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Patrizio Minnucci
PREFAZIONE
Eccoci giunti all’ultimo racconto di quella che ho sempre ritenuto essere uno studio, una trilogia sui
linguaggi adottati da poeti e scrittori tra Ottocento e Novecento, riletti e ricostruiti in chiave ultramoderna.
Minnucci, in quello che dovrebbe essere (il condizionale con l’autore di Alatri è d’obbligo), il finale di questi
approfonditi studi, sforna un romanzo che chiude il cerchio iniziato col successo di critica del suo
Zarathustra (Strambi editore) e proseguito con I Fantasmi di Flaubert (Fermenti editrice). L’opera Stadio K,
come i lettori di Patrizio Minnucci sanno, è come sempre breve, istantanea, folgorante. Pochi tratti per
disegnare un personaggio, un luogo, una situazione che rimangono incastonati nel flusso di coscienza
particolare dell’io narrante. Qui, come stretta finale, quest’io che è anche coprotagonista, non ha neanche
un nome. Al peripatetico Dino dello Zarathustra, si era sostituito il flemmatico Ennio dei Fantasmi, e ora ci
troviamo di fronte a un personaggio completamente statico. Inchiodato, issato, “spiaccicato” sulle Mura
ciclopiche dell’acropoli di Alatri. Torna anche la città natale come sfondo, dopo il distacco dei Fantasmi, che
ci appare non come quella di oggi. L’autore descrive una città che non esiste più; siamo nei primi Anni
Sessanta e anche la toponomastica è quella di un altro luogo. Si scorgono però molti anacronismi e topiche
che fanno affiorare quel pizzico di autobiografismo presente in tutti i libri dell’autore. Tra i personaggi
inventati di sana pianta vi sono molti vissuti davvero e che hanno lasciato un vuoto, una mancanza,
nell’animo dello scrittore: amici, parenti, conoscenti, colleghi, quasi tutti morti prematuramente. Di alcuni
Minnucci scrive anche il vero nome. Se il nome è camuffato sono vere le situazioni, le storie, le traversie che
i personaggi hanno vissuto, magari col Minnucci testimone o addirittura completamente coinvolto. Alla
trovata fantastica di un esserino, un vermicello kafkiano, seguono queste vite reali che egli racconta “da un
punto di vista privilegiato”. I personaggi si “confessano” dinanzi al “verme murato” come le anime di Dante
fino al monologo finale di Giulio, che un ardito critico francese ha paragonato a quello di Molly Bloom, in
cui vi è una ossessiva descrizione degli atti sessuali sin nei minimi particolari: scabrosi, morbosi fino a
sfiorare l’osceno. Resta come sempre il collage beniano, vero filo rosso della trilogia, che si rinnova
mostrando il testo come un vero e proprio canovaccio teatrale. E come scrissi altrove, l’ispirazione più
grande di Minnucci, è sempre stata portare i suoi testi in palcoscenico, magari recitati da grandi attori. Non
è escluso che un giorno accada.
Pierre Devi
Ai miei nipoti Davide,
Benedetta, Agnese e
Andrea
Pietra santissima
Domani passeranno i miei ragazzi
Fermali.
Chi cercano
È qui:
tra le tue ferite.
Alberto Minnucci
Quando in città iniziava la festa del
patrono per me si apriva una finestra con
vista privilegiata rispetto agli altri: uno
spettacolo fantasmagorico. Lì, piantato
fisso, spiaccicato sulle mura megalitiche,
non riuscivo a muovermi da un bel po’ ma
gli occhi funzionavano perfettamente.
Vedevo meglio degli altri, più in
profondità, più chiaro, cristallino. Cose,
fatti, persone che in passato non avevo
notato neanche di sfuggita ora
m’apparivano candide… chissà? Forse il
cervello che credevo fosse il problema
degli uomini era ancora anche il mio
problema. Mi chiedevo: fossimo solo
sensi, tatto, olfatto, somiglieremmo a tutti
gli altri animali della terra; invece anche in
questo stato, o stadio, la mente si era non
aperta ma come affinata, raffinata.
