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Il lavoro culturale diventare adulti a Grosseto dopo Bianciardi

una storia confidenziale Questo frammento autobiografico fa parte di un testo alquanto pi lungo con lo stesso titolo, in cui ho cercato di mettere insieme ricordi e impressioni della mia esperienza di responsabile della cultura nel Partito Comunista di Grosseto, tra gli anni 60 e 70. E stato scritto solo per gli amici, e stampato a suo tempo in 25 copie. Cos come lo si legge qui una storia senza capo n coda, perch ho dovuto tagliar via (per motivi sentimentali) una lunga sezione introduttiva, ed una parte finale pi lunga ancora. Mi sembrato per che anche in questa forma potesse avere comunque qualcosa da dire a chi fosse curioso della vita e della storia recente della nostra microscopica comunit, e anche a chi ha avuto la sorte di viverci dentro. Una storia confidenziale e assolutamente partigiana, che non pretende di essere veridica, n affidabile. Ma cos che la ricordo, e tanto basta. Se mi va, aggiunger un altro breve capitolo, in data da destinarsi.

[] . Fu, naturalmente, una questione di date. Il 68. Fu quello, c poco da dire. E come per la migrazione delle renne, o la sciamatura delle api, i lemming che si gettano nellartico, buon per loro, quelle cose l: arriva un momento che tutti si mettono in moto verso la stessa direzione, come seguendo un profumo sconosciuto, una musica misteriosa, e via tutti, sia quello che sia. Inevitabilmente, ci venni tirato dentro anche io. Non era possibile resistere alla chiamata, non era ammesso, a quei tempi. Cos, alla fine, decisi di aggregarmi ad un manipolo di lemming in marcia verso il mare aperto, ripromettendomi di imparare a nuotare strada facendo, se non volevo fare la fine del topo. Il teatro sperimentale Il 68 arrivava a mettere ordine (si fa per dire), alla fine di un periodo molto confuso, durante il quale tante cose si erano messe in movimento, ma cos, senza un indirizzo preciso, senza sapere bene dove si andava, o quello che si voleva davvero. Cera la sensazione che le cose stessero cambiando, e che in quel cambiamento ci fosse un posto per noi. Cera un lavoro da fare, cera il momento, e loccasione per fare quel lavoro, ma non si capiva bene di cosa si trattasse. Qualsiasi cosa poteva andare, purch servisse a stare insieme, a discutere, a scambiarsi le idee, a litigare ferocemente, a scaricare insieme lansia, o la rabbia, o la gioia. Il teatro sperimentale, almeno allinizio, fu questo, pi o meno: ragazzi (liceali, per lo pi, al solito) che volevano sperimentare qualcosa, qualsiasi cosa, o una cosa qualsiasi, e tanto valeva cominciare dal teatro. Poi si sarebbe visto. Cos cominci, allora, al seguito di un solo adulto vero, un noto avvocato del posto che era stato nel Partito dAzione, ma che soprattutto coltivava anche una passione privata per la scrittura teatrale, e aveva stampato a proprie spese un paio di atti unici che nessuno aveva mai letto n tantomeno rappresentato sulla scena, fino ad allora. Tutta roba sperimentale, per intenderci, che sembrava fatta apposta per un teatro sperimentale. Un uomo di sinistra, in una citt dove avvocati di sinistra ce nerano davvero pochini. Intelligente, anche se non cos intelligente quanto pensava. Un po antipatico, anche, diciamolo. Cos si form subito un gruppo di attori, e fu molto facile, perch fare lattore sempre una gran

bella cosa, e si conoscono un sacco di ragazze (e viceversa). Fu presto trovata una sede, un garage abbastanza grande in via delle Brigate Partigiane (che sembrava un nome particolarmente benaugurante), dove tutti si riunivano pi volte alla settimana, e via andare. I risultati erano quelli che erano: testi alquanto bizzarri, e la recitazione beh, si trattava solo di dilettanti, in fondo. E comunque, con quel tipo di teatro, sarebbe stato piuttosto difficile in ogni caso distinguere il dilettante dal professionista: la dizione doveva essere il meno naturale possibile, lunghe pause arcane, luci basse, pose ieratiche, gesture rallentate seguite da improvvisi sussulti motori, parole distillate una ad una con lentezza esasperante, sospiri affannosi, rumori fastidiosi fuori di scena. che te ne pare, Asio? Ti piaciuto? chiese PierGiorgio dopo lo spettacolo a un vecchio compaesano (Piergiorgio veniva da Buriano, una frazioncina poco fuori Grosseto) Lui lo guard negli occhi, sornione: era un uomo diretto e molto poco sperimentale mi sono vergognato per voi proprio questo disse Asio, e sarebbe stato difficile dargli torto. Ma quel teatro non era fatto per i paesani delle frazioni. Era una cosa culturale, una cosa per intellettuali, e solo gli intellettuali veri avrebbero potuto apprezzarlo e capirlo (o dire di averlo capito, tanto chi avrebbe notato la differenza?). scusatemi, mi manca la voce disse una sera Anita dal palco, rivolgendosi direttamente al pubblico nel bel mezzo di un monologo che si era spento disastrosamente in un bisbiglio inarticolato troppe cose, vi mancano! le url qualcuno dalle ultime file. Un altro burianese, probabilmente. Ma in fondo se lera cercata, Anita. Poi ci fu una drammatizzazione delle vicende del Santo Davide dellAmiata, in cui lo posso testimoniare personalmente - la voce del suggeritore sopraffece quella degli attori, e persino un assassinio nella cattedrale allestito sulla scalinata del duomo di Massa Marittima, molto suggestivo, con musiche dei Pink Floyd, che ebbe un discreto successo, nonostante qualche occasionale amnesia degli attori. Cos quellesperienza and avanti ancora per qualche tempo, e non fu priva di momenti epici e di soddisfazioni vere: un premio, persino, consegnato al Teatro Sperimentale di Grosseto al Festival teatrale de LAquila, e se ne parl per settimane. Metamorfosi dello sperimentale Ma presto il teatro, ancorch sperimentale, cominci ad andare troppo stretto per le esigenze di un gruppo di giovani affamati di novit, irrequieti, carichi di energia e smaniosi di scaricarla dove possibile. Cos quel garage di via delle Brigate Partigiane, senza perdere la sua funzione elettiva, divenne presto anche un luogo di incontro per parlare di politica. Fu soltanto per curiosit, una curiosit pelosa, con una certa sfumatura di invidia, che capitai l quella sera, e anche diciamolo - perch cerano un paio di ragazze interessanti, che peraltro non si dettero la pena di prendermi in considerazione. Era una sera piovosa, afosa, e la stanza stipata di gente puzzava di cane bagnato. Fu in quelloccasione che incontrai per la prima volta Beppe Pii, uno che studiava a Roma, uno con gli occhiali e un tono di voce da gatto soriano, un compagno preparato che veniva nei fine settimana a raccontare dei nuovi movimenti che stavano nascendo. Lui faceva parte di un gruppo di cui non ricordo il nome, qualcosa con dentro la parola operaio: gente che gli operai li aveva visti solo col binocolo, ma tanto faceva. Beppe sapeva parlare, eccome, e conosceva un sacco di cose. Io sbirciavo i suoi appunti, scritti fitti fitti in una calligrafia microscopica su fogliettini ripiegati, e cominciai a pensare che se la politica era quella, forse sarebbe stato un affare troppo difficile per me, che mi veniva il mal di mare solo allidea di parlare in pubblico. Poi cera Paolino, che a tempo perso faceva anche il pugile, ed era completamente suonato gi allora; due o tre ragazzi dellistituto tecnico, non troppo rifiniti, che prendevano sempre la parola a sproposito, qualche ragazzina bruttarella in cerca del fidanzato, e come mi pare di

