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nuova serie

[2]
Laia Jufresa
Umami

titolo originale: Umami


traduzione di Giulia Zavagna

Opera pubblicata grazie al Programma


di Sostegno alla Traduzione (PROTRAD)
dipendente dalle istituzioni culturali messicane.

Esta publicación fue realizada con el estímulo del


Programa de Apoyo a la Traducción (PROTRAD)
dependiente de las instituciones culturales mexicanas.

© Laia Jufresa, 2015


by arrangement with Il Caduceo di Marinella Magrì Agenzia Letteraria and VicLit Agency
© SUR, 2017
Tutti i diritti riservati

Edizioni SUR
via della Polveriera, 14 • 00184 Roma
tel. 06.83548987
info@edizionisur.it • www.edizionisur.it

I edizione cartacea: maggio 2017


I edizione digitale: maggio 2017
ISBN 978-88-6998-091-6

Progetto grafico: Falcinelli & Co.

Composizione tipografica
per la copertina: Coco Gothic (Cosimo Lorenzo Pancini, Zetafonts, 2015)
Laia Jufresa
Umami
traduzione di Giulia Zavagna
alla nonna Duende
e all’abuelo Toro
Tra tutti, sappiamo tutto.

Alfonso Reyes
Nota

La milpa è un sistema di coltura ecologica molto diffuso in America centrale e in America


del Nord, che prevede la coltivazione di tre piante sullo stesso terreno: il mais, la zucca e i
fagioli. La parola milpa è composta dai termini nahuatl milli, campo coltivato, e pan,
sopra/al di sopra, e si intende letteralmente come «ciò che si semina nello stesso campo». Il
mais e i fagioli sono alla base dell’alimentazione messicana, e da soli apportano tutti gli
amminoacidi essenziali. Per questo la milpa ha avuto un ruolo così importante, anche nella
mitologia mesoamericana. Oggi, la parola fa ancora parte del linguaggio corrente, per
esempio, se qualcuno sta attraversando un periodo difficile, si dirà: «le está lloviendo en su
milpita» (piove sulla sua piccola milpa).
Prima parte
2004

Una milpa, gli dissi. Salii sulla sedia della sala da pranzo e gli dissi: Una milpa vera e
propria, di quelle tradizionali, con mais, fagioli e zucca, lì, accanto al tavolo da picnic.
Facendo un grande cerchio con le mani, trionfale, proclamai: Come i nostri antenati!
Guardammo tutti e tre oltre la porta scorrevole, verso il cortile dove c’è il tavolo da picnic.
Una volta il tavolo si piegava e si poteva trasportare. Le due panchette laterali si infilavano
sotto, come le zampe retrattili delle tartarughe, e il tutto si trasformava in una valigetta di
alluminio. Ma ora non più. Ora nessuno lo piega più per portarlo al parco. Intorno al tavolo
c’è solo cemento grigio, grigio sporco, e una fila di fioriere piene di terra secca, resti di
arbusti, sottovasi rotti. È un cortile urbano, incolore. Il poco verde che c’è, è muschio. Se c’è
qualcosa di rosso, sarà ruggine.
E anche delle erbe aromatiche: prezzemolo, coriandolo, tomatillo, peperoncino piccante
per la salsa verde che fa papà quando abbiamo visite. Lui approvò subito l’idea: Potremmo
anche piantare quei pomodori bitorzoluti che abbiamo mangiato quando eravamo in
tournée in California, che ne dici? Mamma però, che a quanto dice ama le piante, no.
Mamma se ne andò in camera sua prima che io scendessi dalla sedia e accettò l’accordo
solo tre giorni dopo. Lo mettemmo per iscritto su un tovagliolo. Lo firmammo, con una
piccola modifica per accontentare lo spirito gringo di mamma: vada per la milpa, ma con un
po’ di verde attorno. Qui a Villa Campanario la milpa è una tradizione, non sono la prima a
provarci. In ogni caso, ormai è ufficiale: A patto di trasformare il cortile in una milpa-
giardino, Ana può saltare il campo estivo e passare le vacanze a casa. A casa mia,
ovviamente. Il che non significa che in qualche modo sto pagando l’affitto? Qualcuno
potrebbe anche vederla così. Ma non i miei. Non è che siano crudeli, solo che amano il
commercio equo e solidale. E i laghi. Mamma è cresciuta vicino a un lago. Ha nostalgia delle
libellule.
Nella testa di mamma: campo estivo = infanzia privilegiata. Ma in questo caso campo
estivo è solo un nome in codice per dire che io e i miei fratelli passeremo due mesi con la
compagna di suo padre, la nonna Emma, a nuotare tra le alghe, a dare da mangiare sassolini
alle anatre. Mamma considera la passione per queste attività un segno di sana costituzione,
come bere il latte o alzarsi presto. Ci ha fatti crescere in una delle città più grandi del
mondo ma non vuole che diventiamo bambini di città, che è esattamente quello che siamo.
Anche lei vive qui ormai da vent’anni e ancora si annoda un foulard in testa, come altri
espatriati appendono alla finestra la bandiera del paese che hanno lasciato. Sradicata, è
questo che mamma dice di sé quando ci sono visite e beve vino rosso e la lingua e i denti le
diventano neri. Da bambina, mi immaginavo piccole radici che le spuntavano dai piedi,
riempiendo di terra le sue lenzuola.
Protestante, è un’altra delle cose che mamma dice di sé stessa. Accompagna il termine
con un gesto preciso: un ampio giro del polso, una specie di riverenza della mano che serve
sia per giustificarsi sia per prendersi in giro da sola. Ormai in famiglia il solo gesto significa
protestante. Lo usiamo tra noi, per ridere delle assurde nevrosi di mamma: la sua
ossessione per la puntualità o per un lavoro ben fatto. Qualcuno gira il polso ed è come se
stesse eliminando le invisibili ragnatele del cattolicesimo nazionale. Oppure è ora di andare
all’aeroporto, anche se è troppo presto. Se qualcuno di noi fa quel gesto, gli altri capiscono,
senza bisogno di parole: ecco a voi l’etica protestante.
La verità è che ora c’è un Walmart vicino al lago della sua infanzia. Ma non è saggio
ricordarglielo. Né ricordarle che anche lei potrebbe andare a trovare Emma. Mamma tende
a dimenticare che si è sradicata da sola. A volte penso che dovrei farlo anch’io. Fare le
valigie e andarmene appena avrò compiuto quattordici anni. Ma non lo farò. Perché lei ne
sarebbe contentissima: la sua figlia maggiore che segue i suoi passi. Questa sarebbe
l’interpretazione della famiglia, ne sono sicura: mamma rigira le cose con la stessa ferma
delicatezza con cui piega i vestiti e strizza gli stracci. Ho visto delle sue foto di quando
aveva la mia età, con il violoncello tra le gambe e i piedi scalzi. Era facile svanire così.
Disfarsi come schiuma. Facile scappare ed essere salvata. A me, quando mi siedo, mi si
uniscono le cosce e c’è sempre qualcosa che mi spunta dal bordo dei pantaloni, o della
sedia, o della bocca. E non ne so niente di ritmo. Né di avventure. Se scappassi, finirei per
tornare.

Ora abbiamo due sacchi di terra «buona». Il commesso della serra mi ha convinta che la
nostra terra, quella che c’è in cortile, non si può usare. Dice che è contaminata dal piombo.
Dice che in tutta la zona di Cuauhtémoc, di Benito Juárez e in tutto il centro ci sono livelli di
piombo allarmanti, fino a quaranta milligrammi per ogni chilo di terra. Non so se credergli,
ma la terra l’ho comprata lo stesso. Soprattutto perché io e la mia amica Pina potessimo
andarcene da lì. Non ci ha guardato le tette né niente del genere, però ha infilato molto
lentamente le mani nel sacco di terra, fino all’avambraccio, mentre parlava di terreni e
fertilizzanti. Allora Pina, che era venuta con me con l’idea che dopo saremmo andate a
prendere un’orzata, mi ha dato una gomitata. Compra la terra, mi ha detto: C’è già
abbastanza merda nel tonno in scatola.
Durante la nostra pausa a La Michoacana qui all’angolo, un locale che sopravvive
praticamente grazie a noi, ho chiesto a Pina: Credi che fosse un pervertito? Pi si è leccata le
labbra e ha accarezzato uno dei sacchi, gemendo: Mmmmm, terra. Si è messa la mano tra le
gambe: Mmmm, un verme pieno di piombo! A volte mi vergogno di uscire con lei. A volte
invece la invidio. A Pina non riesco proprio a dire di no. Quando eravamo in terza
elementare mi ha obbligata a fare quel gioco che ti gratti la mano fino a farla sanguinare.
Allora abbiamo fatto un patto di sangue, di essere sorelle. Ma ultimamente non lo
sembriamo, invidio tutto quello che fa, tutto quello che le succede, che è sempre più
interessante di quello che succede a me. Non so da quando è così. Anzi, lo so. È da quando
sua mamma è tornata. Prima avevamo ognuna il suo fantasma, lei sua mamma e io mia
sorella, ma tre mesi fa il suo fantasma l’ha contattata via internet. Non è la stessa cosa,
certo, che tua mamma se ne vada o che tua sorella muoia, però cos’è peggio: una mamma
che riappare o una che non va mai da nessuna parte?
Pina ha smesso di fare versi e ha detto: Non dire pervertito.
Perché?
Qualche deficiente lo dice dei gay. È una parola discrimitoria.
Discriminatoria.
Ecco, quello.

Che faccio, butto la terra nuova sopra la vecchia e via? Siamo nel cortile. Pina ha un braccio
sollevato e la faccia rivolta verso la sua ascella: con l’aiuto di una pinzetta che ha nell’altra
mano, si sta depilando. Quando le viene il torcicollo, cambia lato. Sembra un airone: bella e
ritorta. Guardo piena di tedio i sacchi di terra nuova, che non rispondono. Mi piace la parola
tedio. Il tedio è questo, quell’ora in cui tutto è fermo, solo le mosche svolazzano qua e là, e
tutto puzza di cemento e polvere. Non so se c’è del piombo, ma nella terra vecchia ho
trovato un infradito. E dei tappi di birra, e – seppellito a tradimento e con premeditazione –
il mio cagnolino di peluche scomparso cinque anni fa. Se i miei fratelli non fossero al campo
estivo, starei già tramando vendetta.
Pina, che non ha idea di quello che dice, mi fa: Devi togliere la terra vecchia.
E che ci faccio?
La vendi a Marina. O gliela regali, così può piantare qualcosa anche lei e mangiare delle
verdure.
E il piombo?
È un minerale, Ana: ne ha bisogno.
Forse quello che le serve è leggere Umami.
Che cosa sarebbe?
Il libro di Alf, te l’ho prestato mille anni fa.
Devo averlo regalato a qualcuno. Era una storia di pedofilia?
Niente del genere, è un saggio antropologico sulla relazione tra il quinto sapore e il cibo
preispanico. Ma dove vivi?
Lo so cos’è l’umami, ma perché ha scritto un libro con il nome di casa sua?
Quanto sei scema.
Scema tu che non sai cosa fare con la tua bella terra.
Papà esce dalla porta scorrevole. Si è tagliato la barba due mesi fa e non mi ci sono
ancora abituata. Sembra più giovane. O forse più brutto. L’altro giorno l’ho raggiunto alle
prove per farmi dare un passaggio a casa, e quasi non l’ho riconosciuto. Si è sempre seduto
in fondo al palco, ma prima lo trovavo sempre. Evidentemente, era solo per la barba. Però
non è il momento di dirglielo. Gli restituisco i venti pesos che mi sono rimasti dal vivaio.
Papà si siede con la sua birra sulla panchina e poggia i piedi sui miei sacchi di terra.
Rimette i soldi nel portafoglio. Gli ho promesso che il progetto sarebbe stato un buon
investimento, anche se in realtà non so nemmeno cosa vuol dire. Prima di tutto gli racconto
dell’azoto nella terra. Di come il mais lo assorbe, e i fagioli lo ristabiliscono. Poi, gli spiego la
faccenda del piombo. Forse esagero un po’. (Tossico, gli dico, e: cancerogeno.) Sembra
interessato, quindi vado avanti. Gli dico di come ci occuperemo da soli della
nixtamalizzazione del mais, come i messicani hanno sempre fatto, e non come gli europei,
che hanno esportato il nostro mais ma non la nostra saggezza, e per secoli sono stati
vittime della pellagra senza avere la minima idea di che cosa li stesse uccidendo. Era la
mancanza di niacina, in caso te lo stessi chiedendo. Pina alza gli occhi al cielo. Papà si mette
a guardare mamma attraverso la finestra: oggi ha un turbante arancione, lava i piatti e
muove le labbra, sembra una carpa giapponese. Siamo d’accordo che è meglio non dirle
niente del piombo. Mamma è il tipo di persona a cui si spezza il cuore al minimo accenno a
inquinamento e/o progresso.
Propongo a papà di comprare una manichetta. Papà fa due calcoli. Preoccuparsi dei
soldi è una delle sue manie. Quando gli prende così, incrocia gli occhi per l’agitazione. Per
distrarlo, gli racconto dei pomodori. Alcuni, gli prometto, saranno deformi e altri saranno
viola. Pina mi dà una mano, solleva le pinzette e traccia movimenti verticali: Alcuni saranno
a righe, dice. Papà si emoziona. Va in cucina a prendere un’altra birra e lo guardiamo
mentre cerca di convincere mamma a uscire. Pomodori tigre, le sta dicendo e, anche:
Quality time. Con il suo accento messicano che un tempo la faceva ridere. Però mamma non
viene. Mamma non crede nei cortili. Nella sua testa i cortili equivalgono a una cosa patetica
e malnutrita, una cosa che si rotola nella propria sporcizia, una cosa in trappola.
Oh, ma a te non sembra magrissima?, chiede Pina.
Chi?
Marina!
Papà torna in cortile e annuncia che non mi comprerà nessun attrezzo. Devo farmeli
prestare da qualcuno. Scommetto che questa è la sua risposta al solito commento di
mamma: La vizi troppo.
Gli chiedo da chi dovrei farmeli prestare, ma papà semplicemente schiaccia col piede la
lattina vuota della prima birra. Sono vent’anni che suona i timpani nell’Orchestra Sinfonica
Nazionale: quando fa l’eco, è capace di farlo risuonare per tantissimo tempo. Dopo un po’,
alza la testa e si mette a guardare Pina. Non ti fa male?, le chiede.
Pina dice di sì.
Non è meglio che usi un rasoio?
No, perché i peli ti ricrescono più in fretta, spiego io a denti stretti. Papà capisce: non fa
altre domande. Pina mette le pinzette nella tasca degli shorts, incrocia le braccia
stringendosi le ascelle con le mani, e dice: Devo andare a fare le valigie. Si alza e ci dà un
bacio per uno.
Non resti a pranzo?
Non posso, domani vado da Chela e non ho ancora comprato la crema solare, eccetera,
eccetera.
Salutamela, dice papà.
Io non so cosa dire e Pina se ne va. Dalla finestra la vedo abbracciare mamma: carpa
giapponese, airone cinese.

Arriva una mail dei miei fratelli appena atterrati in Michigan: i biglietti sono sempre
gentilmente offerti dalla compagnia aerea per la quale nostro nonno, di cui praticamente
non abbiamo ricordi, è stato pilota per tutta la vita. Prima, niente al mondo mi emozionava
quanto volare con loro, come se tutti facessimo parte di una grande, meravigliosa famiglia
allargata, con beauty-case blu pieni di sorprese per i nipoti dei piloti, infinitamente
superiori ai pacchetti di caramelle che ricevevo alle feste dei miei compagni di scuola. Mi
mettevano al collo un pass e facevo da guida ai miei fratelli. Quando eravamo ancora in
quattro non riuscivamo a viaggiare tutti vicini: loro tre si sedevano in una fila e io, dall’altra
parte del corridoio, fingevo di volare da sola. Allora, Emma non aveva nemmeno il telefono.
Adesso ogni cinque minuti manda foto che fa con il cellulare. Poco tempo fa ci ha mandato
una mail sul cancro alla pelle, una di quelle presentazioni in PowerPoint che si trovano
ovunque su internet. Immagino sia per questo che nelle foto che ci manda ora Theo ha il
berretto, Olmo la visiera e lei un cappello cinese a forma di cono, sicuramente del Penny
Savers, dove compra tutto per tre perché sa che le cose avranno vita breve. Hanno tutti e
tre un colorito spettrale inflitto dalla densa crema solare, ed Emma ha una sigaretta in
mano. Non esiste PowerPoint al mondo che la convincerebbe a smettere.
L’anno scorso, Theo ha cercato di spiegarle che le conveniva comprare una sola torcia
decente, per esempio, invece di tre torce scamuffe. La nonna l’ha lasciato pontificare quanto
voleva ma, quando ha finito, lei ha risposto: Si vede che non hai fatto la guerra. Theo ci ha
messo troppo a reagire perché quando le ha detto: Ma neanche tu!, Emma si stava già
allontanando lungo il corridoio dei detergenti, con il suo carrello pieno per tre.
Quando qualcuno cerca di opporsi a questa sua abitudine, così incoerente con il resto
dei suoi vizi un po’ hippy e, secondo lei, molto alternativi, la nonna Emma si difende
dicendo che comprando al Penny Savers appoggia l’economia della Birmania, o di Taiwan, o
di un altro di quei paesi in via di espansione.
Solo l’universo è in espansione, dice Theo.
E lei risponde: All rightie, then.

Mamma piange per le mail, piange per le foto. D’estate è peggio. Come un fiume sporco che
trasporta spazzatura, ogni estate ripresenta alla nostra porta l’anniversario della morte di
mia sorella Luz. Era la minore.
Cosa, era la migliore?, mi chiese una zia sorda in quelle settimane in cui ci spuntavano
parenti anche da sotto i sassi, come insetti che vivono un solo giorno: il giorno delle
condoglianze.
No, le gridai: Era la più piccola!
Luz aveva quasi sei anni quando affogò. Così diceva lei da quando ne aveva compiuti
cinque: Ho quasi sei anni. Io ne avevo dieci. Mamma non è più tornata al lago da allora, ma
insiste a mandarci noi. Nella sua testa, se cadi da cavallo devi subito rimetterti in sella. O, se
non tu, almeno i tuoi figli.
C’è qualcosa che vorrebbe dire ai suoi figli?, le chiese la psicologa l’unica volta che
andammo a una terapia di gruppo, poco dopo la morte di Luz. Era un’ora che parlavamo,
soprattutto papà, Theo e io, mamma invece non aveva detto assolutamente nulla, e
nemmeno Olmo, che era molto piccolo. La dottoressa alzò molto le sopracciglia per far
notare a mamma che in gioco c’era il nostro futuro, la nostra salute mentale, era un’ora che
ce lo ripeteva. Mamma assentì, finalmente. Ci guardò uno per uno, i tre figli che le
restavano, e disse, così lentamente che si sentiva il suo accento straniero: Bambini, voi siete
molto coraggiosi e io non sono un pesce.
2003

È una sera di luglio. La nebbia fresca, quasi pulita, che nella falsa estate di Città del Messico
resta nell’aria dopo un acquazzone pomeridiano, aleggia nel vialetto centrale di Villa
Campanario. C’è odore di pietra bagnata e il suolo riflette, al cospetto di nessuno, uno
spettacolo luminoso. Sono le luci della casa Amaro, dove vive Marina Mendoza. Le lascia
sempre accese, ma quella sera hanno qualcosa di strano. Cambiano. Splendono tenui e poi
più brillanti. Non ritmicamente, come quando c’è la televisione accesa, ma di colpo; poi si
stabilizzano, e poi cambiano di nuovo intensità. Non ci sono vicini a testimoniare lo
spettacolo, ma la cosa non li sorprenderebbe: è Marina Mendoza, di nuovo insoddisfatta
dell’atmosfera.
La casa Amaro è la prima a destra, si affaccia sulla strada, ma l’ingresso e la maggior
parte delle finestre danno sul vialetto centrale. I sei metri della facciata rappresentano la
porzione più volubile dell’intero comprensorio. Marina sposta le piante, trova cose per
strada e le ammucchia accanto alla porta. C’è una grande M nera, di plastica, che si è portata
a casa quando hanno smantellato l’insegna di un vecchio cinema a pochi isolati da lì; c’è un
filo di luci di natale fuse, una panca a cui manca una gamba, un brontosauro di quaranta
centimetri che le ha regalato Olmo, il bambino dei vicini, per il suo compleanno; c’è un
cellulare appeso alla finestra e una pianta di aloe che fiorisce per finta grazie a dei fiocchetti
rossi applicati sulle foglie. Ma domani, chissà. Magari domani il brontosauro si sarà
arrampicato sull’aloe, o la M servirà da supporto per i rampicanti. Marina lascia che la
polvere si accumuli per settimane e poi, un giorno, o più probabilmente una notte, sposta i
mobili, passa uno straccio, si reinventa.
Di fronte alla casa Amaro c’è la casa Acido.
Sulla destra, uscendo dalla casa Amaro c’è la campana che dà il nome al comprensorio e,
dietro, le tre case restanti: Dolce, Salato e Umami.
Sulla sinistra invece c’è l’ingresso principale del comprensorio, coperto da una piccola
tettoia di tegole rosse che non serve a molto quando piove, ma che dà al complesso un’aria
rustica che tutti gli abitanti apprezzano, soprattutto in primavera, quando l’albero di
jacaranda che c’è sulla strada tappezza di fiori la tettoia e il marciapiede. In onore di
quell’albero, il proprietario aveva deciso di dipingere il vialetto centrale – le facciate delle
cinque case – color jacaranda, ma quando scoprì che gli avevano dato invece un violetto
opprimente, ne aveva comprati così tanti litri che non osò riportarli al negozio. Marina
detesta quel colore, le ricorda i camici di un ospedale dove è stata ricoverata e, per questo,
lo chiama violetticomio.
A dire il vero, Marina non è mai stata in un manicomio, è solo che in certi periodi smette
di mangiare, e a volte deve andare all’ospedale perché le somministrino endovena sodio,
potassio, cloro, bicarbonato, destrosio, calcio, fosforo e magnesio, tutto qui. O quello era
tutto fino all’ultima volta, quando l’hanno tenuta in ospedale qualche giorno in più per farle
il lavaggio del cervello. Ora ce l’ha pulito e pallido. Almeno è così che se lo immagina:
gonfio, come un uovo sodo sbucciato.
Con l’idea di sbarazzarsi del violetticomio, Marina ha fondato un’Associazione di Vicini
che, per ora, non ha alcun programma. Il colore degli interni di casa sua, invece, le piace
tanto. È bianco. In effetti, è stato per il bianco delle pareti che Marina ha affittato la casa
Amaro. E per la loro superficie liscia. Perché le pareti ruvide, soprattutto quelle con grandi
macchie di umidità, riassumevano con una forza visuale iconica tutto ciò che lei desiderava
lasciarsi alle spalle con quel trasferimento. Era la prima volta che lasciava casa dei suoi,
dove aveva vissuto per i diciannove anni che aveva, in un’altra città, sufficientemente
lontano da Villa Campanario per rendere quest’ultima un luogo promettente.
Il giorno che Marina visitò per la prima volta la casa Amaro, l’avevano appena ridipinta,
c’era ancora odore di vernice e il sole entrava dalla finestra ritagliando, sulla parete di
fondo, un rettangolo luminoso in cui lei vide la sua idea di casa, il suo posto perfetto. La
parola alla quale associò quella certezza fu: possibilità. Il colore, quindi, quel bianco del
possibile, acceso dal sole sulla parete liscia, si chiamò biansibile.
Il dottor Alfonso Semitiel, proprietario del comprensorio, le fece fare il primo giro della
casa. Aveva un atteggiamento che Marina aveva già notato prima, nella madre di un suo
fidanzato, una signora che era solita elencare le virtù del figlio solo per concludere ogni
serie di complimenti proclamando: L’ho fatto io.
Semitiel si vantava in generale del comprensorio che aveva progettato sulle rovine della
proprietà dei suoi nonni e, in particolare, dei nomi che aveva scelto per le case in onore dei
cinque sapori percepiti dalla lingua umana. Marina doveva conquistarlo a tutti i costi,
perché anche se aveva una copia dei documenti dei genitori, non sapeva se lui li avrebbe
accettati come garanzia o se avrebbe insistito a chiamarli per verificare le sue generalità.
Non voleva che la sua famiglia sapesse dove si trovava, non ancora, quindi si armò di
fascino e commentò che i nomi erano molto originali, il che era vero, evitando però di dire
che le sembravano assurdi, se non controproducenti, perché chi avrebbe mai voluto pagare
per vivere in un posto chiamato Amaro? Be’, lei. Amaro era la casa perfetta. C’erano, di
sopra, due camere e un bagno. Di sotto, una sala abbastanza grande, una cucina e un cortile
occupato nella sua totalità da un’enorme cisterna d’acqua. A Marina piaceva l’impossibilità
di quel cortile. Qualsiasi altro cortile, uno più pittoresco o meno caotico, le avrebbe
ricordato la casa dei suoi. Lei, che fino ad allora aveva desiderato solo cose intangibili, sentì
un bisogno ferocemente pragmatico: voleva vivere in quella casa. Voleva dormire in una di
quelle stanze e usare l’altra come studio. Voleva dipingere tutti i giorni, imparare a cucinare
un riso decente, a usare un aerografo, un pirografo, un ferro da stiro, un vibratore. Niente
più trasfusioni, senso di colpa, macchie di umidità, non avrebbe mai più messo piede
nell’enorme inferno di quella caricatura di Atene che era Xalapa, la sua città natale. Se n’era
andata. Avrebbe ricominciato da capo. La casa Amaro sarebbe stata la sua pagina bianca.
Però, per farlo, avrebbe dovuto fare una buona impressione sul proprietario e non sapeva
come. Improvvisò. Gli disse che aveva fatto l’insegnante di arte. Non menzionò che
l’avevano mandata via perché era svenuta davanti ai bambini. Disse che si era diplomata,
ma non che aveva fatto l’esame da privatista perché nel frattempo lavorava al ristorante del
padre. E poi mentì. Disse che era venuta a Città del Messico per fare l’università. La ciliegina
sulla torta fu quando iniziò a dare del tu al proprietario. Non era così che parlavano nella
capitale? Poi, civetta, gli chiese: Sei sposato? Lui arrossì, lei anche di più. Rispose che era
vedovo, che era figlio unico, che era un antropologo. Presero un caffè e lei rubò, dal baretto
dove firmarono il contratto, il primo oggetto per Amaro: un posacenere. Lo collocò al
centro della sala vuota. Poi passò ore sdraiata sul pavimento della sua nuova casa, a fumare
e a guardare la polvere che fluttuava, imbambolata, spostandosi sul pavimento man mano
che il sole avanzava sulla parete, convinta che qualcosa (la sua vita) stesse per cominciare.
È quella tonalità di speranza, quel panorama di un bianco tutto in potenza, un bianco
soglia, che Marina intende per biansibile. Ed è ciò che sta cercando di riprodurre ora, un
anno e passa più tardi, con una serie di lampadine speciali. Luce bianca, promette la
confezione. Le posiziona una per una in tutta la casa dando vita, senza saperlo, alla lenta
danza delle luci sulle pozzanghere del vialetto.

Dopo aver preso in affitto Amaro, in realtà Marina entrò davvero all’università. Scelse la
facoltà, ma non l’orario. C’era qualcosa nella parola design che risvegliava in lei
un’aspettativa diffusa ma insistente: forse lì le avrebbero insegnato le cose più basilari,
quello che lei vedeva negli altri: una specie di istinto di pianificazione, di
autopreservazione. L’unica cosa sicura per il momento è che, come risultato diretto dei suoi
studi, Marina non è mai a casa all’ora in cui il sole dipinge la parete di biansibile. Secondo le
sue teorie è per questo che è andato tutto storto, che si è trascurata di nuovo, disidratata. È
dovuta venire sua mamma a rimetterla in sesto. È venuta e se n’è andata. La sua presenza
passeggera si nota ancora nelle giunture tra le piastrelle, un posto che a Marina non era mai
venuto in mente di pulire, e in certe nuove abitudini. Ora, Marina prende delle medicine.
Ora ha un analista. Ha lasciato per ultima la lampada della sala e ora si brucia quando la
tocca. La spegne. Si mette la mano sotto la maglietta e, usandola come un guanto, svita la
lampadina. Ciao ciao luce giallina e angosciante (come si chiama quel colore? Giallansia?
Gialluggia? Giallumore?). Avvita la lampadina nuova e punta la luce verso il muro. Ma
invece del tanto anelato biansibile appare una luce dura, immacolata, futurista: come le
pastiglie che prende. Questo colore, decide, si chiama bianax. Il bianax, se fosse una
persona, indosserebbe un camice ospedaliero e andrebbe in giro a predicare: Non c’è
alcuna speranza, non c’è via d’uscita. L’unica soluzione è guardare la vita sotto una luce
diversa: la luce filtrata dallo Xanax.
Improvvisamente, un’idea di design, la prima dopo mesi: gli ansiolitici dovrebbero
avere il packaging dei cereali, con i sudoku stampati sulla scatola per passare il tempo
durante quel primo mese, nell’attesa che agiscano e che ti restituiscano la calma, fino a
quando poi ti dimentichi che stai aspettando e l’unica avvisaglia del loro effetto è il ronzio
dell’angoscia, un po’ smorzato, come se qualcuno stesse premendo il pedale della sordina.
Eppure Marina prende le sue pillole. Quasi tutti i giorni.
Stacca la lampada e prova da più lontano, dall’altra parte della stanza, ma l’effetto non la
soddisfa. Delusa, scaglia via la lampada e, dopo un clonc e uno sfarfallio, la luce bianca della
lampadina disegna un cono sul tappeto. Niente da fare, quella lampadina non è il sole. Forse
non lo recupererà mai, il biansibile, e quant’è frustrante: la serenità viene a sedersi nel tuo
salotto ogni mattina e tu non sei in casa, sei seduta in un’aula all’università, a fare mille
sforzi per non pensare a nulla. Che spreco, si dice mentre rimette a posto la lampada.
Marina odia gli sprechi. Si butta sul divano a testa in giù e mette i piedi sulla parete, dove
non c’è il sole perché ormai sono le dieci di sera. E non ho ancora mangiato niente, pensa. I
pantaloni le si ammucchiano intorno alle ginocchia e si guarda le gambe, molto più larghe
delle braccia: maledetta asimmetria, perché non può essere tutto grande uguale? Forse
devo lasciare l’università, pensa. E poi pensa a Chihuahua, l’uomo che ogni tanto dorme lì
con lei ma che è sparito da settimane, dopo che l’ultima volta che sono stati insieme aveva
detto a Marina, mentre lui si vestiva e lei guardava il soffitto: Io non ce la faccio, come se la
loro relazione fosse un borsone con Marina dentro, e al poveretto fossero venute le piaghe
alle dita per il peso di quel fuscello.

Marina non è a casa all’ora del biansibile nemmeno nel fine settimana, perché lavora. Tiene
i figli di Linda Walker, la sua vicina. Vivono dall’altra parte del vialetto, il che significa che lì
il sole non batte allo stesso modo. Non ci batte proprio, a dire il vero, eccetto nel cortile che
hanno sul retro. È un cortile grande tre volte il suo, e senza la cisterna d’acqua in mezzo, ma
è così pieno di roba che non fa venir voglia di uscire. Marina ci va lo stesso, per fumare nei
pochi momenti in cui i tre fratelli si siedono davanti alla tele. Lo fa di nascosto perché la più
grande – una grassottella di dodici anni che parla come se avesse ingoiato un dizionario – è
in perenne campagna antifumo. Io alla tua età lavoravo già, le viene voglia di dirle quando
la vede sdraiata a leggere un libro di seicento pagine. Prima, i Pérez Walker avevano
quattro figli ma la più piccola è morta due anni fa. Anche se non l’ha mai conosciuta, Marina
ha la sensazione che prima in quella casa il sole ci fosse, e che la bimba se lo sia portato con
sé all’altro mondo, o nella tomba, o in fondo a quel lago gringo, dove dicono che sia
annegata. Gliel’ha raccontato Olmo, quello che ora è il fratello minore, mentre con i suoi
pastelli disegnava una cosa che non c’entrava niente, forse un aereo.
Marina si fa ripagare in lezioni di inglese. Lo studia con vago ma genuino interesse. È un
impulso sano, aveva detto all’analista quando lui sosteneva che stesse riempiendo troppo le
sue giornate. Sono solo lezioni di inglese, si era giustificata: Lezioni per capire le canzoni
che canto. E il lavoro? Il lavoro mi piace, aveva detto lei: I bambini sono uno spasso. Ma
quello che in realtà piace a Marina è la mamma dei bambini. Ogni martedì e giovedì, Linda
va a casa sua e fanno due ore di lezione. Come materiale didattico usano i cd che Marina
tiene su uno scaffale verticale. Non è una gran collezione, ma è stata messa insieme con
amore. Ha avuto inizio in una strada lastricata di Xalapa, al negozio Tavo’s Rock: per alcuni,
negli anni Novanta, l’unico vaso comunicante con la capitale. Con la capitale del paese ma
anche con il resto del mondo: l’unico vaso comunicante con il mondo. Marina comprò un cd
e poi un altro, con il magro stipendio che il padre iniziò a darle a tredici anni, dopo che
aveva osato commentare che lei e suo fratello erano un esempio di sfruttamento minorile.
Le piaceva quel piccolo negozio perché nessuno che lei conoscesse ci metteva mai piede.
C’era sangue sulle magliette che vendevano. Sangue americano, serigrafato, inoffensivo, ma
sufficientemente rosso da generare leggende assurde: il Tavo’s Rock? Lì ci fanno i riti
satanici. Violentano i bambini. Vendono solo merce rubata.
Sangue che, ora che Chihuahua le ha raccontato così tante cose sul nord, ora che Marina
ha smesso di pensare al suo paese come il semplice yin e yang Xalapa-Città del Messico, non
le sembra giusto. Ora, se vede qualcuno per strada con una maglietta aggressiva, si offende.
Marina sa che la violenza genera violenza e lei, per principio, si oppone. Il problema è che, a
parte offendersi, non sa che fare. Suo malgrado, è sempre stata più attratta dai militari che
dai militanti. All’università spesso vede un sacco di gente indignata, un sacco di cartelloni, e
non sa cosa sia più vergognoso, se la sua assoluta ignoranza del contesto o la sua assoluta
indifferenza. Quindi alza lo sguardo, fa un’espressione strana come per comunicare che
dispiace anche a lei, fa finta di aver fretta e si allontana. Nella sua testa conia la sfumatura:
risentirosso.
Linda Walker, che per la musica popolare messicana ha una fascinazione entusiasta e un
po’ paternalista, adora i dischi di Marina. È da quando ha lasciato gli Stati Uniti vent’anni
prima che non si siede ad ascoltare un po’ di sano pop gringo. Ma questo non è pop, insiste
Marina: questa è musica alternativa. In realtà, Marina non sa nulla di generi musicali. Il
criterio di acquisto dei suoi dischi è strettamente estetico: li sceglieva per la copertina.
Quando si è trasferita a Città del Messico li ha lasciati a casa, ma ora che sua mamma è
venuta a tirarla fuori dall’ospedale (o, per usare le parole della signora Mendoza: «dai
guai»), glieli ha portati.
L’inglese ha, su Marina, un effetto simile a quello della meditazione. Non che abbia mai
fatto meditazione, ma una volta è stata ipnotizzata e, soprattutto, quando dipinge si perde
allo stesso modo. Meditativo per lei è un’etichetta a posteriori: torni da un luogo nel quale
hai passato un po’ di tempo, senza addormentarti, ma nemmeno del tutto sveglia, e solo
quando torni ti rendi conto di esserci andata. L’inglese rende le cose meno serie. Capirlo è
un po’ come disegnare dei baffi su una fotografia. Per esempio, ha scoperto che i nomi dei
suoi gruppi preferiti sono ridicoli una volta tradotti: I Mirtilli, Spaccare Zucche, Melone
Cieco, Peperoncini Rossi Piccanti, Testa di Radio, Giardino degli Stupidi.
La traduzione semplifica le cose, le schematizza: quello che sembrava complesso finisce
per diventare un semplice scarabocchio. Questa legge gravitazionale del bilinguismo
conferma a Marina quello che ha sempre sospettato: gli americani sono come disegni fatti a
pennarello.
E un sospetto confermato ti dà un appoggio, uno spazio solido dove stare in piedi,
soprattutto se quel sospetto taglia il mondo a fette, e di conseguenza delimita la porzione
che ne occupi. In altre parole, diminuisce la pressione, fa calare le aspettative. Non ci crede
davvero, ma è un pensiero che la tranquillizza.
Se non ci crede del tutto, alla sua teoria del pennarello, è in parte proprio per Linda.
Linda è una gringa disegnata a olio o con le matite colorate: ha tratti porosi, mutevoli. Più la
conosce, più le sembra che svanisca, mentre tra le righe intuisce tracce del suo passato, di
prima del Messico, prima di Víctor, prima della morte di sua figlia: pentimenti, così si
chiamano in disegno quei tratti di cui l’artista si è pentito ma che si riescono ancora a
distinguere. Linda si trasforma a seconda della pettinatura e dell’ora del giorno. Quando è
in vena di scherzi e battutine, è verde brillante, si scioglie i capelli ed è color pesca. Marina
si chiede, certe sere: è amore?
Non è proprio attrazione, ma senz’altro una forma di innamoramento: ha messo la sua
vicina su un piedistallo e non sa come descrivere quella sensazione in altro modo. Si
paragona costantemente a lei. Si obbliga a mangiare l’avena perché Linda mangia l’avena.
La ammira non per il suo posto nell’Orchestra Sinfonica Nazionale, non per la sua solida
relazione con Víctor (niente a che fare con i borsoni, quella relazione: tutto è bagaglio,
intreccio, parte di una stessa cosa); nemmeno perché è madre di quattro figli, perché ne ha
persa una, né per quel suo modo misterioso di essere, allo stesso tempo, bella e brutta; non
per come, a volte, sembra essere ubriaca a mezzogiorno, né per quei capelli lunghissimi che
insiste a intrecciarsi in cima alla testa come un nido, come per fare in modo che vi crescano
altre cose; né per il fazzoletto che si arrotola intorno allo chignon e alla fronte, come se
coprisse una ferita di guerra ancora aperta; o forse sì, per tutte quelle cose, ma non solo.
Soprattutto, Marina ammira Linda perché si è sottratta alla logica della produzione. Per
aver detto: Ora basta. O almeno è così che lo ha spiegato a lei: Un giorno ho detto basta alla
logica della produzione, sai? Non smetterò di suonare, però non ho bisogno di esibirmi. Mi
dedico alla musica, ora, non ai concerti. Alla pratica, è questo che mi interessa.
E l’orchestra te lo lascia fare?, aveva chiesto Marina, tanto per dire qualcosa.
Mi hanno dato un permesso, disse Linda: E sai una cosa? Non me l’avevano dato per
nessuna delle gravidanze. I musicisti non credono nei bambini, ma senz’altro credono nel
lutto; colpa di Wagner.
2002

L’amaranto, pianta alla quale ho dedicato buona parte dei miei quarant’anni da ricercatore,
ha un nome impossibile che, ora che sono vedovo, mi indigna.
Amaranthus, il nome generico, deriva dal greco amaranthos, che significa: «fiore che non
marcisce mai».

***

Sono vedovo dal 3 novembre del 2001. Proprio quella mattina mia moglie ha guardato
ancora una volta l’altare che avevo improvvisato in camera nostra per il Giorno dei Morti.
Era un po’ precario: solo due vasi con denti di leone e garofani d’India, nient’altro, perché
quell’anno non eravamo dell’umore giusto per le calaveras tradizionali. Noelia si è
sistemata il turbante (non le piaceva che io la vedessi senza capelli), ha indicato il mio
altare e ha detto: Pappappero.
Pappappero cosa?, le ho chiesto.
Ho vinto io, ha detto lei, sono arrivati senza di me e senza di me se ne sono andati.
Ma quel pomeriggio, quando le ho portato il suo caffellatte, Noelia se n’era andata con
loro. A volte credo che quello che mi fa più male è che sia morta mentre io non c’ero.
Mentre ero di sotto, fermo come un idiota davanti ai fornelli, ad aspettare che l’acqua
bollisse. La maledetta acqua calcarea clorificata di Città del Messico, ai suoi cazzo di 2260
metri di altezza sul livello del mare, ci mette tutto il tempo del mondo a far fischiare il
bollitore.

***

Di cognome, Noelia faceva Vargas Vargas. I suoi erano originari del Michoacán, uno di
Morelia e l’altra di Uruapan, e ogni volta che se ne presentava l’occasione giuravano
pubblicamente di non essere cugini. Ebbero cinque figli. Mangiavano tutti insieme ogni
giorno. Lui era cardiologo e aveva l’ambulatorio vicino casa. La mamma faceva la casalinga
e aveva il solo vizio di giocare a canasta tre volte alla settimana. Di solito perdeva a carte
buona parte dei soldi per la spesa, ma a loro non è mai mancato nulla. Eccetto dei nipoti.
Almeno per quanto riguarda noi, ancora glieli dobbiamo.
Per darsi una spiegazione, o quantomeno una consolazione, mia suocera mi ricordava
sempre in tono apologetico che «da quando era piccola, Noelia ha sempre voluto essere
figlia e basta». Stando ai suoi racconti, mentre le sue amichette giocavano a fare da mamma
alle loro bambole, Noe preferiva essere la figlia delle sue amiche, o l’amica delle bambole,
perfino la figlia di una bambola a volte, cosa che in generale risultava inaccettabile per le
sue compagne di giochi perché quando si è mai vista, la apostrofavano con quella crudeltà
acuta che sanno avere le bambine, una mamma così carina?
Incredibilmente mia moglie, che attribuiva tanti dei suoi problemi alla sua condizione di
figlia senza figli, non ha mai voluto toccare quell’argomento con me. Si rifiutava di discutere
il fatto che era stata sua madre, alla fine, la prima a utilizzare, parlando di lei, l’espressione
«figlia e basta». E non è forse possibile, mi viene in mente ora, Noelia cara, che la tua
ossessione venga proprio da questo? Che non sia qualcosa che hai scelto consapevolmente,
ma che te l’abbia inculcato tua madre?
Non fare lo stipetto, Alfonso, risponde mia moglie che, ogni volta che ha bisogno di dare
dello scemo a qualcuno, sostituisce l’insulto con un qualunque altro sostantivo che inizia
con la s.
O lo sostituiva, lo sostituiva. Devo imparare a coniugare che ormai non c’è più. Il fatto è
che, quando l’ho scritto qui, Non fare lo stipetto, Alfonso, è stato come se non l’avessi scritto
io. È stato come se l’avesse detto lei.
Forse la nuova macchina, quella nera, servirà proprio a questo. Sì, ecco perché me
l’hanno portata: così Noelia ricomincerà a parlarmi.

***

Ho un collega all’istituto che a cinquantadue anni si è sposato con una donna di ventisette.
La vergogna li ha colti solo l’anno in cui lei ne ha compiuti trenta e lui cinquantacinque,
perché d’improvviso il quarto di secolo che c’era tra loro era alla vista di tutti, senza
bisogno di uno sforzo aritmetico. Qualcosa di simile è successo a noi del comprensorio: i
numeri ci hanno lasciati stupefatti quando, lo stesso anno in cui è morta mia moglie, a
cinquantacinque anni, è morta la figlia piccola della mia inquilina, che di anni ne aveva
cinque. In confronto, la morte di Noelia sembrava quasi logica, solo perché l’altra appariva
talmente incomprensibile, talmente ingiusta. La morte però non è mai giusta, e
cinquantacinque anni non sono tanti.
Questa macchina la posso usare anche per lamentarmi, se mi va, del fatto che sono
rimasto prematuramente vedovo e nessuno sembra essersene minimamente accorto.
Quello che mi cercava più spesso era Páez. Ma Páez pensava più alla sua angoscia che alla
mia. Mi chiamava la sera tardi, ubriaco, tormentato dalla scoperta che nemmeno la sua
generazione era immortale. Diceva: Non dormo se la immagino da solo in quella casa,
amico. Mi prometta che non smetterà di uscire. E poi, quello stronzo sconsiderato è morto
pure lui. Noelia diceva che le brutte notizie arrivano sempre tre a tre.
Anche a lavoro, non glien’è fregato molto. Si prenda un anno sabbatico, mi hanno detto.
Marcisca in vita. Se ne vada a fermentare di tristezza in quella sua cazzo di milpa urbana
nella quale non abbiamo mai creduto. Inaridisca pure tra le sue piante di amaranto. E io,
sereno, scemo: Dove devo firmare? È stata una cazzata tremenda perché ora sto diventando
pazzo a stare tutto il giorno in casa. Non ho nemmeno internet. Di sicuro questa macchina
nera avrà il wi-fi, ma non sono riuscito ad attivarlo. Preferisco la televisione, almeno so
come si accende. In queste settimane mi sono affezionato ai programmi di metà mattina,
sono fantastici.
Da quando ho firmato per l’anno sabbatico non avevo più avuto nessuna notizia
dall’istituto. Però due settimane fa sono venuti a lasciarmi questa macchina. Dicono che è il
mio bonus da ricercatore per il 2001, sebbene quell’anno maledetto sia finito sei mesi fa e
sia stato in assoluto il meno produttivo della mia carriera. A meno che «Convivenza con il
cancro al pancreas di tua moglie» e, dopo, il «Duelis extremis dei primi mesi di vedovanza»
non si possano considerare i miei argomenti di ricerca. Suppongo che gli avanzasse uno di
questi aggeggi e me l’abbiano mandato perché avrebbero dovuto pagare per restituirlo. La
burocrazia dell’istituto è sempre stata gestita in modo del tutto illogico, anche se loro si
credono tanto coerenti. Per esempio, dicono che la devo usare, la macchina, per la ricerca,
però me lo mandano a dire dal ragazzo delle consegne. Bisogna dirlo, però, insieme al
computer il ragazzo mi ha portato anche un documento. Perché all’istituto non succede mai
nulla che non venga stabilito da un documento in carta intestata firmato dal direttore.
Il ragazzo delle consegne ha tirato fuori dalla sua Nissan Tsuru una scatola di cartone e
me l’ha, appunto, consegnata. Ha detto: È un laptop, signore, dicono all’ufficio che deve
usarlo per la sua ricerca. E io: Ma se ho preso un anno sabbatico. E lui: Be’, senta, a me mi
hanno detto di lasciarglielo e basta. E io: Vabbe’, lasciamelo e basta, allora. Me l’ha lasciato e
io l’ho lasciato lì nell’ingresso, con scatola e tutto. Questo è stato due settimane fa.
Poi oggi, ho finalmente affittato la Casa Amaro. Se l’è presa una ragazzetta magrissima,
che dice di essere una pittrice. Mi ha portato un assegno e, come garanzia, i documenti di un
ristorante italiano a Xalapa. So che è italiano perché si chiama Pisa, secondo lei è un gioco
di parole perché, oltre a riferirsi alla torre, imita la pronuncia xalapeña della parola pizza.
Anche se in realtà dicono pitsa, mi ha spiegato, ma quello sarebbe stato troppo di cattivo
gusto. A-ha, le ho detto. Io spero solo che non si droghi, o che si droghi poco, e che mi paghi
puntuale. Non mi sembra di chiedere tanto, considerando che le ho fatto un buon prezzo.
Lei era d’accordo su tutto tranne il colore delle pareti che danno sul vialetto. Sto pensando
di ridipingerle, le ho detto. Ma è una bugia.
Il bello è che dopo aver fatto il contratto, che abbiamo firmato a La Taza de Mostaza
perché è accanto alla cartoleria e dovevamo fotocopiare i suoi documenti, sono uscito e mi
sentivo bene, cioè: produttivo, o quasi. Sulla via del ritorno ho comprato un paio di birre e
delle patatine, e mi sono messo in veranda con le bambine. Dopo averle sistemate in modo
che potessero presenziare all’evento, ho aperto questa scatola su cui ora sto appoggiando i
piedi, comodissima tra l’altro, e mi sono messo a montare la macchina. Confesso che ero
leggermente emozionato quando l’ho aperta. Molto leggermente, ma è comunque
l’entusiasmo più grande che ho provato finora nel 2002.
La macchina nera è più leggera di tutte le precedenti. La sto usando per scrivere proprio
ora. Sono particolarmente orgoglioso di quanto sono stato veloce a montarla. Montarla per
modo di dire. La verità è che mi è bastato attaccare la spina. Il vero lavoro è stato tirarla
fuori dalla scatola e rimuovere i rivestimenti di plastica e polistirolo, nient’altro. L’ho
chiamata Nina Simone. Il mio altro computer, quel vecchio elefante che avevo nel cubicolo
all’istituto, e con cui ho scritto tutti gli articoli degli ultimi dieci anni, si chiama Anacleto. Sul
Windows di Anacleto nell’immagine del mio utente c’è una mia foto, ma ci aveva pensato un
tecnico dell’istituto a caricarla. Io non arrivo a tanto. Sul Windows di Nina Simone il mio
utente ha come immagine quello che prevede l’azienda: una paperella gonfiabile. Word
vuole cambiare «gonfiabile» con «affabile». Word è uno stipetto.
Cazzo, a Noelia veniva in mente ogni volta una parola diversa con la s e io non riesco a
trovarne più di una.
Sono un soprabito. Un sottopentola. Un sommergibile.

