’ la fine del mese di luglio dell’anno 663 d.C.
Il contenuto della sua borsa finirà in quella che sarà poi la torre
saracena del Castello di Nemi che ancora oggi svetta superba sul
profondo cratere dominando il nucleo più antico del piccolo villaggio
che intorno ad essa nascerà.
E’ qui che Petta ci fa trovare Giordano de Nemore, converso
cistercense addetto al convento che a Nemi (e a Cynthiano
-Genzano-) i monaci hanno fondato sulle antiche rovine di templi
precedenti.
Girolamo, un confratello più anziano, rivela a Giordano che
nella torre sono gelosamente custoditi dei volumi che contengono
l’antico sapere: proprio quelli sottratti ad Aser quasi sei secoli
prima. Nessuno può vederli, ma qualcosa egli ne ha tratto: sono
numeri strani, i numeri indiani che indicano le quantità da 1 a 9.

La Via di Dante 63
Essi hanno anche un numero nuovo, strano, lo Zefiro, lo zero, un’in-
venzione straordinaria che rivoluzionerà tutta la scienza. In quei
volumi Girolamo racconta di aver intravisto anche disegni di mac-
chine geniali, in grado di rivoluzionare la vita degli uomini.
Giordano non riuscirà a prendere i volumi, ma verrà a cono-
scenza dei piani di papa Innocenzo III e di Arnauld-Amaury,
Ministro Generale dell’Ordine Cistercense, per annientare l’eresia
dei Catari.
Scoperto, Giordano riuscirà a fuggire utilizzando l’antico emis-
sario del lago e, fuggendo verso il mare, raggiungerà Ostia. Prima
di imbarcarsi riuscirà a comunicare la scoperta dei numeri a Ugo
Fibonacci che diverrà uno dei maggiori matematici del suo tempo.
Raggiunta la regione dei Catari, popolo considerato eretico dal
papa romano perché persegue la conoscenza, Giordano comincerà
un’azione per la diffusione del sapere. Dopo la prima grande perse-
cuzione scamperà al massacro dei cittadini di Béziers e scomparirà
per riapparire a Parigi con il nome di Giovanni de Sacrobosco. Sarà
monaco, andrà alla caccia di un testo di Plauto a Citeaux, conosce-
rà e sarà maestro di Ruggero Bacone con il quale tenterà di fabbri-
care la polvere pirica in un estremo, fallito tentativo di salvare la
roccaforte catara di Montségur cinta d’assedio dai crociati del papa.
Riuscirà, però, a recuperare i libri del sapere un tempo conservati a
Nemi e finiti nel monastero di Santa Colomba a Sens e a portarli
con sé a Montségur.
Qui, una delle copie di alcuni volumi è affidata ad una fanciulla
che, dopo essere rimasta nascosta alcuni giorni in una buia grotta,
riuscirà ad arrivare a Magonza dove i volumi saranno conservati dai
suoi discendenti, antenati di Niccolò da Cusa. A Niccolò li affiderà
la madre raccomandandogli estrema riservatezza. Niccolò farà buon
uso dei consigli della madre e arriverà ad essere stimato cardinale,
ma cadrà lo stesso vittima di chi è sempre sulle tracce dell’antico
sapere per occultarlo ancora, finché si potrà.
Saranno coinvolti nell’avventura iniziata da Giordano via via:
- Gutemberg, che utilizzerà non solo gli antichi disegni per
costruire la macchina per stampare, ma anche le istruzioni per
fabbricare i caratteri mobili e la carta;

64 La Via di Dante
- Copernico, che in base alle conoscenze degli astronomi greci
contenute in quei volumi, elaborerà la sua teoria sul movimen-
to degli astri;
- Galileo Galilei, che apprenderà la forma dell’universo e i movi-
menti del sole e dei pianeti per la qual cosa rischierà di finire sul
rogo;
- Giordano Bruno, che, intransigente, manterrà le sue idee e finirà
sul rogo come Giordano de Nemore e, comunque, arso vivo come
Aser.
Questo in estrema sintesi la storia di Giordano e dei segreti
nascosti a Nemi, portati in Italia dal giovane Aser nel 663.
Questa storia illuminò all’istante la mia mente!
La ricostruzione storica di Petta era rivoluzionaria e, come mi
confermò lo stesso Autore, del tutto attendibile. Egli l’aveva verifi-
cata consultando documenti originali sparsi negli archivi di mona-
steri e chiese di mezza Europa. Per quanto mi riguardava, il lavoro
di Petta era decisivo per la comprensione degli eventi e del pensie-
ro dantesco perché si poteva fare, ormai, un collegamento tra quel-
le conoscenze segrete e i versi di Dante.
Ora non potevo più ignorare il fatto che il Vate potesse conosce-
re quei segreti. Dovevo provare a verificare, però, se c’erano tracce
nei versi della Divina Commedia che potessero nascondere quelle
conoscenze.
Non solo il paesaggio doveva aver colpito Dante venuto ai Colli
Albani sulle tracce di Virgilio, ma, forse, l’aveva attirato qui anche
la conoscenza della straordinaria storia di Giordano -personaggio di
grande spessore morto solo pochi anni prima della nascita di Dante-
e delle antiche conoscenze nascoste a Nemi. Tutti questi motivi
potevano averlo spinto a visitare un luogo che doveva veramente
essere unico. La contemporanea presenza in questi luoghi di tanti
misteriosi elementi ricchi di significati simbolici -una volta visto
anche l’ambiente naturale- poteva effettivamente avergli suggerito
l’idea di fondo della scena in cui ambientare la sua grande opera e
chissà cos’altro.
Era un’ipotesi davvero molto suggestiva, ma priva ancora di seri
riscontri, soprattutto per me che ero del tutto digiuno di studi danteschi.

La Via di Dante 65
Ma, ancora una volta, in aiuto arrivò il poco casuale suggeri-
mento del libraio Gianni Ventucci che, a conoscenza delle mie
“ricerche”, mi pose in mano -letteralmente- un libro: L’esoterismo
di Dante, una nuova ristampa a cura dell’Editrice Atanòr di un’ope-
ra di René Guénon.
Nel suo breve trattato, Guénon riportava il pensiero di Aroux che
si domandava se Dante fosse stato Albigese o cristiano.
Gli Albigesi altri non erano che i Catari.
Il primo passo per la dimostrazione del legame di Dante con le
conoscenze di Giordano de Nemore era, dunque, fatto.
Sulla base di questa nuova realtà fu ovvio insistere nella lettura
della Divina Commedia per trovare altri possibili riscontri.
E molti altri indizi Dante li ha davvero lasciati nella sua opera ed
io, ormai, ero in grado di riconoscerli: la conoscenza della Croce del
Sud, della forma sferica della terra, di quel che si trova nell’altro
emisfero e al di là delle colonne d’Ercole. Illuminante è per questo
il canto che narra l’ultimo viaggio di Ulisse di cui dà la rotta che poi
seguirà, in pratica, Magellano e che Dante indica con grande preci-
sione.
Dunque, non era più così ardito pensare a contatti reali tra il
Poeta, i Catari, i Templari e le loro occulte conoscenze.
Questo spiegava ancor più il desiderio di Dante di visitare i Colli
Albani e il lago di Nemi. Non solo la curiosità di vedere i luoghi
cantati da Virgilio, dunque, poteva averlo spinto qui, ma anche il
desiderio di vedere la torre dove il sapere era stato così a lungo
occultato e da dove era partito il grande Giordano de Nemore.
Anche simbolicamente la cosa -l’occultamento del sapere- era
stata in linea con il carattere del luogo.
Il tempio di Diana -dove era finito bruciato vivo Aser- e i suoi
dintorni con il nemus erano i luoghi sacri alla dea che solo la super-
ficialità della prima lettura faceva ritenere la dea della caccia. Per
l’esoterico Dante, Diana-Artemide era molto di più: era la dea della
conoscenza misterica, occulta. Ecco perché il sapere doveva rima-
nere celato proprio qui, nel luogo che, in occidente, più di ogni altro
era deputato a conservare verità nascoste.
E’ proprio la conoscenza del sapere antico che può dare a

66 La Via di Dante
Dante la possibilità di concepire l’idea di fondo della sua opera
immortale. L’aspirazione alla conoscenza e alla larga divulga-
zione del Sapere, occultato con l’inganno e la sopraffazione,
impedita dalla prepotenza terrificante della Chiesa di allora,
diventa lo scopo primo della sua opera.
Il simbolo del sapere è la luce e la luce suprema è Dio.
Tendere alla conoscenza significa tendere al bene supremo, a
Dio.
È l’aspirazione dei Catari-Albigesi, la loro eresia che li condan-
na al rogo perché è esattamente il contrario di quello che vuole la
potenza prima nel mondo medievale: la Chiesa di Roma.
Dire palesemente una cosa simile, ai tempi di Dante, significava
prenotare, dopo una condanna ufficiale, una morte certa e violenta:
il rogo.
Il veleno, invece, in mancanza di una condanna pubblica, era il
mezzo più riservato per una morte silenziosa, clandestina, estiva,
contrabbandabile per morte naturale data -in genere- da febbri
malariche.
Luglio ed agosto erano, allora, i mesi in cui i personaggi scomo-
di per gli interessi della Chiesa Romana si ammalavano.
Generalmente morivano in pochissimi giorni rosi dalle febbri mala-
riche provocate, più che dalle terribili zanzare delle paludi, da stra-
ne sostanze loro propinate con i cibi.
Dante conosce bene le intenzioni del papato e scrive un’allegoria
a più livelli di lettura, con quattro significati possibili noti certamen-
te agli esperti della Chiesa, ma tollerati proprio perché non esplicita-
mente espressi e rimasti, così, non comprensibili alle masse.
Quasi a sfidare i suoi antagonisti, proprio nel primo canto Dante
fa la più celebre e meno decifrabile delle sue profezie. È la più
importante, il cui significato, finora oscuro, è diventato immediata-
mente chiaro oltre che semplice ed inequivocabile, dopo la lettura
dell’opera di Adriano Petta.
Ma per procedere oltre e per ben comprendere, dobbiamo prima
scoprire l’arcano delle tre belve.

La Via di Dante 67
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita...
...
Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì ch’el piè fermo sempre era ‘l più basso.
Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una LONZA leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partìa dinanzi al volto,
anzi ‘mpediva tanto il mio cammino,
ch’io fui per ritornar più volte vòlto.
Temp’era dal principio del mattino,
e ‘l sol montava ‘n sù con quelle stelle
ch’eran con lui, quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse LE TRE BELVE
Le tre belve che Dante
la vista che m’apparve d’un LEONE. incontra nella selva oscura
sono proprio le stesse
Questi parea che contra me venisse -Lonza, Leone, Lupa-
con la testa alta e con rabbiosa fame, che decoravano
sì che parea che l’aere ne temesse. le navi di Caligola.
E’ solo un caso?
Ed una LUPA, che di tutte brame
sembrava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei speranza de l’altezza.
Dante Alighieri, La Divina Commedia,
Inferno, Canto I

68 La Via di Dante
LE TRE BELVE e la profezia del veltro
Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
32. una lonza leggera e presta molto...
...
...ma non sì che paura non mi desse
45. la vista che m’apparve d’un leone...
...
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
51. e molte genti fé già viver grame...

Dante, nella selva oscura incontra, simbolicamente, tre belve.


Finora la loro presenza in questa parte del poema è stata colle-
gata esclusivamente ai significati simbolici che Dante attribuisce
loro, senza alcun altro tipo di riferimento alla selva oscura.
Ma è proprio così?
Abbiamo appena visto qual è il collegamento delle tre belve con
l’ambiente nemorense. Sei secoli dopo, nel 1895, dal fondo del lago
riemergeranno le teste bronzee delle tre belve che spaventano
Dante, ma nessuno, finora, ha messo in relazione i due eventi. In
realtà i simboli incarnati dalle belve hanno, con Dante, un signifi-
cato molto diverso, opposto a quello che gli antichi attribuivano
loro. È singolare, comunque, che il Poeta scelga proprio e solo quel-
le belve per farsi spaventare mentre vaga nella selva oscura.
Caligola aveva utilizzato quelle belve come simboli esoterici ed in
funzione apotropaica per allontanare il Male, cioè aveva voluto a dife-
sa del suo tempio galleggiante, dedicato alla grande madre degli Egizi,
le fiere che avevano valenze infere. Anche Isis, come Diana, è signora
del mondo delle tenebre, dove regna con Osiride suo fratello e marito.
Ma le navi che ospitavano i bronzi erano sul fondo del lago da
oltre mille anni, come poteva Dante sapere cosa ci fosse a bordo?
In realtà, le navi erano ad una profondità minima, tale da essere
raggiunta facilmente dai pescatori che, per curiosità, si fossero get-
tati in acqua. Addirittura le sovrastrutture delle navi, al momento del-
l’affondamento, emergevano dalle acque, tanto era basso il fondale.
Solo a causa dei crolli delle strutture lignee emergenti, dovuti alle con-
La Via di Dante 69
tinue devastazioni operate dagli abitanti del territorio circostante e al
lungo tempo di permanenza in acqua, le navi non erano più visibili
fuori del pelo dell’acqua. La loro grande mole (gli scafi erano lunghi
circa settanta metri e larghi trenta) li rendeva più che visibili sotto l’ac-
qua. Essi erano notissimi ancora ai tempi di Leon Battista Alberti e,
poi, di Leonardo da Vinci, che furono incaricati del loro recupero.
Quegli scafi sommersi restarono famosissimi fino al loro recupero
finale, dopo vari tentativi falliti, avvenuto alla fine degli anni Venti del
Novecento, per iniziativa del Governo Fascista di Benito Mussolini.
Dante, dunque, poteva conoscere benissimo gli animali rappre-
sentati sulle navi di Nemi.
Indicando gli stessi animali già presenti simbolicamente in quel
luogo, vediamo, allora, quali significati Dante attribuisce loro.
Abbiamo già visto come sia riduttivo e inadeguato il significato
che la critica ha finora attribuito loro identificandoli esclusivamen-
te come vizi umani, senza collegarli strettamente tra loro.
Visto che poi Dante mette in risalto questi stessi vizi sia nei gironi
infernali sia in quelli del purgatorio, ci si è convinti che effettivamente
quelli fossero comunque i significati simbolici attribuiti loro dal Poeta.
Ma non può essere così.
Le interpretazioni di quei simboli sono troppo superficiali e rap-
presentano soltanto il senso più semplice della lettura, non quello
più profondo e nascosto che collega le tre belve direttamente alla
successiva e ancor misteriosa profezia del veltro.
Per cercare di risolvere l’enigma celato nei versi danteschi cer-
chiamo aiuto nella storia di Giordano de Nemore.
Cosa cercava Giordano nella torre di Nemi?
Abbiamo visto che era sulle tracce della fonte del sapere, cono-
scenze che potevano stravolgere l’ordine costituito da secoli dalla
Chiesa Romana. Ma di cosa si trattava in particolare?
Ogni variazione della conoscenza era sotto strettissima sorve-
glianza. Non erano mancate, nel corso dei secoli, tendenze divari-
catrici che potevano mettere in dubbio ed in pericolo l’autorità asso-
luta che la Chiesa di Roma era riuscita a conquistare.
I difficili equilibri con l’Imperatore del Sacro Romano Impero e
con i re delle varie nazioni che tendevano a formarsi sulle rovine di

70 La Via di Dante
quello che era stato l’Impero di Roma, costringevano il papa a man-
tenere stretti i vincoli su tutto quello -la cultura in primo luogo- che
poteva costituire un sia pur lontano pericolo per l’ortodossia romana.
Nella torre di Nemi, considerata sotto questo aspetto, era nasco-
sta una vera e propria bomba atomica.
Per un uomo di cultura, insofferente a limiti e divieti come
Dante, chi si opponeva con la forza e con la minaccia di morte al
diffondersi della cultura, come faceva la Chiesa in quei tempi, non
poteva non costituire un nemico mortale da combattere con ogni
mezzo e con tutte le forze.
Per Dante la Chiesa, quella Chiesa, che voleva mantenere integro un
potere illimitato ed intransigente -atteggiamento non nuovo, ma antichis-
simo della casta sacerdotale- che continuamente esercitava anche con la
feroce repressione del dissenso, con l’imposizione dell’abuso sfrontato di
pratiche sessuali innaturali, con un’arroganza del potere senza limiti e con
un’avidità di ricchezza sconfinata, andava combattuta con ogni mezzo.
Ma siccome la stessa Chiesa era anche la depositaria -direttamente o indi-
rettamente- del potere supremo che usava senza alcuno scrupolo, doveva
essere affrontata senza farsi sopprimere. Da qui la necessità per il Poeta
di rivelare le sue conoscenze senza farlo capire, nascondendole sotto
significati occulti, con profezie apparenti, possibili solo perché chi le for-
mula conosce già l’esistenza della cosa o dell’evento profetizzato.
Ecco la chiave di lettura rivoluzionaria: Dante conosce cose
segrete e le profetizza in maniera oscura perché solo chi già sa -i
membri degli Ordini segreti- possa intendere!
Ed ecco perché si sbilancia in una profezia!
Ha la certezza che qualcuno o qualcosa verrà per uccidere la
lupa? Chi o cosa ha in mente?
La lupa è, delle tre belve che ostacolano il suo cammino, l’ani-
male apparentemente meno pericoloso. Dante, però, lo trasforma in
quello più difficile da combattere, quello che sarà vinto solo da un
misterioso, formidabile personaggio:
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
99. e dopo ‘l pasto ha più fame che pria.
Molti son gli animali a cui si ammoglia,

La Via di Dante 71
e più saranno ancora, infin che ‘l veltro
102. verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapienza, amore e virtute,
105. e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

Come è possibile, leggendo questi versi, pensare alla lupa solo


come al simbolo dell’avarizia o della cupidigia degli uomini?
Per eliminare un tale vizio Dante profetizza addirittura un veltro
inteso come una specie di nuovo Salvatore del mondo che la farà
morire con grande dolore.
Perché tutto questo?
Solo per liberare l’Umanità dall’avarizia o dalla cupidigia?
E come? E perché un “veltro”?
Non mi sembra, questa, la lotta alla cupidigia dell’Uomo, sottolineo
ancora, una grande guerra da combattere e vincere a tutti i costi. E non
ci voleva davvero il genio di Dante per dichiarare una tale guerra.
Ma nemmeno i vizi simboleggiati dalle altre due belve sono tali
da giustificare tanto sforzo da parte del poeta sommo.
Perché, poi, la lupa spaventa anche Virgilio al punto da indurlo
a consigliare a Dante il percorso alternativo che conduce addirittu-
ra nell’al di là per scampare il pericolo mortale?
La lupa e le altre belve, insomma, rappresentano qualcosa di più
e di diverso dei tre pur gravi vizi umani della lettura più tradiziona-
le, ma anche più superficiale del poema, quella che non comprende
i significati ed i messaggi più nascosti contenuti nella Commedia.
Proviamo a vedere le cose da un diverso angolo di visuale.
Dante, abbiano visto, conosce l’opera di Augusto, l’autobiografia
ritenuta erroneamente, finora, dai moderni studiosi, perduta da sempre
e, perciò, ignota anche agli uomini del Medioevo, Dante compreso.
Dante, invece, mostra di conoscere perfettamente l’opera ed il
pensiero di Virgilio, anche nella sua parte esoterica.
Ancora. Dante conosce la storia e le idee dei Catari.
Sa quali feroci repressioni quel popolo ha dovuto subire pochi
decenni prima a causa dell’intransigenza della Chiesa.
Egli è a conoscenza anche della vicenda di papa Celestino V,
costretto al gran rifiuto da Bonifacio VIII e forse ucciso per suo
72 La Via di Dante
ordine. Questo è almeno quello che può pensare Dante. Egli sa
anche che il genio di Giordano de Nemore ha appreso, salvato e dif-
fuso segretamente conoscenze incredibilmente importanti, ma sa
anche che chi è al corrente di quei segreti deve mantenere il riserbo
assoluto, non far capire a nessuno che sa, per salvare la propria vita.
Come può non ribellarsi con tutte le sue forze?
Certo nemmeno lui, soprattutto lui, può impunemente dire quel-
lo che pensa. Non solo metterebbe in serio pericolo la sua incolu-
mità, ma rischierebbe di far distruggere tutto e subito. Ecco, allora,
i simboli che confondono e lasciano i dubbi -per lui- salutari, le
allegorie sotto le quali cela tutto il suo sapere, ma che dimostrano a
chi sa che quelle stesse conoscenze sopravvivono.
Ma da chi si deve difendere? Chi è, insomma, il nemico feroce
da combattere rappresentato da quelle belve?
Non i vizi degli uomini, ma quelli di un’entità potente e spieta-
ta che ha in sé -ed al sommo livello- tutti e tre i caratteri negativi
simboleggiati dalle tre belve:
- l’arroganza del potere, che è cosa ben diversa dalla semplice
superbia che al leone si vuol far rappresentare; è la forza bruta di
chi si sente superiore a tutti e che è abituato ad imporre la propria
volontà e ad essere ubbidito ciecamente;
- la lussuria sfrenata, esercitata da chi -avendo l’arroganza del
potere- non si ferma nemmeno davanti ai limiti imposti dalla natu-
ra. Approfitta, per il suo squallido piacere, dei più deboli, bambini
compresi, senza alcun limite, senza pudore, soprattutto se a subire
sono i suoi avversari. Non si ferma nemmeno di fronte ai propri
concittadini pur di ottenere il suo sfrenato piacere.
La lonza è la personificazione del vizio più turpe, praticato da
chi predica la castità ed esercitato anche a danno dei più ingenui e
puri: i bambini.
Roba d’altri tempi? Accuse infondate dei nemici giurati della
Chiesa? No, purtroppo: realtà viva e dolorosa ancora oggi. Lo
scandalo clamoroso degli abusi sessuali di appartenenti alla Chiesa
cattolica in America -la patria della Democrazia e dei diritti umani,
non in una landa desolata dimenticata da Dio e nel XXI secolo,
non nel medioevo- ripropongono ancora oggi un tale argomento.

La Via di Dante 73
Come è noto, non solo la Chiesa ha dovuto pagare ingenti danni
materiali per gli abusi commessi, ma Benedetto XVI, nella sua
visita apostolica negli Usa, svoltasi nella seconda metà di aprile
del 2008, ha anche dichiarato la sua profonda vergogna per gli
abusi commessi sui bambini da sacerdoti e vescovi americani! E
non basta. Alla fine di ottobre del 2008 il Papa ha ribadito che non
può diventare sacerdote chi non è in regola dal punto di vista ses-
suale: un gay non sarà ammesso a svolgere le funzioni sacerdotali.
Il Papa ha dovuto chiedere ancora perdono per episodi di pedofi-
lia di sacerdoti e vescovi accaduti anche in Europa ancora fino al
2010, quando, durante il suo pellegrinaggio a Fatima ha ricordato che
tra le rivelazioni della Madonna c’erano anche i terribili fatti di pedo-
filia lamentati.
Ancora.
L’avidità di conquista e di ricchezze a costo di stragi tremende
commesse -da chi esercita l’arroganza del potere e si dedica alla lus-
suria più sfrenata- in nome di un dio che invece predicava rinuncia
completa ai beni terreni e povertà.
La lupa riunisce in sé anche i caratteri delle altre due belve che,
simbolicamente, non rappresentano qui i vizi degli uomini, ma
quelli del più dissoluto e feroce potere che allora era esercitato in
nome di Dio: la Chiesa di Roma. E non la Chiesa Crisitana come
istituzione, ma la sua deviazione incarnata dalle più alte sfere del
clero, dall’élite di uomini arroganti, insaziabili e corrotti che nulla
avevano a che vedere con la parola e l’insegnamento di Cristo .
I difetti simbolicamente rappresentati da Dante, insomma, erano
quelli dei Capi della Chiesa di Roma che decidevano le sorti del-
l’umanità e contro il cui immenso potere era vano porsi senza
esserne schiacciati e sterminati.
Questa Chiesa, con questi Capi, Dante rappresenta simbolica-
mente con la triplice belva che mette paura a Dante.
Mettere fine alla sua prepotenza e restituire agli uomini la
libertà di apprendere è il compito titanico che egli si assume
scrivendo il suo capolavoro.
Il Poeta conosce ciò che Giordano de Nemore ha salvato e sa che
quanto è indicato nel sapere occulto diventerà noto -ed è certo che

74 La Via di Dante
prima o poi la cosa avverrà-, perciò quella belva feroce avrà poco
da vivere ancora. Essa sarà costretta a cedere e, alla fine, sarà scon-
fitta e la sua disfatta sarà per lei molto dolorosa.
Ma cosa sa veramente Dante per esser certo che prima o poi
la sua predizione si avvererà? Chi crede che sia il veltro che
azzannerà la lupa e la farà morir con doglie?
Come fa a conoscerlo così bene, tanto da profetizzarne l’avvento?
Ecco, l’indecifrabile profezia del veltro rappresenta quanto di
più oscuro ci sia nella Divina Commedia.
Non è, però, una profezia teorica, una fantasia del Poeta che pre-
figura un’improbabile sconfitta del Male attraverso un nuovo
Salvatore. Non è, insomma, una profezia campata per aria, pura-
mente simbolica, ma una deduzione logica.
Per questo, non si riferisce ad un personaggio futuro che Dante
non potrebbe conoscere, né prevedere; e non è nemmeno un perso-
naggio del suo tempo per il semplice motivo che il Veltro non è una
persona, ma una cosa -una macchina- che, pur essendo nota ai
Catari, ancora non è stata costruita. Dante la conosce, o meglio, ne
conosce i principi ispiratori e sa a cosa serve, ma non può dirlo per
non comprometterne la realizzazione e rischiare di finire sul rogo
inutilmente. Perciò la predice parlando per simbolismi ermetici il
cui significato non può essere compreso se non dai pochi iniziati
che ne hanno cognizione.
Dante parla per simbolismi dietro i quali nasconde la verità. E la
nasconde così bene che quel segreto è arrivato fino a noi.
Analizziamo, allora, il suo ragionamento simbolico, senza per-
derci, come hanno fatto tutti i critici dell’opera dantesca finora, die-
tro ad improponibili ipotesi di personaggi storici che nelle intenzio-
ni di Dante avrebbero dovuto impersonare il veltro.
Tra le infinite interpretazioni, riporto qui di seguito quella data
da Natalino Sapegno, uno dei più illustri e profondi conoscitori e
commentatori dell’opera di Dante in generale e della Divina
Commedia in particolare. Traggo il testo dal suo commento ai versi
101-105 del primo canto dell’Inferno dell’edizione del 1986 della
“Divina Commedia - Inferno” dell’editrice La nuova Italia, pag. 13.
101. ‘l veltro: per combattere e vincere la lupa occorre un veltro, e

La Via di Dante 75
cioè un cane da caccia ben addestrato e veloce. E poiché nella lupa
è rappresentata l’avarizia o la cupidigia, come causa fondamentale
del disordine civile e morale dell’umanità, il veltro dovrà rappre-
sentare, nella mente di Dante, un’azione di riforma promossa da
dio, che perseguita la cupidigia per ogni villa, cacciandola ovunque
essa si annidi, e ristabilendo nel mondo tutto, e particolarmente
nell’Italia (vv. 106-108), l’ordine e la giustizia.

Continuando il suo commento il Sapegno avverte che è opportuno


“respingere ogni proposta di identificazione del veltro con un per-
sonaggio storico definito (il papa Benedetto XI o l’imperatore
Arrigo VII, Uguccione della Faggiola o Cangrande della Scala; per
citare, fra le tante, solo le ipotesi meno stravaganti ed assurde)...
...Nel veltro si dovrà pertanto scorgere una forza capace di assumersi
questo compito primario di riformatore della Chiesa e di ricondurla
alle sue origini apostoliche; e potrà essere un imperatore, che ristabi-
lisca la giusta distinzione fra il potere temporale e quello spirituale,
ovvero un pontefice che operi dall’interno il rinnovamento in senso
evangelico degli istituti ecclesiastici. Gli attributi (pur nell’oscurità del
linguaggio, essenzialmente religiosi e spirituali), che Dante assegna al
veltro (vv. 103-105), fanno propendere piuttosto per la seconda ipote-
si, e cioè per un riformatore religioso, nel quadro delle idee e aspira-
zioni diffuse nella società italiana del tempo...”

Dunque, per il nostro illustre commentatore, se pure i nomi di


imperatori o papi o personaggi comunque illustri sono da scartare,
proprio perché Dante non è un profeta, per comprendere chi può
essere il veltro ci consiglia di rimanere nel vago: un riformatore reli-
gioso che prima o poi verrà. Costui
“103. non ciberà ecc.: non sarà avido di dominio né di ricchezza (il
peltro è una lega di metalli, e qui sta per “moneta”). Parole che ben
si addicono (specialmente se prese in rapporto a quelle che seguo-
no subito dopo) ad un papa spirituale; mentre non convengono al
monarca, il quale è ben vero che non avrà più ragione di desidera-
re nulla, ma solo perché possiederà tutto, terre e denaro...
104. ma sapienza ecc.: ma si ciberà di Dio. Sapienza, amore e vir-
tute indicano le tre persone della Trinità (rispettivamente il Figlio,
lo Spirito Santo, e il Padre)... Altri intende in senso più ovvio, ma
meno probabile: sarà saggio, fervido a bene operare e virtuoso.
105. nazion: nascita, origine... - tra feltro e feltro: il feltro... è una
76 La Via di Dante
“spezie di panno oltre a ogni altra vilissima”: avrà Dante voluto
dire che il veltro nascerà umile di origine, o sarà prescelto tra i fran-
cescani e ne seguirà la regola di povertà? Questa sembra ancora
l’interpretazione più semplice di una frase, che, per essere stata
dettata in un gergo ermetico, non potrà mai essere chiarita in
modo che riesca per tutti convincente, e della quale pure si son
volute offrire innumerevoli spiegazioni. Qualcuno dei commentatori
antichi intendeva:”fra cielo e cielo”; altri han supposto che l’espressio-
ne contenesse un’indicazione geografica (tra Feltre, nel Veneto, e
Montefeltro, in Romagna); di recente s’è pensato alle urne, foderate di
feltro, con cui si facevano in quel tempo le elezioni dei magistrati... ma
son tutte interpretazioni ancor più che ingegnose, lambiccate”.

Ma, allora, chi o che cos’è il veltro?


Che cosa deve intendersi effettivamente per feltro?
Il veltro, nella realtà, come ci informa anche il Sapegno, è un
veloce cane da caccia che, azzannata la preda, non la molla finché
questa non muore.
Nei versi di Dante, celato nel veltro, se non c’è un uomo, cosa vi
può essere e come può il poeta conoscerla?
I commentatori si sono persi in disquisizioni a volte ridicole, a
volte ingenue, a volte assurde dando interpretazioni che non pote-
vano avere alcun senso anche perché partivano da presupposti sba-
gliati. Lo stesso Sapegno a questo proposito, non riesce a dare una
interpretazione valida di questo brano e sul suo commento è meglio
stendere un velo pietoso.
Quando ormai avevo completato questo libro, mi telefonò il mio
amico Stefano Paolucci. Mi invitava a casa sua, a Rocca di Papa,
proprio a fianco al Monte-Purgatorio. Mi voleva far vedere uno
scritto di Gilberto Mazzoleni di cui mi fornì la fotocopia.
“E’ un po’ datato, ma può essere un elemento a sostegno della
tua tesi sull’enigma della profezia del Veltro”.
Di quello che avvenne quella sera e del contenuto di quello scrit-
to io riferii in un articolo pubblicato dalla rivista che lo stesso
Paolucci dirigeva, inRM magazine, nel numero del novembre 2009.
Eccone il testo.
“Ora un altro amico, che invece da subito ha creduto alla mia

La Via di Dante 77
ipotesi, mi allunga una fotocopia di una pubblicazione in cui si sve-
lano alcuni “misteri” della Divina Commedia ancora incompresi.
In particolare il primo ed il più famoso di tutti: quello della pro-
fezia del veltro.
La spiegazione che io dò di questo mistero è semplice, ma com-
porta la conoscenza di cose che finora sono rimaste sconosciute.
La prima era capire chi fosse il veltro.
A quale personaggio alludeva Dante?
La seconda era comprendere il vero significato di quel “tra fel-
tro e feltro”.
Non rivelerò qui il significato intero di questa profezia riman-
dando i lettori al mio libro di prossima pubblicazione, “La via di
Dante, dall’inferno alla Luna” la cui prima parte si intitola “...e
Dante si smarrì nel nemus”. Parlerò solo della parte che riguarda
queso ultimo contributo arrivatomi inaspettatamente la sera del 27
ottobre 2009. L’autore del pezzo “I chiari vaticinii della Divina
Commedia” è Gilberto Mazzoleni che sostiene che il feltro è quel-
lo che si usa per la fabbricazione della carta. La pasta umida che
diverrà foglio di carta veniva messo tra due feltri, “tra feltro e fel-
tro”, insomma. Ecco, la cosa cui allude Dante è la carta che per
essere fabbricata viene posta tra feltro e feltro. La carta serve per
registrare ciò che “amore” detta al Poeta. La voce di Dante, dun-
que, conclude l’Autore, perseguiterà la smodata bramosia dei beni
terreni (radice di tanta corruzione), simboleggiata dalla lupa.
Mazzoleni ha quasi intuito la verità, ma non ha conoscenza di
tutto l’arcano. Perciò sbaglia la conclusione che è debole, se riferi-
ta alla “Divina Commedia” e ad un titano come Dante.
Il veltro non è il Poeta, né alcun altro essere umano.
Il veltro è una macchina.
I suoi disegni vengono dall’oriente e sono rimasti celati nella torre di
Nemi per oltre sei secoli. Dante ne aveva conoscenza. Non è difficile argui-
re che fosse cosciente che quella macchina, prima o poi, sarebbe stata costrui-
ta... Non posso ancora rivelare di quale macchina si tratta. Dico solo che,
come il veltro, è una cosa veloce e che ha a che fare con la carta e il suo uso
costituirà la morte per la lupa simbolica cui egli allude nella Commedia.
Per la rivelazione completa chiedo pazienza, fino alla prossima
uscita del libro”.
Ad onor del vero, però, la spiegazione di questo arcano non
poteva, obiettivamente, essere mai data senza la conoscenza delle

78 La Via di Dante
vicende di Giordano Nemorario e dei segreti rimasti per secoli
nascosti nella torre di Nemi e svelati da Adriano Petta.
Questo giustifica perché mai nessuno, prima d’ora, abbia potuto
avanzare una simile soluzione del mistero dei misteri della
Commedia.
Quei segreti erano patrimonio delle conoscenze di una ristrettis-
sima cerchia dei Catari. Dante li avrebbe potuti apprendere per la
sua appartenenza all’Ordine dei Rosacroce, direttamente collegato
ai Templari del Priorato di Sion a loro volta collegati con i Catari?
Vedremo anche altri importanti rapporti con tutto questo mondo
che rafforzeranno questa interpretazione.
Vediamo ora il possibile collegamento tra Nemi, Giordano e Dante.
Ricordiamo ancora che è Giordano Nemorario a mettere in salvo
il sapere segreto celato a Nemi, prima, e trasferito nel monastero di
Santa Colomba di Sens in Francia, dopo l’incontro avvenuto nella
torre di Nemi -a cui aveva assistito di nascosto Giordano de
Nemore- tra papa Innocenzo III e l’abate Arnauld-Amaury, il gene-
rale dell’Ordine Cistercense.
Ed è Giordano Nemorario a rintracciare e a mettere in salvo quei
segreti prima del gran rogo di Montségur.
Ma cosa c’era tra quelle pergamente di tanto prezioso?
C’era, tra l’altro, anche il progetto per la costruzione di una mac-
china straordinaria, uno strumento che sarebbe stato in grado di
imprimere le parole su un materiale la cui fabbricazione faceva
parte del segreto. Questo materiale era fabbricato con fibre di legno
lavorate con uno speciale procedimento e poi compresse.
Somigliava a quel panno che usavano i poveri e che si chiamava fel-
tro, ma era molto più sottile e tratteneva l’inchiostro senza farlo
spandere. Passando sotto al torchio della macchina molti di questi
speciali feltri, si ottenevano facilmente tante copie uguali della stes-
se parole che la macchina poteva imprimere.
La macchina, insomma, può operare velocemente riproducendo
infinite volte le stesse cose.
Poiché per imprimere le parole utilizza particolari caratteri
componibili e riutilizzabili, -i caratteri mobili- si possono comporre
con gli stessi caratteri, infinite pagine diverse che possono formare

La Via di Dante 79
un intero libro di cui si possono ottenere facilmente e velocemente
tante copie quante si vuole a basso costo.
La macchina, insomma, utilizzando i caratteri mobili di
metallo fuso, precisi e riutilizzabili infinite volte, e la carta, che
altro non è che un sottile feltro, consente di ottenere libri in
copie numerose velocemente, in tempi e costi modestissimi
rispetto alle copie eseguite dagli amanuensi con la pergamena.
Ma riprodurre velocemente i libri, la fonte del sapere, della
conoscenza, significa mettere il sapere a disposizione di tutti.
Quando il sapere sarà diffuso, la macchina avrà assolto il suo
compito. Allora la Chiesa-lupa-leone-lonza non potrà più esercitare
il suo potere assoluto basato sull’ignoranza.
Il veltro-stampa-conoscenza sarà, allora, in grado di provo-
care la fine dei soprusi dei capi della Chiesa-Lupa. Per la Lupa,
quella Lupa romana, insomma, sarà la morte!
Eccolo, finalmente il vero Veltro, il cane che cattura la preda con
la sua velocità, che non è avido di ricchezza o di terre, ma ricerca la
conoscenza, che risiede tra feltro e feltro: tra le pagine dei libri!
Altro che personaggio umano presente o futuro!
Il veltro è la formidabile, ancora sconosciuta a tutti -meno
che agli iniziati- macchina da stampa a caratteri mobili, veloce
come un “veltro”, mentre la carta è il “feltro” su cui potrà rima-
nere “impresso” -meccanicamente ed innumerevoli volte- il con-
tenuto di un libro: la conoscenza.
Per convincerci meglio della giustezza di questa interpretazione,
ricordo ai lettori che l’avessero vista, la puntata della trasmissione tele-
visiva di Super Quark del 28 febbraio del 2009, nella quale il condut-
tore, il notissimo giornalista televisivo Piero Angela, rivelò al pubbli-
co una sua personale scoperta: un disegno di Leonardo da Vinci cela-
to sotto un manoscritto. Il grande genio, per risparmiare carta, il mate-
riale ancora costoso, anche se molto più economico della pergamena,
aveva cancellato parzialmente un suo autoritratto e aveva scritto sopra
i resti di quel disegno. Nel corso della trasmissione, Angela presentò
un servizio di una esperta in carta antica la quale illustrò anche l’ori-
ginario procedimento di fabbricazione della carta. Nel mostrare le
fibre che si raccoglievano con un setaccio, lasciandole poi essiccare,

80 La Via di Dante
l’esperta disse testualmente:”Ora le fibre cominciano a feltrire...”
Ecco, proprio così: a feltrire. Cioè, la poltiglia, essiccandosi, diven-
ta un feltro! Ecco, dunque, l’autorevole conferma: la carta è un feltro.
Gli stessi caratteri potranno essere scomposti e ricomposti all’in-
finito consentendo la facile realizzazione di molte opere e diffonde-
re facilmente la conoscenza che, così, non si potrà più occultare!
Proprio la conoscenza, diventata il nemico numero uno per quel-
la Chiesa-lupa famelica, sarà identificata da Dante con Dio stesso,
la grande luce del sapere che gli apparirà alla fine del viaggio gra-
zie a Beatrice e a San Bernardo da Chiaravalle.
Il veltro-stampa, insomma,
103. ...non ciberà terra né peltro
ma sapienza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro,

cioè la conoscenza non avrà bisogno né di possedimenti né di ric-


chezze, ma alimenterà sapienza, amore e virtute attraverso il vel-
tro-stampa e risiederà -sua nazion sarà- tra le pagine dei libri: pro-
prio “tra feltro e feltro”.
Una tale profezia era possibile per Dante, che conosceva il segreto
dei Catari.
Sapere dell’esistenza del progetto semplice e geniale di questa mac-
china può aver dato a Dante la certezza che essa prima o poi sarebbe
stata costruita. Egli può facilmente aver dedotto che la conoscenza, allo-
ra, sarebbe stata alla portata di tutti gli uomini. È con la certezza che con
il tempo si sarebbe arrivati alla costruzione della macchina da stampa
che poteva egli pensare di fare una profezia che si sarebbe avverata. Per
dare un alone di mistero a questa notizia e per raggiungere il suo scopo
di rivelare il vero motivo dell’opera, finge d’intraprendere un simbolico
viaggio nel mondo dei morti. Raggiungerà davvero, alla fine, la vera
conoscenza che è Dio che gli apparirà come una luce accecante, come
la fonte di ogni sapere: la conoscenza ricercata dai Catari per questo con-
siderati eretici e degni di ardere sul rogo immane di Montségur.
Ma Dante non poteva divulgare una simile eresia senza rischiare di
finire anch’egli sul rogo. Nasconde il suo pensiero in modo che nemme-
no le alte sfere della Chiesa romana lo possano interpretare correttamente.
Ecco lo scopo nascosto e non rivelabile dell’opera di Dante che
La Via di Dante 81
-riletta così- diventa titanica: abbattere la lonza-leone-lupa-Chiesa
attraverso la larga diffusione della conoscenza che si identifica con
Dio. Una visione delle cose, però, allora totalmente eretica.
Ma chi ci dice che Dante sia giunto veramente alla conoscenza
del sapere occulto dei Catari e del contenuto delle opere recuperate
da Giordano Nemorario?
Secondo Adriano Petta, Giordano Nemorario, alias Giovanni de
Sacrobosco (il nemus, ricordiamo, era il bosco sacro a Diana Aricina,
divinità del sapere occulto), era fuggito da Nemi nel 1207 ed era giun-
to presso la comunità dei Catari nel sud della Francia. I Catari erano
gnostici, cioè ricercavano la fonte del sapere in Dio, dichiarati eretici
dalla Chiesa di Roma che si opponeva ad ogni forma di indagine spe-
culativa. Ma il sud della Francia, la regione della langue d’oc, la lin-
guadoca, era anche il centro originario dell’Ordine di Sion da cui era
nato l’Ordine dei Cavalieri del Tempio di re Salomone, i Templari. La
regola dell’Ordine di Sion e quindi dei Templari era stata scritta proprio
da Bernardo da Chiaravalle che, nella Divina Commedia, accompagna
Dante dalla Vergine Maria cui il Santo si rivolge col celeberrimo verso:
Vergine Madre, figlia del tuo Figlio...

Dante è membro dell’Ordine dei Rosacroce, o opera nell’ambi-


to di organizzazioni simili, dirette derivazione dell’Ordine di Sion
e/o dei Templari e dimostra nei versi della sua opera di conoscere
cose allora totalmente sconosciute.
Come fa a conoscerle?
Non può che averle apprese per contatto diretto con quella cono-
scenza occulta che Giovanni di Sacrobosco-Giordano de Nemore
aveva posto in salvo attraverso una giovanissima catara scampata al
rogo di Montségur.
Quell’adolescente giungerà a Magonza e lì conserverà gelosa-
mente il suo tesoro che costituirà, comunque, oggetto di studio da
parte di una fidatissima e ristrettissima schiera di intellettuali che
segretamente diffonderanno l’essenza di quel sapere.
I Rosacroce -e con essi Dante- potevano essere compresi in quel-
la ristrettissima cerchia di privilegiati che sapevano.
Tutto, così, acquista un senso diverso, più vero ed importante,

82 La Via di Dante
degno del genio dantesco. L’ipotesi diventa sempre più realistica.
Tutto giustifica ora anche un viaggio ai Colli Albani per vedere i luo-
ghi che Virgilio e Augusto consideravano sacri e quel bosco, dedicato alla
dea Diana, nel quale, per espresso parere fornito dagli esperti sacerdotali
ad Augusto, era da ritenersi ubicato l’antro che costituiva l’ingresso al
mondo dei morti. Un ambiente da vedere e studiare per farne il modello
per l’ambientazione delle prime due cantiche della Commedia.
Se poi consideriamo quanto sostiene René Guénon sui Catari e
sull’Ordine dei Rosacroce, allora ci può sembrare meno fantastico
anche il fatto che Dante conosca i segreti legati alla figura di
Giordano Nemorario e quindi possa essere qui venuto anche per visi-
tare i luoghi da questi descritti -e, visto che c’era, per entrare, per
esempio, anche nell’emissario del lago attraverso il quale Giordano si
era messo in salvo e percorrerlo per intero- e per rendere omaggio alle
figure gigantesche di Giordano e di Aser, il ragazzo cui Anania di
Shirak aveva assegnato il compito e la responsabilità di far giungere
il sapere antico nella culla della civiltà latina e della cristianità.
La conoscenza che abbatterà la famelica lupa restituirà salute a
106. ...quella umile Italia...
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.
109. Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l’avrà rimessa ne lo ‘nferno,
là onde ‘nvidia prima dipartilla.

Il Lazio (i cui principali centri di culto erano il Mons Albanus-


Monte Cavo- e il nemus, il bosco sacro a Diana), per cui si batterono
contro Enea invasore Eurialo e Niso, Turno e Camilla, ora oppresso
dalla Chiesa, con la luce della conoscenza tornerà a vivere e la sua
civiltà tornerà ad illuminare i popoli dopo aver scacciato la lupa-
Chiesa simbolo, allora, dell’avidità e della prepotenza oppressiva.
La cultura, diffusa velocemente con la stampa, respingerà la lupa
allontanandola da ogni città finché non la costringerà a tornare dal
luogo di perdizione da dove è venuta.
Insomma, i capi della Chiesa dei tempi di Dante sono, per lui, crea-
ture diaboliche: dall’inferno sono venute e all’inferno debbono tornare.

La Via di Dante 83
Adriano Petta
Eresia pura
Eravamo sul finire del luglio 1207. La luna illuminava lo specchio di
Diana, il lago di Nemi. Ero stanco: quel giorno avevamo propriamen-
te piegato il gobbone mettendo a lustro il castello da cima a fondo... ma
era una splendida notte d’estate, e ogni tanto una misericordiosa bava
di vento alitava dai pioppi e dai castagni del bosco sacro: me ne stavo
perciò appoggiato alla finestrella. La nostra capanna era l’ultima della
pullarella, proprio in cima alla roccia di lava, a strapiombo sul lago...
...ripensai a quel giorno di sei anni prima. Era l’inizio dell’estate ed ero
andato... dai monaci cistercensi della chiesa di Santa Maria di Furlano,
ad Ostia. Dentro il sacco, il mio primo libro... Il mio piccolo abaco, di
Jordanus de Nemore. La mia gioia quando, nella taverna, intervenni nel-
l’accesa discussione fra il giovane pisano e il vecchio presuntuoso che si
atteggiava a sapientone, entrambi accalorati dai tanti boccali di cervogia.
Il pisano aveva offerto anche a me un boccale di giulebbe alla rosa.
Raccontavano i loro viaggi. Sentivo parlare di Oriente, ne rimanevo affa-
scinato. Poi il vecchio cominciò a darsi delle arie di grande uomo di cal-
colo... e il giovane... non trovava nulla da controbattere... argomentan-
do... sulla possibilità di applicare la matematica a tutte le scienze.
Allora posi io al sapientone un quesito: provasse a calcolare quan-
te coppie di conigli nasceranno in un anno a partire da un’unica
coppia, se ogni mese ciascuna coppia partorisce una nuova coppia
che, a sua volta, partorisce dal secondo mese.
Il vecchio restò letteralmente a bocca aperta. Poi mi diede dello
screanzato... mentre al pisano brillavano gli occhi e mi domanda-
va se veramente io fossi capace di risolvere il problema. E quan-
do l’oste mi dette un carbone e sul pavimento scrissi -con i nuovi
numeri- la serie 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, spiegando che ciascun
numero -dopo i primi due- era la somma dei due termini prece-
denti, il giovane pisano cominciò a dire che non era possibile:
come facevo io a conoscere quelle cifre arabe? Volle che andassi
sulla sua nave, mi raccontò tante storie...
Gli vendetti però il mio libro, perché intuivo che ne avrebbe fatto
buon uso..
Edizione Stampa alternativa, pagg. 7-13

84 La Via di Dante
Adriano Petta
Eresia pura
Anania di Shirak parla con Aser
L’aria era purissima: sull’azzurro terso del cielo si stagliavano, nitidi,
i monti lontani.
Anania volse lo sguardo dall’altra parte, verso le montagne dalle
cime accese di rosso, dietro le quali il sole andava nascondendosi.
Ma era proprio l’astro incandescente ad occultarsi dietro quelle
alture?...
... “Una vita dedicata allo studio della matematica, dell’astrono-
mia, della storia, della geografia: eppure vengo malvisto. Esprimo
idee nuove... e mi guardano come un sovversivo. Sono persegui-
tato dal clero e dalla legge. Al mio accenno che potrebbe esserci la
possibilità che la Terra si muova, ho rischiato di essere imprigio-
nato. Basta, Aser. È vero che il mondo e la civiltà sono nati in
Oriente, nelle penisole delle Indie, dell’Asia Minore della
Grecia... ma ora è veramente finita. È giunta l’ora che anche
l’Europa cominci il suo cammino verso la scienza, abbandonando
il suo stato di barbarie”.
... “Aser, non si può prevedere quale ruolo giocheranno gli Arabi
nella storia dell’uomo: adesso stanno solamente conquistando. Ma
le parole di Omar che ha sacrificato al rogo decine di migliaia di
manoscritti, lasciano sperare ben poco:’O i libri contengono quel-
lo che è già scritto nel Corano, nel qual caso non abbiamo bisogno
di leggerli, oppure contengono l’opposto di ciò che è nel Corano,
nel qual caso non dobbiamo leggerli’. Qui, in Oriente è veramen-
te finita. Ciò che possiamo e dobbiamo fare noi, è trasferire le
chiavi del sapere all’Europa”.
“Che intendete dire?” Il giovane aveva parlato col tono di chi ha
già abbracciato la nuova fede.
“Immagina, Aser: supponi che le genti di tutto il mondo siano
colte, che ogni uomo sappia almeno leggere e scrivere... e che
in ogni casa ci sia qualche libro!”
“Anania... perché sognare?” ...
“Aser... è possibile, ti dico! Qual è stato finora il principale freno

La Via di Dante 85
alla divulgazione e al cammino del sapere? La tecnica per com-
porre un manoscritto, la pergamena costosa e difficile da reperire.
Aser, noi scriviamo ancora con le mani, dopo secoli e secoli di
scienza! Per scrivere un solo testo occorre almeno una persona... e
moltissimo tempo. Immagina di poter scrivere non su costose
pergamene, ma su una sostanza facile a prodursi... e supponi
di non doverlo fare tu, bensì una macchina capace di scrivere
-in un solo colpo!- un foglio intero. E che in una giornata sia in
grado di produrre non un solo testo... ma tanti e tanti libri!”.
“Sarebbe uno sconvolgimento, maestro: la più grande rivolu-
zione di tutti i tempi! Ma sacerdoti, re e imperatori gettereb-
bero sopra un rogo sia la macchina che l’uomo che la usasse”.
“È per questo che dobbiamo agire con grande cautela.”
Aser rimase a bocca aperta:”Maestro... ma voi parlate come se
questa macchina esistesse realmente... Vi state prendendo gioco di
me, vero?”.
“No! No! La macchina non è stata ancora costruita... ma il siste-
ma è ottimo! È l’Armenia che non è il luogo più adatto! Ancora
meno di questi tempi...”
Anania... staccò dalla parete una borsa di pelle scura e la depose
nelle mani del giovane... L’aprì, ne tolse il contenuto: due mano-
scritti rilegati. sfogliò il primo, ne lesse qualche brano...
“Non ti stupire, Aser... non è un gioco. È una raccolta di epistole...
Ecco, questo è l’artifizio: chi sfoglierà questo manoscritto, diffi-
cilmente si accorgerà che lì... sì, verso la fine, sono stati inseriti
alcuni fogli il cui contenuto non dovrebbe essere del tutto nuovo
per te: ricordi Aristarco?”
Aser sfogliò una ad una le ultime pagine del testo e infine alzò gli
occhi stupito:”Aristarco di Samo... quasi mille anni fa: la
nuova teoria dei moti planetari!”.
“Sì, figliolo, lì c’è tutta la sua teoria; corredata però da una
serie di calcoli e completata da un commento di un seguace di
Aryabhata: sono idee che potrebbero smuovere il mondo e che
un uomo osò proporre quasi un millennio fa, ma che dovette
ritirare e nascondere perché erano troppo ardite e il potere e i
sacerdoti le soffocarono”.

