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L’URLO DI PULCINELLA
Charles Péguy
INDICE
9 Introduzione
113 Intermezzo
115 In cerca dell’amico perduto
139 La grande attesa
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appunto di incontri ravvicinati (senza il taccuino in
tasca) e, a volte, di lunghe frequentazioni.
Nella Napoli positiva e serena dell’immediato
dopoguerra, quella dei miei studi liceali e universita-
ri, conobbi ovviamente il mondo dei coetanei e le
dolci inquietudini dell’adolescenza. Ma mi capitò
anche d’incontrare persone adulte che mi aiutarono a
capire, a volte senza volerlo. Tra quelli che lasciaro-
no il segno c’era un uomo del popolo, ottimista lo-
quace esilarante. E innamorato della sua terra, anzi
del suo quartiere. Tra coloro che nel mondo della
scuola mi spianarono la via c’era un dantista quasi
messianico, e con lui un umanista che assumeva
Napoli come unico termine di paragone, e poi un
genio matematico alle prese con il dramma quoti-
diano di una professione a lui estranea.
Ciascuno di essi lasciò in me una traccia, che
oggi mi sembra importante.
Tanti altri mi diedero una mano lungo il cammi-
no, ancora all’ombra del Vesuvio. Ricordo bene, ad
esempio, un giovane amico musicista paracadutato
addirittura nel mitico salotto di Benedetto Croce. E
un collega universitario di rara sensibilità, futura
firma importante del nostro giornalismo. E un singo-
lare libraio di vecchio stampo, oggi apprezzato edi-
tore, che segnò il mio rapporto “fisico” con i libri.
Tra le cose più care conservo il mio carteggio
con un’anziana poetessa. Fu lei a raccogliere i miei
vagiti letterari e ad ospitarmi tra le pagine della bella
rivista da lei fondata, mettendo un po’ alla frusta la
mia indolenza. Poi uno storico di valore mi spinse a
scoprire legami misteriosi tra un banchiere fiorentino
e la regina di Napoli.
Ecco che le due città già sembravano cercarsi!
Tornando agli anni del ginnasio, non ancora alle
falde del vulcano ma in terra sannitica, trova spazio
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in queste pagine la memoria di Francesco. Un ragaz-
zo straordinario che per me incarnò la città del mio
destino. Era un quindicenne esule fiorentino, che
fece ritorno in patria non appena gli fu possibile,
giusto per vedere la sua città violentata e i ponti di-
strutti.
Subito dopo il diluvio, m’insediai definitivamen-
te in quella che da molto tempo avevo scelto come
patria ideale. Le prime testimonianze, a decine, fu-
rono quelle di chi aveva vissuto il disastro in prima
persona. Ebbi subito la misura di un popolo con la
schiena diritta, pronto a rimboccarsi le maniche e
perfino a fare sberleffi alla tragedia.
Nacque qualche amicizia destinata a durare e a
incidere molto, e conobbi personalità di spicco. In-
contrai tra i primi Piero Bargellini, che tutti già
chiamavano “Sindaco dell’alluvione” o “del fango”.
Poi ebbi occasione di avvicinare Giorgio La Pira,
che negli anni precedenti aveva portato Firenze alla
ribalta del mondo, e al tempo stesso l’aveva spaccata
in due. Giusto per non farle perdere l’antico vizio.
Conoscerlo di persona e fare con lui una chiacchie-
rata informale fu un’esperienza emozionante.
Si consolidava intanto, tra le frequentazioni più
significative, quella con un pittore di grande perso-
nalità e di sensibilità raffinata come Silvio Loffredo,
anche lui fiorentino di adozione. I suoi animaletti
fiabeschi lo affascinavano e lo divertivano. Bastava
guardarlo mentre li schizzava su un notes o dove gli
capitava, e mi mandava cartoline usandoli come
firma. Il Battistero invece lo intimidiva, lo emozio-
nava, quasi l’ossessionava. Era per lui il simbolo
della perfezione assoluta. E i suoi battisteri vivise-
zionati nello sforzo di capirne il mistero riflettevano
un tormentato rapporto d’amore con la città.
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Poi accadde una cosa davvero inopinata. Mi ca-
pitò (ancora oggi non so come) di lavorare come
componente di una giuria ristretta, accanto a due
giganti della nostra letteratura del Novecento: Mario
Luzi e Geno Pampaloni. L’imbarazzante vicinanza
fisica del grande poeta e perfino la sua benevolenza
me lo lasciarono tuttavia distante. Con il grande cri-
tico invece si sviluppò un rapporto che mi aiutò a
scoprire, al di là del suo acume, una delicatezza
d’animo che gli faceva cogliere le minime sfumatu-
re. I rari ma intensi colloqui con lui arricchirono di
senso i miei pensieri.
Un uomo di straordinaria bontà e generosità
come Giancarlo Zoli, segnato come suo padre dalla
terribile esperienza partigiana di Villa Triste, tra l’al-
tro mi spianò la strada per incontrare Giovanni Spa-
dolini nel suo habitat naturale: quella mitica “casa
intorno ai libri” che egli considerava la più impor-
tante realizzazione della sua vita.
A ciascuno dei personaggi di maggior rilievo è
dedicato un intero capitolo. A volte i dialoghi, anche
al di là delle mie intenzioni, mettono a nudo i tratti
umani dei protagonisti. Quando non siano uomini
pubblici o largamente noti, nel rispetto della privacy
ho usato solo il nome di battesimo. Le parole dei
dialoghi, in parte testuali e in parte ricostruite, riflet-
tono nella sostanza il pensiero degli interlocutori.
Nell’ultimo capitolo compare una sorta di alter
ego della voce narrante, napoletano di nascita e di
sentimenti, ma profondamente radicato nella realtà
fiorentina. Fu durante la nostra intermittente fre-
quentazione, che l’idea di una comunicazione signi-
ficativa tra le due città emblematiche, apparentemen-
te agli antipodi, prese forma e contorni più chiari.
Tra brevi accensioni e lunghi sottintesi, ci di-
cemmo che al loro destino poteva essere legato un
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futuro meno nebuloso. Così almeno provammo a
immaginare durante l’ultimo incontro, forse un po’
delirante, sulla “nostra” collina di Bellosguardo.
Al di là dei recuperi di memoria che ci resti-
tuiscono un mondo recente eppure tanto distante,
queste pagine s’indirizzano alla sterminata molti-
tudine di coloro che amano le due città protago-
niste e possono riconoscerne aspetti problematici
e fuori dagli schemi.
Inoltre questa narrazione si rivolge a quanti
conobbero, anche solo indirettamente, alcune
figure rappresentative del nostro tempo. Con la
sorpresa di scoprirne inediti aspetti umani. E con
la voglia di alimentare, chissà, nuovi motivi di
speranza.
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PARTE PRIMA
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Spaccanapoli
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In una tiepida serata di dicembre ebbi il privile-
gio di accompagnare don Emilio, o meglio di farmi
accompagnare da lui in una delle sue “’nzunzuliate”.
La prima tappa fu quella di via San Gregorio Arme-
no, la famosa stradina dei pastori di terracotta. C’ero
già stato una volta, e francamente trovavo bruttine
quelle statuette. Questa volta però era diverso: forse
per l’atmosfera prenatalizia, forse perché riuscii a
vederle nascere mentre prendevano forma e colore.
Infatti il mio loquace accompagnatore si fermò a
chiacchierare con uno di quegli artigiani e ci fu subi-
to uno scambio di battute, perché i due si conosce-
vano. Così quell’omino pelato dagli occhi vivacis-
simi ci diede un saggio della sua abilità, creando in
un batter d’occhio uno dei re magi, che don Emilio
chiamò imprudentemente “Melchiorre”:
«Don Emì, ma che dite? Mi meraviglio di voi.
Non lo vedete che è Baldassarre?»
«Avete ragione, ma nel mio presepio quello che
si è rotta la capa è proprio Melchiorre. E che fa, chi
se ne accorge che non è lui? »
E così, risolta la questione e pagato il dovuto, si
portò via Baldassarre avvolto in un foglio di giorna-
le. Insomma non volle rinunciare a quella statuina
che era nata sotto i nostri occhi. Benché già insidiato
dai primi alberi di Natale, il presepe a Napoli era
ancora un culto incontrastato.
Poi proseguimmo il nostro giro e ci spostammo
oltre via Duomo. Qui vidi con sgomento che stava-
mo per infilarci in quella che già allora era una delle
strade più malfamate della città, via Forcella. Lui si
accorse della mia esitazione:
«Non vi preoccupate,» mi tranquillizzò, «qua mi
conoscono e nessuno si permette.» Intendeva dire
che nessuno mi avrebbe torto un capello.
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M’indicò quindi un giovane azzimato e arrogan-
te, il quale si agitava, vociava e si fingeva offeso per
un nonnulla, pur di farsi notare dalla bella sigarettaia
di contrabbando. La ragazza era circondata da un
gruppetto di giovani avventori che non lesinavano i
loro complimenti.
Vedendo avvicinarsi il sarto con la sua inconfon-
dibile andatura claudicante, gli fecero largo. Lui sor-
rise alla ragazza e le chiese: «La stessa marca che hai
dato a quel bel giovanotto.» E indicò il guappetto.
«Ma veramente quello lì non ha comprato nessu-
na sigaretta.»
«Possibile? Neanche sfuse? Ma allora che vuole
da te?»
L’allegra risata generale suonò per quel ragazzo
come un insopportabile schiaffo:
«Don Emì, avete ragione che siete voi!» modulò
a gran voce e con occhi sgranati ma non cattivi, che
mi facevano pensare all’attore Nino Taranto. Poi
lanciò agli altri uno sguardo sprezzante e si allonta-
nò.
Ero ancora un po’ inquieto.
Qui va precisata una distinzione. A Napoli il
“guappo” ha poco a che vedere con il camorrista.
Con lui condivide certamente la spavalderia, l’arro-
ganza e la voglia di stupire con le sue smargiassate,
ma di solito non è un violento, e se diventa assassino
è solo per via di un “incidente”. È piuttosto uno
spaccone e un prepotente, ma difficilmente ricorre al
coltello a serramanico e ancor meno alla pistola.
Oggi temo che le cose siano maledettamente cam-
biate in peggio e che il confine tra queste due figure
sia praticamente sparito. Allora no. E se poi, invece
che di un guappo si trattava di un guappariello,
come nel caso nostro, allora il profilo del giovane
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delinquente era ancora più sfumato e spesso inoffen-
sivo.
Una cosa non mi era chiara. Dai suoi precedenti
racconti avevo capito che don Emilio di solito si
limitava a respirare quegli odori familiari e lasciava
che le voci si confondessero in una sorta di sinfonia
plebea, mescolandosi con i pensieri e le fantasie che
sempre gli tenevano compagnia. Del resto anche ora
vedevo che lui, con il pretesto d’interessarsene, in-
dugiava accanto ai banchini dei venditori di cianfru-
saglie seduti accanto all’uscio di casa. A volte, nel-
l’intreccio di battute variopinte, lo vedevo invece
attento all’espressione assorta di un bambino. Ce
n’erano tanti in giro, ma non mi ero mai accorto del
loro sguardo da adulto.
Insomma, pur riconoscendosi parte in causa, ra-
ramente il sarto interpretava un ruolo attivo. Quando
però decideva di partecipare al gioco, si sentiva del
tutto a proprio agio e anzi provava un piacere sottile
nel gareggiare, non importava se con le arguzie del
pizzaiolo o con le spavalde sfuriate del guappetto di
quartiere.
Poco più avanti, il mio accompagnatore si fermò
davanti al banco di una friggitoria aperta sulla strada
e m’invitò a gustare un calzone appena sfornato, di
quelli farciti di sola ricotta o di verdura. Assaporan-
dolo, gli dissi che lo trovavo più buono di quelli
mangiati in altre zone della città.
«E si capisce,» mi rimproverò quasi offeso, «ma
volete mettere come lo fanno ai Tribunali?»
Via dei Tribunali, quella della sua bottega. Il suo
amore per questo quartiere era sconfinato. Per lui
anche un panzarotto confezionato dal friggitore di
fiducia diventava una prelibatezza unica e inimitabi-
le. Il suo percorso abituale, del quale avevo avuto
appena un assaggino, era quasi sempre lo stesso; ma
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gli scenari umani che lo riempivano, i giochi e le
fantasie, i pensieri e le tristezze, cambiavano ogni
volta.
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«Davvero, l’ha mandata via per restare sola con
voi? No!!»
Questo piccolo urlo era come un richiamo con-
venuto. Il sarto infatti si disinteressava della replica e
tendeva l’orecchio verso la porta che comunicava
con la camera attigua. Quella porta era ovviamente
chiusa, ma dalle sue fessure si sentiva ogni cosa. Ed
ecco l’atteso commento del cavaliere pensionato:
«Don Emì, all’anema d’a palla! L’avete detta
grossa.»
Era il segnale d’inizio di una breve recita a sog-
getto:
«Cavalié,» cantilenava lui pregustando il duetto e
coinvolgendoci con i suoi ammiccamenti, «nun me
vulite chiù bene, a me! Non mi volete più bene!»
«Non è vero, non è vero,» rispondeva l’altro in-
variabilmente, strascicando anche lui le parole in una
dolce nenia. «Come non vi voglio bene? »
«E allora stasera me lo imprestate il panama?»
Era l’inseparabile cappello di paglia demodé e un
po’ sdrucito, che il cavaliere indossava con piglio da
gran signore.
«Io ve lo impresterei pure, ma se mi fate almeno
la finezza di dirmi a che vi serve.»
Ero deliziato da quelle forme popolari e raffinate
insieme. Senza dire dell’arguzia delle battute, e della
fantasia.
«Voi non sapete niente, cavalié,» il sarto lo pro-
vocava pur sapendo che l’altro non avrebbe mai ab-
boccato, «stasera io tengo un convegno amoroso!»
«‘O vero? E con chi, di grazia?»
«Con una bellissima signora, cavalié, che è la
fine del mondo! Voi dovreste vederla; e poi, altro che
il vostro panama…»
«Embè, spiegatemi una cosa, ma a che vi serve il
panama: voi l’amore lo fate con il cappello?»
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Accusando divertito la stoccatina del cavaliere, il
sarto non si perdeva d’animo:
«E se poi quella mi vede scaruso» (col capo sco-
perto) «e mi respinge, voi la tenete la coscienza?»
Era come dire che la colpa dell’insuccesso e il
conseguente rimorso avrebbero pesato sulla coscien-
za dell’anziano inquilino.
«Ah, se è per questo...» ribatteva l’altro tenendosi
nel vago.
Sempre più esilarante, la scenetta di avanspet-
tacolo poteva durare un bel po’, finché il sipario
si chiudeva come si era aperto:
«Sentite, cavalié...»
«Ditemi, don Emì.»
«Vuie nun me vulite chiù bene, a me!»
«Non è vero, non è vero...»