aver detto anche un paio invece di esemplari notevoli, ma con una considerevole puzza sotto il naso, come si conviene in questi casi. Qualcuno era gi sbandato, qualcun altro cominci a sbandare allora. E cerano anche diversi cervelli pronti, naturalmente, gente con la parlantina sciolta, che aveva letto un sacco di roba e aveva una gran voglia di darsi da fare. Gente come Aldo, o Cecco, ragazzi della Grosseto bene, a cui n la erre blesa n i gusti aristocratici facevano da ostacolo ad una fervida militanza marxista leninista. E mio fratello, pure, e Paolo e Vittorio, che fecero di l a poco il grande salto verso la facolt di Sociologia di Trento, dove stazionava gi una piccola comunit di grossetani molto rivoluzionari. E poi il Minna Piccolo, che a differenza del Minna Grande, suo fratello e da sempre socialista di sinistra, era entrato subito nella Lega dei Comunisti, con questo rinnegando, oltre la sua borghesissima famiglia, anche la nostra amicizia di ragazzini, nata dalla comune passione per i romanzetti di fantascienza. Uno che faceva sul serio, un ribelle vero anche nel seno della famiglia, con la quale nei momenti pi conflittuali comunicava solo attraverso fischi modulati. La comunit del teatro sperimentale non andava daccordo su niente, ma si trovava unita nella unanime condanna e sprezzo del rinnegato Partito Comunista Italiano, servo del capitale, di cui mi ero trovato fortunosamente a far parte lanno prima, grazie al Pallade, amico dellinfanzia, e a Momo, che mi avevano fatto la tessera delle Figgicc quando neanche sapevo cosa fosse. Naturale che l, nel teatro sperimentale, non mi ci sentissi particolarmente a mio agio, anche perch non avevo neanche alla lontana quel minimo di disinvoltura e coraggio che ci voleva per prendere la parola in pubblico per dire la mia, se anche avessi avuto una mia da dire. Cos, dopo quella prima volta, non ci tornai pi. E non ci tornarono anche molti altri, che decisero per di prendere una strada piuttosto diversa dalla mia. Satana in parrocchia Il 68 era cominciato, e non era pi il caso di gingillarsi con larte varia. La rivoluzione incombeva, e quella andava fatta: altro che teatro. Molti, come Beppe Pii, erano stati alluniversit, a Roma, a Firenze, a Pisa, a Trento, addirittura, e erano ritornati con notizie stupefacenti e incredibili. La rivoluzione era cosa (quasi) fatta. Solo qualche dettaglio da mettere a punto. Fu cos che si ruppe il precario equilibrio che si era retto fino ad allora sullentusiasmo e sullamicizia, e nacquero i primi gruppi politici di sinistra. Extraparlamentari, come si diceva allora, ed era come un insulto, o una minaccia, a seconda. Il garage di via delle Brigate Partigiane venne disertato, e ognuno se ne cerc uno a propria immagine e somiglianza: gli anarchici, Lotta Continua, la Lega dei Comunisti, il Manifesto, e via andare. La sinistra, la sinistra giovanile in particolare, era diventata un luogo piuttosto affollato, e sempre pi conflittuale e rissoso. Ce nerano talmente tanti di comunisti, ormai, e tutti diversi tra loro, e tutti convinti che gli altri fossero traditori della classe operaia, venduti al capitalismo, e tutti convinti di avere ragione, libro alla mano. Studiavano come pazzi, perch quello erano, quasi tutti: studenti, e quello solo sapevano fare. I riti, le gerarchie e persino i valori dellodiato liceo borghese se li erano portati dietro, e dentro, anche in quella esperienza nuovissima e frizzante che loro chiamavano sbrigativamente rivoluzione, anche se invece era tutta unaltra cosa. Eccolo l, il campione di questa stagione ribelle: il compagno preparato, una specie di primo della classe in politica, riverito dai suoi compagni e temuto dagli avversari. Uno che parlava come un libro stampato, ma che in pi, al contrario dellemaciato prototipo liceale da cui proveniva, aveva carisma, e faccia tosta, lingua sciolta, e un invidiabile (e invidiato) successo con le ragazze. Non che mancassero gli emaciati, naturalmente. Quelli anzi, essendo loro malgrado meno distratti dagli affari di cuore, avevano pi tempo da dedicare agli studi, e per questo riuscivano meglio nelle discussioni, anche se lastinenza li rendeva inevitabilmente pi perfidi e antipatici. Per arrivare fin l, comunque, bisognava avere affrontato una serie di lunghe e difficoltose

letture e articoli di dottrina: Che fare? Limperialismo fase suprema de capitalismo (questo non faceva neanche bisogno di leggerlo, perch gi il titolo diceva tutto quello che cera da sapere) , un passo avanti e due indietro, quelle cose l. I pi dotati arrivavano persino ai manoscritti economico filosofici di Marx, agli articoli per la Gazzetta Renana, al rarefatto e irraggiungibile materialismo e empiriocriticismo, di cui era difficile persino pronunciare il titolo correttamente. Alcuni si erano addirittura misurati con Il Capitale, libro sacro e assolutamente esoterico che contava pi di duemila pagine, troppe anche solo per tenerlo in mano. Unopera in quattro libri, uno pi difficile dellaltro. Il quarto in particolare: limpervio altopiano del libro quarto del Capitale, come lo defin una volta il presto dimenticato Mario Veri, che sosteneva di averlo scalato a mani nude (ma io non ci ho mai creduto). Dopo di quello, si poteva finalmente avere le idee chiare sul perch, in ultima istanza, la struttura ecc. ecc. (niente di pi fu mai sostenuto, n da Marx, n da me : lo aveva detto Engels, e questo tagliava la testa al toro). Non era sempre cos per tutti, ovviamente, e anche l, accanto ai mufloni che si contendevano a colpi di corna la guida del branco, vivacchiava una fauna pi ordinaria, variopinta e chiassosa, ma anche molto tenace e motivata. Quelli della Lega dei Comunisti, in particolare, erano i pi tosti. Non ci si poteva entrare subito, l dentro, figurarsi. Ci doveva essere prima un apprendistato molto lungo e severo, durante il quale si era niente pi che candidati alliscrizione. Si studiava tutti i giorni, nelle proprie squallide camerette o preferibilmente nei collettivi, nei seminari, nei gruppi di studio, come e pi di quanto non si facesse a scuola. Non so che prove si dovessero sostenere perch la candidatura venisse accettata: un quiz, come a scuola guida, o qualcosa come un esame di maturit, portare acqua con le orecchie a Mammone, scalare limpervio altipiano del quarto libro. mi hanno detto che se continuo a frequentarti non potr essere neanche considerato per la candidatura mi disse Luca costernato, una sera. Con Luca suonavamo insieme, spesso. Io gli avevo insegnato i rudimenti della chitarra, ma presto lui era diventato pi bravo di me. Non era un gran merito, comunque, perch non sono mai stato capace di tenere il tempo a modo. Aveva una bella moto Ducati verde, e una camicia indiana di lino che gli invidiavo tantissimo. Con due dei suoi fratelli era passato tutto insieme dallazione cattolica al marxismo leninismo, con dispetto del padre, un uomo mite e intelligente, ma irrimediabilmente democristiano. Non che avessero ripudiato la vera fede, e per un certo periodo riuscirono a conciliare le riunioni in parrocchia con i seminari sul plusvalore. Le cose andavano cos, allora. Luca suonava la chitarra in chiesa, insieme a Paolo detto Macarty, di Civitella Paganico, che sullorgano del Cottolengo rifaceva le canzoncine dei Procol Harum. Messa beat, la chiamavano al tempo, ma per il solito Momo, che era un anticlericale vero e chitarrista comunista, non si trattava altro che di due bischerate messe insieme, come disse a commento del racconto che gliene avevo fatto. Lequivoco non dur molto, comunque: o con noi o con satana gli dissero gli amici della parrocchia, proprio cos, senza mezzi termini. Alla fine scelsero satana, tutti e tre, anche se nelle triste e castigatissime vesti della Lega dei Comunisti, cos poco attraenti. Marco, diligentemente, si mise persino a studiare il cinese, ma non so se sia mai riuscito ad andare oltre le prime lezioni. Luca, sia detto a sua gloria perpetua, non resistette a lungo. Forse quellinvito a smettere di frequentarmi dovette sembragli una replica infelice dellultimatum che gi gli era stato posto in parrocchia. Forse, semplicemente, non aveva voglia di mettersi a studiare il noiosissimo marxismo leninismo, lui che anche a scuola andava cos e cos. Ci aveva visto bene, comunque, perch poi alla fine tutti hanno fatto come lui, anche se a qualcuno gli ci sono voluti pi di venti anni, ed stato tutto tempo buttato via. Lorigine delle specie Cerano altri, ovviamente, oltre ai filologi della Lega dei Comunisti: Lotta Continua, per esempio, gente pi ruspante e meno schizzinosa dal punto di vista ideologico, che si trovava a proprio agio soprattutto nella confusione e nel casino, reclutata per lo pi negli istituti tecnici (le

