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STADIO K

Patrizio Minnucci
PREFAZIONE

Eccoci giunti all’ultimo racconto di quella che ho sempre ritenuto essere uno studio, una trilogia sui
linguaggi adottati da poeti e scrittori tra Ottocento e Novecento, riletti e ricostruiti in chiave ultramoderna.
Minnucci, in quello che dovrebbe essere (il condizionale con l’autore di Alatri è d’obbligo), il finale di questi
approfonditi studi, sforna un romanzo che chiude il cerchio iniziato col successo di critica del suo
Zarathustra (Strambi editore) e proseguito con I Fantasmi di Flaubert (Fermenti editrice). L’opera Stadio K,
come i lettori di Patrizio Minnucci sanno, è come sempre breve, istantanea, folgorante. Pochi tratti per
disegnare un personaggio, un luogo, una situazione che rimangono incastonati nel flusso di coscienza
particolare dell’io narrante. Qui, come stretta finale, quest’io che è anche coprotagonista, non ha neanche
un nome. Al peripatetico Dino dello Zarathustra, si era sostituito il flemmatico Ennio dei Fantasmi, e ora ci
troviamo di fronte a un personaggio completamente statico. Inchiodato, issato, “spiaccicato” sulle Mura
ciclopiche dell’acropoli di Alatri. Torna anche la città natale come sfondo, dopo il distacco dei Fantasmi, che
ci appare non come quella di oggi. L’autore descrive una città che non esiste più; siamo nei primi Anni
Sessanta e anche la toponomastica è quella di un altro luogo. Si scorgono però molti anacronismi e topiche
che fanno affiorare quel pizzico di autobiografismo presente in tutti i libri dell’autore. Tra i personaggi
inventati di sana pianta vi sono molti vissuti davvero e che hanno lasciato un vuoto, una mancanza,
nell’animo dello scrittore: amici, parenti, conoscenti, colleghi, quasi tutti morti prematuramente. Di alcuni
Minnucci scrive anche il vero nome. Se il nome è camuffato sono vere le situazioni, le storie, le traversie che
i personaggi hanno vissuto, magari col Minnucci testimone o addirittura completamente coinvolto. Alla
trovata fantastica di un esserino, un vermicello kafkiano, seguono queste vite reali che egli racconta “da un
punto di vista privilegiato”. I personaggi si “confessano” dinanzi al “verme murato” come le anime di Dante
fino al monologo finale di Giulio, che un ardito critico francese ha paragonato a quello di Molly Bloom, in
cui vi è una ossessiva descrizione degli atti sessuali sin nei minimi particolari: scabrosi, morbosi fino a
sfiorare l’osceno. Resta come sempre il collage beniano, vero filo rosso della trilogia, che si rinnova
mostrando il testo come un vero e proprio canovaccio teatrale. E come scrissi altrove, l’ispirazione più
grande di Minnucci, è sempre stata portare i suoi testi in palcoscenico, magari recitati da grandi attori. Non
è escluso che un giorno accada.

Pierre Devi
Ai miei nipoti Davide,
Benedetta, Agnese e
Andrea
Pietra santissima
Domani passeranno i miei ragazzi
Fermali.
Chi cercano
È qui:
tra le tue ferite.
Alberto Minnucci
Quando in città iniziava la festa del
patrono per me si apriva una finestra con
vista privilegiata rispetto agli altri: uno
spettacolo fantasmagorico. Lì, piantato
fisso, spiaccicato sulle mura megalitiche,
non riuscivo a muovermi da un bel po’ ma
gli occhi funzionavano perfettamente.
Vedevo meglio degli altri, più in
profondità, più chiaro, cristallino. Cose,
fatti, persone che in passato non avevo
notato neanche di sfuggita ora
m’apparivano candide… chissà? Forse il
cervello che credevo fosse il problema
degli uomini era ancora anche il mio
problema. Mi chiedevo: fossimo solo
sensi, tatto, olfatto, somiglieremmo a tutti
gli altri animali della terra; invece anche in
questo stato, o stadio, la mente si era non
aperta ma come affinata, raffinata.
Sensazione strana e tutto sommato
piacevole. Dapprima labbra e narici, poi
guance, orecchie, collo, braccia e petto
s’erano rattratti come una pietra, le carni
tramutate, inorganiche e grevi. Non vi era
niente tuttavia nella pietrosità che
somigliasse a una paralisi: non morte ma
mutamento di sostanza come nel Diario di
Morselli. Che libro! Che genio postumo!
L’avevo letto anni prima e ora si avverava
somatizzandosi, prendeva possesso del
mio corpo inerme.
Vedevo alle mie spalle - avevo anche gli
occhi di dietro? - la cattedrale di San
Paolo. In tanti anni non riuscii mai a
liberarmi completamente dell’atmosfera
di incensi e sacri arredi che mi pareva
emanare da quelle pareti. Varcato il
portoncino d’ingresso, una scala esterna
portava in due rampe al primo piano,
dando sull’oratorio della chiesa: uno
spiazzo in terra battuta, senza un filo
d’erba, chiuso per due lati da un alto
muro di cinta al cui riparo stavano
saldamente impiantati quattro grossi
platani e un leccio.
Non avevo l’impressione, guardandoli,
che appartenessero al regno vegetale,
bensì che fossero stati costruiti in quel
luogo al pari degli edifici vicini. I platani
avevano raggiunto quella circonferenza
oltre la quale pare che quella specie
d’alberi non debba più andare; e ciò
contribuiva a conferire loro quell’aspetto
di immobilità nel tempo e di arcaica
vetustà propria dei palazzi e delle mura
circostanti. Il leccio, dalla corteccia
avvizzita dal lato del cortile per le costanti
pallonate che riceveva durante le
partitelle di calcetto (fungeva da palo a
una delle due porte), eternamente
impolverato e ormai senza frutti,
sembrava uno di quei frati che
s’incontravano un tempo “alla cerca”, coi
sandali affondati nella polvere soffice
delle campagne. Dalle finestre
dell’oratorio, al di là del cortile e dei tetti
degli edifici, vedevo gli archi a quadrelle
bianche e nere che contornavano l’abside
della cattedrale; è una città di chiese
questa, e se ci si allontana dal traffico
delle vie del centro ancora oggi il rintocco
delle campane rincuora l’animo e insegue
il passante per viuzze cortiletti e vicoli fino
alla porta di casa.
C’era un tipo, l’unica persona che si
fermava di tanto in tanto a fare due
chiacchiere con me, che vedevo con
occhio di riguardo, non disgustato, con
una puntina di pietà. Era un ragazzo
smisurato, un po’ curvo, si chiamava
Giulio. Aveva l’aspetto di un mendicante
che cerca ovunque macchie di sole, e che
restava seduto per ore, muovendosi
appena, agli angoli dei muri. Forse ciò lo
faceva avvicinare a me; non sapeva mai
cosa fare delle braccia, e di solito le
lasciava pendere lungo il corpo,
toccandolo il meno possibile. Era come
quegli animali malati che, cauti, vanno a
rintanarsi in un rifugio e spiano sommessi
il pericolo, quello che arriva raso terra, e
si nascondono nella propria pelle fino a
confondervisi.
Era sempre seduto su una sedia a sdraio
davanti alla finestra aperta, a torso nudo,
testa nuda, piedi nudi, nella diagonale del
cielo. Indossava solo un paio di pantaloni
di tela beige rovinata, sporca di sudore,
che teneva ripiegati all’altezza delle
ginocchia.
Il giallo lo colpiva in pieno volto, ma senza
riverberarsi: era immediatamente
assorbito dalla pelle umida, senza fare
scintille né il minimo riflesso. Giulio lo
percepiva e non si muoveva, salvo, di
tanto in tanto, per portare alle labbra una
sigaretta e aspirare una boccata di fumo.
Lo vedevo lì in quella villa abbandonata e
prossima a essere ceduta in affitto. Viveva
romito. Passava, si fermava, mi chiedeva
se stavo meglio o peggio e ripartiva chissà
per dove, chissà perché.

Pensando al passato non mi veniva in


mente niente di particolarmente
interessante, forse le discussioni sulle
origini? Sì, ricordo vagamente… ah le
origini! Il problema ha sempre sedotto e
abbandonato, affaticato le menti dei
saggi.
Anche ad Alatri origini dell’uomo, della
specie, della società e della città; origini
del male e delle disuguaglianze
coinvolgevano le intelligenze sopraffini in
un ininterrotto dialogo tra sordi.
Delle origini della città e della religione si
cominciavano a calcolare gli anni, e dire
“originali” iniziò a indicare un
riconoscimento di merito.
Insomma pare – e chissà per quale motivo
– che alla gente importi più del passato,
del passato più remoto, incapace ormai di
far male ad alcuno, che dell’avvenire, del
prossimo avvenire, sempre, come ben
sappiamo, minaccioso e incombente.
Stando così le cose non v’è da stupirsi che
anche nella nostra piccola città c’erano
sapienti, dotti e intellettuali che ne
cercavano le origini. Non erano su questo
punto d’accordo e divisi grosso modo in
tre fazioni. La prima, formata da eruditi in
maggioranza sacerdoti, pensionati e
professori forestieri. Per loro contavano i
documenti e basta: si occupavano di
topografia antica e medievale, e
scrivevano laboriosi studi zeppi di note e
citazioni. I loro scritti comparivano di
solito sul bollettino della società storica,
che usciva tre volte l’anno, ed a cui
collaboravano a volte insigni storici:
persino il Volpe, una volta, vi pubblicò un
suo scritterello (così diceva lui
nell’introduzione, ma per modestia,
trattandosi invece di un ghiotto studio
sugli statuti di quattro comunelli della
montagna vicina).
Alla fazione dei medievisti che parlavano
di oscuri stabilimenti di popolazioni
primordiali, sui quali era inutile indagare,
era naturale che si opponessero gli
archeologi.
I nostri archeologi erano arrivati alla
contemplazione del passato antichissimo
attraverso esperienze più diverse: alcuni
avevano scritto in gioventù poesie di
schietto stampo carducciano, altri erano
stati anarchici e fautori del libero amore;
poi sposandosi e mettendo su casa
avevano abbandonato quella produzione
eslege, e rinnegato quelle teorie come
una follia degli anni verdi, e si erano messi
molto più seriamente a studiare il Dennis
e il Ducati, e a chiedersi quali fossero stati
i primi stanziamenti umani nella nostra
terra. La corrente più numerosa e
agguerrita dei nostri archeologi si rifaceva
alle origini pelasgiche di Alatri.