Un godimento che avrebbe meritato l’applauso,
se questo non fosse stato stonato e forse sgradito ai
due protagonisti. Perché a Napoli la gente ama reci-
tare, ma a patto di essere presa sul serio.
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Port’Alba
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bilmente «eccezionale». Non ci facevo caso: lui ne
avrebbe trangugiato teglie intere senza quasi avver-
tirne il sapore. Quell’aggettivo lo usava tutte le volte
che assaporava qualcosa di diverso dal riso con i
fagioli, la sua pietanza preferita.
Della pizza di Port’Alba ricordo perfettamente
non soltanto il gusto, ma anche l’odore fresco di
pomodoro, la foglia di basilico e la giusta consisten-
za della pasta lievitata. E i gesti sapienti del pizzaio-
lo, che terminavano col movimento elicoidale del
bricco dell’olio prima d’infilare la pala nel forno.
Certi sapori si attaccano alle pareti della memoria
e non vanno più via. In giro per l’Italia e per il mon-
do, posso aver assaggiato forse di meglio della sfo-
gliatella o del babà o di altri dolciumi e cibi tipici di
quella città. Però nessun sapore mi ritorna subito al
palato come quelli, a meno che riesca ad associarlo a
vicende straordinarie o a momenti speciali.
Sempre sulla breve stradina di Port’Alba si affac-
ciava tra l’altro l’antico teatro “Bellini”, già allora
decaduto al rango di cinema di terz’ordine, malgrado
le sue poltroncine di velluto rosso, gli stucchi dorati
e i vari ordini di palchi. Quasi mai riuscivo a mettere
insieme il denaro per il biglietto, quello più econo-
mico previsto per il loggione.
Finalmente un pomeriggio, dando fondo ai miei
scarsi risparmi del mese e all’ancora più scarsa espe-
rienza nei rapporti con le ragazze, convinsi una mo-
rettina recalcitrante che continuava a ripetermi la
solita bugia: «Quel film l’ho già visto.» Così, con la
complicità del buio della sala, riuscii a strapparle un
bacio sconclusionato e poco di più. Non fu l’inizio di
una storia. Anzi da quel giorno, non so come, all’u-
scita di scuola cominciammo a evitarci. Lei mi guar-
dava appena con la coda dell’occhio e tirava dritto,
io fingevo di rincorrere un compagno chiamandolo
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con voce troppo alta: eravamo un po’ come due ladri
maldestri che, non essendo riusciti a fare il colpo, ora
se ne vergognavano… come ladri!
Insomma quella stretta volta che collega piazza
Bellini con piazza Dante era il nostro più vicino pun-
to di ritrovo. Oggi, a distanza di una vita, il nome di
Port’Alba vale per me quasi la sintesi dei miei studi
liceali.
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ro che Dante, fra tutte le altre lingue, avrebbe scelto
quella napoletana.»
Per la sua musicalità, disse, ma anche per la rara
capacità di esprimere sfumature, atmosfere, stati
d’animo. Non so se avesse proprio ragione, eppure
l’idea m’intrigava e m’inorgogliva. Provai a strap-
pargli qualche esempio.
«Prendete, fra tanti, questo verso sublime: “E vidi
il tremolar della marina”. È perfetto, uno dei più
mirabili della poesia universale. Ora provate a tra-
durlo in un’altra lingua, ammesso che ne conosciate
almeno una…» precisò con perfidia. «Ebbene, non
vi ritroverete mai l’incanto, la suggestione e la perfe-
zione di quel verso. Farei un’eccezione, ripeto, solo
per il napoletano... (Pausa): “E ‘o viento pazziava
mmiezo all’onne”. Non è la stessa cosa, ma rende
l’idea e forse riproduce l’incanto, almeno in parte.»
E restava così sospeso con il braccio a mezz’aria,
quasi in ascolto di una flebile eco lontana.
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«Veramente più volte appaion cose / che danno a
dubitar falsa matera, / per la vera cagion che son
nascose.»
Non mi diede il tempo di assaporare la mia ven-
detta. Mentre arrossivo violentemente, mi strinse la
mano con insospettato vigore. Volle accompagnarmi
a un bar di Port’Alba, lì a due passi, per offrirmi un
caffè.
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In quell’antico liceo c’era fra tutti un personaggio
di quelli che al solo nominarli ti strappano un sorri-
so. Insegnava matematica e fisica ed era un soggetto
singolare per davvero. Un omino fragile con occhi
nerissimi sfuggenti, capelli rasati da frate, fisico mi-
nuto, abitino liso sul grigio talpa. Immutabile. Aveva
il sorriso e l’ingenuità di un bambino e la timidezza
scontrosa di un anacoreta.
Viveva il piccolo dramma quotidiano di quel tipo
di docente che sa di padroneggiare la propria disci-
plina, ma ogni giorno si accorge con terrore di non
essere in grado di rapportarsi con gli allievi nel
modo giusto, o almeno compatibile con una situa-
zione disciplinare che non vada del tutto fuori con-
trollo. Lui ne era drammaticamente consapevole, e
doveva soffrirne molto.
I suoi studi sul calcolo infinitesimale erano cono-
sciuti anche all’estero, ma la sua capacità di coinvol-
gerci era praticamente nulla. A volte era come se
volesse scusarsi con noi per la sua inevitabile pre-
senza. Sicché per tenerci buoni («Almeno, nun facite
ammuina!», non fate chiasso, diceva con espressione
candida come una resa incondizionata) ricorreva a
rimedi illusori.
Uno di quelli da noi più attesi, per evitare almeno
quella volta le temute interrogazioni, era il gabinetto
scientifico. Vi ci accompagnava “per premio” e solo
dopo averci strappato la promessa di non scatenarci,
per l’appunto. L’aula era bella, attrezzata di tutto
punto e con banchi disposti ad anfiteatro che ci face-
vano sentire già universitari. Inutile dire che su quei
banchi poi succedeva di tutto, mentre quel poverino
si sbracciava in vani richiami e si affaccendava con i
suoi esperimenti che solo qualcuno riusciva a segui-
re. Io mai.
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Quando l’esperimento riusciva, il suo sorriso
beato proiettava su di noi l’innocenza di chi non è
mai uscito del tutto dalla propria infanzia.
Un giorno entrò con gli occhi che gli scintillava-
no, un sorrisino malizioso che gli stirava le labbra
sottili, e le mani congiunte dietro la schiena. Na-
scondeva qualcosa e ci sfidava a indovinare. Il gio-
chino non era nuovo, ma noi tutte le volte fingevamo
di entusiasmarci:
«È il diavoletto di Cartesio!»
«No, è il geopiano» provava un altro, pur sapen-
do che da un pezzo ci occupavamo invece della ro-
tazione dei piani, insomma di geometria solida.
«Macché, è un pallottoliere» sparava il solito
provocatore.
Finalmente il professore riusciva a placare le no-
stre voci che, come d’abitudine, cominciavano a
sovrastarlo:
«Ma che diamine, stiamo studiando l’ottica, no?
E allora…»
A questo punto, con gesto teatrale svelava il suo
piccolo mistero:
«Ecco qua, è un sistema di lenti. Ma attenzione,
non divergenti, ma con-ver-gen-ti! Insomma, nel suo
piccolo è il principio del cannocchiale astronomico:
vi sembra niente?»
E noi in coro, con feroce allegria:
«Oh, ‘o cannucchiale!»
Seguiva immancabile l’assedio stretto alla catte-
dra. Ancora una volta l’avevamo fatta franca: l’incu-
bo delle interrogazioni era rinviato.
Quando lo vedevo aggirarsi disperato nel breve
spazio tra la cattedra e la lavagna, simile a un doma-
tore inesperto circondato dalle sue belve inferocite,
ero dalla sua parte. Guardavo con disprezzo il com-
pagno dell’ultimo banco che aveva fatto appena de-
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collare l’ultimo aeroplanino di carta, mandandolo a
infilarsi tra le pagine del registro. Invece di arrab-
biarsi, il prof sembrava trattenere a stento un sorrisi-
no triste. Poi, nell’estremo tentativo di recuperare la
sua dignità offesa, lasciava partire la solita minaccia
collettiva:
«Vi mando tutti dal preside!» Come dire: – Mi
arrendo.
Nella valutazione era severissimo, e ne aveva
ogni buona ragione. Perciò, quando doveva assegna-
re i voti, era costretto a usare solamente i valori più
bassi: tra l’uno e il quattro, più raramente il cinque. A
questo inevitabile appiattimento cercava di porre
rimedio ricorrendo alle sfumature del “più”, del
“meno” e del “meno-meno”… La debolezza del
carattere lo induceva spesso a penosi patteggiamenti
con l’interessato. Era un lacrimevole tira e molla
(«Al massimo possiamo fare un “quattro meno-
meno”»), al termine del quale l’alunno interessato
poteva spuntare un voto leggermente più alto.
Se poi sapeva drammatizzare l’espressione del
proprio malcontento, – la qual cosa riusciva del tutto
naturale a un ragazzo che soffriva di epilessia – il
vantaggio poteva diventare cospicuo. Il comporta-
mento di questo mio compagno sfortunato e astuto
era inquietante Nel vedersi appioppare un due o un
tre, non esitava a rotolarsi per terra abbandonandosi
a convulsioni che era difficile stabilire fino a che
punto fossero finte. Fatto sta che il terrore si dipin-
geva allora sul volto del professore, mentre l’altro
riusciva pian piano a superare la crisi. E qualche
volta a rimediare un voto addirittura vicino alla so-
glia della sufficienza.
Ma c’era di peggio. Qualcuno non esitava a spe-
culare sulle pratiche religiose del nostro e, sicuro di
trovarlo in preghiera nella chiesa del Gesù Nuovo
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prima dell’inizio delle lezioni, ricorreva all’ignobile
trucco di farsi vedere in ginocchio qualche banco più
in là, se non proprio accanto a lui.
Bigotto? Non lo so. Sicuramente un uomo debole
e solo.
Mi capitava di pensare alla sua vita privata, a
quella di famiglia: era scapolo, ma avrà avuto una
madre, una sorella. Me lo figuravo intento ai suoi
calcoli infinitesimali, mentre qualcuno lo chiamava
per la cena. Lo vedevo scarabocchiare formule dap-
pertutto e trotterellare da una stanza all’altra in cerca
di quella giusta. E immaginavo la sua espressione
infantile di giubilo, una volta riuscito nell’impresa.
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La sbandata
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Avevo appena diciassette anni, quando m’iscrissi
all’università. La crisi del dopoguerra mordeva an-
cora e, per far quadrare i nostri conti, s’imponeva la
scelta di una pensione più economica: anche a costo
di uscire dal perimetro di Spaccanapoli, però esclu-
dendo i malinconici quartieri della periferia.
Dopo una ricerca laboriosa condotta assieme a
due fratelli foggiani coi quali avremmo condiviso la
camera, alla fine ne trovammo una che ci sembrò
adatta alle nostre esigenze. Era una bella stanza am-
pia e luminosa. Si trovava al vico Paradiso, alle spal-
le e alla sommità dei malfamati quartieri spagnoli,
ma in una zona relativamente tranquilla. Per arrivar-
ci senza problemi, conveniva affrontare la faticosa
salita di una scalinatella longa longa come quella
della canzone di Murolo.
Secondo me, il nome della stradina era dovu-
to al fatto che quel difficile avaro paradiso biso-
gnava proprio guadagnarselo: quasi duecento
gradini che partivano di fianco alla stazione della
funicolare, nei pressi della centralissima via To-
ledo. Unica possibilità di accesso per chi non
voleva avventurarsi negli insicuri meandri dei
“quartieri”. Non a caso la zona d’appartenenza si
chiama Montecalvario, credo in ricordo di un’an-
tica Via Crucis. Una volta in cima, ecco il breve
vicolo pianeggiante e abbastanza silenzioso,
fiancheggiato su un lato dal muro altissimo e un
po’ tetro di un ospedale militare.
Proprio sull’angolo c’era l’ingresso di un palaz-
zotto decente di quattro piani senza ascensore. Il
nostro piano, guarda caso, era l’ultimo. Camera spa-
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ziosa e pulita come tutto l’appartamento, anche se i
quattro lettini la trasformavano in una corsia d’ospe-
dale. La proprietaria era una signora occhialuta, alta
e dinoccolata. Il prezzo accessibile. Per qualche
mese si poteva provare.
Il maggiore dei due fratelli di Foggia (molti ra-
gazzi pugliesi frequentavano a Napoli quella che era
l’unica grande università del Meridione), scuro e
tracagnotto, viso schiacciato e voce un po’ nasale,
era un tipo taciturno e solitario. Concentrato nello
studio, anche perché doveva recuperare alcuni esami
dell’arduo biennio d’ingegneria. Quando ci rivolge-
va la parola lo faceva come risvegliandosi dal torpo-
re. A volte del tutto imprevedibilmente si lasciava
andare a qualche battuta sconcia, che secondo lui gli
avrebbe fatto perdonare i lunghi silenzi.
L’altro invece era di aspetto gradevole e di carat-
tere socievole. Sorrideva, piaceva alle ragazze e ave-
va una giacca sportiva a quadri rossicci con le toppe
di pelle sui gomiti. Quando la indossava, almeno a
me erano chiare le sue intenzioni. Più che un capo di
abbigliamento, quella giacca era un vessillo. Un se-
gnale di battaglia. Questo studente di matematica si
chiamava Lino e aveva il gusto dell’autoironia.
Dal balconcino della nostra camera, che quasi si
toccava con quello del palazzo adiacente, potevamo
parlare (a turno) con due belle ragazze. La più picco-
la era mora e spiritosa, aveva i capelli pettinati a
coda di cavallo e parlava con il mio fratello minore,
fitto fitto e per ore intere. L’altra aveva i capelli ra-
mati, la bocca un po’ larga e l’assoluta certezza di
somigliare all’attrice Rita Hayworth, come qualcuno
le aveva assicurato. Parlava con me sottovoce, ma
ogni tanto rideva forte e gettava all’indietro la chio-
ma fulva.
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Una sera riuscii a portarla con me al Castel del-
l’Ovo, dove il circolo canottieri aveva inaugurato
una pista da ballo. Accettò con entusiasmo perché il
ballo era la sua grande passione. Il suo difficile mo-
dello non poteva che essere Gilda, la conturbante
protagonista del film che in quei giorni continuava a
fare cassetta in tutte le sale. Durante la danza assu-
meva pose fatali e si girava intorno per vedere l’ef-
fetto. Che era mediocre.
Ballammo fino allo sfinimento. Finalmente riu-
scii ad appartarmi con lei su una delle stupende ter-
razze affacciate sul golfo. Laggiù in basso il mare
luccicava fiottando tra le barche ormeggiate, mentre
l’occhio spaziava fino al capo di Posillipo e dinanzi
a noi si stagliava netto il profilo di Capri. Lei ammu-
tolì d’un tratto intenerita, e si lasciò baciare. Dopo
due minuti però volle tornare al centro della pista,
dove già le coppie volteggiavano nell’ennesimo tan-
go argentino.