86 La Via di Dante
Anania invitò quindi il giovane a prendere l’altro manoscritto e
aprirlo.
“Ma è un palinsesto... è l’Antico Testamento.”
“Sì, Aser: dal primo libro dei Re al secondo dei Paralipomeni...
uno dei tantissimi esempi di vandalismo cristiano, anche se in que-
sto caso non hanno cancellato una grande opera, ma solamente
alcune commedie di Tito Maccio Plauto. Bene, anche in questo
caso ho aggiunto alcuni fogli in mezzo e alla fine: guarda... Prese
il libro dalle mani del giovane:”Ecco, qui c’è il sunto di come -cin-
que secoli fa- in Cina, Ts’ai Lun utilizzando reti da pesca, fibre di
canapa e scorze d’albero, produsse la nuova materia per scrivere:
la carta! Attualmente questo materiale è usatissimo in tutta la
Cina. Guarda: c’è un’ampia descrizione delle varie fasi della pre-
parazione, dell’impasto, della raffinazione, della formazione del
foglio. Io stesso ne ho prodotto un’esigua quantità.
Poi... poi il piccolo segreto che farà esplodere la matematica e,
con essa, tutte le scienze: il nuovo sistema di numerazione, il
sistema indiano! Osserva: dieci... dieci cifre! 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7,
8, 9,... e infine lui! il piccolo grande zefiro! lo zero! Quindi, un
diverso simbolo per ogni cifra, poi una notazione posizionale e
infine una base decimale. Per la prima volta, tre principî uniti
assieme. Che te ne pare...?”
Aser esaminò con attenzione il manoscritto: sollevò uno sguardo
che brillava: ”Quale ingegno... quale acuto semplice talento!
Come abbiamo fatto a non pensarci fino ad oggi?”.
“Lo hai detto, figliolo: geniale nella sua semplicità! E solo gli
indiani potevano riuscirci... da un allievo dell’indiano
Brahmagupta, ho appreso tutto ciò che è scritto in queste pagine:
i numeri negativi, lo zero, le equazioni di secondo grado... e que-
sta tavola dei seni e delle tangenti che sarà utilissima all’astrono-
mia.
È dallo stesso allievo di Brahmagupta -che aveva appena visitato
la Cina- che ho appreso questo...” E sfogliò il manoscritto in cui -
poco dopo la metà- c’erano alcuni fogli con delle scritte e delle
figure: ”Ho preferito scrivere io stesso queste note utilizzando il
greco. Ecco, vedi? questo è il compositoio... e questi alcuni esem-

La Via di Dante 87
pi di caratteri mobili. Capisci, Aser?”.
“Sì, Anania, ma temo che la realizzazione pratica sia molto diffi-
cile... Comunque è un’idea geniale! Geniale...” Il giovane era
veramente eccitato: voce accorata, occhi sfolgoranti. “Maestro,
una volta realizzata, questa macchina potrebbe mutare veramente
il mondo...”.
“Questa macchina cambierà il mondo, Aser! A noi il compito
che ciò accada quanto prima.
Adriano Petta, Eresia pura, Cap. II, pag. 30, Editrice Stampa alternativa, I edizione

...
Quando un luminoso spicchio di Luna s’è levato dietro il monte
Tabor, siamo tornati alle nostre capanne: ci attendeva la piccola
Perella che ha pianto fra le braccia dell’amica. Poi l’ho accompa-
gnata all’entrata della stretta fessura nella roccia. Le ho dato due
punte di ferro acuminate, ognuna conficcata in una strettissima
guaina di cuoio provvista di lacci.
“Legale una per gamba, Perella... e non esitare ad usarle, se neces-
sario. E quando sentirai l’angoscia e la disperazione che ti assali-
ranno, quando sarai sul punto di cedere pensa al rogo che avrà
inghiottito Esclarmonde. Addio, piccola grande coraggiosa.”
“Addio, signore... e domani l’altro siate vicino a Esclarmonde.” Mi
ha abbracciato commossa ed è entrata nella stretta crepa, incomin-
ciando a mettere -pietra su pietra- un’inestricabile chiave naturale.
Ho gettato un ultimo sguardo al firmamento; sarebbe stato bello
esplorarlo alla luce della nuova teoria: la Terra non è il centro del
mondo, non lo è mai stato! È lui, il Sole, l’astro di fuoco e di luce...
è lui il centro di tutto! Perella ce la farà: non è solo speranza, è Dio
che mi dice che tanti morti e tanti massacri, non sono stati vani.
Domani l’altro, a Montségur, finirà la storia del catarismo occita-
no, fra un giorno si concluderà la battaglia di un popolo che ha lot-
tato per la sua libertà. Domani l’altro, l’Inquisizione e l’impero del
Male si libereranno degli ultimi ostacoli sul cammino della tiran-
nia. Ma non riusciranno a fermare Perella. Dio l’aiuterà, la
deve aiutare... è una piccola creatura, è come, come Aser...
Adriano Petta, Eresia pura, Cap. XII, pag. 281,
Editrice Stampa alternativa, I edizione

88 La Via di Dante
Rodolfo Lanciani
L’antica Roma Newton Compton Rditori, aprile 2005.

I. L a rinascita degli studi archeologici


Solo pochi studiosi sanno che è Cola di Rienzo, il tribuno roma-
no del XIV secolo, il vero fondatore della moderna scuola di
archeologia e che a lui deve essere ascritto il merito della rinasci-
ta degli studi classici, primato che finora è stato attribuito esclu-
sivamente a Dante Alighieri e Francesco Petrarca. Essi non lo
meritano. Dante, “savio gentil che tutto seppe”, Dante, che raccol-
se nella sua meravigliosa Divina Commedia tutto lo scibile della sua
epoca e che, durante le sue peregrinazioni in Italia e nel Sud della
Francia , ebbe diverse occasioni per ammirare le più splendide crea-
zioni dell’architettura romana, fa riferimento solamente una volta ai
monumenti antichi, usandoli come oggetto di comparazione:
Sì come ad Arli ove Rodano stagna
Si com’a Pola presso del Carnaro
...
Fanno i sepulcri tutt’il loco vano.
Inferno, IX, 112-115.

Questo paragone derivava dal ricordo dei cimiteri romani di Arles


e Pola, i cui sarcofagi, bianchi come la neve, si riflettevano nelle
acque azzurre del Rodano e del Golfo del Carnaro. Sarebbe però vano
cercare nei suoi canti una citazione degli anfiteatri delle stesse città di
Arles e Pola, che sono arrivati ai nostri giorni in buono stato di con-
servazione e che egli deve aver visto in tutta la loro magnificenza; egli
non cita nemmeno l’arena di Verona, sulle cui gradinate doveva esser-
si seduto in profonda meditazione, lamentandosi:
Com’è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.
La sua musa resta altrettanto silente e indifferente alla vista
delle rovine di Roma. Evoca solo un episodio tratto non dalle tra-
dizioni della Chiesa, come comunemente si crede, ma da un vero
monumento antico i cui resti e la cui memoria sono scomparsi da
tempo. Mi riferisco a quegli affascinanti versi in cui descrive l’in-
contro della povera vedova con l’imperatore Traiano.

La Via di Dante 89
I COLLI ALBANI E LA DIVINA COMMEDIA
Torniamo ai possibili, diretti, fisici rapporti tra i Colli Albani e la
Divina Commedia.
Abbiamo immaginato che Dante, percorrendo l’Appia -la diritta
via per antonomasia- sia giunto ai Colli Albani ed abbia raggiunto la
valle del lago di Nemi attraversando il sacro bosco di Diana, il nemus.
Ma cosa ha visto venendo da Roma?
Il panorama è dominato dal Mons Albanus degli antichi, quello
che oggi chiamiamo Monte Cavo.
Il Mons Albanus non era un monte qualunque, era il luogo dove
risiedeva Giove, la casa del dio massimo dei Latini e dei Romani,
il luogo più sacro del Latium per tutte le popolazioni antiche, abo-
rigene, per i Latini oltre -e prima- che per i Romani.
Sulla cima del monte -un’ampia spianata derivata dal cratere

90 La Via di Dante
dell’antico vulcano completamente riempito- esisteva una radura
circondata dal bosco sacro: era quello il primitivo tempio del dio
primordiale: Anu-Janus.
La forma del monte, vista da lontano venendo da Roma, richia-
ma molto un solido troncoconico, forma che appare ancor più evi-
dente soprattutto se visto dal luogo dove oggi sorge Castel Gandolfo
o dal bordo meridionale del lago nemorense. Da questi luoghi, anzi,
le visioni sono ancora più complete e le scene che si vedono anco-
ra oggi danno la precisa sensazione che quei panorami possano aver
dato effettivamente lo spunto a Dante per le ambientazioni delle
prime due cantiche della Commedia.
Cosa si vede dal bordo del lago di Nemi e cosa da quello di
Castel Gandolfo?
Chi si reca sul bordo del cratere nemorense, verso sud, sulla stra-

Prato Fabio

Monte Cavo-Mons Albanus


in due foto prese dal lago di Castel Gandolfo (pagina precedente)
e da quello di Nemi, che mostrano come esso domini la scena dei Colli Albani
e non possa in alcun modo passare inosservato.
I pittori di ogni secolo lo hanno disegnato anche con modeste forzature di forma
-che riporto a pag. 130, 131- e che dimostrano come un artista potesse
facilmente vedere una forma di tronco di cono nella sagoma di questo colle.

La Via di Dante 91
da che conduce al piccolo borgo di Nemi, là dove oggi è il par-
cheggio della parte nuova del cimitero di Genzano, vede il lago in
basso, la vallata di forma circolare un tempo ricoperta dal bosco di
Diana, il nemus, il vallone di Tempesta, una lunga ansa nelle pareti
del cratere vulcanico, una vera, gigantesca incisione nella roccia
che sembra essere l’ingresso di un’enorme caverna dove poter
entrare per andare nelle viscere della Terra. Alla base del vallone
doveva essere collocato l’antro a guardia del quale era il rex nemo-
rensis attraverso il quale si raggiungeva il mondo dei morti, il regno
di Proserpina-Diana. E tutto questo Dante doveva saperlo proprio
perché a conoscenza dell’opera di Augusto, che tutti i commentato-
ri della Commedia di Dante, invece, sicuramente ignoravano e
ancora oggi ignorano.
Davanti al panorama del lago di Nemi con Monte Cavo sullo
sfondo, immaginando di entrare nell’antro ritenuto da Augusto e
Virgilio l’ingresso per il regno dei morti e di proseguire nella dire-
zione di Monte Cavo, il poeta può aver concepito l’idea dell’Inferno
posto sotto Monte Cavo. Non gli sarebbe stato poi difficile imma-
ginare lo stesso monte come quello del Purgatorio e di poterlo rag-
giungere attraverso un condotto verticale.
Il panorama era perfetto per il suo viaggio immaginario.
Alla fine del suo percorso nel mondo dei dannati, attraverso il
condotto verticale, poteva ben vedersi uscire alla base del monte,
nel luogo chiamato Prato Fabio, che si vede benissimo, in primo
piano, dal bordo del cratere di Castel Gandolfo e dal lato sinistro
della strada che da Genzano conduce a Nemi. Da Prato Fabio si può
anche ammirare facilmente Roma e tutto il territorio che la circon-
da fino alla foce del Tevere. Come si vede i riferimenti ai luoghi
descritti nel poema coincidono perfettamente a quelli reali e porta-
no a confermare che quella da me avanzata è un’ipotesi più che fan-
tastica, solo imprevedibile. In realtà, è quella che risponde più di
ogni altra finora avanzata, sia dal punto di vista reale, del paesag-
gio, sia da quello simbolico e storico. Vedremo.
Ancora. Visitando la vallata del lago di Nemi, Dante non può
non aver avuto desiderio di visitare un’opera che aveva avuto gran-
de fama nell’antichità: proprio l’emissario del lago, opera di inge-

92 La Via di Dante
gneria idraulica importantissima e notissima oltre che antichissima,
-forse molto più antica di quanto non possiamo immaginare-, attra-
verso il quale Giordano Nemorario era potuto fuggire, incolume, da
Nemi. Nelle viscere della montagna Dante ha potuto così vedere
non solo la forma del cunicolo dell’emissario, ma anche quella dei
pozzi di ventilazione dello stesso cunicolo.
Perdersi nelle viscere della terra percorrendo antichi cunicoli è
avventura sempre emozionante e -per un artista- stimolante.
Là sotto si ha, netta, la sensazione di vivere in un altro mondo,
il mondo sotterraneo, e chi è dotato di fervida fantasia immagina
tutto quello che vuole, anche di vedere il regno dei morti.
Allora il livello del lago era ancora mantenuto dal lento defluire
delle acque attraverso l’emissario con il piccolo canale scavato sul
fondo del cunicolo che scendeva verso Vallericcia con leggerissima
pendenza. Non c’era bisogno, infatti, di far correre le acque, cosa
sempre dannosa. Esse scorrevano lentamente, senza procurare
danni e, dall’interno del canale sotterraneo, sembrava di vedere un
fiumiciattolo che sgorgava direttamente dalla roccia -proprio come
il ruscelletto dantesco- e se ne andava nel ventre della Madre Terra,
nel regno da sempre considerato abitato dalle anime dei trapassati.
Questo può aver visto realmente Dante nel suo viaggio sui Colli
Albani ed ancora oggi chiunque può ammirare.
Non solo l’Appia Antica, dunque, poteva essere stata l’ispi-
ratrice della dantesca “diritta via” e il bosco sacro a Diana esse-
re stato facilmente trasformato nella selva oscura dove il Vate si
smarrisce, ma anche la conformazione della valle del lago di
Nemi con il bosco ed il vallone di Tempesta possono aver sugge-
rito l’idea dell’ingresso al mondo dei morti e la successiva risa-
lita alla base del monte del Purgatorio. L’emissario del lago di
Nemi può -credibilmente, ora-, essere servito da modello per la
descrizione dell’ambiente sotterraneo dove c’è il regno dei tra-
passati e dove Dante immagina l’inferno e dal quale può risali-
re -arrampicandosi faticosamente per uno degli altissimi pozzi
di ventilazione che può vedere nell’emissario- e trovarsi alla
base del monte del Purgatorio.
Anche questa ipotesi sembrò, all’inizio, estremamente ardita, ma

La Via di Dante 93
la realtà era davanti agli occhi ed era chiarissima ed inequivocabile.
Bisognava trovare solo solidi riscontri per poter azzardare un’i-
potesi comunque coerente e indiscutibile.
Continuò così, la rilettura del Poema alla ricerca delle conferme
che quell’inferno e quel purgatorio reali che avevano ispirato quelli
cantati dal poeta erano proprio lì, davanti ai nostri occhi da sempre.
La prima dimostrazione?
Rivediamo per intero gli ultimi versi dell’inferno.
Luogo è là giù da Belzebù remoto
tanto quanto la tomba si distende,
129 che non per vista, ma per suono è noto
d’un ruscelletto che quivi discende
per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso,
132 col corso ch’elli avvolge, e poco pende.
Lo duca e io per quel cammino ascoso
entrammo a ritornar nel chiaro mondo;
135 e sanza cura aver alcun riposo,
salimmo sù, el primo e io secondo,
tanto ch’io vidi de le cose belle
138 che porta ‘l ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.

Letto così, semplicemente, il passo non sembra rivelare niente di


più di quanto i critici possano aver detto in sette secoli di analisi.
Esaminiamolo, invece, cercando di capire a cosa Dante può
essersi realmente ispirato per la descrizione del percorso sotterraneo
del piccolo corso d’acqua che nel poema poteva essere quello che,
con il rumore del lieve scorrere delle acque, indica la via ai due
poeti.
Il fiumiciattolo in cui Dante e Virgilio s’imbattono scorre con
pendenza lieve, in un foro che lo stesso fiume sembra aver scavato
nella roccia e dentro al quale corre -col corso ch’elli avvolge- come
fosse in una tubazione di pietra. Dalla sede del fiume i due poeti ini-
ziano la salita che li porterà a riveder le stelle.
Cosa ha visto veramente il sommo Poeta nella concreta realtà,
che gli ha suggerito prima la descrizione poetica del piccolo fiume
e poi quella del duro percorso di risalita verso la superficie dove
poter nuovamente ammirare il cielo stellato?
94 La Via di Dante
Per rendercene conto dovremmo conoscere, però, il luogo cui
alludiamo: l’emissario del lago di Nemi.
Perché?
Proprio perché l’ipotesi che Dante doveva essere arrivato qui
non solo, come credevo inizialmente, per vedere i luoghi cantati da
Virgilio nell’Eneide e quelli sacri per i Latini, progenitori di Roma,
ma anche spinto da altre curiosità, stava diventando sempre meno
astrusa.
Come abbiamo visto, René Guénon cita, nel suo saggio
“L’esoterismo di Dante”, il pensiero di Aroux che considera Dante
molto vicino agli Abigesi, anche in virtù della sua appartenenza
all’Ordine dei Rosacroce.
Autorevolissimi Autori, insomma, hanno ritenuto più che proba-
bile un collegamento tra Dante e gli eretici Catari (gli Albigesi,
appunto) che, per Petta, come abbiamo ampiamente ricordato, sono
anche strettamente collegati al lago nemorense attraverso la figura
del matematico e astronomo Giordano de Nemore. Costui è oggi
quasi totalmente sconosciuto anche agli specialisti della storia della
matematica perché confuso con il più noto Giordano de Sasso
(Sassonia) con il quale sembra non aver alcunché da spartire, ma
con il quale ai suoi tempi si volle, ad arte, confonderlo.
La sua opera fu talmente innovativa e, perciò stesso, pericolosa
che si preferì farlo scomparire confondendolo con il contemporaneo
e meno ingombrante Giordano Sassone.
Nel 1236 anche il castello di Genzano risulta sotto la giurisdi-
zione dei monaci cistercensi delle Tre Fontane. Tutto il territorio
intorno al lago di Nemi, insomma, è sottoposto alla giurisdizione
dei monaci cistercensi e da questi ritenuto feudo sicuro dove non
mancavano di trascorrere anche lunghi periodi di soggiorno i capi
dell’Ordine monastico allora più importante.
Ricordo ancora che, probabilmente, Giordano, quello di Nemi,
fu indesiderato testimone oculare, nel 1207, dell’incontro avvenuto
con ogni probabilità -secondo Petta- nella torre di Nemi tra il Papa
Innocenzo III e il Ministro Generale dell’Ordine Cistercense, l’aba-
te francese di Citeaux, Arnauld-Amaury, durante il quale i due
decisero la crociata che avrebbe portato allo sterminio dei Catari.

La Via di Dante 95
SEZIONE DELL’ANTICO EMISSARIO
Collepardo

pozzi di
ventilazione

Vallericcia
galleria
dell’emissario

Giordano -sempre secondo la ferma convinzione dell’autore di


Eresia pura- era anche a conoscenza che nella stessa torre erano
stati nascosti i volumi contenenti “la fonte del sapere”.
A quei volumi Giordano avrebbe dato la caccia per tutta la vita
fino a trovarli nel convento di Santa Colomba a Sens vicino Parigi,
riuscendo anche ad impadronirsene e a farli poi giungere in mani
sicure.
Abbiamo già ricordato che Dante, nella Divina Commedia,
dimostra di essere a conoscenza di molti elementi di quel sapere
allora sconosciuto e può averli appresi soltanto attraverso “amici-
zie” segrete (Rosacroce e Catari).
Non a caso, in un ben preciso momento della sua vita Dante
deve essersi incontrato con esponenti albigesi. Non è nemmeno
escluso un suo viaggio nel sud della Francia e non è da esclude-
re che egli conoscesse le vicende umane e l’opera del matemati-
co nemorense.
Come ora sappiamo, Giordano de Nemore, dopo essere stato
scoperto nella torre a spiare il Papa e Arnauld-Amaury, era riuscito
a fuggire, secondo il racconto di Petta, precipitandosi nella valle del
lago e da lì, attraverso l’emissario, aveva raggiunto la valle di
Ariccia. Dante, visitando i Colli Albani, a conoscenza o no delle
peripezie di Giordano o solo per sua curiosità, potrebbe comunque
aver avuto il desiderio di vedere l’antico manufatto, non fosse altro
96 La Via di Dante
Sopra. La sezione del cratere nemorense fino a Vallericcia in cor-
rispondenza dell’emissario. Si nota la galleria dell’emissario
e i due alti pozzi di ventilazione centrali.
A destra. La sezione della galleria dell’emissario con alla base il
piccolo alveo dove scorre l’acqua e in alto l’inizio del pozzo di
ventilazione con la scala scavata nella roccia (i piccoli buchi a
destra e a sinistra del pozzo a livelli sfalsati che sostenevano lo
scavatore e gli consentivano di salire man mano che procedeva
nello scavo e di scendere. Realizzava l’opera senza alcun altro
attrezzo oltre la piccozza.

L’illustrazione è tratta da:


G. Di Benedetti, Dalla Pentima del Piccione, Ventucci Editore, 2008

che per la sua notorietà di opera di alta e antica ingegneria idrauli-


ca.
L’emissario era, infatti, un’opera straordinaria, unica; era consi-
derato la più importante delle opere idrauliche antiche per lunghez-
za e per difficoltà d’esecuzione. Poche altre opere di quel genere
potevano essergli paragonate, tra queste l’altro emissario, quello del
lago di Albano, di poco più corto.
Chi ha potuto percorrere anche soltanto un piccolo tratto di un
antico cunicolo del tipo dell’emissario, sa che la sua forma è molto
simile a quella di una moderna, grande tubazione (del tipo di quel-
le usate per le attuali fognature). Sul fondo degli antichi cunicoli si
forma un corso d’acqua di limitate dimensioni, che scorre con una
pendenza molto dolce. Per un poeta come Dante non deve essere
La Via di Dante 97
stato difficile trasformare la “straordinaria” galleria dell’emissario
in un percorso infernale e vedere in quel rivolo d’acqua -il ruscel-
letto che portava verso Vallericcia le acque del lago di Nemi- quel-
lo che nel mondo dei morti indica la via ai poeti verso l’uscita.
L’emissario corre sotterraneo, invisibile, dal lago al cratere di
Vallericcia che, ai tempi di Dante, era di nuovo un lago. Si ricordi
sempre che nella valle del lago nemorense gli antichi -e Virgilio ed
Augusto tra questi- ritenevano fosse situato l’antro che conduceva
nel mondo dei morti. Non si ipotizza cosa assurda, allora, se si
sostiene che l’emissario poteva veramente suggerire a Dante in
maniera naturale e logica l’immagine del fiumiciattolo infernale.
Rivediamo, allora, come l’emissario -la galleria che si “disten-
de” sottoterra da un lago all’altro- è trasformato da Dante senza per-
dere le sue caratteristiche:
Luogo è là giù da Belzebù remoto
tanto quanto la tomba si distende,
129. che non per vista, ma per suono è noto
d’un ruscelletto che quivi discende
per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso,
132. col corso ch’elli avvolge, e poco pende.

Chi è stato nell’emissario non può non riconoscerlo in questi versi.


Ma come interpreta ancora il professor Natalino Sapegno, que-
sto brano? Riportiamo la nota ai versi 127-132:
“127. Luogo è ecc.: tra le varie spiegazioni di questo passo, sem-
bra anche a me preferibile quella del Barbi:’ Tomba non è l’infer-
no, ma è quel sotterraneo, quella caverna, quella natural burella,
per la quale Dante prende a camminare poi che s’è staccato dal
pelo di Lucifero. All’estremità di tale caverna, e perciò rimoto tanto
da Belzebù quanto essa caverna o tomba si estende, c’è un luogo,
un punto, al quale Dante e Virgilio arrivano guidati non dalla vista,
ma dall’udito, cioè dal suono d’un ruscelletto che quivi, a quel
punto, discende per la buca d’un sasso, chelli ha roso; e quella buca
così ascosa, tanto da non potersi trovare se non per virtù dell’o-
recchio, è il loro cammino per tornare nel mondo’ (Probl.,I, 244-
245; Con Dante ecc., 251-253).

Come si vede i versi si riferiscono proprio ad un percorso sot-


98 La Via di Dante
terraneo scavato nella roccia, talmente buio che il ruscelletto viene
individuato solo con l’aiuto dell’orecchio che percepisce il lento
scorrere dell’acqua. Un percorso che somiglia ancora tantissimo
all’emissario nemorense che risulta, alla luce di questa spiegazione,
la fonte di ispirazione perfetta per un artista come Dante! Una volta
nel cunicolo, se si fosse spenta la luce, si sarebbe ascoltato solo il
lentissimo scorrere dell’acqua. Un’esperienza che Dante poteva
aver fatto per i motivi che abbiamo già ricordato.
Partendo, poi, da questa angusta galleria, i due poeti per tornare
a vedere la luce, si accingono a seguire un faticoso percorso.
Vediamo come avviene il ritorno in superficie dei due poeti.
Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
135. e sanza cura aver alcun riposo,
salimmo sù, el primo e io secondo,
tanto ch’io vidi de le cose belle
138. che porta ‘l ciel, per un pertugio tondo.

Ad un certo punto di quel cammino sotterraneo i due poeti


lasciano il ruscelletto che poco pende ed iniziano a salire senza
badare alla fatica che li attende. Il pertugio è stretto e li costringe a
salire uno dietro l’altro.
Cos’è mai quel pertugio tondo in cui è molto faticoso andare ed
in cui si può salire -el primo e io secondo- soltanto uno per volta?
Nessun commento, a questo proposito, viene registrato da parte
del Sapegno che né al modo come i due poeti salgono né alla via
seguita dà importanza degna di spiegazioni. Non deve fare alcun
riferimento al luogo realmente percorso da Dante, quindi per lui è
tutto fin troppo chiaro.
Ad una domanda del genere, in realtà, nessuno si è mai sognato
nemmeno di pensare di rispondere.
A chi poteva mai interessare sapere cosa realmente avesse potu-
to ispirare il pertugio tondo dantesco attraverso il quale il poeta
torna a riveder le stelle?
Di certo a nessuno, ma per la mia rilettura del Poema anche que-
sto particolare poteva concorrere a dimostrare che le mie ipotesi -
che vogliono Dante ispirato dal nemus- erano e sono giuste e giun-
La Via di Dante 99
Ingresso dell’emissario del lago di Nemi
in un disegno del prof. R. Gismondi tratto da
Passeggiate sui Colli d’Alba, Nemi,
di Tito Basili, 1964.

Si nota, in basso (1) il canale in cui le acque


scivolano lentamente verso Vallericcia.

2
La pendenza e lievissima in modo
che le acque non corrano.

In alto (2) la chiusura originale dell’emissario


formata da un setto rettangolare di pietra che
poteva essere collocato in basso.
Sarebbe bastato chiudere uno o più fori
per far sollevare il livello del lago a piacimento
o interrompere, per qualsiasi motivo l’afflusso
di acqua verso la valle di Ariccia.
Una volta all’interno dell’emissario il piccolo
canale diventa identico al ruscelletto descritto
da Dante che proprio da questo
potrebbe aver tratto l’ispirazione.

1
gere così, attraverso questa interpretazione, non solo a ricostruire la
scena, ma anche a scoprire il vero significato -quel quarto livello di
lettura, tuttora sconosciuto- della Divina Commedia, celato da
Dante nel suo Poema.
Alla fine della ri-lettura in chiave nemorense, infatti, si avrà una
visione -completamente diversa da quella tradizionale- proprio del
significato autentico e profondo dell’opera dantesca. Significato
che fa del poema un ancor più superbo capolavoro e dell’Autore un
coraggioso titano. Quel significato credo di aver individuato attra-
verso la chiave di lettura suggerita dall’ambiente del nemus e dall’o-
pera di Petta che già ci ha chiarito il senso della profezia del veltro.
La sorpresa, insomma, continua.
Abbiamo visto che il luogo reale visitato da Dante, quello che gli
dà lo spunto per la descrizione dell’ambiente che percorre prima di
tornare a riveder le stelle può essere stato il tunnel dell’emissario
nemorense. Se si osserva il disegno della sezione riportata a pag. 96
si noteranno facilmente i pozzi di ventilazione necessari non solo
100 La Via di Dante
per areare la galleria, ma anche per definire il suo esatto percorso.
Questi pozzi erano perfettamente verticali e partivano dal cervello
della galleria. Venivano scavati da un uomo che poggiava i piedi su
dei piccoli incassi praticati nella roccia e sufficienti per appoggia-
re la punta del piede. Gli incassi erano realizzati a livelli diversi,
come gradini di una scala che, partendo dalla galleria, giungeva fino
alla superficie esterna. Il pozzo era scavato, insomma, senz’altro
mezzo a disposizione che una piccola piccozza e l’operaio saliva e
scendeva utilizzando soltanto la “scala” scavata nella roccia.
In questi pozzi, data la loro ridotta dimensione (50-60 cm di
diametro), poteva passare un solo uomo per volta. La salita, poi, era
doppiamente faticosa: perché bisognava procedere in verticale e
perché l’appoggio per il piede era limitato. Percorrere un pozzo di
ventilazione è esperienza molto singolare per un uomo normale,
fonte certa di spunti significativi per un poeta come Dante deside-
roso di descrivere il mondo ultraterreno, il regno dei morti posto nel
sottosuolo. Un’impresa da utilizzarsi a meraviglia come ispirazione
per un poema dalla valenza esoterica e simbolica come quella della
Divina Commedia.
Tenendo conto di tutto questo, rileggiamo i versi citati.
Immaginiamo, però, di essere nel pozzo di ventilazione dell’emissa-
rio nemorense. Scopriremo le grandi e singolari affinità tra la scena
reale e quella descritta dal Poeta. Allo stesso modo, immedesiman-
doci nell’azione del salire, potremo renderci meglio conto dello
sforzo che Dante attribuisce a sé stesso e a Virgilio.
Infine, immaginando che Virgilio abbia ancora consistenza cor-
porea, Dante deve aspettare che egli esca dal pozzo per poter gusta-
re lo spettacolo che si apre ai suoi occhi guardando in sù.
Solo allora, ancora nel pozzo, può riuscire a vedere il cielo.
Rivediamo i versi:
Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
135. e sanza cura aver alcun riposo,
salimmo sù, el primo e io secondo,
tanto ch’io vidi de le cose belle
138. che porta ‘l ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.
La Via di Dante 101
Il panorama dal lago di Nemi verso Monte Cavo
in un altro disegno del prof. R. Gismondi
sempre tratto da Passeggiate sui Colli d’Alba, Nemi, di Tito Basili, 1964.

In basso: particolare di Monte Cavo


La massa di Monte Cavo-Mons Albanus domina il cratere nemorense
e non si può non notare, soprattutto all’alba, quando il sole, lasciando
ancora in ombra il cratere, incomincia ad illuminarlo dalla cima.
Questa, poi, ancora oggi si distingue per gli alberi e per la forma
che danno l’impressione di un luogo particolare.
In caso di maltempo, poi, le nuvole si accumulano minacciose intorno a quella cima
e non è raro che da lì si scateni il temporale con tanto di saette.

102 La Via di Dante


AI PIEDI DEL MONTE DEL PURGATORIO
Dante si è appena ripreso dalla grande fatica che ha comportato
la risalita verticale dalle viscere della terra dove Lucifero sconta la
sua eterna pena, quando si volge intorno a guardare il luogo dove è
approdato.
È un’isola sulla quale si eleva un monte a forma di tronco di cono.
Anche quest’immagine è riscontrabile nel percorso qui ipotizza-
to. Basta considerare che il poeta, dopo aver preso conoscenza dei
luoghi, può poi aver rielaborato facilmente il tutto non allontanan-
dosi però da quanto effettivamente ha avuto modo di vedere.
Egli non ha percorso veramente tutto il canale di ventilazione
per tornare a riveder le stelle. Non avrebbe potuto essendo quello
alto oltre cento metri. Proprio per questo, però, quel pozzo dava
facilmente l’idea di un budello proveniente dal centro della Terra.
Può averlo visto soltanto dal basso e poi in superficie, dove quel
pozzo circolare terminava, ai piedi di Collepardo, in prossimità
dell’Appia Antica. Lo ha visto ed ha immaginato la fatica immane
della risalita alla fine della quale, dall’interno, per un pertugio
tondo avrebbe potuto pensare di riveder le stelle.
Nella realtà, immaginiamo che, con i suoi accompagnatori,
abbia proseguito il percorso all’interno dell’emissario fino a giun-
gere alla fine dove non ha certo trovato il mare, ma ha il vasto baci-
no lacustre che ai suoi tempi era tornato ad essere la valle di Ariccia.
Ricostruiamo la scena. Era partito da una riva ed era giunto comun-
que su un’altra riva e da lì poteva vedere una montagna alle sue
spalle, quella che nella trasposizione poetica diventa la montagna
del purgatorio. Dall’alto avrebbe potuto vedere acqua ovunque. I
laghi, la palude, il mare lontano potevano suggerirgli l’idea di esser
finito su un’isola con un alto monte al centro. La stessa impressio-
ne poteva averla avuta dal basso, uscendo dall’emissario e finendo
sulla riva del lago di Vallericcia.
L’entrata da un cratere, poi, quello del lago di Nemi, e l’uscita
sul lago di Vallericcia potevano, inoltre, suggerirgli l’idea di esser
passato da un emisfero all’altro della Terra. Perché?
Immaginiamo di fare il percorso insieme a lui.
La Via di Dante 103
Magari abbiamo iniziato il nostro viaggio al mattino. Il sole
illumina la valle del lago di Nemi e penetra nei primi metri della
caverna dell’emissario. Siamo nella terra dove nasce il sole.
Abbiamo, insomma, il sole alle spalle. Possiamo immaginare di
essere ad oriente, nella terra dove il sole nasce. Percorriamo tutto
l’emissario ad andatura moderata, sostando di tanto in tanto per esa-
minare le caratteristiche della roccia, le modalità dello scavo, la per-
fezione del livello del canale che fa scivolare via l’acqua solo appa-
rentemente immota. Notiamo le deviazioni dovute ai banchi di roc-
cia basaltica, troppo dura per essere scavata da primitivi picconi.
Discutiamo a lungo, vivacemente, sulle modalità di esecuzione
di quell’opera da parte degli antichissimi artefici. Nessuno sa come
abbiano potuto realizzare un’opera di quella difficoltà.
Il tempo passa e noi siamo lì sotto a discutere quando si comin-
cia a percepire un lontano rumore d’acqua.
Arriviamo in corrispondenza del primo pozzo di ventilazione.
Facciamo una prova: spegniamo le lampade e restiamo completa-
mente al buio, in silenzio. Si sente sempre più distinto, lontano, lo
scroscio dell’acqua di una cascatella che supera il fruscio di quella
che ci scorre sotto ai piedi. Forse, guardando in alto riusciamo a per-
cepire in lontananza una luce debolissima che s’infila, comunque,
nel piccolo pozzo e giunge fino a noi. Qualcuno dice al poeta di aver
tentato di scalare quel pozzo, ma si è fermato dopo poco ed è tor-
nato indietro perché la salita è disagevole e faticosa.
Procediamo ancora.
Le torce o le lampade ad olio sono state riaccese. Giungiamo al
punto più curioso di quel lungo cunicolo, un vero tubo di roccia, di
sasso, dice qualcuno. Qui la nostra guida ci fa notare un piccolo
salto di quota tra la parte da cui proveniamo e quella verso cui
andiamo. È lì la piccola cascata che sentivamo da lontano, proprio
dove le due gallerie hanno un piccolo dislivello.
“Un dislivello voluto”, dice la guida che ci fa anche notare i
segni del piccone sulla roccia. Dalla parte dove siamo sono rivolti
in avanti, mentre dall’altra parte vengono verso di noi.
Che significa?
Semplice: gli antichi hanno scavato procedendo da due direzio-

104 La Via di Dante


ni opposte: una dal sole che sorge, l’altra dal sole che tramonta.
Incredibile! Si sono incontrati con le due grotte quasi perfettamen-
te coincidenti: solo un piccolissimo errore in pianta, pochissimi cen-
timetri, ed un voluto dislivello verso il lago-valle di Ariccia. È quel-
lo il segno della prudenza e dell’esattezza dei calcoli effettuati dagli
antichi ingegneri per esser certi che l’acqua defluisse comunque
verso l’uscita. Facciamo un altro piccolo tratto e di nuovo ci fer-
miamo sotto il secondo pozzo di ventilazione.
Questo serviva alla squadra che scavava da dove il sole tramonta.
Allineando i due pozzi in superficie, le maestranze hanno potu-
to controllare anche l’esattezza della direzione oltre che delle quote
delle due gallerie. Gli allineamenti sono perfetti, il deflusso delle
acque è garantito dalla quota del canale d’uscita più bassa di quello
d’entrata. Perfetto. Il controllo è stato reso possibile da quei due
pozzi: ecco spiegato il motivo di quella incredibile precisione.
Veramente geniale. Un’opera eccezionale, realizzata tutta sotto
terra, al buio, con la sola luce delle torce.
A Dante sembra di camminare in un mondo fantastico, nel mondo
dei morti raccontato da Virgilio. Se mai lo dovesse descrivere si ispi-
rerebbe a quel budello sul fondo del quale scorre frusciando l’acqua
con una pendenza lieve, costante, perfetta ed ogni tanto lo farebbe
allargare in grotte vaste, piene di anime dei trapassati.
Sono trascorse diverse ore ormai da quando siamo entrati.
Quando usciamo il lago di Vallericcia ci abbaglia. Il sole si riflet-
te sull’acqua e colpisce i nostri occhi ormai abituati alla luce delle
torce in quella grotta nera di pietra lavica. Il sole è quasi basso sul-
l’orizzonte. Abbiamo, netta, la sensazione di esser andati appresso
al sole, di esser passati da un mondo ad un altro o, meglio, da un
emisfero all’altro del mondo, come farà Ulisse.
Dante, poi, dall’aver osservato i canali di ventilazione trarrà l’i-
spirazione della sua uscita dall’Inferno, in piena notte, per poter tor-
nare a rivedere le stelle.
Proseguiamo fino al punto in cui ci appare di nuovo Monte
Cavo: un alto cono senza la punta. In basso la palude dà l’impres-
sione che ci sia solo acqua da Vallericcia fino al mare.
“Dall’alto del monte sembra di essere su di un’isola” mormora

La Via di Dante 105


qualcuno rivolto al Poeta per esaltare la bellezza dei luoghi e l’ac-
qua che si vede ovunque.

Questa è una versione di fantasia, ma non troppo. Il racconto è


del tutto inventato, ma le situazioni potevano, allora, corrispondere
alle vere sensazioni che i visitatori percepivano in questi luoghi,
come attesteremo alla fine di questo lavoro.
In effetti nel 1300 chi si affacciava dalle alture dei Colli Albani
vedeva acqua da tutte le parti. In alcuni punti si aveva la sensazio-
ne di essere veramente su un’isola mentre alle spalle si ritrovava
quasi sempre la figura del Mons Albanus-Monte Cavo, un tronco di
cono. Un po’ quello che accade ai due poeti quando escono a rive-
der le stelle.
Vediamo come il mio racconto fantastico e quello del poema
dantesco si somiglino.
Seguiamo, ora, il racconto dantesco.
Cosa succede una volta che i due poeti sono giunti sulle rive del-
l’isola del Purgatorio?
E’ ancora notte, anche se comincia ad albeggiare.
Il Poeta, ammirando il cielo ancora stellato, è colpito da un grup-
po di quattro stelle che non sono mai state viste da uomo se non dai
progenitori, Adamo ed Eva, quando erano nel Giardino dell’Eden,
posto al culmine proprio del monte del Purgatorio, agli antipodi di
Gerusalemme, nell’emisfero boreale allora sconosciuto.
22. I’ mi volsi a man destra, e puosi mente
a l’altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch’a la prima gente.
25. Goder pareva ‘l ciel di lor fiammelle:
oh settentrïonal vedovo sito

Ecco, ancora un segnale di conoscenza che va oltre quello che


Dante, ai suoi tempi poteva conoscere: la Croce del Sud formata
dalle quattro stelle che i due poeti vedono appena usciti dal mondo
infero.
Ecco, perciò, che le quattro stelle della Croce del Sud vengono
trasformate in puri e semplici simboli dai commentatori.
È l’unico modo che consente di non ammettere che Dante pote-
106 La Via di Dante
va sapere quel che a nessuno, ai suoi tempi, era dato conoscere. Per
i commentatori più puntuali e più ligi all’ufficialità, Dante -come
nessun altro allora- non poteva sapere molte cose:
- che esisteva la croce del sud;
- che al di là delle Colonne d’Ercole c’erano altri continenti;
- che la terra era sferica e così via.
Eppure nessun critico contesta il fatto che -sempre per Dante- il
purgatorio si trova agli antipodi di Gerusalemme. Se la terra non è
sferica, come si spiega la forma che le attribuisce proprio Dante che
addirittura dice di volgersi a l’altro polo?
Quelle stelle descritte da Dante non sono una vera costellazione,
ma sono, secondo un esimio commentatore, il Sanguineti, il simbo-
lo delle quattro virtù cardinali infuse (prudenza, giustizia, fortezza,
temperanza). E perché Dante le vede nell’altro emisfero se nessuno
ancora sa che la Terra è di forma sferica?
Secondo molti critici, non perché abbia avuto cognizione che
quella simbolica costellazione fosse esistita veramente, ma perché,
avendo lì sede il Paradiso Terrestre, erano le virtù dei primi uomini:
Adamo ed Eva! Ovviamente, prima del loro peccato.
Così, con il simbolismo si supera ogni dubbio, si crea un alone
di credibile verità alternativa, si nasconde la verità sull’esistenza di
quella costellazione che i Catari conoscevano bene.
Come vedremo di seguito, è proprio per queste opportune inter-
pretazioni simboliche date ai versi imbarazzanti che Dante può con-
tinuare indisturbato nella sua opera, ma sarà sottoposto ad attenzioni
particolari -sempre più pericolose- da chi non ama certi tipi di verità.
Quelle simboliche interpretazioni, del resto, sono sopportate pro-
prio perché quelle conoscenze erano riservate solo a pochi, come oggi
sappiamo, e dunque non pericolose per la Chiesa, a patto che rima-
nessero incomprese al volgo. Per questo, a scriverle, non si correva-
no ancora grossi pericoli. Allora questo tipo di conoscenze era riser-
vato esclusivamente agli appartenenti ad Ordini formati da ristrettis-
sime cerchie di persone che avevano come regola rigorosissima quel-
la di rispettare il segreto sulle loro conoscenze particolari.
Normalmente sfugge ai commentatori un altro, non insignifican-
te particolare che pure tutti riportano nel disegnare lo schema del

La Via di Dante 107


mondo ultraterreno visitato da Dante e tutti indicano nei loro com-
menti: proprio quello della sfericità della Terra, altro particolare che
a quei tempi doveva essere sconosciuto.
Come poteva collocarsi il Purgatorio agli antipodi di
Gerusalemme senza conoscere la vera forma del pianeta?
Ma quello della sfericità della Terra non era un altro dei segreti
portati in occidente da Aser finito arrostito nel tempio di Diana e
ritrovati in Francia da Giordano de Nemore?
Non può essere questo un altro elemento a favore dell’ipotesi
che Dante conosceva non solo le opere portate in occidente da Aser,
ma anche la figura di Giordano?
Torniamo a Dante.
Dopo aver visto la sconosciuta costellazione, cosa succede?
Volgendo gli occhi a terra Dante vede, vicina, la figura di
31. ... un veglio solo,
degno di tanta reverenza in vista,
che più non dèe a padre alcun figliuolo.
34. Lunga la barba e di pel bianco mista
portava, a’ suoi capelli simigliante,
de’ quai cadeva al petto doppia lista.
37. Li raggi de le quattro luci sante
fregiavan sì la sua faccia di lume,
ch’io ‘l vedea come ‘l sol fosse davante.

Il vecchio interroga i due poeti


40. “Chi siete voi, che contro al cieco fiume
fuggita avete la pregione etterna?”

Virgilio spiega che Dante non è morto, ma è lì per volontà supe-


riore e non deve dispiacergli di farlo passare perché
“libertà va cercando, ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
73. Tu ‘l sai, ché non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.
76. Non son li editti etterni per noi guati,
ché questi vive e Minòs me non lega;
ma son del cerchio ove son li occhi casti

108 La Via di Dante


79. di Marzia tua, che ‘n vista ancor ti priega,
o santo petto, che per tua la tegni:
per lo suo amore adunque a noi ti piega.
82. Lasciane andar per li tuoi sette regni;
grazie riporterò di te a lei,
se d’esser mentovato là giù degni”.

Ha riconosciuto la figura austera del vegliardo e lo rassicura


sulla sorte di Marzia, la moglie che per non esser cristiana risiede
nello stesso luogo in cui si trova Virgilio.
85. “Marzia piacque tanto a li occhi miei,
mentre ch’i’ fui di là”, diss’elli allora,
“che quante grazie volse da me, fei.
88. Or che di là dal mal fiume divora,
più mover non mi può, per quella legge
che fatta fu quando me n’uscì fora.

Poi, aderendo alla richiesta di Virgilio, il vegliardo custode dà il


suo benestare al passaggio per la via del monte-Purgatorio anche di
Dante, ancora essere vivente perché questa è la volontà della donna
scesa dal cielo.
91. Ma se donna del ciel ti move e regge,
come tu di’, non c’è mestier lusinghe:
bastisi ben che per lei mi richegge.
94. Va dunque, e fa che costui ricinghe...
...
106. Poscia non sia più di qua vostra reddita;
lo sol vi mosterrà, che surge omai,
prendere il monte a più lieve salita”.

Lasciato il vecchio custode del Purgatorio cosa fanno i due poeti?


109. Così sparì; ed io sù mi levai
sanza parlare, e tutto mi ritrassi
al duca mio, e li occhi a lui drizzai.
112. El cominciò: ”Segui i miei passi:
volgianci in dietro, ché di qua dichina
questa pianura a’ suoi termini bassi”.

Terminato il colloquio, Virgilio invita Dante a volgersi indietro


per salire verso la parte alta di quel luogo.
La Via di Dante 109
Incamminiamoci intanto sulla salita. Torneremo tra poco ad
occuparci del vecchio custode. La sua figura sarà molto indicativa
ai fini della nostra ipotesi.

Catone l’Uticense ferma Virgilio e Dante


che vogliono accedere al Purgatorio di cui egli è custode.
Come mai Dante lo pone in un luogo dove possono arrivare solo i battezzati?

110 La Via di Dante


“DOVE L’ACQUA DI TEVERO S’INSALA”

Siamo ora al secondo canto del Purgatorio.


Il buio tende a scomparire.
Dall’alta riva dell’isola in cui si trova e guardando verso occi-
dente, Dante vede una nave avvicinarsi velocemente come volando,
sospinta dalla forza delle ali dell’angelo che la guida. La nave è
carica di anime dirette al Purgatorio.
13. Ed ecco, qual, sorpreso del mattino,
per li grossi vapor Marte rosseggia
giù nel ponente sovra ‘l suol marino,
16. cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia,
un lume per lo mar venir sì ratto,
che ‘l muover suo nessun volar pareggia.

Quella luce si muove così rapidamente sul mare che nessun esse-
re volante la eguaglia. Si sposta, insomma, come se volasse e pro-
viene da ovest.
Significativo è notare quale straordinaria coincidenza lega il
punto di partenza della nave che giunge al monte-purgatorio a quel-
lo in cui noi ipotizziamo si trovi veramente Dante quando concepi-
sce la scena che gli consente di vedere da dove proviene la nave.
Il Poeta, a questo punto, con i suoi accompagnatori, si è trasferi-
to alla base di Monte Cavo-Purgatorio. E’ un luogo elevato, sotto il
quale si allarga il lago Albano (quello su cui si affaccia Castel
Gandolfo). Quel luogo si chiama Prato Fabio, è ideale per ispirare
l’approdo della nave volante e per ambientare l’inizio della salita
delle anime al monte del Purgatorio.
Qui Dante può aver immaginato veramente di vedere la nave che
si avvicina dopo aver raccolto le anime di coloro che sono destina-
ti ad un periodo di punizione prima di arrivare alla mèta finale del
Paradiso.
Quando le anime sbarcano, infatti, la nave si allontana con la
stessa rapidità con la quale è giunta per tornare ad ovest, da dove è
venuta, e nessuna indicazione il nocchiero alato dà ai suoi passeg-
geri circa la loro destinazione. Le anime non sanno dove andare e,

La Via di Dante 111


come se avessero ancora consistenza materiale, chiedono quale sia
la strada per andare al monte. Virgilio, che ha compreso la loro
preoccupazione, risponde anticipando la possibile obiezione per la
dura salita che dovranno affrontare:
58. quando la nova gente alzò la fronte
ver noi, dicendo a noi: “Se voi sapete,
mostratene la via di gire al monte”.
61. e Virgilio rispuose: “Voi credete
forse che siamo esperti d’esto loco;
ma noi siam peregrini come voi siete.
64. Dianzi venimmo, innanzi a voi un poco,
per altra via, che fu sì aspra e forte
che lo salire ormai ne parrà gioco”

Ecco un’altra conferma alla nostra ipotesi!


Virgilio indicando la salita che conduce al monte sottolinea la
grande fatica che con Dante ha dovuto fare per arrivare lì, per altra
via, il faticoso condotto verticale attraverso il quale sono giunti sul-
l’alta riva. Ora la strada che dovranno ancora percorrere, pure in
forte pendenza, al confronto con quella -verticale- che hanno già
superato, sembrerà una passeggiata:
che lo salire ormai ne parrà gioco.

Ma non abbiamo ancora rivelato da dove provenivano quelle


anime, qual è il luogo dove la nave le raccoglie.
Lo spiega l’amico che Dante ritrova tra quelle anime: Casella.
Pur essendo morto da tre mesi, racconta Casella a Dante, che a
tal proposito lo interroga, non riusciva a salire su quella nave e
doveva vagare in un luogo preciso in attesa del ritorno del vascello.
91. “Casella mio, per tornar altra volta
là dove io son, fo io questo viaggio”,
diss’io; “ma a te com’è tanta ora tolta?”
94. Ed elli a me:”Nessun m’è fatto oltraggio,
se quei, che leva quando e cui li piace,
più volte m’ha negato esto passaggio;
97. ché di giusto voler lo suo si face:
veramente da tre mesi elli ha tolto
112 La Via di Dante
chi ha voluto intrar, con tutta pace.
100. Ond’io ch’era alla marina vòlto
dove l’acqua di Tevero s’insala,
benignamente fui da lui raccolto.
103. A quella foce ha elli or dritta l’ala,
però che sempre quivi si ricoglie
qual verso Acheronte non si cala”.

Ecco, finalmente, sciolto l’arcano!


Il punto di partenza della nave -e Dante lo indica come se lo
vedesse mentre nella finzione poetica è agli antipodi- il luogo dove
si radunano le anime che poi salgono sul bastimento è anch’esso un
luogo particolare e simbolico, è la foce del fiume Tevere, là dove le
acque dolci del fiume diventano salate a contatto con l’acqua mari-
na:
dove l’acqua di Tevero s’insala.

Perché proprio alla foce del Tevere?


