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Tuo da sola
Lorrie Moore
L’ospedale delle rane
La nave di Teseo
Si ringrazia la EMI Music Publishing per il permesso di pubblicare i brani trai da: And When I
Die di Laura Nyro, copyright © 1966 (copyright rinnovato 1994) by EMI Blackwood Music Inc.
(BMI); Tapestry di Carole King, copyright © 1971 by Colgems- EMI Music Inc. (ASCAP).
International copyright secured. All rights reserved. Per gentile concessione.
ISBN 978-88-9344-810-9
*
A quindici anni, d’estate, lavorai in un posto che si chiamava Storyland
insieme alla mia amica Silsby Chaussée, che è la vera protagonista di
questa storia. Storyland era un parco di divertimenti a una quindicina di
chilometri dal nostro paese, Horsehearts, e a quarocento metri dal lago. Il
tema cui si ispirava erano i personaggi dei racconti per bambini, e c’erano
macchinari e modeste messinscene ispirate alle filastrocche oppure a fiabe
come Biancaneve. Hänsel e Gretel. C’erano giostre e scivoli. C’era La
vecchia che viveva in uno scarpone, vale a dire un grosso stivale viola, su
cui ci si poteva arrampicare e poi lasciarsi scivolare sulla linguea di
metallo, fino a un cassone di sabbia.
C’era la favola dei Tre caproni: un ponte a campata in legno di sequoia,
un grosso troll di stucco e tre capre in carne e ossa, cui si potevano
somministrare crocchee di segale prelevate dall’apposito distributore.
C’era la sezione safari nella Giungla Nera, con i suoi ponti di liane e i finti
coccodrilli a mezz’acqua. C’era il villaggio del Vecchio West, con la finta
cià fantasma e gli studenti del luogo vestiti da cowboy. Per concludere,
c’era il viale delle Rimembranze: una passeggiata coperta che andava
dall’uscita al negozio di souvenir, fiancheggiata da lampioni a gas e
manichini tui in ghingheri, con crinoline mangiucchiate dalle tarme e
cappelli a cilindro, precariamente appoggiati a carrozze d’epoca. A volte,
nelle giornate piovose, Sils e io consumavamo lo spuntino nel viale delle
Rimembranze, o su qualche panchina lungo la passeggiata. Ci si notava
subito, tanto eravamo fuori posto: metà clown e metà iconoclaste. Ma la
maggioranza dei turisti ci ignorava. Cantavamo tue le musiche
metallicamente strombeate dagli altoparlanti: di solito erano Aer the
Ball o Beautiful Dreamer, ma qualche volta era semplicemente l’inno di
Storyland:
Storyland, Storyland
malvagità e tristezza non son qua.
No, no, no: anzi, proprio un bel po’
di sogni qui avverare potrai.
Libri e favole qui fanno oplà.
Storyland, Storyland
tua la famiglia devi portar!
(E la nonna non scordar!)
Più tardi quel pomeriggio telefonai a mia madre, dicendole che non
sarei tornata per cena; chiamai invece LaRoue, che quell’estate lavorava al
canile. Puliva le gabbie dei cani e accudiva i gai, che nessuno voleva
ecceo lei. “Non so,” mi rispose, con il suo solito, strano tono contegnoso.
“Non lo so. La mami non sarebbe contenta.” La mami. La chiamava sempre
così. Ora io diventai stranamente contegnosa. “Be’, sopravviverà,”
dichiarai, e riappesi. Non pensavo a LaRoue, a chi era e a cosa avrebbe
desiderato dalla sua vita o desiderato da me, che non vi partecipavo
proprio da dentro, ma rotolando sui suoi margini come un fagiolo. Con lei
facevo l’irrequieta, la nervosa, l’indaffarata.
Ero concentrata su Sils. ella sera, dopo il lavoro, andammo al Dairy
Dreem a piedi a farci un cheeseburger e un frullato, sedute all’esterno
dirimpeo al vecchio Fond du Lac Fort, conquistato ai francesi dagli
inglesi nel Seicento e recentemente ricostruito per i turisti. Di tanto in
tanto tuonava una falsa cannonata, e un ragazzoo in divisa da soldato
inglese del XVIII secolo giubba rossa, cappello nero, parrucca con il codino
faceva un rullo di tamburo. Era il suo lavoro estivo. Nel porticciolo
fischiava il vapore della Vecchia Ruota che salpava per la crociera con
cena. Sulla statale 9 le macchine procedevano lentamente, nell’aesa che
accadesse qualcosa, o viceversa a tua velocità verso la spiaggia per i
fuochi artificiali, o verso il minigolf, oppure proseguivano verso Montreal.
Sils e io restavamo al Dairy Dreem, sedute ai tavoli da picnic accanto ai
bidoni della spazzatura, a mangiare i nostri cheeseburger con patatine
frie contenuti in cestini di plastica rossa. Ci sentivamo anonime, noi due
sole, come nella canzone: conoscevamo tue le canzoni che mai fossero
state scrie.