Capii che quella relazione non aveva futuro.
!65
Ci capitava qualche volta di passare per le strade
ripide e scivolose dei quartieri spagnoli (degradati,
ma non ancora consegnati come oggi al traffico di
droga e alla violenza omicida) per vedere un film in
un cinema di terza categoria. C’erano qua e là le
insegne appariscenti di quei ritrovi dell’amore prez-
zolato che non erano stati ancora chiusi dalla legge
Merlin. Ne sentivo parlare dai ragazzi più grandi, ma
le loro vanterie accompagnate da risatine e sconcez-
ze goliardiche, anziché stuzzicare curiosità e deside-
ri, provocavano in me un’inconfessata repulsione
che sfiorava il panico.
Un giorno decidemmo di saltare il fosso. Sce-
gliemmo un’ora di mattina, quando la gente è più
indaffarata e distratta. Lino era teso e perplesso
quanto me. Salimmo una rampa di scale ed entram-
mo con circospezione. Avevo immaginato un luogo
affollato e forse rumoroso, non una tranquilla sala
d’attesa colorata e pacchiana. Era semivuota e quasi
ovattata, a quell’ora del mattino.
Ci mettemmo a sedere proprio di fronte al banco
della maîtresse, una signora grassoccia dai modi
gentili, che quando inforcava gli occhiali per leggere
assumeva l’aspetto di una segretaria d’azienda.
Quando entrarono le prime ragazze seminude, ci
guardammo l’un l’altro con un sorrisino che non
riusciva a nascondere la trepidazione.
Lino fu il primo a decidersi. Lo vidi inerpicarsi su
per una scala stretta e tappezzata di specchi, prece-
duto da una donnina molto più alta di lui, complici i
tacchi a spillo. Dopo i primi scalini, il mio amico si
girò verso di me con uno sguardo smarrito che si
sforzava di apparire spavaldo.
Da quella stessa scala discese una sorta di carica-
tura dell’allegoria della Primavera di Botticelli, una
giovane ragazza con biondi capelli, vestita (si fa per
!66
dire) con un tulle rosa ricamato a fiori e stelline. Era
di media statura, né bella né brutta, occhi azzurrini
pesantemente listati di blu, piccoli seni e mani sottili.
Venne a sedersi al posto lasciato da Lino accanto a
me e mi rivolse un sorriso interrogativo senza aprir
bocca. Le risposi con un piccolo cenno d’intesa. Lei
mi prese per mano come un bambino e salimmo alla
sua camera.
Mi mise subito a mio agio. Aveva capito che si
trattava della mia prima volta e non fu né volgare né
leziosa. Evitando atteggiamenti protettivi, mi diede
l’illusione di un rapporto vero. Visto che glielo chie-
devo, mi disse di essere la seconda di otto tra fratelli
e sorelle. Basta, nessun racconto di povertà o di co-
strizioni. Aveva la voce un po’ roca e un marcato
accento puteolano. Mentre mi riaccompagnava giù
per le scale, mi disse con un breve sorriso: «Che te
crerive, », che credevi, «è ‘na cosa ‘e niente.» La-
sciandomi così l’impressione di uscire dallo studio di
un dentista.
Non ci fu una seconda volta. Ma a quella ragazza
che lavorava tutto il giorno dietro le persiane chiuse
devo il merito di avermi introdotto ai misteri di Ve-
nere con tranquilla delicatezza.
In quei giorni di smarrimento della “diritta via”,
la nostra meta preferita era il quartiere collinare del
Vomero, anche perché ci si arrivava in un attimo con
la funicolare. Era allora una zona signorile e quieta,
non ancora infestata come le altre dalla voracità della
camorra, che ad ogni modo in quegli anni del dopo-
guerra aveva un volto più discreto e assai meno per-
vasivo e violento di quello attuale. L’ineffabile sarto
don Emilio, che come pochi conosceva uomini e
fatti della sua città, mi raccontò di un suo amico del
Vomero costretto a vendere «per una miseria» la sua
piccola trattoria. Aveva dovuto cederla a certi indivi-
!67
dui che per anni lo avevano «messo in croce» con la
pretesa del pizzo. Ne era scandalizzato. Poteva anco-
ra indignarsene.
Fu lassù che m’innamorai della collina di Ca-
maldoli. Spesso Lino ed io, ormai coppia di ferro,
c’incontravamo con i nostri nuovi amici in piazza
Medaglie d’oro. Eravamo un gruppetto ben assortito
tra maschi e femmine, di solito otto in tutto compresi
noi due. Delle quattro ragazze, due “toccavano” a
noi, ma non sempre le stesse, nel senso che ogni
volta ne subentrava qualcuna nuova. Il gruppo ruo-
tava intorno a un capo incontrastato, che era il figlio
di un noto camiciaio di via Chiaia. Questo ragazzo
vantava buone conoscenze ed era l’unico a fare cop-
pia fissa con un’attricetta di fotoromanzi che si dava
molte arie.
La meta abituale era quella collina sormontata da
una certosa e affollata da un verde procace con pic-
cole radure assolate e improvvisi squarci da capogiro
a strapiombo sul mare. In questo eden ci si sparpa-
gliava, ogni coppietta alla ricerca dell’angolo più
adatto. La situazione poteva vagamente ricordare la
cosiddetta “cornice” del Decameron. Con la sostan-
ziale differenza che la nostra lieta brigata non si era
organizzata né per sfuggire alla peste, né per raccon-
tare novelle piccanti.
Mai come su quei declivi erbosi, ho ascoltato e
pronunciato - con sincerità - parole innocenti di eter-
no amore, che si rinnovavano ogni sera. Però tra
partner diversi! Quelle ardenti fanciulle appena ado-
lescenti potevano sembrare ragazze fin troppo disin-
volte per quei tempi, eppure ognuna di esse era alla
ricerca di una difficile anima gemella. Lino ed io
cercavamo ad ogni modo di non deluderle con le
nostre prime performance, che dovevano peraltro
rispettare limiti invalicabili.
!68
A un bel momento però questa sorta di balletto
cotillon ebbe un arresto improvviso. Ed io rimasi
saldato con una di queste ragazze, come in un foto-
gramma. Si chiamava Anna, aveva occhi nerissimi e
un viso triste che a tratti s’illuminava in un sorriso
che mi scioglieva il sangue. Provai a dirle che non
riuscivo più a vivere senza di lei, ma non mi prese
sul serio. Intanto cominciavo a soffrire.
C’incontrammo ancora una volta, sempre in quel
posto magico che ci eravamo ritagliati in faccia al
mare, e ci sorprendemmo con gli occhi lucidi e il
cuore in ebollizione. Il remoto galleggiare delle isole
ci faceva sognare e quel rappreso scintillio azzurro in
fondo allo strapiombo ci dava le vertigini. Il viso di
quella fanciulla aveva cancellato tutti gli altri. Senti-
vo di amarla, ed era un sentimento nuovo che mi
divorava.
D’improvviso lei sembrò aver freddo e mi strinse
forte, nascondendo il viso perché non la vedessi
piangere. Gli altri erano andati già via, quando si
alzò di scatto e disse ridendo: «Sai qual è il guaio?
Qui è troppo bello.»
Il giorno dopo non venne, e nemmeno quello
successivo. Non la vidi più.
Seppi dal figlio del camiciaio che il padre della
ragazza e di altri due fratelli più piccoli di lei aveva
avuto un improvviso tracollo finanziario, che lo
aveva costretto a chiudere definitivamente il mode-
sto ma ben avviato negozio di guantaio e a trasferirsi
in un’altra città. Non sapeva quale o non volle dir-
melo. Sentii puzzo di bruciato, ma ero in uno stato
confusionale che m’impediva di pensare.
Solo più tardi mi fu chiaro che, in quella brutta
faccenda che aveva interrotto il mio sogno, c’era
l’ombra rivoltante della camorra. Ed ebbi un buon
motivo per odiarla più di altri.
!69
Quando alla fine mi ripresi dal colpaccio e riuscii
a rimettermi in piedi sulle mie gambe, vidi in fondo
a quel tunnel un varco luminoso e mi ci buttai
d’istinto. Per ritrovare la via smarrita, non vidi nulla
di meglio che tuffarmi disperatamente sui libri. Do-
vevo pur rimettermi in pari con gli esami arretrati.
L’esperienza movimentata del vico Paradiso era un
capitolo chiuso. Definitivamente.
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Il cortile del Salvatore
***
!75
***
!76
lacuna. La traduzione dei brani la trovate in nota, ma
dovete almeno imparare la pronuncia.»
Tra i miei colleghi di corso ce n’era uno dall’aria
un po’ trasognata. Appena seppi che conosceva il
tedesco, cominciai a circuirlo proponendogli di stu-
diare insieme per quell’esame. L’idea non gli di-
spiacque e mi assicurò che potevamo trovarci senza
problemi a casa sua, in via Santa Brigida, a pochi
passi dal teatro dell’opera e dal mare.
Sottile e diritto come un giunco, questo ragazzo
dalla carnagione bianchissima si chiamava Roberto,
ma cominciai a chiamarlo scherzosamente «Signori-
no», come faceva il portiere del suo palazzo tutte le
volte che lo vedeva entrare o uscire: «Buongiorno,
signurì». Qualche volta l’omino in livrea usciva ap-
positamente dalla guardiola e accompagnava il salu-
to con un breve inchino. Il mio amico si schermiva
abbozzando a sua volta un profondo inchino scher-
zoso alla moschettiere del re, la mano sul cuore:
«Buongiorno, don Antò, sapete se papà è tornato?»
Il padre era un alto magistrato e aveva sposato
una nobildonna. Era anche un appassionato di musi-
ca e, saputo del nostro esame, ci confermò che il
cartellone della stagione del San Carlo prevedeva tra
l’altro un’opera di Wagner: L’oro del Reno, dalla
tetralogia della saga dei Nibelunghi. Sarebbe andata
in scena di lì a una decina di giorni e lui poteva pro-
curarci due biglietti d’ingresso gratuito. Un’ottima
ragione per accelerare i tempi del nostro studio.
Quell’attico al sesto piano aveva una mansardina
che era appunto il rifugio preferito dal mio amico..
Quando puntualmente arrivavo subito dopo pranzo,
lì c’installavamo tranquilli e indisturbati. Prima di
salire, salutavo il portinaio appisolato dietro il suo
finestrino. «L’ascensore è in fondo a destra» conti-
nuava a ripetermi con sollecitudine don Antonio,
!77
benché non vi fosse più alcun bisogno di quella in-
formazione.
In contrasto con l’aspetto lussuoso del vasto ap-
partamento arredato con pezzi d’antiquariato, la
mansarda aveva un’aria bohémienne sicuramente
voluta da Roberto. Dalle finestre basse si vedeva
troneggiare il Maschio Angioino e si scorgeva più in
là la darsena con i suoi moli e le navi che incrocia-
vano al largo. Per difenderci dal caldo già vigoroso,
ci bastava socchiudere le piccole persiane lasciando
filtrare l’aria proveniente dal mare. Un refrigerio
delizioso che ci aiutava a digerire le consonanti aspi-
rate di quella lingua ostica.
E venne il giorno dell’opera. Avevamo più o
meno portato a termine il nostro lavoro e il mio im-
probabile tedesco era quel che era. Riuscivo però a
leggerlo con una pronuncia così aspra ed enfatica, da
far pensare al mio amico di voler fare la caricatura di
Hitler.
Il teatro mi fece un’impressione enorme. Occu-
pavamo un palco laterale di seconda fila. Lo splen-
dore della sala, l’oro degli stucchi e il rosso dei vel-
luti, gli accordi sommessi eppure nitidi che proveni-
vano dalla buca dell’orchestra, gli strumenti che po-
tevo osservare e distinguere uno per uno, e poi quel-
l’atmosfera ovattata e raccolta già prima che inizias-
se lo spettacolo, tutto questo mi dava una sorta di
piacevole stordimento. Ero sospeso in una dimen-
sione nuova.
Poi la lenta apertura del sipario e l’insospettato
dilatarsi del proscenio, i coloratissimi fondali, gli
effetti di luce, i costumi e la suggestione di mondi
fantastici. Ed ecco le prime note quasi evocate dal
nulla, un lungo brusio indistinto, poi i prolungati
arpeggi, quindi il salire dell’onda musicale, la su-
premazia degli ottoni sugli archi e il lungo echeggia-
!78
re del corno. Erano vibrazioni forti, una grande ani-
mazione e come un rimescolio drammatico degli
elementi della natura.
Eppure devo essere sincero. Sarà stata la notevo-
le lunghezza dell’opera, la mia giovane età, la scarsa
preparazione, o forse quella preoccupazione conti-
nua di dover riconoscere i famosi leitmotiv – i temi
dominanti puntigliosamente evidenziati nella mono-
grafia del nostro professore –, fatto sta che dopo
un’ora mi colse uno spaventoso cerchio alla testa.
Nell’intervallo lo confessai a Roberto. Anche lui era
eccitato e un po’ confuso.
Mi rimase dentro un mondo eroico popolato da
poderosi giganti e nani deformi, da dei maliziosi e
inaccessibili castelli, da spaventose caverne e fucine
sotterranee. Un mondo fiabesco e inquietante che mi
sospingeva indietro facendo riaffiorare certi sogni
agitati dell’infanzia, in mezzo alla foresta percossa
dal vento che ulula e piange.
«Qui di sicuro non abbiamo una Foresta Nera»
dissi, giusto per allontanare quei trasalimenti che
ancora percorrevano il silenzio della grande sala,
dove le luci gradatamente riaccese esaltavano la sce-
na mitologica affrescata nel tondo del soffitto.
«No, ma abbiamo il Lago d’Averno» ribatté Ro-
berto con espressione assorta «e abbiamo l’antro
della Sibilla, e le esalazioni sulfuree dei Campi Fle-
grei…»
«Già, dove hanno girato l’ultimo film di Totò!»
Lo smontai con questa battuta. «Ma ti rendi conto,
dove sono gli eroi? E dove mai tu senti il fragore
degli elementi della natura e l’echeggiare del corno?
Qui al massimo puoi sentire il canto delle sirene»
conclusi ridendo.
«E ti sembra poco?» Il mio amico rise anche lui,
pacificato.
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Insomma niente Foresta Nera, ma ci andava be-
none.
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***
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Parole e musica
!87
Per farsi perdonare quell’inflessione “forestiera”,
precisò subito che sua madre era napoletana, ma che
aveva dovuto lasciare la città quando lui era ancora
piccolo, per seguire al nord il marito ufficiale di car-
riera. Morti tutti e due. Tutto qui. Dopo una piccola
pausa, guardando distrattamente le pareti a fiorellini,
dichiarò:
«Mi occupo di musica...» E vedendomi aggrotta-
re la fronte: «Nessun problema, non ho qui un piano-
forte ma soltanto questa chitarra classica. La suono
un po’ di sera, non vi darà fastidio.»