***

Da bambina, Noelia non voleva fare la dottoressa come suo padre, ma l’attrice come una
prozia che aveva fatto carriera ballando nei film muti. Dopo il liceo si è iscritta a un corso
intensivo di teatro. Ma la seconda settimana, quando le è toccato improvvisare di fronte ai
compagni, è diventata tutta rossa, non è riuscita a dire nemmeno una parola e, a sentire lei,
le è venuta la tachicardia parossistica, che è una cosa davvero tremenda: è quando il cuore
ti batte più di centosessanta volte al minuto. A me sì che è successo, non come a Noe, che se
l’era solo inventato.
Dopo il disastroso corso di teatro, Noelia si è iscritta all’UNAM, dove dopo qualche anno
da incubo – io, fino a oggi e dopo una vita passata a convivere con dottori, ancora non so
come fanno a sopravvivere – è diventata cardiologa. Lei direbbe: Medico in elettrofisiologia
cardiaca, dolcezza.
Tutto questo, Noelia me l’ha raccontato la prima volta che abbiamo cenato insieme. Mi
sembrava assurdo che parlare in pubblico la spaventasse più di farsi strada tra le viscere
umane. Le ho chiesto: Perché medicina?, perché non qualcosa di più semplice? Era il 1972
ed eravamo in un ristorante della Zona Rosa quando la Zona Rosa era ancora un quartiere
decente, non come adesso che, be’, la verità è che non lo so perché sono anni che di lì
nemmeno ci passo. Mia moglie, che quella sera era una donna che avevo appena conosciuto,
mi ha risposto: Avevo quest’idea, ovviamente sbagliata, che studiando medicina avrei
sempre avuto a che fare con le persone una alla volta. Poi ha bevuto in un sorso la sua
tequila e ha detto: È che sono sempre stata un tantino ingenua. E in quel momento ho
capito che era un po’ civetta, cosa che non si notava per niente a prima vista. Ed era
davvero ingenua? Certo che sì. Ma solo per alcune cose, e di un’ingenuità che, d’altra parte,
non la privava della sua astuzia. Diciamo che era ingenua quando le andava. Noelia era
molto pratica, anche se un po’ sbadata; era sincera al cento per cento, furba, bellissima e,
per quella prima sera e per le successive tre settimane, vegetariana.
A Noelia piacevano le persone una alla volta. Le piaceva prendere il caffè con le persone.
Le piaceva uscire a fumare di nascosto con le infermiere e scoprire qualcosa sulla vita di
cani e porci, come diceva lei. Ha smesso di essere vegetariana perché adorava la carne.
Perfino cruda. La tartare. Per il suo compleanno ordinava sempre kibbeh o kebab. Non sono
più tornato in centro perché ho troppi ricordi di quando andavamo all’Edén per il suo
compleanno. Nessuno può metterti davvero in guardia ma i morti, o almeno alcuni di loro,
si portano via con sé abitudini, anni, interi quartieri. Cose che credevi condivise ma in
realtà erano tutte loro. Ed è giusto, dico io. Patti chiari, lutti lunghi.
Noelia non mi ha detto, quella prima sera, che suo padre era stato un pezzo grosso di
Cardiologia, all’ospedale di Tlalpan, prima di aprire la clinica privata nel Michoacán dove
lei, a dodici anni, aveva imparato a leggere gli holter, cioè a individuare aritmie. Né mi ha
detto che già allora, quando io l’avevo invitata a cena, era una delle cinque, cinque!,
maggiori specialiste in tutto il paese. Questo me l’ha detto la mattina dopo. Eravamo nudi
sul divano del suo salotto e io, subito dopo, ho finito il caffè, mi sono vestito e me ne sono
andato dal suo appartamento senza chiederle il numero di telefono. O, come ha
diagnosticato lei con esattezza la seconda volta che ci siamo visti, quasi un anno dopo: Te la
sei filata, filone.
Dire che me la sono filata è un eufemismo, ovviamente. In realtà, usando un’altra delle
sue espressioni: me la sono fatta sotto. Morivo di paura e ho capito il mio panico solo a
posteriori, quando ho iniziato a riflettere sul tipo di donne con cui ero andato a letto nei
mesi successivi, tutte giovani, beneducate, umaniste, mie ammiratrici, praticamente: mie
alunne. Ero stato perfino sul punto di sposarmene una, la Memphis, come Noelia l’ha
soprannominata anni dopo, quando finalmente l’ha conosciuta, credo per gli stivali che
portava, o forse per il taglio di capelli, che ne so. Per fortuna, poco prima di sposarmi con la
Memphis ho fatto un sogno. Il fatto è che ero un codardo, sì, un filone pure, ma più di tutto
ero superstizioso: una volta capita l’antifona, sapevo che avrei dovuto dare retta
all’inconscio e ho deciso di presentarmi a casa di Noelia. Quasi non mi riconobbe. Poi si è
fatta un po’ pregare, per tipo due settimane. Ma poi ci siamo amalgamati con una tale
diligenza che ora non so, lo giuro sul mio posto nel Sistema Nazionale dei Ricercatori, su
tutti i certificati secondo i quali io so affrontare certe questioni complesse, io giuro che non
lo capisco. Non capisco com’è che e faccio a respirare, se mi hanno strappato via un
polmone.
Il sogno che ho fatto. C’era Noelia ferma sulla soglia della porta, con tanta, tanta luce alle
spalle. Nient’altro. Era un sogno statico, ma cazzo se il messaggio era chiaro. Perfino un po’
minaccioso. Quando mi sono svegliato, ancora insieme alla Memphis, sapevo di avere due
possibilità: rimanere sulla strada più facile o prendere quella più felice. Si direbbe:
un’epifania. L’unica che ho avuto nella mia vita, ovviamente.

***

A Noelia piacevano i modi di dire, le frasi fatte. Se c’era qualcosa che io non capivo, quindi
abbastanza spesso, lei sospirava e diceva: Aspetta che ti faccio un disegnino. Oppure, quella
volta che mi ha mandato dei fiori all’istituto per un premio che avevo vinto, mi ha scritto un
biglietto che diceva: «Perché è un bravo ragazzo».
A volte, però, le frasi fatte erano fatte in casa, da lei, senza consultare nessuno. Per
esempio, spesso esclamava: Meglio un bisturi in mano che un buco nella pancia. E io ho
sempre creduto che fosse un modo di dire tipico tra i medici, ma Páez mi ha assicurato che
l’aveva sentito usare solo da lei e che nessuno all’ospedale sapeva bene cosa significasse;
alcuni lo interpretavano come «meglio essere dottore che paziente», mentre altri lo
capivano come «meglio far durare ore un’operazione che fare un casino per la fretta»,
eccetera.
Al contrario, gli indovinelli proprio non li sopportava. Né i giochi da tavolo. Soprattutto
quelli con le domande, la rendevano nervosa, si dimenticava tutto e poi diventava
intrattabile. Una volta abbiamo perso a Trivial Pursuit perché non sapeva la capitale del
Canada. Non le piacevano neanche gli sport, né la ginnastica. Non le piaceva la polvere. Né
gli insetti. La sua idea del male supremo era uno scarafaggio. Non ha mai fatto le pulizie, ma
ha sempre pagato qualcuno per farle. Doña Sara, che se n’è andata qualche mese fa con la
scusa che da sempre voleva tornare a vivere al suo paese – io credo che in realtà vedermi
così distrutto la deprimesse. Le ho pagato la liquidazione, e lei ci ha aperto un chiosco di
tacos. Ha fatto bene. I suoi erano davvero i tacos più buoni del mondo. E poi credo faccia
bene anche a me, mi obbliga a combattere la mia distruzione.
Mi sono creduto molto in gamba per tutta la vita perché, a differenza dei miei colleghi,
mi sono sempre sporcato le mani a coltivare la mia milpa sul retro perché se vai in giro a
dire che un’intera civiltà mangiava questo e quell’altro, secondo me devi sapere di che cosa
sanno, quegli alimenti, come crescono, di quant’acqua hanno bisogno. Se vai in giro a
predicare la simbiosi delle tre sorelle devi prendere la tua bella pala e occuparti,
nell’ordine: del mais, poi dei fagioli, e poi della zucca. Ora però la mia fase agricola la vedo
in un modo diverso: io avevo un sacco di tempo libero. Tempo che non ho passato a
crescere figli, tempo che non ho passato a piegare la biancheria. È un’ovvietà, ma solo ora lo
capisco del tutto: è più facile sporcare in giro quando c’è qualcuno che pulisce per te. Niente
da fare, sono sempre stato l’antropologo più borghese di tutti.
Ora ci sono giorni che vado a dormire e l’unica cosa produttiva che ho fatto in tutta la
giornata è stata lavare i piatti che ho usato, o riordinare lo studio o portare fuori la
spazzatura. Sono un disastro, ma faccio del mio meglio. Metto le bambine sul passeggino e
le porto nella stanza più sporca o disordinata della casa. Mi piace avere dei testimoni.
Guardatemi, gli dico: Sessantacinque anni compiuti, ed è la prima volta che passo uno
straccio.
A Noelia piacevano i bambini, ma a distanza di sicurezza. Non ne ha mai voluti avere di
suoi e poi, quando ha cambiato idea, era troppo tardi. Non le piacevano i drammi. O forse sì,
ma quelli degli altri. Le piacevano le cose fritte anche se non se le permetteva quasi mai. Le
piaceva l’odore delle erbe aromatiche: cumino, maggiorana, lemongrass; i vestiti ben stirati
e avere fiori freschi in casa. Pagava qualcuno per stirare e qualcun altro per farci
consegnare fiori freschi. Le piaceva pagare bene e dare la mancia. Le piacevano gli oggetti
in terracotta ma solo se non erano troppo elaborati. Rifiutava di avere un servizio buono
per le occasioni speciali. Diceva: Ogni volta che riesco a sedermi per mangiare è
un’occasione speciale, almeno finché non suona il cercapersone. L’arrivo del cercapersone è
stato un evento di tale portata nella nostra vita, che nemmeno le sue successive
trasformazioni in apparecchi più moderni e colorati e compatti ci hanno dissuaso dal
chiamare cercapersone ogni aggeggio localizzatore in grado di interrompere la siesta o il
pranzo. Soprattutto la siesta, che tradizionalmente era l’ora in cui facevamo l’amore. Io
preferivo la mattina, quando lei aveva fretta, e lei preferiva la sera, quando io avevo sonno,
quindi la siesta era un momento intermedio che per noi ha sempre funzionato.
Noelia fumava sigarette Raleigh, questo fino al giorno in cui il fratello minore non ha
avuto il primo arresto cardiaco e la famiglia si è resa conto che nelle questioni di cuore non
si salvano nemmeno i cardiologi. Io non ho mai fumato altro che sigari, solo uno ogni tanto,
ma le sue sigarette non mi davano fastidio e quando ha smesso ho sentito che entrambi
stavamo perdendo qualcosa. Non gliel’ho mai detto, ovviamente. Ogni anno facevamo una
festa per celebrare altri trecentosessantacinque giorni senza sigarette, almeno per i nostri
primi dieci anni di astinenza. Che stavamo perdendo qualcosa forse non è l’espressione
adatta. Voglio dire che ci lasciavamo alle spalle qualcosa, che stavamo voltando pagina e
non ci sarebbe stato ritorno, come direbbero i poeti bohémien de La Taza de Mostaza, il bar
qui all’angolo dove vado quando il corpo me lo impone.

***

Nessuno sapeva delle mie incursioni a La Taza finché una delle mie inquiline, la gringa a cui
è morta la bambina, ha iniziato a frequentare anche lei il bar. La chiamavo «la Gringa»,
anche se con il senno di poi mi suona leggermente infame. È che a me quella famiglia non
era mai stata tanto simpatica, erano troppo rumorosi. Sono in maggioranza nel
comprensorio, perché affittano due case: Dolce e Salato. In una ci vivono e nell’altra hanno
uno studio di registrazione e danno lezioni di piano, tamburi e non so quanti altri
strumenti, e tutti i membri della famiglia ne sanno suonare uno o più di uno. L’unica che mi
è piaciuta da subito è la figlia maggiore, forse perché l’abbiamo vista nascere, proprio nel
breve periodo in cui Noelia si è pentita di non aver avuto figli e abbiamo preso a sbavare
per i bebè. Anche se in realtà Agatha Christie, o Ana, che è il suo vero nome, mi è sembrata
più simpatica man mano che cresceva, perché era un po’ disadattata, e perché io stavo
simpatico a lei. Veniva ad aiutarmi con la milpa il pomeriggio, e mi poneva, come se fossero
indovinelli, gli enigmi che Poirot e Miss Marple si trovavano ad affrontare nelle pagine dei
libri che divorava. Non sono mai riuscito a risolvere nemmeno uno di quei misteri,
ovviamente, e non perché non ci provassi. A volte non volevo aprirle la porta, perché avrei
preferito stare da solo, ma con tutto il tempo che abbiamo passato insieme mi ci sono
affezionato. Non ci vuole un genio a capire che la mia empatia per Agatha Christie è una
forma di autocompensazione, perché lei è quello che sono stato anch’io: un bambino
ignorato per tutta l’infanzia, in questo stesso posto. Vederla leggere negli angoli mi faceva
arrabbiare con i suoi genitori, che secondo me non la consideravano. A Noelia invece quella
coppia piaceva molto, chiamava la mamma Lindis e a loro perdonava tutti i ritardi con
l’affitto perché lei e suo marito erano artisti e avevano quattro figli. Quando i bambini erano
molto piccoli, facevamo spesso qualcosa insieme: chiacchieravamo bevendo qualcosa la
sera, organizzavamo grigliate; Linda tostava il mio amaranto e lo vendeva per tutto il
quartiere, e una volta hanno organizzato un concerto di un quartetto di archi nella milpa, è
stato un vero spettacolo. Però poi ognuno ha preso pian piano la sua strada. O forse io e
Noelia siamo diventati troppo vecchi per i loro gusti e hanno smesso di invitarci. È stato
allora che ho cominciato a chiamarla «la Gringa». È tornata a essere Linda solo l’anno
scorso, una mattina che ha fatto la sua comparsa sulla porta di Umami con una collezione di
foulard e mi ha detto: Voglio insegnare a tua moglie come farsi un turbante. La calvizie
dovuta alla chemio aveva distrutto Noelia. Non era mai stata particolarmente pudica ma
non sopportava di avere il cranio allo scoperto e insisteva a mettersi cappelli, cappellini e
delle parrucche spaventose che le davano un prurito insopportabile. Immagino che Agatha
Christie abbia raccontato qualcosa di quel nostro dramma privato a sua madre e all’inizio
non sapevo come reagire a quella visita inaspettata di Linda. Temevo che Noelia, presa da
quel suo nuovo senso del pudore, si offendesse. Però, come ho potuto verificare in diverse
occasioni nel corso della mia lunga vita, io non possiedo nemmeno un briciolo dell’intuito
femminile di cui dovrebbe essere dotato un uomo al giorno d’oggi, e quel piccolo corso si è
rivelato un successo. I teli, come li chiama Linda, sono stati un sollievo per Noe. E per un
periodo, quando si incontravano nel vialetto, il comprensorio sembrava un ritiro spirituale
con tutte quelle donne inturbantate.
Poi, un giorno Linda è apparsa a La Taza de Mostaza e si è seduta al mio tavolo. Da
allora abbiamo il tacito accordo, o qualcosa del genere, di non raccontare a nessuno dei
nostri incontri. Anche lei l’avevano lasciata a casa dal lavoro, perché apparentemente
questo è il modo in cui le nostre istituzioni culturali sono solite affrontare il lutto, forse per
smentire il cliché internazionale secondo il quale in Messico sappiamo convivere con la
morte.
Al bar, Linda beve vodka, per discrezione. Io, che non ho più nessuno ad annusarmi,
ordino tequila. A volte il cameriere fa lo splendido e insieme alla tequila mi porta un
bicchierino di sangrita che lei consuma imbevendoci il dito e poi succhiandolo. Ho cercato
di concentrarmi e di trovare qualcosa di erotico in quel gesto, ma c’è sempre una strana
tenerezza che me lo impedisce. E poi, Linda è una donna alta, mentre a me piacciono
compatte: Noelia era formato portachiavi. Non beviamo mai più di due bicchieri, nessuno
dei due. Io perché sono sempre stato un pessimo bevitore, lei perché deve andare a
prendere i bambini a scuola. Linda si ferma al massimo fino all’una e mezza, e la vodka la fa
piangere. Ha degli occhi verdi molto profondi, che quando piange si gonfiano e virano al
rosa. A volte chiacchieriamo e a volte non ci diciamo altro che ciao. A volte anch’io
piagnucolo. Allora lei chiede dei tovaglioli e ce ne stiamo lì a soffiarci il naso. Se parliamo è
sempre dei vecchi tempi: la sua infanzia negli Stati Uniti, la mia adolescenza a Città del
Messico, epoche precedenti alla vita con le nostre morte, oppure parliamo di opere che
ricordiamo a metà. O di cibo. Le do qualche ricetta di salse esotiche; mi spiega come fare i
cetriolini in salamoia.

***

Ora che ci penso, il matrimonio non è poi molto diverso dai programmi di metà mattina in
televisione. Alla fine, essere sposato è vedere molte volte la stessa serie di film, alcuni
migliori di altri, e l’unica cosa che cambia sono gli intervalli, le cose passeggere, che hanno a
che fare con il presente: le notizie, la pubblicità. Io non lo dico perché sia noioso, al
contrario, lo dico perché è terribile quello che ho perso: il cemento che univa le ore, il
conforto della presenza di Noelia, che riempiva tutto, tutte le stanze, quando era in casa e
quando non c’era, perché io lo sapevo che, se non si fosse ritrovata alle prese con un brutto
infarto, sarebbe tornata a mangiare e fare la siesta, più tardi sarebbe tornata per cenare,
vedere la tele e addormentarsi con i suoi piedi freddi attaccati alla mia gamba. Il resto –
tutti quegli eventi di portata mondiale, cadute di muri e monete, drammi privati e nazionali
– non era nulla in confronto. Quello che poi ti manca sono le abitudini, tutte quelle piccole
cose che sembrano imprescindibili ma finiscono per non esserlo. Come l’amaranto quando
è stato vietato. Quanto avranno sofferto gli aztechi quando gli spagnoli hanno dato fuoco ai
campi della loro pianta sacra? Figli di puttana, avranno pensato. E anche: È impossibile!
Impossibile vivere senza huautli. Ma si sbagliavano, e anch’io: Noelia è morta e la vita
continua. Una vita miserabile, forse, eppure ancora mangio e caco.

***

Quelle bestiacce, diceva mia moglie delle farfalle. Io non ho mai capito come fosse possibile
vedere qualcosa di brutto in una farfalla, soprattutto come potesse farlo Noelia, nata nel
Michoacán, patria delle farfalle monarca. Ti svolazzano addosso!, si difendeva. Ripeteva
credenze risalenti a chissà quale periodo della sua infanzia: Se le falene ti svolazzano vicino
agli occhi, la loro polvere ti fa diventare cieco. Che razza di scienziata sei?, le chiedevo io.
Una scienziata paranoica, ed è importantissimo, se ci pensi. Devi sempre assicurarti che il
tuo dottore sia credente, o che abbia almeno paura del giudizio universale, perché tutti gli
altri all’anima non ci pensano proprio e non sono altro che macellai.

***

Ecco la top ten dei film matrimoniali visti all’infinito in questa casa negli ultimi trent’anni:

Elettrocardiogramma difficile oggi, ho bisogno di una tequila


Se chiama il mio dottorando, digli che non ci sono
Quando lo fate un bambino?
La milpa e l’amaranto
Gli inquilini
Villa Campanario
Fanculo il cercapersone
Figlia e basta, figlia vecchia
Umami
Le bambine

***
Noelia ha costruito un’intera misticologia orale intorno all’espressione «figlia e basta» che
malamente tenterò di riprodurre con l’aiuto di Nina Simone e in base a quello che ne
ricordo. Anche io sono un figlio, un figlio e basta e ora un figlio vecchio, ma non sono mai
riuscito a identificarmi con tutto quello che Noelia riteneva derivasse da questa nostra
condizione, coscientemente scelta, di non essere genitori di nessuno.
Noelia chiamava la sua condizione di essere figlia e basta «figlitudine». Io le dicevo che
era un concetto sbagliato, perché sarebbe stato equivalente a dire «umano» o addirittura
«essere vivo»: tutti siamo figli. Non mi importa, diceva lei. Allora provavo a suggerirle che,
poiché esistono la maternità, la paternità e la fraternità, «figlità» sarebbe stato meglio di
«figlitudine». Ma non mi faceva caso.
Nemmeno misticologia è una parola, ovviamente, ma dopo trent’anni le cattive
abitudini di uno diventano quelle dell’altro, quindi ora anch’io inventerò parole a mio
piacimento. Tanto nessuno verrà a giudicare Nina Simone. Non permetterò mai che le si
avvicini un correttore di bozze, o ancor peggio che cada tra le grinfie dell’accademia o in
quel covo di ratti che è la revisione paritaria.
Dicevo: Sebbene io non mi identificassi con i tratti caratteristici della figlitudine, Noelia
me li diagnosticava tutti quanti. Io la smentivo, almeno tra me e me, principalmente perché
quei difetti che mi rimproverava (e che riconoscevo) (a volte) io li vedevo in molti miei
amici con figli. Soprattutto con il passare degli anni. Tutti eravamo impazienti, brontoloni,
intolleranti, viziati, malandati, cocciuti, testardi, molto testardi, a dire il vero: Páez ha avuto
tre figli e con ognuno si è fatto più testardo. Noelia mi diceva che era perché non avevamo
figli che io ero quello che ero. Se avessi avuto figli, mi diceva, saresti diventato più
attento/concentrato/tollerante/disciplinato.
Questo cosa c’entra con i figli, Noe?
Se hai figli devi andarli a prendere a scuola tutti i giorni, alla stessa ora, e se ti
dimentichi di andare poi ci stai male sul serio.
Be’, anch’io sto male quando mi dimentico le cose, pensa un po’.
Non stai male sul serio, Alfonso, perché nessuno è lì a ricordarti che ti sei scordato.

***

Noelia Vargas Vargas era incaricata di avvertirmi quando qualcuno mi prendeva in giro,
perché io non me ne accorgevo mai. Avevamo un codice preciso. Lei inclinava la testa in
avanti, e io iniziavo a difendermi. A volte ho provato a capire da dove esattamente arrivasse
la beffa, ma visto che non ci ho quasi mai azzeccato, ho imparato piuttosto a protestare
quando lei inclinava la testa: Dai, dicevo io, smettetela di prendermi in giro. Al plurale,
perché la maggior parte delle volte non sapevo nemmeno da chi tra le persone sedute al
tavolo mi stavo difendendo. Molte volte era proprio Noelia la colpevole, e a fine serata mi
spiegava l’accaduto facendomi un disegnino e moriva dalle risate. Le sono sempre
sembrato molto candido. Di me alla gente diceva, in modo amichevole, come se fosse una
delle tante conseguenze di sposarsi con un antropologo (se eravamo tra medici) o con un
chilango (se eravamo tra michoacanos) che avevo tre difetti principali: non ho mai
imparato a prendere in giro nessuno, né a guidare, né a nuotare. A dirla tutta, la terza non è
proprio vera, perché il cagnolino so farlo eccome.
Il punto è che, a volte, Noelia era più stronza che carina. Soprattutto all’inizio, stava
sempre sulla difensiva, diceva che era perché aveva sempre lavorato solo tra uomini, ma
chi lo sa. La prima volta che abbiamo litigato sul serio, mi ha detto qualcosa che non le ho
mai perdonato, nonostante tutti i suoi sforzi per rimediare. Mi disse una cosa molto
semplice e forse vera: Scopi come un ragazzino perbene.

***

Ora, immagino che la paperella gonfiabile potrebbe tranquillamente essere il mio alter ego,
perché no? Firmerò questo scritto come Papero Vedovo, Signore dell’Amaranto. Vediamo
se mi ricordo di premere «Salva», ogni tanto. Fino a quando, mi chiedo, il simbolo per
salvare documenti sarà un floppy disk?
Il mio non è veramente un anno sabbatico, tra l’altro. Doña Nina Simone, lasci che le
spieghi, non mi si confonda. L’anno è sabbatico solo sulla carta. Nella mente e nello spirito,
io sono già in pensione. Se andassi in pensione sulla carta, con quello che mi darebbe
l’istituto morirei di fame. Di fame, io!, l’esperto del sacro amaranto, la persona che ha
introdotto il concetto di umami nella conversazione gastronomica nazionale... tutto perché
quel cretino ha smesso di prendersi cura della sua milpa ormai da un anno: il mais è molto
resistente, sì, ma non è mica onnipotente. Perfino le pannocchie hanno bisogno di un po’
d’acqua ogni tanto. Perfino un papero vedovo ha bisogno d’amore. Su.
Che altro?
Laptop. Autostop. Autogol. Quale sarà il mio argomento di ricerca per la nuova
macchina?
Sarà Noelia.
2001

Cammino a quattro zampe tra gli alberi. Canto camuflash, flash, flash. Voglio trovare dei
funghi, non voglio trovare lumache. Ho appena imparato la parola camuflash. Vuol dire che
nessuno può vedermi. Sono come i funghi nascosti tra la terra e le foglie. Le foglie cadono
dagli alberi. Sono castagni. Dagli alberi cadono anche delle palline verdi tutte appuntite.
Emma dice che dentro ci sono le castagne. Fanno un solo salto giù dall’albero e poi restano
lì buttate. Il boschetto è il vicino della nonna Emma. Più o meno. In Messico i nostri vicini
vivono tutti nello stesso gruppo di case, ma qui un vicino è chi vive più o meno nei dintorni.
Nei dintorni di casa o del lago. Qui bisogna andare in macchina da tutte le parti, e tutto è
camuflashato.
Il nonno, per esempio, è camuflashato nel lago. Insomma, le sue ceneri. Ed Emma ci
chiacchiera quando cammina sulla riva e butta nel lago la cenere della sua sigaretta, forse
per fargli compagnia. Io non mi ricordo del nonno ma mia sorella grande sì. Secondo lei, il
nonno aveva il naso molto rosso e diceva i nostri nomi così: Ann, Tio, Olmou, Light.
Il nonno faceva il pilota, per questo abbiamo sempre i biglietti dell’aereo gratis e per
questo voliamo così tanto, come gli uccellini, ma senza piume e senza divertirci come loro.
Be’, un po’ ci divertiamo, perché ti portano da mangiare su dei vassoietti piccoli e ci sono
dei formaggini a forma di triangolo. Mamma dice che quando suo papà il pilota è morto,
Emma si è messa a tagliare i suoi maglioni e a sferruzzare finché con quella lana non aveva
fatto maglioni per tutti noi. Olmo dice che sono i nostri maglioni di lana di morto.
Mamma fischietta. Ha degli stivali di gomma presi in prestito e un cestino appeso al
gomito. In testa ha un telo bianco. Lei li chiama teli, quei cosi che si mette in testa. Il suo
cestino è pieno però è un imbroglio. Perché mamma raccoglie tutto quello che trova. Emma
non approva la sua tecnica di raccolta, così ha detto, e per questo si è appesa al suo braccio
e non la lascia andare. Di ogni fungo che mamma raccoglie, la nonna dice: Questo è
velenoso. O: Questo non è velenoso ma ha un sapore orribile. O: Questo per favore non
toccarlo neanche. A me non mi dice niente perché io non imbroglio.
La nonna Emma, quando siamo arrivati da lei questa volta, mi ha chiamata Nocciolina.
Mi ha detto: L’estate scorsa eri ancora una nocciolina. Mi è piaciuto. Però Ana ha detto: Cioè
eri una poppante, e questo non mi è piaciuto. Ho quasi sei anni, ho detto a Emma, e lei ha
detto: Five is a lucky number.
Oggi i maschi sono andati fuori in tenda e noi femmine siamo andate per funghi. Emma
ci ha dato ceste e borse e ci ha spiegato come sono i funghi che dobbiamo cercare, le black
trumpets. Noi le chiamiamo trombette dei morti, anche se nero e morto non è uguale. Non
ci si può mai fidare dell’inglese, traduce tutto male. E poi non sono davvero nere, sono più
marrone molto scuro. Lo so perché a me Emma mi ha dato una trombetta solo per me, in un
sacchetto di plastica trasparente. Ora me la porto in giro dappertutto e c’è già tanta di
quella terra sul sacchetto che non si vede niente dentro. La mia trombetta dei morti è
camuflashata. È contenta. Emma ha detto che è il mio campione guida. Campione vuol dire
che è un esempio di quella specie.
I maschi sono mio papà, i miei due fratelli e il papà di Pina, che si chiama Beto. Sono
andati in canoa e stasera dormono su un’isola in mezzo al lago. Io volevo andare con loro,
ma poi ho visto che Theo stava mettendo nello zaino delle cannucce e allora sono andata
con le femmine. È che ieri Pina ci ha fatto mettere la testa dentro il lago e respirare con le
cannucce ed è una sensazione orribile. Solo Theo ha resistito tanto tempo e ora si crede il re
delle cannucce e vuole giocare tutto il giorno a quello.
Le femmine grandi sono mamma ed Emma, le femmine piccole siamo io, mia sorella Ana
e la sua amica Pina, che ha un maglione di lana di morto, che non è suo, legato in vita. Lei
non ne ha uno perché non è della famiglia. Mamma gliel’ha prestato perché forse aveva
freddo. La chiamiamo Pi e quando è antipatica la chiamiamo Pipì e Ana si arrabbia
tantissimo. Pi è triste perché sua mamma le ha lasciato una lettera. Io se mia mamma mi
lasciasse una lettera sarei contenta, ma quando gliel’ho detto ad Ana, mi ha detto: Perché tu
sei scema. Ana ha dieci anni e si crede la regina del bosco.
Quando mamma ha dato il maglione a Pina io ho subito voluto il mio. Mamma ha detto
che me lo potevo mettere solo se mi levavo il resto. È per questo che sotto il maglione ho
solo il costume da bagno e la terra mi gratta le ginocchia. Ecco perché cerco di passare dove
c’è il muschio, così scivolo e non fa male.
Trovo un fiume di fango e lo seguo anche se mi allontano dal sentiero, anche se in realtà
non c’è un sentiero perché i castagni sono piantati tutti in fila e se li guardi dal punto giusto
si nascondono uno dietro l’altro e, tra le file, tutto quello che non è castagno è spazio vuoto,
e tutto quello che è spazio vuoto è sentiero.
Il mio maglione di lana di morto è giallo e punge un bel po’. Però le maniche sono
troppo lunghe e devo rimboccarle come una fisarmonica fino alle spalle. Theo dice che
esistono delle lumache giganti, gialle e nere, che si chiamano lumache banana. Ha detto che
sembro una di quelle con il mio maglione. Io gli ho detto che ha una faccia da porcospino e
Olmo ha detto: Luz è ragione. Ogni volta che veniamo qui al lago i miei fratelli iniziano a
parlare strano. Io per questo non voglio parlare inglese. Non parlerò mai inglese. L’inglese
ti fa diventare strano.
Dove finisce quella specie di fiume mi siedo a massaggiarmi le ginocchia con il fango. Il
fango cura tutto. Poi vedo qualcosa vicino al mio piede e quel qualcosa è una black trumpet.
Me ne sto immobile, muovo solo gli occhi. Ne vedo un’altra, tre, quattro, tutte vicine. Tiro
fuori il fungo che ho nel mio sacchettino per controllare e sì: sono identici. Secondo Emma,
quando ne trovi uno ne trovi tanti. Mi giro. Sono di nuovo a quattro zampe e inizio a cantare
più veloce perché così ne spuntano degli altri: flashi flashi flashi flash, e funziona. Di colpo
dove non ce n’era neanche uno ne vedo migliaia di milioni. È come in quel libro di disegni
3D che ha Olmo, che se continui a fissare la pagina non vedi niente, ma se incroci gli occhi
vedi un dinosauro. Trombette!, trombeeeetteee!, grido finché mamma non arriva
saltellando tra gli alberi. Dove?, dice.
Inginocchiati, le dico. Però si accuccia soltanto. Le faccio segno e dopo un po’ le vede
anche lei: sono da tutte le parti, dello stesso colore della terra: le black trumpets sono le
regine del camuflash.
Arrivano Pina e Ana a raccogliere le mie trombette e voglio che se ne vadano ma non gli
dico niente perché mi fanno un sacco di complimenti. Emma ne raccoglie alcune e le
annusa. Dice che faremo gli spaghetti con black trumpets, aglio e vino bianco e poi: te
l’avevo detto che il cinque portava fortuna! Le dico: Sono una nocciolina fortunata. Mamma
dice: Sei il mio maialino da tartufo, ecco cosa sei, e poi mi rimbocca le maniche del
maglione. Non so cosa sia, ma dev’essere una specie di maialino fatto di tartufo, cioè di
cioccolata. Mi alzo e ho le gambe tutte marroni, dev’essere per quello. Sono una nocciolina
ricoperta di cioccolata. Vuoi fare il bagno?, mi chiede Emma. Tra poco, le dico. Okey dokey,
dice lei.
Ana e Pi vanno a lasciare le trombette in casa perché alla fine ne abbiamo riempito un
sacchetto gigante. Noi continuiamo a camminare perché ora la nonna vuole che troviamo
degli altri funghi, dei finferli che sono gialli ma non come i funghi gialli che ha mamma nel
suo cesto, e nemmeno come il mio maglione, né come il giallo delle lumache banana che, tra
l’altro, esistono solo sull’altra costa. Del lago?, le chiedo. Del paese, dice mamma.
Voglio trovare i finferli, li troverò. Camminiamo. Ho tanto di quel fango sulle ginocchia
che forma come due tortine, un po’ rotonde come la cacca delle mucche. Mi piacciono. Mi
piace camminare con i grandi perché chiacchierano senza dirsi segreti nell’orecchio e non ti
fanno fare niente con le cannucce. Pina e Ana un giorno hanno provato a mettermi una
cannuccia nella patatina perché secondo loro tutte le donne lì hanno un buchino per fare i
figli. Ma io non ho nessun buco perché quando ci hanno provato non ci sono riuscite quindi
non avrò mai un figlio.
Mamma raccoglie un fungo per la sua cesta piena, ed Emma le dice: Quello è
allucinogeno.
Cosa vuol dire?, chiedo.
Che fa venire sonno, dice mamma.
Che fa ridere, dice Emma.
Che ti fa vedere delle cose, dice mamma.
Non mi sembra male come fungo.
Qual è?, chiedo, e me ne indicano uno nella mano di Emma ma non me lo lasciano
toccare. Emma raccoglie delle castagne e se le mette nelle tasche del maglione, che sono
così piene che si allungano e sembrano quelle calze che appendiamo sul camino a natale,
quando veniamo a trovarla, e lei le riempie di regali falsi, come frutta e pastelli. Vuoi
mangiare le castagne?, le chiedo. Le voglio dipingere, dice. Di che colore?, le chiedo.
Non ci dipingo sopra, le voglio ritrarre in una natura morta.
Sarà un quadro con tutto il raccolto della nonna, dice mamma.
Quest’anno, sarà minimalista, dice Emma.
Si mettono tutt’e due a ridacchiare e rido anch’io, per fare finta che capisco di cosa
parlano ma anche perché è come un coro e se non ridi è come se non cantassi, e se non
canti è come avere un lago davanti agli occhi e avere il costume addosso e non andare a fare
il bagno. Come Ana, che non vuole fare mai il bagno. Dice che il fango le dà fastidio. Io lo so
che è perché si vergogna che la vedano in costume e mi manca com’era prima, quando non
si vergognava di niente.
Emma ci chiede di tenerle le castagne mentre cerca l’accendino nelle sue tasche giganti.
Me ne cade qualcuna, ma non importa. Ha un collo lungo da giraffa e sembra sempre che sia
triste finché poi scoppia a ridere e butta il collo all’indietro. Ha i denti gialli e i capelli rossi
tranne nella parte più attaccata alla testa dove sono bianchi. Ha un vecchio camioncino con
tante coperte che ci si potrebbe vivere dentro e va sempre in giro con dei termos colorati
pieni di cose calde: latte, tè, zuppa, caffè. Ha sempre una sigaretta in mano e con l’altra si
tiene il gomito, cosa che mi ricorda il leggio dove mamma e papà appoggiano i loro spartiti
quando fanno le prove. Quando sarò grande, io voglio essere come la nonna ma in
messicano. Però mamma dice che è geneticamente impossibile: Emma è mia nonna solo
perché era sposata con suo padre. Geneticamente è quando assomigli tanto a qualcuno.
Mamma non assomiglia a Emma, però la chiama lo stesso Mom. Emma ha solo dieci anni
più di lei, però le dice Kiddo. Ci chiama tutti Kiddo. Anche a mio papà, Beto invece lo chiama
Bito.
Non sono mai stata sposata con tuo papà, dice Emma, non tecnicamente.
Non sposata, arrejuntada, corregge mamma, in spagnolo. Vivevi con lui, insomma.
Emma prova a dire arrejuntada, ma non riesce a pronunciare la r.
Quando sarò grande anch’io voglio vivere con un pilota, gli dico, e poi mi metto a
quattro zampe e mi allontano, come una lumaca banana sui trampoli.
2000

Sua mamma le ha spiegato come si fanno i bambini. Ora lei sta cercando di spiegarlo ad
Ana, ma continua a confondersi. Ana assicura che lei non ha nessun buco per nessun pene.
Pina vuole dimostrarle che ce l’ha eccome: sua mamma non è mica una bugiarda. Ana si
toglie i pantaloni e le mutande. È lei che dice mutande, Ana invece dice sempre slip, perché
così dicono nei suoi libri americani.
Mettono i vestiti sul muretto di pietra che circonda il piccolo parco giochi dell’hotel, e
Ana ci si sdraia sopra. Lascia cadere un piede da una parte del muretto e l’altro dalla parte
opposta. Pina osserva concentrata. Per trovare il buco, visto che lei non ha un pene, le viene
in mente di usare uno strumento. Scende dal muretto, apre lo zaino, trova un portamine Bic
nero e verde. Toglie la mina per non graffiare la patatina alla sua amica. O per evitare che la
mina si rompa dentro Ana, rimanga lì per sempre e quando lei avrà dei figli le vengano
fuori color grafite. Forse è meglio usarla dalla parte della gomma? Pina non dice niente ad
Ana al riguardo: già così ci ha messo un sacco di tempo a convincerla a spogliarsi. Ana crede
di sapere tutto, e dice che i bambini si fanno quando i genitori fanno l’amore, perché è così
che le ha detto sua mamma. Quella teoria la fa davvero innervosire. Perché è stupidissima,
tanto per cominciare, ma anche perché vorrebbe dire che i genitori di Ana, che hanno avuto
quattro figli, si amano più dei suoi, che hanno avuto solo lei. Come se non avessero più
amore da fare. Pina vuole dimostrare alla sua amica che, per una volta, si sbaglia. Questa
storia dei figli non ha niente a che vedere con l’amore. È una questione fisica, meccanica,
l’uomo mette il pene dentro la donna, sua mamma le ha spiegato tutto: il pene dell’uomo
spara delle cose che sembrano girini e in realtà sono semi di bebè.
Tra il muretto e lo zaino ci sono le altalene. Sotto un’altalena c’è Luz. Ana e Pina devono
tenerla d’occhio perché i maschi sono andati a nuotare e i genitori stanno bevendo una
birra vicino alla piscina, dall’altra parte dell’hotel, dove sono tutti quanti tranne loro tre.
Pina le accarezza la testa: Luz ha dei riccioli che rimbalzano al minimo contatto. Poi sale di
nuovo sul muretto, dove Ana ora è in piedi, ferma sulle punte, che fa finta di camminare su
una trave da ginnastica. Pina la spinge un po’ e lei si spaventa, ma non cade. Dice: Guarda
che se cado di sotto come Humpty Dumpty ti mettono in galera. Pina non le chiede come
chi. Sdraiati, le dice.
Ana si sdraia sopra i vestiti. Pina le dice: Apri bene le gambe. Ana le apre ma non smette
di muovere i piedi e così non si può. Stai ferma, ordina Pina. La scena, o forse qualcos’altro,
diverte Luz, che inizia a ridacchiare. Pina la guarda di sbieco: sta spingendo un’altalena
vuota. Prima di mettersi a parlare del buco per fare i bambini, anche Pina e Ana sono state
sull’altalena e adesso, se Pina si avvicina la mano alla faccia, sente l’odore della catena
arrugginita.
Pina inizia a perlustrare la patatina di Ana con la Bic, cercando di farla entrare da
qualche parte. Si immagina che il buco per fare i bambini abbia una porticina segreta: per
aprirla bisogna premere sul punto giusto con un pene o con la gomma di una matita. Un po’
come quelle sveglie con un buchino invisibile sul retro che bisogna punzecchiare con uno
spillo per impostare l’ora.
Ana si dispera. Non ho nessun buco, dice, e le tremano un po’ le labbra. Pina non si
ferma, è già successo altre volte che Ana si mettesse a piangere per colpa sua, ma poi le
passa. Questa volta però Ana chiude le gambe, e dice: Forse quelle grasse il buco non ce
l’hanno.
Non essere scema, dice Pina: Tutte le donne hanno un buco, sennò da dove esce la pipì?
Lo dice anche se sa che Ana vuole solo sentirsi dire che non è grassa. Però lo è. Un pochino.
Non glielo dice. Tra l’altro sua mamma le ha detto che il buco della pipì non è lo stesso che
serve per fare i bambini, ma lei se li immagina simili: sono vicini. È come se vivessero nello
stesso comprensorio.
Ana propone: Forse se faccio la pipì riesci a vedere da dove esce.
Che schifo, minaccia Pina, brandendo la matita: Se mi fai la pipì addosso dirò a tutti che
hai lasciato Luz da sola sull’altalena. Luz sta cantando la ninna nanna all’altalena vuota.
Forse sull’altalena c’è il suo amico invisibile. Pina e Ana ne hanno già discusso, perché Luz
parla sempre con qualcuno che non c’è. Pina sta pensando proprio a quello quando si sente
il colpo secco dell’altalena sulla fronte di Luz. La bimba strilla, si lascia cadere sull’erba,
scoppia a piangere.
Ehi, Luchi Luchi, grida Pina: Ehi, vieni ad aiutarmi. Ma Luz non le dà retta.
Ana salta giù dal muretto. Va a tirare su la sorella, la mette sull’altalena e la spinge piano
piano.
Non abbiamo mica finito, dice Pina.
Perché non proviamo su di te?, dice Ana.
Non mi va di levarmi le mutande.
Ah, io però me le sono tolte, reclama Ana.
Pina le tira le mutande dal muretto. Luz ride. È bello quando ride. Quando Luz ride, Pina
pensa che le piacerebbe avere dei fratelli. Luz si mette le mutande in testa, ma Ana gliele
strappa via e le tira di nuovo verso il muretto; atterrano sul prato. A volte Ana è molto
brusca con sua sorella. Tutti a volte sono molto bruschi con gli altri e quando fanno così
Pina pensa che non le piacerebbe avere dei fratelli, di sicuro non quattro. Dice: Ci ho già
provato mille volte a casa mia e non lo trovo.
E come fai a provarci se non sai nemmeno com’è fatto un pene?, chiede Ana.
Sì che lo so.
E com’è?
Ok, non lo so, dice Pina, papà non ha voluto farmelo vedere anche se mamma gli
gridava: È naturale, è naturale!, ma lui non ha voluto e basta.
Io vedo sempre quello dei miei fratelli, sembra un mignolino.
E se proviamo con Luz?
E se poi lo dice a tutti?
Diciamo a mia mamma che si era bagnata e dovevamo cambiarla, decide mentre la fa
scendere dall’altalena.
Ok, dice Pina, e toglie tutte le mine dalla Bic. Le conta: sono otto. Se le mette in tasca.
Potrebbero rompersi, ma con Luz non vuole correre nessun rischio. Le viene in mente
un’altra cosa. Vicino alle altalene, per terra, c’è una bibita con una cannuccia. Pina si mette
la matita in tasca, prende la cannuccia dalla lattina e se la pulisce sui pantaloncini.
Insieme, fanno sdraiare Luz sul muretto, sopra i pantaloni di Ana. Pina cerca di toglierle
il costume ma si attorciglia tutto. Non è come spogliare un bambolotto: una volta lei e Ana
hanno spogliato di nascosto Kenny, era più facile. Però Ana è capace. Mentre la guarda, Pina
pensa che il segreto è non aver paura, e se hai dei fratelli hai meno paura di tutto. Luz
continua a ridacchiare, canta: sull’altalena, lena, lena, c’è una bocca piena piena. Ma di che
parla?, chiede Ana. È un po’ inquietante, dice Pina. Ma Luz continua a cantare la canzoncina
inventandola sul momento. Ana le tiene le ginocchia e, per distrarla, le fa il coro: altalena,
lena lena. Ma Luz la zittisce: Smettila, dice, è la mia canzone.
Questa patatina a Pina sembra ancora più difficile di quella di prima e, tra l’altro,
appena avvicina la cannuccia, Luz si contorce e le complica il lavoro. Prima Luz ride, ma poi
inizia a piangere. Ana le tiene le braccia in alto, unendole i polsi. Pina rinuncia quasi subito.
Nessuno l’ha mai messa in castigo in vita sua, ma sa quando sta facendo qualcosa che
merita una punizione. Lasciano Luz e le fanno il solletico finché si gira e quasi cade dal
muretto.
Forse io e Luz non abbiamo il buco, riflette Ana: Per questo siamo sorelle.
Non capisci, dice Pina, che ormai non è più sicura di nulla. Salta giù dal muretto, dice: Se
non avete un buco, non farete mai figli. Pina sale sull’altalena, in piedi, muove i fianchi in
avanti e indietro, si spinge con furia. Sta pensando che non esistono né il buco né il pene,
che è tutta una leggenda per bambini scemi, un’altra delle storie che racconta sua mamma,
come quando dice che va a prenderla a scuola e invece viene papà, come quando le ha detto
che la poteva accompagnare a lezione di danza ma poi se n’è andata senza di lei e senza
avvisare.
Sentono qualcuno fischiettare. Luz la riconosce e inizia a battere le mani. Qualche
secondo dopo Linda arriva al parchetto delle altalene. Pina è nervosa, ha paura di quello
che succederà, non vuole che sua zia Linda la sgridi. Smette di spingersi ma resta in piedi
sull’altalena. Stringe le catene tra le mani e si guarda i piedi, guarda la sua ombra sul prato.
Linda annuncia che devono tornare di corsa a Città del Messico, perché la nonna Emma gli
ha fatto una sorpresa e non ha trovato nessuno ad aprirle. Vestitevi!, ordina. Ma non si
riferisce a Pina. Pina è l’unica vestita. Pina deve restare lì tutto il fine settimana.
Seconda parte
2004

È mezzogiorno quando esco per andare a cercare gli attrezzi. Praticamente esco di casa per
non stare con mia madre, che è completamente matta. Mezz’ora fa ha fatto irruzione in
camera mia gridando: Manda indietro!
Eh?
Manda indietro la canzone, ha detto sedendosi su quello che era il letto di Luz e ora è la
mia chaise longue: Dammi il telecomando.
Le ho dato il telecomando dello stereo. Stavo sentendo un cd che conosco appena.
Mamma si è incantata sul pulsante rewind e abbiamo sentito duecento volte questo pezzo:
Look at this big-eyed fish swimming... You see beneath the sea is where a fish should be... You
see this crazy man decided not to breathe...
Qual è il problema?, le ho chiesto quando alla fine ha buttato il telecomando sul letto e
ha lasciato andare avanti la canzone.
Hai mai fatto sentire questa canzone a Luz?
None, me l’ha appena masterizzata Marina.
Mamma è rimasta a fissarmi, io mi sono messa a ridere, lei si è alzata e ha tolto il disco
dallo stereo. Ti proibisco di ascoltare questa canzone, ha detto e, già sulla porta, quando ha
visto la copertina del cd: Ti proibisco di ascoltare Dave Matthews! O la sua band!
A-ha, le ho detto. Mamma non mi ha mai proibito nulla. E non dire none, ha detto, ed è
sparita in corridoio.
Le ho gridato: Stai mettendo a dura prova la mia salute mentale!, ma non ha risposto.
Quando sono scesa a fare colazione, ho visto il cd fatto a pezzi in cucina.