Perché è il fiume di Roma, sede del papato.
Ma da dove nella realtà Dante guarda la scena, Prato Fabio, si
vedono contemporaneamente sia Roma che la foce del Tevere e il
vascello che va e viene dalla foce del Tevere alla base del monte
purgatorio nella finzione poetica, nella realtà sembra percorrere il
tragitto Prato Fabio-Ostia e ritorno.
Questa è la sensazione che si prova, ora, rileggendo il brano, che
quel tragitto potrebbe essere percorso dal vascello in un tempo brevis-
simo, come se i luoghi fossero molto vicini. Nella finzione poetica la
lunga distanza è annullata dalla grande velocità del battello, superiore
a quella di qualsiasi uccello e paragonabile a quella dei moderni jet
supersonici. In realtà, sembra proprio che i due luoghi -di partenza e
di arrivo- siano vicini, anziché agli antipodi del globo terrestre.
E’ molto singolare il fatto che, se torniamo sui Colli Albani, ed
immaginiamo di uscire dal pozzo di ventilazione dell’emissario del
lago di Nemi, ci ritroviamo proprio su un colle -come l’alta riva del-
l’isola- da cui si vede il mare. In particolare, se volgiamo lo sguar-
do là dove tramonta il sole, guardiamo proprio in direzione della
foce del Tevere e della città di Roma!
La Via di Dante 113
È ancora un semplice caso, una semplice coincidenza che la
scena reale sia così simile a quella cantata dal poeta?
Vediamo, allora, un’altra singolare, determinante particolarità.
Facciamo un passo indietro.
Torniamo all’uscita dei due poeti dal regno di Belzebù e doman-
diamoci ora chi è il personaggio storico che li apostrofa all’uscita
dal condotto proveniente dal centro della Terra.
È l’anima di un uomo che, per essere vissuto prima della venuta
di Cristo, dovrebbe risiedere nello stesso luogo dov’è Virgilio e
dove dimora Marzia, la sua stessa moglie adorata.
Perché, invece, ne è così lontano?
Perché gli è consentito di stare in un luogo inaccessibile a quel-
li come lui? Perché egli, che fa parte del mondo pagano, fa ecce-
zione?
Nonostante la sua riconosciuta, incorruttibile onestà, che gli ha
dato grandi meriti non solo in vita, pure non per questo dovrebbe
svolgere il ruolo a cui Dante lo chiama. Come può un non battezza-
to fare il custode del Purgatorio dove vanno solo le anime dei bat-
tezzati?
Chi è, allora, costui? Non debbono essere stati solo i suoi meriti
a farlo scegliere per quel ruolo.
Quale altro motivo suggerisce a Dante proprio quel nome?
La sua identità porta un altro tassello -e che tassello!- alla nostra
teoria sull’ispirazione dantesca per l’ambientazione della
Commedia sui Colli Albani in generale -in senso lato- e nel nemus
in particolare.
Dai versi abbiamo già ben compreso chi è.
Non c’è dubbio alcuno.
Il nome di sua moglie è già rivelatore. È quello di Marzia, la
moglie dell’uomo politico romano morto ad Utica, suicida per la
libertà che Cesare minacciava, cosa che gli fa onore solo perché paga-
no. Il suicidio è inammissibile per un cristiano e gravissima colpa.
Anche perché suicida, Dante lo dovrebbe tener ben lontano dal
luogo dove si trova. Invece lo pone proprio lì. Perché?
Dove ha preso spunto -l’ispirazione- Dante per collocarlo pro-
prio lì.

114 La Via di Dante


Chi è, insomma, costui?
Il suo nome è Marco Porcio Catone, l’Uticense.
Come sua moglie e come Virgilio dovrebbe essere nell’antinfer-
no. Perché, invece, Catone è stato promosso a custode del
Purgatorio, luogo dove vanno le anime dei battezzati?
Non entro nel merito delle funzioni simboliche della figura di
Catone. Ma non mi sembra che le sue sole doti morali lo possano
promuovere a custode del Purgatorio cristiano. Ecco perché il moti-
vo della scelta di Dante deve essere stato un altro, segreto, nascosto.
Per questo chi abita sui Colli Albani non può non rilevare un
dato geografico che potrebbe aver suggerito a Dante la scelta di
Catone -la figura del vegliardo come custode del Purgatorio mi era
stata fatta osservare dal professor Pino Bevilacqua quando cercavo
prove per la mia ipotesi- come guardiano proprio di quel monte.
Quella scelta torna a ulteriore, decisiva conferma che proprio
questo luogo può aver ispirato il Vate.
Marco Porcio Catone, il dantesco custode del monte
Purgatorio, aveva la sua residenza proprio sui Colli Albano-
Tuscolani dai quali proveniva.
Il suo nome è rimasto nei toponimi dei Colli Tuscolani, il lato
nord-orientale dei Colli Albani, proprio al di là del Mons
Albanus-Monte Cavo-Purgatorio! Là dove egli ha vissuto, oggi
c’è una caratteristica cittadina dei Colli Albani confinante con
la più famosa Frascati: Monte Porzio Catone.
Anche i più scettici converranno, ora, che gli elementi favorevo-
li alla mia ipotesi che si ritrovano nelle prime due cantiche sono già
tali e tanti che avanzare un’ipotesi della possibile ispirazione tratta
da Dante dall’ambiente fisico, dalla storia e dalla cultura originaria
dei Colli Albani non è poi così azzardata come a prima vista e all’i-
nizio di queste considerazioni avrebbe potuto sembrare.
Comincia ad apparire, quell’ipotesi, del tutto convincente, quasi
naturale: ovvia, addirittura.
Ma le sorprese non sono ancora finite.
Ne riserva alcune -imprevedibili, incredibili, sorprendenti- il
Paradiso Terrestre. Prima ancora, però, esaminiamo cosa accade nei
canti precedenti che preparano l’incontro tra Dante e Beatrice.

La Via di Dante 115


ARNAUT DANIEL, il trovatore

Canto XXVI.
Arnaut Daniel (1150-1200 circa), è considerato da Dante il
miglior poeta trovatore Provenzale.
Che senso ha la sua figura inserita proprio in questo punto?
Qui è in compagnia di altri illustri poeti, è vero. Qui si discute di
Guittone d’Arezzo e di Guido Guinizzelli, di Giraldo di Bornelh e
di Arnaut Daniel proprio per dimostrare che come Guittone non
poteva essere considerato il migliore dei poeti italiani, così Giraldo
-quel di Lemosì- non doveva essere ritenuto superiore ad Arnaut
Daniel-Arnaldo Daniello.
È anche vero che i contatti della poesia provenzale con quella
toscana ed italiana erano stretti e condizionanti, però la sottolinea-
tura ci pare eccessiva se la consideriamo solo ai fini delle vicende
della Commedia. Soprattutto, quello che Arnaut dice a Dante non
c’entra niente con le dispute poetiche di questi personaggi.
Addirittura, Dante scrive le parole che escono dalle labbra di
Arnaut in lingua provenzale.
È solo un atto di cortesia verso quello che ritiene uno dei suoi
maestri o, invece, approfitta di questa copertura per lanciare un
messaggio in codice? E non erano proprio i poeti trovatori ad espri-
mere i loro amori spirituali con un linguaggio criptato? Quale
potrebbe essere, in questo caso, il messaggio nascosto tra le righe
che Dante ci vuole lanciare?
Come al solito siamo nel campo delle ipotesi totalmente nuove
che faranno arricciare il naso ai “puristi” dantisti, ma la tentazione
di esplorare anche questa possibilità è troppo forte. Almeno per for-
mulare un’ipotesi eventualmente da approfondire.
Cosa dice, intanto, Arnaut-Arnaldo alla fine del XXVI canto del
Purgatorio?
139. El cominciò liberamente a dire:
“Tan m’abellis vostre cortes deman,
qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
142. Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
116 La Via di Dante
e vei jausen lo joi qu’esper, denan.
145. Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de l’escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!”.

Cioè:
”Tanto mi piace la vostra cortese domanda , che io non mi posso
né mi voglio nascondere. Io sono Arnaldo, che piango e vado can-
tando; triste (pensoso) vedo la passata follia, e vedo giocondo il
gaudio che spero, dinanzi. Ora vi prego, per quel valore, quella
virtù divina (aquella valor) che vi guida al sommo di questa scala,
ricordatevi -a tempo debito- dei miei dolori”.

Ecco la richiesta del poeta provenzale: per aquella valor que vos
guida al som de l’escalina, sovenha vos a temps de ma dolor!”
Cosa intende Arnaldo con quel aquella valor che guida Dante?
-È il valore, la virtù di Dio-, dicono i commentatori. Con questo
intendono un valore morale, una virtù. Ma che senso hanno le paro-
le del poeta provenzale se diamo questo significato alla sua invoca-
zione? Proviamo a sostituire le parole dei commentatori a quelle dei
versi danteschi.
“Ora vi prego, per la virtù di Dio che vi guida al sommo di que-
sta scala, a tempo debito ricordatevi dei miei dolori”
Non mi sembra che la frase, detta così o così interpretata, sia di un
qualche valore al punto da essere inserita in un poema come la
Commedia, per di più in lingua originale. Anche se Dante per quella
virtù divina che lo guida fino al culmine della scala del Purgatorio si
dovesse ricordare dei dolori patiti in vita da Arnaut Daniel non si
aggiungerebbe alcun significato al viaggio che sarebbe qualcosa di
insignificante ai fini poetici, morali, ideali o simbolici, non appropria-
ta ad un’opera di questa levatura.
“Senti, caro Dante, fammi un piacere, se arrivi dove ti sei pre-
fisso di arrivare, se giungi al cospetto di Dio, ricordati dei miei
dolori, delle mie sofferenze d’amore”.
Cosa significa? Niente. Ridicolo!
Cerchiamo, invece, di decifrare il messaggio segreto che queste
parole, pronunciate anche in lingua provenzale, possono nasconde-

La Via di Dante 117


re e vediamo se il significato del brano acquista un concreto valore
in linea con quanto il Poeta si prefigge.
Arnaut -il più grande dei poeti provenzali- non può non cono-
scere quello che i suoi compatrioti pensano di Dio. Lo ritengono
l’essenza stessa della conoscenza e questo ha causato loro grandi
patimenti. Già quando era in vita i contrasti tra Catari e Chiesa
Romana erano forti e si preparava una lunga serie di lotte che sfo-
ciarono, alla fine, nella terribile crociata scatenata contro di loro da
Innocenzo III spalleggiato da Arnauld-Amaury, Ministro Generale
dell’Ordine Cistercense. Se non c’è ancora lo scontro definitivo, si
combattono continue, piccole guerre locali che portano anche a
gravi conseguenze come persecuzioni delle popolazioni e, addirit-
tura, alla distruzione di città con la strage, a volte, di tutta la popo-
lazione.
Sono questi i dolori cui si riferisce Arnaut Daniel nascondendo-
li dietro quelli amorosi delle sue composizioni poetiche?
Non potrebbero essere questi dolori-tragedie, che intere popola-
zioni subirono a causa della loro fede nella gnosi, proprio quelli che
Dante dovrebbe ricordare a tempo debito, cioè quando è arrivato al
sommo della scala, o meglio, alla fine del suo viaggio? Ma alla fine
del viaggio, come si augura Arnaut, Dante non dovrebbe raggiun-
gere il Dio-conoscenza, cioè proprio la gnosi dei Catari?
Ecco qual è il valore-virtù divina che guida Dante: la conoscenza.
Per quel valore una parte del popolo provenzale ha dovuto subire
molti dolori ed ecco perché Arnaut piange e canta disperato, perché
pensoso e triste vedo la passata follia,

mentre ripone forte speranza nel viaggio di Dante verso il dio-cono-


scenza. Ma perché Arnaut spera? In cosa spera?
“Ora vi prego, per quel valore (aquella valor) che vi guida al
sommo di questa scala, ricordatevi -a tempo debito- dei miei dolori”.

Ovvero:
”Per il desiderio di conoscenza che ti guida al sommo di questa
scala e per affermare, infine, la possibilità di raggiungere e dif-
fondere la conoscenza, scopo ultimo del tuo viaggio, a tempo
debito (quando sarà il momento), ricordati delle sofferenza patite

118 La Via di Dante


da chi la conoscenza ha perseguito in passato e per la quale è
stato perseguitato”.

E come a voler sottolineare questi concetti, quando l’anima tace


dopo aver lanciato il suo messaggio cosa fa?
148. Poi s’ascose nel foco che li affina.

Torna nel fuoco dove la sua anima si purifica, ma sembra torna-


re nel rogo di Montségur dove erano finiti i suoi compatrioti il 16
marzo del 1244!
Sembra, anche per questo episodio, di essere completamente
fuori sintonia con tutti i commentatori ufficiali e in un disegno che
vuole forzare ad ogni costo tutto quello che finora si è creduto della
Commedia dantesca.
Ma basta attendere i prossimi versi, quelli del XXVII canto e
quelli ancora successivi del XXVIII per comprendere come questa
interpretazione -solo apparentemente astrusa- segue, invece e rigo-
rosamente, un filo logico compatibile con i desideri del Vate.

La Via di Dante 119


DOPO IL “ROGO” IL SOGNO: Lia e Rebecca
Lasciato Daniello, Dante prosegue il suo cammino verso il
Paradiso Terrestre. Prima di procedere, però, Virgilio, il nuovo com-
pagno di viaggio, il poeta latino Stazio e Dante vengono invitati dal-
l’angelo della castità ad entrare nel fuoco per purificarsi:
...e cantava ‘Beati in mundo corde!’
9. in voce assai più che la nostra viva.
Poscia: ”Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
12. e al cantar di là non siate sorde”,
ci disse come noi li fummo presso;
per ch’io divenni tal, quando l’intesi,
15. qual è colui che ne la fossa è messo.
In su le man commesse mi protesi,
guardando il foco e immaginando forte
18. umani corpi già veduti accesi.
Volsersi verso me le buone scorte;
e Virgilio mi disse: ”Figliuol mio,
21. qui può esser tormento, ma non morte”.

All’invito di entrare nelle fiamme, Dante si irrigidisce e diventa


freddo come un cadavere. Virgilio lo incoraggia, ma non c’è verso
di convincerlo. Allora ricorre all’unico argomento in grando di far
affrontare a Dante quella prova suprema: la promessa dell’immi-
nente visione di Beatrice.
Con questa speranza Dante, alla fine, si decide ad entrare nella
fiamma e sente un calore così forte che per rinfrescarsi si sarebbe
gettato in una massa di vetro incandescente.
Finiti nel fuoco che, ancora una volta, somiglia a quello di un rogo,
i tre poeti odono la voce dell’angelo che è a guardia della scala che
conduce alla sommità del monte sacro, dove è collocato il Paradiso
Terrestre e dove Dante, finalmente, potrà incontrare Beatrice.
Dall’interno delle fiamme Dante vede l’angelo che è così splen-

120 La Via di Dante


dente che non riesce a tenere gli occhi aperti. Poi, uscito finalmen-
te dalle fiamme insieme agli altri due, inizia l’ascesa avendo alle
spalle il sole che tramonta. Fa appena in tempo a salire solo pochi
gradini della scala che porta alla sommità del monte che il sole è
definitivamente tramontato. Poiché non si può andar sul sacro
monte durante la notte, i tre poeti sono costretti a fermarsi. Ognuno
di loro occupa un gradino come fosse un letto e Dante, mentre il
cielo è ormai diventato completamente scuro, pensando a quanto gli
è accaduto in quel giorno, si addormenta.
Il racconto è così interessante, a volte sconvolgente e coinvolgen-
te, che è facile farsi prendere dalla vicenda del poeta che, lasciato
Daniello, condannato ad immergersi ancora nelle fiamme per comple-
tare la sua purificazione, si ritrova egli stesso, insieme con i suoi com-
pagni di viaggio, costretto ad immergersi nel fuoco purificatore prima
di poter raggiungere la scala che lo condurrà verso Beatrice.
Come non farsi prendere la mano dal racconto e non immedesi-
marsi nel Poeta che prova terrore ad entrare nelle fiamme?
Dobbiamo, però, resistere alla tentazione di farci coinvolgere e
continuare, invece, a porci le domande che possano darci risposte
atte ad ottenere una lettura più profonda, diversa di questo episodio
fondamentale.
Cosa è successo in realtà?
Dante ha parlato con Daniello ed ha ricordato con lui, senza
darlo a vedere, il sacrificio (l’antico dolore) del popolo cataro che a
Montségur è finito sul rogo. In quello stesso rogo -avvenuto in real-
tà oltre quarant’anni dopo la morte di Daniello, ma 36 anni prima
del viaggio dantesco- simbolicamente Dante fa, ora, immergere
Daniello e, poi, è costretto ad immergersi anch’egli. L’apparente
motivazione è quella della purificazione necessaria alla prosecuzio-
ne dell’ascesa per la quale egli stesso è costretto a patire le stesse
sofferenze dei Catari.
Sembra tutto ovvio. Ma è così? Sì, per Stazio, per Daniello,
anime che nel Purgatorio debbono effettivamente purificarsi, ma
perché debbono purificarsi anche Dante, che non è ancora un’anima
essendo vivo, e Virgilio, che si fermerà subito dopo?
Apparentemente queste ultime due purificazioni sono scorrette,

La Via di Dante 121


non sono in linea con la funzione del Purgatorio. In definitiva non
servirebbero a niente se Dante non desse all’episodio un significato
simbolico occulto: quello di indicarci il senso vero del sacrificio di
chi effettivamente era finito sul rogo a Montségur. Non solo per far
provare anche ai lettori l’orrore di una fine così crudele ed ingiusta,
ma per mostrare la via che attraverso il rogo fu indicata in segreto
da quei martiri: la salvezza della conoscenza antica e la possibilità
di raggiungerla e rivelarla un giorno.
Dice Virgilio:
21. qui può esser tormento, ma non morte.
Nel rogo, insomma, non muore l’anima dei Catari, c’è solo il tor-
mento per i loro corpi, ma la loro essenza, quello che ritengono più
importante della loro stessa vita, la conoscenza, sopravvive al rogo
messa in salvo con i volumi del sapere antico. La salvezza di quel-
le conoscenze che cambieranno il volto del mondo in un futuro non
lontano, i Catari riescono ad ottenerla con il loro sacrificio che, dis-
togliendo dal resto l’attenzione dei carnefici, consente la fuga di chi
ha ricevuto il compito -da Giordano de Nemore- di porre in salvo
quelle conoscenze.
Così il sacrificio non è stato inutile.
Come il Poeta, mentre crede di finire arrostito, vede l’angelo
della salvezza, così i Catari, arsi vivi, hanno visto -e lasciato al
mondo- una speranza di sopravvivenza e la via per raggiungere il
sole, il loro sole-conoscenza.
A Montségur, qualcuno -una fanciulla, secondo la ricostruzione
di Adriano Petta- ha superato il rogo ed è fuggito con l’antico sape-
re. Come hanno fatto i tre poeti, ha cominciato a salire la scala sim-
bolica per raggiungere la conoscenza, ma si è dovuto fermare. È
dovuto rimanere al buio per consentire alla notte di passare.
All’alba di una nuova era, Dante, dopo aver sognato la vita attiva
(la vita pratica che costruirà l’oggetto che diffonderà la conoscenza,
incarnata da Lia che indica in Rachele la contemplazione della
conoscenza), comprende che quella conoscenza potrà essere diffu-
sa e fatta comprendere a tutti. Senza conoscenza, infatti, la vita
(solo attiva, solo lavorativa) non è degna di essere vissuta. Quando
l’Uomo-Dante avrà compreso questo, la notte sarà finita ed egli
122 La Via di Dante
potrà finalmente salire tutta la scala. Al suo culmine troverà gli
argomenti giusti (i fiori scelti da Matelda, una specie di fior da
fiore) che porteranno alla definitiva affermazione della gnosi-dio-
di-conoscenza.
Quell’anonimo fuggiasco di Montségur sfuggito al rogo, insom-
ma, dà a Dante -consapevole del successo della sua fuga- la certez-
za che prima o poi, costruita quella macchina -la macchina da
stampa a caratteri mobili che imprime le lettere sulla carta- la
conoscenza si diffonderà. Così l’Umanità intera potrà raggiungere
la luce divina, il sole della conoscenza.
La profezia del veltro qui trova conferma e precisazione.
È, dunque, non solo la consapevolezza di Dante che la fine
della prepotenza della Chiesa è solo questione di tempo. È la
certezza che, quando quella macchina sarà costruita, riuscirà
veramente a diffondere tra tutti gli uomini quel sapere che la
Chiesa vuol mantenere segreto per perpetuare il suo predominio.
Finalmente, allora, la lupa-chiesa che impedisce la conoscenza
patirà a lungo e, alla fine, morirà con doglia.

Torniamo al poeta addormentato sulla scala del Purgatorio.


La scala sale, scavata nella roccia. Il poeta, sdraiato sul gradino,
può vedere solo una stretta fascia di cielo, appena uno spiraglio di spe-
ranza. Le poche stelle che vede gli appaiono, però, più grandi e bril-
lanti.
I commentatori osservano che essendo salito molto più in alto, le
stelle non possono che apparirgli più grandi.
No. È irreale. È come se gli abitanti di una città di montagna
vedessero le stelle più grandi di quelli che contemplano il cielo dal
livello del mare.
Le stelle che Dante vede sono simboliche e sono diventate più
brillanti e grandi solo perché, passato indenne attraverso il fuoco -
come l’anonimo superstite dei roghi catari- è ormai vicino alla via
per la conoscenza, alla via del sole-dio-conoscenza. Le stelle,
insomma, preludono simbolicamente alla nascita di un nuovo sole:
quello della conoscenza.
Un’altra domanda dovremmo ancora farci: chi è Stazio e perché

La Via di Dante 123


si è unito a Virgilio e Dante?
Stazio è un poeta latino vissuto al tempo di Tito e Domiziano.
Egli si rivela a Dante che gli indica Virgilio, il Poeta latino sua
guida, che anche quell’ombra riconosceva come proprio Maestro.
Per deferenza l’ombra si getta ai piedi di Virgilio e tenta di baciar-
glieli.
“Siamo due ombre”, dice Virgilio pregando l’altro di alzarsi. Poi
l’anima rivela la sua identità. È Stazio, l’autore dell’Achilleide e
della Tebaide, poemi per i quali ha tratto ispirazione dai capolavo-
ri virgiliani. È anche autore di una strana raccolta di poesie improv-
visate che chiamò Le Selve.
Ma come mai un poeta latino si trova lì, nel Purgatorio?
Stazio rivela di esser diventato cristiano proprio dopo aver letto
le opere di Virgilio, ma di non aver mai rivelato in pubblico la sua
conversione al cristianesimo. Stazio, insomma, rappresenta il colle-
gamento tra la cultura antica pagana, ma avanzata e protesa verso
concetti cristiani, come quella di Virgilio e quella ormai cristiana,
anche se ancora nascosta. Egli è il trait-d’union tra due modi di con-
cepire l’esistenza e la conoscenza che, con l’avvento del cristiane-
simo, anziché affermarsi definitivamente come ci si aspettava, è
costretta a nascondersi, a tornare nel buio della notte in attesa di
potersi nuovamente rivelare e diffondere.
Stazio si accoda ai due poeti e tutti e tre, si incamminano per pro-
seguire nel viaggio verso la sommità del monte, il viaggio verso la
conoscenza-dio, la gnosi.
Cosa simboleggiano i tre poeti in questo momento?
Essi rappresentano le tre facce della conoscenza: Virgilio
simboleggia quella occulta, misterica che sa o intuisce che un’al-
tra era è vicina; Stazio è consapevole che la nuova era è inizia-
ta, ma non osa rivelare che lo sa e che ne fa parte; Dante rap-
presenta la ribellione segreta, silente, contro l’oppressione di chi
si fa paladino della nuova era, inaugurata con l’avvento del
Cristo, ma in realtà ne è il più feroce nemico. La nuova era
avrebbe dovuto portare ad un mondo di fratellanza e di amore,
invece proprio chi doveva mettere in pratica i principi del
Cristo se ne fa il più spietato sicario. Il cristianesimo avrebbe

124 La Via di Dante


dovuto portare al raggiungimento della vera conoscenza, quella
che per i Catari è la gnosi, ed invece aveva rigettato il mondo
nell’oscurità assoluta della più nera ignoranza, come aveva
fatto anche l’Islam dei seguaci di Maometto.
Ma non abbiamo ancora chiarito qual è il ruolo di Stazio e cosa
egli possa significare per Dante.
Abbiamo visto come egli si presenti quale autore di opere che
hanno tratto ispirazione da Virgilio, ma che è anche autore di un’al-
tra opera che in genere non è citata, né ricordata: Le Selve.
Si tratta di una raccolta di poesie improvvisate in cui si fa spes-
so riferimento ad Alba Longa, ad Enea come capostipite del popolo
romano e a Venere, madre di Enea. Proprio con riferimento alla
nuova Troia, Alba Longa, Stazio indica una sua proprietà, un
podere con una casa che allevia la sua vita affannata. Questa
sua proprietà è situata proprio vicino ad Alba Longa, dunque in
prossimità del mons Albanus-Purgatorio. Stazio, partenopeo di
nascita, si era trasferito momentaneamente nei pressi di Roma,
dove aveva partecipato alle più importanti gare poetiche vin-
cendo sia i Ludi Albani che gli Augustalia. Non era riuscito, però,
a trionfare nei più importanti Ludi Capitolini. Deluso si ritirerà,
infine, nella sua Partenope.
Come Marco Porcio Catone, insomma, Stazio è un perso-
naggio del luogo: vive alle pendici del Mons Albanus, conosce
bene il culto e i riti del nemus, il bosco sacro alla dea Diana
Aricina, che cita spesso nelle sue poesie. Sa bene che quel bosco,
il nemus, nasconde l’ingresso nel mondo dei morti, è testimone
diretto dei sacri rituali del rex nemorensis.
Basterebbe già questa sua fisica presenza sui Colli Albani per
fare di Publio Papinio Stazio un degno e simbolico compagno di
viaggio verso la conoscenza. Ma forse Dante conosce cose più
importanti sul poeta latino che glielo fanno scegliere.
Cosa mai poteva essere?
Con certezza nessuno lo saprà mai, ma io voglio lo stesso azzar-
dare un’ipotesi.
Se Dante conosce il segreto dei Catari, protesi verso la cono-
scenza, il segreto che era arrivato nella loro terra portato da

La Via di Dante 125


Giordano de Nemore, allora Dante sa anche che quel segreto pro-
viene da Anania di Shirak il quale lo ha appreso da fonti orientali
che provengono fino dalla Cina. A quella macchina che Anania
ritiene preziosissima per il genere umano, nemmeno i Cinesi che
l’hanno inventata e costruita hanno dato l’importanza che meritava.
Non hanno ben compreso quale rivoluzione poteva essa portare e
quali sviluppi per la conoscenza potevano nascere dall’applicazione
pratica della loro invenzione. La usano quasi solo per gioco. Non si
sono nemmeno posti il problema della diffusione della cultura.
Anania, invece, l’ha compreso perfettamente. Memore della dia-
bolica distruzione della gigantesca biblioteca di Alessandria e della
scomparsa di gran parte delle antiche conoscenze, egli ha intuito
che solo con un numero elevato di copie delle stesse opere, per il
futuro, le conoscenze saranno finalmente al sicuro. Non basterà
distruggere col fuoco una sola biblioteca, perché le opere in essa
contenute saranno diffuse a centinaia, migliaia di copie e non sarà
possibile distruggerle tutte.
Come potrebbe Dante indicare a tutti che proprio quella inven-
zione cinese è il veltro che azzannerà la lupa, la macchina che rivo-
luzionerà il mondo contro il volere della Chiesa di Roma?
Stazio vive nel primo secolo dopo Cristo. In una sua accorata
poesia in onore del poeta Stella e della sua amata Violentilla, si
lamenta dell’avarizia di un popolo orientale che non ha piantato
sufficienti alberi per produrre tanta ambra quanta ne basti per orna-
re degnamente il corpo dell’amata donna di Stella, né hanno seta
sufficiente e porpora bastante per onorare la bellezza di Violentilla
che va sposa a Stella.
Qual è il popolo “avaro” a cui si riferisce il poeta latino?
... Queritor iam Seras avaros
angustum spoliare nemus Climen<a>eaque deesse
germina nec virides satis inlacrimare sorores,
vellera Sidonio iam pauca rubescere tabo
raraque longaevis nivibus crystalla gelari.

Ed ecco come traducono il brano Luca Canali e Maria Pellegrini


in Stazio Le selve, Mondadori Editore:
Lamento che gli avari Cinesi spogliano una piccola foresta,
che le verdi sorelle non lacrimano ancora abbastanza,
126 La Via di Dante
che scarseggiano i germogli delle figlie di Climene.
Ben poche lane ormai rosseggiano del colore sidonio
e rari cristalli si formano su secolari nevi.

È il popolo Cinese?
Seras è qui tradotto con Cinesi. In realtà sono un popolo dell’Asia
orientale che può bene essere identificato con i Cinesi, il popolo che la
tradizione indica proprio come l’autore di molte scoperte tra le quali
quella che qui ci interessa: la macchina da stampa a caratteri mobi-
li e la carta, il particolare ed economico feltro su cui imprimere le
parole.
È, dunque, proprio lo stesso popolo da cui è arrivata la macchi-
na i cui disegni Anania di Shirak ha messo in salvo facendoli arri-
vare in occidente e che Giordano de Nemore recupererà nella chie-
sa di Santa Colomba, a Sens, in Francia e salverà poi dal rogo su cui
arderanno i Catari di Montségur affidandoli ad un’insospettabile
fanciulla che si salverà rimanendo nascosta, nel buio di una grotta.
Dante immagina che Stazio, al pari di Anania, conosca quello
che i Cinesi hanno prodotto, ma non ne ha saputo valutare l’impor-
tanza e ha ignorato quel portentoso strumento. Ma a Dante non inte-
ressa quel che poteva o no conoscere Stazio. Interessa trasmettere
un messaggio cifrato che indichi con sempre maggior precisione la
via per giungere alla conoscenza della cultura da diffondere a tutti
gli uomini. Si accompagna a Stazio come a voler dire: egli, che
viveva sui Colli d’Alba, testimonia ora che bisogna guardare a quel-
lo che hanno ideato i Cinesi e che ci è già arrivato dalla Cina e che
proprio sui Colli Albani è stato tenuto nascosto. È proprio lì che ora
è stato riscoperto il veltro che cambierà il mondo.
E lì, in quel veltro, per Dante è il segreto del nostro futuro.
Di Stazio, Dante non fa, praticamente, più menzione fino alla
fine della Cantica. È presente, ma non ci si accorge più di lui. Alla
fine non lo saluta né si fa salutare: diventa un po’ come la fanciulla
cui viene affidata, a Montségur, la conoscenza antica. Quella fan-
ciulla si salverà perché, pur essendo a Montségur, da lei è stata dis-
tolta l’attenzione dei carnefici. Ella custodisce, con i libri della
conoscenza che, così, ha potuto sopravvivere, anche i procedimenti
per la produzione della carta -il feltro- su cui si imprime la parola
La Via di Dante 127
scritta con la macchina da stampa. La conoscenza diventerà acces-
sibile a tutti proprio perché essa sarà stampata sulle pagine dei libri.
È diventato chiaro, ormai, il significato del verso oscuro:
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
La macchina e la carta erano il segreto supremo, quello che
Anania aveva fatto pervenire in Europa e che aveva ricevuto dai
Cinesi e che la Chiesa di Roma aveva sequestrato e tenuto nascosto
nella torre di Nemi.
Tra tutti i poeti Romani, Stazio è l’unico che contemporanea-
mente abita sui Colli di Alba, vicinissimo al monte che ispira l’am-
bientazione del Purgatorio e del Paradiso Terrestre e conosce quel-
lo che avevano prodotto i Cinesi, popolo noto anche a Virgilio.
Il riferimento ai Cinesi contenuto nell’opera di Stazio è troppo
singolare perché possa essere sfuggito a Dante che fa del poeta lati-
no il suo significativo compagno di viaggio fino a Beatrice e fino
alle soglie del Paradiso.
Un’obiezione sola potrebbe venire dall’erudito: l’opera in cui
Stazio cita l’ambra dei Cinesi è, come abbiamo visto, Le Selve.
Quest’opera, per la tradizione, era perduta fino al 1417, quando
Poggio Bracciolini la ritrovò e la diffuse.
Ma anche l’autobiografia di Augusto per la nostra tradizione era
perduta e Dante non avrebbe potuto leggerla. Questo tutti credeva-
no finché non se ne scoprì una copia in una cella dalla porta mura-
ta di un convento in Macedonia negli anni Ottanta del Novecento.
Quella copia risaliva alla metà del ‘200 e dimostrava che, qualche
copia di quell’autobiografia ancora poteva circolare ai tempi di
Dante che, così, avrebbe davvero potuto conoscerla, visto che alcu-
ni suoi versi ricalcano perfettamente alcune frasi in essa contenute.
Stazio, insomma, collocato nell’ambiente Albano, conoscitore
del nemus e delle sue storie, è un personaggio fortemente simboli-
co che Dante utilizza per suggerire, o meglio, confermare -a chi sa
comprendere- la soluzione dell’enigma del veltro.

128 La Via di Dante


Dante, Virgilio e Stazio
compiono insieme il percorso
verso il Paradiso Terrestre,
sulla sommità del monte Purgatorio,
in un’illustrazione di Gustave Doré.
La Via di Dante 129
Monte Cavo, l’antico Mons Albanus,
in una stampa del 1809, visto dal ninfeo del Bergantino,
sulle rive del lago di Albano.
Come molte delle raffigurazioni eseguite dai paesaggisti dei secoli scorsi,
le forme del paesaggio vengono riproposte secondo la visione dell’artista
che le esegue e che accentua a volte le particolarità dei singoli elementi,
secondo le sensazioni che la scena gli ispira.
Qui il Monte Cavo ha una forma a cono particolarmente accentuata
che la fa somigliare in maniera significativa a quella
immaginata da Dante per il Purgatorio.
Ma dalla stessa posizione ancora oggi è possibile eseguire delle foto del monte
che -con le deformazioni dei paesaggisti di ogni epoca- lo farebbero
comunque somigliare a quello descritto da Dante
(foto appena deformata di pag. 131).
Sulla cima del Mons Albanus gli antichi ponevano la casa di Giove
e consideravano quel luogo come il punto
di congiunzione tra cielo e terra, il luogo sacro dove si consacravano i generali romani
che, per le loro eccezionali imprese, avevano ottenuto il trionfo.

130 La Via di Dante


IL PARADISO TERRESTRE
Premessa.
Prima di passare all’esame dei versi che riguardano quest’argo-
mento in rapporto all’ipotesi, che qui si avanza circa l’ispirazione
dantesca, occorre spendere due parole proprio sull’origine di un
mito arcaico riguardante il luogo di delizie, dov’era sempre prima-
vera, che diventerà, col passare dei millenni, l’eden biblico.
Nel mio saggio Dalla Pentima del Piccione è stato riassunto lo
studio effettuato su questo argomento -non ancora pubblicato- che
ha portato ancora a conclusioni imprevedibili, ma del tutto compa-
tibili con le caratteristiche di luoghi, tradizioni, culti e rituali che qui
si sono perpetuati nel corso dei millenni, dalle origini fino a noi.
Il tutto, naturalmente, deve essere considerato con mente sgom-
bra da pregiudizi, oggi non più giustificabili, e considerare le ipote-
si nuove ed originali come argomenti degni di opportuno approfon-
dimento, non come follie da rigettare senza esame solo perché non
in linea con le credenze tradizionali -errate- dei membri del cosid-
detto mondo accademico. Soltanto dopo, se questo approfondimen-
to non dovesse essere convincente, si potranno rigettare quelle ipo-
tesi come improponibili.

La Via di Dante 131


Per renderci conto dell’argomento che stiamo per affrontare,
vediamo sinteticamente quanto riportato in quello studio.
1- Il mito dell’Eden è proprio di tutti i popoli dell’antichità e diffu-
so tra le genti di ogni angolo della Terra. Dunque è antichissimo
e, secondo me, risale ai primordi dell’umanità (40-30.000 anni
fa), o, in ogni caso, a molto tempo prima della versione biblica.
Utile, a tal proposito consultare al riguardo: A. Graf, Miti del
Medioevo, il Paradiso Terrestre;
2- la parola eden significa luogo di delizia in un ambiente ostile,
per esempio: un’oasi in un deserto; una zona con alberi e anima-
li in un mare di ghiaccio);
3- il Paradiso Terrestre, come la tradizione biblica l’ha tramandato,
è esistito effettivamente. Vedere per questo: David Rohl, La Genesi
aveva ragione, Piemme, 2000; prima edizione in inglese, 1998;
4- la parola paradiso “deriva dal greco παραδεισοσ che a sua volta
proviene da pairidaeza che nel suo significato originario dell’anti-
ca lingua iraniana significa precisamente:”parco -o piccolo bosco
con radure- circondato, cintato”.
- È interessante notare che la parola ebraica gan, usata per indi-
care il Giardino dell’Eden, deriva dalla radice verbale ganan che
significa “circondare” o “proteggere” e può dunque significare
“giardino cinto da mura” o parco cintato”. Tutto questo sembra
condurci alle fertili valli dell’altopiano iraniano, completamente
circondate da scoscese pareti rocciose.
Questo è quanto afferma ancora David Rohl;
5- come per tutti i luoghi magici, vi doveva essere la contempora-
nea presenza dei quattro elementi: aria, terra, acqua e fuoco;
6- al centro della radura c’era un albero sacro, con un ramo o un frut-
to proibito, che non si poteva cogliere;
7- per il racconto biblico, dopo la cacciata di Adamo ed Eva, il
Signore mette a guardia del Giardino dell’Eden un custode -un
cherubino- armato di spada che non consente a nessuno di avvi-
cinarsi all’albero sacro.

Il Paradiso Terrestre, dunque, non è un luogo fantastico o leggen-


dario, ma mitico, derivante dal ricordo di una precisa realtà fisica. La

132 La Via di Dante


Bibbia fa sua una tradizione multimillenaria, comune a tutti i popoli
della Terra, e localizza quel luogo riportandolo nell’area di pertinen-
za del popolo ebraico. Le sue indicazioni sono talmente precise che,
avendole correttamente interpretate, David Rohl, importante archeo-
logo inglese, alla fine del secolo scorso è finalmente riuscito ad iden-
tificare la zona descritta: la pianura della città di Tabriz, vicino al lago
Urmia, in Arzebaijan, presso un antico vulcano, il biblico monte
Ararat, circondata da una serie di colline, poste in cerchio lungo il suo
perimetro come fossero un’alta recinzione circolare.
Ma questo è il luogo dove la Bibbia pone l’Eden.
Il luogo originario, invece, proprio per essere stato reale e noto
agli uomini di ogni regione della Terra, doveva aver tramandato la
propria fama da un’epoca molto più antica di quella cui la Bibbia si
riferisce che non va al di là di diecimila anni a.C. Il mito, invece,
risale ad un’epoca in cui gli uomini -i pochi allora vaganti per
l’Europa, non più di otto-diecimila persone divise per tribù di 25-30
individui- parlavano la stessa lingua. Questo poteva verosimilmen-
te verificarsi tra i 45.000 e i 35.000 anni fa, quando l’homo sapiens
sapiens cominciava a lasciare tracce della sua acquisita e già svi-
luppata intelligenza.
Esaminati tutti i luoghi magici e sacri dell’antichità -compresa la
valle di Tabriz-, l’unico luogo che è risultato possedere -contempo-
raneamente- tutte le caratteristiche attribuite al giardino dell’Eden,
il Paradiso Terrestre, il luogo di delizie e dell’eterna primavera, il
centro dove si sviluppa la mitica età dell’oro è stato -inaspettata-
mente ed imprevedibilmente- il cratere nemorense con il suo nemus,
bosco rado ricco di fiori, posto alla base e dentro un vulcano anco-
ra attivo (il fuoco), sulle rive di un lago (l’acqua), circondato da alte
rocce (la terra), in una strana atmosfera calda (aria), quando dap-
pertutto era freddo e gelo, con un albero sacro difeso da un custo-
de-rex che, armato di spada, impedisce a chiunque di strappare da
esso uno strano frutto, il ramo d’oro.
Rimando i lettori più curiosi e interessati agli studi sull’argo-
mento pubblicati altrove non senza aver fatto notare lo straordina-
rio panorama che i nostri antichissimi progenitori potevano ammi-
rare dal bordo del cratere nemorense. Da lì il boschetto rotondo che

La Via di Dante 133


copre la valle del lago, il Vallone di Tempesta (una profonda inse-
natura nella parete del cratere di forma particolarissima: l’organo
sessuale femminile) con Monte Cavo perfettamente in asse sullo
sfondo apparivano, agli occhi degli uomini di allora, come una
straordinaria e gigantesca rappresentazione della Grande Dea
Madre nell’atto di partorire la Natura con la testa del bimbo -il
bosco- che esce dal ventre materno. Uno spettacolo magico prima
che sacro che abbiamo già ricordato a pag. 91.
Qui mi limito a far notare come anche il tema del Paradiso
Terrestre dantesco, ironia della sorte, non ostacola, anzi, risulta un
elemento in più a favore dell’ipotesi che Dante -che certamente igno-
rava sia l’ubicazione del paradiso terrestre biblico, sia quella del
luogo di delizie originario qui ricordato- abbia potuto trarre ispirazio-
ne da questo territorio per l’ambientazione della sua Commedia.
Dante ha conoscenze classiche oltre che esoteriche. Sa che il
Mons Albanus è, da sempre, il luogo della consacrazione di chi ha
ricevuto il trionfo a Roma proprio perché è la sede del dio dei Latini
e dei Romani: Iuppiter Latiaris, il Giove che deriva il nome dalla
radice sanscrita Dj luce, luce del giorno, origine di ogni cosa.
Per sola informazione riferisco che la lingua madre del sanscri-
to, del latino, del greco dà alla radice AN il significato di principio
originario. E da An deriva il nome primordiale del dio che i
Romani consideravano l’origine di tutte le origini: An, Anus,
Janus, Diano, Giano.
Torniamo al Paradiso Terrestre dantesco sulla vetta del Monte-
Purgatorio-Mons Albanus.
La cima di quel monte ha una forma quasi circolare ed è rico-
perta da un bosco di querce, l’albero sacro al dio. Per questi motivi,
la cima di quel monte -per tutti i popoli antichi- è anche il punto di
contatto tra il cielo e la Terra. Si trova proprio al di sopra del crate-
re del lago sacro alla dea Diana il cui bosco, anch’esso a lei sacro,
un tempo limitato alla sola valle, superati i bordi scoscesi del crate-
re con il cessare dell’epoca glaciale di Würm -che permane sin
quasi a diecimila anni fa- ha ricoperto tutto il territorio circostante
e, interamente, anche il monte fumante.
Sa certamente, Dante, che Diana-Artemide è soprattutto la divi-

134 La Via di Dante


nità della fecondità e della vita -regolata dalle fasi della luna-, ma è
anche la detentrice del sapere occulto e signora degli inferi.
Ad ognuna di queste sue accezioni gli antichi hanno abbinato un
colore: il rosso per gli inferi, il verde per le selve, il bianco per la
luna. Colori che la contraddistinguono ancora oggi nelle raffigura-
zioni simboliche e misteriche.
Tutto il panorama di questa parte dei Colli Albani è conforme al
disegno che il Poeta ha in mente per il suo viaggio nell’altro mondo.
Per i culti, le storie, le tradizioni, questi luoghi sono in grado anche
di ispirare il Vate sotto l’aspetto esoterico-simbolico non solo fisi-
co. Insomma, qui ogni cosa contiene spunti non solo fisici cui ispi-
rarsi e a cui Dante attinge a piene mani.
Quale luogo meglio di questo poteva suggerirgli simboli idonei
e fargli vedere realmente tutta la scena compresa la collocazione del
punto terminale -il Paradiso Terrestre- mèta del suo viaggio prima
di giungere nell’empireo?
Il luogo dove Adamo ed Eva vissero fino alla loro cacciata, per
Dante ha, non per caso, la stessa simbologia della cima del Mons
Albanus: è il luogo di contatto tra la divinità e l’uomo. È, infatti, il
luogo dove il dio convive con l’Uomo e che diventa inaccessibile a
questo quando disubbidisce al volere divino. Visto dall’esterno, in
quel periodo, il mons Albanus appariva veramente inaccessibile,
circondato da crateri con alte rocce e con percorsi impervi. Dunque,
nessuna meraviglia che abbia potuto essere identificato da Dante
come il monte sulla cima del quale poteva essere ubicato il Paradiso
Terrestre, il luogo riservato solo ai primi uomini e poi vietato a tutti.
Nessuna meraviglia, ancora, se le sue caratteristiche, unite alle più
antiche tradizioni, hanno suggerito a Dante la forma della scena
adatta all’Eden. L’ubicazione sulla vetta di un monte, infine, era
conforme anche a quanto raccontava una consolidata ed antichissi-
ma tradizione che Dante non poteva non conoscere, essendo una
delle più note credenze del Medioevo.
Come si vede, per Dante era del tutto naturale -perché per lui
c’erano tutti i presupposti, fisici, culturali e tradizionali- vedere, nel
panorama dei Colli Albani, l’ambiente ideale per costruire la scena
della Commedia. Siamo solo noi che riteniamo -non essendoci mai

La Via di Dante 135


posto il problema- la cosa improbabile, non credibile, ma solo per-
ché non abbiamo più, viva, la coscienza di quello che i Colli Albani
hanno rappresentato per la storia dell’uomo e li confondiamo ormai
con i più popolareschi Castelli Romani, un tempo piccoli borghi
contadini produttori di buon vino, di gustosa porchetta e di croc-
cante pane casareccio e nulla più.
Dante ha, invece, di questi luoghi, ammirazione e rispetto per
essere stati la culla della civiltà nata dal popolo latino e diffusa in
tutta la terra dalla grandezza di Roma. Qui vede anche la sede delle
residenze dei più grandi uomini della romanità. Una prova ce l’ha
già fornita ricordando Catone, ma sa che qui vivevano Cicerone,
Cesare, Pompeo, Augusto -che vi era anche nato- la cui casa fre-
quentava anche la sua Guida e Maestro, Virgilio.
Ma andiamo avanti.
Esaminiamo, ora, per confermare queste argomentazioni, i versi
che hanno attirato la mia attenzione e che più interessano questo
studio per la loro possibile, diretta derivazione dalle pagine dell’au-
tobiografia di Augusto.
Rivediamo meglio i versi che somigliano ad un brano tratto dall’o-
pera del grande Imperatore e confrontiamoli con il testo di Augusto.
Il Poeta è ormai sulla cima del monte e deve attraversare la selva
che circonda il Paradiso Terrestre. Siamo nel XXVIII canto del
Purgatorio che abbiamo già esaminato per altri motivi (pagine 45,
46) e che qui ci interessa, ora, per altri aspetti. Rivediamo.
7. Un’aura dolce, sanza mutamento
avere in sé, mi feria per la fronte
non di più colpo che soave vento;
10. per cui le fronde, tremolando, pronte
tutte quante piegavano a la parte
u’ la prim’ombra gitta il santo monte;
13. non però dal lor essere dritto sparte
tanto, che li augelletti per le cime
lasciasser d’operare ogni lor arte;

Vediamo cosa scrive Augusto quando sta per entrare nel bosco
che circonda il lago di Nemi per recarsi a vedere il tempio di Diana
ed incontrare il rex nemorensis.
136 La Via di Dante
“... entrammo nell’ombra degli alberi che ancora non avevano
perso le foglie... Scendemmo dalla collina per un sentiero tortuo-
so in un intenso silenzio. Non c’erano né cinguettii d’uccelli, né
refoli di vento tra il fogliame. Persino l’ansare e lo sforzo dei miei
portatori sembrava un’offesa. ...

Gli uccelli, insomma, per Dante tralasciano di operare ogni lor


arte mentre per Augusto che entra nel bosco non c’erano né cin-
guettii d’uccelli, né refoli di vento tra il fogliame. Per Dante, inve-
ce, l’aura è dolce e sanza mutamento avere in sé.
Come non sospettare una reminiscenza in Dante delle frasi di
Augusto?
Per una conferma a questa interpretazione vediamo la nota ai
versi 7-9 di un testo scolastico Dante Alighieri La Divina
Commedia, canti scelti e percorsi, a cura di Marziani
Guglielminetti, Patrizia Garneri, Antonella Lanza, della Casa
Editrice Principato, 1994, pag. 519:
7-9 Un’aura... vento: un lieve vento, senza avere in sé mutamento
d’intensità o di direzione, mi toccava la fronte con una forza pari a
quella di una brezza soave. La descrizione della foresta edenica
continua a procedere in maniera opposta a quella infernale della
selva. Tutti i particolari (le fronde, l’aura, più avanti il canto degli
uccelletti) obbediscono allo schema retorico del “luogo ameno”,
elaborato dalle pagine degli scrittori classici ed utilizzato, fra molti
altri, anche dal Boccaccio, nelle pagine introduttive del Decameron.

Non sembra di ritrovar queste “atmosfere amene” nel brano di


Augusto?
Il brano che segue, invece, suggerisce la presenza in loco di ele-
menti sacrali che rimandano al culto dei morti particolarmente forte
nel cratere nemorense.
Mentre ci avvicinavamo al livello del lago udimmo dei lamenti e
ci trovammo in una piccola radura di fronte ad un umile tempio.
Ordinai ai portatori di fermarsi e inviai Maco a far uscire le per-
sone all’interno del tempio. I lamenti si trasformarono in strilli e
in rimbrotti stizziti e poi Maco uscì preceduto da tre donne...
-Ma che dicono?-
-Che adorano gli spiriti dei morti”.
La Via di Dante 137
Sono solo descrizioni di sensazioni che qui si respirano nell’aria,
particolari e proprie di questi luoghi, ma non solo di morte, anche -
e soprattutto- di vita.
Il cratere nemorense era al tempo stesso il regno della Diana
delle selve e della regina degli inferi, Diana nella sua accezione di
Proserpina-Prosperina
Le somiglianze delle descrizioni e delle situazioni sono chiare e
significative, anche se non raggiungono il livello di altre già citate.
Vedremo, però, come tutto l’insieme porterà la nostra ipotesi a
rasentare la certezza che Dante -cui queste sensazioni non potevano
sfuggire- non si è solo ispirato ai luoghi, ma ha tratto dalle opere di
sua conoscenza e legate ai Colli Albani sensazioni, atmosfere e
situazioni che ha poi riprodotto, a suo modo, trasformate in opera di
alta poesia, nella sua Commedia.
Prendiamo atto, per ora, che mentre Augusto entra nel bosco in
un’atmosfera quasi irreale, Dante fa la stessa cosa entrando nella
foresta che lo separa dal Paradiso Terrestre.
Augusto nel suo tragitto incontra le tre donne che evocano ed
adorano gli spiriti dei morti, Dante subito dopo essere entrato nella
foresta incontra Matelda che coglie fiori e spiega ai poeti l’origi-
ne del fiume che lì scorre e del gradevole vento che lì spira e fa
cenno prima a Proserpina -regina degli inferi- e poi all’età del-
l’oro come una prefigurazione del Paradiso Terrestre.
Sono tutti riferimenti estremamente chiari ai Colli Albani, al
nemus, al Mons Albanus, a Diana che è anche la regina dei morti,
che si identifica con Proserpina, che di Diana è un’accezione, oltre
ad essere la dea della fecondità per la quale Augusto dice:
”Non c’è fecondità senza Diana”.