Mi guardava con occhi furbi perché forse aveva
capito che la mia non era preoccupazione ma curio-
sità.
«Musica come, di che genere? Canti?» Non mi
sembrava il tipo del cantante, e nemmeno quello del
pianista di piano-bar.
«Beh, sono compositore di musica leggera. E ho
diretto anche qualche buona orchestra, ma questa è
acqua passata.»
Pronunciò quest’ultima frase quasi con fastidio.
Era reticente sui particolari e non volli insistere. Avrà
avuto i suoi buoni motivi per sorvolare sul proprio
passato, e in fondo ci si stava appena conoscendo.
***
***
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«Bepino,» con questo suo personale diminutivo
(con una sola p) s’informò una sera inopinatamente
l’amico musicista, «tu scrivi poesie?»
«No, e tu?» Arrossii violentemente, sentendomi
come frugare in un cassetto segreto.
«Beh, i miei versi servono a rivestire le note mu-
sicali. Diciamo che prima viene la musica, poi in
qualche modo le parole seguono una strada già aper-
ta dalle note.»
Fin dall’inizio Franco aveva capito che la mia
non era soltanto curiosità, ma qualcosa di più. «Se
t’interessa sapere come può nascere una canzone,»
propose con naturalezza, «un giorno possiamo anda-
re insieme alla Ricordi. Ti va l’idea?»
Usciva tutte le mattine prima delle nove per re-
carsi a quel negozio di strumenti musicali, dove gli
mettevano a disposizione un pianoforte di tipo verti-
cale in una stanzina appartata sul piano rialzato.
Non mi feci ripetere l’invito.
Appena entrati, ebbi una sensazione sgradevole.
Il gestore lo accolse con cortesia formale chiaman-
dolo «Maestro», ma mi sembrò di cogliere nello
sguardo di quell’uomo e nel tono della sua voce una
non so quale sufficienza. Il suo atteggiamento faceva
pensare a quello di un produttore cinematografico
!91
verso un attore decotto e fuori dal giro. Eppure il
mio amico era ancora molto giovane e componeva
qualche brano di successo. Non riuscivo a capire.
L’impiegata che ci accompagnò per aprire la stanza,
chiusa a chiave per qualche motivo, fu la sola a sor-
ridergli con simpatia.
Franco si mise subito al piano e dopo qualche
accordo mi disse che stava scrivendo una nuova
canzone.
«Però è una cosa particolare, non so come dirti,
una cosa nuova. Ci tengo molto.»
La musica era ormai già pronta, mancavano le
parole. Me la fece ascoltare. Era un valzer lento,
molto lento, e lui suonava con trasporto ma senza
enfasi. Accarezzava i tasti bianchi e neri, chiudeva
gli occhi e ogni tanto muoveva le labbra, ma riuscivo
a percepire appena qualche sillaba indistinta e addi-
rittura numeri, così mi parve.
Quel pezzo musicale era struggente. Mi sembra-
va una barcarola e glielo dissi: un dondolio notturno
in mezzo al mare, cadenzato dallo sciacquio della
risacca.
«Infatti» si limitò a rispondere trovando del tutto
naturale la mia impressione. «Ora il problema è
quello delle parole…»
Riprese quel suo canterellio indistinto e tormen-
toso fatto di sillabe e numeri, e questa volta capii che
cercava di dar forma e ritmo poetico alla prima stro-
fa musicale. Sulle prime note di quel valzer lentissi-
mo, ora lui bisbigliava distintamente:
«Cin-quan-ta-quat-tro / cin-quan-ta-cin-que... Se
almeno trovassi le parole dell’attacco... Tu che ne
dici?»
Mi sorpresi a canticchiare anch’io ma a bocca
chiusa, cullato da quegli accordi che ribadivano le
prime note con insistenza ossessiva. E sul dondolio
!92
dell’onda, che ora si allontanava ora si riavvicinava
come a voler dialogare, mi sentii pronunciare quasi
d’istinto, sullo stesso ritmo scandito da quei due nu-
meri:
«On-na che va-ie / on-na che vie-ne...»
«Bravo Bepino, sei un genio!» esagerò commos-
so. E ricantò più volte quel verso, sempre più con-
vinto: ‘Onda che vai, onda che vieni...’ Vi aggiunse
quasi subito il secondo, che gli venne facile e natura-
le: «...portala ‘nzuonno addu me». Era ormai un
fiume in piena. Nel giro di mezz’ora il testo della
canzone era già pronto. S’impuntò solo al ritornello,
che volle iniziare così: «’O mare s’è addurmuto...»
Mi guardava fiducioso aspettandosi un secondo
piccolo contributo. Che fu anche l’ultimo mio ex-
ploit:
«...’A luna s’è ‘ncantata...» pronunciai esitante.
Mi sorrise annuendo e canticchiò ancora, mentre
scriveva questo verso che gli consentì di andare fino
in fondo. Con grande scioltezza, ormai ispirato:
«Doje stelle so’ cadute / Dinto a ‘sta varca, ohi né /
Nun t’addurmì, ma siente / Tutta ‘a passione ‘e ‘sta
voce / Ch’è suspirosa e doce / E ‘a porta ‘ammore
addu te.»
Continuò ad accarezzare sulla tastiera le note
cullanti di quella barcarola, trasognato e felice come
può esserlo un ragazzo innamorato.
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Franco non mi diede il tempo di rimuginare que-
sti pensieri e tirò avanti con un sorrisino che comin-
ciava a irritarmi.
«Tra l’altro, Rea mi aveva consigliato di portare
dei cioccolatini con la ciliegia: il vecchio ne è golo-
sissimo. Così mi ha detto e così ho fatto. »
«Che fai, mi prendi in giro?» Mentre lo guardavo
con occhi sgranati e un po’ emozionato, lui assapo-
rava in silenzio la gran voglia di stupirmi. «Dai,
Franco, saresti stato davvero invitato al mitico salot-
to di Croce, o mi stai dicendo che lo hai sognato sta-
notte?»
«Che ti dicevo? Non puoi crederci. Ma non è
finita, la cosa più incredibile è un’altra. Lo sai, Bepi-
no? Gli è piaciuta!»
Capii al volo, ma ora mi sembrava di essere io, a
sognare. Così, un po’ per sdrammatizzare, un po’ per
non rischiare una gaffe imbarazzante per tutti e due,
chiesi con forzata disinvoltura:
«Varca lucente, o la scatola di cioccolatini?»
«Buona la prima!» e mi abbracciò.
«Allora, si può sapere cosa ti ha detto il vegliar-
do?»
«Guarda che ha superato gli ottanta, ma ha sem-
pre l’occhio che ti perfora. E ha il piglio sicuro del-
l’uomo che dà del tu alla storia, non so se mi spie-
go… Che mi ha detto? Pensa, ha detto che erano
anni che non gli capitava di sentire versi musicali
così appropriati... Anzi no, l’aggettivo che ha usato è
un altro: “congrui”. Non ho capito bene cosa inten-
desse, ma di sicuro approvava!»
Riprese ad andare avanti e indietro nel breve trat-
to di corridoio che separava la mia camera dalla sua.
Ansimava e gesticolava come un bimbo che abbia
appena visto Babbo Natale, quello vero.
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«Poi ha detto, figurati, che le parole e le cadenze
di questa canzone gli ricordavano qualcosa di Salva-
tore Di Giacomo, qualche movenza di “Ariette e
canzone nove”.»
«Addirittura! Ma l’hai anche suonata al pianofor-
te?»
«Certo, e alla fine ha detto: “Bravo. Però non
montarti la testa, guagliò, perché l’ispirazione poeti-
ca spesso è un fuoco di paglia.” Davanti a tutti. Mi
ha fatto avvampare.»
Raramente mi è capitato di vedere una persona
così felice. Franco continuava ad andare su e giù con
gli occhi lucidi, ripetendo ogni tanto come un bam-
bino: «Ma vi rendete conto? Don Benedetto, proprio
lui... »
Riandai col pensiero a quel palazzo Filomarino
nel quale Croce abitò per più di quarant’anni, pro-
prio sull’angolo della salita San Sebastiano, quella
del mio liceo. Vi passavo davanti tutti i giorni e a
volte alzavo gli occhi cercando d’individuare il bal-
cone dello studio del grande filosofo. La professo-
ressa di storia e filosofia, crociana accanita, un gior-
no ci lesse con voce commossa e un po’ roca le paro-
le d’introduzione alle Storie e leggende napoletane:
“Quando, levandomi dal tavolino m’affaccio al balco-
ne della mia stanza da studio,... mi grandeggia innanzi a
destra, e quasi mi pare di poterlo toccare con la mano, il
campanile di Santa Chiara... Di là del campanile, mi si
profila come in fuga il muro merlato dell’immenso mona-
stero... È dolce sentirsi chiusi nel grembo di queste vec-
chie fabbriche, vigilati e tutelati dai loro sembianti familia-
ri; quasi come il ritrovarsi nella casa dove vivemmo la
nostra infanzia...”
Ora capivo meglio le mie sensazioni, l’amore che
anch’io provavo per quei luoghi che mi fasciavano:
«chiusi nel grembo...» Benedetto Croce dunque,
affacciandosi al balcone di via Mariano Semmola, si
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sentiva protetto come un neonato. A chi, se non a lui,
poteva essere poi intitolata quella strada che corre
dalla piazza San Domenico a quella del Gesù Nuo-
vo, costeggiando il monastero di Santa Chiara?
Capivo bene la gioia incontenibile del mio amico
ed ero eccitato quanto lui, anche se riuscivo a con-
trollarmi meglio di lui. Più che una riabilitazione,
quel riconoscimento era la consacrazione poetica di
un musicista vero, di nome Francesco Saverio Man-
gieri.
!99
dover comunicare quel rifiuto, possibilmente senza
perdere un’amicizia.
Era fatta così: schietta e diretta.
Amava anche la pittura ed era molto attenta a
quella contemporanea. Lei stessa dipingeva. Cose
non spregevoli, ma non le piaceva esporle se non in
angoli appartati. Nella sua casa antica zeppa di libri,
ricordo tra tutte una parete tappezzata di quadri fino
al soffitto. Solo quella. «Tutti in regalo» mi spiegò
quasi difendendosi, perché non la scambiassi per una
collezionista. «Lo sa che una delle cose più difficili è
quella di rifiutare una “crosta” senza offendere il
donatore? Io ho trovato un modo semplice: dico di
non avere più spazio, ed è proprio vero.»
Anche quando fui lontano da Napoli, continuai
volentieri la mia collaborazione con quella rivista,
che piaceva molto ai giovani per l’ampio spazio ri-
servato all’attualità e all’arte. Domenico Rea, scritto-
re ormai affermato e autorevole, non esitò a definirla
«l’unica rivista letteraria degna di questo nome a
Napoli». Forse esagerava, però confermava la pro-
pria ammirazione per quella donna colta e raffinata.
In una lettera che conservo tra le cose care as-
sieme ai suoi libri, la vecchia poetessa mi confidò di
sentirsi molto stanca e ormai prossima al capolinea.
Ero già a Firenze da alcuni anni, perciò la lontananza
raddoppiò la mia tristezza. Su quel foglio sottile,
riempito con i suoi caratteri piccoli e un po’ incerti,
ogni tanto rileggo questa frase, che oggi trovo insop-
portabilmente vera. Testuale:
«Amico mio, non rinvii troppo le cose che ha da
dire. Prima di quanto si creda, viene il tempo in cui
non se ne ha più la forza, quella fisica.»
Se continuo a riempire queste pagine, lo devo
anche alla spinta affettuosa e brutale di questa verità.
!100
!101
Dal mondo dei fumetti alla
corte angioina
!102
Di Nello Ajello mi piaceva il modo intelligente e
forse istintivo di sottrarsi a ogni forma di retorica. La
sua voce leggermente rauca e impastata d’ironia mi
sembrava la più adatta ad uno che aveva bisogno
come me di tener le cose a debita distanza di sicu-
rezza, per non correre il rischio di prenderle troppo
sul serio.
A volte ero io ad andare a casa sua. Abitava nei
pressi di piazza dei Martiri, alla confluenza di due
strade “in” della Napoli-bene. Nel nostro ambiente
goliardico aveva preso piede un’irragionevole diffi-
denza nei confronti di quelli che vivevano in zone
aristocratiche. Un po’ di colpa ce l’aveva una stupida
canzonetta allora di moda, che faceva così: «Sci-sci,
piazza dei Martiri, la piazza dei gagà...». Oltre tutto,
a due passi dal mare.
Ma l’amicizia con Nello fu a suo modo, e almeno
per me, una cosa seria. Leggevamo le nostre deboli
prove poetiche e ciascuno dei due rimaneva in attesa
dell’impressione suscitata nell’altro. Importante
come il parere di un esperto. Alla passionalità dei
miei versi ruspanti faceva riscontro l’ermetismo ra-
refatto dei suoi, così finivamo per gratificarci l’un
l’altro definendoci «complementari». Che non vole-
va dir nulla, ma almeno ci autorizzava ad andare
avanti.
Il mio amico aveva allora un fisico in apparenza
gracile e un’epidermide lattiginosa, che per lui di-
ventava un alibi per migrare verso il mare tutte le
volte che poteva. «L’abbronzatura,» diceva convinto,
«mi dà l’illusione del benessere.» Mai le vacanze
insieme, noi due. Perché lui poteva permettersi le
isole, mentre io mi accontentavo di fare il pendolare
tra i vicoli di Spaccanapoli e gli scogli di Posillipo o
Coroglio. Da Ischia – forse per farsi perdonare i suoi
privilegi – mi mandava qualche cartolina spiritosa
!103
con anagrammi e rebus che facevo fatica a risolvere,
ma in compenso alla fine ridevo.
Studiammo insieme per preparare qualche esa-
me. All’inizio fu difficile conciliare i nostri metodi di
lavoro, che erano alquanto dissimili. Io preferivo
leggere tutto quasi d’un fiato, e poi riprendere i sin-
goli punti per i necessari chiarimenti o approfondi-
menti. Lui invece, appena ci s’imbatteva in un pro-
blema o in un passaggio oscuro, sentiva indifferibile
il bisogno di vederci chiaro e si decideva ad andare
avanti solo quando la questione poteva considerarsi
sviscerata. Per di più, ciò che a lui sembrava eviden-
te non lo era per me e viceversa. In pratica eravamo
“metodologicamente incompatibili”.
Ci accordammo sulla base di un onorevole com-
promesso: saremmo andati avanti senza interruzioni,
però lui avrebbe annotato via via i punti controversi
da riprendere alla fine. In effetti cosa accadeva? Che
lui si metteva subito a rimuginare quei passaggi,
mentre io proseguivo la lettura per conto mio. Ogni
tanto provavamo a ragguagliarci e alla fine, non so
come, ci s’intendeva sempre.
