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L’estate in cui Berie aveva quindici anni, lei e la sua migliore amica Sils

lavoravano a Storyland, un parco divertimenti nella piccola cià di


Horsehearts. Le loro pause erano fae di sigaree, risate, peegolezzi.
Vivevano a modo loro, insofferenti alle regole, sempre capaci di
spassarsela anche in una minuscola cià di provincia. Anni dopo, a Parigi,
Berie è seduta accanto al marito, ma con la mente si trova lontano.
Ripensa alla sua adolescenza e subito torna nitida l’immagine di Sils.
Insieme all’amica, Berie rivede la propria eccentrica famiglia, la casa
sempre affollata di ospiti, che arrivavano da ogni parte del mondo, il
rimpianto per quella irripetibile stagione della vita.
L’ospedale delle rane è un romanzo sentimentale e poetico, un inno a una
adolescenza selvaggia, estrema, mai davvero perduta.

“Un romanzo bellissimo, irresistibile. Sempre magistralmente in bilico tra


ironia e nostalgia.”
Chicago Tribune
Lorrie Moore è autrice di romanzi e racconti, tra cui Tuo da sola (1985),
Amo la vita (1990), Ballando in America (1998), Oltre le scale (2009). Ha
vinto l’Irish Times International Prize for Literature, l’O. Henry Award, il
PEN/Malamud Award, e il Rea Award for the Short Story. È stata inclusa
nella lista John Updike’s Best American Short Stories of the Century, e
collabora con le fondazioni Guggenheim e Lannan. È stata ammessa
all’American Academy of Arts and Leers. Nata a nord dello Stato di New
York, vive con suo figlio a Madison, dove insegna all’Università del
Wisconsin.
La sua opera è in corso di pubblicazione in una nuova edizione presso La
nave di Teseo.
i Delfini. 48
Della stessa autrice
presso La nave di Teseo

Tuo da sola
Lorrie Moore
L’ospedale delle rane

Traduzione di Massimo Bocchiola

La nave di Teseo
Si ringrazia la EMI Music Publishing per il permesso di pubblicare i brani trai da: And When I
Die di Laura Nyro, copyright © 1966 (copyright rinnovato 1994) by EMI Blackwood Music Inc.
(BMI); Tapestry di Carole King, copyright © 1971 by Colgems- EMI Music Inc. (ASCAP).
International copyright secured. All rights reserved. Per gentile concessione.

Titolo originale: Who Will Run the Frog Hospital?


Copyright © 1994 by Lorrie Moore

© 2018 La nave di Teseo editore, Milano

ISBN 978-88-9344-810-9

Prima edizione 1999


Prima edizione digitale dicembre 2018

est’opera è protea dalla Legge sul dirio d’autore.


È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Per MFB

Vorrei ringraziare la Guggenheim Foundation, l’American


Academy of Arts and Leers, la Brandeis University, la Wisconsin Arts
Board e la University of Wisconsin per il loro aiuto e sostegno.
La mia profonda gratitudine anche a Nancy Mladenoff per il suo
lavoro e consenso.
A Parigi mangiamo cervello tue le sere. A mio marito piace quella sua
consistenza vaporosa da mousse di pesce. Crede che sia una specie di
fruo di mare, serrato nel suo teschio come una creatura bivalve delle
oscure caverne oceaniche, improvvisamente sgusciato alla libertà e
stecchito dalla luce; inviscidito dalla corazza, dalla vulnerabilità fortificata,
da noi di sogni. In quanto a me, mangio alla ricerca di un flashback.
“L’erba del vicino è sempre più verde,” sentenzia Daniel, mio marito,
come se lo avesse concluso mediante le cervelles. “Ricordati dell’animale
che mangi; e lui si ricorderà di te.”
Spero d’incappare in un quid proustiano, in tanta infanzia dimenticata.
Spappolo il cibo contro il palato duro, lo rimesto, in aesa che scai
qualche grilleo mentale, per empatia, o a causa della chimica o di altri
tumulti proteici. La tempesta in un bicchiere d’acqua, il tifone nella trota;
c’è vino, e ne beviamo in quantità.
Sediamo accanto a persone che ci mostrano le foto dei figli che tengono
nel portafoglio. “Sont-ils si mignons!” commento. Mio marito tenta
interventi nel suo patois. “Noi, io e lei, abbiamo niente d’infanti.” Non
parla francese, ma un tempo aveva studiato lo spagnolo e adesso racconta
con triste vigore alla coppia di clienti più vicini che siamo senza figli.
“Però,” aggiunge, rivolgendo un pensiero affeuoso al nostro micio, “a casa
abbiamo un grosso gato.”
“Gâteau vuol dire torta,” gli sussurro. “Gli hai deo che a casa abbiamo
una grossa torta.” Non capisco perché aacchi sempre discorso. Ma lui
persevera, convinto che sia un comportamento garbato e amichevole,
piuosto che irritante e balordo, come invece penso io.
Dopo passiamo sempre dallo stesso chocolatier a rifornirci di praline al
liquore. Ci si sente una bufera imprigionata, una bufera calda soo la
lingua.
“In che aggrandismant saremo, al momento?” chiede mio marito.
“In che aggrandismant?” ripeto io. “Non saprei, ma credo in uno dei
grossi.” Mio marito pronuncia tirez come se fosse spagnolo, père come se
fosse pierre. Lo prendo in giro affeuosamente, fingendo di non avvertire
il molteplice manifestarsi della sua mancanza di amore per me. Ma tiriamo
avanti. Ci tocchiamo le maniche a vicenda. Diciamo “guarda là!”, in aesa
che i nostri occhi si congiungano, che le nostre anime si fondano. Siamo a
Parigi, con il suo marzapane impeccabile, e le luci, e gli sbuffi delle fogne.
Con la mia anca dolorante e i suoi archi caduti (“orchi scaduti” li chiama
Daniel): passeggiamo per i quais, indugiamo su ogni ponte nella bruma
piovigginosa e beviamo con gli occhi questo bel luogo, fantasticando in
segreto di essere sposati con altre persone proprio qui, nella cià sulla
Senna! E a volte no, a volte solo domandandoci, muti o ad alta voce, che
cosa ne sarà del mondo.

Da bambina, in un certo periodo, ho fao degli sforzi sovrumani per


scindere la mia voce. Volevo creare accordi, frantumare la gola in armonie,
renderla fiorita come un campo, cioè come io la vedevo. Sembrava una
cosa impossibile. Sentivo che con la concentrazione e un’energica
emissione d’aria sarei riuscita a popolare me stessa, scatenando la folla
chiusa nella mia scatola vocale, donando luce e libertà a ogni tono e
sfumatura, a tui gli abitanti del mio linguaggio interiore. Il pomeriggio
oltrepassavo da sola il giardino e i cespugli di ribes, passavo accanto
all’erba cipollina coronata di lavanda e agli asparagi slanciati, accanto ai
girasoli prostrati dal passaggio dei cervi o da una gelata fuori stagione,
accanto all’erba del fossato, fino al prato laggiù dietro casa. O seguivo la
strada fino allo spiazzo vuoto vicino alla Naval Reserve, dove in inverno lo
spartineve e il camion dei rifiuti scaricavano la neve, e qualche volta
d’estate i ragazzi giocavano a baseball. Secondo la stagione, abbracciavo
con gli occhi i fiori di campo, il manto di pantano e foglie marce, il
muschio primaverile che verdeggiava sulle rocce, o i cumuli arrotondati di
neve annerita; e dal fondo della laringe lanciavo parte della mia voce verso
l’orizzonte, e parte in alto, dria verso il cielo. Dentro, dovevo avere del
dolore. Volevo urlare, e volare, e andare a pezzi.
Il risultato era un gran tossire, ansare, e una raucedine preoccupante
per una bambina a giudizio della nostra donna di servizio, la signora
LeBlanc. “Ti stai prendendo un raffreddore, Miss Berie Carr?” mi
domandava a volte quando rientravo troppo presto per la cena. “Naaa,”
rispondevo. Era gioviale, ma anche scorbutica e saccente: non volevo che
mi sorvegliasse come una balia. La donna delle pulizie per noi era un
lusso, ma mia madre, anche in una casa affollata come la nostra, spesso
non trovava con chi parlare e le piaceva sedersi in cucina con la signora
LeBlanc, fra una sigarea e un tè. Io la evitavo, ma anche se non la vedevo,
sapevo che era passata di lì: la casa era piena di fumo e ancora in
disordine, a parte le riviste accuratamente accatastate; mia madre
canticchiava; l’assegno sul ripiano era sparito.
Un anno dopo, quando gli accordi cui aspiravo così tenacemente non
erano ancora apparsi, e non riuscivo a produrre altro che un rantolo basso
e ronzante in accompagnamento alla mia nota fondamentale (e dov’era il
coro angelico, dov’era la verve indemoniata?) alla fine la piantai lì.
Cominciai a esprimere desideri davanti alle ragnatele o alle pietre
pentagonali. Desideravo un eterno, affascinante mutismo. Sarei stata la
Muta Misteriosa, l’Enigmatica Fatina. La voce umana non mi interessava
più. La voce umana era troppo banale, e io sentivo che era importante fare
qualcosa di eccentrico. Solo, non sapevo che cosa.
In realtà, in casa nostra nessuna voce è mai stata banale: al contrario.
Anche se per accorgermene mi ci volle praticamente tua la vita, fino
all’estate dei miei quindici anni. Eccentricità, ce n’erano: gli anni del
franco-canadese di mia madre che le sfuggiva solo nelle ninnenanne più
pressanti. O il birignao da nobilastra in cui incappava la sua voce quando
voleva sembrare chic ai suoi temibili suoceri: allora parlava impostato,
cercando una caraerizzazione sociale e geografica. O gli anni del tedesco
universitario di mio padre, sparato sopra il tavolo da pranzo con mia
madre tua ansiosa di impararlo in quel modo, per potere poi, a cena,
parlare con lui di faccende private, senza farsi capire dai figli. “Was ist los,
Schätzchen?” “Ich weiss nicht”, “Cosa succede, tesoro?” “Non lo so.”
A volte avevamo con noi per qualche seimana degli studenti stranieri,
che dormivano nei lei a scomparsa, secondo i casi, nel soggiorno, nello
scantinato o nello sgabuzzino. C’erano insegnanti, provenienti dalla
Tunisia, dall’Argentina o dalla Tanzania, paesi con nomi che mi facevano
pensare a ragazze stupende. C’erano urbanisti sudamericani ed esuli
africani. “Ai miei genitori piaceva scioccare i vicini,” avrei deo anni dopo
nelle occasioni sociali, quando la gente deve parlare della propria infanzia
e nello stesso tempo essere spiritosa.
ando ero giovane, in casa nostra tuo era ammantato di esotismo, i
modi, le convenzioni. La gente era solita arrivare, fermarsi, e infine
ripartire.
Una delle molte conseguenze che ciò ebbe su di me fu la mancanza di
orecchio per le lingue. Una volta, neanche troppo tempo fa, ho creduto per
un mese intero che Sandra Dee non fosse solo un’arice ma anche un
giorno della seimana in francese. Giuro. La consapevolezza che una
lingua straniera fosse per lo più uno streo codice coniugale, interdeo ai
Kinder, tuo cingueii e sibili proibiti, riservati agli ospiti, mi rese ostile e
sordastra, oltre che rancorosa in un modo che all’epoca mi era
inspiegabile: spegnevo la radio. Giocherellavo con il cibo: la polpea
zavorrata di cereali, la minestra québécoise e il sanguinaccio, i bastoncini di
pesce. O al contrario, mangiavo troppo. Mi riempivo la bocca e mi
rimpinzavo lo stomaco, masticando. Fin da piccola, e per un bel pezzo,
quando sentivo una lingua diversa dall’inglese (il nigeriano del signor
Gambari, la signora Carmen-Perez che intonava una canzone spagnola) il
mio cervello come per educazione si blindava. A scuola gli insegnanti di
francese, tedesco, latino mi parlavano, ma non sentivo cosa dicevano. Non
capii mai la causa: saranno state le loro bocche che si muovevano, e i
suoni che avanzavano verso di me, confusa e spaventata.

In seguito, da adulta, qualcuno mi fece ascoltare una registrazione di


monaci asiatici che riuscivano effeivamente a scindere le voci creando un
suono frantumato e corale che era come essere se stessi, ma nello stesso
tempo tanti altri. Era un coro di distruzione, di lamento. Non era
piacevole, ma mi fece ricordare proprio lì, in quello squallido bancheo,
mentre tui sputavano sentenze su Marx, Freud, hockey e Hockney,
liberalsecchioni e radicalflebitici, chissà se Gorbačëv avrà presto la sua
Hollywood Square? dicevo, mi fece ricordare il suono che avrei potuto
emeere se i miei sforzi avessero avuto successo. Mi ricordò che i bambini
pensano sempre troppo in grande; che il mondo li raggira e li tartassa per
proteggerli e tenerli al sicuro.
E adesso al sicuro ci sono proprio – o almeno dovrei. La sicurezza è
dentro di me, mi tiene dria come una colonna vertebrale. Il mio sangue
non tenta vie nuove, semplicemente conosce la strada, indugia, si fa
sonnolento e amabile. Eppure, anche di recente, ci sono volte che, nella
piccola cià dove viviamo, quando lascio solo mio marito per fare una
passeggiata serale, e la luna è lì appesa a testa in giù come un uccello
sgargiante ed esibizionista, come un fantastico errore – e quale vita di
ufficio e impegni noiosi potrebbe permeersi una luna che inonda il cielo
e le strade senza sembrare groesca? – e nei miei itinerari verso gli angoli
silenziosi, gli odori freddi di pacciame, l’ondeggiare improvviso delle cime
degli alberi nel vento, ho ritrovato una selvatichezza antica. Ubriaca, di
ritorno. Non è sessuale, assolutamente no. C’entra più con l’avventura e
l’evasione, come una voglia adolescenziale di fuggire via, e bae in testa
come un desiderio, mi si conficca dentro come una vite, un’ombra che mi
copre tua e tuo il resto sparato all’impazzata, sebbene, infine, da una
parte sia sempre stata immobile, come se ci fosse un’altra vita impossibile
e lei lo sapesse, come un buon cane, un buon cane, un buon cane. È
sempre stata immobile.

*
A quindici anni, d’estate, lavorai in un posto che si chiamava Storyland
insieme alla mia amica Silsby Chaussée, che è la vera protagonista di
questa storia. Storyland era un parco di divertimenti a una quindicina di
chilometri dal nostro paese, Horsehearts, e a quarocento metri dal lago. Il
tema cui si ispirava erano i personaggi dei racconti per bambini, e c’erano
macchinari e modeste messinscene ispirate alle filastrocche oppure a fiabe
come Biancaneve. Hänsel e Gretel. C’erano giostre e scivoli. C’era La
vecchia che viveva in uno scarpone, vale a dire un grosso stivale viola, su
cui ci si poteva arrampicare e poi lasciarsi scivolare sulla linguea di
metallo, fino a un cassone di sabbia.
C’era la favola dei Tre caproni: un ponte a campata in legno di sequoia,
un grosso troll di stucco e tre capre in carne e ossa, cui si potevano
somministrare crocchee di segale prelevate dall’apposito distributore.
C’era la sezione safari nella Giungla Nera, con i suoi ponti di liane e i finti
coccodrilli a mezz’acqua. C’era il villaggio del Vecchio West, con la finta
cià fantasma e gli studenti del luogo vestiti da cowboy. Per concludere,
c’era il viale delle Rimembranze: una passeggiata coperta che andava
dall’uscita al negozio di souvenir, fiancheggiata da lampioni a gas e
manichini tui in ghingheri, con crinoline mangiucchiate dalle tarme e
cappelli a cilindro, precariamente appoggiati a carrozze d’epoca. A volte,
nelle giornate piovose, Sils e io consumavamo lo spuntino nel viale delle
Rimembranze, o su qualche panchina lungo la passeggiata. Ci si notava
subito, tanto eravamo fuori posto: metà clown e metà iconoclaste. Ma la
maggioranza dei turisti ci ignorava. Cantavamo tue le musiche
metallicamente strombeate dagli altoparlanti: di solito erano Aer the
Ball o Beautiful Dreamer, ma qualche volta era semplicemente l’inno di
Storyland:

Storyland, Storyland
malvagità e tristezza non son qua.
No, no, no: anzi, proprio un bel po’
di sogni qui avverare potrai.
Libri e favole qui fanno oplà.
Storyland, Storyland
tua la famiglia devi portar!
(E la nonna non scordar!)

La coda sulla nonna, che si prolungava in una specie di accordo di


seima diminuita, come il leitmotiv ridanciano di un cartone animato –
uà, uà, uà – era immancabilmente accompagnata dalle nostre smorfie.
Seguivamo la musica cantando con le bocche piene di sandwich per poi
spalancarle con esibizione del cibo masticato, nonché con indicibile orrore
al pensiero che le nostre nonne potessero trovarsi lì, nel parco, a far la
coda per un’arazione. (E la nonna non scordar!)
Aaagh!
Sils era bellissima: gli occhi di un color acquamarina scuro punteggiati
con delle macchioline nere, la pelle liscia come una saponea, i lunghi
capelli castani con dei riflessi dorati qua e là come i bagliori del sole sulle
acque di un fiume. Il direore creativo l’aveva assunta per fare
Cenerentola. Indossava un abito da sera di raso senza spalline, e girava in
un grosso autobus a forma di zucca di cartapesta. Le bambinee facevano
la fila per saltar su e fare il giro del parco insieme a lei – era uno degli
itinerari canonici –, dopodiché venivano scaricate vicino a un furgone a
pallini. Fra un giro e l’altro, Sils passava a prendermi per la pausa
sigarea.
Io facevo la cassiera all’ingresso. Da un solo registratore ogni giorno
passavano seimila dollari: i clienti si lamentavano dei prezzi e mentivano
sull’età dei figli, poi preparavano i soldi per il secondo controllo. “Gardez
les billets pour les manèges, s’il vous plaît,” dicevo io. Come uniforme,
portavamo un cappello di paglia, un vestito a strisce bianche e rosse e un
grembiule a balze, sul corpeo un cartellino con il nome: CIAO, SONO
BENOÎTE-MARIE. Nel bordo del grembiule avevo cucito qualche nichelino per
non farlo volare quando c’era vento, ma oltre a questo non è che si potesse
fare granché. Una volta ho visto una ragazza che avevano licenziato l’anno
prima girare per la cià ancora con il grembiule e il vestito d’ordinanza. La
gente diceva che era maa. Ma non era necessariamente vero.
D’estate il posto si riempiva di turisti canadesi, venuti dal ébec. A
Sils piaceva raccontare aneddoti su quella gente, già incontrata quando
faceva la cameriera da HoJo. “Giò vorei delli uovi,” le aveva deo un tizio
una volta, cercando le parole in un vocabolario tascabile.
“E come le vuole?” aveva chiesto lei.
Il tizio aveva nuovamente consultato il vocabolario, cercando una
parola dopo l’altra. “… Giò li vorei… mmm… sul piatò.”
L’idea che anche noi fossimo un po’ franco-canadesi non sembrava
sfiorarci nemmeno. Sur le plat. Cioè frie. Ci scambiavamo sciocche,
zotiche storielle sui turisti, che erano indispensabili all’economia della
zona, ma davano mance microscopiche, ci stavano facilmente, si
lamentavano, fumavano sigarini soili, o ghignavano come maiali, o che
altro, andava bene qualsiasi cosa. Ci avevano insegnato a ridere dei turisti,
come tui gli abitanti delle stazioni di villeggiatura. In inverno, si rideva
dei ciadini che venivano al Nord per sciare sulla Horsehearts’ Garnet
Mountain. Avevano giacche a vento mirabolanti, pantaloni aillatissimi e
sci costosissimi, e facevano solo lo spazzaneve. A ogni caduta strillavano,
poi piangevano quando perdevano gli sci che iniziavano a correre giù dal
pendio. Noi gli sfrecciavamo accanto con i nostri giubboi e pantaloni di
jeans e i vecchi scarponi stringati; sorridevamo maliziosi e canterellando
Janis Joplin ci immergevamo nel silenzio dei boschi, più bravi e intelligenti
per origine – e anche relativamente poveri, pensavamo: in sostanza, una
summa dell’anima aborigena.
ando Sils mi veniva a prendere per la fumatina, chiudevo il
registratore, lasciavo al mio posto una delle strappa-bigliei e me ne
andavo con lei, nel vialeo tra le filastrocche di Hickory Dickory Dock e
Peter Cocomero, dove tiravamo fuori un paccheo di sigaree e ne
fumavamo due a testa, le Sobranie e le Salem che ci facevano sentire
strafighe. alche volta la nostra amica Randi, che faceva il Cucù e doveva
girare per il parco con un bastone dorato, in fuseaux crespi e cappellino
con il nastro giallo (piagnucolando con i bambini: “Dove sono le mie
pecore? Avete visto le mie pecorelle?”) partecipava al breve intervallo.
“Avete mica visto le mie pecore del cazzo?” ci domandava entrando nel
vialeo e tirandosi su i fuseaux, che avevano l’elastico che le faceva
solletico. Dieci anni dopo, quando vendeva cosmetici, Randi si prese un
esaurimento nervoso: smise di venderli ma non di ordinarli, impilava una
scatola sull’altra nello scantinato; invece di piazzarli, usciva, si sbronzava
sul sedile posteriore della macchina e dormiva. Ma qui, adesso, da Cucù
fumatrice, era ancora instancabile, ironica e giovane. “Donne, speravo
proprio di trovarvi.” Inspirava ed espirava velocemente, poi se ne andava,
la gonna ancora tirata su. “Sai, Randi, che hai un culo favoloso,” osservava
Sils verificando con gli occhi.
Dovevamo stare in campana con Herb, il direore del luna park (“Cosa
avranno pensato tui quei pargoli, scoprendo che Cenerentola e il Piccolo
Cucù avevano le dita macchiate di nicotina e l’alito che puzzava di fumo?”
mi ha chiesto una volta mio marito, medico ricercatore; ho scrollato le
spalle. “Altro discorso,” ho borboato. “Tempi diversi. Fumavano tui. I
loro genitori fumavano.”).
“Non avete visto le mie pecorelle? Perché le ho perdute e non so dove
trovarle!”
La voce di Randi si allontanava, e Sils e io cantavamo le nostre canzoni,
quelle che avevamo imparato a scuola nel coro delle fanciulle, delle carole
natalizie medievali, una parte del Requiem tedesco di Brahms, il dueo da
Lakmé, il tema dal Caso omas Crown (come sarebbe stata fiera di noi
Miss Field!) e altre che avevamo sentito quella seimana alla radio o
imparato nei libri di canzoni, tante di Jimmy Webb. A Sils piaceva Didn’t
We, nella versione di Dionne Warwick, e a casa imparava gli accordi alla
chitarra. “Stavolta siamo quasi riuscite a rimare la nostra poesia.”
Cambiava gli accordi nell’aria come una tessitrice, utilizzando il braccio
sinistro al posto del manico. “Yè, yè, yè,” rispondevo. “Eccetera, eccetera.”
Ma cantavo anch’io, riscaldandomi tua per la bellezza della musica.
Facevo la voce di contralto; era sempre quella la mia parte. Rovistando
soo la linea melodica, cercavo di riemergerne con qualche suono basso
ma gradevole, qualcosa di complementare, di decorativo ma profondo.
Poi mi accendevo una sigarea e restavo in silenzio.
“Stamaina c’era una bimbea che continuava a smanacciarmi i
lustrini del vestito, e mi guardava tua gasata, così.” Spalle e mandibola di
Sils crollarono simultaneamente. Il corpeo si spostò un filo, e io mi
sforzai di non guardarle i seni, che mi ammaliavano ogni volta che
venivano alla luce o ricadevano in ombra. Io ero piaa, i miei seni
sembravano due bignè color carne, e dovevo evitare i vestiti con le pinces,
le camicie di nylon e i costumi da bagno scollati. Pur millantando il
contrario, non ero ancora neanche mestruata, e avevo già quindici anni. Le
parole “sviluppata” e “non sviluppata” mi colmavano di un orrore di
pretese inappagate, di appuntamenti persi. “ando ci si sviluppa?”: così
mia madre poteva iniziare una lunga, imbarazzante profezia, o l’infermiera
della scuola venire a spiegarci nell’ora di scienze e io restavo impietrita
sulla sedia, senza muovere un muscolo, cercando di scomparire. Trovavo
mortificante che nessuno, tranne me, acceasse l’idea che non mi sarei
“sviluppata” mai. Cercavo di controllare la delusione: non avevo mai
desiderato diventare un fenomeno da circo, ma per lo meno avere seni che
potessi vedere. Volevo studiarli, incipriarli e profumarli. Ma Madre Natura
mi aveva scavalcata, e ora vedevo la sua immagine negli spot della
margarina, in ghirlanda e veste bianca, che evocava temporali. Ero stata
trascurata da lei.
Così raccontavo lunghe storielle autolesioniste sui miei seni,
aingendo termini di paragone dalle uova frie, dai morsi delle cimici,
dalle punture di vespa, dagli animali, o dalle laine schiacciate da
un’automobile, dalle frielle, dalle gomme da matita, da soocoppe e
puntine: per me le poppe erano ancora una curiosità. Solo pochi anni
prima Sils e io ispezionavamo lungamente tui i reggiseni che ci
capitavano fra le mani, o le pubblicità della lingerie W.T. Grant, o persino
il burro Land O Lakes, ritagliando dalla confezione la ragazza indiana e
piegandole le ginocchia in modo che sembrassero seni sorgenti da una
fessura che le praticavamo in peo. Ridevamo in una maniera estatica e
libidinosa. I seni ci ossessionavano. Ci infilavamo nella camicea
asciugamani, tazze, palline da golf e da tennis, batuffoli di cotone. Una
volta convincemmo sua madre, che era divorziata da anni e faceva la
portiera di noe al Landmark Motel, a mostrarci i suoi. Era una madre
dolce e piena di sensi di colpa, sfinita dai figli maggiori (con le prove
assordanti della loro band nel seminterrato, le fidanzatine di una noe, le
strane, provvisorie e semestrali migrazioni in Canada per evitare la leva,
appendevano spaghei in veranda come “campane a vento”, aaccavano
all’interno del frigorifero le polaroid di ciò che il cane aveva fao con i
rifiuti). Temeva di non avere dedicato, essendo sempre impegnata a far
quadrare il cerchio, sufficiente aenzione alla piccolina, perciò, quando
iniziammo la cantilena: “Mostraci le tee, mostraci le tee!”,
incredibilmente acconsentì. Si sfilò il maglione, sganciò il reggiseno e le
liberò, guardandoci confusa mentre fissavamo quelle forme venate, scure e
stupefacenti.
Ma a questo punto mi sentivo l’unica. Era una fissazione.
Il sole della tarda primavera aveva fao spuntare le lentiggini sulla
parte superiore del peo di Sils e i suoi capelli di seta, sciacquati con sidro
e birra, luccicavano come stagnola dorata. “Continuavo a ripetere: ‘Come
ti chiami, dove vai a scuola?’ – o cretinea – ‘Ti piace la tua maestra?’
Cose che una vera Cenerentola non direbbe mai, ma questa bambina era
come soo un incantesimo,” disse Sils.
“Che non poteva essere infranto.” esto era il genere di bolsa
forbitezza in cui eccellevo, essendo una ragazzea mingherlina, non
sviluppata e brava a scuola.
“E continuava a chiedermi del principe. Non ha due anni. Dovrebbe
arrivarci. Ceci n’est pas une pipe.” Sils aveva imparato a memoria tue le
diapositive del corso di arte contemporanea. “Non c’è nessun principe.”
Fumavo le Sobranie fino al filtro oro-veleno, espirando dal naso come
un drago. “Adesso, dimmi un po’,” le chiedevo. “Tu non sei veramente
Cenerentola?” Da ragazze non eravamo spiritosissime, ma credevamo di
esserlo. Il nostro conceo di bauta spiritosa era chiamare il nostro mento
“la faoria del brufolo felice”. In una ciadina dove tui usavano
espressioni tipo “cribbio!” e “diamine!”, noi dicevamo “cazzo” – ma in
privato, trasgressivamente. Eccheccazzo, pupa. A Sils piaceva dirlo, con
una risatina fumosa e scaltra. Lo dicevo anch’io. Un giorno, alle medie, le
fiorì improvvisamente la fronte, e lei tentò di radersi i foruncoli con il
rasoio. Al momento non fu una cosa divertente, sanguinò per una
seimana ma dopo, quando volevamo ridere, commemoravamo: “Ti
ricordi quella volta che ti eri rasata la fronte? Eccheccazzo, pupa”, da
buarsi per terra dal ridere. Tesaurizzavamo i segreti. Badavamo alle
storie e alle disavventure, scavandole alla ricerca del loro minerale
narcotico. Ci piaceva ridere con violenza, convulsivamente, senza in realtà
emeere alcun suono finché non esplodevamo quasi ragliando in cerca
d’aria.
Stavolta mi mostrò l’indice, mentre con l’altra mano teneva la Sobranie
accesa in equilibrio sul pollice. Ma poi sorrise. Fece spallucce. Canticchiò.
Disse: “Ascolta”, poi soffiò il fumo della sigarea con un ruo. Era la mia
eroina, a mia memoria lo era stata quasi da sempre. Stando con lei da una
pausa sigarea a un pranzo a un’altra pausa sigarea le giornate
monotone scorrevano.
Avevamo incominciato a lavorare a Storyland in maggio nei weekend,
poi nella bagarre del Memorial Day, fino ai primi di giugno quando era
finita la scuola. Da allora, sei giorni alla seimana. Prima, nei giorni di
scuola ci incontravamo per fumare al cimitero. Ogni giorno facevamo
“merenda al cimitero”, come dicevamo noi. Mi incamminavo su per la
collina, lambendo il prato azzurro di veronica e lino, il pesco e l’albero
spezzato, scendendo per il sentiero di ghiaia fino alla passerella
sull’acquitrino e ancora su fino alle tombe; lì mi aspeava Sils, giunta dal
lato opposto, dove abitava in un piccolo viale di querce che terminava
appunto nel cimitero. “È una strada simbolica, o cosa?” chiedeva Sils a
tui quelli che andavano a trovarla. Soprauo ai ragazzi. I ragazzi la
adoravano. Era quella che una volta mio marito ha maliziosamente
definito “oh, probabilmente un vero mito. Giusto? Giusto? Una di quelle
hippoe arrivate fresche fresche da Tangheropoli, no?”. Leggeva la
musica, sapeva qualcosa di piura; aveva i fratelli più grandi in un gruppo
rock. Era la ragazza più desiderata di Horsehearts: non che ci volesse
granché, ma capirete che effeo potesse farle. E sebbene ormai abbia perso
le sue tracce, la sua perdita allora mi sarebbe sembrata inconcepibile.
Tuavia, penso spesso alle idee che aveva dentro e a quelle a cui avrà
dovuto rinunciare; alle canzoni biascicate e ridicole; alla scatola verde
consumata di Horsehearts; al triste, perplesso, sterile mondo.
ella primavera di solito ci incontravamo alla tomba di Estherina
Foster, una bambina morta nel 1932 la cui foto, con ritocchi in giallo e
rosa, era fissata alla lapide. i fumavamo rabbrividendo per l’aria ancora
troppo fredda, passavamo in rassegna le altre tombe, ci scostavamo l’un
l’altra i capelli dal viso. “Sta’ ferma, hai un capello.”
Eravamo soltanto in aesa di lasciare Horsehearts, i nostri amici e
nemici, le nostre asfiiche vite famigliari? Spesso mi viene in mente che al
centro di me stessa ci sia una voce che a un certo punto si è suddivisa, una
casa nel cuore talmente invasa da altre persone con i loro linguaggi, da
amici ai quali mi credevo devota, individui le cui vite oggi posso solo
fantasticare, da darmi l’impressione di non essere, io, che una semplice
collezione di loro, che pur esistendo tui di per sé mi hanno
inavvertitamente formata per poi svanire. Ma del resto, che cosa credevo,
di poter creare me stessa dal niente, da nient’altro che aria, e da sola per
giunta?
Ma chi intendo con “loro”? Forse soltanto Sils. Ero invasa da Sils, che
ora vive nella mia adolescenza sparita, in un luogo dove fare ritorno di
noe, in un sonno pesante dove lei sta lì, in piedi, con le sue lunghe
braccia, in equilibrio sui sassi dell’acquitrino, sassi del cimitero, sassi della
stradea di ghiaia. Come sentivo l’arrivo dei ragazzi. Lo avvertivo subito,
da un semplice indizio. Ghignavano, offendevano, non provavano per me
alcun interesse. Con i pollici nelle fibbie delle cinture. Ossessionati ancora
più di noi dai fluidi e dalle imperfezioni del corpo, raccontavano
barzellee orrende e interminabili, alcune con sguaiati ritornelli tipo
“averlo a portata di mano” o “ficcarlo dentro”. Sparavano alle rane nel
pantano con i fucili ad aria compressa, fulminandole; Sils e io, giovani e
stolte, ci portavamo da casa delle pinzee e cercavamo di salvarle.
Scavavamo nella pelle, estraevamo i piombini e medicavamo le povere
bestiole sanguinanti con la garza. Poche sopravvivevano: di solito le
trovavamo già morte nell’acqua fangosa, circondate di garza tragicamente
allentata, come una bandiera caduta in baaglia.
La seimana che l’assunsero come Cenerentola, Sils dipinse un quadro
che aveva come soggeo ciò che avevamo fao con le rane in quegli anni.
Era dominato da blu cupi e da verdi: sullo sfondo, oltre una macchia
d’alberi, si vedevano due bambine vestite da sante o da infermiere, o da
principesse, e chi erano? Erano Cenerentole. Bisbigliavano. In primo
piano, fra rocce e foglie di ninfee, si accucciavano due rane ferite: una
steccata, l’altra con un occhio bendato. Sembravano ranocchie baciate e
ribaciate rudemente, ma rimaste ranocchie. Lo incorniciò e lo appese nella
sua camera, intitolandolo: Chi dirigerà l’ospedale delle rane?
All’epoca, Sils aveva il ragazzo: si chiamava Mike Suprenante, e veniva
dalla prestigiosa, inaccessibile Albany. Il significato del quadro si era
ampliato, facendosi più piccante e divertente. Voleva dire tuo.
Mike, lo aveva conosciuto a fine marzo, in un bar sul lago chiamato
Casino Club dove eravamo andate a ballare. Avevamo carte d’identità
contraffae, e quello era un bel posto per ballare nei weekend durante
l’anno scolastico. A volte ballavamo fra noi, senza maschi, spavalde, con
un bronceo serrato di intento parodistico. Facevamo un twist di profondo
contenuto satirico. Facevamo lo jierbug. Poi aspeavamo che gli uomini
ci pagassero da bere. La pista da ballo era ampia e sopraelevata; i suonatori
rumorosi, ammiccanti e alla mano; quando era la Serata delle donne, bere
costava poco. alche volta ci capitava di incontrare i tirocinanti che
insegnavano nella nostra scuola, giovani e belli, in giacconi marinari.
alche volta uno di loro chiedeva a Sils di ballare, non riconoscendola,
per poi capire chi era a metà canzone e rivolgerle un “ciao” imbarazzato o
una timida scrollata di spalle; o anche puntarle addosso le dita come una
pistola, o puntarsele alla fronte.
La noe che conobbe Mike, Sils portava una peonia finta fra i capelli,
una lunga tunica senza maniche e dei jeans. Portava tui gli anelli e i
braccialei da una parte, lasciando nudi l’altra mano e l’altro braccio. Io
ballai moltissimo. Ogni volta che un ragazzo veniva verso di noi e le
chiedeva di ballare, Mike (una “persona bellissima e indefinibile”, come
l’avrei descrio in seguito), che già in precedenza si era fao avanti per
presentarsi, si precipitava con nuovi drink e si impadroniva di lei. Poi la
guidava verso la pista: veniva a reclamarla, “aveva dei dirii su di lei”, e lei
acconsentiva. Nei balli veloci con Mike, lei sprigionava tuo il suo fuoco:
sprofondava alternativamente nelle anche tenendo alti i pugni (uno con
anelli, l’altro senza) davanti a sé, come un pugile. In quella luce il suo viso,
con il naso lungo tagliato come un diamante e gli zigomi che sporgevano a
crocefisso, appariva severo e drammatico. Così, quando gli altri ragazzi
tornavano al tavolo e finivano prima di risciacquarsi i denti con la birra, e
poi di deglutire, trovavano solo me. “Be’, ti va di ballare?” proponevano
con la faccia di chi si è fao fregare. A me non importava. Capivo, capivo
tuo. Mi ero messa i miei orecchini bianchi che brillavano nella nera luce
del bar; mi ero truccata gli occhi pesantemente. Mi ero tirata i capelli sulla
testa e poi li avevo peinati all’indietro per farli sembrare ribelli e
lussureggianti. Mi ero controllata allo specchio dei servizi delle donne: ero
troppo magra, e non ero Sils. Ma ero convinta, una convinzione che
ingenuamente conservai per anni, che se qualcuno fosse arrivato a
conoscermi, gli sarei proprio piaciuta tanto.
Nei lenti, tipo Nights in White Satin, permeevo ai cavalieri muratori o
venditori d’auto di stringere. Sentivo le pance e la puzza di sudore, gli
inguini duri e le camicie umide, le grosse braccia che mi circondavano. A
volte durante la danza meevo le mani sui fianchi del cavaliere di turno e
chiudevo gli occhi appoggiando la testa sulla sua spalla.
“È stato bello,” mi dicevano alla fine, gridando sopra le note della
canzone successiva.
“Grazie,” rispondevo, “grazie mille.” Li ringraziavo sempre. Gli ero
riconoscente, e volevo che lo sapessero.
“Come facciamo per tornare a casa?” urlai nell’orecchio a Sils. Era il
tormentone delle nostre serate. Io mi fermavo a dormire a casa sua: era
l’unico modo per restar fuori fino a così tardi. Sua madre aveva il turno di
noe al motel, e i fratelli erano con le ragazze o in Canada, ma questa
volta Sils era incerta. Mi guardò con un’aria dubbiosa, scrollò le spalle e
con discrezione additò Mike. Baeva il tempo con un piede, fumava e
guardava la band, ma con un braccio cingeva la sedia di lei.
Che cosa dovevo domandare? Potevo sempre contare su Sils; era Sils la
via; Sils era il nostro ritorno a casa, sempre.
Mike aveva solo la moto, ma si era fao prestare la macchina da un
amico. Guidò piano per far durare di più il viaggio senza togliere gli occhi
da Sils che sedeva davanti accanto a lui. Continuava a farle domande del
tipo: “Come fai a essere così bella?” Al che lei rispondeva: “Non rompere”
e poi rideva. Io stavo dietro senza aprire bocca, guardando fuori dal
finestrino, gli alberi della noe e le case buie che passavano.
Mike si fermò in fondo alla strada, proprio all’ingresso del cimitero; io
uscii e rimasi ad aspeare. Mi allontanai dall’auto per permeere loro di
baciarsi. Sentivo di avere un sacco di pazienza per certe cose. Scavalcai il
basso recinto e passeggiai per un po’ lungo il margine del cimitero, ma
quando mi girai a guardare li vidi ancora nell’auto che si baciavano, per
cui mi allontanai ancora un po’. Cercai la tomba della piccola Estherina
Foster, e mi sedei insieme a lei nell’oscurità. Restai in ascolto, cercando
una voce che potesse essere la sua, un sussurro, uno squiio, ma non si
sentiva niente. Giocherellai con una rosa di plastica dallo stelo lungo che
era rimasta schiacciata nel terriccio. La ripulii dal fango e la agitai
nell’aria, disegnando parole: il mio nome, il nome di Sils, quello di
Estherina. Altri, non me ne vennero in mente. Scrissi “buon compleanno”,
“vaffanculo” e “pace”. Dopo buai via il fiore, tra le ombre. Com’era
silenzioso il mondo di noe: i profili paurosi degli alberi senza germogli
contro il cielo, con i rami che sembravano protesi a ghermire qualcosa da
divorare – forse le stelle morte e candite! Il suolo era freddo e coperto di
foglie, il pantano aveva incominciato a emanare i suoi putridi fetori. Alla
luce lunare il cielo appariva selvaggio, scintillante e venato come un mare.
Sapevo che le persone sole e prigioniere e la gente di campagna guardano
il cielo. Era una specie di via di fuga, quel cielo, ma era anche il testimone
fermo e immutabile del prima e dopo delle decisioni di ognuno: assisteva a
tue le morti che tragheavano la gente in altri mondi. Perciò le persone
tendevano a parlargli. Distolsi gli occhi e restai lì seduta. Mi cinsi le gambe
con le braccia, chiusi la giacca. L’aria fresca era stranamente immobile,
sapeva di funghi. Mi chiesi se mi sarei mai innamorata di un ragazzo.
Sarebbe successo? E perché no? Perché no? Sui due piedi formulai un voto
e una sfida, scommeendo con il cielo e con gli alberi e giurando sulla
tomba di Estherina Foster che ci sarei riuscita. Ma non sarebbe stato un
ragazzo come Mike. Niente del genere. Sarebbe stato uno da molto
lontano: sarei andata fin laggiù e lo avrei trovato. Tuo per me. Lo avrei
amato. Mi avrebbe amato. Saremmo stati semplicemente insieme,
amandoci così, in quel luogo, ovunque fosse. Avevo tua una vita davanti.
Avevo pazienza, fede e una testa piena di canzoni.
“Dov’eri?” chiese Sils. Ora lei e Mike erano scesi dalla macchina, ma le
rimanevano appoggiati con aria sexy.
“Ho fao un giro.”
Mike disse: “Dovrei restituire la macchina.”
“Ciao,” disse Sils.
Lui la baciò di nuovo, stavolta davanti a me. “Ti chiamo domani,”
concluse. Salì in auto, fece un’inversione in tre manovre – queste cose le
avevo imparate a scuola, in educazione stradale – e sgommò via.
In cucina ci preparammo uno spuntino veloce, da ore nourne: salatini
e cioccolata calda faa con le bustine. Tuffavamo i cracker nella cioccolata
lasciandoli galleggiare e inzupparsi.
“Una volta, in terza elementare,” disse Sils, “non volevo andare a scuola,
allora ho masticato un bel po’ di cracker, li ho tenuti in bocca e sono salita
mugolando, e poi li ho sputati ai piedi di mia madre.”
“Favoloso!” Scoppiammo in un’esausta ridarella.
“Ha funzionato.” Frantumava e rigirava i cracker nella tazza, con lo
sguardo sognante.
“Geniale,” commentai. Speravo che alzasse gli occhi, che mi guardasse,
che mi dicesse di più. Ma non lo fece.
Più tardi, abbandonata sopra le coperte del leo, che era un semplice
materasso sul pavimento di camera sua, Sils emise un lungo sospiro di
soddisfazione. Io, raggomitolata in un sacco a pelo, la guardavo alla luce
fioca che teneva accesa quando ero con lei, partendo dalle dita dei piedi.
La convergenza di vene azzurre elastiche che li sormontavano, i tendini
divergenti come stecche di un ventaglio, la lucentezza scolorita delle
unghie, splendenti e vaghe come madreperla. I deagli costitutivi di Sils
erano sempre interessanti. Si accorse che la guardavo.
“Hai delle dita dei piedi pazzesche,” osservai.
Avvicinò un piede al peo. “este te le ho mai fae vedere?”
“Cosa?”
Si esaminò aentamente i piedi. “Nelle mie unghie si vedono Napoleon
Solo e Illya Kuryakin.”
“Cosa dici?” risi io.
“Sul serio. Si vedono le loro facce.” Abbassò il piede. “Domani ti faccio
vedere.” Sospirò di nuovo. Pensava a Mike, ne ero certa.
“Grazie, Berie,” disse poi.
“Di che?”
“Di tuo.” Si addormentò come un sasso. Per un po’ guardai alla luce
bassa la mia ombra proieata sul muro: una goffa catena montuosa che
lanciava le sue vee verso l’alto per poi farle di nuovo precipitare in frane
e valanghe nella lunga, lunga inquietudine che finalmente si spegneva nel
sonno.
*
Spesso quando andavo da Sils trovavo la porta di servizio aperta, e sul
banco in cucina un’insalata o un panino al formaggio fresco che mi
aspeavano. Un’insalata! Un panino al formaggio! Che strano effeo fa
richiamarli alla memoria, quei cetrioli e quei sedani con la salsa, come
preparati da una moglie per il marito; o i panini, dolci e zuppi di maionese.
Prendevo e mangiavo, poi salivo di sopra, in camera sua, mi sedevo vicino
a lei e insieme strimpellavamo la chitarra cantando a due voci canzoni folk
come Geordie o e Water Is Wide I Cannot Get O’er, e mi sentivo un
disastro negli accordi di seima minore, la loro malinconica inconcludenza
mi risvegliava dentro qualcosa di perduto e straziante, benché ciò fosse
assurdo, dato che avevo solo quindici anni. Tuavia, un che di
profondamente triste era nato ed era sepolto in me, e occasionalmente lo
sentivo agitarsi come una creatura addormentata. Spesso mi ritrovavo
concentrata sul quadro delle rane, a penetrare in esso con lo sguardo,
come se fosse, chissà, l’illustrazione onirica di una fiaba presa dalla realtà,
o un passaggio segreto che conduceva a un altro passaggio segreto. Scatole
cinesi. ando eravamo più piccole, Sils e io andavamo sempre insieme a
cercare groe, o piccoli stagni sconosciuti pieni di anatre. Andavamo al
Grand Union e applaudivamo le aragoste che riuscivano a liberarsi dagli
elastici. Con tre ombrelli aperti facevamo una mezza tenda e ci meevamo
soo a giocare a carte. Camminavamo per chilometri, fino alla discarica
pubblica, per vedere gli orsi. A mezzogiorno andavamo in biciclea fino al
negozio dove vendevano l’incenso di glicine, o in centro, all’Orpheum,
fingendo di avere sedici anni per vedere i film vietati, a volte stranieri, che
ci ipnotizzavano e ci lasciavano perplesse. Mangiavamo popcorn e Junior
Mints: ogni mentina era come un cuscino dolce sulla lingua, ogni chicco
espanso era grosso e complicato come un germoglio di catalpa. Per
provare il brivido, giungevamo a bere punch di mirtillo, che aveva il colore
del detersivo per i vetri, e montava impetuoso ai lati del refrigeratore
come un fenomeno naturale; in paese non l’aveva mai bevuto nessun altro.
Ce lo diceva sempre l’uomo dietro il banco. Lo mandavamo giù con
l’acqua della fontanella nell’ingresso, poi sedevamo al buio, sulla sinistra,
per vedere il film di sbieco, con gli occhi fuori dalla testa per l’eccitazione.
A tredici anni bazzicavamo il W.T. Grant’s, compravamo reggiseni e gelati
superguarniti e ci meevamo i maglioni da uomo che, quando li
portavamo a scuola, diventavano informi e interminabili, con l’orlo
stazzonato che penzolava intorno alle ginocchia: esaamente il look che
desideravamo. A quaordici anni, rivendicammo il dirio di dormire l’una
a casa dell’altra, e quando ce lo concessero stavamo fuori tua la noe,
andando fino ai binari della ferrovia a bere nei vecchi baraoli della
maionese i liquori arraffati dalle scorte dei nostri genitori. Poi andavamo a
dormire nella giardinea di famiglia parcheggiata nel viale, per svegliarci
presto e catapultarci a comprare le ciambelle da Donna’s all’alba, quando
erano ancora calde.
Ma sempre più spesso nelle mie scorribande mi ritrovavo sola, a
chiedermi come starà lei con quel suo Mike, cosa faranno assieme, e come
saranno tue quelle cose che si fanno e di cui non conoscevo neanche il
nome; e temevo che ora, che aveva fao il salto di qualità, le sarei piaciuta
di meno.
Per certi versi, la mia infanzia è consistita in una specie di dissipazione,
un sognante vagabondare nei boschi e, illecitamente, nei condoi di
cemento delle chiaviche, carponi: o, in beata solitudine, a casa (tui usciti
per un’ora!) a biascicare pezzi di carta per sentire il salato, o di
pomeriggio, a nascondermi soo le trapunte per crearmi un posto nuovo,
che non era qui, un nuovo spazio che sul leo non era mai esistito prima,
come una prova generale dell’amore. Forse a Horsehearts, chiamata così
da una vecchia baaglia tra francesi e indiani, perché il sangue dei cavalli
sventrati aveva arrossato lo stagno, e si narrava che i loro cuori fossero
stati sepolti appena a sud, sulla Miller Hill, era possibile solo differire e
simulare. La mia infanzia non ha avuto narrativa: è stata solo una
combinazione di aria e non-aria: un’aesa che la vita avvenisse, che il
corpo diventasse grande e lo spirito temerario. Non c’erano storie né idee:
non c’erano per niente, non ancora. Solo realtà esumate da altri luoghi e
utilizzate poi come stampelle, per aiutare lo spirito a muoversi. All’epoca,
fra l’altro, era liquido, come una canzone. Niente più. Nient’altro che uno
spazio con un po’ di gente dentro. Ma una storia la si può raccontare
comunque.
Basta prendere la rincorsa, incominciare, andare avanti e finire.