differenze di classe funzionavano anche in queste cose, eccome). Se cera da menare le mani, loro erano sempre l davanti, e non sentivano ragioni, anche perch per la maggior parte erano grandi e grossi. Il capo era un imbecille completo, me ne rendevo conto persino io, ma per loro era carisma puro. Poi gli anarchici, che erano cos anarchici che neanche avevano una linea politica, e si contentavano di andare alle manifestazioni quando cera da darsi da fare, e se ne stavano per lo pi nella loro sede, non si capiva a fare cosa. Ragazzi simpatici, per, senza la puzza sotto il naso, con cui si poteva almeno parlare di musica, anche se i miei gusti, al solito, erano pi tradizionali. E cera il Psiup, che non era n carne n pesce: un po giovani e un po vecchi, un po socialisti e un po comunisti, un po rivoluzionari e un po riformisti. Quattro gatti, comunque. Gente noiosa, che faceva la lezione a tutti, ma senza la cattiveria degli altri. Con quel tipo di politica non si faceva molta strada, e loro non ne fecero, infatti. Pi tardi, infine, Il Manifesto, anche da noi: l che stavano le ragazze pi belle del movimento, va detto in tutta onest, ma non saprei dire se per via del fascino proprio della linea politica, o per merito di due o tre gigol di bellaspetto e svelti di mano che bazzicavano da quelle parti (ma qui solo la mia invidia postuma che parla). I giovani socialisti erano un pianto. Nessuno li voleva intorno o li prendeva in considerazione. Gi cos giovani avevano contratto quel vizietto cos caratteristicamente socialista di interessarsi esclusivamente dei propri interessi, e fosse quel che fosse. A conti fatti sono tra quelli che hanno durato pi a lungo, e molti di loro hanno fatto carriera, dopo che i migliori se ne sono andati disgustati. Per noi giovani comunisti erano una zavorra inevitabile, i parenti un po cos di cui ci si vergogna, ma che non si possono non invitare a tavola. A guardarla bene, dopo tutto questo tempo, la geografia del movimento aveva qualcosa di inevitabile e fisiologico, del tutto indipendente dalla linea politica che ciascuno professava, come se ognuno di questi piccoli gruppi di agguerriti rivoluzionari, comunisti compresi, incarnasse una tipologia umana molto specifica e incompatibile con ciascuna delle altre. Qualcosa come una speciazione darwiniana, in cui i rari eventuali incroci si rivelavano inevitabilmente infecondi. Dei fascisti non voglio dire, anche perch, come direbbe un avvocato, non rilevano in questo contesto sentimentale che mi sono scelto per raccontare. Quelli che conoscevamo noi erano soprattutto gente ricca, liceali, in gran parte, anche loro, bench per la pi parte ripetenti, poco inclini al contraddittorio e molto limitati quanto a dialettica. Ma in genere erano pi robusti e picchiavano pi duro. Uno di loro, gi molto pi grande di noi, si ebbe lonore di una foto a tutta pagina sullEspresso, dove lo si vedeva con una spranga in mano durante i disordini di Valle Giulia, mentre cercava di colpire uno studente barbuto. Solo quelli di Lotta Continua avevano voglia e muscoli per tenergli testa sul piano fisico: gente come Nocica, o Katanga, ragazzi piuttosto ben messi e poco portati anche loro per la discussione e per le sottigliezze teoriche. Gli scontri non erano frequenti, ma qualcuno ce ne fu, durante le manifestazioni e gli scioperi studenteschi, per non con la violenza che si vista da altre parti, perch una volta misurata la forza e la consistenza dellavversario si preferiva in genere evitare lo scontro e togliersi di mezzo. compagni, sbaglio o questa una ritirata? sentii dire una volta al Minna Piccolo nellinfuriare della battaglia, in un momento particolarmente infelice per la sinistra (il Minna, bench marxista leninista della prima ora, aveva ancora una riserva di ironia, una qualit che in quegli ambienti aveva vita molto difficile). Insomma: la politica come la conoscemmo allora divenne presto soprattutto un interminabile e feroce conflitto tra affini (o presunti tali), e il nemico vero, qualunque fosse, se ne stava sullo sfondo, a fare i propri comodi. Oddio, non era del tutto cos, non sempre, ma qualche volta sembrava proprio che lo fosse. Nellinsieme non era una cosa che potesse andar bene per tutti, ovviamente. Sicuramente non andava bene per me, almeno in quella fase. Io mi limitavo ancora ad assistere stupefatto e intimorito, senza avere idee minimamente chiare n sui mezzi n sui fini. Mio fratello aveva cominciato prima, e gi si era preso un bel vantaggio su di me. Aveva letto

un sacco di cose, partecipato ai gruppi di studio, preso la parola nelle assemblee, scriveva poesie e aveva anche una fidanzata. Scoprii presto che se volevo sopravvivere in quellatmosfera rarefatta, cera bisogno di avere molte pi risorse di quanto avessi immaginato allinizio. Ma scoprii anche, sorprendentemente, che quellinopinato incontro dellanno prima con Momo e il Pallade sotto lombra delle mura, che fino ad allora avevo considerato niente pi che un curioso episodio delladolescenza, tutto sommato marginale, aveva invece qualcosa a che fare con tutto questo. Perch la politica non era solo quella che si faceva al teatro sperimentale, nelle assemblee degli studenti, o portando a spasso uno striscione per le strade della citt. Anzi. La politica era anche l, o forse l, soprattutto: nelle stanze e nelle sedi del partitone, dove si parlava un linguaggio pi terra terra e non si trovava un liceale neanche a pagare (o quasi). Un altro mondo, a tutti gli effetti Il grande partito comunista di Gramsci, Togliatti, ecc. Cominci cos, per me, come era cominciata per un sacco di altra gente al tempo. La sezione prima, niente pi che una stanza aperta sulla strada, e poi la federazione: posti dove vedersi, trovarsi, discutere di tutto, fare amicizia, fare due chiacchiere, qualche volta trovare una ragazza; una porta aperta che dava su un mondo nuovo per me sconosciuto e benevolo, fatto di gente che si dava del tu, senza altra gerarchia e disciplina se non quella costruita sulla fiducia e sullautorevolezza personale, fatto di giovani e anziani, ragazzi e ragazze, intellettuali e analfabeti, tenuti insieme magicamente dalla convinzione di stare lavorando, tutti, per qualcosa di importante ed indispensabile, una specie di incantesimo benigno di cui oggi si persa ogni traccia. Era il nostro comunismo, quello, nel bene e nel male: una cosa fatta di condivisione, amicizia, riunioni spaventosamente noiose, certezze incrollabili, conformismo puritano, un senso geloso di affidamento e di appartenenza, e tutto poggiava su un potere saldamente insediato nella societ, tra gli elettori, tra i cittadini, la gente comune. Ma senza ideologie, senza millenarismi, senza corruschi orizzonti rivoluzionari che trascendessero le quiete cerimonie e i riti dovuti ai padri fondatori. Il glorioso Partito Comunista prosperava a Grosseto e in provincia con una forza tranquilla e pervasiva, potenzialmente immortale, fatta di autorevolezza, carisma, organizzazione, fiducia popolare, affidamento, solidariet, onest, e soprattutto retto dallesempio di uomini amati e stimati da (quasi) tutti. Il sindaco, il segretario del partito, il deputato, il senatore, i funzionari della federazione: loro erano l dove erano perch erano i migliori, semplicemente. Sempre con il sorriso sulla bocca, sempre pronti ad ascoltare: quattro soldi per tirare avanti, e se ne venivano di pi quelli dovevano andare al partito. La mutria dei comunisti, la defin, ammirato e contrariato, un grande liberale, su Il Mondo di allora, e dovetti cercarmela sul vocabolario, quella parola. Certo, a guardare bene non era proprio cos: anche allora, in quella et doro, cerano i furbetti, le pecore nere, gli arrampicatori, i leccapiedi, gli opportunisti, come sempre accade, e una buona quantit di stupidi, che sono da sempre il concime della politica. Non che gli uomini di allora fossero migliori in s (bench molti di loro lo fossero, a paragone dei pigmei che infestano la politica di oggi): piuttosto era lapparato nel suo insieme, la struttura e lorganizzazione del partito, che gli impediva di essere peggiori, che salvaguardava ragionevolmente dal malcostume, dalle tentazioni, dalle furbizie, dalle congiure, dalla corruzione. Un senso comune occhiuto e moralista, che non tollerava individualismi e consorterie, le iniziative personali e lautopromozione, e insieme venerava gli individui dotati ed autorevoli, e spesso come accade - anche quelli non proprio cos. Moralismo, certo: peccato mortale persino avere unamante, tradire la moglie, una cosa che i preti, pi esperti, risolvevano da secoli con quattro avemarie, e che invece i comunisti non potevano perdonare, perch i comunisti non fanno certe cose, non si espongono alla censura del senso comune, non sfidano i tab, non offendono i valori condivisi. E ricordo un vicesegretario