!104
Insomma eravamo alla vigilia di una prova tutto
sommato decisiva. Bene o male, la laurea era il co-
ronamento dei nostri studi. Glielo dissi con parole
gravi e toni da precettore indignato, ma l’unico risul-
tato fu quello di accrescere il suo buonumore. Si
divertì per un po’ a sentirmi smaniare, poi con sere-
nità olimpica mi annunciò:
«Ma questa, mio caro, è la mia probabile tesi di
laurea: “Storia e forme del fumetto italiano dalle
origini ai nostri giorni”. Vuoi che non mi
documenti?» Dicendo «probabile» si era riservato, si
capisce, il diritto di cambiare cavallo in corsa.
Solo allora guardai con più attenzione quel dilu-
vio di giornalini e riconobbi le copertine della mia
infanzia: “Il Vittorioso”, “Intrepido”, gli immortali
“Topolino” e “Corriere dei piccoli”, e poi
“Diabolik”, “L’Uomo mascherato” e cento altri ac-
catastati alla rinfusa in un gioioso e coloratissimo
revival. Un tripudio della memoria e un inno alla
fantasia.
Oggi Nello Ajello, che è stato un giornalista e
saggista molto apprezzato, condirettore di un noto
settimanale ed editorialista di una delle principali
testate italiane, ha chiuso prima di me la sua espe-
rienza terrena. Se mai un giorno gli capitasse lassù di
leggere questa pagina, probabilmente direbbe: «Ma-
gari il giornalismo “serio” sapesse trarre vantaggio
dalla lezione del fumetto! Per ora gli unici ad averla
capita sono i vignettisti satirici, voglio dire quelli
bravi.»
In realtà Nello non discusse mai quella tesi di
laurea sui fumetti, perché ad un certo punto cambiò
idea e optò per Aldo Palazzeschi.
Quando seppi di questa sua scelta, mi parve del
tutto naturale e congeniale. Quel poeta fuori dagli
schemi (e troppo bonario per essere un
!105
“Incendiario”, come pretenderebbe il titolo di quella
sua raccolta) mi fece pensare subito alla poesia che
termina col verso E lasciatemi divertire!
***
!106
***
!108
Quando riuscii a conquistarne l’amicizia e la
confidenza, capii che la sua città e il padre rimasto
lassù gli mancavano terribilmente. Sua madre inve-
ce, una popolana del Borgo San Frediano dall’ince-
dere e dai modi eleganti e quasi aristocratici, gli era
sempre rimasta accanto. I suoi frequenti battibecchi
col figlio svelavano una favella deliziosa, dove un
orecchio esperto avrebbe potuto cogliere la cadenza
versiliese che la donna aveva ereditato dai genitori di
Pietrasanta.
Pungolato dunque dalle mie domande sempre
più insistenti, Francesco mi raccontò a modo suo i
luoghi meravigliosi, le suggestioni e le emozioni
della sua infanzia trascorsa di là d’Arno. Fu allora
che sentii nascere dentro di me qualcosa che andava
ben oltre la curiosità.
Un bel giorno, quasi inatteso, arrivò il padre da
Firenze. Per portarli finalmente via, lui e la sua
mamma. Ero felice per lui, ma non riuscivo a scio-
gliere un groppo che mi stringeva la gola. Il mio
compagno e amico se ne accorse e cominciò a pren-
dermi in giro, come faceva tutte le volte che voleva
frenare un’emozione.
La guerra era dunque finita anche lassù, ma le
ferite erano ancora tutte aperte e sanguinanti. Quan-
do quell’uomo tirò fuori di tasca alcune foto in bian-
co e nero e le porse alla moglie senza parlare, le vidi
sul viso una smorfia di dolore. Francesco gliele
strappò quasi di mano, ad una ad una le guardò con
un’espressione di rancore e ad una ad una le lasciò
cadere sul tavolo mentre gli si velavano gli occhi.
Non ricordavo di averlo mai visto piangere prima.
Erano lacrime di rabbia e di pena, di fronte a quei
cumuli di macerie che sconvolgevano il profilo della
sua città.
!109
Guardai anch’io quelle immagini e ne rimasi
turbato e offeso, come se qualcuno con un pennarel-
lo nero avesse imbrattato un capolavoro, quello che
il mio amico aveva da tempo incorniciato nella mia
idea di Firenze. Tutti i ponti distrutti. L’unico super-
stite, il Ponte Vecchio, in quelle fotografie somiglia-
va a un vegliardo imbronciato e smarrito.
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INTERMEZZO
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In cerca dell’amico perduto
!122
«L’indomani uscii di casa come un sonnambulo»
l’albergatore seguitava a stuzzicare le sue ferite. «Si
sentiva ancora nell’aria il puzzo di cose bruciate.
Calcinacci e massi di pietre proiettati dalle esplosioni
erano arrivati addirittura a due passi da qui!»
Aveva bisogno di sfogare la rabbia di quei ricordi
e lo lasciai andare avanti senza interromperlo.
«Guardando laggiù non vidi altro che un orribile
squarcio. Tutto irriconoscibile. Tutto in rovina. Ave-
vo voglia di urlare...»
A questo punto si rimise in piedi, cambiò tono di
voce e gli tornò il sorriso.
«Via, via, ti sto annoiando. Ora è tutto in ordine o
quasi, non mi par vero. Quel ch’è perduto è perduto,
ormai a che serve ricordare?»
«Serve, serve,» gli dissi stringendogli la mano
mentre con l’altra lui mi porgeva la chiave della ca-
mera. «Serve, Fabio: senza memoria non c’è
futuro.»
Mi accorsi d’aver condensato quella verità in una
sorta di slogan che le dava uno sgradevole suono
retorico, e provai a raddrizzare:
«Per me, i giorni bui servono a farci gustare di
più il presente e a tenere in piedi la speranza. Del
resto, puoi immaginare Napoli dopo le bombe, quel-
le piovute dal cielo?»
Lui si sentì quasi in colpa:
«Ecco, lo sapevo che non dovevo farla tanto lun-
ga.» E, con una brusca virata: «Dai, che domani ci
sarà lavoro anche per te!»
Quella notte dormii come un sasso.
!124
La mia malleveria, con tanto di firma di Ernesto
Pontieri rettore dell’università di Napoli, funzionò
alla grande. Un custode mi accompagnò attraverso
un dedalo di splendide sale e mi spiegò che l’Archi-
vio occupava in via temporanea centinaia di stanze
degli Uffizi. Questa notizia mi sgomentò: m’imma-
ginai una sterminata mole di documenti (e di lavoro)
ed ebbi la sensazione di essermi ficcato in un labirin-
to dove forse mi sarei perduto.
Fui ricevuto subito dalla dirigente del settore,
dove speravo di trovare il materiale che m’interessa-
va. Era una signora snella di mezza età con occhiali
rotondi e una piccola crocchia di capelli biondi legati
sulla nuca. Una persona disponibile e prodiga di
consigli.
Mi chiese informazioni sull’argomento specifico
della mia ricerca e si disse sicura che avrei trovato
del materiale interessante. Poi mi accompagnò alla
porta dell’ufficio e, mentre cercavo il momento giu-
sto per ringraziarla, mi fermò: «Vorrei mostrarle al-
meno qualcuno dei nostri tesori» disse senza enfasi,
ma con una piccola vibrazione di orgoglio. «Dopo
potrà tuffarsi tranquillamente nel suo lavoro.»
Non mi aspettavo un’accoglienza del genere e
non sapevo se attribuirla ai buoni uffici del mio ret-
tore o alla natura materna di questa donna, pronta a
farmi addirittura da guida. Vidi cimeli e documenti
straordinari. Con qualche scandalo della mia accom-
pagnatrice, sorvolai sul “Fiorinaio” con tutte le mo-
nete d’oro e d’argento coniate dal ‘300 all’unità
d’Italia e mi soffermai invece a lungo sul “Libro del
chiodo”, che raccoglie tutte le condanne inflitte ai
ghibellini e ai bianchi. A cominciare da Dante.
Poi la ricerca sul mio personaggio m’inghiottì.
!125
Dopo questa prima intensa mattinata di lavoro,
uscii sul piazzale un po’ stordito. Non mi sentivo in
una città nuova e la timidezza era già svanita. Le
persone incontrate finora non avevano nulla della
scontrosità che qualcuno mi aveva fatto temere. Era
presto per dirlo, ma doveva trattarsi del solito im-
probabile stereotipo. Mi venne da pensare che, se ti
avvicini prevenuto a qualcuno, lo vedrai come lo
specchio della tua diffidenza; se invece ti mostri fi-
ducioso, è molto più facile essere corrisposto. Fatto
sta che mi andava bene.
Avevo un vuoto dentro, che non era di stomaco.
Era quasi un rimorso e aveva un nome: Francesco.
Sarei andato dritto da lui senza tornare in albergo,
ma quella di piombargli in casa all’ora del pranzo
non mi sembrava una buona idea. Meglio lasciar
passare almeno un’ora. Oltre tutto, avevo lasciato in
camera un piccolo dono proveniente da Napoli. Era
una scatola di legno con intarsi sorrentini di dubbio
gusto, ma con un bel coperchio dov’era riprodotta
una stampa napoletana dell’ottocento. Aperta, la
scatola si trasformava in una scacchiera. Sapevo che
il mio amico amava il gioco degli scacchi, ma più
che altro con quella veduta oleografica volevo ricor-
dargli la città. Insomma l’intenzione era meno bana-
le dell’oggetto.
Vedendomi salire di corsa le due rampe di scale,
l’albergatrice mi guardò incuriosita e mi rammentò a
gran voce l’orario del pranzo.
«Grazie, ma per oggi non importa» le risposi dal
pianerottolo senza altre spiegazioni. Entrai in camera
giusto per prendere il pacchetto del regalo, e via fuo-
ri di nuovo.
«Accidenti che furia! Non ti fermi a pranzo?»
Questa volta era Fabio a insistere.
!126
Dissi di avere un appuntamento: «Fuori mangerò
un boccone al volo.»
«Fermati sull’angolo, c’è il friggitore.»
Mi sentivo più in famiglia che ospite di una pen-
sione. Si vede che il mio amico musicista qui doveva
aver lasciato davvero un buon ricordo. Ne ero sicuro.
La signora Vanna doveva essere ormai troppo anzia-
na per occuparsi personalmente dell’albergo, ma
probabilmente mi aveva raccomandato alla figlia e al
genero. O forse era solo una mia supposizione.
Fabio e sua moglie si dividevano equamente i
compiti. Lei era normalmente addetta ad accogliere i
clienti, ma dava anche una mano per le pulizie e ser-
viva all’ora dei pasti. Lui era bravissimo in cucina e
in più si occupava degli approvvigionamenti, della
piccola manutenzione e di tante altre faccende. Il
restante personale si riduceva all’aiutante cuoca e a
due ragazze onnipresenti che svolgevano anch’esse
mansioni polivalenti.
Quella della friggitoria era una buona idea. L’in-
vitante banco-vetrina che sporgeva sul marciapiede
mi proponeva frittelle di riso o di mele, ciambelle,
schiacciatine all’olio, crescentine, coccoli. Assaggiai
qualcosa e m’informai sull’autobus da prendere per
andare a Santo Spirito.
Con comodo, mi dissi. Che bisogno c’era di cor-
rere tanto? Diamogli il tempo di mangiare.
Eppure, inutile negarlo, qualcosa mi teneva in
agitazione.
***
!127
***
!128
viso stanco, però non è cambiata. Lei mi sorride ma
non può riconoscermi, dopo tanto tempo.
«Sono un vecchio compagno di scuola di France-
sco, di quando eravamo al ginnasio di Airola, si ri-
corda? Mi dispiace per l’ora, ma ho pensato che così
era più facile trovarlo in casa.»
Il sorriso le si spegne e aggrotta la fronte.
«Entri, non se ne stia sull’uscio costì. Francesco
non c’è… ‘un c’è più, figliolo mio,» il suo viso si
rabbuia. «Certo che ora mi ricordo di lei. Sicuro,
come potrei dimenticare? Vi volevate dimolto bene
voi due, e lu’ la rammentava sempre, lo sa?»
Guardo meglio quella donna negli occhi arrossati,
e temo di capire. O meglio, ho paura che lei mi stia
dicendo qualcosa che rifiuto di pensare. Così ancora
domando, aggrappandomi a una disperata ragione-
volezza:
«Non… non vive più con voi?»
Lei si accascia su una sedia e rimane in un silen-
zio imbarazzante.. Poi le parole si fanno esplicite e
perfino dure: «Ora Francesco è… lo sa dove? ‘gli è a
San Miniato al Monte! Stia pur certo, mio caro, che
lu’ l’aspetta… l’aspetta lì, al cimitero delle Porte
Sante.»
Si rende conto del mio smarrimento e ora mi
guarda con un sorriso triste, affettuoso, quasi pieto-
so.
Provo a pronunciare parole futili, come di solito
accade in tali circostanze. Parole stonate.
Senza che io glielo chieda, lei mi spiega:
«L’hanno chiamata sclerosi a placche, ne ha senti-
to parlare? Un male terribile, ‘un s’è potuto nulla,
ma nulla. Alle volte sembrava sentirsi meglio, ma
era solo un’apparenza. Sì, anche negli ultimi tempi,
quando le crisi si facevano sempre più frequenti e
!129
acute, qualche volta e’ diventava stranamente eufori-
co... Parlava, perfino rideva…»
Ora si volta da un lato come a nascondere l’ango-
scia. Vorrei riempire questo nuovo silenzio e chiu-
derla qui. Ma lei ancora racconta, aggrappata al ri-
cordo del figlio vivo e incollata agli ultimi foto-
grammi della sua tragedia. Racconta le ultime tappe
del suo calvario.
«Negli ultimi tempi, quelle improvvise esaltazioni
del mi’ povero figliolo facevano contrasto con le sue
condizioni penose, che peggioravano giorno dopo
giorno. Ogni tanto e’ cercava invano di stringermi
una mano ed io l’accarezzavo, sa come si fa con un
bimbo? Dopo un poco però ‘e tornava a imbronciar-
si.»
La sua espressione si fa più severa, mentre scuote
impercettibilmente la testa incrociando le mani sul
grembo. Ogni tanto le apre appena e le richiude, in
un gesto sconsolato ma composto.
Solo ora mi ricordo del marito e le chiedo di lui.
So già che non andrò a trovarlo in bottega, non ne
avrei la forza.
«Poer’omo, ‘un è più lui. Dice ch’era meglio sal-
tare in aria co’ il ponte a Santa Trinita. Non fa altro
che ripeterlo. Per fortuna ama il su’ lavoro, non gli
resta che quello. Ma tutte le mattine di buon’ora, noi
due insieme si va alle Porte Sante. Che piova o nevi-
chi.» Ora ha un’espressione compunta e sollecita,
come se il figlio stesse lì ad aspettarli all’ora del caf-
fè. «Se si saltasse un giorno, Francesco ne
patirebbe...»