So bene che le cose nella memoria cristallizzano e mutano, diventando


quello che prima non erano mai state: come quando un paese è occupato
da un esercito. O un cortile estivo si arrossa dell’autunno, con le sue foglie
venate. Si evocano gli anni del passato principalmente per stregoneria – le
arti di una puana, un collage e un intruglio, l’occhio di un tritone, il
cuore di un cavallo. Eppure la casa della mia infanzia la porto incisa nella
memoria come la forma stessa della mente: una mente a forma di casa? E
perché no? È stato fuori da una mente simile che mi sono avventurata
verso un qualunque folle pericolo, una disposizione sentimentale o uno
slancio direo a oggei remoti. Ospitava ogni ao embrionale. Le
galleggiavo sopra, ma vicino, come una figura di Chagall.
Prima che la ristruurassimo, casa nostra aveva un solo bagno per tua
la famiglia, e spesso per servirmene dovevo fare la corsa, trovando poi
magari una coda di tre bambini. Nell’atrio c’era uno specchio, e noi ci
comprimevamo la pancia e saltellavamo avanti e indietro, guardando il
nostro riflesso e augurandoci di non scoppiare. C’erano solo due camere
da leo per tre figli. Per un certo periodo LaRoue, Claude (che a
Horsehearts pronunciavano “clòd”) e io dormimmo a turno in due in una
stanza. LaRoue era arrivata a casa nostra assieme a un’altra bambina
adoata, lenta e silenziosa di nome Nancy, resa ritardata dalle boe di sua
madre, e avevano diviso una camera loro fino a quando Nancy era andata
via e LaRoue era rimasta con la camera tua per sé. Non credo di aver mai
saputo perché e dove Nancy se ne sia andata; casa nostra era sempre
abitata da altre persone, accampate nei lei a scomparsa. Per questo fin da
piccola, a nove anni, avevo cercato Sils: l’avevo trovata nell’aula delle
aività comuni, classificata più o meno come me, fra le mediocri C, e mi
ero aaccata a lei.
Un mese di maggio arrivò qualcuno che, senza colpo ferire, portò via
Nancy. Mi parve spaventoso che una cosa simile potesse accadere. Arriva
qualcuno e basta, ti porta via.
Ma LaRoue rimase, ed ebbe la sua stanza personale, e chiamava mia
madre “mami”. Io, minore di tre anni ma di una sola classe scolastica,
dividevo la camera più grande con mio fratello Claude, a cui ero
legatissima. Avevamo solo un anno di differenza, ed eravamo “compagni di
branda”, un’espressione che un giorno avrei usato in chiave ridanciana,
ironica, agrodolce, con i miei amanti, quando per un’avventurea passavo
la noe con loro, ma senza sesso, stanca, il mio corpo come un segugio
muto, troppo esausto per l’amore dopo aver corso tua seimana nei suoi
prati, desideroso solo di pulsare e dormire accanto a un altro, ma che mi
fosse vicino come un fratello, come Claude. Compagni di branda:
possiamo dividere la branda.
Era davvero una branda il leo dove dormivamo mio fratello e io: un
leo a castello, qualche volta stava di sopra lui, altre volte toccava a me.
Per motivi di uguaglianza, immagino. Sebbene la casa avesse un sacco di
regole, e un rigido orario per il sonno aaccato sul frigorifero con le
calamite della cartiera – Bryson Paper Mill, piccoli pini con BPM stampato
in oro – sostanzialmente eravamo bambini trascurati. Trovavamo il modo
di fare quello che ci pareva, però davamo una grande importanza alla
noe quando uno dei nostri genitori (ci dicevano, supponevamo) sarebbe
venuto a controllarci prima di andare a leo. Per quell’ora non eravamo
mai svegli, ma sapevamo che sarebbero venuti, ci credevamo
religiosamente e talvolta, quando ci meevano a dormire troppo presto in
sere estive piene di grilli, ci preparavamo per l’evento quasi fosse un
Giudizio finale, trasformandolo in un certame di scultura corporea,
assumendo pose elaborate su un piede solo, con le teste penzoloni dal leo
o le braccia sollevate e bocche, denti e occhi contrai in smorfie di
sbalordimento. “Pensa che sorpresa per la mamma,” dicevamo. Oppure:
“Papà rimane a bocca aperta.” indi tentavamo di addormentarci in
quella posizione. La maina ci svegliavamo normalmente sdraiati, senza
mai ricordarci se avevamo visto o no i genitori, e senza capire come mai
alla fine avevamo dormito in una posa così banale.
Claude era il mio alter ego prima di Sils, e siamo stati migliori amici,
compagni di branda, sposi-bambini, finché io ho avuto nove anni e lui
oo, restando poi separati, in un certo senso, per il resto della nostra vita.
Eravamo troppo grandi, sembrava sconveniente che fratello e sorella
dormissero nella stessa stanza: la casa fu ristruurata, e ogni bambino
ebbe la sua camerea.
Poco tempo dopo Claude fece amicizia con un ragazzino nuovo che
abitava nella nostra via, Billy Rickey, io conobbi Sils, e fine della storia.
Claude e io non ci saremmo ritrovati mai più veramente. Ci incrociavamo
nel corridoio della scuola, ci incontravamo a cena e poi, passati gli anni,
alle feste, ai matrimoni o ai funerali, senza capire più chi fosse l’altro.
Come se a uno dei due fossero spuntate le pinne, o le piume o qualche
assurda striscia sulla schiena. Come se fossimo appartenuti a una razza
indefinita.
Ma almeno per me lui restò il primo amore, lo sposo-bambino; e in una
famiglia così caotica, dove si parlavano tante lingue, era importante essere
sposati, in qualche modo, con qualcuno. Io lo ero, oppure lo ero stata per
un po’, con Claude.
LaRoue invece era sola. Da piccoli Claude e io eravamo un corpo solo
per quanto riguardava il sonno e il gioco – ancora più vicini di quanto in
media giungano a trovarsi gli adulti – e vedevamo i nostri genitori come
severe, distanti Maestà, e LaRoue come un’intrusa più grande, una
visitatrice disturbata, una bambina a nolo, ma cristianamente tollerata.
Nella mia famiglia ogni sera a tavola si leggeva la Bibbia, mio padre faceva
passare capitolo per capitolo i Vangeli, gli Ai degli Apostoli, le leere di
Paolo a Timoteo (a me venivano in mente Paul Zabrowski e Timothy
Wilson, miei compagni di scuola), la Prima di Giovanni, la Seconda di
Giovanni, la Terza di Giovanni fino all’Apocalisse (“E all’Angelo della
Chiesa di Filadelfia…” Filadelfia? Zia Mimi abitava a Filadelfia!), con tui
quei versei strani, mentre noi guardavamo il cibo raffreddarsi. Così
apprendevamo la sopportazione.
(“Anche noi leggevamo la Bibbia prima di cena,” disse mio marito al
nostro primo incontro, in cui ci raccontammo un po’ l’una dell’altro. Era
ebreo, socialista, mezzo ungherese.
“Veramente?” domandai.
“Veramente,” sorrise lui. “Solo che la leggevamo con toni molto
sarcastici.” Fece una risata fragorosa, stentorea. Avevamo la necessità di
scherzare, di giocare. Eravamo insicuri e nervosi. “Altra cosa interessante,”
ricominciò, rincuorato fino allo svacco, “è che sebbene la maggior parte
della gente lo chiamasse Dio, noi lo chiamavamo… insomma, lo
chiamavamo Testadicazzo.” Daniel si baé una mano sul cuore. “Una
nazione, soo la guida di Testadicazzo.”
Crollai di lato, sghignazzando senza ritegno; poi cercai di raddrizzarmi,
risistemando il tovagliolo mentre il nostro accigliato cameriere cominciava
ad avvicinarsi. “A ogni modo,” dissi, soolineando l’ossimoro, “Bibbia e
peruviani nei lei a scomparsa. La mia vita famigliare era questa. Sia come
sia.”
“D’accordo,” approvò lui, incerto.)
Dunque LaRoue esisteva per noi come un’ospite solitaria e
cortesemente tollerata. Noi eravamo magri e lei era grassa, lei bionda e noi
bruni. Le folte pellicce delle nostre sopracciglia ci schiamazzavano in viso,
eredità dei commerci di pelli del ébec. Le sue erano pallide, a ciuffi,
come uno schizzo aereo di frumento. Era più vecchia, appartata,
melanconica, e periodicamente cadeva in convalescenze i cui deagli i
nostri genitori ci tenevano nascosti. Claude e io avevamo streo un
accordo separato. ando gli altri uscivano, esploravamo le loro stanze.
Mei che tornassimo da scuola presto, e nostro padre fosse al lavoro alla
cartiera Bryson, in centro? O “là in fondo”, come dicevamo noi. Alla
cartiera era capo del dipartimento foreste. Nostra madre poteva essere
andata a un incontro del comitato direivo delle Donne unite per
l’abbellimento di Horsehearts, a prendere appunti minutissimi sulle
petunie e sugli olmi insieme a Hilma Johnston, elma LaRose, Bey
Dreiser, Lou-Anne Gerard.
Dopo scuola, LaRoue in genere andava al circolo di equitazione.
Allora entravamo e iniziavamo la ricognizione: c’erano i pantaloni di
mio padre appesi per il risvolto al casseo più alto della toelea; i vecchi
calzascarpe di legno simili a buraini sul fondo dell’armadieo. I cassei
di mia madre pieni di sacchei profumati e di busti, e nel caos sopra la
toelea i rossei corallo, le colonie Avon e le vecchie foto ombreggiate di
quando era al college e l’avevano elea Miss Gambe. In questo modo
raccoglievamo informazioni sui nostri genitori; eravamo autentiche spie, e
spie con i fiocchi, perché i nostri genitori non raccolsero mai molto su di
noi; non ci tenevano neanche, come molte famiglie numerose di quegli
anni. Mio padre non riusciva neppure a distinguermi in un gruppo, non mi
riconosceva nella foto annuale di classe (“Ma no, papà, quella non sono io!
È Cynthia Odekerk!”), né mentre si recava al lavoro. A capo scoperto, tuo
assorto nei suoi pensieri, araversava il paese direo al fiume dove
sorgeva la cartiera, e incontrava me o mio fratello in un gruppo di
bambini, che andavamo o tornavamo da scuola. “Ciao! Ciao!” gli
gridavamo, e lui salutava tui con un cenno ecumenico, disinteressato,
proseguendo con il passo lungo e le grosse scarpe, senza nemmeno alzare
lo sguardo. “C’è tuo padre,” diceva a volte un amicheo; oppure: “ello lì
è tuo padre?” allibito quanto noi.
Direi comunque che la sua indifferenza ci opprimeva meno delle sue
aenzioni, che tendenzialmente si manifestavano nel correggerci quando
sbagliavamo una nota in un intermezzo per pianoforte di Brahms. “Nooo!”
ululava. “Do diesis, Do diesis, Do diesis!”
Ci rivolgeva la parola con toni più pacati quando era alle prese con le
parole crociate, chiamandoci in salea se gli serviva il nome di uno show
televisivo che non aveva mai visto. Una volta oenuta l’informazione,
tornava a ignorarci ripiombando nel cruciverba: ci lasciava lì impalati, a
spiegargli dello show, dei vari personaggi e delle loro vicissitudini. Era
come parlare da soli.
Malgrado tuo, lo adoravamo. Se lui non ci amava, non ci conosceva,
non ci riconosceva nemmeno, non era perché il suo affeo fosse altrove,
appannaggio di altri bambini. Non avevamo rivali, ecceo forse Brahms,
Dvořák, il cruciverba quotidiano e nostra madre – e anche lei non troppo
spesso. Nelle sue valenze totemiche, papà rimaneva molto nostro. E
all’ombra lunga della sua noncuranza ci forgiavamo da soli,
improvvisavamo le nostre tacite regole, come facevano i ragazzi americani
in quegli anni cinquanta e sessanta di padri assenti. Non per niente quei
ragazzi, quando sono cresciuti, sono stati un simile choc per i loro
genitori.
Ovviamente una parte di noi rimaneva frustrata e spaurita per la
mancanza di una conoscenza approfondita nei suoi confronti, per la sua
disaenzione, sebbene ritenessimo di avere ingegnosamente accomodato
le cose. Ma queste lezioni e queste storture sono forse più chiare in età
adulta che nell’infanzia, quando spesso eravamo aaccabrighe e
indisciplinati: avevamo tuo un repertorio di smorfie, ghigni e gesti
insolenti, e quando parlavano i grandi roteavamo gli occhi e ci baevamo
le mani sui fianchi. Ma in seguito, e per anni, premisi a ogni mia opinione
più convinta e documentata, come alle ricerche che mi erano costate
seimane di lavoro, un remissivo “nel mio piccolo”.
Una volta cresciuto, mio fratello in pubblico tramutava la sua
personalità implacabilmente temprata in un campionario di scuse, di
convenevoli e di “se non le spiace”. Per un motivo o per l’altro, dalle
originali posizioni nourne, elaborate e statuarie, retrocedevamo sempre
nella solita passività: misteriosamente, e istantaneamente. Credevamo
ancora di poterle riassumere appena l’avessimo voluto (la posizione
Hieronymus Bosch, l’artistico strombo, gli arabeschi di Zappa), in aesa
che qualcuno entrasse, ci vedesse così e scoprisse, alla fine, com’eravamo
nel profondo.
Do diesis!
Indubbiamente nostro padre era una figura torreggiante, solitaria,
autocratica. Veniva da una famiglia di violoncellisti germanofili, che aveva
persino visitato la Germania negli anni trenta. A dieci anni aveva visto
Hitler nell’atrio di un hotel, restandone affascinato. Ma poi, quando nella
storia tua quella sublime musica e quelle celebrità emisero un suono così
sinistro, lui si esiliò con le sue passioni: divenne baista, cominciò ad
ascoltare estaticamente sinfonie, e cercò di ricordarsi i nomi dei suoi figli.
Lo amavamo nel modo inesplicabilmente snob dei bambini: era il papà più
alto e più intelligente di Horsehearts – lo ammeevano tui – e questo,
all’apparenza, era quanto allora contava veramente in un padre, per noi
come per ogni altro figlio. L’imbeccata ce la dava nostra madre, che lo
ammirava fino al deliquio: le avevano “insegnato a far così con gli
uomini”, avrebbe riconosciuto alla fine. Ma noi, da piccoli, facevamo lo
stesso. Ogni tanto riesco ancora a farmi gonfiare gli occhi di lacrime come
i bambini che giocano a svenire a comando al pensiero di quanto
desideravo che mi amasse. È vero che ogni adulto è capace di piangere
come un laante per l’amore che da piccolo ha tanto desiderato e cercato,
fino a stravolgersi, senza oenerlo mai. Una volta ho fao un viaggio di
oanta isolati con un tassista che continuava a ripetere: “E mai che mi
abbia abbracciato, mai che mi abbia baciato”, finché all’Oantesima strada
ha iniziato a piangere e sono dovuta scendere. Insopportabile.
Un giorno, a diciannove anni, ho dato a mio padre una cartolina della
festa del papà ideata per zii e vicini di casa. Diceva: “Sei stato come un
padre per me.” La sua distanza da noi era diventata una specie di
barzellea di famiglia, ma per lui, quando guardò la cartolina, si rivelò un
tabù e un trauma. Io non so cosa mi aspeavo – che ridesse pure lui? –,
non lo so, ma lo strazio che gli si dipinse sul volto mi lasciò sgomenta e
confusa, spingendomi a uscire in cerca di una cravaa a righe e di un’altra
cartolina, con qualche demenziale lustrino e un gigantesco “Per il mio
Papi”.
alche anno dopo, invece, subentrò la rabbia: dopo un inventario di
tue le sue parole e dei suoi ai, provai verso di lui un’avversione, come
se fosse una specie di nazista. Studiavo storia. ando sposai un ebreo, mi
aspeavo che mio padre facesse qualche oscuro, macabro commento: ma
non accadde. Fu cortese, formale, e non privo di charme. ando mio
marito lo conobbe, nell’incontrare per la prima volta quel gigantesco mix
di Fred MacMurray, Fred Gwynne, Fred Astaire – tui i Fred – mi bisbigliò
quasi in preda al panico: “Tuo padre è così Padre. È un über-padre. La
madre di tui i padri.”
“Esao,” risposi sorridendo. “La madre di tui i padri.”