I pelasgi, popolo misterioso, venuto forse
dall’Asia minore o forse via terra, ma
fors’anche autoctoni, indigeni.
Un solo studioso, Don Giuseppe, tra
questi aveva lasciato un segno con le sue
teorie anche e soprattutto per il fondo
poetico che sapeva imprimere alla
scienza. Ai nomi dei miti riusciva a far
evocare poche o molte cose: una
situazione, delle posture, delle forme, il
soggetto di un bassorilievo, ormai quasi
solo leggendario, poiché l’immagine e il
racconto, divulgati dalle enciclopedie,
avevano ridotto a semplice visione di
alcuni miti conosciuti da un’umanità
scomparsa. Don Giuseppe non si fermava
a tale visione, rivolgendosi ai lettori non
del tutto privi di memoria, esponeva
questa umanità scomparsa attraverso gli
occhi dello studioso attento persino ai
sogni dell’umanità in cammino, fino a
immaginare gli occhi stessi degli antenati,
fece giungere fino a noi come da distanze
siderali la luce di costellazioni spente per
sempre. Con Don Giuseppe è dentro di
noi che adesso sfavilla l’astro deflagrato,
nelle tenebre della nostra memoria, nella
vasta notte costellata che portiamo nel
cuore ma che fuggiamo nelle nostre fallaci
vite diurne. Dove ci affidiamo alla nostra
lingua viva. Ma a volte, fra due parole
d’uso quotidiano, si insinua qualche
sillaba che proviene da una lingua morta:
parole-spettro che hanno la trasparenza
della fiamma a mezzodì, della luna
nell’azzurro cielo; ma non appena le
accogliamo nella penombra della nostra
mente, ecco che sfolgorano, abbaglianti:
che i nomi dei miti possano così restituire,
come don Giuseppe a noi, per un
momento agli alberi, al cervo sitibondo,
all’onda, specchio dell’impalpabile nudità,
il loro senso riposto. Era amato quel
sacerdote anche se il suo ricordo sta via
via scemando, ed è un peccato.
Infine c’eravamo noi, i giovani, la
generazione perduta: decisi a rompere
con le tradizioni ed a rifare tutto daccapo.
Naturalmente eravamo in polemica con
tutti gli altri, coi medievisti eruditi e con
gli archeologi. Cosa volevano gli uni e gli
altri? Cosa significavano le sterili e goffe
pidocchierie dei primi, cosa significavano i
furori antiquati dei secondi? Era ora di
finirla con il dilettantismo, con la sterile
erudizione, con questa mitologia delle
origini antichissime. La cultura italiana,
dicevamo noi, era già abbastanza
aduggiata e mortificata da queste forme
reazionarie e provinciali, dal campanile,
dallo sciocco municipalismo.
I pelasgi? Ma i pelasgi non sono mai
esistiti. Voi vi chiedete da dove sono
venuti, se dal continente, o dall’Asia
minore o dalla Grecia; avanzate anche
l’ipotesi che siano sempre stati qui.
Ebbene, avete tutti ragione e tutti torto,
cioè vi ponete un problema che non ha
senso. Avrebbe senso chiedersi da dove
siano venuti i piemontesi o i toscani, e i
milanesi? Non esistono popoli che, tutti
d’accordo, un bel giorno prendono il mare
e se ne vanno altrove.
Ah, che discussioni! Eravamo un bel
gruppetto, ci si trovava ogni sera al bar a
chiacchierare, a giocare a carte, poi,
quando era tardi e il cameriere accennava
a voler chiudere, cominciava la nostra
lunga passeggiata fino alle due di notte.
Alatri era piccola e si faceva presto a
raggiungere la periferia, verso la
campagna piatta e buia.
Lontano abbaiava un cane e si avvertiva
come un sordo limio, il canto dei grilli. La
strada si perdeva in uno sterrato brullo
ineguale; mucchi di detriti qua e là, bassi
casotti dove i muratori ripongono gli
attrezzi, cataste di mattoni, fosse
rettangolari bianche di calcina, un rullo
compressore, e più lontane le nuove
costruzioni appena cominciate.
Andavamo spesso a vedere crescere la
nostra città, a vederla avanzare vittoriosa
dentro la campagna, a conquistare altro
terreno. Tutti vi andavamo, tranne Nanda,
un tipo che ritenevamo strano; non era
d’accordo con noi sulla città che si
muoveva sensibilmente a vista d’occhio,
non ne era entusiasta come noi di quella
marcia vittoriosa che avrebbe portato al
progresso, allo sviluppo, al benessere
delle masse. Non ci mostrava il suo
disappunto a parole ma con il
comportamento: finita la serata al bar
infatti se ne andava per proprio conto
lasciandoci alle nostre passeggiate
notturne con un Devo alzarmi presto. Le
sue idee strane le esponeva a casa degli
amici del padre costruttore: un circolo di
imprenditori, intellettuali e politici era
ritenuta la dimora paterna di Nanda, dove
si prendevano le decisioni importanti. Lì la
nostra amica dava il meglio di sé
concionando alla pari con quei filosofi
pragmatici. A noi raccontava qualche
fatterello il giorno dopo, ma senza enfasi
o bruta arroganza. Li metteva alle strette
però quei commensali col suo pensiero K,
come ho poi compreso, e il padre non ne
era particolarmente fiero di quelle
scenate alla Sgarbi televisivi, dove la figlia
rispondeva a tono agli amici potenti.
Quegli amici bisognava tenerseli buoni e
Nanda era parecchio d’intralcio alla pace
politico sociale coi suoi sermoni
esistenzialisti, del tutto contrari a quella
congrega di destra hegeliana.

Quante cose non compresi di Nanda


allora! Ora, su quelle mura che secondo
gli archeologi ersero i pelasgi, ripenso a lei
come a un sogno svanito. Me meschino a
vedere passare la processione di San
Sisto, fisso impietrito come un fesso.
Mi è piaciuta molto la rievocazione della
traslazione delle Reliquie di San Sisto patrono di
Alatri di quest’anno però: ho avuto un sentimento
di devota commozione, forse come avrebbe avuto
Nanda. Ve la voglio raccontare come una cronaca
giornalistica:
Il corteo storico religioso è partito alle 17.00 dalla
chiesa di San Matteo per ripercorrere la strada
che la sacra Mula intraprese l’11 gennaio 1132
fino al piazzale ove ora sorge la Cattedrale di San
Paolo, proprio alle mie spalle. Un momento in cui
Alatri ha festeggiato il santo patrono nella
tradizionale ricorrenza di gennaio. Un’iniziativa
premiata, emozionante e suggestiva.
L’11 gennaio – si racconta – in una fredda
giornata d’inverno di novecento anni fa avvenne
un miracolo. Una mula con sul dorso l’urna
contenente le sacre spoglie di San Sisto, diretta ad
Alife, cambiò improvvisamente strada avviandosi
verso Alatri. La mula condotta dalla mano di Dio
arrivò sulla cattedrale ove si trattenne in
ginocchio in quel luogo prescelto dal Santo, così
da dar tempo al vescovo e al clero di raccogliere
le reliquie con onore dinanzi a tutto il popolo,
stupito e commosso da tale prodigio. Appena il
prezioso corpo fu giunto in città l’aria malsana si
purificò immediatamente e tornarono in piena
salute tutti i cittadini infermi. Da quel giorno gli
alatrini suggellarono un vero patto di devozione e
adorazione nei confronti del Santo Patrono.
Patto che si stava rinnovando mirabilmente grazie
alla manifestazione organizzata dalla Proloco e da
“Corto Cinema”, patrocinata dalla Regione Lazio
e dal Comune di Alatri. Fondamentali anche le
collaborazioni di Don Antonio Castagnacci,
parroco della Cattedrale di San Paolo, e delle
Confraternite religiose di San Matteo, San Sisto e
altre. L’associazione Musicapolis inoltre aveva
costruito un’urna in pino rosso uguale a quella
rappresentata nel quadro della venuta di San
Sisto, custodito in Cattedrale.
La Tipografia Acropoli dell’editore Davide
Strambi ha donato tremila brochure in ricordo
della manifestazione che si spera abbia un seguito
annuale. Dopo il successo di oggi penso che ogni
11 gennaio l’evento sarà ripetuto con la stessa
gioia e il medesimo trasporto spirituale. Gli attori
sono stati straordinari e il cammino in religioso
silenzio segnato solo dalla splendida voce
narrante. I costumi d’epoca davvero di ottima
fattura hanno rifinito una rappresentazione di alta
qualità. Al termine tutti sono entrati in Cattedrale
per il Pontificale.
E io son rimasto di nuovo solo ma vicino a
quello stadio K che Nanda mi avviò a
vivere.
L’aveva passata brutta Nanda con quei
discorsi in casa del padre. Una provincia
come la nostra offriva, in quanto a cultura,
tradizioni, ubbie passatiste, tabù sociali,
che avevano negli amici del papà di Nanda
i più strenui difensori. Sicché una
maledetta sera la mia amica tentò il
suicidio nel bel mezzo di un’accesa
discussione con costoro: aprì la finestra e
si gettò dal balcone. Quarto piano
dell’elegante appartamento paterno in via
Calabria 4. Non morì ma nemmeno visse
più come avrebbe voluto e sperato. Per noi
fu una tragedia immane; non potevamo
neanche andare a trovarla. Era tornata a
casa dopo una lunga degenza in ospedale,
dove il padre l’aveva letteralmente reclusa
e Nanda non aveva più le forze necessarie
per fuggire da quella prigione. Era
prigioniera del suo corpo. Ma non nella
mente come me qui attaccato alle mura.
Aveva raggiunto lo stadio K, quello
religioso teorizzato dallo stesso
Kierkegaard. La fede, mi spiegava Nanda,
come ultimo stadio nel cammino della
vita, come dono divino. Dio come mistero
impenetrabile, la provvidenza come
predeterminazione, sono i punti salienti di
quel cristianesimo che Nanda-Kierkegaard
intendeva difendere e al quale io-
Wittgenstein mi ero abbeverato. Con
Nanda ero d’accordo sul punto di partenza
decisivo, come Wittgenstein col Danese:
la fede è un fatto esistenziale, solo la vita
può far credere in Dio con le esperienze e
le sofferenze di cui è tessuta. E di
sofferenze Nanda ne aveva avute e ne
aveva tuttora molte. Ciononostante mi
aveva ben spiegato la nostra affinità
profonda di pensiero. Tu – mi diceva –
ritieni ineccepibile la dottrina che ‘io’ solo
esisto e che gli altri esseri e cose sono
mere apparenze; perciò l’io non coglie se
stesso attraverso la ragione o il discorso né
attraverso il dialogo con gli altri uomini,
ma solo nell’intimità della coscienza che,
essendo inesprimibile, esclude ogni
possibilità di comunicazione.