Ma senza Diana-Artemide, sapevano gli antichi e con loro


Dante, non c’era nemmeno conoscenza.
Non sono proprio i Colli Albani il centro di quel Latium vetus
sede di quell’età dell’oro e regno di Saturno che, dopo il Diluvio,
sbarca sulle coste del Latium dove trova il re Giano?
Come si vede, non solo la descrizione fisica e le atmosfere dei
luoghi si ritrovano in Dante, ma anche il ruolo che essi hanno avuto
nella storia e nella tradizione più antica, più che nota al Poeta. Tutto
138 La Via di Dante
coincide con quanto i due poeti vedono e ascoltano nel loro cam-
mino verso la cima del Monte-Purgatorio.
In realtà, già il primo canto dell’Inferno è significativo ed illu-
minante a questo proposito, con tutti i riferimenti ai popoli del
Latium che combattono contro i Troiani di Enea.
Ma non è ancora finita.
Chi è Matelda?
I critici dopo averla identificata con Matilde di Canossa si sono
divisi tra personaggi minori, tutti egualmente pretestuosi ed insigni-
ficanti. Alla fine hanno rigettato tutte le attribuizioni e si sono arre-
si. Matelda è un mistero come altri nella Commedia che sono rima-
sti senza risposta. Misteri che Dante ha portato con sé nella tomba.
Ma è proprio così?
O anche per Matelda, come per il veltro, non si è riusciti ad iden-
tificare il personaggio perché si ignora quel che Dante ha voluto
nascondere qua e là per tenere celato il significato vero della sua
opera? Matelda è uno di questi personaggi misteriosi?
Insomma, Matelda potrebbe far parte della complessa azione
dantesca per dire verità pericolose per la sua incolumità nasconden-
dole dietro personaggi insospettabili. Così facendo, però, cerca di
salvare la vita, ma rende incomprensibile la propria opera.
Per il personaggio di Matelda, a chiarimento di quanto già detto
sopra, si può azzardare un’altra ipotesi ardita, ma che segue una
precisa logica.
Per comprendere quale potrebbe essere il significato autenti-
co, riportiamoci a quello del veltro che rappresenta lo strumen-
to che azzannerà la Chiesa romana con la diffusione della cul-
tura e della conoscenza che sarà possibile con la realizzazione
della macchina da stampa a caratteri mobili.
Ma chi ha il compito di portare il poeta nel luogo dove potrà
incontrare colei che lo condurrà verso la vera conoscenza, il Dio dei
Catari? Matelda.
Dunque, anche Matelda è uno degli strumenti utilizzati per
giungere alla conoscenza.
Se il veltro è la macchina da stampa, Matelda è il mezzo con cui
la conoscenza può essere diffusa. La macchina da stampa raggiun-

La Via di Dante 139


ge il suo scopo solo perché c’è la carta su cui stampare i libri che
contengono la conoscenza da diffondere.
Ecco: Matelda è il libro che contiene la conoscenza, è l’ogget-
to materiale attraverso il quale la conoscenza compie la sua mis-
sione e il libro-Matelda contiene il fior fiore -che ella raccoglie- di
quello che deve essere conosciuto. Matelda, per la critica rappre-
senta soltanto la logica perché i critici non hanno mai compreso il
significato del veltro e perché non possono nemmeno immaginare
quello che esso rappresenta. Ma la Matelda-logica è un simbolo che
si avvicina moltissimo al vero significato del personaggio e confer-
ma la validità della nostra interpretazione che coinvolge non solo
l’ambiente dei Colli Albani, ma anche i significati simbolici ed eso-
terici che questi luoghi rappresentano come regno della dea Diana
“titolare” della conoscenza occulta. Dante, al culmine del suo
Purgatorio-Mons Albanus, nasconde in Matelda-libro, un altra por-
zione del significato complessivo del suo viaggio verso la cono-
scenza, la luce divina.
Conferme di questo se ne avranno ancora.
Passiamo al canto successivo, il XXIX.
Qui Dante e Virgilio assistono ad uno spettacolo che a Virgilio
non doveva apparire troppo sconosciuto. Dante ne fa una rappre-
sentazione a suo uso, ma l’ispirazione dalla realtà storica legata al
luogo che stiamo considerando è talmente forte che non vi possono
essere più dubbi.
Di cosa si tratta? Di un grande corteo che accompagna il carro
trionfale di Beatrice!
106. Lo spazio dentro a lor quattro contenne
un carro, in su due rote, triünfale,
ch’al collo d’un grifon tirato venne...
115. Non che Roma di carro così bello
rallegrasse Affricano, o vero Augusto,
ma quel del Sol saria povero con ello;
118. quel del Sol che, sviando, fu combusto
per l’orazione de la Terra devota,
quando fu Giove arcanamente giusto.
Non ci sono dubbi: uno straordinario corteo che segue il carro
trionfale al cui confronto quelli dei generali e degli imperatori
140 La Via di Dante
romani e quello stesso del Sole sembrerebbero ben misera cosa.
Cosa indica il carro trionfale?
Lo comprendiamo se ricordiamo come, dove e perché si svolgeva-
no i trionfi romani tributati ai grandi generali per le loro vittorie più
strepitose.
Ogni trionfo decretato dal Senato Romano era celebrato per le vie
dell’Urbe perché colui cui era tributato ricevesse l’omaggio del popo-
lo romano, ma il trionfo non era completo -non aveva alcun valore-
se non si concludeva sul Mons Albanus, nel tempio di Giove, dove
arrivava il corteo del vincitore -al pari di quello a cui assistono i due
poeti- e dove questi riceveva la consacrazione finale.
Dante non fa che adattare alle sue esigenze uno di questi trionfi
per esaltare l’arrivo nel Paradiso Terrestre-Mons Albanus di
Beatrice, descrivendo per lei quello che avveniva per i generali e gli
imperatori di Roma, proprio in quello stesso luogo sacro: il tempio
di Giove alla sommità del mons Albanus-Monte Cavo.
Ma non è finita.
Nel canto successivo, il XXX, Dante vede finalmente la sua
donna trionfante.
Ecco come Beatrice gli appare:
28. così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori,
31. sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.

Straordinario!
Beatrice appare al poeta vestita di bianco (candido vel),
verde (manto), e rosso (veste color di fiamma viva).
Certamente nessuno vorrà credere ad una semplice casualità.
I colori sono sicuramente simbolici.
Ma anche qui le letture del testo sono di diverso grado.
Quella dei commentatori “scolastici” leggono solo il significato
più superficiale, quello riferito alla simbologia cristiana. Allora il
bianco, il rosso ed il verde altro non sono che i colori delle virtù teo-
logali: Fede, Speranza e Carità.
La Via di Dante 141
Ma ai commentatori più attenti non sembri una semplice coinciden-
za il fatto che quei colori siano proprio gli stessi che fanno parte della
simbologia di Diana nella quale il bianco è quello lunare, il verde
appartiene alle selve e il rosso distingue la regina degli inferi.
Ma i livelli di lettura non sono finiti.
Se scendiamo a quello esoterico, troviamo ancora altre sorprese.
Vediamo cosa ne pensa lo scrittore francese René Guénon, il
nostro esperto studioso di Dante e di esoterismo.
Per lui i tre colori sono anche quelli di un’altra immagine sim-
bolica, che può aiutarci in quest’opera di identificazione del luogo
ispiratore del Vate.
A questo proposito vediamo cosa pensa quel grande studioso.
“Ora si trova che alcuni dignitari inferiori della Massoneria
Scozzese, la quale pretende risalire ai Templari, e di cui Zerbino, il
principe scozzese, l’amante di Isabella di Galizia, è la personifica-
zione nell’Orlando Furioso dell’Ariosto, si intitolano ugualmente
principi, Principi di Mercede; che la loro assemblea o capitolo si

La Madonna della Rivelazione


apparsa a Roma alle Tre Fontane.

a Dalla descrizione di
Bruno Cornacchiola,

b
di fede protestante, che ebbe con i
figli le visioni alle Tre Fontane, a
Roma, a partire dal 12 aprile 1947,
la Madonna indossava:
a- una mantello verde:
b- una tunica bianca;
c- una fascia rosa
(rossa) alla vita.
Il bianco, il rosso ed il verde,

c insomma, compaiono a Roma,


negli abiti indossati dalla
Vergine Maria
proprio come quelli che
la tradizione più antica attribuisce
alla dea Diana e come quelli che
Dante fa indossare a Beatrice che
giunge nel Paradiso Terrestre.

142 La Via di Dante


chiama il Terzo Cielo; che essi hanno per simbolo un Palladium, o
statua della Verità, rivestita come Beatrice dei colori verde,
bianco e rosso(3)...”

Il Palladium è, in realtà, in origine, un oggetto portato nel Latium


da Enea.
Ricordo solo che il Palladium fu sempre conservato nel tempio
di Vesta, a Roma, ma che il tempio di Vesta in origine era nel nemus
ed è portato a Roma con tutto il Palladium, secondo la tradizione,
da Numa Pompilio che frequentava la ninfa Egeria, una delle ninfe
di Diana, che incontrava proprio nel nemus, vicino alle rive del pic-
colo lago, in una grotta in prossimità di una fonte, come attesta
un’antichissima tradizione riportata da Ovidio nel libro XIV delle
sue Metamorfosi e ripresa anche da Stazio ne Le Selve.
Cosa fosse in realtà il Palladium, però, non è stato mai chiarito.
Le ipotesi che la tradizione ci ha fatto pervenire attraverso i millen-
ni parlano di una pietra nera, un meteorite, ritenuta sacra proprio per-
ché proveniente dal cielo. Una pietra nera è l’oggetto che i musulmani
conservano nella Cabba, l’edificio per loro più sacro per vedere il quale
milioni di persone si recano ogni anno in pellegrinaggio alla Mecca.
Un’altra versione identifica il Palladium con una statua, che pos-
siede particolari proprietà non meglio identificate.
Proprio per queste sue origini, comunque misteriose, la
Massoneria ne ha fatto la propria statua della Verità e l’ha rivestita
con quei colori che Dante riprende per adornarne il corpo di
Beatrice. Questo fa, non a caso, visto che potrebbe anche aver avuto
presente il luogo da cui trae ispirazione per il monte-purgatorio.
Quel luogo domina dall’alto il nemus, dove regna la dea regina
della conoscenza occulta, la dea Diana-Artemide, i cui colori sim-
bolici sono -da sempre- proprio il bianco, il verde, il rosso.
Ma, a proposito di questi colori, c’è di più. Nella nota (3) del brano
di René Guénon sopra riportato troviamo queste testuali parole:
(3) È per lo meno curioso che questi stessi tre colori siano dive-
nuti precisamente, nei tempi moderni, i colori nazionali d’Italia;
d’altronde si attribuisce abbastanza generalmente a questi ultimi
un’origine massonica, quantunque sia assai difficile sapere da
dove l’idea sia potuta essere direttamente ricavata.
La Via di Dante 143
Non sembri una divagazione senza attinenza.
Nell’ipotesi avanzata da Guénon i colori risalirebbero alla
Massoneria.
La Massoneria, però, come organizzazione segreta è esoterica.
Diana-Artemide è la divinità esoterica per antonomasia e a lei si
rifanno gli ordini esoterici più antichi da cui è derivata la Massoneria.
In realtà questo continuo collegamento con Diana, i suoi simbo-
li, la tradizione esoterica e le scelte -anche dei colori nazionali- rap-
presenta un indiscutibile filo conduttore che ci riporta, in ogni
epoca, direttamente o indirettamente, al territorio dei Colli Albani.
Questo è anche un altro motivo non trascurabile che porta a non
escludere che Dante -esperto di materie esoteriche e come appartenente
all’Ordine dei Rosacroce molto simile alla futura Massoneria- possa
essersi mosso all’interno di questa linea, seguendo -anche inconscia-
mente- una tradizione che risale ai primordi dell’umanità, universal-
mente nota e già contenuta anche nell’opera poetica e letteraria di per-
sonaggi storici che egli conosceva benissimo: Augusto e Virgilio!
Non si è, insomma, ispirato né ad un luogo, né ad un monte qual-
siasi, ma a quello forse più fortemente simbolico di tutta l’antichità
e considerato -universalmente- la culla della romanità e, quindi,
della civiltà moderna.
Tornando al Purgatorio dantesco la cui ubicazione può essegli
stata ispirata dalle caratteristiche e dalla tradizione antica del Mons
Albanus, non possiamo non rilevare che il Paradiso Terrestre non
sarebbe tale se non contenesse l’albero della scienza del bene e del
male, l’albero da cui era proibito cogliere il frutto, pena la punizio-
ne terribile di Dio, che puntualmente si abbatte -nella versione
biblica del mito- su Adamo ed Eva quando si cibano del frutto a loro
proibito di quell’albero, indotti in tentazione da Lucifero.
Nella tradizione primitiva, anteriore a quella biblica, c’è un altro
albero proibito di cui noi abbiamo avuto notizia e che era celeberri-
mo nell’antichità, quello da cui non si poteva strappare non un frut-
to, ma un ramo particolare, magico: il ramo d’oro.
Quell’albero era custodito da un truce personaggio armato di falcet-
to che non faceva avvicinare nessuno, nemmeno se diceva di chiamar-
si Augusto ed era l’uomo più potente della Terra. Quel personaggio

144 La Via di Dante


dominava un piccolo bosco nella radura del quale svettava il grande
albero. Era il rex nemorensis, schiavo e re, sacerdote della dea triforme
che poteva essere affrontato ed ucciso solo da colui che, prima, fosse
riuscito a strappare il ramo d’oro dall’albero sacro.
Il ramo d’oro era, in realtà, una pianta considerata sacra da tutti
i popoli antichi, che ha conservato caratteristiche simboliche fino ai
nostri giorni. È, infatti, la pianta che a Natale i cristiani si scambia-
no ancora oggi come segno di buon augurio e per questo la tengo-
no, spesso, appesa alla porta d’ingresso delle case. È il vischio,
pianta parassita considerata magica e sacra perché nasce e cresce -
come un vero frutto- su alcuni tipi di alberi, come le querce, e per-
ciò non ha radici affondate nel terreno, ma è sospesa -magicamen-
te- tra cielo e terra.
È la pianta che, stranamente ed al contrario di quanto avviene
normalmente, fiorisce proprio a dicembre, quando le sue foglie
sono verdi e quelle della pianta su cui cresce, un tipo particolare di
quercia, comincia a diventare color dell’oro per rimanere di quel
colore tutto l’inverno. A primavera, invece, quando le foglie della
quercia sono di un bel color verde scuro, essa diventa color dell’o-
ro. Il vischio, insomma e come per magia, si distingue sempre dal-
l’albero che lo ospita e si mette in forte evidenza in ogni stagione.
Questo, agli occhi di uomini primitivi, appariva come cosa magica,
e ha dato origine anche a credenze, usi, rituali unici che hanno attra-
versato i millenni restando fortemente radicati nelle tradizioni di
tutti i popoli, fino ad oggi.
È, questo del ramo d’oro unito a quello del suo custode, il rex
nemorensis, proprio per la sua eccezionalità, uno dei rituali più miste-
riosi ed antichi che rimanda -come sostiene James Frazer, autore del
già citato Il ramo d’oro- direttamente alle origini dell’umanità.
Il ramo d’oro è strettamente collegato anche ai viaggi nel mondo
ultraterreno, nel mondo dei morti.
“... il ramo d’oro che Enea, condotto dalla Sibilla, colse prima
nella foresta (quella stessa selva selvaggia dove Dante situa
anche il principio del suo poema), è il ramo che portavano gli ini-
ziati di Eleusi, e che ricorda l’acacia della Massoneria moderna,
pegno di resurrezione e di immortalità. Ma vi è di meglio, e il

La Via di Dante 145


146 La Via di Dante
Cristianesimo stesso ci presenta anche un medesimo simbolismo:
nella liturgia cattolica, è con la festa delle Palme che si apre la
settimana santa, che vedrà la morte del Cristo e la sua discesa agli
Inferni, poi la sua resurrezione, che sarà seguita presto dalla sua
ascensione gloriosa; ed è precisamente il lunedì santo che comin-
cia il racconto di Dante, come indicare che egli si è smarrito nella
foresta oscura dove incontra Virgilio, andando appunto alla
ricerca del ramo misterioso; e il suo viaggio attraverso i mondi
durerà fino alla domenica di Pasqua, vale a dire fino al giorno
della resurrezione”.
René Guénon, L’esoterismo di Dante, pag. 42, Atanòr

Incredibile!
Dante, per Guénon, si smarrisce “nella foresta oscura dove incon-
tra Virgilio, andando appunto alla ricerca del ramo misterioso”!
E dove avrebbe dovuto cercare e trovare Dante quel ramo miste-
rioso, il ramo d’oro?

Il quadro di W. Turner intitolato Il ramo d’oro


ha come sfondo il cratere del lago di Nemi.
Il titolo di questo quadro fu acquisito dal grande etnologo scozzese J. Frazer
per la sua opera più grande, Il ramo d’oro, appunto per sottolineare
come uno dei rituali più antichi della storia dell’uomo
era proprio quello del rex nemorensis, il custode dell’albero del ramo d’oro
che si perpetuava nella valle del piccolo lago nemorense da tempi immemorabili
e risaliva certamente alle origini dell’umanità

La Via di Dante 147


La risposta ormai è ovvia, addirittura scontata anche per il
lettore che converrà con me che l’ipotesi da cui siamo partiti era
solo apparentemente assurda.
In realtà, era la sola possibile, la più ovvia!
Appariva assurda solo perché nessuno, prima d’ora, nonostante
le affermazioni di Frazer e Guénon, aveva collegato -non avendo la
necessaria conoscenza dei siti e delle loro più antiche tradizioni- i
versi danteschi con i luoghi culla della civiltà latina e romana. Si
considerava, e tuttora si considera quanto contenuto e descritto dal
Vate nel suo viaggio poeticamente immaginario, pura invenzione
della sua fantasia non riconducibile ad alcun luogo reale.
Ormai, però, non è più fuori dalla concreta probabilità l’ipotesi
che il bosco sacro a Diana, il nemus, sito sul fondo del cratere
nemorense, svolga il ruolo di selva oscura dove si ritrova Dante e,
naturalmente esteso fin sul monte sacro dei Latini fatto a forma di
tronco di cono, possa essere diventato il modello del Paradiso
Terrestre dantesco. Quel bosco-giardino di delizie, il nemus -un
luogo particolarmente simbolico- dove regnava la dea della prima-
vera, della vita e della morte, regina del mondo dei trapassati, con-
teneva la porta di accesso a quel mondo sotterraneo. Quella porta
era dagli antichi indicata proprio nell’antro custodito dal rex nemo-
rensis e situata nella valle del lago nemorense. L’albero sacro, infi-
ne, quello con il ramo d’oro, era diventato tabù assoluto per tutti e
aveva trasmesso a tutti i popoli il mito del frutto che -da quell’albe-
ro- non era lecito cogliere.
Il Paradiso Terrestre-Monte Cavo, il punto di collegamento tra Terra
e Cielo diventa, allora, anche la porta per accedere all’empireo.
Insomma: quel bosco-parco-circondato=paradiso=παραδεισοσ,
può veramente aver suggerito a Dante la scena delle prime due can-
tiche del suo capolavoro.
Dante, dovendo immaginare un percorso nel mondo dei trapas-
sati e descrivere luoghi ed eventi, si rifà sia alla Bibbia che alle tra-
dizioni che ha appreso dalla storia di Roma, di cui parte integrante
ed inscindibile sono i Colli Albani che furono la culla della latinità,
il luogo d’origine dell’Urbe.
Non c’è in questo, ora, nulla di strano o di forzato.

148 La Via di Dante


Il Poeta sposterà nell’opera sua, idealizzandoli, quei luoghi col-
locandoli prima sotto e poi agli antipodi di Gerusalemme e nessu-
no, per questo, credendoli una sua totale invenzione poetica, li rico-
noscerà mai per quelli reali dei Colli Albani.
Almeno finora!
Questi luoghi, adesso lo si comprende bene, sono anche la sede
della dea di quella conoscenza occulta che non può essere a tutti
rivelata. Così l’inizio del cammino dell’umanità verso la conoscen-
za-dio non può che avvenire nel luogo dove la conoscenza regna da
sempre, ma è celata.
Attraverso questo territorio e attraverso i personaggi simbolici
che qui hanno patria, l’Uomo-Dante potrà scoprire gli elementi -il
Veltro-macchina da stampa e Matelda-libro- che consentiranno di
diffondere facilmente la conoscenza tra tutti gli uomini.
Questo ci dicono tutti insieme gli elementi che abbiamo indivi-
duato nel territorio dei Colli Albani in generale e in quello nemo-
rense in particolare.
L’ipotesi di partenza, che sembrava tanto scioccamente
assurda da essere considerata fantasia di un visionario, è diven-
tata talmente realistica che ormai non possiamo più ritenere
quell’ipotesi che verità assolutamente ovvia e, addirittura, del
tutto scontata.
E dire che Dante aveva indicato così chiaramente la sua veri-
tà ponendola così bene in vista che nessuno è riuscito mai a
vederla per sette secoli, nonostante gli infiniti tentativi da tutti
fatti per rintracciarla.
La cosa più difficile da vedere e da riconoscere, come è noto e
come bene doveva sapere anche Dante, è sempre quella che abbia-
mo proprio sotto ai nostri occhi.

La Via di Dante 149


ALTRE CONFERME
Quale validità possono avere le considerazioni fin qui esposte?
C’è qualche studioso che può confermare almeno in parte queste
ipotesi?
Perché nessuno tra i commentatori ha mai affrontato questi temi?
Possibile che in sette secoli di studi continui ed approfonditi nes-
suno si sia mai accorto di questi possibili accostamenti?
La risposta a tutte queste domande, con ogni probabilità, è: sì, è pro-
prio possibile. Nessuno ha mai pensato a fare un simile accostamento.
Abbiamo visto, però, che, per sua stessa ammissione, certamen-
te Dante si è ispirato a cose reali prima di tradurle in poesia.
Come abbiamo visto, confermare questa ipotesi non è stato solo
trovare un motivo di orgoglio albano o, meglio, nemorense. Ha
significato anche porre le basi per una rilettura di Dante nuova, ori-
ginale e, forse, finalmente più corretta, con la convinzione insom-
ma, di aver intrapreso la... diritta via.
Anche per chiarire le modalità con cui Dante “costruisce” la sua opera,
ora sarebbe utile approfondire il problema delle conoscenze di Dante -e
non solo di Dante- riguardanti quello che noi chiamiamo al di là.
Il suo “viaggio” nell’ultraterreno, insomma, è unico ed originale?
Certamente no, se consideriamo già la letteratura classica.
Come è universalmente noto già Virgilio ed Omero avevano
descritto un viaggio (di Enea ed Ulisse) nell’oltretomba.
Ma nemmeno nel medioevo mancano esempi di simili viaggi.
I cristiani, dopo l’affermazione della loro come unica religione
dell’Impero Romano, dopo il lungo periodo di decadenza sussegui-
to alla fine di quell’Impero, dopo secoli di esercizio del potere tem-
porale dei papi, sono ormai convinti che la loro visione delle cose
ultraterrene sia una loro esclusiva prerogativa. Considerano ormai
come lontane superstizioni le antiche religioni che spregiativamen-
te hanno definito “pagane”. Considerano nemici da combattere e
distruggere coloro che professano l’islamismo, la religione del pro-
feta Maometto, che ritengono inferiore e considerano, ricambiati,
infedele chi la professa. Si sentono, insomma, i depositari dell’uni-
ca verità, quella contenuta nel libro sacro scritto direttamente da
150 La Via di Dante
Dio: la Bibbia, l’Antico e il Nuovo Testamento.
I teologi cristiani in questi secoli hanno messo a punto anche
tutto quello che riguarda Inferno, Purgatorio, Paradiso e Limbo. Per
i cristiani questi sono gli unici luoghi veri che esistono nell’al di là.
Luoghi che accoglieranno le anime dei morti a seconda del giudizio
divino che avranno meritato con la loro vita.
Ancora una volta dobbiamo chiederci: è proprio così?
Per i contemporanei di Dante sì, era quella l’unica verità, ma
solo per chi non aveva il dono della conoscenza.
Quel dono, in verità, era riservato a pochi: quelli che sapevano leg-
gere e scrivere, ma di questi, rarissimi erano i casi di coloro che aveva-
no conoscenze che andavano al di là di quanto era consentito sapere.
La stragrande maggioranza degli uomini era analfabeta e viveva
in condizioni in cui di tutto poteva interessarsi meno che di mettere
in dubbio le “certezze” espresse dalla religione di Cristo e dalla
Chiesa di Roma.
Erano i tempi in cui chi non condivideva la rigida impostazione
cattolica e romana rischiava di finire torturato e messo al rogo. La
mentalità diffusa era, dunque, quella di considerare come dogmi di
fede tutte quelle cose che la religione predicava, ma non erano spie-
gabili con la sola logica.
Chi poteva mai immaginare che inferno, purgatorio e paradiso
non fossero i luoghi promessi o minacciati come premio o punizio-
ne per il proprio comportamento in questa vita terrena e riservati
solo ai credenti e battezzati?
La più lampante dimostrazione di ciò la dà proprio Dante che
colloca al Limbo i non battezzati e tra questi -abbiamo visto- anche
i grandi uomini vissuti prima di Cristo.
Credere in questo, accettarlo era, insomma, cosa scontata, non
messa in discussione da alcuno.
Ma era proprio vero, questo?
Per la verità, non è proprio così.
Periodicamente tornava “di moda” l’eresia più tenace: lo gnosti-
cismo. Prendeva ogni volta un nome diverso, ma era sempre la stes-
sa credenza che si tramandava da molti secoli, addirittura da prima che
Cristo nascesse. Era una filosofia antica e proveniva dall’Oriente,

La Via di Dante 151


dall’Iran, dall’India e si era diffusa anche nella parte meridionale della
Gallia, quella che diventerà, poi, la regione della linguadoca.
Era proprio questa particolarità che aveva attirato la mia atten-
zione. Avevo riscontrato ancora una volta una strana correlazione
tra questa regione e i Colli Albani. Non era una mia fissazione, però,
ma il susseguirsi di eventi che qui finivano per avere -per un moti-
vo o per l’altro- il loro luogo di riferimento.
Quali erano, questa volta, gli eventi particolari? Potevano avere
una qualche validità? Vediamo.
Una delle storie, per lo più sconosciute, del territorio dei Colli
Albani vicini al nemus, da me riportate all’attenzione del pubblico
con il libro Dalla Pentima del Piccione, riguarda le vicende locali
della famiglia degli Antonini che ha dato tre imperatori alla storia di
Roma: Antonino Pio, suo figlio adottivo e poi genero, Marco
Aurelio e il figlio di questi, Commodo, la pecora nera della famiglia
che un moderno film holliwoodiano, Il Gladiatore, ha riportato
all’attenzione del mondo intero.
Questi personaggi sono ormai collegati con certezza al nostro
territorio perché qui sono stati riportati alla luce e si vogliono valo-
rizzare i resti della grandiosa villa in cui hanno vissuto e che si trova
al limite della zona artigianale di Genzano, un tempo territorio della
città latina di Lanuvium.
Meno nota è, invece, la provenienza della famiglia.
Rivediamo quanto riportato già nella mia opera:
La famiglia di Antonino aveva soggiornato a lungo nella città di
Nemauso, nella Gallia narbonense, regione della Francia che
oggi chiamiamo Linguadoca.
Quella regione, stranamente, sarà collegata con la vicenda delle tre
Marie (Maria di Nazareth, Maria di Magdala, Maria di Cleofe) che
la tradizione vuole sbarcate in Gallia con il Santo Graal.
Gli abitanti di quella regione manterranno la caratteristica di popo-
lo particolarmente attento alle vicende religiose preferendo un
atteggiamento gnostico (ricerca della conoscenza) verso il cristia-
nesimo e poco allineato con gli insegnamenti del Papa di Roma.
Gli gnostici della Francia meridionale subiranno, per questo, una
sanguinosissima repressione da parte degli eserciti della Chiesa di
Roma che scatenò contro di loro una vera e propria crociata che si
concluse con il terribile rogo di Montségur del 16 marzo 1244.
152 La Via di Dante
Da questa terra erano partiti per la loro infelice avventura anche i
Cavalieri del Tempio, i celeberrimi Templari e la setta che li originò,
il Priorato di Sion di cui ricoprirono la carica di gran Maestro prima
Sandro Botticelli e poi Leonardo da Vinci. Al priorato di Sion fu in
qualche modo legato anche Dante Alighieri che, non a caso, fa del-
l’autore della regola del priorato, Bernardo di Chiaravalle, la sua guida
verso la Madonna e gli mette in bocca la stupenda preghiera che ini-
zia con il celeberrimo verso: “Vergine Madre figlia del tuo figlio...”
Tutte queste vicende hanno ispirato molti studi tra i quali Il Santo
Graal, una ricerca storica, curata da M. Baigent, R. Leigh, H.
Lincoln, che a sua volta ha fornito lo spunto per la storia narrata nel
discusso romanzo di Dan Brown, Il Codice da Vinci, best seller
mondiale, campione assoluto di vendite, diventato anche film di
grande successo.
Quella regione della Francia, insomma, è fortemente “sospetta” di
eresia fin dall’origine del Cristianesimo, al punto che un altro ricer-
catore francese arriva a sostenere una stretta connessione tra la
famiglia romana dei Pisoni e gli estensori dei Vangeli.
I Pisoni sono imparentati con Caio Giulio Cesare che ha sposato la
figlia di Calpurnio Pisone in casa del quale si apre il testamento di
Cesare dopo il suo assassinio.
Un altro Pisone, Lucio, sposa una pronipote di Erode il Grande ed
è ucciso da Nerone insieme a Seneca.
Ario Pisone, Governatore della Siria, figlio di Lucio [e della proni-
pote di Erode, n.d.a.], fa uccidere Nerone e sostiene Vespasiano che
diventa imperatore. Pompeia Plotina della gens dei Pisoni sposa
Traiano, altri membri della famiglia diventano amici e sostenitori di
Aurelio Fulvo che è proconsole nella Gallia Nerbonense nel sud
della Francia finché non si trasferisce a Lanuvium, dove nasce
suo figlio: Antonino Pio.
Ancora una volta si scoprono strani legami poco noti e quasi mai
studiati -sempre del tutto casuali?- tra il territorio della dea Diana e
del dio Giano e i più antichi e fitti misteri della nostra storia.
Per tornare alla villa degli Antonini, è così chiamata perché tra le
sue rovine furono trovati i busti dei membri della famiglia: da quel-
lo di Antonino Pio, a quello della figlia, Annia Galeria Faustina, che
fu moglie del figlio adottivo di Antonino destinato già
dall’Imperatore Adriano a succedergli nell’Impero. Quel figlio
visse per molti anni proprio nella villa lanuvino-genzanese, e
divenne uno dei più grandi e più celebri Imperatori di Roma, uno
La Via di Dante 153
degli uomini più grandi che l’Umanità abbia mai generato: Marco
Lucio Vero Aurelio, più noto come Marco Aurelio, la cui statua
equestre è esposta all’attenzione del mondo intero sulla piazza del
Campidoglio, a Roma, ammirata, oggi più che mai, da milioni di
turisti ogni anno.
G. Di Benedetti, La Pentima del Piccione, Ventucci editore, settembre 2008,

Questi i collegamenti singolari tra le due regioni.


Torniamo ai Catari ed alla loro dottrina.
Essenza di questa dottrina non era soltanto la consapevolezza
che Dio è conoscenza e che la conoscenza andava perseguita sopra
ogni altra cosa, ma anche la convinzione che per elevarsi fino a rag-
giungere la conoscenza bisognava percorrere un cammino che par-
tiva dagli Inferi e conduceva, attraverso uno stadio che corrispon-
deva al Purgatorio, fino a raggiungere la piena coscienza di sé che

I resti della villa di Antonino PIo dove visse Marco Aurelio


per gran parte della sua vita e dove nacquero tutti i suoi figli, compreso Commodo.
La villa si trovava ai margini dell’Appia Antica, nel territorio
della città latina di Lanuvium, ora parte del territorio della città di Genzano.
Sembra che la villa si estendesse fino ad arrivare sul bordo
del cratere del lago nemorense.

154 La Via di Dante


dava modo di accedere alla luce della conoscenza che si ritrovava
nei cieli, simbolo del paradiso.
Esprimo sinteticamente e semplicemente quello che traggo dal-
l’opera di Guénon già citata e a cui rimando il lettore che desidera
approfondire l’argomento.
Seguendo Guénon, si apprende che Dante è uno di quei pochi
che, al suo tempo, aveva conoscenza della cultura araba e di
quella più antica che risaliva all’Iran e all’India. Il viaggio nel-
l’altro mondo attraverso i tre regni -inferno, purgatorio, para-
diso- era comune anche nella letteratura orientale che Dante
non poteva non conoscere e questo è il motivo che mi fa affer-
mare che Dante può conoscere i documenti scritti dai Sumeri.
In particolare egli doveva aver avuto cognizione dell’opera del
grande poeta arabo Mohyiddin ibn Arabi cui si ispira certamente per
la sua Commedia. Egli costruisce, insomma, il suo fantastico viag-
gio nell’altro mondo non solo sulla dottrina esclusiva cristiana o
sulla conoscenza di Virgilio ed Omero, ma ricalca pesantemente
anche le conoscenze, allora universali, patrimonio di tutte le cul-
ture provenienti dall’oriente in generale e delle opere di
Mohjiddin in particolare.
Così, nell’Islam, incontriamo l’episodio del “viaggio notturno” di
Mohammed, comprendente ugualmente la discesa alle regioni
infernali (isrà), poi l’ascensione nei diversi paradisi o sfere cele-
sti (miràj); e certe relazioni di questo “viaggio notturno” presen-
tano con il poema di Dante delle similitudini particolarmente sor-
prendenti, a tal punto che qualcuno ha voluto vedervi una delle
fonti principali della sua ispirazione.
Don Miguel Asin Palacios ha mostrato i molteplici rapporti esi-
stenti, per il fondo e anche per la forma, fra la Divina Commedia
(senza parlare di certi passaggi della Vita Nuova e del Convito),
da una parte, e, d’altra parte, .l Kìtab el-isrà (Libro del Viaggio
notturno) e le Futùhàt el-Mekkiyah (Rivelazioni della Mecca) di
Mohyiddin ibn Arabi, opere anteriori di ottanta anni circa, e con-
clude che queste analogie sono più numerose da sole di tutte quel-
le che i commentatori sono pervenuti a stabilire fra l’opera di
Dante e le altre letterature di ogni paese.
René Guénon, L’esoterismo di Dante, Editrice Atanòr, 2004, pag. 43

La Via di Dante 155


Dante, insomma, si muove all’interno di una cultura antica che
è giunta fino a lui; ha le sue fonti da cui attinge a piene mani tra-
sportando nella sua poesia elementi anche importanti che trasfor-
ma secondo la sua visione. Quasi nessuno si accorge delle sue fonti
“esoteriche”.
La Commedia, insomma, è opera grande ed originale, ma si ali-
menta della cultura universale che egli conosce a dispetto dei divie-
ti di quella Chiesa di Roma che, come abbiamo visto, egli non ha
particolarmente a cuore.
È opera che, come tutte le grandi opere del passato, è esposta in
modo che tutti possano comprendere il primo livello di lettura, men-
tre i successivi tre livelli sono riservati solo a coloro che hanno via
via le cognizioni giuste per poterli comprendere.
L’ultimo livello, poi, è riservato solo ai grandi iniziati.
È un metodo da sempre in essere, non un’invenzione di Dante,
ma Dante lo usa e lo fa a suo rischio e pericolo.
I significati reconditi dei suoi versi più importanti, infatti, non
sono compresi nemmeno da chi ha il compito di controllarlo e que-
sto lo aiuta a salvarsi, almeno fino alla pubblicazione della cantica
del Paradiso, dalle accuse di eresia.
La Commedia, infatti, è pubblicata mano a mano che viene composta.
La prima cantica, l’Inferno, sembra fosse nota fin dal 1317.
Siamo a pochi anni dalla distruzione dell’Ordine del Tempio di
Salomone e i Templari sono stati praticamente sterminati dopo esse-
re stati sottoposti ad atroci torture e ad iniqui processi.
L’inquisizione lavora a pieno ritmo.
Forse, uno dei motivi per cui Dante può continuare indisturbato a
comporre è che il significato misterioso contenuto nella profezia del
veltro e in altri “passi oscuri” non è stato -fortunatamente per lui- com-
preso da alcuno, nemmeno dai dotti suoi nemici della curia romana. O
meglio, poiché non poteva essere compreso dalla generalità dei lettori,
nemmeno la Chiesa gli dava peso.
Il Purgatorio sembra già essere divulgato nel 1319.
L’allarme tra le gerarchie della Chiesa di Roma ormai si deve
essere diffuso, ma il pericolo è ancora relativamente lontano. Chi
può comprendere il vero senso degli ultimi canti? Praticamente nes-

156 La Via di Dante


suno, ma l’allarme cresce.
La cantica del Purgatorio, i cui canti finali sono fortemente
sospetti, prelude a quella del Paradiso che Dante non fa in tempo a
vedere pubblicata.
Tutti gli storici e commentatori sanno che il poeta fu incaricato
di una missione a Venezia dal suo Mecenate, Guido Novello da
Polenta, nipote di Francesca da Rimini, che temeva una guerra con-
tro di lui da parte dei veneziani.
È l’estate del 1321.
La missione si conclude positivamente e, poco dopo la metà di agosto,
Dante riparte per Ravenna. Il percorso lo porta a passare per le paludose
valli di Comacchio. Qui, evidentemente, è punto da una provvidenziale
zanzara. Si ammala di malaria e pochi giorni dopo, nella notte tra il 13 e
14 settembre, muore.
Tutto appare credibile e vero e, forse, per puro caso, lo è davvero.
La cantica del Paradiso verrà pubblicata da suo figlio.
Il successo dell’opera completa sarà totale e immediato.
La Commedia sarà considerata uno dei capolavori più grandi che
mente umana abbia mai concepito e prodotto.
Anziché opera eretica, da rogo, qual era se fosse stato compreso
da tutti il suo vero significato, diventerà un inno alla gloria di Dio con
la benedizione della Chiesa di Roma contro cui era stata scritta.
I più grandi letterati, da allora in poi, riconosceranno la gran-
dezza del poeta fiorentino e anche se
“non mancarono in verun tempo, e nemmeno tra i suoi sedicenti
amici, gl’invidiosi, i detrattori, i calunniatori... Dante fu il più popo-
lare di tutti i poeti d’Italia, benché il suo poema non fosse per
avventura letto da molti, ed in ogni caso non inteso che da
pochissimi. Anche le tante poesie, dettate su Dante e le sue opere,
mostrano che l’Alighieri è non forse il più popolare, ma certo il
più universale di tutti quanti i poeti”.
G.A. Scartazzini, N. Scarano, Dantologia vita e opere di Dante Alighieri,
pag. 212, pag. 215, da Ulrico Hoepli, 1894, edizione recente Cisalpino-Goliardica

Motivo di forti contrasti, anche tra i suoi estimatori, destarono le


sue spoglie mortali che non ebbero la degna sepoltura che il suo
mecenate voleva tributargli e rimasero così conservate
a Ravenna presso la Chiesa di San Francesco, denominata allora
La Via di Dante 157
San Pier Maggiore, nella cappella della Madonna, in umile sepol-
cro per la brevità del tempo. Guido Novello, il quale lesse l’elogio
funebre dell’Alighieri, si proponeva di erigergli un mausoleo son-
tuoso, il quale poi non gli fu dato di recare a compimento, perché
poco tempo dopo (20 settembre 1322) tradito da Ostasio suo fratel
cugino, gli mancò lo stato, che egli invano cercò di riacquistare, e
finì di vivere nel 1330, nove anni dopo la morte del Poeta. Oltre un
secolo e mezzo le ossa di Dante giacquero in oscura tomba e furo-
no anzi in pericolo di essere dissotterrate e sparse al vento per
l’odio che il Cardinale Bertrando del Poggetto Legato di Papa
Giovanni XXII in Bologna portava all’autore del trattato De
Monarchia. Nel 1483 Bernardo Bembo, padre del cardinale, venu-
to in Ravenna per la Veneta Repubblica pretore, volle dare opera al
proposito di Guido Novello facendo erigere al sommo Poeta un
magnifico monumento, lavoro dell’artista Pietro Lombardi. Questo
monumento fu poi ristaurato nel 1692 per opera del governatore
Domenico Corsi Legato, ed abbellito e circondato da un Tempietto
nel 1780 per cura del Cardinale Valenti. Per causa del sacro sepol-
cro di Dante il Cardinale Legato Corsi ebbe a sostenere una forte
lotta coi Padri Conventuali di San Francesco, i quali, troppo gelosi
a sostenere e difendere il sacro deposito delle ossa del sommo Poeta
che essi ritenevano appartenere all’Ordine loro, usarono di tutte le
sollecitudini possibili per non avere a perderlo giammai. A mezzo
del Padre Antonio Santi essi lo levarono pertanto nel 1677 dal
luogo conosciuto per nasconderlo in uno dei muri poco distante dal
primo, onde rimanesse ferma la verità storica, che quivi era sempre
stato il Sepolcro di Dante. Le cure del Municipio di Ravenna di
voler nella occasione del sesto Centenario dar maggior lustro al
Tempietto collo sgombro dei muri e delle fabbriche che intorno vi
erano, dettero luogo alla scoperta del prezioso tesoro, trovandosi il
27 maggio 1865 in un muro sopra terra la Cassetta del Frate Santi
con entro, come si credette e si crede generalmente, le ossa genui-
ne del Gran Poeta.
G.A. Scartazzini, N. Scarano,
Dantologia vita e opere di Dante Alighieri, pagg. 199-200,
da Ulrico Hoepli, 1894, edizione recente Cisalpino-Goliardica

Come si vede, le peripezie di Dante non finiscono con la sua


morte. Proseguono con una disputa anche sulla possibilità di dargli
una sepoltura più degna. Ma non è tanto questo il punto che ci inte-

158 La Via di Dante


ressa, quanto indagare sulle cause vere della sua morte.
Tutto normale, tutto regolare?
A vedere quanto scritto finora da tutti gli studiosi su poeta e
opera, sembrerebbe di sì.
Sembrerebbe soltanto, però, perché già una rilettura delle vicen-
de note getta più di un’ombra proprio sulla fine improvvisa del
Vate, anche se nessun sospetto sull’imprevedibile, immatura scom-
parsa del grande fiorentino è mai stata avanzata.
La Commedia, col tempo, è addirittura diventata Divina, con
l’ulteriore benedizione della Chiesa Romana e con l’ammirazione
di tutti i credenti che vedono nell’opera di Dante, ancora oggi, un
sublime inno alla religione di Cristo.
Ma sono proprio andate come abbiamo sempre creduto le vicen-
de finali della vita del Poeta?
Abbiamo visto nella prima parte di questo lavoro come il fine
che Dante si proponeva fosse molto diverso da quello che si è sem-
pre creduto e che quello scopo doveva essere talmente inviso ai capi
della Chiesa romana che poteva diventare addirittura elemento di
serio pericolo per la vita dell’Autore di cotanta opera.
Man mano che le cantiche sono completate, come di norma,
sono anche indagate, decifrate, valutate da chi vuole avere sempre
il controllo di tutto.
Quando l’opera è conclusa, la malaria interrompe -provviden-
zialmente- la vita dell’Autore.
È come se il destino-fato-volontà divina avesse stabilito che l’o-
pera poteva vivere, ma senza il suo Autore, perché così nessuno
avrebbe mai potuto svelare il vero senso dei suoi... versi strani.
Coincidenze fortuite, cause naturali, destino?
Sì, certo. Forse. Oppure no?
Prima di rispondere a quest’ultimo interrogativo, cerchiamo di
comprendere finalmente e fino in fondo il vero significato dell’ope-
ra completa di Dante.

La Via di Dante 159


IL SEGRETO SVELATO?

Abbiamo visto fin qui quale può essere stata la fonte di infor-
mazione e di ispirazione di Dante per costruire la scena.
Ma entrando nel merito del senso nascosto, oltre alla compren-
sione della profezia del veltro, quale altro significato si è del tutto
chiarito e quali conseguenze ha determinato nella vita del Poeta?
Per rispondere a queste domande dobbiamo salire con Dante e
Beatrice nell’empireo.
Non ci interessa molto, però, per il momento, seguirlo nei vari
cieli. Per raggiungere il nostro scopo passiamo direttamente alla
parte finale, anche se eventi, al momento imprevedibili, mi costrin-
geranno, più in là, a “ripartire” dal Paradiso Terrestre.
Dante è giunto al cospetto della Vergine Maria. Lo accompagna
un personaggio notissimo, allora come oggi: San Bernardo da
Chiaravalle.
Non appena vede la Madre del Cristo, Bernardo si rivolge a Lei
con i versi più belli di tutta la Commedia anche se quelli determi-
nanti verranno subito dopo, fino alla fine del canto e del poema:
Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
3. termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
6. non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l’amore
per lo cui caldo ne l’etterna pace
9. così è germinato questo fiore.
Qui sei a noi meridiana face
di caritate, e giuso, intra’ mortali,
12. se’ di speranza fontana vivace.
Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
15. sua disianza vuol volar senz’ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fiate
18. liberamente al dimandar precorre.

160 La Via di Dante


In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
21. quantunque in creatura è di bontate.
Or questi, che da l’infima lacuna
de l’universo infin qui ha vedute
24. le vite spiritali ad una ad una,
supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
27. più alto verso l’ultima salute.
E io, che mai per mio voler non arsi
più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi
30. ti porgo, e priego che non sieno scarsi,
perché tu ogne nube li disleghi
di sua mortalità co’ prieghi tuoi,
33. sì che ‘l sommo piacer li si dispieghi.
Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
36. dopo tanto veder, li affetti suoi.
Vinca tua guardia i movimenti umani:
vedi Beatrice con quanti beati,
39. per li miei prieghi ti chiudon le mani!”

Ma perché Dante fa pronunciare la preghiera non a Beatrice, ma


a Bernardo? Chi era e quali meriti vantava il santo?
Vediamolo.
Bernardo da Chiaravalle, Clairvaux in francese (Fontaines-lès-
Dijon 1090- Clairvaux 1153), giovanissimo si fece benedettino per
passare poi al monastero di Citeaux cui darà tanto lustro da farne il
centro di una mirabile fioritura spirituale con conseguente fortissi-
ma espansione dell’Ordine fondato nel 1098 da S. Roberto nello
stesso monastero da cui aveva preso il nome (Citeaux deriva dal
latino Cistertium, da cui cistercense). Nel periodo di maggor splen-
dore l’Ordine arrivò ad avere oltre settecento monasteri in Europa,
una vera e propria potenza, non solo spirituale.
Bernardo, nonostante ami la contemplazione e la solitudine, darà
un formidabile impulso al suo ordine di cui è il secondo e più
importante fondatore. Si occupò
“dei problemi della chiesa universale e dell’impero. Illustrò i dirit-
La Via di Dante 161
ti e i doveri dei vescovi anche davanti all’autorità civile; espose i
fondamenti teorici della guerra contro gli infedeli; si occupò degli
ordini militari, in particolare dei Templari, dei quali redasse la
regola; intervenne in numerose contese tra principi e sovrani; par-
tecipò a numerosi concili... preparò con zelo infaticabile la secon-
da crociata, il cui fallimento gli fu causa di grande amarezza.
Diffidente della dialettica e della pura speculazione, fu invece ora-
tore efficacissimo, asceta illuminato e grande mistico. I suoi scrit-
ti, soprattutto quelli in lode della Vergine, il suo commento al
Cantico dei Cantici, il suo trattato De diligendo Deo (sui gradi del-
l’amore), sono da considerarsi tra i testi di primo piano della misti-
ca cristiana occidentale. Fu chiamato... il Cavaliere di Maria, per
la filiale devozione che ebbe verso la Vergine: per questo Dante, al
termine del suo viaggio, volle porre sulle labbra di Bernardo la
sublime preghiera a Maria... Fu canonizzato da Alessandro III
(1174)...
Nuova Enciclopedia Internazionale, IV, pag.414,
A. Curcio Editore -Edizione curata da Groiler Editore.

Molto sinteticamente ecco chi è stato Bernardo da Chiaravalle-


Clairvaux: l’animatore della vita della Chiesa in un periodo molto
particolare, quello delle crociate, della nascita dell’Ordine dei
Cavalieri del Tempio di Salomone, di cui scrive la regola.
Alla sua morte, anno 1153, unanimi sono ancora i consensi sulla
sua opera tanto che è innalzato agli onori degli altari dopo soli ven-
tuno anni, nel 1174.
L’Ordine da lui rifondato, quello dei Cistercensi, domina incon-
trastato la vita spirituale e i suoi monasteri invadono l’Europa det-
tando anche le regole per la costruzione delle chiese, imponendo lo
stile cistercense, una specie di gotico moderato, senza fronzoli e
senza esagerazioni.
Le capacità costruttive sono una particolare caratteristica dei
Cistercensi, il frutto della continuità con i segreti dei costruttori
romanici che venivano tramandati di generazione in generazione da
una ristretta cerchia di Maestri Muratori. Proprio Maestri
Muratori si chiamano ancora i componenti dell’organizzazione
“segreta” della Massoneria che tramanda le sue conoscenze dai
tempi più antichi.

162 La Via di Dante


Settant’anni dopo la sua canonizzazione, le condizioni all’inter-
no della Chiesa di Roma sono molto cambiate. Innocenzo III, d’ac-
cordo proprio con il capo dell’Ordine dei Cistercensi, spazza via i
Catari della Langue d’oc, la regione di origine dei Templari.
Gli appartenenti all’Ordine del Tempio, già in rotta di collisione
con il re di Francia e con la Chiesa di Roma, finiranno torturati e
condannati a morte nel 1307, proprio quando Dante sta scri-
vendo la prima parte della sua opera più importante.
A quel punto Bernardo non è più solo il simbolo del misticismo
cattolico. Per Dante la sua figura diventa il simbolo della rivolta
contro il prepotere, l’arroganza, la ferocia dei capi della Chiesa
romana.
Dante lo sceglie apparentemente per la fede da lui dimostrata in
vita per la Vergine Maria, in realtà quale simbolo di una reazione
all’operato della Chiesa, ora presieduta da papa Bonifacio VIII che
il Poeta deve aver giudicato non meno feroce di Innocenzo III.
Ma perché lo gnosticismo dei Catari-Albigesi era così pericolo-
so agli occhi di Innocenzo III e di Arnauld-Amaury? Cosa si
nascondeva dietro la crociata contro i Catari? Perché, all’inizio del
‘300, i Templari erano stati messi al bando e distrutti? Per quale
motivo la figura di San Bernardo assume un significato fortemente
simbolico per Dante?
Vediamo cosa si può leggere oggi su una qualsiasi enciclopedia
per famiglie, la Nuova Enciclopedia Internazionale, che già abbia-
mo utilizzato per illustrare sinteticamente la figura di san Bernardo
da Chiaravalle, a proposito dell’eresia gnostica che condanna i
Catari.
“La gnosi (conoscenza) è la conoscenza in sé, sapere assoluto e
totale, che abbraccia ogni cosa, permette di risolvere qualsiasi pro-
blema filosofico e religioso relativo alla Divinità, all’Uomo e
all’Universo. Si tratta quindi di una conoscenza puramente intuiti-
va che procura, ai pochi che ne sono i beneficiari, una illuminazio-
ne immediata e completa della verità che porta con sé la salvezza.
‘Conoscenza non intellettiva, ma religiosa, rivelata per mezzo della
quale l’uomo cerca di penetrare nel segreto di Dio e nel rapporto
tra Dio e il mondo-uomo. Questa conoscenza di Dio opera imme-
diatamente, non come premessa o mezzo, la Redenzione. Chi poi ha

La Via di Dante 163


percorso le differenti fasi della conoscenza rivelata, è perciò stesso
redento’. Lo gnosticismo quindi appare come una reazione di un
essere ‘gettato nel mondo’, che realizza il carattere sostanzialmen-
te cattivo, ‘assurdo’, del mondo materiale, al quale egli è ‘estra-
neo’. Attraverso una illuminazione personale, lo gnostico prende
coscienza: 1) della sua triste sorte nel mondo attuale; 2) della
possibilità, anzi della necessità, ch’egli ha di essere salvato...
Dal punto di vista teologico, lo gnosticismo consiste nel credere che
solo attraverso la gnosi, l’individuo può essere salvato, e non
con la fede o le opere. La gnosi è poi essenzialmente soggettiva...
... Elementi dello gnosticismo come il sincretismo e un misticismo
razionalistico perdurarono nelle sette ereticali del Medio Evo (cata-
ri) e sono ancora vivi nella teosofia, nel surrealismo e in molte sette
segrete moderne”.
Nuova Enciclopedia Internazionale A. Curcio Editore,
Edizione curata da Groiler Editore.