che fu ufficialmente richiamato ai doveri coniugali, e dovette chiudere in tutta fretta la sua storia clandestina, e un sindaco che fu trasferito ad altro incarico per essere stato troppo disinvolto con qualche signorina dellentourage. Oggi roba cos farebbe solo sorridere, indignare persino. Ma di cose come queste era fatta la nostra forza, e qui stava il nostro orgoglio. Ci sentivamo unaristocrazia, una specie di aristocrazia francescana, una classe di cavalieri nel cui esempio alcuni potessero riconoscersi, e di cui tutti, comunque, dovessero avere rispetto. Con i soldi delle tessere, le feste dellunit, le rimesse dei parlamentari, la vendita del giornale porta a porta ce nera di che mantenere (ancorch piuttosto sobriamente) un apparato di almeno venti persone, un alveare ronzante che controllava il territorio palmo a palmo. Cera il responsabile dellorganizzazione, quello della stampa e propaganda, quello degli enti locali, il segretario della federazione giovanile, il corrispondente dellUnit, la coordinatrice della commissione femminile, non si trascurava nessun aspetto o piega della societ, per ciascuno dei quali ci doveva essere sempre un referente, uno che fosse abilitato a portare la voce e la linea del partito. Per questo, sin dallinizio, ci fu anche gente come quel Bonora o quel Simonetta di cui parla Bianciardi, delegati a combattere quella che Togliatti chiamava la battaglia delle idee: i responsabili del lavoro culturale. Eh s, anche la cultura era un lavoro, per i comunisti, perch il lavoro quello che d dignit e senso ad ogni cosa. Fu l dentro, nellaccogliente e vischioso liquido amniotico del partito comunista, che ebbe inizio il mio apprendistato politico, e poi anche il mio apprendistato culturale: nelle due stanze della federazione giovanile comunista: un paio di scrivanie sbertucciate ed una vecchia Olivetti, intonaci scrostati, un manifesto del Che, la solita foto di Gramsci alla parete, sempre quella, con gli occhialini tondi e i capelli a fiamma. Una posizione defilata, accanto ai bagni e alla sala delle conferenze, quello stanzone dal soffitto altissimo sul quale incombeva un enorme trittico sbalzato su rame, dono di un noto artista locale. Nelle intenzioni dellautore lopera doveva rappresentare la potenza e lorgoglio delle classi popolari della maremma, ma leffetto era quello di una desolante masnada di eunuchi deformi stipati come in un girone dantesco. Anche da cose cos avrei dovuto capire quanto sarebbe stato difficile fare del lavoro culturale l dentro, o fuori di l, se per questo, in questa citt di confine con il nulla. Mi ci sono voluti pi di trenta anni per scoprire che difficile non era il termine giusto. Inutile: quella era era la parola. Il paradosso del mentitore Troppo ci sarebbe da dire su quella esperienza nella federazione giovanile: le storie, gli aneddoti, le persone, le aspettative, le speranze, le delusioni, le conquiste orgogliose e le miserie umane, piccole e grandi. La crescita incerta di un gruppo di giovani che si facevano adulti dentro un mondo gi adulto, dentro una storia potente nata e cresciuta tra la gente comune, nella gioia, nel dolore, nel sangue e nei sogni della gente: un mondo oggi estinto che ha lasciato per unombra fossile dentro a chi c passato, talvolta ancora un po inquieta, per qualcuno. E curioso, pensandoci ora, come tutto questo, questa cosa che era la nostra vita quotidiana e che alimentava e dava senso alla nostra visione del mondo, si sia potuta dissolvere cos improvvisamente e rapidamente, e si sia alla fine dissipata anche dentro di noi, lasciando il posto ad un vuoto stupefatto, tranquillo e un po' allucinato. Chi ha fatto un po di filosofia, al liceo, o magari soltanto ha letto la Settimana Enigmistica, qualche volta, sa cosa sia il paradosso del mentitore. Ce ne sono moltissime varianti: la pi concisa, e forse elegante, viene cos, semplicemente: io mento (cio mento sempre, in ogni circostanza ed in ogni tempo, senza eccezioni). E unaffermazione autocontraddittoria, di cui non si pu dire n che vera, n che falsa. Chi se ne intende lo chiama paradosso di