Sils non era veramente innamorata di Mike, il suo ragazzo. Ne ero


certa. Lo capivo. La stava stancando. Bastava vederli insieme: lui
ridanciano ed esplosivo, tuo voglia di muoversi come un seer irlandese,
un cane irrequieto, le labbra lustre di un surplus di energia; lei sfinita dalla
noe precedente, un tantino sciupata, incapace di tenere il passo di quel
diciannovenne con il suo appartamento personale, la sua moto in fuorigiri,
i suoi progei. Dopo aver conosciuto Sils, si era trasferito da Albany a
Horsehearts per starle vicino. Lavorava nei cantieri autostradali, e anche il
suo cantiere si era spostato verso nord. Nel verdeggiare umido e fresco del
primo maino, appena l’umidità cominciava a ricevere il sole promeendo
calura, lei smontava dalla Harley di Mike per andare al lavoro, e si vedeva
il suo sforzo di migrare nel giorno, nella luce, come una Cenerentola
capovolta. Se c’era qualcuno vicino a loro, Sils inarcava sempre le
sopracciglia quando parlava Mike: poi, appena lui la guardava, con
infallibile tempismo la sua espressione tornava normale. Oppure no. A
volte Mike faceva in tempo a coglierla, come un uccello selvatico che le
stesse scomparendo in gola, inghioito in frea e furia per non essere
mostrato. E la fissava.
“Cioè?” le diceva. Era una richiesta di spiegazione.
“Bravo: cioè? Cosa vuoi dire con ‘cioè’?” Poi guardava me, o chi altro,
cercando un pubblico, e sorrideva. Un sorriso dolce che quasi sempre era
seguito da un bacio a Mike, con leggero struscio. Era una liceale alla prima
esperienza sessuale, che l’aveva tramortita con i suoi segreti, portandola
via con sé, scombinandole il sorriso e arruffandole i capelli.
“Come va oggi?” le chiedevo, accarezzandole una scapola mentre
puntavamo all’ingresso del personale.
“Hai ancora voglia di andare ai Sands stasera, spero,” diceva lei. I Sands
erano una catapecchia in riva al lago, una beola il cui nome Sans Souci
era stato deformato dall’accento locale in Sands, le sabbie, neanche fosse
stato un night di Las Vegas. Ci andavamo da quella primavera. Potevamo
entrare in tui i bar: malgrado i nostri quindici anni, avevamo librei di
lavoro, pollici per fare l’autostop e i documenti falsi che ci eravamo fai in
biblioteca con l’unica fotocopiatrice della cià. Ci eravamo fai prestare la
patente da un fratello di Sils e l’avevamo fotocopiata e contraffaa,
meendo le nostre foto e i nostri nomi. In tuo questo, non vedevamo
l’ombra di un reato. I reati non erano reati; le leggi non valevano sul serio;
non c’erano regole vere e proprie. Non per noi, comunque. L’adolescenza e
la geografia facevano di noi persone a parte, il paese era in subbuglio,
c’erano il Vietnam e gli espedienti per sfuggire alla leva, la musica rock e
la gente che si appiccava fuoco. Le leggi sembravano il nemico. Perciò le
liquidavamo e ne facevamo senza, le sospendevamo e sopprimevamo: ci
creavamo le nostre regole, ed erano regole elastiche. Inventavamo cose, le
iniziavamo, niente era sbagliato. Arrivavano i soldatini di stagno e Nixon.
Ogni cosa valeva da biglieo per la fuga: era tuo un rimescolarsi, un
progredire, un andarsene da casa, in tue le forme che questo assumeva.
Amore. Pace. Sorridi a tuo fratello, tui saremo uniti.
E noi eravamo le ragazze con la testa sulle spalle. Passavamo per tali.
Facevamo le baby-sier. Nei test scolastici totalizzavamo punteggi elevati.
Fa niente se una sera ogni tanto finivamo sui binari, sbronze di 7-Up e
bourbon. Se ci aizzavamo a vicenda ad andare nei bar con balera per
ascoltare uno stereo che suonava i Deep Purple, Maggie Bell o i Grand
Funk Railroad finché l’altra diceva: “Okay, okay, andiamo!” Chi era
davvero fuori di testa era già partito per l’oleodoo in Alaska, o per
Boston o Broadway, o per i pronto soccorso di Da Nang.
“Vabbè. Andiamo,” dicevo io. L’indomani era il suo giorno libero.
“Oh, guarda,” faceva lei. “Mi sa che non voglio più vederti.”
Anni dopo, da adulta meravigliosamente abituata alle lunghe
conversazioni importanti al ristorante o al bar su libri, amore, politica,
scienza, argomenti guizzanti dalle bocche come fiamme, come strade di
parole snodate nella noe soo la guida o lo stimolo, suppongo, dell’alcol
e dell’irrequietudine, e di qualche subbuglio del cuore, mi è sembrato
strano di essermi potuta divertire quelle sere con Sils al Sans Souci, perché
non ricordo nemmeno di che cosa parlavamo. Non credo che le nostre
fossero vere conversazioni. Senza chitarra, e senza i nostri spartiti, non
potevamo cantare: eppure non parlavamo lo stesso. Bevevamo,
scherzavamo, ci guardavamo intorno e facevamo commenti: ogni tanto,
quando la musica aumentava di volume, ci gridavamo qualcosa e
scoppiavamo a ridere. E fumavamo sigaree: per noi il fumo non smarrì
mai il suo strano fascino di sfida fanfarona, neppure quando fu solo una
delle tante sfide che lanciavamo e rilanciavamo. Ordinavamo gin & tonic
sollevando poi il bicchiere contro le luci oscurate del soffio per fissare
rapite quell’azzurro sperale prima di deglutire. Non avevamo idea di cosa
la vita ci preparasse: nessun indizio, nessuna riflessione degna di questo
nome. Immancabilmente arrivava un uomo più grande, più sbronzo a
invitare Sils. Lei era la classica quindicenne che ne dimostra venti. Io ne
dimostravo dodici con mia vergogna e angoscia davanti al buafuori.
“Come vi va, ragazze?” era l’esordio di prammatica; poi solitamente il
tizio giocherellava con il ciuffeo sulla fronte di Sils scostandoglielo dagli
occhi, o le sedeva vicino, anca contro anca; oppure le chiedeva “cosa bevi”,
o “vieni a ballare, è una bella canzone per ballare, non ti piace?”.
Generalmente c’era umidità, e le assi di legno erano bagnate come un
molo fluviale. alche volta la difendevo con una risposta scostante, un
sorriseo, uno sguardo d’intesa che facesse pensare al tizio di essere preso
in giro. Di essere troppo vecchio. “È solo adolescenza vuota,” rantolava il
jukebox durante le pause della band. Le davo di gomito.
Ma a volte andavo al bagno lasciandola alle prese con il tizio, che poi
magari alle undici e mezzo ci dava un passaggio in auto sperando,
sognando che lei ci stesse, e restava ad aspearci dietro l’angolo mentre
entravamo in una delle nostre case, dicevamo buonanoe alla mamma e
correvamo in camera nostra, per infilare i cuscini soo le coperte imitando
dei corpi gibbosi e raggomitolati e uscire dalla finestra.
I tizi non sembravano contrariati. Lo giuro: generalmente non lo
sembravano affao. Erano già mezzi coi, pieni di desiderio: volevano fare
da cavalier servente a Sils, restarle vicino, stare vicino alla sua bellezza, ai
suoi seni, al collo delicato, ai lunghi capelli fragranti di shampoo da
ragazzina. Correvamo all’appuntamento dietro l’angolo e trovavamo il
tizio ancora lì: salivamo, e si ritornava al lago. Poi vedevo il braccio destro
del tizio sollevarsi furtivo sul sedile dietro Sils cercando di avvinghiarla,
come una stola da poco prezzo, e pregavo che non avesse la pistola.
Essendo baista, ho sempre pregato a occhi umidi e socchiusi che le cose
non succedessero. Sils era caolica e pregava che succedessero, che si
realizzassero. Pregava per l’amore, qui e adesso. Una volta la pistola c’era,
si materializzò dallo stivale sinistro di un tizio che ce la puntava con la
destra tremante. Gli sportelli non erano bloccati, e quando si fermò a uno
stop, con un baicuore indescrivibile li aprimmo e corremmo via. Roba da
non credere: un uomo con gli stivali e il cappello da cowboy che punta la
pistola come un pazzo contro due quindicenni e si ferma diligentemente a
tui gli stop. Così saltammo giù e ci precipitammo per la strada entrando
in un boscheo. Ma scese anche lui, lasciando l’auto accesa, per darci la
caccia con una torcia elerica. Sparò addiriura un colpo in aria.
Sils restò paralizzata. Mi fermai e vedendola lì immobile tornai indietro,
così lui ci raggiunse fra gli schianti degli arbusti, a pistola spianata. Ci fece
camminare fino a un filare di pini e urlò di toglierci i vestiti. Sils cominciò
e io la imitai, che altro potevo fare? Mi spogliai completamente e rimasi lì
nel bosco, con i piedi nudi fra gli aghi di pino e le radici sporgenti, e una
mano dietro la schiena che stringeva il ramo di uno spino cervino; il cielo
nourno aveva un bizzarro, afoso colore ardesia, meno scuro di come
avrebbe dovuto essere perché la luna, sebbene sfocata per la pioggia, era
piena come una moneta. Prima guardò me, studiandomi alla luce della
lampada, dai piedi su su per la magrezza delle gambe dei fianchi e del
peo, fino al viso. Fece una risata rauca e sommessa, poi spostò la luce su
Sils partendo dalla faccia e scendendo lungo le spalle, i seni da donna, il
ventre piao e le gambe da ragazzina. “i andiamo bene,” commentò
avvicinandosi e abbassando la pistola, “andiamo bene.” Alla luce della
torcia che ancora impugnava con impaccio, cominciò a togliersi i vestiti:
non soltanto i calzoni e gli stivali con gli speroni, ma anche camicia,
orologio e cappello, e fu allora che guardai Sils e lanciai un urlo, e tue e
due scaammo verso la fuga, nude, graffiando e ammaccando sulle pietre i
piedi già robusti, per cinque chilometri di corsa alla cieca in mezzo ai
boschi, ponendoci come traguardo una macchia dopo l’altra finché non
raggiungemmo il lato opposto, oltre il nuovo cavalcavia autostradale, giù
dalla Bay Road, a Dix e poi a casa, per rientrare dalla finestra prima
dell’alba. In camera crollammo, traenendo il respiro. Sdraiate accanto ai
cuscini-manichini, senza capire come ci sentivamo, ricordammo di aver
perso i vestiti.
Nessun bellimbusto travestito da vaccaro ci fregò più in quel modo. Da
allora fummo più vigili. Studiavamo sguardi e sedili posteriori per
assicurarci che non avessero niente di strano. Eravamo sciocche, ma con
delle esigenze: l’estate, la noe, il bere, l’aria sulle braccia, il crescendo
della musica da lasciare indolenzite, o il silenzio delle vie lungo il lago
senza macchine, oltre il parcheggio, solo erba di semina sul ciglio e noi a
passeggiare fumandoci uno spino, lasciando che il fumo ci bruciasse e
forasse i polmoni, le gambe molli, gli occhi; una quiete picchieata, le
gambe prima al passo e poi dietrofront, si torna dentro a ballare.
ando Sils e io avevamo undici anni facevamo finta di essere delle
adolescenti e indossavamo abiti seguendo uno stile che negli anni sessanta
godee di breve fortuna, con maniche a sbuffo e spalline in cui si poteva
infilare la catenella di un borsellino coordinato. Ci spalmavamo le labbra
con un lucidalabbra di uno strano rosa aaccaticcio, che ci applicavamo e
divoravamo, condannandoci probabilmente a un futuro proliferarsi di
piccoli tumori inoperabili: ma ai tempi era quello che faceva per noi.
Utilizzare il rosseo è una piccola usanza provinciale che ho conservato
anche da adulta, seppur negligentemente, come viatico per una mezza età
di lustri e veloci rossei che sbavano: arte moderna, ma raccapricciante. A
undici anni la maestra mi prese in un angolo e mi disse: “Benoîte-Marie,
ma che cosa ti mei sulle labbra?”
“Niente,” risposi. Fu la prima bugia raccontata a una figura
istituzionale, ma mi sentivo con le spalle al muro.
Scrutò il mio viso; mi guardò gli orecchini, dei confei decorativi
argentati che mi ero incollata con l’aaccatuo. Nell’intervallo un
confeo si era staccato, per cui avevo sull’orecchio una grossa crosta di
colla. Mi afferrai il lobo.
“Ti dai un colore al labbro superiore e uno diverso a quello inferiore?”
domandò incredula.
Precisamente. Ero convinta che mi donassero. E lei, perché doveva
essere così intransigente, brua vedovaccia dall’occhio di lince? Una volta
le avevo portato dei lillà, e lei mi aveva spedita dria dal preside. Sapeva
che li avevo presi dalla pianta dei vicini. Nel nostro cortile non c’erano
lillà. “ella roba non ti serve,” osservò. “Sei troppo giovane.”
“ale roba?” domandai, e mi lasciò perdere. (Decenni più tardi,
nell’unico anno in cui soffrii di Morbo della casalinga in vestaglia – mio
marito lavorava, io no – camminavo per casa in pianelle e accappatoio, la
faccia non lavata e i capelli disfai, ma sempre con le labbra sgargianti di
rosso Persia o di Rossella O’Hara: ciabaavo avanti e indietro, meevo in
ordine le carte, passavo l’aspirapolvere.) Le nostre madri ci lasciavano
uscire così, con il rosseo e il reggicalze, perché avevano altro a cui
pensare. La mamma di Sils aveva il lavoro, e dei figli maschi in un gruppo
rock. La mia era in chiesa, o a un convegno informativo per l’accoglienza
di studenti stranieri, e se era a casa, e non mimeografava comunicazioni
del comitato usando un baraolo di gelatina bruna (con questa tecnica
oeneva da un unico foglio dailoscrio una quantità di pagine), voleva
dire che stava chiacchierando con la donna delle pulizie, o smaltiva una
depressione facendo la siesta sul divano, coperta da un impermeabile.
Sils e io andavamo in strada e ci appostavamo in cerca di “tipei
carini”, come li chiamavamo. Malgrado mi sentissi poi mancare quando ne
incontravamo davvero una banda.
Ma furono proprio queste circostanze a legarmi a Sils, insegnandomi a
cogliere la minima traccia di pensiero che le affiorasse in volto, come un
indizio atmosferico; e fu così che un maino, quando mia madre mi lasciò
davanti a Storyland e vidi Sils che arrivava nello stesso momento con
Mike e scendeva a gambe arcuate dalla moto spellandosi una caviglia
contro la marmia rovente – strana in lei quella mancanza di agilità –
compresi che era incinta. Fu l’ampiezza della sua apprensione, il lieve iato
che manifestava rispeo a Mike e me nello sforzo di raggiungerci con
rapidi guizzi di luce e ombra nello sguardo per poi allontanarsi
bruscamente, archiviarci, gli occhi mutati nei carboncini di un omino di
neve. Guizzava, si allontanava, si chiudeva nella solitudine. A casa, in
camera sua, prese la chitarra e cominciò a suonare Mi minore 7ª e La
maggiore, all’infinito, senza aprire bocca. Poi mi guardò come se fossi
appena arrivata e domandò: “Cosa?”
Non me lo diceva perché mi considerava una bambina. Una bambina
con un panino al formaggio fresco. O così credevo. Ne ero sicura.
Perciò quando alla fine me lo disse, qualche giorno dopo, “Berie, è
incredibile ma potrei essere incinta”, reagii con la calma di un vecchio
sergente.
“Ti aiuterò io,” la rassicurai.
Eppure una parte di me era rimasta indietro, incredula e turbata, non
riuscendo a superare l’istante, la notizia. Non serve prevedere le cose: ci si
abitua talmente a classificarle come future che la loro concretezza, il loro
esplodere, la loro forza e presenza, ci sgomentano, cogliendoci alla
sprovvista come uno spero che appaia all’improvviso nella nostra stanza,
con un profumo e delle scarpe familiari. Eravamo nella zona del personale
dello Storyland e ci stavamo vestendo: lei da Cenerentola e io, come al
solito, da tubero a righe con cappello e grembiule.
“Magari non è vero,” riprese. “Mi sento talmente gonfia. Proprio come
se dovessero venirmi da un giorno all’altro.”
“È uno dei sintomi,” sentenziai. Leggevo tui i libri, affascinata dalla
ginecologia come avrebbe potuto esserlo un androide.
“ando Chrissy Messita era incinta ha dovuto andare nel Vermont.”
“Ti porto io,” la rassicurai. Avevo solo il patentino, ma la mia guida
stava migliorando.
“Per quello, credo di poterlo chiedere a Mike. Grazie, comunque.”
Tacqui pensando a lei e a Mike Suprenante, e a che faccia avrebbe
potuto avere il loro bambino.
“Comunque, che macchina prenderesti?” domandò.
“Cosa?”
“La macchina di chi, potresti prendere?”
“Dei miei,” risposi rapidamente. Ero troppo giovane per la patente, ma
pensai che potevo convincere LaRoue ad accompagnarci. “Posso aspeare
che venga una bella giornata, quando loro vanno in giro a piedi e non
hanno bisogno dell’auto.”
“Mi sa che così non funziona,” obieò lei, incurvandosi e sistemando i
seni nel corpeo, due dolci in una coppa. Poi si girò perché le tirassi su la
cerniera. “Bisogna prendere appuntamento, e andare proprio quel giorno
lì.”
Allora capii che non intendeva il ricovero per le ragazze madri, ma la
clinica degli aborti. L’anno precedente due ragazze incinte che
conoscevamo dalla scuola – Mary Mills e Sara Hayward – erano rimaste
quaro mesi nel ricovero prima di partorire e dopo Mary Mills si era
tagliata le vene con un cucchiaino da pompelmo. Nel nostro stato avevano
appena legalizzato l’aborto, ma nessun medico della contea li eseguiva;
bisognava andare nel Vermont.
“Oh, giusto,” feci io. Nel parco si alzò la musichea metallica, per cui
presi la mia cassea, quella con i soldi e il voluminoso rotolo di bigliei
arancioni, e mi avviai verso le scale, direa al terzo registratore di cassa
dove avrei svuotato il contenuto.
“Stasera,” mi inseguì la voce di Sils. “Non dimenticarti.”
“Giurin giurella.” Dissi proprio così. ando avevo quindici anni, lo
dicevo spesso.

Più tardi quel pomeriggio telefonai a mia madre, dicendole che non
sarei tornata per cena; chiamai invece LaRoue, che quell’estate lavorava al
canile. Puliva le gabbie dei cani e accudiva i gai, che nessuno voleva
ecceo lei. “Non so,” mi rispose, con il suo solito, strano tono contegnoso.
“Non lo so. La mami non sarebbe contenta.” La mami. La chiamava sempre
così. Ora io diventai stranamente contegnosa. “Be’, sopravviverà,”
dichiarai, e riappesi. Non pensavo a LaRoue, a chi era e a cosa avrebbe
desiderato dalla sua vita o desiderato da me, che non vi partecipavo
proprio da dentro, ma rotolando sui suoi margini come un fagiolo. Con lei
facevo l’irrequieta, la nervosa, l’indaffarata.
Ero concentrata su Sils. ella sera, dopo il lavoro, andammo al Dairy
Dreem a piedi a farci un cheeseburger e un frullato, sedute all’esterno
dirimpeo al vecchio Fond du Lac Fort, conquistato ai francesi dagli
inglesi nel Seicento e recentemente ricostruito per i turisti. Di tanto in
tanto tuonava una falsa cannonata, e un ragazzoo in divisa da soldato
inglese del XVIII secolo giubba rossa, cappello nero, parrucca con il codino
faceva un rullo di tamburo. Era il suo lavoro estivo. Nel porticciolo
fischiava il vapore della Vecchia Ruota che salpava per la crociera con
cena. Sulla statale 9 le macchine procedevano lentamente, nell’aesa che
accadesse qualcosa, o viceversa a tua velocità verso la spiaggia per i
fuochi artificiali, o verso il minigolf, oppure proseguivano verso Montreal.
Sils e io restavamo al Dairy Dreem, sedute ai tavoli da picnic accanto ai
bidoni della spazzatura, a mangiare i nostri cheeseburger con patatine
frie contenuti in cestini di plastica rossa. Ci sentivamo anonime, noi due
sole, come nella canzone: conoscevamo tue le canzoni che mai fossero
state scrie.
“Credo che mi sto ingolfando,” disse lei. “Sto pigliandomi in giro.”
Annuii comprensiva: versai altro ketchup sulla carta oleata come per
una simbolica sbadataggine, poi lo asciugai con le patatine. Di colpo mi
sentivo strana. “Da quando?” mi schiarii la voce, “da quando sei in
ritardo?” Sembravo un ragazzo imbarazzato, o un’infermiera. Un giovane
infermiere imbarazzato.
Credevo che avrebbe risposto una seimana, invece disse: “Due mesi.”
“Oh,” feci senza scompormi. Ma la mia padronanza delle basi sintaiche
andò in malora. “Non è meglio che ti sbrigassi in frea?”
Sils abbandonò la testa sul palmo della mano. I capelli le ricaddero in
lunghe onde sul viso. “Cristo, che nausea.” Allontanò il cibo. “Il problema è
che mi sa che non voglio che Mike lo sappia.”
Non dissi niente.
“Dopo tui gli anni che ha passato all’Accademia St. Alphonse di
Albany,” riprese in tono assennato, “lo vorrà tenere. Vorrà sposarmi. E io
non posso.”
“Sei troppo giovane,” assentii da brava spalla compiacente, coro greco
di onesta nullità; sebbene le parole fossero quelle della mia maestra
quando mi aveva sgridata per il rosseo. Inavvertitamente le avevo
assimilate, immagazzinandole dietro la linea delle labbra.
Sils si raddrizzò e mi guardò dria negli occhi. Portava un orecchino
con un brillante artificiale che interceava veramente il sole al tramonto,
emanando un lampo luminoso, quasi un segnale di soccorso. “Come faccio
a trovare cinquecento dollari se non lo dico a Mike?” Guadagnavamo un
dollaro e sessantacinque all’ora. Era il salario minimo del 1972.
“Li trovo io,” dissi d’un fiato.
“Scusa?”
“I soldi. Te li trovo io.” Era un’affermazione talmente temeraria e
assurda che lasciò entrambe mute, mute per tuo il resto della sera, anche
ai Sands mentre ballavamo, bevevamo e galleggiavamo nel casino,
sentivamo le buone vibrazioni, i confini del sogno, il sound liquido con le
forti, le dure percussioni del gruppo, e poi anche quando tornavamo a
casa, forse stavolta con qualcuno che conoscevamo; credo fosse uno che
conoscevamo.
E quando il giorno dopo mi svegliai, troppo piccola e giovane per la
cefalea e la nausea secca che fatalmente provavo, e all’improvviso troppo
vecchia per quanto mi accadeva, mentre il sole forava l’umido del maino,
andando al lavoro come uno spazzino, e la mia migliore amica meditava
l’aborto e mia madre, in menopausa e assorta nei suoi pensieri mi
accompagnava a lavorare senza dir niente, senza aprire bocca, limitandosi
a farmi scendere con l’ammonimento: “Fanno sessantacinque cents ogni
viaggio, ricordati”, per non sentirsi sfruata dai suoi figli e dar loro una
lezione sul denaro, perché tuo si paga, niente è gratis (“Sì,” risposi), con il
farmi pagare il passaggio giornaliero, un’abitudine il cui ricordo ora mi
imbarazza per entrambe: perché vivevamo così, con tui quei conticini
miserabili, incessanti? E indossai il vestito e il grembiule a righe, era
proprio lì che avevo imparato a essere furtiva, nascondendo alle altre il
mio corpo di bambina troppo esile, e guardai il mio numero sulla tabella,
presi la mia cassa e l’esaminai nel casseo del registratore: monete da
dieci dollari, da cinque, da uno, da un quarto, decini, nickel, tue con il
loro comparto, sistemate nel riquadro del casseo come un Mondrian o
uno stipo per le spezie; e niente cents, solo un grosso spazio vuoto per i
venti dollari; i cinquanta e i traveller soo il casseo; fu allora che capii
cosa avrei fao. Elementare. A scuola seguivo l’indirizzo matematico; era
per quello che mi avevano assunto. Mi venne in mente nel modo più
ovvio, come una cameriera che anno dopo anno vede i bigliei d’aereo sui
comodini delle stanze dove spolvera, di cui pulisce i bagni, e a un certo
punto un lampo, una visione istantanea, come un colpo di genio o forse un
colpo e basta, le dice che deve viaggiare, volare: afferrarli e partire. E così
fa, senza dire una parola.
Naturalmente la pizzicano.
Ma il mio piano era diverso. Se potevo farlo, l’avrei fao all’ora di
pranzo, quando le altre cassiere, Sheryl o Debbie, erano in pausa e io
dovevo sia registrare sia forare i bigliei rendendoli ai clienti, che, come
dice il moo, hanno sempre ragione.

“Fanno dodici dollari, prego.”


“Ma il bambino ha meno di quaro anni.”
“Certo, come no?” Roteavo gli occhi e mi meevo una
mano sull’anca.
“Cos’è, la figlia del proprietario?” domandavano.
Regolarmente i bambini s’indignavano. “Papi?”
“Che c’è?”
“Io ho sei anni. Sei.”
“Il piccolo non ha sei anni. Non gli dia rea.”
“Okay. Va bene. Oo dollari. Ecco i bigliei, Gesucristo.”
A volte non registravo. Aprivo il casseo e davo direamente la
matrice, tenendo il conto su un blocco per gli appunti in modo tale che più
tardi, prima di chiudere, potessi recuperare la somma dal registratore, o
sgraffignarla dalla cassea del denaro che portavo con me “per maggior
sicurezza” nello spogliatoio delle ragazze.
“Ventiquaro dollari. Ecco i suoi bigliei.”
“esti? Bastano questi qua?” chiedevano i clienti (“visitatori al parco”,
secondo il dépliant).
“Esao.” Li guardavo drii negli occhi.
“Solo questi qua? Facciamo vedere questi?”
“Seee.”
“Oh. Okay.” E si incamminavano verso l’ingresso del parco.
All’inizio non ci furono discrepanze né in eccesso né in difeo.
Araversavo il parco con la cassea fino al chiosco delle merende, mi
compravo una birra; indi, con un po’ di baicuore, andavo al bagno,
soraevo la somma calcolata tipo quarantoo dollari, una volta addiriura
novantasei e rendevo il rimanente a Isabelle, la nostra sovrintendente,
nell’ufficio di sopra. Non avevo molta paura, forse perché – a differenza
della volta che ero passata soo un camion fermo al semaforo rosso invece
di girargli aorno, e di quando avevo fao l’autostop per il lago la sera da
sola come test di ardimento, per scoprire il significato di me stessa,
buondio, qualunque cosa questo voglia dire; o quando in un raptus avevo
fregato da un negozio un maglione bestialmente agognato (noi dicevamo
“fao”: “Forte la tua camicia; te la sei faa?”) – agivo così per Sils, e per
un’emergenza.
Tenni il denaro a casa, soo la pila dei dischi, Carole King, Joni
Mitchell, Bread, e a fine seimana avevo raccolto
cinquecentocinquantadue dollari, appiaiti come buste soo il peso di
tua quella musica.

A volte con Daniel discutiamo degli anni sessanta. Lui è più vecchio di
me di nove anni, e quei tempi li conosce meglio, o in modo diverso.
“Fra noi due c’è un’incontestabile differenza d’età,” mi dice.
“Gap generazionale,” lo rimbecco.
“Disgraziatamente, c’è anche un gap vero e proprio. Noi abbiamo fao i
sessanta,” precisa lui, parlando a un plurale generazionale da cui sono
esclusa. “Abbiamo creato la controcultura. Voi eravate dodicenni.”
“Ma l’abbiamo ereditata,” faccio io. “E da bambini le siamo cresciuti
vicino, ci siamo nutriti di lei. La politica è stata il nostro lae. La
controcultura giocava insieme a noi al pianoterra; era il legno di cui
eravamo fai. Guardavamo voi dicioenni e diciannovenni, intrippati di
LSD sulla spiaggia libera o mentre giocavate nel parco di Horsehearts, con
le perline e le lunghe tuniche indiane. Ma quando noi siamo arrivati a
quell’età, niente più giochi né boe di acido. Solo Ford che perdonava
Nixon.”
“Cristo,” sbuffa Daniel.
“Ma una volta,” insisto, “tuo quel che sapevamo era lì: ribellione,
rivoluzione, e le canzoni che ne parlavano. Painavamo sulle note di e
Eve of Destruction. ‘L’Occidente sta esplodendo’: e noi facevamo i giri e le
piroee.”
Più o meno. Più o meno, è questo che dico.
“A ogni modo era roba nostra,” ripete lui. “Veniva da dentro di noi, non
da voi.”
“È vero, voi l’avete faa, ma con il risultato di espellerla, di mandarla
fuori. Eravate in grado di allontanarvene. E così è successo. Vedi, noi non
potevamo. Era dentro di noi. E quando nel mondo esterno non c’è stata
più, ci ha lasciato arenati, confusi, traditi, onanisti e condannati a essere
piccoli fuorilegge.”
“Onanisti e condannati a essere piccoli fuorilegge?”
“Certo.”
“Non puoi usare i sessanta in questo modo. Non puoi servirtene per
spiegare te stessa a te stessa.”
E ovviamente è proprio questo che voglio. Penso alle fandonie e ai
furtarelli che fanno crescere il cuore di provincia. Io sono andata oltre la
contestazione dell’autorità. Mi sono sentita invisibile a essa. Ma ora,
guardandomi alle spalle, voglio mentire dicendo che è stato il tempo, e non
il luogo. “Ma cosa è più potente, ciò che fai o ciò che erediti? Cosa è più
duraturo?” domando. “Capisco che ora stiamo dicendoci cose ridicolmente
generiche, ma ammeiamolo, così la conversazione è sempre più
divertente.”
“È il segno,” sentenzia lui, “di una persona che cerca scuse. I teppisti
che si giustificano con la politica.”
“Forse un teppista è già un fao politico.”
“Ma tu non sei una teppista.”
“Vero,” ammeo sospirando. E in questa bugia mi sento così vicina a
lui, così riconoscente. Così colma di pietà.
È così. Più o meno, il nostro modo di parlarci è questo.

Fu un martedì, il mio giorno di riposo, che decisi di mostrare il denaro


a Sils. Misi in ordine camera mia; passai l’aspirapolvere sul tappeto peloso
viola e cambiai lo scotch sul retro del mio poster dei Desiderata, di modo
che non facesse vela e non cadesse. Sii te stesso. Sei un figlio dell’universo.
Stai allegro. Loa per la felicità. “Dov’è la parte dove dice ‘Non correre
con delle forbici in bocca’?” chiese una volta Claude, ispezionandolo.
L’estate prima avevo anche un poster di Let it Be, uno di Spiro Agnew (su
cui avevo vacuamente scarabocchiato con una matita per gli occhi YEAH,
BRAVO SPIROTTINO BELLO!) e uno psichedelico, con una turbinosa scria
luminescente che diceva LA VITA È COME BENZINA DA 39 CENT AL GALLONE. Ma
quell’estate li avevo tolti, lasciando solo i Desiderata. Ora spolveravo gli
scaffali e la toelea, con il suo piano di carta adesiva simil-legno che si
staccava, e il sipario fao con una vecchia tenda ingiallita e qualche
puntina. Avevo una collezione di acque di colonia comprate al drugstore
del centro: Eau de Lemon, Eau de Love, Oh! De London! (Odekerk, Papi!
Odekerk!) Avevo un mucchieo di articoli di Seventeen su come ci si
prepara per un appuntamento in un’ora, in un quarto d’ora, in cinque
minuti, in trenta secondi. (Eccolo che appare inaspeatamente sul vialeo!
Che si fa? Svelta! Spazzolati i capelli e annodali con un fazzoleo stirato di
fresco!) Avevo uno specchio elerico da camerino, con tre opzioni diverse:
giorno-sera-ufficio. L’opzione ufficio era verdastra e particolarmente
livida, e mi chinai verso di essa, andando a caccia nelle lande dello
specchio, esaminandomi la pelle né bella né brua alla ricerca di
escrescenze e comedoni; spremendo dovunque potevo la pappea acquosa
dai miei pori. indi li strofinai con l’alcol, rendendoli paonazzi e puri. Mi
diedi il trucco lucido e scuro con teatrale ridondanza, come se il mio viso
dovesse essere notato da molto lontano.
Aorcigliai i capelli sui bigodini appesi soo la toelea. Mi infilai un
pagliacceo con scollo rotondo e gli shorts Wrangler, a cui in marzo avevo
scucito l’orlo, peinandolo con cura per oenere una frangia di azzurro
più chiaro. Infilai nei passanti la mia cintura di macramè. Misi qualche
disco, Laura Nyro, Carole King: la mia vita è stata un arazzo di una tinta
ricca e splendida. Mi spalmai su un polso dell’estrao di vaniglia, e
sull’altro frizione da bagno Jean Naté, poi li strofinai assieme. Era la mia
mistura personale. Volevo essere originale. Volevo essere io! Tolsi i
bigodini e rimossi con la spazzola le irregolarità lasciate nei capelli dalle
forcine; crollai sul leo in aesa. Effeivamente si traava di un semplice
materasso posato sul pavimento, senza cassone, come quello di Sils, cioè
come lo volevo io, e lo avevo coperto con un coprileo stampato con
disegni rosa e arancio dei pellirosse, che chiamavamo appunto “l’arazzo”.
L’avevo comprato l’anno prima ad Albany nel centro shopping di Macy’s,
con mia madre. “Sicura che vuoi quello?” mi aveva chiesto.
“Sicurissima.”
“Okay, la stanza è tua.” Il centro shopping di Albany per me era un
castello incantato, e ci compravo all’impazzata, senza criterio, come se
fossi ubriaca.
Sdraiata sul leo, guardavo in su. Invece di un comune lampadario da
soffio avevo un rifleore rosa, e gli avevo aaccato uno schermo di carta
ad alveare, probabilmente contrario a ogni precauzione antincendio. Che
mi importava? Non possedevo niente che avesse valore. Sarebbe andato
tuo bene. Desideravo solo che il mio corpo sbocciasse, e sanguinasse, e
fosse amato. Volevo visitare posti e fare cose insieme a Sils.
Sentii la bici scricchiolare sul vialeo e fermarsi. Sils graò la
zanzariera con una chiave; io mi alzai e andai alla finestra.
“Ciao,” mi sorrise, scrutando nella stanza araverso la griglia,
rugginosa come tue le nostre zanzariere. Portava i suoi migliori blue
jeans, e la camicia bianca senza maniche soo un giubboo di jeans.
Conoscevo i suoi vestiti a memoria.
“Entra dal davanti,” le dissi. “Non è chiuso a chiave.”
“I tuoi ci sono?”
“Ehm… solo LaRoue e mia madre.”
“Ho portato una cosina,” fece lei, baendosi la tasca sul peo del
giubboo. “Lascia aperte le finestre della vita, baby.” La guardai
accompagnare a mano la bici all’ingresso, e aesi che suonasse il
campanello. Andò a rispondere LaRoue.
“Berie,” gridò LaRoue burbera, forse anche stizzita ma perché? Non
gliel’ho mai chiesto. “È per te. Silsby Chaussée alla porta.”
“Falla entrare,” le gridai a mia volta.
“Vacci tu,” ribaé LaRoue, tornando a grandi passi verso camera sua.
“Basta urlare, ragazze!” ci rimproverò mia madre dal piano superiore.
Incontrai Sils già a metà strada, in sala da pranzo: la presi per un
polsino del giubboo e la condussi in camera mia. “Classico pomeriggio in
casa Carr,” osservò lei.
“Odio questa famiglia,” le dissi chiudendo la porta a chiave. In casa
nostra avevamo le porte vecchie: serrature con chiavi universali, che
eravamo tenuti a lasciare nella toppa.
Tuavia potevo chiudermi dentro e bloccare il chiavistello: una volta
eseguita l’operazione, vidi il sorriso di Sils trasformarsi in un borboio a
sguardo fisso. “Cazzo,” ripeteva, frugandosi la tasca in cerca dello spino e
accendendolo con i fiammiferi del Sans Souci. Aspirò e traenne il fumo in
profondità, come il segreto più mostruoso del mondo; poi lo sbuò tuo
insieme con uno strillo.
“To’,” mi disse passandomi lo spino con cui andai alla finestra sul retro,
dove mi lasciai cadere sulle ginocchia già arrossate dal tappeto, espirando
il fumo vicino alla zanzariera.
“Sai, continuo a pensare a quello che ho dentro,” disse Sils. “Una specie
di soldatino di stagno che è l’inizio del bambino. Però non sento niente.”
Mi voltai a guardarla, ma eravamo sedute troppo vicine, perciò mi girai
di nuovo verso la finestra: scrutai a distanza media, poi allungai lo sguardo
verso gli alberi e tra le foglie, ricordando la noe dell’uomo con la pistola
che gli spunta in mano come un pupazzeo in una scatola a sorpresa
mentre la dolce mezzanoe estiva aleggia accanto, appena oltre le piante.
anto correre verso il primo boscheo, e poi verso un altro e un altro
ancora, come una rappresentazione di tua la vita.
“Non so proprio come farò a gestire tuo il casino senza che nessuno
se ne accorga,” continuò Sils.
Tuo si stava facendo vago, bizzarro. I miei dischi, impilati sul perno
del cambiadischi, aerravano sul piao uno dopo l’altro: i Moody Blues;
Stevie Wonder; Billie Holiday; Crosby, Stills & Nash; i Rolling Stones. Ogni
canzone conteneva la parola “martedì”. Martedì pomeriggio. Martedì di
crepacuore. Ruby Tuesday. Forse il martedì sarebbe stato il mio giorno
fortunato. Vieni a trovarmi di martedì e di sabato?
Forse era giovedì e sabato. Ma il martedì mi piaceva di più. Un giorno
per due. A volte quando cantavo da sola, abbandonata in estasi sul leo,
reinventavo le parole a piacimento.
“Ho una cosa da farti vedere,” dissi alzandomi e ridandole lo spino.
Andai allo scaffale e sollevai la catasta dei dischi, quelle decine che non
avevo messo sullo stereo – Big Brother and the Holding Company,
Melanie, Seals and Cros, una raccolta di concerti di Neil Young registrati
abusivamente da un pirata con la tosse – e le mostrai il denaro, appiaito
e inerte, inestimabile e cloroformizzato come uno sciame di farfalle.
Sils trasalì.
“È per noi,” sussurrai. “Per te.”
“I soldi?” Non capiva.
Controllai nuovamente la porta. Chiusi imposte e finestra e mi sedei
alla toelea, sullo sgabello girevole rivestito di peluche. Per vedere, accesi
lo specchio, scegliendo il verde nauseabondo dell’opzione ufficio. Poi feci
una risata stridula, anche se non volevo. “L’ho preso,” dissi.
“L’hai preso?”
“L’ho raccolto. Come dire? Me lo sono fao. Cioè, vendevo i bigliei e
non li baevo.”
Mi guardò, poi guardò a lungo il denaro. La zucca trasformata in
carrozza: speravo che lei lo vedesse così. Per quel giorno, martedì, sarei
stata la sua fatina buona. Cercai di deglutire, ma l’erba mi aveva reso la
gola secca e amara, le gengive aride e assetate. Dovevo concentrarmi per
non ridere. O piangere. O cantare. Dovevo concentrarmi per vedere.
Dopo un secolo alzò gli occhi su di me. Chiese soltanto: “Ma non li
contano gli scontrini?”
“Naaa,” risposi. “A quanto ne so, no.” Poi scoppiammo a ridere. Un riso
idiota.
Sils passò a rimproverarmi ironicamente. “esto, esimia signorina, ti
resterà sul curriculum scolastico,” mi ammonì agitando l’indice.
“Prendiamo un dollaro e sessantacinque all’ora. Tu credi che Frank
Morenton, che tra parentesi è il padrone di mezza contea, se ne accorgerà?
È troppo occupato ad aprire il Villaggio di Babbo Natale, su a Dalesburg.”
“Io dico che gli sta bene, così impara a non darci l’aumento.” Ora
allungava una mano per toccare il denaro. “Si va al concerto della James
Gang?” disse all’improvviso. Alzò le banconote. Ne scelse una da venti, e
la agitò nell’aria.
“Scusa?”
“La James Gang dà un concerto all’aperto, al Centro creativo, sul lago.
Cristo, con tui questi soldi potremmo andarci in taxi.”
“Magari riesco a convincere LaRoue a portarci lei,” obieai incerta.
Volevo risparmiare. “Aspea che vado a chiedere.”
LaRoue era in cucina che si lucidava gli stivali da amazzone. “Sai,
pensavamo di andare a un concerto,” esordii melliflua, cercando
diplomaticamente di prenderla da lontano.
“E vorresti che vi portassi in macchina.” Aveva un tono indignato, ma
anche un po’ triste.
“Non vorresti venire con noi?” le chiesi con vivacità ipocrita.
Per un pezzo guardò gli stivali, come se dovesse acceare una sfida. Li
aveva messi sul tavolo della cucina, sopra una pagina della Horsehearts
Gazee. “E che concerto sarebbe?”
“La James Gang.”
“A che ora?”
O Cristo, ci stava per davvero. “Alle oo. Ma vogliamo essere là per le
see.”
“E la cena?”
“Mami ha deo che è una serata faidate.” Appena poteva mia madre
rifiutava di cucinare, baezzando gaiamente quelle occasioni serate
“faidate” o “ognunopersé”. Un anno, in una delle sue collere più cupe,
aveva cancellato il Natale proclamando: “Il giorno di Natale è abolito.”
“Eh, ma io volevo farmi i maccheroni e il dolce al cioccolato,” si schermì
LaRoue. Era terribilmente sovrappeso, anche se meno di quanto sarebbe
diventata qualche anno dopo. Ammiccai.
“Lascia perdere,” le dissi. “Vieni con noi. Possiamo fermarci da
Carroll’s.” Carroll’s era un piccolo fast food, che di lì a poco sarebbe stato
spazzato via da McDonald’s: ma all’epoca era il nostro predileo, con i
suoi colori rosso vivo e turchese, e il nome scrio in caraeri squadrati e
stilizzati.
“Okay!” acceò LaRoue: e proprio allora mi resi conto che non avevo
mai fao niente assieme a lei perché era strana, non aveva amici e mi
creava imbarazzo. Mi sentivo caiva per questo, ma era una realtà, triste e
incontestabile.