“Credo che mi sto ingolfando,” disse lei. “Sto pigliandomi in giro.”
Annuii comprensiva: versai altro ketchup sulla carta oleata come per
una simbolica sbadataggine, poi lo asciugai con le patatine. Di colpo mi
sentivo strana. “Da quando?” mi schiarii la voce, “da quando sei in
ritardo?” Sembravo un ragazzo imbarazzato, o un’infermiera. Un giovane
infermiere imbarazzato.
Credevo che avrebbe risposto una seimana, invece disse: “Due mesi.”
“Oh,” feci senza scompormi. Ma la mia padronanza delle basi sintaiche
andò in malora. “Non è meglio che ti sbrigassi in frea?”
Sils abbandonò la testa sul palmo della mano. I capelli le ricaddero in
lunghe onde sul viso. “Cristo, che nausea.” Allontanò il cibo. “Il problema è
che mi sa che non voglio che Mike lo sappia.”
Non dissi niente.
“Dopo tui gli anni che ha passato all’Accademia St. Alphonse di
Albany,” riprese in tono assennato, “lo vorrà tenere. Vorrà sposarmi. E io
non posso.”
“Sei troppo giovane,” assentii da brava spalla compiacente, coro greco
di onesta nullità; sebbene le parole fossero quelle della mia maestra
quando mi aveva sgridata per il rosseo. Inavvertitamente le avevo
assimilate, immagazzinandole dietro la linea delle labbra.
Sils si raddrizzò e mi guardò dria negli occhi. Portava un orecchino
con un brillante artificiale che interceava veramente il sole al tramonto,
emanando un lampo luminoso, quasi un segnale di soccorso. “Come faccio
a trovare cinquecento dollari se non lo dico a Mike?” Guadagnavamo un
dollaro e sessantacinque all’ora. Era il salario minimo del 1972.
“Li trovo io,” dissi d’un fiato.
“Scusa?”
“I soldi. Te li trovo io.” Era un’affermazione talmente temeraria e
assurda che lasciò entrambe mute, mute per tuo il resto della sera, anche
ai Sands mentre ballavamo, bevevamo e galleggiavamo nel casino,
sentivamo le buone vibrazioni, i confini del sogno, il sound liquido con le
forti, le dure percussioni del gruppo, e poi anche quando tornavamo a
casa, forse stavolta con qualcuno che conoscevamo; credo fosse uno che
conoscevamo.
E quando il giorno dopo mi svegliai, troppo piccola e giovane per la
cefalea e la nausea secca che fatalmente provavo, e all’improvviso troppo
vecchia per quanto mi accadeva, mentre il sole forava l’umido del maino,
andando al lavoro come uno spazzino, e la mia migliore amica meditava
l’aborto e mia madre, in menopausa e assorta nei suoi pensieri mi
accompagnava a lavorare senza dir niente, senza aprire bocca, limitandosi
a farmi scendere con l’ammonimento: “Fanno sessantacinque cents ogni
viaggio, ricordati”, per non sentirsi sfruata dai suoi figli e dar loro una
lezione sul denaro, perché tuo si paga, niente è gratis (“Sì,” risposi), con il
farmi pagare il passaggio giornaliero, un’abitudine il cui ricordo ora mi
imbarazza per entrambe: perché vivevamo così, con tui quei conticini
miserabili, incessanti? E indossai il vestito e il grembiule a righe, era
proprio lì che avevo imparato a essere furtiva, nascondendo alle altre il
mio corpo di bambina troppo esile, e guardai il mio numero sulla tabella,
presi la mia cassa e l’esaminai nel casseo del registratore: monete da
dieci dollari, da cinque, da uno, da un quarto, decini, nickel, tue con il
loro comparto, sistemate nel riquadro del casseo come un Mondrian o
uno stipo per le spezie; e niente cents, solo un grosso spazio vuoto per i
venti dollari; i cinquanta e i traveller soo il casseo; fu allora che capii
cosa avrei fao. Elementare. A scuola seguivo l’indirizzo matematico; era
per quello che mi avevano assunto. Mi venne in mente nel modo più
ovvio, come una cameriera che anno dopo anno vede i bigliei d’aereo sui
comodini delle stanze dove spolvera, di cui pulisce i bagni, e a un certo
punto un lampo, una visione istantanea, come un colpo di genio o forse un
colpo e basta, le dice che deve viaggiare, volare: afferrarli e partire. E così
fa, senza dire una parola.
Naturalmente la pizzicano.
Ma il mio piano era diverso. Se potevo farlo, l’avrei fao all’ora di
pranzo, quando le altre cassiere, Sheryl o Debbie, erano in pausa e io
dovevo sia registrare sia forare i bigliei rendendoli ai clienti, che, come
dice il moo, hanno sempre ragione.