Esco sul vialetto del comprensorio e la luce rosa mi fa male agli occhi. Ieri sera sono rimasta
a leggere fino a tardi. Ho letto un romanzo intero, ma uno facile, non come quelli che mi
manda Emma. La personaggia aveva quindici anni e un tumore al cervello. Le sue tette,
secondo lei, sembrano banane. Ora è il mio libro preferito. Perché le tette di tutte le
personagge sembrano sempre mele o meloni o arance, nelle metafore. O meglio nelle
similitudini. Ma le mie tette, quando mi chino, pendono verso il basso come se avessi
quarant’anni e non tredici, e per questo non vado più a fare il bagno a casa di Pi, anche se
ha una vasca gigante. A Pi piace chiacchierare mentre facciamo il bagno ma io non voglio
che mi veda nuda. Pina ha due tette piccole e coniche. Se fosse una similitudine direi: come
il cappello di nonna. E sulla punta ha dei capezzoli perfetti marrone scuro, come una
nocciola. I miei di capezzoli sono piatti. E ho la pelle così chiara che mi si vedono delle vene
azzurre, tristi, come di malaugurio. Comunque, non voglio pensarci più. Sul vialetto ci sono
le bambine che prendono il sole. A volte Alf le lascia lì fuori per ore. Mi avvicino al loro
passeggino doppio e gli spiego: Personaggia non è una parola, ma dovrebbe esserlo.
Mi porto dietro il carrellino rosso per trasportare tutto quello che riuscirò a rimediare
dai vicini. Inizio con gli unici che conosco fuori da Villa Campanario: Daniel e Daniela
vivono in una casa proprio di fronte al comprensorio, con due labrador, un bebè e un altro
in arrivo. Non sono tremendi ma non sono nemmeno meravigliosi. Sono argentini. In tutta
casa hanno pavimenti di piastrelle bianche che la fanno assomigliare a un bagno gigante o a
una specie di navicella spaziale. Tutti i mobili sono di finta pelle nera, tranne la roba del
piccolo, che è gialla perché loro si rifiutano di comprare tutine azzurre o rosa. A volte, il
pomeriggio, io e Pi gli teniamo il bebè.
Come mi aspettavo, non sono in casa. Ho preparato dei bigliettini da lasciargli. Ne tiro
fuori uno e scrivo in alto i loro nomi (Daniel, Daniela, Bebè). Il bebè si chiama Bebè perché
non gli hanno dato un nome. Pensano che sia necessario capire la personalità di un
bambino prima di dargli un nome, perché al contrario obblighi il tuo bebè ad avere la
personalità di quel nome, e non la sua. Mio papà scommette, anche se non di fronte a loro,
che Bebè si chiamerà Bebè per sempre. Ma non è questo che D e D vogliono, semplicemente
si rifiutano di dargli un nome senza prendere in considerazione la sua opinione, stanno
aspettando che Bebè abbia l’età giusta. È che un nome, dice Daniela: ti segna molto più di
quanto si possa immaginare, boluda. Dice che nella sua scuola c’era un certo Abel che è
stato investito dal fratello. L’ha fatto apposta?, ho chiesto. Mi ha detto: Non voleva, ma era
destino.
Metto il biglietto sotto la porta. Mi inginocchio per vedere se è entrato per bene e vedo
due piedi immobili, rivolti verso di me. Il cuore inizia a battermi forte. Mi alzo e corro di
nuovo verso il comprensorio, con il carrellino rosso che fa rumore sul selciato. Piombo sul
cancello e mi precipito al campanello della prima casa. Che paura quei piedi lì, così vicini
alla porta, e nessuno che mi apriva. Dev’essere Daniel, mi dico: Dev’essere con un’altra.

La prima casa è Amaro, dove vive Marina. I miei fratelli la chiamano signorina Mendoza,
che è il nome che c’è sul campanello, ma lei mi ha detto che quel «signorina» la fa sentire
«vecchia e sciupata», e che ha «solo» ventun anni. Marina è la nostra single locale. Anche io
e Pina siamo single, ma Pi non pensa che arriverà così a quattordici anni, ha giurato che si
troverà un amore estivo (così ha detto) a Matute, o come cavolo si chiama la spiaggia di sua
mamma.
Marina a volte vive da sola e a volte con un ragazzo. Ogni tanto ne vediamo uno diverso
e di solito sono così belli che, se li incontro nel vialetto, devo recitare una poesia tra me e
me (Ci son due coccodrilli ed un orangotango, due piccoli serpenti, un’aquila reale, la
nebbia a gl’irti colli, piovigginando sale) per non diventare rossa. Ma forse belli non è la
parola adatta. Diciamo: alti. E quando dico «locale», mi riferisco a Villa Campanario, dove
trascorro la mia vita eccetto per le troppe ore passate in una scuola in fondo alla strada, o
alla Michoacana, la gelateria qui dietro l’angolo. Noi bambini di città occupiamo un
perimetro ridicolo.
Qualche mese fa, l’Associazione dei Vicini si è accaparrata vari litri di pittura di un rosso
rosaceo spaventoso che il negozio di bricolage qui vicino stava svendendo. È stata colpa di
Marina: ha un’ossessione per i colori e i loro nomi, e l’ha scelto lei. Corallo, dicevano i
barattoli, e tutti ci siamo dovuti mettere a dipingere. Perfino mia mamma è scesa dalla sua
nuvola personale per venire a darci una mano. Ora, quando qualcuno apre il portone
d’ingresso del comprensorio, dalla strada si ha l’impressione di affacciarsi su una laringe: il
lungo vialetto è fatto come di un tessuto che sembra vivo, e il sole che batte sui muri grezzi
sembra rugiada, saliva.
Marina mi apre la porta in jeans e camicetta bianca. Osservo il suo stile da un sacco di
tempo: non lo capisco ma mi piace tantissimo. Quando è arrivata al comprensorio, Marina
era la nostra baby sitter. Si occupava di noi mentre mamma era in lutto per Luz. Ci metteva
a disegnare in salotto. Da lì vedevamo passare la sfilata delle donne sul vialetto del
comprensorio, che allora era di un colore che Marina chiamava violetticomio. E
sembravano proprio questo, una fila di matte, sempre agitate, come appena uscite da
qualche ingorgo o momentaneamente sospese tra due commissioni. Ci vedevano dalla
finestra ed entravano in casa a stritolarci un po’. Certi giorni, mamma prendeva un
bicchiere di vino o un tè con loro, e allora se ne andavano tranquille, la morte di mia sorella
era come una pillola che serviva a relativizzare i loro drammi personali. Altri giorni,
mamma non gli apriva nemmeno la porta e Marina era costretta a scusarsi di fronte
all’intero corteo: Ha bisogno di riposare, gli diceva, e nell’ingresso si ammucchiavano
biscotti, marmellate, marijuana, tutto avvolto in nastri, stoffe e cestini. Una cosa che
imparai allora: l’industria del regalo può senz’altro americanizzarsi per Natale, Pasqua, o la
nascita di un bambino, ma in caso di morte ci si appella alla tradizione messicana. Non ho
mai ricevuto tanti dolci – pepitorias con semi di zucca, jamoncillos al latte, palanquetas di
amaranto – come quando è morta mia sorella. Mi sembrava una cosa idiota all’epoca, e me
lo sembra ancora. Però me li mangiavo. I miei e quelli dei miei fratelli.
Anche mia mamma e Marina prendevano il tè o un bicchiere di vino insieme fino
all’anno scorso, quando hanno litigato, non ho mai saputo perché. Quando lo chiedo a
mamma, mi dice che Marina è una traditrice, o che si è alleata con un altro schieramento, o
qualcosa del genere, ma l’ultima volta che ho cercato di farle sputare il rospo ci ha pensato
un attimo e poi ha detto: Perché io sono come Corleone, you better don’t mess with my
prole.
Sei proprio una gringa!, le ho detto, e mi ha fatto la linguaccia.
A Marina non oso chiederlo, ma una volta mi ha detto che non le piace che mia mamma
sia ancora in lutto, dice che è patologico, che fa una vita da reclusa.
Mamma non fa una vita da reclusa. Continua ad andare alle prove, dà lezioni alla scuola
di musica di casa Dolce, e se facciamo qualche recita a scuola viene sempre. Però non tiene
più concerti. Ma perché fai le prove allora?, le chiede la gente. Mamma risponde: Perché mi
aiuta a stare a galla. Come se la logica del suo salvagente privato fosse materiale, evidente.
Come se non fossimo ancora impantanati nel fiume di merda che ha travolto casa nostra
con la morte di Luz. Solo che non è nemmeno un fiume, la nostra tristezza; è acqua
stagnante. Da quando Luz è affogata, c’è sempre qualcosa che affoga a casa nostra. Certi
giorni no. Ci sono giorni in cui si potrebbe credere che siamo ancora vivi, i cinque rimasti
della famiglia: mi viene un brufolo, Theo riceve una telefonata da una ragazza, Olmo dà il
suo primo concerto, papà torna da una tournée, mamma fa una torta. Ma poi entri in cucina
e c’è la torta, ancora cruda, sul tavolo di legno, la metà della superficie già punzecchiata con
la forchetta, l’altra ancora liscia, mamma con la forchetta sospesa per aria, la forchetta
immobile, lei imbambolata, e allora capisci che a casa saremo per sempre quasi sei.

Marina mi saluta come saluta lei. Ti prende la nuca per piazzarti un bel bacio sulla guancia
(e se non la conosci e sei un bambino scemo come uno dei miei fratelli, potresti pensare che
ti sta per baciare sulla bocca). Dall’angolo del saluto, vedo che ha un reggiseno nero. Forse
mi ci vorrebbe uno di quelli. Tredici anni è senz’altro l’età giusta per il primo reggiseno
nero. Non mi va che mi porti papà a comprarlo, magari può accompagnarmi Pi quando
torna. Entro a casa Amaro. Mi sorprende sempre entrare qui. Tanto per cominciare perché
ogni volta la casa è diversa, e poi perché c’è qualcosa di gonfio qui dentro. Qualcosa di
bollicinoso. Lo stile decorativo consiste nell’impilare cuscini su un divano giallo pollo, che è
l’unica costante del posto. Alcuni dei cuscini hanno dei minuscoli specchietti che brillano a
turno, a seconda da dove li guardi. Marina me ne ha lasciati alcuni in eredità e li tengo sulla
chaise longue. Li ho riempiti di borse di plastica, come mi ha insegnato lei. Luz direbbe di
Marina: è la regina del riciclaggio. Tutti quei vestiti che mi piacciono li compra di seconda
mano. Con le mani sui fianchi, mi dice: Yes, miss?
Prima che litigassero, mamma insegnava inglese a Marina. Però con noi parla sempre in
spagnolo. Non ho mai capito la logica di questa cosa. Papà capisce l’inglese ma ha una
pronuncia terribile. Secondo lui, per principio è meglio non fidarsi di una lingua in cui
libero si dice uguale a gratis. A casa, solo i film e i libri e le lettere alla nonna sono in inglese.
Mamma non vuole farci diventare degli stranieri, che è esattamente quello che siamo. O
almeno abbiamo il doppio passaporto. Perfino Luz aveva il suo passaporto americano. Nella
foto è una neonata di pochi mesi, mamma la tiene in braccio ed entrambe sembrano serie,
quasi spaventate, come se perfino prima di compiere un anno mia sorella capisse la gravità
del viaggio che stava per intraprendere. Quattro centimetri per cinque di identità
premonitrice.
Dico a Marina che sto progettando un giardino. E in parte è vero: Marina non ha bisogno
di sapere che i miei genitori sentono ancora la necessità di spedirmi all’epicentro della
tragedia ogni anno, perché io mi possa rotolare tra le alghe e i ricordi sotto lo sguardo ora
ossessivo di Emma, e che per evitare il viaggio mi sono dovuta inventare una ricompensa. E
non apprezzerebbe nemmeno la parola milpa: troppo indigena per lei. «Progettando»,
invece, è perfettamente nel suo stile, mi congratulo mentre continuo a spiegarle: E ho
bisogno di attrezzi. Ma non appena lo dico, mi rendo conto dell’assurdità della mia
richiesta. Tra tutto questo velluto, la cosa più utile che c’è sarà un cucchiaio. E se c’è un
cucchiaio dev’essere ancora del servizio che le ha regalato mia mamma il giorno che ha
saputo che Marina mangiava esclusivamente in vasetti di yogurt riciclati.
Marina socchiude gli occhi. Si pianta le mani sui fianchi, alza i gomiti e si curva
all’indietro allontanando da me il suo sterno. Le si vedono le clavicole. Fa sempre così
quando pensa, sembra un mandolino. Poi, di colpo, alza le sopracciglia, si raddrizza ed esce
dalla stanza. Non so cosa significhi, ma resto ferma dove sono. Sopra di me c’è una nuova
lampada. È fatta di una serie di gocce solide e trasparenti, che pendono in semicerchi
intorno alla lampadina: una specie di ragno di mare prezioso. Però dev’essere di plastica.
Marina non usa vetro. Mamma mi ha spiegato che è perché quando era bambina Marina ha
visto suo padre rompere un bicchiere di vino con i denti. Mi vengono i brividi solo a
pensarci. Di fatto, quando voglio farmi venire i brividi immagino proprio questo: mia
mamma che morde il suo bicchiere di vino in piena crisi di nervi.
Marina torna e mi consegna con un leggero inchino il martello più carino, piccolo e
ridicolo che abbia mai visto in vita mia. Sarà grande la metà di un martello normale ed è
decorato con un disegno barocco di fiori e foglie. Marina lo smonta e mi mostra come,
dentro il manico, nasconde da una parte una paletta e dall’altra un rastrello. Rido.
La terra, mi dice, è di chi la decora.
Te li sporcherò, la avverto, forse perfino con del piombo.
Dico piombo lentamente, per impressionarla. Marina socchiude gli occhi, poi proclama:
Tieniteli.
Sicura?
Me li ha regalati un imbecille. Riempili di mercurio.
Piombo.
Sì, quello.
Dolcemente, Marina mi spinge verso la porta. Grazie mille, le dico, mi piace la tua
lampada. Mi prende per la nuca, mi dà un bacio sulla fronte e, prima di chiudere la porta
alle mie spalle, segnala il soffitto e mi illumina: Si chiama lampadario, tesoro.

Quando esco da casa Amaro, le bambine non sono più fuori nel vialetto, il che significa che
troverò Alf in casa. Il suo campanello dice Dottor Alfonso Semitiel. Lo conosco da quando
sono nata. In realtà la dottoressa era sua moglie, ma lui, da quando è andato in pensione
qualche mese fa, arrotonda vendendo a buon prezzo le ricette che lei ha lasciato intatte. E
non lesina in diagnosi. A qualunque ora del giorno tu vada a fargli visita insiste a farti fare
«merenda» con uno dei dolcetti di amaranto che tiene sempre in un cestino all’ingresso,
perché secondo lui l’amaranto è l’alimento del futuro. E del passato, soprattutto del
passato. Alf è mio amico. In realtà, è stato proprio lui a darmi l’ispirazione per questa storia
della milpa. Se so seminare è grazie a lui. Ho passato tutta l’infanzia a seminare con lui
amaranto e altri pseudocereali mesoamericani: quinoa, chia, acacia. E anche cereali veri:
grano, orzo, avena, miglio, mais, ovviamente, e le due piante sorelle: fagioli e zucca. Era la
sua MM: la Milpa Migliorata. Con le piogge acide dell’estate quasi tutto si rovinava, ma siamo
riusciti a far crescere alcune cose. La MM era nel suo cortile, però quando è morta sua
moglie l’ha lasciata morire. Ora, in cortile ha una jacuzzi incassata in una base di
conglomerato. Mio papà, che è il meno medico di tutto il comprensorio, ha diagnosticato ad
Alf una profonda depressione. Io però ogni volta che lo vado a trovare lo trovo lì, a mollo
che legge. A sentire lui, sta imparando a nuotare o almeno, dice, a stare a galla. Rimpiangere
la MM, farla rinascere, per Alf e per tutti noi! Questo è stato uno degli argomenti con cui alla
fine ho convinto mamma che il progetto di rimodernare il cortile era davvero possibile.
Sembra contento quando mi apre: un cagnolino appena uscito dall’acqua. Si avvolge in una
vestaglia e seguo le sue orme bagnate fino al cortile. A lui non devo spiegare il mio piano
perché lo conosce già, in realtà il giorno in cui abbiamo firmato il tovagliolo sono corsa da
lui a farglielo vedere, non da Pina. A Pina la parola agricoltura può ricordare al massimo il
supermercato dietro l’angolo. O la Michoacana. La sua idea di buon raccolto è farsi due
orzate di fila.
Ci sediamo sulle sedie a dondolo del terrazzo, con vista sulla jacuzzi. Le bambine sono
sedute su una panca: una guarda l’altra e l’altra guarda l’orizzonte. Gli spiego che ho
bisogno di attrezzi e Alf mi dice: Wow, sono così orgoglioso di te, Agatha Christie. Mi ha
sempre chiamato così e, detto da lui, mi piace, perché Alf è un ricercatore. Non un
investigatore segreto, ma comunque un investigatore. In realtà, anche Alf è un dottore, ma
in antropologia, non nel curare la gente. Questo credo di saperlo solo io perché quasi
nessuno entra qui, credo che nessuno sia mai stato nel suo studio, dove tiene i diplomi e i
libri, alcuni li ha scritti proprio lui. La sua tesi di dottorato è sull’umami, il quinto sapore,
che non si conosceva se non in Giappone e che lui ha aiutato a diffondere in Occidente. O
perlomeno in Messico. Il Messico è in Occidente. Non oso dirglielo, ma anch’io sono
orgogliosa di lui. Vive il suo lutto molto meglio di mamma, non sembra un fantasma, non si
mette a fare il matto per una canzone qualsiasi, o almeno non davanti a me, ci sarebbe da
chiedere alle bambine cosa ne pensano loro. Anche Alf mette a rischio la loro salute
mentale? Ma le bambine non hanno salute, figuriamoci mente.
Alf tira fuori gli attrezzi da un minicapanno che per qualche ragione chiude con il
lucchetto, come se qualcuno dovesse venire a rubargli la pala. E la tua amica?, mi chiede.
Pina?
Sì.
È con sua mamma.
Alf mi scruta per capire se sto dicendo la verità.
È che si è rifatta viva, gli dico, e cerco di pensare in fretta a qualcosa per cambiare
argomento perché non voglio che mi faccia il terzo grado. Non so se Pina vuole che Alf
sappia che sua mamma è, ed è stata in tutti questi anni di silenzio, su quella spiaggia, che
non è nemmeno tanto lontana. Gli chiedo: Quando è stata la prima volta che hai sentito
parlare dell’umami?
Non te l’ho mai raccontato? È stato a un congresso, a una cena in cui mi è toccato
sedermi vicino a un giapponese piagnucoloso, una di quelle persone che credono che la loro
missione nella vita sia rendere infelici i camerieri. Protestava dicendo che nel suo piatto
non c’era abbastanza umami, e io ovviamente non avevo idea di che cosa stesse parlando,
era il 1969. Questa ti può servire?, chiede mostrandomi una piccola manichetta che
conosco bene.
Un Dampit?
Un che?
Dampit. È la marca, è un umidificatore per chitarre.
Alf ride. Sul serio?
Credo di sì, fammi vedere. Sì.
Ho sempre pensato che servisse a tenere umidi i cactus e altre cose che uno non bagna
mai; l’ho trovato un giorno buttato sul vialetto.
Di sicuro era di mio fratello.
Be’, allora tieni, digli che gliel’ho rubato.
Era molto che non ti vedevo ridere così, gli dico senza pensarci, e lui mi fa un sorriso a
metà tra serenità e rassegnazione, che mi fa sentire più grande di quello che sono. Emma
dice sempre di me che sono una old soul e a volte credo che abbia ragione.

Esco da Umami con il carrellino pieno. Oltre al bel martello di Marina e al Dampit
inservibile di Theo, ho recuperato: una pala, un rastrello, dei guanti sporchi ed enormi, una
prolunga per la manichetta e le forbicione con cui Alf pota l’alberello che ha nell’ingresso. È
un limone che non ha mai dato limoni. Ultimamente apprezzo la grande quantità di piante
che c’è in casa sua. Mi sono sempre concentrata sulla MM, mai su vasi da interno, che
credevo fossero il territorio della moglie. Sua moglie si chiamava dottoressa Vargas e mi
faceva sempre dei dolci senza zucchero per paura che ingrassassi. Anche io ne ho un po’
paura, adesso, ma non posso più chiederle nulla perché è morta tre mesi dopo mia sorella.
Quando chiedo a mamma se sono grassa, mi dice di no, che quello è baby fat e che
sicuramente finirò per outgrow it. Non sa come dire certe cose in spagnolo. Quindi crescerò
fino a lasciarmi dietro la ciccia come la pelle che lasciano le vipere?, le chiedo. Rilassati, mi
dice. Non sono più una bambina, le dico. Hai degli occhi bellissimi, mi dice, e io mi dispero
perché cambia sempre argomento.
La milpa è una questione di principio, mentre le piante da interni sono più come animali
domestici. È l’impressione che ho quando noto le piante dentro Umami. Alf se ne prende
cura con amore. Non tanto quanto delle bambine, ma in modo simile, come altri vecchi del
quartiere fanno con i loro cani. Starei ore intere a casa Umami. Ma questa volta sono andata
via presto perché da quando gli ho detto di Chela mi sono sentita male. Un po’ una
traditrice. Il rincontro con sua mamma sarà la cosa più strana che succederà a Pina nella
nostra vita, e sarà senza di me. Non l’ho nemmeno aiutata a fare le valigie. Decido che la
chiamerò più tardi, spero che il suo cellulare funzioni a Macuque, o come cavolo si chiama
quella spiaggia. Io non ce l’ho il cellulare. Un giorno ne ho chiesto uno a mio padre e mi ha
detto: Se vivessi nell’Ottocento, che cosa penseresti di una bambina di tredici anni che
passa la giornata ferma accanto alla cassetta della posta ad aspettare una lettera? Che è
patetica, gli ho detto. Esatto, ha concluso lui. Glielo chiederò di nuovo quando finirò le
medie. La sicurezza prima di tutto, papà!
Lascio il carrellino vicino alla campana, esco un’altra volta dal comprensorio, attraverso
la strada e mi affaccio di nuovo sotto la porta di fronte. I piedi sono ancora lì e di nuovo mi
fanno scappare via. Sono a casa che sistemo gli attrezzi in cortile, quando capisco due cose.
Uno: sono un’imbecille. Due: i piedi sono delle scarpe.

Una settimana dopo butto via la terra con il piombo. Visto che non si può lavorare di
pomeriggio per via degli acquazzoni estivi, mi sto alzando prima, quasi presto: tipo alle
dieci.
Con la pala ho svuotato l’aiuola. Ci ho messo diversi giorni. Ho messo il fango che tiravo
fuori in dei sacchetti per la spazzatura che ho posizionato momentaneamente in un angolo.
Ora porto i sacchi in strada. Uno si impiglia nella campana, si strappa e riempie di terra il
vialetto. Ci penserà la pioggia a lavare via tutto.
Sto depositando l’ultimo sacco in strada quando Beto si affaccia alla finestra di casa
Acido e dice: Stai inquinando il pianeta, figliola.
Al contrario, gli dico, sto rigenerando l’ossigeno.
Caspita!, mi dice.
Mia mamma ha sempre chiamato Pina, Pi. Pina a mia mamma la chiama zia. Sono
invidiosa anche di questo, per qualche ragione. Anche io chiamavo zia sua mamma, che si
chiama Chela, e Chela a me mi chiamava Ananas, ma ormai non ci chiamiamo in nessun
modo perché se n’è andata per sempre quando avevamo nove anni. A Beto tutti lo
chiamiamo Beto, e lui a noi ci chiama tutti Figliolo o Figliola, anche se non siamo figli suoi.
Come va l’orticello?, chiede.
Vieni a vedere, gli dico: Perché non vieni a prenderti una birra stasera? Papà esce
sempre in cortile a berne una verso le otto.
Ci sto, dice.
Mi credo molto generosa per averlo invitato, di sicuro gli manca Pina. Ma non più di
quanto manca a me. Beto chiude la finestra e io entro nella laringe come se fossi una
boccata d’aria: leggera, magnanima.
La terra nuova è molto più morbida e quasi nera. Ho terra sotto le unghie e nei capelli, e sto
provando a distribuirla dappertutto, ma è impossibile. È un po’ come quando la mamma
mette la farina dal pacchetto in un barattolo. Quando la tiro fuori dai sacchi, è così
compressa che riempie solo mezza aiuola. Quindi bisogna distribuirla per bene con il
rastrello. Un compito penelopesco, o chiunque fosse quella signora greca che tesseva e
disfaceva. La cosa che odio di più sono i lombrichi. Presto avremo dell’altra terra, e anche
dell’erba, andremo a comprarla sabato, dopo il cimitero. Nel frattempo, sto pulendo
l’intonaco delle fioriere. Sapone, secchio, spugna. Mamma mi guarda dalla finestra. Ha la
fronte corrugata. Cosa c’è?, le dico. Sei molto bella, dice. Come no, le dico. Ma la sera, dopo
la doccia, mi guardo per bene allo specchio: forse ha ragione.
Passo le tre settimane successive a seminare. Cioè ho messo semi nella terra e passo la
giornata a leggere per loro a voce alta, perché si entusiasmino. Così faceva Daniela con
Bebè, e ora lo fa con quello che ha dentro e che abbiamo iniziato a chiamare Bebè Due. Pina
mi manca da morire e poi non mi manca così tanto. I miei fratelli mi mancano solo perché
distraggono mamma e ora non c’è niente che la distragga e passa lunghe ore sul divano, con
un libro davanti, senza girare le pagine. Le preparo il tè freddo con foglie di menta e lo beve
a piccoli sorsi, appoggiata sul gomito e sollevando appena il busto, come se fosse malata. I
bicchieri sudano. I letti sono disfatti. Piove ogni pomeriggio e vorrei tanto avere un cane o
una tartaruga, ma quando lo dico a mamma mi risponde: Hai solo nostalgia del campo
estivo.
Beto viene spesso a trovarci. E io vado spesso a trovare Alf. A volte ci incontriamo tutti e
tre a casa Umami e mettiamo i piedi nella jacuzzi, mangiamo noccioline giapponesi e
chiacchieriamo di quello che Beto dovrebbe leggere per capire la nostra ossessione per la
milpa, di quello che Alf dovrebbe fare con il suo cortile e delle cose che io dovrei piantare
nel mio. A volte Alf bagna una spugnetta e pulisce le bambine mentre parliamo. L’estate tra
adulti non è niente male. Forse perché se la sta perdendo, Pina non mi fa più tanta invidia.
Alcuni dei miei semi germogliano. Ogni tanto, mamma e io continuiamo a discutere per
quella canzone.
Qual è il problema con i pesci dagli occhi grandi?, le chiedo.
Mi risponde con uno strano gesto della mano: è simile al protestante ma culmina con
dei colpetti sul petto.
Sarebbe?, le chiedo.
Significa cattolico, mi dice.
Da quando?
Da quando il senso di colpa non mi fa dormire.
2003

Marina si alza dal divano e va in cucina decisa a mangiare qualcosa. Da quando Semitiel le
ha spiegato dell’umami e delle proteine, pensa che dovrebbe mangiare più pollo e più
pomodori. È questo che mangiano le persone perbene: petto di pollo alla piastra. Ma al
supermercato la carne la intimidisce. È tutto troppo crudo: brillante, esigente. Marina, se
compra qualcosa da mangiare, compra roba precotta: Strappare lungo la riga puntinata e
consumare prima di pensarci troppo su.
La cucina ha una porta a vetri che dà sul cortile con la cisterna. Tutte le altre case del
comprensorio hanno un cortile di media grandezza, ma Acido e Amaro, che danno sulla
strada, si devono accontentare di quel sostituto. Intorno alla cisterna ci sono le scope e gli
stracci che ha comprato sua mamma e che Marina non ha più toccato da quando se n’è
andata. C’è qualche cassetta di birra. La bicicletta di Chihuahua è lì da mesi, anche quella,
sistemata in verticale e con i copertoni sgonfi che pendono come le tette di una vecchia
rachitica. Marina cerca di scrollarsi di dosso quell’immagine. Lo dirà alla prossima seduta:
Ho notato un miglioramento, Signor Analista, l’idea di una persona rachitica mi sembra
raccapricciante. A lui farà piacere, è una brava persona. Appoggiata alla cisterna, Marina
calcola: mezzo piatto d’avena la mattina, uno yakult a metà pomeriggio. Pensa: Cazzo. E poi
pensa: Ascolta. E poi: Formaggio.
Formaggio blu.
Roquefort, quello sì che le piaceva! Lo mangiava con le tortillas, lo spalmava sul pane da
tramezzino, lo lasciava sciogliere sugli spaghetti appena scolati nella cucina affollata del
ristorante di suo papà. Puz-za-da-mo-ri-re, criticava suo fratello con quell’autorità
impostata che lo obbligava a unire le parole con un filo, come se fare una pausa gli
rovinasse la scenetta. Fi-la-a-let-to, ordinava a Marina le sere che papà non arrivava,
mentre stringeva le mani di mamma perché smettesse di mordersi le unghie e le dita.
Sì, il formaggio blu era il suo cibo preferito. Forse perché una volta suo padre, nel
culmine della sua ora felice, aveva preso la mamma per la vita, e si erano dondolati in una
specie di goffo valzer, mentre Marina mangiava i suoi spaghetti, e suo fratello i suoi, solo
con il burro, e il papà cantava: Blue cheese, you saw me standing alone... La mamma rideva
e Marina, che non conosceva nemmeno la canzone originale né capiva il testo, aveva
ammirato suo papà più che mai: oltretutto, aveva anche talento come compositore.
Quel ricordo d’infanzia soffoca la sua breve voglia. (Attenta ai segnali, le dicevano le
infermiere: salivazione, borbottii dello stomaco.) Però, a differenza dell’appetito,
l’irritazione la sa riconoscere. Le viene l’amaro in bocca a pensare alla cucina del ristorante
e all’odore dolciastro dell’ora felice di papà. Se ho avuto un’infanzia instabile?, ha ripetuto
una volta Marina, genuinamente sorpresa da un commento dell’analista. Instabile, no. C’era
un orario per tutto, e un nome per tutto. Dopo l’ora felice c’era l’ora del cliente – le
comande, gli odori, il suono del chiacchiericcio che rimbalzava sulle pareti, suo papà che
maltrattava i cuochi, i piatti sporchi, gli avanzi. Quando i clienti se ne andavano, arrivava
l’ora della chiusura – le cameriere che sistemavano le sedie, suo padre che cantava,
distribuendo mance e sculacciate affettuose, i cuochi che si cambiavano e alcuni di loro, più
di una volta e mentre gli altri facevano guardia alla porta, che mostravano a Marina parti
della loro anatomia che lei avrebbe preferito non conoscere. Poi se ne andavano tutti e
papà tirava fuori la fiaschetta che aveva tenuto nel grembiule e si serviva quello che restava
in un bicchiere da cocktail, più o meno alle undici di sera, tutti i giorni: era l’ora del «perché
me lo merito». Tranne il lunedì. Di lunedì, le cose sarebbero cambiate. C’era stabilità
perfino nelle sue promesse non mantenute.
È quasi fiera dell’amaro che sente in bocca: perché è attenta, perché nota queste cose.
Prima del lavaggio del cervello, non sapeva nemmeno dov’era lo sterno. Diverse volte si era
data un pugno lì, un pugno benefico, ma puramente intuitivo. Ora tutto ha un nome
scientifico. Dove sento il nodo, quello è lo sterno. Il sapore amaro sono gli ormoni dello
stress. Spegne la sigaretta contro il telaio della bicicletta denutrita ed entra in cucina.
Tentativo numero due.
Pensa: mi piaceva quel colore biancogrigio, e che si chiamasse formaggio blu anche se
era di quel colore. Le piacciono ancora i nomi incongruenti, come l’affascinante e tragica
vicina di casa gringa con un nome da merceria di Xalapa. E lei stessa: una che si chiama
Dulce – di secondo nome – che vive in casa Amaro, e una Marina di montagna, che è
cresciuta nella nebbia e non è mai andata al mare se non due o tre volte quando era piccola.
Pensa: potrei dipingere di biancogrigio la cucina. Poi pensa: Ascolta. La voglia è discreta,
bisogna prestare attenzione, le dicevano le infermiere. Il cervello è come un cagnolino, le
dicevano le infermiere. Una di loro non si depilava le ascelle e Marina aspettava in segreto,
sadicamente, il giorno in cui l’avrebbero licenziata, forse giusto per avere la conferma che
lei, Marina, non era l’unica a rovinare sempre tutto perché si trascurava.
In realtà, quello che dicevano le infermiere alternative era: Il cervello è come fatto di
plastilina, lo possiamo modellare! Cagnolino da compagnia, pensava allora Marina, in
automatico. Ma da quando è tornata a casa e sua mamma l’ha lasciata sola un’altra volta,
poco a poco si è ammorbidita, prova di nascosto i consigli che prima avrebbe rifiutato,
vuole un cervello di plastilina, che le permetta di imitare l’amor proprio degli altri come già
imita il loro modo di parlare e di ridere e di vestirsi. Personalità di gomma, è così che
chiama quella sua tendenza a mimetizzarsi con chi ha di fronte. Parla come i suoi compagni
di facoltà; dopo due ore di lezione gesticola come Linda; se passa due o tre notti di seguito
con Chihuahua, si sveglia con un bell’accento del nord che le fa allungare inutilmente le
sillabe, finché arriva il sabato, tocca stare con i bambini e per la domenica Marina già parla
come Olmo, che ultimamente ripete tutto due volte: sì sì, no no, perché? perché?, lo so lo so.
Marina non si fida di questa malleabilità ed è invece attratta dall’opposto: la prospettiva
affascinante e al tempo stesso terribile di essere qualcuno. Qualcuno di stabile. Come Linda,
come i suoi genitori. Un adulto, per così dire, anche se sa che non è esattamente una
questione di maturità, ma piuttosto di nitidezza dei contorni, essere qualcuno di cui
qualcun altro possa citare un’azione o una reazione e qualcun altro possa commentare,
senza paura di sbagliare: Tipico di Marina Mendoza. Le dà fastidio che il suo analista non
capisca questa sua carenza fondamentale, quest’assenza di definizione, è qualcosa che
l’analista dovrebbe aiutarla a risolvere, non spingerla a ignorare. Invece lui le chiede, in
continuazione, di essere sé stessa. Lo dice come se fosse qualcosa di solido, di esistente: un
busto di marmo in un parco. In tutta questa storia dell’essere sé stessi c’è qualcosa che
lascia sempre fredda Marina. Non indifferente, ma come senza vita: non c’è nulla nella sua
acquosa intimità che possa realmente collegare a sé stessa. L’unica cosa che ha trovato per
rendere un po’ più malleabile la questione è pensarla in inglese. Sì, self funziona. Self
sembra il nome di un’altra persona.

Ultimamente, certe sere, prima di dormire, Marina fa degli esperimenti con le affermazioni
suggerite dal suo analista. Di solito si ferma dopo neanche un minuto perché ripetere le
stesse cose per lei è una faticaccia e ben presto le cose che dice si trasformano in qualcosa
di negativo: Sono una donna bella e produttiva, sono un’artista. Sono una nonna zitella e
abrasiva, sono un’artista. Sono una lisca. Sono losca. Sono la persona più triste che conosca.
All’ospedale alternativo le affermazioni erano obbligatorie. La facevano facile: ripetere
dieci volte la stessa frase prima di andare a dormire. E allora Marina, piuttosto che dare
soddisfazione alle infermiere hippy, pregava. Conosceva solo il Padre nostro, e per metà,
ma lo ripeteva. Al secondo giro la cosa già degenerava in versioni improvvisate, varianti
lirico-libertarie: Padre nostro che sei lì fuori, sia mal pronunciato il tuo nome, venga il tuo
whisky, sia distribuito a volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi la nostra pasticca
quotidiana e perdonaci se non abbiamo fame, come noi perdoniamo i nostri genitori. E non
mandarci in confusione, ma liberaci dall’odio. Amen.
Ora che ci pensa: le piacciono le affermazioni, solo che non le piace ripeterle.
Afferma: Sono un formaggio blu. Sono un formablù.
Afferma: Chi la dura la vince, devi solleticare la voglia con dei dettagli. Pensa: il sapore
era così forte che le dava al cervello, come di peperoncino, ma senza pungere, le piaceva la
consistenza, come di burro ma più buona, più lenta in bocca, con più ostacoli: esplosivi,
vellutati. Visualizza il formaggio finché le fa schifo. Esce in cortile, respira profondamente,
si appoggia alla cisterna e guarda il cielo. Puz-zi-da-mo-ri-re!, grida una parte di lei. E poi,
subito dopo: Fi-la-a-let-to! Quest’ultima affermazione è così improvvisa che le fa venir da
ridere. La voce di suo fratello dentro di lei. Dove sarà suo fratello ora? Al ristorante forse, o
starà tenendo le mani a mamma: Non-man-giar-ti-le-un-ghie-mam-ma.
Respira come le hanno insegnato, guarda il cielo come le hanno insegnato. È di un grigio
ostinato: non fa mai davvero buio nel comprensorio. Anni fa, Marina ha inventato la parola
griste. Forse è il primo colore che ha composto: un po’ grigio, un po’ triste. Però non era la
sfumatura di quella finta notte ma di un pomeriggio nuvoloso di Xalapa, uno dei tanti. In
città il cielo ha un altro colore: la massa di luce elettrica produce una specie di coltre
lumino-sonora, un bzzzz costante che si sente appena. Come si chiama? Nettrico, forse. È
possibile che non faccia mai notte a Città del Messico? Marina esce troppo poco dalla sua
routine quotidiana per affermare una cosa del genere. Magari se sali su uno di quei
grattacieli che si dice ci siano nella zona di Santa Fe riesci a sfuggire al nettrico, a lasciarlo
sotto di te, e puoi guardare il cielo di nuovo nero, nero com’è: interrotto solo lì dove c’è una
stella o un satellite. Ci sono dei fiammiferi, qui, e un posacenere, Chihuahua li ha messi sul
davanzale della finestra, perché se ne sta sempre un po’ in cortile, da solo, per fare il
misterioso. A Marina fumare toglieva la fame, in realtà aveva iniziato proprio per questo ed
è per questo che ha smesso e ora sta aspettando che torni, la fame, e non confessa ai dottori
che ha ricominciato a fumare. L’analista giura che la fame arriverà. Le dice: Marina, il tuo
corpo lo sa. Però Marina crede che sia il suo dottore a non sapere proprio niente. Ha il
sospetto che il Signor Analista volesse fare il chirurgo ma non sia mai riuscito a distinguere
i globuli dai coaguli e abbia dovuto rinunciare a tutte quelle cose che controllano negli altri
piani dell’ospedale. Si è dovuto rassegnare a passare la sua vita lavorativa all’ottavo piano,
Psichiatria: sudoku per non piangere.

Cadono delle gocce sulla cisterna. Il nero bagnato luccica: nerato?, nerillante? Quando ha
affittato quella casa, l’estate scorsa, pioveva tutti i santi pomeriggi, anche dentro casa, e lei
correva su e giù per le scale con delle bacinelle per limitare i danni e pensava, divertita: non
era secca Città del Messico, non doveva essere secchissima Città del Messico? Non aveva
niente, allora, diciannove anni e i suoi risparmi da cameriera. I soldi che riceve ora,
l’assegno abbondante e colpevole che le manda suo padre, non c’erano in quei primi mesi.
Teneva le sue cose in delle cassette della frutta dorate, che aveva ridipinto in un attacco di
entusiasmo. (Dorasmo.) Aveva una sola pentola per tutto e piatti di plastica. Guarda la casa,
ora, e le cose che ha accumulato la asfissiano. Vede in tutto i soldi del ristorante, il sudore
dei cuochi, che si pulivano i denti con l’indice e poi, come se niente fosse, impastavano la
carne macinata con le mani, le macchie di sangue e di grasso sulle tasche del grembiule, il
pavimento di piastrelle che si sporcava man mano che avanzava la giornata, facendo
scricchiolare le suole delle scarpe sulle impronte accumulate, la pioviggine implacabile di
Xalapa, tutta quell’assurdità. Marina vede nei suoi mobili i mille strati di rimmel della
borghesia femminile di provincia, che un giovedì sera qualsiasi dichiarava la propria falsa
indipendenza al grido di: Ci piastriamo i capelli e andiamo a cena solo donne all’italiano.
Tra loro si chiamavano «ragazze»: la giovinezza, eterna ciliegina tanto anelata sulla torta,
un culto sconcertante per Marina perché lei, a prescindere da quanti anni compie, vorrebbe
sempre averne più di quelli che ha. Rivede la sangria che bevevano, con la frutta che
galleggiava nei bicchieri. E le risente. Le dicevano: Psst! Ehi! Signorina, questa zuppa è
troppo fredda, questo pane è secco. Denti perfetti, profumo in eccesso, non lasciavano
nemmeno una briciola nei piatti. Alcune la chiamavano schioccando le dita e poi le davano
una mancia extra perché le figlie andavano a scuola con lei. È un ristorante italiano!, spiega
Marina all’analista, con una punta di ammirazione, ma lui non capisce l’ironia, tra le sue
capacità non c’è quella di visualizzare l’idea di Italia che ci può essere in una provincia
messicana, quella della pasta troppo cotta: l’Italia di quelli che non osano andare a Città del
Messico.
Quel suo rifiuto a dire il vero è cominciato negli ultimi mesi, da quando è uscita
dall’ospedale. Se ci sono due milioni di cuscini e un tappeto e un divano: come faccio ad
andarmene da qui?, dice durante una seduta. Dove vuoi andare?, chiede l’analista. Ma lei
non se ne vuole andare. Al contrario, vuole passare più tempo a casa, vuole esserci all’ora in
cui il biansibile sboccia sulla parete, ha vent’anni: è forse chiedere troppo? Apre il frigo.
Birre, cetriolini, due pomodori, senape. Un paio di yogurt, una collezione di scatolette e
marmellate che Chihuahua compra e poi amministra come oro colato. Formaggio blu non ce
n’è. Ci sono un uovo e una serie di tupperware che sono lì da parecchio, lei li considera
parte della scenografia (l’opera è: Una vera donna abita i suoi spazi) e non ha il coraggio di
aprirli. C’è una bottiglia di ketchup con tanta salsa secca in cima che non si chiude il tappo,
come quelle persone che parlano tanto e gli si forma una crosticina bianca ai lati della
bocca. Nel cassetto in basso ci sono delle carote che ha comprato settimane prima. Ne ha
usata una per masturbarsi e poi l’ha buttata. Le altre sono ancora lì: non ha mai messo
insieme le energie per pelarle. Merda, le aveva comprate in un improvviso attacco di
benessere. Linda ha sempre dei tupperware con la verdura a tocchetti. Quando Marina va a
casa loro, apre il tupperware e ogni volta che ci passa vicino si mangia una fettina di patata
messicana o di cetriolo. Perché non può essere come Linda, affettare le cose per benino?
Poi pensa: Popcorn, questo sì. È un segno minuscolo, senza salivazione né grandi
aperture di niente, ma ne trova un po’ nella dispensa e li mette subito nel microonde.
Mentre aspetta tira fuori le carote per pelarne una, ma si rende subito conto che sono
andate a male. Sono molli. E non è tutto. Hanno come una peluria, alcune, una peluria grigio
verde: penicillina, forse. Le ributta schifata nel cassetto delle verdure, prende una birra,
chiude il frigo. I popcorn fanno plop plop plop. Dovresti mangiare, Marinella. Sì, lo so. Mette
i popcorn in una ciotola e se li porta sul divano. Accende la tele. Chihuahua l’altro giorno si
è presentato con una tv che ora è sul pavimento del salotto. Posso attaccarci il computer
per vedere i film?, ha chiesto Marina. Ma Chihuahua aveva un’altra idea: nell’armadio dello
studio aveva visto quello che credeva fosse «un cavo della via cavo». Eh?, ha detto Marina.
Stava anche per dire: che cosa ci facevi nell’armadio del mio studio?, ma Chihuahua stava
già prendendo un cavo, una cosa lunghissima arrotolata in un otto nevrotico e impolverato,
che poteva essere solo opera sua. Hanno avvicinato la tele fin dove arrivava il cavo. Quando
l’hanno collegato è apparsa la NBC: una bionda in tailleur, le tragedie della giornata che le
sfilavano sul petto in una fascia mobile, come una miss universo della tragedia. E così
hanno scoperto che il cavo, magicamente, funzionava. Marina non riusciva a crederci.
Chihuahua non le aveva mai detto di averlo trovato. (Non ci ho pensato, piccola.) E poi: se
anche gliel’avesse detto, Marina non ci avrebbe fatto nulla. Sicuramente non avrebbe
cercato di procurarsi una televisione solo per fare un tentativo. Chi poteva immaginare che
nel suo armadio c’era un portale per un’altra dimensione: la vita quotidiana dei ricchi, degli
adulti, della gente che vede la tele gringa quando torna dal lavoro per togliersi il Messico di
dosso, come in una versione contemporanea del galateo: «È consigliabile sbarazzarsi della
propria messicanità prima di entrare in sala da pranzo». Chihuahua poteva. Perché è un
ragazzo di città, conosce tutti i segreti della capitale. È stato lui a spiegare a Marina che le
scarpe appese per strada segnalano i punti di spaccio di droga, e le ha indicato chi nel
quartiere ruba il cavo del telefono per sbucciarlo e vendere il rame. (È per quello che si dice
«faccia di bronzo»?, gli ha chiesto lei quel giorno. Lui si è messo a ridere e ha risposto: Che
idee che ti vengono!) Quello che preoccupa Marina è che Chihuahua è di Ciudad Juárez. Lei
non è mai stata al nord, ma può davvero essere meno provinciale di Xalapa? A questa
domanda, Chihuahua ha risposto: anche Juárez è provincia, cara mia, ma di due paesi.
Chihuahua pronuncia l’inglese come Linda. Senza esitazioni. Senza sbavature. Marina
prova a imitarlo ma lui si offende se lei si concentra sul suo accento: Cosa ci vuole a dire
magaiver?, si dice così!, siete voi che sbagliate con i vostri macguiver. Voi, per Chihuahua,
sono gli stati verdi. Tutto quello che non è deserto, per lui è sud. A Marina piace discutere
con lui, le dà la sensazione di avere un’identità più definita, di appartenere a qualcosa, al
sud del paese. Sembra – gliel’ha detto anche lui – che quelli del sud mangino quesadillas
senza formaggio e abbiano un accento che sembra una cantilena. Lei rispetta entrambi i
requisiti. Eccetto che raramente tocca una tortilla, con formaggio o senza.
Un popcorn per ogni pubblicità, questo è l’accordo che ha fatto con sé stessa. E va più o
meno bene, più o meno rispetta la media, quando suona il campanello. Finalmente! Marina
non si muove. Sa che Chihuahua può vederla dalla finestra. Lo sa perché anche lei, molte
sere, prima di entrare nel comprensorio, si ferma qualche istante sul marciapiede a
guardare attraverso delle tende sottili come le sue gli argentini che vivono di fronte. Marina
studia in incognito le loro figure immobili, come di cartone, che si stagliano contro la luce
azzurrognola della televisione, e conferma un altro dei suoi sospetti: l’amore non dura.
Dopo la scampanellata, Marina mangia quattro popcorn in un colpo solo, è già arrivata a
ventitré, forse venticinque. La pioggia che batte sulla cisterna fa da colonna sonora al film
che sta guardando: le piace vedere la tele ma non ascoltarla. Ora: tre colpi alla finestra.
Tipico. Marina non si muove. Chihuahua insiste. Probabilmente è bagnato fradicio. Marina
vuole sapere se è ubriaco. Si alza e apre la tenda con la faccia più neutrale che riesce a fare.
Ma non è Chihuahua. È una donna. Non sa chi è. Ha un sacchetto nero della spazzatura in
testa: del tutto inefficace come ombrello. Ha la mano appoggiata al vetro, dove ha appena
dato quattro colpi forti. È una mano piccola e il modo in cui la appoggia al vetro bagnato fa
tenerezza a Marina, come se la stesse mettendo lì per invitare Marina a fare altrettanto.
Marina indica sé stessa con il dito: Io? La donna fa sì con la testa. Non parlare con gli
sconosciuti, era stato uno dei consigli di suo fratello quando alla fine lei aveva chiamato a
casa per dire che si era trasferita a Città del Messico. Non abbassare i finestrini della
macchina, mai, né agli ambulanti né ai poliziotti. Non ho la macchina, aveva detto Marina.
Be’, se dovessi salire su una macchina, disse lui. E quella risposta l’aveva irritata, se lo
ricorda: perché non aveva detto: Be’, quando ne avrai una?
Per aprire la porta del comprensorio, Marina deve uscire da casa sua e correre fino al
cancello. Ha le infradito, che sarà mai. Apre e corre. Non aveva calcolato la grandine: si sono
tappate le condutture, il vialetto ora è un fiume dal quale spunta, come un iceberg scuro,
solo il batacchio della campana. Marina apre il cancello e la donna entra. Si fermano sotto la
tettoia e si guardano, guardando la pioggia che cade.
2002

Villa Campanario si chiama così perché quando, nel 1985, la proprietà che avevano
costruito i miei nonni è praticamente crollata, una campana di bronzo che c’era sul tetto si è
staccata e si è conficcata – per l’enorme peso – in quello che era il cortile della casa e che
ora è il vialetto centrale del comprensorio. Tutti quelli che vivono qui devono saltare il
batacchio della campana (una protuberanza metallica che spunta da terra) per entrare e
uscire dalle loro case.