Eh, quanto diceva bene! Come azzeccava
il mio punto di vista! Mi ripeto ora. E
continuava ancor più pregnante: “Mio
caro, tu vedi che il movimento stesso della
storia non coinvolge l’individuo. Cos’è
per te la storia infatti? Il primo e solo
mondo è il tuo. Anche una morale sociale
non può essere che illusione: il linguaggio,
che per te dovrebbe dettare le regole, è
incapace di farlo. Capisco ciò che pensi e
lo condivido: la sola salvezza
dell’individuo consiste nel suo ritorno
incessante a sè stesso, nel suo soliloquio
intimo nel quale soltanto possono
manifestarsi i valori essenziali
dell’esistenza. ‘Mistico’ non è per te e il
tuo Wittgenstein solo l’aggettivo del
silenzio che si deve osservare di fronte
agli interrogativi supremi della vita
umana. È anche e soprattutto
l’atteggiamento fondamentale della tua
persona che, come tutti i mistici, cerca un
rapporto col trascendente nella chiusura
ermetica dell’esistenza in se stessa. La
teoria del linguaggio è stata il baluardo
che tu hai eretto contro la possibilità che il
mondo esterno, con le sue vicende,
potesse intromettersi nell’intimità della
coscienza e indebolirne le certezze. Ma io
ti dico che l’angoscia kierkegaardiana non
è stata teorizzata ma da me vissuta. Se la
via d’uscita dall’angoscia è la fede
religiosa io la vivo, e faresti bene a farlo
anche tu, l’ultimo stadio…lo stadio K, per
salvarci”.
Che donna straordinaria Nanda, la ripenso
e la vedo come novella Simone Weil
italiana, la filosofa santa. Quante cose mi
ha insegnato e quante ancora avrò da
apprenderne in sua memoria. La sua sì di
memoria, quella santa e individuale, non
certo quella storica, la cosiddetta memoria
condivisa…condivisa da chi? Non si sa.
E poi qui, con Giulio che di tanto in tanto
passa e si ferma a chiacchierare, cosa
volete che condivida. L’importante
piuttosto è parlare sempre come se tutto
dovesse essere trascritto. Così si può avere
la sensazione di come non si è liberi. Non
si è liberi di parlare come se si fosse se
stessi. Chi pensa il contrario è un ipocrita
o uno sciocco.
In mezzo a noi che volevamo, come detto,
una cultura moderna e spregiudicata,
Nanda insisteva a dire che niente è
moderno e spregiudicato se non lascia
davvero dietro di sé i pregiudizi e i residui
di maggior peso, se non tiene conto di
questa fondamentale esperienza dei giorni
nostri, e che la cultura non ha senso se non
ci aiuta a capire gli altri, ad evitare il male.
Giusto, quindi, prendersela coi medievisti
e con il dannunzianesimo degli archeologi,
giusto anche sostenere le ragioni della
provincia: la città aperta ai venti e ai
forestieri, il cinema, il jazz; tutto giusto,
ma che tenessimo in mente una cosa
fondamentale: ogni cultura dimostra la sua
forza e la sua modernità solo
confrontandosi con tutta la realtà storica e
sociale che ci sta dinanzi, solo se riesce a
liberare tutti, a farci tutti simili tra noi.
Questo accadeva, per spiegarlo con parole
povere, anche a un mio amico prete che mi
è rimasto nella mente: ottimo uomo e
brillante oratore; quando l’ho conosciuto
io era ormai vecchio e un po’ svanito, ma
da giovane sapeva davvero il fatto suo.
Durante la settimana di Pasqua, proprio
nello stesso periodo in cui sto parlando,
faceva la sua predica sulla passione e
morte di Gesù, e le donne nel sentir
raccontare così bene la flagellazione, la
tortura, la corona di spine, i chiodi
conficcati nelle mani, la bevanda di aceto,
piangevano, tutte.
Al buon sacerdote dispiaceva l’aver
provocato tanto dolore, e così si
interrompeva e, rivolgendosi direttamente
alle fedeli: “Via, figliole, non piangete
così. Quello che vi ho raccontato è
successo tanto tempo fa, e forse non è
nemmeno vero”.
Parlare sapendo che non siamo noi i
parlanti, nel caso del prete era Dio a
parlare sia nella predica che nel rincuorare
le piangenti.
Ripartimmo col cinema, facemmo un ciclo
di proiezioni, un festival, dedicato al
cinema cecoslovacco pensando che a
Nanda sarebbe piaciuto. Fu un grosso
sforzo organizzativo. Persino io che
all’epoca mi occupavo dello sport
popolare ebbi il mio daffare, perché in un
documentario che avremmo presentato
c’era un’intera sequenza dedicata al
grande corridore podista Emil Zatopek.
C’era una mattinata dedicata ai bambini,
con due cortometraggi di cartoni animati.
Ai partigiani interessava invece “La
barricata muta” di Otakar Vavra, e agli
operai “Sirena” di Stekly. Ce n’era per
tutti; persino ai giovinastri del caffè,
avevamo pensato, quei giovinastri sempre
sfaccendati, già pingui a venticinque anni,
a forza di non far niente e di sonnecchiare
sulle poltrone di vimini esposte sul
marciapiede davanti al caffè. A qualunque
ora del giorno li avreste potuti vedere,
scamiciati sbracati con le palpebre
semichiuse e le labbra strette a culo di
gallina in un continuo fischiettio.
Aprivano completamente gli occhi solo
quando passava qualche ragazza: “Cosa fa
quella poi?”, si chiedevano, “la dà?”.
Anche per loro c’era il film adatto.
Trattandosi di un festival panoramico,
avevamo scovato anche una vecchia copia
di “Estasi” di Machaty, un film famoso
perché in una scena Hedy Lamarr, a
quell’epoca sedicenne, vi appare
completamente nuda.
Per introdurre il festival e inquadrarlo
storicamente fecero venire da Roma un
intellettuale, un tipo magro, biondo, curvo,
con il viso pallido e i denti gialli, allungati
dalla piorrea, un tipo triste ma
ferratissimo. Fece una conferenza di due
ore e un quarto sulla cultura cecoslovacca
che aveva dato al mondo scienziati,
riformatori e poeti: bastino i nomi di Hus,
Olbracht e Hasek. Accennò brevemente
alla battaglia della Montagna Bianca e alla
defenestrazione di Praga. Poi passò al
cinema.
Già intorno al 1860 il fisiologo Jan
Evangelista Purkyne, scienziato di fama
mondiale, aveva scoperto il principio più
elementare della tecnica cinematografica –
la sintesi dei movimenti – principio che
egli applicò per la costruzione del più
perfezionato tipo di stroboscopio. Del film
di Machaty parlò in termini negativi, come
esempio di un deteriore erotismo, legato
ad una produzione fortemente influenzata
da ideologie borghesi. Tuttavia la copia di
“Estasi” era vecchia e malandata; la
sequenza che i giovinastri attendevano era
stata tagliata e ci rimasero male, anzi
volevano indietro i soldi della quota di
associazione versati la sera prima. Non fu
solo questo che via via ci portò al
fallimento di quello che doveva essere un
cineclub d’avanguardia ma la burocrazia
corrosiva che già in quegli anni mieteva le
sue vittime, anzitutto nel mondo culturale.
Forse il mondo delle immagini era già
tramortito in sé perché non veramente
umano.
L’ascolto sì che è davvero nostro.
Ripensando a quante cose ho ascoltato
nella vita tale asserzione mi appare più che
giusta. La storia incredibile che ascoltai da
ragazzo e le conseguenze che ebbe in me e
in parte degli amici è davvero
emblematica.
Alatri ha avuto i suoi artisti grandi e
piccoli da sempre, io ne conobbi
personalmente uno: musicista di talento
straordinario, marinaio, affascinante nel
portamento e nell’oratoria. Un ragazzo
molto intelligente che, per dirla con Piero
Ciampi, aveva tutte le carte in regola per
essere un artista. Alatri, e non solo lei, ha
sempre avuto il brutto vizio di non
riconoscere i propri talenti. Anche ora, qui
spiaccicato, conto svariati artisti in giro.
Uno in particolare mi sta a cuore perché
emblematico il suo caso: è un tenore
giovanissimo riconosciuto in tutto il
mondo come voce straordinaria dalla
critica di palati sopraffini. L’ho ascoltato
molte volte in televisione e in radio tra
applausi finali nei grandi teatri del globo.
Ebbene, ad Alatri non è stato mai invitato
neanche per un accenno al Rigoletto o un
semplice Grazie. Amici, questa è un'altra
storia, scusate il breve sfogo del vostro
piccolo vermiciattolo, torno
immediatamente al nostro racconto del
musicista che conobbi.
Cesare era non molto alto, biondo, occhi
azzurri come il mare che amava, e ben
proporzionato, con una certa massa
muscolare tendente allo scultoreo.
Musicista completo, suonava tutto e aveva
una bellissima voce, ma nel sax eccelleva
davvero. Sin da piccolo si accorsero del
suo straordinario talento, quando con un
flauto di plastica per bambini suonava in
sordina, con grazia infinita, producendo
suoni quasi impercettibili, soffiava
appena, con la punta della lingua contro il
bocchino, il diaframma contratto. E ogni
tanto si fermava per tamburellare con la
punta delle dita su scatole di conserva
vuote, disposte in fila per dimensione,
producendo un brusio tranquillo, come
quello dei bongos, che fuggiva nell’aria
zigzagando, come un latrato.
Viveva ad Alatri ma la sua vera casa era il
mare, aveva anche prestato servizio nella
marina militare per poi passare alla
mercantile. Quando tornava dava tutto sé
stesso agli amici e alla musica: suonava in
svariati gruppi della zona e nella banda
municipale. Per gli amici era un fratello,
sapeva farsi volere bene, prodigo di
consigli tratti da vita vissuta assieme
intensamente, giocosamente senza
tralasciare il sentimento di solidarietà che
esercitava a piene mani nei momenti
difficili. Se qualcuno aveva problemi gli
amici sapevano che lui c’era, anche solo
per ascoltare: una parola di conforto, una
birra insieme, una serata di svago per
allontanare la malinconia.