A volte con Daniel discutiamo degli anni sessanta. Lui è più vecchio di
me di nove anni, e quei tempi li conosce meglio, o in modo diverso.
“Fra noi due c’è un’incontestabile differenza d’età,” mi dice.
“Gap generazionale,” lo rimbecco.
“Disgraziatamente, c’è anche un gap vero e proprio. Noi abbiamo fao i
sessanta,” precisa lui, parlando a un plurale generazionale da cui sono
esclusa. “Abbiamo creato la controcultura. Voi eravate dodicenni.”
“Ma l’abbiamo ereditata,” faccio io. “E da bambini le siamo cresciuti
vicino, ci siamo nutriti di lei. La politica è stata il nostro lae. La
controcultura giocava insieme a noi al pianoterra; era il legno di cui
eravamo fai. Guardavamo voi dicioenni e diciannovenni, intrippati di
LSD sulla spiaggia libera o mentre giocavate nel parco di Horsehearts, con
le perline e le lunghe tuniche indiane. Ma quando noi siamo arrivati a
quell’età, niente più giochi né boe di acido. Solo Ford che perdonava
Nixon.”
“Cristo,” sbuffa Daniel.
“Ma una volta,” insisto, “tuo quel che sapevamo era lì: ribellione,
rivoluzione, e le canzoni che ne parlavano. Painavamo sulle note di e
Eve of Destruction. ‘L’Occidente sta esplodendo’: e noi facevamo i giri e le
piroee.”
Più o meno. Più o meno, è questo che dico.
“A ogni modo era roba nostra,” ripete lui. “Veniva da dentro di noi, non
da voi.”
“È vero, voi l’avete faa, ma con il risultato di espellerla, di mandarla
fuori. Eravate in grado di allontanarvene. E così è successo. Vedi, noi non
potevamo. Era dentro di noi. E quando nel mondo esterno non c’è stata
più, ci ha lasciato arenati, confusi, traditi, onanisti e condannati a essere
piccoli fuorilegge.”
“Onanisti e condannati a essere piccoli fuorilegge?”
“Certo.”
“Non puoi usare i sessanta in questo modo. Non puoi servirtene per
spiegare te stessa a te stessa.”
E ovviamente è proprio questo che voglio. Penso alle fandonie e ai
furtarelli che fanno crescere il cuore di provincia. Io sono andata oltre la
contestazione dell’autorità. Mi sono sentita invisibile a essa. Ma ora,
guardandomi alle spalle, voglio mentire dicendo che è stato il tempo, e non
il luogo. “Ma cosa è più potente, ciò che fai o ciò che erediti? Cosa è più
duraturo?” domando. “Capisco che ora stiamo dicendoci cose ridicolmente
generiche, ma ammeiamolo, così la conversazione è sempre più
divertente.”
“È il segno,” sentenzia lui, “di una persona che cerca scuse. I teppisti
che si giustificano con la politica.”
“Forse un teppista è già un fao politico.”
“Ma tu non sei una teppista.”
“Vero,” ammeo sospirando. E in questa bugia mi sento così vicina a
lui, così riconoscente. Così colma di pietà.
È così. Più o meno, il nostro modo di parlarci è questo.
La maina dopo alle see c’erano già trenta gradi. Eravamo in piena
canicola, con tui i ventilatori di famiglia accesi per scrollare la cappa
d’aria immobile che gravava sulla casa. Alle see e mezza suona il telefono
e io volo in corridoio per rispondere.
“Cosa hai deo a Mike ieri sera?” Era Sils. Aveva una voce gelida, ma
con risonanze isteriche.
“Non lo so. Credo di non avergli deo niente. Perché, cosa ti ha
raccontato? E tu, che cosa gli hai raccontato?”
“Mi ha appena telefonato Arnie. Dice che ieri sera tu e Mike siete
andati a farvi un drink, e dopo lui era sbronzo e gridava come un mao. È
andato via mezzo schizzato, e ha fao un incidente con la moto.” i Sils
scoppiò in un pianto flebile, da scioccata. “È in rianimazione, con i tubi e
tuo quanto. Forse muore.”
Mike: pezzo di somaro. Invece dissi: “Oh, mio Dio.” Gli incidenti d’auto
e di moto dei ragazzi di Horsehearts erano le sconvolgenti tragedie locali,
il sale delle cronache, anche se io non avevo mai conosciuto nessuno che
dopo fosse morto: comunque non li conoscevo bene, non a fondo. Il nonno
era morto quando avevo tre anni, ma non me lo ricordavo.
“È cosciente?” Fu la sola domanda che riuscii a formulare.
“No.” Ora a Sils venne in mente qualcosa, si rese conto di qualcosa, e
cominciò un piagnucolio sommesso, insistente. “Io lo devo vedere.”