***

Hanno appena suonato alla porta Agatha Christie e la sua amica di fronte, la figlia di Beto,
come si chiama? Pina. Che nome del cazzo, si salva solo perché diventerà bellissima. Mi
hanno chiesto: La dottoressa ha una tomba? Gli ho detto di sì e mi hanno dato dei fiori. Dice
Agatha Christie che li ha comprati per sua sorella, perché Pina ha fatto i conti e oggi sono
passati 353 giorni dalla morte di Luz, e siccome è un numero palindromo sono andate a
comprare dei fiori al vivaio, ma ora non hanno chi le porti al cimitero. Gli ho chiesto se la
parola palindromo gliel’hanno insegnata a scuola e per qualche motivo sono morte dalle
risate. Pina ha detto: Ana è la mia scuola.
Una cosa che non gli ho detto ma che penso ora, dopo il maglione giallo, dopo i fiori, è
che forse quello di cui hanno bisogno i Pérez Walker per consolarsi è una macchina come la
mia, un pc Nina Simone, vaso comunicante con i morti.
A Noelia piaceva tantissimo Nina Simone. Perché dio mi ha fatta culona ma non nera?,
protestava quando la ascoltavamo. Se chiedevi a Noelia che cosa avrebbe cambiato di sé
stessa, rispondeva sempre che avrebbe voluto saper cantare. Non che io glielo chiedessi,
non ce n’era bisogno. Noelia mi informava di queste cose, puntualmente, faceva in modo
che non dimenticassi i suoi difetti, come per impedirmi di amarla più di così.
Non essere bugiardo, quello che adorava le ragazze nere eri tu.
È vero.
Hai messo i fiori a bagno?
Certo, negretta mia.
E hai contato i giorni?
Fossi matto. Per me, tu sei morta sempre ieri.

***
«Hai presente?» era un’espressione che Noelia usava spesso, soprattutto per confermare
che l’altro avesse capito una generalizzazione che lei aveva appena enunciato. Per esempio,
su un’infermiera nuova poteva dire: È di quelle convinte che dopo di loro abbiano buttato
via lo stampo, hai presente? Su qualche anestesista: Di quelli che si mordono la lingua fino a
farla sanguinare, hai presente? O sul padrone del vivaio qui accanto: Di quelli che si
schiantano al primo segno di una curva, hai presente?
Confesso che io praticamente non avevo mai presente di che cosa stavamo parlando, di
che categoria di persone, perché le sue similitudini appartenevano a un linguaggio che non
mi era familiare o, la maggior parte delle volte, perché Noelia se le inventava così su due
piedi. Dopo quei primi anni in cui le dava tanto fastidio che io non avessi la rapidità
mentale che spettegolare con lei richiedeva, ho finito per prendere un’abitudine, una delle
tante, per farla contenta.
La verità – e non lo dico solo perché ormai ho capito che Noelia, dovunque sia, legge
quello che sto scrivendo, ma lo dico perché è la pura verità – è che io apprezzavo le sue
generalizzazioni. Erano giudizi sempre originali, almeno per me, che vivevo con la testa tra
le nuvole. Traducevano un modo di stare al mondo, di essere sveglio, attento al prossimo,
che a me semplicemente non era accessibile e riceverne qualche accenno era una vera
goduria, come vedere un bel film, leggere un buon libro. All’inizio me ne vergognavo ma,
con il tempo, ho imparato a rispettare le categorie inventate da mia moglie: c’era qualcosa
di kantiano in quell’abitudine, una volontà di creare un sistema. Hai presente era il modo in
cui Noelia organizzava le persone che entravano nelle nostre vite, e devo ammettere che
non solo aveva la mano ferma, aveva anche un intuito da strega. Un giorno all’istituto è
arrivata una tirocinante e Noe, dopo averla vista a un pranzo, mi ha detto: Questa si
arrampicherà come l’edera e buon per lei. Dopo un anno, la ragazza, con la sua misera
laurea specialistica, aveva un posto quasi equivalente al mio, che come un coglione mi ero
sparato perfino un post-dottorato.
Il punto è che avevo capito come dovevo gestire l’hai presente in modo che anche nella
mia totale ignoranza sociale potevo sostenere la conversazione, e Noe poteva ampliare il
suo catalogo di persone a piacimento, convinta che la stessi seguendo alla lettera. Mi sono
sempre vantato (per lo meno tra me e me, e ora con Nina Simone in mancanza d’altro) di
quella mia stupenda trovata. Ma la verità è che l’ho copiata alla moglie di Beto.
Prima che Chela abbandonasse da un giorno all’altro il comprensorio, iniziai a notare
che, quando non sapeva di cosa stavamo parlando dopo cena, ovvero praticamente ogni
volta che parlavamo di politica, cosa che capitava praticamente a ogni cena, faceva un gesto
molto particolare che la faceva sembrare interessata, riflessiva, leggermente in disaccordo,
e che mascherava abbastanza bene la sua assoluta ignoranza. Il gesto era semplice: diciamo
che arricciava le labbra. Ovviamente, la mossa aveva un effetto molto più soddisfacente su
di lei, che è un mango, che su una fisionomia come la mia, che sembro più una papaya
troppo matura. Eppure ho iniziato a copiarla, aggiungendoci di mio un lento movimento del
collo, e incredibilmente funzionava. Così, quando Noelia mi diceva, per esempio: Bionda ma
con una ricrescita così, hai presente?, io arricciavo le labbra, muovevo la testa lentamente, e
lei, avendo chiarito di che razza di creatura stavamo parlando, continuava a raccontarmi il
pettegolezzo senza che ci dovessimo fermare a celebrare un altro giro di frustranti
delucidazioni dovute alla mia totale mancanza di spirito di osservazione.
In fondo, credo che la mia Noe non fosse solo diretta. Aveva anche un olfatto psicologico
più acuto di tutte quelle donne che fanno le esperte, le saputelle. Le antropoline, così
chiamava Noelia le mie colleghe dell’istituto. Le antropoline si sentivano – come quasi tutti
i laureati in scienze umane, me compreso – superiori al resto. Un po’ più sensibili, un po’
più umane del resto dell’umanità, questa era la teoria di mia moglie. Le antropoline
discriminavano Noelia perché parlava apertamente di quanta televisione vedeva nel suo –
rarissimo – tempo libero, ma in fondo morivano d’invidia per la carriera di Noe, solida
come un salice, e molto, ma molto più remunerativa della loro. La compativano perché non
aveva figli, ma in fondo invidiavano quell’autonomia per la quale loro avevano tanto
pigolato in gioventù e poi avevano buttato nella spazzatura, e che invece Noelia ha sempre
dato per scontata. A un’antropolina non si può chiedere se le piace cucinare, perché ti
accuserà di voler prolungare il patriarcato fallocentrico. D’altra parte, se scoprisse che in
una coppia è l’uomo a occuparsi di cucinare, com’è, o com’era, a casa nostra, lo vedrà
sempre come un rammollito schiavizzato dalla moglie.
Per incensarsi tra loro, le antropoline hanno codici molto chiari. Di una che in fondo
disprezza, l’antropolina media dirà: È proprio tosta. Ma di una che realmente ammira, dirà:
È davvero padrona di sé stessa. Al riguardo, Noe una volta mi ha detto all’orecchio: Questa
baggianata la direbbe solo un’antropolina, perché visto che non si sopportano nemmeno
tra di loro, credono di meritare un applauso quando riescono a passare mezza giornata con
sé stesse senza cavarsi gli occhi.
Le antropoline sono di quelle che comprano vestiti messicani tradizionali, ma di marca,
hai presente? E sì, ce l’avevo presente, oppure no, ma Noelia mi ha insegnato a vederle così.
Noelia annusava a chilometri di distanza il maschilismo dissimulato degli intellettuali che
facevano impazzire le antropoline. Io, dato che avevo fama di essere un buon marito, sono
brutto e so fare il finto tonto, quasi sempre capivo dalle segretarie chi sbavava per chi, cosa
che cercavo di ricordare almeno fino all’ora di cena, per poterlo raccontare a Noelia, che
adorava quelle storielle, erano come una bella bistecca per la sua anima da pettegola.
Poverina – proclamava parlando dell’antropolina-amante in questione –, finirà malissimo,
lo so già. E perché?, chiedevo io, onestamente disorientato. Ah, Alfonso, lui sicuro è uno di
quelli che le idolatrano e poi le martirizzano, hai presente? E io arricciavo le labbra.
Era disonestà quel mio fingere di aver presente? Di certo, ma una disonestà generosa, di
quelle che fanno durare i matrimoni.
È uno di quelli che arricciano le labbra per far finta di seguire perfettamente la
conversazione, hai presente?
Esatto. E, Noe, visto che ci sei, lascia che ti racconti che ieri al Vips ho visto un libro che
si intitola Signore, ti prego, fa’ che rimanga vedova e mi ha fatto davvero pena, una pena che
non provavo da tempo. Meglio il dolore pulito di un vedovo che soffre, del dolore sporco di
una donna rinchiusa in un matrimonio che disprezza.
Di cosa parla il libro?
Non so, non l’ho comprato.
E cos’è questa scemenza del dolore pulito?
È una cosa che mi ha insegnato Agatha Christie; quando tu e Luz siete morte le è venuta
la mania di prendere in biblioteca tutto quello che trovava su morti, lutti e cose del genere,
e poi veniva a farmi il riassunto settimanale. I nostri lutti, mi ha spiegato una domenica, il
suo per la sorella, il mio per te, erano dolore pulito, puro. Invece, stare male perché non
piaci a un ragazzo, per esempio, quello era dolore sporco, perché te lo stai semplicemente
inventando nella tua testa, in realtà non lo sai, non puoi sapere se piaci o no al ragazzo in
questione.
Che tesoro, quella Ana.
Sì, è troppo carina. Allora io le ho chiesto: E a te piace quel ragazzo o no?, ma lei si è
tutta agitata e ha ripreso a leggermi a voce alta passaggi incomprensibili di quel manuale
zen che aveva nello zaino. Magari lo compro il libro, quello della vedova, così te lo racconto.
D’accordo, amore, ma non mangiare sempre al Vips, che lo sai che anche quando c’è
scritto «alla griglia» è tutto unto e straunto.
Hai ragione, meglio che mi faccio una zuppetta.
Questo è il mio uomo. E fai il bagno alle bambine, che hanno le guance tutte sporche.

***

Le condizioni di vita dell’essere umano sono essenzialmente due, mi spiegava Noelia


facendomi un disegnino, alla seconda tequila, negli anni di suo maggior conflitto con
l’argomento: Essere figlio ed essere genitore. Continuava: Io scelgo di sperimentare una
sola delle due condizioni; questo significa che in qualche modo scelgo di vivere solo a metà?
È un’equazione complicata, socialmente. Se si sommano entrambe le condizioni, è come
essere due persone: essere figlia ed essere madre. Io scelgo di essere una e basta, una
persona e basta: mi sembra un ragionamento coerente, no?, eppure per gli altri non lo è.
Per gli altri, essere una persona e basta è come essere meno di uno. Per gli uomini non vale,
ovviamente, ma non c’è nemmeno bisogno di dirlo. Te la metto al femminile: se sei una e
basta, una donna e basta, è come se rappresentassi solo la metà della tua condizione
umana, o femminile, se vuoi. Il punto è che – non scherzare, Alfonso – se sei una, be’, in
realtà sei mezza. Dimmi tu dov’è la logica in questo.
Non ho fatto io le regole, le ho detto.
Ma l’antropologo sei tu.
Già, ma specialista di alimentazione preispanica.

***

Il maglione.
Qualche giorno fa, Linda è arrivata al bar con qualcosa di giallo in mano. Quando le
hanno portato la vodka abbiamo brindato e lei l’ha appoggiata sul tavolo. Era un piccolo
maglione. Dalla borsa ha tirato fuori un kit da cucito e da questo un ago, delle forbicine, e
dei rocchetti di filo spesso. Mentre bevevamo si è messa a ricamare sul maglione rombi,
quadrati, cerchi e semicerchi di diversi colori. A un certo punto me l’ha passato. Io ho tirato
indietro la mia sedia e me lo sono steso sulle gambe. Era più grande dei vestiti che di solito
compro per le bambine, ma mi stava sulle ginocchia. Era sporco. Ho percorso con il dito le
figure appena ricamate, il filo stretto era morbido in confronto al maglione, che pungeva. Mi
è sembrata una cosa di un’altra epoca, come i calzini alti fino alle ginocchia e gli shorts
minuscoli che usavamo ai miei tempi: nessuno fa più maglioni di lana che punge, men che
meno per i bambini. Mi sono tolto l’anello e l’ho passato a Linda. Lei se l’è rigirato tra le dita
e l’ha guardato, senza provarlo. Ha letto l’iscrizione all’interno e ha chiesto: Umami?
Umami è il quinto sapore che le nostre papille gustative percepiscono; c’è il dolce, il
salato, l’amaro, l’acido, questi sono i quattro che tutti conosciamo, e poi c’è l’umami, in
Occidente è stato scoperto da poco, sarà un secolo, è una parola giapponese, significa
delizioso. Poi ho preso fiato ed entrambi ci siamo messi a ridere, perché io avevo detto
quelle cose tutte di fila, come quelle macchinette nelle chiese italiane in cui metti una
moneta perché si illumini l’altare per un minuto. Linda mi ha restituito l’anello. Le ho
restituito il maglione, lei ha infilato un filo viola. Linda vive nel comprensorio, di sicuro le
ho raccontato mille volte la storia dell’umami, facendo meno l’automa. In ogni caso,
generosa, ha piantato l’ago nel maglione e ha chiesto con calma: Di cosa sa?
Questo è il punto, le ho detto: Sa di umami. Dato che non riconosciamo il sapore, per me
il modo migliore di descriverlo è che è qualcosa di mordibile, soddisfacente. In inglese
dicono savory.
Seivori?, pronunciò lei perfettamente.
A-ha, oppure brothy. O meaty.
Non l’ho mai capito bene.
Il modo migliore di capirlo è questo: pensa a una pasta, pensa a un piatto di spaghetti.
Non è niente, non sa di niente. Carboidrati insapori. Ma se ci metti dell’umami, se ci metti
parmigiano o pomodoro o melanzane, zac! È un pranzo.
Lei ha annuito con la testa, a lungo, e questo è tutto. Quando se n’è andata (non siamo
mai usciti insieme da La Taza), ero un po’ confuso. L’ultima volta che ho avuto una
conversazione così con una donna, me la sono sposata.

***

Che le teorie di Noelia sulla figlitudine sembrassero sempliciotte o ingenue non faceva,
secondo lei, che corroborare i suoi sospetti e rafforzare il punto centrale, ovvero: che non si
matura mai del tutto se non si passa alla seconda condizione umana. All’altro lato. A non
essere figlio e basta, ma anche genitore, prolungamento della specie, disseminazione
genetica, quel genere di cose. In altre parole e per farla breve: la misticologia della
figlitudine di Noelia era inconfutabile. Soprattutto nelle aree relative all’immaturità. Per
esempio, un tipico modus noelendo noeliens:
Se sei figlia e basta, c’è qualcosa di immaturo in te.
Quindi, le tue argomentazioni risulteranno necessariamente puerili.
Eppure, quanto più puerili sono, più punti totalizzano per la teoria generale della
figlitudine come uno stato di immaturità irrimediabile.
D’altra parte, nonostante la mia professione, non ero molto pedante quanto a
dimostrazioni scientifiche, quindi, per quello che ricordo, non ho mai avuto nessun
problema nel dare per certe le teorie della mia Noelia che alcune domeniche ci
permettevano, per esempio, di fare colazione con gelato al limone e tequila o, di tanto in
tanto, di comprare un biglietto aereo per una destinazione qualsiasi.

***

Mia moglie era una miscela perfetta, civilizzata e primitiva allo stesso tempo: puro pensiero
selvaggio, Lévi-Strauss le avrebbe sbavato dietro. Di pari passo con il suo rigore medico,
Noelia Vargas Vargas praticava una serie di rituali del tutto irrazionali. Nonostante sapesse
fin troppo bene che la nicotina intorpidisce l’intestino, per anni ha sostenuto di non riuscire
ad andare in bagno se non dopo aver fumato una Raleigh. E c’è di più: consultava l’oroscopo
ogni mattina. E non per gioco. Lo controllava come chi verifica le previsioni del tempo. Se
l’oroscopo annunciava qualcosa di negativo, lei metteva il broncio; se le notizie erano
positive, allora era contenta. I primi anni del nostro matrimonio, questa sua abitudine mi
irritava. Non riuscivo a capire come l’umore di una donna così intelligente potesse
dipendere da qualcosa che – come lei stessa spiegava sempre – non aveva il minimo
fondamento. Eppure, nella pratica, il suo acuto senso logico, che usava con tanta
puntigliosità per altre cose, non aveva niente a che fare con i suoi umori. Usava l’oroscopo
come una guida, nonostante sapesse perfettamente che non si tratta di altro che parole
scritte da un’astrologa frettolosa o, forse, come lei stessa ipotizzava, dagli sguatteri
dell’astrologa frettolosa. Non che Noelia credesse nelle stelle: credeva nell’oroscopo. Ne
aveva bisogno per iniziare la giornata. Come altri non escono di casa senza farsi il segno
della croce o senza un caffè in circolo. Negli ingranaggi del meccanismo animico di mia
moglie, il maledetto oroscopo era il dispositivo chiave: un paragrafo che determinava lo
stato d’animo con cui lei sarebbe passata, quel giorno, dal sonno alla veglia. Per fortuna, nel
corso della mattinata, l’effetto di solito svaniva. Era un rituale nefasto, ma di breve portata.
Fino alla sua morte, Noelia è stata abbonata alla rivista Astros, di madame Elisabeta.
Negli ultimi cinque anni la riceveva via mail ogni settimana ma prima, per anni e anni,
arrivava per posta. E prima ancora, quando l’ho conosciuta, Noelia leggeva il suo oroscopo
sul giornale. Ogni giorno, in pantofole, scendeva dal suo appartamento da single per
comprarlo. Era così rigorosa che l’edicola la faceva pagare ogni quindici giorni. La faccenda
dell’oroscopo mi terrorizzava, però era bellissimo sfogliare il giornale di prima mattina:
una di quelle cose meravigliose che capitano solo all’inizio di una relazione, come scopare
in cucina.
La rivista Astros forniva sette giorni di oroscopo ed era personalizzata, con il tuo segno
e il tuo ascendente e, addirittura, il tuo nome che qualcuno digitava direttamente sulla
copia stampata. Si notava per come la scritta Noelia appariva a volte inclinata, o a zigzag,
con quegli impercettibili balletti tipografici tipici delle macchine da scrivere. Non era, come
si può dedurre, una rivista economica.
Un giorno all’ambulatorio di Noelia si è presentata nientemeno che madame Elisabeta
in persona, con il cuore in un pessimo stato. Era una cinquantenne pallida, obesa, simpatica
e sboccata. La a finale del nome, aveva appreso subito Noelia, gliel’aveva messa sua madre,
non era uno pseudonimo malriuscito. All’inizio, Noelia non le aveva detto niente sulla
rivista, perché nel suo ruolo di cardiologa era solita tacere le proprie superstizioni. Le
aveva messo un pacemaker e basta. Però era dicembre, e la signora, estremamente grata
per esser stata salvata in tempo, ci ha invitato alla festicciola natalizia della sua rivista, alla
quale ho partecipato con piacere, per curiosità antropologica ma anche perché ero convinto
che, individuando il meccanismo commerciale che si celava dietro quella rivistaccia, Noelia
si sarebbe finalmente convinta del suo eterno errore. La serata però non è andata per nulla
come ci aspettavamo. Abbiamo cenato a casa di Elisabeta, tanto per cominciare, che era un
appartamento in avenida Revolución, dove viveva con un pappagallo e una donna molto più
giovane che faceva le veci di amante e infermiera, oltre a dare una mano con la rivista, la
pulizia e i temi astrali, e che tutti chiamavano, semplicemente: Acquario. Acquario me la
ricordo perennemente seduta sulle gambe di Elisabeta. C’erano altre persone alla cena: un
altro paio di astrologi, dei musicisti e una coppia di intellettuali stranissimi: dotati di senso
dell’umorismo. Quanto al banchetto, consisteva esclusivamente di stuzzichini con un po’ di
punch, e una quantità di panini comprati da La Castellana, che era a due isolati da lì e già
allora vendeva i migliori panini imbottiti della città. Quando siamo arrivati, Acquario ha
preso le ordinazioni di ognuno, e a un certo punto deve aver telefonato al locale, perché
poco dopo la cena si è materializzata sulla porta. La grassa Elisabeta era una poveraccia
esoterica, eppure aveva capito, molto prima di Google, il valore del trattamento
apparentemente personalizzato.
Quell’umile serata natalizia, senza volere, ha eliminato per il resto della mia vita
coniugale l’irritazione mattutina di fronte all’oroscopo. Il semplice fatto che la madame
esistesse, che i suoi astri fossero punteggiati di piume di pappagallo, panini cubani e una
storia lesbica lasciva e tenerissima, mi avevano riconciliato con tutta la faccenda degli
oroscopi. Non so se saprei spiegare esattamente perché.
L’oroscopo è come un guscio, lo sanno tutti. Dev’essere sufficientemente ampio e vuoto
perché uno possa farci entrare quello che ha bisogno di sentire. Ma io mi ero stancato di
spiegarlo a Noelia, che tra l’altro lo sapeva fin troppo bene. Il cambiamento non è avvenuto
a questo livello superficiale e conosciuto (prendi un pianeta, una malattia e una sorpresa,
mescola il tutto in poche righe ed ecco che hai l’oroscopo), ma a un livello più profondo: per
quanto fossero studiati, quei testi non sbucavano dal nulla, dietro c’era un’autrice, non
un’impresa maligna, una donna mezza matta, che – lei sì – credeva nelle stelle. I segni dello
zodiaco erano i suoi personaggi preferiti. Gli dava vita settimanalmente con carta e penna,
come autori peggiori hanno fatto con personaggi peggiori. Il carattere generico, di libera
interpretazione, della rivista Astros non era una debolezza, ma quello che aveva in comune
– l’unica cosa, ma era sufficiente – con la letteratura: la sua ambizione di universalità.
Non l’ho mai detto a Noelia perché le avrei potuto tenere un’intera conferenza
(L’astrologia come scienza umana) e lei avrebbe alzato le sopracciglia e mi avrebbe
ricordato che sono Ariete, come se questo spiegasse tutto. Ma il punto è che per me, la
spiegazione dell’astrologia come arte letteraria ha funzionato alla grande. Mi ha concesso
una tolleranza che negli anni precedenti semplicemente non ero riuscito ad avere, né avevo
saputo fingere, ed era stata la causa di molti bisticci di prima mattina. Dopo aver stabilito la
mia teoria, invece, nei giorni in cui Noelia annunciava, a colazione, che Mercurio era ostile,
io entravo immediatamente in modalità consolatoria. Le accarezzavo la testa, la prendevo
in giro, le pizzicavo i fianchi, la palpavo sulla porta, quando stava già uscendo per andare al
lavoro. Se, invece, a colazione Noelia annunciava con gioia una luna nuova che avrebbe
aperto non so quante strade, io pensavo: oggi sarà forte, sicura. E anche questa era una
specie di licenza, per me, a essere meno forte io.
Il matrimonio è un’eterna staffetta e l’oroscopo di Noelia è diventato la mia strategia.
Alla fine, quello che le ho rimproverato per anni, cioè che lasciava il suo umore in balia
degli astri, è diventato vero per me.

***

Se tutto dovesse andare male – dicevo a Noelia quando ciclicamente mi convincevo che
quella volta non sarei stato capace di finire un articolo né, men che meno, di sopportare il
lungo processo di revisione, invio, commenti, rifiuto, umiliazione assicurata, eccetera, che
presupponeva la vita accademica –, se tutto dovesse andare male, ce ne andiamo a vivere al
mare e mi metto a coltivare papaya.
Coltivare papaya era la mia ambizione massima.
Noelia, invece, non riteneva possibile che le cose andassero male nella sua vita
professionale. Quando non ce la faceva più, non le veniva in mente la possibilità immediata
di mandare tutto a quel paese ma, semplicemente, si concentrava sul futuro, su «quando
andrò in pensione». Quando andrò in pensione, diceva, metteremo una jacuzzi in cortile.
Però non l’abbiamo mai fatto. Noelia Vargas Vargas è morta lavorando. Páez le portava
le lastre degli elettrocardiogrammi e lei li controllava a letto. È morta come aveva vissuto:
tra battiti altrui, sistole e diastole e via.

***

La varietà finita di domande retoriche generate dal lutto (perché?, perché a me?, perché
Noelia?, perché non io?) le elimino con un clic.
È sicuro di volerle cancellare, Alfonso? Non è forse così che si sente adesso? Mezzo
marcio, in rovina, come la casa dopo l’85?
Sicurissimo, Nina: lascia a questo papero vedovo almeno un angoletto privo di lacrime,
una pagina di serenità, anche se falsa: clic.

***

Racconterò la storia dall’inizio.


Ho conosciuto Noelia nel 1972, alla Scuola Nazionale di Antropologia. Era venuta a un
seminario che tenevo ogni anno (Passato e presente dell’alimentazione messicana),
preoccupata per il problema del sovrappeso che stava uccidendo i suoi pazienti. Voleva
risolverlo una volta per tutte e pensava di attaccarlo, tra gli altri modi, dalla parte della
conoscenza storica. Voleva documentarsi. Era un medico, spiegò, e conosceva alla
perfezione cause e conseguenze fisiche del sovrappeso, compreso il suo – aveva detto
esagerando per guadagnarsi il pubblico. Aveva usato la parola epidemia in un’epoca in cui
l’obesità era considerata, al massimo, un segno particolare o, direttamente, un problema di
forza di volontà. Si era accaparrata l’attenzione per dieci minuti, pontificando di fronte a
tutti i presenti sulle condizioni cardiache aggravate dai cibi confezionati. Il mio collega,
Ramón Montoya, che nonostante il nome andaluso non possedeva nemmeno un pizzico di
carisma, aveva storto il naso.
Molte volte ho ringraziato Montoya, anche se mai di persona, per la sua pedanteria.
Quel suo gesto un po’ infantile mi aveva spinto a mettermi istintivamente dalla parte di
Noelia, il cui nome conoscevamo già tutti nella sala, perché era una quelle che si alza e si
presenta prima di prendere la parola, hai presente?
Le avevo risposto con calma, facendole i complimenti per gli sforzi fatti, le avevo parlato
del ruolo storico della compulsione, del grasso come figura di ricchezza, della fame
emotiva, avevo sottolineato l’importanza di mangiare cibi ricchi di proteine e di umami, per
favorire la sensazione di sazietà, per l’ennesima volta avevo fatto l’elogio dell’amaranto e
del suo grande contenuto proteico. Poi c’erano state altre domande, sicuramente sul mio
argomento centrale, perché a nessuno piace che l’amaranto sia uno pseudocereale (li rende
nervosi: se sa di cereale e odora di cereale, pensano, sarà una pianta, come il riso, come il
grano e non un seme, come quelli che contengono cianuro o, peggio ancora, come lo
sperma), e tutto sarebbe finito lì se non fosse stato che Noelia mi si era avvicinata alla fine
della conferenza per chiedermi cos’era questa storia dell’umami e io le avevo risposto,
perché in parte era vero: Questo glielo posso spiegare solo al ristorante.
Quello è stato l’inizio di tutto, quella sera abbiamo cenato insieme e siamo finiti a letto e
poi io per un anno sono sparito come un coglione, mi sono messo con la Memphis, ho avuto
quel sogno, ho cercato Noelia, ci siamo sposati, tutto grazie all’umami e poi, veloci come
erano arrivati, sono finiti gli anni Settanta ed è arrivato il 1982: il paese è andato a puttane
e io sono caduto dalla bicicletta, una domenica, nei pressi di Chiconcuac.

***

Lo dirò perché ho la sensazione che Noelia non sia nelle vicinanze: oggi sono andato al
cimitero e mi sono perso. Ci ho messo mezz’ora a trovare la tomba, anche se so
perfettamente dove si trova. Era come se qualcuno mi avesse tolto il chip. Non è mica
normale.

***
Che il peso messicano crollasse, nel 1982, non era una novità, ma che io cadessi dalla bici sì.
Ero andato in bicicletta per tutta la vita e non mi ero mai fatto nemmeno un graffio. Poi, in
un batter d’occhio, mi sono rotto la tibia sinistra in tre pezzi e mi sono distrutto la clavicola.
Il casco mi ha salvato la vita, ma avevo comunque un paio di fratture al cranio e due
ematomi che ci hanno messo anni ad assorbirsi. O forse mesi, ma sono stati mesi molto
lunghi.
La svalutazione non era una novità, d’accordo, non era la prima né l’ultima volta, ma è
stato comunque un incubo. Con la crisi del mexdollar ci siamo ritrovati con la merda fino al
collo. I nostri risparmi si sono ridotti all’osso e i pochi soldi rimasti se ne sono andati con il
conto dell’ospedale. Grazie a Noe, mi avevano garantito le migliori cure possibili, ma la
convalescenza era inevitabile. Sono rimasto chiuso in casa per molti mesi, e sono stati mesi
meravigliosi. Mi mettevo a disegnare a letto, molto alla Frida Kahlo, ma senza baffi, perché
la mattina doña Sara mi portava il necessario per radermi. Da lì, guardandola ogni giorno
dalla finestra, per la prima volta sentii che la proprietà che avevamo era uno spreco.
Per una specie di testardaggine che avevo ereditato insieme al terreno, mi rifiutavo
categoricamente di vendere la casa a quei parassiti delle agenzie immobiliari. Eppure
mentre ero lì a riposo, dopato e sereno, mi è venuto in mente che io stesso, perché no,
potevo diventare un Signor Parassita Immobiliare. Un altro fattore importante è stato tutto
il tempo che ho passato con doña Sara, che ci aiutava con la casa e in quel periodo mi
portava da mangiare su in camera. E doña Sara, che parlava senza sosta che ci fosse o no
qualcuno vicino ad ascoltarla, viveva in un complesso di case. Tutto il santo giorno mi
raccontava qualcosa di qualche suo vicino, o si lamentava del proprietario che era un buono
a nulla a cui bastava «vivere di rendita». L’idea di vivere di rendita mi è piaciuta. Ed è stato
praticamente così che mi è balenata in testa l’idea iniziale del comprensorio. Ma i fattori
veramente decisivi per la costruzione, che è iniziata solo cinque anni dopo, sono stati i miei
disegni e i danni causati dal terremoto dell’85.

***

Dicevamo che avevamo deciso insieme, ma in fondo credo che la decisione di non avere figli
(e poi di averli) sia stata sua. Credo che l’avrei seguita qualunque fosse stata la sua
decisione. Non ce lo siamo mai detti apertamente, ma la verità è che io mi sono sempre
sentito più a mio agio a concedere che a decidere. Concedere ti fa sentire una persona
buona. Al contrario, decidere ti fa sembrare un prepotente, e visto che ho avuto un padre
molto prepotente, nella vita ho cercato più di ogni altra cosa di non somigliare a lui. È anche
vero che avere figli mi faceva più paura di non averli. Noelia era la maggiore di quattro
fratelli. Ha iniziato a cambiare pannolini quando aveva sei anni. Io sono figlio unico. Penso a
un pannolino non come a una grande invenzione ma come un artefatto complesso, e ci
penso con la stessa repulsione con cui penso al suo contenuto.
Questo, precisa Noelia, è un commento idiota e irrilevante, tipico di un figlio e basta.
Può essere. Ma una volta ho chiesto a Páez che cosa ne pensava lui, e lui mi ha risposto,
semplicemente: Pannolini?
***

Ho la demenza senile?, è questo che mi piacerebbe poter chiedere a Páez.

***

A volte mi sveglio nel bel mezzo della notte e penso a quante volte ho dato per scontato il
nome Noelia Vargas Vargas. Mi si ammassa un’energia nera nelle gambe, potrei prendere a
calci qualcosa. Ma il massimo che prendo a calci è la coperta, più come un bambino
capriccioso che come un uomo incazzato. Avrei dovuto usare di più il suo nome, avrei
dovuto pronunciarlo invano. Ho buttato migliaia, milioni di opportunità di assaporarlo.
Quando parlavo di lei, dicevo: «mia moglie». Quando la chiamavo, dicevo: «amore». Quando
le mandavo un messaggio sul cellulare, non la salutavo nemmeno. Scrivevo semplicemente,
come se fossimo immortali: Torni per pranzo?

***

A Noelia piaceva la parola progetto. La faceva sentire organizzata. Diceva che


condividevamo un progetto di vita. Ma io credo che mia moglie, con tutto il rispetto e anche
se leggerà queste parole, non si rendesse davvero conto – non con il sudore della sua fronte
– di che cos’è un progetto. Qualcosa che inizi, ti entusiasma, poi ti areni, ti ci scontri, e poi,
se sei orgoglioso e coraggioso e umile e superbo e molto ostinato, porti a termine. Poi
generalmente segue una confusa fase postnatale, che alla fine lascia spazio alla serenità e
alla triste consapevolezza che non è cambiato niente e che probabilmente nessuno leggerà
il tuo libro. Poi viene la pace e poi, chissà come, nasce da qualche parte la curiosità per un
nuovo progetto. Ti rimetti ad arare il terreno e ricominci. Io ho lavorato così per tutta la
vita. Così ho fatto tutto quello che ho fatto: il comprensorio, la Milpa Migliorata, ogni
articolo, eppure adesso non riesco a mettere insieme un piano d’attacco, mi stanno
morendo le piante, riesco a malapena a dare una lavata alle bambine. Non faccio che bere e
scrivere su Nina. E non sono nemmeno un gran bevitore, alla terza tequila devo già andare
a sdraiarmi, e quando scrivo mi esce tutto in disordine. Così – senza capo né coda né punti
extra per aver pubblicato queste pagine – non esiste un progetto né la possibilità di farla
finita con quella routine improvvisata e benefica, che di fatto forse prolungherò fino
all’ultimo giorno della mia vita. Linda mi ha chiesto l’altro giorno se non staremo
diventando alcolizzati. Le ho detto di no, che noi siamo piante C4, come l’amaranto: più
efficienti nell’uso dei liquidi, capaci di produrre la stessa quantità di biomassa con una
minore quantità d’acqua. Biomassa?, ha chiesto. Lacrime, le ho detto.
Torniamo al progetto.
Dicevo: Noelia non lavorava per progetti, ma per inerzia. Pazienti ce n’erano sempre. Ed
era come se fosse sempre lo stesso ripetuto, lo stesso interminabile paziente. Per cui
quando lei parlava di progetto, qualcosa dentro di me protestava. Ma mai a voce alta, ovvio,
perché Noelia ne parlava con grande autorità. Le usciva il lato sicuro di sé, come se ti stesse
spiegando l’ovvietà del sistema circolatorio: era un’altra, le cambiava perfino la voce. Con
quella voce categorica diceva, per esempio: Alfonso, sei d’accordo sul fatto che non c’è
posto per la riproduzione nel nostro progetto di vita, vero?
E io cosa rispondevo? Nemmeno me lo ricordo più. Le sorridevo, immagino. Oppure le
dicevo: Vero. E lo dicevo sul serio. Noe e io siamo sempre stati d’accordo; quando non
eravamo d’accordo, dopo poco, ci passava. Ci gridavamo addosso, lei adorava sbattere
porte, io adoravo prendere la giacca e andare a farmi un giro, e poi basta. Tutto passava,
tranne ora. Ora sì che ci siamo arenati. Ora sì, che voglia di litigare.

***

Il mondo è pieno di spine, siepi, setacci, semafori, supposte, scovolini e stantuffi. Secondo
me, siamo solo uno sciame di scemi.

***

Sono di pessimo umore per un articolo sul giornale di oggi, in cui ancora si parla del mito
secondo cui si seminava solo mais nelle coltivazioni chinampa di Xochimilco. Ma per favore!
Quanti altri studi dobbiamo pubblicare prima che nelle scuole si inizi a insegnare la verità:
c’erano anche piantagioni di huautli, l’amaranto sacro. Era da tutte le parti, se ne
mangiavano il gambo, le foglie, i semi, e si usava anche come offerta agli dei. Si facevano
delle figure sacre con la farina di amaranto e poi ci si conficcavano piccole spine imbevute
di sangue. Gli spagnoli, che non erano stupidi, decisero di proibire l’amaranto perché
sapevano che era meglio rinunciare a una fonte di energia piuttosto che dover affrontare il
potere della religione. Distrussero chilometri di piantagioni. Inventarono punizioni e
castighi severi per chi lo piantava, e così lo huautli scomparve dalla memoria con il
successo decisivo di chi ha le armi migliori. Si inventarono una storia a misura delle loro
lance – Qui c’era solo mais! –, e noi ci abbiamo creduto. Ci siamo ossessionati con la milpa.
Lo sono stato anch’io, per vent’anni e vari libri. E sì, sì, la milpa è affascinante, come le
piramidi. Ma c’è qualcosa al di là del monumentale, qualcosa di bello e ingegnoso e
molteplice: le vite private. Gli dei in scala familiare, dove cibo e rituale coincidono. Ma
queste piccole cose, l’amaranto, la vita semplice del rito quotidiano, non interessano a
nessuno. Certo non a chi si occupa di divulgazione. Proprio come le guide turistiche che si
rifiutano di spiegare che le due finestre della piramide di Tulum sono in realtà un faro. Sono
state fatte delle prove, dei colleghi dell’istituto hanno usato delle candele per proiettare un
fascio di luce attraverso l’apertura, come facevano i maya, per guidare le piccole
imbarcazioni lungo l’unico canale che permetteva di non incagliarsi nella penisola rocciosa:
la scogliera mesoamericana è la seconda più lunga del mondo, inizia nello Yucatán e finisce
in Honduras, è affascinante studiare la navigazione della zona, ma gli albergatori non la
pensano così. Un faro?: che cosa banale! Meglio cancellarlo e scrivere sui testi ufficiali: Un
tempio. Come se fosse meglio essere fanatico che ingegnoso. Mi fa rabbia, quindi, ancora
dopo tanti anni, che molte delle nostre scoperte siano sistematicamente ignorate a favore
dell’ignorantus machistus faraonicus. A volte davvero credo che all’istituto si lavori solo per
gli accademici gringos: siamo la loro fabbrica di dettagli succulenti. I risultati delle nostre
ricerche in questo paese verranno resi noti solo là, con il tempo. Negli Stati Uniti: ben
lontano dalla Segreteria Messicana della Pubblica Istruzione. Sarà così: un giorno un
maledetto gringo overeducated, che non ha mai mangiato una briciola di amaranto in vita
sua, scriverà un libro dal titolo Amaranthus, con tutto quello che io dico da anni, o magari ci
metterà un titolo in na¯huatl, perché suoni più autoctono: Huautli for Dummies, in vendita
perfino negli aeroporti. Lui avrà un posto a Berkeley e poi i cinesi, che già di per sé
coltivano più amaranto di chiunque altro, avranno un nuovo mercato: la classe media
statunitense così persa in questioni alimentari, così priva di tradizione, così alla mercé
dell’informazione e dell’informatica: Dimmi Cosa Mangiare potrebbe essere una
descrizione in tre parole del gringo mediamente istruito. L’amaranto cinese raffinato lo
impacchetteranno in confezioni brillanti, lo pubblicizzeranno in tivù e lo esporteranno
come un giocattolino di plastica. In Messico lo compreremo a caro prezzo, e chi oserà dire
ai bambini che non è niente di diverso da quei dolcetti che gli preparava la nonna, si farà
spaccare la faccia con i loro pugni fortificati. Io spero solo di essere già bello che morto per
allora.

***

A volte vado al negozietto dietro l’angolo a comprare un paio di birre, o qualcosa che mi
manca, ma la spesa grossa me la fa Beto, e gliene sono grato. E non lo dico solo per farmi
bello in caso ci restassi secco qui con il computer acceso. Perché ci ho pensato dal momento
della morte di Noelia: chi dei vicini darà la notizia che io sono morto stecchito? E, a chi lo
comunicherà? All’istituto? E quelli dell’istituto, che faranno? Mi metteranno in una cassa
con la loro sigla? Mi seppelliranno in mezzo a delle rovine come fossi patrimonio
nazionale? Ne dubito. Chi mi troverà dovrà semplicemente buttarmi nella spazzatura, senza
tante cerimonie. Magari avrò già un brutto odore in quel momento, io che mi sono sempre
tenuto così bene. In conclusione, credo proprio che sarà Beto a sentire la prima zaffata,
quando porterà la spesa. Per questo, anche se non gli ho detto il motivo, gli ho già dato un
mazzo di chiavi. Quando lo sento entrare, scendo a offrirgli una birra, perché sì, perché
siamo vivi, e accetta quasi sempre. Ci sediamo nella veranda che dà sulla MM morta, dove
prima il rosa profondo dei fiori di amaranto salutava con il vento, ed elaboriamo sterili
piani per eliminare le piante secche e montare un barbecue o una piccola piscina. Parliamo
del più e del meno finché non arriva per lui l’ora di andare a prendere sua figlia alla scuola
di danza o di non so cosa. Beto chiacchiera con me, mi fa domande, è generoso e si mostra
interessato; ora che ci penso, Beto è uno dei pochi uomini che ho conosciuto nella vita che
mi ispirano fiducia. Forse perché sua moglie se n’è andata. O forse proprio per questo sua
moglie se n’è andata. In fondo, credo di essere anch’io uno di quegli uomini. Ma può darsi
che sia solo il mio ego a offrirmi quest’illusione e che in realtà io sia uno di quelli che
ispirano pura indifferenza. Meglio indifferenza che repulsione, ovvio, ma non è nobile come
la fiducia. Non un’indifferenza qualunque, nient’affatto, ma il prodotto naturale di anni di
sforzi per passare inosservato. La timidezza cronica, sommata all’immersione totale in un
buon matrimonio e a una serie di abitudini solitarie, è la formula della sparizione. Ti
trasformi in una specie di Casper: amichevole ma assolutamente prescindibile. Da piccolo,
quando dovevo scegliere tra i poteri magici, sceglievo sempre di poter viaggiare nel tempo.
Quello che volevo era vedere senza essere visto. In fondo credo che sia proprio questo a
definire la mia professione. Direi che gli antropologi possiedono una predisposizione
naturale per l’osservazione e una sana dose di curiosità per gli esseri umani, ma senza
arrivare alla sensibilità dell’artista, all’austerità del filosofo o all’opportunismo
dell’avvocato. La nostra sana curiosità è lontana dal rigore sistematico, leggermente
ossessivo, della spia o dello scienziato, dall’ingegno deduttivo del sociologo, dalla disciplina
dello scrittore. Però abbiamo un po’ di tutte queste caratteristiche, se vogliamo vedere il
bicchiere mezzo pieno.
Tornando al punto, e con una nota più ottimista, posso assicurare che: a) per la strada,
la gente ancora mi schiva. Non mi guarda ma ancora mi circonda, rischia di urtarmi. Vale a
dire che, almeno fisicamente, sono ancora percettibile. E b) per la prima volta quest’anno,
non penso che morirò presto, non ora che intuisco un progetto, nei limiti che il lutto
permanente impone. Non morirò proprio ora che ho fatto squadra con Nina Simone, a.k.a.
la Negretta, e che, per la prima volta in quarant’anni, mi sono azzardato a scrivere senza
usare note a piè di pagina.
Ecco la mia nuova vita da quando non vado all’istituto: la mattina non metto la sveglia,
gli occhi mi si aprono in automatico tra le otto e le nove. Considerando le storie da incubo
di altri vecchi che ho conosciuto quando ero un ragazzo, mi sembra di essere fortunato. O
forse i vecchi, più che insonni, sono esagerati. Anch’io, se avessi qualche giovane
sottomano, ne approfitterei per farlo sentire in colpa di quanto mi alzo presto.
Poi mi faccio la doccia, mi vesto e metto su il caffè. Ho ripreso a berlo come quando ero
uno studente pretenzioso e pensavo che Dio fosse nei dettagli, sempre che i dettagli fossero
europei: con caffettiera italiana, sia chiaro. A Noelia piaceva il caffè della macchinetta
elettrica che non aveva nessun sapore e che quindi consumavamo in quantità poco
appropriate a persone mature.
Poi faccio colazione con una banana, o un uovo, a seconda di quello che ho. Poi spazzolo
le bambine, le cambio, e ci sediamo tutti e tre nello studio, io con Nina Simone davanti agli
occhi. Poi passo la mattinata a scrivere e scrivere. Faccio una pausa verso mezzogiorno per
bere qualcosa a La Taza e brindare con Linda. Poi (io, che ho cucinato per tutta la vita)
mangio in uno dei tre fast food del quartiere. Cucinare solo per uno dopo aver cucinato
trent’anni per due, semplicemente non è cosa. Ormai sono già tre settimane che faccio così.
Scrivo molto ma cancello anche molto, perché voglio farlo per bene: se non riesco a
raccontare con ordine, almeno voglio raccontare le cose importanti. Due giorni fa ho fatto,
nella prima pagina del documento, una copertina. Ho scritto a caratteri cubitali, al centro
della pagina: NOELIA. Poi ho messo anche i cognomi e poi ho cancellato tutto, il suo nome
non comprende tutto ciò che era. Ho scritto: Umami. È un po’ scemo come titolo perché ho
già scritto un libro che si chiama così ed è pura teoria culinario-antropologica. Ma per ora
penso di lasciarlo perché, allo stesso tempo, Umami è il titolo perfetto. Cercare di
raccontare chi è stata mia moglie è necessario e impossibile quanto spiegare l’umami: quel
sapore che satura le papille gustative senza, proprio per questo, lasciarsi distinguere,
oscillando con soddisfazione tra il salato e il dolce, un po’ così, un po’ cosà. Complesso e allo
stesso tempo chiaro e tondo, come era anche la Noe: familiare e imprevedibile insieme. È
un titolo perfetto perché nessuno lo capirà come io non ho mai capito davvero Noelia
Vargas Vargas. Forse per questo non mi sono mai stancato di lei. Forse l’amore è proprio
questo. E così è la scrittura: lo sforzo di descrivere a parole una persona sapendo che per gli
altri resterà comunque un caleidoscopio: i suoi mille riflessi nell’occhio di una mosca.
A volte leggo qualche paragrafo a voce alta. Di solito sono retorici e inadeguati come
quello che ho appena scritto e generalmente li cancello. Si potrebbe pensare che se li leggo
a voce alta è per le bambine, ma non ho ancora perso il senno fino a questo punto. È chiaro
che, se muoio, le bambine non potranno avvisare nessuno.
Ah, certo. Mi piacerebbe, se morissi, lasciar scritto qualcosa:

A chiunque mi troverà e sarà costretto a prendersi

il disturbo di buttarmi nella spazzatura:

Grazie, amico!

E ancora: Ti affido le bambine,

si puliscono con una pezzetta umida.

Vietato immergerle in acqua.

***

Poco fa, quando ho scritto a.k.a., mi è venuto in mente un aneddoto. Anni fa mi hanno
invitato alla Complutense di Madrid, che negli anni Ottanta non era male come adesso, era
peggio. Dovevo tenere un corso sull’alimentazione preispanica, la cucina fusion creola, la
milpa: tutte cose che potrei insegnare a occhi chiusi. Mi sono portato di contrabbando
un’ampia selezione di pannocchie essiccate di tutti i colori per entusiasmare gli studenti, e
ho passato a Madrid un semestre durante il quale, per la prima e ultima volta, io e Noelia ci
siamo scritti delle lettere. Noelia ha conservato tutte quelle che io le avevo mandato, e
l’anno scorso, quando era già molto malata, un giorno mi ha chiesto di leggergliele. A un
certo punto del pomeriggio ho letto una frase in cui avevo usato l’espressione knockout.
Cosa?, disse Noelia.
Knockout, ho detto lentamente, cercando di rimediare alla mia pessima pronuncia.
Sì, ti ho sentito, ma non so cos’è, come nella boxe?
Esatto.
Fammi vedere, dammi qui.
Le ho mostrato la lettera e quando ha letto la frase intera ha iniziato a ridere così forte
che mi ha contagiato. Abbiamo riso, insieme, fino alle lacrime, non ridevamo così da quando
avevamo scoperto del cancro, forse da molto prima. Quando alla fine ci è passato l’attacco
di ridarella, le ho chiesto spiegazioni. È venuto fuori che per tutto il nostro matrimonio,
ogni volta che io avevo usato la sigla ko, lei aveva letto ok.
Mi ricordo, mi faceva un sacco ridere.
Ma non vedevi che era proprio il contrario?
Pensavo che fosse la tua dislessia.
Quale dislessia?
Non so, quella, in particolare, pensavo fosse una tua tipica forma di dislessia.
Una grave mancanza di comunicazione.
Be’, siamo pari.
Perché pari?
Perché ogni mattina che io mi svegliavo triste, tu eri di buon umore!