La visione di Dio: la luce che contiene tutto il sapere che Dante


vede in una illuminazione brevissima, come in un sogno, che non
può ricordare, ma che lo innalza al livello degli angeli.
La luce-conoscenza-dio si ricollega alla profezia del veltro-
stampa e ad essa si somma facendo diventare Dante personaggio
oltremodo scomodo, oltre che pericoloso, per la dottrina della chie-
sa del suo tempo.
Sulla pubblicazione del Paradiso la data non è certa. Alcune fonti
la fanno risalire a pochissimi giorni prima della malattia contratta
nelle paludi di Comacchio, poco dopo la metà di agosto del 1321 e
la conseguente morte avvenuta tra il 13 e il 14 settembre successi-
vo. Altri vogliono che la pubblicazione dell’opera completa sia fatta
solo dopo la morte dell’Autore ad opera dei suoi figli.
La malattia contratta è la malaria, il periodo è in piena estate.
Su questa vicenda finale della vita del Poeta nessuno ha mai
avuto sospetti. Non era difficile morire di malaria, in quei tempi e
fino quasi ai giorni nostri.
Dante era andato a Venezia su incarico di Guido Novello e lì
aveva svolto la sua missione. Per tornare a Ravenna doveva attra-
versare le paludi di Comacchio. Nessuna meraviglia, dunque, che in

164 La Via di Dante


palude -regno della zanzara anòfele la cui puntura provoca quella
malattia- il Poeta possa aver contratto una grave forma di malaria
che in poche settimane doveva condurlo alla morte.
Una vicenda del tutto normale anche se sfortunatissima, visto
che l’ultima Cantica della sua Commedia era stata appena finita e la
pubblicazione dell’opera intera gli avrebbe riservato un grande suc-
cesso.
Ma sono andate proprio così le cose?
Prima di rispondere, vediamo quel che sostiene Adriano Petta in
un’opera -Roghi fatui, continuazione della citata Eresia pura- che
sotto forma di romanzo storico riporta in realtà un accurato studio
riguardante proprio il controllo della chiesa di Roma su ogni tenta-
tivo di imporre verità non allineate con le Sacre scritture e con i
rigidi dettami del Vaticano.

La Via di Dante 165


San Domenico e il rogo dei libri eretici,
dipinto di Pedro Berrugguete (1450 -1504).

Illustrazione da: Eresia pura, di Adriano Petta.

166 La Via di Dante


DA ERESIA PURA A ROGHI FATUI, le verità
sulle morti sospette riscoperte da Adriano Petta
L’azione si svolge a Roma. Protagonisti Giorgio da Trebisonda
e il matematico e astronomo Regiomontano.
È il 5 luglio del 1476.
Le tenebre hanno avvolto Roma e uno splendido cielo stellato s’in-
travede nello squarcio dello stretto vicolo sotto il Quirinale. Le due
lanterne gettano un tenue chiarore sull’unico tavolo posto al di fuori
della taverna, dove i due uomini hanno da poco terminato il pasto.
Regiomontano lotta per non provare odio e repulsione verso il vec-
chio seduto di fronte a lui.
Giorgio da Trebisonda ha i capelli bianchi, lunghi e lisci; labbra sot-
tili che inumidisce con la punta della lingua annerita dall’alcol;
occhi neri come il carbone, sguardo sfuggente e voce debole. Il vec-
chio attende che l’oste cambi la carafa di vino, riempie quindi il suo
bicchiere e tracanna con avidità il liquido fresco. Si umetta per
l’ennesima volta le labbra sottili: ”Sei stato uno sciocco, amico mio.
Se questo incontro fosse avvenuto a casa mia, non sarebbe cambiato
nulla... tranne il fatto che il vino sarebbe stato di ottima qualità”.
“E tranne il fatto che avresti fatto fare anche a me la fine del pove-
ro Georg... non è così, figlio del Male?” La voce di Regiomontano
è carica di passione e di rabbia. Ma Giorgio da Trebisonda non fa
caso a tanta emozione.
“Quella fine tu l’hai già fatta, mio giovane e sciocco eroe. Come
Georg Puerbach, Niccolò V, Nicola da Cusa, Pio II e Bessarione.
Avete scelto di lottare contro il potere... e in quel preciso momento
avete scelto la morte. E, tutto sommato, il trapasso tramite veleno
non è la fine peggiore che a un uomo possa toccare”...
Adriano Petta, Roghi fatui, pag. 130-131, Stampa alternativa.

Lascio a Petta il merito di aver “evidenziato” le tresche omicide


del papato di quei tempi, e noto come egli non tralasci di far dire a
Giorgio da Trebisonda, con riferimento ai casi di Nicola da Cusa e
Bessarione, che
“così comprenderai che la malaria perniciosa può manifestarsi
anche ad Ancona, dopo essere passata per Todi, naturalmente!”
E perché non per le paludi di Comacchio, dove sarebbe stata
ancor meglio giustificata dai luoghi, ai tempi di Dante?
La Via di Dante 167
APPENDICE SUI COLLI ALBANI
Con la testimonianza di Petta sulla fine che potevano fare i per-
sonaggi scomodi invisi alla cattedra di Pietro, con la definizione
della nuova ipotesi sulle vere cause della morte del Vate, il nostro
viaggio alla ricerca della fonte d’ispirazione di Dante e dei segreti
significati della sua Commedia giunge al termine.
Un viaggio assolutamente inimmaginabile fino a pochi decenni
fa, oggi possibile per la maggiore libertà con cui si possono riesa-
minare i fatti accaduti nei secoli passati, quando la Chiesa esercita-
va un dominio assoluto sulla cultura e sulla scienza. Uno per tutti
l’esempio di Galileo Galilei, costretto all’abiura per non finire sul
rogo come Giordano Bruno.
Quattro secoli son passati da allora, ma molto meno tempo è tra-
scorso da quando la Chiesa di Roma esercitava ancora un potere
enorme sulle pubblicazioni che dovevano portare il suo imprimatur
prima di essere stampate.
Dai tempi di Dante poi sembrano passati anni luce.
In quel periodo, le vicende che a noi sembrano assurde erano di
normale amministrazione. Perché, allora, dovremmo oggi meravi-
gliarci di un’ipotesi -la morte di Dante per avvelenamento doloso-
che all’epoca non avrebbe nemmeno suscitato scandalo?
Per quanto riguarda l’ipotesi che il Vate possa aver tratto l’ispira-
zione dalla visita ai Colli Albani per l’ambientazione della Divina
Commedia, essa ci risulta quasi assurda, oggi, solo perché nessuno
storico, nessun critico, nessun cattedratico studioso di Dante -non
conoscendo il territorio del nemus- ha mai neppure immaginato che
una tale opportunità esistesse. Ma, in una moderna rivisitazione della
vita e dell’opera dantesca, alla luce di quanto ci ha raccontato
Augusto sulla presenza nel cratere nemorense dell’ingresso al mondo
dei morti e delle connessioni ormai accertate con l’Eneide, l’ipotesi
che Dante sia venuto di proposito qui proprio per cercare i luoghi can-
tati dal suo maestro Virgilio non solo non è più affatto peregrina, ma
è ormai ovvia realtà. Al contrario, strano sarebbe stato che egli non
fosse venuto trovandosi a poca distanza.
Diventa compito degli esperti, ora, una volta sollevato il proble-
168 La Via di Dante
ma, approfondire l’argomento e giungere ad una conclusione anche
ufficiale che tutti potranno così, tranquillamente, accettare come
verità. Quella versione ufficiale, ne sono ormai sicuro, non si dis-
costerà molto da quella fin qui esposta.
Dopo tutto quello che abbiamo visto, uno spiraglio verso l’ac-
cettazione completa -anche da parte degli accademici- delle consi-
derazioni da cui siamo partiti, non può non essersi aperto anche
nelle menti dei più scettici di loro.
Per togliere ogni residuo dubbio a chi invece è ora convinto,
come me, della bontà di queste teorie, vediamo quanto scrivono sui
Colli Albani personaggi di grande rilievo storico e culturale.
Tra gli innumerevoli autori che qui hanno tratto ispirazione, ricor-
do personaggi del calibro di Pio II, Stendhal, Parini, Goethe, Byron,
D’Annunzio, Pirandello oltre che di uomini di cultura locali contem-
poranei di grande levatura come Aldo Onorati. A titolo di esempio ed
in conclusione cito alcuni brani che sono particolarmente attinenti
all’oggetto di questo lavoro da cui si ricava un’immagine dei Colli
Albani conforme all’ipotesi che qui è stata avanzata.
Con queste citazioni, le più semplici, per me, da reperire, messe
in diretto rapporto con il tema trattato, la mia ipotesi su Dante e la
sua possibile ispirazione sembra confermarsi definitivamente.
Cominciamo proprio con Aldo Onorati che, nella presentazione
di una recentissima edizione del romanzo di Stendhal, La badessa
di Castro, scrive:
“Stendhal deve aver veduto pure Palazzola, col suo convento affa-
scinante, solitario specie a quell’epoca, il viottolo a strapiombo sul
lago, quasi un ciglio d’occhio fra il muraglione di cinta e i quercio-
li bruni d’inverno, i lecci arrupati intorno al Romitorio, in quegli
abissi danteschi che ancora oggi incutono rispetto e un indefi-
nibile terrore sacrale. Non poteva, Stendhal, scrivere -o riscrive-
re- quell’opera così tragica, se non fosse stato iniziato, da un senso,
una sensazione improvvisa di dramma interno alla vista di tanta
bellezza sfolgorante e notturna al tempo stesso, solare e dionisiaca,
ambigua e dominante, forte e misteriosa per quello che poteva cela-
re nelle sue ombre, nei suoi viottoli spinosi quasi inesplorati e indi-
fesi, fra i due laghi cari alla storia di Roma e al ricordo, che è sem-
pre il regno delle ipotesi e delle favole, se la favola non fosse tra-
La Via di Dante 169
gedia dell’umana stoltezza e dell’umana insensata libidine del potere.
Dirà lo scrittore:’La più bella selva che esiste al mondo è quella di
Ariccia. Grandi rocce nude e brune spuntano in mezzo alla più
bella vegetazione e alla varietà più pittoresca del fogliame. Lo
spettacoloso rigoglio di queste piante mostra che la montagna è
un antico vulcano’. Ecco: oggi penseremmo solo al Parco Chigi,
una delle meraviglie rimaste dei tempi quasi recenti... Ma Ariccia
aveva un’espansione forestale di larghe dimensioni, se addirittura
non si intende con questo nome il sacro bosco di Diana Nemorense
coi miti di Virbio e la protostoria del rex nemorensis col vischio del
ramo d’oro e la sua consacrazione cruenta...
Stendhal sentiva a pelle questa atmosfera inafferrabile, sospesa
tra il sacrale e il misterico, il solare e il notturno, il possente
olimpico e il tragico silenzioso e il sublime”.
Aldo Onorati, Prefazione a La badessa di Castro di Stendhal,
Editrice Anemone Purpurea, 2005

Ecco l’ambiente dei Colli Albani come lo vedeva Stendhal e


come lo interpreta ancora oggi Aldo Onorati.
E un luogo del genere poteva non colpire anche l’immaginazio-
ne e la fantasia di un grandissimo come Dante?
Ma andiamo avanti.
Lo stesso Stendhal, nel primo capitolo de La Badessa di Castro,
dopo aver raccontato la storia e la fine ingloriosa del brigante Marco
Sciarra che regnava sulla foresta della Fajola, la materiale conti-
nuazione del nemus, passa a descrivere l’ambiente dove il brigante
viveva.
“Questa foresta della Fajola, i cui alberi maestosi sono come la pelle di
un antico vulcano, fu l’ultima zona che vide le prodezze di Marco
Sciarra. Qualunque viaggiatore giurerebbe che questo è il luogo più
incantevole della splendida campagna romana, il cui aspetto mae-
stoso e tetro sembra generato appositamente per ospitare la trage-
dia. Essa circonda coi suoi fitti boschi le cime del monte Albano.
Questa particolare montagna si è formata per un’eruzione vul-
canica di molto antecedente alla nascita di Roma. In un’epoca
che precedette ogni storia, essa sorse in mezzo alla vasta pianu-
ra che già spaziava tra gli Appennini e il mare. Il monte Cavo,
che si innalza circondato dall’ombrosa vegetazione della Fajola,

170 La Via di Dante


ne è la più alta vetta; la si scorge da ogni dove, da Terracina e
da Ostia, da Roma e da Tivoli, e sono i colli d’Alba, ora pun-
teggiati di ville, che verso mezzogiorno segnano il limitare di
quell’orizzonte romano tanto celebre presso i viaggiatori. Sulla
cima del monte Cavo, un convento di monaci neri ha preso il
posto del tempio di Giove, dove i popoli latini compivano riti
sacrificali collettivi e venivano a rinsaldare i legami di una sorta
di confederazione religiosa. Velato dall’ombra di grandiosi e lus-
sureggianti castagni, il viaggiatore approda, in qualche ora, ai massi
enormi che costituiscono le rovine del tempio di Giove; ma da sotto
l’ombra di quest’oscuro fogliame, il viandante spinge lo sguardo
ancor oggi verso il fondo della foresta; egli teme tuttora i briganti.
Giunti sulla sommità del monte Cavo si è soliti accendere un fuo-
cherello in mezzo alle rovine del tempio per approntare un pasto
frugale. Da questo punto, che sovrasta e guarda l’immensa cam-
pagna romana, specie all’ora del tramonto si sottolinea il colo-
re dorato del mare; pare vicino, sebbene disti una quindicina di
chilometri. L’atmosfera è talmente nitida che ad occhio nudo
risaltano le barche più piccole; basta un cannocchiale da poco
per vedere persino i viaggiatori sul ponte del bastimento a
vapore diretto a Napoli. In tutte le altre direzioni, lo sguardo si
stende su una pianura magnifica che termina a levante con gli
Appennini, al di sopra di Palestrina e, a nord, con San Pietro e gli
altri imponenti palazzi di Roma. Essendo il monte Cavo non
troppo elevato, l’occhio può distinguere i minimi dettagli di
questo sublime panorama che potrebbe fare a meno di descri-
zioni storiche, e tuttavia ogni macchia, ogni parte di muro in
rovina scorto dalla pianura o sui fianchi della montagna, ram-
menta una di quelle battaglie narrate da Tito Livio, così memo-
rabili per il patriottismo e il coraggio.
Ancora oggi, per arrivare ai massi ciclopici dei resti che costi-
tuiscono il tempio di Giove Laziale, i quali fungono da muro di
cinta al giardino dei monaci neri, si può seguire la strada trion-
fale che percorsero anticamente i primi re di Roma. Essa è
lastricata con grosse pietre di taglio regolare; in mezzo alla
foresta della Fajola si trovano dei tratti della via Sacra”.
Stendhal, La badessa di Castro, Editrice Anemone Purpurea, 2005

Ricordiamo ora l’incipit de Il Ramo d’Oro di Frazer.


“Chi non conosce il Ramo d’Oro del Turner? La scena del quadro,

La Via di Dante 171


tutta soffusa da quell’aurea luminescenza d’immaginazione con cui
la divina mente del Turner impregnava e trasfigurava i più begli
aspetti della natura, è una visione di sogno di quel piccolo lago di
Nemi, circondato dai boschi, che gli antichi chiamavano “lo spec-
chio di Diana”. Chi ha veduto quell’acqua raccolta nel verde seno
dei Colli Albani, non potrà dimenticarla mai più. I due caratteristi-
ci villaggi italiani che dormono sulle sue rive e il palazzo egual-
mente italiano i cui giardini a terrazzo digradano rapidamente giù
verso il lago, rompono appena l’immobilità e la solitudine della
scena. Diana stessa potrebbe ancora indugiarsi sulle deserte sponde o
errare per quei boschi selvaggi.
Nei tempi antichi questo paesaggio silvano era la scena di una strana e ricor-
rente tragedia. Sulla sponda settentrionale del lago, proprio sotto gli scoscesi
dirupi su cui si annida il moderno villaggio di Nemi, si ergeva il sacro bosco
e il santuario di Diana Nemorensis, la Diana del bosco....
In questo bosco sacro cresceva un albero intorno a cui, in ogni
momento del giorno, e probabilmente anche a notte inoltrata, si
poteva vedere aggirarsi una truce figura. Nella destra teneva una
spada sguainata e si guardava continuamente d’attorno come se
temesse a ogni istante di essere assalito da qualche nemico.
Quest’uomo era un sacerdote e un omicida; e quegli da cui si guar-
dava doveva prima o poi trucidarlo e ottenere il sacerdozio in sua
vece. Era questa la regola del santuario. Un candidato al sacerdozio
poteva prenderne l’ufficio uccidendo il sacerdote, e avendolo ucci-
so, restava in carica finché non fosse stato ucciso a sua volta da uno
più forte o più astuto di lui... La strana regola di questo sacerdo-
zio non ha alcun riscontro in tutta l’antichità classica e non si
può spiegare per mezzo di essa. Per trovarne una spiegazione
dovremo spingerci molto lontano”.
J. Frazer, Il Ramo d’Oro, Universale Scientifica Boringhieri

Nessun commento è necessario se non sottolineare che questo


rituale rendeva il luogo altamente attraente e singolare. Venendo a
Roma come avrebbe potuto Dante resistere al desiderio di visitare
un luogo così importante per lui?
Concludo con una serie di citazioni tratte da un vecchio libro,
una piccola guida dedicata al piccolo borgo di Nemi, redatta da Tito
Basili, uno dei pochi cultori di cose locali attivi su questo territorio
nella seconda metà del secolo scorso, intitolato Nemi, della serie

172 La Via di Dante


Passeggiate sui colli d’Alba, stampato nel 1964. Oltre le notizie sto-
riche più o meno note, l’Autore riporta una serie di citazioni che
danno la misura della straordinarietà dei luoghi, i Colli Albani. i
luoghi della storia infinita dell’Umanità.
Quando agli amici tuoi
torni sul patrio lido
vivi e racconta poi:
ho visto il dolce nido
della primiera età
Parini - Ascanio in Alba
Tito Basili, Nemi

“Questa località, secondo il Di Nardo, fu, da tempi immemora-


bili, la misteriosa sacra sede universale delle infere deità
dell’Ade e l’ingresso al Tartaro, e, quindi, motivo per Caligola,
imbevuto dei misterio Orfici-Eleusini, di riconoscere nello
‘Speculum Dianae’ il centro e la sede della morte e della resur-
rezione, similmente a quanto avveniva sul Nilo in tempietti gal-
leggianti”.
Tito Basili, Nemi
Da I Commentari di papa Pio II:
“Nulla in estate troverai di più piacevole di questi
ombrosi boschi, luoghi questi adatti per propizie pas-
seggiate ai poeti; in nessun altro luogo si sveglierà
l’estro, se qui non si coglie l’ispirazione. Qui son di
casa le Muse e le Ninfe”.
Tito Basili, Nemi

Detto da un papa, con i riferimenti a Muse e Ninfe, è il


massimo!

La Via di Dante 173


VIAGGIO DANTESCO

Prima di concludere, un’ultima conferma sull’ispirazione dantesca.


In un recentissimo libro intitolato Il Viaggio dantesco, una gio-
vane ricercatrice romana, Raffaella Cavalieri, illustra i percorsi che
i viaggiatori di fine Settecento e Ottocento compivano in Italia sulle
tracce di Dante la cui conoscenza si stava diffondendo decisamente
in tutta Europa.
È un’interessante riscoperta di quello che allora si sapeva o si ipo-
tizzava su Dante e sulle sue ispirazioni per i tanti episodi narrati nel
Poema.
A noi qui preme soltanto sottolineare come anche allora si rite-
neva che luoghi più o meno noti d’Italia avessero ispirato al Vate,
oltre i singoli episodi, anche il disegno complessivo della scena.
Per l’inferno, per esempio, si sottolinea come Dante, anche se ai
suoi tempi poca importanza si dava ai monumenti antichi, possa
essersi ispirato alla forma interna del Colosseo:
“Nonostante ciò, si trova comunque nella Divina Commedia un
riferimento molto diretto alla città in questione, benché rimanga tra
le righe: è il Colosseo forse il vero modello per la struttura
dell’Inferno dantesco.”
Raffaella Cavalieri, Il viaggio dantesco, pag. 71, Robin Edizioni, 2006

Questo afferma la Cavalieri, e a conferma riporta un brano del


Bassermann, il viaggiatore che viene in Italia alla ricerca dei luoghi
di Dante, a proposito della forma interna del Colosseo:
“Se rievochiamo come ancora esistenti quei seggi coi loro innume-
revoli cerchi concentrici, interrotti ad intervalli da più ampi pas-
saggi circolari e recisi da scale disposte a guisa di raggi che dal più
alto conducono sino al cerchio più basso, da cui si scende ancora da
un’altezza considerevole giù nell’arena: se tutto questo pensiamo,
dove potremmo trovare un più grandioso modello per l’inferno dan-
tesco, co’ suoi cerchi che sempre più stretti e più profondi s’avvol-
gono, co’ suoi gironi e le sue bolge, colle sue svariate discese, col
pozzo dei Giganti che si sprofonda nel più basso centro, nel lago
ghiacciato, che è l’arena di questo anfiteatro infernale?
Raffaella Cavalieri, Il viaggio dantesco, pag. 72, Robin Edizioni, 2006

174 La Via di Dante


Per il Purgatorio, invece, viene indicato come modello la rocca
di San Leo di cui si riporta l’illustrazione nelle pagine seguenti.
Rispetto a Monte Cavo, la rocca di San Leo presenta un aspetto
inconciliabile con il monte Purgatorio dantesco: sulla sua sommità,
infatti, non c’è qualcosa che possa somigliare -anche solo simboli-
camente- al Paradiso terrestre. C’è, invece, una rocca fortificata che
tutto poteva ispirare a Dante fuorché una foresta felice all’interno
della quale si apriva la radura paradisiaca.

IL COLOSSEO.
Secondo il Basserman la sua forma può aver ispirato a Dante
-durante il suo soggiorno a Roma- la conformazione dell’inferno.
Questo sempre in ossequio alla famosa epistola di Dante
a Cangrande della Scala in cui il poeta asseriva
di aver tratto ispirazione, per quanto tradotto in poesia,
da quello che aveva precedentemente visto realmente.

Sopra: la pianta del Colosseo

La Via di Dante 175


J. Dennistoun, San Leo e Maiuolo, incisione.
Raffaella Cavalieri, Il viaggio dantesco, pag. 83, Robin Edizioni, 2006

LA ROCCA DI SAN LEO


È indicata come quella che avrebbe ispirato a Dante
la salita ripida al monte del Purgatorio.
Al viandante questo sentiero ha sempre dato l’impressione di
“una vertiginosa ed inaccessibile altezza”,
ma non ha niente a che vedere con quanto poteva suggerire
la vetta del Mons Albanus.

176 La Via di Dante


L’idea che San Leo possa aver ispirato Dante porta solo un ele-
mento di conferma alla teoria che vuole Dante essersi ispirarato a
quanto ha materialmente visto nel suo peregrinare per l’Italia per
ambientare la scena delle due prime Cantiche.
Una volta accettata questa ipotesi, non c’era luogo migliore per
la sua ispirazione che l’ambiente dei Colli Albani. Non per una
casuale coincidenza di viaggio, ma per scelta precisa che si riface-
va non solo ai luoghi, ai loro significati simbolici, alla loro forma,
alla loro reciproca posizione, ma anche alla sua guida e Maestro:
Virgilio, la sua cultura, il suo mondo, le sue conoscenze.
Dunque, per il Purgatorio Dante non poteva trovare fonte di ispira-
zione più valida ed appropriata di quella del Mons Albanus.

Non solo l’aspetto fisico del luogo, ma anche quanto


esso rappresentava nella tradizione antica:
il punto di contatto tra cielo e terra, come tempio di Giove,
luogo della consacrazione dei trionfi per i generali romani, che
diventa sede del trionfo di Beatrice. Quale sito migliore di questo
poteva essere affidato alla custodia di Marco Porcio Catone
che, in vita, risiedeva proprio nelle sue vicianze?

La Via di Dante 177


CONCLUSIONE
Mi fermo qui.
Queste citazioni, per non parlare degli autori latini, non solo
confermano quanto da me sostenuto sull’ambiente esterno dei Colli
Albani, ma mettono in rilievo le impressioni e le sensazioni che essi
ispiravano al visitatore, soprattutto se colto ed in grado di esprime-
re con proprietà ed efficacia i propri pensieri.
Ecco, quello che a costoro ispiravano i boschi dei Colli Albani e
l’ambiente della Campagna Romana e il tronco di cono del Mons
Albanus-Monte Cavo, è molto simile ai sentimenti che Dante prova
quando si trova nella selva oscura e poi in tutto l’ambiente che lo
porta nel mondo dei trapassati: prima all’Inferno e quindi in
Purgatorio. A questo proposito come non ricordare ancora i colori e
la materia con cui sono fatti i gradini che immettono nel Purgatorio?
Come non sentire in quei materiali quegli stessi delle rocce vulca-
niche dei Colli Albani?
Ma se questi sentimenti sono comuni agli uomini di cultura che
hanno sensibilità particolari per certi paesaggi, se nell’attraversare
la Campagna Romana diretti ai Colli tutti provano le stesse sensa-
zioni, se le loro descrizioni dei boschi nati su un territorio vulcani-
co li riportano a scenari infernali, perché tutto questo non dovrebbe
averlo percepito anche -e soprattutto- Dante Alighieri?
Perché tutti gli altri sì e proprio lui no?
Eppure Dante doveva essere il più indicato per recepire dai luo-
ghi, dalle rocce, dagli alberi i sentimenti simili a quelli espressi da
tutti gli artisti che in questi luoghi sono venuti, attirati dall’antica
fama dei Colli Albani e dalle loro particolarissime caratteristiche
fisiche.
Sotto questo aspetto, perciò, l’ipotesi qui avanzata è perfetta-
mente ammissibile ed accettabile.
Non c’è mai stata, però, nelle infinite biografie su Dante, notizia
alcuna sulla venuta qui di Dante. Per questo nessuno, finora, ha
potuto collegare in alcun modo i Colli Albani alla Divina
Commedia e dunque, come poteva egli aver descritto le sue sensa-
zioni albane, se sui Colli Albani non era mai venuto?
“Dante non può aver identificato la selva oscura con il nemus
178 La Via di Dante
per il semplice fatto che qui egli non è mai venuto!”.
Questa fu, appunto, la decisa risposta che mi diede proprio il mio
amico e grande scrittore -sopra citato- ed esperto più che qualifica-
to dell’opera di Dante che diffonde con affollatissime ed apprezza-
tissime Lecturae Dantis: Aldo Onorati.
Era la risposta più ovvia che un esperto potesse dare alla mia
provocatoria -e assolutamente imprevedibile ed inedita- ipotesi
della selva oscura-nemus.
Il suo era l’atteggiamento tipico dell’esperto, del cattedratico
che si rifà, per le interpretazioni di un grande testo come quello
della Divina Commedia, alla tradizione storica, a quanto hanno
detto e scritto i più grandi critici nel passato e nel presente. Essi si
preoccupano della esattezza filologica delle loro spiegazioni. Le
interpretazioni nuove per essere da loro accettate -normalmente,
però, le rifiutano perché essi si rifanno solo alla tradizione consoli-
data- debbono essere rigorosamente provate o provabili attraverso
sensazionali ritrovamenti di documenti inediti. Difficilmente si lan-
ciano in ipotesi ardite, basate sì sulla logica, ma prive di riscontri
documentali. Spesso non ci si rende conto che i riscontri documen-
tali non si trovano solo perché a nessuno viene in mente di cercarli.
Non si considera nemmeno che, se chi studia un dato argomento
non si pone domande nuove, anche apparentemente assurde, ma in
realtà in linea con le nuove conoscenze, nessun progresso si potrà
mai fare in alcun campo dello scibile.
Ecco perché, da studioso attento ed indagatore, ma curioso e non
chiuso al nuovo, immediatamente dopo la risposta negativa, Onorati,
compreso appieno il senso della mia provocatoria insinuazione,
trovò la soluzione al quesito che gli ponevo. Si rese conto all’istante
che se era vero che nessuno ha mai riferito di un viaggio di Dante ai
Colli Albani, è però noto a tutti -ed ormai universalmente accettato
dalla critica- che Dante, nel 1300, anno del Giubileo, era a Roma con
una delegazione del governo fiorentino. Anzi, qualcuno ritiene che
egli dovette ripetere la missione diplomatica anche l’anno successi-
vo e nell’ottobre del 1301 era ancora a Roma.
“Come poteva Dante essere a Roma e non sentire il bisogno di
visitare i Colli Albani?”.

La Via di Dante 179


È la stessa domanda che proprio Onorati si fa, ora, a proposito di
Stendhal nella premessa a La Badessa di Castro sopra citata. Era la
stessa conclusione a cui egli era subito giunto dopo la mia apparen-
temente assurda richiesta.
“Hai ragione”, mi disse con grande meraviglia ricordandosi
di quel viaggio romano di Dante, “nel 1300 Dante era a Roma
per il Giubileo! E stando a Roma, non può non essere venuto sui
Colli Albani”.
Sì, anch’egli, ormai, era d’accordo: Dante non poteva non esser
venuto a vedere i Colli Albani, l’origine di Roma, e il lago di Nemi
dove Augusto -e Virgilio con lui- riteneva fosse l’ingresso dell’a-
verno inteso come “mondo dei morti”, conoscenze che, come abbia-
mo visto, anche Dante quasi certamente aveva per averle apprese
proprio dall’autobiografia di Augusto.
Ma cosa dice Stendhal -visitatore esterno- dei Colli Albani, se
non quello che poteva aver ispirato Dante? E cosa dicono tutti gli
altri che sopra ho citato? Particolari, panorami, situazioni che poi
ritroviamo nei versi della Divina Commedia in episodi certamente
non secondari.
E non solo gli scrittori hanno avuto questa sensazione di luogo
che ispira visioni infernali nella loro lugubre bellezza, anche i pit-
tori hanno avuto modo in passato di scegliere scorci particolarmen-
te significativi a questo riguardo.
Non sapevo, al momento in cui esaminai le illustrazioni di
Gustave Doré della Divina Commedia, se egli fosse mai stato a
Roma e nei suoi dintorni, magari seguendo il percorso del Grand
Tour, di cui Ariccia -con il suo territorio- era una delle tappe fisse e
preferite da poeti, scrittori e pittori, la prima subito dopo Roma.
Le ricerche da me condotte sulla vita del celebre illustratore non
mi danno questa notizia. Evidentemente egli a Roma non è mai
venuto. Come mai, allora le sue illustrazioni dell’Inferno sembrano
proprio disegnate dal vero proprio qui, nei Colli Albani?
Se anche non fosse mai venuto qua, difficilmente il Doré avreb-
be potuto ignorare almeno qualcuna delle tantissime opere letterarie
dei tanti scrittori e poeti che da oltre un secolo, ormai, visitavano
regolarmente i Colli Albani seguendo gli itinerari del Grand Tour.
180 La Via di Dante
Quelle opere egli poteva agevolmente tradurre in suggestive
ambientazioni per le le illustrazioni della Divina Commedia. È
ancor meno probabile che potesse ignorare le infinite litografie, i
disegni, i dipinti che in questi luoghi erano stati prodotti da artisti di
tutta l’Europa ed erano ovunque noti. Molte di quelle opere erano
anche molto rappresentative dei più grandi pittori del Sei-Settecento
e del primo scorcio dell’Ottocento.
Ai nomi fatti posso aggiungere quello di Corot, di Massimo
D’Azeglio e di Goethe nella qualità di pittori oltre che di scrittori, e
di una infinità di altri artisti ed illustratori dal Quattrocento in poi e,
sopra tutti, per quel che ci riguarda, quello del grande pittore ingle-
se, William Turner, autore di diversi scorci del lago di Nemi, com-
preso il celeberrimo quadro intitolato Il Ramo d’Oro, dipinto pieno
di atmosfera romantica dedicato al ramo custodito dal rex nemo-
rensis che ispirò, alla fine dell’Ottocento anche l’opera omonima -
Il Ramo d’Oro, che proprio dal quadro del Turner aveva tratto il
titolo- di quel grande antropologo, considerato il continuatore del-
l’opera di Darwin, qui spesso citato: James Frazer.
Come non ricordare, infine, a dimostrazione del fascino sempre
esercitato dal cratere nemorense, il caso del grande musicista fran-
cese Gounod, che proprio sulle rive del lago un tempo sacro a
Diana, in una dolce serata di primavera, accompagnandosi con l’in-
separabile chitarra, componeva le note di uno dei brani più sugge-
stivi della musica di ogni tempo: la sua Ave Maria.
A ricordo di quell’evento egli scrisse sulla chitarra:
Nemi, 24 aprile 1862.
Tornando al Doré, pur non conoscendo nulla di lui, non potevo
non essere sicuro che le sue scene gli fossero state ispirate dal
nemus. Come al solito, avevo solo indizi, sensazioni, ma erano tali
che la cosa mi pareva certa anche senza alcuna notizia al riguardo.
Per esserne sicuro, mi bastava la conoscenza dei boschi albani,
con i lecci abbarbicati non solo sulle grandiose rovine antiche, ma
anche e soprattutto sulle rocce basaltiche grigio scure e, a volte, ros-
sicce, ancora ribollenti, a volte liscie, ma sempre di dimensioni
ciclopiche, impressionanti, verticali, che suggeriscono veramente
un paesaggio d’altri mondi... infernale.
La Via di Dante 181
DANTE E VIRGILIO NELLA SELVA OSCURA
in un’illustrazione di Gustav Doré.
Perché un disegnatore, per illustrare
la Divina Commedia di Dante Alighieri,
sente il bisogno di disegnare la selva oscura in cui il Poeta si
perde non come un bosco qualsiasi, fitto ed intricato, ma come
un luogo ricco più che di alberi, di alte rocce scure?
Un luogo che somiglia in maniera impressionante
ai boschi del Vulcano Laziale?
Quel disegnatore è mai stato nei dintorni di Roma?
Se sì, come mai ha ambientato le sue scene
proprio ispirandosi ai Colli Albani?
È la domanda che sorge sponanea guardando
le illustrazioni di queste due pagine.
Sopra Dante e Virgilio che si incamminano
nella selva verso la porta dell’Inferno.
182 La Via di Dante
Qui sopra: la foto scattata casualmente a Monte Artemisio
che ritrae un luogo che somiglia in maniera impressionante
a quello disegnato dal Doré.

La Via di Dante 183


Una foto, da me scattata per caso durante una visita alle tombe a
camera presenti sul Montre Artemisio e scoperte dagli archeologi
dell’associazione OPE diretta da Angelo Capri, allora coadiuvato da
Riccardo Bellucci e Giovanni Dolfi negli anni Ottanta e Novanta
del Novecento, mi lasciò sbigottito. Avvicinata ad una delle illu-
strazioni del Doré non ebbi più dubbi. Foto e illustrazione sono qui
riportate perché anche voi, gentili lettori, possiate dare il vostro giu-
dizio.
Converrete tutti con me che la somiglianza tra le due immagini
è davvero straordinaria e che anche se il luogo fotografato non
dovesse essere stato proprio quello che ha ispirato il Doré, la foto
dimostra che non gli sarebbe stato difficile, qui, trovare scorci iden-
tici a quelli riportati nelle illustrazioni della prima cantica della
Divina Commedia, anche se avesse dovuto copiarli da qualche suo
collega tornato dalla tappa aricina del Gran Tour.
Questo dimostra ancora una volta che non ci sarebbe, ora, di che
meravigliarsi se si accertasse che Dante si ispirò effettivamente a
questi luoghi per ambientare la sua opera. Se, come sembra anche
dai suoi scritti, egli cercò un’ispirazione in un luogo reale, anche
sotto l’aspetto formale, non c’era altro posto al mondo che avesse
potuto assolvere all’alto compito meglio dei Colli Albani, del bosco
di Diana, di Monte Cavo, del mar Tirreno che si vede in lontananza
dall’alto dei Colli da dove si potevano scorgere, con l’aria allora
tersa, anche le barche sul mare e la foce del Tevere.
Se il Poeta fa riunire le anime dirette al Purgatorio per salire sul
vascello volante proprio là dove l’acqua del Tevero s’insala, non è
più solo per un motivo simbolico, ma perché ha visto la scena reale
da Monte Cavo e quella gli ha dato l’ispirazione.
Non ci si meravigli più: ci si renda conto, finalmente, che questi
luoghi, che erano proprio quelli dove era nata la civiltà latina e dove
Roma aveva avuto le sue origini; dove i Grandi della storia romana
avevano lasciato le loro orme immortali, avevano tutti i requisiti per
fornire a Dante la più completa ispirazione per l’ambientazione
della sua opera più grande.
La loro fama è giunta intatta fino a noi ed era ben presente nella
mente di Dante come di ogni altro erudito che giungeva a Roma in

184 La Via di Dante


visita.
Non erano, allora, e non sono nemmeno ora, dei luoghi qualsiasi.
Restano sempre la culla stessa della civiltà, il luogo dove il pri-
mus inter pares, il papa, ancora oggi risiede abitando sui luoghi che
furono occupati dalla villa di Augusto, di Tiberio, di Caligola, di
Domiziano; un luogo di riferimento -ancora oggi- per tutti i popoli
della Terra.
Perché, allora, proprio Dante avrebbe dovuto ignorarli venendo
a Roma?
Il super scettico ripeterà ancora che non abbiamo le prove certe
e documentali di un -sia pur breve- soggiorno di Dante sui Colli
Albani.
È vero.
Anche se non possiamo affermarlo con assoluta certezza -ma
quanti altri dubbi ci sono ancora su tanti aspetti della vita del
Poeta?-, tutti i lettori converranno con me che ora, dopo tutte le con-
siderazioni esposte, è ancor più difficile -se non impossibile- poter
escludere, alla luce della logica e del semplice buon senso, che qui
s’ispirò, per la sua Divina Commedia, uno dei massimi geni
dell’Umanità: Dante Alighieri.

“Lazio venerabile per tutti gli italiani


culla della città universale”.
Dante Alighieri

La Via di Dante 185


IL MISTERO CONTINUA
Alla fine del mese di Giugno 2009, il testo di questo saggio è
ormai completato, rivisto, impaginato con tutte le illustrazioni e l’o-
pera sta per essere inviata per la stampa digitale di prova.
È a questo punto che accade l’imprevisto.
Vengo invitato a presenziare ad una manifestazione culturale a
Frascati, oggi la città simbolo dei Castelli Romani.
L’appuntamento è per il 4 luglio.
Si tratta di illustrare sommariamente i rapporti tra Dante e i Colli
Albani, dati per certi.
Chi mi invita aveva appreso da me, durante una cena a casa di un
comune amico, Franco Raparelli, a Grottaferrata, quattro o cinque
anni prima, le storie su Dante ai Castelli, sul nemus-selva oscura,
sull’Appia antica-diritta via ecc. Ne aveva poi parlato con una gior-
nalista americana, Mary Ann, in visita ai Castelli Romani per redi-
gerne una guida enogastronomica. Dal diario di questa signora, dece-
duta nel 2007, improvvisamente all’età di 41 anni, questo mio inter-
locutore, Stefano Paolucci, ed un suo amico, il regista Marcello
Spoletini, avevano tratto una piccola pubblicazione ed un documen-
tario proprio sui Colli Albani. Dante, la Grande Madre, i temi che
avevano particolarmente interessato l’ancor giovane, sfortunata gior-
nalista si erano sovrapposti, allora, alle visite a ristoranti e cantine.
Tutto sarebbe finito lì, con una bella serata estiva nelle sale della
prestigiosa Galleria d’arte Theodora di Frascati, se non fossi stato
invitato dai due a proseguire nello studio di Dante per fornire la
base di un soggetto per un altro lavoro, molto più impegnativo ed
importante, cui si volevano dedicare con un piccolo gruppo di
amici, ma sotto la mia personale supervisione.
In realtà c’era una domanda che mi ronzava in testa da molto
tempo, ma che, non riguardando lo specifico tema dei rapporti tra
Dante e i Colli Albani, evitavo di farmi per non rischiare di riaprire
tutto il discorso su Dante al fine di approfondire anche il nuovo
argomento.
Ora però, la necessità di dare una risposta anche ad altri interro-
gativi che la Divina Commedia proponeva e che potevano risultare
determinanti per il nuovo lavoro, mi imponeva di rileggere -sempre
186 La Via di Dante
con la stessa chiave di lettura mai prima da altri utilizzata- anche la
parte finale del Purgatorio e i primi due canti del Paradiso.
È, questa, forse la parte più difficile di tutta l’opera, che a scuo-
la si sorvola volentieri. Richiede un impegno notevole anche agli
insegnanti proprio perché fortemente simbolica e teorica, difficile
da spiegare e ancor più ostica da digerire per i ragazzi.
È la parte che i commentatori interpretano alla luce di quanto la
critica più vicina all’epoca di Dante ha espresso e fatto arrivare fino
a noi. Sono versioni, insomma, vecchie e mai sostanzialmente
aggiornate. Bisognava provare a mettere in discussione quanto, in
sette secoli di studi su una delle opere più importanti dell’umanità,
era stato accertato.
La domanda di partenza si riferiva ancora agli ultimi canti del
Purgatorio ed era questa: cosa intende comunicarci veramente
Dante con il carro trionfale su cui Beatrice giunge nel Paradiso
Terrestre? Che cos’è veramente questo carro trionfale? Cosa vuol
rappresentare, in realtà, tutta la lunga descrizione del corteo? Quale
messaggio nascosto Dante ci vuole far pervenire?
Vedendo anche le più antiche illustrazioni della Commedia, si

IL CARRO TRIONFALE DI BEATRICE


come viene interpretato dai miniaturisti del ‘400: un carretto che
dovrebbe oscurare i carri del Sole dell’antichità!
Le interpretazioni dell’opera di Dante sono come le illustrazioni
dell’epoca: riflettono le conoscenze comuni di quei tempi.
Oggi non dovremmo continuare nelle interpretazioni di quando
l’uomo non sapeva né volare né com’era fatto un aereo o un elicot-
tero, né tanto meno poteva immaginare un missile.

La Via di Dante 187


capisce subito che a nessuno, in passato, è mai venuto in mente di
indagare su questo argomento. Chi poteva chiedersi cos’era in real-
tà quel carro trionfale?
Oltre queste, subito le domande erano diventate molte di più.
Per esempio: come aveva fatto Beatrice a salire con quel carro
trionfale fino alla foresta del Paradiso Terrestre se Dante, Virgilio,
Stazio -e tutte le anime lì giunte- avevano dovuto superare ostacoli
duri, difficili e, per ultimo, salire per una scala molto stretta e ripi-
da? Ostacoli non simbolici, ma materiali e reali perché siamo anco-
ra sulla Terra. Non era, perciò, solo una licenza poetica. L’evento
andava sottoposto ad un esame più attento.
Tutto questo noi siamo soliti apprenderlo solo alla luce dei com-
mentatori più antichi e delle illustrazioni -preziose dal punto di vista
artistico, ma francamente inadeguate- che nei secoli passati i
migliori pennelli ci hanno lasciato.
Queste opere, di cui riporto qualche esempio per comprendere
meglio i motivi della nostra difficoltà a ben interpretare il pensiero
del Poeta, hanno contribuito a creare una mentalità distorta negli
studiosi e nei lettori comuni. In effetti, distolgono l’attenzione dalla
più puntuale ed attuale interpretazione dei versi danteschi.
Cosa poteva nascondere il simbolismo di quel carro con quella
donna che arrivava sulla Terra per condurre Dante in Paradiso? Non
certo quello che si vede nelle illustrazioni del ’400 e del ’500.
Riesaminiamo gli eventi narrati con una visione più moderna.
Come era arrivata -secondo il Poeta- Beatrice sulla Terra?
Cos’è quella gran luce persistente che illumina tutta la foresta
che precede il corteo trionfale?
Infine, come avevano fatto Dante e Beatrice a raggiungere il
Paradiso?
Per Beatrice -solo anima- nulla quaestio, ma Dante come aveva
risolto il problema del corpo? Ma era poi, Beatrice, solo spirito?
Cosa intendeva Dante per luce divina della conoscenza e qual era il
concetto suo di divinità?
Ecco, come previsto, si apriva un altro bel filone di ricerca che
finora avevo, a ragione, voluto evitare, ma che ora non potevo più
ignorare.

188 La Via di Dante


In un’opera poetica, mi dicevo, non bisogna cercare il pelo nel-
l’uovo, ma quella di Dante non era un’opera qualunque. Era così
piena di esoterismo e di significati nascosti che ogni simbolo dove-
va essere riesaminato alla luce delle ultime conoscenze e proprio di
queste nostre conoscenze più recenti, sia scientifiche che archeolo-
giche. Ma a che scopo, se nel ’300 nessuno poteva nemmeno imma-
ginarle?
Mi sembrava tutto assurdo, ma non potevo togliermi dalla testa
l’impressione che Dante dimostrava di avere queste nostre recentis-
sime conoscenze già ai suoi tempi, anche se come reminiscenze di
nozioni note ai primi popoli civili della Terra: i Sumeri, i
Babilonesi, gli Assiri... Quelle conoscenze, mi dicevo, si erano tra-
mandate attraverso gli Ebrei, gli Egizi, i Greci, i Romani. Via via,
però, avevano perso il loro significato originario ed erano diventate
sempre più incomprensibili anche a coloro che le tramandavano.
Per i popoli, quelle informazioni erano rimaste solo miti e leggende
appartenenti ormai solo ad un mondo fantastico.
I libri sacri avevano mantenuto vivo il ricordo che appariva
anch’esso, ormai, un racconto inspiegabile.
Solo una piccolissima cerchia di persone poteva aver perpetua-
to, insieme agli eventi ed ai concetti originari, anche i loro signifi-
cati reali.
“Omero, Virgilio, padri ed ispiratori di Dante”, cercavo di con-
vincermi, “debbono aver fatto proprio tutto questo: hanno trasfor-
mato in poesia quello che sapevano. Quello che hanno raccontato
non era pura invenzione delle loro fantasie, ma conoscenza di cose
reali: quelle che Dante dice di aver visto prima di scriverle, ripor-
tandole fedelmente nella sua opera maggiore”.
Tutte le grandi opere dell’antichità, dall’epopea di Gilgamesh
alla Bibbia, hanno trattato gli stessi temi, ci hanno tramandato cono-
scenze normali per quelle epoche, il cui vero significato noi, dopo
millenni, non abbiamo più compreso. Quello che ci sembrava non
realistico, lo abbiamo trasformato in simbolico, in fantastiche
invenzioni di poeti, in visioni oniriche dei profeti e, perfino, degli
Apostoli di Gesù.
Abbiamo voluto credere come reale solo quello che eravamo

La Via di Dante 189


in grado di comprendere, non la verità.
Così l’episodio della trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor,
la discesa da una nuvola di Mosè ed Elia e la loro ripartenza, pur
essendo parola di Dio, noi l’abbiamo trasformato in una visione
dove tre uomini, gli Apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni sognano
tutti e tre la stessa cosa, odono, in sogno, le stesse parole, assistono
tutti e tre agli stessi eventi.
Non hanno visto una scena reale: hanno sognato!
Come Omero, Virgilio, Dante...
Del resto, non è proprio ai Poeti che è permesso di... volare con
la fantasia?
Non potendo continuare a far finta di niente, ora mi chiedevo
seriamente: come aveva fatto Dante a far giungere Beatrice al cul-
mine del Purgatorio con un carro trionfale?
La risposta era ovvia, ma non più banale: se veniva dal
Paradiso -e non dall’Inferno, come Dante-, era discesa dall’alto
dei cieli dov’è il paradiso, non salita per il monte. Ma per discen-
dere dal cielo doveva avere un carro volante, non solo trionfale.
Sì, proprio: un carro volante, ma il carro doveva essere enorme,
non una semplice biga, perché Beatrice era discesa dal cielo con
tutti i componenti della processione che l’accompagnava, compreso
il grifone che tira il carro meraviglioso a paragone del quale quello
stesso del Sole, tramandatoci dalla mitologia, appare come un’utili-
taria di fronte ad una Rolls-Royce.
Ma di tutto questo nulla traspare dalle illustrazioni più antiche o
moderne che siano della Divina Commedia.

190 La Via di Dante


IL CORTEO TRIONFALE
Fuori dalla celia, ecco come si manifesta il corteo trionfale di
Beatrice:
Ed ecco un lustro sùbito trascorse
da tutte le parti per la gran foresta,
18. tal che di balenar mi mise in forse.
Ma perché ‘l balenar, come vien, resta,
e quel, durando, più e più splendeva,
21. nel mio pensier dicea: ”Che cosa è questa?”

Già, che cos’è questa?


Ecco cosa appare a Dante prima che si manifesti il gran corteo
di Beatrice: un’improvvisa luce che subito sembra paragonabile a
quella di un lampo. Il chiarore prodotto da una saetta, però, dura un
attimo, poi torna il buio. La luce che Dante descrive, no. Pur essen-
do comparsa all’improvviso, proprio come quella di un fulmine,
quella gran luce non scompare, rimane ed è accompagnata da un
suono melodioso.
Dante si riferisce a qualcosa di cui non sa darsi spiegazione per-
ché del tutto insolito per lui e per tutti gli uomini. Nella finzione
descrive l’arrivo di qualcosa che è disceso dal cielo con tutto quel
seguito di cose, persone, animali accompagnati da suoni melodiosi
strani, particolarissimi, piacevolissimi.
Ma non basta.
Mentr’io m’andava tra tante primizie
de l’etterno piacer tutto sospeso,
33. e disioso ancora a più letizie,
dinanzi a noi tal quale un foco acceso
ci si fe’ l’aere sotto i verdi rami,
36. e ‘l dolce suon per canti era inteso.

Ecco il motivo della gran luce, dicono i commentatori: sette can-


delabri, l’inizio del corteo trionfale di Beatrice.
Ma è proprio così?
Se abbiamo letto bene, prima, improvvisa e stabile una gran luce
era apparsa al poeta, chiara che illuminava tutta la foresta, perciò
La Via di Dante 191
doveva essere ancora molto al di sopra degli alberi. Egli si incam-
mina verso la direzione da dove proviene quel forte chiarore, finché
sotto i verdi rami degli alberi non scorge una luce che è tale e quale
a quella di un fuoco acceso. Ma se questa luce è rossiccia come
quella di un fuoco e rischiara la parte sotto gli alberi, non può esse-
re la stessa comparsa all’improvviso che era bianca come quella di
una saetta “durevole”, che non era scomparsa dopo un attimo, ma
era rimasta inalterata a lungo, sempre con la stessa intensità. Quella
luce è chiara come quella della folgore, non rossa come la fiamma
di un fuoco. Se ne dovrebbe dedurre che le due luci sono cose com-
pletamente diverse tra loro.
E ancora. Per quante candele -o lumi- possano essere poste su
ognuno dei candelabri, non sembrano essi in grado di poter illumi-
nare una foresta intera.
Il carro su cui è Beatrice, splendido sopra ogni altro, con ruote
d’oro e raggi d’argento, con il timone ancora d’oro, appare di gran
lunga più splendido non solo di quelli dei grandi generali romani
che ebbero il trionfo (vien da dire: che l’ebbero proprio lì, sul Mons
Albanus-Monte del Purgatorio), ma addirittura molto di più di quel-
lo del dio Sole stesso. Per quanto straordinariamente bello, quel
carro sempre un carro rimane dove per carro si intende -al massimo-
una biga, tant’è vero che chi ha illustrato la Divina Commedia sem-
pre un carro-carretto-biga ha disegnato.
È vero anche che, per il poeta, il carro è trainato da un grifone,
ma sempre carro rimane: adatto a trasportare una o due persone e
per un percorso terrestre, non celeste. Vero è che i carri del sole, o
di Marte e degli altri dèi che ne avevano disponibilità, erano sem-
pre raffigurati trainati da animali (cavalli) alati, ma erano immagi-
nati per viaggi nei cieli terrestri: l’Olimpo era sulla Terra e gli dèi
erano terrestri.
I loro carri non erano fatti per chi veniva dall’alto dei cieli.
È anche vero che la scena è stata sempre interpretata in chiave
simbolica per cui il grifone è il Cristo, il carro rappresenta la Chiesa
e gli elementi del corteo raccontano la storia della Chiesa stessa. Ma
è proprio questo, per me, l’errore. Quell’interpretazione non dà
alcuna spiegazione -né realistica, né simbolica- a quella scena.