Io sedevo davanti e Sils dietro: continuavo a voltarmi, e per tuo il


viaggio fino al lago non smeemmo di cantare And When I Die: a due voci,
come avevamo imparato l’anno prima nel coro femminile. La maestra del
coro, Miss Field, ne aveva fao un bell’arrangiamento.
“Non ho paura di morire, non me ne importa molto,” iniziò Sils.
“Se è la pace che incontri nella morte, che l’ora si avvicini.”
“Alla vita chiedo solo che non mi imponga catene!” esto
praticamente lo urlavamo. Era il verso che interpretavamo meglio, forte
forte ma lento, con alcuni intervalli insoliti, per lo più di terza. Canzoni
della James Gang in effei non ne conoscevamo, o meglio, ne sapevamo
una, quella famosa, il grande successo, ma non troppo bene.
Da Carroll’s ordinammo cheeseburger e frullati alla vaniglia e ci
sedemmo al bancone di òrmica, guardandoci l’un l’altra mentre
mangiavamo, o adocchiando un ragazzo che faceva pulizia dietro la
friggitrice, o quell’altro che si fermava fuori, sparando In-A-Gadda-Da-
Vida dal registratore dell’auto; o ricambiando lo sguardo di LaRoue, che ci
scrutava come se stessimo tramando qualcosa.
Il posteggio del Centro creativo era già pieno, e deviavano l’afflusso
verso quello d’emergenza, sul retro, normalmente riservato ai dipendenti.
Parcheggiammo laggiù, scendemmo e ci dirigemmo verso l’ingresso,
portando con noi una vecchia coperta, una confezione da sei coche, e un
paccheo di sigaree. Eravamo circondate da giovanoi con lunghe barbe
e jeans sfrangiati, ragazze vestite da contadine in sandali di bisonte e
braccialei d’argento, che trasportavano thermos, ghiacciaie e ombrelloni
con scrio PACE. All’ingresso i polizioi controllavano se thermos e
ghiacciaie contenevano alcolici, ma a parte questo si sentiva nell’aria un
che di magico: l’atmosfera chiassosa, affollata, estiva di un concerto rock,
magari non proprio Woodstock, ma all’epoca di Woodstock avevamo solo
dodici anni. Adesso ne avevamo quindici, e per noi fu un avvenimento:
tui i più grandi erano già stati ad altri concerti, e partecipavano con
calma ed esperienza; non c’era niente di nuovo, niente che potesse
coglierli impreparati. Alcuni avevano portato i bambini. Noi studiammo
quei modelli, ci meemmo in coda per sedere vicino a loro sul prato. I
posti prato erano i più economici: due e cinquanta a cranio. Pagammo,
ricevemmo i bigliei, entrammo.
In quel periodo la musica evocava in noi vari stati allucinatori ed
erotici. Una canzone era la verità senza tempo celata soo la superficie
delle cose. Era una gita al mare faa senza muoversi. Un colpo al cuore,
come quando un ragazzo che ci piaceva entrava improvvisamente nella
stanza. Ci colmava di eccitazione e di timida, profonda consapevolezza.
Due e cinquanta non erano niente. Andammo avanti, ci immergemmo
nella pace della moltitudine. Preparammo i nostri cuori a qualcosa di
trascinante e di grande.
Chissà come, ci trovammo divise da LaRoue. Di proposito? Ricordo che
in macchina aveva fao la spilorcia, negandoci un chewing-gum sebbene
in tasca ne avesse quaro pacchei. Poi, quando Sils e io eravamo passate
dall’ingresso, superando i biglieai e prendendo una direzione
leggermente obliqua, la folla ci aveva separate da LaRoue, che ci arrancava
dietro troppo lentamente. Credo di avere sentito la sua voce, ma non mi
voltai.
“Ehi, voi. Aspeatemi!”
Proseguimmo drie verso una buona postazione, su una collina vicino
a una palafia di cemento: era lì che ci sedevamo ai concerti,
appoggiandoci ai pilastri per bere le coche, e riparandoci soo la scala
della terrazza se pioveva.
“Dov’è LaRoue?” chiese Sils.
Finalmente mi guardai intorno. Non la vedevo proprio, e mi sentii
sgomenta per la riuscita di quella frode, per averla sfruata fino al
midollo. Dov’era finita? Esaminai il prato del concerto gremito di volti e
teste, coperte, giubboi, ghiacciaie pensando: può anche darsi che avvisti
LaRoue in un angolo in disparte, tra i rifiuti, seduta isolata e senza coperta,
con un’aria sperduta e cicciona.
“Non so proprio dove sia,” tagliai corto. “Troveremo un altro modo per
tornare.” Lo dissi con disinvoltura. “Facciamo l’autostop.”
“Forse,” frenò Sils. “Vorrei essermi portata una canna.”
Invece accese una Salem e ne offrì un’altra a me, che non mi feci
pregare.
Linda Ronstadt faceva da apripista alla James Gang, e durante la sua
esibizione tui continuarono a farsi gli affari loro come se fosse una
ragazzoa del posto che era riuscita a salire lassù per riempire l’aesa.
ando alla fine apparve la James Gang, la gente si alzò in piedi e li
acclamò. Il cielo si era fao più scuro, e il palco brillava come il fuoco in
un camino. L’aria era tua un fumo vischioso d’erba. I ragazzi vicino a noi
ce la offrirono e noi acceammo, apponendo le bocche sulla carta bagnata
dov’erano state le loro e facendo passare, come se fosse una comunione, o
una petizione faa di cenere e saliva: una grossa palla fumante di sputo
sparata contro tui gli insegnanti del mondo. “Signore e signori,
buonasera!” La folla rispose con un boato, e la band iniziò.
Poi per un’ora le chitarre eleriche piansero e rantolarono per
protestare contro tuo quello che eravamo costrei a essere nella vita.
“Che forza,” mormorava la gente intorno a noi. aro ragazzi si issarono
sul parapeo della seconda fila e cominciarono a dondolarsi avanti e
indietro seguendo il ritmo, fra sobbalzi e scai. Era una danza cui avevo
già assistito altre volte. La suscitava l’acido? Una possibilità che mi
affascinava e mi faceva paura. “Vuoi farti un trip, un trip di zucchero, un
trip fra le montagne dello zucchero?” Me lo avevano chiesto nei bar, ma
rispondevo: “No, grazie.” Per spericolata che fossi, temevo il danno
neurologico. Mi aerriva l’idea di generare una specie mutante; credevo a
tuo quanto si diceva allora sui danni al “materiale genetico”, nientemeno
– anche se poi si seppe che non era vero.
Avrei potuto salire lassù con quei ragazzi.
L’aria del lago cominciò a pungere un po’ di più, Sils e io ci
raggomitolammo soo la coperta. Sentendo così vicino il suo calore pensai
a quanto era diventato raro in quel periodo che dormissimo insieme, io nel
sacco a pelo ai piedi del suo leo, o lei ai piedi del mio, a quell’intimità
routinaria, con le chiacchierate nelle nostre camere buie, il silenzio
sepolcrale fuori dalla finestra e noi che scherzavamo e sospiravamo, e poi
il sonno, insieme nella stessa stanza, fianco a fianco in dueo, con i respiri
barcollanti come in un canone alternato. Avevamo litigato una sola e unica
volta – lei mi aveva accusato di avere elaborato scientemente una risata
uguale a quella di un’altra, una certa Leslie Fish. Mi disse che volevo
diventare l’amica di Leslie ed essere come Leslie, ferendomi così
sanguinosamente che le diedi una boa sul braccio e corsi a casa in
lacrime, aspeando che la seimana finisse per tornare a esserle amica.
Sulla risata aveva ragione, e non risi mai più così.
Ora tui si alzavano dal prato, e noi li imitammo, avvolte nella grande
coperta-mantello; la gente accendeva i fiammiferi per chiedere il bis, e
intorno a noi tuo sembrava una fantastica torta di compleanno in mezzo
al buio. Ma la band non tornò sulla scena, e perciò raccogliemmo la nostra
roba e ci unimmo alla folla che usciva. Cercai invano con lo sguardo
LaRoue, sentendomi ferita, ormai, dalla crudeltà che le avevo inflio come
da una scheggia piantata nella carne della mia disperata memoria, dove
resterà sempre, per quanta pelle le cresca tuo intorno. Che cos’altro può
fare la memoria? Niente: pretende di mangiarsi la bomba delle nostre
azioni, ma non sa né deglutire né masticare.
Guardai verso il parcheggio dove avevamo lasciato la macchina, ma
non la vidi.
“Chiamiamo un taxi,” propose Sils.
“Come sarebbe?”
“Con i soldi, ci facciamo portare a casa in taxi.”
“Probabilmente ci sarà qualcuno che conosciamo.” Ero restia a spendere
il denaro in quel modo.
“Chi, per esempio?”
“Non so,” buai lì, “forse Markie Russo e quegli altri ragazzi.” Un tempo
Markie Russo si era preso una coa per Sils, ed ero sicura che si sarebbe
buato a corpo morto per darci uno strappo. Ma tui si dirigevano senza
esitazione alle rispeive auto, e io non riconoscevo nessuno.
Continuavamo a camminare avvolte nella coperta come due orfanelle del
Medioevo.
“Là, un telefono,” disse Sils, e chiamammo il taxi. Servizio Radiotaxi
Hiller. Poi aspeammo vicino alla cabina, fumando sigaree e baendo i
piedi, mentre la folla si disperdeva.
Il tassista che venne a prelevarci era un curioso esemplare di nano:
testa lustra e in via di stempiatura; dita grasse come salsicce; il corpo
sferico e tarchiato, e le gambe così brevi e deformi che avevano dovuto
modificare con un marchingegno la pedaliera del taxi per permeergli di
guidare.
Salimmo, gli comunicammo l’indirizzo, e lui cominciò a uscire dal
parcheggio. Il traffico dei reduci dal concerto era intenso, e si ingorgava
sull’angolo oltre il lampione principale. Ci vide nel retrovisore che
esaminavamo i nostri soldi. Avevamo portato quaranta dollari, e stavamo
contando quanto ci rimaneva.
“Dov’è che lavorate, ragazze?”
Non dissi nulla. Guardai fuori dal finestrino, oltre il traffico, verso il
lago.
“Storyland,” rispose Sils. L’erba aveva conferito alla sua voce
un’inflessione stridula e arrogante. “Io faccio Cenerentola,” aggiunse. Capii
che voleva impressionarlo, così, per puro divertimento.
“Davvero?” tornò a guardare nello specchieo: per radiografarla, avrei
giurato, ma invece tenne gli occhi soprauo su di me. Come se fossi una
guardia del corpo, o un’interprete. “Pensa che ci ho lavorato anch’io,
facevo Humpty Dumpty l’uomo-uovo amico di Alice, prima che
comprassero quello lì di ceramica, quello meccanico.” Finalmente si voltò a
guardarci tue e due con aria speranzosa.
“Ma va’?” dissi io.
“Ti dobbiamo chiamare Humpty?” chiese Sils.
“Come no,” sorrise il tassista.
“Ma non possiamo chiamarti Humpty,” brontolò lei. “Ti dovremo
chiamare, uhm… Humphrey!” Scoppiammo in un riso grossolano, dopato,
ma lui ci imitò, per cui tui e tre restammo lì; seduti nel mezzo del traffico
nourno a sghignazzare nel modo incontrollato e isterico delle persone
che raramente nella vita hanno oenuto ciò che volevano, anche se non è
che si siano dannate per averlo.
Non smeevamo più. Il riso, soprauo quello di Humphrey, degenerò
in singulti e lacrime. I tre mai di Horsehearts? Che spasso! Non
riuscivamo a smeere. Anche quando il nostro tassista si calmò, Sils e io
continuavamo ad ansare sprofondate contro i finestrini. Lui sospirava, e si
schiariva la voce senza parlare, imboccando le vie giuste per tue le dieci
miglia che ci separavano da casa mia. Ripensai alla quinta elementare,
quando la maestra di scienze aveva scelto alcuni di noi come pianeti e ci
aveva collocato dove, relativamente parlando, i pianeti in effei si
sarebbero dovuti trovare. La biblioteca, in centro, era il Sole e Jerry
Murphy, che faceva Mercurio, fu piazzato proprio sui gradini della
biblioteca. Sils, in quanto Venere, doveva stare vicino al monumento alla
guerra civile, a due isolati di distanza, avvolta in un manto di garza che in
teoria somigliava alle nubi. Ma io ero Plutone, e la mia postazione era a
diverse miglia dalla cià, in aperta campagna. La maestra mi ci portò
personalmente in auto. Restai in piedi tuo il pomeriggio, in tutina nera,
vicino a un cascinale e a un campo di mais, con il mio cartellino di
Plutone. Passarono gli inviati del giornale locale a fotografarmi, e i fratelli
più grandi di Sils, in macchina, che mi suonarono il clacson e mi derisero
sguaiatamente. Nonostante l’umiliazione, mi sentii vicina a Sils. Grazie ai
suoi fratelli. Perché eravamo tue e due fuori scuola, e i suoi fratelli erano
passati a vedermi.
Non so perché, ma provavo la stessa sensazione anche adesso, sul taxi,
con il tassista, e tui e tre che ridevamo. Mi sembrava, forse per via
dell’erba, che fossimo tui pianeti dello stesso sistema solare – proprio
quello che avevo sempre desiderato, che da sempre chiedevo agli altri, a
tui, in tui i casi.
“Grazie,” gli dicemmo scendendo; e gli lasciammo venti dollari di
mancia. “Giusto per mandarlo fuori di testa,” bisbigliò Sils.
“Dici che ce l’abbiamo mandato? Fuori di testa, voglio dire.”
Apparentemente non esaminò le banconote. Se le mise in tasca e stop.
“Le guarderà. Le vedrà,” disse Sils.
ando entrammo era rimasto alzato solo Claude. Stravaccato sul
divano, soo una coperta, guardava la tele come un ammalato. Negli
ultimi sei mesi era cresciuto, secondo i canoni sproporzionati degli
adolescenti e delle piante tue stelo: gambe e piedi si slanciavano come
antenne da polsini e gambali. D’altra parte, era ancora un ragazzino, ed
era timido. Ho sempre sospeato che fosse coo di Sils.
“Ciao,” grugnì, volgendo imperceibilmente la testa verso di noi.
indi arrossì e tornò a guardare la televisione. “Ciao,” risposi.
“Ciao, Claude,” trillò Sils, vagamente civeuola.
“Ciao,” ripeté lui.
“LaRoue è già rientrata?” domandai in preda a un’improvvisa
preoccupazione.
“Esao,” mi rispose distraamente. Nient’altro. Ci dirigemmo verso la
mia stanza in punta di piedi, cercando di non far scricchiolare il pavimento
per evitare che uno dei miei genitori scendesse a farci la ramanzina perché
tornavamo tardi, e perché più in generale ci comportavamo da ragazzine
irresponsabili.

ando, molti anni dopo, mi sarebbe riapparsa in sogno, fra altre


persone; o pensando agli amici che non vedevo più, quelli che avevo
acconsentito a perdere, a tenere fuori dalla mia vita, nel sonno o nel
pensiero mi riappariva spesso come quella maina, quando si alzò e corse
in bagno a vomitare; ritornò nella stanza livida e sudata, e le diedi il mio
accappatoio. Era di quelli bianchi a strisce blu, e i capelli le ricaddero nel
colleo dandole un’aria da paggio, come una cornice, o il cappuccio di un
saio intorno al suo viso. D’inverno, quando portava il cappoo, spesso
appariva proprio così: con i capelli raccolti all’interno, come se
improvvisamente li avesse tagliati alla maschiea. Ricordavo ogni sua
mise, ogni sua acconciatura: ne alternava almeno una decina, e io le
conoscevo tue. Ogni volta che ne rivedevo una, mi dicevo: “Ah, certo:
quella.”
“Dovrò proprio prendere un appuntamento e andare,” commentò lei.
Le portai il succo d’arancia con l’acqua ghiacciata e il toast, imburrato
con tale energia che il pane si era roo.
“Vengo con te,” le dissi. “Chiamiamo Humphrey, e andiamo.”
Così facemmo.
La seimana dopo Sils andò dal medico del luogo, che le fece un test di
gravidanza e le diede il referto. Poi telefonammo al nostro tassista
Humphrey, chiedendogli di venire a prenderci all’ingresso secondario del
parco, vicino allo stagno dove si narrava che avessero geato i cavalli
senza cuore. Saltammo in auto e partimmo per il Vermont.

“Piacere di rivedervi, ragazze.” La strada seguiva la vecchia Boston Post


per poi passare fra campi coltivati e montagne, costeggiando piccoli
frueti e camposanti con pie chiesee e tombe bianche. Ci sarebbe costato
seantacinque dollari, andata e ritorno, mancia compresa. Pensavo, mi
ricordo, che una volta le donne morivano di febbri prese pungendosi con
le spille dei cappelli, e ancora tanto tempo dopo restava sempre duro
essere una ragazza, doversi tirar dietro questi corpi che non funzionavano
mai perfeamente: ferite che andavano sanate, teste a cui servivano
cappelli, correivi, correivi.
“Piacere anche per noi,” risposi.
Adesso la campagna ci scorreva vicino con un ritmo atemporale, e lì in
mezzo mi sentivo una specie di Robin Hood. Deruba, paga, dona: nel furto
esistevano regole, per quanto improvvisate, e avevo l’impressione di
capirle.
Avevamo l’indirizzo della clinica: 217 Elm Street, Rutland e
seicentocinquanta dollari in bigliei da cinque e da dieci, anche qualcuno
da venti. Sils indossava una delle mie camicie, una blusa verde a fiori con
le maniche a sbuffo e booni piccoli sul davanti. Chissà perché l’aveva
voluta: dopo avere esaminato il contenuto del mio armadio, l’aveva
staccata dalla stampella. “Posso meermi questo per l’aborto?” aveva
domandato, e io, sobbalzando: “Ma sicuro, se vuoi”, sebbene la richiesta mi
aerrisse, facendomi pensare troppo al sangue, tanto da chiedermi se dopo
tuo facevo bene a dirle di sì. Ma adesso era seduta vicino a me con quel
vestito, che le donava ben più di quanto avesse mai donato a me, i seni che
tendevano il tessuto, mentre i miei immancabilmente palpitavano
rarappiti soo una linea che non sapevano modellare.
Superammo Hope, Argyle Hall, Mount Bliss e East Creek, sede
dell’ospedale per le bambole di East Creek, dove quando ero piccola la
mamma portava a riparare le mie bambole: una vecchia magione
vioriana, piena fino ai soffii di bambole roe – Barbie e bebè dagli occhi
luminosi – accatastate una sull’altra nel salone, sulle scale del primo
piano, nei vani delle finestre. Ci abitava una vecchia signora, che
raccoglieva le bambole per procurarsi le parti di ricambio, soprauo
occhi e arti, e se la tua bambola aveva qualche problema, la portavi a
questa signora che la riparava, la teneva con sé per una noe: “La teniamo
qui a dormire, le prepariamo il tè e la facciamo riposare un po’.” Era
tremula e irascibile, ma con un modo di ammiccare che le addolciva
l’espressione facendo capire ai bambini che non bisognava averne paura:
teneva molto a questo, sebbene molti adulti della cià, quelli senza figlie
femmine, non ne fossero troppo sicuri. La sua casa sembrava la casa della
strega, con i ragni in veranda e una quantità di pipistrelli che volavano via
dal comignolo all’imbrunire.
Mentre passavamo vicino alla casa mi chiesi se la vecchia c’era ancora.
Erano passati dieci anni, chissà com’era diventata? Ricordai che qualche
anno prima avevo visto sul retro delle scatole piene soltanto di braccia, o
solo di gambe, o solo di occhi, e pensai: chissà che effeo mi farebbe
rivederle ora, da questo specifico taxi, mentre vado a risolvere questo
specifico problema. Mi voltai a guardare mentre la macchina accelerava,
riuscendo a scorgere dietro una finestra teste e visi e vestitini. La casa era
ancora bianca con le decorazioni rosa; c’era ancora l’altalena in veranda, e
il pozzo al centro del cortile, ma adesso di fianco sorgevano una pompa di
benzina e un fast food.
“Ecco l’ospedale delle bambole,” sospirò Sils, “con tua la sua facile
ironia.” Facile Ironia era il nome della vecchia band dei suoi fratelli.
“Esao,” confermai. Mi voltai verso di lei, per osservarla, ma distolse
rapidamente lo sguardo, appoggiandosi al bracciolo e fissando la strada.
All’epoca non c’era niente a Horsehearts, non un solo edificio che
avesse l’aria condizionata. Dopo una pioggia estiva l’umidità penetrava
nel legno, in modanature e ringhiere. Telai e infissi delle finestre si
gonfiavano. A volte, per il vapore accumulatosi all’interno, le ringhiere e
gli scalini diventavano appiccicosi, i vetri si appannavano, tui i cracker di
casa irrancidivano. I dermaeri girovagavano per i lavelli. Tei e grondaie
di plastica, arroventati, riempivano l’aria di un odore di umido
bruciaticcio.
Ma lì, sul taxi, c’era il condizionatore. Tuo era ordinato e fragrante, e
quel lusso depurava quanto stavamo facendo di ogni idea di emergenza.
Era come se avessimo vinto un piccolo premio, e malgrado i nostri affanni
ci toccasse proseguire quel viaggeo fresco e profumato. Parlammo molto
poco. A un certo punto Humphrey accese un po’ di musica, e ascoltammo
quasi tua A Horse With No Name, ma le montagne disturbavano la
ricezione, per cui dopo un po’ spense. Normalmente, nel silenzio del taxi
avremmo cantato, ma io non mi azzardavo se non cominciava prima Sils.
La spiavo per cogliere il momento. “La-la-la-la-la-la,” aaccò a un certo
punto, in tono scherzoso, ma smise subito.
“Lu-lu,” continuai. “Li-li.”
Costeggiammo vecchie faorie bruciacchiate, frueti e campi di
granturco. “Potremmo fare il coro delle ranocchie,” suggerii ad alta voce. Il
coro delle ranocchie era quando i coristi ripetevano contemporaneamente
all’infinito ciascuno il nome di un ortaggio diverso, e in una diversa
tonalità, creando una spassosa baraonda. Patata, patata, patata. Carota,
carota, carote mai più.
Sils mi lanciò un’occhiata torva, raggelante, che voleva dire “Non
essere patetica”. Poi tornò a guardare dal finestrino.
Dio mio, la vita era piena di momenti che sarebbero dovuti andare
diversamente; e invece, no.
“Rutland! Ci siamo!” annunciò Humphrey. “Com’era l’indirizzo?”
“Elm Street,” rispose d’un fiato Sils, già un po’ pallida. “Due-diciassee.”
L’aveva memorizzato come la combinazione di una cassaforte. ando il
taxi si fermò scese velocemente, si geò la borsea sopra la spalla e
avanzò in tua frea.
“Aspea qua,” dissi a Humphrey, domandandomi come si sentiva, a
farsi comandare a bacchea da due ragazzine.
“Agli ordini,” rispose. Gli allungai trentacinque dollari e scesi come un
fulmine seguendo Sils, la mia camicia verde e l’insegna che diceva INGRESSO
CLINICA.
Dentro, dopo che Sils si registrò in acceazione, io diedi all’infermiera
tui i miei soldi (salvo due bigliei da venti nella tasca davanti degli
shorts), e lei li contò direamente sul banco di fronte a noi; ci sedemmo su
delle vecchie seggiole di cuoio marrone, in aesa che chiamassero il nome
di Sils. Mi ero portata un mazzo di carte, così giocammo per almeno venti
minuti: prima vincevo io, poi Sils, e poi finimmo sostanzialmente a pari.
“Silsby Anne Chaussée?” lesse un’infermiera sul suo notes, sebbene
nella stanza non ci fossimo che noi.
“Ciao,” pigolai.
“Ciao,” squiì Sils di rimando.
Aspeai per un po’, leggendo degli opuscolei sulla contraccezione e
sulle malaie veneree: la stanza era caldissima così decisi di uscire per
tornare da Humphrey nel taxi con l’aria condizionata.
Salii sul sedile posteriore e chiusi la portiera. L’aria era gelida e mi fece
trasalire piacevolmente. “Salve,” dissi. Che cosa penserà di noi, di quello
che stiamo facendo? Non lo diceva; semplicemente, guardava oltre il
parabrezza, e di tanto in tanto nello specchieo retrovisore.
“Ho pensato: meglio aspeare qui,” gli dissi.
“Oimo.” Si spostò imperceibilmente sul sedile. “Ti va di giocare a
carte?” domandai.
Lui si spostò ancora, accennando a girarsi, con un sorriso asimmetrico
e impacciato. “Che gioco?”
Pregai che non fosse un pervertito. Non si sa mai. “Ti faccio vedere,”
risposi con cordialità ipocrita; scesi con le carte e rientrai dalla portiera
anteriore, sedendomi accanto a lui e distribuendo le mani. Poi glielo
spiegai.
Dieci minuti dopo, si agitava sul sedile tuo entusiasta. “Mi sa che ho
afferrato il conceo,” dichiarò.
“È un gioco fortissimo,” dissi, anche se stavo perdendo, ero troppo
timida nelle puntate.
Dopo tre quarti d’ora, qualcuno bussò al finestrino: era Sils, accaldata e
inviperita. Balzai fuori ad accoglierla. Le misi una mano sul braccio soile
e abbronzato.
“Tuo okay?”
“E tu, dov’eri?” mi chiese a bruciapelo.
“Sono venuta al fresco.”
Humphrey girò intorno al taxi per aprirci la portiera di dietro e
salimmo una dopo l’altra: Sils un po’ guardinga, io con un’aria di
freolosa efficienza, stringendo ancora le mie carte. Humphrey mi rese le
sue. “Tuo fao? È ora di tornare?”
“Esao,” annuii.
“Ci possiamo fermare lungo la strada a farci una Coca-Cola?” domandò
Sils in tono assente.
“Ma certo,” dissi io.
“Non c’è problema,” aggiungemmo simultaneamente Humphrey e io,
realizzando alla fin fine il coro delle ranocchie.
Per tuo il viaggio di ritorno continuai a sbirciare furtivamente Sils,
per vedere se il suo aspeo era mutato. Ora che aveva accumulato più
esperienze di me, mi chiedevo se le sarei piaciuta ancora, se sarebbe
rimasta la stessa, o almeno se avrebbe ricordato le cose che avevamo fao
insieme. C’era forse uno spero, una larva di bebè anfibio, sospesa in volo
come un aquilone dietro di noi, sopra noi, mentre tornavamo a casa? Soo
le ascelle di Sils la mia camicia verde mostrava aloni scuri di sudore. I suoi
capelli adesso erano unti, e davanti si dividevano in ciocche. Mi abbassai
ad aprire le fibbie dei miei sandali e quando alzai gli occhi vidi da
quell’angolazione balenare nei suoi occhi un luccichio, che palpitava come
una stella nel buio, strano e solo, parlava vertiginosamente, senza parole.
Trovammo un drive-in, si chiamava Custard’s Last Stand, cinque miglia
oltre il confine del Vermont, e scendemmo per farci una Coca-Cola,
sedendoci tui e tre impacciatissimi a un tavolo da picnic all’esterno.
Consegnammo il denaro a Humphrey che tornò con le bibite. Avevamo
sequestrato quel tondeggiante uomo-uovo-roo, la friata umana! Ma lui
sembrava gradire. Tornò accanto a noi e cominciò a sorseggiare la Coca-
Cola lentamente, in aesa degli eventi. Si guardava intorno con aria
giuliva curioso di ascoltare il nostro prossimo discorso, come fossimo una
fonte inesauribile di divertimento e di sorprese. Erano le cinque, avevamo
alle spalle le Green Mountains e di fronte gli Adirondacks e, sebbene fra i
monti il sole tramonti in anticipo, non avrebbe fao buio prima delle nove
perché ci trovavamo nel cuore di un lungo pomeriggio d’estate: ancora
quaro ore di luce e di calura e quel giorno che cominciavo a percepire
con un capogiro malsano, come la malata caduta soo l’impiantito del
trascorrere dei minuti, che alza lo sguardo dai loro interstizi verso un
mondo remoto di strisce luminose, quel giorno, dicevo, presto sarebbe
finito. Non mi sentivo me stessa. Cadevo soo qualcosa, in uno stagno di
respiro e di gas, e nient’altro.
ella sera avrei dovuto lavorare a Storyland nel turno dalle see alle
dieci, insolito per me: ma sostituivo un’altra cassiera che, a suo dire, aveva
bisogno della sera libera per andare a una festa, anche se a Isabelle aveva
raccontato che le era morta una zia.
“In campana, ragazze,” fu tuo ciò che ci disse Humphrey lasciandoci
davanti a Storyland, dove Mike ci aspeava per recuperare Sils.
“Dov’è che siete state?” urlò Mike per sovrastare i colpi di gas che
infliggeva alla Harley, e io la vidi salire fiaccamente, meccanicamente sulla
moto dimenticandosi di salutarmi, finché arrivarono a metà della via e lei
si voltò e fece ciao.
All’interno, Storyland era affollatissima, ma lo spogliatoio era vuoto, e
mi infilai la risibile uniforme con movimenti decisi e noncuranti, senza più
nascondermi, senza fasciarmi il collo nell’ampia voluta della camicia per
celare i seni, ma lasciando vivere tuo il mio corpo per pochi istanti
all’aria della stanza, come non avevo fao mai, per la vergogna di essere
tanto mingherlina. La mia immagine riflessa in uno specchio accanto a
una fila di armadiei mi diceva quanto fossi sparuta, esile, scheletrica:
avevo cerchi scuri soo gli occhi, punture d’insei sulle braccia filiformi,
ammaccature alle gambe. Ma i capelli erano gonfi, cespugliosi per il caldo,
ribelli e ondulati, e questo bastò a farmi sentire che cominciavo a
sbocciare, ero un germoglio prossimo a esplodere alla sommità di me
stessa, forando la caloa del cranio, come un’ainia dai pensieri così caldi
da emeere spontaneamente i tentacoli che avrebbero esplorato le acque:
non ero più una ragazzina senza niente da dire né da fare. Per un aimo,
prima di uscire con il cappello di paglia, la divisa e la scatola dei soldi ad
appostarmi come un automa nell’afa nourna, fui una cosa diversa.
C’è una barzellea su una donna di mezza età che incontra nei boschi un
ranocchio. “Baciami! Baciami!” implora il ranocchio, “e mi trasformerò in
un bellissimo principe!”
La donna resta a guardarlo trasognata, ma non si muove. “Be’, che
cos’hai?” domanda il ranocchio, un po’ spazientito. “Non desideri un
bellissimo principe?”
“Spiacente,” fa la donna, “ma a questo punto della mia vita,
sinceramente, mi interessa di più un ranocchio parlante.”
“L’ho capita,” dice Daniel. “Divertente. Carina.” Gli prendo una mano,
me la poso sulla bocca, premo. In viaggio, il corpo di tuo marito diventa il
tuo corpo: ci si ritrova uniti, mescolati, hai con il suo fisico gli stessi ariti
che avresti con il tuo. In questi casi viaggiare diventa amore, possesso:
diventa un risposarsi, e non la scusa che occorre a un infelice per
indossare ogni giorno gli stessi vestiti. Come, altrimenti, potrebbe invece
essere.
Tue le maine ci sveglia il rumoreggiare dei piccioni. “Alzati, e saziati
di margherite,” mi sussurra Daniel. Guardiamo i piccioni tuffarsi con le ali
chiuse dai cornicioni come marinai dalle murate, aprendole solo all’ultimo
istante. “È per l’aerodinamica?” chiedo. “È per prendere slancio?”
“Pigrizia,” risponde Daniel. “Lo fanno solamente per pigrizia.”
i nel Marais ci alziamo la maina presto e di sera andiamo a leo
presto. Sentiamo la mancanza della Radio Nazionale. Sentiamo la
mancanza del riciclo, per sciocco o patetico che possa sembrare. Tuo
quello che usiamo dobbiamo gearlo e questo ci indispeisce,
defraudandoci dei nostri rituali di concimazione e rigenerazione, dei
pellegrinaggi quotidiani al cumulo dei rifiuti, dove offriamo alla Terra
frammenti di se stessa, rendendo la natura alla natura! Sfidando il tempo,
accelerando la Pasqua Globale, quando risorgeremo! Malgrado tali siano il
nostro intento e la nostra convinzione, non abbiamo mai utilizzato
davvero il concime: è una semplice offerta di scuse.
i da tre seimane viviamo in un peccato che non mendica scuse.
Sperperi da turisti, presunzione indigena. La greezza dei parigini ci fa
disperare, fondata com’è sull’opinione comune – a differenza della
greezza degli americani, tua individualismo menefreghista, egoismo,
roba da bambini viziati e stupidi.
La sera, Daniel è stanco per il congresso di medicina che è il motivo del
nostro viaggio in Francia. Il convegno si svolge all’Istituto di genetica; lui,
come ricercatore, si interessa soprauo al gene di Tay-Sachs che abbiamo
tui e due – un gene comune a ebrei e franco-canadesi (“Spiegheremo
semplicemente a nostra figlia che l’abbiamo comprata al deaglio invece
che all’ingrosso,” ha deo Daniel quando abbiamo indagato sulle
complesse procedure per l’adozione, dato che la stanza vuota che
chiamiamo “Camera di Chissachì” resta tuora vuota, e i nostri desideri si
fanno più garbati, meno perentori, edoi sulle minuzie e le fraaglie). Ora
il congresso gli sembra scaduto nelle risse su chi deve dirigere l’istituto
stesso, avere i dirii sulla ricerca e altri scambi di pugnalate. “Tuo il
cacciare balle e i caè che ci vogliono per cavare un ragno dal buco,”
dichiara, lo hanno sfinito. “Presto!” esclama, “una caramella!”
“Comunque loi per una giusta causa,” lo conforto.
“Sì, piango giuste lacrime,” sospira lui.
“Sei bravo.”
Gli insegno lo stesso gioco di carte con cui Sils e io ingannavamo il
tempo. Non teniamo il punteggio, ma giochiamo per vincere. ando gli
capita una brua mano, crolla in avanti gemendo: “esta non è una
mano è un piede!” come diceva un suo vecchio zio dissoluto. esto ci
tiene un po’ allegri, ma sono gioie momentanee, aimi di tregua fra i
baibecchi e gli sguardi gelidi, le discussioni da turisti su dove si va, dove
ci troviamo, le domande non più metaforiche, ma leerali, con contorno di
rabbiose indicazioni a dito e, al limite, di spazientite estirpazioni di cartine
dalla mano dell’altro.
Il mercoledì maina Daniel decide di andare in palestra prima della
riunione. Si alza di buon’ora, al gorgoglio guurale dei piccioni, con il sole
che sbianca il cielo, i camion della neezza urbana lungo i marciapiedi,
simili a barche nel mare con le reti a strascico, e il gao siamese sul teo
dell’edificio adiacente, un lieve lamento infantile nel suo miagolio, mentre
raspa su un vetro implorando che lo lascino entrare. Daniel si è fao
inquieto e irritabile. “esta sarebbe una grande cià,” dice a colazione,
davanti a un café crème, “se solo tui parlassero spagnolo.” Ha la voce
piena di rammarico. “E poi, perché tui, in tua la cià, devono toccare il
pane con le mani? Vai a comprare il pane e il paneiere lo tocca, la
cassiera lo tocca, il garzone te lo passa e alla fine tu lo ficchi soo
un’ascella. Come facciamo a tenere un congresso di medicina in una cià
con un pane così antigienico?”
Non sono solo buffe lamentele tipico-americane. È il caraere di
Daniel. Come a casa, quando si lagna dello svuotamento della
lavastoviglie. “esto arnese non fa risparmiare nemmeno un secondo.
Perché non hanno inventato qualcosa che lava le stoviglie direamente
nella credenza?” Ha l’abitudine di soolineare tui gli inghippi e le
fregature del mondo moderno. Va nei posti con l’insegna On parle anglais
ici. “Ma il signor On non c’è mai. L’hai notato, per caso?”
“Stai lavorando bene,” gli dico io. “Pensa alla situazione in questi
termini: i francesi amano Jerry Lewis. Probabilmente, a te ti adorano.”
“Adorano” in corsivo. “Tu immagina che sia una commedia, tipo Doori a
Parigi. Un musical.”
Ma anche i corsivi si decorsivizzano: diventano tondi, si fanno passare
per leerali, reali. Galantuomini.
Mi lancia un’occhiata, poi si volta. “Mi piace il clima,” aggiunge con
entusiasmo. “Serve la giacca, ma poi non la devi abboonare!” Prosegue in
tono tetro: “È quel monumento ai deportati. ello ti fa capire che gente
sono i parigini.” Il monumento, all’ombra di Notre-Dame, è un oggeo in
cui ci siamo imbauti due giorni fa, rimanendo interdei. “Altra cosa: hai
notato qual è il massimo complimento parigino: ‘Oh, ma lei parla francese
proprio bene, senza nessun accento!’”
“È schifoso,” concordo. “È villano.”
“È peggio che villano,” fa lui. “È la premessa al genocidio.” E ha ragione,
penso io. Perspicace ed esao.