Non eravamo molto amici, ecco perché mi
sorprese la sua decisione di raccontare
proprio a me il suo progetto d’amore.
Ci incontrammo al bar “El Tunnel” da
Antonio lo Spagnolo, un uomo trasferitosi
ad Alatri dopo una vita in mare nella
marina di Spagna; aveva messo su questo
locale dove troneggiavano in bella vista le
bandiere nazionali della sua patria, quella
del suo amato Barcellona calcio e le
caraffe piene della speciale Sangria dalla
ricetta segretissima.
Eravamo entrambi un po’ brilli in
quell’estate davanti alla Sangria segreta e
Cesare me ne pagò a soddisfazione mentre
raccontava della sua donna che lo
aspettava in sud America.
Si erano conosciuti in uno dei sui viaggi
per mare, amandosi alla follia con
promessa di vivere insieme, magari in
Italia, ad Alatri.
“Devo aspettare che passi il gran caldo
prima di partire ma ho già organizzato
tutto per il meglio. Il viaggio di ritorno
sarà la nostra luna di miele. Non sai come
è dolce e salubre l’aria che ci riporterà a
casa…”.
Gli brillavano gli occhi mentre parlava,
mi descrisse la ragazza nei minimi
particolari tanto da sembrarmi una di
famiglia.
“Ha il corpo – diceva inebriato – magro
sul busto e soprattutto sulla schiena, ma
ben tornito e addirittura abbondante dal
ventre alle ginocchia. Quando si toglie gli
occhiali il viso ha ombre di durezza che si
accorda con le spalle ossute, col costato
evidente e le scapole un po’ aperte. Le
braccia sono piene e tonde come le cosce,
nelle quali risiede la sua femminilità. Una
donna imperfetta certo, un modello fuori
serie, che sembra ordinato al Creatore da e
per me soltanto. Gli occhi paiono
inespressivi senza gli occhiali, ma le
labbra, sempre chiuse, con la loro
prominenza e mobilità danno carattere a
tutto il suo volto”.
Solo un amore folle e incondizionato può
trasmettere tutto ciò a un semplice uditore,
e Cesare continuò a narrare i suoi progetti:
“Quando arriverò sarà lei a portarmi in
una casa attigua alla sua dove potremo
preparare il suo bagaglio e la sera
divertirci in quei luoghi fantastici,
misteriosi, che al tramonto offrono una
visione mistica della vita amorosa, sesso
compreso eh…non farti strane idee, non
sono mica un monaco!...”.
Eccitato, non mi dava modo di
interromperlo neppure con una semplice
domanda o una curiosità innocente; un
fiume in piena, un fiume di gioia scorreva
nelle sue vene che portava via tutto in un
turbine di autentica felicità.
“L’ho trovata finalmente! È lei che voglio!
Da quando mi portò a Montevideo a
imparare, capire il mondo, fiutare il
vento… io ho viaggiato molto ma come
con lei sottobraccio, mai!”
La serata terminò con un abbraccio e un
arrivederci per conoscere finalmente la
compagna della sua vita.
Partì due settimane dopo e non tornò più. I
giornali diedero la notizia della sua morte
in un albergo con la terribile causa
“overdose”. Era stato ritrovato morto da
qualche giorno ma da lì la notizia era
arrivata ad Alatri in ritardo, chissà perché,
chissà cos’era accaduto davvero, non ci
credevo a quell’assurdità che destò
clamore incredulo negli amici e nell’intera
comunità.
Overdose iniziò a risuonarmi in testa come
una campana; overdose da cosa? I giornali
non specificavano, leggevo articoli sulla
vicenda da cui uscivo smarrito: non c’era
scritto niente. Qualcuno puntava tutto
sulla tossicodipendenza di Cesare e che
era incappato come molti in una dose
maltagliata, fatale. Basta. Niente altro.
Nessun’altra ipotesi. La polizia locale
aveva decretato la morte con quella
motivazione e, orrore nell’orrore, si
doveva al più presto procedere alla
sepoltura in loco, perché in quei posti
tropicali non restava che far così. Frasi
riportate con gelo, senza un minimo di
umanità, di pìetas. Quella giovane vita
terminata in capo al mondo, senza una
persona amica vicino, sola sprofondata
nella morte.
E l’amore della vita di Cesare? Non
risultava in nessun trafiletto, in nessuna
nota a margine, scomparsa.
Sembrava che i giornali non volessero
approfondire, che la plebe non volesse
sentire ragioni: roba di droga e basta!
L’inappellabile sentenza del popolino
sciocco, sostenuto dall’intellighenzia, non
ammetteva repliche.
Isa, la sorella di Cesare, non si diede per
vinta mai. Continuò a cercare la verità in
ogni dove, con l’appoggio di un brillante
avvocato, arrivò fino laggiù a chiedere, a
pretendere chiarezza. Niente. Anche nel
lungo e doloroso iter per riportare la salma
in patria le ambasciate non ottennero nulla
di buono né di cattivo, silenzio… mentre
Isa lottava e piangeva tra il dolore, la sete
di giustizia e verità, e la protezione del
resto della famiglia sgomenta,
inconsolabile.
L’avvicinai per raccontarle l’incontro con
Cesare e fu tenera nel vedermi incredulo e
dubbioso sulla sorte del fratello. Convinta
che i miei dubbi non solo erano giustificati
ma che rispecchiavano la verità a cui lei
era giunta immediatamente. “Conoscendo
Cesare benissimo”, iniziò quasi con
compassione, “so quello che racconti e
pensi, mio fratello era davvero innamorato
di quella… ma lei no e si è visto, basta
fare due più due. L’hanno fatto cadere in
una trappola per derubarlo di tutto e far
passare la morte per un accidente legato
alla droga…”, cominciava a infervorarsi,
“ ma quale droga, quale
tossicodipendente! Che schifo! Maledetti!
Povero Cesare mio…sta sottoterra senza
neanche una bara lo sai? Come un cane!
Cosa sarà rimasto di lui per indagare, quali
resti andremo a riprendere? Schifosi
assassini!”, mi abbracciò forte da farmi
male.
La rividi al funerale, solita processione qui
alle mie spalle nella cattedrale di San
Paolo; da lontano, tanta era la gente
intervenuta a dare l’ultimo saluto
all’artista marinaio, al musicista,
all’amico. In quella bara leggerissima non
c’era davvero niente su cui indagare, si
intuiva con semplice pressione di una
mano sola. Isa, circondata dai pochi veri
amici e dalla famiglia, sembrava una
statua di ghiaccio senza più lacrime
gocciolanti, ibernata. Erano passati mesi
densi di burocrazia soffocante per far
tornare i poveri resti da quel paese
lontano, e Isa si era battuta con tutte le sue
residue forze affinchè Cesare avesse una
sepoltura degna. E ora? Cesare lì non c’era
– pensava la donna -, chissà di chi erano
quelle povere poche ossa. Isa sta ancora
aspettando che Cesare torni, un giorno o
l’altro, magari vivo.
Lo ricordo ancora Cesare e aspetto anch’io
che torni, nelle mie condizioni aspettare è
un’abitudine; verrà qui magari e rimarrà
esterrefatto nel vedere questo vermicello
che parla, che guarda di soppiatto e piange
e ride per niente.
In questi pomeriggi lenti e lunghissimi, col
sole che mi tormenta aspetto che passi
Giulio per raccontargli la storia del
marinaio anche se lui la conoscerà già; le
conosce tutte le storie, peccato che sia
quasi muto, ne potrebbe raccontare anche
a me… che tipo! Non mi capacito. Forse è
stato custode del cimitero e così
barcollante penso che parli ancora con i
defunti, forse per questo quel poco che
apre bocca, alita fiato solo verso me.
Egli non si rendeva conto che il tempo
passava come lo sentivo io, in questo
modo imprevisto: è un tempo di quelli che
ognuno si può prendere per sé, uno di quei
tempi estendibili, che basta uniformare
alla misura del gesto preciso da compiere,
per poterne godere in pace. Giulio si
nominava sommessamente padrone delle
cose perché in fondo non c’era differenza
tra la sua vita attuale e quella di guardiano
al cimitero monumentale. Lui a mio parere
avrebbe potuto ammettere che una pietra –
dove ero infisso io -, più mille pietre, più
canne, più rifiuti, più tracce di sale, lungi
dall’essere immobili, vivono una vita di
secrezioni e si muovono all’interno di un
sistema temporale differente. Così come
poteva decretare che solo la conoscenza
sensoriale è il metro della vita. In questo
caso sarebbe stato l’unico essere vivente al
mondo. Ma niente, mie fantasie che lui
bellamente rifiutava con uno sbuffo
quando tentavo di parlargliene, e forse
faceva bene.
Tutt’altro rapporto avevo col mio amico
Gise, che Giulio in qualche modo mi
ricordava: un vero filosofo che
chiamavamo il Guru, colui che sa. Era
l’eterno fidanzato di mia cugina. Lui era
l’opposto della filosofa Nanda, aveva idee
opposte a lei ma ugualmente interessanti.
Aveva fatto il militare come ufficiale di
complemento nei Carristi dell’Esercito e
ne andava fiero; l’aveva fatto crescere
quell’esperienza, diceva, e rinforzato le
sue idee già solide in età giovanile. Amava
quella vita fatta di regole, di disciplina e
amor patrio e che, tornato borghese, non
ritrovava nella vita da civile. Le cercava
disperatamente quasi esigendole dagli
altri.
Anche da me pretendeva un
comportamento impeccabile da quando gli
avevo espresso l’idea di arruolarmi come
ufficiale di complemento e magari sperare
di restare facendo carriera.
Passavamo le mattinate a studiare per il
concorso, mi seguiva passo passo nella sua
casa a circa una ventina di chilometri dal
centro. Lì si ritirava nei pomeriggi a
studiare e meditare astratte teorie
filosofiche che vedevano in Heidegger il
maestro non citato ma assoluto. Quella
dimora rispecchiava la sua malinconia.
Isolata con di fronte un giardino denso di
siepi di bosso una volta ben potate. Alcuni
salici cresciuti così in fretta come la siepe
che lo delimita, nascondono metà della
casa. Gli arbusti, che noi chiamiamo
malerba, gli alberi di frutto, trascurati per
dieci anni, non portano nulla e i loro rami
formano un fitto sottobosco. Le spalliere
dei rampicanti sembrano siepi di carpini. I
sentieri circostanti, una volta coperti di
ghiaia, sono infestati di portulaca.