Epimenide, un greco che ha fatto anche una quantit di altre canagliate, ma con questa ha messo un tarlo perfidissimo nel pensiero occidentale (uno dei tanti), un tarlo che ha dato da lavorare per secoli a un sacco di professori che altrimenti non avrebbero avuto di meglio per passare il tempo. Il Partito Comunista scomparso pi o meno per una cosa del genere: stato risucchiato in un paradosso autocontraddittorio nel quale tutti hanno finito per non sapere pi che pesci pigliare. I comunisti fanno sempre tutto quello che dice il Partito recitava la regola aurea. A questo un segretario nazionale dai ridicoli capelli a cespuglio e la voce squillante aggiunse un corollario: il partito comunista ti dice che non devi essere pi comunista. E a questo punto tutti i comunisti veri si convinsero che non dovevano pi essere comunisti, ma allo stesso tempo, non essendo pi comunisti, non erano tenuti neanche a fare tutto quello che diceva il Partito. Un bel pasticcio. Io me ne tirai fuori perch forse non ero abbastanza comunista, e potevo permettermi di continuare ad esserlo solo perch lo ero cos poco da poter disubbidire senza patemi a quel corollario. Un altro paradosso, in fondo. E comunque questo non mi imped di fare la fine di tutti gli altri: il Partito Comunista si dissolse (con un pigolio e non con uno schianto, avrebbe detto quel poeta), e essere comunista senza Partito Comunista sarebbe stato un altro paradosso ancora. Certo c modo e modo di scomparire, e almeno posso dire di averlo fatto dignitosamente, cosa che non capitata a tutti. Ma allora tutto questo era di l da venire, era addirittura inimmaginabile. Unanguilla squamosa Il liceo era finito, per me, e con quello erano finite le bizantine controversie dottrinali studentesche, le manifestazioni e i gruppi di studio, la politica parlata che si praticava nel recinto dorato della scuola superiore. Non che tutto questo non ci fosse pi, anzi. Ma arriva un momento in cui devi prendere atto che il mondo pi vasto di quello che credevi, anche se non sai quanto, anche se non sai come. Non sempre una sensazione gradevole, perch a quel punto me ne resi conto anche io dopo qualche mese di allegro girare a vuoto - lottimismo naturale delladolescenza gi andato a farsi benedire, e c troppa foschia allorizzonte per non provare un minimo di smarrimento, quellinquietudine sotterranea per un futuro che per la prima volta deve essere pensato e progettato, in qualche modo, e non sai da che parte rifarti. La fine di una deriva tranquilla che credevi sarebbe durata in eterno, e invece. Lesperienza con luniversit gi dopo un paio di mesi non funzionava come avrebbe dovuto, e il passaggio dallaccogliente microclima provinciale alle atmosfere viziate della grande citt si stava rivelando pi arduo e arcigno di quanto avessi previsto. E la politica, pure, ora che cominciava a perdere linutile, appassionante piglio combattivo delle imprese giovanili, si stava trasformando imprevedibilmente in una routine piuttosto incolore e ripetitiva. la grigia lotta quotidiana: quello me lo aspettavo, ma non che fosse cos grigia. Una specie di lavoro, alla fine, e non c niente come il lavoro per spegnere le passioni, nel bene e nel male. Le cose che avevo fatto fino ad allora non andavano pi bene, nemmeno una, come era successo anni prima con i giornalini e le figurine, i modellini e i western spaghetti. Ma questa volta era pi difficile capire che cosa potesse andare bene davvero. Di vivere a Firenze neanche a parlarne, e una seccatura insopportabile andare su e gi con il treno, quando anche i risultati fossero stati pi promettenti di quanto gi si poteva capire. E una noia, daltra parte, anche le solite interminabili, tabaccose riunioni di partito, la lettura quotidiana del giornale, i resoconti chilometrici in corpo otto del comitato centrale da sciropparsi dalla prima allultima parola, le corve serali quasi quotidiane in ogni villaggio dellimpero, le domeniche spese a vendere il giornale porta a porta a persone sempre pi accigliate e riluttanti. Anche l, tra i giovani del partito, potevo dire di essere entrato a far parte del gruppo di testa, ma non avrei voluto di pi. Mi piaceva restarmene sulla scia, lasciando che qualcun altro tirasse la volata, se pure cera un traguardo, da qualche parte.

Non era una vita che facesse per me, quella, anche se non avevo idea se ce ne fosse unaltra che poteva andare bene davvero. Uno pi determinato, meno maligno e malinconico, avrebbe cambiato strada al pi presto, e fosse quello che fosse. Ma luniversit serviva anche a questo, per quelli come me: un alibi, per lasciarsi galleggiare in attesa che il mondo prendesse una piega ragionevole, o pi accattivante. Quando non sai che pesci pigliare, tanto vale aspettare che siano loro a saltare sulla barca, se ne hanno voglia, e lasciare intanto che la corrente ti porti dove gli va. Questo fu il lavoro culturale per me: un pesce poco appetibile, squamoso, minuscolo, una specie di anguilla. Ma fu lui a venirmi incontro, e non dissi di no. Dopo quel Minuti di cui parla Bianciardi non ce nerano stati altri, nel partito, a farsene carico: la citt non era abbastanza reattiva, n sensibile. Il lavoro di massa, quello s che era importante, qualunque cosa volesse dire la parola. Tutto il resto, e la cultura, in particolare, di cui non importava niente a nessuno, era tempo perso. Detta cos oggi, a distanza di tanto tempo, e con tanta inutile esperienza alle spalle, non vedo come potrei dargli torto. Ma allora mi sembr un modo interessante per contrastare lo stato danimo saturnino e insoddisfatto in cui mi trovavo. Cos fui io a propormi per quellincarico che nessuno voleva, per curiosit, per noia, assecondando inconsapevolmente una strategia del caso che solo pi tardi si fece manifesta, e nessuno mi disse di no. Una specie di titolo onorifico, e un modo per passare il tempo. Fu cos, quasi per caso, che raccolsi leredit di Simonetta e Minuti, anni dopo che anche di loro si era persa memoria, ammesso che si chiamassero davvero cos, come li aveva chiamati Bianciardi. Il lavoro culturale: ancora tengo in qualche cassetto la targa di plastica nera con queste due parolette incise in oro, che stava sulla porta dellufficio, e che sopravvissuta con poco altro al naufragio che poi si preso quella porta, quei muri e una quantit di altre cose che facevano parte della nostra vita, al tempo. Due Niccolini Non ci misi molto ad accorgermi che le cose erano un poco pi complicate di quanto immaginavo. Ma era una sfida, a quel punto, una specie di avventura, e non mi dispiaceva che non fosse tutto cos facile. Il mondo, anche il piccolo mondo grossetano, e anche il mondo ancora pi piccolo della cultura grossetana, era molto cambiato in quei pochi anni, e ancora stava cambiando, piuttosto in fretta. Era successa una cosa, in particolare, che aveva messo in movimento, ed in agitazione, quasi tutti quelli che a vario titolo si occupavano di cultura in citt. Erano arrivati i soldi. Pochi, ma cerano. Ce nerano per organizzare mostre di pittura con rutilanti cataloghi a colori, per pubblicare libri che altrimenti sarebbero rimasti confinati nei secoli dei secoli dentro ai cassetti degli autori: poetesse, romanzieri, eruditi, storici locali, etruscologi, e ce nerano per fare le conferenze, per finanziare gruppi teatrali, per organizzare concerti. Il denaro stava cambiando anche quel mondo, e noi, che eravamo marxisti, lo sapevamo bene: i quattrini, fanno tutto, i quattrini la politica ce lhanno messa dopo sosteneva correttamente Franchino, detto Ganne, o anche il Capitano, che era solo un operaio, ma aveva capito per istinto di classe, senza nemmeno dover leggere Engels, quale fosse il rapporto tra struttura e sovrastruttura, in ultima istanza. Come successe pi tardi, quando leroina venne in citt, larrivo del denaro rese drogato il piccolo mondo della cultura locale. E lo rese rissoso, geloso, avido, pi di quanto non fosse mai stato prima. Non fece altrettanto danno, e non lasci morti sul terreno come la droga vera, ma leffetto fu ugualmente devastante su quel piccolo mondo e sulla sua stabilit e tranquillit. Perch i soldi cerano, s, ma non ce nerano per tutti, questo fu subito chiaro, e le conseguenze non si fecero attendere.