Con il mio francese mediocre e la giacca di pelle sboonata, cercando


di sembrare una del luogo, lo seguo in palestra per facilitargli la
comunicazione. Paghiamo l’ingresso, e io domando all’impiegata se c’è
dell’altro, regole o richieste. Lei sorride. Guarda Daniel. “L’unica richiesta
è che sia contento,” risponde. Ha un’abbronzatura artificiale, e indossa una
tutina arancione.
“Ciao,” gli dico. “Au revoir.” Vado a fare un giro da sola, per i vicoli
affollati, con quei selciati slogacaviglie: la mia giacca di pelle cigola come
una sedia. Dovrei andare a far shopping, l’alternativa agli uomini delle
donne sposate…
ando mi scontro con qualcuno lancio degli “Uuups” o degli “Ops” –
parole impermeabili alla comprensione dei parigini, ma sono le prime che
mi salgono alle labbra. asi sempre. In tue le circostanze.
Vado piano, con l’anca che mi ritrovo.
Davanti a caè e ristoranti incrocio gli occhi scintillanti degli
innamorati che, distogliendo solo un aimo lo sguardo dall’amata che
hanno di fronte per elaborare una frase d’amore più perfea, geano
senza saperlo sul mio cammino, come un raggio di luce, un po’ d’amore.
Così per un aimo, avendo casualmente interceato il loro desiderio e
araversandone a nuoto la corrente, guadandolo, mi sento amata di un
amore tiepido e fortuito in cui vago come se fosse un arcobaleno, antico
illusionismo di luce, o un punto della piscina dove qualcuno ha urinato.
Racchiude una dolce, silenziosa putredine.
Passando a un altro discorso, è dura camminare senza vergogna in
mezzo a una marea di donne francesi con scarpe e acconciature deliziose,
arcate dentarie non scempiate dall’ortodonzia, visi liberi dall’optometria,
una fede smisurata, miope e biascicante nella loro bellezza, che le fa
sembrare forse ancor più carine di quanto non siano. È difficile trovarsi
una collocazione in una cià come questa.
Gli alberi sembrano candelabri. La pasticceria, una forma d’arte.
i dopo un po’ si comincia a emanare un odore: acre e senile, come il
nostro tassista, qualcosa che ha a che fare con il cibo, i vini, i formaggi
caprini. Il mio corpo combae con il viaggio, meendo in campo le armi
del senzateo, dai confini imprecisi. Il corpo, con le sue nozioni, gli
sbalestramenti, le difese: sudore vinoso, cacca formaggiosa. Mi fa
camminare, poi mi costringe a sedermi, ancora e ancora, secondo ritmi ed
esigenze proprie.
L’anca continua a farmi male dalla caduta del dicembre scorso, l’osso
roo è capriccioso e sensibile al tempo; ma alla peggio zoppicherò. Magari
a un certo punto mi fermo, mi appoggio al muro e chiedo l’elemosina.
“Patrigi,” sento dire a un turista di passaggio, “è un grande luna park.”
In un cinema d’essai sulla Rive Gauche danno un ciclo di Audrey
Hepburn e hanno messo locandine dappertuo: la Hepburn, bocca grande,
occhioni. “Hai mai notato,” diceva Daniel, “che assomiglia ad Anna
Frank?” Ora mi sembra di vedere foto di Anna Frank per tua la cià:
Anna Frank in dolcevita nera, Anna Frank in abito da sera. L’essenza di
Parigi, direbbe Daniel, eccola qua: Anna Frank con l’abito da sera.
I corsivi si decorsivizzano.
Mi fermo nelle pâtisseries e compro le paste dai nomi buffi: divorcé,
religieuse, gland. Mi piacciono i divorcés – metà caè, metà cioccolato – e
mi siedo ai Giardini del Lussemburgo, a trangugiare i miei numerosi
divorcés guardando i bambini che geano cose nel lagheo. I giardinieri
stanno preparando le aiuole primaverili. Piantati in ovali grandi e vistosi ci
sono tulipani talmente grossi che sembra ti possano rubare i gioielli. Ci
sono delle scolaresche in gita: le ragazzine sono stanche e frastornate,
posano la testa in grembo alle amiche, giocano l’una con i capelli
dell’altra. I ragazzi stanno in piedi, con un’aria esiliata e malinconica.
Mi alzo e cammino ancora un po’ a ritroso verso il fiume: le vedute
della cià, avanti e indietro, stordiscono e consolano. Vicino al Louvre,
dove stanno facendo le pulizie, lo stanno sempre ripulendo, hanno tolto
due angeli e alcuni cherubini, ponendoli in cassoni sigillati al confine con
le Tuileries, per cui si possono vedere dalle fessure, regalmente seduti
come in uno zoo di santi pagani. Il loro status alato e ingabbiato sembra la
conseguenza di qualche rivolta di palazzo su in cielo. Uffa, mi scopro a
pensare. Uffa.
Sul genere di Uuups. Ops. Uuups, la margherita.
Entro al Louvre, ma non rimango per molto. È troppo mutato. Ho
vissuto abbastanza per vedere dei grandi musei trasformarsi: le loro
dépendance e gli ingressi, collocazioni e sistemazioni delle opere d’arte. Il
mio ricordo di un viaggio di dieci anni fa è una moneta vecchia e logora.
Chi lo ospiterà? Chi ospiterà il Museo dei Musei, per mostrarci com’erano
un tempo?
Decido di prendere il metrò e andare a trovare la mia amica
Marguerite, pirice e grafica, mezza francese e mezza americana, abita in
un appartamento vicino al Bois de Vincennes. Le telefono da Châtelet.
“Allô, oui?” mi risponde, e al mio orecchio approssimativo sembra di
sentire à lui, a Lui, a Dio, una specie di formula liturgica, o una
bestemmia, o uno scongiuro a salvaguardia di chi parla, ma poi lei spiega:
“Oh, no. Si dice così nel caso che chi chiama non abbia sentito l’allô. I
francesi non credono nella tecnologia.”
“Come, in una nazione imboita di centrali nucleari?”
“Ah, oui,” fa lei. “Les contradictions.” Marguerite l’ho conosciuta al
college, e sebbene non fossimo particolarmente amiche siamo rimaste
interessate l’una all’altra, e in contao. È il tipo di donna di cui gli altri
domandano: “Oh, e come sta? È sempre bella?” Mi faceva pensare a come
forse sarebbe potuta diventare Sils: è altreanto alta e mozzafiato, e per
questo trasferisco su di lei la mia infatuazione, incongrua ma benvenuta
fra donne adulte che hanno un disperato bisogno di essere amate e
intraenute, e godono enormemente di ogni tacita manifestazione di
affeo. Al momento Marguerite vive dell’assistenza pubblica, che a Parigi
è talmente avanzata da fornire anche i tagliandi per le necessità non
primarie, come cinema e ristoranti, e sebbene lei detesti riconoscerlo, è un
po’ alla caccia di un marito ricco. A lei perdono tuo ciò che non
sopporterei in nessun altro.
“Sarò quella con il casco coloniale,” dichiaro prima di riagganciare,
domandandomi cosa volessi dire.
Alla fermata del metrò scendo e percorro a piedi i tre isolati fino a casa
sua. È seduta fuori dal condominio, sul marciapiede, come se fosse una
bambina, invece che una quarantenne. Si è tagliata i capelli corti,
rapandosi a zero su un lato, e con due grandi orecchini antichi riesce a far
sembrare tui i capelli lunghi del mondo una tiritera sciaa e grossolana.
“Bonjour, mademoiselle,” la saluto, e nell’avvicinarmi divento
improvvisamente formale: tendo la mano, e sento le dita rigide e
anchilosate, come un pugno di forchee e di coltelli. Per fortuna lei salta
in piedi e mi abbraccia: mi dà un bacio sulla guancia, poi due, tre, quaro.
“Adesso è chic darne quaro,” spiega.
“Per quaro ho bisogno della Dramamina,” dico io.
“È l’amore alla francese!” fa lei e mi prende soobraccio,
accompagnandomi in casa per porte e portoni chiusi.
Dentro mi offre dell’acqua e mi mostra il suo lavoro: serigrafie, l’ultimo
prodoo culinario (terrine de lapin: paté di coniglio) e persino il suo
nuovo, costoso makeup giapponese.
“Grande,” è il commento stentoreo e idiota che faccio a tuo. “Grande!”
Lei agita i pennellini del makeup, i rossei e i flaconi, urlando: “Statemi
lontane, donne francesi!” Mi fa ridere, perché è già così bella, e poi ho
sempre pensato a lei come donna francese. Addita la sua gonna corta:
“Non intendo abbandonare il mio look per dar rea alla moda di
quest’anno.”
Sorrido. Ha due belle gambe. “Non farlo,” le consiglio.
Vuole mostrarmi le gallerie del suo quartiere, così vedrò che cosa, in
una cultura di sovrintendenze, “è oggi la dinamica”.
“Grande,” approvo io. Così cominciamo a vagabondare. Visitiamo una
mostra intitolata Spesso mi chiedo che altro esista a parte il narcisismo: una
raccolta di specchi dalle strane argentature. Ne vediamo un’altra, che è
semplicemente una composizione di centinaia di piccioni morti. L’artista,
spiega la galleria nella presentazione, era un senzateo e questa è la sua
vendea sui piccioni che gli rubavano il pane di mano. Dopo l’apertura
della mostra, soggiunge rassicurante il pieghevole, l’artista ha ricevuto un
sussidio.
“Stai bene?” mi domanda Marguerite notando la mia camminata. “Hai
le vesciche del turista? O una di quelle vesciche della biancheria intima?”
“È un vecchio incidente invernale.” Comincio a mentire. “Sono scivolata
dalle scale gelate mentre ero al lavoro.”
“Alla Società Storica?”
“Esao.” Non posso dirle la verità. O sì, invece? Devo dirti la verità?
Potrei cominciare. E lei, magari: Bien sûr. Indi potrei spiegarle che,
insomma, dopo seimane di litigi e mesi di clamorosi sbaimenti di porte
come nelle farse più frenetiche, Daniel mi ha spinto giù dalle scale.
Non, tu blagues! direbbe lei. E io andrei avanti.
Non, je ne blague pas! Potrei raccontarglielo? Ero a un cocktail con
Daniel al Doctors’ Park, dove si trovava prima il suo laboratorio. C’era
sempre un odoraccio, al Doctors’ Park, come un conflio fra seico e
antiseico, e io lo detestavo. Lui flirtava con una donna, e il marito si volta
verso di me e mi fa sguaiatissimo: “Be’, c’è da dire che sul lavoro tuo
marito ci dà dentro veramente!” Era sbronzo, e comincia a cantare: “Ogni
fanciulla della vallata esulterà”, evidentemente con l’intenzione che la
moglie sentisse: poi mi rivolge un ammicco spiacevole. A casa avrebbero
litigato per benino. ando Daniel smee di flirtare, mi avvicino e gli
dico: “Andiamo. Devo mangiare.”
“E perché devi mangiare?” mi domanda, invischiato in quel teatrino di
baute sceme che stava cominciando a diventare il nostro matrimonio.
“Perché personalmente devo mangiare?”
“Esao.”
“Perché se non mangio,” ribao con rabbia, “vomiterò, dato che ho
bevuto troppo.”
ando arrivammo a casa, geai la borsea sul pavimento della
cucina, sibilando: “Mi sa che forse dovrei andare a trovare Earl.” Earl Gray
è un avvocato divorzista che in cià tui chiamavano Mister Tè. Ero
convinta di non temere la roura. Il mio fidanzamento con Daniel, durato
per anni, era stato pieno di abbandoni.
“Benone,” commentò Daniel, e restammo lì nella luce fosforescente,
verdi di rabbia e completamente fuori di testa. Diventai ipercritica e
pungente: una combinazione malaugurata ma necessaria. “Io non
sopporto,” sboai infine, “di non sapere cosa fai, e con chi, e con quale
significato. Non posso vivere così. È come tenere un lupo in cantina
credendo che fosse un gaino e scoprire che non è nemmeno un lupo, è
una centrale nucleare!” Ero ubriaca. “E una di quelle costruite con i piedi!”
Marciai verso l’uscio dello scantinato e l’aprii; a mo’ di illustrazione, se
non proprio di prova. “ante altre donne ci sono state? Voglio la verità!
La verità!”
Restò immobile e in silenzio, addolorato per me. Poi disse: “La verità
non te la posso dire.”
“Cosa significa che non puoi dirmi la verità? Perché?”
“Perché ti traumatizzerebbe,” mi rispose, mentre gli appariva in volto
una specie di scontroso stupore. “Non ti sorprenderebbe, ti
traumatizzerebbe.”
Partii in affondo, mulinando entrambi i pugni, e lui mi allontanò con
tanta violenza e determinazione che inciampai all’indietro, verso la porta
aperta sulle scale dello scantinato, scalciando nell’aria, il corpo in caduta
libera e lanciata a ritroso, verso il lupo e la centrale atomica; e il mondo
vacillava, veloce e lento nello stesso tempo; ancora un reangolino di luce
intorno a Daniel, e finalmente solo il buio spazio della cantina, i cazzoi
sferrati dai gradini contro l’anca la testa le scarpe, strusciando e
scivolando, finché aerro sul fondo di cemento, sconvolta, ripetendo:
“Uuups, ops, uuups.”
Forse, in tuo questo, c’era pur sempre un pizzico di prevedibilità, di
regolarità: anche i comportamenti deplorevoli devono corrispondere a
qualche inconscia aesa, per non sembrare totalmente mostruosi.
Successivamente Daniel chiese perdono, e pianse, e venne a trovarmi ogni
giorno all’ospedale per ore e ore, officiando la dolce liturgia che ci avrebbe
tenuti uniti: sapeva che diversamente non lo avrei più voluto. ando la
penitenza è scontata, almeno all’inizio, non c’è scelta. “Pensa a tua quella
brava gente che prega mantenendo Dio in circolazione anche per noi,”
implorava Daniel, in ginocchio ai piedi del mio leo. “Dio non ha scelta:
deve onorare i riti: se fosse per noialtri marmaglia di quaggiù, se ne
sarebbe andato già da un pezzo. Ma lui si fa vivo grazie ai buoni. Onora i
pai e i voti. Pensa a te stessa come se fossi Dio. E pensa a me come a quel
cocktail morale che è l’umanità.”
“Ma ti prego.”
“Vabbè, pensa a me come… boh, non lo so.”
“Li conosci quei bignè alla crema che chiamano divorcés?” domando
invece adesso a Marguerite.
“Li ho visti.”
“Sono uno schianto assoluto. Si trovano in questa zona?”
Una volta, l’anno scorso a Chicago, sono stata a una cena dove una
sposa novella continuava a interrompere il marito uggiolando nel modo
più teatrale: “Ciccio, ora come ora potremmo divorziare? Ora ce lo
concedono il divorzio?” Ero stata l’unica a trovarla divertente. L’unica che
avesse regolarmente riso. Alla fine della serata, sulla porta, si era protesa e
mi aveva baciata sulle labbra.
“Sicuro! Abbiamo una buona pâtisserie non lontano da qui.” Marguerite
ha un passo energico e saltellante, impossibile da reggere. Ci fermiamo
alla sua pâtisserie, ordiniamo avidamente “Due divorcés” e ci sediamo fuori
dall’aiguo tabac a bere panachés (metà birra e metà gazzosa) come
accompagnamento. “Non è sorprendente, Parigi?” fa Marguerite. “Tu
trovami un altro posto dove ci sia qualcosa che assomiglia a un tabac,
mezzo bar e mezzo negozio di cancelleria. Il bello della Francia è che, dagli
amori al mangiare a qualsiasi cosa, sanno come si combinano gli
ingredienti. Ovvio, che è anche un paese assolutamente sessista.”
“C’est dommage,” dico io, con la bocca piena di divorcé. Menziono gli
uomini che ti fissano, il libidinoso bagno illuminato dove nuotano le
donne francesi.
“Eh, sì, certo. Il peggio,” precisa Marguerite, “è quando un uomo ti
passa accanto per la strada, ti valuta e commenta: Pas mal. Pas mal! Ci si
sente offese soo cento profili diversi. Prima di tuo, in strada ti
aspeeresti dei voti più generosi.”
Rido, un po’ su di giri: ho mangiato troppo zucchero. Marguerite ordina
dell’acqua: “Château Chirac.” È una facezia parigina che tui conoscono,
almeno all’apparenza, perché lo spirito non si coglie più. La cameriera
abbozza una smorfia di sorriso e va in cucina. Château Chirac non fa più
ridere: è acqua e basta; è il modo di chiamare l’acqua; ciò che l’acqua è. E
mi viene da pensare, chissà quante cose sono iniziate così, per scherzo.
L’amore, l’adolescenza, il matrimonio, la vita, la morte. Forse Dio ora sta
guardando in basso e dice: “Ohè, sveglia voialtri! Era solo uno scherzo. Vi
state perdendo l’intonazione!”
“Il mio cuore non lo posso dare ad altri che a te,” mi diceva Daniel
all’ospedale. “ando ci provo, gli altri organi iniziano una campagna di
leere di protesta.”
“Non fare il buffone,” gli ho risposto. “Non è il momento.”
“In tua Parigi, qual è il quadro che preferisci?” chiedo a Marguerite. Il
litro d’acqua è arrivato, e lo tracanniamo subito. Lei sembra rinvigorita.
“Fammi pensare,” risponde. Elenca: Géricault, Van Gogh, Picasso.
“Si pronunciano tui con la O,” è il mio commento.
“Precisamente! In realtà, al Museo d’Orsay c’è un pastello di Madame
Monet con tui i nastrini del cappello sciolti. Probabilmente è quello il
mio preferito. È seduta su un soà azzurro brillante – il più bell’azzurro
che abbia mai visto – e guarda drio fuori dal quadro, come per dire: ‘Ho
sposato un piore e possiedo ancora questo soà.’ ello mi piace. Molto
francese.”
“Non pensi che la Venere di Milo somigli a Nicolas Cage?”
“Un pochino.” Sorride. “Ma tienilo bene a mente; con tui i suoi difei
e la sua timidezza, ha vissuto a Parigi: è stata guardata dai parigini per
anni, perciò crede – una fede certa come l’oro – di essere stupenda.”
“Stupenda?”
“Gnocca. Araente. Si crede gnocca. Pensa di essere così favolosamente
gnocca.”
“Non è insopportabile? Anche in una statua, lo trovo insopportabile.”
Gironzoliamo per altre gallerie, dove Marguerite mi indica quello che le
piace: i quadri grossi, massicci, pieni di energia. “La piura sexy,” come
dice lei.
A una mostra di collages minuscoli, caotici, intricati – taglia-e-incolla,
sgorbi d’inchiostro, chiazze di colore – passo da un’opera all’altra, lenta e
rapita, ma Marguerite si annoia. Me la trovo alle spalle. “Sai, questi non mi
piacciono granché. Non sono sessuati.”
Mi volto e la guardo. “Senti: per me, questi sono totalmente sessuati”,
dopodiché scoppiamo tue e due a ridere, la nostra ilarità esplode nella
galleria dove gli altri stanno sussurrando come se fossero in una chiesa.
“Magari, sessuati lo sono, come lo è il feticcio di un piede,” osserva
Marguerite.
“Esaamente. Exactement.”
Poi camminiamo fino al Père-Lachaise, per vedere la tomba di Jim
Morrison, dove si tiene una festa della birra permanente, e hanno piantato
nel terreno tanti di quei tappi di boiglia appiaiti che sembrano un
tappeto di monete. Sopra le note di una chitarra male accordata,
strimpellata da un tedesco scalzo, Marguerite mi spiega che la sua vera
aspirazione è fare la regista. Sa anche che film vorrebbe girare: delle storie
di algerini nel 1962. Come li internarono nei campi fuori Parigi, e molti di
loro vennero uccisi o scomparvero. E ancora adesso, nella periferia
parigina, gli africani in sgargianti pantaloni da sci fanno i lavori pericolosi
per la salute, nelle fabbriche e nelle centrali eleriche: Parigi è fondata e
cammina sulla schiena di quella gente, sulla schiena di una storia
abominevole. E i nazisti? Be’, la storia dei nazisti la sanno tui.
Non ci sono luoghi dove collocare adeguatamente fai simili. Restano
solo l’orrore e lo strazio dei singoli, la loro inutile vanità morale, inutile e
impotente. Le brue notizie dal mondo, come quasi ogni brua notizia,
non hanno luoghi dove andare. Le esponiamo nella bacheca del nostro
cuore. Diciamo guarda, diciamo vedi. E basta.
“Così se questo produore ci sta, l’intenzione sarebbe quella, vorrei
lavorare con questa troupe che ha già girato dei documentari,” continua
Marguerite, “e fare il film.”
“Marguerite,” dico io, “Grande. È grande. Devi farlo, senz’altro.”

Da Horsehearts a Parigi, penso guardando il soffio. Chissà se


qualcuno aveva mai riunito questi due luoghi nello stesso pensiero.
“Ho pensato al nostro corredo genetico,” risponde Daniel quando gli
chiedo com’è andata la giornata. Siamo a leo, e stentiamo ad
addormentarci. Ci sono gli antifurto delle auto, quelli delle moto, il
baccano della discoteca. Giù in strada, una donna canta in un inglese
stentato una strofa di New York, New York.
“Sì,” lo incoraggio.
“Voglio dire, magari va tuo benone. A parte il Tay-Sachs. Considera i
geni. Dalla tua parte ci sono il diabete e le malaie cardiache.”
“E vascolari.”
“Giusto. Vascolari. E dalla mia, c’è, dunque?”
“L’arroganza e l’incapacità di ascoltare,” gli suggerisco.
“L’arroganza e l’incapacità di ascoltare.” Fa una risata sospirosa. “Ti sei
divertita oggi con Marguerite? A cosa pensi? Perché ridi? Non
preoccuparti. Posso portare avanti tua la conversazione da solo. Tu, basta
che guardi.”
“Marguerite mi piace davvero.”
“Lo so.”
Sospiro, e mi tiro su le lenzuola fino al mento.
“Tuo qui? Pensavi solo a questo?”
“E alla Manon Lescaut,” rispondo. La seimana scorsa abbiamo visto
una rappresentazione alla Bastiglia.
“La Manon Lescaut?”
“Vorrei morire come lei. Con indosso tui i miei gioielli, e cantando
della follia.”
“Veramente?”
“Con i miei gioielli indosso? Sicuro.” Probabilmente nella vita reale
morirei in accappatoio, con il telefono incastrato soo il collo.
“Come, ma allora io non ti conosco,” fa Daniel. “Tu i gioielli non li porti
nemmeno.”
“Sì che li porto.”
“L’orologio. Porti l’orologio da polso. intali di rosseo e l’orologio.”
“È un bell’orologio.”
“È favoloso,” rincara Daniel, che ora ha la voce assonnata. L’aria
pesante per la pioggia che c’è in camera nostra mi ha gonfiato i capelli
come quelli di una mignoa, mentre la pelle di Daniel si è faa pallida e
umidiccia, e le sue guance si colorano solo di giorno, fuori, quando
galoppa da e verso destinazioni più asciue. Vicino a me sembra giovane e
delicato.
Continuo a parlare. “Vedi, questa è una cosa che Manon non portava:
l’orologio. L’orologio non va molto nel mondo della lirica. Lo avevi mai
notato? Tosca? Niente orologio. Madame Buerfly? Neppure.”
Non mi ascolta più, ma proseguo imperterrita. Ci siamo scambiati i
ruoli. “Se nella Bohème si desse un orologio a tui i personaggi, finirebbe
bene.”
“Dici?”
“Come no! el tizio non perderebbe tempo a cantare della sua
zimarra. Guarderebbe l’orologio e direbbe ‘Or-po’!”
“È proprio quello che avrei voglia di sentire. Una bella aria con la
parola ‘orpo’.”
Daniel non ha mai amato veramente l’opera. “A me piace la filosofia,”
mi ha deo una volta. “La filosofia è una gran cosa. Non mi piace soltanto
la questione dell’Esistenza. Esistiamo? esto mi fa veramente incazzare.
Invece apprezzo il Bene e il Male. Mi piace la definizione di Arte. Ma solo a
piccole dosi. Se ne mandi giù troppa, ti ritrovi daccapo a girare intorno
all’Esistenza, che a me fa incazzare.”
Poi dico: “Non ho molta voglia di tornare a casa.”
“Ma va’?”
“In questo periodo a casa, in cià, mi sento fuori sintonia. I vicini mi
dicono ‘Salve, come va?’ e a volte rispondo ‘Oh, oggi mi sento un po’
vuota. E lei?’”
“Dovresti pigliarti un cagnolino,” mi suggerisce con la voce del sonno.
“Un cagnolino?”
“Esao. Non è come i gai. Un cagnolino te lo puoi portare a passeggio
nel quartiere, e la gente si ferma, sorride, e fa: ‘Ooooooh, guarda… ma che
cos’ha il suo cagneo?’”
“Cos’ha il mio cagneo?”
“I vermi, immagino. Non so. Dovevi portarlo dal veterinario già
qualche seimana fa.”
“Sei proprio terra-terra.”
“Spiacente di non essere l’uomo dei tuoi sogni,” mormora Daniel.
Mi fermo a rifleere. “Be’, neanch’io sono quella che sognavi, dunque
siamo pari.”
“Errore, tu sei la donna che sognavo,” dice debolmente.
Ma è già scivolato giù dallo scoglio del sonno, e russa, le adenoidi
sembrano un motore nel suo viso, un’unità motrice, un sistema di
sicurezza, come l’alzarsi di una bandiera bianca.
Una seimana dopo Isabelle cominciò ad apparire nei momenti più
impensati: si piazzava vicino al mio registratore di cassa, e guardava. Si
fermava cinque minuti, poi tornava in ufficio.
La cosa mi innervosiva. Avevo smesso di drenare soldi, a parte casi
eccezionali, come quando Sils e io decidevamo di andare a cena in un
posto da favola – il Lafayee Café, il General Montcalm Inn – dove
ordinavamo sur’n’turf, whisky & soda, e patate al forno con la panna
acida.
Poi, il secondo weekend del mese, nel parco accadde qualcosa, e per un
po’ Isabelle fu assorbita da nuove preoccupazioni: era crollata la Miniera
Perduta. La miniera perduta era un percorso tipo oovolante, in un tunnel
buio nella zona del villaggio del Vecchio West: dei manichini illuminati
vestiti da vecchi minatori emeevano ringhi metallici mentre gli sfrecciavi
accanto su un trenino a cinque vagoni. ell’estate ci ero andata due
volte: la prima all’inizio, con Sils, e la seconda appena una seimana
prima dell’incidente, da sola, durante una pausa, eccheccazzo. Come
dipendente non avrei potuto, ma non c’era sorveglianza, e gli addei se ne
fregavano. Non capisco davvero dove stesse il caraere tematico della
corsa, a parte il fao di lanciarti nell’oscurità, in una storia di persone che
si erano perdute nell’oscurità medesima, e in essa erano rimaste
invischiate: se entravi nella Miniera Perduta (come è perduto tuo quanto
fu mio!), potevi diventare anche tu uno spero intrappolato: la peggiore
varietà di spero, e naturalmente anche la più comune. Da un certo punto
di vista, mi piaceva. Mi dava la sensazione di poter sfruare tue le
chance adrenaliniche a disposizione nel mondo.
Il 7 luglio all’imbrunire uno dei vagoni deragliò all’interno della
miniera. Udii prima uno schianto cupo, assordante, che veniva dall’entrata
principale, e cinque minuti più tardi un’altra cassiera in pausa arrivò di
corsa per meermi al corrente. “La Miniera Perduta!” ansimò. Anticipai la
pausa seduta stante, vuotai il casseo, bloccai il registratore, e portando
con me la piccola cassaforte mi precipitai per il sentiero di Jack & Jill,
arrivando giusto in tempo per vedere un’ambulanza lampeggiare davanti
all’ingresso del tunnel. Il personale di pronto intervento lavava via dal
trenino lunghe strisce di sangue, e il proprietario, proprio lui, il
leggendario Frank Morenton stava lì, capelli bianchi e scarpe bianche,
un’apparizione abbacinante nel buio che si addensava. Stava
tranquillamente firmando un assegno a favore di non so chi.
La piccola folla che si era raccolta fu pregata da alcuni cowboy (quelli
che ogni mezzodì inscenavano la rapina alla banca, un’avventura di sole e
ladrocinio che conoscevo bene!) di disperdersi, per favore. Era tuo a
posto, dicevano con voce sicura, gambe storte nel cuoio, cappelli
praticamente appoggiati sulla nuca. Era tuo soo controllo. Uno dei
cowboy era Markie Russo, quello che l’anno prima faceva il filo a Sils.
Restandomi ancora cinque minuti di pausa, andai a sdraiarmi sulla
collina erbosa vicino all’O.K. Corral, dove i bambini potevano fare un giro
in pony. In teoria, le cassiere non avrebbero dovuto svaccarsi per terra a
quel modo, né gironzolare in aree dov’erano fuori stile e contesto, ma per
una volta, pazienza. Potevo vagare senza meta nella storia sbagliata: una
situazione, pensai, che nella vita reale si presenta di continuo. Per esempio
Randi, la piccola Cucù, andava sempre al safari nella Giungla Nera per
chiacchierare con un ragazzo che le piaceva. Poi c’era Sils, che un giorno
era fuggita dal palazzo per andare a scroccare una sigarea ad Alice nel
Paese delle Meraviglie. E c’ero io: mi portavo la cassaforte dappertuo,
quando andavo a trovare Sils o quando mi cambiavo nello spogliatoio
femminile, convinta ormai che tuo quello che contava era Horsehearts,
qui e ora, sebbene fossi una rompiscatole, mangiatrice di dolci e portatrice
di piaghe infee.
Mi voltai a leggere le false lapidi western sul fianco della collina, dalle
tinte e angolazioni calcolate per farle sembrare decrepite. Decifrai solo
alcune iscrizioni: FRED PIEDESTORTO DANZAVA TROPPO LENTO, E ADESSO È MORTO.
I fuochi artificiali sul lago iniziarono prima del solito, evidentemente per
creare un diversivo. (Non fate caso alla disgrazia nel villaggio del Vecchio
West!) Li guardai esplodere nel cielo blu mare: una stella, un cuore,
eleriche creature marine, gonne a campana scintillanti, tarantole granata;
tui seguiti da uno scoppio ritardato che sembrava un moo di spirito, e
alcuni fischianti e zigzaganti, così vicini a evocare la faccia della guerra da
spaventarmi. Forse era morto qualcuno per davvero. Presi la cassaforte e
mi incamminai verso il mio registratore.
L’indomani sul giornale di Horsehearts non c’era nessun cenno al
tragico incidente, e neppure il giorno dopo, anche se fra gli addei alle
macchine correva voce che un ragazzino ci avesse rimesso le gambe.
“Morenton gli ha firmato un assegno da un milione di dollari,” mi sussurrò
Randi durante la pausa pranzo, e io cominciai a comprendere di nuovo,
daccapo, il potere sbiancante dei soldi. Entro una seimana la miniera
aveva ripreso a funzionare, e l’incidente sopravviveva solo nell’insistenza
delle voci; un’insistenza già a metà del mese meno assidua, e che infine
diventò una storia, come di un fao accaduto tanto tempo fa.
Il pomeriggio del mio giorno di riposo andai da Sils: tua la casa
sussultava per le prodezze della band dei suoi fratelli nel seminterrato, le
baerie e le chitarre eleriche facevano tremare vetri e telai. Suo fratello
Kevin, tornato dal Canada, salì a pianterreno per controllare la sveglia
della cucina e prendere una pasticca. (“Ha i suoi orari per le droghe,” mi
aveva spiegato Sils. “Forse fa bene.”) Mi vide sulla soglia e passò oltre.
Portava occhialini rotondi con lenti azzurre sfumate, e un gilet a disegni
kashmir senza camicia soo. Era alto, aveva il pancione e una pelle
bianchiccia, batracica, con curiose volute di peli.
“C’è Sils?” domandai dalla porta a zanzariera.
“La Silseina?” ripeté ilare e beffardo, come se lei e io non fossimo che
due piccole, buffe bestiole. “Ma sicuro,” e invece di aprire la porta, si girò e
muggì: “Sils! Alla porta per te!” Tornò poi in cantina, da dove arrivava il
gemito ostinato di un assolo di chitarra, a cui si unì la cupa pulsazione
delle baerie e del basso elerico, facendo vibrare le finestre, telai
compresi, sforzando i vetri. Fortuna che i Chaussée abitavano vicino a un
cimitero.
Sils scese la scala larga e dipinta di grigio. Dopo un “ciao!” di punto in
bianco mi abbracciò e aggiunse: “Hai fame? Io sto crepando.”
“Anch’io,” risposi, decisa in ogni caso a darle spago. Entrammo in
cucina e ci meemmo alla caccia di qualche cosa da mangiare: sua madre
non andava al supermercato da seimane, con il risultato che non c’era
nulla con cui prepararci un’insalata o un sandwich, perciò, come facevamo
spesso, ci accontentammo di patate crude, margarina e sale. Tagliavamo le
patate in quarti poi le pelavamo: era un pasto di sororale intraprendenza.
Le cospargevamo di sale, spalmandole sui bordi con stenti grumi di
margarina. In realtà, adoravamo quello spuntino: il grasso freddo e lucente
della margarina, le patate con il loro fresco di mela; i denti che scivolavano
silenziosi per poi affondare rumorosamente in un morso. ell’umido
sgranocchiare mi dava una specie di conforto, come lo strofinio granuloso
del sale contro le gengive. A casa sua mangiavamo una quantità di patate
crude: sia nella sua camera, di sopra, sia sulla malconcia tavola d’alluminio
della cucina.
Stavolta le mangiammo di sopra, sedute intorno a un piao colmo
colmo, sul tappeto, provando un lasco, derisorio tedio per la nostra
autosufficienza. Era un pomeriggio assolato, la luce filtrava già obliqua
dalla grata esterna della sua finestra, tempestando il muro di losanghe.
“adri,” osservai. “Non è il mio seme preferito.”
“Cuori. A me piace cuori.” Sembrava un po’ stanca. “Come ti senti?”
Sils si accese una sigarea. “Non male. Ho avuto i crampi, ma sono
passati.”
“Oimo. Posso fregarti una siga?”
Sils mi passò una sigarea. Un lampo di angoscia le araversò il volto.
“Indovina che cosa ho trovato.”
“Cosa?” Mi riempii i polmoni di fumo, ma il punto dove lo sentivo di
più era aorno alla lingua e ai denti.
Sils deglutì rapidamente, sussultando. “Un pezzeo di carne rossastra
sugli slip.”
La faccia da bambina confusa, sconvolta, che aveva proferito quelle
parole, i suoi occhi che si aggrappavano ai miei nel panico, mi costrinsero
in quel momento a guaire e a distogliere lo sguardo.
“O cristo,” mormorai. E non sapendo cosa dire, aggiunsi: “ando è
stato?”
“L’altro ieri.” Espirò il fumo, poi spense la sigarea nel portacenere, si
impadronì di un quarto di patata cruda e l’addentò.
“Be’, almeno è finita,” dissi. Sul giradischi di Sils, Joni Mitchell intonava
funerea Lile Green. In quel periodo Sils ascoltava quella canzone di
continuo, era la colonna sonora del suo luo. ando c’ero anch’io, le
nostre voci si univano regolarmente alle scivolate da soprano e agli “uu”.
Lile Green, danza come una zingara. Vent’anni dopo a un cocktail party
ho visto tua una stanza piena di donne cantare quella canzone una per
una e a gruppi, appena ha incominciato a uscire dallo stereo. Hanno
smesso di parlare, interrompendo i loro discorsi, per dar vita a uno show
di memoria e di stupore. Tue, dalla prima all’ultima, conoscevano le
parole: e gli uomini zii, a bocca aperta.
“Bene, dov’eravamo rimaste?” dissero poi tue quando la canzone finì.
“In fondo Mike non ti piace, vero?” fu invece la domanda di Sils.
Mi sentii smascherata. “Non lo so.”
“E dài,” mi incalzò. “A me lo puoi dire.”
“È solo che… non so… è senza sostanza.”
“Ce l’ha, invece,” obieò lei. “Devi solo meerlo alle corde e
costringerlo a tirarla fuori.” Si accese un’altra sigarea. “Capisco che
questo in pratica vuol dire non averne.”
“No. No, difai.”
Il fratello maggiore di Sils, Skip, secondo baerista del gruppo,
parcheggiò nel vialeo. Aveva un aspeo chiassoso, e a suo modo
elegante. Anche lui era appena tornato dal Canada, e faceva dentro e fuori
dalla band; e anche lui s’impasticcava in cucina con un occhio all’orologio,
ingurgitando compresse bianche e rosse con l’aiuto della birra. Era
arrivato con Diane, la sua donna. I fratelli di Sils, quando c’erano le
ragazze, si impossessavano della casa sdraiandosi l’una sopra l’altro sul
divano del soggiorno, a sbaciucchiarsi, strusciarsi e far la siesta.
“Andiamo via di qua,” disse Sils. Aveva il turno serale, le restava un’ora
libera, poi sarebbe passato a prenderla Mike. “Facciamo quaro passi.” Ci
incamminammo. Girammo intorno al parco alla ricerca di sagiarie e
vesce finché non fu ora di andare al lavoro.