Malinconia di Gise rispecchiata ovunque,
nata come quella di Nanda da un conflitto
generazionale, ma spinta, se si vuole,
ancora più in là. Gise odiava nel profondo
la generazione dei padri per la loro vita
dissoluta e fuori dai rigidi canoni morali e
etici che il ragazzo si era imposto. Lì in
quella casa dove ospitava i miei studi non
v’era traccia delle maledette bighellonate
paterne, ma lo stato in cui versava a parer
mio non aiutava la fragilità di Gise.
Il tetto della casa, difatti, era terribilmente
sconnesso, le imposte sempre chiuse così
come le porte, i balconi coperti da nidi di
rondine, le inferriate coperte di ruggine;
Luna, sole, estate, inverno, neve, facevano
imputridire il bosco, deformando gli assiti
e corrodendo gli intonaci, come l’animo di
Gise.
Il mortale silenzio che vi regnava era rotto
solo dagli uccelli, dai gatti, dalle martore,
dai topi liberi di correre, combattere,
mangiarsi a vicenda secondo la loro
volontà. Ciuffi di erbacce invadono il
selciato, enormi crepe solcano i muri, le
cui buie sommità sono abbracciate da
innumerevoli viticci di piante rampicanti. I
gradini sono in parte consunti e le
grondaie rotte, ma l’aspetto dell’edificio
era uno dei più acuti piaceri visivi di Gise.
Non era per lui solo una rovina ma ricordi
di innegabile autenticità. Quella solitaria
dimora ancora eretta, sebbene in processo
di graduale disfacimento per mano di una
forza vendicatrice, nascondeva il segreto
di Gise, un disegno sconosciuto; come
minimo tradiva un capriccio.
Mentre studiavo, Gise vagava lì intorno
inventando piacevoli fantasie che poi mi
avrebbe raccontato, si abbandonava a
piccole orge di malinconia che lo
incantavano. Se avessi saputo la causa di
quell’abbandono avrei perso l’indicibile
poesia con cui Gise si intossicava.
Quel luogo rappresentava le diversissime
forme della vita umana ottenebrata dalla
sventura. Era per me soprattutto
l’immagine della provincia con il suo
assorto fluire del tempo.
Anni dopo ho spesso pianto là, mai riso;
più di una volta ho trasalito di terrore
nell’udire il lieve frullare d’ali di qualche
colomba frettolosa.
Ricordo quella terra umida, dove
bisognava stare in guardia contro
lucertole, serpi e rospi che vagavano liberi
e senza timore. Che sciocco, ripensandoci
ora, tutto ciò è di una bellezza mitica, ah!
Soprattutto non bisognava temere il
freddo, poiché dopo qualche secondo si
sentiva alle spalle un martello gelido come
la mano del Commendatore sul collo di
Don Giovanni.
Rientrando dalla passeggiata Gise mi
chiedeva come stava andando quello
studio di diritto costituzionale, cultura
generale e tomi scientifici. “Pare bene –
rispondevo – anche se un po’ noioso”.
“Ma – grugniva Gise – lo vuoi fare
l’ufficiale o no?”. Poche parole tra noi
bastavano in quei pomeriggi. Ci
rifacevamo la sera, liberi a Brio Bar, di
discorrere di qualunque cosa con un
mitico “Preparato” (una specie di Negroni
inventato da Gise) davanti al quale
perdevamo freni e coscienza. Mi piaceva
quell’intruglio anche se mi ubriacava
quasi subito inebetendomi, quindi non mi
restava altro che ascoltare Gise. Bellissime
anche da rintronato le sue dottissime
dissertazioni, l’alcol non le sviliva per
nulla. Ero giovane e in forma e il
Preparato svaniva di fronte alle
illuminazioni del Guru. Sul tardi
arrivavano mia cugina e la sua amica con
le quali andavamo a rifocillarci nei caldi e
accoglienti letti delle loro rispettive case.
Era una vita piacevole e spensierata per
me che non avevo obblighi di lavoro,
stando in quella fase limbo in cui hai
terminato gli studi ma non puoi ottenere
un contratto di lavoro decente perché non
ancora milite esente. Fortunato più di
molti altri coetanei che non potevano
permettersi quel limbo beneamato per
problemi economici.
L’esame arrivò e lo superai con il plauso
entusiasta di Gise. Partii poco dopo per il
corso ufficiali e di lui mi arrivavano solo
notizie frammentarie: ricoveri per
disintossicarsi dall’alcol che andavano
bene, altri un po’ meno, ma il Guru si
rialzava sempre come un Bukowski
italiano esteta e integerrimo. Avevo capito
da sempre che a lui il bere non piaceva
affatto, beveva solo per autodistruzione,
per giungere una buona volta e per sempre
al suicidio etilico. Non sentiva nessun
sapore né provava gusto per quei benedetti
“Preparati”, veri e propri straccia budella
che corrompevano con velocità
supersonica il fegato.
Tornai dall’esperienza militare cambiato
per nulla e presi subito la via di casa del
Guru. La madre mi disse che non c’era
più, se n’era andato come aveva vissuto,
completamente malinconico, imbottito di
alcol. Storia terribile di cui ancora oggi mi
sfugge l’orrido segreto. Gise rimase nei
miei occhi e nelle mie orecchie per anni e
ora avrei bisogno di ascoltare una sua
dissertazione magnifica, una di quelle
lectio magistralis che solo proferite dalla
sua voce risultavano bellissime. Se lette
perdevano il novanta per cento del fascino.
Già caro Gise, come facevi a trasformare
una noiosissima tesi filosofica in una
armonica poesia in prosa orale? Questo è
il tuo dolce segreto? Ebbro. Forse avevi
solo paura.
L’unica persona che lo amava
profondamente era mia cugina che però
dovette arrendersi a quella che chiamo la
paura di vivere di Gise.
Marinella era come una sorella per me e
scrivevamo, leggevamo, parlavamo di
letteratura. Era una grande scrittrice e
giornalista. Amava persino le mie operine
inqualificabili. Della prima scrisse
addirittura la prefazione.
Alla presentazione nella biblioteca
comunale parlammo io e lei, vista l’esigua
platea composta da una decina di persone
annoiate.
“Alatri – iniziò sarcastica – è una città
amabile, elegante di quell’assurda
eleganza delle antiche città italiane; una
città molto letteraria, probabilmente
inesistente – e si guardò intorno con gesto
eloquente -; un luogo singolarmente felice
per discutere di letteratura”.
“Dio mio – dissi io che avevo capito il
gioco – di letteratura? Che cosa intendi
dire? Sei matta?”
“Eh già – mi incalzò quasi
compassionevole -, qui c’è la
presentazione di un libro. Non senti un
mormorio di ribrezzo che attraversa le
minuscole viuzze qui fuori. Chi ha fatto
entrare in questa città intemerata questi
miserabili scrittori? Una volta non si
parlava in pubblico di genitali, oggi è
altrettanto scioccante parlare di
letteratura”.
“Eh va be’, ma noi siamo alternativi,
contro, come si dice”.
“Ah be’, se si parla di letteratura facciamo
una figura barbina, ma qui parliamo di
letteratura alternativa: è tutta un’altra
cosa! Fratellino, la letteratura è morta”.
“Ma dai! È morta mille volte…”.
“Ma questa è la volta buona… guardati
intorno? La letteratura è stata uccisa dalla
realtà! Guarda come siamo belli! La realtà
siamo noi”.
“Ma la letteratura non è un bastian
contrario che con la realtà è sempre in lite
e in rissa? Non è una istituzione ribelle e
rancorosa?”
“Scherzi! Solo la realtà è reale, il resto è la
reazione che, non essendo reale,
propriamente non esiste, tale e quale la
letteratura che, come ti dicevo, abbiamo
ucciso… anch’io fratellino sono un
fantasma”.
Già, Marinella che ad Alatri era la
letteratura, morì bella e giovanissima. Non
sono più riuscito a riprendermi del tutto
dalla sua scomparsa. Fu un attimo e non fu
più. La sua morte un mistero: un
intervento chirurgico da nulla e tornò in
coma profondo. Malasanità. Sanità e
cultura abbandonate da sempre e sepolte
senza neanche un fiore.
Gli amori, anche se pochi, mi tornan alla
mente, sbiaditi e da molto consunti. Il
primo amore dolcissimo oggi mi sembra la
storia della mia vita. Non la baciai mai, la
incontrai e ci innamorammo senza dircelo,
d’estate. Era figlia di uno quei molti
paesani emigrati a nord per lavoro e che
tornavano ad Alatri in ferie. Ripartita, le
scrissi di amarla e di non avere avuto il
coraggio di dirglielo vis à vis. Lei aveva
avuto lo stesso intimo difetto e mi rispose
con ardore. Le lettere continuarono
sempre più sorprendenti per tutto l’anno.
Lettere che conservai, lettere d’amore.
Ogni settimana ci sentivamo per telefono,
in cabina vicino casa eran due passi:
attendevo quasi facendomela addosso la
risposta della sua soave voce, pregna di
quel desiderio non raggiunto. Mentre
parlavamo guardavo la sua fotografia,
attento all’occhieggiare dei passanti e ai
numerosi in fila che aspettavano il proprio
turno per chiamare l’amica, i genitori o
chissà chi.
Non dicevamo quasi nulla se non
l’essenziale: ti amo… anch’io. Non vedo
l’ora di rivederti… a chi lo dici.
Era bella? Non so, ma io la trovavo
incantevole: capelli castani occhi castani
carnagione rosa pallido… non l’ho più
vista una donna così e, mi perdonino le
poche altre, non ho più riscontrato quella
dolcezza unica mai provata, impossibile.
Lo stadio K l’avevo già vissuto con questo
amore ancestrale e ora me ne rendevo
conto troppo tardi, come sempre.
Il secondo amore, bello e carnale, si
chiamava Maria, coetanea che era riuscita
a passare qualche notte con me in un
albergo fuori città. Erano le prime gite
oltre confine regionale. Penso ora al
trauma che subii. Nella cameretta avevo
ragione, appena sveglio, di non voler
cominciare la giornata. Era stata una
giornata densa, pesante, lunga, come un
riassunto di quelle precedenti. Per Maria
un giorno identico agli altri. Si agitava, il
suo calore ventilato dal lenzuolo alitava
con un misto effluvio di sentori organici.