Accadde cos che tutti quelli che potevano accampare un qualche titolo genericamente culturale si fecero sotto, a rivendicare il proprio diritto a prendere parte a quel banchetto, e magari ad assicurarsi le porzioni migliori. Quei soldi ce laveva il Comune, una piccola stanza del tesoro presidiata da una figura bizzarra e del tutto nuova nel panorama politico e sociologico delle citt italiane: si chiamava assessore alla cultura, ed era un personaggio curioso e interessante. Da noi la scelta dellassessore alla cultura si era fatta, fino ad allora, come con la conta a pari o dispari per i giocatori delle squadre di calcio dei ragazzini, che si improvvisavano alle bucacce, sotto le mura. Uno che non sapeva giocare, come me, doveva attendere che le squadre si fossero formate, e quella che mi avrebbe preso doveva lasciare allaltra il primo calcio e la scelta del campo. Cos, quando i partiti di governo della citt si dividevano le responsabilit della giunta, dopo aver assegnato a turno i posti pi succosi, per ultimo decidevano chi avrebbe avuto lassessorato alla cultura e chi invece sarebbe uscito dalla trattativa con qualche beneficio minore pi o meno equivalente. Nessuno ci aveva mai tenuto in particolare, a quel posto, ed era poco pi di un titolo onorifico che veniva assegnato in genere a qualche professore in pensione, o qualche personalit indipendente, non iscritto al partito. Tanto, l, non avrebbe potuto far danno. Ma le cose stavano cambiando in tutto il paese, e il governo della cultura diventava ora un appetibile passatempo, per prestigio e per investimenti, e persino per influenza politica. Era tutto cominciato come una specie di primavera. Una primavera romana. Il prototipo di tutti gli assessori alla cultura era larchitetto Niccolini, che ai tempi aveva assunto quel ruolo a Roma e praticamente si invent dal nulla una professione, un mito, unimpresa e un fenomeno mediatico. Niccolini, che era piuttosto sveglio, si era accorto prima di tutti che i tempi erano maturi perch la cultura venisse praticata, coltivata e vissuta anche come divertimento, passione condivisa, suoni e luci, piacere fine a s stesso di cui bisognava smettere di vergognarsi. Fu lui ad inventare quello che fu a lungo orridamente definito leffimero, un termine studiato a scopo denigratorio dai sui avversari, quasi un insulto, una contestazione conservatrice, e che divenne subito invece, ironicamente, la definizione pi efficace per un fenomeno che era fatto di allegria, inventiva, condivisione, consumo intelligente e divertimento. Anche edonismo fu detto, da qualcuno che aveva fatto gli studi classici: il piacere per il piacere, che per qualcuno era poco meno che una bestemmia, e per tanti fu invece qualcosa di molto vicino ad una liberazione vera e propria. La gente si riuniva per ascoltare musica, assistere alle mostre, fare teatro, partecipare agli eventi. Una specie di rivoluzione culturale: una piccola, allegra rivoluzione che scosse il mondo sonnolento dellaccademia, dellerudizione, del paludato decoro borghese per aprirsi alle piazze, agli amplificatori, agli esperimenti, alla fantasia. Non a tutti piaceva, certo, e non tutto era oro quello che luccicava, anzi. Come in tutte le rivoluzioni, col tempo sono sempre i peggiori che finiscono per prevalere, oppure pi semplicemente i migliori si guastano, sfiancati dal potere e dalla fatica di continuare ad essere quello che pensavano di essere. Non era destinato a durare, ma qualcosa si era mosso, e dopo niente fu pi come prima. I comunisti, che sono conservatori per definizione (chi lo avrebbe detto?), non sempre digerivano questa svolta, e ci fu un discreto dibattito interno sullargomento, che vide come protagonisti il solito Niccolini e il suo avversario storico, il conservatore Duccio Trombadori. Ma Duccio era quasi calvo, e Niccolini invece aveva una gran chioma riccioluta; e poi uno con un cognome cos non poteva vincere: lesito era gi scontato. A Grosseto tutto arrivava in ritardo, come accade con quel curioso fenomeno fisico per cui si vede prima il lampo e poi, molto pi tardi, si sente il tuono. Non avevamo mai sentito parlare di questo Niccolini, prima. Il solo Niccolini che conoscevamo era un aristocratico fiorentino di inizio secolo, fanatico della caccia in maremma. Scendeva alla stazione gi vestito di tutto punto, con gli stivaloni, la bisaccia e il fucile carico, e di l prendeva

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a piedi per la strada del padule, venti chilometri buoni, buon per lui. Continu a venire a caccia anche quando fu vecchio, e praticamente cieco. Si portava dietro un fattore, o un famiglio, che gli urlava: ora, signor conte, una pernice, l a destra, spari ora, presto! un beccaccino eccolo, gi, in basso!. Lui sparava e non prendeva niente, naturalmente. Un idiota completo. Chiss che quel fattore non si portasse dietro ogni tanto anche qualche uccello morto, cos, per farlo contento, e fargli credere che era stato lui ad accopparlo. Insomma: cos stavano le cose, ma anche da noi cominciarono a cambiare. E successe che dopo tanti lampi si cominci ad avvertire il rumore di qualche tuono, anche da noi. Ma come capitava spesso da queste parti, pi che uno schianto vero e proprio, si tratt di un brontolio, in tutti i sensi possibili del termine. Dai tempi di Bianciardi la vita culturale cittadina si era complicata e differenziata, cera (relativamente) pi gente che vi si dedicava. Gente che non solo leggeva libri, o andava al cinema, e amava discuterne, ma che dipingeva, pi di quanto non si facesse prima, e scriveva poesie, e romanzi (daltra parte era ormai dimostrato che anche un grossetano poteva pubblicare con Rizzoli), gente che studiava gli etruschi e la storia dellarte, che scriveva di teatro, che girava cortometraggi persino, gente che suonava ogni tipo di strumenti, e giovani studenti che si ritrovavano al freddo nel garage sotto casa per recitare atti unici, tutta quella roba l. Una morta gora: questa era stata a lungo la definizione un po snob che qualche professore di liceo usava con i colleghi di fuori per parlare della vita intellettuale della citt. Ma senza che ce ne fossimo accorti tutto questo era cambiato in poco tempo, e quella gora, adesso, era tuttaltro che morta, anche se per molti versi rimaneva ancora irrimediabilmente una gora, acque paludose e forse anche malariche, infestate da creature di ogni tipo e caratura, accidiose a iraconde, come quelle del canto VIII. Alfio Primo, principe del nulla Il primo assessore grossetano di questo nuovo corso fu, ovviamente, un socialista. Avendo rinunciato al sindaco, che spettava di diritto ai comunisti, i socialisti si erano presi i posti pi appetibili della giunta. Ma c un limite a tutto, e cos avevano dovuto portarsi a casa anche questo irrilevante appannaggio, un peso pi che un beneficio, che fu affidato ad uno della sinistra, la corrente che contava meno in quel partito. Il curriculum non era entusiasmante, ma di l in poi se ne sarebbero visti di molto peggiori: maestro elementare - che con quei chiari di luna, a sinistra, poteva ben essere considerato un titolo intellettuale di un certo prestigio e gran cercatore di funghi, una qualit irrilevante per quel mestiere, ma tant: si fa quel che si pu. Aveva una testa grossa e rotonda, alquanto dura, e un curioso colorito rubizzo, che port l dentro, nelle stanze scrostate dellassessorato, insieme a quella furbizia malsana dei socialisti, che sotto la cordialit pelosa e un po sguaiata nasconde un morso dacciaio ed un appetito smodato. Gli assessori, gli assessori alla cultura in specie, si dividono in due grandi classi, non di pi: quelli che impersonano con molto sussiego il proprio ruolo, indulgono ad un lessico ricercato (o che ritengono tale), si atteggiano a pensosi intellettuali, e quelli che invece ostentano una simpatica disinvoltura dissacrante, popolaresca, con lo scopo di esaltare, per contrasto, gli sprazzi occasionali e studiati in cui esibiscono la propria singolare cultura. Come per dire: guardatemi: sembro uno sciocco qualsiasi, ma invece la so cos lunga che neanche ve lo immaginate! Lui, Alfio, era il primo della sua generazione, e non si faceva troppi problemi di stile. Si compiaceva delle proprie origini paesane, ostentando quella cultura rimediata e un po piccina da maestro elementare. Uno che amava larchitettura Librty (come la chiamava lui, con laccento aperto sulla e) e luso di sentenziosit popolari come troppo presto per fare tardi, e troppo tardi per fare presto, oppure cose del tipo: io sono di Montorsaio, e ho mangiato pane e volpe Era una specie di monito, quello, o una minaccia, e lo ripeteva portandosi al naso lindice teso, e roteando gli occhi come non avevo mai visto fare a nessuno. Un ometto stizzoso e vendicativo, una specie di gnomo troppo cresciuto con il quale mi fu