192 La Via di Dante


Così quel carro distoglie l’attenzione del lettore.
Sembra essere proprio quel carro ad aver prodotto la gran luce
che dura a lungo.
Ma non può essere così: non può essere il carretto-biga, anche se
tirato da un grifone alato, a produrre quanto descrive il Poeta.
Se è vero che tutto, in Dante, diventa simbolo, è anche vero che
egli ha assicurato che tutto quello che descrive nel poema -soprat-
tutto quello che sembra irreale- egli l’ha visto veramente nella real-
tà, trasfigurandolo poi nella sua poesia.
Se così è, cosa ha visto Dante che gli ha suggerito questa scena?
La risposta, al di là della ristrettissima cerchia di personaggi che
hanno accesso ai segreti più antichi che da essi stessi vengono tra-
mandati, finora non poteva darla nessuno. Troppo lontana dalla
nostra conoscenza era la chiave di lettura che nemmeno era ipotiz-
zabile azzardare una spiegazione che si fosse avvicinata anche solo
un po’ alla verità dantesca.
Ora, però, l’Uomo ha acquisito conoscenze scientifiche che con-
sentono di bene interpretare anche alcuni elementi tratti da recenti
scoperte archeologiche e da testi antichissimi che, fino a qualche
decennio fa, non sapevamo tradurre correttamente. Nemmeno sape-
vamo decifrare strane figure, come quelle che erano state scolpite su

IL CARRO TRIONFALE
Un’altra delle miniature che illustrano il trionfo di Beatrice.
Non c’è né niente di quanto descrive Dante.
Più che un trionfo, sembra una gtita for de porta, come si dice a Roma.

La Via di Dante 193


un architrave del tempio egizio di Abidos e che oggi ci appaiono
chiarissime.
In realtà non sapevamo a cosa si riferissero quelle informazioni.
Solo ora di queste cose comprendiamo appieno il significato.
È il caso, per esempio, dell’esistenza e del ruolo che il DNA ha
nella nascita e nella vita di ogni essere vivente, di cui gli antichi
dovevano avere qualche inconsapevole reminiscenza, la cui prove-
nienza non sapevano più spiegare, ma che continuavano a raffigu-
rare con la figura dei due serpenti avvolti a spirale che ancora oggi
noi usiamo come simbolo legato alla storia della medicina.
Allo stesso modo, gli antichi popoli dovevano avere qualche più
concreta -e altrettanto inconsapevole- informazione di oggetti
volanti che raffiguravano a volte come carri trainati da animali alati.
A volte, però, soprattutto in origine, quegli oggetti volanti erano
rappresentati nel loro aspetto reale, come dimostrano alcuni sigilli
sumeri. Erano, fino a poco tempo fa, oggetti che ci sembravano frut-
to di pura fantasia, perché non sapevamo cosa fosse un missile o
una navetta spaziale. Gli antichi, che non se ne meravigliavano per
averli visti realmente, anche se non sapevano spiegarsi il loro fun-
zionamento, li raffiguravano come cose reali. Così paragonavano le
parti di quegli oggetti -le ali per esempio- a quelle di animali noti,
gli uccelli più grandi, le aquile. Al massimo arrivavano ad inventar-
ne altri come i grifoni, che in qualche modo risolvevano il proble-
ma della forza con quello della capacità di volare. Quella loro veri-
tà l’hanno scritta in tutti i modi, ma noi non l’abbiamo mai capita e,

TEMPIO EGIZIO DI ABIDOS


In un’architrave del tempio sono raffigurati oggetti di cui solo
nel XX secolo abbiamo scoperto il vero significato:
sono aerei, elicotteri, sommergibili, navi spaziali.

194 La Via di Dante


quindi, non l’abbiamo creduta reale, ma l’abbiamo interpretata
come potevamo: come racconto fantastico. Anche quando ci è stata
riferita dalle nostre sacre scritture, o quando quegli oggetti erano
disegnati con le loro reali forme, come i nostri moderni missili, per
esempio, o come aerei, o come le modernissime navicelle spaziali.
Continuiamo a crederli oggetti di pura fantasia ancora oggi, in piena
era spaziale, a quarant’anni dallo sbarco dell’uomo sulla luna, quan-
do quelle forme fanno ormai parte del nostro più comune e conso-
lidato bagaglio di conoscenze!
Ma se i miti ci hanno rivelato verità non credute, la storia uffi-
ciale ci ha nascosto verità che non dovevano essere rivelate.
Negli ultimi decenni si sono scoperte antiche carte geografiche -
risalenti a molto tempo prima dei viaggi di Cristoforo Colombo, di
Amerigo Vespucci e di tutti gli altri grandi navigatori- che rappresen-
tano l’intero pianeta proprio come
siamo abituati a vederlo nei
nostri atlanti. Carte che
Dante già doveva
ben conoscere,
come dimo-
strano il canto
riguardante
Ulisse e la
descrizione
della Croce
del Sud.
Se si usa
la logica, non
si può non
giungere a chia-
re, incontroverti-
bili, ma ancora incre-
dibili conclusioni.

MACCHINE VOLANTI
Un’antichissima moneta con riprodottle le figure
di macchine volanti simili a quelle del tempio di Abidos.

La Via di Dante 195


Beatrice, colei che scende dall’alto dei cieli per condurlo a visi-
tare il Paradiso, per esempio, deve essere stata immaginata da Dante
come arrivata sulla Terra con tutto il suo numeroso seguito, non
come uno spirito che va in giro per l’universo con corteo di altri puri
spiriti e per grazia divina. Quelli non avrebbero avuto bisogno di
candelabri o di fiaccole. Dai versi danteschi si ricava la netta sensa-
zione che la donna amata dal Poeta si sposti usando qualche miste-
rioso e concreto oggetto volante da cui escono cento angeli e, per-
ciò, molto più grande del carro trionfale che il Poeta descrive come
una fantastica biga usata dalla donna per compiere il breve tragitto
che la separa da lui.
Del resto, se fossero stati tutti puri spiriti arrivati qui per volon-
tà divina, con un carro trionfale etereo, per anime senza peso, come
avrebbe potuto poi la stessa Beatrice portare con sé, nell’alto dei
cieli, con quello stesso mezzo di locomozione per puri spiriti, il
corpo materiale e pesante di Dante? E lo stesso poeta se lo chiede
nel primo canto del Paradiso, quando il suo viaggio è già iniziato.
S’io fui del primo dubbio disvestito
per le sorrise parolette brevi,
96 dentro ad un nuovo più fu’ irretito,
e dissi: “Già contento requievi
di grande ammirazion; ma ora ammiro
99 com’io trascenda questi corpi levi”.

Alla luce delle nostre attuali conoscenze e di una logica che si


rifà all’affermazione di Dante, quella della conoscenza diretta di
tutto ciò che narra (O mente che scrivesti ciò ch’io vidi), non possiamo
più fare a meno di distaccarci da tutta la tradizione critica che ha
visto, in questi ultimi canti del Purgatorio, esclusivamente delle
visioni simboliche della religione cattolica.
Non è così!
Questa visione dell’opera dantesca risente di commenti fatti fin
dal 1300 e proseguiti nei secoli successivi sulla falsa riga di quelli
più vicini al tempo di Dante, quando non si potevano comprendere
i significati segreti che egli aveva -nemmeno troppo velatamente-
nascosto nelle parti più significative della sua opera.

196 La Via di Dante


Chi commentava non conosceva quello che Dante sapeva.
La morte di Dante aveva impedito che egli rivelasse i segreti
dei passi oscuri del suo poema e nessuno aveva le conoscenze
idonee per interpretarlo correttamente.
Se Dante ha detto la verità, egli deve aver visto dal vivo quello
che ha raccontato o, almeno, deve aver visto documenti -ritenuti
autentici e credibili da lui- che quelle conoscenze rivelavano.
Realisticamente, non oso nemmeno io sostenere che egli abbia
avuto una visione reale ed animata di quanto racconta, o, addirittu-
ra, che abbia partecipato ad una vera e diretta esperienza di volo
(del tipo di quella raccontata da Maometto), cose che a leggere oggi
alcune parti del poema verrebbe fatto di pensare e che, comunque,
non sono da rigettare definitivamente. Ma, altrettanto realistica-
mente, non si può nemmeno escludere a priori il fatto che abbia
potuto prendere visione di antichissimi documenti (del tipo di quel-
li attualmente conservati nei più importanti musei del mondo) tra-
mandati dal popolo sumero e giunti fino a lui, ed aver rielaborato,
alla luce di quei documenti, anche quanto riportato nella Bibbia.
Una tale ipotesi, che ancora una volta sembra assurda, strana-
mente trova conferme sbalorditive proprio nei versi del Poema e nei
testi che tutti consideriamo sacri: quelli del Vecchio e Nuovo
Testamento e vedremo, fra poco, dove. E trova anche riscontri in
quanto dipinto da eccellenti pittori nel corso dei secoli e che non
possono aver inventato forme per loro inconsuete ed inimmaginabili.
Perché, allora, questi documenti sono sempre stati sottovalutati?
Ancora la risposta è la stessa: fino al XX secolo nessuno poteva
comprenderli. Oggi, quelle cose allora inimmaginabili noi le
costruiamo regolarmente. Proprio per questo dovremmo rive-
dere le nostre interpretazioni di eventi antichi alla luce delle
attuali conoscenze. Invece, ancora le neghiamo!
Torniamo ora, per esaminarlo con la logica attuale, al corteo
trionfale di Beatrice.
Dante ha visto una gran luce che permane ad illuminare
tutta la foresta del Paradiso Terrestre; vede il corteo con sette can-
delabri che lasciano dietro di sé strisce luminose formate di bellis-
simi colori; vede ventiquattro vecchi vestiti di bianco con gigli

La Via di Dante 197


intorno alla testa che sfilano tra le due file dei candelabri; vede
ancora sette donne, quattro uomini, San Luca (seguace di Ippocrate)
e San Paolo e ancora vede quattro in umile paruta (le Epistole) ed
infine un vecchio (l’Apocalisse). A questo punto distingue il carro
trionfale, meraviglioso; ne descrive le due ruote, il timone, il grifo-
ne che lo traina, ma non vede ancora colei che è sul carro. Vede
invece uscire dal carro cento angeli che spargono nell’aria gigli
bianchi a profusione. Gli ci vuole un bel po’ per accorgersi, infine,
della passeggera. O meglio, di colei che guiderebbe il carro:
Beatrice.
Poi, quando il carro gli è proprio davanti
E quando il carro a me fu di rimpetto,
un tuon s’udì, e quelle genti degne
153. parvero aver l’andar più interdetto,
fermandosi ivi con le prime insegne.

TURBINI DI VENTO
Sopra: sullo sfondo di una crocefissione appare una navicella
spaziale -il turbine di vento del riquadro a destra in alto- con una
rosa dei venti dipinta sull’esterno e con un uomo a bordo.
A destra, in alto: da una tavoletta sumera
il disegno di un “turbine di vento”.
Invenzioni di artisti fantasiosi o rappresentazioni di realtà che
hanno impressionato l’opinione pubblica in quei tempi?

198 La Via di Dante


Tutte quelle genti degne si fermano e più non vanno avanti.
Si fermano tutte insieme!
Dai candelabri escono sette liste luminosissime al riparo delle
quali procede il corteo: Isaia = spirito settemplice di dio donde i
sette doni dello spirito Santo (sapienza, intelletto consiglio, scienza,
pietà, timor di dio).
Dante è come rapito da quelle luci emanate da oggetti strani che
scambia -per la distanza in cui si trova- prima per alberi e poi per
candelabri.
Questo significa che la scena iniziale si trova a tale distanza che
il Poeta non riesce a comprenderne bene gli elementi che la com-
pongono tanto da fargli scambiare per alberi i candelabri.
Evidentemente sono candelabri singolari se possono essere scam-
biati per alberi addirittura, ovvero sono posti in alto.
Comunque non sa descriverli, però le luci da essi prodotte sono
tali che egli ne resta affascinato al punto da meritarsi il rimprovero
di Matelda che l’accompagna.

Una moneta francese coniata intorno al 1689


raffigurante uno strano disco volante

La Via di Dante 199


MATELDA: GUARDA ANCHE IL RESTO
Come si vede, se si va al di là del puro simbolismo tradizionale
legato alla religione cristiana, ci si accorge che il poeta sta descriven-
do un evento straordinario per lui. Qualcosa deve essergli stato illu-
strato anche con dovizia di particolari, che egli non può comprende-
re appieno e perciò si affida alla sua fantasia per riuscire a riferirli cor-
rettamente. Fatto sta che quel che narra corrisponde in pieno alle sue
esigenze di riferire un evento fantastico, inimmaginabile ed incredi-
bile e pur vero: la venuta sulla Terra di un oggetto che non è di que-
sto mondo, ma appartiene proprio a quell’altro mondo, quello che è
nell’alto dei cieli, in cui egli ora dice di dover andare.
Ipotesi irreale, questa, addirittura offensiva per la memoria di
Dante?
So che alla quasi totalità dei lettori questa versione sembrerà
assurda e ridicola, ma non è così. Chi si ostinasse ancora a non voler
vedere, come faceva la Chiesa prima di Galileo, dovrà ricredersi e
fare ammenda alla fine di queste poche pagine.
Perché?
Perché le storie più antiche ci narrano, con naturalezza, numero-
si eventi di questo tipo -cui lo stesso Dante fa esplicito riferimento-
tanto che gli antichi non se ne meravigliavano. Solo dopo l’avven-
to del cristianesimo, avendo trasformato completamente i concetti
di divinità, di vita eterna, di Paradiso=alto dei Cieli=casa di Dio,
del Dio che solo con il cristianesimo è diventato purissimo spirito,
non si è più potuta concepire l’idea di un contatto reale tra il Dio,
quel dio che parlava e si faceva vedere, e l’Uomo, contatti di cui la
Bibbia è piena. Questo ruolo è passato, poi, alla Madonna, che ogni
tanto appare a qualche buon giovane dall’animo puro.
E dire che proprio la religione di Cristo, il Dio fatto Uomo, dove-
va essere quella che maggiormente avrebbe dovuto accettare l’idea
di un incontro diretto e reale tra il divino e l’umano. Ma questo non
poteva più avvenire -secondo la nuova religione- proprio perché
tutti gli esseri non di questo mondo erano diventati puro spirito.
Eppure Gesù, il Figlio di Dio, si fa Uomo e si fa crocifiggere e,
come uomo, torna in cielo con anima e corpo come farà anche sua
madre, Maria!
200 La Via di Dante
Alle domande cui non si sapeva dare più spiegazione si rispon-
deva con le nuove invenzioni dottrinali: il “mistero della Fede”, e i
dogmi cui bisogna credere senza farsi domande.
Questo, però, ha avuto valore assoluto finché certi eventi erano
effettivamente misteriosi, inspiegabili, impossibili da realizzare
senza l’intervento divino. Da quando essi sono diventati prima
conoscenza, poi normale routine anche per l’Uomo, la spiegazione
si è trovata ed il dogma avrebbe dovuto cessare di essere tale. Si
poteva continuare sempre a credere nell’intervento divino, ma l’e-
vento -ormai spiegato scientificamente- non doveva essere più con-
siderato un dogma.
Uno di questi eventi misteriosi era quello del concepimento di
un uomo senza l’intervento diretto del maschio. Quello, insomma,
della madre vergine.
Tria sunt mirabilia: unus et trinus, virgo et mater, deus et homo.
È la scritta che compare sulla famosa porta alchemica di Piazza
Vittorio a Roma e sintetizza i tre misteri più profondi della cultura
cristiana. Rappresentano, però, concetti molto più antichi, che, alla
luce di quanto sostenuto da Zecharia Sitchin in Il Pianeta degli dei
(edito anche con il titolo Il dodicesimo pianeta), oggi non rappre-
sentano più un mistero.
In particolare, per quanto riguarda la madre-vergine, il concetto
non è esclusivo del Cristianesimo.
È il primo credo dell’Uomo.
Quando l’umanità non aveva ancora scoperto il rapporto tra l’in-
contro dei sessi e la nascita di una nuova vita, questa si credeva che
fosse l’opera della sola donna. La prima divinità dell’Uomo è stata
la Grande Dea Madre, che era, in pratica, una madre-vergine perché
non richiedeva l’intervento di un maschio per generare la vita.
Quel concetto veniva applicato, simbolicamente, anche alla dea
Diana nella sua accezione di divinità della fecondità. Per gli antichi
essa era proprio la vergine madre di tutta la natura.
Rea Silvia, la madre di Romolo e Remo, Vestale per volontà di
suo zio Amulio che ha spodestato Numitore, suo fratello e padre di
Rea, secondo la tradizione dormiva sotto un albero sacro nel bosco
sacro a Diana quando il dio Marte scese dal cielo per renderla madre

La Via di Dante 201


dei suoi due gemelli. Accade a lei esattamente la stessa cosa che si
narra di Maria, la Vergine Madre, la Madonna. Entrambe sono rese
madri da un dio senza che lo possano conoscere in senso biblico.
Come si vede, dunque, il concetto di Madre-Vergine non è solo del
cristianesimo, ma è il cristianesimo a farlo suo ereditandolo da più
antichi culti e, forse, proprio da quelle manipolazioni -ricordate dalle
tavolette sumere- che avrebbero dato origine alla nostra Umanità.
Questo è il parere di Zecharia Sitchin.
Da oltre trent’anni egli scrive della civiltà sumera e delle origini
dell’umanità traducendo correttamente i documenti che proprio
Sumeri, Caldei, Assiri, Babilonesi hanno tramandato. Molti dei con-
cetti contenuti in quei documenti erano incomprensibili e venivano
tradotti male perché alla fine dell’800 e per buona parte del ‘900 le
nostre conoscenze non ci permettevano di comprenderli. Poi, la rea-
lizzazione dell’aereo, degli elicotteri, dei missili e delle navicelle
spaziali, la conquista della Luna, le sonde nel sistema solare, la
discesa di macchine sulla superficie di Marte ci hanno messo in
grado di scoprire il vero significato dei testi e disegni lasciatici dai
Sumeri. Ma anche il mistero della nascita di Adamo viene reso com-
prensibile dalla scoperta del DNA avvenuta meno di cinquant’anni
fa. Conoscenza che invece già faceva parte del bagaglio culturale
dei Sumeri, come le nozioni astronomiche.
Come facevano gli astronomi sumeri a conoscere perfettamente la
composizione del sistema solare se noi moderni abbiamo scoperto
Plutone, l’ultimo dei pianeti del sistema solare, soltanto nel 1930?
Eppure i Sumeri lo riportavano nei loro testi e lo ponevano nel posto
giusto! E come facevano gli stessi astronomi Sumeri a conoscere le
costellazioni che hanno dato origine ai segni zodiacali che ancora
oggi utilizziamo? E la durata della precessione degli equinozi, come
l’avrebbero potuta calcolare? E, ancora, perché rappresentavano pro-
cessioni di dodici uomini più dodici per indicare lo stretto legame esi-
stente tra mesi dell’anno e costellazioni? I dodici segni zodiacali
abbinati ai dodici mesi diventavano ventiquattro elementi in connes-
sione tra loro, utili per realizzare una mappa astrale.
In queste raffigurazioni i pianeti venivano rappresentati nell’or-
dine che essi hanno procedendo dall’esterno del sistema solare, non

202 La Via di Dante


dall’interno. In questo modo la Terra era il settimo pianeta e
Venere l’ottavo e, di conseguenza, Marte il sesto. Proprio così essi
venivano rappresentati: sette piccoli cerchi rappresentavano la
terra, una stella a sei punte indicava Marte, e quella a otto
punte significava che si era in presenza del pianeta Venere.
Non è credibile, allora, che anche altre affermazioni, contenute
nei documenti sumeri ora tradotti correttamente, dovevano essere
vere? Se non fosse che quelle affermazioni e notizie si ritrovano
nelle nostre Sacre Scritture ed implicano questioni di fede, la rispo-
sta sarebbe una e indiscutibile: sì!
Ma cosa riguardano quelle notizie? Un argomento che è tabù
ancora per chi segue le religioni ebraica e cristiana: la natura ed il
concetto stesso di divinità.
È per le delicatissime implicazioni religiose che le scoperte di
Sitchin -un ebreo russo che ora vive in America-, pur ineccepibili
sul piano archeologico e scientifico, stentano a farsi breccia nelle
masse, anche se, con il passar degli anni, riscuotono un consenso
sempre più largo. Ora è giunto anche il parere non ostile di un esper-
to vaticano di questi argomenti, monsignor Balducci, che ha rassi-
curato Sitchin: le sue ipotesi non contrastano con la fede cattolica.
Accettare quel che egli sostiene significa modificare completa-
mente -tra l’altro- proprio il nostro concetto di divinità e tornare a
quello delle popolazioni che hanno dato vita alle prime civiltà terrestri.
La cosa assurda è che egli non dice niente di diverso da quanto
la Bibbia sostiene con dovizia di episodi e di particolari.
Quante volte Yahweh parla ad Abramo (e poi ai suoi discenden-
ti e ai profeti), dando ordini o suggerimenti? E come lo fa?
Direttamente o con mezzi che oggi definiremmo di trasmissione a
distanza. Non proprio come avrebbe dovuto fare se fosse stato puro
spirito. Anzi a volte incontra i propri interlocutori, si fa vedere, dis-
cute con loro.
Si obietterà che la Bibbia narra così quegli episodi per potersi far
comprendere dagli uomini a cui era rivolto il messaggio. Ma questo
è proprio quello che noi vogliamo dimostrare: gli antichi sapevano
che il contatto con gli dèi era diretto e reale.
Anche i Vangeli non sono esenti da episodi che somigliano in

La Via di Dante 203


maniera impressionante a quanto Sitchin traduce dal sumero.
L’episodio, già ricordato, della trasfigurazione di Gesù sul
Monte Tabor -cui si riferisce significativamente anche Dante- è illu-
minante, ma i cristiani non lo vogliono interpretare nel modo cor-
retto, seguendo alla lettera quanto viene riferito. Noi ci rifiutiamo di
vedere la realtà riferita dai Vangeli per seguire una tradizione bimil-
lenaria, perché l’uomo mai, prima del secolo passato, ha avuto la
nozione di navetta spaziale o di oggetto volante. Eppure non poche
sono le rappresentazioni pittoriche di questi oggetti presenti nelle
opere degli artisti del Medioevo e del Rinascimento come abbiamo
visto a pagina 198.
Ma rivediamo il passo del Vangelo di Luca che riferisce l’episo-
dio della trasfigurazione sul monte Tabor:
28 Circa otto giorni dopo questi discorsi, Gesù prese con sé
Pietro, Giovanni e Giacomo, e salì sul monte a pregare.
29 Mentre pregava, l’aspetto del suo volto fu mutato e la sua
veste divenne di un candore sfolgorante.
30 Ed ecco due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elia,
31 i quali, apparsi in gloria, parlavano della sua dipartita che
stava per compiersi in Gerusalemme.
32 Pietro e quelli che erano con lui erano oppressi dal sonno; e,
quando si furono svegliati, videro la sua gloria e i due uomini che
erano con lui.
33 Come questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù:
”Maestro, è bene che stiamo qui; facciamo tre tende: una per te, una
per Mosè e una per Elia”. Egli non sapeva quello che diceva.
34 Mentre parlava così, venne una nuvola che li avvolse; e i
discepoli temettero quando quelli entrarono nella nuvola.
35 E una voce venne dalla nuvola, dicendo: ”Questi è mio
Figlio, colui che io ho scelto: ascoltatelo”.
36 Mentre la voce parlava, Gesù si trovò solo. Ed essi tacquero e in
quei giorni non riferirono nulla a nessuno di quello che avevano visto.

Gesù mentre prega si trasfigura, le sue vesti diventano di un


bianco fosforescente e parla con Mosé ed Elia giunti sul monte
Tabor su una “nuvola” i quali, alla fine del colloquio, salgono di
nuovo su quella che agli apostoli sembra una nuvola e tra luci e
fumo si allontanano tornando in cielo.
204 La Via di Dante
Al tempo di Cristo questo episodio era interpretato alla lettera.
La nuvola, poi, somiglia tanto a quei “turbini di vento” di cui par-
lano i Sumeri, che non lascia scettici o increduli gli antichi più di tanto.
Nei secoli successivi all’avvento del cristianesimo esso diventa
simbolico, una visione onirica. Ma oggi, possiamo continuare anco-
ra a non vedere la realtà? No. Ce lo impediscono sia le nostre cono-
scenze tecnico-scientifiche sia la esatta
conoscenza dei testi lasciatici dai sumeri-
assiri-babilonesi che si rifanno direttamente
a quanto raccontato loro dai responsabili di
tutto: gli Anunnaki (che la Bibbia chiama
Nefilim) del dio An che gli Ebrei indicano
come il loro Yahweh. Quel dio che risiede - I turbini di vento,
proprio per i Sumeri- nell’alto dei cieli che noi o camere volanti
abbiamo degli Anunnaki

tradotto con la parola Paradiso


che, invece, significa soltanto:
parco o giardino circondato da
alto recinto e si riferisce ad un
luogo della Terra dove, quando tutto
era ghiacciato,
era sempre pri-
mavera.
E chi sono
questi dèi?
Sono quelli
discesi dal
cielo, ma non
volando come
angeli fatti di
GLI DEI VENUTI DAL CIELO puro spirito, ma
Una raffigurazione sumera degli dèi venuti dal cielo con quelle che
e i simboli di vari pianeti: la stella ad otto punte di Venere;
le due file di tre cerchi dopo un cerchio centrale,
allora chiama-
sette in tutto, ad indicare la Terra; i simboli del dio Anu, il vano turbini di
cerchio alato, dimostrano che i Sumeri avevano conoscenze vento e che oggi
astronomiche che l’umanità ha raggiunto soltanto recentemente.
Il Pianeta Plutone, infatti, è stato scoperto solo nel 1930. chiamiamo

La Via di Dante 205


aerei, elicotteri, navette spaziali. Erano divinità in carne ed ossa,
esseri simili a quegli uomini che avrebbero creato con una manipo-
lazione del DNA della scimmia più evoluta. Erano discesi con la
loro brava astronave provenienti da un pianeta a noi ancora oggi
sconosciuto, un pianeta del sistema solare che essi chiamano
Nibiru, che ha un’orbita estremamente lunga ed un periodo di rivo-
luzione intorno al sole di 3600 dei nostri anni. Quando si avvicina,
il pianeta degli dèi passa in uno spazio compreso tra la Terra e
Venere, dunque vicino a noi. Questo rende credibile, oltre che pos-
sibile, la loro discesa anche sulla Terra.
Fatto sta che i Sumeri erano abituati a vederli e a vedere le loro
macchine volanti. Li raffiguravano sui loro sigilli, li descrivevano,
utilizzavano le loro conoscenze. Con quelle conoscenze loro fornite
dagli esseri venuti dal cielo, i Sumeri avevano potuto credibilmente
creare, all’improvviso e dal nulla, la loro civiltà, la prima di cui si
abbia nozione, cosa spiegabile in maniera ragionevole solo così.
La loro lingua riporta con un termine pittografico i -MU- che
somigliano incredibilmente ai nostri missili, alle navicelle spaziali e
sbalordisce la loro utilizzazione in abbinamento, proprio come i
missili Saturno che portavano la capsula spaziale che raggiungeva
la Luna. Torneremo più avanti su questi temi, più in dettaglio.
Le descrizioni degli arrivi e delle partenze di queste macchine, i
loro spostamenti anche sulla Terra sono fatte in maniera del tutto
naturale. Quegli dèi sono, per le popolazioni antiche, presenze indi-
spensabili alla loro vita. Sono essi che guidano i popoli e i popoli
non se ne meravigliano.
Questo -e molto altro ancora- è quanto viene fuori dallo studio
di quelle civiltà. Questo è quanto mostra di conoscere Dante ed è
alla luce di queste nuove, recentissime conoscenze che dovremmo
rileggere anche la Divina Commedia.
E si badi: si può discutere se quanto riportato dai sigilli e dai testi
dei Sumeri sia realtà o racconto fantastico partorito dalle loro menti
ricche di fantasia. Certamente non si possono mettere in discussio-
ne le decine di migliaia di tavolette d’argilla rinvenute archeologi-
camente e che contengono, comunque, proprio quelle informazioni.
Questo significa che se è esistita veramente -come nessuno mette

206 La Via di Dante


più in dubbio- una (o più?) organizzazione segreta che traman-
dava -oralmente o con documenti- le più antiche conoscenze,
allora Dante aveva tutte le carte in regola per far parte di quel-
la organizzazione e poteva ragionevolmente essere entrato in
possesso di quelle informazioni.
Non c’è niente di straordinario in questo.
Ricordo, per inciso, che tra i Gran Maestri del Priorato di Sion
che dà vita -tra l’altro- ai Cavalieri Templari, sembra ci fossero

L’ASTRONAVE VISTA DAL BASSO


Orsa maggiore: quattro stelle formano il carro tre stelle il timone.
Mizar, la stella centrale del timone è una doppia spettroscopica e forma
un sistema binario con la meno lucente Alcòr -la debole- la stella g
dell’Orsa Maggiore chiamata il cavaliere. potrebbe indicare
una qualche via per la luna? O per le costellazioni?
L’Orsa minore contiene la stella polare che indica la via,
il nord sulla Terra sono carri di 7 stelle.
Un enorme disco con luci in numero uguale a quello descritto
da Dante poteva ben dare l’impressione di una processione
dato il lento movimento dell’astronave che sta per atterrare.
Quando lo fa la processione si ferma.

La Via di Dante 207


nomi come quelli di Sandro Botticelli e di Leonardo da Vinci, auto-
ri di opere straordinarie dai significati simbolici che richiedono
diversi livelli di lettura per essere comprese, esattamente come
accade per la Divina Commedia.
Torniamo ancora al corteo che accompagna Beatrice.
I sette candelabri sono disposti su due file di tre ciascuna, mentre
uno è posto in mezzo: esattamente come i Sumeri rappresentavano la
Terra. Sette piccoli cerchi disposti su due file di tre con un cerchio in
mezzo ed in testa, come mostra una delle figure di pag. 205.
Se confrontiamo questa descrizione con quella figura ci accor-
giamo che la disposizione dei sette cerchi è la stessa descritta da
Dante. Secondo questa ricostruzione, perciò, i sette candelabri altro
non rappresenterebbero che la Terra, il luogo d’arrivo, la meta di
Beatrice, ma anche il luogo di partenza di Dante e Beatrice verso la
casa-Paradiso di Anu.
Potrebbe essere, allora, quella di Dante, la descrizione di una
mappa celeste fatta utilizzando simboli astronomici degli Anunaki
tramandati dai Sumeri?
Vediamo.
Il corteo continua con i ventiquattro vecchi vestiti di bianco.
Al di là della simbologia cristiana, essi possono essere diversa-
mente interpretati.
Abbiamo visto anche che per i Sumeri le costellazioni erano
dodici più dodici i pianeti (compresi sole e luna) per un totale di
ventiquattro.
Dovendo partire per andare nell’alto dei cieli non sarebbe troppo
azzardato ipotizzare che la lettura esoterica del brano ci indichi il per-
corso astrale da fare per arrivare alla casa di Dio. Percorso che neces-
sariamente deve riguardare tutto il sistema solare con le costellazioni
a far da guida fino a giungere nella casa di Dio-Anu-Yahweh che di
solito -non sempre- dimora, appunto, nell’alto dei cieli.
Nel corteo sono presenti altre sette figure. Quattro sono vestite
dello stesso colore, il rosso purpureo, tre hanno vesti di colore
diverso: una veste di rosso, una di verde, una di bianco, i tre colori
di Diana e di Beatrice. Diana, però, è anche IN.ANNA, la predilet-
ta di AN-Janus-Yahweh.

208 La Via di Dante


Cosa significa tutto questo?
Potrebbe significare che il percorso che Beatrice farà con Dante,
partendo dal territorio della Terra (i sette candelabri) dedicato a
Inanna-Diana (i tre colori:bianco, rosso, verde) per portarlo dal dio-
conoscenza, tocca la luna (Inanna-Diana) e gli altri sei corpi celesti
e attraverso una rotta indicata dalle costellazioni (i ventiquattro vec-
chi) giungerà nell’alto dei cieli, fino alla casa di Dio, indicata dalla
costellazione dell’Orsa che prima ha indicato la rotta sulla Terra,
poi, scavalcate le nuvole, indicherà la rotta verso l’empireo.
L’obiezione più semplice che si farà sarà: Dante immagina cose
per lui fantastiche come il volare perché egli sa che in Paradiso
vanno solo le anime, non i corpi.
Certo che lo sa, ma sa anche altro che è sconosciuto ai comuni
mortali. Per questo prima chiede a Beatrice come sia possibile che
un corpo pesante -il suo- possa viaggiare nell’aria, tra gli elementi
leggeri.
e dissi: ”Già contento requievi
di grande ammirazione, ma ora ammiro
99. com’io trascendo questi corpi levi”.

Poi, però, dimostra di sapere anche il resto.


Sa, e lo fa dire a Beatrice, che è possibile volare e spostarsi ad
una velocità per lui inimmaginabile.
Tu non se’ in terra, sì come tu credi;
ma folgore, fuggendo il proprio sito,
93. non corse come tu ch’ad esso riedi”.

Sa, contrariamente a quanto generalmente si afferma, che non


tutti coloro che sono ascesi al cielo erano puri spiriti. Elia e Mosé,
per esempio, che tornano sulla Terra con la “nuvola” con la quale
atterrano sul monte Tabor con tutto il corpo.
Anche Gesù era asceso al cielo con il suo corpo di uomo resu-
scitato, oltre che come figlio di Dio.
E come si poteva spiegare, al di là del dogma, l’assunzione in
cielo di Maria, madre di Gesù, il Cristo, con anima e corpo?
Dove sono andati Mosè, Elia, Gesù e sua Madre Maria se ave-
vano il loro corpo?
La Via di Dante 209
È quello che si domanda anche Dante riferendosi a sé stesso.
Egli non solo sa che Elia e Mosè sono in cielo con anima e
corpo, ma sa anche interpretare correttamente il Vangelo di Luca
con le conoscenze sumere che ha: non può non dedurre che i due
sono arrivati dall’alto dei cieli dove tornano con lo stesso mezzo che
sembra una nuvola agli apostoli, ma è in realtà una normale -per
Dante- astronave, una macchina che è in grado di andare e venire
dall’alto dei cieli.
Ma queste cose, come gli argomenti dei dogmi, l’abbiamo visto,
erano inspiegabili per coloro che non avevano conoscenze occulte,
solo perché non avevano ancora quelle informazioni necessarie che
oggi abbiamo.
Queste informazioni, che a noi derivano dalla scienza, presso i
Sumeri, gli artefici della prima civiltà umana, erano parte di una
conoscenza a cui erano abituati e che era del tutto normale per loro.
Come mai?
Quelle conoscenze venivano all’uomo da fonti ancor più antiche
che essi non mettevano in discussione, ma seguivano come fossero
ovvie e naturali. A quelle antiche conoscenze i moderni non hanno
più creduto perché, distrutto l’antico sapere, i veri significati di
quelle informazioni sono andati perduti o sono stati stravolti e rifiu-
tati come realtà concreta e considerati solo dei fantastici miti privi
di riscontri reali. Eppure quegli episodi mitici erano contenuti anche
in opere che, ancora oggi, consideriamo sacre come la Bibbia, e da
esse riferiti come verità assoluta, anzi, come parola di Dio e per tali
ritenuti sempre verità indiscutibili.
Le storie bibliche che parlano di Nefilim, gli dèi venuti dal cielo,
a cui il popolo ebraico delle origini credeva, sono poi state trasfor-
mate e rifiutate quando Yahveh divenne l’unico dio degli ebrei.
“Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio al di fuori di
me” aveva ordinato. Ma proprio la corretta lettura di questo coman-
damento conferma che Yahweh non era l’unico Dio, ma il solo dio
che il popolo ebraico era autorizzato a seguire perché era obbliga-
to a rigettare gli altri, non tanto perché falsi e bugiardi, ma solo per-
ché nemici o rivali di Yahweh.
Le tante cose che i Sumeri, prima, i Babilonesi e i Caldei poi,

210 La Via di Dante


conoscevano e che in qualche modo si erano salvate, si erano tra-
mandate divenendo patrimonio culturale di una piccolissima élite.
Questa le aveva tramesse alle generazioni successive senza saperle
più comprendere in pieno, pur rimanendo ferma la consapevolezza
della loro verità.
Dante possiede tutti i requisiti per essere uno di questi pochi
eletti e lo dimostra. Nasconde quelle segrete conoscenze in versi
che finora nessuno ha saputo decifrare proprio per la mancanza
delle informazioni di cui solo il Poeta e pochi altri erano in posses-
so e sulle quali dovevano mantenere il segreto. Quei versi per noi
diventano chiarissimi, ma solo se a nostra volta li mettiamo in rela-
zione con quelle conoscenze che ormai abbiamo acquisito e che
allora erano misteriose.
Vedremo in seguito come diventerà chiaro questo, per ora, oscu-
ro discorso.

Torniamo, ancora, al lungo corteo.


Dante descrive una serie di cose e persone simboliche che fino-
ra sono state interpretate come i simboli del cristianesimo e della
Chiesa cattolica e come tali spiegati. Addirittura questo corteo
dovrebbe rappresentare la storia della Chiesa con tutti i suoi simbo-
lismi a volte misteriosi se non addirittura incomprensibili e comun-
que tali da richiedere una buona dose di fede per essere accettati.
Questo è quello che appare ad un primo livello di lettura.
Approfondiamo. Vediamo se ne possono esistere altri che ci
fanno spostare l’obiettivo del simbolismo del racconto.
Per questo esaminiamo un particolare tipo di storie: quelle che
riguardano i misteriosi viaggi verso il cielo.
Cominciamo da Elia.
Il grande profeta, secondo la Bibbia, non è mai morto, ma, per le
sue benemerenze, fu condotto nell’alto dei cieli da un carro di
fuoco. Seguiamo ancora il parere di Zecharia Sitchin:
“L’Antico Testamento, poi, ci dice che il profeta Elia non morì
sulla Terra, ma “salì al Cielo portato da un turbine di vento”. E non
si trattò di un evento improvviso e inaspettato, ma anzi accurata-
mente preparato. Fu detto ad Elia di andare a Beth-El (“la casa del
Signore”) in un determinato giorno, e tra i suoi discepoli si era già
La Via di Dante 211
diffusa la voce che egli stava per essere assunto in cielo. Quando
chiesero al suo aiutante se la voce rispondeva al vero, egli confer-
mò che sì, in effetti “oggi il Signore porterà via il Maestro”. Quindi
Apparve un carro di fuoco,
e cavalli di fuoco...
Ed Elia salì al Cielo
portato da un turbine di vento.

Ma Elia è solo il più famoso degli uomini saliti al cielo per


volontà divina con tutto il corpo.
Prima di lui era toccato a Enoch, il bisnonno di Noè, “che se ne
era andato perché il Signore l’aveva preso” per potergli far ottenere
il dono dell’immortalità.
Dopo Elia, sempre secondo l’Antico Testamento, toccò ad un
altro mortale ascendere al cielo per andare nella casa del Signore.
Era il re di Tiro il quale, inorgoglito oltre misura per essere stato
nell’alto dei cieli, si credette un dio e per questo fu punito e tornò
ad essere mortale.
Anche nelle opere sumere si trovano esempi di personaggi saliti
al cielo per cercare l’albero della vita nel giardino di Anu.
Uno di questi è Gilgamesh, figlio di un uomo e di una dea
anunaki, perciò per due terzi divino e un terzo uomo, come
Enea dalla cui progenie discenderà Roma.
La vicenda di Gilgamesh ci fa comprendere anche come per i
Sumeri fosse normale che un uomo potesse essere figlio di dèi e
come fosse altrettanto comune la conoscenza dei mezzi di trasporto
spaziale che i loro dèi usavano per salire al cielo.
Nell’opera che narra la vicenda di Gilgamesh si parla sia del
luogo dell’atterraggio, il porto spaziale, come lo definiamo oggi, sia
della partenza di un veicolo spaziale. Vediamo:
Lasciami entrare in quella Terra,
lasciami innalzare il mio shem.
Nei luoghi dove vengono innalzati gli shem
fa’ che io possa innalzare il mio.
Portami al luogo dell’atterraggio a...
Poni su di me la tua protezione!
Una lacuna nella tavoletta che riporta questo brano ci impedisce di
conoscere il nome della località dove aveva sede la base spaziale.
212 La Via di Dante
Ma ecco come Gilgamesh descrive poi la partenza di un veicolo spa-
ziale. La descrizione è ormai così chiara per noi che non possiamo avere
dubbio alcuno su cosa si sta descrivendo.
Ciò che ho visto è stato davvero spaventoso.
I cieli stridevano, la terra tuonava;
la luce del giorno si spense e sopraggiunse l’oscurità.
Balenò un lampo, apparve una fiamma.
Le nubi si gonfiarono, piovve morte!
poi la gran luce svanì; il fuoco si spense.
E tutto ciò che era caduto si trasformò in cenere.
Zecharia Sitchin, Il Pianeta degli Dei, Piemme, pag. 153
Ma non basta.
Prima di Gilgamesh, c’era stato un altro re, Etana, il tredicesimo
sovrano di Kish, che era definito “colui che ascese al Cielo”.
La sua storia era notissima in tutto l’antico Medio Oriente.
Non potendo avere un figlio, Etana si era rivolto a Samash per
avere uno shem per ascendere al cielo per risolvere il suo problema..
O signore, possa uscire dalla tua bocca!
Dammi la Pianta della Nascita!
Mostrami la Pianta della Nascita!
Soccorri le mie scarse capacità!
Concedimi di avere uno shem.

Ottenuto lo shem, Etana si sente dire dall’Aquila, il comandante


dello shem:”Amico mio... al Cielo di Anu ti porterò”.
E dopo avergli insegnato come reggersi, partì -e in un atti-
mo erano in alto, e salivano sempre di più.
Da sottolineare le modalità di partenza e la velocità.

ANIMALI E MISSILI
Una delle tavolette pubblicate da Sitchin mostra delle
figure a forma di missile (SHEM) tra animali
con sullo sfondo le stelle.
La stella a sei punte simboleggia il pianeta Marte.

La Via di Dante 213


Il narratore descrive poi la Terra sempre più piccola, e sembra
quasi di leggere il resoconto di un moderno astronauta che dalla sua
navicella vede la Terra allontanarsi:
Quando furono saliti di un beru
l’Aquila dice ad Etana:
“Guarda, amico mio, come appare la Terra!
Guarda il mare ai lati della Casa della Montagna:
la Terra è diventata come una semplice collina,
la distesa del mare sembra una piccola pozza”.

L’Aquila saliva sempre più in alto e la Terra appariva sempre più


piccola... Finché ad un certo punto, dopo essere saliti ancora, la
terra scomparve improvvisamente dalla vista.
Mi guardai intorno, e la Terra era scomparsa,
i miei occhi non poterono posarsi
sull’ampia distesa del mare.
Z. Sitchin, Il Pianeta degli Dei, Piemme Pocket, pag.158

Ancora una volta, questa insolita descrizione della Terra vista


dall’alto, da grande distanza, trova una corrispondenza in un passo
biblico. Nell’esaltare il Signore Yahweh, il profeta Isaia disse di lui:
”È colui che siede sul cerchio della Terra e da lì vede i suoi abi-
tanti grandi come insetti”.

Come si vede, fin dalla prima civiltà dell’uomo si ha conoscen-


za non solo di oggetti volanti in grado di ascendere nell’alto dei
cieli, ma anche di cosa si vedeva dall’alto.
Avendo ricordato tutte queste antiche conoscenze, ritorniamo
ancora una volta al corteo. Possiamo ora affrontare i versi di Dante
con un’ottica completamente diversa e, forse, possiamo individuare
la vera chiave di lettura di questa parte dell’opera, essenziale per la
comprensione di tutta la Divina Commedia.
Così tutti i protagonisti di questo corteo sono vestiti di bianco.
Ma non di un bianco normale: sembra un bianco fosforescente,
come quello che risalta sugli abiti indossati oggi da chi deve lavo-
rare in sicurezza al buio in mezzo alla strada: vigili urbani, addetti
alle ambulanze o alla protezione civile, vigili del fuoco ecc.
Se poi vogliamo incamminarci nel terreno minato dei “rapimen-
214 La Via di Dante
ti” da parte di extraterrestri, possiamo immaginare che quel bianco
somigli al bianco-fosforescente di cui sono state recuperate parti sul
corpo e sugli abiti di donne “rapite” dagli alieni. Quella sostanza
fosforescente, esaminata da laboratori scientifici ufficiali, è risulta-
ta essere cosa non ancora prodotta sulla Terra.
Ma vestiti di quel bianco sono anche i due messaggeri che vanno
in casa di Lot, prima che Sodoma e Gomorra siano tragicamente ed
improvvisamente distrutte. Anche gli angeli che sono nel sepolcro di
Gesù hanno vesti di un candore mai visto. Anche le tavolette risalen-
ti alla civiltà di Sumer riportano notizia di personaggi vestiti di bian-
co-fosforescente. E così diventano anche le vesti di Gesù sul monte
Tabor e così sono quelle di Mosè ed Elia che conferiscono con lui.
Possibile che sia tutto frutto di fantasia, di errate interpretazioni
o di banali mistificazioni? Almeno per quanto riportato nei Testi
Sacri la risposta è sicuramente negativa.
È solo un caso fortuito che Dante riporti simili particolari?
Come abbiamo visto, Dante conosceva profondamente opere di
provenienza medio orientale, apparteneva a quelle che oggi chia-
meremmo sette segrete che si dicevano depositarie di antichissime
verità e conoscenze che non dovevano essere divulgate, ma solo tra-
mandate ed erano riservate esclusivamente a pochissimi eletti.
Dante era uno di questi e le conoscenze le ha davvero e di loro
lascia evidenti -anche se incomprese- tracce nelle sue opere.
Per questo è riduttivo continuare ancora oggi a confermare inter-
pretazioni della Commedia che non tengano conto delle più recenti
scoperte della scienza, delle conquiste dello spazio effettuate
dall’Uomo che ci consentono di eseguire corrette traduzioni dei
testi sumeri, assiri e babilonesi ed interpretare con il giusto signifi-
cato il contenuto di -finora- oscuri brani della Bibbia.
Se ci addentriamo nelle testimonianze sumere che sono arrivate
fino a noi troviamo delle cose sconvolgenti ed allo stesso tempo pie-
namente rispondenti alle descrizioni dantesche oltre che alle nostre
attuali conoscenze. Anche se appare incredibile, osservando le cose
senza pregiudizi non si può non ammettere che le considerazioni
che qui si fanno non sono così fantastiche come a prima vista
potrebbero apparire.

La Via di Dante 215


Nelle figure qui riprodotte -tratte da opere di Zecharia Sitchin-,
risalenti all’epoca di Sumer, quasi seimila anni fa, non solo si vedo-
no chiarissime ed incontrovertibili raffigurazioni di oggetti volanti
che oggi chiamiamo missili, ma anche i caratteri stessi della scrittu-
ra pittografica di quei popoli -come vedremo in dettaglio a pagina
250- raffigurano esattamente missili, navette spaziali, l’insieme dei
due oggetti ecc. Questo dimostra che non si sta parlando di banali
fandonie o di pure coincidenze, ma di cose reali, note e comuni,
tanto che si raffiguravano nella normale scrittura di allora.
Nella figura di questa pagina, ancor più sorprendente è la presenza
in alto di un missile che emette fiamme dalla parte posteriore, ma sotto
al missile è raffigurato un carro a due ruote trainato da un cavallo.
Dopo aver illustrato il corteo trionfale che accompagna il carro,
-quello vero, grande- finalmente Dante vede quattro animali alati
che, facendolo scendere dall’alto, portano a terra il carro forti delle
loro sei ali piene di occhi.

IL MISSILE SOPRA IL CARRO


Una delle tante scene tratte da tavolette sumere in cui si raffigu-
rano oggetti volanti senza particolare enfasi, come fossero cose
comuni a quei tempi e attribuibili agli dei venuti dal cielo di cui i
popoli antichi avevano piena consapevolezza
e di cui non si meravigliavano minimamente.
Solo successivamente, perso il contatto diretto, l’umanità ha
perso anche la memoria della realtà e si è accontentata
di trasformare questi eventi in miti.

216 La Via di Dante


A questo punto Dante dà una descrizione molto sommaria del-
l’evento non perché non sappia come giustificarlo, ma semplice-
mente perché dovrebbe ripetere integralmente quanto il Profeta
Ezechiele ha già descritto esattamente e con dovizia di particolari.
E Dante a lui rimanda.
vennero appresso lor quattro animali,
93. coronati ciascun di verde fronda.
Ognuno era pennuto di sei ali;
le penne piene d’occhi; e li occhi d’Argo,
96. se fosser vivi, sarebber cotali.
A descriver lor forme più non spargo
rime, lettor; ch’altra spesa mi strigne,
99. tanto ch’a questa non posso esser largo;
ma leggi Ezechiel, che li dipigne
come li vide da la fredda parte
102. venir con vento e con nube e con igne;
e quali i troverai ne le sue carte,
tali eran quivi, salvo ch’a le penne
105. Giovanni è meco e da lui si diparte.
Lo spazio dentro a lor quattro contenne
un carro, in su due rote, triunfale,
108. ch’al collo d’un grifon tirato venne.
Esso tendeva in sù l’una e l’altra ale
tra la mezzana e le tre e tre liste,
111. sì ch’a nulla, fendendo, facea male.

Il Sapegno non dà alcuna importanza ai versi con i quali Dante


invita il lettore a vedere la descrizione dell’evento narrato da
Ezechile. Ovviamente non ipotizza nemmeno lontanamente la
descrizione dell’atterraggio di un’astronave sulla Terra e lo scarico
a terra di macchinari che Ezechiele descrive come animali. Il
Sapegno ritiene, invece, molto più utile riferire questo passo più ai
trionfi dei generali romani che alle -evidentemente per lui inatten-
dibili- descrizioni di Ezechiele.
Proviamo, invece, a seguire le indicazioni di Dante e vediamo
che cosa riferisce il profeta e che il Poeta si sente di sottoscrivere in

La Via di Dante 217


pieno, con la sola differenza del numero delle ali degli animali.
Ezechiele ne vede quattro unite due a due, Dante, seguendo anche
quello che riferisce Giovanni nell’Apocalisse, ne ha viste sei, sem-
pre unite due a due.
Ezechiele ci condurrà, poi, a Giacobbe e ad Elia per giungere a
testi più antichi, come quello che riguarda Gilgamesh...
Vediamo per ora quanto egli scrive riferendo quel che ha visto da
sveglio, non sognato.
Seguo, nelle citazioni, il testo della Sacra Bibbia che si rifà alla
versione di Girolamo (VI secolo d.C.) e alle più recenti notazioni
così come riportato nell’edizione dell’Editoriale Del Drago, per la
traduzione di Fernando Vittorino Joannes, 1986. La scelta è del tutto
casuale e, credo, ininfluente ai fini del nostro ragionamento. Il gras-
setto che evidenzia i passi più interessanti è, ovviamente, come
sempre, una mia scelta.