Dal respiro aveva la certezza con non
s’era svegliata. Teneva la destra aperta sul
petto tra le due meduse, come lei le
chiamava; l’altro braccio era coperto e la
mano nascosta si posava, sollevando le
coltri, al centro della sua persona. Vedevo
che si abbassava e rialzava di continuo, le
ginocchia flettersi e divaricarsi, la testa si
chinava da un lato all’altro sul cuscino
come accennasse una sofferenza. Ma che
ha? Non osavo avvicinarmi. Più che il
moto della mano nascosta che andava
accelerandosi, era il moto della testa che
mi guidava a capire, e la tensione di quel
viso in cui si disegnava una
concentrazione ottusa, senz’anima, non
smentita dal mezzo sorriso delle labbra
dischiuse, fra cui sporgeva un poco di
lingua. Tonto rinsavito, era chiaro
finalmente cosa facesse, non aveva
fremuto abbastanza se non per niente dal
nostro amplesso. Non pensai tuttavia di
chiamarla, assistendo probabilmente
impietoso e aspettando. Non esiste
pratica carnale altrettanto lunga:
sospirava ancora come affaticata
balbettando qualcosa, ma non smetteva.
Nel corridoio ascoltai un passo appressato
alla nostra porta, era lì qualcuno incerto
se entrare. Sapevo la porta chiusa,
tuttavia mi dicevo, con odio e ribrezzo,
che un estraneo era lì a tre passi dal letto
e avrebbe potuto avvertirne il sussulto.
Un fruscio. Poi più niente.
Dopo il lungo spasimo e il successivo
abbandono esibiti con la stessa sincerità
semicosciente, Maria riebbe il sonno,
evidentemente prostrata. Io andai a fare
un bagno caldo, quasi una purificazione
(per me? per lei?), e rimasi a lungo in
acqua riflettendo.
A esser sincero la faccenda del sesso in
me stesso e negli altri non mi ha mai
ossessionato, tanto meno orientato. Non
ho mai creduto che per certi organi passi
il crinale della dignità umana, mia e dei
miei simili. Ve lo dico da verme, che si
capisce meglio.
Questi primi amori mi consentirono di
entrare in quella che chiamano giovinezza
virile, che mi ha dato tanto così come
quanto mi tolse. Mi diede l’amor carnale
e quello vero, i due impastati in sintesi
benigna, che gli abbandoni fecero meno
dolenti. Gli amori di una sera, durante le
feste al Politeama, gestito a sala da ballo
dal Club La Pioggia: il calore dei corpi,
quello eccessivo delle stufe, uniti
all’abbondante consumo di alcolici,
rendevano presto l’atmosfera greve,
opaca, spessa di vapori e fumo. Ricordo in
circostanze simili l’aver adocchiato una
brunetta, con un che di provocante nello
sguardo e nella bocca troppo
decisamente disegnata dal rossetto, ero
deciso a farne la mia compagna per la
serata. Mi pareva una conquista facile e
promettente, una professionista della
seduzione. Si era accorta del mio
interesse e per due volte aveva girato il
viso a metà dalla mia parte, lasciandone
intravedere un tre quarti,
esasperatamente bianco dietro la banda
dei capelli lisci e corvini.
C’era qualcosa di eccessivo in tutta la sua
persona: occhi troppo neri e fondi, ciglia
troppo lunghe, labbra troppo cariche di
rosso, pallore del viso esasperato, troppa
flessuosità nel busto e nei movimenti,
atteggiamento felino. Ma era tutto questo
ad attirarmi. All’inizio di un ballo mi
diressi verso di lei, rimasta sola nella
baraonda delle coppie che turbinavano
pestando con forza i piedi sul pavimento.
Quando fui a due passi mi fermò
coll’improvviso volgersi del busto verso di
me e ostentando un sorriso tra il
provocatorio e l’ironico; le piaceva
giocare, era evidente, e sapeva come. Mi
ritrovai spinto al centro della pista, con il
suo corpo che aderiva al mio, morbido e
avvertito al tempo stesso. Sentivo contro
la mia guancia la sua stranamente fresca e
liscia; a quel contatto mi abbandonai
come a un refrigerio insperato che mi
isolava trasportandomi lontano da quella
calca.
Ballammo a lungo, per tacito accordo,
aiutati dalla musica che ormai procedeva
senza interruzioni, alternando balli lenti
ad altri più agitati, paga della raggiunta
stabilità in ogni coppia. Ognuno aveva
trovato il proprio compagno e con quello
avrebbe concluso la serata.
Sotto il comando di un sapiente regista la
musica si fece ad un certo punto lenta,
languente; varie coppie cominciavano a
ritirarsi, sopraffatte dal caldo e dalla
stanchezza.
Anch’io pensai bene di allontanarmi,
trascinando con me la mia compagna. Da
un’uscita sul retro raggiungemmo il
parcheggio delle auto, confortati
dall’oscurità e dalla frescura della notte. E
là, sul sedile posteriore di un’auto,
consumammo l’ultimo atto di quella notte
come tante.
Si avvicinò Giulio, forse vedendomi più
assorto del solito:
“Tu in fondo stai meglio di me” disse…
“Come Giulio?”, non mi sembrava vero
parlasse così tanto e fluidamente.
“Hai capito benissimo – riprese con una
foga insolita e inaspettata -, non far finta
di niente. Te ne stai qui tranquillo mentre
io, non so se lo sai, sono un delinquente e
un violentatore… continua con le tue
ciance! Beato te verme! Non capisci che
domani, che dico, tra un’ora, un minuto,
possono venire due tipi in uniforme a
prendermi a pugni e calci, a mettermi la
camicia di forza, le manette e tutto
l’armamentario, senza darsi pace finchè
non mi avranno rinchiuso in una prigione
più nera di una caserma di zuavi, senza
pane, senza fuoco, senza donna, senza
niente e anche meno di niente?”
Non sapevo cosa rispondere a quel
miracoloso seppur inquietante discorso.
“Giulio” mi uscì appena “sono lieto di
sentirti parlare”.
Lui continuò: “Non ti capisco! Non
sosterrai mica quella versione della vita in
cui si fa sempre finta di non credere?
Secondo te, merito la galera o no?
Rispondi!”.
“Giulio, ho mal di testa, io…”.
“Prima rispondi”.
“Un attimo”.
“Allora? Merito la galera?”
“Sì, ecco, sei contento?”.
Giulio tacque. Dei passanti ci guardavano
furtivamente dal marciapiede. Non
capivano con chi stesse parlando Giulio e
lo presero per ubriaco.
Sì distanziò come un cane bastonato per
tornare alla carica appena fummo di
nuovo soli. Mi sembrava un altro, quasi
dimentico dello sfogo di pocanzi, inziò a
raccontarmi una sua storia antica come
accaduta in un’altra vita. Descrivendo il
suo stato di giovane studente in una Alatri
scomparsa seguiva un discorso asciutto
ma teso, orrido, sconcio in certi momenti.
Intendeva spiegarmi come era diventato
un malvivente, soffermandosi in dettagli
osceni che, a suo dire, avevano
contribuito fortemente alle sue disgrazie.
Cominciò tutto a venti anni quando
frequentava il primo anno di università e
da Alatri faceva avanti e indietro per
recarsi a Roma.
Prima di rincasare col treno delle 17.35
per Frosinone, si fermava vicino a un bar,
circondato da una frotta di fameliche
sgualdrine bramose che non aveva
nessuna difficoltà a tenere alla larga, dato
che i suoi occhi erano calamitati da
un’incantevole bellezza seduta in disparte
in un angolo appartato del caffè.
Pensava si trattasse di una bella ragazza
arrivata in anticipo all’appuntamento col
suo amante. Aveva appena sfiorato
l’aperitivo ordinato. Agli uomini che le
passavano accanto rivolgeva uno sguardo
aperto, fermo, ma questo non significava
niente: lei si guardava attorno in silenzio,
valutando ciò che vedeva, senza alcun
tentativo palese di attirare l’attenzione.
Era discreta e dignitosa, perfettamente a
suo agio e sicura di sé. Giulio era curioso
di vedere chi fosse la persona attesa.
Dopo una mezz’ora, durante la quale
incontrò più volte il suo sguardo
trattenendo i propri occhi nei suoi, si
convinse che la donna stava aspettando
qualcuno che si facesse avanti con
l’approccio giusto. Di solito basta fare un
cenno con la testa o la mano e la ragazza
lascia il suo tavolo e viene da te, se è una
di quelle. Giulio disse che non ne era
ancora sicurissimo. Gli sembrava troppo
bella, troppo raffinata, troppo ben nutrita.
Quando il cameriere tornò da lui gliela
indicò e gli domandò se la conosceva.
Rispose di no, ma Giulio gli chiese
ugualmente di invitarla a venire a sedersi
al suo tavolo. La osservava mentre le
veniva riferito il messaggio. Lo eccitò
vederla sorridere e guardare nella sua
direzione annuendo. Immaginava che si
alzasse e avvicinasse, invece rimase
seduta e sorrise ancora, questa volta con
più discrezione, dopo di che girò la testa e
sembrò guardare fuori dalla vetrata del
caffè con aria trasognata. Giulio lasciò
passare qualche minuto, e poi, vedendo
che non accennava a muoversi, si alzò e
andò lui da lei. Lo accolse con cordialità,
come si accoglie un amico, però parve
nervosa, quasi in imbarazzo. Egli non
capendo bene se voleva che si sedesse al
suo tavolo o no, nel dubbio si sedette, e
dopo aver ordinato da bere per entrambi
attaccò subito a conversare. La voce di lei
era persino più eccitante del sorriso; ben
impostata, piuttosto bassa, di gola. Era la
voce di una donna felice di essere viva e
che si concede dei piaceri, che è
spensierata e povera, e che è pronta a
fare qualsiasi cosa per conservare quel
poco di libertà che ha. Era la voce di una
donna che dà, che spende; il suo fascino
parlava più al diaframma che al cuore.
Giulio ammise che si sorprese quando ella
si premurò di spiegargli che andando al
suo tavolo aveva commesso un faux pas.
“Credevo avesse capito – disse la donna –
che l’avrei raggiunta fuori. Era quello che
ho tentato di comunicarle
telegraficamente”. Stava lasciando
intendere che non voleva essere
conosciuta nel locale come una del
mestiere. Giulio si scusò per la gaffe e si
offrì di andarsene, cosa che lei mostrò di
considerare un gesto delicato da ignorare
con una lieve pressione della mano e un
sorriso cortese. Al che si riappoggiò di
scatto allo schienale, afferrò la mano di
Giulio e con un sorriso sornione che
voleva mettere in risalto il suo candore,
disse: “Senta, sono una donna veramente
pigra, non ho la pazienza di leggere libri.