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subito impossibile andare daccordo, nella mia fresca veste di responsabile del lavoro culturale, e pure di giovane turco del consiglio comunale. Lui era il drago seduto sul tesoro dei Nibelunghi, non ci voleva troppo a capirlo neanche per gente non particolarmente dotata come gli intellettuali, gli artisti e gli uomini di cultura della citt, che scoprirono da un giorno allaltro il costume della piaggeria e della adulazione cortigiana, vi si adattarono allegramente e non se ne sono pi liberati, di poi. Fu subito guerra senza quartiere, tra di noi. Una battaglia sorda e rancorosa, che si protrasse per un paio di anni nel clima sonnacchioso di un distratto consiglio comunale che aveva ben altro a cui pensare. E anche una battaglia inutile, tutto sommato, passata del resto inosservata ai pi. Per questo tanto vale che non ne resti traccia neanche qui, in questa ricognizione sentimentale che non si cura dei fatti e delle puntigliose verit della storia, tantomeno di una storia cos piccina e noiosa. Alla fine, semplicemente, le cose andarono come era prevedibile che andassero. E cio che la nostra citt, in un periodo formativo e di grande movimento culturale in tutto il paese, perse una volta per tutte loccasione per entrare nellera moderna ed rimasta, dal punto di vista culturale, un malinconico buco di provincia. Ma forse le cose sarebbero andate lo stesso in questo modo anche senza Alfio, anche se al suo posto ci fosse stato un giovane turco qualsiasi. Forse non giusto, e non ha senso, dare a lui tutte le colpe di un fallimento che era gi scritto. Ma scritto davvero, non tanto per dire: laveva scritto Bianciardi qualche anno prima, in quel suo librino, anche se non se ne era reso conto neanche lui. Ecco qui: se questo vi sembra un discorso troppo serio, forse avete ragione. Un po mi sono fatto prendere dai ricordi, e l c rimasta ancora una traccia minima della passione, e del dispetto di allora. Per farla breve, baster dire che quella morta gora si anim in quegli anni di nuova vita, una vita che mai aveva conosciuto prima, e le sue acque stagnanti e ospitali si popolarono allimprovviso di ogni tipo di bizzarra creatura, come nel lago delle lacrime di Alice nel Paese delle Meraviglie. A Grosseto cera tutto, ormai, ma tutto come in quelle citt in miniatura che si trovavano una volta nei parchi di divertimento del Nord: la biblioteca piccola piccola, il teatro minuscolo, a bomboniera, lorchestrina, le microscopiche gallerie darte, il museino: cose cos, senza troppo impegno, con la loro brava etichetta sopra, perch non ci si potesse sbagliare. Una finzione, come quando le bambine giocano alle signore, e si versano il th delle cinque nel servito della bambola. Il lavoro culturale, alla fine Bene o male, e pi male che bene, lo stato delle cose culturali, quel piccolo mondo slabbrato e autoreferenziale, era cambiato anche a Grosseto, alla fine: con Alfio, grazie ad Alfio, nonostante Alfio, indipendentemente da Alfio, a seconda dei punti di vista. Ed era diventato pi impegnativo lavorarci, perch tutte quelle cose erano a pieno titolo, ora, un affare proprio della politica. Perch la politica centra tutte le volte che si parla di soldi (ricordate il Capitano?), e tutte le volte che c un conflitto. Prima di Alfio non cera niente di tutto questo, e dopo fu questo soltanto. Anche nel partito qualcuno cominci a rendersene conto. Le tensioni con lassessore alla cultura, la necessit di organizzare gli insegnanti iscritti al sindacato, di tenere a bada la voracit degli artisti locali, il bisogno di avvicinare in qualche modo la scontrosa compagine degli intellettuali di provincia: la battaglia delle idee era cominciata, e qualcuno ci doveva essere, a combatterla, anche negli avamposti affumicati della federazione comunista. Ma per questo serviva ormai un ufficiale vero e proprio, non un caporale neghittoso come me, che un giorno cera e laltro no, a meno che non accettassi di lasciare il mio incarico onorifico per un impegno professionale, o quasi, meno occasionale ed episodico. Successe cos che un giorno venni chiamato dal segretario della federazione, un tipo magro,

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alto, un po timido, che non ti guardava mai negli occhi. Aveva studiato a Mosca, per un periodo, e sapeva parlare russo. Non che fosse un requisito indispensabile, qui nelle maremme, ma chiss. Cerano solo due tipi umani che potevano aspirare a quel tipo di carica: uomini di forte personalit, che sapessero imporsi a tutti gli altri pretendenti, oppure uomini privi di personalit, messi l perch non dessero noia a nessuno, a tenere il posto in caldo in attesa di tempi migliori. Lui era una via di mezzo, ma sapeva fare il suo mestiere. I tempi migliori erano gi passati, a quel punto, ma quelli davvero brutti erano ancora di l da venire, e neanche se ne aveva sentore. Aveva una stanza allultimo piano della federazione, con una grande finestra che dava sulle mura, qualche metro sopra lo spiazzo da dove Togliatti aveva fatto il suo comizio, il giorno dellinaugurazione. Una stanza ampia, con un enorme tavolo per le riunioni, permanentemente impregnata dal ristagno pesante del fumo di milioni di sigarette, miliardi, forse, fumate da tutti, incessantemente, una dietro laltra nel corso delle infinite, interminabili riunioni che si tenevano l dentro. I posacenere traboccavano di cicche, e i muri pareva che trasudassero nicotina pura. Ancora ne ricordo lodore caratteristico, come se ci fosse passato un incendio. Alla parete un quadro neorealista, non malvagio, con delle barche abbandonate sulla spiaggia, e accanto una grande foto di Togliatti in postura didattica, anche lui con la sigaretta in mano e un posacenere pieno di cicche davanti, di quelli triangolari, con la pubblicit della china Martini. Mi sedetti davanti alla sua scrivania. Non mi sentivo a disagio, anche se mi aspettavo una qualche reprimenda per un volantino che avevamo messo in giro alla manifestazione degli studenti, e il cui linguaggio era stato giudicato troppo disinvolto ed aggressivo dalla segreteria. Profilo basso, sempre, come si conviene ai comunisti. Ricordo che una volta ci fu chiesto di non festeggiare troppo rumorosamente una vittoria elettorale, per non dispiacere agli sconfitti. Eravamo fatti cos, noi. Ci gir un po intorno, gingillandosi con la penna biro, senza alzare gli occhi dalla scrivania. Poi venne al dunque - vedi Valerio, il direttivo ha discusso gioved della nuova organizzazione della federazione. Senesi andr a fare il sindaco di Gavorrano, e dovr lasciare la commissione di organizzazione. L ci andr Giorgetti, che ora fa la stampa e propaganda e il lavoro di massa, e alla stampa ci va la Dina, che finora si occupata delle donne e della scuola. Le donne le far Gabriela, ma solo quelle, perch lavora a mezzo tempo... abbiamo pensato che forse la scuola e la cultura potresti seguirle te, se hai un po di tempo Non come hai fatto finora, per. Una cosa pi impegnativa, un lavoro regolare, o quasi Fece una pausa per gettare uno sguardo fuori dalla finestra da dietro le sue spesse lenti montate pesantemente in nero - Ti potremmo dare un rimborso spese, o un mezzo stipendio, se vuoi, se pensi di continuare a studiare poi si vedr Un mezzo stipendio era quasi niente, allora, che gli stipendi interi l dentro erano la met di quelli di un impiegato del comune. Ma poteva andare, per me. Eccome, se poteva andare. La cosa mi piaceva: mi piaceva che il direttivo avesse apprezzato il mio lavoro, mi piaceva non dover scegliere tra lo studio e la politica (avrei scelto lo studio, comunque), e mi piaceva lidea di quei pochi soldi che mi avrebbero dato, che di fatto erano una specie di regalia, visto che quel lavoro, pi o meno, lo stavo gi facendo da un po, senza chiedere niente in cambio. Dissi di s, subito, senza pensarci. Fu cos accettai quellincarico a mezzo tempo: una quantit minima di denaro per uso personale in cambio di tutto il mio tempo libero dallo studio, che non era poco, perch come studente non ho mai dato il meglio di me. Avevo una scrivania, una stanza che dividevo con Maurino, il nuovo responsabile della stampa e propaganda - un ragazzo sveglio che veniva da Casteldelpiano, ex piazzista di enciclopedie ed esperto di psicologia femminile - e avevo quella targa sulla porta. Valerio, te che sei un intellettuale mi diceva Maurino, alzando la testa dallUnit S?... mi ci vai a prendere le sigarette, per piacere? Sempre, ci cascavo. Facevo anche altre cose, naturalmente, perch se anche la cultura era un lavoro, certo non era un