Devo pur lasciarla con la sua pena. Devo andare
da lui. Non so come interrompere questo incontro
terribile. Alla fine lo faccio senza garbo, con parole
quasi surreali:
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«Questa scatola è per lui,» le dico nel salutarla,
«la lascio qui, non è il caso di portargliela lassù...»
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La grande attesa
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che resti incollato alla famiglia di origine oltre ogni
ragionevole limite. Non potevo permettermelo.
Con tanto rimpianto ma senza tentennamenti,
accolsi invece l’offerta di un incarico d’insegnamen-
to presso un istituto parificato alle falde del Vesuvio,
immerso in una natura prorompente e gioiosa.
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sospese nell’aria, fino a vederle disfarsi sul basso
soffitto della carrozza del treno.
Perché dunque Capri? Il padre di George aveva
in quell’isola una casetta solitaria in cima a un co-
stone dalla pendenza terrificante. Modesta come può
esserlo una colonica sommariamente restaurata e
inaccessibile a chi non avesse abilità alpinistica o
una gran dose di coraggio. Una volta lassù, affacciati
alla ringhiera di un terrazzino a strapiombo sul mare,
la vastità e l’incanto del panorama mi sembrarono
una prova decisiva dell’esistenza di Dio.
Ero già a Firenze, quando ebbi notizia della mor-
te prematura quanto prevedibile di George. Non
seppi immaginare una causa diversa da quella sua
continua e massiccia assunzione di catrame e nicoti-
na nei polmoni. Mai conosciuto un suicida più raffi-
nato e generoso.
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PARTE SECONDA
IN RIVA D’ARNO
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Dopo il diluvio
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Su quella tragedia che aveva preceduto il mio
arrivo avevo assoluto bisogno di saperne di più. Il
fatto stesso di non essere stato presente mi faceva
sentire quasi in colpa. Ogni tanto rabbrividivo pen-
sando a quell’oscena valanga d’acqua mista a melma
e a nafta che aveva travolto ogni cosa. E mi rimpro-
veravo di non essermi precipitato subito dopo, alme-
no nei giorni successivi alla catastrofe.
Come minimo atto riparatorio, cercai allora di
documentarmi al meglio, di conoscere i particolari
della tragedia. Volevo avere un quadro più vivo di
quanto non fosse quello che potevo ricavare dalle
cronache di quei giorni. Qualcosa che partisse dal
vissuto delle singole persone. Forse le loro storie mi
avrebbero anche aiutato a capire meglio il carattere
di questa gente.
Racconti impressionanti. Com’è nella loro natura
incapace di piangersi addosso, i miei amici fiorentini
li condivano quasi sempre di aneddoti e battute. Ne
veniva fuori ad ogni modo un quadro terrificante,
nemmeno vagamente immaginabile da chi come me
non era stato direttamente coinvolto.
Ebbi così un’idea più chiara di ciò che era real-
mente accaduto. Il furore biblico di quelle acque
impazzite che fuoriescono dagli argini e diventano
sempre più aggressive a ridosso della città, fino a
invadere le officine dell’acquedotto dell’Anconella
distruggendo i macchinari, fino a inondare di fango
misto a nafta il lungarno delle Grazie e piazza Men-
tana, fino a profanare la Galleria degli Uffizi e Santa
Croce, fino a scardinare le formelle della Porta del
Paradiso.
Il cuore della città, il cuore della civiltà nata dal
Rinascimento, che per poche interminabili ore smet-
te di pulsare e poi, nei giorni successivi, deve affi-
!147
darsi con coraggio alla terapia intensiva. Tutto tragi-
camente chiaro.
Tanto più allora continuava a stupirmi la serena
apparente “normalità” che mi circondava. La vita era
ripresa subito, appena qualche settimana dopo
l’inondazione. Anzi mi resi conto che in pratica non
si era mai fermata.
Volevo, dovevo capire di più. Perciò mi disposi
all’ascolto, il più attento possibile.
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va più bisogno, dovendo reggere l’urto di una tem-
pesta familiare che forse gli ricordò il grande diluvio.
Ed io non gli fui accanto, distratto com’ero
dalle continue peregrinazioni in giro per la nostra
penisola, richieste dal mio lavoro che in quegli
anni occupava le mie giornate troppo brevi. Mi
ripromettevo sempre di ricominciare a frequen-
tarlo, ma continuai a rinviare.
Fino a quando un infarto lo fulminò sul posto
di lavoro, nella scuola che ora dirigeva a Sesto
Fiorentino, alle porte di Firenze.
Il mio piccolo atto riparatorio fu quello di dedi-
cargli un mio libro, un saggio sui problemi del leg-
gere: “Alla memoria di Piero Nobili Tartaglia, edu-
catore anticonformista fino alla fine prematura sul
campo”.
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!164
Come avevo previsto, Renzo era una miniera
d’informazioni di prima mano. Sapevo che anche il
“mio” Archivio di stato aveva subito danni incalco-
labili e ripensai con tenerezza a quella studiosa bion-
da e gentile che mi aveva accolto anni addietro per
aiutarmi a far luce su quel personaggio mezzo fio-
rentino e mezzo napoletano. Il cronista mi parlò di
quaranta sale di deposito dell’Archivio allagate e di
pavimenti crollati che avevano trascinato con sé nel-
la rovina documenti di straordinaria importanza.
«Altri sei chilometri di scaffalature da riportare
in vita» calcolò senza tradire emozioni, ma con il
pensiero ancora fisso sulle nuche di quei ragazzi
chini nel fango. «Parlavano lingue diverse ma tutti
sottovoce, sa, come in chiesa» notò con lo stupore di
un bambino. «Dormivano nei treni fermi a Santa
Maria Novella. Qualcuno aveva anche una certa età.
Lo sanno tutti che questi angeli silenziosi fecero il
possibile e l’impossibile per strappare dal fango libri
e dipinti; ma pochi sanno che le loro braccia aiutaro-
no anche chi era in condizioni di bisogno. Cioè tanti
di noi. All’occorrenza davano anche una mano ai
vigili del fuoco e alle forze dell’ordine. Insomma
questa gente ha fatto del bene a Firenze almeno
quanto l’Unesco con i suoi tecnici e specialisti.»
D’accordo, ma i fiorentini? Lui mi lesse nel pen-
siero.
«Secondo me,» valutò sapendo bene quel che
diceva, «se tutti quei ragazzi si diedero da fare e si
sacrificarono in una città tanto lontana dalla loro, fu
anche perché videro che noi fiorentini non eravamo
da meno. Anzi! Videro o seppero di squadre intere
impegnate nel lavoro immane del trasferimento di
quadri preziosi da un museo all’altro col rischio di
essere travolti dall’acqua inferocita. Tanto per dire.
Videro migliaia di persone rimaste senza tetto, senza
!165
cibo, senz’acqua e ricoverate in casa di estranei
pronti ad ospitarli. Insomma si accorsero subito che
nessuno di noi era disposto a piangersi addosso.»
A riprova dell’immediata rinascita e in attesa di
portarvi gli alunni, Renzo m’invitò a visitare la sede
imponente della Nazione rimessa in ordine in «tempi
fulminei», e i nuovi macchinari dalle «prestazioni
favolose», così s’infervorava. Vi andai più che vo-
lentieri e conobbi il direttore. Fu ospitale e non meno
entusiasta del suo giovane collaboratore.
Quella sede era uno dei simboli della città ancora
intenta a leccarsi le ferite.
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Il “Sindaco del fango”
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Il flautino magico
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Un giorno gli chiesi ingenuamente il perché di
quella sua idea fissa. Lui mi guardò stupito, scosse
leggermente il capo e provò a dar voce a quello che
doveva essere un suo pensiero tormentoso:
«Vede, quello del Battistero non è soltanto un
modello antichissimo e ineguagliabile, ma è il più
saldo dei miei punti di riferimento. Il mio lavoro può
sbandare, lui no.»
Tanto è vero che lo aveva scelto come suo vero
maestro. Lui che aveva avuto maestri come Mino
Maccari, Ottone Rosai e, da ultimo, l’espressionista
Oskar Kokoschka, dal quale aveva imparato l’arte
del ritratto psicologico. Dicendo “Io posso sbandare”
era assolutamente sincero come sempre.
Avevo saputo, tra l’altro, della sua curiosa abitu-
dine di entrare in classe armato di un minuscolo
flauto, tanto piccolo da trovar posto nel taschino del-
la giacca. Così cercai di capirne il perché, visto che
lui insegnava arte e non musica. Avendo forse intuito
il motivo della convocazione, Silvio entrò nel mio
ufficio con aria più impacciata del solito, ma gli lessi
nei grandi occhi chiari un’espressione offesa. Provai
a metterlo a suo agio. Gli dissi con un sorriso che ero
curioso di conoscere il segreto del suo ottimo rap-
porto con gli alunni. Lui arrossì di piacere, tirò fuori
dal taschino il suo flautino e rispose:
«Eccolo qui il segreto: se non mi sentono zufola-
re, credono che io sia di cattivo umore e non combi-
nano nulla di buono.»
Perché lui era fatto proprio così. Prendere o la-
sciare. L’innocenza dell’uomo si rifletteva nei suoi
quadri, spesso popolati di animaletti deformi e di
battisteri trasognati e contorti. Avevo di fronte un
artista di grande talento nascosto in una palandrana
verdognola. Approfittai di quella storia del flautino
per provare a farlo parlare di se stesso:
!177
«Ha studiato musica?»
«Più che altro ho studiato canto. Al seguito di un
mio amico e commilitone pugliese, durante l’ultima
guerra. Lui prendeva lezioni di canto da un maestro
singolare e incantatore, in una sorta di teatrino da
Luna Park. Ed io interrompevo il mio lavoro di sca-
ricatore al porto di Bari, per seguire il mio compa-
gno di branda. Sia lui che il maestro avevano biso-
gno di spettatori, io rappresentavo il loro pubblico.
Fu lì che nacque la mia passione per la musica, men-
tre quell’uomo saltava sulla tastiera del pianoforte e
il mio amico tenore imparava ad arrotondare i suoni
allargando le braccia ad occhi chiusi come un uccel-
lo pronto per il volo e quella grande stanza si riem-
piva di vibrazioni prolungate e di note dell’Elisir
d’amore.»
Ero inebriato e incredulo. Aspettai che riprendes-
se fiato. Mentre il suo viso eccitato e sanguigno si
distendeva in un sorriso, mormorai: «Certo che la
musica fa miracoli.»
«Se non altro, acrobazie…»
Ora mi era difficile seguirlo. Mi parlò di certi
mendicanti di Montparnasse che si esibivano come
violinisti acrobati sotto le finestre della casa di suo
padre, e d’altro ancora, che in seguito avrei potuto
leggere in un suo libricino di memorie ricevuto in
dono da lui con una delle sue singolari dediche: un
gattino con occhi spiritati riflesso nell’acqua.
Me lo portò l’indomani e ne approfittai per chie-
dergli notizie dello studio alluvionato. Mi sembrò di
umore nero. Quasi a voler allontanare la sua pena
personale, sviò subito il discorso:
«Guardi che qui c’è stato di molto peggio. Sono
in tanti quelli che hanno perduto la casa e alcuni ci
hanno rimesso la pelle. E se i morti furono relativa-
mente pochi, questo lo si deve al caso. Per fortuna,
!178
infatti, l’Arno ha dato di fuori quando c’era pochis-
sima gente per le strade. Se non fosse stata l’alba, e
per di più di domenica, s’immagini un po’ lei. Terri-
ble. Le basti pensare alle centinaia di automobili
portate via comme joujoux, come balocchi.»
Quando era nervoso o agitato, il suo fiorentino
ancora infranciosato produceva un buffo miscuglio
linguistico.
Ma Silvio non aveva risposto alla mia domanda.
Il suo primo pensiero era giustamente rivolto alla
vita. Solo dopo venivano le formelle della porta del
Paradiso e il crocifisso di Cimabue. E in fondo, ma
molto in fondo, c’erano le tele del suo studio di fron-
te al Battistero, anch’esse irrimediabilmente perdute.
La sua pena inconfessata era per quel Crocifisso
distrutto, a due passi da casa sua in piazza Santa
Croce. I suoi colori mirabili sciolti per sempre nella
melma.
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le. Lui stirò le labbra in uno di quegli indimenticabili
sorrisi da bambino colto in fallo e si schermì:
«Dovrebbe vedere qualche autoritratto di mio
padre, lui sì che sapeva scrutarsi e capirsi.» Sicura-
mente conosceva i limiti del padre pittore, ma lo
adorava come un dio. Soprattutto gli era grato per
averlo iniziato alle tecniche e ai misteri dei colori.
«Oggi molti cretini credono di poter fare a meno dei
“fondamentali” della pittura. Così s’improvvisano
pittori d’avanguardia ma combinano solo scaraboc-
chi!»
Sapeva di non esagerare, la severità era una delle
tante qualità ereditate dal padre, che era nato e cre-
sciuto all’ombra del Vesuvio. Da lui doveva aver
preso anche il temperamento focoso, la generosità e
l’ironia.
Dopo averci offerto una serie di straordinari
scorci sul fiume, l’alto percorso a un certo punto si
restrinse bruscamente per girare intorno a una torre:
era la torre intoccabile dei potentissimi Mannelli, ci
spiegò la guida, cui perfino i Medici dovevano ri-
spetto.
Passando sul portico dell’antichissima chiesa di
Santa Felicita, il corridoio delle meraviglie ci stupì
ancora facendoci affacciare direttamente sull’interno
della chiesa, proprio come faceva il principe per as-
sistere alle funzioni religiose e per ribadire a tutti
l’origine divina del suo potere.
Come per incanto, ci ritrovammo infine nel giar-
dino di Boboli, accanto alla mitica grotta del Buon-
talenti, per poi risalire nei saloni dell’immenso pa-
lazzo Pitti.
Non avevo mai immaginato nulla di simile.
!182
Quell’opuscolo autobiografico che Silvio aveva
fatto stampare a tiratura limitatissima s’intitolava
Una furtiva lacrima, e mi aiutò a conoscerlo meglio.
Per ringraziarlo… non trovai modo migliore che
chiedergli, per conto dell’editore Vallecchi, di poter
utilizzare uno dei suoi schizzi per la copertina del
mio ultimo libro. Che poi era il mio primo romanzo,
Nel segno del lupo. L’editore era d’accordo per il
titolo, ma per la sopraccoperta voleva un’immagine
non banale.
Com’era nel suo stile, la risposta del mio amico
fu stupefacente: mi chiese di leggere le bozze, in
modo da poter fare un disegno sur mésure espressa-
mente per il mio lavoro. Ne fui entusiasta e pensai
scioccamente: ma per l’ispirazione non poteva ba-
stargli quel titolo? Certo che no. Perché l’uomo e
l’artista sono abituati a immergersi, a interpretare, a
scavare in profondità. Hanno bisogno di guardare
dentro le cose, prima di raffigurarle.