L’ospedale della contea era distante alcuni chilometri. “Chiamo
Humphrey,” dissi. “Ci facciamo venire a prendere al lagheo del parco,
diciamo… alle nove in punto? Così non dovremo camminare, con il caldo
che fa. Così quando vedi Mike non sarai tua sudata e sbrindellata.” Non
so perché dissi l’ultima frase: la buai lì e basta.
“Berie, lui è incosciente,” ribaé in tono aspro.
“Lo so,” ammisi. alsiasi cosa mi avessero deo quella maina, per me
non avrebbe avuto senso.
Così ebbe inizio un periodo di tre seimane in cui un giorno sì e uno
no, prima o dopo Storyland, e tui i giorni di riposo, nel caldo soffocante
ci facevamo portare da Humphrey fino all’ospedale della contea, dove ci
fermavamo un’ora per poi ritelefonare a Humphrey di passarci a prendere.
In questo modo, tenevo a distanza mia madre (“Mi faccio portare al lavoro
insieme a Sils e a suo fratello,” le gridavo dalla porta di casa), ma mi
costava parecchio: perciò dovei drenare un po’ di extra dal mio
registratore.
Dopo due giorni Mike riprese coscienza, almeno “nella sua versione”,
come disse Sils ridendo, addiriura, per il sollievo; la seconda seimana,
lanciava a Sils degli sguardi modello “avvicinati”, accompagnati da frasi
come “Ehi, piccola? Vieni a cuccia”, finché Sils andava a raggomitolarsi fra
i tubi vicino a lui.
In quanto a me, salivo su una sedia a rotelle e mi divertivo ad andare su
e giù per i corridoi dell’ospedale. Mike e Sils arrivarono a una spiegazione,
ricostruita sul leo d’ospedale di Mike fra lenzuola bianche, TV e odiose
luci al neon, che l’incidente fosse stato provocato da un concorso di colpa
fra l’aborto e un camion.
Io non meevo parola: sfrecciavo nei corridoi sulla sedia a rotelle,
salutando tui quelli che incontravo con voce allegra ma autoritaria. Una
volta, accidentalmente, indietreggiando entrai in un ascensore, che mi
portò giù fino all’acceazione. Giacché c’ero, decisi di vedere fin dove
potevo arrivare: imboccai la porta girevole e uscii in strada.
Nessuno mi fermò. Arrivai fino a metà della strada per il centro, oltre i
giardini dell’ospedale e più in là, oltre gli alberghei, il Grand Union e la
scuola superiore. Cercai addiriura di scendere dal marciapiede, con il
risultato di rovesciarmi sulla strada sbucciandomi un ginocchio, ma tanto
non mi vedeva nessuno. Alla fine, feci un’inversione e posi termine
all’avventura. Mi fermai al Grand Union e comprai una Coca-Cola.
Sulla scrivania di Isabelle c’era una foto della sua bambina, Gloria Deb.
Isabelle era divorziata da anni, e doveva lavorare sodo. Correva voce che
ogni Natale Frank Morenton come premio le regalasse una cabriolet più
un viaggio in Florida.
Adesso Isabelle mi fissava. Aveva un’agenda così piena. “Come credevi
che sarebbe finita?” mi urlò.
“Non lo so.”
Squillò il telefono, prese il ricevitore. “Pronto?” Rimase in ascolto un
momento. “Elle a mangé la grenouille,” disse, quindi riappese. Ha mangiato
la rana; ha rubato dalla cassa. Mi guardò accigliata e sospirò: era rimasta
provvisoriamente senza parole, come per un’ischemia cerebrale
transitoria. Mi faceva compassione e decisi, con puerile incoscienza, di
darle una mano. Feci un sorriso buffo e dissi, falsamente noncurante:
“Immagino che questo finirà sul mio curriculum.”
Tornò a fissarmi, gelida. “Con te intendiamo dare un esempio. Devo
stabilire con il signor Morenton se è il caso di denunciarti, ma certamente
chiederemo un rimborso. anto hai rubato complessivamente? Cento,
duecento? Mille? La sua voce vibrava del furore di una donna tradita,
divorziata, stanca, costrea a lavorare troppo.
Risposta multipla. Avevo sempre preferito la A. “Cento,” risposi. Herb
mi guardò in cagnesco, ma si vedeva che per lui era una giornata
eccitante.
Isabelle cominciò a riordinare i fogli sulla scrivania. “esto signore è
l’agente Kerry dell’ufficio dello sceriffo, ti porterà a casa sull’auto della
polizia. Noi telefoniamo ai tuoi genitori per avvertirli.”
Cominciai a piangere.
“La ammanei,” ordinò Isabelle all’agente.
L’agente mi rivolse uno sguardo pietoso. “Sono sicuro che questo non è
necessario, madame.”