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lavoro usurante: avevo un posto in consiglio comunale, un altro nella segreteria dei giovani comunisti, e tutto il resto: domenica mattina a vendere il giornale porta a porta, il cameriere alla festa dellUnit, ciclostilare volantini, dipingere pannelli e striscioni per le manifestazioni, attaccare francobolli, affiggere manifesti elettorali. Quei lavori manuali che erano indispensabili, ma che per noi giovani intellettuali rappresentavano soprattutto una prova di umilt, anche se qualche volta troppo ostentata e anche un po ipocrita. La cultura era il mio lavoro, dunque. Un lavoro vero, dove cera ancora tutto da fare, e tutto da imparare, anche. Cera da rendersi conto, tanto per cominciare, con che cosa si avesse a che fare, che cosa fosse diventata la nostra citt in quegli anni, a partire da quella fatale e promettente definizione post bellica: Kansas City. Kansas Cities Eh s leviamoci il pensiero, allora, visto che ci siamo, prima di andare ancora avanti: Kansas City, Grosseto come Kansas city. Cosa vi fa venire in mente? Se la frase di quelle che ancora riescono ad incantarvi, dopo tutto questo tempo, o anche soltanto minimamente a trasmettervi una qualche sensazione di appartenenza, forse questo libro non fa per voi. Personalmente non ne posso pi di questo Kansas City. La prima volta stata certo una buona trovata letteraria, simpatica, efficace, evocativa, e forse anche un aneddoto vero. Ma gi la seconda volta che lo stesso Bianciardi ne fece uso era diventata una battuta vecchia e un po stucca. Se fate lo sforzo di documentarvi su quello che Kansas City oggi, la Kansas City vera, americana, vedrete che non c proprio niente, l, che faccia pensare a Grosseto, niente di niente. Se mai c stato qualcosa, in passato, di sicuro ha visto bene di prendere una piega alquanto diversa. Guardate le foto su internet: i giardini verdissimi e curati, i sobborghi ordinati e funzionali, puliti, gli splendidi grattacieli corruschi nel sole pomeridiano, i centri culturali eleganti e ben organizzati, il traffico che scorre fluido nelle ore di punta: tutte quelle cose l che qui non si sa neppure lontanamente cosa siano. E s che Kansas City non ha neppure il doppio degli abitanti di Grosseto (se intendiamo il Kansas City del Kansas, e non quello del Missouri, che ne ha pi di ottocentomila). Ma Kansas o Missouri che sia, se quelli di l venissero a fare un giro da queste parti ci troverebbero curiosi, simpatici, wonderful, cute, toscanacci, persino, soprattutto osservandoci come fanno tutti i turisti che passano di qui - contro lo sfondo di quel mare e quel paesaggio che non hanno mai visto e mai vedranno in Kansas o nel Missouri. Ma dopo una settimana spesa a battere le lastre su Corso Carducci, pu darsi che gli verrebbe la voglia di tornarsene a casa loro appena possibile. Forse il maresciallo americano che per primo aveva messo in giro lidea era stato preso da un abbaglio, forse aveva bevuto, forse voleva solo essere gentile con gli indigeni. Ma bene o male, al tempo, la correlazione aveva un senso, e ha avuto un senso e una sua verit bianciardiana anche dopo (le verit bianciardiane non sono necessariamente verit vere, ma finch a noi piacciono possono andare bene lo stesso). Ora semplicemente venuta a noia, anche perch, come tutte le frasi fatte, diventata niente altro che un espediente per sopperire alla mancanza di idee, o per colmare i vuoti di qualche conversazione languente. Kansas City allora era una mezza verit, meno di mezza, ma trasmetteva lidea di un momento espansivo e promettente della vita provinciale, quando sembrava che il mondo l fuori potesse una buona volta fare il suo ingresso qua dentro, oltre la flebile barriera delle quattro strade, con i suoi doni e le sue meraviglie. Bianciardi ci credeva, eccome, o gli piaceva crederci, il che era pi o meno la stessa cosa. E noi tutti ci abbiamo creduto volentieri, o ci piaciuto crederci, perch Kansas City fatto apposta per farci pensare agli indiani, al west, a mondi lontani ed esotici, ma pi ancora di questo era ad

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unAmerica contemporanea e modernissima che ci rimandava, e averne un pezzo in casa, immaginare di essere in qualche modo imparentati con quel mondo laggi era motivo di orgoglio e di ottimismo. Invece laltra sentenza bianciardiana che si accompagna sempre a questo toponimo immaginario (citt aperta al vento e ai forestieri ) era falsa nel momento stesso in cui fu forgiata. Di vento qui se ne sempre visto pochino, non pi che altrove, comunque, e essere aperti al vento un modo di dire che non ha molto senso. Che Grosseto sia aperta ai forestieri, poi, oggi n pi n meno che una bugia spudorata, e al tempo di Bianciardi semplicemente una affermazione inverificabile, in quanto di forestieri non se ne trovavano neanche a cercarli con il lumicino. Ma sia il toponimo che la frase sono rimasti, un po per mancanza di fantasia, un po per mancanza di alternative, una specie marchio di orgoglio locale che ogni volta ci viene ammannito come una battuta esemplare di grande efficacia evocativa e come un indelebile contrassegno identitario. Le aspettative di Bianciardi si erano spente presto, e gi nella postfazione alla seconda edizione del lavoro culturale lamentava come quella spinta originaria si fosse ormai impantanata nella routine e nella stanchezza. Il toponimo, invece, e quella frase, sono rimasti l, a significare ormai non pi lessenza vera della citt, ma piuttosto la forma che hanno preso le nostre illusioni e la nostra falsa coscienza. Ma hai voglia a dirlo: limmagine tenace e radicata, una tradizione inventata, come i kilt degli scozzesi, e tanto vale lasciarla l dove si trova. E farne un uso moderato, se proprio non se ne pu fare a meno, una quantit minima per uso personale. E sia quello che sia. Ma questa storia di oggi; allora era ancora troppo presto per stancarsi di quellimmagine. La citt che Bianciardi aveva conosciuto non cera pi, e neppure si era vista quella che lui e i suoi amici aspettavano che si materializzasse di l a poco: la metafora americana, che per lui era soprattutto uno stigma di modernit, divenne per noi invece, anche troppo facilmente, un sinonimo di selvaggeria e conflitto, di frontiera vera e propria, dove tutti i giochi erano ancora da giocare, quali che fossero. Kansas City andava bene anche per noi, eccome, ma raccontava tutta unaltra storia, ora. In una cosa, se non altro, Grosseto ricordava la frontiera americana, quelle citt precarie buttate contro il deserto, allincrocio di quattro strade, dove c solo il saloon, il maniscalco, il magazzino delle granaglie e lagenzia di pompe funebri. A Grosseto cera poco pi di questo, e almeno per quello che riguarda la istituzioni culturali la citt era quasi priva di tutto: la biblioteca, mutilata dai bombardamenti della guerra e dalle alluvioni, aveva ancora i magazzini stipati di libri fangosi; lo stento museo, quasi sempre chiuso, confinato nei sottoscala, e tutti e due ospitati nello stesso edificio cadente, in scomodo condominio con il sussiegoso liceo ginnasio Carducci Ricasoli. Il teatro degli Industri trasformato in cinema, prima, e poi in una spelonca inagibile e inutilizzata, e infine in una stucchevole bomboniera per signore; non un solo posto in citt dove riunire cinquanta cristiani per ascoltare una conferenza, e ununica libreria, sul corso (corso Carducci, anche questo, pi in l non si andava). Tutto, mancava praticamente tutto. Non ci voleva una fantasia particolarmente accesa per immaginare qualcosa di utile da fare in un posto come questo. Qualsiasi cosa poteva andare bene, in effetti. []

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