Il disegno che appare sotto il titolo di quel mio
libro raffigura un lupo solo e disperato in mezzo ai
monti. Non è un lupo come tanti, ma uno di quegli
animali sapientemente deformati dalla tenerezza del
tratto di questo artista-clown.
Quando l’editore mi chiamò alla sede del Viale
Milton per la firma delle copie-omaggio, ero emo-
zionato come un bimbo al primo giorno di scuola.
Mi fermai per qualche minuto nello studiolo di Enri-
co Vallecchi, figlio del fondatore e ormai in là con
gli anni, ma ancora attivissimo. Era lui a mandare
ancora avanti la “baracca”, visto che suo figlio Atti-
lio sembrava piuttosto dominato dalla sua passione
per la caccia. Un acre odore di fumo e di tempo im-
pregnava le cose, quasi che i grandi protagonisti di
tante battaglie letterarie avessero appena lasciato
questa stanza.
!183
Poi il direttore editoriale, che allora era Alberto
Busignani, m’introdusse in un locale occupato quasi
per intero da un grande tavolo quadrato e alto. Su un
lato erano accatastate decine di copie del mio libro
fresche di stampa. Su quello opposto era seduto un
ometto infreddolito sull’ottantina, anche lui attornia-
to da piccoli volumi e già intento a firmarli sulla pa-
gina di guardia. Nessuna presentazione. Busignani ci
lasciò soli come due scolaretti da non distrarre men-
tre svolgono il compito assegnato.
Tra una dedica e l’altra, ogni tanto sbirciavo il
mio dirimpettaio cercando di leggere il titolo del suo
libro e soprattutto il nome dell’autore. Non era faci-
le, perché la pila sulla sua sinistra era tanto alta da
superare il mio campo visivo, mentre quella che si
andava formando a destra presentava i volumi con la
prima di copertina rivolta in giù, per distinguerli da
quelli ancora da firmare. Approfittando di una breve
pausa, finalmente riuscii a leggere: «Primo Conti, La
fuga delle Veneri, Narratori Vallecchi».
Era proprio lui, il grande interprete del nostro
futurismo pittorico e di altre travagliate esperienze
anche musicali e letterarie. Silvio me ne aveva parla-
to una volta a proposito di Ottone Rosai, che era
stato tra i suoi maestri. Non aveva pronunciato giu-
dizi sull’uomo, ma mi era sembrato che si riferisse al
suo passato con qualche imbarazzo. O forse era sol-
tanto una mia impressione. Quanto a me, del mae-
stro Conti ricordavo più che altro un autoritratto gio-
vanile di straordinaria intensità.
Impossibile riconoscerlo in quella figura minuta
e un po’ curva che avevo di fronte e che ora mi sor-
rideva, prima di riprendere a firmare con diligenza le
copie del suo libro.
!184
L’ultima volta che incontrai Silvio, anche lui per-
duto di vista per molti anni, fu in un afoso pomerig-
gio di luglio. In piazza Santa Croce, dove lui abitava
da sempre. Indossava il solito cappottone verde e
tremava per la febbre alta. Lo abbracciai con il sen-
tore che non lo avrei riveduto per molto tempo,
come di solito mi capita con le persone più care.
!185
Il “Sindaco dei poveri”
!192
fessare di non aver ancora visitato quel museo, gli
rivolsi la domanda idiota:
«Si trova bene con i frati?»
«A meraviglia. Eppoi le confesso: uscio e bottega
con l’università, fin troppo comodo!»
Già, «uscio e bottega». Sentirgli usare questa
tipica espressione fiorentina faceva un curioso con-
trasto col suo accento siculo che lui, come tutti i sici-
liani trapiantati a qualsiasi latitudine, non aveva mi-
nimamente attenuato.
Mi venne da ripensare a una conferenza di Gio-
vanni Spadolini, che era stato suo allievo alle lezioni
di diritto romano. Riferendosi con ammirazione a
quell’uomo tanto diverso e lontano da lui, Spadolini
ne aveva lodato la severità del pensiero e del giudi-
zio. Tra l’altro – ricordavo quasi testualmente – ave-
va parlato di lui come di un «grande monaco laico,
teatrale ed estroso solo in apparenza».
Ora trovavo quella definizione giusta, ma forse
riduttiva. A torto o a ragione, mi pareva di vedere
sulle spalle di quest’uomo, dagli occhi accesi e dal
temperamento vulcanico, un po’ il saio di Savonaro-
la. Così m’immaginavo di vederlo seduto al suo pic-
colo scrittoio nello studiolo del grande frate. E rab-
brividivo all’idea di quel rogo in piazza della Signo-
ria!
Per fortuna il mio accostamento era assurdo e i
fiorentini sapevano distinguere tra esuberanza ed
esaltazione.
!193
!194
Buono come il pane
!200
«Mio Dio, sto proprio diventando cieco» si la-
mentò dopo essersi tolti gli occhiali con la grossa
montatura scura, per sbirciare le mie carte. «Questi
caratteri sono troppo sbiaditi per i miei poveri
occhi.»
Già mi scusavo e stavo per proporgli soluzioni
alternative, ma lui mi tranquillizzò: «Non si preoc-
cupi. Mi capita sempre più spesso, perciò mi sono
attrezzato. Ne farò fare una fotocopia più scura. Qui
vicino c’è una copisteria gestita da uno che lavorava
alla Vallecchi quando ne ero direttore editoriale, ai
tempi del vecchio Attilio, il fondatore. Passa ogni
lunedì a ritirarla» e mi mostrò una scatola di cartone
già quasi colma di manoscritti. «Io lo ricompenso
regalandogli qualche libro, così faccio anche un po’
di spazio.»
Il mio senso di colpa svanì, sostituito da una vaga
inquietudine quando vidi sparire le mie bozze all’in-
terno di quella scatola.
Rivedendoci in piedi, il vecchio pastore marem-
mano si alzò a fatica anche lui e ci accompagnò fino
al cancello.
«Le farò sapere qualcosa» furono le poco rassi-
curanti parole di commiato di quell’uomo un po’
stanco. Mi rimase dentro il conforto del suo sorriso.
!206
mani’ […] E San Pietro, che ha un cuore d’oro, mi
aiuterà ad asciugarmi le ultime lacrime.»)
L’Amministrazione comunale aveva dunque de-
liberato l’assegnazione del “Fiorino d’oro” a Geno
Pampaloni. Al gremito Salone dei Cinquecento di
Palazzo Vecchio arrivò sostenuto da braccia amiche
e non soltanto dal solito bastone che non gli bastava
più.
Lo vidi avanzare lungo il corridoio infinito con
straziante lentezza. Al termine della cerimonia so-
lenne, con i rituali stendardi e squilli di chiarine, si
fermò qua e là a stringere mani e a scambiare misu-
rate parole. Il sorriso era ancora quello di sempre,
arguto e timido insieme. I tratti un po’ rudi del suo
carattere schivo e a volte ombroso erano scomparsi
del tutto.
Quando fu il mio turno, mi disse a mezza voce:
«Ha visto quanta gente mi vuol bene?»
Si stava spegnendo una luce di rara intensità e
reattività. Ora le vie impervie della comprensione
dell’uomo sarebbero rimaste un po’ più buie.
!207
!208
Pian dei Giullari
!210
immagine e senza ombra di reticenza. Tutto in vetri-
na, tutto risaputo.
Su di lui si esercitava ogni giorno la matita a vol-
te graffiante e sempre bonaria di Forattini. Parlando
del famoso narcisismo di Spadolini, il suo amico
Indro Montanelli lo definiva «così scoperto, ilare,
innocente, da disarmare perfino l’ironia». E quando
la piena assunzione del potere politico fu un fatto
compiuto, lo spiritaccio toscano fece dire tra l’altro
allo stesso Montanelli che l’ultimo libro di storia che
quell’uomo sognava di scrivere era un libro con se
stesso come protagonista, e «Fanfani, Andreotti,
Berlinguer e Craxi come oscuri militanti di partito
vissuti nell’era di Spadolini».
Insomma di gustose frecciate – che erano poi
attestati di simpatia, di riputazione e spesso d’invidia
– su questa figura anche fisicamente straripante, se
ne poteva trovare a bizzeffe.
C’era invece una cosa che poche persone cono-
scevano ed era la straordinaria ricchezza e la rarità di
quella biblioteca di tipo monografico da lui messa
insieme durante una vita intera. Era un patrimonio
bibliografico immenso che veniva ad aggiungersi
alla già ricchissima biblioteca della casa paterna di
via Cavour, sui quindicimila volumi spesso antichi e
pregiati.
A colpire ancor più la mia fantasia era stata quel-
la decisione di farsi appositamente costruire una
casa-biblioteca dal fratello architetto Pierluigi. Pro-
prio quella che ora vedevo alla sommità del poggio,
e che mi sembrava francamente una casa d’epoca
dalle linee semplici e sobrie come tutte le altre. Inve-
ce no, era una costruzione nuova di sana pianta e
aveva quella peculiarità di ospitare, oltre al legittimo
proprietario, un’impressionante marea di libri impor-
tanti e spesso preziosi. Si diceva oltre sessantamila.
!211
Non osavo sperare di visitarla un giorno e di co-
noscere l’uomo nel suo ambiente naturale, anche
perché a scoraggiare ogni velleità mi erano rimaste
quelle immagini televisive dei poliziotti incaricati di
vegliare sull’incolumità del presidente del consiglio
dei ministri. Ora non lo era più, ma quella casa con-
tinuava ad essere visitata più che altro da personalità
eminenti, nazionali e internazionali. Oltre tutto, in
quei giorni Spadolini era stato nominato senatore a
vita e la sua agenda si era notevolmente infittita.
Nulla da fare.
E invece l’occasione era dietro l’angolo.
***
!212
***
!220
Zoli lo blandì rinnovandogli a modo suo i ralle-
gramenti per la fresca nomina a senatore a vita: «Ora
bisogna chiedere a Forattini un altro disegno spirito-
so!»
«Quello del cavallo me lo regalò per il mio ses-
santesimo compleanno» sorrise divertito. «Sapete
qual è la cosa che più mi fa piacere, di questa nomi-
na inattesa? È il fatto di essere il primo fiorentino a
ricevere un tale riconoscimento.» Infatti, Mario Luzi
dopo di lui avrebbe dovuto aspettare un bel po’.
Ci salutò sul piazzale di mattoni rossi, davanti
all’ingresso della sua straordinaria “casa dei libri”. E
della memoria. Oggi quell’eredità preziosa ha assun-
to la denominazione «Fondazione Spadolini Nuova
Antologia» e comprende anche la biblioteca della
casa paterna di via Cavour. La Fondazione è affidata
alle cure amorevoli e alla grande competenza di uno
studioso come Cosimo Ceccuti.
Dunque Giovanni Spadolini e Pian dei Giullari,
un tutt’uno. L’amata minuscola ideale «Repubblica
di Pian dei Giullari», come la chiamava lui, lo aveva
già eletto sindaco a vita. Ed oltre.
!222
Bellosguardo
!226
Durò qualche mese. Poi, con quella imperdona-
bile puntualità con cui ho sempre perduto di vista le
persone care, non ci rivedemmo per secoli.
***
!227
***
!228
sospinto verso l’alto. Proprio così, una sfida alla leg-
ge di gravità.
Mi piaceva l’idea di uscire dopocena, qualche
volta da solo e a tarda ora. Sentire l’eco dei miei pas-
si sui selciati antichi, respirare i segreti di una civiltà
che mi spiava da ogni parte. Ne avvertivo nell’aria la
presenza. Inquietante e rassicurante insieme.
E mi vergognai dei cassonetti per le strade e dei
fast-food spuntati a decine, in sostituzione di altret-
tanti locali storici.
Insomma mi sentivo come un uccello che vor-
rebbe tornare a volare, ma ha dimenticato come si fa.
La nuova disposizione d’animo mi aprì spazi di no-
stalgia. E mi sorprese il desiderio di rivedere persone
improbabili.
Ad esempio, avevo voglia di ritrovare Fabio, il
giovane albergatore amico che tanti anni fa mi aveva
ospitato, al tempo della mia ricerca all’Archivio di
Stato per la tesi di laurea. Se quel primo breve tuffo
nella città era stato così intenso saporoso decisivo, lo
dovevo anche a lui. Mai più rivisto d’allora.
Era stato lui a introdurmi tra l’altro nel tempio
della cucina toscana fatta di antichi frutti della terra,
di sapori rotondi e sanguigni, di sapiente manipola-
zione. Le specialità di Fabio. La sua irresistibile ri-
bollita, quando rincasavo di sera al termine di quelle
giornate faticose anche per un ragazzo entusiasta
come me. La minestra di farro alla garfagnina. Il
preciso connubio degli aromi, l’olio nuovo, verde
nella fiaschetta lasciata sul mio tavolo. I rassicuranti
sapori della cucina di via Sant’Antonino.
Quanti anni erano passati? Troppi e troppo gonfi
di cose in apparenza importanti, che come un’onda
gigantesca avevano travolto e quasi sommerso la
barchetta leggera dei miei sogni. Nella puerile illu-
!229
sione di trasformare il mondo. O almeno quello in
cui mi era concesso di operare.
Mah, ritrovare Fabio dopo tutto quel tempo? An-
cora una volta quell’alberguccio aveva cambiato
gestione. E non seppero darmi indicazioni per rin-
tracciare il mio vecchio amico. Ignoravo il suo co-
gnome, sicché l’elenco telefonico non poteva esser-
mi di aiuto.
!231
La madre la chetò con un sorriso. Poi mi disse,
con forte accento senese (dell’Istrice, precisava sem-
pre, con fierezza contradaiola), disse dunque che il
suono del mandolino le ricordava un ristorante sul
mare durante il loro viaggio di nozze sulla costiera
sorrentina.
Oltre a quel ricordo musicale, di Napoli e delle
isole del golfo le era rimasto un luminoso sfarfallio
d’immagini colorate, che non riusciva più a selezio-
nare. Così si limitava a pronunciare dei nomi alla
rinfusa – Posillipo, Capri, Ischia, Positano, Amalfi –
seguiti da tanti punti esclamativi. Senza aggiungere
altro. Era sicura che ognuno di essi bastasse da solo
a evocare suoni colori luci emozioni magie.
Per lei Napoli doveva essere un posto meravi-
glioso, ma… finto. E se proprio doveva indicare uno
dei tanti motivi che rendevano improponibile l’idea
di viverci, ripensava con terrore al solito traffico cao-
tico. Negli ultimi tempi, di fronte allo scenario apo-
calittico della città imbarbarita e schiava della ca-
morra, lei non faceva commenti. Guardava ora il
marito ora me con occhi tristi, scuoteva leggermente
il capo e poi sussurrava: «Cosa è successo!».
Sembrava uscita da una commedia di Eduardo:
l’avrei scambiata per la protagonista di Napoli mi-
lionaria, se per un attimo avessi chiuso gli occhi e le
orecchie sulla sua irriducibile toscanità.