IL CARRO DI EZECHIELE
Il carro visto da Dante sul quale è Beatrice
quando scende nel Paradiso Terrestre.
Dante non descrive questo carro rimandando i suoi lettori alla
descrizione che Ezechiele ne fa nel suo libro nella Bibbia.
Questo è quello che il tecnico della NASA Blumrich
disegna seguendo le descrizioni di Ezechiele
e, dunque, è anche quello che vede Dante.
I quattro animali non sono che i quattro appoggi che scendono
dal corpo del velivolo.
Al centro scende il “carro” trainato dal grifone alato.

218 La Via di Dante


IL PROFETA EZECHIELE: “E vidi”
Ed ecco la narrazione di Ezechiele.
Il cinque del quarto mese dell’anno trentesimo,
mentre mi trovavo tra i deportati
sulle rive del canale Chebar,
i cieli si aprirono
ed ebbi visioni divine.

4. E Vidi. Ed ecco un vento di tempesta venire dal settentrio-


ne, una gran nube, un fuoco avvolgente, circondato di
splendore. E nel suo centro, in mezzo al fuoco, brillava
una specie di elettro.
5. In mezzo vi era l’immagine di quattro animali. Eccone l’a-
spetto: somigliavano all’uomo.
6. Ma ognuno aveva quattro facce, ognuno quattro ali.
7. I loro piedi erano dei piedi dritti e la pianta dei loro piedi
era come la pianta del piede di un vitello. Scintillavano
come rame incandescente.
8. Avevano ai quattro lati sotto le ali, mani d’uomo...
9. Le loro ali erano unite l’una all’altra. Nel camminare
non tornavano indietro, ma ciascuno andava in direzione
della sua faccia.
10. Ed ecco l’aspetto delle loro facce: tutti e quattro avevano
la faccia d’uomo e di leone alla loro destra; tutti e quattro
avevano faccia di bove a sinistra; al di sopra di tutti e
quattro vi era la faccia dell’aquila.
11. Così le loro facce. Le ali di ognuno si univano e due
coprivano il loro corpo.
12. Ognuno di essi andava in direzione della sua faccia.
Andavano dove portava l’impeto dello spirito e nel cam-
minare non si voltavano indietro.
13. Ed ecco la forma degli animali. Il loro aspetto era come
fuoco di carboni ardenti e come faci accese. Ecco quanto
vedono scorrere nel mezzo degli animali: splendore di
fuoco, dal quale uscivano folgori.
La Via di Dante 219
14. E gli animali andavano e venivano a somiglianza di fol-
gori lampeggianti.
15. Mentre guardavo gli animali, apparve in terra presso gli
animali una ruota che aveva quattro facce.
16. l’aspetto delle ruote e la loro struttura era come la vista
del mare. Tutte e quattro si somigliavano, e il loro aspetto
e la loro struttura era come di una ruota in mezzo a un’al-
tra ruota.
17. Esse andavano costantemente per i loro quattro lati, e nel-
l’andare non si volgevano indietro.
18. La grandezza e l’altezza delle ruote era spaventosa a
vedersi; tutta la superficie delle quattro ruote era piena di
occhi.
19. Quando camminavano gli animali, si muovevano pari-
menti ai loro lati anche le ruote. Quando gli animali si
alzavano da terra, si alzavano insieme anche le ruote.
20. Dovunque andava lo spirito, là,
dietro allo spirito si alzavano
parimenti anche le ruote,
seguendolo, poiché nelle
ruote vi era lo spirito
della vita.
21. Se (gli animali) anda-
vano, esse andavano.
Se essi stavano
fermi, esse stava-
no ferme. Se essi si
alzavano da terra, si
alzavano da terra anche
L’ASTRONAVE DI EZECHIELE
Un’altra immagine dell’astronave di Blumrich, che abbiamo già
visto a pag. 218. Non contiene gli elementi che Dante dice di
vedere e che indica come candelabri, corteo di vecchi, figure di
ninfe ecc, scambiando probabilmente luci più o meno grandi e
lunghe con figure di un corteo che si ferma all’improvviso, quan-
do l’astronave si ferma del tutto. La forma circolare e le quatto
“zampe” la fanno somigliare a quella riportata con tutte le luci-
figure del corteo a pag. 207.

220 La Via di Dante


le ruote, seguendoli, essendo nelle ruote lo spirito della vita.
22. Sopra le teste degli animali vi era la figura del firma-
mento che aveva l’aspetto di stupendo cristallo disteso
sopra le loro teste.
23. Sotto il firmamento stavano le loro ali stese, quella del-
l’uno e quella dell’altro, ciascuno con due ali velava il suo
corpo, e l’altro allo stesso modo era velato.
24. E io stavo a sentire il rumore delle ali, simile al rumore di
immense acque, simile alla voce del sublime Dio. Se cam-
minavano, il rumore era come quello dell’immensa
moltitudine, come il rumore di un’armata. Quando
stavano fermi si abbassavano le loro ali.
26. E sul firmamento che stava al di sopra delle loro teste
appariva come una pietra di zaffiro in forma di trono e
sopra questa specie di trono vi stava uno che sembrava
all’aspetto un uomo. Dentro di lui
27. e all’intorno io vidi una specie di folgore, come l’appa-
renza del fuoco, e dai suoi lombi al di sopra e dai suoi
lombi al di sotto, vidi come una specie di fuoco che irrag-
giava all’intorno.
28. Come l’aspetto dell’arcobaleno quando si forma nella
nube in giorno di pioggia, tale era l’aspetto dello splendo-
re all’intorno.

Come hanno potuto, gli studiosi di Dante, trascurare nei loro


commenti questo brano della Bibbia?
C’è una sola spiegazione: non potevano nemmeno lontanamen-
te sospettare che Dante o Ezechiele avessero la cognizione del con-
cetto di oggetto volante così come noi oggi intendiamo una nave
spaziale, un aereo, un elicottero perché essi stessi non potevano
averla. Figuriamoci se potevano immaginare la scena di quel che
accade al momento dell’atterraggio di un’astronave o della parten-
za di un missile con o senza navetta spaziale a bordo.
I commentatori più recenti, come Natalino Sapegno e come tutti
gli altri dopo di lui, ancora più recenti, invece, per i quali questi
concetti ormai rappresentano la normalità, hanno continuato ad
accettare le interpretazioni della tradizione e, ritenendo le nostre
La Via di Dante 221
attuali conoscenze non comprese nel bagaglio culturale di Dante,
hanno continuato a seguire le interpretazioni della tradizione senza
modificarle, senza aggiornarle. Del resto, nessuno ancora oggi ritie-
ne di poter affermare con certezza che Elia sia stato portato in cielo
da un’astronave, ma solo da un carro di fuoco fantastico e non
meglio identificato e, forse, frutto della fantasia degli antichi com-
pilatori della Bibbia.
Occorre, invece, prendere atto della diversa realtà documentata ad
abundantiam dalle tavolette sumere -testi e sigilli figurati- corretta-
mente tradotte, ormai, che descrivono scene reali e vissute e, perciò,
degne di essere ricordate nel libro sacro degli ebrei e dei cristiani
come tali, e non come visioni oniriche di qualche scrittore fantasioso.
Ma, come abbiamo già visto a pag. 198, documentazioni di simili
visioni non si fermano ai tempi biblici, sono anche in alcuni dipinti
del Medioevo e del Rinascimento e non era raro che anche gli storici
antichi registrassero fenomeni particolari dovuti ad oggetti volanti.
Se non si voleva credere
alla tradizione romana sulla
scomparsa di Romolo portato
in cielo da una nuvola o vorti-
ce di vento che spaventa tutti i
romani, perché rifiutarsi di
prendere alla lettera almeno i
Vangeli e la Bibbia?
Un tempo questa incredu-
lità poteva essere comprensi-
bile. Era dovuta alla difficoltà
di accettare come vere certe
apparizioni non terrene per-
ché di loro non si poteva dare
una spiegazione valida.
Perciò pur essendo racconto
biblico, per definizione veri-
tiera -“parola di Dio”-, si
spiegava ciò che non si com-
Un’altra raffigurazione del carro di
fuoco. Questa è di origine cinese. prendeva simbolicamente,

222 La Via di Dante


come visioni oniriche, come ammonimenti divini, non come realtà
vista dal vero e vissuta in prima persona da chi poi la raccontava.
Oggi queste difficoltà e remore sono molto meno giustificabili, non
fosse altro che per il fatto che i razzi, gli shuttle, i moduli spaziali li
abbiamo costruiti ed utilizzati e perché oggi sappiamo comprendere
quanto Sumeri e popoli mediorientali ci hanno tramandato. Quei loro
racconti parlano proprio di queste stesse cose che ormai ben cono-
sciamo e che ora facilmente riconosciamo in quelle descrizioni prima
incomprensibili. Infine, da non sottovalutare, le precisissime cogni-
zioni astronomiche che i Sumeri e i loro discendenti, i Caldei, posse-
devano contro ogni logica a meno di ammettere che qualcuno -ovvia-
mente non di questo mondo o di una precedente civiltà molto più svi-
luppata di quella nostra attuale- non le avesse insegnate loro.
Dante, perciò, non inventa niente. Non vola con la fantasia, non
scrive per caso cose per lui inimmaginabili ed impensabili, come
abbiamo finora creduto, dando interpretazioni del tutto inadeguate -
a volte ridicole- ai suoi versi più “strani”.
Ha, invece, di alcuni concetti scientifici -che descrive con
inspiegabile proprietà- profonda, consapevole conoscenza.
Nei suoi versi c’è chiara traccia di documenti sumeri, hittiti, babi-
lonesi, assiri (fino ad un secolo fa a noi del tutto sconosciuti e di cui
oggi abbiamo chiara conoscenza anche noi) che gli consentono di
interpretare correttamente anche le notizie tratte dalla stessa Bibbia.
Dalla conoscenza di questo patrimonio culturale, che interpreta
come può, ma che riferisce correttamente, estrae non solo le infor-
mazioni che gli occorrono, che trasforma alla sua maniera, da
sommo poeta qual è, ma trae anche l’interpretazione giusta dei con-
cetti antichissimi di divinità e di conoscenza di cui va alla ricerca.
Concetti che, con ogni probabilità, condivideva con i capi dei Catari
ormai clandestini con i quali era in contatto. Il Dio di Dante, pur
essendo lo stesso di tutti, antichi e moderni, tuttavia tiene conto
delle differenze che gli antichi gli attribuivano. Non il puro spirito
in cui lo trasforma il cristianesimo, ma il concreto dio ANU dei
Sumeri, l’iroso Yahweh che guida Abramo o lo Janus, il dio origi-
nario del Latium. Un dio che ha una conoscenza infinita se parago-
nata a quella ancora limitatissima dell’Uomo di seimila anni fa. Un

La Via di Dante 223


dio che risiede nell’alto dei cieli dove ha la sua casa-nave spaziale
più grande e confortevole di quelle che oggi possiamo immaginare
anche noi e dalla quale controlla e dirige tutto. Un dio che corri-
sponde esattamente al capo dei Nefelin biblici e che somiglia in modo
straordinario ai personaggi fantastici dei nostri film di fantascienza.
Per essere esplicito e non farsi fraintendere, Dante dice ai letto-
ri di applicare alla scena del corteo trionfale che sta descrivando, le
stesse caratteristiche di quella riportata da Ezechiele. Avverte: inu-
tile che io la descriva di nuovo, tanto è la stessa che ha visto e
descritto Ezechiele. Lo dice, ma noi non ci crediamo pensando che
egli voglia rimanere nel mondo delle visioni fantastiche.
Non è così: ha visto -o dice di aver visto- le stesse cose descrit-
te da Ezechiele che le ha viste realmente e delle quali nessuno dei
contemporanei si meravigliava più di tanto perché quelle erano
visioni che gli uomini ritenevano, allora, del tutto possibili, perché
capitava di vederle realmente. Facevano parte delle loro esprienze
dirette oltre che delle conoscenze tramandate. Perciò quelle visioni
diventano, a ragione, parola di Dio, sacra Bibbia.
Dante quel richiamo lo fa non per altro che per il fatto che quella
è proprio la scena che vuole rappresentare: la discesa di “Beatrice”,
con tutto il suo seguito simbolico, dall’alto dei cieli con il mezzo che
i Nefelim biblici erano soliti usare per la loro discesa sulla Terra: una
nave spaziale.
A ben vedere, non può che essere così.
Il suo avvertimento è reale e sincero: la scena che voglio rap-
presentare è proprio come quella vista da Ezechiele. Vista e descrit-
ta, come il profeta stesso dice subito: “E vidi”.
L’avvertimento di Dante, però, è talmente al di sopra della real-
tà conosciuta che nessuno, finora, gli ha creduto e, forse, era proprio
quello che egli voleva: dire una difficile e -per i suoi tempi- perico-
losa verità in modo tale che nessuno avrebbe potuto comprenderla
proprio perché, altrimenti, sarebbe finito sul rogo.
Follia? No, realismo.
Nel 1968, Joseph Blumrich, l’ingegnere della NASA di cui
abbiamo presentato la ricostruzione moderna della visione di
Ezechiele nelle pagine precedenti, tentò di dimostrare che la pre-

224 La Via di Dante


sunta discesa di un’astronave sulla Terra, che secondo alcuni era
stata descritta da Ezechiele nella Bibbia, era una cosa irragionevole
e del tutto priva di fondamento. Avvalendosi proprio delle sue cono-
scenze spaziali, trasformò, a questo scopo, la descrizione di
Ezechiele in istruzioni per un disegno che da tecnico specializzato
della materia, eseguì credendo di ottenere una cosa informe, senza
senso. Il risultato, invece, con sua grande meraviglia, fu, al contra-
rio, proprio il coerente disegno di una vera astronave degna di un
progetto della NASA. Si dovette ricredere e divenne un sostenitore
della teoria che voleva astronavi aliene -astronavi qui giunte, come
sostiene Sitchin, perché provenienti da un pianeta del nostro stesso
sistema solare e a noi ancora sconosciuto: Nibiru- presenti sulla
Terra già da molto tempo prima della descrizione di Ezechiele.
E Blumrich non era un sognatore, ma proprio uno scettico ed ha
operato da progettista della NASA!
Traggo questa notizia (ma essa era già presente nel libro fonda-
mentale di Sitchin, Il Dodicesimo Pianeta, Edizioni Mediterranee,
1983) e la illustrazione di pag. 221, da un bel volume acquistato in
una bancarella al mercatino paesano domenica 26 luglio 2009.
Insieme con questa notizia, però, una serie di eventi contrabban-
dati per apparizioni di oggetti volanti più o meno recenti smentiti
dai successivi accertamenti portano il lettore a concludere che gli
UFO che molti raccontano di aver visto o fotografato, sono sempre
invenzioni o illusioni del tutto naturali. Per questo la notizia relati-
va a Blumrich appare ancor più degna di fede.
Restano forti dubbi anche su avvistamenti antichi e su oggetti
realizzati diversi secoli fa da chi non avrebbe dovuto avere nemme-
no l’idea di cosa potesse essere un aereo, un missile, un elicottero e
che invece proprio queste macchine volanti rappresentò con incre-
dibile precisione. A queste raffigurazioni è obiettivamente difficile
dare altra spiegazione se non quella che fossero raffigurati proprio
gli oggetti volanti che per noi ormai sono cose comuni. Ma questo
avveniva quando la forma di un aereo, o un elicottero o una navi-
cella spaziale non poteva nemmeno essere immaginata. Quale, allo-
ra, la spiegazione? L’errore, la casualità, la fantasia? Troppo poco.
In qualche modo, comunque, il dubbio resta perché l’argomento

La Via di Dante 225


rimane un vero e proprio tabù.
Il libro è edito nel 1990, quindi un po’ vecchio per noi, ma già in
piena era spaziale.
Nessuna notizia dei libri già allora pubblicati da Zecharia Sitchin
e delle sue ormai famose traduzioni dal sumero e dalle altre lingue
mediorientali.
Sono proprio queste ricerche rigorose e le innumerevoli prove
addotte a suffragare le ipotesi riguardanti la presenza anche sulla
Terra, a partire da 450.000 anni fa, di esseri extraterrestri arrivati da
un pianeta del sistema solare e, dunque, la loro presenza sulla Terra
è teoricamente possibile e cadono tutte le obiezioni che finora sono
state fatte sui tempi di viaggio di esseri alieni provenienti da altri
sistemi solari o, addirittura, da un’altra galassia e giunti fin sulla
Terra. La distanza, misurata in anni luce, ha sempre rappresentato
l’ostacolo primo e più concreto ed insuperabile per avvalorare l’i-
potesi della presenza di extraterrestri sulla Terra.
La storia dell’Umanità ricostruita da Sitchin è strabiliante per la
facilità con cui ogni elemento trova la sua esatta collocazione nella
realtà storica e la giusta spiegazione scientifica: dalla creazione di
Adamo a quella di Eva, al Giardino dell’Eden, al Diluvio universa-
le, ai contatti diretti con gli dèi venuti dal cielo... Sembravano favo-
le, ma erano miti che nascondevano una ben precisa realtà storica.
Ma cosa dicono, in sostanza, i Sumeri e i popoli che da loro
discendono a proposito di UFO?
Lascio al lettore più interessato alla materia il piacere di andare
a consultare la serie dei libri che fanno parte delle Cronache
Terrestri di Sitchin, partendo dall’opera principale sopra citata e in
seguito di nuovo pubblicata dalla Piemme con il titolo Il Pianeta
degli dei da cui traggo qualche cenno sia sull’origine dell’umanità,
sia sulle descrizioni dei missili e delle astronavi di cui danno noti-
zia i documenti delle civiltà più antiche conosciute.
Secondo queste informazioni l’uomo sarebbe il risultato di
manipolazioni genetiche operate dai Nefilim sulla scimmia allora
più evoluta che si è trasformata in Homo sapiens rapidamente gra-
zie ad elaborazioni del suo DNA. Questo sarebbe avvenuto intorno
a 250.000 anni fa e con i continui miglioramenti si sarebbe arrivati

226 La Via di Dante


alla creazione dell’homo sapiens sapiens. Dopo un certo tempo
sarebbe stata creata anche la donna, l’Eva biblica, che avrebbe for-
mato la coppia uomo-donna intorno a 150.000 anni fa.
I Sumeri chiamavano questi esseri discesi dal cielo Nefilim e i
loro capi dèi, che erano sempre rigorosamente in numero di dodici,
ed attribuivano loro la residenza nell’alto dei cieli. Questi dèi avreb-
bero poi dato origine alla prima civiltà umana che in effetti è nata,
inspiegabilmente, all’improvviso, intorno al 4000 a.C..
Questa civiltà ha lasciato i segni -per Sitchin inequivocabili- del-
l’esistenza dei Nefilim, dei loro capi-dèi, della loro capacità di vola-
re, nei disegni di missili (presenti anche nei pittogrammi della loro
scrittura) e delle navicelle spaziali, nonché della descrizione di
cosa avveniva in occasione di partenze di razzi o atterraggi di astro-
navi: le stesse cose che Dante descrive nel primo canto del Paradiso.
A questo filone di notizie sarebbero legate le storie più antiche
come l’epopea di Gilgamesh, il viaggio di Elia sul carro di fuoco,
i contatti tra quegli dèi e gli uomini, la lotta tra diverse fazioni di
quegli stessi dèi, una guerra nucleare avvenuta ai tempi di Abramo,
quando Sodoma e Gomorra vennero distrutte dallo scoppio di
bombe atomiche e fecero la fine di Hiroshima e Nagasaky.
A questo proposito occorre dire che la traduzione delle cronache
sumere di quell’evento, confrontate con quelle che descrivevano le
due città giapponesi subito dopo le esplosioni atomiche, rivelano
una straordinaria, incredibile somiglianza. Così come la descrizione
della partenza di missili che si trova nell’Epopea di Gilgamesh è
estremamente simile a quanto siamo oggi abituati a vedere quando
parte uno Shuttle o un missile qualsiasi.
Ancora.
Gli elementi che compongono il racconto biblico riguardante il
Paradiso Terrestre con l’albero del bene e del male e/o quello della
conoscenza da cui è proibito cogliere il frutto ci riporta al giardino
della casa di Anu. Ma non deve riferirsi solo a quella che il dio
aveva nell’alto dei cieli, ma anche, con ogni probabilità, a quella
che occupava quando arrivava sulla Terra, nel luogo segreto dove
risiedeva e che credo di aver individuato, attraverso l’esame delle
tradizioni certamente risalenti alla più lontana preistoria che riguar-

La Via di Dante 227


dano il vulcano Laziale, proprio nel Mons Albanus e nel nemus.
Tutto questo è stato ritrovato con un lungo, paziente e non anco-
ra ultimato lavoro di ricerca storica e di esame delle scoperte di
archeologia, prima, di traduzione corretta dei reperti sumeri, poi.
Fino a pochi decenni fa molte delle informazioni scritte, lascia-
te dalla prima civiltà umana, venivano travisate vuoi per la scarsa
conoscenza della lingua, vuoi per la mancanza di conoscenze scien-
tifiche anche da parte dell’uomo del XX secolo.
Prima, come avrebbero potuto gli esperti della lingua sumera o
di quella accadica tradurre correttamente le informazioni che
riguardavano il DNA? E fino al secondo dopoguerra del secolo
scorso, chi avrebbe potuto riconoscere nei pittogrammi sumeri la
figura di un missile a più stadi con in testa una navicella spaziale?
È per questo che solo da alcuni decenni riusciamo a comprende-
re l’esatto significato di certe espressioni di quelle antichissime lin-
gue. Ed è ancora per questi motivi che abbiamo il dovere di riesa-
minare tutto quello che abbiamo finora creduto di conoscere di
quelle antiche civiltà alla luce delle continue scoperte archeologiche
e scientifiche.
La rilettura di tanti documenti e la necessaria rivisitazione di
tanti concetti -vecchi e nuovi- ci porta a vedere molti aspetti della
storia in maniera completamente diversa da quella del passato. Di
conseguenza, va rivisitato anche il commento e l’interpretazione di
opere come l’Iliade, l’Odissea, l’Eneide, la Divina Commedia che
apparentemente -solo apparentemente- nulla avrebbero in comune
con i Sumeri, i Caldei, i Babilonesi, gli antichi Egizi.
Per questo, tornando al discorso che ci interessa, rileggendo il
capolavoro di Dante abbiamo compreso il corretto signifcato di
alcuni passi oscuri dell’opera e abbiamo scoperto le conoscenze
“scientifiche” insospettate, che pure il grande fiorentino possedeva.

228 La Via di Dante


IL VIAGGIO NELLO SPAZIO:
DALLA TERRA ALLA LUNA
Per coloro che sono ancora fortemente scettici, riporto qui di
seguito i brani significativi del viaggio di Dante e Beatrice dal
Paradiso Terrestre verso il Paradiso, quello che è nell’alto dei cieli.
Il primo passo è la partenza dalla Terra e l’arrivo sulla Luna.
La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra e risplende
3. in una parte più e meno altrove.
Nel ciel che più della sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
6. né sa né può chi di là sù discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
9. che dietro la memoria non può ire.
Veramente quant’io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
12. sarà ora materia del mio canto.

In questi primi versi c’è un altro di quegli accenni alla visione


diretta avuta da Dante cui noi, finora, non abbiamo creduto per
averli sempre interpretati come simbolici, astratti.
Ma proprio questi accenni ad una esperienza diretta confermano
la validità di quanto Dante scrive a Cangrande della Scala.
Nell’epistola egli sostiene, sopra ogni altra cosa, che tutto quello
che ha scritto e descritto è frutto di sue esperienze personali.
Insomma, dice: “L’ho visto con i miei occhi!”
Che bisogno aveva di scriverlo anche al suo protettore se lo
afferma ripetutamente nei versi? Lo fa per essere certo d’esser cre-
duto, per non far confondere il linguaggio poetico con la verità.
Nel ciel che più della sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
6. né sa né può chi di là sù discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
9. che dietro la memoria non può ire.

La Via di Dante 229


Veramente quant’io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
12. sarà ora materia del mio canto.

È chiaro oltre ogni dubbio.


Questi versi, letti alla luce di quanto Dante segnala a Cangrande,
debbono essere interpretati com’egli desidera: come il racconto di
una sua personale esperienza!
È, questa, un’interpretazione eccessiva o, addirittura, ridicola?
Vediamo cosa dice a questo proposito il Sapegno:
Per questi primi versi del Paradiso ci assiste il commento dell’au-
tore, nell’epistola a Cangrande della Scala (della cui autenticità
non c’è ragione di dubitare), e giova a stabilire con esattezza il
concetto generale, nonché il significato preciso di qualche voca-
bolo.

Qual è, allora, il concetto generale se non quello più volte


espresso da Dante:”Tutto quello che ho scritto l’ho visto diretta-
mente, dal vivo” e, come ricordava Carlo Ossola:
“afferma che il suo testo è sempre vero (e tanto più nel
Paradiso, dedicato all’eterno vero di beatitudine), interamente
vero nella lettera prima ancor che nell’allegoria”.
Qual è il risultato? Questo: ”Io sono stato nel cielo dove la luce
di Dio si manifesta più intensamente e lì ho potuto vedere cose che
non so riferire compiutamente, anche se scendo direttamente da
lassù. La mia mente non è stata in grado di comprendere fino in
fondo e di ricordare tutto quello che ha visto, ma lo ha visto!”
Un’interpretazione ardita di quanto Dante stesso ha voluto farci
sapere? No, verità raccontata dal Poeta e, finora, non creduta perché
non compresa se non come metafora poetica. Ma vedremo che egli
è degno di fede e chi oggi crede alle sue parole non è uno sciocco o
un credulone, ma uno che comprende finalmente il vero senso del
racconto dantesco.

230 La Via di Dante


CON BEATRICE, verso l’alto dei cieli
Vediamo come descrive Dante la sua partenza per il primo cielo.
Se quanto ha avvertito riguardo alla sua diretta esperienza fosse
solo un gioco poetico e non realtà, dovremmo avere un canto straor-
dinario per invenzione, fantasia, costruzione squisitamente poetica.
Invece, cosa scrive Dante?
É giunta ormai l’ora della partenza
quando Beatrice in sul sinistro fianco
vidi rivolta e riguardar nel sole:
48. aquila sì non li s’affisse unquanco.
E sì come secondo raggio suole
uscir del primo e risalire in suso,
51. pur come pellegrin che tornar vuole,
così dell’atto suo, per li occhi infuso
ne l’immagine mia, il mio si fece,
54. e fissi li occhi al sole oltre nostr’uso.
Molto è licito là, che qui non lece
a le nostre virtù, mercé del loco
57. atto per proprio dell’umana spece.
Io non soffersi molto, né sì poco,
ch’io non vedessi sfavillar dintorno,
60. com’ ferro che bogliente esce del foco;
e di subito parve giorno a giorno
essere aggiunto, come quei che puote
63. avesse il ciel d’un altro sole addorno.
Beatrice tutta ne l’etterne rote
fissa con li occhi stava; e io in lei
66. le luci fissi, di lassù rimote.
Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fe’ Glauco nel gustar de l’erba
69. che ‘l fe’ consorto in mar de li altri dei.
Transumanar significar per verba
non si porìa: però l’essemplo basti
72. a cui esperienza grazia serba.
Si era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che ‘l ciel governi,
75. tu ‘l sai, che col tuo lume mi levasti.
Quando la rota che tu sempiterni

La Via di Dante 231


desiderato, a sé mi fece atteso
78. con l’armonia che temperi e discerni,
parvemi tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
81. lago non fece alcun tanto disteso.
La novità del suono e ‘l grande lume
di lor cagion m’accesero un disio
84. mai non sentito di cotanto acume.

Poi, Beatrice e Dante partono.


Dante non capisce cosa gli sta succedendo.
Dall’atteggiamento di Beatrice e da quello che vede intorno a sé com-
prende che sta facendo un’esperienza straordinaria, ma è spaventato, per
non dire terrorizzato, al punto che non osa guardare fuori e si accontenta
di vedere ciò che accade riflesso in Beatrice.
All’improvviso faville infinite, fumo ed una luce intensissima come
se un nuovo sole fosse spuntato a raddoppiare la luce del giorno. Beatrice
è tesa e tutta intenta a guardare verso il sole e Dante, che non riesce a fis-
sare una luce così intensa, si limita a guardarne i riflessi negli occhi della
sua donna. O meglio, a vedere riflessa quell’intensissima luce negli
occhiali da pilota che Beatrice deve avere indossato per la partenza.
Qui occorre ricordare che, se Dante ha detto il vero, quello che
racconta è frutto di un’esperienza reale o del suo fedele racconto.

IN VOLO VERSO LA LUNA


L’ingenua interpretazione della partenza per la luna
di Dante e Beatrice in una miniatura quattrocentesca.
Come si vede chiaramente il disegno nulla ha
a che fare con la descrizione dantesca.

232 La Via di Dante


Dante, perciò, si sta comportando, senza saperlo, come il passeggero
di un’astronave in partenza dalla Terra e Beatrice fa le funzioni del
Comandante pilota. È tutta tesa. Deve affrontare il momento critico del
distacco dal terreno con l’accensione dei razzi, cosa che richiede il conti-
nuo e attento controllo degli strumenti di bordo. Si comporta, insomma,
come ogni moderno astronauta quando parte, cosa che noi oggi siamo
abituati a vedere quando uno Shuttle si stacca dalla rampa di lancio.
Già queste descrizioni sono sorprendenti, anche se finora i commen-
tatori le hanno interpretate come invenzione poetica, ma le vere sorpre-
se stanno per arrivare e sono tali che lasciano veramente stupefatti.
Prima, però, noi dovremmo porci un’altra domanda: se Beatrice
è puro spirito, perché si comporta come un essere umano viven-
te? Perché è tutta tesa al momento della partenza?
Quello che più sorprende, però, è l’atteggiamento dei critici.
Passi per quanti si sono occupati dell’opera di Dante nei secoli
passati: non sapevano né potevano sapere. A loro il carro di Beatrice
sembrava una biga -nel migliore dei casi-, oppure un vero e proprio
carretto, se rivediamo certe interpretazioni di alcuni illustratori del
1400. Non è più giustificabile, però, continuare ancora nel com-
mento con gli stessi criteri di secoli fa.
Perché quest’atteggiamento ha ormai fatto il suo tempo?
Il motivo è nella conoscenza scientifica attuale e nelle esperien-
ze che oggi l’uomo compie? Sì, anche, ma non basta.
Un viaggio Terra-Luna fa parte del nostro passato, ormai. Abbiamo
commemorato il quarantesimo anniversario dello sbarco sulla luna il 20
luglio dell’anno domini 2009. Perché a nessuno, in questi quarant’an-
ni, è venuto mai in mente di verificare il viaggio di Dante e Beatrice?
Perché -e la risposta sembra del tutto ovvia- noi pensiamo che
Dante non poteva sapere quel che è a noi ormai noto per i progres-
si che l’umanità ha compiuto in quest’ultimo secolo.
Il ragionamento sembra ovvio, oltre che giusto, ma proprio que-
sto è l’errore!
Dobbiamo convincerci che è esattamente il contrario.
Siamo noi moderni, che solo da quarant’anni -da quando siamo
andati sulla luna- abbiamo acquisito le esperienze giuste che ci
hanno messo in grado di constatare che Dante sapeva e descriveva

La Via di Dante 233


esperienze vere a lui note. Era proprio lui che sapeva per diretta
conoscenza quello che descriveva, mentre l’umanità l’ignorava.
Ora noi siamo soltanto in grado di comprendere quel che egli già cono-
sceva veramente e molto bene e, forse, anche per diretta esperienza.
Verifichiamo questa ipotesi apparentemente assurda.
Siamo subito dopo la partenza. Dante è tutto teso ed impaurito.
Non capisce cosa gli sta succedendo. Sono passati alcuni minuti pieni
di tensione che sempre seguono la partenza e Beatrice ora è serena.
Tutto è a posto, può dedicarsi a conversare con il passeggero che inve-
ce è ancora incredulo e desideroso di chiedere spiegazioni.
Ond’ella, che vedea me sì com’io,
a quietarmi l’animo commosso,
87. pria ch’io a dimandar, la bocca aprìo,
e cominciò:”Tu stesso ti fai grosso
col falso immaginar, sì che non vedi
90. ciò che vedresti se l’avessi scosso.
Tu non se’ in terra, sì come tu credi;
ma folgore, fuggendo il proprio sito,
93. non corse come tu ch’ad esso riedi”.

Ecco, è cominciata la lezione che conferma i sospetti precedenti.


Beatrice, una Beatrice concreta, non un puro spirito, cerca di
spiegare all’attonito compagno quello che sta succedendo.
L’avverte che, se non riesce a comprendere, la colpa è la sua perché
egli sta immaginando cose sbagliate. Il motivo?
“Tu credi di essere ancora sulla Terra perché sei un uomo scioc-
co. Spazza via dalla tua testa i pensieri grossolani da terrestre. Entra
in un’altra dimensione: non vedi che stai viaggiando ad una tale
velocità al confronto della quale quella della folgore è poca cosa?
Beatrice, però, non è ancora entrata nella parte più sorprendente
delle sue spiegazioni. Dante ha modo di riflettere. Cerca di capire,
ma non gli è facile e cade in un dubbio ancor più grave.
S’io fui del primo dubbio disvestito
per le sorrise parolette brevi,
96. dentro ad un nuovo più fu’ inretito,
e dissi: ”Già contento requievi
di grande ammirazione, ma ora ammiro
99. com’io trascendo questi corpi levi”.
234 La Via di Dante
Pateticamente si chiede: ”Come è possibile che io salga più in
alto dei corpi leggeri che mi circondano? E come faccio a librar-
mi in aria senza peso?” E Beatrice, guardandolo come fa la madre
con il suo bimbo che delira, cerca di entrare di più nel merito dei
fenomeni che stanno accadendo. Si noti come, man mano che le
spiegazioni si fanno più precise e dettagliate, il linguaggio poetico
assuma i toni della conoscenza, diventi quasi scientifico.
“Tutte le cose” dice Beatrice “hanno un loro ordine preciso in
modo che questo rapporto esistente tra le cose del creato, il loro reci-
proco condizionamento, fa l’universo intero somigliante a Dio stesso.
Tutto si muove per un motivo preciso, con armonia e con influsso
reciproco anche se gli elementi hanno direzioni diverse. Così il fuoco
va verso l’alto, verso il cielo della luna, mentre nei cuori degli esse-
ri viventi c’è l’influsso del motore divino”.
Ond’ella, appresso d’un pio sospiro,
li occhi drizzò ver me con quel sembiante
102. che madre fa sovra figlio deliro,
e cominciò:”Le cose tutte quante
hanno un ordine tra loro, e questo è forma
105. che l’universo a Dio fa simigliante.
Qui veggion l’alte creature l’orma
de l’etterno valore, il qual è fine
108. al quale è fatta la toccata norma.
Ne l’ordine che io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
111. più al principio loro e men vicine;
onde si muovon a diversi porti
per lo gran mar dell’essere, e ciascuna
114. con istinto a lei dato che la porti.
Questi ne porta il foco inver la luna;
questi ne’ cor mortali è permotore;
117. questi la terra in sé stringe e aduna:
né pure le creature che son fore
d’intelligenza quest’arco saetta
120. ma quelle c’hanno intelletto e amore.

Ecco, finalmente ci siamo!


Beatrice ha chiarito tutto il funzionamento del creato.

La Via di Dante 235


Ora Dante non può più fingere di non intendere.
La Provvidenza sistema ogni cosa e fa anche in modo che ogni
elemento che compone la Terra sia tenuto insieme da una stessa
forza a cui sta ubbidendo anche il corpo di Dante che si comporta
come tutti i corpi celesti e si libra senza peso, senza vincolo alcuno,
come fosse uno spirito etereo.
Completiamo pure, ora, la lettura della parte finale del canto, ma
con l’avvertenza che quel che c’era da dire è stato già detto.
Vedremo alla fine, intanto leggiamo.
La provedenza, che cotanto assetta,
del suo lume fa ‘l ciel sempre quieto
123. nel qual si volge quel c’ha maggior fretta;
e ora lì, come a sito decreto,
cen porta la virtù di quella corda
126. che ciò che scocca drizza in segno lieto.
Vero è che, come forma non s’accorda
molte fiate a l’intenzion de l’arte,
129. perch’a risponder la materia è sorda;
così da questo corso si diparte
talor la creatura, c’ha podere
132. di piegar, così pinta, in altra parte;
e sì come veder si può cadere
foco di nube, sì l’impeto primo
135. l’atterra torto da falso piacere.
Non dei più ammirar, se bene stimo,
lo tuo salir, se non come d’un rivo
138. se d’alto monte scende giusto ad imo.
Maraviglia sarebbe in te se, privo
d’impedimento, giù ti fossi assiso,
141. com’a terra quiete in foco vivo”.
Quinci rivolse inver lo cielo il viso.

Beatrice cerca di rassicurare Dante. “Per te -gli dice- ora salire


verso il cielo, librarti nello spazio privo di peso è cosa naturale come
per un ruscello lo è scendere verso la valle. Strano sarebbe stato se tu,
senza alcun impedimento esterno, fossi rimasto in basso”.
È, il riferimento alla levitazione dei corpi nello spazio, la nuova’in-
terpretazione di questo passo suggeritami dal mio amico, Maurizio
Silvestri che stava leggendo una delle copie di prova di quest’opera,
236 La Via di Dante
che avevo realizzato per verificare le reazioni dei comuni lettori alle
ipotesi “ardite” che contiene.
Incredibile! Io mi ero fermato alla forza che tiene insieme le componenti
della Terra, ma c’era di più. Il mio amico era stato ancor più ardito di me!
Cosa significa? Che Beatrice dopo aver spiegato il funzionamento
dell’Universo, per chiarire definitivamente come stanno le cose rivela
anche il motivo per cui gli elementi che compongono la Terra sono uniti:
117. questi la terra in sé stringe e aduna:

Qui, per avvalorare la mia ipotesi, mi rifaccio al commento del già


spesso citato professor Natalino Sapegno riferito soltanto a quest’ultimo
verso, perché a lui, come a tutti coloro che finora hanno commentato que-
sti versi, è completamente sfuggito il senso di quanto ho esposto sopra.
Nell’introduzione al primo canto del Paradiso, Sapegno scrive:
“Tutte le cose create -dice Beatrice- sono ordinate fra loro in modo da
costituire un tutto armonico, e questo ordine è la forma, il principio
essenziale, che rende l’universo simile a Dio. In questo ordine tutte le
specie naturali ricevono un’inclinazione, che varia secondo le diverse
condizioni loro assegnate; onde tutte si muovono nell’immensa e mol-
teplice vita dell’universo, indirizzate a diversi fini ciascuna dal proprio
istinto. Questo ordine determina il moto di ciascun elemento verso la
sua sfera; esso, esplicandosi come legge di gravità, tiene unita e com-
patta la terra; esso muove e regola le funzioni vitali degli esseri bruti.
Ma lo stesso ordine anche indirizza a un determinato fine le creature
dotate d’intelligenza e di volontà, gli angeli e gli uomini. E il fine, a cui
naturalmente tendono le creature ragionevoli, è l’Empireo, la sede di
Dio. Non c’è pertanto da meravigliarsi se, rimossi gli ostacoli che
prima l’impedivano, Dante ora si solleva ad esso, come a dimora pre-
stabilita dell’uomo giusto; il suo salire non è violazione di una norma,
anzi obbedienza a una legge d’ordine universale.

Nel commentare i versi 115-117, Sapegno scrive:


“115. Questi: quest’ordine (che si determina, per ciascun essere
creato, in un particolare istinto, in una certa inclinazione) è quello
che porta il fuoco naturalmente a salire verso la sua sfera, colloca-
ta “lungo lo cielo della luna” (Conv., III, 2); esso muove e regola (è
permotore) le funzioni vitali negli esseri privi di ragione (i cor mor-
tali, gli animali bruti); esso ancora, esplicandosi come legge di
gravità, tiene unita e compatta la terra.”

La Via di Dante 237


Non c’è dubbio per Sapegno: il verso
117. questi la terra in sé stringe e aduna...

si riferisce chiaramente alla forza di gravità che non solo consente


agli elementi che costituiscono la Terra di stare insieme, ma per-
mette anche alle sfere celesti di muoversi secondo un moto armoni-
co creato da Dio!
Il commento non poteva essere più preciso di così e non si vede
come qualcuno possa metterlo in discussione.
Io me ne guardo bene!
Ma se questa interpretazione è corretta, è anche scientificamen-
te esatto il concetto espresso da Dante. Allora, cosa c’è di così
importante in questo verso e nel commento che ne fa Sapegno?
È una cosa non di poco conto, anzi, è straordinariamente importante
e rivoluzionaria: Dante spiega a chi non aveva le necessarie cognizioni
per capirlo, (e perciò non poteva nemmeno punirlo), una regoletta che
oggi ci appare del tutto naturale, ovvia addirittura. Le cose pesanti se
poste su un mezzo che vola utilizzando la spinta dei motori possono rag-
giungere gli alti strati dell’atmosfera e qui levitare senza peso, come fos-
sero corpi leggeri; sulla Terra, invece, poiché sono attratti da una forza,
cadono verso il basso. Eccezionale! Egli sa che gli elementi che com-
pongono il pianeta sono tenuti insieme da quella stessa forza: la forza di
gravità.
Semplice, ovvio. Cosa c’è di strano, allora, in tutto questo?
Niente, dal punto di vista scientifico.
Anzi, la spiegazione, ripeto, è ineccepibile.
Solo un dettaglio sfugge al Sapegno e agli altri commentatori
che questa spiegazione danno, che è, tra l’altro, l’unica possibile.
Il dettaglio non è cosa trascurabile: la data!
Dante scrive questi versi nei primi anni del secolo XIV ed
enuncia una legge che sarà “scoperta” -come è a tutti noto- da
Isaac Newton nel 1687, quasi quattro secoli dopo! Sapegno non se
ne accorge (o finge, non sapendo come giustificare la cosa) e non si
fa la domanda, d’obbligo in casi simili, cioè:
”Come faceva Dante a conoscere la forza di gravità?”
Ecco, questa è la chiave per comprendere i ragionamenti e le

238 La Via di Dante


descrizioni di Dante: egli dimostra di conoscere cose a tutti gli
altri sconosciute. Possiede conoscenze che ai suoi tempi solo
pochissimi eletti -e segretamente- potevano avere. Quelle cono-
scenze utilizza per mandare i suoi messaggi che restano incompre-
si ai più proprio perché i comuni mortali non hanno ancora le cono-
scenze che Dante dimostra di avere.
Ma se egli è a conoscenza di queste leggi fisiche evidentemente
conosce anche molte altre cose. Per esempio, conosce il significato
vero di molti brani della Bibbia, a cominciare da cosa ha
descritto veramente Ezechiele e come ha fatto Elia a salire al
cielo con il carro di fuoco. Allora non ci sorprende più che sappia
perché, per lasciare la Terra, occorre una velocità paragonabile a
quella della folgore per raggiungere la quale il “carro” (su cui si
trova con la Comandante Beatrice, che lo prende in giro perché si
meraviglia di non avere più peso) sprigiona in pochi istanti una luce
che eguaglia quella del sole con una miriade di scintille, fumo,
rumore che lo lasciano sbigottito.
Come fa Dante a sapere e descrivere tutto questo?
Sono proprio questi particolari non indispensabili al racconto
poetico che lasciano molto perplessi.
Poteva un uomo del suo tempo concepire, in maniera scientifica-
mente corretta, un viaggio sulla luna ed ipotizzare, anche solo come
racconto fantastico, che per uscire dalla terra e dirigersi verso la luna
è necessario raggiungere velocità paragonabili a quelle di una saetta?
E poteva concepire un simile concetto se il mezzo di locomozione più
fantastico che si poteva allora immaginare era un carro tirato da un
improbabile animale con le ali? Che velocità poteva essere attribuita
ad un simile animale, cui, peraltro, Dante neppure accenna?
Ovviamente una nemmeno lontanamente paragonabile a quella della
saetta. Fosse stato solo un uomo del suo tempo, Dante avrebbe conti-
nuato nel racconto del carro e del grifone, ma quella era solo una alle-
goria per farsi comprendere, non quello che egli pensava e sapeva.
Perché?
Se così fosse stato, avrebbe fatto tornare Beatrice in Paradiso
con carro e grifone, come apparentemente -ma solo per i vecchi
commentatori- l’aveva fatta scendere. Ma i carri tirati dai grifoni

La Via di Dante 239


non emanano luci che illuminano foreste intere quando arrivano né
emettono scintille senza fine quando ripartono e nemmeno fumi e
fuochi tali che il sole sembra raddoppiare la sua luminosità. Da que-
sti carri, poi, non possono uscire cento angeli!
Poteva Dante, da uomo del ’300, immaginare la partenza di
un razzo o di un’astronave diretta sulla luna? La risposta sem-
bra ovvia: no, non poteva. A meno di ammettere che egli aveva
potuto ricevere informazioni tanto antiche da risalire ai Sumeri
o, addirittura, ai Nefilim o Anunnaki: gli esseri che erano disce-
si dal cielo di cui parla anche la Bibbia! Questo, invece, era pos-
sibile e non può essere pura coincidenza che le descrizioni di
Dante ricordino da molto vicino quelle che abbiamo visto a pro-
posito dei racconti di Gilgamesh e Atana. Ma a questa possibili-
tà, finora, nessuno ha mai pensato.
Se questo non è impossibile, perché non avrebbe potuto conoscere,
Dante, la vera storia raccontata dai Sumeri relativa alle origini
dell’Uomo? Perché non avrebbe potuto, con le sue particolari
conoscenze, dare un’interpretazione realistica ai racconti biblici di
Ezechiele, sapere cosa fosse realmente il carro di fuoco di Elia?
Se rispondiamo sì, tutto diventa credibile, quasi ovvio, ma
ammettere come veritiera un’ipotesi del genere significa, ancora
oggi, rischiare il ridicolo.
Non ammetterla, però, significa, alla luce delle ultime sco-
perte scientifiche ed archeologiche, fare la figura di chi si inte-
stardisce a non voler ammettere l’evidenza, preferendo seguire
una tradizione che ormai deve essere assolutamente rivisitata.
Si rischia, insomma, di fare la figura di chi volesse ancora affer-
mare che è il Sole a girare intorno alla Terra solo perché così è
scritto nella Bibbia! Galilei, per questo, rischiò di finire sul
rogo, poi tutti dovettero ammettere che era la Terra a girare ed
il Sole ad essere apparentemente fermo.
Alla luce di queste considerazioni, allora, trascurare le nuove
ipotesi diventa veramente colpevole, perché dai tempi di Galileo se
ne sono fatti di progressi e non si può continuare a ragionare anco-
ra con i dogmi della fede se questi hanno trovato, nel frattempo, una
spiegazione logica e scientifica!

240 La Via di Dante


L’esame di questi versi va fatto con criteri completamente diver-
si da quelli della tradizione, anche se questo richiede coraggio o può
esporre ai lazzi di chi crede di essere profondamente acculturato e
invece ragiona ancora con i più triti dogmi di una sorpassata tradi-
zione che sa di muffa.
Proprio chi ha il dono di vedere lontano ha il dovere di pre-
cedere il gregge, di fare da guida, rischiando anche in proprio,
come afferma Alexander von Humboldt nel pensiero riportato all’i-
nizio di questo libro:
”Una cosa nuova all’inizio viene negata. Poi sminuita.
Infine si decide che la si conosceva da sempre”.
Gli uomini hanno bisogno di tempo per comprendere -prima- ed
adeguarsi -poi- alle novità, specialmente quando esse stravolgono
l’ordine del comune pensare consolidato dalla tradizione. Ma quan-
do si sono adeguati alla nuova verità, proprio i più accaniti avver-
sari di quella nuova realtà diventano più realisti del re e tendono ad
appropriarsi di ogni merito e di averla imposta.
Perché, allora, non aprire a questa nuova possibile verità storica?
Perché avere paura di sottoporla a
severa analisi?
Se i risultati fossero negativi, chi
impedirebbe a questi coraggiosi di
tornare sulle versioni tradizionali?
Che disdoro ne avrebbe lo studioso
che avesse fatto un tentativo temerario
su un’idea apparentemente -ma solo
apparentemente- folle?
Non è questa la funzione di ogni
grande ricerca, quella di percorrere
LA DEA SUMERA IN.ANNA.
nuove vie, per assurde che possano Qui è in veste di astronauta, con i
sembrare a prima vista, e controllare grandi “occhiali” che diventano gli
dove vanno a finire? “occhi” di Beatrice in cui si rifletto-
no i raggi solari che Dante non
Chi fa ricerca pura sa che le idee riesce a vedere direttamente.
che hanno prodotto più risultati inno- Questa immagine risponde certa-
vativi ed utili per l’umanità sono mente meglio di qualsiasi miniatura
ai versi della partenza verso il cielo
state proprio quelle che all’inizio della luna di Dante e Beatrice

La Via di Dante 241


furono scambiate per pura follia. Solo quarant’anni fa chi avrebbe
potuto immaginare Internet? E non era assoluta fantascienza quello
che oggi tutti adoperano con estrema naturalezza: il telefono cellu-
lare attraverso il quale si trasmettono non solo parole e suoni, ma
anche immagini ferme ed in movimento e che ci consente di colle-
garci, senza nemmeno accorgercene e a costi sempre più irrisori,
con tutto il mondo proprio attraverso internet? Tutto questo, solo
pochi decenni fa non era fantastico, irreale? Eppure faceva parte già
della serie di fantascienza dedicata ad un’astronave in perenne viag-
gio nello spazio.
Perché proprio noi, che ormai siamo abituati alle più avveniri-
stiche esperienze, inimmaginabili solo cinquant’anni fa, dovremmo
meravigliarci di fatti che da millenni si trovano scritti nei nostri testi
sacri e nelle opere più importanti che l’umanità ha prodotto?
Perché rifiutare a priori -ma sono sempre meno coloro che lo
fanno- la possibilità che esseri di un altro ed ancora sconosciuto pia-
neta del sistema solare, possano essere scesi sulla Terra 450.000
anni fa e possano aver dato origine alla razza umana? Siamo proprio
noi, invece, che queste cose possiamo ritenerle possibili (perché
cominciamo ad avere le cognizioni tecnico-scientifiche che quegli
esseri possedevano altamente sviluppate già in quel periodo per noi
lontanissimo), che le rifiutiamo come assurde.
Ma dove sta la difficoltà a portare avanti l’ipotesi che Dante
possa aver avuto, al suo tempo, conoscenza di tutte queste cose
inimmaginabili per gli uomini del suo tempo, ma note a lui e a colo-
ro che conoscevano i segreti delle nostre origini? Sono le stesse
informazioni che noi oggi abbiamo per via archeologica e ricono-
sciamo perché fanno parte della nostra realtà scientifica.
Quello che si sostiene da parte di tutti i cultori di cose esoteriche
non è forse che un’organizzazione segreta come la Massoneria per-
petui ancora oggi gli antichi segreti Sumeri?
E, infine, non è proprio il Poeta che ricorda in continuazione di
aver visto con i suoi occhi quello che racconta e che conosce quel-
lo di cui parla, anche se la cosa può sembrare assurda?
Come si apre proprio il primo canto del Paradiso?
Rivediamolo ancora:

242 La Via di Dante


Nel ciel che più della sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
6. né sa né può chi di là sù discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
9. che dietro la memoria non può ire.
Veramente quant’io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
12. sarà ora materia del mio canto.