“Lei la ammanei, e l’accompagni all’ingresso principale. Bisogna dare
un esempio per tui gli altri.”
“Va bene, se lo dice lei,” acconsentì l’agente, stringendosi nelle spalle.
Poi mi disse: “Sei in arresto. Mei le mani dietro la schiena.”
Stavo ancora piangendo, e mi asciugai il naso con il palmo della mano
perché non avevo fazzolei e nessuno me ne offriva.
“Un momento solo,” mormorai: feci un estremo tentativo di togliermi il
muco dal viso, mi alzai e mi girai porgendo le mani all’agente, che si era
tolto le manee dal cinturone. Erano dure e fredde, regolate per stringere i
miei polsi soili; sembravano dire “queste mani hanno rubato, e noi le
imprigioniamo, le rendiamo inoffensive, te le mozziamo”. “Oh, no,”
gemei.
Scesi le scale e uscii: l’agente mi guidava verso l’ingresso principale
tenendomi per un gomito e portando il mio cappello di paglia, che pure
era proprietà del parco. Indossavo l’uniforme da cassiera e portavo ancora
la targhea con la scria: CIAO! SONO BENOÎTE-MARIE. Mi sforzavo di
traenere le lacrime risucchiandole nella cavità dell’occhio. Erano le
quaro del pomeriggio e la calura del giorno pesava abbondantemente
benché il sole, callo osseo arroventato, cominciasse ad abbassarsi.
“Oh, mio dio!” sentii rantolare Sheryl alle mie spalle, dietro il
registratore di sinistra.
“Cos’è successo?” chiese Debbie.
“Che c’è?” domandarono al nostro passaggio molti visitatori del parco
incolonnati in coda. Gli altoparlanti suonavano la canzoncina di Storyland
che adesso mi sembrò un’accozzaglia di “zup-pa-pa” intristiti, come il
finale della Traviata. Muto, l’agente Kerry mi sospinse verso l’uscita
tenendomi delicatamente per un braccio, finché araversato il parcheggio
luminoso e assolato di Storyland, raggiungemmo l’estremità opposta dove
aveva lasciato la sua macchina. Con la coda dell’occhio riuscii a vedere
Sils, con il diadema d’acciaio inossidabile e l’abito a lustrini, incollata al
cancello di rete metallica della zona dove circolava la sua carrozza-zucca.
Chiamò il mio nome una prima volta e poi ancora e ancora, ma rifiutai di
voltarmi. Ero brua e goffa, con il moccio che mi colava nella bocca e non
potevo fermarlo. Non volevo farmi vedere da nessun altro. Non volevo che
lei mi vedesse. Torcendo il collo tentai di asciugarmi il naso sulla spalla,
senza riuscirci.
Per tuo il viaggio verso Horsehearts l’agente Kerry – lui al posto di
guida, io di dietro – non mi disse una parola. Periodicamente gli arrivava
una chiamata sulla radio, lui prendeva il ricevitore e rispondeva. Mi
tornarono in mente i viaggi in taxi con Humphrey: questa ne era una
replica deteriore e sardonica. Com’era più complicato per me, da sola,
trovare un tizio che mi desse uno strappo dal lago fino a casa. Guarda che
razza di fatica mi toccava fare! Che ingegnosità, e che nervi d’acciaio mi
occorrevano! Per Sils, oh-oh!, era facile. Bastava che sorridesse. Io dovevo
rubare, e piangere, e meere di mezzo la legge.
“Dove abiti?” chiese l’agente Kerry quando avvistammo la vecchia
insegna sbeccata e rugginosa della Camera di commercio che
tragicomicamente diceva BENVENUTI A HORSEHEARTS, IL VILLAGGIO DEL FUTURO.
Mi sembrò strano che l’agente Kerry mi chiedesse così, semplicemente,
dove abitavo. E se avessi risposto: “Oh, non gliel’ho ancora deo? A
Washington, D.C.!”
“Fish Glen Road,” dissi invece. “Al trentasei.”
“Oh, proprio là,” fu il suo enigmatico commento. Al successivo
semaforo svoltò a sinistra.
ando ci fermammo, vidi i miei genitori che aspeavano in veranda.
Ai miei occhi appannati dalle lacrime apparvero distanti, due figurine
rosee e inferocite, e mentre camminavo lentamente verso di loro,
ammaccata e in manee, compresi che non li conoscevo a sufficienza per
fargli questo, per addossare alle loro vite un episodio simile; che la rabbia
e la delusione sono più dure da sopportare nelle persone che non ti stanno
vicine, e da cui tu stessa ti sei tenuta in disparte, che in quelle che conosci
meglio. Tua la mia rigida educazione era lì soo la veranda che mi
aspeava, con i suoi sventurati responsabili pronti a impartirmene una
razione ulteriore e definitiva – o forse, constatato il loro fallimento, a
dimeersi dal rigore, dalle responsabilità, da me.