La sera dopo allo Storyland c’era poco movimento: una pioggerella


tiepida tenne lontana la gente e verso le cinque arrivò Mike Suprenante
sulla sua Harley. Si tolse il casco, e spinse la moto fino alla mia cassa.
“Desidera un biglieo, monsieur?” Cercavo di fare la spiritosa,
l’amicona, ma io stessa sentivo l’odio nella mia voce. “Vorrei vederti da
sola, per parlare di Sils.”
Lo guardai cercando di mostrarmi impenetrabile. Segretamente, ero
compiaciuta: la sua richiesta implicava che io fossi la tutrice di Sils, la sua
confidente. Che fosse più vicina a me che a lui.
“ando è possibile?” mi chiese tuo serio.
Provai un grande senso di potere. “Non saprei. Magari stasera.”
Arrivò Herb, che si piantò dietro il cancelleo delle convalide. “Tira via
di qua quella cosa,” intimò rabbiosamente, alludendo alla moto.
Mike cominciò lentamente a retrocedere.
“Sarà meglio che ti dai una mossa,” insistee Herb. “Non possiamo fare
entrare veicoli nell’ingresso principale del parco.”
Mike mi guardò in cerca di conferma. “Alle nove. a davanti,”
concluse. “Ça va?”
“Okay,” risposi in tono ruvido e villano.
Mike indietreggiò, fece manovra, accese il motore e partì. Herb passò il
cancelleo per fermarsi vicino a me, accigliato. Io restai lì, muta,
spostando il peso da un’anca all’altra.
“Embè?” chiesi infine, in tono sfrontato.
“Niente più amichei,” fu tuo ciò che disse. “Mai più.” Poi fece un
sorriso falso, un ammasso di denti sogghignanti, e uscì pomposamente di
scena.

“Ti va se andiamo a farci un drink?” mi chiese Mike all’ora di chiusura,


davanti all’ingresso principale di Storyland. Non pioveva più, e il cielo si
stava schiarendo. Sulla strada c’era un bar che si chiamava Fort Ress, di
proprietà di un certo Dickie Ress, e a Mike piaceva. Come alternativa,
restava sempre il Sans Souci.
“Va bene,” dissi io.
“Si va da Ress?”
“Okay.”
“Salti su?”
“No, cammino.” Fino a Ress, erano cinque minuti a piedi, costeggiando
la spiaggia libera.
“Come vuoi,” fece Mike. Largo sorriso. “Mi faccio dare un tavolo carino
nel patio. ello con meno merda di uccelli.” Altro sorriso.
Strinsi gli occhi. “Vabbè, okay,” dissi. “Promesse, promesse.” ale che
fosse la situazione, la migliore risposta per una ragazza di Horsehearts era
il tono sarcastico.
Mike ammiccò e si allontanò rombando. “È il gene vrum-vrum,” aveva
commentato Sils quando si era bruciata una gamba con la marmia della
Harley di Mike e le era rimasta la cicatrice. “Tui i ragazzi ce l’hanno dalla
nascita. Vrum-vrum.”
Scarpinai stancamente. Erano le dieci di sera e il cielo aveva ancora un
colore azzurrastro. Gli ilidi cantavano tra gli alberi del parco. Un coro di
rane. “Le rane cantano senza un perché, e così è anche per noi,” diceva un
verso di una poesia che avevo imparato a scuola, e mi immaginai queste
rane ora sparse per i boschi, gli occhiei come schegge di smeraldo,
mentre il loro canto alterno, fischieante in parte un’adunata, in parte una
nostalgica ninnananna, si avvitava nella noe. Uuups, ops, chi-fa-ops. Mi
sentivo accompagnata e protea da quello strimpellio palpitante, mentre
camminavo verso le luci del minigolf di Marvy, raggiunto il quale non
avrei più sentito il gre-gre, ma solo rumori di bar e di golfisti con i berrei
a visiera larga.
Le rane. Anni dopo, avrei leo sul giornale che le rane stanno
scomparendo dalla faccia della terra, e gli scienziati le cercano invano
anche nei luoghi più selvaggi. Era un ammonimento, diceva l’articolo. La
piaga delle rane all’incontrario. Pensai alle innumerevoli camminate sulla
spiaggia nel ronzio erotico delle serate estive, a come ci sentivamo
contese, carine e desiderate, e potenziali, anche se non lo eravamo affao.
E quanto mi sembrò vero il fao che praticamente di rane non ne sentivo
più. Ogni tanto in veranda restava intrappolato un grillo, ma nient’altro.
Era diverso. Lo liberavamo con la scopa, e lo lanciavamo via.
Da Ress mi sedei nel patio con Mike. Aveva già portato al tavolo le
birre, in grossi boccali. Oltre a due bicchierini di bourbon per sé.
“Lo so,” esordì. Ingollò il primo bourbon.
“Lo sai che cosa?”
“Sils me lo ha deo. Del bambino.” Alla parola “bambino” scolò il
secondo bourbon. Una scena drammatica. “Che bambino?”
“ello che avete accompagnato nel Vermont. Sils me lo ha deo: mi
ha deo che c’era rimasta. Tuo, mi ha raccontato.”
“Non c’era nessun bambino,” dissi infine.
Il bourbon faceva effeo. Mike si chinò in avanti, curvo sui bicchieri
vuotati, sbronzo e patetico. “Ci avrei pensato io. Lo tiravo su io, il piccolo.”
Iniziò a piagnucolare. Io avevo quindici anni e lui diciannove, ma mi
sembrava sdolcinato, ridicolo. Perché Sils glielo aveva deo? Credevo che
avessimo fao quello che avevamo fao proprio perché lui non lo sapesse.
“Meiti calmo,” gli dissi. “Meiti nell’ordine di idee che…” Ripetei le
parole della mia maestra il giorno in cui si era accorta che portavo il
rosseo. “Sei troppo giovane,” gli sussurrai, piano piano, come una nenia.
“Ah!” esclamò. Ma lo stillicidio diminuì, e incominciò a sorridere un po’
goffamente, cercando di farmi un po’ il filo. Mi accarezzò la testa con una
delle sue manone che sembrava la zampa di un animale. “Sai, tu hai un bel
po’ di cartucce da sparare,” mi lusingò. “E poi, non te l’ho deo che il mio
amico Arnie ti trova carina?” Sorrise di nuovo: mi aveva dato una grande
notizia, roba che scoava. “Che cosa ne dici, eh?”
Arnie, non mi ricordavo nemmeno chi fosse. “Dico che devo andare,”
risposi finendo la birra. Non avevo voglia di identificare quell’Arnie. Non
volevo incontrarlo, né parlargli, né farmi toccare da lui. Non volevo che mi
toccasse nessuno. Non c’era niente da toccare.
“Tu sei una vera amica,” riprese Mike. “Sei la migliore amica di Sils.
Perciò, in un certo senso, ti ho sempre considerato anche amica mia.”
Ero disgustata.
“Ti posso dare uno strappo?” Aveva la voce impastata, e ora il sorriso
gli serpeggiava in volto con una nota di pazzia che probabilmente chissà
chi, chissà dove, gli aveva deo che faceva colpo.
Eravamo a dieci miglia da Horsehearts.
“Chiamo un taxi,” dissi io.
“Oh, il famoso tassista?” canterellò Mike giulivo, perché sapessi che
sapeva. “E lo paghi con il tuo piccolo salvadanaio?” Alzò una mano e
strofinò il pollice contro le altre dita. Cristo, ma Sils gli aveva deo proprio
tuo?
“Esao, esao.”
Entrai da Ress e telefonai.
“Ancora tu,” fece Humphrey. “Come cacchio ti bua?”
“Mi bua che sono al lago, angolo di Beach con aker.”
“A piedi?”
“Bravo.”
“Arrivo.”
“Grazie.”
Esaminai il mio portafoglio. Calava. Forse l’indomani avrei dovuto far
saltare qualcosa sul lavoro. Bastava una volta, e sarebbe stato tuo okay.
Dopo non l’avrei fao mai più.
Tornai a sedermi al tavolo davanti a Mike, in aesa del taxi. Delle luci
rosso peperoncino erano appese lungo il perimetro e la diagonale della
zona patio, ma era una di quelle sere infestate dagli insei, fuori non c’era
seduto nessuno salvo noi, e l’esuberanza forzata dell’illuminazione
sembrava deprimente e beffarda. Il jukebox all’interno sparava
Steppenwolf a tuo volume.
“Preferisci star qui, o tornare dentro, o cosa?”
“To’. Ti interessa?” mi chiese lui.
Non dissi niente.
“Facile che più tardi arriva Arnie,” mi stuzzicò.
Cambiai discorso: “Che cosa fa stasera Sils?”
“Ah! Ci hai impiegato solo un’ora a chiedermelo. Devo aver fao colpo.
Lo sai o no, che non sono mai riuscito a dirti due parole senza che tu ti
guardavi intorno e dicevi ‘Dov’è Sils?’”
Guardai oltre Mike, verso la Beach Road, e scorsi il taxi di Humphrey
che avanzava piano, cercandomi.
“Vado,” tagliai corto. Gli feci un cenno di saluto, un colpeo sulla mano,
una strizzatina di spalla. All’epoca nessuno si baciava sulle guance:
sarebbe sembrata una presa in giro.
“Brava, vai,” disse Mike, e la sua voce risuonò di un’inedita nota di
rimprovero. “Brava, vai sul tuo esoso Megataxi Galaico.”
“O cristo,” mormorai; girai sui tacchi e troerellai verso l’incrocio,
agitando la mano all’indirizzo di Humphrey che adesso stava svoltando
per dirigersi al parcheggio del Fort Ress.
“E la tua amica dov’è?” mi interrogò quando fui salita.
“Stasera ci sono solo io.” Per lo meno, avevo un uomo che
accompagnava me, che aspeava sulla strada solo me: anche, se,
naturalmente, dovevo pagarlo.

La maina dopo alle see c’erano già trenta gradi. Eravamo in piena
canicola, con tui i ventilatori di famiglia accesi per scrollare la cappa
d’aria immobile che gravava sulla casa. Alle see e mezza suona il telefono
e io volo in corridoio per rispondere.
“Cosa hai deo a Mike ieri sera?” Era Sils. Aveva una voce gelida, ma
con risonanze isteriche.
“Non lo so. Credo di non avergli deo niente. Perché, cosa ti ha
raccontato? E tu, che cosa gli hai raccontato?”
“Mi ha appena telefonato Arnie. Dice che ieri sera tu e Mike siete
andati a farvi un drink, e dopo lui era sbronzo e gridava come un mao. È
andato via mezzo schizzato, e ha fao un incidente con la moto.” i Sils
scoppiò in un pianto flebile, da scioccata. “È in rianimazione, con i tubi e
tuo quanto. Forse muore.”
Mike: pezzo di somaro. Invece dissi: “Oh, mio Dio.” Gli incidenti d’auto
e di moto dei ragazzi di Horsehearts erano le sconvolgenti tragedie locali,
il sale delle cronache, anche se io non avevo mai conosciuto nessuno che
dopo fosse morto: comunque non li conoscevo bene, non a fondo. Il nonno
era morto quando avevo tre anni, ma non me lo ricordavo.
“È cosciente?” Fu la sola domanda che riuscii a formulare.
“No.” Ora a Sils venne in mente qualcosa, si rese conto di qualcosa, e
cominciò un piagnucolio sommesso, insistente. “Io lo devo vedere.”
L’ospedale della contea era distante alcuni chilometri. “Chiamo
Humphrey,” dissi. “Ci facciamo venire a prendere al lagheo del parco,
diciamo… alle nove in punto? Così non dovremo camminare, con il caldo
che fa. Così quando vedi Mike non sarai tua sudata e sbrindellata.” Non
so perché dissi l’ultima frase: la buai lì e basta.
“Berie, lui è incosciente,” ribaé in tono aspro.
“Lo so,” ammisi. alsiasi cosa mi avessero deo quella maina, per me
non avrebbe avuto senso.
Così ebbe inizio un periodo di tre seimane in cui un giorno sì e uno
no, prima o dopo Storyland, e tui i giorni di riposo, nel caldo soffocante
ci facevamo portare da Humphrey fino all’ospedale della contea, dove ci
fermavamo un’ora per poi ritelefonare a Humphrey di passarci a prendere.
In questo modo, tenevo a distanza mia madre (“Mi faccio portare al lavoro
insieme a Sils e a suo fratello,” le gridavo dalla porta di casa), ma mi
costava parecchio: perciò dovei drenare un po’ di extra dal mio
registratore.
Dopo due giorni Mike riprese coscienza, almeno “nella sua versione”,
come disse Sils ridendo, addiriura, per il sollievo; la seconda seimana,
lanciava a Sils degli sguardi modello “avvicinati”, accompagnati da frasi
come “Ehi, piccola? Vieni a cuccia”, finché Sils andava a raggomitolarsi fra
i tubi vicino a lui.
In quanto a me, salivo su una sedia a rotelle e mi divertivo ad andare su
e giù per i corridoi dell’ospedale. Mike e Sils arrivarono a una spiegazione,
ricostruita sul leo d’ospedale di Mike fra lenzuola bianche, TV e odiose
luci al neon, che l’incidente fosse stato provocato da un concorso di colpa
fra l’aborto e un camion.
Io non meevo parola: sfrecciavo nei corridoi sulla sedia a rotelle,
salutando tui quelli che incontravo con voce allegra ma autoritaria. Una
volta, accidentalmente, indietreggiando entrai in un ascensore, che mi
portò giù fino all’acceazione. Giacché c’ero, decisi di vedere fin dove
potevo arrivare: imboccai la porta girevole e uscii in strada.
Nessuno mi fermò. Arrivai fino a metà della strada per il centro, oltre i
giardini dell’ospedale e più in là, oltre gli alberghei, il Grand Union e la
scuola superiore. Cercai addiriura di scendere dal marciapiede, con il
risultato di rovesciarmi sulla strada sbucciandomi un ginocchio, ma tanto
non mi vedeva nessuno. Alla fine, feci un’inversione e posi termine
all’avventura. Mi fermai al Grand Union e comprai una Coca-Cola.

“Tuo padre è preoccupato per te,” mi disse la mamma una sera,


incombendo sopra di me in vestaglia, con aria minacciosa.
“Chi, papi?” Mi stavo tagliando le unghie: a ogni clip un minuscolo
quarto di luna, duro e ingiallito, volava per la stanza.
“Potresti interromperti, mentre ti sto parlando? Non hai proprio
rispeo per niente?” Varcò la soglia e mi affibbiò uno schiaffo sulla coscia.
“Cosa?” Alzai gli occhi: la sua chioma, ex platiné, era adesso un
miscuglio tigrato di bianco e nero; le stavano crescendo i baffi. I suoi occhi
nocciola fiammeggiavano di ostilità.
“ando ti porto al lavoro o ti vengo a prendere te ne stai zia tuo il
viaggio con il muso, a cena la metà delle volte non ci sei, sono seimane
che non parli con tuo padre o tuo fratello, o con LaRoue, sono mesi che
non vai in chiesa, e non parliamo della nonna! Il tempo per andare a
trovarla non lo trovi neanche per sbaglio. Non è che vivrà ancora per
molto, sai!”
Mia nonna Carr abitava in una grande casa vioriana, nel centro di
Horsehearts: una casa piena di quelle che la nonna chiamava “canapè” e
“oomane”. “Non meere i piedi sull’oomana, tesoro.”
Nella casa c’erano tre violoncelli: uno era appartenuto a mio nonno, e
gli altri due erano della nonna, che spesso dava lezioni in cià, e ogni
volta che andavamo a trovarla tirava fuori uno dei violoncelli e ci suonava
un pezzo mentre noi, seduti su un’oomana, ci dimenavamo scambiandoci
pizzicoi quando lei non guardava. In seguito, da grande, mi resi conto
che suonava magnificamente: ma quando ero bambina l’interesse
dell’evento risiedeva essenzialmente nel guardare una signora compita,
una “vera dama vioriana”, secondo l’adorante definizione di mio padre,
piazzarsi fra le gambe quell’ordigno a forma di donna e stringerlo fra le
ginocchia, facendo vibrare le dita lungo il collo mentre l’archeo segava
lento le corde secondo mutevoli angolazioni, delicatamente, alla ricerca
della nota. La nonna guardava sempre in basso, il violoncello, come la
Madre Santa guarda il suo Bambinello, o forse come una donna ne guarda
un’altra inginocchiata davanti a lei.
“Finito?” In genere era Claude il primo a chiedere; e mia nonna,
sorridendo con una specie di esausta indulgenza, rispondeva: “Sì, ho
finito.”
“Ci vado prestissimo,” dissi a mia madre. L’avevo già promesso altre
volte, ma che cavolo: lo ripetei di nuovo.
“E poi,” proseguì la mamma, “la signora Lollick, della chiesa, vorrebbe
che tu ricominciassi ad aiutarla con la nursery.” L’anno prima, ogni tre
domeniche, mentre i miei genitori assistevano alla funzione, aiutavo a
tenere i bambini della chiesa baista in uno stanzone rosa con le culle
schierate su di un lato; alla parete opposta era appeso un enorme ritrao
in cornice dorata di Gesù, il cui sguardo volto al cielo e i boccoli color
caramello lo facevano assomigliare a un Kenny Loggins un po’ rugiadoso.
esto deaglio bastava a rendere il lavoro nella nursery più appetibile
che starsene seduta nella chiesa, circondata da anziane signore con
cappellini di feltro, velee come reti da pesca, e lunghi animali pelosi
drappeggiati tuo intorno al collo dei loro soprabiti, testa e zampe
comprese. Durante i sermoni, avevo sempre fissato la luminosa vetrata a
colori raffigurante Gesù come Pastore ricolorandola mentalmente con
prevalenza di malva e nero. I miei erano diventati baisti dopo il
matrimonio, abbandonando rispeivamente le chiese caolica ed
episcopale per una che sembrava loro più congeniale. Adesso non
saltavano una domenica. Cantavano nel coro. Facevano gli uscieri.
Pregavano.
“D’accordo, le telefono.”
“E questi non sono neanche i guai più grossi,” riprese mia madre. “Il
vero problema è che mi sembri sfasata, alla deriva.”
“Che cosa hai deo?” Alzai il viso verso di lei, sorridendo e facendo gli
occhi storti. Era la risposta che avrei potuto dare a Sils, stroncandola: ma
mia madre la trovò solo impertinente.
Si chinò e mi allungò un ceffone in pieno viso. “Adesso mi hai sentito!”
E chiuse la porta.
*
Una volta con la sedia a rotelle mi allontanai troppo; arrivai fino in
fondo alla strada e mi fermai a guardare le vetrine dei negozi. Era maino
presto, non c’era nessuno. ando fui di ritorno all’ospedale, Sils se n’era
già andata.
“Sils è andata via,” disse Mike. “Non sapeva dov’eri finita.”
“Ero fuori a prendermi una boa di vita sulla sedia a rotelle.”
“Ha pensato che magari ti eri roa di aspeare.”
“Ma figurati.”
“Brava. Figurati. Lei non sapeva, doveva andare al lavoro.”
“E io pure,” tagliai corto. Avrei dovuto chiamare mia madre. “indi me
ne vado.” A me Mike sembrava guarito. Era sicuro di sé, ed esibiva quella
supponenza da ragazzoo che normalmente infortuni e malaie azzerano.
Adesso gli era tornata. Gli avevano tolto la flebo di glucosio; guardava un
sacco di televisione. “Sono contenta che stai meglio,” gli dissi.
“Veramente?” Abbozzò quel suo tipico, strano sorriso obliquo.
“Certo. Cosa vorresti dire?”
“Voglio dire: qua ci sono io, tuo malmenato in ospedale, e lì ci sei tu,
probabilmente piena di fantasie zozze.”
“Che cosa vuoi dire, porco?”
“Parlo di come ti comporti con Sils, che cosa sembri? Mah, non lo so.
Mi chiedevo, e basta. Pensavo a voce alta.”
Raccolsi il mio borsone di corda che avevo lasciato accanto al
comodino, e uscii senza voltarmi.
Lo sentii, alle mie spalle, che diceva: “E dài, su! Non volevo dir niente di
male.”
Isabelle, Herb, mia madre, e adesso si meeva anche Mike Suprenante a
darmi sui nervi. La mia vita sembrava un vecchio orologio, un cipollone
con tanti pezzi che si rompevano contemporaneamente. La sera dopo
toccò di nuovo a Isabelle. Mi chiamò nel suo ufficio, uno stanzone a pois
sopra l’ingresso principale. Sedei sulla sedia stile tavolo-da-gioco davanti
alla sua scrivania.
“Cosa combini con il registratore?”
“Eh?” Per la tensione stavo seduta dria come un fuso. “alche volta
registri di meno, altre di più. Lo chiudi o no il registratore, e ti porti dietro
la chiave in pausa mensa?”
“Sì.”
“E il casseo, lo svuoti? E porti con te la cassaforte, quando
interrompi?”
“asi sempre,” risposi.
Mi guardò severa. Anche con quel caldo bestiale portava i tacchi a
spillo e le calze di nylon: sentivo una delle sue gambe dondolare
nervosamente avanti e indietro. “Basta,” ordinò alludendo alla cassaforte.
“Non faremo più così.”
“Okay.”
“Domani ti spostiamo all’ingresso lato lago.”
L’ingresso lato lago era ignoto alla maggior parte dei turisti, perciò non
c’era mai molta ressa. Le volte che mi era capitato di lavorarci, avevo
passato tuo il tempo a scrivere lunghi messaggi per Sils sulla carta
arancione di un rotolo di scorta. Il messaggio era pieno di spiritosaggini
sul tema che Stan l’uomo della sorveglianza e Mary del negozio di
souvenir stavano insieme.
Ma laggiù non c’era nessuno che strappava i bigliei, lo faceva la
cassiera stessa: dunque era il registratore dove le matrici si davano via più
facilmente.

el giorno me ne stavo là seduta da sola, a scrivere un messaggio per


Sils. “Ehi, bambolina”: iniziava così, nel solito stile cretino di tui gli altri.
“Che ne diresti di vederci stasera per una bella pipatina?”
“È un’entrata del parco dei divertimenti, questa?” chiese una coppia di
quarantenni con un ragazzino.
Lessero i prezzi sulla tabella esposta. “Ha solo due anni,” disse la donna
indicando il ragazzino. “E lui, quanti credi che ne ha?” Additò suo marito.
“Appena undici.”
“Tu avresti due anni?” chiesi al bambino. Così a occhio ne aveva
almeno oo.
Lui fece spallucce. “Credo.”
“Va bene,” acconsentii.
“E di me, cosa ne dici?” chiese l’uomo. Portava scarpe bianche, una
magliea bianca da golf e i pantaloni azzurri. Collo e braccia erano
abbronzati e con le vene in rilievo. “Anch’io ho due anni.”
“Mentalmente, ha due anni,” confermò la moglie.
Una volta che hai visto un po’ di gente passare alla cassa, ti rendi conto
che sono tui uguali: hanno lo stesso aspeo, dicono le stesse cose.
“Tui uguali,” scarabocchiai in grande nel messaggio per Sils sul rotolo
di turno, proprio davanti a loro; “pieni delle scemenze che, ovviamente, gli
servono a tenere in piedi il loro matrimonio,” aggiunsi poi in una
calligrafia cauta e sinuosa, in aesa che riuscissero finalmente a decidere
la loro età.
Dal mio vetro guardai il ragazzino. “Se non sei alto almeno come quel
segno lì, e non hai almeno nove anni, non puoi salire da solo sulle
arazioni. È per via dell’assicurazione del parco.” Da scommeere che in
un aimo me lo sarei ritrovato “cresciuto”: era un sistema che Herb aveva
escogitato per far tornare i bambini alla cassa a pagare la differenza, in
modo da poter salire sulle macchine da soli. “Abbiamo un cresciuto, qui,”
diceva tuo gongolante riaccompagnando un ragazzino all’entrata. “C’è
un campione che è cresciuto per magia.”
Un “cresciuto” significava grano: mentre nessuno guardava, scrivevi
“cresciuto” sul tuo frammento, lo meevi nel registratore e ti tenevi
l’ammontare del biglieo ridoo.
“Lo so,” rispose stavolta il bambino, con la tristezza di chi si è fao
fregare.
“Due adulti e uno soo i sei anni,” ordinò la coppia.
“Fa venti dollari e quaranta,” dissi io, senza premere alcun numero, ma
solo il tasto TOTALE; poi feci saltar fuori il casseino con un drrrinnng.
“anto?” insistee l’uomo. Continuava a scrutare il display della
cassa nel tentativo di leggere l’importo complessivo. Ma i numeri non
apparivano.
“Venti dollari e quaranta,” ripetei. Mi diede la somma precisa, che io
misi momentaneamente nel registratore, chiudendo il casseino. Li avrei
tolti più tardi.
“Ecco fao.” Diedi loro tre metà di biglieo. “Conservate i bigliei per
le varie arazioni.”
Aggroando la fronte mi fecero un cenno di saluto e si incamminarono
spingendo la sbarra girevole; quindi svoltarono l’angolo e sparirono nel
parco.
Esitai un po’ prima di aprire il casseino e recuperare i soldi. Aspeavo
di sentire un rumore, di vedere qualche tizio che cercava di nascondersi
vicino all’entrata o acquaato in un cespuglio, o magari appostato dietro
la cabina della cassa: qualcuno con un walkie-talkie, o semplicemente Stan
il sorvegliante che si concedeva una pausa sigarea. Ma non si sentiva
proprio niente, a parte i soliti strilli lontani di bambini felici, perciò aprii il
casseo e quando alzai lo sguardo vidi Isabelle, apparsa dal nulla, che
ticcheando furiosamente sui tacchi a spillo girava l’angolo dell’allegro
ovile (la Pecorella Nera) dirigendosi a passo deciso verso l’entrata. Era
seguita da Herb, rosso in viso e contrariato, e da un polizioo dall’aria
annoiata ma severa – professionale, oserei dire. Isabelle spinse la sbarra e
bussò sul mio vetro con le nocche delle dita.
“Okay,” disse, “ora blocca il registratore. esta entrata la chiudiamo.”
Poi si avvicinò alla mia cabina, tirò la maniglia e spalancò la porta. Con un
ampio gesto del braccio mi indicò di uscire: io chiusi il casseino e
obbedii, mentre il peo mi rimbombava. Ero nei pasticci. ella famiglia
fu il mio primo pensiero. Erano spie, era una fregatura, facevano parte di
un programma di controlli interni. Mi venne una nausea terribile, come se
fossi salita su tue le arazioni – le tazze da tè rotanti, la Vedova Nera
turbinante – e per un aimo mi voltai dall’altra parte, madida di sudore. Il
mio cuore baeva a cento all’ora, e faticavo a respirare.
“Abbiamo controllato il numero dei bigliei strappati relativi a questo
registratore.” Isabelle era una statua di inflessibile onestà, con il braccio
ancora a mezz’aria a indicare il parco. Nel mio fulmineo, torrenziale
spavento mi sentivo vacua e flebile: l’unico rimedio era l’incredulità. Mi
riempii la testa con una tale dose di incredulità da sentirmi il capogiro, ero
come impazzita. Stan, l’uomo della sorveglianza, oltrepassò impassibile il
cancelleo (da dove veniva? Da nessun posto) e si accese una sigarea
sornione, malizioso. Stan: era stato lui!
In un momento di follia, completamente fuori di me, mentre Isabelle
chiudeva registro ed entrata e Herb appendeva l’insegna INGRESSO CHIUSO,
tentai l’ao risolutivo. Nascosi il messaggio per Sils nella tasca del mio
grembiule e, sgusciando fulmineamente fra Herb e Stan per il piccolo
ingresso ora affollato, mi catapultai fuori dalla sbarra correndo verso
l’altro cancello, accanto al negozio di souvenir dalla vetrina sfavillante di
thermos e magliee marca Storyland. Era quella la meta da raggiungere,
per me e per la mia ombra pomeridiana, che mi seguiva compaa e vicina
come una pozzanghera, come uno strano paio di scarpe da neve, nere e
girate all’indietro. Avrei araversato lo spaccio per poi passare dal viale
delle Rimembranze e arrivare nel parcheggio. Mi sarei nascosta dietro le
macchine, e più tardi avrei fao l’autostop. “Ehi!” gridarono il polizioo e
Herb. Il cappello di paglia volò via; accelerai la corsa, poi qualche cosa mi
bloccò il ginocchio, la caviglia si girò e caddi, mentre il terreno si incollava
sulla mia faccia. Rimasi a terra per un secondo: ma che cosa credevo? Di
riuscire a scappare? Per diventare una fuorilegge? Isabelle e gli altri
correvano verso di me. Mi alzai a sedere e aspeai che mi raggiungessero,
ripulendomi gambe e gomiti dall’erba e dalla terra. “Mi spiace,” dissi. Alzai
le mani in segno di resa, quindi le allargai sconsolata. Herb e Isabelle mi
afferrarono brutalmente per le braccia, mi alzai e li seguii. Si era fermata
della gente a guardare, tuo il mondo si condensava in una surreale
occhiata luminosa e rovente, come in un film italiano. Una volta con Sils
avevo visto un film italiano.
“Tienila strea,” disse Stan a Herb mentre, rimessosi il cappello,
tornava al posto di guardia. “Non fartela scappare.”

Sulla scrivania di Isabelle c’era una foto della sua bambina, Gloria Deb.
Isabelle era divorziata da anni, e doveva lavorare sodo. Correva voce che
ogni Natale Frank Morenton come premio le regalasse una cabriolet più
un viaggio in Florida.
Adesso Isabelle mi fissava. Aveva un’agenda così piena. “Come credevi
che sarebbe finita?” mi urlò.
“Non lo so.”
Squillò il telefono, prese il ricevitore. “Pronto?” Rimase in ascolto un
momento. “Elle a mangé la grenouille,” disse, quindi riappese. Ha mangiato
la rana; ha rubato dalla cassa. Mi guardò accigliata e sospirò: era rimasta
provvisoriamente senza parole, come per un’ischemia cerebrale
transitoria. Mi faceva compassione e decisi, con puerile incoscienza, di
darle una mano. Feci un sorriso buffo e dissi, falsamente noncurante:
“Immagino che questo finirà sul mio curriculum.”
Tornò a fissarmi, gelida. “Con te intendiamo dare un esempio. Devo
stabilire con il signor Morenton se è il caso di denunciarti, ma certamente
chiederemo un rimborso. anto hai rubato complessivamente? Cento,
duecento? Mille? La sua voce vibrava del furore di una donna tradita,
divorziata, stanca, costrea a lavorare troppo.
Risposta multipla. Avevo sempre preferito la A. “Cento,” risposi. Herb
mi guardò in cagnesco, ma si vedeva che per lui era una giornata
eccitante.
Isabelle cominciò a riordinare i fogli sulla scrivania. “esto signore è
l’agente Kerry dell’ufficio dello sceriffo, ti porterà a casa sull’auto della
polizia. Noi telefoniamo ai tuoi genitori per avvertirli.”
Cominciai a piangere.
“La ammanei,” ordinò Isabelle all’agente.
L’agente mi rivolse uno sguardo pietoso. “Sono sicuro che questo non è
necessario, madame.”
“Lei la ammanei, e l’accompagni all’ingresso principale. Bisogna dare
un esempio per tui gli altri.”
“Va bene, se lo dice lei,” acconsentì l’agente, stringendosi nelle spalle.
Poi mi disse: “Sei in arresto. Mei le mani dietro la schiena.”
Stavo ancora piangendo, e mi asciugai il naso con il palmo della mano
perché non avevo fazzolei e nessuno me ne offriva.
“Un momento solo,” mormorai: feci un estremo tentativo di togliermi il
muco dal viso, mi alzai e mi girai porgendo le mani all’agente, che si era
tolto le manee dal cinturone. Erano dure e fredde, regolate per stringere i
miei polsi soili; sembravano dire “queste mani hanno rubato, e noi le
imprigioniamo, le rendiamo inoffensive, te le mozziamo”. “Oh, no,”
gemei.
Scesi le scale e uscii: l’agente mi guidava verso l’ingresso principale
tenendomi per un gomito e portando il mio cappello di paglia, che pure
era proprietà del parco. Indossavo l’uniforme da cassiera e portavo ancora
la targhea con la scria: CIAO! SONO BENOÎTE-MARIE. Mi sforzavo di
traenere le lacrime risucchiandole nella cavità dell’occhio. Erano le
quaro del pomeriggio e la calura del giorno pesava abbondantemente
benché il sole, callo osseo arroventato, cominciasse ad abbassarsi.
“Oh, mio dio!” sentii rantolare Sheryl alle mie spalle, dietro il
registratore di sinistra.
“Cos’è successo?” chiese Debbie.
“Che c’è?” domandarono al nostro passaggio molti visitatori del parco
incolonnati in coda. Gli altoparlanti suonavano la canzoncina di Storyland
che adesso mi sembrò un’accozzaglia di “zup-pa-pa” intristiti, come il
finale della Traviata. Muto, l’agente Kerry mi sospinse verso l’uscita
tenendomi delicatamente per un braccio, finché araversato il parcheggio
luminoso e assolato di Storyland, raggiungemmo l’estremità opposta dove
aveva lasciato la sua macchina. Con la coda dell’occhio riuscii a vedere
Sils, con il diadema d’acciaio inossidabile e l’abito a lustrini, incollata al
cancello di rete metallica della zona dove circolava la sua carrozza-zucca.
Chiamò il mio nome una prima volta e poi ancora e ancora, ma rifiutai di
voltarmi. Ero brua e goffa, con il moccio che mi colava nella bocca e non
potevo fermarlo. Non volevo farmi vedere da nessun altro. Non volevo che
lei mi vedesse. Torcendo il collo tentai di asciugarmi il naso sulla spalla,
senza riuscirci.
Per tuo il viaggio verso Horsehearts l’agente Kerry – lui al posto di
guida, io di dietro – non mi disse una parola. Periodicamente gli arrivava
una chiamata sulla radio, lui prendeva il ricevitore e rispondeva. Mi
tornarono in mente i viaggi in taxi con Humphrey: questa ne era una
replica deteriore e sardonica. Com’era più complicato per me, da sola,
trovare un tizio che mi desse uno strappo dal lago fino a casa. Guarda che
razza di fatica mi toccava fare! Che ingegnosità, e che nervi d’acciaio mi
occorrevano! Per Sils, oh-oh!, era facile. Bastava che sorridesse. Io dovevo
rubare, e piangere, e meere di mezzo la legge.
“Dove abiti?” chiese l’agente Kerry quando avvistammo la vecchia
insegna sbeccata e rugginosa della Camera di commercio che
tragicomicamente diceva BENVENUTI A HORSEHEARTS, IL VILLAGGIO DEL FUTURO.
Mi sembrò strano che l’agente Kerry mi chiedesse così, semplicemente,
dove abitavo. E se avessi risposto: “Oh, non gliel’ho ancora deo? A
Washington, D.C.!”
“Fish Glen Road,” dissi invece. “Al trentasei.”
“Oh, proprio là,” fu il suo enigmatico commento. Al successivo
semaforo svoltò a sinistra.
ando ci fermammo, vidi i miei genitori che aspeavano in veranda.
Ai miei occhi appannati dalle lacrime apparvero distanti, due figurine
rosee e inferocite, e mentre camminavo lentamente verso di loro,
ammaccata e in manee, compresi che non li conoscevo a sufficienza per
fargli questo, per addossare alle loro vite un episodio simile; che la rabbia
e la delusione sono più dure da sopportare nelle persone che non ti stanno
vicine, e da cui tu stessa ti sei tenuta in disparte, che in quelle che conosci
meglio. Tua la mia rigida educazione era lì soo la veranda che mi
aspeava, con i suoi sventurati responsabili pronti a impartirmene una
razione ulteriore e definitiva – o forse, constatato il loro fallimento, a
dimeersi dal rigore, dalle responsabilità, da me.
Mia madre si alzò dal divaneo a dondolo dove si stava spingendo
avanti e indietro con un piede mentre era seduta sull’altro, a braccia
conserte, il volto contrao e stralunato. Mio padre distolse lo sguardo da
un punto indefinito, fra le montagne, che contemplava, chissà, ripensando
agli studi di scienze forestali, o canticchiando il Brahms più tragico che
conosceva, o lamentandosi per l’ennesima volta dei danni inflii alla fauna
dai gai delle nevi che abituavano i cervi al rumore dei motori, con il
risultato che poi i cervi araversavano l’autostrada e si facevano investire.
Forse stava compilando un elenco mentale dei vari modi in cui i figli ti
possono spezzare il cuore. Lui non era di quelli che ti fanno sapere cosa
pensano: ti traeneva lì, a guardarlo pensare, a guardarlo fissare nell’aria
dove lui costruiva le sue ansie e i suoi sistemi, con gli occhi immobili e le
labbra serrate. Adesso si voltò per guardarmi, e la sua statura fu sufficiente
a riempirmi di rimorso.
L’agente Kerry mi tolse le manee appena scesi dall’auto, ma continuò
a tenermi per il gomito e a spingermi davanti a sé come un carrello. Fu
una lunga marcia, durante la quale mi resi conto che, malgrado tue le
loro stravaganze, i miei genitori avevano sempre desiderato essere persone
come le altre, normali, utili, ordinarie. Non resistevano del tuo nemmeno
all’energia caotica della loro stessa eccentricità, alla pienezza vitale che
essa implicava, al suo fluire pieno, con relative conseguenze e diramazioni.
Constatare una devianza nei loro figli gli ricordava inevitabilmente tuo
quello che erano, e a cui non potevano sorarsi: gli ricordava la solitudine
profonda e dolorosa in cui vivevano tui e due avendo sempre tentato
disperatamente di scongiurarla.
“Va’ in camera tua,” disse mia madre gelida, e io ubbidiente entrai in
casa, con gli occhi bassi sui gradini, che salivo colma di vergogna.
“Augh.” Dalla cucina Claude salutò il mio passaggio. Si stava
preparando un sandwich con burro d’arachidi e marmellata. “Che cos’hai
fao?” mi chiese.
“Ho solo… taci,” risposi stravolta prima di lasciarmi cadere sul leo
lanciando il cappello di paglia sul pavimento.
Diede un morso al panino. “Non prendertela; faccio io la spia per te. Ti
informerò su quello che succede. Dall’entrata posso tenere tuo soo
controllo.”
Dallo scantinato arrivò LaRoue, che si fermò sulla soglia dicendo:
“Guarda guarda.” Poi, più affeuosa, aggiunse “Dài, coraggio”. Per la prima
volta in vita sua sembrava in pena per me. “Non prendertela. Ho sentito
che parlavano. Hanno deciso di non fare scenate.”

ello che avevano deciso era di spedirmi alla colonia della chiesa
baista per il resto dell’estate. Me lo dissero dopo aver ringraziato l’agente
Kerry e avergli streo la mano (per un lavoro fao a regola d’arte?) e dopo
aver ricevuto un’improvvisa, breve visita di Frank Morenton in persona. Il
quale, come mi spiegò Claude, era arrivato nello splendore della sua
decappoabile, scendendo con un balzo e porgendo ai miei genitori le sue
scuse per la piazzata. Era altresì latore della mia borsea di corda, quella
che avevo lasciato all’ingresso del lato lago (che strano immaginarselo con
la mia borsea!). “esta faccenda di vostra figlia teniamola fra noi. Ecco,
questa è sua.” Allungò la borsea a mia madre. “Il parco è un luogo sereno,
per famiglie. Sono arrivato in questo paese senza un soldo, e ho lavorato
troppo sodo per permeere che le mie imprese siano luoghi di scandalo e
di confusione. Io credo nell’America.” Mi stava maneggiando con le stesse
dita premurose che avevano toccato l’incidente alla Miniera Perduta.
L’incidente ero io. Eravamo la stessa cosa.
Salvata dall’America.
“Da che paese credi che venga?” domandai a Claude. “Indonesia. O
forse Francia? Come faccio a saperlo?” Appresi in seguito che Frank
Morenton aveva licenziato Isabelle a causa della sua mancanza di elasticità
solo per riassumerla il giorno dopo; che lei ricevee lo stesso la macchina
e la vacanza natalizia in Florida, e che comprò un motorino a Gloria Deb.
“Ovvio che vostra figlia è licenziata,” disse ai miei. “Ma per il denaro,
diciamo che siamo a posto così. Pari e paa.” Horsehearts era il genere di
posto dove anche una persona importante può dire “pari e paa”. A
restarci troppo a lungo, si finiva per aggiungere e sorarre sillabe alle
parole, per chiedere un “hamburg” o un “cheeseburg”. Dopo vent’anni,
c’era addiriura il rischio di rispondere “bingo” al posto di “sì”.
“Le siamo molto grati,” mormorò mio padre.
“Gradisce un po’ di tè ghiacciato?” propose mia madre.
“No, grazie,” rispose Frank Morenton. “Volevo solo fare una corsa qui
per sistemare la cosa, e informarvi che, pur potendo, non farò denuncia; e
adesso via, meiamoci una pietra sopra.”
“Va bene,” disse mia madre.
“Spero che vi comporterete come me e non ne parlerete con nessuno.”
I miei genitori dissero qualcosa che Claude non riuscì a sentire.
“Adesso devo andare,” annunciò Morenton, e si dileguò veloce sulla sua
bellissima auto, come un dio sfolgorante dell’Olimpo. Almeno, così lo
descrisse Claude. Io ero rimasta in camera come mi avevano ordinato.
Fissavo il poster dei Desiderata. Procedi tranquillo fra il baccano e la furia…
Che roame.