***

Oggi ho regalato a Marina il libro su Joaquín Sorolla. Credo che Noelia sarebbe stata
d’accordo, o forse no, perché era il suo preferito, ma di sicuro sarebbe stata d’accordo che
se averlo in casa mi deprime è meglio che ce l’abbia una ragazza che vuole fare la pittrice.
Quando ho tenuto il corso a Madrid, Noelia è venuta a passare due settimane là con me,
e si è messa a visitare ossessivamente il museo Sorolla, più che altro perché era vicino a
casa e c’era un cortile fresco dove sedersi a leggere. Non c’erano bar e quindi non c’erano
camerieri. A Noelia i camerieri di Madrid non piacevano per niente. Nel cortile c’erano solo
piante e tavoli e una bella fontana dove riempire la sua bottiglia d’acqua.
A volte entravamo a vedere i quadri di Sorolla. L’arte in generale le era più o meno
indifferente, ma dopo un paio di bicchieri di vino e un po’ di sole, la pittura non le era
indifferente: anzi, il contrario. Nel fine settimana, cioè i giorni che lei e suo marito uscivano
a prendere l’aperitivo, Noelia, per vanità, non si metteva gli occhiali, quindi i quadri di
Sorolla le sono sempre sembrati un po’ confusi. Dove gli altri vedevano una scena enorme,
apprezzabile da lontano, lei non vedeva altro che dettagli, tanto si doveva avvicinare per
guardarli. Il grezzo insieme dell’olio steso con le spatole, la meringa distorta e pasticciata
che formavano da vicino le pennellate di Sorolla, hanno convinto Noelia che si trattasse di
un pittore astratto. Quando le ho regalato il catalogo del museo, prima di tornare in
Messico, e lei l’ha sfogliato con i suoi occhiali da chirurgo, ne è rimasta francamente
sorpresa e un po’ delusa. Ma poi ci si è affezionata e l’abbiamo sempre tenuto in salotto.
Insieme al libro, ho dato a Marina una foto di Noelia, e le ho commissionato un ritratto.
***

Ho una nuova ossessione, che mi sta consumando: il rimpianto nel suo stato più puro. Per
trent’anni, alla fine di ogni settimana Noelia ha buttato nella spazzatura la sua copia di
Astros. Che cazzata enorme. Se le avessi ancora, potrei tracciare senza paura di sbagliare la
costellazione esatta di umori con cui mia moglie si è svegliata per i trent’anni che abbiamo
vissuto insieme. Quello sì che sarebbe un progetto come Dio comanda. In preda
all’insonnia, sono perfino arrivato a considerare l’idea di cercare madame Elisabeta per
chiederli a lei. Deve avere un’emeroteca privata racchiusa in dei catalogatori metallici
decorati con delle stelline adesive, in quello stesso maledetto e pittoresco appartamento di
avenida Revolución. Ma solo immaginare la possibilità che anche lei sia morta, morta lei e
morto il suo pappagallo, mi ha fatto cambiare idea e ho preferito non farlo. Ho paura di
scoprire chi scrive ora i testi di Astros. Magari Acquario si è messa a riciclare numeri vecchi,
o pubblicare pronostici astrologici croati tradotti con Google Translate: che non mi facciano
crollare il mio teatrino dell’astrologia come arte letteraria. È per questo che non voglio
nemmeno provarci, non perché mi dispiacerebbe scoprire che Acquario è rimasta vedova.
Al contrario. Ultimamente, mio malgrado, la vedovanza altrui mi fa solo venir voglia di dire:
Ecco, ora vedrai come ci si sente.
2001

Non c’è nessuno con me tra gli alberi. Solo Cleo. Cleo è nera e marrone ed è pelosa ed è la
più vecchia di tutti i cani di Emma. Le gratto la pancia finché i suoi fratelli la chiamano da
lontano e Cleo se ne va di corsa verso casa. Io non ho cani, né qui né in Messico. Io e Olmo
ne chiediamo sempre uno, ma Theo è allergico e Ana vuole un gatto. Anche se non ho cani
so che parlano tra di loro, e so che se qualcosa è più o meno grande come te e vive nella tua
stessa casa, è tuo fratello. Cleo vive con i suoi fratelli e con Emma. La casa di Emma puzza di
cane e di camino. Sul pavimento ci sono dei tappeti grossi grossi, con disegni strani e
colorati, e ci sono maschere di legno alle pareti. Sembra sempre che sia Natale, tranne per
le maschere, che sembrano di carnevale.
Cleo non torna, ormai vedo solo castagne da tutte le parti e finferli da nessuna parte. Mi
sono già stufata. Voglio andare a casa anch’io, ma non so da che parte è. Credo in giù,
perché abbiamo camminato in salita tutta la mattina. Seguo le impronte che Cleo ha lasciato
nel fango, fino a un punto dove la terra è secca, senza funghi né impronte. Ho freddo, mi
srotolo le maniche del maglione di lana di morto, dove sono le altre? Il boschetto ora
sembra un bosco incantato. Provo a chiudere gli occhi ma poi ho paura e li apro. Ci riprovo
con la schiena attaccata a un albero, che è più facile, devo arrivare a dieci. Devo contare
bene i secondi come mi ha insegnato Pina ieri quando respiravamo sott’acqua con la
cannuccia: milleuno, milledue, milletré, ho paura e li apro. I miei fratelli mi dicono sempre
che sono una paurosa, ma non è vero. Solo quando ho davvero paura, allora sì, un po’ è
vero.
Voglio tornare a casa. Cammino veloce in discesa e dopo un po’ la vedo, ma molto in
basso, molto lontano. Il bosco si mette a parlare e devo correre e le mie scarpe sono delle
torte di fango che pesano e inciampo ma mi alzo e inizio a piangere un pochino ma continuo
a correre e continuo a correre e a piangere e poi non c’è più ombra, non ci sono più
castagni, non c’è più discesa, corro ancora e sono in giardino e c’è il sole e sono quasi salva:
corro ancora e, quando raggiungo le altre, nessuno se ne accorge.
Sono ferme intorno a uno degli stagni nuovi. Emma sta fumando una di quelle sigarette
che si fa da sola e parla come una maestra di scuola. Muove molto le mani. Ana e Pina la
guardano con la bocca aperta, come due sceme. Mamma mi passa la mano nei miei capelli e
mi fa i boccoli, lo fa sempre e a volte mi piace a volte mi insopporta. Anche se papà dice che
non si può dire che qualcosa ti insopporta, per insopportabile che sia. Non sono più
arrabbiata che mi hanno ignorata, perché voglio seguire la lezione. Voglio capire bene come
funzionano gli stagni nuovi, per spiegarlo a papà quando torna dall’isola.
Emma dice che lo stagno fa parte di un sistema di stagni in cui si filtrano le acque nere
finché non sono pulite. Le acque nere sono quelle dove c’è la cacca. Quelle con il sapone si
chiamano acque bianche. Le acque pulite non hanno niente e si chiamano solo acque.
Chiedo alla nonna come fa lo stagno a togliergli la cacca e mi dice che l’acqua si pulisce con
le pietre e con la ghiaia. Non lo capisco. Sento che la faccia mi tira, è una domanda: a volte
ho una domanda ma non so qual è e la faccia mi tira tutta come quando mangi un limone.
Emma mi prende la mano e mi porta con sé. Ha una mano molto strana che di fuori è
morbidissima ma dentro sembra ruvida, come la pietra vulcanica che c’è intorno al teatro
dove suona l’orchestra di mamma e papà.
Il sistema è fatto di quattro stagni collegati con delle cascate che formano una specie di
scala d’acqua. Il primo non si vede, è sotto la casa, vediamo solo da dove esce l’acqua, che
passa al secondo stagno, e tra il secondo e il terzo c’è un’altra parete-scalino di ghiaia e
pietre e piante. Nel terzo stagno ci sono degli iris e nel quarto delle carpe. Sono carpe
piccoline, non hanno cent’anni come quelle di un parco che ho visto una volta, ma i baffi ce
li hanno.
Emma finisce di spiegare, finisce la sigaretta e va a prendere una manichetta. Mi tolgo il
maglione e le scarpe e lei mi toglie il fango con l’acqua. Poco a poco, nel prato sotto di me si
forma una pozzanghera marrone. Il fango duro delle mie ginocchia diventa acquoso e scuro
e mi scivola per le gambe come un succo di frutta sporca, come se mi bevessero. Torno a
essere del mio colore e alla fine mi resta solo un po’ di fango nelle unghie dei piedi e nelle
unghie delle mani, e alla fine fine, la nonna mi dice: There you go.
2000

Ci sono dei bambini in acqua. Anche alcuni adulti, ma non contano. Intorno alla piscina ci
sono grappoli di bambine che chiacchierano, come chicchi d’uva parlanti. Pina cammina
veloce tra di loro. Detesta che Ana sia partita. Fa un giro e poi un altro intorno alla piscina.
Una bambina la chiama con la mano. Pina la riconosce dall’ultimo fine settimana che ha
passato in quell’hotel. Pensa: Forse oggi siamo amiche.
La bambina ha un bikini e una treccia che inizia dietro l’orecchio sinistro, le percorre la
fronte come un diadema, le scende dall’orecchio destro e poi si stacca e le cade sulla
schiena, dove si chiude con un fiocco arancione. Pina è sicura che sua mamma non avrebbe
idea di come mettere insieme una cosa del genere. Si avvicina al lettino. La bambina la
indica e dice alle sue due amiche: Lei è Pina.
Pina sta alzando la mano per fare un saluto generale quando la bambina con la treccia
canta forte: Pina-faccia-di-gallina-di-sicuro-hai-la-scarlattina!
Le bambine scoppiano in pigolii acuti, che le ricordano il suono della sveglia la mattina.
Pina si alza e se ne va rapidamente dalla piscina, le piastrelle asciutte le bruciano i piedi.
Stringe i denti, non piangerà. Non te ne andare, grida una delle bambine, ma Pina si è già
infilata dietro un bungalow. In un altro bungalow come quello, i suoi genitori stanno
litigando.
Arriva alla fine dell’hotel camminando così, dietro le camere, schivando pietre, formiche
e mozziconi di sigaretta. Ci sono delle corde tese tra le sbarre della finestra di ogni
bungalow e la rete del parcheggio. Ci passa sotto. Sulla maggior parte delle corde non c’è
nulla. Ma dove c’è della roba stesa Pina passa senza chinarsi, i panni le sfiorano il viso e, per
un istante, è come Isadora Duncan che, nelle foto che ha sua mamma, è sempre avvolta in
stoffe bellissime.
Vicino alla rete del parcheggio, Pina trova dei cespugli potati in diverse forme, uno
sembra un pollo e gli altri sono più simili a sfere, o forse a delle uova. Le uova della gallina.
A volte, pensa, le uova sono più grandi della gallina. Dietro agli arbusti c’è una panchina di
ferro; si siede. È bollente ma si impone di resistere. La vista dà sul parcheggio, non c’è
nessuno, solo le loro macchine. Le macchine di Nessuno. Le conta per non pensare che la
panchina le brucia le gambe. Sono quattordici. Sotto le ruote delle macchine, il cemento
emana onde di calore che fanno ballare lievemente il parcheggio, se si guarda fisso senza
sbattere le palpebre.
Pina ha una banana in mano, è marrone nei punti in cui l’ha stretta. Suo papà gliel’ha
data prima di farla uscire dalla stanza perché non assistesse alla lite, e non si ricordava
nemmeno di avercela. C’è un gabbiotto della vigilanza lì vicino, con uno di quei vetri che
sembrano specchi. Si chiede se c’è qualcuno dentro. Sbuccia lentamente la banana, ha
bisogno di fare tutto molto lentamente oggi, per scacciare via il sole e poi la notte e tornare
poi a casa per raccontare tutto ad Ana. I giorni senza Ana sono come la televisione quando
premi il tasto mute, con il volume a zero.
L’altro giorno Víctor, il papà di Ana, ha raccontato a lei e alla sua amica che non è vero
che il tasto mute cambia il suono a una frequenza che solo i mutanti riescono a sentire.
Eppure, quando se n’è andato dalla stanza, Theo gli ha di nuovo giurato che è proprio così.
Theo gli ha anche spiegato che quest’anno, che è il 2000, si chiama Anno Zero Zero, e i
prossimi anni si conteranno così: Zero Uno. Zero Due. Zero Tre. Non ci sarà più il 20
all’inizio, perché porta via solo spazio. Ha detto: Sarà come quando il Messico ha tolto tre
zeri ai pesos e un milione è diventato mille e li hanno chiamati nuovi pesos, ma voi non
potete ricordarvelo perché eravate troppo piccole.
Tu non eri neanche nato, gli ha detto Ana.
Appunto, le ha risposto Theo: Io sono della generazione dei nuovi pesos, io lo so come si
contano gli anni nuovi, non come te, che hai il pus nel cervello.
E quando si arriva a dieci?, ha chiesto Pina: Sarà Zero Dieci?
Ottima domanda, Pi!, ha detto Theo dando le spalle ad Ana. Saranno così: Dieci, Undici,
Dodici, e basta, senza zeri; io farò vent’anni nell’anno numero Tredici, porta fortuna.
Pina non gli ha creduto sul serio. E poi, Ana le ha assicurato che Theo si era inventato
tutto e che gli anni si chiameranno duemila, duemilauno, duemiladue, duemilatré, come si
contano i secondi ma ovviamente non così veloce. Può essere, ma a quell’altra cosa, quella
dei mutanti, Pina ci crede un po’ di più perché quando mette la tele in mute non sta proprio
zitta del tutto, non è come quando la spegni. Fa un rumore che non è proprio rumore ma
non è nemmeno silenzio. Forse è davvero qualcosa che si trasmette per qualcuno di molto
lontano.
Pina sta mordendo la sua banana con i denti davanti, come un coniglio al rallentatore,
quando vede qualcosa muoversi tra gli arbusti. Da dietro un cespuglio escono due bambine
e un bambino. Non si aspettavano di trovarla lì, ora non sanno se sedersi o no. Il bambino la
ignora, ma una delle bambine le fa sciò con la mano, come a un cane. Pina si sposta un po’
verso il bordo della panchina. Si concentra sulla sua banana, perché vedano che non è una
ficcanaso. Nella polpa della banana c’è il disegno dei suoi incisivi, dello spazio che ha tra i
due denti davanti.
Be’, dice il bambino: A chi tocca?
Le bambine ridono nervose e una indica l’altra. Quella indicata fa segno di no con la
testa e si siede vicino a Pina. Prima tu, dice all’altra: È stata un’idea tua. La bambina in piedi
dice che va bene, e porge la mano destra al bambino. Pina si aspetta qualcosa di schifoso,
tipo che gliela baci.
Prima le femmine e poi i maschi, dice il bambino.
No, protesta la bambina: Al contrario.
Al contrario è più facile.
Appunto.
Va bene, come vuoi.
Dai, va bene, ok, prima le femmine. Fa male?
Prima le femmine?
Sì.
Dai, iniziate!, dice la bambina accanto a Pina. Mette i piedi sulla panchina e si abbraccia
le ginocchia. Ha dei sandali di plastica con i brillantini. A Pina sua mamma non
comprerebbe mai una cosa del genere. A sua mamma piacciono le scarpe di cuoio, le piace
che lei vada in giro scalza: dice che è naturale. Il bambino, senza lasciare la mano della
bambina, alza l’indice destro, perché tutte vedano l’unghia: è più lunga delle altre. Anche
Víctor e il papà di Pina hanno un’unghia più lunga, quella del pollice, la usano per suonare
la chitarra. Lui però quell’unghia sembra che la usi per un’altra cosa perché dopo averla
mostrata la mette sul dorso della mano della bambina. Fa un respiro profondo e inizia a
muovere il dito: sta grattando. Gratta e dice: A.
Anice, dice la bambina.
Il bambino smette di grattare. Dice: Anice non è un nome.
Lo so, scusa, è che mi sono agitata.
Solo nomi, capito?, è l’ultima volta che mi fermo prima della seconda zeta, ok?
Ok, dicono entrambe le bambine. Anche Pina fa sì con la testa, ma per fortuna nessuno
se ne accorge. Il bambino riprende a grattare.
A, dice lui.
Ana, dice lei.
B, dice lui.
Berta, dice lei.
C, dice lui.
Carmen, dice lei.
Il bambino entra come in trance. Gratta sempre nello stesso punto, con la stessa
intensità, e man mano pronuncia le lettere. La bambina invece si divincola sempre di più. Si
agita tutta ma senza muovere la mano che il bambino afferra: un po’ come le farfalle da
collezione, appiccicate in fondo alla loro scatolina con uno spillo. Quando arrivano alla m, la
bambina alza la voce (grida: Mónica!), ma non toglie la mano. Alla p si ferma un attimo e
Pina vuole sussurrarle il suo nome ma non osa. Ogni volta che dice come si chiama la gente
la guarda strano. Petra!, dice la bambina, e il gioco continua: Q, Queta!; R, Rocío!; S, Silvana!
La sua amica arriccia il naso e chiede sottovoce a Pina: Silvana? Pina fa spallucce. Il
bambino dice le lettere e continua a grattare facendo del suo meglio per mantenere stabile
la mano della bambina, che ha iniziato a saltellare. L’amica e Pina si alzano e si avvicinano
per vedere come va la mano: sembra abbastanza rossa sotto l’unghia del bambino. Rosso
sangue, no: rosso irritato.
Passano ai maschi. Armando, Bernardo, Claudio, Damián, Efraín, Fernando. La bambina
inizia a piangere. La sua amica le mette una mano sulla spalla, la bambina dice a Pina: Tu
vattene. Pina torna alla panchina. Delle parole che dice la bambina, Tu vattene sono le
uniche che non sono nomi. Che siano state rivolte a lei fa sentire Pina importante. Si
accorge di avere ancora la banana in mano, tra le dita, appiccicosa. La butta tra i cespugli,
nessuno la vede.
Quando arrivano alla o di Osvaldo, la bambina ha il collo piegato da una parte e gli occhi
chiusi. Poi, il bambino dice P e lei alza il collo, dice: Pazzo!, e gli strappa via la mano. L’amica
scoppia a ridere ma si zittisce subito. La bambina si tiene la mano destra con la sinistra e la
guarda come se non fosse sua, come se non sapesse da dove fosse uscita. Il bambino ha
ancora il dito in posizione ma non ha più niente da grattare. L’amica chiede: Stai bene?
La bambina si pulisce il moccio sull’avambraccio.
Ti mancava pochissimo!, dice il bambino mentre si leva il sangue da sotto l’unghia con
un angolo del costume.
Di pomeriggio arrivano le rondini. Sono tantissime. Pina si siede su una sdraio a guardarle.
A quell’ora c’è meno odore di cloro e più di fiori. I fiori pendono dagli alberi come manine
bianche, rosse, aperte. Da grande, Pina si immagina di avere dei fiori come quelli tra i
capelli, un sacco di ammiratori ai suoi piedi, i bambini di adesso ormai grandi, che si
azzuffano per lei, per portarle fiori. Quella domenica, non c’è quasi più nessuno in piscina.
Suo papà è in camera, sua mamma è andata a fare una passeggiata. Le rondini arrivano in
gruppo e si infilano in picchiata nei vecchi camini sulla cupola dell’edificio principale. Pina
vuole contare quante sono. Se ne conta più di cento i suoi resteranno insieme; se ne conta
di meno, si separeranno.
Un bambino esce dall’acqua e cammina verso di lei. Pina crede che la stia per insultare,
come aveva fatto la bambina quella mattina. Non lo guarda. Guarda solo il cielo, ma sa che il
bambino si sta avvicinando.
Ciao, dice lui, e Pina lo riconosce dalla voce. Le sta facendo perdere il conto e non vuole.
Aspetta, gli dice, e conta a voce alta perché capisca. Cinquantaquattro. Cinquantasei. Il
bambino si gira a guardare le rondini anche lui. Il suo costume gocciola e in piscina si
moltiplicano gli uccelli.

Ana, Berta, Carmen, Diana, Esther, Fernanda, Gema, H..., H..., Helena, Irma, Julieta, Karla,
Luz, María, Natalia, Olga... sì che è un nome!, Paulina, Quintana... Sì che è un nome!, Raquel,
Sonia, Tania, Úrsula, Vicky, Wanda, Ximena, Yolanda, Zamuela... non me ne frega niente,
Armando, Bernardo, Carlos, Domingo, Eduardo, Félix, Gerardo, Horacio, Ilario, Jacobo, Kiko,
Luis, Mariano, N..., N..., N..., Núñez, ahia!, Niente, Nessuno, Natalino? Dai! Octavio, Pedro,
Querétaro, Raúl, Saúl, Tito, Uva... Urca... Basta, mi arrendo!
Il bambino si pulisce l’unghia e Pina lo ringrazia. Si siedono sulla panchina. Lui le
prende l’altra mano e Pina la toglie subito: non vuole più giocare. Il bambino le dice che
voleva solo tenerle la mano, nient’altro. Ma lei sa che lì non ci si può fidare di nessuno. Sai
come si fanno i bambini, gli chiede?
Il bambino si alza, se ne va dietro i cespugli e non torna più.
Pina non ha detto una sola bugia in tutta la giornata; eppure, perché si sente come una
bugiarda?
Terza parte
2004

Oggi sono tre anni dalla morte di Luz. Mamma fa del suo meglio (si scioglie i capelli) ma è di
malumore. Brucia il pane tostato. Mi cade un po’ di succo sul pavimento e dice: Ottimo.
Quando va a lavarsi i denti, si mette a strillare dal bagno contro papà, che si è appena fatto
la barba e ha lasciato dei peli nel lavandino. Io e papà ci scambiamo uno sguardo paziente e,
quando finalmente mamma dichiara furiosa che non verrà con noi, credo che ci sentiamo
sollevati. Papà, in ogni caso, prova a convincerla. Ma lei non ne vuole sapere, dice che
quest’anno ci sono io a fare le sue veci. A me dice: Strappa le erbacce, mi raccomando. E poi
mi abbraccia fortissimo, come se per osmosi potesse trasmettermi quello di cui ho bisogno
per fare le sue veci di fronte alla lapide, qualunque cosa voglia dire. Vieni, le dico
nell’abbraccio, andiamo a salutare Luz. Ma il suo nome ha l’effetto di una scossa elettrica.
Mamma mi lascia di scatto e se ne va in camera sua, raccogliendosi di nuovo i capelli con il
turbante. Oggi ha scelto un foulard nero, di seta. Nella sua vita passata, era una stola che
usava per i concerti. Ha due fiori rossi ricamati: è un po’ flamencoso e vintage. Le tragedie
normalizzano gli oggetti, credo. Da quando è morta Luz, nessuno qui si è più interessato a
un giocattolo, o a un mobile, nemmeno gli strumenti sembrano più così importanti. Sono
semplici oggetti utilitaristici: il violoncello, il piano, i timbales: nient’altro che salvagenti.
Non ho mai saputo che i miei genitori avessero questo rito mentre noi eravamo al
campo estivo. Ogni anno?, chiedo. Ogni anno, dice papà: E ci fermiamo sempre a quel
chiosco di fiori. Parcheggia, mi dà i soldi e scendo da sola. In realtà ci sono andati due volte,
non è tanto. Ma la nuova vita sembra già vecchia. Abbiamo delle nuove abitudini. Quando
tornammo a casa la prima volta senza Luz, pensai che non sarei mai più entrata nella nostra
stanza senza aspettarmi di vederla lì, a giocare con Lettopardo, il leopardo di peluche che
viveva nel suo letto. Ma il suo letto ora è la mia chaise longue e Lettopardo è chiuso da
qualche parte in una scatola e io non mi aspetto mai di vederla quando entro. Se penso a lei
è per immaginare come sarebbe adesso: avrebbe otto anni. Magari tra poco inizierebbe a
usare il reggiseno, e io dovrei spiegarle cosa fare se le vengono a scuola la prima volta. Io
sono stata tutto l’anno con il maglione in vita, nel dubbio, ma non mi sono ancora venute.
Per fortuna neanche a Pina sono venute, non come a tutte le altre bambine della scuola, che
parlano di aver imparato a usare un tampax come se si trattasse di attraversare l’Atlantico
in aliante. Ci manca solo che ci facciano vedere le diapositive, come quando Emma andava
in crociera.
I bouquet del chiosco di fiori sono da signora. Per signore morte o per signore convinte
che la morte sia kitsch. Prendo tre girasoli, li pago e, quando li metto nel bagagliaio, mi
ricordo di una cosa fondamentale: Luz non è sepolta dove stiamo andando. L’anno
prossimo, dico a papà mettendomi la cintura, potremo portare i fiori del nostro cortile.
Papà mette in moto e mi corregge: Del nostro giardino. Poi usa anche il nome vero e
proprio, forse per tirarmi un po’ su dopo la scenata di mamma. Lo dice sorridendo: A Luz
piacerebbe molto la tua milpa-giardino.
La tomba è piccola, di cemento, non molto diversa dalle mie fioriere ma con il coperchio.
Sul coperchio c’è scritto: Luz Pérez Walker, 1995-2001. E, sotto: Figlia e sorella adorata. Ah,
dorata. Come una medaglia. Avevo immaginato tante volte quel momento, che cosa avrei
detto a Luz. Ma nella mia immaginazione pioveva. Ora c’è un sole tremendo e non c’è un
centimetro d’ombra in tutto il cimitero. Non ho idea di cosa dirle. La adoravo? Era mia
sorella. Bina, diceva sempre a Pina. Sana, mi chiamava così, una specie di combinazione tra
sorella e Ana, ma non l’aveva inventata lei: Olmo e Theo l’avevano già usata prima. Una
volta io e Bina le abbiamo cambiato mille volte vestiti e l’abbiamo truccata, si faceva fare
tutto. La adoravo, sì, suppongo di sì. Il suo atto di morte è stato fatto in Michigan. deceased,
dice. Odio quella parola. Assomiglia a disease. Ma da un disease, puoi guarire. E Luz non era
malata. Anzi, Luz sapeva nuotare. Deve essersi incastrata in qualcosa, è quello che abbiamo
sempre pensato. Il suo corpo è stato ridotto in cenere e disperso nel lago. Sul momento
sembrava logico, cremarla lì e lasciarla a riposare con il nonno. Ora però non riesco a
capirlo: perché mai lasciarla lì? Mi chiedo se i miei fratelli pensino a lei mentre pescano in
canoa con i loro cappelli giganti del Penny Savers. Mi chiedo se a loro viene in mente
qualcosa da dirle.
Ho portato le tenaglie giganti di Alf, ma non c’è nessuna erbaccia da tagliare. Le uso per
accorciare i gambi dei girasoli e li sistemo tutti e tre sulla tomba finché non trovo la
composizione interessante. Ma poi li rimetto subito in disordine. Se c’è una cosa che non si
può dire di Luz, è che fosse ordinata. Papà è d’accordo. Ti ricordi quando era piccola, che
spargeva pappette dappertutto? Papà scoppia a ridere. Una volta, dice, ho dovuto pulire
perfino il soffitto, la prima volta dopo quattro figli: quella bambina aveva un braccio da
giocatore di baseball.
Un colpo al cuore, proprio lì, le lacrime mi salgono agli occhi ma non cadono. Quella
bambina. Ecco cos’è che non abbiamo più per Luz. Cos’è? Irriverenza? Confidenza. Quei due
stronzetti, dice papà dei miei fratelli. E a me, quando non voglio mangiare piccante, dice
sempre: Ma se ormai sei un ometto. Essere morta è anche questo: ormai nessuno ti insulta
più, nessuno ti prende in giro, nemmeno per amore.
Mi sento bene quando andiamo via. Triste ma interessante. E pulita. Mi manca solo una
soundtrack. Chiedo a papà di cantare e chissà perché canta La donna è mobile qual piuma al
vento, muta d’accento e di pensiero, un classico in famiglia. Prima, mamma la cantava ogni
mattina. Ora ci vuole una pizza, gli dico, e lui mi passa il suo cellulare. Chiamo mamma e lei,
che normalmente si rifiuta di mangiare qualsiasi cosa che arrivi dentro una scatola, ne
chiede una con pancetta e cipolla. Guidando verso la pizzeria, papà piange al volante.
Discreto. Senza sospirare, senza ansimare, solo lacrime che gli scivolano sulle guance, come
nei disegni che faceva un tipo in un parco vicino a casa: si inginocchiava per terra e con
spray e spatole disegnava gli stessi paesaggi di continuo, in pochi secondi. Il suo feticcio
personale era un pagliaccio con una lacrima sulla guancia. All’improvviso, devo rivalutare
quel pessimo pittore: ha le sue ragioni, esiste davvero qualcuno che piange così, e ce l’ho in
casa. Non è forse questa una rivelazione? C’è chi direbbe di sì.
Quando arriviamo a casa, mamma non è più arrabbiata. È calma e triste: mangia la
pizza, dice che è buona. Poi ci sdraiamo insieme sul divano e mi accarezza la testa. Le dico:
Non dovrebbe chiamarsi anniversario.
Mi dice: Lo dice sempre anche papà.
Le dico: Ho inventato una parola.
Quale?
Griste.
Un po’ grigio, un po’ triste?
A-ha.
È una parola di Marina.
Sì. Ora puoi far pace con lei?
Se hanno fatto pace Chela e Pina, perché no?
Che c’entra?
Hai tolto le erbacce?
Non ce n’erano.
Mmm. Dev’essere perché la tomba è vuota.
Che c’entra?
Mi prendi una coperta, per favore?

Papà ci accompagna al vivaio la seconda volta, per vigilare da vicino il suo investimento. Ma
il peggior nemico del suo budget è proprio lui. Io e Pina lo vediamo cadere vittima del
commesso più volte, e non diciamo niente. Le piante ci emozionano. Il commesso di oggi è
un altro, non è il pervertito, ma un ragazzo con i rasta. Mi rende nervosa. Mi mordo la
guancia di dentro e poi mi obbligo a parlargli. Sto rigenerando l’ossigeno del comprensorio,
gli dico. E lui mi risponde: Buon per te, amica. Ma sta guardando Pina.
Quando usciamo siamo così carichi di roba che papà decide di andare a prendere la
macchina. Mentre lo aspettiamo di fronte alla serra, ci si avvicina una signora. Quanto
costano questi?, chiede segnalando la nostra piantina di pomodori ciliegini appena
comprata. Prima che possa rispondere, Pina le dice: Solo duecento pesos, signora, ne provi
uno. La signora ne prova uno e ci compra la pianta. Io sono così scioccata che non riesco a
dire nulla. Quando papà apre il bagagliaio, Pina è già di ritorno, con una seconda pianta di
ciliegini e i suoi cinquanta pesos extra in tasca. È tornata ieri, e ancora non mi ha raccontato
niente di sua mamma. Dice che aspetta di sviluppare le foto. Si è portata la vecchia
macchina con il rullino ma ora, dice, Chela ha una digitale. Mi sembra triste che la chiami
con lo stesso nome con cui la chiamiamo tutti. Devo aver fatto una faccia strana perché mi
dice: Mi ha chiesto lei di chiamarla così e a me piace.
Ok, le dico, ok, scusa.
In totale abbiamo: due piante di aloe, un limone, una lavanda e varie piante grasse senza
nome. Ora aggiungiamo i pomodori ciliegini e due piante alte che si chiamano Monstera
deliciosa ma sono dette piante scheletro: hanno delle foglie grandi, verde scuro, con dei
buchi rotondi. Forse il nome viene da questo. I buchi sono come i buchi degli occhi nel
teschio. O forse è qualcosa di più sottile: i vuoti che lascia un morto, qualcosa che non si può
descrivere. Abbiamo altre quattro belle piante di cui non ricordo il nome. Una sembra un
cavolo rosso, le altre sono tutte verdi. Queste le voglio sistemare nella fioriera più vicina a
casa, perché secondo il rasta hanno bisogno d’ombra. Ho già la terra per l’angolo milpa (sì,
la milpa è stata ridotta a un angolo), e la settimana prossima andremo a prendere l’erba per
il prato. L’erba mi emoziona. Si srotola, se ho capito bene, come se fosse un tappeto.
Quando papà ci lascia sole nel cortile, Pina si sdraia a pancia sotto sul tavolo da picnic.
Ha degli shorts così corti che le spunta il sorriso di una natica. Mi ricorda la scorsa estate:
eravamo su una panchina fuori da un centro commerciale e la nonna ha detto, di una
ragazza che passava: Se cade da quella gonna, si ammazza.
Guarda!, grida di colpo Pina segnalando il basilico che ho piantato due settimane fa. Ha
fatto dei fiorellini bianchi. Chiamo mamma e lei apre la porta scorrevole. Stava provando in
salotto e ha la sua tipica faccia da concentrazione: gli occhi rossi e un sorriso vago, come
quando ci chiede scusa.
Bisogna strapparli, dice segnalando la pianta con l’archetto del violoncello.
Perché?
Se lasci i fiori, cadranno le foglie, che sono la parte che si mangia.
Perché?
Tu dammi retta, dice, e chiude la porta. Io e Pina strappiamo uno a uno i fiorellini del
basilico. Mi viene in mente che se l’avessi saputo avrei potuto portarli al cimitero. È un’idea
ridicola: sono minuscoli. Ma anche Luz lo era. Minuscola. Si sedeva sulle mie gambe e si
abbracciava le sue. Si raggomitolava per farsi abbracciare meglio. Squeeze!, ordinava.
Avevo paura, a volte, di romperle qualcosa e la lasciavo andare sempre prima che me lo
chiedesse. La lasciavamo andare tutti. Olmo e Theo la tenevano un po’ di più, ma non tanto.
Luz voleva sempre che la stringessimo di più. Squeeze, squeeze, squeeze!, chiedeva a papà e
papà la stritolava con un braccio solo. Anche se non voglio, me la immagino nella cassa, al
cimitero. Ma è un’altra idea ridicola, perché in quella cassa non c’era niente. Era troppo
caro e complicato portare il corpo in Messico.
Che c’è?, dico a Pina che si ferma a guardarmi.
Sei tutta abbronzata, dice Pina.
Sei tutta scema, le dico io, e lei se ne va.
2003

La donna è stupidamente bella. Così la vede Marina: con l’avverbio. La donna grida per farsi
sentire sopra il frastuono della grandine che cade sulla tettoia: Tu andrai in paradiso,
tesoro. E Marina risponde: Grazie, perché non sa cos’altro dire, ma pensa: Evangelista. E:
Che idiota che sono. Quest’ultima cosa la pensa con lo sterno: le si chiude. E questo con la
testa: Ho aperto la porta a un’evangelista sconosciuta, fradicia, forse pericolosa.
Sono amica di Beto e Pina, dice la donna, indicando la casa a sinistra: Conosci Pina, vive
ancora lì?
Sollievo: Marina conosce Pina. È l’amichetta dei bimbi che tiene e sì, vive con suo padre
nella casa Acido.
Non ci sono?, grida Marina.
Mi faresti entrare da te, nel frattempo?, grida la donna.
Marina pensa: No. Ma dice: Certo.
Corrono in casa. Marina apre e chiude la porta con due spinte. Non si sente nemmeno il
legno che sbatte, in quella tormenta. Ha i piedi zuppi: i maledetti canali di scolo del
comprensorio si tappano alla prima grandinata. Marina getta via le infradito e si asciuga i
piedi sfregandoli contro la coscia opposta.
La donna si libera dalla busta nera e, dopo averla guardata un secondo, come per
verificare che non ci sia nulla di valore che potrebbe essersi dimenticata, apre di nuovo la
porta e butta la busta verso il vialetto esterno. Marina è sorpresa, forse il gesto le dà un po’
fastidio, non riesce a decidersi. Si porterà via la busta quando se ne andrà o gliela lascerà lì
buttata per ricordo? La busta si ingarbuglierà nei suoi vasi o volerà via galleggiando fino
alla campana, forse fino alla porta del dottor Semitiel? La donna richiude e Marina ha la
sensazione che, anche se non stesse piovendo, non l’avrebbe sentita chiudere la porta: si
muove in modo soave e fluido, ha uno di quei corpi che non fanno rumore. Sotto la busta,
tra l’altro, sembrava ingobbita, ma ora Marina può apprezzare la sua schiena bella dritta.
Ha di nuovo paura, ma è anche curiosa, come se qualcuno avesse appena acceso la radio
nella casa accanto. Evangelista non è, dice lo speaker, ma se fosse una delinquente d’alto
bordo?, o il capo di una banda di sequestratori? La donna di sfrega le braccia e scuote gli
spessi capelli neri per asciugarli. Poi si stiracchia per qualche istante e con un respiro
profondo riprende la sua forma e grandezza naturali: è bassa ma la bella postura la fa
sembrare più alta, riempie lo spazio che occupa, sta gocciolando. Segnala una sedia rotta
accanto alla porta e Marina dice: Sì, ma la donna non si siede, semplicemente appende il suo
giubbotto allo schienale. È un giubbotto di jeans.
È davvero carinissimo da parte tua, dice la donna togliendosi la sciarpa: è di una stoffa
inconsistente, tinta a mano in tie-dye, uno straccetto così giovanile da invecchiarla.
Venga, dice Marina.
Però dammi del tu, dice la donna mentre si asciuga i capelli con il foulard.
Vieni, dice Marina indicandole la sala: Ti porto un asciugamano.
Dal nulla, l’ultima volta che avevano parlato per telefono, suo papà le aveva detto:
Ormai non sei più una bambina, Dulce Marina. Si era sentita derubata, in quel momento:
perché era proprio quello che lei diceva a suo padre da ormai più o meno dieci anni, e ora
lui ne rivendicava la scoperta, e timbrandola con quel nome completo e nauseante che
nessuno, se non lui e la sua carta di identità, aveva mai usato. Il nome come il sigillo di una
lettera antica. Rubata. Sporca. Come le lettere intercettate: delitto grave ma discreto.
Marina gli aveva risposto: Lo so, grazie. E lui aveva continuato: Alla tua età la mamma aveva
già avuto il primo figlio. E lei: Lo so, papà. Quando avevano messo giù il telefono, Marina
aveva provato una rabbia pura, cristallina, una sana novità. Ora, però, il sapore di quella
rabbia le torna in mente mentre controlla gli asciugamani in bagno alla ricerca di quello
meno sporco. Non le è piaciuto il modo in cui quella donna le ha detto «Dammi del tu»,
come se fosse lei l’anfitriona e Marina l’intrusa. Marina si guarda nello specchio per qualche
secondo, non di più, ma è sufficiente a farla vergognare del tempo che ci sta mettendo,
perché l’anfitriona è lei. Prende l’asciugamano verde, è quello che usa di meno. Verduffy,
pensa, ed è il suo primo colore bilingue: il verde fluffy dell’asciugamano che non usa.
La donna è sul divano. Non appoggiata, ma seduta sul bordo, tutta dritta, ma non tesa, al
contrario, sembra che quello sia il suo posto, come se avessero un appuntamento, come se
fosse un’assistente sociale mandata a controllare se Marina sta rispettando la sua
ingestione quotidiana di calorie. Marina non sa tenere la schiena dritta senza sentirsi tesa, e
in generale invidia chi ha una bella postura.
La donna indica il muro opposto a quello del bianax e chiede: Cosa ci fa la dottoressa
Vargas appesa al muro?
Marina fa un passo indietro. Le ci vuole un istante per rendersi conto che quella donna
conosce i suoi vicini.
Suo marito mi ha chiesto di farle un ritratto, risponde: Ma poi non ha voluto appenderlo
a casa sua. Me l’ha pagato e tutto, ma poi me l’ha restituito.
Forse non gli è piaciuto.
Forse.
Non voglio dire che sia brutto.
Lui me l’ha chiesto proprio così: in stile Joaquín Sorolla.
Sono sempre stati un po’ pretenziosi.
Vuoi un caffè?
Hai del tè?
Camomilla.
Vada per la camomilla.
Uff, pensa Marina mentre mette a bollire l’acqua. Non le è piaciuto come ha detto: Vada
per la camomilla, come se fosse una concessione da parte sua, né come ha spento la tele
senza chiedere il permesso, né che non fosse minimamente sorpresa che Marina è una
pittrice, che fa ritratti su commissione. Linda, la prima volta che ha visto il ritratto, ha detto:
Amazing! Ora Marina non ha più paura. Ora è arrabbiata. Ogni secondo di più. È arrabbiata
con sé stessa, o con la donna, o con l’assurdità di averci messo vent’anni a provare il
minimo fastidio nei confronti di suo padre, e due minuti con questa sconosciuta. Tutto al
contrario. Perché le ha aperto la porta? Perché finisce sempre per fare lo zerbino? Ora
anche con gli estranei. Fuori, appena finito il tè la caccio fuori, pensa Marina, eppure allo
stesso tempo sintonizza la radio su una stazione di jazz, come se preparasse l’atmosfera per
una lunga serata tra amici. Non aspetta che l’acqua arrivi a bollire, solo che fumi un po’. La
versa in due tazze, aggiunge due delle bustine che Linda lascia per quando fanno lezione, e
torna in sala. Si siede vicino alla donna, le porge una delle tazze.
Collezioni cuscini?, chiede la donna: Sono pazzeschi.
Grazie, dice Marina guardando in basso, soffiando sul suo tè. Non è camomilla, dice
appena se ne accorge.
Mate cocido, legge la donna sulla sua bustina. Fantastico, valuta: Non lo bevo da quando
vivevo in Patagonia.
Ah, dice Marina e beve piccoli sorsi dal suo mentre guarda i piedi della donna. Ha delle
scarpe con i lacci e il tacco basso, con la punta un po’ allungata, un po’ da strega. Non deve
averle comprate qui. O forse sì, ma in un’altra epoca. Sei messicana?, chiede Marina.
Al cento per cento, dice la donna. E poi: Mi chiamo Isabel, ma puoi chiamarmi Chela.