Mia madre si alzò dal divaneo a dondolo dove si stava spingendo
avanti e indietro con un piede mentre era seduta sull’altro, a braccia
conserte, il volto contrao e stralunato. Mio padre distolse lo sguardo da
un punto indefinito, fra le montagne, che contemplava, chissà, ripensando
agli studi di scienze forestali, o canticchiando il Brahms più tragico che
conosceva, o lamentandosi per l’ennesima volta dei danni inflii alla fauna
dai gai delle nevi che abituavano i cervi al rumore dei motori, con il
risultato che poi i cervi araversavano l’autostrada e si facevano investire.
Forse stava compilando un elenco mentale dei vari modi in cui i figli ti
possono spezzare il cuore. Lui non era di quelli che ti fanno sapere cosa
pensano: ti traeneva lì, a guardarlo pensare, a guardarlo fissare nell’aria
dove lui costruiva le sue ansie e i suoi sistemi, con gli occhi immobili e le
labbra serrate. Adesso si voltò per guardarmi, e la sua statura fu sufficiente
a riempirmi di rimorso.
L’agente Kerry mi tolse le manee appena scesi dall’auto, ma continuò
a tenermi per il gomito e a spingermi davanti a sé come un carrello. Fu
una lunga marcia, durante la quale mi resi conto che, malgrado tue le
loro stravaganze, i miei genitori avevano sempre desiderato essere persone
come le altre, normali, utili, ordinarie. Non resistevano del tuo nemmeno
all’energia caotica della loro stessa eccentricità, alla pienezza vitale che
essa implicava, al suo fluire pieno, con relative conseguenze e diramazioni.
Constatare una devianza nei loro figli gli ricordava inevitabilmente tuo
quello che erano, e a cui non potevano sorarsi: gli ricordava la solitudine
profonda e dolorosa in cui vivevano tui e due avendo sempre tentato
disperatamente di scongiurarla.
“Va’ in camera tua,” disse mia madre gelida, e io ubbidiente entrai in
casa, con gli occhi bassi sui gradini, che salivo colma di vergogna.
“Augh.” Dalla cucina Claude salutò il mio passaggio. Si stava
preparando un sandwich con burro d’arachidi e marmellata. “Che cos’hai
fao?” mi chiese.
“Ho solo… taci,” risposi stravolta prima di lasciarmi cadere sul leo
lanciando il cappello di paglia sul pavimento.
Diede un morso al panino. “Non prendertela; faccio io la spia per te. Ti
informerò su quello che succede. Dall’entrata posso tenere tuo soo
controllo.”
Dallo scantinato arrivò LaRoue, che si fermò sulla soglia dicendo:
“Guarda guarda.” Poi, più affeuosa, aggiunse “Dài, coraggio”. Per la prima
volta in vita sua sembrava in pena per me. “Non prendertela. Ho sentito
che parlavano. Hanno deciso di non fare scenate.”
ello che avevano deciso era di spedirmi alla colonia della chiesa
baista per il resto dell’estate. Me lo dissero dopo aver ringraziato l’agente
Kerry e avergli streo la mano (per un lavoro fao a regola d’arte?) e dopo
aver ricevuto un’improvvisa, breve visita di Frank Morenton in persona. Il
quale, come mi spiegò Claude, era arrivato nello splendore della sua
decappoabile, scendendo con un balzo e porgendo ai miei genitori le sue
scuse per la piazzata. Era altresì latore della mia borsea di corda, quella
che avevo lasciato all’ingresso del lato lago (che strano immaginarselo con
la mia borsea!). “esta faccenda di vostra figlia teniamola fra noi. Ecco,
questa è sua.” Allungò la borsea a mia madre. “Il parco è un luogo sereno,
per famiglie. Sono arrivato in questo paese senza un soldo, e ho lavorato
troppo sodo per permeere che le mie imprese siano luoghi di scandalo e
di confusione. Io credo nell’America.” Mi stava maneggiando con le stesse
dita premurose che avevano toccato l’incidente alla Miniera Perduta.
L’incidente ero io. Eravamo la stessa cosa.
Salvata dall’America.
“Da che paese credi che venga?” domandai a Claude. “Indonesia. O
forse Francia? Come faccio a saperlo?” Appresi in seguito che Frank
Morenton aveva licenziato Isabelle a causa della sua mancanza di elasticità
solo per riassumerla il giorno dopo; che lei ricevee lo stesso la macchina
e la vacanza natalizia in Florida, e che comprò un motorino a Gloria Deb.
“Ovvio che vostra figlia è licenziata,” disse ai miei. “Ma per il denaro,
diciamo che siamo a posto così. Pari e paa.” Horsehearts era il genere di
posto dove anche una persona importante può dire “pari e paa”. A
restarci troppo a lungo, si finiva per aggiungere e sorarre sillabe alle
parole, per chiedere un “hamburg” o un “cheeseburg”. Dopo vent’anni,
c’era addiriura il rischio di rispondere “bingo” al posto di “sì”.