Per il mio cervellino è uno sforzo
eccessivo”. Giulio rispose che c’erano
tante altre cose da fare nella vita,
mettendole la mano su una gamba e
stringendola con trasporto. Subito la
mano di lei coprì la sua spostandola sulla
parte più morbida e carnosa. Poi, quasi
altrettanto rapidamente, la allontanò
dicendo: “Attenzione qui ci possono
vedere”.
Sorseggiarono i drink e si rilassarono.
Giulio non aveva alcuna fretta di portarla
fuori. In primo luogo era troppo
affascinato dal suo eloquio elegante: le
parole le uscivano dalla bocca
pienamente formate e con uno scarto
temporale, quasi le avesse arrotolate
lungo il palato prima di cederle al vuoto,
dove suono e significato si trasformano
così in fretta. La sua pigrizia, che era
voluttuosa, avvolgeva le parole come un
soffice piumaggio giungevano all’orecchio
di Giulio volando come batuffoli. Il suo
corpo era pesante e carnale, ma i suoni
che le uscivano dalla gola parevano
limpidi rintocchi di campana.
Era nata per il sesso, come si suol dire,
eppure non dava l’impressione di essere
una vera e propria sgualdrina. Che
sarebbe andata con Giulio e che si
sarebbe fatta pagare, egli lo sapeva; ma
questo non basta a fare di una donna una
sgualdrina. Lo sfiorò e sotto quella
delicata carezza il membro di Giulio si
rizzò esultante come una foca
ammaestrata.
“Si controlli – mormorò – non va bene
eccitarsi troppo velocemente”.
Al che Giulio la invitò a uscire facendo
cenno al cameriere.
“Sì – disse lei – andiamo da qualche parte
dove si possa parlare con comodo”.
Meno si parla e meglio è, pensava tra sé e
sé Giulio, mentre la seguiva verso l’uscita.
Una gran bella gnocca, si disse
osservandola veleggiare oltre la porta
girevole.
“Già me la vedevo ondeggiare sulla punta
del mio uccello, quel bel pezzo di carne
fresca che aspettava di essere salata e
affettata”.
“Giulio, ma che fai? Il macellaio?”
“Zitto verme, non sbeffeggiare”.
Tacqui, e Giulio proseguì. Ascoltiamolo
insieme: Mentre attraversavamo piazzale
dei Cinquecento mi disse quanto era lieta
di aver incontrato uno come me.
A Roma non conosceva nessuno e si
sentiva sola. L’avrei portata a visitare la
città? Sarebbe stato divertente avere
come guida della città, la capitale del
proprio paese, un provinciale.
Continuammo a camminare di buon passo
chiacchierando così, finche arrivammo
davanti a un albergo che lei sembrava
conoscere. “Qui è pulito e comodo – disse
- se farà un po’ freddo, nel letto ci
scalderemo a vicenda” e mi strinse il
braccio affettuosamente. La camera era
confortevole come un nido. Aspettai che
ci portassero il sapone e gli asciugamani,
diedi la mancia alla cameriera e chiusi la
porta. Lei si era tolta cappello e stola di
pelliccia e rimaneva in piedi davanti alla
finestra aspettando che io la abbracciassi.
Che pezzo di carne tenera come una
pianta appena germogliata. Pensavo che
sotto le mie mani sarebbe esplosa in una
nube di semi. Cominciammo subito a
spogliarci. Sedetti sul bordo del letto per
slacciarmi le scarpe. Lei, in piedi accanto a
me, si sfilava gli indumenti. Quando alzai
gli occhi era rimasta soltanto con le calze.
Se ne stava lì, in attesa che la esaminassi
con più attenzione. Mi alzai e la abbracciai
ancora, facendo scorrere le mani su
quelle pieghe ondose di carne. Lei si
sottrasse e tenendomi scostato con le
braccia tese mi domandò timidamente se
non fossi un po’ deluso.
“Deluso? – le feci eco – in che senso?”
“Non sono troppo grassa?” chiese
abbassando gli occhi e guardandosi
l’ombelico.
“Troppo grassa? Che dici? Sei
meravigliosa. Sembri un Renoir”.
A queste parole lei arrossì. “Un Renoir? –
ripeté, come se non avesse mai sentito
quel nome – no, stai scherzando”.
“Oh, lascia perdere. Vieni qui, fammi
accarezzare la tua fichetta”.
“Aspetta, prima devo farmi la toilette”. E
andando verso il bidet disse: “Mettiti a
letto. Scaldalo bene, mi raccomando”.
Mi spogliai in fretta, per educazione mi
diedi una lavatina all’uccello e mi infilai
tra le lenzuola. Il bidet era proprio
accanto al letto. Quando lei ebbe finito le
abluzioni cominciò ad asciugarsi con un
telo sottile e logoro. Io mi protesi e
afferrai il suo cespuglio, arruffato e ancora
un po’ rugiadoso. Lei mi spinse giù sul
letto e chinandosi su di me si gettò rapida
sul cazzo con la bocca rossa e calda. Le
infilai un dito nella fica per farla bagnare.
Poi, mettendomela sopra, glielo sguainai
dentro fino all’elsa. Era una di quelle fiche
che ti calzano come un guanto. Le sue
abili contrazioni muscolari mi fecero
ansimare subito. Intanto continuava a
leccarmi il collo, le ascelle, il lobo delle
orecchie. La sollevai con due mani e
l’abbassai, su e giù ritmicamente,
facendole roteare il bacino all’infinito. A
un certo punto si lasciò cadere su di me
con un gemito; la girai sulla schiena, mi
misi le sue gambe sulle spalle e cominciai
a sbattermela. Credevo che non avrei mai
smesso di venire; era un flusso continuo,
come l’acqua dalla canna per bagnare il
giardino. Quando lo tirai fuori mi sembrò
che l’erezione fosse addirittura più
potente di quando le ero entrato dentro.
“Ci sai fare, sai?” disse lei stringendo una
mano intorno al mio cazzo toccandolo
come per valutarlo.
Ci alzammo, ci lavammo e tornammo a
letto. Appoggiandomi su un gomito, feci
scorrere una mano sul suo corpo. Se ne
stava distesa con gli occhi che brillavano,
completamente rilassata, a gambe aperte,
la carne fremente. Per qualche minuto
non parlammo. Le accesi una sigaretta,
gliela misi in bocca e sprofondai nel letto
guardando soddisfatto il soffitto.
“Ci rivedremo?” le domandai dopo un po’.
“Questo dipende da te” disse aspirando
una lunga boccata. Si girò per spegnere la
sigaretta e poi, avvicinandosi, mi fissò,
sorridendo ma seria, e con quella voce
bassa e melodiosa disse: “Senti, ti devo
parlare di una cosa importante. Ti devo
chiedere un grande favore… mi trovo in
difficoltà, in gravi difficoltà. Mi aiuteresti,
se te lo chiedessi?”.
“Naturalmente – dissi io – in che modo?”
“Si tratta di soldi, - disse lei pacatamente,
con semplicità – me ne occorrono molti…
ne ho assoluto bisogno. Non sto a
spiegarti perché. Credimi e basta,
d’accordo?”.
Mi allungai per prendere i pantaloni dalla
sedia. Tirai fuori tutte le banconote e le
monete che erano nelle tasche e gliele
diedi.
“Di più non posso fare – dissi – è tutto
quello che ho”.
Lei mise il denaro sul comodino senza
contarlo, poi si chinò su di me e mi baciò
sulla fronte. “Sei un ragazzo d’oro” disse e
rimase china su di me guardandomi negli
occhi con una gratitudine inespressa,
silenziosa, poi mi baciò sulla bocca, non
con passione ma adagio, indugiando,
come per esprimere l’affetto che non
riusciva a mettere in parole e che, per
delicatezza, non voleva comunicare con
l’offerta del proprio corpo.
“Adesso non posso dirti niente – disse
lasciandosi ricadere sul guanciale -, è
strano che i concittadini non siano mai
buoni come lo sono i provinciali, voi siete
tanto generosi, molto gentili, abbiamo
molto da imparare da voi”.
Era una tale vecchia solfa che quasi mi
vergognai di me stesso per essermi
atteggiato ancora una volta al provinciale
munifico. Le piegai che se mi ero trovato
tutti quei soldi in tasca era per puro caso.
Al che lei rispose che perciò il mio gesto
era ancora più bello. “Uno di qui li
nasconderebbe, non li darebbe mai alla
prima ragazza che incontra solo perché lei
gli chiede aiuto. Tanto per cominciare non
le crederebbe”.
Non feci commenti, perché era vero e allo
stesso tempo non lo era. Ci vogliono
persone di tutti i tipi per fare il mondo, e
sebbene fino a quel giorno non avessi
incontrato un romano generoso, ero
convinto della loro esistenza. Se le avessi
detto quanto erano stati generosi i miei
compaesani con me, gli amici, non mi
avrebbe mai creduto. E se avessi aggiunto
che non era stata la generosità a
spingermi a fare quello che avevo fatto
bensì l’autocommiserazione, la mia
necessità di dare a me stesso (perché
nessuno potrebbe essere generoso con
me quanto lo sono io), probabilmente
avrebbe pensato che avevo una rotella
fuori posto.
Mi strinsi a lei e le nascosi la testa tra i
seni. Poi, lentamente, scesi a leccarle
l’ombelico. Ancora più giù, a baciare il
folto ciuffo. Mi tirò in su piano perché la
coprissi con il mio corpo e mi infilò la
lingua in bocca. Il cazzo mi si drizzò
all’istante e le scivolò dentro con la stessa
naturalezza con cui si avvia un motore.
Era una di quelle erezioni lunghe e
persistenti che fanno impazzire le donne.
La scopai in tutte le posizioni, sopra, sotto,
di lato, quindi lo tirai fuori lentamente,
stuzzicandola, massaggiando le labbra
della vulva con la punta ritta dell’uccello.
Alla fine lo tirai fuori e glielo feci girare
intorno ai seni. Lei lo guardò stupita. “Sei
venuto?” chiese. “No” dissi. “Adesso
proviamo qualcos’altro”. La trascinai giù
dal letto e la misi in posizione per
prenderla da dietro per bene. Fu lei stessa
ad allungare la mano per arrivare
all’inguine e guidarlo dentro, dimenando
il culo in modo invitante. La afferrai
saldamente alla vita e glielo affondai fino
alle viscere. “Ah, ah, bellissimo davvero…
meraviglioso” mugolava lei muovendo il
culo con un dondolio convulso. Lo tirai
fuori per fargli prendere un po’ d’aria,
sfregandoglielo scherzosamente sulle
natiche. “No, no, non così – implorò –
mettimelo dentro, dentro fino in fondo…
muoio dalla voglia”. Di nuovo allungò la
mano e se lo infilò incurvando ancora di
più la schiena e spingendo verso l’alto
come se volesse afferrare il lampadario.