Iniziano con la Patagonia, proseguono con la marijuana di Chela, che la offre a Marina come
ringraziamento per averla ospitata in attesa che arrivino i suoi amici. Gliela porge con un
inchino. Marina accetta, stringendosi nelle spalle. Verdegno, pensa: verde per l’impegno.
Eppure, dopo aver fumato, il verdegno le apre sufficientemente lo sterno da spingerla in un
monologo su tutto quello che non va nella facoltà di design in particolare, e nell’arte a
servizio del mercato in generale; tutto quello che non andava con Chihuahua, nella testa di
Chihuahua, povero Chihuahua: indottrinato dalla frontiera. Isabel ascolta, ogni tanto dice
qualcosa: Da cosa ti sei salvata, tesoro.
Marina non crede che sia chissà cosa, ma gliene è grata. Sente che sono anni che non
parla così, permettendosi di divagare e inventare un po’, con qualcuno che la ascolta senza
farsi pagare e le dà ragione perché sì, perché sì. Forse questa donna venuta fuori dal nulla è
più efficace delle pillole, della terapia, del Padre nostro. Marina si immagina mentre passa
la canna al Signor Analista: lui la prende, fa un tiro, trattiene il fumo nei polmoni mentre
dice: L’erba, Marina, sa quello che il corpo non sa.
Di ritorno nel presente, Isabel le sta raccontando di una storia che ha avuto in quei mesi,
con uno svedese che non veniva mai, per disciplina tantrica. A Marina non sembra male
come politica: Tutti gli uomini vengono troppo -presto.
Lo so, dice Chela: Ma non va nemmeno bene che si trattengano, è frustrante: tutto il
seme che Patrik non libera gli diventa bile.
Marina non sa cosa rispondere. Chiede: Vuoi una birra?
Dai, dice Chela.
Vanno in cucina, ma Chela si blocca appena entrano. Dura solo un istante. Si copre la
bocca con la mano, guarda la porta a vetri e gli occhi le si riempiono di lacrime. Marina non
capisce. Che succede?, le chiede. Niente, dice Chela, e cambia espressione così velocemente
che Marina si convince di esserselo immaginato. Chela apre gli sportelli finché non trova
dei bicchieri. A Marina però non dà più fastidio, quella familiarità invadente con cui Chela si
muove per casa sua. Ora, si rende conto, sta iniziando ad ammirarla: essere una persona
così, una persona che arriva in un posto qualsiasi e ci si stabilisce.
Quando tornano in sala Chela apre la birra, la serve inclinando i bicchieri per
controllare la schiuma, ne passa uno a Marina e fanno il brindisi sordo, anticlimax dei
bicchieri di plastica. Chela lascia il suo sul pavimento e si alza. Solleva le braccia, dice:
Confessione. Si siede di nuovo.
Confessione?, dice Marina.
Ho una confessione da farti, dice Chela: Ti ho detto una bugia. Non sono un’amica.
Vivevo anch’io a casa Acido. Avevamo una cucina proprio uguale alla tua.
Marina alza le sopracciglia, niente di più. Riesce a sentire, dopo aver passato qualche
ora con lei, come il suo corpo inizia a calcare i movimenti di Chela con naturalezza. O forse
non sembra per niente naturale? Ne dubita e sputa fuori: Che cosa?
Sono la mamma di Pina, e non ho avuto il coraggio di suonare il campanello.
Perché?
Perché sono tre anni che non la vedo.
Quindi vuoi dire che sono in casa?, chiede Marina abbassando la voce, come se
potessero sentirla dall’altra parte del vialetto.
Forse sì.
Isabel! Perché non vai ora?
Ora sono tutta fatta. Per favore chiamami Chela, Isabel era mia mamma.
Perché non hai suonato?
Chela si alza, fa qualche passo per la stanza, si siede sul pavimento, apre le gambe, sono
corte e forti. Appoggia i gomiti nel triangolo che si forma tra le sue cosce, abbassa gli
avambracci, come una sfinge, preme contro il pavimento i palmi aperti, le dieci dita
separate: tra le dita spuntano le fibre del tappeto, le accarezza. Non so, dice: Non ho avuto il
coraggio.
Marina vuole farle mille domande. Ha paura di Beto? Ha lui la custodia di Pina? È
illegale che lei sia qui? Ma preferisce alzare le sopracciglia e basta. Preferirebbe continuare
a parlare di Chihuahua. Chela si è tolta le scarpe da un po’ e solo ora Marina nota i suoi
piedi ossuti, forse l’unica parte imperfetta della sua anatomia. Eppure li vorrebbe vedere
senza calzini. Vedere se sono scuri come le sue braccia, vedere se si mette lo smalto oppure
no.
Cosa sono quelle scatoline?, chiede Chela.
Lampadine.
Perché così tante?
Oggi le ho cambiate tutte.
È perché?
È una storia lunga.
Chela non indaga oltre. Si prende un alluce con ciascuna mano e si lascia cadere a terra:
con le gambe aperte come prima, ora ha tutto il torso sul tappeto. Gira la testa e appoggia
una guancia a terra. Si addormenterà? Marina guarda le scatole sparse sul pavimento,
guarda il bianax del muro e ricorda le sue buone intenzioni. Controlla l’ora sul cellulare;
non piove più e pensa di dire alla sua ospite che è tardi, che bisogna che se ne vada perché,
anche se lei non può saperlo, proprio domani Marina inizierà la sua nuova vita, una routine
sana, una vita dedicata al benessere e alla pittura, esatto, la pittura prima di tutto, una vita
in cui tutto sarà al servizio della pittura, e dovrà alzarsi presto. Ma in realtà non vuole che
se ne vada. Ora che ha il telefono in mano sa che, appena Chela se ne sarà andata, chiamerà
Chihuahua, non vuole andare a letto da sola. È meglio che Chela non se ne vada, dopotutto,
questa volta tocca a lui telefonare. Dice: Come sei snodata, fai yoga?
Insegno pilates, faccio lezione all’aria aperta.
Marina ci riflette un attimo. Poi le chiede: Sai cos’è la disputa iconoclasta?
Chela, con la guancia ancora sul tappeto, fa una smorfia con le labbra, come se ci stesse
pensando su. Ma poi alla fine dice: La disputa cosa?
Iconoclasta. Gli iconoduli, spiega Marina, erano a favore delle immagini sacre nelle
chiese, gli iconoclasti no. Se le sono date di santa ragione; alla fine hanno vinto gli iconoduli,
ovviamente, per questo ci sono tanti crocifissi in giro. Il punto è che l’altro giorno ho visto
un video di pilates e ho pensato una cosa. È grazie alla vittoria degli iconoduli che, quando
la maestra di pilates chiede di mettere le mani in preghiera, la capiamo perfettamente.
Io non lo chiedo mai.
Ah.
Però è interessante. Dove l’hai imparato?
All’università, faccio storia dell’arte, è l’unica materia che mi piace.
Chela alza il busto a quarantacinque gradi, pianta i gomiti nel tappeto e appoggia il
mento sulle mani. Si copre la faccia con le dita e dice: Io non ho mai finito la scuola. Di
colpo, spalanca la bocca e fa scivolare lentamente le dita lungo la faccia, facendo pressione
per tirare le guance verso il basso, come nel Grido di Munch. Marina ride.
Chela chiude la bocca e, con un’espressione infantile – il mento ancora tra le mani, i
gomiti ancora incastrati nel tappeto –, chiede: Dai, racconta qualche altra bella storia a
quest’ignorantona.
La storia di Simeone, sai chi è?
Non ne ho idea.
Era un monaco siriano, del v secolo, che mangiava una volta al giorno e passava venti
ore in piedi, a fare genuflessioni su una colonna di pietra alta diciotto metri.
E perché?, chiede Chela tirandosi su.
Secondo il mio maestro, Simeone è il vero padre della performance artistica.
Ho un’amica che fa performance. È famosissima perché dopo l’11 settembre ha passato
diversi giorni a una fermata della metro di New York, a sussurrare in un altoparlante:
Please do not despair.
Sto prendendo lezioni di inglese, sai?
Chela si alza. Incrocia un ginocchio sull’altro. Mette le mani in preghiera. Fa tre
piegamenti su un piede solo. Marina ride. Chela avanza in quella posizione, saltando come
fosse zoppa, fino a lasciarsi cadere sul sofà. Dice: I’m hungry.
La storia del monaco Simeone fa sentire a Marina che i suoi problemi con il cibo, quella
sua malata tendenza a sprecarlo, non sono niente di che. Ma non lo dice a Chela, né le dice
quello che sta pensando ora: e io, ho fame? Non ne ho idea. Che cosa ho mangiato oggi?
Avena-yakult-venticinque-popcorn-birra.
Chela prende la ciotola dei popcorn. Se li è mangiati ore fa, mentre beveva il mate. Tira
fuori gli ossicini che restano e li rosicchia uno a uno come un topolino composto: sempre
con la schiena perfettamente dritta, li accumula sul palmo della mano.
Marina chiede: Hai altri figli?
Chela dice di no e molla gli ossicini di mais (clin clin clin, fanno una cascata nella
ciotola). Chiede: Tu hai già cenato?
Marina dice: Non assomigli a Pina.
Chela sospira.
Marina insiste: Pina sembra asiatica.
È per via di Beto, no?
Sì, tutti e due hanno tratti asiatici, perché?
La mamma di Beto era giapponese. Per questo lui in fondo è così quadrato. Possiamo
mangiare qualcosa, per favore, per favore, per favore? Ci penso io, sono un’ottima cuoca.
Non ho niente in casa.
Com’è possibile?
Vanno in cucina in calzini. Chela esamina la dispensa e il frigorifero e un minuto dopo
annuncia che farà delle crêpes. Tu siediti, dice, e Marina si siede sullo sgabello alto dove di
solito si mette mentre Chihuahua prepara litigi. In realtà prepara la cena, ma finisce sempre
in un litigio quando Marina non riesce a mangiare.
Marina si sente come davanti a un film di quelli che piacciono a lei: senza sonoro. Per un
po’ guarda Isabel che si lega i capelli, si sfrega le mani e si appropria dello spazio. Chela tira
fuori latte, uova, farina, tutte quelle materie prime che Marina compra ma poi lascia intatte,
come chi colleziona i profumi per il flacone, o i dischi per la copertina. Di colpo, le chiede
una cosa che vuole sapere da un po’: Chela conosce Linda?
Certo, dice Chela: Lei e suo marito erano amici del mio, per via dell’orchestra.
Marina è sorpresa: Anche tuo marito è un musicista?
Chela aggrotta la fronte: No, Beto è un funzionario.
Marina non lo dice, ma è esattamente quello che si immaginava. Non dice nemmeno che
lo trova appetibile, con quel fascino particolare tipico degli uomini tristi.
Chela continua: Funzionario culturale, ce n’è un’intera stirpe in questo paese; dice che
suonava la chitarra nel tempo libero, ma ha un cuore da banchiere. È un buon padre, questo
glielo concedo. Ma come marito era un tiranno, non violento ma al contrario, totalmente
passivo. Sono l’unica donna che conosco che ha divorziato perché moriva di noia. In realtà
non abbiamo mai divorziato, non che io sappia, tu ne sai qualcosa?
Marina ride. Perché non hai bussato da Linda?, chiede.
Isabel la guarda come se non l’avesse sentita, cosa impossibile. Marina si appunta
mentalmente di provarci anche lei la prossima volta: quando qualcuno le dice qualcosa che
non vuole sentire, deve semplicemente guardarlo fisso, come se stesse ancora aspettando
che parli.
Isabel passa la farina in un setaccio formando una collinetta dentro un’insalatiera e, con
il dito, fa un cratere in cima. Rompe un uovo sopra il piccolo vulcano e ci butta sopra dello
zucchero. Sbatte il tutto con una forchetta. Mette del burro a sciogliere nel microonde
mentre dichiara che sta barando un po’, i francesi non farebbero così. Discretamente, con
un solo gesto, tira fuori le carote marce dal frigo e le butta nella spazzatura. Sbatte e sbatte
e poi copre con un panno la ciotola con l’impasto: Bisogna lasciarlo riposare qualche
minuto, dice. Isabel riempie i bicchieri di plastica e si sofferma a guardare la porta a vetri
che dà sulla cisterna. Marina è ancora appollaiata sul suo sgabello.
Mi vergogno, dice Isabel: Credo che Linda mi odi. Víctor no. Ma lei è così, molto drastica
nelle sue cose. E poi lei ce l’ha fatta con quattro figli e io non sono riuscita a gestirne
nemmeno una sola. Credo che non mi aprirebbe nemmeno la porta.
Isabel guarda Marina attraverso il riflesso della porta a vetri, alza il suo bicchiere e dice:
Grazie per avermi aperto, cara. Poi si gira e accende i fornelli.
Ora che Marina ci pensa, anche Pina è bella, di una bellezza onirica, con quegli occhi da
Buddha, rotondi e a mandorla allo stesso tempo, e quel naso sottile, angusto, come sul
punto di espandersi, come annunciando una vita di asfissia. Sa che non dovrebbe pensare
una cosa del genere, perché un’altra delle bambine del comprensorio è affogata davvero. In
generale, a Marina non piace vedere Pina, perché arriva di sorpresa e non la pagano di più
per badare anche a lei. E poi, la sua presenza altera l’ordine delle cose al punto che Ana e
Theo, che di solito si ignorano pacificamente, all’improvviso condividono lo stesso, febbrile
interesse per insultarsi a vicenda di fronte all’ospite. Quando le aveva chiesto di fargli da
babysitter, Linda le aveva detto che era la prima babysitter che avevano mai avuto. Con
quattro figli! Marina non capisce proprio come facesse Linda a occuparsi di tutti e quattro e
in più suonare il flauto. O il violoncello. O qualunque altro strumento suonasse quella
donna-orchestra. Di colpo il piedistallo sul quale l’ha posta le sembra evidente e allo stesso
tempo estraneo, obsoleto. Linda non aprirebbe la porta a Chela? Marina pensa di sì, poi di
no, non sa cosa pensare. Si arrabbierà Linda quando scoprirà che lei invece le ha aperto?
Marina scopre di provare un certo piacere all’idea di contrariare la donna con la quale si
paragona ossessivamente. Alla prossima lezione le racconterà che si è ubriacata con la sua
vecchia amica Chela, vediamo come reagisce.
Isabel dice: La prima viene sempre male, mentre traccia un cerchio perfetto di pastella
biancastra sulla padella.
Dove hai imparato a fare le crêpes?
In un hotel in Belize. Che vita folle, no? Immagino che sia questo che dicono di me qui,
no? Persa, irresponsabile, tutto tranne una buona madre.
Marina vorrebbe dirle la verità, che non le hanno mai parlato di lei, ma non sa come fare
per evitare che suoni offensivo. Si alza e apre la porta che dà sul cortile, l’odore del burro
fuso le fa venire la nausea. Isabel allarga la pastella con una spatola di silicone che Marina
ha comprato in offerta e non ha mai usato. Marina la osserva cercando di non mostrare
interesse. Abbraccia il suo bicchiere con due mani, come fosse una cioccolata calda, e dubita
che la scena nella sua cucina sia davvero reale. È possibile quindi essere una donna come
questa: stupidamente bella, amante degli uomini e della cucina? Una donna che mangia e
scopa. Una donna totale, dice tra sé Marina. Isabel, come se intuisse una parte delle cose
che stanno passando per la testa a Marina, dice: Quest’anno faccio quarant’anni.
Senza capire cosa intende dire (sono tanti, quarant’anni?), Marina esercita la
matematica lenta di chi è fuori allenamento. Quella donna ben più donna di quanto lei non
sia, per età è più vicina a sua mamma che a lei.
Pina quanti ne ha?
Ne fa dodici domani, dice Chela. Per questo...
Non finisce la frase. Marina non fa domande. Sulla superficie della crêpe eruttano
minuscoli vulcani. Isabel la gira. C’è qualcosa di planetario nel lato che ora è verso l’alto: un
pattern di dischi concentrici che cambia colore lì dove qualcosa ha tardato un millisecondo
in più o in meno a cuocersi. Marina vorrebbe cambiare argomento, non ha bisogno di un
dramma altrui. Fa un commento sulla crêpe: Assomiglia agli anelli della crescita di un
albero.
Chela dice: Non la vedo da quando aveva nove anni, e mette la crêpe su un piatto. Il lato
che ora è verso l’alto è bianchiccio, come un bebè scialbo, senza anelli della crescita né
niente che parli dell’universo, eccetto degli inquietanti crateri nei punti in cui sono
scoppiati i vulcani. Isabel inizia un’altra crêpe.
Marina, scioccamente, chiede: Pina?
Isabel risponde di sì con la testa, mentre veglia sulla padella. Ogni volta che il bordo
della pastella diventa solido, Isabel lo spinge con la spatola, in modo che la parte liquida lo
rimpiazzi, e si solidifichi a sua volta. Non aveva applicato quella sorveglianza nevrotica alle
crêpes precedenti.
Sai perché l’ho chiamata così?, dice Isabel: Per Pina Bausch. Sai chi è Pina Bausch? È una
coreografa importantissima, è un genio. Ma l’energia con cui ha iniziato la frase si spegne
quasi subito: Chela si concentra sulla spatola, come un bambino che gioca ai videogiochi; se
una parte diventa solida i suoi occhi la individuano all’istante, senza sbattere le palpebre, in
modo che le lacrime che le scivolano sulla guancia sembrino non avere nessuna relazione
con lei, con quello che sta dicendo. Marina una volta è stata in uno stabilimento balneare al
porto di Veracruz dove c’era una piscina a onde con un meccanismo che si attivava ogni
dieci minuti e dalle pareti uscivano schizzi d’acqua: questo le ricorda ora la faccia di Isabel.
Chela gira la crêpe, che sembra venuta male: gli anelli sono confusi, trinciati troppo presto
dalla spatola.
Io è un anno e mezzo che non vedo mio padre, dice Marina.
Non sa perché lo dice, forse per restituire il favore a Isabel, o forse perché le piacerebbe
poter parlare come lei: piangere senza fare tante storie, dire ridendo e piangendo: Mio papà
sapeva fare un club sandwich perfetto, sapeva fare bolle di sapone giganti e poi bere
troppo, salire su un toro imbizzarrito dal quale scendeva solo a suon di pugni, quelli che lui
stesso distribuiva, anche se mai a me. Non tutte le sere, piuttosto come il club sandwich:
ogni tanto. E ne ha rotte di cose, a volte, i denti di mamma, una costola a mio fratello. E dire
anche: Ma io, come un’imbecille, non riuscivo ad arrabbiarmi con lui. Però Marina non dice
niente, se non: Ballerina classica?
Di danza contemporanea. Sai cos’è?
Più o meno. Anche tu sei una ballerina, vero?
Non più.
Come mai, un giorno hai mollato e basta?
No, ma non c’è niente di contemporaneo a Mazunte.
2002

Durante la mia convalescenza dell’82, Noelia ha preso l’abitudine di telefonarmi quando


arrivava a lavoro. A quell’ora non avevamo nulla da raccontarci, perché avevamo appena
finito di fare colazione insieme, quindi mi faceva un resoconto più o meno dettagliato del
traffico che aveva trovato lungo il tragitto da casa all’ospedale. Faceva una voce che lei
immaginava simile a quella di un cronista sportivo ma che a me ricordava piuttosto una
bambina spiona. Mi ha sorpassato a destra!, diceva. O: Hanno investito una persona di
fronte a una chiesa, non ci sono più valori! Quando, vent’anni dopo, lei ha cominciato le
sedute di chemio, io, che non ho mai imparato a guidare, andavo a fare la spesa in autobus e
quando tornavo le facevo un resoconto piuttosto maldestro e quasi del tutto inventato del
traffico che incontravo. Alla fine, lei ha decretato che non avevo la sensibilità
dell’automobilista, e mi ha suggerito di raccontarle piuttosto delle persone che avevo
incontrato sull’autobus. Era molto più divertente.
Nell’82, dopo il resoconto del traffico, mettevamo giù il telefono e io, a letto, passavo la
giornata a disegnare. All’ospedale mi avevano dato un libretto di consigli per un recupero
ottimale, ma era troppo noioso da leggere, quindi avevo preferito chiedere al mio medico
curante, ovvero mia moglie, e lei me l’aveva tradotto: Vietato lavorare. Allora ho deciso di
passare quel periodo di riposo a disegnare, una cosa che da bambino mi piaceva tantissimo
e che avevo posticipato più o meno per tutta la mia vita adulta. Ho presto scoperto che, ogni
volta che prendevo la matita in mano, disegnavo case. Progettavo case. A un certo punto, in
quei mesi, chiuso nella casa della mia infanzia, adolescenza e maturità, che si trovava più o
meno qui dove sto scrivendo ora, ho avuto, mentre disegnavo altre mille case possibili, una
rivelazione tardiva. Avrei dovuto fare l’architetto. Gli architetti hanno la sensibilità degli
artisti, un pizzico di lucidità filosofica, una sana dose di opportunismo e perfino un certo
rigore scientifico, almeno quello indispensabile a evitare che la casa gli crolli sulla testa. Ma
oltre a tutto questo – e in radicale contrasto con gli antropologi –, quello che fanno gli
architetti serve davvero a qualcosa.

***

L’umami inizia in bocca. Inizia al centro della lingua, si attiva la salivazione. Si risvegliano i
molari, vogliono mordere, hanno bisogno di movimento. Non poi così diverso, a dire il vero,
anche se in proporzioni più modeste, dal movimento dei fianchi durante il sesso: in quel
momento, l’unica cosa da fare è obbedire al proprio corpo, e il corpo sa cosa fare. Mordere è
un piacere, e l’umami è la qualità di ciò che è mordibile. Mordibile non è una parola, ma
masticabile non mi piace. Masticabile si dice della vitamina C in compresse. Mordibile mi
sembra più ad hoc, è un capriccio, qualcosa di peccaminoso o, come direbbe Agatha
Christie: delish.
Negli articoli di divulgazione, per spiegare l’umami si usa la parola rich. Mi piace, rich,
ma non funziona in traduzione, perché in inglese rich non significa semplicemente buono,
ma anche complesso, convincente, soddisfacente.
A essere precisi, forse l’umami non inizia in bocca ma con la vista, con la voglia.

***

Estratto da una lettera che ho scritto a Noelia da Madrid, il 21 luglio del 1983:

Olé, tesoro, mi sono fatto un amico! È un filosofo che l’altro giorno stava uscendo dalla biblioteca mentre
uscivo anch’io, e ha iniziato a camminare nella mia stessa direzione, e siamo andati avanti così per venti
minuti, fino a quando siamo arrivati nello stesso isolato, entrambi sospettando che l’altro ci stesse
seguendo. Poi ci abbiamo riso parecchio, ovviamente: è venuto fuori che siamo vicini di casa. Si chiama
Juan, ovviamente, ed è solo come me perché è appena tornato da un lungo esilio a Guanajuato. Per me è più
messicano di chiunque altro qui. Abbiamo preso l’abitudine di berci una birra – o tre, o quattro –, quando il
caldo imperversa. Ieri gli ho chiesto un consiglio su dove comprare un costume da bagno, perché sto
pensando di approfittare dei tempi morti (così tanto tempo senza te!) per imparare a nuotare. Sarebbe
bello, no? Se imparo, quando torno ce ne andiamo ad Acapulco. E se non imparo, anche, che quest’estate
senza mare mi sta mettendo ko. Il fatto, cara Noe, è che quando gli ho chiesto del costume, Juan mi ha
risposto così: «A Madrid è stata scoperta la prova ontologica massima, ed è la seguente: Se esiste, lo trovi al
Corte Inglés».

***

Sono sempre stato grato a Noelia perché non ha mai voluto riempire la casa, soprattutto lo
studio, con i parafernalia tipici dei cardiologi. In un’estensione egocentrica della portata del
verbo curare, i dottori di questo paese riproducono ad infinitum la stessa esposizione
permanente: quella dei fermacarte messicani. I fermacarte sono il modo più elegante di fare
l’appello ai congressi, e si trovano in formati di ogni genere. Fermacarte di vetro,
generalmente piramidali. Fermacarte di rame, con motivi tradizionali della zona del Bajío.
Fermacarte di plastica dura a forma di pillola. Fermacarte di gommapiuma, sempre di
ispirazione anatomica: il cuore e i suoi meandri, con il nome di qualche medicina iscritto in
lettere fosforescenti sul ventricolo. Fermacarte di pietra, di ottone, di alluminio. Fermacarte
che ormai non fermano più nulla, perché perfino i medici usano i computer. E tutto intorno
alle opere esposte troviamo i testi esplicativi sotto forma di diplomi, foto di cani e figli, odi
ai Beatles, bandiere del Messico, omaggi di pazienti che, tornati alla vita normale dopo aver
visto la luce in fondo al tunnel, diventavano magnanimi: un Don Chisciotte di metallo, un
Quetzalcóatl di gesso dipinto. A Noelia una volta un paziente resuscitato ha regalato un
ciondolo d’oro a forma di cuore. L’abbiamo fatto fondere, e lei ci si è fatta degli orecchini.
Non che noi fossimo del tutto liberi dal peccato: abbiamo accumulato anche noi una
notevole collezione di statuine superstiziose, ma è stato durante l’Anno della Riproduzione.
Sto pensando proprio a questo – all’estetica degli studi medici –, perché è una settimana
intera che incontro dottori. Cosa posso dire? Andare all’ospedale non è più come una volta.
Tanto per cominciare, non sono più i miei amici a visitarmi, ma i loro figli putativi. Mi
rispettano perché sanno chi era mia moglie, ma io non posso rispettarli perché ho
l’impressione che non siano abbastanza grandi nemmeno per farsi la barba. Non è più come
una volta perché una volta passare un giorno all’ospedale significava passare un giorno
fuori dall’istituto: un giorno libero. Non è più come una volta perché una volta uscivo di lì
sempre con l’ego rinvigorito (i medici erano soliti paragonarmi alla fauna e alla flora più
resistente: una quercia, un toro!) e, invece, ora ne esco frastornato, ho la sensazione di
essere stato ingannato, come dopo una chiacchierata con un idraulico. Niente più fauna e
flora: mi annunciano meccanicamente che ho questo o quell’altro tubo tappato.
Non è più come una volta perché una volta, alla fine della visita salivo in cardiologia e
mi sedevo nella saletta d’attesa di mia moglie, a disturbarla e meravigliarmi di vederla in
quell’altra personalità, quell’altra persona che era Noelia sul lavoro: così mia ma anche – si
notava lì più che in ogni altro posto, lì in camice – così innegabilmente solo sua, così lontana
da me, così altra e diversa da quello che eravamo insieme. Si direbbe in termini di fauna e
flora: così autotrofa.

***

Le acciughe, gli asparagi e il parmigiano contengono glutammato – ovvero presentano il


sapore umami. Sanno di umami anche il pollo e le carni rosse, la salsa Worcestershire, le
alghe kombu, i funghi e, all’interno, le nostre fedi nuziali. La mia, che ho al dito, e quella di
Noelia, che porto appesa al collo con un filo da ricamo che Linda ha tirato fuori dal suo
nécessaire l’altro giorno a La Taza, quando mi ha dato l’idea di usarla come fa lei: a mo’ di
collana. Entrambi gli anelli, in oro, perché in fondo siamo sempre stati dei gran
tradizionalisti, dicono all’interno: Umami, 5/5/1974.
Ci siamo sposati a Morelia, con la mia minuscola famiglia e tutta la combriccola dei
Vargas. Ci hanno regalato stoviglie, vasi, un pastore tedesco che abbiamo delegato al primo
nipote che ha detto Io. Ci hanno fatto molte foto che abbiamo raccolto in una scatola, sono
diapositive a colori. Quando abbiamo festeggiato dieci o forse vent’anni di matrimonio, le
abbiamo proiettate su una parete mentre i nostri conoscenti bevevano martini in giro per
casa.
Noelia, al matrimonio, aveva fiori bianchi nei capelli ma portava un vestito rosa, cosa
che ovviamente ha scandalizzato tutti i parenti. Io, per compensare, ero vestito di bianco. I
pantaloni erano a campana. Avevo dei baffi così grossi che un uccello avrebbe potuto farci il
nido. Che pessimo gusto e quanta poca vergogna avevamo negli anni Settanta. Che facce
toste, direbbe mia moglie.
All’epoca, per l’incisione sulle fedi abbiamo considerato anche un’altra opzione, più
ricercata: Bonito, e la data. Perché il glutammato monosodico, il sale di cui è fatto l’umami, è
stato identificato per la prima volta nelle squame del pesce bonito. Tra l’altro, la parola
avrebbe descritto perfettamente la nostra relazione: bonito, ovvero bello, adorabile. Alla
fine però ci sembrava un’alternativa troppo sofisticata, e l’abbiamo scartata.

***

A Noelia piaceva il rosa. Non solo lo sceglieva per tutto quello che aveva a che fare con le
bambine, ma lo usava molto anche lei, molto prima che le bambine arrivassero. Aveva
scarpe rosa, gonne rosa e perfino una giacca, di un rosa terribile, un rosa Barbie che le
antropoline non sopportavano. Loro quella fase l’avevano superata. Se mai usavano il rosa,
doveva essere fucsia, il rosa messicano. Le antropoline, per lo meno in primavera, si
vestono seguendo una rigida palette ispirata a Luis Barragán: giallo, bianco, rosa
messicano. Il resto dell’anno usano abiti scuri, di una stoffa lucida che finisce per
opacizzarle. Niente, invece, poteva far sbiadire la lucentezza di Noelia. Se questo fosse un
articolo con pretese accademiche come quelli in cui ero un esperto, diremmo: Nulla
riduceva la sua luminescenza intrinseca.

***

Il mio primo articolo sull’umami uscì nel settembre del 1985 e fu, ovviamente, ignorato al
cento per cento. Non solo a causa del terremoto che colpì il Messico in quel periodo, ma
anche perché nessuno a questo mondo legge la rivista dell’istituto, anzi, sono convinto che
non la leggano nemmeno i redattori, a giudicare dalla percentuale di refusi. Ci mettono anni
a pubblicarti qualcosa, e quando alla fine arriva il momento la presentazione non è il
massimo.
Amore? Non essere antiquato, ora si dice non è il top.
E tu come lo sai?
Ci sono parecchi giovanotti nell’aldiquà, Alfonso, vedessi.
Morti suicidi?
Incidenti stradali, perlopiù.

***

Poiché nel mondo accademico non esiste il sano sistema delle mance, ci accontentiamo di
un metodo sostitutivo che fa più o meno da palliativo. Mi riferisco, ovviamente, alle
citazioni. Si suppone, più o meno a ragione, che se il tuo è un lavoro ben fatto qualcuno ti
citerà. Io, francamente, preferirei che mi dessero la mancia. Ma è stato proprio grazie a una
citazione che mi è successa una delle cose più belle della vita. Sono stato citato dall’allievo
del dottor Kikunae: il primo uomo ad aver isolato il glutammato monosodico, all’inizio del
Novecento, all’università imperiale di Tokio. Ovvero: l’uomo che ha scoperto e ha dato il
nome all’umami. Insomma, un giorno il suo allievo ha citato un mio studio, non in una
pubblicazione antropologica, ma in un articolo biografico scritto per omaggiare Kikunae e
dimostrare che era famoso perfino nel Terzo Mondo, laggiù, in Messico. Il caso vuole che
quella citazione abbia dato inizio a una corrispondenza così solida che poteva essere
distrutta solo dall’invenzione della posta elettronica. Con una delle sue lettere, Kikunae
(perché si chiamava praticamente come il professore, e sebbene abbia cercato di spiegarmi
in varie missive come cazzo funzionano nomi e cognomi in Giappone, io non ho mai capito
niente e l’ho chiamato sempre Kikunae) mi ha mandato questo ritaglio:

Quando, nel 1985, ci è mancato poco che crollasse la casa e siamo stati costretti a farla
demolire, a vivere un anno a Morelia e a ripensare al nostro «progetto di vita», mi è venuto
in mente di riesumare gli schizzi che avevo fatto durante la convalescenza e di convincere
mia moglie a lanciarci nella costruzione del comprensorio. È stato così che abbiamo
scoperto che le grandi quantità di analgesici che avevo consumato durante il periodo di
riposo mi avevano portato a sovrastimare le mie capacità artistiche. Ma Noelia, che ha
passato tutto il 1986 in una clinica privata arrangiata a casa di una cugina, a visitare
pazienti che erano sempre, da una parte o dall’altra, suoi parenti, mi ha detto: Fa’ ciò che
vuoi, amore, ma sbrighiamoci a tornare a Città del Messico.
Ti ho risposto: Facciamolo, è il top.
Esatto.
Visto che quando morirò qualcuno troverà questo scritto, voglio anche chiarire che
Harvard ha già smentito pubblicamente la mappa dei sapori che mi aveva mandato
Kikunae. Cosa che, in realtà, si sarebbe potuta scoprire con due neuroni e una goccia di
limone sulla punta della lingua, l’area che apparentemente distingue solo il dolce, ma che
non è venuta in mente a nessuno di noi che abbiamo preso per certa quella mappa
principalmente perché arrivava da Harvard. Insomma, alla fine erano solo fesserie. Eppure
era una buona mappa; almeno a noi è servita da modello per il comprensorio, con qualche
licenza poetica.
Gli alloggi di Villa Campanario sono disposti nel modo seguente:

Al momento, nel comprensorio vivono:


Casa Amaro: Marina. Una giovane pittrice che non mangia bene né dipinge molto, ma
inventa colori. Per esempio: rosanto è il colore dei fiori dell’amaranto; questo l’ha fatto solo
per me. Acquagno è il colore dell’acqua stagnante; questo l’ha fatto per lamentarsi che i
tombini del vialetto non drenano bene. Tendaleno; questo è il mio preferito: è la luce
multicolore che c’è sotto le tende di un mercato. Insomma, me ne dice uno nuovo ogni volta
che la incontro sul vialetto.
Casa Acido: Pina e suo papà, Beto. Sua mamma, Chela, se n’è andata nel 2000 e ha
lasciato una lettera che Beto ha nascosto e Pina passa la vita a cercare. Questo me l’ha
raccontato Agatha Christie.
Casa Salato: Linda e Víctor. Musicisti dell’Orchestra Sinfonica Nazionale e gestori della
scuola grazie alla quale la mia vita ha una perenne, insopportabile musichetta di flauto
dolce in sottofondo. I loro figli: Ana a.k.a. Agatha Christie, Theo e Olmo. E Luz, in qualche
modo.
Casa Dolce: Accademia di Musica Pérez Walker. PW, dice la minitarghetta accanto al
campanello. Nient’altro, perché non abbiamo nessuna licenza per mettere su una scuola
vera. In ogni caso, io faccio finta di niente e lascio che Linda e Víctor diano le loro lezioni,
perché c’è sempre di peggio nella vita che provare a insegnare solfeggio ai ragazzini. E poi,
come me lo pagherebbero l’affitto altrimenti?
Casa Umami: Alfonso Semitiel, a.k.a. il Bello, e «le bambine». Le bambine sono due
bambole reborn che sono appartenute alla sua bellissima moglie, Noelia Vargas Vargas, che
riposi in pace, e che ora lui veste e pettina. Una delle due respira.
***

L’altro giorno a La Taza, dal nulla, Linda mi ha detto perché non sta suonando il violoncello.
Dice che non può fare affidamento sulle sue braccia. Dice che, a volte, nel bel mezzo di un
accordo le braccia le diventano di gelatina.
L’hai portata tu?, le ho chiesto.
Mi ha detto di sì e io ho capito. O credo di aver capito. Perché anche io, certe notti, mi
sveglio perché mi fanno male le braccia. Non mi diventano di gelatina ma mi si
irrigidiscono, per il ricordo del peso di Noelia quando l’ho sollevata da morta. L’avevo presa
in braccio molte volte prima, soprattutto in quegli ultimi mesi, ma non mi era mai pesata
così tanto. E non era solo la mia tristezza, ne sono sicuro: pesava davvero, fisicamente,
molto di più.
Perché?, mi ha chiesto Linda.
Perché pesa più un morto che un vivo?
A-ha.
Suppongo che abbia a che vedere con la mancanza di sforzo muscolare, le ho detto:
Quando prendi in braccio una persona viva, per quanto sia debole, ancora si sostiene, o
almeno ha intenzione di farlo.
Forse morire è proprio questo, no?
Pesare di più?
Quel momento in cui uno smette di portare il proprio peso.

***

La cosa che mi piace di più quando scrivo è vedere le lettere che riempiono il foglio finto
sullo schermo. Una cosa così apparentemente semplice, così perfettamente alchemica: nero
su bianco. Inventare mondi e costruirli. Manca una virgola, la metti; ora non manca nulla.
Qui c’è tutto quello di cui questo testo ha bisogno.
E bianco su nero, anche. I silenzi, gli spazi, come direbbe il mio amico Juan, il madrileno:
l’ineffabile. Tutto quello che manca a questo testo, le sue carenze e omissioni: ci sono.
Non so se è il lutto o l’anno sabbatico, ma scrivendo ora ho iniziato a intravedere la
fragilità del sistema di riferimenti in base al quale prima ho scritto così tanto. L’etichetta
accademica che ha retto la mia scrittura per anni oggi mi sembra fasulla come quelle
unghie con gli strass che si mettono ora le ragazze. Le citazioni bibliografiche sono state
inventate come maschere per uomini incapaci di sostenere una conversazione faccia a
faccia, per non parlare di generare un’idea propria. Uomini insipidi come pane senza sale,
inavvicinabili, in fondo animali come tutti, ma con il loro piccolo strato di pretesa
intellettuale a ricoprirli, a peggiorarli. In altre parole, uomini come me.
***

Mi viene in mente, con precisione fotografica, un pomeriggio a Madrid di vent’anni fa,


quando ho chiesto a Juan: Cosa intendono gli spagnoli per castizo?
Era una domanda che avevo fatto praticamente a ogni madrileno che avevo conosciuto,
senza mai ottenere una risposta soddisfacente. Ma Juan, che era un bastardo e che
probabilmente sarà già morto, ci ha pensato tre secondi e ha improvvisato lì per lì una
definizione perfetta: «Essere castizo vuol dire... essere uno spagnolo dotato di austerità
emotiva unita a una buona dose di spavalderia».
Olé!

***

Noelia era maledettamente competitiva. La terrorizzava l’idea di perdersi un congresso,


una conferenza, un’opportunità di essere la migliore in qualcosa. Quando riceveva
riconoscimenti diventava visionaria, dichiarava che essere la prima donna ad aver ottenuto
qualcosa apriva le porte per le donne che sarebbero venute dopo di lei. Sapeva che le donne
partono già con i bastoni tra le ruote ma, senza perdere occasione di commentare la cosa a
voce alta ogni volta che poteva, la prendeva come una sfida più che come un handicap. Era
lei, ovviamente, che usava la parola handicap per questioni di genere. Una volta l’ho sentita
dire a una collega più giovane, che le aveva telefonato in lacrime per lamentarsi di come un
altro dottore aveva provato a toccarla, che le donne della medicina messicana avrebbero
potuto arrivare in alto, ma che dovevano intraprendere la scalata prendendo come
ispirazione i corridori dei Giochi Paralimpici.
Sai come corrono gli handicappati?, l’ho sentita chiedere, con il suo tono motivazionale.
No, deve aver risposto l’altra.
Con il doppio dello sforzo e la metà della riconoscenza, aveva chiarito la dottoressa
Vargas.

***

Dopo il terremoto, durante il periodo che abbiamo passato a Morelia, Noelia ha iniziato a
pentirsi di non aver avuto figli. Era il brivido del superstite che provavamo tutti, combinato
con quella dose extra di famiglia. A cui si erano sommati l’infarto del fratello, l’aver smesso
di fumare e l’imbarazzo di cugini, zie, parenti. Non riusciva a dormire. Accendeva la luce
alle tre del mattino e mi chiedeva, molto seria: Non ci staremo perdendo qualcosa?
Io le dicevo di sì, che irrimediabilmente uno si perde qualcosa, anche se avessimo avuto
figli ci staremmo perdendo qualcosa, cose diverse. Ma lei aveva sentito solo fino a «sì».
E così, di colpo, i dieci anni investiti a difendere la nostra decisione di fronte a familiari
e amici minacciavano di moltiplicarsi: ora avremmo avuto un figlio e avremmo passato
molti anni a difendere la decisione di essere dei genitori vecchi. Io avevo quaranta e passa
anni. Le ho detto: Ogni tuo desiderio è un ordine.
E ci abbiamo provato, molto, ma non con dottori e iniezioni e vasetti. Avevamo deciso –
o meglio, Noelia aveva deciso, in un tipico sfogo contro la sua stessa categoria (ah, la gente
che critica la propria categoria!) – che non voleva avere niente a che fare con i metodi di
fecondazione assistita. Se avremmo avuto un figlio doveva essere destino. Quindi
semplicemente ha smesso di prendere la pillola e abbiamo iniziato a darci dentro in una
corsa immaginaria contro il climaterio.
L’Anno della Riproduzione – come a partire da quel momento abbiamo iniziato a
definire il periodo in cui siamo tornati a Città del Messico, e che in realtà è durato tipo tre
anni – è stato anche il periodo in cui abbiamo costruito il comprensorio. Era un
investimento, volevamo che ai nostri immaginari discendenti non mancasse mai nulla. Sono
stati giorni spossanti, superstiziosi e pieni di speranza, per quanto non abbiamo mai
esagerato. La verità è che eravamo entrambi scettici nei confronti dei muratori e della
gravidanza. Questo ci ha unito più che mai: sospettavamo di tutto e di tutti, soprattutto dei
due medici che abbiamo consultato, ma anche del capocantiere.
Ogni sabato pagavamo i muratori e quando se ne andavano facevamo l’amore, per
disciplina. Oltre ai sabati e alla siesta occasionale, avevamo il calendario delle ovulazioni
appeso al muro del bagno. Io non ci ho mai capito molto, ma in termini pratici funzionava
così: quando Noelia mi diceva: Ora!, per me ogni suo desiderio era un ordine.
In casa avevamo delle statuine di argilla, imitazioni di pezzi preispanici, il tipico ninnolo
di cui sono pieni i salotti della classe media messicana istruita. Compreso il nostro, anche se
per me, che lavoravo all’istituto, erano gratis, grazie al mio pacchetto annuale di coupon
omaggio che per il resto non c’era verso di spendere. Nell’Anno della Riproduzione, però,
siamo diventati dei collezionisti più puntuali, abbiamo disposto su una cassapanca in
salotto una collezione crescente di statuine di dee della fertilità di diverse culture – ce
n’erano anche alcune fatte con l’amaranto, che io avevo iniziato a studiare e che avevo
piantato in un angolo del terreno ancora in costruzione. Inoltre, gli amici ci cedevano le
loro. Anche se alcuni, come sospettavamo io e Noelia, probabilmente spegnevano le candele
votive che accendevano per noi appena giravamo l’angolo.
Un giorno dell’Anno della Riproduzione sono arrivato a casa e ho trovato tutte le
statuine con la testa coperta da un panno. Quando ho chiesto spiegazioni a Noelia, lei mi ha
risposto, con tanto di disegnino: a) sono così da tre giorni, come hai fatto a non
accorgertene prima e b) è un piano che ho ideato per risvegliarle all’improvviso.
E come?, le ho chiesto.
Gli copro la testa con il panno, ok?, le lascio così per qualche giorno e la domenica a
mezzogiorno, quando il sole è più forte, tolgo il panno e zac!
Zac?
Si risvegliano di colpo.
E perché vuoi che si risveglino di colpo?
Perché voglio che si diano una mossa, Alfonso, che ci facciano il miracolo.
Il miracolo, ovviamente, era il figlio che non abbiamo mai avuto. Il figlio che non
abbiamo mai chiesto. O il figlio che non abbiamo chiesto con fede sufficiente perché gli dei
si dessero una mossa. Non ha mai funzionato. Nel ’91 sono nate le bambine di Chela e Linda,
nostre inquiline, con le quali Noelia, secondo lei per allenarsi, aveva passato ogni suo
momento libero. Avevano dieci anni meno di lei. E dopo aver passato un mese ad aiutarle
nella loro vita di neomamme, Noelia ha decretato che era un incubo e ha deciso di farsi un
bel nodo alle tube, in caso ci fosse ancora qualche speranza.
In realtà non è stato così facile. Abbiamo pianto tutte le lacrime che c’erano da piangere.
Le statuine sono rimaste coperte. Io avrei presto compiuto cinquant’anni. Abbiamo deciso
che saremmo stati i nonni delle vicine, se ce l’avessero permesso, e ci siamo arresi.

***

Quando qualcosa non aveva brio, non aveva sapore o mordente, io e Noelia decretavamo:
Disumami. Sembrava giapponese.

***

L’alimentazione è un’altra delle cose che non si sviluppano appieno a causa della
figlitudine. Così Noelia giustificava i suoi continui aumenti e perdite di peso, iniziati quando
ha smesso di fumare. Non ho nessuno da nutrire se non me stessa. E io, a volte: E io sono un
cartonato o cosa? Tu non sei nella crescita, Alfonso, e poi tu non conti. Perché sei magro,
tanto per cominciare, e perché sei tu che dai da mangiare a me.
Una volta ero meno magro, quell’anno fatidico a Morelia. Io che sono sempre stato uno
stecchino pallido, ero ingrassato di sei chili, suppongo per via dell’esercito di zie che ci
nutrivano al minimo cenno. Noelia aveva preso quattordici chili stando più a dieta che mai.
Ma a Morelia fare un dolce light significa sostituire lo zucchero con il latte condensato.
Ora forse sto ingrassando un po’. Dev’essere colpa dei fast food, e delle mie tequile
quotidiane. Ogni tanto dovrei andare al supermercato, riprendere le vecchie abitudini,
prepararmi la zuppa come mi ero ripromesso. Prima facevo il brodo di pollo ogni
domenica, e con quello diverse zuppe durante la settimana, più tutto ciò che fabbricavo con
il pollo sminuzzato: sandwich, involtini, insalate. A volte fantastico di investire in un
meccanismo a batteria per poter dare da mangiare alle bambine. E poiché so che una cosa
del genere non esiste, a volte fantastico di inventarla. Perché sono diventato antropologo
quando avrei potuto essere un ingegnere, un inventore, un carpentiere?
Ieri mi è arrivato un invito dell’istituto per un seminario con un titolo così retorico e
pomposo che mi è venuta voglia di gridare. L’accademia è il posto in cui la classe media si
riempie la bocca di parole senza senso e si mantiene vivo il mito secondo cui sapere è
potere. Fandonie! Sapere è debilitante. Sapere gonfia l’ego e spompa l’ingegno. Sapere è
usare il corpo sempre meno, vivere seduto. Sapere ingrassa! Grazie al cielo non devo
seguire nessuna tesi in questo periodo, perché questo sarebbe l’aforisma con cui
distruggerei le vacue teorie del dottorando di turno sullo pseudo-cereale più in voga
(sicuramente la quinoa che, mi spiace dirvelo, NON si mangiava in Messico). Andate a
raschiare il fondo di tutti i cocci che volete, dio santo, ma usate un po’ il cervello e un altro
po’ il microscopio, e non inventatevi stronzate.
Sapere fa incazzare.

***

Lista al volo delle cose che Noelia comprava al supermercato senza pensarci un secondo:
Infradito di gomma, in particolare quelle con le perline. Ne ho date via migliaia e ancora
adesso, ogni volta che metto in ordine gli armadi, ne trovo un paio.
Carta stagnola.
Tonno in scatola. Era un vecchio tic: prima di conoscermi, dato che praticamente viveva
in ospedale, mangiava tutti i giorni la stessa insalata, che aveva imparato a fare quando era
tirocinante e che consisteva di una scatoletta di tonno, una di mais e qualche cucchiaiata di
maionese Hellmann’s. (Noelia lo specificava sempre quando passava la ricetta a qualche
interno malnutrito: ai suoi tempi, solo le infermiere usavano la McCormick; gli interni
usavano la Hellmann’s.)
Gomme da masticare senza zucchero (alla cassa, già in fila per pagare). Le masticava
esclusivamente quando guidava da sola perché aveva paura di addormentarsi.
Paracetamolo.
Olio spray da cucina PAM.

***

Una volta, Noelia mi ha detto: Essere figlia e basta è molto disumami.

***

Il PAM, quella pessima imitazione dell’olio che io per principio mi rifiuto di usare, è arrivato
nelle nostre vite in pompa magna. Ce l’ha portato Lulú, una cugina di Noe che vive a Boston
ed era la promotrice numero uno del lato irrazionale di mia moglie. Ogni volta che veniva a
trovarci ci portava un mazzo di tarocchi, o l’oroscopo cinese di tutto l’anno, o un libro sulla
dieta che stava seguendo. Per circa cent’anni entrambe sono state dipendenti da Weight
Watchers e Lulú mandava pacchi e pacchi di cibo precotto, con tutti i valori per la dieta a
punti, senza capire quanto mi offendeva.
In cambio, quando Noelia andava in terra gringa per qualche congresso, le preparava
sempre un pacco pieno di tortillas e cose messicane perché Lulú era una di quelle esiliate
che passano la vita a idolatrare la patria. Quando è diventato più facile procurarsi prodotti
messicani anche là, Lulú è diventata sempre più raffinata. Non voleva più cose confezionate,
ma comprate fresche al mercato. Una volta ci hanno fermato alla dogana e abbiamo dovuto
lasciargli sette chili di formaggio Oaxaca che avevamo portato di contrabbando. Per quanto
Noelia avesse sfoggiato le sue credenziali di fronte ai doganieri, nessuno credette che quel
formaggio fosse pastorizzato.
Lulú viveva fuori dal paese e, in qualche modo, anche fuori dal tempo. È l’unica persona
che, se non ricordo male, non ha mai smesso di farci commenti ipotetici sui nostri figli
ipotetici. Ci parlava sempre di come le donne americane partorivano sempre più in là con
gli anni, delle fertility clinics, di come avrebbe portato i nostri figli a vedere non so quale
squadra statunitense, perché era supertifosa di baseball. Deve esserlo ancora, voglio dire
che deve essere viva, perché non l’ho più vista dopo il funerale di Noelia. Quel giorno, ai
fiori ci ha pensato lei.
Nemmeno Lulú aveva figli, né un compagno, né – parole sue – un cane che le abbaiasse
quando rincasava. Il giorno che è arrivata con il primo barattolo di crema Cool Whip, ce l’ha
presentato affermando che una cosa così buona e che non faceva ingrassare era qualcosa
che nemmeno Dio, che ha inventato il pene, avrebbe mai potuto creare. Ma è stato l’unico
riferimento a un uomo che le ho sentito fare in vita sua. So che ne ha frequentati diversi,
perché era attraente e poi perché Noelia mi raccontava tutto, quando Lulú andava a
dormire nella stanza degli ospiti e mia moglie arrivava in camera posseduta da una specie
di ipereccitazione spettegologica dalla quale solo il sonno, generalmente il mio, riusciva a
strapparla. In una di quelle sessioni sono venuto a sapere che Lulú aveva appena messo in
testa a Noelia il tarlo delle reborn dolls. Che cosa sarebbero?, ho chiesto: Sembra una roba
esoterica.
Noelia me l’ha tradotto: Sono bambolotti rinati.
Rinati in che senso?
Nel senso che quando sono reborn, non sono più dolls, ma diventano babies, sono fatti
per consolare la gente senza figli, hai presente?
2001

Il mio compito è togliere la terra dalle trombette dei morti con uno spazzolino da denti.
Non è mica facile. Quando non riesco più a togliere terra da un fungo, lo metto in
un’insalatiera piena di acqua tiepida ed Emma lo pulisce con le dita. Ha le mani come mi
diventano anche a me se sto tanto tempo nel lago. Mi sono rivestita e sto al calduccio.
Quando le trombette sono belle pulite, le diamo a mamma e lei le cucina con aglio e
pomodori, fischiano nella padella.
Cosa ti metti sulle dita?, chiedo alla nonna.
Sulle unghie?
Sì.
Lo smalto.
Vuoi che Emma ti metta lo smalto?, chiede mamma.
Scuoto la testa da una parte all’altra. Certo che no: io lo so che cos’è lo smalto e quanto
puzza.

Mangiamo su un tavolo in terrazza, che la nonna chiama portico. Ho fame. C’è odore di olio
e aglio. Ad Ana non piace l’aglio, perché è scema, e mangia altre cose e non sa cosa si perde.
A Pina l’aglio piace, come a me, soprattutto i pezzetti bruciacchiati. La mamma ne prende
due dalla padella, uno per ciascuna, e lo mordiamo felici. Ana fa una faccia schifata. Pi mi
dice: Chi l’avrebbe mai immaginato, Luz.
Che cosa?, le chiedo.
Che non sei un vampiro.
Emma ci dà dei tovaglioli di stoffa invece che di carta e mi sento elegante, come le
signore eleganti degli aerei, che hanno un fazzoletto e un cappellino e distribuiscono
noccioline. Io sono una nocciolina, vero?, chiedo, e tutte dicono di sì, tranne Ana, che alza gli
occhi al cielo come quando la insopporto.
Emma serve la pasta da una pentola e il vino da una brocca, dice che lo fanno dei suoi
amici dell’altra costa del paese. Lo fa assaggiare anche a noi bambine, ma ci fa un po’ schifo.
Piace solo a Pina, ma poi dice che piacerebbe anche a sua mamma, e ci manca poco che
piange. Chiede a Emma se c’è della Coca-Cola. Io e Ana ridiamo, perché sappiamo che la
nonna odia la Coca-Cola. Ma poi Emma dice a Pi una cosa che non ci aveva mai spiegato
prima: La Coca-Cola sono le acque nere dell’impero. Bleah, per forza che la mamma non ce
la fa bere.
Il Michigan è un impero?, chiedo mentre cerco di arrotolare i miei spaghetti con la
forchetta come vuole la mamma.
Ana mi dice di sì.
L’imperatore si chiama Michelin, dice Pina.
Non è vero, dice Ana: L’imperatore si chiama Umami.
Ed è cattivo?
È cattivissimo, dice Pina, ti tira i capelli e le orecchie eccetera eccetera.
Per niente, dice Ana. Poi dice a Pi: Non dire le bugie a mia sorella! E a me mi dice:
Umami è il migliore imperatore del mondo; se una bambina lo va a trovare nel suo castello,
Umami le fa esaudire un desiderio.
E non riesco a scoprire altro, perché ci rimettono al lavoro in cucina. Mi danno un
cucchiaio speciale tipo quelli per il gelato ma più piccolo, con cui devo fare delle palline di
melone. Bisogna infilzarlo nella frutta e poi girarlo. Sono la regina delle palline di melone.
Le devo mettere in delle coppette di vetro in cui Ana serve il gelato e Pina mette i
cucchiaini. Emma prepara il caffè. Mette su un vassoio una tovaglietta bianca, due tazze e
un barattolo di miele.
Perché ci sono degli insetti dentro il miele?, le chiedo.
Non sono insetti, dice, sono funghi speciali per adulti. Ma per te ho qualcosa di ancor più
speciale, dice, e prende da uno scaffale un barattolo di biscotti allungati, ripieni di
cioccolato. Mi sembra una giusta ricompensa, mi piace vincere.
Quanti ne vuoi?, mi chiede, e io alzo le spalle perché non oso dire che ne voglio tanti.
Prende quelli che ci sono nel barattolo. Ne mette uno in ogni coppetta e mi dà quelli che
avanzano. Ana è invidiosa. Insopporta quando io ricevo un regalo e lei no. Le dico: Te li do
se mi dici dov’è il castello dell’imperatore. Accetta. Glieli do e mi dice all’orecchio: Non ci
potrai mai arrivare, perché è in fondo al lago. Mi fa la linguaccia e se ne va con i miei
biscotti. Anche Pina mi fa la linguaccia, così, tanto per.
Quando torniamo fuori con il dolce, Emma applaude e mamma canta la canzone della
donna. Che lingua è?, chiede Pina, che è l’unica che non la sa. È italiano. Poi tutte insieme ci
mettiamo a insegnarle la canzone. Mamma le spiega cosa significa ma io non la sento
perché sto pensando a un’altra cosa. Sto pensando che io e i miei fratelli passiamo il tempo
a bere di nascosto una bibita con la cacca dentro.