Ecco: questa non è solo poesia, sono anche le parole di un uomo


che, se proprio non è stato nell’alto dei cieli con l’astronave, come poi
racconterà -e la cosa non si può nemmeno escludere completamente-,
conosce benissimo quello che racconta per averlo appreso da qualche
fonte ben informata e assolutamente convincente. Ecco, ancora, come
interpreta il brano uno dei maggiori critici della Commedia:
Lassù fui io e vidi cose che non so né posso ridire; perché, appres-
sandosi al fine di tutti i suoi desideri, il nostro intelletto si profonda
tanto, che non può essere seguito dalla memoria. Dirò tuttavia del cele-
ste regno quel tanto di che ho potuto far tesoro nella mia memoria.
G. A. Scartazzini, Paradiso, Canto I, v. 1-12, U. Hoepli, Milano 1907

Prendendo il significato alla lettera, Dante dice che sa come si fa


ad andare nello spazio, cosa c’è al di là e come funziona il movi-
mento delle sfere celesti e non è soltanto, come si è sempre credu-
to, una finzione poetica: è la verità. Il Poeta conosce e riferisce cose
che nessuno dei suoi contemporanei “normali” poteva avergli rac-
contato. Quelle cose, dunque, o sono frutto di diretta e personale espe-
rienza o sono ricavate da una documentazione antichissima -in qual-
che modo tramandata in segreto- e giunta a disposizione di Dante.
Egli non avrebbe potuto inventare e nemmeno immaginare cose
così assurde per i suoi tempi. Avrebbe fatto come altri grandi poeti
o scrittori: avrebbe usato solo la sua infinita fantasia poetica e
avrebbe raccontato una magnifica, ma irreale storia fantastica.
Invece Dante sa bene di cosa sta parlando, anche se non è sicu-
ro di aver ben compreso il significato di tutto quello che ha visto o
che gli è stato raccontato e, quindi, dubita di saperlo correttamente
ed esaurientemente riferire. “Ma” -avverte-, “è proprio questa mia
La Via di Dante 243
segreta conoscenza, ora, l’argomento del mio racconto”.
In questa sua narrazione, Beatrice è lungi dall’essere una fragile crea-
tura: è raffigurata da Dante come uno degli astronauti in partenza per lo
spazio. O meglio, come la dea sumera Inanna che era solita spostarsi
sulla sua personale camera volante, una specie di navetta spaziale che
ella stessa pilotava e che ha dato origine al mitico, volante carro di Diana.
Tutto questo, diranno gli scettici, non prova assolutamente nulla.
Dà, semmai, la dimostrazione dell’intuito e delle capacità narrative
di Dante che, non a caso, è considerato una delle menti più alte che
l’Umanità abbia mai prodotto. Dunque, può aver benissimo conce-
pito questi versi senza bisogno di particolari conoscenze.
Se fosse solo per il viaggio, che potremmo così continuare a
vedere come esclusivo frutto della sua inarrivabile fantasia, nessu-
na obiezione convincente avrei potuto avanzare.
Ma Dante, l’abbiamo appena visto, fa di più e lo fa non certa-
mente per caso, ma per far capire che il racconto del viaggio Terra-
Luna non è frutto di fantasia poetica, ma di conoscenza precisa delle
regole da rispettare per renderlo possibile.
Soprattutto, l’abbiamo visto, mostra di conoscere la gravitazione
universale e la legge di gravità. Ne dà notizia non a caso, ma per lan-
ciare, a coloro che sapevano, un segreto messaggio e per dare un
senso profondo ai suoi versi che vogliono affermare la verità sul dio-
conoscenza, il primo dio dell’Uomo, il dio in cui credevano i Catari
che, proprio per questo, erano considerati eretici e degni del rogo.
Questa conoscenza di Dante diventa oggi determinante anche
per la nuova, corretta interpretazione della Divina Commedia.
Obbliga a rivedere tutte le nostre convinzioni sui significati
reconditi delle opere di Dante proprio per le sue conoscenze, per il
valore autentico che hanno le fonti alle quali egli può aver attinto.
La certezza della consapevolezza scientifica della forza di gravi-
tà da parte di Dante avvalora anche tutte le affermazioni da me fatte
finora sulle interpretazioni dei versi strani e da considerare -senza
questa conferma- pura follia.
Quella conoscenza da parte di Dante, però, giustifica la tesi di altre
e più particolari informazioni in suo possesso. Tutto questo rende quel
viaggio sulla Luna credibile come fatto reale di cui il Poeta è piena-

244 La Via di Dante


mente consapevole. Anche ammmesso che non abbia fatto la diretta
esperienza, la possibilità e le modalità di un simile evento deve averle
apprese -da persona o documentazione- fin nei minimi particolari e nei
principi tecnico-scientifici, e non come visione o racconto fantastico.
Quelle informazioni le ha poi riferite in maniera anche inadeguata, con
tutti i limiti legati alla sua effettiva capacità di comprenderle.
Dante, insomma, ha reale esperienza o, almeno, conoscenza
diretta di quello che descrive. Riferisce ciò che sa essere possibile
nella realtà, non racconta una favola frutto di invenzione narrativa.
I versi del secondo canto del Paradiso confermano questa ipote-
si realistica e non fantastica del viaggio dantesco.
O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti
3. dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché, forse,
6. perdendo me, rimarreste smarriti.
l’acqua ch’io prendo già mai non si corse;
Minerva spira, e conducemi Appollo.
9. e nove Muse mi dimostran l’Orse.
Voi altri pochi che drizzaste il collo
per tempo al pan de li angeli, del quale
12. vivesi qui, ma non sen vien satollo,
metter potete ben per l’altro sale
vostro navigio, servando mio solco
15. dinanzi a l’acqua che ritorna equale.
Que’ gloriosi che passaro al Colco
non s’ammiraron come voi farete,
18. quando Iason vider fatto bifolco.

A chi si riferisce Dante? Chi sono coloro che stanno in piccio-


letta barca? Vediamo ancora il commento dello Scartazzini.
“Voi che non vi siete dati allo studio della vera sapienza filosofi-
ca e teologica, e, leggendo, mi avete seguito fin qui nel poetico mio
viaggio, cessate dal seguirmi, ché non intendereste più ciò che io
canto. Seguitemi invece voi pochi che vi dedicate di buon’ora allo
studio del vero, e vi meraviglierete di ciò che io andrò cantando”.
Tenendo conto che lo Scartazzini scrive quando ancora non c’è

La Via di Dante 245


nemmeno l’aereo (1907), è normale che le sue interpretazioni
diventino di tipo filosofico. Ma così l’avvertimento di Dante, riferi-
to a chi non ha ben studiato la teologia e la filosofia, diventa poco
convincente. Siamo al primo livello di lettura. Lo studioso non può
nemmeno ipotizzare significati diversi, così come non poteva com-
prendere quelli di quarto livello della profezia del veltro, non avendo
le necessarie informazioni. Ne risulta, ancora una volta, una lettura
della Commedia addirittura banale e si cerca di farla apparire come
profonda esposizione di improbabili argomenti filosofico-teologici del
tutto normali, dietro i quali nessuno si sarebbe mai potuto perdere.
Il mare magnum della conoscenza, di cui parla ora Dante, in cui
coloro che non sanno già rischiano di perdersi normalmente, è qual-
cosa di più vasto ed alto, di veramente incomprensibile per chi non
è al corrente delle segrete cose, mentre è chiaro solo per coloro che,
come Dante, ne sono al corrente.
A costoro il Poeta indirizza il racconto della sua esperienza straor-
dinaria che lo sta portando sulla Luna e lo fa con dovizia di particolari,
primo fra tutti quello che riguarda la capacità di salire di un corpo
pesante e la velocità di salita necessaria per lasciare la Terra e quella di
avvicinamento alla Luna. E poi, la tensione della prima parte del viag-
gio, che ormai si è allentata in Beatrice (che ci appare nei versi di Dante
come un’autentica, moderna astronauta), le consente di cominciare a
parlare con grande naturalezza al passeggero, proprio come accade
ancora oggi quando gli astronauti sono tranquillamente in volo di tra-
sferimento nello spazio dopo la terribile tensione della partenza.
La concreata e perpetua sete
del deiforme regno cen portava
21. veloci quasi come ‘l ciel vedete.
Beatrice in suso, e io in lei guardava;
e forse in tanto in quanto un quadrel posa
24. e vola e da la noce si dischiava,
giunto mi vidi ove mirabil cosa
mi torse il viso a sé; e però quella
27. cui non potea mia cura essere ascosa,
volta ver me, sì lieta come bella,
“Drizza la mente in Dio grata” mi disse,
30. “che n’ha congiunti con la prima stella”.

246 La Via di Dante


Ed ecco la Luna si avvicina ed è ormai a brevissima distanza e
si può descrivere come mai prima d’ora.
Parev’a me che nube ne coprisse
lucida, spessa, solida e pulita,
33. quasi adamante che lo sol ferisse.
Per entro sè l’etterna margarita
ne ricevette, come acqua recepe
36. raggio di luce permanendo unita.
S’io era corpo, e qui non si concepe
come una dimensione altra patìo,
39. ch’esser convien se corpo in corpo repe,
accender ne dovrìa più il disìo
di veder quella essenza in che si vede
42. come nostra natura e Dio s’unìo.
Lì si vedrà ciò che tenem per fede,
non dimostrato, ma fia per sè noto
45. a guisa del ver primo che l’uom crede.
Io risposi: “Madonna, sì devoto
com’esser posso più, ringrazio lui
48. lo qual dal mortal mondo m’ha remoto...”

Alla fine di questo lungo, imprevisto ed imprevedibile viaggio,


il Poeta continua a trasferirsi da un cielo all’altro.
Non interessa qui esaminare gli incontri che egli ha con le anime
dei santi. Per la parte finale del viaggio di Dante abbiamo già rife-
rito la nostra opinione. Per concludere con le note che ci riguarda-
no non resta che sottolineare come la freccia scoccata, simbolo di
velocità, continui ad essere portata ad esempio per far comprendere
al lettore incredulo la brevità del tempo che occorre a Dante -in
virtù dell’altissima velocità del suo veicolo condotto da Beatrice-
per spostarsi da un cielo (pianeta) all’altro. Essa è così alta che il
viaggio dura meno del tempo che impiega una freccia a raggiunge-
re il suo bersaglio o quello che impiega la corda dell’arco a fermar-
si dopo aver scoccato la freccia.

La Via di Dante 247


LA VIA DEI CIELI
Con quest’ultimo dettaglio non casuale, il mio lavoro di ricerca
si era nuovamente fermato.
Ancora non lo sapevo, ma non era ancora ultimato.
Alla fine dell’anno 2009, quando ormai si
stava festeggiando il Natale e già si provavano i
petardi che si è soliti far scoppiare per capodanno,
dopo aver riletto per caso alcune pagine del sag-
gio di P. Vinassa De Regny del 1955, “Dante e il

GIGLIO O RAZZO?

Il giglio fiorentino nei disegni originali


della città di Firenze ai tempi di Dante (in alto a sinistra).
Il giglio che si trasforma in aquila (in alto a destra).
A sinistra: “Il pittogramma che servì anche come segno geroglifico
per identificare il nome della città del dio Anu, Heliopoli: una torre di
lancio al cui interno vi era un razzo puntato verso il cielo. Sappiamo
anche che aspetto aveva il Ben-Ben perché ne è stato ritovato un
modellino in pietra. Molto simile ad una moderna capsula di coman-
do di una navicella spaziale, il modellino in pietra di quello che il
tempio del dio Anu ad Heliopoli custodiva”.
Come si vede la somiglianza tra i disegni fiorentini delle origini e
quello raffigurante quanto custodito nel tempio di Anu è a dir poco
singolare e tutto questo poteva ben conoscere anche Dante.
Sotto: il modellino in pietra del Ben-Ben ed una moderna
capsula di comando. Ancora una somiglianza strabiliante.

248 La Via di Dante


simbolismo pitagorico” mi colpì la parte che riguardava la M di
luce d’oro che Dante vede persistere nel cielo di Marte dopo che le
lettere D, I, L, erano apparse argentee e luminose e s’erano spente.
Vediamo i versi del XVIII canto del Paradiso.
E come augelli surti di riviera,
quasi congratulando a lor pasture,
75. fanno di sé or tonda or altra schiera,
sì dentro ai lumi sante creature
volitando cantavano, e faciensi
78. or D, or I, or L in sue figure.
Prima, cantando, a sua nota moviensi;
poi, diventando l’un di questi segni,
81. un poco s’arrestavano e taciensi.

Dante vede gli angeli che sullo sfondo del pianeta Giove, si uni-
scono a formare delle lettere, una di seguito all’altra. Prima una D,
poi una I e una L.
Cosa significano?
Le lettere sono prese dal testo latino del primo versetto del libro
della Sapienza composto da cinque parole e trentacinque lettere.
Vediamo ancora i versi.
Mostrarsi dunque in cinque volte sette
vocali e consonanti; e io notai
90. le parti sì, come mi parver dette.
“DILIGITE IUSTITIAM” primai
fur verbo e nome di tutto il dipinto;
93. “QUI IUDICATIS TERRAM” fur sezzai.
Poscia ne l’emme del vocabol quinto
rimasero ordinate; sì che Giove
96. pareva argento lì d’oro distinto.
E vidi scender altre luci dove
era il colmo de l’emme, e lì quetarsi
99. cantando, credo, il ben ch’a sé le move.
Poi come nel percuoter d’i ciocchi arsi
surgono innumerevoli faville,
102. onde li stolti sogliono augurarsi;

La Via di Dante 249


resurger parver quindi più di mille
luci, e salir, qual assai e qual poco
105. sì come ‘l sol che l’accende sortille;
e quietata ciascuna in suo loco,
la testa e ‘l collo d’un’aguglia vidi
108. rappresentare a quel distinto foco.
Quei che dipinge lì, non ha chi ‘l guidi;
ma esso guida, e da lui si rammenta
111. quella virtù ch’è forma per li nidi.
L’altra beatitudo, che contenta
pareva prima d’ingigliarsi a l’emme,
114. con poco moto seguitò la ‘mprenta.

L’Autore faceva riferimento alla M paragonandola al giglio,


simbolo ufficiale della città di Firenze. Quella M che “si ingiglia-
va” mutando aspetto e divenendo simile al simbolo fiorentino, sem-
brava tratta da un altro disegno che a me non poteva sfuggire: quel-
lo che nelle tavolette sumere tradotte da Sitchin indicava il tempio
di Heliopoli, il tempio-casa del dio ANU.
Allora non mi fu difficile rimettere insieme le tre lettere che il
Poeta aveva visto illuminarsi e poi scomparire. Quelle lettere, che

ESH, ZIK,
“dimora divina” “ascendere”

E’ il modulo di E’ forse un modulo di


comando di un comando in fase
veicolo spaziale. di decollo, quando
il pilota ha bisogno
di particolare attenzione,
come mostra Beatrice.

DIN più GIR


La combinazione è sorprendente: la coda del GIR entra nel DIN
e diventa una vera navetta spaziale con il suo razzo propulsore.

250 La Via di Dante


pure erano l’inizio di una parola di una frase latina, diventavano una
precisa indicazione -nascosta- se riportate nella lingua dei Sumeri
prima di quella dorata M. In sostanza i versi si potevano sintetizza-
re così: DIL.M
Ci volle solo un attimo per trovare la parola sumera -DIL.MUN-
a cui si poteva far riferimento. Per esserne certo ripresi Il Pianeta
degli Dei e rilessi il significato di quella parola: “un luogo puro...
una terra pura... un luogo davvero splendente” con riferimento al
dio Enki e alla sua moglie, la dea Ninursag e al loro mito paradi-
siaco.
Le sorprese, però, non erano finite.
Riguardando l’illustrazione che riproduceva un rarissimo reper-
to ritrovai un’altra parola sumera:
DIL.GAN.
Il reperto, secondo l’ipotesi di
Sitchin, era una vera e propria
mappa spaziale con le indicazioni
necessarie per giungere dal pianeta
Nibiru alla Terra e viceversa. La parola
DIL.GAN. indica la via per Nibiru e si
trova in corrispondenza della parola
APIN che indica il pianeta Marte!
Cioè, arrivati dalla Terra in prossi-
mità del pianeta Marte,
DIL.GAN. indica la via per
Nibiru, la patria del dio supremo
ANU, la cui casa è -DIL.MUN- inteso
come sede del dio della conoscenza: la
meta di Dante!
Ma le sorprese non erano ancora
finite.
Il testo di De Regny che illu-
strava i versi di Dante face-
AQUILA
È il comandante delle astronavi degli va riferimento al simbolo
Anunakiche hanno il compito di condurre della città di Firenze: il
gli eletti al cospetto di ANU, nella sua dimora giglio.
nell’alto dei cieli.

La Via di Dante 251


A dimostrazione di quanto affermava, l’Autore pubblicava due
disegni gentilmente concessigli dall’Ufficio d’Arte del Comune di
Firenze che rappresentavano lo stemma ufficiale della città “depo-
sitato all’Ufficio di Araldica, ed è ricavato dai vecchissimi esem-
plari esistenti nell’Archivio e risalenti al 1200. È quindi certo il
giglio di Dante”.
Ma cosa avevano di così strano, quei due gigli fiorentini?
Per poter comprendere fino in fondo il significato di quanto quei
gigli mi avevano suggerito, dovetti rileggere con grande attenzione
la spiegazione che l’Autore ne dava nella pagina precedente -dove
parlava delle quattro lettere luminose che erano apparse una alla
volta a Dante nel cielo di Marte e che erano scomparse lasciando
“accesa” solo la M che brillava di una luce dorata e che si modifi-
cava sotto i suoi occhi. Quella descrizione ora sono costretto qui di
seguito a riportare fedelmente.
Prima di tutto riprendiamo e riassumiamo la visione dantesca
dei canti che ci interessano; e cominciamo a considerare quello che
DANTE ci narra del cielo di Marte. Le luminose facelle dei beati for-
mano varie lettere a combinare una scritta che non è dunque conti-
nua. Prima una D, poi una I, poi una L; poi tutto il versetto, che è
l’inizio del Liber Sapientiae, con cui si invitano i potenti ad amare
la Giustizia. Le lettere poi scompaiono, salvo l’ultima lettera di ter-
ram, che è una M luminosa d’oro. E su questa M il poeta vide scen-
dere altre luci sul suo colmo e lì quetarsi cantando.
L’M ha dunque un colmo: essa cioè è tondeggiante: non è la
nostra M angolosa, è l’M gotica, curva in alto.
Poi numerose altre faville, altre luci, più di mille, ad altezze diver-
se formano la testa e il collo di un’aquila. E l’anime beate, che sono
“ingigliate all’m”, con poco moto prendon parte esse pure a formare
la figura dell’aquila. Come si è formata quell’immagine luminosa,
quell’Aquila a cui si giunge da una modificazione della M?
Ed eccoci al nodo della questione, cioè quel verbo, creato da
DANTE: ingigliare, che a me sembra assai importante per chiarire il
modello che può avergli servito per questa figurazione.
Il Gaetani, geniale studioso di DANTE, è stato il primo a far
osservare che la M di DANTE, doveva essere l’M gotica. E ne dà una
figura, che poi viene ingigliata. Ma questa M ha sul colmo un
giglio, mentre DANTE dice che sul colmo di essa si posano le luci a

252 La Via di Dante


formare il collo e la testa dell’Aquila. Inoltre per aversi poi l’Aquila
occorre una completa dissoluzione della M. Ma DANTE di questa
dissoluzione non parla affatto.
È necessario dunque ricorrere ad altro tipo di M ingigliata.
Effettivamente vi è un’altra figura che arieggia alla M, che ha una
base a coda d’aquila stilizzata, che possiede uno stelo su cui può
formarsi il collo e la testa dell’aquila stilizzata, che è ingigliata
sopra la M, e che non ha bisogno di scomporsi.
Questa figura è lo stemma fiorentino, il giglio, degno di essere
nel cielo, quando sia formato, come nel Paradiso, dai giusti e non
sia il “maledetto fiore” della moneta.
Vediamo questo tipico e storico giglio fiorentino: i due petali
laterali sono le due gambe dell’m tondeggiante, su cui scendono poi
le facelle a formare il collo e la testa di un’aquila. I due gigli late-
rali “ingigliati all’m”, con poco moto, spostandosi di poco, termi-
nano il contorno superiore delle ali. Dal giglio si è formata un’a-
quila. Non mi sembra che occorra andare a ricercare altri modelli
quando ne abbiamo uno così noto a DANTE, e che “con poco moto”
ci dà la figura dell’aquila, derivandola da una M ingigliata, e senza
scomporla.
A questo proposito non si deve dimenticare che nel precedente
canto di Cacciaguida Dante ricorda espressamente il giglio fioren-
tino. È lecito quindi pensare che egli avesse presente il giglio, stem-
ma della sua città.
Si potrà forse osservare che DANTE, il florentinus natione, non
moribus, ce l’aveva con Firenze e quindi non avrebbe dovuto met-
tere in cielo il suo giglio.

Infatti!
Tutta questa lunga citazione è servita per arrivare a far osserva-
re un’altra incredibile coincidenza: l’aquila che appare in questo
momento è stata riferita dai commentatori -oltre che a Firenze- al
simbolo dell’Impero che in qualche modo doveva intervenire per
ridimensionare lo strapotere e la prepotenza della Chiesa di Roma.
Questo ad un livello superficiale di lettura.
Se andiamo al livello ultimo, invece, ci accorgiamo che il riferi-
mento ci porta verso la conferma dell’ipotesi appena elaborata e con
l’aquila ha la sua conferma. Vediamo perché.

La Via di Dante 253


LA MAPPA CELESTE DA E PER
IL PIANETA NIBIRU

Il disegno rappresenta, secondo Sitchin, una vera e propria rotta astrale che
indica il percorso tra il pianeta Nibiru e la terra. Incredibile coincidenza: la
parola DIL.GAN., che indica la via per il pianeta Nibiru, è scritta, sulla
mappa, in corrispondenza della parola APIN che indica il pianeta Marte.
DIL.MUN. è invece il luogo di delizie, il Paradiso, la casa di Dio,
verso il quale è diretto Dante. L’indicazione per la casa di Anu è data,
sulla mappa, subito dopo il pianeta Marte, proprio là dove Dante vede
materializzarsi la misteriosa scritta D-I-L-M con la M d’oro che si tra-
sforma in aquila.
Questa mappa è rappresentata nel disegno in alto, per intero, così come
è stata ritrovata, mentre nella pagina seguente è riportata la parte che
riguarda la rotta Nibiru-Terra con le parole tradotte in Italiano.
254 La Via di Dante
I segni-simboli indicano i pianeti del sistema solare che debbono
essere attraversati per giungere alla terra e il luogo di atterraggio.
Questo disegno dimostra che in antico, qualcuno poteva sapere
cose inimmaginabili per noi, ma note ai popoli antichi.
Passando i millenni le nozioni relative ai Nefilin si sono via via
dimenticate e tutto si è trasformato in mito da noi mai saputo inter-
pretare, anche perché ritenuto solo racconto fantastico, leggenda
senza riscontro nella realtà storica. Solo pochi individui hanno con-
tinuato a tramandare il segreto e a conoscere la verità. Dante pote-
va essere tra questi, tanto che dice cose che oggi soltanto riusciamo
a comprendere e, forse, ancora solo in parte. Basta, però, per poter
aprire un nuovo filone di studi che unendo le conoscenze sumere al
testo dantesco, può illuminarci definitivamente sui significati veri
dell’opera del grande poeta fiorentino.

LA MAPPA CELESTE
Nella pagina accanto: così come è stata ritrovata.
Sopra: la parte della mappa riguardante il viaggio dal pianeta scono-
sciuto Nubiru alla Terra e ritorno con le scritte tradotte in italiano.
Dante poteva conoscere documenti come questo?
Forse non lo sapremo mai, ma il tragitto che egli descrive nella
Commedia somiglia in maniera singolare a quello di questa mappa.

La Via di Dante 255


Se torniamo alla citazione riferita al re Etana, ci accorgiamo che
è Aquila che ha il compito di guidare il re da Anu, nell’alto dei cieli.
Se l’aquila luminosa che si forma nel cielo di Marte la interpretiamo
con la chiave di lettura sumera, allora il suo giusto significato diventa
questo: proprio nel cielo di Marte, appare Aquila, il simbolo contem-
poraneamente dell’astronave e del suo comandante, colui che con-
durrà Dante verso DIL.MUN dove vedrà Dio, AN, la luce-fonte della
conoscenza suprema. E così sarà. Proprio nel cielo di Marte Dante vede
l’aquila, il simbolo del dio-conoscenza che i Sumeri riconoscevano come
loro creatore (e creatore di ADAMU) e così lo raffiguravano.
Le altre lettere scompaiono, ma permane la M che si trasforma
in Aquila -colui che conduce alla casa di Dio- per sottolineare l’im-
portanza di questa ultima lettera.
In questo modo il riferimento ai versi latini serve solo a masche-
rare il vero significato delle lettere, che deve rimanere nascosto.

IL GRIFONE ALATO
A riprova che l’idea di associare la cultura Sumera al viaggio di
Dante è valida, mostro ancora l’illustrazione di pag.216,
ma riproducente diritta la parte rovesciata là omessa.
Si vedono ora, con l’ingrandimento, in un vero e proprio corteo,
molto bene due strani animali alati (due grifoni?) uno dei quali
tira un carro, esattamente come nella descrizione del carro trion-
fale di Beatrice quando discende da un altro “carro”
enormemente più grande se da esso escono insieme
con la donna anche cento angeli.

256 La Via di Dante


L’ULTIMA SORPRESA

L’edizione finale di prova era stata già ritirata e messa in libre-


ria quando arrivò, per me, l’ultima sorpresa.
In un piccolo libro di Daniele Tacchino, L’enigma degli ogget-
ti volanti, edito dalla meb casa editrice nel 1997, mostratami dal
solito Gianni Ventucci, libraio-ricercatore instancabile, trovai una
straordinaria immagine che mostro ai lettori in questa pagina nel
solo dettaglio che riguarda l’oggetto -strabiliante per il contesto in
cui è stata rinvenuta l’immagine-, ma a noi ormai comune.
Chi di noi non vede in quest’immagine uno dei tanti satelliti
artificiali inviati nello spazio nella seconda metà del secolo scor-
so?
Le antenne sono identiche a
quelle che siamo abituati a
vedere anche come dotazio-
ne delle nostre autovetture
munite di radio.
Nessuno si meraviglierà, per-
ciò, di questo particolare.
Andiamo invece ad ammirare,
nella pagina seguente, l’immagi-
ne completa che qui è pubbli-
cata in bianco e nero, ma
che i lettori potranno
verificare a colori
sia in internet, sia,
i più curiosi, dal vero, IL PARTICOLARE INQUIETANTE
trattandosi di un dipinto
che si trova in una città La figura mostra chiaramente l’immagine di un
moderno satellite artificiale, uno Sputnik.
toscana molto nota per il È un’immagine ormai per noi consueta
suo squisito vino: di cui non ci meravigliamo affatto.
Perché, allora, questa in particolare
Montalcino. dovrebbe sbalordirci?

La Via di Dante 257


LA SCENA COMPLETA
L’opera completa mostra la SS.ma Trinità con il Padre e il Figlio che
“tengono per mano” le antenne di un satellite artificiale.
Il tutto è assolutamente strabiliante perché opera attribuita al pittore
rinascimentale Bonaventura Salimbeni,
che ha realizzato il dipinto dal 1595 al 1602.

Si tratta di un dipinto attribuito a Bonaventura Salimbeni, ottimo


pittore del XVI-XVII secolo che realizzò quest’opera tra il 1595 e
il 1602. É una pala d’altare dedicata -nella parte superiore qui ripro-
dotta- alla SS.ma Trinità. La meraviglia nasce dal fatto che il Padre
ed il Figlio tengono in mano ognuno una delle due antenne di una
sfera liscia e metallica che Salimbeni non poteva conoscere, ma che
dipinge con assoluta precisione.
La domanda che ora io mi pongo è questa: è lecito continuare ad
ignorare tutto ciò o non sarebbe più corretto cominciare ad indaga-
re seriamente sulle reali conoscenze dei nostri più lontani progeni-
tori e, soprattutto, non sarebbe ora che molti misteri -noti solo a
pochissimi perché segretissimi- venissero finalmente svelati?
Perché l’Umanità intera deve continuare a credere nelle favole?

258 La Via di Dante


ALLA FINE DELLA VIA
Dopo aver dimostrato la possibilità che Dante possa essersi
effettivamente ispirato al panorama dei Colli Albani per l’ambien-
tazione della Divina Commedia, e dopo aver compreso che il suo
viaggio è frutto di conoscenze reali, non fantastiche, avendo soste-
nuto, il Vate, che tutto quello che scrive (ovviamente relativo alle
descrizione di luoghi e situazioni) è frutto di osservazione diretta e
non di fantasia, è giunto il momento di fermarsi.
Quest’ultima parte dello studio non vuole essere esaustiva.
Il completamento di questi temi spetta ad altri, più esperti della
materia, complessa e difficile.
A me basta aver indicato una via, la via di Dante, da seguire per
approfondire gli studi seguendo nuovi percorsi alla luce delle nostre
più recenti conoscenze, per giungere a conclusioni più rispondenti
al vero circa il pensiero e l’opera di Dante.
Tutto quello che ho potuto esprimere mi auguro sia riuscito a
convincere veramente qualcuno degli studiosi e degli esperti della
materia a riesaminare non solo la Divina Commedia, ma anche e
soprattutto i testi antichi, le storie e i miti, nonché la Bibbia, utiliz-
zando una nuova e più logica chiave di lettura. E possa altresì con-
vincere chi ha le capacità per proseguire, anche a prendere atto che
quei concetti e quegli eventi riguardanti le nostre origini, che prima
ci parevano assurdi, alla luce delle attuali conoscenze appaiono
invece credibili, verosimili o, addirittura, veri.
La Genesi, riletta alla luce delle scoperte di Zecharia Sitchin,
mostra che il racconto ha fondamenti certi, è assolutamente vero,
ma vero in un’ottica diversa. Tutta la storia delle origini, compreso
finalmente il vero significato del racconto mitico, diventa logica, e
scientificamente ineccepibile appare anche l’origine terrestre-non-
terrestre dell’uomo.
Ci accorgiamo che l’Uomo può essere stato veramente creato
per intervento di dio -di quel dio- e fatto a sua immagine e somi-
glianza; che Eva, in effetti, è stata creata per seconda; che Elia può
aver volato veramente su un carro di fuoco-missile-vortice-di-vento
diretto alla casa del Signore, il GIL.MUN, ed esser ancora vivo.

La Via di Dante 259


Basta ammettere, cosa non facile, che il signore è Anu-baal, il dio
degli Anunnaki noto agli ebrei come Yahweh, come Janus ai latini,
che lo consideravano l’origine di tutte le origini, il dio che da sem-
pre dimorava nel Latium, sul mons Albanus, oggi Monte Cavo, la
montagna vuota, dove si nascondevano i missili di Anu e dove
ancora oggi si celano quelli della difesa missilistica di Roma!
E’ la sommità di questo monte -o l’alta vallata centrale del
Vulcano Laziale che ancora chiamiamo Campi di Annibale, ovvero
la valle di ANU Baal- che diventa la base di atterraggio e poi quel-
la di lancio dell’astronave che è al servizio di Dio-Anu-Janus-
Jahweh, proprio perché questa precisa funzione deve aver assolto
quel luogo ai primordi dell’umanità, come forse ci indica la mappa
spaziale reinterpretata da Sitchin. E’ proprio una nave spaziale
discesa dal cielo, proveniente dalla casa di Anu e simile a quella
vista da Ezechiele, il carro trionfale di Beatrice che consente, poi,
a Dante il suo viaggio sulla Luna. Altre navi spaziali, condotte da
Aquila, dopo aver toccato tutti i cieli superiori, lo portano fin nella casa
del Signore-Anu-Yahweh -indicata dal DIL.MUN- posta, per i
Sumeri, proprio nell’alto dei cieli, cioè nello spazio in cui oggi posso-
no arrivare le nostre moderne astronavi. O ancora più in là, partendo
dal posto certo, indicato dal DIL.GAN, nel cielo di Marte.
Molti sono gli elementi concreti a sostegno di questa ipotesi
che non è moderna, ma antichissima e giunta fino a noi per vie
segrete, prima, ora per scoperta archeologica.
Del resto, è nella comune tradizione la convinzione che sia esi-
stita in passato, ed esista tutt’ora, una specie di Confraternita (che
qualcuno indica nei livelli più alti e segreti della Massoneria) che
molto può per le sorti dell’intero pianeta -se addirittura non le deter-
mina costantemente- perché è la depositaria di conoscenze antichis-
sime riservate agli eletti, agli illuminati. E le tradizioni, come i miti,
si sa, non inventano tutto: riportano una verità che è sconosciuta, ma
indubbia anche se, a volte, incomprensibile. Queste Confraternite in
passato erano quegli Ordini Cavallereschi -cui Dante apparteneva-
e che si vantavano di avere conoscenze occulte cui solo pochi pote-
vano accedere. Dante mostra e dimostra di averne in abbondanza di
conoscenze particolari: macchina da stampa, Croce del Sud, forma

260 La Via di Dante


della Terra, rotta di Ulisse con la quale l’eroe greco finisce al largo
della futura Montevideo seguendo la rotta che secoli dopo percor-
rerà Magellano, e così via fino alla forza di gravità e alla gravita-
zione universale (un concetto e una scoperta scientifica ancora molto
al di là da venire), e alla conoscenza dell’enorme velocità che serve per
uscire dalla Terra. Infine, con l’indicazione del DIL.MUN dimostra, in
maniera ormai indiscutibile, di conoscere i segreti della rotta per il
Paradiso-Casa di Anu.
Possiamo concludere che le antiche conoscenze sumere -le più
antiche dell’umanità, ma anche le più avanzate, derivando diretta-
mente dagli dèi venuti dall’alto dei cieli- erano arrivate in qualche
modo, tramandate da ristrette Corporazioni e da organizzazioni
segrete, fino a Dante. Erano proprio queste nozioni, quella cono-
scenza di una realtà extra-terrestre che egli -per non rivelarla diret-
tamente- finge di inseguire per le vie del mondo dei trapassati per
farle comunque arrivare all’umanità. Per far questo segue anche l’e-
sempio e l’opera di El-Arabi: il suo viaggio nel mondo dei morti.
Iniziando il viaggio dall’Inferno, insomma, era facile confonde-
re la via che conduce nell’alto dei cieli sotto una tale valanga di
significati simbolici ed esoterici che nessuno al di fuori della sua
cerchia di confratelli avrebbe potuto scoprire il significato vero del
suo viaggio alla ricerca del dio-conoscenza.
La divulgazione di questa pericolosissima conoscenza -anche
se criptata e comprensibile da parte dei soli fratelli- è lo scopo
primo della Divina Commedia e il motivo vero della morte pre-
matura del suo Autore, se prematura e procurata è stata.
Questa conoscenza, infatti, è proprio quella che la Chiesa vole-
va, allora, mantenere assolutamente segreta e, dunque, l’opera di
Dante non solo è eretica, ma mette il suo Autore nella pericolosa
condizione di colui a cui è indispensabile chiudere la bocca per
sempre perché egli ha osato, come Ulisse, scavalcare le colonne
d’Ercole della conoscenza consentita per far sapere a tutti una veri-
tà tanto pericolosa, cosa assolutamente imperdonabile.
Ha, insomma, colto il frutto proibito dall’albero della conoscen-
za e l’ha mangiato per intero.
Per questo deve essere punito.

La Via di Dante 261


La realtà storica dell’origine vera dell’Uomo, la prova del-
l’esistenza di esseri extraterrestri chiamati dèi dagli uomini: è
questa la conoscenza che condanna i Catari al rogo di
Montségur.
È questa condanna che Dante Alighieri cerca in ogni modo,
inutilmente, di evitare.
Per aggirare i divieti e far comunque circolare liberamente le
proprie idee, gli affiliati a organizzazioni esoteriche utilizzeranno
ancora opere allegoriche, così come Dante ha fatto con la sua
Commedia.
È appunto in questi termini che un’affermazione contenuta nei
“documenti del Priorato” [di Sion] definisce il carattere dell’arte
simbolica o allegorica:
Le opere allegoriche hanno questo vantaggio: una sola parola
basta a illuminare connessioni che la moltitudine non può affer-
rare. Tali opere sono accessibili a tutti, ma il loro significato si
rivolge ad un’élite. Al di sopra e al di là delle masse, mittente e
destinatario si comprendono. Il successo inspiegabile di certe
opere deriva da questa qualità di allegoria, che costituisce non già
una semplice moda, ma una forma di comunicazione esoterica.
M. Baigent, R. Leigh, H Lincoln: Il Santo Graal, pag. 230,
I Miti, Mondadori, luglio 2005

Ma a Dante, il solo successo dell’opera non è bastato.


Deve aver ecceduto nelle rivelazioni.
Prima della pubblicazione dell’ultima cantica (o immediatamen-
te dopo), la mal-aria non lo risparmia più.
Al termine del viaggio, ammaliato dallo splendore della luce
divina, quella luce-conoscenza che aveva inseguito cercando la casa
di dio, anche l’intelletto di Dante trova difficoltà a capire, si lascia
andare. Ha scritto, forse, qualche verso di troppo, ha parlato, anche,
troppo.
Il racconto della visione delle cose divine deve avere termine e
non deve avere ulteriori spiegazioni.
La sua nave è ripartita subito dopo averlo riportato alla terrestre
realtà quotidiana.
Finita l’avventura egli ha stentato a ricordare.

262 La Via di Dante


Sembra, ora, di ascoltare dalla sua bocca le stesse cose raccon-
tate da coloro che dicono di aver avuto contatti con gli alieni ed
essere stati rapiti e portati nelle loro astronavi. Al termine delle loro
esperienze difficilmente sono in grado di ricordare quanto è loro
accaduto. Non mancano nemmeno documenti filmati di questo e
ancora non ci crediamo.
Da quella casa nello spazio in cui ha visto il dio (ANU) in tutto
il suo splendore, Dante torna, come Mosé ed Elia, sulla Terra.
Ma qualcuno, che non ha gradito le sue esternazioni, lo fa ripar-
tire -definitivamente- per l’altro mondo, subito dopo la pubblica-
zione della terza Cantica, prima che possa confermare ciò che non
deve.
Tutti, insomma, dovranno ancora continuare a considerare la
divinità soltanto purissimo spirito, come
l’amor che move il sole e l’altre stelle.

Ma lo scavo di indagine nel poema è appena


cominciato in senso di libera interpretazione di un
Dante trasgressivo e lungimirante, un profeta del
futuro. Un poeta nel vero senso della parola, cioè
VATE, scomodo ai suoi tempi e, forse, scomodo
anche oggi, se lo si legge senza prevenzioni dottri-
narie e con totale conoscenza delle altre sue opere e
del suo tempo.
Aldo Onorati
Da Controluce, Agosto 2010
DANTE E IL NEMUS: le sorprendenti conferme.
Questo volume era già stato stampato e diffuso da oltre sei mesi
quando una sera ero a cena con i frequentatori di un breve corso
sulla storia del terriotrio del nemu aricinum. Eravamo in una vera
capanna tradizionale del Lazio, ricostruita fedelmente nella sua
azienda da Lino Nicoletti, appassionato cultore della storia e delle
tradizioni locali.
Stavamo assaggiando formaggi e salumi prodotti nella maniera
più genuina possibile ed un pancotto, una minestra di verdure e
pane, che si faceva degustare come prelibato piatto tradizionale
non come misero alimento di poveri contadini di un tempo ormai
lontano. L’atmosfera era più che suggestiva, fatta di tremolanti luci
di candele appannate dal fumo del fuoco -su cui bolliva il pancot-
to- che saliva verso l’alto della capanna da cui fuoriusciva attra-
versando le foglie dello scopìo, che formano un tetto tanto per-
meabile al fumo del fuoco, quanto impenetrabile al vento e alla
pioggia.
“Architetto, perché lei non è ancora completamente soddisfatto
della sua intuizione sull’ispirazione di Dante?” mi dice Alessandro,
uno dei ragazzi del corso, gustando una mollica di pecorino roma-
no servitoci da Lino. “Eppure la certezza gliel’ha data Ovidio!”
“Non proprio”, rispondo. ”Ovidio nelle Metamordosi parla del
mito di Ippolito-Virbio, della storia di Numa Pompilio ed Egeria.
Non fa altri riferimenti al nemus”.
“Ma io non mi riferisco alle Metamorfosi. È nei Fasti che
Ovidio parla della selva oscura”.
Non avevo preso troppo sul serio quella rivelazione. In effetti,
però, io non avevo mai pensato di controllare anche quest’altra
opera di Ovidio, anche perché non la conoscevo affatto.
Rimasi sbigottito quando, leggendo il terzo libro dei Fasti, mi
accorsi che Ovidio tornava su storie e miti che facevano comunque
parte della tradizione nemorense.
Poi arrivò la rivelazione per me sconvolgente:
Vallis Aricinae SYLVA praecinctus OPACA
Est lacus antiqua religione sacer.
che potevo tradurre:
Cinto da una SELVA OSCURA nella valle di Ariccia
v’è un lago consacrato dal religioso culto degli antichi.

Alessandro aveva ragione: Dante non era certamente uno


sprovveduto come me. Non poteva ignorare una delle gran-
di opere di Ovidio e dimenticare qualla sylva opaca dove
ritrovarsi quando la diritta via non è più diritta.
C’erano proprio tutti gli elementi che potevano avergli sug-
gerito -e non a caso- l’incipit della Commedia!
Era vero, non dovevo avere più alcun dubbio: Dante aveva
visitato questi luoghi non a caso, ma attirato qui dalle sue
conoscenze storiche e letterarie. La particolarità dei luoghi,
presi come modello, gli aveva poi suggerito l’ambientazio-
ne -la scenografia ideale- per la sua Opera più grande.

Ma le sorprendenti novità non erano ancora finite.


Sabato 25 giugno 2011, con un piccolo gruppo dei frequentatori
del solito corso sulle storie del nemus, partecipo alla visita dell’an-
tichissimo emissario del lago di Nemi, l’opera idraulica più com-
plessa e difficile di tutta l’antichità.
Avevo infatti ipotizzato che Dante, per uscire dall’imferno, si fosse
riferito proprio all’antico cunicolo quando, lasciatosi alle spalle
Lucfero, stava per tornare, in compagnia di Virgilio, a riveder le stelle.
Anche qui la sorpresa è stata inaspettata.
Non avendo mai percorso il cunicolo, non avevo mai saputo che al
suo interno ci fosse una sorgente che esce da una parete rocciosa
della lunga grotta. Come se avesse scavato la roccia, l’acqua cade
sul fondo dell’emissario con un gradevole rumore che si sente nel
buio e indica la via da seguire. Poi scorre lentamente per la lievis-
sima pendenza (poco pende) della grotta che pare avvolgerla.
Credevo che Dante si volesse riferire al lievissimo rumore che l’ac-
qua del lago poteva fare scorrendo sul fondo del cunicolo nel suo
percorso verso Vallericcia. In realtà, così, la mia spiegazione sareb-
be stata poco realistica. La pendenza è così lieve che non si sareb-
be potuto ascoltare alcun rumore, pur nell’assoluto silenzio del
tunnel. Mi basavo sul fatto che tra la parte dell’emissario che pro-
vene da Nemi e quella che arriva da Vallericcia c’era, e c’è, un dis-
livello di circa un metro e mezzo. Cadendo dal fondo del tunnel più
alto, l’acqua poteva provocare un rumore tale da essere percepibi-
le anche ad una certa distanza e fare da guida ai due Poeti. Era una
forzatura poco convincente anche per me, perché la descrizione di
Dante non corrispondeva alla mia ipotesi: mancava proprio il buco
del sasso da cui l’acqua fuoriusciva!
Luogo è là giù da Belzebù remoto
tanto quanto la tomba si distende,
129. che non per vista, ma per suono è noto
d’un ruscelletto che quivi discende
per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso,
132. col corso ch’elli avvolge, e poco pende.

Ecco la sorpresa: con la sorgente, la descrizione dantesca è perfet-


ta e corrisponde in pieno se riferita alla fonte che sgorga dalla pare-
te dell’emissario, proprio dalla buca del sasso ch’elli ha roso.
Chi ha visto quella fonte, raffigurata nelle due foto in basso, non
può avere più dubbio alcuno: i versi di Dante sono stati concepiti
davanti a quel sasso roso dall’acqua di quella fonte nel cunicolo
che collega la valle del lago di Nemi con quella di Ariccia!

Emissario del lago di Nemi: ecco la buca d’un sasso che l’acqua ha roso.
A sinistra:
l’imbocco del tunnel
dell’emissario del lago di
Nemi, proprio l’ideale
ingresso nel mondo dei morti
che gli antichi comunque
collocavano nella valle del
lago, come testimonia
Ottaviano Augusto.

Sotto:
il foro di uno dei pozzi di
ventilazione dell’emissario, il
pertugio tondo da cui
Dante immagina di tornare
a riveder le stelle
MASSA NEMUS-SELVA OSCURA
E LA DONAZIONE DI COSTANTINO:
l’origine del potere temporale dei papi
In questo mio studio sui rapporti tra Dante e i Colli Albani, avrei
dovuto iniziare proprio dalla vera donazione di Costantino, come
pretesto della venuta di Dante ai Colli Albani. Quale motivo miglio-
re avrebbe potuto indurre il Poeta a visitare questo territorio -pur
fondamentale per la storia delle origini della civiltà romana- se non
quello di vedere il luogo dove aveva avuto origine il tanto vitupera-
to potere temporale della Chiesa?
Questo motivo straordinario, invece, mi è venuto in mente per
caso e per ultimo: era il più importante, la giustificazione massima
alla venuta di Dante ai Colli Alban e non l’avevo capito!
Ora, però, costituisce la conferma più grande che tutto quanto
ipotizzato aveva un fondamento più che valido!
Dopo la battaglia di Ponte Milvio contro Massenzio, la massa
nemus, cioè tutto il territorio di proprietà del Tempio di Diana
nemorense, fa parte dei terreni donati da Costantino alla Diocesi di
Albano, imposta come la prima, per importanza, dopo Roma.
La stessa città di Albano nasce intorno ai Castra per volontà
dall’Imperatore e va sfatata, una volta per tutte, la favola medioe-
vale di Albano come l’antica Albalonga, che era sui Colli Albani,
ma da tutt’altra parte.
Tutto questo, per una logica che non lascia adito a dubbi di sorta.
Costantino opera in segno di gratitudine verso la legione partica
stanziata nei Castra Albana dai tempi di Settimio Severo. Nello
scontro decisivo, è accorsa in aiuto non di Massenzio, come vuole
la tradizione, ma di colui che ha posto sulle sue insegne la croce. In
hoc signo vinces, insomma, non era una visione miracolosa, ma la
richiesta precisa fattagli dai legionari mitraisti-cristiani dei Colli
Albani che, ormai certi del suo appoggio, si schierano dalla parte di
Costantino e Massenzio finisce nel Tevere.
Perché la legione partica si sarebbe dovuta accordare con
Costantino, quando Massenzio aveva già dimostrato di essere amico

268 La Via di Dante


dei cristinani?
La risposta non può che essere basata ancora sulla logica, più
che su documenti inesistenti.
Massenzio era alleato di Massimino che si era schierato contro
Costantino. Massimino, in medio oriente, era ancora molto ostile ai
cristiani che nulla avevano, così, da guadagnare ad appoggiare
Massenzio che, in caso di vittoria, sarebbe stato pesantemente con-
dizionato dal suo forte alleato e loro nemico, Massimino.
Avuta -con la croce sulle insegne militari- la conferma da
Costantino della sua benevolenza, i cristiani si alleano con lui e lo
aiutano a buttare nel Tevere Massenzio.
La legione dei pretoriani di Massenzio, infatti, sarà distrutta e
scomparirà dalla storia, mentre Costantino stesso creerà la Diocesi
di Albano a cui donerà tutto il territorio che ancora oggi la identifi-
ca e costruirà ad Albano una delle quattro chiese da lui edificate
fuori di Roma: la basilica di San Giovanni Battista.
Quando il papa avrà preso il posto anche politico dell’imperato-
re e si vorrà accreditare lo Stato Pontificio esteso a tutta l’Italia cen-
trale, si giustificherà tutto con la donazione di Costantino, nuova
versione ampliata -e falsa- di quella vera, originaria.
La massa nemus, la parte più ricca ed importante, di prorpietà
del tempio di Diana, che circondava il lago di Nemi, compresa nella
prima proprietà territoriale della Chiesa, costituirà di fatto anche il
cuore dell’origine del potere temporale dei Papi, oltremodo inviso a
Dante, potere di cui i capi della Chiesa abuseranno in maniera inde-
gna.
Ahi, Constantin, di quanto mal fu matre
non la tua conversion, ma quella dote
117 che da te prese il primo ricco patre!”
(Imferno, XIX 115-117)
Appare così chiarissimo il motivo per il quale Dante è spinto a
venire ai Colli Albani ed ancor più giustificato il suo rapporto con
questo territorio come luogo ispiratore della sua opera.
La selva oscura-massa nemus in quanto cuore della mai abba-

La Via di Dante 269


stanza deprecata donazione di Costantino alla Chiesa è, per il Vate,
l’origine di tutti i mali; è logico che proprio lì regnino indisturbate
le tre belve-vizi capitali non degli uomini comuni, come affermano
i commentatori della Commedia, ma dei capi di quella Chiesa: la
sfrenata sete di potere (leone), la lussuria più turpe (lonza) e l’avi-
dità senza limiti (lupa).
In questo luogo di perdizione -proprio la vera massa nemus-
selva oscura- non si può passare senza mortal pericolo. Meglio
attraversare l’Inferno (che qui ha il suo ingresso), che appare addi-
rittura una via di salvezza, perché consente di evitare la lupa fame-
lica-Chiesa che opprimerà i popoli finché la conoscenza auspicata
dai Catari non potrà essere diffusa facilmente e a tutti. Questo
avverrà quando sarà costruita la macchina da stampa a caratteri
mobili-veltro ideata dai cinesi e i cui disegni proprio qui erano stati
tenuti nascosti per secoli dalla Chiesa.
Quei disegni si salveranno, per merito di Giordano Nemorario,
dal rogo che brucerà i Catari e arriveranno a Magonza e, infine, con-
segnati a Gutemberg.
Sarà quello l’inizio della fine per quella Chiesa-lupa che finirà
col morir con doglia, mentre la conoscenza, stampata sulle pagine
dei libri, cioè tra feltro e feltro, si diffonderà rapidamente tra i popoli.
La tardiva riflessione sulla donazione di Costantino è, ora, la più
efficace conferma dell’ipotesi dell’esistenza reale di uno stretto rappor-
to tra Dante e i Colli Albani.
Dante aveva davvero un fortissimo motivo per venire ai Colli
Albani. Voleva vedere l’origine del Male supremo, la selva oscura
in cui non si ritrova per puro caso, ma perché era la sua meta, il ter-
ritorio che voleva vedere con i suoi occhi: la massa nemus!

270 La Via di Dante


Indice

La Via di Dante, il perché di un titolo ....................... 9


Dante, questo sconosciuto ......................................... 13
Colli Albani: Il modello della scena ......................... 30
Frazer, Virgilio ed il VI canto dell’Eneide .......................... 32
La scrofa bianca e i trenta porcellini ......................... 36
Virgilio e Augusto ..................................................... 42
La diritta via e le tre belve ......................................... 51
La fonte del sapere: Giordano de Nemore e i Catari . 62
Le tre belve e la profezia del veltro ........................... 69
Eresia pura ................................................................ 84
Eresia pura ................................................................ 85
Rodolf o La nc ia ni, L’antic a Roma ................ 89
I Colli Albani e la Divina Commedia ........................ 90
Ai piedi del monte del purgatorio .............................. 103
Dove l’acqua di Tevero s’insala ................................. 111
Arnaut Daniel, il trovatore ........................................ 116
Dopo il “rogo” il sogno: Lia e Rebecca ..................... 120
Il Paradiso terrestre ..................................................... 131
Altre conferme ............................................................ 150
Il segreto svelato? ....................................................... 160
Da Eresia pura a Roghi fatui le verità sulle morti
sospette riscoperte da Adriano Petta .............................. 167
Appendice sui Colli Albani ........................................ 168
Conclusione ................................................................ 178
Il mistero continua ...................................................... 186
Il corteo trionfale ........................................................ 191
Matelda: ”Guarda anche al resto” ............................... 200
Il profeta Ezechiele .................................................... 219
Il viaggio nello spazio, dalla terra alla luna .............. 229
Con Beatrice verso l’alto dei cieli ............................. 231
La via dei cieli ........................................................... 248
La mappa celeste da e per il pianeta Nibiru ....................... 254
Alla fine della via ................................................................. 257

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