Sentii che stavo venendo di nuovo, una
sensazione che partiva dalla metà della
spina dorsale; piegai leggermente le
ginocchia e le diedi un altro paio di
affondi. E bum!... esplose come un razzo.
Quando ci lasciammo davanti a un
vespasiano alla fine della strada, era già
abbondantemente ora di cena. Non
avevamo preso accordi per rivederci, né
io le avevo domandato dove abitasse. Era
sottinteso che l’avrei trovata al caffè.
Proprio mentre ci stavamo salutando mi
resi conto di non averle nemmeno chiesto
il suo nome. La chiamai e glielo chiesi.
“Miriam” disse compitando. Mi allontanai
ripetendolo tra me e me più volte. Non
avevo mai conosciuto una ragazza con un
nome simile. Sembrava quello di una
pietra preziosa. Intanto avevo perso tutti i
treni per il rientro a casa e mi accorsi di
avere una gran fame. Mi fermai davanti a
un ristorante di specialità di pesce e lessi
il menù affisso all’esterno. Avevo voglia di
vongole, aragoste, ostriche, lumache,
pesce azzurro alla griglia, un’omelette ai
pomodori, qualche tenera punta di
asparagi, un formaggio saporito, una fetta
di pane, una bottiglia di vino molto fresco,
fichi e noci. Mi frugai nelle tasche, come
faccio sempre prima di entrare in un
ristorante, e trovai una moneta da cento
lire. “Merda – dissi – avrebbe potuto
lasciarmi almeno qualche diecimila”.
Mi avviai con passo svelto verso casa del
mio amico in affitto a Roma per vedere se
gli era rimasto qualcosa nella dispensa. In
genere qualcosa conservava sempre. Ci
voleva una buona mezz’ora a piedi fino a
quell’alloggio che sporadicamente
dividevamo in due. Salvo di sicuro aveva
già mangiato, ma forse sul tavolo avrei
trovato una crosta di pane e un po’ di
vino. Camminavo sempre più in fretta,
perché la fame aumentava a ogni passo.
Appena entrai in cucina mi bastò
un’occhiata per capire che Salvo non
aveva cenato. Cercai ovunque, ma non
trovai neanche una briciola. Né c’erano
vuoti di bottiglie da rendere in cambio di
soldi. Non capivo più niente.
Corsi fuori, determinato a farmi fare
credito dal ristorantino vicino, dove
mangiavo spesso. Quando ci arrivai
davanti persi il coraggio e me ne andai.
Cominciai a gironzolare senza meta,
sperando di imbattermi per chissà quale
miracolo in un conoscente. Ciondolai per
quasi un’ora e poi, esausto, decisi di
tornare a casa e mettermi a letto. Quando
arrivai vidi che era quasi mezzanotte.
Rimasi schiantato: era inutile fare
ulteriori tentativi di foraggiamento. Sarei
andato a letto con la speranza che
saltasse fuori qualcosa al mattino. Mentre
mi spogliavo mi venne un’altra idea, non
troppo brillante, stavolta, ma insomma…
andai al lavandino e aprii l’armadietto
dove c’era il secchio della spazzatura.
Tolsi il coperchio e guardai dentro. Sul
fondo c’erano degli ossi e una crosta di
pane. Ripescai la crosta secca, raschiai via
con cura le parti contaminate per non
sprecare niente e la inzuppai sotto l’acqua
del rubinetto. Poi la addentai lentamente
cercando di ricavare il massimo da ogni
briciola. Man mano che deglutivo la faccia
mi si apriva in un sorriso, sempre più
largo. Cominciavo a sentirmi di ottimo
umore. Quella Miriam doveva essersi
concessa una cena eccellente.
Probabilmente con il suo amante. Non
dubitavo minimamente che avesse un
amante. Il suo grande problema, senza
dubbio il suo dilemma, era come sfamarlo
con buoni cibi, come comprargli i vestiti e
altre piccole cose che desiderava. Be’, era
stata una scopata grandiosa, sebbene
nella transazione l’avessi preso in quel
posto anch’io. Me la immaginavo mentre
si portava il tovagliolo alle labbra carnose
per pulire il sughetto del tenero pollo che
aveva ordinato. Chissà che gusti aveva in
fatto di vini. Che disgraziata! Se solo
avessi saputo dove abitava sarei andato a
chiederle un paio di centoni. Dovevo
essere proprio fuori di testa per non
tenermi almeno qualche spicciolo. Dare
soldi a una puttana è come gettarli nella
fogna. Ne aveva un gran bisogno! Per
l’ennesima sottoveste, molto
probabilmente, o un paio di calze di seta
pura intraviste in una vetrina. Ormai ero
verde di rabbia. E tutto perché in casa non
c’era un’altra crosta di pane. Che cretino!
Un cretino fatto e finito! Spogliandomi mi
toccai le costole. Sporgevano come le
tastiere di una fisarmonica. Quella
puttanella pasciuta, Miriam, non stava di
certo morendo per denutrizione. Ancora
una volta, merda!... e a letto.
Appena fui sotto le coperte ricominciai a
ridere. Ma questa volta fu terrificante. Era
un riso isterico, non riuscivo a fermarmi.
Come se mille fuochi d’artificio giganti
fossero esplosi tutti in una volta. Qualsiasi
cosa pensassi – e cercavo di pensare a
cose tristi, persino terribili – la risata
continuava. Tutto per una misera crosta di
pane! Questa era la frase che ripetevo a
singhiozzo e che scatenava ulteriori
incontrollabili risate.
Ero a letto da un’ora soltanto quando
sentii Salvo aprire la porta di casa. Andò
dritto nella sua camera e si chiuse dentro.
Fui seriamente tentato di chiedergli di
uscire a comprarmi un panino e una
bottiglia di vino. Poi mi venne un’idea
migliore. Mi sarei alzato presto, mentre
lui dormiva ancora sodo, e gli avrei
frugato nelle tasche. Nel rigirarmi sentii
che riapriva la porta della camera e
andava in bagno. Ridacchiava e
sussurrava… era quasi di sicuro con una
sgualdrina, una raccattata per strada
tornando a casa. Ebbi la voglia di andare a
vedere chi stava con lui, mi alzai e pian
piano arrivai all’uscio della sua camera.
Sul letto c’era una ragazza, be’, avrebbe
potuto avere quattordici anni. Bella,
formosa, mi si drizzò in un attimo. Tornai
a letto prima che Salvo tornasse dal
bagno. Al mattino gli chiesi conto. “Senti
Giulio – disse lui, abbassando la voce per
sembrare più convincente – dobbiamo
aiutarla. Non sa dove andare… è scappata
di casa. L’ho trovata che camminava in
trance, quasi morta di fame e un po’ fuori
di testa, almeno così ho pensato all’inizio.
Non preoccuparti, è a posto. Una brava
ragazza, anche se non è una cima.
Probabilmente di buona famiglia. È solo
una bambina… vedrai. Magari me la
sposo, appena diventa maggiorenne. Ad
ogni modo soldi non ne ho. Ho speso fino
all’ultimo centesimo per darle da
mangiare. Peccato che tu abbia saltato la
cena. Avresti dovuto essere con noi.
Abbiamo ordinato ostriche, aragosta,
gamberi… e un vino fantastico. Uno
Chablis del…”.
“Fanculo l’annata – gridai – non
raccontarmi che cosa hai mangiato, sono
come una pattumiera svuotata. Adesso ci
sono tre bocche da sfamare e non
abbiamo il becco d’un quattrino”.
“Tranquillo Giulio, - disse sorridendo – lo
sai che tengo sempre qualche deca per le
emergenze”. Si infilò la mano in tasca e ne
tirò fuori delle monete. “Con questi potrai
fare colazione”.
In quel momento la ragazza fece capolino
dalla porta. Salvo saltò in piedi e la fece
avvicinare al letto. “Ti presento Marta”
disse mentre io allungavo una mano per
stringere quella della ragazza. “Come ti
sembra?”. Prima che potessi rispondere
un sorriso infantile le illuminò il volto. Lei
si chinò e mi baciò su entrambe le guance.
In quell’atto i seni uscirono dalla vestaglia
e mi sfiorarono la faccia. La vestaglia si
aprì completamente, rivelando quel corpo
giovane e deliziosamente in carne, che già
avevo notato.
“Cristo, portala via e chiudila a chiave
nella tua camera – dissi – non risponderò
delle mie azioni, se mentre sei fuori mi
ronzerà intorno”.
“No, non sono geloso – disse Salvo – e sai
che dico fregnacce per sviare il discorso.
Piuttosto abbiamo un problema con
questa ragazza. Qui non posso tenerla.
Perché non la porti un po’ dalle nostre
parti, le fai incontrare qualcuno che
gestisce quelle case allegre che magari
tiriamo su un po’ di soldi”.
Gli risposi che ero disposto a portarmela
ma non a darla in pasto a quella vitaccia.
In treno le dissi che saremmo andati a
passare il fine settimana ad Alatri, e che i
programmi che aveva per lei Salvo mi
ripugnavano. Lei, con mio sommo
rincrescimento, era d’accordo con Salvo.
Voleva fare la vita. Ripensai con disgusto a
Miriam e come preso da raptus, la portai
nella toilette del treno e la violentai. Non
un solo atto di resistenza. Arrivammo alla
stazione di Frosinone che sprizzava
gaiezza infantile. In macchina tentai di
farla ragionare ma lei continuava con quel
riso ebete. Accostai la ripresi da dietro
con forza come in treno, ci rotolammo
fuori dall’auto. Le stavo sopra finchè non
l’afferrai per il collo e strinsi. Me ne andai
lasciandola lì. Non ne seppi più nulla.
Nessun notiziario parlava di lei nei giorni
successivi, come non fosse successo
veramente. Bene! Ma da quel giorno non
mi sono più ripreso; la sogno spesso, forse
l’ho uccisa, strangolata, schiacciata.
Rimasi sul mio sasso come un sasso. “Che
dici verme – disse Giulio – è una bella
confessione?”.
“Be’, Giulio, devo dire…”.
Il tacco della scarpa di Giulio si avvicinò
repentino a me e con forza mi stritolò.
Ciao Alatri. C’ero una volta.

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