“Le siamo molto grati,” mormorò mio padre.
“Gradisce un po’ di tè ghiacciato?” propose mia madre.
“No, grazie,” rispose Frank Morenton. “Volevo solo fare una corsa qui
per sistemare la cosa, e informarvi che, pur potendo, non farò denuncia; e
adesso via, meiamoci una pietra sopra.”
“Va bene,” disse mia madre.
“Spero che vi comporterete come me e non ne parlerete con nessuno.”
I miei genitori dissero qualcosa che Claude non riuscì a sentire.
“Adesso devo andare,” annunciò Morenton, e si dileguò veloce sulla sua
bellissima auto, come un dio sfolgorante dell’Olimpo. Almeno, così lo
descrisse Claude. Io ero rimasta in camera come mi avevano ordinato.
Fissavo il poster dei Desiderata. Procedi tranquillo fra il baccano e la furia…
Che roame.
La mia storia con Howie durò un anno, poi lui finì gli studi a Mount
Brookfield e se ne andò, partendo insieme a due amici per l’oleodoo
dell’Alaska malgrado l’opposizione dei suoi genitori; lassù, dopo tre mesi,
come mi spiegò in seguito sua madre, scomparve nella neve, colto da una
forma di follia che spinge gli uomini a salire sui traori e dirigersi verso
quell’orizzonte di un bianco abbacinante per non tornare più.
Mi sforzai di consolarmi con un altro e poi un altro ancora, senza mai
legarmi a nessuno in quel modo selvaggio e verginale, con lo stesso cuore
orfano e rapito; non mi successe più niente di simile, ed ebbi nostalgia di
Howie per tanto tempo, ne sentivo la mancanza ancora al college. In
quegli anni i miei genitori, che cominciavano a invecchiare, si trasferirono
da Horsehearts alla costa orientale della Florida insieme alla nonna.
ando andavo a trovarli la nonna mi fissava con lo sguardo tremulo e
protervo dei moribondi, privo ormai dell’antica, sapiente mobilità; il suo
essere rifiutava di occupare le faezze del volto. I viventi non le
interessavano: chiunque parlasse le dava fastidio. Nel suo sbadiglio
distinguevo il bianconero (dadi da gioco) dei suoi denti ricoperti e il muto
spezzarsi dei fili di bava: tuo raggrumato in un ritrao d’addio. È
inacceabile il conto aonito e angoscioso delle perdite che una persona
deve sopportare nella vita. Non si può sopportare, no davvero.
Al raduno seguente, cinque anni dopo, Sils non venne, ma mandò dei
fiori dalle Hawaii: “Alla classe del ’74. Con tanto affeo, Sils Chaussée.” Da
allora anch’io mandai fiori e bigliei, e non partecipai più.
Ci si può svegliare da un sogno solo per ritrovarsi sbalzati in un altro,
come un rosario infinito della mente. ando questo succede, è difficile
distinguere ciò che sogno non è; il non-sognato mondo del risveglio ti
svolazza vicino in lampi istantanei d’aria e di luce, spazi sonori, rapidi,
pericolosi come quelli fra i vagoni di un treno. Non ci puoi fare niente:
cammini nel tuo sonno e aspei. Aspei che il treno sia passato.
Daniel crede che oerrà un risultato loando con il suo cuore, con il
suo lavoro. Mi chiede comprensione. Parla nel codice di tuo ciò che lo
tenta e lo sconcerta, delle questioni di ubriachezza morale. “È come se
fossi su un oovolante,” spiega. “Salgo, salgo, salgo, e poi? Uaaah!”
“Però ti cadono le chiavi di tasca,” lo interrompo con asprezza. “E non
puoi più rientrare in casa.”
Cerca di mostrarsi confuso. “Stanoe ho sognato che giravo un angolo
e qualcuno mi puntava una pistola e sparava, la palloola andava a finire
proprio qui contro lo sterno.” Esita. “Credi che sia un bruo
presentimento?” Sospira, poi comincia a sussurrare. “Ho paura che un
giorno o l’altro farò come mio padre. Alla mia età, ha lasciato mia madre
per una donna che aveva vent’anni meno di lui.”
Non dico niente. Lascio sciogliere sulla lingua una pralina al liquore.
Nel mio campo visivo ci sono linee che araversano ogni cosa; persino il
tessuto delle tende e della tappezzeria sembra cadere come una pioggia,
come i vestiti in un ritrao di Van Gogh.
Ha un’aria triste, si passa sulla faccia la grossa mano maschile; la sua
voce è soffocata dal dolore. “Ovviamente mia madre ha preso la faccenda
con tuo il buonumore per cui era stata concepita.”
“Ha perso il senno.”