La colonia era un campo baista a cento miglia di distanza, in


montagna, sul lago Panawauc, dissero i miei genitori quando salirono in
camera mia, dopo che Frank Morenton se ne fu andato. Sarei rimasta lassù
fino a fine agosto, e al ritorno avrei fao i bagagli e sarei partita per tuo
l’autunno e l’inverno. Mi mandavano in collegio.
“Un’accademia militare?” domandai; e nessuno dei presenti nella
stanza, nemmeno io, capì se stavo scherzando.
“La Mount Brookfield School,” dichiarò mio padre. Restai sbalordita
dalla precisione con cui avevano organizzato il mio futuro nei dodici
minuti che avevo impiegato per tornare dal lago a Horsehearts. “I deagli
economici li stabiliremo eventualmente con tua nonna. Sarebbe opportuno
che andassi a trovarla e le dessi una spiegazione.”
“Come no,” risposi seccamente. “Credo anch’io che sarebbe opportuno.”
Eravamo tui in piedi nella mia stanza rosa e porpora, con il poster dei
Desiderata, il paralume ad alveare, i dischi e lo specchio per il trucco.
Cominciai a giocherellare con la cordicella danzante dell’interruore,
accendendo e spegnendo: guardavo il paralume riempirsi di un rosa che si
proieava sui visi dei miei genitori come un velo d’imbarazzo per poi
sparire, simile a una febbre passeggera, o i lampeggianti delle auto della
polizia.
“Che cos’hai che non va?” chiese mio padre in tono disgustato, e io mi
rimisi a piangere, perché non lo sapevo.
Si voltò con rabbia e uscì dalla stanza; mia madre esitò poi lo seguì, non
senza lanciarmi uno sguardo che in un’altra situazione mi avrebbe
trasformata in una statua di sale, o faa scomparire del tuo. In questa,
invece, mi lasciò dov’ero, con la luce rosa e una grossa falena nera che
sbaeva sulla zanzariera con lo stesso rumore degli ufficiali della riserva di
Marina all’ora di cena, quando marciavano per la strada eseguendo le
esercitazioni estive con sordi brusii, strascicamenti e “urrà”, ligi alla
salvezza del nostro paese, del nostro mondo, della libertà! Mi geai sul
leo piangente, sognando Cuba in controinformazione.

ell’agosto, la Convenzione repubblicana nominò nuovamente Nixon;


stava “ripianando la guerra”, neanche fosse una strada.
Il Watergate era in agguato.
Pay Duke si sposò.
Una tempesta solare rimagnetizzò la terra in un baibaleno.
este notizie le seppi solo tramite i rochi balbeamenti della radio
della mia assistente durante le ore di riposo. Ero nella cuccea sopra
quella di Monica Hyde, una quaordicenne di North Syracuse. ando
non riuscivo ad ascoltare la radio, parlavo con lei. Il peccato più grave che
avesse commesso era stato quello di strappare la cerniera dei jeans dalla
copertina dell’album degli Stones Sticky Fingers, per vedere che cosa c’era
soo.
“Be’, ma anch’io ho fao così,” obieavo. “Bisognava farlo.”
“No, non è vero,” negava lei. E io tornavo a contemplarmi le braccia
abbronzate, o a leggere il vespro recitato la sera precedente con
accompagnamento di grilli nella “cappella” (una radura sulla riva, con
tronchi d’albero a fare da panche e per pulpito lo stesso lago). Passavo il
tempo in un’alternanza di noia e di rammarico per tua quella noia, alla
ricerca di nuovi mezzi di autocommiserazione e di espiazione dei miei
delii. Mi innamorai un pochino del figlio del direore del campo, un
ragazzo della mia età di nome Hayden Filo, che aveva solo tre dita delle
mani e sei dei piedi per colpa del talidomide. Dopo i vespri ci capitava di
passeggiare insieme per il bosco parlando di Dio – mai di Gesù, suo figlio!
– solo di Dio e di ciò che Egli prescrive in termini che a volte ce lo
facevano sentire presente e sfolgorante quanto il crepuscolo violeo che ci
accompagnava, e altre irraggiungibile, un bambino viziato che tiranneggia
tui i suoi parenti.
A volte ci fermavamo, vicino agli alberi, alle rocce o alle biforcazioni
del sentiero, a baciarci. Rimanevamo alzati fino a tardi ad aspeare
l’aurora boreale che adesso, con la tempesta solare, si vedeva così di
frequente. Ricordava una baeria di fari di camion accesi nel cielo, e non
sempre ci faceva un grande effeo: ma a volte ci appariva miracolosa
come gli angeli, e ci sentivamo caurati dal suo incanto, traboccanti di
luce e di bontà, così lontani dal nostro oscuro, fortuito passato.

Vinsi una gara di citazioni bibliche. Conoscevo la Bibbia come il mio


armadieo (Levitico, 14, 10! Gilet verde di lana a uncineo!). Alla fin fine
erano la stessa cosa, effei personali di cui il mio cervello si era
impadronito catalogandoli con meccanica insensibilità. Il mio cervello ha
sempre cercato di trasformare lo strano in familiare, disponibile, non
minaccioso. Costruendo parapei, percorsi alternativi, strade e mappe.
Bonificava e coltivava con energia timorosa, compulsiva, automatica.
Perciò vinsi il test biblico.
Nei tuffi all’indietro mi classificai seconda.
Cantai Tu c’eri quando crocifissero il mio Signore? da solista, davanti a
tui, al servizio domenicale. Alla fine, nessuno applaudì, ma durante una
funzione religiosa sarebbe stato sconveniente. Era uno dei difei della
religione.
Scrivevo lunghe leere a Sils, con groesche ma innocue descrizioni
delle altre ragazze della tenda (“Mangiano il fango!”), senza accennare al
ragazzino con tre dita che baciavo nel bosco. Al vespro pregavo davvero
intensamente Dio, e in varie circostanze ebbi la certezza che lo Spirito
Santo mi pervadesse; allora fra me e me gridavo e scappavo via. Un
dopopranzo presi appuntamento con il direore del campo, il reverendo
Filo. Mi sedei nel suo ufficio, sul retro dell’edificio principale, e lo guardai
negli occhi con decisione. “Desidero essere baezzata,” gli spiegai. Non
sapevo se fosse informato delle passeggiatine nel bosco che facevo con suo
figlio.
“Non sei già stata baezzata?”
“No,” mentii. Era l’ultima bugia, la menzogna indispensabile, la grande
falsità che le avrebbe soppresse tue quante: la bugia di Gesù, proferita
per scontare i peccati di tue le altre bugie.
Il reverendo Filo mi scrutò. Non avevo idea di che cosa gli avessero
deo i miei genitori. “Non sei stata baezzata come tui, quando avevi
dodici anni?”
“Avevo la mononucleosi,” replicai. La bugia vicaria, la bugia del buon
ladrone sulla croce. Mi avevano baezzata quando il baesimo per me non
significava nulla; ora bramavo la pubblica espiazione: la Passione
Individuale, come la chiamavano al campo Panawauc, fra torcibudella e
inni strimpellati alla chitarra. Avevo bisogno del rituale, e dello speacolo.
Dovevo capitombolare fra le braccia di un uomo di chiesa, per essere
benedea e trasportata in un lampo fra le nubi, dove avrei sentito Gesù
afferrare il mio cuore e tenerlo con sé, non strillare di orrore e fuggire.
esto la prima volta non era successo: allora avevo la mente occupata
dalla prima colazione e dal pensiero di trovarmi lì, davanti all’intera
congregazione, senza biancheria soo la veste baesimale. Alla fine mi ero
ingozzata gioiosamente di ciambelline e cioccolata calda insieme alle altre
“candidate” al baesimo, come ci chiamavano, mentre le signore della
Chiesa ci asciugavano i capelli con i panni e il phon.
“Be’, allora credo proprio che ti dovremo baezzare,” dichiarò il
reverendo Filo, come un medico che parla di un piccolo intervento
ambulatoriale, zic-zac, taglia e cuci.
Chissà perché, ritenevo che non sarei stata l’unica a essere baezzata
quel giorno, ma invece fu proprio così. Niente tuniche: avevo il costume
da bagno e una mantella di lino azzurro annodata alla gola. Ero in piedi
nell’acqua fino alla vita con il reverendo Filo, a pochi passi dal pontile,
vicino a una corona di piccole boe di plastica; il lago era tiepido, immobile
e bruno come uno stagno. Così appariva a fine estate. Dal fondo
crescevano alghe lunghe e morbide, che danzavano un hula seducente e
poi ti si avvinghiavano alle gambe in una presa mortale.
A riva c’erano solo la mia assistente, Sandy, Monica Hyde e Hayden
Filo, che mi sorrideva benignamente. Adesso appartenevo davvero alla sua
religione e potevo sposarlo. Forse era a questo che stava pensando. Di
certo lo pensavo io. “Vuoi tu Benoîte-Marie Carr acceare Gesù come tuo
Dio e Salvatore?”
Si traava di un voto solenne. Raccolsi tue le forze, la speranza e la
devozione che sapevo di avere in corpo: formavano una massa compaa
soo le mie costole. Sentii le dita dei piedi che cominciavano ad
accavallarsi e a soffrire di crampi. Ormai era chiaro: c’era solo Gesù, tuo
il resto non contava nulla. Il resto era feccia. L’azzurro del cielo era
infinito, invitante, e autentico. Là c’era il Buono. ella era la Via. Le
montagne oltre il lago erano apostoli, gli alberi testimoni discesi da lassù.
Le boe di plastica vicino al pontile erano le colombe dello Spirito Santo.
“Sì,” risposi, “lo voglio.” Il reverendo Filo disse qualcos’altro, ma non lo
sentivo più. Provavo fie e spasimi ai piedi e alle gambe, poi il reverendo
mi cinse la vita con un braccio e sussurrò: “Lasciati cadere, cara.” Pensando
ai miei tuffi all’indietro, strinsi gli occhi e spinsi con i piedi; ma troppo
energicamente, come se stessi eseguendo un vero tuffo, e lo slancio fece
barcollare e cadere all’indietro anche il reverendo Filo. Spalancai la bocca
in cerca d’aria, ma invece entrò dell’acqua e le alghe perfide mi si
aorcigliarono intorno alle gambe, paralizzandomi. Non sono mai stata
una brava nuotatrice: sapevo fare i tuffi, ma nuotavo male, e quando a
scuola facevamo la lezione di nuoto e salvataggio, con i costumi colorati
diversamente secondo le dimensioni dei seni, fingevo di avere le
mestruazioni, oppure la maina presto mi martellavo un dito finché si
gonfiava per poter andare dall’infermiera a chiedere l’esonero. Così
adesso, mezza affogata, trascinavo nell’abisso un ministro dell’Altissimo
con la sua testa che si dibaeva nell’acqua accanto alla mia, non riuscivo a
salvare né me stessa né altri. Aspeavo che lo Spirito Santo mi pervadesse
e, insediandosi pacificamente nel mio cuore, mi portasse per sempre via
con sé. Aprii gli occhi so’acqua, dove le cose erano mute ma ricche di
movimento: bolle e figure fangose. Alzai gli occhi al cielo cercando Dio,
ma tuo ciò che vidi araverso l’acqua fu la tempesta di luce nel sole, e
poi Sils con il diadema, che mi chiamava, e infine la maestosa figura
torreggiante di Frank Morenton che stringeva la mia borsea di corda e
guardava giù da nubi gassose che gli appannavano piedi e caviglie come
enormi ciabae di lanugine. Sembrava che esaminasse la zona,
memorizzando i punti adai per un paio di sbarre girevoli e qualche
giostra. Una bella sbarra torna sempre utile. Mister Divertimento porta
sempre benefici e prosperità: a tuo! Mister Morenton, Mister Morenton!
dicevo so’acqua. Sono così mortificata, Mister Morenton. Ero vicina a
una morte grandiosa e tranquilla: sentivo che la mia anima stava
abbandonando il corpo, ma ne conservava le proprietà, sicché potevo
assistere alla mia dipartita fluuando, galleggiando come un pallone.
Poi tossendo fui risollevata dal reverendo Filo e dalla mia assistente
Sandy. “Cara bambina!” esclamò il reverendo che tossiva anche lui, con i
capelli fradici. “Sei partita come un razzo!”
Mi sedei a riva con la mantella bagnata, lasciando che si incrostasse di
sabbia. Diedi ancora qualche colpo di tosse e sputai. Monica Hyde mi mise
vicino qualche asciugamano, e Sandy andò a prendermi una laina di
bibita. Hayden Filo venne a sedersi lì con l’aria delusa di chi ha assistito al
baesimo più goffo e stupido della sua vita.
“Forse ci posso riprovare un’altra volta,” gracidai.
“Forse,” ripeté lui, distante.
“Adesso cantiamo una canzone, eh?” disse il reverendo Filo. Formammo
un cerchio mano nella mano e aaccammo Gesù ha camminato in questa
valle di solitudine. ando giungemmo all’ultimo verso “E dovee
camminarci tuo solo”, arrivò Sandy con la bibita, e io uscii dal cerchio
per andare a bere.

A fine agosto, prima di mandarmi alla Mount Brookfield School, mia


madre venne a prendermi al campo per riportarmi a casa. Nel prepararmi
a sedere vicino a lei sulla macchina provavo un gran desiderio di essere
una ragazza buona e simpatica come Monica Hyde. Ma proprio in
funzione di questo desiderio mi sentivo ansiosa e sconclusionata, appunto
perché si traava di un desiderio e non di una qualità acquisita. Mia madre
non mi abbracciò: mi chiese se avevo preso tuo, dopodiché salimmo per
fermarci alla prima pompa di benzina, una stazione Sinclair, con il
brontosauro verde brillante che sembrava un dollaro rovesciato in
versione reile. Fece segno all’addeo che si trovava dal mio lato della
macchina, e mentre si muoveva notai il tremito delle carni del suo braccio,
e l’ovale verdastro e picchieato di peli ispidi dell’ascella semirasata, simili
ai semi spinosi e pungenti di un kiwi. Dovei sforzarmi per non provare
disgusto. Non dovevo ricordare la sua personalità gelida e sempre pronta
al rimprovero, ma la simpatia, le esplosioni di energia e di originalità che
mi aveva elargito qualche volta quando ero piccola; cucendo nuovi
vestitini a righe per le mie bambole per poi dispormele intorno nella
stanza prima che mi svegliassi, la maina del mio sesto compleanno; le
paste, i biscoi e le praline glassate che mi lasciava in casa per merenda;
una danza che improvvisò una sera in camera mia, lei sola, quando ero a
leo malata e mi annoiavo. La danza si era conclusa con uno dei suoi piedi
appoggiato a una sedia, le braccia slanciate verso il cielo e fermate in
quella posizione, le mani che stringevano due tegami da dolci di alluminio.
Aveva il senso del teatro, dei costumi e della scenografia, sapeva fabbricare
delle cose partendo dal niente: bambole di stracci, zerbini fai di tappi di
boiglia. A volte mi affascinava. Ma non avevamo mai avuto confidenza, e
trovavo complicato anche pensare di conoscerla. Per dire di conoscere
qualcosa bisogna penetrarvi e sondarla, e poi uscirne e guardarla dal di
fuori. E bisogna farlo due volte. Era questa la conoscenza. Due volte
consecutive. Ma con mia madre, ho potuto farlo una volta soltanto. Una
volta, la prima volta, e poi sono scappata.
“Ritieni di avere imparato qualche cosa al campo?” mi interrogò
all’improvviso dopo aver pagato il benzinaio ed essere ripartita. Sembrava
ansiosa di esprimere qualcosa, un po’ di affeo; sembrava in preda a una
benevolenza inarticolata – la vedevo apparire a intermienza sul suo viso,
in una specie di confusione.
“Sì,” risposi.
“Davvero? Bene. E che cosa hai imparato?”
ello che avevo imparato al campo, soprauo dalle leure dei
vespri, era che non si restituisce mai alle stesse persone che hanno donato
a te. “Vediamo,” mi impappinai. No, non si restituisce affao alle stesse
persone. Si dona a persone diverse; le quali, a loro volta, doneranno ad
altri. Non a te. Era questa l’economia trasandata del donare e dell’amare:
ma era pur sempre un vivere da cristiani – da cristiani pragmatici, e
tuavia cristiani. esto, compresi, i miei genitori lo sapevano già, anche
se probabilmente non era ciò che speravano imparassi. “Ho imparato che
Dio è eterna benevolenza,” risposi alla fine, leggermente in affanno.
Mia madre mi rivolse uno sguardo allarmato e si fece taciturna, gli
occhi fissi alla strada. Non disse niente per una quarantina di miglia, poi
cominciò. “Tua nonna non vede l’ora di rivederti.”
“Andrò a trovarla,” promisi.
“Ha chiamato Silsby, per sapere dov’eri finita. Non gliel’ho spiegato
con precisione.”
“No?”
“Non penso sia una buona compagnia per te, Berie. Non lo è mai stata.”
“Che cosa intendi?”
“Ci sono troppe stranezze nella sua famiglia, la situazione dei suoi
genitori e così via. Ho sempre pensato che trascorrevi troppo tempo a casa
sua. Dovresti avere altre amiche. La sua famiglia ha già abbastanza
preoccupazioni.”
“In tue le famiglie ci sono delle stranezze. E poi, non si curano di me.
Io mica ficco il naso.”
“Preferirei che non la vedessi troppo spesso per ora. È meglio porre un
intervallo alla vostra amicizia.”
“Ma l’intervallo l’abbiamo già avuto.”
“Silsby e io abbiamo fao una chiacchierata, e le ho spiegato la stessa
cosa.”
“Le hai spiegato cosa?”
“Dice che comunque per una seimana sarà via; va a fare campeggio
con quel suo ragazzo, Mike, perciò mi ha deo di riferirtelo, e di farti i
suoi migliori auguri per la scuola, dato che probabilmente non riuscirà a
vederti.”
“Non riuscirà a vedermi?” alche cosa mi punse dolorosamente
davanti agli occhi: era un’immagine di Sils che si spellava al sole delle
strade, sul sellino della moto che Mike doveva essersi comprato già con i
soldi dell’assicurazione. “Roba da dar fuori di testa!” avrebbe urlato
ridendo mentre dipingeva delle curve da brivido. Sarebbero andati al
campeggio del parco statale, dove distesi nella tenda avrebbero ascoltato
Brandy, You’re a Fine Girl alla radiolina di Mike, baendo il tempo sulle
cosce di Mike. Mi sentivo depressa, bastonata, abbandonata. “Mami,”
uggiolai tristemente, “perché glielo hai deo? Non dovevi.”
“Berie,” mi rispose con un tono che voleva essere dolce, “non dovresti
trasformare ogni emozione da poco in una caricatura di tragedia.” Non
parlammo più: fissavamo la strada davanti a noi, o su un lato, dove gli
alberi erano bruciati per un incendio recente e adesso dal suolo
carbonizzato spuntavano i funghi.

A Horsehearts andai da sola, in biciclea, a trovare mia nonna Carr.


Avevo telefonato prima, e lei mi aveva proposto di passare alle due e un
quarto.
Per essere agosto, faceva fresco, ma io ero accaldata per la corsa in bici.
Salii stancamente le scale fino alla sua veranda. La nonna, che indossava
un abito estivo leggero e i capelli grigi intrecciati e raccolti sulla nuca, mi
guidò nel soggiorno, tra i libri allineati alle pareti, dove ebbi la scelta fra
ben due oomane e un canapè, quindi lei mi portò una tazza di tè, sedee
all’altro capo e cominciò a sorseggiare la sua. Io guardavo per terra,
fingendo di studiare la complicata trama del tappeto persiano. Ero andata
a trovarla raramente, le occasioni si contavano sulle dita di una mano. Una
volta avevo cinque anni, stavo in piedi in cucina e domandai: “Nonna Carr,
chi è più vecchio fra te e il mio papà?” Lei aveva aggroato la fronte. Che
bambina stupida! Un’altra volta ne avevo see, e Claude e io le portammo
un regalo, una vecchia scatola a sorpresa che non ci piaceva più. Poi, a
dieci anni, portai con me Sils, e ci sedemmo a tavola chiedendo dei
biscoi. La nonna ci offrì un po’ meccanicamente dei cracker integrali.
“Non ci daresti anche un po’ di succo?” chiesi, e quando ce ne andammo
satolle di merendine lei telefonò a mia madre per raccontarle che eravamo
state villane e piene di pretese. A casa, per punizione, la mamma tirò fuori
tui gli asciugamani per gli ospiti e me li fece stirare.
“Tuo padre mi dice che hai avuto un guaio.”
Tacqui. “Sì, un filo,” ammisi infine.
“E ora vorrebbero che io ti mandassi alla Mount Brookfield School.”
“Sì.” Avevo scordato che la rea l’avrebbe pagata mia nonna. “Credo.”
Mi guardò con un vago interesse. “Il campo ti è piaciuto?”
“Proprio tanto,” risposi.
“Davvero?” Sembrava divertita.
“È stato interessante conoscere tanti tipi di persone, provenienti da
tuo lo stato,” spiegai, come un bando di partecipazione deambulante e
parlante.
Annuì. “Una volta abbiamo mandato a un campo anche tuo padre.
Aveva solo cinque anni, e ai tempi era un chiacchierino che non smeeva
mai; carinissimo, ma proprio un chiacchierino, così tuo nonno e io
volevamo prenderci una vacanza da soli, in Europa.” Fece boccuccia e
bevve un altro sorso: mi aspeavo di sentire il risucchio, ma non ci fu.
“Così mandammo tuo padre in un campo estivo tedesco nel New
Hampshire, si chiamava Kinder Koop. ando tornò, era diventato muto
come un pesciolino.” Si interruppe per aumentare l’effeo. “È rimasto
timido per tuo il resto della sua vita.”
L’aimo di silenzio che seguì fu lungo, cupo e sonoro come una nota di
violoncello – un misto di budello e di legno, di animale e vegetale.
“Naturalmente, fu un grave errore,” concluse infine. “Una cosa triste,
orribile da farsi a un bambino così piccolo.”
Sentii in gola un ristagno di pietà. Papà. Bevvi altro tè, deglutendo e
tossendo.
Poi la nonna si alzò e cambiò argomento, camminando teatralmente
per la stanza come se fosse su un palco. I miei occhi la seguivano, e così mi
resi conto che nella stanza non c’era nemmeno una foto di noi, figli e
nipoti. A quanto ne sapevo non ce n’erano in nessun’altra stanza della
casa. “ando ero al Conservatorio…” ricominciò, “vi arrivai dopo un
periodo di grande trambusto nella mia vita. Passare dal trambusto alla
calma è eccellente per la musica. Passare da un nido di iniquità a una sala
per gli esercizi è una tregua che è un dono di Dio.” Si interruppe per
guardarmi. “Ti senti spuntare le ali. Io spero che alla Mount Brookfield
School proverai qualche cosa del genere anche tu.”
“Lo spero anch’io,” dissi. “Voglio dire, non vedo perché no.”
“Bene, cara.” Era ancora in piedi, e aveva già posato la tazza. Guardò
l’orologio. “Capisco che hai molte cose da fare, ma ti auguro ogni bene.”
Mi alzai anch’io, immaginando che fosse la cosa migliore, anche se mi
restava da bere metà del tè. Mi strinse la mano e mi baciò sulla guancia:
all’improvviso sentii che le volevo tanto bene.
“Grazie,” mormorai, abbracciandola e stringendola forte. Premei la
guancia destra contro i pallidi risvolti del suo vestito e chiusi gli occhi.
“Spero di avere anch’io un momento musicale come quello,” farfugliai; le
sfuggì un lieve ronzio che assomigliava a una risata, e mi accarezzò sulla
testa.

Dalla Mount Brookfield School scrivevo a tui: a Hayden Filo, a


Claude, ai miei genitori. Scrivevo anche alla nonna; una volta iniziai la
leera con “Ehilà, nonnea” ma poi lo cancellai e scrissi “Cara nonna
Carr”. Dalla cancellatura feci partire una freccia seguita da una scria:
“Mio ritrao con un cappello nuovo.” Non mi rispose mai, ma i miei
genitori sì. Scrissero che avevano dato la mia camera a uno studente
giapponese, e che forse per me non ci sarebbe stato posto in casa né per le
vacanze d’autunno né per il Ringraziamento, ma per Natale non c’erano
problemi.
A Sils scrissi lunghe descrizioni dell’“incantevole, vomitevole campus”,
della difficoltà della scuola, del refeorio dove si consentiva l’ingresso ai
cani e davano gelato a volontà (in omaggio alle eccentriche richieste di un
benefaore). Le descrissi l’abbigliamento locale, i maglioni scozzesi da
preppie che mi rifiutavo di comprare; anche se una volta per poco in cià
non me n’ero fao uno. Ma poi lo avevo rimesso al suo posto.
Nel vestire seguivo uno stile che mi sembrava seducente: nero e oro. A
volte una mantellina, o un cappello o una sciarpa luccicante. Per il trucco e
le acconciature, mi ispirava una febbre di nozioni personali, una specie di
teatro che avevo in testa. Non mi guardavo intorno: non mi inserivo in
nessun contesto che fosse reale. Se uscivo dalle righe e abusavo di tinte e
di lustrini, raccontavo alla gente: “Guardate che questo alla Horsehearts
High è chic”, spacciando il tuo per uno scherzo, una finzione. Ma se
sembrava funzionare e alla gente piaceva, mormoravo un serissimo
“grazie”. Fra le preppie ero un’eccentrica. Bazzicavo i ragazzi più spavaldi.
Arrivarono le mestruazioni. Torrenziali, da sconvolgermi il fisico e
ubriacarmi di gioia e di paura. Nei drugstore restavo incantata a guardare
le cinture e altri numerosi aggeggi, ero ossessionata dagli accessori.
Puntavo direa alle scansie posteriori e vi indugiavo come una ladruncola,
in aesa che nel magazzino si facesse un momento di calma. Restavo lì in
una specie di stato ipnotico finché qualcosa non mi risvegliava e andavo
alla deriva verso l’uscita, costeggiando il banco dei profumi dove mi
spruzzavo con tue le boigliee-campione con il risultato che fuori
regolarmente mi assalivano le api.
Prendevo dei bei voti.
Vinsi anche un premio d’istituto.
Mi crescevano i seni.
Continuavo a moeggiare sulla mia mancanza di seno: ma, con le tee,
cresceva anche la sfasatura fra quelle baute e il mio corpo, e quando le
ripetevo la gente mi guardava senza capire. Annaspavo in una tasca del
tempo, in un anacronismo. I miei seni erano diventati più grossi – ora
erano veramente grossi – e io ancora li chiamavo punture di zanzara. Per
un semestre, un anfibio e imbarazzante semestre durante il quale,
migrando dall’acqua alla terra, non seppi chi ero, né che cosa sembravo, né
che baute era giusto che facessi, provai a non farne per niente. Aesi di
avere accumulato abbastanza storielle sui seni grossi, armandomi di un
congruo numero di definizioni inventate, ammassando una quantità di
soprannomi autolesionistici relativi a zucche, pere, dirigibili, bocce,
cocomeri, capace di sorreggermi per la durata di una festa, e poi cominciai
a utilizzarli. Rimanere bloccate in ascensore, cadere a faccia in giù, non
riuscire a vedere il boscheo dalla fessura. Groescamente alienata,
barcollavo in avanti come fossi ubriaca per poi appoggiare i seni sul più
vicino scaffale. Mimavo scenee. Me ne infischiavo; e infischiandomene
diventavo uguale a tue le altre, come loro in aesa di andarmene verso
una grande università, via da quella discarica silvestre per figli semiamati,
verso una grande università che sarebbe stata Decisiva e Reale.
Ma poi ebbi il mio primo ragazzo. Si chiamava Howie March. Lo
conobbi facendo la coda alla lavanderia, dove aspeavamo entrambi di
recuperare i nostri bei paccheini incartati geando le lenzuola usate,
come gli invalidi, o i malati di un manicomio, o i vecchiei dell’ospizio.
Howie era nella squadra di loa libera: dolce, appassionato e ossessivo. Gli
piacqui. Lo seguivo negli incontri e nei tornei con i miei cappellini neri e
dorati, fumando sigaree nell’atrio, e alla fine mi regalava i suoi trofei:
omini di metallo con le braccia tese colti nella mossa iniziale, che poi
tenevo nella mia camera del dormitorio per appenderci le gioie. Lo amavo
selvaggiamente, come un’orfana, con tuo il mio essere da poco bandito,
depredato, sessuato. Non avevo idea di chi fossimo, né io né lui: c’era solo
l’ombra fia dell’amore, dei corpi e delle promesse sussurrate. Eravamo
sposa e sposo bambini, ciascuno alla ricerca del cuore animale dell’altro.
Mi amava lentamente, a cento all’ora, contro il muro, in piedi. Il suo corpo
nudo con la potenza e la vulnerabilità, le braccia d’acciaio, il membro dalle
vene delicate, come quelle di un polso, il suo glande simile alla punta di
una tearella mi ossessionavano. Cominciai ad arrossire. Prima non mi
succedeva mai. Mi mancavano il grasso corporeo, il calore, gli ormoni, la
consapevolezza del mio corpo e la convinzione di essere notata; gli
elementi che provocano il rossore. Ma adesso ero diventata un soggeo
sessuale, con tua la sua esperienza di pudore e di occhiate altrui. I cerchi
scuri e giallognoli soo i miei occhi si dissolsero in un pallido gonfiore, il
mio sguardo si fece meno direo e cominciai ad arrossire facilmente,
quotidianamente. Continuai ad arrossire per anni.
Nelle leere a Sils scrivevo: “Ho nostalgia di te! Come stai, dolcezz-
schifezz?” Poi le raccontavo di Howie: un frullo, mezzo fusto e mezzo
grullo. “Mi tiene occupata!” scrivevo. “Capito il conceo?” E disegnavo un
occhiolino ammiccante.
Le poche volte che tornavo per le vacanze mi vedevo con Sils, ma fra
noi due c’era uno strano imbarazzo. Sembravamo cambiate. Lei si era faa
permanentare i capelli in un lungo groviglio ondulato, e indossava un
giaccone di pelle e pantaloni a zampa. Io ero cresciuta e avevo molte più
curve. Cantammo in camera sua, ma alla fine della canzone lei strimpellò
la chitarra e ci richiudemmo in un timido silenzio. Non riprendemmo il
nostro repertorio, tue le canzoni imparate nel coro delle ragazze di Miss
Field, o dall’autoradio, o dalla band dei suoi fratelli. Invece ci sforzammo
di parlare, benché tuo sembrasse dividerci. Con Mike aveva roo, e ora
usciva con un ragazzo che si chiamava Doug e vendeva rouloe. alche
mese prima i suoi fratelli erano scappati un’altra volta in Canada con la
loro band. Sarei andata al college? Lei non pensava di andarci, magari
sarebbe rimasta in cià per qualche tempo a lavorare in posta o roba
simile. Un giorno, sperava di trasferirsi a Boston, o alle Hawaii o a Santa
Fe.
“Oh,” dissi io. Ero sempre stata convinta che saremmo andate al college
insieme, nello stesso posto: non potevo immaginare la mia vita
completamente senza di lei.
“È che mancano i soldi,” mi spiegò. Ma con un sorriso incoraggiante, da
sorella maggiore.
“Non c’è problema,” scherzai, “manco per niente. elli te li procuro io.
Posso fare un giochino con i bigliei.” Speravo che avrebbe sghignazzato,
ma invece sorrise debolmente e si passò le dita nella nuova peinatura.
Sembrava stanca e afflia, e mi fece venir voglia di correre, di andare via,
di tornare a Mount Brookfield da Howie.

La mia storia con Howie durò un anno, poi lui finì gli studi a Mount
Brookfield e se ne andò, partendo insieme a due amici per l’oleodoo
dell’Alaska malgrado l’opposizione dei suoi genitori; lassù, dopo tre mesi,
come mi spiegò in seguito sua madre, scomparve nella neve, colto da una
forma di follia che spinge gli uomini a salire sui traori e dirigersi verso
quell’orizzonte di un bianco abbacinante per non tornare più.
Mi sforzai di consolarmi con un altro e poi un altro ancora, senza mai
legarmi a nessuno in quel modo selvaggio e verginale, con lo stesso cuore
orfano e rapito; non mi successe più niente di simile, ed ebbi nostalgia di
Howie per tanto tempo, ne sentivo la mancanza ancora al college. In
quegli anni i miei genitori, che cominciavano a invecchiare, si trasferirono
da Horsehearts alla costa orientale della Florida insieme alla nonna.
ando andavo a trovarli la nonna mi fissava con lo sguardo tremulo e
protervo dei moribondi, privo ormai dell’antica, sapiente mobilità; il suo
essere rifiutava di occupare le faezze del volto. I viventi non le
interessavano: chiunque parlasse le dava fastidio. Nel suo sbadiglio
distinguevo il bianconero (dadi da gioco) dei suoi denti ricoperti e il muto
spezzarsi dei fili di bava: tuo raggrumato in un ritrao d’addio. È
inacceabile il conto aonito e angoscioso delle perdite che una persona
deve sopportare nella vita. Non si può sopportare, no davvero.