Però su quel recital di Marasco m’interessava
naturalmente il parere di Gaetano. Visto che lui con-
tinuava a tacere, gli chiesi a bruciapelo: «Non ti
sembra un po’ spericolata quest’operazione?»
«Mah… Direi ardita…, però interessante. » Non
volle sbilanciarsi. «Devo pensarci meglio. Tu che ne
dici?»
Per l’appunto. Dovevamo pensarci meglio. Non
era questo il momento giusto.
!232
Lo spettacolo pomeridiano era finito prima del
tramonto. Moglie e figlia fecero in tempo a girellare
per i negozi del centro, lasciandoci liberi di passeg-
giare sui lungarni secondo la nostra vecchia abitudi-
ne. A lungo, ma senza esagerare come una volta.
Giunti all’altezza di via Tornabuoni, con tacita intesa
attraversammo il ponte a Santa Trinita e subito ci
trovammo in Oltrarno. Come ai vecchi tempi.
***
!233
***
!234
Mi tornò alla mente il vecchio libraio-rilegatore
che tante volte da ragazzo avevo visto all’opera nella
sua libreria di Spaccanapoli. Naturalmente il con-
fronto non poteva reggere, ma era una delle occasio-
ni in cui le immagini mai sbiadite del passato parte-
nopeo si affiancavano a quelle del presente fiorenti-
no. Magari a sproposito, come in questo caso, ma di
prepotenza
Mi guardai bene dal partecipargli questa sensa-
zione. Sapevo che sarebbe scoppiato in una delle sue
risate musicali e un po’ metalliche che somigliavano
a una serie di colpettini di tromba.
Ebbi l’impressione che quel nostro indugiare
accanto alle botteghe artigiane non fosse altro che un
diversivo. Forse nascondeva un disagio. Insomma
quella storia di Marasco, il Cupolone che guarda il
Vesuvio, continuava a intrigarci. E la barbetta puntu-
ta di Pirandello era lì a relativizzare le nostre fantasie
con il suo sorriso malinconico: Così è (se vi pare).
Tornati sul lungarno all’altezza del ponte alle
Grazie, mi sentii i piedi indolenziti. Ci fermammo a
sedere con le gambe penzoloni sulla spalletta troppo
alta anche per lui.
!235
La domanda mi era sfuggita prima ancora che
l’idea si consolidasse in un’ipotesi seria. Più che
altro, cercavo di suturare il mio animo diviso.
«Non credo» rispose lui senza precisare.
Ci rimasi male. Oltre tutto, a lui piaceva il gioco
socratico. Ora mi guardava inarcando i sopraccigli in
un’espressione attenta e con un risolino indecifrabi-
le. Ecco, mi dissi, l’avrò scandalizzato ancora con
questa mia fantasia e ora riderà di me. Così provai a
snidarlo dal suo no comment:
«Cos’è che non credi: che tra questi due popoli ci
possa essere, non sto dicendo un feeling, ma una
certa voglia di dialogare?»
«No, no. Non credo che tu esageri. Tante volte ci
penso anch’io... Ma poi, chissenefrega?» provò a
fare l’indifferente.
Continuavamo a guardare lo scorrere lento dell’
acqua che sembrava ferma. Pensavamo di sicuro alla
stessa cosa: al presente di Napoli. Al suo almeno
apparente sfacelo. Morale, urbanistico, economico,
civile… Quale dimensione si poteva ancora salvare?
Tutti e due sapevamo d’istinto che da salvare c’era
tanto, e che quel male non poteva essere irreversibi-
le. Anzi non lo era, di sicuro!
Eppure ai piedi del nostro Vesuvio non vedeva-
mo che una città irriconoscibile. Violentata umiliata
immiserita, e sbattuta così sotto i riflettori del mondo
intero. Un popolo che non sapeva più ridere, ma
forse neppure piangere. Peggio ancora, sembrava
non dar segni di rianimazione. Quello che si sentiva
ripetere era solo un triste ritornello: “Non è questa la
vera Napoli”. Quasi un lavarsene le mani.
«E allora? Fuori l’altra, una buona volta!» pro-
nunciai a mezza voce.
Il mio amico capì perfettamente, approvò con
tristezza ed io compresi che aveva seguito il lungo
!236
percorso silenzioso dei miei pensieri. Sapevo che, a
farlo soffrire almeno quanto me, c’erano tra l’altro
gli sguardi muti e imbarazzati della gente di qui, al
solo nominare quella città. Come a parlare di un ma-
lato grave. Si vedeva però anche qualche fiorentino
intenerirsi senza parere, o arrabbiarsi tra una battu-
taccia e l’altra. Qualcuno canticchiava a mezza voce
i motivi classici della canzone napoletana.
Ad occhi chiusi e con la fronte piena di grinzoli-
ne che la frangia dei capelli non poteva nascondere,
Gaetano considerò:
«Ti sei mai chiesto come mai un commediografo
come Eduardo De Filippo amasse tanto il palcosce-
nico del teatro La Pergola e per le sue “prime” si
fidasse di questa platea esigente? Ci sarà stato pure
un motivo. La mia idea è che forse la sua ironia ma-
linconica s’incrociava con quella dei toscani, graf-
fiante ma leale e in fondo anch’essa bonaria. Ma
doveva esserci qualcosa di più. Che ne so, un’asso-
nanza, se non un’intesa.»
Mi piaceva sentirglielo dire. E mi piacevano
quelle sue fantasie. Gli capitava ogni tanto, special-
mente dopo una cenetta annaffiata da un buon bic-
chiere. Forse l’aperitivo che avevamo preso in quel
piccolo bar di là d’Arno era eccessivamente alcolico.
Pensai che la scarsa familiarità di quella platea
con il dialetto napoletano non doveva essere un pro-
blema. Tanto vero che la moglie senese e la figlia
fiorentina del mio amico non facevano alcuna fatica
a capire le battute degli attori napoletani. Mi torna-
vano in mente i duetti esilaranti di Benigni e Troisi
nel film Non ci resta che piangere. Ciascuno dei due
continuava a parlare tranquillamente la propria lin-
gua con vocaboli, accenti e cadenze assai dissimili e
con un modo tanto diverso di gesticolare, eppure
s’intendevano alla perfezione.
!237
Di più, quei due si volevano bene.
«Si può voler bene al prossimo anche senza ur-
largli i propri sentimenti» considerai ad alta voce. Mi
riferivo vagamente anche a noi due e al nostro carat-
tere scabro.
Lui mi fissava ora, senza commenti.
Dopo un’occhiata all’orologio, saltammo giù dal
muretto con un piccolo balzo giovanile, e tornammo
sui nostri passi. Nel riattraversare il ponte, fummo
colti di sorpresa dallo spettacolo delle luci sull’Arno.
Più che fresca la serata era fredda, ora che non c’era
più il sole.
Quando le ritrovammo, «le due donne», come le
chiamava lui, erano ancora alle prese con le scintil-
lanti vetrine di via Tornabuoni. Per non lasciar pas-
sare ancora vent’anni prima di rivederci, Gaetano mi
vincolò con la promessa impegnativa di rinnovare
tutti e due l’abbonamento al circolo del tennis.
Stabilimmo di ritrovarci il sabato successivo alla
solita piazzetta di Bellosguardo.
***
!238
***
!241
Quel cognome non mi era muovo, e non mi par-
ve vero di poter consumare la mia piccola rivincita.
Lo stupii infatti raccontandogli la mia tesi di laurea
su Gaspare Bonciani, personaggio eminente di quel-
la famiglia, i cui destini si erano incrociati con quelli
di Giovanna seconda d’Angiò:
«Ci risiamo» lo provocai aspettando la reazione.
«Napoli e Firenze.»
Lui mi regalò finalmente un sorriso e mi parve
davvero stupito: «Ma tu pensa, proprio una tesi su un
fiorentino alla corte di Napoli! Un altro intreccio
misterioso. Chissà che Marasco, con quei suoi in-
trecci musicali al teatro delle Laudi, non abbia dav-
vero intravisto qualcosa.»
Mi sembrò una forzatura, o forse una cosa detta
giusto per compiacermi. Però ero contento di rive-
derlo sereno. E anche un po’ intenerito. Eravamo già
saliti in cima a quella viuzza e già ci godevamo il
“nostro” spettacolo esclusivo. Lo vidi illuminarsi
ancora una volta di fronte al miracolo rinascimenta-
le, e il suo sorriso mi parve quello di un bimbo.
Provai a leggergli negli occhi il solito pensiero:
poesia arte politica tecnica scienza, tutto ricomposto
in un’armonia che sembrava segnare il destino vero
dell’uomo.
«Tutto si tiene» disse infatti a mezza voce.
Eppure – glielo leggevo negli occhi socchiusi – il
suo cuore galleggiava in dolci acque remote. Lui è
un napoletano verace di Porta Capuana. Non come
me, che ho nel sangue la rude fierezza incolta dei
miei antenati sanniti, quelli che umiliarono gli onni-
potenti romani sotto le forche delle loro lance incro-
ciate. Un’eredità così ingombrante, quella dei sanni-
ti, da impedirmi di dare sfogo ai miei sentimenti. Lui
no. Gaetano è di quelli che non si vergognano di
parole in disuso, ma vere.
!242
Forse in quel momento gli capitava di vedere un
film simile al mio. A volte mi scorre dinanzi, foto-
gramma per fotogramma, tutta la storia intensa vis-
suta negli anni verdi all’ombra del Vesuvio. L’una
dopo l’altra affiorano quelle immagini appassionate
o languide, tragiche o divertenti. E sembrano volersi
collocare qui, un po’ sfocate, nei nuovi spazi di
un’armonia a portata di mano, eppure anch’essa a
rischio di estinzione.
Questa volta decisi di confidargli le mie fantasie.
«Guarda caso,» mi rispose fingendo di stupirsi,
«anche a me capita ogni tanto. Ma il finale dei miei
film è sempre un mezzo incubo. Non so come dirti:
è come se infanzia, adolescenza e prima giovinezza
appartenessero ormai a un’altra persona. Quasi che
qualcuno…» ora gli s’incrinava il timbro un po’ me-
tallico della voce «…come dirti, è come se qualcuno
me le avesse portate via approfittando delle mie di-
strazioni.»
In questo lungo racconto continuo a usare la
forma dialogica per due motivi. Intanto ricordo bene
le singole battute, tanto da poterle ricostruire senza
problemi. Credo poi che il discorso indiretto non
renderebbe l’idea di quel nostro bisogno di capire.
Il mio amico non riusciva ad arginare la piena
improvvisa di quei vecchi ricordi. Così provai a dar-
gli una mano a modo mio. Anziché distoglierlo con
chiacchiere vane, affondai la lama. Gli chiesi dunque
a bruciapelo:
«Sei mai salito sul Vesuvio, dico proprio in cima,
ai bordi del cratere?»
«Tante volte» rispose con voce sorda.
«Io una volta sola. In vespa con una ragazza,
rischiai di ruzzolare slittando sui ciottoli di lava oltre
il percorso asfaltato.» Finalmente gli strappai un
sorriso e lo incalzai: «E tu cosa hai visto di lassù,
!243
oltre alla follia suicida delle case e villette che asse-
diano i fianchi del vulcano?»
«Nulla» rispose dopo qualche secondo di rifles-
sione, ma si capiva che continuava a frugare nella
memoria. «Solo rocce di lava solidificata e uno sgre-
tolio nero sotto i passi. Però ho fantasia, tu lo sai.
Così mi sentivo in cima al mondo. Un mondo pri-
mordiale e meraviglioso che mi prendeva alla gola e
mi protendeva le braccia, dal Capo Misero alla Punta
Campanella. Le braccia di mamma.»
Mentre s’inteneriva in quell’abbraccio infantile,
vide il mio imbarazzo e fece una risatina sommessa,
amarognola.
«Era tutto finto» riprese accigliato. «Già allora,
un verminaio vorace e ributtante stava divorando la
nostra terra. Peggio, scavava dentro ciascuno di noi.
Ci succhiava il sangue, capisci, ci svuotava l’anima.
Certo non come oggi, ma i segni della metastasi
c’erano già allora. E tutti a far finta di nulla.»
«Dai, via» interruppi il suo sfogo insopportabile,
«non hai detto che ti sentivi in cima al mondo e che
di lassù potevi guardare lontano, molto lontano?»
«Infatti» si schiarì la voce, già un po’ rasserenato,
«dall’alto del Vesuvio vedevo benissimo il profilo
sontuoso di Firenze adagiata tra le colline. Per le sue
strade però scorgevo gente come persa anch’essa in
meandri senza sbocchi. Senza futuro.»
Non lo avevo mai visto di umore così nero.
«Ascolta, stanotte ho fatto un sogno» inventai,
sapendo che lui avrebbe fatto finta di crederci. «Ho
sognato Masaniello. Era in cima al Vesuvio, vestito
da Pulcinella, e con voce potente arringava il popolo
radunato in piazza Plebiscito…»
Interruppi per un attimo la narrazione, volevo
vedere la sua reazione. Ora Gaetano era concentrato
nell’ascolt.o.
!244
«Tutti lo ascoltavano in silenzio» proseguii il mio
racconto guardandolo negli occhi «e riuscivano a
vederlo anche senza binocolo, e ogni tanto qualcuno
applaudiva. Lui li incitava a modo suo a ribellarsi
una buona volta agli aguzzini sanguinari e a scac-
ciarli dalla città, come avevano saputo fare con i
tedeschi nell’ultima guerra…»
Mi accorsi dell’anacronismo (che ne sapeva Ma-
saniello della seconda guerra mondiale?) e provai a
correggere: «Secondo me l’antico pescivendolo di
Amalfi, nonostante la brutta fine, è ormai fuori da
ogni dimensione del tempo; tanto è vero che indos-
sava la maschera immortale di Pulcinella…»
Feci ancora una pausa, prendevo tempo per tro-
vare una conclusione plausibile. Lui m’incalzò come
un bambino indispettito dall’interruzione della favo-
la: «E allora?»
«Allora Pulcinella rimase a lungo con la bocca
spalancata senza emettere suoni, e finalmente cacciò
un urlo disumano : “Guagliù, ma chi aspettate? – E
dateve ‘na mossa!” A questo punto gli applausi di-
ventarono un boato tremendo che scosse la città e
sconquassò le viscere del vulcano.»
Il mio amico continuava a fissarmi con espres-
sione intenta e interrogativa.
«Poi il sogno si è interrotto bruscamente» con-
clusi, cercando di sdrammatizzare. «Perché quello
che mi era sembrato lo scoppio del tumulto popolare
era invece il trapano infernale che stava demolendo
il mio fragile sistema nervoso, oltre a buttar giù il
solaio del vicino di casa».
Gaetano non sorrise. Mi appoggiò una mano sul-
la spalla e seguitò ad annuire con gli occhi lucidi.