Sensazione strana e tutto sommato
piacevole. Dapprima labbra e narici, poi
guance, orecchie, collo, braccia e petto
s’erano rattratti come una pietra, le carni
tramutate, inorganiche e grevi. Non vi era
niente tuttavia nella pietrosità che
somigliasse a una paralisi: non morte ma
mutamento di sostanza come nel Diario di
Morselli. Che libro! Che genio postumo!
L’avevo letto anni prima e ora si avverava
somatizzandosi, prendeva possesso del
mio corpo inerme.
Vedevo alle mie spalle - avevo anche gli
occhi di dietro? - la cattedrale di San
Paolo. In tanti anni non riuscii mai a
liberarmi completamente dell’atmosfera
di incensi e sacri arredi che mi pareva
emanare da quelle pareti. Varcato il
portoncino d’ingresso, una scala esterna
portava in due rampe al primo piano,
dando sull’oratorio della chiesa: uno
spiazzo in terra battuta, senza un filo
d’erba, chiuso per due lati da un alto
muro di cinta al cui riparo stavano
saldamente impiantati quattro grossi
platani e un leccio.
Non avevo l’impressione, guardandoli,
che appartenessero al regno vegetale,
bensì che fossero stati costruiti in quel
luogo al pari degli edifici vicini. I platani
avevano raggiunto quella circonferenza
oltre la quale pare che quella specie
d’alberi non debba più andare; e ciò
contribuiva a conferire loro quell’aspetto
di immobilità nel tempo e di arcaica
vetustà propria dei palazzi e delle mura
circostanti. Il leccio, dalla corteccia
avvizzita dal lato del cortile per le costanti
pallonate che riceveva durante le
partitelle di calcetto (fungeva da palo a
una delle due porte), eternamente
impolverato e ormai senza frutti,
sembrava uno di quei frati che
s’incontravano un tempo “alla cerca”, coi
sandali affondati nella polvere soffice
delle campagne. Dalle finestre
dell’oratorio, al di là del cortile e dei tetti
degli edifici, vedevo gli archi a quadrelle
bianche e nere che contornavano l’abside
della cattedrale; è una città di chiese
questa, e se ci si allontana dal traffico
delle vie del centro ancora oggi il rintocco
delle campane rincuora l’animo e insegue
il passante per viuzze cortiletti e vicoli fino
alla porta di casa.
C’era un tipo, l’unica persona che si
fermava di tanto in tanto a fare due
chiacchiere con me, che vedevo con
occhio di riguardo, non disgustato, con
una puntina di pietà. Era un ragazzo
smisurato, un po’ curvo, si chiamava
Giulio. Aveva l’aspetto di un mendicante
che cerca ovunque macchie di sole, e che
restava seduto per ore, muovendosi
appena, agli angoli dei muri. Forse ciò lo
faceva avvicinare a me; non sapeva mai
cosa fare delle braccia, e di solito le
lasciava pendere lungo il corpo,
toccandolo il meno possibile. Era come
quegli animali malati che, cauti, vanno a
rintanarsi in un rifugio e spiano sommessi
il pericolo, quello che arriva raso terra, e
si nascondono nella propria pelle fino a
confondervisi.
Era sempre seduto su una sedia a sdraio
davanti alla finestra aperta, a torso nudo,
testa nuda, piedi nudi, nella diagonale del
cielo. Indossava solo un paio di pantaloni
di tela beige rovinata, sporca di sudore,
che teneva ripiegati all’altezza delle
ginocchia.
Il giallo lo colpiva in pieno volto, ma senza
riverberarsi: era immediatamente
assorbito dalla pelle umida, senza fare
scintille né il minimo riflesso. Giulio lo
percepiva e non si muoveva, salvo, di
tanto in tanto, per portare alle labbra una
sigaretta e aspirare una boccata di fumo.
Lo vedevo lì in quella villa abbandonata e
prossima a essere ceduta in affitto. Viveva
romito. Passava, si fermava, mi chiedeva
se stavo meglio o peggio e ripartiva chissà
per dove, chissà perché.