Ana e Pina vanno a vedere la loro serie in camera, l’hanno comprata ieri al Penny Savers, ci
sono milleottomila episodi nuovi e non parlano d’altro. Io non la voglio vedere perché,
anche se dicono che non è di paura, io lo so che se ci sono i vampiri in copertina è di paura.
La nonna mi chiede se mi piacciono le amache. Le dico di sì e mi porta alla terrazza di
fronte, dove sta il suo furgone tutto rotto. Di solito lì c’è anche la macchina che abbiamo
affittato, ma oggi no perché i maschi l’hanno presa, e c’è anche il vialetto che porta dalla
casa alla strada. Ci sono anche delle scarpe piene di fango, sedie di legno, ombrelli e, appeso
a un chiodo, un nodo di fili colorati. Emma lo scioglie e diventa un’amaca. La lega alle
colonne che sorreggono il soffitto della terrazza.
Portico, mi corregge Emma.
Pensavo che il portico fosse quello di dietro.
Anche. C’è il back porch e il front porch.
E anche un middle porch, le dico, ma non ride. Salgo sull’amaca e mi dice: Alza la testa.
Quando lo faccio, mi mette un cuscino dietro il collo.
Non avevo mai usato il cuscino sull’amaca, le dico.
È la versione civilizzata, mi dice.
Non voglio dormire.
No, è per farti stare più comoda.
Mi dondoli un pochino?
La nonna mi dondola un po’, ma molto piano. Dice: Tra un po’ piove.
Come lo sai?, le chiedo.
Perché ci sono le libellule.
Poi entra in casa e torna con dei fogli e un barattolo di matite colorate. Li lascia su un
tavolo accanto all’amaca, se voglio disegnare, mi dà un bacio e se ne va. Tiro giù un piede
dall’amaca e mi spingo sul bordo del tavolo, finché riesco a dondolare davvero. Ogni tanto
devo allungare il piede e darmi un’altra spinta, perché sennò mi annoio da morire. Emma
mi piace, ma ora no perché mi sembra che mi ha portata qui solo per liberarsi di me. Di
sicuro vuole parlare di cose da adulti con mamma e non sa che a casa io sento sempre tutto
e non fa niente. Cerco di toccare con il piede il barattolo di matite per rovesciarlo e fare una
valanga, ma è un po’ troppo lontano. Penso che forse è meglio tornare al back porch. Poi
penso che ci torno quando il sole non mi batte più sui piedi, perché è proprio bellissimo. Il
sole che passa dai fili dell’amaca disegna delle ombre sulle mie gambe. Le ombre sono a
forma di occhi, e vedono tutto quello che faccio e vedono tutto quello che penso. Credo che
alla fine mi addormento perché quando mi sveglio non ci sono più occhi e ho freddo e sta
piovendo. Voglio andare da mamma, ma entro in casa e vedo Cleo sul divano e quasi quasi
mi sdraio lì che c’è anche una copertina. Voglio che la mamma o la nonna mi trovino e ci
restino male per avermi lasciata fuori così poco coperta. Però le sento ridere fuori e prima
che qualcuno mi trovi mi addormento di nuovo. Quando mi sveglio è quasi buio. Cleo e due
dei suoi fratelli sono mezzi addormentati sul tappeto vicino al mio divano. Non sento le
adulte, allora faccio il bruco con la coperta arrotolata addosso ed esco nel portico a
cercarle. Il tavolo è pieno di piatti sporchi ma non c’è nessuno. Sento delle voci e gli corro
incontro. Non piove più ma il prato è bagnato. Trovo Emma seduta sul muretto di pietra che
circonda l’ultimo stagno.
Con chi parli?
Con lei.
Mi guardo intorno, lei chi?
Emma.
Tu sei Emma.
Tu pure.
Rido anche se non mi va tanto. Poi le chiedo dov’è la mamma. Emma inclina la testa
verso destra, dà qualche pacca al muretto di pietra dello stagno, e si vanta: Questo l’ho fatto
io. Lo so, le dico, ce l’ha già raccontato oggi pomeriggio e ieri e anche prima. Mi dice: Che
bella parrucca, il viola ti dona proprio. Parla come se stesse dormendo, forse la nonna è
sonnambula. Tiene le mani appena sopra l’acqua ma senza toccarla, le muove lentamente,
come per salutare.
E la mamma dov’è?, le chiedo di nuovo.
Emma indica una carpa arancione e dice: Eccola lì!
Nello stagno?
Sì, dice Emma: La mamma si è trasformata in un pesce.
Non le credo. E poi sta ridendo.
It’s true, honey, una volta al mese la mamma si trasforma in pesce, da quando era
piccolina.
Muove la testa dicendo di sì, sì, e mi fa venire il dubbio. Qual è?, chiedo, solo per
dimostrarle il contrario, e mi indica una carpa arancione, ma non so dire se è la stessa che
mi ha indicato prima, si nasconde tra gli iris.
Come fai a sapere che è lei?
Perché le brillano gli occhi in un modo diverso, mi spiega: Come a un mammifero.
Sento che mi tremano le labbra.
Don’t worry, dice Emma: Torna sempre.
Non dire le bugie, le rispondo, ma la mia voce è piccola piccola e allora corro via. Come
back, dice Emma, ma non mi giro e non mi segue. Voglio infilarmi nel bosco, perdermi, e
farmi mordere da un lupo così quando la nonna mi trova si sente male perché mi ha detto le
bugie. Però ho paura di entrare nel bosco, è troppo buio tra gli alberi. Fifona, se ci sei stata
tutta la mattina. Corro verso l’altro lato della casa, entro dalla terrazza dell’amaca e vado
subito in camera di mia sorella. Ana e Pi sono al buio di fronte alla tele, dove una bambina
mezza verde ha la testa che gira, come una vite. È la vostra serie?, gli chiedo. Ma Ana mi
grida: Vattene, non è per bambini.
Non mi piace quando mi gridano, gli tiro la mia coperta e vado in camera di mamma. Era
la sua camera di quando era bambina, la coperta è a quadri di stoffe diverse e, invece della
porta, c’è una tenda ricamata, tutta colorata, che mamma lava ogni volta che veniamo,
insieme a tutte le altre tende della casa perché alla nonna non le dà tanto fastidio la
polvere. A volte mamma insopporta troppo che la nonna vive camuflashata tra il bosco e la
polvere. Salgo sul letto, è di ferro e la mamma dice che è da principessa, ma secondo me i
letti delle principesse non scricchiolano così tanto. Io e Ana dormivamo sempre qui, ma ora
lei dorme con Pina in sala o di fronte alla tele. Sopra di me ci sono degli aerei. Sono degli
aerei di legno, che la mamma costruiva con suo papà quando era piccola, prima di
trasferirsi al lago, prima che suo papà andasse a vivere con Emma.
In un angolo della stanza c’è il primo violoncello della mamma, sta sempre in
quell’angolo, è grande come me. Ho voglia di spingerlo, il violoncello, e di romperlo un po’
perché la mamma non è qui, perché non so dov’è, ma non voglio scendere dal letto perché
la bambina verde mi ha fatto tanta paura.
Qualcuno apre la tenda della stanza e io grido, ma è Emma. Pensavo che avevamo
litigato, però lei mi sorride tutta contenta, penso che magari mi dirà qualcosa di bello, tipo
che sono una nocciolina caramellata, però mi dice solo: Guarda un po’ chi è tornato.
Emma apre di più la tenda per farmi vedere: dall’altra parte c’è mamma, è fradicia. I
vestiti e i capelli le gocciolano sul tappeto del soggiorno e il fazzoletto con cui si lega i
capelli è nero da quanto è bagnato. E poi ha un iris nella scollatura. Mamma è stata nello
stagno! Resto a bocca aperta. Emma dice: You see? La mamma gonfia e sgonfia le guance.
Cleo e i suoi fratelli le abbaiano. I cani insopportano i pesci.
2000

Pina sente ruggire il furgoncino. Chela è andata ad accenderlo perché bisogna far scaldare il
motore prima di mettersi in cammino. A quattro zampe, mezzo addormentata, Pina sente
l’impulso di uscire di corsa per fermarla. Non lo fa: il ruggito è stabile, non se ne andrà
senza di loro. Si accuccia per guardare bene sotto i letti, con il cuore che ancora le batte
forte. Beto sta controllando gli armadi del bungalow, Pina sente le ante aprirsi e chiudersi.
Quando esce dalla stanza, suo padre è nel cucinotto, tamburella le dita sulle piastrelle del
bancone. Non c’è niente, dice Pina. Lui dice: Allora andiamo. Spengono le luci, escono
insieme.
Beto indossa il completo ma senza cravatta. I suoi occhi sembrano due fessure, a
quest’ora, dietro gli occhiali rotondi, e le spalline della giacca grigia gli salgono sul collo
spinte da tutto quello che sta portando: uno zaino, una valigia, la borsa del ghiaccio, un
cesto. Pina gli canticchia: Per fare un tavolo... e lui continua: Ci vuole il legno.
Non è ancora giorno. I bungalow hanno gli occhi chiusi. Nella piscina si riflettono gli
alberi, la grande cupola, i due lunghi camini dove vivono le rondini, tutto su un azzurro
profondo che Pina non sa se è l’acqua o il cielo o l’insieme dei due. Si pente di non aver fatto
una nuotata in tutto il fine settimana.
Arrivano al gabbiotto di sorveglianza. Aprono il cancello e scricchiola, ma poco importa
con il chiasso che fa il furgone. A Pina dispiace per quelli che stanno ancora dormendo, per
quelli che hanno Golf, Nissan e compagnia, ma è anche contenta, perché è da quando sono
arrivati che vuole andare via. Suo papà le chiede: Cosa ti sei fatta?
Pina si accorge che si sta toccando la ferita che ha sulla mano.
Sono caduta, gli dice: Mi sono sbucciata.
Beto si china con le valigie e tutto: Riesci a muovere il polso?
Sì.
Pina gli fa vedere e muove il polso lentamente, con una smorfia di dolore, perché lui le
creda. Il furgoncino si avvicina. Beto apre la porta scorrevole. Pina sale e lui sistema i
bagagli. Chela dice: Bonjour, mademoiselle. Pina non risponde. A suo papà non piace che
sua mamma parli francese perché l’ha imparato con un fidanzato francese. Quando lui non
c’è, la mamma racconta a Pina dei fidanzati che ha avuto. I suoi fidanzati, come i principi dei
racconti, venivano sempre da posti lontani.
È strano vedere sua mamma vestita e al volante così presto. Ha un vestito a fiori e un
golfino nero all’uncinetto aperto sul davanti. Di solito, quando la porta a scuola, Chela
indossa già la sua roba per la lezione di danza. Spesso resta vestita così tutto il giorno. Una
volta, un suo compagno di scuola aveva chiesto a Pina perché sua mamma andava a
prenderla in pigiama. Calzamaglia e scaldamuscoli, aveva detto Pina: Danza
contemporanea. Ma il bambino l’aveva guardata come se anche lei fosse in tuta. La scuola è
così: nessuno sa chi è Pina Bausch. Tutti credono che lei si chiama Pina in omaggio a un
albero dal legno chiaro e inservibile. Tranne Ana, ovvio. Ana sa chi è Pina Bausch, Pina
gliel’aveva spiegato quando avevano tipo sei anni, con un VHS che ogni tanto mettono
ancora anche se ormai hanno nove anni, e per usarlo bisogna tirar fuori il videoregistratore
da un armadio. Nel video c’è Pina Bausch che balla con gli occhi chiusi, muovendosi tra
tavoli e sedie. A volte provano ancora farlo anche loro, ma alla fine sbattono sempre contro
qualcosa, o si scontrano. Un giorno hanno fatto provare Luz e Olmo nel cortile e lui si è
aperto la fronte contro una delle fioriere di cemento.
Il furgone entra ed esce da una città piccola e mezza addormentata. Pina vede dal
finestrino tre bambini che camminano da soli al bordo della strada. Indossano un’uniforme
e hanno dei grossi zaini. Pina vuole proporre di dargli uno strappo, c’è spazio sul furgone,
ma ha paura che lei dica di sì e lui dica di no, e inizi un’altra lite. Prendono l’autostrada.
Beto prova a cantare: Per fare il legno, ci vuole l’albero... Ma nessuno lo segue. La sua
cravatta è nel cesto del pranzo, arrotolata su sé stessa come una chiocciola gigante e piatta.
Ieri sera, in bagno, Pina ha visto la sua ferita cambiare colore sotto il getto d’acqua. Dal
rosso scuro del sangue secco è passata a un rosa leggero, quasi carino. È della grandezza di
un’unghia, non di più. Ma non è niente di che, e non fa nemmeno tanto male. Anche se un
po’ sì. Quel tanto che si merita per aver contato solo novantasette rondini.

A Pina piace essere in viaggio, ma non quando finisce. Non le piace quando qualcuno dice:
Siamo quasi arrivati. Diventa nervosa e inizia a desiderare che non arrivino mai, che
buchino una gomma, ma no, perché questo li frenerebbe e quello che lei vuole è andare
avanti, muoversi per sempre. Vorrebbe che chi è al volante sbagliasse a svoltare, che
saltasse l’uscita e continuasse ad andare avanti. Le piace andare, non arrivare. Anche ora,
per esempio, vanno avanti e basta. Nessuno dice: Siamo quasi arrivati, perché sono appena
partiti, e Pina si sente in pace, il cuore non le batte forte, nessuno se ne va da qualche parte
lasciando indietro gli altri. Sua mamma, al volante, ha i capelli raccolti e quel collo da
ballerina che tanto le piace. Suo papà guarda dall’altra parte, dal finestrino di destra. La
strada di fronte poco a poco si illumina con i fari del furgoncino.
Prima avevano una macchina normale. A Pina piaceva sdraiarsi sotto il finestrino del
parabrezza posteriore, sopra il coperchio del bagagliaio. Della vecchia macchina ricorda
soprattutto quello: veder passare le nuvole e gli alberi, veder piovere sopra di lei senza
bagnarsi. Ricorda anche che suo papà non voleva che viaggiasse sdraiata in quel modo però
sua mamma sì, e che per non farli litigare lei aveva detto una bugia. Aveva detto: Ormai non
mi piace neanche più sdraiarmi lì.
Poi, un giorno lei e suo papà erano in casa, a fare i compiti in salotto, quando aveva
iniziato a suonare un clacson forte, insistente, che non smetteva mai. Alla fine, Beto aveva
aperto le tende. Pina dal divano aveva visto come il suo viso si trasfigurava, e come pian
piano scoppiava a ridere. Pina era corsa alla finestra e aveva scoperto sua mamma in
strada, che faceva piroette e jeté intorno a un furgoncino Volkswagen rosso, come per
presentare il suo nuovo giocattolo. Se n’era andata quella mattina con la macchina di
sempre ed era tornata in quella carrozza che da allora li porta in giro. La reazione di papà,
quel giorno, era stata contagiosa. Pina accarezza quel ricordo come un gatto e, come un
gatto, il ricordo fa le fusa, emanando la precisa sensazione di quel pomeriggio: lui e lei
dentro, morti dal ridere; sua mamma fuori, a ballare da sola ma per loro.
Chela mette un po’ di musica. È «Fast Car» di Tracy Chapman; a Pina piace quella canzone
perché anche il loro furgoncino va così. A volte, se il viaggio è molto lungo, suo papà dice:
Ok, ora cambiamo un po’, no? E mette il suo cd di Mozart, che ha un adesivo a forma di
dinosauro sulla custodia, ma appena premi play non è divertente come sembrava.
Ma cos’è questo zum-pa-pa barocco?, aveva detto una volta Pina di quel disco, e suoi
genitori erano morti dalle risate. Pina sapeva che fosse una cosa buffa perché l’aveva
sentito a una prova dei genitori di Ana, e anche lì tutti erano scoppiati a ridere. In realtà,
però, non sapeva cosa voleva dire.
Non toccarmi il compagno Amadeus, aveva detto suo papà quella volta. Ora, Pina vuole
chiedergli se se lo ricorda, ma le pesa parlare, alzare la voce oltre il ruggito del furgoncino
per farsi sentire. A volte, anche senza tutto quel rumore, le pesa parlare. Non ama rompere
il silenzio, come una bolla che lei sceglie di far scoppiare, come quando il viaggio finisce:
Pina preferisce rimandare, questo e ogni altra cosa. Altre volte non si può, perché l’aria è
pesante dopo una lite e tocca a lei, sebbene non voglia, mettere qualcos’altro nell’aria per
pulirla. A volte, prima di fare una battuta sa che i suoi non rideranno, eppure la fa lo stesso.
Perché quando c’è un silenzio sporco in macchina o in casa, non importa che la battuta sia
buona o no: i suoi non sono in vena. Però lei deve farlo lo stesso, come coprire una macchia
con una tovaglietta. Così come ci sono gli scioperi della fame, ci sono gli scioperi delle
risate. Lo sciopero di Pina è non parlare; solo con Ana parla tanto. A volte anche con suo
papà, che le fa molte domande. Con sua mamma non tanto perché ogni volta che le racconta
qualcosa è come se Chela lo sapesse già da prima.
Pina si gira in avanti, e la fibbia della cintura di sicurezza le si pianta nella schiena. Si
avvolge in una coperta e la cosa migliora, ma non vede più il paesaggio in movimento e così
il viaggio è un po’ noioso. Cambia posizione, ormai di cattivo umore. Alza i piedi e incolla le
dita al vetro – è freddo –; quando li toglie resta il segno sul finestrino appannato. È come
lasciare impronte senza dover andare in nessun posto. Quando si cancellano, basta
rimetterci il piede. Quando fa troppo freddo, basta rimettere il piede sotto la coperta. È
come sua mamma, che va e viene, e quando Pina crede di non ricordarla più, torna. Ha
pensato molto a questo nel fine settimana, per la lite ma anche per il pavimento intorno alla
piscina. Era di piastrelle d’argilla. Quando i bambini passavano correndo bagnati lasciavano
delle impronte e poi, poco a poco, sparivano ed era come se non fossero mai passati. Pina
pensa che il bambino che le ha graffiato la mano ieri sera forse non è male come gli altri
bambini. Tutti gli altri bambini del pianeta Terra.
Si addormenta un po’ e quando si sveglia sta facendo giorno. Sono fermi a una stazione
di servizio. Si tira su, guarda dal finestrino: sua mamma sta bevendo un tè e suo papà
dev’essere in bagno perché non lo vede. Appiccica la bocca al vetro, cosa che sua mamma
detesta. Quando la vede, Chela indica il suo bicchierino di polistirolo, come a dire Ne vuoi
uno? No, dice Pina scuotendo la testa. Chela solleva le spalle due volte, veloce, come a dire
Peggio per te. Pina conta le cose. Ci sono cinque persone al chiosco, due sono commesse e
hanno grembiuli e gonne con molti strati. Ci sono quattro macchine ferme, una è un camion
e un’altra ha due biciclette sul tetto. Ci sono tre cani nelle vicinanze. C’è un papà che esce
dal bagno. Chela indica il suo bicchiere, ora verso Beto, e lui fa no con la testa. Chela alza
due volte le spalle, veloce. Pina pensa: sciopero di caffè. Ci sono un papà e una figlia in un
furgoncino, che aspettano una mamma che attacca bottone con la commessa.
Ripartono, ormai è giorno e si avvicina quella discesa che Pina sempre teme e desidera,
dalla quale si può apprezzare distintamente la patina schifosa in cui si stanno per infilare.
Sotto la patina c’è Città del Messico. A volte, dalla patina escono alcune torri, alcuni tetti, ma
in generale se, come oggi, è appena passata l’alba, la patina è chiusa: come qualcosa su cui
potresti rimbalzare. Ma la patina ti lascia entrare. La patina ti ingoia e ti fa dimenticare che
c’è. Questa è la sua caratteristica principale: una volta che entri nella patina, smetti di
vederla. Pina lo sa e, tuttavia, le sembra difficile da credere ogni volta, quando è ancora
lassù e vede la patina così densa, grigia, azzurra, marrone, quasi solida, come una meringa
sporchissima. Pina cerca sempre di guardarla il più a lungo possibile, ma la patina finisce
sempre per sparire. Solo qualche volta, a metà mattina, durante la ricreazione, Pina crede di
distinguerla sopra di lei, molto più su della scuola, che sfuma sugli edifici più alti. Pina la
saluta a bassa voce: Ciao patina. Theo dice che i bambini di Città del Messico hanno la
patina dentro, nei polmoni, e quando la esalano in un altro posto, contaminano l’ambiente.
A metà discesa, il furgoncino entra nella patina e la patina immediatamente scompare.
Pina ce la sta mettendo tutta per continuare a distinguerla: vederla, vederla, vederla,
quando sua mamma tira un urlo. Il furgoncino sbanda, poi si rimette in carreggiata. Che
cazzo era?, dice suo papà. Sua mamma dice: Una vasca, c’era una vasca!, e indica un punto
impossibile da distinguere tra la velocità e gli alberi. Poi, appena può, Chela esce
dall’autostrada e inizia a percorrere delle stradine. Beto le chiede di tornare
sull’autostrada, è irritato per quella brusca sterzata e vuole arrivare in ufficio in orario.
Chela lo ignora. Pina si pizzica. Inizia a piovere. Theo direbbe: La patina ci piscia addosso.

Passano un bel po’ di tempo cercando di evitare pozzanghere e pietre, tutti e tre in silenzio,
la musica spenta. Pina, suo malgrado, inizia a credere che suo papà abbia ragione: sua
mamma la vasca se l’è solo immaginata. Però non dice niente perché è in sciopero di
opinioni. Sua mamma dice che non se l’è immaginata, che la lascino stare, che la troverà. E
la trova. Di colpo girano un angolo ed eccola lì, chiara come il sole. Le case intorno hanno
sul tetto serbatoi di gas o acqua, o piante. Ma sulla terrazza di una delle case c’è una vasca.
È una vasca molto sporca con le zampe dorate.
Ha le zampe di leone!, esclama Chela, come se questo cancellasse l’ora infernale che gli
ha appena fatto passare, e per un istante Pina accenna una risata, chiede muta che suo papà
rida, come quando Chela ha comprato il furgone, e che tutti e tre scoppino in una risata
contagiosa che li unisca. Ma suo papà dice solo, secco: Deluxe.
Chela parcheggia dietro un taxi senza tassista e scende come se sapesse dove andare. Si
copre dalla pioggia con un golf all’uncinetto. Stona un po’ lì fuori, con il suo vestito a fiori in
quel posto dove si fermano i taxi. Pina capisce che ora può parlare. Chiede: Perché tutte le
case sono grigie qui?
Perché lo smog le sporca, dice suo papà.
Qui è dove c’è la patina?, chiede Pina.
Sì, dice Beto. Poi però dice: No.
Pina spiega che sa cos’è lo smog. Una volta avevano chiuso la scuola per colpa dello
smog e lei si era potuta tenere il pigiama tutto il giorno, per vari giorni. Oggi non arrivi in
tempo per la scuola, dice suo papà. Non importa, dice Pina, e passa a Beto la sua cravatta.
Lui dice: Grazie. Ma non se la mette.
La porta metallica alla quale sua mamma ha appena bussato si apre e sulla soglia appare
un signore grasso senza maglietta che, appena vede Chela, chiude subito la porta. Chela alza
le spalle e suo papà alza le sopracciglia, come a dire Te l’avevo detto. Ma poi il signore
appare di nuovo, con la maglietta. Dietro al signore si affaccia una bambina che guarda
Chela a bocca aperta. Forse non ha una mamma, pensa Pina: Forse vuole la mia.
Chela parla con il signore, segnala la terrazza, congiunge le mani e, alla fine, sembra che
il signore le risponda qualcosa. Poi, Chela torna verso il furgone. Beto si inclina verso la
portiera del conducente e abbassa il finestrino. Quanti soldi hai?, chiede lei. Lui apre il
portafoglio: Cinquecento pesos. Lei tira fuori tutti i soldi, poi s’infila per metà dentro il
finestrino, fruga nella sua borsa gigante, tira fuori un altro paio di banconote, prende gli
spicci nel posacenere del furgone. Beto, incredulo, ha ancora in mano il suo portafoglio
vuoto, aperto per metà, come un pesce nero appena disossato dal pescatore. Chela è
raggiante, con tutti quei soldi in mano e i capelli che le si incollano al viso per la pioggia.
Manda un bacio a Beto. Pina prende i suoi soldi dallo zaino e glieli offre: è una moneta da
dieci pesos, ma Chela non la accetta. Conservali per i sali, le dice, e manda un bacio anche a
lei. Che sali?, chiede Pina, ma sua mamma è già di spalle. Suo padre chiude il finestrino e le
spiega: Sali da bagno per fare la schiuma.
Vedono Chela consegnare i soldi al signore, che glieli restituisce. Lei glieli dà un’altra
volta, lui glieli restituisce. Questo succede altre due o tre volte, finché finalmente il signore
si mette i soldi in tasca e la mamma di Pina entra nella casa. Si chiude la porta alle spalle. A
quel punto Beto, che aveva tenuto la testa appoggiata al sedile, si tira su. Avvicina il naso al
parabrezza. Dopo poco vedono Chela apparire sulla terrazza con un bambino magro.
L’ammirazione che riempie il petto di Pina palpita tanto e così veloce che assomiglia alla
paura. Quella è la mia mamma!, ha voglia di dire. Sua mamma grida qualcosa a suo papà.
Non la sentono, ma la capiscono per come muove le mani. Beto sbuffa, si toglie la giacca,
dice a Pina: Tu non scendere, lui invece scende e prima di chiudere la portiera sta già
imprecando: ha messo i piedi in una pozzanghera, ha i calzini zuppi. Sbatte la portiera.
Corre verso la casa coprendosi male con le braccia. La camicia bianca diventa trasparente.
La bimba gli apre prima che lui bussi, guarda un momento Pina e poi si chiude la porta alle
spalle. Nel minuto che ci mette Beto a salire in terrazza, Chela balla sotto la pioggia. Il
bambino magro ride, nervoso, Pina è tesa. Beto arriva in terrazza. Pina passa al sedile
davanti per vederli meglio. Il bambino magro li lascia soli e i suoi discutono sotto la pioggia,
lei felice e lui arrabbiato, questo si nota anche da sotto. Sollevano la vasca in due. Pesa. La
posano. La alzano. Gridano, gesticolano, ma, passo dopo passo, in due riescono a
trasportare la vasca fino al bordo della terrazza. In un solo movimento la inclinano per
svuotarla e questa è l’ultima immagine che Pina ha dei suoi genitori insieme: sono in piedi
sul tetto di una casa fatta di smog e versano, sulla strada bagnata, una cascata di acqua
sporca.
Quarta parte
2004

Ho piantato il mais. Per il resto, da qui a quando avremo la milpa, si tratta solo di
annaffiare, diserbare, prendere qualche appunto di osservazione al margine dei miei libri.
Uno è il Manual de milpa urbana che ha pubblicato Alf nel 1974. Sulla copertina c’è una foto
del comprensorio prima che esistesse il comprensorio. In fondo si vede la casa che c’era qui
prima, e il resto del terreno è tutto seminato, con un gruppo di hippy che lavorano «la
terra». Tra loro, riconosco Alf, magro come adesso ma con i capelli lunghi e, sopra la casa, in
una nicchia, riconosco la campana crollata che ora è incastrata nel nostro vialetto come la
spada nella roccia.
Il piano è di piantare i fagioli, quando i gambi di mais saranno alti mezzo metro. I fagioli
daranno al terreno tutto l’azoto di cui il mais lo priva. Questo è importante, a quanto pare.
Devo piantare due o tre germogli di fagiolo per ogni gambo di mais e guidarli perché ci si
arrampichino. Il bello è che grazie a questa storia dell’azoto la nostra terra nuova durerà
tanti cicli, ecco a cosa serve la rotazione delle coltivazioni: vuol dire che abbiamo fatto un
buon investimento. Mio papà dei suoi soldi e io della mia estate.
Quando i germogli di fagiolo raggiungeranno un terzo dell’altezza dei gambi di mais,
allora pianterò i semi di zucca. E vedremo cosa viene fuori se nel frattempo devo iniziare le
superiori. Per ora, il cortile è bellissimo. Oltre all’area della milpa, in fondo, su tutto il resto
della superficie c’è già l’erba, e le fioriere sono piene di piante. Mi è rimasta solo una
fioriera vuota, per i pomodori che pianterò quando torneranno i miei fratelli. Abbiamo
risistemato, sul prato nuovo, il vecchio tavolo da picnic. Il prato è stata la cosa più cara, ma
papà è contento; esce scalzo la sera dopo che ha piovuto. Con uno straccio puliamo le
panchine e ci sediamo. Io leggo e lui suona la tabla: dei tamburelli indiani, ribelli e lunatici,
che sono il suo nuovo giocattolino. La tabla è una ma sono due: un tamburo piccolo e uno
grande. Prima di suonare bisogna imparare a parlare tabla. Papà va a lezione una volta alla
settimana e ogni sera mi recita i suoni che poi prova a riprodurre con le mani. Ho già
imparato quelli più facili: Mano destra: Taa, Tin, Tete, Tu. Sinistra: Ga, Ka. Ma c’è tutto un
alfabeto. Papà resta lì a provare finché non gli fa male il tendine dal polso all’avambraccio.
Non resisti neanche un po’, gli dico.
Ai genitori delle tue amiche, mi dice, il tendine fa male lo stesso, ma per aver spostato
un topolino. Papà si crede molto diverso dagli altri. Perché non ha la mail, perché non dice
mouse. Quando ha compiuto quarant’anni si è ripromesso di imparare un nuovo strumento
ogni due anni. Però da quanto è morta Luz non aveva più preso nessuna lezione.
Ieri è arrivata una lettera dei miei fratelli. Nonostante tutto, Emma non perde la fede
nelle cartoline, men che meno adesso che ha un ufficio postale così vicino a casa (grazie,
Walmart). È scritta in inglese, come d’abitudine, ma è comprata e non disegnata da noi,
come erano prima quando la nonna ci metteva a produrre cartoline artistiche,
religiosamente una volta alla settimana per tutto il campo estivo. Credo che ci piacesse.
Credo che servisse sia per farci venire nostalgia dei nostri genitori sia per farci sentire bene
lontano da loro. E per farci sentire speciali. Soprattutto quando arrivava il momento di
sigillare le buste con la cera colorata che dovevamo sciogliere e stampare con il timbro di
rame che aveva le iniziali di Emma. In salotto abbiamo una di quelle cartoline incorniciata.
Ci sono quattro mani, ognuna di un colore diverso. Si è scolorita un po’. Ma visto che c’è
l’impronta di Luz, nessuno osa levarla. Forse si cancellerà del tutto. Acrilico, credo che sia.
O forse acquarello. Chiederò a Marina come proteggerla.
I miei fratelli, secondo me, hanno una vita facile. I maschi, in generale, hanno una vita
più facile. La loro vita consiste nel guardare tette altrui e non devono aspettare che gli
venga il ciclo o che gli crescano dei peli che poi passeranno la vita a radersi. Anche se
quando ho detto quest’ultima cosa a Pina, lei mi ha detto: E la barba, cos’è? Forse ha
ragione. Quando mi perdonerà per la rispostaccia dell’altro giorno glielo dirò, che ha
ragione. A volte facciamo così, non ci parliamo per un pomeriggio o anche due giorni interi.
Una volta non ci siamo parlate per quasi un’ora nella stessa stanza perché mi ha presa in
giro per aver usato la parola «addietro». Ma a me piace quella parola.
La lettera non dice nulla che non mi abbiano già detto via mail, ma leggerla mi rende
felice lo stesso, perché non sono lì. E perché conferma la notizia più importante: i miei semi
sono arrivati. È che ho fatto delle ricerche. Sembra che i pomodori bitorzoluti non nascano
da una sola pianta che si può piantare. Quindi ora ho un kit di heirloom tomato seeds che ho
comprato su internet. Non so come si traduce. L’ho pagato con la carta di credito di mamma
e i miei fratelli lo porteranno di nascosto in valigia. A me suona come un personaggio un po’
oscuro: The Heir of the Looming Tomatoes. O un ordine un po’ maschilista: You must stay
at home and weave, you heir of the loom. Quando gliel’ho detto a Pina, mi ha risposto solo:
Anche meno, Elizabeth.
Da quando ho tipo sette anni, ogni tre mesi Emma mi manda uno scatolone di libri.
Compra i libri al chilo, quando qualcuno del suo county muore, e me li manda poco a poco.
Per due anni consecutivi, dai miei otto ai miei dieci, ho ricevuto esclusivamente romanzi di
Agatha Christie, perché una vecchina che era sua grande fan era morta lasciando una
collezione enorme che Emma aveva comprato e mi somministrava un po’ alla volta. Allora,
tutto intorno a me mi sembrava una pista da seguire, e per tutto Pina mi diceva: Calmati,
Christie. Alf non ha mai smesso di chiamarmi così, ma non mi dice mai che mi devo calmare,
né che devo smetterla.
Quest’anno, visto che non sono andata al campo estivo, ho pensato che Emma non mi
avrebbe più mandato libri, ma una settimana fa mi è arrivata una scatola piena di classici
elisabettiani, in un inglese elegante e contorto. Per questo Elizabeth. What’s in a name? I
tomi collezionati dai moribondi intorno a un lago del Michigan determinano i miei
soprannomi.
Non so se ora, sempre perché non sono andata al campo quest’estate, il mio inglese
parlato sparirà completamente. Se mi chiedono my name, risponderò: Taa tin tete tu, e
dovrò comunicare con mia nonna esclusivamente per iscritto. Solo al lago praticavo
l’inglese di persona. Lei mi diceva sempre: You’re so pretty, kiddo. E io le rispondevo: Why,
thank you! Ma crederle, non le credevo mai.
You’re so pretty, dico al mio cortile.

Le porto dei pomodorini della mia pianta e Pina mi perdona. Ha un nuovo hula-hoop ed è
sconvolta per come ho già piantato tutto quanto. Mamma ha fatto la limonata e io la bevo a
piccoli sorsi mentre Pi cerca di farsi girare il cerchio intorno alla vita. Credo che Daniel
abbia un’amante, le dico di colpo.
Il nostro vicino?
Esatto.
Ma vaaa!
Ti dico di sì.
Come lo sai?
L’altro giorno sono andata a suonargli ed era lì ma non mi ha aperto.
E?
E ho guardato sotto la porta e c’erano delle scarpe.
E quindi?
C’erano anche dei tacchi, così, mezzi buttati, e Daniela non usa scarpe con i tacchi.
Gli uomini sono tutti stronzi.
E che ne sai?
Così dice Chela.
E sai un’altra cosa? Quando Emma è entrata alla Michigan University, negli anni
Sessanta, alle donne era proibito entrare dalla porta principale.
Davvero?
A-ha. C’era una porticina laterale. Diceva Ladies Entrance.
Che schifezza! E non è stato tanto tempo fa. Ma... posso dirti una cosa? Theo, se non si dà
una regolata, mi sa che diventerà un mezzo macho pure lui.
Theo? Ma se suona il piano!
Già, ma non si toglie mai quella maglietta, con quella ragazza tutta nuda.
È una pin-up.
È dissanguante.
Degradante?
Esatto! Quello è machismo.
Pi lascia cadere il cerchio e si siede sul tavolo. Le servo un po’ di limonata; mi sento
forte e abbronzata. Le passo il bicchiere e la illumino: Quello, cara mia, non è machismo, è
vintage.
Credi sia brutto che Chela mi abbia regalato un hula-hoop?
Brutto come?
Brutto come se pensasse che ho ancora nove anni?
Mamma apre la porta scorrevole e annuncia: Guardate chi è passato a trovarci! È
Marina, che quando vede Pina abbassa lo sguardo. Marina evita Pi, è una delle cose del
vicinato che tutti sappiamo e nessuno capisce, come il fatto che, ogni pomeriggio, Alf porti
le bambine in giro sul passeggino. A Pina non dà fastidio che Marina non la guardi negli
occhi, credo che le piaccia perfino, che la faccia sentire interessante. La saluta e le offre il
suo hula-hoop. Marina lo prova mentre io gli racconto la storia degli irochesi, degli indiani
d’America che avevano una costituzione e una divisione dei poteri: solo le donne potevano
essere a capo del clan, e solo gli uomini potevano essere capi militari, ma la capa del clan
era sempre incaricata di scegliere il capo militare.
E c’erano meno guerre?, chiede Marina.
Non ne ho idea. Quello che so è che anche loro coltivavano una specie di milpa. Sto
usando la loro tecnica; si chiama Tre Sorelle. Le tre sorelle sono il mais, i fagioli e la zucca.
Marina e Pina analizzano le piante nelle fioriere.
No, gli dico, e indico l’area che sembra contenere solo terra.
Fanno di sì con la testa, dubbiose. Ci vorrà qualche mese, spiego. La finestra si apre e
mamma mi fa un fischio perché vada da lei. Mi avvicino, sicura che mi dirà di mandar via
Marina, che noi siamo come i Corleone e che lei non è la benvenuta nella nostra casa. E
invece mi passa un bicchiere pulito. È un bicchiere con dei personaggi di film stampati
sopra e con tanto di cannuccia, l’ha vinto Theo in qualche fast food. Mamma dice: è l’unico
di plastica che c’è. Marina le manda un bacio da lontano. Però mamma non reagisce, si è
fermata a fissare qualcosa. Forse ha notato che ho piantato il mais, ho fatto anche delle
tacche sulle fioriere per delimitare con del filo trasparente l’appezzamento. Non vorrei mai
che qualcuno calpestasse le mie tre sorelle pensando che quella sia solo terra battuta.
Mamma però sta guardando un’altra cosa. Pina, quello da dove l’hai tirato fuori?, abbaia. È
strana, aggressiva: non la chiama mai Pina. Guardo la mia amica: ha in mano il cane di
peluche che ho trovato l’altro giorno. Anche Marina lo vede e grida: Patricio!
Ce l’aveva Chela?, chiede mamma.
Come?, dice Pina.
Era il cane di Luz!, dice mamma.
Era mio!, dico io.
Marina dice: Me lo ricordo, te lo portavi appresso dappertutto quando ti ho conosciuta.
Pina sta ancora fissando mamma, con rancore.
Lei guarda me e poi alza le spalle: Può essere, dice, e si allontana dalla finestra. Per un
istante pensiamo che stia per uscire dalla porta scorrevole, ma vediamo solo il nostro
riflesso che traballa sul vetro per effetto del sole. Lì, in quel riflesso, noi tre non sembriamo
così diverse. Non più che il mais dal fagiolo, o il fagiolo dalla zucca.
Marina prende una sigaretta e, ogni tanto, senza dire niente, la passa a Pina, che fa
qualche tiro, strategicamente dando le spalle a casa mia. Fumare è una stronzata. Ma una
stronzata di cui ora sono un po’ invidiosa. Non voglio che diventino amiche, è assurdo che si
passino la sigaretta e l’hula-hoop e non insistano perché provi anch’io solo perché ho detto
che era una stronzata. Anche se negli ultimi tempi non mi piace molto come Marina fa tutta
la vergognosa ogni volta che vede Pina. È successo qualcosa che nessuno mi spiega. Andava
tutto bene e un bel giorno Marina ha fatto qualcosa, mamma l’ha cacciata di casa e non ci
sono state più lezioni di inglese, né più baby sitting. Ogni volta che io o Pina chiediamo a
mamma che cosa è successo, lei si limita ad alzare gli occhi al cielo e a mettersi a cantare,
che è il suo modo di invocare pazienza o discrezione. Prima di andarsene, Marina mi dice:
Ti ho fatto un colore. E all’orecchio mi sussurra: Verdappy.
Andiamo a prende un’orzata?, chiede Pi.
Sono a dieta.
Non essere scema, non sei grassa.
Ok, però offri tu.
Va bene, dice: Alla campana tra un’ora.
Non so cosa deve fare in tutto quel tempo. Probabilmente si pettina. Ultimamente passa
le giornate a pettinarsi. Se ne va e io resto fuori a leggere Euphues and His Anatomie of Wit.
Leggere è tutto dire. È più come decifrare un codice: But thou Euphues, doft rather refemble
the Swallow which in the Summer creepeth vnder the eues of euery houfe, and in the Winter
leaueth nothing but durt behinde hir: or the humble Bee, which hauing fucked hunny out of
the fayre flower, doth leaue it and loath it: or the Spider which in the fineft web doth hang the
fayreft Fly. Per mezzo secondo, mi andrebbe che i miei fratelli fossero qui. Glielo leggerei
con british accent, Olmo si metterebbe a ridere e Theo direbbe di fondare un gruppo e
chiamarlo The Fayrefts Fucked Flies.
Quando non sopporto più il sole, entro in casa. È fresco, quasi freddo e, in confronto a
fuori, buio. Non vedo niente quando entro e inciampo in qualcosa. È mamma, sdraiata sul
pavimento. Tiro un urlo. Lei ride.
Che fai?, le chiedo.
Mi sto stirando.

Dobbiamo fare un’inaugurazione, dice Pi mentre ceniamo. E far pagare il biglietto.


Mamma dice: E come, Pi?
Papà serve del vino a Beto, poi a mamma, e le dice: Tu vendevi limonata.
Erano altri tempi, dice mamma: Un altro paese.
Pina mi dice: Io e te vendevamo grilli, ti ricordi? Tu li catturavi e io facevo dei buchi nel
coperchio dei barattoli, perché potessero respirare.
Guardo fisso mamma e, senza pensarci molto, senza sapere bene a cosa mi riferisco, le
dico: Me lo merito.
Esatto, dice Pina: Questa bambina ha lavorato molto, guardate che braccia: ha già i
bicipiti.
Faccio il muscolo; papà lo tocca e finge di essere impressionato.
Mamma dice: Io e Beto compravamo i grilli e poi li liberavamo.
Beto fa un fischio e dice: Questa proprio non me la ricordavo.
Possiamo fare l’inaugurazione?, chiedo.
Mamma ha un turbante azzurro. Mi sorride, mi fa il gesto Protestante con la mano, ma
poi dice: Va bene.
Papà dice: A condizione che si faccia quando tornano i tuoi fratelli.
Ma certo, dice Pina quasi offesa, come se ci avessimo già pensato.
E che invece di un biglietto ci sia un’offerta volontaria, dice mamma.
Papà tende la mano prima a me, poi a Pina. Affare fatto, diciamo mentre ci scambiamo
una stretta di mano. Ma dentro di me io dico un’altra cosa, anche, allo stesso tempo. Dentro
di me dico: Squeeze!

Vado con Pina a casa sua, gli adulti restano in salotto. Quando Pina non c’era, mi sono
venute. Mamma ha detto che dovevamo festeggiare. La cena di oggi era per quello, ma solo
Pi e io e i miei lo sapevamo. Beto no. A lui abbiamo detto che era per festeggiare il ritorno di
sua figlia.
Pina mi passa una busta con le foto che ha fatto sviluppare. È un po’ strano rivedere sua
mamma. Non avevo mai pensato prima a quanto è bella. Poi, mentre Pina mi fa le treccine,
così non ci vediamo in faccia e non ci vergogniamo poi tanto, mi chiede il colore, la
consistenza, l’odore delle mestruazioni.
Pina non è per niente brava a fare le treccine, ma è un esperimento necessario. Daniela
ci ha dato gli elastici del suo apparecchio per i denti. Sta malissimo incinta e con
l’apparecchio. Dice che se dormiamo con le treccine e di mattina ce le leviamo avremo
«creato volume». Abbiamo bisogno di volume per l’inaugurazione del cortile, questa è una
prova. Mi viene sonno; è da tanto che nessuno mi pettina. Pina intreccia e intreccia e mi
racconta di Mazunte: ha visto le tartarughe. Alla fine dice che la cosa più strana è che le
succede come quando era piccola: quando è con lei, non osa parlare. È come se volesse dire
a tutti i costi la cosa giusta ma ci pensa così tanto che alla fine non dice niente. Dice che
ormai non le succede più con nessuno, solo con gli sconosciuti o con i ragazzi che le
piacciono. Dice che però si è fatta coraggio e ha chiesto a sua mamma cosa diceva la famosa
lettera, e Chela le ha detto che non se lo ricorda.
Ti ha chiesto scusa?, le chiedo.
Pi nega con la testa guardando lo specchio della sua credenza.
Ti sei fatta un fidanzato?, le chiedo.
No, mi dice: Gli uomini della nostra età sono un disastro, Elizabeth, Lizz, Lizzie; d’ora in
poi ti chiamerò Lizzie.
Le dico: Gli uomini della nostra età non sono ancora uomini.
E cosa sono?
Sono youths.
Sono cosa?
E io d’ora in poi ti chiamerò Lady Pi.

Lady Pi si è addormentata ore fa. Io no, perché tutto quello che mi ha raccontato mi
schiaccia il petto e le trecce mi fanno prurito. Non so se potrei vedere di nuovo Chela, e non
odiarla per sempre. Penso che dovrei odiarla in nome della mia amica, perché Pi possa
perdonarla. Perdonarla per essersene andata, e perdonarle quello che le ha confessato
adesso e che Pi mi ha raccontato prima di dormire: che l’anno scorso, per il compleanno di
Pina, Chela è venuta fino qui ma si è fermata sulla porta. Non ha suonato il campanello! Era
qui e non è entrata. A me questa è la cosa che mi fa arrabbiare di più. Questo e il contenuto
della lettera.
È facile odiare Chela, ma non posso dormire e odiarla allo stesso tempo; mi sveglio di
continuo ed è tutto ancora lì, mescolato dentro di me. A un certo punto mi accorgo che non
è più buio fuori dalla finestra. Mi alzo per controllare lo stereo: sono quasi le sei di mattina.
Mi vesto e scendo. Attraverso la laringe scalza. Mi fermo a toccare la campana con il piede:
è molto più fredda del pavimento. Resto un po’ lì. Sono come un personaggio di qualcosa
ferma lì, con l’alba e la tristezza.
L’altra cosa che mi ha detto Pina è stata questa: dopo tutti questi anni, quando è tornata
da Mazunte, Beto finalmente ha acconsentito a mostrarle la lettera. È una sola frase, quella
che meno ci saremmo aspettati. Credo sia questo che non mi fa dormire. Per quanti anni ci
siamo chieste se era una lettera di suicidio, se rivelava un segreto disastroso, se spiegava
una professione occulta, una vocazione divina che Chela avrebbe dovuto seguire, qualcosa
che davvero spiegasse la sua sparizione! Ma la lettera non dice nulla. Peggio ancora. La
lettera dice: Pina, ti chiedo solo di finire la scuola.