“Esao,” ripete lui. “Ha perso il senno.”
Siamo convinti che mangiare cervello, riassorbendo il suo spugnoso
sistema elerico, sia un ao ecologico, invece è una faccenda che ricorda i
mostri dei film di fantascienza. Cervello! Cervello! Cervello! Come se i
nostri li avessimo esauriti. A quel punto nel nostro matrimonio abbiamo
combauto la paura con l’ineitudine, l’indifferenza con l’indifferenza.
a e là il mondo esplode e le nostre vite piantate in una tenda troppo
strea, controllano gli ultimi fuochi. Proseguiamo il nostro viaggio fra i
tornanti delle smentite e degli urli – è finita, non può essere finita – nella
cià più adorabile del mondo: caè costosi, abbronzature chimiche
lancinanti, il bateau mouche che si accende davanti a tue le chiese
fuligginose, illuminandole come un palcoscenico. Nei salons de thé i
camerieri incendiano le crêpes con accendini estrai bruscamente dalle
tasche delle livree. I gendarmi strapazzano gli africani sul metrò; i
barboncini defecano impunemente sui marciapiedi. Non puoi chiamare
tuo figlio con un nome che non rientri nel solito elenco, e questa è la cià
più civile del mondo! La cià della primavera e delle canzoni, e delle altre
opere del cuore. Ci sembra così misero il nostro opporci a un’ondata, a una
spinta, che senza accorgercene ce ne troviamo assorbiti. Ci sentiamo
troppo piccoli per loare. Disperazione, sfinimento, raccapriccio sembrano
tu’uno, mentre vacillando si muovono con noi: un’unica flagellante
stenografia. Ma chérie, è questa la nostra fermata? Spesso ci sentiamo
asserviti (sarà questo?) a una trasformazione: del lae in caglio, poi in
rifiuti e vento e poi in cos’altro? Il sonno? Le stelle? È tempo di una
costellazione nuova!
Mio marito ha di nuovo quell’aria, l’aria di chi pensa com’è difficile il
mondo, la vita; qualche volta vorresti soltanto tornare alla tua casa in
mezzo al verde e chiudertici dentro.
“A casa,” dice. L’idea di casa, piacevolmente evasiva e ingannatrice, una
capitolazione alla nostalgia e al riposo. “A casa, a casa, a casa.”
Dove, benché io nutra desideri segreti che s’incendi, che la nostra vita
vada in fiamme, con la libertà folle e malvagia che racchiude, la nostra
casa materiale, e sbeccata, sarà ancora in piedi, sicura e integra, con gli
elastici messi dal precedente proprietario ancora avvolti ai pomelli delle
porte. Gli animali che vi abbiamo sepolti durante le riparazioni e i
raoppi, topi e allodole, si sveglieranno strillando nei muri, poi resteranno
muti. La stagione fiorirà, ma gli scoiaoli avranno già mangiato e
sistemato i bulbi, per cui una sola giunchiglia – un assolo di tromba! –
tremerà nel cortile, mentre il cotogno in fiore non fiorisce e il terreno è
ancora troppo fangoso per l’erba, ma in un giorno di sole borboa di
mosche alla cova. Alla stazione di Citgo, dietro l’angolo, i passeri
rinidificheranno nel distributore di tovaglioli di carta. “Non hai voglia di
tornare a casa? Devi averla per forza,” mi chiede Daniel, con una voce così
incrinata dalla nostalgia da farmi sorridere.
Dappertuo la vita è piena di eroismo.
Mi appoggio dolcemente a lui, cercando di avvicinarmi, in un impulso
empatico e cameratesco, per studiare il suo viso, così morbido e giovanile
in queste piogge, per armonizzarmi con esso anche approssimativamente,
non essere triste, non essere giù, è ancora maina, ti sono vicina. Canto
così ma lui si irrigidisce, poi cerca di non irrigidirsi, fa un sorriso forzato
ma si scosta troppo rapidamente. Ormai fa spesso così: qualche cosa o
qualcuno lo traiene, e ne è traenuto, in un altro angolo della sua vita,
dove io non posso seguirlo: perché contiene un luogo di ferite in cui siamo
troppo privi l’una dell’altro. Incontrarsi laggiù significherebbe porre piede
nell’inconsueta, oscura collera degli estranei: ma io ho accumulato un
genere di pazienza, credo, vagamente simile alla moneta. Posso sentirne il
tintinnio e il valore. Lo aspeerò, credo: lo lascerò andare a nausearsi, a
confondersi, a slanciarsi per i boschi caivi di se stesso. L’amore è eterno
come l’erba! Lo aspeerò con il mio cuore all’epilogo, un cuore dagli
infiniti rammendi, come forse è sempre stato. Aspeerò fino a quando non
potrò più aspeare.
Finché è possibile, senza farti calpestare, cerca di andare d’accordo con
tui.