Dopo il college tornai a Horsehearts per un raduno di compagni di


scuola. Dieci anni dopo. Mi invitarono nonostante mi fossi diplomata alla
Mount Brookfield: un deaglio trascurabile, come scrisse Susie Vito, la
segretaria di classe che era stata con me al Kindergarten. Sils mi mandò un
biglieo: “Se ci vai, ci vengo anch’io. Il raduno è in un motel, ma ti prego
di pernoare a casa mia. C’è posto.” Abitava sempre a Horsehearts, in una
casa ad affio basso: faceva la postina, e ogni tanto inoltrava richiesta di
trasferimento. La sua calligrafia era rimasta uguale, briosa ed elegante, con
le effe che sembravano chiavi di Sol e le esse floreali.
Come molti altri arrivai in macchina: continuavo a fumare sigaree, ma
mi ero tagliata i capelli cortissimi e nella borsea avevo un po’ di soldi e di
carte di credito. Come mi sembrò semplice, dolce e graziosa Sils, in quel
nebuloso raduno! Corse verso di me e mi abbracciò così a lungo che
quando mi lasciò andare mi sentii abbandonata. Com’era gentile! Era una
persona delicata e adorabile, e io l’avevo quasi dimenticata. Inoltrandomi
nel mondo avevo creduto me stessa dolce e buona, a confronto
dell’acredine scostante che avevo incontrato dovunque. “Sono solo una
ragazza di Horsehearts, cosa pretendi?” E gli uomini mi accarezzavano il
viso: newyorkesi, bostoniani, parigini, sorridevano tui. Ma adesso,
ritornando a Horsehearts, mi rendevo conto di non sapere più nemmeno
cosa fosse la dolcezza. A paragone di quello che trovavo laggiù, ero
diventata aspra, cinica, sofisticata. Non sapevo più riconoscere la cordialità
perché avevo perso l’abitudine. Gente cordiale non ne conoscevo:
conoscevo persone geniali, dure, capaci, teatrali, di successo. Alcune
vulnerabili. Altre insicure. Ma non cordiali e buone come Sils. Era cordiale
proprio come io avevo creduto a lungo di essere rimasta ma ora,
rivedendola stranamente timida di fronte a me, ma raggiante e sorridente
come sempre, con dei toni fanciulleschi che non le conoscevo nella voce,
capii immediatamente di non essere più la stessa.
Saltammo con i vestiti nella piscina del motel, ridendo come mae. Per
poco non annegavamo; nuotammo insieme fino alla zona d’acqua bassa, e
quando lei uscì, luccicante, con il vestito fradicio e aderente come una
pelle, la cascata di capelli sulla schiena, la guardarono tui. Anche se il
suo portamento si era fao più pesante, era sempre soda e snella: notai
subito che era ancora una specie di totem erotico locale. Tui i ragazzi di
Horsehearts che erano rimasti in cià, diventando esercenti o gestori dei
cinema e del circuito di painaggio a rotelle, la noe pensavano ancora a
lei. In quel luogo dimenticato da tui lei era tuo.
Sedemmo sulle sdraio a fumare in silenzio assieme a Randi che era
rimasta esaamente uguale, a parte il deaglio che aveva cambiato il
nome in Travis, scrivendoselo sul cartellino con Randi più in basso tra
parentesi. (Ma era ammissibile? Si può chiudere così tra parentesi tuo il
proprio passato con la fastidiosa memoria delle sue turbolenze?) anto si
sono stempiati i ragazzi, commentammo soovoce. “Sono rimasti identici
a com’erano alle superiori,” osservò Sils, “a parte il fao che i capelli sono
andati, e nei portafogli invece dei preservativi hanno le foto delle loro case
prima e dopo la ristruurazione. Bentornata a Horsehearts.” Mentre
teneva fra due dita la sigarea soffiando il fumo lontano da me, cercai
nelle unghie dei suoi piedi Napoleon Solo e Illya Kuryakin.
Dopo il raduno pomeridiano e il buffet, andammo a bere noi due in un
nuovo ristorante tipico, che Sils chiamava “Tuo quello che vuoi noi te lo
serviamo”. C’era un lungo bancone di insalate e una grande griglia, dove ci
si doveva cuocere la carne da sé. “Grìgliati di persona,” la definì Sils, e io le
feci un sorriso, sperando che non sembrasse di compatimento. Cosa
significava questo fao, che fosse rimasta lì a Horsehearts, sempre nello
stesso posto, come un albero? Per quanto le radici crescano salde e
profonde, finisce che i tuoi arti inferiori si sciolgono, o muoiono
ammazzati dall’imponenza della tua stessa ombra. “E non parliamo
dell’insalata di cavolo che fanno qua,” aggiunse. “Non smeerei mai di
mangiarla. alche volta, voglio dire, penso: guarda, basterebbe il cavolo
da solo per farmi restare qui per sempre.”
Mi portò a rivedere il paese. I cortili sembravano più grandi e vuoti di
come li ricordavo e le case erano graziose, ma più distanziate e tetre. Un
paio di volte scendemmo dall’auto per fare un giro a piedi. In strada non
c’era nessuno: i vecchi marciapiedi luccicavano di quarzo, ma a un certo
punto ne trovammo uno dove il quarzo era stato riparato, o sostituito, con
più aggiornate maonelle di coo. ando arrivammo alla mia vecchia
casa, la trovai sgraziata e oscena nella sua bizzarria: ricordavo proporzioni
diverse, più accoglienti. Nella mia mente non era quella. Sembrava aliena.
Sembrava confiscata. “Andiamo via,” dissi. Le strade erano strade di
campagna, alberate, gonfie di nostalgia e disperazione; di quell’ansiosa
ricerca per qualcosa che può accadere; strade di peegolezzi, tortuose,
inquiete strade che un aimo sembravano slanciarsi in avanti e subito
giravano su se stesse come una serpe che si mangiucchia la coda.
La sera a casa sua, nel fresco penetrante degli Adirondacks, ci
meemmo in pigiama e crollammo assonnate sul suo leo ad acqua, che
era gigantesco e riscaldato. Altrove avrei trovato quell’arnese di pessimo
gusto, ma lassù mi sembrò una perfezione di eleganza e tranquillità, come
un cadavere che galleggia su uno stagno, mentre lei mi spiegava che
voleva farsi trasferire alle Hawaii.
“Ed è possibile?” chiesi.
“Certamente.” Parlò ancora un po’ della sua vita a Horsehearts,
ingabbiata nelle abitudini. Sua madre era morta. “Ha lavorato come una
schiava nel motel, e poi zac: è morta, senza che papà le abbia mai mandato
neppure una cartolina.” I suoi fratelli si erano trasferiti nel Texas,
fondando una band che si chiamava Jackhammer Hamsters. “Li conosci?”
“Non sono sicura.”
“Iniziano a diventare un po’ vecchi,” mormorò con un lieve brivido.
Adorava le Hawaii. C’era stata una volta – con un ragazzo, si chiamava
Mel – e all’aeroporto aveva comprato un librone da sfogliare intitolato
Canzone hawaiana. Si alzò per andare a prenderlo, lo aprì sull’ondosa
trapunta e mi mostrò alcune foto: spiagge e cieli splendenti. Degli
Adirondacks, neanche il più vago indizio. “Sono tre anni che sto sulla lista
di trasferimento delle Poste.”
“Allora è solo questione di tempo.”
“Probabilmente.”
“Animo, allora,” sospirai.
“Sì.” Mi fece un sorriso agrodolce.
Scartabellai nella mente, alla ricerca delle cose che desideravo dire,
pensavo di dire, avrei potuto dire. “Sai una cosa?”
“No, non lo so!”
“Sono fidanzata.”
“Ma vai sulla forca! Per davvero?” esclamò piena di curiosità. “E
l’anello, dov’è?”
“Facciamo una cosea minimalista, tranquilla ed economica: niente
anelli, niente festa di nozze. Ci sposiamo, e basta.” Sospirai di nuovo.
“anto siete moderni!”
“Brava. Invece di dire ‘sì’, rispondiamo soltanto ‘presente’.”
“E mister presente, come si chiama?”
“Daniel Hiawatha Bergman.”
“È il suo vero nome? Crepa!”
“Giuro su Dio.”
“Ed è un bravo ragazzo?”
Un bravo ragazzo. Sembrava La casa nella prateria, ma era Horsehearts.
Era così che si diceva a Horsehearts. “Direi di sì. È un bravo ragazzo.”
“Grande, Berie, sono così felice per te. Te lo meriti, un bravo ragazzo, e
io ho sempre saputo che lo avresti trovato. Ho sempre pensato che alla
fine saresti stata quella che trovava il migliore marito.”
“Davvero?”
“Eh, certo. Tu non lo sapevi, ma è così.”
Per il più fugace degli istanti immaginai la povertà del mio futuro, tue
le sue posizioni indifendibili; provai una inspiegabile alternanza di
riconoscenza e malinconia. Era un momento di stallo, quando ci si guarda
aorno e tristemente non si vedono che rocce, sole infuocato e metallo
senza valore. Sils era solita dire: “Volevi un’avventura e invece hai trovato
la patria delle avventure.” E io morivo dal desiderio di riprovare una
sensazione: la sensazione di avvicinarmi a una stanza senza esservi già
entrata. Cioè, in teoria, esaamente il mio status di fidanzata che sta per
sposarsi, ma viceversa io associavo quella sensazione a un’altra parte della
mia vita: quell’anticamera della giovinezza, con le sue risate ancora piene
di fiducia verso il mondo, e l’aesa che ti suona nel cuore simile a
un’orchestra che si scalda e accorda gli strumenti, dalle note ancora
scombinate, incrinate e fiabesche, quella, io rivolevo! Rivolevo quei suoni
incipienti, tanto più affascinanti del pezzo vero e proprio.
Pièce ricordai che in francese vuol dire stanza, la stranezza di quella in
particolare mi risucchiava come un narcotico. Perché mai ero tornata in
quel posto?
“E pensate di avere dei bambini?” chiese Sils, che era strisciata soo le
coperte.
“Certo. Perché no?”
“Grande,” commentò lei. Ma di colpo un’ombra di stanchezza le era
calata sul viso. “Grande.” Sbadigliò. “Mi sa che è meglio che dormiamo.”
“È stata una giornata lunga.”
“Buona noe, Berie,” disse spegnendo la luce. Poi, al buio, soggiunse:
“Felicitazioni! Grazie! Ti voglio bene!” Si interruppe. “Ho scordato
qualcosa?”
“In bocca al lupo. Non correre. Asciugati le scarpe. Buon compleanno, e
tanta felicità. Ti sei scordata un sacco di roba.”
“Cento di questi giorni,” disse, sempre più insonnolita. “E buona
fortuna. È quella che conta.” Si girò con il lenzuolo sul peo, provocando
una lieve turbolenza nelle acque soostanti. Coricata nell’ombra accanto a
lei, mi sentii un essere penetrato da una crepa di umidità, o da un foro nel
teo: un pipistrello capace di cabrare qua e là per la casa senza far rumore.
Essendo rimasta fuori dalle coperte non mi fu difficile alzarmi, scendere
dal leo e uscire dalla stanza per gironzolare negli altri locali e toccare le
cose. Non vedevo con precisione dov’erano, ma potevo sentirle: un cuscino
ricamato, una pila di sacchei di carta, piccoli gai di ceramica – li
ricordai di colpo, quei gai, ma con stupore e sconforto più che con
emozione –, un grande uovo di cioccolato avvolto nella stagnola, un
cestino di fermagli e nastri per capelli.
Entrai nel bagno. Toccai gli asciugamani, i portasciugamani, gli
strofinacci. Accesi la luce e aprii l’armadieo dei medicinali: c’erano
bastoncini per le orecchie, pinzee e saponee scure alla cera d’api. Aprii i
flaconi dei farmaci e presi un’aspirina e un Tylenol. Mi misi qualche goccia
di colonia sui polsi, mi spogliai ed entrai nella doccia, lavandomi i capelli
con il suo shampoo all’albicocca-noce, che aveva il suo stesso profumo.
Rimasi soo l’acqua per un pezzo: utilizzai la sua spazzola per la schiena e
il suo balsamo, mentre il vapore si infiiva come nebbia. Mi spalmai una
cucchiaiata di sapone alla cera d’api raspandola dal portasapone della
doccia. Mi sentivo surreiziamente vicina a lei, quasi che, usando lì nella
sua doccia le sue cose, tui i nuovi articoli da bagno che ora possedeva,
potessi conoscere meglio la persona che era diventata. Per tua la serata
avevo proposto reminiscenze, ma lei mi aveva assecondato di rado.
Viceversa, mi aveva coperto di aenzioni: aveva voluto meermi il suo
scialle, mi aveva portato il tè. Come potevo sapere, o sperare, che fosse la
depositaria di tua la nostra vita in comune, che non l’avesse accantonata
per far posto ad altri giorni e altri affei, cose che adesso abitavano in lei,
e la contrassegnavano? Naturalmente sapevo di non poter essere
rassicurata fino in fondo. Anzi: di rassicurazioni ne avevo avute fin troppe.
Era stata lei stessa a elargirle a piene mani. “Senza di te questo posto non è
più lo stesso,” aveva già deo due volte quel pomeriggio. Ma io ero
ingorda. Il numero magico era il tre, e io avevo voluto che me lo ripetesse
ancora.
Uscii avvolta in un asciugamano e tornai a leo, ritrovandola ancora
addormentata, rarappita nei pallidi disegni kashmir del lenzuolo che
sembrava una vecchia tenda di maglia. Scivolai silenziosamente soo le
coperte, con i capelli bagnati, sentendo il leo ad acqua cedere soo il mio
peso come una barca.
“Ma ti sei faa la doccia?” mormorò all’improvviso Sils, cogliendomi di
sorpresa.
“Sì.”
Senza nemmeno aprire gli occhi, si risistemò il cuscino per dormire.
“Sei sempre stata un po’ faa a modo tuo,” sospirò con voce assente.
“Dici? Ma no, che non è vero.”
Fece una pigra risata. “Una volta dovresti invitarmi dove stai tu, e
vedresti quante cose fuori di testa che combino.”
“Ma certo che ti invito. Figurarsi,” risposi, ma immaginavo già che
appena di ritorno al mio nuovo lavoro, e alla mia vita piena di impegni e
distrazioni, non avrei trovato il modo. Né il motivo. Con tui i miei
impulsi proteivi e la mia cultura in materia, la mia cura sacerdotale e la
mia professionale, raffinata frequentazione del passato, non ho mai saputo
bene cosa fare di tui quegli anni della mia vita: se camminarci dentro per
sempre come fossero vecchi scarponi, o amputarli e lasciarli volar via.
Ovvio che non si può fare né l’una né l’altra cosa fino in fondo: ma
immancabilmente si tenta, si finge; e alla fine si interpone un certo spazio.
Mi raggomitolai vicino a Sils e chiusi gli occhi.

L’indomani maina mi portò il caè. Mi portò un’insalata.


“È la migliore che abbia mai mangiato,” dichiarai. Decisi che almeno
per un aimo avrei sconfio la nostalgia a colpi di caffeina. “È meglio di
tue le altre: è la migliore insalata che ho mangiato in vita mia.”
“È merito del condimento,” spiegò. “Una specie di ricea per il
breakfast, con dentro bacon e uova.”
Posai la tazza del caè e le chiesi: “La chitarra, la suoni ancora?”
“Ogni tanto.”
“E dipingere? Dipingi ancora?”
“Naaa.” Si schermì con un gesto della mano. “Cioè, insomma, ho dipinto
una cosa.” Uscì nel solarium, per tornare con una piccola tela su cui aveva
ritrao una fruiera d’argento dove si rifleeva, minuscola, l’immagine di
una donna, faccia al vento e capelli all’indietro. “Sono io che mi preparo ad
affrontare la mezza età,” spiegò. Scoppiammo tue e due in una risata
fragorosa e giuliva.
Era la persona più buona e gentile che avessi mai conosciuto: e tuavia
negli anni che seguirono smisi di considerare anche la possibilità teorica di
comportarmi come lei. Ovunque mi trovassi, non potevo traenermi dal
dire a tui, chiunque fossero, quello che pensavo di loro. Non riuscivo a
frenarmi. Era come un impulso, una coazione per cui non mi serviva
mordermi la lingua fino a farla diventare blu. “est’affermazione è
ridicola.” “Chissà come ti hanno viziato da bambino.” “Non hai generosità.”
“Ti lesini come una spezia ultracostosa.” “Tu le cose le idealizzi, sei narciso.”
“Cerchi solo di imprimere le tue immagini sulla faccia degli altri.” “È una
forma di greezza.” “Sei volgare.” “Sei condiscendente.” “Sei un fascista.” “Sei
un balleo.” “Ho sempre odiato i ballei.” “Stai orrendamente con quel
colore.” Era come se mi avessero dato una boa in testa.
Partii prima di mezzogiorno: Sils mi accompagnò all’auto e mi strinse
in un lungo abbraccio. “Ah, Berie, come siamo diventate vecchie, e
lontane.” Poi si staccò e mi voltò le spalle, incamminandosi verso la
veranda, dove si girò di nuovo e mi salutò con la mano. “Voglio comprarmi
un cane,” disse, ed era proprio quello che mancava per completare la
scena. “Bella idea,” commentai scioccamente prima di accendere il motore.
“In bocca al lupo con la Società Storica, anche se non so che cavolo ci
fai.”
“Sezione iconografica. Meo in ordine vecchie fotografie.”
“Oimo. Be’, allora meile in ordine alla grande!” Agitò il pugno e rise;
poi si ravviò i capelli dalla fronte e restò a braccia conserte. Il suo sorriso,
prima largo e gioioso, si irrigidì fino a sembrare meccanico. Forse, ormai
donna, aveva provato un improvviso imbarazzo per il rapporto che c’era
stato fra noi da ragazzine. La salutai di nuovo e suonai forte il clacson per
tua la via, soo il baldacchino d’alberi estivi, fino a sboccare nelle strade
maestre di Horsehearts.

Percorsi alcuni chilometri verso ovest, fermandomi a un ristorante che


si chiamava Horsehearts Country Restaurant, dov’ero d’accordo di
pranzare con LaRoue. “Vai a trovare LaRoue,” mi aveva raccomandato mia
madre. “È stata molto depressa, e ci ha chiesto dei soldi.” Invece di
trasferirsi in Florida con i miei era rimasta su al Nord: di mestiere,
governava le puledre all’ippodromo. Saltuariamente faceva anche la
portinaia al Country Restaurant. Soltanto per quel giorno, aveva
concordato con il padrone di farsi pagare in natura. “Un pasto per me e
mia sorella!” aveva esclamato al telefono, con una voce che mi aveva
messo in allarme. Mi avvertì in anticipo che aveva perso i denti e la protesi
le faceva male, per cui non la portava.
Mi aspeava nell’ingresso del ristorante. Si era faa ancora più
massiccia, e con un sorriso più guardingo ma anche più aperto nella sua
rossa, sdentata subitaneità. I capelli corti color grano sembravano posati
sulla testa come un copricapo, ma irregolari, e rasati sulla nuca. Si fece
avanti e mi abbracciò; quindi, continuando a circondarmi con il braccio
muscoloso, mi indicò il nostro tavolo. Notai che si mangiava le unghie così
a fondo che sembravano intarsi, frammenti di conchiglie incollati alle
punte delle dita. Le pellicine erano sudicie e strappate.
“Insomma, come va?” incominciò a ripetere quando ci fummo sedute.
“Ordina quello che vuoi!”
Specialità pollo alla panna, piai di verdure frie, sandwich di
formaggio e brodo. È dura pensare ai mille modi che hai trovato per
negarti alle persone, per tagliarle fuori, per non amarle mai, e ciò
malgrado ordinare il pranzo.
“È difficile scegliere,” dissi.
“Tu ordina qualsiasi cosa. Sono d’accordo. Me l’hanno garantito.”
Sorrise.
“Sicura?”
“Ma certo! Non vedevo l’ora che arrivasse una giornata così!”
“Veramente? Be’, sei proprio un tesoro.”
“Lo giuro a Dio, Berie. È vero. Mi sei mancata. Penso a te e dico: Cosa
starà combinando quella ragazza? Ho bisogno di offrirle un pranzo. Ho
bisogno di offrirle tuo quello che vuole anche alla carta.”
Tre anni dopo, quando LaRoue si impiccò nel reparto di psichiatria
dell’ospedale della contea – le infermiere arrivarono troppo tardi per
tirarla giù – mi ricordai di quell’esuberanza, della nervosa, falsa cortesia
mista a una nota sinceramente sororale che gemeva nell’aria nel tentativo
di modularsi.
Probabilmente fui un po’ formale. “Allora d’accordo. Ti ringrazio.”
Anche se allora, da sorella adoiva, avrei voluto aiutarla a tui i costi, in
vita mia non avevo mai fao niente per LaRoue. Avevo sempre voluto
stare vicino a Sils, soltanto a Sils. Un ao di sostituzione: forse l’amore lo è
sempre. Il mondo con i suoi derelii, i suoi pensatori e le notizie
complicate aveva sempre bussato alla mia porta come meglio poteva, per
visite brevi. Mister Sabeke del Congo, per esempio, o José Meyers
dell’Argentina erano passati tui da casa nostra, gente appena uscita di
prigione (dissidente o delinquente? avevo chiesto a un certo Ed Stedson
quando avevo dieci anni, e lui aveva riso forte dal suo leo a scomparsa),
persone che venivano da noi perché erano orfane e avevano bisogno di
aiuto come LaRoue, ma io volevo solo la mia amica Sils, che stesse con me
in camera mia a sorridere e a fumare tenendo a bada tuo il mondo
indaffarato, burrascoso, che parlava lingue strane. Solo per questo, anche
se non ci fosse stato nient’altro, non mi avrebbe stancata mai. Bastava che
stesse dove stavo io, lì e ora; che ci parlassimo tue le sere al telefono. Che
non arrivasse nessun visitatore a complicarci con pretese e farmaci
miracolosi un’infanzia che si sarebbe stesa davanti a noi come una
spiaggia di sogno. Non volevo altre costruzioni: solo il semplice purgatorio
che possedevamo già.
Per LaRoue, non avevo fao niente.
“Spero che tu non abbia più niente contro di me dai tempi in cui
eravamo bambine,” disse a un trao, mozzandomi il fiato.
“Che cosa dovrei avere?”
“Mah, non so. Se ci ripenso, mi sembra che ero un po’ caiva con te e
Claude.”
“Non è vero.”
“Be’, grazie di avermelo deo.”
“No, per davvero,” insistei.
“Non è vero. Per davvero,” canticchiò, scoppiando a ridere
nervosamente. “Hai visto quel tavolo là? Ci ho passato soo
l’aspirapolvere stamaina, e indovina che cosa ho trovato?”
“Che cosa?”
“Dei soldi,” bisbigliò, come se fosse un segreto che io ero
particolarmente in grado di apprezzare.
“Oimo. E quanto?”
“Un cinquone.”
“Grande,” dissi, anche se per il suo bene avrei preferito un biglieo da
venti.
Ordinai un’insalata di pollo, e lei del brodo con una focaccina.
Parlammo dei miei genitori, di Claude che andava forte con il suo lavoro
nei computer a Baltimora, di cani, di puledre, di fantini e di com’era
Horsehearts quindici anni prima. “Tu e Silsby Chaussée,” fece lei, “voi
ragazze eravate inseparabili. Tua la cià ne parlava.”
“Veramente?”
“Cioè, sì. Adesso ci vuole altro per far parlare la gente.”
Sorrisi, cercando di divertirmi. “Per esempio, che cosa ci vuole?”
“Tipo un centro congressi,” rispose, e tue e due ridemmo
fragorosamente.
Finito di mangiare, il conto non arrivava mai. Aspeammo un po’,
quindi ci alzammo e uscimmo dalla sala da pranzo; nell’ingresso lei mi
presentò il proprietario del ristorante, un tipo grosso, gagliardo e caloroso
che le mise affeuosamente un braccio intorno alle spalle. A occhio la
traava con simpatia, e per un istante LaRoue mi sembrò felice.
“È tornata per il raduno di classe?” mi domandò.
“Sì, e per vedere LaRoue,” risposi mentendo.
“ei raduni possono riuscire favolosi.”
“Eh, già, tu sei al centesimo,” intervenne LaRoue, flirtando con lui nel
civeuolo stile di provincia.
“Centocinquantesimo!” esclamò lui. “Raduni.” Rifleé un momento.
“Arrivano uno dopo l’altro, e che cosa ci puoi fare?”
“Vero,” annuii. “Non ci si può fare niente.”
“Bene, tanto piacere di averla conosciuta,” concluse lui stringendomi la
mano. Salutò LaRoue con una leggera pacca sulla schiena, e quando se ne
andò mi accorsi che lei era preoccupata.
“Tuo okay?” le chiesi.
“Sì, sì. Certo.”
Mi aspeava un viaggio di cinquecento chilometri. “Grazie infinite per
il pranzo,” le dissi. La baciai e l’abbracciai, stringendo la sua massiccia e
sgraziata mansuetudine, prima di salire in macchina.
“Mi raccomando,” fece lei. “In gamba.”
Mentre guidavo sola verso il Nord, sentendomi più ossessionata dai
ricordi di quanto in realtà non avessi il coraggio di essere, piansi come si
piange quando si è lasciato qualcuno in un modo amaro, insopportabile.
Non so perché avessi scelto quella circostanza per il dolore, per ritrovarmi
tuo davanti agli occhi – la mia mostruosità, i miei affei da due soldi, da
tre soldi, da quaro. Avrebbe potuto succedere prima o anche dopo,
durante uno dei torridi, impacciati funerali (di mia nonna, di LaRoue, di
mio padre che un maino a Vero Beach si afferrò il braccio sinistro che
bruciava e cadde morto dalla sedia balbeando a mia madre: “Aiuto. Il
cuore. Ti amo”, come ogni morte rende il mondo più solitario), o un’altra
volta che il sole non era troppo luminoso e la radio non dava le notizie, e
le mie braccia non erano intrecciate sul volante come un nido d’uccelli, e
credevo che la mia vita andasse bene, piuosto bene. Avrebbe potuto
succedere in qualunque altro momento, e invece fu allora: piangevo per
Sils e per LaRoue, per tua quella devozione e quel rimorso, come di stelle
che continuano a spandere la loro luce un milione di anni dopo che sono
morte; piangevo per i ragazzi che avevo avuto, per le persone e i luoghi
che non conoscevo più tanto bene, per i miei genitori e per la nonna,
sofferenti e inchiodati in Florida, le cui fisionomie salde e immutabili
potevo evocare solo nella memoria, uno scrigno chiuso in un armadieo
dei medicinali nella soffia di una casa sulla luna: era lassù che si
conservavano le loro forme in eterno. Piangevo per tui, e per l’amore
abborracciato e bizzarro che lanciamo nel mondo, come una canzone di
successo che viaggia nello spazio fino a un’altra galassia, ed è tanto
graziosa da far credere che le parole siano vere, ma sul serio! Non c’è mai
stato nulla che potesse contenere quel canto, conservarlo. Entrava e
usciva, fuori dalla portata dell’orecchio, dell’immaginazione, di ogni forza
capace di fissarlo, come un missile inventato nel sonno.

Al raduno seguente, cinque anni dopo, Sils non venne, ma mandò dei
fiori dalle Hawaii: “Alla classe del ’74. Con tanto affeo, Sils Chaussée.” Da
allora anch’io mandai fiori e bigliei, e non partecipai più.
Ci si può svegliare da un sogno solo per ritrovarsi sbalzati in un altro,
come un rosario infinito della mente. ando questo succede, è difficile
distinguere ciò che sogno non è; il non-sognato mondo del risveglio ti
svolazza vicino in lampi istantanei d’aria e di luce, spazi sonori, rapidi,
pericolosi come quelli fra i vagoni di un treno. Non ci puoi fare niente:
cammini nel tuo sonno e aspei. Aspei che il treno sia passato.
Daniel crede che oerrà un risultato loando con il suo cuore, con il
suo lavoro. Mi chiede comprensione. Parla nel codice di tuo ciò che lo
tenta e lo sconcerta, delle questioni di ubriachezza morale. “È come se
fossi su un oovolante,” spiega. “Salgo, salgo, salgo, e poi? Uaaah!”
“Però ti cadono le chiavi di tasca,” lo interrompo con asprezza. “E non
puoi più rientrare in casa.”
Cerca di mostrarsi confuso. “Stanoe ho sognato che giravo un angolo
e qualcuno mi puntava una pistola e sparava, la palloola andava a finire
proprio qui contro lo sterno.” Esita. “Credi che sia un bruo
presentimento?” Sospira, poi comincia a sussurrare. “Ho paura che un
giorno o l’altro farò come mio padre. Alla mia età, ha lasciato mia madre
per una donna che aveva vent’anni meno di lui.”
Non dico niente. Lascio sciogliere sulla lingua una pralina al liquore.
Nel mio campo visivo ci sono linee che araversano ogni cosa; persino il
tessuto delle tende e della tappezzeria sembra cadere come una pioggia,
come i vestiti in un ritrao di Van Gogh.
Ha un’aria triste, si passa sulla faccia la grossa mano maschile; la sua
voce è soffocata dal dolore. “Ovviamente mia madre ha preso la faccenda
con tuo il buonumore per cui era stata concepita.”
“Ha perso il senno.”
“Esao,” ripete lui. “Ha perso il senno.”
Siamo convinti che mangiare cervello, riassorbendo il suo spugnoso
sistema elerico, sia un ao ecologico, invece è una faccenda che ricorda i
mostri dei film di fantascienza. Cervello! Cervello! Cervello! Come se i
nostri li avessimo esauriti. A quel punto nel nostro matrimonio abbiamo
combauto la paura con l’ineitudine, l’indifferenza con l’indifferenza.
a e là il mondo esplode e le nostre vite piantate in una tenda troppo
strea, controllano gli ultimi fuochi. Proseguiamo il nostro viaggio fra i
tornanti delle smentite e degli urli – è finita, non può essere finita – nella
cià più adorabile del mondo: caè costosi, abbronzature chimiche
lancinanti, il bateau mouche che si accende davanti a tue le chiese
fuligginose, illuminandole come un palcoscenico. Nei salons de thé i
camerieri incendiano le crêpes con accendini estrai bruscamente dalle
tasche delle livree. I gendarmi strapazzano gli africani sul metrò; i
barboncini defecano impunemente sui marciapiedi. Non puoi chiamare
tuo figlio con un nome che non rientri nel solito elenco, e questa è la cià
più civile del mondo! La cià della primavera e delle canzoni, e delle altre
opere del cuore. Ci sembra così misero il nostro opporci a un’ondata, a una
spinta, che senza accorgercene ce ne troviamo assorbiti. Ci sentiamo
troppo piccoli per loare. Disperazione, sfinimento, raccapriccio sembrano
tu’uno, mentre vacillando si muovono con noi: un’unica flagellante
stenografia. Ma chérie, è questa la nostra fermata? Spesso ci sentiamo
asserviti (sarà questo?) a una trasformazione: del lae in caglio, poi in
rifiuti e vento e poi in cos’altro? Il sonno? Le stelle? È tempo di una
costellazione nuova!
Mio marito ha di nuovo quell’aria, l’aria di chi pensa com’è difficile il
mondo, la vita; qualche volta vorresti soltanto tornare alla tua casa in
mezzo al verde e chiudertici dentro.
“A casa,” dice. L’idea di casa, piacevolmente evasiva e ingannatrice, una
capitolazione alla nostalgia e al riposo. “A casa, a casa, a casa.”
Dove, benché io nutra desideri segreti che s’incendi, che la nostra vita
vada in fiamme, con la libertà folle e malvagia che racchiude, la nostra
casa materiale, e sbeccata, sarà ancora in piedi, sicura e integra, con gli
elastici messi dal precedente proprietario ancora avvolti ai pomelli delle
porte. Gli animali che vi abbiamo sepolti durante le riparazioni e i
raoppi, topi e allodole, si sveglieranno strillando nei muri, poi resteranno
muti. La stagione fiorirà, ma gli scoiaoli avranno già mangiato e
sistemato i bulbi, per cui una sola giunchiglia – un assolo di tromba! –
tremerà nel cortile, mentre il cotogno in fiore non fiorisce e il terreno è
ancora troppo fangoso per l’erba, ma in un giorno di sole borboa di
mosche alla cova. Alla stazione di Citgo, dietro l’angolo, i passeri
rinidificheranno nel distributore di tovaglioli di carta. “Non hai voglia di
tornare a casa? Devi averla per forza,” mi chiede Daniel, con una voce così
incrinata dalla nostalgia da farmi sorridere.
Dappertuo la vita è piena di eroismo.
Mi appoggio dolcemente a lui, cercando di avvicinarmi, in un impulso
empatico e cameratesco, per studiare il suo viso, così morbido e giovanile
in queste piogge, per armonizzarmi con esso anche approssimativamente,
non essere triste, non essere giù, è ancora maina, ti sono vicina. Canto
così ma lui si irrigidisce, poi cerca di non irrigidirsi, fa un sorriso forzato
ma si scosta troppo rapidamente. Ormai fa spesso così: qualche cosa o
qualcuno lo traiene, e ne è traenuto, in un altro angolo della sua vita,
dove io non posso seguirlo: perché contiene un luogo di ferite in cui siamo
troppo privi l’una dell’altro. Incontrarsi laggiù significherebbe porre piede
nell’inconsueta, oscura collera degli estranei: ma io ho accumulato un
genere di pazienza, credo, vagamente simile alla moneta. Posso sentirne il
tintinnio e il valore. Lo aspeerò, credo: lo lascerò andare a nausearsi, a
confondersi, a slanciarsi per i boschi caivi di se stesso. L’amore è eterno
come l’erba! Lo aspeerò con il mio cuore all’epilogo, un cuore dagli
infiniti rammendi, come forse è sempre stato. Aspeerò fino a quando non
potrò più aspeare.
Finché è possibile, senza farti calpestare, cerca di andare d’accordo con
tui.

Un pomeriggio d’aprile, facevo le medie, il coro femminile doveva


riunirsi per la prova generale del concerto di primavera. Il sole si riversava
dalle vetrate della palestra, e quando prendemmo posto sulla gradinata
esso ci avvolse come creature celesti scese sulla terra. La direrice, Miss
Field, cominciò a farci i segni con le braccia e uno strano incanto ci salì
nella gola. I nostri nervi si tesero, e tue le ossa dei nostri orecchi si
allinearono. Era un arrangiamento della stessa Miss Field di una rapsodia
di Schubert, e per una volta le note presero il volo. Non colsi lo sguardo di
Sils: non avrei potuto, era più in alto, fra le soprano, ma non importava;
non sarebbe servito, perché quel canto e quella luce non erano personali,
erano ragazze che dopo seimane di prove celebravano l’opera eterea delle
loro voci, un suono-infante di campane e di uccelli che tuavia riuscivano
con tanta forza a produrre all’unisono. Infilate nella medesima collana
sonora, ci perdevamo: da singole bocche di rosa e di lavanda formavamo
una sola entità viva, come un giacinto. Già allora ci sembrò un coro di
commiato dall’infanzia, che ci colpì nel cervello e giù in fondo alla spina
dorsale come un richiamo; e giuro che il lievitare della sua onda ci sollevò
fino al soffio beate e aonite, tanto era radioso il nostro canto. Noi tue
lo potevamo udire dall’interno, senza ragazzi né genitori nella sala, senza
nessuno che ce lo dicesse, eppure il nostro suono non sarebbe mai più
stato così bello. In tua la mia vita di donna che sarebbe iniziata poco
dopo, e mi riservava tante scoperte, non ho mai conosciuto un momento
simile. Anche se a volte con la mente torno a quel pomeriggio per viverlo
ancora, rispiegando le vele verso i pannelli acustici e gli anelli della
pallacanestro e il vecchio tabellone di quercia; torno alle armonie rifinite
che sgorgavano dalle nostre voci, così pure ed esae che più tardi, al
momento di fare i bagagli per partire, ci chiedemmo chissà a quale altezza,
a che velocità, e fino a dove saranno arrivate.

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