A casa mia trovo la porta scorrevole aperta. Prima mi spavento, poi però mi avvicino piano
e vedo mia mamma in cortile. È in piedi nel prato, con una tazza di caffè tra le mani. Sembra
persa, in pigiama, con uno scialle buttato addosso, come se degli spiritelli l’avessero
abbandonata lì. Come se il cortile fosse un bosco e lei non sapesse dov’è la strada di casa.
Esco andandole incontro. Che ci fai qui? Glielo chiedo dolcemente, prendendola per mano.
Ha un camicione bianco, è scalza. Ha i capelli sciolti, color del grano, tra lo scollo di
pizzo e le sue clavicole c’è il suo anello di matrimonio. Non le è mai piaciuto portarlo al dito;
papà dice che se l’è appeso al collo dopo sole tre settimane di matrimonio. È tanto che non
vedo questa parte di lei, me ne accorgo di colpo: si muove quando respira, su e giù, e
l’anello riflette la luce di una lampione. Le sue spalle sembrano due palline da tennis
inserite sotto la pelle, come quelle dei miei fratelli: non me lo ricordavo. Anche mamma ha
nascosto il suo corpo sotto i vestiti, ultimamente? Mi accarezza con un dito i solchi tra le
trecce e mi torna il prurito. Poi abbassa gli occhi sul prato nuovo. Ci guardiamo i piedi.
Mamma si aggrappa al mio braccio e con il piede mi fa vedere: se lo avvicini al prato di lato,
ti ritrovi le gocce sulle dita dei piedi. Abbiamo gli stessi piedi, con il collo troppo alto. E ora
abbiamo anche questo: rugiada, cose verdi.
Mamma stringe le dita del piede e strappa dei fili d’erba. Se ne pente subito e mi guarda
come una bambina che ha fatto una marachella. Alzo le spalle: Non importa. Ne abbiamo
ancora, ancora di tutto questo. Allora mamma sbatte le palpebre lentamente, come quando
ringrazia.
2003

Appena si siedono, Chela decreta: Ora parliamo di cose felici. Sul tavolo ci sono le crêpes,
due piatti e un assaggio della collezione di marmellate di Chihuahua. L’acqua del rubinetto
in una brocca. A Marina, che non usa mai il tavolo, sembra tutta una simulazione, e oscilla
tra l’attrazione e la ripugnanza. Inizia tu, dice Chela.
Invento colori, è la prima cosa felice che viene in mente a Marina.
Con la pittura?
Con le parole.
Per esempio?
Per esempio... a questo ci ho pensato poco fa, non so ancora se funziona, ma: nettrico. È
il nero illuminato delle grandi città.
Nero elettrico?
Esatto.
Uau. Ne hai altri?
Rosta è il rosa chiaro che resta sotto una crosta quando si stacca, hai presente?
Sì!
Giarco è il giallo sporco dei bordi dei marciapiedi.
Tramontarancio è l’arancio di un tramonto. Biancumero è il bianco effimero della
schiuma.
Isabel fa segno di sì con il dito indice perché ha la bocca piena.
Continua, chiede ruotando il polso.
Verdatto è il colore del discorso ecologico: il verde ricatto.
Geniale!
Rossido è il rosso delle cose ossidate. Ospitacchio è il verde pistacchio degli ospedali.
Arcobalzina è il colore complicato delle macchie di benzina sull’asfalto, capito quale?
Sei una vera poetessa, conclude Isabel: E non è mica una cosa da tutti. La mia cosa felice
invece è il mio hotel.
Non è suo, ma dice così: il mio hotel; il dettaglio non sfugge a Marina. Chela riassume i
tre anni che ha passato a Mazunte: ha iniziato come cameriera e pian piano ha scalato i
gradini del settore alberghiero. Parla delle tartarughe e delle loro uova, delle bustarelle alla
polizia, dei turisti ignorantissimi; parla di un colombiano, di un irlandese, il miglior sesso
della sua vita, l’erba migliore della sua vita, alti livelli di THC. O ha detto DHL? Marina non
riesce più a concentrarsi con il cibo davanti. E poi non le è piaciuto come Chela l’ha
interrotta: aveva altri colori, ha decine di colori da raccontarle. Quanti anni hai?, chiede.
Trentanove, te l’ho detto poco fa. Certo. Marina muove pezzetti di crêpe avanti e indietro
con la forchetta. Ne ha mangiata quasi metà senza troppa fatica, forse perché era calda, ma
ora che è fredda, collosa, non riesce più a mangiare e sta cercando un modo di alzarsi per
sparecchiare senza offendere nessuno. Di colpo, Marina decide da che parte sta. Sebbene
non ci siano parti, è lo stesso. Lei sta dalla parte di Pina. Lei sta dalla parte di Linda. Lei sta
con quelli di Villa Campanario, con quelli che resistono meglio che possono alla furia della
vita quotidiana: cosa ci fa questa donna da spiaggia – questa piccola stella marina, questo
pesciolino dorato – a casa sua?
Chela le mostra foto dell’hotel sul telefono, Marina però è delusa, quasi offesa, dal gesto.
Suo fratello dentro di lei chiede: Per-questo-hai-lasciato-tua-figlia?, per un tizio abbronzato
e un nametag da manager? Per una canna e un cellulare con la fotocamera? Tutte quelle
cose leggere, soleggiate e bilingue, che anche a Marina piacerebbe avere, non le sembrano
adeguate per Isabel. Non alla sua età. Sul nametag, il suo nome è scritto Isabelle. Ma per
favore!, pensa. E prova uno schifo concreto per la confusione di Chela, che è un tipo ben
preciso di confusione: quella che profuma di sandalo ma che si distingue a malapena
dall’odore di incenso delle chiese. È colta da una nuova, spontanea stima per sua madre,
che sarà anche molto sottomessa, ma almeno non è confusa. Non ci crede agli hippy né ai
puritani. Non si fida di nessun tipo di fumo. Se la casa puzza di fumo anche solo vagamente,
la mamma di Marina mette a bollire chiodi di garofano e bucce d’arancia.
Di colpo, Marina sa che cosa deve fare, e non è solo per togliere di torno le crêpes: è
perché sa che quello che sta per dire deve essere detto, lo sa da quando erano in cucina e ha
continuato a rimandare. Quindi si alza, mette il suo piatto nel lavandino e quando torna
appoggia un piede sulla sedia, si appoggia sul ginocchio, accende una sigaretta e dice: Devo
dirti una cosa, ok? Sta sbagliando tutto. Sa che sta sbagliando tutto ma il lessico ospedaliero
ha la meglio su di lei. «Presa di coscienza», le parole le rimbombano in testa. La coscienza è
un puledro e bisogna montarlo. È un puledro veloce e bisogna saltargli in groppa. Almeno
così se lo immagina Marina ogni volta che qualcuno ne parla.
Chela ha le sopracciglia sollevate, divertita ma anche attenta, aperta. Posa il telefono.
Luz, la figlia di Linda e Víctor?
Sì...
Marina si siede: il puledro se n’è andato. Guarda il tavolo vergognosa, non vuole essere
lei a dirlo. Non è una cosa felice, tanto per cominciare, e poi non spetta a lei. C’è una
macchia di caramello sulla tovaglia di plastica. Marina la sfrega con un tovagliolo e il
tovagliolo si strappa sul caramello, si rompe e forma dei minitacos di carta.
Luz cosa?, chiede Chela.
È morta. Due anni fa.
Chela resta senza fiato. Si sente l’aria che abbandona il suo corpo, con un suono debole,
mentre lei si porta le nocche alla bocca, le sopracciglia le si uniscono, si morde la mano. Un
istante di emozione trasparente, come un pugno, un pugno vero e che Marina associa
all’abisso di età che c’è tra loro, perché lei non ricorda di aver mai avuto una reazione
simile: un’esalazione di dolore empatico.
Dopo un po’, Isabel si alza e si mette sul divano. Gira una canna e per tutto il tempo gli
occhi le lacrimano in quel modo sconnesso, come se stesse semplicemente piovendo. Dice,
sottovoce e tra sé e sé, mille volte: Porca puttana. Marina la raggiunge sul divano e fumano
in silenzio, ognuna rannicchiata da una parte, separate da un piccolo lago di plastica gialla e
da un posacenere con la scritta La Taza de Mostaza. Nessuna delle due tocca il pavimento
con i piedi: Marina si abbraccia le ginocchia e Isabel ha le gambe incrociate, qualcosa di non
molto diverso dall’otto che Chihuahua forma quando arrotola i cavi. Alla radio, Nina Simone
scioglie le parole daddy, sugar, bowl.
Mi manca, pensa di colpo Marina. Ma quanto sono messa male? Suo padre le manca
come si può sentire la mancanza della luce di una casa nella quale non si vive più,
un’assenza sottile ma costante: un arto fantasma, il suo malumore. O non il malumore in sé,
ma la tensione che sembrava seminare nell’aria. E anche un’altra cosa: il successivo
sollievo. Quell’esaurimento in cui la famiglia precipitava dopo che lui se n’era andato
sbattendo la porta, come un postcoito della violenza: un silenzio così passivo da risultare
pacifico.
Chela fa una risatina smoccicosa. Una volta, dice, e segnala con il mento verso la parete
dov’è appeso il ritratto della dottoressa Vargas, Beto è andato a svegliare Noelia nel bel
mezzo della notte perché io stavo malissimo. Lei è venuta a casa in vestaglia, mi ha visitata
e mi ha detto che soffrivo di meteorismo. Mi ha detto così: Non ti preoccupare, Chelita,
questo in medicina si chiama meteorismo, e passa in un attimo. Mi ha dato del Pepto Bismol
o qualcosa del genere, e mi ha rispedita a letto. Il giorno dopo però sono andata all’ospedale
ed è venuto fuori che avevo la peritonite.
Una volta, dice Marina, mio papà ha fatto uno spettacolo di bolle di sapone solo per me.
Qualcuno aveva affittato il ristorante per una festa di compleanno, e lei era in cucina
quando un pagliaccio era entrato a chiedere un vassoio e dell’acqua. Fino a quel momento,
non le era pesato essere l’unica bambina in quella cucina. Anzi, le piaceva, la faceva sentire
superiore ai bambini che non lavoravano mai. Ma la sera del pagliaccio c’era rimasta male,
spiega, perché suo papà non li aveva lasciati uscire, e lei e suo fratello avevano dovuto
guardare lo spettacolo attraverso la finestra rotonda delle porte a ventola della cucina. Lei
era in piedi su un secchio rivoltato, e doveva spostarsi ogni volta che un cameriere entrava
o usciva. Però quella stessa sera, più tardi, tra i palloncini rimasti dalla festa e le sedie
rovesciate sopra i tavoli, suo papà aveva riprodotto lo spettacolo in un’umile
rappresentazione privata. L’aveva fatta sedere sul tavolo centrale, le aveva servito Coca-
Cola in un bicchiere di vino e mezza cheesecake alle fragole, ancora nel vassoietto di
cartoncino dorato. Mentre il pagliaccio aveva usato un aggeggio fatto di due bastoncini e
una corda per fare delle bolle giganti, suo papà aveva riempito un piatto fondo con acqua
tiepida e sapone per i piatti. Si bagnava la mano con il miscuglio e poi faceva scivolare la
punta del pollice lungo l’indice, formando, quando univa le punte delle dita, un velo sottile.
Faceva un tiro dalla sigaretta ed esalava fumo verso il velo di acqua e sapone che aveva tra
le dita, che si gonfiava in una bolla tonda. Lei – cos’avrà avuto, sette, otto anni? – voleva che
le bolle durassero di più. È la cosa che ricorda meglio: duravano pochissimo, meno delle
bolle di sapone normali, perché non riuscivano proprio a fluttuare a mezz’aria. Lei chiedeva
a suo papà di non farle con il fumo, ma lui le voleva così. Era uno dei trucchi del pagliaccio.
Le bolle erano di un grigio verdognolo, e quando scoppiavano nell’aria restava una sfera di
fumo, solo un istante, e poi svaniva. Allora Marina non aveva la mentalità del fumatore e
non aveva potuto apprezzare quello che ora dice a Isabel: Che bell’idea quella del
pagliaccio, no?, per giustificare che fumasse nel bel mezzo di una festa per bambini. E poi,
senza soluzione di continuità, dice: Se solo mio padre se ne fosse andato di casa.
Non puoi essere seria.
Sì. Era un papà da ricordare, non da avere; è ancora così.
Che cosa stai cercando di dirmi?
Niente.
Marina vuole parlare delle scarpe. Delle scarpe da strega, di un velluto cangiante, un po’
indaco un po’ turchese, a seconda della luce. Dove hai trovato quelle scarpe?
Ma Chela la ignora. Incrocia le braccia stringendosi una mano sotto ogni ascella, si
inclina in avanti e chiede, molto attenta, come farebbe l’analista di Marina: Tu credi che
dovrei tornare domani a trovare Pina? Per lei, voglio dire, credi le farebbe bene se tornassi?
Ma l’analista non fa mai domande così difficili. Ora, di colpo, Marina preferirebbe la
prima persona. Essere lei l’argomento di conversazione, non avere tra le mani i fili che
legano altre figlie ai loro genitori. Essere piccola e che le chiedano del suo futuro. O essere
grande e che le chiedano, cosa che detesta, come se fosse ormai troppo tardi: Quando eri
piccola, cosa volevi fare da grande?
Marina sbatte le palpebre per sembrare confusa; vuole fare come Chela e ignorare la
domanda, passare ad altro. Non stavano parlando di lei? Sì, di lei e di suo papà, o di Luz, ma
non di Isabel, senz’altro non di Pina. Eppure un po’ la lusinga che Isabel le chieda la sua
opinione. Ma – lo scopre alla fine e non senza sorpresa – la fa anche arrabbiare.
La fa arrabbiare. Davvero incazzare. La fanno andare fuori di testa, questi cazzo di
genitori irresponsabili e sente i carboidrati che le pulsano nelle gambe: la rabbia e l’energia.
Le crêpes fermentano con la bile, e le vere intenzioni dietro i dolci le sono finalmente
chiare: il conforto a posteriori: quella maledetta mania dei genitori che alleviano le colpe
con lo zucchero. Che sistemano ogni cosa facendo figli. La procreazione come palliativo. Lei
stessa ci ha pensato, ovvio: smettere di prendere la pillola per vedere se così alla fine
Chihuahua accetterebbe di vivere con lei, di dividersi le spese: far parte della stessa
squadra, dice lei. Come se fosse una partita!, dice lui. L’ultima volta che hanno litigato,
Marina gli ha chiesto di «contenerla». Più tardi, da sola, ha capito qual era il collegamento:
vuole che qualcosa la contenga e per questo gioca con l’idea di trasformarsi in un
contenitore, fabbricarsi una soluzione vivente nella pancia, qualcosa che li rinnovi, che li
distragga. (Il gioco è: Matriosche.) E poi? Se non funziona, te ne vai a Mazunte. Marina
scarta di nuovo l’idea. Vuole correre a prendere la pillola, in caso Chihuahua chiamasse, ma
Chela è ancora ferma davanti a lei, che aspetta attenta, come un cagnolino. Marina vede il
puledro arrivare, prende la rincorsa e gli salta in groppa: Vuoi la verità? Le trema la base
della nuca.
Chela dice di sì, sorridendo come per darle fiducia. Ha delle rughe sulle guance che
Marina non era riuscita a distinguere fino a quel momento, due semicerchi che non la
rendono più brutta, ma semplicemente sono lì a testimoniare che la vita non va mai come
uno la pianifica, cosa che Marina riconosce e nega allo stesso tempo.
La verità è che non credo che le farebbe bene, dice Marina. Sa che sta sbagliando tutto,
ma sbagliare la fa sentire bene, si mette perfino a gesticolare come il suo analista quando le
spiega le cose. Dice: Per lei dev’esser stata dura, come un lutto, e se ne è ormai fuori, se è
già passata attraverso tutte le fasi del dolore, non farai altro che arrivare e sfilarle il tappeto
da sotto i piedi. Credo che alcuni danni siano irreversibili.
Isabel continua a fare sì con la testa, molto lentamente, come se stesse assorbendo una
saggezza che Marina – in quel minuto, almeno – crede davvero di possedere. Nell’istante
prima di riprendere il suo monologo, Marina si chiede che cosa penserà Linda di tutto
questo: riuscirà a capire che sta facendo un favore a Pina, perché Chela è una mamma da
ricordare, non da avere? O non sarà d’accordo con il repentino progetto di Marina?
Entrambe le opzioni la attraggono. Che Linda Walker la ammiri, che Linda Walker la
disapprovi. Ma ormai è tardi per tirarsi indietro: Marina sente un piccolo vortice che le
arriva fino allo sterno, le si scatena la parlantina, definisce ogni singola fase del lutto,
pontifica brevemente sul complesso di Edipo, scusa, di Elettra, nei bambini di famiglie
monogenitoriali, improvvisa assurdi riferimenti artistici: la Pietà, ma al contrario, dice. E
per tutto il tempo una parte di lei dice Fatti-i-fatti-tuoi-cara, e l’altra parte fa il dito medio al
suo fratello interiore e la guida nella sua goffa vendetta (per tutte le figlie rovinate dai
genitori!) mentre prende le mani di Chela e le dice: Non le rovinare la vita ulteriormente,
Isabel.
Ed è così che Isabel, molto lentamente, smette di muovere la testa, districa le gambe e si
piega in due come una sedia pieghevole mentre si allaccia le sue scarpe da strega, così
lentamente che Marina non capisce se se ne sta andando o ha solo freddo, ma poi si alza, va
verso la porta, ed è quando Marina capisce che sì, le sta dando retta, se ne sta andando dal
comprensorio senza aver suonato il campanello a sua figlia che non vede da tre anni, allora
Marina si rende conto del prezzo di quel puledro invisibile, sa di aver pronunciato le sue
parole finali: maligne e compiaciute. E ancor prima che Isabel apra la porta, Marina già
sente il peso del rimorso, o forse si sente abbandonata, le cose si tingono di domenica: la
fine di un appuntamento per gioco (il gioco è: Cenetta tra amiche). Marina fa uno sforzo
estetico, allora, per concentrarsi, per godersi e registrare quegli ultimi istanti felini in cui la
donna bella ma stupida si allaccia al collo una sciarpa insignificante: sembra una vipera
d’acqua dolce. Chela poi prende la giacca e se la mette, un giubbotto di un’altra epoca, e
apre la porta, afferra la busta di plastica bagnata, se la mette in testa come una mantella, un
cappuccio, una specie di travestimento; se ne sta già andando e Marina non le ha detto, non
le dirà mai che il suo secondo nome è Dulce. Ma prima di chiudersi la porta alle spalle, come
se lo sapesse già e da dentro la parentesi che la sua bocca forma quando sorride, Isabel,
generosa, le promette: Tu andrai in paradiso, dolce Marina.
2002

Le reborn dolls o bambole reborn sono fabbricate a mano. Gli artigiani che le producono
sono conosciuti come reborners. Una volta decisa a comprarsi uno di quei bambolotti,
Noelia si è messa a fare un po’ di ricerche e la reborner che alla fine ha scelto, grazie alla
precaria connessione internet degli anni Novanta, viveva a Stratford-upon-Avon: quindi
siamo andati là. Nelle nostre valigie di figli e basta hanno trovato posto, per la prima volta,
dei vestitini taglia 0, tutti di estetica assolutamente folklorica. Noelia li aveva comprati
come regalo per la reborner, ma entrambi sapevamo che in realtà erano per vestire María,
come aveva deciso di chiamare la sua bambola.
Io le ho detto: Noelia, chiamare María una bambola vestita da messicana è come
chiamare un cane Rex o un pub La Taverna o un’osteria La Buona Tavola. Lei mi ha risposto
che María non sarebbe stata un animale domestico né un locale enogastronomico, e non le
piaceva nemmeno che la chiamassi bambola, anche se era proprio quello, e anche se Chris
le aveva detto che era molto importante che non ce ne dimenticassimo mai: era una
bambola. Secondo Noelia però era impossibile che ce lo dimenticassimo, non sarebbe stato
certo necessario ricordarcelo in continuazione, quindi per favore smettiamola di chiamarla
così, che non mi piace, punto. Io stavo per protestare ma lei ha alzato l’indice e mi ha detto,
categoricamente, mentre eravamo già in volo verso Heathrow: Prometti che non la
chiamerai così, almeno non tra di noi. Io ho promesso, ma le ho anche detto che «bebè» mi
metteva molto a disagio. Allora ci siamo messi d’accordo di chiamarla la bambina. Bambina,
allora, mi sembrava più neutrale. No; a essere onesto, mi sembrava più ironico. Mi dava la
speranza (ovviamente falsa, avrebbe commentato mia moglie) che avrei potuto mantenere
una certa distanza dalla cosa in sé. Per me la bambina era una cosa. Poi sono diventate due
cose. E poi, irrimediabilmente, sono diventate le bambine. Ma questo è successo dopo.
Chris era una gringa con cui Noelia aveva iniziato a scambiarsi qualche mail prima di
decidersi ad adottare una reborn. Noelia mi leggeva a voce alta le mail, in cui Chris le
raccontava la sua vita, che era noiosissima. A me la signora stava già abbastanza antipatica
quando ha iniziato a mandare mail anche a me, chiedendomi di essere comprensivo con
mia moglie, e da quel momento l’ho semplicemente detestata. Chris era una collezionista
consumata, per non dire patologica. Aveva più di cinquanta reborn, che teneva in una
casetta a parte, in giardino, e ognuna, oltre a nome e cognome, aveva un futuro inventato e
irremovibile. Questa e questa diventeranno dottoresse come te, ha detto a mia moglie
quando, approfittando di un congresso in terra gringa, si sono conosciute di persona. Da
quel viaggio, mia moglie è tornata per spiegarmi con tanto di disegnini che: a) Chris era una
di quelle psycho killer tutte fru fru, hai presente?, e b) lei si sarebbe comprata una reborn,
mi piacesse o no. Anche Chris faceva la reborner, ma era terribile, e se abbiamo deciso di
andare fino in Inghilterra è stato proprio per non offendere Chris che, secondo Noelia, se
avessimo fatto una richiesta a qualunque altro reborner in tutti gli Stati Uniti lo avrebbe
saputo. Io non ero mai stato in Inghilterra, quindi non ho opposto alcuna resistenza alla
paranoica congiuntura che mi si presentava.
Abbiamo passato tre giorni a Londra per poi guidare, dal lato sbagliato della strada, fino
a Stratford. Guidare è tutto dire, ovvio, perché se io non guido diritto, di sicuro non guido a
rovescio. Io mi occupavo della cartina. Abbiamo lasciato i bagagli in un hotel e poi siamo
andati a conoscere la reborner e a fare il nostro ordine. Volevamo soprattutto assicurarci
che nel suo catalogo figurasse qualche reborn dalla pelle scura, che non finisse per
appiopparci un bambolotto biondo che non c’entrava niente con noi. Noelia, senza dirmi
niente, aveva portato con sé un pacco di nostre foto da bambini, così la reborner (come si
chiamava? Marissa? Melissa? Non so, ma sono sicuro che avesse la doppia s, perché quel
dettaglio mi costringeva a essere sdegnoso) si sarebbe potuta ispirare a noi. Per tutto il
tempo non ho fatto che passare dalla risatina divertita all’assoluto disgusto. Sono stato
piuttosto insopportabile. A un certo punto Noelia mi ha spedito a prendere la macchina e
ha concluso da sola l’ordine per María.
Del piccolo hotel dove abbiamo alloggiato a Stratford mentre aspettavamo la rinascita
di María, ricordo il legno dipinto e un giardinetto sul retro dove, nascosta tra i fiori, c’era
una scultura di pietra di un maiale a grandezza naturale. Ricordo le scale, coperte da un
tappeto persiano; ricordo di essermi chiesto: Come si fa a coprire le scale con un tappeto? È
un tappeto fatto su misura, o è un vecchio tappeto sagomato e poi fissato con dei chiodi? Ma
quello che ricordo più di tutto è la colazione. Ce la servivano in piatti di porcellana, con
coperchi di metallo, tutto molto imperiale, come se non si trattasse di una guesthouse da
quattro stanze. Ogni sera bisognava fare una serie di crocette su una lista, a seconda di
quello che desideravi trovare nel tuo piatto di porcellana il giorno dopo. Io e Noe
segnavamo la stessa cosa ogni sera: salsicce, pomodori al forno e dei fagioli stufati con un
sacco di zucchero aggiunto per i quali abbiamo sviluppato un’ossessione passeggera ma
intensa. Ricordo che quando siamo tornati in Messico ho provato a riprodurli usando fagioli
neri e panela: un fiasco assoluto.
Una mattina, a metà della settimana, Noelia non ce la faceva più dalla curiosità e ha
chiamato la reborner per chiederle il permesso di andare a vedere la María-in-progress. Ci
siamo andati con la macchina che avevamo affittato, ma fu un errore. Vederla nel forno non
era piacevole: era smembrata. Smembrata non è, mi ha ammonito Noelia: è divisa in parti.
Lei, che non faceva mai quella politicamente corretta, lo era diventata, proprio lì dove
nessuno ci capiva. Perché Melissa, o Marissa, parlava un inglese incomprensibile. Però era
una donna molto sorridente e molto robusta, rideva di tutto con tanto impegno che la sua
risata era contagiosa e, visto che non capivamo nulla, contagiava perfino me, che non ero
proprio in vena. Sono rimasto di pessimo umore per tutto il viaggio, a ondate; stavo
mettendo costantemente in discussione la sanità mentale di mia moglie e, alla fin fine, la
mia, perché, come ho già spiegato infinite volte a Nina Simone: eravamo due persone ma
allo stesso tempo una persona sola. Eravamo un compendio. Una compilation. Uno
scompartimento inequivoco di unità. Una cosa del genere.
Che non capivamo cosa dicesse la reborner è più o meno vero. Per esempio: breather lo
pronunciava brida, e ha dovuto scriverlo per farci capire di cosa diamine stava parlando. Il
brida, come l’abbiamo chiamato da quel momento in poi, è un meccanismo semplice,
installato dentro il petto della bambina e che, una volta attivato, fa sì che il petto si alzi e si
abbassi ritmicamente. Ovvero sembra che respiri. Funziona con le pile. All’inizio dicevamo
che non ne avevamo bisogno ma, più tardi, ormai soli e seduti di fronte a un camino, Noelia
ha iniziato a pensare che fosse una buona idea, perché no? Se stavamo già spendendo un
sacco di soldi in questa bambola, perché non avere la versione più super mega ultra
possibile? L’ho vista così entusiasmata che io stesso ho chiamato la reborner dal telefono
del pub dove eravamo e, con il coraggio che solo il whisky ti può dare, le ho detto che
volevamo anche il brida: volevamo che la bambina «respirasse». Solo che per telefono non
c’è modo di mettere le cose tra virgolette e forse è stato proprio in quel momento che ha
iniziato a sbiadirmisi l’ironia.
Non siamo tornati da Marissa Melissa fino al giorno dell’adozione. Nel frattempo,
abbiamo visto giardini, castelli, molti prati molto verdi e due opere di Shakespeare. Si
definisce adozione, nel mondo delle reborn, il momento in cui uno si trova per la prima
volta faccia a faccia con il suo nuovo bebè. Quel primo incontro tra genitori e figlio, non è
piuttosto il momento della nascita?, perché si chiama rinascita? Per quanto ne so, l’idea è
che la bambola nasce al momento dell’assemblaggio, in cui i genitori adottivi non sono
presenti, c’è solo il creatore, il reborner: Melissa. O Marissa. E poi rinasce (rinasce sotto
forma di bebè, questa è l’idea, come quando Pinocchio diventa un bambino) al momento
dell’adozione.
Al momento della nascita di María, io e Noelia eravamo nel pub del paese a consumare,
una dopo l’altra, delle birre così dense che sembravano avere dell’umami, e a ridere di noi
stessi fino alle lacrime. Ma il giorno dell’adozione ci siamo fatti seri. Io avevo quella
sensazione di liberazione che si prova solo stando a migliaia di chilometri da casa, e ho
deciso che sarei stato comprensivo e avrei cercato di godermela, non fosse che per vedere
Noelia contenta. Melissa Marissa ci ha presentato María in una scatola con il coperchio
trasparente.
Non ci sono musei e opere di Shakespeare che tengano, niente ti prepara davvero per
l’iperrealismo. Per questo ci sono persone che lo odiano e non lo considerano arte: è una
corrente superba, che mette costantemente alla prova la sanità mentale e sensoriale.
Potevamo chiamarla bambina o come ci pareva, ma María sembrava una neonata come io
oggi sembro un vecchio malandato. Abbiamo aperto la scatola tra sospiri di ammirazione,
stappato una bottiglia di spumante tiepido che avevamo portato per la reborner, e preso in
braccio María a turno. Abbiamo imparato a vestirla, lavarla e cambiarle le pile.
Quando siamo tornati in albergo con la bambina, in camera abbiamo aperto il
passeggino che le avevamo comprato a Londra qualche giorno prima, e ci rendemmo conto
che semplicemente non c’era abbastanza spazio, quindi abbiamo provato a chiedere una
stanza più grande. Non ho mai scoperto cosa successe esattamente, ma è stato subito chiaro
che María non piaceva molto ai proprietari dell’hotel, perché ci hanno cacciati senza un
briciolo della presunta cortesia inglese. Non sapevamo bene cosa fare, quindi siamo tornati
a casa di Melissa Marissa per chiederle di raccomandarci un altro hotel nelle vicinanze. Ma
lei, che prima è scoppiata a ridere e poi ha pianto un po’, quando ha visto María, che
credeva di aver congedato per sempre, ci convinse a dormire da lei.
È stata la notte più spaventosa della mia vita. Ci ha gonfiato un materasso sul pavimento
del suo studio. Il materasso e le lenzuola erano comodi, ma dovunque ti girassi c’erano
parti di bambole. Molte, molte parti. La cosa più terribile sono gli arti e le teste, perché il
torso e il pube dei reborn sono di un materiale più gradevole, che assomiglia più a un
cuscinetto o a una bambola di pezza e non fa così paura. C’erano braccia e gambe di un
acetato ancora vergine, senza i molteplici strati di pittura che poi gli applicano, e altre già
dipinte, in tonalità complesse, e non so cos’era peggio: se quelli bianchi o quelli che
sembravano avere la pelle. Per non parlare delle bambole costruite per metà, che ancora
non erano finite ma che avevano già un aspetto umano. Per riuscire a dormire senza
sentirmi osservato ho dovuto coprire con una maglietta, con estrema attenzione, un
comodino sul quale Marissa Melissa aveva disposto tre teste finite, nelle quali stava
inserendo, poro per poro, finissimi capelli da neonato.
Noelia e Marissa Melissa sono state a prendere tè e pasticcini e a giocare con le bambole
fino a notte alta. Io non so quanto avranno bevuto ma quando mi sono svegliato: a) in casa
c’erano vari reborn vestiti come perfetti messicani e b) Noelia aveva comprato una seconda
bambina. Avevo troppa voglia di andarmene da lì per mettermi a discutere, e i soldi erano
tutti suoi, quindi non ho detto una parola.
Era una bambina che, mi hanno spiegato con molta delicatezza, qualcuno aveva
adottato e poi restituito! Come un paio di scarpe! Noelia l’ha chiamata Clara, almeno
all’inizio, perché era bionda e pallida. Vicino agli occhi le si vedevano le vene e, insomma,
era inquietante quanto María. Potevi smettere di respirare aspettandoti che lo facessero
loro. Ma Clara non aveva il brida, quindi hai voglia a aspettare.
Abbiamo sistemato le bambole nelle loro scatole, chiuso il passeggino e guidato fino
all’aeroporto. Per strada abbiamo ascoltato il disco che avevamo sentito per tutto il viaggio,
perché qualcuno l’aveva dimenticato dentro la macchina in affitto. A Noelia piaceva tanto,
anche se era supersdolcinato, o forse semplicemente voleva che le bambine avessero un
legame con il loro passato; il fatto è che ha decretato che non si sarebbero chiamate María e
Clara, ma Kenny e G. Le ho chiesto se si rendeva conto che Kenny era un nome da uomo e
lei si è messa a ridere. Sul serio, le ho detto, e quando ci siamo fermati a far benzina le ho
fatto vedere la copertina del cd. Noelia, che in vacanza non si metteva gli occhiali, aveva
deciso che si trattava di una sassofonista donna, perché aveva i capelli lunghi. Se l’è
avvicinato agli occhi e dopo averci pensato tre secondi ha detto: Non importa, i nomi
saranno quelli. All’aeroporto, abbiamo tirato a sorte per vedere chi era chi. Kenny è Clara,
quella che non respira. G, che si pronuncia Gii, è quella che ha il brida: le cambio le pile ogni
tre settimane ma adesso, da quando Agatha Christie mi ha detto che contribuisco troppo
all’inquinamento del pianeta, uso le pile ricaricabili. Nel tempo che ci mette la lucetta del
caricatore a passare da giallo a verde, G non respira. Ma io la sistemo bella vicina a Kenny,
che è capace a vivere senza respirare, così le insegna. Non che qualcuno ci crederà mai, ma
sono due brave sorelle.

***

Noelia, come tutti i dottori che conosco, non andava dal dottore. È una fissazione tipica
degli specialisti, che credono che l’infarinatura di medicina generale che hanno avuto
trent’anni prima li salverà da tutti i mali. Noelia si autovisitava, si autofirmava le ricette, si
automedicava e, tra una cosa e l’altra, autotutto anche a me. Ha sbagliato spesso diagnosi, la
sua e la mia. La sua molto peggio, ma anche nel mio caso almeno una volta è stato molto
spiacevole. Dev’esser stato l’87 o giù di lì, mi ricordo che eravamo nel pieno della
costruzione del comprensorio e che ancora non c’erano le bambine. Ho iniziato a sentirmi
malissimo un venerdì e Noelia mi ha tenuto fino al lunedì successivo a paracetamolo e tè
caldo, finché il martedì mi sono svegliato con gli occhi gialli. Avevo un’epatite marca
demonio, dalla quale mi sono salvato solo perché siamo corsi all’istante in ospedale dove
mi hanno iniettato ogni genere di cose. Lei stessa ha aspettato troppo prima di farsi
controllare per i dolori che aveva, che io interpretavo come una chiara e semplice protesta
del suo corpo per la sua incurabile dipendenza da lavoro. Quando alla fine si è fatta degli
esami, il cancro era troppo esteso. E io mi sento in colpa da morire. Credo fosse mio dovere
convincerla a fare altre analisi, altri controlli, a non rimandare così a lungo.
È stata lei a voler fare la chemioterapia. Non perché credesse che avrebbe funzionato,
ma per non starsene con le mani in mano. E poi, per fortuna, ha anche accettato di prendere
dosi altissime di antidepressivi che l’hanno fatta vivere più o meno tranquilla fino agli
ultimi mesi. Li prescriveva anche a me; e io li prendo ancora. Quando stanno per finire mi
fabbrico da solo una ricetta che stampo su uno dei molti blocchetti che ha lasciato nel suo
studio con i suoi dati. E imito la sua firma, cosa che ho imparato a fare molto bene da
quando ci siamo sposati, quando io ancora non ero ricercatore né ricevevo le quote
dell’affitto, e bisognava pagare la spesa con la sua carta.
Ultimamente mi prendo due dosi di antidepressivo ogni sera, perché li prendo io per
tutti e due.

***

Come tutte le figlie e basta, Noelia portava avanti una relazione incomprensibile con sua
madre. Aveva l’impulso di chiamarla, di ricorrere a lei alla minima complicazione, ma
quando erano vicine, bastava il tono della voce di sua mamma, o il ritmo della sua
respirazione, o il volume della sua masticazione a esasperarla. Non ricordo una sola cena in
cui non si siano date addosso l’una con l’altra. Solo in rari momenti di lucidità, di solito
preceduti da una miscela di alcol e senso di colpa per qualche reazione poco delicata nei
suoi confronti, Noelia riconosceva che le cose che detestava di più di sua madre erano
proprio i comportamenti che si trovava a riprodurre senza rendersene conto. Come, per
esempio, comprare compulsivamente scarpe a poco prezzo che le facevano venire le bolle.
L’unica volta che mi è venuto in mente di farle notare che erano identiche, mia moglie
mi ha risposto: Sei proprio uno scalino, Alfonso Semitiel.

***

A me non piaceva la storia dell’epatite, non mi piaceva che Noelia la raccontasse in


pubblico. Mi infastidiva: ci sentivo una dimostrazione della mia mancanza di virilità, della
mia malleabilità, la prova di come lei mi aveva modellato a suo gusto e io gliel’avevo
permesso, a testa bassa e anzi dandole una mano. Non volevo, non voglio negare la mia
condizione di marito succube, che ho sempre accettato pubblicamente e a testa alta.
Credevo però che i dettagli di quei sacrifici dovessero restare privati. La storia dell’epatite
mi sembrava particolarmente intima e vivevo come un affronto sentirgliela raccontare
dopo una cena tra amici, quasi come se Noelia avesse raccontato che quando ci siamo
conosciuti io non dormivo a cucchiaio e dopo averla incontrata non avevo più potuto farne
a meno. Mi aveva convertito alla religione dell’abbraccio, delle commediole americane,
perfino a quella del pesce congelato anche se lo so che segnerà la fine del lago Vittoria; mi
convinceva perfino ad andare a vedere un balletto di tanto in tanto. Per dormire, ora, devo
mettermi due cuscini dietro la schiena, ma i cuscini non mi abbracciano né mi scaldano
quando torno dopo essere andato in bagno. Prima di dormire canto la ninnananna a Kenny
e a G, e le vesto come faceva Noelia da quando le abbiamo portate in Messico.
Di questo, del nostro legame con le bambine, Noelia non ha mai parlato a nessuna cena.
E io credevo di essergliene grato, ma ora mi dispiace. O no, non è che mi dispiace.
Semplicemente ora sono cambiato. Prima, se Noelia portava fuori le bambine a fare un giro
io mi innervosivo, e facevo acrobazie di ogni tipo per evitare che gli inquilini ci vedessero in
giro con il passeggino. Ora non me ne importa niente, non me ne frega nulla di essere il
vecchio pazzo del quartiere. Mesi fa ho iniziato a uscire con loro per il comprensorio, a
spiegare un po’ che sì, sono bambole, ma sono bambine speciali. Le ragazze le adorano. Di
pomeriggio le metto sul passeggino, le porto a fare un giro e fischietto. Non oso ancora
uscire dal comprensorio e portarle in strada, ma sto iniziando a contemplare l’idea.
Ma se saresti bellissimo! Un nonno sexy.
Che bugia generosa, amore, grazie.
Esci con loro, ti farà bene.
Ci proverò.

***

Di colpo la vita gli si fa stretta, diceva Noelia delle sue amiche con figli, ovvero tutte. Perché,
d’altra parte, Noelia disprezzava quasi tutte le figlie e basta che conosceva. Bah, donne in
carriera!, le chiamava con disdegno, dall’apice della propria contraddizione. Se c’è qualcuno
che ha dedicato l’intera vita alla sua carriera, quella sei tu, le facevo notare. E lei mi diceva:
per me la cardiologia non è una carriera, Alfonso. Ah, no?, e allora cos’è? Una vocazione,
diceva. E poi scoppiava a ridere.
Le sue amiche le assicuravano che, al contrario, la vita con i figli si faceva enorme,
grandiosa, si moltiplicava, vivevi per due, per tre, per sei, e non si trattava certo di smettere
di andare a teatro, che in ogni caso veder crescere il tuo stesso figlio è lo spettacolo
migliore di tutti, imparagonabile! Quanto ego in quell’affermazione!, mi diceva Noelia, ma si
smentiva subito da sola: Perdonami... è tipico di una figlia vecchia confondere l’amore
materno con una volontà di protagonismo. Ma Noelia non le capiva del tutto, le madri, non
ne era in grado, come io non ero in grado di capire la sua relazione con le bambine. Mi
rendeva nervoso ogni volta che mi invitava a entrare nella loro cameretta rosa. Sbagliavo
tutto, si notava che ero un intruso, come uno di quelli che vanno in Arabia e si camuffano
per riuscire a entrare nelle moschee.
La nostra vita non è stata grande né piccola, non so di che misura fosse, almeno una via
di mezzo. E le bambine ci hanno aperto uno spazio che prima non avevamo. La loro camera
è piena di cose pacchianissime che io normalmente detesterei, ma devo ammettere che
ultimamente mi sento bene lì dentro, tra pizzi e fiocchi. Mi sento quasi compreso, in
qualche modo. O visto. Noelia Vergas Vargas ha saputo vedermi in questa vita. E ora non so
quali parti di quello che consideravo essere il mio io normale esistevano solo in virtù del
suo sguardo.

***

Con il cancro di Noelia ho smesso di vedere le bambole come semplici bambole, e ho


iniziato a vedere le bambine. Ci ho messo un po’. Per anni ho appoggiato Noelia in ogni suo
capriccio, ma ho sempre mantenuto tra me e me una certa distanza: una sorta di ironia
protettiva. Quando Noe ha voluto sistemare per loro la stanza del piano di sopra, ho
accettato. Quando ha voluto tappezzarla con una carta da parati di importazione, a righe
spesse rosa pallido e color osso, ho accettato, mi sono detto perché mai avrei dovuto
oppormi visto che era lei a pagare tutto quanto. Quando ha comprato i seggiolini per la
macchina e ha iniziato a portare in giro le bambine, mi sono detto che quello che non ti
uccide ti rende più forte. E, se ci ripenso, il tira e molla emotivo scatenato dalle bambine è
stato come un’iniezione di giovinezza in una coppia in cui tutto ormai si dava per scontato.
A volte mi facevano vergognare di Noe, a volte ne ero orgoglioso. A tratti mi sembrava
divertente quel suo giocattolino e altre volte mi spezzava il cuore vederla portare in giro
per tutta la casa un bebè che non era un bebè. E che non era mio.
Un giorno, un poliziotto ci ha rotto il vetro della macchina perché Noelia era scesa per
andare in banca lasciando le bambine sul seggiolino. Il poliziotto credeva di commettere un
atto di puro eroismo. Poi, Noelia deve avergli dato una bella mancia per fargli passare la
vergogna vendicativa che gli ha preso quando ha constatato di aver «salvato» due esseri
inerti. Tutto questo, io l’ho sempre interpretato come un’altra piccola eccentricità della mia
meravigliosa Noelia, un’ulteriore fase ormonale, un ulteriore sintomo, a sentire lei, del suo
mal di utero. Perché, ovviamente, la dottoressa Vargas Vargas aveva inventato una
patologia, mezza in italiano mezza in latino, per spiegare quello che succedeva alle figlie e
basta quando vedevano le mamme con i loro bambini: uterus mancanza.
Tutto mi sembrava quantomeno curioso, ma mai grave. Quando la gente ci guardava
strano io mi mettevo sulla difensiva, un po’ animalesco, praticamente pronto a saltare al
collo delle persone normali. Era un po’ strana questa storia delle bambole? Certo. Ma non
faceva male a nessuno e faceva stare bene lei. Come la vedevo io dal mio posto privilegiato
nel primo palchetto: che Noelia avesse sviluppato la sua uterus mancanza così tardi nella
vita, forse era un peccato. Ma era arrivata e la faceva stare male, e trovare dei modi per
lenire quel malessere non era forse il contrario di una stranezza? Non era forse un accenno
di quel suo lato materno che non ha potuto esplorare del tutto? Perché significava
prendersi cura di sé. Prendere il controllo: individuare cosa faceva male e cercare il miglior
palliativo possibile, per inerte che fosse. Questo non significa forse rendersi responsabili
per qualcuno, passare dall’altro lato della condizione umana, il lato maturo, il lato
apparentemente irraggiungibile per i figli e basta? Eppure, se la elogiavo con queste
argomentazioni, Noelia mi rispondeva: Ah, i medici, curano sempre e solo i sintomi!

***

C’è una novità: oggi ho portato le bambine a La Taza de Mostaza. È stato un successone.
All’inizio non mi volevano far entrare con le mie «nipoti». Gli ho spiegato che erano
bambole e non mi credevano. È perfino uscita la cuoca a verificare che non si trattasse di
bebè in carne e ossa. Quando mi hanno creduto, si sono subito scocciati perché pensavano
che stessi provando a vendergliele. Ho dovuto fare ricorso al ricatto emotivo sfoderando la
carta della mia estrema fedeltà al locale. Alla fine mi hanno lasciato entrare, tra prese in
giro e scuse. Appena mi sono seduto al mio solito tavolino, mi è scesa tutta l’adrenalina. Mi
facevano male le ossa. Mi sono innervosito e sono diventato tutto rosso. Ho bevuto troppo
velocemente, e a ogni sorso mi appariva più chiaro quello che avevano capito gli altri dal
momento in cui ho aperto la porta con il mio passeggino: che sono un vecchio ridicolo.
Ma poi è arrivata Linda e, come se fosse la cosa più normale del mondo, lei ha preso in
braccio una bambina e io l’altra. Le abbiamo tenute in grembo mentre chiacchieravamo. E
allora un’allegria nuova, oserei dire trionfante, si è impossessata di me. È un mio diritto,
volevo dire. È un mio diritto di vecchio vedovo avere qualcosa da amare. Qualcosa che non
sia qualcuno. Qualcosa che non possa morire.
Ora però trionfo e allegria sono già passati. Ora sono nel mio studio, con i postumi alle
quattro del pomeriggio. C’è troppo sole, la polvere sui mobili si vede ancora di più. Penso
ossessivamente che: a) è ora di prendere in mano uno straccio e dedicarmi ai lavori
domestici, abbracciare quello stato di semipace che mi assicurano, e b) io non ho scelto
proprio un cazzo.
Io avrei voluto avere figli. Tanti. Tantissimi. O almeno alcuni. Almeno uno. Mezzo. Un
pezzetto.
Non è la prima volta che lo penso, ma è la prima volta che non penso di cancellarlo.

***

L’amaranto, la pianta che mi ha fatto perdere la testa, non sa di niente. Ma proprio di


niente. Altro che disumami. Non c’è dubbio che il potere dell’autoconvinzione sia magnifico.
Com’è possibile che io, che ho sempre creduto di avere un palato finissimo, sia in grado di
riconoscere questa cosa così evidente solo ora? Forse bisogna arrivare alla mia età per far
calare il velo e contemplare le incongruenze delle cose per cui siamo stati ossessionati, i
buchi in cui abbiamo riversato le nostre energie e prendere un po’ le misure: larghezza per
assurdità. Però bisogna riderci su. In questa vita bisogna ridere di tutto.
Questo sì che è il mio uomo!
Noelia, che bello che sei arrivata, mi mancavi. Devo dirti una cosa importante.
Ti ascolto.
Oggi io e le bambine strappiamo le erbacce. Visto che è andato tutto nel verso sbagliato
e l’amaranto non sa di niente e il clima non è favorevole alla papaya, ho deciso di mettere in
cortile la jacuzzi che hai sempre voluto.
Che meraviglia, amore! E che invidia.
Non ci sono jacuzzi nell’aldilà?
No, ma sarai contento di sapere che andiamo in giro tutti nudi.
2001

Anche tu ti trasformi in pesce?, chiedo a Emma mentre mi mette il pigiama.


No, quelli sono i geni del nonno, io non ce li ho.
Per questo hai buttato le sue ceneri nel lago?
Yes.
Ana lo sa?
No, dice Emma, e nemmeno i tuoi fratelli lo sanno, solo tu.
Lascia che le accarezzi la mano nella parte più morbida, e con l’altra si attorciglia i miei
boccoli intorno alle dita, e poi li lascia andare perché le piace vedere come sballonzolano.
Mi spiega tutto in inglese ma la capisco bene. Dice che quando la mamma si trasformava in
pesce durante la settimana, la lasciava stare a casa da scuola. Mamma entra nella stanza: è
andata a mettersi la camicia da notte. È già asciutta, tutta tranne i capelli, che le diventano
di due colori: giallo dove ci sono i nodi, e marrone dove sono lisci. Mamma indica il mio
pigiama. Fungo!, dice. È una maglietta di Theo, di quando in testa aveva solo Mario Bros.
Perché nel tuo giardino non ci sono funghi come questo?, chiedo a Emma.
Amanita muscaria, mi dice: Sono carini ma letali.
E parlano con la voce tutta nasale!, dice mamma.
Non è vero, dice Emma, e si alza dal letto e spinge mamma fuori dalla stanza. Mi
mandano dei baci e io li acchiappo anche se non tutti: alcuni cadono sopra la trapunta.
Prima di chiudere la tenda colorata, Emma mi chiede se voglio la luce accesa.
No.
Che bambina coraggiosa che sei, dice. Spegne la luce e io le sento ridere mentre si
allontanano.
Mi fermo a pensare: Quando?
Mi canto una canzoncina per essere coraggiosa anche adesso. Amanito, dice la mia
canzone: amanita musicaria, amanito mario manitomario, ma non funziona. Forse
diventerò coraggiosa quando resisterò cento lunghi secondi sotto l’acqua con la cannuccia.
O diventerò coraggiosa o diventerò un pesce. Oppure tutte e due le cose: sarò un pesce
coraggioso e andrò fino in fondo al lago, dov’è camuflashato il castello dell’imperatore
Umami.

Non so quando arriva la mamma a letto ma quando apro gli occhi è già giorno e addosso ho
il suo abbraccio appiccicoso. Le parlo ma non mi sente. Cerco di farle il solletico ma
borbotta e mi passa la voglia di svegliarla. Scendo dal letto e il letto scricchiola. Vado in
salotto e c’è Pina che dorme sul divano. Ana non so dov’è. Trovo la nonna in cucina, che
frigge pancetta.
Hey, kiddo, mi dice: Hai dormito bene?
Le dico di sì anche se è un po’ una bugia. La verità è che ho avuto degli incubi che non mi
ricordo più e ho avuto anche caldo e ho riempito di sudore la maglietta con il fungo e ora
che sento l’aria che viene dalla veranda ho freddo.
Dove sono i miei vestiti?, le chiedo.
Devono essere in bagno. Vuoi dei pancake?
Sì.
Posso farteli a forma di qualcosa, che forma vuoi?
Mmm, ci penso un attimo. Voglio chiederle qualcosa di difficile ma non troppo. Le
chiedo un albero con i figli, però i figli sono funghi, va bene?
Un albero con i figli che sono funghi.
Esatto, però non velenosi.
Got it. Pancetta?
Ok, però prima mi vesto, le dico e vado in bagno.
Seduta sul gabinetto mi viene in mente che, forse, se faccio la popò e poi tiro la catena e
corro in giardino, riesco a vedere la mia popò che passa nel sistema di stagni: un filtro dopo
l’altro, passando dalle acque nere a quelle pulite. Resto lì per un po’, cerco di spingere e
farla, ma mi esce solo la pipì, un paio di volte. Ana apre la porta e dice: I tuoi pancake sono
pronti. Le dico che glieli regalo perché non sono ancora vestita. Se ne va tutta contenta. Poi
entra mamma. Si spoglia e si infila nella doccia con l’anello appeso al collo perché quello
non se lo leva mai.
Le chiedo perché è di malumore e mi dice che è per i funghi ammincinogeni,
ammucinogeni, alluminogeni o come si chiamano. Mi fa arrabbiare che se li sia mangiati
senza dirmelo e mi ripete la stessa cosa che aveva detto la nonna: sono per adulti. Le chiedo
se le hanno fatto venire sonno o da ridere e se ha visto delle cose. Dice che ha visto Chela e
che sta bene e che mi saluta, ma mi chiede di non dirlo a Pina. Forse piange, non so, perché
è camuflashata dietro la tenda della doccia. Ultimamente tutti quanti piangono per Chela, o
si arrabbiano, o si mettono la testa tra le mani. Non so cosa c’era scritto su quella lettera;
Ana dice che Pina non lo sa, ma io non ci credo. Però a Pina non ho il coraggio di
chiederglielo.
Che diceva la lettera di Chela?, chiedo alla mamma.
La mamma dice: Che se n’è andata.
Se ne va sempre, le dico.
Sembra che stavolta non tornerà.
Non sapevo che si poteva fare così.
Tu sei la mia Luz, la mia stellina, lo sai?
Le dico di sì, più o meno. Poi mi chiede cosa ci faccio ancora sul gabinetto, stai male? Le
spiego la mia teoria della popò che scende per gli stagni e lei dice che posso fare un
tentativo.
Però la popò non mi viene, le dico, non mi viene niente.
Mi dice di provare di nuovo dopo colazione. Mi pulisco e tiro la catena e mi lavo le mani
in punta di piedi e mentre faccio tutte queste cose, racconto a mamma il mio piano di
diventare un pesce e scendere al centro del lago per andare a trovare l’imperatore Umami e
chiedergli come desiderio di diventare più coraggiosa.
Mamma resta zitta per un po’. Poi si affaccia da dietro la tenda e mi chiede: I capelli me
li sono già lavati?
Credits

Umami
di Laia Jufresa

traduzione: Giulia Zavagna


revisione della traduzione: Carlo Alberto Montalto
impaginazione: Giulia Zavagna
correzione delle bozze: Chiara Gualandrini, Marco Cassini
realizzazione ebook: Giulia Zavagna

SUR

Redazione: Chiara Gualandrini, Dario Matrone, Martina Testa e Giulia Zavagna


Ufficio stampa: Maria Galeano
Art direction: Riccardo Falcinelli
Direzione editoriale: Marco Cassini
Direzione commerciale: Alessandro Bandiera
Amministrazione: Paola Chiarbonello
Scuola del libro: Federica Antonacci, Violetta Colonnelli e Francesca Lenti
Indice

Copertina
Collana
Colophon
Frontespizio
Dedica
Esergo
Nota
Umami
Prima parte
2004
2003
2002
2001
2000
Seconda parte
2004
2003
2002
2001
2000
Terza parte
2004
2003
2002
2001
2000
Quarta parte
2004
2003
2002
2001
Credits

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